Finalmente a casa

di Slytherin Nikla
(/viewuser.php?uid=12394)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ritorno a Washington ***
Capitolo 2: *** ricordi&tormenti ***
Capitolo 3: *** Lui. ***
Capitolo 4: *** Discussioni ***
Capitolo 5: *** Ospitalità ***
Capitolo 6: *** Casa ***
Capitolo 7: *** Gibbs non ti porta mai a cena per caso ***
Capitolo 8: *** Brutte notizie? ***
Capitolo 9: *** Il Whisky può provocare effetti collaterali ***
Capitolo 10: *** Un altro. ***
Capitolo 11: *** Telefoni... ***
Capitolo 12: *** Visite ***
Capitolo 13: *** Casalinghe anni'50 e passi falsi ***
Capitolo 14: *** L'emulo ***
Capitolo 15: *** Calvin Moriarty ***
Capitolo 16: *** Punti di contatto ***
Capitolo 17: *** Latte, biscotti, bruciature e momenti di lucidità ***
Capitolo 18: *** Un'amica telepatica ***
Capitolo 19: *** L.J. Gibbs ***
Capitolo 20: *** Carson ***
Capitolo 21: *** Bethesda ***
Capitolo 22: *** Un sorriso ***
Capitolo 23: *** Ho davvero rischiato di morire? ***
Capitolo 24: *** Rule 12: un'altra possibilità ***
Capitolo 25: *** Un elemento come si deve ***
Capitolo 26: *** Degli ostacoli, e del come rimuoverli ***



Capitolo 1
*** ritorno a Washington ***


Sospirai profondamente, contemplando il display dell’ascensore. Il prossimo sarebbe stato il mio piano. Oh Signore aiutami. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevo messo piede lì dentro… Chissà come avrebbero reagito al mio arrivo. Dubitavo seriamente che qualcuno potesse averli avvertiti…

Ero partita da New York in gran segreto, all’oscuro di tutti: il mio clamoroso errore con quello che la stampa aveva chiamato “il killer filosofo” bruciava ancora da morire, e nonostante i miei colleghi – se di colleghi potevo parlare, io che in polizia ero entrata per l’eroica morte di mio padre anni prima e la mia straordinaria esperienza accumulata al fianco di uno zio poliziotto, invece che seguendo l’Accademia come tutti gli altri – non smettessero di ricordarmelo (“quando cadono gli dei”, diceva la mia insegnante di letteratura tanti anni prima, “gli uomini ridono sempre più a lungo di quanto non facciano per uno di loro”), le persone a cui tenevo non ne sapevano nulla o quasi.

E di sicuro a mio zio non avevo detto dove fossi diretta!

Così ero partita, di punto in bianco, ma non per una vacanza: un periodo intensivo agli ordini di Leroy Jethro Gibbs era ciò di cui avevo più bisogno per riprendere contatto con le mie risorse investigative, ma certo era un’esperienza tutt’altro che facile…

Ecco, appunto. Maledette riflessioni. Mi trovai sputata fuori dall’ascensore in un momento di totale marasma nell’ufficio, con agenti che saettavano a destra e a manca e Gibbs che dispensava scappellotti alla sua squadra come caramelle.

Mi schiarii la voce.

« Certe cose non cambiano mai, vedo »

« Che cosa… Chris! » Negli occhi color cielo dell’agente speciale Gibbs le mie preoccupazioni svanirono. Come avevo potuto, solo qualche minuto prima, temere tanto il momento in cui le porte dell’ascensore si sarebbero aperte? Ero a casa. Molto più di quanto non ci fossi stata nell’ultimo anno a New York.

All’NCIS avevo lasciato mente e cuore, e solo ora me ne rendevo conto. Mi strinsi nelle spalle.

« Buongiorno, agente speciale Gibbs. Tony… Timothy… » Cercai con gli occhi Kate, e un’onda di tristezza mi invase. Già. Kate. Jethro, da maestro e mentore quale sempre era stato per me, intuì il mio momento di vertigine e mi venne incontro, presentandomi una ragazza dai tratti inconfondibilmente mediterranei con grandi occhi neri e un’espressione dura sul viso.

« Questa è Ziva David, Chris. Agente del Mossad, momentaneamente assegnato alla nostra squadra ». Le strinsi la mano con ammirazione: il Mossad! Decisamente non doveva essere una alle prime armi. Ma dopo le presentazioni, Gibbs – sempre sfruttando il potere psicologico che poteva vantare su di me – passò alla parte meno piacevole. « Perché sei qui? »

Forse arrossii, ma strinsi i denti per non lasciar trasparire i problemi che avevo sperato di poter lasciare a New York. Se avessi detto una sola parola per farmi compatire, avrei dimostrato che l’addestramento di Jethro non mi era servito a niente.

« Avevo un sacco di ferie arretrate. E come sai, non sono capace di riposarmi ».

« Dovrai chiedere al direttore Shepard, se vuoi collaborare con noi da agente operativo » mi fece presente Di Nozzo, con un sorriso sornione. Glielo contraccambiai: quei nostri scambi di “gentilezze” erano una delle cose che più mi mancavano a New York.

« Se pensi di farmi fare la figura della stupida, agente Di Nozzo, caschi male… Jenny sa del mio arrivo già da un po’ ». Poi, notando lo sguardo assassino di Gibbs, mi affrettai ad aggiungere « Le ho chiesto io di non dirti niente. Volevo che fosse una sorpresa… »

 

Per tutta la giornata lavorai con la squadra di Gibbs come se nulla fosse cambiato: gli scherzi di Tony, la sintonia con McGee, la durezza del mio maestro… Solo con l’agente David le cose erano più dure del previsto, e forse per colpa di entrambe. Non mi piacevano i suoi modi spigolosi. E probabilmente lei non gradiva i miei.

A sera ero letteralmente esausta: quei ritmi erano così diversi da quelli cui ero abituata… Senza contare che da secoli ormai non mettevo più le mani su un caso di violenza non immediata. Il corpo, a quanto mi aveva detto Tim, era ormai ridotto al solo scheletro e sembrava che la morte risalisse ad almeno quattro o cinque anni prima…

Ero stesa sul divano, in un appartamento concessomi in affitto dall’Agenzia, quando quel particolare mi tornò alla mente. Sempre che di “particolare” si possa parlare riferendosi ad un cadavere, s’intende. Un corpo da analizzare mi portava in una sola direzione. L’unico della squadra che ancora non avevo salutato.

« Pronto? » Una voce di donna anziana mi raggiunse dall’altro capo del telefono. Sorrisi.

« Buonasera, signora Mallard… Cercavo suo figlio ». Alle mie parole fece eco una risatina vacua.

« Glielo chiamo subito. DONALD! » Allontanai istintivamente il ricevitore « LA TUA AMANTE AL TELEFONO! »

Un attimo dopo percepii dei passi, e la voce del medico legale migliore del mondo che richiamava sua madre per la “sgarbatezza” delle sue parole.

« Prima di tutto, chiunque sia, le chiedo scusa per… »

« Figurarsi. Lo sai che adoro tua madre » Seguì un lungo istante di silenzio.

« Non ci credo, non puoi essere tu… » Chiusi gli occhi e inspirai, come se lui potesse vedere il mio gesto di impazienza.

« E allora chi dovrei essere, dottor Mallard? La tua amante per davvero? »

« Christine! Mio Dio, che sorpresa… »

« Volevo scusarmi. Non ho avuto occasione di venirti a salutare, oggi, e… »

« Sei a Washington? »

« Mi sembra evidente ».

 

La conversazione al telefono durò parecchio, come al solito. E tuttavia l’indomani mattina la prima cosa che feci fu scendere in sala autopsie per salutare il mio amico di persona. Mi era sempre stato difficile spiegare in termini concreti il rapporto che mi legava a Donald Mallard, eppure potevo senza dubbio affermare che lui era la persona cui tenessi di più al mondo… E il suo abbraccio affettuoso, in quel regno di tavoli d’acciaio e seghe Stryker, costituiva pure sempre il miglior modo di iniziare una giornata.

« Ti andrebbe di lavorare un po’ con me come ai vecchi tempi, Christine? » Nemmeno a dirlo accettai. Era stato il mio insegnante, al corso integrativo di Medicina Legale, e forse lui era l’unica persona in grado di contendersi da pari a pari la mia attenzione con Gibbs.

L’assistente di Ducky a quanto pareva non apprezzava più di tanto la mia presenza, invece. I suoi sguardi obliqui e incuriositi mi infastidivano, ma me ne ero andata da New York per non farmi prendere dalle paranoie e non intendevo certo ricominciare adesso…

« Sei qui da due giorni, e non sei venuta da me? » Mi voltai di scatto. Dio del cielo, Abby! Mi ero dimenticata di lei… Un terribile errore.

« Ero tanto stanca, Abby… » Tentai, arrampicandomi sugli specchi. « E lo sai, per venirti a trovare devo essere in gran forma! Pranzi con me, oggi, vero? » Osservai compiaciuta l’espressione di infantile disappunto sparire dal suo viso e trasformarsi in un sorriso raggiante.

« Naturalmente! » Quindi la mia amica rivolse uno sguardo truce all’assistente del patologo, con l’aria di chi lo fa molto spesso. « E tu piantala di fare quella faccia, Jimmy! Chris è l’alunna preferita di Ducky! », concluse, come se quella notazione potesse metter fine all’astio di chiunque nei miei confronti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ricordi&tormenti ***


« Allora, Christine… » esordì il patologo, quasi in sordina, all’inizio della nostra pausa di relax « Non credi che forse parlare di quanto successo a New York potrebbe farti bene? »

Quella frase mi colse del tutto alla sprovvista: mi ero premurata di fare tutto il possibile e anche di più affinché nessuno dei miei amici a Washington scoprisse il vero motivo del mio ritorno, e scoprire che non era servito a nulla, trovarmi un’altra volta davanti a ciò che avevo creduto di poter lasciare a chilometri di distanza, fu un duro colpo. Senza contare, poi, che ho sempre odiato dover fare, più del necessario, i conti con i miei fallimenti, in particolar modo quando essi sono pubblici. L’errata – o almeno, questo era quanto aveva dichiarato il tribunale – identificazione di quello che la stampa aveva chiamato “killer filosofo” per le pagine stracciate che lasciava sul luogo dei propri crimini, e il proscioglimento del mio arrestato, appartenevano in maniera più che vistosa ad entrambe le categorie, quindi di conseguenza l’idea di parlarne era fuori discussione.

« No », risposi, asciutta, riafferrando al volo la teiera che chissà come Ducky conservava da anni, intatta e senza un graffio, in sala autopsie, e che quel suo tentativo di approccio al mio problema mi aveva fatto scivolare tra le mani rischiando di vanificare tutte le sue fatiche.

« È umano, sai, commettere degli errori ». Non posso dire che quella garbata insistenza mi avesse sorpreso: conoscevo Donald Mallard da abbastanza tempo per sapere che non si sarebbe mai arreso di fronte ad una qualsiasi variante sul tema “non mi va di parlarne, davvero”, quindi scelsi un decoroso – almeno tale mi sembrò, lì per lì – silenzio. Mi dedicai con grande impegno e serietà a versare l’acqua sulla mia bustina di tè, fingendo per quanto mi era possibile di non aver sentito. « Abigail ci ha messo meno di un’ora, a scovare nella sua rete cibernetica che cosa non andava nella tua storia ».

Incredula, guardai materializzarsi davanti a me una via d’uscita, lastricata d’oro. Un binomio infallibile: Indignazione e Risentimento.

« Mi avete spiata? »

D’accordo, ammetto di essermi sentita in colpa di fronte allo sguardo mortificato di quell’uomo meraviglioso.

« Cerca di capire, eravamo preoccupati. Non è da te, arrivare qui con la prospettiva di restare qualche mese e avvisare della cosa soltanto il direttore e non gli amici… Perché quando è successo non mi hai chiamato, Christine? » Adoravo il tono affettuoso con cui Ducky sapeva pronunciare il mio nome, e tanto bastò a far salire le lacrime. Il risentimento, l’irritazione erano scomparsi, lasciando il posto ad un fortissimo desiderio – piuttosto infantile – di lasciarmi finalmente consolare.

« Perché la nostalgia era già troppo forte », ammisi. « Sarebbe stato troppo duro, sentire la tua voce al telefono e averti così lontano ».

Ho sempre ammirato la capacità di Ducky di commuoversi senza vergognarsene. Mio zio non ne era mai stato in grado, e men che meno poi poteva essere un esempio di sensibilità e disponibilità alla commozione Jethro Gibbs… Un velo umido e sottile invece era apparso negli occhi del mio più caro amico, confermandomi nella convinzione che gli uomini come Donald Mallard dovrebbero essere clonati per il bene dell’umanità.

« Sarei venuto a New York immediatamente, se mi avessi avvertito dell’accaduto. Non avresti avuto nemmeno bisogno di chiedermelo ». Lo guardai, riconoscente, mentre il mio cuore minacciava di scoppiare per il cortocircuito emotivo che vi si era innescato: frustrazione e fallimento per i ricordi tornati a galla, gratitudine e sconfinato affetto verso quell’amico davvero più unico che raro… « Quindi è per questo, che non chiamavi più » proseguì lui, assorto. Mi limitai a sospirare, e lui  ne parve molto afflitto. « Che cosa temevi? Che ti avremmo giudicato? » Fece una brevissima pausa, salvo poi concludere, con un’espressione triste in viso « Che io avrei potuto farlo? »

Senza che neppure me ne rendessi conto mi sfuggì una lacrima. Donald Mallard mi si fece accanto, a suo agio nella tuta di plastica blu come riusciva ad esserlo nei suoi impeccabili abiti da gentleman di rango, e mi sfiorò una guancia fino a farmi alzare il viso verso di lui.

« Oh, tesoro, che momenti brutti devi avere passato… »

Mi ritrovai stretta tra le sue braccia, piangendo come una sciocca ragazzina. Ho detto in precedenza che Ducky è sempre stato la sola persona in grado di contendersi da pari a pari con Gibbs la mia attenzione, ma credo che il sorpasso che tanto ha sconvolto le nostre vite sia iniziato proprio allora, nella fredda sala autopsie, mentre il nostro tè si raffreddava ormai dimenticato su un carrello d’acciaio per i ferri chirurgici. Quel pomeriggio irreale in cui ero rimasta immobile per non so nemmeno quanto tempo, a singhiozzare abbracciata al più geniale dei miei insegnanti, mentre qualcosa di irrimediabile e irrevocabile cambiava dentro di  me. Non me ne accorsi, allora, ma la mia vita aveva appena iniziato a capovolgersi.

Gli parlai di New York, del mio fallimento di cui ancora non riuscivo a darmi spiegazione, degli sguardi ad un tempo compassionevoli e segretamente soddisfatti dei miei colleghi… Tutto. Comprese le illusioni infrante e lo sconforto feroce. Donald ascoltava. Donald capiva. Come sempre, come ogni cosa. Poi mi mandò a fare una doccia, intimandomi pur con il consueto garbo di prepararmi per una cena elegante, e nonostante le mie proteste alla fine l’ebbe vinta. Quando la sua vecchia, adorabile Morgan si fermò, unica nel vasto parcheggio deserto, scossi la testa incredula: come avevo potuto dimenticarlo? Per curare un’anima malinconica non c’era miglior rimedio di una cena raffinata nei sotterranei privati di un museo!

 

Rientrai nel mio appartamento quasi quattro ore più tardi, col cuore più leggero ma sovrastata da un vago senso di malinconia: com’era possibile quell’amicizia tanto profonda, quel rapporto di ineffabile tenerezza, quando a New York non avevo una sola persona che potessi chiamare davvero amica? Sprofondai nel divano senza cambiarmi d’abito, passando mentalmente in rassegna volti e nomi di persone presenti nella mia vita da sempre. Conoscenti, nella migliore delle ipotesi. Presenze transeunti, nella maggior parte dei casi. Meteore e niente più.

Mi sentii triste.

Costrinsi il mio corpo a riemergere dal divano contro la sua volontà e mi diressi in cucina, dove, sul pensile più alto e in una scatola di metallo che faticava ad aprirsi – qualsiasi cosa, per combattere una tentazione – avevo depositato al mio arrivo l’àncora dei brutti momenti. Ero ancora in piedi sulla sedia quando squillò il telefono, ma non mi diedi certo la briga di rispondere; dopo la serata con Ducky, dopo quell’accesso di sconforto, la possibilità di parlare con chicchessia era categoricamente fuori discussione.

« Chris, sei in casa? » Abby. « Dai, Chris… Mi sento stupida quando parlo con la segreteria ». Silenzio, forse per darmi il tempo di raggiungere l’apparecchio, ma non me ne curai. Scesi dalla sedia, aprii la scatola con le unghie e spensi la luce. « Ah, non ci sei davvero. Bene… Ecco, io volevo… Immagino che Ducky ti abbia detto quello che…Sì, insomma, lo sai…» Pausa, di nuovo lunga, ma questa volta mi parve imbarazzata. Tornai al divano e mi sedetti a gambe incrociate. Davanti a me, il pacchetto di sigarette che mi portavo dietro nonostante non fumassi da tre mesi mi fissava con insistenza. « Volevo scusarmi. Ma eravamo preoccupati, e così ne abbiamo parlato…E così Gibbs mi ha chiesto di trovare delle risposte, e così io… » Piantala con questi “e così”, Abby. La fiamma dell’accendino si rivelò, come previsto, incredibilmente rassicurante.

 

Le porte dell’ascensore avevano fatto a malapena in tempo ad aprirsi di qualche centimetro che subito si richiusero alla svelta dopo che una massa indistinta – un corpo, e subito individuai di chi – mi aveva quasi travolto nel fare il proprio frettoloso ingresso. La corrente si interruppe.

« Prevedibile, Gibbs »

« Non si può dire altrettanto del tuo comportamento ». Mi limitai ad un’alzata di spalle: tentare di protestare, o peggio di giustificarmi, con Gibbs sarebbe stato oltremodo stupido. « Tutti facciamo degli errori ».

« Io non ho sbagliato! », gli gridai, cosa che avevo desiderato fare sin dal primo istante di quell’incubo iniziato a New York venti giorni prima. Avevo colpito con forza la parete metallica, che reagì con impassibilità al mio gesto esasperato e furente.

« Stavo parlando dei tuoi colleghi. E del giudice » aveva proseguito con calma, senza scomporsi di un millimetro di fronte alla mia reazione.

« Ah. Scusa, Jethro, io… »

« Mai scusarsi. Quella stupida città ti ha proprio indebolito, Chris: per questo loro hanno vinto, e tu sei scappata »

« Non – sono – scappata »

« Non hai detto ad anima viva dove stavi andando. Sei venuta qui avvisando soltanto il direttore. Hai nascosto a tutti quanti l’esito del caso che credi ti abbia distrutto. Posso continuare l’elenco, se vuoi… »

« Lascia perdere ». Mi limitai a quelle parole per poi rifugiarmi nel silenzio, che in quei giorni sembrava esser diventato il mio sport preferito, ma ancora una volta quel mio mutismo che tanto mi sembrava eroico non diede cenno di avere la minima presa. Dopo Ducky, Gibbs.

« Tu hai mollato, Christine ».

Mi colpì molto che avesse scelto di usare il mio nome per esteso: da sempre ero soltanto “Chris”, per tutti eccetto che per Ducky, ed era strano che Gibbs si fosse comportato così… Ma ciò non toglieva affatto che il suono di quelle parole era orribile.

« Non mi pare che tua abbia fatto diversamente » replicai, dura e velenosa; Leroy Jethro Gibbs mi rivolse un sorriso vago.

« Concesso. Ma come vedi sono tornato indietro… »

« Be’, sta’ pur certo che io non lo farò! »

Per un attimo credetti di essermi guadagnata uno scappellotto, ma alla fine il mio storico maestro – mosso da una delicatezza che ancora non potevo capire – lasciò correre.

« Se il senso di questa frase è “Non tornerò a lavorare a New York”, posso essere d’accordo. Se invece è “Non intendo riaprire quel maledetto caso”, mi dispiace, ma dovrò proprio darti lo scappellotto che meritavi prima. Più un altro »

« Non avrei ragione di riaprire quel caso, Gibbs, ormai il mio indiziato è stato assolto e per la stampa sono nient’altro che una raccomandata che ha fatto strada solo per un cognome importante e un padre morto sul campo da poliziotto modello ».

Gli occhi meravigliosamente blu dell’uomo davanti a me ammiccarono, mentre riattivava la corrente dell’ascensore e le porte scorrevoli si aprivano sull’open space dell’ufficio.

« Non sei una raccomandata e lo sanno tutti, altrimenti non saresti sopravvissuta con me. Quanto al riaprire il caso… » Sorriso abbagliante, uno di quelli che spiegava senza la minima fatica come avesse fatto a collezionare ben quattro matrimoni, più Jen e chissà quante altre. « Temo proprio che non potrai fare altrimenti ».

Sul grande monitor davanti a me, il corpo senza vita di un sottotenente giaceva scomposto sull’asfalto, in mezzo ad una pozza di sangue, e decine di fogli di carta appallottolati erano disposti a ventaglio tutt’intorno. La schiena mi si coprì di sudore gelato.

« Kant », si limitò ad informarmi McGee, facendo scivolare verso di me una sedia perché potessi riavermi dallo choc.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Lui. ***


momentaneous

 

 

 

Non credevo ai miei occhi. La disposizione del corpo, la carta appallottolata, quelle frasi maledette... Era il mio uomo, ne ero praticamente sicura. Avrei riconosciuto il suo stile fra mille altri.

« È lui ». Gibbs si limitò a guardarmi, indecifrabile come solo lui in certi momenti sa essere. Ma fu Tony a dar voce al suo pensiero, e in un certo senso un poco anche al mio.

« Perché si sarebbe spostato, Chris? Hai detto che non ha mai colpito fuori da New York ». Scossi la testa senza però distogliere gli occhi dallo schermo. L'undicesima vittima che chiedeva giustizia. Che mi accusava, muta, di non averla salvata.

« Non lo so, Di Nozzo. Davvero non lo so »

« Potrebbe aver saputo che sei qui », propose McGee, ma oggettivamente mi mancò il tempo di valutare quella ipotesi. L'agente David aveva incalzato subito, in tono scettico

« Potrebbe non essere lui ». Mi voltai piano, senza dire una parola. Il mio istinto diceva che si trattava di lui, ed ero certa di non sbagliare, eppure...

« Un emulo, Ziva? » Gibbs si stava informando con freddezza e calma, come aveva insegnato a fare anche a me... Ma per quale motivo io non ci ero riuscita? Perché mi sembrava così difficile, prendere come una semplice questione di logica quella domanda?

« Non credo. No » avevo risposto con sicurezza. Ma si trattava di un'arma a doppio taglio, perché ora la domanda peggiore era solo questione di secondi.

« E come lo sai? » L'atteggiamento di scostante superiorità dell'agente David mi indisponeva, ma per il quieto vivere necessario alla mia salute mentale preferii soprassedere. Le riservai il tempo di un'occhiata neutra, ignorando non senza fatica la sua – legittima, ma irritante – provocazione.

« Il corpo è già da Ducky? » Accolsi la conferma con celato entusiasmo, e mi lasciai ingoiare dall'ascensore con un moto di silenzioso sollievo.


Mi fermai oltre la porta a vetri per qualche istante, deliziandomi ad osservare al lavoro il miglior patologo che avessi mai conosciuto. Ma un improvviso, un poco imbarazzante, offuscarsi della vista rivelò anche a me stessa l'inconsistenza di quella menzogna: a chi volevo darla a bere? Non amavo stare a guardare il miglior patologo che conoscessi. Amavo stare a guardare Ducky, i suoi movimenti misurati ed eleganti, le espressioni comprensive e addolorate che comparivano sul suo volto, e non resistevo – non ci ero mai riuscita – alle conversazioni solitarie eppure così rispettose della dignità di chi non era più in grado di difendersi... Osservare Donald Mallard al lavoro era una delle cose più rassicuranti e tranquillizzanti che ci fossero nella mia vita, e che più negli ultimi tempi mi erano mancate. Chiusi e riaprii velocemente le palpebre un paio di volte, a cacciare la commozione e tornare in me stessa, quindi feci il mio ingresso.

« Mi hanno detto che hai un regalo per me »

« Di solito cerco di scegliere con maggior cura i miei regali, ma... Tavolo 2. Accomodati pure, intanto che metto a nanna il tenente Roberson...»

Sollevai il lenzuolo: il cadavere del sottufficiale Dalton, eccezion fatta per lo spettrale taglio che recideva la gola da parte a parte, era ancora intatto. Niente incisione a Y.

« Sei un angelo », sorrisi. Il dottor Mallard chiuse lo sportello della cella frigorifera numero 6 sul destino troncato del tenente Roberson, gettò i guanti nell'immondizia e mi raggiunse al tavolo 2 alzando la visiera di plastica para schizzi.

« Soltanto oberato di lavoro... », si schermì; ma lo conoscevo troppo bene, e sapevo perfettamente che la decisione di aspettarmi non era affatto dovuta al troppo lavoro. « Pensi di fermarti fino alla fine, oppure Jethro verrà a reclamarti sul più bello come al solito? Perché l'ultima volta che sono riuscito a sottrarti a lui per un'autopsia intera eri... »

« Ero ancora una studentessa. Sì », confermai, mentre chiudevo il velcro della tuta blu da autopsie. « E raccontasti a me e al capitano di corvetta Haxley l'intera storia di Cyrano de Bergerac »

« Lo ricordi ancora! » Con un gesto molto più usuale per Abby che per me, che nei rapporti personali sono sempre stata piuttosto distaccata e restia ai contatti fisici, lo abbracciai, baciandolo su una guancia.

« Non potrei dimenticare un solo attimo passato con te, dottor Mallard... Bisturi? »

« Bisturi », annuì Ducky, con un'espressione felice sul viso.

Procedemmo per diverso tempo in silenzio, pesando gli organi ed analizzandone i tessuti, senza – almeno da parte mia – focalizzare del tutto l'attenzione su che cosa significasse quel corpo privo di vita sotto le nostre mani. Soltanto dopo aver controllato e annotato accuratamente ogni valore, ed avere così appurato che il sottufficiale Dalton, prima di essere barbaramente sgozzato, godeva di ottima salute, Donald Mallard, avvicinando a sé uno sgabello e la potentissima lente per le osservazioni, decise di rompere quell'equilibrio ritmato fino ad allora dal freddo rumorio dell'acciaio.

« Va tutto bene, Christine? » Confesso che avrei desiderato rispondergli con una voce più ferma di quella che mi uscì effettivamente dalle labbra.

« Non è la prima autopsia alla quale assisto... E anche se lo fosse, avrei vomitato ben prima di arrivare a questo punto, non credi? » Ducky non si scompose, tornò alla sua osservazione del taglio che aveva ucciso il sottufficiale Dalton, con calma, e senza guardarmi commentò, quasi en passant

« È la prima che significhi così tanto; ma se preferisci non parlarne, lo capisco ». Sentii gli occhi inumidirsi, e me la presi non poco con me stessa: iniziava ad accadermi troppo spesso, da quando ero tornata a Washington, e la debolezza non è mai stata una cosa che io sopporti di buon grado. Mi sentii all'improvviso stanca, avvilita, bisognosa di un gesto di tenerezza come la più fragile dei pivelli.

« Non è che non voglia farlo... Non ci riesco », mormorai, quasi a me stessa; il mio amico più caro non tradì un solo movimento, finse di non aver sentito o – più probabilmente – aveva deciso di non insistere. Lo apprezzai più di quanto già non facessi, di fronte a quel delicato gesto di cortesia, mentre il mio bisogno di tenerezza cresceva a dismisura. Nonostante fossi a Washington, nonostante fossi circondata dalle persone cui più volevo bene al mondo, il soffocante senso di solitudine che aveva oppresso i miei ultimi mesi a New York sembrava tornato.

« Vieni qui, Christine ». Mi avvicinai a lui, accostando il viso alla lente come mi aveva indicato di fare. « Questi segni sono compatibili con quelli delle altre vittime? » Presi tempo per richiamare alla mente i dettagli dei miei casi precedenti, quindi mi dedicai con tutta calma a rilevare quelli attuali prevedendo già ciò che avrei trovato. Un unico taglio, così violento da tranciare la trachea in un solo colpo. Contorni slabbrati e carne brutalmente lacerata fino in profondità. Il coltello seghettato che già dal primo omicidio avevo preso a cercare ma senza fortuna.

« Molto compatibili. Se non fossimo entrambi troppo professionali per limitarci a questo, invece che ad un serio riscontro sui referti precedenti, mi sentirei di dirti che sono gli stessi »

« Quindi possiamo proprio dire che sia lui ». La risposta affermativa mi morì sulle labbra, soppiantata dal volto dell'agente David. E come lo sai?

« Per esserne sicuri bisognerebbe voltargli la testa, se non è troppo complicato...» Ducky scosse il capo in un muto ed impercettibile cenno di diniego.

« Facciamo prima a girare direttamente il corpo. Destra o Sinistra? »

« Destra ». Aiutai Donald a mettere su un fianco il cadavere del sottufficiale Dalton e a mantenerlo in quella posizione, allungando una mano fino al carrello della lente per avvicinarlo a me. Puntai lo strumento sull'interno dell'orecchio della vittima, e nonostante mi fossi aspettata quel risultato fui scossa da un brivido: in caratteri minuscoli e poco più che visibili ad occhio nudo, era timbrato un piccolissimo 11. Di fronte ad una simile – per quanto attesa – rivelazione l'istinto primario è quello di lasciarsi cadere sulla prima sedia, accasciarsi in preda alla demoralizzazione, e poiché non ho mai costituito un'eccezione tirai verso di me uno sgabello con le ruote girevoli. Il dottor Mallard si sporse, per vedere che cosa mi avesse a tal punto sconvolta, e subito gli sfuggì tra le labbra qualcosa di simile ad una imprecazione, chiaramente in scozzese ma così inusuale da lui che in certa misura mi costrinse a riprendere il controllo. Lo aiutai ad adagiare nuovamente il cadavere sulla schiena, e in totale silenzio sfilai guanti e visiera quasi correndo al lavello: raccolsi acqua a piene mani e vi immersi il viso, più volte, finché non sentii la mano di Ducky stringersi sulla mia spalla.

« Vuoi che avverta io Gibbs? »

« Salgo io, non preoccuparti. Davvero, ce la faccio », insistetti, dopo una breve pausa in cui la preoccupazione si era dipinta sul suo viso con più che lampante nitidezza. Ma probabilmente non lo rassicurai più di tanto, però, perché mentre le porte dell'ascensore si chiudevano sentii sollevare la cornetta dell'interfono.

« L'ha seguita, Jethro », disse la sua voce, in tono allarmato.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

word to html converter html help workshop This Web Page Created with PageBreeze Free Website Builder  chm editor perl editor ide

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Discussioni ***


momentaneous

 

Avevo ripreso a lavorare al caso, e se per un verso l'idea che il killer filosofo avesse seguito chissà come le mie tracce un po' mi spaventava, dall'altro la prospettiva di mettergli le mani addosso una volta per tutte aveva il suo fascino. Avevo fatto richiedere i fascicoli delle prime dieci vittime da Timothy, ben decisa a non far sapere ad anima viva – e men che meno a mio zio – dove effettivamente mi trovassi: lui odiava con tutto se stesso l'NCIS e nello specifico Gibbs, mentre ero sicura che i miei colleghi, se mi avessero saputo coinvolta nel caso, si sarebbero divisi equamentre tra chi diceva che ero fuggita per nulla e chi invece che avevo deciso di perseguitare l'uomo che il tribunale aveva giudicato innocente.

In realtà, ero solo stanca. Di lottare, di sbattere la faccia contro vicoli ciechi... La stessa prospettiva di riabilitare la mia reputazione non mi elettrizzava. Mi sentivo alla deriva, inspiegabilmente e senza apparente possibilità di migliorare le cose.

« Pensi di piantarla, o cosa? » Alzai gli occhi dalla scrivania molto lentamente, in direzione di quella da cui l'agente David aveva con malagrazia sbottato, e ogni possibilità che avessi male inteso le sue parole svanì nel nulla: mi stava fissando, ergo, l'obiettivo ero proprio io.

« Parli con me? » Il mio tono era forzatamente piano. Litigare con una collega, per quanto quella nello specifico non rientrasse in modo particolare nelle mie grazie, era un vizio che stavo cercando di perdere.

« Vedi qualcun altro, qui, che aspetta con rassegnazione di affogare nel suo stesso fatalismo? » Il suo sarcasmo mandò in fumo ogni mio proposito di non belligeranza, e mentre sentivo montare la rabbia mi resi conto che sull'intero ufficio era calato il silenzio. Tim sembrava pietrificato, Tony a metà tra preoccupazione e divertimento. Gibbs non c'era, ma d'altronde non avremmo mai osato sfidarci con lui presente.

« Temo di non aver capito »

« Sì, invece. “La stampa mi ha messo in ridicolo, come farò...?” »

« Smettila »

« “Cielo, la mia vita è a pezzi...” »

« Smettila! »

« “C'è un bastardo che ammazza a caso, ma aspetto che si autodenunci perché non ce la faccio, mi sento così...” »

« Basta, David! » Avevo gridato, alzandomi di scatto e mandando a sbattere la sedia contro la parete dell'open space. Ci stavano guardando tutti, adesso.

« No, agente Fellman, non la smetto »

« Tu non sai niente di me, non puoi... »

« “Tu non sai niente di me...” Sì, invece! So che non stai nemmeno provando a prenderlo, quel figlio di puttana, e che non lo fai perché hai paura di sbagliare un'altra volta. Giusto per fare un esempio »

« Non – ho – sbagliato », sibilai. Ero furente, di fronte alla sua espressione beffarda: non capivo cosa diavolo volesse da me, a cosa volesse arrivare.

« E allora perché non vuoi dimostrarlo? » Di fronte a quella domanda diretta restai senza parole: non aveva affatto torto, e lo sapeva benissimo. « Te lo dico io, perché. Non tenti di riabilitarti perché non vuoi essere riabilitata, perché pensi che sia stata colpa tua se è stato assolto, perché temi di non avere fatto tutto il possibile per impedire che qualcun altro venisse ucciso e che il sottufficiale Dalton sia morto per questo. Vuoi sapere una cosa? È ora che la pianti di piangerti addosso. Cresci, agente Fellman. Cresci ».

Mi aveva investito senza quasi prender fiato, salvo poi tornare a sedersi come se niente fosse e riprendere a lavorare al computer in totale tranquillità. Cercai con lo sguardo Di Nozzo, poi McGee, ma entrambi erano all'improvviso occupatissimi, a capo chino sulla scrivania e ben attenti a non incontrare i miei occhi. Non volevano saperne nulla.

Sola, senza alleati e impotente davanti ad un'accusa precisa, esatta ed incontestabile. Ziva aveva maledettamente ragione, e accettare la cosa non era per niente piacevole.

« Scendo a fumare una sigaretta », dichiarai, diretta all'ascensore; Leroy Jethro Gibbs, apparso praticamente dal nulla, tese un braccio tra me e la mia destinazione, con vigore, per trattenermi.

« Non ti avvelenerai, Finché sei ai miei ordini ». Sostenni il suo sguardo.

« Sì, invece. Rientra nei miei diritti. Permesso ».


Le sigarette divennero due, poi tre. Riprendere a fumare dopo tre mesi di astinenza era se possibile più piacevole e rilassante di quanto avessi immaginato, il sapore amarognolo del tabacco mi stuzzicava le pareti della bocca e la sensazione del fumo che scendeva lentamente nella trachea mi sembrava in grado di curare ogni malessere. Il cielo minacciava pioggia, ma nonostante ciò non riuscivo a decidermi a rientrare in ufficio: l'asfalto fuori dal garage aveva sviluppato un'attrattiva irresistibile.

« Ziva ti ha preso a martellate, eh? » Mi voltai appena verso l'interno. Abby veniva nella mia direzione, semi infagottata in una grossa tuta rossa da lavoro, con due giganteschi bicchieri di caffè in mano. Come unica risposta, alzai le spalle. « Non devi prendertela, Chris... È il suo modo di interpretare una missione umanitaria »

« Bene. Lo terrò presente »

« Tieni questo... Meglio Santa Caffeina, piuttosto che quelle schifezze ». Accennai un mezzo sorriso, e presi un lungo sorso. Dopotutto, forse Abby non aveva torto.

« Ha detto la verità, Abby. Per questo sono tanto arrabbiata »

« Stammi a sentire, Chris. Adesso taci, e mi stai a sentire ». Era seria, incredibilmente seria « Sei con noi, adesso... Tra i tuoi amici. E gli amici si aiutano, si sostengono, si danno una mano nei momenti bui »

« È complicato »

« Guardati intorno. C'è Gibbs, ci sono io, c'è Tim... C'è Ducky, e penso proprio che lui preferirebbe farsi ammazzare piuttosto che vederti triste. È più semplice di quanto credi, Christine... »

Quella sera tornai a casa più tranquilla, più in pace con me stessa. Il resto del pomeriggio era trascorso sotto una stella migliore, ad aiutare (forse sarebbe più corretto dire “a guardare”) McGee che volando sulla tastiera tentava di ricostruire i movimenti di Albert Carson negli ultimi giorni. I dossier dei casi precedenti erano finalmente arrivati, il dottor Mallard e il suo assistente si dedicavano a comparare le ferite, e Gibbs – sospetto per tirarmi su il morale – si intrattenne una buona mezz'ora al telefono con il mio capitano, elencandogli in quanti modi avrebbe potuto fargli scontare il vergognoso ritardo con cui i documenti erano passati di mano.

Mi coricai con una gran voglia di dormire e senza più nemmeno pensare al tabacco, ed eccezionalmente per i miei standard mi addormentai subito come un sasso. Mi sembrava che le cose fossero sulla strada del miglioramento, una buona volta, e godere di un sonno tranquillo ne fu una piacevole conseguenza. Quando però al mattino, aperti gli occhi, posai i piedi giù dal letto, mi resi conto con orrore che il gradevole scorrere d'acqua che mi aveva tenuto compagnia per tutta la notte non era affatto pioggia. A giudicare dallo stato di inzuppamento in cui si trovava la moquette, l'impianto idraulico doveva a dir poco essere esploso.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

word to html converter html help workshop This Web Page Created with PageBreeze Free Website Builder  chm editor perl editor ide

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Ospitalità ***


momentaneous

 

Avevo tentato di salvare il salvabile, gettando in valigia le poche cose davvero asciutte e portandole con me al lavoro, ma non avevo la minima idea di che cosa avrei fatto una volta là. Tuttavia stare a riflettere in quella specie di palude mi era sembrata un'idea estremamente sciocca, oltre che irritante: oh, al diavolo, qualcosa sarebbe successo!

« Parti per le vacanze, Chris? »

« No, Tony », grugnii, trascinando la valigia fino alla scrivania. « Ho bisogno di un idraulico. Urgente bisogno di un idraulico ».

« Per andarci in vacanza? »

« Tony... Lo sai, vero, che prima o poi ti ucciderò? »

« Temo che per questo abbia la precedenza Ziva... », precisò McGee ridendo « E di solito lei non sbaglia un colpo »

« Infatti. Ma se vuoi possiamo accordarci su un buon prezzo, Fellman ». Guardai Ziva David senza quasi riconoscerla: stava scherzando? Con me? Ero allibita.

« Quanto ti serve bravo, quell'idraulico? » Gibbs non l'avrebbe mai perso, il maledetto vizio di comparire dal nulla.

« Preferibilmente capace di fare i miracoli. Quando stamattina mi sono svegliata, casa mia era un unico, gigantesco acquitrino »

« Ah, quindi quella non ti serve per le vacanze » commentò, indicando la valigia. Evitai per decenza di rispondergli.

A mezzogiorno avevo già ricevuto le nefaste previsioni dell'idraulico (tre settimane buone per rendere di nuovo abitabile il mio appartamento, e almeno altri due mesi di lavoro per rifare l'intero impianto) e quattro generosi inviti di ricovero per me e il mio mesto bagaglio: McGee, Gibbs in persona, Abby e nemmeno a dirlo Ducky. Chiaramente da Di Nozzo non l'avevo nemmeno aspettato – la novità del secolo della sua relazione stabile era giunta alle mie orecchie il giorno stesso del mio arrivo – e né io né l'agente David avevamo contemplato la possibilità che si offrisse anche lei volontaria; rifiutai l'invito di Timothy perché sapevo che nonostante il suo grandissimo senso dell'ospitalità il suo appartamento non era altrettanto grande, e dal momento che disponeva di un'unica stanza da letto non volevo che per colpa mia finisse a dormire sul divano; dissi di no anche a Gibbs, non volendo rischiare di trovarmi davanti il colonnello dell'esercito con cui al momento si vedeva (a Jen non piaceva, a Abby non piaceva... Senza neppure conoscerla avevo deciso che non sarebbe piaciuta nemmeno a me).

Restavano in lizza Abigail e Donald: quanto di più diverso eppure simile potesse esserci al mondo, e io non sapevo proprio decidermi su chi scegliere tra i due.

« Pranzi con me? » La proposta della mia amica gotica mi stupì non poco, visto quanto era difficile che durante il giorno riemergesse di propria volontà dal suo reame, ma accettai di buon grado. Forse mangiare in compagnia mi avrebbe aiutato a fare finalmente una scelta. Insolitamente decidemmo di uscire, evitando la mensa per un bar tavola calda una decina di metri oltre i cancelli. In effetti l'ambiente, per quanto vivace, era molto più tollerabile sul piano acustico, e invitante su quello gastronomico, di quanto non fosse la mensa dell'NCIS, e parlare sarebbe stato di certo molto più semplice.

Avevamo appena assaggiato il nostro pranzo – pollo alla griglia con patate e salsa di soia lei, bistecca di manzo poco cotta io – quando le posate di Abby ricaddero tintinnando nel piatto. Alzai gli occhi di scatto, preoccupata da quel comportamento: lei fissava qualcosa alle mie spalle e mi voltai. Dalla porta di ingresso, preceduto da una donna coi capelli scuri, era appena entrato Ducky. Pensai che quello della mia amica fosse stupore, ma la durezza della sua espressione e delle sue parole mi rivelò che doveva esserci dell'altro.

« Non può avere questa faccia tosta! » Li guardai sedersi, ancora pensando che quella di Abby fosse affettuosa gelosia e credendo di condividerla almeno in parte.

« Credo che Ducky sia grande abbastanza da poter portare a pranzo una donna senza il nostro permesso, Abby... »

« Ma non lui, lei! » Il mio sguardo continuava a restar fisso sul tavolo cui la coppia che tanto aveva indignato Abby si era accomodata. Sembrava un incontro amichevole, non galante, e mi ostinavo a non capire perché mai lei se la prendesse tanto.

« Temo di aver perso qualche passaggio, allora » ammisi, mio malgrado incuriosita.

« Quella è Janice Byers » si limitò a dire, come se quel nome potesse d'incanto rivelarmi chissà quale verità. Ma scossi la testa: dovevo essermi proprio persa quel passaggio « La dottoressa Byers, Cris. Quella che un paio d'anni fa ha incendiato il cadavere di un suo paziente per nascondere le sue responsabilità! Quella che nonostante fosse colpevole ha fatto in modo di flirtare con Ducky! » Vidi chiaramente delinearsi sul suo viso un pensiero che – ammetto – aveva sfiorato anche me « E tu andrai a dormire da lui, Chris. Non possiamo lasciare libertà di manovra a quella vipera ».

Ma per quanto l'idea avesse accarezzato anche me non intendevo accettare facilmente; non sapevo nulla della vicenda, e nonostante il subitaneo moto di ostilità verso la dottoressa Byers l'ultima cosa che volevo era rovinare qualcosa cui Donald teneva. Provai a trattare.

« Pensi che lei fingesse? » Abby affogò un'altra volta le patate nella salsa di soia, con calma.

« Forse non del tutto. Ma gli ha mentito sapendo di farlo. Ha tentato di ingannarlo. E Ducky c'è rimasto malissimo... Questo non glielo perdono, Chris, non glielo perdono proprio ». La fame mi era passata e sbocconcellai un pezzo di carne quasi con la nausea: non capivo perché, ma quelle nuove scoperte mi infastidivano.

« E a lui piaceva molto? »

« Di sicuro non poco. L'ha portata allo Smithsonian! » Abby era stata abile a toccare il tasto giusto... Le meraviglie sotterranee dello Smithsonian Institute erano il posto speciale di noi che con Ducky condividevamo una inspiegabile passione storica... Posai la forchetta nel piatto.

« Accetterò l'invito di Ducky », dichiarai solenne.

« Ottima decisione, signore! » Controbatté, nella sua parodia di tono marziale, Abigail Sciuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Casa ***


(è un capitolo un po' corto, mi spiace... :( ma non potevo attaccarlo al successivo, non c'entra nulla o quasi...mi perdonate?) momentaneous

Io odiavo Albert Carson. Certo non potevo dirlo o le mie indagini sarebbero parse viziate, ma la sostanza delle cose non cambiava. Lo odiavo. Avrei dato oro, perché una volta tanto commettesse un azzardo tale da fornirmi una anche minuscola scusa per sparargli... E portarlo finalmente a marcire in galera per il resto della sua vita. Ma purtroppo era ricco, molto ricco, e chi ha molto denaro può permettersi avvocati che riuscirebbero a far istituire un processo di canonizzazione al peggior criminale della storia.

Repressi un attimo di rabbia, più in considerazione del fatto di trovarmi ospite in casa altrui che per riguardo della mia salute personale, e guardai i miei vestiti appesi nell'armadio della vecchia stanza della signora Mallard: facevano una così strana impressione, accanto agli abiti signorili della padrona di casa...

« Vedo che ti sei sistemata... » Mi voltai con un accenno di piroetta, sorridendo da orecchio a orecchio.

« Grazie, Ducky. Grazie davvero ». Donald Mallard mi strinse con delicatezza una spalla.

« Figurati. Per te questo e altro, lo sai ». Lo guardai, sedendomi sul bordo del letto. Gli abiti eleganti, l'espressione affettuosa, il contesto così storico di casa sua... La consapevolezza del bene che gli volevo quasi mi investì. E non sopportavo l'idea di mentirgli.

« Chi era la donna con te da Mikey's, Doc? »

« Una vecchia amica... Ma non sapevo che fossi lì anche tu »

« Eravamo a pranzo... io ed Abby ». Lo sguardo del mio amico si incupì.

« Quindi già lo sapevi, chi era ». Annuii lentamente, in imbarazzo ma senza smettere di guardarlo.« E Abigail ha ritirato la sua offerta di ospitarti, immagino »

« Donald... »

« No, Christine, no. Apprezzo il tentativo, ma... »

« L'avevo già deciso, di venire da te, non c'entra la dottoressa Byers e se vuoi posso andarmene. L'ultima cosa che voglio, è rovinare qualcosa a cui tieni ». Rimasi colpita dallo sguardo con cui Ducky mi guardò in quel momento; era dolce, più di quanto mi fossi aspettata, e commosso. Si sedette accanto a me.

« Non so se è qualcosa a cui tengo, Christine. Un tempo, forse, ma ora proprio non lo so »

« Continuerai a vederla? »

« Non so nemmeno questo, a dire il vero ». Mi strinsi nelle spalle, guardando il pavimento.

« Io non so chi lei sia, o cosa faccia, o se sia cambiata. So soltanto che ti ha fatto soffrire. Quindi non chiedermi di farmela piacere, ok? » Ducky sorrise strizzando un poco gli occhi, e mi abbracciò. Ebbi il tempo di pensare a quanto mi piacessero, gli abbracci di Ducky, a quanto non avrei mai voluto separarmene, quando un garbato imprevisto piombò in camera cercando suo figlio.

« DONALD! » Ne seguì un momento di imbarazzo da parte di entrambi, e di silenzio da parte della signora Mallard che fu però la più rapida a riprendersi. « Oh, finalmente, Donald, una ragazza che mi piace! Vi lascio soli, cari » dichiarò, in tono vagamente allusivo, sparendo nuovamente oltre la porta seguita da uno dei Corgey. Ducky ed io ci guardammo, immobili per un istante, quindi iniziammo a ridere fino alle lacrime.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Gibbs non ti porta mai a cena per caso ***


momentaneous

Mi stavo rovinando la vista su quei fascicoli, ormai era un dato di fatto con cui avrei dovuto presto fare i conti, ma non avevo la minima intenzione di smettere. Qualcosa, un imprecisabile brivido che mi solleticava alla nuca, sembrava suggerirmi che ero vicina a capire la chiave, il modo per mettere finalmente le mani su Carson una volta per tutte e – speravo – in modo da renderlo inoffensivo per sempre.

« Non credi che sia ora di andare a casa? Sei fissa alla scrivania da stamattina, non hai nemmeno mangiato a pranzo, e – sorpresa, sorpresa – fuori di qui sta diventando buio... » Tolsi gli occhiali e mi sfregai energicamente gli occhi.

« Lo sai quanto tempo è passato dall'ultima volta che qualcuno ha provato a mandarmi a nanna, Gibbs? » Come al solito, e posso serenamente sostenere che la cosa non mi sorprese affatto, Jethro Gibbs non degnò le mie parole della minima considerazione e si chinò sulla mia scrivania quel tanto che bastava per spegnermi la lampada.

« Basta. O ti alzi di lì immediatamente, oppure... »

« Oppure? », lo sfidai, con un sorriso « Se non mollo la sedia mi estrometti anche tu dal caso? »

« Certo che no », si strinse appena nelle spalle, prima di allungare di nuovo il braccio e chiudere la cartellina davanti a me « Ma se tu non te ne vai me ne andrò io, per poi tornare carico di cibo cinese ».

« No, il cibo cinese no! », esclamai, fingendo orrore. Gibbs sorrise, uno di quei sorrisi fantastici che gli illuminano gli occhi e l'intero viso. E io scossi la testa rassegnata « Cosa vuoi? »

« Farti compagnia. Ti porto a cena, Chris »

« Buona creanza vorrebbe un punto interrogativo, in fondo a quella frase, sai? ». Il mio mentore mi lanciò il cappotto e lo afferrai al volo.

« Oh, sì. Ma io sono screanzato, e tu dovresti saperlo ». Sbuffai.

« Ciò non toglie che io stessi lavorando... » Se fossi stata meno stanca, o quantomeno più disposta ad ammettere di esserlo, mi sarei forse resa conto che il comportamento di Gibbs era inusuale, almeno sospetto... Ma non ci feci caso. Mi piacque credere che fosse semplicemente stato colto da una fulminea crisi da buon samaritano, che mi portasse a cena per quel motivo, e sempre per quello mi impedisse di parlare di lavoro. Non riflettei neppure per un istante sul fatto che quell'atteggiamento potesse avere come motivo l'impedirmi di percorrere da sola la strada verso casa di Ducky.

Non mi domandai il motivo di quella cena neppure una volta, durante la serata; Gibbs era una compagnia più che piacevole, risi moltissimo per i racconti della sua permanenza in Messico con Franks – e un po' anche per la birra, confesso – ma quando mi riportò a casa il mio buonumore scomparve. La macchina all'imbocco del vialetto poteva passare inosservata a chiunque altro, ma non a me... Mi irrigidii sul sedile improvvisamente furibonda.

« Cosa mi hai nascosto? Cosa ci fanno Tony e Ziva davanti alla casa di Ducky? » Mi ignorò ostentatamente, ma riconoscevo la piega dura della sua mascella. « Aspetto una risposta ». In condizioni normali non gli avrei mancato a tal punto di rispetto, il mio tono era tanto tagliente da risultare offensivo. Mi sentivo tradita.

« Non scordarti chi comanda, Chris »

« Dimmi perché Tony e Ziva sorvegliano la casa! » All'improvviso ero spaventata. Irrazionalmente, senza motivo e anzi non senza paranoia, mi aveva assalito il panico all'idea – sciocca – che fosse successo qualcosa a Ducky o a sua madre. Lacrime impreviste mi bruciavano gli occhi.

« Sei troppo tesa, Chris... » Mi scrollai di dosso il tentativo paterno di Gibbs di farmi ragionare, con un gesto di stizza.

« E tu piantala di trattarmi come una piccola idiota, Jethro! » Accadeva raramente, molto raramente, che lo chiamassi per nome. E la cosa fece il suo effetto.

« E' arrivata una busta in ufficio, stamattina. Siamo preoccupati. Temiamo che sappia dove sei ». Lo stupore fu tanto grande che feci la domanda più stupida ed improbabile che a mente fredda riesca a pensare.

« Siete preoccupati? Tu e chi, scusa? »

« Io e Jen ». Senza farci caso, sorrisi appena. Lui e Jen. O, come dice sempre Abby, papà e mamma.

« Cosa c'è in quella busta? »

« La vedrai domattina »

« Gibbs... »

« No. E ora va' in casa, su, sbrigati, o Ducky si preoccuperà... »

Rinunciai alle recriminazioni, ne avevo messe in scena abbastanza per la serata e ad ogni modo sapevo che sarebbe stato inutile insistere con Gibbs. Soprattutto dal momento che aveva ragione... Con quelle premesse, se non mi fossi affrettata Donald si sarebbe probabilmente preoccupato più di quanto già non fosse.

E infatti lo trovai seduto in poltrona, un bicchiere con due dita di scotch in mano e lo sguardo che saettava continuamente dal caminetto all'orologio a pendolo. Si voltò appena sentendomi chiudere la porta, non abbastanza per guardarmi. Ma mi resi conto che aveva gli occhi chiusi.

« Ho sentito la macchina almeno venti minuti fa... Iniziavo a temere che ti avesse aggredita lungo il vialetto »

« Ho discusso con Gibbs »

« Era prevedibile... Ma considera che ha agito con le migliori intenzioni ». Abbandonai il cappotto sullo schienale di una sedia e dopo aver lasciato le scarpe sul tappeto mi sistemai sul divano, a gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia.

« Non sono una bambina, Ducky. So perfettamente difendermi... E non aspetto altro, se devo essere sincera »

« Credo sia per questo che stasera Jethro ti ha tenuto al guinzaglio a un metro di distanza ».

Sprofondai nei miei pensieri e nel tepore del fuoco. Carson si era spostato da New York. Carson aveva fatto un'altra vittima. Carson sapeva che mi trovavo a Washington, perché aveva colpito lì, e probabilmente sapeva che ero all'NCIS visto che aveva ucciso un marinaio in divisa. Carson sapeva quello che non avevo detto a nessuno, come diavolo era possibile?

« Posso avere un po' di scotch anch'io, dottore? »

« Purché con moderazione ».

Mi versai tre dita di liquore e vi buttai un paio di cubetti di ghiaccio a titolo preventivo, per diluirlo un po', quindi tornai a sedermi. Se Carson aveva scoperto che mi trovavo all'NCIS poteva scoprire anche dove vivevo... E non potevo portarlo a Ducky; non potevo mettere in pericolo la persona cui tenevo di più al mondo.

« Credo che domattina cercherò un'altra sistemazione, Doc ». Il dottor Mallard si voltò verso di me, e non riuscii a decifrare la sua espressione.

« Naturalmente non se ne parla ».

Mi morsi un labbro, a disagio; non capivo come potesse essere così poco prudente, e come spesso mi accade quando mi sento a disagio non riuscii ad impedire che mi salisse un gran nodo in gola. Avrei voluto e dovuto insistere per convincerlo, ma se avessi aperto bocca probabilmente avrei finito col piangere; conficcai con maggior forza i denti nel labbro inferiore nel tentativo di riprendere il contatto con la mia razionalità.

Donald sospirò, si alzò dalla poltrona posando il bicchiere e, dopo essersi seduto accanto a me, allungò un braccio in direzione delle mie spalle. E io, che stavo diventando più fragile di quanto non fossi mai stata, crollai.

« Non crederai che basti un misero assassino per liberarti del piacere di condividere con me le stranezze di mia madre... » Percepii le labbra di Ducky sulla mia tempia. Tremai. Non mi ero mai sentita tanto a casa come in quel momento, ma avevo seri dubbi che quelle sensazioni fossero una cosa buona.


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Brutte notizie? ***


momentaneous

 

Ero andata al lavoro insieme a Ducky, sulla sua splendida Morgan, dopo una notte trascorsa praticamente in bianco a fissare il soffitto e, a fasi alterne, a rigirarmi tra le coperte come un'anima in pena. Non una parola, tra noi, non ce n'era bisogno: Donald sapeva leggere i miei pensieri attraverso il mio silenzio, sosteneva, e sono sempre stata tentata di credergli. Ero ad un tempo irrazionalmente furiosa - con Carson, con Gibbs, col mondo - e in una certa misura turbata, al pensiero che il killer che avevo arrestato mesi prima, dopo essere stato dichiarato innocente da una giuria di perfetti idioti, avesse potuto raggiungermi nell'unico posto al mondo dove davvero mi fossi sempre sentita al sicuro. Le porte dell'ascensore si aprirono di lato; Donald Mallard mi rivolse un cenno di incoraggiamento con la testa e io cercai di rassicurarlo del fatto che stavo bene baciandolo su una guancia.

Andai a sedermi alla scrivania senza salutare nessuno, nemmeno Timothy. Stavo facendo i capricci? Probabile. Molto più che probabile, anzi.

« Ecco qua. E piantala di tenermi il muso, Christine ». Alzai gli occhi su Gibbs e mi sforzai di produrre un sorriso.

« Mi piace farti sentire in colpa... »

« Preferirei che occupassi il tuo tempo in modo più costruttivo. Prendendo a calci quel figlio di puttana, per esempio ». Questa volta sorridere non mi fu così difficile; sollevai la busta di plastica in cui la famosa lettera che tanto scompiglio aveva gettato all'NCIS mi stava aspettando. Sentivo sulla nuca lo sguardo penetrante di Ziva David, ma lo ignorai.


Guarda, guarda, guarda. Tanta fatica inutile, agente Fellman...Sarebbe quasi patetico, se non fosse divertente. Attraversare tre o quattro Stati per nulla... Ma dopotutto giocare con te mi è sempre piaciuto. À tout à l'heure!


« E questo è bastato a spaventarvi? » ruggii, indignata. « Ho ricevuto almeno una dozzina di queste lettere, negli ultimi due anni, e non ho mai avuto bisogno di una baby sitter! »

« Chris... »

« D'accordo ». Alzai le mani in segno di resa. Gibbs aveva ragione, ero troppo suscettibile. « Va bene. Hai ragione. Non è il caso ». Inspirai stringendo le labbra. « Quando è arrivata? »

« Ieri mattina. Ma prima di parlartene, abbiamo ritenuto prioritario che Abby la analizzasse ». Annuii, pensando a tutt'altro ma desiderando solo di non provocare altra tensione con il mio comportamento.

« Sì, mi sembra giusto. Risultati? »

« Nessuno »

« Come sempre ».

Chiusa in un ostinato silenzio, lontana da Gibbs e dagli altri, con lo sguardo di Ziva David puntato sulla nuca: così trascorse la mia mattinata, digitando con rabbia sulla tastiera alla ricerca di una traccia qualsiasi dei movimenti di Carson.

« Ok, Chris, va bene... » Alzai la testa senza capire.

« Eh? » Abby era davanti a me, in un'assurda – quanto deliziosa, bisognava ammetterlo – mantella rossa che sembrava uscita direttamente da una favola e le attirava più di uno sguardo da parte di chi transitava per l'open space.

« Andiamo a pranzo fuori di qui, mi sembra ovvio »

« Abby, ti prego, non sono dell'umore giusto per... » Ma la mia amica, la cui espressione stranamente seria mi era sulle prime sfuggita a causa del suo abbigliamento stravagante, mi fissò con gravità e mi resi conto che qualcosa non andava. Qualcosa che non mi aveva detto, e che a giudicare dal suo contegno avrebbe continuato a tacermi finché fossimo rimaste nell'edificio.

« Non si tratta del tuo umore, Chris, noi... »

« Sì, andiamo », la interruppi.

Tornammo, non so quanto consapevolmente, da Mickey's, dove qualche giorno prima avevamo visto Donald con la dottoressa Byers. Soltanto dopo esserci sedute mi decisi a rompere quel silenzio. Dopotutto, qualsiasi cosa fosse riuscita a distrarmi da Albert Carson e dalla lettera che mi aveva spedito all'NCIS era ben accetta.

« Cosa volevi dirmi? Non trovo niente di tanto segreto da non poterne parlare all'NCIS... » Abby abbassò lo sguardo sulla bottiglia del ketchup e non rispose. « Terra chiama Abby... » Niente. Non una parola. « Che cos'è successo, Abigail? » mi trovai a domandare, con quel vezzo ereditato da Donald di chiamare le persone col loro nome intero. Con sgomento mi accorsi che a quell'ultima domanda i suoi occhi si erano riempiti di lacrime e mi spaventai.

« Perché mi hai chiamato come fa Ducky? »

« Perché a volte mi càpita di farlo... Ma non capisco proprio cosa stia... » Abby mi interruppe bruscamente, come se non sopportasse più di tenere per sé quelle parole.

« Ducky sta male, Chris ».

« Cosa stai dicendo? Stamattina sono venuta al lavoro in macchina con lui, e non c'era proprio niente di diverso dal solito », obiettai, piuttosto infastidita dalle sue parole.

« Non sto parlando di un raffreddore ». Rimasi sconcertata; provai il desiderio di afferrarla per le spalle e scuoterla perché si decidesse una buona volta a sbrigarsi, ma - non so come - mi trattenni e lei proseguì. « Mi ha portato ad analizzare del sangue non etichettato, dicendo che era di un John Doe... » Scossi ostinatamente la testa.

« Non ci sono John Doe in sala autopsie, in questo momento ». Lei annuì.

« Lo so. È quello che ha detto anche Palmer ».

« Ci sarà senz'altro una spiegazione... »

« Non ha riaperto un fascicolo vecchio, se è questo a cui pensavi. Ho controllato nel mio archivio, non mi risulta niente di simile...E poi ci sono le radiografie ».

« Quali radiografie? », domandai con un filo di voce. Non ero affatto certa di volere conoscere la risposta.

« Jimmy l'ha visto studiare delle TAC, l'altro giorno... Ma quando gli ha chiesto di cosa si trattasse lui ha smesso, le ha rimesse dentro la busta e... »

« E? » Ero al limite della sopportazione, e alzai la voce.

« E ha chiuso la busta nel cassetto della scrivania. A chiave »

Ebbi la sensazione che il mio stomaco si dilaniasse; pensai alla sera precedente, a come Donald aveva consolato me per problemi che adesso mi sembravano di una stupidità inconcepibile. Pensai al suo modo di abbracciarmi.

« E i risultati delle tue analisi sul sangue... » Abby scosse piano la testa senza guardarmi.

« Molto, molto brutti. Cosa faremo adesso, Chris? » Quella domanda, unita agli occhi pieni di lacrime e disperazione della mia amica, ebbe il potere di gettarmi nel panico. Era sempre stata lei, a dispetto di tutto, quella capace di affrontare le brutte situazioni: più grande di me di qualche anno, più positiva, più pratica... Mi presi la testa fra le mani, senza sapere a cosa aggrapparmi.

« Non lo so, Abby. Proprio non lo so ».

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il Whisky può provocare effetti collaterali ***


Disclaimer: la colpa non è (solo) mia, Christine sta subendo una crisi romantica e mi ha quasi costretto a scrivere questo capitolo...ma voi non mi ucciderete, vero? ;) momentaneous

Ero rientrata a casa in taxi, incapace di resistere oltre entro l'edificio dell'NCIS e, soprattutto, di pensare di affrontare il tragitto in auto con Ducky. Avevo bisogno di riflettere, prima, e di riflettere a fondo. Le parole di Abby - e quelle di Palmer che lei mi aveva riportato - mi stavano facendo letteralmente impazzire, scatenando da un lato una rabbia furiosa e dall'altro il più assoluto e soverchiante bisogno di piangere.

Aprii la porta con la mia copia delle chiavi; il silenzio che regnava sulla casa e il biglietto in bella mostra nell'ingresso mi informarono che la signora Mallard era stata messa a letto dall'infermiera, che se ne era andata poco prima del mio rientro, e fui assalita da un terribile nodo alla gola al pensiero dell'anziana donna.

Prima ancora di togliermi le scarpe - gesto canonico, quando mi trovavo in situazioni critiche, e quella era decisamente una situazione critica - accesi il caminetto, quasi senza rendermi conto dei miei gesti. Ma sentivo freddo, un insopportabile freddo dentro, come se qualche meccanismo di vitale importanza si fosse rotto. Perdere Ducky... Dio, non riuscivo nemmeno a pensarlo!

Tolsi scarpe e giacca e, rimasta in maglione, mi versai da bere un quantità decisamente superiore al mio solito prima di sedermi in poltrona, senza accendere la luce, con le gambe incrociate. Un intero bicchiere di whisky senza ghiaccio rappresentava quasi il triplo del mio standard; e se non accesi una sigaretta, per quanto ne sentissi il disperato bisogno, fu perché mi è stato insegnato a non farlo in casa d'altri...Ma non fu una rinuncia semplice.

Mi dedicai all'unica occupazione di fissare il fuoco, bevendo lentamente e con gli occhi pieni di lacrime al pensiero di quel che Abby mi aveva rivelato; Donald Mallard rientrò quasi due ore più tardi, esausto per quella giornata, mentre io ero quasi a metà del terzo bicchiere e, per somma ironia nonché per assurdo, ancora perfettamente lucida. Nemmeno lo whisky era riuscito a distogliere i miei pensieri da quelle nefande notizie.

Ducky si avvicinò a me sciogliendo il papillon, e guardandolo nella luce tremante delle fiamme mi sentii sopraffare dal dolore: come poteva chinarsi e baciarmi la fronte, come poteva sorridermi in quel modo?

« Perché non me l'hai detto, dottore? »

« Detto cosa? » Strinsi i denti.

« La verità, per esempio. Abby mi ha detto di... » Ducky sospirò dolorosamente e si sedette.

« Non pensavo di creare tanto pensiero »

« Vorrei sapere cosa ti aspettavi; sai perfettamente il bene che ti vogliamo, e... Ma lasciamo perdere gli altri, l'hai nascosto a me! È questo, che proprio non riesco a capire »

« Ciò di cui Abby ti ha parlato... Non si tratta di me, Christine. Sta' tranquilla ». Posai il bicchiere e andai a sedermi accanto a lui. Lo guardai negli occhi, lasciando senza imbarazzo che lui vedesse le mie lacrime.

« Mi stai dicendo la verità, vero? Non cerchi semplicemente di farmi stare tranquilla... » Con un gesto che mi riempì di tenerezza lui prese le mie mani tra le proprie, e con la medesima intensità restituì il mio sguardo.

« Ti sto dicendo la verità. Sto bene. Davvero ».

Non potei più trattenermi e assai poco convenientemente scoppiai a piangere; per l'intero pomeriggio ero stata perseguitata da pensieri terribili, ma ora, che sapevo che lui stava bene, ora che mi teneva fra le braccia aspettando che il mio pianto si calmasse, sembrava tutto diverso. Non mi disse a chi appartenevano le misteriose analisi che avevano scatenato quel domino di false notizie e io non glielo domandai, certa che se avesse potuto parlarmene lo avrebbe fatto.

« Mi hai spaventata a morte, Donald ». Lui sorrise quasi imbarazzato, schernendosi.

« Non era la mia intenzione ».

Il fuoco nel caminetto richiedeva di essere alimentato, la fiamma iniziava a scemare e il padrone di casa si alzò per svolgere quell'incombenza mentre io, gli occhi ancora bagnati, non potevo staccare lo sguardo da lui. Ricordai il suo rapimento, un paio d'anni prima: aveva rischiato di essere ucciso in un modo orribile, e io non c'ero, bloccata a New York dal primo omicidio di Albert Carson... Quando tornò a sedersi accanto a me, guidata dall'istinto più che dal buon senso - e probabilmente, adesso che buona parte della tensione si era sciolta, anche dallo whisky - tesi una mano verso di lui, al suo collo, le dita attente a riconoscere la piccola cicatrice che, sul lato destro, quella brutta avventura gli aveva lasciato.

« Non farlo mai più, ti prego », mormorai. Mi protesi fino a lui e, senza pensare ad altro che non fosse quanto avevo desiderato farlo, appoggiai le labbra sulle sue. Per un attimo vidi il suo smarrimento, ma sentire il suo respiro mischiarsi col mio, in quell'unico istante, mi diede un coraggio che non ho mai avuto prima. Così lo baciai, mentre di nuovo le lacrime rompevano gli argini, e, cosa che mi sorprese, questa volta lui rispose a quel bacio. Ci ritrovammo abbracciati, la mia testa sulla sua spalla e la sua mano fra i miei capelli in un gesto affettuoso.

« Tu sai che non può accadere, vero? », lo sentii dire.

« Sì. Ma spesso ho pensato che sarebbe bello, se potesse »

« Non può, Christine ». Chiusi gli occhi per un istante, e mi separai da lui con un sospiro.

« Lo so ».

E lo sapevo davvero. Non solo c'erano tutti quei trent'anni buoni di differenza, non solo stavamo lavorando insieme e, se le cose fossero andate come Gibbs si augurava, presto saremmo stati di nuovo colleghi. Ero stata sua allieva. La sua allieva, come Abby giustamente amava sottolineare. E Ducky è sempre stato troppo tradizionale e gentleman, per violare un vincolo così sacro. Qualsiasi cosa mi fosse passata per la testa in quei momenti, dunque, doveva sparire e non lasciar traccia: per quanto difficile, era la cosa migliore per tutti.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Un altro. ***


momentaneous

Grazie mille per le recensioni! Sono davvero contenta che lo scorso capitolo vi sia piaciuto...!

@melmon: è esattamente quel che penso io! XD

@tasso85: ma sai che mi sono fatta la stessa domanda? e infatti ho notato che l'ho scritto a un modo nel capitolo, e a un altro nel titolo! ^___^

 

 

Tutti i telefoni squillarono nel cuore della notte, frantumando il silenzio pressoché in contemporanea con il trillo abituale della linea fissa, le cornamuse scozzesi del cellulare di Ducky e la marcia trionfale dell'Aida del mio.

« Fellman »

« Gibbs. C'è un altro cadavere ». Mi sentii il sangue gelare.

« Carson? »

« Probabile. Sarò lì tra quindici minuti »

« Aspetterò sulla strada ».

Avevo poco tempo per prepararmi e lo sapevo, ma ciò nonostante indugiai, seduta sul bordo del letto con i piedi sul tappeto. Un altro cadavere . Fino a quando sarebbe durata, quella folle guerra tra me e Carson? Quante persone avrebbero ancora dovuto morire, prima che lo fermassi una volta per tutte? La porta si aprì, proiettando nel buio la lama di luce proveniente dal corridoio.

« Ha chiamato anche me, Donald, grazie », lo prevenni. Accesi la lampada.

« Stai bene? » Per un istante mi domandai se si stesse riferendo alla telefonata o a quanto accaduto qualche ora prima. Ma avevo deciso che non sarebbe più accaduto nulla del genere, e non potevo tornare indietro alla prima incertezza.

« Questa volta lo prenderò », dichiarai, con gli istinti bellici a livelli mai visti. Il mio ospite sorrise.

« Non ho il minimo dubbio, tesoro ».

Arrivammo sul posto a tempo di record - avevo dimenticato a quali velocità sapesse guidare Gibbs, ma ora che mi aveva rinfrescato la memoria non sentivo il minimo desiderio di ripetere l'esperienza -; l'area era stata delimitata con il familiare nastro giallo, potenti fari alogeni montati su cavalletti illuminavano a giorno la scena, e Palmer aveva provveduto a raggiungerci là con il furgone: scendemmo dalle macchine - Gibbs, Ducky e io dalla prima, Tony, Timothy e la David dall'altra - stringendoci nelle giacche per il freddo pungente della notte inoltrata.

Sotto la luce bianca il corpo in uniforme da sergente risultava di un pallore impressionante, specie in contrasto con il sangue che imbrattava ogni cosa.

« Chris, foto. David, schizzi e misurazioni. McGee, DiNozzo, con me ». Presi al volo la macchina fotografica, senza dire nulla ma domandandomi per quale oscuro motivo Gibbs avesse preso Tony e McGee per cercare indizi e - soprattutto - lasciato me e Ziva David a così stretto contatto. Incontrando per caso gli occhi di Donald, mi resi conto che si chiedeva la stessa cosa: mi rivolse un sorriso incoraggiante, come faceva ogni volta che si trattava di lei... Non capivo perché, ma sembrava convinto che io e quel carro armato travestito da agente del Mossad avremmo potuto andare d'accordo.

Iniziai a fotografare come mi era stato insegnato tanto tempo prima: le varie angolature della scena nel suo insieme, identificando punti di riferimento su cui triangolare le misurazioni; poi i dettagli, le ferite, gli eventuali residui sul corpo e nell'area immediatamente circostante. Inaspettata e non troppo cordiale, mentre ero intenta a fotografare le mani del sergente Harris la voce dell'agente David mi strappò al mio mutismo.

« Hai già fotografato i fogli? »

Annuii. « Puoi rimuoverli, sì ». La guardai per un attimo, a raccogliere pagine appallottolate di chissà quale filosofo questa volta. Irrazionalmente mi trovai a sperare che non si trattasse di Hegel. L'avevo sempre odiato, sin dalla prima volta che ne avevo sentito parlare... Anche se non avrei saputo dire con precisione il perché.

Donald e il suo assistente erano chini accanto al cadavere, in attesa che la sonda epatica rilevasse la temperatura del fegato permettendo di stabilire, almeno approssimativamente, l'ora del decesso; Ziva imbustava prove da portare ad Abby; io invece zoomai sulla ferita alla gola che aveva ucciso il sergente e scattai almeno tre foto prima di rendermi conto che qualcosa non andava.

Quando Abby sostiene che Gibbs possiede il potere probabilmente magico di apparire quando si scopre qualcosa di significativo ha ragione, senza margine alcuno per discutere, e se non mi fosse bastata l'assicurazione della mia buona amica certo quella notte, col freddo che entrava nelle ossa e noi lì impegnati con un altro cadavere, ne avrei avuto la prova inconfutabile. L'avevo visto allontanarsi tra gli arbusti del parco, seguendo non so quale traccia, eppure non appena avevo smesso di scattare ed ero rimasta immobile con gli occhi fissi sul cadavere Gibbs era comparso al mio fianco.

« Cos'hai visto, Chris? » Nel giro di un paio di secondi tutti gli occhi si puntarono su di me. Indecisa su chi guardare nel momento in cui avessi esposto le mie perplessità, alla fine mi decisi - sorprendentemente ! - per il medico legale: dopotutto, era lui il primo che avrebbe potuto confermare o cassare in maniera definitiva ciò che stavo per dire.

« Non credo che sia opera di Carson ». Dalla squadra, non una parola. Ducky abbassò lo sguardo sulla ferita e annuì in silenzio, ma non disse nulla forse per permettermi di sbrigarmela da sola. Gibbs, dal quale mi ero aspettata segni d'insofferenza, si limitò ad un solo e paziente intervento.

« Spiegami ».

« La ferita, Gibbs. È come le altre solo in apparenza... Ma è diversa ». Mi accoccolai accanto al corpo, imitata da lui e da Ziva. Alle mie spalle sentii i passi di Tony e McGee che si avvicinavano. Indicai la gola di Harris con un dito. « I contorni non sono slabbrati »

« Credevo ci volessero esami un po' più complessi, per questo genere di cose, che una semplice occhiata... »

« Quando si tratta di determinare con precisione il tipo di arma, sì, Jethro, hai ragione. Ma in questo caso credo che Christine abbia visto giusto: forse non sapremo dirti molto sull'arma usata, ma posso garantirti che non è il coltello seghettato degli altri casi. I contorni sono troppo nitidi, sembrano quasi disegnati. Doveva essere un'arma molto affilata »

« Un rasoio », avanzò la David, alzando gli occhi verso di me. Mi stupii di non vederla più ostile come i primi tempi ma un po' più sciolta.

« Potrebbe essere una buona risposta, Ziva », esclamò Ducky, sottolineando le proprie parole alzando l'indice verso di lei, e io annuii con convinzione.

« Quindi cerchiamo un emulo, o soltanto qualcuno che ha visto Sweeney Todd? » Rivolsi un sorriso divertito a Tony, nonostante tutto: la battuta in effetti calzava...

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Telefoni... ***


momentaneous

« Sei a Washington, vero? »

Il tipico stile di mio zio: nemmeno un buongiorno e interrogatorio immediato, anche al telefono. Il tuo interlocutore potrebbe aver bisogno di poco tempo, per inventare una scusa, quindi il miglior modo per non essere presi in giro è non lasciargliene affatto...

« E se fosse? »

« Non prendiamoci per il culo, Chris, ok? So benissimo che sei da quel Gibbs. Si è fatto mandare tutti i fascicoli del caso Carson. Ora coinvolgi anche i federali, nelle tue fobie? »

Strinsi i denti. Non era un uomo cattivo, mio zio, davvero; era un brav'uomo e un buon poliziotto, e dopo aver fatto carriera era diventato anche un ottimo superiore per i suoi sottoposti, ma quando si trattava di me... Non ha mai desiderato altro che fossi la migliore, sin da quando mio padre fu ucciso, e per la maggior parte della mia vita, dal momento che il nostro obiettivo coincideva pienamente, ero riuscita ad accontentarlo. La comparsa di Albert Carson però aveva cambiato ogni cosa. Lo zio era convinto che fosse diventata un'ossessione, la mia, una crociata più che un sano desiderio di giustizia, e dopo che la stampa aveva fatto tutto il possibile per mettermi in ridicolo lui, non so come, era in un certo senso passato “dall'altra parte”, tra quelli che premevano perché ammettessi una volta per tutte di avere sbagliato e mi decidessi a ricominciare la mia vita.

Non solo non l'avevo fatto ma avevo addirittura lasciato la città senza dirgli nulla né fargli avere un recapito dove trovarmi. E me n'ero andata. Da Gibbs. Gibbs, che mio zio detestava da quando il mio stage semestrale presso l'NCIS era diventato annuale, e poi addirittura biennale, rischiando persino di sottrarmi alla tradizione familiare di prestare onorato servizio presso la Polizia di New York. Lo stesso Gibbs che per qualche tempo era sembrato in grado di allontanare da lui la sua bambina.

« Non sono stata io. Ha ammazzato un sottufficiale della Marina, e ne abbiamo trovato un secondo proprio stanotte ». All'altro capo, silenzio. E i silenzi di Aengus Fellman non preludono mai a niente di buono. Probabilmente stava valutando quale domanda farmi per prima tra le mille possibili che certo la sua mente stava sfornando.

« Sei sicura che sia lo stesso assassino? »

Lo stesso assassino. Tipico. Dopo settimane trascorse cercando di farmi ritrattare le mie posizioni, non avrebbe mai acconsentito a pronunciare il nome di Carson in una frase del genere.

« Sono sicura che sia Carson, sì. Comandante ». Ero irritata e l'unico modo che avevo per dimostrarglielo erano le parole: pronunciare apertamente il nome che lui aveva taciuto, e rivolgermi a lui usando il suo grado. Era il superiore dei miei superiori, no? Bene, tanto valeva che io non mi comportassi da nipote.

« Chris. Basta »

« No. Sai benissimo cosa c'è stato dietro quella sentenza. Io ti dico che è Carson, il responsabile di quei morti, e non intendo rimangiarmelo. Comunque, grazie »

« Di cosa? », domandò all'altro capo, sospettoso.

« Di non avere neppure per un attimo considerato le implicazioni del fatto che, dopo due anni senza muoversi da New York, non appena io ho lasciato la città lui sia magicamente comparso qui »

« Credi che ti abbia seguito? »

« Mi ha mandato un'altra lettera. In ufficio. Devo prodigarmi in altre spiegazioni? »

Un altro silenzio, concluso da un sospiro.

« Fa' attenzione, Chris »

« Tutto qui? »

« Prendilo ».

Richiusi il cellulare e lo lasciai cadere nel cassetto della scrivania. Quindi, con le braccia tese sopra la testa, cercai di stirare la schiena il più possibile. Al suono secco delle vertebre Tony rabbrividì vistosamente.

« Dio, Chris, che schifo...! »

« Che bambino impressionabile... », commentai. Ziva rise e fece ruotare un paio di volte le spalle, finché anche le sue ossa non risposero con uno schiocco.

« Volete piantarla di impressionare Di Nozzo? Siete proprio due cattive bambine... Sapete quanto è sensibile! »

Gibbs era comparso - dal nulla, come sempre: forse Abby aveva davvero ragione - con un cartone di caffè, dal quale ciascuno di noi prese il proprio.

« Hai vinto alla lotteria, capo? », chiese Tony con un gran sorriso, mentre io, McGee e la David prendevamo il primo sorso in contemporanea.

« No, ma ho bisogno di gente sveglia. Scoperto qualcosa? »

« Albert Carson è effettivamente a Washington, capo », esordì McGee e subito prese a digitare sulla tastiera per inviare sullo schermo panoramico le proprie scoperte. Man mano che lui procedeva, andavano aprendosi nuove finestre: ricevute di carte di credito, tabulati telefonici, movimenti bancari... « Ma non sono ancora riuscito a trovare pagamenti di alberghi o cose del genere... Non so dove sia »

« Probabilmente paga l'alloggio in contanti. Così non sappiamo dove cercarlo »

« Era disfattismo, Ziva? »

« No, capo, solo un pensiero. Sbagliato, evidentemente »

« Ottimo ».

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Visite ***


momentaneous

Mi ero addormentata rannicchiata sul divano del salotto nonostante non fossero neppure le cinque; ma il sonno perso a causa di Carson, il tepore del fuoco acceso e le compresse per l'emicrania avevano congiurato insieme affinché la mia testa iniziasse a ciondolare, Jane Eyre scivolasse sul pavimento e la tazza di tè che avevo preparato con tanta cura finisse per raffreddarsi del tutto. E questo dimostrava che nonostante le mie proteste Gibbs aveva avuto ragione, ancora una volta, a spedirmi a casa.

Il mio stato di beatitudine però venne interrotto all'improvviso, e non da una delle bizzarre manifestazioni della signora Mallard o dai cani - che peraltro sembravano essersi abituati alla mia presenza al punto che, sul cuscino accanto a me, stava Tyson in perfetta quiete. Qualcuno aveva suonato alla porta.

Mi alzai innervosita, passandomi le mani fra i capelli; indossavo i pantaloni di una vecchia tuta, e una felpa dell'NCIS grigia, e naturalmente non avevo le scarpe... La massiccia presenza di tappeti su praticamente ogni pavimento era una vera manna per la mia fissazione di girare per casa con le calze morbide e calde di cui facevo collezione. Ma avevo la pistola a portata di mano, per ogni evenienza, e ne fissai la fondina ai pantaloni, togliendo la sicura. Il campanello suonò un'altra volta.

Diedi un'occhiata al portico spostando le tendine e quello che vidi non mi piacque. Aprii la porta.

« Sì? »

La donna - mora, lineamenti gentili, sguardo intelligente - mi squadrò da capo a piedi con un'espressione interrogativa. Avrei potuto andarle incontro, presentandomi, ma mi guardai bene dal farlo... Probabilmente Abby mi avrebbe incenerito, se avessi fatto una cosa simile e lei l'avesse saputo.

« Cercavo... Cercavo il dottor Mallard... » Per tutta risposta io alzai le spalle.

« Non è in casa. Sapeva che sarebbe venuta? »

« Per la verità no, è... »

« Bene. Arrivederci ».

Feci per chiudere la porta.

« Aspetti! » La riaprii.

« Desidera altro? », domandai serafica.

« Come pensa di riferirgli la mia visita, se non mi ha neppure chiesto chi sono? »

« Non ho bisogno di chiederle nulla, dottoressa Byers ».

Lo sguardo della donna si accese; probabilmente pensava che conoscessi il suo nome perché Ducky aveva parlato di lei.

« Potrebbe farmi sedere un istante, allora, visto che... »

« Temo che la cosa non sia possibile. La signora Mallard sta riposando, e... Be', sa, i Corgi non sono particolarmente socievoli, quando lei non è sveglia. Non che di norma lo siano, a dire il vero », aggiunsi, come se stessi riflettendo tra me. La Byers parve indispettita.

« Mi faccia entrare, per cortesia »

« No »

« Ma si può sapere chi è lei? »

L'angolo destro della mia bocca si sollevò in una specie di sorriso obliquo.

« Agente speciale Christine Fellman », dissi, e nel pronunciare quello speciale mi resi conto di avere appena preso in mano il mio futuro lavorativo.

« È successo qualcosa a Ducky? », domandò lei, e sembrava sinceramente interessata...Ma io non ero interessata a lei.

« No »

« Allora perché è qui? »

Mi esibii in un gran sorriso, di quelli che con Abby chiamiamo “alla Gibbs”: divertito e sornione insieme, e meravigliosamente ingenuo.

« Perché ci vivo, per esempio... »

La guardai sparire godendomi la sensazione di trionfo. Aveva vacillato, boccheggiato quasi alle mie parole, e - confesso - la cosa non mi era dispiaciuta affatto. Non aveva importanza, che avessi preso la decisione di dimenticare ciò che avevo provato la sera precedente; dimenticarlo era forse possibile ma negarlo non lo era... E - egoisticamente, lo so - l'ultima cosa di cui avevo bisogno era che la dottoressa Byers ottenesse ciò che io non potevo avere.

Il tè ormai era freddo, e visto l'inverno che premeva fuori dalla porta non era la bevanda più indicata; ma soprattutto, mi dissi, avevo di che festeggiare! Mi diressi in cucina e mi preparai una cioccolata calda, concedendomi di ripensare alla conversazione da poco terminata. Scemato l'entusiasmo, però, qualcosa parve incrinarsi. Composi il numero della mia migliore amica e incastrai il telefono tra la mascella e la spalla, mentre tornavo in salotto per ravvivare il fuoco cercando nel frattempo di non rovesciare il contenuto bollente della tazza.

« Ciao... »

« Chris! Tutto a posto? » Mescolai le braci con l'attizzatoio e aggiunsi due ciocchi di legna.

« Ho appena fatto una cosa che ti sarebbe piaciuta »

« Sei riuscita a distillare un profumo al caffè? » chiese in una risata. Risi anch'io.

« Non ancora... Però ho fatto battere in ritirata la tua dottoressa Byers »

« Ah! », esclamò lei all'altro lato, tanto forte che dovetti allontanare il ricevitore dall'orecchio. Sì, pensai: non c'era antidoto migliore, all'incertezza di un attimo prima, che l'incoraggiamento di qualcuno come Abby. « Cos'hai fatto? Hai mandato Tyson all'attacco? Hai detto alla signora Mallard che era passata solo per concupire Ducky? Oh, ti prego, dimmi che l'ha inseguita col coltello che tiene nel reggiseno! »

« Il coltello che tiene dove? »

« Lascia stare, è una vecchia storia... Cos'hai combinato? » Sorrisi tra me.

« Niente... Ma le ho aperto la porta in tuta e calzettoni, un po' addormentata... Non l'ho fatta entrare dicendole che i cani non sono socievoli con gli estranei... Poi le ho detto che vivo qui... Ecco, questo credo che non l'abbia preso bene ».

« Fantastico! L'avevo detto, io, che andare a stare da Ducky era la mossa migliore... »

Fui sul punto di dirle cosa avevo fatto. Non so perché, eppure per un momento avevo avuto la tentazione di confessarle che avevo baciato Donald.

« Novità sul caso? », chiesi invece.

« Abbiamo finito i raffronti tra le ferite... Avevi ragione, Chris, non è lo stesso coltello... E probabilmente, come ha detto Ziva, era un rasoio. I lembi sono compatibili ». Rimasi in silenzio per più tempo di quanto non ne fosse effettivamente necessario. « Ci sei ancora? »

« Sì, io... Ci sono. Però non so cosa pensare »

« Pensi che sia un altro assassino, vero? »

« Spero di no. Ma non riesco a convincermi che Carson possa aver cambiato arma dopo tutto questo tempo »

« Vedrai che esiste una spiegazione ».


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Casalinghe anni'50 e passi falsi ***


momentaneous

Speravo ardentemente che una spiegazione esistesse, per la morte del caporale Baker, ma quelle che riuscivo a prospettare mi piacevano una meno dell'altra. Certo mi auguravo che quel tipo di ferita fosse il risultato di un cambio di abitudini di Carson, ma più mi sforzavo di convincermene e meno lo credevo.

« Ho pensato un po' al caso, questo pomeriggio... Posso sfruttare le tue competenze e farti qualche domanda, dopo cena? » Ducky alzò gli occhi dal piatto - avevo preparato un meraviglioso salmone al pepe rosa, e come contorno, per la gioia della signora Mallard, patate al burro con tanto burro.

« Sì, certo... Brutti pensieri? »

« Come sempre, direi », ammisi con un sorriso.

Stavo lavando i piatti - occupazione che, a volte, mi rilassa - quando il mio patologo entrò in cucina, dopo avere accompagnato a letto la madre. Si appoggiò al piano da lavoro accanto a me, le braccia incrociate.

« Di cosa si tratta? »

« La discrepanza tra le armi usate. Ho pensato a tutti i motivi possibili perché Carson possa avere cambiato coltello, ma nessuno ha un senso... Temo che ci sia un altro omicida », ammisi alla fine, asciugandomi le mani nel grembiule. Nel compiere quel gesto mi sentii vagamente una casalinga anni Cinquanta, ma scacciai facilmente quel pensiero ricordando a me stessa che certo una perfetta casalinga anni Cinquanta non avrebbe intrattenuto quel genere di conversazione. « Solo, non ho idea di come identificarlo ».

« Ragioniamo insieme, vuoi? » Annuii con la testa. « Bene. Partiamo dall'ipotesi - purtroppo concreta - che si tratti di un'altra mano. In che rapporto possiamo collocarla con Carson? »

« Potrebbe essere un emulatore, come ha suggerito Ziva »

« Allora analizziamo questa possibilità. A favore dell'ipotesi sta il fatto che abbia usato un rasoio, invece del solito coltello seghettato, e questo era un dettaglio che la stampa non ha mai riportato. Però... » Mi guardò, e mi parve di notare un'aria colpevole in lui.

« Però...? »

« C'è un 12, nel suo orecchio. E il colpo è stato inferto con la decisione di un professionista... »

« Hai fatto l'autopsia senza di me »

« Avevi bisogno di riposare. Non potevo dirtelo... Ci servi in piedi, sei tu quella che lo conosce meglio di tutti »

« Andiamo avanti. Quindi abbiamo due elementi che coincidono, mentre uno non lo fa. E sono tutti ugualmente importanti, visto che nemmeno il particolare dei numeri è mai stato in possesso della stampa ».

« Ora tocca a te, Christine: per come conosci Carson... Come credi la prenderebbe, se qualcuno tentasse di farsi credere lui? ». Feci una smorfia. Non sono mai stata portata quanto lui alla psicologia...

« Per come lo conosco io, credo che s'incazzerebbe non poco. Però è anche vero che quello con la laurea fresca in questo genere di cose sei tu... »

Donald rise, scuotendo la testa.

« Non l'avrei detto proprio in questi termini, ma sono portato a pensare che tu abbia visto giusto. Gli assassini di quel genere non sono felici di essere copiati a loro insaputa ». Mi scoccò un'occhiata di bonario rimprovero « Immagino converrai con me che, messa così, è un po' più presentabile in tribunale... »

« Inezie! Ti va una tisana? »

« Dipende da cosa proponi »

« Quello che offre la tua cucina, dottore... Tiglio, malva, malva, tiglio... Oh, guarda! », esclamai, brandendo una bustina diversa dalle altre due « Menta piperita! » Ma la riposi nella scatola. « Meglio metterla via, non vorrei che provocasse pericolosi effetti collaterali... » mi trovai a commentare, automaticamente, con una punta di malizia. Il dottor Mallard mi restituì di rimando uno sguardo che viaggiava sulla stessa lunghezza d'onda.

« Per caso l'hai provata tu, di recente? »

Mi si gelò il sangue e desiderai essere inghiottita dal pavimento. Cosa mi era saltato in mente, di fare una battuta del genere dopo quello che era successo? Era logico che lui mi avesse risposto per le rime! Accesi il bollitore elettrico.

« Non ho riflettuto prima di parlare. Scusami ». Ducky mi si avvicinò e fece per abbracciarmi, ma io mi ritrassi. Vidi l'espressione mortificata del suo viso riflessa nel vetro della finestra.

« Prima o poi dovremo affrontare il discorso, Christine... »

« Non è necessario. Ho sbagliato. Non dovevo. E dal momento che non accadrà più, è superfluo parlarne... »

« Christine... »

« No, Donald, davvero. È già abbastanza difficile così; io non sono il tipo di persona che fa questo genere di cose, lo sai, e... » Le sue mani si strinsero sulle mie spalle; questa volta non potei scappare.

« Proprio perché non sei quel tipo di persona, è necessario che ne parliamo... Mi rendo conto che con una storia come la tua... »

« All'inferno Freud, Ducky, non tirarmi fuori Edipo o Elettra o chiunque altro! Non c'entra niente che mio padre sia morto quand'ero piccola, e se ci pensi sono sicura che lo sai anche tu. Se fosse una cosa così banale mi sarei innamorata di Gibbs, non credi? Mio padre somigliava molto più a lui che a te ».

L'acqua stava bollendo e mi affrettai a staccare l'interruttore. Quando mi voltai, Donald mi fissava con gli occhi sbarrati. « Innamorata? »

« Questo intendevo, quando ti ho detto che era inutile parlarne. Finisco sempre per rovinare tutto, lo sai, quando cerco di uscire da una situazione spinosa. Ne creo sempre una più spinosa ancora »

« Innamorata? », disse di nuovo, col fiato rotto. Compresi che avevo appena combinato un disastro di proporzioni bibliche. Sentii il mio viso in fiamme e per superare l'imbarazzo gli tesi una tazza fumante.

« Niente che non si possa gestire. Tiglio ». Dovevo trovare una soluzione alla svelta. Parlare a raffica prima che lui si riprendesse dallo choc poteva essere un'idea. « Oggi è venuta a cercarti la dottoressa Byers... Stavo dormendo sul divano - sai, le pillole per l'emicrania... - e le ho aperto in tuta e calzettoni. Cioè, avevo anche la pistola ma quella non l'ho usata... Credo che possa essersi fatta un'idea non proprio esatta della mia presenza qui, vedendomi in quello stato, e devo confessarti di non aver fatto nulla per essere ospitale, ma davvero, ero ancora un po' stordita dal sonno e... Potresti dirle che mi dispiace, se dovessi incontrarla »

« Non credo accadrà », rispose, quasi sovrappensiero. Era chiaro, dal suo sguardo, che il mio fiume di parole non era servito a distrarlo.

« Come mai? »

« Ho riflettuto. Non riusco più a fidarmi di lei, e... Niente. Non è la persona adatta ». Non riuscii ad evitare un sorriso, che per fortuna Donald, che teneva lo sguardo fisso sul fondo della tazza, non notò.

« Domani sera c'è la partita », dissi, ansiosa di non ricadere nel silenzio. Silenzio significava pensieri, e i pensieri lo avrebbero portato al mio passo falso, e non volevo che accadesse...

« Partita? »

« Il bowling! NCIS vs. NCIS, non ricordi? Maschi contro femmine... » Avevo catturato la sua attenzione e mentalmente tirai un sospiro di sollievo.

« Ti sembro uno che gioca a bowling? » Sulla punta della lingua mi pizzicò un malizioso “E io ti sembro una che bacia un medico legale più vecchio di trent'anni?” ma riuscii ad evitarlo.

« Perché no? A quanto ho saputo da Abby, Palmer ha dato buca... Quindi o giochi tu, oppure avremo noi la partita vinta a tavolino! »

« Voi? »

« Abby, io, Jen » Notai un lampo strano nel suo sguardo, quasi di sorpresa, nel sentire il nome di Jen, ma non vi attribuii particolare importanza «...e la David »

« Perché Ziva non ti piace, Christine? » Mi strinsi nelle spalle, dispensandomi dalla risposta con un sorso di tisana. « Dovreste darvi una possibilità, invece. Avete molto in comune ».

« Come il fuoco e la benzina, sì... » Svuotai la tazza e la sciacquai. « Credo che andrò a dormire. Buonanotte, dottore... »

« Buonanotte, Christine », mi raggiunse la sua voce qualche istante più tardi, mentre già salivo le scale verso la mia stanza.


Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** L'emulo ***


momentaneous

Avevo noleggiato un'auto, per non dover sempre dipendere da Ducky o dagli altri per recarmi all'Agenzia, e quella mattina me ne compiacqui particolarmente: avevo passato la notte senza riuscire a chiudere occhio, pensando a fasi alterne al passo falso fatto con Donald quella sera, al bacio che non riuscivo a dimenticare, e alla possibilità che Carson avesse un adepto - perché

a questa conclusione mi aveva condotto l'insonnia, sulla scia della conversazione avuta prima di andare a letto -, ragion per cui decisi di alzarmi ed andare all'NCIS nonostante il sole non fosse ancora sorto. Non importava che non fossero neppure le sei, e che fosse una nuvolosa giornata d'inverno che minacciava la prima neve, avviai il motore e subito dopo aver regolato sul massimo la radio e il riscaldamento mi immisi sulle strade quasi deserte di Washington.

Anche l'edificio dell'NCIS era silenzioso; nell'open space, seduto alla scrivania trovai solamente Gibbs.

« Buongiorno »

« Buongiorno. Mattiniera... » Mi strinsi nelle spalle.

« Mi hai mandata a casa prima, ieri, ho avuto modo di riposare... E stanotte non sono riuscita a chiudere occhio », aggiunsi, mostrando il bicchiere del caffè. Leroy Jethro Gibbs mi scoccò un'occhiata divertita.

« Ducky ti ha detto dell'autopsia, quindi ». Annuii.

« Già... » Presi un lungo sorso di caffè e mi sedetti alla scrivania, accendendo il computer con un gesto automatico. « Ci ho riflettuto, Gibbs. Sono praticamente convinta che non sia la mano di un emulo, ma di una specie di allievo »

« In base a cosa? »

« Ho parlato un po' con Ducky, ieri sera... Anche se l'arma è diversa i particolari fondamentali combaciano, e non c'è altro modo in cui l'omicida potrebbe esserne venuto a conoscenza, se non dalla fonte originale ».

« GIBBS GIBBS GIBBS! »

Con la rapidità di un missile terra-aria, prima che l'Agente Speciale Gibbs avesse modo di esprimersi sulla mia teoria Abby Sciuto era arrivata di corsa di fronte a lui, con l'entusiasmo che di solito dimostra quando ha fatto una grande scoperta.

« Ciao, Abby... »

« Oh, Chris! Già qui anche tu, fantastico! L'ho trovato ». Il sorriso sul viso della mia amica era così largo che sembrava toccare davvero entrambe le orecchie. Gibbs accennò una risata.

« Trovato cosa? »

« Vuoi dire “Trovato chi”, agente speciale Gibbs... » Abby si chinò sulla mia tastiera e digitò rapidissima una serie di comandi. Sul maxi-schermo si aprì l'immagine di un'impronta digitale e il suo riscontro. « Il cattivo numero due. Calvin Moriarty ». Lo sguardo di Gibbs si accese e immagino che il mio avesse fatto lo stesso.

« Come hai fatto? », domandammo all'unisono.

« Lavorerà pure per un pazzo ben organizzato, ma ha ancora parecchia strada da fare... Sulle mostrine del caporale Baker c'era quella bellissima impronta! »

« Ottimo lavoro, Abby », commentò Gibbs baciandola sulla guancia. « Chris, trovalo »

« Subito, capo! », replicai, imitando senza volere McGee.

Sembrava troppo bello per essere vero, lo confesso. In meno di mezz'ora sullo schermo erano apparsi, uno dopo l'altro, tutti i dettagli della vita di quell'uomo: dall'indirizzo al luogo dove lavorava, dal numero di cellulare all'identificativo della sua connessione internet, dalla fedina penale - tre condanne per piccoli furti, una per possesso di droga, qualche denuncia per voyeurismo - ai dati della sua auto e del suo conto in banca... Tutto. E mentre Tony, Ziva e McGee uscivano dall'ascensore, alle sette in punto, Gibbs mi lanciava le chiavi dell'auto e ordinava all'agente Di Nozzo di venire con noi.

« Già fuori a quest'ora? »

« Ricordami di fare le nostre scuse a Moriarty per averlo svegliato troppo presto, Di Nozzo! »

Tony parve perplesso.

« Moriarty? »

« Abby ha trovato un'impronta. Ci sono concrete probabilità che sia il complice di Carson... », intervenni, prima che lo scappellotto di Gibbs avesse modo di partire.

« Ah, ok. Ora ho capito tutto ». A quel punto, la nuca di Tony venne colpita da non uno, ma ben due scappellotti. All'unisono, uno a destra e uno a sinistra, io e Gibbs non eravamo stati in grado di resistere.

« Non scherzare, Di Nozzo. Non hai capito ».

Salimmo in macchina ridendo. Se tutto fosse andato come prometteva – e Gibbs non ci avesse uccisi con il suo adorabile stile di guida personale – nel giro di qualche ora avremmo avuto Moriarty e, si sperava, lo stesso Carson.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Calvin Moriarty ***


momentaneous

Alla fine avevo guidato io, cosa che ci aveva permesso di arrivare vivi per quanto, forse, qualche minuto più tardi di quanto avremmo fatto con Gibbs al volante.

La casa di Calvin Moriarty era buia e silenziosa, vista dall'auto. Tony sbadigliava sul sedile posteriore, lamentando la mancanza di un caffè in quella mattinata gelida che prometteva pioggia; dal posto di guida cercavo di distinguere qualcosa all'interno dell'abitazione con il visore notturno senza riuscirci, e con lo stesso risultato mi sforzavo di non pensare a quanto freddo facesse dentro la macchina. Sul sedile del passeggero, invece, Gibbs sembrava perfettamente a proprio agio.

« Perché non entriamo? »

« Perché Ziva e McGee non sono ancora arrivati, Chris. Mi sembra piuttosto ovvio ».

Posai il binocolo sul cruscotto e mi soffiai sulle dita intirizzite. Tony, alle mie spalle, quasi batteva i denti.

« Fa un freddo cane, Gibbs... »

« Io non lo sento ».

Nel vedere il furgone dell'NCIS svoltare all'angolo della strada, tanto io quanto Di Nozzo ci catapultammo fuori dall'auto infilando i giubbotti antiproiettile, più che lieti che l'estenuante attesa nell'auto-frigorifero fosse finita.

« E' una mia impressione, o fa meno freddo qui che là dentro? »

« Mi spaventa dirlo, ma forse hai ragione, Tony... »

« E perché ti spaventa dirlo? »

« Forse perché non hai mai ragione? »

« Ahahah... », finse una risata lui.

« Pensate di piantarla di giocare, bambini? »

« Sì capo! » ci affrettammo a rispondere.

Ziva e Tony sul retro, McGee, Gibbs e la sottoscritta all'ingresso principale: come descrivere il brivido di onnipotenza che si prova in un momento come quello, di fronte alla prospettiva di mettere le mani addosso ad un assassino? Il rumore della porta sfondata, la voce di Gibbs che grida NCIS!, la consapevolezza di avere le spalle coperte dalla migliore squadra di agenti sulla piazza, la luce delle torce che fende il buio di pari passo ai movimenti delle pistole... Dio, quanto mi era mancato a New York tutto questo.

« Libero! », giunse, dal retro della casa, la voce dell'agente David; e la conferma di Tony non tardò a farsi sentire, seguita subito dopo da quella di McGee. Gibbs ed io ispezionammo salotto e stanza da letto, ma il risultato non fu diverso.

« Libero », confermò il capo, e nel gelo della sua voce riconobbi la mia, ancor prima che la sua, rabbia. Ce l'avevo con me stessa per non aver compreso che, se l'osservazione con il visore notturno non mi aveva rivelato presenze all'interno della casa, aspettarsi di trovare davvero Moriarty sarebbe stato stupido... Qualcuno accese le luci.

« Ci ha battuti sul tempo ».

« Tipico del suo maestro... Sparire al momento giusto »

« Lo troveremo, Chris ».

Non risposi. Odiavo girare a vuoto in quel modo e odiavo pensare che ancora una volta Carson si fosse preso gioco di me. Riposi la pistola e infilai i guanti mentre mi guardavo attorno.

Avevo pensato, non so quanto consciamente, di trovare un ambiente caotico, sporco, dominato da quel disordine esteriore che spesso accompagna le menti perverse, ma quello che ora si offriva ai miei occhi era uno spettacolo del tutto diverso; niente polvere sui mobili né sporcizia nelle stanze, la spazzatura svuotata e la cucina accuratamente pulita... Ne fui sorpresa, molto sorpresa. Non coincideva con le caratteristiche che di solito vengono riscontrate sugli emuli, che - stando a quanto avevo studiato secoli prima - in genere sono individui deboli, disorganizzati, facilmente vittima di una personalità dominante come quella del serial killer originario... Un pensiero si affacciò alla mia mente. Avevo già avuto occasione di vedere un'organizzazione di quel tipo, forse, ma c'era soltanto un modo di averne conferma; per prima cosa, trovandomi in cucina, aprii prima i pensili poi il frigorifero, e osservai in silenzio le confezioni di cibo. Quindi, con quel pensiero che si faceva sempre più forte, tornai alla libreria in salotto e lessi, uno dopo l'altro, gli autori dei volumi allineati.

« Carson è stato qui ».

Fui assalita da una raffica di « Cosa? », « Come lo sai? », « Come fai a dirlo? » ma mantenni la calma senza problemi. Erano quei momenti, in cui l'intuito dell'investigatore si faceva sentire con tanta forza da produrre risultati immediati, ad avere prodotto in polizia il mito di Christine Fellman ancor prima che avessi vent'anni, quando giocavo alla teenager detective perennemente alle costole di mio zio. Era cambiato ben più di qualcosa, da allora, nella mia vita come in quella dello zio Aengus, ma non ho mai fatto fatica a riconoscere la sensazione.

« Le scatole in cucina. I libri qui. E, scommetto, anche i DVD, e tutto ciò che ha un nome... Sono tutti in ordine alfabetico inverso. Una piccola fissazione di Albert Carson, come ho potuto notare durante la prima ed unica perquisizione nel suo appartamento di New York ».

Un cenno della testa da parte di Gibbs e sia Tony che McGee partirono a razzo per controllare DVD e CD. Bastò un colpo d'occhio per la conferma.

« E così ci sono scappati in due... » Jethro incenerì Ziva con uno sguardo, che poi spostò su di me.

« Questo dimostra che la teoria tua e di Ducky era esatta: Moriarty non è semplicemente un imitatore, è un allievo ».

Ultimammo i rilevi in un silenzio pressoché totale, tutti più o meno di cattivo umore: Gibbs aveva ragione, certo, e l'informazione che avevamo ottenuto era senza dubbio utile, ma di lì a dire che la giornata era cominciata bene ce ne passava. Erano ormai quasi le undici quando chiudemmo finalmente gli sportelli del furgone dopo avere caricato tutto, e il mio stomaco si fece sentire.

« Credo che potrei uccidere, per un enorme caffè e una ciambella piena di zucchero », ammisi. Di Nozzo mi guardò incredulo.

« Non trovi che sia più un orario da hot dog? » Mi ritrovai a sorridere.

« Inizio ad avere davvero paura, Tony: è la seconda volta in una sola mattinata che mi trovo costretta a darti ragione... ».

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Punti di contatto ***


Chiedo mille e mille volte scusa per non avere aggiornato per tutto questo tempo!!! Spero di riuscire a farmi perdonare...!

Che cosa ci facessimo, di venerdì sera, io e l'agente David sedute al bancone del bar da sole, solo una decina di giorni prima mi sarebbe sembrato un mistero insolubile; ma gli eventi avevano in un certo senso congiurato, causando ritardi al resto della squadra così che l'appuntamento fissato per le 8 per lo spuntino prima del bowling era stato annullato e noi, le uniche riuscite ad arrivare, nostro malgrado eravamo state costrette, pur di non parlare della pesantissima giornata di lavoro appena finita, a socializzare.

« Come sei arrivata all'NCIS, Fellman? » Pensai a Tony, che risponde sempre “Sorridendo!”, e restare seria richiese non poco impegno.

« È stata una cosa strana. Sono entrata in Polizia in un certo senso di diritto, senza dover frequentare tutti gli anni di Accademia che di norma sarebbero previsti, anche perché già prima di essere assunta avevo un'esperienza...diciamo...piuttosto vasta... Ma alcuni corsi non si potevano proprio evitare; e così, nell'ambito di Medicina Legale, per puro caso ci fu segnalato un seminario, facoltativo, sugli effetti che le traiettorie deviate dei proiettili a punta cava possono determinare sugli organi interni »

« Per caso la faccenda ha a che fare con Ducky? » La fissai sorpresa.

« Sì! Ma come... »

« Perché solo lui potrebbe tenere un seminario del genere, e perché... Be', perché sembra che abbiate gli stessi ritmi, per raccontare certe cose ». Ziva rise e io mi strinsi nelle spalle.

« Farò finta che sia un complimento... »

« In un certo senso può esserlo. Birra? » Accettai e feci un cenno al barista.

« Ad ogni modo... Quel seminario aveva la bellezza di cinque partecipanti, alla prima lezione. Sai, il poliziotto di strada non va tanto per il sottile e quell'argomento era oggettivamente troppo tecnico... Alla seconda lezione, c'ero soltanto io »

« Uh, intimo... » Non potei evitare di ridere insieme a lei, questa volta, e presi un sorso di birra.

« Sì, decisamente! »

« E com'è finita? L'hanno soppresso, il seminario, immagino... »

« Più o meno. Fu trasformato in un corso residenziale intensivo di tre settimane, qui a Washington perché Ducky era stato richiamato per un caso. Sede del corso, la Morgue dell'NCIS! » Feci una pausa ad effetto, sgranocchiando un paio di noccioline che il barista ci aveva messo davanti in una piccola ciotola. « Così ho conosciuto Gibbs. E non appena c'è stata la possibilità di uno stage di sei mesi all'agenzia, l'ho afferrata al volo ».

Ziva aggrottò le sopracciglia.

« Soltanto sei mesi? Mi era sembrato di capire... »

« Sei mesi che divennero un anno, poi prolungato a due... Il tutto per scoprire, rientrando a New York, che la nuova politica investigativa promossa dal mio distretto andava in tutt'altra direzione rispetto a quello che avevo imparato qui. Mi rimproveravano di essere “troppo esigente”, “troppo schizzinosa”... Non è stato piacevole, se devo dirti la verità »

« Perché non sei tornata a Washington? »

« Bella domanda. Perché mio... Il comandante Fellman mi avrebbe ucciso con le sue mani, se avessi tradito il New York Police Department per un'agenzia federale. Semplicemente ». Dalla luce strana del suo sguardo, mi resi conto che qualcosa del mio discorso aveva colpito particolarmente Ziva David.

« Il comandante Fellman? Tuo padre? »

« No », chiarii, sottolineando il concetto con un cenno della testa « Mio zio. Mio padre è morto quando avevo sei anni... Per questo, e perché sono cresciuta al seguito delle indagini di mio zio sin dal mio dodicesimo compleanno, sono entrata in Polizia di diritto, e con una discreta fama fin da subito. E per questo i miei colleghi sono stati tanto felici di vedermi cadere... Certe volte non conta niente ciò che sai fare, puoi avere uno stato di servizio perfetto e lavorare come una disperata, ma resti sempre quella che ha ricevuto un trattamento di favore ».

Ziva chinò la testa, lo sguardo fisso sul fondo del bicchiere.

« So fin troppo bene di cosa parli ». Prese fiato, sempre senza guardarmi « Mio padre è uno dei vicedirettori del Mossad ».

Confesso che rimasi a bocca aperta. Il silenzio che ne seguì fu in certa misura terapeutico, e mi permise di accettare un fatto che soltanto allora avevo notato. Alzai il boccale verso l'agente David come in un brindisi, e lei pur senza conoscere i miei motivi tese il proprio fino a farli tintinnare.

« A cosa brindiamo? »

« A Ducky, e al fatto che aveva ragione », replicai. « Tu ed io nonostante le apparenze abbiamo davvero qualcosa in comune, David! ». I nostri boccali tintinnarono e in un unico sorso vennero svuotati. Guardai l'orologio. « Sarà il caso di andare se non vogliamo far tardi ».

Non sono mai stata particolarmente portata per il bowling, lo confesso. A dire il vero, anzi, ho sempre sospettato che Abby continuasse ad invitarmi a quelle partite – NCIS vs. NCIS era una prassi assodata già ai tempi del mio primo stage, a quanto ne so – unicamente per amicizia, se non un po' per pietà... Conoscevo la teoria alla perfezione: regole, consigli, dritte, gergo tecnico, tutto, non un solo segreto. Ma quanto al mettere in pratica... Basti dire che la nostra squadra era molto più fortunata ad avere Abby che me.

« Sbaglio, o qui qualcuno è il mio equivalente femminile? » Presi per il collo la birra che Ducky mi stava porgendo e mi sedetti, di ritorno da uno degli split più imbarazzanti – e irrimediabili – della mia già di per sé misera carriera.

« Sono fuori esercizio, a quanto pare... » Lanciai un'occhiata alla pista, richiamata dall'esultanza dei miei avversari: Gibbs nemmeno a dirlo aveva centrato uno strike da maestro, riportando il punteggio in parità. Le mie compagne si consultarono rapidamente, poi Jen raggiunse me e il dottore.

« Tira Ziva... »

« Avrei detto Abby ». Donald tornò alla pista dopo un'occhiata di Jen, e fui sorpresa di come riuscisse a non sembrare fuori posto in quel bowling nonostante l'eleganza dei suoi vestiti e il papillon.

« Ziva è abile come un cecchino anche in questo campo... Ho ricevuto la tua domanda, Chris »

« Immaginavo ». Mi piegai in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la birra tra le mani, fissando il vuoto. A giudicare dall'entusiasmo che sentivo qualche passo più in là, Ziva doveva aver riportato la nostra metà di NCIS in vantaggio. « Non credo di poter tornare, Jen, tutto qui. Ti chiedo solo di prenderla in considerazione, non un trattamento di favore ». La mano del direttore si strinse sulla mia spalla e con la coda dell'occhio la vidi sorridere.

« È quello che sto facendo ».

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Latte, biscotti, bruciature e momenti di lucidità ***


Avevamo vinto. Incredibile ma vero, e soprattutto nonostante il mio deludente contributo, la squadra femminile dell'NCIS aveva ottenuto un'assoluta e indiscussa vittoria. Per quanto mi riguarda, tutto quel che avevo ricavato dalla serata erano state un paio di birre, non più di tre buoni tiri sul parquet e una montagna di risate, tutte cose che, pur in misure diverse, avevano contribuito non poco a farmi accantonare la delusione del mattino.

Parcheggiai nel vialetto, dietro alla macchina del mio ospite, già prevedendo per la mattina successiva una levata all'alba come quella di quel giorno: da quando era divenuto chiaro che Carson non agiva da solo mi sembrava improponibile anche la semplice idea di poter prendere sonno, e certo la scoperta dell'esistenza di Calvin Moriarty, e del rapporto che con ogni evidenza sussisteva tra lui e Carson, non poteva in alcun modo facilitarmi le cose. Entrai in casa mentre Ducky appendeva cappotto e cappello.

« Gloria al vincitore... »

Tolsi la giacca scuotendo la testa. « Non farmi ridere, Ducky »

« Posso offrirti il bicchiere della staffa? »

« Per la verità pensavo di scaldare un po' di latte e mangiare qualche biscotto, ho un discreto languore allo stomaco... Ma posso farti compagnia lo stesso, se per te non è un problema sorseggiare scotch in cucina invece che nella tua elegante poltrona »

« Non vedo perché dovrebbe esserlo », sorrise lui, e mentre mi infilavo in cucina sparì in salotto. Mi raggiunse il rumore ovattato del tappo della bottiglia di vetro, accesi il gas al minimo sotto il bollitore d'acciaio e rovistai nei pensili alla ricerca dei miei biscotti al cioccolato, sperando che la signora Mallard non li avesse trovati prima di me. « Allora? Sono riusciti a salvarsi? »

« Ebbene, sì! » esclamai, brandendo il sacchetto come un trofeo. Il bicchiere nella mano destra, con l'altra Ducky era impegnato a sciogliere il nodo del papillon che sembrava deciso ad opporre resistenza. Mi avvicinai. « Lascia, ti aiuto... A cosa serve avere le mani libere, altrimenti? »

Non avevo calcolato, nell'atto di propormi con tanta sollecitudine, quanto sarebbe stata minima la distanza fra me e lui quando avessi messo in pratica il mio gesto. Me ne resi conto troppo tardi, quando ormai le mie dita erano strette sulla stoffa così vicine al suo collo e il mio viso a non più di qualche centimetro dal suo. Quando un'ondata calda e gradevole si era fatta strada lungo la mia schiena fino ad esplodermi all'altezza del cuore. Quando, al tempo stesso inconsapevole e conscia di cosa stavo facendo, inclinai un poco la testa e lo baciai, lentamente, ancora stringendo in una mano la seta del papillon.

Compresi dal suono sordo che aveva posato il bicchiere ancora pieno sul bancone dietro di me e nel giro di una frazione di secondo sentii le sue mani sulla schiena, aperte, il tocco delicato attraverso la stoffa. Istintivamente e con un movimento morbido il mio corpo si appoggiò al suo, per un attimo ebbi la sensazione che mi stringesse a sé poi, senza preavviso, le sue labbra si allontanarono piano dalle mie. « No... » Indietreggiò. « No, Christine. Non può accadere ».

Mi bruciavano gli occhi, e forse per la prima volta da quando ci conoscevamo arrossii per l'imbarazzo, ma di colpo avevo compreso che questa volta non mi sarei arresa tanto facilmente. Non volevo. Certo, era una situazione quantomai particolare, ma non per questo meno importante per me... E deve ancora nascere, qualcuno in grado di dissuadermi dal difendere ciò che ritengo importante. Ragion per cui accantonai lo stupido “lo so” di qualche sera prima e attinsi alla mia dignità.

« Non sta scritto da nessuna parte, che non può », replicai secca.

« Ti prego, Christine, è già abbastanza difficile così... »

« Sì, hai ragione, è difficile. E perché? Perché tu fai di tutto per renderlo ancora più difficile. Fammi capire, per favore, spiegami, cosa c'è che non va in me? Cos'ho di sbagliato? » L'espressione che apparve sul suo viso era sinceramente sorpresa.

« Che non va? In te? Non dire sciocchezze, non hai niente di sbagliato... » Chiusi gli occhi e presi respiro un paio di volte, cercando la tranquillità di cui avevo bisogno per affrontare quella discussione.

« Allora perché continui ad allontanarmi? »

« Non ti sto allontanando; cerco semplicemente di essere razionale. È un brutto momento, per te, sei vulnerabile e... »

« Non sono vulnerabile », sibilai, indignata che mi attribuisse una condizione tanto estranea al mio modo di pensare. Tanto indignata che nemmeno valutai l'ipotesi che nelle sue parole potesse esserci un fondo di ragione.

« Sì, lo sei. Ed è giusto che tu lo sia, con tutto quello che sta accadendo. In più, sei giovane. Il che ti porta a reagire allo stress in maniera impulsiva ».

Sul punto di rispondergli, il latte che aveva continuato a bollire tracimò senza pietà su buona parte della cucina a gas. Spensi la fiamma e afferrai il bollitore per la maniglia d'acciaio – incandescente –, mi scottai, e quantomai furente lo gettai nel lavello con un « Vaffanculo » a mezza voce.

« Ti sei fatta male? »

Tenendo la mano sotto l'acqua fredda, mi scostai da Ducky che si era rapidamente avvicinato per controllare la bruciatura. « Lasciami stare ».

« Christine »

« No. Continuiamo. Mi stavi psicanalizzando, se non erro »

« Cercavo soltanto di... »

« Di trovare motivazioni stupide per qualcosa di assolutamente normale », conclusi, senza riuscire ad evitare che una certa venatura di rabbia si facesse strada nella mia voce. « Di trovare scuse, psico-idiozie per evitare qualcosa che – lo sai – entrambi vogliamo e che potrebbe essere bellissimo se solo tu gli permettessi di accadere ».

Lo vidi togliersi gli occhiali e premere con forza le dita sulle palpebre chiuse, per un tempo che mi sembrò non finire mai. Riaprì gli occhi solo quando le lenti furono nuovamente al loro posto.

« Sei troppo giovane, Christine », esordì piano, con un sorriso indulgente, quasi che stesse parlando con una ragazzina romantica e un po' sciocca e non con la donna esasperata che aveva di fronte. « Rischi di legarti a qualcosa che non vuoi davvero, solo perché ti sembra un porto sicuro. Quando tutto questo sarà finito, quando Carson sarà finalmente fuori dalla tua vita, ti accorgerai che questo » e non c'era bisogno, questa volta, di spiegare a cosa si riferiva « avrebbe potuto essere un grande errore. Non posso permetterti di invischiarti in una cosa del genere, Christine, sei troppo giovane... E io, per contro, troppo vecchio ».

Troppo giovane. Strinsi i denti fin quasi a farmi male. Potevo forse capire gli altri scrupoli, il suo inattaccabile codice etico, avrei potuto capire persino una scusa assurda come il lavoro nella stessa squadra, ma l'età? Poteva davvero una cosa tanto stupida mettere in crisi la mia vita in quel modo?

« Non riesco a credere che tu lo stia dicendo davvero ». Mi tirai indietro i capelli con un gesto meccanico, quindi in un unico respiro presi fiato e coraggio. « Cosa importa se per la mia età ho un'aspettativa di vita più lunga della tua? Tu sei un medico e io un agente operativo, quindi corro molti più rischi di te di vederla ridurre drasticamente! Non ti chiedo mille anni, Ducky; solo di poter essere felice, felice insieme a te, fino a che sarà possibile... Finché vorremo, o finché non ti sarai stancato di avermi intorno ». Mi trovai di nuovo di fronte a quel sorriso indulgente e compresi di non avere ottenuto nulla. Sospirai, sconfitta. « Almeno, dimmi che non senti niente per me »

« Temo che questo non abbia importanza ».

Incassai il colpo, spero con quella che nella mia famiglia abbiamo sempre perseguito con il nome di Stoica Indifferenza. Tentai un sorriso. « Bene. Buonanotte. Pulisco qui e vado a dormire ». Donald mi parve sul punto di dire qualcosa; poi, ormai dimentico del bicchiere di scotch, lasciò la cucina in silenzio e io, come la perfetta casalinga anni Cinquanta che talvolta mi capitava di diventare, cercai di scacciare quella conversazione dalla mente accanendomi sul latte ormai secco che incrostava i fornelli.

« Non devi prendertela, bambina... » Trasalii tanto violentemente che quasi saltai. A quell'ora, avrei giurato su qualunque cosa che Victoria Mallard dormisse beatamente nella propria stanza al pianterreno, e invece era comparsa sulla porta della cucina, nella vestaglia merlettata che sembrava provenire direttamente da fine Ottocento, non molto salda sulle gambe ma in apparenza perfettamente lucida.

« Signora Mallard! Non dovrebbe... »

« ...Dormire, sì, ma a quest'ora mi viene sempre sete. Oh, guarda », sollevò il bicchiere abbandonato dal figlio e ne annusò il contenuto « ...scotch... Proprio quello che cercavo ». Non potevo dire che mi sorprendesse, che quella donna si concedesse una parentesi alcolica notturna, ragion per cui mi limitai a sorridere.

« Vuole che l'accompagni a letto? » Con un sorriso sornione l'anziana padrona di casa proseguì come se io non avessi aperto bocca.

« Non prendertela, con Donald... Ha sempre avuto uno strano senso dell'onore, riguardo certe cose ». Doveva aver sentito tutto. Il mio imbarazzo crebbe vertiginosamente senza controllo.

« Ma no, signora, io... Non... »

« Sì, invece, non pensare che io sia rimbecillita, sai? Ho capito benissimo quello che stava succedendo. L'ho capito benissimo, credimi, che tu sei innamorata di mio figlio e che lui è troppo gentleman per accettare anche solo l'idea. Altrimenti non ci sarebbe alcun motivo per quelle lacrime, non trovi? » Stupita, mi asciugai di scatto una guancia col dorso della mano. La guardai, vecchia e fragile, bere con signorilità dal bicchiere che le tremava un poco tra le dita ossute, e per la prima volta da quando la conoscevo vidi in lei una somiglianza con Ducky; poco importava, che per la maggior parte del tempo la sua mente vagasse in un altrove migliore incalzata dalla demenza senile, quel momento di lucidità testimoniava una capacità empatica straordinaria e ne fui ammirata.

« Non so come comportarmi », ammisi con naturalezza, come avrei fatto con mia nonna se fosse stata ancora viva, incurante di quanto, a mente lucida, mi sarebbe sembrato improbabile chiedere consiglio ad una donna nelle sue condizioni mentali.

« Sii paziente... »

« Suo figlio non vuole saperne di me, signora Mallard », mi permisi di farle notare. Lei scosse la testa e vuotò il bicchiere.

« Deve soltanto fare pace con i suoi scrupoli, Christine, credimi. Ha solo bisogno di un po' di tempo ». Il mio cervello registrò incredulo che mi aveva chiamata per nome, cosa che non ricordavo fosse mai stata in grado di fare. Sorrisi.

« La ringrazio. Venga, la riaccompagno a letto... »

Un paio di passi oltre la porta vidi tornare sul suo viso il sorriso un po' vuoto e smarrito con cui l'avevo conosciuta e già prima che, tamburellandomi sul braccio, mi chiedesse trillando « E qual è il suo nome, cara? » sapevo che il suo momento di lucidità era finito; tuttavia ero contenta che avesse occupato quell'attimo prezioso tentando di consolare me.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Un'amica telepatica ***


Oh, lo so, posso vincere il premio per l'aggiornamento più ritardatario... :( Ma qui i casini si moltiplicano e il tempo si riduce ogni giorno di più!!! Mi scuso per l'attesa...spero ne sia valsa la pena!

(e sempre GRAZIE per le recensioni!!! ^_^)

Entrai in laboratorio bevendo un enorme caffè, sperando di riuscire a mantenermi in piedi per le successive ore di lavoro; non avevo dormito, non avevo avuto un minuto intero di tregua, mi ero alzata quasi cadendo dal letto... Mi sentivo uno straccio, punto. A differenza mia – e la cosa non mi sorprese, conoscendola – Abby era perfettamente operativa, brillante e sveglia come non mai.

« Stai male, Chris? »

« No... Brutta nottata ». Ho sempre avuto l'abitudine di passare il bicchiere del caffè da una mano all'altra, fin da ragazzina, perché non sopporto di avere calda una mano e l'altra no; quella mattina, nel passaggio da destra a sinistra, il calore del caffè bollente mi fece così male sulla scottatura della sera prima che quasi rovesciai tutto. A quel punto, con la fronte corrugata e le labbra strette, Abigail Sciuto mi indicò perentoria uno sgabello.

« Adesso mi spieghi. Cos'hai fatto alla mano? »

« Il latte tracimava e il bollitore era incandescente » dissi stringendomi nelle spalle senza guardarla.

« C'è dell'altro. Prima, dopo, o durante quel bollitore, c'è dell'altro »

« Potrei anche non avere voglia di parlarne, Abby... » La mia migliore amica non parlò. Inclinò la testa per guardarmi meglio, come studiandomi, e per quanto la prospettiva non mi piacesse sapevo che non avrebbe desistito. Avrebbe continuato a fissarmi per chissà quanto...fino a che non mi fossi decisa a cedere. Serrai i denti. « Posso venire a stare da te? »

La osservai tirare verso di sé uno sgabello ed appollaiarsi, e infine accompagnare il tutto con un ampio gesto delle braccia. « Raccontami tutto »

« Non c'è niente da raccontare », protestai « Ti ho solo chiesto se puoi ospitarmi: lo farai? »

« Certo che ti ospito, Chris... Però mi fai preoccupare. Tu che lasci casa di Ducky... Di punto in bianco... È successo qualcosa? » Dimentica di quanto fosse di per sé rivelatore quel comportamento, ignorai la domanda. Abby, delicata come uno schiacciasassi, non si fece il minimo scrupolo ad insistere. « È successo qualcosa ».

« Non mi piace, questo terzo grado »

« Si tratta di sua madre? Guarda che ultimamente è molto normale che insulti le persone, non devi rimanerci male... »

« Non è per sua madre, davvero, non mi ha insultata ». Già, non mi aveva offesa in alcun modo. Anzi. Ma come spiegare alla mia amica la dolcezza di quel che Victoria Mallard era stata capace di fare per me la sera prima, senza tradire quanto accaduto con Donald? Sospirai, in risposta alla mia stessa domanda muta, ma Abigail non lo notò. Era ancora troppo presa dalle proprie ipotesi, e io ero stata ben attenta ad essere il più possibile silenziosa.

« I cani? Ma no, figurarsi, ormai ti conoscono, hai addomesticato Tyson... » L'enorme macchina alle mie spalle – il famigerato spettrometro di massa – emise un lungo segnale acustico, richiamando l'ego scienziato di Abby sull'attenti. Lasciandomi lì, a domandarmi per la milionesima volta da quando avevo messo piede all'NCIS come diavolo facesse ad interpretare le “risposte” di quell'arnese, si immerse per qualche minuto nel silenzio più profondo. Ritornò nel mondo dei vivi con un improvviso « Ah! » a volume così alto da cogliermi totalmente impreparata.

« Ah!, cosa?»

« Nell'immondizia di Moriarty c'era quello », mi spiegò, indicando un normalissimo brik di succo di frutta alla pesca. Ignoro quale espressione assunse il mio volto in piena autonomia, ma dalla risposta paziente che ne ricavai non doveva essere un'espressione troppo ricettiva. « C'era una cannuccia, sai... E sulla cannuccia ho trovato del DNA ». Mi alzai di scatto.

« DNA di Moriarty? » La mia migliore amica sorrise da un orecchio all'altro.

« DNA di Albert Carson »

« Devo avvertire Gibbs »

« Sarà qui a momenti... Lo sai: appare subito, quando trovo qualcosa. Telepatia... »

Telepatia o meno, Gibbs non tradì la propria reputazione, e dopo meno di cinque minuti era già aggiornato degli ultimi sviluppi.

« Raggiungi Tony e McGee al furgone, Chris, Ziva ed io vi precediamo in macchina... C'è un nuovo cadavere » concluse, dopo una pausa, un attimo prima di essere nuovamente inghiottito dalle porte dell'ascensore. Mi voltai verso Abby ma lei fu più veloce.

« Non te ne andrai di qui finché non mi avrai detto cos'è successo tra te e Ducky. Gibbs o non Gibbs »

« Abby... »

« Avanti », mi ordinò. E io cedetti.

« Ho combinato un disastro », iniziai a disagio. Ma sapevo che non mi avrebbe lasciata andare fino a che non si fosse resa conto che non avevo nient'altro da dirle, e il caso mi aspettava, e non c'era tempo di perdersi oltre. « L'ho baciato. Due volte ». Lo ammetto, avevo quasi paura di vedere la sua reazione: lei invece rise, sollevata.

« Ma non è un disastro, Chris, è una cosa bellissima! » trillò.

« Invece no. Lui non ha apprezzato, dice che... » Sentii un nodo in gola « ...che sono troppo giovane »

« Oh, su, gli passerà! Non ti permetto di chiamarlo disastro, Chris » mi intimò, tenendomi per le spalle. Scossi la testa.

« Mi sono innamorata di lui, Abby, e lui pensa che sia colpa dello stress per il ritorno di Carson. E tu non lo chiami “disastro”? »

« Sei ancora qui? Fortuna che con Tony e McGee ho mandato Ziva »

« Gibbs! » Dovemmo apparire quantomai stupide, con quell'esclamazione all'unisono.

« Andiamo ». Il silenzio durò giusto il tempo di guardar chiudersi le porte scorrevoli dell'ascensore. « Puoi venire da me, se vuoi. Due stanze libere, tanta carta vetrata, una barca da levigare e nessun tenente colonnello dell'esercito in giro ».

L'aveva detto senza guardarmi, naturalmente, con gli occhi fissi al soffitto. Ebbi davvero voglia di abbracciarlo.

« Ok. Grazie ».

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** L.J. Gibbs ***


Non mi piaceva, quello che stavo guardando, esattamente come non piaceva a Gibbs e agli altri. Per quanto compatibile con il modus operandi di Carson e con l'arma che ormai avevamo collegato a Moriarty, e al di là delle pagine di Pascal seminate per tutta la scena del crimine, non potevo fare a meno di notare che qualcosa di estremamente significativo era cambiato. Fino a quel momento erano stati sempre omicidi singoli: che la presenza di un complice stesse iniziando ad alterare gli equilibri di un rituale che si ripeteva identico da anni? L'intensificarsi delle morti, la drastica riduzione degli intervalli tra esse mi aveva già messa sull'avviso, ma a quel punto restavano ben pochi dubbi.

« Posso chiedere come mai nessuno ha pensato di avvertirmi che i corpi erano due? » sentii la voce di Ducky domandare alle mie spalle. Non me ne interessai, continuando a fotografare come se niente fosse. Tanto lui quanto Gibbs, lo percepivo, alzavano spesso gli occhi su di me – forse domandandosi a cosa sarebbe arrivato Carson pur di giocare con me, e, immaginai, anche a quale punto sarei stata capace di spingermi io per fermarlo. Ma non avrei avuto risposta, e la cosa, confesso, mi preoccupava: più quella storia si protraeva, più sembrava in grado di tirare fuori i miei lati più oscuri – iniziai a pensare che forse davvero non mi sarei fermata davanti a nulla.

Piegai un ginocchio e posai l'altro a terra, chinandomi accanto al secondo cadavere per fotografare la ferita.

« Palmer è malato. Vieni tu ad aiutarmi? »

Riconoscevo senza incertezza che quell'offerta era un ramoscello d'ulivo, così come sapevo che una volta tanto Gibbs non si sarebbe opposto a che io fossi inghiottita dalla sala autopsie – non fosse per altro, ero pronta a scommetterci, perché nel sotterraneo dell'NCIS difficilmente Carson avrebbe potuto avere accesso a me. Io però non ero abbastanza forte per sopportarlo.

« No »

« Christine, ascolta... »

« Grazie, passo. Ho già ascoltato quello che dovevi dirmi, no? »

« Per favore »

« Devo finire le foto. Scusa. » Mi allontanai in fretta ed ebbi sì e no il tempo di tre scatti prima che Gibbs sentisse il bisogno di dire la sua.

« Chris... »

« Sì? »

Una rapida occhiata passò tra il mio maestro e il suo amico patologo. « Va' con lui »

« Ma, Gibbs... »

« È un ordine ».

Senza neppure chiedere il permesso mi impadronii del volante. Affrontavo le strade di Washington senza dire una parola, lo sguardo ostinatamente fisso sul traffico e le mascelle serrate con tanta forza che i muscoli iniziavano a farmi male. Guidavo quasi con rabbia, con scarti veloci e nervosi che attiravano colpi di clacson quasi quanto ne attirava di solito lo stile di Ziva. Ma non mi importava. Ero obbligata ad eseguire gli ordini, mi piacessero oppure no, ma non lo ero affatto ad assecondare i doppi fini che Gibbs si era proposto facendomi rientrare... Ci vollero due ore buone, per tornare all'NCIS, e sono quasi certa che sia stato il tragitto più silenzioso che io abbia mai affrontato.

Mi procurai il necessario e iniziai a ripulire il primo cadavere, lentamente, con estrema cura. Come Ducky tanto tempo prima mi aveva insegnato.

« Come stai? » Bastò tanto, a farmi esplodere, tale era la pressione che mi portavo dentro.

« E come dovrei stare? Quel maledetto figlio di puttana continua ad ammazzare innocenti come fossero bestie, solo per farmi impazzire, e tu mi chiedi come sto? Male, sto, ecco! Da cani! E se per caso ti stessi chiedendo se anche tu hai della responsabilità, sì, ce l'hai. Perché un serial killer ha deciso di giocare con me a guardie e ladri, e nel frattempo tu sei riuscito a mandare a puttane la mia vita privata. Contento? Sono stata esauriente? »

« Christine... »

« E non fare la faccia addolorata. Sono qui perché Gibbs mi ci ha obbligato, ricordalo, non sono tenuta a fare anche conversazione. »

Al di là della frustrazione e della rabbia, non so dire quanto quelle parole mi costarono. Una parte di me odiava anche solo l'idea di potergli parlare in quel modo, ma non mi era stato possibile evitarlo: ero esasperata, avevo voglia di piangere e gridare, e mi mancava la persona che fino ad allora era stata disposta a capirlo.

Era troppo tardi per procedere con le autopsie. Ci limitammo a preparare i cadaveri e gli strumenti per l'indomani – per quanto mi riguarda, lo feci con la segreta preghiera che Palmer rientrasse al lavoro.

« Bene, le otto; direi che possiamo interrompere. Andiamo a casa? » tentò Donald. Istintivamente mi mordetti un angolo della bocca.

« No, » dissi sottovoce. Il dottor Mallard mi guardò attonito.

« Cosa vuol dire, “no”? » chiese, dolcemente. Non riuscii a restituirgli lo sguardo.

« Non vengo a casa, Donald. Vado da Gibbs. Abby è andata a recuperare le mie cose. »

Lo vidi cambiare espressione, giungere sul punto di dire qualcosa e poi rinunciare. Scosse la testa. Se ne andò.


« Se continui così non mi resterà più niente da fare... »

« Però hai ragione, Jethro; è rilassante »

« Già. Bourbon? Ma ti avverto che l'offerta non implica necessariamente la presenza di un bicchiere. »

Posai la carta vetrata e mi diressi al banco degli attrezzi; svuotai un contenitore di viti, ci soffiai dentro e lo tesi a Gibbs. « So arrangiarmi, come si dice. » La compagnia di Gibbs era indubbiamente quanto di più adatto riuscissi a pensare in una situazione stupidamente complicata come quella in cui mi trovavo. Non mi aveva chiesto nulla, anche se sospettavo che avesse sentito qualcosa mentre lo raccontavo a Abby in laboratorio; si comportava come se fosse del tutto normale che di punto in bianco io avessi lasciato la casa di Ducky e mi fossi spostata da lui, come se avesse perfettamente senso la furia con cui mi accanivo a levigare lo scheletro della barca. Era piacevole, quel passarsi accanto e capirsi con uno sguardo o un mezzo sorriso – non avevo sbagliato, dicendo a Ducky che Gibbs somigliava a mio padre.

« Vado a dormire. Dovresti farlo anche tu, Chris. »

« Ci proverò... »

Ci provai.

Il risultato non fu, però, quello che tanto io quanto Gibbs avevamo sperato. Sin da bambina sono stata facile ad avere incubi, probabilmente perché la mia mente tende a sotterrare ciò che la turba oltre una certa misura e a riproporla quando non ho abbastanza controllo di me per impedirglielo. Cosa sognai quella notte? Sinceramente non ricordo. Ma ricordo la sensazione, il dolore, il panico, il soffocamento, il camminare e camminare nel buio più fitto... E la voce di Gibbs, le sue mani che mi scuotevano.

« Va tutto bene, Chris, svegliati. È solo un sogno. Apri gli occhi. »

« Cos'è successo? » nel domandarglielo mi resi conto di avere il fiato corto.

« Dovresti dirmelo tu. Gridavi. »

Mi passai le mani sul viso, strofinai gli occhi, mi trassi a sedere contro i cuscini.

« Incubi. A volte mi succede. »

Leroy Jethro Gibbs, incurante del fatto di essere il mio superiore, annuì e si sedette sul bordo del letto. Pensai a Kelly, la sua bambina, a come in realtà la vita mia e del mio mentore fossero complementari – a lui avevano ucciso una figlia, a me il padre... E in quel momento lui fece esattamente questo. Quello che avrebbe fatto un padre. « Vuoi che rimanga qui? »

Non mi riuscì nient'altro che un cenno con la testa. Gibbs appoggiò la schiena alla testiera del letto e mi abbracciò – mi riaddormentai, e non sognai più.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Carson ***


« Rimarrai qui con Ducky, » fu l'ordine cui per la seconda volta fui costretta ad obbedire: non solo Palmer era ancora malato, ma era chiaro dalla freddezza negli occhi azzurri di Gibbs che non avrebbe accettato discussioni. Serrai la mascella.

« Sì, capo. »

Lui si avvicinò a me mentre aspettavo che l'ascensore arrivasse e si chinò quel tanto che bastò per sussurrarmi, in modo che nessun altro sentisse: « E cerca di comunicare in maniera civile, per favore. »

« Gibbs... » La mia tenue protesta con tanto di occhi alzati al cielo mi procurò un veloce bacio sulla tempia e una mano a scompigliarmi affettuosamente i capelli.

« Fa' la brava. »


« Buongiorno. »

« Buongiorno. »

Fu subito piuttosto evidente che non era mattinata di convenevoli, in sala autopsie. Donald non sembrava di buon umore e non posso dire che non lo capissi... Ma non riuscivo a dimenticare la nostra discussione, quanto bruciava ancora; e a proposito di bruciare, la scottatura alla mano di quella sera risentiva in maniera tutt'altro che piacevole dell'indefesso lavoro di falegnameria messo in opera sulla barca di Gibbs. Risultato? Quattro ore di autopsia senza scambiare una parola che non fosse strettamente attinente al lavoro che stavamo facendo. Nemmeno una divagazione, nemmeno una delle storielle di Ducky: domanda di strumenti, pesate di organi, prelievo di campioni...e nient'altro.

« Porto questi da Abby, » dissi verso l'ora di pranzo. Ne ricavai un basso grugnito di approvazione.

Abby non era in laboratorio – e un foglio attaccato allo spettrometro avvertiva che sarebbe tornata nel giro di una decina di minuti. So che avrei dovuto aspettarla, non fosse altro per farle firmare i moduli relativi ai campioni che le stavo lasciando. Ma uno dei monitor si era messo improvvisamente a lampeggiare.

Mi avvicinai per dare un'occhiata, più per la curiosità che potesse trattarsi del “mio” caso che per altro; e rimasi immobile per la sorpresa. Il cellulare di Moriarty si era acceso. Stava trasmettendo la posizione. Non potevo crederci.

Sfilai in fretta e furia il camice e gli indumenti verdi che proteggevano i miei vestiti e li ammucchiai su uno sgabello, digitai rapidamente i comandi sulla tastiera per inviare i dati riguardo la posizione di Moriarty al mio palmare e corsi al piano superiore a recuperare la mia pistola.

Quindi, dopo aver lasciato un post-it informativo per ogni scrivania – Gibbs, Tony, Timothy, Ziva – uscii di gran carriera, decisa a mettere fine a quella storia una volta per tutte.


« E così ci rivediamo, Carson » mi limitai a dire, le dita strette sulla pistola. Lui mi rivolse un sorriso orribile, di puro scherno, e dovetti farmi una discreta violenza per non piantargli un proiettile in corpo e porre fine una volta per tutte a quell'incubo; ma in quel modo avrei messo nei guai Gibbs, ergo la cosa era fuori discussione. Dovevo aspettare i rinforzi. Limitarmi a non farlo scappare, e aspettare i rinforzi.

« Agente Fellman. Quale onore... Posso sapere come sei arrivata qui? »

« Dovresti scegliere con maggior cura i tuoi collaboratori. Il tuo cagnolino ha lasciato tracce dappertutto... Praticamente una scia di luci al neon che portava fin qui ». Lui allargò le braccia.

« Questo passava il convento, purtroppo. Ma se era così palese, perché sei venuta da sola? »

« Perché sono più veloce », tagliai corto. « E perché a quanto ricordo noi abbiamo una partita in sospeso ». Carson rise, giocherellando con il coltello dal quale non potevo staccare gli occhi. Quanto l'avevo cercato, negli ultimi due anni... Se fossi riuscita a metterci le mani, avrei risolto il mio problema maggiore.

« E come credi che finirà, agente Fellman? Lascia che te lo dica io... Esattamente come l'altra volta. Non ho neppure speso molto, sai? Incredibile cosa riescano a fare un po' di quei biglietti verdi: un attimo prima tutti sanno che sei colpevole, e subito dopo non lo sanno più... »

Inspirai.

« Quindi avevo ragione io: hai ammazzato tu quelle persone. E le hai numerate come... »

« Niente moralismi, Fellman, per piacere. Comunque, sì, io: chi altro potrebbe disporre, secondo te, di un'attrezzatura per tatuaggi del genere? Su, su... Dovresti avere più fiducia nelle tue opinioni... ». Sul grilletto, il mio indice fremeva. Perché mi stava dicendo quelle cose? Per quale motivo confessare, e con tanta spudoratezza?

« Resta il fatto che questa volta i tuoi soldi non ti salveranno. Cambiare Stato, e rendere i tuoi crimini materia federale, è stata una pessima idea. Lascia che te lo dica. »

Mi rendo conto a posteriori della rapida occhiata che lanciò alle mie spalle e che, sul momento, sottovalutai. Pensavo che stesse cercando una via di fuga, e dal momento che ero sicura che fosse solo non diedi peso alla cosa.

« Sai cosa ti dico, invece, Fellman? Io ora me ne andrò, e tu mi lascerai andare senza nemmeno una parola »

« Io non credo proprio », replicai, puntando la pistola esattamente sulla sua testa.

« Io invece credo di sì ».

Non dimenticherò mai il suono, prima ancora del dolore, del coltello che entrava nella mia carne poco sopra la clavicola sinistra. Ebbi il tempo di pensare che il suo complice mi aveva aggredita alle spalle e di puntare all'indietro la mia mano armata: non so come, riuscii a sparare, alla cieca, senza sapere se o come l'avessi colpito. Poi mi investì la sensazione del mio sangue. Lo sentii scorrere sulla pelle, troppo veloce, troppo abbondante, e mi dissi che tutto era giunto alla fine.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Bethesda ***



« Per quanto ancora resterà così, dottore? » C'era la squadra al completo, riunita nel corridoio dell'ospedale militare di Bethesda. Leroy Jethro Gibbs guardava l'uomo cui si era appena rivolto: i suoi occhi azzurri e penetranti erano velati di una rabbia a stento trattenuta, e la sua mente solo a fatica si sforzava di restare quieta per il bene della ragazza che giaceva oltre il vetro, nella stanza illuminata a giorno dalla luce fredda dei neon.

« Non so ancora dirvelo, agente speciale Gibbs. La ferita era molto grave, come avete potuto intuire voi stessi; abbiamo cercato di ricucire il più possibile, ma ha perso così tanto sangue che chissà se le trasfusioni basteranno... Tutto dipenderà dalle prossime 24 ore, temo. Con permesso. » Il medico si allontanò.

« Forse dovremmo avvertire il comandante Fellman, capo... »

« No, pivello. L'unica cosa che dobbiamo fare è trovare Carson. E trovarlo subito »

« Credi che si cercherà un altro apprendista, ora che Chris ha fatto fuori Moriarty? » La domanda di Ziva attirò su di lei più di uno sguardo sorpreso: l'aveva davvero chiamata Chris? Da quando quella novità?

« Che ne abbia intenzione o meno, non è importante. Non gliene daremo il tempo. » Lo sguardo dell'uomo lampeggiava di rabbia. « Andiamo. »

Il tempo di pochi passi e Leroy Jethro Gibbs si voltò di scatto verso il patologo, che seguiva il resto del gruppo da poco distante; vide l'afflizione dell'amico, l'ansia per la sorte di quella “ragazzina” che avevano aiutato a diventare l'ottima agente che era, e vide quanto stesse lottando tra il primato assoluto che di norma assegnava al lavoro e il pensiero delle condizioni cliniche di Christine. Lasciò che i suoi agenti lo oltrepassassero guadagnando l'ascensore e tornò indietro, a raggiungere Ducky.

« Com'è morto Moriarty lo sappiamo, Ducky; non credo che l'autopsia sia tanto urgente. » Alzò le spalle, accennando con la testa alla direzione da cui venivano. « Rimani con lei. »

Lo sguardo dello scozzese era umido e pieno di riconoscenza dietro gli occhiali; Gibbs gli posò una mano sulla spalla senza dire una parola.

« Forse Timothy ha ragione, Jethro. Forse dovremmo... »

« No, Ducky. Chris non ha nessun bisogno di suo zio... Lei ha bisogno di te. »

Gibbs attese di vedere spuntare sul viso dell'amico l'espressione convinta che sapeva di avere appena incoraggiato in quell'uomo dai modi eleganti e cavallereschi di almeno un secolo prima; quindi, soddisfatto, raggiunse il resto della squadra.

 

A differenza che all'esterno, dove il gelo - quel gelo che aveva impedito che Christine morisse dissanguata, rallentandone la circolazione - infuriava ormai da giorni, la temperatura nell'ospedale era così elevata da rendere impossibile qualsiasi proposito di tenere addosso una giacca; ma trattandosi, poi, del giubbotto termico dell'NCIS, studiato per resistere alle temperature più rigide, non dovette passare molto prima che Donald Mallard lo abbandonasse sullo schienale di una sedia del corridoio.

Non riusciva a stare calmo, né tanto meno fermo. Oltre quel dannato vetro Christine, la loro Christine, appariva immobile e pallidissima, incosciente, e chissà se si sarebbe svegliata... Tolse gli occhiali e si passò energicamente le mani sul volto: era un medico, non poteva fingere di ignorare la gravità della situazione e le conseguenze cui simili condizioni in genere portano; ma al di là del suo essere medico, il suo essere uomo non riusciva a trovare neppure lontanamente accettabile quel pensiero.

« Se vuole entrare, dottore, non ha che da chiedere... » Ducky si scosse e rimise gli occhiali prima di rivolgere la propria attenzione al medico di poco prima. J. Fontès, diceva il cartellino.

« Posso? »

« Sì, nonostante la gravità delle sue condizioni è stabile... Inoltre credo le farebbe bene, sentire una voce amica. » Donald Mallard annuì e recuperò la giacca dalla sedia. Quanto tempo aveva passato a parlare con Gibbs, aspettando che lui si svegliasse dal coma? Era pronto a parlare per mesi, se questo avesse potuto aiutare Christine.

Fuori aveva ripreso a nevicare: il cielo bianco di nubi, le strade congestionate, l'apparente innocenza della città...E il silenzio, l'irreale silenzio, che sembrava penetrato anche nella stanza. Là fuori, da qualche parte, Albert Carson forse cercava una nuova vittima per festeggiare la sua vittoria. Là fuori, da qualche parte, Gibbs e la squadra gli davano la caccia e non si sarebbero fermati finché non l'avessero avuto stretto tra le mani.

Ma questo non cambiava le cose: Christine forse non si sarebbe ripresa, forse non avrebbe superato quelle ore fatali; forse erano gli ultimi momenti che passava con lei, eppure Donald Mallard non riusciva neppure a guardarla.

Ma doveva farsi forza. Per quanto i suoi errori con lei lo rendessero difficile.

Si avvicinò.

Probabilmente per l'assoluta urgenza dell'intervento, e in seguito perché non doveva essere sembrato di particolare necessità, nessuno a quanto pareva aveva sentito il bisogno di toglierle dal viso e da ciò che del collo restava fuori dalla fasciatura gli schizzi di sangue suo e dell'uomo che aveva cercato di ucciderla. La vista di quel sangue, così acceso in contrasto con il suo pallore innaturale, era insopportabile: il medico legale dell'NCIS scosse la testa a sottolineare la propria muta disapprovazione, recuperò una bacinella di metallo dal carrello e la riempì di acqua tiepida. Poi con gesti misurati e colmi di delicatezza iniziò a pulirle il viso, inumidendo di tanto in tanto la garza.

Ma non sapeva cosa dire. Analizzava in lungo e in largo la propria memoria alla ricerca di un argomento eppure, forse per la prima volta in tanti anni, nonostante i nobili propositi coi quali era entrato sentiva che se avesse aperto bocca non sarebbe stato in grado di dominare il tremore della sua voce.

« So di avertene già parlato, ma forse trovandomi noioso ti deciderai a rimproverarmi, » si arrese infine, colto da un lampo d'ispirazione. Le aveva già raccontato quella storia, tanto tempo prima; ma ora sarebbe stata diversa, in un certo senso più... La guardò, chiedendo al proprio cuore che cosa provava. Sì. Questa volta la storia sarebbe stata più vera. « Nella compagnia dei cadetti di Guascogna c'era un abilissimo spadaccino, la cui furia era temuta da tutti; si dà il caso che fosse anche un ottimo poeta, e che si chiamasse... », finse una pausa, come se lei avesse potuto rispondergli. Lo faceva coi cadaveri, no?, e invece Christine era viva... « D'accordo, lo dirò io. Cirano. Questo sublime poeta era innamorato di Rossana - una ragazza molto bella, sai, come te... Per quanto tu sia assai meno frivola -, ma senza speranza. Perché lui aveva un difetto fisico, che gli rendeva impossibile farsi avanti con lei... » Si domandò per una frazione di secondo se anche l'età potesse considerarsi un difetto fisico, ma subito la sua mente tornò alla versione originale del racconto.

Il dottor Mallard parlava e parlava, nel suo tono più affettuoso, e intanto le tergeva la pelle bianca dalle tracce di quell'orribile esperienza. Le pettinò i capelli, anche, lasciando che l'affetto che provava per lei fluisse liberamente nei propri gesti insieme allo snodarsi del racconto; le macchine che ne monitoravano le condizioni facevano sentire la propria presenza con impulsi sonori e luminosi che tuttavia non mostravano segni di miglioramento.

« Non lasciarmi, Christine » si trovò a dire, incredulo nell'udire quelle parole uscire dalla propria bocca ma in pace con se stesso. « Non ti chiedo semplicemente di non lasciare i tuoi amici; non lasciare me... »

Le accarezzò la fronte col dorso della mano, quindi si chinò a posarle un bacio sulle labbra. Si sentiva vecchio, e stupido, e fuori tempo massimo per quel genere di cose... Ma la consapevolezza che superava tutti quei pensieri, era che non poteva permettersi di perderla.

« Cosa importa se per la mia età ho un'aspettativa di vita più lunga della tua? Tu sei un medico e io un agente operativo, quindi corro molti più rischi di te di vederla ridurre drasticamente! » Il ricordo di quelle parole era insopportabile: quando Christine le aveva pronunciate, con la sua logica ferrea, lui quasi ne aveva riso... Certo, l'aveva fatto per dissuaderla da quella follia, per impedirle di accarezzare sogni che potevano solo farle del male... Ma ora si sentiva un mostro. Il ragionamento di Christine - quel ragionamento ineccepibile, che lui tuttavia aveva preso alla leggera - aveva preso corpo, solo che lui, invece di concederle quella felicità che lei aveva domandato e che entrambi desideravano, le aveva soltanto procurato il dolore di quel lento allontanarsi.

Pur conscio di stare cadendo nella retorica, Donald Mallard dovette confessare che, come il più mediocre degli uomini, si era reso conto pienamente di ciò che provava per lei solo di fronte al rischio di perderla. Si prese la testa tra le mani: Dio, sembrava il copione di una soap-opera!

Provvidenziale ad interrompere il filo di quei pensieri, il telefono prese a suonare. Salvato dalle cornamuse...

« Come sta? » La voce di Abby Sciuto era nervosa, spaventata: probabilmente, si disse il dottore, l'avevano appena avvertita... Tipico di Gibbs, non volerle dare certe notizie per telefono. Rivolse un'occhiata abbattuta a Christine, quindi alle apparecchiature che ne monitoravano i segni vitali.

« Stabilmente grave, temo. »

La scienziata non rispose; se non fosse stato per il suo respiro agitato, e per l'inconfondibile e ripetuto suono di chi apre la bocca per dire qualcosa ma subito la richiude, si sarebbe potuto pensare che avesse riattaccato.

« Devi impedirle di morire, Ducky. » Gli sembrò quasi di poterla vedere: il telefono stretto convulsamente tra le dita, gli occhi spalancati e lucidi di lacrime, i passi lunghi attraverso il laboratorio.

« Abigail... »

« No; parliamo della mia migliore amica. Devi farla tornare. » L'uomo sospirò. Avrebbe dato la vita, perché questo rientrasse tra le proprie facoltà.

« Abigail... » Silenzio. Abby stava cercando il modo meno traumatico per dirgli che lei sapeva, e che era certa che il modo di svegliare Christine Fellman esisteva.

« Dille quello che provi. Quello che provi veramente. » Donald Mallard, stupito dalla sicurezza con cui Abby aveva parlato di qualcosa che lui credeva nemmeno sospettasse, avrebbe voluto ricordarle che raramente una situazione come quella si risolveva come in una fiaba, e che se pure avesse potuto accadere lui certo non era il principe adatto a salvare quella fanciulla in pericolo, ma lei lo prevenne. « Dalle un motivo, Ducky. Smettila con gli scrupoli e dalle un motivo per tornare da noi. »

L'uomo richiuse il telefono e si avvicinò alla finestra. Guardava la neve scendere piano, incurante di ciò che accadeva tutto intorno, e coprire ogni sporcizia della grande città. Si voltò verso lo schermo dell'ECG, a cercare nel tracciato del battito di Christine un qualsiasi segnale incoraggiante; ma il battito del suo cuore continuava ad essere debole, come tutti i segni vitali, e dalle flebo scendevano goccia a goccia rimedi che sembravano inutili. Si appoggiò al davanzale interno, senza staccare gli occhi dalla ragazza, strinse le dita sul bordo della superficie e si concesse un sospiro; poi socchiuse le labbra e lasciò che le parole uscissero da sole.

« Abby crede che basterà dirti che ti amo, per farti aprire gli occhi... »

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Un sorriso ***


Mi scuso per la MOSTRUOSA brevità del capitolo...Ma - come si vedrà a breve dal prossimo - non avrebbe avuto molto senso "cucire" insieme le due parti... Buona (breve) lettura! :)

Nonostante il proposito di ignorare la stanchezza, alla fine due notti insonni e lo stress di quei giorni avevano avuto la meglio e Donald Mallard, stoicamente seduto accanto al letto di Christine, poco prima delle cinque del pomeriggio era scivolato in un sonno tanto leggero quanto agitato.

Il suo cervello, come fosse incantato, gli riproponeva continuamente il momento in cui lui e Jethro erano scesi dal furgone, guardandosi intorno col presentimento che qualcosa non andava, e il maledetto istante in cui l'avevano vista a terra, riversa nella neve zuppa di sangue, e ancora artigliato a lei Moriarty, il cranio devastato dallo sparo.
Rivedeva, come se ogni volta la scena si riavvolgesse, il dolore dell'amico, la sua rabbia mentre gli gridava di prendere la borsa medica, e ancora rivedeva Christine, ancora e ancora, livida per il freddo e la perdita di sangue, e gli schizzi rossi che le imbrattavano il viso il collo la testa i vestiti.
Riviveva la presa di coscienza della gravità della situazione, il ruggito di Gibbs che dava ordini, la sua voce tesa nel chiamare l'ambulanza, e le proprie mani che tremavano come quelle di un medico alle prime armi nel premere sulla ferita per arrestare l'emorragia... Ricordò di avere pensato che non se ne sarebbe mai andato, il sangue di Christine, dalle sue mani, che lo avrebbe rivisto fino ad impazzire come Lady Macbeth, e che...
Si svegliò di colpo: doveva essere arrivato qualcuno.

Il patologo si guardò intorno e non vide anima viva; eppure gli era parso di sentire qualcosa, come un mormorio, ed era abbastanza certo di non averlo sognato... La stanza però era vuota, come quando aveva chiuso gli occhi; si aggiustò gli occhiali e guardò l'ora: erano le sette, ormai, fuori la luce era ormai definitivamente scemata nel buio e la neve aveva ricominciato a scendere.

« Ducky. » Il dottor Mallard trasalì: possibile? « Ducky, » mormorò di nuovo la voce, affaticata e rotta. Il patologo si protese in fretta verso Christine: aveva socchiuso gli occhi, e lui dubitava che potesse averlo visto, ma si stava svegliando e aveva chiamato il suo nome.

« Sono qui. » Le prese la mano destra tra le proprie e ne baciò il palmo; e gli parve che all'udire la sua voce lei avesse sorriso.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Ho davvero rischiato di morire? ***


Mi sentivo stanca, la testa pesante e i movimenti impediti. Faticavo ad aprire gli occhi del tutto. Poi però l'avevo sentita. La voce di Ducky che mi parlava, le sue mani che stringevano la mia: non capivo dove fossi né cosa stesse succedendo, ma qualcosa in me si sentiva felice. Feci per sollevarmi sui gomiti.

« No, non fare sforzi, rischi di strappare i punti... » Mi accarezzò la fronte. « Vuoi dell'acqua? »

Annuii.

Dovetti ingoiare lentamente, a dispetto della sete, perché le pareti secche della mia gola si reidratassero nei tempi giusti. In caso contrario, avevo imparato durante gli anni in cui ero stata una bambina estremamente predisposta ad altissimi picchi di febbre, con buone probabilità l'acqua mi avrebbe quasi soffocata in un accesso di tosse. Una delle mani di Donald mi reggeva dietro la nuca, mentre l'altra mi somministrava poco alla volta brevi sorsi dal bicchiere di plastica. La sensazione dell'acqua che scivolava piano attraverso la mia bocca asciutta mi fece sentire molto meglio.

« Cos'è successo? » Donald Mallard abbassò istintivamente le palpebre.

« Moriarty ti ha aggredita alle spalle. Se non avessi reagito come hai fatto, probabilmente sarebbe arrivato all'aorta... Ma hai perso comunque molto sangue, quindi devi riposarti, » aggiunse, con un certo tono di rimprovero. La mia mente iniziava a rimettersi in moto, pur lentamente, e ritrovai qualche brandello di ciò di cui Ducky stava parlando. Sulle prime non ero riuscita a ricordare come la mia strada avesse incontrato quella di Moriarty...e neppure, per la verità, chi fosse Moriarty.

« L'avete preso? »

« L'hai ucciso »

« E Carson? » Di nuovo quella carezza sulla fronte, di nuovo quello sguardo dolce.

« Dovresti riposare, tesoro mio. Vado a chiamare il dottor Fontès. »

Lasciò la stanza e io, troppo intorpidita e debole, non potei impedirglielo; ma man mano che il mio cervello si snebbiava, e recuperavo lucidità, si faceva sempre più chiaro il perché non avessi avuto risposta. Sbattei la mano destra sul letto, rabbiosa ed esasperata, e un bip alla mia sinistra si intensificò.

« Non deve agitarsi, Christine. » Un uomo in camice bianco era entrato nella mia stanza, e seppi ancor prima di leggere il suo cartellino, per il fatto che Ducky l'accompagnava, che doveva essere il dottor Fontès. « Come si sente? »

« Debole. Stordita. Di cattivo umore ed esasperata. Devo andare avanti? »

« Solo se le va di farlo. »

« Allora basta così. » Mi tastò il polso, consultò monitor e fogli, il tutto senza più dire una parola. Non ero stata molto accomodante, con l'uomo che - mi avrebbero poi detto - mi aveva salvato la vita.

« Credo che la nostra...paziente...possa considerarsi fuori pericolo, dottore. Se metterà tutta quest'energia nella guarigione, può fare passi da gigante a tempo di record... »

Non dimenticherò mai l'espressione di Ducky in quel momento; non gli avevo mai visto - e solo raramente ho potuto rivederlo - un sorriso di pura felicità come quello che gli illuminava il volto quando strinse la mano al dottor Fontès. Da quel comportamento, ancor prima che dalle parole che il chirurgo aveva appena usato, compresi che - davvero - le mie condizioni dovevano essere state gravi.

« Carson è scappato, vero? » tornai alla carica non appena Fontès se ne fu andato. Donald sospirò.

« Jethro lo prenderà. »

Mi voltai dall'altra parte. « È tutta colpa mia »

« Non è vero, Christine, non potevi... »

« Sarà colpa mia, eccome, se ucciderà un'altra volta. Dovevo sparargli, Ducky; lo avevo sotto tiro, ho avuto mille occasioni e non l'ho fatto... »

In silenzio perfetto il dottor Mallard mi aggiustò il risvolto del lenzuolo e della coperta perché non sentissi freddo.

« L'unica cosa che conta è che tu sia viva », mormorò, baciandomi la fronte. « Sarà il caso che io avverta gli altri... Altrimenti Abby mi ucciderà, e sappiamo entrambi che non lascerebbe tracce! »

Lo guardai uscire e chiusi gli occhi, prendendomi il tempo di riflettere sull'accaduto. Avevo rischiato di morire. Concretamente. Adesso ricordavo... Il freddo. Il sorriso beffardo di Carson. L'assalto inaspettato di Moriarty, la lama che penetrava nella mia carne. Il dolore, lo sparo, il buio.

E adesso Ducky, la sua presenza accanto al mio letto, la sua dolcezza e le sue parole affettuose come carezze. Avevo la sensazione che qualcosa fosse cambiato, tra di noi, ma non avrei saputo dire cosa... E tuttavia la sensazione mi piaceva. Mi sentivo coccolata, in un certo senso amata, forse per la prima volta in vita mia, ed ero decisa a godermelo.

Finché la mia gamba sinistra non iniziò a prudere, e io d'istinto tentai di grattarmi. La semplicità di quel gesto, unita all'improvvisa consapevolezza di non essere in grado di portarlo a termine, mi gettò nel panico; certo capivo che il braccio doveva essere stato immobilizzato contro il torace, aveva senso, ma nel realizzare che le dita non rispondevano alla mia volontà mi prese il panico. Scoppiai in lacrime, terrorizzata.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Rule 12: un'altra possibilità ***


Chiedo umilmente perdono... Sia per l'attesa (non riesco mai a rispettare i tempi che mi prefiggo, e mi dispiace tantissimo!!!) che per l'oggettiva, temo, melensaggine del capitolo... Che tuttavia spero possa piacervi! :P siate clementi...! 

« Abby dice che sarà qui non appena... Christine! Cos'è successo? »

Cercai di riprendere fiato, ma era difficile: più tentavo di calmarmi, di ritrovare la concentrazione necessaria a dominare il panico, più il pensiero di quanto appena accaduto mi sembrava insopportabile... E guardavo Ducky, che guardava me senza capire.

« Non riesco... » Mi mancò il respiro. Svelto, Donald mi avvicinò la mascherina dell'ossigeno. Bastarono pochi secondi, e fui di nuovo me stessa. « Il braccio! Non riesco a muovere la mano, e nemmeno le dita... » Per assurdo, trovavo che la parte peggiore di quell'incubo fosse che in simili condizioni non avrei più potuto ritornare al lavoro. Non in Agenzia, ma neppure a New York... Lui invece sembrò sollevato.

« Anestetici locali e fasciatura stretta... O preferiresti che un movimento sbagliato potesse strappare le suture vascolari? Tornerà tutto come prima, vedrai; ci vorrà solo un po' di tempo »

« Potrò tornare a lavorare, allora? » Trovai sul suo viso un'espressione strana, in un certo senso divertita.

« Potrai tornare a lavorare, sì... Anche se questo mi costringe a porti due domande »

« Due domande? Sentiamo! » Pensai che, cosa che del resto non mi avrebbe stupito, stesse semplicemente cercando un modo per distrarre la mia attenzione e allontanare lo stress, ma rimasi sorpresa.

« Dove rientrerai? »

« Speravo potesse rimanere un segreto ancora per un po'... »

« Non svicolare »

« Non voglio tornare a New York, se è questo che vuoi sapere. Ho presentato domanda di assunzione all'NCIS, quindi non mi resta che sperare che mio zio firmi il mio congedo e Jen la accetti... » Donald Mallard rise, a dispetto della stanchezza che - forse avrei dovuto rendermene conto prima - certo provava e vedevo sul suo volto.

« Bene. Ora però questo ci porta necessariamente alla seconda domanda. Una volta che Jen avrà ratificato la tua assunzione... »

« Sì? »

« Mi chiedevo, ecco... Come dovrei comportarmi, secondo te, nei confronti della Regola Numero Dodici? »

Lo ammetto. Sulle prime ho creduto, nell'ordine, che la stanchezza avesse avuto la meglio su di lui, che mi stesse prendendo in giro, e infine che gli antidolorifici avessero compromesso la mia capacità di comprensione. La Regola Numero Dodici. Mai uscire con un collega. Mi mancava di nuovo il respiro, ma decisamente per altri motivi.

« Ti prego, Donald, non scherzare. Rischio troppo facilmente di fraintendere »

« Non è detto che tu fraintenda... »

Rimasi in silenzio per non so quanto tempo. Era come se il mio cervello fosse sopraffatto, come se non riuscisse a produrre neppure un pensiero sensato, come se, al pari del mio braccio sinistro, la mia mente fosse momentaneamente fuori uso. Mi morsi un labbro, sentendo salire le lacrime.

« Ho proprio rischiato di morire, allora. »

« Sì »

« Oddio. »

Il viso di Ducky, la commozione nei suoi occhi... Lui, che con la morte aveva a che fare ogni giorno. Si sedette sul bordo del mio letto; prese la mia mano destra fra le sue, l'accarezzò piano.

« Ma non è successo. Il cielo mi ha ascoltato, mi ha dato un'altra possibilità anche se non la meritavo. »

« Un'altra possibilità di fare cosa, Donald? »

Il suo volto segnato dalla stanchezza si avvicinò al mio. Sfiorò le mie labbra per un istante, come la carezza di un fiore, e quando si allontanò vidi che aveva gli occhi lucidi. Guardava altrove, come se fosse imbarazzato.

« Di dirti che ti amo. »

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Un elemento come si deve ***


Potrà sembrare sciocco dirlo, ma il pensiero di quello che Donald mi aveva confessato mi dava la forza di impegnarmi a guarire. Volevo ristabilirmi, lo desideravo più di ogni altra cosa – uscire dall'ospedale, tornare in servizio, prendere Carson e distruggerlo una volta per tutte... Per quanto ambiziosi, e decisamente non a breve scadenza, tutti quei traguardi erano ciò che mi teneva in piedi.

Rimasi a Bethesda due intere settimane, nelle quali Carson non colpì, a maggior dimostrazione che nella sua mente il gioco continuava ad essere tra lui e me e quindi, essendo io fuori combattimento, uccidere non aveva senso; le mie giornate erano invariabilmente scandite, una dopo l'altra, dal ritmo delle trasfusioni e delle visite degli amici. Il mio braccio era ancora molto bisognoso di riposo e fisioterapia, certo, ma iniziava a farsi risentire e in un certo modo curioso potevo considerarmi felice.

« Si può sapere perché non sono stato avvertito? » La voce tonante di Aengus Fellman aveva riempito la stanza fino al soffitto e ringraziai il cielo che non ci fosse Gibbs, altrimenti sarebbero finiti con tutta probabilità a fare a cornate.

« Per favore, Comandante. È un ospedale. »

Gli feci un torto, a chiamarlo “Comandante”, ne ero consapevole. Mio zio mi ha sempre amata moltissimo, mi ha letteralmente cresciuta e ha fatto di me la persona, ancor prima dell'investigatrice, che sono – ma ce l'avevo con lui, e mi preoccupai solo di colpire. Aengus Fellman, a dir poco perfetto nel suo doppiopetto blu che nonostante il viaggio sembrava appena uscito dalla sartoria, incassò senza battere ciglio.

« Sto ancora aspettando una risposta, » ripeté inquisitorio, spostando gli occhi da me a Donald e da Donald a Abby. Feci cenno ad entrambi di lasciar perdere. Erano lì per aiutarmi a fare i bagagli perché contavo di essere dimessa entro la giornata, non per dover sopportare i malumori del grande ma al tempo stesso insopportabile uomo che mi ha fatto da padre.

« Sono stata io ad insistere. Farti venire fin qui mi sembrava superfluo. »

« E per quale motivo avrebbe dovuto essere superfluo che io venissi a Washington a trovare mia nipote dopo un'aggressione? »

« Perché continuo ad essere in collera con te, zio. Quindi non avevo voglia di vederti. E quindi mi è sembrato superfluo farti avvertire. » Il fratello di mio padre corrugò la fronte in maniera impercettibile, fissando qualcosa oltre la finestra.

« Lasciateci soli, » disse soltanto, gelido, e gli occhi di Abby saettarono su di me in cerca di conferma.

« Chris...? »

« Non c'è problema. Non è l'orco che tanto gli piace interpretare. »

La mia amica mi abbracciò, Donald mi baciò piano sulla tempia, poi lasciarono la stanza.

« Così in collera da non volere che venissi a sapere che sei quasi morta per quella ferita? » In realtà, non sembrava davvero una domanda. C'era una grande amarezza, nella sua voce, una mortificazione di cui se non l'avessi sentito con le mie orecchie non l'avrei forse creduto capace.

« Ho paura di sì. »

Lo vidi annuire, immobile, il mento proteso e lo sguardo altrove – rigido come un militare, più che come un poliziotto. Rimase in silenzio e io mi trovai a ripensare a quanto l'avevo adorato, letteralmente, per tutta la mia vita: aveva dedicato l'esistenza a due sole cose, la polizia e me, e per questo l'avevo ammirato con tutta l'anima come si fa per un eroe. Sì, lo zio Aengus era stato il mio eroe, mi aveva resa grande in quello per cui la mia famiglia aveva vissuto per quasi un secolo. Mi aveva fatto da padre, e qualche volta perfino da madre. Finché Carson non aveva rovinato ogni cosa.

« Non potevo fare diversamente, Chris. »

« Potevi credermi! » rimbeccai. « Invece mi hai lasciata sola, hai permesso che la stampa mi distruggesse e i colleghi mi deridessero ad ogni occasione buona. Non hai mosso un dito per impedirlo, anzi, hai anche rincarato la dose! » Presi fiato perché sentivo che se non l'avessi fatto la voce mi avrebbe tradito. « Quando avevo bisogno di sostegno tu mi hai lasciata affondare. »

« Nella mia posizione avrei rischiato di fare più danni che altro, se... »

« Più danni di questi? » recriminai, indicando con la mano buona il tutore grigio e nero che manteneva rigido, immobile e attaccato al corpo il braccio ferito. « Avresti potuto convincere il Procuratore ad appoggiarmi, lo sai benissimo, sarebbe bastata una sola parola da parte tua. Lasciare che i tuoi uomini mi mettessero in dubbio, invece, lascia che te lo dica, non è stata una grande idea. »

« Non puoi accusarmi di questo! »

« No? Sicuro? Hai davvero il coraggio di dirmi che non è vero che hai rinunciato a darmi ascolto per paura che ti accusassero di favoritismo? »

« Sei ingiusta. »

« Sai che non è così. »

Aengus Fellman portò una mano alla fronte e premette con forza sugli occhi – di colpo mi sembrò stanco. « Hai una vaga idea di cos'ho provato quando ho saputo cosa ti era successo? »

« Zio. »

« No. Lasciami finire. Ce l'hai, un'idea? Sai quante volte mi sono ripetuto che avresti potuto morire e sarebbe stata colpa mia? Tuo padre ti ha affidata a me e per poco non... So che hai ucciso l'uomo che ti ha ferita. » Rimasta senza parole di fronte ad una simile ammissione da parte sua, a quel punto dovetti parlare.

« Moriarty. Sì. »

« Be', finalmente anche i federali avranno un elemento come si deve, » buttò lì, e io, nemmeno a dirlo, abboccai.

« Cosa vuoi dire? »

« La Shepard ha chiesto il tuo stato di servizio e i documenti. Ho firmato il tuo congedo stamattina – a quest'ora dovresti già risultare in forze all'NCIS. »

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Degli ostacoli, e del come rimuoverli ***


Non ho proprio abbastanza parole per scusarmi di questa lunga attesa... Sono un'aggiornatrice PESSIMA che non merita lettori affezionati come voi... ç___ç Vi avviso fin da subito che [spoiler! XD] questo capitolo non porta granché avanti la parte investigativa della vicenda, e me ne dispiace...e temo che sia un po' fluff ;) se non v'interessa questo aspetto, consolatevi, questo non è un capitolo fondamentale e potete direttamente passare al prossimo - che, GIURO GIURO GIURO, non si farà attendere tanto quanto questo! 


« Stai abbastanza comoda, così? » Accolsi la domanda di Ducky con uno sbuffo spazientito.

« Troppo. Dovrei rimettermi in forze, non poltrire giorno e notte coccolata come una principessa... »

« Devi riposarti, prima di tutto. Per rimetterti in forze bisogna prima che il tuo organismo le recuperi, non ti pare? »

« Ma io sto bene! Guarda! » Feci sfoggio per l'ennesima volta dei progressi che la fisioterapia aveva fatto fare al mio braccio. « Voglio tornare al lavoro, non ce la faccio più a star qui senza fare niente. »

« Non puoi ancora. Ne abbiamo già parlato mille volte. »

« Anche solo come semplice osservatore! Ne ho bisogno, Ducky. »

« Potrebbe essere pericoloso anche per la squadra. E poi bisogna considerare che... »

« Che? » Donald, che si era interrotto di colpo e sembrava stato messo in difficoltà dalla mia insistenza, abbozzò.

« Niente. Una sciocchezza. »

« Oh, non credo proprio. “Senza contare che”... Cosa? »

Lui si sedette sul bordo del divano e se non fosse stato per gli agenti di guardia che Gibbs aveva destinato in casa fino a nuovo ordine la cosa sarebbe certo parsa molto intima. Le condizioni della signora Mallard erano peggiorate durante le settimane in cui ero rimasta a Bethesda ed era stato necessario ricoverarla in una struttura dove si prendessero cura di lei ventiquattr'ore su ventiquattro: la casa sembrava diversa, senza di lei, in qualche modo estranea, e persino i cani mostravano la propria malinconia non muovendosi dalla mia stanza o seguendomi come piccole ombre pelose. In quello spaesamento, tuttavia, non avevo perso il mio tocco nel capire quando si tentava di nascondermi qualcosa. Donald capitolò.

« Da quando ti crede fuori gioco Carson non ha più colpito. »

Lo disse con dolcezza, in un certo senso con cautela, ma il suo garbo servì a poco; odiavo quelle mie reazioni stizzite ed infantili ma non riuscii ad evitarla – dopotutto lo sapevo: tornare in servizio attivo avrebbe fatto ripartire il gioco interrotto e messo a rischio un'altra vita.

« Ma io sono fuori gioco! E di questo passo non ci rientrerò mai. »

« Sì, invece. Ma quando sarà il momento, e non prima. »

Le mie giornate si ripetevano tutte uguali – sveglia, medicine, fisioterapia, fisioterapia, pranzo, ulteriori esercizi nella speranza di ottenere qualche risultato in più... La parte migliore era la sera, inutile girarci intorno. Il ritorno di Ducky non significava semplicemente avere compagnia: c'erano il racconto della giornata, gli aneddoti, i casi che mi ostinavo a voler seguire anche dall'esterno, gli approfondimenti psicologici nei quali Ducky aveva deciso di coinvolgermi... Con un unico neo.

Da quando mi ero svegliata in ospedale, dalla trepida confessione che mi aveva fatto circa i propri sentimenti, tra noi sembrava essere sorto un muro invalicabile. Non che ci fosse freddezza, certo, anzi; Donald non perdeva occasione di farmi oggetto di attenzioni e premure che avrebbero reso un paradiso la convalescenza di chiunque, non mi lesinava certo i piccoli gesti di tenerezza che tanto mi piaceva ricevere. Ciò tuttavia, percepivo nettamente quell'ostacolo. E man mano che i giorni passavano, mi faceva impazzire.

« Vuoi dirmi cosa ti preoccupa? » andai alla carica una sera, dopo aver rimuginato per l'intero pomeriggio e aver preso la decisione che non avrei tollerato oltre la cosa. Lui stava bevendo il suo abituale scotch dell'ultima ora e mi guardò sgomento, senza la minima idea, probabilmente, di ciò di cui gli stessi parlando.

« Niente... »

« Allora parliamo di ciò che preoccupa me: vuoi? »

« Ma certo, tesoro, ci mancherebbe... È per il lavoro? »

Scossi appena la testa, poggiando sul tavolo accanto a me la mia tazza di tisana. Dio, avrei ucciso per un bicchiere di whisky. « Non è il lavoro. Sei tu. »

« Io? »

« Tu. Ed io. Noi, insomma. » Lo vidi aggrottare la fronte, abbandonare lo scotch. Venne a sedersi accanto a me ed ebbi l'impressione che stesse per domandarmi qualcosa, ma non lo fece e fui ancora io a riempire quel silenzio. « È cambiato qualcosa, Donald. Da quando mi sono svegliata in ospedale... È cambiato qualcosa, non è vero? »

« Non riesco a capire. Non... »

« Era solo lo stress del momento. In realtà non ti piaccio abbastanza, » suggerii. Lui si mostrò letteralmente sconvolto.

« Come ti viene in mente? Certo, che mi piaci... Mi chiedo come tu possa anche solo pensare che non sia così. »

« Be', non lo so, guardaci. Mi sfiori appena, e solo se non se ne può fare a meno. Mi baci sulla fronte. Passano ore prima che torni a guardarmi negli occhi dopo avermi cambiato la medicazione. Se sei in imbarazzo puoi dirlo, Ducky, non è mica obbligatorio che io stia qui... »

Lo ammetto: una parte di me aveva sperato che si mostrasse sdegnato, che protestasse bruscamente; avevo sperato di dovermi scusare. Invece sospirò piano, scivolando all'indietro fino ad incontrare lo schienale del divano.

« Non è questo, Christine. Credimi. »

« Allora... È per questa, vero? » domandai, la voce rotta nello sfiorare il cerotto che ancora proteggeva la ferita alla base del collo. Sarebbe rimasta una cicatrice molto brutta, era stato chiaro fin da subito, e a dir la verità se ancora la tenevo ben nascosta era perché io per prima faticavo a farci i conti – e se non riuscivo a guardarla io, perché avrebbe dovuto riuscirci lui?

« Cosa? »

« La cicatrice che si sta formando. Non è bella da guardare, lo so. » Lui si voltò di tre quarti, il braccio sullo schienale, la mano tesa a sfiorare con la punta delle dita la mia guancia.

« Ora è parte di te, Christine. È il tuo coraggio, la tua determinazione a vivere. Come potrei non amarla, secondo te? »

Sentii lacrime inopportune pungere agli angoli degli occhi.

« E allora perché resti lontano? »

Persi di nuovo il contatto con il suo sguardo e passò molto tempo prima che lui decidesse di parlarmi di nuovo. Lunghi minuti nei quali valutai la possibilità di alzarmi e andar via senza una parola, cosa che non feci soltanto per non abbandonare il campo.

« Ho paura di farti del male, » lo sentii mormorare.

« Ma la mia spalla sta meglio, adesso. Mi hanno anche dato il permesso di esercitarmi al poligono... Non ho bisogno di essere protetta, Donald. Ormai dovresti saperlo. »

Sorrise ma non era convinto, potevo vederlo senza sforzo – mi sorrise come si fa coi bambini. Io però non ero una bambina, e per certi versi, come sempre ripete mio zio, non lo sono mai stata. Presi in mano la situazione.

Se in via precauzionale il braccio sinistro continuava ad essere limitato nei movimenti grazie al tutore, il destro era libero di collaborare al raggiungimento dei miei scopi: mi puntellai su di esso per farmi più vicina. Lasciai che la mia mano scivolasse sulla nuca di Donald e lo baciai, quasi stupita nello scoprire che non opponeva alcuna resistenza. Avevo desiderato quel bacio fin da quando avevo iniziato a sentire le forze tornare e ora, nonostante avessi dovuto aspettarlo tanto e quasi forzarlo, non mi sembrava vero. Mi mancò il fiato.

Scoprire di nuovo le sue labbra, il lieve sentore di scotch nella sua bocca, ritrovare le sue mani che pronte mi avevano circondato la vita fino ad approdare con sicurezza sulla schiena – forse era un bene, che la signora Mallard si fosse trasferita.

« Christine... » esalò sulle mie labbra, e mi ritrovai con le dita fra i suoi capelli, il fiato corto e un gran calore sulla pelle; pochi attimi e non ci fu più papillon né occhiali, né i miei capelli sempre legati, persino il tutore scomparve. Avevo bisogno di libertà, di facilità nei movimenti – avevo, prima di tutto, bisogno di abbracciarlo, di essere sicura che non era un sogno. Iniziai a sbottonargli la camicia. « Non qui, » mi fermò. « Merita di essere speciale... »

Sorrisi al nulla mentre pronunciava quelle parole proprio sulla mia gola, e mi lasciai docilmente guidare fino al piano superiore.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=148686