Amelia amava i treni

di Morea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Peanuts ***
Capitolo 2: *** Sette e Nove ***
Capitolo 3: *** La Busta Gialla ***
Capitolo 4: *** Orchi e Streghe ***
Capitolo 5: *** Occhi ***
Capitolo 6: *** Fragole ***
Capitolo 7: *** Vampiri e Camicie ***



Capitolo 1
*** Peanuts ***


Amelia amava i treni

A
melia amava i treni

§One:  Peanuts

* Uno dei miei regali di compleanno in ritardo.
Lo sai che è per te.




Amelia amava i treni.

Li amava di un amore ignorante, viscerale, ingiustificato: quell'amore che ti rende cieco e felice, sordo e sereno, muto e contento.

Amava affacciarsi alla finestra e vederli passare, uno ogni dieci minuti, a volte ogni mezzora, amava quando faceva buio e le luci dei vagoni si accendevano, illuminando volti, evidenziando movimenti, immortalando sospiri.

E lei lo sapeva chi c'era a bordo. C'era la professoressa coi temi da correggere, c'era lo studente con un esame da preparare, c'erano donne spendaccione con borse griffate sui sedili e negli angusti corridoi, mentre tutti gli altri in cerca di un posto imprecavano loro contro scavalcando con difficoltà bauletti, scarpe e accessori chiusi in scatole grandi e piccole; c'erano avvocati che usavano parole misteriose, c'erano turisti a biascicare suoni gutturali tenendo le cartine a rovescio, c'erano cuochi, commesse, impiegate, dottori e poi c'erano i passeggeri silenziosi, dai volti imperscrutabili, quelli su cui potevi inventarti una storia, renderli principi o cavalieri, fate o cortigiane, salvo poi vederli alzarsi in maniera scomposta e disordinata, grugnendo richieste di permesso frettolose e scortesi.

Amelia tutte le volte si immaginava scenari simili, fissando le figurine nere stagliate contro sfondi gialli accesi. Di quell'unica gita a Firenze, ricordava il chiacchiericcio caotico della gente, il fracasso destabilizzante delle gallerie, le orecchie che si riabituavano a qualcosa di vagamente simile al silenzio quando il treno faceva di nuovo capolino tra campi di girasoli opposti a fabbriche fatiscenti: Firenze l'aveva scordata, sepolta tra biglietti e obliteratrici, controllori e capotreni, ma soprattutto sepolta da un peluche nuovo di zecca appoggiato qualche sedile avanti a lei, e dalla piccola mano - poco più grande della sua - che lo custodiva gelosamente.

Tutte le volte che si affacciava alla finestra, immaginava che le sagome meno umane fossero Snoopy giganteschi, abbracciati da una bambina fortunata ed orgogliosa.

Tutte le volte che si affacciava alla finestra, la mamma le chiedeva cosa stesse facendo, e lei rispondeva niente.

La mamma si era arrabbiata quando Amelia aveva dimostrato di non ricordarsi niente di quella gita fuori porta: non ricordava il Duomo, nè Piazza della Signoria, nè il Ponte Vecchio. Ma non era quel ponte a essere vecchio, era la mamma: era troppo vecchia per capire la bellezza di un treno, per capire le storie dei suoi passeggeri, per innamorarsi di uno Snoopy di stoffa, per invidiare quella mano che lo stringeva a sè.

Poi, il treno spariva dentro la galleria ed Amelia tornava sul divano, a disegnare professori, studenti, cuochi, dottori. Non li colorava mai, non le riusciva. E poi, tutto ormai era drappeggiato nella sua mente nei toni del giallo e del nero, e non poteva certo trasformare quelle persone in api.

Quella era una scusa bella e buona, lei odiava colorare. Forse era anche per questo che adorava le strisce dei Peanuts: erano incolori, semplici, lineari; forse era per questo che amava alla follia Snoopy, che restava semplicemente bianco e nero anche nella trasposizione animata.

Amava pensare che pochi tratti potessero lasciare a chi osservava i disegni piena libertà d'interpretazione: quando era costretta a colorare qualcosa per quelle stupide maestre, le matite che impiegava variavano a seconda del suo umore, tanto che quando era triste o arrabbiata trasformava tutti in becchini o Mangiamorte.

Per Amelia, la Pigrizia era un forte incentivo alla Fantasia - ed in questo era Sally Brown.

Nonostante chiamasse fratellone quello strano soggetto sangue del suo sangue, nonostante si fosse presa una cotta di un giorno per un bambino dalla maglia a righe rosse e nere, si rese conto di non assomigliare per niente a Sally quando capì quanto le piacesse scrivere: a lei i temi piacevano, per quanto odiasse doverli comporre per forza. Le piaceva anche la scuola, anche se ogni tanto si ritrovava ad urlarle contro, inascoltata: in realtà lì urlava più o meno contro tutti, tiranneggiando i bambini delle classi inferiori e prendendosi i ruoli migliori in tutti i giochi inscenati durante la ricreazione. Lasciava il ruolo di capo a qualcun altro solo quando si giocava a Sailor Moon. Non sopportava quella piagnucolona di Usagi: si lamentava troppo per i suoi gusti, e quell'amore con Mamoru era così stucchevole... Lei voleva Sailor Jupiter e, regolarmente, la interpretava. Stranamente, era lei a risolvere molti duelli, stravolgendo la trama di cinque stagioni televisive: preferiva le saette al potere dell'amore e blablabla, e provava un certo sadico piacere nel fulminare ogni volta la nemica di turno che, guarda caso, era Sara Banchi, Miss Boccoli d'Oro, a cui i Banchi glieli avrebbe volentieri tirati in testa, dopo che le aveva soffiato di sotto il naso l'onore di tenersi per mano con Andrea per dieci secondi, tutte le ricreazioni.

Il giorno in cui li aveva visti per la prima volta insieme, aveva trascorso tutto il pomeriggio a casa di Frédéric, sedendosi al suo fianco sul panchetto ed imprecando contro il suo stupido pianoforte, che di tanto in tanto martoriava suonando una nota qua e là, con la determinazione di un rullo compressore.

Il suo migliore amico sbuffava, nel veder violentati i pianissimo suggeriti dal suo spartito.

La madre di lui scuoteva la testa sconsolata, mentre dal piano superiore udiva un tale scempio nei confronti del suo Chopin, che guarda caso aveva dato il nome all'estroso figlio.

Invece Amelia parlava. E inveiva, e urlava, e stringeva i pugni, soffocando quella rabbia che neanche un soave valzer poteva rilassare.

Poi, di punto in bianco, tacque.

Frédéric continuò a suonare per altri cinque minuti, perché sapeva che in quei trecento secondi guardare Amelia era off limits, come era off limits fissarla mentre mangiava o beveva, o darle torto in qualsiasi situazione.

Terminato il suo valzer - e sicuro che quelle lacrime di cui Amelia si vergognava così tanto fossero ben nascoste e dimenticate -, la prese per mano. « I treni ci aspettano, Amelia. »

Frédéric era l'unico a sapere di quella passione, forse lo sarebbe sempre stato.

Uscirono e si sedettero sul marciapiede della via tranquilla in cui abitavano, controllando rapidamente gli orologi ai loro polsi fini. « Le cinque e venticinque. »

« Più o meno tra dieci minuti. »

Aspettarono in religioso silenzio, finché le prime finestrelle gialle fecero capolino nel buio di inizio gennaio.

Amelia amava i treni anche perché poteva condividerli con il suo migliore amico.

Frédéric amava i treni perché poteva condividerli con lei, ma non gliel'aveva mai detto.

Del resto, a Schroeder Lucy Van Pelt non era mai piaciuta.







Amo i Peanuts, e ogni bracchetto, Brown o Van Pelt nominato in questa storia non è certo farina del mio sacco.
Tutto il resto sì.
Soprattutto la mia Lucy, Amelia.
Lei è mia in modo particolare.

Il titolo è volutamente all'imperfetto.
Anch'io i treni li amavo.
Volete sapere cosa ne penso ora?
Meglio di no: dovrei alzare il rating per turpiloquio.

Ringrazio Agathe, Chiara e Barbara, che hanno letto in anteprima e mi hanno incoraggiato.
Ringrazio Valaus che ancora non lo sa, ma mi ha dato la spinta fondamentale, una boccata d'ispirazione dopo un mese di silenzio.

E poi ringrazio chi questa storia la ispira da mesi.
« Buon compleanno »







Mi trovate QUI, se volete.

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Capitolo 2
*** Sette e Nove ***


Amelia amava i treni 2

A
melia amava i treni

§Two:  Sette e Nove






Amelia non guardava più i treni.

Non quando ci saliva ogni santa mattina a capo basso, sfidando le porte a non chiudersi proprio mentre posava il piede sullo scalino - che poi, avrebbe dato volentieri due pugni nello stomaco a chi aveva progettato un dislivello così ampio tra il piano del treno ed il marciapiede della banchina; non quando ogni santa mattina la sveglia suonava alle sei, proprio mentre il dannato treno che l'avrebbe raccolta alle sette e nove partiva da una stazione imprecisata, buia, fredda e tetra, così come doveva essere ogni benedetta stazione in una gelida mattina di gennaio.

In realtà, Amelia non aspettava mai molto a lungo l'arrivo del convoglio, dal momento che per qualche strana patologia congenita le era di fatto impossibile presentarsi alla stazione con più di trenta secondi di anticipo rispetto all'orario di partenza: così facendo, aveva perso il sette e nove solamente una volta, contando anche la carriera universitaria, e di questo riusciva a vantarsi con chiunque le rinfacciasse la sua disorganizzazione, ormai da anni.

Che poi, a lei l'aggettivo disorganizzata non piaceva per niente. Non era lei a non avere precise regole di condotta, era il mondo a darle incontrovertibilmente fastidio, come quando decideva di piovere e lei non aveva l'ombrello, o il treno si fermava qualche metro più avanti del solito. Sì, perchè se c'era una cosa di cui Amelia poteva davvero vantarsi, era l'assurda capacità di calcolare al millimetro il punto preciso in cui le porte del treno si sarebbero aperte: mai una volta che non fosse la prima a salire - di fronte a quella spoglia aiuola ormai trasformata in un immenso posacenere -, mai una volta che non azzeccasse il vagone che avrebbe spalancato le sue porte proprio ad un passo dalla tromba delle scale del binario due. Odiava camminare, Amelia. Soprattutto alle sette e quaranta.

Li conosceva tutti, ormai, gli inquilini del primo vagone - era quella la carrozza magica, quella che risparmiava passi e fatica inutili.

E tutti conoscevano lei.

Amelia non aveva mai risparmiato le sue occhiatacce a nessuno, quando con le mani occupate da fondotinta e cipria era stata costretta a spostare la sua borsa per liberare il sedile che aveva di fianco; non si era fatta problemi a dispensare rispostacce, quando le facevano notare che il treno era di tutti. Non poteva non odiare quelli che salivano tre fermate dopo la sua, e che pretendevano addirittura un posto: quegli esseri indegni dormivano quindici minuti più di lei, ogni santo giorno. Cedeva solamente dopo tre richieste formali: la prima la ignorava, fingendo di avere i timpani troppo occupati ad ascoltare gli Arcade Fire, alla seconda fingeva di non capire, strabuzzando gli occhi con aria minacciosa, alla terza spostava tutti i suoi averi dalla sua parte, sbuffando.

Paradossalmente, era con quel modo di fare scontroso che aveva conosciuto l'Avvocato. Saliva una sola fermata dopo la sua, e nel giro di una settimana aveva preteso per tre volte il posto accanto al suo, ovvero l'aveva supplicata nove volte di concederle l'onore della sua vicinanza. Le stava simpatico, l'Avvocato: era l'unico ad avere il privilegio di poterla chiamare Strega, senza contare il fatto che tutti i giorni trovava sempre un buon argomento di cui discutere, che fosse letteratura o attualità. A dire il vero, spesso le discussioni tra la Strega e l'Avvocato facevano indignare gran parte dei passeggeri: finivano tra urla ed insulti, con il secondo che si alzava ridacchiando una fermata prima di quella di Amelia, e lei che incrociava le braccia scocciata, appoggiandosi contro il finestrino e facendogli la linguaccia attraverso di esso.

A pochi decimetri da lei, Sara rideva. Sara Banchi rideva, quella che le aveva soffiato Andrea, quella che ancora aveva boccoli d'oro, occhi azzurri e una piccola cicatrice sopra il sopracciglio destro, che Amelia le aveva procurato inseguendola per tutta l'aula armata di cimosa, finchè non era inciampata sbattendo la testa contro lo spigolo di un banco, messo sacrosantamente al posto giusto da delle bidelle accorte. Amelia aveva beccato una nota sul diario e compiti extra, Sara aveva rimediato due punti. Amelia era stata costretta - pena l'allungamento della punizione inflittale dai suoi genitori da uno a due mesi - a chiederle scusa portandole un regalo, Sara era stata costretta - perchè lei era una brava bambina - ad accettare quelle scuse e quel regalo, smettendo di guardarla in cagnesco da sotto la benda che indossava. In tutta quella questione, come ogni quasi-uomo che si rispetti, Andrea se ne era rimasto beatamente per i cavoli propri, magari scambiando qualche Pokemon raro con amici altrettanto maturi: Sara e Amelia, senza smettere di lanciarsi occhiate torve, avevano trovato simpatico e costruttivo occupare il tempo degli 'incontri pro-amicizia' in un'attività che non avrebbero mai più abbandonato, e ad Andrea fischiarono le orecchie per mesi.

Negli anni successivi, le orecchie erano fischiate a molti altri molluschi; l'ultimo della lista - il loro attuale bersaglio preferito - era il Vampiro, seduto sempre sempre sempre nell'unico sedile disaccoppiato del primo vagone, distanziato più del normale dai seggiolini di fronte: in poche parole, il Posto. Chiunque ambiva a quella poltroncina, e chiunque restava quotidianamente deluso nel realizzare che il Vampiro ci si attaccava come un pipistrello, se si trascurava il fatto che la testa la teneva regolarmente sopra le spalle. Come il piccolo mammifero negli antri tenebrosi, il Vampiro era ormai un tutt'uno con quel sedile, e nessuno provava più a vedere se fosse libero: nessuno tranne Amelia, che tutte le sante mattine provava a soffiarglielo, inutilmente. Lei gli aveva giurato silenziosamente guerra, lui neanche l'aveva notata: lei scrollava le spalle, fingendo indifferenza, Sara Banchi sospirava, fissando il Vampiro con aria sognante. Nessuno l'aveva mai sentito parlare, o anche solo ridere: era sempre vestito di nero, che indossasse una giacca a vento, o un completo, o una maglietta, e nessuno in tutto il primo vagone sapeva dove salisse o dove scendesse.

A Nilla piacevano i misteri: non a caso i suoi occhi, celati da lenti scure per tutto l'anno, puntavano in un'unica direzione, quella che culminava nel Vampiro. « Parola mia, bambine, quello un giorno ci fa fuori tutti » sentenziava di tanto in tanto, bisbigliando a mezza bocca. « Guanti neri di pelle. E' chiaramente un serial killer. » Metà del vagone rideva ogni volta in cui la bidella ripeteva queste parole, ed era così che Amelia aveva conosciuto anche Simone, Juan, Dora, Carmen e Pippo - che forse si chiamava Filippo, ma nessuno lo sapeva con certezza.

Però ad Amelia, su quel treno, qualcuno mancava.

In cuor suo aveva sempre sperato di notare un profilo meno umano, una massa informe trattenuta da una piccola mano, tra quelle figurine nere su sfondo giallo di cui ora faceva parte anche lei, ma nel primo vagone non c'era traccia di Snoopy.

C'era solo Lucy, spesso vestita di blu e con gli stessi capelli neri di quasi vent'anni prima.

E Lucy scendeva da quel treno tutte le mattine alle sette e quaranta, insieme a Carmen, Nilla, Juan e Pippo, inspirando smog ed a volte imprecando contro la pioggia - perchè quando pioveva, lei l'ombrello non ce l'aveva mai.

Non c'era niente di peggio di una sveglia alle sei, di un treno spesso in ritardo e di uno scontro all'ultimo sangue con l'Avvocato di prima mattina, o almeno così pensava.

Poi, un Beagle le saltò addosso, con le zampe sporche ed il proprietario a profondersi in mille scuse, bloccate sul nascere da pupille saettanti.

E fu che si rese conto che la giornata non sarebbe potuta essere delle migliori, mentre i suoi amici si dileguavano, per non incorrere nella sua ira: non era salutare starle vicino mentre cominciava a piovere, e lei non aveva l'ombrello, mentre il bus passava, e lei non riusciva a prenderlo - avrebbe potuto perderne sei e sarebbe stata lo stesso in anticipo, ma lei aveva sempre preso quell'autobus, e sempre l'avrebbe preso.

Amelia si spolverò i pantaloni e si coprì la testa con la sciarpa, determinata a non lasciarsi scoraggiare da quell'infelice serie di eventi.

Ignorò il tizio che si era offerto di pagarle il conto della lavanderia, e saltò sul secondo bus, ripetendosi come un mantra che tutto è bene quel che finisce bene.

Quando all'autobus si bucò una gomma e dovette aspettare quello successivo - dovendo però camminare per metri e metri fino alla fermata successiva - Amelia cominciò a credere che una giornata no poteva capitare anche a lei, e che non doveva buttarsi giù.

Quando giunse al suo distributore automatico di caffè e lo trovò guasto, capì che quella sarebbe stata ufficialmente una giornata di merda, e accartocciò il bicchiere di plastica vuoto che la macchinetta le aveva bastardamente rifilato.

Poi, si trovò sulla scrivania un quintale di fogli da esaminare.

E scaraventò la penna fuori dalla finestra.

« Fréd? » sospirò al telefono poco dopo. L'altro non le rispose, aspettando che fosse lei a dirgli ciò che già si aspettava. « Suona per me. »










*Snoopy è un Beagle. Non so quanto sia necessaria questa nota, ma visto che ho citato questa razza di cani, preferivo far chiarezza.




Grazie per l'accoglienza
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Capitolo 3
*** La Busta Gialla ***



A
melia amava i treni

§Three: La Busta Gialla






Forse ad Amelia non piacevano più i treni.

Ma le piacevano ancora i punti dove le loro strade di ferro si intersecavano con quelle d'asfalto. Era buffo: fin da piccola aveva visto in quei punti il punto di contatto tra il suo mondo e quello degli altri, tra banalità e novità, tra realtà e fantasia.

Di tutta questa poesia non trovava neanche un accenno nel groviglio di fili che le intasava la scrivania. Parevano divertirsi a gettarla nella disperazione più cupa, annodandosi e scivolando, formando ingorghi sempre più pesanti che prima o poi finivano per arpionare qualcosa e trascinarlo nell'oblio, in quel baratro polveroso e inesplorato celato dal cassone del computer. Negli ultimi giorni, Amelia aveva perso in quel modo tre penne, una memoria USB ed una decina di fogli, che nessuno avrebbe mai più ritrovato: era più o meno sicura che tra quella carta che aveva sbrigativamente bollato come inutile ci fossero almeno un paio di documenti importanti, ma preferiva non porsi il problema.

Di certo, non era mai riuscita a perdere il prezioso contenuto del cassetto in basso a destra. Da quando aveva messo piede in quell'ufficio, tutti glielo avevano presentato come incontrovertibilmente rotto. E poteva pur sembrare vero, ad una prima occhiata: se si provava ad aprirlo, si incastrava quasi subito, opponendosi a qualunque sollecitazione. Eppure Amelia era riuscita a violarlo - bisognava solo fargli fare un movimento particolare, sollevarlo e poi tirare - e soprattutto a riempirlo: quello spazio era unicamente suo e, come tale, lo adorava. Tra le altre cose, c'era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento: mentre Mozart riecheggiava ancora nelle sue orecchie, si allungò fino a raggiungerlo, aprendolo in un secondo.

« Fréd? »

L'altro mugolò, giusto per far sentire che c'era ancora, nonostante il trasporto del suo pezzo per clavicembalo.

« Cosa diceva Lucy? » 

Inspirò a fondo ciò che teneva tra le dita, prima di percepire l'ilarità nel tono di Frédéric, ancor prima che aprisse bocca.

« Tutto ciò di cui ho bisogno è amore. Ma un po' di cioccolata, ogni tanto, non fa male. »

« Bravo tesoro! »

Scartò un cioccolatino, ma Fréd fu più veloce di lei - nonostante i mezzoforte del suo piano, sentiva ogni sua parola come se fosse scandita ad un millimetro dal suo timpano.

« Tu hai bisogno di amore, Lucy. Non di cioccolata. »

Ad Amelia si gonfiò una vena sulla tempia, come del resto accadeva ogni volta in cui si sentiva offesa. « Mi stai dicendo che sono grassa? »

« Solo che potresti diventarlo. »

« Sei uno stronzo, Fréd. »

« Touché. »

L'aveva detto mentre accarezzava l'ultima nota, con quella delicatezza che si poteva percepire anche al di là di un altoparlante non eccelso come quello del suo telefono, in un sospiro che aleggiava sopra i tasti, che della banalità della plastica non conservavano altro che le fattezze.

« Ti voglio bene, Fréd. »

« Vorrei potertelo dire anch'io. »

« Stronzo. » E riattaccò.

Non sapeva che lui un ti voglio bene non glielo poteva dire davvero. Perchè utilizzare tre parole quando ne bastavano due era un oltraggio. Perchè parlare di affetto al posto di amore era un oltraggio alla sua Lucy.

Fréd scroccò le dita, tornando a letto. Solo per lei si alzava anche per cinque minuti, ogni mattina, verso le otto - andava a letto alle quattro, sempre: si infilò sotto le coperte e le sognò di nuovo, lei e la cioccolata. Non era neanche troppo sicuro che lei fosse vestita.

Amelia, nel suo ufficio, sorrise - per poco.

« Ameliuccia! »

Finse di essere immersa in una lettura più che avvincente, con il naso ad un millimetro dal primo foglio che si era trovata a portata di mano - Hook up with a sexy single woman or man tonight! -, ritrovandosi a pensare che doveva davvero smetterla di stampare tutta la posta elettronica senza prima verificarla.

« Amelia, tesoro? »

Odiava visceralmente essere chiamata tesoro. Quasi più di quanto odiasse i carciofi. E le cipolle. E Trenitalia. Alzò solo per un attimo la testa dal foglio - There are so many people in your city that want to meet new people just like you! - ma non si sforzò di sorridere, neanche un po'.

« Sei meravigliosa, tesoro. »

You decide who you want to flirt with and hook up with! Di certo, lei non aveva deciso né di flirtare né di accalappiare quell'idiota di Marelli, che dalla sua assunzione si dedicava instancabilmente alla conquista di ogni essere di sesso femminile del terzo piano: il suo motto doveva essere 'basta che respiri' dato che si vociferava che avesse contribuito, almeno per un giorno, al calo di acidità della segretaria del capo, scelta personalmente dalla moglie del suddetto per il suo essere piatta come una tavola da surf e l'avere imbarazzanti orecchie a sventola.

« Non ti sei sforzato nemmeno un po', stamani. Hai lasciato la fantasia nel letto della bionda? »

Marelli la guardò interrogativo ed ammirato allo stesso tempo; Amelia riabbassò lo sguardo, prima di riprendere a parlare - You will be surprised by all of the women or men that will want to hook up with you!

« Avete parcheggiato insieme » ed accennò alla finestra che dava sul parcheggio interno dello stabile. « Ho visto lei scendere subito. Ma a giudicare dal fatto che sei venuto a rompere le scatole a me solamente ora, ne deduco che hai aspettato un po' prima di imitarla. E lei » fece un rapido cenno del capo verso la porta aperta della sua stanza, dove giusto in quell'istante aveva fatto capolino una spalla ricoperta di capelli chiari « pare nervosa, molto nervosa. » La spalla si irrigidì, colta in fallo, prima di sparire velocemente dalla loro vista.

Marelli sghignazzò. « Stanotte non era così rigida. »

« Neanche tu, scommetto. » Lo guardò di traverso, sorridendo malignamente. « Hai finito qui, o vuoi scendere nei dettagli? »

« Dipende da che effetto quei dettagli potrebbero avere su di te. »

« Hai presente le tartarughe, Marelli? »

L'altro tacque, alzando gli occhi al cielo.

« Hanno una sola espressione ed è annoiata, perplessa e pare chiederti in ogni istante che diavolo vuoi da loro. Ecco, considerami una tartaruga. E, a proposito, oggi mi va un'insalata per pranzo: voglio quella con pomodori, mozzarella ed olive, un filo d'olio e un po' di sale. Niente aceto, che mi fa schifo, niente carciofi o cipolle, sennò te le faccio ingoiare dopo averle inzuppate nel terriccio del cactus dietro di me. »

Marelli scrollò le spalle, appoggiandosi alla scrivania con quella che credeva fosse un'aria da seduttore. « Quando fai così... ah, tesoro, un giorno ti avrò » concluse strizzandole il naso e passandole un dito sulle labbra.

« Fuori, Marelli » sbraitò, racimolando tutta la calma che aveva in corpo per non urlare più del necessario.

E l'altro, finalmente, la lasciò libera di dedicarsi a ciò che fino ad allora aveva ignorato: prima di tutto, il secondo cioccolatino, poi, il suo lavoro.

Nel giro di tre ore, Amelia cestinò sette e-mail, due raccomandate e tre inserti. 

Al termine di quei centottanta minuti le capitarono in mano dieci fogli, chiusi in una busta gialla, anonima: quelli non li cestinò. Li lesse avidamente, bevendo ogni parola: li analizzò a fondo, attenta ad ogni virgola. E alla fine li amò. E li rinchiuse in un cassetto. In quel cassetto.

Quando arrivò il suo supervisore a chiederle se aveva trovato qualcosa di interessante da sottoporre al Capo, lei rispose di no.

E quando la sua insalata le arrivò sulla scrivania direttamente dalle mani di Marelli, che avevano provveduto a salarla più del dovuto, neanche si accorse del suo sapore tremendo.

Del resto, aveva già sete.

Sete di altre buste gialle.





*

"Tutto ciò di cui ho bisogno è amore. Ma un po' di cioccolata, ogni tanto, non fa male." Citazione da una striscia dei Peanuts, di Charles M. Schultz.
Le frasi in inglese, scritte in corsivo, fanno parte di una delle ottocento e-mail di spam che ogni giorno mi trovo nella mia casella di posta. Ogni tanto servono anche a qualcosa, a quanto pare.




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Capitolo 4
*** Orchi e Streghe ***



A
melia amava i treni

§Four: Orchi e Streghe






Ad Amelia i treni parlavano ancora.

Non solo con il frastuono dei loro motori, con l'eco delle gallerie, con i sogni di chi era a bordo e che lei immaginava nitidi e chiari come rivelazioni.

Ad Amelia ormai i treni parlavano chiaro.

« Buongiorno Strega. »

Doveva essere svizzero, l'Avvocato: puntuale come un orologio e insopportabile come l'Emmenthal - irrinunciabile, come la cioccolata, ma quello era un dettaglio.

« Orco. » Lo salutò con un cenno del capo, senza nemmeno voltarsi verso di lui.

« Orchi e streghe sono soli. »

« E non riescono a dormire, perchè qualcuno si diverte ad urlar loro il buongiorno ad un millimetro dai timpani. Cazzo, sono le sette e venti! »

L'Avvocato ignorò quelle rimostranze, sedendosi accanto a lei - era buffo, quel posto non era mai occupato, se non da lui. « Ti ricordi anche come finisce, la canzone? »

« Me », rispose scocciata.

« Intrattabile come la Signora De Santis. »

Lei alzò un sopracciglio.

« La causa di divorzio che sto seguendo... una vecchia megera, più o meno come Dora. »

Una mano spuntata dal sedile posteriore gli colpì la testa con forza inaudita: lui ridacchiò, massaggiandosi i capelli. « Tutte in sindrome premestruale, donne? » 

« Ti conviene tacere, se non vuoi ritrovarti a sanguinare per capire come ci si sente! »

« Carmen cara, anch'io ti voglio bene! » Le lanciò un bacio sporgendosi oltre il proprio sedile, giusto in tempo per ricevere un'occhiata di fuoco resa ancora più incandescente dai riccioli corvini che la rendevano vagamente simile a Medusa.

« Hai ancora voglia di parlare, Orco? »

« Orchi e streghe sono soli, e io invece ora ho te... »

« Che fortuna. »

« Dormi, hai voglia di sognare... Bimba fallo anche per me! »

« Te l'avevo detto che finiva con me. Buonanotte. »

« Strega? Marelli mi ha detto che ti ha finalmente portata a letto. »

Amelia rialzò la testa di scatto. « Che cazzo ti ha detto Marelli? »

« Oh, niente » replicò lui sornione. « Era l'unico modo per far ridestare la bella addormentata. Neanche lo conosco, Marelli. »

Si dette mentalmente della stupida. « Hai ascoltato i nostri discorsi tutte le sante mattine? »

« E' difficile non sentirvi, oche. »

Nilla gli lanciò un libro, rischiando di tramortire anche Pippo, seduto incautamente vicino a lei. « Spero che il Vampiro abbia designato te come sua prossima vittima. Anzi, vado immediatamente a suggerirgli di darti una morte lenta e dolorosa. Con permesso. »

Scavalcò Pippo con facilità, ma fu il braccio teso di Sara a bloccarla. « Non ci provare, sai? » Era arrossita fino alla punta dei capelli.

« Sarina... alla tua età io ero già sposata e tu vai dietro ad uomini misteriosi. Ah, la gioventù! » Le scompigliò i capelli, per poi riprendere possesso del proprio sedile, lamentandosi di chissà quale dolore alla schiena - fresco come il pesce incartato nel giornale di quel giorno, dato che ogni ventiquattr'ore ne aveva uno nuovo.

« Cos'avrà mai di speciale quel becchino... »

Amelia scrollò le spalle. « E' misterioso, è affascinante e, soprattutto, tace. E' l'uomo ideale: non fa rumore, non sporca, è un bel soprammobile, esclusivamente atto alla riproduzione e non al bacare le palle. »

L'Avvocato accennò un sorriso, mentre indossava la sciarpa. « Ti lascio sola, Stregaccia. Dormi pure! »

In un solo balzo fu in piedi e a debita distanza da Amelia. Non farla dormire in treno ed augurarle beffardamente di fare dei sogni d'oro a cinque minuti dalla fermata successiva equivaleva più o meno a firmare la propria condanna a morte.

L'Avvocato non voleva certo morire, dato che amava ripetere di essere troppo giovane e troppo bello per farlo. Amelia evidentemente non era d'accordo, dato che dal finestrino mimò all'Orco uno sgozzamento di prima categoria, con annessa lingua di fuori ed occhi rovesciati.

« Siete proprio fatti l'uno per l'altra » sospirò Carmen, mentre Sara annuiva con fervore.

E Amelia dette loro ragione, a modo suo. « Come due mantidi religiose. Non vedo l'ora di portarmelo a letto per staccargli la testa a morsi. » Si infilò il cappotto ed il cappello di lana, pronta ad affrontare la bufera. « Andiamo? »

Carmen, scuotendo la testa, la seguì. Mentre anche Nilla, Juan e Pippo si alzavano, Sara riportò i suoi occhi sognanti sul Vampiro. Sorrideva, quel giorno. E Sara se ne stupì in maniera incredibile, perchè non l'aveva mai fatto prima, almeno di fronte a lei.

Amelia uscì dal treno con un balzo - aveva sempre paura che le porte si richiudessero prima che lei riuscisse ad essere fuori. « Juan, sei vivo? »

Lui annuì, accennando un sorriso, ma ovviamente non rispose: non parlava mai prima delle otto, comunicava con cenni della testa e con la mimica facciale, che in lui era sviluppata in maniera impressionante. I suoi lineamenti potevano esser letti in qualunque momento: le sue emozioni trasparivano limpide come se fossero state immerse in acqua cristallina.

« Santo cielo, ragazzo. Finirai per perderla, quell'inutile lingua. »

Pippo controllò l'orologio, mentre aspettavano. « Mancano dieci minuti, Nilla. Non puoi chiedergli uno sforzo enorme come quello di anticipare lo sfruttamento delle corde vocali. » Si accese una sigaretta e, puntualmente, arrivò il suo bus.

« Non l'hai ancora capito che non è intelligente fumare mentre si aspettano i mezzi pubblici? » sbottò Carmen.

« Non rompere, piaga » sputò acido mentre saliva sul bus. « Se avessi avuto una sfera di cristallo, non l'avrei accesa. » La guardò burbero, perfino mentre le porte dell'autobus gli si chiudevano di fronte agli occhi.

« Non siamo le uniche ad attendere visite » sentenziò Amelia. 

« Spero che abbia con sè qualche assorbente. Io, di certo, non glieli presterò. » 

Anche lei, Juan e Nilla sparirono, inghiottiti dal sempre strapieno autobus 28. 

E Amelia rimase da sola ad aspettare il suo - da sola finchè un Beagle, quel Beagle, decise di passare due minuti della sua mattinata ad annusarle i piedi. Si guardarono a lungo, quando lui alzò il capo: lo sfidò a fare solo una mossa, e a Snoopy parve più saggio non osare.

Snoopy se ne andò non appena il bus di Amelia apparve all'orizzonte: svoltò l'angolo, da solo com'era arrivato, ma a lei rimase impressa nel cuore la sensazione che l'avrebbe rivisto molto presto.

...Come avrebbe rivisto molto presto lui.

Quando aprì la busta, già sapeva chi avrebbe trovato. Chi, perchè con un po' di esperienza, dentro ogni parola si poteva trovare un nome. 

Amelia voleva poter dare un volto alle emozioni. Voleva immaginare le mani che le avevano create.

E lui la aspettava, con altre dieci pagine. E lei preferì la sua compagnia perfino alle note di Rachmaninoff, o agli ovetti al cacao fondente.





*

De Santis: è un omaggio idiota al personaggio di Cetto Laqualunque, di Antonio Albanese, che ha come avversario politico l'integerrimo De Santis, per l'appunto.
Orchi e Streghe Sono Soli è una canzone degli Afterhours, contenuta nell'album 'I Milanesi ammazzano il Sabato'. Il suo testo è qui.





Mi trovate QUI, se volete.

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Capitolo 5
*** Occhi ***



A
melia amava i treni

§Five: Occhi






Dei treni, Amelia adorava i finestrini e ciò che riflettevano.

Ricordava di averci premuto contro il naso, quando il suo primo ragazzo le aveva detto di amare il colore dei suoi occhi. A lei quegli occhi erano sempre sembrati banalmente marroni, simili a ovetti di cioccolata al latte, a castagne selvatiche, a tronchi di cipressi; non erano screziati di sfumature perlacee, brillanti come l'ambra o luminosi quanto il sole: erano semplicemente marroni, infimi ed ordinari come la cacca. Nel turbine di luci e colori provenienti da fuori, man mano che il treno si spostava, Amelia aveva visto diventare quegli occhi gialli come i girasoli, grigi come la nebbia, verdi come i campi ed azzurri come il cielo: le sagome sfocate ma pulsanti dei passeggeri erano quel contorno che le donava vitalità, quel vortice che le illuminava lo sguardo, quel tumulto che le infuocava l'anima. 

Nel rileggere per l'ennesima volta l'ultima riga della decima pagina di quel giorno, non appena fu arrivata in ufficio, Amelia decise che il suo autore preferito doveva avere occhi ambigui come l'oceano: non blu, non azzurri e nemmeno celesti, ma cangianti e mutevoli come una tempesta improvvisa, come un mare agitato, come abissi sconquassati da sottili e coraggiose linee di luce.

Li aveva di fronte, quei fili dorati che aveva immaginato: li vedeva snodarsi tra le parole, legandone alcune ed evidenziandone altre, in quella trama che la rapiva sempre di più. Quel manoscritto era un vortice, un gorgo travolgente e quasi asfissiante, quando si ritrovava a trattenere il respiro per poi scoprire che pagina dieci era ormai già arrivata e doveva aspettare il giorno successivo, trascorrere ventiquattr'ore a bramare il momento in cui si sarebbe svegliata di nuovo, per salire sul sette e nove, prendere il bus e raggiungere l'ufficio.

Niente e nessuno l'avevano mai coinvolta tanto da farle perdere il sonno, l'appetito, tanto da monopolizzare la sua attenzione in un modo quasi morboso. Si era imposta come regola di vita di pensare prima a se stessa e poi a tutto il resto, per non annullarsi travolta da emozioni potenti e totalizzanti: si era sempre categoricamente rifiutata di soffrire per amore, perchè nessun uomo valeva un decimo della sua personalità. Ogni volta che era stata subissata da una passione, da un istinto o da qualche sofferenza, aveva sempre agito razionalmente, riflettendo sul problema e mirando a superarlo: si era liberata così di ossessioni, di patimenti e dubbi, andando alla radice di ogni questione ed estirpandola, con una brutalità che talvolta stupiva anche lei.

Lo ripeteva spesso, si liberava dei suoi problemi con la stessa facilità con cui si cambiava i calzini: era naturale per lei, lasciarsi tutto alle spalle e guardare avanti, andare dritta per la propria strada e non fermarsi di fronte a nulla.

Sapeva benissimo cosa fare anche in quella situazione: l'aveva appena deciso, dopo sette buste gialle e settanta pagine d'agonia.

Avrebbe trovato l'oceano, così come l'oceano aveva trovato lei.

L'aveva sempre saputo, che bisognava dare un nome alle cose per affrontarle e risolverle. E lei avrebbe battezzato quegli abissi, dritta e penetrante come le linee di luce che illuminavano qualche murena uscita dal suo anfratto per cacciar seppie.

Quelle buste avevano bisogno di un mittente, e lei l'avrebbe trovato.

« Marelli, qui. Subito » sbraitò all'interfono.

Lo sentì arrivare prima ancora di vederselo comparire davanti, appoggiato alla porta con il suo solito atteggiamento da patetico tombeur de femmes.

« Mi desideri, tesoro? »

« Quanto un vampiro desidera la luce del sole. Dimmi chi consegna la posta la mattina. »

« Il postino, forse? » rispose sghignazzando, passandosi una mano tra i capelli.

« Sei più idiota di quanto pensassi. Pensi che te lo chiederei, se fosse così ovvia la risposta? Ricevo buste non affrancate, senza timbri o indicazioni di alcun tipo. »

« Pacchi bomba, tesoro? Non ci avevo mai pensato a farti fuori così... »

« Sarebbe proprio da te, Marelli. Caotico ed appariscente. Molto più banale della stricnina che ti ho messo in quel caffè. »

Marelli sputò nel cestino la sorsata che aveva appena assaporato, accarezzando le papille con il liquido denso e tiepido.

« Sì, sei decisamente più idiota di quanto pensassi. Fuori, dato che sei inutile e snervante quanto un telecomando senza pile. »

« Le buste che trovi ogni mattina sul tavolo sono smistate dalla segreteria, giù. Chiedi a loro. Ma...? »

« Non ti ho avvelenato il caffè, mentecatto. »

Marelli parve effettivamente più sollevato, tanto che non riuscì a togliersi un'espressione distesa e più ebete del solito dal volto. « Dovrai offrirmene un altro allora » mormorò lentamente.

« Non morirai per trentacinque centesimi. »

« Intendevo che mi devi portare fuori a prenderlo, uscendo con me. »

« Avviati in Brasile, tesoro. Ci sono delle deliziose piantagioni che non vedo l'ora di testare. » Amelia si alzò, ricomponendo i fogli che aveva sulla scrivania e chiudendoli in una cartellina. « Se vuoi scusarmi. »

Mentre gli sfilava davanti, Marelli non riuscì a non pensare che le avrebbe toccato volentieri una mela, o forse due. Il solo pensiero di ritrovarsi fatto a pezzi in una valigia in volo per Rio de Janeiro lo trattenne dal farlo, sospingendolo come una mano giudiziosa e protettiva fuori di lì.

Non appena fu al piano terra, Amelia si fiondò in segreteria, senza neanche bussare. In realtà, nessuno fece caso alla sua entrata trafelata, tra telefoni che squillavano, impiegati che si aggiravano fra i tavoli e che urlavano sempre di più per sovrastare le altre voci - magari spaccando i timpani ai loro incolpevoli interlocutori al di là delle cornette. Individuò subito colei che le interessava: inveiva contro una collega, chissà per quale motivo: le tremavano le guance, ammorbidite dall'età piuttosto avanzata, e i lunghi orecchini che portava si agitavano insieme ad esse, in un ritratto grottesco che non riuscì a non strapparle una risata silenziosa. Amelia attese il suo turno, facendosi comunque notare: non amava cacciarsi nei guai prendendo le parti dell'una o dell'altra contendente, senza contare che aveva ben altro a cui pensare, mentre appoggiata al muro studiava lo scenario che aveva di fronte.

« Lei cosa vuole? » gridò dopo un po' l'impiegata, che si era appena liberata della presenza fastidiosa della sua collega ma non certo delle sue occhiatacce risentite e vendicative, che le fioccavano ancora addosso.

« E' lei che consegna la posta negli uffici? »

« Cos'è, un'intervista? Certo che sono io, chi dovrebbe farlo altrimenti? »

Amelia respirò profondamente, ripetendosi di stare calma. Fosse stato Marelli a parlarle così, lo avrebbe già attaccato al muro con un pugno ben assestato.

« Mi sono state recapitate delle buste senza mittente e senza affrancatura. Buste gialle. Volevo sapere se poteva darmi qualche informazione. »

« Pensa forse che io mi metta a indagare sulla storia di ogni pezzo di carta che entra qui dentro? C'era il suo nome su quelle buste, e questo mi basta e avanza per buttarle nell'ufficio giusto. »

« Di certo però non erano mescolate alla posta ordinaria, o sbaglio? » incalzò, un po' più furiosa.

« Certo che no, sciocca. Come pensa che farebbe ad infilarle nella casella postale senza un misero francobollo? Le trovo nella vecchia cassetta della posta, e sono le uniche ad entrarci, a parte qualche volantino pubblicitario. »

« Ogni mattina? »

« Sì. »

« Ma lei a che ora arriva? »

« Vuole sapere anche il mio codice fiscale, gruppo sanguigno e IBAN, per caso? »

Appellò tutta la pazienza in suo possesso. « La prego. »

« Alle sette, tutti i giorni. Se ne va, adesso? »

Amelia neanche le rispose, voltandosi e uscendo quasi di corsa dalla segreteria. Le sette. Cazzo, era troppo presto! Non c'erano treni che non violassero qualche norma sui diritti umani che arrivassero prima di quell'ora: erano tutti lenti, lentissimi, e partivano ad orari improponibili e crudeli.

Avrebbe dormito in ufficio, più volentieri. O non avrebbe dormito affatto, che forse era anche più sicuro, dato il suo sonno più che pesante.

Annuì a se stessa, risoluta, impugnando il telefono con una determinazione degna di un'Amazzone.

« Fréd? »

L'altro le rispose con un grugnito, prima ancora che il telefono squillasse per la seconda volta. « Lucy. »

« Stanotte devi far tardi con me. »

Un'emozione accarezzò il cuore assonnato di Fréd come una stilla di benzina sul fuoco. Proprio come il carburante, evaporò in una fiammata, quando Amelia ricominciò a parlare. « Devo scoprire chi è. »

« Chi è chi? »

« Un autore anonimo, meraviglioso. Devo prendere il treno delle cinque e due, a tutti i costi. »

« Ma sei impazzita? Forse sto sognando. Sì, dev'essere così. »

« Mai stata così seria, Fréd. Mi conosco, se puntassi la sveglia alle quattro, non la sentirei di certo. Devi farmi star sveglia tu, tanto non dormi mai fino all'alba. »

Frédéric si morse il labbro, mentre conficcava i gomiti nel cuscino, appoggiando il mento sui propri palmi. « Perché? »

« Fréd, te l'ho detto: devo scoprire... »

« Lo so. Voglio capire perché vuoi scoprire chi è questo scrittore. »

Anche Amelia si morse il labbro: aveva cominciato a farlo da piccola, quando era indecisa, proprio imitando la smorfia che Fréd articolava quando non gli riusciva un particolare passaggio di qualche Sonata. « Mi prenderesti in giro. »

E Fréd capì, mentre una strana morsa gli attanagliava lo stomaco. « Vieni da me anche a cena? »

« No, non sai cucinare. Arriverò intorno alle dieci, che poi saranno le undici, come al solito. »

« Ti aspetto, Lucy. »

Nell'esatto momento in cui spinse il tasto rosso, i gomiti non lo ressero più. Finì con la faccia contro il cuscino, senza più riuscire a chiudere gli occhi.





*

Ti amo.





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Capitolo 6
*** Fragole ***



A
melia amava i treni

§Six: Fragole

* Te l'avevo detto!






Quando Amelia bussò alla porta di Fréd, pensò che il treno delle cinque e due fosse già troppo vicino.

C'era qualcosa di magico nell'aria che si respirava oltre quella soglia, qualcosa per cui provare un timore quasi reverenziale pur considerandolo quanto più di familiare si potesse avere al mondo; qualcosa da considerare come proprio, eppure da toccare con i guanti: qualcosa in cui materializzarsi in silenzio, cosa che misteriosamente non escludeva grida di giubilo o pianti disperati. Qualcosa in cui vivere, e al diavolo orari, scadenze e ritardi.

Al diavolo il treno delle cinque e due, si disse in un soffio, mentre Frédéric apriva la porta.

« Sei in ritardo » disse semplicemente lui, almeno provando a non sorridere.

« Abiti qui, è facile arrivare in orario. E poi sono solo le undici e venti. »

« Dovevi essere qui alle dieci, se ricordi. Solo un'ora e venti di... »

« Non un'ora e venti. Ti avevo detto alle dieci e avvertito che sarebbero state le undici. »

« Di venti minuti? » sbuffò lui, chiudendole la porta alle spalle.

« Affatto. » Si fiondò in cucina ad aprire il frigo, sicura di ciò che ci avrebbe trovato. « I primi cinque minuti non mi sono presentata perché non sta bene essere i primi a un qualunque appuntamento. »

« Siamo io e te, Amelia. » Alzò gli occhi al cielo, prendendo posto su uno sgabello della cucina. « I primi tra chi? »

Lei lo ignorò. « Altri dieci minuti per il parcheggio, quelli non potevo certo calcolarli. »

Lui alzò un sopracciglio, muovendosi per scostare la tenda quel tanto che bastava per scorgere la strada. « Non c'è un cane, giù. »

La sentì ridacchiare con il naso, espirando due sbuffi d'aria rapidi e ravvicinati: quel modo che aveva solo lei di esprimere il suo divertimento sommesso, quella maniera bastarda di sottolineare le sue piccole menzogne, quelle che lui riusciva ad individuare non appena apriva bocca, senza che neanche terminasse le frasi. « E gli ultimi cinque? » chiese quasi sovrappensiero, mentre il suo sguardo si posava per caso su un uomo a spasso con il cane - e quindi aveva ragione lei un'altra volta, perché un cane c'era eccome, giù.

« Li ho passati davanti alla porta » rispose lei con naturalezza, mentre addentava una fragola. E non mancavano mai le fragole a casa di Fréd, neanche a febbraio quando costavano un occhio della testa, perché a lei quei frutti rossi piacevano anche acerbi o troppo maturi, marci o perfetti, e vederle dipinta sul viso quella smorfia di soddisfazione così totalizzante valeva ogni singolo euro uscito dal portafoglio.

« Davanti alla porta? »

« Pensavo. » Non disse altro, mentre lottava per eliminare le foglie della sua seconda fragola - ed era buffa, perchè il picciolo le rimaneva sempre conficcato nella polpa, e le toccava mangiare anche quello. 

« Al legno? Alle maniglie? E' febbraio, Amelia, e tu pensi agli stipiti di una porta congelandoti senza entrare? »

Lei tremò per un secondo, quasi ricordandosi del freddo che avrebbe dovuto patire fuori da quell'uscio, poi scrollò le spalle. « Pensavo a te. Pensavo a noi. » Digrignò i denti, lottando con il terzo frutto della serata: non un tremito fuori posto, non un ripensamento a farla sobbalzare, solo un mugugno di liberazione quando riuscì nel suo intento, non senza sporcarsi di rosso le unghie. E lui gliele avrebbe succhiate ad una ad una quelle dita, dopo averle sentito pronunciare quel noi di cui forse non si era nemmeno accorta.

« A noi? » chiese mordendosi la lingua, cercando di non far trasparire tutta l'ansia di quelle quattro lettere. Provò a rubarle una fragola, beccandosi uno schiaffo sul dorso della mano - da quelle dita che avrebbe volentieri succh... non doveva pensarci.

Lei lo fulminò, ancora stizzita per quel tentato furto. « A noi, sì. Al fatto che qui mi sento come a casa, al fatto che posso contare su di te in qualunque momento, e non te lo dirò un'altra volta, quindi imparati bene a memoria queste parole. » Giocò per un po' con la quarta fragola, prima di rimetterla nel piatto. « Alla nostra amicizia, ecco. E'... bella. » Si alzò per rimettere la frutta avanzata nel frigorifero. « Mi mancheresti, se non ci fossi » sussurrò a un cartone di latte e a qualche etto di burro, come al solito senza trovare il coraggio di guardare l'amico in faccia, per non rendersi troppo vulnerabile ai suoi occhi.

E Frédéric si alzò e la raggiunse, con quel pizzico di strafottenza che riservava solo all'unica persona con la quale non avrebbe mai voluto sfoggiarla. « Anch'io ti amo, maionese. » Passò il braccio sulle spalle di Amelia, finendo per osservare lo stesso punto su cui si era fossilizzata lei. « Oh, ma tu dicevi alla birra? Dovevo immaginarmelo, Lucy! »

« Stronzo. » Si spostò di scatto, pestando i piedi finché non fu uscita dalla cucina. 

Le fu dietro in un balzo. « Dai, scema! » La abbracciò, rischiando di farla inciampare - ergo, di procurarle un buon motivo per fargli male. « Cosa vuoi fare, Lucy? »

« Dormire. » Saltò sul letto, atterrandoci di pancia - come faceva da più di un ventennio, ormai: il letto era cambiato, lei non era cambiata per niente. O forse era cambiata perfino troppo, pensò Fréd, scorgendo forme non esattamente abbozzate, oltre la stoffa dei suoi vestiti.

« Non sei venuta qui per resistere sveglia fino a domattina? Avevo già preparato cinque o sei damigiane di caffè... »

La vide corrugare la fronte per un attimo, per poi rialzarla, risoluta. « Ce la faremo! » urlò alzando un pugno verso il soffitto.

Si lasciò ricadere con la testa fra i cuscini, e lui le fu accanto. « E' meraviglioso, Fréd, non puoi capire » la sentì sussurrare dopo qualche minuto.

« Cosa? » Sorrise, aspettandosi tutto fuorché un...

« Lui. »

E in quel momento odiò i treni, odiò le fragole, odiò perfino lei. Perché era un'egoista, perché era cieca, perché era sua.

Finse di ascoltarla, mentre elogiava il suo autore, finse perfino di fare il tifo per lui, quando si ritrovò a dargli dell'uomo perfetto, perché pareva intelligente, e misterioso, e accattivante.

Si ritrovò a crogiolarsi nel profumo del suo shampoo alle fragole, quando una ciocca gli finì accanto al naso, disordinata ed impertinente come la legittima proprietaria; inspirò troppo forte quell'odore, e lei lo smascherò come un bambino di fronte ad un vassoio di biscotti ormai sbriciolati. Lo guardò interrogativa, e lui non potè che pensare a quelle strisce che tante volte avevano letto insieme, a quelle vignette che li avevano raccontati prima ancora di vederli cresciuti. E la prese in giro di nuovo, perché era l'unica cosa che riusciva a fare. « E' un tipo di profumo che non ho mai sentito nominare... » Inspirò di nuovo. « Bracchetto bagnato? »

Si beccò una gomitata e la vista della sua schiena, dato che lei si voltò sul fianco opposto alla velocità della luce. « Sono fragole, idiota. » Finse di non sapere che quella era la fragranza del suo shampoo e del suo bagnoschiuma da più o meno un decennio. « Lui l'avrebbe capito al volo... » sussurrò sognante.

Pensò che lui non avrebbe mai capito che Amelia odiava le date e le ricorrenze perché sembravano quantificare tutto, che quando taceva era solamente o irrimediabilmente scossa o tremendamente incapace di esprimere i suoi pensieri con le parole che amava così tanto: lui non avrebbe mai scoperto quella sua pagina di fanfictions che la raccontavano per filo e per segno, non avrebbe mai imparato che odiava lo zucchero perché snaturava il vero sapore delle cose, che aborriva la rucola perché sua madre una volta aveva provato a fargliela mangiare con l'inganno, o che si era vergognata del suo seno a tredici anni, nascondendolo con spalle ricurve perché non era ancora pronta per diventare una donna, e che ora pregava per avere almeno una o due taglie in più. E si rivide ad abbracciarla per il suo infortunio al ginocchio, a chiederle scusa per averle rubato il suo pennarello preferito, a regalarle del pongo perché, nonostante fosse una schiappa, amava almeno far finta di modellarlo, quando in realtà andava semplicemente pazza per il suo odore.

« Ti stai creando troppe aspettative... » Era un suono amaro, quello uscito dalla sua bocca, una sentenza diretta e per questo dolorosa: gli parve di vederla stringere il lembo del cuscino, forse improvvisamente cosciente che lui aveva davvero ragione, e gli si strinse talmente tanto il cuore che il coraggio gli venne meno e la voce gli si spense in gola. « Ma del resto, se non verifichi di persona... »

« Lo sapevo, che avresti capito! » Lei gli gettò le braccia al collo, gli saltò addosso come quando aveva nove anni, sorrise talmente tanto che lui se ne innamorò di nuovo. E la trovò ancora più sua, eppure così cieca, e soprattutto così egoista.

Poi la sentì tacere, un po' troppo a lungo; sentì il suo respiro farsi più regolare, la sua stretta allentarsi. E le cinque e due gli parvero così vicine...

Fréd, per la prima volta, ebbe sonno prima dell'una. E si ritrovò abbracciato a lei anche quando si svegliò di soprassalto alle due, intenzionato a puntare quella sveglia di cui lei aveva assolutamente bisogno: la vide con la bocca aperta, i capelli arruffati, la posa scomposta e le coperte miracolosamente finite solo sopra il suo corpo, in un'improbabile disposizione di lenzuola e trapunte, e le cinque e due gli parvero ancora più vicine, tremende, inesorabili.

Amelia odiava dormire a bocca aperta: pretendeva che lui la svegliasse quando la beccava a farlo, e si assicurava sempre di avere una mano in prossimità delle labbra tutte le volte che si coricava, per quanto fosse impensabile che riuscisse a mantenere la solita posizione per una notte intera. Per un momento, gli venne quasi automatico svegliarla anche solo per darle fastidio, sentirla imprecare qualcosa di imprecisato nel dormiveglia, lasciarsi insultare per cinque secondi di puro piacere e vederla riaddormentarsi, chiudendo la bocca e riaprendola inesorabilmente pochi secondi dopo, in preda ad un istinto quasi essenziale.

In quello stesso istante, seppe anche che quelle buste gialle sarebbero arrivate nel suo ufficio prima di lei, per l'ennesima volta.

Cercò di districare il groviglio delle coperte senza svegliarla, la coprì fino al naso e si voltò sull'altro fianco. Non riuscì neanche a sentirsi egoista, quando i sensi gli vennero meno per la seconda volta, quando perfino il pensiero di averla nel suo letto divenne un'eco lontana e modulata da sospiri sempre più rari, quando se la immaginò la mattina dopo su tutte le furie, a dargli la colpa di tutto e a giurargli che non gli avrebbe più rivolto la parola per un mese, salvo poi ripresentarsi sotto casa sua un paio d'ore dopo - e talvolta, chiamarlo in cerca di note anche prima.

Si svegliò alle sei e mezzo grazie a una pedata ben piazzata su uno stinco. Se la trovò di fronte, armata di dentifricio, asciugamano e sguardo assassino. La sentì urlare, la vide pettinarsi da una stanza all'altra rischiando persino di strapparsi i capelli, tanta era la foga con cui maneggiava la spazzola. Beccò una ginocchiata dopo che lei fu salita di nuovo sul letto in cerca di vendetta, e si ritrovò a massaggiare due lividi in via di formazione, prima di vederla sparire senza dire una parola dalla camera e sentirla anche sbattere la porta d'ingresso.

E fu allora che capì cosa diamine intendesse Snoopy, nel dire che il suo cuore forse non era infranto, ma di certo gli facevano male le gambe.

« Mi dispiace » mormorò mezz'ora dopo al parmigiano, o forse al succo di frutta, o magari ai funghi sott'olio.

Il frigorifero restò atrocemente in silenzio.





*

Le frasi in corsivo sono tratte dalle strisce di Charles M. Schulz.
Credo che quando si ama qualcuno sia inevitabile diventare un po' egoisti. Ed è difficile essere
l'amico perfetto, quando tutto quello che si vorrebbe fare è la cosa più difficile ed impensabile del mondo. Non colpevolizzate Fréd: è e resta sempre l'amico più meraviglioso che si possa avere. :)




Mi trovate QUI, se volete.

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Capitolo 7
*** Vampiri e Camicie ***


Amelia amava i treni 7

A
melia amava i treni

§Seven: Vampiri e Camicie

* A chi sarà sempre nel mio Oceano Mare.






Quando il sette e nove di quella mattina divenne un sette e trentadue, Amelia maledì Trenitalia, i quindici minuti di ritardo taroccati che segnalava e tutti quelli che riuscirono a precederla sul primo vagone.

Si gettò sul primo sedile che le capitò a tiro, appoggiò la testa contro il finestrino ed alzò il volume del suo i-pod finchè la musica non fu talmente alta da impedire l'accesso ai suoi timpani a ogni altra voce, rumore, perfino al respiro di chiunque avrebbe di lì a poco preso posto accanto a lei. Per fortuna, nessuno ebbe per cinque minuti l'ardire di farlo.

Cinque minuti dopo, intravide l'Avvocato nella folla che premeva per salire sul treno. Le venne automaticamente da chiudere gli occhi, strizzando le palpebre fino a sigillarle.

« Si vede che fai finta » sentì poco dopo, da una voce che conosceva fin troppo bene.

« Non è aria » rispose stancamente, senza neanche voltarsi.

« Lo vedo. Non ti sei accorta neanche del... »

« AMELIA! » squittì un'altra voce, questa volta di donna.

Alzò gli occhi al cielo, infastidita. « Dio santo, Sara, lo sai quanto sia fastidioso sentir urlare qualcuno alle sette... »

Sara non la prese neanche in considerazione. « Ma tu non... tu non... » Si scostò per far passare un uomo nel corridoio, senza però distrarsi neanche un secondo dalla visione che l'aveva sconvolta.

Fu allora che Amelia si rese conto di aver scaraventato la borsa su un sedile che neanche esisteva, quando era salita sul treno.

Perchè quello era l'unico sedile disaccoppiato in tutto il vagone.

« Avete intenzione di gridare al miracolo? O di strapparvi i capelli come preficae? »

« Taci! » urlarono in due. « Dov'é? » sbraitarono insieme.

« L'avrà ucciso un raggio di sole » sentenziò l'Avvocato, prima di scuotere la testa, scocciato. « Dovrò anche stare in piedi, per colpa vostra, maledette. »

« Oh, quanto mi dispiace » bofonchiò Amelia, mentre tentava, inutilmente, di far riprendere Sara dallo shock.

« Oh, fai bene a non dolertene troppo, perchè non resterò in piedi. » Scostò delicatamente Sara, fino a sospingerla verso Nilla. « Ti ha tenuto un posto. »

Poi, guardò Amelia sogghignando. « Strega, spero tu conosca un sortilegio che renda i corpi più leggeri... »

« Non ti... »

Prima che finisse la frase, si ritrovò l'Avvocato seduto sulle cosce. « Dovremo proporli a Trenitalia, questi sedili. Non ho mai provato niente di più comodo. »

« Che cazzo...? »

« Taci, tesoro. »

In quell'istante, Amelia si ritrovò talmente incazzata da non saper neanche da che insulto cominciare. Tacque davvero, appoggiandosi a sua volta contro la schiena dell'Avvocato e chiudendo gli occhi. Si stupì non poco, quando si rese conto di non aver nemmeno voglia di conficcargli le unghie nella schiena, o di fargli il solletico, o di strangolarlo. 

E si addormentò in quella posizione, mentre il treno si fermava ancora, meravigliandosi non poco di quanto riuscisse a rilassare le membra, abbandonando il nervosismo di quella mattina. 

Quando lui la svegliò prima di scendere, lo ripagò con un saluto veloce e con il solito cipiglio arrabbiato e infastidito: si chiese se fosse stata abbastanza da abile da dissimulare tutto quello che le frullava per la testa, per poi scacciare da sola quei pensieri, rapita dalla visione di qualche goccia di pioggia che si stava abbattendo sui vetri.

Anche la busta gialla era bagnata, quella mattina. C'erano dei polpastrelli umidi sulla carta, e nei fogli al suo interno c'erano delle sbavature imprecise, come se l'autore fosse andato troppo di fretta perfino per trattare la sua opera con cura.

Forse anche quell'uomo misterioso si era svegliato troppo tardi, inciampando nei suoi passi. Forse aveva perso il treno.

« Come sei pallida stamattina, tesoro. »

« Come sei fastidioso stamani, sembri Marelli. »

« Simpatica, pallida ma simpatica come un calcio nelle palle » fece Marelli, entrando. « Qualche manoscritto interessante, Vampira? »

Forse aveva perso il treno.

« Niente per cui valga la pena investire. »

« Li avrai cestinati tutti, gentile come sei. Sei una succhiasangue, spremi quella povera gente e poi... »

Forse aveva perso il treno.

« Se vogliono pubblicare boiate adolescenziali, hanno sbagliato casa editrice. Abbiamo già troppi Babi e Step in circolazione, non fomentiamo l'idiozia. »

« Quanto mi arrapi quando fai così... »

« Fuori, Marelli. »

« Se non fossi accondiscendente e affettuosa come una donna mestruata, ti controllerei i canini. Sicura di non aver morso qualcuno? »

Il Vampiro aveva perso il treno.

E Amelia sbiancò per davvero. « Fuori! » urlò, scagliando un portapenne contro la porta, per poi lanciarsi sul telefono.

« Fréd... ce l'ho. »

« Cosa, il mio stinco? E' da quando me lo hai amputato stamani che... »

« No, cretino. L'autore! » strillò eccitata.

Fréd imprecò in quattro o cinque lingue diverse. « Sarebbe? » scandì piano, con un filo di voce.

« Te lo dico dopo. Vengo da te appena torno, aspettami! »

« Non mi volevi morto, stamani? »

« Mi serve un testimone per le mie nozze, Fréd. E tu sei l'unico che non si scomporrà quando mi sposerò in reggiseno e mutande. Di seta bianca, ovviamente, sono così... pura » sghignazzò.

« Sul serio ne sei ancora convinta? Amelia, sei da rinchiudere. »

« Ci tengo a semplificare le pratiche, lo sai. »

« Lucy, non esci con un uomo da... »

Da quel momento in poi, Fréd sentì solo il tu tu tu con cui la cornetta si era premurata di salutarlo. La cornetta, non di certo Lucy, che l'aveva maledetto dall'altro capo del telefono con parole talmente educate da far impallidire anche Marelli, tre uffici più in là.

« Tesoro, hai bisogno di qualcosa? Una camomilla, della cioccolata, un assorbente, sesso? »

« Vattene. Sono talmente eccitata che... »

« Perfetto, cominciamo? »

Questa volta la spillatrice lo colpì in pieno viso. E se ne andò, davvero.


Quando Amelia arrivò da Fréd, la porta era già aperta e un odore irresistibile volteggiava nell'aria, tanto che le pareva di vederlo. Seguì quella scia di piacere, mentre varcava la soglia, andò avanti col naso all'insù finchè non fu di fronte al forno, ad occhieggiare con desiderio ciò che c'era al suo interno. Fréd la trovò inginocchiata di fronte al vetro, con lo sguardo adorante e le narici tese.

« E' lei? » chiese semplicemente.

« Lì c'è la crema, lì le fragole. E' lei, sì. »

« Hai un favore da chiedermi? Devo comprarti i preservativi, un test di gravidanza, una pomatina per la favina, qualunque cosa di cui ti vergogni? Devo rigare una macchina, fare un colpo in banca, uccidere qualc...? »

« Amelia, sei talmente fuori di testa che le opzioni sono due: o sei sicura di aver trovato l'Autore con la A maiuscola, o hai fatto sesso » rispose a malincuore.

« La prima, Frééééééééd! E' lui! E comunque, dove l'avresti trovata quella camicia da giocatore di briscola? »

« Lui chi? » sputò astioso, ignorando volutamente l'ultima parte del discorso.

« Fréd, tu di certo non hai fatto sesso nè hai bisogno di preservativi. Perché quella faccia? Hai perso 61 a 59? »

« Mi sono svegliato così. Anzi, mi hai svegliato così. » Si strinse nelle spalle, cercando di capire cosa diamine avesse di sbagliato quella camicia.

« Pronto per lo scoop? O stai ancora pensando che avresti fatto meglio a giocare il re di picche? » Tirò fuori la pastafrolla dal forno, attenta a non distruggerla. « E' il Vampiro! »

Per la prima volta, Fréd si sentì più felice di lei. Scoppiò a ridere incontrollatamente, lasciò che i suoi lineamenti tirati si allargassero in smorfie di puro piacere, perse ogni contegno di fronte alla faccia sempre più sconvolta della sua Lucy.

« E, di grazia, qual è stato l'indizio fondamentale che ti ha convinto? » domandò senza riuscire a smettere di ridere.

« Beh, Marelli mi... oh, che diamine, che cazzo hai da ridere? Una mano fortunata? Hai mangiato tutti i carichi del tuo vicino di casa? »

« Lucy, il Vampiro ogni mattina prende il tuo treno » rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E anche la più liberante. Quasi salvifica. « Oh certo, se poi è Marelli a darti questi indizi... »

Il sorriso di Amelia si spense in un istante, come tutte le volte in cui qualcun altro aveva ragione, e quella ragione non la rendeva felice. E lo stesso fece anche il suo - per quei dannati effetti collaterali che dovevano per forza scaturire dall'amore non ricambiato. Dipendeva anche emotivamente da lei, adesso. Avrebbe sbattuto la testa contro il muro fino a romperlo.

« Dai, Lucy... vieni qui... »

Lei non si mosse, evidentemente incazzata come una iena per essersi illusa troppo. E Fréd diventò se possibile ancora più triste, sapendo di aver sfigurato quel sorriso che amava più del suo pianoforte. E allora fu lui ad andarle incontro, ad abbracciarla, sentendosi in colpa per non sapere chi fosse quel cazzo di Autore maledetto. Glielo voleva presentare lui, voleva renderla felice, voleva... cazzate. Lui la voleva per sè, e basta. Al massimo, le avrebbe concesso una notte di fuoco con lui, così, per essere magnanimo. O no, a ripensarci nemmeno quella.

Amelia si staccò senza provare nemmeno a dissimulare la tensione con una risata. « Hai una faccia atroce, Fréd. Si intona alla camicia. E comunque, sembra sia colpa tua. »

Lo è, si disse lui, senza riuscire a pentirsi per non averla svegliata. 

« Voglio dire, era così ovvio... Come farebbe ad arrivare lì prima di me, se neanche scende alla mia fermata? Quanto sono stupida... » realizzò, contrariata.

« Può capitare anche a te, a quanto pare. »

« Non ti ci abituare. » Si interruppe un secondo, per poi riprendere un altro discorso senza neanche avvertire. « E ripensandoci, ce l'hai sempre. Non la camicia, per fortuna, la faccia. E no, non sei brutto, non fare quella smorfia. Hai la faccia da... scontento, ecco. » Provò a smuovergli un labbro con il dito, per vedere se acquistava un aspetto migliore. Poi, la ritirò come scottata. « E comunque sei uno stronzo! »

« Solo perché il mio fiuto da investigatore è lievemente più sviluppato del tuo? »

« Di certo non il gusto nel vestire. » Non era mai stata così arrabbiata, mentre ricopriva di crema la pastafrolla, aggredendola con cucchiaiate sempre più violente. Anche perché Fréd gliel'aveva detto: i dolci vanno fatti con cura, altrimenti vengono brutti. Oh, in realtà gliel'aveva detto tipo vent'anni prima, quando ancora 'brutti' si diceva 'butti' e sua madre non sapeva che scuse inventarsi per tenerlo fuori dai piedi, mentre armeggiava ai fornelli. Ma ad Amelia piaceva crederci ancora, soprattutto perché la rilassava, mentre cucinava per non pianificare omicidi e pensare agli ingredienti di una torta piuttosto che ai componenti di una bomba artigianale. Poi, si fermò di nuovo.

« Certo che sei proprio un artista » sputò di punto in bianco, dopo averlo fissato in cagnesco per una manciata di minuti.

« Lo dici come se fosse un'atrocità. »

« Lo è » rispose senza battere ciglio.

« Ma sentila. E perché mai, di grazia? »

Non ci pensò neanche un attimo. « Voi artisti siete così... incompleti. » Fréd perse un battito. « Pessimisti, perennemente insoddisfatti... gorgoglianti, sì. Siete pentole a pressione, tanto borbottate. Mai niente che vi vada bene, sempre alla ricerca di quel qualcosa in più.. cazzo, neanche Schroeder era così fanatico con Beethoven. »

« Eppure Lucy lo amava » sibilò con una punta di risentimento - e una di speranza per la risposta che sarebbe arrivata.

« Lucy amava la sua Nemesi, mi pare ovvio. Lo amava perché erano complementari, lo amava perché voleva sentirsi completa. »

« Solo tu puoi arrivare a concepire una cosa simile... »

« Pensaci, Fréd. Nell'arte non c'è niente di determinato, si è necessariamente insoddisfatti. Chi farebbe musica, se la perfezione fosse già stata raggiunta? Chi dipingerebbe, se una fotografia potesse davvero cogliere l'essenza delle cose, o un quadro impressionista essere davvero quanto di più vicino alla realtà possa esistere? Per un artista, tutto manca di qualcosa. »

« Non capisco dove tu voglia arrivare. »

« Ti manca qualcosa, Fréd. »

« A me non... »

Ridacchiò. « Ma non lo vedi? Hai sempre qualcosa da ridire! »

« Dovevo nascere ingegnere, per essere felice? Secondo il tuo ragionamento non dovrebbe esistere neanche il progresso, Lucy. » 

« Sei l'unico artista scemo che conosco. Sei anche l'unico artista che conosco, a dire il vero, ma poco importa. Chi si affida ai numeri sa di rasentare la perfezione. Sa di avvicinarsi il più possibile al miglior risultato, e sa anche che ci sarà sempre qualcuno disposto a proseguire il suo lavoro, a limarlo, a renderlo più buono. Chi crea e progetta non può non sentirsi bene, se lavora nel modo giusto, non come chi si rifa a qualcosa che già esiste, e che teme di rovinare. »

« Tu selezioni manoscritti per una casa editrice, Amelia! Che diamine ne sai di come funzionano i numeri e chi li usa? »

« Fréd, hai idea di quanti bei lavori abbia dovuto cestinare, facendo calcoli sulla quantità di persone interessata dall'argomento, sulla difficoltà del linguaggio e dei temi trattati, e su chissà quante altre variabili? »

Fréd scosse ripetutamente la testa. « Continuo a non capire cosa c'entri questo con me. »

« Ti manca una donna » sparò lei con il tatto di un elefante. « Ti stai inacidendo come yogurt avariato, e tocca a me sopportarti ogni volta che ti lamenti di questo o di quello. E tocca a me bocciarti le camicie inguardabili, per inciso. »

« Ma io non... »

« Taci, artista » lo rimbrottò lei, mentre si incastrava con il braccio nella fodera rotta del cappotto.

« E a te non manca un uomo? » Fréd alzò la voce, nel tentativo di bloccarla nella sua corsa verso la porta. E fu in quell'esatto istante che si sentì quasi morire, realizzando quanto poco disinteressato fosse stato in quell'uscita disperata.

E Amelia in effetti si fermò, ad un passo dall'attaccapanni. « Io sono una donna, Fréd » esordì con una naturalezza capace quasi di far spavento. « Ho un cervello funzionante, del sano istinto di sopravvivenza ed una non trascurabile capacità di adattamento alla presenza di saltuarie teste di cazzo nella mia imprevedibile esistenza. Ah, e anche un paio di tette. »

« Cosa c'entrano le tue tette? » chiese lui allibito, fermando per un momento il flusso di pensieri imbizzarriti che lo logoravano.

Amelia scrollò le spalle, fissandosi il seno. « Il giorno in cui scoprirò cosa voi uomini ci trovate di così tanto stupefacente sarà un gran giorno: imparerò a vivere col sorriso idiota che avete ogni volta in cui un paio di capezzoli vi sfiora il naso. Pretendo di rinascere uomo, un giorno o l'altro, se basta così poco per essere felici. »

Richiuse la porta dietro di sè, e lui non poté fare a meno che cercarla in strada non appena fu scesa al piano terra ed uscita dall'edificio. « Sei un'artista anche tu, Amelia! » urlò con quanto fiato aveva in corpo.

Lei lo guardò sorridendo. Mosse appena le labbra, e lui non capì alcunché.

La vide sparire dietro l'angolo, nel passo svelto che aveva sempre e che mai avrebbe abbandonato - la infastidiva camminare lentamente, gliel'aveva ripetuto un'infinità di volte. Il suo sguardo vagò poi su una madre esasperata da un bambino urlante, su un cane e poi sull'uomo che lo teneva al guinzaglio, su un gatto sinuosamente furtivo e sulla ragazza che lo fissava sovrappensiero.

E poi, li chiuse tutti fuori da casa sua. Li lasciò esplodere in una bolla effimera, relegandoli allo status di ricordo impalpabile e passeggero.

Si ritrovò ad insistere quasi violentemente sulla maniglia di ottone, si ritrovò perfino ad imprecarle contro, eppure quella dannata finestra non ne voleva sapere di sigillarsi per bene. Quel
vetro cacofonico e traballante l'aveva sempre lasciato, quell'angusto
spiraglio aperto per lei.

Per lei che gli inviò un messaggio, un attimo dopo.

Non credere che mi sia dimenticata della torta: portala da me, che ceniamo insieme. Vieni alle otto, e sii puntuale come me.
Ah,
ho sillabato 'quella camicia fa schifo', mentre me ne andavo. E poi te l'ho sempre detto, che non sai giocare a briscola.





*





Mi trovate QUI, se volete.

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