La Mano della Dea di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV. ***
Capitolo 6: *** V. ***
Capitolo 7: *** VI. ***
Capitolo 8: *** VII. ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Questa storia ha partecipato al contest "Not strong enough - Rinunciare all'amore" indetto da visbs88, classificandosi al primo posto.
I giudizi ed il commento del giudice saranno riportati nell'ultimo capitolo della storia.
Titolo: La mano della Dea
Autore: Ely79
Frase: And I know is wrong and I konw is wright (e so che è giusto e so che è sbagliato).
Introduzione: Qeni e Alimad,
bambini donati al Tempio della Dea. Un amore nato sotto gli occhi di
una divinità. Un amore che non doveva essere.
Rating: Arancione
Generi: Introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: Long-fic
Note: la frase della canzone è inserita più a livello di concetto che di testo vero e proprio.
Prologo
La penombra densa inghiottiva ogni cosa. Il lungo soffio sommesso del
mantice ravvivò i tizzoni, la cui luce dorata crebbe fino a
raggiungere gli spessi bordi della cappa e gli occhi delle due persone
che stavano lì accanto.
L’uomo smosse le braci, liberando scintille nell’aria.
Briciole luminose salirono danzando nel risucchio del camino e
svanirono. Sollevò la barra dalla forgia. Il metallo
risplendeva, emanando un tenue alone, come se all’interno vi
fosse un timido sole. La osservò con attenzione, ruotandola
lentamente, senza allontanarla dal focolare. Al suo fianco apparve un
ragazzo.
«Vedi? In questo punto» chiese, indicando con una lunga pinza il centro della spranga.
L’apprendista allungò il collo e strinse gli occhi,
annuendo. La forma nera dell’attrezzo avrebbe potuto somigliare
ad una coppia di dita scheletrite ed arcigne per chi fosse stato
digiuno di metallurgia: per lui invece, erano due amiche preziose ed
affidabili.
«Il colore non è ancora giusto, Igraf. Il punto di
battitura è vicino, ma non abbastanza. Serve una sfumatura
ancora più bianca al centro, deve emanare luce propria per
essere pronta per la prima modellazione. Và al mantice e datti
da fare» ordinò pacato.
«Subito, Maestro» esclamò il ragazzo, il volto serio sporco di sudore, fuliggine e limatura di ferro.
Guardò l’apprendista saltare a pié pari una cassa e
correre attorno al basamento di pietra della forgia per raggiungere il
lungo braccio di legno di quercia. Sciolse i legacci di sicurezza e
prese a manovrare con l’asta con un ritmo costante, scandito dal
sibilare dell’aria che veniva risucchiata nella sacca di pelle
prima per essere spinta ai piedi del focolare. La compostezza
dell’espressione stonava con i suoi sedici anni, ma dava appieno
la misura del suo impegno.
Igraf sapeva di aver ricevuto una pesante eredità, ovvero quella
di divenire il futuro Maestro di bottega. Dopo tutto, era il
secondogenito e, per quanto abile potesse dimostrarsi, lo Statuto della
Corporazione parlava chiaro. Solo il primo figlio maschio avrebbe
potuto ricevere la fucina ed il titolo di Maestro. Ma quando Niza aveva
comunicato di voler intraprendere la carriera militare, le speranze ed
i sogni di Igraf avevano preso altri contorni. In molti nella
Corporazione si erano detti felici della decisione di Niza, troppo
impetuoso e irrequieto per divenire un fabbro: il fratello minore
pareva nato con gli strumenti del mestiere in mano.
«Maestro, credo occorrerà attendere ancora un po’
per ottenere il risultato corretto. La legna ed il carbone si sono
consumati troppo velocemente. Temo che la legna fosse troppo asciutta e
fibrosa o forse non è stata essiccata a dovere. Devo controllare
quella che abbiamo nella legnaia e prenderne dell’altra
più adatta».
L’uomo si chinò in avanti, sentendo le vampe delle braci
accarezzargli il volto. L’apprendista aveva visto giusto: lui
stesso scorgeva tra le fiamme i resti sfilacciati dei piccoli ciocchi
che erano serviti da innesco per la fiamma. Quella legna, sebbene
dell’essenza adatta, mostrava dei difetti di stagionatura.
«Bene, figliolo, procedi come ritieni più opportuno» rispose.
Da genitore e Maestro, si era reso conto subito delle
potenzialità di Igraf e vederlo così attento e scrupoloso
vedeva confermate le sue intuizioni.
Lasciò che andasse a prendere altro combustibile, appuntandosi
di parlare l’indomani con i legnaioli da cui si fornivano.
Da un angolo della fucina proveniva un rumore sottile, che sovrastava
appena il crepitare delle fiamme. Poco distante dal banco delle
rifiniture, un ragazzino se ne stava ingobbito su uno sgabello. Stava
strofinando un’arma grande quanto lui, ed era talmente preso da
estraniarsi da quanto accadeva intorno.
«Che stai facendo?» gli domandò.
Il giovanissimo aiutante sollevò di scatto la testa, stringendo
le mani attorno all’arma che teneva sulle ginocchia. Non era
stato il tono del richiamo a spaventarlo, quanto il fatto che a
ciò potesse corrispondere un suo errore.
«Io…» tentò di giustificarsi, ma le parole gli morirono sulle labbra screpolate.
L’uomo allungò la mano, chiedendo con un semplice cenno
che gli consegnasse l’oggetto. Lo soppesò sui palmi,
facendolo oscillare poco alla volta. Poi si diresse fuori, per
esaminare l’arma con maggior attenzione. Il ragazzino lo
seguì, ansioso.
Nel cortile, il Maestro di fucina sollevò la spada nella luce
del sole. Sulla spina centrale, lavorata in rilievo rispetto alla lama,
erano visibili le Dieci Rune di Alaga, impiastricciate di una poltiglia
giallastra. Il metallo presentava un disegno a spirali chiare e scure,
tra i più ardui da ottenere, il cui segreto non era stato ancora
passato all’erede. Vicino all’impugnatura, là dove
sarebbe stata realizzata l’elsa, una serie di indicava la
posizione delle gemme che vi sarebbero state incastonate.
«Se insisti a strofinarla a quel modo graffierai la superficie.
Ricorda che questa è un’arma decorativa, non importa che
il filo sia tagliente, è il suo aspetto che conta»
spiegò il fabbro con molta calma.
«S-sì, padre… Maestro» si corresse il bambino, chinando il capo per la vergogna.
«Cosa stavi usando?»
Il giovanissimo apprendista allungò il piccolo secchio che aveva
portato con sé. L’uomo vi immerse le dita in
profondità, saggiando la consistenza della mistura.
«Come l’hai preparata?»
«Sa… s-sabbia bianca, di quella fine; poche gocce di latte
nell’acqua; cenere di… iperico e d-di…»
«Di?»
«Di… c-cle… clenaria» concluse timoroso.
Il fabbro controllò con attenzione il manufatto, rivolgendo un
rapido sguardo ad un altro apprendista, il più piccolo dei suoi
quattro figli maschi, Corvan, che in quel momento si stava occupando di
riordinare il materiale per le fusioni dei giorni successivi. Impilava
coppie di stampi lungo la parete, controllando che non contenessero
residui delle precedenti lavorazioni o che avessero riportato danni
durante il raffreddamento o l’apertura. Era ancora troppo giovane
per essere iniziato ai segreti dei metalli, per un paio d’anni
gli sarebbe spettato il ruolo di garzone.
Tornò a concentrarsi sull’oggetto che stringeva in mano e sul piccolo apprendista al suo fianco.
«Stai facendo un buon lavoro, ma devi prestare più
attenzione. Troppa foga può essere deleteria quanto
l’essere troppo meditabondi. Nel nostro mestiere è
importante dosare questi due ingredienti per ottenere il massimo da
ogni lavorazione» consigliò.
L’assistente annuì con forza, sollevato dal responso.
«Coraggio, Malves, và alla fontana e sciacquala con
attenzione prima di ricominciare. Rimuovi ogni traccia della pasta,
soprattutto qui e qui» disse, porgendola nuovamente al ragazzino
che memorizzò attentamente in quali punti dovesse agire.
«Subito!» esclamò sollevato mentre scattava in
piedi, l’arma stretta al petto, ma il padre lo trattenne per una
spalla.
«Quando l’avrai ripulita, asciugala con cura, stando qui
fuori, in pieno sole. In questo modo potrai vedere se ci sono residui
nelle commessure. Poi, una volta che sarai certo di averla pulita a
dovere, riprendi a strofinare la lama con una quantità minore di
composto. Bada che non si infili nelle giunture nei castoni. E usa
questo» aggiunse, porgendogli uno strofinaccio che teneva in una
tasca del grembiule da lavoro. «Ti serve un panno molto morbido e
a trama fine per ottenere il risultato richiesto dal cliente».
Mentre Malves raggiungeva la fontana, il Maestro tornò nel
laboratorio, controllando materiali e attrezzi. Considerava
l’ordine un requisito fondamentale per poter lavorare nel
migliore dei modi, segno distintivo di una bottega efficiente e di
valore. Passò in rassegna i magli appesi alla parete accanto
alle incudini, i lingotti di metallo grezzo posati su uno scaffale
chiuso da pesanti lucchetti, gli arnesi disposti per grandezza lungo le
mensole. Corvan aveva terminato il suo compito agli stampi ed aveva
cominciato a setacciate diligentemente il fondo di sabbia della buca
per le colate, per ripulirlo dagli scarti e dai residui delle ultime
fusioni. Igraf stava invece posizionando i nuovi ciocchi di legna
all’interno del focolare, rigirandoli e studiando dove
collocarli.
Il fabbro apprezzava la calma ed il silenzio che precedevano le
lavorazioni più pesanti, ma duravano troppo poco, come in quel
momento: degli strilli richiamarono la sua attenzione.
«Padre! Padre!»
Una figuretta minuta ansimava sulla porta della fucina.
«Duliane» chiamò e la bimba lo raggiunse zigzagando
tra i banchi di lavorazione. «Sai che questo non è posto
per te. Esci» l’ammonì.
La bambina gli rivolse un grande sorriso nonostante il rimprovero e lo strattonò per la cintura.
«È arrivata una signora. Una signora bellissima! E chiede di Niza! Di Niza e di voi, padre».
Non era la prima volta, da quando suo figlio era tornato, che qualcuno
chiedeva di poterlo vedere. E neppure era inusuale che domandassero del
Maestro di bottega. Il fatto che domandassero di entrambi e che a
esigere ciò fosse una donna, era un’autentica
novità.
Uscirono dalla fucina, fermandosi accanto alla fontana perché
l’uomo potesse rinfrescarsi. Malves sedeva sul bordo, con i
piedi, le mani e la spada all’interno della vasca, intento ad
eseguire il compito affidatogli con la massima diligenza. La sorellina
gli andò vicino facendogli mille smorfie, ma lui non la
degnò d’uno sguardo.
Indispettita, la bambina cominciò a saltellare, tendendo le
manine per prendere uno strofinaccio che stava appeso ad un gancio
accanto alla vasca. Riuscì ad afferrarne un lembo, senza
riuscire a sfilarlo dal sostegno infisso nel muro di cinta. Lo
strattonò da un lato all’altro, tentando di liberarlo,
finché la stoffa si lacerò di colpo, facendola piombare a
terra. Rimase per un attimo a fissare lo strappo, incerta sul da farsi,
e quando udì Malves soffocare un risolino, gli rifilò un
pizzicotto. Porse la pezza al padre con una smorfia birichina. Lui le
rivolse un’espressione vaga e si asciugò il viso.
Si avviarono alla porta di casa che dava sul cortile del laboratorio.
«Posso regalare un fiore alla bella signora, padre?»
cantilenò Duliane, dondolandosi sui talloni con le mani dietro
la schiena.
«Solo se non proviene dai cespugli di tua madre» rispose,
riponendo il grembiule di cuoio in un armadio accanto alla porta.
L’ordine suscitò uno sbuffo contrariato nella piccola che,
lungi dal desistere, corse fuori, in direzione dei campi oltre la
strada. Il fabbro la tenne d’occhio da uno spiraglio della porta
mentre gettava la casacca da lavoro in una cesta e ne indossava una
pulita. Duliane saltellava lungo il margine del campo, lì dove i
fiori crescevano rigogliosi, cercando quello più bello e degno
di divenire un dono. Tornò pochi istanti dopo, con una grande
campanula bianca screziata di violetto.
«È abbastanza bello, padre?» domandò dubbiosa, seguendolo lungo le scale.
«Credo di sì».
«Non ce ne erano altri più belli. La signora non si
arrabbierà che non ne ho trovati?» insisté,
intrufolandosi tra la gamba del padre e il muro per poterlo superare e
raggiungere per prima la camera, senza neppure ascoltare la risposta.
La voce della bimba riempì l’aria, seguita immediatamente dal rimprovero del fratello maggiore.
«Duliane, sii più educata!»
«Ma io voglio regalarlo alla signora!» protestò.
«Quello? Ti pare un regalo degno…» obbiettò, subito interrotto dall’ospite.
«Ti prego, Niza, lascia che faccia. Sono giunta senza farmi annunciare, meriterei piuttosto di essere scacciata».
Il fabbro si fermò a breve distanza dalla porta. Ricordava
quella voce. Era cambiata negli anni, si era assottigliata, inasprita,
molto più di quanto avesse potuto immaginare.
Entrò nella camera. Niza era seduto, curvo in avanti, il volto
pallido segnato dalla febbre e dalle ferite. Gli occhi del padre
corsero alla vistosa fasciatura che dal gomito destro scendeva fino al
polso del giovane. Aveva perduto la mano durante l’ultima
battaglia cui aveva preso parte, eppure non pareva esserne troppo
turbato. Era fiero d’aver combattuto in nome della Dea e di
essersi sacrificato per riportare la reliquia trafugata al Tempio.
L’uomo rimase sulla porta, scrutando l’espressione stanca
del figlio. Quel figlio che gli somigliava molto, non solo
nell’aspetto o nel carattere: un dolore simile li univa.
«Non devi affaticarti, Niza. Il guaritore si è
raccomandato che badassi alla tua salute, almeno finché la carne
non si richiude in maniera soddisfacente» gli rammentò.
«Ti ha spiegato quali rischi corri».
«Lo so, padre, avete ragione. Ma non potevo non…» e indicò accanto a sé.
La bella signora che tanto aveva entusiasmato la bambina era rimasta
immobile, rigirando tra le dita coperte di preziosi anelli il fiore
appena donatole. Sopra l’alto colletto della veste, la sua testa
era accuratamente rasata, eccezion fatta per due lunghe ciocche nere
intrecciate di nastri e ornamenti, che dalle tempie le scendevano fino
in grembo. Foglie e catenelle d’oro disegnavano un complesso
intreccio attorno alle gemme che sembravano sbocciare dal suo capo. La
pelle olivastra aveva un riflesso perlaceo, simile a quello delle
ricche vesti che indossava.
Il fabbro avrebbe potuto chiudere gli occhi, non guardarla affatto. Non l’aveva mai dimenticata. Non avrebbe potuto.
«Siate la benvenuta in casa mia, Chana Alimad» salutò.
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Capitolo 2 *** I ***
I.
I
Il bambino era stato donato al Tempio al compimento del sesto anno
d’età. Era il quinto figlio del fornaio, un uomo generoso
e schietto, la cui famiglia serviva le cucine del Tempio fin
dall’alba del mondo. Donare il piccolo per la custodia del luogo
sacro era stato motivo di vanto e prestigio, più che di
necessità.
«Ecco mio figlio. Fatene un degno soldato della Dea» aveva
esordito, spingendo avanti il ragazzino. «È piccolo, ma
crescerà alla svelta. È sangue del mio sangue, vi
sarà utile».
Il Comandante della guardia squadrò di sottecchi il nuovo
elemento. Aveva un colorito sano, le mani bianche e lisce di chi
conosceva solo il gioco, i capelli pettinati in maniera ordinata.
Tremava come una foglia mentre stringeva al petto una sacca con i pochi
averi che gli era stato concesso di portarsi appresso. Il militare
avrebbe voluto opporsi: trovava fosse profondamente sbagliato disfarsi
di un bambino a quella maniera, soprattutto perché non si
riteneva né una balia, né il responsabile di un istituto
di carità. Purtroppo era tenuto ad accoglierlo, in quanto era
severamente vietato rifiutare un dono per la Dea, di qualunque genere
esso fosse.
«Se non supera l’inverno, non resterà. Né tornerà a casa» chiarì.
Non sarebbe stata la prima volta, era bene che sapessero da subito cosa rischiava il loro omaggio.
«State tranquillo, ce la farà» replicò, dando un’ultima spinta alla schiena della recluta.
La convinzione del fornaio nelle possibilità del figlio era
disarmante. Il bambino doveva essere stato istruito a dovere per giorni
interi, al punto tale che teneva lo sguardo fisso dinnanzi a sé,
quasi comprendesse di non poter più volgere i piedi nella
direzione da cui era venuto. Scrollando il capo, il Comandante
annotò sul registro della guardiola l’ingresso del piccolo
Qeni nelle file degli allievi. L’estate volgeva al termine e
questo avrebbe significato metterlo alla prova entro breve.
«Sei pronto, tu?» gli domandò bruscamente, quando
ebbe finito di grattare con la penna d’oca sui fogli arricciati
dal tempo e dall’umidità.
Lui annuì, il volto seminascosto dalla bisaccia.
«Rispondi a voce, ragazzino» gli intimò.
Il bambino deglutì a vuoto un paio di volte, cercando un segno
dal genitore che si preparava a lasciarlo. Il fornaio sorrise
orgoglioso. Non era più suo padre.
«S-sì, signore. Sono pronto» rispose, sfoderando una voce più grande di lui.
La porta della guardiola si chiuse, recidendo per sempre ogni legame
del bambino con la sua famiglia. La sua casa sarebbero diventate le
mura di cinta del Tempio, i suoi parenti gli altri soldati. Il suo
destino sarebbe stato rivoltò lassù, in cima alla lunga
scalinata che conduceva al Tempio della Dea. Avrebbe dovuto imparare a
combattere come il più feroce dei mastini, arrivando a dare la
propria vita se necessario.
Attraversarono un lungo corridoio chiuso da alte pareti senza finestre. I passi riecheggiavano nell’aria ferma.
«Ce l’hai un nome?» sbottò, senza fermarsi né voltarsi.
«Qeni, signore».
Il Comandante afferrò il bambino per la spalla, sballottandolo mentre se lo trascinava appresso.
«Sei avvisato, marmocchio. Il fatto che tuo padre ci dia il pane,
non vuol dire che ti spetti di diritto. Qui ognuno fa la sua parte,
suda quello che mangia e la coperta per dormire. Non si piange, non si
cerca la mamma, non si cede mai. Imparala subito e forse prenderai
qualche legnata di meno. Chiaro?»
«Chiaro, signore» biascicò il piccolo, i capelli biondi che gli ricadevano sugli occhi per gli scossoni.
Avevano raggiunto una porta, chiusa da un pesante chiavistello. Il
passaggio, alle loro spalle, si perdeva in curve tortuose e scure, dove
il grigio della pietra si mescolava a quello dell’ombra.
«Molto bene» ruggì cupo il Comandante. «Dimostralo».
***
Le prime mansioni che venivano affidate ai nuovi arrivati servivano
loro per prendere confidenza con il mondo di cui entravano a far parte.
Per loro sarebbero esistite ben poche cose oltre le alte mura che
circondavano l’area sacra. Famiglia, amici, luoghi cari.
Ogni cosa andava gettata via, nel dimenticatoio, sostituita
dall’obbedienza, dalle leggi e dalla fatica.
In genere si trattava di lavori da sguatteri e inservienti, come
riordinare l’armeria e spazzare i cortili. Erano compiti che
andavano eseguiti giornalmente, sotto lo sguardo attento delle reclute
più grandi o dei Guardiani.
Da due anni il piccolo Qeni custodiva i cabi,
grandi cavalcature da guerra. Erano animali enormi, delle dimensioni di
un carro, con zampe tozze simili a botti, la testa massiccia e dotata
di quattro pericolose corna issata su un collo lungo ed arcuato. Il
bambino aveva imparato rapidamente a muoversi con agilità sotto
le pance tonde e pelose, evitando di venir spiaccicato sotto le loro
immense moli. I cabi parevano
ignorarlo o, tutt’al più, lo degnavano di qualche fetido
sbadiglio. Lui ripuliva le mangiatoie, rassettava le lettiere,
controllava le vasche per l’acqua e raccoglieva le spesse ciocche
di pelliccia ispida che si staccavano dai mantelli. Poteva sembrare un
lavoro di poco conto se paragonato ad altri, ma l’allievo lo
eseguiva con tanta perizia e cura che la sera rischiava di
addormentarsi esausto sulla ciotola della zuppa. E questo gli valeva
qualche pacca sulle spalle dai Guardiani e parecchi schiaffi
ammonitori, affinché seguitasse ad aver chiaro il concetto di
umiltà.
Un giorno, mentre Qeni si affaccendava tra i sacchi del mangime messo a
fermentare, una voce singhiozzante si levò nella stalla.
All’inizio pensò di essersi ingannato per via del
temporale che imperversava fuori, ma si rese conto ben presto che non
si trattava del vento o della pioggia. Cercò fra i cabi,
in mezzo ai mucchi di paglia, fra i pilastri smangiati dalle poderose
grattate delle cavalcature, finché non la trovò. Una
bambina, poco più piccola di lui, stava raggomitolata in un
angolo e piangeva. Indossava una veste che la identificava come una
novizia, una delle future sacerdotesse della Dea.
«Chi sei? Non puoi stare qui! Esci subito!» strillò Qeni.
Quella pianse più forte, tappandosi le orecchie con le mani.
Spazientito e preoccupato dal fatto che potessero trovarla lì e
punirlo, cercò di sollevarla di peso, finendo col ritrovarsela
addosso.
«Ho paura!» gridò.
«Perché?»
«Ci sono i fulmini» frignò, accoccolandosi ancora di più contro di lui.
Al bambino sembrò una cosa davvero assurda, ma riuscì a
scrollarsela di dosso e andò alla porta della stalla e la
chiuse.
«Adesso sono fuori» disse, tornando indietro.
«No! No! Ci sono ancora! Ci cadono addosso dal cielo!»
pianse sedendo a terra, i lunghi capelli neri che le coprivano il viso.
«Ma non ci cadono in testa» osservò, levando lo sguardo sulle grosse travi della copertura.
«Sì, invece!» urlò, levando il capo.
I grandi occhi scuri grondavano lacrime disperate, che ruzzolavano sulle guance olivastre.
Qeni capì che, se voleva un po’ di pace e non rischiare un
castigo, avrebbe dovuto trovare il modo di liberarsi di quella
guastafeste piagnucolosa. Le sedette accanto, cercando di darsi
un’aria di superiorità.
«Senti, questo è il Tempio della Dea, no? Mica ci farà cadere un fulmine in testa!»
La bambina lo fissò in cagnesco, prima di cercare nuovamente difesa tra le sue braccia all’ennesimo tuono.
«Hai visto la statua della Dea? Sai che fa?» insisté Qeni, sbuffando imbarazzato.
«Una statua non fa niente! Sta lì e prende la pioggia e il sole!»
«Ti sbagli» spiegò, sentendosi molto orgoglioso di
ciò che stava per raccontare. «La statua è
lì per proteggerci! Se un fulmine cerca di cadere qui, la Dea le
fa allungare la mano per prenderlo e farlo andare lontano. Non ci
succederà mai nulla, sotto la mano della Dea. Lei ci ama e ci protegge. Sempre».
Era stato un ragazzo più grande ad inventare quella storia, una
notte che un bambino aveva cominciato a frignare per un temporale
simile a quello. Era stato un modo rapido per poter tornare a dormire.
La bambina lo squadrò sospettosa, tirando su col naso.
«Non è vero, non ci credo».
«È così, invece» insisté, incrociando
le braccia. «E siccome io sono più grande di te, io ho
ragione!»
«E io sono una novizia, ho più ragione di te!» protestò.
Un tuono, più poderoso e vicino degli altri, li fece sobbalzare
entrambi con uno strillo. Si trovarono stretti una all’altro,
fissandosi sorpresi, mentre i cabi sollevavano a malapena i grossi musi cornuti.
Cominciò così l’amicizia tra Qeni e Alimad.
***
L’infanzia, tra le mura del Tempio, era un concetto astratto, di
cui nessuno ricordava il significato. Gli allievi dei Guardiani
dovevano crescere in fretta, per tener testa ai compagni più
grandi ed esperti. Le novizie dimenticavano presto i giochi, per poter
apprendere tutto quanto avrebbe fatto di loro le future sacerdotesse
della Dea. Ognuno combatteva una battaglia personale, il cui unico
scopo era di poter servire la potente Signora che sovrintendeva ai
destini del mondo. Nessuno si interrogava mai se fosse giusto che dei
bambini venissero indottrinati e cresciuti a quel modo: era così
dalla notte dei tempi, da quando la Dea si era rivelata.
Nemmeno Alimad se lo
domandava, lei solitamente piena di curiosità e domande. Non se
lo chiese neppure il giorno in cui, assiepata con le altre novizie
lungo la scalinata, assisteva alla nomina a Guardiano di Qeni. Rideva.
Lo trovava incredibilmente buffo con la strana corazza grigia e nera e
l’elmo calato sul naso perché troppo grande. La
lunghissima lancia che era costretto a reggere lo faceva sembrare un
lattante, se paragonato al Comandante e alle guardie più
anziane. La sua espressione era però la cosa che in assoluto
Alimad trovava più esilarante: era serissimo, rigido,
concentrato sul rituale di passaggio. Un tredicenne che vestiva i
panni di un adulto.
Alimad decise che l’avrebbe preso in giro fino a
fargli perdere le staffe. Dargli il tormento era un’occupazione
che amava particolarmente, anche se Qeni stava sviluppando una certa
abilità nel ritorcergliela contro, ignorando o semplicemente
accettando con infinita pazienza che lei trovasse altro su cui
riversare i propri dispetti. Eppure, Alimad si sentiva persa senza il
suo amico. Lui le correva appresso come se fosse un cucciolo
pasticcione, le dava le attenzioni che cercava di continuo, sottostava
ai suoi capricci. E quando non poteva vederlo, gli sguardi delle altre
novizie e delle sacerdotesse diventavano intollerabili. Arrivava a
rispondere in modo sgarbato, ad avere gesti inappropriati, che le
costavano continui biasimi. Le donne del Tempio non le piacevano. Non
riusciva ad ottenere da loro quelle stesse cose che Qeni le donava di
continuo. Lui la faceva sentire importante, preziosa.
Vide il Comandante sfilargli l’elmo e legare
sulla sua fronte il laccio col pendente che lo avrebbe identificato
come Guardiano. Le iridi azzurre scintillavano d’emozione e gli
angoli della bocca avevano i brevi scatti di un sorriso trattenuto.
«Ad ogni Guardiano viene assegnata una Bie’nai»
spiegò Chana Cleje alle novizie, ormai prossime a divenite
adepte. «Egli la difenderà a costo della propria vita. E
tutti insieme, Guardiani e Bie’nai, difenderanno la Voce della Signora in questo mondo, affinché la parola della Dea possa continuare ad essere udita».
La Grande Sacerdotessa della Dea parlava di sé,
ma Alimad aveva smesso di ascoltarla dopo le prime parole. Non voleva
che un’altra si prendesse il suo Qeni. Cosa avrebbe fatto senza
di lui? Chi l’avrebbe confortata nei momenti tristi? Chi
l’avrebbe ascoltata dandole sempre ragione? Chi avrebbe
assecondato ogni suo capriccio? Solo Qeni.
«Qeni è mio» andò a dire al Comandante, qualche giorno più tardi. «Quando sarò Bie’nai
devi affidarmi a lui! Se non lo fai, parlerò alla Dea,
griderò perché mi senta ovunque si trovi, e le
dirò di maledirti per non avermi esaudita».
Il Comandante la fissò sbigottito. La bambina non poteva saperlo, ma già da tempo Chana Cleje gli aveva domandato la stessa cosa.
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Capitolo 3 *** II ***
II.
II
Non c’era giorno dell’anno durante il quale i Guardiani
rimanessero in ozio. I membri più anziani della guarnigione
obbligavano i ragazzi a logorarsi in pesanti esercitazioni nelle pause
tra un compito e l’altro, con la scusa di renderli più
forti e temprarne lo spirito. La verità, era che il più
delle volte si trattava di semplice sadismo.
Il Comandante della guarnigione era cambiato da circa cinque anni. Il
posto di quello che aveva accolto il dono del fornaio era ora occupato
dal figlio di un notabile di corte: un uomo d’armi con discrete
capacità diplomatiche. Tuttavia, per quanto s’impegnasse,
ancora non riusciva a cancellare alcune barbare abitudini. A Qeni
però piaceva sottostare ai regolamenti ferrei ed obsoleti,
talvolta incomprensibili, dei Guardiani; d’altra parte, avendo
conosciuto solo quel frammento di mondo, li riteneva giusti e
sacrosanti. Amava lavorare sodo, le mansioni più faticose non lo
spaventavano affatto e prendeva sempre molto sul serio quanto gli
veniva imposto di fare. Che fosse giusto o sbagliato, gli era stato
insegnato che si trattava di prove da affrontare a maggior gloria della
Dea.
Anche in quell’afoso pomeriggio, con la calura che faceva
evaporare le pietre del selciato e disseccare le foglie sui rami, non
si era tirato indietro all’ordine di improvvisare un
combattimento con una guardia più anziana. La guardia aveva solo
voglia di attaccar briga e aveva cercato un avversario da battere in
poche mosse. Aveva impiegato poco a sottomettere la recluta e se
n’era andata solo dopo essere riuscita a lasciargli addosso
diversi grossi lividi.
Qeni allora era andato a sedersi sotto il portico delle scuderie, per
riprendere fiato. Se ne stava sul fieno, curvo in avanti e col capo
coperto da uno straccio bagnato, quando due mani si allungarono oltre
le sue spalle e lunghe ciocche di capelli neri presero a solleticargli
la pelle.
«Uh, quanto puzzi!» rise una voce femminile al suo orecchio.
«Alimad» brontolò imbarazzato, cercando di scrollarsela di dosso.
«Dico sul serio, Qeni! Sei inavvicinabile» continuò
a sbeffeggiarlo lei, agitando una mano davanti al viso e facendo
smorfie.
«Non da te, a quanto pare» rispose, fingendo di minacciarla con lo strofinaccio.
Lei fece una piroetta, ridendo e allontanandosi. L’abito azzurro delle Bie’nai le donava, le scivolava addosso come un ritaglio di cielo.
«Come mai qui? Di solito mi aspetti alla scalinata» le domandò strizzando la pezza.
«Oh, era tanto per cambiare» rispose facendo spallucce.
«Cos’hai in mente, sacerdotessa della mia disperazione?»
«Io? Nulla di nulla. A parte forse…»
Qeni sospirò affranto. Aveva intuito sin dal primo momento che
la sua visita avrebbe significato guai. Alimad escogitava stratagemmi
per dargli il tormento e garantirgli strigliate memorabili dagli
anziani, mostrando un’inventiva fuori del comune.
L’arrendevolezza della guardia aveva però fatto in modo
che il Comandante prima e i Guardiani poi, decidessero che una tale
abnegazione meritasse lodi, piuttosto che continue punizioni. Il
Comandante diceva che era praticamente impossibile star dietro a quella
giovane Bie’nai senza
provare il desiderio di sculacciarla fino a farsi sanguinare i palmi e
che la Mano della Dea era posata stabilmente sul capo di Qeni.
«A parte forse?» si informò, dubbioso.
«Una proposta» rispose, accomodandosi sulle sue ginocchia.
Era leggera come la pelliccia dei cuccioli dei cabi, ma molto più morbida ed aggraziata.
«Del tipo?»
«Del tipo… di quelle che puoi esaudire» ammiccò, cingendogli nuovamente le spalle.
«Allora è una richiesta, non una proposta».
«Parole, Qeni, parole. La sostanza rimane, fidati» lo rassicurò, poggiando il capo sulla sua spalla.
Il giovane roteò gli occhi, fingendosi esasperato. In
realtà cercava di ignorare i brividi che quell’abbraccio
gli procurava e che lo obbligavano a serrare i pugni contro i fianchi.
«Quindi?»
«Accompagnami al lago» miagolò, consapevole del turbamento che stava causando.
«Le abluzioni rituali sono domani» le rammentò, sentendola giocherellare con le dita sulla sua nuca.
«Ma io voglio andarci oggi!» pianse al suo orecchio. «Domani ci saranno anche le altre Bie’nai e le novizie. E la Chana con tutto il suo seguito! Io voglio andarci da sola. Con te» soggiunse.
Quei momenti erano croce e delizia di tutti i Guardiani. Immobili sulla
riva, armati di tutto punto, davano le spalle ad una torma di donne
discinte che si muovevano sinuose nelle acque trasparenti. Il loro
compito era di difenderle da chiunque tentasse di aggredirle. Era una
gioia sentirle ridere e saperle al sicuro. Meno lo era tenere a freno i
pensieri ed il desiderio di guardarle.
«Devo parlarne al Comandante».
«Ma così anche la Chana lo saprà! Dirà di no!» protestò, dandogli piccoli pungi sul petto nudo.
Qeni l’afferrò fulmineo per i polsi. Non voleva che lo
toccasse ancora. Le sensazioni che gli provocava da qualche tempo a
quella parte erano troppo strane, insolite. Lo scombussolavano.
«Perché ogni volta dobbiamo discutere di queste cose? Potresti essere tu la futura Chana, devo informare i miei superiori di ogni cosa ti riguardi. Devo proteggerti».
«Cosa vuoi che succeda? Il lago è della Dea! Lei mi protegge da ogni cosa!» sbuffò spazientita.
«Se è così, io a cosa servo?» ribatté imbronciato.
Alimad sorrise sorniona, liberandosi dalla sua stretta e facendogli una carezza.
«Andiamo, Qeni. Accompagnami e io farò qualcosa per te».
«Sentiamo. Cosa faresti?»
La ragazza gironzolò per il portico, raccogliendo un secchio e mostrandoglielo con aria maliziosa.
«Per esempio, potrei lavarti» disse, agitando il recipiente
davanti al getto di una fontanella. «Ti darei una strigliata che
nemmeno i tuoi cabi possono sognare!»
«Alimad, non dire sciocchezze» l’avvertì, sottolineando le sue parole con uno sguardo eloquente.
«Su, timidone, che sarà mai! Devi solo toglierti i pantaloni di fronte alla tua Bie’nai!» rise.
«Alimad!» tuonò indispettito, balzando in piedi e raggiungendola con due rapide falcate.
Il giovane disapprovava la mancanza di rispetto del decoro che mostrava la sua amica e protetta.
«Va bene, va bene! Ho capito, andrò sul semplice»
sospirò, levando in alto le mani e lasciando cadere il secchio.
Si sollevò sulle punte dei piedi, poggiando le mani sulle braccia del Guardiano.
«Un bacio può essere considerato il degno risarcimento di
una guardia tanto fedele, ligia e zuccona?» chiese, sfiorandogli
appena la guancia.
«Non uno di più» concordò.
***
Sapeva che se ne sarebbe pentito, ma si lasciava abbindolare di
proposito. Anche quella volta. Aveva rispettato le leggi, comunicando
al Comandante che avrebbe accompagnato Alimad al Lago Sacro, dando una
versione differente dello scopo dell’uscita: aveva parlato di una
semplice passeggiata per distendere i nervi. Non amava mentire al
Comandante, ed aveva la sensazione che intuisse le sue menzogne e che
soprassedesse in nome del rispetto che si portavano reciprocamente.
Seduto su uno dei grandi massi della riva, ascoltava le acque agitarsi
ad ogni bracciata di Alimad. Intanto, il suo sguardo frugava le ombre
del bosco che si stendeva intorno a loro. In alto, al termine di un
sentiero lastricato e zigzagante, la Porta Ovest del recinto del Tempio
era bagnata di sole. I cardini e le borchie dorate scintillavano come
piccoli soli ed erano ben visibili anche a quella distanza. Le Porte
Divine erano bellissime ed imponenti, a differenza di quelle
ausiliarie.
Alle reclute non era concesso di avvicinarsi a quei passaggi fino al
compimento dei quindici anni. Solo allora ne veniva svelato il
perché: da quegli accessi, oltre agli artigiani e ai mercanti
che fornivano di merci i magazzini del Tempio, passavano anche le
prostitute, destinate all’intrattenimento dei Guardiani. Le donne
giungevano ogni due settimane, su carri coperti. Non erano mai le
stesse. Secondo alcuni suoi compagni d’arme, erano una sorta di
omaggi di seconda scelta, che non potevano essere donati apertamente
alla Dea. A quasi due anni di distanza, Qeni rideva della sua prima
volta, appartato dietro le cucine con una donna molto più grande
di lui, che lo aveva fatto sentire una specie di eroe. Incontro dopo
incontro, aveva capito che si trattava semplicemente di un gioco a cui
era divertente prendere parte, per sentire l’eccitazione salire e
dare sfogo agli istinti continuamente repressi. Senza quelle donne, il
compito di Guardiano si sarebbe rivelato eccezionalmente arduo.
Sarebbero arrivate il giorno dopo e lui non vedeva l’ora. Stare
con Alimad gli suscitava sempre più spesso gli stessi bisogni
che provava di fronte a quei corpi nudi e invitanti. Poco importava che
lei fosse vestita o che non la guardasse quando non lo era.
«Qeni?» chiamò Alimad, appoggiandosi alla roccia.
«Sì?» rispose, ascoltando le gocce cadere dal suo corpo, picchiettando la pietra e l’acqua.
«Entra anche tu, sei tutto sudato! E poi mi annoio da sola. Fammi
compagnia» piagnucolò tirandogli la casacca, ma lui scosse
il capo, mordendosi le labbra.
La Dea sola sapeva quanta voglia aveva di buttarsi in acqua, di giocare
con lei come quando erano bambini, ma gli anni erano passati e le
responsabilità erano aumentate. Doveva adempiere ai suoi voti di
Guardiano col massimo impegno. Doveva proteggere quell’adorabile
peste di una sedicenne.
«Almeno girati quando ti parlo, cafone» lo riprese seccata.
Qeni fece di nuovo segno di no.
«Te lo ordino! Guardami! Ubbidisci!» rimbrottò, dandogli uno schiaffo sulla schiena.
«No, Bie’nai. Devo restare qui. E non guardarti mai, per preservare la tua purezza» citò.
Era uno dei motti che le guardie dovevano imparare a memoria e
rispettare ad ogni costo: la santità del luogo e delle
officianti derivava dalla loro castità e veniva prima di tutto.
La lussuria era la prima nemica delle sacerdotesse della Dea.
«E come farai a proteggermi da un mostro marino che sorge dal fondo del lago, se non mi guardi?»
«I mostri marini stanno nei mari, questo è un lago. L’hai detto tu» osservò divertito.
Alimad, piccata, tornò a nuotare. Era meglio così. Il
Guardiano riprese a scrutare il paesaggio, ripassando mentalmente i
compiti che l’avrebbero atteso al rientro. Lavori di
corvée, almeno un’esercitazione, la ronda serale. Perso in
quelle considerazioni, si riscosse solo quando udì
l’adepta lamentarsi del freddo. Prese una coperta che avevano
portato e gliela porse, continuando a darle le spalle. Alimad
uscì dal lago ed andò ad asciugarsi sul prato, lagnandosi
ad alta voce.
«Per colpa della tua ottusità, mi sono fatta male e non mi hai neppure soccorsa!» sbottò.
«A me sembri intera» ridacchiò mentre lei si raggomitolava.
«Ah, sì? Guarda!» e così dicendo sporse una gamba, avvolta da una sottile linea bruna.
«È solo un’erba acquatica» disse levandogliela.
Per un istante, la sua attenzione fu catturata dal contatto con la pelle olivastra, fresca e umida della caviglia della Bie’nai. Quando risollevò lo sguardo, due occhi neri brillavano di compiacimento.
«È un’erba velenosa e mi ha fatto intorpidire il
piede. Non posso camminare in queste condizioni. Devi portarmi sulle
spalle o rimarrò qui a morire d’inedia» pretese.
Rassegnato, fece come chiedeva. La caricò con tutta la coperta e
l’acqua che l’inzuppava, e prese a salire il sentiero,
tentando di concentrarsi sul dove metteva i piedi, piuttosto che sui
seni e sui fianchi di Alimad che premevano contro la sua schiena.
«Hai mai guardato Chana Cleje?» fece ad un tratto lei.
«Sì, perché?» chiese fermandosi, trovandola una richiesta piuttosto insolita.
«L’hai guardata bene?» insisté, scalciando come se incitasse un cavallo a riprendere il cammino.
«Cosa intendi con “guardata bene”?»
«Hai visto la sua testa? I gioielli che porta?» disse, indicandosi il capo.
«Beh, sì e no. Non sono cose che m’interessano. Sono cose da donne. Almeno credo» si schermì.
La ragazza si aggiustò sulle sue spalle, stringendolo forte.
«Glieli conficcò nella pelle la Bie’nai Anziana, fa parte del rituale di investitura a Chana»
bisbigliò pensierosa. «Li ha nella carne. Gemme,
catenelle, foglie d’oro. Tutte quante. Dicono che le tocchino le
ossa e che a volte sanguinino ancora, anche se sono passati molti
anni».
Nessuno dei due parlò per diverso tempo e la strada scivolò via lenta, curva dopo curva.
«Pensi davvero che potrei essere la nuova Chana?» gli domandò, quando furono in vista della Porta.
«Certo» confermò Qeni, deciso.
«E mi servirai? Starai con me e sarai sempre pronto a fare ciò che ti chiedo senza protestare?»
«Che razza di domande. Sono il tuo Guardiano. Ti servirò sempre, soprattutto quando sarai Chana, anche se non bacerai più» scherzò, ma le labbra di Alimad non sorrisero.
Affondò il volto fra i capelli biondi del diciottenne, facendo profondi respiri.
«Non voglio soffrire. Non voglio sentire male. Detesto il dolore,
lo odio, mi spaventa» mormorò. «Aiutami, Qeni. Ti
prego. Non lasciare che mi facciano del male. Proteggimi».
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Capitolo 4 *** III ***
III.
III
Lungo le merlature delle mura di cinta, i profili dei Guardiani erano
poco più che piccoli ritagli d’ombra. Ognuno di loro stava
immobile, la lancia ritta nella destra e lo scudo alla sinistra. Sotto
il sole rovente del mezzogiorno o nella pioggia battente della notte, i
singoli manipoli restavano in allerta, pronti a scattare.
Alimad aveva riconosciuto la sagoma di Qeni vicino alla Porta Nord ed
aveva cercato d’attirare la sua attenzione. Aveva passeggiato
lungo i camminamenti, canticchiando e recitando ad alta voce i propri
desideri, sicura che li avrebbe memorizzati. Gli aveva fatto il
solletico ed aveva finto di inciampare per farsi soccorrere, cosa che
aveva ottenuto, facendo guadagnare a Qeni l’ennesima punizione.
Lui però aveva sorriso agli improperi del superiore, scorgendola
alle sue spalle.
«Dovresti chiedere che gli affidino qualcun’altra» irruppe d’un tratto una delle Bie’nai.
Era più grande di Alimad e serviva Chana Cleje insieme all’Anziana. Si occupava di tenere d’occhio le adepte, fornendo informazioni alla Chana,
che potessero indicarle colei che le sarebbe succeduta un giorno. Tra
tutte le giovani sacerdotesse, Alimad spiccava più per i suoi
difetti che per i suoi pregi e nonostante facesse di tutto per aiutarla
a migliorarsi, non otteneva alcun risultato.
«Qeni può essere solo mio» fece lei, divertita.
«Certamente, Alimad. Tuo e delle prostitute che vengono offerte alle guardie del Tempio».
Per un attimo, le parole ammutolirono nella sua gola.
«Sta tra le cosce di donne impudiche, il tributo che esigiamo
dalle città affinché le brame dei nostri difensori non
ricadano su di noi. Geme con loro, dà e riceve piacere dai loro
corpi lussuriosi. E lo fa per poterti servire e compiacere, ma non per
tuo ordine» raccontò, non senza una punta di cinismo.
Presa alla sprovvista dalla rivelazione, Alimad non rispose subito.
«Parli così perché sei invidiosa! Il tuo Guardiano
ignora le tue parole, ti tratta con freddezza, ti sgrida persino.
Invece Qeni fa tutto quello che gli chiedo senza batter ciglio!
Rispetta la mia volontà, qualunque essa sia. Potrei chiedergli
qualunque cosa, anche morire, e lui lo farebbe. E io lo rispetto per
l’attaccamento che mi dimostra!».
«E questo secondo te è rispetto? Rispetto per la persona a
cui devi la protezione della tua vita? Fartis sarà anche un
burbero insopportabile a cui non va bene nulla di quel che faccio, ma
grazie a lui ho imparato molte cose, prima fra tutte
l’umiltà di ammettere i miei errori. Non corro a cercarlo
ogni volta che sbaglio, perché mi consoli o giustifichi le mie
azioni. Non crescerai mai finché sarai affidata a Qeni, non
imparerai mai il senso del sacrificio e dell’amore disinteressato
come ci chiede la Dea. Lui ti riverisce oltre ogni ragionevole limite.
I suoi sentimenti ti stanno impedendo di percorrere la tua via».
Il volto della giovane si faceva più pallido ad ogni parola.
«Sciocchezze! Lui mi fa sentire amata, al centro dell’attenzione!» esplose.
«Appunto» sottolineò con calma l’altra.
«Come puoi non comprendere? Non siamo noi il centro di tutto, ma
quello che attraverso di noi si riversa nel mondo! L’affetto che
Qeni dimostra per te ti sta rendendo cieca al tuo ruolo di Bie’nai. La Dea è amore incondizionato, non egocentrismo».
Stizzita, Alimad le diede le spalle, decisa a non ascoltare oltre.
«Impara a chinare il capo e a donare agli altri tutta te stessa.
Impara ad amare totalmente, senza secondi fini, oppure…»
«Oppure cosa? Non diverrò mai la nuova Chana?» la interruppe furibonda.
La Bie’nai scosse tristemente il capo.
«Oppure non conoscerai davvero l’amore della Dea» concluse andandosene.
Alimad, fuori di sé dalla rabbia, la rincorse. L’afferrò per i capelli e la prese a schiaffi.
«Tu… non osare mai più! Hai capito? Mai! Io…
io so come si ama, come si ottiene l’amore! Io ottengo sempre
ciò che desidero! Il cuore di Qeni mi appartiene perché
io gli do amore» gridò, seguitando a colpirla.
Smise solo quando l’ebbe ridotta in lacrime, le guance gonfie ed arrossate, un labbro sanguinante.
«Io amo Qeni per quello che mi dà. Non ci sono altri che
possano darmi altrettanto. E tu non ti azzardare a portarmelo via, o
gli ordinerò di usare te al posto delle prostitute. E sta pur
certa che mi obbedirà con gioia» minacciò.
***
Era arrivata singhiozzando disperata, dicendo che una delle Bie’nai
l’aveva aggredita. Aveva parlato male di lei e quando le aveva
risposto per le rime, quella l’aveva colpita. Cosa poteva fare,
se non difendersi a sua volta? Aveva risposto alle sue percosse,
mettendola in fuga, ma nessuna al Tempio pareva volerle dare una mano,
un appoggio. Tutte la bistrattavano, la calunniavano, mentre lei voleva
bene a tutte le sue consorelle.
Qeni l’aveva condotta alle scuderie, cercando di calmarla.
«Tu… tu sei l’unico disposto a capirmi, Qeni. Sei il
solo qui dentro che mi voglia bene e che faccia quello che chiedo senza
contraddirmi. Sai come amarmi, come farmi sentire importante»
disse, gettandosi fra le sue braccia. «Sei la sola persona che
conti per me. Sei la mia forza».
«Anche tu lo sei per me, Alimad» rispose sorridendole e prendendole la mano.
«Lo so, ma questo non cambia le cose» singhiozzò,
sfiorando con le labbra l’orecchio del Guardiano. «Non
potrai mai essere sempre al mio fianco, il Tempio ti è precluso.
Dovrò subire le loro angherie per il resto dei miei giorni,
schiava di donne terribili e senza cuore! Continueranno a farmi
soffrire, a causarmi dolore perché sono invidiose e cattive; la
loro anima è corrotta e arida».
Occorse qualche istante, perché Qeni dimenticasse il brivido di
quel contatto, e quando riuscì nuovamente a pensare, la
soluzione alle paure di Alimad fu subito chiara.
«Diventa mia».
La Bie’nai deglutì a vuoto, sgranando gli occhi per la sorpresa.
«Cos’hai detto?» chiese, allontanandosi un poco.
«Diventa mia!» esclamò, stringendola a sé.
«Lascia che ti prenda, qui, adesso! Se non sarai vergine non
diventerai Chana. Ti allontaneranno dal Tempio e io verrò con te».
Da tempo il Guardiano meditava di porre in atto quell’idea, rinunciandovi perché la Bie’nai raramente esprimeva la sua frustrazione in toni tanto angosciosi. Finalmente era giunta l’occasione.
«Chiedimelo, Alimad! Chiedimelo e io ti libererò!»
Lei cercò di divincolarsi, ma le braccia di Qeni erano invalicabili come le mura del recinto sacro.
«Ti prometto che ti sposerò e sarai mia moglie e…» insisté entusiasta.
Un violento manrovescio lo colpì, disorientandolo. La fanciulla
riuscì a sottrarsi all’abbraccio ed arretrò,
spaventata.
«Tu sei pazzo!» urlò.
«Sì, pazzo come solo un innamorato può
essere!» esclamò gettando via la casacca.
«Spogliati, Alimad, fammi vedere come sei sotto quelle vesti.
Dammi il tuo corpo e io ti libererò!»
Lei cacciò uno strillo e cercò di scappare, nella
speranza che qualcuno intervenisse. Le mani del guardiano furono
più svelte e l’agguantarono, riportandola contro di lui.
«Non ti farò del male, lo giuro! Sono il tuo Guardiano, non posso essere peggio di loro!»
La Bie’nai continuava ad
agitarsi e a cercare di sfuggirgli, terrorizzata. Gli graffiava il
petto, mentre lui l’accarezzava con gesti bruschi.
«Diventa mia» la implorò, cercando di baciarla.
«Essere tua? Io appartengo alla Dea, non ad una miserabile guardia!» ringhiò schifata.
La stretta si allentò un poco, permettendole di puntare le braccia sulle sue spalle.
«Ma, Alimad tu hai detto… hai detto che sono importante… che mi vuoi bene…»
«E con questo? Sai a quante persone l’ho detto?» rise
sprezzante. «Non sei meglio di loro, stupido imbecille! Pensavi
di avere davanti una di quelle luride sgualdrine con cui vi accoppiate?
Io sono una Bie’nai! Mi devi rispetto e onore, non le tue oscenità!»
Qeni non capiva, non le credeva. Quante volte si era strusciata contro
di lui, quante volte lo aveva stuzzicato come solo un’amante
poteva fare? Quante volte si era aggrappata a lui per non affogare
nella disperazione?
«L’unica persona che posso amare oltre alla Dea sono io!
Io! E devo amarmi per potermi offrire nel mio massimo splendore quando
mi verrà chiesto di diventare Chana!»
«Ma tu non volevi… avevi paura» balbettò confuso.
«Posso accettare la paura e il dolore, se mi servono a diventare
la donna più amata del mondo! Non me ne faccio niente dei
sentimenti di un cabo travestito. Và a montare le tue luride sgualdrine! Lasciami in pace!»
Qeni, all’improvviso, scattò in avanti e la gettò contro il muro.
«No! Stai mentendo! Bugiarda!» gridò. «Tu mi ami! Tu vuoi essere mia!»
Nella foga si udì il lacerarsi della stoffa, il calore della pelle di Qeni contro la schiena della Bie’nai.
All’improvviso, Qeni venne scagliato indietro da una folata di
vento ed andò a sbattere contro uno dei pilastri. Alimad
barcollò e cadde bocconi sul fieno, stringendosi nelle vesti
strappate.
Tra di loro era apparsa una figura maestosa e splendente, avvolta in
sottili drappi d’oro. Era tanto alta da superare il tetto delle
scuderie. Teneva una mano sul ventre e l’altra all’altezza
del petto, leggermente discostata, come in segno di benedizione. La sua
bellezza non aveva eguali ed il suo volto, pur esprimendo grande
dolcezza, era severo.
«Non ci sarà macchia in questo luogo sacro, né sulla mia Prediletta».
Le parole della Dea giunsero cristalline in ogni angolo del Tempio, richiamando sacerdotesse e guardie.
Alimad strisciò ai piedi della Dea e prese a baciarli e ad accarezzarli, pigolando frasi sconnesse.
Qeni la fissava sconvolto, incapace di pensare.
«Salvatemi, mia Signora! Non permettete che mi tocchi ancora.
Salvate la vostra ancella!» supplicò, rivolgendo al
giovane uno sguardo carico d’odio.
«Cos’è che chiedi?» domandò, lieve come un soffio di vento.
«Fatelo sparire! Allontanatelo da me!» urlò.
L’imponente figura della divinità rimase immobile, a
dividere i due. Intorno a loro si era radunata una piccola folla, che
pregava sommessamente. Solo Chana
Cleje, dalla terrazza alta del Tempio, non si unì loro. Meditava
su ciò di cui era testimone, ascoltava le parole che la Dea non
rivolgeva ad Alimad ed annuiva in silenzio.
«Uccidetelo! Uccidetelo, non m’importa nulla di lui!»
pianse più forte Alimad, bagnando di lacrime i veli dorati.
«Voi! Solo Voi siete nel mio cuore!»
La voce di vetro della Dea risuonò nell’aria.
«È dunque questo, ciò che desideri?»
La fanciulla sorrise.
«Ve ne prego, mia Amatissima Signora! Esauditemi!» gridò, aggrappata alla Dea.
«È dunque questo, ciò che desideri?»
ripeté la Dea, i cui occhi trasparenti attraversavano le cose,
soppesandone l’essenza.
«Sì, mio Divino Amore! Deve pagare nel modo peggiore il
suo volermi strappare a Voi!» strillò, ormai senza voce.
«Uccidetelo» sentenziò.
La Dea tese la mano sul capo di Qeni. Il ragazzo ebbe appena il tempo
di chiudere gli occhi mordendosi le labbra. Qualcosa di indefinibile
l’attraversò da parte a parte, svuotandolo. Percepì
le dita celesti serrare la presa nel profondo della sua anima e
strappare via con violenza ciò che avevano scovato. Il mondo
svanì e lui con esso.
Alimad esultò vedendolo accasciarsi privo di forze. Non le
importava più del bambino che l’aveva scoperta nella
stalla, né del ragazzino fermo sulla piazza del Tempio con
indosso una corazza troppo grande e tantomeno del giovane Guardiano che
aveva dichiarato di amarla e di volerle dare la felicità ad ogni
costo. La divinità che serviva l’aveva chiamata
“Prediletta”, l’aveva salvata ed aveva obbedito al
suo volere. A nessun’altra era stato concesso un simile onore ed
ora tutti sapevano che era stata designata come nuova Chana.
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Capitolo 5 *** IV. ***
IV.
IV
Quando il Guardiano riaprì gli occhi, il cielo aveva assunto una
tonalità di blu piuttosto profonda. Alcune stelle facevano
capolino oltre la finestra. Era nella sua stanza, la poteva riconoscere
nonostante l’oscurità che vi regnava.
«Cominciavo a temere fossi morto» mormorò una voce.
Qeni voltò la testa, scoprendo il Comandante seduto su una
seggiola. Lo stava fissando carico di sollievo. Si passò le mani
tra i capelli, cancellando il sorriso che gli saliva alle labbra. La
sua presenza aveva un sapore decisamente troppo amaro.
«La ragazza… ci ha detto cos’hai fatto»
sbuffò irritato. «Eravamo tutti troppo sconvolti
dall’apparizione della Nostra Signora e non abbiamo capito subito
cosa fosse accaduto, il perché della sua venuta. Credevamo di
sognare».
La Dea che torreggiava sullo spiazzo era ancora negli occhi di tutti coloro che erano stati presenti.
«Poi sei caduto a terra ed abbiamo creduto fossi morto. Non
sapevamo cosa pensare, finché la ragazza non ha cominciato a
gridare e a piangere».
Qeni si mise a sedere, avvolgendosi nella coperta, l’espressione vacua.
«Dimmi che ha mentito. Dimmi che è tutta una sua
invenzione perché l’hai sgridata o ti sei rifiutato di
obbedirle. Possiamo capirlo».
Il Guardiano rimase chiuso in un ferreo mutismo, obbligandolo ad insistere.
«Dice che la Dea è intervenuta perché hai cercato
di possederla. Le hai detto che volevi liberarla dalla sua
schiavitù di adepta e possibile Chana facendola tua e che eri disposto a sposarla».
Fu solo a quelle parole che Qeni ebbe una reazione. Sbatté gli
occhi, quasi si fosse appena risvegliato da un sonno durato secoli e
guardò il Comandante. Si stupì della scelleratezza del
discorso che aveva elaborato per convincere la Bie’nai della
bontà delle proprie azioni e sentimenti. Come aveva potuto
confondere i propri desideri con quelli di Alimad? Si era convinto di
doverla salvare, ma da cosa? Da un destino che lei bramava? I suoi
pianti, le sue paure, erano finzioni per ottenere attenzione,
l’aveva sempre saputo. Eppure, aveva preferito illudersi che
provasse qualcosa e che stesse cercando realmente il suo aiuto ed il
suo amore.
«Dimmi che è pazza, Qeni! Non voglio credere a quella
ragazzina! Ti conosco, sei un Guardiano degno di questo nome, non puoi
aver fatto ciò che dice!» esclamò l’altro
afferrandolo per le spalle.
«Sì, invece. L’ho fatto. Ho cercato di prenderla
contro la sua volontà» confessò gelido, tastandosi
il petto in cerca di chissà cosa. «Pensavo di salvarla da
una vita che non le piaceva, ma sbagliavo. Anche se in quel momento ero
sicuro di fare la cosa giusta».
«Non essere sciocco!» sbottò, scuotendolo
nuovamente. «Qeni, sei ancora sconvolto da quello che è
accaduto, non sai ciò che dici! Nessuno ti obbliga a sottostare
ai capricci di quella sgualdrina. Lo sanno tutti che ti provocava. Non
sei tenuto ad accollarti una colpa che non ti appartiene!»
«Ma l’ho fatto» insisté pacato. «Ho
davvero cercato di averla. Ero convinto di essere nel giusto, ma ora
capisco di essere stato tratto in inganno. Ho contravvenuto alle regole
pensando di poter rivestire di giustizia un’azione orribile. Ero
sicuro che lo volesse anche Alimad».
«Allora è come dicevo! Lei ti ha istigato!» esclamò trionfante il militare, allontanandosi un poco.
Quella dichiarazione poteva salvare la vita del ragazzo e lui voleva salvarlo a tutti i costi.
«Ma io non dovevo rispondere. Sono un Guardiano, dovevo
proteggerla da sé stessa e da me. Sono venuto meno ai miei
compiti. Devo pagare» e così dicendo, si alzò.
Frugò nella stanza, fino a trovare il pugnale. Si avvicinò alla porta, levando la lama sopra la testa.
«Qeni, che vuoi fare?» chiese preoccupato il Comandante, balzando in piedi.
«Vi aiuto nella vostra decisione».
L’arma balenò nell’aria e in pochi attimi, le insegne della blusa di Qeni caddero a terra.
«Il mio posto non è più qui: secondo le leggi dei
Guardiani, la condanna per il mio gesto è la morte. Ma ho
già intaccato la sacralità di questo posto, non voglio
peggiorare le cose. Il mio sangue non laverà la colpa che porto addosso»
spiegò, raccogliendo le poche cose che gli appartenevano.
Il Comandante comprese la sua decisione. Lo seguì nello spiazzo,
fin sotto la statua della Dea, e lo attese mentre gettava insegne e
coltello tra gli ex-voto. Percorsero a ritroso il corridoio
attraversato da Qeni dodici anni prima. Il rumore dei passi non
sembrava spaventoso com’era stato allora. Anche la distanza tra
le porte sembrava essersi ridotta.
«Dove andrai, ragazzo? Tornerai dai tuoi genitori?» gli chiese preoccupato.
Lui gettò una rapida occhiata alla città alle sue spalle,
punteggiata delle tremule luci delle lanterne e delle fiaccole. Nelle
vie principali le gente passava da una porta all’altra, per
raggiungere le tavole apparecchiate nelle case e nelle locande.
«Non ricordo la strada» ammise quieto, aggiustando la sacca da viaggio sulle spalle.
Era difficile spiegare quale maledizione avesse steso su di lui la Dea.
Era strano sentirsi perfettamente lucido, attento, distaccato e vuoto.
Gli eventi erano solo azioni e parole.
«Tieni. Potrebbe servirti» disse, porgendogli il proprio pugnale.
Il giovane lo guardò interrogativamente, faticava a comprendere il motivo di quel dono.
«L’avevo fatto benedire dalla Chana
alla mia nomina ed è sempre stato una sorta di bussola, che mi
aiutava nei momenti in cui non sapevo che fare. Voglio che tu lo tenga.
Prendilo come un augurio per la tua nuova vita, qualunque possa essere.
La Dea può averti punito, Qeni, anche se non so come. Non
può però chiedermi di fare altrettanto»
chiarì. «Tranquillo, ragazzo. Andrò a pregare ogni
giorno ai piedi della statua, per chiederle di rinnovarmi la sua grazia
e di offrirti il perdono. Sono certo che lo farà»
aggiunse, notando la sua perplessità.
Quando il sole sorse e il Consiglio dei Guardiani si riunì, Qeni
aveva lasciato da tempo i confini della città. Aveva raggiunto
il mercato, fermandosi il tempo necessario per spendere qualche moneta
in un mantello pesante e un po’ di cibo per il viaggio. Poi si
era unito alla prima carovana in partenza, senza domandare dove fosse
diretta.
***
Ad ogni incisione, una voce dentro di lei gridava e supplicava che la
lasciassero in pace, che la smettessero di torturarla perché non
aveva fatto nulla di male. Le pietre penetravano nella carne,
grattavano contro le ossa, causandole fitte lancinanti che la
conducevano sempre più vicino al crollo. Ma appena apriva gli
occhi e vedeva attorno a sé la torma di Bie’nai e novizie con gli occhi sgranati ed adoranti, che la veneravano già come la nuova Voce della Signora,
sentiva di potercela fare, di poter sopportare un altro sfregio.
Sì, sentiva la forza della loro venerazione nei suoi confronti,
immaginava gli onori che le avrebbero tributato, la loro ammirazione.
«Alimad?» chiamò qualcuno.
Lei prese un profondo respiro, sforzandosi di sorridere e di aprire gli occhi.
«Continuate» la esortò a denti stretti.
Lo strumento d’oro riprese a tagliare e le dita a spingere i
gioielli al loro posto. Alimad avrebbe tanto voluto che qualcuno le
stringesse la mano, che la consolasse per ciò che era
costretta a patire per potersi innalzare sopra le altre. Stava morendo
di paura e dolore. Nessuno l’avrebbe soccorsa o le avrebbe
sussurrato parole di conforto. Nessuno sapeva amarla come desiderava.
«È il momento» sussurrò di nuovo l’Anziana e lei capì.
Capì di doversi alzare da quel pavimento, dove era stata
rivestita degli abiti rituali ed il suo cranio rasato. Si girò
sul fianco, ascoltando i respiri mozzati di chi osservava, tornando a
provare un’immensa gioia nel sentirsi al centro di tanta
attenzione. A fatica si rannicchiò e spinse con le mani per
riuscire a mettersi in piedi. Sui palmi aperti e tremanti la Bie’nai
depose le ciocche nere recise poco prima. Le lacrime minacciarono di
scendere lungo le sue guance, rammentando quanto tempo era occorso
perché quella chioma divenisse tanto bella ed ammirata tra le
adepte.
S’incamminò nel grande salone, respirando a fatica. Il
sangue colava dal capo sulle vesti tempestate di gemme, mentre si
avviava con passo incerto all’altare, tenendo le braccia tese
avanti a sé. L’ultimo sacrificio per essere Chana. Chana Alimad.
Arrancò lungo i gradini che conducevano all’ara
sacrificale. Il mondo barcollava e si frammentava. Aveva freddo. Le
forze scivolavano via goccia a goccia, formando una scia ondulata
dietro di lei. Cadde in ginocchio, stringendo i capelli con forza.
Gettò un’occhiata alle novizie ed alla luce nei loro
sguardi ammirati ed invidiosi. Ognuna di loro avrebbe voluto trovarsi
al suo posto, essere venerata, oggetto del tributo ossequioso di nobili
e potenti. Raggiunse l’altare e posò le ciocche nel bacile
d’oro. Vuotò sopra di essi il contenuto di
un’ampolla e li guardò dissolversi.
«Onorate Chana Alimad!» invocò la Bie’nai Anziana.
E quando il coro esultante delle donne le rispose, Alimad si
inginocchiò toccando con la fronte la pietra sacrificale e
pensò tra sé, colma di orgoglio:
«Sì, onoratemi. Onoratemi tutte».
***
Il carro si fermò cigolando nella piazza di terra battuta. Uno
alla volta, i braccianti scesero a terra, stiracchiandosi ed
imprecando. La cittadina era piuttosto chiassosa per via del mercato
agricolo. In quel periodo le ceste erano ancora semivuote, le primizie
avrebbero cominciato a far capolino sulle bancarelle solo di lì
a qualche tempo. Ci si sarebbe dovuti accontentare delle ultime scorte
invernali, sperando non si fossero guastate nei magazzini. Gli operai
si guardavano intorno, in attesa che giungesse il Borgomastro per poter
intavolare la contrattazione per le loro prestazioni.
Intanto, dal gruppo si era staccata una figura, che camminava senza
apparente destinazione tra le vie gremite di gente. Aveva gettato
indietro il cappuccio del mantello ed i suoi capelli biondi e
disordinati avevano attirato più d’uno sguardo. Chiese
informazioni ad un paio di bighelloni seduti sui gradini del brolo. Questi
gli indicarono la bottega dell’unico fabbro nei paraggi, che
sorgeva in prossimità del ponte per Gravia.
L’edificio sorgeva isolato, fronteggiato da un cortile dove una
coppia di bambine stava bisticciando a gran voce. Trovò il
fabbro nella fucina, intento a provare il filo di una roncola.
L’officina era disordinata, ingombra di attrezzi da sistemare o
da consegnare. Aveva l’aria di navigare in pessime acque, a
giudicare dalla mole di lavoro arretrato e dallo strato di polvere su
alcuni attrezzi.
«Che ti serve, giovanotto?» domandò il Maestro, senza abbandonare la postazione.
Qeni si avvicinò e gli porse il pugnale ricevuto dal Comandante.
«Ha bisogno di essere affilato» rispose sfoderandolo.
Il fabbro fece balenare il metallo in una lama di luce che entrava dalle persiane accostate.
«Bell’arma. Eccellente fattura. Com’è che è così rovinata?» chiese.
«Banditi. Attaccabrighe. Gente di questo tipo».
Uno sguardo torvo passò in rassegna il corpo tarchiato di Qeni.
«Che mestiere fai?»
«Al momento, nessuno. Fino all’alba ero assoldato per difendere un carro di braccianti» raccontò.
L’uomo annuì distrattamente, studiando con insistenza le mani del giovane.
«Dovresti avere più cura dell’arma che ti porti appresso» sentenziò.
«Una volta mi piaceva stare nell’armeria. Passavo ore a
smontare else e impugnature, a lucidare scudi e a fare il filo alle
spade. Era un bel compito» mormorò, sfiorando il banco da
lavoro.
Erano già trascorsi due anni da allora e al giovane parevano una vita intera.
La roncola ed il pugnale vennero posati con malagrazia sul tavolaccio.
«Hai detto di aver finito col tuo lavoro, giusto?» s’informò. «Hai bisogno di denaro?»
«Non ora».
«E di un lavoro? Uno vero, intendo. Non quella roba da diseredato».
Qeni si guardò intorno, apparentemente senza alcun interesse.
«Sto cercando un apprendista. Uno che abbia voglia di imparare il
mestiere come si deve, che sia abbastanza forte da reggere la fatica e
che sappia andare con le sue gambe, senza dovergli ripetere le cose
mille volte» disse il fabbro, tastandogli braccia e schiena senza tanti
complimenti. «Sei fuori età, ma nella Corporazione
scarseggiano le nuove leve, non vedo perché dovrebbero dirmi di
no. Due braccia sono sempre due braccia» aggiunse, tornando a
studiare la lama del pugnale. «Ti interessa?»
La proposta era allettante e lui era stanco di viaggiare.
«Da dove comincio?» domandò, facendo ruotare una pesante mola.
L'altro sorrise, riponendo il pugnale su uno scaffale.
«Beh, non puoi cominciare ora» grugnì, raccogliendo la sua
sacca da terra e facendogli segno di seguirlo. «Per prima cosa ti
serve un pasto decente, dubito che quei vagabondi con cui sei arrivato
siano in grado di preparare qualcosa di meglio di una brodaglia zeppa
di foglie amare. Ed è ora di pranzo, ho fame. Quindi lascia
perdere la fatica, per ora. Se vuoi tenerti stretto questo lavoro, la
prima regola è essere sempre in forze. E poi, penseremo a
vestirti come si conviene ad un vero apprendista. Conciato così
sembri un soldato di ventura cagato da un nubrio con i vermi».
Vorrei fare un sentito ringraziamento a chi sta seguendo questa storia
(noti e non): LailaOsquin, ScarlettBennet, Serenity Moon,
Hellister, tamakisskiss e _smartys_, oltre ovviamente alle giudici del
contest!
Ovviamente siete invitate a darmi un parere, sono curiosa di sapere cose ne pensate.
Un ringraziamento speciale infine a chi l'ha già recensita (e spero continui a farlo!): Eastre, Gaea e Hellister.
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Capitolo 6 *** V. ***
V.
V
Sentì un passo leggero fra gli attrezzi e le cataste di armi da
rifinire. Rimase immobile, gli occhi socchiusi. Non era la prima volta
che qualcuno s’intrufolava nel laboratorio, ma questo non
sembrava il solito ladruncolo. Si aggirava con discreta sicurezza nella
bottega e pareva diretto proprio alla scaletta che conduceva di sopra.
Attese, scricchiolio dopo scricchiolio, che l’intruso si
mostrasse, la mano chiusa attorno al pugnale.
«Cosa ti porta qui, Neali?» domandò, scoprendo la
secondogenita del Maestro di bottega nell’alone tremulo della
lucerna.
La ragazza trasalì, aggiustando nervosamente la tunica che indossava.
«Vengo a nome di mio padre. Avrebbe voluto mandare Tieri, ma l’ho convinto che non era adatta».
«Adatta?» chiese, incuriosito dalle parole e dall’aspetto dell’intermediaria.
Era insolito che una ragazza s’intrufolasse nel misero alloggio
di un uomo nel cuore della notte, abbigliata come se fosse appena scesa
dal proprio letto, per porgere una proposta da parte del genitore.
La giovane si avvicinò, facendo attenzione a non urtare le casse
ed il basso soffitto, e sedette accanto al giaciglio. Lui si
sollevò un poco sui gomiti per poterla vedere in viso. Nella
tenue luce del lume poteva scorgere il battito del suo cuore far
sobbalzare la stoffa sottile. Per quanto tentasse di dominarsi, lo
sguardo di Neali continuava a correre alla pelle umida dell’uomo,
ai muscoli che la tendevano.
«Mio padre sta diventando vecchio, nonostante rifiuti di
ammetterlo. I suoi occhi non sono quelli di un tempo e la sua mano si
è fatta debole. È stanco e la notte lamenta dolori
ovunque. Ha bisogno di qualcuno che porti avanti la bottega e qui di
lavoro ce n’è molto, lo sai» esordì.
Il pagliericcio frusciò mentre Qeni si girava sul fianco.
Notò che lei stava cominciando a sudare e si domandò se
dipendesse dal caldo opprimente della soffitta o da quel che stava
cercando di dire. O dal fatto che si fosse resa conto che, al di sotto
del lenzuolo, lui fosse nudo.
«Non avendo avuto figli maschi, non può trasmettere per
discendenza diretta i suoi averi. Potrebbe farlo solo se un uomo si
legasse alla nostra famiglia. Un uomo che conoscesse il mestiere bene
quanto lui, che sapesse gestire ogni aspetto della fucina, un uomo che
non si faccia spaventare dai sacrifici o dalle difficoltà. Sei
stato suo apprendista per cinque anni e da tre lo stai praticamente
sostituendo. Ormai ti considera quel figlio che mia madre non ha saputo
dargli. Sposandomi, lo faresti felice ed otterresti tutto questo. Senza
contare che è disposto a nominarti suo successore anche come
Maestro di fucina. La Corporazione non si opporrebbe e diventeresti una
persona molto rispettata».
«È per questo che sei venuta?» domandò, sedendo sul bordo del pagliericcio.
La giovane annuì, abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
Voleva impedirsi di continuare a fissare tutto quello che il lenzuolo
non copriva del fabbro. Non si era mai sentita in imbarazzo nel vederlo
a torso nudo, quando dopo una giornata di lavoro andava a rinfrescarsi
alla fontana del cortile. Spesso lo raggiungeva, portandogli abiti
puliti e qualcosa da sbocconcellare in attesa della cena. Restava al
suo fianco, in silenzio, contemplando la forza che il suo fisico
emanava, ma in quel momento non riusciva a fare a meno di sentirsi
nervosa e le pareva di dimenticare ogni parola del discorso preparato
con tanta fatica.
«Mio padre vorrebbe che tu ereditassi tutto questo. Desidera
affidarti il lavoro di una vita e vederlo proseguire nel migliore dei
modi. È sicuro che tu sia la persona giusta. Ed io sono qui per
chiederti di accettare la sua proposta».
«E tu? Cos’è che desideri?» le chiese Qeni, studiandola con attenzione.
Lei esitò un istante, mordendosi il labbro. Poi si sollevò e lo baciò sulla bocca.
«Voglio essere tua moglie, creare una famiglia con te» ribadì decisa, guardandolo negli occhi.
L’uomo presentiva da tempo che il Maestro stesse architettando
qualcosa per coinvolgerlo in prima persona nel laboratorio ed ora ne
aveva avuto conferma. Ciò di cui non sospettava erano Neali e la
sua scelta.
«Qeni» chiamò, prendendogli la mano e guidandola attraverso la scollatura della camicia, fin sul seno.
Rimase a guardarla per qualche istante. La sentiva tremare sotto il suo
palmo, turbata dall’intimità di quel contatto. Eppure non
cercò di sfuggirgli quando lui serrò leggermente la
presa, né si lamentò della ruvidezza delle sue dita.
Pareva quasi trovarlo piacevole. Pareva desiderarlo.
«Tuo padre ti ha detto cosa ha fatto la Dea? Conosci la mia
pena?» le domandò ritraendo la mano per poggiarla sul
proprio petto. «Sai cosa mi domandi? Non potrei amarti nel modo
che tu vorresti o immagini. Potrei darti dei figli, mantenerti, essere
al tuo fianco nei momenti difficili, ma non ho un cuore da donare in
cambio del tuo. L’amore che dimostri per tuo padre e tua sorella
è lodevole, ma vorresti davvero offrirti come merce di scambio
in nome di un sogno irrealizzabile? Dovresti cercare un uomo capace di
condividere i tuoi sentimenti, non uno che non ne possiede».
«Ti prego, non dire così, Qeni» mormorò.
«Anch’io ci ho pensato a lungo e mi sta bene, o non avrei
insistito tanto con mio padre perché mandasse me al posto di
Tieri. E non sono affatto una merce di scambio né una vittima
sacrificale. Non m’importa che tu non possa provare amore o
tristezza. Mi hai sempre rispettata, anche quando avrei meritato di
essere scacciata in malo modo, e questo significa molto per me. Mi hai
rivolto parole gentili dopo dure giornate di lavoro o dopo che mio
padre ti aveva punito. Non mi hai mai fatto del male. Non so se
potrò essere tanto fortunata con un altro uomo. E poi, mi sono
innamorata di te per la persona che sei: un uomo riservato,
intelligente, sicuro di sé, poco affettuoso, certo, ma che sa
farmi sentire serena e protetta. Felice».
Il giovane fabbro scosse il capo.
«Le cose non stanno esattamente così. Il fatto di non
possedere più alcun sentimento mi ha solamente spinto a valutare
gli eventi per ciò che sono: fatti, gesti, parole. Questo non
toglie che abbia comunque agito male ed abbia delle colpe da scontare.
Non provo nulla dentro di me e non sono più in grado di
comprendere le emozioni altrui. Quello che a me sembra la soluzione
corretta ai problemi, spesso si è scontrata con l’impeto e
le remore affettive di altri».
Neali sorrise indulgente, sedendogli accanto.
«Tutti sbagliamo, Qeni, ma è ingiusto ostinarsi a volerne
pagare le conseguenze per tutta la vita. O almeno, non possiamo
pagarne più di quelle che ci spettano. La Dea non ha motivo di
continuare ad accanirsi su di te: la pena che ti ha riservato è
molto grande ma dubito volesse condannarti ad una vita infelice per il
resto dei tuoi giorni, o non ti avrebbe condotto fin qui. Sono certa
che non faremo alcuno sbaglio insieme. Tu avrai cura di me e io di te,
ciascuno a proprio modo. Amerò io per entrambi. E insieme avremo
cura dei nostri figli e della fucina di mio padre» disse,
poggiando il capo contro la sua spalla. «E se pensi che dietro
tutto questo ci sia solo il volere di mio padre, allora sappi che ti
sbagli. Non ho detto che mi sono innamorata di te al solo scopo di
convincerti; l’hai detto tu stesso che i sentimenti, per te, non
hanno peso, che senso avrebbe avuto? Ho lasciato il mio cuore libero di
parlare, ho voluto sapessi la verità. Se mio padre non ci avesse
detto della sua decisione, sarei comunque venuta da te. Detesto
l’idea di un’altra nel tuo letto, specialmente mia
sorella» ammise aspra.
Qeni rimase in silenzio per un po’, valutando la proposta e
soppesando le parole di Neali. Tieri amava attaccar briga, comandare,
alzare la voce con chiunque, soprattutto quando aveva torto. Non erano
mai andati d’accordo, avrebbero finito col ferirsi a vicenda, e
Qeni sapeva di non poter fare un torto simile all’uomo che
l’aveva accolto e gli aveva insegnato un mestiere. La ragazza
seduta accanto a lui invece, aveva sempre mostrato maggiore
maturità e quel suo gesto non faceva eccezione, sebbene fosse
tutt’altro che disinteressato.
«Come gli farai conoscere la mia decisione?»
La giovane arrossì, giocherellando con un lembo della camicia.
«Devo lasciar cadere questa da là» rispose indicando una piccola apertura che dava verso il cortile.
Leggeva sul suo viso la trepidazione nell’attesa della risposta,
il desiderio di poter superare quel confine che ancora li separava. Lo
amava, nonostante tutto.
«Non farlo attendere».
La seguì con lo sguardo mentre raggiungeva di corsa la
finestrella. Temette di vederla tramutarsi nella Alimad dei suoi
ricordi, quella che immaginava giocare tra gli aironi mentre lui stava
sulla riva dandole le spalle, quella figura sottile e bruna che cercava
conforto fra le sue braccia nascondendo il volto dietro i capelli neri
perché non scoprisse l’inganno. La Alimad che aveva
allontanato da sé. Ma non accadde niente del genere. Vide solo
la camicia risalire lungo il corpo di Neali e sparire nel buio. Lei era
morbida, il suo corpo era molto più simile a quello di una donna
che a quello di una ragazza nel pieno dell’adolescenza. Aveva la
pelle dorata, punteggiata di efelidi che si facevano più fitte
sulle spalle e sulle guance, là dove il sole
l’accarezzava, e i capelli bruni, ondulati e ribelli, ricordavano
i campi di parga poco prima della mietitura.
Udirono il passo pesante ed affrettato del fabbro che tornava in casa
per dare la notizia alla moglie e alla figlia maggiore. Neali
sorrise all’oscurità, provando una sorta di gaia amarezza:
quella notte avrebbe oltrepassato una porta da cui non avrebbe
più potuto far ritorno. Cessava d’essere una figlia e una
fanciulla spensierata per divenire moglie e donna. Quando tornò
sui suoi passi, impacciata e sorridente, non cercò di
nascondersi né di fare in modo che lui guardasse altrove.
Osservò la mole massiccia di Qeni curva sotto le travi. Si era
alzato per consentirle di sdraiarsi nel povero giaciglio. Lei si
stese sulle lenzuola logore e umide, il poco che poteva
offrirle per quella notte. L’indomani avrebbero preso dimora
sotto lo stesso tetto della sua famiglia, com’era usanza da
quelle parti.
Si sentì piccola e fragile mentre l’uomo le si stendeva
accanto. I muscoli che aveva contemplato per tanto tempo le si
chiudevano intorno, imprigionandola in un abbraccio caldo e ruvido. Le
mani di Qeni avevano piegato i metalli più duri, come si
sarebbero comportate su di lei? Avrebbe potuto spezzarle un braccio o
soffocarla con il suo peso, come qualche volta aveva temuto? Avrebbe
voluto domandarglielo, ma le carezze, i baci e la stretta rassicurante
del suo compagno cancellarono in fretta ogni preoccupazione.
Trasalì spaventata solamente quando sentì
l’eccitazione di Qeni premerle con vigore sull’interno
coscia.
«Farà male?» domandò trattenendo il fiato.
Il fabbro si discostò un poco. Sapeva di non avere completamente
il controllo della situazione. Se Neali avesse provato dolore, non
dipendeva unicamente da lui.
«È possibile» disse, sollevandosi sui gomiti.
La risposta la rincuorò solo in parte.
«Ma passerà, vero? Dopo sarà bello?» insisté, inquieta.
«Hai paura?» domandò.
Sarebbe stata una reazione più che naturale a ciò che
stava per accadere. Le voci sulla prima volta di una donna erano
contrastanti e c’era la brutta abitudine di dare ascolto alle
peggiori.
Con un sospiro, Neali allungò una mano sul ventre del novello
sposo che non si mosse, permettendole di guardarlo e toccarlo come
meglio credeva.
«Mia madre dice che quando mi prenderai mi farai così male
che sanguinerò per giorni interi e rischierò di morire.
Piangerò, griderò e non vorrò mai più
dividere il letto con te, che odierò il tuo corpo e tutto quello
che mi fa» disse, dubbiosa.
«E cosa pensi, invece?»
La vide sorridere sorniona, mentre lui tornava a sistemarsi tra le sue gambe.
«Penso che, se avesse ragione, non saprei spiegarmi come possa la
moglie del macellaio aver avuto nove figli in undici anni. Quella donna
è sempre molto allegra quando accenna alle notti con suo marito.
Solo una pazza sarebbe felice di soffrire».
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Capitolo 7 *** VI. ***
VI.
VI
Alimad si girò. Al suo fianco era stesa la graziosa adepta con
cui aveva trascorso la notte. Da giorni obbligava le giovani del suo
seguito ad alternarsi al suo fianco, assecondando ogni capriccio,
incluso quello di farle compagnia durante il sonno. Spesso,
all’alba erano doloranti e stravolte dall’aver dormito a
terra, come cani fedeli, oppure recavano i segni di nottate insonni,
trascorse a cantare o a pregare al posto della Chana.
Quella notte però, Alimad non aveva potuto chiudere occhio.
Ciò che l’attendeva al sorgere del sole la spaventava a
morte. Era giunta una missiva da parte del Sovrano, che esigeva il
mantenimento del patto tra la corona e la Dea. Patto a cui solo la Chana in carica poteva adempiere.
Irritata dalla tranquillità della Bie’nai,
la spinse giù dal letto e prese ad insultarla per la mancanza di
dedizione nei suoi confronti. Intimorita, la giovane corse a prepararle
un bagno caldo, l’aiutò a lavarsi e a prepararsi per la
cerimonia, senza smettere un istante di lodarla.
«Che giorno felice, Chana!
Voi ed il Sovrano darete un nuovo figlio della Dea!»
cinguettò. «Siete una donna così speciale! Davvero
la Dea non poteva scegliere nessun’altra!»
Lei la ignorò. Fingeva che non le importasse, ma il suo cuore la
tradiva. Batteva con tanta foga da far tintinnare i piccoli ornamenti
del manto che indossava.
Rimase sola per un po’, asserendo di volersi raccogliere in
preghiera, ma non fece altro che maledire il giorno in cui era stata
prescelta. Inveì contro il volere della Dea, che l’aveva
strappata ad un destino vergognoso per darla in pasto ad un fato ancor
peggiore. Cercò per l’ennesima volta una via di fuga, ma
tutti i dintorni del Tempio erano gremiti di folla.
Sentì avvicinarsi l’Anziana.
L’espressione dura dell’adepta fece sgorgare lacrime
copiose nella Sacerdotessa. La donna non si fece commuovere e la
trascinò per i corridoi, fino al porticato. Celate dalle
colonne, osservarono la ridda di bandiere e stendardi punteggiare lo
spiazzo.
«Mandatelo via, ve ne prego. Ditegli di tornare un’altra volta» supplicò.
«È vostro dovere, Chana»
replicò secca. «Ora uscite, salutate il popolo, gettate il
mantello e andategli incontro. Quando sarete ai piedi della scalinata,
lui si prostrerà ai vostri piedi domandando la benedizione di
rito, le preposte vi denuderanno e voi proclamerete i Giorni del
Concepimento. Parlerete a voce alta, scandendo le parole. Fatto questo,
solleverete una gamba e l’appoggerete sulla spalla del Sovrano.
Tenetela più in alto che potete, il Sovrano deve vedere che
siete intatta. Tenete la schiena dritta, tutti devono vedervi offrire
il vostro corpo per il bene di queste terre».
La Chana volse lo sguardo in basso. Il Sovrano era allungato sotto un
baldacchino e si massaggiava vistosamente l’inguine, ridendo e
parlottando col suo attendente. Era molto più vecchio di lei.
«No… no, vi supplico… non voglio! Non potete farmi questo!» pianse strattonandola.
La donna si liberò dalla presa con aria schifata.
«È la Dea a comandarlo, non io. Dovreste saperlo, visto
quanto vi vantate di essere la sua Prediletta» sibilò
cinica. «La Dea è amore, donarsi agli altri in maniera
disinteressata. Le nostre pene e le nostre paure sono nulla al
confronto dei benefici che Lei
ci dà l’onore di diffondere. La vostra fertilità
è il segno più grande del legame che ci unisce alla casa
regnante. Senza questa unione, i Guardiani potrebbero fare ben poco per
proteggere noi ed i nostri beni».
I singhiozzi di Alimad aumentarono, ma la Bie’nai
non tentò di placarla. L’aveva sempre ritenuta indegna del
suo ruolo, una bambina capricciosa e presuntuosa, che manipolava gli
altri a proprio piacere. Tuttavia, aveva dovuto accettarla per
volontà di Chana Cleje e della Dea.
Per non frapporre ulteriori indugi, la spinse fuori, facendola quasi
cadere a terra. La gente applaudì, intonò canti e grida
di gioia. Il Sovrano si alzò, lisciando la veste e raddrizzando
la corona.
«Avanti, Chana» la esortò la Bie’nai,
facendole alzare le braccia. «Amate essere venerata, no? Ecco,
tutte quelle persone venerano il vostro titolo e quell’uomo
venererà il vostro ventre».
Tremando e trattenendo le lacrime dietro una maschera di
felicità e partecipazione, Alimad compì il rituale. Aveva
sempre desiderato sentirsi al centro dell’attenzione, avere in
pugno i pensieri degli altri. Ma in quel momento, avrebbe solo voluto
comandare a tutti di andarsene e dimenticarla.
«Vedrete Chana, che
insieme onoreremo magnificamente la Dea» mormorò il
Sovrano, lascivo, percorrendo più volte con sguardo affamato il
corpo nudo di Alimad.
La matrigna dell’uomo si avvicinò, inchinandosi a baciarle i piedi ingioiellati.
«Chana Alimad, vi
garantisco che mio figlio sarà un amante eccellente: è
stato istruito dalle migliori cortigiane di palazzo. Saprà
essere all’altezza del sacrificio che gli viene comandato. Non
avete di che temere e se ci aiuterete, la nostra stirpe avrà
presto un nuovo erede».
Presto. Alimad si concentrò su quella parola, nella speranza che
la Dea la esaudisse anche quella volta. Mettere al mondo un maschio.
Una volta sola sarebbe stato sufficiente.
«Siete molto bella, Chana.
Cercherò di darvi molto piacere e di non ingravidarvi subito.
Potremmo non godere di nuovo della nostra intimità, tanto vale
prolungarla il più a lungo possibile, non trovate?»
ammiccò il Sovrano, sfiorandole maliziosamente un capezzolo.
***
Sulla grande lastra di pietra traslucida scorrevano le immagini dei festeggiamenti al Tempio, richiamate dalla Bie’nai
inviata per l’occasione. I duchi e tutti i rappresentanti del
baronato s’inchinavano al passaggio del Sovrano e del neonato
principe che teneva in braccio. L’erede al trono piangeva,
spaventato dal tripudio di grida e squilli di trombe che ne
accompagnavano il passaggio. Cori e applausi si levarono dalla folla
radunata di fronte al palco.
«Si dovrebbe vivere per giornate come queste» esclamò soddisfatto un uomo.
«Lo dici perché non stai lavorando i campi o perché
ci viene presentato l’erede al trono?» chiese quello che
stava al suo fianco.
L’agricoltore osservò attentamente l’espressione di
Qeni. Si conoscevano da diversi anni, ma ancora stentava a capire se il
fabbro fosse in grado di scherzare. Il suo modo di parlare e
atteggiarsi, per quanto schietto e rispettabile, era difficile da
interpretare. L’unica che sembrava aver trovato la chiave giusta
era sua moglie ed era stata abbondantemente ripagata per la sua
arguzia: tutte le donne del vicinato la invidiavano per avere un marito
riservato, buon padre e gran lavoratore.
«Non verrai a dirmi che ti manca l’incudine» rimbrottò, aggrottando la fronte.
«Un uomo che conoscevo, una volta mi disse che si apprezza
maggiormente ciò che si fa, quando non lo si fa» rispose,
i ricordi che andavano ad una persona lontanissima nella memoria.
«E negli anni ho scoperto di condividere la sua idea, Crau».
Di tanto in tanto si domandava come stesse il Comandante, soprattutto
se fosse ancora vivo. La sua figura era stata sbiadita dal tempo e dai
volti della gente che aveva incontrato dopo l’abbandono del
Tempio. Cercava di immaginarlo invecchiato di oltre vent’anni,
mentre passeggiava sotto i portici che contornavano lo spiazzo del
Tempio della Dea, entrambe le mani appese alla cintura, com’era
sua abitudine. Erano immagini confuse, simili a quelle dei sogni,
pronte a sparire al primo respiro. Avrebbe voluto domandare notizie al
Guardiano della Bie’nai, ma sapeva che, in quanto reietto, non gli sarebbe stato possibile avvicinare il difensore senza rischiare la vita.
«Tu hai conosciuto davvero gente strana, Qeni, non
smetterò mai di dirtelo» fece Crau, dandogli una vigorosa
pacca sulle spalle. «Però, se me lo permetti,
cercherò di farti apprezzare ancora di più quel tuo
lavoraccio sporco e rumoroso, facendoti dimenticare persino come ti
chiami!»
Si diressero verso il fondo della piazza, lontani dalla ressa festante
e presero posto sotto una pergola. Due boccali di birra li raggiunsero
insieme all’oste, un tipo mingherlino con un gran sorriso
stampato sui lineamenti spigolosi.
«Uomo fortunato!» sbuffò il locandiere sedendo al
fianco di Qeni. «Avrà pur avuto tre femmine, ma ora la Chana
gli ha dato un bel marmocchio sano e robusto. Pensate, aver figli senza
doversi sorbire una moglie e le sue lagne continue! La Dea non è
stata indulgente con noi. Almeno, non con me».
«Ognuno di noi porta il fardello che Lei gli ha posto sulle spalle».
«Sante parole, Maestro» fece una voce rauca dal tavolo accanto.
Era il Borgomastro che, dopo aver preso parte all’avvio della
cerimonia, aveva preferito seguirne lo svolgimento da un punto
tranquillo della piazza, in compagnia di una grossa pagnotta di pane
nero ed una botticella di vino novello.
Scambiarono poche parole, interrotti spesso dalle grida di gioia della gente.
«Ditemi, Maestro Qeni, quanto siete devoto alla Dea?»
«Perché lo domandate, Borgomastro?»
«Siete un uomo morigerato, padre di famiglia, membro stimato
della vostra Corporazione, rispettoso delle leggi e vi ho veduto
partecipare spesso alle celebrazioni. Però non sono mai riuscito
a capire fin dove arrivasse la vostra devozione. Non lasciate
trasparire molto di questa parte di voi».
Il fabbro bevve una lunga sorsata, scrutandolo da dietro il boccale.
«Cosa intendete per devozione?» s’informò.
L’aveva sempre ritenuto un argomento troppo spinoso per affrontarlo con un qualunque interlocutore.
«Unirsi agli altri per rendere lode nelle feste comandate,
rendere omaggio ai templi ed alle statue nella nostra cittadina, fare
le donazioni richieste annualmente, rispettare il Suo nome ed i Suoi insegnamenti il più possibile».
Come immaginava, infatti, il Borgomastro aveva un’idea molto
pragmatica della devozione e della fede. Non contemplava affatto
l’affidare sé stessi ad un’entità che nessuno
- eccetto lui - aveva mai avuto l’opportunità
d’incontrare. D’altra parte, era il suo stesso ruolo a
spingerlo a quelle considerazioni: a lui spettava stabilire
l’entità dei tributi da versare, amministrare leggi e
tenere vive le celebrazioni religiose.
«Quindi, a vostro giudizio, queste cose denotano la devozione di un uomo alla Dea?»
«Beh, è quello che ho sempre pensato» rispose, trovando cenni d’assenso da parte degli altri.
«Allora, ritenetemi pure un uomo estremamente devoto» rispose levando il boccale.
I compagni lo imitarono, facendo cozzare le birre contro la botticella del Borgomastro.
Dalla calca uscì correndo una figuretta, che li raggiunse
schivando gli ultimi passanti che camminavano con la testa rivolta alle
immagini e i piedi in un’altra direzione.
«Padre! Padre! Avete visto?» domandò il ragazzino, lo sguardo colmo di meraviglia.
«Certo, Niza. Nessuno qui si è perso niente. Dico bene, signori?»
«Benissimo, Maestro» convennero i due uomini, levando i boccali per un ennesimo brindisi.
Al bambino non interessava il loro parere e proseguì estasiato.
«Avevano le armature! Tutti quanti! Come i cavalieri delle fiabe
di mia madre, ma erano veri! Veri! E avevano le spade, le lance! E
luccicavano tutte! Erano bellissime! Padre, abbiamo mai fatto delle
spade così belle? E le corazze? Le abbiamo fatte per quei
signori? E gli sono piaciute?» chiese tutto d’un fiato,
suscitando l’ilarità dei presenti.
«Forse un paio, ma eri ancora molto piccolo. Dubito tu possa ricordartene» rispose pacato il padre.
«Possiamo farne altre?» proseguì.
«Senza un ordine, rischieremmo di sobbarcarci una spesa inutile.
E come ti ho spiegato più volte, l’economia della fucina
passa soprattutto dalla copertura delle spese».
«Ma se troviamo un cavaliere che la vuole, possiamo fargliela?» intervenne un’altra voce.
Era il secondogenito di Qeni, Igraf, di poco più giovane di
Niza. Di solito passava inosservato perché non amava parlare o
mettersi in mostra come il fratello, ma la sua domanda rivelava una
discreta assennatezza per i suoi nove anni.
«Se dovesse presentarsi l’occasione, sarete i primi a cui lo dirò» promise l’uomo.
«E se divento io cavaliere? Un guerriero fortissimo? Di quelli
che combattono le persone cattive? Mi fate una spada bella come quelle,
padre? Tutta bella e piena di sassi colorati? Me la fate? Me la
fate?» implorò il maggiore, gli occhi dilatati
dall’emozione.
«Voglio farla io la spada di Niza» pigolò Igraf al
suo fianco, alzandosi quanto gli era possibile sulle punte dei piedi
per battere un pugno al centro del tavolo.
Gli sguardi di Crau e dell’oste si rivolsero divertiti e perplessi al fabbro.
«Certo, Maestro, che avete tutte le fortune di questo mondo!
Vostra moglie vi ha sfornato cinque figli, di cui quattro maschi, e
già due vogliono seguire le vostre orme! La Dea vi ha
benedetto!» esclamò il locandiere, scompigliando i capelli
del più piccolo, che rise.
«A proposito, dove sono i vostri fratelli e vostra madre?» domandò.
I bambini si volsero, frugano con lo sguardo tra la folla,
finché non li individuarono. La donna era seduta sulla gradinata
del brolo. Malves e Vara giocavano poco distante insieme ad altri
bambini, suscitando gli strilli di Corvan, seduto sulle ginocchia della
madre.
Neali gli sorrise, salutandolo col braccio libero. Il piccino la
imitò, dimenticando per qualche istante i giochi dei fratelli.
Qeni rispose a sua volta.
«Perché non offri tua figlia al Tempio? O uno dei maschi
magari? I Guardiani hanno sempre bisogno di nuove leve e una bocca in
meno da sfamare può solo farti comodo» osservò Crau.
Per un istante, Qeni si domandò se qualcuno avesse posto il
medesimo quesito a suo padre, molti anni addietro. Bevve un lungo
sorso, rendendosi conto con un certo stupore di non ricordare nulla
dei suoi genitori.
«Non ho potere sul loro destino» rispose, pulendo le labbra
dalla schiuma. «Decideranno loro quale strada percorrere. E se
questa li condurrà al Tempio, non mi opporrò».
Crau soffocò nella birra fresca una rimostranza. Si era stufato
di cercare di smuovere Qeni dalle sue convinzioni. Sentiva la testa
leggera ed aveva solo voglia di festeggiare e divertirsi, non perdere
tempo in quelle discussioni senza capo né coda.
«Maestro di fucina e di stramberie, stai parlando di bambini.
Quando avranno deciso sarà troppo tardi. Meglio che ci pensi
subito o potresti andare in malora» insisté l’oste
ridendo.
«Se la Dea li vorrà, indicherà loro il modo perché possano raggiungerla e servirla».
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Capitolo 8 *** VII. ***
VII.
VII
Avevano parlato poco
con Niza, ancora troppo debole per reggere un’intera
conversazione, ed erano scesi di sotto, nel salone dove la famiglia si
riuniva durante i pasti e le serate invernali. Duliane li aveva seguiti
finché il padre l’aveva mandata a chiedere che portassero
da bere all’ospite.
«Tuo figlio ti somiglia» disse la donna, accomodandosi su una panca.
«Più di quanto si possa immaginare».
Non erano solo i capelli biondi o gli occhi azzurri ad accomunarli. Non
erano il fisico robusto o le mani grandi. Non era la voce profonda o la
gestualità. Avevano dato in pegno una parte di loro stessi alla
Dea: tangibile o impalpabile, entrambi avevano offerto un sacrificio
alla loro divinità, poco importava cosa ciascuno avesse ricavato
da quell’esperienza.
«Quando l’hanno condotto al Tempio, dopo la battaglia, ho
pensato di avere una visione. Non credevo ai miei occhi. Eri tu.
L’ho persino chiamato col tuo nome. Vedevo lo stesso ragazzo
fuggito molti anni fa che veniva ad implorare il perdono per il suo
affronto» ammise. «Sono stata una sciocca ad aspettarmi
tanto da un esiliato».
«Non sono fuggito. Il comandante sapeva il perché del mio allontanamento e suppongo l’abbia esposto a Chana Cleje o non sarei qui».
La legge dei Guardiani era ferrea: chi si macchiava di gravi crimini contro di Lei o le sue ancelle, veniva punito con la morte. Solo la Voce della Signora
avrebbe potuto fermare l’esecuzione. Ma con lui sarebbe stato
inutile. Era morto quel giorno, sotto il portico delle scuderie.
Passarlo a fil di spada non avrebbe cambiato nulla.
«Allontanamento, fuga… questione di termini, Qeni. Parole.
Solo parole. I fatti rimangono: te ne sei andato, hai abbandonato il
tuo posto fra le guardie. Hai scelto l’esilio, dimostrando la tua
codardia ed ammettendo di non essere degno di farmi da Guardiano.
Avresti dovuto accettare il destino che giustamente ti spettava!»
«Quindi sarei dovuto restare per darvi soddisfazione,
perché voi poteste umiliarmi, non per consentirmi di domandare
perdono ed espiare le mie colpe» meditò.
L’insinuazione contenuta nel ragionamento andò a segno.
Alimad s’irrigidì, gli occhi scuri ridotti a due fessure.
Sì, lei desiderava vederlo strisciare, vederlo morire ai suoi
piedi, chiamando il suo nome, implorando pietà per quel che
aveva cercato di farle.
«Ho visto altri bambini là fuori. E la bambina».
La sottolineatura non piacque al fabbro, che tuttavia scelse di non replicare.
«Ho sei figli. Quattro maschi e due femmine» precisò.
«Dovresti donarmene uno. La bambina andrebbe benissimo. É
irruente, ma sapremo quietarla. Potrebbe divenire la nuova Chana.
Vedendo questa tua prova di dedizione, la Dea potrebbe decidere di
cancellare le tue immonde colpe, ridarti quello che ti aveva
giustamente tolto» suggerì.
Qeni riconobbe l’ombra sul suo volto. Non si sentiva appagata dal
suo allontanamento dal Tempio. Le sue parole non rivangavano
semplicemente un passato da biasimare. Voleva vendetta. Vendetta per un
oltraggio, per delitto mai consumato. Per il gesto sciocco di un
ragazzo innamorato.
«Avete avuto Niza di sua spontanea volontà. Avete avuto il
suo coraggio, il suo ardimento. Avete avuto la sua mano. Non lo
ritenete un tributo sufficiente, Chana?»
Il sorriso gioviale della sacerdotessa era una maschera di viltà. La risposta era chiara come il sole.
«Difficile credere che una persona come te sia riuscita a farsi
una famiglia come questa» malignò Alimad, lisciando con
noncuranza una piega della veste. «I tuoi figli ti amano, hai una
moglie devota. Ho saputo che sei una persona molto rispettata nella
comunità, uno stimato membro della Corporazione dei fabbri. E
tutte le persone rispettate smaniano dal desiderio di farmi almeno un
dono nella vita».
Qeni la osservò. Giocherellava tranquilla con i gioielli che aveva temuto di dover indossare.
«In questo sbagliate, Chana.
Non è a voi che donano i propri averi o i figli, ma alla
Dea» ribadì, andando incontro alla figlia maggiore che
portava una brocca e dei bicchieri. «Anche se lo trovo un gesto
fuori luogo. Nessuno dovrebbe imporre la propria volontà ad
altri, specialmente a dei bambini, che nulla sanno del mondo.
Bisognerebbe offrir loro la possibilità di crescere ed imparare,
prima di rinchiuderli a vita entro quattro mura. Si eviterebbero molti
problemi e la loro devozione sarebbe autentica».
L’osservazione, unita al sorriso gentile che la ragazza rivolse
al padre, mandò su tutte le furie la donna, che scattò in
piedi urlando.
«Bada, Qeni! È alla rappresentante della Dea che ti
rivolgi! Non essere insolente, hai già osato troppo in passato.
La mia Dea non sarà tanto indulgente una seconda volta. La sua
ira è terribile!»
Il fabbro notò la sua espressione, mentre Vara saliva ad
accudire il fratello. Si chiese se si trattasse di pura invidia per una
vita priva di imposizioni o di odio riflesso su un’innocente.
«Pensate mai ai vostri figli?» le domandò.
Il volto di Alimad si fece più duro. Detestava con tutto il
cuore quel discorso. Ricordava con orrore le notti col Sovrano, con
ribrezzo il ventre che si gonfiava e si muoveva.
«Non sono miei figli. Sono figli della Dea e del nostro Sovrano» ringhiò stizzita.
L’uomo versò da bere ad entrambi.
«Li avete portati in grembo. Avete dato loro la vita» considerò.
La nauseava il ricordo delle doglie e del dolore per spingere fuori da
sé quelle creaturine urlanti. Voleva dimenticare di averle
sentite aggrappate ai suoi seni, intente a succhiarle la vita dal petto.
«Non significa nulla. Io sono solo il mezzo attraverso cui la Dea
si manifesta in questo mondo. Non vanto alcun legame con loro»
mormorò, prendendo con sdegno la coppa che le offriva.
«Volete dire che non eravate voi a giacere col nostro Sovrano?»
A Qeni non interessava mortificarla: trovava solo molto sciocco negare l’evidenza dei fatti.
«Se stai cercando di ferirmi per ciò che è
accaduto, perché ho giaciuto con lui e non con te quando
l’hai preteso, sappi che stai sprecando tempo. Per me, quello non
è altro che un dovere a cui ho adempiuto per la gloria della
Dea» sputò. «Fa parte dei compiti della Chana
dare un erede maschio alla casata regnante. È
un’incombenza che garantisce il proseguo della linea di sangue
anche in caso di sterilità della consorte o della sua assenza,
come in questo caso».
«Volete farmi credere che non provate nulla per quei ragazzini?
Che non avete mai cercato di rivederli in questi anni? Che non
desiderate riabbracciarli o parlare loro?»
La donna rise, facendo tintinnare le catenine che l’adornavano.
«Proprio tu poni questa domanda? Tu non ami i tuoi figli! Non
puoi! Sei stato maledetto dalla Dea per il tuo scempio, perché
volevi appropriarti con la forza del mio corpo, parlando di un amore
che non esisteva! Tu mi parli di amore tra genitori e figli?
Ipocrita!» sogghignò additandolo.
Qeni si limitò ad incrociare le braccia, tutt’altro che
irritato dall’uscita. Poter sopportare con freddezza tali
asserzioni era uno dei vantaggi del non possedere sentimenti.
«Ma come voi stessa avete detto, ho comunque potuto crearmi una
famiglia degna di questo nome» ribatté, sedendo di fronte
a lei. «È vero, non posso amare i miei figli né mia
moglie. Questo non significa che non sia in grado di valutarne pregi e
difetti, di sentirmi orgoglioso delle loro conquiste o di condividerne
lo scorno per una sconfitta. Lo faccio senza affetto, in maniera
diversa, più concreta, oggettiva, anche se a volte questo ci ha
divisi. Eppure, con fatica, ho trovato la via per comprenderli e per
fare in modo che loro comprendessero me. Sono stato privato dei
sentimenti, Chana Alimad, non
dell’intelligenza. E dove non sono potuto arrivare con la mia
testa, è arrivato il cuore di mia moglie Neali, che una volta
promise di avere abbastanza amore da poter amare per entrambi. Una
promessa che mantiene ogni giorno».
«Povera donna, non l’invidio affatto» ghignò.
«Doveva essere disperata per accettare di divenire tua moglie.
Obbligata a divenire la sposa di un pervertito... Ha tutta la mia
compassione» aggiunse strizzando tra le dita sottili il fiore
della piccola Duliane, ormai appassito.
«La compassione di un cuore più arido del mio è l’ultima cosa di cui ha bisogno» ribatté.
«Schifosissimo zotico! Dimmi, cosa mi impedisce di richiamare qui
i Guardiani e convincerli che devi essere messo a morte seduta stante
per avermi mancato di rispetto?! Pensi forse che sia qui senza nessuna
scorta?»
«So bene che i Guardiani sono nei paraggi. Non ho dimenticato il loro modo di agire».
«Dunque, non hai capito in che situazione ti stai cacciando? Di nuovo? Sei davvero così stupido?»
Alimad sembrava aspettare una spiegazione da parte sua, una spiegazione
che le piacesse. In questo non era cambiata affatto. Spazientita,
gettò a terra la campanula e la schiacciò col piede
ingioiellato.
«Chi non ha capito, siete voi» disse infine il fabbro.
«Io? E cosa avrei dovuto capire? Che sei rimasto la stessa bestia
di allora? Anche se non osi parlarmi da amico come sto facendo io, so
perfettamente che dietro il tuo ossequio c’è ancora lo
stesso mostro di quel giorno» esclamò irritata.
«Quel giorno, la Dea non mi ha maledetto come dite voi. Mi
ha fatto un grande dono. Ha concluso ciò che voi avevate
iniziato. E l’ha fatto su mia richiesta».
Si chinò a raccogliere ciò che restava del fiore, sotto l’espressione sconvolta di Alimad.
«Quel giorno, il vostro rifiuto fece avvizzire in pochi attimi
quello che in anni avevo costruito dentro di me. Ogni sorriso, ogni
gesto, ogni parola. Spazzaste via tutto mentre le baciavate i piedi e
la supplicavate di ritenervi ancora degna di Lei e del Suo
Tempio» raccontò, lisciando con delicatezza la corolla
slabbrata. «E quando la Dea chiese quale fosse il vostro
desiderio, non si rivolgeva a voi, ma a me» chiarì.
La donna sgranò gli occhi.
«Parlò con uno stupido ragazzino che non desiderava altro
che dimenticare cosa aveva provato nell’essere rifiutato dalla
persona che più amava e non con voi. La Dea mi parlò, a
me rivolse la sua domanda, mentre dentro la mia testa non facevo che
gridare che non volevo più sentire nulla. Non avevo abbastanza
coraggio per chiederle di uccidermi, in quel momento mi sarebbe bastato
dimenticare l’amore e tutto ciò che ne conseguiva».
La Chana era impallidita. Le sue labbra dipinte di azzurro tentavano inutilmente di articolare suoni.
«Dite di parlare con la Dea, ma a quanto pare, Lei non vi rivela ogni cosa. Forse vi ritenete troppo in alto, Chana Alimad. Oggi come allora» suggerì Qeni.
Alimad mandò in frantumi la coppa, gettandola sul pavimento.
«Come ti permetti di parlare a questo modo alla Chana, la Sua prediletta, la Signora del Suo sacro Tempio! Solo a me è concesso il grande privilegio di udirla! A me e a nessun altro!» strillò furente.
«Non vi è mai importato altri che di voi stessa. Di me e
di ciò che mi ha atteso nel mondo dopo quel giorno, non vi siete
mai curata. Ma vedere Niza vi ha messo di fronte a ciò che
speravate di aver dimenticato ed esigete vendetta per lenire le vostre
mancanze».
«Stai dicendo che quanto accaduto è colpa mia? Che
meritavo quello che hai cercato di farmi? Tu dovevi difendermi e ti sei
tramutato nel mio aguzzino!» l’accusò, raggiungendo
la porta.
«Al contrario. Io pure mi accollo una parte di quanto che
è accaduto. In fede, però, non sento d’essere
l’unico colpevole».
La Chana si volse, graffiando il muro.
«Molto astuto da parte tua, ma io sono innocente! Tu hai cercato di…»
«Mi sorridevate, mi abbracciavate. Venivate da me in cerca di
conforto, spaventata dalle prove delle iniziazioni. Mi baciavate
persino. Certo, non da innamorata, ma cosa credevate? Che restassi
impassibile? Che avreste potuto giocare in eterno con me?» chiese
pacato. «Cosa potevate aspettarvi da un bambino donato al Tempio
dalla propria famiglia in nome di un fugace prestigio? Da un ragazzo
cresciuto in mezzo ai soldati e diventato uomo tra le gambe di una
prostituta? Nessuno si era preso la briga di spiegarmi che
l’amore non era fatto di soli denari. L’ho appreso nel modo
peggiore» concluse sedendosi.
Tacque un istante, prendendo un sorso dalla propria coppa.
«Siete venuta qui per convincervi che il mio peccato vi abbia
rovinata e che la vostra rivalsa sia giusta e doverosa. La
verità, è che quei sentimenti di allora ci hanno
condannati entrambi. Non eravamo fatti per amare e la Dea ci ha
castigati per averlo preteso. Nessuno di noi due è stato capace
di un amore autentico. Ciò nondimeno, ci ha concesso di
riscattare le nostre colpe. La Dea ci ha castigati, ma l’ha fatto
per salvarci e offrirci una possibilità. Io l’ho colta e
ringrazio la Dea di avermela offerta. Voi avreste potuto comprendere la
più grande forma d’amore al mondo e divenire la più
grande Chana della storia, ma l’avete rifiutata».
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Capitolo 9 *** Epilogo ***
Epilogo
Epilogo
Neali era nascosta dietro i vetri della finestra e guardava il cortile con lo sguardo velato di lacrime. Un grande cabo
dalla pelliccia grigia era legato agli anelli infissi nel muro di cinta
ed intorno vi si affaccendavano Niza e Vara. La ragazza si teneva a
debita distanza dalle corna dell’animale, passando le bisacce al
fratello maggiore con movimenti lenti e rigidi che scatenavano la sua
ilarità. Udire le sue risate la riportava a quando era solo un
bambino e la guerra e l’odio non l’avevano ancora toccato.
Lo rivedeva piangere per reclamare una poppata; mentre si reggeva a
malapena sulle gambe paffute; comparire sulla porta coperto di fango
per essere caduto nella palude; furioso mentre azzuffava con i figli
dei vicini, o beatamente addormentato tra le braccia di Qeni, dopo una
giornata trascorsa ad apprendere l’arte della metallurgia.
«Non voglio che parta, Qeni. Fermalo. Convincilo a restare qui con noi» singhiozzò.
Il fabbro terminò di allacciare gli spessi stivalacci da lavoro
e le si avvicinò. Anche lui avrebbe preferito che Niza rimanesse
con loro, ma per ragioni differenti. Temeva che l’alone di gloria
di cui era stato circondato gli fosse d’intralcio nel suo
servizio presso la corte, abbagliandolo ed impedendogli di distinguere
gli amici dai presunti tali. Erano rischi in cui lui stesso era
inciampato e da cui l’aveva messo in guardia più volte.
Posò una mano sul fianco della donna, attirandola a sé.
«Sai che non potrei farlo nemmeno se volessi. Il suo posto è al fianco del generale».
Lei sospirò voltandosi e nascondendo il viso contro il suo petto.
«Ma Niza… Niza prima deve andare al Tempio. E se… quella donna…».
Indovinava quale fosse il suo vero timore. Andare in quel luogo sacro
significava, con ogni probabilità, dover incontrare nuovamente Chana
Alimad. Neali l’aveva vista solo per un attimo quel giorno, ma
aveva provato un’istintiva repulsione per quella donna. Poteva
essere singolarmente bella e potente, essere la sola intermediaria con
il volere della Dea stessa, eppure l’aveva trovata vuota e
fredda, crudele. Nonostante fosse al corrente del deprecabile passato
di suo marito, continuava a domandarsi come potesse la rappresentante di
una divinità, che rappresentava la concordia e la comprensione,
essere incapace di perdonare. Erano passati più di
trent’anni da allora, come poteva serbargli rancore? Qeni aveva
redento il suo peccato ogni giorno, possibile che lei non avesse
compreso il proprio e fatto di tutto per purificarsi?
«Non gli farà nulla» la rassicurò.
«Come puoi esserne certo?»
«È la stessa devozione di Niza a metterlo al sicuro da qualunque capriccio della Chana.
Tutti conoscono la storia del giovane che ha superato le schiere
avversarie per recuperare la reliquia e che ha preferito gli
tagliassero una mano per farlo precipitare dal dorso di un lag’ni
in volo, piuttosto che restituirla ai profanatori. Il Borgomastro non
fa che raccontarla, giù alla taverna, ed ogni volta mi pare
aggiunga dettagli di cui neppure Niza era a conoscenza».
Un accenno di sorriso curvò le labbra della donna. Per quanto
suo marito fosse incapace di provare sentimenti, gli riusciva di
suscitarne negli altri.
«Neali, il suo gesto l’ha reso un eroe di prima grandezza.
Una difesa più che sufficiente contro una tempesta di
malevolenza e invidia. Lo lascerà in pace».
Dal cortile giunsero altre risate. Guardarono oltre la finestra e videro che Niza aveva fatto avvicinare Vara al cabo, che l’annusava con la lingua verdastra a penzoloni mentre Duliane si dondolava appesa al sottopancia della cavalcatura.
«Quella donna ti odia e ti odierà sempre. Non voglio che
gli faccia del male per vendicarsi di te» disse, tornando a
fissare il marito negli occhi.
«La Chana è
venuta qui pensando di sputarmi addosso il veleno che si portava
dentro, per infliggermi una punizione che non ha mai potuto mettere in
atto e di cui non ha goduto i frutti. La realtà, è che in
questi anni si è lasciata schiavizzare da quello stesso veleno
ed ora non è più in grado di vivere senza. È
diventata una serpe senza zanne: può far male solo a sé
stessa».
«Ma quella donna vuole vendicarsi di te! Cosa le impedirà
di accanirsi su nostro figlio? La fede non è uno scudo che
protegga da una lancia!» esclamò terrorizzata.
La mano ruvida del fabbro si posò sul suo viso.
«Il suo ruolo di Chana
glielo impedirà» spiegò. «Il suo operato
è sotto gli occhi di tutti. Se si accanisse contro chi ha dato
una così grande prova di devozione, la gente dubiterebbe di lei
e del suo giudizio. E soprattutto, del fatto che la Dea la consideri
ancora la sua favorita. I credenti smetterebbero di elargire fondi e
doni al Tempio. Lei non può permetterselo, perché il
Tempio vive di offerte. Senza contare che le sacerdotesse anziane
sovrintendono al suo operato, oggi come quando era solo una ragazzina
capricciosa. Confido nel loro buon senso e nelle leggi segrete che
regolano la vita della Voce della Nostra Signora».
Neali si strinse a lui, quasi che il suo corpo e le parole appena dette
fossero lo scoglio a cui aggrapparsi in quel mare di timori.
«Qeni… pensi sul serio che la gente vedrebbe l’ingiustizia nelle azioni di quella donna?»
«Posso solo augurarmelo. E confidare nella protezione della Dea e
nel senso di responsabilità di nostro figlio» rispose
accarezzandole i capelli.
***
Niza controllò il sottopancia del cabo,
strattonando con forza la cinghia fino a sentire una fitta dolorosa al
braccio. Si raddrizzò e, slacciata la manica, esaminò i
lacci che assicuravano la protesi al polso. Faticava ad usare il guanto
di metallo che suo padre aveva forgiato per nascondere la mutilazione,
ma a forza d’insistere avrebbe imparato a gestirla e il dolore
sarebbe diventato un ricordo. Se c’era una cosa che aveva
imparato durante i mesi di battaglie, era che il dolore era un nemico
che poteva essere affrontato e superato.
«Devi proprio andare?» chiese Vara, preoccupata.
Il giovane sorrise, scrollando le spalle. Gli faceva quella domanda
ogni giorno da quando il messo reale aveva bussato alla porta di casa,
annunciando il raduno delle truppe.
«Sei peggio di nostra madre» sorrise.
«E tu vedi di non essere peggio di nostro padre» gli rinfacciò.
Il volto di Niza si fece serio. Sapeva a cosa stava alludendo: in
famiglia tutti erano a conoscenza del passato del genitore e del
fardello che si portava appresso sin da ragazzo. Sua sorella
condivideva i timori della madre riguardo il desiderio di rivalsa di Chana Alimad e gliene aveva parlato: la paura che cadesse in qualche tranello era palpabile.
«Perché voi due non riuscite a fidarvi di quel che vi
abbiamo detto?» domandò, sentendosi offeso da quella
mancanza di fiducia. «D’accordo, Vara, sono giovane e
digiuno degli intrighi di corte, ma non sono uno stupido. Ho avuto
buoni maestri e ottimi consigli, che voglio seguire alla lettera.
Quello che nostro padre ha fatto non si ripeterà con me».
L’ottimismo del giovane luogotenente risollevò un poco il
morale della sorella, che però non riusciva a rasserenarsi del
tutto.
«Ti faranno andare al Tempio? Non possono andarci solo i Guardiani?»
«Ci concedono di arrivare alla statua della Dea, per tributare
gli onori dovuti e porgere i nostri doni. Potremo sostare sulla piazza
ai piedi del Tempio solo per il tempo necessario alla celebrazione.
Nient’altro».
«Niza?» chiamò Duliane, tirandolo per il farsetto.
La piccola di casa sbucava da tutti gli angoli, quando uno meno se
l’aspettava. In quel momento, per esempio, era sgusciata fra le
zampe del cabo per sorprendere il fratello.
«Quando torni mi porti un regalo? Uno bello, però!» pigolò.
Lui rise, sollevandola da terra con il braccio sano.
«Ti ho mai fatto regali brutti?»
«No, perché non me li hai mai fatti» ribatté piccata.
«E va bene, ti prometto che al mio ritorno ti porterò un
regalo bellissimo. Più bello ancora di quello che porterò
al Tempio» rise, scompigliandole i capelli biondi.
A quelle parole, Duliane si rabbuiò.
«Perché porti un regalo alla signora che è venuta a
trovarti? È stata cattiva, è andata via senza salutare
nessuno e ha rotto il fiore che avevo preso per lei!»
protestò mettendo il broncio.
Aveva scoperto la campanula calpestata tra le mani del padre ed aveva
dato il tormento a tutti perché le spiegassero il motivo di quel
gesto. Aveva cercato il fiore più bello, perché
l’aveva accettato per poi gettarlo via a quel modo? Non le era
piaciuto, forse? Qeni le aveva detto che la Chana
si era comportata male per colpa sua, che era arrabbiata con lui e che
non doveva prendersela. Duliane però non aveva creduto a quella
spiegazione e, col passare dei giorni, la delusione si era trasformata
in rabbia.
«Chana Alimad ha molte
cose a cui pensare, Iane» le spiegò Niza, ben sapendo di
mentire. «Le responsabilità possono far fare cose che non
ci piacciono o non piacciono agli altri. Doveva andarsene per non
litigare più con nostro padre e non deve essersi accorta di quel
che ha fatto».
Dopo la venuta della sacerdotessa, aveva parlato a lungo con suo padre
di ciò che poteva aspettarlo ed avevano convenuto che fosse bene
muoversi con discrezione e rispetto. Non doveva darle la
possibilità di recriminare ulteriormente. Nessun altro doveva
pagare per l’errore di Qeni.
«Sei pronto?»
La voce della madre lo distolse dai suoi pensieri. La donna lo
guardava, cercando di nascondere dietro ad un sorriso tirato
l’ansia e la tristezza che l’attanagliavano.
«Sì. Mancano solo un paio di cose e potrò avviarmi» e l’abbracciò, stringendola forte.
Sentiva le sue lacrime bagnargli la guancia e vedeva quelle che Vara
tratteneva a stento. Allungò la mano e fece avvicinare anche
lei. Tranquillizzarle a parole sarebbe servito a poco, lo sapeva,
abbracciarle era l’unica cosa che potesse dar loro un po’
di conforto fino al loro prossimo incontro.
In quel momento vide i fabbri uscire dal laboratorio. Davanti erano suo
padre e Igraf, seguiti da Malves e Corvan. I due apprendisti più
giovani trasportavano il dono che avrebbe portato al Tempio, in segno
della propria devozione.
Con un groppo in gola per l’emozione, Niza li guardò
rimuovere il drappo che l’avvolgeva. Fu una grande emozione
afferrare l’elsa e sfoderare l’arma. Questa tracciò
un arco nell’aria, lasciandosi dietro solo un lieve sibilo ed una
scia luccicante. Tutti i presenti rimasero a bocca aperta.
«È davvero bellissima! Non ho mai vista una spada più bella!» esclamò rapito il luogotenente.
La lama di cristallo era stata lavorata in maniera tale che il filo
seguisse una linea ondulata, per catturare la luce del sole e
rifletterla in centinaia di minuscoli arcobaleni. La superficie della
spina centrale era decorata da minuscole striature; inclinandola verso
l’alto si aveva l’impressione che il metallo divenisse
liquido. La parte più stupefacente era l’elsa, dove un
complesso intreccio di rune e simboli, realizzati a sbalzo in
filigrana, creava una protezione attorno all’impugnatura vera e
propria. Minuscole gemme scintillavano nelle commessure, come stelle
vive e pulsanti.
«Avete fatto un lavoro… indescrivibile! Rischiamo un’altra guerra!» rise, sinceramente colpito.
«Cosa?!» urlò terrorizzato Igraf, pentito del tanto impegno messo nella sua prima opera.
Aveva passato giorni e notti intere nella cernita del materiale,
discutendo con il padre dei propri dubbi, pensando e ripensando alla
sequenza delle lavorazioni, alla resa finale che desiderava ottenere.
L’idea di aver prodotto un qualcosa di tanto pericoloso lo
spaventava. A lui era parsa solamente molto ben riuscita, una lode di
cristalli e metallo.
«È talmente bella, fratellino, che qualunque Sovrano
pretenderà di muovere guerra ai servi della Dea per poterla
possedere! Sempre che non vengano a cercare l’artigiano che
l’ha forgiata. Allora la guerra la scatenerei io per
difenderti» e aggiunse: «Hai davvero mantenuto la parola,
Igraf».
Igraf arrossì un poco, colpito da quell’affermazione.
Molti nella Corporazione l’avevano lodato per la sua bravura, ma
le parole del fratello avevano un valore ben più alto.
«Le abbiamo dato un nome degno di lei. Questo compito spettava
ancora al Maestro, ma mi ha concesso di… dare
l’idea» mormorò l’apprendista, fissando
orgoglioso il genitore che chiamava sempre col titolo di Maestro quando
c’era di mezzo il lavoro.
«Il nome più appropriato per un’arma che
dovrà ricordare a tutti come la Dea vegli su coloro che la amano
e implorano il suo aiuto» spiegò Qeni.
Così dicendo rinfoderò la spada, allacciò le
fibbie della custodia e gliela porse. Niza l’appese con cura alla
sella del cabo.
I fratelli e le sorelle gli si strinsero intorno, facendolo barcollare
mentre mormoravano saluti e auguri a mezza voce. Ciascuno pretendeva di
essere il primo ad esprimere ciò che provasse nell’animo,
col risultato di produrre solo un gran baccano.
Infine abbracciò il padre.
«Convincete Iane a perdonarmi, quando sarò partito. Non
potrò mantenere la promessa di portarle un regalo più
bello di quello che offrirò alla Dea» bisbigliò.
«Farò il possibile, ma Duliane è ancora molto
piccola, dubito capirà. Chiederò a tua madre di
aiutarmi».
Finalmente, Niza ritenne di aver portato a termine ogni preparativo per il viaggio.
«Con che nome la farò consacrare?» chiese, una volta issatosi in sella.
Qeni fece avvicinare Igraf, prese la sua mano e la poggiò su
quella di metallo del figlio maggiore, facendo in modo che impugnassero
insieme l’elsa, prima di pronunciare il nome:
«La Mano della Dea».
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