Il Figlio delle Tenebre di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il passato che ritorna ***
Capitolo 2: *** Lo spettro d'un uomo che fu ***
Capitolo 3: *** Riunioni ***
Capitolo 4: *** Possibili Soluzioni ***
Capitolo 5: *** Storie infondate o poco plausibili ***
Capitolo 6: *** Cuore di uomo, cuore di demone ***
Capitolo 7: *** Piani non detti e segreti tra fratelli ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Ombre di ricordi ***
Capitolo 10: *** Anime in tumulto ***
Capitolo 1 *** Il passato che ritorna ***
Il figlio delle Tenebre_Act 1
Titolo: Il figlio
delle tenebre
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Long
fiction
Personaggi: Un
po' tutti
Genere: Drammatico,
Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Arancione
Avvertimenti: AU,
Non per stomaci delicati, OOC, Shounen ai
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ATTO PRIMO. IL PASSATO CHE RITORNA
Sheerness, 1889
«Vieni
qua, razza di ladruncolo!»
Richard Hughes si
voltò incuriosito verso il grido che aveva udito provenire
dalle bancarelle, e vide uno dei venditori afferrare per
il polso un bambino dai capelli
d'ebano, di forse quattro, cinque anni; teneva in entrambe le mani
delle mele e cercava in tutti i
modi di divincolarsi, strillando
probabilmente insulti al suo indirizzo
in una strana lingua.
Quando l'occhio color smeraldo si
posò sul viso
del
piccolo, Richard sbiancò, spalancando le palpebre
come se avesse
visto
un fantasma. Si avvicinò svelto al venditore e, poggiando
una mano
sulla
sua che teneva stretta il polso del bambino, ricevette da lui uno
sguardo interrogativo.
«Non
credo sia il caso di prendersela così tanto,
signore»,
disse pacato, ignorando l'occhiata che lo squadrava dall'alto in basso
come per
valutarlo.
«E' solo un bambino, in fondo».
L'altro mollò il polso,
osservando il ragazzino con astio
prima di massaggiarsi la folta barba nera, le sopracciglia
corrugate in un'espressione minacciosa. «Non
è la prima volta che tenta di
rubare», gli tenne presente, incrociando le braccia muscolose
al petto.
«Questo bambino è una vera spina nel
fianco».
«Ma
questo non toglie il fatto che sia comunque un bambino»,
rispose Hughes, sollevando appena un angolo della bocca
come a voler dar vita ad un sorriso privo d'entusiasmo; distolse
poi lo sguardo per adocchiare il piccolo, che fissava ostinatamente
e con finto
interesse il terreno lastricato ai loro piedi. Si accovacciò
accanto a lui e, puntellandosi sulle
ginocchia,
inclinò la testa di lato. «Dove
sono la tua mamma e il tuo papà?» gli chiese piano
per non spaventarlo ulteriormente, e il bambino
alzò di scatto la testa prima di scuoterla energicamente per
un
qualche strano motivo.
«Chan eil
pàrantan agam [1]»,
mormorò poi in una lingua che lui aveva
già sentito
nei racconti di suo padre quand'era piccolo, ma che non conosceva
appieno. Era la lingua delle Highland. Hughes si voltò
quindi verso il venditore, ancora a braccia
conserte.
«Che
cos'ha
detto?» domandò con una strana inquietudine nella
voce calma, ma lui si limitò a fare spallucce.
«Nessuno
lo capisce», fece semplicemente. «E'
orfano, gironzola sempre qui in giro e raramente parla
la nostra lingua. Più di questo non so dirvi».
L'uomo
stranamente annuì.
«Me
ne prenderò cura io, allora», disse, ricevendo dal
venditore un'occhiata stranita. «E
pagherò anche ciò che vi ha rubato, non si
preoccupi», soggiunse, e a quelle parole lo sguardo del
commerciante si fece interessato, tanto che non
obbiettò minimamente quando l'uomo gli sventolò
davanti
delle banconote nuove di zecca prima di prendergli una delle mani
possenti e
posandogliele nel palmo.
«Credo che questi bastino, vero, signore?» disse
affabile, sorridendo al di sotto dei grandi baffi neri.
Il venditore cominciò a
contare i soldi, annuendo tra
sé e sé; se li infilò poi in tasca
senza commentare ulteriormente,
dandogli un sacchetto con le mele.
Fece poi loro cenno di andarsene mentre si premurava di andare da una
donna che lo stava chiamando per comprare della frutta.
Hughes sorrise maggiormente, abbassando
lo sguardo verso il bambino
che lo guardava con i suoi occhi color pece grandi e innocenti; lo
prese per mano senza che lui facesse storie, portandolo con
sé lontano dal mercato, e, mentre camminavano, non poteva
non pensare che quel bambino
così piccolo, un giorno, sarebbe diventato la rovina o la
possibile soluzione a tutti i problemi della sua famiglia. Quegli
occhi, quel viso. Non poteva sbagliarsi minimamente.
Arrivati alla piazza, si sedettero
entrambi su una delle panchine lì
presenti; l'uomo aprì il sacchetto e gli porse una mela
che
lui, dopo aver guardato per un po', cominciò a
mangiare a
grandi morsi, affamato. Hughes sorrise, scompigliandogli i capelli.
«Quanti
anni hai?» gli chiese in tono dolce, e ricevette uno sguardo
curioso da quegli occhi scuri che splendevano
appena sul quel viso sporco, mentre teneva la mela stretta fra le
piccole mani. L'uomo sollevò le sopracciglia, accarezzandosi
l'occhio
cieco con fare distratto. «Capisci
la mia lingua?» domandò ancora, vedendolo annuire
piano. «Mi
dici allora quanti anni hai?» ripeté delicato, e
il
bambino corrugò appena le sopracciglia prima di voltare la
testa,
come se non
volesse rispondergli. Poi, dando un altro morso alla mela, lo
guardò nuovamente. Contò sulle dita,
mostrandogliene
quattro.
«Ceithir [2]»,
mormorò appena, e l'uomo
sorrise ancora di più per mostrarsi rassicurante,
prendendo dalla tasca un fazzoletto per pulirgli piano il volto.
«Anche
mio figlio ha più o meno la tua età,
sai?» gli
disse divertito, vedendolo storcere il naso quando vi passò
sopra il fazzoletto per togliergli lo sporco depositato.
Finito il suo lavoro rimise il fazzoletto in tasca,
inclinando la
testa di lato mentre lo osservava finire di mangiare con gusto quel
piccolo pasto
e posare poi il torso della mela sulla panchina di pietra.
«Vuoi bere qualcosa?» chiese ancora l'uomo.
Il bambino, che stava cominciando a
sentirsi a suo agio con lui da come
tentava di avvicinarsi, annuì, concedendogli un sorriso con
qualche dentino mancante. «Bainne [3]»,
fece, e l'uomo sollevò ancora una volta un sopracciglio. Gli
diede un buffetto sul naso, passandogli un braccio dietro alle
spalle per attirarlo a sé. Non poteva ancora capacitarsi del
fatto che quel bambino
così
innocente
potesse essere realmente colui che avrebbe potuto causare danni ancor
peggiori in una faida lunga secoli.
«Non
ti capisco, purtroppo», gli disse in tono basso e misurato,
accarezzandogli delicato i capelli. «I
tuoi genitori erano delle Highland, per caso?» Era quasi
certo
che fosse così, ma si stupì quando il bambino
scosse la
testa e fece
spallucce. Non lo sapeva, quindi. E la cosa non fece altro che
accentuare la sua
ipotesi. Non aveva genitori, non conosceva le sue origini, era solo e
parlava
una lingua diversa dall'inglese. Purtroppo, una volta cresciuto, quel
bambino avrebbe avuto un futuro
avverso, ancor di più della sua infanzia non vissuta.
«Sai
parlare inglese?» gli domandò.
Il bambino aggrottò la
piccola fronte per la concentrazione,
come se stesse cercando di decifrare bene le sue parole. Poi, ancora
una volta, contò sulle dita, segnandogli il
numero sette ripetuto tre volte.
«Ventuno?»
fece l'uomo, senza capire. «Ventuno
parole, forse?» chiese a mo' di conferma, vedendolo annuire.
«Tha
mi duilich [4]»,
mormorò, e dal tono sembrava dispiaciuto. Almeno quello
riusciva a capirlo.
Hughes si limitò ad annuire,
stringendolo
ancora un
po' più a sé mentre osservava le
persone camminare
allegre, chiacchierare come se nulla fosse. L'unica cosa di cui lui non
si capacitava era perché il
bambino
parlasse quella lingua come se fosse sua, quando in realtà,
originariamente, avrebbe dovuto essere inglese antico. Che
fosse tutta opera Sua?
Di quel che gli aveva fatto? Non era da escludere.
Abbassò lo sguardo verso il
bambino, che gli aveva stretto
fra
le manine la camicia e faceva scorrere il suo sguardo per tutta la
città, quasi fosse impaurito da tutto quel movimento. Si
soffermò ben poco sul suo abbigliamento così
leggero
nonostante il freddo che spesso si sentiva nella cittadina, trovandolo
consunto, stropicciato. Anche le braccia esili, intraviste attraverso i
fori della camicia fin
troppo grande che indossava, rendevano il suo aspetto ancor
più
sciupato. Sospirò tristemente a quella scena. Quel bambino
aveva bisogno dell'affetto di una famiglia, non poteva
assolutamente abbandonarlo al suo destino. Anche se sapeva che era la
cosa più giusta da fare.
Mordendosi il labbro inferiore, Richard
si portò una mano
alla
cintola e sfiorò la guaina in cui teneva il coltello, ma,
incontrando gli occhi
del bambino, così grandi e innocenti, si sentì un
emerito
verme. Con che coraggio avrebbe potuto... nay, non voleva pensarci.
Magari, allontanandolo da quel luogo, sarebbe riuscito in qualche modo
ad evitare che il suo fato si compisse, cambiando ciò che
era
già scritto. Forse, anche se non ci sperava pienamente.
Così, allontanando la mano dal coltello, gli
accarezzò i capelli, posandogli un bacio sul capo.
«Ti
va di venire con me?» gli domandò, in tono
dolce. «Ti
insegnerò a parlare inglese, avrai una casa e un pasto caldo
tutti i giorni... vuoi?»
Per qualche secondo il bambino si
limitò a guardarlo, come
se
stesse valutando quella proposta che gli aveva appena fatto l'uomo.
Tutti i suoni che si sentivano provenivano dalle persone che
attraversavano la piazza e dal mercato poco lontano da dove si
trovavano loro; poi il piccolo gli rivolse un enorme e sincero sorriso,
annuendo
energico.
L'uomo lo ricambiò,
accarezzandosi i baffi.
«Benissimo,
allora partiremo domani per il Nord di Sheerness», lo
informò, scompigliandogli ancora i capelli. «Poi
ce ne torniamo a casa». Pochi
secondi dopo, sbatté la palpebra, come per riflettere. «Ora
che ci penso, non so il tuo nome», soggiunse, sorridendo
divertito. Ancor più divertito gli tese la mano, stringendo
la piccola
e delicata del bimbo nella sua, grande e forte.
«Richard
Hughes», disse in tono spassoso, ridacchiando quando il
bambino
guardò quella mano così grande che stringeva la
sua.
Il piccolo si lasciò sfuggire
una risata quando la mano
lo
lasciò, e gettò le braccia al collo di
quell'uomo
guardandolo negli occhi, sorridente.
«Roy».
Dieci anni. Dieci lunghissimi anni dalla
morte di suo padre a
causa di quelle
creature. Del suo amico, poi, non c'era più traccia da
altrettanto
tempo. Ormai il Sindaco era diventato lui e, come ogni sera, teneva
sempre
d'occhio la situazione al villaggio. Ad una distanza di cinque o sette
anni, il clima era tornato normale e
le stagioni avevano ripreso a seguire il corso della natura, facendo
sì che la calma si riversasse ancora una volta nella
popolazione
e la vita riprendesse a scorrere ordinariamente come suo solito.
Adesso, però, com'era
successo dieci anni or sono, erano
ricominciate stranamente le piogge e le nevicate fuori stagione, e
l'atmosfera tetra e
malsana che si respirava metteva a disagio ogni membro della
comunità. La sensazione negativa che avvertiva ormai da
più di due
mesi si
era completamente impadronita di lui, mentre, vagando per le strade
deserte e per i vicoli, illuminava il suo cammino con una lanterna.
Aveva deciso di prendere a quattro mani il suo destino di cacciatore, e
ormai da parecchio si teneva sempre pronto ad ogni
eventualità. Di vampiri, però, non se ne vedevano
da
molto. Solitamente di creature del genere non se ne scorgevano,
riusciva a
cacciare solo qualche lupo mal cresciuto, più comunemente
chiamato licantropo, uomini condannati da una maledizione che ad ogni
plenilunio divenivano
lupi famelici, pericolosi e aggressivi. Da quel che aveva imparato, su
di loro le pallottole d'argento erano
più
che efficaci se si voleva mantenere una debita distanza, ma anche altre
armi costituite dallo stesso materiale erano ottime.
Quante teste di quelle bestie aveva
dovuto tagliare, prima di
seppellirle? Quanti, ancora in forma umana, aveva dovuto bruciare con
il fuoco? Nemmeno se lo ricordava più, sebbene le orde di
quei
mostri
sembravano essere diminuite progressivamente, forse a causa del freddo.
O, forse, a causa del fiutato pericolo. Con i sensi molti
più
sviluppati degli esseri umani,
probabilmente, erano riusciti a capire che in quel paesino maledetto
c'era qualcosa che non quadrava affatto. Qualcosa da cui bisognava
assolutamente tenersi alla larga.
Il Sindaco stava per svoltare l'angolo
quando la luce
rischiarò il profilo
di una giovane ragazza dai capelli biondo pallido, il cui volto era
contratto in una smorfia di terrore mentre osservava, con gli occhi
sgranati e le braccia strette al petto, un'ombra che si muoveva fra
le ombre. «Winry!» esclamò scioccato,
correndole svelto in contro per poggiarle una mano sulla spalla,
sentendola rigida come un pezzo di ghiaccio. «Che succede,
cos'hai?»
Sopraffatta dalla paura, la ragazza non
proferì parola,
nascondendosi rapida dietro alle spalle del Sindaco e puntando un dito
verso il vicolo. L'uomo spostò immediatamente il fascio di
luce in quelle
tenebre, illuminando una
figura vestita con una semplice camicia bianca dal colletto di pizzo e
un pantalone nero; a quella vista il sangue, senza che ne sapesse il
perché,
gli si
gelò nelle vene. Non poteva crederci. Non era reale. I
capelli, molto più lunghi di quanto ricordasse, gli
cadevano
disordinatamente sulle spalle, mentre gli occhi, completamente
inespressivi, lo osservavano senza davvero farlo.
Con il cuore che batteva a mille Hughes
deglutì, forse nel
tentativo di inghiottire la strana inquietudine che si era impossessata
del suo animo. «Roy?» chiese in un
sussurro, sentendo la gola secca.
«Sei... sei davvero tu?»
Un basso ringhio si levò
dalla gola dell'ombra dai lunghi
capelli neri quando lo sentì, il
labbro superiore si ritrasse per scoprire i canini scintillanti che
palpitavano. D'istinto, sia il Sindaco che la ragazza indietreggiarono
sconvolti
quando
l'uomo, o meglio il giovane vampiro dalle fattezze del loro amato
prete, fece
appena un
passo avanti, nei meandri dei suoi occhi d'onice si riusciva a scorgere
un oscuro oblio iniettato di sangue.
«Roy»,
bisbigliò il Sindaco,
proteggendo la ragazza con il
suo corpo. «Oh, Signore... cosa ti hanno fatto, quei
bastardi». Si sentì tirare per la manica del
giaccone e, con la coda
dell'occhio, vide il viso spaventato di Winry, le cui polle cerulee
erano dilatate
dal terrore.
«Sindaco
Hughes, allontaniamoci da qui...» stava spasmodicamente
ripetendo, mentre cercava con tutte le sue forze di tirarlo via.
«...andiamocene». E, se non fosse stato
immobilizzato dal
terrore, Maes Hughes sarebbe
scappato. Con sé non aveva assolutamente nulla. Da quando i
lupi
mannari non si erano presentati così spesso,
portava con sé solo due pallottole
placcate in
argento nella pistola che aveva dovuto commissionare ad uno
degli
uomini che addestrava, ma che con le armi se la cavava meglio di lui. E
tre pallottole non sarebbero bastate. Ma, soprattutto, probabilmente
non sarebbe riuscito a sparare sapendo chi aveva di
fronte.
La mano sfiorò
automaticamente la pistola che portava
nella
fondina. Non doveva tentennare. Se il prete avesse fatto anche solo una
mossa azzardata, avrebbe
sparato. Non poteva rischiare che altri venissero ancora una volta
coinvolti
dopo anni, ma, prima ancora che potesse anche solo pensare di estrarre
l'arma, una bassa risata lo bloccò. Accanto a Roy, come
staccatasi dalla parete stessa, emerse dalle ombre una seconda figura
che, con le labbra
incurvate in un sorriso, si mosse, facendo frusciare appena il
mantello
scuro che indossava. Rivolgendo uno sguardo divertito ad entrambi,
abbracciò stretto da dietro il prete e gli tenne
il viso sollevato con una mano, mentre l'altra
vagava ad accarezzargli
l'addome, quasi verso il basso ventre. Non staccò quei suoi
occhi dorati dalla figura del Sindaco
nemmeno per un secondo, leccando appena il collo del suo prigioniero
sotto gli
sguardi atterriti e sconcertati delle loro due prede.
«È
ancora presto», sussurrò dolce e spietato
all'orecchio del vampiro moro,
divertito come suo solito dal sentore di terrore che avvertiva
nell'aria. I
lunghi capelli d'oro si scompigliarono appena ad una folata di vento,
ed entrambi scomparvero lasciando solo fumo e polvere sotto lo sguardo
basito
e sbarrato del Sindaco e della ragazza.
Hughes allontanò la mano
dalla pistola, fissando la leggera
nebbiolina che si erano lasciati dietro ad occhi sgranati.
«Non è possibile», la voce
incrinata era solo un mormorio sordo nella notte.
«L'hanno trasformato in uno di loro...» Si
accasciò a terra, in ginocchio, tenendosi la testa fra le
mani. Quella leggera e tremante della ragazza si posò su una
sua
spalla, e riuscì a sentire distintamente un suo singhiozzo
soffocato.
Il Sindaco poggiò a sua volta
la mano su quella della
ragazza, stringendola forte. Non aveva mai pensato che al suo fratello
adottivo potesse accadere una
cosa simile. Meglio morto, che vederlo trasformato in uno di loro. Che
vederlo
trasformato in uno di quei mostri.. Invece, adesso, uno dei loro nemici
era proprio il loro parroco,
l'uomo che li
aveva sostenuti con i suoi sermoni, l'uomo che quasi li conosceva
più di loro stessi... l'uomo che aveva lasciato andare
quella
notte di dieci anni prima,
senza fermarlo. Non ci sarebbe mai riuscito a far fuori lui. Nel diario
che gli aveva lasciato il padre aveva scoperto che la sua,
sin dai tempi antichi, era sempre stata una famiglia di cacciatori che
per sfuggire alla vendetta di un vampiro dell'alta aristocrazia era
stata costretta a cambiare
il proprio nome. Ed era per questo che il padre era morto. A causa di
quel vampiro che era ancora in vita e bramava tutt'ora,
dopo secoli, la vendetta contro la sua famiglia. Il prossimo sarebbe
stato lui, adesso che erano tornati ancora una
volta.
Maes si girò verso la
ragazza, rimettendosi in piedi e
abbracciandola per cercare di calmare i suoi singhiozzi isterici.
«Stai calma, Winry», mormorò,
accarezzandole la schiena. «Non
ti faranno del male, stai calma... va tutto bene».
Già
dieci anni prima, la giovane che adesso stringeva fra le
braccia aveva assistito alla tragica fine di sua madre per mano di
quegli esseri. Le aveva visto la morte dipinta in volto. Non avrebbe
mai potuto scordare i tragici eventi che si erano ritrovati
a vivere in quei mesi oscuri, con la paura nascosta dietro ogni angolo.
Ed ecco che, ad una distanza di dieci anni, quei mostri erano tornati a
completare la loro opera. «Winry». Le
alzò il viso per poterla
guardare negli occhi. «Torna
subito da tua zia, non guardarti mai alle spalle per nessun motivo...
chiudetevi dentro, capito?»
La ragazza, tremante, annuì.
Si asciugò distratta
le lacrime passando sul viso il dorso
della mano, tirando su con il naso; guardò poi Hughes con
un'espressione altamente impaurita. «E... e lei,
Sindaco?»
chiese titubante, quasi in
un
sussurro.
Pochi attimi di silenzio, poi lui trasse
un sospiro.
«Io ho un lavoro da fare», fu la sua sola risposta.
Detto questo, seguì per un piccolo tratto di strada la
ragazza,
controllando che arrivasse a casa da lontano per poi fare un
altro po' di strada ed entrare
nell'edificio alla sua destra, nella locanda in cui erano radunati gran
parte degli uomini della popolazione. Al suo ingresso, tutti si
voltarono, e lui li salutò con un
cenno del capo, facendo qualche passo avanti nell'ampia stanza del
locale mentre li squadrava ad uno ad uno.
«Ho bisogno che almeno un di
voi mi segua», disse
pacato,
richiamando con un cenno della mano un ragazzo dai corti capelli
biondi che stava fumando.
«Tu te la senti, Havoc?»
Guardandosi ansioso intorno e vedendo
che anche gli uomini
lì
presenti avevano in volto la medesima espressione sconcertata e
incuriosita, lui annuì, spegnendo la sigaretta nel
posacenere e
alzandosi per raggiungere il Sindaco. Lo conosceva da molto tempo,
ormai, e sentiva subito
quando qualcosa non quadrava. Anche se, in quel momento, non capiva
esattamente cosa. Lui e pochi altri uomini erano i soli al corrente del
passato del loro
Sindaco, ma era il solo ad aver quasi appreso le tecniche dei
cacciatori. E, quando aveva quella faccia, qualcosa di oscuro si stava
parando
all'orizzonte.
Senza dire una parola, né
tanto meno spiegare la situazione,
i
due sparirono dalla locanda, uscendo svelti dal villaggio verso la
Chiesa ormai abbandonata. Havoc seguiva obbediente il Sindaco, senza
fiatare, mentre la notte
buia
si infittiva, oscurando loro stessi, tra le loro mani una piccola
lanterna a segnare il passaggio. Entrarono in essa attraversando in
fretta le panche impolverate per
immergersi in un sotterraneo dal quale si accedeva tramite una porta
segreta al di sotto dell'altare, e vide Maes prendere la sua pistola
d'argento dal tavolino poco distante per fargli subito dopo cenno di
uscire nuovamente. Si ritrovarono in breve nuovamente all'aria aperta,
nel più
completo silenzio della sera.
Solo quando i suoni notturni della
foresta cominciarono a farsi
sentire
fu sopraffatto da uno strano senso d'ansia. Si guardava furtivo
intorno, respirando l'aria fredda di quella strana
stagione. Sentiva come se ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato,
in tutta
quella dannata situazione che stavano affrontando ormai da molti mesi.
Spesso si recavano in quella Chiesa ormai in disuso, abbandonata dai
monaci
che la occupavano da quando il prete era scomparso, e al di sotto di
essa, frequentemente, svolgevano la loro funzione di protettori,
portando i corpi delle creature che uccidevano lì sotto. Non
aveva mai pensato che quella Chiesa fosse stata innalzata in
principio, non più di cinque o sei secoli or sono, proprio
per
quello scopo. Per esorcizzare creature come i licantropi. E,
all'occorrenza, i
vampiri.
«Hai con te
la tua pistola?» domandò la voce atona di
Hughes, ridestandolo dai pensieri.
Deglutendo e traendo un lungo sospiro, Havoc aumentò il
passo per affiancarsi a lui, annuendo. Intorno a loro non tirava un
alito di vento, non si sentivano nemmeno
i caratteristici richiami dei rapaci notturni, quasi come se la foresta
che stavano attraversando trattenesse il respiro. Era buio pesto e solo
la luce della lanterna illuminava i loro passi,
creando sinistre ombre che danzavano flebili nella densa
oscurità. Il suono d'un ramo spezzato risuonò
d'improvviso, facendo
sussultare i due uomini.
Havoc abbassò lo sguardo,
notando che era stato lui stesso
a provocare quel rumore. Traendo un lungo sospiro di sollievo, prese il
coraggio a quattro mani
e si avvicinò maggiormente al Sindaco, poggiandogli una mano
sulla spalla e arrestando la sua corsa. «Posso sapere dove
stiamo andando?» chiese, serio e
preoccupato.
Socchiudendo gli occhi e mordendosi il
labbro inferiore, Hughes si
voltò, nei suoi occhi verdi brillavano una svariata
gamma di
sensazioni contrastanti, e il suo basso sussurro si levò con
una
nota tremante e allarmante nel silenzio notturno.
«Al maniero».
ATTO PRIMO.
FINE
[1]
Non ho i genitori
[ Gaelico scozzese ]
[2]
Quattro [
Gaelico scozzese ]
[3]
Latte [ Gaelico scozzese
]
[4]
Mi dispiace [ Gaelico
scozzese ]
Messaggio No Profit
Dona l'8% del
tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 2 *** Lo spettro d'un uomo che fu ***
Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO SECONDO.
LO SPETTRO D'UN UOMO CHE FU
Nei pressi di Londra,
1612
Era
una
delle poche mattine in cui il sole, dopo le solite piogge torrenziali,
scaldava la cittadina e gli
abitanti che, come loro solito, ghermivano le strade principali in cui
stanziava il mercato o la piazza che sfociava poco lontano.
Lui era seduto lì, su una
delle panchine di legno, in
compagnia
del figlio maggiore che, annoiato, si rigirava di tanto in tanto
intorno ad un dito le punte dei biondi capelli lasciati sciolti
sulle spalle,
attendendo l'arrivo della persona con cui suo padre avrebbe dovuto
incontrarsi
quel giorno. Avevano sfacchinato in carrozza per ore prima di giungere
in un
paesino vicino alla capitale, e ancora non capiva perché
avesse
dovuto seguire il genitore e non era invece potuto restare nel maniero
che faceva parte dei suoi possedimenti nei pressi della cittadina di
Sheerness, dove adesso si trovava anche suo fratello minore.
Sbuffando, si sistemò il
colletto dell'ampia camicia
bianca
che
era stato costretto ad indossare a causa della pioggia,
gettando appena una fuggevole occhiata all'uomo seduto al suo fianco.
Assolutamente tranquillo e paziente, questi sfogliava distrattamente
uno dei suoi soliti libri come se la situazione per lui fosse
più che normale. Il ragazzo sbuffò ancora, quasi
esasperato.
«Perché
non hai portato Alphonse al mio posto, padre?»
domandò,
poggiando entrambe le mani sul bordo della panchina in modo da
sostenere il suo peso.
L'uomo girò una pagina con
non curanza, quasi piegando la
copertina ormai consunta.
«Perché
in quanto primogenito un giorno sarai tu a succedermi»,
rispose semplicemente. «Devi
imparare come amministrare gli affari di famiglia».
«Ma,
padre... lo sai che non mi interessa», bofonchiò
il
biondino, incrociando le gambe sulla panchina e abbandonando i palmi
delle
mani sulle caviglie. Ricevette un'occhiata ammonitrice dal genitore, a
quel dire e a quel
fare.
«Comportati
in modo consono alla tua posizione sociale, piuttosto. Non lagnarti
come un paesano qualsiasi», ribatté, sondando con
lo
sguardo la sua postura. «E
siediti per bene», soggiunse, scuotendo debolmente la testa. D'un
tratto, poi, sentendo qualcuno chiamarlo, alzò lo
sguardo e posò il libro sulla panchina,
sorridendo.
Il ragazzo dapprima non capì,
ma, vedendo suo padre salutare
due
uomini che si stavano avvicinando e vedendolo poi alzarsi, fece lo
stesso, seguendolo
verso i nuovi arrivati. Uno dei due era un uomo molto alto sui
quarant'anni o poco
più,
dai capelli neri brizzolati e folti baffi scuri; l'altro invece era un
giovane, forse appena diciottenne, con i lunghi capelli d'ebano come
quelli dell'uomo e un taglio d'occhi orientale. Più unico
che
raro, lì in Inghilterra.
«Spero che il viaggio non sia
stato spossante»,
disse
l'uomo, stringendo la mano a quello che poco prima era seduto, gettando
uno sguardo al biondo come se fosse incuriosito dalla sua presenza.
«Nay,
è stata una splendida passeggiata»,
replicò quasi
divertito l'altro, ricambiando la stretta con un sorriso.
«Immagino
che lui sia suo figlio», soggiunse poi, guardando il ragazzo
moro
che, per educazione, era rimasto in silenzio, osservando
però
interessato il biondino.
«Immagina
bene», fece in tono altrettanto spassoso il nuovo arrivato,
dando una pacca
sulla spalla al giovane e ricevendo da lui un'occhiata.
«Avanti,
Roy, dove sono finite le buone maniere?»
Il ragazzo chinò appena il
capo, allungando una mano verso
l'uomo e stringendo la sua con un vago sorriso che accentuò
il
taglio obliquo dei suoi occhi.
«E'
davvero un piacere conoscerla, signor Hohenheim», disse con
una
voce calda, morbida e ovattata, osservando con la coda dell'occhio il
biondino.
«Il
piacere è mio, Roy», rispose l'uomo, e una volta
sciolta la
presa si girò a sua volta a guardare il figlio, silenzioso e
a
braccia conserte accanto a lui. Aprì la bocca per
presentarlo ai
due uomini, ma lo
stupì
non poco il gesto del moro, che si era chinato a mezzo busto e gli
aveva delicatamente preso una mano per baciargliela come un galantuomo.
Gesto che fece accigliare non poco il biondino, che osservò
quella chioma nera perplesso quanto il padre, a differenza dell'altro
uomo che, data l'espressione tranquilla, lo riteneva probabilmente un
comportamento normale.
«Incantato»,
mormorò il ragazzo con i capelli scuri, alzando lo sguardo
per sorridergli e ammiccare, e il biondo si accigliò ancora
di più, nonostante
quel
sorriso gli piacesse anche se non capì propriamente il
perché. Con la mano libera lo indicò, guardando
il padre.
«Tha
e
gòrach, Athair [1]»,
disse calmo, in una lingua che gli altri due non capirono.
L'interpellato lo ammonì con
lo sguardo.
«Non
essere scortese», replicò, poggiandogli una mano
sui
capelli per scompigliarglieli con fare paterno, guardando divertito il
moro che sbatteva le palpebre quasi confuso. «Temo
tu abbia frainteso, ragazzo mio», sghignazzò nel
vedere
l'espressione che si era dipinta sul volto dei due uomini, che si
osservarono perplessi. Difatti il moro lasciò la mano del
biondo, guardando
attentamente suo padre per una frazione di
secondo prima che fosse proprio il biondino a richiamare la loro
attenzione con un colpetto di tosse, quasi innervosito.
«Sono
un maschio», sbottò, già stizzito di
suo per
essersi dovuto mettere in viaggio, prendendo poi la mano del moro e
stringendola con fin troppo vigore, tanto che all'altro formicolarono
le dita quando la mollò. «Mi
chiamo Edward».
Il ragazzo moro si portò una
mano alla bocca prima di
sgranare gli occhi
scuri, sentendo le risate del padre del biondino, alle quali si
aggiunsero presto quelle di suo padre. Si sentì invaso da un
vago senso di imbarazzo mentre si
grattava con finta non curanza dietro al collo, quasi fosse a disagio. «S-Sono
desolato», si scusò sulla
difensiva. «E’ che hai un viso
così
carino che pensavo fossi una fanciulla. Perdona
l’insolenza».
Edward non poté non
arrossire, proprio
come una ragazza. Nessuno gli aveva mai detto che era carino, tanto
meno un... beh, tanto
meno un uomo. Cercò di non dare a vedere che quella
constatazione era ben
gradita, ricomponendo la sua aria distaccata e incrociando le braccia
al
petto. «Devo
considerarla un'offesa alla mia virilità, questa, o un
complimento?» ribatté arcigno, ricevendo una
poderosa pacca sulla schiena dal padre. Si voltò a
guardarlo, notando la sua espressione
divertita.
«Placa
gli ardori,
Highlander.
Non essere così acido», fu la sua risposta
spassosa, mentre faceva cenno all'altro uomo di accomodarsi sulla
panchina. «Vai
a fare due passi, dobbiamo parlare di affari».
«Vai
anche tu, Roy», rincarò la dose il padre del moro.
Il biondo, che sapeva fin troppo bene
quanto fossero noiosi quei
discorsi, lanciando un'occhiata in tralice quasi truce al
ragazzo
dai capelli
scuri e sbuffando, prese a camminare per la piazza fino a sbucare in
una delle strade principali, seguito dall'altro che gli trotterellava
dietro.
«Senti,
mi dispiace», lo sentì dire, ma non gli diede
peso,
continuando la sua traversata come se nulla fosse, come se lui non
avesse aperto bocca. Più lo teneva lontano da sé,
meglio era. Non
sapeva perché. «Non
volevo dubitare del fatto che sei un uomo, sul serio»,
riprese
quello, insistente, avvicinandosi a lui in sole quattro falcate. «Ma
è vero che sei carino, non scherzavo affatto su quel
punto».
Edward si fermò di botto,
arrossendo ancor
più vistosamente. Ma perché arrossiva,
maledizione? Che razza di potere
ammaliante aveva su di lui, quel moro? «Anche tu
lo sei»,
si ritrovò a confessargli senza un
motivo
preciso, pentendosene subito e tappandosi rapido la bocca. Nay, quello
non era un ragazzo. Era un ammaliatore o qualcosa di simile,
se gli faceva dire quelle cose.
«Oh,
beh, sono lusingato», lo sentì dire, in tono
stranamente divertito. «Che
ne dici di dimenticare quel piccolo disguido e ricominciare da
capo?» Senza che potesse dire una parola o controbattere, il
ragazzo se lo
ritrovò al suo fianco, e in breve la sua mano stringeva
nuovamente quella del moro, che sembrava sorridergli seducente. «Piacere,
Roy», fece spassoso, come se fosse un gioco.
Il biondo guardò le loro mani
unite e poi quegli occhi a
mandorla, di un colore tendente all'onice, e dovette ammetterlo a se
stesso. Quel ragazzo non era solo carino, era bellissimo. E anche
maledettamente furbo
e ingegnoso. Se non fosse stato così alto, l'avrebbe
scambiato per un Wee
Folk [2]. Ma gli
regalò comunque un sorriso stiracchiato, ricambiando
la stretta.
«Edward»,
disse, sentendolo ridacchiare, e gli piacque, quella risata. Un po'
titubante tenne stretta la mano del moro, arrossendo
ancora una volta quando quello sguardo scuro si posò su di
lui
e, a disagio, si grattò una guancia, limitandosi a
stringersi
nelle spalle.
«Lo
considero un gesto d'affetto?» sghignazzò il moro,
ricevendo una mezza occhiata dal biondo, che abbassò
prontamente
lo sguardo sul terreno lastricato.
«Consideralo
come vuoi», replicò, stupendosi di non essere
stato
sgarbato come avrebbe voluto sembrare in quel preciso momento.
«Ma
dai,
dimmelo tu», fece ancora il ragazzo dai capelli d'ebano,
sorridendo sensuale a quello strano ragazzo. Lo vide alzare lo sguardo
ancora una volta, prima che una delle fine
sopracciglia bionde fosse sollevata appena, come ad indicare un
inconfutabile scetticismo, ma
lo vide sorridere, come fosse divertito.
«Tienilo
a mente, mai discutere con uno scozzese».
Nel
maniero, nemmeno una fiaccola illuminava le grandi sale e la quiete
regnava sovrana, spezzata di tanto in tanto da qualche urlo disumano o
dal risuonare sinistro dei vetri infranti.
Con la testa fra le mani, Padre Roy
cercava con tutte le sue
forze di scacciare
quell'anima malvagia che si annidava nel suo cuore e che cresceva ogni
giorno di più, divenendo sempre più potente.
Ormai,
però, le sue preghiere erano diventate inefficaci da
anni. I primi mesi aveva quasi sperato di essere riuscito a placare la
sete
di sangue che gli attanagliava le viscere; si era persino ridotto a
mordere se stesso per non cedere a quell'inarticolato desiderio, ma
tutto ciò che aveva ottenuto era stato solo iniettarsi
veleno del tutto
inutile su di lui, e la sua sete era aumentata sempre più
d'intensità, martoriandolo nel profondo, in quel frammento
d'anima umana che gli era ancora rimasta e che si aggrappava
spasmodicamente al suo cuore per non sparire del tutto.
Voleva morire. Combatteva contro se stesso da dieci anni:
la transizione in lui, per
qualche strana ragione, non era ancora completa, e questo poteva
considerarsi un suo punto debole o la sua quasi totale
invulnerabilità. Di solito, come gli aveva spiegato il
vampiro che l'aveva trasformato,
non ci volevano più di un paio di giorni per completare il
passaggio, ma la sua forza di volontà non aveva permesso che
si compiesse né lo faceva tutt'ora, e la sofferenza era
maggiore. Mille volte maggiore di quanto fosse mai
immaginabile. Dentro di lui il fuoco che ardeva non si spegneva mai,
era come le
fiamme
dell'Inferno che bruciavano per l'eternità, senza consumare
il
corpo di chi era stato dannato. Come lui.
C'erano attimi in cui, come in quel
momento, tornava ad essere quasi
umano,
lucido, cosciente della sua situazione, e disperato abbatteva in
continuazione le vetrate del maniero, tentando di ferirsi, urlando per
quel fuoco che non lo abbandonava. A tali momenti si alternavano vuoti
oscuri in cui percepiva quel che
gli accadeva intorno, ma il suo corpo si muoveva senza rispondere ai
comandi della sua mente, vagando come uno spettro per il bosco che
circondava il maniero e attaccando qualsiasi cosa da cui percepisse lo
scorrere della vita. E a quel punto, mentre i canini affondavano contro
la sua
volontà nel collo di chi si era perso tra la boscaglia, con
il
sangue della sua vittima che gli colava agli angoli della bocca, i suoi
occhi d'onice vacui e privi d'ogni emozione lasciavano cadere lacrime
che
nessuno avrebbe mai visto. Per questo, ogni sera da più di
dieci anni, tentava di
auto-mutilarsi per non patire più quella vita, se
così
poteva
definirsi.
Ci provava e ci riprovava, senza
successo. Un vampiro giovane, appena nato, non poteva fare un
granché
senza dipendere bene o male dal vampiro che l'aveva fatto risorgere a
nuova vita. I poteri erano deboli, non sviluppati, l'unica cosa che lo
rendeva
diverso, e tremendamente più forte degli altri esseri umani,
erano le zanne che gli spuntavano dalle labbra, la sua forza sovrumana
e la capacità di rigenerarsi. Senza contare la continua e
lasciva sete di sangue e il mai
soddisfatto desiderio carnale. Per non parlare poi delle continue
immagini che la sua mente
registrava proprio come aveva fatto pochi attimi prima, facendogli
provare un dolore ancor maggiore, un dolore a
cui non riusciva a dare una spiegazione, un dolore che gli sembrava
quasi sfociare nella nostalgia.
Aveva il terrore di se stesso, in quei
momenti.
Sentiva voci su voci che si accavallavano le une alle altre, occhi che
si accostavano ad altri, momenti di cui sentiva la mancanza. Quando
tutto diveniva dannatamente doloroso,ciò che i
suoi occhi riuscivano a vedere attraverso l'oscura foschia color pece
che smussava i contorni era il polso del suo signore,
quel polso candido che si macchiava del sangue di cui lui si nutriva
per placare almeno in parte la terribile sofferenza, e la sua mente si
concentrava unicamente sulla mano gelida e delicata che gli scorreva
sulla pelle nuda e fredda, in quell'atto di eccitante e spaventoso
erotismo. Quelli, però, erano gli unici attimi in cui
riusciva a
riacquistare un barlume di se stesso. E a quel punto lo allontanava
immediatamente
da
sé, come disgustato
dai suoi gesti, sotto lo sguardo ambrato del giovane vampiro che, senza
dire una parola, gli copriva il corpo nudo con un lenzuolo leggero e lo
lasciava solo. Solo con le sue strazianti urla nel realizzare cos'era
successo. Urlava e urlava finché la gola non cominciava a
bruciargli,
rannicchiato su se stesso con le mani convulsamente strette fra i
capelli scompigliati, con le gambe al petto, avvolto in quelle lenzuola
e seduto su
quel materasso completamente sporco di sangue e di un liquido vagamente
rassomigliante a sperma.
D'un tratto, abbandonando quei pensieri,
si guardò intorno
con gli occhi neri completamente dilatati,
come qualcuno che venisse tenuto costantemente sotto controllo, il
respiro ansimante gli faceva alzare e abbassare il petto a ritmi
sempre più irregolari, mentre la sete di sangue cresceva
senza
limiti. Qualcosa gli sfiorò una spalla; drizzò la
testa,
si voltò. Dinanzi a lui si ritrovò uno dei servi
di sangue presenti
in quella casa.
In un lampo, gli fu addosso prima ancora
che potesse muoversi o
urlare,
afferrandolo per le spalle e martoriandogli la carne con dita ormai
divenute artigli, senza badare alle sue urla mentre si spostava verso
l'addome. La testa si reclinò all'indietro, il volto si
chinò poi
fino a snudare le zanne; le affondò nel suo collo prima di
squarciargli completamente
la gola, sentendo il suo sangue caldo colargli lungo il mento. E a
quell'odore penetrante di ruggine, il fu Padre Roy scattò
serpentino
all'indietro, restando seduto su quel pavimento freddo ad osservare
allarmato e ad occhi sgranati lo scempio che aveva appena compiuto.
Interiora, sangue.
Una morsa gli attanagliò lo
stomaco, come se stesse
trattenendo un conato di vomito. Si affrettò a puntellarsi
sulle ginocchia per rimettersi in
piedi, barcollante, tentando di non guardare le proprie mani, sporche
di sangue
quasi fino al polso. Puntò lo sguardo verso le finestre, al
cielo scuro
fiocamente illuminato dalla luna.
«Perdona
questo peccatore, Signore», sussurrò, anche se
invano. Quella fede fittizia che gli era rimasta era l'unica cosa che
gli
permetteva di non impazzire. O almeno non del tutto.
Gettò un'ultima veloce
occhiata al corpo esangue a cui aveva
appena tolto la vita, sentendo un vuoto attraversargli il petto. Un
mostro, ecco ciò che era diventato. Solo e unicamente un
mostro. E, abbattendo l'ennesimo pugno contro un vetro -
con i frammenti che gli
si
conficcavano nella carne già immediatamente guarita,
con i
lunghi capelli neri che gli ricadevano sulle spalle e sul viso dalla
fronte imperlata di sudore a coprirgli frattanto gli
occhi scuri -, levò
un ringhio acuto che rimbombò sulle pareti del lato ovest,
arrivando
alle orecchie del padrone di casa. Quest'ultimo alzò appena
gli occhi dal libro che
stava
leggendo, gettando uno sguardo ai suoi due figli prima di stornare poi
lo
sguardo
verso gli altri tre o quattro vampiri che in quegli anni di forzato
ozio era riuscito a richiamare. Anche loro, assolutamente immobili,
osservavano i loro padroni.
Hohenheim si sistemò con fare
stanco gli occhiali sul naso,
voltando distrattamente pagina. «Ogni
sera la stessa storia», borbottò pacato, quasi con
svogliatezza, sistemandosi anche il colletto della camicia di
pizzo e stando attento al piccolo opale scarlatto che quasi gli cingeva
la gola. «Proprio
non riesce a starsene buono».
Trasse
un lungo
respiro, accavallando con disinvoltura le gambe e cercando di
riconcentrarsi come meglio poteva sulla sua lettura. Bevve un sorso del
the che uno dei suoi servi di sangue gli aveva
portato pochi minuti prima, posando
nuovamente la tazza per riprendere a leggere, ma un altro ringhio lo
deconcentrò, ed esasperato si massaggiò una
tempia. «Sapete
bene quello che dovete fare»,
fece poi rivolto ai suoi due figli, vedendoli con la coda dell'occhio
immobili al loro posto, come se la questione non li riguardasse. Chiuse
il libro con uno schianto secco, risistemandosi ancora una volta
gli occhiali prima di fulminarli entrambi con lo sguardo. «Muovetevi,
invece di poltrire», ordinò, senza voler ammettere
repliche.
I due vampiri si guardarono appena e, sbuffando, sparirono poi in un
batter di ciglia, ritrovandosi a
camminare senza alcun risuonar di passi per i corridoi
impolverati, insinuandosi in uno sulla destra e sbucando nella
sala musica, dove il piano con cui si dilettava a suonare la loro
defunta madre
era stato rovesciato e scagliato in un moto di rabbia contro il muro,
scivolando sui vetri che imperversavano sul pavimento come piccoli
diamanti grezzi scintillanti.
Il più giovane trattenne
un'imprecazione, voltandosi verso
il fratello.
«Spero
tu sia contento adesso, Edward», sbottò
innervosito, con gli occhi
verde ambra ardenti di collera mal celata. «Dieci anni e
ancora
cerca di contrastare il tuo cosiddetto veleno...
distruggendo frattanto gli
oggetti di nostra madre». Distolse
immediatamente lo sguardo quando incontrò le polle
assolutamente
scure del maggiore, infervorato quasi più di lui. Il suo
disappunto si poteva fiutare nell'aria.
«L'ho
punito più volte, per questo», gli tenne presente,
cominciando a scendere tranquillamente le scale che li dividevano dalla
sala, seguito
dal compagno.
«Ma sembra non abbia capito la
lezione, dato che se
n'è
andato in giro senza il tuo permesso», fece in risposta
l'altro.
«Forse
avrei dovuto farlo trasformare da nostro padre, almeno si rendeva utile
in qualche modo, quel vecchio vampiro», disse tra
sé e sé come se stesse intrattenendo un monologo,
inclinando la testa di lato per evitare un
frammento di vetro che il prete gli aveva appena scagliato contro.
«A
quanto pare, il mio veleno
agisce troppo lentamente».
Alphonse sbuffò, gettando
un'occhiata a Edward. «Non
avrebbe mai esaudito un tuo capriccio, lo
sai», lo informò, inarcando un sopracciglio, ma ci
guadagnò appena uno sguardo truce.
«Penso di sì,
invece. Me lo doveva»,
replicò
con fare fin troppo ovvio, avvicinandosi maggiormente al prete. «Ma
in questo modo Roy avrebbe ubbidito a lui, essendo originariamente
umano».
Entrambi fecero scorrere lo sguardo
nella sala, trovando riverso in
una pozza di sangue uno dei loro servitori, con le mani completamente
abbandonate, immobili ed esangui, sul pavimento, rivolte verso il
camino spento. Degnandolo di una sola occhiata, Edward scosse la testa
come se
ancora non se ne capacitasse, concentrandosi sul prete che se ne stava
in piedi a pochi passi da lui, con le mani convulsamente serrate sul
bordo di una delle piccole scrivanie, i capelli scuri gli ricadevano
sulle spalle confondendosi con il mantello che indossava.
Gli si avvicinò piano e
provò a sfiorarlo, ma quest'ultimo
si
ritrasse di scatto con un ringhio sommesso avendo avvertito la sua
presenza,
mostrandogli le zanne. Il fuoco divampò in un
guizzò d'oro e arancio nel
camino
come se fosse stato acceso da mani invisibili, un fulmine
squarciò immediatamente il cielo e in lontananza si
udì
un ululato, mentre i due vampiri
si squadravano, chi sopraffatto solo e unicamente dal disgusto, chi
assolutamente indifferente alla collera che sentiva scaturire
dall'altro.
Fu qualche attimo, e il moro gli si
gettò contro spinto solo
da
quell'istinto terrificante che lo animava, come se rivoltarglisi contro
potesse servirgli a qualcosa. Lo afferrò per il colletto
della camicia con entrambe le
mani,
costringendolo in questo modo ad alzare di poco il mento, le zanne
palpitanti fra le labbra, mentre gli occhi, così scuri che
nemmeno le pupille sarebbero state distinguibili, erano fissi solo ed
unicamente sul suo volto.
Il biondo non fece una piega,
guardandolo a sua volta con fare
saccente. Trasse un sospiro, alzando lentamente un braccio per far
cenno al
fratello di non intervenire, avendolo visto con la coda dell'occhio
flettere il corpo, pronto all'attacco. Una delle sue mani si
posò poi su quelle che il moro aveva
stretto
intorno al suo collo, e con uno scatto repentino lo costrinse a
lasciarlo, piegandogli così velocemente il braccio dietro la
schiena che l'altro nemmeno se ne accorse. Un altro ringhio
disumano che si trasformò in un urlo sfuggì dalle
labbra
del moro, che tentò di voltare la testa verso di lui per
opporre
in qualche modo resistenza, divincolandosi.
Edward gli piegò maggiormente
il braccio, come se
volesse spezzarglielo, forzandolo ad inginocchiarsi davanti a lui e
ignorando i suoi mugolii di dolore.
«Vedi cosa mi costringi a fare, Roy?» gli
sussurrò languido, chinandosi in modo da potergli sfiorare
un
orecchio con le labbra.
«Non voglio farti del male, ma se continui ad opporti in
questo
modo...» scese piano, lento, saggiando la pelle del collo.
«...tutto il dolore che provi non farà altro che
aumentare». Accanto a lui c'era solo la debole presenza del
fratello, che sembrava
assentire in silenzio nonostante il velo di potere che si sentiva
scaturire ancora intorno a lui a causa dello scontro evitato al quale
avrebbe, probabilmente, voluto partecipare.
«Lasciami
andare, figlio di puttana!» ringhiò il prete,
scrollando le
spalle come se volesse liberarsi, e i capelli gli ricaddero dinnanzi al
viso, nascondendogli parzialmente gli occhi scuri.
Una piacevole risata aleggiò
fra loro, nonostante lo sguardo
di Edward fosse divenuto indecifrabile. Erano
dieci anni che andava avanti così. Probabilmente suo
padre aveva ragione. Non
era realmente lui. Lo
lasciò bruscamente, vedendolo indietreggiare con
una
mano convulsamente stretta a pugno, tremante di collera e non solo.
«Parole molto pesanti,
per un uomo di Dio», disse in un sussurro, come se volesse
farglielo notare appena. «Och,
dimenticavo che non lo è più da anni»,
soggiunse poi,
facendo qualche passo verso di lui per piegarsi appena sulle ginocchia,
le mani abbandonate sulle cosce.
Il moro si allontanò
maggiormente, incontrando
con i suoi occhi d'onice dilatati per la
sete, il terrore e la rabbia, quelli dorati del vampiro dinnanzi a
sé, che erano unicamente un oblio ambrato.
Quante volte si era perso in quegli occhi? Quante volte, quando perdeva
il concetto del suo essere e diventava un
vampiro per quei pochi attimi in cui la sete prendeva il sopravvento,
godeva di ogni singola attenzione che quella creatura sapeva dargli?
Quante volte lasciava che il suo corpo gli appartenesse? Ne aveva perso
il conto, ormai. La sua integrità di prete era
scomparsa
dieci anni prima,
quand'era diventato un vampiro. Ormai conosceva la lussuria, il
piacere... tutto a causa di quell'essere, che approfittava di lui
quand'era
più debole e assetato, accondiscendente, e tutto
ciò che
gli faceva gli piaceva tremendamente. Ciò che gli restava
era
quel briciolo di fede che ancora
era riuscito, chissà come e con chissà quale
forza, a
preservare. E, come se non bastasse, il mostro che aveva dinnanzi non
faceva altro
che ricordargli la sua triste situazione.
Indietreggiò ancora, seduto
su quel pavimento impolverato,
spostando il suo sguardo verso il
più
giovane per catturare solo in seguito l'immagine del servo che
aveva ammazzato. Terrorizzato ancora una volta dal suo stesso gesto, si
sfregò
velocemente le mani
sul pantalone scuro, come a volerle ripulire del peccato che aveva
commesso. I canini,
appena scoperti, sporgevano dalle labbra quasi livide
«In
nome di Dio, di Satana, di chi è il vostro protettore.
Lasciate che me ne vada», bisbigliò
concitato, riportando la sua attenzione sul volto d'alabastro di colui
che aveva dinnanzi.
«Lasciatemi
libero. Non voglio più uccidere».
Le labbra di Edward si sollevarono in un sorriso, vagamente triste nel
ricordare il
lampo d'eccitazione che intravedeva nelle perle nere del prete quando
uccideva, lo
stesso lampo che aveva riscontrato in quegli stessi occhi quasi
trecento anni prima. Desiderio, passione... anche se per poco, era
riuscito a vederlo.
«Ti
ricordo che il nostro compito non è ancora concluso,
Roy», replicò tranquillo.
La pupilla nera si ridusse ad un puntino scuro. «Non potete
chiedermi di farlo, non voglio»,
sussurrò piano, guardando seriamente gli occhi dorati del
vampiro.
«Non potrei mai... è come un fratello, per me. Non
voglio uccidere né lui né altri».
«Non ti farai più
tutti questi scrupoli dopo mezzo
secolo, te lo assicuro», mormorò
comprensivo Edward, rialzandosi in piedi prima di avvicinarsi a lui. Si
chinò ancora una volta, accostando le labbra all'orecchio
per
sussurrargli divertito:
«Sarà
lui la prossima vittima... Maes Hughes».
ATTO SECONDO.
FINE
[1]
Papà, questo qui è stupido [
Gaelico scozzese ]
[2]
I
Wee Folk sono
creature tipiche
del folklore scozzese (Quasi equivalenti ai nostri folletti)
caratterizzate dalle minuscole (Wee) dimensioni.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del
tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 3 *** Riunioni ***
Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO TERZO.
RIUNIONI
Lo
stormire tra le fronde diveniva man mano più ovattato,
più la notte si infittiva e più loro si
avvicinavano al
maniero, insinuandosi fra i boschi silenziosi e cupi.
Serpeggiarono scansando i rami bassi che
ostruivano il loro
passaggio,
dilaniati dalla sgradevole sensazione di mille occhi puntati su di
loro. In poco arrivarono dinnanzi alla magione, le cui grandi porte,
stranamente, erano spalancate, come ad
invitarli ad entrare, ed i due uomini trovarono l'ingresso in
condizioni più catastrofiche di quando l'avevano visto dieci
anni prima. Il dipinto era stato bruciato, così come la
maggior
parte
degli
oggetti lì presenti, vetri e mobili erano ridotti a pezzi, e
gran parte dei frammenti erano stati scaraventati da una parte
all'altra del salone.
Senza capire chi fosse stato a compiere
quel putiferio, il Sindaco e
l'unico uomo della sua scorta cominciarono a perlustrare il primo piano
della casa, sorpresi di non trovarvi i presunti abitanti a
quell'ora di notte. Che fossero usciti a caccia? Il solo pensiero fece
accelerare i battiti dei loro cuori mentre
avanzavano spediti in ogni stanza, sorpassando ogni ostacolo, salendo o
scendendo ogni scala.
Sbucarono in un piccolo studio ormai in
disuso, i cui scaffali erano
stracolmi di vecchi libri impolverati, l'unica scrivania
presente
era anch'essa ricoperta da uno spesso strato di polvere, e un paio di
tomi antichi erano ordinatamente riposti sulla destra, insieme a vari
fogli e stilografiche; oltrepassarono la soglia guardandosi
attentamente intorno e coprendosi
le spalle a vicenda, controllando ogni anfratto, gettando occhiate
furtive alle finestre che si affacciavano nella lugubre foresta immersa
nelle tenebre.
Maes fece ad Havoc un piccolo cenno con
il capo e con due
dita, intimandogli di seguirlo nuovamente nel corridoio scuro, ed
entrambi ripresero a camminare inondando di luce le pareti con la
lanterna che avevano con sé, puntando in ogni angolo le
pistole
che impugnavano, con l'ansia che si faceva sempre più strada
nei
loro cuori; al secondo piano, uno di loro poggiò una mano su
una porta
alla
loro sinistra, rivelando una piccola stanza quasi completamente
spoglia, dall'arredamento spartano dove c'era la sola presenza di un
letto e una cassettiera accanto ad esso. E quando lo sguardo di
entrambi si posò sul lenzuolo che
copriva il materasso, Hughes sgranò gli occhi, facendo un
passo
indietro senza un motivo apparente.
Havoc gli lanciò un'occhiata
e, con la lanterna ben alta ad
illuminare la stanza, si avvicinò al letto per toccarne la
coperta, sporcandosi i polpastrelli delle dita di sangue. Fresco. Voltandosi
verso il Sindaco, vide che era sbiancato. Si ripulì le dita
sul cappotto nero, gettando un altro
sguardo alla stanza.
«Hughes,
tu credi che questo sangue sia...?» chiese appena, senza
terminare la frase. Avrebbe voluto chiedere se fosse di chi credevano,
ma non ne aveva il
coraggio. Sembrava non voler avere realmente una risposta.
Il Sindaco scosse la testa,
tenendo lo sguardo basso
mentre, senza
proferir
parola, usciva silenzioso come un'ombra dalla stanza, tornandosene nel
corridoio. Havoc l'osservò sparire insieme alla scia della
luce
della lanterna che sorreggeva e, con un piccolo sospiro, si
affrettò a seguirlo, guardando un'ultima volta le lenzuola.
Sorpassate un altro paio di stanze, le cui finestre erano state coperte
e chiuse da pesanti tendaggi di seta nera, tanto che persino i muri
davano l'impressione di essere del medesimo colore, come se in quelle
camere non entrasse la luce del sole da secoli, si ritrovarono in un
grande atrio coperto da una cupola in vetro che si sorreggeva su
intelaiature in fine metallo e pilastri completamente avvolti da edera.
Hughes si guardò intorno, con
la lanterna ad illuminargli
la
zona. Quando si erano ritrovati in quel maniero, dieci anni prima, lui
e gli
altri
si erano limitati solo a controllare i paraggi o il primo piano di
tutta la casa, era stato suo padre ad esplorare accuratamente la villa.
Si stupì non poco, quindi, nel vedere come aveva vissuto un
tempo quella famiglia. Voltò la testa verso Havoc, che si
guardava nervosamente
intorno
mentre, posata la pistola, frugava nelle tasche, forse alla ricerca del
suo solito pacco di sigarette; lo trovò e se ne accese una,
tirandone una bella boccata,
agitato. Si stava sfregando le dita dell'altra mano, mentre con l'altra
avvicinava e allontanava la sigaretta dalle labbra, ispirandone il fumo
fino in fondo ai polmoni. Ricevette da lui una fuggevole occhiata prima
che, deglutendo quasi
simultaneamente, riprendessero a camminare in quel grande atrio dal
pavimento di marmo, con i loro passi che risuonavano sinistramente nel
silenzio e nel vuoto.
Scesero ben presto nuovamente ai piani
inferiori, e anche qui, ad
attenderli, c'era solo il nulla, avvolto nelle ombre sempre
più
fitte della notte. Dopo un lungo tragitto attraverso grandi corridoi
bui, giunsero in
un'altra stanza, così grande che avrebbe potuto benissimo
ospitare una cinquantina di persone o poco più, arredata da
una
buona parte di scaffali impolverati dalle cui mensole sporgevano volumi
e libri di ogni dove, qualche poltrona dal tessuto rosso consunto e un
caminetto spento incassato alla parete. La biblioteca del
padrone, probabilmente.
Un brivido corse lungo la schiena del
Sindaco man mano che il
suo
sguardo si posava su quei frammenti di una vita passata in un'epoca a
lui sconosciuta. I quadri lì presenti rappresentavano scene
di
caccia o i probabili
antenati della famiglia - i tratti del viso allungati e spigolosi, i
capelli biondi castigati in alte code, le espressioni austere e degne
di chi era conscio del potere che possedeva -, mentre un grande arazzo
prendeva gran parte
della parete a nord, vicino alle grandi porte-finestre
spalancate e dalle quali, di tanto in tanto, entrava un flebile e
gelido alito di vento che smuoveva le tende scure.
Uscirono da quella stanza e ripresero ad
esplorare i dintorni del
maniero, con una sempre più crescente agitazione che gravava
nei
loro cuori e nei loro animi; si spostarono verso il lato ovest del
maniero, percorrendo l'unico
lungo corridoio lì presente, dove il gelo sembrava quasi
concentrarsi in una bolla d'aria. Piccole nuvolette di vapore uscivano
dalle loro labbra quando
respiravano, l'estenuante sensazione che avevano provato appena giunti
ai cancelli del maniero era quasi sul punto d'intensificarsi, mentre
continuavano la loro lenta, e vigile, traversata. D'improvviso, in un
lampo azzurro e violaceo, le torce ai lati del
corridoio guizzarono e si accesero, irradiando di luce il luogo in cui
si trovavano. Si schermarono gli occhi per l'intensità,
quasi storditi.
«Che diavolo...?!» esclamò uno di loro,
abbassando le
palpebre per massaggiarle, accecato. L'altro intanto stava facendo lo
stesso, intontito quasi quanto lui se
non di più. Chinò il capo e anche la lanterna,
sbattendo più
volte le
palpebre per abituare gli occhi a quella luce violenta e carica
d'energia
che aveva investito entrambi così fulminea, istantanea,
poggiando la schiena contro il muro di destra per riprendersi almeno
parzialmente.
«Tutto
okay, Hughes?» sentì chiedere, e scosse
energicamente la testa alzando lo sguardo verso di lui.
«Potrei
stare meglio», rispose, aprendo lo sportellino della lanterna
per
spegnerla, dato che la sua luce era ormai inutile. «Ma
non perdiamo altro tempo, muoviamoci».
Havoc si limitò ad annuire,
seguendolo per quel corridoio
dove
le fiamme delle torce creavano danze azzurrognole e infuocate sulle
pareti dal colore giallognolo stinto e invecchiato. Dopo
minuti interminabili
di cammino, sbucarono in un'ampia stanza, anch'essa completamente
immersa nella penombra, se si escludeva la luce che proveniva dal
corridoio. Fecero qualche passo avanti sporgendosi oltre il parapetto
della
ringhiera, gettando un'occhiata nella sala adiacente, inghiottita
dall'oscurità. Solo verso sinistra, dove una fievole luce
arancione sembrava
riscaldare l'ambiente, un piccolo fuoco scoppiettante riusciva a dare
un fuggevole assaggio di come la sala si presentasse. Qui, a differenza
delle altre sale che avevano esplorato poco prima,
regnava il
più completo caos, persino sulle scale a chiocciola che
davano nella stanza sottostante erano presenti frammenti di
vetro e pezzi di legno appartenenti probabilmente a tavoli e sedie.
Cautamente, stando vigili per non
inciampare in nulla, scesero
nella sala, osservando con minuziosa attenzione
ogni particolare e facendo scorrere lo sguardo su tutto l'arredo
disastrato lì presente, sul cadavere ancora riverso a terra
che
fece loro deglutire nuovamente, spostando poi lo sguardo e
soffermandosi soprattutto sul piano
ribaltato. E proprio lì, avvolto in un mantello nero
rischiarato appena
dalle fiamme, lo videro. Si stringeva convulsamente le braccia al
petto, dondolandosi avanti e
indietro senza tregua, la sua voce bassa e sommessa dava vita a parole
dette in una lingua incomprensibile. D'un tratto si zittì e
si fermò, voltando
lentamente la testa verso di
loro con uno strano sorriso amaro ad increspargli le labbra
appena rosate.
«Maes...»
sussurrò languido, con voce cadaverica.
«Maes...
sei venuto a prendermi, finalmente».
I due uomini osservarono impalliditi
quel volto
dai lineamenti delicati ma decisi, di una bellezza e di una giovinezza
quasi
impossibile, appena incorniciato da ciuffi di setosi capelli neri
raccolti ora in una bassa coda. I canini, acuminati e bianchissimi,
luccicavano sinistramente al di
sotto delle sue labbra livide appena schiuse, alla
luce del fuoco, e gli occhi, completamente neri come due pezzi di
carbone, fissavano entrambi, immoti e vuoti.
«Roy»,
disse Hughes in un bisbiglio sommesso, deglutendo ed avvicinando di
qualche passo.
«Mi... mi riconosci, adesso?» soggiunse, sebbene
fosse una domanda retorica. Ma quando le labbra si stirarono in un
piccolo sorriso privo
d'emozione,
scoprendo ancor di più le zanne, fu tempestivamente tirato
indietro da Havoc. Gli lanciò un'occhiata come per
capire che gli fosse preso, e lo vide trarre fuori dalla tasca una
grande croce d'argento, quella che si erano premurati precedentemente
di benedire in Chiesa.
«Non
muoverti, Hughes», gli intimò solo, avvicinandosi
al vampiro. Si
piegò sulle ginocchia, con la croce
ben in vista, e alla vista di quella reliquia il moro si ritrasse con
un guaito, come fosse un cane
spaventato. Gli occhi d'onice si dilatarono e le narici presero ad
annusare
spasmodicamente l'aria, come se sentisse qualcosa di sgradevole
aleggiare intorno a lui. Forse per effetto della croce, o di quella che
doveva essere acquasanta
che adesso gli bagnava
la pelle del braccio, sfrigolando, il prete lanciò un sibilo
stridulo, simile al lamento di un animale morente.
Perché su di lui la croce
faceva effetto?
Eppure ricordava distintamente che con il vampiro di nome Edward non
aveva funzionato. Forse perché lui non aveva ancora completato la
transizione? Era mai possibile? Ritrovò un po' di sollievo
solo quando l'uomo
allontanò la croce e lo vide gettare uno sguardo alle sue
spalle,
dove incontrò le iridi smeraldo di Hughes, che osservava la
scena esterrefatto, turbato. Si avvicinò subito, posando una
mano sulla spalla di
Havoc.
«Non fargli del male, Havoc...»
sussurrò, guardando il prete.
«...sembra sia confuso».
Lui gli allontanò piano la
mano, scuotendo la testa.
«Confuso o meno, non possiamo rischiare»,
mormorò, tirando un lungo sospiro.
«L'hai detto
tu mentre venivamo qui che non è più umano, o
sbaglio?» Si portò una mano alla cintola, pronto
ad afferrare la
pistola
caricata con proiettili d'argento, ma si irrigidì quando,
ancora
una volta, la mano del Sindaco si posò sulla sua spalla.
«Non puoi sparargli a bruciapelo», disse in
tono basso, mentre sentiva gli occhi scuri del prete puntati su di lui.
«Hughes, ragiona»,
cominciò, riponendo la croce in tasca.
«I vampiri
sono non-morti,
giusto?» lo sentì deglutire sonoramente. «Quante
speranze hai, allora, di riportare tuo
fratello com'era prima?»
Cadde un sottile velo di silenzio. Si
udivano solo i loro
flebili respiri e quello quasi agitato del
prete, che si stringeva ancora nel mantello nero, con il petto che gli
si alzava e gli si abbassava come se il suo cuore battesse impazzito.
Il pensiero comune era uno solo. Ucciderlo adesso o aspettare. Non
capivano, inoltre, come mai la casa fosse vuota, come mai non ci
fossero i vampiri che l'avevano occupata per chissà quanto
tempo. Perché, se erano tornati dopo anni, non ne
approfittavano
per farlo fuori lì, nella loro tana? Cosa diavolo stavano
aspettando quei mostri? La situazione era ancor più
complicata
di quanto fosse stata
all'inizio.
Il Sindaco sospirò
tristemente, abbandonando le sue
supposizioni.
«Non lo so,
Havoc», sussurrò concitato.
«Davvero,
non lo so», lo guardò, gli occhi color smeraldo
esprimevano supplica.
«Ma cerca di capirmi. Tu avresti mai il coraggio di
abbandonare qualcuno della
tua famiglia?»
Il biondo abbassò lo sguardo,
non riuscendo a sostenere il
suo. Nay, lui non ce l'avrebbe mai fatta. Ancora adesso sognava di quel
terribile giorno in cui aveva perso la
sua fidanzata. Avrebbero dovuto sposarsi non più di un mese
dopo, se non
fosse morta a causa di quelle creature. Ben capiva, quindi, quale
sofferenza potesse essere per Maes Hughes
abbandonare quel prete, quel prete che era stato per lui come un fratello sebbene
non ci fossero mai stati legami di sangue tra loro. Ma potevano
rischiare così tanto, mettendo in pericolo la
popolazione?
«Comprendo cosa provi Hughes, però...»
disse piano, sentendosi a disagio. «Non
dovremo...»
«Maes...» si fece
sentire la voce del prete,
interrompendo
Havoc e osservando con i suoi occhi d'onice, scuri e dilatati, il suo
amico.
«Ti supplico, portami via da qui».
I due uomini lo guardarono increduli.
Era diverso da come il Sindaco l'aveva visto nel vicolo,
così
privo d'ogni emozione e silenzioso, come fosse una marionetta nelle
mani di un burattinaio. Ora, invece, quasi gli ricordava l'amico e il
fratello che aveva
imparato a conoscere. Cosa poteva significare? Che ci fosse ancora
qualcosa di umano, in lui?
Ma era mai possibile?
Il prete si mise in ginocchio,
guardandolo con in volto una smorfia di
puro terrore. «Portatemi via prima che non sia più
me
stesso»,
prese a sussurrare, stringendo spasmodicamente le fredde mani attorno
al cappotto dell'uomo.
«Ti prego».
Deglutendo al contatto per una qualche
strana ragione che lui stesso
non capiva, il Sindaco sollevò con mani tremanti il
viso del prete, lo smeraldo dei suoi occhi incontrò
quell'onice
vacuo. «Che vuoi dire con questo?» gli chiese
sgomento,
deglutendo ancora.
«Che intendi con... te
stesso?»
Il giovane vampiro moro
abbassò lo sguardo, atterrito.
Sembrava stesse cercando le parole giuste per spiegarglielo. Ma,
precisamente, per spiegargli cosa? «Ci sto provando», disse in
tono flebile, respirando quasi affannoso. «Ci sto
provando da dieci anni a combattere, ma...» le mani
abbandonarono il cappotto, per raggiungere la
testa, che iniziò a dolergli e la scosse con forza.
«Non ci riesco, Maes! Non ci riesco! E' troppo... troppo
potente!»
Il Sindaco gli lanciò uno
sguardo obliquo prima di trarre un
lungo sospiro, gettando un'occhiata di sottecchi anche ad Havoc, che
era rimasto in disparte. Riportò la sua attenzione sul moro,
chinandosi verso di lui.
«Ce
la fai a camminare?» gli domandò a bassa voce.
Senza parlare, Roy annuì
piano, poggiando entrambe le
mani sul pavimento per acquistare equilibrio. Una volta in piedi fece
esitante qualche passo, come nel tentativo di
far rispondere le gambe ai suoi comandi, e una volta esserci riuscito
seguì gli altri due su per le scale senza badare al
putiferio
che lui stesso aveva creato, avvolto
da uno strano gelo che sembrava scaturire dal suo stesso corpo.
Il silenzio regnò fra loro
anche nel corridoio ancora
illuminato dalle torce, mentre il moro si stringeva sempre di
più in quel mantello che gli nascondeva il corpo coperto da
un
leggero pantalone nero e una camicia bianca, gettandosi ansiosi sguardi
intorno come se temesse di essere tenuto d'occhio. Sussultò
quando sentì il suo amico cingergli
delicatamente i fianchi e, senza volerlo, snudò le zanne
candide, emettendo un basso ringhio.
Hughes si ritrasse svelto e Havoc si
portò subito una mano
alla
cintola prendendo la pistola per puntarla al capo del prete che, nel
frattempo, realizzato ciò che stava per fare, aveva sgranato
gli
occhi e chinato il capo, facendosi scorrere le mani su e giù
sulle braccia in una bizzarra imitazione di chi cerca di scaldarsi.
«Mi
dispiace tanto, Maes... mi dispiace»,
sussurrò il prete, azzardandosi ad alzare lo sguardo verso i
due
uomini che camminavano al suo fianco ma che si tenevano a debita
distanza.
Tentennando e facendo cenno al biondo di
abbassare la canna dell'arma,
il Sindaco fece qualche passo verso il prete e, con attenzione,
allungò piano una mano per posarla sulla sua spalla,
sentendolo
sussultare ancora una volta.
«Non ti
preoccupare, Roy», sussurrò a sua volta, con voce
incrinata. «Vedrai,
sistemeremo tutto».
A quelle parole, ricevette uno sguardo
quasi assente dal prete che,
annuendo piano e respirando appena dalle labbra schiuse,
chinò
il capo, stringendosi ancora un po' nel mantello.
«Taing
cuidich, Maes [1]»,
gli mormorò, nella stessa lingua che aveva usato quella sera
di dieci anni prima, quella sera in cui era morto e... rinato come vampiro.
A Maes si serrò il cuore e
chiuse gli occhi, con in volto
un'espressione rassegnata. Li riaprì guardando il volto
diafano del suo amico, mentre dall'altro
uomo, che sembrava non credere a ciò che si erano detti data
la
sua espressione più che scettica, si guadagnò
un'occhiata
stranita, ma proprio lui non aprì bocca, si
limitò a
seguire Hughes e il prete
per le zone che avevano già visitato in precedenza,
sentendosi
di tanto in tanto gli occhi dell'ormai vampiro puntati su di lui,
sentendosi quasi avvolto in una nuvola gelida che gli percorreva il
corpo. Perché aveva un brutto presentimento? Cosa si
nascondeva, in realtà, in quelle polle d'onice senza
emozione che lo fissavano? Più ci pensava, più
temeva di venir a conoscenza
della risposta. E, nervoso, tirò nuovamente fuori dal
taschino il suo
pacchetto
di sigarette, accendendosene un'altra per scaricare la tensione
accumulata in quella notte.
Sentì ancora una volta lo
sguardo del prete addosso, e dopo
aver tirato una profonda boccata, gli lanciò a sua volta
un'occhiata, vedendo che i suoi occhi scuri erano puntati sulla
sigaretta che teneva fra le dita, e le narici dilatate annusavano
l'aria intorno a lui. Deglutì, distogliendo lo sguardo.
Quegli occhi neri gli mettevano soggezione.
Ben presto uscirono tutti e tre dal
maniero, portando
fuori il prete nell'oscurità che
imperversava, osservati intanto mentre si allontanavano, come al
solito, da due figure che
sorridevano compiaciute. Erano fuori, su uno dei balconi, con il vento
freddo che scompigliava
appena i capelli di entrambi. Uno dei due era intento a guardarsi
distratto una mano, a differenza
dell'altro che, a sguardo basso ma assolutamente concentrato, non
perdeva di vista il suo piccolo tesoro che era adesso nelle mani di
colui che cacciavano.
«Splendido», fece la
prima giovane voce,
divertita.
«Queste sue doppie
personalità ci torneranno davvero utili, a
quanto sembra».
L'altra figura rise. Una piccola risata,
quasi lugubre, che sembrò risuonare
nella foresta. «In un certo senso è un bene che il
mio veleno
agisca in
questo modo», mormorò piano, con gli occhi d'ambra
che
fissavano persi il sottobosco.
«Un
modo come un altro per avvicinarci al nostro obiettivo,
giusto?» chiese ancora la prima voce, facendo qualche passo
avanti per poggiarsi di schiena alla ringhiera.
«Aye»,
sussurrò, poi lo guardò con un cipiglio
sarcastico, prima di gettare
uno sguardo agli alberi dietro di lui.
Il fratello minore stette ad osservarlo
per un po', ritrovandosi poi a
sollevare un sopracciglio.
«Ma
non sarebbe stato più semplice farlo fuori adesso? Era nelle
nostre mani», gli fece notare subito con disappunto,
provocando lui solo un'altra debole e sinistra risata.
«La vendetta, come ci ha
insegnato nostro padre, è
un
piatto che va servito freddo», lo scrutò
lentamente da
capo a piedi, percorrendo con gli occhi la sua postura.
Alphonse sollevò maggiormente
le sopracciglia e
alzò il mento, quasi infastidito da quell'attenzione.
«E
da quando segui i suoi insegnamenti?» sbottò,
lanciando appena uno sguardo al sorriso che era andato ad increspare le
labbra di Edward, e quel sorriso non prometteva nulla di buono.
«Quando
mi fa comodo, ad esempio», disse, nel tono calmo e piacevole
di
chi intrattiene una splendida conversazione.
La constatazione non fece altro che
farlo accigliare maggiormente.
«Che
intenzioni hai?» chiese, incuriosito e sbalordito.
Il frusciare degli alberi e un lampo nel
cielo attirò la sua
attenzione, e annusando l'aria cominciò ad avvertire le
prime
tracce d'umidità, simbolo che il fratello stava progettando
qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Non
lo immagini, Alphonse?» sussurrò mefistofelico.
A quella sua affermazione, stranamente,
al più giovane corse
un brivido lungo la schiena. E il suo timore divenne più
fondato quando lo vide sorridere.
«Stai
ancora pensando a quella
follia, vero?»
domandò ancora, e il suo tono assunse un timbro preoccupato.
Fin troppo, preoccupato.
«Vuoi
ancora sottostare a lui?»
chiese di rimando Edward, guardandolo di sottecchi con i suoi occhi
ambrati.
L'altro boccheggiò un po',
come se non sapesse cosa
rispondere. Il rancore del fratello era così profondo che
l'aria intorno
a
loro sembrava essersi raggelata, inghiottita persino dal buio che li
circondava.
«Ti
rendi conto che ha radunato gli altri,
vero?» cercò di farlo desistere. In vita, trecento
anni
prima, erano stati due fratelli inseparabili. Le cose erano quasi
capitolate da quando erano diventati vampiri. Solo di tanto in tanto
ritornavano ad essere quelli di un tempo, ma non
più di tanto.
«So
cos'ha fatto, e conto anche su quello», gli
confessò,
poggiando entrambe le mani sulla ringhiera che si ghiacciò
al
suo tocco. «Non
si rivolteranno mai contro di me».
«Ma
neanche contro di lui»,
gli tenne presente Alphonse, allontanando la schiena dalla ringhiera.
Edward lo guardò appena,
senza il minimo entusiasmo,
portandosi due dita alle labbra. Sembrava pensoso, mentre rifletteva
sulle sue parole.
«Vero
anche questo, ma il gioco vale la candela». Un ampio
e
impudente sorriso gli increspò le labbra, sotto lo sguardo
stupito del più giovane. Si sporse verso di lui,
avvicinandosi al suo orecchio.
«Cosa
credi di poter fare così, mo
bhràthair?»
bisbigliò concitato.
Edward strinse brevemente le labbra,
soffermando il suo
sguardo sulla ringhiera ghiacciata che sembrava quasi brillare alla
debole luce che filtrava attraverso le nubi sopra di loro.
«Se non
fossimo diventati ciò che siamo, io sarei
stato Laird
al posto di nostro padre, e avrei vissuto come un normale essere
umano...» sospirò triste. «...accanto
a chi amavo». I suoi occhi riflessero i frammenti
di ghiaccio
che fece esplodere con la forza della mente e che vorticarono docili
intorno a lui come un mulinello. «E
invece guarda cosa ci ho guadagnato... un'effimera
immortalità
a capo di una schiera di vampiri. Proprio il sogno di una vita,
eh?» concluse con amarezza. La forza che l'aveva animato
scemò a poco a poco, e i
frammenti
di ghiaccio caddero ai suoi piedi in una pioggia di brina che
impolverò tutto di bianco.
«Ma
possiamo solo continuare ad andare avanti», riprese,
osservando
di sottecchi il giovane fratello che fino a quel momento era rimasto in
silenzio. «Anche
se spesso mi viene voglia di espormi alle prime luci del sole solo per
sentire l'odore del mio corpo che brucia».
«Spero
tu stia scherzando», disse serio Alphonse, ma ricevette uno
sguardo che gli sembrò quasi sfociare nella
pazzia.
«Per
adesso sì», ridacchiò Edward, con le
labbra
spiegate in un sorriso obliquo. «Un
vero peccato che non possiamo ancora andare in giro di giorno come
nostro padre». Si lasciò sfuggire un sospiro quasi
cadaverico. «Abbiamo
a nostra disposizione solo l'ultima ora del tramonto, prima di una
notte che sembra infinita».
«Non
dire cose del genere, mo
bhràthair», sussurrò. «Ormai non
possiamo più tirarci indietro».
Regnarono attimi di silenzio prima che
Edward sbuffasse ilare.
«Alea
iacta est [2],
giusto?» recitò in latino, guardandolo di sbieco. «Ma
se potessi scegliere, Alphonse, non ti piacerebbe poter tornare
indietro?»
Per un po' lo guardò a sua
volta, quasi confuso come non lo
era mai stato. Tornare indietro... a quando erano umani? Gli sarebbe
piaciuto, certo, ma sapeva che non era possibile.
«Aye,
mi piacerebbe», confessò tristemente. «Adesso
però basta rivangare il passato».
Sfuggì
un sospiro dalle labbra livide del fratello maggiore.
«Già,
basta»,
mormorò. Ancora una volta, nel freddo della notte, il
silenzio la fece da
padrone aleggiando sinistramente fra i due fratelli, che si lanciavano
di tanto in tanto qualche sguardo obliquo e anche dei mesti sospiri o
sorrisi nel pensare ancora al passato, mentre la pioggia cadeva
lentamente sulle loro teste. Poi alle
spalle dei due, simile ad un fantasma, comparve la
figura del padre, accompagnata come suo solito da uno dei suoi vampiri. Gli
si avvicinò leggiadro e silenzioso, osservandolo appena.
«Spero tu sappia cosa fai,
Edward», gli disse, con
la solita voce pacata. Sembrava, fortunatamente, che non avesse sentito
nemmeno una parola del
loro discorso, e le labbra del giovane si stirarono in un mesto sorriso.
«Non si preoccupi, padre, ho
un buon piano»,
sussurrò. E il suo piano, in quel momento, gli sembrava
assolutamente perfetto. L'avrebbe fatta finita, finalmente. Dopo
ciò di cui aveva parlato con il fratello
Alphonse, era più
intenzionato di prima a mettere la parola fine a quella sua inutile
situazione.
«Ma
sembra che il nuovo Sindaco e quel suo amico conoscano alcuni
trucchetti che potrebbero essergli utili», riprese il padre,
e la voce gli si
affievolì appena.
«E ormai manca molto poco, lo sai».
Edward si azzardò a voltarsi,
facendo
scorrere il suo sguardo ambrato dal volto diafano del padre a quello
del suo accompagnatore. Ricevette da lui un'occhiata, e
stirò maggiormente le labbra
in un sorriso. Lui sarebbe stato sicuramente il primo, ad appoggiarlo.
«Me
ne rendo conto, padre, ma non sono così sprovveduto», disse,
prima di interrompersi per qualche secondo, come ad assaporare un
qualcosa di oscuro.
«Si ricordi
solo della promessa
che mi ha consesso, al resto ci penserò io».
Un piccola risata si levò dal
petto di Hohenheim.
«E come dimenticarla, tale promessa».
mormorò, falsamente smielato.
«Ma non
riceverai nulla, se non andrà come previsto».
«Ve
l'ho ben detto, il mio piano è infallibile... difatti
conto sulla sua
sete
di sangue», il sorriso così spietato che
gli
si disegnò sulle labbra era in contrasto con il
suo volto.
«L'odore sarà molto forte... cederà
senza dubbio alcuno».
«Tu credi davvero che lo porteranno al villaggio?»
si intromise il fratello, e lui lo degnò appena di uno
sguardo, tornando a far vagare la sua
attenzione sul bosco sottostante.
«Non esattamente»,
rispose pronto.
«E' probabile che lo portino prima in terra
consacrata».
«Nella sua Chiesa?»
«Aye»,
scoppiò in una sonora risata,
alquanto inusuale per lui.
«Per adesso lo terrò d'occhio, vedrò
dove lo porteranno in seguito».
Gli altri tre vampiri, incapaci di
capire le sue intenzioni, si
gettarono delle occhiate, come per interpretare qualcosa che era loro
sfuggito. Gli occhi ametista di uno si posarono sul volto del suo
padrone, prima
di
guardare la schiena del figlio, i cui capelli d'oro venivano lievemente
scompigliati dal vento.
«E poi, signorino?» si azzardò a
chiedere, dato che nessuno fiatava. I loro sguardi si fusero quando lui
si voltò, e vedendolo
sorridere l'aria intorno a loro quasi sembrò svuotarsi di
tutto
l'ossigeno presente, divenendo pesante e densa, quasi oleosa.
«Se andrà come dico
io, avremo uno dei nostri
nella loro
tana», mormorò, godendo dell'aria stranita che si
era
dipinta sul suo volto quasi nascosto dai lunghi capelli scuri.
Il
più anziano dei vampiri si concesse il lusso di un sorriso
soddisfatto a quelle parole, ignaro delle vere intenzioni del figlio,
senza prestar attenzione al suo servitore, che aveva invece solo una
vaga idea, di ciò che il giovane avesse in mente. Si diresse
lento e ancora una volta nella biblioteca del
maniero, dove nei suoi meandri stava ancora avendo luogo la riunione
con i suoi simili.
«Perfetto».
ATTO TERZO.
FINE
[1]
Grazie (dell') aiuto, Maes [
Gaelico scozzese ]
[2]
Il dado è tratto [ Latino ]
Messaggio No Profit
Dona l'8% del
tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 4 *** Possibili Soluzioni ***
Il figlio delle Tenebre_Act 4
ATTO QUARTO.
POSSIBILI SOLUZIONI
Nei pressi di Sheerness,
1889
Fuori,
in ogni strada del paesino, gli abitanti decoravano le
vie con rami di pino e fiori selvatici, le cui fragranze serpeggiavano
ovunque miste all'odore del vino che lambiva i boccali.
I popolani festeggiavano il ritorno del
loro Sindaco, tornato dopo
cinque mesi d'assenza. Lui, dopo essersi liberato della sacca da
viaggio, era stato letteralmente sequestrato e stava
parlando animatamente con alcuni di loro, mettendoli al corrente di
ciò che aveva visto e presentando loro il
bambino
che aveva adottato
a
Sheerness; lo teneva per mano e lui, il quale non
faceva altro che guardarsi intorno come se fosse spaventato, si
aggrappò forte al cappotto dell'uomo, cominciando a
tremare senza un motivo apparente.
Il Sindaco abbassò lo sguardo
verso di lui e, sorridendo,
si chinò a mezzo busto per prenderlo in braccio, rivolgendo
un
cordiale cenno del capo agli uomini che aveva dinnanzi.
«Adesso se
volete scusarmi, signori, devo andare da mio figlio», si
rivolse
loro in tono gentile, facendo un altro cenno cordiale prima di
dirigersi fin
dentro al villaggio, verso la sua casa. Era poco illuminata e sulla
soglia, ad aspettarlo, c'era la governante
a
cui aveva affidato suo figlio, una donna grassoccia e un po'
severa ma dall'animo più che gentile.
Appena lo vide, quest'ulrima gli rivolse
un sorriso radioso, abbassando in modo
referenziale la testa e scostandosi, in modo da permettergli di
entrare. «Ben
tornato, Signor Hughes», gli disse. «Maes
sarà felice di rivedervi». Poi,
una volta
rialzato lo sguardo, la sua attenzione si appuntò sul
bambino
che teneva fra le braccia, e il sorriso divenne ancor maggiore. Seppur
severa, era una donna a cui piacevano molto i bambini.
«E
lui?» domandò divertita, vedendo il bambino
nascondere il viso nel petto dell'uomo.
Il Sindaco ridacchiò,
issandoselo meglio in braccio prima di
accarezzargli i capelli mentre attraversava l'ingresso per sbucare nel
salotto.
«Lui
è Roy, Rosberta», le rispose, scostando un po' il
bambino da
sé per guardarlo. «Non
ti fa niente, non spaventarti», sghignazzò, e il
bambino
si arrischiò a voltarsi verso la donna. Lei aveva incrociato
le braccia al seno prosperoso, e adesso lo
osservava con un cipiglio divertito sul volto paffutello e roseo. Preso
coraggio, rivolse lei un piccolo sorriso.
L'uomo non poté evitarsi di
ridacchiare, guardando a sua
volta
la donna, per poi guardarsi attentamente intorno come se stesse
assaporando il momento del suo ritorno a casa.
«Mio
figlio?» le chiese, e lei riappuntò la sua
attenzione su
di lui, abbandonando le braccia lungo i fianchi per ridacchiare a sua
volta.
«Credo
sia
nella sua camera», lo informò, gettando un altro
sguardo
al volto del bimbo, che l'uomo aveva ora adagiato sul piccolo divano. «Vado
subito a chiamarlo». In men che non si dica, nonostante la
mole massiccia, la donna
sparì di gran carriera su per le scale, e prima che potesse
scendere a sua volta, fu superata da un bambino dai capelli scuri che
corse immediatamente in salotto strillando come un matto.
«Papà!»
esclamò sorridente, saltando subito al collo dell'uomo. «Mi
sei mancato!»
Il Sindaco lo strinse a sé
abbracciandolo, scompigliandogli
i capelli e baciandogli la fronte.
«Anche
tu mi sei mancato, Maes», gli mormorò, strofinando
il naso contro il suo. «Hai
fatto il bravo, in mia assenza?»
Il bambino alzò il mento e
drizzò la schiena,
nel
tentativo di imitare suo padre, battendosi fieramente una mano sul
petto. «Io
sono sempre bravo, anche quando ci sei», informò
al genitore, che subito rise, divertito dall'innocenza del figlio.
«Giusto,
ormai sei un ometto», fece, scompigliandogli ancora una
volta i capelli. Poi si chinò a mezzo busto per fargli
poggiare
i piedi a
terra,
sorridendogli al di sotto dei baffi neri, vedendolo osservare con uno
sguardo incuriosito il piccolo divano; si voltò a sua volta,
sorridendo maggiormente. Puntellandosi sulle ginocchia,
passò un
braccio dietro alle
sue
spalle, facendo cenno all'altro bambino di alzarsi e farsi
più
vicino. Lui si morse il labbro inferiore e, tentennando, scese dal
divano
avvicinandosi all'uomo, che si sedette a terra picchiettandosi le
cosce, come a volere che i due bambini si sedessero su di esse.
Guardandosi appena, loro ubbidirono.
«Maes,
lui è Roy», disse al figlio, divertito da come si
squadravano. «Roy,
lui è Maes», fece poi, guardando l'altro bambino
prima di
spostare lo sguardo del suo unico occhio nuovamente sul volto del
figlio, picchiettando le cosce di entrambi per farli alzare e alzarsi a
sua volta, pulendosi con una mano i pantaloni. «Parla
poco la nostra lingua, ma la capisce».
Scompigliò i capelli di entrambi, sorridendo per l'aria
curiosa
che si era dipinta sui volti di entrambi, che si guardavano
attentamente negli occhi. «Io devo tornare un attimo nella
piazza del villaggio»,
li informò.
«Non
litigate, mi raccomando». E detto questo lì
lasciò soli nel salotto,
immobili l'uno di fronte all'altro.
Il piccolo Maes, passato l'attimo
iniziale di curiosità,
rivolse
all'altro un enorme sorriso, i grandi occhi smeraldo brillarono dietro
alle lenti. Roy invece, ancora intimidito, fece un piccolo passo
indietro,
abbassando lo sguardo.
«Vuoi
diventare il mio fratellino?» gli chiese innocente,
inclinando la testa e piegandosi un po' sulle ginocchia
per guardare il volto del moretto, vedendolo arrossire appena.
Lui alzò poi titubante lo
sguardo, incrociando con i suoi
occhi d'onice quelli smeraldo di lui. Fece per aprire la
bocca, ma ci ripensò, ricordando le
parole
che l'uomo gli aveva detto durante il viaggio di ritorno, e
cioè
di non parlare in quella strana lingua. Si sforzò quindi di
cercare di parlare in inglese, come gli
aveva insegnato il Sindaco in quei pochi mesi in cui erano stati
insieme, ma, non ricordandola esattamente, si limitò ad
annuire piano,
con un piccolo sorriso sulle labbra. Un sorriso portava ad un altro
sorriso, e quindi anche l'altro bambino
gliene rivolse uno, sporgendosi verso di lui e prendendolo per mano per
condurlo fuori.
«Ma
è vero che non sai parlare inglese?»
domandò ancora
Maes, lanciandogli uno sguardo mentre lo portava per la piccola
cittadina, come a volergliela mostrare.
Roy scosse la testa, corrugando per la
concentrazione
la fronte. Chiuse gli occhi d'onice e poi li riaprì,
stringendo
più forte la mano dell'altro bambino.
«Lo
so, ma... poco», rispose, soddisfatto di essere
riuscito a ricordare alcune parole. Ricevette una piccola risata da
Maes, che si fermò accanto
ad un
arbusto che sorgeva nel centro della piazzetta, per voltarsi
verso di lui con un sorriso.
«Allora
ti aiuterà il mio papà ad impararlo»,
gli disse, quasi fiero. «Lui
sa fare tante cose». Gli occhi
d'onice dell'altro bambino si fecero interessati, mentre lo
osservava sbattendo di tanto in tanto le palpebre. Ancora una volta,
Maes gli sorrise raggiante. «Quanti
anni hai?» chiese, prendendolo nuovamente per mano. «Io
ne ho quasi cinque», lo informò riprendendo a
camminare per il piccolo paesino. Alcuni abitanti gettavano loro
occhiatine divertite, mentre finivano di
sistemare la città per la festa della sera o di riempire le
botti di vino.
Il piccolo Roy cercava di stare al suo
passo, provando nel contempo a
parlare la lingua che gli aveva un po' insegnato il Sindaco.
«Quattro»,
disse poi, avvicinandosi di più all'altro.
Un'altra risata cristallina e infantile
scappò dalle labbra
di
Maes, che rallentò un po' la sua andatura in modo che
l'altro potesse affiancarglisi.
«Sono
più grande, allora», gongolò, muovendo
divertito la testa. E
continuarono a camminare un altro paio di minuti sotto il calore del
sole del mezzogiorno, per quelle strade adornate e addobbate a festa
dove sui lati erano state riposte delle panche con ogni cibo, prima di
arrivare ai limitari del villaggio, mano nella mano, con il volto
rivolto verso la Chiesa che sorgeva poco lontano dalla cittadina.
Maes lo guardò con i suoi
occhi verdi, sorridendogli per
l'ennesima volta.
«Ti
proteggerò io da tutto, fratellino».
Hughes ed Havoc si trovavano adesso nei
meandri dell'Antica Abbazia, le cui fiaccole
appese ai muri illuminavano le
pareti in pietra, con le fiamme che creavano sinistre ombre che si
confondevano
sinuose e bieche nella triste luce arancione. Sotto suo tacito
consenso, avevano legato Padre Roy ad una sedia con una corda
spessa, e adesso si osservavano senza dire una parola, l'aria
opprimente condensata fra il vasto spazio di pietra.
Durante
tutto il tragitto, il Sindaco non aveva fatto altro che pensare a
quando si erano
incontrati, a ciò che lui gli aveva detto in quel giorno di
chissà quanti anni prima e a come le cose a quei tempi
sembrassero obiettivamente più facili, e non poteva non
sentirsi
peggio
di
quanto avesse mai creduto possibile. Aveva detto che l'avrebbe protetto
da tutto, ma non c'era riuscito. Non c'era mai riuscito,
in realtà. Era stato il suo stesso amico a
proteggere lui nell'andare in quella radura, e quella era una colpa a
cui non si poteva fare ammenda.
Maes gettò
uno sguardo al prete, il quale aveva continuato a far saettare le
pupille nere prima su di lui e poi su Havoc, senza fiatare. Non si
riusciva a capire ciò che pensasse o ciò
che
stesse architettando, dato che la sua espressione era vuota come quella
d'una statua; d'un tratto, come se si fosse trattato di una
bambola, i suoi occhi si fermarono sul volto del Sindaco. Il suo
sembrava lo sguardo cupo e vacuo di un folle.
«Ho acconsentito a farmi legare, Maes, ma ho una certa sete»,
disse, forse non in sé, abbozzando un sorriso dal quale fece
lampeggiare le zanne, e a quelle parole uno strano brivido corse lungo
la schiena del Sindaco, il quale gettò un'occhiata
interrogativa
ad Havoc; lui se ne stava con la
testa fra le mani, come se stesse cercando una soluzione
a sua volta, ma lo vedeva fremere, quasi volesse farla finita e
sparare. «Mi
ha sentito, signor Sindaco?»
riprese il prete, con un tono tra il sarcastico e il divertito, mentre
ironizzava sul titolo che aveva ereditato dal padre.
«Ricordi
cosa mi hai detto in quel maniero, Roy?» chiese invece
Hughes,
alzando
lo sguardo per osservare seriamente le sue labbra. Sapeva fin troppo
bene che non bisognava mai guardare un vampiro negli
occhi.
Forse stupito, lui sbatté le
palpebre, come se non avesse
capito, poi reclinò la testa all'indietro, scoppiando in una
sonora
risata che rimbombò contro le pareti di pietra,
riecheggiando
nella sala e nelle loro menti.
«Io non ho mai detto niente!» esclamò
tra sbuffi di
risa.
«Anzi, non capisco nemmeno perché mi trovo in
questo postaccio, in questo momento!»
I
due uomini si scambiarono un'occhiata, senza capire. Persino la sua
voce sembrava diversa, forse d'un'ottava più
alta. Lo videro gettarsi un'occhiata intorno come se cercasse qualcosa,
la
lingua svettava di tanto in tanto fra le labbra, simile a quella d'un
serpente che assaggia l'aria. La sua attenzione si
riconcentrò su di loro, gli occhi quasi
parvero lampeggiare sinistramente.
«Non so cosa speriate di fare, ma...» Scosse
appena la testa, in modo che i lunghi capelli oscillassero al suo
movimento.
«...la
vostra è solo una perdita di tempo».
Il volto del Sindaco acquistò
un colorito biancastro, a quel
tono e a quelle parole. «Non sei tu che parli, Roy, ti hanno
condizionato»,
sussurrò, intimorito dallo strano luccichio che vedeva
in
quei pozzi neri.
«Tornerai come prima, te lo giuro», gli promise, ma
riuscì solo a farlo ridere di più.
«Farmi tornare come prima?» ironizzò,
inarcando un sopracciglio.
«E ditemi, Sindaco, com'ero
prima?» Aveva persino smesso di chiamarlo per
nome. Anche i suoi occhi, in quel momento, erano vuoti quanto il suo
viso.
«Non
puoi non rammentare nulla della tua vita, o almeno di ciò
che mi
hai detto poche ore fa», provò Hughes, con la voce
più supplichevole che riuscì a trovare.
Il vampiro lo guardò
vacuamente, poi spostò la
sua
attenzione sulle fiamme che guizzavano sulle pareti di pietra, come se
le trovasse molto più interessanti. «La
mia vita...» ripeté pensoso,
toccandosi con la lingua il labbro inferiore.
«Ora che mi ci fa pensare, Sindaco, non credo di aver mai
avuto una vita».
«Che cosa stai dicendo, Roy?»
Un altro sguardo veloce, un guizzo negli occhi scuri.
«Sacrifici e rinunce», mormorò
inconsapevolmente. «Sacrifici
e rinunce, già. Una vita che non era vita, passata nella
piccola
Chiesa d'un villaggio senza provare i piaceri della carne, e ancor
prima un'infanzia senza saper nulla di chi l'ha messo al mondo
né tanto meno da dove venisse»,
continuò a testa
china, prima di puntare velocemente il suo sguardo sul volto stranito
del Sindaco.
«Non mi sembra se la passasse poi così bene, questo
prete».
Era voluto, quel suo modo di parlare? O
c'era forse qualcun altro,
in
quel corpo? Questo si domandava Hughes mentre continuava a fissarlo
sconvolto. Si
alzò per avvicinarsi a lui, tenendosi una mano alla cintola
per precauzione. Era
sempre meglio tenersi pronti. Chi gli assicurava che non sarebbe
riuscito a liberarsi dalle corde che lo
imprigionavano?
«Non capisco di cosa stai parlando»,
farfugliò Maes, agitato e non poco.
«Sei stato tu a scegliere la via del Signore, Roy, non
ricordi neanche questo?»
Un'altra risata si levò dal
petto del vampiro, i suoi occhi
d'onice lo fissarono, scintillanti di un qualcosa che non gli aveva mai
visto.
«Mi
conosco abbastanza bene da assicurarle che non l'avrei mai fatto,
Sindaco», replicò, con un cipiglio cordiale tipico
degli
uomini dei tempi andati. Persino Havoc, che fino a
quel momento se n'era stato in disparte, lo
fissò perplesso. Vide la sua lingua
serpentina accarezzate le labbra livide, il corpo
flettersi come in procinto di attaccare, impedito però
dalle corde che lo tenevano ben fissato alla sedia.
«Lasciate
perdere, qualsiasi cosa abbiate in mente. Tra non molto lui, il
mio Signore,
tornerà a
prendermi», mormorò con devozione
assoluta,
leccandosi ancora le labbra in un gesto inconsapevolmente
erotico. «Aye, a
prendermi».
A quelle parole, Havoc
recuperò la
croce dal tavolino e si avvicinò a grandi falcate al prete,
il
quale
ringhiò
alla vista della reliquia argentata, con il corpo che si contorceva nel
tentativo di liberarsi. Dalla fondina, il biondo tirò fuori
la
pistolae la puntò dritta alla sua testa, il cui sguardo era
ancora fisso e immoto sulla croce. Sibilava e soffiava come un gatto,
mentre sfregava le braccia contro le
corde.
«Non
mi costringa a sparare, Padre», gli disse pacato Havoc, gli
occhi
azzurri erano animati da una ferocia simile a quella del vampiro.
«Da
questa distanza, le spappolerei il cervello»,
sembrò sorridere con sadica soddisfazione,
«e mi sporcherei inutilmente i vestiti».
Un altro basso ringhio, simile ad una
risata, attraversò la
gola del prete, prima che quello sguardo d'onice, inespressivo quanto
quello di un
serpente, si puntasse su Jean. «Non
ne avresti comunque il coraggio», lo sbeffeggiò
divertito, senza smettere di leccarsi le labbra con desiderio. Un colpo
risuonò d'improvviso vicinissimo al suo orecchio, e le iridi
d'onice si dilatarono dalla sorpresa; la pistola che Havoc reggeva tra
le mani rilasciava appena il
fumo dell'aver fatto fuoco.
«Come vede, Padre, il coraggio ce l'ho eccome». La
voce era inespressiva, e sembrava desideroso di volerla fare finita con
quella storia il prima possibile.
«Renda le cose più facili ad entrambi, la smetta
di sparare cazzate».
«Havoc, per favore», lo richiamò il
Sindaco, intimorito.
«Lascialo stare».
Il biondo si voltò appena,
come a volerlo fulminare con lo
sguardo.
«Non ti intromettere, Hughes»,
sbottò schietto, riportando la sua attenzione sul prete.
«L'affetto
che nutri per lui ti offusca la ragione», fece per
sparare
nuovamente, ma la mano di Hughes, stretta sulla sua spalla, glielo
impedì. Si era avvicinato a lui in silenzio, bloccandolo.
«Non. Sparare»,
gli intimò, e, a quell'ordine travestito da richiesta, Havoc
sollevò le sopracciglia.
«Sei o non sei un cacciatore, Hughes?» chiese
sarcastico. «Devo
ricordarti che molte persone, e persino tuo padre, sono stati uccisi da
uno di quei mostri?»
Maes trattenne un imprecazione, serrando
un pugno lungo il fianco.
«Roy non c'entra nulla», si sforzò di
restare calmo.
«E' anch'egli una vittima di quelle creature»,
asserì, ma la risata del prete richiamò la loro
attenzione. Gli
occhi vuoti e scuri fecero tremare
entrambi. Deglutirono all'unisono; Havoc stringeva ancora nella mano
destra la
pistola e la teneva puntata al petto del vampiro, il dito vicinissimo
al
grilletto. Il Sindaco gli fece abbassare l'arma, senza staccare lo
sguardo dal suo
amico.
La sonora risata che scaturì
nuovamente dal petto del prete
li fece
trasalire e li costrinse a fare qualche passo indietro, mentre lo
vedevano flettere il corpo come se tentasse di avvicinarsi. «Queste
sono il genere di cose che divertono il mio Signore»,
sussurrò sghignazzando, muovendo le braccia dietro alla
schiena.
«Vedere le persone in disaccordo è il suo
passatempo preferito».
Il volto di Jean si storse in una
smorfia di puro disgusto. Quel mostro, una volta, era stato davvero
il prete che l'aveva
confortato tante volte, persino al funerale della sua fidanzata? A
vederlo adesso stentava a crederci. Era possibile che fosse cambiato
tanto, in quei lunghi anni? Dov'era quella voce ovattata e
comprensiva con cui parlava ai suoi fedeli? Dov'erano quei dolci occhi
neri che sembravano sempre sorridere? Non era più lui, il
suo
amico Hughes doveva farsene una
ragione. Così come se l'era fatta lui. «Suppongo
lei sia diventato un schiavo, Padre, non è
così?»
chiese senza nessun tono di voce.
«Chissà che poteri funesti ha su di lei questo
cosiddetto Signore,
quella piaga che l'ha costretta a diventare così»,
ottenne
dai lui un basso ringhio, quasi simile a quello di un cane che
difendeva rabbioso il suo osso.
«Non
ti permetto di parlargli in questo modo
irrispettoso», rispose Roy con un brontolio
minaccioso,
sollevando le spalle come se si
stesse preparando ad un balzo.
Havoc lo guardò privo
d'espressione, facendo un passo
indietro per ogni evenienza. Non aveva la minima intenzione di
rischiare. «Non
credo che una creatura simile meriti rispetto, Padre»,
replicò
pacato, vedendolo digrignare maggiormente i denti.
«Tu
non lo
conosci, non puoi
saperlo», sibilò, come se
sapesse ciò che diceva. Mostrò le zanne e
allungò il collo verso di lui, gli occhi
color pece lampeggiarono d'ira e rifletterono il fuoco delle fiaccole
appese al muro; molte di esse si spensero all'improvviso
e un vento gelido cominciò a vorticare furiosamente nei
meandri di
quel sotterraneo, spazzando ogni cosa.
I due uomini si coprirono gli occhi per
proteggerli dalla polvere che
si alzava dal pavimento roccioso, cercando frattanto di non perdere di
vista la figura del prete attraverso quella foschia. Tutto
ciò che era lì stipato esplose in un lampo
di
fiamme guizzanti, gocce
d'acquasanta e frammenti
di vetro si
sparpagliarono in giro e uno di essi ferì Hughes al viso,
lasciandogli un taglio netto che sanguinò immediatamente
lungo
la guancia.
La forza che animava il vampiro
scemò d'un tratto quando
alle
narici gli giunse quell'odore inebriante di ruggine; annusò
l'aria, boccheggiando, puntando i suoi occhi vacui verso il volto del
Sindaco, che si era frattanto coperto con il palmo la ferita. Con uno
scatto felino, Roy incassò la testa nelle spalle e
guizzò
in
avanti, spezzando con un unico movimento fluido le corde che lo
legavano per avventarsi contro di lui.
Colto alla sprovvista, l'unica cosa che
Maes riuscì a fare
fu
portarsi le mani al volto per proteggerlo, sentendo solo vagamente lo
scatto della sicura della pistola che teneva il suo compagno. Un colpo
risuonò nella sala di pietra, un guaito gli fece
eco subito dopo; la mano di Havoc scattò rapida verso il
coltello d'argento per immergerlo in un liquido color sangue, e la lama,
calata di netto sulla pelle del vampiro, riuscì a ferirlo.
Lui sibilò e
ringhiò, sentendo un intenso dolore
nel punto
in cui
era stato colpito, dove piccole venature scarlatte cominciarono a
crearsi tutt'intorno, disperdendosi al di sotto della sua pelle
diafana; storse il collo e portò una mano su di esso come se
gli
mancasse il
fiato, contorcendosi sul pavimento mentre teneva stretta l'altra sul
braccio, dove il foro d'un proiettile spiccava vivido dalla camicia
strappata. Sibilò ancora una volta,
allungando il viso verso Havoc nel tentativo di morderlo, ma si
sentì debole a poco a poco, come se il suo corpo stesse
reagendo in modo negativo a quel liquido vermiglio che veniva
assorbito; gli occhi
gli si chiusero di colpo, facendolo accasciare in avanti senza emettere
suono.
Lanciandosi sguardi terrorizzati, i due
uomini deglutirono
all'unisono,
senza fiatare. Facendo attenzione, Havoc fece qualche passo avanti,
allungando
titubante un braccio verso il corpo immobile del vampiro, quasi temesse
di vederlo muoversi, ma, anche quando lo scosse, rimase nella stessa
posizione. Sembrava stesse dormendo, data l'espressione immota che
aveva imporvvisamente assunto.
Jean sospirò. C'era mancato veramente poco.
Gettò uno sguardo al volto pallido del Sindaco, il quale non
faceva
altro che fissare ad occhi sgranati la figura di quello che una volta
era stato suo fratello. Gli si avvicinò e gli diede una
leggera pacca sulla spalla,
ricevendo da lui uno sguardo velato di panico.
«Perché
ha reagito a quel modo?»
sussurrò Hughes con voce incrinata, il respiro ansimante
mentre deglutiva a fatica.
Havoc sospirò ancora. Proprio
non voleva capire. Fin quando si era trattato di licantropi, non aveva
esitato un attimo a
premere il grilletto, ma, adesso che si trovava di fronte ad un
vampiro, era diventato un codardo
e non si capacitava della situazione in cui si erano cacciati. Forse
solo perché quel vampiro aveva le sembianze di colui
che, un tempo, era stato un suo amico e il suo unico fratello.
«Non
è più l'uomo che conoscevi», fece
calmo. «E' solo una di quelle sporche creature,
adesso». Che il prete fosse cosciente o meno della sua
situazione, poco gli
importava. Nemmeno gli importava che non fosse stato lui ad uccidere la
sua Riza. Riza.
Eliminando uno di loro, avrebbe compiuto metà del suo
dovere. La vendetta completa sarebbe avvenuta presto.
Un altro sguardo di Hughes
bastò a riportarlo alla
realtà. Lo vide deglutire ancora una volta, con
l'espressione che aveva in
volto sembrava non voler credere a quanto era appena successo.
«Non
può essere cambiato così tanto»,
mormorò sottovoce, avvicinandosi piano al fratello e
inginocchiandosi accanto a lui. Delicato, gli scostò i neri
capelli dal volto,
ravvivandoglieli
dietro alle orecchie prima di passargli un braccio dietro la schiena,
in modo da sollevarlo a mezzo busto; restò a guardarlo in
silenzio, sentendo su di sé
lo sguardo ceruleo del biondo, e proprio lui sbuffò,
infastidito.
«Invece sì, da
quanto hai visto»,
sentenziò, scuotendo la testa. «Ma ti
rendi conto o no che voleva ammazzarti?»
soggiunse, raggiungendolo accanto al vampiro.
Hughes alzò la testa per
incontrare i suoi occhi,
riabbassando
subito dopo gli occhi per osservare nuovamente il volto diafano del
moro. Fece poi scorrere lo sguardo tutt'intorno alla sala,
soffermandosi sul
disastro che in poco si era creato. Non credeva possibile che fosse
capace di una tale potenza. Possedeva una forza spaventosa. «Cerca
piuttosto di non guardare mai
un
vampiro negli occhi», replicò schietto, evitando
accuratamente di rispondere a quella domanda, che gli parve
più
un'affermazione. Voleva ammazzarlo, e allora? Dopo che l'aveva
consegnato a quei mostri
solo perché non
voleva
fare i conti con ciò che erano stati i suoi avi, non gli
avrebbe
dato torto. Ma era meglio tenere tali congetture per sé.
Accarezzò per un'ultima volta quei fili d'ebano, rialzandosi
per
far cenno ad Havoc di aiutarlo a trasportarlo su
per la scala tortuosa
che dava all'interno di una delle sale dell'Abbazia; risalendo
piano nell'oscurità, con i loro passi che
riecheggiavano nella mezza oscurità delle pareti di pietra
all'unisono con le gocce d'acqua che cadevano dalle
stalattiti, e con il peso ben bilanciato del prete caricato sulle
spalle
dal quale non avvertiva respiro, fecero ritorno nello stanzino segreto
che avevano scoperto grazie al diario del Sindaco Bradley; spostarono
la piccola statuetta di marmo riposta sullo
scaffale, riemergendo al di sotto dell'altare.
Gettando uno sguardo fra le panche,
Hughes fece cenno ad Havoc di
seguirlo, attraversando in silenzio la cappella e percorrendo i
corridoi per giungere alle porte dell'Abbazia, dove uscirono nell'aria
ovattata al cui chiarore nebbioso si distinguevano appena le case del
villaggio; scesero il sentiero che li separava dalla cittadina,
dirigendosi
però verso sinistra, dove, solitaria tra gli alberi, sorgeva
una
piccola stalla abbandonata, proprio accanto al granaio. Dopo qualche
resistenza, le vecchie porte cedettero con una
leggera spallata, girando quasi silenziosamente sui cardini di cuoio,
ed entrando, l'odore della paglia e del fieno li avvolse,
così
come l'odore di muffa, umidità e polvere. Le poche aperture
per la ventilazione erano semplici feritoie che non
lasciavano passare abbastanza luce, solo sottili fasci riuscivano ad
insinuarsi all'interno. Luogo più che perfetto per tenere
sotto chiave un vampiro.
«Leghiamolo qui»,
esordì il Sindaco, indicando
l'enorme
colonna che faceva da sostegno alla stalla, aggirando i box vuoti.
«Quando riprenderà i sensi, non potrà
fuggire».
Havoc squadrò per un po' la
colonna, pensoso, poi si
strinse nelle spalle e scosse la testa. «Ma con uno strattone
potrebbe far crollare il
sostegno», rispose pronto.
Il Sindaco ridacchiò.
«Ho
pensato anche a questo», gli gettò svelto le
corde, e Havoc
poté sentirle umide sotto il palmo della mano.
«Sono imbevute d'acquasanta. Anche con tutta la sua nuova
forza
da vampirom non potrà spezzarle o far crollare il sostegno.
Per
questo voglio legarlo».
Havoc inarcò un sopracciglio,
incredulo. «Ammazzarlo sarebbe stato più
facile»,
gli fece notare, ma Maes lo guardò di sbieco e
adagiò il vampiro svenuto contro il palo,
inginocchiandosi accanto a lui.
«Non voglio»,
disse schietto, cominciando a legare il prete. «Quando l'ho
incontrato in quel vicolo avrebbe potuto benissimo
attaccare sia me che Winry». Trasse un sospiro.
«Ma non l'ha fatto. E' rimasto a fissarci
finché non
è comparso l'altro vampiro e sono spariti
insieme». Fece
un nodo stretto prima di rimettersi in piedi e ripulirsi i pantaloni
dal fieno.
«Voglio credere che ci sia ancora qualcosa di umano, in lui.
Roy
è forte, ha resistito dieci anni... non
abbandoniamolo».
Havoc lo fissò, traendo un
profondo respiro. Decise di
assecondarlo, ben sapendo che non sarebbe riuscito a fargli cambiare
idea.
Sapeva che, ormai, sarebbe stato inutile. Quando si metteva in testa
una cosa la faceva e basta, esattamente come suo padre. Che senso
aveva, quindi, continuare a dirgli di ammazzarlo? Nessuno.
Si sfilò la croce d'argento dalla tasca e la
legò
ad una trave in alto, davanti al prete, in modo che fosse ben visibile;
diede poi una pacca sulla spalla al Sindaco, passandogli un braccio
intorno alle spalle e portandolo fuori dalla stalla, con il giorno non
ancora lontano. Un'ora. Almeno un'ora, mancava all'alba. L'avevano
portato lì dentro appena in tempo. Chissà se la
luce del
sole aveva davvero effetto come si
diceva in giro.
«Assumitene la
responsabilità,
Hughes», disse
pacato, riscuotendosi da solo dai suoi pensieri sconnessi.
«Se tutto ti sfugge dalle mani, non dire che non ti avevo
avvisato».
Hughes gli rivolse un sorriso tirato.
Era costato molto, ad
Havoc, starlo a sentire. Se fosse stato per lui, non avrebbe esitato ad
ammazzare il suo amico. «Logico
che me ne assumo la responsabilità, sono il vostro
Sindaco», scosse la testa. «Non posso mettervi in
pericolo
solo per capriccio», un mesto sospiro gli sfuggì
dalle
labbra.
«Ti ho esposto anche troppo stanotte, chiedendoti di
seguirmi».
L'ombra di un sorriso
illuminò il
volto stanco di Jean.
«Se c'è da dar fuoco a qualche vampiro io sono
sempre
pronto, lo sai», mormorò, ed entrambi sparirono
poi alla volta del villaggio, ignari di due
frammenti ambrati che, nascosti fra le ombre, osservavano ogni loro
movimento con un basso e rauco ringhio a rompere il
silenzio.
ATTO QUARTO. FINE
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Capitolo 5 *** Storie infondate o poco plausibili ***
Il figlio delle Tenebre_Act 5
ATTO
QUINTO. STORIE INFONDATE O POCO PLAUSIBILI
Nei pressi di Sheerness, 1612
Se
ne
stava seduto dietro la scrivania nello
studio del padre, a leggere tomi su tomi di storia mentre sbadigliava e
si grattava distratto la testa, cercando di
concentrarsi inutilmente sui suoi
studi.
Sbuffando, si scostò i capelli
dal viso a causa del caldo e
voltò distrattamente pagina prima di lanciare uno sguardo
fuori
dalla grande finestra, la quale affacciava sulla foresta che
circondava la
loro dimora. Avrebbe volentieri passato il suo tempo lì
fuori, se solo
non avesse dovuto studiare. Gettò uno sguardo intorno per
controllare che il suo maestro
non
fosse nei paraggi, guardando ancora una volta fuori e trovandolo in uno
dei giardini sottostanti in compagnia di una delle cameriere, a
civettare con lei come un ragazzino.
Inarcò un sopracciglio
biondo, scettico. Lui era
lì al chiuso mentre quel vecchietto se la spassava.
Sbuffò ancora, cercando di riconcentrarsi
sulla lettura di quel tomo che aveva catalogato come gigantesco,
aggrottando la fronte nel tentativo di capire ciò che
leggeva. Ci rinunciò ben presto, però. Chiuse il
libro, stiracchiandosi ben benino sulla sedia.
«Che studente
modello», lo
rimbeccò
divertita una voce,
facendolo sussultare. Si voltò di scatto verso colui che era
appena entrato,
arrossendo di botto e afferrando stupidamente la camicia che aveva
gettato sulla sedia libera per sistemarsela sulle spalle.
«Che ci fai qui?» chiese, infilandosi una
manica
della camicia.
Il suo inaspettato ospite rise, facendo
qualche passo verso
di lui per
sedersi a cavalcioni sull'altra sedia, con le braccia poggiate sullo
schienale.
«Avevo
voglia di vederti», gli rivelò, sorridendo per il
suo viso arrossato. «Ma,
a quanto vedo, probabilmente ho fatto male a venire».
«Non
è questo», mormorò concitato, lanciando
una rapida occhiata verso la porta. «E'
di mio padre che mi preoccupo».
L'altro ridacchiò, agitando
distratto una mano
come se la
cosa non gli importasse affatto.
«Tuo
padre per un po' sarà impegnato a parlare d'affari con mio
padre», disse divertito, vedendolo spalancare la bocca per lo
stupore prima che corrugasse le sopracciglia, offeso.
«Non
sei solo, allora», ribatté imbronciato, provocando
all'altro un ennesimo scoppio d'ilarità.
«Avrei
voluto esserlo, però», gli sussurrò con
una punta
di seduzione, sporgendosi un po' verso di lui per fondere i loro
respiri, senza un vero contatto. Ritrasse svelto il viso, godendo del
rossore che aveva imporporato le
guance del biondo. L'attenzione gli cadde poi sui volumi di storia e
inarcò una
delle sopracciglia scure, divertito.
«Non
pensi sia ora di spassartela un po'?» chiese ironico,
gettandogli uno sguardo.
Ricevette un'occhiataccia, vedendo poi
il ragazzo biondo
alzarsi e
prendere i tomi sotto braccio per dirigersi verso lo scaffale dal
quale li aveva presi, rimettendoli a posto prima di voltarsi a
guardarlo, con le braccia dietro alla schiena in una comica imitazione
di un uomo
d'affari. Prima che potesse dirgli qualcosa, però, nello
studio
entrò anche un
altro ragazzino biondo, che gettò uno sguardo ad entrambi,
incuriosito.
«Ti
servono ancora i libri di storia?» gli chiese, avvicinandosi
allo scaffale.
Scuotendo la testa, il biondo li riprese
per porgerglieli,
con un vago
sorriso ad illuminargli il volto; si avvicinò poi alla
scrivania per tirare
per un braccio l'altro
ragazzo, trascinandolo verso la soglia e voltandosi a guardare il
fratello minore.
«Se
ci cercano siamo a cavalcare, okay?» gli disse divertito e,
senza
guardarlo o parlare, l'altro annuì, muovendo al contempo la
mano
libera.
Lasciandosi sfuggire una piccola risata,
il fratello
più grande portò con
sé il ragazzo fino alle scuderie, trovando nel frattempo
strano
il fatto che non avesse aperto bocca. Si fermò a pochi metri
da esse, mollandolo e voltandosi
verso di lui imbronciato.
«Che
cos'hai?» gli chiese, facendo esitante qualche
passo
avanti per poggiargli le mani sulle spalle.
L'altro scosse la testa come se nulla
fosse.
«Niente,
mi chiedevo solo se tuo fratello sapesse di noi», rispose a
mezza
voce, vedendo il biondo sussultare dalla sorpresa. Notò che
guardava a terra, adesso, e si tormentava i capelli. «Non
lo sa», concluse ovvio il moro, afferrandogli delicato il
mento con due
dita per sollevargli la testa, in modo da poterlo guardare in quegli
strani occhi ambrati che l'avevano profondamente colpito appena li
aveva visti, sin dal principio. Occhi che non si potevano riscontrare
in altre persone
perché speciali, speciali come il ragazzo che aveva davanti.
«Guarda
che per me non è un problema, sai?» gli disse,
incurvando
le labbra rosee e piene in un lieve sorriso. «L'importante
è che né mio padre né tuo padre lo
scoprano».
Non potevano rischiare che i loro
genitori venissero a
conoscenza della
loro relazione. Un po' per il mondo in cui vivevano, un po' per le loro
posizioni. Il figlio di un Laird
scozzese e quello di un semplice commerciante... che futuro avrebbero
mai potuto avere insieme? Sentì le braccia del ragazzo
stringerlo a sé, il
suo
volto affondato nel petto, mentre strofinava come un gatto una guancia
contro di lui.
«Tha
gaol agam ort [1]»,
sussurrò in tono dolce, e il suo compagno
ridacchiò, ricevendo uno sguardo dorato.
«Traduzione,
prego?» fece divertito.
Anche l'altro rise e, guardatosi
intorno,
avvicinò a lui il
suo
volto, baciandogli castamente le labbra prima di allontanarsi. Lo
guardò, sorridendo.
«Ti
amo».
I suoi occhi d'onice, appena riaperti,
registrarono a poco a
poco il
luogo in cui era stato
rinchiuso, senza che ricordasse però come c'era arrivato.
Tutto ciò che la sua mente
stordita rammentava
erano
i
volti dei
suoi due compagni e alcune delle loro parole mentre lo portavano fuori
dal maniero, nel bel mezzo della radura dove
l'atmosfera era man mano diventata gelida. Poi, più niente.
Solo un vivido vuoto, solo un enorme caos. Gli si era annebbiata la
vista, quello lo ricordava, la testa aveva
cominciato a dolergli e a girargli, e l'aveva scossa per schiarirsi la
mente dove i suoni e le voci erano diventati troppo forti, mostrandogli
per l'ennesima volta immagini su immagini. Da quel che ricordava, il
suo campo visivo si era ridotto appena ad un unico puntino scuro e,
sebbene non avesse proprio perso i sensi, non era
sicuramente cosciente di se stesso né di dove si trovava.
Proprio come quando diventava
un vampiro. Come quando aveva bisogno di bere il sangue del suo Signore per
riprendersi.
Si guardò debolmente intorno,
sbattendo confuso
le palpebre,
convinto in un primo momento di trovarsi nel suo feretro, accanto al suo Signore.
Tentò di rimettersi
in piedi ma non gli fu possibile e, osservandosi, notò che
era
legato con delle corde ad un palo di legno ed era circondato da cumuli
di paglia e
balle di fieno. Sbatté perplesso le palpebre, senza capire a
pieno la
situazione. Una stalla? E perché era legato? Cos'era
successo in quel
lasso di tempo in cui aveva perso se stesso?
Roy si leccò le labbra,
sentendole fin troppo
secche; la bocca
impastata da uno
strano sapore, come se non avesse fatto altro che dare di stomaco fino
a quel momento, la pelle del braccio e quella all'altezza del collo
gli pizzicavano appena. La debole luce rossastra che filtrava dalle
aperture gli diede modo di
lanciarsi
un'occhiata, e notò delle pallide cicatrici che stavano
scomparendo velocemente, aiutate dal risveglio dal suo sonno diurno che
aveva appena superato il corpo.
Confuso, cercò di ricordare
senza successo.
Provò a muovere le spalle, ma un fastidioso dolore al
braccio gli lasciò sfuggire un gemito dalle labbra.
Guardò il punto che gli faceva male e notò che la
camicia
era
bucata; intorno al foro, grande quanto quello di un proiettile, il
bianco lasciava posto ad uno strano grigiore, come se qualcuno l'avesse
sparato a distanza ravvicinata. Perplesso, l'unica cosa che
riuscì a fare fu sbattere in
continuazione le palpebre. La lingua sfiorò i canini e
ritrasse d'istinto le
labbra, scoprendo un
ringhio. Si sentiva esattamente come quando tornava da una caccia, solo
più stanco. Sentiva una strana inquietudine appena
percepibile, come se fosse in
astinenza da sangue. Del suo
sangue. E la cosa gli fece ribrezzo. Non voleva ammetterlo a se stesso,
ma aveva assoluto bisogno del sangue
del suo Signore.
«Che
abbia perso il controllo?»
mormorò in tono concitato, rivolto al vuoto.
Sentì poi come se qualcosa di pesante lo stesse opprimendo.
Guardò in alto e, legato alle travi di legno,
poté
scorgere una croce d'argento, che fissò quasi con immenso
timore, come se gli stesse ferendo gli occhi e il corpo. Lui, che era
sempre stato un uomo di Chiesa più che devoto
al
suo Dio, da quando aveva acquistato l'aspetto di un vampiro temeva
quella sacra reliquia, un tempo simbolo della sua incrollabile fede.
Forse era per quel motivo che a lui faceva del male, a differenza di
quegli
altri vampiri.
Debolmente, Roy vide uno spiraglio di
luce arancione in
direzione della
porta, dalla
quale entrarono subito dopo, seguiti da un uomo corpulento, il
Sindaco e Havoc. I tre lo squadrarono per un po', avvicinandosi piano,
e lui si
ritrasse, soffiando involontariamente come un gatto; mostrò
le zanne, come in procinto di attaccare, nel notare
tra
le braccia dell'uomo svariate armi in argento, pallottole e una
pistola, più una lampada ad olio.
Ringhiò senza volerlo fare
davvero, sentendo i
canini
palpitare. La sete stava crescendo. Doveva fare attenzione a
ciò che
poteva succedere.
«Che hai intenzione di fare, Maes?» chiese quasi in
un sibilo, rivolto all'indirizzo del Sindaco. La sua, adesso, era la
solita voce. La sua
voce. Sebbene
fosse ancora un po' rauca.
Hughes non si prese la briga di
rispondere, sedendosi sulla
paglia di fronte a lui a
gambe incrociate, facendo poi cenno all'uomo nerboruto di posare ogni
oggetto lì accanto. Havoc fece lo stesso restando in piedi,
come un'ombra alle sue spalle.
Gettatagli
un'occhiata veloce, il Sindaco sospirò, rivolgendo la
sua attenzione al vampiro, che sembrava osservarlo di sottecchi. Si
spostò poi verso l'uomo nerboruto. Non voleva che vedesse
anche lui o che sentisse altro. «Puoi andare, Armstrong, ci
penso io», disse calmo, e, nonostante la nota allarmante che
si era dipinta sul volto
dell'uomo, senza proferir parola e con un
cenno del capo si congedò, uscendo svelto dalla stalla.
Con
l'ombra muta di Havoc a fargli da guarda spalle, Maes trasse un
lungo sospiro, osservando attentamente il prete. Quasi gli sembrava
quello di sempre, adesso, con la sola differenza che
il suo volto, era più giovane di quanto ricordasse. Come se
fosse ancora un diciottenne, quel diciottenne puro e innocente
che era una volta.
«Sono stato obbligato a legarti», gli tenne
presente, sospirando ancora. «Eri diventato pericoloso».
Roy spostò la sua attenzione
da lui al biondo,
sbattendo le palpebre. Vedendo che non capiva, Hughes trasse un altro
sospiro, portandosi
lentamente una mano al volto e toccando il cerotto che adesso gli
copriva il taglio sulla guancia. Guardandolo, il volto del moro si
atteggiò ad
un'espressione sconcertata e dolorosa.
«Sono...
sono stato io?» sussurrò con voce incrinata, gli
occhi
color pece sgranati dalla meraviglia e dal terrore del suo gesto. «Ti
ho... fatto del male?»
Un altro sospiro sfuggì dalle
labbra del Sindaco
e, non sentendolo rispondere, il moro sentì il cuore
stringersi in una morsa. Stava per fare ciò che quei vampiri
gli avevano comandato. Stava per... ucciderlo.
Abbassò lo sguardo, con i capelli scuri che gli ricaddero
davanti agli
occhi e i canini che sporgevano appena dalle labbra schiuse.
«Perdonami,
Maes», bisbigliò, senza avere il coraggio di
guardarlo. «Ormai perdo
il controllo troppo spesso, soprattutto quando...»
si interruppe, mordendosi il labbro inferiore, affondandone il canino
nella carne.
«...quando comincio ad avere sete».
L'attenzione del Sindaco si
appuntò
solo sul vampiro che teneva lo
sguardo basso, evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi
smeraldo, come se si sentisse in colpa, ma era lui che avrebbe dovuto.
Lasciandolo andare, dieci anni prima, l'aveva consegnato nelle braccia
di quei mostri. E il bersaglio, in realtà, era lui. Stolto
com'era, a quel tempo, l'aveva persino accusato di essere lui la
causa della comparsa di quelle creature. Se avesse saputo sin dal
principio come stavano le cose, non gli
avrebbe mai permesso di esporsi, sarebbe stato lui stesso a dirigersi
al maniero per far sì che tutto si concludesse alla svelta.
Nessuno avrebbe più sofferto, e quei mostri, forse, se ne
sarebbero andati. E invece...
Guardò il suo amico con
comprensiva dolcezza. «Te
l'ho detto, Roy, non preoccuparti»,
mormorò.
«Troveremo una soluzione».
Il prete, a quelle parole, sorrise
amaro. Era rimasto il
solito ingenuo di sempre, lo stesso ingenuo di
quand'era piccolo. Non
era affatto cambiato, Maes Hughes.
«Non c'è nessuna soluzione»,
bisbigliò mesto.
«Credi che non abbia provato?» fece,
scuotendo debolmente la testa. «Ho tentato
persino di ammazzarmi
con le mie mani».
Maes gli poggiò una mano
sulla spalla, come ad
interromperlo. Non riusciva davvero a vederlo così. Era
troppo vulnerabile,
emotivamente.
«Non mi avresti chiesto di portarti via se ti fossi
arreso», disse con fare ovvio, e il volto del prete si
alzò di scatto, la
coda in cui erano legati i capelli gli
ricadde in avanti su una spalla, nei suoi occhi color pece brillava ora
appena un puntino di luce.
«Non volevo morire da solo,
laggiù...
è
per questo
che te l'ho chiesto», si mosse un po', la paglia sotto di
lui frusciò appena.
«Sei un cacciatore... voglio che sia tu ad uccidermi,
Maes».
Hughes sgranò gli occhi,
deglutendo.
«Come puoi chiedermelo, Roy?! Come?!»
sbraitò allarmato. Come se si fosse scottato, ritrasse la
mano, indietreggiando sulla
paglia. Non poteva chiedergli davvero una cosa del genere. Non era
riuscito a farlo al maniero, come poteva mai farlo adesso?
«Perché potrei
essere io
ad uccidere
te!»
esclamò Roy, spaventato al solo pensiero.
I volti di entrambi gli uomini, che
s'erano gettati sguardi
nervosi, divennero maschere indecifrabili. Respiravano e deglutivano
sonoramente, cercando di evitare di
specchiarsi nelle polle scure del moro, che sembrava sussultare come se
stesse piangendo. Un lamento gli sfuggì dalle labbra quando
reclinò
la
testa all'indietro, e si lasciò andare quasi docilmente
contro
il palo che sosteneva il tetto della stalla, abbassando le palpebre.
«Pater Noster
qui es in cælis...[2]»
sussurrò in latino, iniziando lentamente a
ciondolare sotto lo sguardo sconcertato di Hughes e
Havoc, i quali si fissarono senza capire. Un
vampiro che recitava una preghiera? Quale subdolo trucco era mai
quello? Anche osservandolo attentamente, non si riusciva a capire quale
fosse
il suo stato d'animo. Mormorava soltanto con voce smussata quella
preghiera, ripetendola in
continuazione con ritmo sempre più calzante e disarticolato,
incerspicandosi a volte nelle parole come se non le ricordasse con
esattezza.
Sconcertato, Jean picchiettò
la spalla dell'amico,
facendogli cenno d'alzarsi e di seguirlo. Lasciando il prete ai suoi
flebili singhiozzi e sussurri spezzati, lo
portò lontano da lui, quasi sulla soglia della stalla; gli
afferrò bruscamente il volto fra le mani per costringerlo a
guardarlo, mentre gli scrutava il volto quasi spaventato senza
liberarlo
dalla sua presa.
I suoi occhi verdi sembravano vuoti, inespressivi.
«Ehi, vedi di riprenderti», sbottò
a bassa voce, imperativo. «Sapevi
benissimo che sarebbe andata in questo modo, piangerti addosso non
servirà a nulla». Maes provò a
distogliere lo sguardo, ma l'altro non glielo
permise. La presa divenne più salda, gli occhi azzurri si
ridussero a
due fessure. «Non
puoi
continuare a sperare che sia ancora se stesso, non puoi»,
sussurrò, scorgendo la disperazione sul suo volto. «Anche
ieri, quando ha cercato di ucciderti, te ne ha dato la prova
tangibile. Non può controllarsi, non sa più
distinguere
il bene dal male».
Stavolta l'attenzione del Sindaco si
riappuntò su di lui,
nonostante il velo di indomabile terrore che sembrava offuscargli la
vista. Portò le mani su quelle dell'uomo che ancora gli
reggevano
il
volto, facendogli delicatamente mollare la presa, così da
indietreggiare un po'. Tra loro aleggiava solo il sentore della paglia
umida e i mormorii
indistinti a cui stava dando vita il prete, che si era portato le gambe
al petto e si era raggomitolato su se stesso, come per proteggersi.
Hughes chiuse gli occhi, scuotendo
debolmente la testa.
«Ne
sono consapevole, Jean», mormorò, chinando la
testa e
coprendosi gli occhi, come se volesse nascondere possibili lacrime. «Purtroppo
ne sono consapevole».
Leggero, un braccio dell'altro gli cinse
appena i fianchi, attirandolo
a sé, facendo così in modo che poggiasse la
fronte sulla
sua spalla. La mano libera andò ad accarezzargli i capelli,
lentamente.
«Quello
che dobbiamo fare, adesso, è provare a carpire delle
informazioni
da lui», bisbigliava, come se non volesse farsi sentire. «Non
potremo riportarlo com'era prima, ma forse riusciremo a porre fine a
quest'insensata lotta che ti grava sulle spalle».
Maes aveva annuito piano, in silenzio, e
adesso gli stringeva convulsamente
la stoffa della manica destra in una mano, come un bimbo che si
sentiva solo e sperduto.
«Parlerò
con gli altri di questa storia», riprese Havoc in un mormorio
sordo, con voce flebile e accorata, delicata proprio come quando si
parlava ad un bambino. «Ci
aiuteranno anche loro, vedrai».
«Non voglio coinvolgerli», fece in risposta Hughes,
scuotendo la testa sulla sua spalla.
«È
una cosa che interessa tutti, non solo la tua persona»,
replicò, allontanandolo un po' per guardarlo attentamente in
volto. «Dobbiamo
sostenerci a vicenda, no?» soggiunse, abbozzando un piccolo
sorriso per provare a rassicurarlo, e, seppur gli occhi verdi
risultassero un po' gonfi e arrossati,
Hughes annuì ancora, alzando appena un angolo della
bocca in un mesto sorriso.
«Ieri
mi sembrava che avessi detto che dovevo assumermi le mie
responsabilità»,
disse in un sussurro, cercando di rendere il tono leggero e sarcastico,
ma la voce era appena incrinata, pronta a divenire spezzata e flebile.
Havoc sorrise ancora di più,
stanco. Gli
diede una pacca sulla spalla, facendogli forza per quanto poteva.
«Parlo a vanvera, lo sai», ribatté,
ricevendo un'altra occhiata di ringraziamento. Si squadrarono come se
fossero complici di chissà quali
misfatti, ed
era accaduto tutto sotto lo sguardo attento del prete, che aveva smesso
di mormorare senza che loro se ne fossero accorti.
Un fuggevole lampo solcò
quegli occhi scuri come la notte,
il
lampo d'un qualcosa d'indefinibile che passò immediatamente
com'era arrivato, inabissandosi nelle polle d'onice. L'ombra d'un
sorriso gli incurvò le labbra prima che
anch'esso sparisse senza lasciar traccia. Le
cose non sarebbero potute andare meglio.
ATTO QUINTO.
FINE
[1]
Ti amo [
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Capitolo 6 *** Cuore di uomo, cuore di demone ***
Il figlio delle Tenebre_Act 6
ATTO SESTO.
CUORE DI UOMO, CUORE DI
DEMONE
Nei pressi di Sheerness, 1891
«Coraggio,
Roy, questo
testo non
è molto difficile», lo
invogliò comprensivo il Sindaco, nascondendo un
sorrisino
al di sotto dei folti baffi neri.
Seduto al tavolo della cucina, fra tomi,
fogli e stilografiche,
squadrava il volto concentrato del bambino che aveva adottato e che, a
due anni di distanza da quando era stato portato nel villaggio, aveva
fatto notevoli progressi per quanto riguardava lo studio dell'inglese.
C'erano ancora alcune lacune, certo, ma riusciva ad intrattener un
discorso senza dover richiedere l'aiuto del Sindaco o di suo fratello,
che
spesso gli insegnava a sua volta qualcosa. Adesso si trovavano tutti e
tre seduti lì, chi intento a
ridacchiare e chi invece a far vagare distratto lo sguardo sulla
cucina, osservando la governante che si affaccendava per preparare la
cena.
Ad un certo punto, il moretto
sbuffò, abbandonando la
stilografica e poggiandosi con il viso sul bordo del tavolo e i fogli,
guardando con i suoi occhi d'onice quello verde del Sindaco. «Non
lo riesco a traducere», borbottò, sentendo
intorno a sé delle risate.
Il fratello
scese dalla sedia
e gli si accostò, poggiandogli le mani sulle spalle e il
mento
sulla testa, come per vedere ciò che c'era scritto sui
fogli. «Si
dice tradurre»,
lo corresse divertito,
ridacchiando come il padre. «E
poi hai saputo leggere cose più difficili, perché
con questa non ci riesci?»
Si aggiunse alle risate generali anche
la governante, che rigirava lo
stufato mentre cercava di contenere l'ilarità, lasciando per
poco il mestolo per tagliare le cipolle e le carote. Non mise voce in
capitolo, troppo divertita dalla piccola baruffa che
si era creata fra i due fratelli, che si prendevano in giro dimentichi
ormai dello studio. Furono ben presto richiamati dal Sindaco, che li
ammonì con
lo sguardo, ma si scorgeva una nota divertita anche nel suo occhio
verde.
«Maes,
tu riconcentrati sul latino», disse al figlio in tono
spassoso. «E
tu, Roy, leggi ad alta voce il testo e traducilo, forza».,
asserì, ottenendo da entrambi uno sbuffo indicante la loro
noia.
«Che
lingua inutile, il latino», si lagnò Maes,
ritornando
ciondolante alla sua sedia per immergersi nuovamente nel suo studio
sulle declinazioni. Un'altra occhiata lo ammonì, ma lui
rispose con una
linguaccia.
Il signor Hughes alzò gli
occhi al soffitto, sconsolato,
riportando la sua attenzione sul moretto che mazzicava qualche parola
muovendo appena le labbra, come se non fosse sicuro di ciò
che
stava leggendo o della pronuncia. Dopo varie prove e correzioni, giunse
a fine lettura, passandosi
frustato una mano fra i capelli scuri scompigliandoseli, guardando con
le sopracciglia corrugate il Sindaco.
«È
troppo lunga...» si lamentò, ma lo sguardo
dell'uomo non ammetteva repliche. Così, sbuffando ancora una
volta, e premurandosi che si
sentisse
bene il suo disappunto, prese con due mani il libro portandoselo
dinnanzi agli occhi, come per leggere meglio. Assottigliò lo
sguardo, la fronte concentrata. «“Trascorsero la nottata...
fra gli alberi, da uno dei quali Don Cosciotte...”»
«Chisciotte,
Roy, Chisciotte», ridacchiò il Sindaco,
correggendolo subito. Il bambino gonfiò le guance,
arrossendo fin sopra alle
orecchie
mentre sentiva che anche gli altri due proruppero in sonore risate che
lo
fecero vergognare ancora di più. «Dai,
continua», lo spronò l'uomo, con
un sorriso. Nonostante
lo sguardo d'onice vagasse imbarazzato tutt'intorno, una
volta incassata la testa nelle spalle lui ricominciò a
tradurre
il testo, stando attento a non alzare in nessun modo lo sguardo.
«“...da
uno dei quali Don
Chisciotte...”»
riprese, calcando di proposito il nome. «“...strappò un ramo...
secco... che poteva far l'uso di lancia, e vi... vi
applico?”»
domandò interrompendosi, cercando aiuto nell'occhio del
Sindaco.
Lui sorrise maggiormente, sorreggendo il mento sui dorsi
delle mani. «Applicò»,
concesse, vedendo il moretto annuire.
«“...vi
applicò la
punta di ferro che... tolse... a quella che gli si era rotta...”»
Continuò a leggere e a tradurre fino all'ora di cena,
sbagliando
solo qualche parola e provocando di tanto in tanto piccoli scoppi
d'ilarità ai presenti, che lo correggevano divertiti.
Quando finalmente i piatti furono
serviti abbandonò i libri
andando con gli altri in sala da pranzo, dove si sedettero tutti,
governante inclusa, a consumare la cena, spesso ridendo e scherzando.
Passarono ben presto le undici, e alzandosi, il Sindaco
sbadigliò sonoramente, guardando i due bambini che quasi
sonnecchiavano. La governante stava radunando i piatti sporchi,
canticchiando
silenziosa un vecchio motivetto della sua gioventù, arzilla
come
nel pomeriggio.
«A
dormire, bambini, coraggio», disse loro l'uomo, dando una
piccola
e leggera pacca sulle schiene di entrambi, accompagnandoli fino alle
scale. «Domani
riprenderemo gli studi, ora riposate».
«Non possiamo evitare di
studiare almeno domani?»
chiese Maes, alzando lo sguardo verso di lui per guardarlo, gli occhi
smeraldo brillavano speranzosi. A
dargli man forte si aggiunse anche il moretto, quasi sbattendo
graziosamente le ciglia, e a quegli sguardi, il Sindaco non seppe
resistere. Annuì divertito, sentendo subito gli strilletti
dei
due
bambini, che gli si avvinghiarono alle gambe.
«Grazie,
papà!» esclamò Maes, sorridendogli.
«Grazie,
grazie!» fece a sua volta Roy, stringendosi ancora di
più.
Ridendo, l'uomo fece mollare
delicatamente la presa ad entrambi,
scompigliando i capelli di uno e dell'altro con fare affettuoso. «Ora
a letto, però, prima che cambi idea», disse, con
un
cipiglio falsamente ammonitore.
I due bambini risero e annuirono,
tirandogli l'orlo della camicia per
farlo chinare, e gli baciarono le guance prima di correre su per le
scale, verso la camera che dividevano. L'uomo
li seguì con lo sguardo finché non sparirono
dalla sua vista, traendo
un lungo sospiro mentre ritornava mesto nella sala da pranzo, il volto
cupo e pensante. Pensava a quel lontano giorno in cui aveva accolto
con sé il moretto che adesso si trovava ai piani superiori,
pronto ad
addormentarsi insieme al figlio. Era stata una buona idea, la sua,
quella di portarlo con sé? Più
ci rifletteva, più credeva che lo fosse, anche se spesso
aveva il
terrore di specchiarsi negli occhi del bambino, troppo scuri per essere
innocenti. E anche quando lo trovava a borbottare in un'altra lingua si
spaventava
senza una ragione.
Aveva
passato due mesi ad andare e venire da Sheerness, nel tentativo
di incontrarsi con alcuni suoi compagni cacciatori e parlarne con loro,
cercando di capire se fosse mai possibile che una Sua
vittima potesse
rinascere dopo secoli e portare scompiglio. Non avevano saputo aiutarlo
più di tanto, e
i consigli che riceveva erano sempre gli stessi. Ucciderlo prima che
arrivasse ai diciott'anni, l'età in cui
era spirato prematuramente secoli addietro. Ma come poteva anche solo
pensarlo, ora che gli si erano affezionati
tutti? Era soltanto un bambino, in fondo. Chi sarebbe mai stato quel
mostro che avrebbe ucciso un bambino
innocente che non aveva mai fatto del male a nessuno? Non voleva essere
lui, no di certo. Avrebbe trovato il modo per farlo sfuggire da quella
vita, avrebbe
fatto sì che la maledizione
non si compisse e lo lasciasse libero di vivere, qualsiasi scelta
avesse mai fatto.
Fu
l'occhiata incuriosita dalla governante che
reggeva gli ultimi piatti fra le grandi mani a
ridestarlo parzialmente dai
suoi pensieri.
«Qualcosa
l'angustia, Sindaco?» chiese, inclinando infantilmente la
testa di lato. «Ha
quasi una faccia da funerale, adesso.»
Lui le sorrise stanco, sedendosi su uno
dei piccoli divanetti presenti
nella sala.
«Tra
pochi giorni partirò per un altro dei miei
viaggi», le disse, guardandola di sottecchi. «Bada
tu hai bambini, e mi raccomando, attenta a Roy».
«Ci penserò io alla
sua istruzione, non si
preoccupi».
«Non
mi riferivo solo a questo», quasi si ritrovò a
confessare, scuotendo piano la testa. «Cerca
di tenerlo d'occhio, se succede qualcosa di strano manda subito
qualcuno a Sheerness. Sarò alla solita locanda,
sarà facile trovarmi».
«Ma
perché
dovrebbe succedere qualcosa, Sindaco?» domandò
ancora una volta lei,
sbattendo accigliata le palpebre, come se non capisse l'angoscia che
traspariva adesso dal suo viso.
L'uomo non rispose, si limitò
solo a sospirare
nuovamente. Scosse piano la testa mentre si alzava, andando verso la
soglia della
sala da pranzo.
«Te
lo spiegherò a tempo debito», mormorò
solo, con voce spenta. «Vado
a distendermi un po' per adesso, buonanotte».
Lei annuì, con i piatti
ancora fra le braccia. «Buonanotte,
Sindaco», rispose a sua volta, andando verso la cucina.
Il
Sindaco le
gettò appena un'occhiata, dirigendosi a passo mogio
all'ingresso per salire poi le scale e attraversare il corridoio del
piano superiore, passando per la camera dei bambini. Era socchiusa e
l'aprì un po', vedendo la testolina scura del
figlio balzare fuori dalle
coperte, mentre il moretto era invece in piedi, accanto alla finestra.
Guardava fuori, pensieroso, il volto sorretto nel palmo della mano
destra. Alla luce della luna che filtrava, la sua pelle sembrava
d'alabastro,
pallida e argentata, quasi irreale.
Richard dilatò gli occhi,
incapace di
crederci, e ci mancò poco che lanciasse un grido quando il
bambino
si voltò verso di lui. L'onice che caratterizzava i suoi
occhi era opaco, spento, come se
stesse dormendo in piedi. Sembrava sonnambulo. Il bianco del suo volto
era innaturale, le strane luci che giocavano
fra i suoi capelli d'ebano creavano un'illusione di movimento
non
indifferente, come se un alito di vento si fosse librato nella stanza.
Ma durò solo un attimo; difatti sbatté le
palpebre, guardandosi intorno. Localizzata la sua figura oltre la
porta, Roy si accigliò,
strofinandosi il dorso della mano sul viso; tTornò
al suo letto senza dire una parola, coricandosi come se nulla fosse
successo.
L'inquietudine del Sindaco,
però, non scomparve. Quell'immagine
perdurò nella sua mente per tutta la notte, persino il
mattino seguente
sul suo volto si scorgevano le tracce dello stupore e quasi dello
spavento. Guardò i due bambini fare tranquilli colazione
mentre
chiacchieravano, ma non mise parola nei loro discorsi, nemmeno quando
tentavano di coinvolgerlo. Era troppo preso a squadrare il volto del
moretto, che appariva quello
di un qualsiasi bambino. Perché allora, la sera addietro,
gli era apparso una
creatura ultraterrena? La risposta ben sapeva che era semplice, ma non
voleva fare i conti con
la realtà.
La consapevolezza gli piombò
addosso come un macigno quando,
una volta usciti, lo
salutarono allegri come al solito mentre correvano dai compagni di
gioco. Nell'incontrare per pochi attimi gli occhi scuri del bambino,
e nel perdersi in quel dolce quanto funesto sorriso che gli illuminava
innocentemente il volto, non poté non sentire una stretta al
cuore.
Alzò
lo sguardo al cielo, l'occhio cieco fissò l'azzurro pallido
del mattino
senza davvero farlo, mentre le sopracciglia si corrugarono dalla
preoccupazione.
«Oh, Signore,
che cosa ho fatto».
Hughes riaprì piano gli occhi, scoprendo di trovarsi sotto
le
lenzuola del suo letto, nella sua camera. Si drizzò a sedere
e si ravvivò i capelli all'indietro,
allungando a tentoni un braccio verso il comodino per rimettersi gli
occhiali sul
naso, in modo da veder meglio le figure.
Accanto a lui c'era la figura ancora
placidamente addormentata della
moglie, con i
corti capelli ad incorniciarle il viso sprofondato nel mite torpore del
sonno. Sorrise appena, scostando piano le coperte per poggiare i piedi
oltre
il bordo del materasso, sondando con lo sguardo la sua stanza per
trovare gli abiti da indossare. Una volta trovati, si
rialzò, recuperandoli per andare al
catino e darsi una sciacquata.
Vestito di tutto, con le sue armi ben
accordate alla cintola,
gettò un'altra occhiata al viso della sua bella Glacier,
riavvicinandosi
per baciarle fuggevolmente una guancia quando si fu chinato su di
lei. In silenzio, senza far rumore, attraversò il corridoio
che
lo
separava dalla camera della figlia, lanciando uno sguardo all'interno e
trovando anche lei addormentata. Un altro piccolo sorriso gli
solcò le labbra mentre scendeva
lentamente le scale di casa e, aperta la porta d'ingresso,
uscì
nella placida brezza del primo mattino che portava con sé
l'odore d'umidità.
Si guardò circospetto intorno
e, dopo aver appurato che
ancora
nessuno aveva lasciato le proprie case per cominciare la giornata
lavorativa, si incamminò su per la stradina sterrata e un
po' tortuosa, alla volta dell'Abbazia. Avevano portato il prete
lì non più di qualche
ora prima,
lasciandolo legato su una delle panche dinnanzi all'altare, in modo che
vedesse sempre la grande croce in legno sopra di esso. Più
volte, durante la notte, aveva ripetuto a se stesso che
era
stata una crudeltà, ma aveva preferito ascoltare Jean Havoc
piuttosto che il suo cuore. Forse perché, inconsciamente,
anche lui cominciava a credere
che ciò che stavano facendo era tutto vano.
Giunse ben presto alle porte borchiate
della Chiesa, poggiando entrambe
le mani sui due portoni in quercia per aprirli lentamente, facendo
entrare un guizzo di luce seguito da un sinistro cigolio prima che se
li richiudesse alle spalle. Lui era ancora lì, assolutamente
immobile come l'avevano
lasciato. Avvicinandosi, gli vide le mani legate abbandonate in grembo,
il busto
stretto dalle corde e fissato alla panca era rilassato, nonostante i
muscoli visibilmente in tensione; aveva gli occhi chiusi, che tremavano
lievemente sotto le palpebre come
se fosse sul punto di svegliarsi. Il volto era ancor più
pallido del giorno addietro, e le
guance
d'alabastro sembravano quasi scavate, nell'imitazione d'un uomo che non
mangiava da molto. A completare il tutto, i lunghi capelli neri gli
ricadevano lisci sulle
spalle, quasi a sfiorare le mani immote, dalle unghie semi trasparenti
e vitree.
Si sentì un emerito verme,
vedendolo ridotto in quello
stato. E nonostante il gelo che irradiava quel corpo immortale e le
stesse
tenebre che sembravano avvolgerlo, gli picchiettò appena una
spalla, forse nel tentativo di svegliarlo. Ebbe appena una reazione, ma
non si mosse. Il riposo diurno? O astinenza da sangue? Quanto tempo
poteva resistere un vampiro, senza il suo
nutrimento? Non sarebbe riuscito ad azzardare un'ipotesi, ma qualcosa
nella sua
mente si mosse.
Hughes trasse un lungo sospiro, sfilando
il coltello dal fodero che
aveva appeso alla cintola; avvicinata la lama ad un dito, ne incise la
carne, facendo
così
in modo che una stilla di sangue fuoriuscisse dal taglio, sporcandogli
immediatamente la pelle. Incurante del debole dolore che si stava
espandendo nel suo corpo,
avvicinò il polpastrello al volto del vampiro sopito,
assicurandosi
che
inspirasse a fondo quel sentore di ruggine. Colpì in pieno
anche i suoi sensi, ma cercò di
non dare di stomaco e di non dargli peso. Dopo poco, sentì
un fremito sempre
più
crescente da parte di quel corpo che sembrava senza vita, un piccolo
spasmo quasi involontario che lo riportò nel regno degli
umani.
Un annusare insistente, un altro
brivido; la piccola lingua rosea del moro guizzò
fra le sue
labbra e
cominciò a lappare piano, con colpetti minuti e quasi
insicuri
come quelli d'un cucciolo di gatto, il sangue che stillava dalla
ferita, avvolgendo ben presto il dito con frenesia.
Il volto di Hughes divenne
un'indecifrabile maschera d'emozioni, mentre
assisteva. Quello che dapprima era un fievole approccio era diventato
quasi un
contatto intimo, erotico e lussurioso, un intenso succhiare che
sembrava non voler avere fine. E quel senso di drammaticità
che provava raggiunse presto il
suo
culmine massimo quando il vampiro cominciò a mordicchiare
fugacemente la pelle, sfiorandola appena con i canini. Ritrasse
immediatamente il dito non appena avvertì un
ammorbidimento da parte di quelle labbra, osservando il sangue slavato
che gli macchiava la pelle e la sottile scia di saliva come se non si
capacitasse lui stesso di quel che era successo. E se il sangue, per i
vampiri, era come il vino? Di
quest'ultimo, se è d'ottima annata se ne assaggia ancora.
Era così anche per il sangue? Non voleva nemmeno provare a
chiederglielo.
Maes ricevette finalmente uno sguardo,
nonostante gli occhi d'onice
completamente neri e assenti, come se quel poco sangue che gli
aveva
appena donato non fosse abbastanza. Si ritrovò a deglutire
nell'osservare il suo volto,
nell'osservare qualche goccia del suo
stesso sangue che gli macchiava appena le labbra,
donandogli colore.
«Perché l'hai fatto?» chiese il moro
in un bisbiglio, facendolo deglutire.
Stando attento a non perderlo d'occhio,
Hughes aggirò lui e
la
panca, sedendosi al suo fianco anche se parecchio distante per evitare
sorprese.
«Il motivo sfugge a me quanto a te», si
sentì in dovere di dirgli, alquanto a disagio. «So
solo che, anche se in questa
forma, resti pur sempre mio fratello».
Un senso di vuoto calò nel
petto del vampiro, che ebbe la
sensazione del suo viso in frantumi. Mosse appena le braccia, con lo
sguardo puntato sulle mani legate.
«Ti supplico, Maes, non dire certe cose»,
mormorò, quasi inespressivo. «Mi
fai stare solo più male».
«Che dovrei dire o fare, allora?»
domandò l'altro, accorato. «Dovrei
abbandonarti al tuo destino?»
Roy non rispose. Si limitò a
detergersi via con la lingua
il sangue che gli
macchiava le labbra, gustandone inconsciamente, e quasi con lussuria,
il piacevole sapore. Un sapore imperfetto in quanto umano, ma perfetto
nella sua
imperfezione. Non avrebbe saputo dargli una definizione migliore. Emise
un gemito languido, come se non stesse solo assaggiando del
sangue; compiuto quel gesto all'apparenza semplice e innocuo,
voltò
appena la testa in direzione del Sindaco, rivolgendogli un sorriso
tirato ma al contempo così luminoso, che sembrò
far
risplendere le vetrate della Chiesa e i candelabri spenti da anni.
«Non so nemmeno io qual è il mio
destino», sospirò mesto. «Guardami»,
soggiunse, sorridendo ancor di più, amaramente. «Per
anni ho seguito la strada del Signore, e alla fine mi sono ritrovato a
vivere la dannazione eterna... è un supplizio che non ha
né un inizio né una fine, Maes».
«La colpa è mia,
Roy, solo
mia».
«Sono stato io ad andarmene, quella notte»,
andò in sua difesa, chinando la testa. «Non
ho voluto ascoltarti, ho preferito accontentare la voce supplichevole
che sentivo».
«Quale voce?» chiese stranito l'altro, sbattendo le
palpebre. «Non
mi hai mai parlato di voci».
Un ennesimo sospiro sfuggì
dalle labbra del vampiro.
«Sentivo delle voci, dieci anni fa»,
confessò, sempre senza guardarlo. «Le
sentivo allora come le sento tutt'oggi... considerami pazzo, ma
è stata una di quelle voci, a spingermi in quella radura
e...
beh, a rendermi ciò che adesso sono».
Calò d'improvviso un silenzio
imbarazzato, nella vuota
cappella. Nessuno dei due parlava né si guardava negli
occhi. Erano come in una sorta di bizzarra intesa che realmente
così
non era, come se le parole aleggiassero fra loro in muti quesiti.
Più guardava il moro, più Maes Hughes si sentiva
impotente. Si ritrovò a domandarsi ancora una volta
che sarebbe
successo
se invece del prete fosse andato lui stesso, dieci anni prima, in
quella radura.
«Probabilmente non sarebbe cambiato nulla»,
rispose il moro, come se gli avesse letto nel pensiero. Gli
gettò una rapida occhiata e, notando lo sguardo color
smeraldo del Sindaco confuso e accigliato, si affrettò a
voltarsi e a guardare altrove con finto interesse, stando attento a non
soffermarsi sulla grande croce di legno posta sopra l'altare.
«Mi dispiace, a volte mi succede
inconsapevolmente», si scusò, sulla difensiva. «Non
violerò più l'intimità della tua
mente, perdonami».
Spiazzato da quella nuova rivelazione,
il Sindaco
sbatté più volte le palpebre, come se non se ne
capacitasse. Ci mise un po' per riacquistare la sua solita calma, e si
arrischiò a sporgersi verso di lui per poggiargli una
mano
sulla spalla, rivolgendogli un piccolo e stiracchiato sorriso stentato.
«Devo stare attento a quello che penso, allora»,
buttò lì, cercando di scherzare, e si
sentì anche un perfetto idiota. Sebbene fosse suo fratello,
quella creatura che aveva davanti, non doveva assolutamente dimenticare
che era pur sempre un vampiro, un figlio delle Tenebre. Stava
amabilmente chiacchierando con lui come se nulla fosse. Ci mancava solo
che lo invitasse a prendere il the delle
cinque.
Scosse stupidamente la testa,
ridiventando di colpo
serio. I suoi occhi smeraldo tradivano nervosismo e timore.
«Sto per farti una domanda che forse ti metterà in
conflitto con l'altro
te stesso,
Roy, ma cerca di rispondere», disse,
con un tono che quasi non ammetteva repliche. Come stordito da un colpo
ricevuto, il vampiro moro ci mise un
po' per capire le sue parole. Difatti annuì a fatica, quasi
boccheggiando senz'aria. Hughes trasse un altro lungo sospiro prima di
rialzarsi in piedi,
cominciando a camminare avanti e indietro sul pavimento di marmo
impolverato, con i suoi passi che risuonavano nell'immensità
della cappella.
«Voglio sapere come distruggerli, e voglio conoscere il luogo
del loro riposo diurno», fece, schietto e risoluto.
Gli occhi color pece del moro si
dilatarono dalla sorpresa. Se
avesse avuto le mani libere, se le sarebbe sicuramente portate
entrambe alla bocca. Cominciò ad agitarsi, respirando
affannosamente, lo sguardo
ancora dilatato per la sete che non placava completamente da due giorni
e che lo stava martoriando.
«Non posso, Maes, non posso»,
bisbigliò, accorato e quasi spaventato. «Comprendimi,
non posso rivelartelo... non
posso». Sempre più inquieto, prese a
sfregare l'intero corpo contro
le
corde ancora intrise d'acquasanta, nel vano tentativo di liberarsi,
come se volesse fuggire via da quel luogo.
«Devo saperlo, Roy. Lo faccio per tutti quelli che sono
morti», riprese il Sindaco, ferreo. «Ti
ho lasciato scegliere di dirmelo di tua spontanea volontà,
ma ti
estorcerò le informazioni che voglio con qualunque mezzo, se
non
vuoi collaborare».
«Da quando sei diventato così?» Una
domanda
sussurrata, gli occhi ingigantiti dalla confusione.
«Da quando ho visto tutte quelle persone, e persino mio
padre, morire», rispose prontamente l'altro. «Da
quando mi è piombata addosso la consapevolezza di
ciò che
erano i miei avi. Quindi parla», soggiunse imperativo, con il
volto inespressivo.
Un oscuro oblio solcò le
polle scure del vampiro. Il
labbro superiore si ritrasse; i canini spuntarono oscenamente,
luccicando.
«Non
posso dirtelo, cazzo!» ruggì,
imprecando
inconsapevolmente, lasciando che dalle sue labbra scaturisse un urlo
disumano e gutturale
che infranse le grandi e antiche vetrate, facendole
cadere sotto forma di pioggia violenta sul pavimento di marmo.
Il grido sembrò trapassare le
orecchie di Hughes, che
strinse
gli occhi portandosi le mani contro i timpani, nel tentativo di
proteggerli dall'eco che si protendeva ancora. Il respiro d'entrambi
era accelerato per motivi differenti e i cuori
sembravano battere all'unisono, quasi all'impazzata: nessuno dei due
però, sembrava consapevole della forza e del potere che
rivaleggiava riecheggiando per il controllo, della strana tensione che
era salita dalle viscere della terra stessa. Poi, pian piano, tutto
cessò e il grido
s'affievolì, e
persino il prete parve calmarsi, tanto che si accasciò in
avanti
sulla panchina, e sarebbe sicuramente caduto, se non fosse stato legato.
«Non posso, non posso», ripeté in un
mormorio sordo, gorgogliante. «Perché
non capisci. Non posso, lui
non me lo perdonerebbe
mai».
Hughes ci mise un po' per riprendere il
controllo e per
capire che aveva parlato. Si massaggiò le orecchie, in cui
sentiva un fastidioso e
prolungato fischio, guardando parzialmente il volto immoto del vampiro.
«Non fai altro che ripeterlo», disse, quasi
disgustato. «Lui,
lui, lui.
Aveva dunque ragione Jean, sei diventato uno schiavo o un
servo di sangue?»
Uno sguardo stranito sondò il
viso del vampiro, prima che
parlasse.
«Il mio Signore
non beve spesso il mio sangue», rispose con
semplicità
inaudita, come se non si rendesse conto di ciò che diceva. «Spesso
è lui stesso
ad offrirmi il suo».
Il volto del Sindaco si contrasse, a
quelle parole.
«Dio, Roy, ma ti senti?!» esclamò d'un
tratto, incredulo. «Con
quale calma puoi dire una cosa del genere?! Con quale calma puoi dire
che ti nutri del sangue di quella creatura dannata?!»
«Perché
ormai sono un mostro anche io, Maes! Solo e unicamente un
mostro!»
tuonò, ferendo ancora una volta con la sua possente voce
l'aria
circostante.
«Lussuria, piacere, peccati, assassinii! Fanno tutti parte
del
mio essere, non c'è più nulla che io possa fare
per
cambiare questa mia natura!»
I battiti ripresero veloci, il suo
respiro sembrava quello rombante
d'un cavallo al galoppo. Per non guardare Hughes si
concentrò intensamente su una
delle
panche di legno, cercando di calmare l'opprimente angoscia che sentiva
invadergli il petto da quando era stato svegliato dal suo sonno diurno.
Avrebbe voluto riposare, magari accanto al suo Signore, come
capitava di rado, ma per lui non c'era pace nemmeno in quell'Inferno.
«Mi
hai strappato al mio riposo, Maes», disse d'improvviso, con
un
tono di voce pacato e distaccato, quasi inespressivo. «Mi
hai strappato al mio riposo e pretendi di carpire da me i segreti dei
miei padroni... la punizione non è la morte per chi rivela
certe ubicazioni, sai?» Gli occhi scuri guizzarono rapidi
verso la sua figura, guardingi e
quasi febbrili, con lo sguardo vacuo e spaventoso d'un folle.
«Se
ti
farai ammazzare, dopo che li avrai scovati, sarò io a
partire
secoli di tormenti senza poter trovare una qualsiasi sorta di pace...
non
tu», concluse sibillino.
Sorpreso da quel modo di parlare,
così freddo e distante,
così diverso dal tono ovattato e quasi dolce che era solito
usare quand'era ancora umano e che aveva usato all'inizio, Hughes non
riuscì a spiccicare una parola. Boccheggiò come
un pesce
fuor d'acqua, deglutendo, e più fissava quelle polle scure
che
lo incatenavano allo
sguardo, più sentiva il respiro venir meno. Vide il lampo di
terribili immagini solcare i suoi occhi
verdi,
il sangue che scorreva a fiumi e corpi maciullati d'esseri umani,
persino folli e proibiti baci da bocche munite di zanne; vide lapidi e
bare, occhi dorati che passavano con un guizzo, vite
vissute in epoche lontane; croci d'argento appese a colli bianchi che
sfrigolavano sui petti marmorei e nudi, tombe mortali inchiodate da
catene di ferro e argento e...
«Smettila»,
intimò, stringendosi nelle spalle e portandosi entrambe le
mani
alle braccia, strofinandole furiosamente su di esse come se avesse
freddo, il corpo scosso da brividi incontrollati.
Un
piccolo sorriso, privo d'espressione, dardeggiò sulle
labbra
del moro, che dopo poco si lasciò sfuggire una risata
così limpida che parve come l'acqua sgorgante d'un ruscello.
«Questo è solo un assaggio»,
mormorò, ammaliante. «I
giochi con
il mio Signore sono
molto più interessanti di questi scherzetti innocui.
Sangue e
passione non hanno mai limite, in sua compagnia».
Hughes restò muto a
guardarlo, perso nel contemplare quei
profondi occhi scuri. Il vampiro aveva ormai sostituito l'uomo, ma lui
sembrava quasi non
farci più caso. Quella che aveva dinnanzi era diventata solo
una creatura splendida,
una creatura che invocava il suo sangue a gran voce. Prometteva
lussuria e dolcezza, tormento e terrore.
“Vieni da me,
Maes. Vieni da me.
Posso darti cose che nemmeno immagini...” La
sua voce
sondò la sua mente come se stesse parlando, nonostante non
avesse minimamente mosso le labbra, ancora atteggiate ad un sorriso
bonario.
Incerto
e non, Hughes mosse qualche passo verso di lui dimentico del
mondo circostante, di tutto ciò che era mortale. Voleva solo
abbandonarsi al piacevole tepore che quella muta voce gli
stava offrendo, voleva essere stretto in quel suo abbraccio
fatale, voleva assaporare con lui mille peccati. Lo
chiamava silenzioso promettendogli tutto e niente, adescandolo con
quegli occhi scuri che rassomigliavano a due perfette perle nere; e sarebbe
sicuramente caduto nel tranello se un pugno non l'avesse
colpito in pieno viso.
Sbatté smarrito le palpebre,
quasi carponi sul pavimento.
Alzando lo sguardo, vide gli occhi cerulei di Havoc, accompagnato dal
quasi inseparabile amico Breda, i cui fulvi capelli erano scompigliati,
forse dalla brezza di fuori. Era intento a fissare il prete, come se
fosse
incredulo.
«Com'è
che dicevi? Mai guardare negli occhi un vampiro?» lo
canzonò il biondo, porgendogli una mano per aiutarlo a
rialzarsi.
Dopo una fuggevole occhiata al moro, il
cui volto aveva quasi assunto
un cipiglio indispettito, l'afferrò, tenendosi la
testa senza dar peso al formicolio che si stava propagando dalla
guancia colpita.
«Quest'attimo
di disattenzione poteva costarmi caro», si
incolpò, dando
le spalle a tutti, forse per riprendersi dallo stato in cui era caduto.
Avrebbe dovuto rendersene conto prima, che stava provando ad ammaliarlo.
«Ci pensiamo noi qui, torna a casa», gli disse
Breda con voce stanca. «Non
credo possa muoversi, legato in quel modo».
Un'aspra e crudele risata
galleggiò nella cappella quando il
vampiro udì quelle parole, una risata che fece accapponare
la
pelle dei tre uomini. Li squadrò tutti con i suoi occhi
color pece, sorridendo.
«Lasciatemi
al mio riposo diurno e tornate alle vostre faccende mortali»,
disse, con voce struggente e sensuale, simile a quella d'un amante
comprensivo. «Prima
che faccia completamente buio, probabilmente sarò
già sparito».
«Sta bluffando», fece Havoc in risposta, seppur
angosciato, e, nonostante stessero eseguendo involontariamente il suo ordine
controllandolo
con la coda dell'occhio mentre si allontanavano, la sensazione che
quella muta minaccia s'avverasse imperversò in loro,
divampando
come una pira alimentata dalla legna.
Il vampiro avrebbe trovato un modo per
liberarsi, qualcosa gliene dava la certezza. E lui doveva evitarlo.
ATTO SESTO. FINE
Messaggio No Profit
Dona l'8% del
tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di
scrittori.
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Capitolo 7 *** Piani non detti e segreti tra fratelli ***
Il figlio delle Tenebre_Act 7
ATTO SETTIMO.
PIANI NON DETTI E SEGRETI TRA FRATELLI
Londra, 1612.
«Roy!
Ehi, Roy!»
Erano appena le dieci del mattino. Per
le strade della Capitale il
chiacchiericcio allegro dei popolani riempiva il silenzio e il
via vai di gente tra una bancarella e l'altra arrestava la corsa di un
giovane ragazzo dai lunghi capelli biondi, legati in una coda alta, che
cercava di farsi largo tra quella calca di persone. Gli
occhi,
di uno strano colore dorato, non perdevano di vista la figura di un
altro giovane che, tranquillo, continuava a passeggiare, non riuscendo
ad udirlo a causa di quel baccano.
«Roy! Fermati, maledizione!»
Vedendo che non si fermava e che non lo
ascoltava minimamente,
imprecò fra i denti, scansando con un balzo un piccolo
carretto
con una ruota rotta che si era parato dinanzi a lui e dal quale erano
cadute parecchie mele che si erano riversate sul terreno lastricato;
con il fiato grosso, cominciò a correre più
forte, e
quando
giunsero entrambi nella
piazzetta centrale, quasi completamente sgombra, riuscì a
raggiungere l'altro con un ultimo scatto in avanti, fermandosi davanti
a lui e annaspando alla ricerca d'aria. Non era abituato a correre
così tanto, e nessuno avrebbe potuto biasimarlo per questo,
data
la famiglia in cui
era cresciuto.
«Ti sto... chiamando da mezz'ora... stupido!» gli
urlò contro, guardandolo imbronciato.
L'altro ragazzo, dai lunghi capelli neri
legati in un basso codino e
con la frangetta tirata all'indietro in modo da tener scoperti gli
occhi scuri, gli sorrise divertito, passandogli
con non curanza un braccio dietro alle spalle.
«Scusate, Milord, non vi ho sentito», disse
semplicemente, ma, vedendolo ancora imbronciato, si
accigliò, allontanando il
braccio.
«Qualcosa non va?»
Il biondino scosse la testa, facendo
spallucce.
«Lo sai che detesto quando mi chiami Milord o Laird»,
fece, attorcigliandosi la fine della coda intorno ad un dito. «Te
lo sto ripetendo da sei mesi che devi chiamarmi Edward».
Roy abbozzò un sorrisetto.
«D'accordo...
Edward»,
gli scompigliò
amorevolmente i capelli. «Ma
dato il titolo che detieni, anzi, che deterrai, dovresti comportarti in
cotal modo».
«Odio quel tipo di vita, nessuno può saperlo
meglio di te».
«Tuo padre ti striglierebbe, se ti sentisse»,
sghignazzò divertito. «E,
in particolar modo, non vorrebbe tu ti trovassi qui».
Edward guardò indifferente il
lastricato ai suoi
piedi.
«Non me ne frega niente di quel vecchio»,
borbottò, ricevendo dal moro un'ammonizione.
«È pur sempre tuo padre, trattalo con
più
rispetto».
«Aye,
certo, certo», timidamente, poi, guardandosi attento intorno,
si
allungò verso il suo volto per baciargli castamente le
labbra e
poi allontanarsi, facendo ridacchiare l'altro.
«Questo
lo manderebbe letteralmente in bestia», gli fece notare. «Comunque,
come mai qui a Londra? Pensavo fossi nei pressi di Sheerness, nella tua
residenza estiva», si grattò distrattamente il
collo. «Non
avevi detto che seguivi lì le tue lezioni?»
«Beh...
in realtà, avrei dovuto essere in viaggio per Edimburgo»,sussurrò
piano, abbassando lo sguardo come se se ne vergognasse, e l'espressione
di Roy mutò radiclmente, divenendo preoccupata.
«Edimburgo?!»
chiese accorato. «Così
lontano?»
«Già...
mio padre
voleva raggiungere la sua tenuta per detenere il suo titolo di Laird».
Una strana ansia si impadronì
del petto di Roy
nell'osservare con sguardo triste la lunga chioma bionda del ragazzo di
fronte a sé. «Quindi...
non... ci vedremo più?»
domandò in un bisbiglio flebile, come se non
volesse fare i conti con la realtà. In fondo lo sapeva,
l'aveva
sempre saputo. Era il figlio del signore di una tenuta, non poteva
restare in eterno
lontano da casa. Già sei mesi erano troppi.
Contemplò per
minuti interminabili il capo chinato del
biondino
che, ad un certo punto, alzò di colpo la testa, guardandolo
con
quegli occhi dorati che brillavano agguerriti.
«Non
permetterò che mi separi da te»,
disse,
più deciso che mai. «In fondo ha
già deciso di intrattenersi più del dovuto», gli
rivolse un sorriso così dolce e carico d'amore che
parve come il sole caldo del mezzogiorno. «Riuscirò
ad impormi e a restare qui con te. Sono nell'età che occorre
per una moglie, posso benissimo iniziare a vivere la mia vita», fece
qualche passo avanti per trovarsi ad una spanna dal petto del moro. «E la
voglio vivere con te... non sei felice?»
Ancora una volta il moro si
rilassò, lanciando uno sguardo
intorno e guardando poi il giovane così vicino a lui,
accarezzandogli con dolce lentezza il volto. «Felicissimo»,
sorrise a sua volta, spostandosi verso le labbra. «Ma
ciò non toglie che dovresti essere a lezione»,
soggiunse per spezzare la tensione, provocando ad Edward una sonora
risata.
«Tu
sei molto più interessante delle lezioni del professor
Grumman!» esclamò, dandogli una pacca sulla
spalla. «E
poi, tu puoi insegnarmi cose che quel vecchietto non può
insegnarmi...» Il sorriso malizioso che era andato ad
incurvargli le labbra fece
imbarazzare non poco il moro, che si grattò la testa,
distogliendo lo sguardo.
«La
mia influenza ti fa davvero male. Eri molto più innocente,
prima», bofonchiò, guardandolo di sottecchi. «Ancora
fatico a credere che tu non conoscessi nulla, di queste cose. A
diciott'anni la maggior parte dei ragazzi, qui, è
già
sposata».
«Lo
sai da che famiglia vengo. Ho passato gli anni chino sui libri, non
ho mai avuto tempo per queste cose...» lo guardò,
un
po' rosso in viso. «...prima
di incontrare te, ovvio».
Il moro capì esattamente a
cosa stava pensando il ragazzo, e sospirò, socchiudendo gli
occhi. «Edward.
Mio padre qui tratta affari con il tuo, lo sai bene», disse a
bassa voce «Loro
credono ci frequentiamo come amici e...» si
interruppe prima di continuare. «...e non posso farti provare
quelle
sensazioni. Non ancora», continuò mesto prima che
potesse
aggiungere altro, sebbene ne fosse più che tentato. «Noi
non dovremo nemmeno stare insieme».
«È per questo che non te l'ho mai
chiesto»,
mormorò triste, abbassando lo sguardo. «Non
voglio farti finire in prigione o condannare».
«Però ti amo, Edward, ed è questo che
conta».
«È reciproco», replicò lui,
provocando uno scoppio ilare al suo interlocutore. «E
adesso che hai da ridere?» chiese, accigliato e imbronciato. «Io
ti dico che provo lo stesso e tu ridi?»
Roy sventolò una mano,
trattenendo le risate.
«Quanto si vede che sei inesperto»,
sghignazzò. «Se
ti dico “Ti amo”
tu dovresti rispondermi “Anch'io”». Si
coprì la bocca con una mano. «Non
ho mai sentito un innamorato dire “E'
reciproco”».
Il biondino corrugò le
sopracciglia sottili, offeso.
Senza dire una parola, gli diede le spalle, percorrendo a grandi
falcate la piazza, seguito dalle grida confuse del moro, e se lo
ritrovò accanto subito dopo, dispiaciuto.
«Dai,
Edward, scherzavo», mormorò, scostandogli dal viso
alcune ciocche di capelli che gli erano ricadute sugli occhi, cercando
di stare al passo al contempo. «Non
volevo prenderti in giro, dai».
Il ragazzo si fermò di botto, guardandolo stizzito.
«Ma lo hai fatto!» esclamò. «Lo
sai che non ho mai avuto nessuno, che non conoscevo i baci e le
carezze, prima di te!» Scosse con impeto la testa. «Non
c'è bisogno di dirmi che sono inesperto, ne sono consapev-...!»
Lo scorrere delle sue parole fu bloccato
dalla bocca del moro premuta
contro la sua. Sembrava bisognoso di un contatto più
profondo, come non lo
era mai stato. Quando sentì la lingua del moro tentare di
farsi spazio
nella
sua bocca sussultò, separandosi da quel bacio, da quella
novità, poggiandogli entrambe le mani sul petto per
scostarlo un
po' da sé. Sentì il moro deglutire, e lo
guardò, rosso in
volto.
«Che
stavi cercando di fare?» chiese nervoso. Cos'era quella
strana
voglia che sentiva crescere in lui? Perché si sentiva
così? Come se volesse di
più?
Roy si portò una mano alla
testa per ravvivarsi i capelli
all'indietro, ma evitò accuratamente di incrociare il suo
sguardo.
«Scusami, Edward», mormorò, con voce un
po' roca. «Non
sei abituato a... questo,
perdonami». Si sentiva ancor più stupido ed
imbarazzato del biondo, a
dire quelle cose. In sei mesi che si frequentavano gli aveva sempre
baciato a timbro le
labbra, senza mai cercare di approfondire nulla, fra loro. Sapeva da
che famiglia proveniva e in che società vivevano,
arrischiarsi anche solo a farsi vedere in pubblico sarebbe stato
considerato un atto d'indecenza. E se pensava al padre del ragazzo,
poi...
«Cosa volevi fare?» chiese ancora il giovane,
distogliendolo dai suoi pensieri.
«Volevo solo...» non sapeva bene cosa dire. «Beh,
ecco, vedi... volevo solo un contatto più... intimo».
«Ah...» Edward incurvò le labbra in
un sorriso stiracchiato. «Questo
non me l'avevi insegnato, però», disse, sebbene un
po' di imbarazzo persistesse sul suo volto. «Quindi...
rimediamo, vero?»
Roy lo guardò un po'
accigliato, ma poi sorrise a sua
volta. Quel ragazzo era veramente incredibile, per lui. Gli prese le
mani fra le sue, portandolo in un angolo ben nascosto in
modo da non esser visti, accostando poi le labbra alle sue e
poggiandoci sopra la punta della lingua. Quando il ragazzo gli diede il
permesso, iniziò ad esplorare
la
sua bocca, con una passione che non aveva mai sentito, intrecciando le
loro lingue in una danza che quasi sembrò una lotta per la
rivalsa, finché
l'ossigeno tra loro non cominciò a venir meno.
Con un piccolo mugolio, il biondino si
scansò, respirando a
grandi boccate, con le guance in fiamme mentre cercava in tutti i modi
di non guardare l'altro negli occhi. Ma proprio quest'ultimo, con un
sorriso, gli ravvivò i
capelli
dietro alle orecchie prima di prendergli il mento fra pollice e indice,
costringendolo a voltarsi verso di lui. Sorrise ancor di più
quando gli vide le gote squisitamente
imporporate di rosso.
Edward distolse frenetico lo sguardo,
poggiando le mani chiuse a pugno
sulle ginocchia, corrugando appena le sopracciglia, ma anche sulle sue
labbra era comparsa l'ombra di un sorriso.
«E' così allora che...»
cominciò, lievemente imbarazzato. Si interruppe grattandosi
con non curanza dietro al collo, voltando di
poco la testa per incrociare gli occhi incuriositi del suo
interlocutore. Titubante, gli si avvicinò maggiormente,
poggiando la fronte
contro il suo collo.
«E' così che ci si bacia, vero?» chiese,
flebile ma ben udibile, e l'altro si limitò a ridacchiare,
scompigliandogli
amorevolmente i capelli con una mano.
Roy lo attirò maggiormente a
sé, avvolgendogli le
braccia intorno ai fianchi. Per un po' restarono in silenzio, o almeno
finché Edward non alzò lo sguardo verso di lui,
quasi cercasse con gli occhi di chiedergli qualcosa, ma non sapeva come
chiederglielo. Fu lui stesso ad andare in suo aiuto, come se gli avesse
letto nel
pensiero.
«Dè
a tha thu ag
iarraidh, Edward [1]?»
gli chiese nella sua lingua, stupendolo non poco nonostante la
pronuncia non propriamente perfetta. Riuscì però
in quel
modo ad alleviare il velo di
imbarazzo e tensione che si era creato fra loro, e Edward lo
guardò con
un
sopracciglio biondo appena sollevato, quasi fosse incuriosito.
«Wow», fece,
soffocando un'altra piccola risata.
«Sei
migliorato parecchio».
Fiero di sé, il moro si
batté una mano sul petto,
indietreggiando di un passo per fare scena con un piccolo inchino.
«Beh, grazie», ribatté spassoso, a testa
china. «Ma
ancora non mi hai risposto», soggiunse, rialzando lo sguardo
per
incatenare le sue iridi d'onice a quelle ambrate del ragazzo.
Con un piccolo sorriso ad incurvargli
piacevolmente le labbra, Edward
si avvicinò a lui a passo felpato, poggiandogli entrambe le
mani
sulle spalle prima di sporgersi verso di lui. Ad una spanna l'uno
dall'altro, sfiorò appena l'orecchio
dell'altro.
«Tha mi ag
iarraidh pòige [2]»,
sussurrò sensuale, sentendo una sua risata. Si allontanarono
di poco solo per fondere i loro respiri,
baciandosi sempre con più crescente passione quasi senza
volersi
staccare, assaporando più volte ognuno il sapore dell'altro,
separandosi e ritrovandosi, ridacchiando di tanto in tanto.
Quel giorno, però, non
potevano immaginare che tutto sarebbe
presto cambiato.
Il silenzio regnava fra i
corridoi bui fiocamente illuminati dove lui vagava senza meta, come un
fantasma in cerca di una
pace che non riusciva a
trovare.
Era rimasto fuori tutta la notte per
tener d'occhio il suo prezioso
tesoro,
avvolto solo in un leggero mantello
nero che l'aveva perfettamente confuso con le tenebre che l'avevano
circondato, rendendolo un'ombra tra le tante mentre ispezionava con non
curanza i dintorni della cittadina e i loro abitanti addormentati nelle
case. Non era purtroppo riuscito a scacciare la malinconia che in
quegli
ultimi giorni l'aveva colto per la mancanza del moro, e adesso si
trovava a fronteggiare
per l'ennesima volta la verità dei fatti: tempo due o tre
notti,
e poi avrebbero dato il via al loro folle piano. L'aveva sempre saputo,
dopo tutto. Era
quella la sua vita. La sua inutile e fittizia esistenza.
Si ritrovò nella stanza con
l'atrio e la cupola,
avvicinandosi
alla grande vetrata del piano superiore del maniero, poggiandovi una
mano sopra e gelando all'istante
la finestra, dove si creò gradualmente un sottile strato di
brina. Restò a fissarla vacuamente per pochissimo, spostando
di
tanto
in tanto la mano e guardando le increspature che vi si creavano al
passaggio, con un sorriso amaro ad incurvargli le labbra sottili; fece
un passo indietro con un sospiro, inoltrandosi fra le ombre delle
colonne per ripararsi dalla luce del sole che stava appena sorgendo
debolmente all'orizzonte, osservandone le lingue di fuoco e i raggi che
avrebbero riscaldato tutto il paesaggio e le creature diurne. Quando la
luce troppo forte minacciò di
colpirgli un braccio,
indietreggiò ancora, scomparendo alla volta dei sotterranei,
dove non sarebbe stato minacciato da nessuna luce se non quella di
lanterne o candele. Non avrebbe potuto vagare indisturbato, quel
giorno. Il sole era sorto e non era nascosto dalle nuvole, e lui era
obbligato
come
il fratello a restare confinato nell'oscurità dei
sotterranei.
Mentre scendeva le scale tortuose per
raggiungere le stanze anguste del
sottosuolo, incrociò la figura di altri due vampiri e di suo
padre che, senza degnarlo di uno sguardo a differenza dei servitori che
lo guardarono referenziali, scomparve in direzione
dell'ingresso, forse per uno dei suoi soliti giri a vuoto. Il giovane
si limitò a sbuffare, continuando la sua strada
fino
a giungere nella camera improvvisata dove stanziava il fratello,
diligentemente tenuto d'occhio da un altro vampiro. Più
volte aveva provato a rituffarsi a capofitto nelle ombre
del
villaggio, nel tentativo di ricreare il caos che lui stesso aveva
portato dieci anni prima. Quando entrò, si voltarono
simultaneamente verso di lui, e il
fratello sorrise, divertito e ironico.
«Ti
sei degnato di rientrare, mo
bhràthair»,
disse con un sorriso sarcastico, accavallando disinvolto le lunghe gambe. «Nostro
padre non la smetteva di fare domande, non sono ancora riuscito a
riposare come si deve».
Edward trasse un lungo sospiro,
avvicinandosi a passi lenti
verso di lui, sedendosi su una delle poltrone di pelle consunta
lì presenti, con i gomiti abbandonati sulle cosce.
Squadrò il fratello quasi con fare non curante, anche se la
sua espressione ricordava vagamente una smorfia di dolore.
«Ho
bisogno anch'io di qualche attimo d'intimità,
Alphonse»,
gli disse, calmo e serio, vedendolo inarcare le sopracciglia.
«Ah!
Intimità!» ironizzò, portandosi
una mano alla tempia. «Un
vampiro che cerca intimità!»
Lui gli lasciò continuare
quella messa in scena, guardando
di
sottecchi la creatura dagli occhi ametista che, con un sorriso dipinto
in volto, ascoltava i loro discorsi come se si stesse piacevolmente
divertendo; si tenne il viso sul palmo della mano, comodamente
seduto sulla sedia con in
volto un'espressione quasi annoiata, come se non gli importasse di
niente e di nessuno.
Cominciò distrattamente ad accarezzarsi i lunghi capelli
sciolti
che gli arrivavano ben oltre metà schiena, passandosi
lentamente le dita affusolate fra le ciocche, senza badare
ai borbottii che si stava lasciando sfuggire suo fratello Alphonse. «Envy»,
richiamò svogliato, utilizzando il suo
pseudonimo. «Vieni
qui».
Ricevette
uno sguardo d'ametista, quasi lontano e distante, ma
quest'ultimo attraversò tranquillamente la grande sala
dirigendosi a passo cadenzato verso uno dei suoi padroni, fermandosi a
pochi passi da lui. Con
un lieve spostamento della mano, il biondo gli fece cenno di
avvicinarsi maggiormente, e gli poggiò una mano sul
braccio, portandoselo vicino al
viso e cominciando ad accarezzargli i muscoli sodi dell'avambraccio, ad
occhi chiusi.
«Sistemami
i capelli»,
gli ordinò, rilassandosi sulla poltrona. «Voglio
riposare, sono molto stanco».
L'Invidia fece un piccolo passo indietro, chinando
il capo come suo solito prima di dar vita ad un sorriso che avrebbe
potuto significare qualunque cosa, facendo balenare fra le labbra la
punta delle zanne. «Questa
sua spossatezza ha come motivo il fatto che ha perso parecchio
tempo a controllare il suo nuovo giocattolo, Signorino»,
mormorò
con voce sobria e pacata, lisciandogli delicato ogni ciuffo di quei
fili biondi che scorrevano morbidamente fra le sue pallide mani. Li
pettinò con le dita, quasi languidamente, dividendoli in
tre
grosse ciocche per cominciare a creare la treccia, sotto lo sguardo
attento quanto distaccato del vampiro più giovane.
Stancatosi
di osservarli, sbadigliò sonoramente e si rimise in piedi,
sgranchendosi il collo.
«Ti
vedo troppo strano, mo
bhràthair»,
disse,
cominciando a camminare avanti e indietro per distendere anche le
membra delle gambe. «Non
hai mai perso un riposo per nulla».
«Sto
solo controllando ciò che è mio di
diritto», fece
di rimando Edward, assorto nei tocchi fuggevoli che l'Invidia gli stava
donando quasi con passione. La sua voce aveva quasi assunto un tono
minaccioso. Difatti intorno a loro, le ombre più scure
presero
sinistramente
a danzare alla luce delle lanterne e delle candele, unica fonte di luce
in quel mondo sotterraneo.
Alphonse gli lanciò uno
sguardo, concentrandosi per qualche
attimo sul via vai di due vampiri che avevano portato loro da bere, e
che si stavano affaccendando un po' in giro, prima di lasciarli
nuovamente soli ai loro discorsi. Ritornò a guardare il
fratello, con un sopracciglio
sollevato.
«Quando
usi quel tono sei terrificante», gli tenne presente, cercando
di
dimostrarsi sicuro, come se la cosa non lo sfiorasse. Vide
di sfuggita l'altro vampiro lasciarsi sfuggire una piccola risata
mentre continuava il suo lavoro, prima di incrociare
a vece del suo padrone il suo sguardo, che sembrava quasi distaccato.
«Anche
voi siete molto terrificante, signorino», replicò,
sorridendo. «Suppongo
sia una qualità acquisita con i secoli, nevvero?»
La
constatazione strappò al giovane una piacevole e sonora
risata.
Scrollò
le spalle lasciandosi cadere seduto sul bordo del suo feretro
scoperchiato,
restando a contemplare con un vago sorriso i volti di entrambi, che si
erano voltati a guardarlo.
«Dovresti
saperla bene, tale misera cosa», ribatté in tono
spassoso, irradiando quasi calore. «Sei
molto più antico di noi». soggiunse, distogliendo
lo sguardo per spostarlo all'interno della bara. Allungò
distratto una mano e prese ad accarezzare con non
curanza l'imbottitura vellutata e setosa, leccandosi appena le labbra
come se non attendesse altro che il momento di coricarsi.
«Ha
perfettamente ragione, signorino», rispose l'Invidia, con
toni
misurati ma comunque divertiti, mentre il sorriso si allargava pian
piano sulle sue labbra. «Quasi
cinque secoli di vita donano una certa conoscenza profonda, del mondo
che ci circonda».
«Smettetela
di parlare, mi fa male la testa», si intromise Edward, con un
mezzo sorriso stampato in volto, come se le sue stesse parole gli
sembrassero divertenti.
«Proprio
tu non dovresti aver voce in capitolo», sghignazzò
il
fratello minore, osservando con la coda dell'occhio il vampiro
completare la treccia e legarla con un sottile nastro nero. «Pochi
giorni fa andavi a caccia con quel prete e ogni volta che tornavate ero
io a dovervi
sentire».
«Se
perdi tempo ad ascoltarci vuol dire che ti piace, Alphonse»,
soggiunse poi divertito, con quel falso sorriso bonario dipinto sulle
labbra sottili. Il minore tacque e sgranò gli occhi, mentre
dietro
di lui l'altro vampiro si permise il lusso di una piccola risata,
chinandosi verso di lui, quasi a sfiorargli l'orecchio con le labbra.
«In
verità è difficile non sentirvi»,
replicò con bislacco divertimento.
Edward si voltò, gettando
un'occhiata alle sue polle
d'ametista. Allungò disinvolto un braccio per sfiorargli una
guancia,
allontanando così velocemente la mano da provocargli un
piccolo
taglio, dal quale subito deterse il sangue, leccandoselo via dalle dita
quando l'avvicinò alla bocca. E tutto senza che il vampiro
avesse fatto una piega.
«Allora
convieni con me che Roy ha una gran bella voce, nevvero?»
chiese, divertito quasi quanto lui.
Il vampiro annuì piano,
continuando a far scorrere le mani
fra le lunghe ciocche bionde.
«Indubbiamente»,
lo assecondò, baciandogli poi le punte. «Ma
la sua voce quando è in preda all'estasi è di
gran lunga molto più eccitante, signorino».
Dalle labbra di Edward scappò una risata squisita.
«Puoi
sentirla quanto vuoi, la mia voce»,
ribatté,
lasciandosi sfuggire un gemito languido quando il vampiro gli
sfiorò il collo con le zanne. «Ma
non sarà mai esclusivamente per te».
«Mi
accontento di poterla ascoltare». Cominciò, sotto
tacito consenso del suo padrone, a far
danzare
le dita sulla pelle ormai scoperta del collo, giocherellando con
l'altra mano con la treccia ormai compiuta. E tutto sotto lo sguardo
indifferente di Alphonse che,
ancora seduto sul bordo del suo feretro, assisteva alla scena in
silenzio, come se si aspettasse qualcosa. Catturò ben presto
lo sguardo del fratello maggiore, che con
un
gesto svogliato della mano interruppe le carezze del suo servo, carezze
che stavano diventando pian piano più audaci.
«Lasciaci
soli, Envy»,
disse subito, forse percependo qualcosa nell'aria.
L'interpellato
chinò il capo e indietreggiò verso la porta,
sotto lo
sguardo attento d'entrambe le creature, una di
loro tamburellava
distratta con le dita sul bordo del cataletto. Congedandosi,
si richiuse la porta alle spalle, cosicché i due
fratelli poterono squadrarsi. Ormai nell'aria aleggiava un lieve miasma
di malinconia, ma allo stesso
tempo denso come il fumo e la nebbia che si intrecciavano in
striscioline che si agitavano poi come serpenti prima di dissolversi e
creare una nuova danza. Si ritrovarono a guardarsi intensamente negli
occhi, e il
più giovane si
limitò a grattarsi con non curanza il collo, guardando
subito
altrove.
Ciò che aveva intravisto
negli occhi del fratello non
prometteva nulla di buono. Aveva quel sottile velo di terrificante
mistero che gli aveva visto non
più dieci anni addietro, e stava cominciando a temere che
stesse pensando ad altro, in quel
momento. Così, decise di concentrare la propria attenzione
su altro,
guardandosi con distratta consapevolezza la mano destra, prima il
palmo, e poi il dorso.
«Sai,
mi sono sempre chiesto cosa ci trovi di piacevole a portarti a letto
uno del tuo
stesso sesso», buttò lì, stringendosi
appena nelle
spalle. «Da
quando c'è quel prete mi sembri quasi... umano».
Il sorriso che andò ad
incurvare le labbra del fratello maggiore gli
raggelò il sangue nelle vene. «Lo
considero un complimento, Alphonse», disse mesto, ma alquanto
divertito da quella semplice constatazione. «Io
mi sento solo e unicamente un mostro». Il tono
della sua voce cambiò radicalmente, divenendo
ovattata. Quasi nostalgica, si sarebbe potuto aggiungere.
«Quando
sto con lui, il bisogno di sesso e il bisogno di sangue raggiungono una
linea di separazione fin troppo sottile»,
confessò,
voltando la testa per osservare le candele accese su uno dei tavolini.
Poco dopo, entrarono ancora una volta due vampiri, reggendo fra le mani
due tazze. Ne posarono una sul tavolino accanto alla bara del vampiro
minore,
l'altra invece la porsero referenziali al maggiore, congedandosi con un
piccolo inchino.
Alphonse guardò di sbieco la
tazzina e ciò che
conteneva,
allungandosi poi per prenderla e bere giusto un sorso, storcendo la
bocca. La posò immediatamente, sorridendo sarcastico verso
l'altro,
squadrandolo dall'alto in basso.
«Och,
è sempre un piacere sapere certe cose sulla tua cosiddetta vita
sessuale», constatò ironico, con un piccolo
sbadiglio. «Tu,
almeno, qualcuno con cui ti diverti
ce l'hai, io l'ho prosciugato quasi la settimana
scorsa».
Incredibilmente, e anche con suo immenso
stupore, il vampiro biondo
scoppiò in una sonora risata, che vibrò contro le
pareti
di pietra, rimbombando sinistramente.
«Vedrai,
una volta attuato il mio piano sarà tutto finito...
tutto»,
sussurrò spietato, sorridendo con soddisfazione.
«Sia
la follia di nostro padre, che quella di quei cacciatori».
«Non
vorrai sul serio
rivoltare il suo esercito contro di lui, vero, mo
bhràthair?»
cominciò
allarmato, prima di deglutire e ritornare, come ogni qual volta che era
nervoso, alla sua lingua. «Chan
eil e gòrach,
ar
n-athair,
e-fhèin tuig ro
mhath [3]...»
Il suo tono stridulo riuscì solo a far ridere Edward ancora
di
più, tanto che si portò un dito alle labbra per
imporgli
silenzio, impedendogli di continuare. Le fiamme delle candele
tremolarono e si innalzarono stagliandosi
contro il soffitto, mentre quelle delle lanterne si spensero del tutto,
lasciando solo il penetrante odore dell'olio bruciato.
Edward restò a guardare il
volto sconcertato del fratello
per
attimi che parvero interminabili, prima che si alzasse in piedi e si
dirigesse a passo sicuro verso la porta per lasciarsi a sua volta
sprofondare nel riposo diurno. Poggiò una mano contro lo
stipite, voltandosi appena, sorridente.
«Ricorda...
è un segreto».
ATTO SETTIMO.
FINE
[1]
Cosa vuoi, Edward? [
Gaelico scozzese ]
[2] Voglio un bacio [
Gaelico scozzese ]
[3] Nostro padre non
è stupido, lui stesso sa bene... [
Gaelico scozzese ]
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del
tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di
scrittori.
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Capitolo 8 *** In fuga ***
Il figlio delle Tenebre_Act 8
ATTO OTTAVO.
IN FUGA
Sheerness, 1892
Pioveva
a dirotto, quella notte.
I lampi solcavano il cielo illuminandolo
a giorno, le chiome degli
alberi frusciavano sinistramente al vento che si era alzato e che, fra
le vie della cittadina, faceva lievemente sbattere le ante delle
finestre delle case e delle taverne. Solo una di esse era illuminata
dalla fioca luce delle candele, come se
quel rudimentale sistema potesse in qualche modo preservare
l'intimità di cui tre uomini, seduti al tavolo d'uno studio,
avessero bisogno. Le loro voci erano solo accorati sussurri nella mezza
oscurità,
le loro parole frasi proibite che solo pochi avrebbero potuto ascoltare
o capire.
Richard reggeva fra le mani una tazza
fumante, ascoltando in
religioso silenzio come se temesse d'aprir bocca e interrompere
così qualche oscuro rito. Un lieve tintinnio d'acciaio
echeggiò in quella sala,
seguito
poi subito dopo da quello d'altri bicchieri che con grazia vennero
adagiati sul pregiato tavolino di legno; altre mani s'allungarono ad
afferrarne l'estremità
prima di
portarne il bordo alla bocca e bere giusto un sorso, fermando in un
momento di stasi quel discorso che andava ormai avanti da un bel paio
d'ore.
«Tutto ciò che ci
hai raccontato non ha alcun
senso», disse infine un uomo, con una voce bassa e profonda
che
sembrò tagliare la quiete in cui la casa aveva fin'ora
regnato. Qualche movimento un po' nervoso, un'altra voce che si levava
nell'immane silenzio notturno rotto solo dal ticchettio della pioggia
contro le finestre.
«Ero
restio a crederci anch'io, almeno finché non mi è
stato
mostrato
ciò di cui vi ho parlato», fu la pacata risposta a
quell'affermazione, nonostante il tono sembrasse agitato e frettoloso.
«Non ti stiamo accusando di mentire, ma comprendi le nostre
perplessità».
Ci fu ancora qualche attimo di silenzio,
dopo quelle parole.
Ognuno dei presenti parve concentrarsi con meticolosa attenzione sul
liquore che lambiva tazze e bicchieri, come se all'infuori di esso non
ci fosse null'altro d'interessante. Sfuggì un altro sospiro
dalle labbra sottili, prima che
quegli occhi incredibili si rivelassero ancora. Un lato del viso era
nascosto da ribelli ciuffi di capelli che
ricadevano lunghi anche sulle spalle, offuscando alla vista un fitto
reticolo di bianche cicatrici che solcavano il lato destro di quel
volto quasi segnato dagli anni.
«Tale
fenomeno è raro quanto impossibile», riprese lui,
rendendo
vagamente il tono più alto d'un ottava. «Forse
la tua è solo paranoia trasmessa dai tuoi avi,
Bradley».
Richard sussultò, ma fu
abbastanza bravo da non darlo
a vedere. «Ti
pregherei di non usare il mio nome in luoghi cittadini,
Lawrence», ribatté, senza staccare quel
suo
unico occhio color smeraldo dal viso deturpato del suo interlocutore. «Puoi
considerarmi monomane, ma ho le mie buone ragioni per
esserlo»,
s'interruppe un attimo, come se cercasse le parole adatte. «Anch'io
ero perplesso quanto voi, ma so cos'ho visto. E quel bambino non era
umano».
«Perché l'hai preso con te avvicinandolo
alla tua famiglia, dunque?»
Una domanda posta così, a
brucia pelo, dal terzo uomo che
fino a quel momento era rimasto in emerito silenzio. L'occhio verde del
Sindaco parve roteare per un attimo, nervoso.
«Di
primo acchito, alla somiglianza, il mio pensiero è stato
d'ucciderlo», ammise, sentendosi subito dopo un verme. Ben
sapeva
che loro non l'avrebbero considerato tale, ma per lui era
così.
Una risata priva d'ironia o divertimento
si librò per la
stanza, simile ad un vento leggero. Lawrence si era lasciato andare ad
un breve
scampanellio. «Avresti
dovuto farlo», ribatté sicuro,
senza alcuna sfumatura nella voce profonda, come se quella fosse stata
la voce d'una marionetta.
Il Sindaco scosse la testa, chinando il
capo.
«Ha quasi l'età di mio figlio. E'
stato questo a frenarmi».
«Questo tuo modo d'agire prima o poi ti condurrà
alla tomba, Hughes»,
calcò di proposito il suo falso nome, quasi con scherno, ma
lui non vi badò, decidendo d'ignorare quella nota
dispregiativa.
«Non sono venuto qui per chiederti consigli di
vita», ribatté schietto. «Voglio
sapere se c'è un modo per evitare che la sventura si abbatta
su lui e noi».
Altri attimi carichi di silenzio. Da
qualche parte, poco al di fuori dalla cittadina, cadde un fulmine
preceduto dal rombo potente d'un tuono e, anche il cielo, parve
trattenere il fiato prima che la pioggia riprendesse scrosciante.
«Su questo non posso
aiutarti», si sentì
finalmente dire. «L'unica
cosa di cui sono sicuro è che se lo uccidi ora potresti
evitare
guai in futuro. Hai già concesso troppo tempo a quel
bambino».
«Ti ho ben detto che non voglio arrivare a tanto».
«Allora goditi questa fittizia semplicità con i
tuoi due
figli. Ma non dire poi che non ti avevo avvertito». Lo
congedò con quelle semplici parole che avrebbero potuto
significare tutto o niente.
Ritornato nella locanda in cui aveva
affittato una camera, dopo aver
attraversato quasi mezza cittadina fra le strade bagnate e sferzate dal
vento, attese il giorno che sarebbe presto giunto con una sorta di
bizzarro timore. Avrebbe cercato di trovare una soluzione, sebbene
ancora non capisse
quale fosse, ma si ripromise che avrebbe salvato a tutti i costi quel
bambino. Per
lui era divenuto troppo importante.
La
giornata divenne pian piano uggiosa, satura di pioggia.
Il debole sole che faceva capolino dalle
nuvole, affacciandosi sulla
cittadina e rischiarando i contorni di case ed edifici, illuminava
fiocamente le stradine dai ciottoli bianchi e le gocce di
rugiada
delle piante circostanti, mentre fornai e commercianti imperversavano
tra le vie, avendo già cominciato tranquillamente la loro
giornata di lavoro.
Non pioveva ancora, ma come di solito
accadeva da quelle parti,
l'umidità nell'aria non era poca, e le vetrine dei piccoli
negozi
ai lati delle stradine apparivano lievemente appannate, anche se
lasciavano intravedere
l'interno e rispettivi bottegai che si affaccendavano dietro i banconi
per servire la poca clientela del tardo pomeriggio. L'odore del pane
caldo appena sfornato si diffuse nell'aria misto a
quello dolce ed ebbro del vino, il profumo dell'erba umida aleggiava
tra le strade insinuandosi nelle case, e gli abitanti che le popolavano
si apprestavano a preparare la cena per la sera. Quei pochi contadini
che vivevano al villaggio erano usciti di primo
mattino dal focolare domestico con zappe e cappelli di paglia per
proteggere la testa dal possibile sole che poteva presentarsi,
insinuandosi a loro volta fra i viottoli per dirigersi ai frutteti o ai
campi di grano. Anche i locandieri avevano già aperto
bottega da molto, e
gli
uomini che avevano preso posto ai tavoli chiacchieravano sommessamente
tra loro di ciò che poche sere addietro era successo.
Girava il pettegolezzo che le spaventose
creature che avevano
portato
morte e terrore nella cittadina fossero ricomparse, ma erano pochi
coloro che credevano a tale voce, ma altrettanti avevano udito le
parole di chi li aveva incontrati in
quei giorni: c'era chi diceva di averli visti nei campi e addirittura
chi li aveva visti aggirarsi tranquillamente fra le strade buie, senza
far il minimo rumore. Si vociferava d'apparizioni e di spettri, di urla
gutturali che si
sentivano provenire dalla vecchia Chiesa al limitare del villaggio,
persino di macchie di sangue intraviste fra la vegetazione. Tali voci
erano subito state messe a tacere dal Sindaco, che sembrava
intenzionato a non lasciar assolutamente trapelare la notizia.
Nonostante le dovute precauzioni,
però, erano
ancora in molti coloro che aizzavano l'argomento, soprattutto
a causa dell'aria sconvolta della figlia dei defunti Rockbell e delle
parole che ripeteva in continuazione da quando era successo. Non aveva
voluto parlare con nessuno di ciò che aveva visto,
ma aveva solo continuato a mormorare «E' tornato» senza riuscire a
dare spiegazioni ad anima viva. Per quanto ci fosse il divieto assoluto
di parlarne, l'argomento
trattato da quegli uomini nella locanda era esattamente quello. Vampiri.
A quell'ora, su per giù le
sei e mezza, le sette, la sala
principale della piccola
locanda era affollatissima,
calda e rumorosa, confortevole riparo per chi voleva proteggersi da un
possibile acquazzone o per chi aveva voglia di sparlare di creature della notte.
La locanda ospitava interessi di svariato tipo, da semplici persone che
si
intrattenevano per bere un bicchiere in compagnia dei propri amici ad
uomini che chiacchieravano sottovoce di quella strana
situazione,
stando attenti che nessuno li sentisse.
Quando la porta della taverna
s'aprì per l'ennesima volta,
molte
teste si voltarono curiose per capire chi era entrato, e d'un tratto si
zittirono per evitare richiami.
Il nuovo arrivato si fece spazio con la sua scorta in mezzo
alla
ressa della taverna, dove andò dritto al suo solito tavolo
seguito dal suo accompagnatore. Squadrò, attraverso gli
occhiali,
i presenti per pochi secondi, quasi cercando di scrutare
dentro di loro. Se li sistemò poi con un gesto svogliato
della mano
poggiando
appena il dito indice sulla montatura, dirigendosi poi al bancone senza
degnar più gli altri di uno sguardo.
Il locandiere l'osservo quasi con un
cipiglio divertito, mentre puliva
distratto uno dei bicchieri.
«Il
solito, Sindaco?» fece in tono spassoso, ricevendo uno
sguardo smeraldo quasi assente. Quest'ultimo si strinse nelle spalle,
annuendo e sorridendo appena.
«Fa'
portare qualcosa di caldo da Rose», rispose invece, mentre
con la
coda dell'occhio non perdeva di vista la figura dell'altro, che si era
frattanto accomodato al tavolo. «Fuori si
gela, ne avremmo davvero bisogno».
«Lo
consideri già fatto», replicò il
locandiere,
osservandolo allontanarsi e spostare la sedia per accomodarsi di fronte
al biondo, che stava già bevendo un po' di whisky. Restarono
entrambi in emerito silenzio fino a quando una
ragazza, di vent'anni o poco più, con i lunghi capelli scuri
legati in una coda e un grembiule a cingerle i fianchi,
portò
loro da mangiare non più di dieci
minuti dopo.
Per un po' si concentrarono sui bassi
mormorii che si
accalcavano al
lato opposto della taverna, dove un uomo corpulento agitava
svogliatamente una mano grassoccia in direzione altri due che lo
ascoltavano attenti, lanciandosi di tanto in tanto sguardi obliqui.
Ritornarono in breve a rivolgere la loro attenzione sulla ciotola che
avevano davanti, affondandovi i cucchiai quasi in contemporanea.
«Che
faremo, adesso?» chiese Havoc, assaggiando appena il suo
porrige. Una domanda che anche il Sindaco si stava ponendo da quella
mattina, ma
che solo lui ebbe il coraggio d'esprimere a parole.
Hughes lo squadrò un po'
senza aprir bocca, poi scrollò
le spalle.
«Davvero
non lo so», fece
semplicemente, inzuppando una fetta di pane nella sua ciotola prima di
dargli un bel morso. «Potremo
provare a farlo collaborare con la forza, ma non sono sicuro che questa
sia la soluzione migliore».
«Nessuna
è la soluzione migliore, in realtà»,
gli tenne presente, fissando con finto interesse
il suo cibo; sospirò
amaramente, con il tepore del fuoco che si
diffondeva in tutto l'ambiente in cui si trovavano riscaldando piano
anche lui. Allungò
distratto un
braccio per prendere la caraffa di vino e riempirsi il bicchiere,
bevendo un lungo sorso mentre faceva vagare lo sguardo sulla taverna,
vedendo altre persone entrare, avvolte nei cappotti scuri e umidi.
Quando lo posò, riprendendo a mangiare piano, rivolse un
piccolo sguardo anche al Sindaco. Intorno a loro, da quella mattina, si
era creata una bizzarra sorta di
tensione che si increspava sempre più come un'onda anomala.
«Mi
spieghi perché vuoi tenerlo in vita?» gli
bisbigliò, la
voce chiara e udibile nonostante il brusio che regnava nella locanda.
«Non vuoi ucciderlo ma vuoi torturarlo? È
assolutamente
privo di senso, il tuo ragionamento. E' una cosa inumana».
Rigirando distratto la zuppa che ancora
troneggiava nella sua scodella,
Hughes trasse un lungo sospiro abbandonando ancora una volta il
cucchiaio, gettandosi un'occhiata intorno prima di ritornare ad
osservare attentamente lui.
«L'ho
creduto morto per dieci anni, Jean», mormorò
pacatamente, quasi sottovoce, scuotendo debolmente la testa.
«Quando
l'ho rivisto... non so cosa ho provato. Qualsiasi cosa sia diventato
adesso, non riuscirei davvero a sparargli al cuore e vederlo diventare
polvere sotto i miei occhi».
«Lo
sai che ciò che stai ritardando succederà
comunque,
vero?» fece quasi con voce ovvia il biondo, restando poi in
silenzio ad osservare il volto vacuo dell'amico, aspettando che si
decidesse a dire qualcosa o a ribattere le sue parole, ma non
aprì bocca per un po', così si limitarono
solo a
guardarsi di tanto in tanto, intenti a finire il loro cibo mentre il
caldo e il chiacchiericcio sommesso delle persone lì
presenti si
diffondevano piacevolmente intorno a loro.
Guardatosi intorno, Havoc trasse un
lungo sospiro, prendendo dal
taschino del cappotto il suo solito pacco di sigarette, non trovandone
nemmeno una. Aveva
davvero bisogno di un tiro.
«Cazzo»,
imprecò fra i denti abbandonando ben presto il
pacchetto, lanciandolo sul tavolino; cercò nelle tasche
l'accendino, facendolo scattare di continuo prima di provare ad
accendere la piccola fiammella che non si accese. Lanciò
anche quello sul tavolino, alzando esasperato lo
sguardo al soffitto.
«È
anche finito il gas», si lagnò,
vedendo con la
coda dell'occhio Hughes sollevare ironicamente un sopracciglio.
Sventolò poi una mano,
sistemandosi con l'altra gli occhiali sul naso.
Presto,
Maes si riconcentrò distratto sul suo piatto rigirando
il porrige nella ciotola con scarso entusiasmo, scansandolo poi lontano
da sé per
allungare un braccio e riempirsi un bicchiere di vino. Lo
ingollò tutto senza nemmeno gustarlo, chiedendosi
distrattamente
se le cose fossero state diverse, se avesse cambiato tutto dieci anni
prima, conoscendo ciò che era. Non avrebbe lasciato che suo
padre vagasse da solo per la foresta,
prima di tutto. L'avrebbe invece aiutato a liberarsi di quei mostri e,
in particolar modo, il suo amico e fratello non avrebbe subito quel
destino.
Chissà se sarebbe mai riuscito a farlo tornare la
persona che era stata una volta. Quell'uomo che si imbarazzava nel
parlare di argomenti per lui, in un
certo qual senso, proibiti.
Un altro flebile sospiro gli
sfuggì dalle labbra, giusto
qualche
attimo prima che la porta della locanda si aprisse nuovamente facendo
entrare un vecchio e un altro uomo, che riconobbero come Breda non
appena si fu avvicinato maggiormente. Li salutò con un gesto
distratto della mano, scansando la sedia
per accomodarsi a sua volta.
«Sera», fece mesto, guardando quasi con interesse
uno dei bicchieri di vino. Non chiese nemmeno, afferrò
quello del biondo e lo
ingollò tutto sotto il suo sguardo accigliato,
contornato
da un sopracciglio sollevato.
«Prego,
Heymas, fai pure», replicò sarcastico, poggiando
un gomito sul bordo del tavolo.
Il ramato gli lanciò
un'occhiata, e dopo aver posato
nuovamente
il bicchiere, si leccò le labbra, rilassandosi sullo
schienale.
«Grazie
tante, ci voleva», ironizzò a sua volta,
prendendolo in
giro e guadagnandoci un'occhiataccia a cui non diede peso. «Bando
alle ciance, comunque, dovete spiegarmi questa storia»,
soggiunse,
assottigliando la voce per evitare che altri sentissero.
I due interpellati si lanciarono uno
sguardo che avrebbe potuto dire
tutto, ma fu il Sindaco a parlare, dopo aver tratto un lungo sospiro. «Hai
ben visto chi abbiamo prigioniero, giusto?»
bisbigliò, sporgendosi appena verso di lui.
Breda annuì nervoso,
gettandosi un'occhiata intorno
per
assicurarsi che i presenti si stessero dedicando ai loro affari e non
prestassero loro attenzione.
«E'
questo che non mi spiego... com'è possibile che sia proprio
lui?» chiese in risposta.
«Nemmeno
io riuscirei a dare una spiegazione plausibile», rispose,
stringendosi nelle spalle. «So
solo che lui forse potrebbe esserci in qualche modo
d'aiuto».
«È
un vampiro, Hughes», gli fece notare, con velato sarcasmo. «Come
può una simile creatura esserci d'aiuto? Quello che
può
fare è ammazzarci tutti, non aiutarci».
«È
quello che continuo a ripetergli anch'io», si intromise Havoc
nel
discorso, riprendendo il suo bicchiere per riempirlo ancora un
po' di vino.
Il Sindaco non gli prestò la
minima attenzione, lanciandogli
appena uno sguardo d'ammonimento.
«Sa
dove quegli esseri riposano», spiegò pronto a
Breda. «Ci
sono momenti in cui appare confuso e altri invece in cui non sembra
neanche umano, ma sa qualcosa».
«Non
è detto che te lo riveli, o
sbaglio?»
replicò ancora una volta Heymas, scuotendo debolmente la
testa
per tutta quella situazione.
Hughes restò in silenzio, con
lo sguardo puntato sul
bicchiere mezzo vuoto. Prese poi
a mangiare ancora un po' limitandosi ad inghiottire
qualche morso di pane casareccio evitando di guardare negli occhi
entrambi, a disagio e non poco.
«La
colpa è del prete», buttò lì
tranquillo Havoc, e Hughes
scattò subito in piedi, squadrando il biondo con uno sguardo
indecifrabile.
«Maledizione,
Jean, Roy non c'entra nulla!» esclamò, richiamando
l'attenzione di un bel po' di uomini. Questi ultimi cominciarono a
borbottare fra loro lanciandogli di tanto
in tanto degli sguardi, come per capire perché, dopo tanti
anni,
il nome del prete - che
sapevano essere morto - sfuggisse dalle labbra del loro
Sindaco.
Havoc lo ammonì con lo
sguardo, fulminando tutti gli altri
che si voltarono e fecero finta di nulla.
«Maes,
siediti», quasi gli ordinò, chiamandolo per nome. «Cerca
di mantenere la calma, non risolvi nulla alzando la voce a quel
modo».
Il Sindaco deglutì, cercando di non dare a vedere il suo
nervosismo. Poi, annuendo pian piano, ritornò a sedersi, con
le mani
abbandonate in grembo. Per
minuti che parvero interminabili si limitò a squadrarli,
per trarre poi un profondo sospiro.
«Hai
perfettamente ragione, scusami», disse, con in volto
l'espressione di chi era stato costretto ad inghiottire un rospo. «Ma
non sopporto che gli si venga affibbiata una colpa che è
solo mia». Gli
altri due gli lanciarono sguardi confusi e quasi compassionevoli,
indecisi se parlare a meno. Uno di loro deglutì, poggiando
entrambe le mani sul bordo
del
tavolo prima che il Sindaco continuasse il suo piccolo monologo. «Sarei
dovuto andare con lui e fermarlo, non dovevo lasciarlo andare da
solo», mormorò, con voce inconsapevolmente
sussurrante. «Quei
mostri l'hanno preso solo per colpa mia. Anche mio padre ha subito un
destino impervio per colpa della mia ignoranza».
«Non
angustiarti così, Hughes», lo ammonì
sottovoce
Breda, con la fronte corrugata dalla preoccupazione. «Non
potevi sapere ciò che eri, a quel tempo».
«Questa
non è una cosa che possa discolparmi».
Non fiatarono oltre. Presero solo a
concentrarsi sul loro cibo,
riflettendo per un bel
po' di tempo su ciò che avrebbero dovuto fare adesso, ma
nessuno
di loro avrebbe saputo cosa fare, in realtà. Ucciderli
sarebbe
stato facile se li avessero scovati? O sarebbero stati loro stessi, a
perire sotto quelle mani immortali?
Nemmeno loro seppero dire quanto tempo
rimasero al caldo
nella piccola locanda, ma quando uscirono, videro che il tempo s'era
annuvolato e aveva cominciato a piovere a dirotto. L'aria era quasi sul
punto di riempirsi di nebbia, che aveva cominciato
a riversarsi nella valle dalle cime delle montagne che sorgevano a nord. La gente
presente nelle strade e nel mercato cominciò ad
affrettarsi ad abbandonare le
vie più in fretta che potevano con un chiacchiericcio
sommesso e
sciabordioso, con l'acqua che scendeva gorgogliante lungo i canali
ripulendo le
strade e diffondendo nell'aria umidità e pulizia, sebbene il
frastuono dei primi tuoni sovrastasse qualsiasi altro rumore. I
ritardatari cercavano riparo al di sotto dei piccoli portici
delle altre case
sguazzando anche nelle pozzanghere che in breve cominciarono a crearsi,
quasi rischiando di impantanarsi negli spiazzi verdi e fangosi
disseminati un po' dappertutto.
Lui, invece, si stava recando insieme ad
Havoc e Breda verso la
stradina
sterrata e fangosa, a coprirli solo i loro giacconi che non
riscaldavano affatto. Per pochi minuti, furono accompagnati nella loro
traversata persino da
un cane che
cercava riparo, vedendolo di sfuggita sfrecciare come un'ombra nera
dinnanzi a loro e scomparire verso punti sconosciuti della cittadina.
Gettando sguardi ai suoi compagni, Hughes si portò una mano
a
coprire il capo, i capelli completamente inzuppati gli si incollavano
alla fronte gocciolando lungo il colletto della camicia, confondendosi
con i rivoletti creati dalla pioggia, facendogli correre continui
brividi lungo la schiena. Tossendo e starnutendo, si
strofinò il
naso con una mano
umida e bagnata, ottenendo solo di
bagnarsi maggiormente il volto. Sentiva persino l'acqua inzuppargli le
scarpe. Era la prima volta che si ritrovava in un acquazzone del genere.
Tremando dalla testa ai piedi, con i
vestiti completamente zuppi,
giunsero finalmente dinnanzi agli enormi portoni dell'Abbazia, che in
quel crepuscolo uggioso appariva tetra e spaventosa quasi quanto il
maniero in cui si erano ritrovati sere addietro. Quando vi entrarono,
videro che la pioggia si era riversata sulla
pavimentazione marmorea mescolandosi con le vetrate colorate che quella
stessa mattina si erano infrante, e stava ancora continuando
incessantemente a scrosciare all'interno della Chiesa. Il grande altare
e la croce erano completamente umidi, ed entrambi
rassomigliavano a piccole cascate che traboccavano quasi pigramente
creando pozze tutt'intorno.
Con il cuore in gola per l'ennesimo
incontro che lo aspettava con il
vampiro, Hughes fece cenno agli altri di seguirlo più
silenziosamente possibile, anche se lui stesso sapeva che sarebbe stata
inutile, tutta quella cautela. Colui che aveva l'aspetto di suo
fratello era capace di leggere nei
pensieri delle persone, e sarebbe stato pronto a scommettere che poteva
anche udirli benissimo; ma si arrestarono tutti non appena si
avvicinarono maggiormente alle
panche disposte sul lato destro e sinistro della grande sala, gli occhi
di tutti sbarrati e stupefatti.
Havoc si accostò di corsa
alla prima fila, restando immobile
ad
osservare le corde ridotte a brandelli che giacevano a
metà tra il pavimento di marmo e la panca di legno.
«Lo sapevo, dannazione!»
imprecò, passandosi furente una mano fra i capelli
bagnati, scompigliandoli e facendo schizzare goccioline
ovunque. «Quel
vampiro è sparito!»
Anche Hughes e Breda si mossero fulminei
avvicinandosi, senza proferir
parola mentre si guardavano ansiosi e quasi sconvolti intorno, alla
vana ricerca del moro. Vagarono con gli occhi per ogni angolo della
Chiesa, sondando le
colonne e alzando lo sguardo per controllare le nove arcate e le volte
a vela, nel tentativo di scorgere un minimo movimento, un'ombra
più scura delle altre, ma non c'era nulla. Assolutamente
niente.
L'attenzione di Breda ritornò
angosciata sul volto di Hughes
e
quello di Havoc, che si era chinato a raccogliere le corde e le fissava
con uno sguardo indecifrabile, come se non credesse ai propri occhi.
«Come
diavolo ha fatto?» domandò stupidamente, conscio
che
come lui, i suoi due compagni non avevano una risposta plausibile.
Il silenzio regnò fra loro
per minuti interminabili, a
riempirlo
c'era solo l'insistente scrosciare della pioggia e i rombi indistinti
dei tuoni in lontananza. Assolutamente
immobili dov'erano, non facevano altro che far scorrere lo sguardo
sulla zona circostante o sul loro aspetto scarmigliato, dove i
rivoletti d'acqua scorrevano ancora pigramente fra i loro capelli e
sul loro viso. Poi, d'improvviso, una fioca risata rimbombò
tra le vaste
arcate
della cappella, esplodendo ben presto in un tumulto d'acqua e vetri
infranti. Persino la cupola che era sopra di loro si ridusse in
frantumi, e
dovettero portarsi le mani a coprire la testa per proteggersi dalla
pioggia di vetri che si era creata e confusa con quella circostante.
Gli occhi dei tre scattarono serpentini
verso l'alto quando essa
terminò e, precisamente tra l'architrave e il ballatoio,
accucciato come un grosso gatto, lo videro. Sorrideva
sensuale e incantatore, i capelli gli ricadevano
bagnati
sul viso e sulle spalle, la camicia leggera che indossava gli si era
incollata alla pelle, mettendo così in risalto la
muscolatura
slanciata che aveva ottenuto in quegli anni.
Le iridi e le orbite erano completamente
nere, tanto che sembrava
osservarli
attraverso pezzi di carbone assolutamente vuoti e senza vita, mentre
un'altra flebile risata gli sfuggiva dalle labbra pallide e quasi
rosate e si librava leggera nell'aria. Stregò tutti i
presenti con quella risata, sedendosi
disinvolto sul ballatoio. Con le mani poggiate sul bordo di esso,
sostenne il suo intero peso
senza sforzo alcuno,
accavallando le gambe e inclinando amabilmente la
testa di lato, su una spalla. Sembrava un bambino che si apprestava
tranquillo a giocare. «Avete
perso qualcuno, per caso?» chiese con voce ammaliante,
alzando
quasi svogliato un braccio per portarsi i lunghi capelli dietro alle
orecchie, in modo che non gli dessero fastidio.
Nell'osservarlo, i cuori dei presenti
parvero accelerare
inesorabilmente i battiti, e fiutando la loro paura mista allo
sgomento, il vampiro non
poté far altro che ridere ancora. Quella risata cristallina
guizzò nella cappella fin sopra
l'altare, dove lui stesso si ritrovò subito dopo con un
balzo
felino, una figura nera e immobile come una statua di marmo. Ma
ciò che rendeva la scena suggestiva, non era solo il suo
aspetto incantatore, ma tutto l'insieme degli strani eventi che si
stavano susseguendo: i capelli fluttuavano intorno al suo viso come se
avessero vita propria, docili e leggiadri, mentre l'acqua, che fino a
poco prima scorreva dall'altare di marmo, era bloccata in un momento di
stasi, come in un dipinto. Persino la pioggia che entrava dalle vetrate
era immobile, si
riuscivano a scorgere le goccioline di cristallo che riflettevano come
piccoli specchi gli occhi scuri e il viso immacolato del prete. O
meglio, del vampiro.
Fu
Hughes il primo a riprendersi parzialmente da quella scena mozzafiato.
Si arrischiò a fare un passo avanti, stando attento a non
avvicinarsi troppo all'altare.
«Roy,
vogliamo solo aiutarti!» esclamò con voce
rassicurante,
nel tentativo di farlo scendere da quel suo piedistallo per legarlo
ancora una volta. Le sue parole, però, gli provocarono
un'altra profonda risata.
Il moro allargò le braccia e
mise in mostra i muscoli sodi
che
guizzavano al di sotto della camicia ormai aderente, sorridendo con
più crescente passione mentre si alzava in piedi sull'altare
e
puntava lo sguardo verso la grande croce di legno, che sembrava non
temere più.
«E
cosa potreste mai fare?» chiese con voce calda e sicura,
gorgogliante. «Cosa
vi da la convinzione di riuscire a salvare un'anima come la mia? Non ci
è riuscito nemmeno il Dio a cui ero tanto devoto, come
potreste
mai farlo voi? Volete per caso sostituirvi a lui?»
«Non
dire così, ti prego!»
«Maes,
Maes, Maes», lo ammonì tranquillo il vampiro,
agitando
distratto un dito mentre scuoteva al contempo la testa.
«C'è
qualcosa, qualcosa d'oscuro in me che non comprendo. Ma quando ci
riuscirò, forse capirò anche perché mi
hanno
risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che
li
hanno incontrati tempo addietro».
«Roy...
ti supplico», riprovò Hughes, sentendo le
lacrime minacciare di rigargli il volto. Da quella mattina era cambiato
moltissimo, quasi non sembrava più nemmeno lui.
«Non
supplicarmi, Maes», disse sorridendo.
«Non sono Dio».
Roy si lasciò andare ad una
risata liberatoria, dopo aver
pronunciato quella frase. Flettendo il corpo, sembrò
racchiudersi in se stesso, con la
testa incassata inverosimilmente nelle spalle, prima che si gettasse in
avanti e artigliasse le travi che sorreggevano il ballatoio, guardando
in basso in precario equilibrio. Rise ancora nell'incontrare
l'espressione sconvolta di quei volti,
allentando la presa e lasciandola poi del tutto, voltandosi di schiena
a braccia aperte. E prima che il suo corpo si schiantasse contro la
pavimentazione, si
girò atterrando su entrambi i piedi, quasi in ginocchio,
proprio
in mezzo a loro.
Nell'impatto, la pavimentazione si era
incrinata e sollevata, rompendo
gran parte delle mattonelle e costringendo i tre uomini a scattare
rapidi all'indietro per evitare i frammenti che si disperdevano furenti
insieme alle gocce di pioggia e alla polvere, senza che scalfissero
minimamente il vampiro. Lui li guardò con gli occhi d'onice
innocenti quanto vuoti,
prima di
sparire completamente alla loro vista come risucchiato
dall'oscurità.
Fuori,
finalmente, inspirò a fondo l'odore dell'umidità
che
circondava lui e la vegetazione, l'odore della terra bagnata dalla
pioggia, spostandosi rapido e con un balzo aggraziato su uno dei tetti
in legno delle sobrie case,
favorito dalle tenebre che imperversavano sul paese. Un piacevole
sorriso si fece largo sulle sue labbra, mentre faceva
vagare lo sguardo d'onice sui dintorni di quella cittadina che gli
sembrava vagamente familiare. Sotto di lui, le voci indistinte degli
uomini che aveva appena seminato.
Si ritrovò a ridere alle
parole che pronunciavano e che
riusciva ad udire perfettamente, come se fosse lì
giù,
accanto a loro. Divertito si lasciò
cadere seduto sul tetto, con la testa sorretta appena su una mano
mentre
l'altra era abbandonata su un ginocchio, gli occhi scuri puntati
giù, verso le stradine. Uno degli uomini, quello con i
capelli rossi, stringeva fra le mani una
pistola d'argento e,
nonostante il suo odore fosse quello d'un uomo
terrorizzato, sembrava più che intenzionato ad usarla.
Quando li sentì parlare di sé e
del suo Signore,
assottigliò
lo sguardo facendo vibrare e tremare le assi di legno del tetto sul
quale era seduto,
serrando una mano lungo il fianco e mordendosi
nel contempo il labbro inferiore.
L'insanabile impulso di balzare tra loro
e squarciare quelle gole per
berne il sangue serpeggiò malevolo nel suo animo, ma a
trattenerlo fu l'anima pia che ancora non era riuscito a scacciare e
che
lo costrinse a restare immobile su quel tetto, ad osservarli.
«Basta»,
intimò a se stesso, chiudendo gli occhi scuri. «Lasciami
in pace, vattene». Ma quel qualcosa che si agitava in lui non
accennava a scomparire. Artigliò una delle travi di legno,
strappandola dalla sua
postazione con uno schianto secco che risuonò come lo
spezzare
d'un osso, e che richiamò l'attenzione degli uomini nelle
vie.
«È
lassù!» sentì gridare da uno di loro, e
riaprì di scatto gli occhi,
rimettendosi in piedi
giusto qualche
attimo prima che una pallottola lo colpisse al braccio sinistro.
Mostrò le zanne a chi aveva
sparato, vedendo il suo viso
deformato in una maschera di sagacia. Era il biondo che non vedeva
l'ora di piantargli un proiettile in
corpo. «Non
farmi fare cose che non vorrei, Havoc!» tuonò
inconsapevolmente,
dissolvendo la pioggia insistente che ancora cadeva, come se fosse
avvolto in una bolla di vapore. Li vide tapparsi le orecchie e
contrarre i volti in smorfia di dolore,
forse feriti da quell'urlo disumano che si era lasciato sfuggire.
Tutto parve passare in un lampo, e un
altro colpo risuonò
vicinissimo al suo orecchio. Le polle
d'onice si infiammarono di furia selvaggia, mentre snudava le
zanne e
fletteva l'intero corpo in
giù, vero il suo obiettivo, che stava
già impugnando l'arma pronta a far fuoco. Balzò
giù dal tetto e gli si avvicinò
così
velocemente che né Havoc né gli altri poterono
fare
qualcosa; il primo dilatò
gli occhi per la sorpresa quando sentì un qualcosa d'acciaio
artigliargli ferocemente
il braccio, che prese a sanguinare copiosamente sotto il suo sguardo
sbarrato e confuso. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare per il dolore,
tanto il colpo era
stato fulmineo.
Stornò bruscamente lo sguardo
vedendo la mano del vampiro
sporca
del suo sangue, e indietreggiò sul terreno con il fucile
puntato
verso la creatura, che si stava ripreparando ad attaccarlo; ma,
inverosimilmente, gettando un altro sibilo e fissando tutti con
quegli occhi inespressivi, spiccò un salto deciso e veloce
verso
la foresta, lasciandoli lì ad
affogare nella loro sofferenza.
Schivò un ramo con un balzo leggiadro di
lato,
riprendendo la sua
traversata con slanci felini e sicuri, sfrecciando come se nulla fosse
fra quelle fronde che al suo passaggio si muovevano lievi come mossi da
un
flebile vento, e che si richiudevano quasi con delicatezza dietro di
lui, frusciando appena.
Qualcosa, però, gli
dardeggiò d'improvviso dinanzi
agli occhi.
Atterrò pesantemente al suolo, con le
mani
poggiate sul terreno umido, quasi artigliandolo, puntellandosi su un
ginocchio. Il suo corpo tremò e fu percorso da
continui brividi e spasmi, la colonna della gola si contrasse, gli
occhi fissarono un punto
indefinito oltre il bosco.
Cominciò a gettare sguardi disorientati fra la vegetazione,
con una mano premuta
contro la tempia, e prese a sussurrare tra sé e
sé parole
incomprensibili, sicuro che quella che sentisse fosse paura.
Tentò di rimettersi in piedi e si guardò intorno
con occhi
vacui e
lontani, mentre le gengive cominciavano a fargli sempre più
male, e il sangue gli pulsava contro le tempie doloranti. Fu colto da
una contrazione allo stomaco che lo costrinse a
piegarsi in avanti con un rantolo sommesso, stringendo i denti.
La
testa
aveva cominciato a dolergli in maniera indescrivibile; l'addome prese
ancora una volta ad attorcigliarsi, e scosso da
brividi violenti e dai crampi, sferzò l'aria con un braccio,
nel
tentativo di scacciare le sagome che vedeva dinnanzi a sé,
solo
entità fatte di fumo e nebbia che imperversavano nei suoi
occhi. I
sussurri della notte gli giunsero da punti lontani, mescolati
d'improvviso con le solite voci che sentiva da più di
dieci anni, e ancora una volta sentì quello strano dolore
che gli
colpiva il
petto e il collo, quel freddo pungente che lo avvolgeva in un perpetuo
ed eterno gelo, mentre polle d'ambra si facevano largo nelle tenebre
che vedeva davanti agli occhi e il braccio si muoveva da solo in
avanti, come a voler afferrare qualcosa che non c'era...
«La morte rende tutto
più bello».
Ringhiò
in preda alle vertigini.
Si
lasciò docilmente cadere a terra, completamente in
ginocchio,
mentre le mani artigliavano sempre di più il terreno bagnato
e
alle narici gli giungeva quell'odore penetrante d'umidità.
Gli
parve di star rivivendo quel momento. Conosceva quella radura,
conosceva il freddo che gli avvolgeva il corpo, e anche il sentore
improvviso della ruggine gli era familiare. Era il suo stesso sangue
quello che sentiva!
In preda al panico, gettò
un'occhiata al suo corpo,
cominciando a privarsi della camicia che indossava, lacerandola con
mani
ormai divenute artigli; sondò con lo sguardo ogni muscolo,
ogni
lembo di pelle, non
trovando nulla. Nemmeno una ferita, solo la pelle bianca e marmorea
bagnata dalla pioggia. Respirò a pieni polmoni, deglutendo
mentre si lasciava
cadere
disteso all'indietro abbassando le palpebre, incurante dell'erba
bagnata dietro alla schiena nuda. Quando aprì pian piano gli
occhi, il battito del suo cuore
era
tornato stabile, e persino le vertigini e quello strano dolore si erano
affievolite. Non sentiva neanche l'odore del sangue.
Roy si rimise debolmente in piedi, guardandosi
intorno come se non capisse. Cosa diavolo gli era successo? Scosse
con
impeto la testa decidendo di riprendere svelto a correre per
raggiungere colui che avrebbe saputo dargli una spiegazione, divenendo
una sagoma scura che sfrecciava solitaria
tra la boscaglia,
lontana da ogni forma d'umanità.
Fruscii e flebili rumori notturni si
innalzavano dal sottobosco
al suo
passaggio, e le foglie bagnate dalla pioggia che era caduta in quei
giorni si accartocciavano sotto i suoi passi sempre più
veloci,
sempre meno percettibili agli abitanti che popolavano quella foresta,
ora nascosti per l'aver fiutato il possibile pericolo nell'aria. La
brama di sangue aleggiava intorno alla creatura che non arrestava
la sua corsa, spiccando balzi sia fra gli alberi che sul terreno,
mentre la notte
sempre più fitta inghiottiva tutto il resto nel suo manto
oscuro puntellato di frammenti di stelle.
ATTO OTTAVO. FINE
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Capitolo 9 *** Ombre di ricordi ***
Il figlio delle Tenebre_Act 9
ATTO NONO.
OMBRE DI RICORDI
Nei pressi di Sheerness, 1612
Le
sue palpebre ebbero un momentaneo tremito prima di riaprirsi.
Vedeva tutto sfocato a causa del sonno
ma, quando una delle sue mani
sfiorò il corpo che occupava il lato destro del suo letto,
aprì di scatto gli occhi, registrando l'immagine di Roy che,
con le labbra schiuse e i lunghi capelli
scuri sparpagliati sul bianco cuscino, ronfava beatamente con in volto
un'espressione serena.
Edward deglutì e si sedette
sul materasso,
guardandolo ad occhi sbarrati. Che ci faceva lì, in camera
sua, nel suo
letto? La camera in cui avrebbe dovuto stanziare con suo padre quella
notte
era ai piani inferiori, verso il lato ovest del maniero dove poco
distante c'erano quelle della servitù... perché
era ai
piani superiori? Voleva chiederglielo, ma aveva il timore di
svegliarlo, quindi si limitò ad osservare la sua figura
dormente: piacevolmente rilassato e con un sorrisino dipinto sulle
labbra, il
moro era perfettamente immobile sul suo letto, le forme sinuose del suo
corpo erano nascoste dal lenzuolo leggero.
Edward sentì una strana
inquietudine e allungò
titubante un braccio verso di lui, scostandogli
delicato i
capelli dal viso; lo vide sorridere maggiormente e muovere un
po' la testa, come se cercasse di strusciarsi contro di lui.
Così immerso nel regno dei sogni sembrava davvero indifeso.
Quasi stentava a credere che fosse il ragazzo sfacciato che si
rivelava essere da sveglio. Poggiò un gomito sul materasso
in
modo da sorreggersi il
volto
sul dorso della mano per guardarlo meglio, mentre con l'altra si curava
di lisciargli quei fini capelli di seta nera che molto raramente
scioglieva quand'era in pubblico. E, doveva ammetterlo, era la prima
volta anche per lui vederli ricaduti
sulle sue spalle.
Edward stava per scendere ad
accarezzargli una guancia quando
vide le
palpebre dell'altro tremare e
aprirsi, per rivelare quei profondi pozzi scuri dei suoi occhi;
ritrasse immediatamente la mano, rialzandosi a sedere così
in
fretta che persino lui avrebbe stentato a credere alla sua
velocità.
Un sorriso incurvò le labbra
di Roy e, in silenzio, si
drizzò a mezzo busto per far
sì
di avvicinare i loro volti e le loro labbra, sfiorandole appena.
Notando lo sguardo confuso e sconcertato del compagno, che ancora
cercava di ricomporre la sua solita espressione,
ridacchiò, sedendosi
sul materasso e stiracchiandosi tranquillo. Sempre con quel sorriso che
non gli abbandonava quasi mai le labbra si
grattò distratto dietro al collo, prima di lanciargli
un'occhiata obliqua che accentuò il taglio
dei suoi occhi a mandorla.
«Buongiorno»,
si limitò a dire in tono divertito, senza perdere di vista
la
mimica facciale del biondino, il cui volto tendeva vagamente al
porpora. «Parlando
con i vostri domestici ho scoperto che appena sveglio ti piace coccolarti con del
cioccolato»,
sghignazzò dolcemente sulle sue labbra, prima di allontanare
il viso e guardarlo negli occhi con un sorriso. «Proprio
come se fossi una ragazzina»,
continuò, sempre più divertito dall'espressione
del biondo. «Ma,
in mancanza di cioccolato, ci sono io a coccolarti».
Cominciò a mordicchiargli delicato le labbra come se
cercasse di
spronarlo, premendogli una mano dietro al capo per attirarlo
maggiormente verso di sé, approfondendo il contatto, ma non
vedendolo
contraccambiare e sentendolo rigido come un pezzo di ghiaccio, si
allontanò corrucciato incrociando braccia e gambe sul
materasso, con le sopracciglia aggrottate.
«Come sei
freddo, stamani», borbottò, ma il tono era
vagamente spassoso.
Riscossosi dalla confusione iniziale,
Edward
indietreggiò
nuovamente sul materasso, guardandolo come per cercare di capire
qualcosa che lui stesso non riusciva a comprendere esattamente.
Già quando si era svegliato e l'aveva trovato accanto a
sé si era sentito strano, nel guardarlo. Non aveva nemmeno
resistito ad accarezzargli i capelli. Figurarsi se avesse provato a far
altro. Se si fosse avvicinato, provando a baciarlo... e lui si fosse
svegliato? Non sarebbe riuscito a guardarlo più in volto,
poco
ma
sicuro. Non tanto per il bacio, ma forse per il gesto. Nemmeno lui
sapeva esattamente perché.
Si distolse dai suoi pensieri solo
quando lo vide alzarsi dal letto per
rimettersi in piedi e stiracchiarsi, e lo
sguardo gli cadde quasi involontariamente sul suo corpo, passando dalle
spalle possenti coperte da una leggera camicia bianca per scendere
verso le cosce muscolose e ben proporzionate, arrossendo ancor
più vistosamente quando lo vide solo in intimo. «E...
e i calzoni?»
chiese flebile, ricevendo un'occhiata.
Roy squadrò il proprio corpo confuso e perplesso, ritornando
a
guardare il ragazzo con un sopracciglio scuro finemente inarcato. «Tutto qui
quello che hai da dirmi?» replicò, facendo il
finto offeso. In realtà sapeva bene quanto fosse timido quel
ragazzo
biondo che adesso stava squadrando,
più timido persino di una fanciulla illibata, avrebbe osato
dire.
«M-Ma sei in...
intimo!» ribatté Edward, e l'altro si trattenne
dal non ridere, limitandosi appena a sollevare un
sopracciglio.
«Non sono
mica nudo», fece con un'alzata di spalle, sbattendo
perplesso le palpebre. «E
anche se lo fossi, che cambierebbe? Tu ti vedi nudo tutti i giorni».
«Non c'entra
assolutamente nulla!» balbettò. «Il
discorso
è ben
diverso!»
A quelle parole, ci guadagnò
un sorriso. Un sorriso dolce,
divertito. Vide il moro scostandosi con non curanza i lunghi capelli
scuri dal
viso, ravvivandoseli dietro alle orecchie prima di sorridere
maggiormente. Dal taschino della sua camicia poi, il moro
tirò fuori un
elastico legandoseli in una bassa coda, portandosi quei pochi ciuffi
ribelli all'indietro, in modo da tenere la fronte scoperta.
«Quanto
sei carino quando arrossisci in quel modo»,
mormorò con dolcezza,
tornando a sedersi sul materasso per sporgersi di poco verso di lui.
Fece per sfiorargli nuovamente le labbra ma poi ci ripensò,
limitandosi a sorridergli.
Regnò tra loro uno strano
silenzio, rotto soltanto dal
respiro
di entrambi, anche se il biondo era quasi convinto che si potesse udire
anche il suo cuore che batteva stranamente agitato nel petto. Fu
proprio lui a spezzare del tutto quella quiete, abbassando lo
sguardo mentre si ravvivava distrattamente i capelli dietro alle
orecchie.
«Scusa»,
bisbigliò,
senza un motivo apparente. «Ti
sto dando l'impressione di essere una ragazzina insicura, lo so, ma mi
succede solo quando ho paura di esporre troppo i miei sentimenti e... e
poi la colpa è anche tua, non ci si infila nel letto
di
altri a tradimento!»
soggiunse quasi esclamando, con le mani chiuse a pugno sulle ginocchia
e lo sguardo rivolto verso la soglia della sua camera. «E
se fossero venuti i domestici a svegliarmi?!»
Roy rise e gli cinse la vita, il respiro
che gli solleticava il collo
talmente era vicino. «Volevo
soltanto farti una sorpresa», gli sussurrò in tono
mieloso, facendogli risalire lentamente le mani dietro alla schiena,
quasi con dolcezza.
Il biondino fu scosso da un piacevole e
squisito brivido che non
capì, ma che gli piacque molto. Si abbandonò
completamente a quelle carezze, poggiando la
testa
contro il petto del moro, che canticchiava in tono basso tra
sé e sé una di quelle uniche melodie che gli
aveva
insegnato nella sua lingua, come se con quella dolce nenia cercasse nel
contempo di calmarlo. Entrambi poi si sdraiarono sul materasso, il
ragazzo dai lunghi capelli
scuri abbracciò l'altro da dietro sentendolo sussultare
appena
per il contatto, e gli poggiò quindi una mano sulla testa
lisciandogli i capelli, come per rassicurarlo.
«Quanto mi
piacerebbe restare
così per sempre», mormorò, baciandogli
la chioma, e l'altro sorrise, stringendogli le mani che aveva poggiato
sul suo
ventre.
«Aye, per
sempre».
Silenzio. Udiva solo quello da quando aveva riaperto gli
occhi.
Il soffitto in pietra della sua camera
sotterranea gli sembrava
immenso, ancora sdraiato com'era. Voltò appena lo sguardo
per fissare il morbido
velluto bianco del suo feretro, allungando pigramente un braccio per
poggiare la mano delicata sul bordo, in modo da potersi drizzare a
sedere nella larga e confortevole bara.
Quando i suoi occhi d'ambra, ancora
parzialmente annebbiati e vuoti nel
torpore della morte, si posarono sulla figura che occupava un lato del
letto poco distante, si fecero attenti e quasi incuriositi, mentre con
l'altra mano si scostava la lunga treccia sfilacciata per farla
ricadere sul petto nudo. Svogliato, si alzò in piedi
scavalcando il feretro,
dirigendosi
verso l'altra bara vuota per sorpassarla e andare verso la sedia, sulla
quale riponeva i suoi abiti mortali, senza degnare
di uno sguardo la presenta che l'osservava attento. Anzi, fece persino
finta che fosse solo. Prese non curante i calzoni da cavallerizzo
infilandoseli disinvolto,
sistemandosi anche la camicia e il panciotto nero rifinito in quello
che ricordava vagamente l'oro.
«Come
mai è qui, padre?» si degnò finalmente
di chiedere,
voltandosi appena verso di lui con i guanti in pelle abbandonati fra le
mani. «È
raro che attenda il mio risveglio».
Hohenheim, in un frusciar di seta,
abbandonò la sua
postazione per avvicinarsi di poco al figlio, il volto privo di
qualsiasi emozione mentre gli sfiorava non curante i capelli biondi.
Ricevette un'occhiata dorata che non avrebbe saputo definire, prima che
il giovane decidesse d'ignorarlo nuovamente per sistemarsi sulle spalle
il giaccone nero in stile vittoriano, che terminava con maniche orlate
di trina nera, a nascondergli parzialmente le mani ora fasciate dai
guanti scuri. Si apprestò a cingersi il collo con un solino
di
seta al
quale
appuntò un piccolo opale in rubino, disfacendosi poi la
treccia
per lasciare i capelli sciolti sulle spalle. E il padre glieli
accarezzò ancora, attorcigliandosi alcune
ciocche intorno ad un dito.
«Sei molto
debole, figlio mio», mormorò, con velata perfidia.
«E
anche il mio corpo ormai si appresta a compiere gli ultimi sforzi...
sai bene ciò che potrebbe succedere se non vedrò
compiuto
il mio piano e la mia vendetta, nevvero?»
Edward non rispose, nonostante
l'espressione che aveva assunto il suo
volto. Rassomigliava a quella d'un uomo furioso, ma sfociava vagamente
nel
viso sofferente d'una donna. I canini
palpitarono e furono ben in mostra mentre ringhiava
sommessamente, con un
rombo che gli risaliva flebilmente su per la gola e che cresceva ogni
secondo di più.
Cercò d'ignorare la sensazione negativa che imperversava nel
suo
animo, chinandosi per indossare gli stivali neri con le fibbie in oro
che completavano la sua tenuta d'equitazione, quasi la stessa che
indossava quand'era ancora ragazzo.
«Lui
non deve toccarlo, padre», sibilò, raccogliendo i
capelli
in un piccolo fermaglio, legandoli giusto al di sotto delle scapole, in
modo che sembrassero voluminosi. «Non
si azzardi assolutamente
a toccarlo».
Una mano gli si posò sulla
spalla costringendolo a voltarsi,
incrociando così gli occhi dorati del padre, così
simili
ai suoi ma così diversi. «Questo non
posso assicurartelo», mormorò tranquillo, quasi
mellifluo. La sua
solita voce calma non fece altro che scatenare l'ira del giovane
vampiro.
Le
mani di Edward scattarono fulminee afferrando il padre per la
camicia bianca, quasi volesse alzarlo di peso da terra, scuotendolo in
malomodo. I suoi occhi dorati non riflettevano altro che un agitato
tormento e
rabbia repressa. Avrebbe perso il controllo di lì a poco.
«Ti
ammazzo con le mie stesse mani se succede qualcosa a Roy!»
esclamò fuori di sé, snudando maggiormente le
zanne. «Non voglio
perderlo ancora a causa tua!»
Impassibile, Van scansò in un
unico movimento
serpentino le mani del figlio,
dandogli su una guancia un sonoro ceffone che
risuonò nella
stanza. Le fiammelle delle candele accese sui doppieri poggiati sulla
modesta
mobilia tremolarono per un breve istante,
prima di spegnersi del tutto e lasciare solo un sottile fil di fumo e
un odore di cera bruciata. Furono immersi completamente nel buio per
attimi che parvero
interminabili, poi una
lanterna posta sulla scrivania si accese d'improvviso, rivelando il
volto del padre
trasfigurato da una smorfia d'irritazione, mentre teneva stretto in una
morsa il
polso del figlio, i cui occhi dorati erano appena dilatati per lo
stupore e la sorpresa.
Hohenheim guardò la mano che
puntava ad artiglio verso il
suo
cuore per pochi attimi, prima che portasse la sua attenzione sul viso
diafano del figlio maggiore, che confuso sembrava boccheggiare; gli
storse il braccio dietro la schiena costringendolo a dargli le
spalle, fiammeggiante d'ira.
«Volevi
approfittare del buio per colpirmi, Edward?»
sussurrò al
suo orecchio, senza mollare o allentare la presa. «Dovresti
lasciar perdere certi giochetti».
Sentendo la rabbia ribollire sempre
più dentro di lui, a
quelle
parole, il giovane si divincolò dalla presa del padre con
uno
strattone, e quando si girò di scatto la cera delle candele
ormai spente si sparpagliò furente intorno a loro,
esplodendo e
macchiando le pareti. Gli occhi d'ambra, infiammati di rabbia, non
perdevano di vista quelli
del padre, che continuava a fissarlo saccente senza dire una
parola. Quando poi il figlio snudò ancora una volta le zanne
e con
un
ringhio che gli attraversò la gola si gettò verso
il padre, quest'ultimo
socchiuse appena le palpebre, riaprendole giusto qualche istante prima
che i canini perlacei gli sfiorassero la pelle del collo.
Fu un attimo, e il giovane si
ritrovò dall'altro lato della
stanza,
sbattendo la schiena contro il muro e
accasciandosi sulla scrivania tranciata a metà, dove fogli
ingialliti e vecchi libri la ricoprivano completamente, sparpagliandosi
anche sul pavimento per la forza d'urto sprigionata.
L'anziano vampiro lo squadrò
a lungo, prima di sospirare e
sistemarsi in un gesto distratto gli occhiali sul naso, ravvivandosi
nel contempo i biondi capelli all'indietro.
«Non
mostrarmi mai le zanne, Edward. Non minacciarmi», disse
severamente,
osservando il giovane mentre cercava di rimettersi in piedi, gli occhi
dorati
ardenti di collera. «Ti ho
donato la lunga vita e la giovinezza eterna. Non puoi ripagarmi in
questo modo».
Edward gli lanciò un'occhiata
rabbiosa, dopo aver sentito
quelle parole. Si puntellò più velocemente che
poté
sui gomiti spostando con un braccio gli ingombri che gli
erano ricaduti addosso drizzandosi a fatica sulle gambe, serrando i
pugni lungo i fianchi.
«Io
non ci volevo nemmeno diventare così!»
sbraitò
subito di rimando, facendo vorticare l'aria intorno a loro come se
fosse percossa da elettricità statica.
Si squadrarono a lungo senza proferir
parola, tra loro la tensione
sembrava poter essere sentita a pelle e persino sfiorata, talmente era
satura di malvagità. Poi Hohenheim distolse lo sguardo,
puntandolo verso una
delle piccole feritoie, portandosi le braccia dietro alla schiena come
se fosse
assolutamente tranquillo in quelle circostanze. Come se non temesse
nessun attacco da parte del figlio, in quel momento.
«Era inevitabile, essendo mio
figlio», riprese, e
dalle
labbra sfuggì un sospiro mentre guardava distratto il
feretro in
legno d'ebano. «Ti
ho solo risparmiato il dolore della transizione, mille volte
più
terribile di quello che ti ho procurato io anticipando i
tempi». Con la coda dell'occhio, vide le polle dorate del
figlio fissarlo con
astio. Lo stesso sguardo che gli aveva rivolto quando aveva ucciso il suo uomo. Gli aveva
perdonato molte cose in passato, ma il punto di rottura
c'era stato quando aveva raggiunto l'età per la sua
transizione,
ed era poi andato ad eliminare l'unico ostacolo che ancora lo teneva
costantemente legato al mondo degli esseri umani.
Non avrebbe mai potuto scordare il modo
in cui era rimasto a
disperarsi
accanto a quel corpo immobile per tutta
quella notte di pioggia torrenziale, rifiutandosi di tornare al maniero
prima
dell'alba. Era stato lui stesso a trascinarlo nuovamente al suo
interno,
nonostante cercasse di restare lì in quella piccola radura
ad
urlare il suo nome. E c'era riuscito solo perché era ancora
debole per la
transizione, altrimenti sarebbe stata necessaria la presenza di altri.
E quello sguardo, da quel momento, non l'aveva più
abbandonato. Persino quando lo costringeva ad uscire di notte per
procacciarsi il
cibo doveva lottare contro quello sguardo che sembrava ricordargli la
colpa di cui si era macchiato.
Il ringhio del figlio
richiamò la sua attenzione
distogliendolo
una volta per tutte da quei pensieri di trecento anni prima, e vide
ancora una volta le zanne scoperte.
«Non
mi interessa se hai anticipato i tempi razza di padre
degenere!»
sbraitò il giovane, e risuonarono nell'aria i rombi dei
tuoni.
«Se tu non avessi mai sposato la mamma... se te ne fossi
rimasto
nascosto tra le ombre che ti hanno generato io...»
«...avresti
potuto avere una vita normale?» concluse per lui il padre,
con il
volto diafano privo di qualsiasi emozione, mentre i capelli, ricaduti
davanti, gli coprivano appena gli occhi.
«Amavo
tua madre, lo sai», soggiunse, e il suo tono di voce divenne
quasi nostalgico,
sebbene la stanchezza gli si scorgesse in viso. «Ma quando ha
scoperto che ero un vampiro non è riuscita a reggere la
notizia,
con il fisico già provato che si ritrovava da quando vi
aveva
messi al mondo».
Il volto del giovane divenne una
maschera d'indecifrabile disgusto.
«Non
scaricare la colpa su di noi, adesso!» tuonò,
facendo
vibrare l'aria e i vetri delle piccole finestrelle. «Sei
tu che ti sei divertito a volere una famiglia!»
A quel vociare tonante e ruggente, i
vetri finirono
in frantumi, sparpagliandosi ovunque e lasciando che la poca pioggia
che riusciva a giungere sin laggiù cominciasse a scendere ed
entrasse nella stanza. Tuoni e lampi poi, imperversarono in cielo,
quasi seguissero la rabbia
del giovane vampiro. Strinse le labbra livide in una linea sottile,
serrando al contempo la
mascella, mentre le bionde sopracciglia si corrugarono in
un'espressione di assoluta furia.
Furono investiti entrambi da una rabbia
cieca scaturita dal
giovane,
che stava facendo vorticare in un turbine le gocce d'acqua e i fogli,
che scagliati in una danza selvaggia tagliavano tutto ciò
che
capitava loro a tiro, non scalfendo minimamente i due vampiri. Persino
i frammenti diamantini dei vetri si unirono a quel tornado di
potenza, forando i fogli contro cui si scontravano e conficcandosi
persino nella cera delle candele, tranciate di netto dai fogli che
continuavano a vorticare selvaggiamente.
Hohenheim trasse un altro sospiro,
scansando con svogliatezza
un
foglio che gli era finito sul volto, bloccando quel turbinio
così in fretta che tutto finì riverso a terra,
immobile; gli diede del tutto le spalle e cominciò a
camminare non curante per la stanza, con le braccia dietro alla
schiena, a passo tranquillo e sicuro mentre osservava con distratta
attenzione le goccioline di pioggia e i vetri infranti sul pavimento,
spostando la sua attenzione sul volto del giovane vampiro.
«Cerca di startene buono per un po', Edward»,
sussurrò mieloso, increspando appena le labbra in un piccolo
sorriso. «Ti ho ben
promesso la libertà, sia per te che per il tuo sciocco
amante, ma devi ancora aiutarmi».
Quelle ultime parole aleggiarono intorno
a loro come un'allarmante nota
definitiva mentre si allontanava per lasciarlo solo a respirare quasi
affannosamente, nel tentativo di riportare parzialmente l'aria nei
polmoni.
Guardò
la confusione che regnava nella sua camera mortuaria,
lanciando un ruggito rabbioso. Investì in questo modo tutto
ciò che era rimasto intorno a lui con un turbinio di
violenza,
dando il via ad una serie d'esplosioni a catena, e non si
calmò finché qualcuno non gli
poggiò una
mano sulla spalla, tranquillizzandolo parzialmente.
Edward si voltò debolmente
verso il nuovo venuto, vedendo due
vampiri
farsi indietro e chinarsi formalmente, con una mano poggiata sul petto.
«Ci
perdoni per l'irruzione nella sua camera, signorino», disse
uno
dei due, scansandosi un ciuffo di capelli d'ebano che gli era ricaduto
su un occhio ceruleo, mentre alzava pian piano lo sguardo per
indietreggiare ancora un po'.
«È
stato vostro padre a mandarci», soggiunse una donna,
flettendo il corpo sinuoso.
Respirando a pieni polmoni, il biondo
liquidò la questione
agitando distratto una mano, sorridendo però con un
lampeggiar
di zanne mentre risistemava i suoi abiti.
«Quasi
mezzo secolo che siete via, e ancora gli ubbidite»,
ironizzò, non riuscendo a nascondere l'amarezza che
quella constatazione gli provocava. «Ne
ho davvero abbastanza di questa storia».
«Posso
ben capirla, signorino», replicò l'altro
assolutamente
calmo, ricevendo un'occhiata color rubino dalla donna accanto a lui.
«Ricorda solo qual è il tuo compito»,
ribatté il biondo, con tono a sua volta tranquillo. Vide con
la coda dell'occhio, mentre si sistemava anche i capelli, il
vampiro chinare referenziale il
capo, con un luccichio sinistro nei suoi occhi quasi di ghiaccio.
«Lo prendo molto sul serio, signorino», la sua voce
risultava solo un mormorio sommesso.
Uno sguardo dorato lampeggiò
nella sua direzione, prima che
Edward guardasse il pavimento con un sorriso che non
prometteva nulla di buono.
«Se
non riusciremo a prenderlo di sorpresa non avremo altre
possibilità di vittoria Greed,
tienilo bene a mente»,
sussurrò con quella sua voce mielosa e densa.
«Se
avrà il tempo di richiamare gli altri non
risparmierà
nessuno di noi tre», soggiunse, e la voce divenne
gorgogliante
come le acque di un ruscello.
«Ce
ne rendiamo perfettamente conto», fu la risposta della
donna, che si era prontamente immischiata nel discorso. «Se
ce lo consentite, recupereremo noi stessi la preda».
«Di questo non devi preoccuparti, Lust»,
mormorò il giovane, alzando lo sguardo topazio per fondere i
suoi occhi con quelli color rubino di lei.
«Ho già provveduto a mandare qualcun
altro».
«Come
meglio crede, signorino», si limitò a dire
quell'altra
creatura, chinando referenziale
ancora una volta il capo, il ciuffo laterale di capelli neri gli
ricadde su uno degli
occhi socchiusi, nascondendoglielo quasi.
«Bene», disse solo, prima di dirigersi verso la
porta.
«Pensa
tu al mio giaciglio, Lust»,
soggiunse voltandosi appena a guardarla, mentre usciva dalla sua stanza
per cominciare
a risalire lento dalle viscere
della terra seguito dall'altro vampiro. Ed entrambi, una volta
ritornati nell'ampio ingresso, trovarono anche gli altri lì
radunati, apprestandosi poi a
salire le scale per raggiungere le stanze del padrone.
Il più giovane, seduto su una
delle scale con il mento
poggiato
sul palmo della mano, alzò lo sguardo nella sua direzione,
sorridendo quasi ironico.
«Hai
intenzione di andare da nostro padre?» sghignazzò,
rivolto al maggiore; ci guadagnò appena un'occhiata, prima
di vederlo continuare
ad avanzare come se nulla fosse. Stava difatti salendo i primi gradini
seguito dal vampiro che sondava
con i suoi occhi socchiusi i volti di ognuno, ma dovette fermarsi
quando sentì una sua mano
afferrargli il pantalone scuro. Abbassò lo sguardo verso di
lui, con un sopracciglio
inarcato.
«Lasciami,
Alphonse», lo minacciò con voce ferrea.
Lui, però, aumentò
la stretta, scuotendo la testa.
Aveva solo una vaga idea di cosa volesse fare il fratello, in quel
momento, e non gli sembravano propriamente delle buone intenzioni. Il
suo volto abbandonò ogni sorta di divertimento, e divenne
una maschera indecifrabile.
«Nay,
Edward», fece schietto. «Sto
solo cercando di non farti fare pazzie».
Con un ringhio rabbioso, che fece
sussultare e zittire il fratello,
Edward si chinò appena a
mezzo busto strattonandosi il pantalone, facendogli mollare con ben
poco garbo la presa della sua mano su di esso. Era calato il silenzio
anche sugli altri vampiri presenti, che
appuntarono su di lui la loro più completa attenzione,
restando
in un silenzio referenziale e assorto. Stava per ammonirli tutti e
rispondere a
tono al fratello minore quando una delle porte in quercia del maniero
si spalancò d'improvviso, sbattendo contro il muro.
Accigliati
e confusi, si voltarono tutti simultaneamente, scorgendo la figura
bagnata e dal petto nudo del moro, rischiarata dai lampi che spesso
solcavano il cielo. Freddi e inespressivi, quegli occhi d'onice
s'appuntarono sulla figura
del giovane fermo sulle scale di marmo, prima che le zanne luccicassero
sinistramente fra le sue labbra.
ATTO NONO. FINE
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Capitolo 10 *** Anime in tumulto ***
Il figlio delle Tenebre_Act 10
ATTO DECIMO. ANIME IN TUMULTO
Gli
occhi scuri di Roy scattarono serpentini sui volti di tutti i
presenti, sondandoli ad uno ad uno con saccente distacco.
Avanzò verso Edward a zanne
snudate, con i lunghi capelli d'ebano che
fluttuavano intorno a lui, aiutati sia dal vento che filtrava da
fuori sia dall'energia sprigionata dal suo stesso corpo. Il rombo d'un
ringhio imperversava nella sua gola ad ogni passo, mentre
un sinistro crepitio vibrava nell'atmosfera circostante, come
avvisaglia d'un temporale carico di lampi. Emanava inverosimilmente
calore, tanto che più d'un vampiro
si
ritrovò ad indietreggiare quando fu ad una distanza
abbastanza
considerevole.
Un movimento veloce, uno scintillio;
scattò rapido in avanti
come una freccia scoccata da un arco, afferrando il biondo per il
vestiario che indossava prima di issarlo da terra, con una forza
maggiore di quanto lui stesso ricordasse. Più
d'un'esclamazione sorpresa si levò intorno a
lui, prima che lo accerchiassero. Qualcuno gli artigliò
persino una spalla nuda, forse nel
tentativo di fargli mollare la presa.
«Sta al tuo
posto, schiavo!»
ringhiò al suo orecchio uno dei vampiri,
strattonandolo
all'indietro; ma il moro lo spintonò via facendo scattare il
braccio
libero, incurante
del dolore che serpeggiò in lui e che si estese dalla spalla
ferita. Si limitò solo a far vagare lo sguardo sui vampiri
che
lo
circondavano, distante. Spalancò maggiormente la bocca
allungando le zanne, poi, come per
provare ad intimorirli. Sembrava quasi incutere un referenziale timore,
in quel momento. Difatti quasi tutti indietreggiarono di poco, senza
però perderlo di
vista.
Roy perse ben presto interesse per loro,
riappuntando
l'attenzione dei suoi occhi d'onice sul volto diafano del vampiro
biondo che, fino a quel momento, non aveva praticamente aperto
bocca. Era solo rimasto ad osservarlo con quelle due perle d'ambra
imperscrutabili.
Edward alzò di poco una mano
come per interrompere la nuova
avanzata
degli altri vampiri, continuando a fissare gli abissi oscuri del moro
prima di stirare le labbra in un sorriso, a metà tra l'amaro
e
il sarcastico.
«Ti
consiglio vivamente di lasciarmi, Roy», gli disse con voce
pacata
e calma, ma quelle parole e quel sorriso ebbero solo l'effetto
contrario. Venne maggiormente issato da terra, quasi ad
osservare il moro
dall'alto. Il ringhio che vibrava nella sua gola si
accentuò, divenendo
assordante.
«Spiegami
che cosa mi sta succedendo!» esclamò in un impeto
violento. «Spiegamelo,
maledizione!»
Lo scosse con forza, quasi volesse costringerlo a parlare. Quando fu
sul punto d'attaccarlo, però, altre mani lo
strattonarono malamente all'indietro, costringendolo stavolta ad
allentare la presa al collo del biondo, che ricadde a terra in
ginocchio.
«Mo
bhràthair!»
lo soccorse subito Alphonse, chinandosi su di lui per
aiutarlo ad alzarsi, ma fu delicatamente allontanato da una mano di
lui, che sembrava un po' respirare a fatica. Si portò
l'altra al
collo, dove si potevano vagamente
scorgere i segni d'ustioni. Il corpo lo sentiva riarso,
inaridito. Gli occhi, divenuti parzialmente scuri, si appuntarono prima
sul volto
preoccupato del fratello che osservava la pelle della sua gola, poi su
quello del moro, preso di mira dagli altri vampiri
lì presenti.
Quello che accade poi fu confuso. Tra
loro e Roy iniziò una battaglia fatta di zanne e
artigli; uno dei vampiri s'avventò in un moto famelico
contro di lui,
riuscendo ad artigliargli la schiena prima di provare a colpirlo anche
al petto, forse nel tentativo di strappargli il cuore. Con
un
balzo felino, però, il moro schivò il colpo,
atterrandolo,
per poi issarlo di peso e scaraventarlo con inaudita forza al di
là
della vasta sala, facendo lo stesso con altri due o tre vampiri,
perfettamente consci che lui fosse in preda ad una furia omicida e
incontrollata. Ringhiò ancora una volta facendo scattare lo
sguardo
dall'altro
lato della sala, nel fugace tentativo di capire in quanti erano
rimasti.
Non perse altro tempo a rifletterci;
fece un salto all'indietro venendo
però colpito ad un fianco prima di avventarsi poi contro la
gola
di uno e
squarciargliela quasi voracemente, sentendo il sangue colargli
abbondantemente lungo il collo. Se lo ripulì con la manica
della camicia leccandoselo poi
via
dalle labbra, tornando rapido all'attacco nel tentativo di prendere di
mira Edward, ancora in ginocchio accanto al fratello minore. Fletté
il corpo spiccando un balzo nella sua direzione, venendo
però
bloccato da un altro vampiro che gli artigliò le spalle. Si
divincolò come poté, colpendolo ad un braccio,
facendo
lo stesso con un altro che si era appena slanciato verso di lui
centrando l'addome, quasi esportandogli gli organi interni per
la
furia dell'attacco. Lanciò un'occhiata al viso di marmo
registrando le punte dei
suoi canini
scintillare per un attimo, prima che scomparisse nuovamente
in quell'Inferno.
Contro
di
lui, s'avventò la donna dagli occhi color rubino, che con
uno
scatto felino gli artigliò il petto, strappandogli un urlo
di
dolore; ma, prima che
potesse terminare la sua opera, vide quegli occhi d'onice dilatarsi
appena per poi
ridursi a due fessure, e Roy fletté il corpo con un
movimento felino e
aggraziato per balzare dall'altro lato della stanza,
accovacciandosi fra una delle arcate del maniero immerso nella
penombra. Gli si lanciò contro afferrandolo per il collo,
gettandolo
nuovamente nel bel mezzo della sala, in balia dei vampiri restanti.
Quello dagli occhi ametista gli strinse le mani attorno alla gola,
inchiodandolo al pavimento. Lo osservò con un sorriso
sardonico
dipinto in volto, pronto
ad azzannarlo.
«Basta
così!»
tuonò una voce e, quasi in simultanea, ogni vampiro si
voltò nella sua direzione, interrompendo per quel breve
attimo
ogni ostilità. Gli occhi di Edward erano ardenti d'ira, e
fulminò con lo
sguardo ognuno dei presenti. Li ammonì a zanne snudate di
non
muovere un muscolo,
avanzando con la sua solita cadenza aggraziata verso il corpo del moro,
riverso a terra. A cavalcioni su di lui, si trovava il vampiro dagli
occhi ametista che
continuava a sibilare ad una spanna dal suo viso, come se si stesse
trattenendo dal morderlo.
«Lascialo, Envy»,
ordinò imperativo Edward, ottenendo però solo un
grugnito sommesso. Assottigliò lo sguardo, continuando ad
avanzare, vedendo il
moro
afferrare i polsi dell'altro per tentare di allontanare le mani dal suo
collo. Stringeva
gli occhi e boccheggiava, ma non per mancanza d'aria. Cercava di
avvicinare il viso a quello del vampiro sopra di
sé, così da poterlo attaccare con le sue zanne e
squarciargli la gola. «Lascialo»,
ripeté con voce più
gutturale. «Non
fartelo ripetere una terza volta».
Forse grazie al tono utilizzato
riuscì a farsi ubbidire,
tanto
che l'Invidia mollò la presa e si rialzò in
piedi,
togliendosi
però la soddisfazione di dare un ultimo calcio tra le
costole del moro riverso a terra prima di allontanarsi. Si
voltò verso il padrone, chinandosi a mezzo busto e
abbassando nel contempo il capo. La mano era abbandonata sul petto,
come al solito.
«Perdoni la
mia irruenza e la mia condotta, Signorino»,
s'affrettò a dire, senza alzare in nessun modo lo sguardo.
«Nella foga
del momento non...»
La frase fu troncata proprio da Edward,
che agitò distratto
una
mano come se la cosa per lui non avesse la minima importanza. Senza
dargli più peso si avvicinò ancor di
più al moro, annaspante e ferito. Il petto mostrava tre
profondi solchi che stavano guarendo con inaudita
lentezza, a differenza di quelli presenti su una spalla e dietro la
schiena. Pressoché illeso a parte qualche macchia di sangue
non suo,
il
viso mostrava una maschera vagamente sofferente e disgustata.
All'avvicinarsi del biondo alzò di poco gli occhi scuri su
di
lui, non avendo però la forza di fronteggiarlo in qualche
modo. Prima che qualcuno potesse aprir bocca si presentò, in
tutta
la
sua maestosità, il vampiro più anziano che, con i
suoi occhi
color
topazio, duri e perfetti come la pietra, sondò con lo
sguardo
ogni anfratto del salone semi distrutto. Inarcò con
scetticismo un biondo sopracciglio qualche
momento
dopo, soffermandosi di poco sul volto del figlio maggiore prima di
spostarsi su quelli degli altri vampiri lì presenti e su
quello
del figlio minore.
«Cos'è
successo qui?» domandò con blanda
curiosità,
vagamente cortese e accondiscendente, come un padre che beccava il
figlio a compiere qualche marachella.
Più d'uno sguardo si
cercò, concentrandosi poi
senza
proferir parola sulla causa di quel disastro: il moro che, incrociati a
fatica gli occhi del più anziano, sgranò per un
motivo a
lui sconosciuto i suoi. Quello sguardo distaccato e freddo, senza che
ne capisse la ragione,
sembrava tormentarlo.
In un primo momento, Roy
cercò di capire la
provenienza della
bizzarra emozione che si era impadronita del suo animo, non trovandola;
ma bastò quello sguardo ad inondarlo d'un profondo
sentimento d'ira nei confronti di quell'antico vampiro. Tutto
ciò che imperversava in lui era vago e confuso, ma fu
necessario per riaccendere l'odio sopito qualche istante prima. Qualcosa,
in quegli occhi, non lo rendeva affatto tranquillo. Si
levò un altro ringhio dalla sua gola mentre cercava di
alzarsi in piedi e di schiarire nel contempo i pensieri. Quelle polle
dorate non lo abbandonarono nemmeno per un attimo,
squadrandolo con quel cipiglio distante e superiore.
«Ci scusi
per il frastuono, mio Signore». La voce d'uno dei vampiri
presenti lo richiamò
alla
realtà, cancellandogli parzialmente quell'insano desiderio
di
vendetta che si era stranamente annidato in lui, mentre ricadeva
all'indietro sul pavimento bagnato e crepato.
«Che non
si ripeta mai più», sentì dire
dall'anziano con
voce quasi soffusa prima che abbassasse le palpebre.
Qualcuno lo issò da terra
come se fosse una piuma, e quasi
avrebbe giurato di sentire il lieve ma possente battito d'un cuore. Dei
passi veloci, uno scalpiccio insistente.
«Dove credi
di portarlo?» Ancora la voce del più antico dei
vampiri, ma in risposta si sentì un breve ringhio.
«Il suo
riposo lo attende». Una risposta sussurrata con voce
spietata, come se stesse
sfidando il suo interlocutore a contraddirlo in qualche modo.
Qualche altro passo risuonò
nel grande salone, due presenze
s'accostarono lottando. «Non
affezionarti troppo a questo
cucciolo, Edward».
Stavolta non ci fu risposta, ma solo il
rumore di stivali sul marmo.
Riecheggiarono contro le pareti di pietra quando l'aria divenne densa e
carica d'umidità, simbolo che erano scesi entrambi nei
sotterranei. Pochi istanti dopo una porta venne aperta con malagrazia,
prima che il corpo del moro venisse adagiato su una morbida
consistenza, forse
apparentemente all'interno d'un feretro o su un materasso.
Alzò debolmente le palpebre, scorgendo la sagoma sfocata del
biondo
accanto a due bare, realizzando solo in un secondo momento che una di
quelle apparteneva a lui. Era tornato al maniero, vero. Come aveva
fatto a dimenticarlo?
Con lentezza, Roy si issò a
sedere, toccandosi i tagli quasi
cicatrizzati sul suo petto, proprio nell'esatto momento il cui Edward
si voltò verso di lui. Si perse in quelle iridi color miele,
cercando di capire cosa fosse
successo. Doveva trovarsi in Chiesa, se ben ricordava. Doveva trovarsi
al villaggio. La testa gli scoppiava. Si portò la mano
insanguinata alla tempia, socchiudendo
nuovamente gli occhi. Sentì subito dopo il peso d'un altro
corpo
sul materasso,
venendo poi sfiorato da dita ghiacciate che parvero in qualche modo
calde. Una strana nostalgia lo colse, e fu quasi inconsciamente che
portò l'altra mano su quella del biondo, stringendola forte.
E
un piccolo sussulto percorse il corpo di quest'ultimo come una scossa
elettrica, quasi non s'aspettasse un simile contatto. Avrebbe tanto
voluto lasciarsi andare a quelle sensazioni umane. Avrebbe voluto
piangere, stringerlo a sé, fare mille altre
cose... ma non fece nulla. Se ne restò solo immobile in
quell'attimo d'etereo passato.
«Io
non dovrei essere qui», sussurrò il vampiro moro,
distraendolo, e appuntò l'attenzione dei suoi occhi su di
lui,
vedendolo ancora con le palpebre semi abbassate. Tremavano appena, come
le livide labbra. Gliele sfiorò gentilmente, il biondo,
sentendo
scaturire da
lui un fremito.
«Non
dovremmo esserci entrambi, mo
dubh [1]»,
mormorò a sua volta senza trattenersi, sentendosi
precipitare
addosso come un macigno la consapevolezza di quei secoli. Non ci faceva
i conti da tanto, ormai. Era strano che si ritrovasse a pensarci
proprio in quel mentre. Ricevette finalmente un'occhiata da quegli
oscuri oblii che
appartenevano al moro. Non irosa come quella che fin'ora gli aveva
rivolto. Ma spaventata, terrorizzata. Proprio come la prima volta.
«Perché
io?» chiese, il vampiro ora sostituito dal prete. «Perché
proprio io?»
Un'altra carezza gli sfiorò
il viso mentre un sospiro
aleggiava fra loro. Le labbra che osservava si sollevarono appena per
dar vita ad un
sorriso. Ma Edward non parlò. Gli scostò solo i
lunghi
capelli
scuri dalla fronte, cingendogli i fianchi con le braccia prima di
poggiare la fronte contro la sua spalla insanguinata sulla quale la
ferita era scomparsa. Inspirò a fondo il suo odore di morte
e
sangue, sentendo lui fare lo stesso. Era quel gesto a portare il nome
d'affetto? Nemmeno se lo ricordava più. Vagamente, forse, ma
non
del tutto. Cos'era però l'altro sentimento che gli stava
straziando
senza ritegno quel misero cuore immortale che possedeva? Rassomigliava
al dolore, alla tristezza, ad un qualcosa di soffocante. Nostalgia,
forse? O semplicemente amore? Dirlo sarebbe stato difficile, per uno
come lui.
Roy inspirò maggiormente
l'odore del moro, inondando a fondo le
narici dell'inebriante e peccaminoso profumo del suo sangue. Si
leccò inconsciamente le labbra, sentendo da parte
dell'altro un gemito. Il dopo fu tutto così sfocato e rapido
che quasi lo colse
alla sprovvista. Pur senza
volerlo davvero, i canini palpitarono e si allungarono,
affondando nel collo del vampiro moro, nella carne sopra l'arteria.
Cominciò a berne il sangue mentre stringeva la mano del moro
tra la sua, che si lasciava sfuggire appena qualche gemito. La strinse
ancor più forte ritrovandosi in ginocchio sul
materasso, il lenzuolo leggero che lo copriva scivolò
via cadendo sul pavimento impolverato.
Alle orecchie di Edward,
giunsero gemiti sempre più crescenti,
mentre continuava a inghiottire e deglutire quel sangue. La
necessità di nutrirsi stava però lentamente
lasciando
posto ad altro, i muscoli dell'addome presero ad attanagliarsi in
spire. Solo quando sentì un altro doloroso gemito
s'allontanò piano, sfiorando quel collo diafano macchiato di
sangue. Era sul punto di leccarlo via quando fu il moro a chinarsi
verso di
lui, facendo guizzare la lingua fra le labbra. Accarezzò con
colpetti
delicati la mascella sporca di sangue, la giugulare, succhiandogli la
pelle come un bambino che si attaccava al seno della madre.
L'espressione di Edward divenne
indecifrabile, a quelle attenzioni.
Persino quando, simile a fuoco vivo sulla sua pelle, le mani marmoree e
delicate dell'altro vampiro cominciarono a prendere in rassegna il suo
corpo non si mosse, inarcando inconsapevolmente la schiena e
abbandonandosi completamente ai suoi tocchi sempre più
insistenti. Troppo
preso da quella novità, nemmeno si accorse che le
zanne
del moro gli stavano mordicchiando piano la pelle del collo,
torturandoglielo con dolce rudezza. Come
due lame acuminate, poi, affondarono nel suo collo facendogli
sgranare gli occhi dorati. Il risucchio insistente che invase la stanza
quasi sembrò
lasciarlo senza fiato. Sempre di più, sempre più
rumoroso, come se il
moro volesse prosciugarlo.
Roy si allontanò da
lui, con il
sangue che rendeva
traslucide le sue labbra livide, scivolando lentamente lungo
il collo. E quando incontrò gli occhi del biondo
capì
ciò che aveva fatto. Un guaito gli sfuggì dalle
labbra tinte di sangue mentre
indietreggiava, impaurito e allarmato, ma Edward lo attirò
nuovamente a sé,
intrappolandolo in una stretta possessiva.
«Continui
a fuggire da ciò che sei, per questo sei tormentato»,
gli sussurrò, pacato ma con la solita cadenza
mielosa. «Basterebbe
affrontare la tua natura per porre fine una volta per tutte alla
sofferenza che senti».
Lui stesso aveva dovuto farlo secoli addietro. Vi era stato costretto.
L'altro cercò di sciogliersi
dalla presa, forse per fuggire
ancora.
«Non ne ho
il coraggio», fu la sua risposta, prima che riuscisse a
liberarsi e si alzasse in piedi. Osservò il biondo con uno
sguardo sofferente, come se
ciò lo facesse star male. Tagliare i ponti con il suo
passato equivaleva tagliare i ponti con
tutto. E, anche se una parte di lui cercava di fare in modo che non
accadesse,
certe volte non poteva assolutamente evitarlo. «Non
forzatemi più di così»,
mormorò ancora,
venendo subito interrotto prima che potesse proferire ancora parola.
«Ti disgusto?»
Una domanda posta a bruciapelo, un argomento totalmente diverso dal
precedente.
Per qualche istante il moro
sbatté le palpebre,
allontanandosi di più. Qualcosa si stava però
agitando in lui, qualcosa che non
capiva. «Dovresti...
sei un vampiro»,
rispose, come se quello spiegasse tutto.
Amaro, però, Edward
sorrise. «Anche
tu», fece ovvio, ma Roy scosse con impeto la testa,
indietreggiando ancora.
«Nay,
io non...»
«...non sai
cosa sei», concluse per lui l'altro con ovvietà.
«Smettila
di confondermi».
Edward rise sonoramente nonostante la
sua risata suonasse
aspra, arida. Come se fosse solo uno scoppio d'ilarità di
circostanza. «Stai
facendo tutto da solo», ribatté, divertito adesso
dall'espressione che si era dipinta sul volto diafano del moro. Il viso
si era contratto in una smorfia mentre si intrecciava le dita
fra i capelli d'ebano.
Roy scosse ancora la testa, come se non
capisse o non se ne capacitasse. «Non dovevo
tornare qui», mormorò, più rivolto a se
stesso che a terzi. «Sarei
dovuto restare al villaggio... Maes doveva uccidermi».
Un'espressione trionfante comparve sul
volto di Edward, a quella
confessione. Si alzò a sua volta, avvicinandosi a passi
felpati. «Ora
capisco», disse, enfatizzando ogni parola. «Sei
il prete, adesso»,
asserì, ricevendo uno sguardo velato e spento.
«Non so di
cosa parli».
«Och, lo
sai
bene, invece», riprese
gorgogliante. «Colui
che cerco è davvero lì... ma sei tu ad
ostacolarlo con la tua presenza e la tua fede».
«Cosa
stai...» Non poté concludere la frase che le
labbra del
vampiro
bloccarono le sue. Sgranando gli occhi tentò di
allontanarsi, ma
gli fu
impedito. Quel bacio divenne ben presto un qualcosa di furente e
passionale, uno
scambio di morsi sanguinosi e zanne acuminate finché,
consumato
in quel lasso di tempo quell'attimo di lussuria, si divisero
guardandosi entrambi negli occhi. Il moro distolse i suoi, sentendo un
qualcosa attanagliargli il petto. Ma l'altro lo costrinse ad alzare il
viso, sorridendogli.
«Non
temere, mo
brèagha dubh [2]».
Un sussurro, il suo, prima che lascivo gli accarezzasse il viso. «Ci
vendicheremo».
ATTO DECIMO. FINE
[1]
Moro (Nero) mio
[ Gaelico scozzese ]
[2] Mio bellissimo
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