Finalmente a casa di Slytherin Nikla (/viewuser.php?uid=12394)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ritorno a Washington ***
Capitolo 2: *** ricordi&tormenti ***
Capitolo 3: *** Lui. ***
Capitolo 4: *** Discussioni ***
Capitolo 5: *** Ospitalità ***
Capitolo 6: *** Casa ***
Capitolo 7: *** Gibbs non ti porta mai a cena per caso ***
Capitolo 8: *** Brutte notizie? ***
Capitolo 9: *** Il Whisky può provocare effetti collaterali ***
Capitolo 10: *** Un altro. ***
Capitolo 11: *** Telefoni... ***
Capitolo 12: *** Visite ***
Capitolo 13: *** Casalinghe anni'50 e passi falsi ***
Capitolo 14: *** L'emulo ***
Capitolo 15: *** Calvin Moriarty ***
Capitolo 16: *** Punti di contatto ***
Capitolo 17: *** Latte, biscotti, bruciature e momenti di lucidità ***
Capitolo 18: *** Un'amica telepatica ***
Capitolo 19: *** L.J. Gibbs ***
Capitolo 20: *** Carson ***
Capitolo 21: *** Bethesda ***
Capitolo 22: *** Un sorriso ***
Capitolo 23: *** Ho davvero rischiato di morire? ***
Capitolo 24: *** Rule 12: un'altra possibilità ***
Capitolo 25: *** Un elemento come si deve ***
Capitolo 26: *** Degli ostacoli, e del come rimuoverli ***
Capitolo 1 *** ritorno a Washington ***
Sospirai
profondamente, contemplando il display dell’ascensore. Il prossimo sarebbe stato
il mio piano. Oh Signore aiutami. Era passato così tanto tempo
dall’ultima volta che avevo messo piede lì dentro… Chissà come avrebbero reagito
al mio arrivo. Dubitavo seriamente che qualcuno potesse averli avvertiti…
Ero
partita da New York in gran segreto, all’oscuro di tutti: il mio clamoroso
errore con quello che la stampa aveva chiamato “il killer filosofo” bruciava
ancora da morire, e nonostante i miei colleghi – se di colleghi potevo parlare,
io che in polizia ero entrata per l’eroica morte di mio padre anni prima e la
mia straordinaria esperienza accumulata al fianco di uno zio poliziotto, invece
che seguendo l’Accademia come tutti gli altri – non smettessero di ricordarmelo
(“quando cadono gli dei”, diceva la mia insegnante di letteratura tanti anni
prima, “gli uomini ridono sempre più a lungo di quanto non facciano per uno di
loro”), le persone a cui tenevo non ne sapevano nulla o quasi.
E
di sicuro a mio zio non avevo detto dove fossi diretta!
Così
ero partita, di punto in bianco, ma non per una vacanza: un periodo intensivo
agli ordini di Leroy Jethro Gibbs era ciò di cui avevo più bisogno per
riprendere contatto con le mie risorse investigative, ma certo era un’esperienza
tutt’altro che facile…
Ecco,
appunto. Maledette riflessioni. Mi trovai sputata fuori dall’ascensore in un
momento di totale marasma nell’ufficio, con agenti che saettavano a destra e a
manca e Gibbs che dispensava scappellotti alla sua squadra come caramelle.
Mi
schiarii la voce.
«
Certe cose non cambiano mai, vedo »
«
Che cosa… Chris! » Negli occhi color cielo dell’agente speciale Gibbs le mie
preoccupazioni svanirono. Come avevo potuto, solo qualche minuto prima, temere
tanto il momento in cui le porte dell’ascensore si sarebbero aperte? Ero a
casa. Molto più di quanto non ci fossi stata nell’ultimo anno a New
York.
All’NCIS
avevo lasciato mente e cuore, e solo ora me ne rendevo conto. Mi strinsi nelle
spalle.
«
Buongiorno, agente speciale Gibbs. Tony… Timothy… » Cercai con gli occhi Kate, e
un’onda di tristezza mi invase. Già. Kate. Jethro, da maestro e mentore
quale sempre era stato per me, intuì il mio momento di vertigine e mi venne
incontro, presentandomi una ragazza dai tratti inconfondibilmente mediterranei
con grandi occhi neri e un’espressione dura sul viso.
«
Questa è Ziva David, Chris. Agente del Mossad, momentaneamente assegnato alla
nostra squadra ». Le strinsi la mano con ammirazione: il Mossad! Decisamente non
doveva essere una alle prime armi. Ma dopo le presentazioni, Gibbs – sempre
sfruttando il potere psicologico che poteva vantare su di me – passò alla parte
meno piacevole. « Perché sei qui? »
Forse
arrossii, ma strinsi i denti per non lasciar trasparire i problemi che avevo
sperato di poter lasciare a New York. Se avessi detto una sola parola per farmi
compatire, avrei dimostrato che l’addestramento di Jethro non mi era servito a
niente.
«
Avevo un sacco di ferie arretrate. E come sai, non sono capace di riposarmi
».
«
Dovrai chiedere al direttore Shepard, se vuoi collaborare con noi da agente
operativo » mi fece presente Di Nozzo, con un sorriso sornione. Glielo
contraccambiai: quei nostri scambi di “gentilezze” erano una delle cose che più
mi mancavano a New York.
«
Se pensi di farmi fare la figura della stupida, agente Di Nozzo, caschi
male… Jenny sa del mio arrivo già da un po’ ». Poi, notando lo sguardo assassino
di Gibbs, mi affrettai ad aggiungere « Le ho chiesto io di non dirti niente.
Volevo che fosse una sorpresa… »
Per
tutta la giornata lavorai con la squadra di Gibbs come se nulla fosse cambiato:
gli scherzi di Tony, la sintonia con McGee, la durezza del mio maestro… Solo con
l’agente David le cose erano più dure del previsto, e forse per colpa di
entrambe. Non mi piacevano i suoi modi spigolosi. E probabilmente lei non
gradiva i miei.
A
sera ero letteralmente esausta: quei ritmi erano così diversi da quelli cui ero
abituata… Senza contare che da secoli ormai non mettevo più le mani su un caso
di violenza non immediata. Il corpo, a quanto mi aveva detto Tim, era ormai
ridotto al solo scheletro e sembrava che la morte risalisse ad almeno quattro o
cinque anni prima…
Ero
stesa sul divano, in un appartamento concessomi in affitto dall’Agenzia, quando
quel particolare mi tornò alla mente. Sempre che di “particolare” si possa
parlare riferendosi ad un cadavere, s’intende. Un corpo da analizzare mi portava
in una sola direzione. L’unico della squadra che ancora non avevo salutato.
«
Pronto? » Una voce di donna anziana mi raggiunse dall’altro capo del telefono.
Sorrisi.
«
Buonasera, signora Mallard… Cercavo suo figlio ». Alle mie parole fece eco una
risatina vacua.
«
Glielo chiamo subito. DONALD! » Allontanai istintivamente il ricevitore « LA TUA
AMANTE AL TELEFONO! »
Un
attimo dopo percepii dei passi, e la voce del medico legale migliore del mondo
che richiamava sua madre per la “sgarbatezza” delle sue parole.
«
Prima di tutto, chiunque sia, le chiedo scusa per… »
«
Figurarsi. Lo sai che adoro tua madre » Seguì un lungo istante di silenzio.
«
Non ci credo, non puoi essere tu… » Chiusi gli occhi e inspirai, come se lui
potesse vedere il mio gesto di impazienza.
«
E allora chi dovrei essere, dottor Mallard? La tua amante per davvero?
»
«
Christine! Mio Dio, che sorpresa… »
«
Volevo scusarmi. Non ho avuto occasione di venirti a salutare, oggi, e… »
«
Sei a Washington? »
«
Mi sembra evidente ».
La
conversazione al telefono durò parecchio, come al solito. E tuttavia l’indomani
mattina la prima cosa che feci fu scendere in sala autopsie per salutare il mio
amico di persona. Mi era sempre stato difficile spiegare in termini concreti il
rapporto che mi legava a Donald Mallard, eppure potevo senza dubbio affermare
che lui era la persona cui tenessi di più al mondo… E il suo abbraccio
affettuoso, in quel regno di tavoli d’acciaio e seghe Stryker, costituiva pure
sempre il miglior modo di iniziare una giornata.
«
Ti andrebbe di lavorare un po’ con me come ai vecchi tempi, Christine? » Nemmeno
a dirlo accettai. Era stato il mio insegnante, al corso integrativo di Medicina
Legale, e forse lui era l’unica persona in grado di contendersi da pari a pari
la mia attenzione con Gibbs.
L’assistente
di Ducky a quanto pareva non apprezzava più di tanto la mia presenza, invece. I
suoi sguardi obliqui e incuriositi mi infastidivano, ma me ne ero andata da New
York per non farmi prendere dalle paranoie e non intendevo certo ricominciare
adesso…
«
Sei qui da due giorni, e non sei venuta da me? » Mi voltai di scatto. Dio del
cielo, Abby! Mi ero dimenticata di lei… Un terribile errore.
«
Ero tanto stanca, Abby… » Tentai, arrampicandomi sugli specchi. « E lo sai, per
venirti a trovare devo essere in gran forma! Pranzi con me, oggi, vero? »
Osservai compiaciuta l’espressione di infantile disappunto sparire dal suo viso
e trasformarsi in un sorriso raggiante.
«
Naturalmente! » Quindi la mia amica rivolse uno sguardo truce all’assistente del
patologo, con l’aria di chi lo fa molto spesso. « E tu piantala di fare quella
faccia, Jimmy! Chris è l’alunna preferita di Ducky! », concluse, come se quella
notazione potesse metter fine all’astio di chiunque nei miei confronti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** ricordi&tormenti ***
«
Allora, Christine… » esordì il patologo, quasi in sordina, all’inizio della
nostra pausa di relax « Non credi che forse parlare di quanto successo a New
York potrebbe farti bene? »
Quella frase mi colse del tutto alla sprovvista: mi ero premurata di fare
tutto il possibile e anche di più affinché nessuno dei miei amici a Washington
scoprisse il vero motivo del mio ritorno, e scoprire che non era servito a
nulla, trovarmi un’altra volta davanti a ciò che avevo creduto di poter lasciare
a chilometri di distanza, fu un duro colpo. Senza contare, poi, che ho sempre
odiato dover fare, più del necessario, i conti con i miei fallimenti, in
particolar modo quando essi sono pubblici. L’errata – o almeno, questo era
quanto aveva dichiarato il tribunale – identificazione di quello che la stampa
aveva chiamato “killer filosofo” per le pagine stracciate che lasciava sul luogo
dei propri crimini, e il proscioglimento del mio arrestato, appartenevano in
maniera più che vistosa ad entrambe le categorie, quindi di conseguenza l’idea
di parlarne era fuori discussione.
« No », risposi, asciutta, riafferrando al volo la teiera che chissà come
Ducky conservava da anni, intatta e senza un graffio, in sala autopsie, e che
quel suo tentativo di approccio al mio
problema mi aveva fatto scivolare tra le mani rischiando di vanificare tutte
le sue fatiche.
« È umano, sai, commettere degli errori ». Non posso dire che quella
garbata insistenza mi avesse sorpreso: conoscevo Donald Mallard da abbastanza
tempo per sapere che non si sarebbe mai arreso di fronte ad una qualsiasi
variante sul tema “non mi va di parlarne, davvero”, quindi scelsi un decoroso –
almeno tale mi sembrò, lì per lì – silenzio. Mi dedicai con grande impegno e
serietà a versare l’acqua sulla mia bustina di tè, fingendo per quanto mi era
possibile di non aver sentito. « Abigail ci ha messo meno di un’ora, a scovare
nella sua rete cibernetica che cosa non andava nella tua storia
».
Incredula, guardai materializzarsi davanti a me una via d’uscita,
lastricata d’oro. Un binomio infallibile: Indignazione e
Risentimento.
« Mi avete spiata?
»
D’accordo, ammetto di essermi sentita in colpa di fronte allo sguardo
mortificato di quell’uomo meraviglioso.
« Cerca di capire, eravamo preoccupati. Non è da te, arrivare qui con la
prospettiva di restare qualche mese e avvisare della cosa soltanto il direttore
e non gli amici… Perché quando è successo non mi hai chiamato, Christine? »
Adoravo il tono affettuoso con cui Ducky sapeva pronunciare il mio nome, e tanto
bastò a far salire le lacrime. Il risentimento, l’irritazione erano scomparsi,
lasciando il posto ad un fortissimo desiderio – piuttosto infantile – di
lasciarmi finalmente consolare.
« Perché la nostalgia era già troppo forte », ammisi. « Sarebbe stato
troppo duro, sentire la tua voce al telefono e averti così lontano
».
Ho sempre ammirato la capacità di Ducky di commuoversi senza
vergognarsene. Mio zio non ne era mai stato in grado, e men che meno poi poteva
essere un esempio di sensibilità e disponibilità alla commozione Jethro Gibbs…
Un velo umido e sottile invece era apparso negli occhi del mio più caro amico,
confermandomi nella convinzione che gli uomini come Donald Mallard dovrebbero
essere clonati per il bene dell’umanità.
« Sarei venuto a New York immediatamente, se mi avessi avvertito
dell’accaduto. Non avresti avuto nemmeno bisogno di chiedermelo ». Lo guardai,
riconoscente, mentre il mio cuore minacciava di scoppiare per il cortocircuito
emotivo che vi si era innescato: frustrazione e fallimento per i ricordi tornati
a galla, gratitudine e sconfinato affetto verso quell’amico davvero più unico
che raro… « Quindi è per questo, che non chiamavi più » proseguì lui, assorto.
Mi limitai a sospirare, e lui ne
parve molto afflitto. « Che cosa temevi? Che ti avremmo giudicato? » Fece una
brevissima pausa, salvo poi concludere, con un’espressione triste in viso « Che
io avrei potuto farlo?
»
Senza che neppure me ne rendessi conto mi sfuggì una lacrima. Donald
Mallard mi si fece accanto, a suo agio nella tuta di plastica blu come riusciva
ad esserlo nei suoi impeccabili abiti da gentleman di rango, e mi sfiorò una
guancia fino a farmi alzare il viso verso di lui.
« Oh, tesoro, che momenti brutti devi avere passato…
»
Mi ritrovai stretta tra le sue braccia, piangendo come una sciocca
ragazzina. Ho detto in precedenza che Ducky è sempre stato la sola persona in
grado di contendersi da pari a pari con Gibbs la mia attenzione, ma credo che il
sorpasso che tanto ha sconvolto le
nostre vite sia iniziato proprio allora, nella fredda sala autopsie, mentre il
nostro tè si raffreddava ormai dimenticato su un carrello d’acciaio per i ferri
chirurgici. Quel pomeriggio irreale in cui ero rimasta immobile per non so
nemmeno quanto tempo, a singhiozzare abbracciata al più geniale dei miei
insegnanti, mentre qualcosa di irrimediabile e irrevocabile cambiava dentro
di me. Non me ne accorsi, allora,
ma la mia vita aveva appena iniziato a
capovolgersi.
Gli parlai di New York, del mio fallimento di cui ancora non riuscivo a
darmi spiegazione, degli sguardi ad un tempo compassionevoli e segretamente
soddisfatti dei miei colleghi… Tutto. Comprese le illusioni infrante e lo
sconforto feroce. Donald ascoltava. Donald capiva. Come sempre, come ogni cosa.
Poi mi mandò a fare una doccia, intimandomi pur con il consueto garbo di
prepararmi per una cena elegante, e nonostante le mie proteste alla fine l’ebbe
vinta. Quando la sua vecchia, adorabile Morgan si fermò, unica nel vasto
parcheggio deserto, scossi la testa incredula: come avevo potuto dimenticarlo?
Per curare un’anima malinconica non c’era miglior rimedio di una cena raffinata
nei sotterranei privati di un museo!
Rientrai nel mio appartamento quasi quattro ore più tardi, col cuore più
leggero ma sovrastata da un vago senso di malinconia: com’era possibile
quell’amicizia tanto profonda, quel rapporto di ineffabile tenerezza, quando a
New York non avevo una sola persona che potessi chiamare davvero amica? Sprofondai nel divano senza
cambiarmi d’abito, passando mentalmente in rassegna volti e nomi di persone
presenti nella mia vita da sempre. Conoscenti, nella migliore delle ipotesi.
Presenze transeunti, nella maggior parte dei casi. Meteore e niente
più.
Mi sentii triste.
Costrinsi il mio corpo a riemergere dal divano contro la sua volontà e mi
diressi in cucina, dove, sul pensile più alto e in una scatola di metallo che
faticava ad aprirsi – qualsiasi cosa, per combattere una tentazione – avevo
depositato al mio arrivo l’àncora dei brutti momenti. Ero ancora in piedi sulla
sedia quando squillò il telefono, ma non mi diedi certo la briga di rispondere;
dopo la serata con Ducky, dopo quell’accesso di sconforto, la possibilità di
parlare con chicchessia era categoricamente fuori
discussione.
« Chris, sei in casa? » Abby. « Dai, Chris… Mi sento stupida quando parlo
con la segreteria ». Silenzio, forse per darmi il tempo di raggiungere
l’apparecchio, ma non me ne curai. Scesi dalla sedia, aprii la scatola con le
unghie e spensi la luce. « Ah, non ci sei davvero. Bene… Ecco, io volevo…
Immagino che Ducky ti abbia detto quello che…Sì, insomma, lo sai…» Pausa, di
nuovo lunga, ma questa volta mi parve imbarazzata. Tornai al divano e mi sedetti
a gambe incrociate. Davanti a me, il pacchetto di sigarette che mi portavo
dietro nonostante non fumassi da tre mesi mi fissava con insistenza. « Volevo
scusarmi. Ma eravamo preoccupati, e così ne abbiamo parlato…E così Gibbs mi ha
chiesto di trovare delle risposte, e così io… » Piantala con questi “e così”, Abby. La
fiamma dell’accendino si rivelò, come previsto, incredibilmente
rassicurante.
Le porte dell’ascensore avevano fatto a malapena in tempo ad aprirsi di
qualche centimetro che subito si richiusero alla svelta dopo che una massa
indistinta – un corpo, e subito individuai di chi – mi aveva quasi travolto nel
fare il proprio frettoloso ingresso. La corrente si
interruppe.
« Prevedibile, Gibbs »
« Non si può dire altrettanto del tuo comportamento ». Mi limitai ad
un’alzata di spalle: tentare di protestare, o peggio di giustificarmi, con Gibbs
sarebbe stato oltremodo stupido. « Tutti facciamo degli errori
».
« Io non ho sbagliato! », gli
gridai, cosa che avevo desiderato fare sin dal primo istante di quell’incubo
iniziato a New York venti giorni prima. Avevo colpito con forza la parete
metallica, che reagì con impassibilità al mio gesto esasperato e
furente.
« Stavo parlando dei tuoi colleghi. E del giudice » aveva proseguito con
calma, senza scomporsi di un millimetro di fronte alla mia
reazione.
« Ah. Scusa, Jethro, io… »
« Mai scusarsi. Quella stupida
città ti ha proprio indebolito, Chris: per questo loro hanno vinto, e tu sei
scappata »
« Non – sono – scappata »
« Non hai detto ad anima viva dove stavi andando. Sei venuta qui
avvisando soltanto il direttore. Hai nascosto a tutti quanti l’esito del caso
che credi ti abbia distrutto. Posso continuare l’elenco, se vuoi…
»
« Lascia perdere ». Mi limitai a quelle parole per poi rifugiarmi nel
silenzio, che in quei giorni sembrava esser diventato il mio sport preferito, ma
ancora una volta quel mio mutismo che tanto mi sembrava eroico non diede cenno
di avere la minima presa. Dopo Ducky, Gibbs.
« Tu hai mollato, Christine ».
Mi colpì molto che avesse scelto di usare il mio nome per esteso: da
sempre ero soltanto “Chris”, per tutti eccetto che per Ducky, ed era strano che
Gibbs si fosse comportato così… Ma ciò non toglieva affatto che il suono di
quelle parole era orribile.
« Non mi pare che tua abbia fatto diversamente » replicai, dura e
velenosa; Leroy Jethro Gibbs mi rivolse un sorriso
vago.
« Concesso. Ma come vedi sono tornato indietro…
»
« Be’, sta’ pur certo che io non lo farò! »
Per un attimo credetti di essermi guadagnata uno scappellotto, ma alla
fine il mio storico maestro – mosso da una delicatezza che ancora non potevo
capire – lasciò correre.
« Se il senso di questa frase è “Non tornerò a lavorare a New York”,
posso essere d’accordo. Se invece è “Non intendo riaprire quel maledetto caso”,
mi dispiace, ma dovrò proprio darti lo scappellotto che meritavi prima. Più un
altro »
« Non avrei ragione di riaprire quel caso, Gibbs, ormai il mio indiziato
è stato assolto e per la stampa sono nient’altro che una raccomandata che ha
fatto strada solo per un cognome importante e un padre morto sul campo da
poliziotto modello ».
Gli occhi meravigliosamente blu dell’uomo davanti a me ammiccarono,
mentre riattivava la corrente dell’ascensore e le porte scorrevoli si aprivano
sull’open space
dell’ufficio.
« Non sei una raccomandata e lo sanno tutti, altrimenti non saresti
sopravvissuta con me. Quanto al riaprire il caso… » Sorriso abbagliante, uno di
quelli che spiegava senza la minima fatica come avesse fatto a collezionare ben
quattro matrimoni, più Jen e chissà quante altre. « Temo proprio che non potrai
fare altrimenti ».
Sul grande monitor davanti a me, il corpo senza vita di un sottotenente
giaceva scomposto sull’asfalto, in mezzo ad una pozza di sangue, e decine di
fogli di carta appallottolati erano disposti a ventaglio tutt’intorno. La
schiena mi si coprì di sudore gelato.
« Kant », si limitò ad informarmi McGee, facendo scivolare verso di me
una sedia perché potessi riavermi dallo choc.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Lui. ***
momentaneous
Non credevo ai miei occhi. La disposizione del
corpo, la carta appallottolata, quelle frasi maledette... Era il mio uomo, ne
ero praticamente sicura. Avrei riconosciuto il suo stile fra mille altri.
« È lui
». Gibbs si limitò a guardarmi,
indecifrabile come solo lui in certi momenti sa essere. Ma fu Tony a dar voce al
suo pensiero, e in un certo senso un poco anche al mio.
« Perché si
sarebbe spostato, Chris? Hai detto che non ha mai colpito fuori da New York
». Scossi la testa senza però distogliere gli
occhi dallo schermo. L'undicesima vittima che chiedeva giustizia. Che mi
accusava, muta, di non averla salvata.
« Non lo
so, Di Nozzo. Davvero non lo so »
« Potrebbe aver saputo che sei qui », propose
McGee, ma oggettivamente mi mancò il tempo di valutare quella ipotesi. L'agente
David aveva incalzato subito, in tono scettico
« Potrebbe non essere lui ». Mi voltai piano,
senza dire una parola. Il mio istinto diceva che si trattava di lui, ed ero
certa di non sbagliare, eppure...
« Un emulo, Ziva? » Gibbs si stava informando con
freddezza e calma, come aveva insegnato a fare anche a me... Ma per quale motivo
io non ci ero riuscita? Perché mi sembrava così difficile, prendere come una
semplice questione di logica quella domanda?
« Non credo. No » avevo risposto con sicurezza.
Ma si trattava di un'arma a doppio taglio, perché ora la domanda peggiore era
solo questione di secondi.
« E come lo sai? » L'atteggiamento di scostante
superiorità dell'agente David mi indisponeva, ma per il quieto vivere necessario
alla mia salute mentale preferii soprassedere. Le riservai il tempo di
un'occhiata neutra, ignorando non senza fatica la sua – legittima, ma irritante
– provocazione.
« Il corpo è già da Ducky? » Accolsi la conferma
con celato entusiasmo, e mi lasciai ingoiare dall'ascensore con un moto di
silenzioso sollievo.
Mi fermai oltre la porta a vetri per qualche
istante, deliziandomi ad osservare al lavoro il miglior patologo che avessi mai
conosciuto. Ma un improvviso, un poco imbarazzante, offuscarsi della vista
rivelò anche a me stessa l'inconsistenza di quella menzogna: a chi volevo darla
a bere? Non amavo stare a guardare il miglior
patologo che conoscessi. Amavo stare a
guardare Ducky, i suoi movimenti misurati ed eleganti, le espressioni
comprensive e addolorate che comparivano sul suo volto, e non resistevo – non ci
ero mai riuscita – alle conversazioni solitarie eppure così rispettose della
dignità di chi non era più in grado di difendersi... Osservare Donald Mallard al
lavoro era una delle cose più rassicuranti e tranquillizzanti che ci fossero
nella mia vita, e che più negli ultimi tempi mi erano mancate. Chiusi e riaprii
velocemente le palpebre un paio di volte, a cacciare la commozione e tornare in
me stessa, quindi feci il mio ingresso.
« Mi hanno detto che hai un regalo per me
»
« Di solito cerco di scegliere con maggior cura i
miei regali, ma... Tavolo 2. Accomodati pure, intanto che metto a nanna il
tenente Roberson...»
Sollevai il lenzuolo: il cadavere del
sottufficiale Dalton, eccezion fatta per lo spettrale taglio che recideva la
gola da parte a parte, era ancora intatto. Niente incisione a
Y.
« Sei un angelo », sorrisi. Il dottor Mallard
chiuse lo sportello della cella frigorifera numero 6 sul destino troncato del
tenente Roberson, gettò i guanti nell'immondizia e mi raggiunse al tavolo 2
alzando la visiera di plastica para schizzi.
« Soltanto oberato di lavoro... », si schermì; ma
lo conoscevo troppo bene, e sapevo perfettamente che la decisione di aspettarmi
non era affatto dovuta al troppo lavoro. « Pensi di fermarti fino alla fine,
oppure Jethro verrà a reclamarti sul più bello come al solito? Perché l'ultima
volta che sono riuscito a sottrarti a lui per un'autopsia intera eri...
»
« Ero ancora una studentessa. Sì », confermai,
mentre chiudevo il velcro della tuta blu da autopsie. « E raccontasti a me e al
capitano di corvetta Haxley l'intera storia di Cyrano de Bergerac
»
« Lo ricordi ancora! » Con un gesto molto più
usuale per Abby che per me, che nei rapporti personali sono sempre stata
piuttosto distaccata e restia ai contatti fisici, lo abbracciai, baciandolo su
una guancia.
« Non potrei dimenticare un solo attimo passato
con te, dottor Mallard... Bisturi? »
« Bisturi », annuì Ducky, con un'espressione
felice sul viso.
Procedemmo per diverso tempo in silenzio, pesando
gli organi ed analizzandone i tessuti, senza – almeno da parte mia – focalizzare
del tutto l'attenzione su che cosa significasse quel corpo privo di vita sotto
le nostre mani. Soltanto dopo aver controllato e annotato accuratamente ogni
valore, ed avere così appurato che il sottufficiale Dalton, prima di essere
barbaramente sgozzato, godeva di ottima salute, Donald Mallard, avvicinando a sé
uno sgabello e la potentissima lente per le osservazioni, decise di rompere
quell'equilibrio ritmato fino ad allora dal freddo rumorio
dell'acciaio.
« Va tutto bene, Christine? » Confesso che avrei
desiderato rispondergli con una voce più ferma di quella che mi uscì
effettivamente dalle labbra.
« Non è la prima autopsia alla quale assisto... E
anche se lo fosse, avrei vomitato ben prima di arrivare a questo punto, non
credi? » Ducky non si scompose, tornò alla sua osservazione del taglio che aveva
ucciso il sottufficiale Dalton, con calma, e senza guardarmi commentò, quasi
en passant
« È la prima che significhi così tanto; ma se
preferisci non parlarne, lo capisco ». Sentii gli occhi inumidirsi, e me la
presi non poco con me stessa: iniziava ad accadermi troppo spesso, da quando ero
tornata a Washington, e la debolezza non è mai stata una cosa che io sopporti di
buon grado. Mi sentii all'improvviso stanca, avvilita, bisognosa di un gesto di
tenerezza come la più fragile dei pivelli.
« Non è che non voglia farlo... Non ci riesco »,
mormorai, quasi a me stessa; il mio amico più caro non tradì un solo movimento,
finse di non aver sentito o – più probabilmente – aveva deciso di non insistere.
Lo apprezzai più di quanto già non facessi, di fronte a quel delicato gesto di
cortesia, mentre il mio bisogno di tenerezza cresceva a dismisura. Nonostante
fossi a Washington, nonostante fossi circondata dalle persone cui più volevo
bene al mondo, il soffocante senso di solitudine che aveva oppresso i miei
ultimi mesi a New York sembrava tornato.
« Vieni qui, Christine ». Mi avvicinai a lui,
accostando il viso alla lente come mi aveva indicato di fare. « Questi segni
sono compatibili con quelli delle altre vittime? » Presi tempo per richiamare
alla mente i dettagli dei miei casi precedenti, quindi mi dedicai con tutta
calma a rilevare quelli attuali prevedendo già ciò che avrei trovato. Un unico
taglio, così violento da tranciare la trachea in un solo colpo. Contorni
slabbrati e carne brutalmente lacerata fino in profondità. Il coltello
seghettato che già dal primo omicidio avevo preso a cercare ma senza
fortuna.
« Molto compatibili. Se non fossimo entrambi
troppo professionali per limitarci a questo, invece che ad un serio riscontro
sui referti precedenti, mi sentirei di dirti che sono gli stessi
»
« Quindi possiamo
proprio dire che sia lui ». La risposta affermativa mi morì sulle labbra,
soppiantata dal volto dell'agente David. E come lo sai?
« Per esserne sicuri bisognerebbe voltargli la
testa, se non è troppo complicato...» Ducky scosse il capo in un muto ed
impercettibile cenno di diniego.
« Facciamo prima a girare direttamente il corpo.
Destra o Sinistra? »
« Destra ». Aiutai Donald a mettere su un fianco
il cadavere del sottufficiale Dalton e a mantenerlo in quella posizione,
allungando una mano fino al carrello della lente per avvicinarlo a me. Puntai lo
strumento sull'interno dell'orecchio della vittima, e nonostante mi fossi
aspettata quel risultato fui scossa da un brivido: in caratteri minuscoli e poco
più che visibili ad occhio nudo, era timbrato un piccolissimo 11. Di fronte ad
una simile – per quanto attesa – rivelazione l'istinto primario è quello di
lasciarsi cadere sulla prima sedia, accasciarsi in preda alla demoralizzazione,
e poiché non ho mai costituito un'eccezione tirai verso di me uno sgabello con
le ruote girevoli. Il dottor Mallard si sporse, per vedere che cosa mi avesse a
tal punto sconvolta, e subito gli sfuggì tra le labbra qualcosa di simile ad una
imprecazione, chiaramente in scozzese ma così inusuale da lui che in certa
misura mi costrinse a riprendere il controllo. Lo aiutai ad adagiare nuovamente
il cadavere sulla schiena, e in totale silenzio sfilai guanti e visiera quasi
correndo al lavello: raccolsi acqua a piene mani e vi immersi il viso, più
volte, finché non sentii la mano di Ducky stringersi sulla mia
spalla.
« Vuoi che avverta io Gibbs? »
« Salgo io, non preoccuparti. Davvero, ce la
faccio », insistetti, dopo una breve pausa in cui la preoccupazione si era
dipinta sul suo viso con più che lampante nitidezza. Ma probabilmente non lo
rassicurai più di tanto, però, perché mentre le porte dell'ascensore si
chiudevano sentii sollevare la cornetta dell'interfono.
« L'ha seguita, Jethro », disse la sua voce, in
tono allarmato.
This
Web Page Created with PageBreeze
Free Website
Builder
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Discussioni ***
momentaneous
Avevo ripreso a lavorare al caso, e se per un
verso l'idea che il killer filosofo
avesse seguito chissà come le mie tracce un po' mi spaventava, dall'altro la
prospettiva di mettergli le mani addosso una volta per tutte aveva il suo
fascino. Avevo fatto richiedere i fascicoli delle prime dieci vittime da
Timothy, ben decisa a non far sapere ad anima viva – e men che meno a mio zio –
dove effettivamente mi trovassi: lui odiava con tutto se stesso l'NCIS e nello
specifico Gibbs, mentre ero sicura che i miei colleghi, se mi avessero saputo
coinvolta nel caso, si sarebbero divisi equamentre tra chi diceva che ero
fuggita per nulla e chi invece che avevo deciso di perseguitare l'uomo che il
tribunale aveva giudicato innocente.
In realtà, ero
solo stanca. Di lottare, di sbattere la faccia contro vicoli ciechi... La stessa
prospettiva di riabilitare la mia reputazione non mi elettrizzava. Mi sentivo
alla deriva, inspiegabilmente e senza apparente possibilità di migliorare le
cose.
« Pensi di piantarla, o cosa? » Alzai gli occhi
dalla scrivania molto lentamente, in direzione di quella da cui l'agente David
aveva con malagrazia sbottato, e ogni possibilità che avessi male inteso le sue
parole svanì nel nulla: mi stava fissando, ergo, l'obiettivo ero proprio
io.
« Parli con me? » Il mio tono era forzatamente
piano. Litigare con una collega, per quanto quella nello specifico non
rientrasse in modo particolare nelle mie grazie, era un vizio che stavo cercando
di perdere.
« Vedi qualcun altro, qui, che aspetta con
rassegnazione di affogare nel suo stesso fatalismo? » Il suo sarcasmo mandò in
fumo ogni mio proposito di non belligeranza, e mentre sentivo montare la rabbia
mi resi conto che sull'intero ufficio era calato il silenzio. Tim sembrava
pietrificato, Tony a metà tra preoccupazione e divertimento. Gibbs non c'era, ma
d'altronde non avremmo mai osato sfidarci con lui presente.
« Temo di non aver capito »
« Sì, invece. “La stampa mi ha messo in ridicolo,
come farò...?” »
« Smettila »
« “Cielo, la mia vita è a pezzi...”
»
« Smettila! »
« “C'è un bastardo che ammazza a caso, ma aspetto
che si autodenunci perché non ce la faccio, mi sento così...”
»
« Basta, David! » Avevo gridato, alzandomi di
scatto e mandando a sbattere la sedia contro la parete dell'open space. Ci
stavano guardando tutti, adesso.
« No, agente Fellman, non la smetto
»
« Tu non sai niente di me, non puoi...
»
« “Tu non sai niente di me...” Sì, invece! So che
non stai nemmeno provando a prenderlo, quel figlio di puttana, e che non lo fai
perché hai paura di sbagliare un'altra volta. Giusto per fare un esempio
»
« Non – ho –
sbagliato », sibilai. Ero furente, di fronte alla sua
espressione beffarda: non capivo cosa diavolo volesse da me, a cosa volesse
arrivare.
« E allora perché non
vuoi dimostrarlo? » Di fronte a quella domanda diretta restai senza parole: non
aveva affatto torto, e lo sapeva benissimo. « Te lo dico io, perché. Non tenti di riabilitarti
perché non vuoi essere riabilitata, perché pensi che sia stata colpa
tua se è stato assolto, perché temi di non avere fatto tutto il possibile per
impedire che qualcun altro venisse ucciso e che il sottufficiale Dalton sia
morto per questo. Vuoi sapere una cosa? È ora che la pianti di piangerti
addosso. Cresci, agente Fellman. Cresci
».
Mi aveva investito
senza quasi prender fiato, salvo poi tornare a sedersi come se niente fosse e
riprendere a lavorare al computer in totale tranquillità. Cercai con lo sguardo
Di Nozzo, poi McGee, ma entrambi erano all'improvviso occupatissimi, a capo
chino sulla scrivania e ben attenti a non incontrare i miei occhi. Non volevano
saperne nulla.
Sola, senza
alleati e impotente davanti ad un'accusa precisa, esatta ed incontestabile. Ziva
aveva maledettamente ragione, e accettare la cosa non era per niente piacevole.
« Scendo a fumare
una sigaretta », dichiarai, diretta all'ascensore; Leroy Jethro Gibbs, apparso
praticamente dal nulla, tese un braccio tra me e la mia destinazione, con
vigore, per trattenermi.
« Non ti
avvelenerai, Finché sei ai miei ordini ». Sostenni il suo
sguardo.
« Sì, invece.
Rientra nei miei diritti. Permesso ».
Le sigarette
divennero due, poi tre. Riprendere a fumare dopo tre mesi di astinenza era se
possibile più piacevole e rilassante di quanto avessi immaginato, il sapore
amarognolo del tabacco mi stuzzicava le pareti della bocca e la sensazione del
fumo che scendeva lentamente nella trachea mi sembrava in grado di curare ogni
malessere. Il cielo minacciava pioggia, ma nonostante ciò non riuscivo a
decidermi a rientrare in ufficio: l'asfalto fuori dal garage aveva sviluppato
un'attrattiva irresistibile.
« Ziva ti ha preso
a martellate, eh? » Mi voltai appena verso l'interno. Abby veniva nella mia
direzione, semi infagottata in una grossa tuta rossa da lavoro, con due
giganteschi bicchieri di caffè in mano. Come unica risposta, alzai le spalle. «
Non devi prendertela, Chris... È il suo modo di interpretare una missione
umanitaria »
« Bene. Lo terrò
presente »
« Tieni questo...
Meglio Santa Caffeina, piuttosto che quelle schifezze ». Accennai un mezzo
sorriso, e presi un lungo sorso. Dopotutto, forse Abby non aveva
torto.
« Ha detto la
verità, Abby. Per questo sono tanto arrabbiata »
« Stammi a
sentire, Chris. Adesso taci, e mi stai a sentire ». Era seria, incredibilmente
seria « Sei con noi, adesso... Tra i tuoi amici. E gli amici si aiutano, si
sostengono, si danno una mano nei momenti bui »
« È complicato
»
« Guardati intorno. C'è Gibbs, ci sono io, c'è Tim...
C'è Ducky, e penso proprio che lui preferirebbe farsi ammazzare
piuttosto che vederti triste. È più semplice di quanto credi, Christine...
»
Quella sera tornai
a casa più tranquilla, più in pace con me stessa. Il resto del pomeriggio era
trascorso sotto una stella migliore, ad aiutare (forse sarebbe più corretto dire
“a guardare”) McGee che volando sulla tastiera tentava di ricostruire i
movimenti di Albert Carson negli ultimi giorni. I dossier dei casi precedenti
erano finalmente arrivati, il dottor Mallard e il suo assistente si dedicavano a
comparare le ferite, e Gibbs – sospetto per tirarmi su il morale – si
intrattenne una buona mezz'ora al telefono con il mio capitano, elencandogli in
quanti modi avrebbe potuto fargli scontare il vergognoso ritardo con cui i
documenti erano passati di mano.
Mi coricai con una
gran voglia di dormire e senza più nemmeno pensare al tabacco, ed
eccezionalmente per i miei standard mi addormentai subito come un sasso. Mi
sembrava che le cose fossero sulla strada del miglioramento, una buona volta, e
godere di un sonno tranquillo ne fu una piacevole conseguenza. Quando però al
mattino, aperti gli occhi, posai i piedi giù dal letto, mi resi conto con orrore
che il gradevole scorrere d'acqua che mi aveva tenuto compagnia per tutta la
notte non era affatto pioggia. A giudicare dallo stato di inzuppamento in cui si
trovava la moquette, l'impianto idraulico doveva a dir poco essere
esploso.
This
Web Page Created with PageBreeze
Free Website
Builder
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Ospitalità ***
momentaneous
Avevo tentato di
salvare il salvabile, gettando in valigia le poche cose davvero asciutte e
portandole con me al lavoro, ma non avevo la minima idea di che cosa avrei fatto
una volta là. Tuttavia stare a riflettere in quella specie di palude mi era
sembrata un'idea estremamente sciocca, oltre che irritante: oh, al diavolo,
qualcosa sarebbe successo!
« Parti per le
vacanze, Chris? »
« No, Tony »,
grugnii, trascinando la valigia fino alla scrivania. « Ho bisogno di un
idraulico. Urgente bisogno di un idraulico ».
« Per andarci in
vacanza? »
« Tony... Lo sai,
vero, che prima o poi ti ucciderò? »
« Temo che per
questo abbia la precedenza Ziva... », precisò McGee ridendo « E di solito lei
non sbaglia un colpo »
« Infatti. Ma se
vuoi possiamo accordarci su un buon prezzo, Fellman ». Guardai Ziva David senza
quasi riconoscerla: stava scherzando? Con
me? Ero
allibita.
« Quanto ti serve
bravo, quell'idraulico? » Gibbs non l'avrebbe mai perso, il maledetto vizio di
comparire dal nulla.
« Preferibilmente
capace di fare i miracoli. Quando stamattina mi sono svegliata, casa mia era un
unico, gigantesco acquitrino »
« Ah, quindi
quella non ti serve per le vacanze » commentò, indicando la valigia. Evitai per
decenza di rispondergli.
A mezzogiorno
avevo già ricevuto le nefaste previsioni dell'idraulico (tre settimane buone per
rendere di nuovo abitabile il mio appartamento, e almeno altri due mesi di
lavoro per rifare l'intero impianto) e quattro generosi inviti di ricovero per
me e il mio mesto bagaglio: McGee, Gibbs in persona, Abby e nemmeno a dirlo
Ducky. Chiaramente da Di Nozzo non l'avevo nemmeno aspettato – la novità del
secolo della sua relazione stabile era giunta alle mie orecchie il giorno stesso
del mio arrivo – e né io né l'agente David avevamo contemplato la possibilità
che si offrisse anche lei volontaria; rifiutai l'invito di Timothy perché sapevo
che nonostante il suo grandissimo senso dell'ospitalità il suo appartamento non
era altrettanto grande, e dal momento che disponeva di un'unica stanza da letto
non volevo che per colpa mia finisse a dormire sul divano; dissi di no anche a
Gibbs, non volendo rischiare di trovarmi davanti il colonnello dell'esercito con
cui al momento si vedeva (a Jen non piaceva, a Abby non piaceva... Senza neppure
conoscerla avevo deciso che non sarebbe piaciuta nemmeno a me).
Restavano in lizza
Abigail e Donald: quanto di più diverso eppure simile potesse esserci al mondo,
e io non sapevo proprio decidermi su chi scegliere tra i due.
« Pranzi con me?
» La proposta della mia amica
gotica mi stupì non
poco, visto quanto era difficile che durante il giorno riemergesse di propria
volontà dal suo reame, ma accettai di buon grado. Forse mangiare in compagnia mi
avrebbe aiutato a fare finalmente una scelta. Insolitamente decidemmo di uscire,
evitando la mensa per un bar tavola calda una decina di metri oltre i cancelli.
In effetti l'ambiente, per quanto vivace, era molto più tollerabile sul piano
acustico, e invitante su quello gastronomico, di quanto non fosse la mensa
dell'NCIS, e parlare sarebbe stato di certo molto più
semplice.
Avevamo appena
assaggiato il nostro pranzo – pollo alla griglia con patate e salsa di soia lei,
bistecca di manzo poco cotta io – quando le posate di Abby ricaddero tintinnando
nel piatto. Alzai gli occhi di scatto, preoccupata da quel comportamento: lei
fissava qualcosa alle mie spalle e mi voltai. Dalla porta di ingresso, preceduto
da una donna coi capelli scuri, era appena entrato Ducky. Pensai che quello
della mia amica fosse stupore, ma la durezza della sua espressione e delle sue
parole mi rivelò che doveva esserci dell'altro.
« Non può avere
questa faccia tosta! » Li guardai sedersi, ancora pensando che quella di Abby
fosse affettuosa gelosia e credendo di condividerla almeno in
parte.
« Credo che Ducky
sia grande abbastanza da poter portare a pranzo una donna senza il nostro
permesso, Abby... »
« Ma non lui,
lei! » Il mio sguardo continuava a restar fisso sul tavolo
cui la coppia che tanto aveva indignato Abby si era accomodata. Sembrava un
incontro amichevole, non galante, e mi ostinavo a non capire perché mai lei se
la prendesse tanto.
« Temo di aver
perso qualche passaggio, allora » ammisi, mio malgrado
incuriosita.
« Quella è
Janice Byers » si limitò a dire, come se quel nome potesse d'incanto rivelarmi
chissà quale verità. Ma scossi la testa: dovevo essermi proprio persa quel
passaggio « La dottoressa Byers, Cris. Quella che un paio d'anni fa ha incendiato il
cadavere di un suo paziente per nascondere le sue responsabilità! Quella che
nonostante fosse colpevole ha fatto in modo di flirtare con Ducky! » Vidi
chiaramente delinearsi sul suo viso un pensiero che – ammetto – aveva sfiorato
anche me « E tu andrai a dormire da lui, Chris. Non possiamo lasciare libertà di
manovra a quella vipera ».
Ma per quanto
l'idea avesse accarezzato anche me non intendevo accettare facilmente; non
sapevo nulla della vicenda, e nonostante il subitaneo moto di ostilità verso la
dottoressa Byers l'ultima cosa che volevo era rovinare qualcosa cui Donald
teneva. Provai a trattare.
« Pensi che lei
fingesse? » Abby affogò un'altra volta le patate nella salsa di soia, con
calma.
« Forse non del
tutto. Ma gli ha mentito sapendo di farlo. Ha tentato di ingannarlo. E Ducky c'è
rimasto malissimo... Questo non glielo perdono, Chris, non glielo perdono
proprio ». La fame mi era passata e sbocconcellai un pezzo di carne quasi con la
nausea: non capivo perché, ma quelle nuove scoperte mi
infastidivano.
« E a lui piaceva
molto? »
« Di sicuro non
poco. L'ha portata allo Smithsonian! » Abby era stata abile a toccare il tasto
giusto... Le meraviglie sotterranee dello Smithsonian Institute erano il posto
speciale di noi che con Ducky condividevamo una inspiegabile passione storica...
Posai la forchetta nel piatto.
« Accetterò
l'invito di Ducky », dichiarai solenne.
« Ottima
decisione, signore! » Controbatté, nella sua parodia di tono marziale, Abigail
Sciuto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Casa ***
(è un capitolo un po' corto, mi spiace... :( ma non potevo attaccarlo al successivo, non c'entra nulla o quasi...mi perdonate?)
momentaneous
Io odiavo Albert
Carson. Certo non potevo dirlo o le mie indagini sarebbero parse viziate, ma la
sostanza delle cose non cambiava. Lo odiavo. Avrei dato oro, perché una volta
tanto commettesse un azzardo tale da fornirmi una anche minuscola scusa per
sparargli... E portarlo finalmente a marcire in galera per il resto della sua
vita. Ma purtroppo era ricco, molto ricco, e chi ha molto denaro può permettersi
avvocati che riuscirebbero a far istituire un processo di canonizzazione al
peggior criminale della storia.
Repressi un attimo
di rabbia, più in considerazione del fatto di trovarmi ospite in casa altrui che
per riguardo della mia salute personale, e guardai i miei vestiti appesi
nell'armadio della vecchia stanza della signora Mallard: facevano una così
strana impressione, accanto agli abiti signorili della padrona di
casa...
« Vedo che ti sei
sistemata... » Mi voltai con un accenno di piroetta, sorridendo da orecchio a
orecchio.
« Grazie, Ducky.
Grazie davvero ». Donald Mallard mi strinse con delicatezza una
spalla.
« Figurati. Per te
questo e altro, lo sai ». Lo guardai, sedendomi sul bordo del letto. Gli abiti
eleganti, l'espressione affettuosa, il contesto così storico di casa
sua... La consapevolezza del bene che gli volevo quasi mi investì. E non
sopportavo l'idea di mentirgli.
« Chi era la donna
con te da Mikey's, Doc? »
« Una vecchia
amica... Ma non sapevo che fossi lì anche tu »
« Eravamo a
pranzo... io ed Abby ». Lo sguardo del mio amico si incupì.
« Quindi già lo
sapevi, chi era ». Annuii lentamente, in imbarazzo ma senza smettere di
guardarlo.« E Abigail ha ritirato la sua offerta di ospitarti, immagino
»
« Donald...
»
« No, Christine,
no. Apprezzo il tentativo, ma... »
« L'avevo già
deciso, di venire da te, non c'entra la dottoressa Byers e se vuoi posso
andarmene. L'ultima cosa che voglio, è rovinare qualcosa a cui tieni ». Rimasi
colpita dallo sguardo con cui Ducky mi guardò in quel momento; era dolce, più di
quanto mi fossi aspettata, e commosso. Si sedette accanto a
me.
« Non so se è
qualcosa a cui tengo, Christine. Un tempo, forse, ma ora proprio non lo so
»
« Continuerai a
vederla? »
« Non so nemmeno
questo, a dire il vero ». Mi strinsi nelle spalle, guardando il
pavimento.
« Io non so chi
lei sia, o cosa faccia, o se sia cambiata. So soltanto che ti ha fatto soffrire.
Quindi non chiedermi di farmela piacere, ok? » Ducky sorrise strizzando un poco gli
occhi, e mi abbracciò. Ebbi il tempo di pensare a quanto mi piacessero, gli
abbracci di Ducky, a quanto non avrei mai voluto separarmene, quando un garbato
imprevisto piombò in camera cercando suo figlio.
« DONALD! » Ne
seguì un momento di imbarazzo da parte di entrambi, e di silenzio da parte della
signora Mallard che fu però la più rapida a riprendersi. « Oh, finalmente,
Donald, una ragazza che mi piace! Vi lascio soli, cari » dichiarò, in tono
vagamente allusivo, sparendo nuovamente oltre la porta seguita da uno dei
Corgey. Ducky ed io ci guardammo, immobili per un istante, quindi iniziammo a
ridere fino alle lacrime.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Gibbs non ti porta mai a cena per caso ***
momentaneous
Mi stavo rovinando
la vista su quei fascicoli, ormai era un dato di fatto con cui avrei dovuto
presto fare i conti, ma non avevo la minima intenzione di smettere. Qualcosa, un
imprecisabile brivido che mi solleticava alla nuca, sembrava suggerirmi che ero
vicina a capire la chiave, il modo per mettere finalmente le mani su Carson una
volta per tutte e – speravo – in modo da renderlo inoffensivo per
sempre.
« Non credi che
sia ora di andare a casa? Sei fissa alla scrivania da stamattina, non hai
nemmeno mangiato a pranzo, e – sorpresa, sorpresa – fuori di qui sta diventando
buio... » Tolsi gli occhiali e mi sfregai energicamente gli
occhi.
« Lo sai quanto
tempo è passato dall'ultima volta che qualcuno ha provato a mandarmi a nanna,
Gibbs? » Come al solito, e posso serenamente sostenere che la cosa non mi
sorprese affatto, Jethro Gibbs non degnò le mie parole della minima
considerazione e si chinò sulla mia scrivania quel tanto che bastava per
spegnermi la lampada.
« Basta. O ti alzi
di lì immediatamente, oppure... »
« Oppure? », lo
sfidai, con un sorriso « Se non mollo la sedia mi estrometti anche tu dal caso?
»
« Certo che no »,
si strinse appena nelle spalle, prima di allungare di nuovo il braccio e
chiudere la cartellina davanti a me « Ma se tu non te ne vai me ne andrò io, per
poi tornare carico di cibo cinese ».
« No, il cibo
cinese no! », esclamai, fingendo orrore. Gibbs sorrise, uno di quei sorrisi
fantastici che gli illuminano gli occhi e l'intero viso. E io scossi la testa
rassegnata « Cosa vuoi? »
« Farti compagnia.
Ti porto a cena, Chris »
« Buona creanza
vorrebbe un punto interrogativo, in fondo a quella frase, sai? ». Il mio mentore
mi lanciò il cappotto e lo afferrai al volo.
« Oh, sì. Ma io
sono screanzato, e tu dovresti saperlo ». Sbuffai.
« Ciò non toglie
che io stessi lavorando... » Se fossi stata meno stanca, o quantomeno più
disposta ad ammettere di esserlo, mi sarei forse resa conto che il comportamento
di Gibbs era inusuale, almeno sospetto... Ma non ci feci caso. Mi piacque
credere che fosse semplicemente stato colto da una fulminea crisi da buon
samaritano, che mi portasse a cena per quel motivo, e sempre per quello mi
impedisse di parlare di lavoro. Non riflettei neppure per un istante sul fatto
che quell'atteggiamento potesse avere come motivo l'impedirmi di percorrere da
sola la strada verso casa di Ducky.
Non mi domandai il
motivo di quella cena neppure una volta, durante la serata; Gibbs era una
compagnia più che piacevole, risi moltissimo per i racconti della sua permanenza
in Messico con Franks – e un po' anche per la birra, confesso – ma quando mi
riportò a casa il mio buonumore scomparve. La macchina all'imbocco del vialetto
poteva passare inosservata a chiunque altro, ma non a me... Mi irrigidii sul
sedile improvvisamente furibonda.
« Cosa mi hai
nascosto? Cosa ci fanno Tony e Ziva davanti alla casa di Ducky? » Mi ignorò
ostentatamente, ma riconoscevo la piega dura della sua mascella. « Aspetto una
risposta ». In condizioni normali non gli avrei mancato a tal punto di rispetto,
il mio tono era tanto tagliente da risultare offensivo. Mi sentivo
tradita.
« Non scordarti
chi comanda, Chris »
« Dimmi perché
Tony e Ziva sorvegliano la casa! » All'improvviso ero spaventata.
Irrazionalmente, senza motivo e anzi non senza paranoia, mi aveva assalito il
panico all'idea – sciocca – che fosse successo qualcosa a Ducky o a sua madre.
Lacrime impreviste mi bruciavano gli occhi.
« Sei troppo tesa,
Chris... » Mi scrollai di dosso il tentativo paterno di Gibbs di farmi
ragionare, con un gesto di stizza.
« E tu piantala di
trattarmi come una piccola idiota, Jethro! » Accadeva raramente, molto
raramente, che lo chiamassi per nome. E la cosa fece il suo
effetto.
« E' arrivata una
busta in ufficio, stamattina. Siamo preoccupati. Temiamo che sappia dove sei ».
Lo stupore fu tanto grande che feci la domanda più stupida ed improbabile che a
mente fredda riesca a pensare.
« Siete
preoccupati? Tu e chi, scusa? »
« Io e Jen ».
Senza farci caso, sorrisi appena. Lui e Jen. O, come dice sempre Abby, papà e
mamma.
« Cosa c'è in
quella busta? »
« La vedrai
domattina »
« Gibbs...
»
« No. E ora va' in
casa, su, sbrigati, o Ducky si preoccuperà... »
Rinunciai alle
recriminazioni, ne avevo messe in scena abbastanza per la serata e ad ogni modo
sapevo che sarebbe stato inutile insistere con Gibbs. Soprattutto dal momento
che aveva ragione... Con quelle premesse, se non mi fossi affrettata Donald si
sarebbe probabilmente preoccupato più di quanto già non fosse.
E infatti lo
trovai seduto in poltrona, un bicchiere con due dita di scotch in mano e lo
sguardo che saettava continuamente dal caminetto all'orologio a pendolo. Si
voltò appena sentendomi chiudere la porta, non abbastanza per guardarmi. Ma mi
resi conto che aveva gli occhi chiusi.
« Ho sentito la
macchina almeno venti minuti fa... Iniziavo a temere che ti avesse aggredita
lungo il vialetto »
« Ho discusso con
Gibbs »
« Era
prevedibile... Ma considera che ha agito con le migliori intenzioni ».
Abbandonai il cappotto sullo schienale di una sedia e dopo aver lasciato le
scarpe sul tappeto mi sistemai sul divano, a gambe incrociate, i gomiti sulle
ginocchia.
« Non sono una
bambina, Ducky. So perfettamente difendermi... E non aspetto altro, se devo
essere sincera »
« Credo sia per
questo che stasera Jethro ti ha tenuto al guinzaglio a un metro di distanza
».
Sprofondai nei
miei pensieri e nel tepore del fuoco. Carson si era spostato da New York. Carson
aveva fatto un'altra vittima. Carson sapeva che mi trovavo a Washington,
perché aveva colpito lì, e probabilmente sapeva che ero all'NCIS visto che aveva
ucciso un marinaio in divisa. Carson sapeva quello che non avevo detto a
nessuno, come diavolo era possibile?
« Posso avere un
po' di scotch anch'io, dottore? »
« Purché con
moderazione ».
Mi versai tre dita
di liquore e vi buttai un paio di cubetti di ghiaccio a titolo preventivo, per
diluirlo un po', quindi tornai a sedermi. Se Carson aveva scoperto che mi
trovavo all'NCIS poteva scoprire anche dove vivevo... E non potevo portarlo a
Ducky; non potevo mettere in pericolo la persona cui tenevo di più al
mondo.
« Credo che
domattina cercherò un'altra sistemazione, Doc ». Il
dottor Mallard si voltò verso di me, e non riuscii a decifrare la sua
espressione.
« Naturalmente non
se ne parla ».
Mi morsi un
labbro, a disagio; non capivo come potesse essere così poco prudente, e come
spesso mi accade quando mi sento a disagio non riuscii ad impedire che mi
salisse un gran nodo in gola. Avrei voluto e dovuto insistere per convincerlo,
ma se avessi aperto bocca probabilmente avrei finito col piangere; conficcai con
maggior forza i denti nel labbro inferiore nel tentativo di riprendere il
contatto con la mia razionalità.
Donald sospirò, si
alzò dalla poltrona posando il bicchiere e, dopo essersi seduto accanto a me,
allungò un braccio in direzione delle mie spalle. E io, che stavo diventando più
fragile di quanto non fossi mai stata, crollai.
« Non crederai che
basti un misero assassino per liberarti del piacere di condividere con me le
stranezze di mia madre... » Percepii le labbra di Ducky sulla mia tempia.
Tremai. Non mi ero mai sentita tanto a casa come in quel momento, ma avevo seri
dubbi che quelle sensazioni fossero una cosa buona.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Brutte notizie? ***
momentaneous
Ero andata al lavoro insieme a Ducky, sulla sua splendida Morgan, dopo una notte trascorsa praticamente in bianco a
fissare il soffitto e, a fasi alterne, a rigirarmi tra le coperte come un'anima
in pena. Non una parola, tra noi, non ce n'era bisogno: Donald sapeva leggere i
miei pensieri attraverso il mio silenzio, sosteneva, e sono sempre stata tentata
di credergli. Ero ad un tempo irrazionalmente furiosa - con Carson, con Gibbs,
col mondo - e in una certa misura turbata, al pensiero che il killer che avevo
arrestato mesi prima, dopo essere stato dichiarato innocente da una giuria di
perfetti idioti, avesse potuto raggiungermi nell'unico posto al mondo dove
davvero mi fossi sempre sentita al sicuro. Le porte dell'ascensore si aprirono
di lato; Donald Mallard mi rivolse un cenno di incoraggiamento con la testa e io
cercai di rassicurarlo del fatto che stavo bene baciandolo su una
guancia.
Andai a sedermi alla scrivania senza salutare nessuno, nemmeno Timothy.
Stavo facendo i capricci? Probabile. Molto più che probabile,
anzi.
« Ecco qua. E piantala di tenermi il muso, Christine ». Alzai gli occhi
su Gibbs e mi sforzai di produrre un sorriso.
« Mi piace farti sentire in colpa... »
« Preferirei che occupassi il tuo tempo in modo più costruttivo.
Prendendo a calci quel figlio di puttana, per esempio ». Questa volta sorridere
non mi fu così difficile; sollevai la busta di plastica in cui la
famosa lettera che tanto scompiglio aveva gettato
all'NCIS mi stava aspettando. Sentivo sulla nuca lo sguardo penetrante di Ziva
David, ma lo ignorai.
Guarda,
guarda, guarda. Tanta fatica inutile, agente Fellman...Sarebbe quasi patetico,
se non fosse divertente. Attraversare tre o quattro Stati per nulla... Ma
dopotutto giocare con te mi è sempre piaciuto. À tout à
l'heure!
« E questo è bastato a spaventarvi? » ruggii, indignata. « Ho ricevuto
almeno una dozzina di queste lettere, negli ultimi due anni, e non ho mai avuto
bisogno di una baby sitter! »
« Chris... »
« D'accordo ». Alzai le mani in segno di resa. Gibbs
aveva ragione, ero troppo suscettibile. « Va bene. Hai ragione. Non è il caso ».
Inspirai stringendo le labbra. « Quando è arrivata?
»
« Ieri mattina. Ma prima di parlartene, abbiamo ritenuto prioritario che
Abby la analizzasse ». Annuii, pensando a tutt'altro ma desiderando solo di non
provocare altra tensione con il mio comportamento.
« Sì, mi sembra giusto. Risultati? »
« Nessuno »
« Come sempre ».
Chiusa in un ostinato silenzio, lontana da Gibbs e dagli altri, con lo
sguardo di Ziva David puntato sulla nuca: così trascorse la mia mattinata,
digitando con rabbia sulla tastiera alla ricerca di una traccia qualsiasi dei
movimenti di Carson.
« Ok, Chris, va bene... » Alzai la testa senza
capire.
« Eh? » Abby era davanti a me, in un'assurda – quanto deliziosa,
bisognava ammetterlo – mantella rossa che sembrava uscita direttamente da una
favola e le attirava più di uno sguardo da parte di chi transitava per l'open
space.
« Andiamo a pranzo fuori di qui, mi sembra ovvio
»
« Abby, ti prego, non sono dell'umore giusto per... » Ma la mia amica, la
cui espressione stranamente seria mi era sulle prime sfuggita a causa del suo
abbigliamento stravagante, mi fissò con gravità e mi
resi conto che qualcosa non andava. Qualcosa che non mi aveva detto, e che a
giudicare dal suo contegno avrebbe continuato a tacermi finché fossimo rimaste
nell'edificio.
« Non si tratta del tuo umore, Chris, noi... »
« Sì, andiamo », la interruppi.
Tornammo, non so quanto consapevolmente, da Mickey's, dove qualche giorno
prima avevamo visto Donald con la dottoressa Byers. Soltanto dopo esserci sedute
mi decisi a rompere quel silenzio. Dopotutto, qualsiasi cosa fosse riuscita a
distrarmi da Albert Carson e dalla lettera che mi aveva spedito all'NCIS era ben
accetta.
« Cosa volevi dirmi? Non trovo niente di tanto segreto da non poterne
parlare all'NCIS... » Abby abbassò lo sguardo sulla bottiglia del ketchup e non rispose. « Terra chiama Abby... » Niente. Non
una parola. « Che cos'è successo, Abigail? » mi trovai a domandare, con quel
vezzo ereditato da Donald di chiamare le persone col loro nome intero. Con
sgomento mi accorsi che a quell'ultima domanda i suoi occhi si erano riempiti di
lacrime e mi spaventai.
« Perché mi hai chiamato come fa Ducky? »
« Perché a volte mi càpita di farlo... Ma non capisco proprio cosa
stia... » Abby mi interruppe bruscamente, come se non sopportasse più di tenere
per sé quelle parole.
« Ducky sta male, Chris ».
« Cosa stai dicendo? Stamattina sono venuta al lavoro in macchina con
lui, e non c'era proprio niente di diverso dal solito », obiettai, piuttosto
infastidita dalle sue parole.
« Non sto parlando di un raffreddore ». Rimasi sconcertata; provai il
desiderio di afferrarla per le spalle e scuoterla perché si decidesse una buona
volta a sbrigarsi, ma - non so come - mi trattenni e lei proseguì. « Mi ha
portato ad analizzare del sangue non etichettato, dicendo che era di un John
Doe... » Scossi ostinatamente la testa.
« Non ci sono John Doe in sala autopsie, in questo momento ». Lei
annuì.
« Lo so. È quello che ha detto anche Palmer ».
« Ci sarà senz'altro una spiegazione... »
« Non ha riaperto un fascicolo vecchio, se è questo a cui pensavi. Ho
controllato nel mio archivio, non mi risulta niente di simile...E poi ci sono le
radiografie ».
« Quali radiografie? », domandai con un filo di voce. Non ero affatto
certa di volere conoscere la risposta.
« Jimmy l'ha visto studiare delle TAC, l'altro giorno... Ma quando gli ha
chiesto di cosa si trattasse lui ha smesso, le ha rimesse dentro la busta e...
»
« E? » Ero al limite della sopportazione, e alzai la
voce.
« E ha chiuso la busta nel cassetto della scrivania. A chiave
»
Ebbi la sensazione che il mio stomaco si dilaniasse; pensai alla sera
precedente, a come Donald aveva consolato me per
problemi che adesso mi sembravano di una stupidità inconcepibile. Pensai al suo
modo di abbracciarmi.
« E i risultati delle tue analisi sul sangue... » Abby scosse piano la
testa senza guardarmi.
« Molto, molto brutti. Cosa faremo adesso, Chris? » Quella domanda, unita
agli occhi pieni di lacrime e disperazione della mia amica, ebbe il potere di
gettarmi nel panico. Era sempre stata lei, a dispetto di tutto, quella capace di
affrontare le brutte situazioni: più grande di me di qualche anno, più positiva,
più pratica... Mi presi la testa fra le mani, senza sapere a cosa
aggrapparmi.
« Non lo so, Abby. Proprio non lo so ».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Il Whisky può provocare effetti collaterali ***
Disclaimer: la colpa non è (solo) mia, Christine sta subendo una crisi romantica e mi ha quasi costretto a scrivere questo capitolo...ma voi non mi ucciderete, vero? ;)
momentaneous
Ero rientrata a casa in taxi, incapace di resistere oltre entro
l'edificio dell'NCIS e, soprattutto, di pensare di affrontare il tragitto in
auto con Ducky. Avevo bisogno di riflettere, prima, e di riflettere a fondo. Le
parole di Abby - e quelle di Palmer che lei mi aveva riportato - mi stavano
facendo letteralmente impazzire, scatenando da un lato una rabbia furiosa e
dall'altro il più assoluto e soverchiante bisogno di
piangere.
Aprii la porta con la mia copia delle chiavi; il silenzio che regnava
sulla casa e il biglietto in bella mostra nell'ingresso mi informarono che la
signora Mallard era stata messa a letto dall'infermiera, che se ne era andata
poco prima del mio rientro, e fui assalita da un terribile nodo alla gola al
pensiero dell'anziana donna.
Prima ancora di togliermi le scarpe - gesto canonico, quando mi trovavo
in situazioni critiche, e quella era decisamente una
situazione critica - accesi il caminetto, quasi senza rendermi conto dei miei
gesti. Ma sentivo freddo, un insopportabile freddo dentro, come se qualche
meccanismo di vitale importanza si fosse rotto. Perdere Ducky... Dio, non
riuscivo nemmeno a pensarlo!
Tolsi scarpe e giacca e, rimasta in maglione, mi versai da bere un
quantità decisamente superiore al mio solito prima di sedermi in poltrona, senza
accendere la luce, con le gambe incrociate. Un intero bicchiere di whisky senza
ghiaccio rappresentava quasi il triplo del mio standard; e se non accesi una
sigaretta, per quanto ne sentissi il disperato bisogno, fu perché mi è stato
insegnato a non farlo in casa d'altri...Ma non fu una rinuncia
semplice.
Mi dedicai all'unica occupazione di fissare il fuoco, bevendo lentamente
e con gli occhi pieni di lacrime al pensiero di quel che Abby mi aveva rivelato;
Donald Mallard rientrò quasi due ore più tardi, esausto per quella giornata,
mentre io ero quasi a metà del terzo bicchiere e, per somma ironia nonché per
assurdo, ancora perfettamente lucida. Nemmeno lo whisky era riuscito a
distogliere i miei pensieri da quelle nefande notizie.
Ducky si avvicinò a me sciogliendo il papillon, e guardandolo nella luce
tremante delle fiamme mi sentii sopraffare dal dolore: come poteva chinarsi e
baciarmi la fronte, come poteva sorridermi in quel
modo?
« Perché non me l'hai detto, dottore? »
« Detto cosa? » Strinsi i denti.
« La verità, per esempio. Abby mi ha detto di... » Ducky sospirò
dolorosamente e si sedette.
« Non pensavo di creare tanto pensiero »
« Vorrei sapere cosa ti aspettavi; sai perfettamente il bene che ti
vogliamo, e... Ma lasciamo perdere gli altri, l'hai nascosto a
me! È questo, che proprio non riesco a capire »
« Ciò di cui Abby ti ha parlato... Non si tratta di me, Christine. Sta'
tranquilla ». Posai il bicchiere e andai a sedermi accanto a lui. Lo guardai
negli occhi, lasciando senza imbarazzo che lui vedesse le mie
lacrime.
« Mi stai dicendo la verità, vero? Non cerchi semplicemente di farmi
stare tranquilla... » Con un gesto che mi riempì di tenerezza lui prese le mie
mani tra le proprie, e con la medesima intensità restituì il mio
sguardo.
« Ti sto dicendo la verità. Sto bene. Davvero ».
Non potei più trattenermi e assai poco convenientemente scoppiai a
piangere; per l'intero pomeriggio ero stata perseguitata da pensieri terribili,
ma ora, che sapevo che lui stava bene, ora che mi teneva fra le braccia
aspettando che il mio pianto si calmasse, sembrava tutto diverso. Non mi disse a
chi appartenevano le misteriose analisi che avevano scatenato quel domino di
false notizie e io non glielo domandai, certa che se avesse potuto parlarmene lo
avrebbe fatto.
« Mi hai spaventata a morte, Donald ». Lui sorrise quasi imbarazzato,
schernendosi.
« Non era la mia intenzione ».
Il fuoco nel caminetto richiedeva di essere alimentato, la fiamma
iniziava a scemare e il padrone di casa si alzò per svolgere quell'incombenza
mentre io, gli occhi ancora bagnati, non potevo staccare lo sguardo da lui.
Ricordai il suo rapimento, un paio d'anni prima: aveva rischiato di essere
ucciso in un modo orribile, e io non c'ero, bloccata a New York dal primo
omicidio di Albert Carson... Quando tornò a sedersi accanto a me, guidata
dall'istinto più che dal buon senso - e probabilmente, adesso che buona parte
della tensione si era sciolta, anche dallo whisky - tesi una mano verso di lui,
al suo collo, le dita attente a riconoscere la piccola cicatrice che, sul lato
destro, quella brutta avventura gli aveva lasciato.
« Non farlo mai più, ti prego », mormorai. Mi protesi fino a lui e, senza
pensare ad altro che non fosse quanto avevo desiderato farlo, appoggiai le
labbra sulle sue. Per un attimo vidi il suo smarrimento, ma sentire il suo
respiro mischiarsi col mio, in quell'unico istante, mi diede un coraggio che non
ho mai avuto prima. Così lo baciai, mentre di nuovo le lacrime rompevano gli
argini, e, cosa che mi sorprese, questa volta lui rispose a quel bacio. Ci
ritrovammo abbracciati, la mia testa sulla sua spalla e la sua mano fra i miei
capelli in un gesto affettuoso.
« Tu sai che non può accadere, vero? », lo sentii
dire.
« Sì. Ma spesso ho pensato che sarebbe bello, se potesse
»
« Non può, Christine ». Chiusi gli occhi per un istante, e mi separai da
lui con un sospiro.
« Lo so ».
E lo sapevo davvero. Non solo c'erano tutti quei trent'anni buoni di
differenza, non solo stavamo lavorando insieme e, se le cose fossero andate come
Gibbs si augurava, presto saremmo stati di nuovo colleghi. Ero stata sua
allieva. La sua allieva, come Abby giustamente amava
sottolineare. E Ducky è sempre stato troppo tradizionale e
gentleman, per violare un vincolo così sacro.
Qualsiasi cosa mi fosse passata per la testa in quei momenti, dunque, doveva
sparire e non lasciar traccia: per quanto difficile, era la cosa migliore per
tutti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Un altro. ***
momentaneous
Grazie mille per le recensioni! Sono davvero contenta
che lo scorso capitolo vi sia piaciuto...!
@melmon: è esattamente quel
che penso io! XD
@tasso85: ma sai che mi sono
fatta la stessa domanda? e infatti ho notato che l'ho scritto a un modo nel
capitolo, e a un altro nel titolo! ^___^
Tutti i telefoni squillarono nel cuore della notte,
frantumando il silenzio pressoché in contemporanea con il trillo abituale della
linea fissa, le cornamuse scozzesi del cellulare di Ducky e la marcia trionfale
dell'Aida
del mio.
« Fellman »
« Gibbs. C'è un altro cadavere ». Mi sentii il sangue
gelare.
« Carson? »
« Probabile. Sarò lì tra quindici minuti »
« Aspetterò sulla strada ».
Avevo poco tempo per prepararmi e lo sapevo, ma ciò
nonostante indugiai, seduta sul bordo del letto con i piedi sul tappeto. Un
altro cadavere
. Fino a quando sarebbe durata, quella folle guerra tra me e
Carson? Quante persone avrebbero ancora dovuto morire, prima che lo fermassi una
volta per tutte? La porta si aprì, proiettando nel buio la lama di luce
proveniente dal corridoio.
« Ha chiamato anche me, Donald, grazie », lo prevenni. Accesi la
lampada.
« Stai bene? » Per un istante mi domandai se si stesse riferendo alla
telefonata o a quanto accaduto qualche ora prima. Ma avevo deciso che non
sarebbe più accaduto nulla del genere, e non potevo tornare indietro alla prima
incertezza.
« Questa volta lo prenderò », dichiarai, con gli istinti bellici a
livelli mai visti. Il mio ospite sorrise.
« Non ho il minimo dubbio, tesoro ».
Arrivammo sul posto a tempo di record - avevo dimenticato a quali
velocità sapesse guidare Gibbs, ma ora che mi aveva rinfrescato la memoria non
sentivo il minimo desiderio di ripetere l'esperienza -; l'area era stata
delimitata con il familiare nastro giallo, potenti fari alogeni montati su
cavalletti illuminavano a giorno la scena, e Palmer aveva provveduto a
raggiungerci là con il furgone: scendemmo dalle macchine - Gibbs, Ducky e io
dalla prima, Tony, Timothy e la David dall'altra - stringendoci nelle giacche
per il freddo pungente della notte inoltrata.
Sotto la luce bianca il corpo in uniforme da sergente risultava di un
pallore impressionante, specie in contrasto con il sangue che imbrattava ogni
cosa.
« Chris, foto. David, schizzi e misurazioni. McGee, DiNozzo, con me ».
Presi al volo la macchina fotografica, senza dire nulla ma domandandomi per
quale oscuro motivo Gibbs avesse preso Tony e McGee per cercare indizi e -
soprattutto - lasciato me e Ziva David a così stretto contatto. Incontrando per
caso gli occhi di Donald, mi resi conto che si chiedeva la stessa cosa: mi
rivolse un sorriso incoraggiante, come faceva ogni volta che si trattava di
lei... Non capivo perché, ma sembrava convinto che io e quel carro armato
travestito da agente del Mossad avremmo potuto andare
d'accordo.
Iniziai a fotografare come mi era stato insegnato tanto tempo prima: le
varie angolature della scena nel suo insieme, identificando punti di riferimento
su cui triangolare le misurazioni; poi i dettagli, le ferite, gli eventuali
residui sul corpo e nell'area immediatamente circostante. Inaspettata e non
troppo cordiale, mentre ero intenta a fotografare le mani del sergente Harris la
voce dell'agente David mi strappò al mio mutismo.
« Hai già fotografato i fogli? »
Annuii. « Puoi rimuoverli, sì ». La guardai per un attimo, a raccogliere
pagine appallottolate di chissà quale filosofo questa volta. Irrazionalmente mi
trovai a sperare che non si trattasse di Hegel. L'avevo sempre odiato, sin dalla
prima volta che ne avevo sentito parlare... Anche se non avrei saputo dire con
precisione il perché.
Donald e il suo assistente erano chini accanto al cadavere, in attesa che
la sonda epatica rilevasse la temperatura del fegato permettendo di stabilire,
almeno approssimativamente, l'ora del decesso; Ziva imbustava prove da portare
ad Abby; io invece zoomai sulla ferita alla gola che aveva ucciso il sergente e
scattai almeno tre foto prima di rendermi conto che qualcosa non
andava.
Quando Abby sostiene che Gibbs possiede il potere probabilmente magico di
apparire quando si scopre qualcosa di significativo ha ragione, senza margine
alcuno per discutere, e se non mi fosse bastata l'assicurazione della mia buona
amica certo quella notte, col freddo che entrava nelle ossa e noi lì impegnati
con un altro cadavere, ne avrei avuto la prova inconfutabile. L'avevo visto
allontanarsi tra gli arbusti del parco, seguendo non so quale traccia, eppure
non appena avevo smesso di scattare ed ero rimasta immobile con gli occhi fissi
sul cadavere Gibbs era comparso al mio fianco.
« Cos'hai visto, Chris? » Nel giro di un paio di
secondi tutti gli occhi si puntarono su di me. Indecisa su chi guardare nel
momento in cui avessi esposto le mie perplessità, alla fine mi decisi -
sorprendentemente
! - per il medico legale: dopotutto, era lui
il primo che avrebbe potuto confermare o cassare in maniera definitiva ciò che
stavo per dire.
« Non credo che sia opera di Carson ». Dalla squadra, non una parola.
Ducky abbassò lo sguardo sulla ferita e annuì in silenzio, ma non disse nulla
forse per permettermi di sbrigarmela da sola. Gibbs, dal quale mi ero aspettata
segni d'insofferenza, si limitò ad un solo e paziente
intervento.
« Spiegami ».
« La ferita, Gibbs. È come le altre solo in apparenza... Ma è diversa ».
Mi accoccolai accanto al corpo, imitata da lui e da Ziva. Alle mie spalle sentii
i passi di Tony e McGee che si avvicinavano. Indicai la gola di Harris con un
dito. « I contorni non sono slabbrati »
« Credevo ci volessero esami un po' più complessi, per questo genere di
cose, che una semplice occhiata... »
« Quando si tratta di determinare con precisione il tipo di arma, sì,
Jethro, hai ragione. Ma in questo caso credo che Christine abbia visto giusto:
forse non sapremo dirti molto sull'arma usata, ma posso garantirti che non è il
coltello seghettato degli altri casi. I contorni sono troppo nitidi, sembrano
quasi disegnati. Doveva essere un'arma molto affilata »
« Un rasoio », avanzò la David, alzando gli occhi verso di me. Mi stupii
di non vederla più ostile come i primi tempi ma un po' più
sciolta.
« Potrebbe essere una buona risposta, Ziva », esclamò Ducky,
sottolineando le proprie parole alzando l'indice verso di lei, e io annuii con
convinzione.
« Quindi cerchiamo un emulo, o soltanto qualcuno che ha visto Sweeney
Todd? » Rivolsi un sorriso divertito a Tony, nonostante tutto: la battuta in
effetti calzava...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Telefoni... ***
momentaneous
« Sei a Washington, vero? »
Il tipico stile di mio zio: nemmeno un buongiorno e interrogatorio
immediato, anche al telefono. Il tuo interlocutore potrebbe aver bisogno di poco
tempo, per inventare una scusa, quindi il miglior modo per non essere presi in
giro è non lasciargliene affatto...
« E se fosse? »
« Non prendiamoci per il culo, Chris, ok? So benissimo che sei da quel
Gibbs. Si è fatto mandare tutti i fascicoli del caso Carson. Ora coinvolgi
anche i federali, nelle tue fobie? »
Strinsi i denti. Non era un uomo cattivo, mio zio, davvero; era un
brav'uomo e un buon poliziotto, e dopo aver fatto carriera era diventato anche
un ottimo superiore per i suoi sottoposti, ma quando si trattava di me... Non ha
mai desiderato altro che fossi la migliore, sin da quando mio padre fu ucciso, e
per la maggior parte della mia vita, dal momento che il nostro obiettivo
coincideva pienamente, ero riuscita ad accontentarlo. La comparsa di Albert
Carson però aveva cambiato ogni cosa. Lo zio era convinto che fosse diventata
un'ossessione, la mia, una crociata più che un sano desiderio di giustizia, e
dopo che la stampa aveva fatto tutto il possibile per mettermi in ridicolo lui,
non so come, era in un certo senso passato “dall'altra parte”, tra quelli che
premevano perché ammettessi una volta per tutte di avere sbagliato e mi
decidessi a ricominciare la mia vita.
Non solo non l'avevo fatto ma avevo addirittura lasciato la città senza
dirgli nulla né fargli avere un recapito dove trovarmi. E me n'ero andata. Da
Gibbs. Gibbs, che mio zio detestava da quando il mio stage semestrale
presso l'NCIS era diventato annuale, e poi addirittura biennale, rischiando
persino di sottrarmi alla tradizione familiare di prestare onorato servizio
presso la Polizia di New York. Lo stesso Gibbs che per qualche tempo era
sembrato in grado di allontanare da lui la sua
bambina.
« Non sono stata io. Ha ammazzato un sottufficiale della Marina, e ne
abbiamo trovato un secondo proprio stanotte ». All'altro capo, silenzio. E i
silenzi di Aengus Fellman non preludono mai a niente di buono. Probabilmente
stava valutando quale domanda farmi per prima tra le mille possibili che certo
la sua mente stava sfornando.
« Sei sicura che sia lo stesso assassino? »
Lo stesso assassino. Tipico. Dopo settimane trascorse cercando di
farmi ritrattare le mie posizioni, non avrebbe mai acconsentito a pronunciare il
nome di Carson in una frase del genere.
« Sono sicura che sia Carson, sì. Comandante ». Ero
irritata e l'unico modo che avevo per dimostrarglielo erano le parole:
pronunciare apertamente il nome che lui aveva taciuto, e rivolgermi a lui usando
il suo grado. Era il superiore dei miei superiori, no? Bene, tanto valeva che io
non mi comportassi da nipote.
« Chris. Basta »
« No. Sai benissimo cosa c'è stato dietro quella sentenza. Io ti dico che
è Carson, il responsabile di quei morti, e non intendo rimangiarmelo. Comunque,
grazie »
« Di cosa? », domandò all'altro capo,
sospettoso.
« Di non avere neppure per un attimo considerato le implicazioni del
fatto che, dopo due anni senza muoversi da New York, non appena io ho lasciato
la città lui sia magicamente comparso qui »
« Credi che ti abbia seguito? »
« Mi ha mandato un'altra lettera. In ufficio. Devo prodigarmi in altre
spiegazioni? »
Un altro silenzio, concluso da un sospiro.
« Fa' attenzione, Chris »
« Tutto qui? »
« Prendilo ».
Richiusi il cellulare e lo lasciai cadere nel cassetto della scrivania.
Quindi, con le braccia tese sopra la testa, cercai di stirare la schiena il più
possibile. Al suono secco delle vertebre Tony rabbrividì
vistosamente.
« Dio, Chris, che schifo...! »
« Che bambino impressionabile... », commentai. Ziva rise e fece ruotare
un paio di volte le spalle, finché anche le sue ossa non risposero con uno
schiocco.
« Volete piantarla di impressionare Di Nozzo? Siete proprio due cattive
bambine... Sapete quanto è sensibile! »
Gibbs era comparso - dal nulla, come sempre: forse Abby aveva davvero
ragione - con un cartone di caffè, dal quale ciascuno di noi prese il proprio.
« Hai vinto alla lotteria, capo? », chiese Tony con un gran sorriso,
mentre io, McGee e la David prendevamo il primo sorso in
contemporanea.
« No, ma ho bisogno di gente sveglia. Scoperto qualcosa?
»
« Albert Carson è effettivamente a Washington, capo », esordì McGee e
subito prese a digitare sulla tastiera per inviare sullo schermo panoramico le
proprie scoperte. Man mano che lui procedeva, andavano aprendosi nuove finestre:
ricevute di carte di credito, tabulati telefonici, movimenti bancari... « Ma non
sono ancora riuscito a trovare pagamenti di alberghi o cose del genere... Non so
dove sia »
« Probabilmente paga l'alloggio in contanti. Così non sappiamo dove
cercarlo »
« Era disfattismo, Ziva? »
« No, capo, solo un pensiero. Sbagliato, evidentemente
»
« Ottimo ».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Visite ***
momentaneous
Mi ero addormentata rannicchiata sul divano del salotto nonostante non
fossero neppure le cinque; ma il sonno perso a causa di Carson, il tepore del
fuoco acceso e le compresse per l'emicrania avevano congiurato insieme affinché
la mia testa iniziasse a ciondolare, Jane Eyre scivolasse sul pavimento e
la tazza di tè che avevo preparato con tanta cura finisse per raffreddarsi del
tutto. E questo dimostrava che nonostante le mie proteste Gibbs aveva avuto
ragione, ancora una volta, a spedirmi a casa.
Il mio stato di beatitudine però venne interrotto all'improvviso, e non
da una delle bizzarre manifestazioni della signora Mallard o dai cani - che
peraltro sembravano essersi abituati alla mia presenza al punto che, sul cuscino
accanto a me, stava Tyson in perfetta quiete. Qualcuno aveva suonato alla
porta.
Mi alzai innervosita, passandomi le mani fra i capelli; indossavo i
pantaloni di una vecchia tuta, e una felpa dell'NCIS grigia, e naturalmente non
avevo le scarpe... La massiccia presenza di tappeti su praticamente ogni
pavimento era una vera manna per la mia fissazione di girare per casa con le
calze morbide e calde di cui facevo collezione. Ma avevo la pistola a portata di
mano, per ogni evenienza, e ne fissai la fondina ai pantaloni, togliendo la
sicura. Il campanello suonò un'altra volta.
Diedi un'occhiata al portico spostando le tendine e quello che vidi non
mi piacque. Aprii la porta.
« Sì? »
La donna - mora, lineamenti gentili, sguardo intelligente - mi squadrò da
capo a piedi con un'espressione interrogativa. Avrei potuto andarle incontro,
presentandomi, ma mi guardai bene dal farlo... Probabilmente Abby mi avrebbe
incenerito, se avessi fatto una cosa simile e lei l'avesse
saputo.
« Cercavo... Cercavo il dottor Mallard... » Per tutta risposta io alzai
le spalle.
« Non è in casa. Sapeva che sarebbe venuta? »
« Per la verità no, è... »
« Bene. Arrivederci ».
Feci per chiudere la porta.
« Aspetti! » La riaprii.
« Desidera altro? », domandai serafica.
« Come pensa di riferirgli la mia visita, se non mi ha neppure chiesto
chi sono? »
« Non ho bisogno di chiederle nulla, dottoressa Byers
».
Lo sguardo della donna si accese; probabilmente pensava che conoscessi il
suo nome perché Ducky aveva parlato di lei.
« Potrebbe farmi sedere un istante, allora, visto che...
»
« Temo che la cosa non sia possibile. La signora Mallard sta riposando,
e... Be', sa, i Corgi non sono particolarmente socievoli, quando lei non è
sveglia. Non che di norma lo siano, a dire il vero », aggiunsi, come se stessi
riflettendo tra me. La Byers parve indispettita.
« Mi faccia entrare, per cortesia »
« No »
« Ma si può sapere chi è lei? »
L'angolo destro della mia bocca si sollevò in una specie di sorriso
obliquo.
« Agente speciale Christine Fellman », dissi, e nel pronunciare quello
speciale mi resi conto di avere appena preso in mano il mio futuro
lavorativo.
« È successo qualcosa a Ducky? », domandò lei, e sembrava sinceramente
interessata...Ma io non ero interessata a lei.
« No »
« Allora perché è qui? »
Mi esibii in un gran sorriso, di quelli che con Abby chiamiamo “alla
Gibbs”: divertito e sornione insieme, e meravigliosamente
ingenuo.
« Perché ci vivo, per esempio... »
La guardai sparire godendomi la sensazione di trionfo. Aveva vacillato,
boccheggiato quasi alle mie parole, e - confesso - la cosa non mi era
dispiaciuta affatto. Non aveva importanza, che avessi preso la decisione di
dimenticare ciò che avevo provato la sera precedente; dimenticarlo era forse
possibile ma negarlo non lo era... E - egoisticamente, lo so - l'ultima cosa di
cui avevo bisogno era che la dottoressa Byers ottenesse ciò che io non potevo
avere.
Il tè ormai era freddo, e visto l'inverno che premeva fuori dalla porta
non era la bevanda più indicata; ma soprattutto, mi dissi, avevo di che
festeggiare! Mi diressi in cucina e mi preparai una cioccolata calda,
concedendomi di ripensare alla conversazione da poco terminata. Scemato
l'entusiasmo, però, qualcosa parve incrinarsi. Composi il numero della mia
migliore amica e incastrai il telefono tra la mascella e la spalla, mentre
tornavo in salotto per ravvivare il fuoco cercando nel frattempo di non
rovesciare il contenuto bollente della tazza.
« Ciao... »
« Chris! Tutto a posto? » Mescolai le braci con l'attizzatoio e aggiunsi
due ciocchi di legna.
« Ho appena fatto una cosa che ti sarebbe piaciuta
»
« Sei riuscita a distillare un profumo al caffè? » chiese in una risata.
Risi anch'io.
« Non ancora... Però ho fatto battere in ritirata la tua dottoressa Byers
»
« Ah! », esclamò lei all'altro lato, tanto forte che dovetti allontanare
il ricevitore dall'orecchio. Sì, pensai: non c'era antidoto migliore,
all'incertezza di un attimo prima, che l'incoraggiamento di qualcuno come Abby.
« Cos'hai fatto? Hai mandato Tyson all'attacco? Hai detto alla signora Mallard
che era passata solo per concupire Ducky? Oh, ti prego, dimmi che l'ha inseguita
col coltello che tiene nel reggiseno! »
« Il coltello che tiene dove? »
« Lascia stare, è una vecchia storia... Cos'hai combinato? » Sorrisi tra
me.
« Niente... Ma le ho aperto la porta in tuta e calzettoni, un po'
addormentata... Non l'ho fatta entrare dicendole che i cani non sono socievoli
con gli estranei... Poi le ho detto che vivo qui... Ecco, questo credo che non
l'abbia preso bene ».
« Fantastico! L'avevo detto, io, che andare a stare da Ducky era la mossa
migliore... »
Fui sul punto di dirle cosa avevo fatto. Non so perché, eppure per un
momento avevo avuto la tentazione di confessarle che avevo baciato
Donald.
« Novità sul caso? », chiesi invece.
« Abbiamo finito i raffronti tra le ferite... Avevi ragione, Chris, non è
lo stesso coltello... E probabilmente, come ha detto Ziva, era un rasoio. I
lembi sono compatibili ». Rimasi in silenzio per più tempo di quanto non ne
fosse effettivamente necessario. « Ci sei ancora? »
« Sì, io... Ci sono. Però non so cosa pensare »
« Pensi che sia un altro assassino, vero? »
« Spero di no. Ma non riesco a convincermi che Carson possa aver cambiato
arma dopo tutto questo tempo »
« Vedrai che esiste una spiegazione ».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Casalinghe anni'50 e passi falsi ***
momentaneous
Speravo ardentemente che una spiegazione esistesse, per la morte del
caporale Baker, ma quelle che riuscivo a prospettare mi piacevano una meno
dell'altra. Certo mi auguravo che quel tipo di ferita fosse il risultato di un
cambio di abitudini di Carson, ma più mi sforzavo di convincermene e meno lo
credevo.
« Ho pensato un po' al caso, questo pomeriggio... Posso sfruttare le tue
competenze e farti qualche domanda, dopo cena? » Ducky alzò gli occhi dal piatto
- avevo preparato un meraviglioso salmone al pepe rosa, e come contorno, per la
gioia della signora Mallard, patate al burro con tanto burro.
« Sì, certo... Brutti pensieri? »
« Come sempre, direi », ammisi con un sorriso.
Stavo lavando i piatti - occupazione che, a volte, mi rilassa - quando il
mio patologo entrò in cucina, dopo avere accompagnato a letto la madre.
Si appoggiò al piano da lavoro accanto a me, le braccia
incrociate.
« Di cosa si tratta? »
« La discrepanza tra le armi usate. Ho pensato a tutti i motivi possibili
perché Carson possa avere cambiato coltello, ma nessuno ha un senso... Temo che
ci sia un altro omicida », ammisi alla fine, asciugandomi le mani nel grembiule.
Nel compiere quel gesto mi sentii vagamente una casalinga anni Cinquanta, ma
scacciai facilmente quel pensiero ricordando a me stessa che certo una perfetta
casalinga anni Cinquanta non avrebbe intrattenuto quel genere di conversazione.
« Solo, non ho idea di come identificarlo ».
« Ragioniamo insieme, vuoi? » Annuii con la testa. « Bene. Partiamo
dall'ipotesi - purtroppo concreta - che si tratti di un'altra mano. In che
rapporto possiamo collocarla con Carson? »
« Potrebbe essere un emulatore, come ha suggerito Ziva
»
« Allora analizziamo questa possibilità. A favore dell'ipotesi sta il
fatto che abbia usato un rasoio, invece del solito coltello seghettato, e questo
era un dettaglio che la stampa non ha mai riportato. Però... » Mi guardò, e mi
parve di notare un'aria colpevole in lui.
« Però...? »
« C'è un 12, nel suo orecchio. E il colpo è stato inferto con la
decisione di un professionista... »
« Hai fatto l'autopsia senza di me »
« Avevi bisogno di riposare. Non potevo dirtelo... Ci servi in piedi, sei
tu quella che lo conosce meglio di tutti »
« Andiamo avanti. Quindi abbiamo due elementi che coincidono, mentre uno
non lo fa. E sono tutti ugualmente importanti, visto che nemmeno il particolare
dei numeri è mai stato in possesso della stampa ».
« Ora tocca a te, Christine: per come conosci Carson... Come credi la
prenderebbe, se qualcuno tentasse di farsi credere lui? ». Feci una smorfia. Non
sono mai stata portata quanto lui alla psicologia...
« Per come lo conosco io, credo che s'incazzerebbe non poco. Però è anche
vero che quello con la laurea fresca in questo genere di cose sei tu...
»
Donald rise, scuotendo la testa.
« Non l'avrei detto proprio in questi termini, ma sono portato a pensare
che tu abbia visto giusto. Gli assassini di quel genere non sono felici di
essere copiati a loro insaputa ». Mi scoccò un'occhiata di bonario
rimprovero « Immagino converrai con me che, messa così, è un po' più
presentabile in tribunale... »
« Inezie! Ti va una tisana? »
« Dipende da cosa proponi »
« Quello che offre la tua cucina, dottore... Tiglio, malva, malva,
tiglio... Oh, guarda! », esclamai, brandendo una bustina diversa dalle altre due
« Menta piperita! » Ma la riposi nella scatola. « Meglio metterla via, non
vorrei che provocasse pericolosi effetti collaterali... » mi trovai a
commentare, automaticamente, con una punta di malizia. Il dottor Mallard mi
restituì di rimando uno sguardo che viaggiava sulla stessa lunghezza
d'onda.
« Per caso l'hai provata tu, di recente? »
Mi si gelò il sangue e desiderai essere inghiottita dal pavimento. Cosa
mi era saltato in mente, di fare una battuta del genere dopo quello che era
successo? Era logico che lui mi avesse risposto per le rime! Accesi il bollitore
elettrico.
« Non ho riflettuto prima di parlare. Scusami ». Ducky mi si avvicinò e
fece per abbracciarmi, ma io mi ritrassi. Vidi l'espressione mortificata del suo
viso riflessa nel vetro della finestra.
« Prima o poi dovremo affrontare il discorso, Christine...
»
« Non è necessario. Ho sbagliato. Non dovevo. E dal momento che non
accadrà più, è superfluo parlarne... »
« Christine... »
« No, Donald, davvero. È già abbastanza difficile così; io non sono il
tipo di persona che fa questo genere di cose, lo sai, e... » Le sue mani si
strinsero sulle mie spalle; questa volta non potei
scappare.
« Proprio perché non sei quel tipo di persona, è necessario che ne
parliamo... Mi rendo conto che con una storia come la tua...
»
« All'inferno Freud, Ducky, non tirarmi fuori Edipo o Elettra o chiunque
altro! Non c'entra niente che mio padre sia morto quand'ero piccola, e se ci
pensi sono sicura che lo sai anche tu. Se fosse una cosa così banale mi sarei
innamorata di Gibbs, non credi? Mio padre somigliava molto più a lui che a te ».
L'acqua stava bollendo e mi affrettai a staccare l'interruttore. Quando
mi voltai, Donald mi fissava con gli occhi sbarrati. « Innamorata?
»
« Questo intendevo, quando ti ho detto che era inutile parlarne. Finisco
sempre per rovinare tutto, lo sai, quando cerco di uscire da una situazione
spinosa. Ne creo sempre una più spinosa ancora »
« Innamorata? », disse di nuovo, col fiato rotto. Compresi che avevo
appena combinato un disastro di proporzioni bibliche. Sentii il mio viso in
fiamme e per superare l'imbarazzo gli tesi una tazza
fumante.
« Niente che non si possa gestire. Tiglio ». Dovevo trovare una soluzione
alla svelta. Parlare a raffica prima che lui si riprendesse dallo choc poteva
essere un'idea. « Oggi è venuta a cercarti la dottoressa Byers... Stavo dormendo
sul divano - sai, le pillole per l'emicrania... - e le ho aperto in tuta e
calzettoni. Cioè, avevo anche la pistola ma quella non l'ho usata... Credo che
possa essersi fatta un'idea non proprio esatta della mia presenza qui, vedendomi
in quello stato, e devo confessarti di non aver fatto nulla per essere ospitale,
ma davvero, ero ancora un po' stordita dal sonno e... Potresti dirle che mi
dispiace, se dovessi incontrarla »
« Non credo accadrà », rispose, quasi sovrappensiero. Era chiaro, dal suo
sguardo, che il mio fiume di parole non era servito a
distrarlo.
« Come mai? »
« Ho riflettuto. Non riusco più a fidarmi di lei, e... Niente. Non è la
persona adatta ». Non riuscii ad evitare un sorriso, che per fortuna Donald, che
teneva lo sguardo fisso sul fondo della tazza, non
notò.
« Domani sera c'è la partita », dissi, ansiosa di non ricadere nel
silenzio. Silenzio significava pensieri, e i pensieri lo avrebbero portato al
mio passo falso, e non volevo che accadesse...
« Partita? »
« Il bowling! NCIS vs. NCIS, non ricordi? Maschi contro femmine... »
Avevo catturato la sua attenzione e mentalmente tirai un sospiro di
sollievo.
« Ti sembro uno che gioca a bowling? » Sulla punta della lingua mi
pizzicò un malizioso “E io ti sembro una che bacia un medico legale più vecchio
di trent'anni?” ma riuscii ad evitarlo.
« Perché no? A quanto ho saputo da Abby, Palmer ha dato buca... Quindi o
giochi tu, oppure avremo noi la partita vinta a tavolino!
»
« Voi? »
« Abby, io, Jen » Notai un lampo strano nel suo sguardo, quasi di
sorpresa, nel sentire il nome di Jen, ma non vi attribuii particolare importanza
«...e la David »
« Perché Ziva non ti piace, Christine? » Mi strinsi nelle spalle,
dispensandomi dalla risposta con un sorso di tisana. « Dovreste darvi una
possibilità, invece. Avete molto in comune ».
« Come il fuoco e la benzina, sì... » Svuotai la tazza e la sciacquai. «
Credo che andrò a dormire. Buonanotte, dottore... »
« Buonanotte, Christine », mi raggiunse la sua voce qualche istante più
tardi, mentre già salivo le scale verso la mia stanza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** L'emulo ***
momentaneous
Avevo noleggiato un'auto, per non dover sempre dipendere da Ducky o dagli
altri per recarmi all'Agenzia, e quella mattina me ne compiacqui
particolarmente: avevo passato la notte senza riuscire a chiudere occhio,
pensando a fasi alterne al passo falso fatto con Donald quella sera, al bacio
che non riuscivo a dimenticare, e alla possibilità che Carson avesse un adepto -
perché
a questa conclusione mi aveva condotto l'insonnia, sulla scia della
conversazione avuta prima di andare a letto -, ragion per cui decisi di alzarmi
ed andare all'NCIS nonostante il sole non fosse ancora sorto. Non importava che
non fossero neppure le sei, e che fosse una nuvolosa giornata d'inverno che
minacciava la prima neve, avviai il motore e subito dopo aver regolato sul
massimo la radio e il riscaldamento mi immisi sulle strade quasi deserte di
Washington.
Anche l'edificio dell'NCIS era silenzioso; nell'open space, seduto alla
scrivania trovai solamente Gibbs.
« Buongiorno »
« Buongiorno. Mattiniera... » Mi strinsi nelle
spalle.
« Mi hai mandata a casa prima, ieri, ho avuto modo di riposare... E
stanotte non sono riuscita a chiudere occhio », aggiunsi, mostrando il bicchiere
del caffè. Leroy Jethro Gibbs mi scoccò un'occhiata
divertita.
« Ducky ti ha detto dell'autopsia, quindi ».
Annuii.
« Già... » Presi un lungo sorso di caffè e mi sedetti alla scrivania,
accendendo il computer con un gesto automatico. « Ci ho riflettuto, Gibbs. Sono
praticamente convinta che non sia la mano di un emulo, ma di una specie di
allievo »
« In base a cosa? »
« Ho parlato un po' con Ducky, ieri sera... Anche se l'arma è diversa i
particolari fondamentali combaciano, e non c'è altro modo in cui l'omicida
potrebbe esserne venuto a conoscenza, se non dalla fonte originale
».
« GIBBS GIBBS GIBBS! »
Con la rapidità di un missile terra-aria, prima che l'Agente Speciale
Gibbs avesse modo di esprimersi sulla mia teoria Abby Sciuto era arrivata di
corsa di fronte a lui, con l'entusiasmo che di solito dimostra quando ha fatto
una grande scoperta.
« Ciao, Abby... »
« Oh, Chris! Già qui anche tu, fantastico! L'ho trovato ». Il sorriso sul
viso della mia amica era così largo che sembrava toccare davvero entrambe le
orecchie. Gibbs accennò una risata.
« Trovato cosa? »
« Vuoi dire “Trovato chi”, agente speciale Gibbs... » Abby si
chinò sulla mia tastiera e digitò rapidissima una serie di comandi. Sul
maxi-schermo si aprì l'immagine di un'impronta digitale e il suo riscontro. « Il
cattivo numero due. Calvin Moriarty ». Lo sguardo di Gibbs si accese e immagino
che il mio avesse fatto lo stesso.
« Come hai fatto? », domandammo all'unisono.
« Lavorerà pure per un pazzo ben organizzato, ma ha ancora parecchia
strada da fare... Sulle mostrine del caporale Baker c'era quella bellissima
impronta! »
« Ottimo lavoro, Abby », commentò Gibbs baciandola sulla guancia. «
Chris, trovalo »
« Subito, capo! », replicai, imitando senza volere
McGee.
Sembrava troppo bello per essere vero, lo confesso. In meno di mezz'ora
sullo schermo erano apparsi, uno dopo l'altro, tutti i dettagli della vita di
quell'uomo: dall'indirizzo al luogo dove lavorava, dal numero di cellulare
all'identificativo della sua connessione internet, dalla fedina penale - tre
condanne per piccoli furti, una per possesso di droga, qualche denuncia per
voyeurismo - ai dati della sua auto e del suo conto in banca... Tutto. E mentre
Tony, Ziva e McGee uscivano dall'ascensore, alle sette in punto, Gibbs mi
lanciava le chiavi dell'auto e ordinava all'agente Di Nozzo di venire con
noi.
« Già fuori a quest'ora? »
« Ricordami di fare le nostre scuse a Moriarty per averlo svegliato
troppo presto, Di Nozzo! »
Tony parve perplesso.
« Moriarty? »
« Abby ha trovato un'impronta. Ci sono concrete probabilità che sia il
complice di Carson... », intervenni, prima che lo scappellotto di Gibbs avesse
modo di partire.
« Ah, ok. Ora ho capito tutto ». A quel punto, la nuca di Tony venne
colpita da non uno, ma ben due scappellotti. All'unisono, uno a destra e uno a
sinistra, io e Gibbs non eravamo stati in grado di
resistere.
« Non scherzare, Di Nozzo. Non hai capito ».
Salimmo in macchina ridendo. Se tutto
fosse andato come prometteva – e Gibbs non ci avesse uccisi con il suo adorabile
stile di guida personale – nel giro di qualche ora avremmo avuto Moriarty e, si
sperava, lo stesso Carson.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Calvin Moriarty ***
momentaneous
Alla fine avevo guidato io, cosa che ci aveva permesso di arrivare vivi
per quanto, forse, qualche minuto più tardi di quanto avremmo fatto con Gibbs al
volante.
La casa di Calvin Moriarty era buia e silenziosa, vista dall'auto. Tony
sbadigliava sul sedile posteriore, lamentando la mancanza di un caffè in quella
mattinata gelida che prometteva pioggia; dal posto di guida cercavo di
distinguere qualcosa all'interno dell'abitazione con il visore notturno senza
riuscirci, e con lo stesso risultato mi sforzavo di non pensare a quanto freddo
facesse dentro la macchina. Sul sedile del passeggero, invece, Gibbs sembrava
perfettamente a proprio agio.
« Perché non entriamo? »
« Perché Ziva e McGee non sono ancora arrivati, Chris. Mi sembra
piuttosto ovvio ».
Posai il binocolo sul cruscotto e mi soffiai sulle dita intirizzite.
Tony, alle mie spalle, quasi batteva i denti.
« Fa un freddo cane, Gibbs... »
« Io non lo sento ».
Nel vedere il furgone dell'NCIS svoltare all'angolo della strada, tanto
io quanto Di Nozzo ci catapultammo fuori dall'auto infilando i giubbotti
antiproiettile, più che lieti che l'estenuante attesa nell'auto-frigorifero
fosse finita.
« E' una mia impressione, o fa meno freddo qui che là dentro?
»
« Mi spaventa dirlo, ma forse hai ragione, Tony...
»
« E perché ti spaventa dirlo? »
« Forse perché non hai mai ragione? »
« Ahahah... », finse una risata lui.
« Pensate di piantarla di giocare, bambini?
»
« Sì capo! » ci affrettammo a rispondere.
Ziva e Tony sul retro, McGee, Gibbs e la sottoscritta all'ingresso
principale: come descrivere il brivido di onnipotenza che si prova in un momento
come quello, di fronte alla prospettiva di mettere le mani addosso ad un
assassino? Il rumore della porta sfondata, la voce di Gibbs che grida
NCIS!, la consapevolezza di avere le spalle coperte dalla migliore
squadra di agenti sulla piazza, la luce delle torce che fende il buio di pari
passo ai movimenti delle pistole... Dio, quanto mi era mancato a New York tutto
questo.
« Libero! », giunse, dal retro della casa, la voce dell'agente David; e
la conferma di Tony non tardò a farsi sentire, seguita subito dopo da quella di
McGee. Gibbs ed io ispezionammo salotto e stanza da letto, ma il risultato non
fu diverso.
« Libero », confermò il capo, e nel gelo della sua voce riconobbi la mia,
ancor prima che la sua, rabbia. Ce l'avevo con me stessa per non aver compreso
che, se l'osservazione con il visore notturno non mi aveva rivelato presenze
all'interno della casa, aspettarsi di trovare davvero Moriarty sarebbe stato
stupido... Qualcuno accese le luci.
« Ci ha battuti sul tempo ».
« Tipico del suo maestro... Sparire al momento giusto
»
« Lo troveremo, Chris ».
Non risposi. Odiavo girare a vuoto in quel modo e odiavo pensare che
ancora una volta Carson si fosse preso gioco di me. Riposi la pistola e infilai
i guanti mentre mi guardavo attorno.
Avevo pensato, non so quanto consciamente, di trovare un ambiente
caotico, sporco, dominato da quel disordine esteriore che spesso accompagna le
menti perverse, ma quello che ora si offriva ai miei occhi era uno spettacolo
del tutto diverso; niente polvere sui mobili né sporcizia nelle stanze, la
spazzatura svuotata e la cucina accuratamente pulita... Ne fui sorpresa,
molto sorpresa. Non coincideva con le caratteristiche che di solito
vengono riscontrate sugli emuli, che - stando a quanto avevo studiato secoli
prima - in genere sono individui deboli, disorganizzati, facilmente vittima di
una personalità dominante come quella del serial killer originario... Un
pensiero si affacciò alla mia mente. Avevo già avuto occasione di vedere
un'organizzazione di quel tipo, forse, ma c'era soltanto un modo di averne
conferma; per prima cosa, trovandomi in cucina, aprii prima i pensili poi il
frigorifero, e osservai in silenzio le confezioni di cibo. Quindi, con quel
pensiero che si faceva sempre più forte, tornai alla libreria in salotto e
lessi, uno dopo l'altro, gli autori dei volumi
allineati.
« Carson è stato qui ».
Fui assalita da una raffica di « Cosa? », « Come lo sai? », « Come fai a
dirlo? » ma mantenni la calma senza problemi. Erano quei momenti, in cui
l'intuito dell'investigatore si faceva sentire con tanta forza da produrre
risultati immediati, ad avere prodotto in polizia il mito di Christine
Fellman ancor prima che avessi vent'anni, quando giocavo alla teenager
detective perennemente alle costole di mio zio. Era cambiato ben più di
qualcosa, da allora, nella mia vita come in quella dello zio Aengus, ma non ho
mai fatto fatica a riconoscere la sensazione.
« Le scatole in cucina. I libri qui. E, scommetto, anche i DVD, e tutto
ciò che ha un nome... Sono tutti in ordine alfabetico inverso. Una piccola
fissazione di Albert Carson, come ho potuto notare durante la prima ed unica
perquisizione nel suo appartamento di New York ».
Un cenno della testa da parte di Gibbs e sia Tony che McGee partirono a
razzo per controllare DVD e CD. Bastò un colpo d'occhio per la
conferma.
« E così ci sono scappati in due... » Jethro incenerì Ziva con uno
sguardo, che poi spostò su di me.
« Questo dimostra che la teoria tua e di Ducky era esatta: Moriarty non è
semplicemente un imitatore, è un allievo ».
Ultimammo i rilevi in un silenzio pressoché totale, tutti più o meno di
cattivo umore: Gibbs aveva ragione, certo, e l'informazione che avevamo ottenuto
era senza dubbio utile, ma di lì a dire che la giornata era cominciata bene ce
ne passava. Erano ormai quasi le undici quando chiudemmo finalmente gli
sportelli del furgone dopo avere caricato tutto, e il mio stomaco si fece
sentire.
« Credo che potrei uccidere, per un enorme caffè e una ciambella piena di
zucchero », ammisi. Di Nozzo mi guardò incredulo.
« Non trovi che sia più un orario da hot dog? » Mi ritrovai a
sorridere.
« Inizio ad avere davvero paura, Tony: è la seconda volta in una sola
mattinata che mi trovo costretta a darti ragione...
».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Punti di contatto ***
Chiedo
mille e mille volte scusa per non avere aggiornato per tutto questo
tempo!!! Spero di riuscire a farmi perdonare...!
Che
cosa ci facessimo, di venerdì sera, io e l'agente David
sedute al
bancone del bar da sole, solo una decina di giorni prima mi sarebbe
sembrato un mistero insolubile; ma gli eventi avevano in un certo
senso congiurato, causando ritardi al resto della squadra
così che
l'appuntamento fissato per le 8 per lo spuntino prima del bowling era
stato annullato e noi, le uniche riuscite ad arrivare, nostro
malgrado eravamo state costrette, pur di non parlare della
pesantissima giornata di lavoro appena finita, a socializzare.
«
Come sei arrivata all'NCIS, Fellman? » Pensai a Tony, che
risponde
sempre “Sorridendo!”, e restare seria richiese non
poco impegno.
«
È stata una cosa strana. Sono entrata in Polizia in un certo
senso
di diritto, senza dover frequentare tutti gli anni di Accademia che
di norma sarebbero previsti, anche perché già
prima di essere
assunta avevo un'esperienza...diciamo...piuttosto vasta...
Ma
alcuni corsi non si potevano proprio evitare; e così,
nell'ambito di
Medicina Legale, per puro caso ci fu segnalato un seminario,
facoltativo, sugli effetti che le traiettorie deviate dei proiettili
a punta cava possono determinare sugli organi interni »
«
Per caso la faccenda ha a che fare con Ducky? » La fissai
sorpresa.
«
Sì! Ma come... »
«
Perché solo lui potrebbe tenere un seminario del genere, e
perché...
Be', perché sembra che abbiate gli stessi ritmi, per
raccontare
certe cose ». Ziva rise e io mi strinsi nelle spalle.
«
Farò finta che sia un complimento... »
«
In un certo senso può esserlo. Birra? » Accettai e
feci un cenno al
barista.
«
Ad ogni modo... Quel seminario aveva la bellezza di cinque
partecipanti, alla prima lezione. Sai, il poliziotto di strada non va
tanto per il sottile e quell'argomento era oggettivamente troppo
tecnico... Alla seconda lezione, c'ero soltanto io »
«
Uh, intimo... » Non potei evitare di ridere insieme a lei,
questa
volta, e presi un sorso di birra.
«
Sì, decisamente! »
«
E com'è finita? L'hanno soppresso, il seminario, immagino...
»
«
Più o meno. Fu trasformato in un corso residenziale
intensivo di tre
settimane, qui a Washington perché Ducky era stato
richiamato per un
caso. Sede del corso, la Morgue dell'NCIS!
» Feci una pausa
ad effetto, sgranocchiando un paio di noccioline che il barista ci
aveva messo davanti in una piccola ciotola. « Così
ho conosciuto
Gibbs. E non appena c'è stata la possibilità di
uno stage di sei
mesi all'agenzia, l'ho afferrata al volo ».
Ziva
aggrottò le sopracciglia.
«
Soltanto sei mesi? Mi era sembrato di capire... »
«
Sei mesi che divennero un anno, poi prolungato a due... Il tutto per
scoprire, rientrando a New York, che la nuova politica investigativa
promossa dal mio distretto andava in tutt'altra direzione rispetto a
quello che avevo imparato qui. Mi rimproveravano di essere
“troppo
esigente”, “troppo schizzinosa”... Non
è stato piacevole, se
devo dirti la verità »
«
Perché non sei tornata a Washington? »
«
Bella domanda. Perché mio... Il comandante Fellman mi
avrebbe ucciso
con le sue mani, se avessi tradito il New York Police
Department
per un'agenzia federale. Semplicemente ». Dalla
luce strana del
suo sguardo, mi resi conto che qualcosa del mio discorso aveva
colpito particolarmente Ziva David.
«
Il comandante Fellman? Tuo padre? »
«
No », chiarii, sottolineando il concetto con un cenno della
testa «
Mio zio. Mio padre è morto quando avevo sei anni... Per
questo, e
perché sono cresciuta al seguito delle indagini di mio zio
sin dal
mio dodicesimo compleanno, sono entrata in Polizia di diritto, e con
una discreta fama fin da subito. E per questo i miei colleghi sono
stati tanto felici di vedermi cadere... Certe volte non conta niente
ciò che sai fare, puoi avere uno stato di servizio perfetto
e
lavorare come una disperata, ma resti sempre quella che ha ricevuto
un trattamento di favore ».
Ziva
chinò la testa, lo sguardo fisso sul fondo del bicchiere.
«
So fin troppo bene di cosa parli ». Prese fiato, sempre senza
guardarmi « Mio padre è uno dei vicedirettori del
Mossad ».
Confesso
che rimasi a bocca aperta. Il silenzio che ne seguì fu in
certa
misura terapeutico, e mi permise di accettare un fatto che soltanto
allora avevo notato. Alzai il boccale verso l'agente David come in un
brindisi, e lei pur senza conoscere i miei motivi tese il proprio
fino a farli tintinnare.
«
A cosa brindiamo? »
«
A Ducky, e al fatto che aveva ragione », replicai.
« Tu ed io
nonostante le apparenze abbiamo davvero qualcosa in comune, David!
».
I nostri boccali tintinnarono e in un unico sorso vennero svuotati.
Guardai l'orologio. « Sarà il caso di andare se
non vogliamo far
tardi ».
Non
sono mai stata particolarmente portata per il bowling, lo confesso. A
dire il vero, anzi, ho sempre sospettato che Abby continuasse ad
invitarmi a quelle partite – NCIS vs. NCIS era una prassi
assodata
già ai tempi del mio primo stage, a quanto ne so –
unicamente per
amicizia, se non un po' per pietà... Conoscevo la teoria
alla
perfezione: regole, consigli, dritte, gergo tecnico, tutto, non un
solo segreto. Ma quanto al mettere in pratica... Basti dire che la
nostra squadra era molto più fortunata ad avere Abby che me.
«
Sbaglio, o qui qualcuno è il mio equivalente femminile?
» Presi per
il collo la birra che Ducky mi stava porgendo e mi sedetti, di
ritorno da uno degli split più
imbarazzanti – e
irrimediabili – della mia già di per sé
misera carriera.
«
Sono fuori esercizio, a quanto pare... » Lanciai un'occhiata
alla
pista, richiamata dall'esultanza dei miei avversari: Gibbs nemmeno a
dirlo aveva centrato uno strike da maestro,
riportando il
punteggio in parità. Le mie compagne si consultarono
rapidamente,
poi Jen raggiunse me e il dottore.
«
Tira Ziva... »
«
Avrei detto Abby ». Donald tornò alla pista dopo
un'occhiata di
Jen, e fui sorpresa di come riuscisse a non sembrare fuori posto in
quel bowling nonostante l'eleganza dei suoi vestiti e il papillon.
«
Ziva è abile come un cecchino anche in questo campo... Ho
ricevuto
la tua domanda, Chris »
«
Immaginavo ». Mi piegai in avanti con i gomiti sulle
ginocchia e la
birra tra le mani, fissando il vuoto. A giudicare dall'entusiasmo che
sentivo qualche passo più in là, Ziva doveva aver
riportato la
nostra metà di NCIS in vantaggio. « Non credo di
poter tornare,
Jen, tutto qui. Ti chiedo solo di prenderla in considerazione, non un
trattamento di favore ». La mano del direttore si strinse
sulla mia
spalla e con la coda dell'occhio la vidi sorridere.
«
È quello che sto facendo ».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Latte, biscotti, bruciature e momenti di lucidità ***
Avevamo
vinto. Incredibile ma vero, e soprattutto nonostante il mio deludente
contributo, la squadra femminile dell'NCIS aveva ottenuto un'assoluta
e indiscussa vittoria. Per quanto mi riguarda, tutto quel che avevo
ricavato dalla serata erano state un paio di birre, non più
di tre
buoni tiri sul parquet e una montagna di risate, tutte cose che, pur
in misure diverse, avevano contribuito non poco a farmi accantonare
la delusione del mattino.
Parcheggiai
nel vialetto, dietro alla macchina del mio ospite, già
prevedendo
per la mattina successiva una levata all'alba come quella di quel
giorno: da quando era divenuto chiaro che Carson non agiva da solo mi
sembrava improponibile anche la semplice idea di
poter
prendere sonno, e certo la scoperta dell'esistenza di Calvin
Moriarty, e del rapporto che con ogni evidenza sussisteva tra lui e
Carson, non poteva in alcun modo facilitarmi le cose. Entrai in casa
mentre Ducky appendeva cappotto e cappello.
«
Gloria al vincitore... »
Tolsi
la giacca scuotendo la testa. « Non farmi ridere, Ducky
»
«
Posso offrirti il bicchiere della staffa? »
«
Per la verità pensavo di scaldare un po' di latte e mangiare
qualche
biscotto, ho un discreto languore allo stomaco... Ma posso farti
compagnia lo stesso, se per te non è un problema sorseggiare
scotch
in cucina invece che nella tua elegante poltrona »
«
Non vedo perché dovrebbe esserlo », sorrise lui, e
mentre mi
infilavo in cucina sparì in salotto. Mi raggiunse il rumore
ovattato
del tappo della bottiglia di vetro, accesi il gas al minimo sotto il
bollitore d'acciaio e rovistai nei pensili alla ricerca dei miei
biscotti al cioccolato, sperando che la signora Mallard non li avesse
trovati prima di me. « Allora? Sono riusciti a salvarsi?
»
«
Ebbene, sì! » esclamai, brandendo il sacchetto
come un trofeo. Il
bicchiere nella mano destra, con l'altra Ducky era impegnato a
sciogliere il nodo del papillon che sembrava deciso ad opporre
resistenza. Mi avvicinai. « Lascia, ti aiuto... A cosa serve
avere
le mani libere, altrimenti? »
Non
avevo calcolato, nell'atto di propormi con tanta sollecitudine,
quanto sarebbe stata minima la distanza fra me e lui quando avessi
messo in pratica il mio gesto. Me ne resi conto troppo tardi, quando
ormai le mie dita erano strette sulla stoffa così vicine al
suo
collo e il mio viso a non più di qualche centimetro dal suo.
Quando
un'ondata calda e gradevole si era fatta strada lungo la mia schiena
fino ad esplodermi all'altezza del cuore. Quando, al tempo stesso
inconsapevole e conscia di cosa stavo facendo, inclinai un poco la
testa e lo baciai, lentamente, ancora stringendo in una mano la seta
del papillon.
Compresi
dal suono sordo che aveva posato il bicchiere ancora pieno sul
bancone dietro di me e nel giro di una frazione di secondo sentii le
sue mani sulla schiena, aperte, il tocco delicato attraverso la
stoffa. Istintivamente e con un movimento morbido il mio corpo si
appoggiò al suo, per un attimo ebbi la sensazione che mi
stringesse
a sé poi, senza preavviso, le sue labbra si allontanarono
piano
dalle mie. « No... » Indietreggiò.
« No, Christine. Non può
accadere ».
Mi
bruciavano gli occhi, e forse per la prima volta da quando ci
conoscevamo arrossii per l'imbarazzo, ma di colpo avevo compreso che
questa volta non mi sarei arresa tanto facilmente. Non volevo.
Certo, era una situazione quantomai particolare, ma
non per
questo meno importante per me... E deve ancora nascere, qualcuno in
grado di dissuadermi dal difendere ciò che ritengo
importante.
Ragion per cui accantonai lo stupido “lo so” di
qualche sera
prima e attinsi alla mia dignità.
«
Non sta scritto da nessuna parte, che non può »,
replicai secca.
«
Ti prego, Christine, è già abbastanza difficile
così... »
«
Sì, hai ragione, è difficile. E
perché? Perché tu fai di tutto
per renderlo ancora più difficile. Fammi capire, per favore,
spiegami, cosa c'è che non va in me? Cos'ho di sbagliato?
»
L'espressione che apparve sul suo viso era sinceramente sorpresa.
«
Che non va? In te? Non dire sciocchezze, non hai niente di
sbagliato... » Chiusi gli occhi e presi respiro un paio di
volte,
cercando la tranquillità di cui avevo bisogno per affrontare
quella
discussione.
«
Allora perché continui ad allontanarmi? »
«
Non ti sto allontanando; cerco semplicemente di essere razionale.
È
un brutto momento, per te, sei vulnerabile e... »
«
Non sono vulnerabile », sibilai, indignata che mi attribuisse
una
condizione tanto estranea al mio modo di pensare. Tanto indignata che
nemmeno valutai l'ipotesi che nelle sue parole potesse esserci un
fondo di ragione.
«
Sì, lo sei. Ed è giusto che tu lo sia, con tutto
quello che sta
accadendo. In più, sei giovane. Il che
ti porta a reagire
allo stress in maniera impulsiva ».
Sul
punto di rispondergli, il latte che aveva continuato a bollire
tracimò senza pietà su buona parte della cucina a
gas. Spensi la
fiamma e afferrai il bollitore per la maniglia d'acciaio –
incandescente –, mi scottai, e quantomai furente lo gettai
nel
lavello con un « Vaffanculo » a mezza voce.
«
Ti sei fatta male? »
Tenendo
la mano sotto l'acqua fredda, mi scostai da Ducky che si era
rapidamente avvicinato per controllare la bruciatura. «
Lasciami
stare ».
«
Christine »
«
No. Continuiamo. Mi stavi psicanalizzando, se non erro »
«
Cercavo soltanto di... »
«
Di trovare motivazioni stupide per qualcosa di assolutamente normale
», conclusi, senza riuscire ad evitare che una certa venatura
di
rabbia si facesse strada nella mia voce. « Di trovare scuse,
psico-idiozie per evitare qualcosa che – lo sai –
entrambi
vogliamo e che potrebbe essere bellissimo se solo tu gli permettessi
di accadere ».
Lo
vidi togliersi gli occhiali e premere con forza le dita sulle
palpebre chiuse, per un tempo che mi sembrò non finire mai.
Riaprì
gli occhi solo quando le lenti furono nuovamente al loro posto.
«
Sei troppo giovane, Christine », esordì piano, con
un sorriso
indulgente, quasi che stesse parlando con una ragazzina romantica e
un po' sciocca e non con la donna esasperata che aveva di fronte.
«
Rischi di legarti a qualcosa che non vuoi davvero, solo
perché ti
sembra un porto sicuro. Quando tutto questo sarà finito,
quando
Carson sarà finalmente fuori dalla tua vita, ti accorgerai
che
questo » e non c'era bisogno, questa
volta, di spiegare a
cosa si riferiva « avrebbe potuto essere un grande errore.
Non posso
permetterti di invischiarti in una cosa del genere, Christine, sei
troppo giovane... E io, per contro, troppo vecchio ».
Troppo
giovane.
Strinsi i denti fin
quasi a farmi male. Potevo forse capire gli altri scrupoli, il suo
inattaccabile codice etico, avrei potuto capire persino una scusa
assurda come il lavoro
nella stessa squadra, ma l'età? Poteva davvero una cosa
tanto
stupida mettere in crisi la mia vita in quel modo?
«
Non riesco a credere che tu lo stia dicendo davvero ». Mi
tirai
indietro i capelli con un gesto meccanico, quindi in un unico respiro
presi fiato e coraggio. « Cosa importa se per la mia
età ho
un'aspettativa di vita più lunga della tua? Tu sei un medico
e io un
agente operativo, quindi corro molti più rischi di te di
vederla
ridurre drasticamente! Non ti chiedo mille anni, Ducky; solo di poter
essere felice, felice insieme a te, fino a che sarà
possibile...
Finché vorremo, o finché non ti sarai stancato di
avermi intorno ».
Mi trovai di nuovo di fronte a quel sorriso indulgente e compresi di
non avere ottenuto nulla. Sospirai, sconfitta. « Almeno,
dimmi che
non senti niente per me »
«
Temo che questo non abbia importanza ».
Incassai
il colpo, spero con quella che nella mia famiglia abbiamo sempre
perseguito con il nome di Stoica Indifferenza. Tentai
un sorriso. « Bene. Buonanotte. Pulisco qui e vado a dormire
».
Donald mi parve sul punto di dire qualcosa; poi, ormai dimentico del
bicchiere di scotch, lasciò la cucina in silenzio e io, come
la
perfetta casalinga anni Cinquanta che talvolta mi capitava di
diventare, cercai di scacciare quella conversazione dalla mente
accanendomi sul latte ormai secco che incrostava i fornelli.
«
Non devi prendertela, bambina... » Trasalii tanto
violentemente che
quasi saltai. A quell'ora, avrei giurato su qualunque cosa che
Victoria Mallard dormisse beatamente nella propria stanza al
pianterreno, e invece era comparsa sulla porta della cucina, nella
vestaglia merlettata che sembrava provenire direttamente da fine
Ottocento, non molto salda sulle gambe ma in apparenza perfettamente
lucida.
«
Signora Mallard! Non dovrebbe... »
«
...Dormire, sì, ma a quest'ora mi viene sempre sete. Oh,
guarda »,
sollevò il bicchiere abbandonato dal figlio e ne
annusò il
contenuto « ...scotch... Proprio quello che cercavo
». Non potevo
dire che mi sorprendesse, che quella donna si concedesse una
parentesi alcolica notturna, ragion per cui mi limitai a sorridere.
«
Vuole che l'accompagni a letto? » Con un sorriso sornione
l'anziana
padrona di casa proseguì come se io non avessi aperto bocca.
«
Non prendertela, con Donald... Ha sempre avuto uno strano senso
dell'onore, riguardo certe cose ». Doveva aver sentito tutto.
Il mio
imbarazzo crebbe vertiginosamente senza controllo.
«
Ma no, signora, io... Non... »
«
Sì, invece, non pensare che io sia rimbecillita, sai? Ho
capito
benissimo quello che stava succedendo. L'ho capito benissimo,
credimi, che tu sei innamorata di mio figlio e che lui è
troppo
gentleman per
accettare anche solo l'idea. Altrimenti non ci sarebbe alcun motivo
per quelle lacrime, non trovi? » Stupita, mi asciugai di
scatto una
guancia col dorso della mano. La guardai, vecchia e fragile, bere con
signorilità dal bicchiere che le tremava un poco tra le dita
ossute,
e per la prima volta da quando la conoscevo vidi in lei una
somiglianza con Ducky; poco importava, che per la maggior parte del
tempo la sua mente vagasse in un altrove migliore incalzata dalla
demenza senile, quel momento di lucidità testimoniava una
capacità
empatica straordinaria e ne fui ammirata.
«
Non so come comportarmi », ammisi con naturalezza, come avrei
fatto
con mia nonna se fosse stata ancora viva, incurante di quanto, a
mente lucida, mi sarebbe sembrato improbabile chiedere consiglio ad
una donna nelle sue condizioni mentali.
«
Sii paziente... »
«
Suo figlio non vuole saperne di me, signora Mallard », mi
permisi di
farle notare. Lei scosse la testa e vuotò il bicchiere.
«
Deve soltanto fare pace con i suoi scrupoli, Christine, credimi. Ha
solo bisogno di un po' di tempo ». Il mio cervello
registrò
incredulo che mi aveva chiamata per nome, cosa che non ricordavo
fosse mai stata in grado di fare. Sorrisi.
«
La ringrazio. Venga, la riaccompagno a letto... »
Un
paio di passi oltre la porta vidi tornare sul suo viso il sorriso un
po' vuoto e smarrito con cui l'avevo conosciuta e già prima
che,
tamburellandomi sul braccio, mi chiedesse trillando « E qual
è il
suo nome, cara? » sapevo che il suo momento di
lucidità era finito;
tuttavia ero contenta che avesse occupato quell'attimo prezioso
tentando di consolare me.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Un'amica telepatica ***
Oh,
lo so, posso vincere il premio per l'aggiornamento più
ritardatario... :( Ma qui i casini si moltiplicano e il tempo si riduce
ogni giorno di più!!! Mi scuso per l'attesa...spero ne sia
valsa la pena!
(e sempre GRAZIE per le
recensioni!!! ^_^)
Entrai
in laboratorio bevendo un enorme caffè, sperando di riuscire
a
mantenermi in piedi per le successive ore di lavoro; non avevo
dormito, non avevo avuto un minuto intero di tregua, mi ero alzata
quasi cadendo dal letto... Mi sentivo uno straccio, punto. A
differenza mia – e la cosa non mi sorprese, conoscendola
– Abby
era perfettamente operativa, brillante e sveglia come non mai.
«
Stai male, Chris? »
«
No... Brutta nottata ». Ho sempre avuto l'abitudine di
passare il
bicchiere del caffè da una mano all'altra, fin da ragazzina,
perché
non sopporto di avere calda una mano e l'altra no; quella mattina,
nel passaggio da destra a sinistra, il calore del caffè
bollente mi
fece così male sulla scottatura della sera prima che quasi
rovesciai
tutto. A quel punto, con la fronte corrugata e le labbra strette,
Abigail Sciuto mi indicò perentoria uno sgabello.
«
Adesso mi spieghi. Cos'hai fatto alla mano? »
«
Il latte tracimava e il bollitore era incandescente » dissi
stringendomi nelle spalle senza guardarla.
«
C'è dell'altro. Prima, dopo, o durante quel bollitore,
c'è
dell'altro »
«
Potrei anche non avere voglia di parlarne, Abby... » La mia
migliore
amica non parlò. Inclinò la testa per guardarmi
meglio, come
studiandomi, e per quanto la prospettiva non mi piacesse sapevo che
non avrebbe desistito. Avrebbe continuato a fissarmi per
chissà
quanto...fino a che non mi fossi decisa a cedere. Serrai i denti.
«
Posso venire a stare da te? »
La
osservai tirare verso di sé uno sgabello ed appollaiarsi, e
infine
accompagnare il tutto con un ampio gesto delle braccia. «
Raccontami
tutto »
«
Non c'è niente da raccontare », protestai
« Ti ho solo chiesto se
puoi ospitarmi: lo farai? »
«
Certo che ti ospito, Chris... Però mi fai preoccupare. Tu
che lasci
casa di Ducky... Di punto in bianco... È successo qualcosa?
»
Dimentica di quanto fosse di per sé rivelatore quel
comportamento,
ignorai la domanda. Abby, delicata come uno schiacciasassi, non si
fece il minimo scrupolo ad insistere. « È successo
qualcosa ».
«
Non mi piace, questo terzo grado »
«
Si tratta di sua madre? Guarda che ultimamente è molto
normale che insulti le persone, non devi rimanerci male... »
«
Non è per sua madre, davvero, non mi ha insultata
». Già, non mi
aveva offesa in alcun modo. Anzi. Ma come spiegare alla mia amica la
dolcezza di quel che Victoria Mallard era stata capace di fare per me
la sera prima, senza tradire quanto accaduto con Donald? Sospirai, in
risposta alla mia stessa domanda muta, ma Abigail non lo
notò. Era
ancora troppo presa dalle proprie ipotesi, e io ero stata ben attenta
ad essere il più possibile silenziosa.
«
I cani? Ma no, figurarsi, ormai ti conoscono, hai addomesticato
Tyson... » L'enorme macchina alle mie spalle – il
famigerato
spettrometro di massa – emise un lungo
segnale acustico,
richiamando l'ego scienziato di Abby sull'attenti.
Lasciandomi
lì, a domandarmi per la milionesima volta da quando avevo
messo
piede all'NCIS come diavolo facesse ad interpretare le
“risposte”
di quell'arnese, si immerse per qualche minuto nel silenzio
più
profondo. Ritornò nel mondo dei vivi con un improvviso
« Ah! » a
volume così alto da cogliermi totalmente impreparata.
«
Ah!, cosa?»
«
Nell'immondizia di Moriarty c'era quello », mi
spiegò, indicando un
normalissimo brik di succo di frutta alla pesca. Ignoro quale
espressione assunse il mio volto in piena autonomia, ma dalla
risposta paziente che ne ricavai non doveva essere un'espressione
troppo ricettiva. « C'era una cannuccia, sai... E sulla
cannuccia ho
trovato del DNA ». Mi alzai di scatto.
«
DNA di Moriarty? » La mia migliore amica sorrise da un
orecchio
all'altro.
«
DNA di Albert Carson »
«
Devo avvertire Gibbs »
«
Sarà qui a momenti... Lo sai: appare subito, quando trovo
qualcosa.
Telepatia... »
Telepatia
o meno, Gibbs non tradì la propria reputazione, e dopo meno
di
cinque minuti era già aggiornato degli ultimi sviluppi.
«
Raggiungi Tony e McGee al furgone, Chris, Ziva ed io vi precediamo in
macchina... C'è un nuovo cadavere » concluse, dopo
una pausa, un
attimo prima di essere nuovamente inghiottito dalle porte
dell'ascensore. Mi voltai verso Abby ma lei fu più veloce.
«
Non te ne andrai di qui finché non mi avrai detto
cos'è successo
tra te e Ducky. Gibbs o non Gibbs »
«
Abby... »
«
Avanti », mi ordinò. E io cedetti.
«
Ho combinato un disastro », iniziai a disagio. Ma sapevo che
non mi
avrebbe lasciata andare fino a che non si fosse resa conto che non
avevo nient'altro da dirle, e il caso mi aspettava, e non c'era tempo
di perdersi oltre. « L'ho baciato. Due volte ». Lo
ammetto, avevo
quasi paura di vedere la sua reazione: lei invece rise, sollevata.
«
Ma non è un disastro, Chris, è una cosa
bellissima! » trillò.
«
Invece no. Lui non ha apprezzato, dice che... » Sentii un
nodo in
gola « ...che sono troppo giovane »
«
Oh, su, gli passerà! Non ti permetto di chiamarlo disastro,
Chris »
mi intimò, tenendomi per le spalle. Scossi la testa.
«
Mi sono innamorata di lui, Abby, e lui pensa che sia colpa dello
stress per il ritorno di Carson. E tu non lo chiami
“disastro”? »
«
Sei ancora qui? Fortuna che con Tony e McGee ho mandato Ziva »
«
Gibbs! » Dovemmo apparire quantomai stupide, con
quell'esclamazione
all'unisono.
«
Andiamo ». Il silenzio durò giusto il tempo di
guardar chiudersi le
porte scorrevoli dell'ascensore. « Puoi venire da me, se
vuoi. Due
stanze libere, tanta carta vetrata, una barca da levigare e nessun
tenente colonnello dell'esercito in giro ».
L'aveva
detto senza guardarmi, naturalmente, con gli occhi fissi al soffitto.
Ebbi davvero voglia di abbracciarlo.
«
Ok. Grazie ».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** L.J. Gibbs ***
Non
mi piaceva, quello che stavo guardando, esattamente come non piaceva
a Gibbs e agli altri. Per quanto compatibile con il modus operandi di
Carson e con l'arma che ormai avevamo collegato a Moriarty, e al di
là delle pagine di Pascal seminate per tutta la scena del
crimine,
non potevo fare a meno di notare che qualcosa di estremamente
significativo era cambiato. Fino a quel momento erano stati sempre
omicidi singoli: che la presenza di un complice stesse iniziando ad
alterare gli equilibri di un rituale che si ripeteva identico da
anni? L'intensificarsi delle morti, la drastica riduzione degli
intervalli tra esse mi aveva già messa sull'avviso, ma a
quel punto
restavano ben pochi dubbi.
«
Posso chiedere come mai nessuno ha pensato di avvertirmi che i corpi
erano due? » sentii la voce di Ducky domandare alle mie
spalle. Non
me ne interessai, continuando a fotografare come se niente fosse.
Tanto lui quanto Gibbs, lo percepivo, alzavano spesso gli occhi su di
me – forse domandandosi a cosa sarebbe arrivato Carson pur di
giocare con me, e, immaginai, anche a quale punto sarei stata capace
di spingermi io per fermarlo. Ma non avrei avuto risposta, e la cosa,
confesso, mi preoccupava: più quella storia si protraeva,
più
sembrava in grado di tirare fuori i miei lati più oscuri
– iniziai
a pensare che forse davvero non mi sarei fermata davanti a nulla.
Piegai
un ginocchio e posai l'altro a terra, chinandomi accanto al secondo
cadavere per fotografare la ferita.
«
Palmer è malato. Vieni tu ad aiutarmi? »
Riconoscevo
senza incertezza che quell'offerta era un ramoscello d'ulivo,
così
come sapevo che una volta tanto Gibbs non si sarebbe opposto a che io
fossi inghiottita dalla sala autopsie – non fosse per altro,
ero
pronta a scommetterci, perché nel sotterraneo dell'NCIS
difficilmente Carson avrebbe potuto avere accesso a me. Io
però non
ero abbastanza forte per sopportarlo.
«
No »
«
Christine, ascolta... »
«
Grazie, passo. Ho già ascoltato quello che dovevi dirmi, no?
»
«
Per favore »
«
Devo finire le foto. Scusa. » Mi allontanai in fretta ed ebbi
sì e
no il tempo di tre scatti prima che Gibbs sentisse il bisogno di dire
la sua.
«
Chris... »
«
Sì? »
Una
rapida occhiata passò tra il mio maestro e il suo amico
patologo. «
Va' con lui »
«
Ma, Gibbs... »
«
È un ordine ».
Senza
neppure chiedere il permesso mi impadronii del volante. Affrontavo le
strade di Washington senza dire una parola, lo sguardo ostinatamente
fisso sul traffico e le mascelle serrate con tanta forza che i
muscoli iniziavano a farmi male. Guidavo quasi con rabbia, con scarti
veloci e nervosi che attiravano colpi di clacson quasi quanto ne
attirava di solito lo stile di Ziva. Ma non mi importava. Ero
obbligata ad eseguire gli ordini, mi piacessero oppure no, ma non lo
ero affatto ad assecondare i doppi fini che Gibbs si era proposto
facendomi rientrare... Ci vollero due ore buone, per tornare
all'NCIS, e sono quasi certa che sia stato il tragitto più
silenzioso che io abbia mai affrontato.
Mi
procurai il necessario e iniziai a ripulire il primo cadavere,
lentamente, con estrema cura. Come Ducky tanto tempo prima mi aveva
insegnato.
«
Come stai? » Bastò tanto, a farmi esplodere, tale
era la pressione
che mi portavo dentro.
«
E come dovrei stare? Quel maledetto figlio di puttana continua ad
ammazzare innocenti come fossero bestie, solo per farmi impazzire, e
tu mi chiedi come sto? Male, sto, ecco! Da cani! E se per caso ti
stessi chiedendo se anche tu hai della responsabilità,
sì, ce
l'hai. Perché un serial killer ha deciso di giocare con me a
guardie
e ladri, e nel frattempo tu sei riuscito a mandare a puttane la mia
vita privata. Contento? Sono stata esauriente? »
«
Christine... »
«
E non fare la faccia addolorata. Sono qui perché Gibbs mi ci
ha
obbligato, ricordalo, non sono tenuta a fare anche conversazione.
»
Al
di là della frustrazione e della rabbia, non so dire quanto
quelle
parole mi costarono. Una parte di me odiava anche solo l'idea di
potergli parlare in quel modo, ma non mi era stato possibile
evitarlo: ero esasperata, avevo voglia di piangere e gridare, e mi
mancava la persona che fino ad allora era stata disposta a capirlo.
Era
troppo tardi per procedere con le autopsie. Ci limitammo a preparare
i cadaveri e gli strumenti per l'indomani – per quanto mi
riguarda,
lo feci con la segreta preghiera che Palmer rientrasse al lavoro.
«
Bene, le otto; direi che possiamo interrompere. Andiamo a casa?
»
tentò Donald. Istintivamente mi mordetti un angolo della
bocca.
«
No, » dissi sottovoce. Il dottor Mallard mi guardò
attonito.
«
Cosa vuol dire, “no”? » chiese,
dolcemente. Non riuscii a
restituirgli lo sguardo.
«
Non vengo a casa, Donald. Vado da Gibbs. Abby è andata a
recuperare
le mie cose. »
Lo
vidi cambiare espressione, giungere sul punto di dire qualcosa e poi
rinunciare. Scosse la testa. Se ne andò.
«
Se continui così non mi resterà più
niente da fare... »
«
Però hai ragione, Jethro; è rilassante »
«
Già. Bourbon? Ma ti avverto che l'offerta non implica
necessariamente la presenza di un bicchiere. »
Posai
la carta vetrata e mi diressi al banco degli attrezzi; svuotai un
contenitore di viti, ci soffiai dentro e lo tesi a Gibbs. «
So
arrangiarmi, come si dice. » La compagnia di Gibbs era
indubbiamente
quanto di più adatto riuscissi a pensare in una situazione
stupidamente complicata come quella in cui mi trovavo. Non mi aveva
chiesto nulla, anche se sospettavo che avesse sentito qualcosa mentre
lo raccontavo a Abby in laboratorio; si comportava come se fosse del
tutto normale che di punto in bianco io avessi lasciato la casa di
Ducky e mi fossi spostata da lui, come se avesse perfettamente senso
la furia con cui mi accanivo a levigare lo scheletro della barca. Era
piacevole, quel passarsi accanto e capirsi con uno sguardo o un mezzo
sorriso – non avevo sbagliato, dicendo a Ducky che Gibbs
somigliava
a mio padre.
«
Vado a dormire. Dovresti farlo anche tu, Chris. »
«
Ci proverò... »
Ci
provai.
Il
risultato non fu, però, quello che tanto io quanto Gibbs
avevamo
sperato. Sin da bambina sono stata facile ad avere incubi,
probabilmente perché la mia mente tende a sotterrare
ciò che la
turba oltre una certa misura e a riproporla quando non ho abbastanza
controllo di me per impedirglielo. Cosa sognai quella notte?
Sinceramente non ricordo. Ma ricordo la sensazione, il dolore, il
panico, il soffocamento, il camminare e camminare nel buio
più
fitto... E la voce di Gibbs, le sue mani che mi scuotevano.
«
Va tutto bene, Chris, svegliati. È solo un sogno. Apri gli
occhi. »
«
Cos'è successo? » nel domandarglielo mi resi conto
di avere il
fiato corto.
«
Dovresti dirmelo tu. Gridavi. »
Mi
passai le mani sul viso, strofinai gli occhi, mi trassi a sedere
contro i cuscini.
«
Incubi. A volte mi succede. »
Leroy
Jethro Gibbs, incurante del fatto di essere il mio superiore,
annuì
e si sedette sul bordo del letto. Pensai a Kelly, la sua bambina, a
come in realtà la vita mia e del mio mentore fossero
complementari –
a lui avevano ucciso una figlia, a me il padre... E in quel momento
lui fece esattamente questo. Quello che avrebbe fatto un padre.
«
Vuoi che rimanga qui? »
Non
mi riuscì nient'altro che un cenno con la testa. Gibbs
appoggiò la
schiena alla testiera del letto e mi abbracciò –
mi riaddormentai,
e non sognai più.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Carson ***
«
Rimarrai qui con Ducky, » fu l'ordine cui per la seconda
volta fui
costretta ad obbedire: non solo Palmer era ancora malato, ma era
chiaro dalla freddezza negli occhi azzurri di Gibbs che non avrebbe
accettato discussioni. Serrai la mascella.
«
Sì, capo. »
Lui
si avvicinò a me mentre aspettavo che l'ascensore arrivasse
e si
chinò quel tanto che bastò per sussurrarmi, in
modo che nessun
altro sentisse: « E cerca di comunicare in maniera civile,
per
favore. »
«
Gibbs... » La mia tenue protesta con tanto di occhi alzati al
cielo
mi procurò un veloce bacio sulla tempia e una mano a
scompigliarmi
affettuosamente i capelli.
«
Fa' la brava. »
«
Buongiorno. »
«
Buongiorno. »
Fu
subito piuttosto evidente che non era mattinata di convenevoli, in
sala autopsie. Donald non sembrava di buon umore e non posso dire che
non lo capissi... Ma non riuscivo a dimenticare la nostra
discussione, quanto bruciava ancora; e a proposito di bruciare, la
scottatura alla mano di quella sera risentiva in maniera tutt'altro
che piacevole dell'indefesso lavoro di falegnameria messo in opera
sulla barca di Gibbs. Risultato? Quattro ore di autopsia senza
scambiare una parola che non fosse strettamente attinente al lavoro
che stavamo facendo. Nemmeno una divagazione, nemmeno una delle
storielle di Ducky: domanda di strumenti, pesate di organi, prelievo
di campioni...e nient'altro.
«
Porto questi da Abby, » dissi verso l'ora di pranzo. Ne
ricavai un
basso grugnito di approvazione.
Abby
non era in laboratorio – e un foglio attaccato allo
spettrometro
avvertiva che sarebbe tornata nel giro di una decina di minuti. So
che avrei dovuto aspettarla, non fosse altro per farle firmare i
moduli relativi ai campioni che le stavo lasciando. Ma uno dei
monitor si era messo improvvisamente a lampeggiare.
Mi
avvicinai per dare un'occhiata, più per la
curiosità che potesse
trattarsi del “mio” caso che per altro; e rimasi
immobile per la
sorpresa. Il cellulare di Moriarty si era acceso. Stava trasmettendo
la posizione. Non potevo crederci.
Sfilai
in fretta e furia il camice e gli indumenti verdi che proteggevano i
miei vestiti e li ammucchiai su uno sgabello, digitai rapidamente i
comandi sulla tastiera per inviare i dati riguardo la posizione di
Moriarty al mio palmare e corsi al piano superiore a recuperare la
mia pistola.
Quindi,
dopo aver lasciato un post-it informativo per ogni scrivania
–
Gibbs, Tony, Timothy, Ziva – uscii di gran carriera, decisa a
mettere fine a quella storia una volta per tutte.
«
E così ci rivediamo, Carson » mi limitai a dire,
le dita strette
sulla pistola. Lui mi rivolse un sorriso orribile, di puro scherno, e
dovetti farmi una discreta violenza per non piantargli un proiettile
in corpo e porre fine una volta per tutte a quell'incubo; ma in quel
modo avrei messo nei guai Gibbs, ergo
la cosa era fuori discussione. Dovevo aspettare i rinforzi. Limitarmi
a non farlo scappare, e aspettare i rinforzi.
«
Agente Fellman.
Quale onore... Posso sapere come sei arrivata qui? »
«
Dovresti scegliere
con maggior cura i tuoi collaboratori. Il tuo cagnolino ha lasciato
tracce dappertutto... Praticamente una scia di luci al neon che
portava fin qui ». Lui allargò le braccia.
«
Questo passava il
convento, purtroppo. Ma se era così palese,
perché sei venuta da
sola? »
«
Perché sono più
veloce », tagliai corto. « E perché a
quanto ricordo noi abbiamo
una partita in sospeso ». Carson rise, giocherellando con il
coltello dal quale non potevo staccare gli occhi. Quanto l'avevo
cercato, negli ultimi due anni... Se fossi riuscita a metterci le
mani, avrei risolto il mio problema maggiore.
«
E come credi che
finirà, agente Fellman? Lascia che te lo dica io...
Esattamente come
l'altra volta. Non ho neppure speso molto, sai? Incredibile cosa
riescano a fare un po' di quei biglietti verdi: un attimo prima tutti
sanno che sei colpevole, e subito dopo non lo sanno più...
»
Inspirai.
«
Quindi avevo ragione io: hai ammazzato tu quelle persone. E le hai
numerate come... »
«
Niente moralismi,
Fellman, per piacere. Comunque, sì, io: chi altro potrebbe
disporre,
secondo te, di un'attrezzatura per tatuaggi del genere? Su, su...
Dovresti avere più fiducia nelle tue opinioni...
». Sul grilletto,
il mio indice fremeva. Perché mi stava dicendo quelle cose?
Per
quale motivo confessare, e con tanta spudoratezza?
«
Resta il fatto che
questa volta i tuoi soldi non ti salveranno. Cambiare Stato, e
rendere i tuoi crimini materia federale, è stata una pessima
idea.
Lascia che te lo dica. »
Mi
rendo conto a
posteriori della rapida occhiata che lanciò alle mie spalle
e che,
sul momento, sottovalutai. Pensavo che stesse cercando una via di
fuga, e dal momento che ero sicura che fosse solo non diedi peso alla
cosa.
«
Sai cosa ti dico,
invece, Fellman? Io ora me ne andrò, e tu mi lascerai andare
senza
nemmeno una parola »
«
Io non credo proprio
», replicai, puntando la pistola esattamente sulla sua testa.
«
Io invece credo di
sì ».
Non
dimenticherò mai il suono, prima ancora del dolore, del
coltello che
entrava nella mia carne poco sopra la clavicola sinistra. Ebbi il
tempo di pensare che il suo complice mi aveva aggredita alle spalle e
di puntare all'indietro la mia mano armata: non so come, riuscii a
sparare, alla cieca, senza sapere se o come l'avessi colpito. Poi mi
investì la sensazione del mio sangue. Lo sentii scorrere
sulla
pelle, troppo veloce, troppo abbondante, e mi dissi che tutto era
giunto alla fine.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Bethesda ***
« Per quanto ancora resterà così, dottore? » C'era la squadra al completo, riunita nel corridoio dell'ospedale militare di Bethesda. Leroy Jethro Gibbs guardava l'uomo cui si era appena rivolto: i suoi occhi azzurri e penetranti erano velati di una rabbia a stento trattenuta, e la sua mente solo a fatica si sforzava di restare quieta per il bene della ragazza che giaceva oltre il vetro, nella stanza illuminata a giorno dalla luce fredda dei neon.
« Non so ancora dirvelo, agente speciale Gibbs. La ferita era molto grave, come avete potuto intuire voi stessi; abbiamo cercato di ricucire il più possibile, ma ha perso così tanto sangue che chissà se le trasfusioni basteranno... Tutto dipenderà dalle prossime 24 ore, temo. Con permesso. » Il medico si allontanò.
« Forse dovremmo avvertire il comandante Fellman, capo... »
« No, pivello. L'unica cosa che dobbiamo fare è trovare Carson. E trovarlo subito »
« Credi che si cercherà un altro apprendista, ora che Chris ha fatto fuori Moriarty? » La domanda di Ziva attirò su di lei più di uno sguardo sorpreso: l'aveva davvero chiamata Chris? Da quando quella novità?
« Che ne abbia intenzione o meno, non è importante. Non gliene daremo il tempo. » Lo sguardo dell'uomo lampeggiava di rabbia. « Andiamo. »
Il tempo di pochi passi e Leroy Jethro Gibbs si voltò di scatto verso il patologo, che seguiva il resto del gruppo da poco distante; vide l'afflizione dell'amico, l'ansia per la sorte di quella “ragazzina” che avevano aiutato a diventare l'ottima agente che era, e vide quanto stesse lottando tra il primato assoluto che di norma assegnava al lavoro e il pensiero delle condizioni cliniche di Christine. Lasciò che i suoi agenti lo oltrepassassero guadagnando l'ascensore e tornò indietro, a raggiungere Ducky.
« Com'è morto Moriarty lo sappiamo, Ducky; non credo che l'autopsia sia tanto urgente. » Alzò le spalle, accennando con la testa alla direzione da cui venivano. « Rimani con lei. »
Lo sguardo dello scozzese era umido e pieno di riconoscenza dietro gli occhiali; Gibbs gli posò una mano sulla spalla senza dire una parola.
« Forse Timothy ha ragione, Jethro. Forse dovremmo... »
« No, Ducky. Chris non ha nessun bisogno di suo zio... Lei ha bisogno di te. »
Gibbs attese di vedere spuntare sul viso dell'amico l'espressione convinta che sapeva di avere appena incoraggiato in quell'uomo dai modi eleganti e cavallereschi di almeno un secolo prima; quindi, soddisfatto, raggiunse il resto della squadra.
A differenza che all'esterno, dove il gelo - quel gelo che aveva impedito che Christine morisse dissanguata, rallentandone la circolazione - infuriava ormai da giorni, la temperatura nell'ospedale era così elevata da rendere impossibile qualsiasi proposito di tenere addosso una giacca; ma trattandosi, poi, del giubbotto termico dell'NCIS, studiato per resistere alle temperature più rigide, non dovette passare molto prima che Donald Mallard lo abbandonasse sullo schienale di una sedia del corridoio.
Non riusciva a stare calmo, né tanto meno fermo. Oltre quel dannato vetro Christine, la loro Christine, appariva immobile e pallidissima, incosciente, e chissà se si sarebbe svegliata... Tolse gli occhiali e si passò energicamente le mani sul volto: era un medico, non poteva fingere di ignorare la gravità della situazione e le conseguenze cui simili condizioni in genere portano; ma al di là del suo essere medico, il suo essere uomo non riusciva a trovare neppure lontanamente accettabile quel pensiero.
« Se vuole entrare, dottore, non ha che da chiedere... » Ducky si scosse e rimise gli occhiali prima di rivolgere la propria attenzione al medico di poco prima. J. Fontès, diceva il cartellino.
« Posso? »
« Sì, nonostante la gravità delle sue condizioni è stabile... Inoltre credo le farebbe bene, sentire una voce amica. » Donald Mallard annuì e recuperò la giacca dalla sedia. Quanto tempo aveva passato a parlare con Gibbs, aspettando che lui si svegliasse dal coma? Era pronto a parlare per mesi, se questo avesse potuto aiutare Christine.
Fuori aveva ripreso a nevicare: il cielo bianco di nubi, le strade congestionate, l'apparente innocenza della città...E il silenzio, l'irreale silenzio, che sembrava penetrato anche nella stanza. Là fuori, da qualche parte, Albert Carson forse cercava una nuova vittima per festeggiare la sua vittoria. Là fuori, da qualche parte, Gibbs e la squadra gli davano la caccia e non si sarebbero fermati finché non l'avessero avuto stretto tra le mani.
Ma questo non cambiava le cose: Christine forse non si sarebbe ripresa, forse non avrebbe superato quelle ore fatali; forse erano gli ultimi momenti che passava con lei, eppure Donald Mallard non riusciva neppure a guardarla.
Ma doveva farsi forza. Per quanto i suoi errori con lei lo rendessero difficile.
Si avvicinò.
Probabilmente per l'assoluta urgenza dell'intervento, e in seguito perché non doveva essere sembrato di particolare necessità, nessuno a quanto pareva aveva sentito il bisogno di toglierle dal viso e da ciò che del collo restava fuori dalla fasciatura gli schizzi di sangue suo e dell'uomo che aveva cercato di ucciderla. La vista di quel sangue, così acceso in contrasto con il suo pallore innaturale, era insopportabile: il medico legale dell'NCIS scosse la testa a sottolineare la propria muta disapprovazione, recuperò una bacinella di metallo dal carrello e la riempì di acqua tiepida. Poi con gesti misurati e colmi di delicatezza iniziò a pulirle il viso, inumidendo di tanto in tanto la garza.
Ma non sapeva cosa dire. Analizzava in lungo e in largo la propria memoria alla ricerca di un argomento eppure, forse per la prima volta in tanti anni, nonostante i nobili propositi coi quali era entrato sentiva che se avesse aperto bocca non sarebbe stato in grado di dominare il tremore della sua voce.
« So di avertene già parlato, ma forse trovandomi noioso ti deciderai a rimproverarmi, » si arrese infine, colto da un lampo d'ispirazione. Le aveva già raccontato quella storia, tanto tempo prima; ma ora sarebbe stata diversa, in un certo senso più... La guardò, chiedendo al proprio cuore che cosa provava. Sì. Questa volta la storia sarebbe stata più vera. « Nella compagnia dei cadetti di Guascogna c'era un abilissimo spadaccino, la cui furia era temuta da tutti; si dà il caso che fosse anche un ottimo poeta, e che si chiamasse... », finse una pausa, come se lei avesse potuto rispondergli. Lo faceva coi cadaveri, no?, e invece Christine era viva... « D'accordo, lo dirò io. Cirano. Questo sublime poeta era innamorato di Rossana - una ragazza molto bella, sai, come te... Per quanto tu sia assai meno frivola -, ma senza speranza. Perché lui aveva un difetto fisico, che gli rendeva impossibile farsi avanti con lei... » Si domandò per una frazione di secondo se anche l'età potesse considerarsi un difetto fisico, ma subito la sua mente tornò alla versione originale del racconto.
Il dottor Mallard parlava e parlava, nel suo tono più affettuoso, e intanto le tergeva la pelle bianca dalle tracce di quell'orribile esperienza. Le pettinò i capelli, anche, lasciando che l'affetto che provava per lei fluisse liberamente nei propri gesti insieme allo snodarsi del racconto; le macchine che ne monitoravano le condizioni facevano sentire la propria presenza con impulsi sonori e luminosi che tuttavia non mostravano segni di miglioramento.
« Non lasciarmi, Christine » si trovò a dire, incredulo nell'udire quelle parole uscire dalla propria bocca ma in pace con se stesso. « Non ti chiedo semplicemente di non lasciare i tuoi amici; non lasciare me... »
Le accarezzò la fronte col dorso della mano, quindi si chinò a posarle un bacio sulle labbra. Si sentiva vecchio, e stupido, e fuori tempo massimo per quel genere di cose... Ma la consapevolezza che superava tutti quei pensieri, era che non poteva permettersi di perderla.
« Cosa importa se per la mia età ho un'aspettativa di vita più lunga della tua? Tu sei un medico e io un agente operativo, quindi corro molti più rischi di te di vederla ridurre drasticamente! » Il ricordo di quelle parole era insopportabile: quando Christine le aveva pronunciate, con la sua logica ferrea, lui quasi ne aveva riso... Certo, l'aveva fatto per dissuaderla da quella follia, per impedirle di accarezzare sogni che potevano solo farle del male... Ma ora si sentiva un mostro. Il ragionamento di Christine - quel ragionamento ineccepibile, che lui tuttavia aveva preso alla leggera - aveva preso corpo, solo che lui, invece di concederle quella felicità che lei aveva domandato e che entrambi desideravano, le aveva soltanto procurato il dolore di quel lento allontanarsi.
Pur conscio di stare cadendo nella retorica, Donald Mallard dovette confessare che, come il più mediocre degli uomini, si era reso conto pienamente di ciò che provava per lei solo di fronte al rischio di perderla. Si prese la testa tra le mani: Dio, sembrava il copione di una soap-opera!
Provvidenziale ad interrompere il filo di quei pensieri, il telefono prese a suonare. Salvato dalle cornamuse...
« Come sta? » La voce di Abby Sciuto era nervosa, spaventata: probabilmente, si disse il dottore, l'avevano appena avvertita... Tipico di Gibbs, non volerle dare certe notizie per telefono. Rivolse un'occhiata abbattuta a Christine, quindi alle apparecchiature che ne monitoravano i segni vitali.
« Stabilmente grave, temo. »
La scienziata non rispose; se non fosse stato per il suo respiro agitato, e per l'inconfondibile e ripetuto suono di chi apre la bocca per dire qualcosa ma subito la richiude, si sarebbe potuto pensare che avesse riattaccato.
« Devi impedirle di morire, Ducky. » Gli sembrò quasi di poterla vedere: il telefono stretto convulsamente tra le dita, gli occhi spalancati e lucidi di lacrime, i passi lunghi attraverso il laboratorio.
« Abigail... »
« No; parliamo della mia migliore amica. Devi farla tornare. » L'uomo sospirò. Avrebbe dato la vita, perché questo rientrasse tra le proprie facoltà.
« Abigail... » Silenzio. Abby stava cercando il modo meno traumatico per dirgli che lei sapeva, e che era certa che il modo di svegliare Christine Fellman esisteva.
« Dille quello che provi. Quello che provi veramente. » Donald Mallard, stupito dalla sicurezza con cui Abby aveva parlato di qualcosa che lui credeva nemmeno sospettasse, avrebbe voluto ricordarle che raramente una situazione come quella si risolveva come in una fiaba, e che se pure avesse potuto accadere lui certo non era il principe adatto a salvare quella fanciulla in pericolo, ma lei lo prevenne. « Dalle un motivo, Ducky. Smettila con gli scrupoli e dalle un motivo per tornare da noi. »
L'uomo richiuse il telefono e si avvicinò alla finestra. Guardava la neve scendere piano, incurante di ciò che accadeva tutto intorno, e coprire ogni sporcizia della grande città. Si voltò verso lo schermo dell'ECG, a cercare nel tracciato del battito di Christine un qualsiasi segnale incoraggiante; ma il battito del suo cuore continuava ad essere debole, come tutti i segni vitali, e dalle flebo scendevano goccia a goccia rimedi che sembravano inutili. Si appoggiò al davanzale interno, senza staccare gli occhi dalla ragazza, strinse le dita sul bordo della superficie e si concesse un sospiro; poi socchiuse le labbra e lasciò che le parole uscissero da sole.
« Abby crede che basterà dirti che ti amo, per farti aprire gli occhi... »
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** Un sorriso ***
Mi scuso per la MOSTRUOSA brevità del capitolo...Ma - come si vedrà a breve dal prossimo - non avrebbe avuto molto senso "cucire" insieme le due parti... Buona (breve) lettura! :)
Nonostante il proposito di ignorare la stanchezza, alla fine due notti insonni e lo stress di quei giorni avevano avuto la meglio e Donald Mallard, stoicamente seduto accanto al letto di Christine, poco prima delle cinque del pomeriggio era scivolato in un sonno tanto leggero quanto agitato.
Il suo cervello, come fosse incantato, gli riproponeva continuamente il momento in cui lui e Jethro erano scesi dal furgone, guardandosi intorno col presentimento che qualcosa non andava, e il maledetto istante in cui l'avevano vista a terra, riversa nella neve zuppa di sangue, e ancora artigliato a lei Moriarty, il cranio devastato dallo sparo.
Rivedeva, come se ogni volta la scena si riavvolgesse, il dolore dell'amico, la sua rabbia mentre gli gridava di prendere la borsa medica, e ancora rivedeva Christine, ancora e ancora, livida per il freddo e la perdita di sangue, e gli schizzi rossi che le imbrattavano il viso il collo la testa i vestiti.
Riviveva la presa di coscienza della gravità della situazione, il ruggito di Gibbs che dava ordini, la sua voce tesa nel chiamare l'ambulanza, e le proprie mani che tremavano come quelle di un medico alle prime armi nel premere sulla ferita per arrestare l'emorragia... Ricordò di avere pensato che non se ne sarebbe mai andato, il sangue di Christine, dalle sue mani, che lo avrebbe rivisto fino ad impazzire come Lady Macbeth, e che...
Si svegliò di colpo: doveva essere arrivato qualcuno.
Il patologo si guardò intorno e non vide anima viva; eppure gli era parso di sentire qualcosa, come un mormorio, ed era abbastanza certo di non averlo sognato... La stanza però era vuota, come quando aveva chiuso gli occhi; si aggiustò gli occhiali e guardò l'ora: erano le sette, ormai, fuori la luce era ormai definitivamente scemata nel buio e la neve aveva ricominciato a scendere.
« Ducky. » Il dottor Mallard trasalì: possibile? « Ducky, » mormorò di nuovo la voce, affaticata e rotta. Il patologo si protese in fretta verso Christine: aveva socchiuso gli occhi, e lui dubitava che potesse averlo visto, ma si stava svegliando e aveva chiamato il suo nome.
« Sono qui. » Le prese la mano destra tra le proprie e ne baciò il palmo; e gli parve che all'udire la sua voce lei avesse sorriso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Ho davvero rischiato di morire? ***
Mi sentivo stanca, la testa pesante e i movimenti impediti. Faticavo ad aprire gli occhi del tutto. Poi però l'avevo sentita. La voce di Ducky che mi parlava, le sue mani che stringevano la mia: non capivo dove fossi né cosa stesse succedendo, ma qualcosa in me si sentiva felice. Feci per sollevarmi sui gomiti.
« No, non fare sforzi, rischi di strappare i punti... » Mi accarezzò la fronte. « Vuoi dell'acqua? »
Annuii.
Dovetti ingoiare lentamente, a dispetto della sete, perché le pareti secche della mia gola si reidratassero nei tempi giusti. In caso contrario, avevo imparato durante gli anni in cui ero stata una bambina estremamente predisposta ad altissimi picchi di febbre, con buone probabilità l'acqua mi avrebbe quasi soffocata in un accesso di tosse. Una delle mani di Donald mi reggeva dietro la nuca, mentre l'altra mi somministrava poco alla volta brevi sorsi dal bicchiere di plastica. La sensazione dell'acqua che scivolava piano attraverso la mia bocca asciutta mi fece sentire molto meglio.
« Cos'è successo? » Donald Mallard abbassò istintivamente le palpebre.
« Moriarty ti ha aggredita alle spalle. Se non avessi reagito come hai fatto, probabilmente sarebbe arrivato all'aorta... Ma hai perso comunque molto sangue, quindi devi riposarti, » aggiunse, con un certo tono di rimprovero. La mia mente iniziava a rimettersi in moto, pur lentamente, e ritrovai qualche brandello di ciò di cui Ducky stava parlando. Sulle prime non ero riuscita a ricordare come la mia strada avesse incontrato quella di Moriarty...e neppure, per la verità, chi fosse Moriarty.
« L'avete preso? »
« L'hai ucciso »
« E Carson? » Di nuovo quella carezza sulla fronte, di nuovo quello sguardo dolce.
« Dovresti riposare, tesoro mio. Vado a chiamare il dottor Fontès. »
Lasciò la stanza e io, troppo intorpidita e debole, non potei impedirglielo; ma man mano che il mio cervello si snebbiava, e recuperavo lucidità, si faceva sempre più chiaro il perché non avessi avuto risposta. Sbattei la mano destra sul letto, rabbiosa ed esasperata, e un bip alla mia sinistra si intensificò.
« Non deve agitarsi, Christine. » Un uomo in camice bianco era entrato nella mia stanza, e seppi ancor prima di leggere il suo cartellino, per il fatto che Ducky l'accompagnava, che doveva essere il dottor Fontès. « Come si sente? »
« Debole. Stordita. Di cattivo umore ed esasperata. Devo andare avanti? »
« Solo se le va di farlo. »
« Allora basta così. » Mi tastò il polso, consultò monitor e fogli, il tutto senza più dire una parola. Non ero stata molto accomodante, con l'uomo che - mi avrebbero poi detto - mi aveva salvato la vita.
« Credo che la nostra...paziente...possa considerarsi fuori pericolo, dottore. Se metterà tutta quest'energia nella guarigione, può fare passi da gigante a tempo di record... »
Non dimenticherò mai l'espressione di Ducky in quel momento; non gli avevo mai visto - e solo raramente ho potuto rivederlo - un sorriso di pura felicità come quello che gli illuminava il volto quando strinse la mano al dottor Fontès. Da quel comportamento, ancor prima che dalle parole che il chirurgo aveva appena usato, compresi che - davvero - le mie condizioni dovevano essere state gravi.
« Carson è scappato, vero? » tornai alla carica non appena Fontès se ne fu andato. Donald sospirò.
« Jethro lo prenderà. »
Mi voltai dall'altra parte. « È tutta colpa mia »
« Non è vero, Christine, non potevi... »
« Sarà colpa mia, eccome, se ucciderà un'altra volta. Dovevo sparargli, Ducky; lo avevo sotto tiro, ho avuto mille occasioni e non l'ho fatto... »
In silenzio perfetto il dottor Mallard mi aggiustò il risvolto del lenzuolo e della coperta perché non sentissi freddo.
« L'unica cosa che conta è che tu sia viva », mormorò, baciandomi la fronte. « Sarà il caso che io avverta gli altri... Altrimenti Abby mi ucciderà, e sappiamo entrambi che non lascerebbe tracce! »
Lo guardai uscire e chiusi gli occhi, prendendomi il tempo di riflettere sull'accaduto. Avevo rischiato di morire. Concretamente. Adesso ricordavo... Il freddo. Il sorriso beffardo di Carson. L'assalto inaspettato di Moriarty, la lama che penetrava nella mia carne. Il dolore, lo sparo, il buio.
E adesso Ducky, la sua presenza accanto al mio letto, la sua dolcezza e le sue parole affettuose come carezze. Avevo la sensazione che qualcosa fosse cambiato, tra di noi, ma non avrei saputo dire cosa... E tuttavia la sensazione mi piaceva. Mi sentivo coccolata, in un certo senso amata, forse per la prima volta in vita mia, ed ero decisa a godermelo.
Finché la mia gamba sinistra non iniziò a prudere, e io d'istinto tentai di grattarmi. La semplicità di quel gesto, unita all'improvvisa consapevolezza di non essere in grado di portarlo a termine, mi gettò nel panico; certo capivo che il braccio doveva essere stato immobilizzato contro il torace, aveva senso, ma nel realizzare che le dita non rispondevano alla mia volontà mi prese il panico. Scoppiai in lacrime, terrorizzata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Rule 12: un'altra possibilità ***
Chiedo umilmente perdono... Sia per l'attesa (non riesco mai a rispettare i tempi che mi prefiggo, e mi dispiace tantissimo!!!) che per l'oggettiva, temo, melensaggine del capitolo... Che tuttavia spero possa piacervi! :P siate clementi...!
« Abby dice che sarà qui non appena... Christine! Cos'è successo? »
Cercai di riprendere fiato, ma era difficile: più tentavo di calmarmi, di ritrovare la concentrazione necessaria a dominare il panico, più il pensiero di quanto appena accaduto mi sembrava insopportabile... E guardavo Ducky, che guardava me senza capire.
« Non riesco... » Mi mancò il respiro. Svelto, Donald mi avvicinò la mascherina dell'ossigeno. Bastarono pochi secondi, e fui di nuovo me stessa. « Il braccio! Non riesco a muovere la mano, e nemmeno le dita... » Per assurdo, trovavo che la parte peggiore di quell'incubo fosse che in simili condizioni non avrei più potuto ritornare al lavoro. Non in Agenzia, ma neppure a New York... Lui invece sembrò sollevato.
« Anestetici locali e fasciatura stretta... O preferiresti che un movimento sbagliato potesse strappare le suture vascolari? Tornerà tutto come prima, vedrai; ci vorrà solo un po' di tempo »
« Potrò tornare a lavorare, allora? » Trovai sul suo viso un'espressione strana, in un certo senso divertita.
« Potrai tornare a lavorare, sì... Anche se questo mi costringe a porti due domande »
« Due domande? Sentiamo! » Pensai che, cosa che del resto non mi avrebbe stupito, stesse semplicemente cercando un modo per distrarre la mia attenzione e allontanare lo stress, ma rimasi sorpresa.
« Dove rientrerai? »
« Speravo potesse rimanere un segreto ancora per un po'... »
« Non svicolare »
« Non voglio tornare a New York, se è questo che vuoi sapere. Ho presentato domanda di assunzione all'NCIS, quindi non mi resta che sperare che mio zio firmi il mio congedo e Jen la accetti... » Donald Mallard rise, a dispetto della stanchezza che - forse avrei dovuto rendermene conto prima - certo provava e vedevo sul suo volto.
« Bene. Ora però questo ci porta necessariamente alla seconda domanda. Una volta che Jen avrà ratificato la tua assunzione... »
« Sì? »
« Mi chiedevo, ecco... Come dovrei comportarmi, secondo te, nei confronti della Regola Numero Dodici? »
Lo ammetto. Sulle prime ho creduto, nell'ordine, che la stanchezza avesse avuto la meglio su di lui, che mi stesse prendendo in giro, e infine che gli antidolorifici avessero compromesso la mia capacità di comprensione. La Regola Numero Dodici. Mai uscire con un collega. Mi mancava di nuovo il respiro, ma decisamente per altri motivi.
« Ti prego, Donald, non scherzare. Rischio troppo facilmente di fraintendere »
« Non è detto che tu fraintenda... »
Rimasi in silenzio per non so quanto tempo. Era come se il mio cervello fosse sopraffatto, come se non riuscisse a produrre neppure un pensiero sensato, come se, al pari del mio braccio sinistro, la mia mente fosse momentaneamente fuori uso. Mi morsi un labbro, sentendo salire le lacrime.
« Ho proprio rischiato di morire, allora. »
« Sì »
« Oddio. »
Il viso di Ducky, la commozione nei suoi occhi... Lui, che con la morte aveva a che fare ogni giorno. Si sedette sul bordo del mio letto; prese la mia mano destra fra le sue, l'accarezzò piano.
« Ma non è successo. Il cielo mi ha ascoltato, mi ha dato un'altra possibilità anche se non la meritavo. »
« Un'altra possibilità di fare cosa, Donald? »
Il suo volto segnato dalla stanchezza si avvicinò al mio. Sfiorò le mie labbra per un istante, come la carezza di un fiore, e quando si allontanò vidi che aveva gli occhi lucidi. Guardava altrove, come se fosse imbarazzato.
« Di dirti che ti amo. »
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Un elemento come si deve ***
Potrà sembrare sciocco dirlo, ma il pensiero di quello che Donald mi aveva confessato mi dava la forza di impegnarmi a guarire. Volevo ristabilirmi, lo desideravo più di ogni altra cosa – uscire dall'ospedale, tornare in servizio, prendere Carson e distruggerlo una volta per tutte... Per quanto ambiziosi, e decisamente non a breve scadenza, tutti quei traguardi erano ciò che mi teneva in piedi.
Rimasi a Bethesda due intere settimane, nelle quali Carson non colpì, a maggior dimostrazione che nella sua mente il gioco continuava ad essere tra lui e me e quindi, essendo io fuori combattimento, uccidere non aveva senso; le mie giornate erano invariabilmente scandite, una dopo l'altra, dal ritmo delle trasfusioni e delle visite degli amici. Il mio braccio era ancora molto bisognoso di riposo e fisioterapia, certo, ma iniziava a farsi risentire e in un certo modo curioso potevo considerarmi felice.
« Si può sapere perché non sono stato avvertito? » La voce tonante di Aengus Fellman aveva riempito la stanza fino al soffitto e ringraziai il cielo che non ci fosse Gibbs, altrimenti sarebbero finiti con tutta probabilità a fare a cornate.
« Per favore, Comandante. È un ospedale. »
Gli feci un torto, a chiamarlo “Comandante”, ne ero consapevole. Mio zio mi ha sempre amata moltissimo, mi ha letteralmente cresciuta e ha fatto di me la persona, ancor prima dell'investigatrice, che sono – ma ce l'avevo con lui, e mi preoccupai solo di colpire. Aengus Fellman, a dir poco perfetto nel suo doppiopetto blu che nonostante il viaggio sembrava appena uscito dalla sartoria, incassò senza battere ciglio.
« Sto ancora aspettando una risposta, » ripeté inquisitorio, spostando gli occhi da me a Donald e da Donald a Abby. Feci cenno ad entrambi di lasciar perdere. Erano lì per aiutarmi a fare i bagagli perché contavo di essere dimessa entro la giornata, non per dover sopportare i malumori del grande ma al tempo stesso insopportabile uomo che mi ha fatto da padre.
« Sono stata io ad insistere. Farti venire fin qui mi sembrava superfluo. »
« E per quale motivo avrebbe dovuto essere superfluo che io venissi a Washington a trovare mia nipote dopo un'aggressione? »
« Perché continuo ad essere in collera con te, zio. Quindi non avevo voglia di vederti. E quindi mi è sembrato superfluo farti avvertire. » Il fratello di mio padre corrugò la fronte in maniera impercettibile, fissando qualcosa oltre la finestra.
« Lasciateci soli, » disse soltanto, gelido, e gli occhi di Abby saettarono su di me in cerca di conferma.
« Chris...? »
« Non c'è problema. Non è l'orco che tanto gli piace interpretare. »
La mia amica mi abbracciò, Donald mi baciò piano sulla tempia, poi lasciarono la stanza.
« Così in collera da non volere che venissi a sapere che sei quasi morta per quella ferita? » In realtà, non sembrava davvero una domanda. C'era una grande amarezza, nella sua voce, una mortificazione di cui se non l'avessi sentito con le mie orecchie non l'avrei forse creduto capace.
« Ho paura di sì. »
Lo vidi annuire, immobile, il mento proteso e lo sguardo altrove – rigido come un militare, più che come un poliziotto. Rimase in silenzio e io mi trovai a ripensare a quanto l'avevo adorato, letteralmente, per tutta la mia vita: aveva dedicato l'esistenza a due sole cose, la polizia e me, e per questo l'avevo ammirato con tutta l'anima come si fa per un eroe. Sì, lo zio Aengus era stato il mio eroe, mi aveva resa grande in quello per cui la mia famiglia aveva vissuto per quasi un secolo. Mi aveva fatto da padre, e qualche volta perfino da madre. Finché Carson non aveva rovinato ogni cosa.
« Non potevo fare diversamente, Chris. »
« Potevi credermi! » rimbeccai. « Invece mi hai lasciata sola, hai permesso che la stampa mi distruggesse e i colleghi mi deridessero ad ogni occasione buona. Non hai mosso un dito per impedirlo, anzi, hai anche rincarato la dose! » Presi fiato perché sentivo che se non l'avessi fatto la voce mi avrebbe tradito. « Quando avevo bisogno di sostegno tu mi hai lasciata affondare. »
« Nella mia posizione avrei rischiato di fare più danni che altro, se... »
« Più danni di questi? » recriminai, indicando con la mano buona il tutore grigio e nero che manteneva rigido, immobile e attaccato al corpo il braccio ferito. « Avresti potuto convincere il Procuratore ad appoggiarmi, lo sai benissimo, sarebbe bastata una sola parola da parte tua. Lasciare che i tuoi uomini mi mettessero in dubbio, invece, lascia che te lo dica, non è stata una grande idea. »
« Non puoi accusarmi di questo! »
« No? Sicuro? Hai davvero il coraggio di dirmi che non è vero che hai rinunciato a darmi ascolto per paura che ti accusassero di favoritismo? »
« Sei ingiusta. »
« Sai che non è così. »
Aengus Fellman portò una mano alla fronte e premette con forza sugli occhi – di colpo mi sembrò stanco. « Hai una vaga idea di cos'ho provato quando ho saputo cosa ti era successo? »
« Zio. »
« No. Lasciami finire. Ce l'hai, un'idea? Sai quante volte mi sono ripetuto che avresti potuto morire e sarebbe stata colpa mia? Tuo padre ti ha affidata a me e per poco non... So che hai ucciso l'uomo che ti ha ferita. » Rimasta senza parole di fronte ad una simile ammissione da parte sua, a quel punto dovetti parlare.
« Moriarty. Sì. »
« Be', finalmente anche i federali avranno un elemento come si deve, » buttò lì, e io, nemmeno a dirlo, abboccai.
« Cosa vuoi dire? »
« La Shepard ha chiesto il tuo stato di servizio e i documenti. Ho firmato il tuo congedo stamattina – a quest'ora dovresti già risultare in forze all'NCIS. »
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** Degli ostacoli, e del come rimuoverli ***
Non ho proprio abbastanza parole per scusarmi di questa lunga attesa... Sono un'aggiornatrice PESSIMA che non merita lettori affezionati come voi... ç___ç Vi avviso fin da subito che [spoiler! XD] questo capitolo non porta granché avanti la parte investigativa della vicenda, e me ne dispiace...e temo che sia un po' fluff ;) se non v'interessa questo aspetto, consolatevi, questo non è un capitolo fondamentale e potete direttamente passare al prossimo - che, GIURO GIURO GIURO, non si farà attendere tanto quanto questo!
« Stai abbastanza comoda, così? » Accolsi la domanda di Ducky con uno sbuffo spazientito.
« Troppo. Dovrei rimettermi in forze, non poltrire giorno e notte coccolata come una principessa... »
« Devi riposarti, prima di tutto. Per rimetterti in forze bisogna prima che il tuo organismo le recuperi, non ti pare? »
« Ma io sto bene! Guarda! » Feci sfoggio per l'ennesima volta dei progressi che la fisioterapia aveva fatto fare al mio braccio. « Voglio tornare al lavoro, non ce la faccio più a star qui senza fare niente. »
« Non puoi ancora. Ne abbiamo già parlato mille volte. »
« Anche solo come semplice osservatore! Ne ho bisogno, Ducky. »
« Potrebbe essere pericoloso anche per la squadra. E poi bisogna considerare che... »
« Che? » Donald, che si era interrotto di colpo e sembrava stato messo in difficoltà dalla mia insistenza, abbozzò.
« Niente. Una sciocchezza. »
« Oh, non credo proprio. “Senza contare che”... Cosa? »
Lui si sedette sul bordo del divano e se non fosse stato per gli agenti di guardia che Gibbs aveva destinato in casa fino a nuovo ordine la cosa sarebbe certo parsa molto intima. Le condizioni della signora Mallard erano peggiorate durante le settimane in cui ero rimasta a Bethesda ed era stato necessario ricoverarla in una struttura dove si prendessero cura di lei ventiquattr'ore su ventiquattro: la casa sembrava diversa, senza di lei, in qualche modo estranea, e persino i cani mostravano la propria malinconia non muovendosi dalla mia stanza o seguendomi come piccole ombre pelose. In quello spaesamento, tuttavia, non avevo perso il mio tocco nel capire quando si tentava di nascondermi qualcosa. Donald capitolò.
« Da quando ti crede fuori gioco Carson non ha più colpito. »
Lo disse con dolcezza, in un certo senso con cautela, ma il suo garbo servì a poco; odiavo quelle mie reazioni stizzite ed infantili ma non riuscii ad evitarla – dopotutto lo sapevo: tornare in servizio attivo avrebbe fatto ripartire il gioco interrotto e messo a rischio un'altra vita.
« Ma io sono fuori gioco! E di questo passo non ci rientrerò mai. »
« Sì, invece. Ma quando sarà il momento, e non prima. »
Le mie giornate si ripetevano tutte uguali – sveglia, medicine, fisioterapia, fisioterapia, pranzo, ulteriori esercizi nella speranza di ottenere qualche risultato in più... La parte migliore era la sera, inutile girarci intorno. Il ritorno di Ducky non significava semplicemente avere compagnia: c'erano il racconto della giornata, gli aneddoti, i casi che mi ostinavo a voler seguire anche dall'esterno, gli approfondimenti psicologici nei quali Ducky aveva deciso di coinvolgermi... Con un unico neo.
Da quando mi ero svegliata in ospedale, dalla trepida confessione che mi aveva fatto circa i propri sentimenti, tra noi sembrava essere sorto un muro invalicabile. Non che ci fosse freddezza, certo, anzi; Donald non perdeva occasione di farmi oggetto di attenzioni e premure che avrebbero reso un paradiso la convalescenza di chiunque, non mi lesinava certo i piccoli gesti di tenerezza che tanto mi piaceva ricevere. Ciò tuttavia, percepivo nettamente quell'ostacolo. E man mano che i giorni passavano, mi faceva impazzire.
« Vuoi dirmi cosa ti preoccupa? » andai alla carica una sera, dopo aver rimuginato per l'intero pomeriggio e aver preso la decisione che non avrei tollerato oltre la cosa. Lui stava bevendo il suo abituale scotch dell'ultima ora e mi guardò sgomento, senza la minima idea, probabilmente, di ciò di cui gli stessi parlando.
« Niente... »
« Allora parliamo di ciò che preoccupa me: vuoi? »
« Ma certo, tesoro, ci mancherebbe... È per il lavoro? »
Scossi appena la testa, poggiando sul tavolo accanto a me la mia tazza di tisana. Dio, avrei ucciso per un bicchiere di whisky. « Non è il lavoro. Sei tu. »
« Io? »
« Tu. Ed io. Noi, insomma. » Lo vidi aggrottare la fronte, abbandonare lo scotch. Venne a sedersi accanto a me ed ebbi l'impressione che stesse per domandarmi qualcosa, ma non lo fece e fui ancora io a riempire quel silenzio. « È cambiato qualcosa, Donald. Da quando mi sono svegliata in ospedale... È cambiato qualcosa, non è vero? »
« Non riesco a capire. Non... »
« Era solo lo stress del momento. In realtà non ti piaccio abbastanza, » suggerii. Lui si mostrò letteralmente sconvolto.
« Come ti viene in mente? Certo, che mi piaci... Mi chiedo come tu possa anche solo pensare che non sia così. »
« Be', non lo so, guardaci. Mi sfiori appena, e solo se non se ne può fare a meno. Mi baci sulla fronte. Passano ore prima che torni a guardarmi negli occhi dopo avermi cambiato la medicazione. Se sei in imbarazzo puoi dirlo, Ducky, non è mica obbligatorio che io stia qui... »
Lo ammetto: una parte di me aveva sperato che si mostrasse sdegnato, che protestasse bruscamente; avevo sperato di dovermi scusare. Invece sospirò piano, scivolando all'indietro fino ad incontrare lo schienale del divano.
« Non è questo, Christine. Credimi. »
« Allora... È per questa, vero? » domandai, la voce rotta nello sfiorare il cerotto che ancora proteggeva la ferita alla base del collo. Sarebbe rimasta una cicatrice molto brutta, era stato chiaro fin da subito, e a dir la verità se ancora la tenevo ben nascosta era perché io per prima faticavo a farci i conti – e se non riuscivo a guardarla io, perché avrebbe dovuto riuscirci lui?
« Cosa? »
« La cicatrice che si sta formando. Non è bella da guardare, lo so. » Lui si voltò di tre quarti, il braccio sullo schienale, la mano tesa a sfiorare con la punta delle dita la mia guancia.
« Ora è parte di te, Christine. È il tuo coraggio, la tua determinazione a vivere. Come potrei non amarla, secondo te? »
Sentii lacrime inopportune pungere agli angoli degli occhi.
« E allora perché resti lontano? »
Persi di nuovo il contatto con il suo sguardo e passò molto tempo prima che lui decidesse di parlarmi di nuovo. Lunghi minuti nei quali valutai la possibilità di alzarmi e andar via senza una parola, cosa che non feci soltanto per non abbandonare il campo.
« Ho paura di farti del male, » lo sentii mormorare.
« Ma la mia spalla sta meglio, adesso. Mi hanno anche dato il permesso di esercitarmi al poligono... Non ho bisogno di essere protetta, Donald. Ormai dovresti saperlo. »
Sorrise ma non era convinto, potevo vederlo senza sforzo – mi sorrise come si fa coi bambini. Io però non ero una bambina, e per certi versi, come sempre ripete mio zio, non lo sono mai stata. Presi in mano la situazione.
Se in via precauzionale il braccio sinistro continuava ad essere limitato nei movimenti grazie al tutore, il destro era libero di collaborare al raggiungimento dei miei scopi: mi puntellai su di esso per farmi più vicina. Lasciai che la mia mano scivolasse sulla nuca di Donald e lo baciai, quasi stupita nello scoprire che non opponeva alcuna resistenza. Avevo desiderato quel bacio fin da quando avevo iniziato a sentire le forze tornare e ora, nonostante avessi dovuto aspettarlo tanto e quasi forzarlo, non mi sembrava vero. Mi mancò il fiato.
Scoprire di nuovo le sue labbra, il lieve sentore di scotch nella sua bocca, ritrovare le sue mani che pronte mi avevano circondato la vita fino ad approdare con sicurezza sulla schiena – forse era un bene, che la signora Mallard si fosse trasferita.
« Christine... » esalò sulle mie labbra, e mi ritrovai con le dita fra i suoi capelli, il fiato corto e un gran calore sulla pelle; pochi attimi e non ci fu più papillon né occhiali, né i miei capelli sempre legati, persino il tutore scomparve. Avevo bisogno di libertà, di facilità nei movimenti – avevo, prima di tutto, bisogno di abbracciarlo, di essere sicura che non era un sogno. Iniziai a sbottonargli la camicia. « Non qui, » mi fermò. « Merita di essere speciale... »
Sorrisi al nulla mentre pronunciava quelle parole proprio sulla mia gola, e mi lasciai docilmente guidare fino al piano superiore.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=148686
|