Dear Agony

di Gipsy Danger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #00. Dear Agony. Beginning of the End ***
Capitolo 2: *** #01. I have nothing left to give, I have found the perfect end ***
Capitolo 3: *** (Carry me to Heaven's arms, light the way and let me go) - Capitolo Autonomo ***



Capitolo 1
*** #00. Dear Agony. Beginning of the End ***


00. DEAR AGONY
Beginning of the End


*

[Sanctus Espiritus,  redeem us from our solemn hour,
Sanctus Espiritus, insanity is all around us,
Sanctus Espiritus! Is this what we deserve?
Can we break free from chains of never-ending agony?]

Within Temptation, Our Solemn Hour



“We pass and leave you lying. No need for rhetoric, for funeral music, for melancholy bugle-calls. 

No need for tears now, no need for regret.

We took our risk with you; you died and we live. We take your noble gift, salute for the last time those lines of pitiable crosses, those solitary mounds, those unknown graves, and turn to live our lives out as we may.

Which of us were fortunate - who can tell? For you there is silence and cold twilight drooping in awful desolation over those motionless lands. 
For us sunlight and the sound of women's voices, song and hope and laughter, despair, gaiety, love - life.

Lost terrible silent comrades, we, who might have died, salute you."


*

“Passiamo oltre e vi lasciamo esanimi. Non c’è bisogno di figure retoriche, di musica da funerale, di malinconici richiami di corni. 

Non c’è bisogno di lacrime, ora, né di rimpianti.

Abbiamo assunto i nostri rischi con voi. Voi siete morti, noi viviamo. Accogliamo il vostro nobile dono, salutando per l’ultima volta queste righe di patetiche croci, quei tumuli solitari, quelle tombe sconosciute - e ci incamminiamo oltre, per vivere le nostre vive come possiamo.

Chi di noi è stato fortunato- chi può stabilirlo?

Per voi c’è silenzio e freddo tramonto, goccia a goccia sull’orribile disperazione attraverso quelle lande immote.
Per noi, la luce del sole e il suono di voci di donne, canzoni e speranza e risa, disperazione, felicità, amore – vita.

Temibili, silenziosi compagni perduti, noi, che abbiamo rischiato la vita, vi rendiamo onore.”

- Richard Aldington


#


(Gigantesca) Nota dell'Autrice:
Questa raccolta è nata in maniera strana (e quando mai sforno qualcosa che non sia schifosamente contorto?)

L’idea di buttare giù qualcosa sul rapporto tra i capitani della Shinsengumi e la morte è sorta alla fine di Hakuouki Hekketsu-roku. La causa principale? L'insoddisfazione per la maniera schifosa di far sparire i personaggi che è stata presentata(tanto per fare un esempio: “ e non vedemmo più nessuno dei due.” -.- certo, come no). Tuttavia, pur barcamenandomi piuttosto spesso con questo prompt, non sono riuscita a metterlo su carta prima di ascoltare questa canzone.
Devo a Dear Agony il titolo e l'ispirazione per questa raccolta. La prima volta che l’ho ascoltata mi è venuta la pelle d'oca. Ma solo con il testo sotto mano mi sono resa conto che quasi ogni riga del testo è identificabile con uno dei capitani. Un segno? Destino? Io intanto ho cominciato a scrivere. La raccolta è in cantiere da novebre 2010. Volevo postarla una volta conclusa, ma non ho resistito.


Prima di entrare nel vivo  tenevo a inserire questo prologo, sebbene si tratti di una semplice citazione. In parte perchè la trovo calzante e mi ha lasciato un nodo allo stomaco non appena l'ho trovata, in parte perché volevo aggiungere una piccola nota senza creare infodump negli altri capitoli.

Come ho già detto, non mi è piaciuto per niente il modo in cui sono state trattate le sorti di alcuni dei capitani della Shinsengumi nella seconda serie di Hakuouki.
Per questo motivo, Chizuru non è presente nella raccolta (salvo in una shot) e diverse morti sono state rielaborate: alcune sulla base della storia della vera Shinsengumi, altre mantenendo certi caratteri dell’anime – come l’Ochimizu e i Rasetsu – e altre ancora seguendo ciò che è stato presentato dall’opera animata. Ho messo l’avviso di what if per questo; spero che la cosa possa piacervi comunque.
Detto questo, vi lascio. 
Gli aggiornamenti saranno piuttosto lenti ed è probabile che mi concentrerò, nel contempo, su altri lavori dalla tematica più allegra – anche per preparare il terreno al mio progetto principale, Derail, al momento on going.

Fatemi sapere che ne pensate.
... -.-" geez, la nota è perfino più lunga del prologo.

<3 Kei


Edit del 17 ottobre 2011:

Questo lavoro è ufficialmente in hiatus. I motivi e le considerazioni relate sono listati qui.



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Capitolo 2
*** #01. I have nothing left to give, I have found the perfect end ***


01.  (I have nothing left to give
I have found the perfect end)

Now life has killed the dream I dreamed

*

[I dreamed a dream in times gone by,
When I was young, and life worth living
I dreamed that hope would never die,
I prayed that God would be forgiving
When I was young and unafraid
And dreams were made and used and wasted]

Susan Boyle, I dreamed a dream, Les Miserables

*

Un minuto a mezzogiorno: il più lungo della sua vita - l’ultimo.

Inginocchiato sul bordo della buca, l’uomo socchiude gli occhi nella calura che grava sullo stretto cortile come una cappa d’acciaio.

Per i timidi standard della primavera, questo Aprile del 1868 si prospetta insolitamente caldo: sotto il copricapo a cono, i soldati che montano la guardia ai quattro angoli del cortile faticano a non assopirsi, irrigiditi sull’attenti; i funzionari del nuovo governo aspettano sotto l’ombra vuota lanciata sul terreno dal tetto della casa; i polsi dello stesso prigioniero, avviluppati dalle corde, sono scivolosi di sudore e del sangue.

Sangue. Fuori posto, ma forse non poi così tanto. Di certo non è una sensazione nuova, per lui, sentirselo addosso: ne ha versato così tanto, in vita sua. Che venga dalla ferita alla spalla, quella che lo tormenta da mesi? O magari è la canapa, ad incidergli profondi solchi nella carne?

Da qualche parte dentro di sé, sente che è la seconda.
Stretto. Lo hanno legato stretto, fin troppo. Davvero temono che scappi? Che i suoi compagni lo vengano a salvare, irrompendo nello stretto riquadro sabbioso del cortile un attimo prima che la spada cada su di lui?
Un debole sorriso gli incurva le labbra. La crudeltà nel disprezzarlo, nel negargli la possibilità di suicidarsi come il samurai che non è mai stato è sensata; tanta precauzione, no.

Non si salverà.
Non verrà nessuno.

Ormai sono alla fine.

Souji, chiuso in una stanza ad appassire giorno per giorno, mentre la malattia gli corrode i polmoni e lo spirito.
Harada e Nagakura, lungo la strada che si sono scelti, a combattere e morire per gli ideali che hanno deciso di difendere.
San’nan, incapace di esporsi alla luce solare e ai loro stessi compagni, dopo che la battaglia a Koufu ha mostrato i Rasetsu per quello che sono: mostri, aberrazioni senza parte.
Saitou, occupato a convivere con il disperato, gravoso incarico di comandante delle truppe rimaste, su al nord. Ad Aizu, dove tutto sarà deciso.
Toshi-kun. Hijikata. Il demone, lo stratega. Solo.

Lui. Loro. Tutti.

Fine.

Ballano sul filo del rasoio, come l’acqua che il boia sta versando sulla lama con cui gli taglierà la testa. La sua figura proietta una lunga ombra scura a terra; là dove il kaishakunin* risulterebbe una visione pietosa, quella del carnefice non comunica altro che angoscia, amplificando l’eco di quella parola.

Fine.

Nessuno, tra i pro imperialisti,  mette in dubbio che moriranno tutti, uno per uno: piuttosto, le scommesse ruotano intorno al quando e al come.
Per quanto concerne il condannato, anche quest’ultimo punto è noto.
La pena per aver difeso la pace di Kyoto, mettendosi contro i clan Tosa, Chooshu, Satsuma e i sostenitori del mikado, è la decapitazione.


Come un comune criminale.

Il sorriso dell’uomo si allarga. Negli ultimi mesi ha trovato difficile, quasi amaro regalare ai suoi compagni la propria risata confortante… e, adesso che non ha nessuno a cui dedicarla, nessuno da tirare su di morale, gli esce stranamente facile.
Ironia della sorte.

Sarà decapitato. Come Guan Yu nel suo racconto preferito, il Romanzo dei Tre Regni, quello che suo padre gli raccontava sempre.
Quanto tempo fa?
Sembra un’ altra vita. Prima di Kyoto, prima dello Shieikan, quando lui era soltanto un bambino e i desideri che nutriva in fondo all’anima gli si presentavano come creature timide e sfuggenti che non mordevano, non facevano sanguinare il cuore ed erano invincibili.
 
Prima della rovina e della fine del loro mondo.
Prima di tutto.

D’altra parte, le leggende devono pur nascere da qualche parte, no?
Nascere e morire.

Solo ora, a un passo dall’abisso, il condannato si accorge che è tutto collegato: ogni parola dei racconti con cui è cresciuto, ognuna delle ferite che lui e i suoi capitani hanno sopportato, ogni singola goccia di sangue sparso. La disperazione, la gioia.

Tutto è unito in un unico arazzo, tutto è Sogno e Carne insieme. Lì dove esiste uno, è presente anche l’altra.
La vita dei suoi compagni è racchiusa in un cerchio che, infine, si chiude- il simbolo del seppuku, il suicidio purificatore che gli è stato proibito, e allo stesso tempo l’emblema della loro storia.

Come Sung Chiang e i suoi compagni, niente più che banditi e fuorilegge in una Cina a lungo dimenticata, sono stati decimati alla fine de “Il margine dell’acqua”, così la Shinsengumi – o quel che ne resta- marcia verso la rovina e la morte.
Così come il suo eroe prediletto nel “Romanzo dei Tre regni”, lui attende il fendente che porrà fine alla sua vita.

Non può essere una semplice coincidenza. Nulla accade per caso.
È spettrale, certo. Pauroso. Ai limiti del possibile, da un certo punto di vista.
Ma risulta anche logico, dall’altro.

È partito tutto da un sogno. Con un sogno tutto si chiude.
Resta solo un debito da saldare.

Il rintocco del gong, cupo, doloroso.
Mezzogiorno.

È ora.

Il delegato del nuovo governo si fa avanti da sotto la tettoia, impettito nella sua divisa all’occidentale.
Con la coda dell’occhio, il condannato lo sbircia:  il sole rifulge sui bottoni argentei della giacca e i capelli neri sono stati tagliati corti, pettinati in maniera ordinata; i baffi che sovrastano la bocca sottile e aspra sono ben curati e la catenella di un orologio da taschino, penzolante da una tasca del panciotto, ammicca ai raggi solari.
L’incarnazione del nuovo Stato, perfetto e trasfigurato fino ad essere irriconoscibile.

Questo non è più il mio Paese.’

«In nome dell’Imperatore, siamo qui convocati oggi per eseguire la condanna a morte di-»

Per la terza volta, il prigioniero sorride. Si è sempre dato un gran da fare per convincere tutti – sé stesso per primo- di non avere paura della morte, ma, com’è naturale, si è sempre fatto domande. Come sarebbe stato? Cos’avrebbe sentito? Dolore? Rimpianto? Rabbia?

Anche quella risposta gli si para davanti agli occhi, in questo momento, così semplice da stupirlo come un bambino davanti alla prima fioritura dei ciliegi.
Niente.

È saldo. È sereno. È calmo.

Ha fatto tutto quello che poteva. Dopo mesi di frustrazioni inutili e momenti di depressione che lo avevano consumato, riconosce questo.
Lo accetta.

Il Giappone per il quale una manciata di giovani coraggiosi ha lasciato un semplice dojo di provincia, incaricandosi di proteggere la Capitale devastata, è morto nonostante i loro sforzi, cedendo il posto a un Paese che rigetta le proprie origini, costruendo nuove basi sulle armi da fuoco e un’economia incalzante.
Non c’è altro che possano fare.

Il boia prende posizione di fianco a lui, a gambe larghe.

Per un attimo, la voce di Hijikata risuona nella mente del prigioniero.
«Questa non è più l’epoca di lance e spade».

No. Non più.
Non c’è più posto per loro. Non resta che onorare fino in fondo la propria lealtà all’ideale che li aveva mossi e uniti sotto la bandiera Makoto, e seguire l’era dei samurai nel mondo dei morti.

Kondou Isami, comandante della Shinsengumi, raddrizza le spalle e china il busto in avanti, sporgendosi sulla buca nel terreno sabbioso. Prende un respiro profondo, avvertendo l’acciaio temprato della katana graffiargli il collo mentre il suo carnefice prende la mira.

Morirà.
Ed è giusto così.

Il sogno ha dato la vita a tutti loro.
Adesso non deve far altro che restituire la vita al sogno.

*

“And so the days of the Samurai had ended. Nations, like men, it is sometimes said, have their own destiny. ò
(…)But I like to think he may have at last found some small measure of peace, that we all seek, and few of us ever find.”


“ E così finirono i giorni dei Samurai. Le nazioni, è detto di tanto in tanto, hanno il loro destino, così come lo hanno gli uomini.
Ma a me piace pensare che lui abbia trovato, infine, quella piccola misura di pace che tutti noi cerchiamo, e pochi di noi mai troveranno…”


Simon Graham, “The Last Samurai”


#

Nota dell'autrice:

Kondou Isami fu giustiziato nel 1868, il 25 Aprile del calendario lunare. Non è il primo e non sarà l'ultimo uomo di una Shinsengumi ormai sul sentiero della rovina a morire, ma senz'altro uno di quelli che fu ricordato.
Non tanto per l'ignomigna della sua esecuzione, quanto per il sogno della Makoto.
E per la statua che Shinpachi e Saitou fecero costruire quando il nuovo governo Meiji "perdonò" i sostenitori vinti del Bakufu e acconsentì a ricordarli come eroi.

Avevo detto che avrei aggiornato in tempi lunghi, ma dato che come ha fatto giustamente notare Ellie_x3 nella sua recensione il prologo non ha nulla di mio, se non la nota, mi pareva giusto far seguire la prima shot piuttosto velocemente così da rimediare.
So, eccomi qui. Spero che questo capitolo non sia una schifezza, e che sia riuscita a trasmettervi se non altro una piccola parte di quello che volevo.

Musiche: The Chairman Waltz, Memories of a Geisha; Way of Life, The Last Samurai.
*Kaishakunin: addetto alla decapitazione durante il seppuku, solitamente l'amico più stretto del suicida; entrava in azione nel caso il colpo all'addome non fosse stato mortale, e per assicurare che il volto del defunto non assumesse smorfie grottesche.
*Romanzo dei Tre regni: traduzione di uno dei grandi classici cinesi, il cui protagonista, Guan Yu, subisce una sorte speculare a quella di Kondou. Uno dei romanzi preferiti del comandante.
*Il confine dell'acqua: traduzione di un altro grande classico cinese, incentrato su una banda di fuorilegge, e altro punto d'ispirazione per Kondou. La loro sorte è inquietantemente simile a quella della Shinsengumi reale.

Come al solito ringrazio chi ha commentato, chi ha inserito tra le preferite\seguite e chi ha letto e basta <3. Ci rivediamo alla prossima shot.

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Capitolo 3
*** (Carry me to Heaven's arms, light the way and let me go) - Capitolo Autonomo ***


03. (Carry me to heaven's arms
Light the way and let me go)

One loss, one fight locked me in the heart of misery

*


[Cold light above us
Hope fills the heart
And fades away
Skin white as winter
As the sky returns to grey

Days go on forever
But I have not left your side
We can chase the dark together
If you go then so will I]

Breaking Benjamin, Anthem of the Angels


*

Tempo scaduto.

«S- Sano?»

«Shh, baka. Non parlare. Non sforzarti. Il medico sarà qui a minuti».
La prospettiva è talmente irreale da sembrare quasi divertente, paradossale.  Specie contando il fatto che è Harada Sanosuke a spiattellarla. Quello che non ha peli sulla lingua. Quello che se stai morendo te lo dice.
Se solo avesse ancora fiato per farlo e lo stomaco con gli facesse così dannatamente male, riderebbe. Se solo non avesse una paura fottuta e si vergognasse di sé stesso come un cane.
Le parole spingono per uscirgli di bocca, tremanti.
«Male…fa male…».
«Resta giù. Shhh, stai calmo. Ora passa. Stai calmo».
«Non…voglio…morire».
Mani scostano la stoffa sul suo petto. Comprimono la ferita. Le conosce a memoria: sono quelle che per anni hanno scompigliato i suoi capelli, bloccato i suoi pugni e stretto la lancia quando hanno combattuto insieme.
«Stai zitto, Heisuke. Zitto».

Heisuke si sente pungere gli occhi dalla frustrazione.
Ha ventidue anni, sta per morire ed è terrorizzato.
Illuso.
E dire che era convinto che avrebbe smesso di avere paura. Che al momento di andarsene sarebbe stato forte.


Quando la spada gli è affondata nella schiena, la sua paura è semplicemente esplosa.

Un passo indietro. Mentre Sano schiaccia la ferita con una mano e con l’altra gli sorregge fermamente la nuca, immagini confuse ballano davanti agli occhi del capitano.
Bagliore. Buio. Un ricordo, bloccata in un attimo di eternità come una scena di teatro kabuki.

Un brivido di freddo. Subito dopo, un torrente umido. Caldo come non l’ha più sentito, da quando l’Ochimizu gli ha bruciato le viscere e l’ha lasciato traboccante di cenere e della sua umanità arsa, consumata, sparita.
Ancora freddo. È concentrato in un unico punto.
E quella consapevolezza gli balla in testa. Sempre più forte.

Sì. Hai una spada conficcata nel petto. Lo sterno e l’attacco di tre costole sono stati spezzati dalla lama temprata, come bastoncini di zucchero. Non è un miracolo, il fatto che la katana ti abbia mancato il cuore di un soffio – è solo guidata da una mano inesperta, una mano che trema, facendo sussultare l’acciaio nella ferita come fosse un animale in trappola.

Una mano familiare.

«Sei morto, bastardo» mormora, al suo orecchio, una voce. Giovane, strozzata dalla tensione.
La riconosce.
Appartiene a un soldato dell’ex-ottava unità. La sua.

Deglutisce. Il sangue gli riempie la bocca.
Vorrebbe gridare.

Sono io!

Tutto questo non ha senso. È un errore.
È uno scherzo della sorte, ed è dannatamente crudele.

La lama gira e abbandona il suo corpo. Il ningen dietro di lui punta un ginocchio contro la sua schiena e spinge. Lo fa cadere carponi e poi chinare in avanti.
Una parte di lui ripete, a disco rotto, che non è giusto – non era pronto, non aveva nemmeno sguainato la spada, non era in guardia, rifare rifare rifare…
L’altra gli dice che, ormai, è troppo tardi.
L’unica volta in cui non era preparato a prendere parte al gioco, ha perso.

Gli manca l’aria. Si affloscia in avanti. Vomita. Il terreno si macchia di rosso. Il suo cervello si spegne, soffocando in un colpo solo.
Poco prima che il buio lo assalga, il grido d’orrore dell’altro gli dice che il soldato, all’improvviso,  si è accorto di aver appena ucciso Todou Heisuke della Shinsengumi, ex-capitano, seguace di Ito Kashitaro.

Poi, più nulla. Per un tempo infinito, Heisuke  non sente, non vede, non parla. Non vive. Assaggia l’oblio e si divincola nella  sua morsa, terrorizzato. Disperato.

Infine.
Svegliarsi al suono di una voce che lo chiama.
Vedere il volto teso e pallido di Harada sospeso sopra di lui.
E la debole illusione che fosse tutto un sogno – solo uno dei peggiori che ha avuto in questi mesi – è andata in pezzi.

«Kondou-san… mi aveva…lasciato andare…» sussurra Heisuke. Il volto di Sano si contrae in una smorfia. Il lanciere si scosta una ciocca di capelli dagli occhi. Si lascia uno sbaffo rosso scuro sulla fronte e sul naso.
«È così,” soffia, «aveva dato ordine di non toccarti».
«Allora…perché…?»
Gli occhi ambra sopra di lui sono torbidi, scuri di sofferenza. Sano non risponde.

Allora non mi hanno perdonato.
Era tutto un bluff…? Una trappola?

Questa non è la salvezza. Questo è solo un risveglio, l’ultimo, prima di ricadere nel buio e, stavolta, restarci.
Heisuke rabbrividisce; si focalizza sulla lanterna appoggiata per terra, circonfusa di luce. Tenta di memorizzarne il calore, lo splendore nella notte fredda, anche se sa che non servirà a niente. Che tutto terminerà nel nulla. Che sarà lui stesso parte di quel nulla.

L’urgenza gli preme in gola, insieme a un dolore che non ha mai provato prima. Una rabbia che in vita sua non ha mai sperimentato.
Ha preso parte a più inganni di quanti possa ricordare.
Ma non ha mai, mai pensato che quelli che considerava amici potessero tradirlo.

Non è giusto.

«Sano…Sano…»
«Tieni duro ancora un po’.  Shinpachi è andato a chiamare il medico. Tieni duro».
Suona così disperato che stavolta Heisuke abbozza una risata. Il suono che gli sfugge di bocca sembra quello dell’acqua calda in una teiera – un cupo gorgoglio, terribile, profondo, definitivo.
Il medico. In una strada in cui si è appena svolto un omicidio. Il corpo di Ito si sta raffreddando a meno di due metri da loro e Harada sta lottando per fermare l’emorragia, tenendolo ancorato alla realtà.
«No… Sano…ascoltami» implora. Mille altre parole gli si accalcano nella mente: potrebbe non avere abbastanza tempo per dirle tutte. «Devi…andartene…»
«Ito è morto, Heisuke. Non c’è…» Sanosuke deglutisce. «Tutti i suoi sono stati dispersi. Non c’è pericolo».

«No». La presa sulla stoffa rigida scivola via. Harada gli afferra la mano e gliela strizza con tanta forza da fargli male. Heisuke accoglie la fitta e il calore del palmo calloso con sollievo. Si appiglia con tutta la sua forza, ricambiando la stretta. «No» ripete, «Tu…vattene e lasciami qui…Non ho alcun diritto di- ti metterai nei guai…»

«Che diavolo stai dicendo?» latra Sano. Sa che vorrebbe scuoterlo ma non osa. Lo vede lanciarsi un’occhiata alle spalle. «DOV’É QUEL MALEDETTO MEDICO?!»
«Nagakura-san sta arrivando, capitano-»
«Non basta. Non basta! Serve ora!» La collera che gli vena la voce nasconde qualcos’altro. Harada inghiotte il magone.
Accorrono. Altre mani che lo toccano, che premono e tentano di chiudere lo squarcio attraverso cui scappa il suo respiro. Harada si sfila l’uniforme, l’appallottola e gliela schiaccia sulla ferita. A Heisuke scappa un gemito dolorante.
«Shh, shhh. Non è niente. Andrà tutto bene».
Heisuke gli pianta le unghie nel dorso della mano. Forte, finché non è più sicuro che il sangue che gli inumidisce le dita sia solo il suo.

«Perché…non mi avete…ucciso subito?»

Harada sgrana gli occhi.
«Cosa…?»
Ha poco tempo. Troppo poco. È terrorizzato dall’idea di non avere abbastanza respiro per finire. La vergogna gli si gonfia in petto, poi esplode.

«Me ne stavo andando.» Si costringe a guardare il capitano dritto negli occhi mentre lo dice. «Stavo andando…contro…il codice. Stavo… scappando…Kondou-san mi aveva…lasciato…andare… perché allora…?»
Non riesce a finire. Gli manca il fiato. Ma è sufficiente.  Le iridi di Sano si appannano.
«È stato un errore» lo prende per le spalle, lo scuote. «Heisuke! Non ti azzardare a svenire. Ascoltami! È stato uno sbaglio, un idiota che non ha sentito l’ordine, ma non- nessuno di noi avrebbe potuto- »

Sollievo. Una bolla di sangue gli si gonfia tra le labbra. Ora ne è certo: ha un polmone bucato.
Prende fiato. È come essere trafitti di nuovo, ma lo fa lo stesso.
Sollievo.
Vuole chiedere scusa.
Un milione di volte scusa per ogni volta che si è lanciato in battaglia senza aspettare, per ogni volta che si è comportato da ingenuo, per ogni volta che ha causato problemi. Per star morendo da fifone, non da uomo, per aver infranto il codice.
Per aver dubitato di loro.
Dei suoi due migliori amici.


«Sono un codardo» Le palpebre gli scivolano verso il basso. Sente le mani di Sano prendergli il viso, una per lato, calde, fradice di sangue, scostargli i capelli dalla fronte madida.
«No. No.»
«Ho avuto paura».
«Shh. Basta adesso. Non parlare. Ti riporteremo a Mibu».
«Capitano-»
«Dov’è il medico
Silenzio. Troppo lungo.
«Capitano…»
Sano. Ti tremano le mani.
«C’è troppo sangue. Non possiamo fare più niente».
«Il medico…Shinpachi…»
«Non faranno in tempo. La ferita è troppo profonda. Non c’è più niente da fare».

Il mondo gli collassa intorno ed Heisuke si arrende. Basta. Basta paura. Basta tutto. Non importa più nulla: il peso che gli è gravato addosso fino ad ora non c’è più.
Harada lo solleva. Se lo stringe al petto, come farebbe con un bambino. Nei suoi occhi, Heisuke legge che non doveva finire in questo modo.
 «No. Non così. Non adesso. Non tu…dannazione, non tu, Heisuke, ti prego...»
Qualcosa gli bagna le ciglia. Per un attimo si chiede se stia cominciando a piovere.

Ma il cielo era sereno…oh.
Oh.

È la prima volta che vede Sano piangere.
«Se ti azzardi a morire…Se ti azzardi a morire sanno gli dei che cosa ti faccio…»
Heisuke sorride.
La luce si spegne. Non vede più quasi nulla.
«Heisuke. Heisuke!»

Non fa più nemmeno freddo.
Sta bene, annidato tra le braccia del suo amico. Il suo corpo è tiepido. Pesante. Lontano.

«Heisuke! Heisuke apri gli occhi guardami».
«Va bene così», sussurra Todou. La voce gli rimane bloccata in gola. Può sentire il cuore dell’amico, il battito sicuro. Il suo è ridotto ad uno sfarfallio. «Davvero. Va bene così».
Va bene così-
«HEISUKE. No. NO!»

Ora può. Ora si lascia andare.
Illumina la strada.
Sono pronto.

Tutto tace.

*

Evey: [reading inscription on mirror] Vi Veri Veniversum Vivus Vici...
V: "By the power of truth I, while living, have conquered the universe".
Evey: Personal motto?
V: From Faust.
Evey: That's about trying to cheat the devil, isn't it?
V: It is.

But there’s nothing wrong with me, this is how I’m supposed to be
In the land of make-believe that don’t believe in me

Evey (leggendo l’iscrizione sullo specchio): Vi Veri Veniversum Vivus Vici…
V: “Con la forza della verità, in vita, ho conquistato l’universo”
Evey: Il tuo motto personale?
V: Da Faust.
Evey: È quello in cui si parla di come ingannare il diavolo, vero?
V: Esatto.

Ma non c’è nulla di sbagliato in me, così è come dovrei essere
Nella terra di “esprimi un desiderio”
che non crede in me

-    Evey and V from V per Vendetta
&
- Green Day, Jesus of Suburbia



N\A:

Come già specificato nell'entry che ho pubblicato sul mio livejournal - linkata nel prologo della storia - questa è l'ultima shot di Dear Agony che verrà pubblicata. La shot era pronta da molto tempo, al contrario di altre, ma non è stato questo il motivo che mi ha spinta a metterla on - line.
Come ho detto nel post, lo devo. A Heisuke, che è morto oggi perchè uno stupido idiota non ha ascoltato l'ordine di non sparare di Shinpachi (Kudos a Ellie_x3 per la correzione) e l'ha ucciso come ogni altro uomo di Itou, nonostante il capitano (Kudos x2 D: orrore immane! avesse dato ordine di risparmiarlo.
E al nonno, che l'ha preceduto di un giorno, un anno fa.
Non volevo mettere su un messaggio di addio. Sarebbe stupido, perché non sono pronta per dirgli addio del tutto. E perché sto lavorando per lui, ed è un work in progress che occuperà un tempo indefinito. Fino ad allora, comunque, non credo che mollerò la presa. Poi forse sì. Forse.
Nel frattempo, questo è per non dimenticare.
Quando vi dicono che smetterà di fare male, non credeteci: è una balla. La più grossa balla che possano rifilarvi.

Rejoicing the day,
Kei

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