Roots- Radici di hotaru (/viewuser.php?uid=42075)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Radici ***
Capitolo 2: *** La locomotiva ***
Capitolo 3: *** Piccola città ***
Capitolo 1 *** Radici ***
1- Radici
Roots-
Radici
Radici
"Chissà se anch'io,
quando sono nato, ero così piccolo, caldo e morbido come
quella bambina."
"Che domande, certo che
sì!"
(Alphonse e Edward
Elric, episodio 6)
Il tempo stava per cambiare. Un'altra volta.
Le nuvole più scure venivano da ovest, quindi si trattava
dell'ennesima perturbazione proveniente dall'oceano. Al
guardò
la piccola quercia che aveva piantato alcuni anni prima: quelle piogge
così frequenti la rendevano di un verde eternamente
smagliante,
appena lavato e sempre nuovo. Stava crescendo bene anche lei, come
Trisha e gli altri.
*
* *
Quel posto gli piaceva immensamente: era così diverso dalla
Germania, anche se altrettanto povero, e all'inizio non aveva potuto
fare a meno di pensare che sarebbe piaciuto anche a Ed. Anche se,
forse, tutta quell'umidità non avrebbe fatto bene ai suoi
automail.
La bambina che lui e Tiarnan aspettavano era la prima radice che vi
metteva, e pensò che poteva essere una bella idea rendere
concreto quel senso di appartenenza. Poteva essere davvero quella, la
nuova casa.
- E se piantassi un albero? - aveva detto all'improvviso alcuni mesi
prima, guardando il paesaggio un po' brullo fuori dalla finestra.
- Un albero? - aveva chiesto Tiarnan, alzando gli occhi.
- Sì, un albero. In fondo stiamo finalmente mettendo radici
-.
Delle radici che sarebbero affondate nel terreno, per non lasciarlo
andare mai più. E forse,
finalmente, quella era la volta buona.
Al aveva ormai ben chiaro che le corrispondenze tra il suo mondo e
quello in cui si trovava ora non sarebbero mai finite: era davvero come
in uno specchio, dove destra e sinistra erano sì scambiate,
ma
rimanevano sempre tali. Non avrebbe mai smesso di stupirsene, anche se
ormai si aspettava di trovarne una ogni volta che girava un angolo.
E quando la sua primogenita, Trisha Elric, nacque lo stesso giorno di
quel mese di febbraio in cui lui e Ed avevano compiuto la trasmutazione
umana, non poté fare a meno di sorridere. Di sorridere
perché davvero
certe ferite si curavano da sole, col tempo.
Aveva visto la sua prima figlia l'anniversario del giorno in cui aveva
perduto il proprio corpo, e ogni volta che ci pensava si rendeva conto
che qualunque cosa poteva guarire, in fondo.
E aveva giurato a se stesso che ci sarebbe sempre stato, per tutte e
due: la madre e la figlia. Ed era stato a lungo arrabbiato con suo
padre; lui non ricordava la stessa rabbia, ma forse l'assenza di
Hohenheim durante la sua infanzia era proprio ciò che ora lo
rendeva così deciso.
L'anno successivo ripeté di nuovo lo stesso giuramento, ma
per tre persone.
Alcuni mesi più tardi Edward Elric, a Berlino, ricevette una
lettera dall'Irlanda. Aveva già saputo di Trisha, e sperava
di
leggere qualche notizia sulla sua crescita. Rimase invece a bocca
aperta quando scoprì che Al e Tiarnan avevano raddoppiato.
“Edwin
è nato il tre ottobre, Ed. Ti dice niente questa
data?”.
Più che dirgli qualcosa, Ed la rivide incisa all'interno di
un
certo orologio da alchimista di stato, circondata dalle fiamme di
quando avevano bruciato la loro casa.
Ma Al le programmava al secondo, quelle nascite?
Già quando suo fratello gli aveva scritto della sua prima
nipote, nel sorriso di Ed si erano mescolati gioia e un certo sarcasmo:
e così, la Trisha Elric che avevano voluto far tornare con
una
trasmutazione umana non l'avevano più rivista, ma lo stesso
giorno dello stesso mese di tanti anni dopo, ecco che arrivava un'altra Trisha Elric.
Quanto tempo avevano aspettato?
Ed sbuffò, suo malgrado, scostandosi un ciuffo di capelli
dalla
fronte: a volte c'era di che essere davvero stufi, di quella storia
dello scambio equivalente.
Quando nacque la bambina, Al non si comportò né
come
Hughes né come Rod. Semplicemente non poteva; non poteva
dire,
come aveva fatto Rod: “Guardate! Ha i miei occhi!”,
perché non era così. Perché quella
bambina aveva
gli occhi di Ed. Gli occhi di Hohenheim. Gli occhi di chi, prima o poi,
finiva inesorabilmente per perdersi nell'alchimia.
C'era quasi da tirare un sospiro di sollievo, al pensiero che in quel
mondo non esistesse.
Per quanto riguardava Edwin, invece, era stato subito lampante quanto
somigliasse a sua madre-
a sua nonna.
Gli stessi dolci occhi azzurri, gli stessi capelli castani. Era come un
gioco di specchi nel quale Al rischiava di perdersi quando a volte, la
sera, tentava di fare il punto della situazione. Disteso a letto, col
respiro tranquillo di Tiarnan a fianco, gli sembrava quasi che qualcuno
si stesse divertendo un mondo a confonderlo sempre di più. O
forse erano solo i suoi pensieri, che si mescolavano fin troppo quando
si trovava in posizione orizzontale, anche se ormai non facevano
più la spola da un angolo all'altro di un'armatura di ferro.
Ma poi Edwin si metteva a piangere, perché in quel periodo
aveva
una leggera otite. Al non faceva in tempo a prenderlo in braccio dal
suo lettino che Trisha gli era subito accanto, sveglissima, ad
osservarlo con lo stesso sguardo attento di Ed e a chiedergli
perché Edwin continuasse a frignare.
- Piange troppo – sentenziava, dall'alto del suo anno e
mezzo, i
capelli biondi sparati in tutte le direzioni che portavano ancora il
marchio del cuscino.
- È perché non sta bene – le spiegava
pazientemente
Al – E dato che è troppo piccolo per capire il
perché, si sfoga piangendo -.
Ogni volta che le rispondeva così si ritrovava a chiedersi
se
non la stesse trattando troppo da adulta, solo perché
somigliava
tanto a Ed. Ma ogni volta Trisha annuiva, con l'aria di chi ha capito
perfettamente, pur non condividendo certi comportamenti pusillanimi.
- Però piange troppo -.
Quando Trisha compì quattro anni, le
responsabilità di
una sorella maggiore non l'avevano ancora minimamente sfiorata. Anzi,
non capiva perché suo fratello Edwin si ostinasse a non
obbedirle in tutto e per tutto, dato che era più grande e
più alta di lui. A dire il vero aveva ormai anche un'altra
sorella, ma Cecelia non aveva ancora imparato a camminare, e comunque
non disturbava mai troppo.
Il problema era Edwin.
Edwin che insistette fino all'ultimo per spegnere le candeline della sua
torta, anche se erano quattro- una di troppo, per lui. Edwin che le
rimase appiccicato, seduto sulla sua stessa sedia, per tutto il tempo.
Edwin che, quando lei lo fece scendere a forza, andò a fare
la
spia alla mamma, rivelandole che il latte di quella mattina aveva
dovuto berlo tutto lui, come sempre, perché Trisha non
l'aveva
voluto. Edwin che con quella rivelazione quasi uccise suo padre, visto
come gli andò di traverso l'acqua che stava bevendo.
- Credevo avessi ricominciato a berlo – disse poi Al,
faticando a restare serio.
- Ogni tanto ne bevo un po' – mentì spudoratamente
Trisha, evitando di guardarlo negli occhi.
- Trisha... -.
- Ma non mi piace! Perché devo berlo, se non mi piace? -.
- Perché fa bene -.
- A cosa? -.
- Alle ossa. Contro le malattie. Ti aiuta a crescere – le
spiegò pazientemente Al, pur sapendo che non sarebbe servito
a
molto. Con qualcun altro, almeno, tutte quelle ragioni non avevano
sortito l'effetto sperato.
- Cresco lo stesso. Sono più alta di Edwin –
ribatté lei, per niente preoccupata.
Touché,
pensò
Al. Scambiò un'occhiata con Tiarnan, che aveva smesso da un
pezzo di insistere pur sapendo che Trisha, di latte, non ne toccava
nemmeno una goccia. All'inizio le era sembrato incredibile che una
bambina così piccola potesse essere tanto ostinata, ma Al
era
del parere che la cocciutaggine degli Elric- di certi Elric- fosse
evidentemente ereditaria. E c'era poco da fare, al riguardo: Ed ne era
un esempio lampante.
Al la osservò, mentre lei lanciava occhiate minacciose a
Edwin,
che tuttavia non lo dissuasero dall'avvicinarsi di nuovo alla sua
sedia. Anzi, ci si mise anche Cecelia ad imitarlo: da un po' la piccola
cercava di ampliare il proprio territorio, aggrappandosi ad ogni
appiglio disponibile e tirandosi in piedi. Più in alto
riusciva
ad arrivare, meglio era.
L'istante prima che Trisha iniziasse a protestare contro suo fratello,
Al ebbe il flash improvviso di una bambina della stessa età,
con
lunghe trecce castane e gli occhi azzurri, la cui immagine si
sovrappose a quella di sua figlia. E represse un brivido di orrore
quando ripensò a quel Tucker che aveva fatto della sua
bambina
una chimera. Quanti mostri, avevano incontrato.
Il grido di disappunto di Cecelia lo distolse dalle sue riflessioni: la
piccola apriva bocca così raramente che quando succedeva
zittiva
tutti i presenti, persino i suoi chiassosi fratelli maggiori. In
effetti Trisha e Edwin smisero all'istante di litigare, costretti a
lasciare la sedia perché Al potesse issarvi Cecelia.
Edwin guardò le sue sorelle e poi si rivolse alla madre,
seduta
lì vicino. Le poggiò la testa sulle gambe,
facendosi
accarezzare piano i capelli dello stesso colore dei suoi, e guardandole
il pancione sospirò:
- Non c'è un'altra femmina lì dentro, vero? -.
Il tono era quello supplichevole di qualcuno che è
già
stanco della vita, così serio che Tiarnan si morse l'interno
di
una guancia quasi a sangue per non ridere.
- A dire il vero non lo so – ammise – Ma sono
sicura che andrete d'accordo -.
Lo sguardo di Edwin era così poco convinto da farle quasi
pena,
e stava per dirgli qualcos’altro quando Trisha intervenne.
- Andiamo a giocare – ordinò, più che
proporre qualcosa per consolare suo fratello.
E quando lui alzò la testa e annuì, seguendola,
Tiarnan
fu sicura che avrebbe avuto sufficiente spirito di adattamento da
sopravvivere anche ad un'altra sorella- cosa di cui aveva un certo
presentimento.
- È strano – osservò Al, prendendo in
braccio
Cecelia e arruffandole affettuosamente i capelli. Lei sembrava non
somigliare a nessuno, con quei folti capelli castano scuro e gli occhi
verdi, eppure era da un po' che gli dava lo stesso una sensazione...
familiare. Una sensazione che andava pian piano definendosi, come
quando si ha qualcosa sulla punta della lingua.
- Cosa è strano? - chiese Tiarnan, stiracchiandosi un po' la
schiena. Bambino o bambina che fosse, quel quarto figlio sembrava
più pesante degli altri. O forse era lei che iniziava ad
essere
più stanca.
- Non ricordo molto bene com'eravamo io e mio fratello alla loro
età, ma non mi sembra che litigassimo spesso come loro
–
spiegò Al – E dire che hanno solo un anno di
differenza,
come me e Ed -.
- Beh, dipende anche dal carattere, non solo dalla differenza
d'età – rispose Tiarnan – Non
c'è una regola
fissa: magari il rapporto tra loro due sarà ancora
più
diverso -.
Nel dire ciò aveva accennato a Cecelia, ignara di essere la
più piccola di casa ancora per poco.
- A proposito – fece Al – Hai pensato ad un nome? -.
- A dire il vero sì – rispose lei, che sembrava
però leggermente dubbiosa – Se è una
femmina... che
ne dici di Alice? -.
- Alice Elric – ripeté piano Al, come ad
assaporarne il suono – Lo trovo un bel nome -.
Tiarnan annuì, ma con l'aria di chi deve dire ancora
qualcosa.
- Ad una condizione, però – replicò,
seria – che dopo nessuno la chiami "Al" -.
L'Al interpellato sorrise, ricordando che sua moglie doveva aver
sentito parecchie volte Ed chiamare così Alba, quando ancora
abitavano a Berlino.
- Beh, l'unico che rischierebbe di farlo si trova a centinaia di
chilometri da qui. Finché Ed non si decide a venire a
trovarci,
non credo ci sia questo pericolo -.
- A proposito, dopo quell'incidente l'hai più sentito? -.
L' "incidente" era quello di Alba, nel quale la ragazzina aveva perso
un occhio l'anno prima. Anche se gli era stato chiaro fin da quando
aveva attraversato il portale, che in Germania le cose sarebbero andate
sempre peggio, quando aveva letto la lettera di Ed aveva faticato a
crederci. Cosa ci sarebbe stata, un'altra Ishval?
Aveva scritto subito al fratello che i Mühlstein avrebbero
potuto
trasferirsi almeno in Inghilterra- aveva già sentito di
ebrei
che iniziavano a lasciare la Germania, c'era chi si imbarcava
addirittura per l'America- e sapere del rifiuto del signor Rod l'aveva
reso inquieto come non mai. Sperava con tutto il cuore che si sarebbero
decisi a fare qualcosa prima che fosse troppo tardi.
- Sì, e quello che ha scritto non mi piace per niente
– Al
avrebbe scosso la testa se non avesse avuto Cecelia addormentata su una
spalla, col suo peso caldo e confortante – Spero davvero che
Ed
riesca a convincerli -.
Tiarnan annuì, raddrizzandosi poi a fatica sulla sedia.
- Senti, credi di riuscire a portarmi delle altre pastiglie? Le ho
quasi finite -.
- Ancora mal di schiena? - Al le massaggiò piano una spalla
con
l'unica mano libera, visto che l'altro braccio era occupato dalla
bambina, e Tiarnan rilassò i muscoli stanchi del collo.
- Un po'. Soprattutto la sera – rispose, godendosi quelle
attenzioni.
- Domani ti porto qualcosa – le promise Al, che era riuscito
ad
avere in gestione la farmacia del paese in cui erano venuti ad abitare.
Non era altro che una piccola stanza polverosa gestita da un vecchio
signore ancora più polveroso dei suoi scaffali, ma Al era
riuscito a risistemarla, sbarazzandosi dei farmaci più
improbabili e antiquati e procurandosi, poco alla volta, le medicine e
le sostanze ormai utilizzate in città – Ho
giusto... -.
Un improvviso crescendo di voci sempre più acute li
avvisò che il momento di pace tra Trisha e Edwin era appena
finito; erano entrambi sul piede di guerra, e vista l'ora forse era
anche colpa della stanchezza.
- Vado a metterli a letto – disse Al, passando Cecelia a
Tiarnan
perché le urla dei fratelli non la svegliassero e andando
nell'altra stanza – Su, voi due, buoni -.
- È stato... - stava per dire Trisha, un dito accusatore
già puntato su Edwin, ma la voce di Al bloccò sul
nascere
ogni discussione.
- È ora di andare a letto, avanti -.
Nessuno dei due fece storie, il che voleva dire che dovevano essere
davvero distrutti. Edwin fece uno sbadiglio così enorme che
Al
temette si sarebbe addormentato direttamente sul pavimento.
Ma quando si trovarono tutti e due sotto le coperte, fu chiaro che la
giornata non era ancora finita.
- Papà – fece infatti Trisha –
È ancora il mio compleanno? -.
- Ancora per tre ore, sì – confermò Al.
- Allora voglio la storia dell'armatura magica – disse
Trisha, aggiungendo in un soffio: – Per favore -.
- Anch'io, anch'io! - Edwin trovò la forza di alzarsi a
sedere,
tanto era il timore di essere escluso dal racconto – La
voglio
sentire anch'io! -.
- Va bene – Trisha era troppo stanca persino per fare un
dispetto
a suo fratello, quindi concesse: - Va bene, raccontala a tutti e due -.
Al sorrise, chiedendosi quante volte ancora avrebbe dovuto raccontare
quella storia, inventata attingendo all'enorme miniera dei suoi
ricordi. Ma visto da lì, quello al di là del
portale
poteva davvero sembrare un mondo magico. Un mondo che i suoi figli non
avrebbero mai visto.
- Allora, cominciò tutto in un piccolo villaggio di nome
Resembool, a est di Central City. Questo villaggio si trovava in
campagna e di notte si potevano vedere le stelle, come qui. Un giorno,
in una casa come questa, un bambino a cui non piaceva il latte e suo
fratello... -.
E poi avanti, con opportune omissioni sui particolari più
macabri e sanguinari- meglio evitare incubi notturni- raccontando una
scienza come l'alchimia alla stregua di un'arte magica. Ed sarebbe
inorridito.
Era una storia che ricominciava ogni volta daccapo, giungendo ogni
volta ad un punto diverso, finché non si addormentavano. Non
era
mai arrivato a narrare che i due fratelli attraversavano il portale,
giungendo nel "mondo di qua".
Ma ci sarebbe stato tempo per raccontare anche questo.
"E tu ricerchi là le
tue radici,
se vuoi capire l'anima
che hai..."
(F. Guccini)
Forse mi sto spingendo
un po' troppo
in là con questa serie "Al di là del Portale"...
tuttavia
sono fedele al principio primo di EFP: io scrivo, e chi vuole legga! ^^
Questa storia trae
ispirazione da un
contest di qualche tempo fa, "Come in un CD" di _KeR_: prompt del
contest era scrivere una long i cui capitoli avessero come titoli le
tracce di un determinato CD.
Questa long non ha
partecipato al
contest- anche perché, arrivati a questo punto, dubito che
si
capirebbe qualcosa senza aver letto il resto- ma mi sembra giusto
ricordare chi mi ha dato l'idea.
Comunque sia, il disco a
cui faccio
riferimento è "Radici" di Francesco Guccini (1972), che
dà il titolo all'intera storia. I capitoli non saranno
song-fic,
l'unico legame con le canzoni sarà il semplice titolo.
È
un disco che comunque vi consiglio, e chi lo conosce ha già
in
mano una traccia di questa storia...
Ringrazio i miei quattro
cugini tra
l'uno e i quattro anni per la continua ispirazione: se i fratelli
Elric- di seconda generazione- vi sono sembrati un minimo realistici,
è tutto merito loro.
L'altra storia,
"Hausmärchen-
Fiabe del focolare", essendo una raccolta continuerà in modo
più saltuario. Fatemi sapere cosa pensate di questa! ^^
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Capitolo 2 *** La locomotiva ***
2- La locomotiva
La locomotiva
"È difficile avere un
fratello maggiore che fa sempre di testa sua, eh?"
(Alphonse Elric,
episodio 11)
Al non aveva mai pensato che due fratelli potessero detestarsi. Non
davvero, almeno. Litigare ogni tanto, questo sì; ma la
frequenza
con cui lo facevano i suoi due figli maggiori cominciava a diventare
preoccupante.
- Non toccarli! - era la battuta immancabile quando Trisha si metteva a
giocare con dei mattoncini di legno, ben consapevole che Edwin avrebbe
voluto giocarci subito anche lui. Sembrava farlo apposta.
- Perché? - chiedeva infatti il fratello, imbronciato.
- Ci sto giocando io! -.
- Tu lo fai sempre, quando li uso io! -.
- Non è vero! -.
- Invece... -.
- Devo venire lì? - la voce di Tiarnan, proveniente dalla
stanza
accanto, bloccò uno schiaffo che altrimenti sarebbe stato
ben
indirizzato.
- No! - esclamarono all'unisono i due bambini, per una volta d'accordo.
Se all'inizio Al era rimasto sorpreso nel vedere che si picchiavano e
litigavano in continuazione, ormai non sapeva più cosa fare.
Un paio di volte aveva seriamente pensato di mandarli per un mese su un
certo isolotto deserto, tanto per vedere se imparavano ad andare un po'
accordo. Era certo che Tiarnan non avrebbe avuto niente in contrario,
ma a fargli lasciar perdere quell'idea fu la certezza che le due
più piccole avrebbero voluto andarci a tutti i costi anche
loro.
E a tre e quattro anni forse era ancora un po' presto.
Man mano che crescevano, comunque, il rapporto dei suoi figli maggiori
sembrava svilupparsi in modo molto diverso da quello che aveva unito
lui e Ed. Innanzitutto perché il povero Edwin veniva
costantemente tiranneggiato dalla sorella maggiore, e poi
perché
si picchiavano almeno una volta al giorno. Ad Al sembrava ancora
più strano se lo paragonava al rapporto che avevano invece
le
due più piccole, complici in qualunque cosa facessero.
Trisha e
Edwin sembravano perennemente in guerra, e a sette e sei anni c'era da
chiedersi se la situazione potesse ancora cambiare.
Tuttavia una volta in cui Trisha non esitò a buttarsi in una
rissa a scuola per aiutare suo fratello, dando un pugno ad un ragazzino
il doppio di lei e rimediando altrettanto, Al si rese conto che poi
così disastroso non era. Tornarono a casa sporchi e
malconci, e
la giustificazione di Trisha fu che “solo lei poteva
picchiare
quello scemo di Edwin”.
Venne rimproverata per aver dato dello scemo a suo fratello, ma Al non
poté fare a meno di sentirsi orgoglioso di loro: aveva avuto
la
prova che anche i suoi figli si sarebbero salvati l'un l'altra, nel
caso fossero stati puniti da un cerchio alchemico per la trasmutazione
umana. Anche se sperava davvero che non sarebbe successo nulla del
genere.
Una cosa del genere, in realtà, accadde poche settimane dopo.
- Papà – sussurrò Trisha una sera in
cui aveva
litigato con Edwin più furiosamente del solito, mentre Al le
rimboccava le coperte – Ma a che servono i fratelli? -.
Al lanciò un'occhiata al letto accanto: Edwin sembrava
essersi
già addormentato, il respiro profondo e regolare.
Tornò
poi a guardare Trisha, che pareva non sopportarlo da sette anni a
quella parte, e decise di essere sincero con lei:
- Ad avere qualcuno quando i genitori non ci sono -.
- Ma tu e la mamma siete qui. Tutti e due –
obiettò lei.
Già quella risposta così ovvia- anche se per lui
e Ed non
lo era mai stata- fece capire ad Al che la vita dei suoi figli era
ormai davvero diversa da quella che aveva avuto lui.
- Non per sempre -.
- Perché no? - domandò Trisha, corrugando la
fronte.
- Un giorno avrete bisogno l'uno dell'altra – la
avvisò, terminando di rimboccarle le coperte.
- Ma tu hai avuto bisogno di tuo fratello? -.
- Certo. E ne ho bisogno ancora adesso -.
- Se è così, come mai non l'abbiamo mai visto? -
replicò di nuovo Trisha, poco convinta.
Al fece del suo meglio per nascondere un sorriso: davvero, sembrava
avessero preso lo stampo di Ed e ne avessero fatto una versione
femminile.
- Perché verrà quando sarà lui, ad aver
bisogno di me – replicò Al, scostandole i capelli
dalla fronte – E adesso dormi -.
- Dalla signora O' Toole? Perché? - domandò
Trisha.
- Per andare a prendere le lenzuola a cui ha rifatto l'orlo. Poi ci
penserò io ad andare a pagarla, sono già
d'accordo con
lei – spiegò sua madre – Andate tu e
Edwin, io qui
ho da fare -.
Le giornate di ottobre andavano facendosi pian piano più
rigide,
ma quel giorno non c'erano nuvole, e il cielo era di quell'azzurro un
po' fumoso tipico dell'autunno.
- Mi raccomando: tornate a casa prima che faccia buio -.
- Va bene -.
Non era la prima volta che andavano a fare qualche commissione insieme
e, dal ritmo con cui sua sorella si incamminò, Edwin
intuì che non doveva avere in mente soltanto le lenzuola.
- Forza, allunga il passo – gli ordinò infatti,
senza voltarsi.
Edwin non replicò: sapeva che sarebbe rimasto all'oscuro dei
piani di Trisha finché non avrebbero avuto le lenzuola fra
le
mani, per cui non gli rimaneva che obbedire e spicciarsi.
- Bene – quando si ritrovarono di nuovo per strada, a tempo
record e con le lenzuola in una cesta, al sicuro sotto una spessa
coperta, Trisha si decise a sputare il rospo. Aveva dipinta in faccia
l'espressione da “la combiniamo grossa senza che ci scoprano:
ho
tutto il piano in mente”, che intimoriva
sempre Edwin. Anche
se poi non mancava mai di prendervi parte.
- Andiamo dai Connolly, forza -.
- Cosa? - esclamò Edwin – Perché? -.
Lo chiese anche se ne sapeva perfettamente il motivo: aveva sentito
anche lui uno dei bambini più grandi, a scuola, sfidare
apertamente Trisha ad andare a cogliere uno dei crisantemi che
crescevano nel recinto delle pecore dei Connolly. Era una sfida
piuttosto gettonata, tra i ragazzini delle elementari,
perché
quei crisantemi fiorivano sempre prima del tempo: e dei fiori dei morti
che sbocciavano così presto alimentavano parecchie storie in
paese.
- Ma... ma lo sai cosa si dice su quei crisantemi? - fece infatti Edwin.
- Certo che lo so. Abito qui da più tempo di te, sai? -
replicò Trisha, che sapeva perfettamente quanto le voci
dicessero che quei fiori dovevano avere un'origine soprannaturale,
senza contare che crescevano in un recinto di ovini, il che li rendeva
decisamente sinistri – Secondo papà è
normale che
la gente dia spiegazioni simili alle cose che non capisce. È
semplicemente probabile che quel terreno sia pieno di semi di
crisantemo, e che le capre li... concimino parecchio. Per questo
fioriscono prima -.
- Lo so anch'io cosa dice papà –
bofonchiò Edwin
– Però... non è troppo lontano? La
fattoria dei
Connolly è vicino ai binari della ferrovia, a più
di un
chilomentro da qui! -.
- Se ci muoviamo facciamo in fretta, dai – replicò
Trisha
– E poi non c'è neanche una nuvola: non rischiamo
nemmeno
di bagnare le lenzuola -.
Edwin non sembrava molto convinto, ma non si era mai tirato indietro da
una scorribanda con sua sorella, visto che poi poteva dare la colpa a
lei. Non che i suoi genitori gli credessero, ma... ci provava sempre.
- Va bene – sospirò – Ma la cesta la
porti anche tu -.
- Quante storie – sbottò Trisha, prendendo
tuttavia la cesta dalle braccia di Edwin – Andiamo -.
Anche il passo che mantennero per raggiungere la fattoria dei Connolly
fu piuttosto spedito- se volevano andare e tornare prima che facesse
buio, e soprattutto non insospettire troppo la loro madre, era
necessario. Per un tratto costeggiarono la ferrovia, che passava
proprio a poca distanza dal recinto delle pecore, tanto che queste
ultime non si spaventavano nemmeno più quando sentivano lo
sferragliare del treno.
- Eccoli lì – Trisha adocchiò subito i
crisantemi,
già fioriti malgrado si fosse solo all'inizio di ottobre
–
Vado e torno, tieni le lenzuola lontane dalle pecore -.
Non c'era bisogno che glielo dicesse: Edwin stringeva la cesta come se
ne andasse della sua stessa vita.
- Sicura che non è pericoloso? - chiese però,
leggermente in apprensione.
- Edwin, fifone, sono pecore
– replicò Trisha, una gamba già issata
su un palo
della recinzione – L'unico pericoloso può essere
il
montone, ma è chiuso nell'altro recinto -.
Non terminò di dirlo, che il montone si fece per l'appunto
sentire: diede un paio di forti cornate contro lo steccato, guardandoli
furioso con le sue pupille orizzontali.
- Non mi piacciono gli occhi delle pecore –
mormorò
infatti Edwin, più a se stesso che a sua sorella: Trisha era
infatti già saltata dentro al recinto delle femmine, che si
erano semplicemente spostate in massa, come una gran nuvola lanosa.
Anche il montone la notò, mentre si dirigeva in fretta verso
la
macchia di crisantemi e ne coglieva uno, e iniziò a caricare
con
più forza la recinzione.
Edwin, che era indietreggiato senza rendersene conto verso dei cespugli
di biancospino, le mani ormai bianche tanto erano convulsamente strette
sul manico della cesta, notò all'improvviso qualcosa che gli
mozzò il respiro.
Aveva cercato di distogliere lo sguardo dall'animale, perché
sapeva che questo l'avrebbe reso ancora più furioso, ma
l'occhio
gli era caduto sul tratto di steccato contro cui il montone si stava
sfogando: persino da quella distanza riuscì a vedere che il
legno era marcio. In paese si diceva che i Connolly avessero ormai
intenzione di vendere, perché i figli se n'erano andati e il
vecchio padre non riusciva più a tener dietro alle mille
incombenze di una fattoria. Ma Edwin non avrebbe mai immaginato che si
sarebbe dimenticato perfino di controllare il recinto del montone,
lasciando che il legno marcisse sotto le frequenti piogge.
Era ormai indietreggiato tanto che sentiva le spine dei cespugli contro
la schiena. Un altro passo ancora e sarebbe finito dritto nel
biancospino, quando si rese conto che lo sguardo dell'animale non era
puntato su di lui, ma su Trisha. L'intrusa che aveva osato entrare nel
recinto delle femmine.
Fu un attimo: proprio mentre sua sorella scavalcava di nuovo la
recinzione, il montone riuscì a spaccare il legno marcio
dello
steccato, aprendo una breccia tanto grande da poterne uscire.
- Trisha! SCAPPA! -
urlò Edwin, con quanto fiato aveva in gola, incapace di
muoversi.
In un istante Trisha vide la bestia caricarla, e istintivamente si
tirò indietro, di nuovo nel recinto delle femmine, al sicuro
perché il legno di quello steccato era ancora perfettamente
sano.
Ciò a cui non aveva pensato era che, così
facendo, esponeva completamente Edwin al pericolo.
E il montone non ci mise molto a capirlo: se il suo obiettivo iniziale
era fuori portata, non gli ci volle che un attimo per volgersi verso
l'altro moccioso e iniziare a caricarlo.
Anche Edwin seguì l'istinto: mollò la cesta e
iniziò a correre, ripercorrendo a ritroso la strada che
avevano
seguito all'andata, dirigendosi senza accorgersene verso i binari.
Fu solo Trisha, sebbene morta di paura, a rendersi conto di un serpente
scuro e fumoso che andava avvicinandosi sempre di più. Il
treno
delle cinque stava arrivando, puntuale come ogni giorno, la locomotiva
che sferragliava e ansimava e rombava.
E stava correndo verso Edwin, o Edwin stava correndo verso di lei.
Trisha saltò fuori dal recinto talmente in fretta che
rischiò di slogarsi una caviglia. Dalla cesta ancora intatta
agguantò il primo lenzuolo della pila, lavato di fresco e
ancora
profumato, senza curarsi del fango e delle macchie d'erba mentre se lo
trascinava dietro.
Corse senza quasi respirare, urlando a Edwin di deviare, di deviare
prima dei binari. Lui sembrò sentirla, perché
pochi
istanti dopo si buttò di lato, incespicando in
un'irregolarità del terreno, riuscendo ad aggirare il
montone
che lo caricava a testa bassa.
Adesso correva verso Trisha, pallido come un cencio, e Trisha correva
verso di loro. Il treno aveva iniziato a fischiare, ma era come se
nessuno lo sentisse.
Quando fu abbastanza vicina, Trisha lanciò il lenzuolo
addosso
alla testa dell'animale, che scalciò e girò
confuso su se
stesso per qualche attimo, troppo furioso per fermarsi. Avevano sperato
entrambi che si sarebbe calmato, ma pur non vedendo nulla il montone
continuò a correre, senza più sapere in quale
direzione.
Era di nuovo diretto verso i binari, e stavolta aveva Trisha in
traiettoria, che ansimava come se avesse consumato tutto il fiato di
una vita lunga sette anni. Anche anni dopo non avrebbe saputo dire se
sarebbe riuscita a spostarsi, se Edwin non l'avesse tirata indietro
all'ultimo istante. L'ultimo istante prima che il montone finisse sui
binari, dritto contro la locomotiva, finendo investito dal treno.
Non rimasero a guardare il macello di sangue e muscoli ovini stritolati
sulle rotaie; bastò loro la vista della massa di lana
insanguinata da lontano, per defilarsi il più in fretta
possibile.
Arrancarono fra l'erba alta, tirandosi l'un l'altra per le braccia,
finché non riuscirono a rimettersi in piedi. Andarono a
recuperare la cesta con le lenzuola superstiti e tornarono subito verso
casa, senza dire nemmeno una parola.
Del crisantemo, finito a terra accanto al recinto delle pecore, Trisha
non si ricordava più. E comunque non gliene sarebbe
importato
niente.
- Prova a parlarci tu – insistette Tiarnan in un sussurro,
mentre terminava di lavare i piatti.
- Non so se è una buona idea – rispose Al
– Mi sembrano parecchio sconvolti -.
- Appunto per questo: quando sono tornati erano sporchi di erba e
fango, e mancava un lenzuolo – più che arrabbiata,
Tiarnan
aveva un'aria parecchio preoccupata – Sembrava fossero...
beh,
appena sopravvissuti a qualcosa -.
In effetti il fatto che non avessero aperto bocca per tutta la sera,
nemmeno per litigare o farsi una linguaccia a vicenda, significava che
doveva essere accaduto qualcosa di serio.
- Magari hanno visto il montone che è finito oggi sotto il
treno
– ipotizzò Al, fermando Alice che cercava di
infilare una
mano nella zuccheriera dopo aver bevuto il suo té
–
Stasera ho visto il veterinario: mi ha detto che quella povera bestia
aveva le corna piene di vermi, doveva essere impazzito dal dolore per
riuscire a buttare giù lo steccato. Non dev'essere stato un
bello spettacolo -.
- L'ho sentito anch'io, ma è successo proprio dietro alla
fattoria dei Connolly. Come avrebbero fatto loro a vederlo? -.
Al non rispose. Più che per mancanza di argomentazioni, fu
un
improvviso sospetto nato dal nulla a farlo tacere su quella faccenda.
- Cecelia, Alice! Andiamo a lavarci le mani, su! -.
Agguantò le figlie più piccole e si diresse verso
il
bagno, mentre quel sospetto assurdo si andava facendo sempre
più
credibile nella sua mente. Ma la parola "assurdo" aveva sempre fatto
rima col cognome Elric, in qualche modo.
- Papà, acqua! - chiamò Cecelia, che non arrivava
ancora al rubinetto.
Durante i minuti seguenti Al fu impegnato ad impedire che Alice si
tuffasse di testa nel lavandino per rimuginare ancora, ma era ormai
giunto ad una conclusione.
… probabilmente quella povera bestia non aveva avuto nessuna
colpa.
Infatti, dopo aver osservato Trisha e Edwin per due giorni interi,
capì senza dover fare domande. La tregua fra loro era fin
troppo
duratura per poter essere considerata casuale: avevano smesso di
picchiarsi e farsi smorfie; persino il loro modo di guardarsi era
qualcosa di completamente nuovo. Come se Trisha avesse capito il
discorso che le aveva fatto qualche sera prima, quello sui fratelli che
devono aiutarsi l'un l'altro.
E Al ringraziò che gli fossero tornati a casa tutti interi,
senza gambe o braccia mancanti- o peggio-, solo un po' sporchi e
malconci.
- Quel lenzuolo... - buttò lì casualmente la
settimana
dopo, quando Tiarnan si era ormai rassegnata a non sapere nulla di
quella storia – … possiamo ricomprarlo, no? -.
“Ma intanto corre,
corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e
sembra quasi cosa viva...”
(F. Guccini)
Avevate paura che
succedesse qualcosa di orribile, vero? Beh, non sempre la storia si
ripete. ^^
L'isolotto deserto a cui
accenno
all'inizio è quello in cui Ed e Al iniziano il loro
addestramento da alchimisti, ve lo ricordate? Sfido chi non imparerebbe
a collaborare, in una situazione del genere...
Rispondendo alle
recensioni:
Li_:
sono davvero contenta di sentirti anche qui! Felice che i nuovi
fratelli Elric ti piacciano, ho intenzione di concentrarmi parecchio
anche su di loro... come hai visto da questo capitolo, in cui i
protagonisti sono Trisha e Edwin. Per il nome di quest'ultimo, in
realtà ho semplicemente cercato qualcosa che assomigliasse
al
nome Edward; all'inizio pensavo di chiamarlo come lo zio, ma poi ho
pensato che il tributo a Trisha fosse sufficiente. E comunque
“Ed
e Al” ci sono in ogni generazione!
Per quanto riguarda
Cecelia, ti anticipo solo che il mistero si scioglierà nel
quarto capitolo. ^^
Sono felice che ti sia
piaciuta anche
“Hausmärchen- Fiabe del focolare”:
è vero, al
momento è più seria ma chissà... forse
le cose
potrebbero ribaltarsi.
MusaTalia:
felicissima di trovarti anche qui! Sai, Al mi ha sempre dato
l'impressione di qualcuno che, invece che vivere nel passato, riesce a
cogliere l'occasione per ricreare ciò che ha perduto. Magari
diverso, ovviamente con altre persone che non possono essere quelle che
non ci sono, ma fondamentalmente lo stesso. E se ne renderà
conto anche lui più avanti, ho intenzione di inserire un
dettaglio al riguardo.
Ci hai azzeccato sia su
Trisha sia sulla quarta Elric, complimenti! ^^
Per quanto riguarda il
massacro di
Ishval, non è la prima volta che avvenimenti della seconda
guerra mondiale e legati al nazismo ispirano opere giapponesi.
Dev'essere un immaginario che, soprattutto per la lontananza
geografica, si sentono liberi di reinterpretare, mentre qui
è
ancora “storia fresca”. In effetti non è
la prima
opera che scava, anche se con riferimenti non espliciti, nelle ombre e
ambiguità del nazismo.
Oh, anch'io sono
“incartata” in parecchi contest! E di alcuni mi
dispiace,
perché magari mi vengono delle idee che ritengo buone ma non
sono ancora nel momento giusto per svilupparle... a volte bisogna
davvero “costringersi” a scrivere!
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Capitolo 3 *** Piccola città ***
3- Piccola città
Piccola città
"Per ottenere qualcosa è necessario dare in cambio qualcos’altro che abbia il medesimo valore.
In alchimia è chiamato il principio dello scambio equivalente."
(Alphonse Elric, episodio 2)
Quasi trattenne il fiato poggiando il naso contro la vetrina, appannandola col suo respiro.
Era assolutamente meraviglioso.
Legno scuro di acero e abete, corde che aspettavano solo di essere
strofinate e un archetto che non chiedeva altro che pece (¹).
Curve sfuggenti simili a foglie accartocciate, passi di danza di quelle
fate di cui raccontavano gli anziani del paese. Due "effe" più
simili ai baffi sornioni di un gatto che a semplici aperture su un
piano di legno.
Avrebbe dato il suo letto e tutti i suoi giocattoli per poterlo avere.
Poteva benissimo dormire per terra, in fondo. Era più semplice
che pretendere di diventare un bravo musicista senza uno strumento con
cui potersi esercitare tutti i giorni a casa, senza dover andare sempre
dal vecchio Liddy. Anche se secondo sua madre doveva solo ringraziarlo,
dato che non chiedeva altro che due uova per un'ora di lezione.
D'accordo, ma questo non risolveva il suo problema. Gli serviva un
violino, un violino tutto suo. Un violino su cui avrebbe inciso le sue
iniziali, "E.E.", e così facendo l'avrebbe "marchiato a fuoco",
come diceva il vecchio Liddy.
Ma quello su cui aveva messo gli occhi da almeno tre mesi- dall'ultima
volta che erano venuti in città con suo padre- costava troppo,
anche se per fortuna non era ancora stato venduto. Se avesse potuto
avere un violino solo continuando ad ammirarlo, quello sarebbe stato
suo già da un pezzo. Natale si stava avvicinando, ma non poteva
certo chiedere...
- Edwin! Ti muovi? -.
La voce di sua sorella era l'esatta antitesi al suono dolce di un
violino, ma per una volta aveva ragione. Avevano accompagnato il loro
padre in città per il periodico rifornimento di medicine e
caramelle, perché in un paese piccolo come il loro la farmacia
vendeva anche dolciumi. Ma era ora di andare, lo sapeva; si
staccò dalla vetrina a malincuore, chiedendosi se il "suo"
violino ci sarebbe stato anche dopo le feste.
"E anche se fosse?" pensò amaramente Edwin "Tanto rimarrebbe lì, non sarebbe mio comunque."
- Ancora con quel violino? - la voce di Trisha accanto a sé non lo sorprese – Non l'hanno ancora venduto? -.
- No – Edwin finse un sorriso – Lo sai che aspetta me -.
- E tu lo sai che costa troppo. Ti conviene dimenticartelo -.
Se c'era una cosa che a Trisha non mancava, era il tatto. Ma aveva ragione.
- Sì, lo so – annuì lui col capo – Ma non posso farci niente -.
Sospirò, e andò a raggiungere suo padre che stava
comprando del pesce fritto per tutti e tre. A Edwin erano sempre
piaciute quelle piccole gite che facevano ogni tanto, ma ultimamente
erano diventate una vera sofferenza. Sperava quasi che quel violino
sparisse davvero dalla vetrina, almeno si sarebbe messo il cuore in
pace.
Trisha, dal canto suo, non l'aveva seguito subito. Aveva osservato
brevemente quello strumento a cui Edwin lanciava lunghe occhiate
languide ogni volta che venivano in città- non spesso, ma lui si
fiondava davanti a quel negozio appena poteva. Trisha l'aveva sentito
suonare qualche volta, andando a prenderlo un paio di nebbiosi
pomeriggi autunnali a casa del vecchio Liddy, e doveva ammettere che
era bravo. Non concedeva facili complimenti a suo fratello, ma con un
violino in mano Edwin ci sapeva fare, e anche il vecchio Liddy
riconosceva che aveva un certo talento. In fondo, anche a lei sarebbe
piaciuto sentirlo suonare per casa.
Ma quel violino costava troppo, in ogni caso. Edwin non se l'era mai
sentita di avanzare qualche richiesta, e in effetti nemmeno lei
l'avrebbe fatto. Nemmeno se...
- Trisha! Adesso ti sei incantata tu? -.
Suo fratello le urlava senza tanti problemi alcuni metri più
avanti, con suo padre accanto che teneva i cartocci del pesce. La
pancia le brontolò per la fame, e il vento freddo e umido di
dicembre le si infilò nelle orecchie, ma la lampadina che le si
era accesa in testa era più luminosa che mai.
Si allontanò in fretta dalla vetrina, e l'espressione che
esibì quando li raggiunse fece temere ad Al che Trisha avesse
avuto un'altra delle sue idee. A volte si aspettava quasi che saltasse
fuori con un familiare: - Ehi, Al! Senti questa! -.
Scosse la testa sorridendo, mentre i suoi figli se ne stavano zitti e concentrati con il loro cartoccio caldo tra le mani.
Chissà che stava combinando Ed? Era da un po' che non aveva più sue notizie.
- Come? Ma... sei sicura? -.
Al non era convinto di quel che avevano appena sentito le sue orecchie. Possibile che sua figlia avesse davvero avanzato una proposta del genere?
- Sì, beh... gli devo un favore -.
Al temette che la parola "favore" fosse un eufemismo, anche se non era
ancora riuscito a farsi raccontare per bene cos'era successo il famoso
giorno del lenzuolo. Una vocina fin troppo sicura di sé gli
diceva che i suoi figli c'entravano con un certo incidente tra un treno
e un povero montone, anche se finora erano stati ben attenti a non
lasciarsi sfuggire nemmeno una parola.
- Vediamo se ho capito: sei disposta a rinunciare al tuo regalo di Natale, purché Edwin riceva un violino? -.
- Sì, ma non un violino qualsiasi – si affrettò a
spiegare Trisha – Lui vuole quello nella vetrina del negozio di
strumenti, vicino alla fisarmonica -.
- Quello che si ferma a guardare ogni volta che andiamo in città, quindi? -.
- Esatto – suo padre non si smentiva mai: si era accorto da un
pezzo che Edwin andava sospirando dietro a quello strumento, sebbene
non ne avesse mai fatto parola con nessuno. Non come Winry, a cui
brillavano gli occhi non appena vedeva degli attrezzi assolutamente necessari al suo mestiere di costruttrice di automail, e poi saltellava tutto intorno a Ed pregandolo: "Me lo compri?".
Al sorrise, scuotendo la testa: anche dopo tanti anni, certi ricordi erano più vividi che mai.
Dal canto suo, Trisha non stava pensando ad un'amica d'infanzia
conosciuta in un altro mondo, ma si stava chiedendo se, con quel
sistema, sarebbe riuscita ad attenuare almeno un po' i sensi di colpa
che provava nei confronti di suo fratello.
Edwin l'aveva salvata e poi lei aveva salvato lui, anche se ciò
non cambiava il fatto che era stata tutta colpa sua. Nella migliore
delle ipotesi, aveva rischiato di fare davvero del male a suo fratello.
Malgrado poi fosse andato tutto bene, si sentiva comunque un mostro, e
dopo due mesi ancora le si chiudeva la bocca dello stomaco al pensiero
di “come sarebbe potuta andare”.
Trisha non sapeva di avere uno zio che avrebbe potuto capirla alla
perfezione, per cui i sensi di colpa doveva affrontarli da sola.
- Credi che si possa fare, papà? O verrebbe a costare troppo lo stesso? - chiese di nuovo, alzando la testa.
Anche se fosse costato troppo, Al era sicuro che un modo l'avrebbe
trovato. Già da tempo ne andava parlando con Tiarnan,
perché in effetti Edwin sembrava avere talento in fatto di
musica, ma soprattutto una gran passione. Se Ed non avesse avuto la
casa piena di libri di alchimia, dubitava che sarebbe mai diventato il
grande alchimista che era stato.
- Si può fare – rispose lui, sorridendole.
E quando suo padre la guardò, a Trisha non importò
davvero più nulla del suo regalo di Natale, perché vide
l'orgoglio nei suoi occhi. E ne fu immensamente felice.
- Davvero ti ha detto così? - Tiarnan sembrava incredula –
Mi chiedo quale sia questo "favore", anche se non so se vorrei saperlo
-.
- Forse è giusto così, che resti un segreto tra fratelli – disse Al.
Tiarnan gli lanciò un'occhiata lievemente sarcastica.
- Se sono come i tuoi, di "segreti tra fratelli", sono più preoccupata di prima -.
Al sorrise colpevole: da parecchi anni, ormai, aveva raccontato a sua
moglie tutta la verità riguardante lui e Ed, l'alchimia e il
mondo al di là del Portale. Tiarnan non ne parlava molto, ma
quando lo faceva si capiva quanto sperasse che i suoi figli avrebbero
avuto un destino diverso.
- Cambiando discorso, pensi di accontentarla? - chiese, infilandosi sotto le coperte.
- Beh, ne stiamo comunque parlando da un po', no? Di prendere un violino a Edwin? -.
Tiarnan annuì.
- Sì, in effetti potrebbe essere l'occasione giusta –
spense la luce, sdraiandosi – Ma credi che dovremmo farle
comunque un piccolo regalo? -.
Al sapeva che sua moglie stava pensando di premiarla in qualche modo
per il suo gesto, ma lui sapeva perfettamente ciò che andava
fatto. Perciò rispose:
- No -.
Sentì Tiarnan sistemarsi meglio contro il cuscino e sorridere in silenzio:
- Ancora con questo scambio equivalente, eh? -.
- Già. Sai, è un po' difficile dimenticarlo... -.
- Beh, anche se non si può applicare proprio a tutto, trovo che
in questo caso possa starci. Non è male, come metodo educativo -.
- Certo, basta non prenderlo come la verità della vita -.
Al sapeva di essersi capito solo lui, ma sorrise nel buio prima di addormentarsi.
Si era ormai abituato alle festività di quel mondo; o meglio, a
quelle delle persone con cui viveva. E anche se non ci aveva capito
molto, ora festeggiava il Natale con la sua famiglia esattamente come
aveva festeggiato Hanukkah con i Mühlstein, dopo aver appena
attraversato il portale.
- Aspetta, fammi capire – quando erano ancora fidanzati Tiarnan
aveva cercato di spiegargli l'origine di quella festa – È
nato... per morire? E perché? -.
- Per salvarci tutti -.
- Da cosa? -.
- Dal peccato originale -.
E qui Al aveva rimpianto con tutto il cuore l'alchimia, chiedendosi
quale significato potesse mai avere l'accostamento dei termini
"peccato" e "originale". Tiarnan doveva essersene accorta,
perché aveva subito aggiunto:
- Mettila così: è venuto per portare la luce nelle
tenebre del mondo. Per questo lo si festeggia nel periodo più
buio e freddo dell'anno: è simbolico -.
- Aspetta, aspetta: porta la luce... che vince sull'oscurità? - Al era certo di esserci arrivato.
Tiarnan annuì, contenta che avesse capito.
- È come Hanukkah, giusto? -.
Quasi le caddero le braccia.
- No, non c'entra niente – sbuffò.
- Ah... davvero? Ma sei sicura? - eppure si somigliavano così tanto...
- Certissima -.
- Mmh... -.
Ad un certo punto aveva rinunciato a capirci qualcosa, limitandosi a
godersi i visi luminosi dei suoi figli quando accendevano la candela
della Vigilia presso una finestra, così che fosse visibile anche
all'esterno. E Alice era la più contenta di tutti, dato che ad
accenderla doveva essere il membro più giovane della famiglia.
Poi Al doveva essere lesto a metterle una mano davanti alla bocca
perché non la spegnesse l'istante successivo, ma anche questa
era ormai una tradizione.
Come previsto, Edwin rimase a bocca aperta. Per un istante si chiese se
lo strumento che aveva tra le mani fosse reale, ma anche se non l'aveva
mai toccato l'avrebbe riconosciuto fra mille. L'aveva osservato per
così tanto tempo che avrebbe potuto descriverlo alla perfezione,
in ogni minimo dettaglio e curvatura del legno.
E ne fu immensamente felice, ma ancora non capiva.
- Ma come... costava troppo... - mormorò, ancora incredulo. Ma
non era sicuro che sarebbe riuscito a riportare indietro il violino, se
glielo avessero chiesto.
- Non ti preoccupare. Abbiamo trovato un modo – lo
rassicurò suo padre. E anche se Edwin non capì a cosa si
riferisse, era troppo felice per chiederselo. Pizzicò le corde
e, quando le sentì vibrare, tremò assieme a loro.
Solo più tardi, quando riuscì finalmente a distogliere lo sguardo dal suo violino, se ne accorse. Dov'era il regalo di Trisha?
- Pensa al tuo, di regalo. Che ti importa di quello degli altri? - fu la gentile risposta di sua sorella.
Eppure non c'era, pensò Edwin. Cecelia e Alice stavano giocando
con una nuova bambola e un nuovo coniglio di pezza, intente a trattare
con la madre per il permesso di usare delle tazze vere per far prendere
loro il té.
Corrugò la fronte, senza capire, accarezzando con il pollice il
manico del violino. Avrebbe chiesto a suo padre; lui gli avrebbe detto
cos'era quella storia.
- Scambio equivalente – fu invece la sibillina risposta di Al,
che si stava intimamente chiedendo se Edwin ci sarebbe andato a
dormire, con quel violino.
- Ma... -.
- Ehi, cosa fai vicino al camino? Tienilo lontano dal fuoco! -.
Alle parole di Trisha, Edwin strinse istintivamente lo strumento a
sé. Lei si avvicinò, togliendogli l'archetto di mano e
osservando i crini tesi e già strofinati di pece. Perché
era così interessata al suo violino? Non gliene era mai
importato niente, quando andava a guardarlo nella vetrina del negozio
di strumenti.
- Pensi di suonarlo, prima o poi? - chiese lei – Conosci la giga della farfalla? -.
- "The Butterfly"? - fece Edwin – Sì, anche se lo staccato non mi riesce ancora molto bene -.
- Non so neanche cosa sia, lo staccato – ribatté Trisha, porgendogli l'archetto.
E quando Edwin lo appoggiò sulle corde e iniziò a suonare
le prime note, all'inizio un po' incerto e poi via via sempre
più sicuro, capì. Capì che Trisha c'entrava col
suo regalo che costava troppo e che avrebbe fatto meglio a dimenticare,
continuando ad esercitarsi col violino del vecchio Liddy quando andava
da lui. Ecco cosa intendeva suo padre, con "scambio equivalente":
Trisha aveva rinunciato al suo regalo per lui. Per il suo violino.
Aumentò il ritmo, le dita più sicure sulle corde. Era una
melodia facile, le note che si ripetevano erano più o meno
sempre le stesse.
Quando terminò, Alice lo guardò con disappunto, una mano
in quella di Cecelia e l'altra sulla zampa del suo coniglio. Edwin si
rese conto che stavano ballando- più o meno- e sentì un
brivido di orgoglio lungo la schiena. Trisha e suo padre seduti vicino
al fuoco lo stavano ascoltando, attenti, come sua madre che lo
osservava sorridendo. Per la prima volta nella sua breve vita, era al
centro dell'attenzione di tutta la sua famiglia.
Fu Cecelia a parlare per prima, lei che era la più silenziosa tra le sue sorelle.
- Ancora -.
Edwin Elric aveva appena scoperto la sua droga.
Due settimane più tardi Tiarnan incontrò il vecchio Liddy
in paese, il quale le disse che Edwin stava migliorando in maniera
sorprendente: il suono era più pulito, le dita più veloci
e il ritmo più sicuro, anche se il senso del ritmo non gli era
mai mancato.
Per forza, pensò sua madre. Nelle ultime due settimane avevano
ascoltato il silenzio soltanto di notte, quando Edwin andava a dormire
e doveva rimettere il violino nella sua custodia, finalmente
silenzioso. Fortuna che da qualche giorno era ricominciata la scuola:
almeno le sue orecchie potevano riposare per qualche ora.
Però non le dispiaceva avere un figlio musicista per casa, anche
se quando non ne poteva proprio più lo spediva a suonare al
piano di sopra. E Edwin saliva le scale suonando, sciorinando scale di
note.
Se da una parte era convinta che fosse una fase- l'entusiamo per la
novità, che si sarebbe esaurito presto- dall'altra Al le aveva
detto che una simile costanza poteva essere un'eredità degli
Elric: lui e Ed avevano trascorso giorni e notti intere a studiare
l'alchimia, e forse suo figlio avrebbe trascorso giorni e notti intere
suonando.
Sembrava proprio che ad avere ragione fosse suo marito.
Una gelida sera di gennaio, dopo cena, Al e Tiarnan sentirono un gran
fracasso al piano di sopra. Più del solito, e in effetti
lì dabbasso dei bambini non c'era traccia.
- Dai, stasera li metto a letto io – fece Al, scambiando un'occhiata con la moglie, per poi salire le scale.
Sentiva Edwin suonare- che novità- e tutti i suoi figli cantare
a squarciagola una canzone che non conosceva. Quando aprì la
porta della loro stanza, li trovò che saltavano da un letto
all'altro, a piedi nudi e rossi in viso. Sembrava che il freddo
l'avessero lasciato fuori dalla finestra, nel vento che ululava e che
non riusciva a sovrastarli.
- Dance, then, wherever you may be... -. (²)
- Cos'è questa confusione? - fece Al, più sorpreso che altro – Che vi prende? -.
La sua voce riuscì a fermarli quel tanto che bastava
perché Trisha prendesse il controllo della situazione e gli
spiegasse:
- Senti questa canzone, papà! -.
Edwin attaccò il pezzo e le sue sorelle lo seguirono
ricominciando a cantare, mettendosi poi a saltare a ritmo sui letti,
accennando qualche passo della danza che accompagnava quella musica.
- Dance, then, wherever you may be; I am the Lord of the Dance, said he... -.
Già, pensò Al ascoltando attentamente quelle parole. Danza, allora, dovunque tu sarai. Non perderti d'animo, mai.
Quella giornata era stata lunga e faticosa, e non solo per lui: le
notizie che arrivavano di giorno in giorno erano sempre più
preoccupanti. La Germania aveva invaso la Polonia ormai da qualche
mese, Gran Bretagna e Francia le avevano dichiarato guerra e l'Unione
Sovietica era scesa in campo a sua volta. Non solo la Germania,
sembrava che l'intera Europa fosse un calderone messo sul fuoco a
bollire per troppo tempo, che minacciava di traboccare da un momento
all'altro. Anzi, probabilmente aveva già cominciato.
Non aveva notizie di Ed da mesi, ormai, ma qualcosa gli diceva che stava bene. Che doveva stare bene e, appena avesse potuto, si sarebbe fatto sentire.
Forse era nel suo destino rendersi conto di essere felice ogni volta
che il mondo attorno a lui andava allo sfascio. Perché quella
sera si rese conto di avere ottenuto ciò che aveva sempre
cercato, fin da quando si era messo in viaggio con suo fratello
all'età di dieci anni: anche lui, come Ed, aveva desiderato
tornare ai tempi in cui erano stati davvero felici, per l'unica volta nella loro vita, e quella sera si rese conto di esserci riuscito. Era tornato, ma andando avanti.
- ...and I'll lead you all wherever you may be, and I'll lead you all in the dance, said he -.
- Ti piace? - chiese Edwin, le dita ormai stanche dopo un'intera giornata di performance.
- È bellissima. E spero vi siate stancati abbastanza da mettervi sotto le coperte -.
Sapeva che non era affatto così; lo sapeva prima ancora che i
suoi figli gridassero all'unisono: - Non siamo stanchi! - senza nemmeno
consultarsi, perché non ce n'era bisogno. Lo sapeva, ma
continuò imperturbabile:
- Avanti, a letto -.
Quando gli obbedirono senza fare troppe storie, ad Al venne il dubbio
che forse un po' stanchi dovevano esserlo, e quando fece per rimboccare
le coperte ad Alice, ebbe come un lampo d'ispirazione improvvisa.
Sentì che quella era la sera giusta per dire loro qualcosa di importante, qualcosa che sperava avrebbero ricordato.
- Spero ve ne ricorderete – disse infatti.
- Di cosa? - fece Cecelia, curiosa.
- Di questa canzone e di quello che dice -.
- Vuoi che te la cantiamo di nuovo? - si offrì all'istante
Alice, che tuttavia doveva essere stremata per non essere saltata su
come un grillo.
- Non ce n'è bisogno, vi ho ascoltato con attenzione – rispose Al.
- Ma perché dovremmo ricordare quello che dice? - chiese Trisha,
e Al cercò di non sorridere. Perché lo sapeva già,
che sarebbe stata lei a chiederlo: era Trisha quella delle domande,
proprio come suo zio.
- Perché un giorno potreste non aver voglia di danzare, e nemmeno di saltare sui letti -.
- Questo è impossibile! - decretò categorica Alice, ormai un fagotto sotto le coperte.
- Potrebbe succedere, invece. Capita a tutti, prima o poi -.
Stavolta Alice non ribatté. Non è che avesse tanta
esperienza di vita da sapere esattamente quando fosse, quel
“prima o poi”.
- E quando succederà, cercate di ricordarvi di questa canzone
– avrebbe voluto che anche sua madre avesse detto loro una cosa
del genere. Forse Ed avrebbe saputo reagire in un altro modo – Va
bene? -.
Aveva chiesto a Edwin se, cantandogli una melodia, potesse riuscire a
suonarla col violino. Lui aveva risposto che poteva provarci, magari
con l'aiuto del vecchio Liddy che a orecchio riusciva a suonare
qualsiasi cosa.
Allora Al cercò di ricordare come fosse quella musica, quella
dell'orologio di Win che lei aveva definito "una vecchia melodia
russa". Come faceva?
- È difficile, papà – disse Edwin quando il vecchio
Liddy ebbe buttato giù uno spartito, dicendo di aver già
sentito quella canzone da qualche parte.
- Non devi suonarla adesso – lo rassicurò Al – Ma può essere un obiettivo -.
Edwin annuì.
- Fra qualche anno ci riuscirò sicuramente -.
Fra qualche anno avrebbe potuto ascoltarla anche Ed, se si fosse deciso
a venire a trovarli. Suo fratello stava bene, lo sapeva come l'aveva
saputo quando erano stati separati dal Portale.
Ma forse per rivederlo doveva aspettare ancora un po', rispettare anche
lui lo scambio equivalente come era riuscita a fare Trisha: in fondo
aveva avuto quattro figli, il che aveva un valore immenso. Per rivedere
un fratello forse ci voleva ancora un po' di tempo.
Magari meno di quel che pensava.
"Piccola città io ti conosco,
nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio..."
(F. Guccini)
(¹) "Pece": nome comunemente usato di un composto di colofonia e
altre resine che, passato sui crini dell'archetto di un violino, fa
sì che questo produca attrito al contatto con le corde. In caso
contrario scivolerebbe e non sarebbe possibile suonare.
Le "effe" sono invece le due fessure ai lati delle corde.
(²) “The Lord of the Dance”, qui nella versione dei Blackmore's Night.
Traduzione dei versi riportati:
“Danza, allora, dovunque tu sarai; sono il Signore della Danza, disse lui,
e guiderò tutti voi ovunque sarete, e guiderò tutti voi nella danza, disse lui.”
L'accensione della candela l'ho
trovata tra le tradizioni natalizie irlandesi, anche se non l'ho mai
potuta verificare di persona... mi fido di ciò che ho trovato in
rete. ^^
Delle due canzoni nominate nel
capitolo trovate il collegamento YouTube, spero che vi siano piaciute.
Credo che la faccenda dello scambio equivalente sia difficile da
dimenticare, per un alchimista, e a volte penso che possa davvero
esistere una legge simile. O che almeno insegni il valore di ciò
che si ha.
La melodia a cui si fa riferimento
alla fine è ovviamente "Bratja", nominata alla fine de "Die Uhr-
L'orologio". Non so se avete mai sentito una cover con solo violino, ma
è meravigliosa. È meravigliosa in ogni caso, comunque.
Rispondendo alle recensioni:
_Li_:
hai proprio ragione, Ed come fratello maggiore è una vera e
propria palestra di vita. ^^ Mi piaceva l'idea di una piccola
"avventura traumatica" anche per loro, ma che non fosse estrema come
quella di Ed e Al.
Io sono appunto la sorella maggiore,
invece. E, mano sul cuore, mi sono sempre sentita un po' il "capo" dei
miei fratelli... è una bella sensazione. ^^
Alla prossima!
MusaTalia:
beh, venendo da un mondo in cui, a guardar bene, non esiste
discriminazione sessuale, credo sia normale che Al risulti più
"moderno" degli uomini del tempo. Oltre al fatto che, sapendo bene
com'è vivere senza la presenza di un padre, ho pensato potesse
essere più che plausibile che lui voglia esserci, nella vita dei
suoi figli.
Per quanto riguarda le due figlie minori, finora le ho solo accennate, ma vedrai che avranno presto il loro spazio. ^^
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