Roots- Radici

di hotaru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Radici ***
Capitolo 2: *** La locomotiva ***
Capitolo 3: *** Piccola città ***



Capitolo 1
*** Radici ***


1- Radici
Roots- Radici


Radici


"Chissà se anch'io, quando sono nato, ero così piccolo, caldo e morbido come quella bambina."
"Che domande, certo che sì!"

(Alphonse e Edward Elric, episodio 6)



Il tempo stava per cambiare. Un'altra volta.
Le nuvole più scure venivano da ovest, quindi si trattava dell'ennesima perturbazione proveniente dall'oceano. Al guardò la piccola quercia che aveva piantato alcuni anni prima: quelle piogge così frequenti la rendevano di un verde eternamente smagliante, appena lavato e sempre nuovo. Stava crescendo bene anche lei, come Trisha e gli altri.

*     *     *

Quel posto gli piaceva immensamente: era così diverso dalla Germania, anche se altrettanto povero, e all'inizio non aveva potuto fare a meno di pensare che sarebbe piaciuto anche a Ed. Anche se, forse, tutta quell'umidità non avrebbe fatto bene ai suoi automail.
La bambina che lui e Tiarnan aspettavano era la prima radice che vi metteva, e pensò che poteva essere una bella idea rendere concreto quel senso di appartenenza. Poteva essere davvero quella, la nuova casa.
- E se piantassi un albero? - aveva detto all'improvviso alcuni mesi prima, guardando il paesaggio un po' brullo fuori dalla finestra.
- Un albero? - aveva chiesto Tiarnan, alzando gli occhi.
- Sì, un albero. In fondo stiamo finalmente mettendo radici -.
Delle radici che sarebbero affondate nel terreno, per non lasciarlo andare mai più. E forse, finalmente, quella era la volta buona.

Al aveva ormai ben chiaro che le corrispondenze tra il suo mondo e quello in cui si trovava ora non sarebbero mai finite: era davvero come in uno specchio, dove destra e sinistra erano sì scambiate, ma rimanevano sempre tali. Non avrebbe mai smesso di stupirsene, anche se ormai si aspettava di trovarne una ogni volta che girava un angolo.
E quando la sua primogenita, Trisha Elric, nacque lo stesso giorno di quel mese di febbraio in cui lui e Ed avevano compiuto la trasmutazione umana, non poté fare a meno di sorridere. Di sorridere perché davvero certe ferite si curavano da sole, col tempo.
Aveva visto la sua prima figlia l'anniversario del giorno in cui aveva perduto il proprio corpo, e ogni volta che ci pensava si rendeva conto che qualunque cosa poteva guarire, in fondo.
E aveva giurato a se stesso che ci sarebbe sempre stato, per tutte e due: la madre e la figlia. Ed era stato a lungo arrabbiato con suo padre; lui non ricordava la stessa rabbia, ma forse l'assenza di Hohenheim durante la sua infanzia era proprio ciò che ora lo rendeva così deciso.
L'anno successivo ripeté di nuovo lo stesso giuramento, ma per tre persone.

Alcuni mesi più tardi Edward Elric, a Berlino, ricevette una lettera dall'Irlanda. Aveva già saputo di Trisha, e sperava di leggere qualche notizia sulla sua crescita. Rimase invece a bocca aperta quando scoprì che Al e Tiarnan avevano raddoppiato.
“Edwin è nato il tre ottobre, Ed. Ti dice niente questa data?”.
Più che dirgli qualcosa, Ed la rivide incisa all'interno di un certo orologio da alchimista di stato, circondata dalle fiamme di quando avevano bruciato la loro casa.
Ma Al le programmava al secondo, quelle nascite?
Già quando suo fratello gli aveva scritto della sua prima nipote, nel sorriso di Ed si erano mescolati gioia e un certo sarcasmo: e così, la Trisha Elric che avevano voluto far tornare con una trasmutazione umana non l'avevano più rivista, ma lo stesso giorno dello stesso mese di tanti anni dopo, ecco che arrivava un'altra Trisha Elric. Quanto tempo avevano aspettato?
Ed sbuffò, suo malgrado, scostandosi un ciuffo di capelli dalla fronte: a volte c'era di che essere davvero stufi, di quella storia dello scambio equivalente.

Quando nacque la bambina, Al non si comportò né come Hughes né come Rod. Semplicemente non poteva; non poteva dire, come aveva fatto Rod: “Guardate! Ha i miei occhi!”, perché non era così. Perché quella bambina aveva gli occhi di Ed. Gli occhi di Hohenheim. Gli occhi di chi, prima o poi, finiva inesorabilmente per perdersi nell'alchimia.
C'era quasi da tirare un sospiro di sollievo, al pensiero che in quel mondo non esistesse.
Per quanto riguardava Edwin, invece, era stato subito lampante quanto somigliasse a sua madre- a sua nonna. Gli stessi dolci occhi azzurri, gli stessi capelli castani. Era come un gioco di specchi nel quale Al rischiava di perdersi quando a volte, la sera, tentava di fare il punto della situazione. Disteso a letto, col respiro tranquillo di Tiarnan a fianco, gli sembrava quasi che qualcuno si stesse divertendo un mondo a confonderlo sempre di più. O forse erano solo i suoi pensieri, che si mescolavano fin troppo quando si trovava in posizione orizzontale, anche se ormai non facevano più la spola da un angolo all'altro di un'armatura di ferro.
Ma poi Edwin si metteva a piangere, perché in quel periodo aveva una leggera otite. Al non faceva in tempo a prenderlo in braccio dal suo lettino che Trisha gli era subito accanto, sveglissima, ad osservarlo con lo stesso sguardo attento di Ed e a chiedergli perché Edwin continuasse a frignare.
- Piange troppo – sentenziava, dall'alto del suo anno e mezzo, i capelli biondi sparati in tutte le direzioni che portavano ancora il marchio del cuscino.
- È perché non sta bene – le spiegava pazientemente Al – E dato che è troppo piccolo per capire il perché, si sfoga piangendo -.
Ogni volta che le rispondeva così si ritrovava a chiedersi se non la stesse trattando troppo da adulta, solo perché somigliava tanto a Ed. Ma ogni volta Trisha annuiva, con l'aria di chi ha capito perfettamente, pur non condividendo certi comportamenti pusillanimi.
- Però piange troppo -.


Quando Trisha compì quattro anni, le responsabilità di una sorella maggiore non l'avevano ancora minimamente sfiorata. Anzi, non capiva perché suo fratello Edwin si ostinasse a non obbedirle in tutto e per tutto, dato che era più grande e più alta di lui. A dire il vero aveva ormai anche un'altra sorella, ma Cecelia non aveva ancora imparato a camminare, e comunque non disturbava mai troppo.
Il problema era Edwin.
Edwin che insistette fino all'ultimo per spegnere le candeline della sua torta, anche se erano quattro- una di troppo, per lui. Edwin che le rimase appiccicato, seduto sulla sua stessa sedia, per tutto il tempo. Edwin che, quando lei lo fece scendere a forza, andò a fare la spia alla mamma, rivelandole che il latte di quella mattina aveva dovuto berlo tutto lui, come sempre, perché Trisha non l'aveva voluto. Edwin che con quella rivelazione quasi uccise suo padre, visto come gli andò di traverso l'acqua che stava bevendo.
- Credevo avessi ricominciato a berlo – disse poi Al, faticando a restare serio.
- Ogni tanto ne bevo un po' – mentì spudoratamente Trisha, evitando di guardarlo negli occhi.
- Trisha... -.
- Ma non mi piace! Perché devo berlo, se non mi piace? -.
- Perché fa bene -.
- A cosa? -.
- Alle ossa. Contro le malattie. Ti aiuta a crescere – le spiegò pazientemente Al, pur sapendo che non sarebbe servito a molto. Con qualcun altro, almeno, tutte quelle ragioni non avevano sortito l'effetto sperato.
- Cresco lo stesso. Sono più alta di Edwin – ribatté lei, per niente preoccupata.
Touché, pensò Al. Scambiò un'occhiata con Tiarnan, che aveva smesso da un pezzo di insistere pur sapendo che Trisha, di latte, non ne toccava nemmeno una goccia. All'inizio le era sembrato incredibile che una bambina così piccola potesse essere tanto ostinata, ma Al era del parere che la cocciutaggine degli Elric- di certi Elric- fosse evidentemente ereditaria. E c'era poco da fare, al riguardo: Ed ne era un esempio lampante.
Al la osservò, mentre lei lanciava occhiate minacciose a Edwin, che tuttavia non lo dissuasero dall'avvicinarsi di nuovo alla sua sedia. Anzi, ci si mise anche Cecelia ad imitarlo: da un po' la piccola cercava di ampliare il proprio territorio, aggrappandosi ad ogni appiglio disponibile e tirandosi in piedi. Più in alto riusciva ad arrivare, meglio era.
L'istante prima che Trisha iniziasse a protestare contro suo fratello, Al ebbe il flash improvviso di una bambina della stessa età, con lunghe trecce castane e gli occhi azzurri, la cui immagine si sovrappose a quella di sua figlia. E represse un brivido di orrore quando ripensò a quel Tucker che aveva fatto della sua bambina una chimera. Quanti mostri, avevano incontrato.
Il grido di disappunto di Cecelia lo distolse dalle sue riflessioni: la piccola apriva bocca così raramente che quando succedeva zittiva tutti i presenti, persino i suoi chiassosi fratelli maggiori. In effetti Trisha e Edwin smisero all'istante di litigare, costretti a lasciare la sedia perché Al potesse issarvi Cecelia.
Edwin guardò le sue sorelle e poi si rivolse alla madre, seduta lì vicino. Le poggiò la testa sulle gambe, facendosi accarezzare piano i capelli dello stesso colore dei suoi, e guardandole il pancione sospirò:
- Non c'è un'altra femmina lì dentro, vero? -.
Il tono era quello supplichevole di qualcuno che è già stanco della vita, così serio che Tiarnan si morse l'interno di una guancia quasi a sangue per non ridere.
- A dire il vero non lo so – ammise – Ma sono sicura che andrete d'accordo -.
Lo sguardo di Edwin era così poco convinto da farle quasi pena, e stava per dirgli qualcos’altro quando Trisha intervenne.
- Andiamo a giocare – ordinò, più che proporre qualcosa per consolare suo fratello.
E quando lui alzò la testa e annuì, seguendola, Tiarnan fu sicura che avrebbe avuto sufficiente spirito di adattamento da sopravvivere anche ad un'altra sorella- cosa di cui aveva un certo presentimento.
- È strano – osservò Al, prendendo in braccio Cecelia e arruffandole affettuosamente i capelli. Lei sembrava non somigliare a nessuno, con quei folti capelli castano scuro e gli occhi verdi, eppure era da un po' che gli dava lo stesso una sensazione... familiare. Una sensazione che andava pian piano definendosi, come quando si ha qualcosa sulla punta della lingua.
- Cosa è strano? - chiese Tiarnan, stiracchiandosi un po' la schiena. Bambino o bambina che fosse, quel quarto figlio sembrava più pesante degli altri. O forse era lei che iniziava ad essere più stanca.
- Non ricordo molto bene com'eravamo io e mio fratello alla loro età, ma non mi sembra che litigassimo spesso come loro – spiegò Al – E dire che hanno solo un anno di differenza, come me e Ed -.
- Beh, dipende anche dal carattere, non solo dalla differenza d'età – rispose Tiarnan – Non c'è una regola fissa: magari il rapporto tra loro due sarà ancora più diverso -.
Nel dire ciò aveva accennato a Cecelia, ignara di essere la più piccola di casa ancora per poco.
- A proposito – fece Al – Hai pensato ad un nome? -.
- A dire il vero sì – rispose lei, che sembrava però leggermente dubbiosa – Se è una femmina... che ne dici di Alice? -.
- Alice Elric – ripeté piano Al, come ad assaporarne il suono – Lo trovo un bel nome -.
Tiarnan annuì, ma con l'aria di chi deve dire ancora qualcosa.
- Ad una condizione, però – replicò, seria – che dopo nessuno la chiami "Al" -.
L'Al interpellato sorrise, ricordando che sua moglie doveva aver sentito parecchie volte Ed chiamare così Alba, quando ancora abitavano a Berlino.
- Beh, l'unico che rischierebbe di farlo si trova a centinaia di chilometri da qui. Finché Ed non si decide a venire a trovarci, non credo ci sia questo pericolo -.
- A proposito, dopo quell'incidente l'hai più sentito? -.
L' "incidente" era quello di Alba, nel quale la ragazzina aveva perso un occhio l'anno prima. Anche se gli era stato chiaro fin da quando aveva attraversato il portale, che in Germania le cose sarebbero andate sempre peggio, quando aveva letto la lettera di Ed aveva faticato a crederci. Cosa ci sarebbe stata, un'altra Ishval?
Aveva scritto subito al fratello che i Mühlstein avrebbero potuto trasferirsi almeno in Inghilterra- aveva già sentito di ebrei che iniziavano a lasciare la Germania, c'era chi si imbarcava addirittura per l'America- e sapere del rifiuto del signor Rod l'aveva reso inquieto come non mai. Sperava con tutto il cuore che si sarebbero decisi a fare qualcosa prima che fosse troppo tardi.
- Sì, e quello che ha scritto non mi piace per niente – Al avrebbe scosso la testa se non avesse avuto Cecelia addormentata su una spalla, col suo peso caldo e confortante – Spero davvero che Ed riesca a convincerli -.
Tiarnan annuì, raddrizzandosi poi a fatica sulla sedia.
- Senti, credi di riuscire a portarmi delle altre pastiglie? Le ho quasi finite -.
- Ancora mal di schiena? - Al le massaggiò piano una spalla con l'unica mano libera, visto che l'altro braccio era occupato dalla bambina, e Tiarnan rilassò i muscoli stanchi del collo.
- Un po'. Soprattutto la sera – rispose, godendosi quelle attenzioni.
- Domani ti porto qualcosa – le promise Al, che era riuscito ad avere in gestione la farmacia del paese in cui erano venuti ad abitare. Non era altro che una piccola stanza polverosa gestita da un vecchio signore ancora più polveroso dei suoi scaffali, ma Al era riuscito a risistemarla, sbarazzandosi dei farmaci più improbabili e antiquati e procurandosi, poco alla volta, le medicine e le sostanze ormai utilizzate in città – Ho giusto... -.
Un improvviso crescendo di voci sempre più acute li avvisò che il momento di pace tra Trisha e Edwin era appena finito; erano entrambi sul piede di guerra, e vista l'ora forse era anche colpa della stanchezza.
- Vado a metterli a letto – disse Al, passando Cecelia a Tiarnan perché le urla dei fratelli non la svegliassero e andando nell'altra stanza – Su, voi due, buoni -.
- È stato... - stava per dire Trisha, un dito accusatore già puntato su Edwin, ma la voce di Al bloccò sul nascere ogni discussione.
- È ora di andare a letto, avanti -.
Nessuno dei due fece storie, il che voleva dire che dovevano essere davvero distrutti. Edwin fece uno sbadiglio così enorme che Al temette si sarebbe addormentato direttamente sul pavimento.
Ma quando si trovarono tutti e due sotto le coperte, fu chiaro che la giornata non era ancora finita.
- Papà – fece infatti Trisha – È ancora il mio compleanno? -.
- Ancora per tre ore, sì – confermò Al.
- Allora voglio la storia dell'armatura magica – disse Trisha, aggiungendo in un soffio: – Per favore -.
- Anch'io, anch'io! - Edwin trovò la forza di alzarsi a sedere, tanto era il timore di essere escluso dal racconto – La voglio sentire anch'io! -.
- Va bene – Trisha era troppo stanca persino per fare un dispetto a suo fratello, quindi concesse: - Va bene, raccontala a tutti e due -.
Al sorrise, chiedendosi quante volte ancora avrebbe dovuto raccontare quella storia, inventata attingendo all'enorme miniera dei suoi ricordi. Ma visto da lì, quello al di là del portale poteva davvero sembrare un mondo magico. Un mondo che i suoi figli non avrebbero mai visto.
- Allora, cominciò tutto in un piccolo villaggio di nome Resembool, a est di Central City. Questo villaggio si trovava in campagna e di notte si potevano vedere le stelle, come qui. Un giorno, in una casa come questa, un bambino a cui non piaceva il latte e suo fratello... -.
E poi avanti, con opportune omissioni sui particolari più macabri e sanguinari- meglio evitare incubi notturni- raccontando una scienza come l'alchimia alla stregua di un'arte magica. Ed sarebbe inorridito.
Era una storia che ricominciava ogni volta daccapo, giungendo ogni volta ad un punto diverso, finché non si addormentavano. Non era mai arrivato a narrare che i due fratelli attraversavano il portale, giungendo nel "mondo di qua".
Ma ci sarebbe stato tempo per raccontare anche questo.


"E tu ricerchi là le tue radici,
se vuoi capire l'anima che hai..."

(F. Guccini)





Forse mi sto spingendo un po' troppo in là con questa serie "Al di là del Portale"... tuttavia sono fedele al principio primo di EFP: io scrivo, e chi vuole legga! ^^
Questa storia trae ispirazione da un contest di qualche tempo fa, "Come in un CD" di _KeR_: prompt del contest era scrivere una long i cui capitoli avessero come titoli le tracce di un determinato CD.
Questa long non ha partecipato al contest- anche perché, arrivati a questo punto, dubito che si capirebbe qualcosa senza aver letto il resto- ma mi sembra giusto ricordare chi mi ha dato l'idea.
Comunque sia, il disco a cui faccio riferimento è "Radici" di Francesco Guccini (1972), che dà il titolo all'intera storia. I capitoli non saranno song-fic, l'unico legame con le canzoni sarà il semplice titolo. È un disco che comunque vi consiglio, e chi lo conosce ha già in mano una traccia di questa storia...
Ringrazio i miei quattro cugini tra l'uno e i quattro anni per la continua ispirazione: se i fratelli Elric- di seconda generazione- vi sono sembrati un minimo realistici, è tutto merito loro.

L'altra storia, "Hausmärchen- Fiabe del focolare", essendo una raccolta continuerà in modo più saltuario. Fatemi sapere cosa pensate di questa! ^^

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Capitolo 2
*** La locomotiva ***


2- La locomotiva La locomotiva


"È difficile avere un fratello maggiore che fa sempre di testa sua, eh?"

(Alphonse Elric, episodio 11)



Al non aveva mai pensato che due fratelli potessero detestarsi. Non davvero, almeno. Litigare ogni tanto, questo sì; ma la frequenza con cui lo facevano i suoi due figli maggiori cominciava a diventare preoccupante.
- Non toccarli! - era la battuta immancabile quando Trisha si metteva a giocare con dei mattoncini di legno, ben consapevole che Edwin avrebbe voluto giocarci subito anche lui. Sembrava farlo apposta.
- Perché? - chiedeva infatti il fratello, imbronciato.
- Ci sto giocando io! -.
- Tu lo fai sempre, quando li uso io! -.
- Non è vero! -.
- Invece... -.
- Devo venire lì? - la voce di Tiarnan, proveniente dalla stanza accanto, bloccò uno schiaffo che altrimenti sarebbe stato ben indirizzato.
- No! - esclamarono all'unisono i due bambini, per una volta d'accordo.
Se all'inizio Al era rimasto sorpreso nel vedere che si picchiavano e litigavano in continuazione, ormai non sapeva più cosa fare.
Un paio di volte aveva seriamente pensato di mandarli per un mese su un certo isolotto deserto, tanto per vedere se imparavano ad andare un po' accordo. Era certo che Tiarnan non avrebbe avuto niente in contrario, ma a fargli lasciar perdere quell'idea fu la certezza che le due più piccole avrebbero voluto andarci a tutti i costi anche loro. E a tre e quattro anni forse era ancora un po' presto.
Man mano che crescevano, comunque, il rapporto dei suoi figli maggiori sembrava svilupparsi in modo molto diverso da quello che aveva unito lui e Ed. Innanzitutto perché il povero Edwin veniva costantemente tiranneggiato dalla sorella maggiore, e poi perché si picchiavano almeno una volta al giorno. Ad Al sembrava ancora più strano se lo paragonava al rapporto che avevano invece le due più piccole, complici in qualunque cosa facessero. Trisha e Edwin sembravano perennemente in guerra, e a sette e sei anni c'era da chiedersi se la situazione potesse ancora cambiare.
Tuttavia una volta in cui Trisha non esitò a buttarsi in una rissa a scuola per aiutare suo fratello, dando un pugno ad un ragazzino il doppio di lei e rimediando altrettanto, Al si rese conto che poi così disastroso non era. Tornarono a casa sporchi e malconci, e la giustificazione di Trisha fu che “solo lei poteva picchiare quello scemo di Edwin”.
Venne rimproverata per aver dato dello scemo a suo fratello, ma Al non poté fare a meno di sentirsi orgoglioso di loro: aveva avuto la prova che anche i suoi figli si sarebbero salvati l'un l'altra, nel caso fossero stati puniti da un cerchio alchemico per la trasmutazione umana. Anche se sperava davvero che non sarebbe successo nulla del genere.

Una cosa del genere, in realtà, accadde poche settimane dopo.

- Papà – sussurrò Trisha una sera in cui aveva litigato con Edwin più furiosamente del solito, mentre Al le rimboccava le coperte – Ma a che servono i fratelli? -.
Al lanciò un'occhiata al letto accanto: Edwin sembrava essersi già addormentato, il respiro profondo e regolare. Tornò poi a guardare Trisha, che pareva non sopportarlo da sette anni a quella parte, e decise di essere sincero con lei:
- Ad avere qualcuno quando i genitori non ci sono -.
- Ma tu e la mamma siete qui. Tutti e due – obiettò lei.
Già quella risposta così ovvia- anche se per lui e Ed non lo era mai stata- fece capire ad Al che la vita dei suoi figli era ormai davvero diversa da quella che aveva avuto lui.
- Non per sempre -.
- Perché no? - domandò Trisha, corrugando la fronte.
- Un giorno avrete bisogno l'uno dell'altra – la avvisò, terminando di rimboccarle le coperte.
- Ma tu hai avuto bisogno di tuo fratello? -.
- Certo. E ne ho bisogno ancora adesso -.
- Se è così, come mai non l'abbiamo mai visto? - replicò di nuovo Trisha, poco convinta.
Al fece del suo meglio per nascondere un sorriso: davvero, sembrava avessero preso lo stampo di Ed e ne avessero fatto una versione femminile.
- Perché verrà quando sarà lui, ad aver bisogno di me – replicò Al, scostandole i capelli dalla fronte – E adesso dormi -.


- Dalla signora O' Toole? Perché? - domandò Trisha.
- Per andare a prendere le lenzuola a cui ha rifatto l'orlo. Poi ci penserò io ad andare a pagarla, sono già d'accordo con lei – spiegò sua madre – Andate tu e Edwin, io qui ho da fare -.
Le giornate di ottobre andavano facendosi pian piano più rigide, ma quel giorno non c'erano nuvole, e il cielo era di quell'azzurro un po' fumoso tipico dell'autunno.
- Mi raccomando: tornate a casa prima che faccia buio -.
- Va bene -.
Non era la prima volta che andavano a fare qualche commissione insieme e, dal ritmo con cui sua sorella si incamminò, Edwin intuì che non doveva avere in mente soltanto le lenzuola.
- Forza, allunga il passo – gli ordinò infatti, senza voltarsi.
Edwin non replicò: sapeva che sarebbe rimasto all'oscuro dei piani di Trisha finché non avrebbero avuto le lenzuola fra le mani, per cui non gli rimaneva che obbedire e spicciarsi.
- Bene – quando si ritrovarono di nuovo per strada, a tempo record e con le lenzuola in una cesta, al sicuro sotto una spessa coperta, Trisha si decise a sputare il rospo. Aveva dipinta in faccia l'espressione da “la combiniamo grossa senza che ci scoprano: ho tutto il piano in mente”, che intimoriva sempre Edwin. Anche se poi non mancava mai di prendervi parte.
- Andiamo dai Connolly, forza -.
- Cosa? - esclamò Edwin – Perché? -.
Lo chiese anche se ne sapeva perfettamente il motivo: aveva sentito anche lui uno dei bambini più grandi, a scuola, sfidare apertamente Trisha ad andare a cogliere uno dei crisantemi che crescevano nel recinto delle pecore dei Connolly. Era una sfida piuttosto gettonata, tra i ragazzini delle elementari, perché quei crisantemi fiorivano sempre prima del tempo: e dei fiori dei morti che sbocciavano così presto alimentavano parecchie storie in paese.
- Ma... ma lo sai cosa si dice su quei crisantemi? - fece infatti Edwin.
- Certo che lo so. Abito qui da più tempo di te, sai? - replicò Trisha, che sapeva perfettamente quanto le voci dicessero che quei fiori dovevano avere un'origine soprannaturale, senza contare che crescevano in un recinto di ovini, il che li rendeva decisamente sinistri – Secondo papà è normale che la gente dia spiegazioni simili alle cose che non capisce. È semplicemente probabile che quel terreno sia pieno di semi di crisantemo, e che le capre li... concimino parecchio. Per questo fioriscono prima -.
- Lo so anch'io cosa dice papà – bofonchiò Edwin – Però... non è troppo lontano? La fattoria dei Connolly è vicino ai binari della ferrovia, a più di un chilomentro da qui! -.
- Se ci muoviamo facciamo in fretta, dai – replicò Trisha – E poi non c'è neanche una nuvola: non rischiamo nemmeno di bagnare le lenzuola -.
Edwin non sembrava molto convinto, ma non si era mai tirato indietro da una scorribanda con sua sorella, visto che poi poteva dare la colpa a lei. Non che i suoi genitori gli credessero, ma... ci provava sempre.
- Va bene – sospirò – Ma la cesta la porti anche tu -.
- Quante storie – sbottò Trisha, prendendo tuttavia la cesta dalle braccia di Edwin – Andiamo -.

Anche il passo che mantennero per raggiungere la fattoria dei Connolly fu piuttosto spedito- se volevano andare e tornare prima che facesse buio, e soprattutto non insospettire troppo la loro madre, era necessario. Per un tratto costeggiarono la ferrovia, che passava proprio a poca distanza dal recinto delle pecore, tanto che queste ultime non si spaventavano nemmeno più quando sentivano lo sferragliare del treno.
- Eccoli lì – Trisha adocchiò subito i crisantemi, già fioriti malgrado si fosse solo all'inizio di ottobre – Vado e torno, tieni le lenzuola lontane dalle pecore -.
Non c'era bisogno che glielo dicesse: Edwin stringeva la cesta come se ne andasse della sua stessa vita.
- Sicura che non è pericoloso? - chiese però, leggermente in apprensione.
- Edwin, fifone, sono pecore – replicò Trisha, una gamba già issata su un palo della recinzione – L'unico pericoloso può essere il montone, ma è chiuso nell'altro recinto -.
Non terminò di dirlo, che il montone si fece per l'appunto sentire: diede un paio di forti cornate contro lo steccato, guardandoli furioso con le sue pupille orizzontali.
- Non mi piacciono gli occhi delle pecore – mormorò infatti Edwin, più a se stesso che a sua sorella: Trisha era infatti già saltata dentro al recinto delle femmine, che si erano semplicemente spostate in massa, come una gran nuvola lanosa.
Anche il montone la notò, mentre si dirigeva in fretta verso la macchia di crisantemi e ne coglieva uno, e iniziò a caricare con più forza la recinzione.
Edwin, che era indietreggiato senza rendersene conto verso dei cespugli di biancospino, le mani ormai bianche tanto erano convulsamente strette sul manico della cesta, notò all'improvviso qualcosa che gli mozzò il respiro.
Aveva cercato di distogliere lo sguardo dall'animale, perché sapeva che questo l'avrebbe reso ancora più furioso, ma l'occhio gli era caduto sul tratto di steccato contro cui il montone si stava sfogando: persino da quella distanza riuscì a vedere che il legno era marcio. In paese si diceva che i Connolly avessero ormai intenzione di vendere, perché i figli se n'erano andati e il vecchio padre non riusciva più a tener dietro alle mille incombenze di una fattoria. Ma Edwin non avrebbe mai immaginato che si sarebbe dimenticato perfino di controllare il recinto del montone, lasciando che il legno marcisse sotto le frequenti piogge.
Era ormai indietreggiato tanto che sentiva le spine dei cespugli contro la schiena. Un altro passo ancora e sarebbe finito dritto nel biancospino, quando si rese conto che lo sguardo dell'animale non era puntato su di lui, ma su Trisha. L'intrusa che aveva osato entrare nel recinto delle femmine.
Fu un attimo: proprio mentre sua sorella scavalcava di nuovo la recinzione, il montone riuscì a spaccare il legno marcio dello steccato, aprendo una breccia tanto grande da poterne uscire.
- Trisha! SCAPPA! - urlò Edwin, con quanto fiato aveva in gola, incapace di muoversi.
In un istante Trisha vide la bestia caricarla, e istintivamente si tirò indietro, di nuovo nel recinto delle femmine, al sicuro perché il legno di quello steccato era ancora perfettamente sano.
Ciò a cui non aveva pensato era che, così facendo, esponeva completamente Edwin al pericolo.
E il montone non ci mise molto a capirlo: se il suo obiettivo iniziale era fuori portata, non gli ci volle che un attimo per volgersi verso l'altro moccioso e iniziare a caricarlo.
Anche Edwin seguì l'istinto: mollò la cesta e iniziò a correre, ripercorrendo a ritroso la strada che avevano seguito all'andata, dirigendosi senza accorgersene verso i binari.
Fu solo Trisha, sebbene morta di paura, a rendersi conto di un serpente scuro e fumoso che andava avvicinandosi sempre di più. Il treno delle cinque stava arrivando, puntuale come ogni giorno, la locomotiva che sferragliava e ansimava e rombava.
E stava correndo verso Edwin, o Edwin stava correndo verso di lei.
Trisha saltò fuori dal recinto talmente in fretta che rischiò di slogarsi una caviglia. Dalla cesta ancora intatta agguantò il primo lenzuolo della pila, lavato di fresco e ancora profumato, senza curarsi del fango e delle macchie d'erba mentre se lo trascinava dietro.
Corse senza quasi respirare, urlando a Edwin di deviare, di deviare prima dei binari. Lui sembrò sentirla, perché pochi istanti dopo si buttò di lato, incespicando in un'irregolarità del terreno, riuscendo ad aggirare il montone che lo caricava a testa bassa.
Adesso correva verso Trisha, pallido come un cencio, e Trisha correva verso di loro. Il treno aveva iniziato a fischiare, ma era come se nessuno lo sentisse.
Quando fu abbastanza vicina, Trisha lanciò il lenzuolo addosso alla testa dell'animale, che scalciò e girò confuso su se stesso per qualche attimo, troppo furioso per fermarsi. Avevano sperato entrambi che si sarebbe calmato, ma pur non vedendo nulla il montone continuò a correre, senza più sapere in quale direzione.
Era di nuovo diretto verso i binari, e stavolta aveva Trisha in traiettoria, che ansimava come se avesse consumato tutto il fiato di una vita lunga sette anni. Anche anni dopo non avrebbe saputo dire se sarebbe riuscita a spostarsi, se Edwin non l'avesse tirata indietro all'ultimo istante. L'ultimo istante prima che il montone finisse sui binari, dritto contro la locomotiva, finendo investito dal treno.
Non rimasero a guardare il macello di sangue e muscoli ovini stritolati sulle rotaie; bastò loro la vista della massa di lana insanguinata da lontano, per defilarsi il più in fretta possibile.
Arrancarono fra l'erba alta, tirandosi l'un l'altra per le braccia, finché non riuscirono a rimettersi in piedi. Andarono a recuperare la cesta con le lenzuola superstiti e tornarono subito verso casa, senza dire nemmeno una parola.
Del crisantemo, finito a terra accanto al recinto delle pecore, Trisha non si ricordava più. E comunque non gliene sarebbe importato niente.


- Prova a parlarci tu – insistette Tiarnan in un sussurro, mentre terminava di lavare i piatti.
- Non so se è una buona idea – rispose Al – Mi sembrano parecchio sconvolti -.
- Appunto per questo: quando sono tornati erano sporchi di erba e fango, e mancava un lenzuolo – più che arrabbiata, Tiarnan aveva un'aria parecchio preoccupata – Sembrava fossero... beh, appena sopravvissuti a qualcosa -.
In effetti il fatto che non avessero aperto bocca per tutta la sera, nemmeno per litigare o farsi una linguaccia a vicenda, significava che doveva essere accaduto qualcosa di serio.
- Magari hanno visto il montone che è finito oggi sotto il treno – ipotizzò Al, fermando Alice che cercava di infilare una mano nella zuccheriera dopo aver bevuto il suo té – Stasera ho visto il veterinario: mi ha detto che quella povera bestia aveva le corna piene di vermi, doveva essere impazzito dal dolore per riuscire a buttare giù lo steccato. Non dev'essere stato un bello spettacolo -.
- L'ho sentito anch'io, ma è successo proprio dietro alla fattoria dei Connolly. Come avrebbero fatto loro a vederlo? -.
Al non rispose. Più che per mancanza di argomentazioni, fu un improvviso sospetto nato dal nulla a farlo tacere su quella faccenda.
- Cecelia, Alice! Andiamo a lavarci le mani, su! -.
Agguantò le figlie più piccole e si diresse verso il bagno, mentre quel sospetto assurdo si andava facendo sempre più credibile nella sua mente. Ma la parola "assurdo" aveva sempre fatto rima col cognome Elric, in qualche modo.
- Papà, acqua! - chiamò Cecelia, che non arrivava ancora al rubinetto.
Durante i minuti seguenti Al fu impegnato ad impedire che Alice si tuffasse di testa nel lavandino per rimuginare ancora, ma era ormai giunto ad una conclusione.
… probabilmente quella povera bestia non aveva avuto nessuna colpa.
 

Infatti, dopo aver osservato Trisha e Edwin per due giorni interi, capì senza dover fare domande. La tregua fra loro era fin troppo duratura per poter essere considerata casuale: avevano smesso di picchiarsi e farsi smorfie; persino il loro modo di guardarsi era qualcosa di completamente nuovo. Come se Trisha avesse capito il discorso che le aveva fatto qualche sera prima, quello sui fratelli che devono aiutarsi l'un l'altro.
E Al ringraziò che gli fossero tornati a casa tutti interi, senza gambe o braccia mancanti- o peggio-, solo un po' sporchi e malconci.
- Quel lenzuolo... - buttò lì casualmente la settimana dopo, quando Tiarnan si era ormai rassegnata a non sapere nulla di quella storia – … possiamo ricomprarlo, no? -.


“Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva...”

(F. Guccini)




Avevate paura che succedesse qualcosa di orribile, vero? Beh, non sempre la storia si ripete. ^^
L'isolotto deserto a cui accenno all'inizio è quello in cui Ed e Al iniziano il loro addestramento da alchimisti, ve lo ricordate? Sfido chi non imparerebbe a collaborare, in una situazione del genere...


Rispondendo alle recensioni:
Li_: sono davvero contenta di sentirti anche qui! Felice che i nuovi fratelli Elric ti piacciano, ho intenzione di concentrarmi parecchio anche su di loro... come hai visto da questo capitolo, in cui i protagonisti sono Trisha e Edwin. Per il nome di quest'ultimo, in realtà ho semplicemente cercato qualcosa che assomigliasse al nome Edward; all'inizio pensavo di chiamarlo come lo zio, ma poi ho pensato che il tributo a Trisha fosse sufficiente. E comunque “Ed e Al” ci sono in ogni generazione!
Per quanto riguarda Cecelia, ti anticipo solo che il mistero si scioglierà nel quarto capitolo. ^^
Sono felice che ti sia piaciuta anche “Hausmärchen- Fiabe del focolare”: è vero, al momento è più seria ma chissà... forse le cose potrebbero ribaltarsi.
MusaTalia: felicissima di trovarti anche qui! Sai, Al mi ha sempre dato l'impressione di qualcuno che, invece che vivere nel passato, riesce a cogliere l'occasione per ricreare ciò che ha perduto. Magari diverso, ovviamente con altre persone che non possono essere quelle che non ci sono, ma fondamentalmente lo stesso. E se ne renderà conto anche lui più avanti, ho intenzione di inserire un dettaglio al riguardo.
Ci hai azzeccato sia su Trisha sia sulla quarta Elric, complimenti! ^^
Per quanto riguarda il massacro di Ishval, non è la prima volta che avvenimenti della seconda guerra mondiale e legati al nazismo ispirano opere giapponesi. Dev'essere un immaginario che, soprattutto per la lontananza geografica, si sentono liberi di reinterpretare, mentre qui è ancora “storia fresca”. In effetti non è la prima opera che scava, anche se con riferimenti non espliciti, nelle ombre e ambiguità del nazismo.
Oh, anch'io sono “incartata” in parecchi contest! E di alcuni mi dispiace, perché magari mi vengono delle idee che ritengo buone ma non sono ancora nel momento giusto per svilupparle... a volte bisogna davvero “costringersi” a scrivere!

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Capitolo 3
*** Piccola città ***


3- Piccola città Piccola città


"Per ottenere qualcosa è necessario dare in cambio qualcos’altro che abbia il medesimo valore.
In alchimia è chiamato il principio dello scambio equivalente."

(Alphonse Elric, episodio 2)


Quasi trattenne il fiato poggiando il naso contro la vetrina, appannandola col suo respiro.
Era assolutamente meraviglioso.
Legno scuro di acero e abete, corde che aspettavano solo di essere strofinate e un archetto che non chiedeva altro che pece (¹). Curve sfuggenti simili a foglie accartocciate, passi di danza di quelle fate di cui raccontavano gli anziani del paese. Due "effe" più simili ai baffi sornioni di un gatto che a semplici aperture su un piano di legno.
Avrebbe dato il suo letto e tutti i suoi giocattoli per poterlo avere. Poteva benissimo dormire per terra, in fondo. Era più semplice che pretendere di diventare un bravo musicista senza uno strumento con cui potersi esercitare tutti i giorni a casa, senza dover andare sempre dal vecchio Liddy. Anche se secondo sua madre doveva solo ringraziarlo, dato che non chiedeva altro che due uova per un'ora di lezione.
D'accordo, ma questo non risolveva il suo problema. Gli serviva un violino, un violino tutto suo. Un violino su cui avrebbe inciso le sue iniziali, "E.E.", e così facendo l'avrebbe "marchiato a fuoco", come diceva il vecchio Liddy.
Ma quello su cui aveva messo gli occhi da almeno tre mesi- dall'ultima volta che erano venuti in città con suo padre- costava troppo, anche se per fortuna non era ancora stato venduto. Se avesse potuto avere un violino solo continuando ad ammirarlo, quello sarebbe stato suo già da un pezzo. Natale si stava avvicinando, ma non poteva certo chiedere...
- Edwin! Ti muovi? -.
La voce di sua sorella era l'esatta antitesi al suono dolce di un violino, ma per una volta aveva ragione. Avevano accompagnato il loro padre in città per il periodico rifornimento di medicine e caramelle, perché in un paese piccolo come il loro la farmacia vendeva anche dolciumi. Ma era ora di andare, lo sapeva; si staccò dalla vetrina a malincuore, chiedendosi se il "suo" violino ci sarebbe stato anche dopo le feste.
"E anche se fosse?" pensò amaramente Edwin "Tanto rimarrebbe lì, non sarebbe mio comunque."
- Ancora con quel violino? - la voce di Trisha accanto a sé non lo sorprese – Non l'hanno ancora venduto? -.
- No – Edwin finse un sorriso – Lo sai che aspetta me -.
- E tu lo sai che costa troppo. Ti conviene dimenticartelo -.
Se c'era una cosa che a Trisha non mancava, era il tatto. Ma aveva ragione.
- Sì, lo so – annuì lui col capo – Ma non posso farci niente -.
Sospirò, e andò a raggiungere suo padre che stava comprando del pesce fritto per tutti e tre. A Edwin erano sempre piaciute quelle piccole gite che facevano ogni tanto, ma ultimamente erano diventate una vera sofferenza. Sperava quasi che quel violino sparisse davvero dalla vetrina, almeno si sarebbe messo il cuore in pace.
Trisha, dal canto suo, non l'aveva seguito subito. Aveva osservato brevemente quello strumento a cui Edwin lanciava lunghe occhiate languide ogni volta che venivano in città- non spesso, ma lui si fiondava davanti a quel negozio appena poteva. Trisha l'aveva sentito suonare qualche volta, andando a prenderlo un paio di nebbiosi pomeriggi autunnali a casa del vecchio Liddy, e doveva ammettere che era bravo. Non concedeva facili complimenti a suo fratello, ma con un violino in mano Edwin ci sapeva fare, e anche il vecchio Liddy riconosceva che aveva un certo talento. In fondo, anche a lei sarebbe piaciuto sentirlo suonare per casa.
Ma quel violino costava troppo, in ogni caso. Edwin non se l'era mai sentita di avanzare qualche richiesta, e in effetti nemmeno lei l'avrebbe fatto. Nemmeno se...
- Trisha! Adesso ti sei incantata tu? -.
Suo fratello le urlava senza tanti problemi alcuni metri più avanti, con suo padre accanto che teneva i cartocci del pesce. La pancia le brontolò per la fame, e il vento freddo e umido di dicembre le si infilò nelle orecchie, ma la lampadina che le si era accesa in testa era più luminosa che mai.
Si allontanò in fretta dalla vetrina, e l'espressione che esibì quando li raggiunse fece temere ad Al che Trisha avesse avuto un'altra delle sue idee. A volte si aspettava quasi che saltasse fuori con un familiare: - Ehi, Al! Senti questa! -.
Scosse la testa sorridendo, mentre i suoi figli se ne stavano zitti e concentrati con il loro cartoccio caldo tra le mani.
Chissà che stava combinando Ed? Era da un po' che non aveva più sue notizie.


- Come? Ma... sei sicura? -.
Al non era convinto di quel che avevano appena sentito le sue orecchie. Possibile che sua figlia avesse davvero avanzato una proposta del genere?
- Sì, beh... gli devo un favore -.
Al temette che la parola "favore" fosse un eufemismo, anche se non era ancora riuscito a farsi raccontare per bene cos'era successo il famoso giorno del lenzuolo. Una vocina fin troppo sicura di sé gli diceva che i suoi figli c'entravano con un certo incidente tra un treno e un povero montone, anche se finora erano stati ben attenti a non lasciarsi sfuggire nemmeno una parola.
- Vediamo se ho capito: sei disposta a rinunciare al tuo regalo di Natale, purché Edwin riceva un violino? -.
- Sì, ma non un violino qualsiasi – si affrettò a spiegare Trisha – Lui vuole quello nella vetrina del negozio di strumenti, vicino alla fisarmonica -.
- Quello che si ferma a guardare ogni volta che andiamo in città, quindi? -.
- Esatto – suo padre non si smentiva mai: si era accorto da un pezzo che Edwin andava sospirando dietro a quello strumento, sebbene non ne avesse mai fatto parola con nessuno. Non come Winry, a cui brillavano gli occhi non appena vedeva degli attrezzi assolutamente necessari al suo mestiere di costruttrice di automail, e poi saltellava tutto intorno a Ed pregandolo: "Me lo compri?".
Al sorrise, scuotendo la testa: anche dopo tanti anni, certi ricordi erano più vividi che mai.
Dal canto suo, Trisha non stava pensando ad un'amica d'infanzia conosciuta in un altro mondo, ma si stava chiedendo se, con quel sistema, sarebbe riuscita ad attenuare almeno un po' i sensi di colpa che provava nei confronti di suo fratello.
Edwin l'aveva salvata e poi lei aveva salvato lui, anche se ciò non cambiava il fatto che era stata tutta colpa sua. Nella migliore delle ipotesi, aveva rischiato di fare davvero del male a suo fratello. Malgrado poi fosse andato tutto bene, si sentiva comunque un mostro, e dopo due mesi ancora le si chiudeva la bocca dello stomaco al pensiero di “come sarebbe potuta andare”.
Trisha non sapeva di avere uno zio che avrebbe potuto capirla alla perfezione, per cui i sensi di colpa doveva affrontarli da sola.
- Credi che si possa fare, papà? O verrebbe a costare troppo lo stesso? - chiese di nuovo, alzando la testa.
Anche se fosse costato troppo, Al era sicuro che un modo l'avrebbe trovato. Già da tempo ne andava  parlando con Tiarnan, perché in effetti Edwin sembrava avere talento in fatto di musica, ma soprattutto una gran passione. Se Ed non avesse avuto la casa piena di libri di alchimia, dubitava che sarebbe mai diventato il grande alchimista che era stato.
- Si può fare – rispose lui, sorridendole.
E quando suo padre la guardò, a Trisha non importò davvero più nulla del suo regalo di Natale, perché vide l'orgoglio nei suoi occhi. E ne fu immensamente felice.


- Davvero ti ha detto così? - Tiarnan sembrava incredula – Mi chiedo quale sia questo "favore", anche se non so se vorrei saperlo -.
- Forse è giusto così, che resti un segreto tra fratelli – disse Al.
Tiarnan gli lanciò un'occhiata lievemente sarcastica.
- Se sono come i tuoi, di "segreti tra fratelli", sono più preoccupata di prima -.
Al sorrise colpevole: da parecchi anni, ormai, aveva raccontato a sua moglie tutta la verità riguardante lui e Ed, l'alchimia e il mondo al di là del Portale. Tiarnan non ne parlava molto, ma quando lo faceva si capiva quanto sperasse che i suoi figli avrebbero avuto un destino diverso.
- Cambiando discorso, pensi di accontentarla? - chiese, infilandosi sotto le coperte.
- Beh, ne stiamo comunque parlando da un po', no? Di prendere un violino a Edwin? -.
Tiarnan annuì.
- Sì, in effetti potrebbe essere l'occasione giusta – spense la luce, sdraiandosi – Ma credi che dovremmo farle comunque un piccolo regalo? -.
Al sapeva che sua moglie stava pensando di premiarla in qualche modo per il suo gesto, ma lui sapeva perfettamente ciò che andava fatto. Perciò rispose:
- No -.
Sentì Tiarnan sistemarsi meglio contro il cuscino e sorridere in silenzio:
- Ancora con questo scambio equivalente, eh? -.
- Già. Sai, è un po' difficile dimenticarlo... -.
- Beh, anche se non si può applicare proprio a tutto, trovo che in questo caso possa starci. Non è male, come metodo educativo -.
- Certo, basta non prenderlo come la verità della vita -.
Al sapeva di essersi capito solo lui, ma sorrise nel buio prima di addormentarsi.


Si era ormai abituato alle festività di quel mondo; o meglio, a quelle delle persone con cui viveva. E anche se non ci aveva capito molto, ora festeggiava il Natale con la sua famiglia esattamente come aveva festeggiato Hanukkah con i Mühlstein, dopo aver appena attraversato il portale.
- Aspetta, fammi capire – quando erano ancora fidanzati Tiarnan aveva cercato di spiegargli l'origine di quella festa – È nato... per morire? E perché? -.
- Per salvarci tutti -.
- Da cosa? -.
- Dal peccato originale -.
E qui Al aveva rimpianto con tutto il cuore l'alchimia, chiedendosi quale significato potesse mai avere l'accostamento dei termini "peccato" e "originale". Tiarnan doveva essersene accorta, perché aveva subito aggiunto:
- Mettila così: è venuto per portare la luce nelle tenebre del mondo. Per questo lo si festeggia nel periodo più buio e freddo dell'anno: è simbolico -.
- Aspetta, aspetta: porta la luce... che vince sull'oscurità? - Al era certo di esserci arrivato.
Tiarnan annuì, contenta che avesse capito.
- È come Hanukkah, giusto? -.
Quasi le caddero le braccia.
- No, non c'entra niente – sbuffò.
- Ah... davvero? Ma sei sicura? - eppure si somigliavano così tanto...
- Certissima -.
- Mmh... -.
Ad un certo punto aveva rinunciato a capirci qualcosa, limitandosi a godersi i visi luminosi dei suoi figli quando accendevano la candela della Vigilia presso una finestra, così che fosse visibile anche all'esterno. E Alice era la più contenta di tutti, dato che ad accenderla doveva essere il membro più giovane della famiglia. Poi Al doveva essere lesto a metterle una mano davanti alla bocca perché non la spegnesse l'istante successivo, ma anche questa era ormai una tradizione.


Come previsto, Edwin rimase a bocca aperta. Per un istante si chiese se lo strumento che aveva tra le mani fosse reale, ma anche se non l'aveva mai toccato l'avrebbe riconosciuto fra mille. L'aveva osservato per così tanto tempo che avrebbe potuto descriverlo alla perfezione, in ogni minimo dettaglio e curvatura del legno.
E ne fu immensamente felice, ma ancora non capiva.
- Ma come... costava troppo... - mormorò, ancora incredulo. Ma non era sicuro che sarebbe riuscito a riportare indietro il violino, se glielo avessero chiesto.
- Non ti preoccupare. Abbiamo trovato un modo – lo rassicurò suo padre. E anche se Edwin non capì a cosa si riferisse, era troppo felice per chiederselo. Pizzicò le corde e, quando le sentì vibrare, tremò assieme a loro.
Solo più tardi, quando riuscì finalmente a distogliere lo sguardo dal suo violino, se ne accorse. Dov'era il regalo di Trisha?
- Pensa al tuo, di regalo. Che ti importa di quello degli altri? - fu la gentile risposta di sua sorella.
Eppure non c'era, pensò Edwin. Cecelia e Alice stavano giocando con una nuova bambola e un nuovo coniglio di pezza, intente a trattare con la madre per il permesso di usare delle tazze vere per far prendere loro il té.
Corrugò la fronte, senza capire, accarezzando con il pollice il manico del violino. Avrebbe chiesto a suo padre; lui gli avrebbe detto cos'era quella storia.
- Scambio equivalente – fu invece la sibillina risposta di Al, che si stava intimamente chiedendo se Edwin ci sarebbe andato a dormire, con quel violino.
- Ma... -.
- Ehi, cosa fai vicino al camino? Tienilo lontano dal fuoco! -.
Alle parole di Trisha, Edwin strinse istintivamente lo strumento a sé. Lei si avvicinò, togliendogli l'archetto di mano e osservando i crini tesi e già strofinati di pece. Perché era così interessata al suo violino? Non gliene era mai importato niente, quando andava a guardarlo nella vetrina del negozio di strumenti.
- Pensi di suonarlo, prima o poi? - chiese lei – Conosci la giga della farfalla? -.
- "The Butterfly"? - fece Edwin – Sì, anche se lo staccato non mi riesce ancora molto bene -.
- Non so neanche cosa sia, lo staccato – ribatté Trisha, porgendogli l'archetto.
E quando Edwin lo appoggiò sulle corde e iniziò a suonare le prime note, all'inizio un po' incerto e poi via via sempre più sicuro, capì. Capì che Trisha c'entrava col suo regalo che costava troppo e che avrebbe fatto meglio a dimenticare, continuando ad esercitarsi col violino del vecchio Liddy quando andava da lui. Ecco cosa intendeva suo padre, con "scambio equivalente": Trisha aveva rinunciato al suo regalo per lui. Per il suo violino.
Aumentò il ritmo, le dita più sicure sulle corde. Era una melodia facile, le note che si ripetevano erano più o meno sempre le stesse.
Quando terminò, Alice lo guardò con disappunto, una mano in quella di Cecelia e l'altra sulla zampa del suo coniglio. Edwin si rese conto che stavano ballando- più o meno- e sentì un brivido di orgoglio lungo la schiena. Trisha e suo padre seduti vicino al fuoco lo stavano ascoltando, attenti, come sua madre che lo osservava sorridendo. Per la prima volta nella sua breve vita, era al centro dell'attenzione di tutta la sua famiglia.
Fu Cecelia a parlare per prima, lei che era la più silenziosa tra le sue sorelle.
- Ancora -.
Edwin Elric aveva appena scoperto la sua droga.


Due settimane più tardi Tiarnan incontrò il vecchio Liddy in paese, il quale le disse che Edwin stava migliorando in maniera sorprendente: il suono era più pulito, le dita più veloci e il ritmo più sicuro, anche se il senso del ritmo non gli era mai mancato.
Per forza, pensò sua madre. Nelle ultime due settimane avevano ascoltato il silenzio soltanto di notte, quando Edwin andava a dormire e doveva rimettere il violino nella sua custodia, finalmente silenzioso. Fortuna che da qualche giorno era ricominciata la scuola: almeno le sue orecchie potevano riposare per qualche ora.
Però non le dispiaceva avere un figlio musicista per casa, anche se quando non ne poteva proprio più lo spediva a suonare al piano di sopra. E Edwin saliva le scale suonando, sciorinando scale di note.
Se da una parte era convinta che fosse una fase- l'entusiamo per la novità, che si sarebbe esaurito presto- dall'altra Al le aveva detto che una simile costanza poteva essere un'eredità degli Elric: lui e Ed avevano trascorso giorni e notti intere a studiare l'alchimia, e forse suo figlio avrebbe trascorso giorni e notti intere suonando.
Sembrava proprio che ad avere ragione fosse suo marito.


Una gelida sera di gennaio, dopo cena, Al e Tiarnan sentirono un gran fracasso al piano di sopra. Più del solito, e in effetti lì dabbasso dei bambini non c'era traccia.
- Dai, stasera li metto a letto io – fece Al, scambiando un'occhiata con la moglie, per poi salire le scale.
Sentiva Edwin suonare- che novità- e tutti i suoi figli cantare a squarciagola una canzone che non conosceva. Quando aprì la porta della loro stanza, li trovò che saltavano da un letto all'altro, a piedi nudi e rossi in viso. Sembrava che il freddo l'avessero lasciato fuori dalla finestra, nel vento che ululava e che non riusciva a sovrastarli.
- Dance, then, wherever you may be... -. (²)
- Cos'è questa confusione? - fece Al, più sorpreso che altro – Che vi prende? -.
La sua voce riuscì a fermarli quel tanto che bastava perché Trisha prendesse il controllo della situazione e gli spiegasse:
- Senti questa canzone, papà! -.
Edwin attaccò il pezzo e le sue sorelle lo seguirono ricominciando a cantare, mettendosi poi a saltare a ritmo sui letti, accennando qualche passo della danza che accompagnava quella musica.
- Dance, then, wherever you may be; I am the Lord of the Dance, said he... -.
Già, pensò Al ascoltando attentamente quelle parole. Danza, allora, dovunque tu sarai. Non perderti d'animo, mai.
Quella giornata era stata lunga e faticosa, e non solo per lui: le notizie che arrivavano di giorno in giorno erano sempre più preoccupanti. La Germania aveva invaso la Polonia ormai da qualche mese, Gran Bretagna e Francia le avevano dichiarato guerra e l'Unione Sovietica era scesa in campo a sua volta. Non solo la Germania, sembrava che l'intera Europa fosse un calderone messo sul fuoco a bollire per troppo tempo, che minacciava di traboccare da un momento all'altro. Anzi, probabilmente aveva già cominciato.
Non aveva notizie di Ed da mesi, ormai, ma qualcosa gli diceva che stava bene. Che doveva stare bene e, appena avesse potuto, si sarebbe fatto sentire.
Forse era nel suo destino rendersi conto di essere felice ogni volta che il mondo attorno a lui andava allo sfascio. Perché quella sera si rese conto di avere ottenuto ciò che aveva sempre cercato, fin da quando si era messo in viaggio con suo fratello all'età di dieci anni: anche lui, come Ed, aveva desiderato tornare ai tempi in cui erano stati davvero felici, per l'unica volta nella loro vita, e quella sera si rese conto di esserci riuscito. Era tornato, ma andando avanti.
- ...and I'll lead you all wherever you may be, and I'll lead you all in the dance, said he -.
- Ti piace? - chiese Edwin, le dita ormai stanche dopo un'intera giornata di performance.
- È bellissima. E spero vi siate stancati abbastanza da mettervi sotto le coperte -.
Sapeva che non era affatto così; lo sapeva prima ancora che i suoi figli gridassero all'unisono: - Non siamo stanchi! - senza nemmeno consultarsi, perché non ce n'era bisogno. Lo sapeva, ma continuò imperturbabile:
- Avanti, a letto -.
Quando gli obbedirono senza fare troppe storie, ad Al venne il dubbio che forse un po' stanchi dovevano esserlo, e quando fece per rimboccare le coperte ad Alice, ebbe come un lampo d'ispirazione improvvisa.
Sentì che quella era la sera giusta per dire loro qualcosa di importante, qualcosa che sperava avrebbero ricordato.
- Spero ve ne ricorderete – disse infatti.
- Di cosa? - fece Cecelia, curiosa.
- Di questa canzone e di quello che dice -.
- Vuoi che te la cantiamo di nuovo? - si offrì all'istante Alice, che tuttavia doveva essere stremata per non essere saltata su come un grillo.
- Non ce n'è bisogno, vi ho ascoltato con attenzione – rispose Al.
- Ma perché dovremmo ricordare quello che dice? - chiese Trisha, e Al cercò di non sorridere. Perché lo sapeva già, che sarebbe stata lei a chiederlo: era Trisha quella delle domande, proprio come suo zio.
- Perché un giorno potreste non aver voglia di danzare, e nemmeno di saltare sui letti -.
- Questo è impossibile! - decretò categorica Alice, ormai un fagotto sotto le coperte.
- Potrebbe succedere, invece. Capita a tutti, prima o poi -.
Stavolta Alice non ribatté. Non è che avesse tanta esperienza di vita da sapere esattamente quando fosse, quel “prima o poi”.
- E quando succederà, cercate di ricordarvi di questa canzone – avrebbe voluto che anche sua madre avesse detto loro una cosa del genere. Forse Ed avrebbe saputo reagire in un altro modo – Va bene? -.


Aveva chiesto a Edwin se, cantandogli una melodia, potesse riuscire a suonarla col violino. Lui aveva risposto che poteva provarci, magari con l'aiuto del vecchio Liddy che a orecchio riusciva a suonare qualsiasi cosa.
Allora Al cercò di ricordare come fosse quella musica, quella dell'orologio di Win che lei aveva definito "una vecchia melodia russa". Come faceva?
- È difficile, papà – disse Edwin quando il vecchio Liddy ebbe buttato giù uno spartito, dicendo di aver già sentito quella canzone da qualche parte.
- Non devi suonarla adesso – lo rassicurò Al – Ma può essere un obiettivo -.
Edwin annuì.
- Fra qualche anno ci riuscirò sicuramente -.
Fra qualche anno avrebbe potuto ascoltarla anche Ed, se si fosse deciso a venire a trovarli. Suo fratello stava bene, lo sapeva come l'aveva saputo quando erano stati separati dal Portale.
Ma forse per rivederlo doveva aspettare ancora un po', rispettare anche lui lo scambio equivalente come era riuscita a fare Trisha: in fondo aveva avuto quattro figli, il che aveva un valore immenso. Per rivedere un fratello forse ci voleva ancora un po' di tempo.
Magari meno di quel che pensava.   


"Piccola città io ti conosco,
nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio..."

(F. Guccini)



(¹) "Pece": nome comunemente usato di un composto di colofonia e altre resine che, passato sui crini dell'archetto di un violino, fa sì che questo produca attrito al contatto con le corde. In caso contrario scivolerebbe e non sarebbe possibile suonare.
Le "effe" sono invece le due fessure ai lati delle corde.
(²) “The Lord of the Dance”, qui nella versione dei Blackmore's Night.
Traduzione dei versi riportati:
“Danza, allora, dovunque tu sarai; sono il Signore della Danza, disse lui,
e guiderò tutti voi ovunque sarete, e guiderò tutti voi nella danza, disse lui.”



L'accensione della candela l'ho trovata tra le tradizioni natalizie irlandesi, anche se non l'ho mai potuta verificare di persona... mi fido di ciò che ho trovato in rete. ^^
Delle due canzoni nominate nel capitolo trovate il collegamento YouTube, spero che vi siano piaciute. Credo che la faccenda dello scambio equivalente sia difficile da dimenticare, per un alchimista, e a volte penso che possa davvero esistere una legge simile. O che almeno insegni il valore di ciò che si ha.
La melodia a cui si fa riferimento alla fine è ovviamente "Bratja", nominata alla fine de "Die Uhr- L'orologio". Non so se avete mai sentito una cover con solo violino, ma è meravigliosa. È meravigliosa in ogni caso, comunque.


Rispondendo alle recensioni:
_Li_: hai proprio ragione, Ed come fratello maggiore è una vera e propria palestra di vita. ^^ Mi piaceva l'idea di una piccola "avventura traumatica" anche per loro, ma che non fosse estrema come quella di Ed e Al.
Io sono appunto la sorella maggiore, invece. E, mano sul cuore, mi sono sempre sentita un po' il "capo" dei miei fratelli... è una bella sensazione. ^^
Alla prossima!
MusaTalia: beh, venendo da un mondo in cui, a guardar bene, non esiste discriminazione sessuale, credo sia normale che Al risulti più "moderno" degli uomini del tempo. Oltre al fatto che, sapendo bene com'è vivere senza la presenza di un padre, ho pensato potesse essere più che plausibile che lui voglia esserci, nella vita dei suoi figli.  
Per quanto riguarda le due figlie minori, finora le ho solo accennate, ma vedrai che avranno presto il loro spazio. ^^ 

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