Beside you

di RobTwili
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Brand new life ***
Capitolo 2: *** Don't put ketchup in your burgher! ***
Capitolo 3: *** In cervesa veritas ***
Capitolo 4: *** I'm try to go to rehab ***
Capitolo 5: *** It's a thunder thing ***
Capitolo 6: *** MTV Movie Awards ***
Capitolo 7: *** Lee's first date with... Xavier! ***
Capitolo 8: *** Taper jean girl kills me ***
Capitolo 9: *** I think I'm... jealous? ***
Capitolo 10: *** When everything burns ***
Capitolo 11: *** Tom, I had sex with Lee ***
Capitolo 12: *** I was telling you I love you, but you've disappointed me ***
Capitolo 13: *** Happy birthday Lee! ***
Capitolo 14: *** You've not Cancer, you love me, Lee ***
Capitolo 15: *** All on you ***
Capitolo 16: *** 'Cause Lee is a princess, in every single way ***
Capitolo 17: *** I'm beside you- Epilogue ***



Capitolo 1
*** Brand new life ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.









«Vai pure a farti la doccia per prima, Aileen» ridacchiai dopo aver chiuso la porta di casa alle nostre spalle.
Aileen era appoggiata allo stipite, ridente e ansimante per la corsa.
«Un… attimo» borbottò scostandosi i capelli bagnati dal viso.
Era da qualche giorno che non la vedevo ridere così, spensierata, e questo mi rendeva ancora più felice.
Guardai prima i suoi vestiti e dopo i miei: erano in condizioni pietose; completamente zuppi, sembravano incollati al nostro corpo.
«Dio, non pensavo che in California potesse piovere in questo modo». Appoggiai la nuca alla porta e respirai a fondo per far rallentare la corsa del mio cuore.
«Nemmeno lì c’erano questi temporali».
Il suo buonumore sparì all’improvviso, probabilmente parlava di Baton Rouge.
Nonostante avesse lasciato quella città, che per lei era l’inferno, tre anni prima, non riusciva ancora a nominarla.
Non gliel’avevo mai fatto notare, ma mi ero sempre reso conto di quel piccolo particolare.
«Vai Lee, che altrimenti ti ammali» cercai di convincerla di nuovo, dopo averla vista rabbrividire.
«Io non sono vecchia come te, mi ammalo con più difficoltà» sghignazzò cominciando a salire le scale di corsa subito dopo avermi fatto una linguaccia, sicura che avrei ribattuto qualcosa.
«Ho ventisette anni, Lee! Non sono vecchio, dannazione! Sei tu che sei piccola» strillai togliendomi la maglietta zuppa, sperando di limitare le pozzanghere sul pavimento.
«Ne ho quasi ventuno. Sono un’adulta» urlò dal piano di sopra, prima di chiudere una porta.
«Ventuno» mormorai tra me e me.
Era passato così veloce il tempo da quando l’avevo conosciuta per sbaglio durante le riprese di Breaking Dawn.
Mi ritrovai a pensare a come fosse incredibile che dopo tre anni dalla sua uscita dalla clinica fossimo ancora in buoni rapporti tanto da vivere assieme.
Più che buoni, come fratello e sorella.
Certo, una o duecento volte mi ero trovato a pensare a lei come a un qualcosa di più, e mi ero subito tolto quell’idea dalla mente.
Aileen era troppo piccola, un po’ come una sorellina: andava protetta.
Qualche minuto dopo sentii il rumore di una porta aprirsi e Aileen strillare: «Rob, ho fatto»; poi, di nuovo il rumore di un’altra porta, questa volta chiudersi.
Mi tolsi anche i calzini e camminai velocemente verso il bagno chiudendo la porta.
Aprii l’acqua e lasciai che il getto tiepido mi scaldasse e sciogliesse i miei muscoli stanchi. Anche in momenti come quelli la doccia riusciva a rilassarmi, sgombrando la mia mente.
Qualche minuto dopo chiusi l’acqua e aprii il box per uscire.
Subito lanciai un’occhiata ai boxer, anche quelli bagnati a causa della pioggia; sbuffai arrotolandomi l’asciugamano in vita.
Lasciai i capelli gocciolare sulla fronte e sulla schiena, e mi diressi, fischiettando allegramente, verso la cabina armadio che dividevo con Aileen.
Entrai, e…
«ROB!» urlò Aileen spaventandomi a morte.
Improvvisamente capii cosa stava succedendo: davanti a me c’era Aileen.
«O santo Dio». Mi coprii gli occhi con una mano aggiungendone subito un’altra per non rischiare di sbirciare.
«Se la porta è chiusa si bussa, non te l’hanno mai insegnato?» sbuffò divertita aprendo e chiudendo qualche cassetto.
«Non credevo di trovarti qui, nuda!». Aggrottai la fronte stringendo di più gli occhi per non sbirciare.
Quelli erano esattamente i momenti che mi facevano pensare a lei come a qualcosa di più di una sorella.
«Ero indecisa su che cosa indossare e ho impiegato un po’ più di tempo del solito. Be’, non c’è nulla che tu non abbia già visto anni fa. In ogni caso, ho fatto» mi canzonò dandomi dei colpetti con la mano sulla mia pancia e sorpassandomi per andare fuori dalla stanza.
Avrei tanto voluto risponderle che sì, c’era decisamente qualcosa che non avevo visto anni prima.
Come il seno che era leggermente cresciuto perché aveva messo su qualche chilo che le donava divinamente, come il suo sedere che aveva assunto una forma perfetta, perfetta da mordere, massaggiare e stringere.
No, diavolo!
Stavo facendo ancora pensieri perversi su Aileen!
Bisognava mettere in chiaro le cose.
Subito.
«Aileen, devo parlarti». La seguii in bagno dove si stava asciugando i capelli a testa in giù, naturalmente in intimo.
Non aveva il senso del pudore, non ero riuscito a farle capire che dentro casa sarebbe stato meglio vestirsi, perlomeno ero riuscito a non farla andare in giro nuda quando ero nei paraggi.
Kellan e Jackson le avevano gentilmente detto di portare almeno una maglia durante le rare occasioni in cui venivano a trovarci.
Tom non si era fatto tanti problemi, mi aveva detto che siccome Aileen era una bella ragazza, poteva rimanere nuda o vestita, a suo piacimento.
«Dimmi tutto!» strillò passandosi il phon sulle punte e guardandomi a testa in giù con le gambe semi aperte.
«Credo sia una cosa seria». Mi avvicinai al lavandino appoggiandomi con la schiena al bordo.
«Ok, ti ascolto». Spense il phon e si tirò su dritta di colpo puntando i suoi occhi nei miei.
«Ecco, io credo che sia meglio mettere dei paletti tra di noi». Mi passai una mano tra i capelli bagnati e Aileen mi fissò seria.
Ci pensavo ormai da qualche settimana.
Forse era la primavera che risvegliava i miei ormoni, forse era l’assenza di ragazze, ma avevo cominciato sempre di più a vedere Aileen come donna e l’idea della coinquilina con cui dividere un’enorme casa a Los Angeles si stava lentamente accantonando da sola.
Era una cosa sbagliata, certo; ma sembrava che i miei ormoni e il mio corpo non la pensassero come il mio cervello.
Cominciavo a non vederla più come una ragazza da salvare, probabilmente perché l’avevo già salvata, in un modo o nell’altro.
«Che vorresti dire?». Si pettinò i capelli con le dita per togliere un nodo che si era formato.
«Che per esempio, per cominciare, sarebbe meglio che non andassi in giro nuda per casa, come avevamo già stabilito». Indicai il suo corpo coperto da quei pochi centimetri di stoffa e Aileen si lanciò un’occhiata confusa.
«Non vado più in giro nuda, non sono nuda. Ho un reggiseno e un paio di slip». Con l’indice toccò prima il pezzo sopra e poi quello sotto.
«Aileen sono trasparenti, si vede quasi tutto! Sono un uomo!» dissi con voce stridula, tentando di farle capire che non era carino comportarsi così, per me e anche per il mio amico nascosto sotto l’asciugamano.
Non volevo tirarlo in ballo però.
Era una donna, una bella donna, che camminava per casa mezza svestita.
Quello che mi metteva maggiormente a disagio era che non lo faceva con malizia, semplicemente si comportava così perché per lei era normale.
Per molti uomini sarebbe stato un sogno, be’, per me non lo era.
Non era piacevole svegliarsi alla mattina e trovare la propria coinquilina in intimo che si lavava il viso.
«E io sono una donna, che vuol dire? In ogni caso tra i due ora sei tu quello nudo». Additò il mio asciugamano e istintivamente portai le mani davanti per coprirmi.
Ridacchiò scuotendo la testa.
«Aileen, non credevo di dover arrivare a questo punto, sul serio» sospirai e la vidi sgranare gli occhi spaventata. «Sono un uomo e in quanto tale ho certi istinti, come ben saprai. Sai altrettanto bene che è da un pezzo che non ho una ragazza, in questo caso i miei istinti sono raddoppiati, triplicati oserei dire. Non è una bella cosa vedere te, donna, che giri per casa nuda, o mezza nuda, ora è più chiaro?». Speravo di essermi spiegato a sufficienza.
Lei per prima doveva sapere che cosa volevo dire con ‘istinti maschili’.
Lei, che aveva lavorato per anni in quello stupido locale che l’aveva quasi privata della sua vita.
Sembrava che non mi avesse ascoltato, continuava ad alternare strane occhiate al mio viso e al mio corpo senza nemmeno mutare espressione, immersa e concentrata nei suoi pensieri.
«Be’, ti svelo un segreto, Robert. Sono una donna, in quanto tale, come tu non saprai, ho degli istinti anche io. È da molto che nemmeno io ho un uomo e quindi questi istinti si fanno sentire. Sarai anche vecchio ma sei pur sempre un bell’uomo. Non giova a questo il fatto che tu gironzoli per casa con un asciugamano stretto in vita che mi fa vedere praticamente tutto quello che c’è sotto». Guardò il mio asciugamano all’altezza di quello che c’era sotto.
«Bene, allora se siamo nella stessa barca direi che…». Cominciai a gesticolare imbarazzato, guardandomi attorno. Speravo di adocchiare qualcosa con cui coprirmi e la sentii trattenere il fiato.
«Una trombata e via? Dici che così ci scarichiamo e risolviamo tutto?». Mi guardò stupita, lusingata e preoccupata.
Sgranai gli occhi sconvolto, non credendo a quello che aveva appena detto.
«A dire la verità volevo coprirmi» mi giustificai sottovoce, non più tanto sicuro di quello che avevo pensato. La sua idea non era poi così male.
No!
No, stavamo parlando di Aileen, la piccola Aileen.
Che poi tanto piccola non era visto che ormai stava per compiere ventuno anni.
«Ah. Va bene». Scrollò le spalle in un gesto di indifferenza. I suoi occhi, che ormai avevo imparato a conoscere, sembravano guardarmi quasi delusi.
No.
Aileen non poteva aspettarsi veramente che noi… no.
No.
Mi tirai uno schiaffo sul viso per togliermi quell’idea malsana dalla mente, e sentii Aileen scoppiare a ridere davanti a me.
«Che cosa fai?». Si avvicinò divertita, posando una sua mano calda sulla mia guancia.
«Nulla». Spostai lo sguardo per non guardarla negli occhi ma me ne pentii subito dopo.
Involontariamente avevo cominciato ad ammirare quel completino blu, completamente trasparente.
Chiusi gli occhi di colpo e la sentii ridere ancora una volta.
«Vado a mettermi una maglia» bisbigliò prima di dirigersi veloce verso la cabina armadio.
Che avesse avuto ragione il vecchio Tom, quando aveva detto, sigaretta in una mano, birra nell’altra: «L’amicizia tra uomo e donna non esiste, Rob. Finirai per andare a letto con lei e ti innamorerai più di quanto tu non lo sia già»?
Tornò in bagno con addosso una mia maglia che le copriva appena il sedere e questo peggiorò le cose perché quando cominciò ad asciugarsi i capelli a testa in giù la maglia scivolò verso l’alto lasciando scoperto il suo bellissimo fondoschiena.
Che diamine mi stava succedendo quella mattina?
La pioggia che avevamo preso correndo al parco era satura di ormoni?
Mi allontanai dal bagno prima di peggiorare la situazione.
In camera aprii un cassetto e presi il primo paio di boxer che trovai, li infilai velocemente e feci lo stesso con una vecchia maglia e un paio di pantaloncini da corsa.
Per rimanere dentro casa erano più che sufficienti.
Scesi le scale e mi distesi sul divano.
Dovevo assolutamente schiarirmi le idee.
Senza nemmeno accorgermene, riportai la mente a tre anni prima.
Tornai in Louisiana, a Baton Rouge, durante le riprese di Breaking Dawn.
Il fato mi aveva fatto incontrare per sbaglio Aileen e io avevo deciso di continuare la mia vita con lei, aiutandola a uscire da quel maledetto tunnel che l’aveva inghiottita e che, a distanza di anni, si faceva ancora sentire.
Ricordavo la sua fuga non appena le avevo detto della clinica, e il suo ritorno alla camera dell’hotel per accettare.
Ricordavo quando era uscita dalla clinica e mi era corsa incontro con quel bellissimo sorriso da donna.
Ricordavo ogni più insignificante particolare dei momenti trascorsi assieme a lei.
E no, non potevo dimenticare le sue siringhe gettate nel cestino e la droga lanciata nel water, né la notte in cui era entrata in astinenza e l’avevo vista soffrire.
Ricordavo troppo, anche le cose che non volevo ricordare.
Aileen portava ancora i segni di quella maledetta dipendenza, li portava soprattutto di notte, quando cominciava a urlare nel sonno e dovevo correre a svegliarla dicendole che era solo un incubo.
E non avrei mai scordato il padre, quel bastardo che aveva abusato di lei.
Non glielo avevo mai chiesto, ma ero quasi sicuro che fosse il suo fantasma quello che ogni notte la tormentava, ricordandole la sua infanzia infelice.
Eppure di giorno era la persona più solare che io conoscessi.
L’avevo vista crescere, in qualche modo l’avevo fatta crescere io, le avevo spiegato le buone maniere, le avevo insegnato tutto quello che i miei genitori avevano insegnato a me.
Per questo non potevo vederla come una donna.
Lei era… Aileen, la mia Aileen.
Lei, che aveva imparato a ringraziarmi per una sigaretta prestata, che lo faceva ogni giorno perché condivideva con me una casa a Los Angeles, lontano dalla Louisiana, lontano dalla sua vecchia vita.
«Dormi?» sussurrò soffiando involontariamente sul mio orecchio.
Mugugnai qualcosa di indistinto che la fece ridere.
«Fammi un po’ di posto, vecchietto». Sentii le sue mani spingere sulla mia pancia per spostarmi.
Con un sorriso, sempre tenendo gli occhi chiusi, mi strinsi contro lo schienale del divano lasciandole lo spazio necessario per stendersi davanti a me.
Riconobbi la sua magra schiena premere sul mio petto e, in un gesto istintivo, circondai i suoi fianchi con il braccio per non farla cadere.
«Quando cominci le riprese di quello stupido film?» chiese in un sussurro. Sembrava che si stesse addormentando.
«Non mi ricordo». Parlai a occhi chiusi.
«Dai Rob» brontolò girandosi all’improvviso e tirandomi un leggero pugno sul petto.
«Auch!» mi lamentai facendola ridere «non disturbare i vecchi durante il loro riposino pomeridiano, Lee». Portai un braccio a coprirmi gli occhi per ripararmi dalla luce e sentii Aileen sbuffare prima di alzarsi a sedere di colpo.
«Sei insopportabile quando fai così. Dove hai nascosto le sigarette? Ho bisogno di fumare». Cominciò a infilare le mani tra la mia schiena e il divano per cercare le sigarette e io ridacchiai per il solletico.
«Non devi fumare, lo sai che fa male» la rimproverai tentando di schiacciarle la mano.
«Da che pulpito, parla la ciminiera ambulante. Dove le hai nascoste?». Mi pizzicò un braccio e aprii gli occhi di scatto per il dolore.
«Lee! Mi hai fatto male. Per punizione non fumerai per tre giorni» la minacciai, puntandole l’indice contro per farle più paura.
«Robert, lascia stare. Non faresti paura nemmeno a un bambino. Dove le hai messe?» tornò a chiedere prima di cominciare a cercare ancora tra il mio corpo e il divano.
«Non te lo dirò mai. Ora dovresti andare al lavoro, no?». Sorrisi furbamente guardando l’orologio.
«Oddio. Sono in ritardo». Corse verso le scale salendo i gradini a due a due.
Ridacchiai tra me e me, convinto che non se ne sarebbe ricordata prima di essere arrivata davanti al locale: era domenica, non aveva nessun turno quel pomeriggio.
Distesi le gambe appoggiando i piedi sul tavolino per mettermi più comodo, e mi accesi l’ultima sigaretta del pacchetto.
«Vaffanculo Rob!» urlò dalle scale correndo giù.
Una delle tante cose che non ero riuscito a cambiare di Aileen era il suo linguaggio colorito.
«Che c’è?» chiesi con l’aria più innocente che potessi avere.
«Mi hai mentito! Non lavoro oggi! Dammi la sigaretta». Si tuffò sul divano per prendermi la sigaretta ma io riuscii ad abbassarmi velocemente, talmente veloce che Aileen cadde dal divano, di fianco al tavolino.
«Cazzo che male» borbottò massaggiandosi un gomito.
Cominciai a ridere tenendo la testa appoggiata sul morbido schienale.
«Smettila, stupido. Mi sono fatta male» si lamentò alzandosi lentamente e muovendo il braccio con cautela.
Camminò verso la cucina e la sentii aprire il frigo.
«Non c’è ghiaccio?» gridò frugando.
«Aspetta che arrivo». Smisi di ridere asciugandomi una lacrima e, tenendo la sigaretta tra le labbra, mi alzai dal divano.
Aileen stava rovistando dentro al freezer, tenendo il braccio alto, come se si fosse tagliata.
«Che fai?» domandai guardandole il braccio, in cerca della botta.
«Cerco il ghiaccio» sbottò senza nemmeno guardarmi. Era arrabbiata, lo sentivo anche dalla sua voce.
«Questo mi è chiaro. Che fai con il braccio alzato?». Lanciai un’occhiata al suo braccio prima di farla spostare per prendere il ghiaccio.
«Ho preso una botta, lo tengo alzato. No?» chiese titubante, abbassando il braccio di qualche centimetro.
«Se hai un taglio profondo va bene, ma per una botta non serve» mormorai appoggiandole il ghiaccio sul gomito arrossato.
Aveva preso una bella botta.
«Piano» piagnucolò tirandomi un piccolo schiaffo sul polso. «Mi fa male».
«Lee, tutto bene?» chiesi insicuro, massaggiandole delicatamente il gomito.
«Sì, mi fa male». Aggrottò la fronte, tirando su con il naso.
«Sicura che non c’è altro?». Era strano.
Di solito non reagiva così a una botta; certo, era rossa e un po’ gonfia, ma la sua reazione mi sembrava esagerata.
«Cosa dovrebbe esserci, scusa? Dammi qua, e continua a fumare la tua sigaretta, chissà che ti venga un polmone pieno di tabacco» sibilò strappando il ghiaccio dalle mie mani e camminando velocemente verso il divano.
La seguii pensieroso e mi sedetti di fianco a lei.
«Tieni» dissi porgendole la sigaretta quasi terminata «ti lascio le ultime due boccate».
Speravo lo interpretasse come un gesto di pace, non mi piaceva litigare con lei.
Quando metteva il broncio diventava insopportabile e irritante e mi costringeva a chiederle scusa e a fare il ruffiano per ore prima di ritornare a comportarsi normalmente.
«Ne voglio una intera». Si imbronciò incrociando le braccia al petto, come una bambina capricciosa, e mi fece sorridere.
«Andiamo Lee, è l’ultima sigaretta. O la finisci tu oppure la finisco io». Avvicinai la sigaretta alle labbra, sicuro che avesse bisogno di un minimo di nicotina.
«Ok, ok! Mi hai convinto». Strappò la sigaretta dalla mia mano e ne aspirò una boccata socchiudendo gli occhi.
Rimasi a guardarla per qualche minuto in silenzio, mentre si rilassava giocherellando con il filtro e aspirava l’ultima boccata prima di schiacciarlo nel portacenere sul tavolo davanti al divano.
Era strana, mi sembrava diversa, offesa quasi.
Probabilmente era solo una mia sensazione, ma sembrava diventata più distaccata dopo la chiacchierata che avevamo avuto in bagno.
«Lee, va tutto bene?». Mi avvicinai a lei, accarezzandole delicatamente il gomito ancora coperto dal ghiaccio.
«Sì». Continuò a guardare davanti a sé, senza pensare minimamente di guardarmi.
Sospirai, pronto al peggio.
C’era qualcosa che non andava.
«Avanti, dimmi che cosa succede» borbottai sedendomi comodo.
«Niente». Continuava a guardare lo schermo della televisione spenta, senza rivolgermi anche il più piccolo sguardo.
«Lee» sospirai afferrandole un polso, «mi vuoi dire che cosa succede o no?».
«No». Si divincolò dalla mia stretta e io sospirai.
«Bene, allora continua a comportarti da bambina» sbottai, irritato per il suo silenzio.
«Non mi sto comportando da bambina, non ho assolutamente nulla». Si alzò dal divano all’improvviso, dirigendosi a grandi passi verso la cucina.
Sentii il rumore del ghiaccio lanciato nel lavello e pochi secondi dopo Aileen cominciò a salire le scale sbattendo i piedi.
«Non sei una bambina? Secondo te una persona adulta si comporta in questo modo?» dissi alzando la voce e salendo al piano superiore per raggiungerla.
«Io mi comporto come voglio». Chiuse la porta della sua camera a pochi centimetri dal mio naso e cominciai a bussare insistentemente.
«Smettila di fare la bambina, apri questa porta e dimmi che cosa c’è che non va».
Dannazione, delle volte era così testarda che mi faceva infuriare.
«Non ho niente che non va. Scusami ma voglio rimanere da sola» strillò senza aprire la porta della sua camera.
«Bene, rimani lì dentro per tutto il pomeriggio allora. Io vado a mangiare sushi con Steph, vieni anche tu o rimani a casa?». Cercai di abbassare il tono della voce per calmarmi; speravo che Lee si decidesse ad aprire la porta entro pochi minuti.
«Non voglio fare la terza incomoda, vai pure» sibilò dietro la porta chiusa.
Terza incomoda?
Che cosa stava dicendo?
«Lee, sei ubriaca? Steph, la mia agente, la conosci! Non sei la terza incomoda». Parlai gentilmente, provando ad aprire la porta, che era ancora chiusa a chiave.
«Be’, non ho fame».
«Sono le cinque del pomeriggio, per forza non hai fame! Andiamo Lee, apri questa porta». Bussai di nuovo; cominciavo a spazientirmi.
«Prevedo di non avere fame. Rimango a casa» borbottò.
«Bene, quando ti passerà questo momento di pazzia e sarai ritornata la Lee di sempre, mandami un messaggio» dissi sarcastico, cominciando a scendere le scale.
Avevo capito che non sarebbe uscita dalla camera in tempi brevi.
Ogni tanto le capitava, si chiudeva in camera e non usciva per un paio d’ore, poi ritornava la mia Aileen, quella che mi metteva di buonumore.
Passai tutti i canali della pay-tv tre volte senza veramente trovare qualcosa di interessante.
Alle sette, dopo aver spento la tv, salii al piano di sopra e bussai di nuovo alla porta della sua camera.
«Lee? Ti è venuta fame? Hai deciso di venire anche tu?». Cercai di indorare la pillola e parlai con un tono gentile; infondo mi dispiaceva veramente litigare con lei.
«No» brontolò.
Provai ad aprire la porta ma era ancora chiusa a chiave, dannazione!
«Vuoi che ti porti un caffè quando torno? Passo da Starbucks?». Non poteva resistere al caffè di Starbucks.
«Ho sonno, credo che andrò a dormire presto».
Ma che cosa le prendeva?
Rinunciai a riappacificarmi con lei e uscii dopo averla salutata davanti alla porta chiusa.

Quando ritornai a casa, alle undici e mezza passate, mi stupii di trovare tutte le luci spente.
Che fosse uscita?
«Lee?» sussurrai salendo le scale.
La porta della sua camera era chiusa, quindi doveva essere a casa.
Provai ad aprirla e mi accorsi che non era chiusa a chiave, sorrisi involontariamente avvicinandomi al suo letto.
«Lee? Sei sveglia?» mormorai inginocchiandomi di fianco al suo letto e spostandole una ciocca di capelli dalla guancia.
Cominciò a russare.
Lee non russava; allora era sveglia.
«Lee, lo so che sei sveglia, andiamo» borbottai sedendomi per terra e aspettando che aprisse gli occhi.
Continuava a russare; alzava e abbassava le spalle in modo esagerato e questo era un altro segnale: stava mentendo ed era sveglia.
«Lee, lo so che sei sveglia, non russi mai e stai alzando troppo le spalle», aspettai qualche secondo prima che smettesse di russare e sorrisi divertito. «Ti ho portato il caffè con il caramello come ti piace e ho comprato le sigarette, te ne lascio un pacchetto qui». Appoggiai le sigarette e il caffè sopra al suo comodino e la scoprii a sbirciare con un occhio prima di chiuderlo velocemente non appena si accorse che la stavo guardando. «Così insomma stai veramente dormendo, eh?».
Nessuna risposta da parte sua.
«Ok, allora ci vediamo domani, buonanotte». Mi alzai lentamente, sperando che si decidesse a parlarmi.
Quando chiusi la porta di camera sua senza che mi avesse salutato o parlato, sospirai.
Che cosa le era successo?
Cosa avevo combinato di male?
Donne.
Questa era l’unica risposta che riuscivo a darmi.
Rimasi a rigirarmi a letto senza addormentarmi per ore, continuavo a sbuffare, tirando pugni al cuscino per sistemarlo e accatastando le coperte ai piedi del letto.
«No».
Mi immobilizzai, temendo il peggio.
«Per favore».
Mi alzai velocemente dirigendomi a grandi passi verso la camera di Aileen.
«No, per favore, lasciami, ti prego» urlò quando aprii la porta della sua camera.
Mi precipitai di fianco a lei e le presi una mano tra le mie.
«Lee, Lee è solo un incubo, svegliati». Tolsi una lacrima dalla sua guancia mentre continuava a scalciare e a urlare.
«Non voglio, lasciami» strillò continuando a piangere.
«Aileen, Aileen, sono Robert, è un sogno, svegliati». Presi il suo volto tra le mani e cercai di parlare più forte per fare in modo che si svegliasse.
Aprì gli occhi di colpo, disorientata.
«Lee, sono qui, va tutto bene» mormorai accarezzandole il capo, quando, dopo essersi messa a sedere, appoggiò la fronte nell’incavo del mio collo.
Quegli incubi erano frequenti, troppo frequenti.
Quasi ogni notte correvo nella sua stanza, attirato dalle sue urla.
Sapevo cosa sognava, non ne avevamo mai parlato, ma ero quasi sicuro che fosse suo padre.
«Andiamo, fammi un po’ di spazio» mormorai stendendomi di fianco a lei. Non obiettò, come sempre.
Appoggiò il viso sul mio petto mentre cercavo di calmarla accarezzandole la schiena: stava ancora tremando.
Lentamente il suo respiro rallentò e smise di rabbrividire.
Sentii il suo corpo rilassarsi contro il mio e qualche minuto dopo si addormentò.
Non avrebbe più sognato il padre, per quella notte.
Sembrava che la mia vicinanza la proteggesse anche nel sonno, per questo avevo preso l’abitudine di dormire con lei quando aveva gli incubi.
Senza svegliarla allungai il braccio per prendere il bicchiere di caffè.
Era vuoto.
Sorrisi, pensando che in fin dei conti Aileen era ancora una bambina.
Il pacchetto di sigarette era aperto, ne mancava una.
Si sistemò meglio, stringendo il mio petto con un braccio e sospirò.
«Sei proprio uno stupido» farfugliò continuando a dormire.
Ero sicuro che quella frase fosse rivolta a me.
Chissà che cosa stava sognando.







Buongiorno/Buon pomeriggio/ Buonasera/ Buonanotte! :)
Ragazze… Aileen e Robert sono tornati!
Non pensavo che l’avrei mai fatto ma… ecco il sequel di Redemption!
Prima di tutto specifico, anche se credo sia chiaro: la storia è ambientata tre anni dopo Redemption e abbiamo cambiato città…
Aileen non si droga più e non lavora come spogliarellista e Rob… be’, lui come sempre è impegnato a girare qualche film.
Se avete domande fatele pure, io accetto tutto, anche critiche!
Come al solito vi ricordo il mio profilo Fb: Roberta RobTwili
E il gruppo Fb Nerds’ corner, dove potete iscrivervi, è chiuso. Per l’iscrizione non chiedo codice IBAN o altro, mi mandate la richiesta e siete accettate!
Credo di aggiornare una volta a settimana più o meno…
Alla prossima settimana! :)

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Capitolo 2
*** Don't put ketchup in your burgher! ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Lee? Lee? Ehi, dormigliona, sveglia» soffiai sul suo orecchio e la sentii ridacchiare.
«Un altro minutino» piagnucolò prima di nascondersi sotto le coperte mentre aprivo la finestra per far entrare un po’ d’aria fresca.
«Scherzi? Un altro minutino? Sai che ore sono? Le nove meno un quarto! È tardissimo, Lee» la presi in giro e l’ennesimo lamento mi giunse alle orecchie.
«Perché mi hai svegliato così presto?» chiese scostando le coperte di colpo e cercando di liberare il viso dal groviglio che glielo nascondeva.
«Perché ieri sera sei andata a nanna presto».
Speravo fosse un buon metodo per ricordarle cosa era successo il giorno prima, in particolar modo il suo comportamento strano.
«Adesso ho sonno» bofonchiò dandomi la schiena e coprendosi la testa con il cuscino.
«Lee…» sibilai fintamente arrabbiato, avvicinandomi di soppiatto.
Ridacchiò, rannicchiandosi ancora di più, e sollevò involontariamente il sedere verso l’alto facendo scivolare a terra le coperte.
Un nuovo passo; l’avevo quasi raggiunto: era lì, pronto per essere morso.
«Oddio» sussurrai e mi portai una mano sulle labbra non appena capii il senso dei miei pensieri.
Morderle il sedere?
Volevo veramente mordere il sedere ad Aileen?
Domanda sbagliata.
Non dovevo farmi certe domande.
Meglio levarmi subito quel pensiero.
«Sono le dieci e mezza passate, io devo uscire per le prove. Tornerò questa sera per cena. Ti trovo sveglia?» chiesi cauto, per sondare il terreno.
Speravo che non fosse ancora arrabbiata con me.
«Sì» strillò tenendo ancora il viso sepolto sotto al cuscino.
«Buona giornata». Raccolsi il groviglio di coperte che Aileen aveva fatto cadere per terra e lo appoggiai vicino ai suo piedi, in fondo al letto.
Sorrisi e le solleticai la pianta di un piede facendola scalciare e urlare.
«Rob». Cominciò a ridere e mi lanciò addosso il cuscino. Non avevo alcuna intenzione di lasciarla andare; continuavo a tenere la sua caviglia imprigionata nella mia mano, pronto per torturarla.
«Dimmi Lee». Stuzzicavo il suo piede con una certa soddisfazione: era, in fondo, una piccola rivincita per il suo scherzetto della sera prima.
«Fer… ma… ti» ansimò senza fiato, lanciandomi addosso anche il suo orso di peluches.
«Cosa? Parla più forte, non riesco a sentirti» ridacchiai riprendendo la mia tortura ma lei riuscì a recuperare un po’ di forze per mettersi supina e iniziare il contrattacco.
«Bas… ta». Si mise a sedere e mi pizzicò un braccio.
Faticava a respirare; era il momento di smettere.
Lasciai la presa sulla sua caviglia appoggiandole gentilmente la gamba sul letto.
Aileen si distese continuando a ridere; la mia maglia, che usava per dormire, le si era appallottolata sulla pancia, i capelli, che la sera prima aveva raccolto in una coda, si erano sparpagliati su tutto il cuscino.
Per qualche secondo rimasi a guardarla. Ogni volta che sorrideva la trovavo più bella del solito.
«Bene, ora che sono sicuro che non ti riaddormenterai, posso uscire. Ci vediamo questa sera». Mi avvicinai lasciandola con un bacio sulla fronte e sentii il suo piccolo pugno raggiungere il mio stomaco per farmela pagare.
Per fortuna non aveva muscoli ed era ancora leggermente addormentata.
«Stavo facendo un bel sogno e mi hai svegliato» borbottò mentre mi incamminavo verso le scale.
«Vorrà dire che lo continuerai questa sera. Ricordati di andare al lavoro, oggi è lunedì». Ero quasi sicuro che Lee l’avrebbe dimenticato.
«Grazie, mamma» urlò appena prima che io chiudessi la porta di casa.
Ridacchiai divertito mentre salivo in macchina per andare a lavorare.
Continuavo a pensare a Lee che si dimenava sul letto per riuscire a scappare dal mio attacco di solletico.
Una piccola parte di me era quasi triste dall’idea di andare a lavorare.
Avevo fortemente voluto la parte in quel film; non era un personaggio principale e le riprese mi avrebbero tenuto impegnato per meno di un mese.
Un film leggero, che non assorbisse tutte le mie energie ma che mi tenesse occupato per qualche settimana: quello che mi serviva.
Arrivato alla location, parcheggiai e fui subito raggiunto da Dean, che mi salutò prima di farmi notare un piccolo gruppetto di fan.
«Come hanno fatto? Non era una location segreta?» bofonchiai salutandole e chiudendomi velocemente dentro al mio camper.
«Sembra che sia trapelata la notizia in qualche sito internet di gossip». Si sedette su una sedia, controllando che le fan non si avvicinassero troppo.
«Portiamo pazienza, sono tre settimane» sospirai resistendo alla tentazione di accendermi una sigaretta.
Fumavo troppo e il mio fisico sembrava risentirne. In più volevo dare il buon esempio a Lee; se avessi fumato meno avrei potuto sgridarla e convincerla a smettere.
Era un traguardo impossibile, certo, ma mi piacevano le sfide.
 
Quel primo giorno di prove trascorse velocemente.
C’era un ottimo cast e tutti erano gentili, terminammo anche prima del previsto.
Salutai Dean e, dopo essere salito in macchina, chiamai Lee.
Rispose dopo svariati squilli.
«Pronto?» disse con voce assonnata.
«Lee, stavi dormendo?». Guardai l’ora; erano le dieci e mezza.
«Mi sono addormentata sul divano, il film è noioso» bofonchiò sbadigliando.
Ridacchiai svoltando a un incrocio.
«Che film è?» chiesi accostando la macchina al solito In’N’Out Burger.
«Non ti piacerebbe saperlo, Rob». Si era fatta improvvisamente seria.
«Aspetta un attimo» mormorai prima di abbassare il finestrino per ordinare due hamburger, uno per me e uno per Lee.
«Anche le patatine» strillò Lee al telefono.
«Oh sì, anche due confezioni di patatine e due Cola» aggiunsi prendendo altre banconote dal portafogli.
Quando la ragazza allungò la mano per prendere i soldi sembrò riconoscermi: rimase per un paio di secondi immobile, dimenticandosi di afferrare le banconote.
Ma come diavolo…
Il cappello! Dannazione, avevo dimenticato di indossare il cappello.
«Tutto bene?» chiesi, fingendo che fosse tutto normale.
«C-c-certo» balbettò la ragazza, prendendo i soldi. Solo alcuni secondi dopo riuscì a riconsegnarmi il resto; allungò la mano tremante, cercando di sorridere. «Ecco a lei, signore» bisbigliò.
Temevo potesse svenire da un momento all’altro: sembrava sudare freddo e il suo viso era diventato bianco.
«Grazie». Velocemente avanzai di qualche metro, posizionandomi davanti all’altro sportello; non mi piaceva quando le persone svenivano davanti a me, mi trovavo sempre in difficoltà perché non sapevo che cosa fare.
«Chi era quell’oca che balbettava?». Sussultai spaventato nel sentire la voce di Lee.
«La ragazza dell’In’N’Out, non avevo il cappello e mi ha riconosciuto». Sbirciai per vedere a che punto fosse il mio ordine e Lee parlò di nuovo.
«Be’, dille che può anche fare meno di parlare come un’oca: ‘Ecco a lei, signore’» la canzonò.
Sghignazzai e presi il mio ordine, per fortuna puntuale, poi ripartii in tutta fretta.
«Lee, tra cinque minuti sono a casa. A proposito, che film stavi guardando?».
In quei quattro anni, oltre alle buone maniere, le avevo insegnato anche l’amore per il cinema e per la musica.
Molte notti eravamo rimasti svegli a guardare o commentare un film.
Le avevo spiegato il mio amore per le pellicole in bianco e nero e in qualche modo ero riuscito a trasmetterglielo.
«Rob, non credo che tu voglia saperlo». Sembrava a disagio, di nuovo.
«Andiamo Lee, tanto lo scoprirò lo stesso» borbottai spegnendo l’auto nel vialetto di casa.
«D’accordo» sospirò, «è un film che ha sei anni mi sembra, e parla di una storia d’amore». Era troppo vaga, non voleva farmi capire quale fosse.
«Sembra interessante, che cos’ha di noioso che non sei riuscita a rimanere sveglia?» chiesi abbassando il tono della voce perché volevo farle una sorpresa.
«Non lo so… gli attori non recitano benissimo, ma non capisco nulla di queste cose».
Aprii la porta lentamente, esultante: lo scatto della serratura si era sentito appena.
Trattenni a stento una risata quando vidi Aileen, seduta sul divano, con il cellulare tra la spalla e il capo. Stava guardando Twilight.
Feci un passo indietro e socchiusi la porta.
«Ma lo stai ancora guardando?» chiesi indifferente, sbirciando attraverso lo spiraglio della porta socchiusa.
«Sì, ma credo che spegnerò la TV. Tu dove sei?». Si allungò e cambiò canale, pigiando tasti a caso sul telecomando.
«Arrivo subito. Dimmi com’è andata al lavoro, oggi». Volevo distrarla per farle prendere uno spavento.
Era infantile, certo, ma con Lee mi divertivo sempre tanto, specialmente quando la prendevo in giro.
«Uff, normale. Jack mi ha cambiato il turno per domani. Vado alla sera e non al pomeriggio» si lamentò giocherellando con una ciocca di capelli. Le ero sempre più vicino, i passi silenziosi. «Comincio a rompermi. Mi piacerebbe trovare un altro lavoro, sai? Fare la cameriera non è il mio desiderio e soprattu…».
«Ciao Lee» gridai all’improvviso, nascosto dietro il divano.
Strillò così forte che mi coprii le orecchie con le mani cominciando a ridere.
«Stupido! Idiota! Bambino!» iniziò a insultarmi tirandomi pugni in testa.
«Lee…». Mi riparai il capo con le braccia continuando a ridere a crepapelle: non smetteva di picchiarmi.
«Tu vuoi farmi morire! Ma sei normale? Perché fai questi gesti idioti?». Alternava schiaffi e pugni, pensando forse di infierire di più in quel modo.
«Dai, era uno scherzo». Indietreggiai sperando che non scendesse dal divano per continuare a picchiarmi. «Vengo in pace, ho portato la cena». Agitai la busta dell’In’N’Out Burger e Lee sospirò per calmarsi.
«Dovrei mangiarli tutti e due io, dopo lo spavento che ho preso» bofonchiò facendomi posto sul divano per farmi sedere.
«Scusa, non volevo. Però è stato divertente, mi perdoni?». Sporsi il labbro inferiore avvicinandomi di qualche centimetro al suo viso. «Lee?» chiesi con una vocetta da bambino, «Lee, mi perdoni? Lo sai che ti voglio tanto bene, tanto tanto» mormorai avvicinandomi ancora di più e baciandole una guancia.
«Cazzo quanto sei ruffiano» sbuffò strappandomi di mano la busta e prendendosi il suo hamburger.
Cominciò a mangiarlo senza degnarmi di una risposta.
«Allora? Signorina buone maniere? Sono perdonato?» domandai, rimproverandola ancora una volta per il suo linguaggio.
«Non lo so. Ci penserò. E scusa se ho detto ‘cazzo’. Non lo dico più» borbottò con la bocca piena e io sorrisi vittorioso.
Mi aveva perdonato.
«Grazie» bisbigliai sulla sua guancia prima di baciargliela di nuovo.
«Doppiamente ruffiano» borbottò cercando di calciarmi via con un piede.
Schivai il colpo ma alcune gocce di ketchup colarono dal mio panino e sporcarono la mia maglia e i pantaloni di Lee.
«Ops» mormorai guardando il danno.
«Cretino, ecco la parola che ti descrive di più» sibilò finendo di mangiare il suo panino. «Come cavolo faccio ora a pulire i pantaloni?». Si asciugò le mani con una salvietta di carta e velocemente si tolse i calzoncini, rimanendo solo con una maglia lunga.
Con il gesto da acrobata che aveva fatto per togliersi i pantaloncini ero riuscito a vederle gli slip, naturalmente trasparenti.
Tossii cercando di non strozzarmi con il boccone che avevo in bocca e mi battei più volte il pugno sul petto.
Aileen capì al volo che mi serviva qualcosa da bere, e si allungò verso il tavolino per prendere il bicchiere con la Coca Cola. Sfortunatamente la maglia le si alzò, peggiorando la situazione.
«Guarda il soffitto Rob». Aileen mi porse il bicchiere preoccupata, prendendo una salvietta e porgendomela.
Riuscii a deglutire il pezzo di panino dopo aver prosciugato quasi metà Coca Cola.
«Grazie Lee». Respirai lentamente, evitando di guardare le sue gambe scoperte.
«Che cosa ti era successo?» chiese preoccupata, allungandosi per appoggiare il bicchiere sul tavolino.
Di nuovo, la maglia scivolò verso l’alto, lasciandole scoperto il sedere.
«Ehm…». Dovevo trovare una scusa.
Che cosa potevo dirle? “Sai Aileen, sono stato distratto dal tuo spogliarello improvvisato?”
«Cosa?» incalzò di nuovo, curiosa.
«Sono stato distratto da… dal ketchup. Sì, sono stato distratto dal ketchup sulla mia maglia, mi sono accorto che stava colando giù e volevo fermarlo prima che mi macchiasse anche i pantaloni». La scusa più idiota che avessi mai inventato, però poteva reggere.
«Wow, e tutto questo per una macchiolina di ketchup?» ridacchiò divertita, guardando la mia maglia.
«Sì, tutto per una macchiolina di ketchup». Cercai di sembrare sarcastico, con scarso successo.
Cosa potevo dirle? “Lee, stavo rischiando la morte perché sfoggi sempre questi completini che mi fanno ribollire il sangue nelle vene?”.
Lei li portava perché le piacevano, li aveva indossati per anni, perché avevo cominciato a notarlo solo il giorno prima?
«Rob, spogliati» sussurrò avvicinandosi a me.
«Co-co-cosa?». Strabuzzai gli occhi, sicuro di aver sentito male.
«Spogliati ho detto. Il ketchup sta gocciolando e non vorrei che si sporcasse il divano. Se ti togli la maglia siamo sicuri di non macchiare nulla». Senza darmi il tempo di protestare mi sfilò la maglia. Mi stavo facendo spogliare come un bambino. «Sei pronto per guardare il nostro programma idiota preferito?» chiese allegra, sintonizzando la TV su un altro canale.
«Aileen, non ti vesti?» domandai titubante, mentre si distendeva comoda sul divano, appoggiando la schiena sulle mie gambe.
«Rob, che ti prende? Sono vestita». Si sistemò la maglia, allungandola leggermente sulle cosce.
Tutte le mie maglie erano talmente grandi che di solito le portava come vestitino.
«Sì, hai ragione. Vado a mettermi una maglia» borbottai cercando di alzarmi.
«Rob, ci sono quasi venti gradi fuori e vuoi mettere una maglia? Ma che ti prende» rise sollevandosi di qualche centimetro dalle mie gambe e fissandomi curiosa.
“Mi prende che il contatto pelle contro pelle con te questa sera potrebbe essere letale”. Potevo dirle questo?
«Hai ragione Lee, scusa ma questa sera sono un po’ stordito dalle prove. Prometto di rifarmi domani, visto che girerò per qualche ora soltanto». Mi distesi di fianco a lei sul divano, schiacciandomi contro lo schienale morbido per non sentire il contatto del suo corpo col mio.
«Basta, basta! Sta per cominciare» mormorò eccitata spostandosi verso di me, appoggiando la sua schiena contro il mio petto.
Mi irrigidii involontariamente, ma Aileen lo notò.
«Tutto bene?» chiese girandosi per guardarmi.
«Benissimo». Cercai di essere convincente aggiungendo anche un sorriso per convincerla.
Per quanto fosse possibile farlo in quel divano, indietreggiai ancora.
A ogni azione corrisponde una reazione, non diceva così qualche legge fisica?
Sentendo il mio corpo allontanarsi Aileen indietreggiò, fino a che non mi trovai intrappolato tra lo schienale morbido e il suo sedere sodo.
Era l’unico posto in cui non avei voluto essere in quel momento.
Aileen cominciò a ridere, risvegliandomi dai miei pensieri.
«Rob, andiamo, perché non ridi?». Si asciugò una lacrima voltandosi a guardarmi di nuovo.
Sentivo il suo fiato caldo contro il mio petto nudo; involontariamente rabbrividii.
«Aileen, scusami ma sono stanco. È meglio se mi faccio una doccia e vado a dormire, ti dispiace?» chiesi alzandomi dal divano goffamente per non farla spostare.
«No, certo che no. Ma sei sicuro che vada tutto bene? Sei strano». Si sollevò leggermente, puntellandosi con i gomiti al bracciolo del divano.
«Davvero, sto benissimo. Però sono stanco ed è meglio che vada a riposarmi. Forse sono solo un po’ teso perché domani è il primo giorno di riprese» mi giustificai, cominciando a indietreggiare verso le scale.
«Va bene, buonanotte Rob» mormorò lanciandomi una strana occhiata e tornando successivamente a guardare la TV.
Mi chiusi in bagno, girai la manopola dell’acqua fredda al massimo e mi tolsi i pantaloncini rimanendo in boxer.
«Cazzo, cazzo, cazzo» borbottai tra me e me, cominciando a camminare nervosamente per la stanza prima di appoggiare anche gli slip sul bordo del lavello.
Non sapevo che cosa fosse successo in quei due giorni, ma era meglio dimenticarlo.
Non potevo vedere Aileen come una donna, non potevo nemmeno lontanamente pensare di eccitarmi sentendo il suo corpo a contatto con il mio.
Rabbrividii quando l’acqua gelata mi bagnò il corpo accaldato.
Era Aileen, dannazione!
Presi una decisione: mi sarei scordato quello che avevo pensato negli ultimi due giorni e mi sarei comportato come sempre.
Non potevo permettermi di rovinare la nostra amicizia.
Non ero attratto da lei, non poteva essere, probabilmente mi ero immaginato tutto perché non avevo una ragazza da un pezzo e avere Lee al mio fianco mezza nuda mi aveva fatto sbandare per qualche ora.
Discorso chiuso, non avrei più immaginato Lee come donna, non avrei nemmeno più pensato al suo sedere, il suo bellissimo sedere sodo.
No, niente più pensieri strani sulla mia amica e coinquilina.
Chiusi l’acqua e con quella anche tutti i pensieri bizzarri.
Dopo essermi asciugato e rivestito mi sentivo quasi come nuovo, una parte di me voleva scendere e distendersi sul divano con Aileen per commentare quel programma idiota, l’altra mi intimava di correre in camera mia e ascoltare a tutto volume l’I-pod per riuscire ad addormentarmi velocemente.
Forse Aileen si sarebbe insospettita se fossi tornato improvvisamente da lei; che cosa avrei potuto dirle? “Lee, mi è passata la stanchezza?”.
No, meglio rimanere in camera.
Lasciai che la musica si diffondesse a basso volume attraverso la stanza, e poco dopo mi addormentai.
 
«No, lasciami». Mi svegliai di soprassalto, stordito dal sonno.
Mi sembrava di aver sentito la voce di Lee.
«Mi fai male, smettila». L’urlo proveniva dalla sua camera; stava sognando, di nuovo.
Mi alzai velocemente, urtando una gamba sul comodino per la fretta, e, quando aprii la porta della camera di Lee, lo feci talmente veloce che sbatté contro il muro.
Lee continuava ad agitarsi tra le lenzuola, calciando e tirando pugni a qualche mostro invisibile.
«Lee, Lee è un sogno, svegliati» mormorai prendendole il viso tra le mani.
Continuava a sognare e a piangere, stringendo l’orso di peluches tra le mani.
«Lee, svegliati». La scossi leggermente e all’improvviso aprì gli occhi.
«Rob» disse tra un singhiozzo e l’altro, abbracciandomi stretto.
«Shh, sono qui Lee, sono qui. Calmati adesso». Accarezzai la sua schiena per calmarla; le sue mani non volevano allentare la presa sulla mia maglia.
«Rob» ripeté in un sussurro, continuando a piangere.
«Sono qui, tranquilla». La abbracciai ancora più forte, baciandola tra i capelli. «Andiamo dai» mormorai distendendomi sul letto.
Aileen si accoccolò di fianco a me, continuando a singhiozzare.
Strinsi con un po’ più di forza il braccio attorno alle sue spalle e le baciai la fronte.
Ci addormentammo assieme, quando Aileen smise di piangere e si tranquillizzò.
 
La mattina dopo mi alzai presto. Scesi dal letto lentamente per non svegliare Lee che stava dormendo.
Si stava lamentando nel sonno con qualche cliente, era sicura che avesse ordinato una birra media e non grande.
Sogghignai divertito dal suo borbottare e, dopo essermi vestito e lavato, tornai in camera sua per salutarla.
«Buona giornata, Lee» mormorai prima di appoggiare le mie labbra tra i suoi capelli e accarezzarle una guancia con due dita.
Sospirò, continuando a dormire, e mi sembrò quasi di vedere una smorfia felice sul suo viso.
«Rob» bofonchiò prima di sospirare di nuovo e attorcigliare le sue gambe ancora di più tra le coperte.
Chissà cosa avevo combinato. Probabilmente si stava lamentando anche con me perché avevo macchiato la mia maglia e i suoi pantaloni con il ketchup.
Ketchup.
No, non dovevo pensare al ketchup.
 
La prima giornata di riprese di un nuovo film era sempre stressante.
Tendevi a dare il cento per cento perché volevi che il regista e gli altri attori capissero quanto valevi, ti impegnavi con tutto te stesso, dimenticandoti perfino chi eri.
Dopo essere salito in macchina per tornare a casa, accesi l’autoradio con il volume al massimo e cominciai a rilassarmi.
Avevo scelto di far parte del cast di quel film anche perché sarebbe stato girato interamente in California; non me l’ero sentita di lasciare Aileen da sola.
Mi aveva più volte detto che non c’erano problemi, che se la sarebbe cavata da sola, ma come potevo lasciarla in quella grande casa senza nessun altro?
Chi l’avrebbe svegliata dagli incubi?
No, non potevo lasciare Aileen da sola.
Parcheggiai la macchina nel vialetto di casa guardandomi attorno.
I balconi erano aperti, le tende dentro tirate, non c’era nessuna luce accesa.
Perché Aileen non aveva acceso nemmeno la luce all’esterno?
Ricordai improvvisamente che la sera prima, quando le avevo chiesto di raccontarmi come era andata la giornata di lavoro, mi aveva detto di aver cambiato il turno.
Era al lavoro.
Sbuffai scocciato dall’idea di entrare in casa e trovarla vuota: ero abituato a sentire le urla di Aileen che cercava di farsi sentire sopra alla musica a tutto volume.
Quando aprii la porta di casa e accesi la luce, mi resi conto che c’era troppo silenzio.
Accesi lo stereo senza veramente ascoltare che CD stesse andando.
Salii le scale sbattendo stancamente i piedi e cominciai a spogliarmi prima di arrivare in camera.
Stavo diventando come Lee: andavo in giro mezzo nudo per casa.
Capii che mi mancava anche il vederla andare su e giù mezza nuda.
«Oh, dannazione Rob! È al lavoro, non se n’è mica andata!» sbottai frustrato prima di indossare un paio di pantaloncini e una maglia.
Scesi le scale e, dopo aver preso una bottiglietta d’acqua, mi distesi sul divano cominciando a cambiare canale per trovare qualche film da vedere.
Sembrava che quel martedì sera non ci fosse nessun programma che facesse a caso mio, così, fino alle undici passate schiacciai un pisolino, svegliandomi di soprassalto quando sentii la chiave girare nella serratura.
«Rob, hanno già cominciato?». Lee non mi salutò nemmeno, lasciò la borsa per terra e si tolse le scarpe prima di salire le scale.
«Ciao Lee. No, devono ancora cominciare» borbottai ancora assonnato, mettendomi seduto e guardando gli spot pubblicitari.
«Bene, perfetto» strillò dal piano di sopra mentre tirava lo sciacquone del bagno.
«Lee, cominciano» urlai quando il logo del programma comparve.
«Arrivo». Scese velocemente le scale e corse in cucina, la sentii aprire e chiudere il frigo e in pochi secondi me la ritrovai di fianco, con uno yogurt e un cucchiaino in mano.
«Appena in tempo» sussurrai sorridendole, mentre presentavano i concorrenti. «Allora, come è andata oggi?» chiesi mentre si sistemava al mio fianco.
«Pesante, oggi è stata una giornata pesante» parlò con la bocca piena, ridacchiando davanti allo schermo della TV.
«Vuoi distenderti?» chiesi mentre appoggiava il barattolino di yogurt vuoto sopra al tavolino.
«No, stiamo un po’ così» mormorò appoggiando il capo sulla mia spalla.
«D’accordo». Allungai le gambe appoggiandole sul tavolino.
«Sono stanchissima oggi». Si stiracchiò allungando le braccia e mettendosi più comoda.
«Oggi invece io sono riposato» scherzai.
Non sentivo più tutte le sensazioni del giorno prima, la doccia le aveva fatte sparire, ne ero certo.
Aileen era mia amica e la mia coinquilina, poco mi importava che fosse una donna.
Il mio cellulare squillò spaventandoci e subito mi alzai per andare a rispondere.
Era Tom.
«Ciao Tom, dimmi tutto». Ero felice, avevo sistemato tutti i miei problemi con i miei sentimenti.
«Una bella notizia e una cattiva». Non aveva nemmeno salutato, figurarsi.
«Spara». Chissà che cosa doveva dirmi.
«Domani arrivo a Los Angeles, questa è quella bella» ridacchiò.
«Bene, è da tanto che non ci vediamo. Quella cattiva?». Camminavo nervosamente attorno al tavolo della cucina in attesa di sentire la seconda notizia.
«Mi ospiterai tu».
«Cosa?» chiesi alzando il tono della voce a dismisura, fingendomi indignato.
«Insomma, avete una casa grande, potrei dormire sul divano, è solo per un paio di notti» cercò di scusarsi.
«Dove hai speso tutti i soldi? Non puoi nemmeno permetterti un albergo? Lo pago io se vuoi» proposi, cercando di fare lo spiritoso.
«Grazie, lo sapevo che avresti accettato. Credi che ci saranno problemi per Aileen?» chiese cauto, abbassando anche leggermente il tono della voce.
«No, insomma, sai che di solito non ha problemi». Aileen non si arrabbiava mai quando Tom veniva a trovarci, anzi, era stata lei a proporre di farlo dormire sul divano piuttosto che fargli spendere i soldi per una camera d’albergo.
«Perfetto, allora ci vediamo domani pomeriggio». Era tutto contento, potevo sentirlo.
«D’accordo, a domani». Chiusi la conversazione lasciando il telefono sopra al bancone della cucina e a grandi passi mi avviai verso la sala da pranzo per dare la bella notizia ad Aileen.
«Lee, indovina chi arriva do…». Non terminai nemmeno la frase: Aileen si era addormentata sul divano. «Ok, è ora di andare a nanna» bofonchiai spegnendo la TV e avvicinandomi a Lee.
La presi in braccio senza troppa fatica e cominciai a salire le scale spegnendo le luci con il gomito.
La distesi a letto coprendola e mi soffermai a guardarla per qualche minuto.
Sembrava serena, forse sarebbe riuscita a non avere incubi per quella notte.
«Buonanotte Lee, ci vediamo domani». Mi avvicinai, scostandole i capelli dal viso, e le appoggiai le labbra sulla guancia.
«Rob» sussurrò muovendosi leggermente.
Stava già sognando, meglio, stava sognando me.
L’avevo sentita pronunciare più volte il mio nome mentre dormiva, e questo non poteva che farmi felice.
Socchiusi la porta della sua camera lentamente e dopo essere tornato a prendere il mio telefono in cucina, andai nella mia camera per dormire.
Un nuovo giorno era finito, e fortunatamente non c’erano stati incidenti con il ketchup.
In fin dei conti non era poi così difficile ignorare gli avvenimenti delle ultime due giornate; Aileen sarebbe sempre rimasta la mia piccola Lee, non sarebbe di certo diventata la mia donna.




Ed eccoci con il secondo capitolo di Beside you! :)
Prima di tutto ringrazio chi ha messo la storia tra i preferiti, tra i seguiti e tra quelle da ricordare, un ringraziamento particolare a chi ha commentato lo scorso capitolo! :)
Allora… sinceramente non ho molto da dire sul capitolo, mi sembra sia tutto più o meno spiegato, no?
L’unica cosa… in questi tre anni (da quando Lee è uscita dalla clinica), Tom l’ha incontrata più volte, ecco. Perché in Redemption non l’aveva mai incontrata…
Per il titolo della storia, ho scelto Beside you solo ed esclusivamente perché volevo ci fosse una connessione con Redemption…
È come se fosse una Redemption beside you, vediamola così… :)
Basta, mi sembra di non aver altro da aggiungere, ci vediamo la prossima settimana!
ricordo per gli spoiler e altro il mio profilo Fb e il Gruppo Fb.

Un bacione!
 

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Capitolo 3
*** In cervesa veritas ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.








Un’altra tipica serata passata davanti alla TV disteso sul divano assieme a Lee.
Si stava comportando in modo strano, era irrequieta, si muoveva continuamente e aveva deciso di rimanere seduta piuttosto di distendersi al mio fianco.
«Lee, sei sicura che vada tutto bene?» chiesi ancora una volta, guardandola di sottecchi.
«Mhm?». Staccò per un attimo lo sguardo dallo schermo e mi guardò distrattamente.
«Ti ho chiesto se va tutto bene». Cominciavo a spazientirmi.
Era assente, non parlava, non commentava nemmeno il programma come suo solito; sembrava un manichino: rimaneva lì, dall’altra parte del grande divano, ad abbracciarsi le gambe, tenendo il mento appoggiato alle ginocchia.
«Sì, è andata bene oggi al lavoro» mormorò ritornando a fissare la TV.
«Ok, non hai voglia di parlare, questo è chiaro. Ti lascio guardare la TV allora» sibilai arrabbiato.
Quei suoi improvvisi cambi d’umore mi facevano impazzire.
Distolse lo sguardo dallo schermo tutto d’un tratto, lasciando la presa sulle sue caviglie e guardandomi con uno strano sguardo.
«Devo dirti una cosa, ci ho pensato a lungo» mormorò, mettendosi improvvisamente in ginocchio sopra al divano.
Sembrava quasi non volesse dirmelo e questo mi irritò ancora di più.
«Guarda pure la TV, non voglio disturbarti» grugnii fingendo indifferenza.
«Rob, non ho voglia di guardare la TV» sussurrò strisciando sul divano e avvicinandosi a me.
«Va bene, la guardo da solo» borbottai lanciandole un’occhiata sofferente quando si umettò il labbro superiore.
Che diamine le stava prendendo? 
«Forse non hai capito...». Prima che io potessi anche solo pensare a qualcosa mi ritrovai Lee seduta sulle ginocchia. «Non ho voglia di guardare la TV perché voglio guardare te» sussurrò cingendomi il collo con le braccia e appoggiando le sue labbra alle mie.
Un bacio? Stava cercando di darmi un bacio?
Sì, così sembrava.
Le nostre labbra incollate si muovevano lentamente, con delicatezza. Non c’era fretta.
Inconsciamente gemetti, attirando il corpo di Lee più vicino al mio.
Avevo aspettato quel momento per anni, non potevo di certo sprecarlo in quel modo.
«Ai… leen» sospirai quando si strusciò volontariamente contro il mio bacino.
«Shh, fallo e basta». Appoggiò l’indice sulle mie labbra dischiuse e io mi accorsi che i suoi occhi erano diventati più scuri.
Avrei dovuto dirle che non era il caso, che non era corretto, eticamente e forse anche politicamente, ma in quel momento non ne avevo la forza.
“Al diavolo tutto” pensai riempiendomi le mani con il suo sedere sodo.
Ridacchiò infilando le sue piccole mani sotto alla mia maglia per toglierla lentamente.
«Pensavo non lo avresti mai fatto» sussurrò cominciando a torturarmi il collo con i denti e con le labbra.
Sospirai reclinando la testa sullo schienale del divano e socchiusi gli occhi.
C’era un rumore fastidioso che non mi permetteva di rilassarmi. Lee continuava a baciarmi sul collo e lungo la spalla ma non riuscivo a concentrarmi su di lei e sulle sensazioni del mio corpo.
Era un rumore insopportabile, e si faceva sempre più forte.
«Lee» ansimai, quasi in modo vergognoso, quando leccò il mio labbro inferiore.
«Mhh?». Improvvisamente si tolse la maglia, rimanendo in reggiseno.
«Non senti questo rumore?». Riuscivo con fatica a mettere assieme parole per formare una frase di senso compiuto.
Non era di certo un’esperienza di tutti i giorni trovarsi Aileen seduta sulle gambe, mentre continuava a lasciare piccoli baci seducenti sullo sterno e scendeva lungo gli addominali.
Gemetti di nuovo, quando sfiorò il cavallo dei miei jeans con la mano.
«Rob?» disse lanciandomi uno sguardo malizioso.
«Sì?» boccheggiai, cercando di trattenermi dall’istinto di strapparmi jeans e boxer.
«Rob, ti vuoi svegliare?». Continuava a guardarmi ammiccante, non staccando gli occhi dai miei.
«Cosa?» borbottai confuso.
Perché mi stava chiedendo di svegliarmi? Cosa voleva che facessi?
Mi sembrava che il mio corpo, o almeno, una parte, fosse molto più che sveglio.
«Rob, dannazione! Svegliati!» urlò improvvisamente, ma non riuscivo più a vedere le sue labbra muoversi. «Robert Thomas Pattinson, svegliati immediatamente». Sentii un dolore improvviso alla guancia e aprii gli occhi.
Aileen, con i capelli tutti arruffati e gli occhi assonnati, mi stava insistentemente guardando, ed era decisamente seccata.
«Che succede?» borbottai confuso, girandomi tra le lenzuola.
Un momento, perché ero in camera mia?
«Che succede? Sono dieci minuti che la tua sveglia suona e mi chiedi che cosa succede? Pensavo fossi morto, non avevo nemmeno il coraggio di entrare in camera» sbottò arrabbiata, tirandomi un pugno sulla spalla.
Oddio.
Oddio avevo appena sognato Lee.
Peggio, avevo fatto un sogno erotico su Lee.
Mi alzai a sedere velocemente, avvicinando le ginocchia al petto e nascondendomi con il lenzuolo.
Fortunatamente sembrava che Lee non avesse notato un particolare non proprio piccolo.
«Mi dispiace, non l’ho sentita, stavo sognando» borbottai imbarazzato, ringraziando il mio angelo custode per avermi evitato una figuraccia.
«Sì, me ne sono accorta, quando sono entrata nella stanza continuavi a fare versi strani e ti giravi nel letto. Che cosa stavi sognando?» chiese sbadigliando e sedendosi accanto a me.
«Non lo so» mormorai spostandomi verso il bordo del materasso; mi serviva un modo per alzarmi senza che Lee notasse protuberanze strane.
«Mi hai svegliato, stavo dormendo e tu mi hai svegliato» sbuffò distendendosi accanto a me e chiudendo gli occhi.
«Lee, perché non torni a dormire? È presto e puoi rimanere a letto ancora per un paio d’ore». Cercavo una futile scusa affinché tornasse in camera sua e mi lasciasse libero di andare a farmi una doccia gelata.
«Non posso dormire qui?» bisbigliò sistemandosi meglio le coperte.
«No. Non puoi. È la mia camera, andiamo Lee» piagnucolai.
Rischiavo di arrivare tardi sul set.
«Va bene, calmati» sbuffò alzandosi e facendomi una linguaccia. «Sei insopportabile di mattina». Chiuse la porta della mia camera alle sue spalle e pochi secondi dopo sentii chiudersi anche quella della sua camera.
Rimasi a fissare la porta chiusa disperato.
Avevo sognato Aileen.
Proprio lei.
Fortuna che poche ore prima mi ero auto-convinto di non considerarla come donna!
«Rob, calmati, è solo suggestione, l’hai pensata ieri sera e questa notte hai rielaborato la cosa» mormorai cercando di farmi coraggio da solo mentre mi dirigevo verso il bagno.
Mi sembrava di essere improvvisamente diventato adolescente, quando sognavo le compagne di scuola.
Erano anni che non mi svegliavo eccitato dopo un sogno con qualche donna; questo la diceva lunga sulla mia, inesistente, vita di coppia.
L’unica cosa da fare era una veloce doccia gelata per raffreddare il mio corpo visto che ero già in ritardo per il lavoro.
C’era un’altra cosa da fare: togliermi dalla testa Aileen.
Non dovevo più pensare a lei sotto quell’aspetto, me l’ero ripetuto fino allo sfinimento il giorno precedente ma non era stato sufficiente.
Quando uscii dal box doccia, rabbrividendo involontariamente, cominciai ad asciugarmi.
L’acqua gelata sembrava essere riuscita a calmare i bollenti spiriti, l’unica cosa da fare era non pensare a quel maledetto sogno, non dovevo pensare nemmeno a Lee.
Iniziai a canticchiare per distrarmi ma all’improvviso sentii un rumore: qualcuno stava bussando alla porta.
Sussultai finendo di infilarmi i boxer mentre gridai un «Sì?».
«Rob, hai fatto? Mi sto facendo la pipì addosso» piagnucolò Lee dietro la porta chiusa.
Ridacchiai divertito prima di infilarmi anche i jeans, così, per sicurezza.
«Entra Lee» borbottai prendendo tra le mani la maglia.
«Grazie, grazie, grazie» strillò correndo verso la tazza del water.
La fissai stupito mentre, senza tanti problemi, si abbassava gli slip prima di sedersi.
Chiusi gli occhi per non sbirciare e in pochi passi tornai in corridoio, fuori da ogni possibile tentazione.
«Vado al lavoro. Oggi pomeriggio arriva Tom, dorme qui» gridai pizzicandomi un braccio per pensare al dolore piuttosto che a Lee.
«Va bene». Sentii lo sciacquone dell’acqua e pochi secondi dopo Lee uscì con un sorriso. «Scusa ma mi scappava tanto» ridacchiò raccogliendosi i capelli.
«Scappo» mormorai cominciando a scendere le scale di corsa.
«Rob? Non mi saluti nemmeno?» si lamentò scendendo qualche scalino dietro di me.
«Sono in ritardo. Ci vediamo stasera» strillai velocizzando il passo.
Che cosa sarebbe successo se le avessi anche solo dato un bacio sulla guancia?
«Oh, va bene. A stasera» sussurrò delusa, fermandosi a metà scala.
Mi sentii improvvisamente uno stronzo, non era giusto comportarsi così nei confronti di Aileen, lei in fin dei conti non aveva fatto nulla di male, era tutta colpa della mia fantasia e del mio cervello.
Sì, sì dannazione! Lei aveva fatto qualcosa di male nel momento in cui aveva cominciato ad andare in giro per casa mezza nuda.
Ma l’aveva sempre fatto, non mi ero mai lamentato di quel fatto.
«Idiota» sbottai, picchiandomi la fronte, proprio mentre parcheggiavo la macchina di fianco al set.
Dovevo parlare con qualcuno di quella situazione, trovare un aiuto esterno che riuscisse a mettermi sulla retta via e mi suggerisse che cosa fare, perché io non lo sapevo proprio.
Avevo due alternative, una più spaventosa dell’altra: lanciarmi in una storia con Lee, rischiando di farmi male, ma soprattutto farle male e successivamente perderla per sempre, oppure mettere a tacere ogni singolo sentimento che provavo.
Entrambe le alternative mi spaventavano, troppo, forse.
Dovevo parlarne con Tom, lui, da persona esterna, avrebbe capito cosa sarebbe stato meglio fare.
 
Non era facile recitare quando avevi altro per la mente.
Non era facile soprattutto quando la tua giornata non era cominciata nel migliore dei modi.
Ma, se volevi anche solo fare finta di essere un attore professionista, dovevi lasciarti la vita privata fuori dal set.
Ci ero riuscito a fatica, visto che avevo chiamato l’altra attrice Lee per un paio di volte.
Fortunatamente però, anche quella giornata di lavoro si era conclusa, addirittura con una bella notizia per me, visto che non avevo scene da girare il giorno successivo.
Dopo essermi tolto i vestiti di scena e il trucco, aver salutato il resto del cast e Dean, ero salito velocemente in macchina per tornare a casa.
Erano le sei passate, Tom doveva essere arrivato.
Durante il viaggio canticchiavo felice, convinto che avrei sicuramente trovato una soluzione ai miei problemi.
Parcheggiai la macchina sul vialetto e vidi la porta di casa spalancarsi: Tom e Lee uscirono salutandomi.
«Straniero» borbottai avvicinandomi al mio amico prima di lasciargli una pacca cameratesca sulla schiena.
«Ecco chi si vede» ridacchiò aspirando una boccata di fumo dalla sigaretta che teneva tra le dita.
Cercavo di non prestare troppa attenzione alla piccola figura che scorgevo di fianco a Tom.
Se non l’avessi guardata non mi sarei ricordato del sogno di quella mattina.
«Ho bisogno di una sigaretta» mormorai sfilandomi il pacchetto dalla tasca dei jeans.
«Sei ritornato alle origini, mh? Ho sentito che stavi cercando di smettere» scherzò passandomi l’accendino.
«Posso smettere quando voglio, è solo che ho bisogno di fumare» mentii socchiudendo gli occhi per accendere la sigaretta.
«Certo, dicono tutti così» ridacchiò.
«Ciao Rob». Sussultai sentendo la voce di Lee.
«Ciao». Feci un cenno con il capo non guardandola nemmeno.
Meno la guardavo, meno ripensavo ai suoi baci infuocati sul mio petto.
«Lee, vuoi una sigaretta?» domandò Tom, allungandole il mio pacchetto dopo averlo sfilato dalla mia tasca.
«Cer…» cominciò a dire.
No, sarebbe stata la fine vederla fumare di fianco a me, mentre teneva la sigaretta tra le labbra.
Quelle labbra che avevano baciato le mie, che avevano accarezzato il mio corpo, in sogno.
«No, Lee non fuma» sbottai guadagnandomi un’occhiataccia da Tom.
«Da quando decidi tu?» chiese Tom divertito.
«Non sto decidendo, solo che il fumo le fa male, in tre giorni ho perso il conto dei pacchetti che ha fumato». Era una scusa idiota, visto che di solito non le vietavo mai di fumare, anche perché non ero nessuno per darle ordini.
«Be’, vi lascio soli. Vado un po’ in camera mia». Sembrava che Lee si fosse offesa, non potevo esserne certo però, visto che non la stavo guardando e non vedevo i suoi occhi.
«Aileen, puoi rimanere anche qui» insisté Tom, circondandole goffamente le spalle con un braccio.
Vidi Lee accennare un sorriso prima di sistemarsi una ciocca di capelli.
«Va bene» sussurrò abbassando leggermente lo sguardo.
«Allora, come è andata la giornata di riprese?». Tom stava cercando di instaurare una conversazione, però aveva fatto la domanda sbagliata.
«Benissimo» mentii.
«Che scene avete girato?» mi domandò Aileen, liberandosi del braccio di Tom, ancora sopra alle sue spalle.
«Primi piani, cose tecniche». Tagliai corto, sperando che non parlasse ancora.
«Quante scene?». Tom sembrava coalizzato con Lee per farmi parlare con lei; peggio: per farmela guardare.
«Due, forse tre. Tom, ti andrebbe di uscire stasera?» proposi scegliendo bene le parole perché Aileen capisse che non era invitata.
«Certo, una bella seratina! Noi due e Aileen». Ridacchiò spegnendo la sigaretta sul portacenere di fianco alla porta d’entrata.
«Sì, che bello! Questa sera non lavoro» strillò Lee, felice.
«No, solo io e Tom» sbottai facendo cadere la sigaretta per terra e pestandola con il piede.
«Ah». Aileen non aggiunse altro.
Era delusa.
Ma cosa potevo dirle? “Ho bisogno di parlare con Tom perché ho paura di essere attratto da te e voglio trovare una soluzione?”
«Perché non può venire anche Aileen?» propose Tom.
«Perché io e te assieme siamo troppo visibili e i paparazzi potrebbero vedere anche lei e seguirla ovunque». Era una scusa vecchia, che ogni tanto usavo.
Sembrava funzionare sempre.
«Certo, hai ragione. Vado un camera mia, non mangio stasera, non ho fame» sussurrò Aileen entrando in casa.
Chiusi gli occhi respirando a fondo per resistere alla tentazione di correre in camera di Lee e chiederle scusa. Se l’avessi fatto l’avrei vista, ricordando il sogno di quella notte, ancora una volta.
«Ehi amico, che ti succede?». Tom mi spintonò prima di entrare in casa.
«Niente, perché?». Fingere che tutto fosse normale, non era così che si faceva di solito?
«Non prendermi per il culo, Rob. Ti conosco dall’asilo e mi vieni a dire che non hai nulla? Non è una scusa» mormorò sedendosi sul divano e continuando a guardarmi.
«Ti dico dopo, va bene?» proposi, sapendo che Lee avrebbe potuto sentire.
«Allora usciamo subito». Si alzò, prese il telefono che aveva appoggiato in cucina e salì un paio di gradini «Aileen, usciamo. Ci vediamo questa sera» strillò, continuando a tenere una mano appoggiata al muro per mantenersi in equilibrio in quella posizione scomoda.
«Sì» gridò Lee in risposta, senza nemmeno aprire la porta della sua stanza o scendere.
«Andiamo a piedi?» proposi chiudendo la porta di casa alle nostre spalle.
«Addirittura? Così grave?» scherzò cercando di tirarmi su il morale.
«Tom» sibilai sospirando; non sapevo da dove cominciare.
Camminammo per qualche minuto in silenzio, Tom probabilmente aspettava che cominciassi io il discorso, ma ero troppo codardo per farlo.
«Pizza e birra per cominciare?» suggerì, rompendo il silenzio, mentre indicava una piccola tavola calda a lato della strada.
«Sì, birra e pizza» specificai, facendogli capire quale fosse la mia priorità.
Dopo esserci seduti e aver ordinato, Tom tirò fuori il pacchetto di sigarette appoggiandolo in mezzo al tavolo.
Non aspettai nemmeno due secondi; presi una sigaretta e l’accesi.
«Pensavo fosse una sua idea, ma ha ragione» borbottò, rimanendo fermo a guardarmi.
«Cosa?» chiesi sorpreso da quello che aveva detto.
«Aileen. Quando sono arrivato era disperata, mi ha detto che non sa quello che ha fatto perché ti comporti in modo strano. Credevo scherzasse, credevo fosse solo una sua impressione, ma a quanto pare mi sbagliavo» borbottò cominciando a mangiare la sua pizza.
«Si vede tanto?». Cominciavo a cedere, non sapevo mentire a Tom.
«Che succede? Sembra che tu voglia evitarla, ma lei giura di non aver fatto niente di male». Sembrava davvero interessato.
«Tom, ho paura di aver fatto una cosa» mormorai imbarazzato, giocherellando con il sottobicchiere.
«Coa?» biascicò parlando con la bocca piena.
«Credo che Aileen cominci a piacermi». Tenni lo sguardo basso, imbarazzato dalla confessione.
«Piacerti piacerti o solo piacerti?» chiese, subito dopo aver bevuto qualche sorso di birra.
«Piacermi piacermi». Sollevai leggermente lo sguardo e mi accorsi che faticava a rimanere serio.
«Be’, questo non mi sorprende, l’avevo previsto anni fa» disse tronfio, ritornando subito dopo serio. «Da cosa l’hai capito?».
«L’ho sognata». Abbassai di nuovo lo sguardo, cominciando a bere per nascondermi dietro il bicchiere.
«Non vuol dire nulla, anche io sogno tante persone, sogno te, Sienna, Kristen… non vuol dire che tu mi piaccia o che mi piaccia Kris». Fece spallucce, forse credendo di aver risolto la situazione.
«No, ho fatto un sogno erotico» abbassai la voce fino a ridurla a un bisbiglio «con Lee».
«Oh. Ohhh» ridacchiò appoggiando la fetta di pizza sul piatto. «Com’è stata?». Avvicinò lo sgabello al tavolo, interessato.
«Tom» lo ammonii bevendo un altro sorso di birra.
«Che c’è? Insomma, è Aileen» si giustificò, chiamando una cameriera per ordinare altra birra.
«Non capisci? Non posso» bofonchiai appoggiando il bicchiere vuoto sul tavolo.
«E perché no? In fin dei conti sarebbe normale se tu ti fossi innamorato di lei, non bisogna di certo punirti». Sembrava felice della notizia che gli avevo dato.
«No, Tom. Non posso innamorarmi di Lee, non sono innamorato di lei. È solo stato un sogno perché è da un pezzo che sono a secco» mormorai mordendo un pezzo di pizza con rabbia.
«Quando l’hai sognata?» chiese spingendo uno dei due bicchieri pieni verso di me.
«Stanotte. E stamattina c’era anche l’alzabandiera e mi ha svegliato lei. Non avevo sentito la sveglia, ero troppo occupato a sognarla». Un nuovo morso e un nuovo sorso di birra.
«Fammi capire, la stavi sognando e lei ti ha svegliato?». Annuii senza interromperlo. «E non ha visto il soldatino che dava il buongiorno?» ridacchiò pulendosi le mani con una salvietta di carta.
«No, sono riuscito a nasconderlo, per fortuna» borbottai abbassando la voce quando un uomo seduto al tavolo di fianco ci riservò un’occhiataccia.
«E nei giorni precedenti?».
Quando sentii la sua domanda rischiai di strozzarmi con il boccone che stavo masticando.
«Cosa?». Come faceva a sapere dei giorni precedenti?
«Aileen mi ha detto che già da alcuni giorni ti comporti in modo strano. Da quanto ti sei accorto di essere innamorato di lei?». Continuava a guardarmi curioso, studiando ogni mio gesto.
«Primo, io non sono innamorato di lei, e secondo, sono strano solamente da domenica» puntualizzai facendolo sghignazzare.
«Certo, non sei innamorato di lei, Rob. Ma perché da domenica? Che è successo?» chiese accendendosi una sigaretta.
«L’ho vista, nuda» borbottai giocherellando con l’accendino.
«Cosa? L’hai vista nuda?» urlò attirando l’attenzione dei due uomini seduti di fianco a noi.
«Shh! Dannazione Tom! Parla piano» lo sgridai, imbarazzato.
«Scusa, ma… l’hai davvero vista nuda?». Gli si illuminarono gli occhi, e questo mi fece innervosire ancora di più.
«L’ho vista per sbaglio nuda, non l’ho fatto apposta, semplicemente sono entrato nella cabina armadio mentre lei stava scegliendo che cosa indossare. E non fare quella faccia. Non devi pensare a Lee nuda» sbottai infastidito.
Non lo faceva volontariamente, ma mi dava fastidio il fatto che qualcuno potesse fantasticare sul corpo di Lee.
«E com’era? Voglio dire, meritava?». Aveva cominciato con le domande stupide.
«Dacci un taglio Tom». Non volevo ricordare il suo sedere sodo davanti a me, nemmeno la sua schiena nuda che terminava con quelle fossette di Venere…
«Dio, ti odio quando sei geloso! Sposatela se sei arrivato a questo punto». Bevve un nuovo sorso guadagnandosi una mia occhiata omicida.
«Ascolta, prima di tutto non sono geloso, mi dà solo fastidio che tu voglia immaginarti Lee nuda, secondo, non sono innamorato di Lee, e quindi non la sposo». Guardai il nuovo bicchiere di birra davanti a me. In fin dei conti il giorno dopo non dovevo lavorare, una birretta in più non avrebbe di certo combinato guai.
«No, infatti, a che serve sposarla? Tanto convivete già» ghignò punzecchiandomi.
«Smettila». Cominciavo a spazientirmi sul serio.
«Ascolta Robert, smettila di mentirmi, ma soprattutto smettila di mentire a te stesso» sbottò arrabbiato.
«Io non sto mentendo a nessuno, e poi non ho più voglia di parlare di questa cosa. Voglio divertirmi, visto che domani non lavoro». Alzai la mia birra per brindare.
Una birra in più, solo una…
 
«Rob, dacci un taglio, hai bevuto già cinque birre». La voce di Tom era ovattata e sembrava provenire da un’altra stanza.
«E se-rivassimo a sei?» ridacchiai cercando una posizione che non mi facesse sentire la testa pesante.
«No, facciamo che ti fermi a cinque, vado a pagare». Si alzò lentamente, camminando verso la cassa.
Volevo dirgli di fermarsi, perché avevo ancora sete, ma sembrava che anche parlare fosse diventato difficile.
Tornò un po’ di tempo dopo, continuando a parlare con quella voce strana.
«Andiamo, spugna. È ora di tornare a casa» mormorò avvicinandosi a me e passandomi un braccio attorno alle spalle per aiutarmi a rimanere in piedi.
«Ho sonno» piagnucolai cercando di sedermi di nuovo per schiacciare un pisolino.
«Ascolta, adesso facciamo una passeggiata e quando arriviamo a casa dormi, va bene?». Riuscì a sollevarmi ancora in piedi, anche se continuavo a sentire le gambe pesanti.
«Mi sa che ho bevuto un po’ troppo» sghignazzai cominciando a guardare gli occhi di Tom che non rimanevano fermi e andavano di qua e di là.
«Sì, lo credo anche io. Per questo è importante che una volta usciti da qui arriviamo a casa in fretta. Così tu dormi e domani mattina ti svegli bello pimpante». Sorrise, continuando a sostenermi.
«Ma a casa c’è lei. E se la vedo ancora?» borbottai fermandomi davanti all’ingresso del locale.
Sarei riuscito a non dirle tutto quello che avevo capito quella sera?
«Non la vedrai questa sera, è già andata a dormire, te lo prometto». Continuava a circondarmi le spalle con un braccio per sostenermi.
Dannazione, non era mica colpa mia se improvvisamente tutta Los Angeles aveva cominciato a girare e non riuscivo a camminare dritto!
«Tom, ho un problema». Dovevo dirlo, almeno una volta.
«Se devi andare in bagno te la tieni fino a casa, ti avverto» sbottò parlando sempre con quella voce ovattata odiosa.
Portai anche le mani alle orecchie per controllare di non avere tappi; era tutto libero.
«No, no. Un altro problema. Credo di essermi innamorato di Lee». Sorrisi felice.
Era bello essere innamorati.
Ti sentivi leggero e tutti i problemi sparivano.
Ecco come mi sentivo in quel momento: felice, libero e leggero.
«Alleluia! Te ne sei accorto ora?». Rise di gusto, prendendomi appena prima che sbattessi addosso a un cestino.
«Sì, e ho un piano» abbassai il tono della voce, come se fossi stato un ladro.
«Sentiamo» sospirò Tom, prima di rallentare il passo.
«Adesso vado a casa, corro in camera sua, mi spoglio nudo e le do due colpi. Idea geniale» ridacchiai pregustando già il momento.
«Rob, sei ubriaco, e per quanto mi renda felice sapere che dentro di te muori dalla voglia di concludere con Aileen dopo quasi quattro anni, e sottolineo quattro anni, mi duole farti notare che sono tuo amico. In quanto tale ho il diritto ma soprattutto il dovere di badare a te nel momento in cui l'alcol ti annebbia il cervello...» cominciò a dire. Ormai però l’unica cosa che mi interessava era Lee.
Lee, il suo corpo, il mio, un letto morbido.
«Sono carico e pronto. Andiamo da Lee, la farò impazzire». Cominciai a camminare velocemente a caso, visto che non riuscivo a capire quale fosse la via di casa.
«Appunto» mormorò Tom prima di tirarmi per una manica della camicia per non farmi entrare in un negozio di liquori. «Lascia stare Rob, domani mattina te ne pentiresti e mi stresseresti per tutta la vita, chiedendomi perché non ti ho fermato». Abbassò improvvisamente la voce, quando due ragazze ci sorpassarono ridacchiando.
«No. Devo andare da Aileen, la farò urlare, sai? Sono bravo in queste cose anche se ultimamente ho perso un po' la mano» piagnucolai. Forse non sarei più stato in grado di soddisfare una donna, era da troppo che non facevo l’amore.
«Credo che ultimamente tu la tua mano l'abbia ritrovata, ma lasciamo perdere. Non ricordavo che diventassi così disinibito da ubriaco, sai?». Che mano avevo ritrovato? Non ne avevo mai persa nessuna.
Mi sedetti su un marciapiede e improvvisamente mi accorsi che c’era Lee dall’altra parte della strada.
Mi stava salutando con la mano e aveva il bellissimo sorriso che la rendeva ancora più bella.
«Lee? Lee? Vieni qui e spogliati» urlai perché potesse sentirmi.
«Rob, dannazione, siamo a Hollywood, non c'è Lee qui, solo fotografi. Ora taci e continua a camminare» sbottò Tom, tappandomi la bocca con una mano.
Mi alzai barcollando, cominciando a camminare verso Lee, davanti a noi.
«Dici che sia già nuda?» chiesi a Tom. Da quella distanza non riuscivo a vedere se avesse o meno i vestiti.
«Santo Signore, perché non mi hai fatto diventare amico di un astemio castrato? Sì, Rob. Nuda e pronta per te. Zitto e accelera il passo che così arrivi prima».
Perché sembrava arrabbiato?
Non era nemmeno interessato a Lee che continuava ad ancheggiare davanti a noi.
«Nah, meglio che venga dopo. Fa più effetto» ridacchiai pensando a quanto sarei sembrato stupido se non avessi fatto un buon lavoro con Lee.
In fin dei conti aveva lavorato in uno strip club e sapeva come andavano le cose.
«Aiuto. Rob, ascoltami: non puoi andare da Lee per fare sesso, stasera. Capisci?». Tom si parò davanti a me, guardandomi serio, senza nessun sorriso.
Che problema aveva? Io non volevo di certo fare sesso con Aileen!
«Sì, infatti faremo l'amore» specificai sorridendo fiero di me stesso.
«No! Niente sesso, amore, trombare, scopare, darle una botta, due colpi, intingere il biscotto o come diavolo lo chiami. Niente di niente». Troppi soprannomi, non riuscivo a ricordare quali non avesse detto.
Meglio andare sul sicuro. «Fornicare?» chiesi con un sorrisino.
Non ero poi così ubriaco!
Era Tom che continuava a dondolarsi, almeno così sembrava.
«Hai la testa dura come una noce di cocco e gli ormoni ubriachi. Devo chiuderti a chiave in camera». Non stava scherzando, assolutamente.
Un pensiero improvviso mi colpì. «Nooo. E se mi scappa la pipì?».
«Dormirei in camera tua, ma ho quasi paura che tu possa violentarmi» sbuffò tastando i miei jeans per prendere le chiavi di casa.
Era quella casa mia?
Per quello ci eravamo fermati davanti a quella villetta?
«Non sei il mio tipo. Troppe poche tette e troppa barba. Lo dico con affetto, sai che ti voglio bene». Sorrisi accarezzandogli una guancia in un gesto d’affetto.
«Ascoltami Robert, adesso entriamo in casa, ma devi fare silenzio perché è tardi e Aileen sta dormendo, ok?» sussurrò dopo aver aperto il cancello d’entrata.
«Sì, ma perché parli piano?» ridacchiai cadendo all’improvviso con le gambe all’aria.
«Perché altrimenti svegliamo Aileen». Mi rimproverò mentre mi aiutava a rimettermi in piedi.
«Shh». Mi portai l’indice davanti alle labbra senza smettere di sorridere; Tom nel frattempo aprì la porta di casa.
«Piano» sussurrò entrando e facendomi un cenno affinché lo seguissi.
«Lee» urlai non appena chiusi la porta alle mie spalle con un tonfo assordante. «Lee dove sei? Devo parl…». Qualcosa mi colpì da dietro e mi ritrovai disteso sul divano con il viso schiacciato tra i cuscini.
«Allora sei proprio idiota! Ti ho detto di non urlare» sbottò continuando a rimanere disteso sopra di me.
Ridacchiai cercando di alzare il viso per prendere fiato e sentii un rumore.
«Rob? Tom? Siete voi?». Era la voce di Aileen, e proveniva dalle scale.
Sorrisi felice: era sveglia e potevamo fare l’amore!
«Porca puttana» borbottò Tom alzandosi goffamente quando entrambi sentimmo i passi di Lee che scendeva le scale. 

 
 
 
 
Salve ragazze!
Ecco anche il terzo capitolo di Rob e Lee.
Il povero Rob ormai non sa più che fare, eh?! È arrivato addirittura a sognarla!
Per fortuna che c’è Tom… più o meno! :P
In ogni caso, posso chiedervi se la storia vi piace o no?
Perché ci sono un bel po’ di visite ma veramente poche recensioni, e non riesco a capire se sia perché la storia vi delude o per altro…
Grazie ancora ai preferiti, ai seguiti, a quelle da ricordare e a chi commenta!
Come sempre vi ricordo il gruppo FB e il mio profilo Roberta RobTwili, dove metto spoiler e altro, sapete che potete iscrivervi o chiedere l'amicizia senza problemi, anche se non commentate mai…
Alla prossima settimana!
Un bacione!

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Capitolo 4
*** I'm try to go to rehab ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.








«Lee» urlai di nuovo, perché mi sentisse forte e chiaro.
«Rob, ora stai zitto che parlo io, intesi?» sussurrò Tom, guardandomi arrabbiato.
«Signorsì, signore» ridacchiai imitando il saluto militare.
«Aileen, siamo noi» disse Tom, alzandosi dal divano proprio quando la luce nella stanza si accese accecandomi.
«Noo» mi lamentai coprendomi gli occhi con un braccio per ripararmi dalla luce.
«Va tutto bene?» chiese Lee.
Sentivo la sua voce avvicinarsi sempre di più; forse era il momento di dirglielo.
«Sì Aileen, va tutto bene». La voce di Tom era ancora ovattata.
«Oddio, che cosa gli è successo?». Riconobbi la voce di Lee vicino a me e mi feci forza per spostare quel braccio.
Volevo vederla.
Volevo leggere la felicità nei suo occhi una volta sentita la mia frase: “Lee, voglio fare l’amore con te”.
«Niente, è ubriaco. Spostati Aileen, è meglio se lo porto a letto». Tom cercò di farmi alzare.
«Aspetta, prima devo dire una cosa a Lee» borbottai sedendomi.
«NO! No Rob, non è il caso. Gliela dico io, tu devi andare a dormire».
Perché Tom mi aveva pizzicato il braccio?
«Auch. Mi hai fatto male» piagnucolai cercando di tirargli un pugno con scarso successo, visto che colpii l’aria.
«È messo male» borbottò Lee aiutando Tom a sostenermi.
«Lee, devo dirti una cosa importante» ritentai.
Dovevo assolutamente parlarle, dirle i miei sentimenti.
«Gliela dici domani Rob, adesso Lee ha sonno» sussurrò Tom aiutandomi ad alzare la gamba per fare l’ultimo gradino.
«Non è vero. Lee, hai sonno?» le chiesi cercando il suo sguardo e trovandolo molto più in basso di quanto ricordassi.
«Ti prego, digli di sì, ti spiego dopo».
Mi ero immaginato quel sussurro?
L’aveva detto davvero Tom?
«Sì Rob, ho gli occhi che si chiudono e non ce la faccio a rimanere in piedi un altro minuto. Mi dici tutto domani mattina, va bene?». Mi sorrise sfilandomi le scarpe.
Quando ero arrivato al mio letto?
«Va bene» annuii, felice. Non avrei potuto scatenarmi se Lee fosse stata troppo stanca, perciò mi arresi, ma solo per qualche minuto.
«Ora riposati Rob» mormorò Lee prima di togliermi la maglia.
«Non posso» sbottai sbuffando, fermandole la mano che si stava avvicinando alla cintura dei miei jeans.
«Dormi Rob». La voce di Tom sembrava avermi dato un ordine.
«Non posso» ripetei, continuando a stringere la mano di Lee nella mia.
«Come?» chiese cercando di liberare le dita dalla mia stretta.
«Se mi spogli non ce la faccio a dormire» ridacchiai, cercando di farle capire che non riuscivo a rimanere lucido sentendo le scie di fuoco che le sue mani lasciavano sul mio corpo.
«Adesso ti tolgo i pantaloni e dopo non ti muovo più, così puoi dormire» mormorò divertita, cominciando ad armeggiare con l’asola dei jeans.
Sollevai prima un piede e poi l’altro perché mi sfilasse i pantaloni e sbadigliai stancamente, strofinandomi il viso.
«Dormiamo assieme?» proposi.
Se non potevo fare l’amore con lei mi sarei accontentato anche del suo corpo caldo contro al mio.
«Che schifo Robert. Ti conosco da quasi trent’anni e mi vieni a chiedere se voglio dormire nel tuo stesso letto? Sei ubriaco fradicio. Dormi che è meglio». Tom aveva chiuso la porta della mia camera alle loro spalle prima ancora che avessi avuto il tempo di dirgli che non volevo dormire con lui ma con Aileen.
Sbuffai innervosito dal suo comportamento e cominciai a canticchiare. Qualche minuto dopo mi addormentai.
 
«Spugna, ti vuoi svegliare o pensi di dormire fino a domani?». La voce di Tom mi scosse all’improvviso, ma qualcosa continuava a martellarmi il cervello, colpendomi la testa allo stesso ritmo.
«La testa. Fa male» borbottai nascondendomi sotto al cuscino.
«Alzati subito. Che ne dici del rimedio del vecchio Charlie? Una birra a colazione e tutto andrà meglio!». Perché continuava a urlare?
«Non urlare» piagnucolai, tappandomi ancora di più le orecchie con il cuscino e aggiungendoci anche il lenzuolo.
«Non urlare? Dopo quello che hai fatto e detto ieri sera credo di poter fare quello che voglio, anzi, dovresti anche pagarmi».
Sentii il cuscino sfuggire dalle mie mani e aprii gli occhi di scatto dopo aver sentito la frase di Tom.
«Che è successo?» chiesi alzandomi a sedere di scatto e rischiando di cadere: le mie gambe sporgevano dal letto, intrecciate alle coperte.
«Non ti ricordi nulla sul serio o te ne vergogni troppo?». Era diffidente, continuava a giocherellare con una lattina di birra e si dondolava da un piede all’altro.
«Oddio… così grave?» sussurrai rubandogli la lattina dalle mani e cominciando a bere.
Speravo che il vecchio metodo funzionasse.
«Vuoi prima la parte peggiore o quella migliore?». Si sedette sulla sedia di fianco al letto, allungando le gambe e incrociando le braccia dietro alla testa.
«Aspetta… Lee, dov’è?» chiesi confuso. C’era troppa calma in casa. Se Lee mi avesse saputo ancora a letto, a quell’ora avrebbe allegramente saltato sul materasso e sopra di me per svegliarmi. Invece di lei non c’era nemmeno l’ombra.
«Al lavoro. Allora? Quale parte ti interessa per prima?» insisté, prendendo in mano un pacchetto di sigarette vuoto e cominciando a lanciarlo in aria.
Guardai la sveglia sul cellulare: segnava le due e trenta del pomeriggio.
Dannazione, dovevo aver esagerato leggermente con la birra la sera prima.
«Parti a raccontare che cosa è successo dopo la seconda birra» bofonchiai rabbrividendo involontariamente dopo aver bevuto un sorso dalla lattina che avevo in mano.
«La faccio breve. Ti sei ubriacato e volevi, testuali parole, fare l’amore con Aileen. Ho cercato di fermarti, dicendoti che te ne saresti pentito oggi, ma non mi hai ascoltato. Appena sei arrivato a casa hai urlato il suo nome, Aileen si è svegliata e poi ti abbiamo messo a letto. Hai in tutti i modi cercato di provarci anche mentre ti spogliava, ma aveva sonno e non l’ha capito bene, in più io continuavo a fare battute idiote per non farglielo capire». Lanciò il pacchetto vuoto verso al cestino e lo centrò.
«Questa è la parte brutta?» mormorai spaventato. Non ricordavo davvero un accidente di ciò che avevo detto.
«Un parte» borbottò cominciando a fissare con attenzione maniacale il soffitto della stanza.
«Che altro c’è?» sospirai rassegnato, pronto a veder naufragare la mia amicizia con Lee.
Non avrebbe più voluto rimanere a vivere con me dopo quello che avevo combinato la sera prima.
«Ecco, dovevo spiegarle perché ti sei ubriacato, no?». Sembrava a disagio, di nuovo.
«Vai avanti» mormorai, impaziente di sentire che cosa le avesse raccontato per giustificare la sbronza della sera prima.
«Ecco… mi ha chiesto se avevo notato che eri strano nei suoi confronti e le ho detto di sì, che me ne ero accorto. Le ho detto che tu mi avevi detto di non aver cambiato atteggiamento, che probabilmente era solo perché avevi cominciato un nuovo film ed eri stressato. Poi mi ha chiesto come mai ti sei ubriacato…». Interruppe il racconto all’improvviso, guardandomi preoccupato.
«Che cosa le hai detto?» mormorai appena, pronto a prendere la ricorsa per strozzarlo.
«Che è per una donna» confessò, abbassando lo sguardo per non incontrare i miei occhi.
«Cosa?» sbraitai fuori di me. Balzai fuori dal letto e feci per avventarmi contro di lui. Sì, era deciso, lo avrei ammazzato.
«Calmati Rob, non sapevo che cosa dirle. Se ci pensi è la verità». Si alzò con calma dalla sedia, cominciando a indietreggiare verso la porta.
«Perché?» strillai frustrato. «Perché le hai detto una cosa del genere?». A ogni passo che facevo per cercare di raggiungerlo Tom si allontanava di due.
«Perché non sapevo che cosa dirle, ok? Perché tu devi deciderti: o ci provi e metti in gioco tutto te stesso per capire se ti piace veramente o la dimentichi e ognuno di voi vive la propria vita». Arrivato al parapetto delle scale si fermò; ormai non aveva più via di scampo. Lo avrei soffocato con le mie stesse mani.
«Adesso Lee crederà che io mi veda con una donna e non le abbia mai detto nulla! Perché?». Lo afferrai per la camicia strattonandolo con violenza.
«Robert, datti una calmata, sembri fuori di testa» sbottò prima di tirarmi una pacca sulla spalla per farmi indietreggiare.
«Non riesco a capire perché tu abbia dovuto sputtanarmi così con Lee» sibilai seguendolo, mentre correva giù per le scale.
«Sputtanarti?». Si fermò voltandosi verso di me, verde di rabbia. «Dici che ti ho sputtanato? Non credo proprio, Rob. Se avessi voluto sputtanarti ti avrei accompagnato in camera sua, mentre continuavi a supplicarla di fare l’amore con te, sperando di non fare brutta figura perché avevi perso la mano» ringhiò prima di girarsi di nuovo per continuare a scendere le scale.
«Cosa?» chiesi sorpreso, non ricordando assolutamente di aver pronunciato quelle parole.
«Esatto, hai capito bene. Non ero io quello che è rimasto mezz’ora davanti a un negozio di liquori sulla Hollywood Boulevard a urlare a Lee di spogliarsi». Afferrò lo zaino e cominciò a infilarci pantaloncini e maglia, che aveva utilizzato come pigiama quella notte.
«Tom, che cosa stai facendo?» borbottai deluso, sperando che la risposta non fosse quella che stavo pensando.
«Me ne vado in un hotel, visto che qui non sono il benvenuto. Arrangiati con la tua vita, ora» gridò esasperato. Si mise lo zaino in spalla, dirigendosi verso l’ingresso, afferrò la maniglia della porta e uscì.
«Tom, ehi, Tom» urlai seguendolo. «Scusami, mi sono comportato da stronzo. Dai, rientra», lo supplicai, uscendo fuori in boxer e tentando di tagliargli la strada per non farlo andar via.
«Pensi di essere ritornato in te o sei ancora posseduto?» sbottò fermandosi all’improvviso.
«Sono tornato in me» mormorai divertito passandomi una mano tra i capelli e arruffandoli.
«Perché io sinceramente non so che cosa fare se tu sei un idiota, intesi?». Ritornò verso casa, prendendo una sigaretta e accendendosela.
«Devi aiutarmi». Cercai di rabbonirlo prendendo una birra dal frigo e offrendogliela in segno di pace. Avevo veramente bisogno del suo aiuto, ora che mi trovavo in quel casino; non potevo uscirne da solo.
Per me invece era meglio una cola.
«Ancora? Non credi che abbia già fatto abbastanza?» domandò prima di bere un sorso dalla lattina.
«Sì, e ti ringrazio per avermi coperto ieri sera, ma devi aiutarmi a decidere». Trangugiai la cola quasi d’un fiato. Avevo bisogno di rinfrescarmi e di svegliarmi; insomma dovevo far funzionare il cervello.
«Io non devo decidere, sei tu quello che deve farlo» mi rimproverò. Si sedette sul divano, togliendosi le scarpe e si mise comodo, affondando nei cuscini.
«Come faccio?» sospirai.
Era una decisione difficile; dicendole la verità e cioè che mi piaceva, potevo perderla per sempre o potevo averla per qualche settimana e poi perderla. Oppure, se avessi fatto finta di nulla, l’avrei avuta di fianco a me fin quando avessi voluto.
«Le cose sono due: o le dici che ti piace o ignori tutto e continui a comportarti come se niente fosse». Aspirò una boccata di fumo stringendo la bottiglia di birra tra le ginocchia.
«Non posso dirle che mi piace, potrebbe spaventarsi e scappare. Non ha nessuno, non prende nemmeno una paga abbastanza alta per affittare un appartamento. Potrebbe ricadere nel tunnel della droga e sarebbe solo colpa mia». Non potevo permettere una cosa simile. Avevo fatto tanto per proteggerla, per tirarla fuori da quello schifo di vita, se fosse ricaduta in quel tunnel non me lo sarei mai perdonato.
«Che stronzata» sbuffò Tom scuotendo la testa.
«Cosa?». Lo guardai confuso; non capivo più dove fosse il giusto e dove lo sbagliato.
«Non è una scusa. Questa è solo la tua scusa perché hai paura. Quindi hai deciso di ignorare tutto e fare finta che non ti piaccia?». Spense la sigaretta nel posacenere e mi guardò, curioso di sentire la risposta.
«Sì, credo sia la scelta migliore. In fondo è stata solo un’infatuazione. Capita, no? Ignorerò quello che provo per un paio di giorni e poi tornerà tutto normale, non ci saranno grossi problemi». Era un piano che poteva funzionare.
«E quando avrà gli incubi? Non andrai più a dormire nel suo letto perché avrai paura di non saperti trattenere?». Velatamente, ma mi stava prendendo in giro. Soffocò una risata e abbandonò la testa sul divano.
«Quello è l’unico momento in cui non è in pericolo. È vulnerabile quando si sveglia piangendo, mi fa tenerezza, non potrei mai approfittare di lei in quel momento. Tu non l’hai mai sentita o vista, ma quando si accorge che è solo un sogno, si sfoga, piange magari per ore. No, non potrei mai pensare di eccitarmi vedendo Lee in quello stato». Strinsi i pugni ripensando alle urla di Lee e alle sue lacrime.
«Rimane il fatto che ci devi vivere assieme, che farai? Le imporrai di indossare una giacca a vento in casa?» ridacchiò divertito.
«No, semplicemente eviterò di pensare a lei come donna». Discorso che mi ero fatto anche troppe volte nei giorni passati e che sembrava non aver avuto effetto.
Ma dovevo farlo, almeno provarci ancora.
Per Aileen e per me, perché non potevo vivere non sapendola felice e al sicuro e perché lei non sarebbe riuscita a cavarsela da sola.
«Buona fortuna. E buona fortuna anche per dopo, quando dovrai spiegarle perché ti sei ubriacato».
Entrambi guardammo l’orologio sopra la TV; Lee sarebbe rientrata a minuti.
«Tom?» dissi prima di bere un sorso di cola.
«Mhh?». Alzò il capo dal divano per guardarmi.
«Grazie, per tutto». Sorrisi sincero, sperando che comprendesse il motivo della mia sfuriata: non ce l’avevo con lui, ma con me stesso.
«Che scena da commedia che abbiamo fatto. Deve essere stata bellissima da vedere» rise e finì la lattina di birra, lasciandola sul tavolo accanto al posacenere.
«Se ci avesse visto Lee sai che cosa avrebbe detto?» insinuai senza smettere di ridere.
«Che siamo due gay, più di quando siamo andati a fare la passeggiata con Bear». Si stese sul divano tenendosi la pancia, scosso dalle risa.
Improvvisamente, entrambi ci fermammo, sentendo il rumore della porta che si apriva.
«Ciao». Lee aprì la porta entrando con un sorriso stanco.
«Lee, ciao». Risposi al suo saluto, felice, mentre Tom le faceva un gesto con la mano.
«Sei lucido di nuovo?» sghignazzò togliendosi le sneakers e avvicinandosi al divano dove ero seduto.
«Sì, effetto sbornia concluso». Allargai le braccia sistemandomi meglio e Aileen si sedette di fianco a me appoggiando una guancia sul mio petto.
«Meno male, perché da ubriaco fai troppo ridere». Mi pizzicò un fianco facendomi gemere per il dolore e io cominciai a farle il solletico.
«Che cosa?» la provocai nonostante continuasse a urlare e a tirare pugni perché mi fermassi. «Faccio ridere?». Non smisi di tormentarla e mi godetti i suoi gemiti e mugolii convulsi.
«Basta Rob» urlò riuscendo a raggiungere il mio stomaco con il gomito.
Mi fermai dolorante, massaggiandomi leggermente.
«Mi hai fatto male» piagnucolai continuando ad accarezzarmi lo stomaco.
«Potevi stare fermo». Mi fece una linguaccia prima di cominciare a ridere. «Fammi vedere». Spostò le mie mani e mi alzò la maglia per guardare i danni che mi aveva fatto il suo colpo.
Involontariamente, quando le sue piccole dita sfiorarono la pelle arrossata del mio stomaco, rabbrividii, scostandomi di scatto.
«Che succede?» chiese Aileen confusa, lanciando occhiate perplesse al mio stomaco e poi al mio viso.
«Meglio se non mi tocchi, mi fa male». Mi schiarii la voce, in imbarazzo.
«Ma se ti ho appena sfiorato» strillò, sistemandosi i capelli dietro la schiena. «Sei proprio un pappamolle, eh!». Mi tirò un pugno sulla spalla e io sospirai di sollievo. Ci aveva creduto.
Meglio che mi immaginasse come un pappamolle piuttosto che sapere la verità.
«Ragazzi, mi sono appena ricordato che devo uscire con un mio amico. Non so a che ora torno questa sera, vi dispiace se vado?». All’improvviso, dopo aver sentito la sua voce, mi ricordai che c’era anche Tom.
«No, certo che no Tom» rispose Aileen prima di ritornare a poggiare la testa sulla mia spalla.
«Rob?». Tom sorrise, guardandomi.
Era un ottimo attore, un Oscar sarebbe stato meritatissimo.
«Certo che no, figurati». Feci spallucce come se non mi fosse interessato, ma gli mimai un «Grazie» con la bocca che Aileen non udì.
«Bene, a stasera allora». Prese il pacchetto di sigarette, il telefono e il portafoglio e senza aggiungere altro uscì.
«Come è andata oggi?» chiesi per rompere un po’ il silenzio che si era creato dopo che Tom era uscito.
«Bene, sono stanca». Sbadigliò sistemandosi meglio contro di me e io trovai piacevole quella ritrovata intimità.
«Lee, non puoi dormire adesso, non abbiamo nemmeno cenato». Circondai le sue spalle con un braccio in un gesto istintivo.
«Potrei fare un riposino, sei un cuscino abbastanza morbido, sai?» scherzò, alzando gli occhi per incontrare il mio sguardo. «Rob?» mi chiamò, rimanendo immobile, con gli occhi puntati nei miei.
«Sì?». Sapevo cosa stava per chiedere, e non potevo evitarlo.
«Posso chiederti una cosa?» azzardò timorosa, il corpo rigido e teso.
«Dimmi». Cercai di mostrarmi sereno, ma avevo una paura folle delle sue domande e, peggio, delle mie risposte.
«Perché non mi hai mai detto che avevi una ragazza?» bisbigliò curiosa, stringendo leggermente la mano che aveva appoggiato sul mio ginocchio.
Sospirai lentamente per farmi coraggio e cominciai a parlare. «Be’, in verità non c’è nessuno, Lee. Mi piaceva una ragazza ma ho capito che non ero corrisposto e quindi ho lasciato stare. Tutto qui». Feci spallucce, sperando che la mia bugia potesse essere spacciata per verità.
«Sì, ma perché non mi hai mai detto che ti piaceva una ragazza? Magari potevo parlarle». Si allontanò, portandosi le ginocchia al petto, guardandomi offesa.
«Lee, non mi sembra il caso…». Cercai di giustificarmi ma lei si rabbuiò.
«Oh, le dava fastidio che vivessimo assieme, vero?» mi domandò abbassando lo sguardo. «Mi dispiace, non volevo creare problemi» sussurrò, tenendo sempre gli occhi bassi.
«No, Lee. Non era per quello, stai tranquilla. Non ha funzionato perché non le interessavo. Se può farti stare meglio non ci siamo nemmeno baciati». Mi esibii in una smorfia buffa a quella confessione stupida, sapendo che era la verità. Sperai di riuscire a risollevarle il morale.
Non era giusto che Lee fosse triste per una mia bugia.
«Sei sicuro che non sia stata colpa mia?». Alzò finalmente lo sguardo, ritornando a guardarmi.
«Sì» annuii, sorridendole per rassicurarla.
Sapeva che non riuscivo a mentire, e non era una bugia.
Non era colpa di Lee, era solo colpa mia.
«Va bene, ti credo». Riuscì a sorridere appena, ma mi bastò.
Le baciai la fronte accarezzandole la schiena.
«Lee, tu non devi mai pensare di essere un problema, perché non lo sei, va bene?». Le sollevai il mento con l’indice e la piccola ombra che c’era nei suoi grandi occhi color ghiaccio scomparve.
«Sì». Mi abbracciò di slancio, rischiando di farmi cadere dal divano con lei. «A questo proposito ho un’idea che già da un po’ volevo dirti». Era felice, riuscivo a capirlo dal modo in cui mi stringeva, dal suo sorriso sincero, dai suoi occhi birichini e così espressivi.
«Sentiamo» accordai sistemandomi meglio sul divano.
«Ecco, in futuro, quando avremo compagnia, cioè se avremo dei ragazzi… forse sarebbe meglio non portarli qui a casa, almeno per un primo momento, no?». Osservò vergognosa, tanto che pensai che mi stesse nascondendo qualcosa.
«Non vuoi che io conosca il tuo ragazzo? Lee, hai un ragazzo?» chiesi, sconvolto.
Lei mi aveva fatto la predica perché non le avevo detto della mia inesistente ragazza e io non dovevo arrabbiarmi sentendola parlare del suo ragazzo che voleva addirittura portare a casa?
«No, stupido. Non hai capito, come al solito!». Mi colpì il ginocchio con un pugno prima di continuare «semplicemente dico che sarebbe meglio evitare di scopare qui a casa. Non credi che sarebbe imbarazzante di notte?». Mi guardò, con un sorrisetto impertinente. Non sapevo cosa leggere in quell’espressione.
«Certo» borbottai qualche secondo dopo.
Lei, lei voleva un ragazzo.
Un ragazzo con cui fare l’amore.
«Sicuro?» insisté sistemandosi meglio sul divano.
«Certo. Hai ragione. Sarebbe spiacevole» bofonchiai cominciando a rimuginare.
Aileen voleva un ragazzo.
«Bene, sono felice che tu la pensi come me. Sarebbe davvero imbarazzante se sentissimo urla o altro» sogghignò alzandosi dal divano, sollevata per aver chiarito quell’argomento.
Solo io non ero felice?
Solo a me dava fastidio l’idea di immaginare qualcuno che la accarezzasse e la baciasse?
«Rob? Ci sei?». Si chinò su di me, muovendo la sua mano davanti ai miei occhi.
«Come? Sì, sì. Ci sono». Imbambolato, cercai di nascondere con un sorriso il mio disagio, ma probabilmente non riuscii nel mio scopo.
«Che ne dici, prepariamo la cena?» propose saltellando verso la cucina e aprendo il frigo. Fischiettava persino.
«Sì, è meglio» borbottai tra me e me, maledicendomi per aver cominciato quel discorso con Lee.
Voleva un ragazzo, qualcuno che facesse l’amore con lei.
«Rob» brontolò Lee, ritornando in sala da pranzo, triste. «Il frigo è vuoto. Ci sono solo birra e cola» sbuffò sedendosi di nuovo e incrociando le braccia, imbronciata.
«Cinese?». Sapevo che non avrebbe saputo resistere alla tentazione.
«Dici davvero?» bisbigliò accostandosi a me e io annuii, convinto. «Oh, quanto ti voglio bene, grazie» strillò abbracciandomi e baciandomi ripetutamente una guancia.
«Lee» scoppiai a ridere cercando di scostarmi dalle sue labbra con scarso successo.
«Vedi perché vivo con te? Perché pensiamo le stesse cose. Vogliamo mangiare cinese la stessa sera ed entrambi pensiamo che sia imbarazzante sentire gemiti e urla dalla stanza di fianco». Smise di stamparmi baci sulla guancia e mi baciò un’ultima volta cercando di stritolarmi.
«Lee» gemetti scostandole le braccia per tornare a respirare.
«Scusa». Batté le mani, eccitata. «Credo sia meglio che guidi io, però. Non vorrei mai che persino una commessa cinese cominciasse a fare la civetta con te» affermò infilandosi le scarpe e prendendo le chiavi della macchina.
«Ma non è stata colpa sua… ero io che mi ero dimenticato di mettere il cappello». Cercai di scusare la ragazza dell’In ‘N’ Out burgher,ma con scarsi risultati, vista la linguaccia che mi fece Lee prima di mettere in moto.
Chiusi la porta di casa alle mie spalle e velocemente la raggiunsi, occupando il posto del passeggero.
«Non mi fido ancora della tua guida» confessai schiacciandomi addosso alla portiera e aggrappandomi per evitare brutte sorprese.
«Ho preso la patente da due anni e mezzo, e sono io che non mi fido della tua guida, quindi, visto che sei un inglese gentiluomo lasci guidare me». Svoltò bruscamente, dimenticando di inserire la freccia.
«Lee» urlai chiudendo gli occhi per non vedere il muro contro il quale ci saremmo sicuramente schiantati.
«Che c’è? Sarebbe diventato rosso a momenti e sai che quel semaforo ci mette tantissimo» si giustificò cominciando a tamburellare con le dita sul volante.
«Ti prego, guida bene. Non voglio morire prima di aver preso un Oscar» piagnucolai congiungendo le mani come se stessi pregando.
«Che scemo che sei! Guarda che so guidare, e in ogni caso io sono più giovane di te, ho più cose da fare». Cominciò a rallentare prima di svoltare dentro al parcheggio del ristorante.
«Entri a ordinare tu o vado io?» domandai, sapendo già la risposta.
«Vado io, prendi il solito?». Si slacciò la cintura di sicurezza e prese il mio portafogli dalla tasca dei jeans, senza scusarsi per avermi quasi palpato il sedere.
«Sì, solito. Tranquilla, pago io» scherzai, indicando il mio portafogli tra le sue mani.
«Ne ero sicura». Sorrise scendendo dalla macchina.
Mentre si dirigeva verso l’entrata del ristorante continuai a guardarla.
Era così diversa da quando l’avevo conosciuta, riusciva anche a camminare in modo diverso.
Non ancheggiava, non portava shorts troppo corti o miseri top, Lee riusciva a essere sexy anche con quel paio di jeans consumati e con quella maglia grigia.
Sarebbe stato fortunato l’uomo che avesse posseduto il suo cuore.
Sorrisi a quel pensiero quando la vidi correre fuori dal locale con una busta tra le mani.
«Andiamo, tieni che è ancora caldo» borbottò sistemandomi la busta di carta sulle ginocchia e mettendo in moto la macchina.
«Come mai hai fatto così presto?» chiesi guardando l’ora che lampeggiava sul cruscotto dell’auto.
Erano trascorsi meno di dieci minuti.
«Perché l’ho distratto. Gli ho fatto uno spogliarello e mentre mi spogliavo imbustavo da sola quello che dovevo portare a casa. Via la maglia e ho preso gli involtini primavera, via i jeans ed erano dentro alla busta anche i biscotti della fortuna…» ridacchiò facendomi ridere a mia volta.
«Spogliarello integrale per portare via tutto gratis o ti sei tenuta gli slip?» chiesi continuando a ridere.
«No, visto che pagavi tu ho tenuto gli slip. Se avessi pagato io gli avrei fatto anche altro…» scherzò lasciando la frase in sospeso.
L’immagine di Lee che faceva uno spogliarello mi colpì all’improvviso, scatenandomi un tornado di sensazioni.
Scherzavamo sempre sullo spogliarello che avrebbe dovuto fare per ottenere gratis qualcosa, perché proprio quella sera mi stavo soffermando su quel pensiero?
Mi spostai irrequieto sul sedile, maledicendo la mia fantasia.
Smettere di immaginare Lee in situazioni sbagliate era difficile, sembrava che dovessi disintossicarmi.
Forse era davvero una disintossicazione.
«Rob, posso chiederti l’ultima cosa?» mormorò spegnendo l’auto sul vialetto di casa.
Il tono che aveva usato non mi faceva presagire nulla di buono.
«Certo». Chiusi la portiera della macchina, tenendo la busta in equilibrio.
«Ecco, la ragazza… la conosco?». Velocizzò il passo per andare ad aprire la porta di casa, visto che aveva le mani libere. Quando sentii la sua domanda però, mi bloccai.
Cosa potevo dirle? “Sì Lee, la conosci perché sei tu?”.
«Io… be’… tu…» cominciai a balbettare, passandomi una mano tra i capelli.
«Aspetta, facciamola più facile, è mai stata qui a casa nostra?». Sembrava stizzita, ma non capivo perché.
Improvvisamente compresi…
«Lee, non è Kristen» borbottai rimanendo fermo di fianco a lei.
«No perché, insomma, capirei…» iniziò a dire, giocherellando con le chiavi di casa.
«Lee, non è Kristen» ripetei, sperando che mi credesse.
«Ok, ok. Ti credo» assentì entrando in casa e aspettando che facessi lo stesso.
«Te l’avrei detto se fosse stata lei». Dopo essere entrato e aver appoggiato la busta sul tavolo della cucina cominciai a posizionare le scatolette in fila.
«Però rimane il fatto che chiunque sia, è un’idiota» sbottò sedendosi su una sedia e cominciando ad aprire le confezioni con il cibo.
«Come?» chiesi alzando il volto di scatto e lasciando cadere le bacchette che avevo tra le mani.
«Sì. Chiunque sia, è un’idiota. Tu sei un ragazzo perfetto, sei dolce, gentile, ti preoccupi sempre per tutti e, insomma, nonostante la tua età sei sempre un bell’uomo». Fece spallucce, indifferente, come se avesse appena detto una cosa normale, e iniziò a mangiare.
 «Grazie». Mi ritrovai ad arrossire ai suoi complimenti.
Sapevo che Lee l’aveva detto come amica, ma una piccola parte di me si era illusa che l’avesse detto come donna.
«E di che? È la verità». Sorrise cominciando a masticare e allungandomi una vaschetta.
Cominciammo a mangiare ridacchiando davanti alla TV in cucina: c’era un vecchio film comico che divertiva sempre tanto Lee.
«Ragazzi?». Tom entrò inaspettatamente, facendo gridare Lee per lo spavento.
«Da dove sei entrato?» chiese tenendosi una mano premuta all’altezza del cuore.
«Dalla porta» ridacchiò Tom, sedendosi di fianco a noi e cominciando a guardare cosa ci fosse dentro alle confezioni di cibo.
«Sì, ma perché non ti abbiamo sentito?» domandò di nuovo, riprendendo a mangiare.
«Perché stavate ridendo. Vi ho sentiti fin dalla strada» scherzò, prendendo un paio di bacchette e cominciando a mangiucchiare qualcosa.
«Esagerato». Lee gli tirò un pugno sul braccio, facendogli cadere le bacchette. «Ops, scusa. Non controllo più la mia forza, ho fatto muscoli a forza di portare vassoi di birra». Lee sorrise felice prima di allungarsi sulla tavola per prendere la confezione con i biscotti della fortuna.
«Uh, che belli! I biscotti della fortuna!». Tom protese la mano per prenderne uno ma Lee lo incenerì con lo sguardo.
«Sono solo due. Non toccarli» lo ammonì puntandogli l’indice a pochi centimetri dal naso. «Rob, prendi il tuo». Allungò la confezione verso di me e io presi un biscotto a caso. «Aprilo, dai» bisbigliò emozionata Lee rompendo il suo.
«Non lo so» borbottai scettico. L’ultima cosa che mi serviva era una frase dei biscotti della fortuna.
«E dai Rob aprilo anche tu. No, che schifo» sussurrò dopo aver letto il suo bigliettino. «Io trovo sempre quelli senza senso. “Ogni passo avanti è un passo importante”». Appoggiò il bigliettino sul tavolo e cominciò a fissarmi curiosa.
«Ok, lo apro» sospirai rompendo il biscotto. Quando lessi quello che c’era scritto sbarrai gli occhi sorpreso, guardando Lee davanti a me che mi sorrideva aspettando che le dicessi cosa c’era scritto. «“Quello che cerchi è davanti a te”» lessi, alternando lo sguardo tra il biglietto e Lee.
«No, abbiamo sbagliato. Quello era il mio! La settimana scorsa ho perso un perizoma. Quello è il mio biglietto». Si allungò sopra alla tavola per prenderlo, ma mi scansai.
«Giù le mani. Questo è il mio biglietto» la ammonii sentendo una risatina di Tom.
C’era qualcosa di inquietante in quel biglietto.
Perché il caso mi aveva fatto scegliere proprio quello?
«Questi cinesi ne sanno una più del diavolo» rise Tom accendendosi una sigaretta. «Che cosa stai cercando Rob?».
«Un paio di calzini» sbottai ammonendolo con lo sguardo.
Era stata la prima cosa a passarmi per la mente.
Non potevo di certo dire che stavo aspettando una risposta.
«Li ho presi io quelli neri» disse Lee sorridendo. «Ora che hai trovato quello che stavi cercando, potresti darmi il biglietto? Devo trovare il perizoma». Allungò la mano con il palmo rivolto verso l’alto perché le appoggiassi il biglietto sopra, ma mi rifiutai.
«Magari il tuo perizoma l’ha preso Rob. Se tu hai preso i suoi calzini». Tom continuava a ridere, tenendo la sigaretta sopra alla tavola per non bruciasi con il tabacco.
«Oddio, che schifo Rob. Indossi i miei perizomi?» chiese Lee rabbrividendo.
«Ma cosa state dicendo?» sbottai infastidito, prima di alzarmi e cominciare a sparecchiare.
«Dai stavo scherzando» sussurrò Lee abbracciandomi da dietro.
«Sei ruffiana, Lee» farfugliai sospirando a causa del contatto con il suo corpo.
«Lo so, ma funziona» sghignazzò scappando prima che potessi cominciare a farle il solletico.
Passammo la serata davanti alla TV a guardare un film, fino a che non ci accorgemmo che Lee si era addormentata.
«Rob, guarda che ha preso sonno» sussurrò Tom, indicandomi Lee che aveva la testa appoggiata alla mia spalla.
«La porto a letto» mormorai, attento a non svegliarla, alzandomi lentamente e prendendola in braccio.
Dopo averla distesa a letto e coperta con il lenzuolo, ritornai da Tom, davanti alla TV.
Guardammo un paio di episodi di una vecchia sit-com e poi decidemmo di andare a dormire.
Tom avrebbe dormito ancora una volta sul divano.
 
Mi svegliai all’improvviso, sentendo le urla di Lee; corsi velocemente verso la sua camera ma mi spaventai notando una figura che saliva velocemente le scale.
«Rob, c’è qualcuno in camera di Lee» borbottò Tom, continuando a stringere un coltello tra le mani.
«Idiota, sta sognando». Lo spintonai per entrare in camera di Lee mentre lei continuava a urlare.
«Lee, Lee stai sognando». La scossi leggermente, spostandole i capelli dalla fronte sudata.
«Smettila. Lasciami ti prego» strillò calciando via le lenzuola.
«Aileen, sono Robert. Svegliati, è solo un sogno» ripetei, prendendole il viso tra le mani.
«Rob» sussurrò aprendo gli occhi di colpo, strofinandosi la guancia per asciugarsi una lacrima.
«Tranquilla, sono qui» bisbigliai accarezzandole la schiena e abbracciandola. «Va tutto bene». Socchiusi gli occhi quando sentii il suo corpo scosso dai singhiozzi.
«Ho svegliato anche Tom?». Sollevò il viso, guardando verso la porta aperta.
«No, stavamo guardando la TV, non ci hai svegliato» cercai di tranquillizzarla mentre Tom annuiva.
Sembrava che avesse visto un fantasma; continuava a rimanere davanti alla porta immobile. Per fortuna Lee non aveva visto il coltello che aveva in mano.
«Credo sia ora che vada a dormire. A domani» borbottò Tom prima di chiudere la porta e lasciarci soli.
«Forza Lee, dormiamo un po’» sussurrai distendendomi di fianco a lei e circondandole le spalle con un braccio.
Rimasi quasi mezz’ora sveglio. Sentii il respiro di Lee diventare più pesante e regolare, ma continuai a percorrere la sua schiena con la punta delle dita, sfiorandola in una carezza tenera.
«Rob, mi dispiace» sospirò Lee all’improvviso, continuando a sognare.
«Non è colpa tua Lee». Sapevo che non poteva sentirmi, ma volevo che lo sapesse lo stesso.
Non era colpa sua, era solo e soltanto mia.
Dovevo solo disintossicarmi da Lee, andare in riabilitazione.
Il problema era soltanto uno: volevo farlo?

 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Ed eccoci con il quarto capitolo di Rob e Lee! :)
Allora, avete visto che non ha detto nulla? Non potevo di certo fargli dire qualcosa di sconveniente, anche perché Lee ci sarebbe rimasta male e non mi sembrava il caso di farle perdere la fiducia in Rob, dopo che lui aveva lottato così tanto per averla.
Dunque, vi comunico che i capitoli di passaggio stanno finendo e già dal prossimo cominceremo a smuovere le acque! :P
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Come sempre ringrazio preferiti, seguiti e da ricordare, che aumentano di giorno in giorno! Ringrazio anche tutte quelle che lasciano un commentino, sempre tanto apprezzato! :)
Come sempre sapete che potete trovarmi in Fb sul profilo di EFP, oppure sul gruppo dove metto spoiler e altre notizie. Credo di inserire in settimana la foto del nuovo personaggio di questa storia.
 
Un ringraziamento particolare a Serena, che mi ha fatto un meraviglioso video-trailer di Redemption, lo trovate QUI.
Se qualcuna di voi riesce a fare queste bellissime cose e vuole provare a fare qualcosina, fatelo pure, io le amo queste cose! L’unica cosa che vi chiedo è di mettere l’autore e il titolo della storia (magari con il link). Per tutto il resto... Sentitevi pure libere di farlo.
Vorrei potervi fare un regalo, ma mi sa che l’unica cosa che posso fare è dare uno spoiler (bomba) a chi decide di cimentarsi in queste cose.
 
Ci vediamo la prossima settimana!
Un bacione!

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Capitolo 5
*** It's a thunder thing ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.








Gemetti infastidito quando qualcosa mi colpì il fianco.
Non aprii nemmeno gli occhi, mi sistemai meglio le coperte per continuare a dormire. Inutile, visto che quel qualcosa mi colpì di nuovo nello stesso punto.
Sbuffai aprendo lentamente le palpebre per capire cosa ci fosse, nel mio letto, che mi disturbava.
Compresi subito che però, la camera non era la mia. Ero in camera di Lee e quello che mi aveva colpito per ben due volte era il suo ginocchio.
Riuscii a evitare una terza ginocchiata solo spostandomi in tempo.
Non sapevo cosa stesse sognando, ma sembrava arrabbiata.
«Stronza» bisbigliò e tirò un pugno nel vuoto, che però arrivò sul mio fianco, all’altezza delle costole.
Singhiozzai portando subito una mano a massaggiarmi; l’unico modo per salvarmi era scendere da quel letto.
«Ti faccio vedere io» sibilò stringendo le coperte tra le mani.
«Oddio» sussurrai spaventato, alzandomi in piedi.
Che diamine stava sognando?
Riuscii a scansarmi appena prima che Lee sferrasse un calcio proprio là, dove qualche secondo prima ero disteso io.
Ce l’aveva con qualcuno, questo era certo; non riuscivo però a capire con chi fosse tanto arrabbiata.
Fortunatamente era già mattina, così, dopo essermi chiuso la porta della camera di Lee alle spalle, andai a farmi una doccia.
Sarebbe stata una lunga giornata di lavoro, in più, nel tardo pomeriggio avrei dovuto incontrare Nick e Steph per programmare i vari impegni dei mesi successivi.
Era quasi la metà di maggio, avevo previsto la mia partecipazione agli Mtv Movie Awards e probabilmente a qualche anteprima di film.
Niente di troppo impegnativo, in teoria.
Quando, dopo essermi preparato, scesi le scale per andare in cucina, mi bloccai all’improvviso, sentendo odore di caffè.
Lee si era svegliata e aveva preparato la colazione?
Impossibile.
Aveva bisogno di mezz’ora, come minimo, per mettere un piede fuori dal letto.
Avanzai cauto verso la cucina, ma, quando sentii una voce canticchiare, mi ricordai.
«Tom» esordii entrando e spaventandolo. Dovevo avergli fatto proprio paura perché, sorpreso di vedermi, rovesciò il caffè sulla sua maglia.
«Cazzo» sbottò appoggiando la tazza sul ripiano e correndo a strofinare la maglia con una salvietta bagnata.
Ridacchiai sedendomi su una sedia e cominciando a bere il suo caffè.
«Ah grazie!» sibilò sarcastico quando, dopo aver bagnato completamente la maglia, si accorse che stavo bevendo dalla sua tazza. «A dire la verità quel caffè era per me, visto che tra meno di un’ora devo partire per ritornare a casa». Si servì di nuovo e poi si venne a sedere davanti a me.
«Parti già? Ma ti sei fermato appena due giorni» constatai triste, giocherellando con la tazza mezza vuota.
«Mi hanno chiamato per dei reshoot, non lo sapevo nemmeno io». Fece spallucce arruffandosi i capelli.
«Mi dispiace, sei rimasto poco». Mi alzai per prendere qualcosa da sgranocchiare da un ripiano, ma con mia grande sorpresa mi accorsi che era quasi vuoto.
Dov’erano i biscotti che piacevano tanto a Lee? Dove le sue merendine preferite?
E le fette di pane che mangiavamo assieme?
«Che c’è?» borbottò con la bocca mezza piena Tom. Stava mangiando dei biscotti che ero sicuro fossero scaduti almeno due mesi prima.
«Hai controllato la data di scadenza di quei cosi?». Indicai i biscotti davanti a lui e subito smise di masticare.
Prese il pacco e lentamente lo voltò per guardare la data.
Corse sul lavandino a sputare quelli che aveva in bocca e si risciacquò abbondantemente con l’acqua.
«Sei uno stupido? Volevi intossicarmi? Sono scaduti a marzo. Marzo, Rob. Siamo il quindici di maggio». Indicò prima i biscotti sparsi sul tavolo e dopo il calendario appeso alla parete.
«Lo so. Non li mangia mai nessuno quelli. Non so nemmeno perché li compriamo». Mi sedetti, arrendendomi all’idea che non ci fosse nulla di commestibile in quella casa.
Meglio fumarsi una sigaretta.
«Li avevo comprati io l’ultima volta che sono rimasto qui per una settimana, quasi un anno fa. Ma non la pulite mai questa casa?» brontolò aprendo ogni singolo mobiletto e controllando la data di scadenza di tutte le confezioni.
«Sì che la puliamo, non viviamo mica in un porcile, per chi ci hai preso?» sbuffai stizzito, risciacquando la tazza che avevo usato. «Evidentemente visto che non piacciono a nessuno non abbiamo controllato la data di scadenza e ce li siamo dimenticati» mi giustificai.
«Mio Dio, per fortuna che me ne vado». Dopo aver concluso la sua ispezione si sedette di nuovo per bere qualche sorso di caffè.
«A questo proposito, lascia pulito il divano per favore, fai la lavatrice con quello che hai sporcato e spolvera tutti i mobili della cucina». Cercai di rimanere serio mentre la faccia di Tom si faceva sempre più incredula.
«Stai scherzando, vero?» chiese titubante, con la tazza a mezz’aria.
«Sì, Tom» ridacchiai dopo avergli dato una pacca sulla spalla. «Uff, tra cinque minuti devo partire» borbottai guardando l’orologio.
«Ah sì, devo chiederti una cosa. Questa notte…» cominciò per poi fermarsi imbarazzato.
«Cosa? Se è così che Lee si sveglia quasi tutte le notti? La risposta è sì. Se ho fatto qualcosa di sconveniente? La risposta è no». Ero quasi sicuro di aver risposto alla sua domanda.
«Sono così prevedibile?» mormorò, seguendomi mentre prendevo il telefono e le chiavi della macchina per andare a lavoro.
«Sì» scherzai, aprendo la porta.
«Stammi bene Rob. E torna a casa qualche volta. Da quando vivi con Aileen non torni quasi più a Londra».
Aveva ragione.
Da un paio d’anni ero ritornato a Londra solo per le vacanze di Natale. Brevi visite.
Il motivo era uno solo: avevo paura di sentire che cosa la mia famiglia pensasse di Lee.
Non avevano detto nulla quando avevo spiegato loro tutta la storia, ma ero sicuro che Liz sarebbe stata in grado di corrompere Lee affinché ci trasferissimo in quella che consideravo la mia vera casa.
«Lo so… appena posso ci facciamo un salto». Cercai di rimanere sul vago, per non fare promesse che magari non sarei riuscito a mantenere.
«Dio… senti come parli» bisbigliò sconsolato, mentre aprivo la porta di casa.
«Ah sì, volevo dirti che se mi chiedono di partecipare ai Movie, ci porto Lee quest’anno. Non c’è mai stata, e voglio farle conoscere il cast». Lee aveva conosciuto Kell e Jack, Ash, Kris e Nikki, ma volevo che tutti gli attori con cui avevo lavorato la conoscessero.
Si sarebbe divertita a prenderli in giro, la immaginavo già, mentre criticava qualcuno per una pettinatura strana o qualche ragazza per un vestito troppo brutto.
«Naturale». Sembrava quasi che mi stesse prendendo in giro. «Sono vere le voci che ci saranno tutti quelli che hanno lavorato alla saga se vincerete il Best Movie anche quest’anno?» chiese rimanendo appoggiato allo stipite della porta.
«Credo di sì, ma oggi pomeriggio mi informo meglio. A proposito, puoi dire a Lee che arriverò verso l’ora di cena? E quando si sveglia, ricordati di dirle che non c’è più nulla da mangiare. Ah sì, dille anche che se vuole può prendere una pizza per questa sera, e dille che…». Tom non mi lasciò nemmeno finire.
«Non sono il tuo segretario, Rob! Che diamine, la vedi questa sera! Vai al lavoro per favore». Mi spintonò verso il cancello mentre cercavo di girarmi per dirgli una cosa importante.
«Aspetta, puoi dire a Lee che la saluto?». Era importante.
«Vattene, vecchio barbagianni rammollito dall’amore» ridacchiò prima di chiudere il cancello di casa alle mie spalle.
«Eh?» sussurrai davanti al cancello chiuso, cercando di capire perché mi avesse chiamato barbagianni rammollito.
Dall’amore oltretutto!
Feci un salto da Starbucks per prendere la colazione prima di arrivare al set; poi, dopo esser stato truccato e pettinato, cominciai a prepararmi per girare le varie scene.
 
Stavo tornando a casa dopo quell’incontro con Steph e Nick.
Non era durato molto, come avevo previsto.
Mi avevano velocemente riassunto gli impegni dei mesi successivi e mi ero rallegrato quando avevano confermato quelle che fino a poche ore prima erano solo voci di corridoio: ai Movie ci sarebbe stato il cast al completo di tutta la saga!
Anche gli attori che avevano lavorato a un solo film come Bryce Dallas o Rachelle.
Tutti, saremmo stati al gran completo per una megafesta solo per noi dopo lo spettacolo.
Dovevo assolutamente dirlo a Lee, ne sarebbe stata entusiasta!
Mi chiedeva sempre di poter conoscere gli attori che lavoravano con me, forse perché parlavo sempre bene di loro quando avevo finito un film.
Entrai in casa e trovai Lee in cucina che sistemava la spesa.
«Ciao Lee, sei andata a fare la spesa?». Le sfiorai i capelli con un veloce bacio e riuscii a schivare una sua gomitata.
«Non fare tanto il ruffiano. Sei tu che hai detto a Tom che dovevo fare la spesa» borbottò continuando a sistemare le scatolette che stava tirando fuori dalle buste del supermercato.
«No, ehi! Io gli ho detto di dirti che non c’era nulla da mangiare» precisai, sedendomi su uno sgabello.
«Che, tradotto, vuol dire: vai a fare la spesa. E che cosa fai lì? Aiutami!» strillò lanciandomi una confezione di merendine che, chissà come, riuscii a non far cadere.
«Sono appena tornato dal lavoro, un attimo» mi lamentai, cominciando però a riordinare.
Meglio non farla arrabbiare.
«Anche io sono appena tornata, e ho lavorato più di te. Tu rimani lì, in piedi davanti a una scatola nera e dici qualche frase. Io invece cammino avanti e indietro in un locale portando litri e litri di birra» piagnucolò ripiegando la busta della spesa vuota.
«Oh povera Lee, vieni qui» sussurrai ridendo e avvicinandomi a lei per abbracciarla.
«Non fare tanto il ruffiano, dai». Cercò di spingermi via ma non ci riuscì.
La strinsi in un abbraccio stritolatore mentre cominciava a ridacchiare.
«Sai che ti voglio bene?». Volevo addolcire un po’ la pillola, in fin dei conti Lee si meritava un po’ di moine ogni tanto.
«Andiamo, che cosa devi dirmi?» sospirò, spazientita.
«Non posso dirti che ti voglio bene?» chiesi fingendomi offeso.
«Sì, ma dimmi dove vuoi arrivare». Alzò lo sguardo per incontrare il mio, ma non smisi di abbracciarla.
«Mi accompagnerai in un posto» annunciai lasciando leggermente la presa intorno a lei.
«Dove? Non dobbiamo prendere l’aereo, vero?» domandò improvvisamente impaurita.
«Perché?». Da quando Lee non voleva salire in aereo?
«Non voglio prendere l’aereo» si lamentò sciogliendo l’abbraccio e allontanandosi di qualche passo da me. «Ho paura di volare» mi confessò, dandomi sempre le spalle.
«Lee, da quando hai paura di volare?» sussurrai avvicinandomi.
«Da sempre. Non sono mai andata in aereo e non ci andrò mai. Non voglio volare, io sto bene con i piedi per terra». Incrociò le braccia al petto girandosi per guardarmi.
«Perché non me l’hai mai detto?». Credevo che io e Lee non avessimo segreti.
Non mi aveva mai detto di avere paura di volare.
«Perché non ce n’è mai stato bisogno». Fece spallucce, continuando a tenere lo sguardo basso.
«Per questo vuoi sempre viaggiare in macchina e quando sono andato a New York una settimana l’anno scorso non sei voluta venire?». Cominciava a essere tutto un po’ più chiaro.
«Sì». Sollevò finalmente lo sguardo; era imbarazzata.
«Lee, prima di tutto non devi vergognarti, tante persone hanno paura di volare. E poi, se mai faremo un viaggio ci sarò io al tuo fianco, vedrai che andrà bene». Cercai di sorriderle per farle un po’ di coraggio.
«Anche se ci sei tu, se l’aereo precipita non puoi farci nulla, non credo che a scuola di recitazione ti abbiano insegnato a saltare da un aereo» borbottò acida, facendomi ridere.
«Lee, gli incidenti di macchina sono molto più frequenti» cercai di farla ragionare.
«Non vuol dire nulla. Quando una macchina si schianta è già a terra, e puoi uscirne illeso» specificò, prendendo il cartone di pizza che aveva nascosto dalla mia vista.
«Pizza?». Di nuovo tentai di abbracciarla, ma si scansò.
«Smettila di fare il ruffiano, dimmi che cosa volevi dire». Aprì il cartone prendendo uno spicchio di pizza e cominciò a mangiarlo.
In verità, quello che stavo cercando di capire, era quanto potessi osare con Lee prima di cacciarmi in situazioni imbarazzanti.
«Voglio portarti ai Movie, qui a Los Angeles. Saranno i primi di giugno». Mi fermai, attendendo una sua risposta.
Lasciò cadere il trancio di pizza che aveva tra le mani e spalancò la bocca, stupita.
«Cosa?» chiese, mentre un enorme sorriso si formava sulle sue labbra.
«Hai capito bene, verrai con me ai Movie di quest’anno. E non è finita, ci saranno anche tutti quelli che hanno lavorato con me durante la saga» precisai, vedendo gli occhi di Lee brillare di felicità.
«Davvero? Tutti tutti? E io potrò anche parlare con loro?» domandò con voce stridula, per l’emozione.
«Sì» annuii, mentre Lee si alzava in piedi e mi abbracciava baciandomi il viso.
«Grazie, grazie, grazie… grazie! Ti voglio bene! Sei il Rob più Rob che ci sia» disse tra un bacio e l’altro, rischiando seriamente di strozzarmi.
«Lee» farfugliai, facendo leva sulle sue braccia perché allentasse la presa sul mio collo.
«Scusa». Tornò subito a sedersi, riprendendo il trancio di pizza e cominciando a mangiucchiarlo con poca attenzione. «Cioè, anche che ne so, quello nero che ha fatto i primi due?». Era su di giri, e quando lei era felice, lo ero anche io.
«Sì, anche Edi» ridacchiai per il modo in cui Lee l’aveva chiamato.
«Proprio tutti? Che bello, non vedo l’ora. Sarò tra tutte le star che hanno lavorato con te». Mancava molto poco e si sarebbe messa a saltellare sulla sedia.
«Lee, calmati ora, dai» risi quando appoggiò la pizza sul piatto per prendere di corsa dell’acqua: si stava strozzando.
«Che bello, conoscerò delle star!». Batté le mani felice, quando ritornò a respirare normalmente.
«Ehi, sono più famoso di molti di quelli io» sbottai irritato da quello che aveva detto.
«Certo, ma tu sei Rob. Loro sono degli attori» precisò, continuando a masticare con la bocca piena.
«Anche io sono un attore, più bravo di loro». Non ero solito considerarmi superiore, ma mi dava fastidio che Lee non mi vedesse come un attore.
In fin dei conti avevo lavorato più di Boo Boo o di Kiowa ad esempio!
«Che esagerato!». Si pulì le mani, cominciando a riordinare la tavola.
«Non sono esagerato, è la verità» borbottai tra me e me, cercando di dare una motivazione alla mia scenata.
«Sei geloso perché incontrerò altre star, ammettilo» scherzò, cominciando a lavare le posate e i bicchieri che aveva sporcato.
«Pff, io geloso?». Guardai Lee che continuava a risciacquare con energia. «Io non sono geloso del fatto che incontrerai altri attori, mi dà fastidio il fatto che tu non mi veda come attore». Forse però, una piccola parte di me era gelosa di Lee.
Non che volessi tenerla tutta per me, certo, però l’idea che lei potesse anche solo minimamente frequentare qualcuno del mio ambiente non mi andava a genio.
Lee era bella, molti degli attori con cui avevo lavorato erano più grandi di lei, sarebbe stato facile per loro abbindolarla con qualche scusa e poi spezzarle il cuore.
Io non potevo permettere che succedesse.
Sussultai; il rumore di un tuono mi aveva distolto dai miei pensieri.
«Sarà…» borbottò Lee asciugandosi le mani dopo aver riposto tutto nello scolapiatti.
«Non è che sarà, è così» precisai acido, incrociando anche le braccia al petto.
«Ok, hai ragione. Ascolta, questa sera esco».
Iniziò a salire le scale davanti a me, ma io mi bloccai due gradini dopo. Causa: le sue parole.
«Fai il doppio turno oggi?» chiesi riprendendo a salire le scale.
Sì, doveva essere per quello.
Lee stava uscendo per tornare a lavoro.
«No, voglio uscire. Magari non torno nemmeno a dormire». Fece spallucce davanti allo specchio del bagno e cominciò a lavarsi i denti.
«Come?». La mia voce era salita di qualche tono per la sorpresa.
Perché Lee non sarebbe tornata a dormire a casa?
«Sì, insomma… voglio uscire. Tu ti sei cercato una ragazza e voglio trovarmi un ragazzo anche io… ho dei bisogni, sai…» bofonchiò tenendo lo spazzolino in mano.
«Lee, non puoi. Tu non hai un ragazzo e vuoi passare la notte con uno che non conosci?». Mi avvicinai al bordo della vasca, sedendomi su un angolo e passandomi la mano tra i capelli, frustrato.
«No, lo conoscerò stasera, se non mi piacerà torno a casa altrimenti no. Non ci vedo nulla di male». Finì di lavarsi i denti e dopo essersi asciugata il viso si girò verso di me.
«No. Non te lo permetto». Non potevo lasciare che si rovinasse così per colpa di una bugia.
«Cosa?» chiese sbalordita, appoggiandosi al lavandino.
«Tu fai così perché ieri hai scoperto che avevo una ragazza, che poi non era una ragazza perché non c’è stato nemmeno un bacio». Doveva essere per quello.
«Ma cosa stai dicendo? Io voglio uscire, è da tanto che voglio farlo, ma non avevo mai voglia. Questa sera mi va». Si diresse verso la cabina armadio per scegliere qualcosa da indossare e io mi sentii disperato.
«Lee, sta per piovere, non puoi uscire». Si sarebbe bagnata, avrebbe preso l’influenza.
Lee non poteva uscire.
«Mi porterò l’ombrello» borbottò prendendo un vestitino grigio e un paio di pantacollant neri.
Faceva sul serio.
«Lee, non te lo permetto. Non puoi uscire e andare con il primo che capita. Tu non sei quel tipo di ragazza». Alzai leggermente la voce perché volevo che mi ascoltasse.
«Rob, posso fare quello che voglio? Ho voglia di uscire, non posso?». Appoggiò il vestito sul comò di fianco a lei e si avvicinò di un passo.
«No». Secco e deciso.
«E perché dovrei ascoltarti?» chiese continuando a guardarmi con aria di sfida.
«Perché te lo dico io». Forse avevo scelto le parole sbagliate.
Lee inspirò profondamente e poi scoppiò. «Tu non sei mio padre, non devo di certo dare ascolto a te» strillò puntandomi l’indice contro il petto.
Quella risposta mi fece tornare indietro di quattro anni, al periodo in cui avevo cercato di salvarle la vita.
«Hai ragione, ma non voglio che ti rovini la vita in questo modo». Gridai; mi aveva punto nel vivo.
«Io non mi rovino la vita in nessun modo. Ho vent’anni, non posso uscire una sera?» sbraitò, continuando a rimanere davanti a me, immobile.
«Sì, ma non vedo il motivo per cui tu debba passare la notte con uno». Quello, quello mi infastidiva più di tutto.
Se voleva uscire era libera di farlo, non glielo avevo mai vietato, ma mi sembrava stupido passare la notte con qualcuno che nemmeno conosceva.
Non potevo permetterlo.
«Perché? Se voglio scopare con uno lo faccio, siamo intesi? Io non devo mica dirti tutto quello che voglio fare, no? Non lo fai neanche tu! Non abbiamo fatto nessun contratto. Se voglio esco, se voglio dormire con qualcuno lo faccio, se voglio baciarlo non devo chiamarti per chiederti se ti va bene. Tu non sei la mia mamma». Si sistemò nervosamente una ciocca di capelli dietro la schiena.
«Lee, prova a capire, non ti sto vietando di uscire, ti sto solo dicendo che secondo me non è giusto passare la notte con qualcuno». Abbassai il tono della voce sperando che anche Lee si calmasse.
Erano anni che non litigavamo in quel modo.
«Giusto o non giusto se io voglio lo faccio. Non hai pensato che forse ne ho bisogno?». Con un gesto pieno di rabbia si tolse la maglia e i pantaloni per indossare il vestito e i pantacollant che aveva scelto.
«Ancora? Lee non ti lascio uscire per andare in qualche sudicia camera di un motel con uno sconosciuto che potrebbe anche ferirti». Lei non si rendeva conto di quello che diceva.
Eravamo a Los Angeles, il centro di quel mondo malato.
«Gli chiederò se ha una casa libera allora» sibilò ironica, prima di camminare verso il bagno per truccarsi.
«Lee, sono serio e non lo ripeto più, se esci da quella porta mi arrabbio davvero, e posso assicurarti che tu non mi hai mai visto arrabbiato». Era difficile mantenere un tono di voce basso quando tutta la mia rabbia trovava sfogo solo nella voce.
«Bene, perfetto. Mi rinchiuderò in camera mia come Anna Frank. Ricordati di portarmi da mangiare, se non vuoi anche sbarazzarti di me» strillò sbattendo la porta della camera prima di chiuderla a chiave.
«Anna Frank si è nascosta per la guerra» urlai davanti alla porta chiusa. «E quando fai così sei proprio una bambina». Tirai un calcio al muro e subito mi sentii un po’ meglio; almeno fino a quando non sentii il dolore al piede.
«Non sono una bambina, smettila!». Alzò il volume dello stereo al massimo per non sentire la mia voce.
Tipico. Faceva sempre così quando non voleva parlare.
Scesi le scale sbattendo i piedi per la rabbia e mi distesi sul divano accendendo la Tv; non avevo nemmeno voglia di guardarla, non era proprio la serata giusta.
Ero talmente arrabbiato e stanco che appena sentii il volume dello stereo di Lee abbassarsi, salii le scale e mi chiusi in camera per dormire.
Lasciai aperta la finestra perché circolasse un po’ d’aria.
Dopo un po’ mi accorsi che aveva cominciato a piovere. Non mi ero nemmeno reso conto che era andata via la corrente a causa del temporale troppo vicino.
Mi alzai per guardare il giardino fuori ma, quando il vento cambiò di colpo e alcune gocce di pioggia mi colpirono il viso, decisi di tornare a letto.
Lasciai la finestra aperta nonostante la pioggia.
Sentivo i tuoni aumentare di intensità e quello era il momento più bello.
Il temporale che si avvicinava, i lampi che illuminavano la camera a giorno per qualche secondo e poi quel fragore che faceva tremare il pavimento.
Fin da piccolo avevo trovato nei temporali qualcosa di rilassante. Amavo i temporali. Lasciavo la mia mente libera di correre, rilassato dal suono della pioggia che si infrangeva contro gli scuri di solito quasi totalmente chiusi.
Ma quella sera no, quella sera volevo veramente sentire il temporale.
Volevo pensare, tra il rumore dei tuoni e delle gocce di pioggia che cadevano.
Mi ero comportato nel modo sbagliato con Lee. Lei in fin dei conti non era nulla per me, solo una ragazza che avevo salvato dalla morte anni prima; solo una ragazza che condivideva una casa con me.
Le volevo bene, certo, ed era anche normale preoccuparsi per lei, ma forse avevo esagerato e mi ero dimostrato troppo protettivo nei suoi confronti.
Aveva quasi ventun’anni, era normale e naturale per lei cercare un fidanzato, una relazione.
Quello che mi aveva fatto imbestialire era stata la sua giustificazione: «Ho bisogno di una scopata, Rob. È da troppo tempo che sono a secco».
Perché era quello che in realtà mi aveva detto.
Come se fosse stata l'unica in quella casa, dannazione!
Io però non andavo in giro a chiedere a delle sconosciute di chiudersi una notte in una camera di motel.
Ero sicuro che Lee l’avesse fatto solo perché io le avevo tenuto nascosta la mia ragazza, inesistente tra l’altro.
Avevamo litigato per una bugia.
Sbuffai frustrato tirando un pugno al cuscino per renderlo più confortevole e sussultai per un nuovo tuono.
Ormai il temporale era arrivato.
Un leggero scalpiccio lungo il corridoio mi fece sorridere.
Aileen e la sua paura dei tuoni; delle volte mi sembrava ancora una bambina, aveva quei modi di fare che riuscivano a farmi notare quanto fosse cresciuta velocemente e non fosse riuscita a vivere la sua infanzia nel modo giusto.
«Rob» sussurrò aprendo piano la porta della mia camera.
«Mmhm» mugugnai alzando il capo e distendendomi supino, attorcigliando le gambe tra le lenzuola.
«Posso... potrei rimanere qui con te? C'è il temporale e ho paura» disse entrando lentamente in camera e chiudendosi la porta alle spalle.
«Leebert non è d'aiuto stanotte?». Con un gesto del capo indicai l'orso di peluche che le avevo regalato per lo scorso compleanno.
Dormiva ogni notte abbracciata a lui, anche quando rimanevo nel suo letto dopo gli incubi, lo teneva perché diceva di non avere paura con quell’orso al suo fianco.
«No» sussurrò stringendolo di più tra le braccia e sussultando quando un lampo illuminò la stanza.
Stava tremando.
«Andiamo, dai». Battei la mano sul materasso per farle capire che poteva dormire con me.
Era una situazione strana, di solito ero io ad andare nel suo letto, per consolarla e calmarla dopo che mi aveva svegliato con le sue urla.
«Grazie» bisbigliò distendendosi al mio fianco e sistemando le coperte affinché non prendessimo freddo.
Dovevo smorzare un po’ la tensione che si sentiva ancora dopo il nostro litigio.
«Leebert è bandito dal mio letto» scherzai prendendo l'orso per un orecchio per strapparglielo dalle mani.
«Rob, per favore» strillò stringendolo con più forza. «Lui è mio amico».
Ridacchiai lasciando la presa sull'orso e mi voltai a guardare Aileen distesa al mio fianco.
«Mi dispiace per prima, non ho il diritto di comportarmi in questo modo, lo so» confessai scostandole una ciocca di capelli dalla fronte.
«No, hai ragione. Avrei dovuto dirti che volevo uscire con un ragazzo. Però abbiamo deciso che non possiamo portare nessuno a casa e...». Si schiarì la voce sistemandosi meglio sul cuscino.
«Sì, ho capito. Tutto sistemato allora?» azzardai con un mezzo sorriso.
«Tutto sistemato» concordò stampandomi un bacio sulla guancia, felice.
Un lampo, seguito immediatamente da un tuono spaventarono, spinse Aileen ad aggrapparsi al mio braccio, conficcandomi le unghie nel polso.
«Lee» strillai per il dolore.
«Scusa». Allentò leggermente la presa avvicinandosi al mio corpo.
«Devi stare tranquilla. Tra cinque minuti passerà». Le Cinsi le spalle con un braccio e sentii la sua guancia contro la mia spalla nuda.
«Odio i temporali» sussurrò avvicinandosi ancora di più e circondandomi il busto con un braccio.
«Sei come i bambini» ridacchiai stringendole un po’ di più la spalla.
Non mi rispose nemmeno, spaventata dal tuono che l'aveva fatta gridare.
«Lee, devi stare tranquilla. Siamo al sicuro qui. Non ci possono colpire fulmini o altro» cercai di tranquillizzarla con scarsi risultati, visto che il rombo successivo la spaventò tanto da farla saltare su di me. Mi circondò il bacino con le gambe e nascose il viso nell’incavo della mia spalla.
«Rob, ho paura» soffiò sulla mia guancia facendomi tremare, non di certo di paura o freddo.
«Lee» mugugnai cercando di tornare lucido, senza concentrarmi sul suo corpo caldo sopra al mio, sui nostri bacini troppo vicini, sul suo seno schiacciato contro al mio petto, sul suo respiro caldo contro il mio collo.
Strinse di più le gambe intrappolandomi e scivolò verso il mio viso, circondandomi il collo con le braccia e ansimando sulla mia guancia.
Improvvisamente qualcosa che da troppo tempo stavo tenendo assopito, si risvegliò.
Strinsi gli occhi cercando di concentrarmi per non fare figuracce, ma Aileen sembrava non rendersi conto di quello che aveva innescato.
Continuava a respirare pesantemente, sussultando a ogni minimo lampo o tuono, muovendo di tanto in tanto le gambe che mi stringevano sempre di più il bacino.
«Lee» cercai di dire con tutte le mie forze, per scostarla prima di perdere la ragione. «Cre-credo sia meglio che tu ti faccia da parte per qualche minuto». Deglutii a fatica e cercai di calmarla accarezzandole la schiena.
«Perché?» soffiò sul mio orecchio, ancora spaventata.
Come potevo dirlo senza imbarazzarmi?
La situazione lo aveva fatto anche troppo.
«Perché ho un problema... tecnico». Chiusi gli occhi aspettando una sua risata che non arrivò.
Rimase immobile per troppo tempo, tanto che cominciai a pensare che non avesse sentito la mia risposta.
Poi il suo corpo si tese e sussurrò un «Oh» prima di sedersi di fianco a me.
Libero dal peso, dal calore e dalla vicinanza del suo corpo, cercai di respirare profondamente perché la situazione potesse tornare normale.
«Scusami» borbottai in imbarazzo, mettendomi seduto e strofinandomi il viso con le mani.
«Non fa niente». Lee era seduta sul bordo del letto, aveva il mento appoggiato alle ginocchia e con le mani si abbracciava le gambe.
«Meglio se vado a bere un bicchiere d’acqua». Mi alzai goffamente, cercando di non toccare Lee con nessuna parte del corpo.
Anche la sua mano contro la mia sarebbe potuta essere fatale.
«D’accordo» mormorò prendendo Leebert e abbracciandolo quando un nuovo tuono fece tremare il vetro della finestra aperta.
«Torno subito». Scesi velocemente le scale correndo in cucina.
Acqua, mi serviva acqua.
Quella era stata la situazione più imbarazzante che mi fosse mai successa con Lee.
Almeno quando mi aveva svegliato dal sogno non se ne era accorta.
Dovevo assolutamente smetterla di pensare a quello che era successo pochi minuti prima in camera mia e anche a quel sogno, o la situazione sarebbe peggiorata.
Ritornai in camera a passo lento, prendendomi tutto il tempo necessario per fare le scale.
Quando chiusi la porta alle mie spalle lanciai un’occhiata a Lee:era ancora sveglia.
«Rob?» chiese in un sussurro mentre mi sistemavo di fianco a lei, attento a non sfiorarla.
«Sì?». Alzai leggermente la testa dal cuscino per guardarla negli occhi.
«Sono stata io a…». Non terminò la frase, rendendomi ancora più nervoso.
Non potevo dirle la verità, anche perché avevo promesso a me stesso che l’avrei dimenticata sotto quel punto di vista.
«Io, be’… ecco… diciamo che è da tanto che non… e tu eri… e insomma…» bofonchiai senza dare una spiegazione vera e propria.
«Ho un’idea». Si alzò a sedere di scatto. «Facciamolo. Solo stanotte, una volta sola per scaricarci. Ci conosciamo e non devo andare in nessun motel». Si tolse la maglia rimanendo in reggiseno.
Reggiseno blu, con farfalline rosa scuro e un fiocchetto d'oro al centro, nell'incavo tra i seni.
«A-a-aspetta un attimo, ca-ca-calma» balbettai alzandomi a sedere a mia volta, sicuro di aver frainteso le parole e i gesti di Lee.
«Che cosa devo aspettare?» chiese confusa, con le mani dietro la schiena, pronte a slacciare il gancetto del reggiseno.
«Non sono pronto, Aileen» sussurrai, spostandomi sul letto. Non era questione di essere pronti o no, semplicemente non potevo permettere che succedesse.
Non era giusto per entrambi e soprattutto ci saremmo poi vergognati alla luce del sole.
Probabilmente non avrei avuto nemmeno il coraggio di guardala allo stesso modo.
«A me sembra proprio che tu sia pronto» sghignazzò, fissando i miei pantaloni della tuta ancora troppo tirati.
«No, non in quel senso» bofonchiai vergognoso, avvicinando le ginocchia al petto.
«E in che senso, allora?». Abbandonò l’idea di slacciarsi il reggiseno e ritornò a poggiare le mani sul materasso.
Sorrisi involontariamente davanti alla sua confusione. Aileen non riusciva a capire che poi ci sarebbe stata tensione tra di noi.
Per questo non volevo vederla come donna.
Le cose sarebbero potute andare male e il nostro rapporto si sarebbe incrinato.
Succedeva sempre così quando due amici all’improvviso decidevano di diventare qualcosa di più e mettere in gioco i sentimenti.
Aileen però non la pensava allo stesso modo; perché per lei sarebbe stata una cosa puramente fisica, mentre per me, per me sarebbe stata... che cosa?
«Lee, ci conosciamo, viviamo assieme, non pensi che poi potremmo imbarazzarci? Domani, il giorno dopo...» cercai di spiegarle.
Non volevo spaventarla con storie su sentimenti o altro, anche perché da parte mia non ce n’erano.
«Perché mai dovrebbe imbarazzarmi il fatto che mi dai una botta?» chiese allibita.
Quando sentii l’affermazione di Aileen rischiai di soffocare con la mia stessa saliva.
«Aileen, non si tratta di... una botta, come dici tu. Si tratta di qualcosa di diverso, non riesco nemmeno a spiegartelo» sussurrai sconfitto, passandomi una mano tra i capelli.
«Ho capito. Vado in camera mia e mi arrangio con il fai da te». Si alzò dal letto prendendo la sua maglia tra le mani.
«Aileen!» urlai rosso per l'imbarazzo e accaldato dall'immagine che si era formata nella mia mente e che stavo cercando di scacciare.
«Che c’è? È una cosa normale Robert! Pensi che non sappia quello che gli uomini fanno quando si fanno la doccia? Non sono mica nata ieri». Era ferma in mezzo alla stanza e stava parlando tranquilla, come se fosse stato un argomento di discussione quotidiana.
«Oddio» sussurrai, tirandomi una ciocca di capelli. «Lee, non dire queste cose…». Era imbarazzante parlare con lei di certi argomenti, soprattutto perché Lee non aveva di certo il senso del pudore.
«Non devo dire la verità? Ammetti che in doccia tu non l’hai mai fatto» mi sfidò, continuando a sfoggiare quel sorriso sardonico.
«Lee!» la ammonii, evitando di darle una risposta.
«Dai, dimmelo» ribatté, puntando le mani sui fianchi.
«Smettila per favore, non si parla di queste cose» sussurrai a disagio. Probabilmente ero anche arrossito.
«Che bello che sei quando arrossisci perché parliamo di sesso. Mi fai sempre tenerezza, sembri un bambino» ridacchiò avvicinandosi di nuovo al letto per accarezzarmi una guancia.
«Hai finito?» chiesi irritato dal suo continuo prendermi in giro.
«Può darsi… ma vorrei sapere se facciamo qualcosa o se devo andare in camera mia».
“Ci risiamo” pensai appoggiando la testa sulla testiera del letto.
«Credo sia meglio che tu stia qui» puntualizzai, sapendo che se Lee fosse andata in camera sua di certo sarei morto solo immaginando quello che stava facendo. «Ma non facciamo nulla». La ammonii con l’indice.
«Perché? Mi ero illusa e adesso sono carica» brontolò incrociando le braccia al petto.
«Intanto rimettiti la maglia, e poi… non sei di certo tu quella carica» dissi senza pensarci, prima che Lee scoppiasse a ridere di fianco a me e cadesse dal letto.
«Oddio. Non credevo avresti mai detto una cosa del genere» disse cercando di riprendere fiato tra un attacco di risa e un altro, mentre si infilava la maglia.
«Non volevo dirlo, mi è scappato» mugugnai continuando a guardare Lee che si asciugava le lacrime.
«Sei divertente quando fai così, più di quando brontoli come se fossi un padre» ammise sedendosi di nuovo sul bordo del letto e alzando il lenzuolo che mi copriva fino all’ombelico. «Vedo che siamo ritornati a uno stato di calma, quindi posso avvicinarmi ancora» scherzò. Strattonai il lenzuolo per coprirmi di nuovo.
«Ascolta, è stato un incidente, ok? Capita a tutti». Il fatto che ci scherzasse sopra mi faceva arrabbiare di più della figuraccia in sé.
«Certo, non ti sto prendendo in giro! Sicuramente stanotte mi sognerò questa cosa, e stai tranquillo che non ti lascio così». Mi indicò le gambe, coperte dal lenzuolo e dalla tuta.
«Lee, non voglio sentire niente. Dormiamo e basta». Meno parlava, meglio era.
Rischiavo di perdere la testa e non era proprio il caso.
«Se proprio insisti» sospirò distendendosi di fianco a me. «Posso appoggiarmi o dici che l’abitante della Terra del Fuoco si risveglia?» sogghignò rimanendo a qualche centimetro di distanza dal mio corpo.
«O la smetti oppure vai in camera tua, ti ricordo che siamo senza luce e fuori c’è il temporale» la ammonii; ed ero serio.
«Va bene, la smetto. Non dico più nulla». La risatina che aveva cercato di trattenere malamente non era di certo di buon auspicio, ma dovevo cercare di non pensarci.
Quando Lee appoggiò il viso sul cuscino, di fianco a me, le fui grato di aver messo quella distanza tra noi.
Di solito si appoggiava al mio petto.
«Notte Rob» sussurrò cercando la mia mano con la sua.
«Buonanotte Lee». Intrecciai le nostre dita prima di chiudere gli occhi a causa del brivido che quel contatto così naturale mi aveva provocato.
«Spero di non fare troppo rumore con te nel sogno, altrimenti svegliami» farfugliò prima che le pizzicassi la mano per ammonirla.
«Zitta e dormi, o ti brucio Leebert». Dovevo passare alle minacce pesanti.
Non disse altro, si sistemò meglio per trovare la posizione più comoda e si addormentò.

 
 
 
 
Salve ragazze!
Piano con i pomodori, eh! :)
Dai, lo sapete che sono sadica! E posso garantire che questo è solo l’inizio! Rob patirà le pene dell’inferno! :P
Per quelli che hanno già visto il volto del personaggio che ho messo come spoiler in FB dovrebbe essere facile capire che cosa succederà, no? :P
Direi che non ho altro da dire, se non come al solito ringraziare preferiti, seguiti, da ricordare e chi mi mette tra gli autori preferiti! :)
Ci vediamo lunedì prossimo, per scoprire che cosa succederà ora che la situazione comincia a farsi interessante! :)
Ricordo che da venerdì ho ricominciato ad aggiornare l’originale The revenge of the nerd.
Il gruppo per gli spoiler è Nerds’ corner e il mio account Fb per EFP è Roberta RobTwili. Aggiungetemi pure, come al solito!
Un bacione! :)

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Capitolo 6
*** MTV Movie Awards ***


by

Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.








Mi svegliai con la schiena a pezzi e il segno della trama del cuscino sulla guancia: era il prezzo da pagare per aver dormito sul divano.
Ma come avrei potuto dormire di fianco a Lee mentre si strusciava contro di me e gemeva sommessamente chiamando il mio nome?
Ok, potevo resistere fino a un certo punto, ma la carne restava debole.
Così, quando mi ero reso conto che stava facendo qualche strano sogno su noi due, avevo preferito alzarmi dal letto e mettere una distanza ragionevole tra noi.
Un pavimento e quindici scalini mi sembravano abbastanza.
«Rob, non sai che sogno ho fatto stanotte» strillò Lee scendendo in cucina mentre stavo facendo colazione.
«Non lo so e non voglio saperlo» bofonchiai con la bocca piena di muffin.
«No, devi saperlo, c’eri anche tu» ridacchiò sedendosi davanti a me; prese la mia tazza di caffè e cominciò a bere.
«Davvero, Lee. Non voglio saperlo». Qualcosa mi diceva che sarebbe stata in grado di raccontarmi per filo e per segno tutto il suo sogno, e non era proprio il caso se volevo evitare situazioni imbarazzanti.
«Be’, insomma… mi deve essere rimasto in mente quello che è successo ieri sera nel tuo letto, perché questa notte ti sei scatenato, sai?» sogghignò restituendomi la tazza. «Insomma, ci abbiamo dato dentro di brutto. Prima a letto, poi siamo andati in bagno, quando abbiamo finito di farlo in doccia, avevi fame e siamo scesi. L’abbiamo fatto anche qui sul tavolo, ti rendi conto? Era un sogno però, perché eri davvero insaziabile». Cominciò a masticare una brioche, felice.
“Non immaginare nulla Rob, non immaginare. Concentrati su qualcos’altro”.
C’era però una cosa che…
«Perché dubiti del fatto che io non possa avere la stessa energia che avevo nel tuo sogno?». Mi sentii infastidito da quella frecciatina.
In situazione normali non avrei avuto problemi, e con Lee dubitavo perfino che sarei riuscito a fermarmi per riprendermi e mangiare.
«Perché insomma, Rob… hai anche una certa età, non sei più un giovanotto e sappiamo tutti che più si va avanti, più il tempo tra una sparata e l’altra cresce» disse senza ridere, appoggiando anche il muffin sul tavolo.
«Lee, ma credi che abbia cinquant’anni? Ne ho ventisette appena compiuti, diamine» borbottai arrabbiato per il continuo riferimento alla mia età.
«Appunto, ventisette, non diciassette. Rob, stai diventando vecchio, non devi arrabbiarti. È il ciclo della vita». Mi accarezzò la mano per consolarmi.
«Meglio che vada a prepararmi per andare a lavorare» sbottai alzandomi e riponendo la tazza vuota dentro al lavello.
«Rob, ti sei offeso?» chiese Lee seguendomi sulle scale.
«Sì». Non avevo nemmeno voglia di mentire.
Magari avrebbe imparato a tenere a freno la sua linguaccia, una volta ogni tanto.
«Ma perché ti ho detto che sei vecchio o perché metto in dubbio le tue capacità sessuali?». Entrò dentro alla cabina armadio con me, senza pensare che potessi aver bisogno della mia privacy e mi vergognassi a cambiarmi di fronte a lei.
«Vorrei un po’ di privacy, per favore» sibilai guardandola, stringendo i jeans che dovevo indossare tra le mani.
«Fai pure, non mi scandalizzo». Non mi voltò nemmeno le spalle, rimase a fissarmi con le mani appoggiate ai fianchi, in attesa di una risposta.
«Lee, potresti uscire? Dovrei cambiarmi» ripetei, sventolando i jeans.
Magari così sarebbe stato più chiaro.
«Ah, ti vergogni? È questo che volevi dirmi?» sogghignò voltandomi le spalle. «Comunque Rob, dico davvero, non devi prendertela. Sei ancora attraente. Ad esempio, quei boxer grigi ti stanno bene, nonostante tu abbia quel po’ di pancetta». Indicò proprio la parete di fronte a noi.
Quando guardai in quella direzione, mi sfuggì un urlo imbarazzato.
«Lee! Quando ti ho detto di non guardarmi, volevo dire che non dovevi guardarmi nemmeno dallo specchio». Finii di infilarmi velocemente i jeans e arrabbiato indossai anche la maglia.
«Ma perché ti preoccupi tanto? Ti ho già visto in boxer» ammise ritornando a guardarmi, mentre mi infilavo un paio di scarpe.
«Ascolta, io vado. Ci vediamo questa sera» borbottai cominciando a scendere le scale.
«Va bene. Io ho deciso che oggi pomeriggio vado a fare shopping. Voglio comprarmi un vestito per i Movie» disse porgendomi le chiavi di casa.
«Dopo me lo farai vedere allora». Le baciai velocemente la fronte e uscii mentre mi gridava alle spalle il suo saluto.
Dovevo uscire di casa il prima possibile.
Era una cosa stupida quella di non farmi vedere in boxer da Lee, però preferivo mantenere una certa distanza tra di noi.
Niente più situazioni imbarazzanti, niente visioni di Lee in intimo o battutine sulle mie capacità.
Niente.
 
Quando quel pomeriggio ritornai a casa, sentii la musica dal giardino.
«Lee» urlai chiudendomi la porta d’ingresso alle spalle. «Lee, dove sei?». Cominciai a salire le scale e riconobbi la sua voce canticchiare sopra la musica, al piano superiore.
Cantava parole a caso, cambiando il significato della canzone.
«Guarda che è cure, non pure Lee» ghignai rimanendo appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate.
«Oddio! Sei scemo?». Spense la radio, portandosi una mano all’altezza del cuore e respirando lentamente. «Se vuoi farmi morire dimmelo prima».
«Ti ho chiamato quando sono entrato in casa, ma tu non mi hai sentito». Indicai lo stereo dietro di lei.
«Credevo tornassi più tardi» si giustificò sedendosi sul suo letto e incrociando le gambe.
«Sì, abbiamo finito prima». Feci spallucce sistemandomi accanto a lei e prendendo Leebert tra le mani.
«Io ho comprato il vestito per i Movie. A dire la verità ne ho comprati due. Vuoi vederne uno?» chiese con un sorriso bellissimo.
Le si erano illuminati gli occhi.
«Certo». Non potevo deluderla, non quando Lee era così felice.
«Ok, allora vado a prenderlo. Però non ti faccio vedere quello dei Movie. Quello è una sorpresa. Ti faccio vedere l’altro, che mi piace proprio tanto» urlò dalla cabina armadio, proprio quando sentii il rumore di una zip.
«Perché non posso vederli tutti e due?» chiesi togliendomi le scarpe e distendendo le gambe sul suo letto.
«Perché non voglio che tu veda l’altro. Sei pronto Rob?» strillò dietro la porta.
«Avanti, vediamo questo vestito» borbottai sbadigliando.
Chissà che vestito si era comprata.
Di solito indossava jeans e maglia; l’unica volta che l’avevo vista con qualcosa di simile a un vestito era alla premiere di Breaking Dawn 2.
«Ok, ma non prendermi in giro» sussurrò entrando nella stanza.
Strabuzzai improvvisamente gli occhi, deglutendo a vuoto più volte.
«Che cos’è quello?» strillai guardando il pezzo di stoffa che stava indossando.
«Non ti piace» mormorò abbassando leggermente lo sguardo.
«È… è un po’ troppo scollato, no?». Cercai di riportare il tono della voce normale. Tentai anche di non guardare quello scollo davanti che arrivava più o meno all’ombelico.
«Sì, è scollato ma non si vede niente, vedi questo pezzo di tessuto trasparente? Tiene tutto fermo». Indicò il velo trasparente tra i seni e io notai un’altra cosa.
«Ma sei senza reggiseno» gemetti portandomi una mano tra i capelli.
Possibile?
Sembrava l’avesse fatto volutamente.
«Sì Robert. Sarebbe proprio brutto vedere il reggiseno. E poi, guarda…», cominciò a saltellare e a muoversi, «non escono dal vestito. La fortuna di avere tette piccole» ridacchiò notando che il vestito non le aveva lasciato scoprire il seno.
«Non lo so…» borbottai guardando le sue gambe nude: il vestito le arrivava a metà coscia.
«Non ti piace?» piagnucolò triste, accarezzando il motivo di brillanti neri sulla pancia.
«No, Lee, è bellissimo». Mi alzai dal letto per avvicinarmi a lei, che era rimasta in piedi vicino alla porta. «Forse è un po’ troppo scollato davanti… e anche dietro» farfugliai, quando notai la sua schiena nuda. «E poi, seriamente, non saprei quando puoi indossarlo» ammisi, sperando di non aver detto nulla di male.
«Posso indossarlo quando voglio, non per andare a lavorare, certo. Ma se dovessi avere un appuntamento galante, anche una cena in qualche ristorante di lusso, va bene». Il sorriso era sparito dal suo volto e mi sentivo tremendamente in colpa.
«Lee, dico davvero. Il vestito è bellissimo e ti sta bene…». Era la verità.
Aileen aveva un bellissimo fisico e anche con un sacco d’immondizia sarebbe stata elegante.
Aveva il complesso delle ‘piccole tette’ come le chiamava lei, però sinceramente io non lo consideravo un problema.
Il suo corpo era una perfetta armonia di curve.
«Perché, insomma… mi dispiacerebbe se non ti piacesse. Sei l’unica persona con cui posso indossarlo, e se fa schifo a te lo riporto indietro» sussurrò cominciando a togliersi le scarpe con il tacco che aveva indossato assieme al vestito.
Perché non riuscivo mai a dire niente di giusto?
«No, Lee! Non lo portare indietro, dai. Facciamo così, una sera usciamo io e te a cena, in un ristorante di lusso, così ti metti questo vestito. Che ne dici?» proposi prendendola per mano.
«Dici davvero?». Alzò improvvisamente lo sguardo e i suoi occhi ritornarono a illuminarsi.
«Certo, e offro io» scherzai quando Lee mi gettò le braccia al collo e cominciò a saltellare.
«Oh, grazie! Sei il Rob più Rob che io conosca». Baciò ripetutamente le mie guance non smettendo di saltellare.
«Lee, dai Lee» ridacchiai appoggiandole le mani sui fianchi perché la smettesse di saltellare e baciarmi le guance.
«Ok… vado a togliermi il vestito». Sciolse l’abbraccio e, dopo un ultimo bacio sulla mia guancia, uscì dalla camera per andare a cambiarsi.
«Lee, però magari andiamo dopo i Movie, che ne dici? Perché con il lavoro adesso sono un po’ stanco e l’ultima cosa che voglio fare è andare a mangiare in un ristorante» borbottai distendendomi sul suo letto e sbadigliando. Il profumo di Lee in quella stanza era quasi inebriante.
Era impossibile, eppure, ogni volta che entravo nella sua camera e mi distendevo su quel letto, mi sembrava che profumasse di caramella, profumava di Lee.
«Quando vuoi Rob» sussurrò Lee accarezzandomi una guancia. «Dormi un po’, dai». Sentii le sue labbra sulla mia tempia e cercai di mugugnare qualcosa per dirle che forse era meglio mangiare. Non ci riuscii: mi addormentai di fianco a Lee come un bambino.
 
Le due settimane seguenti volarono.
Fortunatamente non c’erano più state situazioni imbarazzanti con Lee e non avevamo nemmeno più litigato.
Lee era sempre più elettrizzata, e aveva cominciato a far agitare anche me.
La sera prima dei Movie, Lee non mi aveva lasciato dormire, era rimasta sveglia a parlare, parlare, parlare e parlare di tutti quelli che avrebbe visto il giorno dopo.
Per fortuna quella domenica non dovevo girare nessuna scena, così avevamo dormito fino al pomeriggio.
Avevo indossato una maglia e un paio di jeans, in fin dei conti ai Movie non mi ero mai presentato in giacca e cravatta.
Il problema era Lee; si era chiusa nel bagno al piano di sopra quasi tre ore prima e non era ancora uscita.
«Lee, ti vuoi muovere?» urlai dal divano, spegnendo la TV.
Non c’era nemmeno un film interessante.
«Cinque minuti e arrivo» strillò e io sentii un tonfo.
«Cinque minuti e arrivo l’hai detto anche un’ora fa. Non so che concezione di cinque minuti tu abbia» bofonchiai andando in cucina per bere un po’ d’acqua.
Udii un nuovo tonfo e Aileen urlò qualcosa di incomprensibile.
«Lee, se tra due minuti non sei scesa, vado senza di te» sbottai all’improvviso.
Dannazione, possibile che una donna per prepararsi ci mettesse tutto quel tempo?
Sentii la porta del bagno aprirsi e sospirai di sollievo.
«Rob, ho fatto. Però se sono tanto brutta me lo dici che mi cambio o raccolgo i capelli, ok?». Sentii il rumore dei passi che si avvicinavano alle scale e improvvisamente mi resi conto di essere nervoso.
Che vestito indossava Lee? Come si era pettinata? Si era truccata? Non sapevo assolutamente nulla.
«Dai, veloce. Cominciano tra un’ora e mezza» borbottai rimanendo in piedi davanti alle scale.
«Ok» sospirò prima di cominciare a camminare.
Qualche scalino dopo, quando svoltò l’angolo, riuscii a vederla.
Ero sicuro che il mio cuore si fosse fermato nel petto.
«Allora?» sussurrò, facendo una giravolta davanti a me.
«Lee, sei…» bisbigliai non trovando le parole adatte a descriverla.
Bellissima? Stupenda? Fantastica?
Erano troppo poco.
«Lo sapevo che faceva schifo. Dovevo prendere l’altro» piagnucolò togliendosi le scarpe con rabbia e lanciandole contro le scale.
«No, Lee. Sei… perfetta» dissi con un po’ più di voce, cercando di riprendermi.
«Dici che va bene?» chiese sorridendo appena, come se le fosse tornata un po’ di speranza.
«Sei perfetta Lee. Bellissima». Sorrisi continuando a guardare quel vestito che le arrivava fino al ginocchio e le lasciava scoperta metà schiena.
Era un vestito bellissimo, che rivestiva il suo corpo donandole una bellezza quasi eterea.
«Dici che devo raccogliermi i capelli? Devo truccarmi di più? Devo indossare scarpe più alte?» cominciò a tempestarmi di domande, a cui davo poca importanza.
C’era qualcosa di divino davanti a me, che non mi permetteva di concentrarmi.
«Rimani così, va benissimo» dissi avvicinandomi a lei per abbracciarla.
I lunghi capelli lasciati sciolti creavano delle onde naturali che le incorniciavano il viso ornato da un velo di trucco. I suoi occhi meravigliosi risaltavano ancora di più.
«Ok, allora mi fido» ridacchiò felice, prima di indossare di nuovo i sandali. «Hai visto che scarpe? Non hai la minima idea di quanto siano scomode». Fece una buffa smorfia quando mosse un passo verso la porta.
«Devo portarti in braccio?» scherzai prendendo le chiavi della macchina per uscire.
«Magari questa sera, quando non riuscirò più a camminare». Mi fece una linguaccia prendendo la pochette e camminando verso la macchina.
«Contegno Robert» borbottai a me stesso, quando percorsi tutta la schiena di Lee soffermandomi un po’ troppo al lungo sul suo sedere. «Niente distrazioni. Ricordati che è Lee» mi ammonii chiudendo la porta di casa alle spalle.
Certo, sarebbe stato facile contenersi se non fosse stata così dannatamente bella!
«Rob, ti vuoi muovere? Ti sei lamentato perché ero in ritardo e adesso stai chiudendo la porta di casa come se fossi una tartaruga» sbraitò Lee, facendomi ridere.
«Arrivo». Camminai velocemente verso la macchina e, dopo aver sbattuto la testa entrando, sentii Lee ridere. «Che c’è?» sbottai mettendo in moto.
«Niente». Tossì per nascondere la risata mentre mi massaggiavo la fronte.
«Andiamo, siamo già in ritardo». Aspettai che non ci fossero macchine in arrivo e poi partii.
Lee accese l’autoradio e cominciò a canticchiare guardando fuori dal finestrino.
«Posso chiederti una cosa?» domandò all’improvviso, abbassando il volume della radio.
Annuii svoltando all’incrocio; eravamo quasi arrivati.
«Perché sei nervoso? Tanto sai già che vincerai tutto». Si sistemò meglio sul sedile per guardarmi.
«Non sono nervoso» grugnii passandomi una mano tra i capelli.
«Sì, invece» ridacchiò appoggiando la nuca sul finestrino.
«No, non sono nervoso» ribattei rallentando per capire dove fosse il parcheggio per gli attori.
«Sì. Ti passi la mano tra i capelli e sospiri. Quando sei nervoso o in imbarazzo fai sempre così». Si slacciò la cintura di sicurezza quando spensi il motore, dopo aver parcheggiato.
«Lee, so già quali premi vincerò, lo sai. E proprio per questo non sono nervoso» puntualizzai, passandomi di nuovo la mano tra i capelli.
«Mi piace perché non sai proprio mentire» ridacchiò dandomi un bacio sulla guancia e bloccandosi di scatto.
«Che c’è?» chiesi guardandola sospettoso, mentre continuava a guardarmi la guancia.
«Niente, solo un po’ di rossetto. Aspetta che ti pulisco» ghignò strofinando la guancia con il pollice.
«Mio Dio, Lee… non fare queste cose. I fotografi con quegli aggeggi infernali vedranno lo stampo del tuo rossetto anche se me l’hai tolto. E succederà l’inferno! Guarderanno con lo zoom le labbra di tutte le ragazze per capire quale ha il rossetto sbavato e poi capiranno che sei tu, la ragazza che ho portato proprio io! Sarà la tua fine! Ti seguiranno ovunque, sarai la fidanzata di Robert Pattinson e la tua vita diventerà un inferno. Non potrai più lavorare da Jack, non potrai nemmeno più andare a fare la spesa. Non potrai più fare nulla. Perché mi hai dato quel bacio?». Respirai per cercare di calmarmi.
«Io… scusa, lo faccio sempre, non ho più pensato che avevo il rossetto» sussurrò abbassando lo sguardo. «Mi dispiace». Si mordicchiò il labbro inferiore, spostandosi una ciocca di capelli dietro la schiena, in modo nervoso.
«Lee, scusami. Hai ragione, sono nervoso e agitato. Non solo per la cerimonia, ma anche per te, capisci? Non so come possono reagire i fotografi quando ci vedono arrivare assieme, anche perché tu sei davvero bellissima» borbottai in imbarazzo, prendendole una mano e stringendola tra le mie.
«Va bene… allora entro senza fare il red carpet. A me interessa solo la cerimonia, non ci sono problemi». Sorrise, rilassata perché mi ero un po’ calmato dopo la sfuriata inutile che le avevo fatto.
«Dici sul serio?» domandai, felice per quell’inaspettata soluzione.
«Certo. Non mi attira l’idea di sorridere davanti a tutte quelle macchine fotografiche, anche perché non sono di certo una star». Scese dalla macchina sistemandosi il vestito.
Bene, molto meglio.
Non mi andava che i fotografi o gli altri attori vedessero Lee così esposta alla mercé di tutti.
L’avrebbero notata, magari messa in imbarazzo con domande sul suo passato e non sarebbe stato affatto carino.
«Allora tu devi andare di là. Dentro chiedi del mio posto e ti siedi in quello di fianco. Dovremmo essere vicino a Kris e a Taylor». Le accarezzai i capelli con un bacio veloce prima di immolarmi come un agnello il giorno di Pasqua e andare in pasto ai fotografi.
 
Avevamo vinto tutti i premi, compreso il Best Kiss. Come sempre, avevo messo in scena la solita commedietta assieme a Kris che aveva divertito tutti, tanto che si erano sentite le urla e le risate del pubblico in sala.
«Allora, ti sei divertita?» chiesi a Lee mentre uscivamo dal teatro per andare alla festa.
«Tanto. Grazie». Strinse di più il mio braccio e io abbassai lo sguardo per rispondere al suo sorriso.
«Adesso c’è la festa. Sei stanca? Vuoi andare a casa?». Non mi sembrava una buona idea andare a quella festa assieme a Lee, soprattutto perché avevo paura che facesse di nuovo battutine su Kristen come aveva fatto per tutta la serata.
«No papà. Non sono stanca» mi derise, facendomi una linguaccia.
«D’accordo, ma sai che non riuscirò a stare sempre con te, vero?». La gente si sarebbe aspettata un minimo di attenzione da parte mia. C’erano i vari registi, tutti gli attori
«Credi che morirò? Rob, non sono stupida, credo di sapermela cavare, non credi? Se queste scarpe non mi uccidono prima». Sul suo viso comparve una smorfia di dolore che mi divertì.
«Lee, è sempre valida la proposta di portarti in braccio». Scherzai prima di sussultare spaventato quando qualcuno mi abbracciò.
«Rob! Bravissimo, il Best Kiss di quest’anno è stato il migliore, siamo stati bravissimi». Kris sciolse l’abbraccio e cominciò a saltellare davanti a noi.
«Sì… be’… quest’anno è stato divertente» bofonchiai lanciando una strana occhiata a Lee che stava stritolando il mio braccio.
«Dico davvero» strillò Kris, abbracciandomi di nuovo e costringendomi a lasciare il braccio di Lee.
«Rob, potresti presentarmi le altre persone? Almeno così parlo con qualcuno» sibilò Lee, battendo il piede per terra, impaziente.
«Certo. Certo Lee, andiamo». Scostai Kris scusandomi con lei e assieme a Lee mi avvicinai agli altri attori.
Kellan, Jackson, Peter e le ragazze la salutarono chiedendole come stava; parlammo per qualche minuto.
«Andiamo che ti presento qualcun altro. Poi magari ritorni con loro, che dici?» proposi salutando Geoffry, uno dei produttori, che cercò di attirare la mia attenzione.
«Va bene» rispose felice, continuando a sorridere con un calice di champagne tra le mani.
«Ricordati che sei minorenne e non potresti bere alcolici, Lee» la ammonii quando portò il bicchiere alle labbra per bere un nuovo sorso.
«Ricordati che sei tu che compri la birra e me la offri a casa» ribatté, non riuscendo a rimanere seria.
«Sì, magari questo non dirlo…» farfugliai imbarazzato avvicinandomi a un altro gruppo di ragazzi.
C’era qualcuno dei lupi che parlava con i vampiri, che cosa inusuale.
Kiowa, che aveva interpretato Embry, Boo Boo, il piccolo Seth, Bryce, la bellissima e bravissima mamma che per tutti noi era stata la terribile Victoria, Xavier, che stava ridendo allegro assieme a Bryce, forse perché durante le riprese, visto che aveva interpretato Riley, aveva legato più con lei rispetto agli altri… erano tutto lì a chiacchierare.
«Ciao ragazzi» dissi attirando la loro attenzione su di noi.
Mi salutarono allegri e poi tre sguardi curiosi si posarono su Lee.
«Bryce, Kiowa, Boo Boo, Xavier, lei è Aileen». Indicai Lee di fianco a me che sorrideva emozionata.
«Piacere di conoscerti». Kiowa si avvicinò, porgendole la mano, poi ritornò di fianco alla sua ragazza.
Boo Boo la salutò goffamente, arrossendo e gesticolando impacciato.
«Incantato» mormorò Xavier, avvicinandosi a Lee baciandole le guance.
Istintivamente mi avvicinai ad Aileen e le circondai la vita con un braccio.
«Ecco, hai visto? Volevi tanto conoscere Bryce per chiederle di quella scena di lotta tra noi due» ridacchiai lanciando un’occhiata a Lee che guardava tutti stupita.
Bryce cercò subito di farla sentire a suo agio, cominciando a raccontarle della scena, perdendosi in particolari che nemmeno ricordavo più.
«C’ero anche io, sai?» disse all’improvviso Xavier, avvicinandosi a Lee con due bicchieri di champagne.
«Grazie» sussurrò Lee, allungando la mano per prendere un bicchiere.
«È minorenne, non può bere alcolici» sbottai prendendo il calice dalla mano di Lee e guadagnandomi una sua occhiataccia.
«Rob» sibilò avvicinandosi a me, «non metterti a fare il padre proprio ora». Riprese il bicchiere dalle mie mani e ne bevve un lungo sorso.
«Robert! Robert vieni qui! Stiamo parlando proprio di te». Sentii una pacca sulla spalla e mi voltai per vedere chi fosse.
Chris, il regista di New Moon, stava parlando con altri attori.
«Scusatemi» mi scusai con Lee e con gli altri, prima di raggiungere Chris.
 
In tutta quella maledetta serata non ero riuscito a rimanere un solo minuto con Lee.
Tutti volevano parlare con me, non riuscivo nemmeno a finire una conversazione che dovevo correre da un altro gruppo di persone.
Attori, produttori, registi… io, Taylor e Kris non eravamo riusciti a goderci nemmeno per un secondo la festa.
Avevo tenuto sempre un occhio su Lee, e mi ero accorto che si stava divertendo davvero.
Per la maggior parte della serata era rimasta a parlare con Bryce, Rachelle e Xavier.
A un certo punto della serata, Bryce e Rachelle se ne erano andate, ed erano rimasti solo Lee e Xavier, da soli.
Avevo tentato di avvicinarmi a loro per capire se Lee si sentisse a disagio, ma non mi era stato possibile perché mi avevano richiamato per chiedermi alcuni dettagli sul nuovo film che stavo girando.
«Sembra che qualcuno abbia fatto colpo, no?» ridacchiò Kell avvicinandosi a me.
«Eh?» bofonchiai non capendo a chi si riferisse.
«Lee» sussurrò allungandomi una pacca sulla spalla.
«Oh. No, no ti sbagli. Lee non mi piace, non in quel senso, almeno» farfugliai passandomi una mano tra i capelli.
«Non tu, lui». Indicò Xavier che stava sorridendo davanti a una Lee divertita.
«Chi, Xavier? No, impossibile» sbottai, continuando a guardare Lee che si appoggiava alla spalla di Xavier con una mano mentre con l’altra si asciugava una lacrima per il troppo ridere.
«Non lo so… di certo lei piace a lui, insomma… si vede che ci sta provando» mormorò Kell, mangiucchiando una tartina. «E, senza offesa, non posso biasimarlo. Aileen questa sera è bellissima» mi confidò, dandomi un’altra pacca sulla spalla.
«Sì, lo so» sospirai, tornando a guardare Lee, il suo sorriso rilassato, il suo corpo scosso da continue risa. «Scusami un attimo» borbottai avvicinandomi a Lee e Xavier che improvvisamente smisero di parlare e di ridere. «Allora?» chiesi con un sorriso, sedendomi accanto a Lee.
«Robert, sul serio, Aileen è davvero una ragazza fantastica». Xavier abbozzò un sorriso e subito guardai Lee che abbassò il capo cercando di non ridere.
«Oh sì, lo so. La conosco bene». Sapevo meglio di lui quanto Lee fosse fantastica. Conoscevo Lee da quattro anni, non da meno di quattro ore.
«Xavier mi ha raccontato di quando, durante le prove, sei caduto davanti a tutti» ridacchiò Lee, appoggiandomi una mano sulla gamba.
«Sì, be’, quella neve finta era scivolosa, siamo finiti tutti a gambe all’aria». Feci una smorfia strana e sentii Lee sghignazzare.
«Sì, ma mi ha detto che tu sei caduto più di dieci volte. Sei sempre il solito, Rob». Non riusciva proprio a smettere di ridere.
Io sinceramente non trovavo la situazione divertente.
«Lo sai anche tu che non sono molto atletico» sbottai cercando di non sembrare infastidito o irritato.
«Sai che Xavier mi ha detto che per prepararsi a girare Eclipse ha fatto più di tre mesi di palestra? Dovresti farne un po’ anche tu, così ti sparisce la pancetta». Lee mi pizzicò un fianco e sentii Xavier ridere.
«Con l’avanzare dell’età è normale che cresca un po’ di pancia, per questo vado in palestra due o tre volte la settimana» mi provocò lui con un sorrisetto tutt’altro che amichevole.
«Io non ho tempo, sai com’è… sto girando un film dietro l’altro…» spiegai portando un braccio attorno alle spalle di Lee che si scostò subito.
«Certo, ma i soldi non sono tutto, direi che è più importante rimanere in forma» ribatté, offrendo un bicchiere pieno di cola a Lee.
«Lee, ti andrebbe di andare a casa? Sono le tre passate e comincio a essere un po’ stanco» borbottai avvicinandomi a lei.
Anche se avevamo dormito fino a pomeriggio inoltrato cominciavo a sentire la stanchezza, forse anche perché l’adrenalina della serata stava scemando. E poi non avevo più voglia di rimanere in quel locale.
«Oh… io…». Guardò Xavier che le fece l’occhiolino.
«Allora?» chiesi impaziente, continuando a lanciare occhiatacce a entrambi.
«Va bene, è tardi e sono un po’ stanca». Si alzò dalla sedia aggrappandosi al mio braccio mentre imprecava contro le scarpe che le facevano male.
«Notte Xavier» sbottai tendendogli la mano. «Ci si vede».
«A presto Robert, è stato un piacere». Allungò la mano stringendo la mia.
Chissà perché mi ritrovai all’improvviso con un po’ troppa forza nella mano. Probabilmente strinsi la sua troppo forte, perché aggrottò le sopracciglia impercettibilmente prima che Lee mi richiamasse.
«Ci vediamo, Xavier». Lee si sporse per dargli un bacio sulla guancia che lui sembrò accettare un po’ troppo volentieri.
«Ci sentiamo Aileen. A presto ragazzi». Lanciò un ultimo sorriso a Lee mentre ci allontanavamo.
«Faccio un giro veloce di saluti, ti dispiace?» chiesi a Lee fermandomi vicino alla porta d’uscita.
«No, fai pure. Però io ti aspetto qui. Non riesco davvero più a camminare» piagnucolò facendomi ridacchiare.
«Devo portarti in braccio?» domandai cercando di nascondere il sorriso.
«Dai, scemo». Mi tirò un pugno sulla spalla che riuscii a scansare appena in tempo.
«Arrivo subito». Le accarezzai velocemente il braccio e mi lanciai tra la folla che si era un po’ diradata.
Era tardi, i produttori e gli attori con i figli se ne erano già andati.
Erano rimasti solamente i ragazzi.
Con un giro veloce di saluti promisi a tutti di farmi sentire più spesso e di uscire magari per una cena informale.
Quando tornai da Lee, quasi dieci minuti dopo, la trovai seduta non molto distante da dove l’avevo lasciata.
Stava parlando con Xavier.
«Lee, possiamo andare» dissi avvicinandomi a lei, evitando di prestare troppa attenzione a Xavier.
«Certo. A presto allora, Xavier» lo salutò e si alzò con un mugolio infastidito per il dolore ai piedi.
Lui si allontanò e tornò a parlare con gli ultimi rimasti alla festa.
«Quanto distante è la macchina?» sussurrò Lee, a pochi passi dall’uscita del locale.
«Non saprei, ancora qualche centinaio di metri». Mi voltai a guardarla: era appoggiata a un lampione e sollevava un piede alla volta.
«Mi tolgo le scarpe. Non ce la faccio davvero più» sbottò accucciandosi per levarsene una.
«Lee, no! Chissà che malattie ci sono in questi marciapiedi». Guardai schifato l’asfalto ricoperto di gomme da masticare e bicchieri di caffè vuoti.
«Ok, hai ragione. Io ti aspetto qui, tu vai a prendere la macchina». Non si alzò nemmeno, rimase accucciata a terra.
«Ma non dire stupidaggini. Non ti lascio in piena notte in un vicolo da sola. Andiamo». Mi avvicinai a lei, prendendola velocemente in braccio. Per la sorpresa Lee lanciò un gridolino che mi fece ridere.
«Che scemo che sei. Avrei aspettato lì». Circondò il mio collo con le braccia appoggiandosi la borsetta in grembo.
«Ma figurati se ti lascio da sola, conciata così poi». Sarebbe stata una tentazione per chiunque, con quel vestitino, i tacchi che la slanciavano e il trucco che la rendeva bellissima.
«Mi so difendere bene, che cosa credi?». Pizzicò il mio braccio e per vendetta finsi di farla cadere, facendola gridare di nuovo.
«Lee, fai piano. La gente dorme» ridacchiai aiutandola a mettersi in piedi una volta arrivati davanti alla macchina.
«Io posso urlare quanto voglio» borbottò togliendosi le scarpe prima di salire in macchina goffamente.
Chiusi la sua portiera dopo averle allungato la borsetta e, dopo aver fatto il giro ed essermi seduto al posto di guida, accesi il motore.
«Spero tu ti sia divertita stasera» mormorai cominciando a fare manovra per immettermi in strada.
«Sì, mi sono divertita davvero tanto. Tu non racconti tutta la verità. Ho scoperto tante cose imbarazzanti su di te» insinuò appoggiando i piedi sul cruscotto. «La prossima volta mi compro le scarpe più costose che ci siano. Ok, era la prima volta che le indossavo e un po’ di male dovevano farlo, ma queste mi hanno distrutto i piedi. Ecco perché la commessa non voleva che le prendessi» bofonchiò parlando tra sé e sé e facendomi ridere.
«Oppure ti metti un paio di scarpe da ginnastica, che ne dici?» proposi svoltando all’incrocio.
Non rispose, continuando a guardare davanti a sé e muovendo le dita dei piedi.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, poi Lee parlò.
«Rob? Io… volevo ringraziarti e dirti che avevi ragione» sussurrò rivolgendo lo sguardo al finestrino, imbarazzata.
«Io ho sempre ragione… ma riguardo cosa, questa volta?» domandai, sperando di capire il motivo della sua vergogna.
«La sera di un paio di settimane fa, quella in cui volevo uscire per andare in un motel con uno… ti ricordi?» bisbigliò ritornando a guardarmi.
La sera del temporale.
«Sì» risposi cauto, stringendo appena la presa sul volante.
Ricordavo anche la litigata, e la figuraccia che avevo fatto a letto. Quella però, era meglio dimenticarla.
«Ecco… volevo ringraziarti per non avermi fatto uscire. Avevi ragione». Di fronte al senso di colpa di Lee non riuscii a nascondere un sorriso.
«Non c’è nessun problema Lee, dico davvero. Lo so che tu sei fatta così, ma non ti preoccupare, ok?». Allungai una mano per stringere la sua, ma Lee si scostò.
«Ok. Comunque, volevo dire che ti ringrazio, perché avevi ragione, non sono quel tipo di ragazza. E me ne sono resa conto questa sera. Ho capito che non voglio delle scopate da sconosciuti, voglio una cosa seria, insomma. Un ragazzo fisso, che scopi con me quando ho voglia, o quando lui ha voglia». Fece spallucce e capii che qualcosa non andava.
«In che senso l’hai capito stasera?» chiesi intuendo già la risposta.
Risposta che non mi piaceva.
«Mi sono accorta che mi piace un ragazzo. E forse io piaccio a lui, insomma… non gliel’ho chiesto, ma dai gesti sembrava di sì…» borbottò spostandosi una ciocca di capelli.
Strinsi di più il volante, respirando lentamente. «Potrei sapere di chi stai parlando? Perché se l’hai visto questa sera di certo lo conosco e ci ho lavorato assieme».
«Xavier. Non trovi che sia un bel ragazzo? È anche tanto simpatico» cominciò a dire, spostandosi con la schiena contro al finestrino per guardarmi meglio.
«Non è un po’ troppo vecchio? Se non ricordo male ha dieci anni in più di te». Ero quasi sicuro che Xavier avesse già compiuto trent’anni l’anno prima.
«Che cosa vuol dire? È un bel ragazzo, ha un bel fisico. Si tiene in forma. Lo sapevi che è australiano? Mi piace l’accento australiano, a te no?» proruppe eccitata, appoggiando il mento sulle ginocchia e circondandosi le gambe con le braccia.
«Sì, l’accento australiano è fantastico» sibilai parcheggiando sul vialetto di casa.
«E prima, quando tu sei andato a salutare gli altri, mi ha visto lì da sola ed è venuto a parlarmi. Mi ha dato anche il suo numero. Credo proprio che presto usciremo assieme. Non sei felice Rob? Non era quello che volevi, un ragazzo serio per me?». Si aggrappò a me, tirando leggermente la mia maglia perché la guardassi.
C’era ancora quella scintilla accesa nei suoi occhi.
Era felice.
«Certo Lee… io voglio solo che tu sia felice. Però non so… Xavier non mi sembra il ragazzo giusto. Cioè, è un bravo ragazzo, non fraintendere. Solo che fa l’attore, capisci? Ogni tre mesi deve andare in un posto diverso, lavora per un sacco di ore al giorno con attrici bellissime e non dimentichiamoci che è da poco uscito da una storia importante». Doveva sapere come stavano le cose, anche perché si trattava del suo futuro.
Lee andava protetta.
Xavier poteva volere solo una storiella passeggera, non potevo permettere che Lee rimanesse ferita da questa cosa.
«Anche tu sei un attore, ma non fai tutte queste cose» ribatté, aprendo la porta di casa.
«Ma è diverso, Lee…». Io ero anche più giovane, vivevo con lei.
«Sai Rob… sembra quasi che tu sia geloso» bofonchiò lasciando le scarpe per terra, di fianco alla porta.
«No Lee, non sono geloso. Mi preoccupo per te. Non vorrei che poi lui ti ferisse e tu ci rimassi male». Non ero geloso, mi dava solo fastidio che avesse scelto un tipo come Xavier.
«Be’, magari voglio provare a sbagliare. Xavier sembra un ragazzo simpatico, e sembra che io gli piaccia». Cominciò a salire le scale legandosi i capelli.
«Certo Lee, non sono mica tuo padre, tu devi fare quello che vuoi. Ricordati solo quello che ti ho detto» commentai inquieto, seguendola.
Qualcosa mi diceva che un mese dopo Lee sarebbe venuta a casa piangendo e sarei stato io quello che l’avrebbe consolata.
«Grazie Rob. Sono felice che tu appoggi questa mia scelta». Si avvicinò a me e mi stampò un bacio sulla guancia ridacchiando «adesso non ti arrabbi nemmeno perché non ho più il rossetto e nessuno vede che ti ho dato il bacio».
«Non c’è di che» borbottai accarezzandole la schiena prima di fingere un sorriso veloce.
Sarei stato di nuovo la spalla su cui piangere, ne ero certo.
Lee però non era mia figlia e se voleva fare degli errori non potevo di certo impedirglielo.
«Credo proprio che domani lo chiamerò» sospirò cominciando a struccarsi.

 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Ed eccoci qui, con l’arrivo di Xavier che era stato annunciato in tutte le salse!
Spoiler di foto, frasi… insomma, in Fb non c’erano di certo segreti!
Un po’ di pepe alla storia, no?
In fin dei conti mi sembra che Rob l’abbia presa bene, non è geloso ed è felice di vedere Lee con un altro ragazzo! :P
Comuuunque, voglio come sempre ringraziare preferiti, seguiti, da ricordare, chi legge e chi commenta!
Il capitolo scorso non vi è piaciuto, vero? Posso sapere il perché? Così evito di fare gli stessi errori!
Ricordo, come sempre, il gruppo spoiler: Nerds’ corner
E il profilo FB: Roberta RobTwili.
Non fatevi problemi a chiedere l’iscrizione o ad aggiungermi anche se non commentate e leggete solo!
Una piccola chicca, solo per capire le reazioni di Rob! :)
Questo è il vestito nero che Lee ha comprato (quello scollato, che porta senza reggiseno…)
 
E questo è il vestito che aveva ai Movie, io l’ho immaginato dal ginocchio, comunque anche la pettinatura e il trucco sono simili a come me li ero immaginati.
 
Ci vediamo venerdì prossimo! :)

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Capitolo 7
*** Lee's first date with... Xavier! ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







Le urla di Lee mi indussero a spalancare gli occhi nell’oscurità. Guardai la sveglia: non era da molto che eravamo andati a dormire.
Corsi da lei. La svegliai e consolai, cullandola tra le mie braccia. Riuscì ad addormentarsi solo un’ora dopo.
Io invece continuai a pensare alla serata che avevamo trascorso.
A tenermi sveglio non era il ricordo della cerimonia di premiazione, era piuttosto la festa.
Ricordavo Lee che sorrideva felice assieme a Xavier; ripensavo a quello che mi aveva detto quando eravamo tornati a casa.
Voleva provarci con lui.
«Xavier» sogghignò, continuando a dormire, «sì, mi sembra perfetto».
Si sistemò contro il mio petto per stare più comoda e io sbuffai frustrato.
No! Non anche nel sogno! Non poteva essere vero.
«Rob» mugugnò prima di abbracciarmi più stretto, «Rob» ripeté, sospirando.
Strinsi il braccio attorno alle sue spalle con più forza: io c’ero, maledizione, io c’ero. Ci sarei stato sempre per lei.
Si svegliò di soprassalto, spaventandomi.
Si mise a sedere, portandosi una mano tra i capelli e scompigliandoli con pigrizia.
«Lee, va tutto bene?» domandai sedendomi a mia volta e accarezzandole dolcemente la schiena.
«Sei sveglio?». Mi guardò sorpresa, cominciando a rifarsi la coda ai capelli, che si era sciolta.
«Non ho sonno» mentii, evitando di dirle che non riuscivo a smettere di ripensare alla serata. «Va tutto bene?» tornai a chiederle, preoccupato. Possibile che avesse avuto un altro incubo?
«Sì. Solo un sogno strano. Vado a bere un po’ d’acqua» bofonchiò stiracchiandosi e alzandosi lentamente dal letto.
Accese la luce in corridoio e io immediatamente notai le mie ciabatte ai suoi piedi.
Tipico di Lee prendere sempre le mie cose.
Aveva molti più vestiti di me, eppure dormiva con una mia maglia e in casa preferiva usarne un’altra, sempre mia: diceva di voler stare comoda.
Sorrisi continuando a guardare i suoi piccoli piedi dentro alle mie ciabatte.
«Rob, vuoi qualcosa da bere?» chiese, facendo capolino con un sorriso e appoggiandosi allo stipite della porta.
«No, grazie» mormorai portando un braccio dietro alla testa e sistemandomi meglio.
Lee sparì dalla mia vista e io sentii i suoi passi sulle scale.
Dovevo arrendermi all’idea di vederla con un ragazzo.
Era grande ormai, avrebbe compiuto ventuno anni a fine luglio.
Mancavano meno di due mesi.
Qualche minuto dopo Lee ritornò a stendersi di fianco a me, facendomi rabbrividire dal freddo. Aveva la brutta abitudine di riscaldarsi i piedi contro le mie gambe.
«Lee, sono gelati» mi lamentai spostandomi di scatto.
La sentii ridere sommessamente prima di avvicinarsi di nuovo a me. «Scusa, tengo lontano i ghiaccioli» mormorò appoggiando la guancia sul mio petto e avvicinando il suo corpo al mio.
Rimasi fermo, in attesa di sentire di nuovo i suoi piedi ghiacciati.
Aileen mi stupì però: non li avvicinò.
«Solo tu puoi avere i piedi freddi a giugno» sussurrai circondandole le spalle con un braccio.
«Mhh» bofonchiò sistemandosi meglio e stropicciando la mia maglietta con le dita.
«Mi sarei aspettato come minimo un calcio» ridacchiai punzecchiandola.
Lee non reagì.
Impossibile, non poteva essersi addormentata di nuovo.
«Lee?». Mi allungai leggermente per controllare se veramente avesse preso sonno. «Mio Dio, devi essere stanca morta». Tornai a distendermi con un sospiro, «ok, meglio che dorma qualche ora anche io». Le baciai la fronte teneramente e chiusi gli occhi appoggiando la nuca sul cuscino.
Mi parve quasi di sentire una risatina in lontananza, ma ormai mi ero addormentato e non riuscii veramente a capire se quel suono fosse solo frutto della mia immaginazione.
«Sveglia Rob» urlò qualcuno, iniziando a farmi il solletico.
«Che c’è?». Ero sveglio, ora sì, ero sveglio.
Mi ritrovai seduto sul letto: cominciai a guardarmi attorno per capire da dove fosse venuto quel grido, ma c’era solo Aileen, per giunta che rideva di gran gusto, stesa vicino a me.
«Oddio» sussurrò tra una risata e l’altra, «oddio» ripeté.
«Sei stata tu?» domandai guardandola mentre continuava a contorcersi divertita.
«Dio, era da un pezzo che non ti facevo uno scherzo così». Cominciò a respirare a fondo per calmarsi.
«Divertente, davvero divertente. Se volevi uccidermi ci sei andata vicino» sbottai distendendomi e girandole le spalle.
«Dai Rob… era uno scherzo» piagnucolò avvicinandosi e abbracciandomi con foga.
«No» bofonchiai offeso, spostandomi per sciogliere l’abbraccio.
«Su Rob…» mugolò al mio orecchio, avvicinandosi ancora fino a schiacciare il seno contro la mia schiena.
Un brivido mi scosse e scivolai più avanti, al limite del letto.
«Ti ho detto di no. Se vuoi che me ne vada e ti lasci qui da sola basta dirlo. Non lo sai che si più anche morire per scherzi del genere, eh?» mi lamentai sperando che Lee mantenesse una minima distanza di sicurezza, visto che non avevo più spazio per spostarmi.
«Stronzo». Mi morse una spalla all’improvviso e mi spintonò giù dal letto.
«Lee, ma che ti prende?» strillai alzandomi in piedi e massaggiandomi con insistenza la parte dolorante.
«Che prende a me? Sei tu che non accetti uno scherzo». Si mise a sedere sul letto, strattonando le coperte verso di sé; l’aria da bambina offesa.
«Perché era uno scherzo idiota. Stavo dormendo» puntualizzai.
«Ma se ti eri appena disteso! Te l’ho fatto anche altre volte questo scherzo» ribatté, scendendo dal letto e togliendosi il pigiama per rimanere in intimo.
Che stava facendo?
Aveva deciso di uccidermi lentamente?
«Che-che fai?» chiesi, dimentico del morso, dello scherzo… e del mio nome.
«Mi alzo. Sono le otto passate, è giorno». Si avvicinò alla finestra per aprire le tende e far passare un po’ di luce. Adocchiai immediatamente il suo sedere sodo incorniciata da quella brasiliana rosa.
«Dannazione» borbottai, dandole le spalle per non rischiare di cadere in tentazione e guardare di nuovo.
«Che c’è?». Aileen appoggiò la sua mano sulla mia spalla e mi costrinse a guardarla.
Non potevo dirle di non andare in giro nuda di nuovo.
«Lee, se adesso cominci a uscire con Xavier forse è meglio che non ti veda in intimo, no? Potrebbe essere geloso». Sembrava una buona scusa.
Chiunque sarebbe stato geloso.
A nessuno faceva piacere sapere che la propria ragazza si faceva vedere in intimo dal suo coinquilino.
«Non credo che a Xavier interessino queste cose» disse andando verso il bagno.
«Io credo di sì, tutti sarebbero gelosi. Anche perché qui a casa indossi solo completi trasparenti». Non volevo mettere il dito nella piaga, ma era veramente difficile controllarsi quando lei andava in giro per casa in quel modo.
«No, tu saresti geloso. E poi, con Xavier io non ci sono mai uscita, gliene parlerò. Per quanto riguarda i completi… che ci posso fare se ne ho solo di trasparenti?». Si asciugò il viso guardandomi attraverso lo specchio del bagno.
«Se la mia ragazza si facesse vedere dagli altri nuda… sì, mi darebbe fastidio. E poi, che cosa dici? È impossibile che tu non abbia niente di non trasparente» sbottai.
Tutte avevano almeno un paio di slip non trasparenti.
A pois, a righe, con un disegnino idiota.
Tutte.
«Vuoi controllare?» mi provocò, prendendomi per mano e dirigendosi verso la cabina armadio.
«No, no». Puntai i piedi per terra, opponendo resistenza.
L’ultima cosa che volevo fare nella vita era vedere i completi intimi di Lee.
Me li sarei immaginati sul suo corpo, e non era un bene.
«No, adesso vieni a controllare, così la smetti di rompere». Mi trascinò, decisa a non lasciarmi andare, e fui costretto a seguirla.
«Lee, davvero. Mi fido» piagnucolai cercando di farle cambiare idea.
«No, adesso guardi». Aprì il cassetto della biancheria e cominciò a frugare.
«Lee» gemetti maledicendomi da solo per essermi cacciato in quella situazione sconvenevole.
Non mi sentivo in colpa per Xavier, assolutamente no, mi sentivo un idiota per quello che stavo facendo a me stesso.
«Grigio scuro, con il pizzo». Alzò un brasiliano sventolandolo davanti ai miei occhi. «Rosa, trasparente». Un perizoma che ero sicuro le sarebbe calzato a pennello. «Giallo, con il fiocchetto verde davanti e… blu, con il fiocchetto giallo davanti. E adesso…». Frugò meglio tra i vari modelli di slip e reggiseno.
«Lee, dico davvero. Mi fido, smettila». Era una tortura, ne ero certo.
Mi stava volontariamente torturando.
O forse voleva solo farmi vedere che aveva ragione.
«Bustino di pizzo verde, con brasiliano coordinato. Questo mi fa delle tette da urlo. Vuoi vedere?» propose tenendo il bustino tra le mani.
«No, no» risposi con forse troppa enfasi. «Mi fido, dico sul serio».
Se Lee avesse indossato quel bustino non sarebbe più uscita da quella stanza, e non mi sembrava proprio il caso.
«Ok, non ti arrabbiare». Ripiegò il bustino per rimetterlo dentro al cassetto e ridacchiò tirando fuori un piccolo fagottino. «Ora che ho guardato mi sono accorta che ho un paio di slip non di pizzo. Potrei indossarli, che ne dici?». Sventolò gli slip davanti ai miei occhi e io li guardai, allibito.
Quando era entrata in un sexy shop?
«Santo Dio» borbottai portandomi una mano davanti alle labbra.
«Sono alla ciliegia, dici che potrebbero piacere a Xavier?». Ripiegò gli slip, sistemandoli in fondo al cassetto e mettendoci sopra tutti quelli che mi aveva già fatto vedere. «Indagherò…» ridacchiò chiudendo il cassetto.
Ero rimasto senza parole.
Non sapevo davvero che cosa dire.
Lee, il suo comportamento, era… diversa.
Sembrava quasi che anche gli ultimi brandelli di pudore se ne fossero andati.
Non faceva proprio più caso a quello che diceva o, in quel caso, mostrava.
Non poteva essere perché aveva conosciuto Xavier, no.
Non avrebbe potuto dargli così tutta quell’importanza.
«Rob? Ehi, Rob? Ci sei?». Lee sventolò la mano davanti ai miei occhi per richiamare la mia attenzione e io mi riscossi dai miei pensieri.
«Sì, sì, ci sono. Andiamo a fare colazione?» proposi, cercando di non farle capire il mio profondo disagio.
«Sì, prima però mi vesto, altrimenti ti arrabbi». Mi fece una linguaccia, prendendo un paio di pantaloncini e una magliettina a caso.
Cercai di distogliere l’attenzione da ogni movimento sensuale che Aileen faceva per vestirsi. Persino quello mi faceva inevitabilmente immaginare cose che non avrei dovuto.
«Bene, che cosa mangi?» domandai, cominciando a scendere le scale seguito da lei.
«Non saprei, ho voglia di qualcosa di buono… qualcosa di dolce. C’è qualcosa di dolce e di buono?» mi chiese, sul viso un bellissimo sorriso solo per me.
Felice, ecco cos’era.
«Credo ci sia qualche merendina» borbottai aprendo il mobile dove tenevamo tutti i dolci e tirando fuori scatole a caso.
«Ok, mangio questa e poi chiamo Xavier. Dici che è troppo presto?». Aprì la confezione della brioche e ne mise in bocca quasi metà.
«Direi di sì, magari sta ancora dormendo…». Non sapevo a che ora avesse lasciato la festa, e sinceramente non mi importava nemmeno, ma magari era ancora a letto.
«No, ha detto che si sveglia ogni mattina alle sette per correre per dieci chilometri. Dovresti farlo anche tu Rob, ti andrebbe via quella pancetta…» ridacchiò pizzicandomi un fianco.
«Non sono grasso. Sono magro di costituzione e non ho bisogno di correre o di fare palestra tutti i giorni, io» bofonchiai ingoiando una fetta di dolce.
«Magari dovresti ridurre le sigarette e il caffè. Xavier ha detto che invecchiano la pelle, per questo fuma molto meno di una volta».
Xavier, Xavier, Xavier… bisognava parlare sempre di lui?
«Xavier è anche più vecchio di me» sibilai, ricordando a Lee la loro differenza d’età.
«Però li porta bene, e poi sa vestirsi con gusto e ha un bel sorriso. A dire la verità anche gli occhi sono belli». Stava tenendo il conto delle qualità con le dita, incredibile!
«Qualcos’altro?» chiesi, in modo un po’ troppo sgarbato.
«C’è qualcosa che non va, Rob?». Aileen appoggiò il pezzo di cornetto rimasto sul tavolo e io capii di dover trovare una scusa in fretta.
«No, è solo che… Lee, forse dovresti sentire se vuole uscire con te, prima di elencarne così tutte le qualità, ecco». No, questa non era una scusa, ma un patetico tentativo di frenare il suo entusiasmo per riuscire a calmare anche me stesso.
In fin dei conti non sapevo quanto interesse Xavier potesse provare per Aileen.
Era vecchio, perché voleva uscire con una ragazza che aveva dieci anni in meno di lui?
«Sai Rob, come sempre hai ragione. Lo chiamo subito». Si alzò e corse sulle scale prima ancora che potessi dirle che mi aveva frainteso.
«Non ci pensare nemmeno» mi ammonii, stringendo tra le mani il coltello che avevo usato per tagliare la fetta di torta. «Sono cose private» continuai, chiudendo gli occhi e respirando lentamente per non cadere in tentazione. «Non è carino ascoltare le telefonate degli altri».
Al diavolo!
Non si trattava di altri, si trattava di Lee!
Salii velocemente i gradini a due a due, evitando di fare rumore.
La porta della camera di Lee era chiusa, ma c’era un piccolo spiraglio che mi permetteva di vedere dentro alla stanza.
Camminava su e giù con il telefono in mano, sembrava agitata.
«Ok» sospirò, sedendosi sul letto e incrociando le gambe.
Tenevo la mano sulla maniglia per evitare che la porta potesse aprirsi; l’ultima cosa che volevo era vedere Lee arrabbiata con me perché, ingiustamente, avevo ficcato il naso nei suoi affari.
«Pronto, ciao Xavier» disse qualche secondo dopo aver portato il telefono all’orecchio. «Sono Aileen, ci siamo conosciuti alla festa, ieri sera. Ti ricordi di me?» chiese esitante, mordicchiandosi il labbro, nervosa.
Come poteva qualcuno non ricordarsi di lei?
«Esatto, l’amica di Robert». Si aprì in un sorriso soddisfatto e si passò una mano tra i capelli. «Volevo chiederti se la proposta di ieri sera è ancora valida». Iniziò a mordicchiarsi un’unghia in attesa della risposta che non tardò ad arrivare. «Certo, questa sera va benissimo» rispose felice.
«Questa sera?» dissi, con un volume di voce un po’ troppo alto.
Oh, merda.
«Scusami un attimo Xavier…». Lee si avvicinò pericolosamente alla porta e io corsi veloce nella mia stanza prima che potesse scoprirmi. «Rob? Stai origliando?».
«No, Kris, questa sera non ho voglia di uscire. Un’altra sera di sicuro, ma non questa sera. Ci siamo visti ieri…». Sospirai sollevato, felice di aver trovato una scusa che giustificasse le mie parole dietro alla porta di Aileen.
Sentii i passi di Lee allontanarsi ma per sicurezza decisi di concludere la mia recita: «Certo Kris, ci sentiamo presto, ciao». Lanciai il telefono sopra al letto e uscii dalla mia stanza lentamente.
Quando arrivai davanti alla camera di Lee mi accorsi che la porta era spalancata e di lei non c’era traccia.
«Lee?» urlai, sicuro che fosse tornata in cucina.
«Sono in cucina» strillò mentre scendevo le scale.
«Allora? Com’è andata?» domandai, sedendomi davanti a lei e riprendendo a mangiare la fetta di crostata.
«Bene. Si ricordava di me e mi ha detto che gli piacerebbe uscire. Stasera mi porta a cenare in un ristorante in centro. Così potrò indossare il mio vestito, quello nero! Non sei contento Rob?» chiese alzandosi per abbracciarmi di colpo.
«Tantissimo» borbottai, rispondendo al suo abbraccio.
«Che bello! Un appuntamento, con Xavier». Continuava a darmi baci sulle guance, senza smettere di saltellare. «Rob» sospirò poi, sedendosi sulle mie ginocchia.
«Sì?». Alzai lo sguardo per guardarla negli occhi.
«Volevo ringraziarti, perché non sarebbe mai successo senza di te». C’era qualcosa di strano nel suo sguardo, ma il suo sorriso non mentiva: Aileen era felice.
Qualcosa si mosse dentro al mio stomaco quando compresi che Lee era felice senza di me.
Però dovevo pensare che, in fin dei conti, era davvero felice.
Solo quello doveva interessarmi.
«Non c’è di che» sbottai accennando un sorriso di circostanza.
«E vorrei anche che non ti arrabbiassi più, va bene? Perché sei l’unica persona a cui posso chiedere consigli e con cui mi posso confidare. Ti vorrei un po’ meno papà e un po’ più Rob, che ne dici?» propose con un sorriso, accarezzandomi la guancia.
Mi stava chiedendo tanto, troppo forse.
Dovevo mettere da parte la gelosia e lasciare che fosse felice? Era questo che stava tentando di dirmi?
«Io…farò il possibile». Non me la sentivo di fare promesse che non sarei stato in grado di mantenere; non potevo prometterle di non essere mai geloso.
Ero sicuro però che il loro rapporto non avrebbe funzionato. Lo sentivo e per questo provavo un vago senso di fastidio.
Non c’era altro, no.
«Bene, questa cosa è perfetta, anche perché tu sei un maschio, e potrai dirmi cosa sarà meglio per lui». Mi abbracciò di nuovo, felice.
«Non vedo l’ora» ringhiai, accarezzandole la schiena lentamente.
«Ok, vado a provare un po’ di trucchi. Voglio essere bellissima stasera». Mi stampò un ultimo bacio sulla guancia prima di correre su per le scale.
«Sei già bellissima, Lee. E se non gli piaci, vuol dire che è un idiota» borbottai cominciando a sparecchiare la tavola.
 
«Rob, mi puoi dire che ore sono?» strillò Lee dal bagno, imprecando dopo aver fatto cadere qualcosa.
«Le sette e venti» risposi, continuando a rimanere disteso sul divano.
Non c’era nemmeno un film interessante in TV.
«Cazzo… arriva tra dieci minuti e io non sono ancora pronta» inveì, prima di scendere velocemente le scale. «Rob, sei libero due minuti per aiutarmi?». Corse in cucina e notai che era ancora stretta nell’asciugamano.
«Non lo so» bofonchiai fingendo di pensarci su.
«Dai, stupido, mi servi al piano di sopra per capire se ho fatto un buon lavoro». Corse davanti a me e mi prese la mano, costringendomi a seguirla.
«Lee… sarai bella lo stesso, andiamo» mi lamentai.
Meno guardavo come si era conciata per quell’appuntamento, meglio era.
Le avevo promesso che non avrei fatto il padre; be’, un padre non avrebbe mai permesso alla figlia di uscire a cena con un ragazzo che aveva conosciuto solamente la sera prima, soprattutto perché aveva dieci anni in più di lei.
«No, mi serve il tuo aiuto. Andiamo, vieni in camera». Corse velocemente verso la sua camera e si levò l’asciugamano senza preavviso, dandomi le spalle e mostrandomi il suo sedere, coperto da un paio di slip neri trasparenti.
«Lee» strillai portandomi una mano davanti agli occhi per non sbirciare.
Per fortuna aveva avuto il buon senso di darmi le spalle, visto che non aveva il reggiseno!
«Che c’è?» chiese girandosi verso di me, dopo aver indossato il vestito. «Aiutami a tirare su la zip per favore, così non perdo tempo». Indicò la zip in fondo al vestito e io ansimai.
Una zip minuscola, che partiva dalle sue fossette di Venere e saliva per meno di dieci centimetri.
Quando, involontariamente, sfiorai la sua schiena con le dita, rabbrividii.
«Auch! Mi hai dato la scossa» si lamentò Lee, massaggiandosi la schiena prima di sciogliersi i capelli che aveva legato momentaneamente.
Io non sapevo che cosa dire, ero rimasto pietrificato dalla donna che stava camminando davanti a me.
«Ok, mancano solo le scarpe. E devo fare pipì. Sì, prima faccio pipì e dopo mi metto le scarpe. Rob, puoi prendere le scarpe e la borsetta? Porta tutto al piano di sotto». Cominciò a camminare verso il bagno, alzandosi il vestito.
«Sì Lee, certo Lee, qualcos’altro Lee?» bisbigliai tra i denti prendendo le scarpe e la borsa e cominciando a scendere le scale.
Guardai il tacco vertiginoso e inorridii.
Come faceva a camminare su quei trampoli senza inciampare o rompersi una caviglia? Continuava a rimanere un mistero.
Quando tornai a sedermi sul divano, sussultai sentendo il cellulare di Lee suonare.
«Lee, il tuo telefono sta suonando» urlai sperando che mi sentisse dal bagno, anche se di sottofondo c’era il rumore dello sciacquone.
«Chi è?». Scese le scale di corsa e si bloccò con un sospiro rumoroso di fronte al divano.
«Uno squillo. Non ho visto». Le porsi la sua borsetta con il cellulare dentro.
«Oh, è Xavier. Forse vuole dirmi che è arrivato e che devo uscire. Bene. È il momento. Come sto?» chiese infilandosi i tacchi e facendo una giravolta su se stessa per farsi ammirare.
Era proprio un signore Xavier, insomma.
Nemmeno entrava in casa a salutare.
«Sei bellissima» borbottai guardandola.
Era perfetta, non bellissima.
«Bene, allora ci vediamo domani, non so a che ora torno. Buona serata». Si avvicinò per darmi un bacio sulla guancia e io le circondai la vita in un abbraccio fugace.
«Buona serata anche a te, divertiti». Non doveva divertirsi troppo, il giusto.
«Grazie Rob». Aprì la porta prendendo le chiavi di casa e cominciò a camminare verso il cancello.
«Digli che non provi a sfiorarti nemmeno con un dito, o gli rompo le ossa della mano» borbottai, ma con un tono talmente basso che Lee non poté sentirmi.
Mi fece un ultimo cenno con la mano prima di chiudere il cancello dietro di lei e poi sparì dalla mia vista.
Il primo appuntamento di Lee.
Ok, era meglio non pensarci, altrimenti mi sarei logorato e depresso continuando a rimuginarci sopra.
«Bene Rob, che cosa vuoi fare?» sospirai entrando in casa e passandomi una mano tra i capelli.
Che cosa facevo di solito?
Guardavo la TV con Lee, cenavo con Lee, mi facevo una doccia e tornavo a guardare la TV con Lee.
Poi andavamo a dormire.
In fondo potevo fare tutte queste cose anche senza Lee.
Mi distesi sul divano facendo di nuovo il giro di tutti i canali senza trovare qualcosa di carino da guardare.
Provai anche a dormire, visto che durante quella notte non avevo chiuso occhio. Impossibile farlo, il sonno non voleva arrivare e immagini confuse di un certo appuntamento si affollavano nella mia mente.
Decisi allora di cucinare qualcosa.
Presi una pentola e mi preparai un po’ di pasta. Scoprii di averla fatta cuocere troppo quando la scolai e divenne un mattone compatto sotto i miei occhi.
Alla fine rinunciai al progetto di cucinare e scaldai nel microonde degli avanzi di cibo cinese che avevo ordinato la sera prima con Aileen.
Chissà che cosa stava facendo Lee; magari stava mangiando. E sicuramente un piatto di pasta migliore di quello che avevo preparato io.
Il mio telefono squillò inaspettatamente facendomi sobbalzare.
Magari era Lee che aveva bisogno di aiuto.
Forse voleva che andassi a prenderla.
Quando mi accorsi che il nome sullo schermo non era quello di Lee tirai un sospiro di sollievo.
«Dimmi Tom» risposi senza nemmeno salutarlo.
«Come ve la state passando? Ho visto dai siti internet che la festa è stata un successone». Lo sentii sbadigliare e feci lo stesso.
«Sì, è stata abbastanza divertente. Lee ha conosciuto un sacco di persone» bofonchiai, stringendo tra le dita le bacchette cinesi tanto da romperle.
«Addirittura? E com’era Lee? Immagino fosse bellissima…». Sembrava mi stesse prendendo in giro, ma probabilmente era solo una mia impressione.
«Sì, era bellissima, davvero» sospirai ricordando Lee quella sera: non era mai stata più bella.
«Bene dai… gli altri? Come stanno?» chiese mentre io cominciavo a sparecchiare la tavola.
«Al solito. Kris mi ha detto di salutarti» mi ricordai, portandomi una sigaretta alle labbra.
«Ah grazie. Devo chiamarla. Mi passi Aileen, che così la saluto?». Alla sua domanda sbuffai infastidito, ricordando Lee e il suo appuntamento.
«Non c’è» sbottai, tornando a fumare.
«Ah, è andata a lavorare?» si incuriosì.
«No, ha un appuntamento» sibilai, concentrandomi sulla sigaretta tra le mie dita.
«Cosa?». Cominciò a ridere urtando ancora di più i miei nervi già troppo tesi. «Tu le hai permesso di andare a un appuntamento?». Parlava tra un colpo di risa e un altro.
«Ha quasi ventun’anni, può fare quello che vuole». Non avevo voglia di discutere. Non riguardo l’appuntamento di Lee poi.
«Noto un po’ di gelosia nel tono della tua voce». Cercava di soffocare le risate e il tono canzonatorio, ma non era bravo a nascondere il fatto che fosse divertito.
«Non sono geloso. Mi dà solo… fastidio, ecco». Inutile fingere, si sentiva che non mi piaceva l’idea di Lee a cena con un ragazzo.
«Fastidio, sì, immagino. Chi è il fortunato?». Sembrava seriamente interessato alla faccenda.
«Xavier» mugugnai, ricordando quando, tre anni prima, mi aveva fatto fare la figura dell’idiota ai Movie mentre ritiravamo il premo per Best Fight.
«Oh-oh! Brucia, eh?» ridacchiò di nuovo, non provando nemmeno a mascherare quanto si stesse divertendo.
«Dacci un taglio, Tom» sbottai, sempre più convinto che sarebbe stato un bene riattaccare e fingere che la telefonata non fosse mai avvenuta.
«No, dai, scusa. Voglio dire, l’ha conosciuto ieri sera?» chiese, cercando di non ridere.
«Sì». Risposte brevi, così non avrebbe sentito il rumore della mia mascella che si contraeva.
«Wow. Ma non è vecchio per Lee? Quanti anni ha in più di lei?».
«Dieci. E non riesco a capire che cosa ci trovi in lui, sinceramente». Quella era la verità. Che cosa aveva Xavier di così speciale?
«Be’, vediamo… è famoso, è bello, è bravo, è australiano, ha interpretato un vampiro…» cominciò a elencare tutte le qualità possibili prima che riuscissi a fermarlo.
«Era una domanda retorica, Tom». Possibile che non l’avesse capito?
«Oh, scusa. In ogni caso, voglio dire, ha tante qualità, magari a Lee piacciono vecchi, che cosa ne sai tu?».
Io lo sapevo, a Lee non piacevano vecchi.
Si lamentava sempre che io ero troppo vecchio e poi usciva con uno che era addirittura più vecchio di me!
«A Lee non piacciono vecchi, mi dice sempre che sono vecchio, e quell’altro è più vecchio di me» dissi sprezzante, ricordando il suo visino inorridito all’idea.
«Sembri un po’ geloso, mhh?». Cominciò a ridere di nuovo, dandomi il colpo di grazia.
Dannazione, non ero geloso!
«Ho da fare. Ci sentiamo». Riattaccai il telefono senza nemmeno salutarlo. Basta, volevo stare da solo.
«Vaffanculo Tom» sbottai lanciando il telefono sull’altro divano.
«Rob? Rob sei sveglio?». La voce di Lee mi fece sobbalzare sul divano. Non l’avevo sentita rientrare occupato a insultare il mio amico.
«Ciao Lee». Mi alzai e con pochi passi la raggiunsi.
Si tolse le scarpe, cominciando a massaggiarsi i piedi.
«Che male» borbottò saltellando su un piede solo verso il divano.
«Allora, come è andata?» chiesi cauto. Non volevo certo peggiorare la situazione; se la serata non avesse dato i frutti sperati, Lee si sarebbe messa a piangere. Io non volevo.
«Benissimo. Mi sono divertita davvero tanto». Aspettò che mi sedessi di fianco a lei e poi appoggiò la sua testa sulle mie gambe.
«Davvero?» domandai sorpreso, aggrottando la fronte. Niente lacrime quindi.
«Sì. Quando sono uscita da qui Xavier mi stava aspettando in macchina. Mi ha salutato, poi siamo andati in quel ristorante in centro, quello dove ci sono tutti i paparazzi, hai presente?». Allungò il braccio per tirarmi una ciocca di capelli, divertita.
Certo, era davvero un galantuomo!
Non le aveva portato nemmeno un fiore, l’aveva data in pasto ai paparazzi, che altro aveva fatto? Le aveva fatto pagare la cena?
«Sì, quello dove ci sono tutti gli attori?».
Aileen annuì, poi continuò con il suo racconto.
«Insomma, abbiamo ordinato e poi abbiamo parlato. Mi sono divertita davvero tanto. Poi Xavier ha visto i fotografi e mi ha chiesto se c’erano problemi se mi fotografavano. Gli ho detto che non sapevo, sai con il fatto che vivo con te… e lui, aspetta Rob… senti che gentile! Ha chiesto al cameriere di darci un tavolo più appartato». Continuava a sorridere, giocherellando con la mia mano.
«Gentilissimo» sibilai. Non avrebbe potuto semplicemente cambiare ristorante?
Tutti sapevano che lì fuori c’erano appostati centinaia di fotografi, per questo in quel ristorante entravano solo le persone che volevano farsi pubblicità.
Era un po’ come andare al Groucho a Londra.
«E poi mi ha riaccompagnato a casa, e siamo rimasti fuori a parlare in macchina…». La vidi fare spallucce e distogliere lo sguardo.
Mi stava nascondendo qualcosa.
«E…?». Mi fermai con la mano a mezz’aria, in attesa di sentire che cosa volesse dirmi.
«E ci stavamo per baciare, ma poi non l’abbiamo fatto. No, no Rob, sarebbe stato un bacetto così, a stampo» disse velocemente, senza guardarmi. La mia espressione doveva essere furiosa.
«Sono comunque felice che tu non l’abbia baciato. Avresti potuto dare l’impressione sbagliata» puntualizzai, continuando a pensare che uno che non regalava nemmeno una rosa al primo appuntamento non fosse il ragazzo giusto per Lee.
«Ma non c’entra nulla, un bacio lo dai quando vuoi, la situazione richiedeva un bacio, ma quando eravamo a tanto così ci abbiamo ripensato tutti e due». Mi mostrò la distanza immaginaria tra i loro volti con le mani che poi lasciò ricadere sul divano. La cosa non mi piaceva per niente, no.
«Ti sei divertita, almeno?».
Lee doveva essere felice, Lee doveva essere felice. Non doveva interessarmi con chi.
«Sì. A proposito, mi ha detto di salutarti». Mi pizzicò un fianco, facendomi lamentare per il dolore.
«Grazie, gli manderò un messaggio domani, per dirgli che lo saluto anche io» sussurrai, massaggiandomi dove Lee mi aveva fatto male.
«Non è necessario. Usciamo dopo domani, visto che domani lavoro. Te lo posso salutare io». Mi sorrise raddrizzando la schiena e sistemandosi meglio sul divano.
«Oh, uscirete ancora?». Cercai, con scarsi risultati, di mascherare la mia sorpresa.
«Sì, e devo ringraziare solo te». Si sporse per abbracciarmi e darmi un bacio sulla guancia.
«Non c’è di che Lee, davvero». Le circondai la vita con un braccio, sorridendo dei suoi continui baci sulla guancia.
«Bene, adesso è meglio che vada a dormire» bofonchiò alzandosi e stiracchiandosi.
«Sì, ti seguo. Domani mattina devo alzarmi presto» borbottai, cominciando a salire le scale: dietro di me Aileen canticchiava.
«Allora ti lascio il bagno, perché devo struccarmi e farmi anche una doccia. Intanto vado a togliermi questo vestito. Puoi sganciare la zip?». Si avvicinò a me, dandomi le spalle.
«Sì, certo». Abbassai la zip, attento a non sfiorarle la schiena come avevo fatto poche ore prima. «Ecco fatto» dissi, scompigliandole i capelli.
«Grazie Rob, buonanotte». Mi abbracciò fugacemente prima di correre in camera sua.
L’ultima cosa che vidi fu la schiena nuda di Lee, poi, quando si chiuse la porta della sua camera alle spalle sentii solo vuoto dentro di me. 







Salve ragazze!
Prima di tutto, scusate per il ritardo nel postare.
Avevo detto in Fb che ci sarebbe stato un ritardo di due settimane che poi si è protratto per degli episodi spiacevoli che mi sono capitati.
In ogni caso oggi sono qui con un nuovo capitolo di Rob e Lee che spero vi sia piaciuto.
Come sempre ricordo che potete aggiungermi in Fb nel profilo di Robert RobTwili o potete chiedere l’iscrizione al gruppo spoiler Nerds’ corner. Anche se non avete mai commentato e siete lettori silenziosi non importa! :)
Purtroppo non so ancora quando pubblicherò il prossimo capitolo di questa storia o di The revenge of the nerd. Darò maggiori informazioni su FB. Potrebbe essere la prossima settimana come tra un mese… mi dispiace ma non voglio forzare la scrittura e momentaneamente non ho la testa per scrivere, ho solo voluto pubblicare questo capitolo che era stato scritto e corretto prima che succedesse tutto il casino…
Come sempre ringrazio preferiti, seguiti e da ricordare, chi legge e chi mi lascia un commento!
Buona settimana e spero di essere riuscita a strapparvi un sorriso.
Un bacione!

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Capitolo 8
*** Taper jean girl kills me ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







Quella notte dormii talmente poco, che alla mattina non aspettai nemmeno il suono della sveglia.
Mi alzai e velocemente andai in bagno per farmi una doccia.
Era l’ultimo giorno di riprese. Poi, per due giorni ci sarebbe stata un po’ di tregua per me, prima di affrontare l’ultima, impegnativa, settimana di lavoro.
Dopo essermi vestito, scesi le scale per andare in cucina.
Sarebbe stato meglio cominciare la giornata riposato; ma, visto che non era possibile, dovevo accontentarmi di una tazza di caffè.
Lo sorseggiai velocemente dalla tazza senza nemmeno sedermi.
Quando Lee dormiva, tutto era particolarmente silenzioso; era una strana sensazione.
Uscii di casa e mi presentai sul set con un bel sorriso stampato sulla faccia: non potevo di certo mettere il broncio a lavoro.
A riprese terminate, dopo essermi tolto i vestiti di scena ed essermi struccato, salutai Dean, che mi stava aspettando fuori dal camerino per scortarmi fino alla macchina, e partii per tornare a casa.
Lee era al lavoro, quindi sapevo che cosa aspettarmi: luci spente e silenzio inquietante.
Appena varcai la soglia di casa, accesi la luce e, dopo aver attraversato l’ampio salone, inserii un CD nello stereo perché mi facesse compagnia un po’ di musica.
Avevo bisogno di rilassarmi e sapevo esattamente che cosa faceva al caso mio: un bel bagno caldo.
Lasciai tutte le porte aperte, visto che Lee sarebbe rientrata almeno un paio d’ore dopo, e accesi qualche candela attorno alla vasca lasciando che il bagno si riempisse di vapore.
Andai in camera e abbandonai i vestiti sul letto, poi presi il pacchetto di sigarette e, una volta arrivato in bagno, entrai nella vasca piena d’acqua calda con un sospiro estasiato. Finalmente relax.
Mi accesi una sigaretta appoggiandomi con la nuca al bordo della vasca e socchiusi gli occhi mentre dalle casse del bagno risuonava la canzone di una delle mie band preferite.
Sorrisi ascoltando quelle parole che mi descrivevano più di quanto io volessi far credere anche a me stesso.
La canzone successiva era un lento, così, socchiusi di nuovo gli occhi passandomi una mano bagnata tra i capelli e scompigliandoli.
Volevo solo rilassarmi per qualche minuto… sarei uscito dalla vasca la canzone dopo.
 
«Rob! Rob ti prego svegliati! Non dirmi che hai provato a suicidarti».
Aprii gli occhi di colpo e trovai Aileen davanti a me.
Aveva gli occhi lucidi, come se a stento riuscisse a trattenere le lacrime.
«Che cosa succede?» chiesi confuso, sollevandomi appena e inorridendo non appena ricordai dove mi trovassi. Nella vasca.
Nudo.
Abbassai subito lo sguardo, ma fortunatamente mi accorsi che c’era ancora un velo di schiuma a coprirmi e non rendeva l’acqua completamente trasparente.
«Hai provato a suicidarti, perché?» ripeté Lee, accarezzandomi una guancia con la mano.
«Ma che cosa stai dicendo? Mi sono fatto un bagno per rilassarmi». Non riuscii a trattenere una risatina divertita.
Perché mai avrei dovuto suicidarmi?
«E la sigaretta?». Indicò la mia mano.
Tra le dita avevo un mozzicone di sigaretta spento.
«Lee, non ho cercato di suicidarmi, altrimenti non avrei acceso le candele e la musica, no?». Mi raggomitolai leggermente su me stesso quando un brivido mi scosse: l’acqua era diventata troppo fredda.
Per quanto tempo avevo dormito?
«Sicuro che non fosse perché volevi rendere tutto più facile? Davvero non hai provato a suicidarti?». Era proprio sconvolta. Si inginocchiò accanto a me, ancora ben rannicchiato nella vasca, e mi guardò cercando di capire se le stavo dicendo la verità.
«Lee, perché mai dovrei suicidarmi? Me lo vuoi dire?». Stava tremando. «Lee, ehi Lee». Le presi il viso tra le mani, bagnandole qualche ciocca di capelli.
«Non farlo mai più, va bene? Non farmi più questi scherzi. Promettilo» cominciò a dire, prima che una lacrima le sfuggisse dall’occhio.
Con il pollice tolsi quella goccia salata dalla sua guancia e cercai di sorriderle per rassicurarla.
«Te lo prometto Lee. Ma adesso calmati, va bene? Non è successo niente». Annuì più volte, cercando di convincermi che tutto fosse ok, ma il suo corpo non voleva smettere di essere scosso da tremori.
«Perché tu non puoi fare una cosa così. Io ho solo te e tu non puoi…» mormorò, la voce flebile e quasi assente. Un’altra lacrima le scese sulla guancia e io capii che Lee aveva bisogno di sentirmi vicino a lei.
Mi allungai fino a prendere i boxer che avevo lasciato di fianco alla vasca e li indossai con qualche problema: non volevo uscire dall’acqua e ovviamente i boxer tutti bagnati si rifiutavano di salire sulle cosce.
La risatina divertita  di Lee mi rassicurò e imbarazzò allo stesso tempo. Borbottai qualcosa senza alcun senso e mi sporsi per abbracciarla.
Era ancora inginocchiata di fianco alla vasca.
«Lee, guardami». Presi di nuovo il suo piccolo viso tra le mani e la costrinsi a guardarmi negli occhi. «Andrà tutto bene, ok? Non è successo nulla». Le accarezzai la fronte con un bacio, abbracciandola stretta.
Lei si gettò contro di me, con foga, tanto che rischiai di perdere l’equilibrio e scivolare.
«Piano, altrimenti mi uccidi tu» scherzai, sperando di alleggerire un po’ la tensione.
«Mai» borbottò, cominciando a respirare più lentamente.
«Va meglio?» chiesi, accarezzandole dolcemente la schiena.
Sentii il suo capo assentire contro la mia spalla e finalmente mi rilassai.
Sapevo che cosa probabilmente aveva visto.
In qualche modo temeva che l’avessi abbandonata come aveva fatto Kelsey.
Non c’era niente di più falso.
Anche perché Kelsey non l’aveva lasciata volontariamente.
«Che ne dici? Mangiamo cinese stasera?» proposi, sperando che Lee acquistasse un po’ d’energia e tornasse a essere la solita rompiscatole a cui avrei donato tutto.
«Non ho fame» brontolò, stringendo un po’ di più il mio collo con le braccia.
«Dovresti mangiare, se non mangi poi ti ammali e non va bene. Andiamo, su». Le appoggiai le mani sui fianchi e la sollevai in piedi assieme a me.
«Ma ho i vestiti bagnati» si lamentò, guardandosi la felpa e i jeans.
«Dai, andiamo a mangiare cinese fuori, offro io. Ti va? Così festeggiamo i due giorni di pausa dal mio lavoro. Indossa qualcosa di meglio, andiamo! Non vorrai mica uscire con quella felpa». Mi finsi inorridito e riuscii a strapparle un sorriso.
«Tu tieni i boxer bagnati?» ridacchiò, togliendosi la felpa davanti a me e rimanendo in reggiseno.
Eccola lì, la mia Lee.
La ragazza senza pudore, che si faceva vedere nuda senza problemi e che probabilmente si sarebbe messa a parlare di sesso da un momento all’altro.
«Certo. Così penseranno che me la sono fatta addosso. E domani tutti i giornali parleranno dell’incontinenza di Robert Pattinson». Presi un paio di boxer puliti dalla cabina armadio mentre Lee indossava una canottierina. «Vado in camera a cambiarmi». Le scompigliai i capelli facendola ridere di nuovo.
«Rob, sei dimagrito?». Sentii i passi di Lee fermarsi davanti alla porta che avevo chiuso.
«No, perché?» domandai cambiandomi i boxer e indossando i jeans che avevo posato sopra al letto prima di andare a farmi il bagno.
«Perché mi ricordavo che il tuo sedere fosse più pieno. Ma forse mi sbaglio con quello di Xavier».
Mi fermai in mezzo alla camera, con la testa infilata nella maglietta.
«Perché tu hai visto il sedere di Xavier?» mi informai, cercando di non farle capire che la cosa mi aveva un po’ destabilizzato.
«Sì, ma voglio dire… da sopra i jeans. Ha un bel sedere, sembra anche sodo» ridacchiò portandosi una mano davanti alle labbra non appena io aprii la porta.
«Sembra anche sodo» la canzonai, facendola ridere di nuovo.
«Dai, andiamo a mangiare?». Mi prese sottobraccio prima di cominciare a scendere le scale.
 
Quando tornammo dal ristorante, guardammo un film in TV. Poco dopo Lee andò a dormire dicendo che si sentiva stanca.
Meno di mezz’ora dopo la seguii, riuscendo ad addormentarmi in pochi minuti nonostante avessi dormito anche quel pomeriggio.
«Kel! Kel svegliati». Quando sentii le urla di Lee mi svegliai di soprassalto, rendendomi subito conto che c’era qualcosa di diverso.
«Che cosa le avete fatto? Kel!». Stava piangendo.
Corsi velocemente in camera sua per svegliarla.
«Lee, Lee va tutto bene». La scossi delicatamente per cercare di svegliarla e farle capire che era solo un incubo.
«Kel, svegliati, per favore» strillò di nuovo, con la voce rotta per il pianto.
«Lee, sono Robert. È un sogno». La scossi piano per le spalle, accarezzandole il viso e scostandole i capelli dalla fronte.
Improvvisamente aprì gli occhi, cominciando a tossire tra le lacrime.
«Rob». Si mise a sedere abbracciandomi e cominciando a piangere più forte.
«Shh, va tutto bene, su». Le accarezzai delicatamente la schiena, sperando che si calmasse.
Se aveva sognato Kelsey era colpa mia.
Aveva fatto quel sogno solamente cinque volte da quando l’avevo conosciuta.
Ogni anno, il sedici dicembre, Lee riviveva la morte di Kelsey.
In qualche modo ero felice, perché almeno non sognava il padre, ma sapevo che la morte della sua unica amica l’aveva scossa molto più degli abusi subiti da bambina.
Mi abbracciò, circondando anche Leebert con un braccio.
«Su che dormiamo un po’» proposi, scostando le coperte per distendermi di fianco a lei.
«Non voglio» brontolò, stringendo nella mano la mia maglietta.
«Devi dormire Lee» sussurrai a bassa voce, sperando che riuscisse a calmarsi e a smettere di singhiozzare. «Altrimenti domani sera come fai ad andare all’appuntamento con Xavier?»
Dopo quella frase ci sarebbe stata la mia foto di fianco alla parola ‘Coglione’, nel dizionario.
Se però fossi riuscito a tranquillizzare Lee facendo in modo che pensasse a lui, l’avrei accettato, in quel preciso istante. In fin dei conti non ero stato io a riportarle alla mente quell’orrenda notte?
Aileen non rispose nemmeno, si accoccolò meglio sul mio petto, trattenendo malamente i singhiozzi.
Accarezzai la sua spalla cercando di tranquillizzarla, con scarsi risultati.
«Shh, Lee non pensarci» sussurrai baciandole ripetutamente il capo.
«Rob, tu mi vuoi bene, vero?». Alzò lo sguardo per guardarmi negli occhi e mi persi in quelle iridi ghiacciate che erano decisamente troppo rosse a causa del pianto.
«Certo che ti voglio bene». “Te ne voglio anche troppo Lee”, pensai.
Accennò un timido sorriso, ritornando poi ad appoggiare la sua guancia sul mio petto.
Sapevo perché me l’aveva chiesto. Aveva bisogno di sentirsi dire che non l’avrei mai abbandonata.
«Grazie» mormorò, stringendo un po’ di più la maglia e sospirando.
Non doveva ringraziarmi, non c’era nulla da ringraziare.
Ci addormentammo così, quando Lee smise di piangere.
 
Quando mi svegliai, sentii subito freddo.
Probabilmente, come al solito, Lee si era raggomitolata tra le coperte e io avevo dormito senza nemmeno un pezzo di lenzuolo per coprirmi.
Aprii lentamente una palpebra e inorridii: non ero sul letto di Lee, ero sul pavimento!
Mi misi a sedere e subito notai che Lee era sul bordo del materasso. Se avesse mosso anche solo una gamba sarebbe caduta.
Dopo essermi avvicinato al letto, con delicatezza, perché non volevo svegliarla, la spostai più verso il centro.
«Rob» mugolò spostandosi appena, quando riuscii a coprirla.
Un sorriso si formò involontario sul mio viso.
Stava sognando me.
«Xavier» ridacchiò subito dopo, scalciando le lenzuola.
Il sorriso sparì dalle mie labbra veloce come era arrivato.
«Dai, scemo» borbottò di nuovo.
Questo era troppo!
Uscii velocemente dalla sua camera, rischiando addirittura di sbattere la porta per la rabbia.
Dopo aver fatto colazione, mi distesi sul divano con l’I-pod e un buon libro; non avevo voglia di guardare la TV.
«Buongiorno» urlò qualcuno qualche ora dopo.
Alzai lo sguardo dal libro e vidi Aileen davanti a me.
Era in pigiama, se così si poteva chiamare quella maglietta.
«Ciao» sbottai, tornando a leggere subito dopo.
Ero ancora arrabbiato per quello che era successo quella mattina.
«C’è qualcosa che non va?» si informò, sedendosi sul tappeto a gambe incrociate.
Spostai subito lo sguardo quando mi accorsi che non aveva un paio di pantaloncini, ma solo gli slip.
«No» mentii, concentrandomi sulle parole di quella pagina, per non rischiare di cadere in tentazione di nuovo.
«Be’, ti sto parlando, potresti anche spegnere la musica, eh!» brontolò, prendendo le cuffiette e togliendomele.
«Ehi». Alzai lo sguardo per ammonirla.
«Sei proprio un maleducato. Ero venuta solo a salutarti. Continua a leggere il tuo libro, ascoltando la tua musica» bofonchiò, alzandosi e incamminandosi verso le scale.
«Scusa Lee, dai. Sai che prima di mezzogiorno sono intrattabile». Mi alzai dal divano per cercare di raggiungerla, ma Lee fu più veloce di me, tornando indietro e abbracciandomi senza motivo.
«Non fa niente, ti perdono». Improvvisamente sembrava tornata di buonumore.
«Bene». Rimasi fermo, aspettando che smettesse di abbracciarmi.
«Perché non ci sediamo un po’?» domandò, prendendomi per mano e avvicinandosi al divano.
«Perché vuoi sederti?» chiesi sospettoso, temendo che in verità si stesse comportando in quel modo bizzarro perché voleva qualcosa.
«Per parlare un po’, ti va?». Mi sorrise felice, sedendosi davanti a me. Dopo aver incrociato le  gambe cercò di allungare la maglia per coprirsi, quando ci rinunciò con uno sbuffo irritato, le porsi un cuscino.
«Di che cosa devi parlarmi?». Meglio essere cauti con Lee.
«Tu sei mio amico, vero?» cominciò, abbassando lo sguardo in attesa di una risposta.
«Certo, che domande fai?». Perché d’un tratto mi chiedeva se ero suo amico?
«E gli amici si consigliano, vero?». Alzò leggermente lo sguardo, guardandomi di sottecchi.
«Di solito…» borbottai, convinto che me ne sarei pentito subito.
«Ok, mi serve un tuo consiglio, da amico e da uomo. Puoi darmelo?». Tornò a guardarmi, non riuscendo a trattenere un sorriso.
«Sentiamo». Quanti secondi sarebbero passati prima che Lee riuscisse a mettermi in imbarazzo con qualche suo discorso strano?
Era il consiglio dell’uomo che mi faceva paura.
«Ok, come sai questa sera devo uscire con Xavier…» iniziò, mentre io cominciavo già a pentirmi di quello che le avevo detto. «…e ho già deciso come vestirmi. Non so però che intimo indossare, ecco». Giocherellava con il bordo del cuscino, in imbarazzo.
«Non credo che faccia molta differenza il tuo intimo». In modo velato le avevo detto che sarebbe stato meglio non farsi vedere da Xavier in intimo.
«Sì invece! Tu non capisci. L’intimo è importante, sia per un uomo che per una donna. Quando una donna indossa intimo sexy, anche se non lo vede nessuno lei è molto più sicura di se stessa e può osare di più». Era convinta di quello che diceva.
«Primo, non credo che ti serva intimo sexy per osare di più» citai le sue parole con un tono leggermente più acido del suo, «perché è il secondo appuntamento e Xavier dovrebbe rispettarti», “quindi non metterti le mani addosso, e nemmeno la lingua” precisai mentalmente. «E poi, tu hai tutti completini sexy, sono sicuro che ti sentirai benissimo con uno qualsiasi» conclusi velocemente, sperando che quel discorso potesse chiudersi presto.
«Tu non capisci. Non sono tutti uguali. Per questo ne ho scelti tre, ma adesso sono indecisa, mi devi aiutare a scegliere quello che ti piace di più. Ti va?» propose con un sorriso, prendendomi una mano.
«Cosa?» gridai, strabuzzando gli occhi.
Guardare Lee che indossava tre differenti modelli di intimo praticamente trasparenti?
Non se ne parlava!
Non volevo ancora morire!
«Rob, sto parlando arabo? Ti ho chiesto se puoi dirmi quale completo va meglio. Te ne faccio vedere tre e tu mi dici quello che mi sta meglio. Non mi sembra così difficile. Aspetta, vado a prenderli così mi dici quale devo indossare prima». Si alzò dal divano, correndo su per le scale senza aspettare nemmeno una risposta.
«Questo è uno scherzo, vero?» sussurrai al vuoto, convinto che Lee volesse uccidermi.
«Ecco qui» disse Lee, sedendosi davanti a me e appoggiando sul divano reggiseni e brasiliane che altro non erano se non tripudio di trasparenze, colori e pizzi. «Allora? Quale provo prima? Vediamo se siamo della stessa idea. Ah sì, questo mi fa le tette più grandi, te lo dico già». Indicò un reggiseno viola, che aveva gli slip completamente trasparenti.
«Lee, non posso farlo». Mi alzai cominciando a scuotere la testa.
«Come?» chiese, confusa.
«Non posso guardarti in intimo. Non sarebbe giusto… nei confronti di Xavier» aggiunsi dopo qualche secondo di pausa.
«Ma io devo sapere quale mi sta meglio» piagnucolò, indicando di nuovo quei minuscoli centimetri di stoffa.
«Sono sicuro che ti stanno tutti benissimo. Scegli quello che vuoi». Tagliai corto, andando in cucina per bere dell’acqua fresca.
«Bell’amico che sei, grazie! Quando ti servirà un consiglio non chiederlo a me!» strillò cominciando a salire le scale.
Non era un consiglio quello! Era condurmi davanti a San Pietro!
Non potevo, non era giusto nei confronti di Lee.
Dopo quel malinteso, Lee mi tenne il muso per tutto il giorno, tanto che sia durante il pranzo, sia durante la cena, rispose ai miei tentativi di dialogo con dei «» e dei «No»
Si preparò per uscire con Xavier senza chiedere più consigli.
«Alla fine non ho indossato nessuno di quelli, perché non sapevo decidere». Si sedette di fianco a me sul divano, sistemandosi le pieghe del vestito.
«Bene» mormorai, cercando di mantenere la concentrazione sul quiz televisivo che stavo guardando.
«Non vuoi sapere quale ho messo?» domandò sghignazzando e allungandosi verso di me per prendermi una mano.
«No» ribattei, allungando le gambe sul tappeto.
«Dai Rob, per favore, mi serve il tuo consiglio. Devi dirmi se ho fatto una scelta saggia» piagnucolò tirandomi la manica della maglia.
«Sto facendo come hai fatto tu oggi. Ti sto ignorando».
La sentii ridere e si alzò per abbracciarmi. «Che scemo che sei. Puoi almeno dirmi se questo vestito mi sta bene?». Corse fino alle scale per accendere le luci.
Aveva un vestito blu, senza spalline, con una linea d’orata sopra al seno.
Di certo era senza reggiseno.
«Ti sta molto bene» ammisi, continuando a guardarla mentre faceva una giravolta.
«Grazie. Comunque, voglio sapere se ho fatto la scelta giusta» tornò a sedersi sul divano, senza spegnere la luce.
Non dissi nulla, cercando di concentrarmi di nuovo su qualcosa che non mi facesse immaginare Lee con uno degli slip che mi aveva fatto vedere.
«Oh, insomma Rob! Potevi anche chiedermi quale ho messo! Sarebbe stato più divertente!» si lamentò, tirandomi un pugno sul braccio. «Ti avrei risposto che, come ti ho già detto, non ho messo nessuno di quei completi. E sai perché? No, ovvio che non lo sai» si rispose da sola prima di continuare. «Perché non ho niente sotto» sussurrò, sorridendo.
Probabilmente era la mia mascella quella che aveva toccato i miei piedi, e forse erano i miei occhi quelli che avevano sbattuto contro lo schermo al plasma, provocando quel suono sordo.
«Che c’è? Non sono queste le cose che fanno impazzire voi uomini? E poi devo dire che è una strana sensazione, sto più… fresca». Era tranquilla, come se non mi avesse appena detto che sotto a quello strato di stoffa era nuda.
Io ero ancora paralizzato dallo stupore.
Probabilmente avevo l’espressione più idiota di sempre, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata.
Qualcosa sopra al tavolino suonò e Lee sorrise. «È arrivato Xavier. Ci vediamo dopo Rob. Buona serata». Mi baciò velocemente una guancia e, dopo aver preso la sua borsa, uscì.
«Lee? Dove diavolo stai andando senza un paio di mutande?» urlai alzandomi dal divano e aprendo la porta di casa per rincorrerla.
Vidi solo il cancello di casa chiudersi, Lee se ne era andata… senza mutande!
Incredibile! Era davvero uscita senza niente?
Una parte di me avrebbe veramente voluto accertarsene, l’altra invece…
No, non c’era nessuna altra parte.
Dio… come poteva essere uscita senza biancheria?
Per un appuntamento con Xavier poi!
Salii i gradini a due a due e andai in camera mia per prendere la chitarra: avevo un disperato bisogno di suonare per scaricare i nervi.
Scesi in soggiorno e, dopo essermi acceso una sigaretta e averla stretta tra le labbra, cominciai a suonare accordi a caso.
Inventai anche qualche strofa di un nuovo testo.
La chitarra però non mi permetteva di scaricare completamente i nervi; mi sarebbe servita un’elettrica e non un’acustica.
Così, dopo aver appoggiato la chitarra sul divano, mi diressi verso il piano che avevamo di fianco alla finestra, e iniziai a suonare.
Erano mesi che non mi avvicinavo al piano, ma, dopo i primi minuti le mie dita ripresero confidenza con i tasti, e io cominciai a suonare componendo melodie a caso.
Lasciavo correre le mie dita libere, come se loro avessero potuto capire cosa volevo veramente esprimere.
Passavo da una melodia dolce e romantica a una più complessa e veloce, quasi come se avessi avuto il bisogno di manifestare rabbia e frustrazione.
«Ciao mio bel musicista». Due braccia mi circondarono il petto e delle labbra si appoggiarono alla mia guancia.
Chiusi gli occhi sospirando, senza smettere di suonare. Ero ritornato alla melodia dolce.
«Non ti ho sentita rientrare» mormorai, quando le mani di Lee mi sfiorarono i muscoli delle spalle facendomi rabbrividire.
«Eri impegnato a suonare. Era da tanto che non ti vedevo così concentrato». Scivolò di fianco a me, sedendosi sullo sgabello.
«Avevo bisogno di fare musica». Continuai a suonare con la mano sinistra. La destra invece corse a stringere la mano di Lee per portarla sui tasti.
Le avevo insegnato a suonare qualche nota e ogni tanto mi accompagnava.
Dopo averle fatto vedere le note che avrebbe dovuto suonare, ritornai con entrambe le mani sui tasti.
Lee cominciò a seguire il mio ritmo e qualche minuto dopo cambiai melodia, trasformandola in una più complessa.
Stavo inventando, ma quello che riusciva a stupirmi era il modo in cui la melodia di Lee accompagnasse quello che suonavo io senza mai stonare.
Alzai lo sguardo dai tasti per soffermarmi sui lineamenti del suo viso: stava sorridendo.
«Come è andata?» chiesi cominciando a rallentare la melodia.
Non volevo che Lee comprendesse tutto quello che stavo provando in quel momento.
«Vuoi davvero saperlo?». Sembrava quasi stupita.
Mi fermai improvvisamente, tanto che Lee per qualche secondo continuò a suonare da sola.
«Certo» mentii, abbassando per un secondo lo sguardo.
«Ci siamo baciati» sussurrò, continuando a guardarmi senza vergogna.
Il primo bacio, al secondo appuntamento.
Di certo Xavier non era uno che andava con calma.
«Ti sei divertita?». Non mi andava di parlare di quel bacio, mi infastidiva sapere che le labbra di qualcuno avevano toccato quelle di Lee.
«». Non riuscì a nascondere un sorriso.
«Quindi uscirai ancora con lui, no?». Giusto per informarmi, per capire che cosa sarebbe successo nei giorni successivi.
«». Continuava a rispondere con monosillabi.
«Bene. Però per favore digli che può anche entrare. Lo conosco, anche se facciamo due chiacchiere non succede nulla. Non è bello che ti faccia lo squillo sul telefono e poi usciate». Più che altro non era molto gentile da parte sua; non era gentile nei miei confronti, visto che avevamo lavorato assieme.
«Hai ragione, glielo dirò». Schiacciò qualche tasto a caso sul piano, producendo un rumore quasi fastidioso.
«Grazie». Sorrisi appena, giusto perché non volevo ferirla.
In verità non c’era niente per cui sorridere.
«Prego». Mi baciò dolcemente una guancia e senza volerlo socchiusi gli occhi mentre il profumo di Lee mi entrava dentro.
Caramella, ancora una volta.
«Forse è meglio se andiamo a dormire» proposi, alzandomi lentamente dallo sgabello.
«Credo che ti seguirò, anche perché vorrei mettermi qualcosa di più comodo. Non è stata una buona idea quella di non indossare niente. Mi sono congelata…» ridacchiò seguendomi mentre salivo le scale.
Strinsi i pugni e i denti per non rispondere niente, e, una volta arrivato davanti alla mia camera, mi voltai verso Lee per salutarla.
«Buonanotte Lee. Ci vediamo domani». Le sfiorai la fronte con un bacio, non lasciandole nemmeno il tempo di abbracciarmi.
Chiusi la porta alle mie spalle, appoggiando la schiena contro il legno bianco.
Forse, per la prima volta nella mia vita mi ero sbagliato: Lee e Xavier sembravano avere un futuro.
Non riuscivo a essere totalmente felice per loro però, e nonostante continuassi a cercare di capire il perché, non trovai una risposta.
 
La settimana seguente volò.
Le riprese si facevano sempre più impegnative. Dovevamo ormai ultimare, i tempi stringevano.
Quella notte non avevo praticamente chiuso occhio.
Forse perché Lee e Xavier erano usciti insieme e Lee era rientrata un po’ più tardi del solito, o forse perché sapevo che sarebbe stato l’ultimo giorno in quel set, insomma… mi alzai quella mattina più stanco della sera prima.
Mi servivano tre cose: una doccia, un caffè, una sigaretta.
Dopo aver passato quasi mezz’ora sotto all’acqua calda per rilassarmi, scesi le scale evitando di fare rumore perché non volevo svegliare Lee.
Quando arrivai in cucina però, capii subito che c’era qualcosa di diverso dalle altre mattine.
«Buongiorno» disse Lee, accogliendomi nella grande cucina bianca con un sorriso.
«Che ci fai già in piedi?». Di solito, se non aveva il turno di mattina, Lee dormiva almeno fino alle dieci.
«Ti sto preparando la colazione, è il tuo ultimo giorno di riprese, non sei felice?». Mi fece sedere prima di mettermi davanti una tazza di caffè fumante. «Allora? Come svolgo il mio lavoro? Non sei mai venuto da Jack quando ho il turno». Prese qualche brioches e me la mise davanti, perché scegliessi quella che mi piaceva di più.
C’era qualcosa che non andava.
Lee non si comportava mai in quel modo…
Subito capii.
«Avanti, che cosa ti serve?» sospirai, incrociando le braccia al petto.
«Di che cosa stai parlando?» domandò sorpresa.
«Forza… la colazione, i sorrisi…». La indicai con una mano per farle capire quello che volevo dire.
«Io volevo solo essere carina con te perché da domani sei in vacanza. Scusami». Si alzò dallo sgabello e pochi istanti dopo sentii i suoi passi sulle scale.
«Cazzo…» sibilai alzandomi di colpo dalla sedia che cadde sbattendo sul pavimento. «Lee… Lee mi dispiace» urlai cominciando a salire le scale di corsa.
Sentii una porta sbattere.
«Lee, dai» strillai battendo il pugno sulla porta della sua camera chiusa.
«Sei davvero gentile Rob. Io speravo di farti cominciare la giornata con un sorriso, mi sono alzata all’alba per preparare il caffè, ti avevo scritto anche un biglietto, e tu credi che io l’abbia fatto solo per ottenere qualcosa. Bell’amico che sei». Percepii un colpo contro la porta, probabilmente aveva tirato un calcio. «Cazzo che male» sbraitò di nuovo.
Non riuscii a trattenere una risata e sentii Lee imprecare di nuovo.
«Dai Lee, apri la porta, mi dispiace. Di solito fai la ruffiana quando hai bisogno di qualcosa». Quando udii lo scatto della serratura sorrisi vittorioso.
«Ho aperto solo perché mi serve del ghiaccio da mettere sul piede. Levati di torno». Mi tirò una gomitata sullo stomaco perché non riuscissi ad abbracciarla e io gemetti dal dolore, massaggiandomi con insistenza.
«Lee». Cercai di allungare un braccio per fermarla ma fu più veloce di me. «Bene, vai a metterti il ghiaccio sul piede! Io vado a lavorare» strillai scendendo le scale e sbattendo la porta di casa alle mie spalle.
Odiavo i suoi sbalzi d’umore.
Sembrava una donna incinta!
Dannazione, non era mica colpa mia se per una volta avevo frainteso un suo comportamento!
Arrivato sul set avevo già fumato tre sigarette a causa del nervosismo.
Quella giornata trascorse velocemente, per fortuna riuscii a lasciare i miei problemi personali fuori dal set e non dovemmo ripetere le scene troppe volte.
Il regista ci informò che ci sarebbe stata la solita festa per la fine delle riprese la settimana successiva, una volta finiti anche gli ultimi reshoot.
Salutai tutti i miei colleghi e la troupe e, dopo essermi cambiato e struccato, salii in macchina per tornare a casa.
Lee doveva essere ancora al lavoro, quindi sapevo già che una volta tornato a casa sarei stato da solo.
Pochi minuti dopo, in macchina, il mio cellulare suonò.
Sorrisi. Era Lee.
«Anche a me dispiace per come mi sono comportato questa mattina» dissi dopo aver schiacciato il pulsante di fianco al volante.
«Rob, dove sei?». Stava piangendo?
«Che cosa succede?» chiesi, sperando con tutto il cuore di essermi sbagliato.
«Puoi venire a prendermi al bar?» domandò, la voce rotta dal pianto.
«Lee, che cosa succede?» tornai a chiedere, stringendo il volante tanto che le mie nocche sbiancarono.
«Sto male». Tirò su con il naso mentre ingranavo la quinta e facevo un sorpasso.
«Qualcuno ti ha fatto qualcosa di male?». Feci un gestaccio a una signora che mi suonò il clacson perché le avevo tagliato la strada.
Dannazione, non capivano che Lee stava male?
«No, sto male io» piagnucolò ancora, soffiandosi il naso.
«Arrivo subito, sono a meno di due isolati. Sei dentro o fuori?». Svoltai all’ultimo incrocio, rischiando di sbattere contro un cassonetto perché avevo fatto la curva in terza.
«Sono appena uscita» disse quando frenai di colpo davanti al locale.
Slacciai la cintura di sicurezza lasciando la macchina accesa.
Lee era di fianco alla grande pianta di cactus, all’entrata del bar di Jack.
«Rob» sussurrò correndomi incontro e abbracciandomi.
«Che cosa succede?». La abbracciai piano, non sapevo infatti cosa fosse successo. Forse si era fatta male.
«Andiamo a casa» mormorò, stringendomi ancora più forte.
Salimmo in macchina e, prima di partire, guardai ancora una volta il viso di Lee rigato dalle lacrime.
Non sembrava avere botte visibili.
«Lee, che cosa succede? Dimmelo, per l’amor di Dio» sbraitai, fuori di me per l’angoscia. Che qualcuno l’avesse aggredita? Non potevo sopportare l’idea che sconosciuti la sfiorassero anche solo con un dito.
«Mi fa male la pancia» borbottò, piegandosi e appoggiando la fronte al cruscotto.
«Ti fa male la pancia in che senso?». Dovevo portarla in ospedale?
«Mi è arrivato il ciclo. Ma mi fa male, tanto». Alzò il viso per guardarmi e una nuova lacrima scese lungo la sua guancia.
«Ma non ti ho mai vista così». Cominciavo a preoccuparmi.
«Lo so. Il mese scorso da idiota ho smesso di prendere la pillola perché credevo che ormai non avrei più scopato. Ma io la pillola l’ho sempre presa e non ho pensato che se stavo male prendendola, senza avrei fatto peggio. Sto davvero male». Si asciugò una lacrima con la mano.
«Devo portarti in ospedale?». Doveva fare una flebo? Usare la morfina?
«No, a casa ho qualcosa. Ma mi fa male. Cazzo, ho la visita la prossima settimana» si lamentò, spostandosi sul sedile irrequieta.
«E allora vedrai che passerà» cercai di consolarla.
«Mi fa male adesso, porca puttana. La prossima settimana sarà tutto passato» urlò, perdendo la pazienza. Parcheggiai la macchina nel frattempo e tentai di mettere ordine nei pensieri.
«E io che cosa posso fare?». Alzai il tono della voce in risposta al suo grido.
«Niente. Però posso svenire, te lo dico già. Una volta mi è successo» sussurrò appoggiando il capo al sedile come se le forze l’avessero abbandonata.
«Cosa?» strillai, sperando di aver capito male.
«Sì, svengo. Tu devi solo alzarmi le gambe, ok? Di solito comunque si vede quando sto per svenire». Socchiuse gli occhi, portandosi una mano sulla pancia, e tentò di attenuare il dolore.
«Non dirmi così Lee» sbuffai, strofinandomi il viso con le mani.
Cosa avrei fatto se avessi visto Lee svenire davanti a me?
«Andiamo dentro? Voglio solo togliermi i jeans e stare un po’ distesa sul divano» borbottò, slacciandosi la cintura di sicurezza.
«Ce la fai o vuoi che ti prenda in braccio?» chiesi chiudendo velocemente la portiera e precipitandomi di fronte al suo sportello.
«Credo di farcela» gemette, scendendo lentamente e cominciando a mettere un piede davanti all’altro.
Senza pensare la presi in braccio, iniziando a camminare a passo spedito verso il portone d’entrata.
«Grazie» sussurrò appoggiando la sua fronte nell’incavo del mio collo.
«Prendi la chiave per favore». Spostai la mano per farle vedere le chiavi e Lee allungò la sua.
Inserì la chiave nella toppa e girò. Fui io ad abbassare la maniglia con il gomito e aprire.
«Riesco a fare le scale» cercò di ridacchiare.
«Sei sicura?». Non sembrava che stesse bene.
Aveva il viso pallido e delle occhiaie profonde.
«». Annuì appena e decisi di provare a farla camminare.
Le appoggiai delicatamente i piedi per terra e la aiutai a mettersi in piedi, poi la accompagnai per qualche passo. Sembrava stabile. «Ok, ce la fai» mormorai quando Lee cominciò a salire i gradini.
Dopo poco però la vidi vacillare.
«Lee?» la chiamai, quando appoggiò il piede sul terzo gradino.
Non mi rispose.
Il suo corpo inaspettatamente si abbandonò, cadendo all’indietro. Rischiava di sbattere contro il pavimento.
Riuscii a prenderla in braccio appena in tempo.
La distesi sul divano, alzandole subito le gambe, come mi aveva detto.
«Lee? Lee mi senti?» balbettai, agitato.
Aveva gli occhi mezzi aperti, ma non mi rispondeva.
«Lee? Lee, dannazione» brontolai, scuotendole il capo.
Sbatté appena le palpebre e io tirai un sospiro di sollievo.
«Tutto bene?» chiesi, cercando di sorriderle.
«Che è successo?». Sembrava disorientata.
«Hai detto, con il tuo solito tono spavaldo, “guarda che io riesco a fare le scale”. Invece sei caduta come una pera al secondo gradino». Abbozzò un sorriso nonostante la fatica evidente di sbattere le palpebre. Doveva sentirsi veramente male.
«Tipico di me» balbettò, tossendo appena.
«Sai che cosa facciamo adesso? Ti porto in camera e ti metti un paio di pantaloni della tuta. Poi ci distendiamo sul divano e guardiamo un bel film. Io e te. Che ne dici?» senza aspettare una sua risposta la presi in braccio.
«Va bene. Ma devo prendere le pastiglie. Sono in bagno» sussurrò appoggiando il naso freddo poco dietro il mio orecchio.
«Ti porto in camera e mentre ti cambi io le prendo». La adagiai sul letto, mettendole una mano dietro la schiena perché non cadesse.
Quando appoggiò i piedi per terra, a contatto con il pavimento freddo, rabbrividì.
«Ecco qui». Le appoggiai sulle ginocchia una mia maglia e un paio di pantaloni grigi. «Mettili che poi ti porto giù». Uscii chiudendomi la porta alle spalle, e sperando che non svenisse di nuovo.
Corsi in bagno per cercare quelle maledette pastiglie per il mal di pancia.
«Pastiglie per dormire… collirio… burro cacao… crema da corpo alla vaniglia… pastiglie per dolori mes…». Mi schiarii la voce in imbarazzo, prendendo la scatolina e correndo davanti alla porta della camera di Lee.
«Lee, tutto bene? Posso entrare?». Abbassai la maniglia, pronto a fare irruzione nel caso in cui non avessi ricevuto risposta nel giro di due secondi.
Udii un flebile «» e, dopo aver aperto la porta, trovai Lee con i pantaloni e la maglia, distesa a letto.
«Ecco, tieni le pastiglie». Le porsi la scatolina e velocemente Lee prese due pasticche e le deglutì senza acqua. «Adesso andrà meglio. Andiamo». La presi di nuovo in braccio e scesi le scale fino ad arrivare al divano.
Mi sedetti tenendola sulle mie ginocchia, poi la feci scivolare tra le mie gambe.
«Stasera sono talmente buono che ti faccio un massaggio» ridacchiai spostandole i capelli dalla schiena e cominciando a massaggiarle le spalle delicatamente.
La sentii sospirare e vidi la sua testa ciondolare appena.
«Lee?». Allungai il collo per controllare che non fosse svenuta un’altra volta.
«Ci sono. Sta passando, piano piano» mormorò girando il viso verso di me per regalarmi un debole sorriso.
«Io so che in verità tu stai bene e vuoi solo approfittare del mio massaggio» scherzai, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro e facendola rabbrividire.
«Mi hai scoperto». Sembrò aver acquistato un po’ più di voce.
«Lo sapevo». Strinsi un po’ di più le sue spalle, facendola sussultare.
«Smettila Rob, non sei bravo a fare i massaggi» scherzò, cercando di divincolarsi dalla mia presa.
«Hai ragione. È meglio se guardiamo un film. Ti va Ricatto d’amore?» proposi, ricordando che l’avrebbero dato per la decima volta in qualche canale strano.
Sapevo che a Lee piaceva quel film.
«». Appoggiò il capo al mio petto, rimanendo distesa tra le mie gambe.
Restammo in quella posizione per tutto il film, mentre le mie mani le accarezzavano la pancia per cercare di porre un po’ di rimedio al suo male.
«Pensa se ci succedesse una cosa così» ridacchiò quando Sandra Bullock e Ryan Reynolds si scontrarono nudi.
No! Non dovevo pensarci!
Non con la schiena di Lee appoggiata al mio… inguine!
«Infatti». Finsi una risata imbarazzata, togliendomi dalla mente l’immagine di Lee nuda.
«Rob?» sussurrò, stringendo appena la mia mano appoggiata al suo stomaco.
«Dimmi» borbottai, intuendo che forse si stava addormentando.
«Gra… zie». Non ero nemmeno sicuro che l’avesse detto da sveglia.
Solo una domanda continuava a passarmi per la mente: perché Lee aveva chiamato me e non Xavier?
E perché aveva detto che sarebbe andata alla visita la settimana dopo?
Se aveva intenzione di riprendere con la pillola era perché…
Scossi la testa per scacciare quei brutti pensieri e appoggiai il mento sul capo di Lee.
Socchiusi gli occhi aspirando il suo profumo e per un momento, con la consapevolezza del corpo di Lee accanto al mio, mi sentii davvero felice.
Il sonno mi colse all’improvviso, con il fantasma di quel sorriso ancora sulle labbra. 

 
 
 
 
 
 
Buongiorno ragazze!
Prima di tutto i completi di Lee sono questi: Primo, Secondo e Terzo. Credo ora sia capibile il disagio di Rob (forse era più che capibile anche prima… ma non si sa mai).
Mi scuso immensamente per il ritardo, ma come quelle che sono su FB sanno, non è stata colpa mia, questa volta! :)
In ogni caso, sono fiduciosa per questo capitolo, lo ammetto!
Mi aspetto almeno 8 recensioni, quindi… provvedete a offendere, grazie! ;)
Rob e Lee hanno quasi superato la metà della storia, e ormai la situazione si sta stabilizzando…
Ah sì, siccome non mi passava il tempo e avevo promesso a qualcuno (Cris87_loves_Rob) che l’avrei fatto… ho pubblicato una OS completamente DEMENZIALE che si intitola “Mine is bigger”. Naturalmente i protagonisti sono Rob e Tom. È una OS di risposta a quella di Cris, che si chiamava “Oversize”. Credo sia già capibile quale è il tema della shot.
Se volete farci un salto, e, una volta letta avete il coraggio di lasciare un commento, avete tutta la mia stima.
Uh sì! Questa cosa a cui tengo davvero molto!
Due ragazze hanno già spedito la loro Shot.
È un contest che ho fatto io, trovate le regole e i premi QUI. Mi piacerebbe davvero vedere qualche altra Shot, anche perché il concorso parte se ce ne sono 4 (me ne servono altre due… OCCHIONI DOLCI, non vorrete mica fare un torto alle due shot che sono già state spedite, vero?). potete partecipare anche se non avete mai commentato, anzi, mi piacerebbe proprio!
Last, but not least, come sempre ricordo che QUI mi potete aggiungere come amica in FB (mi chiedo sempre chi voglia farlo…) e QUI c’è il gruppo spoiler. Fatevi sotto gente! In palio ricchi premi e cotillon!
A lunedì! :)

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Capitolo 9
*** I think I'm... jealous? ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.





A Cris... Spero di riuscire a farti fare un sorriso... + *




«Rob, dormiglione svegliati» sussurrò qualcuno a pochi centimetri dal mio orecchio.
Era una voce dolce e sensuale, probabilmente, anzi, di sicuro, apparteneva a una donna bellissima.
«Mhhh» mi lamentai, muovendomi appena per cercare una posizione più comoda perché mi faceva male il collo.
«Rob, sveglia» mormorò la stessa voce divertita, accarezzandomi una guancia.
«Cinque minuti?» cercai di contrattare, portandomi un braccio sopra al viso perché la luce mi dava fastidio.
«Bello addormentato sul divano, è mezzogiorno passato. Non ci sono cinque minuti». In quel momento capii che la voce era di Aileen.
Di chi altro poteva essere?
«Mezzogiorno?» strillai mettendomi a sedere e spalancando gli occhi, pentendomene subito dopo. «La luce, perché è così forte?» chiesi massaggiandomi la fronte e distendendomi di nuovo sul divano per cercare di rendere quel risveglio meno traumatico.
«Perché ieri sera non abbiamo tirato le tende. Hai dormito bene?». Lee si distese di fianco a me, schiacciando il suo corpo contro al mio.
«Sì. Tu?». Erano mesi che non dormivo così a lungo.
Mi ero addormentato stringendo Lee tra le mie braccia.
«Abbastanza. Oggi va un po’ meglio» mi informò, alzando lo sguardo per sorridermi appena. «Grazie per ieri. Non devo essere stata un bello spettacolo». Abbassò improvvisamente gli occhi, vergognosa.
«Eri un po’ in modalità Dr. Jekyll e Mr. Hyde, ma va bene» scherzai, sperando che non si vergognasse di quello che era successo il giorno prima.
«Non sono mai stata così male. Ho chiesto a Jack di uscire in anticipo, e poi mi sono ricordata che avrei dovuto tornare a piedi. Non riuscivo nemmeno a camminare, per questo ti ho chiamato». Cominciò a tracciare con l’indice dei disegni invisibili sul mio petto, giocando con la stoffa della mia maglia.
«Hai fatto bene, sai che ci sono sempre» mormorai, accarezzandole una guancia.
«Non potevo chiamare Xavi… insomma» si giustificò, scivolando lentamente sul tappeto per mettersi seduta. «Non è carino che mi veda in quel modo. Tu mi hai visto truccata, struccata, arrabbiata, ammalata, vestita, nuda…» cominciò a elencare, facendomi sussultare sull’ultima parola.
Cercai di levarmi dalla mente l’immagine di Lee nuda, anche perché risaliva a un periodo non proprio felice della sua vita.
«Hai ragione» mentii, non riuscendo comunque a trovare un nesso logico per quello che mi stava dicendo.
Se fosse stata la mia fidanzata, sarei corso da lei subito.
Vederla dolorante non avrebbe fatto la differenza.
L’avrei consolata.
«Ok… ho pensato di preparare qualcosa da mangiare… ti va un bel piatto di pasta?» propose, sorridendo felice.
«Oddio… è un po’ presto, no? Ci siamo appena svegliati». L’idea di mangiare pasta a colazione non era delle migliori; anche perché, non avevo intenzione di fare poi molto in quel primo giorno di vacanza.
«No, tu ti sei appena svegliato. Io mi sono svegliata un’ora e mezza fa. E ho fame» puntualizzò, tirandomi scherzosamente i peli del braccio.
Feci una smorfia per il dolore e scostai velocemente il braccio da Lee perché non lo facesse di nuovo.
«Auch» mi lamentai, mentre lei continuava a sogghignare.
«Così impari. Non è giusto che solo noi donne sentiamo dolore». Incrociò le braccia al petto, facendomi una linguaccia.
Non riuscii a trattenermi dal ridere: quando faceva così sembrava davvero una bambina.
«Hai ragione» scherzai, prendendola in giro e facendola irritare ancora di più. «Solo voi donne state male, siete solo voi che lavorate e che pulite la casa…» elencai, sapendo che si sarebbe arrabbiata.
«Brutto stronzo» strillò saltando sul divano e cominciando a pizzicarmi le braccia.
Cercai in tutti i modi di divincolarmi, ma ero senza forze per il troppo ridere.
«Prova a prendere in giro le donne un’altra volta e ti faccio diventare come una di noi. Ti taglio quello che hai laggiù e dopo ti faccio provare io il vero dolore» continuò a urlare, pizzicandomi le braccia e il petto.
«Lee…» cercai di dire tra una risata e l’altra. «Lee non respiro». Probabilmente non era nemmeno riuscita a sentirlo, impegnata com’era nella sua vendetta.
«Ottimo. Così morirai più lentamente e soffrirai di più» ghignò soddisfatta, cominciando a saltellare sul mio stomaco perché credeva di farmi male.
«Lee» bofonchiai, ormai senza aria.
«Soffri, uomo! Come soffriamo tutte!». Ormai per Lee era una questione di vita o di morte.
Quando riuscii a recuperare un po’ di respiro e di forze, le presi i polsi con una mano perché non riuscisse più a pizzicarmi.
«Smettila» mormorai serio, sperando che il mio viso assumesse un’espressione furiosa.
«Oddio» cominciò a ridere Lee, appoggiandosi con le mani al mio petto per non cadermi addosso. «Che attore da quattro soldi che sei. Non riesci nemmeno a fare una faccia arrabbiata». Mi diede un buffetto sulla guancia, prima di cercare di far sparire il sorriso dalle sue labbra.
Solo in quel momento mi accorsi di come eravamo: io ero disteso sul divano e Lee seduta sul mio stomaco, con tutti i capelli scompigliati e la maglia storta perché si era dimenata contro di me.
Dio, come era bella!
«Io faccio innamorare le ragazzine» ribattei, aiutando Lee a sollevarsi perché si sedesse al mio fianco.
«Una volta forse, quando eri giovane. Adesso fai innamorare le nonne». Si alzò fischiettando, dirigendosi verso la cucina.
Come… “facevo innamorare le nonne”?
Avevo ancora il mio fascino, dannazione!
Abbassai lo sguardo sulle mie braccia, accorgendomi che erano ricoperte da lividi rossi: i pizzicotti di Lee.
«Oddio» sussurrai, alzando la maglia e vedendo che il mio petto non era da meno. «Lee» strillai correndo in cucina con la maglia alzata e le braccia tese in avanti, per farle vedere che cosa mi aveva fatto.
«Cazzo, Rob! Era una sanguisuga o un vampiro? Ti ha ricoperto di succhiotti». Si avvicinò quasi inorridita al mio corpo, guardando attentamente il petto ricoperto da segni rossi.
«Sei stata tu» la accusai, indicandola con l’indice.
«Io? Ma che cosa stai dicendo? Me ne ricorderei! E poi, mica lascio tutti quei morsi. Non sono cannibale. Cioè, sì, ma…» ci pensò un po’, forse cercando un modo per dirmi qualcosa.
Intervenni prima ancora che potesse pronunciare un’altra sillaba.
«Non mi hai morso, sono i tuoi pizzicotti» mi lamentai, come un bambino piccolo.
«Ma va! Non è possibile» si avvicinò ancora di più, sfiorando un segno rosso con i polpastrelli e causandomi un brivido che mi costrinse a fare un passo indietro. «Che figata. Non sapevo di poter fare dei segni rossi così» ridacchiò divertita.
«Ho la pelle delicata» bofonchiai.
Lee cominciò a ridere tanto che si dovette sedere su uno sgabello poco distante per non perdere l’equilibrio.
«La pelle delicata, certo. Perché tu sei inglese» mi schernì, credendo forse di farmi arrabbiare.
«Esatto. Ho la pelle regale». Che scusa idiota.
Non volevo darla vinta a Lee però.
«Oh, immagino! Be’, se il principe Harry ha la pelle delicata come la tua sarei felice di potergli lasciare pizzicotti, morsi, graffi e anche succhiotti». Tornò improvvisamente seria.
«Smettila con questo Harry». Possibile che ogni volta che si parlava dell’Inghilterra Lee dovesse sempre pensare a quel principe?
Che cosa aveva lui più di… me?
«Ma scusa Rob, se è un bel ragazzo che cosa posso fare? Non devo più esprimere opinioni su nessuno?» azzardò, tenendo sulle labbra quel sorriso ironico.
«Esatto. Io non faccio mai commenti sulle donne che vedo». Era sempre e solo lei che si perdeva in critiche.
«Puoi farlo, è divertente. Lo faccio sempre anche io. Quando vedo una bella ragazza penso che magari le sue tette sono più belle delle mie perché sono più grandi o che il mio sedere è più sodo del suo». Fece spallucce, prima di prendere una pentola e riempirla con dell’acqua.
«Oh Signore» mormorai, strofinandomi il viso con una mano.
Niente da fare, Lee era un caso perso.
«Che c’è? Ho detto qualcosa di male?» chiese curiosa, accendendo il fornello.
«No, figurati» scherzai, sminuendo il tutto con un gesto della mano.
«Ah ecco… mi sembrava infatti». Mi sorrise, felice di non aver detto niente di sbagliato.
Meglio lasciar stare, non ne valeva nemmeno la pena.
Avrebbe dovuto pensarci Xavier a dirle cosa era giusto e cosa no, non era lui il suo ragazzo?
«Allora Rob, che cosa facciamo? Tu che sei stato in Italia… pasta con qualche sugo italiano, su». Prese una padella e la appoggiò sopra al ripiano, guardandomi in attesa di ordini.
«Io non so cucinare. L’unica cosa che faccio è mettere cibi dentro al microonde e impostare il timer, figurati se so come si prepara la pasta» sbuffai, avvicinandomi alla padella vuota.
«Che palle Rob. Non sai niente. Ok, vediamo…» bofonchiò, aprendo il frigo e scomparendo quasi dentro.
«Lee, mi fai paura quando dici di cucinare. Dai, lasciamo perdere. Facciamo un po’ di pasta con il sugo di pomodoro» proposi, sperando che accettasse l’offerta.
«Dici che la pasta condita con del sushi avanzato sta bene?». Si voltò per guardarmi, prendendo tra le mani una confezione bianca.
«Oddio…che schifo». Trattenni a stento un conato di vomito.
«No, nemmeno secondo me. Uh! Ho trovato. C’è la salsa messicana, sarà ottima». Si allungò un po’ di più verso il frigo e prese una piccola confezione di latta.
«Lee, credo sia nel frigo da una settimana, lascia perdere». Rabbrividii al pensiero di quello che c’era dentro a quella confezione.
«Ma abbiamo mangiato la pasta con il pomodoro anche due giorni fa. Va bene, allora per favore butta dentro la pasta, io vado a farmi una doccia veloce, perché dopo devo andare a lavorare. Riesci a far in modo che non diventi un mattone?» scherzò, prendendo un pacco di pasta e appoggiandolo sopra al bancone.
«Per chi mi hai preso? La pasta so ancora cucinarla» sbottai offeso.
Non ero ancora così incapace.
«Vedremo…» ridacchiò, correndo verso le scale prima che potessi ribattere qualcos’altro.
Insomma, un po’ di pasta sapevo farla anche io! Qualche volta l’avevo cucinata a Londra, quando dividevo l’appartamento con Tom.
Appena l’acqua cominciò a bollire, buttai nella pentola mezza confezione di pasta, prendendo subito un cucchiaio per mescolare.
Le poche volte in cui Lee cucinava, mischiava la pasta.
«Vediamo che cosa c’è dentro a questo frigo» borbottai, avvicinandomi.
Lo aprii e inorridii.
Da quanto non lo svuotavamo?
C’erano anche due confezioni con lo stemma di un ristorante indiano.
L’ultima volta che io e Lee avevamo mangiato indiano era…
Rabbrividii prima di prendere tutte le confezioni dei ristoranti da asporto e gettarle nel cestino.
Non controllai nemmeno cosa contenessero, troppo spaventato di trovarci qualcosa che si muovesse dentro.
Forse aveva ragione Tom quando diceva che non pulivamo la cucina.
Presi il sacchetto delle immondizie e andai in giardino per gettarlo nel bidone.
Non mi fidavo nemmeno di tenere quelle schifezze in cucina, anche se erano chiuse dentro a un mobile.
«Rob! Sei stupido?» urlò Aileen dalla finestra.
«Che c’è?» chiesi, portandomi una mano al petto per lo spavento.
Velocemente la raggiunsi, non capendo a cosa si riferisse.
«La pasta è cotta troppo e guarda» sbraitò indicando l’ammasso compatto che c’era nello scolapasta.
«Oh» mormorai.
Forse sarebbe stato meglio mescolarla un po’ di più.
«Oh? Tutto quello che sai dire è ‘oh’? Io devo essere a lavoro tra mezz’ora e non riesco a prepararne ancora». Era decisamente arrabbiata.
«Mi dispiace, non ho più pensato di mescolare» ammisi, abbassando lo sguardo per la vergogna.
Non ero nemmeno in grado di cucinare un piatto di pasta.
«No, tu non hai proprio mescolato. Possibile che a trent’anni tu non riesca nemmeno a cucinare un piatto di pasta? Dio, Xavier almeno sa cucinare» sbottò, aprendo il frigo.
Xavier, Xavier, Xavier… sempre lui!
Sembrava l’uomo perfetto!
Lui sapeva cucinare, lui aveva il sedere sodo, lui aveva un bel fisico, lui si teneva in forma.
«Dove sono tutte le cose che c’erano qui prima?» chiese Lee indicando il frigo quasi vuoto.
Anzi, completamente vuoto, se non ci fossero state quelle quattro birre e quella bottiglia di Pepsi.
«Le ho gettate appena adesso, per quello non ho mescolato la pasta» mi giustificai, lanciando una strana occhiata al frigo vuoto. Incuteva quasi timore.
«Non riesci proprio a farne una di giusta, eh?» strillò, prendendo un coltello da un cassetto e avvicinandosi a me.
«Che…che…che vuoi fare?». Oddio, voleva uccidermi!
«Spostati, scemo». Mi tirò un pugno sul braccio, avvicinandosi al mattone di pasta.
Ci piantò il coltello dentro, cercando di dividerla.
Sospirai sollevato, allora Lee non aveva intenzione di uccidermi!
«Credevo volessi uccidermi» ridacchiai quando riuscì a dividere il mattone di spaghetti in quattro piccoli mattoncini.
«Lo farei, ma so che dopo me ne pentirei» borbottò, dividendo ulteriormente la pasta scotta.
«Grazie» mormorai baciandole la guancia per fare il ruffiano.
«Levati, ho ancora il coltello in mano, posso ferirti». Agitò il coltello come ammonizione e io indietreggiai di un passo, spaventato.
«Lee, posalo per favore» la supplicai.
Non avevo paura che mi accoltellasse, sapevo che non l’avrebbe mai fatto; più che altro temevo potesse ferirsi.
Quel coltello era affilato, e se, per sbaglio, le fosse scivolata la presa dal manico e si fosse tagliata, non me lo sarei mai perdonato.
«Non ti accoltello, no! Non sono ancora così stupida» ribatté, appoggiando i piatti sulla tavola.
«Ho paura che tu ti faccia male» dissi sincero, guadagnandomi una strana occhiata da Lee.
«Grazie» mormorò abbassando lo sguardo quasi imbarazzata. «Forza, mangiamo questa roba». Lanciò uno sguardo schifato alla pasta e io non riuscii a non ridere.
Si tappò il naso con due dita e, dopo aver infilzato la forchetta su un quadratino di spaghetti, lo portò alle labbra per mangiarlo. Dopo averlo masticato per qualche secondo, strinse gli occhi e lo deglutì.
«Rob, ma hai messo il sale?» chiese riempendosi il bicchiere d’acqua e cominciando a bere.
«Ops… me ne sono dimenticato» bofonchiai, appoggiando la forchetta al piatto e alzandomi per prendere il sale.
«Ok, togliamo dalla lista delle tue abilità ‘cucinare’. Devo ancora trovare la seconda dopo quattro anni» sghignazzò, mettendo un po’ di sale sulla pasta e aggiungendone anche al mio piatto.
«Perché, qual è la prima?» domandai incuriosito.
Non sapevo che Lee avesse fatto una lista con le mie abilità.
«L’unica cosa che sai fare decentemente. Suonare». Mi sorrise, ingoiando a fatica un altro boccone di pasta.
«Ah, grazie. Così questa è la mia unica abilità?» chiesi infastidito.
Impossibile!
Avevo tante qualità.
«Sì. È l’unica che ho scoperto. Hai altre abilità di cui non sono a conoscenza?» domandò ammiccando.
«Io…» balbettai, non sapendo che cosa rispondere.
Probabilmente avevo frainteso la sua domanda.
«I massaggi non sai farli, quindi ‘massaggiatore’ lo togliamo, cucinare non ho nemmeno mai pensato di scriverlo in lista. Non ti ho mai visto ballare, ma sono sicura che non è uno spettacolo da vedere. Con le tue braccia e gambe lunghe sembreresti un polipo. Forse sì, forse vorrei vederti ballare. Una sera dobbiamo andare in discoteca. Io, te e Xavi. Ci divertiremmo davvero tanto» annunciò felice, masticando un altro mattoncino di pasta.
«Io, te e Xavi» sibilai, calcando la voce su quello stupido nomignolo che gli aveva dato. «Una serata divertentissima insomma». Finsi forse troppa enfasi, perché Lee si alzò per abbracciarmi.
«Dopo gli mando un messaggio e glielo chiedo. Grazie Rob». Mi baciò una guancia continuando a sorridere.
«Per così poco? Ci divertiremo tanto» ironizzai, con un sorriso finto.
Possibile che Lee non avesse capito che stavo scherzando e che in verità l’idea di reggere il moccolo come terzo incomodo tra lei e Xavier non mi allettava?
Peggio, mi irritava da morire, perché lei era Lee.
«Che bello. Adesso devo andare a lavorare, ma dopo glielo chiedo». Mi tirò una ciocca di capelli passando di fianco alla mia sedia, prima di andare a prepararsi.
«Non vedo l’ora» borbottai tra me e me, alzandomi per sparecchiare la tavola e lavare i piatti.
 
La settimana trascorse lentamente, Lee mi aveva detto che saremmo usciti con Xavier quel venerdì sera, anche perché, durante la settimana, lui era volato da qualche parte per girare le scene finali di un film.
Così avevo avuto Lee tutta per me, come ai vecchi tempi.
«Rob, vuoi sapere come è andata la visita?» bofonchiò entrando in cucina,  dopo aver trascorso la mattinata dal ginecologo.
«Non mi interessa molto, sinceramente» borbottai a disagio, prendendo un bicchiere di carta: avevamo dimenticato di accendere la lavastoviglie il giorno prima.
«Be’, io te lo dico lo stesso. Va tutto bene laggiù, anche se ormai ci saranno le ragnatele» sghignazzò, facendomi arrossire.
Improvvisamente mi resi conto di una cosa…
Se aveva parlato di ragnatele era perché da molto non… quindi con Xavier non aveva mai…
Non feci in tempo a esultare mentalmente che Lee riportò il mio umore sottoterra.
«Insomma, tutto apposto e pronto per l’uso. E ho ripreso con la pillola, quindi niente più svenimenti o pericolo di piccole Aileen in arrivo. Che bello, mi ricresceranno le tette. Sono già ricresciute un po’ secondo me. Dici di no, Rob?». Si avvicinò perché potessi controllare.
«Ma cosa dici? Lee non si chiedono queste cose» mormorai spostando lo sguardo per non posarlo sulla sua scollatura in bella vista.
«Che succede? Ti ho solo chiesto se secondo te mi sono cresciute le tette. Ah, ho capito, non riesci a capirlo a occhio. Devi toccare?» si informò, facendomi andare la saliva di traverso.
«Lee, quante volte devo dirtelo?» strillai per l’imbarazzo. «Non si dicono queste cose, possibile che tu non riesca a capirlo? Non è bello chiedere a un ragazzo se ti palpa il seno per vedere se è cresciuto. Se io ti chiedessi di vedere se ho qualcosa sul sedere, tu lo faresti?». Avevo appositamente nominato il sedere, per paura di immaginare  cose strane.
«Certo! Che c’è di male?». Fece spallucce, come se fosse stato naturale.
«Gesù» mormorai, passandomi una mano sulla fronte.
«Che succede?» chiese Lee, avvicinandosi di un passo a me.
«Niente». Ci rinunciai.
Non sarebbe mai cambiato niente in Lee. E forse, in qualche modo, ne ero felice.
Xavier non aveva avuto un impatto così grande da cambiarla.
«Questa sera Xavi torna e usciamo. Ha detto che entra per salutarti» annunciò Lee, sedendosi sul divano.
«Quale onore!». Alzai le braccia in segno di vittoria e Lee cominciò a ridere.
«Che stupido che sei. Comunque ti ricordo che è tra quattro giorni la nostra uscita in discoteca».
Oddio.
Era un incubo!
Speravo se ne fosse dimenticata, invece no!
«L’ho segnato nell’agendina» mormorai sedendomi di fianco a lei sul divano.
«Bravo Rob. Così non ti dimentichi. Hai fatto proprio bene». Sorrise, prima di avvicinarsi per darmi un bacio sulla guancia.
Socchiusi gli occhi sospirando quando sentii le sue labbra posarsi sul mio viso.
«Guardiamo un film?» proposi, allungandomi sul divano per prendere il telecomando.
«Lo farei volentieri, ma tra due ore Xavi arriva e devo farmi la doccia e dobbiamo anche mangiare. Non credevo ci fossero così tante persone dal dottore» mormorò, stiracchiandosi.
«Oh, ok» bofonchiai quasi deluso.
Ora che Xavier era tornato, non sarei stato la sua prima priorità.
Era una cosa fastidiosa sapere che pensava a Xavier.
«Vado a farmi una doccia». Si alzò e qualche secondo dopo sentii lo scalpiccio dei suoi piedi sulle scale.
Certo, doveva farsi bella per Xavier.
Accesi la TV, cominciando a fare zapping per passare il tempo.
«Rob» strillò Lee all’improvviso.
«Che succede?». Corsi su per la scala, salendo i gradini a due a due per impiegarci meno tempo.
Arrivato davanti alla porta del bagno, abbassai la maniglia, ma mi fermai prima di aprire la porta.
«Lee, tutto bene?» chiesi. Se non avessi ricevuto risposta sarei entrato subito.
«Oddio. Sì, adesso sì» cominciò a ridere all’improvviso. «Entra pure Rob».
«Sei nuda?» mi informai, prima di aprire la porta.
«Perché, tu ti fai la doccia vestito?» chiese ridendo.
«Allora rimango fuori». Molto meglio rimanere dietro a quella porta di legno, che dentro a un bagno pieno di vapore, con Lee nuda.
No, non dovevo pensare a certe cose.
«Dai scemo, ho arrotolato un asciugamano, non vedi nulla. Entra che ti racconto». Spalancò la porta, facendomi sbilanciare in avanti. Non avevo più sostegno e quindi rischiai di perdere l’equilibrio.
«Che è successo?» chiesi, indietreggiando di un passo quando mi accorsi con che cosa Lee si era coperta:
un piccolo asciugamano da mani che copriva a stento la linea del suo sedere.
Aveva i capelli bagnati che ricadevano sulla schiena, la sottile cavigliera d’oro che brillava e l’asciugamano color indaco stretto attorno al suo minuscolo corpo.
Un nuovo passo indietro.
«Quando ho finito di farmi la doccia mi sono messa con la testa in giù per pettinarmi i capelli dentro al box doccia. Poi ho tirato su la testa di scatto e ha cominciato a girare tutto. Ho avuto paura» mi confidò, prendendo un paio di slip dal bordo del lavello e alzando una gamba per infilarseli.
Le voltai le spalle coprendomi gli occhi con le mani.
“Pensa a Xavier, pensa a Xavier” cominciai a ripetermi, per non pensare a Lee nuda dietro di me.
«Bene, allora se è tutto apposto io torno a guardare il film» borbottai, tentando di controllare il tremore della mia voce.
«Va bene. Scusa se ti ho spaventato» disse Lee, quando feci per chiudere la porta. «Aspetta, lascia aperto per favore, ho fatto troppo vapore, altrimenti con il calore del phon muoio» ridacchiò accendendo il phon.
«Ok». Lasciai la maniglia e scesi le scale senza nemmeno voltarmi.
Una volta seduto sul divano cominciai a picchiettare le dita sulla gamba, come un tic nervoso.
Lee sarebbe uscita con Xavier, non si  vedevano da più di una settimana, aveva ricominciato a prendere la pillola…
Non mi rendeva felice, proprio per niente.
«Rob, sono bella?» chiese Lee scendendo le scale quasi un’ora dopo.
Indossava un vestito nero attillato, che le fasciava il corpo in maniera perfetta.
«Abbastanza, sì» mormorai, distogliendo subito lo sguardo da lei per evitare di rimanere con la faccia da pesce lesso.
«Come abbastanza? Devo essere perfetta! Che cosa non va bene? Il trucco? Il vestito? Le scarpe? La borsa?» cominciò a chiedere, posizionandosi davanti alla TV per attirare la mia attenzione.
«Lee, va tutto benissimo, dico davvero» risposi, costretto a guardarla.
Quel vestito le segnava la curva dei fianchi in modo quasi divino.
«E perché mi hai detto abbastanza? Perché non hai detto solo sì?» tornò a chiedere, facendo un passo verso di me.
«Perché mi sembrava brutto dire solo di sì» confidai, sperando che la scusa reggesse.
«Sei sicuro che non sia perché c’è qualcosa che non va e tu vuoi che esca ridicola così tutti ridono di me?». Puntò un dito contro il mio petto, facendomi indietreggiare sul divano.
«Lee» sospirai, «sei bellissima, ok?». Cosa potevo dirle?
Che mi dava fastidio vedere che si faceva bella per Xavier?
Voleva davvero sentirsi dire questo?
«Molto meglio» sorrise, accarezzandomi una guancia.
Il suo cellulare suonò e sussultammo entrambi.
«Oddio è già arrivato! È in anticipo». Cominciò a saltellare davanti a me, prima di andare alla porta d’entrata e aprirla. «Non lo vedo» brontolò, facendomi alzare gli occhi al cielo in un gesto spazientito.
Possibile che dovesse essere così felice di rivederlo?
«Xaviiii» urlò all’improvviso correndo fuori di casa. «Ciao Xaviii» strillò in mezzo al giardino.
Sentii la voce di Xavier e poi quella di Lee dire qualcosa.
Chissà che cosa si stavano dicendo.
Ah be’, poco mi importava!
Rimasi seduto sul divano a guardare i titoli di coda di quello stupido film.
«Ciao Rob» salutò Xavier rimanendo fuori dalla porta.
«Ciao Xavier. Entra pure, paghi lo stesso prezzo» scherzai, sperando che i lampi emanati dai miei occhi riuscissero a ucciderlo.
«Oh, grazie… sei gentile» ridacchiò, entrando dentro casa.
Lee era al suo fianco e gli stringeva la mano; continuava a sorridere, ma era un sorriso forzato, non sembrava nemmeno un sorriso felice.
«Che cosa dovevi dirmi Xavi?» chiese Lee, guardandolo.
«Oh…» sussurrò Xavier in imbarazzo, lanciandomi un’occhiata strana.
«Puoi dirlo anche se c’è Rob...» lo esortò Lee, tirandogli leggermente il braccio.
«Ecco… l’altro coinquilino questa notte è a Las Vegas… volevo chiederti se ti andava di venire da me per passare la notte…». Cominciò a gesticolare, rosso in viso.
Sentii distintamente lo scatto della mia mascella che si serrava e il fumo che stava cominciando a uscirmi dalle orecchie.
«Oh, certo! Vado a preparare una borsa» Lee lo abbracciò saltellando prima di togliersi i tacchi per correre su per le scale.
Xavier rimase davanti alla porta aperta, in imbarazzo con gli occhi bassi, visibilmente a disagio.
«Vieni, siediti pure…» sibilai indicando l’altro divano.
«Grazie». Mi sorrise, forse cercando di rassicurarsi.
C’era poco da stare sicuri.
«Allora… ehm» cominciò, probabilmente sperando di riuscire a instaurare una conversazione. «Come è andato il film? Mi sembra che tu adesso sia in pausa, no?».
Quello che non sapeva era che in quel momento non avevo la minima voglia di parlare.
«Bene» ribattei, assottigliando lo sguardo.
«Ottimo» balbettò.
Era in difficoltà… perfetto! Era il momento giusto per parlare.
«Senti, cowboy. Se provi a ferire Lee, non solo fisicamente, ma anche a livello di sentimenti, io vengo a scovarti, fossi anche scappato in Tibet. Quindi pensa bene a quello che fai, chiaro?» conclusi con un sorriso, quando sentii i passi di Lee dal piano di sopra.
«Arrivo ragazzi» strillò, sbattendo la porta della sua camera.
«Ve-veramente sono australiano, non texano» bisbigliò, muovendosi irrequieto sul divano.
«Eccomi» strillò Lee, scendendo le scale di corsa.
«Fa lo stesso» minacciai, continuando a guardarlo.
Doveva sapere che Lee non andava sfiorata nemmeno con un dito.
Lee doveva essere trattata da principessa, non come una ragazza da una botta e via.
«Andiamo? Sono pronta». Aileen lo prese per mano, facendolo alzare dal divano.
«Rob, ci vediamo domani. Buonanotte». Corse ad abbracciarmi e mi stampò un veloce bacio sulla guancia prima di ritornare da Xavier.
«Pensaci, ok?» sussurrai, per riprendere il discorso che avevo fatto con Xavier.
«Che cosa devi pensare Xavi?» chiese curiosa Lee.
«A una cosa di lavoro…» risposi evasivo, prima che lui potesse inventare qualche storia, o peggio, sbandierasse ai quattro venti la verità.
«Lavorerete assieme di nuovo per un film? Che bello». Lee cominciò a saltellare mentre io continuavo a lanciare occhiatacce a Xavier.
«Ci penserò. Andiamo Lee-Lee?». Cercò di sorriderle, ma io riuscii ad accorgermi che era un sorriso falso.
Che pessimo attore era!
Che poi… Lee-Lee… sembrava il nomignolo di un peluche!
«Sì. Ciao Rob» strillò Lee dopo che aveva chiuso la porta di casa alle loro spalle.
Sbuffai appoggiando la nuca allo schienale del divano.
C’era una strana sensazione all’altezza dello stomaco che non se ne voleva andare.
Era come…
No, non poteva essere.
Mi alzai di colpo, cominciando a camminare avanti e indietro lungo la stanza.
Doveva essere fame non potevo veramente essere…
No!
Presi il telefono e senza pensarci inviai la chiamata.
Dopo numerosi squilli sentii un grugnito.
«Mhhh» fu l’unica risposta che ricevetti.
«Tom, ho bisogno di aiuto» mormorai, portandomi una mano tra i capelli.
«Chi è?» borbottò Tom, in risposta.
«Cazzo Tom, sono Rob» strillai, infastidito.
Avevo bisogno di aiuto. Subito.
«Non urlare, sono sveglio». Certo che doveva essere sveglio…
Oddio, il fuso orario.
Erano le sei di mattina a Londra.
«Scusa Tom non mi sono ricordato del fuso orario. Ho bisogno del tuo aiuto». Ero davvero un idiota.
«Problemi di che genere?» domandò, decisamente più sveglio di quando aveva risposto.
«Donne». Telegrafico, sapevo che avrebbe capito.
«Sono tutto orecchie, dimmi».
Come avrei potuto dire a voce alta qualcosa di cui non ero nemmeno sicuro?
Cioè… era qualcosa di cui forse non volevo essere sicuro.
«Lee è uscita con Xavier». Meglio partire dall’inizio.
«E che cosa devo fare, pedinarli? C’è un oceano a dividerci, non so se te ne sei accorto, ma non abito dietro l’angolo» scherzò, senza però riuscire a farmi ridere.
«Tom…» sibilai irritato.
«Scusa… dicevi?». Cercò di ritornare serio per ascoltarmi.
«Io… io credo di essere… geloso» mormorai,  pronunciando l’ultima parola con un sospiro.
Forse Tom non l’aveva nemmeno sentito, visto che per qualche secondo non rispose.
«Tom?» chiamai, credendo che fosse caduta la linea.
«Ci sono, ci sono» mormorò qualche secondo dopo, facendomi sospirare di sollievo.
Non volevo ripetere quello che avevo appena detto.
«Allora?» domandai spazientito.
Perché non mi diceva quello che pensava?
«Allora cosa?». Ma mi stava prendendo in giro?
«Che cosa ne pensi?». Alzai leggermente il tono della voce, accendendomi una sigaretta per cercare di scaricare i nervi.
«Cazzo Rob! Ce ne hai messo di tempo! Quattro anni amico! Quattro anni! Ti rendi conto? Nessuno ha la testa più dura della tua» sbraitò, stupendomi.
Come quattro anni?
Io non ero mica sempre stato geloso di Lee!
«No, io non sono sempre stato geloso di Lee» spiegai; evidentemente ci eravamo fraintesi.
«Rob, sei innamorato di Lee da anni» sospirò, quasi come se avessimo fatto quel discorso tantissime volte.
«Ma cosa stai dicendo? Non sono innamorato! Sono solo geloso». Perché doveva sempre fraintendere?
«Sai chi è geloso? Gli innamorati, chi tiene alle persone». Appunto, io tenevo a Lee, ma non perché ero innamorato di lei.
«Tengo a lei perché è come una sorella per me» spiegai. Volevo fargli capire che non ero innamorato.
«Rob, Lee non l’hai mai vista come sorella. Tu non vuoi scoparti Lizzy o Vic. Però vuoi scoparti Lee». Secco e diretto, mi colpì all’improvviso.
«Per forza! Lee va in giro mezza nuda per casa» urlai, ricordando i suoi mini completini di pizzo.
«Se Lizzy portasse quei completini che cosa diresti?» domandò, sicuro delle sue parole, ormai certo che avrebbe avuto ragione su di me.
«Che si dovrebbe coprire, perché fa schifo». Rabbrividii, pensando a Lizzy con uno di quei completini.
«Appunto! Capisci dov’è la differenza? Tu la ami!». Doveva aver bevuto molto la sera prima.
«No che non la amo, non dire stupidate» sbottai, aspirando una nuova boccata di fumo.
«Qual è la prima cosa che pensi quando ti svegli di mattina? La sera, prima di addormentarti a cosa pensi? Perché ogni volta che vedi un suo messaggio sorridi? Quando ha bisogno di te, perché corri dai lei spaventato con la paura che si sia fatta male?».
«Cazzo» sussurrai senza nemmeno accorgermene.
Non potevo essere innamorato di Lee.
«Non sono innamorato. Sono attratto da lei». Quello potevo anche ammetterlo.
«E tu sei uno da una scopata e via?» ribatté, ancora convinto di avere la vittoria in mano.
«No, ma cosa c’entra? Anche tu dici sempre che Lee è bella» mi giustificai.
«Ma io e te siamo diversi Rob. E poi io parlo sempre per niente. Lee è bella, è vero. Ma tu la guardi in modo diverso, te l’ho già detto». Lo sentii sbadigliare e feci lo stesso, di riflesso.
«In ogni caso adesso è troppo tardi. Sta con Xavier». Anche se avessi provato davvero qualcosa per Lee, ero arrivato in ritardo di un mese.
Avevo appena scoperto di essere il tipo di uomo che comprendeva l’importanza delle persone solo quando le aveva perse: non lo credevo.
«E così tu vorresti lasciare Lee a Xavier? Cazzo Rob! Sei un uomo, tira fuori le palle! Diglielo, dille che lo lasci». Si era veramente arrabbiato.
«Tom, gli sorride, è felice. Non potrei mai farle questo» mormorai, ricordando il suo abbraccio quando le avevo detto che sarei andato a ballare con loro.
«Rob, fattelo dire. Sei una fighetta. Chi è Xavier per lei? Da quanto lo conosce? Un mese? Dove era lui quando lei voleva disintossicarsi? E quando è morta la sua amica? Quando Lee sogna suo padre, lui dove è? Non c’è! Ci sei sempre tu». Non respirò nemmeno una volta, troppo concentrato a parlare.
«Forse questa sera ci sarà lui a svegliarla, se dormono» sibilai, stringendo il telefono tra le mani con rabbia.
«Dorme da lui?» chiese incuriosito.
«» sbuffai, spegnendo la sigaretta nel posacenere con rabbia.
«Oh, be’, maga…». Tom non riuscì a finire di parlare perché sentii il rumore della porta di casa che si apriva.
«Lee?» chiesi girandomi, incastrando il telefono tra la spalla e l’orecchio.
«Rob, sono tornata». Sembrava arrabbiata. Lo sembrò ancora di più quando gettò la borsa a terra.
«È tornata?» chiese Tom, probabilmente perché aveva sentito Lee. «C’è anche lui?» aggiunse, confondendomi.
Non sapevo se rispondere a lui o chiedere a Lee che era successo.
«Che cosa è successo, Lee?» domandai, quando si sedette con uno sbuffo di fianco a me, sul divano.
«Abbiamo litigato» cominciò a spiegare.
«Hanno litigato?». Tom continuava a farmi domande, confondendomi.
«Perché avete litigato?». Quando erano usciti sembravano di buonumore.
«Rob, è un segno» gridò Tom, tanto che Lee probabilmente lo sentì.
«Ciao Tom. Non trovarti la ragazza! Mettilo in vivavoce» propose Lee, allungando la mano perché le passassi il telefono.
«Metto in vivavoce» lo ammonii, affinché non dicesse niente di male.
«Ciao Lee» esordì Tom, una volta sistemato il telefono tra noi.
«Ciao Tom. Rimani single. Ho litigato con Xavier. Mi aveva detto che eravamo a casa sua da soli e quando siamo arrivati non eravamo da soli, c’era anche Chris. E mi sono arrabbiata». Lee sbuffò, giocherellando con una ciocca di capelli.
«Perché ti sei arrabbiata?» domandai, non comprendendo il nesso logico.
«Perché dovevamo essere solo noi due. E hanno una camera sola. Poi non sopporto l’altro… ma lasciamo stare. Non ne voglio  parlare. Tom, di che cosa stavate discutendo?» chiese Lee, avvicinandosi al telefono e allungando le gambe sulle mie.
«Di fato e di segni del destino. Cose da uomini. Te ne parlo quando compi gli anni e diventi maggiorenne, Lee» scherzò Tom.
«A proposito, sei invitato al mio compleanno, lo sai, vero? A questo punto credo saremo solo io, Rob e te». Non appena Lee disse così, strinsi appena di più il suo polpaccio.
Sembrava una cosa seria questo litigio.
«Va bene. Ti faremo ubriacare, preparati» giocò Tom, facendo sorridere Lee.
«Non dire così, mi fai paura» piagnucolò, prima che il suo cellulare suonasse. «Scusate». Si alzò dal divano, sbuffando quando lesse il nome sul display.
«Pronto? Che c’è Xavier?» chiese quasi con un sibilo, cominciando a salire le scale per andare in camera sua.
«Rob, è un segno» strillò ancora Tom. Per fortuna avevo appena tolto il vivavoce.
«Tom, l’ha chiamata» bisbigliai, convinto che Lee sarebbe scesa dalle scale con il sorriso dopo aver fatto pace con Xavier.
«E allora? Finché è arrabbiata con lui approfittane! Sbattila al muro e dille tutto quello che credi» gridò deciso, e io alzai gli occhi al cielo.
«Sì Tom. Seguirò di sicuro il tuo consiglio. Adesso ti saluto» mormorai stiracchiandomi.
«Fammi sapere» urlò mentre chiudevo la chiamata.
«Sì, ti faccio sapere, sì» borbottai, lanciando il telefono sull’altro divano.
Non sentivo grida dal piano di sopra… era un buon segno o cattivo?
«Rob! Rob!» strillò Lee scendendo le scale.

 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Grandi novità in casa Pattinson-Colbie, eh?
Sembra che Rob improvvisamente sia diventato gelosetto, mhh?
Chissà perché, continuo a chiedermelo.
Nello scorso capitolo avevo scommesso su 8 recensioni, ma siamo arrivate a 7… ce la facciamo ad arrivare a 8 su questo?
Prometto che nel prossimo ci saranno talmente tante sorprese che le recensioni diventeranno il doppio!
Le risposte alle recensioni le pubblico ora, mentre voi state leggendo questo capitoletto… :)
Mi sembra di non aver altro da dire, come al solito vi ricordo che QUI potete aggiungermi su Fb e QUI trovate il gruppo per gli spoiler.
 
Per quanto riguarda il CONTEST, l’ho prolungato di una settimana, quindi avete tempo fino al 7 Novembre… spero ci sia qualche altra adesione! <3
A lunedì prossimo!

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Capitolo 10
*** When everything burns ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Che c’è?» sbottai, alzandomi dal divano per andare al piano di sopra.
«Devo andare da Xavier». Stava correndo giù per le scale, legandosi i capelli.
«Cosa?» chiesi, sbalordito.
Era tornata a casa meno di dieci minuti prima, arrabbiata perché aveva litigato con il suo Xavi, e ora stava correndo da lui.
«Mi accompagni?». Si fermò a pochi passi da me, per guardarmi.
Rimasi per qualche secondo immobile.
Era il momento di decidere.
Se l’avessi accompagnata, Lee sarebbe rimasta a dormire da Xavier.
Loro due, su un letto.
Qualcosa mi diceva che non ci sarebbero state barriere di stoffa a dividerli.
Se, invece, non le avessi dato il permesso di raggiungere Xavier, Lee sarebbe rimasta lì, con me.
«No» sussurrai, stupendo Aileen e anche me stesso.
«Come?». Aggrottò leggermente la fronte, confusa.
«Non ti accompagno da Xavier» dissi con un po’ più di voce.
Sembrava che avessi preso coraggio.
«Perché?» domandò Lee  stupita: per la prima volta le avevo detto ‘no’.
«Perché credo che non sia giusto correre da lui così. Avete litigato meno di dieci minuti fa, e adesso, dopo che ti ha chiamato dicendoti probabilmente che non voleva litigare e che ti ha detto tutte quelle cose per rabbia, tu corri da lui». Respirai a fondo, cercando di calmarmi.
Come scusa poteva reggere, anche perché, in fin dei conti, non era poi tanto una scusa.
Lee non doveva arrendersi così, se avevano litigato per un motivo, non doveva cedere immediatamente.
Troppo facile chiamare e scusarsi con la vocina triste.
«Oh… forse hai ragione» bisbigliò, appoggiandosi con le spalle al muro. «Non ci avevo pensato. Grazie Rob». Sorrise appena, cominciando a salire le scale di nuovo, probabilmente per ritornare in camera sua.
Rimasi immobile, senza quasi respirare: volevo sentire che cosa Lee avrebbe detto a Xavier.
Pochi secondi dopo, udii la sua voce.
«Ciao… sì, credo sia meglio se non ci vediamo questa sera». Attese qualche secondo, prima di continuare «no, non è che sono ancora arrabbiata con te. Però abbiamo appena litigato e non voglio vederti adesso. Certo che ci vediamo domani, che discorsi sono?» sbuffò, leggermente irritata. «Va bene. Buonanotte». Quando Lee salutò Xavier, corsi giù per le scale, e mi lanciai sul divano per meglio nascondere il fatto che stessi origliando la conversazione.
L’ultima cosa che mi serviva in quel momento era una discussione con Lee perché avevo ascoltato la sua telefonata.
«Rob, rimango a casa». Lee si distese sul divano, appoggiando i suoi piedi sulle mie ginocchia.
«Bene» mormorai, non sapendo che dire.
Non mi piaceva origliare o mentire, non era da me.
«Guardiamo un film? Xavier mi ha detto che gli piacerebbe guardare un film con me, ma non mi ricordo il titolo. È qualcosa con un ballo e qualche città…» bofonchiò pensierosa, dandomi un calcio sulla gamba perché le prestassi più attenzione.
Impossibile.
Xavier non poteva averle detto di guardare quel film assieme a lei.
Era sconveniente, era…
No! Non avrei mai permesso a Lee di guardare quel film con lui, e non l’avrebbe visto nemmeno con me.
Era troppo rischioso.
«Ho capito di quale film stai parlando, ma non mi ricordo il titolo» mentii. Rimanere di fianco a Lee, in una stanza buia, illuminata solo dalla luce proveniente dallo schermo della TV mentre guardavamo Marlon Brando? Non era una mia priorità quella sera, non dopo quello che avevo scoperto.
«Va bene» piagnucolò, sistemandosi meglio, cercando di spostarmi per farmi cadere dal divano.
«Lee, dai» la ammonii. Non avevo voglia di scherzare o giocare in quel momento.
«Rob, sei acido questa sera» sbuffò arrabbiata, mettendosi a sedere. «Rimanere senza lavoro ti fa diventare insopportabile». Incrociò le braccia al petto, cominciando a fissare la TV.
Non riuscii a trattenermi e cominciai a ridacchiare, irritandola ancora di più.
Quando si arrabbiava, Lee sembrava una bambina capricciosa.
«Smettila» mi avvertì, come se avesse davvero voluto farmi del male.
Iniziai a ridere ancora più forte, appoggiando la nuca sul divano.
«Ripeto per l’ultima volta: smettila o te ne pentirai». Non mi guardava nemmeno; continuava a rimanere con lo sguardo fisso sullo schermo piatto.
Non riuscivo proprio a fermarmi, forse perché ridevo quasi in modo isterico dopo la scoperta che avevo fatto, o forse, perché veramente mi stavo divertendo.
«Cazzo, adesso ti tolgo io quel sorriso» strillò, lanciandosi addosso a me e cominciando a farmi il solletico.
«Lee» risi, cercando di ripararmi con le braccia, senza risultato.
Aileen non smetteva di farmi il solletico sui fianchi.
«Così la smetti di ridere» continuò a urlare, quando le presi i polsi.
«E come facciamo adesso?» la schernii, stringendo un po’ di più la presa, per farle capire che era in trappola e non sarebbe più riuscita a mettermi le mani addosso.
«Scemo, era esattamente quello che volevo» ghignò, avvicinandosi pericolosamente al mio braccio con il viso.
Pochi istanti dopo, un dolore lancinante mi colpì all’altezza dell’avambraccio.
«Auch! Auch» urlai, mentre Lee continuava a stringere più forte i suoi denti sulla mia pelle. «Lee, smettila ti prego». Lasciai d’istinto la presa sui suoi polsi, portando le mani sul suo viso. Dovevo assolutamente spostarla e farla smettere. «Lee, mi fai male» strillai, ma strinse ancora di più la presa.
Che diamine le era successo?
Bear l’aveva morsa e si era presa la rabbia?
Sentii i denti di Lee lasciare il braccio e subito guardai il danno.
C’era tutto un segno rosso, per fortuna non usciva sangue.
«Allora?»  mormorò, spostandosi i capelli dal viso, «lo guardi o no questo film?». Mi sorrise, continuando a rimanere seduta sulle mie ginocchia.
«Tu sei fuori di testa» brontolai, scostandola in malo modo e correndo verso lo specchio d’entrata per controllare meglio la ferita.
«Te l’avevo detto che io i morsi li lascio profondi» scherzò, riferendosi a una chiacchierata di qualche giorno prima.
«Evita di fare queste cose, per favore». Salii le scale in fretta, per andare in bagno a disinfettarmi.
«Dai Rob, stavo scherzando» si lamentò seguendomi, forse cercando di scusarsi.
«Impara a non scherzare più così con me. Fallo con il tuo Xavi» sbottai gemendo non appena appoggiai un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante.
«Mi dispiace Rob. Non credevo di fare così male. Non doso più la forza dei denti». Si sedette sul ripiano di fianco al lavandino, appoggiando il mento su un ginocchio.
«Non sono cose da fare. Vuoi che provi io a morderti?» ribattei nervoso, lanciando il batuffolo di cotone dentro al cestino.
«Se può farti sentire meglio, va bene». Fece spallucce, scendendo dal lavandino. «Il posto lo scelgo io. Sul sedere, lì fa meno male». Si piegò leggermente, per sollevare il vestito che ancora portava.
«Sta ferma» gridai agitando le braccia e dandole subito le spalle.
No, non potevo farlo, mi avrebbe annientato solo il pensiero di poter dare un morso al sedere di Lee.
«Be’, io ti ho dato la possibilità di riscattarti, se non hai voluto sono solo fatti tuoi». Si incamminò verso la sua camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Socchiusi gli occhi sospirando: Lee era veramente senza speranze.
Quante volte l’avevo ripetuto nelle ultime settimane?
Probabilmente troppo poche.
«Buonanotte» bisbigliai, prima di chiudermi in camera.
Mi tolsi lentamente i vestiti, indossando il pigiama senza fare rumore: volevo capire che cosa stesse facendo Lee.
Non sentivo rumori dalla sua camera ma era impossibile che si fosse già addormentata.
Quando sentii qualcuno bussare alla porta della mia stanza sorrisi, infilandomi sotto alle coperte.
«Rob?» sussurrò, aprendo appena la porta.
«Entra dai» ridacchiai, quando la vidi comparire con Leebert stretto tra le braccia.
«Mi dispiace, non volevo fare la cannibale». Si sedette sul bordo del mio letto, tenendo lo sguardo basso.
«Non fa niente» mormorai portandomi un braccio dietro la testa, per stare un po’ più comodo sulla testiera del letto.
«Io… volevo solo giocare un po’ con te. Ultimamente non giochiamo più come una volta» mi confidò, continuando a torturare le orecchie di Leebert.
Forse era colpa mia.
Perché non riuscivo più a vedere Lee nello stesso modo.
«Ma non ci siamo mai morsi in quel modo» scherzai, spostando la gamba per darle fastidio.
«No, infatti». Non rispose al mio tentativo di stuzzicarla.
«Dai Lee, in una settimana mi passerà» dissi cercando di sollevarle il morale.
«Mi perdoni?». Alzò improvvisamente lo sguardo, puntando i suoi grandi occhi color ghiaccio nei miei.
Rimasi per qualche secondo senza dire niente, davanti a quello spettacolo.
«Ma certo che ti perdono» acconsentii, sminuendo il tutto con un gesto della mano.
«Grazie Rob. Sei il Rob più Rob che ci sia». Lee mi abbracciò pronunciando quella stupida frase senza senso.
Ogni tanto la ripeteva, ma dopo tutti quegli anni dovevo ancora capire che cosa volesse dire.
«Adesso fila a dormire, su». Le accarezzai velocemente la schiena, sciogliendo subito dopo l’abbraccio.
«Buonanotte Rob» mormorò prima di stamparmi un bacio sulla guancia.
Abbracciò Leebert e sgattaiolò fuori velocemente, chiudendo la porta dietro di lei.
«Lee… prima o poi mi farai impazzire» mormorai passandomi una mano tra i capelli.
Il mio cellulare squillò; lo presi sorridendo: magari era Lee che cercava di farsi perdonare anche con un messaggio.
Quando lessi il nome del mittente, il sorriso sparì per qualche secondo, per poi ritornare.
Era Andrew: mi chiedeva se potevamo trovarci per cena visto che per una sera si trovava a Los Angeles.
Dopo avergli risposto di sì, appoggiai la testa sul cuscino e mi addormentai, sognando Lee che mi mordeva ancora una volta il braccio.
 
«Lee, questa sera devo uscire con Andrew a cena, ti dispiace?» biascicai, sfiorandole i capelli con un bacio; non la smetteva di lamentarsi perché l’avevo svegliata a mezzogiorno.
«No» borbottò, nascondendosi di nuovo sotto alle coperte.
«Perfetto. Ah, ti ricordo che cominci il turno tra tre ore…» strillai chiudendo la porta della sua camera alle mie spalle.
«Cosa?». Sentii l’urlo di Lee dalle scale e non potei non ridere. «Cazzo» urlò di nuovo, aprendo la porta di colpo tanto che sbatté contro al muro. «Vado a farmi una doccia».
Scesi in cucina per preparare qualcosa per pranzo e notai subito che il cellulare di Lee si stava illuminando.
Le era appena arrivato un messaggio.
Mi avvicinai, curioso, per vedere chi fosse.
Xavier.
In verità, il suo Xavi le aveva mandato nove messaggi.
Forse gli era successo qualcosa di grave e voleva avvertirla, meglio andare da Lee per dirglielo.
Presi il suo cellulare tra le mani, mentre una parte di me continuava a dirmi di leggere i messaggi. Riuscii però a resistere e, una volta arrivato davanti alla porta del bagno, bussai.
«Che c’è?» urlò, chiudendo un po’ il rubinetto dell’acqua.
«Xavier ti ha mandato nove messaggi» urlai, perché potesse sentirmi nonostante lo scrosciare dell’acqua e la porta chiusa.
«Nove? Leggili per favore». Chiuse definitivamente l’acqua, per sentire meglio.
Io? Io dovevo leggere i suoi messaggi? I messaggi che le aveva mandato Xavier?
«Ehm… Lee, non credo sia una buona idea» mormorai, guardando lo schermo del cellulare con diffidenza.
«Dai cretino, ti do il mio permesso. Leggili» sbraitò, arrabbiata.
«Ok, ok» mormorai sbloccando il cellulare e prendendo un respiro profondo. “Dio fa che non ci sia scritto niente di male” pensai.
«Allora?» chiese, impaziente.
«Lee-Lee, ho tanta voglia di vederti. Hai la casa libera questa sera?». Strinsi il cellulare tra le mani, stringendo i denti.
Gli avrei fatto passare io la voglia di vedere Lee, poco ma sicuro!
«Ohh» mormorò ridacchiando. «E gli altri che cosa dicono?» si informò, aprendo un po’ l’acqua.
Probabilmente aveva preso freddo.
«Ti ha mandato lo stesso messaggio nove volte, forse voleva essere sicuro di avere la casa libera» sibilai, con un po’ troppa ironia.
Perché ci teneva tanto a non vedermi?
Gli davo così fastidio?
«Puoi rispondergli che questa sera sono a casa da sola?» strillò Lee.
Lee e Xavier a casa nostra.
Da soli.
Pessima, pessima idea.
«Certo». Digitai velocemente il messaggio prendendomela forse un po’ troppo con i tasti.
Gli serviva una lezione.
«Grazie Rob». Lee aprì appena la porta del bagno e mi sorrise, allungando la mano per prendere il suo telefono.
Dopo averglielo dato, camminai velocemente verso la mia camera: sapevo esattamente che cosa fare.
Scrissi il messaggio velocemente, scusandomi con Andrew perché quella sera non sarei potuto andare a cena fuori con lui.
Quando Lee scese, prendendo una mela per mangiarla andando al locale, continuai a mangiare il mio hamburger come se tutto fosse stato normale.
«Rob, ti trovo a casa quando torno?» biascicò, parlando con la bocca piena.
«Non lo so. Dopo chiedo a Andrew a che ora ci troviamo» mentii, abbassando lo sguardo su una macchia di ketchup.
«Ok. Allora a dopo». Mi scompigliò i capelli, facendomi mugugnare infastidito.
Sentii la sua risata e subito dopo il rumore della porta che si chiudeva.
Bene, la casa era libera e dovevo solo progettare un modo per tenere Xavier lontano da lì.
Partendo dal piano superiore, avrei potuto… allagarlo, per esempio.
No, idea troppo idiota.
Chiudere la porta della camera di Lee a chiave e gettarla nello scarico del bagno era ancora toppo infantile.
L’unica idea che sembrava abbastanza ‘fattibile’ era rimanere appiccicato a loro per tutta la serata, così che non potessero avere nemmeno un momento per loro due.
Se avessero deciso di guardare la tv non li avrei fatti rimanere nemmeno seduti vicini, peggio ancora se avessero decido di guardare il film di cui mi aveva parlato Lee.
 
Quando Aileen tornò, finito il turno di lavoro, si sorprese di trovarmi a casa.
«E tu che ci fai qui?» domandò, lanciando le scarpe dietro la porta.
«Andrew non può più venire a cena questa sera e così rimango a casa. Non ti dispiace, vero?» chiesi quasi con innocenza, aspirando una boccata della sigaretta che mi ero acceso qualche minuto prima.
«No, certo che no. Però tra poco arriva Xavier. Io devo andare un attimo a cambiarmi. Se arriva lo fai entrare, per favore?». Stava già correndo su per le scale, senza aspettare una mia risposta.
«Con molto piacere» ghignai, strofinandomi le mani.
Il piano per non farli rimanere da soli sarebbe cominciato entro pochi minuti.
Quando il campanello di casa suonò, corsi ad aprire la porta con un sorriso amichevole.
«Xavier» salutai, non appena fu abbastanza vicino da vedermi.
«Rob?» sussurrò stupito, fermandosi per un attimo davanti alla porta.
«Esatto» scherzai, avvicinandomi per dargli una pacca sulla spalla. «vieni, entra pure». Lo costrinsi a entrare in casa, proprio quando Lee scese dalle scale con un paio di pantaloncini corti e una magliettina bianca.
«Ciao Xavi» gridò Lee, correndo ad abbracciarlo.
«Lee-Lee» sussurrò lui in risposta, baciandole una guancia, per i miei gusti con troppa confidenza.
«Rob rimane a casa, spero non ti dispiaccia» disse Lee, sciogliendo l’abbraccio.
«Oh. No, certo che no…». Si vedeva che stava mentendo e che in verità gli dava fastidio la mia presenza.
«Bene ragazzi, che cosa facciamo adesso?»  chiesi con un sorriso, guardando prima Xavier e poi Aileen.
«Io… non saprei» mormorò Lee, chiedendo aiuto con lo sguardo a Xavier.
Era il momento di metterlo in difficoltà.
«Xavier, che cosa avevi intenzione di fare stasera? Così la facciamo lo stesso» proposi, continuando a sorridere.
Non avrei mollato l’osso con facilità.
Tom mi aveva detto di comportarmi da uomo e che dovevo tirar fuori le palle: lo stavo facendo.
«Io… volevo guardare un film» mentì.
Me ne accorsi subito, perché alzò leggermente un sopracciglio.
«Allora guardiamolo! Qualche idea?». Mi avvicinai allo scaffale pieno di DVD, aspettando una sua risposta.
«Non saprei» bisbigliò prima di schiarirsi la voce, guardando Lee.
«Potremmo guardare Eclipse, così per ricordare come ti ho ucciso perché non mi avevi ascoltato». Ironia inglese.
«O-ok» acconsentì, per nulla convinto.
«No, Rob. Che cosa stai dicendo? Io non voglio guardare quel film! Non mi piace. Se ti va potremmo vedere quello che ti dicevo ieri sera… come si chiama?». Ci pensò su per qualche secondo e inorridii.
No!
Non avrei visto quel film con loro due assieme!
«No, non ce l’ho. Mi dispiace» mentii, spostandomi verso destra, visto che sapevo esattamente dov’era il DVD.
«Oh, peccato. Allora guardiamo quello che volete. Ma non Eclipse. Ti vedo tutti i giorni Rob, e guardarti anche sullo schermo mentre dici di no a una trombata con Bella Swan mi sembra un po’ troppo… come dire?». Finse di pensarci su, portandosi l’indice al mento.
«Mentre voi decidete che film guardare io vado in cucina a prendere una bottiglia d’acqua. Qualcuno vuole qualcosa da bere?» chiesi, guadagnandomi un’occhiataccia da Lee e un no da Xavier. «Ok» mormorai, incamminandomi verso la cucina.
«Scusa, non sapevo che sarebbe rimasto a casa» sussurrò Lee, purtroppo non abbastanza piano perché io non la sentissi.
«Dovevamo essere da soli». Xavier sembrava veramente irritato, non si era nemmeno accorto di aver alzato un po’ troppo il volume della voce.
Velocemente presi una bottiglietta d’acqua ritornando dietro la porta: volevo sentire che cosa avevano da bisbigliarsi.
«Sei sicura che funzionerà?». Xavier sembrava titubante.
Che cosa avrebbe dovuto funzionare?
«Fidati. Comincio io» bofonchiò Lee, sistemandosi meglio sul divano quando chiusi la porta della cucina alle mie spalle.
«Eccomi qui» dissi, sedendomi di fianco a Lee.
«Sai Xavi, prima stavo riguardando Glee, e ho visto la puntata di San Valentino, quella di Puck e la ragazza con gli occhiali. C’era quella scena dello sgabuzzino, qualcosa con paradiso…» Lee ci pensò su, cercando di ricordare qualcosa.
«Oh, sì! I sette minuti in paradiso. Quel gioco era popolare quando ero piccolo» ridacchiò Xavier.
«Una stupidata. Ti  chiudevi nello sgabuzzino con una ragazza e la baciavi per sette minuti…» rabbrividii al ricordo di un brutto episodio dentro alla stanza delle scope alla Harrodian.
«Be’, direi che non le baciavi soltanto, no? Io almeno non le baciavo solamente» ghignò Xavier, facendomi sparire il sorriso.
«Oh, Xavi! Non me l’avevi mai detto. Che ragazzo cattivo!». Gli diede una piccola pacca sul braccio, ridendo.
«Dai, l’hanno fatto tutti. No, Rob? Si partiva con i baci e poi… be’». Si passò una mano tra i capelli.
«Gli sgabuzzini in Inghilterra sono stretti» mormorai, in evidente imbarazzo.
«In Australia no. Direi che sono anche troppo grandi» sogghignò, facendo sghignazzare anche Lee.
«Fammi capire, tu durante l’orario di scuola ti chiudevi in sgabuzzino e lo facevi?». Lee era davvero stupita, lo guardava quasi con ammirazione.
«Sì. Ed ero anche bravo, sai? Nessuna si è mai lamentata delle mie qualità. E poi sapevo che fare. Ero un tipo sveglio già all’epoca». Ammiccò verso Lee, e io rabbrividii inorridito.
«Possiamo non parlarne?» mormorai schifato, cercando di riportare l’attenzione al televisore spento.
«Sono convinta di sapere molte più cose di te, Xavi» ribatté Lee, con una risata.
«Sono più vecchio di te». Si sistemò meglio sul divano.
«Ok, sentiamo: come fai a capire se una donna sta fingendo o meno?» domandò all’improvviso Lee, facendomi sussultare.
Ma che diamine stava dicendo?
Le sembravano discorsi da fare?
«Lee» bofonchiai imbarazzato, sperando che la finisse con quel discorso.
«Be’… urla?» rispose Xavier, insicuro.
«Vedi? È qui che tutti sbagliate. Secondo voi se una donna urla il gioco è fatto. Nessuno sa che è una questione di mosse». Lee si sistemò meglio sul divano, abbassando il tono della voce, come se stesse confidando un segreto.
«Ragazzi» li ammonii, cercando di attirare la loro attenzione.
«Shh, Rob! La questione si fa interessante, possiamo imparare qualcosa». Xavier mi diede un colpetto sul petto.
«Io non ho bisogno di imparare proprio niente. So arrangiarmi» sbottai irritato.
Credeva che fossi un novellino?
«Non saprei Rob… sono sicura di sapere qualche posizione in più di te» ghignò Lee, per niente imbarazzata.
«Lee-Lee, dovremmo provarle». Xavier si avvicinò un po’ ad Aileen che gli fece una linguaccia.
«Potreste non parlare di queste cose quando ci sono io con voi, per favore?». Gli avrei spaccato volentieri la faccia, sapevo cosa stava pensando.
Per Lee era normale, ma per lui?
«Hai ragione, non dobbiamo scatenare la tua invidia, anche perché tu adesso non hai la ragazza. Xavi, andiamo in camera mia? Così possiamo parlare tranquillamente». Lee si alzò dal divano e lo stesso fece Xavier.
Come, in camera di Lee?
«Io vado a dormire, mi è venuto sonno» sbottai, cominciando a salire le scale senza nemmeno salutare.
«Cercheremo di non fare rumore Rob. Se senti suoni strani picchia contro al muro» sghignazzò Lee, facendomi stringere i pugni per la rabbia.
Sbattei la porta della mia camera per chiuderla; pochi secondi dopo sentii lo scatto della serratura della camera di Lee.
Stavano ridendo.
Oh, davvero divertente!
Accesi lo stereo per non sentire nessun rumore molesto, ma inevitabilmente, ogni volta che mi sembrava di sentire qualcosa sbattere contro al muro o un grido, abbassavo il volume per controllare.
Dovevo assolutamente fare qualcosa.
Lee e Xavier non si stavano comportando bene.
«Dai, Xavi» urlò all’improvviso Lee, prima di cominciare a ridere.
«Shh» rispose lui. «No. Lee, no!» rise, assieme a lei.
Si stavano divertendo davvero tanto, dentro a quella stanza.
«Aspetta, alza la gamba, veloce» strillò Lee.
Che diamine stava succedendo?
«Lee, muoviti».
Basta!
Era troppo.
Aprii la porta della mia camera di colpo, tossendo prima di cominciare a scendere le scale.
Sapevano che ero ancora sveglio?
Scesi in cucina a bere un po’ d’acqua per cercare di calmarmi: mi sedetti su una sedia al buio, continuando a sorseggiare l’acqua.
Non mi resi nemmeno conto del passare del tempo, fino a quando sentii le voci di Lee e Xavier avvicinarsi.
Lee accese la luce d’entrata, prima di prendere la mano di Xavier per accompagnarlo alla porta.
«Ci vediamo domani» sussurrò lui, sorridendole.
«Baciami». Lee si avvicinò a Xavier, alzandosi sulle punte per essere più vicina a lui.
«Lee, c’è…» cercò di dire Xavier, ma non riuscì a terminare la frase perché Lee lo baciò.
Il tappo della bottiglia con cui avevo giocherellato per tutto quel tempo cadde dalla mia mano, mentre qualcosa all’altezza del petto si spostò, dandomi un leggero fastidio.
Fastidio che si intensificò, quando le mani di Xavier scesero lungo la schiena di Lee e si appoggiarono al suo sedere.
«Credo sia ora che tu vada a casa» sibilai, alzandomi di colpo dalla sedia e camminando velocemente verso di loro.
«Io…» cercò di scusarsi Xavier, facendo un passo indietro e lasciando il corpo di Lee.
«Subito». Aprii la porta per fargli capire che sarebbe stato davvero meglio per lui uscire da quella casa.
«A domani» sussurrò Lee, sorridendogli appena, prima che gli chiudessi la porta in faccia.
«Si può sapere che cavolo ti è saltato in mente? Ti sembra il modo di comportarti?» sbraitai, fregandomene di Xavier, che poteva sentirci.
«Di che cosa stai parlando?» chiese Lee stupita, guardandomi con gli occhi spalancati per la sorpresa.
«Di che cosa sto parlando? Ti metti a parlare di sesso e orgasmi con me davanti, andate in camera a fare chissà che cosa, e poi ti fai palpare il sedere in quel modo? Non le voglio vedere quelle cose, chiaro? Non ti devi comportare in quel modo». Stavo esplodendo e qualcosa mi diceva che quello era solo l’inizio.
«Rob, siamo una coppia, è normale, va bene? Cosa dovrei fare? Chiedergli delle api e dei fiori? E poi non ti devono interessare queste cose». Scrollò le spalle, facendo un passo verso di me.
«Stai scherzando, vero?» risi nervosamente, passandomi una mano tra i capelli.
«No. Credo solo che tu sia geloso perché non hai nessuna ragazza al momento, e per questo ti arrabbi con me». Incrociò le braccia al petto, forse per acquistare l’aria da dura.
«Vuoi davvero sapere perché sono arrabbiato con te, Aileen?» urlai.
Ero esploso.
«Forza, sentiamo, Robert».
Feci un passo verso di lei e, dopo averla presa per un braccio, la attirai verso di me per baciarla.
Chiusi immediatamente gli occhi quando sentii le labbra di Lee appoggiate alle mie.
Da quanto aspettavo quel momento?
Quante volte avevo immaginato un nostro bacio?
Aileen fece un passo indietro, guardandomi con gli occhi sgranati.
Si portò una mano sulle labbra e se le sfiorò con i polpastrelli; poi, senza dire nulla cominciò a correre su per le scale.
«Dove stai andando?» urlai seguendola.
Lee non mi rispose, continuò solamente a salire i gradini velocemente, per mettere distanza tra di noi.
«Non avevo finito il discorso» sbraitai, prendendola di nuovo per un polso e intrappolandola tra me e il muro.
Aileen continuava a tenere lo sguardo basso, così, dopo averle preso il viso tra le mani, la costrinsi a guardarmi di nuovo.
«Non mi guardi nemmeno?» borbottai, quando i suoi occhi cercarono di fuggire da me; non ci riuscì però, perché quando i nostri sguardi si incontrarono, non riuscì a rompere il contatto.
Era impossibile non perdersi in quel mare ghiacciato.
Ormai ero esploso.
Senza pensarci ritornai ad appoggiare le mie labbra su quelle di Lee.
Fu un bacio diverso, questa volta le labbra di Lee non rimasero impassibili, risposero al mio richiamo, giocando con le mie e strappandomi un gemito.
«Dio, non sai quanto ti voglio» mormorai appoggiando la mia fronte alla sua, quando smisi di baciarla.
Gli occhi di Lee si riempirono di lacrime all’improvviso, spaventandomi.
«Che succede?» sussurrai, togliendo con il pollice una lacrima che le stava scendendo sulla guancia.
«Perché hai detto così?» singhiozzò, prima di spintonarmi per correre in camera sua e chiudere la porta a chiave.
Cos’era successo?
Perché aveva reagito in quel modo?
«Lee» strillai, picchiando contro la porta della sua camera, perché mi aprisse.
«Vattene» urlò. Sentire la sua voce rotta dal pianto mi fece male, di nuovo.
Ero esploso, ma avevo ferito entrambi.
«Lee, apri». Picchiai più forte il pugno sulla porta. L’avrei anche buttata giù a calci.
«No. Vattene». Un nuovo urlo che arrivò dove non doveva arrivare.
Lì, al centro del mio petto.
Lasciai che il legno si conficcasse sotto le mie unghie, quando cercai di graffiare la porta.
Avevo sbagliato.
Non avrei mai dovuto reagire in quel modo.
Perché l’avevo baciata?
Perché le avevo detto che la volevo?
L’avevo spaventata.
Lee non mi avrebbe più permesso di avvicinarmi a lei.
In un momento di lucidità, pensai che magari Lee sarebbe potuta scappare da Xavier.
Non potevo permetterlo, no.
Prima di parlare con lui Lee doveva parlare con me.
Dovevamo chiarire quello che era successo.
Dovevo capire che cosa Lee provava per me.
Scesi velocemente le scale e raccolsi le chiavi delle macchine e di casa.
Lee non avrebbe potuto allontanarsi senza macchina.
Quando passai davanti alla sua camera, la sentii parlare.
«…eh, Leebert?» singhiozzò, mentre mi avvicinavo alla sua porta. «…bugia…» riuscii a capire, appoggiando la fronte sul legno bianco.
Aggrottai la fronte, stringendo la mascella, cercando di farmi forza.
Ero esploso e Lee stava soffrendo, come stavo soffrendo io.
Perché succedeva sempre così?
Chiusi la porta della mia camera dolcemente, senza fare rumore perché Lee non sentisse che ero ancora sveglio e avevo origliato, o peggio, che si accorgesse che erano sparite le chiavi delle macchine e di casa.
Impossibile riuscire a dormire quella notte: continuavo a girarmi e rigirarmi tra le lenzuola, ricordando il bacio che c’era stato.
Se chiudevo gli occhi, vedevo ancora il volto di Lee che si avvicinava al mio, sentivo il battito del mio cuore farsi più forte e insistente e avevo ancora la sensazione delle sue labbra sulle mie.
Quando anche il letto era diventato troppo scomodo, mi alzai e cominciai a scribacchiare il testo di una nuova canzone.
Non volevo scendere, sentivo i passi di Lee per la casa e una parte di me aveva troppa paura di uscire e incontrarla.
Cosa ci saremmo detti?
«Dove sono?» urlò, spalancando la porta della mia camera e spaventandomi.
«Cosa?» chiesi, appoggiando la penna sopra al letto.
«Non fare l’idiota. Le chiavi delle macchine, quelle di casa. Devo andare da Xavier, mi servono». Allungò la mano, appoggiando l’altra su un fianco, in attesa.
«Non so di che cosa parli» mentii, scivolando un po’ in avanti per nasconderle meglio sotto alle coperte.
«Tu stai impazzendo. Mi stai chiudendo dentro casa?» mi accusò, avvicinandosi a me.
«Sì. Sì, ok? Ti sto chiudendo dentro casa Lee. È tanto difficile da capire? Mi dà fastidio il fatto che tu vada da Xavier, perché è lì che stai andando, no?» urlai, fuori di me. «E allora, sai che ti dico? Vacci. Tieni». Mi alzai, strappando le coperte dal letto per trovare il più in fretta possibile le chiavi della macchina. I fogli con i pezzi di canzone si sparsero per il pavimento, ma riuscii comunque a trovare le chiavi, nonostante la confusione. «Ecco, tieni le tue stupide chiavi. Buona trombata». Lanciai le chiavi verso la porta, attento a non ferirla.
Mi sedetti sul letto, dandole le spalle; presi la mia testa tra le mani e cominciai a respirare lentamente per calmarmi.
«Rob». Un sussurro vicino a me che pensai di essermi immaginato. «Rob» udii, di nuovo.
Aprii gli occhi e mi accorsi che Lee era inginocchiata davanti a me.
Aveva un debole sorriso sulle labbra, ma riuscivo a vedere l’ombra del pianto di quella notte sui suoi occhi.
«Che c’è?» sibilai, tirandomi una ciocca di capelli.
«Mi dispiace» sussurrò Lee, allungando una mano verso di me. «Mi dispiace» ripeté, accarezzandomi una guancia. «Mi dispiace». Circondò il mio viso con le sue mani, continuando ad accarezzarmi le guance. «Scusami». Le sue labbra sfiorarono la mia fronte. «Non volevo». Arrivarono alle mie e sfiorò la bocca con dolcezza. «Perdonami». Tornò a baciare le mie labbra, una, due, tre volte.
Continuava a lasciarmi piccoli baci, poi qualcosa cambiò.
Un bacio diventò un po’ più profondo degli altri, e improvvisamente Lee si alzò, per sedersi sulle mie ginocchia.
«Lee…» mormorai, scostandomi appena dalle sue labbra, quando sentii le sue mani correre tra i miei capelli.
«Shh…» sussurrò, tornando a baciarmi.

 
 
 
 
Salve ragazze!
Scusate per il ritardo ma spero ne sia valsa la pena…
A questo capitolo ci tengo particolarmente (a dire la verità anche i prossimi due sono importanti, per me) e scriverlo non mi è risultato facile, specialmente nell’ultima parte.
Diciamo che stavo un po’ ‘impazzendo’ come Rob, e non è facile portare le sensazioni sullo schermo senza esagerare… spero di esserci riuscita e se volete lasciare un commentino per dirmi che ne pensate… ben venga!
Ringrazio preferiti/seguiti/ da ricordare, aumentate sempre di più e questa cosa mi fa felice!
Un ringraziamento particolare a Thecarnival che mi ha fatto un trailer di Redemption spaventosamente bellissimo!
Guardatelo, per favore! Lo trovate QUI, e vi consiglio di dare un’occhiata anche agli altri video del suo canale YT (ha fatto anche il trailer dei nerd, la mia originale…).
QUI c’è il gruppo spoiler e QUI il mio profilo.
Il CONTEST è stato prolungato e la data di scadenza è il 7 novembre: potete ancora partecipare, quindi… FORZA! :)
A lunedì prossimo!

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Capitolo 11
*** Tom, I had sex with Lee ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







Non riuscivo a smettere di baciarla.
Le sue labbra sembravano create per incatenarsi alle mie.
Le mani di Lee stringevano alcune ciocche dei miei capelli e gemevo sommessamente ogni volta che con le dita mi sfiorava la nuca.
«Lee» soffiai sulle sue labbra, attirando il suo corpo più vicino al mio.
Non rispose, continuò solamente a baciarmi.
Sentii la punta della sua lingua tracciare il contorno delle mie labbra e non riuscii più a trattenermi.
La abbracciai, in modo quasi spasmodico, attirandola verso di me.
Sentivo i suoi seni contro il mio petto, le sue braccia attorno al mio collo, il suo corpo contro il mio.
Sapevo che era sbagliato, che forse lei non provava quello che provavo io, ma non ero in grado di fermarmi.
Lee era come una droga per me.
Lee era la mia droga.
Le sue piccole mani arrivarono al bordo della mia maglia e velocemente la sollevò per togliermela.
Staccarmi dalle sue labbra mi risultò quasi doloroso.
Lee era il mio ossigeno.
Cominciò ad accarezzarmi la schiena con i polpastrelli, tracciava disegni astratti, ricoprendomi di brividi. Sembrava che stesse studiando il mio corpo, quasi per impararlo a memoria.
Sfiorava, accarezzava, graffiava.
Gemetti mordicchiandole le labbra quando con fare birichino mi lasciò un graffio un po’ più profondo degli altri poco sotto la spalla.
Era decisamente impaziente.
Le mie mani corsero a sollevare la sua magliettina e Lee si fece spogliare, togliendosi poi, quasi con un gesto buffo, i capelli dal viso.
Tornai ad accarezzare la sua schiena, godendo del contatto con la sua pelle nuda.
Quante volte l’avevo desiderato?
Quante volte avevo immaginato la morbidezza della sua pelle?
Tracciai in punta di dita una linea, seguendo la sua colonna vertebrale.
Sentii distintamente il corpo di Lee inarcarsi, strappandomi un nuovo gemito.
Le sue dita corsero velocemente sull’elastico dei pantaloni della mia tuta, e io mi staccai dalle sue labbra ansimante quando sfiorò volontariamente la mia eccitazione.
«Toglili» mormorò, quasi come un ordine.
La sua voce, roca, mi fece rabbrividire.
Preso da un’improvvisa frenesia, tornai a baciare le sue labbra: ero in astinenza.
Dopo quel pomeriggio sarei stato sempre in astinenza di baci.
Per qualche secondo Lee sembrò dimenticarsi della sua richiesta, impegnata com’era a baciarmi e graffiare la mia schiena.
Il silenzio attorno a noi era rotto solo dal rumore dei baci e dei nostri sospiri.
Portò una mano all’altezza del mio petto e mi costrinse a distendermi; non opposi nemmeno resistenza, sorridendo appena quando un ghigno soddisfatto comparve sul suo volto perfetto.
Tornò a baciarmi la bocca, mordicchiandola, per poi scendere sul mento.
Con una scia di baci lungo tutto il mio petto arrivò all’ombelico, facendomi sussultare.
Sentii le sue dita armeggiare sull’elastico dei pantaloni e alzai il bacino per permetterle di toglierli: con un solo gesto mi ritrovai nudo.
Dopo aver lanciato i miei pantaloni dietro di lei, Lee si tolse velocemente i jeans e la biancheria, rimanendo nuda a sua volta.
Un sospiro mi morì in gola quando percorsi il suo corpo con lo sguardo.
Un corpo perfetto.
Un corpo che si distese sopra al mio, regalandomi una nuova scarica di piacere.
«Lascia fare a me» sussurrò languida al mio orecchio, prima di mordicchiarmi il lobo.
Annaspai, in cerca d’aria, aggrappandomi ai fianchi di Lee.
Lee era la mia àncora.
Scese sul collo, mordicchiandolo e ricoprendolo di baci umidi che riuscirono a eccitarmi ancora di più.
Stava decisamente conducendo il gioco, lo capii quando volontariamente si strusciò contro di me per farmi gemere il suo nome ancora una volta.
Sentii una sua risatina e cercai di recuperare un po’ di forze.
Con un colpo di reni mi ritrovai sopra di lei, la sua schiena contro il materasso, il suo seno schiacciato al mio petto, le nostre gambe intrecciate.
Sentire il calore del corpo di Lee contro al mio mi diede coraggio.
Cominciai a leccarle il collo, facendola mugolare. Quando arrivai alla clavicola le lasciai un piccolo segno rosso, volevo marchiarla.
Lee era assieme a me.
Stavo andando a fuoco.
Ogni singola cellula urlava il nome di Lee, ogni parte di me la desiderava, la voleva, la bramava.
Eppure non riuscivo a smettere di baciarla.
Le accarezzai un fianco con i polpastrelli e le sue unghie si conficcarono ancora di più nella mia schiena.
Quando la mia mano scese e arrivò al suo inguine mi beai del gemito incontrollato che Lee non riuscì a trattenere.
Lee era mia schiava.
Mosse il bacino in un gesto decisamente troppo esplicito e improvvisamente pensai che quattro anni di preliminari erano sufficienti a entrambi.
Volevo chiederle il permesso di amarla, volevo chiederle il permesso di amarmi, ma ero completamente senza voce per tutto quello che stava succedendo.
Tornai a baciarla, sperando che Lee riuscisse a leggermi nella mente.
Quando sentii le sue gambe circondarmi il bacino per lasciarmi più spazio, la mia mano corse a stringere il suo fianco.
Abbandonai le sue labbra, aprendo gli occhi e guardando in quel pozzo, di solito ghiacciato: il ghiaccio si era sciolto e i suoi occhi erano ancora più belli del solito.
Le stavo chiedendo il permesso di farla mia, di poter essere solo una cosa con me.
Annuì, prima di ritornare a baciare le mie labbra, quasi con urgenza.
Lee aveva bisogno di me.
E non riuscii a negarle quel bisogno, unendomi a lei lentamente, godendo della sensazione del mio corpo dentro al suo.
La sensazione delle sue unghie che si conficcavano nella mia schiena non era nemmeno fastidiosa, concentrato com’ero sul suo viso, stravolto dal piacere.
Lee era bellissima.
Mi mossi appena, facendola gemere.
Il suo volto, segnato dal piacere, fungeva da mappa.
Le sue guance, imporporate, riuscivano a renderla ancora più bella.
E ci riuscivano anche i suoi occhi, che cercavano di rimanere aperti, nonostante il piacere le impedisse di farlo.
Le sue labbra schiuse, in cerca d’aria, che continuavo a riempire di baci, mi donavano una sensazione di possessione che non riuscivo a domare.
Ero io a procurarle quelle sensazioni.
Lee era mia.
All’improvviso si aggrappò più forte alle mie spalle, costringendomi poi a invertire la situazione.
La mia schiena contro il materasso, Lee sopra di me.
Si staccò dalle mie labbra, lasciandomi una sensazione di vuoto.
Il mio petto, non più a contatto con il suo, fu attraversato da un brivido di freddo.
Cercai di mettermi seduto per tornare a baciarla, ma Lee me lo impedì, tornando ad avere, per qualche secondo, quel ghigno impertinente sul suo viso.
Si stava muovendo per me, cercava di soddisfarmi.
Avrei voluto dirle che le sue labbra sulle mie avrebbero avuto più effetto, ma non riuscivo a parlare.
Cercai di trattenere un gemito più forte degli altri quando la bocca di Lee cominciò a mordicchiarmi la scapola, ma non ci riuscii.
Quando il suo viso fu abbastanza vicino al mio, riuscii a strapparle un bacio fugace che la costrinse ad allontanarsi.
Le mie mani corsero sui suoi fianchi per guidarla, come se ce ne fosse stato veramente bisogno.
Un suo gemito profondo mi ammaliò a tal punto che non riuscii a capire più nulla, la mente completamente piena del pensiero di lei.
Il suo seno che si alzava e abbassava velocemente, il capo piegato all’indietro e le labbra socchiuse, in cerca d’aria.
Strinsi i suoi fianchi con più forza, giunto ormai al limite.
Lee costrinse una mia mano a salire verso il suo seno, fino al collo; l’altra si aggrappò più forte a lei che cominciò a muoversi più velocemente.
Come un lampo, all’improvviso, il piacere arrivò, accecandomi.
«Lee» gemetti, riuscendo a fermarmi prima di continuare la frase. “Ti amo” pensai, mentre il martellare del mio cuore mi impediva di sentire qualsiasi altro rumore.
Cercai di riprendere il respiro, e vidi Lee fare lo stesso.
Involontariamente nel mio volto nacque un sorriso che si rispecchiò in quello di Lee.
Quando cercai di fare un po’ di forza sulla schiena per alzarmi e darle un bacio, sentii distintamente il corpo di Lee scivolare via dal mio.
Senza dire nulla, Aileen raccolse i suoi vestiti dal pavimento e cominciò a camminare verso il bagno.
Giusto, Lee aveva bisogno del bagno.
Probabilmente sarebbe tornata a letto poco dopo.
Mi distesi con un sorriso, respirando a fondo.
Il letto sapeva di me, di Lee. Sapeva di noi.
Senza nemmeno accorgermene mi addormentai.
 
Quando mi svegliai, mi guardai attorno, confuso.
Ero ancora nudo, c’era solo un lenzuolo che mi copriva malamente.
Di Lee non c’era traccia, ma la porta della mia camera era socchiusa.
Probabilmente si era accorta che mi ero addormentato e se ne era andata.
L’orologio del cellulare segnava mezzanotte e mezza.
Mi alzai, infilandomi i boxer e i pantaloni che Lee mi aveva tolto e sgattaiolai fino alla sua camera.
La porta era chiusa, quindi lei stava dormendo.
Per sicurezza, aprii la porta e sbirciai dentro: Lee parlottava qualcosa, rigirandosi tra le lenzuola.
Un sorriso mi nacque spontaneo e socchiusi la porta, prima di andare in bagno.
Nonostante mi piacesse sentire il profumo di Lee sulla mia pelle, dovevo farmi una doccia.
E sapevo esattamente cosa fare dopo.
Tornai in camera con l’asciugamano arrotolato in vita e, dopo essermi vestito, mi sedetti sul bordo del letto con uno sbuffo.
Avevo fatto l’amore con Lee.
Avevamo fatto l’amore.
Senza pensarci presi il telefono e feci quel numero. Ormai lo conoscevo a memoria.
Al secondo squillo qualcuno rispose. «Sì?».
«Tom, ho fatto sesso con Lee» borbottai, stupendomi di quanto mi piacesse pronunciare quelle parole.
«Ma chi parla?» chiese Tom, sorpreso.
«Sono Rob» sbottai, prendendo una sigaretta e accendendola.
«Ah ciao. Scusa Rob, ci deve essere un’interferenza perché ho capito che hai fatto sesso con Lee». Sembrava serio.
«Cretino, non c’è nessuna interferenza». Cominciavo a spazientirmi.
«Robert, hai trombato con Aileen?» strillò così forte che fui costretto a staccare il ricevitore dall’orecchio.
«» ammisi, continuando a sorridere.
«Aspetta» mormorò. Sentii il rumore di passi e un ticchettio. Pochi secondi dopo dal ricevitore udii un coro cantare l’Alleluja.
«Stronzo» ridacchiai, aspirando una boccata di fumo.
«Due giorni fa mi chiami disperato, dicendo che sei geloso e adesso te la sei fatta? Credo mi manchi qualche passaggio. Aspetta che mi prendo una birra» scherzò, facendomi ridere.
«Niente, ho seguito il tuo consiglio. L’ho sbattuta al muro e l’ho baciata. È scappata in camera piangendo e io ho nascosto le chiavi della macchina perché non andasse da Xavier. Quando è venuta in camera mia per dirmi delle chiavi le ho detto che sono geloso, si è avvicinata e mi ha baciato e… abbiamo fatto sesso». Non era sesso, a dire la verità. Io avevo fatto l’amore con Lee.
«Wow. Hai tutta la mia stima amico, dico davvero». Parlava quasi con ammirazione.
«Sì, ma…» cominciai, sperando che magari Tom riuscisse a trovare una spiegazione per il comportamento di Lee.
«Oh, hai fatto fiasco» mormorò, improvvisamente triste.
«No!» gridai, ferito nell’orgoglio e imbarazzato, «nessun fiasco» precisai.
«E com’è stato? Insomma… che tipa è Aileen? Me la sono sempre immaginata come una tigre, con tutta la sua esperienza. Che fa? Urla, piange, ride?» cominciò a chiedere.
«Direi… graffia» bofonchiai, guardando attraverso lo specchio i segni rossi sulla schiena.
«La cosa si fa eccitante» ridacchiò.
«Tom, vaffanculo» sbottai, innervosito.
«Idiota! Che hai capito. Stavo immaginando Lee. Be’, racconta un po’». Voleva veramente che gli dicessi di…
No, era Lee.
«Niente di che. È andato tutto bene solo che, alla fine…». Non avevo il coraggio di dire quello che era successo, forse perché Tom avrebbe detto ad alta voce quello che io continuavo a pensare.
«Oh no. Non dirmi che le hai detto che la ami». Sentii  un colpo: ma che stava facendo dall’altra parte del microfono? Sembrava stesse prendendo a schiaffi il ricevitore.
«No. Mi sono trattenuto. Ma, insomma… se ne è andata senza nemmeno darmi un bacio» mormorai, imbarazzato e ferito.
«E che cosa doveva fare? Dirti che è stata la scopata migliore della sua vita? Rob non è abituata a smancerie. Non so che cosa abbia fatto con quel Xavier, ma magari non è una che si perde in coccole post sesso». Sembrava un ragionamento esatto, il suo.
«Ma io mi sono avvicinato per darle un bacio, lei mi ha sorriso e se ne è andata» sbuffai, ricordando Lee che raccoglieva i suoi vestiti e se ne andava.
«Forse si è sentita in imbarazzo perché non sapeva che dire. Ci hai pensato?» domandò.
Ancora una volta sembrava aver ragione ma… non mi convinceva totalmente.
«E se fosse perché per lei è stato solo un modo per scaricarsi?» ammisi, sperando che Tom riuscisse a trovare una scusa abbastanza convincente.
«Perché con te? In fin dei conti poteva scaricarsi con Xavier, no? Io credo che si sia comportata in quel modo semplicemente perché lei ha sempre fatto così» borbottò, pensieroso.
Certo, non avevamo chiarito i nostri sentimenti ed era stata decisamente una cosa istintiva, ma Lee se ne era andata lasciandomi da solo.
«Sì, forse hai ragione» brontolai, tra me e me.
«Io credo che sarebbe giusto per voi parlarne. Capire che è successo e dopo vedere che fare. Non farle paura dicendole che sei innamorato di lei o altro, lascia che sia lei a parlare, vedrai che vi capirete» propose. «Scusa Rob, mi stanno chiamando. Ci sentiamo, ok?» gridò, prima che avessi il tempo di aggiungere altro.
«Certo» mormorai quando ormai la linea era già stata interrotta.
Dovevo assolutamente fare qualcosa per togliermi dalla mente quello che era successo, per quanto mi fosse possibile.
Scesi le scale e scelsi un DVD tra tutti quelli che c’erano di fianco alla TV.
Qualcuno volò sul nido del cuculo era uno di quei film che riusciva sempre a calmarmi.
Forse perché adoravo il modo di recitare di Jack Nicholson o perché il film mi piaceva particolarmente.
Cominciai a guardare le prime scene e, tra una sigaretta e un sorso di birra, riuscii ad allentare i miei nervi.
«Non riesci a dormire?». Sussultai non appena sentii la voce di Lee alle mie spalle.
«No» mormorai, girandomi appena.
«Nemmeno io». Si sedette di fianco a me, sul divano, prima di prendere la sigaretta dalle mie dita e cominciare a fumarla.
Il problema era che io non riuscivo a dormire perché ricordavo fin troppo bene quello che era successo dentro alla mia camera.
Come potevo affrontare con Lee quell’argomento?
«Che film è?» chiese, indicando la TV con un gesto del capo.
«Qualcuno volò sul nido del cuculo» borbottai, tornando a guardare Jack Nicholson che giocava a basket.
«Ancora quello?» ridacchiò, stupita.
«Sì, mi piace». Mi rilassava e mi permetteva di non pensare a Lee, al suo corpo e ai suoi gemiti.
«Cosa, l’attore o il film?» rise, di nuovo, porgendomi la sigaretta che mi aveva preso qualche minuto prima.
«Il film» sbottai, stanco di quelle sue continue frecciatine sul mio essere gay.
«Non si sa mai, io chiedo». Fece spallucce, prima di prendere anche la bottiglia di birra per bere.
Quello era il pretesto giusto per introdurre l’argomento ‘sesso in camera mia’.
«Credevo che quello che è accaduto in camera mia fosse un chiaro segno che non sono gay» sbottai, giocherellando con il tappo della bottiglia che avevo in mano.
Ero sempre più convinto che per Lee fosse stata solo una scopata.
«Non si sa mai quello che hai immaginato» disse, senza distogliere lo sguardo da me.
«Ero un po’ impegnato… non ho immaginato proprio niente». “Ho solo pensato a te, Lee” pensai.
«Era per essere sicuri». Bevve un nuovo sorso di birra e io spalancai gli occhi, stupito.
«Perché, tu hai immaginato qualcun altro?» chiesi, curioso ma preoccupato allo stesso tempo.
«Oh, certo! All’inizio c’era Orlando Bloom. Insomma, è vecchio e sposato, ma devo dire che con la benda da pirata fa ancora il suo effetto. Poi, per qualche minuto siamo stati io e Ben Barnes. Aveva i capelli corti, come piace a me. Oh sì, non posso dimenticare Zac Efron. Sai che ho un debole per lui da quando ha fatto Charlie St. Cloud. Ma il meglio è stato il finale» sospirò, mordendosi il labbro inferiore.
«Chi-chi-chi hai immaginato?» balbettai, stupito.
Era peggio di quello che mi ero immaginato.
Per Lee non avevamo nemmeno scopato, visto che si era immaginata altri ragazzi al posto mio.
«Tom» sospirò di nuovo, sistemandosi una ciocca di capelli che era caduta sulla sua spalla.
«Tom? Quel Tom? Il mio amico?» gridai, incredulo.
«Sì, proprio lui. E devo dire che se avessi saputo l’effetto… be’, l’avrei pensato da prima». Si sistemò irrequieta sul divano.
«Oddio» mormorai strofinandomi il viso con una mano.
All’improvviso Lee cominciò a ridere.
«Che c’è?» chiesi, guardandola mentre appoggiava la nuca al divano.
«Che scemo che sei Rob! Non potrei mai immaginare Tom. È troppo magro e mi piacciono le spalle larghe». Lanciò uno strano sguardo alle mie spalle, coperte solo da una vecchia e consunta maglia bianca.
«Quindi, quindi sono sempre stato io?» azzardai, sperando di avere almeno quella piccola vittoria.
«Che palle che sei Rob. Devi sempre fissarti su queste piccolezze» borbottò, irritata.
«Era solo per sapere se…» cominciai a dire, senza veramente finire la frase per l’imbarazzo.
«Solo per sapere se? Se sei stato tu a farmi venire? Era questo che volevi sapere?» domandò, diretta.
«Ecco…» mormorai. Non era esattamente il modo in cui volevo chiederlo, ma il concetto era quello.
«Vedila così, Rob: eri tu quello sotto di me» tagliò corto Lee, lasciandomi senza parole.
«Io…» bofonchiai, passandomi una mano tra i capelli, nervoso.
«Su Rob, guardiamo un po’ il film». Si avvicinò a me, appoggiando una guancia alla mia spalla.
«Gua-guardare il film?» balbettai, lanciandole una strana occhiata.
Lei voleva guardare il film?
Non pensava fosse il caso di parlare di quello che era successo?
«Sì, perché?» ridacchiò, alzando il capo dalla mia spalla. «Cosa vorresti fare?». Si leccò il labbro, alzando un sopracciglio e guardando il mio corpo con uno strano sguardo.
«Io credo che andrò a dormire». Mi alzai velocemente dal divano.
Avevo paura che Lee si avvicinasse di nuovo a me.
Il suo corpo, vicino al mio… non era proprio una buona idea.
Non dopo quello che era successo.
Lee aveva innescato uno strano meccanismo, aveva risvegliato il mio corpo.
Riuscivo a sentire i brividi solo rimanendole di fianco.
«E non finisci il film?» chiese, indicando con una mano la TV.
«No» sbottai, cominciando a salire le scale.
C’era una cosa però, che non riuscivo a togliermi dalla mente.
Una risposta che mi serviva.
«Lee?». Appoggiai la mano al muro, per avere un ulteriore sostegno.
«Sì?». Si girò, appoggiando il mento allo schienale del divano.
«Prima, è stato solo sesso come tutte le altre volte o era… diverso?» azzardai, sperando che riuscisse a capire quello che le volevo chiedere.
Non potevo di certo domandare se aveva fatto sesso o l’amore; Lee non conosceva la differenza.
«Oh no. È stato decisamente diverso» sospirò, quasi estasiata.
«Davvero?». Scesi un gradino, improvvisamente speranzoso.
Forse anche Lee aveva fatto l’amore con me.
«Sì. Quando è da tanto che non lo fai, è tutto diverso, amplificato quasi, capisci?» domandò, seria.
«Oh, certo» borbottai deluso.
Era solo una questione di tempo tra una scopata e l’altra, per lei.
«Non voglio dire che tu non sia stato bravo, eh! Però quando è da tanto che non lo fai… ti sembra sempre migliore». Accennò un debole sorriso, per rassicurarmi.
«Naturale. Buonanotte» sussurrai.
Probabilmente Lee non fu nemmeno in grado di sentirmi, perché avanzai verso la mia camera.
Mi distesi a letto con uno sbuffo.
Su quello stesso letto, poche ore prima, io e Lee avevamo fatto l’amore.
O sesso.
A seconda dei punti di vista.
Possibile che non riuscisse a capire che l’amavo?
Le avevo detto che ero geloso di lei e l’avevo baciata.
Ricordai le sue lacrime e il modo in cui era scappata.
Perché prima mi aveva baciato e si era messa a piangere soltanto dopo che le avevo detto che la volevo?
Forse in quel momento Lee aveva capito che la amavo?
O semplicemente si era accorta che io ero un idiota e che mi ero accorto di amarla solo dopo la comparsa di Xavier.
«Cazzo…» sbuffai, rigirandomi nel letto e tirando le coperte che si erano attorcigliate attorno alle gambe.
Quando respirai, sentii il profumo di Lee e questo mi fece scattare in piedi.
Basta.
Basta bugie.
Basta mezze verità.
Basta frasi non dette.
Dovevo parlare con Lee, dirle che la amavo.
Doveva sapere che per me non era stata solo una scopata.
Doveva sapere che io avevo fatto l’amore con lei e che l’avrei fatto ogni giorno, se lei me l’avesse permesso.
Ero geloso di lei, era tanto difficile da capire?
La amavo e, forse, l’avevo amata da quando mi aveva chiesto quell’accendino.
Mi alzai dal letto, deciso a dirle la verità.
Quando aprii la porta della mia camera, mi scontrai con Lee.
Ci sorridemmo entrambi, facendo un passo indietro.
«Devo parlarti» sussurrammo assieme.

 
 
 
 
 
 
Salve ragazze!
Poche cose da dire per questo capitolo…
Ammetto che scrivere la prima parte è stato difficile per me, avevo le mani che tremavano. Ma non perché la scena fosse troppo spinta o perché mi vergognassi… mi tremavano le mani perché Rob era forse troppo sopraffatto da tutto quanto.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e… se mi fate sapere quello che ne pensate non può che farmi piacere…
Non ho veramente niente altro da dire, se non che il termine per il contest è questa sera a mezzanotte, quindi avete ancora qualche ora per spedire le vostre OS (anche drabble o flash fic, eh!). trovate tutto QUI.
Per il gruppo spoiler, fate pure l’iscrizione QUI (non chiedo nick o niente alto) e se volete aggiungermi come amica, fatelo QUI.
A lunedì prossimo!

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Capitolo 12
*** I was telling you I love you, but you've disappointed me ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Dimmi pure» sussurrai, sorridendole per tranquillizzarla.
Sapevo che non era facile per lei esprimere i suoi sentimenti.
«Possiamo andare in camera mia?» chiese, abbassando lo sguardo. Sembrava quasi intimidita dalla mia presenza.
«Certo» acconsentii seguendola.
Forse si sentiva più sicura lì, in mezzo a tutte le sue cose.
Si sedette sul letto, con un sospiro e cominciò a torturarsi le dita, portandosi le unghie tra i denti.
Io, invece, rimasi appoggiato alla porta, in attesa di sentirla parlare. Avevo paura di avvicinarmi; temevo che si sentisse soffocare se le fossi stato accanto.
«Ecco…» iniziò, prendendo Leebert tra le braccia e stringendolo a sé con forza, quasi a volerlo stritolare.
Mi ricordai di una cosa e sperai che magari potesse servire per rompere il ghiaccio che si era creato.
mormorai, passandomi una mano tra i capelli. «Aspetta, prima che tu mi dica quello che volevi dirmi. Voglio solo chiederti perché ieri sera ti sei messa a piangere dopo che ti ho baciato»Solito gesto per smorzare il nervosismo, ma non potevo farne a meno.
«Perché mi hai detto che mi volevi, Rob. E sai chi mi voleva sempre? Lui. Quando tornava a casa ubriaco entrava nella mia stanza e mi diceva che mi voleva». Socchiuse gli occhi, rabbrividendo e stringendo di più Leebert. «Per un secondo interminabile ho ripensato a lui» mi confidò.
«Mi dispiace Lee, non volevo» mormorai avvicinandomi al letto per abbracciarla. Dio, che avevo fatto. Mi sentii un idiota, uno stupido. Provai una sensazione di sporco che faticò ad andarsene.
«Lo so». Alzò il viso, regalandomi un sorriso sincero che mi infiammò il cuore, curandolo.
Dovevo dirle al più presto che l’amavo, stava diventando quasi un bisogno fisico.
«Avanti, che cosa devi dirmi?» chiesi, sedendomi di fianco a lei sul suo letto.
«È una cosa bella, comunque. Ecco… io, io ti ho raccontato una bugia» mormorò, sfuggendo il mio sguardo e lanciandomi continue occhiate imbarazzate.
«Va bene Lee, non essere triste per una bugia, capita ogni tanto» ridacchiai, appoggiandole la mano sul ginocchio per darle un po’ di coraggio.
«No, ti prego, lasciami finire». Alzò lo sguardo e lo puntò dritto nel mio. Eccola la Lee che conoscevo, sempre pronta ad affrontare le difficoltà.
I suoi occhi erano un caleidoscopio di emozioni: paura, felicità, tristezza… faticavo a riconoscerle tutte.
«D’accordo» bisbigliai, aggrottando leggermente le sopracciglia, confuso. L’avrei ascoltata senza fiatare.
«Io ti ho raccontato una bugia grande, ma l’ho fatto a fin di bene. Mi prometti che non ti arrabbi?» domandò con voce flebile e impaurita .
«Perché dovrei arrabbiarmi?» chiesi stupito. Che cosa aveva combinato?
Qual era la grande bugia che mi aveva raccontato?
«Mi prometti che rimarrai sempre il mio Rob e che non cambierà niente? Che resterai sempre vicino a me come hai fatto in questi anni?». Appoggiò una mano alla mia. La sua mano era gelata.
«Lee, mi stai davvero spaventando» mormorai, colto da un brivido di freddo.
«Non hai promesso…» sussurrò, lanciandomi un’occhiata fugace. Che stava succedendo?
«Perché devo promettere Lee? Sai che lo farò». Sarei rimasto al suo fianco fino a quando mi avesse voluto.
«Io… io non sto assieme a Xavier. Non sono mai stata assieme a Xavier» si fermò, prendendo un profondo respiro ed espirando come se si fosse tolta un grosso peso dal petto.
«Cosa?» bofonchiai. Questo non lo capivo, no, decisamente non riuscivo a comprendere il motivo per cui mi stava dicendo una cosa simile.
Li avevo visti, con i miei occhi. Si erano baciati davanti a me.
«Era una bugia. Non sono mai stata con Xavier. Lui è solo un mio amico» mormorò di nuovo, con un filo di voce.
«Aileen, non riesco a capire, scusami» borbottai, confuso.
«Era una scusa, per vedere se tu cedevi». Il suo sguardo si fissò su Leebert, che teneva sopra alle ginocchia.
«Cedevo?» sibilai, quasi senza voce. Non poteva essere; sperai che il pensiero che in quel momento la mia mente stava formulando non fosse vero, che fosse solo il frutto delle mie fantasie.
«Volevo fare sesso con te, ma tu mi hai sempre respinto. Io ho tentato in tutti i modi, ma tu non ne volevi sapere. E così ai Movie ho incontrato Xavier. Ci ha provato con me, ma gli ho detto che non mi interessava. Si è messo in testa che ti piacevo e abbiamo fatto una scommessa: lui diceva che per gelosia avresti ceduto e alla fine sarei riuscita a vincere. Be’, aveva ragione». Alzò il viso, sorridendo appena.
«Una scommessa?» ripetei, completamente allibito.
«Sì, ma voglio dire, non c’era in palio nulla. Volevo fare sesso con te» tornò a dire, forse credendo che fosse una cosa bella.
«Dimmi che è uno scherzo Aileen, ti prego». Socchiusi gli occhi, respirando a fondo per calmarmi.
«No che non è uno scherzo è la verità» ribatté, facendomi infuriare.
«Tu mi hai mentito?» farfugliai, togliendo la sua mano dalla mia gamba con un gesto fulmineo.
«Ti ho raccontato una bugia, ma l’hai detto anche tu, per una bugia non succede nulla». Cercò di avvicinarsi a me, ma mi alzai dal letto, furioso.
«Non è una bugia, Aileen. Mi hai mentito, hai tramato alle mie spalle, mi hai preso in giro» cominciai ad alzare il tono della voce, probabilmente spaventandola.
Strinse più forte Leebert, che ormai si stava deformando a causa della forza con cui lei lo stava strapazzando.
«Ma era a fin di bene» cercò di difendersi.
«Non era a fin di bene! Tu volevi solo scopare con me, cazzo» esplosi.
Lee mi aveva ferito, usato, mentito.
«Sì, ma…» iniziò a dire, senza che le lasciassi il tempo di finire.
«Scopare con me. Che idiota sono stato. Chissà da quanto mi stavi prendendo per il culo» borbottai tra me e me.
Per quanto avevo vissuto con una persona che non era la vera Lee?
Alla fine ci era riuscita a portarmi a letto, a usarmi come aveva voluto fare sin dall’inizio: già, perché io ero diverso, io non volevo scopare con lei solo per soldi, o solo per divertirmi. Ci era riuscita.
«No, Robert, non ti stavo prendendo in giro, ho solo cercato di farti cedere per andare a letto assieme, non ti ho mai mentito». Si alzò dal letto, raggiungendomi, tentando di afferrarmi la mano, di toccarmi… riuscì ad appoggiare il palmo freddo e sudato sul mio braccio.
«Non mi hai mai mentito? E quando hai litigato con Xavier? Non hai finto in quel momento?» sbraitai, togliendo la sua mano dal mio braccio con un gesto secco.
Il suo tocco mi dava fastidio.
«Sì, ma…» cercò di dire.
«Ma un cazzo! Aileen, mi hai mentito. Io ti ho salvato, cazzo. Se non fosse stato per me ora saresti due metri sotto terra. È così che mi ripaghi?». Ero deluso e arrabbiato. Non potevo credere che la persona per me più importante, la donna che amavo, aveva potuto farmi questo. Essere così dannatamente superficiale nei miei confronti, quando io non lo ero stato nei suoi. Avrei potuto farmi una scopata con lei molto tempo prima, approfittandomene, ma non l’avevo fatto.
«No, ti prego Rob non dire così» mormorò, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.
«E che cosa devo dire Aileen? Ho vissuto per tre anni con una persona che credevo di conoscere. Mi sbagliavo» risi, in modo nervoso, tirandomi una ciocca di capelli.
«No, Robert, io… io sono sempre stata me stessa. Prova a capirmi…». Vidi una lacrima che stava scendendo lungo la sua guancia.
Probabilmente erano lacrime false, come lei.
«Cosa dovrei capire? Che mi hai preso per il culo per tre anni solo perché volevi scoparmi? Era tutto programmato? Le tue carezze, i tuoi sorrisi? Tutto scritto in un copione per vedere dopo quanto avrei ceduto? Questo devo capire?». Non controllavo nemmeno più il tono della voce.
Sentivo solo dolore, sordo dolore al petto. Idiota, solo un idiota romantico. Me lo ero meritato, non avrei dovuto darle la mia fiducia, non così, non fino al punto di donarle tutto me stesso.
«No, non è così…» mormorò cominciando a piangere.
«Illuminami, Aileen! Forza! Dimmi, i tuoi sogni erano finti, no? Urlavi nel cuore della notte sperando che una volta entrato nel tuo letto potessi scoparti? Cazzo, che delusione…». Non sapevo più a cosa credere.
«No, Rob, ti prego…». Allungò una mano verso di me, per prendere la mia.
Feci un passo indietro, come se fossi rimasto scottato da quel tentativo.
«Mi preghi? Per che cosa mi preghi? Devi scoparmi di nuovo? O hai raggiunto il tuo numero prefissato? Che numero sono stato? Millesimo? No, direi di no, con tutti quelli che ti sei scopata all’Insomnia come minimo sono stato il tremillesimo, no? Quanti ne hai scopati Aileen? Quanti uomini scopa una puttana come quella che eri?». Le parole mi uscirono dalla bocca prima che potessi anche solo capirne il significato.
Non ero più io. Lei non sarebbe mai stata mia, mai, era tutto un gioco per lei. Solo un fottuto gioco.
Sentii il singhiozzo di Aileen e mi resi conto di averla ferita, esattamente come lei aveva fatto con me.
«Rob, basta…» gridò, mentre altre lacrime scendevano lungo le sue guance.
«Perché? Ti fa così male sentire la verità? Dopo tanto tempo brucia, no? Quando si vive nella menzogna per troppo, succede questo» sbraitai di nuovo, avvicinandomi a lei e costringendola a indietreggiare fino al suo letto.
«Stai dicendo delle cose cattive» balbettò tra un singhiozzo e l’altro.
«No, sto dicendo la verità, quella che tu non mi hai detto perché mi hai preso in giro, Aileen. E, che tu lo voglia o no, la verità fa male, non credi?». Abbassai leggermente il tono della voce, continuando a guardarla. Non le avrei più permesso di farmi male. Mai più.
«Per favore…» singhiozzò, facendomi tentennare per un lungo attimo.
Mi sembrò di scorgere la mia piccola Lee, quella che aveva sempre avuto bisogno di me. Poi però non riuscii a non vedere una falsa manipolatrice, che aveva calcolato tutto solo per una scopata.
«Dimmi una cosa, ne è valsa almeno la pena? Voglio dire, quattro anni per una trombata e poi magari ho fatto schifo. Tanto tu sei un’esperta» ironizzai, incapace di fermarmi.
Rabbia e delusione erano le uniche sensazioni che non avrei mai associato ad Aileen.
«Perché dici così?». Continuò a piangere, raggomitolandosi su se stessa e diventando ancora più piccola.
«Cosa dovrei dire? Che ti sbatto fuori di casa? Potrei, tanto ti rifugerai da Xavier. Vedo un futuro roseo per voi: due persone false che riescono a capirsi subito. Coglione io che ci sono cascato, no?» risi, nervoso.
E volevo dirle che la amavo.
Come potevo anche solo pensare di amare una che mi aveva preso in giro da… sempre?
«Non, non farmi andare via» mormorò, continuando a piangere.
«Certo che no, vero? Come potresti vivere in un appartamento con la tua misera paga? Tanto, ci ha sempre pensato il tuo Rob a pagare tutto. Tu gli facevi un sorrisetto, una carezza sulla guancia e lui sganciava il verdone. Piano geniale, insomma. Per fortuna che quella sera hai chiesto l’accendino proprio a me, mh?» tornai a urlare.
«Rob» borbottò Lee, coprendosi le orecchie con le mani e continuando a piangere.
«E non fare la bambina, cazzo! Impara ad assumerti le tue responsabilità». Presi un suo polso e le tolsi la mano dall’orecchio con violenza.
«Rob, mi fai male» strillò cercando di sfuggire alla mia presa.
Lasciai il suo polso all’improvviso, rendendomi conto solo in quel momento di quello che stavo facendo.
«Mi hai deluso Aileen» mormorai prima di voltarle le spalle per uscire dalla sua stanza.
Cosa le avevo detto?
Perché avevo urlato in quel modo, spaventandola?
«Rob, aspetta…» urlò seguendomi.
Fui più veloce di lei e riuscii a chiudermi la porta della mia camera alle spalle prima che Lee potesse entrare.
C’era una parte di me che continuava a chiedersi perché fossi così arrabbiato e ferito da lei.
Mi accorsi che la risposta era semplice:  la amavo.
Nonostante tutto quello che aveva detto o fatto non riuscivo a smettere di amarla.
Il mio legame con Lee era forte, molto più forte di una grade bugia.
Ma mi aveva deluso, e non riuscivo a trovare il coraggio per aprire quella porta.
Sentii Lee supplicarmi di aprirle per minuti; quando capì che non l’avrei fatto, tornò in camera sua.
La porta che sbatteva, i suoi singhiozzi.
Socchiusi gli occhi aggrappandomi al bordo della scrivania.
Sentii un foglio stropicciarsi e, quando riaprii gli occhi, vidi che era la canzone che avevo scritto quella mattina. Per la rabbia appallottolai il foglio lanciandolo contro la finestra.
Perché Lee mi aveva preso in giro mentendomi?
Credevo di averle insegnato che cos’era la lealtà, il significato del rispetto.
Credevo di averle insegnato tutto quello che mi era stato spiegato.
L’amore per la vita, la felicità di un sorriso, il profumo del caffè appena svegli.
Non credevo di averle insegnato a mentire.
Non avevo mai voluto che Lee imparasse a essere una persona falsa.
Lee era l’immagine della purezza, nonostante la sua vita precedente, Lee per me rimaneva l’emblema di chi era riuscito a riscattarsi con una seconda possibilità.
Lee era purezza, bellezza, semplicità, amore.
Mi accesi una sigaretta cercando di calmarmi e di schiarirmi le idee, ma ci rinunciai quando l’accendino non si accese. Imprecando, lo scaraventai contro il muro.
Avevo appena fatto la cazzata più grande della mia vita, urlando contro Aileen cose che non avevo nemmeno mai pensato.
Le avevo ricordato la sua vecchia vita e rinfacciato il suo non essere ricca come me.
«Che cazzo ho fatto?» bofonchiai, tirandomi una ciocca di capelli e portandomi entrambe le mani al viso.
Mi ero comportato come un pazzo, l’avevo aggredita, urlandole contro.
Lee non si meritava tutto quello che le avevo detto.
Aveva sbagliato, ma di certo quello non era il modo migliore per farglielo capire.
L’avevo insultata.
«Rob… Rob, per favore» urlò Lee, dalla sua stanza.
Stava sognando?
«Rob, no» strillò di nuovo.
Senza nemmeno pensarci, uscii dalla mia camera e spalancai la porta della sua, raggiungendo il letto in pochi passi.
«Lee, sono qui» sussurrai, prendendole il viso tra le mani.
Stava piangendo.
«Rob, no…» strillò di nuovo, singhiozzando.
«Lee, sono qui, svegliati». Parlai un po’ più forte, accarezzandole il viso.
Aprì gli occhi all’improvviso, cominciando a piangere.
«Vieni qui» mormorai abbracciandola e lasciando che si sfogasse sulla mia spalla.
Circondò il mio collo con le sue braccia, stringendomi forte.
«Lee, ho bisogno che mi ascolti e mi guardi, ok?» chiesi, staccandomi un po’ da lei.
Riuscì solo ad annuire, continuando a piangere.
«Ascolta» cominciai, accarezzandole le guance e asciugandole una lacrima con il pollice, «io non so quello che mi è preso prima. Ho detto delle cose bruttissime che nemmeno ho mai pensato». Socchiusi un po’ gli occhi, incapace di guardare in quel pozzo di ghiaccio inondato dalle lacrime. «Io ho sbagliato, non dovevo reagire in quel modo, Lee. Non so quello che mi è successo e ti ho fatto male, vero?». Abbassai lo sguardo per cercare il suo polso, ma Lee non me lo permise, perché tornò a gettarmi le braccia al collo, stringendomi forte.
«Mi dispiace tanto» mormorò, facendomi rabbrividire.
«Non devi dispiacerti, sono stato io a sbagliare, non dovevo comportarmi in quel modo. Non so che cosa mi sia preso Lee. Puoi perdonarmi?» chiesi, con un soffio di voce, sperando che la sua risposta fosse affermativa.
Sentii un suono strano, sembrava un accenno di risata tra i singhiozzi.
Le braccia di Lee si strinsero più forte attorno al mio collo e, per riflesso, le mie circondarono la sua magra schiena.
«Ti perdono» bofonchiò, dandomi un dolce bacio sulla guancia, «ma non farlo mai più», mi diede un nuovo bacio sulla guancia e l’abbracciai più forte, stringendola a me.
«Grazie» sussurrai accarezzandole la fronte con un bacio. «Grazie» ripetei, sfiorandole con un bacio i capelli.
Non avrei mai potuto vivere senza di Lee.
Non ci sarei mai riuscito, semplicemente perché… la amavo.
Un’ossessione, forse, ma non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lei.
Una casa fredda e vuota al mio ritorno, nessun sorriso a rallegrarmi la giornata e nessun sedere scoperto che camminava da una stanza all’altra.
Sarebbe stata una vita noiosa senza Lee.
Per quello, perché la amavo, non potevo dirglielo.
Dovevo proteggerla da tutto e da tutti, anche da me stesso.
Mi distesi di fianco a lei nel suo letto, accarezzandole la schiena con i polpastrelli, mentre la sua mano continuava a stringere la mia maglia, sgualcendola sempre di più, ma non mi importava.
Non mi importava più niente, non dopo che Lee mi aveva perdonato.
Ci addormentammo entrambi senza nemmeno rendercene conto.
 
I giorni passavano e il rapporto con Lee sembrava tornato quasi normale.
Avevamo fatto un tacito accordo: entrambi non parlavamo né di quello che era successo in camera mia, né di quello accaduto in camera sua.
C’era però qualcosa di diverso.
Probabilmente era solo una mia impressione ma… trovavo che il mio rapporto con Lee si fosse un po’ raffreddato.
Sorrideva poco, non mi guardava quasi mai negli occhi, si chiudeva in camera sua per dormire molto prima del solito e mi lasciava da solo sul divano, a metà film.
Sospettavo che fosse per tutte le bugie che le avevo urlato contro, in preda alla rabbia. Proprio per quello non avevo trovato il coraggio di chiederle il motivo del suo atteggiamento strano.
Lee si era comportata da persona matura perdonandomi, al contrario di me, che avevo urlato cose false solo per ferirla.
Credevo che in quel modo mi sarei sentito meglio, ma la sensazione che avevo provato, vedendo Lee piangere, non era di certo paragonabile alla felicità.
Aprii la porta di casa sospirando, con l’unico desiderio di vedere di nuovo lo splendido sorriso di Lee sul suo volto.
Quello che però mi trovai davanti, una volta chiusa la porta di casa, fu esattamente il contrario.
Lee era seduta sul divano e stava piangendo.
«Lee? Lee che succede?» domandai, inginocchiandomi davanti a lei e prendendo il suo volto tra le mani.
«Niente» sbuffò, tirando su con il naso e guardando verso la porta d’ingresso.
«Come niente? Stai piangendo» insistei, cercando di costringerla a guardarmi.
«Ho detto niente, Robert» borbottò, scostandomi e alzandosi per andare in cucina.
«Per favore vuoi dirmi quello che è successo? Stai piangendo». Non volevo mollare, dovevo scoprire perché stava piangendo.
«Perché ho guardato The notebook. Sai che piango quando lo guardo, no?» sbottò infine, facendo un respiro un po’ più profondo degli altri, forse per cercare di calmarsi.
«Non è una bugia? È davvero per quello che stavi piangendo?». Mi avvicinai a lei, guardandola negli occhi per capire se mi stava mentendo.
«Cazzo quanto rompi le palle. Ecco, sei contento?». Mi spinse in soggiorno e aprì il lettore DVD. C’era il disco di The notebook. «Ora, mi credi o devo anche fare la prova della macchina della verità? Così per sapere». Fece spallucce, tornando poi in cucina per bere un po’ d’acqua.
«Ti avrei creduto. Bastava solo che me lo dicessi senza arrabbiarti» sussurrai, dietro di lei.
«Be’, ora hai avuto anche la prova. Nessun dubbio». Fece una smorfia, forse per simulare un sorriso finto.
«Lee, che succede?» chiesi, non riuscendo a trattenermi.
Il suo comportamento così distaccato mi faceva stare male.
«Suppongo di doverti dire la verità, no? Tanto mi romperai le palle fino a quando non te la dirò. Ti ricordi che giorno siamo oggi?». Indicò involontariamente il calendario.
«Il sette luglio». Controllai per sicurezza, ma ne ero quasi certo.
«Esatto. E sai che cosa succederà tra due settimane?». Alzò le sopracciglia, in attesa.
«Il venti luglio è il tuo compleanno, non me ne sono scordato. Compirai ventuno anni. Sarai ufficialmente maggiorenne e potrai bere in tutti gli Stati Uniti. Anche andare a Las Vegas al casinò» scherzai, cercando di alleggerire la situazione.
«Io volevo festeggiare» mormorò, abbassando lo sguardo.
«Festeggeremo. Ti organizzerò una bellissima festa per il tuo compleanno». Mi avvicinai, prendendo le sue mani tra le mie e sorridendole.
«Certo, io e te. Che bella festa» sbottò, forse con l’intenzione di offendermi.
«Inviteremo chiunque tu voglia. Vuoi andare a Las Vegas? Ci andremo! Preferisci Atlantic City? Ti porterò lì. Una settimana alle Hawaii?» chiesi, mentre vedevo un sorriso nascere e crescere sul volto di Lee.
«No, no… non voglio niente di così complicato. Volevo solo una festa con le persone che mi vogliono bene» mi confidò.
Avrei voluto dire a Lee che io non ero invitato, visto che la amavo, ma il mio telefono che squillava mi distrasse.
Quando lessi il numero, aggrottai la fronte, stupito.
«Pronto?» risposi, sperando che non fosse successo niente di male.
«Ciao tesoro, come stai?». La sua voce, così gentile, mi fece sorridere.
«Tutto bene, mamma. Voi come state?». Mi allontanai da Lee, per sedermi su un divano.
«Qui tutto bene. Papà e Liz ti salutano. Aileen come sta? La stai trattando bene?» ridacchiò, facendomi sgranare gli occhi per la sorpresa.
«Lee… lei sta bene» borbottai, guardandola mentre camminava fischiettando per la cucina.
«Non compie gli anni il venti?» chiese mamma, cambiando totalmente argomento.
Oddio, no.
«Sì» ribattei cauto, quasi non fossi stato sicuro della risposta.
«Avete progetti?» si informò, cercando di non farmi capire a cosa stava pensando.
«Veramente ne stavamo parlando prima che tu chiamassi…» risposi vago, facendo un respiro.
«Io ho un’idea! Ce l’abbiamo tutti. È da tanto che non torni a Londra, tesoro. E mancano ancora un sacco di mesi a Natale. Che ne diresti di passare il compleanno di Lee qui da noi? Ovviamente potrete alloggiare in albergo, capiamo tutti il vostro bisogno di intimità… è solo per potervi vedere per qualche giorno» spiegò, facendomi sussultare.
«Mamma, quante volte devo ripeterti che non è come credi?» sbottai, arrabbiato.
Perché doveva sempre pensare che io e Lee fossimo una coppia?
«Non sono affari mei, sai che non le voglio sentire queste cose. Però c’è Tom, ci sono tutti. Ci farebbe piacere rivedervi». Stava facendo la vocina triste perché sapeva che non sarei riuscito a dire di no.
«Io… noi…». Stavo per dirle che ci avremmo pensato quando parlò di nuovo.
«Passami Aileen un attimo, per favore».
La fine.
Mi faceva sempre paura Aileen al telefono.
Avevo cercato di spiegarle che certi termini e argomenti con i miei genitori non erano appropriati, ma non ero sicuro che avesse capito.
«Lee, c’è mia madre al telefono che vuole parlarti» strillai, porgendole il cellulare mentre si avvicinava.
«Pronto?» chiese sorridendo e tornando a camminare su e giù per la stanza. «Ciao Claire, sì, tutto bene. E voi?».
Rimase ad ascoltare in silenzio per qualche minuto e poi parlò di nuovo.
«Ci penseremo, certo» mormorò Lee, gesticolando. Mamma le parlò per qualche secondo e poi Aileen disse qualcosa che mi fece sbiancare. «Oh, ma non c’è nessun problema Claire, possiamo dormire anche a casa vostra, tanto io e tuo figlio non trombiamo».
«Aileen» urlai, coprendomi gli occhi con entrambe le mani per la vergogna.
«Ciao» mormorò nel ricevitore prima di allungarmi il telefono. «Tua madre vuole parlarti».

 
 
 
 
 
 
Una sola cosa: io ve l’avevo detto!
Non ho davvero altro da dire, anche perché la febbre a 39 non mi permette di essere toltamente lucida.
Mi scuso per il ritardo, ma spero che ne sia valsa la pena!
Come al solito QUI trovate il gruppo spoiler, con tanti piccoli spoilerini che vi piacciono sempre tanto e QUI potete aggiungermi come amica in FB.
Alla prossima settimana!

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Capitolo 13
*** Happy birthday Lee! ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







Sigaretta, birra, sigaretta e poi di nuovo birra.
Da quanto continuavo a fumare e bere?
Da quando Lee aveva varcato la porta di casa per uscire.
«Vado a fare un giro» aveva detto.
Quando le avevo chiesto dove, mi aveva risposto che non erano affari miei.
Non sapevo se era andata da sola o con qualcuno.
Non sapevo niente, dannazione!
Continuavo a passarmi le dita tra i capelli, frustrato e incazzato, con Lee, con me stesso, con il mondo.
Perché era solo colpa mia.
Avevo rovinato tutto con quella scenata in camera di Lee e il nostro rapporto non era più lo stesso.
Inutile mentire e fare finta che tutto andasse bene; non era così.
L’impressione si era trasformata in certezza: Lee era sempre più distaccata e sembravamo due estranei.
Nemmeno durante i primi mesi di convivenza eravamo stati così ‘distanti’.
Per mettere a proprio agio Lee avevo deciso di non insistere, se non voleva parlare non le facevo domande, se non voleva guardare un film, la TV rimaneva spenta.
La nostra casa, un tempo sempre chiassosa e allegra, era diventata triste e silenziosa.
Il rumore di una risata non si sentiva da giorni.
«’fanculo» sbottai, prendendo la chitarra e cominciando a suonare di nuovo la canzone che avevo scritto per Lee.
Possibile che dovessi essere così dipendente da una donna?
Spensi la sigaretta nel posacenere e cominciai a cantare, cercando di allentare un po’ i nervi che erano troppo tesi.
In fin dei conti Lee era abbastanza matura da potersela cavare da sola; avrebbe compiuto ventuno anni fra quattro giorni. Era un’adulta a tutti gli effetti.
Forse era il momento che anche Lee imparasse qualcosa dai suoi errori e che non ci fossi io a correggerla ancora prima di sbagliare.
Non ero nessuno per lei, men che meno un padre.
Non mi sarei più comportato da zerbino.
Dopo il compleanno di Lee ognuno avrebbe intrapreso la propria strada.
Sarei andato a trovare la mia famiglia più spesso e Lee sarebbe rimasta a casa da sola.
Sì… no.
Non potevo lasciarla a casa da sola.
Se le fosse successo qualcosa?
Se i ladri fossero entrati in casa e l’avessero picchiata?
Non potevo permetterlo.
Lee sarebbe venuta con me.
Almeno in un primo tempo, non era poi così facile cambiare abitudini.
Il mio telefono squillò, facendomi sussultare.
Quando mi accorsi che era il numero di Lee, risposi velocemente, ma titubante.
Perché mi stava chiamando?
Le era successo qualcosa?
«Sì?» chiesi, dopo aver premuto il pulsante di risposta.
«Robert?». Una voce di uomo.
In sottofondo sentivo Lee cantare a squarciagola.
«Chi parla?» domandai, alzandomi in piedi di scatto.
Perché c’era un uomo che mi stava chiamando dal cellulare di Lee?
E come faceva a sapere chi ero?
«Sono Jack» tagliò corto, facendomi tirare un sospiro di sollievo.
Quindi Lee era andata nel bar in cui lavorava.
«Ah, ciao Jack». Ero decisamente un po’ più tranquillo, ora che sapevo dove si trovava.
Non le sarebbe mai successo nulla di male con Jack vicino a lei; lui non l’avrebbe mai permesso, ne ero sicuro, sì.
«C’è un piccolo problema qui…» disse. Continuavo a sentire Lee cantare una canzone e incitare qualcuno a seguirla. «Lee è ubriaca. Potresti venire a prenderla? Non me la sento nemmeno di farle prendere un taxi…» mi spiegò, mentre prendevo le chiavi della macchina e mi chiudevo la porta di casa alle spalle.
«Tra cinque minuti sono lì. Grazie Jack» risposi sincero, avviando il motore della macchina.
«Figurati» mormorò, prima di chiudere la chiamata.
Ecco. Ci mancava solo Lee ubriaca.
Non si era mai ubriacata, che cosa le era saltato in mente quella sera?
Dovevamo partire per Londra il giorno dopo, perché aveva deciso di ubriacarsi proprio quella notte?
Accelerai quando il semaforo davanti a me diventò arancione e in pochi minuti arrivai al locale di Jack.
Spensi il motore ed entrai.
Non appena misi un piede dentro al locale, rimasi immobile, completamente senza parole.
Aileen era sopra a un tavolo: stava cantando e ballando e teneva in mano una bottiglia di birra vuota, usandola come microfono.
Non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere.
Risata che si concluse, quando uno dei due ragazzi che era sopra al tavolo con lei, cominciò ad accarezzarle la schiena, diretto verso il suo sedere.
«Sta fermo» biascicò Lee, tirandogli uno schiaffo sulla guancia.
«Jack, ciao». Mi avvicinai a Jack, cercando di non farmi notare dalle altre persone, altrimenti avrei scatenato l’inferno.
«Aspetta, la chiamo subito». Mi sorrise, avvicinandosi al tavolo di Lee. «Aileen, è ora di tornare a casa» strillò, tirandole leggermente un braccio.
«No, non ci voglio andare». Sporse il labbro inferiore, imbronciandosi. «A casa c’è il mostro» piagnucolò, facendomi rimanere di stucco.
Il mostro?
Così mi vedeva Lee?
«Addirittura il mostro?» ghignò Jack, aiutandola a scendere dal tavolo.
«Sì, Jack, tu non lo vedi quando mi guarda con i suoi occhi azzurri, con tutte quelle pagliuzze grigie… io, io…» balbettò, fermandosi all’improvviso, quando si accorse che ero davanti a lei. «Oh, ciao» sbuffò, avvicinandosi al bar per prendere una bottiglia di birra e cominciare a bere.
«Forse è meglio se questa la metti giù» mormorai avvicinandomi a lei, per toglierle la bottiglia dalle mani.
«Credo di volerne ancora un po’, papà» biascicò, marcando l’ultima parola.
Lee stava cercando di farmi capire che non ero nessuno.
Sapevo che quando si intestardiva in quel modo, l’unica cosa da fare era non darle peso.
«Va bene, allora prendi la tua birra e poi andiamo a casa. Quanto devi pagare?». Mormorai, aspettando di fianco a lei.
«Dunque… due birre, due… due… come si chiamano?» ridacchiò, guardando Jack.
«Tequila» mormorò lui, faticando a mantenersi serio.
«Addirittura? Due birre e due tequila?» chiesi, stupito. Non credevo che Lee riuscisse a reggere così tanto alcool in corpo.
«Sì». Sorrise, cercando di infilare il braccio dentro alla tracolla della borsa. Ci riuscì al terzo tentativo.
«Possiamo tornare a casa, adesso?» domandai, appoggiandole una mano dietro alla schiena e facendola sussultare per lo spavento.
«Casa. Sì. Letto» biascicò, abbracciando Jack che cominciò a ridere.
«Ci vediamo la prossima settimana Lee. Buon compleanno e buona vacanza. Ciao Rob». Abbassò la voce per salutarmi, mentre teneva la porta aperta per farci passare.
«Ciao, e grazie». Feci un cenno con il capo, e continuai a sostenere Lee, che ciondolava a destra e a sinistra, ridendo.
«Dove andiamo? In un bar?» chiese, cominciando a camminare all’indietro, per guardarmi.
«No, andiamo a casa a dormire» mormorai, prendendola prima che il suo sedere riuscisse a sbattere sull’asfalto: aveva urtato un idrante nel parcheggio del bar.
«Dormire, dormire… tu vuoi sempre dormire» ridacchiò, cominciando a saltellare per il parcheggio.
«Vieni qui, Lee». Non riuscii a trattenermi, nel vederla così felice, e un sorriso mi spuntò sulle labbra.
«Stai sorridendo» farfugliò, indicandomi con il dito.
Sembrava fosse quasi felice.
«Sì, perché sei comica» le spiegai, aprendo la portiera della mia macchina e aiutandola a salire.
«Comica… sono comica». Annuì appena, appoggiando la testa sul sedile e socchiudendo gli occhi.
«Riposati un po’, adesso» mormorai, accarezzandole la fronte con un bacio.
«Ci fermiamo al mare prima? Voglio fare un bagno». Sembrò risvegliarsi all’improvviso; per poco evitai di sbattere la mia fronte contro la sua.
«Lee, è mezzanotte. Non è il momento di fare un bagno» bisbigliai, sfilandole la bottiglia di birra mezza piena dalla mano.
«No, certo. Non è il momento solo perché l’ho detto io» borbottò, portandosi una mano davanti agli occhi quando la luce interna dell’auto si accese, perché avevo aperto il mio sportello.
«No Lee, non è il momento perché sei ubriaca e potresti prendere freddo». Probabilmente non mi aveva nemmeno sentito, visto che non rispose.
Lee non disse nulla per il resto del viaggio, ma non sapevo se fosse perché si era addormentata o perché non voleva veramente parlare con me.
«Andiamo, spugna. Siamo arrivati a casa» sussurrai, aprendo la sua portiera e allungandomi per slacciarle la cintura di sicurezza.
«Che cosa vuoi fare?» sghignazzò, guardandomi.
«Ti slaccio la cintura, Lee» sospirai, aiutandola a scendere.
Non appena riuscì ad appoggiare il piede per terra, si sedette sul prato.
«Oh» mormorò stupita, cominciando a ridere subito dopo.
«Andiamo». Mi accucciai per prenderla in braccio e Lee si aggrappò al mio collo, stringendo le sue braccia attorno a me.
«Sei forte» rise, spostando la sua mano sul mio braccio. «Anche muscoloso» sghignazzò, tastando il mio bicipite.
«Lee, perché ti sei ubriacata?» chiesi, sorreggendola con un ginocchio mentre cercavo di aprire la porta di casa. Far infilare la chiave nella toppa a Lee in quelle condizioni sarebbe stata un’impresa impossibile.
«Non mi sono ubriacata. Ne ho bevute due» mormorò, mostrandomi il numero con le dita per marcare il concetto.
Due.
«Sì, ma non le reggi due birre e due tequila a quanto vedo» puntualizzai, accendendo le luci dell’ingresso con il gomito.
«Volevo solo divertirmi un po’». Cambiò improvvisamente tono, facendo sparire il sorriso e mettendo il broncio.
«E se ti fosse successo qualcosa? Se Jack non mi avesse chiamato e qualcuno ti avesse rapito? Che cosa avresti fatto?» chiesi, una nota quasi isterica nella voce al pensiero di quello che avevo appena detto.
«Non sarebbe successo». Sembrava convinta delle sue parole.
«Cosa vorresti dire?» domandai, cominciando a salire le scale. Come faceva a essere così sicura che non sarebbe mai successo?
«Che non mi sarebbe successo niente, perché ci sei tu». Mi schiacciò la punta del naso con l’indice mentre mi sedevo sul suo letto, tenendola sempre sopra alle mie ginocchia.
«Lee» sospirai, spostandole una ciocca di capelli dietro la schiena, «io non ci sarò sempre…». Le nostre strade si sarebbero divise, prima o poi.
Ed ero sicuro che Lee parlasse in quel modo solo perché era ubriaca.
Una volta sobria sarebbe ritornata la Lee arrabbiata degli ultimi giorni.
«Sì che ci sarai sempre. Perché tu sei il mio Rob. Mio e di nessun’altra. Però io ti sto antipatica, lo vedo, sai? Mi eviti. Solo…» mormorò, avvicinandosi in modo quasi pericoloso al mio viso.
«Lee». Spostai il volto, per non guardare di nuovo nei suoi occhi.
«…solo non riesco a capire perché non ti piaccio». Mi prese il viso tra le mani, costringendomi a guardarla.
«Lee» borbottai di nuovo, abbassando lo sguardo.
Non mi diede nemmeno il tempo di rispondere, appoggiò le sue labbra alle mie, forse per darmi un bacio.
Chiusi gli occhi a quel contatto, stringendo la mano sui miei jeans per non perdere il controllo.
Di nuovo le labbra di Lee sulle mie.
«Visto? Un po’ ti piaccio anche io, no?» rise, appoggiando il capo sulla mia spalla.
Sentivo il suo naso freddo accarezzare il mio collo; mi accorsi però, improvvisamente, che non era Lee che si muoveva, ma era il pulsare frenetico del mio cuore che mi faceva tremare.
«Rob…» mormorò, muovendosi appena.
Si era addormentata.
Lentamente, cercando di non svegliarla, la distesi sul suo letto, togliendole le scarpe che ancora indossava.
Mi inginocchiai davanti a lei e, con un gesto che avevo fatto fin troppe volte, le spostai una ciocca di capelli dal viso prima di accarezzarle una guancia.
«Certo che mi piaci Lee. Forse mi piaci più di qualsiasi altra ragazza abbia mai conosciuto. Ma ho paura di perderti, capisci? Una fottuta paura di perderti. Se tu scappassi come farei io senza di te? Chi mi accoglierebbe mezza nuda quanto torno a casa? Con chi commenterei i programmi idioti di sera? Aileen, sono troppo egoista e non posso rischiare di perderti, capisci? Per questo cerco di non pensare mai a come è stato averti, sentirti mia. Ho paura che potrebbe finire. Allora è meglio averti, ma a piccole dosi, saperti al sicuro anche se non posso, non devo, sfiorarti, perché la voglia di fare ancora l’amore con te è troppo grande». Quello era il vero motivo per cui mi stavo allontanando da lei.
Socchiusi gli occhi, e quando li riaprii, notai una goccia sulla guancia di Lee.
Stavo piangendo, e non me ne ero nemmeno accorto.
Mi chinai su di lei e, con un leggero bacio, le tolsi la mia lacrima dalla sua guancia.
Lee non poteva saperlo, Lee non doveva saperlo.
Sarebbe scappata subito se le avessi confessato il mio amore.
Distrutto dalle troppe emozioni che avevo provato, le lasciai un’ultima carezza sulla sua fronte e mi alzai per andare in camera mia a dormire.
«Rob… ti voglio bene» mormorò sognando, girandosi tra le lenzuola.
Il mio cuore, troppo ferito, sentì un nuovo strappo a quelle parole.
«Io ti amo» sussurrai, chiudendo la porta alle mie spalle.
Appoggiai la schiena contro al legno e mi strofinai il viso con le mani.
Dovevo fare finta che non fosse successo nulla.
Lee non si sarebbe di certo ricordata del tentativo di bacio che mi aveva dato, e, soprattutto non si sarebbe ricordata di quello che le avevo detto.
Dimenticarla, ecco cosa dovevo fare.
Dimenticare la serata e anche, in un certo senso, Lee.
Quando però appoggiai la testa sul cuscino, sembrava che dimenticare Lee fosse l’ultima cosa che volevo fare.
 
Tornare a casa mi elettrizzava sempre.
Ma questa volta ero particolarmente agitato: sarebbe stato il primo volo per Lee.
Una cosa stupida, certo, ma era così.
Mi stava innervosendo ancora di più lei, che a mezzogiorno passato dormiva ancora.
«Lee, svegliati» urlai, entrando in camera e aprendo le tende.
«Mhhh» bofonchiò, girandosi e coprendosi il volto con il cuscino per ripararsi dalla luce.
«Forza, che abbiamo l’aereo tra tre ore, dovremmo già essere in viaggio». Tirai via le coperte, per farle prendere freddo.
«Stronzo» mormorò, facendomi un gestaccio con la mano. «Io non vengo. Ho mal di testa» si lamentò, tornando a portare la mano sotto al cuscino.
«Così impari a non ubriacarti la sera prima di partire. Tutti sanno che non fa bene, soprattutto quando c’è il jet lag». Presi il cuscino di Lee e lo tirai con tutta la forza che avevo per strapparglielo dalle mani.
«Che cazzo fai?» sbottò, mettendosi a sedere e togliendosi il groviglio di capelli dal viso.
«Questo va in valigia, è l’ultima cosa che ti manca, no?» sghignazzai, alzando il tono della voce per infastidirla.
«Non urlare Rob». Si portò le mani alle orecchie, per coprirsele.
«Forza Lee, non sto scherzando, siamo in ritardo». Mi diressi verso la cabina armadio per cercarle qualcosa di comodo da mettere per il viaggio.
Un paio di jeans e una maglietta andavano più che bene.
«Tieni» mormorai lanciandole i vestiti sul letto.
«Grazie» sussurrò stupita, alternando gli sguardi tra i vestiti e il mio volto.
«Ti aspetto giù. Partiamo tra mezz’ora» gridai, cominciando a scendere le scale.
 
Mezz’ora dopo, Lee era davanti a me, più bella che mai, con gli occhiali da sole.
«Che fai? Hai paura dei paparazzi?» la schernii, indicando gli occhiali.
«No, mi dà fastidio la luce e ho le occhiaie» sibilò, prendendo la sua valigia e lasciandola cadere subito dopo. «Che pesante» sbuffò, tentando una seconda volta di alzarla. Anche il secondo tentativo non andò a buon fine.
«Tieni questo. La tua valigia la porto io». Le porsi il mio borsone, quasi vuoto, e, dopo aver preso la sua valigia senza tanti sforzi, aprii la porta di casa.
Il taxi ci stava aspettando.
«Io… io ho dimenticato una cosa dentro. Tu parti intanto, io arrivo dopo» balbettò Lee, lasciando la mia borsa in mezzo al giardino e correndo verso la porta di casa.
«Lee dove vai?» chiesi. Sapevo che cominciava ad avere paura per il viaggio in aereo.
«Ti raggiungo» urlò, cercando di inserire la chiave nella toppa.
«Andiamo Lee, non avere paura» mormorai, prendendole il polso e costringendola a girarsi verso di me.
Quando i suoi occhi incontrarono i miei, Aileen arrossì appena.
«Non ho paura» si intestardì, abbassando lo sguardo.
«Su, ci sono io» cercai di rassicurarla, anche con un sorriso.
«Ti ho detto che non ho paura» tornò a ripetere, mentre, dopo averle appoggiato un braccio attorno alla vita, la spingevo a camminare verso il cancello.
«Va bene…» acconsentii, sapendo che tanto non avrebbe mai ceduto.
Durante il viaggio in taxi Aileen non parlò mai, continuava a guardare fuori dal finestrino, mordicchiandosi l’unghia del pollice.
Quando scendemmo, davanti all’aeroporto, Lee sospirò, socchiudendo gli occhi.
«Forza, non è poi così male volare» ridacchiai, mentre entravamo.
«Ascolta, io non viaggio come fai tu, ok? È normale che io abbia paura, quindi stai zitto e fai quello che dobbiamo fare» sbottò, tendendomi il mio borsone.
Mi ritrovai con la valigia di Lee e la mia sacca, come fossi un mulo. Lee invece, aveva solamente la sua borsa nera, quella che usava sempre per andare in giro.
«Tu aspetta qui, e… grazie» mormorai sarcastico, allontanandomi da Lee per andare a portare le valigie sul rullo.
Quando tornai da lei, riuscii a stento a trattenere una risata divertita.
Camminava in cerchio, torturandosi l’unghia del pollice con  i denti.
«Guarda che crederanno tu abbia una bomba. Il tuo comportamento è un po’ troppo sospetto» la schernii, facendola sussultare.
«Oddio, no. E cosa faranno?» chiese, quasi strillando.
«Ti faranno fare tutto il viaggio in aereo con la testa fuori dal finestrino, perché tu non faccia scoppiare la bomba». Faticavo a mantenermi serio, ma Lee era talmente spaventata che non si rendeva conto della bugia che le stavo raccontando.
«E possono farlo? Sul serio?». Si aggrappò al mio braccio, stringendolo in modo spasmodico.
«Certo, una volta, in un volo da New York a Los Angeles l’ho visto. Tu non sai quanto ha urlato quel poveretto perché le nuvole gli entravano nel naso». Non riuscii a trattenermi e risi.
«Mi stai prendendo per il culo?» strillò, facendo inorridire una vecchietta che era seduta poco distante da noi.
«Shh, Lee! Parla piano» ghignai, senza smettere di ridere.
«Con tutto il cuore, vaffanculo Robert Pattinson» urlò.
Nel preciso istante in cui Lee pronunciò il mio nome, sentii il mormorio di alcune persone intorno a noi farsi più insistente.
«Perché?» sibilai, guardandola. Nel suo viso c’era una smorfia soddisfatta. «Seguimi» borbottai, prendendola per mano e cominciando a camminare velocemente verso il gate.
Forse non si erano nemmeno accorti che ero io. Non sentivo infatti ragazzine urlanti o paparazzi impazzititi per una foto.
Tirai un sospiro di sollievo, controllando attorno a noi: la situazione era normale.
«Scusa…» mormorò Lee, abbassando lo sguardo. «volevo vendicarmi…». Continuava a torturarsi le dita, imbarazzata.
«Dai, non se ne è accorto nessuno. Andiamo che adesso chiamano i passeggeri della prima classe». Le sorrisi, per cercare di calmarla, e insieme ci avvicinammo alla fila di passeggeri che aspettavano di essere imbarcati. «Fai quello che faccio io, ok?» sussurrai prendendole la mano e facendola avanzare di qualche metro.
Quando chiamarono i nostri nomi, feci vedere il passaporto e, una volta passato il controllo, aspettai Lee.
«Tutto qui?» domandò, strofinandosi la fronte con una mano.
«Sì, adesso dobbiamo solo sederci comodi nei sedili della prima classe e goderci tutte quelle ore di viaggio» risi, guardandola.
Sembrava una bambina che per la prima volta vedeva un luna park.
I suoi occhioni, sgranati, cercavano di non perdersi nemmeno un particolare di tutto quello che le stava attorno.
«Wow» mormorò, girando lentamente su se stessa e guardando l’aereo che c’era davanti a noi.
«Allora?» chiesi, sorridendo.
«È, è enorme». Si sollevò gli occhiali da sole, per poterlo guardare meglio.
«E non l’hai visto dentro» scherzai, aiutandola a salire sulla scaletta dell’aereo.
«Wow» ripeté, di nuovo, quando lo steward ci accompagnò verso la prima classe.
«Benvenuta in prima classe, signorina Colbie» bisbigliai, indicando i nostri due posti.
«Vicino al finestrino?» mormorò terrorizzata, guardando verso il grande oblò.
«Vedrai che ti piacerà». Mi sedetti, lasciandole il posto libero.
Guardare fuori dal finestrino durante il volo mi rilassava sempre, ma per quella volta avrei volentieri ceduto il mio posto a Lee.
«Cazzo, è quasi comodo come il divano di casa» ridacchiò, cominciando a saltellare sul sedile.
Non riuscii a trattenere una risata quando mi accorsi dell’occhiataccia che la signora seduta dietro di noi lanciò ad Aileen perché stava urlando e imprecando.
«Lee, parla piano. Qui ci sono vecchietti che non vogliono essere disturbati» le dissi, il più piano possibile.
Eravamo circondati.
«Che vadano a fancu…». Le portai una mano davanti alle labbra perché non terminasse la frase.
«Shhh» ridacchiai, quando Lee incrociò gli occhi per guardare la mia mano sulle sue labbra.
Arrossì improvvisamente, forse rendendosi conto della figuraccia che aveva fatto.
Quando l’aereo cominciò a decollare, fece dei respiri profondi.
Mi voltai a guardarla: aveva gli occhi chiusi e stava stritolando il sedile.
Strinsi la sua mano con la mia, e improvvisamente Lee aprì gli occhi e mi guardò.
La stretta si intensificò e riuscì ad accennare un timido sorriso.
«Stai tranquilla» sussurrai sfiorandole la fronte con un bacio.
Sentivo il suo respiro accelerare sempre di più.
«Lee, devi stare tranquilla, siamo al sicuro» cercai di calmarla, accarezzandole il dorso della mano con il pollice.
«Col cazzo siamo al sicuro! Saremo a tremila metri sopra Los Angeles, se cadiamo non siamo al sicuro» borbottò, mentre la signora dietro di noi si schiariva la voce per farci capire di abbassare il tono.
«C’è solo un modo per non accorgersi di quanto alti siamo: non pensarci». Cercai di sorriderle, ma Lee sbuffò.
«Bel metodo del cavolo. Trova un’altra soluzione». Strinse di più la mia mano, quando l’aereo sussultò appena. «Oddio, precipitiamo. Ed è tutta colpa tua» strillò.
«Lee, parla piano, non stiamo precipitando» la avvertii ancora, guardandomi in giro per controllare che nessuno avesse chiamato le assistenti di volo per lamentarsi di noi.
Notai una coppietta sgattaiolare dentro al bagno dell’aereo e mi venne un’idea stupida.
Un solo argomento teneva Lee impegnata tanto da distrarla da qualsiasi altra cosa: il sesso.
«C’è un altro modo per distrarsi» sussurrai, avvicinandomi a lei perché nessuno potesse sentirmi.
In fin dei conti era uno scherzo… no?
«Sarebbe?» chiese, tenendo sempre gli occhi chiusi e stringendo la mia mano. Il suo respiro non riusciva a calmarsi.
«Ci si potrebbe chiudere nel bagno e…». Lasciai la frase in sospeso, incapace di continuare.
Era stato un sussurro appena udibile, per paura che qualcuno potesse sentirmi.
«Cazzo, Rob! Siamo a mille chilometri da terra e tu mi chiedi di fare sesso nel bagno dell’aereo. Se proprio un uomo, ragionate sempre con quello che avete tra le gambe!» gridò forte.
Probabilmente l’avevano sentita anche i passeggeri della classe economica.
«Lee» sibilai imbarazzato, portandomi una mano davanti agli occhi.
«Shh» ci ammonì di nuovo la signora dietro di noi prima di aggiungere, borbottando «questi giovani d’oggi che non hanno più buon senso».
«Se non la smette di fare shh, le spacco il naso» ribatté Lee, sbirciando tra i sedili per guardare la signora dietro di noi.
«Lee, forse è meglio se dormi un po’» proposi, sapendo che non si sarebbe zittita.
«Buona idea, così se si schianta l’aereo io non sento niente». Annuì, sistemandosi meglio sul sedile. «E tu che fai?» chiese, alzando il volto di scatto, per guardarmi.
«Leggo un copione». Sventolai il pacco di fogli per farle vedere che non era una bugia.
In verità, oltre al copione dovevo anche pensare bene alla sua festa di compleanno.
«Oh… ok. Buon lavoro». Chiuse gli occhi, appoggiando di nuovo il capo sul sedile.
Subito calò un silenzio tombale.
Eravamo stati davvero io e Lee a fare tutto quel chiasso?
Quasi un’ora dopo, sentii Lee mugolare qualcosa.
Stava sognando, di questo ne ero certo, sperai solo che non si mettesse a urlare.
«No» borbottò, muovendosi irrequieta.
«Lee, shh è un sogno» mormorai, avvicinandomi a lei e scuotendola appena.
Le luci dell’aereo erano già spente e quasi tutti gli altri passeggeri avevano chiesto un cuscino alle assistenti.
«No» disse di nuovo Lee, scacciando qualcosa di invisibile con la mano.
«Lee, sono Rob, stiamo andando a Londra, non c’è niente che non va» sussurrai, accarezzandole una guancia.
Dopo un sospiro, Lee appoggiò il capo sulla mia spalla.
«Aspetta, mi fai male così» mormorai, cercando di muovere il braccio. Riuscii solamente a passarlo attorno alle sue spalle.
Si sistemò più comoda, continuando a dormire.
Pochi minuti dopo, cullato dal respiro regolare di Lee, mi addormentai anche io.
 
Solamente quando il comandante ci informò che mancava mezz’ora all’arrivo riuscii a svegliarmi.
Lee stava ancora dormendo, appoggiata alla mia spalla.
Cercai di stiracchiarmi senza muoverla, ma ero sicuro che nemmeno una bomba l’avrebbe svegliata.
Volevo che Lee fosse sveglia durante il suo primo atterraggio.
«Lee» la chiamai, accarezzandole dolcemente una spalla. «Lee» provai, di nuovo, scuotendola più forte.
Mugolò qualcosa, portando la testa sul sedile.
«Sveglia, bella addormentata, siamo quasi arrivati» sussurrai, appoggiato al suo orecchio.
Non mi ero nemmeno reso conto che le mie labbra l’avevano baciata.
Respirò a fondo prima di stiracchiarsi e cominciare a strofinarsi gli occhi con le mani.
«Ben svegliata» mormorai, lasciandole un fugace bacio tra i capelli.
«Dove siamo? Che ore sono?» chiese, confusa, mentre cercava di guardarsi attorno per capire qualcosa.
«Tra poco dovremmo essere arrivati. E qui a Londra è sera». Guardai fuori dal finestrino, ma non eravamo ancora abbastanza vicini da poter vedere le prime luci di Londra.
«Sono comodi questi sedili. Si dorme proprio bene. Dovresti comprarne un paio da mettere in soggiorno» ridacchiò, spostandosi sul suo sedile per accarezzare il poggiatesta.
«Già» sogghignai, ripensando a Lee che aveva dormito per tutto il viaggio appoggiata a me, «dovrei proprio comprarne uno».
«Rob, posso prendere io le valigie? Voglio fare come nei film» chiese, guardandomi con i suoi occhi assonnati.
«D’accordo, io intanto allora vado a salutare Tom, e ti aspettiamo agli arrivi» proposi, mentre ci allacciavamo le cinture per la manovra di atterraggio.
Lee tornò a stringere la mia mano, stritolandola quasi.
Quando finalmente l’aereo toccò terra, tornò a respirare.
«Benvenuta a Londra, Lee» mormorai divertito, mentre scendevamo dall’aereo.
«Wow» sussurrò, guardandosi in giro. «Fa freddo». Rabbrividì appena, a contatto con l’aria fresca di casa.
«Non è come a Los Angeles qui. Vieni». La condussi dentro all’aeroporto, per farle vedere dove avrebbe dovuto aspettare le valigie. «Tu le aspetti qui, io intanto vado da Tom. Quando sono arrivate entrambe ci raggiungi, ok?».
«Quanto ci mettono?» chiese, guardandosi attorno, sospettosa.
«Non lo so, dipende se sono le prime o le ultime». Feci spallucce, prima di rendermi conto che Lee sembrava… fuori luogo. «Vuoi che aspetti qui con te?» chiesi, facendo un passo verso di lei.
«No, sono capace. Vai da Tom». Mi spintonò, tornando a guardare il rullo subito dopo.
Ridacchiando, me ne andai verso l’uscita degli arrivi.
Notai subito Tom, appoggiato a un muro, dietro di tutti.
Quando mi vide, si avvicinò sorridendomi.
«Vecchio scopone che non sei altro, l’hai trombata di nuovo?» disse, dandomi una pacca sulla schiena.
«Tom! No» urlai, imbarazzato. Per fortuna attorno a noi non c’erano persone.
«Lavoretto di bocca?» si informò, e io inorridii: la signora dell’aereo, quella seduta dietro di noi, si stava pericolosamente avvicinando.
«No» tagliai corto, sperando che la smettesse di fare domande idiote.
«Di mano?» ritentò, proprio quando la signora ci passò di fianco.
Lo guardo che mi lanciò mi fece sorridere: probabilmente mi aveva preso per un pervertito.
«Niente lavoretti. C’è disoccupazione» borbottai, sperando che la signora mi sentisse e non riuscisse a capire di che cosa stavamo parlando. Stavo cercando di rimediare al danno che aveva fatto Tom.

«Oh, peccato» mormorò, deluso. «E Lee?». Si illuminò di nuovo, guardando verso gli arrivi.
«Sta aspettando le valigie, voleva fare come nei film» ridacchiai.
Dopo cinque minuti, in cui Tom mi raccontò tutte le ultime novità e cercò di estorcermi informazioni, Lee comparve.
Trascinava la sua valigia con fatica. Il mio borsone era appoggiato sopra alla sua valigia, in precario equilibrio.
«Ehi, piccola yankee» urlò Tom, sventolando la mano per farsi vedere da Lee.
Quando lei lo vide, sorrise, lasciando le valigie in mezzo al corridoio e cominciando a correre verso di noi.
«Tom» strillò, abbracciandolo.
Le sue braccia attorno al collo di Tom, le gambe attorno alla sua vita.
«Piano» rise Tom, facendo un passo indietro per non cadere. «Sei così contenta di vedermi?» chiese, continuando ad abbracciarla.
«Sì» mormorò Lee, tenendo sempre la fronte appoggiata alla sua spalla.
«Be’, se rimani così un altro minuto posso farsi sentire quanto sono felice di vederti anche io» ridacchiò Tom, prima di prendersi uno schiaffo in testa da Lee.
«Quanto sei cretino» sbottò, sciogliendo l’abbraccio e ritornando con i piedi per terra.
«Vado a prendere le valigie» mormorai irritato.
Non sapevo se essere più allibito per Lee o per Tom.
Sapevo che scherzava sempre con lei, ma quella battutina, per quanto innocua, mi aveva dato fastidio. Tanto fastidio.
Anche la felicità di Lee nel rivedere Tom non mi aveva fatto sorridere, proprio per niente.
Perché era così felice di rivederlo?
«Rob, tua madre mi ha imposto di passare da lei prima di portarvi a casa, altrimenti non mi farà più nessuna Woopie Pie. Quindi mi dispiace, ma devo» sussurrò, quando mi avvicinai di nuovo a loro, dopo aver preso le valigie.
«Sì, ma noi dove dormiremo?». Credevo avremmo dormito a casa dei miei, dopo che Lee aveva specificato a mia madre che tra di noi non c’era niente.
«A casa mia, ovvio» ribatté Tom, come se non ci fosse stato nemmeno il bisogno di chiederlo.
«Io vado in albergo. Non voglio prendermi qualche malattia» mormorò schifata Lee, arricciando il naso.
«Ehi, non offendere! È quasi più pulita della vostra villona. Solo che è un piccolo appartamentino. Era molto più sporco quando ci viveva Rob» brontolò Tom, facendo ridere Lee.
«A che ora avevi detto ai miei che saremmo passati?» chiesi, lanciando le valigie dentro al bagagliaio del primo taxi libero fuori dall’aeroporto.
«Li ho chiamati appena siete atterrati. Avevo ordini precisi, sai com’è tua madre Rob» mugugnò Tom, cercando di appiattirsi contro la portiera per lasciarmi più spazio.
Lee continuava a guardare fuori dal finestrino con le labbra spalancate per la sorpresa.
C’era un sorriso sul suo volto che non riusciva ad andarsene.
«Allora, Lee… come vuoi passarlo questo tuo compleanno?» domandò Tom, guardandola.
«Io… io volevo qualcosa di speciale, ma tanto so che con voi ci chiuderemo in un pub a bere birra, con un berretto di lana in testa e una camicia a quadri» mormorò, continuando a guardare fuori.
«Invece il tuo compleanno non sarà così» sbottai, colpito nel vivo.
Credeva che sarebbe stato un compleanno normale?
Erano ventuno anni.
Erano i ventun anni di Lee.
Non poteva essere qualcosa di normale.
«Davvero?» fece sorpresa, guardandomi con un sorriso che sembrò risplendere tra le luci delle strade di Londra.
«Certo, ne dubitavi?». Tom mi diede man forte, stupendo ancora di più Lee.
«Che bello» strillò, battendo le mani.
«Prima di cantare vittoria, dobbiamo andare dai genitori di Rob. Dite che siete stanchi, vi prego, voglio tornare a casa a un’ora decente» piagnucolò Tom, facendomi ridere.
Quando scendemmo davanti a casa dei miei, mamma era già fuori dalla porta che sorrideva.
Rimanemmo a parlare con loro per un’oretta. Tutto quello che continuavo a sentire era «siete troppo magri, non mangiate» alternato a un «che belli che siete».
Appena messo piede in casa, Lee cominciò a ridere.
«Non ci credo… voi… voi vivevate qui?» sghignazzò, camminando da una camera all’altra. «E ci portavate anche ragazze o scappavano prima?». Si asciugò una lacrima, aprendo la porta del bagno con il gomito, come se avesse paura di prendere qualche malattia.
«Ci portavamo anche ragazze. Bei tempi quelli» sospirò Tom, facendomi ridere.
«Oh… ho capito che tipo di ragazze portavate qui, sì» ghignò Lee, infastidendo Tom, che cambiò discorso.
«Dobbiamo decidere come sistemarci. Ci sono due camere e noi siamo in tre. Due uomini. Io non dormo con lui» specificò.
«E senza offesa Tom, ma io non dormo con te. Primo perché non mi fido e secondo perché mi sembri… assatanato» ridacchiò Lee, appoggiandosi al divano con una mano.
«Non sono assatanato» borbottò offeso, incrociando le braccia al petto. «Solo che al momento non ho una ragazza».
«Bene, Tom dormi in camera tua, io dormirò nella vecchia camera di Rob, e tu?» chiese Lee, indicandomi con il capo.
«Dormirò sul divano, che volete che faccia?». Spodestato dal mio vecchio letto.
«Ottimo. Vado a disfare la valigia» disse Lee, saltellando.
«Tom, nascondi questo in camera tua. Non farlo vedere a Lee per nessun motivo. Verrò domani sera a prenderlo» sussurrai, aprendo velocemente il mio borsone e allungandogli un pacchetto.
«Che c’è dentro?» chiese, provando ad aprirlo.
«Una parte del regalo di Lee. Muoviti non deve vederlo». Lo spintonai in camera, perché corresse a nasconderlo prima che lei uscisse.
«Possiamo mangiare? Ho fame» si lamentò Aileen, uscendo dalla mia camera con un paio di pantaloncini e una mia maglia.
«Tom, c’è ancora quel piccolo ristorantino italiano, qui all’angolo?» chiesi, togliendomi le scarpe e prendendo una birra dal frigo.
«Sì. Chiamo e ordino qualcosa» strillò dalla camera.
Trascorremmo quella sera davanti alla TV, a ridere come tre stupidi con un vecchio film comico.
Lee tornò in camera mia prima di mezzanotte, così non riuscii nemmeno a farle gli auguri.
Poco dopo, anche Tom andò a dormire.
 
«Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri Aileen… tanti auguri a te» sussurrai accarezzandole la fronte con un bacio, per svegliarla.
Sentii il suono della sua risata e non riuscii a trattenere un sorriso.
«Sei ufficialmente autorizzata a bere alcolici» mi burlai di lei, distendendomi al suo fianco sul letto.
Una nuova risatina, mentre si avvicinava a me e mi abbracciava.
«Tom sta entrando per darti il suo regalo. È nudo» sogghignai, riuscendo comunque a rimanere serio perché Lee non si insospettisse.
«Che schifo». Rabbrividì, stringendo di più la mia maglia tra le sue dita.
«Dai Lee, alzati, sono le tre del pomeriggio» mormorai, cominciando a giocare con una ciocca di capelli.
«Se è il mio compleanno perché non posso fare tutto quello che voglio?» piagnucolò, prima di mettersi a sedere e stiracchiarsi.
«Perché altrimenti non puoi festeggiare questa sera. Su» mormorai, pizzicandole un fianco.
«Auch» si lamentò, prima di guardarmi con uno strano ghigno.
Non riuscii ad alzarmi dal letto, perché Lee fu più veloce.
I suoi denti conficcati sul mio braccio e un mio urlo.
«Mollami» strillai, non riuscendo a trattenere una risata.
I denti di Lee stavano mordendo sempre di più il mio braccio, e cominciava a farmi male.
«Lee, mi fai male» urlai di nuovo, cercando di spostarla.
«Ma che diamine…» mormorò Tom, aprendo la porta e guardandoci stupito.
Lee, forse imbarazzata, mollò la presa su di me, e tornò a sedersi sul letto, come se non fosse successo niente.
«Così impari» sbottò, raccogliendosi i capelli per fare una coda.
«Così imparo?» chiesi, allibito.
Che cosa dovevo imparare?
«Sì, ti serviva una lezione». Mi fece una linguaccia, cominciando a giocare con l’elastico.
«Te la do io una lezione» replicai, lanciandomi addosso a Lee e cominciando a farle il solletico.
Iniziò a contorcersi, finendo sotto di me. Le avrei fatto perdere il vizio di dare morsi.
«Rob» mormorò tra le risate, cercando inutilmente di togliere le mie mani dai suoi fianchi. «Rob» sussurrò di nuovo, forse cercando di impietosirmi.
Più rideva e più continuavo, non mi interessava proprio nulla.
Il suo collo, proprio davanti ai miei occhi, mi tentò troppo; senza pensarci due volte, affondai i denti e la morsi.
«Stupido» rise, cercando di fare forza con le mani perché mi alzassi da lei.
Non volevo arrendermi così facilmente però: smisi di morderla e continuai a farle il solletico, fino a quando Lee non cominciò a tossire, perché era senza aria.
«Rob, non… respiro» balbettò, appoggiando le mani sul mio petto.
Mi fermai, sostenendomi con le mani sul materasso per non pesarle addosso.
Aileen aveva il fiatone e tutte le guance rosse.
Per un tempo infinito i suoi occhi fissarono i miei e rimasi immobile, completamente senza parole.
Stavo annegando in quel mare ghiacciato.
Tutto, tutto quello che avevo davanti era perfetto, e sapevo che era esattamente quello il posto in cui dovevo stare: davanti a Lee.
Tecnicamente ero sopra, ma… il concetto era quello.
«Ok, vi lascio da soli con la vostra tensione sessuale» mormorò Tom, prima di chiudere la porta.
«Va… va meglio?» chiesi, scuotendo appena la testa per cercare di ritrovare la ragione.
«Eh? Sì, sì» bofonchiò Lee, alzandosi a sedere goffamente.
«Va… va bene. Allora, tra un paio d’ore arrivano gli altri. Tu comincia a prepararti, fatti una doccia, fai quello che vuoi. Poi chiamami, che ti do il mio primo regalo». Mi alzai dal letto, prestando troppa attenzione a un buco nella vecchia maglia che indossavo.
«Il mio primo regalo? Quanti regali mi hai fatto?» chiese Lee, stupita.
«Un paio più o meno» confessai, alzando gli occhi per guardarla.
Stava sorridendo.
Un sorriso davvero felice.
«Così tanti?» chiese in un sussurro, mentre i suoi occhi si inumidivano.
«Lee » sussurrai, avvicinandomi a lei intenerito.
Cominciò a guardare il soffitto, mordicchiandosi il labbro per non far scendere le lacrime.
Quando una sfuggì, la tolse velocemente con il dorso della mano.
«Vieni qui, dai» bisbigliai attirandola verso di me per abbracciarla.
Si lasciò abbracciare, ma sentii qualcosa di bagnato scivolare sul mio collo.
«Guardami» mormorai, prendendole il viso tra le mani, «oggi è il tuo compleanno e non voglio vedere lacrime, va bene?». Le sorrisi, tentando di farle tornare il buon umore.
Annuì solamente, continuando a guardare verso la porta.
«No, non vale. Mi devi guardare negli occhi e dirmi che oggi non piangerai» insistei, senza lasciare il suo viso.
Aileen tornò lentamente a guardarmi. Un secondo dopo però, i suoi occhi si riempirono ancora di lacrime.
«Lee» risi, abbracciandola di nuovo. «Dai, vai a farti bella» parlai sottovoce, tra i suoi capelli, beandomi del suo profumo. Avrei voluto accarezzarla.
Tirò su con il naso, prima di avvicinarsi alla sua borsa per prendere un paio di jeans e una maglia.
Poi, sgattaiolò fuori dalla porta, verso il bagno.
«Tom, chiama Sam, Bobby e Marcus. Falli venire qui tra un’ora. Digli di vestirsi eleganti. Guarderemo un film con Lee e poi usciremo a bere qualcosa. Voglio ordinare cinese. È il preferito di Lee» borbottai, non appena Lee aprì il getto d’acqua.
«Altro?» chiese, forse sarcastico.
«Per ora no. Le ho già preso il regalo, quindi dovremmo essere apposto». Provai a pensare a qualcosa ma non c’era altro da fare, no.
«Rob! Aiuto» urlò Lee dal bagno.
«Che c’è?». Corsi davanti alla porta, pronto ad aprirla.
«E-e-e-e-e-e-entra» balbettò, aprendo appena la porta.
«Sei nuda?». Meglio chiedere.
«Entra» urlò di nuovo.
Spaventato, aprii la porta. Fortunatamente Lee si era arrotolata un piccolo asciugamano bianco attorno al corpo, e sembrava star bene.
«Che c’è?» domandai, guardandola.
«Lì». Allungò un indice, indicando un punto poco distante dalla vasca. Stava tremando.
Feci un passo in avanti, per vedere che cosa la spaventasse tanto.
«Attento, è enorme» sussurrò, appiattendosi ancora di più contro il muro.
Cominciai a ridere quando mi accorsi della presenza di un piccolo ragnetto.
«Uccidilo» continuò, spingendomi verso il ragno.
«No che non lo uccido» replicai, continuando a guardare la povera bestiolina.
«Per favore, uccidilo» mormorò di nuovo, quasi implorandomi.
«Lee, è già morto, guarda». Le presi un polso, avvicinandola a me.
«No, non voglio guardare». Affondò il viso sul mio petto, stringendosi a me.
«Fidati, è morto». La costrinsi a guardare il ragno, sospettosa. Rabbrividì stringendosi maggiormente nelle spalle, ma si fidò di me e fece un passo avanti.
«Oh» commentò prima di cominciare a ridere. «Giuro che si era mosso. Stava avanzando verso di me». Che peste. Possibile che avesse paura di timidi ragnetti? Per giunta morti? La lasciai alle sue risate, scuotendo la testa, e mi chiusi la porta del bagno alle spalle dirigendomi verso la stanza del mio migliore amico.
«Tom, dov’è il regalo di Lee che ti avevo dato?» mormorai, entrando senza neanche bussare.
Tom stava parlando al telefono con qualcuno, ma mi indicò l’armadio.
Dopo aver frugato un po’, riuscii a trovare il pacchetto.
«Lee, sei vestita? Posso entrare?» chiesi bussando alla porta del bagno.
«Entra» rispose.
Aprii la porta e subito chiusi gli occhi.
Indossava solo un maledetto completo intimo trasparente.
«Pu-puoi indossare qualcosa?» chiesi, schiarendomi la voce per cercare di sembrare normale.
Sbuffò, prima di tornare in camera.
Mi faceva sempre quell’effetto vederla senza nulla addosso. Avrei voluto tanto poterla toccare, baciare, come avevo fatto quella notte. Ma dovevo resistere, calmare i bollenti spiriti nonostante non ne avessi voglia.
«Ok, sono vestita» brontolò, tornando in bagno. «Che c’è?».
«Questo è per te. Devi indossarlo stasera» dissi, tendendole il pacchetto, imbarazzato.
«Un regalo per me? Un vestito da indossare stasera?» farfugliò, avvicinandosi senza però prendere il pacco.
«Se non ti piace non importa» mi giustificai, allungando di più la mano perché prendesse il mio regalo.
Lee prese il pacchetto e, mentre staccava il fiocco, mi accorsi che le tremavano le dita.
Quando tolse la carta e scoprì la stoffa nera del vestito, sentii il respiro bloccarsi nella sua gola.
«Nero» sussurrò, lasciando cadere la carta rossa per terra. «Il mio colore preferito».
Lo sapevo, appunto per quello le avevo preso un vestito di quel colore.
Se si trattava di un vestito elegante, Lee sceglieva sempre il nero.
«Rob, è…» mormorò, accarezzando i brillanti azzurri che c’erano sul bustino.
Scosse la testa, gli occhi pieni di commozione, poi corse ad abbracciarmi.
«Lee, niente lacrime» la rimproverai, fingendo una sicurezza e una tranquillità che non avevo.
«Sì, sì» borbottò, sciogliendo l’abbraccio. «Vado a cambiarmi». Sventolò il vestito di fronte a me, prima di andare in bagno.
«Che cosa fai tu alle donne, che piangono sempre? Non lo so proprio» sghignazzò Tom, quando tornai in camera sua. «Sono abbastanza elegante?». Si indicò. Indossava una camicia bianca e sopra una giacca.
Non avrei potuto chiedere di più.
«Perfetto» approvai, quando sentii la porta del bagno aprirsi.
Alcuni secondi dopo, Lee comparve davanti a noi.
«Sto tanto male?» chiese, tenendo lo sguardo basso.
Rimasi senza parole: non era nemmeno lontanamente simile a come l’avevo immaginata.
Sembrava una dea.
«Sei bellissima Aileen» rispose Tom.
«Rob, non ti piace, vero?» sussurrò, abbassando di nuovo lo sguardo.
Era arrossita.
«Eh? No, ti sta bene» mentii, cercando di sorridere.
«Ok. Allora vado a truccarmi un po’» parlottò, prima di ritornare in bagno.
Tom si alzò, e chiuse un po’ la porta, prima di urlare «Lee, parliamo del tuo regalo, non entrare».
Ricevuto il messaggio. Aveva qualcosa da dirmi.
«Che c’è?» sbottai, continuando a guardare verso la porta.
«Asciugati la bava, riporta i tuoi occhi dentro alla calotta cranica e sistema la mascella che sta toccando il letto. Pietre azzurre, mhh? Fammi indovinare, in tinta con i suoi occhi?» commentò, riferendosi al vestito.
«Sì» sospirai, distendendomi sul letto. «Era, era perfetta. L’hai vista anche tu? Era perfetta, bellissima. E non mi vuole, mi odia». Mi strofinai il viso con le mani, sconfitto.
«Sai, io credo che…» cominciò a dire Tom, prima che il campanello suonasse.
«Rob, il campanello» gridò Lee, dal bagno.
«Vado io, tu mettiti qualcosa addosso, sei l’unico che non è elegante» brontolò, prima di uscire.
Corsi a prendere il borsone e indossai un paio di jeans, una camicia bianca e una giacca nera.
«Posso?» chiesi, bussando alla porta del bagno.
«Entra pure, ho finito» ridacchiò Lee, aprendo la porta.
«Sei bellissima» sussurrai. Un filo di trucco perché il colore meraviglioso dei suoi occhi risaltasse ancora di più, e un velo leggero di rossetto la rendevano perfetta. «Andiamo? La festa per i tuoi ventuno anni sta per cominciare» dissi dolcemente, prendendola sottobraccio per andare in soggiorno.
C’erano tutti: Sam, Marcus, Bobby, Tom, io e Lee.
Eravamo pochi, ma sapevo che se ci fossimo scatenati Lee avrebbe avuto la miglior festa del mondo.
 
«Prima di uscire per ubriacarci, visto che il film è finito, io direi… i regali» borbottò Bobby, continuando a mangiare.
«Oh, sì! Questo è da parte nostra». Sam allungò un pacchettino a Lee.
Le avevano regalato un ingresso gratis a tutti i loro concerti.
Lee si era lamentata, dicendo che comunque, visto che ai loro concerti ci andava assieme a me, non avrebbe mai pagato.
Quello che non sapeva, era che non era il loro vero regalo.
«Questo è da parte mia, ho sentito che ti manca» ghignò Tom.
Che cosa aveva comprato? Non ne avevo la minima idea.
Quando Lee scartò il pacchettino cominciò a ridere.
Io, invece, diventai completamente rosso per l’imbarazzo.
«Guarda Rob» strillò ridendo Lee. «Adesso ho un paio di slip non trasparenti! Hanno anche un dalmata davanti. Che belli! Grazie Tom! Aspetta…» continuò, rigirandosi il reggiseno tra le mani, «che taglia hai preso?» chiese, cercando l’etichetta.
«Ho chiesto se c’era la meno uno, ma mi hanno detto che si arriva solo fino alla prima» scherzò, guadagnandosi un pugno sul braccio da Lee.
«Mi sono cresciute! Te le farei vedere» rise, appoggiando il completino con i dalmata vicino ai biglietti.
«Seriamente, Lee… ecco il nostro regalo». Bobby le porse il piccolo pacchettino, e Lee spalancò le labbra, sorpresa.
«Non erano davvero questi?» chiese, confusa.
«No» risposero in coro.
«Ma posso tenerli, no?». Sembrava quasi triste all’idea di non poterli tenere.
«Certo» ribatté Sam, indicandole però l’ultimo pacchetto.
Lee lo aprì veloce, quasi come una bimba il giorno di Natale.
Quando vide il piccolo braccialetto d’argento, quasi un filo, che le avevano regalato, Lee cominciò a piangere e li abbracciò tutti, senza smettere di ringraziarli.
«Dai, adesso manca il regalo di Rob» borbottò Marcus, sciogliendo l’abbraccio quasi in modo impacciato.
«Ecco… io ne avevo uno… ma non sono riuscito a finirlo, perché negli ultimi tempi ero…distratto» farfugliai, muovendomi irrequieto sul bracciolo del divano.
«Io vado a fumarmi una sigaretta» borbottò Sam.
Marcus, Bobby e Tom lo seguirono.
Aileen continuava a guardarmi, senza dire nulla.
«Ecco… un giorno la finirò». Le porsi una busta.
Aileen allungo la mano, tremante, per prenderla.
Quando aprì la busta e si accorse di quello che conteneva, alzò gli occhi per guardarmi.
«È uno scherzo?» bisbigliò. Sembrava che le venisse da piangere.
«No, mancano le parole, non sono riuscito a scriverle. Potremmo farlo insieme, magari» parlai tentando di sembrare tranquillo, e mi passai una mano tra i capelli.
«Hai scritto una canzone per me?» ripeté Lee, accarezzando con l’indice il foglio e seguendo le note.
«Solo la musica» mi giustificai, continuando a guardare un punto imprecisato.
«Rob». Venne ad abbracciarmi. «Io… nessuno aveva mai fatto una cosa così per me» sussurrò, cominciando a piangere.
«Ehi, Lee… dai! Devo ancora darti il mio regalo» confessai, cercando di ricacciare indietro quel nodo che avevo in gola.
«Un altro?» chiese, ridendo tra le lacrime.
«Quello vero». Sorrisi, prendendo il pacchetto dalla giacca. «Io… io so che non ti piacciono e che non li porti, ma… non sapevo cosa prendere» borbottai, cercando di dare una giustificazione a quel regalo.
Aprì il piccolo pacco velocemente, cominciando a piangere di nuovo.
«Grazie, è bellissimo». Mi circondò il collo con le braccia e iniziò a baciarmi le guance.
«Sei sicura? Si può cambiare» dissi, accarezzandole la schiena e ridacchiando perché non voleva smettere di baciarmi.
«No». Prese tra le dita la collana che le avevo comprato e mi diede le spalle, sollevandosi i capelli perché voleva indossarla.
Dopo aver chiuso il gancetto, le accarezzai il collo, senza nemmeno rendermene conto.
Mi sembrò quasi di vedere Lee rabbrividire.
«Dai, andiamo a ubriacarci» mugugnò, asciugandosi una lacrima.
 
Tre ore dopo, stavamo ancora ballando, ormai fuori di testa.
Lee era decisamente la più ubriaca.
Rideva, cantava, ballava, non l’avevo mai vista così spensierata e felice come in quel momento.
Speravo che per lei potesse essere un compleanno indimenticabile.
«Ragazzi, noi andiamo. Domani c’è un aereo che ci aspetta per Los Angeles» strillò Bobby sopra la musica.
«Certo» asserii, mentre Lee finiva di bere la sua birra.
Dopo la quinta avevo perso il conto.
«Rob, vieni a fumare?» chiese Tom, indicando l’uscita.
Gli altri stavano salutando Lee che rideva, senza smettere mai di ballare.
«Chiedo a Lee se ha voglia di uscire» strillai, prima di avvicinarmi per chiederglielo.
Tra una risata e l’altra riuscii a capire che sì, avrebbe fumato volentieri anche lei.
Tom si avviò verso l’uscita e, dopo aver appoggiato le mie mani sui fianchi di Lee perché non cadesse o qualcuno la toccasse, lo seguii con lei.
«Dentro si muore» mormorò Tom, sventolandosi il viso con una mano.
«Senti che freddo-he-fa» biascicò Lee, prima di abbracciarmi per cercare di scaldarsi.
«Vuoi tornare dentro?» chiesi, cominciando a sfregare le sue braccia per scaldarla un po’.
Alzò il viso e, continuando a sorridere, fece un segno di diniego.
«Basta birra per stasera» mormorai, accarezzandole una guancia accaldata.
«Tequila?» sghignazzò, appoggiando poi la fronte contro il mio petto.
«Facciamo così, il compleanno è finito e adesso torniamo a casa, mhh?». Cercai di prenderle il viso tra le mani, perché mi guardasse.
«Ho male qui» piagnucolò, indicandosi un piede.
«Allora è proprio l’ora di tornare a casa, su». Appoggiai una mano dietro la sua schiena, quando ciondolò leggermente.
«Tom tu vieni a casa con noi?» chiese Lee, guardando un ragazzo che stava fumando.
«No, quello non è Tom» ridacchiai, scusandomi, «questo è Tom». Spostai Lee di qualche passo in avanti, perché lo vedesse.
«Oh, adesso ci assomiglia» rise, avvicinandosi per abbracciarlo. «Ti voglio bene Tom, tanto tanto tanto» strillò, stringendo le braccia attorno al suo collo.
«Sì, grazie Lee. Ne sono lusingato. Adesso torniamo a casa, su».
Mi aiutò a far camminare Lee, senza farla inciampare.
Non era di certo pesante, ma continuava a sbilanciarsi da una parte all’altra, ridendo e parlando con tutti gli alberi che incontrava chiamandoli “Barbalbero”.
Quando Tom stava per aprire il portone di casa, Lee alzò gli occhi e sorrise.
«Rob, credo che mi venga da…» cominciò a dire.
Riuscii a spostarmi appena in tempo.
«Che schifo» sbottò Tom, tappandosi il naso e dando le spalle a Lee.
«Lee» dissi cauto, avvicinandomi a lei e spostandole i capelli dietro la schiena perché non si sporcassero.
«Io vado su» fece Tom, aprendo il portone.
«Che cazzo fai? Aiutami». Non riusciva a vedere che Lee stava male?
«Sta vomitando» urlò, guardandola restio.
«Appunto, per quello ti chiedo di aiutarmi».
Lee sembrava aver smesso.
«Va meglio?» chiesi, accarezzandole la fronte sudata
«Un po’» sussurrò, massaggiandosi lo stomaco.
«Aspetta, adesso andiamo su e ti preparo qualcosa da bere». La presi in braccio, mentre Tom teneva il portone aperto.
«Un rhum e pera?» mi chiese, facendomi ridere.
«La sfiderei a berlo» ghignò Tom, davanti a noi.
«Tom, dacci un taglio» mormorai, dopo aver appoggiato Lee sul divano. «Torno subito» la rassicurai, con un bacio.
Preparai velocemente un the caldo per farglielo bere, ma quando tornai da Lee, stava già dormendo.
«La porto in camera» sussurrai, prendendo Lee in braccio.
«Rob?» brontolò, appoggiando la testa contro di me.
«Dimmi». La distesi lentamente a letto, togliendole le scarpe.
Quel gesto l’avevo ripetuto pochi giorni prima.
«La miglior festa di sempre. Grazie» biascicò, cercando di tenere gli occhi aperti.
«Prego». Mi avvicinai, accarezzandole una guancia.
«Devo dirti una cosa» sbadigliò, portandosi poi le braccia allo stomaco.
«Me la dici domani mattina, dai» ribattei.
«Ma è importante» si lamentò, cercando di togliersi il fermaglio che aveva tra i capelli.
«Ho sonno, dai. Me la dici domani, va bene?» sussurrai, dopo averle tolto il fermaglio.
Non rispose nemmeno; si era già addormentata.
«Buonanotte Lee» bisbigliai e istintivamente le toccai le labbra con le mie.

 
 
 
 
Lo so lo so!
Sono in ritardo e questo capitolo è INFINITO.
Credo che chi riesce ad arrivare in fondo e lascia una recensione avrà un premio, tipo uno spoiler o una cosa così! Ahahah!
Però lo sapete che quando la storia sta per finire divento sentimentale e i capitoli si allungano.
Poche cose da dire; il vestito di Lee, o meglio, come me la sono immaginata, la potete vedere QUI e QUI.
Come al solito ricordo il mio profilo FB e il gruppo spoiler (con la Sbavo night… ahahha!).
A lunedì!
Un bacione!

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Capitolo 14
*** You've not Cancer, you love me, Lee ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







Quella notte avevo dormito poco.
Una parte di me continuava a chiedersi che cosa Lee avesse voluto dirmi.
L’altra invece si congratulava perché ero stato leale.
Ero sicuro che, qualsiasi cosa Lee avesse voluto dire, era stata dettata solo dall’alcol.
Mi alzai con uno strano sorriso; ero a casa.
Quando, dopo una doccia, arrivai in soggiorno trovai Tom mezzo addormentato sul divano.
«A che ora pensi di svegliarla?» borbottò, stiracchiandosi.
«Lasciamola dormire un altro po’. In fin dei conti ieri sera era il suo compleanno e si è sbronzata» ghignai, ricordando Lee che parlava con gli alberi.
«Non è giusto però! Perché fai preferenze? Perché lei può dormire fino a pomeriggio inoltrato?» si lamentò, accendendosi una sigaretta.
«Perché tu non hai il jet leg. Lei non è abituata. Lasciala riposare un po’» tornai a dire, guardando fuori dalla finestra.
Volevo portare Lee in giro per Londra, farle conoscere la città che mi aveva visto crescere, la città che in qualche modo consideravo casa.
«Ma io avevo bisogno di dormire» piagnucolò, appoggiando la nuca al divano e chiudendo gli occhi.
«Io vado a comprare un paio di cornetti per fare colazione» borbottai, infilandomi una giacca per uscire.
«Per me il solito» sussurrò Tom, prima che mi chiudessi la porta di casa alle spalle.
Per lui il solito, certo.
Ma io stavo andando a prendere la colazione per Lee.
Caffè con il caramello e brioche al cioccolato.
Quando tornai a casa, trovai Tom addormentato sul divano.
Non appena sentì il profumo del caffè, si risvegliò, allungando la mano.
Gli lanciai la confezione con il suo cornetto e appoggiai il suo caffè sul tavolo.
«Vado a svegliare Lee» mormorai, andando verso la mia camera.
Tom grugnì qualcosa in risposta. Probabilmente stava già mangiando.
«Lee» sussurrai, avvicinandomi al letto. «Lee, sveglia». Mi sedetti sul bordo del materasso, poggiandole la mano sul capo e sfiorandole i capelli con una carezza.
La sentii ridacchiare, prima di spostarsi.
«Su, forza. Ti ho portato la colazione, come piace a te. Cornetto al cioccolato e caffè al caramello. Ci hanno messo anche i pezzi di nocciola» sussurrai, sventolando la brioche davanti al suo naso.
Lee inspirò un po’ d’aria, tenendo sempre gli occhi chiusi.
«Mmm» mormorò, abbandonandosi a un languido sorriso.
«Devi aprire gli occhi però, altrimenti mangio io questa bontà» scherzai.
Lee si alzò a sedere di scatto, più sveglia che mai.
Era così facile delle volte riuscire a ottenere quello che volevo.
«Come sta la testa?» chiesi, mentre prendeva il cornetto e cominciava a mangiarlo.
«Bene» mentì, parlando con la bocca piena. «Mmm» mugolò, chiudendo gli occhi e leccandosi le labbra, sporche di cioccolato.
Ridacchiai, spostandomi irrequieto sul letto.
Anche quel semplice gesto sapeva riportarmi alla mente quello che era accaduto tra noi in camera mia.
«Questo è come un orgasmo» sussurrò, leccandosi il pollice.
«Lee» bofonchiai , aggrottando la fronte. Dovevo reprimere la voglia di lei in qualche modo.
Mi alzai dal letto, cominciando a camminare per la stanza.
«Che c’è? Hai provato a mangiarlo? Senti questo cioccolato, si scioglie in bocca» allungò la sua mano verso di me. L’indice aveva ancora una goccia di cioccolato.
Lee non poteva veramente aspettarsi che io lo leccassi, no.
Avevo di certo frainteso.
«L’ho già mangiata» tagliai corto, sperando che il discorso potesse considerarsi concluso.
«Perché a Los Angeles non c’è questa pasticceria?» chiese, aprendo il tappo del bicchiere del caffè per guardare dentro.
Ero quasi sicuro che prima avrebbe mangiato le noccioline e la panna con la cannuccia.
Pochi secondi dopo, infatti, lei prese la cannuccia e, usandola come cucchiaino, cominciò a mangiare i pezzi di noccioline.
Ghignai divertito, scuotendo la testa.
«Che c’è?» chiese, masticando la cannuccia con i denti, proprio come una bambina.
«Niente» borbottai, tornando a sedermi sul letto. Ero un po’ più calmo.
«Che cosa facciamo oggi?» chiese, cominciando a sorseggiare il caffè.
«Oggi faremo i turisti, ti va? Voglio farti vedere un po’ di Londra» proposi, sperando che a Lee potesse piacere l’idea.
«Sì, mi piace» mormorò entusiasta, appoggiando il bicchiere vuoto sul comodino di fianco al letto.
«Ottimo, allora appena ti sei preparata usciamo». Tornai da Tom in salotto per dare a Lee il tempo di cambiarsi e mettersi qualcosa di comodo.
«Che fate oggi?» domandò, sbadigliando.
«Le faccio vedere un po’ Londra». Ero sicuro che ci saremmo divertiti.
Londra non era come Los Angeles, non c’erano paparazzi appostati ovunque, non dovevo camminare con il terrore di essere fotografato anche mentre sbadigliavo.
Nessuno si interessava di me a Londra.
 
Trascorsi, assieme a Lee, una delle giornate più belle della mia vita.
Cercai di farle vedere più cose possibili.
Buckingham Palace era di certo quello che più di tutto l’aveva colpita.
«Cazzo, altro che casa nostra, questa è una villona. E dentro c’è Harry» cominciò a strillare davanti ai cancelli.
Continuavo a ridere, trascinandola in ogni parte della città.
Arrivati al London Eye, Lee si zittì.
«Wow» mormorò, continuando a guardare la grande ruota bianca.
«Di sera è più bella… ma sono sicuro che ti piacerà lo stesso».
Osservare Lee stupita, mentre si guardava in giro per cercare di ricordare anche il più piccolo particolare di tutto quello che c’era attorno a lei, era una delle cose più belle che avessi mai visto.
I suoi occhi, sgranati, erano più belli del solito, splendevano di una strana luce che sapeva riscaldarmi lì, al centro del petto.
Avrei fatto qualsiasi cosa per Lee, qualsiasi.
Per questo mi stavo comportando come se fossi stato il suo migliore amico; io stavo facendo quello che lei, segretamente, mi aveva chiesto: la stavo lasciando andare.
Lee voleva imparare a volare con le sue ali, e non sarei di certo stato io a fermarla, anche se mi faceva male.
 
Quando l’aereo decollò per Los Angeles, capii che a Londra, oltre alla mia famiglia, avevo lasciato un pezzo di cuore e tutta la mia speranza.
Lee sarebbe sempre stata solo una coinquilina.
Andava protetta, difesa.
Per questo non riuscivo a negarle niente, nonostante mi avesse ferito, nonostante l’avessi ferita.
Stavo cercando di rimediare a tutto quello che le avevo detto e, forse, in qualche modo, ci stavo riuscendo.
I piccoli sorrisi che cercava di nascondere, i “grazie” che ritornava a sussurrare quando le prestavo una sigaretta.
Cominciavo a sperare che Lee ritornasse la splendida ragazza che era uscita dalla clinica tre anni prima.
«Casa» sospirò, non appena appoggiò il piede sulla pista dell’aeroporto di Los Angeles. «Mi era mancato il caldo, il sole…» mormorò, socchiudendo gli occhi e fermandosi per qualche secondo.
«Però hai quasi visto Harry» scherzai, affiancandomi a lei per aspettare le nostre valigie.
«Peccato. Mi sarebbe piaciuto abbracciarlo e dirgli che l’avrei volentieri sposato» sghignazzò, aguzzando la vista per controllare che qualcuno non prendesse i nostri bagagli.
«Magari la prossima volta» mormorai, sorridendole.
«No, non credo che prenderò l’aereo di nuovo. Cioè… siamo arrivati a casa vivi, non voglio rischiare di nuovo» cominciò a dire, quando vidi arrivare le nostre valigie.
Salimmo velocemente su un taxi e, mentre tornavamo a casa, continuai a osservare Lee, totalmente immersa nel paesaggio.
Sembrava davvero felice di essere ritornata a casa.
Quando aprii la porta di casa, Lee si lanciò sul divano, lasciando la valigia sul pianerottolo.
«Mi sei mancato, non ti abbandonerò più» mormorò, accarezzando la stoffa con delicatezza.
«Dai, Lee» bofonchiai, guardando la scena divertito.
«Anche tu. Non ti abbandonerò mai più». Si alzò e corse ad abbracciare il televisore spento.
«Che scema» ridacchiai, prendendo le valigie per portarle al piano di sopra.
«Rob?» chiamò Lee, facendomi fermare a metà scala.
«Sì?» alzai la voce per farmi sentire, appoggiando le valigie per poterla guardare.
«Io… io volevo ringraziarti, per tutto quello che hai fatto per me» sussurrò, abbassando lo sguardo. «È… è stato il migliore compleanno della mia vita. Non ho mai festeggiato così il mio compleanno, mai» concluse, asciugandosi una lacrima che le era scesa sulla guancia.
«Lee» gemetti, correndo ad abbracciarla.
Stavo cercando di far scomparire quel nodo dalla mia gola, ma non ci riuscivo.
«Grazie» bisbigliò, tra un singhiozzo e l’altro, mentre le sue mani stringevano spasmodiche la mia maglia.
«Era il tuo compleanno Lee, dovevamo festeggiare» scherzai, sperando di spezzare la tensione che si era creata.
«Ma tu non eri obbligato, dopo quello che ti ho detto» continuò a dire, senza smettere di piangere.
«Shhh, basta» sussurrai, accarezzandole la schiena perché si calmasse un po’.
«Grazie» ripeté di nuovo, abbracciandomi stretto.
Non riuscii a dirle niente, l’unica cosa che fui in grado di fare fu rispondere al suo abbraccio.
Io c’ero, e come Lee aveva detto, ci sarei stato per sempre.
«Bene, adesso dobbiamo fare le lavatrici» brontolò, tirando su con il naso.
Trattenni a stento una risatina. Il suo tentativo di cambiare argomento era pessimo.
«Ci metteremo una settimana per lavare tutto quello che abbiamo sporcato» si arrabbiò, cominciando a salire le scale goffamente con le valigie in mano.
«Sei tu quella che si è portata mezzo armadio» mi lamentai, iniziando a svuotare il mio borsone.
«Se fossimo rimasti a casa…» iniziò a dire, prima di mettersi a ridere. Perse l’equilibrio e si sedette per terra. «… quanto è cretino?» chiese, sventolando il completo con i dalmata che le aveva regalato Tom.
«Cretino» ripetei, pensando che non era stato molto divertente.
Facile per lui prendermi in giro, visto che non conviveva con Lee e i suoi completini trasparenti.
Anche io gli avrei fatto uno scherzo del genere, se fosse stato innamorato della sua coinquilina e lei l’avesse odiato.
«Be’, lo butto in lavatrice» fece spallucce, dandomi le spalle.
«Io vado a comprare le sigarette» dissi, appoggiandomi con la spalla allo stipite della porta. Ero sicuro che ci avrebbe pensato Lee a fare le lavatrici.
«Vai, vai… qui ci penso io». Girò appena il viso di lato, prima di ritornare a dividere i capi in diversi mucchi.
 
Dopo il nostro ritorno a Londra, tutto sembrava essere tornato quasi alla normalità.
Lee non era più così distaccata, come prima della nostra partenza.
Sospettavo che quella vacanza le avesse fatto capire che mi ero davvero pentito di tutto quello che le avevo urlato.
Non riuscivo a capire, però, perché alcune volte avesse uno strano comportamento.
Era chiusa in se stessa, sorrideva da sola, arrossiva all’improvviso.
Sospettavo che ci fosse un uomo nella sua vita, ma poi mi ripetevo che non erano affari miei, soprattutto perché Lee non era mia.
Lee, d’altro canto, non aveva detto niente riguardo i suoi sbalzi d’umore, continuava a lavorare da Jack come il solito, poi tornava a casa e guardavamo un film.
Tutto sembrava tranquillo.
Mi ero quindi convinto che fosse solo una mia ossessione.
Stavo finendo di leggere un copione, quando Lee entrò, sbattendo la porta di casa.
«Rob» strillò, spaventandomi.
«Che c’è?». Appoggiai il copione sul cuscino del divano, e Lee si precipitò di fianco a me.
Aveva gli occhi lucidi ed era visibilmente preoccupata.
«Portami in ospedale» mormorò, cominciando a mordicchiarsi il labbro.
Che cos’era successo?
Stava male?
Nella mia mente passarono le peggiori possibilità.
«Che succede?» tornai a chiedere, prendendo una mano di Lee tra le mie.
Sussultò al contatto, scostandosi da me.
«Sto male, dobbiamo andare all’ospedale» bisbigliò, tirandosi una ciocca di capelli per la frustrazione.
«Mi vuoi dire che succede?» gridai, spaventato.
Perché continuava a dirmi che stava male?
«Cre-credo di avere un tumore al cervello. E si sta espandendo fino al cuore». Si asciugò una lacrima che le era scivolata dall’occhio.
«Che cosa stai dicendo Lee? Tu non hai un tumore al cervello». Tirai un sospiro di sollievo, convinto che stesse scherzando.
«Sì che ho un tumore al cervello. Perché non mi hai mai fatto fare delle analisi?» mi accusò, alzandosi in piedi e cominciando a camminare nervosamente per il soggiorno.
«Lee, calmati. Dimmi che cosa ti succede» dissi avvicinandomi a lei per spingerla a sedersi sul divano.
«Io… io mi sono accorta che… che ti penso troppo. Cioè, ti ho sempre pensato, ma adesso ti penso troppo. Non è normale, capisci? È un tumore» piagnucolò, tornando ad asciugarsi una lacrima.
Qualcosa esplose all’altezza del mio petto, scorrendo in ogni singola vena, irradiandosi in tutte le cellule del mio corpo.
«Tu, tu mi pensi spesso?» chiesi, cercando di mantenermi calmo.
«Sì. È una cosa vergognosa» ammise, in un sussurro.
I suoi sorrisi senza motivo, la sua felicità, le sue gote arrossate, i suoi pianti…
«Non è un tumore Lee» mormorai, cercando di respirare a fondo per calmare il mio cuore.
«Come no? E allora che cos’è? Un infarto? È per quello che il mio cuore delle volte batte velocemente?» chiese, avvicinandosi di qualche centimetro a me.
«Non è nemmeno un infarto» ridacchiai, abbassando leggermente il volto.
«Cazzo, Rob! Io sto male e tu ridi, è tanto divertente?» urlò, tirandomi un pugno sulla spalla.
«No… è solo che, Lee… non è un infarto e nemmeno un tumore» dissi, sperando che Lee mi credesse.
«E che cos’è, allora? Perché io davvero ho paura» sussurrò, sedendosi meglio sul divano.
«Fammi capire… mi pensi sempre, magari quando lo fai ti viene da ridere, succede che il tuo cuore all’improvviso batte velocemente, giusto?» chiesi, guardando la sua mano che tremava.
«Esatto. Che malattia è?» domandò, con le lacrime pronte a scendere.
«Lee, non è una malattia brutta. Si chiama amore. Sei innamorata di me» le confidai, sorridendole e accarezzandole una guancia.
Non l’avevo mai vista più bella di quel momento.
Sembrava risplendere.
«Innamorata di te? Ma cosa stai dicendo?» chiese, sbuffando.
«Lee, tutto quello che tu provi, quello… quello è l’amore» cercai di spiegarle, stringendole la mano.
«Ma mi fa sentire stupida» rifletté, continuando a guardarmi.
Cominciai a ridere, probabilmente irritandola, visto che mi arrivò un nuovo pugno sulla spalla.
«Sei un cretino. Perché devi ridere se ti dico che mi sento una stupida?» sbottò, arrabbiata.
«Perché è esattamente come mi sento io» risi, felice.
Potevo finalmente dirle quello che avevo tenuto nascosto a lei, e anche a me stesso.
«Sei innamorato di te?» chiese, allibita.
«No, sciocca, sono innamorato di te» bisbigliai, cercando nuovamente di toccarla.
«E perché non me l’hai mai detto?» borbottò, allontanando la mia mano con un gesto seccato.
«Perché… forse avevo paura, non volevo dirlo nemmeno a me stesso» confessai, non smettendo di ridere.
«Ma come è possibile? Dopo quattro anni?». Sembrava davvero stupita.
«Forse… forse siamo sempre stati ciechi, o magari è successo conoscendoci» azzardai, guardando in quegli occhi ghiacciati.
Confusione, ecco cosa leggevo.
«Come fai a essere sicuro che è così?». Assottigliò le palpebre, sfidandomi.
Mi avvicinai a lei, appoggiando le mie labbra sul suo collo, in un semplice e dolce bacio.
«Come sta il tuo cuore?» chiesi, cercando di non ridere.
«Non… non riesci a sentirlo?» mormorò, quasi senza fiato, portandosi una mano all’altezza della gola.
«Aspetta, facciamo un’altra prova. Questa è la prova della verità» sussurrai, incapace di contenere la mia felicità.
«Sei sicuro?» domandò Lee, sospettosa.
Non le risposi nemmeno, avvicinai il mio volto al suo, cominciando a baciarla.
Lasciai le mie labbra libere di giocare con le sue. Allungai la mia mano, appoggiandola alla sua nuca per stringerla ancora di più.
Pochi secondi dopo, Lee si inginocchiò sul divano, avvicinandosi a me.
Le nostre labbra si schiusero, regalandosi un bacio che fece scoppiare il mio cuore di gioia.
Il nostro bacio.
Lee si sedette sulle mie ginocchia; sentivo le sue dita scorrere tra i miei capelli, donandomi brividi ovunque.
Quanto avevo aspettato quel bacio?
Le labbra di Lee che giocavano con le mie, la sua lingua che sfiorava la mia.
Non avevo nemmeno bisogno di respirare; Lee era il mio ossigeno.
«Wow» bofonchiò, abbandonando improvvisamente le mie labbra.
Cominciò a sventolare la sua mano davanti al viso, per farsi aria.
Senza volerlo ridacchiai, appoggiando la fronte sulla sua spalla.
«Non… nessuno mi aveva mai baciato così» fremette, tornando a giocare con i miei capelli.
«Perché un bacio non si dà con le labbra, un bacio si dà con il cuore» le spiegai, accarezzando di nuovo la sua bocca con la mia.
Sentii le sue labbra tendersi in un sorriso, poi, i suoi denti mordicchiarono il mio labbro, tentandomi.
Impossibile resistere.
Cominciai a baciarla di nuovo.
Un bacio diverso dal primo.
Un bacio che era sì dolce, ma trasmetteva l’urgenza, la voglia, la passione, che sentivo per Lee.
«Sento che ti è piaciuto» rise, strusciandosi su di me.
«Eh…» mormorai, imbarazzato.
«E così… sono innamorata?» chiese, continuando a sorridere.
«Siamo innamorati» precisai, baciandole velocemente le labbra.
«È… bello. Mi sento felice». Mi tirò una ciocca di capelli e si rilassò contro di me.
«E cosa ti piacerebbe fare da innamorata?» chiesi, rispondendo al suo sorriso.
«Baciarti» sussurrò, tornando a unire le nostre labbra.
Come negarle il suo primo desiderio da innamorata?
Le dita di Lee tra i miei capelli, le sue labbra sulle mie, il suo corpo contro al mio.
Gemetti senza accorgermene quando Lee, volontariamente, si strusciò di nuovo contro di me.
«Rob…» mormorò, a un centimetro dalle mie labbra.
«Sì?». La mia voce era diventata roca. Tutto per colpa di un bacio.
«C’è un’altra cosa che mi piacerebbe fare, da innamorata…» mi confidò, allontanandosi di qualche centimetro dal mio corpo.
«Cosa?» domandai, curioso e allo stesso tempo confuso.
Che cosa voleva fare Lee?
«Vorrei fare l’amore con te, ma non so come si fa». Le sue gote si imporporarono ancora di più, rendendola, se possibile, più bella che mai.
«Ti insegno io». Un piccolo bacio sulle sue labbra. «Non temere». Un altro piccolo bacio sulle sue labbra.
Le mani di Lee corsero velocemente a sollevare la mia maglia, e, di malavoglia, smisi di baciarla.
«Non così» borbottai, circondandole i polsi con le mani, perché si fermasse.
«Credo di sapere che non si fa vestiti. Non sono mica vergine» sogghignò, forse per cercare di superare l’imbarazzo.
Portai le mie braccia a circondarle la schiena, per sostenerla, e mi alzai dal divano.
Lee lanciò un gridolino sorpreso.
«Rob? Che fai?» chiese, circondando il mio collo con le braccia per paura di cadere.
«Ti porto in camera da letto. Vuoi che la tua prima volta sia sul divano?» ghignai, cominciando a salire le scale.
«Devo mettermi il completo che mi ha regalato Tom? Fa più verginella inesperta?» mi provocò mentre la lasciavo andare sul materasso del mio letto.
«No, adesso lascia che ti insegni come si fa l’amore» sussurrai, mordendole il lobo mentre la mia mano le accarezzava un fianco con la punta delle dita.
L’espressione di Lee mutò radicalmente.
Ogni traccia di divertimento sparì, lasciando spazio a eccitazione e desiderio.
Baciai le sue labbra, scendendo sul suo collo.
«Oddio» gemette, quando la mia lingua lambì appena il suo orecchio.
Volevo andare con calma, senza accelerare i tempi, senza correre.
Non riuscii a trattenere un sorriso, mordicchiandola leggermente all’altezza della vena del collo.
Le sue mani percorsero la mia schiena, arrivando al mio sedere. Lee mi spinse più verso di lei, forse per cercare di farmi perdere il controllo.
«Siamo impazienti, eh?» la provocai, baciandole le labbra e sfiorandole la pelle della pancia sotto la maglietta.
«Quando… quando ci spogliamo?» ansimò, inarcandosi appena sotto il mio tocco.
«Shh» mormorai, baciandole le labbra e cominciando ad alzare la sua maglia.
Lee sospirò emozionata, alzando le braccia per farsi spogliare.
Lanciai la maglia dietro di noi, abbassandomi sulla sua pancia per cominciare a lasciarle una scia di baci umidi sulla pelle, che la fecero ansimare.
«Rob… Rob» cercò di dire, prendendo il mio viso tra le mani e allontanandomi dalla sua pancia. «Il mio cuore, sta… uscendo». Il respiro accelerato, le guance rosse, la sua pelle calda sotto le mie mani.
«Non ti preoccupare» mormorai, distendendomi sopra di lei e baciandole velocemente le labbra. «Se scappa lo prendo io». Appoggiai le mie labbra sul suo petto, all’altezza del cuore, sfiorandola con un altro bacio.)
Sentire il battito accelerato a contatto con la mia bocca mi riempì di felicità.
Su quello stesso letto avevamo fatto sesso.
In quello stesso letto stavamo facendo l’amore.
Vedere il corpo di Lee scosso da brividi che ero io a donarle mi stava eccitando all’inverosimile, nonostante fossi ancora completamente vestito.
«Pausa» mormorò, quando intrufolai le mani dietro la sua schiena per slacciarle il reggiseno.
«Eh?». Alzai il viso, abbandonando la morbidezza della sua pelle, non senza fatica.
«Togliti quella maglia e quei jeans». Afferrò la mia maglia con forza, tirandola fino quasi a strapparla.
Ridendo, la aiutai a toglierla.
Slacciò i miei jeans, trattenendo a stento un sorriso quando si accorse di quanto i miei boxer fossero stretti.
«Ok, riprendi» disse, distendendosi di nuovo sul letto.
Scossi la testa pensando che Lee non avesse alcuna speranza di imparare.
Eppure, quando ripresi la mia tortura fatta di baci e carezze, Lee sembrò trasformarsi.
Non si sentivano più battutine, ma gemiti e sospiri.
Le mie labbra, le mie mani, le mie dita, sul corpo di Lee; non c’era centimetro che non avessi baciato o accarezzato.
E dopo averle regalato una dolce tortura, che l’aveva fatta lentamente impazzire, non ero riuscito a trattenermi.
Per la prima volta, stavo facendo l’amore con Lee.
Le sue unghie sulla mia schiena, le sue labbra sulle mie, le sue gambe attorno ai miei fianchi.
«Rob» gemette, avvicinandomi di più a lei.
«Sono qui» risposi, tornando a baciarle le labbra.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era Lee.
Il mio corpo contro il suo, le nostre mani che cercavano di memorizzare i nostri corpi con le carezze, i nostri sospiri e gemiti che si mischiavano al rumore dei baci.
Abbandonò la testa sul cuscino, socchiudendo gli occhi.
Un gemito sfuggì dalle sue labbra, per morire catturato dalle mie.
«Ti amo» sussurrai, baciandole l’orecchio.
Le sue braccia si strinsero di più attorno al mio collo, mentre Lee mi baciava le labbra.
«Ti amo» tornai a ripetere, come una cantilena, mentre mi lasciavo andare al piacere.
Stremato, mi accasciai sul suo corpo, tracciandole una scia di piccoli baci sul collo.
Qualcosa di caldo scivolò fino alle mie labbra e sorpreso alzai lo sguardo: Lee stava piangendo.
«Che succede?» chiesi, preoccupato. «Ho fatto qualcosa di male? Ti sei ferita?» cominciai a domandare, ma Lee scosse la testa con una smorfia buffa impressa sulla bocca.
«No…» singhiozzò, prima di sbuffare per alzare gli occhi al soffitto. «È… è… credo di amarti» mormorò, voltando il viso di lato, per non guardarmi.
«Lee, perché ti vergogni?» sussurrai, tornando ad accarezzarla dolcemente.
«Perché, non lo so… è strano». Riportò il suo sguardo su di me, facendomi rabbrividire.
«E non è bello?». Le domandai, stringendola forte a me e mordicchiandole il lobo dell’orecchio.
«Tanto» sospirò, riportando le sue mani tra i miei capelli.
Ridacchiai, appoggiando il capo sul suo petto.
Riuscivo a sentire il suono del suo cuore: era un suono bellissimo.
Con la mano solleticai la sua pancia, soffiando appena sul suo collo per farla rabbrividire.
«Spostati, pesi» si lamentò, cercando di fare leva perché mi alzassi da lei.
Dopo un veloce bacio alle sue labbra, mi distesi al suo fianco, accarezzandole il profilo del viso con il naso.
Il suo profumo, mischiato al mio, era dolce, come lei.
Lee si mise a sedere, stiracchiandosi e strisciando verso il bordo del materasso.
«Dove vai?» chiesi, puntellandomi su un gomito.
«In bagno» mormorò, alzandosi in piedi.
«No» sbottai con un sorriso, prendendola per un polso e attirandola di nuovo sul letto.
«Rob» strillò, ridendo, mentre cercava di divincolarsi dal mio abbraccio.
«Adesso tu rimani qui con me, perché ho voglia di coccolarti, capito?» finsi di minacciarla, mordendole la pancia.
«Coccoche?» chiese, stringendo le sue dita nelle mie.
«Coccolarti» ripetei, baciandola dove l’avevo morsa. «Vieni qui». La coprii con il lenzuolo, avvicinandomi a lei.
Istintivamente Lee appoggiò la testa sul mio petto e io le circondai le spalle con il braccio.
«Così?» chiese, alzando il viso per guardarmi.
Alzai la testa dal cuscino per guardarla. «Sei perfetta» soffiai, sulle sue labbra.
Continuava a sfiorare il mio stomaco con i polpastrelli, regalandomi brividi ovunque.
«Rob… io, io devo dirti una cosa, ma non arrabbiarti questa volta, per piacere» sussurrò, e io mi irrigidii appena, per la paura.
«Dimmi» sibilai, conscio di essere rimasto immobile.
«Quando mi hai chiesto se qualcosa era diverso, dopo che abbiamo fatto sesso, ti ricordi?» mi ricordò, tenendo sempre la sua mano appoggiata sopra al mio cuore.
«» ribattei, rimanendo fermo.
«Ecco… io credo di averti detto una bugia. Pensavo fosse stato diverso perché era da tanto che non lo facevo, ma adesso… sì, credo che fosse perché avevo fatto l’amore anche quella volta».
Quando Lee finì di parlare, sentii il mio petto gonfiarsi.
Ero felice.
«Vieni qui» le intimai, facendola scivolare sopra di me per baciarla.
«Ah sì» cercò di dire, sfuggendo alle mie labbra. «Quella cosa che hai detto prima…».
«Scusa, ero un po’ preso dalla situazione» mormorai, arrossendo per la vergogna.
Avevo detto quella frase prima ancora di pensarla.
«No, non quella. Quella era… eccitante. Dico l’altra… quella del cuore… lo prenderesti davvero, se scappasse?» chiese, emozionata.
«L’ho già preso» le confidai, facendo scorrere le mie mani sulla sua schiena nuda.

 
 
Siete vive?
C’è qualche infartata?
Spero di no!
Mi scuso per il ritardo, ma almeno il capitolo è arrivato, no?
Spero che vi sia piaciuto… come al solito ringrazio preferiti, seguiti, da ricordare… chi legge e chi commenta!
QUI mi potete aggiungere in FB e QUI c’è il gruppo spoiler.
A lunedì!
un bacione!

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Capitolo 15
*** All on you ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Ci vediamo stasera» mormorò, accarezzando di nuovo le mie labbra con le sue.
«Ciao» sussurrai, tra un bacio e l’altro.
«Ricordati di chiamare tua mamma, sai che devi dirgli che non riusciamo ad andare…» bofonchiò, mordendomi il labbro.
Mia madre, sì… abitava a Londra, no?
Ci aveva chiesto di ritornare lì per… qualche motivo, che al momento non riuscivo a ricordare.
«Mhhh» ribattei, incapace di formulare una risposta decente, mentre facevo scorrere la mia mano su e giù, lungo il suo fianco.
Separarmi da Lee, dal suo corpo, diventava ogni giorno più difficile.
Non riuscì a nascondere una risatina, prima di lasciarmi un ultimo bacio e correre verso la porta, chiudendosela alle spalle.
Erano passati tre giorni da quando Lee mi aveva confidato di amarmi.
Tre giorni in cui eravamo stati impegnati tra letto e cucina. Non avevamo poi molte pretese, dopo un pranzo o una cena veloce, Lee mi attirava di nuovo a letto, tentandomi in tutti i modi possibili.
Chissà perché, improvvisamente, i suoi completini trasparenti non erano più una tortura malvagia. Non lo erano quando Lee correva da me, che ero beatamente seduto sul divano in sala da pranzo; attirava la mia attenzione su di sé, sfoggiando solo un misero completino. Inevitabilmente, quegli inutili pezzi di stoffa finivano sparpagliati in qualche parte della casa, prima di essere raccolti un tempo indefinito dopo.
Volevo però che Lee provasse tutte le gioie dell’essere innamorati, anche il corteggiamento.
In fin dei conti, eravamo partiti dalla fine. Una cosa insolita, certo, ma poteva mai, qualcosa collegato a Lee, essere usuale?
Mi alzai dal divano, sistemandomi la maglia e prendendo in mano il telefono.
Sapevo esattamente chi chiamare.
Dopo aver composto il numero di telefono, feci la mia prenotazione. Volevo l’ordine entro le sette di sera, almeno mezz’ora prima che Lee tornasse a casa, visto che comunque dovevo preparare tutto.
Ringraziai il ragazzo con cui avevo parlato e riattaccai.
Doveva essere tutto perfetto, in fin dei conti, per quanto strano, quello era il mio primo appuntamento con Lee.
Seconda cosa importante: il cibo.
Lee amava quello cinese.
Chiamai il ristorante, prenotando una consegna a domicilio.
Non c’era altro da fare, no?
Per il dopocena avrei proposto a Lee qualche film, in fondo ne avevamo tanti.
Dopo aver sistemato un po’ del disordine che c’era in casa, corsi a farmi una doccia.
Quando, dopo aver frizionato i capelli con l’asciugamano, mi guardai allo specchio, cominciai a ridere da solo, davanti alla mia immagine.
«Cazzo Rob, ti sei rammollito» ghignai, guardando i miei occhi che sembravano addirittura più luminosi, per quanto erano felici.
Non pensai nemmeno di radermi la barba: sapevo che Lee la amava.
Indossai un paio di jeans e una camicia: era pur sempre un appuntamento e io volevo essere elegante.
Il campanello suonò, facendomi correre giù per le scale.
«Sì?» chiesi, al citofono.
«Sono qui per l’ordine che è stato fatto oggi pomeriggio» rispose una voce di uomo.
«Oh sì, apro subito». Speravo fosse qualcuno abbastanza discreto da non svelare la mia identità nel caso in cui mi avesse conosciuto.
«Potrebbe aprire il cancello grande? C’è tanta roba da scaricare» si lamentò.
«Certo» risposi, trattenendo a stento un sorriso.
Non era mai troppo, quando si trattava di Lee.
Lasciai che il fattorino scaricasse tutto il contenuto del camion davanti alla porta di casa e, dopo averlo pagato, aspettai che uscisse per poter richiudere il cancello.
Cominciai a sistemare i fiori, disponendoli a piccoli mazzetti, tutti attorno alla stanza.
Non ero di certo un arredatore, ma mi sembrava di aver fatto un buon lavoro.
Quando appoggiai l’ultimo mazzo di rose sopra al piano, il campanello suonò di nuovo.
«Sì?» chiesi, sapendo già che era il ragazzo del ristorante cinese.
«Ordinazione dal ristorante cinese» ribatté, mentre aprivo il cancello per farlo entrare.
Dopo averlo pagato, lo salutai e ringraziai, aspettando che uscisse da casa.
Lee sarebbe arrivata entro cinque minuti, non c’era altro da fare, ma ero comunque agitato e non riuscivo a rimanere fermo.
Accesi le candele sul tavolo della cucina e sentii un’auto rallentare.
Doveva essere arrivata.
Chiusi la porta della cucina alle mie spalle e, dopo essermi sistemato la camicia, andai davanti alla porta per aspettare Lee.
«Rob sono a ca…» strillò, prima di fermarsi, una volta accortasi di tutte le rose rosse che erano sparse per il salone.
«Ciao Lee» mormorai, sfiorandole le labbra con le mie.
«Vuoi diventare un fiorista o qualche stalker ha pensato che la nostra casa avesse bisogno di un tocco di… rosso?» ghignò, togliendosi le scarpe.
«Veramente… sono per te» sussurrai imbarazzato.
Che cosa mi era venuto in mente?
Lei non era una ragazza come le altre, perché avevo comprato tutte quelle rose?
«Cosa?» domandò, stupita.
«Io… le ho comprate per te, per farti un regalo» mormorai, giocherellando con una rosa che era lì vicino.
«Per me?» chiese Lee, avvicinandosi a me.
«Sì, io… lasciamo stare» mormorai, sbuffando.
Avevo sbagliato tutto.
«Rob». Mi abbracciò, baciandomi sulle labbra. «Sono tantissime» osservò, avvicinandosi a un mazzo di rose. «Sono bellissime» disse emozionata, accarezzando un bocciolo con i polpastrelli.
Il suo sorriso mi contagiò e pensai che in quella stanza c’era qualcosa di più bello di un centinaio di rose.
«Ti sbagli» soffiai al suo orecchio, abbracciandola da dietro.
«Cosa?» sussurrò, portando le sue mani sopra alle mie, che le stavano accarezzando la pancia.
«Non sono bellissime, non quanto te» fremetti, sfiorandole l’orecchio con le labbra.
«Rob» mugugnò, strusciandosi contro di me.
«No». Feci un passo indietro, prima di perdere il controllo. «Non adesso. C’è una sorpresa per te» le spiegai, mentre cominciava a ridere.
«Ho capito perché mi volevi fare una sorpresa, perché dopo vuoi il contentino, eh?». Tornò vicina a me, circondandomi il collo con le sue braccia e mordicchiandomi il labbro.
«Lee, un attimo per favore». La respinsi ancora. Era difficile resisterle, ma dovevo farlo se volevo mostrarle tutto quello che avevo preparato.
«Va bene» sbuffò, incrociando le braccia al petto, arrabbiata.
«Dai» ridacchiai, lasciandole un bacio tra i capelli. «Ascolta, questo è un appuntamento. Ti ho comprato i fiori, adesso andiamo a cena» spiegai, continuando a guardarla.
«Ah, perché dopo la cena… giusto, se è un appuntamento» sghignazzò di nuovo.
«Lee, per favore, potresti non pensare a fare l’amore per cinque minuti?». Non chiedevo tanto.
Già era difficile per me resistere, se in più lei continuava a ricordarmelo, non saremmo usciti da quella casa.
«Sei tu che me lo ricordi, continui a guardarmi in quel modo che… cazzo Rob! Ti salterei addosso» disse, senza pensare di  usare mezze misure.
«Lee, per favore» piagnucolai, ormai convinto che avremmo fatto l’amore di nuovo lì, sul divano.
«Ok. Basta. Sto rinchiudendo gli ormoni in cassaforte, quella che aprirai tu stasera» ridacchiò, prima di ritornare seria dopo lo sguardo che le lanciai. «Dicevamo. Dobbiamo uscire a cena? Questo è perfetto, perché ho un vestito che ho comprato. Credo che ti piacerà, sai?» sogghignò, pizzicandomi un fianco.
«Ti prego, non dirmi che è uno di quelli che ti metti senza reggiseno e che ha lo scollo fino all’ombelico. Lee, non farmi questo» mi lamentai, sporgendo il labbro inferiore come un bambino.
«Sono sicura che ti piacerà» ripeté, mordicchiandomi il labbro. «Vado a cambiarmi allora» sussurrò, dopo un veloce bacio.
Non sapevo perché, ma di Lee non mi fidavo.
Più che altro era la sua scelta sui vestiti.
La sua passione per quelli scollati.
Li amavo, certo, ma mi piaceva di più levarglieli; e in quel momento non potevo farlo.
Qualche minuto dopo, sentii Lee imprecare dal piano di sopra.
«Tutto bene?» gridai, alzandomi dal divano.
«Sì, sono i tacchi. Sto scendendo» mi informò.
Pochi secondi dopo, Lee comparve davanti a me.
Rimasi a guardarla per quasi un minuto, incapace di formulare una frase sensata.
«Fa tanto schifo? In negozio tutti hanno detto che mi stava bene» mormorò, guardandosi il vestito.
«È uno scherzo?» chiesi, con un filo di voce.
«No. Fa schifo, vero?» tornò a chiedere, togliendosi le scarpe per andare a cambiarsi.
«Ti avevo chiesto solo una cosa: non indossare vestiti scollati, che porti senza reggiseno. E tu che fai? Ne indossi uno con lo scollo fino all’ombelico, che mi fa vedere il tuo seno se ti giri di fianco» spiegai, avvicinandomi a lei e accusandola di volermi sedurre.
«Sì, ma… non ho tette, cioè, non devo nascondere niente» ribatté, tastandosi il seno con le mani.
«Sta ferma, che peggiori la situazione» gemetti, prendendo i polsi tra le mie mani, per fermala.
«Ti piace?» chiese, aprendosi in un sorriso radioso.
«Il discorso non è se mi piace o no, il problema è che con questi… pezzi di stoffa messi a casaccio su un manichino e poi indossati da te… io non capisco proprio più niente Lee» confidai.
Lee cominciò a ridere, prima di abbracciarmi.
«Quanto sei cretino» soffiò sulle mie labbra, baciandomi.
Chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare dalle labbra di Lee e dal rumore dei nostri baci.
«Rob…» mugolò, quando feci scorrere la mia mano lungo la sua schiena. «Rob» ritentò, non appena la mia mano scese, verso il suo sedere. «La… la cena, ricordi?». Appoggiò le sue mani sul mio petto, allontanandomi appena da lei.
«Sì, la cena» mormorai, schiarendomi la voce.
Cena, non dopocena.
«Andiamo?» chiese, sfiorandomi velocemente le labbra.
«Certo» risposi sorridendole, prima di circondarle le spalle con un braccio.
«È tanto distante questo ristorante?» si informò, mentre le aprivo la porta di casa per farla uscire.
«No, qui dietro l’angolo» ghignai, incapace di trattenermi.
«Ok». Lee alzò il viso per guardarmi, e rispose felice al mio sorriso.
Solo in quel momento ricordai un particolare: da quando Lee dormiva nel mio stesso letto aveva smesso di fare incubi.
Non si svegliava più urlando, non si muoveva più irrequieta tra le lenzuola, scacciando fantasmi dal passato.
Sembrava davvero felice.
La condussi dietro la casa, fino alla porta della cucina.
«Rob, perché stiamo andando nella nostra cucina?» chiese, confusa.
Quando aprii la portafinestra e Lee si accorse della tavola imbandita e ornata di candele, si immobilizzò.
«Wow» mormorò, avvicinandosi lentamente al tavolo.
Sfiorò con la punta delle dita i petali di una rosa che avevo posato in mezzo al tavolo e, lentamente, tornò di fianco a me.
«Io…» cercò di dire, mentre i suoi occhi diventavano lucidi.
«Non farlo, non piangere» sussurrai, prendendole il viso tra le mani e baciandola dolcemente. «Non piangere» tornai a ripetere, tra un bacio e l’altro. «Te lo meriti, capito? E mi sento idiota al solo pensiero di averti privato di questo per tutti questi anni» mormorai, togliendole con il pollice la lacrima che stava scendendo sulla sua guancia.
«Tu non ti rendi conto di quello che dici» sussurrò, scuotendo la testa.
«Sì che me ne rendo conto, e so benissimo che ho ragione» spiegai, dandole un bacio sulla punta del naso.
«Tu non ti accorgi nemmeno dei difetti che ho. Vedi solo il mio unico pregio» insisté, senza però allontanarsi da me.
«Il tuo unico pregio» ripetei, incapace di nascondere un sorriso, «e quale sarebbe questo pregio?» chiesi.
Lee non capiva che era una persona splendida.
«Che riesco a fare l’amore bene, per colpa di quello che facevo» sussurrò, abbassando lo sguardo, imbarazzata.
«Ti ho insegnato io a fare l’amore, e no, non è quello il tuo unico pregio. Il tuo pregio è essere te stessa, nonostante tutto. Perché tu sei Lee e non ti cambierei con nessuna, ok? Ti sottovaluti e non mi piace questa cosa». Respirai a fondo, prima di accorgermi che Lee stava piangendo.
«Tu sei innamorato di qualcosa che forse nemmeno sono. Se un giorno ti accorgerai che in verità l’idea che avevi di me era sbagliata che cosa succederà?» singhiozzò, tra un singhiozzo e l’altro.
«Non succederà mai. Io so quello che sei, l’ho capito» spiegai, raccogliendo una lacrima con le mie labbra.
«Stupido attore innamorato» rise, tra le lacrime, prima di darmi un bacio.
«Sciocca cameriere cieca» risposi, abbracciandola.
«Ci vedo» cercò di sdrammatizzare, sciogliendo l’abbraccio per tirarmi un pugno sulla spalla.
«Ho ordinato dal ristorante cinese» le dissi, prendendo le confezioni che mi aveva lasciato il fattorino.
Vedere la felicità negli occhi di Lee mentre cenavamo era qualcosa di unico, un calore che riusciva a riempirmi il petto.
«Guardiamo un film?» proposi, soffiando sulle candele per spegnerle.
«Va bene» acconsentì Lee, mentre mi trascinava in sala da pranzo, togliendosi le scarpe per distendersi sul divano. «Scegli bene, non quelli che piacciono a te» mi rimproverò, quando mi avvicinai alla mensola che conteneva tutti i DVD di Jack Nicholson.
Deviai velocemente verso le commedie romantiche, le preferite di Lee.
«Questo dovrebbe andare bene» mormorai, inserendo il disco nel lettore DVD e avvicinandomi al divano.
«Dove pensi di andare?» mi provocò, rimanendo distesa sul divano senza lasciarmi spazio.
«Vorrei rimanere di fianco a te, posso?» chiesi, unendo le mani.
«Devi trovare il metodo che mi faccia spostare» sussurrò, ammiccando.
«Mhhh… chissà cosa dovrò fare» borbottai, portandomi un indice al mento, fingendo di pensarci.
«Prova a pensare» sussurrò provocandomi, mentre si umettava le labbra con la lingua.
«Credo di aver capito, sì». Mi avvicinai al suo viso lentamente, sicuro che avrei vinto.
«Siamo sulla buona strada» mormorò, pronta a ricevere un bacio.
Quando sentii le mie labbra sfiorare le sue, mi fermai.
Sentivo il calore della sua bocca sulla mia, ma non volevo che lei vincesse.
Portai le mie mani sui suoi fianchi e cominciai a farle il solletico.
«Rob» cominciò a strillare, tra le risate, «stronzo» urlò di nuovo, cercando di fermare le mie mani.
Riuscii a distendermi dietro Lee, con la schiena appoggiata allo schienale del divano e smisi di farle il solletico.
«Ero sicuro che avrei trovato il metodo esatto» dissi, fiero di me stesso, guadagnandomi una gomitata di Lee sul mio stomaco.
«Dopo che mi hai negato un bacio, sappi che questa sera vai in bianco» sbottò, spostandosi verso il bordo del divano per non rimanere a contatto con il mio corpo.
«Sul serio?» chiesi, avvicinandomi a lei e portando una mano sulla sua pancia perché non cadesse.
«» ribatté, sicura di se stessa.
«Che peccato» soffiai al suo orecchio, solleticandole la pancia da sopra il vestito.
«Non funziona» mormorò, cercando di mantenere il controllo.
Sapevo che stava cedendo.
«Sicura?» chiesi, mordicchiandole il lobo.
Sentivo il suo respiro accelerare.
«». Non voleva arrendersi.
«Vorrà dire che dormirò da solo, nel mio grande letto» mormorai, attirandola a me.
Sentii distintamente il respiro morirle in gola, quando si rese conto di quanto ero eccitato.
«Forse è il caso che ti calmi, perché poi rimani insoddisfatto, a meno che tu non utilizzi il buon vecchio metodo…» cominciò, credendo di fermarmi.
Sapevo di avere la vittoria in pugno.
«Hai ragione, ma vedi… non ci riesco». Cominciai a torturarla con dei piccoli baci sul collo, stringendola di più a me.
«Rob» mi rimproverò, piegando la testa di lato e lasciandomi più pelle da baciare.
«Mi devo fermare?» chiesi, tra un bacio e l’altro, mordicchiandole la spalla.
«Io…» balbettò, portando una mano tra i miei capelli per farmi avvicinare di più al suo collo.
«Devo fermarmi?» domandai di nuovo, facendo scorrere la mia mano lungo tutto il suo fianco, fino ad arrivare alla sua coscia.
«Forse» mugolò, quando volontariamente le mie dita alzarono la gonna del suo vestito.
«Ok, mi fermo» dissi, ritornando con la schiena appoggiata al divano e spostando le mani dalle gambe di Lee.
«Ehi» si lamentò, voltandosi a guardarmi. «Non starai mica scherzando, vero?». Nonostante l’unica luce fosse quella emanata dallo schermo della TV, potevo vedere le guance arrossate di Lee.
«Certo. Mi hai detto tu che devo fermarmi perché questa notte mi lasci in bianco». Feci spallucce, fingendomi disinteressato.
«Mi sembra che tu ti sia spinto anche troppo avanti, no?». Si strusciò contro di me, per rendere l’idea.
«Non importa». Strinsi i denti, per trattenere un gemito.
«Peccato… avevo comprato un completino nuovo che volevo farti vedere. Sai quei bustini che ti piacciono tanto? Era azzurro e nero. Di pizzo» continuò, stuzzicandomi.
«Non mi interessano di certo un paio di centimetri di stoffa colorata. Non cederò per così poco». Perché mi stavo facendo del male da solo?
Era come darsi la zappa sui piedi.
«Hai ragione. Sei un uomo. Io sono stanca, vado a dormire. Ci vediamo domani» bisbigliò, baciandomi appena la bocca.
«Notte» ribattei, cercando di nascondere il panico.
Qualcosa mi diceva che Lee aveva in mente un piano diabolico.
Corse su per le scale, chiudendo la porta della sua camera.
Che diavolo aveva in mente?
Sapevo che voleva farmela pagare per lo scherzetto che le avevo fatto.
Continuai a guardare le immagini del film senza veramente seguirlo.
Erano solo figure colorate che si muovevano.
La porta della camera di Lee si aprì qualche minuto dopo.
«Rob?» strillò, scendendo le scale.
«Sì?». Non avevo nemmeno il coraggio di voltarmi per guardarla.
«Domani mattina, potresti svegliarmi tu? Devo andare a lavorare». Accese la luce, portandosi davanti al televisore.
Sgranai gli occhi incapace di dire qualsiasi cosa.
Lee, lei… lei era davanti a me, con quel bustino di pizzo nero e blu, e con le culottes coordinate.
«Rob? Ci sei?». Sventolò la mano davanti al mio viso.
«Certo…» bofonchiai, per rispondere a entrambe le sue domande.
«Grazie, sei un tesoro». Si avvicinò a me, piegandosi per darmi un bacio sulla guancia.
Chiusi gli occhi quando mi resi conto che il seno di Lee era davanti a me.
Dovevo resistere.
Era Lee quella che doveva cedere.
«Vado a farmi una doccia» urlai, salendo le scale pochi minuti dopo di lei.
Forse avevo trovato la leva giusta per farla cedere.
Lee non rispose, rimanendo chiusa in camera sua.
Dopo essermi spogliato, entrai dentro al box doccia, lasciando che l’acqua calda sciogliesse i miei muscoli tesi.
«Lee» urlai, trattenendo un sorriso.
«Che c’è?» rispose, da dietro la porta.
«Potresti prendere il bagnoschiuma? È finito e se esco per prenderlo bagno tutto il pavimento». Sentivo già il profumo della vittoria.
«Che palle Rob» sbottò, aprendo la porta.
Lasciai appositamente la porta del box aperta, cosicché Lee potesse vedermi, nudo.
«Tieni» sbottò, lasciando cadere il barattolo di sapone a terra, quando si accorse di me.
«Grazie». Sorrisi, tendendo la mano verso di lei.
«Sei uno stronzo» mormorò, avvicinandosi a me.
«Prego?» chiesi, fingendomi sorpreso.
«Sei uno stronzo, io non ti ho sbattuto le tette in faccia». Portò le mani dietro il suo bustino, armeggiando con qualcosa.
Quando, qualche secondo dopo, il suo bustino toccò il pavimento, spalancai gli occhi stupito.
«Veramente l’hai fatto, prima» precisai, facendo un passo verso di lei.
«Sì, ma erano coperte, tu mi hai sbattuto in faccia il tuo… coso. Sei nudo». Portò le mani dentro l’elastico dei suoi slip, e li abbassò subito dopo, rimanendo nuda davanti a me.
«Sappi che io non cedo» mormorai. Ero così vicino a lei che sentivo il suo seno premere contro il mio petto.
«Nemmeno io, ti ho detto che stanotte ti mando in bianco» sussurrò, circondando il mio collo con le sue braccia.
«Ottimo» bofonchiai, accarezzando le sue labbra con le mie.
«Perfetto» rispose Lee, prima di cominciare a baciarmi.
Istintivamente portai le mie mani sulla sua schiena, per avvicinarla ancora di più a me.
Lee circondò la mia vita con le sue gambe, stringendo le sue braccia attorno al mio collo.
Indietreggiai, fino a scontrarmi con la parete della doccia, poi, cercando di orientarmi solo attraverso il tatto, trovai il rubinetto e aprii l’acqua, portandoci sotto al getto.
Sentii un gemito di Lee, quando appoggiai la sua schiena contro la parete fredda.
Lasciai le mie labbra libere di correre sul suo collo, fino ad arrivare al suo seno.
Le mani di Lee tra i miei capelli, le sue gambe a circondarmi il bacino.
Ci amammo così, lasciando che ognuno si alimentasse del piacere dell’altro, rubandoci il respiro e rincorrendo il ritmo frenetico dei nostri cuori.
 
C’era una promessa che avevo fatto a Lee, ma che non ero riuscito a mantenere, non ancora almeno.
Volevo e dovevo scrivere il testo della canzone che le avevo regalato per il compleanno.
Era una canzone d’amore, ne ero certo, però…
Non era la solita storiella.
Lui l’aveva rincorsa per un lungo tempo, soffrendo dei suoi rifiuti.
Si era innamorato di lei all’improvviso, quando lei era distratta.
Seduto al piano, sfioravo i tasti canticchiando parole a caso.
Lo spartito davanti a me era quasi illeggibile.
Parole scritte e cancellate, riscritte e cancellate di nuovo.
Mi mancava una frase importante, una frase che non riuscivo a trovare.
«I was set…» cominciai, sperando di riuscire a continuare.
«I was set for that mistake». Sì, sembrava avere senso.
«I was set for that mistake, But you moved». Mi piaceva. Sorrisi soddisfatto, scrivendo le parole sul foglio.
«And when there’s nothing that I couldn’t take» continuai, scoprendo che mi piaceva.
«Quando non c’è niente che non posso prendere… quando non c’è niente che non posso prendere…»ripetei, sperando che mi venisse un’idea.
«It’s all on you darlin’» canticchiò qualcuno, al mio orecchio.
Sorrisi, incapace di trattenermi.
Appoggiai la sigaretta sul posacenere, tornando a cantare quello che avevo composto.
«I was set for that mistake, But you moved
And when there’s nothing that I couldn’t take
It’s all on you baby». Alzai il volto per guardare Lee.
Le sue mani appoggiate alle mie spalle, il suo corpo contro la mia schiena.
Abbassò il volto, dandomi un bacio.
Il suo naso sfiorò il mio mento e per qualche secondo mi dimenticai di continuare a suonare.
«Continua, mi piace» soffiò sulle mie labbra, lasciandomi un nuovo bacio in quel modo strano.
«It’s all on you? Non ti sembra un po’ troppo egocentrica?» scherzai, tornando a suonare.
«È una canzone d’amore, no?» chiese, sedendosi di fianco a me sullo sgabello.
«Più o meno, lui è innamorato di lei, ma lei non sembra accorgersene» spiegai, rallentando il ritmo.
«In ogni caso, se è una canzone d’amore, è tutto su di lei, o lui» mormorò, avvicinandosi al mio viso per darmi un altro bacio.
«Mi piace questa dipendenza» scherzai, mordicchiandole il labbro.
«Anche a me». Si alzò, sedendosi sulle mie ginocchia, cominciando a torturare il mio collo con i suoi denti.
«Lee… aspetta, prima di perdere il controllo… devo chiederti una cosa» sussurrai, circondandole i polsi con la mia mano.
«Che succede?» domandò, confusa.
«Ecco… è… sono, sono due settimane che… insomma, in qualche modo stiamo assieme, e vorrei… se per te non è un problema, mi piacerebbe dirlo… ai miei» finii la frase in un sussurro.
Sentii Lee irrigidirsi; aveva perfino smesso di respirare.
«Io… ok» mormorò, per nulla convinta delle sue parole.
«No, non è ok per te, non mentire. Che succede?». Lasciai i suoi polsi, accarezzandole una gamba.
«Ecco, non è che non voglia dirlo, non mi interessa, sinceramente. È solo che… che cosa diranno i tuoi? Insomma, non credo che loro mi accettino, non sono la ragazza giusta per te» borbottò, abbassando lo sguardo.
«Cosa stai dicendo? Perché non dovresti essere quella giusta per me?» chiesi allibito. Perché aveva pensato una cosa del genere?
«Andiamo Rob! Quale madre vorrebbe che il proprio figlio andasse a letto con una ex spogliarellista e putta…». Non le lasciai nemmeno il tempo di finire la parola, riuscii a fermarla appoggiandole l’indice sulle labbra.
«Primo, non sei mai stata una puttana, e non voglio più sentire quella parola associata a te, secondo, eri una spogliarellista perché non hai avuto altra scelta. Terzo, e ascoltami bene, mia mamma ti ama come se fossi sua figlia, perché ha capito che sei una persona speciale. Sei riuscita a ricominciare tutto da zero Lee, e non è una cosa che molte persone riescono a fare. Solo chi ha un grande spirito e un grande cuore ci riesce, e tu ci sei riuscita. Claire l’ha capito, e probabilmente sperava che io e te ci mettessimo assieme dalla prima volta che ti ha visto. Quindi, quando ti sentirai pronta, glielo faremo sapere». Presi un respiro profondo, per recuperare un po’ d’ossigeno.
«Questa è una delle cose più belle che tu mi abbia mai detto» mormorò, socchiudendo gli occhi, «e no, non piangerò» borbottò, cominciando a mordersi il labbro.
«Bene, perché non voglio vedere lacrime» la ammonii, dandole un bacio sulla clavicola.
«Credo che dovremmo dirlo anche a Tom» disse Lee, cercando di trattenere un sorriso.
«Lo diremo prima a lui, va bene? Così almeno sarai più tranquilla». Non volevo forzarla.
«Ok, facciamolo». Prese un respiro profondo.
«D’accordo» ghignai, alzandomi dallo sgabello e sorreggendo Lee con le braccia.
«Rob, che fai?» rise, appoggiando la fronte sulla mia spalla.
«Hai detto facciamolo, ti sto portando in camera per farlo, o vuoi sperimentare qualche posto su cui non l’abbiamo ancora fatto?» la provocai, distendendola sul letto.
«Io volevo dire facciamolo! Diciamo ai tuoi. Però, visto che ci siamo…» ne approfittò, togliendosi la maglia.
«Lee… sei proprio un diavolo. Vuoi sempre rimanere a letto con me». Scossi la testa, fingendo di essere deluso.
«Stai zitto e baciami». Mi pizzicò il fianco, attirandomi verso di lei.

 
 
 
 
Scusate immensamente per il ritardo, ma come ho ripetuto nel gruppo, non è colpa mia.
In ogni caso, metterò le foto del vestito di Lee nel gruppo perché sono di fretta.
Vi ricordo che per natale c’è in palio una OS pov Lee di un capitolo a scelta, potete votare nel gruppo, per ora sta vincendo una OS sull’originale dei nerd.
QUI potete aggiungermi come amica.
QUI il gruppo spoiler.
Alla prossima settimana.
Un bacione.

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Capitolo 16
*** 'Cause Lee is a princess, in every single way ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Pronta?» sussurrai, allungando un braccio per prendere il mio cellulare dal comodino.
«Voglio un in bocca al lupo, così magari va meglio» mi provocò, mordendomi la mascella.
«Solo un piccolo bacio» la ammonii, chiudendo gli occhi.
Quando le nostre bocche si incontrarono, sentii distintamente le sue labbra tendersi in un sorriso.
Qualcosa di fresco sfiorò il mio petto, scendendo verso il mio stomaco.
«Lee» mugugnai, fermando la sua mano con la mia.
«Che c’è? Stavo cadendo e cercavo un appoggio» si giustificò, trattenendo a stento una risata.
«Dove lo stavi cercando l’appoggio?» chiesi, mantenendomi serio a fatica.
«Non stavo guardando, sai, mi piace baciarti con gli occhi chiusi» mugolò, lasciandomi una scia di baci sul collo.
«Lee» sospirai, appoggiando la testa sul cuscino.
«Che c’è?» chiese, lo sguardo birichino, mentre si distendeva sopra di me, risvegliando il mio corpo.
«Se non vuoi farlo, dimmelo subito. Ma non cercare di distrarmi in questo mo…» cominciai, interrompendomi non appena le sue labbra scesero ad accarezzare il mio petto, per poi fermarsi all’ombelico.
«Hai ragione. Chiamiamoli. Prima Tom». Accarezzò le mie labbra con le sue, stendendosi al mio fianco, abbandonando la testa sopra al mio petto.
«Vuoi dirlo tu a lui e poi io parlo con i miei?» le domandai, sperando così di tranquillizzarla.
Sentivo il suo corpo teso; di sicuro era perché temeva delle reazioni negative.
«Va bene» acconsentì, componendo subito il numero prima di ripensarci.
Qualche squillo dopo, la voce di Tom rispose.
«Che si dice in quel di Los Angeles?» esordì, sbadigliando.
«Ciao Tom, sei in vivavoce» spiegai, prima che potesse dire qualcosa di compromettente.
«Oh, ciao Lee» esultò Tom, urlando al ricevitore.
«Tom, ti sento, sono accanto a Rob» ridacchiò Lee, baciandomi il petto.
Avrei voluto precisare che non era proprio ‘accanto’ a me, ma più ‘sopra’, però non volevo metterla in imbarazzo.
«Ah, pensavo stessi camminando su e giù per la casa. Allora, che succede?» chiese, curioso.
Guardai Lee, sorridendole per trasmetterle un po’ di coraggio.
Prese un respiro profondo e poi parlò. «Io e Rob dobbiamo dirti una cosa».
«Ditemela. Sono in ascolto» ghignò. Sembrava divertito.
«Ecco…» borbottò lei, schiarendosi la voce in imbarazzo. «Io… io e Rob…». Si fermò, prendendo un respiro profondo.
«Stai andando bene» soffiai al suo orecchio, baciandole la guancia.
Lee alzò lo sguardo, sorridendo appena.
«Io e Rob siamo assieme» disse, tutto d’un fiato.
«Lo so, sono venuto a casa vostra più di una volta. Lo so che state assieme». Perché ero quasi sicuro che Tom stesse fingendo di non aver capito?
«No, non in quel senso… assieme, assieme». Le sue guance si colorarono di un rosso intenso. Ero sicuro di aver visto raramente Lee in imbarazzo.
Con un sorriso strinsi un po’ di più il mio braccio attorno alle sue spalle.
«Non capisco Lee, dico davvero». Sì, si stava burlando di lei.
«Cazzo, Tom! Io e Rob trombiamo assieme. Così è più chiaro il concetto?» strillò Lee, prendendo il telefono tra le mani e urlando al microfono.
Cominciai a ridere, seguito dopo pochi secondi da Tom.
«Lee, stavi andando così bene e poi ti sei arrabbiata. Peccato. Ti posso dare un sette per l’inizio, ma dopo la spiegazione così… volgare che mi hai dato, credo che il voto scenderà a quattro» la canzonò. Lee mi guardava confusa.
«Lo sapeva?» mi chiese, assottigliando le palpebre.
«L’avevo capito. Tutti l’hanno capito, solo voi non ve ne eravate accorti, perché troppo impegnati a fare chissà che cosa. I miei auguri ragazzi» terminò, stranamente senza nessuna nota sarcastica nella voce.
«È stato facile» sussurrò Lee, sorridendomi.
«Visto?» mormorai, dandole un bacio sulle labbra.
«Spero solo che non mi abbiate chiamato dopo aver fatto acrobazie a letto. Cioè, sarebbe squallido se foste ancora pucci pucci tra le lenzuola. Vi prego, ditemi che siete in giardino…». Sembrava davvero sconvolto all’idea che potessimo aver appena fatto sesso.
«Siamo in giardino» mentimmo io e Lee, parlando contemporaneamente.
«Oddio siete a letto. Ditemi che non siete nudi e che vi siete fatti una doccia». Dei colpi sordi riecheggiarono dal telefono. Ma che cosa stava succedendo? Tom era forse impazzito?
«Non siamo nudi. Ci siamo fatti la doccia» tornammo a dire, nello stesso momento, io e Lee.
Subito dopo non riuscimmo a trattenere una risata divertita.
«Che schifo. Questa cosa è da pervertiti. Se mi avesse chiamato solo Lee, nuda, a letto, avrebbe avuto tutto un altro significato, ma con Rob…» bofonchiò, facendomi arrabbiare. Non mi piaceva affatto l’immagine che aveva evocato Tom.
«Tom» gridai, mentre Lee cercava di non ridere. Possibile che non capisse che quelle cose non doveva dirle perché ero… geloso?
«Non faccio queste cose adesso, Tom. E se le faccio, mi dispiace ma uso Rob» sottolineò Lee, mentre le accarezzavo la schiena.
«Tutte le fortune agli altri, sì sì» sbottò indignato. Lee scivolò sopra di me, baciandomi il collo apparentemente incurante del fatto che stessimo parlando al telefono.
«Lee» sospirai, cercando di non perdere il controllo, «siamo al telefono» la ammonii, appoggiando una mano sulla sua schiena.
«Shh. Ti sto dando la carica per la prossima telefonata» mormorò, mordendomi il lobo dell’orecchio.
«Ma ci siete ancora?» urlò Tom, portandomi di nuovo alla realtà. «Pronto? Mi sentite?».
Non riuscii a trattenermi e cominciai a ridere, mentre Lee appoggiava la fronte sull’incavo del mio collo per smorzare la sua risata.
«Ci siamo» risposi a Tom, ammonendo Lee con lo sguardo. «Sta ferma» sibilai, prendendole i polsi con le mani, perché non scendesse oltre.
«Non state facendo porcherie, vero? Perché altrimenti chiudiamo qui…» si allarmò Tom. Intrappolai Lee tra il mio corpo e il materasso, schiacciandola sotto di me e mozzandole il respiro nel petto con il mio peso.
«Ci sentiamo Tom» tagliò corto Lee, circondandomi il collo con le braccia.
«Lee» mormorai, sgridandola.
«Oh mamma. Sono al telefono con voi, non potreste aspettare tre minuti per ricominciare? Ho capito che avete aspettato quattro anni prima di darvi la prima botta, ma abbiate la decenza di non farmi ascoltare queste cose in diretta, per favore. Fino a prova contraria Rob è il mio migliore amico» si lamentò Tom.
«Senti, chiudiamo qui la conversazione, è meglio» borbotto lei, inquieta.
Perché improvvisamente Lee sembrava aver fretta?
«No, vorrei solo sapere se posso dirlo a qualcuno o se deve rimanere segreto».
Guardai Aileen, aspettando una sua risposta.
«Puoi dirlo» bisbigliò, guardandomi in attesa della mia conferma.
«Certo, ma non dirlo ai miei, li chiamiamo adesso, quindi aspetta un po’, per favore» gli spiegai. Sarebbe stato davvero spiacevole per loro scoprire la verità da Tom.
Dovevamo dare la notizia io e Lee.
«D’accordo. Ah, Lee, se ti serve qualche lavoretto perché Rob non è in grado di farlo…» scherzò Tom, ricordando la conversazione che avevamo avuto io e lui a Londra.
«Lee non ha bisogno di nessun lavoretto. A presto» sbottai furioso, chiudendo la conversazione.
«Che cosa voleva dire?» chiese Lee, confusa.
«Niente, lascia stare. Sai che è uno stupido» cercai di convincerla a lasciar perdere, ma lei non sembrava della mia stessa idea.
«No, ha detto qualcosa che tu hai capito, voglio sapere anche io, adesso» si intestardì, appoggiando le mani sul mio petto per non permettere che la baciassi.
«Un discorso tra uomini» sbuffai, capendo che Lee non avrebbe ceduto facilmente.
«Cioè?» domandò, guardandomi con uno strano sorriso.
«Niente, sai quanto può essere volgare Tom…» mormorai, lasciandole una scia di languidi baci sul collo.
«Sì, e so che tu sei peggio di lui, se ti impegni, quindi?». Come faceva a rimanere lucida mentre continuavo a torturarle il collo con i denti?
«Tom… crede…» cominciai a dire, scendendo a baciarle un seno.
Il corpo di Lee si inarcò, le sue dita cominciarono a tirarmi alcune ciocche di capelli.
«Cosa?» ansimò, spingendo il mio viso più vicino al suo seno.
«Che non sia bravo…» soffiai sul suo stomaco, dopo averle leccato l’ombelico, «… in queste  cose» conclusi, prima di darle un piccolo morso sull’osso del fianco.
«Si… sbaglia» mugolò, inarcando di nuovo la schiena.
«Lo so» asserii, distendendomi di fianco a lei per cercare di tornare lucido.
«Perché?» si lamentò Lee, mettendosi a sedere di scatto. «Come fai a smettere di torturarmi in questo modo, come se niente fosse? Sei messo peggio di me, ma riesci sempre a fermarti. È frustrante, non puoi essere un maschio». Scosse la testa, confusa. Sembrava non capire.
«Credevo ci fossero prove inconfutabili del mio essere uomo, no?» scherzai, provocandola.
«Forse fisicamente, ma non mentalmente. Dovresti essere assatanato, non dire mai di no, invece sei sempre tu quello che mi rifiuta» borbottò, abbassando lo sguardo.
«Non ti ho mai rifiutata. Adesso sto solo rimandando perché voglio chiamare mamma, così poi avremo tutto il tempo di questo mondo. E nel caso non te ne fossi accorta, per me è difficile fermarmi». Lanciai un’occhiata a Lee. Ero sicuro che avrebbe capito.
«Mi piace questo potere che ho su di te. Mi fa sentire forte. So che posso sempre minacciarti, anzi, corromperti. Mi piace» tornò a ripetere, soddisfatta.
«Piccola peste. Vieni qui, che chiamiamo mia mamma, su» sussurrai, sfiorandole le labbra con le mie.
Mentre componevo il numero sentii un respiro profondo di Lee; probabilmente cercava di calmarsi.
«Pronto?» rispose una voce, dopo qualche squillo.
«Ciao Liz, sono Rob» dissi, mentre di fianco a me Lee sembrava rilassarsi un po’.
«Fratellino! Qual buon vento! Come mai stai chiamando? Ci sono problemi? Stai male? C’è Lee che ha combinato qualcosa?» cominciò a tempestarmi di domande, e non mi permise di di parlare.
«No, io e Lee stiamo bene. Potresti passarmi mamma? Dobbiamo dirle una cosa» la informai, sorridendo a Lee.
«Dobbiamo? Oddio» strillò, «Vic! Ridammi le cento sterline! Rob e Lee!» continuò a urlare. Sembrava che Liz stesse correndo; la sua voce era distante, e  c’era un rumore di passi di sottofondo.
«Che succede?» chiese qualcuno.
«Vic, ridammi immediatamente quelle cento sterline. Rob e Lee!» ripeté Liz, gridando. La sua voce si sentiva ugualmente, squillante, nonostante non fosse vicina al microfono.
«Non ci credo, quando te l’hanno detto?». Vic sembrava arrabbiata, quasi infuriata.
«Adesso, proprio adesso. Non posso crederci, pensavo di averle perse e invece… ottimo! Mi servono per un paio di scarpe» esultò lei.  Stentavo a credere alle mie orecchie.
«Con che parole te l’hanno detto?» domandò Vic sospettosa.
«Be’, non l’hanno proprio detto, diciamo che l’ho capito, ma è così…» gridò Liz, in difficoltà.
«Fammici parlare, subito». Quando Vic parlava con quel tono, non ammetteva repliche. «È vero?» chiese, senza nemmeno salutare.
«Io… noi… sì» borbottai, guardando Lee. Era immobile, stava trattenendo il respiro.
«Che bello! Aspetta mamma, sarà felicissima di saperlo. Sono felice per voi» disse, mentre Lee cominciava a tremare per la mancanza di ossigeno.
«Lee, respira» sussurrai, mettendomi seduto sul letto e scuotendola appena per le spalle.
«Mhhh» farfugliò, stringendo di più il lenzuolo tra le dita.
«Tranquilla» ripetei, accarezzandole una guancia.
«Tua mamma mi ucciderà» bofonchiò, puntando all’improvviso i suoi occhi nei miei.
«Ma figurati! Sarà contentissima di questa cosa» strillò Liz, spaventandoci.
Ci eravamo dimenticati di essere in vivavoce.
«Mamma, ci sono Rob e Lee al telefono, devono dirti una cosa. Siediti».
«Morirà» disse Lee, scuotendo la testa.
«Diventerò nonna?». Non pensò nemmeno di salutare, ponendo subito la domanda.
Quello che mi stupì, fu la felicità che traspariva dalla sua voce.
«Mamma, no…» borbottai, imbarazzato.
Perché aveva pensato a dei nipotini?
«Oh, allora perché devo sedermi?» chiese, improvvisamente triste.
«Perché volevamo dirti che abbiamo cominciato a frequentarci, come coppia». Non volevo usare paroloni che mamma potesse fraintendere. In più, non volevo spaventare Lee, seduta davanti a me.
«Era ora!» esultò, facendomi ridere. «Lee, tesoro, ti sta trattando bene?» chiese,  con voce dolce.
Lee prese un respiro profondo, allungando il braccio per stringere la mia mano.
«C-c-certo, come una principessa» sussurrò, senza smettere di tremare.
«Benissimo! È proprio così che deve trattarti. E se non lo fa, chiamami, ok?». Era felice, riusciva a percepirlo anche Lee.
Si rilassò un po’, smettendo di tremare.
«D’accordo» mormorò, prendendo un nuovo respiro con gli occhi chiusi.
«Quindi? Quando venite a trovarci come coppia ufficiale?» domandò mamma, facendomi sbarrare gli occhi per la sorpresa.
«Ecco… noi… adesso… magari… magari più avanti, a Natale» balbettai, non sapendo che cosa dire.
«Oh, certo. A Natale» rispose dall’altro capo del telefono, delusa.
«O prima, dipende quando possiamo prenderci qualche giorno» cercai di rimediare all’errore fatto.
«Certo, quando potete. Noi siamo sempre qui ad aspettarvi, lo sapete» disse, cercando di nascondere il fatto che ci fosse rimasta male.
«Il prima possibile» accordai, sperando che ritornasse a urlare di felicità.
«Mi sembra bellissimo! A presto, ciao Lee» salutò, aspettando una risposta.
«Ciao». Un sussurro. Non ero nemmeno sicuro che mamma l’avesse udito.
«Hai visto?» chiesi a Lee, subito dopo aver chiuso la chiamata.
«È andata bene?» mormorò, rabbrividendo appena.
Solo in quel momento ricordai che Lee era nuda.
«Bene? Benissimo» bisbigliai, distendendomi sopra di lei per darle un bacio.
«Sei sicuro?». Socchiuse gli occhi quando la mia mano solleticò il suo fianco.
«Sì. Adesso… vorrei riprendere il discorso di prima, se non ti dispiace…» mormorai, accarezzandole le cosce.
«Fai pure tutto quello che vuoi» mugolò, socchiudendo gli occhi.
 
Cinque mesi dopo…
 
«Lee, per favore, ti vuoi sbrigare?» mi lamentai, camminando nervosamente per la stanza.
«Un attimo Rob! Adesso vado a farmi la doccia, non serve arrabbiarsi». Mi fece una linguaccia, togliendosi la maglia e i pantaloni davanti a me.
«Non è il momento, non posso» gridai, voltandole le spalle.
Eravamo già in ritardo, se in più mi tentava rimanendo in intimo davanti a me… non saremmo più usciti da quella casa.
«Cosa?» chiese con l’aria da santarellina.
«Non possiamo fare l’amore adesso. Siamo in ritardo Lee. Devi farti la doccia e devo farla anche io» spiegai, tenendo lo sguardo basso.
«Se la facciamo assieme, dimezziamo i tempi» mi provocò, avvicinandosi a me e costringendomi a guardarla.
«Lee, per favore, sto cercando di controllarmi. Non posso. Faremo tardi. È una premiazione importante, dobbiamo fare il red carpet. È la nostra prima apparizione pubblica assieme» cercai di spiegarle, sperando che smettesse di mangiucchiarsi quell’unghia.
C’era qualcosa di eccitante anche in quel gesto.
«Appunto, mi servirebbe un po’ di fortuna… devo camminare con quel vestito, e quei tacchi». Alzò gli occhi al soffitto, mordicchiandosi il labbro.
«Dobbiamo essere sopra a quel red carpet tra tre ore. Se facciamo la doccia assieme non usciremo da quel bagno prima di due ore. Non possiamo fare l’amore ora. E fidati che lo vorrei, visto che è da una settimana che non sento il profumo e la morbidezza del tuo corpo» gemetti, percorrendo il suo piccolo corpo con lo sguardo.
«Io sono sempre rimasta qui a casa, da sola. Sei tu quello che è andato a filmare a New York. Se fossi tornato prima, questa notte avremmo potuto coccolarci, ma sei ritornato mezz’ora fa». Incrociò le braccia al petto, offesa.
«Su, vai a farti la doccia» mormorai, baciandole i capelli.
Sbuffò, prima di prendere qualcosa da un cassetto e dirigersi verso il bagno.
In quella settimana Lee mi era mancata. Troppo.
Era difficile addormentarsi senza il calore del suo corpo vicino, o senza il rumore del suo respiro.
«Rob» strillò Lee dal bagno.
«No. Non c’è nessun ragno. Il sapone è di fianco allo shampoo e il tuo accappatoio è appeso al muro. Non riuscirai a farmi cedere questa volta» urlai, sapendo che era quello che voleva.
«Stronzo» fu la sua risposta.
Cominciai a ridere, distendendo il mio vestito nero sul letto.
Dovevo tenermi occupato e non pensare a Lee che si stava facendo la doccia.
Cominciai a camminare nervosamente per la stanza, aspettando che uscisse dal bagno.
«Puoi andare» disse, facendomi sussultare.
Era stretta nel suo grande accappatoio blu.
Non riuscii a trattenere un sorriso, avvicinandomi a lei e baciandola, prima di sistemarle il cappuccio in testa.
«Faccio presto» soffiai sulle sue labbra, allontanandomi prima di perdere il controllo. «Per favore, quando esco non farti trovare in intimo, ti chiedo solo questo, oggi»
«Va bene» acconsentì.
Non riuscivo a capire però, perché continuasse ad avere quel ghigno.
Lasciai che l’acqua mi sciogliesse i muscoli, rilassandomi.
Dopo il volo di quella mattina e il fuso orario che non mi aveva ancora fatto passare il mal di testa, l’ultima cosa che volevo era uscire di casa per andare a presentare un premio assieme a Lee, ai Golden Globes.
Uscii dal bagno con un asciugamano stretto in vita, perché, come sempre, mi ero dimenticato di prendere i boxer.
«Rob, potresti aiutarmi?» chiese Lee, uscendo dalla cabina armadio con il suo bellissimo vestito.
«Sei stupenda» mormorai, incapace di toglierle gli occhi di dosso.
«Grazie, ma potresti aiutarmi? Non riesco a chiuderlo». Mi diede le spalle, spostandosi i capelli da un lato.
Guardai la sua schiena nuda, deglutendo involontariamente.
«Non hai il reggiseno?» chiesi, stupidamente.
«No, non potevo con questo vestito». Girò il viso di lato, per guardarmi.
La sua schiena nuda…  senza nemmeno accorgermene cominciai ad accarezzarla con i polpastrelli.
«Rob» gemette, quando, dopo aver fatto un passo in avanti, la abbracciai, baciandole le spalle nude. «Hai… hai detto che non abbiamo tempo». Inclinò la testa, appoggiandosi a me.
«Lo so. Ma mi stai tentando troppo». Portai le mie mani sui suo fianchi, avvicinandola di più a me.
«Stiamo… stiamo perdendo il controllo» sussurrò, portando la sua mano sul mio fianco.
«Se facciamo presto? Odio fare le cose di fretta, ma Lee…» sussurrai, baciandola appena dietro l’orecchio.
«Spostati» sbottò, facendo un passo indietro e abbassando il vestito. «Togliti quel ridicolo asciugamano» mi ordinò, abbassandosi gli slip.
«Lee» sghignazzai, quando mi spinse sul letto, cominciando a baciarmi.
 
«Sei agitata?» chiesi, stringendo di più la sua mano.
«Perché dovrei? Siamo ai Golden Globes e devo presentare un premio» ironizzò, sistemandosi i capelli nervosa.
«Sei bellissima, e nessuno riuscirà a toglierti gli occhi di dosso» le feci notare, sfiorando le sue labbra con le mie.
«Preferivo che nessuno mi guardasse. Se cado? Se comincio a balbettare? Se faccio la figura dell’idiota?» domandò, mentre l’auto si fermava davanti al red carpet.
«Sarai perfetta. Tu guardami e tutto andrà bene». Sfiorai le sue labbra prima di darle un bacio.
La porta della macchina si aprì e un boato ci investì.
Lee mi guardò, terrorizzata.
Cercai di rassicurarla con un sorriso, ma non riusciva a muoversi.
«Lee, andrà tutto bene». Mi avvicinai a lei, allungandole la mano per aiutarla a scendere dall’auto.
«Non lasciarmi Rob» mormorò, appoggiando il piede per terra.
«Mai» risposi, stringendole la vita con il braccio.
Non la abbandonai sul red carpet e nemmeno in sala, quando ci sedemmo.
Le nostre mani erano intrecciate, mentre cercavo di trasmetterle sicurezza e calma.
Quando ci chiamarono per annunciare il premio, la stretta della mano di Lee sulla mia si intensificò.
«Andrà tutto bene. Tu guarda solo me» la rassicurai, prima di allontanarmi per entrare sul palco.
E vederla lì, mentre mi veniva incontro, con quel radioso sorriso e quello splendido vestito, mi fece emozionare.
Forse troppo.
Perché Lee era perfetta, lo sarebbe sempre stata.
Prese un respiro profondo, avvicinandosi al microfono.
Cercai di tranquillizzarla quando cominciò a parlare, guardandomi.
Presentai la categoria e, quando il filmato con i nominati iniziò, mi avvicinai a lei, accarezzandole la mano.
«Sei perfetta» riuscii a dire, prima che il filmato si concludesse.
Tese la busta aperta con mano tremante perché leggessi il titolo e involontariamente sfiorai la sua mano.
Dopo aver annunciato il vincitore i nostri sguardi si incontrarono e non riuscii a trattenere una risata.
Era stata impeccabile.
Consegnò il premio, sollevando l’abito come solo una principessa avrebbe potuto fare.
Subito dopo si avvicinò a me, mordicchiandosi il labbro.
«Cazzo Rob, sto tremando» mormorò, appoggiando le labbra al mio orecchio.
Ghignai divertito: il suo linguaggio stonava rispetto alla sua bellezza così eterea.
«L’adrenalina sta scendendo» spiegai, prendendola sottobraccio per scendere giù dal palco.
«Possiamo andare a casa, adesso?» chiese, togliendosi i tacchi, per camminare dietro lo stage.
«Dobbiamo aspettare la fine della cerimonia. Non vuoi andare all’after party?». Credevo volesse conoscere gli altri attori.
«Sì, all’after party a casa nostra, quello privato» mi tentò, prima di fare una boccaccia.
«Lee» bofonchiai, guardando dietro di noi, per controllare che nessuno ci avesse sentito.
«Che c’è?» domandò, con finta innocenza.
«Qui sono tutte persone perbene, non si dicono queste cose, si scandalizzano» ridacchiai, mentre si rimetteva le scarpe per tornare in sala.
«Sì, certo. Nessuna di loro questa sera andrà a casa a farsi una bella scopata?» chiese, in un tono di voce forse troppo alto, visto che Ryan Gosling ci lanciò uno strano sguardo, prima di cominciare a ridere.
«Ryan Gosling ti ha sentito» informai Lee, mentre si girava a guardarlo.
«Oh, be’… può sentirmi quando vuole, è bello» rise, sedendosi di fianco a me.
«Lee, è vecchio» mormorai, offeso.
«Sempre bello, però». Fece spallucce, con naturalezza.
«Più bello di me?» borbottai offeso, sporgendo il labbro inferiore.
Speravo solo che non ci fossero telecamere nelle vicinanze.
«No, tu sei più bello» ammise, prima di allungarsi sopra alla tavola per darmi un bacio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La seconda parte (ambientata a Gennaio 2015) è stata ispirata da Robert Pattinson e Olivia Wilde (la mia Lee) ai Golden Globes di quest’anno.
Per capirci, non so se li avete mai visti, ma erano così (ed è esattamente quello il vestito che nel capitolo indossava Lee):
 
 
Dunque, mi scuso per il ritardo, ma ormai siamo praticamente alla fine, e quindi i capitoli escono sempre più lentamente e vengono betati con più attenzione! :)
Questo era l’ultimo capitolo, il prossimo sarà l’epilogo (che più o meno è tutto scritto) e… niente…
Ah sì! Mi sono sempre dimenticata, perché ho una testa di cocco… ho scritto una OS Rossa della prima volta in cui Lee e Rob hanno fatto l’amore (per capirci ambientata durante il capitolo 14. Quante sarebbero interessate a leggerla?
La pubblicherei comunque prima dell’epilogo, quindi durante questa settimana…
Fatemi sapere! :)
 
Come sempre grazie ai preferiti/seguiti/da ricordare, chi legge e chi commenta!
QUI il gruppo spoiler delle storie e QUI il mio profilo.
Alla prossima settimana, per l’epilogo!

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Capitolo 17
*** I'm beside you- Epilogue ***


7
Sequel di Redemption. Non è necessario aver letto il prequel per comprendere questa storia. Ho cercato di riportare alcuni eventi in modo che possa risultare comprensibile a tutti.







«Per favore, dimmi che non è qualcosa di stupido» mormorai, guardando Lee con quel ridicolo cappello da Babbo Natale in testa.
Le lucette dell’albero che avevamo addobbato assieme giocavano con i suoi capelli, donandole sfumature rossicce e verdi.
«No, quest’anno sono stata brava. Niente regali stupidi, anche se, pensandoci, potevo farlo, visto che siamo solo noi due» borbottò, infastidita dalla sua mancata idea.
Solo noi due, a mezzanotte per aprire i regali, sì.
Perché volevo che fosse un momento indimenticabile e perfetto.
Avremmo raggiunto la mia famiglia e Tom solamente in mattinata.
«Non fa niente, tanto il regalo imbarazzante l’hai già fatto» ridacchiai, guardando il piccolo pacchetto che Lee teneva tra le mani.
Marrone scuro, con un fiocco sobrio. Di certo non poteva essere opera sua.
«Giuro che quest’anno l’ho comprato in un negozio rispettabile, niente sexy shop» ghignò, porgendomi il pacchettino.
«Ne sarò sicuro solo una volta aperto» replicai, spostando il fiocco con calma.
«Dai Rob, fai presto» mi incitò, continuando a sorridere.
Era perfetta, con quel vestito rosso che le fasciava il corpo come una seconda pelle, accentuando il contrasto con i suoi capelli scuri e gli occhi chiari.
Indossava ancora i tacchi alti, perché si era intestardita: voleva aprire i regali dopo la cena.
Lasciai la carta cadere per terra, guardando la scatola scura.
Sopra c’era stampato il nome di una gioielleria.
Sorrisi, pensando che, in fin dei conti, io e Lee non eravamo poi così originali nel fare i regali.
«Su, su! Apri» mi incitò di nuovo, euforica.
Un orologio.
Lee mi aveva regalato un orologio.
«È davvero bellissimo, grazie» sussurrai, allungandomi sulla poltrona per darle un bacio.
«Ti piace davvero o è una bugia?». Mise un broncio così buffo che mi fece ridere.
«Mi piace davvero» asserii, indossandolo subito.

«Non sapevo che cosa prendere, perché tu hai tutto quanto e… ho pensato che potesse servirti un orologio, ecco». Cercò di motivare in questo modo la sua scelta, facendomi ridere.
«Lee, è bellissimo e mi serviva, va bene così». Mi inginocchiai davanti a lei, prendendole il volto tra le mani e baciandola.
«Quello dopo… adesso il mio regalo» disse, impaziente.
«Rifiuti un bacio e vuoi che ti dia il mio regalo?» mormorai divertito, frugando nella tasca della mia giacca per prendere il pacchettino.
«Per quello c’è tempo dopo, sarà il mio ringraziamento. Adesso voglio il regalo». Allungò la mano, con il palmo all’insù, chiudendo gli occhi per non sbirciare.
«Buon Natale, Lee» soffiai sul suo orecchio, appoggiando la scatolina azzurra di Tiffany sulla sua mano.
Aprì gli occhi lentamente, continuando a sorridere.
«Tiffany?» sussurrò sorpresa, sfiorando il fiocchetto di raso con la punta delle dita. «Per me?» chiese, puntando i suoi grandi occhi ghiacciati nei miei.
Annuii solamente, incapace di dire qualcosa.
Prese un respiro profondo, sciogliendo il fiocco e aprendo la scatolina con mano tremante.
Quando vide il contenuto della confezione, rimase per qualche secondo in silenzio, mentre cominciavo a temere una risposta negativa.
«Che cos’è?» chiese, accarezzando il diamante delicatamente. Sembrava avesse paura di romperlo. «Cioè, so che cos’è, ma… cosa significa?» domandò, guardandomi così intensamente che smisi di respirare.
«Significa che voglio passare tutta la mia vita accanto a te, Lee» risposi, rimanendo sempre in ginocchio.
Socchiuse gli occhi mordendosi il labbro.
«Tu… tu vorresti sposarmi?» continuò, mentre i suoi occhi si inumidivano, pronti a versare lacrime.
«Sì, voglio sposarti». Avevo trent’anni, Lee ventitré.
Ci conoscevamo da sei anni, convivevamo da cinque.
Erano passati tre anni da quando avevamo fatto l’amore per la prima volta.
Tre anni in cui ci eravamo stuzzicati e amati in tutti i modi possibili.
Tre anni senza più incubi da parte di Lee, senza più urla nel cuore della notte, senza più lacrime o fantasmi.
Solo io e lei, felici. Davvero felici.
Ero sicuro della mia scelta.
«Io… io non so nemmeno che cosa sia il matrimonio. L’ho visto nei film ma oltre a un abito bianco… non…» bofonchiò, agitata.
«Lee, possiamo imparare assieme. Non so nemmeno io che cosa sia il matrimonio, si impara» spiegai, sorridendole per rassicurarla.
«E cosa dovrei fare? Le mogli che cosa fanno? Io…». Appoggiai l’indice sulle sue labbra, perché non continuasse a dire cose senza senso.
«Quello che facciamo ora, solo che avremo un anello al dito e qualche carta firmata. Non cambia nulla per noi, cambierebbe per…». Mi fermai all’improvviso, capendo che forse mi ero spinto un po’ troppo oltre.
«Rob, io, io non posso fare la mamma. Come posso badare ad altre persone quando non so farlo nemmeno con me stessa? Sei tu che badi me, io non ci riesco. Non potrei mai avere dei bambini, non crescerebbero nel modo giusto. Io non ho mai avuto una mamma, non so nemmeno che cosa deve fare». Le sue mani tremavano, stringendo le mie in modo quasi convulso.
«Lee, tranquilla, non saresti da sola. Ci sarei io, per sempre, di fianco a te» mormorai, cercando di rassicurarla.
«E se poi tu te ne andassi? Come farei io senza?». Nei suoi occhi leggevo solo paura e confusione.
«Non potrei mai andarmene, non senza di te. Ricordi? Il tuo cuore l’ho preso io». Mi sistemai meglio, avvicinandomi al suo viso.
«Sì, ce l’hai tu» commentò, sorridendo, un po’ più rilassata.
«Allora?» chiesi, impaziente di sentire la sua risposta.

 
 
 
 
Come ho immaginato Lee, cresciuta e cambiata:
 


Prima che me ne dimentichi: Teach me how to make love è la OS rossa del capitolo 14.
Dunque ragazze… io ve l’avevo detto che nell’epilogo mi avreste odiata, ma ho dovuto terminare qui perché la risposta di Lee avrebbe deluso voi, Rob e anche me. Sono convinta che Lee potrebbe, un giorno, sorprendere Rob e decidere che è giunto il momento di metter su famiglia, ma… non lo so, al momento Rob e Lee credo meritino questa fine (che fine non è, come potete vedere).
Insomma, ho deciso che sarete voi a rispondere a quella domanda, provando a immedesimarvi in Lee.
Io la mia risposta ce l’ho, e posso garantirvi che forse, per voi, è meglio che quell’Allora rimanga in sospeso.
Scrivere questa storia è stata una sfida per me, lo sapete tutte. Redemption non aveva toni semplici e le tematiche trattate di certo non erano il fare o no una trombata.
In Redemption ci ho messo anima e corpo, pubblicando qualcosa che sapevo poteva non piacere. Eppure mi avete stupita, commentando in moltissime e spronandomi a continuare.
Per questo, mesi dopo, non sono riuscita a negare a Rob, ma soprattutto a Lee, un riscatto. Volevo sapere com’era la vera Lee, quella che non era costretta a ballare e a prostituirsi all’Insomnia, quella che non era così dipendente dall’eroina da non riuscire a non farsi una dose in un paio d’ore.
E ne è uscita una Lee che mi ha divertita (e che spero vi abbia divertito), una Lee leggera e spensierata, innamorata di Rob senza nemmeno rendersene conto.
Gelosa a tal punto da inventarsi una storia con Xavier pur di riuscire ad avere l’attenzione di Rob.
Una Lee che grazie a lui, ha imparato ad amare; una Lee che probabilmente, in un modo o nell’altro, rimarrà sempre accanto al suo Rob.
Non ci saranno altre OS o long su Rob e Lee, a dire la verità credo di chiudere con le long sugli attori proprio con questa storia.
Non posso garantirvi che non ci saranno OS dementi (come quella della foto o quella di Venezia) perché in qualche modo mi servono per ‘distrarmi’. E ne avrò bisogno, perché ho in mente un progetto ‘serio’ (leggasi originale seria, non commedia come i nerd) che comincerò entro un mese.
Io non so veramente come ringraziarvi, soprattutto chi ha seguito sia Redemption che Beside you, andando a fondo per capire il personaggio di Lee. Perché sì, Lee non si può capire da questa storia. Ogni più piccola sfumatura del carattere di Lee si è formata in Redemption, qui è solo stata trasportata.
E quello che posso dire, ancora una volta (poi giuro che ci do un taglio, visto che sta diventando più lungo dell’epilogo) è grazie! Un grandissimo, immenso grazie a tutte voi. A chi ha letto solo un capitolo, a chi l’ha letta tutta, a chi ha inserito la storia tra preferite, seguite e da ricordare. A chi ha commentato un capitolo solo e a chi li ha commentati tutti.
A chi si è commosso e a chi ha riso, e a te, che ne hai le palle piene di leggere…
Ma permettetemi di ringraziare tre donnine: Cris e Alessia, che sanno per cosa entrambe, e Malia, che mi ha betato tutta la storia, assecondando i miei deliri e spronandomi sempre a delirare di più!
In più, se a qualcuno potesse interessare, The Carnival ha provveduto a fare un minitrailer della storia nuova. Lo potete trovare QUI.
Come sempre, se volete tenervi in contatto con me, QUI c’è il mio profilo FB e QUI il gruppo.
Grazie ancora, di cuore.
Roberta.

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