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Una gocciolina di sangue
sullo zigomo destro. Una liquida macchia rossa sul volto, come il buco di un
verme su una mela rosata.
L’avevo nascosto con il
trucco, sperando che nessuno si accorgesse che stavo portando il segno
del suo amore sul viso.
Una linea azzurro
chiaro, che si incrocia con un’altra. Più. Positivo. Mi sento una mela marcia.
So che posso
nasconderlo, forse nessuno si accorgerà che Chuck è dentro di me.
“Si è attenuata un po’”
dice Louis puntando il dito sulla linea invisibile del mio viso.
Lo spio da un occhio e
la luce mi acceca. Da LesRévoiresil mare è una strisciolina azzurra
lontana. Il principe e io alloggiamo in una villa situata sul punto più alto
del Principato di Monaco, nei pressi del giardino esotico. E’ qui che passiamo
i nostri giorni, al sole, lontano da occhi indiscreti. Immersi nel verde
acceso, c’è sempre tanta e troppa luce; la vegetazione cresce rigogliosa e
invadente, ci sono fiori, ma anche spine, le foglie sono grasse e lucide. Il
mio cappello di paglia, bianco, traforato e a tesa larga - accessorio
irrinunciabile di ogni beaufille - si rivela inutile. Richiudo gli
occhi e vedo rosso.
“Spero solo che non
rimanga il segno” rispondo fingendomi stizzita. Mi scompongo sulla sdraio senza
darmi pace e mi maledico per non aver acquistato uno di quei cappelli, simili a
dischi volanti, che una modista di Cap d’Ail mi aveva consigliato per assomigliare a
Kate Middleton. Indubbiamente mi avrebbero
riparato meglio dal sole.
“Tutti portano
cicatrici” sospira Louis saggiamente, sorseggiando il suo thè ghiacciato. I cubetti si scontrano appena
producendo uno sfrigolio acquoso. Io increspo le labbra appiccicose di
rossetto: “E’ vero” ammetto, pensando a quella mezza luna che gli segna il
mento. “Come te la sei fatta?” gli domando vaga.
Louis non risponde
subito, forse perché cerca di capire a cosa mi sto riferendo, poi lo sento
sorridere: “Giocando a polo…”
Io tengo gli occhi
ancora chiusi e, anche se non posso vederlo, so che in quel momento la
cicatrice si rimarca ancora di più sul suo volto, come una fossetta. Anche
Chuck porta una cicatrice, non certo sul viso, quello è perfettamente levigato,
se non per qualche ruga che gli dà un aria vissuta e affascinante. La sua è
sempre nascosta e per vederla bisogna slacciargli la camicia. Troppe volte le
mie dita erano scivolate sul quel lieve solco, lì dove la pelle è più chiara e
più liscia. Mi sentivo sempre in colpa, come se gli avessi sparato io. Per
questo spesso mi addormentavo sulla sua pancia, con la mano sopra quel segno,
come per coprirlo: pensavo che non vedendo più quella cicatrice forse avrei
dimenticato; avrei dimenticato Parigi, i suoi occhi pretenziosi, un po’ lucidi,
e quella scatolina nera.
“Et en fin…” stava continuando a raccontare Louis, gesticolando
quasi quanto un italiano “Wills mi ha
disarcionato e sono caduto faccia a terra, ci credi?” conclude ridacchiando.
“Incroyable…!”
esclamo con voce squillante e sciogliendomi in una risata
liberatoria.
Ciò che mi sembra
incredibile è invece come sia facile ridere con Louis. Mi sforzo per tenere gli
occhi aperti e lo vedo sorridere: ha delle deliziose rughette intorno
agli occhi e le labbra sottili contornano un semplice, ma allo stesso tempo
regale, sorriso. E’ così facile essere felice con lui: lo sento ridere e lo
faccio anche io, automaticamente. Spesso non ascolto una parola dei suoi
racconti, ma credo di non aver mai riso così tanto in tutta la mia vita. Che
importa se rido per finta?
Scossa ancora dalle risate,
la mia mano destra si dirige sulla pancia, è un gesto naturale che faccio senza
pensare. Dopo qualche attimo Louis unisce anche la sua, appoggiandola
delicatamente. Mi incupisco subito e guardo le nostre mani a contatto: quella
di Louis è leggermente più grande e più bronzea. Un quadro perfetto, se non
fosse che mi sento gelosa: gelosa di una parte che è solo mia e che lui non può
toccare. Anche se mi sono sempre piaciute le sue mani, con quelle unghie
perfettamente curate, mi sembrano estranee. Le mani di Chuck mi sono ben più
familiari, sono più grandi e dalla presa più vigorosa… lo
so bene perché è davvero difficile dimenticarsi di come reagivo al suo tocco:
anche quando non avevo freddo le sue dita bruciavano sulla mia pelle.
“J'ai faitquelquechose de mal?” mi chiede subito Louis, stupito dalla
mia ritrosia. Ormai so che il principe usa il francese quando qualcosa non va,
anche se in generale qualche parola gli scappa sempre. Fa parte del suo
fascino.
“No… certo
che no” mi affretto a dire, portando la mia mano sinistra - ancora vestita di
quel pesante diamante - sulla sua.
Cerco di sorridergli
rassicurante, ma lui non mi sembra convinto. Nei suoi occhi verdi macchiati di
grigio c’è un’ombra. E’ sospettoso e, inevitabilmente, un’espressione di amarezza
mi si dipinge sul volto: quando lo deludo mi è davvero difficile nascondermi
dietro a un sorriso. E’ come se facessi un dispiacere a me stessa, ci tengo
molto che la nostra relazione funzioni. Lui è la persona che ho sempre sognato
di incontrare.
Poi il rumore di un
elicottero in avvicinamento ci fa alzare lo sguardo al cielo.
“Paparazzi” sentenzia
Louis balzando in piedi seccato e appoggiando il bicchiere sul tavolo da
giardino.
Mi riparo la vista con
la mano, mentre il velivolo si fa sempre più vicino. I miei occhi si stringono
cercando di identificare la sagoma di un uomo.
“Copriti” mi intima
infastidito passandomi il prendisole. Io ubbidisco silenziosa, mentre liscio le
pieghe di sangallo sotto le dita e l’elicottero continua a ronzarci fastidioso sopra
la testa.
“Torniamo a La Rocher…” aggiunge porgendomi la mano perché mi alzi
dalla sdraio “Torniamo a Monaco-Ville. Non ha senso stare qui. Non
siamo adeguatamente protetti e ci fotografano lo stesso…”.
Nella sua voce c’è rassegnazione, un lieve disappunto e uno sbuffo contenuto
gli gonfia le guance.
Avevo da sempre amato i
paparazzi, forse proprio perché raramente guadagnavo la loro attenzione; mentre
ora, questo essere seguita e fotografata continuamente, cominciava a pesarmi. A
Manhattan i loro flash abbaglianti e fulminei si univano alle luci colorate
della città e, nei miei ricordi, illuminavano di bagliori intermittenti
l’invidiato volto di Serena e qualche volta anche il mio, se ero in sua
compagnia. Alla prémiere di Fleur mi
era capitato di essere fotografata da sola, ma quella fu l’unica volta: mi
avevano fermato dando per scontato che fossi Blair Waldorf e
con immenso orgoglio avevo detto che sì, ero proprio io. Con il
principe le occasioni si erano moltiplicate, ormai ero abituata a vedere il mio
viso sulla carta patinata delle riviste: la mia pelle bianca diventava quasi
trasparente e gli occhi solo due luci indistinte.
Era impossibile toccarla
o sentire la sua voce, era quasi proibito vederla.
Nathaniel mi portava sempre via i giornali, pensando di riuscire a sequestrarli
prima che potessi vederli. Si sbagliava. I miei occhi correvano rapidissimi
sulla carta lucida, riconoscevo subito quel visetto roseo e il profilo del suo
principe incolore. Blair aveva sempre voluto splendere, “come i capelli di
Serena al sole” era solita dire da bambina, ma poi crescendo cominciò a non
bastarle più: voleva essere una regina.
Mi era capitato spesso
di assistere alla sua auto incoronazione giornaliera: con le mani affusolate si
posava il cerchietto tra i boccoli. Un rituale preciso, ma delicato, che
iniziava con un’occhiata critica allo specchio e finiva con un sorrisetto
compiaciuto. Sapevo che quel semplice accessorio per capelli era il simbolo del
suo potere e della sua perfezione, sapevo che non si sarebbe fermata finché non
avrebbe avuto tutto quello che desiderava, anche ciò che apparentemente non
sarebbe mai potuto essere suo. Questa smania di essere sempre al centro
dell’attenzione la obbligava però a un comportamento rigido e controllato, che
io riuscivo trovare seducente. Anzi, era uno degli aspetti che più mi attraeva:
amavo vederla arrendersi a me. Dopo il suo primo spogliarello alVictrola, ne seguirono molti altri: Blair si liberava i
boccoli da quella regale costrizione si muoveva in modo così
sensuale da bloccarmi il fiato.
Blair desiderava luce e
splendore, ma non per questo aveva paura del buio. Da piccola aspettava
paziente, nel nero più pesto, che Eleanor e
Harold smettessero di litigare, che Dorota le
portasse la medicina, che Serena si svegliasse, che Nate le facesse unacarezza… Tante volte l’avevo vista camminare per l’Empire a
tentoni, in cerca di una Louboutin smarrita
sotto il letto o della sua biancheria abbandonata tra i cuscini. Delle volte
poi, la trovavo ad aspettarmi nascosta, con le luci spente e vestita di seta
impalpabile, veli traslucidi e disdicevoli pizzi. Quando le chiedevo se non
aveva paura ad attendermi così nell’oscurità, mi rispondeva viziosa: “E perché
dovrei? E poi… non mi vedi forse meglio al
buio?”.
***
Ogni volta che succede
qualcosa che non rientra nei tuoi piani, fai finta che non esiste, ti comporti
come se fossi in questo film sulla tua vita perfetta, quindi devo ricordarti
che l’unica che guarda quel film, sei tu!
Mi annodo alla francese
un foulard bianco e mi posiziono gli occhiali fumé sopra il naso. Allo specchio
mi dico che un test di gravidanza positivo non è sufficiente per essere incinta
e che, se sento di esserlo, è solo perché sono sopraffatta dalla paura che sia
vero. Di notte poi, mi sembra addirittura di sentire il mio cuore battere
doppio, un’inquietudine che mi coglie quando le braccia di Louis allentano la
presa e si addormentano deboli intorno al mio corpo. Mi sistemo maniacale i
capelli che ricadono ondosi su un lato del viso, cercando di combattere la
tentazione di alzarmi la camicetta per controllare che il mio ventre sia ancora
perfettamente piatto; ma poi non resisto e, nervosamente, con il cuore che
batte all’impazzata, slaccio i bottoni di perla. Nessun cambiamento e nessun
gonfiore anomalo: non posso fare a meno però di accarezzarmi la pancia
teneramente, ricordandomi di quella volta che avevo fatto lo stesso gesto
insieme Chuck, con la sua mano forte sopra la mia. Il mio sguardo allo specchio
si indurisce e mi rimprovero subito: è solo suggestione. Io non sono
incinta. Io ordino a me stessa di non essere incinta.
Quando esco dalla villa
dei Grimaldi, le mie valigie sono già state caricate su un camioncino bianco
gesso. In mano ho solo una pochette e un vestito brillante di Jenny Packham, avvolto nel chelopane,
appena stirato da una delle domestiche. Louis mi attende appoggiato alla sua Rover
P61: una macchina d’epoca color spuma di mare con il telaio
senza capote, di cui è molto orgoglioso. Indossa dei semplici jeans e una polo
chiara con lo stemma dei reali. Non sono affatto stupita dell’assenza di un
autista, so che il principe è progressista e indipendente, insomma gli piace
guidare: durante il nostro primo appuntamento mi aveva anche costretta a sedere
davanti, per la prima volta nella mia intera vita. Esperienza che avevo
ripetuto con Humphrey e che ormai ero abituata a vivere da quando Louis e io
eravamo arrivati a Monaco. Così sorrido radiosa, adagio il vestito sui sedili
posteriori e prendo posto a bordo con estrema naturalezza.
Nonostante abbia le
sembianze di una caffettiera vintage, il rombo dell’auto è incoraggiante: sento
che raggiunge una discreta velocità, tanto che il foulard si allenta sopra la
mia chioma, gli alberi fioriti passano veloci e la musica dell’autoradio si
perde nel vento.
... Mesjourscommemesnuits... Sont en tous points pareils... Sans joies et pleinsd'ennuis... Quanddonc pour moibrillera le soleil?-
... I miei giorni come le
mie notti ... Sono tutte simili ... Senza gioie e
piene di guai ... Quando splenderà per me il sole?2
Louis canticchia e
distoglie lo sguardo dalla strada per guardami incantato. Il suo sguardo
sognante è l’ultima cosa che vedo. Poi, in un attimo, tutto diventa buio.
NOTE:
1.La Rover P6 è
la stessa macchina con la quale Grace Kelly ha avuto l’incidente che l’ha
uccisa
2.Sono i versi della
canzone di FrançoiseHardy, Tout lesgarçons e lesfilles.
***
Volevo ringraziare tutti i lettori che
stanno seguendo la fic e che hanno
recensito <3 questo capitolo è stato un po’ breve e di passaggio, nel
prossimo – che è anche quello conclusivo – capiterà qualcosa di più.
Quando mi sveglio,
vuota e dolorante, sento lo sguardo fermo di Louis addosso. E’ seduto al mio
capezzale: ha un braccio fasciato e il viso graffiato, si regge una tempia con il
dito e tiene le gambe virilmente accavallate. Non mi stringe la mano e non mi
sorride. Sento un delicato profumo di fiori: mi guardo attorno e sono
circondata da boccioli rosa. Devo essere in un ospedale, pubblico, deduco in
fretta dagli arredi semplici e modesti. Faccio per sedermi meglio sul letto e
la farfallina della flebo mi provoca un dolore acuto al braccio sinistro. Mi
guardo il dorso della mano: si alza molle e cadaverico. Ho la manicure rovinata
e l’unghia dell’indice è rotta in un angolino. Sull’anulare nessun anello, solo
un segno circolare.
“Stai bene” constata
lui monocorde.
“Credo di sì” rispondo
schiarendomi la voce. “O forse no…” mormoro dopo
qualche attimo, vedendo l’espressione grave di Louis e sentendomi
incredibilmente tesa.
“Sapevi di essere
incinta?” mi chiede retoricamente.
Poi, senza aspettare
che io risponda, continua con un sorrisetto amaro: “Non so neanche perché te lo
sto chiedendo… Non ha alcuna importanza in verità, visto
che so per certo che non è mio. Che non era
mio” si corregge.
Deglutisco rumorosamente,
incapace di rispondere. Non riesco a credere a ciò che ho fatto a Chuck. O che
ho fatto a me stessa: l’ho perso. Non ho mai pensato di non volerlo, solo che
non ci fosse. E adesso non c’è più. Non ho mai voluto rinnegare il mio amore,
ho solo fatto finta di non provarlo. Le favole uccidono, ora lo so.
“Tra me e Charles Bass non
c’è grande amore” riprende a parlare il principe in tono asciutto “ma credo che
meriti di saperlo”8 conclude alzandosi dalla poltrona di pelle
marrone.
“Louis!” lo chiamo con
voce strozzata. Non ho nulla da dirgli, ma ho il terrore di stare sola. Il
vuoto che già sento dentro è capace di risucchiarmi, come un buco nero.
Lui si ferma poco prima
della porta grigia e si volta piano. Mi rivolge una lunga occhiata triste e
delusa, poi il suo sguardo si addolcisce appena, ma la sua voce è tagliente: “Credevo
fosse destino, ma non lo è9. Torna a New York, Blair. Tu n'estpas labienvenue ici”.
***
L’avevo lasciata andare
perché avevo bisogno che fosse felice.
Fino all’ultimo avevo
sperato che sarei riuscito a darle quella gioia e quella spensieratezza che la
faceva splendere come il diamante che le avevo comprato. Certe volte mi
sembrava così bella e solare, in mia compagnia, che pensavo di avercela fatta
davvero. La mia esperienza però mi diceva che Blair poteva essere ancora più
radiosa e che poteva esserlo tutti i giorni. Bastava che la mia ombra si
levasse dal suo viso e che il mio amore non le tormentasse il cuore.
Avevo capito tutto
mentre l’odore di gas mi stordiva la mente: Blair aveva detto che l’avevo
sempre considerata come qualcosa di mia proprietà e non come qualcosa che mi
ero guadagnato. La sua voce era attutita da una porta chiusa, rotta e dolorante,
come se qualcuno la stesse facendo a pezzi. Non potevo permettere che la sua
agonia continuasse… Dovevo lasciarla libera.
Io ero nato ricco:
tutto era mio, non mi ero mai dovuto guadagnare nulla. C’era sempre qualcuno
che mi aiutava a mettere la giacca prima di uscire e qualcuno che, provocante,
me la toglieva prima di coricarmi. Ogni donna mi concedeva il suo corpo,
sembravano accecate dal desiderio di avermi. Blair stessa non aveva faticato a
farsi scivolare i vestiti di dosso, fu semplice e quel corpo diventò mio. Il
suo cuore non fu altrettanto facile da conquistare, anzi con il senno di poi, realizzai
che era stata l’impresa più ardua di tutta la mia vita e che ancora, sebbene
avessimo passato diverso tempo insieme, non mi era completamente riuscita.
Dapprima il suo cuore
ingenuo e colmo d’affetto era di Harold, stravedeva per suo padre; poi di Nate,
il ragazzo più simile ad un principe che l’UES potesse offrire e poi l’aveva
dato a me: quando non me lo meritavo, nel più oscuro dei miei umori e sopraffatto
dai fantasmi del passato. Mi ero trovato quell’organo pulsante in mano senza
sapere come gestirlo, senza riuscire a tenerlo al sicuro, perché con me non lo sarebbe mai stata. Ciò che era successo con RusselThorpe ne era una prova.
Il principe era
indubbiamente più adatto al compito: non importava che provenisse da un principato più piccolo di Manhattan,
come mi aveva detto – deridendomi - lo zio Jack. Louis sapeva farsi amare e
sembrava non fosse capace di ferirla. Aveva il titolo, la pacatezza e la giusta
dose di fascino; conosceva i suoi gusti e l’anello che le aveva regalato -
pallida e malsana imitazione del mio - lo dimostrava. In più piaceva alla sua
famiglia: Eleanor non aveva perso l’occasione di
chiamarmi grosso lupo cattivo e di
intimarmi di lasciarla andare.
Così avevo fatto e non
ero pentito. Nei miei sogni però la vedevo tornare: l’avrei perdonata subito e
avrei terminato quella proposta che mi avrebbe reso padrone del suo cuore. Questa
volta per sempre.
***
Quando arrivo a
Brooklyn è quasi mattino ed è molto peggio di come lo ricordassi. Il cielo è
tinto di porpora e di striature nere, non manca molto all’alba. Il Charles Place si erige in tutto il suo splendore: le macerie non ci
sono più. Tutto è diverso da quel giorno in cui avevo raggiunto Chuck per
metterlo in guarda su Jack. L’hotel è talmente imponente che non riesco a
vederne la fine, si confonde con il cielo. Quando entro nella hall cerco di sgattaiolare nel primo
ascensore senza che nessuno mi veda, non voglio farmi annunciare.
Mentre salgo, il
terrore che Chuck possa non essere solo, mi fa rimpiangere di non aver
telefonato e di non aver avvisato nessuno del mio arrivo. Fortunatamente quella
notte non avevo trovato paparazzi a JFK, probabilmente un ultimo regalo di
Louis: doveva essere stato così gentile da non divulgare la notizia della mia
partenza. Dopotutto rimaneva sempre un principe, la diplomazia era una delle
sue più grandi qualità. Tutti credono quindi che sia ancora ricoverata al CentreHôpitalier Princesse Grace, sicuramente anche Chuck.
Mi aspetto di trovarlo
a letto, fasciato dalla seta scura, con i capelli arruffati sul cuscino, le
palpebre chiuse che tremano appena e un’espressione dannata e innocente. Mi
sarei infilata nel suo letto e avrei cercato conforto tra le sue braccia pesanti.
Quando un elegante
suono annuncia l’arrivo al piano, le porte scorrevoli si aprono sulla suite: vedo subito che è molto diversa
da quella dell’Empire, ma vengo colta
anche da un grande sollievo… E’ qui che abita il mio
cuore.
Con mia grande sorpresa
Chuck non sta dormendo, ma è davanti a me: è sveglio e perfettamente vestito,
come se fossero le undici del mattino. Noto subito che non porta la cravatta,
né un farfallino, i primi bottoni della camicia glicine sono slacciati, indossa
dei pantaloni color cipria ed è precisamente sbarbato. Posso quasi sentire la
morbidezza delle sue guance e del suo collo.
Si tratta di lavoro: sta
ricurvo sui fogli bianchi, appoggiato con i gomiti al tavolo di cristallo,
tamburellando le dita concentrato. Quando alza lo sguardo me lo punta addosso
come una pistola, sembra che sappia che cosa ho fatto, di quale imperdonabile
delitto mi sono macchiata; come quella volta in cui avevo scoppiato il nostro
palloncino rosso, senza pietà alcuna - Chi
mai potrebbe amarmi per come sono? Come potrebbe volermi ancora dopo che ho
ucciso una parte di noi?
Ovviamente Chuck non
può sapere nulla di quello che è successo. Dall’incidente non ho riportato
nessuna lesione, non ci sono graffi, né cicatrici, né lividi. Nulla di
visibile. Vorrei invece portare un marchio, come se non mi importasse più della
mia bellezza… vorrei che qualcosa mi obbligasse a
confessare, che non mi permettesse di ingannarlo. Invece non ho nulla, se non
il mio pallore, le lacrime agli occhi, una Balenciaga scura e i vestiti neri
di Dior. Un lutto personale e
discreto. Un segreto che non avrò il coraggio di condividere mai con nessuno.
Mi sento ancora in
forze, anche se non ricordo l’ultima volta che ho ingerito qualcosa o
semplicemente dormito per qualche ora, così - stoica - rimango ferma davanti a
lui, in equilibrio sui miei tacchi. Chuck stenta a riconoscermi, la mia vista
lo paralizza e vedo la penna dorata scivolargli via dalle dita. Vorrei dire qualcosa,
che sono io, sono Blair… ma non ho voce. Sono muta.
Un’insostenibile leggerezza mi abita dentro e una marea di spilli mi pungono la
gola.
Chuck si muove per
venirmi vicino, accarezzando il tavolo. Quando mi è davanti, sento il suo
respiro caldo sul viso. Mi prende la mano sinistra senza guardarla. So perché
lo fa: ha paura di vedere quella luce impura e giallastra; ma non c’è più
nessuna luce. Solo nero.
Fa passare il pollice
sul mio anulare premendo un pochino: si assicura che è nudo e poi si concede di
guardarlo. Un improvviso moto di gioia e sollievo lo fa sorridere e respirare
con più affanno, mi bacia il dorso con foga e devozione: è felice, come mai lo
è stato.
“Sei viva” soffia
contento avvicinandosi alle mie labbra, come se avesse fatto solo in quel
momento la grande scoperta. “Non hai idea” continua “dello spavento che mi hai
fatto prendere”.
“Non sono viva” riesco
a dire in un sussurro. La mia voce trema, come se avessi confessato tutto.
“E’ solo il jetlag” minimizza conducendomi sul morbido divano color
crema.
L’imbottitura accoglie
il mio corpo inerte e stanco, Chuck mi circonda in un abbraccio possessivo e mi
culla, tenendomi sulle gambe. Appoggio la fronte sulla sua bocca e guardo attraverso
le enormi finestre della suite. E’ormai
giorno e una flebile luce mi colpisce gli occhi. Il cielo è terso e color
pesca.
“Non lasciarmi più
andare” lo supplico.
Chuck non risponde, ma
lo sento gongolare mentre mi riempie la fronte, il viso e il collo di baci
umidi. Mi aggrappo alla sua camicia inamidata, mentre quelle mani esperte mi
scorrono addosso. Provo a chiudere gli occhi per abbandonarmi a lui, immersa
nel suo odore, sbottonandogli i bottoncini chiari, cercando di dimenticare la
luce, ma non è sufficiente: continuo a vedere il chiarore della stanza anche da
sotto le palpebre.
“Vorrei…”
comincio.
“Tutto quello che vuoi”
mi concede protettivo. La sua voce è ruvida e roca, con una sfumatura amorevole
e dolce.
“… che fosse buio” dico
fugace, evitando i suoi occhi che brillano adoranti, come una bugiarda senza
talento.
Chuck prende un piccolo
telecomando e i pannelli scuri si abbassano gradualmente sulle vetrate. Il nero
si impadronisce piano piano di ogni cosa, anche il suo
amato volto si oscura e solo delle ombre confuse mi permettono di vederlo.
“La cosa più brutta che
possa mai fare… “ gli sussurro respirando affannosamente,
sentendomi mancare, come se cominciassi a raccontargli ciò che è successo.
“…il
pensiero più oscuro che tu possa mai avere” la sua voce completa la frase senza
alcuna esitazione.
“Promettimi che mi
starai accanto, qualsiasi cosa accada” gli faccio giurare.
“Te lo prometto” accetta
in tono serio.
Dopo qualche istante
Chuck si alza dal divano lasciandomi sola. Quando torna sono impaziente di
stargli vicino, ma non mi stringe subito a sé come vorrei. Lo sento invece muoversi
furtivo e, nell’ombra, riconosco l’entusiasmo di un bambino. E’ compiaciuto
mentre mi prende la mano sinistra, io non oppongo alcuna resistenza perché può farmi ciò che vuole e qualcosa di
freddo scivola sul mio anulare. E’ il mio anello, lo riconosco. Quel diamante
bianco è assolutamente visibile: anche nell’oscurità i miei occhi arrossati lo
vedono chiaramente. Si posiziona perfettamente sul dito e fa subito breccia nel
mio cuore: è il segno del suo amore eterno, indelebile, che non può guarire in
alcun modo ed è infinitamente più bello di un graffio sul viso.
Le labbra di Chuck si
muovono, mi sta dicendo qualcosa, in tono basso e intimo. C’è un po’ di
imbarazzo in quella voce, come se avesse vergogna ad ascoltarsi. Pronuncia le
parole lentamente e io lo ascolto con la bocca appena aperta e gli occhi bagnati.
***
Note
dell’autrice:
Prima di tutto un grazie a tutti i lettori. La
storia è conclusa per il momento, mi rendo conto che il finale è molto aperto e
lascia a diversi interrogativi. Sto infatti pensando ad un seguito (in realtà
ne ho già scritta una parte ma non sono sicura che riuscirò a portarla a
termine). Se siete indecisi se recensire o meno questa storia vi pregherei
invece di farlo, anche se leggerete la fic tra
qualche settimana o qualche mese, a me fa davvero piacere ricevere un commento,
anche breve… Passo spesso da EFP, quindi sicuramente
vi risponderò <3
Come promesso eccovi il
sequel di The Beauty Mark. Ho scritto
altre tre parti (per un totale di sei capitoli) e un epilogo a conclusione di
tutto. Vi anticipo già i personaggi che saranno presenti per tutto il corso
della narrazione: Blair Waldorf, Chuck Bass, Louis Grimaldi, Dan Humphrey e
Andrew Tyler. Nominati: Serena Van DerWoodsen, Bart Bass, Lily Humphrey e la principessa Sophie.
Il rating è sempre
giallo e il pov è sempre alternato, ma al contrario
delle prime tre parti questa volta il punto di vista che ho usato di più è
quello di Chuck. Ero veramente indecisa se continuare questa fic o meno, il timore è quello di rovinarla. Spero mi
direte con onestà cosa ne pensate, io sono qui ♥
The Beauty Mark
Part. IV
Blair dorme a pancia
sotto.
Le lenzuola sembrano
avvolgerla come il bozzolo di un baco da seta: la mano sinistra penzola giù dal
letto e l’indice sfiora quasi il tappeto. Io la guardo appoggiato con la spalla
allo stipite della porta. Sono tre giorni che lei è qui e non ha sorriso
neanche una volta, se non con un impercettibile alzarsi degli angoli della bocca.
Ha quell’espressione tenera e dolce, tipica delle persone che si sono ammansite
a causa di un grosso trauma. Sembra che sia sopravvissuta a qualcosa, forse
quell’incidente d’auto l’aveva davvero scossa, seppur non sia rimasta
fisicamente ferita. Avevo ispezionato il suo corpo molte volte, di nascosto nella
penombra, ed era perfetta, anche più bella di come la ricordassi. Guardarla
mentre facevamo l’amore mi confortava: potevo vedere i boccoli scuri riversarsi
sui cuscini, le sue labbra dischiudersi in una smorfia estasiata e i suoi denti
perlacei brillare nel buio. Solo in quei momenti potevo illudermi di scorgere
quel sorriso che tanto desideravo vedere.
Blair aveva accettato
l’anello, potevo vederlo anche ora luccicare sul suo dito, e aveva detto sì -
migliaia di sì - in quei pochi giorni. Sembrava però così spenta, come se qualcuno
l’avesse svuotata dall’interno e privata di qualsiasi capacità di manifestare
gioia o entusiasmo. Allo stesso modo non si era mai lasciata andare a un pianto
liberatorio, se non la sera stessa in cui era tornata da me e le avevo fatto la
proposta. Blair di giorno era così rigida, sembrava che le emozioni le si fossero
inceppate da qualche parte dentro di lei. Era come se non si fosse mai ripresa
dal jet-lag: dormiva, rifiutava i cibi salati, si
aggirava per la suite in una vestaglia scura svolazzante. Mi aspettavo che
cominciasse subito i preparativi del matrimonio, del nostro matrimonio, magari sguinzagliando le minions per tutta Manhattan,
passando le ore al telefono con Serena; invece non faceva che shopping per me,
mi comprava farfallini e biancheria a colori pastello. Non meritavo un sorriso
neanche quando rincasavo, ma non per questo la sua accoglienza era fredda, anzi
la vedevo venirmi incontro ad annusarmi il collo.
“Possiamo parlare”
usavo dirle, mentre le sue forme mi aderivano addosso.
“O non parlare”
mormorava lentamente con voce mielata, mentre i suoi occhi, che evitavano
sempre accuratamente i miei, erano gonfi e lucidi. Ero quasi certo che
piangesse spesso, ma mai in mia presenza.
Blair non è felice
insieme a me.
Il suo primo sorriso
arriva dopo cinque giorni. Sono quasi le otto della sera quando mi slaccio il Breguet per appoggiarlo
nello svuota tasche del salotto, pensando a cosa ordinare dal servizio in camera.
Blair spunta dalla nostra stanza con addosso un tubino avorio che le sfiora le
ginocchia, ai piedi porta delle Vivier scarlatte. Non posso fare a meno di pensare che avrei
dovuto costringerla a fare shopping da Saks: ha bisogno di nuove Louboutin, non sopporto di
vederle addosso ancora quelle calzature francesi.
Blair sorride, mi mostra
gli incisivi arrotondati e immediatamente la gola mi si secca. Non eravamo d’accordo
per cenare fuori, così la fisso impassibile, mentre lei si tortura le mani: “Louis… è in città” dice cauta.
Mi sembra completamente
inconsapevole di quanto questa notizia mi faccia dolere il petto, quindi giro
la testa dall’altra parte nauseato e chiudo gli occhi, non voglio vedere ancora
quel lieve sorriso e quello sguardo sollevato. Mi sembra frema dalla voglia di
incontrarlo e sono inorridito al pensiero che lui possa compiacersi di averla
convinta ad accettare un appuntamento, che possa aver pensato anche solo per un
attimo di potersela riprendere.
"Posso…?” mi chiede con voce insicura, come se avesse paura di
una mia reazione violenta.
“Vai” la interrompo a
labbra strette, trattenendo qualsiasi altra emozione.
Non la guardo girarsi,
né camminare verso l’ascensore: sento solo il rumore dei suoi passi e il
fruscio della borsa contro il suo vestito. Fa troppo male vederla andare via.
***
Quel pomeriggio Louis
aveva chiamato. Avevo risposto con un filo di voce, perché avevo paura di ciò
che poteva dirmi. Non avevo ancora avuto il coraggio di parlare con Chuck e il
pensiero che qualcun'altro potesse farlo prima di me mi faceva tremare. La voce
del principe era però così pacata e comprensiva…
Sarei stata libera di sentirmi triste, di non sorridere, di non parlare e di
potermi accarezzare il ventre con nostalgia. Lui avrebbe capito.
Quando entro al Petrossian un
chiacchiericcio indistinto mi arriva alle orecchie: nella sala luminosissima i
tavoli sono tutti pieni, mi basta uno sguardo per riconoscere subito la nuca di
Louis. Mentre mi avvicino, mi scopro incredibilmente tesa, l’illusione di
leggerezza provata poco prima svanisce in un istante e lascia il posto ad un
terribile senso di colpa.
Appena il principe mi
vede si alza in piedi, mormora un saluto francese e mi dà un bacio solenne
sulla guancia sfiorandomi il braccio. Prima di risedersi, con un gesto gentile,
mi fa accomodare su una sedia imbottita dal profilo barocco. Deglutisco
rumorosamente tenendo le mani giunte in grembo sotto la tovaglia, non voglio
che capisca che ho accettato la proposta di Chuck a pochi giorni dalla rottura del
nostro fidanzamento. Mi guardo intorno irrequieta temendo che un blast di Gossip Girl documenti la nostra uscita o peggio
che un paparazzo di PageSix ci
immortali allo stesso tavolo; rimpiango di non aver insistito per vederci da Veselka.
Louis non parla, tiene
gli occhi bassi sul tavolo, sembra ascoltare assorto il quartetto d’archi che
si sta esibendo in quel momento a margine del salone. Con il l’indice passa il
contorno del tovagliolo ricamato. “Il se peutque…” comincia grave per interrompersi subito dopo. Alza il
suo verde sguardo su di me: è così intenso che vacillo. Non sembra arrabbiato,
ma solo mortificato. Fa una lunga pausa, poi ricomincia il discorso con tono
deciso “… sono stato duro con te”.
“Continua…”
lo esorto debole per prendere tempo.
“Mi sentivo in colpa…” si porta una mano sulla fronte corrugata “Se
avessimo usato una limousine invece di una macchina d’epoca forse non si
sarebbe guastato il motore e forse non saremo sbandati…”
sorride fragile dell'amara ironia appena pronunciata e poi cerca di continuare,
ma io gli impedisco di andare oltre: “Forse” convengo laconica.
Un cameriere di porta
al tavolo tartine al caviale nero su piatti azzurrati, foie gras tagliato a fette triangolari e
delle madeleinettecon i ribes. Il
silenzio incombe pesante e mi rifiuto di guardare il principe.Dopo qualche istante però mi ordina: “Blair regarde-moi…”
Io lo accontento e lui
continua a scusarsi: “Sono veramente dispiaciuto… ma
se solo tu me lo avessi detto! Perché non l’hai fatto?! Avevi promesso che mi
avresti mostrato ogni lato di te… E’ stata quella
sera vero? Quella in cui hai tardato tanto…”
Velocemente afferro una
madeleinette
e me la porto alla bocca, eludendo le sue insinuazioni. E così che le rivedo,
tutte insieme, le luci del Bar Mitzvah, colorate di
mille riflessi fucsia e gialli. Sento la musica incalzante nei timpani e la
stanza gira per sette volte. Vedo lo sguardo di Chuck pieno di entusiasmo e di desiderio,
il suo sorriso aperto e gioioso, la sua mano fasciata che batte contro l’altra.
Provo una leggera vertigine mentre il pavimento si fa sempre più lontano e mi
sento salire verso l’alto. La luce mi acceca e rido senza motivo, sono felice
mentre Chuck risponde ai miei baci. Sento di nuovo quella leggera trepidazione,
mista a eccitazione e completa mancanza di coscienza.
E' in quel delirio che
si insinua la voce del principe. Louis pronuncia quel nome, lo stesso che
avrebbe avuto il mio bambino se mai fosse nato: “Bass...” lo nomina quasi con
sdegno “non ha perso tempo” constata aspro, riferendosi indubbiamente al mio
anello. “Perché credi che te l’abbia chiesto così in fretta?” continua alzando
lievemente il tono di voce “Adesso che non porti più suo figlio in grembo non
hai più scuse per stare con lui…”
Rimango senza fiato
perché il principe dà per scontato che Chuck sappia tutto, crede anche che io
sia molto migliore di ciò che sono. Errore che Louis continua a fare, che ha
sempre fatto, dandomi innumerevoli deuxième chance. Sono
certa che invece Chuck mi odierebbe per quello che ho fatto a lui e al nostro
bambino, se sapesse tutto non mi avrebbe fatto nessuna proposta. Louis non conosce
minimamente i suoi umori neri, né i miei. Non conosce il buio.
“Blair, capisco che la
gravidanza e la perdita del bambino possano averti confuso le idee, ma sei
partita con me, è con me che vuoi stare, hai scelto me. Non avrei mai dovuto
cacciarti via… se quella notte con Bass è stato un
errore lo puoi riparare, puoi tornare a Monaco…avecmoi”
conclude mettendo la sua mano regale sopra la mia.
Il blast
di Gossip Girl fa vibrare il palmare: Blair è al Petrossiancon il suo principe. Non vedo neanche la luce del mio anello,
Louis l’ha coperto con la mano. I minuti passano mentre aspetto che lei torni,
perché tornerà: è tornata dal vecchio
continente, può tornare anche dalla settima strada. E’ questo che mi
ripeto, anche se i dubbi si addensano in testa come nuvole nere.
La suite diventa sempre più scura, il mio viso sempre più
inespressivo, i gemelli mi stringono i polsi: non si sente un rumore, se non
quello del mio respirare. Mentre mi slaccio la camicia sono quasi stupito del
calmo e regolare battito del mio cuore. Credevo che si fosse già fermato da
tempo, lasciandomi solo ad aspettare.
Una luce flebile arriva
dalla cabina dell’ascensore: è Blair. Non so dire da quanto tempo la sto
attendendo. Mi alzo dalla chaisselongue a fatica: non ho bevuto ma il mio corpo è
pesante e la mia mente è annebbiata dalla gelosia. Guardo la sua mano bianca e
scopro che il mio anello è ancora lì, mi dico che è l’unica cosa che mi deve
importare, ma la gola mi pizzica e non riesco a trattenermi: “C’è qualcosa che
devi dirmi?” esordisco senza neanche un saluto, la voce mi esce roca e
perentoria. Non la riconosco, non è la mia.
La bocca di Blair,
ancora arrossata dall’alone di rossetto, si apre appena: “No” nega.
Mi lecco le labbra e
istintivamente mi accarezzo la mascella avvicinandomi sempre di più, finché non
le sono davanti: “Blair, tu e io non abbiamo segreti”.
Lei deve alzare un po’
il mento per guardarmi negli occhi e vedo l’ombra della mia testa incomberle
sul viso. Le sue ciglia appesantite dal mascara sbattono appena e un rivolo trasparente
le riga le guance. Quella è la prova che Blair sente qualcosa, quasi ne sono
felice. Qualsiasi cosa sia, ho come il sentore che stia per dirmela, così
spontaneamente la mia mano destra le afferra il braccio in modo possessivo,
mentre la sinistra le si insinua dietro la schiena, nell’illusione che possa
sentirsi confortata da quel contatto e possa finalmente parlare.
“Credevo fosse così”
piagnucola scuotendo i boccoli morbidi. Le mie braccia stringono ancora,
mala sento contrarsi e tirarsi indietro
come se volesse sfuggirmi dalle mani. Testardo la attiro a me ancora più
impaziente: “Dimmelo” le ordino senza ammettere repliche.
Non voglio essere
lasciato fuori. Non ho mai voluto. All'inizio amavo i suoi segreti, anche quelli
più piccoli, me la facevano desiderare ancora di più e scoprirli era quasi un
gioco. L’avevo detto anche al principe: Blair
non è nulla senza i suoi segreti e chi aveva a che fare con lei doveva
imparare a conviverci. Io, semplicemente, tenevo il numero dell’investigatore
privato nella selezione rapida della rubrica.
Questa volta però sento
che quel maledetto segreto ci sta dividendo, invece di unirci in un gioco solo
nostro. Quando la guardo negli occhi castani, non vedo niente, se non un guizzo
fulmineo, come se a un tratto avesse avuto un’illuminazione. Blair si divincola
sgusciando via e, in un solo terribile gesto, si toglie il diamante
mettendomelo in mano.
“Mi dispiace Chuck…”
Sono le sue ultime parole,
un pigolio tremante. Blair corre via da me. Di nuovo. Rimango scioccato con
l’anello stretto nel pugno. Non posso credere che me lo abbia restituito
ancora, non così, non in questo modo. Quando apro il palmo vedo solo le linee
rosse date dalla pressione del platino contro la pelle, l’anello sembra aver
perso tutta la sua luce: non mi sono mai sentito cosi ferito.
***
Nella camera azzurra mi
assale un senso di claustrofobia. Solo qualche passo e raggiungo il mio letto
con i cuscini lucidi. Il ritratto di Marie Antoinette
sorride magnanimo al mio fallimento, mentre stringo la coperta tra i pugni e la
seta celeste mi asciuga le lacrime. Mi è bastato far scivolare via la mano
dalla presa di Louis e parlargli con schiettezza, avevo usato il francese
perché capisse bene: “Vouspensezquevousme connaissez” avevo sussurrato “C'estvotreproblème. Ne jamaistomber en amour avec un doublecorps… jamais”1. E
con questo avevo perso la mia corona.
Non c’erano più parti
di me che brillavano, nemmeno l’anello di Chuck. Me l’ero tolto con
disperazione, raccogliendo tutto il coraggio che avevo. Chuck mi aveva donato
luce, non solo attraverso quella promessa e quel luminoso anello, ma con le
attenzioni, la premura e la dolcezza di quei pochi giorni passati insieme. Quando
fuggii dall’ospedale di Monaco, senza neanche attendere che il medico desse la
sua autorizzazione alle mie dimissioni, credevo che sarei tornata dall’unica
persona al mondo a cui avrei potuto confessare tutto. Nessuno più di lui amava
le mie parti in ombra perché era stato il primo e l’unico a vederle davvero,
senza giudicarmi, senza biasimarmi, affascinato e rapito. Al mio ritorno però avevo
trovato un Chuck trasformato: era un uomo assennato e responsabile alla guida
del suo impero ricostruito. Le mie certezze avevano vacillato. Sapeva assaporare
con estrema calma il DomPerignon del
’95, invece di trangugiarlo avidamente; indossava abiti chiari e freschi,
sempre di classe e superba eleganza; il cipiglio oscuro era sparito, il suo
viso era rilassato, il suo tocco era così carezzevole e il suo abbraccio così
consolatorio che quasi mi commuovevano. Tutto questo mi spiazzava e mi faceva
vergognare ancora di più per ciò che avevo fatto.
Non ho mai creduto che
sarebbe stato facile confessargli di aver perso il nostro bambino, di non
averlo voluto e di non averlo amato. Anzi, lo avevo odiato, come avevo odiato
Chuck. Un odio così forte, che non poteva che tramutarsi nel suo profondo contrario. Amavo Chuck, ormai
da molto tempo - anche se non era stato facile accettarlo - ed ora, ancora più
angosciosamente, avevo scoperto di amare il bambino che avevo perso. Il medico
aveva ipotizzato, in un francese fluido tutt’altro che consolatorio, che la mia
gravidanza fosse già a rischio prima che il colpo e lo shock dell’incidente
d’auto la compromettessero definitivamente. “Pénuriesalimentairesethypovitaminose” aveva detto severo, dopo
avermi pesato e aver controllato gli esami. Io l’avevo guardato con gli occhi
persi e le braccia stanche, incapace di sostenere il suo sguardo. Mi sentivo le
mani sporche di sangue: al sole di Monaco avevo costretto il mio corpo a non
trasformarsi, a non sbocciare, a non vivere.
***
Continuo a ripetermi
che Blair non mi sta mentendo, semplicemente ha scelto di non parlare. Dovrei
apprezzarlo. O forse no. Mi ci vuole qualche ora per decidere di appoggiare l’anello
sul tavolino: la mia mano non vuole lasciarlo andare. Sono quasi illuso che
tenendolo stretto nel pugno Blair possa tornare a riprenderselo.
Al sorgere del sole
realizzo che devo agire come d'abitudine: chiamare Andrew Tyler perché faccia
delle ricerche per me. Normalmente quando si tratta di Blair non ho mezze
misure: non mi sono mai fatto alcuno scrupolo perché voglio venire a conoscenza
di ogni piccolo dettaglio. Qualche volta ho anche chiesto che mi venissero
recapitati degli scatti a colori vivi, insieme a quelli standard color seppia. Blair
non merita di essere ritratta senza le sue sfumature: immaginare il rosso delle
sue labbra, il roseo biancore del suo viso o il velluto scuro dei suoi capelli,
non mi è sufficiente, in alcuni momenti ho bisogno di vederli. Anche mio padre
usava servirsi di un investigatore privato e aveva messo in forse persino il
suo matrimonio con Lily pur di non separarsi dai suoi preziosi dossier. Ricordo
che li teneva nascosti in una cassaforte del suo ufficio ed erano rivestiti di pelle
marrone testa di moro. Il giorno dopo la sua morte li avevo presi in mano: erano
morbidi, pesanti e gonfi di segreti.
E’ pomeriggio
inoltrato. La mano di Andrew Tyler fa scivolare una busta color sabbia sul liscio
tavolo di cristallo, ne fermo la corsa con due dita e lo ringrazio con un
tacito segno del capo. Mentre spargo le carte, percepisco la figura
l'investigatore allontanarsi.
"Aspetta" gli
ordino senza alzare lo sguardo dalle fotografie e dai documenti.
Esamino il tutto
velocemente: foto di Blair e di Louis rubate dall'alto, probabilmente da un
elicottero. Mai viste prima. Presumo che il principe le abbia pagate profumatamente
ai paparazzi pur di non farle pubblicare sulle riviste scandalistiche. Tra i
fogli ce n'è uno che cattura subito la mia attenzione: si tratta di un referto
medico della brevissima permanenza di Blair al CentreHôpitalier
Princesse Grace. Sembra non ci sia nulla di
sospetto, così mentre i miei occhi procedono a una lettura verticale e
sommaria, mi porto alle labbra un bicchiere di whiskey. Poi l'ombra del dito di
Andrew Tyler oscura il foglio, batte il polpastrello su una delle tante voci
del documento. E così lo vedo: il segreto di Blair è scritto in rosso, a
piccoli caratteri.
Il bicchiere mi scappa
dalle mani e fa un rumore sordo sulla superficie liscia del tavolo. Il liquido
ambrato scivola fuori e macchia la carta di gocce appiccicose.
"C'è stata una
vittima nell'incidente, la Signorina Waldorf ha subito un..." mi spiega
lui con voce inespressiva.
Lo interrompo prima che
possa aggiungere altro: "Sapeva di essere incita?" chiedo
aggrappandomi a quello che sembra un irrilevante dettaglio.
L'investigatore mi
mette sotto gli occhi una delle fotografie più sgranate: è un particolare di
Blair che prende il sole in giardino, con un adorabile costume bianco, sopra il
suo ventre due mani appoggiate. Incrociate. Legate. Unite. Una è la sua,
l'altra quella del principe. Chiudo gli occhi e la spingo via con un gesto
brusco: lo sapevano.
Note:
1.E’ il verso di una canzone di Charlotte
Gainsbourg “Jamais”, ho tradotto dall’inglese, vi
copio il verso originale: “Youthinkyouknow me, that'syourtrouble.
Neverfall in love with a body double. Jamais” che mi sembra anche più bello, ma ho pensato che
Blair, per persuadere completamente Louis che stava facendo sul serio, dovesse
parlare nella sua lingua xD.
Tra
l’altro, cosa che non ho mai chiarito, “The Beauty Mark” è il titolo di
un’altra canzone della Gainsbourg.
***
Sono piuttosto insicura su questo capitolo. Non sono
convinta di aver prodotto qualcosa di piacevole perché mi rendo conto che
accadono fatti a tratti folli e forse ho esagerato quanto a drammaticità. Mi
farebbe piacere ricevere un feedback onesto, le critiche costruttive sono bene
accette... anche perché il prossimo capitolo temo sarà ancora su questa linea –
lo sto ancora scrivendo – vi assicuro comunque che c’è luce infondo al tunnel e
tutto è bene quel che finisce Chair♥
Quando arrivo all'attico
degli Waldorf è passato qualche giorno, sento la barba del giorno prima
sfregare tagliente sul palmo della mano, mentre aspetto che l'ascensore mi
porti al piano. Sono certo che Louis ha lasciato NYC e, ora che so tutto,
voglio parlarle ancora. Fosse anche l’ultima volta.
Tra le ortensie
dell'atrio scorgo il viso di Blair assopito dal sonno. Il capo è appoggiato a
uno dei cuscini argentati del divano e le braccia sono conserte sotto il seno.
Sembra così bella e indifesa che un'espressione beata si dipinge sul mio viso
per riflesso. Faccio un passo e il sorriso mi si scioglie: Humphrey è seduto
sulla sponda opposta. Con la mano a ventaglio sorregge un libro, la copertina
recita “TooMuchHappiness”1, mentre l'altra è posata sul collo di
uno dei piedi di Blair. Con sgomento mi accorgo di come sono appoggiati
casualmente sulle ginocchia di lui e deglutisco sentendomi inutilmente geloso.
Non riesco a trattenere né la sensazione di possessività che provo nei
confronti di Blair né lo sdegno per Dan. Faccio un altro minaccioso passo e
Humphrey avverte la mia presenza.
Apro la bocca per
sibilare uno sprezzante “Vattene”, ma lui mi zittisce prima che possa dirlo.
Con mio grande disappunto si porta un dito alla bocca: “Ssssh”,
chiude il libro con un solo colpo e, il rumore delle pagine che si scontrano,
fa eco nel salone silenzioso. Poi sposta i piedi di Blair, coperti da una
sottile calza traforata, accoccolandoli da un lato. Lo fa con dedizione, il suo
è un gesto delicato che, ai miei occhi, risulta fin troppo premuroso. Si alza
dal divano, con lo sguardo colpevole e le mani incrociate dietro la schiena.
Balbetta delle scuse che faccio finta di ascoltare: da quando Serena è a LA la loro
bizzarra liaison è sulla bocca di tutti e frulla anche nella mia mente
sospettosa, ma non ho il tempo di occuparmi concretamente di un così
insignificante avversario.
“Ci sono io con lei,
puoi andare” lo liquido fingendo diplomazia. Me lo lascio alle spalle facendo
qualche passo verso Blair ancora addormentata, pensando che Dan capisca
l’antifona e che se ne vada subito. Humphrey, invece, si trattiene ancora: “Le
stavo leggendo un libro…” mi informa. Poi, non
sentendo risposta, aggiunge “… ma poi si è addormentata”. Sorride leggermente
tra se e sé, compiaciuto, ma da me riceve solo uno sguardo arrogante e uno
sbuffo di disinteresse.
Lo vedo andare via, poi
esita e si volta di nuovo: “Blair in questi giorni è stata bene”.
Rimango qualche secondo
a pensare quanto la sua pedante, e assolutamente non richiesta, preoccupazione
per la felicità di Blair mi dia allo stomaco. Odio il modo in cui Dan riesce
sempre a insinuare che io abbia una cattiva influenza su di lei, che sia io -
in qualche modo - la fonte del suo dolore.
Il mio sguardo va solo
per un attimo a Blair addormentata, poi mi rivolto verso di lui deciso a
troncare qualsiasi sua illusione: “Ha sorriso?” gli chiedo in tono di sfida,
sicuro di me. Il buio di Blair era troppo pesto questa volta, ne ero convinto.
“Quasi” tenta, dopo
qualche secondo di esitazione.
“Come pensavo…” rispondo in tono presuntuoso “E ora se non ti dispiace…” lo congedo definitivamente, slacciandomi il
blazer e sedendomi sul divano. Sento le porte dell’ascensore chiudersi e mi
sento libero di sporgermi verso di lei.
Blair è fredda e priva
di sensi. Mi fa quasi paura e mi sembra ancora più lontana, come se non fosse
con me. Non voglio che dorma ancora: mi sembra solo un inutile trucco che la
sottrae alla luce e alla vita. Al suo risveglio il dolore sarà ancora lì. Le
accarezzo una guancia delicatamente con il dorso della mano, chiamando il suo
nome, ma non resisto alla tentazione di massaggiarle il collo, di far scorrere
le dita sul suo petto e sul suo ventre. Mentre l’accarezzo sento un senso di
imbarazzo e di tenerezza, misto a tristezza e a malinconia per quella pancia
così piatta in cui prima si nascondeva qualcosa, o meglio qualcuno. Poi si
sveglia: i suoi occhi sono semi aperti e opachi. Alza un braccio per sfiorarmi
il viso con la mano, le sue dita accarezzano dolcemente il mio profilo. Forse
sente la barba pungerle i polpastrelli e sembra felice di vedermi.
“So tutto” le
dico brevemente continuando a guardare imbambolato il suo bel viso.
Blair apre gli occhi per
davvero, le sue pupille si stringono e sembra mettermi più a fuoco. Devo averla
turbata a morte perché si tira su con la schiena velocemente e allontana le
dita dal mio mento come se l’avessi ustionata.
“Che cosa sai…?” mi chiede senza guardami.
“Il vostro segreto, tuo
e di Louis” dico pacato.
Blair mi guarda aprendo
un po’ la bocca come se fosse sorpresa, sbatte le ciglia piano e, con un
esitante movimento della mano, si ravviva i capelli. Tira un lungo sospiro
prima di esprimersi e le parole le escono a fatica: “Louis l’ha saputo il
giorno dell’incidente, non gliel’ho detto io” fa una pausa e poi mi chiarisce:
“E’ un nostro segreto, mio e tuo” concedendomi anche un
sorriso spezzato, mentre i suoi occhi perdono vivacità. Sembra sciogliersi in
quella confessione.
“Non capisco” sussurro
trasalendo. Non mi ero dato il permesso di riflettere troppo. Per proteggermi
non mi ero lasciato andare a congetture fantasiose, avevo preso in mano le
indagini di Andrew Tyler per ciò che erano. Fatti e certezze.
Blair attende senza dire
altro, sa che avrei capito, mi sarebbe bastato solo un altro secondo.
“Come puoi essere sicura
che fosse mio?” sbotto nel silenzio, distogliendo subito gli occhi dal suo
viso.
Blair comincia a
raccontare debolmente: “Ho fatto il test all’inizio dell’estate, prima di
partire per Monaco, solo qualche ora prima che Louis venisse a prendermi…”
“Questo non prova nulla…!” la interrompo a denti stretti e con voce
tagliente.
“Louis era a Manhattan
solo da sei settimane, non avevamo ancora…”
lascia la frase lievitare nel vuoto. In quel breve attimo, che mi serve per
realizzare il tutto, ricordo la sera in cui Blair era venuta verso di me e
spinto in una stanza del Plaza. La porta, solo
accostata, mi aveva fatto provare un brivido di eccitazione e l’avevo vista
avvicinarsi con lo sguardo basso. Indossava un abito scuro e sinuoso, con
un’esplosione di luce sul petto e uno spruzzo di boccioli e petali rosa. Ignaro
di tutto mi ero lasciato afferrare per la giacca: il diamante torbido che
indossava non le aveva impedito di baciarmi, boccheggiando come se le mancasse
ossigeno. Impossibile allontanarla, o cercare di impedire alle mie mani di
toccarla o di slacciarla il vestito sulla schiena. Il suo profumo mi aveva
stordito facendomi quasi uscire di senno.
“Sei partita sapendo che
aspettavi nostro figlio?” la accuso, urlando quell’assurdità
che mi fa stringere il bordo del blazer. Le vene della mano si gonfiano e il
tessuto pregiato si stropiccia all’istante.
“Ho pensato fosse un
falso positivo, volevo che lo fosse, lo volevo così disperatamente…”
ammette senza nessuna vergogna.
“Cosa pensavi? Che
sarebbe sparito?” continuo a gridare “Complimenti ci sei riuscita, hai ottenuto
ciò che volevi” così dicendo, mi alzo e vado verso l’ascensore senza voltarmi
indietro e senza sapere più chi sono. Non ho una famiglia, non
l’avrò mai. Quelle stesse mie parole tuonano nella mente come un infausto
destino al quale non mi posso sottrarre. Blair aveva detto che sarebbe stata
per sempre la mia famiglia, un ricordo dolce, una promessa a cui avevo creduto
e alla quale mi ero affidato, come un bambino ingenuo.
Lei mi insegue subito
mettendosi davanti a me e impedendomi di passare. Si porta la mano sinistra,
sprovvista del mio anello, sopra la bocca spalancata per l’agitazione: “Ero
sola! Non sapevo cosa fare! La principessa Sophie mi
stava con il fiato sul collo, avevo in mente di andare in una clinica privata
per accertarmene, ma avevo paura di scoprire la verità, di finire sulla bocca
dell’intera corte… non volevo mettere
nessuno in imbarazzo, sarebbe stato uno scandalo… e
poi l’ho perso prima che potessi essere sicura…”
dice tutto ad un fiato gesticolando appena. Poi si ferma e, in quel silenzio
tombale, sembra capire che sono solo inutili scuse e che non ho intenzione di
accettarle.
“Non saresti mai dovuta
partire” soffio categorico, enfatizzando la parola “mai” con un gesto secco.
Vedo Blair al limite
della disperazione: “Appena sarei stata sicura di essere incinta sarei tornata…” dice tra i singhiozzi “Sono tornata” conferma in
tono fermo, per dare valore a ciò che aveva fatto.
Io non riesco ad
ascoltare una parola di più: Blair è tornata, ma è come se non lo fosse.
Sarebbe tornata da me solo per mio figlio, era questo che stava dicendo. Non la
vedo più, né lei né il suo amore per me. Il suo corpo esile, fasciato di un
tessuto color fumo, sparisce dalla mia vista e sento un immediato senso di
benessere. E’ così liberatorio guardare altrove e non mi è difficile superarla
di nuovo, avviandomi a grandi passi verso l’ascensore. Lei però non riesce a
lasciarmi andare, mi prende per la manica della giacca e la sua voce flebile,
ma accusatoria - che le viene dal profondo - mi arriva alle orecchie: “Tu mi
avevi mandata via”.
Mi volto ferito da
quell’affronto, la bocca mi si piega in un’espressione di cocente delusione:
“Ho solo scambiato la mia felicità per la tua, non potevo immaginare che
sarebbe costata la vita di mio figlio”.
Rimango fermo qualche
istante, stordito quanto lei dalle mie parole. Blair sbatte le ciglia
velocemente e le lacrime scendono copiose. Si zittisce e la pressione del suo
pugno sulla mia manica si allenta sconsolato. Sono libero di andarmene, così mi
volto di nuovo e le porte scorrevoli dell’ascensore si chiudono alle mie
spalle.
Note:
1 . “TooMuchHappiness” è un libro
di Alice Munro che ho
trovato nella lista dei preferiti da Dan sul sito della CW.
*
Grazie a tutti i
lettori, anche a quelli silenziosi. Il prossimo capitolo sarà quello
conclusivo, spero davvero di non deludervi. Mi raccomando di farmi sapere cosa
ne pensate dell’aggiornamento, mi fa sempre piacere ricevere un commento, anche
critico, non siate timidi (:
Era stato disonesto da
parte di Blair promettermi la sua felicità in cambio del mio perdono. Riuscii comunque
a tenerla lontana da me per diverso tempo. Temevo che avrebbe potuto
convincermi a cedere solo con uno sguardo o con il tocco leggero della sua
mano, forse anche un’altra sua lacrima sarebbe bastata. L’unica volta che la
incontrai, nell’atrio del Palace, aveva provato ad indurmi in tentazione: mi
aveva sussurrato “Perdonami” annuendo leggermente, come la prima volta che mi
aveva confessato il suo amore, mettendomi una mano sul petto. Mi ci vollero
tutte le mie forze per prendere la sua mano nella mia, tenerla solo per un
istante, farla scivolare via e rimanere impassibile.
I mesi passavano: Manhattan
si tingeva di giallo, migliaia di foglie secche coprivano le strade e io cominciavo
ad avere il presentimento che, tutto quel rancore, facesse più male a me stesso
che a Blair. Mi ero imposto di non sapere troppo, mi bastava la sicurezza che
stesse bene: Serena mi informava regolarmente del loro soggiorno a LA, le avevo
chiesto io di convincere Blair a passare un po’ di tempo al sole della
California. Una volta mi era anche capitato di sentire la sua voce, in una
delle rapide e furtive telefonate che mi faceva Serena, ed ero stato felice di
sentire quel tono dispotico e spazientito di quando ha bisogno di fare shopping.
Mi aveva rincuorato per diversi giorni.
“Charles, non tutte le
donne desiderano i loro bambini…” mi aveva detto Lily
- cosa che sapevo bene essendolo stato io per primo - “ma finiscono sempre per
amarli più di loro stesse” aveva aggiunto con calma e saggezza, in un grigio
pomeriggio, togliendo la sua mano ingioiellata dalla tazza del tè per
appoggiarla sopra la mia. Avevo chiuso gli occhi e atteso che il calore tiepido
della mano di Lily si trasferisse sulla mia. In quel periodo passavo fin troppi
attimi con gli occhi chiusi, creandomi un buio personale ogni volta che ne
avevo bisogno.
In pubblico fingevo
calma e diplomazia, il contegno severo di un uomo oberato di lavoro, ma il mio
animo retrocedeva, diventando sempre più oscuro e ingestibile. Nonostante
questo, gli eccessi non mancavano, ero pur sempre Chuck Bass: trovavo nella
decadenza il divertimento. Occuparmi dell’intrattenimento vintage - del mio
amato Victrola e del Gimlet
- era un palliativo che mi permetteva di non perdere del tutto il contatto con
la realtà. In quei mesi la realtà era sentire, non importava cosa o chi. Usavo
i sensi, non i sentimenti o i ricordi. Erano donne senza volto, le palpebre non
volevano aprirsi e le pupille non volevano vedere. I profumi, mischiati ad
altra pelle, erano un tormento e un inganno. Impossibile non accorgersi della
differenza, impossibile non ricordare chi avevo amato e perché, nonostante il
perdono tardasse ad arrivare.
Credevo che non sarei
mai stato capace di concederglielo perché non sapevo dimenticare. Poi, dopo
tanto tempo, ne ebbi l’occasione.
Quella sera il Gimlet era stato scelto come sponsor di una grandiosa
mostra di Andy Warhol al MoMA. Gli organizzatori del
museo erano rimasti colpiti dall’esclusività dei drink e dall’eccentrica
clientela, che ricordava l’estro del grande artista, e volevano anche assicurarsi
che l’èlite di Manhattan prendesse parte all’evento, quindi scelsero di
affidarsi a me, alle mie conoscenze e al mio gusto.
Nel museo, minimalista
e moderno, i colori esplosi delle serigrafie facevano contrasto con i colori
simbolo del Gimlet; venivano distribuiti bicchieri di
cristallo fumé dal collo sottile e dalla coppa sfasata, contornata da un
brillante filo d’oro, ed era stato richiesto ad alcune ospiti di presentarsi
con una mise dorata. Nell’anonima folla di donne bellissime avevo visto Serena,
spiccare tra le altre, con indosso un abito tutto luce e una cascata di onde
selvagge nei capelli, appuntati da una spilla. La sua presenza non mi agitò,
sapevo che era solita tornare a NYC ogni tanto e conoscevo bene la sua natura
festaiola. Anche le gemelle, che mi avevano accompagnato all’evento, avevano
scelto qualcosa di simile: ero entrato stringendo i loro corpi color oro per la
vita, come avevo sempre usato fare. I flash mi avevano colpito spietati in viso,
erano mitragliatrici di luce che mi provocavano solo dolore, al quale non
potevo che rispondere con il mio solito ghigno accattivante. Nessuno sapeva
quanto mi costava mostrare quell’atteggiamento. Dopo aver stretto centinaia di
mani e ricevuto pacche sulla palla, avevo girovagato solo per i corridoi. Mi
ero perso e poi avevo ritrovato la strada, fermandomi per osservare i volti
tutti uguali di Marilyn, la zona dedicata alla Factory
e quella della Andy Warhol’s Tv; nemmeno la pop art
riusciva a risvegliare il mio sguardo: rimaneva opaco. Poi arrivai alle tende pesanti
dei cinema improvvisati. In realtà erano solo piccole salette di proiezione, ma
una mi colpì alla prima occhiata. Il tendone era di un tessuto chiaro cangiante
e una targhetta recitava “Empire 1964”.
Empire,
come il mio primo hotel. Lo stesso che lei mi aveva spinto a comprare, lo
stesso che mi aveva riconsegnato con le labbra tremanti e la voce rotta. Quella
vicenda mi aveva provato quanto fosse inaffidabile ma - allo stesso tempo - pronta
al sacrificio di sé stessa perché io riavessi ciò che era mio. Mentre
accarezzavo la tenda per scostarla, realizzai quanto la presenza di Blair mi mancasse e quanto fossi
bisognoso di vederla ancora. Superate le onde di tessuto, mi trovai dentro al
buio. Una luce grigia veniva dal fondo e, piano piano,
mentre gli occhi si abituavano all’oscurità, scoprii di non essere solo. C’era
qualcuno.
La fumosa luce del
filmato illuminava una schiena nuda, esile e liscia, coperta solo da un leggero
tessuto verde vivo. Un boccolo scuro sfiorava la spalla. Mi avvicinai cauto,
sperando che non si voltasse: non ero pronto a vedere il suo viso. Non ancora. Mi
sedetti accanto a lei: riconobbi subito la grazia della sua gamba accavallata e
rimasi incantato da come il vestito di chiffon sapeva accarezzarle la coscia
nuda. Al polso portava un bracciale brillante e teneva la mano solitaria
abbandonata in grembo. L’abito si incrociava sul petto in un raffinato scollo.
Quel dettaglio mi deliziò a tal punto da spingermi impaziente a guardarla in
viso.
Un colpo al cuore mi seccò
immediatamente la gola: Blair piangeva guardando una ripresa a telecamera fissa
dell’Empire State Building. Lei decise di voltarsi verso di me, proprio in quel
momento, indovinando i miei sentimenti e distogliendo lo sguardo dallo schermo.
Si fermò a fissarmi così, senza neanche respirare. I suoi occhi erano grandi e
limpidi, nonostante le lacrime scendevano sugli zigomi e sulle labbra
socchiuse. Rimanemmo diversi secondi a guardarci e a riconoscerci in silenzio.
Sul suo viso si proiettavano le imperfezioni della pellicola: schermi di luce,
bolle e righine grigie. I fotogrammi scorrevano lenti e tutti uguali, come il
nostro dolore. L’unica cosa che ci era rimasta. In quegli istanti ebbi paura
che potesse dirmi: “Uccidimi, non voglio più vivere”1, come negli
incubi – in bianco e nero – che mi visitavano ogni notte. Non seppi più
resistere alla tentazione di prenderle la mano e di stringergliela. Le sue dita
si abbandonarono confortate dalla mia presa. Non pensare più a cosa ci era
accaduto sarebbe stato impossibile, ma in quell’attimo il perdono arrivò: era
potente, liberatorio, salvifico. Non aveva nulla a che fare con il dimenticare,
piuttosto con il ricordare, il capire e l’amare.
“Se ci fossimo incontrati
sarebbe stato tutto diverso” ruppi il silenzio, parlando più con me stesso che
con lei e alludendo a quella sera in cui, con delle peonie rosa confetto e un
anello nel taschino interno della giacca, ero salito sul grattacielo più grande
della città solo per lei.
“Ma non lo è” rispose
prontamente con schiettezza e rassegnazione, prima di rivolgere di nuovo gli
occhi allo schermo.
“Blair…
mi credi capace di perdonarti? Sai che lo farò, vero?” le chiesi, stringendole
ancora di più la mano.
“E quando?” volle
sapere lei continuando a guardare l’Empire.
“Ora” sussurrai sicuro,
incapace di attendere un secondo di più per vederla felice.
Le ci volle qualche
attimo per realizzare il significato delle mie parole. Blair si voltò piano, il
suo viso era folgorato dall’emozione, le sue labbra aperte per la sorpresa e la
confusione. La baciai all’istante alzandole il mento con le dita. Lei si appese
con i pugni alla mia camicia bianca, sporgendosi verso di me. Il suo sapore
confortante mi fece sentire bene, bocca nella bocca, sentii un riso salirle
dalla gola. Mi fermai solo un attimo, allontanando il suo viso dal mio, con
entrambe le mani, in modo quasi brutale per guardarla impaziente. Blair non
aveva fatto in tempo ad aprire gli occhi, ma liberate le labbra dal mio bacio, quelle
si distesero subito in un raggiante e aperto sorriso, che le scopriva i denti. Blair
era pienamente felice. In quel momento realizzai che non c’era nient’altro che
poteva renderla più bella: quello era l’unico segno che avrei mai voluto vedere
sul suo viso.
FINE
Note:
1.E’ una quote di “Le Notti di Cabiria” un film di Fellini che nomina Dan parlando con
Chuck nella 4x18.