Mille mondi, mille vite, mille noi

di fragolottina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1.0 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1.1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1.2 - prima parte ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1.2 - seconda parte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 1.3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 1.4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 2.0 - prima parte ***
Capitolo 8: *** Capitolo 2.0 - seconda parte ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1.0 ***


olivia
fragolottina's time
care lettrici o lettori eventualmente...
questa storia è un casino...però secondo me è un casino che può dare soddisfazioni...
sconsiglierei la lettura ad i facilmente impressionabili, la Morte sarà un personaggio chiave (visto la 'm' grandissima), sarà dark, sarà triste, velatamente horror e chi più ne ha più ne metta...
ma ci sarà anche l'amore, tanto amore (se è tra i romantici...), un amore che secondo me vale la pena di leggere...
sembro una televendita...
in realtà sto cercando di convincervi a dare un possibilità ad Olivia ed a me...è il primo fantasy serio che provo a pubblicare,  ne ho scritti TANTI, ma...boh...li sento molto miei e sono un po' protettiva nei loro confronti - si stiamo parlando di racconti. si, sono matta da legare. no, non credo di essere pericolosa.
maperchè io deliro sempre?!
beh, vi lascio al prologo che non si chiama 'prologo', non sapete che fatica è stata organizzare al mia idea in modo decente! è un po' cortino...ma beh, è solo il prologo!



12 anni

CAPITOLO 1.0

Lui le farà del male, sai che lo farà. Per questo ha ucciso suo padre.’
    Hope guarda la figlia dormire quasi in trance, abituata a fidarsi ciecamente della voce che non l’ha mai lasciata, quella voce che sente da quando la figlia è nata. Da quando ha visto lui guardarla, la sua bambina nella culla, appena nata. Sa di potersi fidare di quella voce, tutti dovrebbero fidarsi della Morte. La Morte è una cosa certa.
    ‘Hai provato a tenerli lontani, ma non è servito, li hai visti insieme, ricordi?’
    Ricorda. Ricorda perché non se lo aspettava, stava sempre così attenta. Il giorno prima quando era tornata da scuola, sua figlia era tremendamente contenta, ancora persa nell’eccitazione le aveva raccontato che un ragazzo la aveva accompagnata a casa, un ragazzo che le piaceva.
    Hope aveva guardato fuori dalla finestra ed aveva visto lui.
    «Povera, la mia Livy.» mormora con rammarico.
    ‘C’è un modo, io l’ho visto. Se sarà tua sorella a prendersi cura di lei, sarà salva.’
    «Phoebe?» domanda cercando di capire. «Ma come…?»
    ‘La vita di tua figlia non vale più della tua?’
    Hope torna nella sua camera ed apre il secondo cassetto del comodino, ci sono tre tubetti di pillole, prende cinque compresse di ognuna, le raccoglie e va in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Prima di tornare nella sua stanza si ferma in quella di Olivia e le da un bacio. Lo sta facendo per lei, vuole che lo sappia. Lo vedrà, lei vede. Vedrà che la sua mamma ha dato la vita per offrirle un’ultima possibilità, può ancora salvarsi. Glielo ha detto la Morte.
    Si siede sul proprio letto ed ingoia tutte le pillole aiutandosi con quell’unico bicchiere d’acqua.
    «Non permettergli di prenderti, Livy.»

Aprii gli occhi e mi diressi piano in salotto, il telefono più vicino era in camera di mia madre, ma io non volevo assolutamente entrare lì. Composi il numero di mia zia a memoria ed attesi, attesi che rispondesse.
    «Pronto?»
    «Zia, sono Olivia.» la sentii frugare, probabilmente alla ricerca dell’orologio, ma non era l’ora quello su cui doveva concentrarsi. «Ho visto la mamma morire.»


mm...iniziamo proprio bene...
mi rimetto umilmente al vostro giudizio...
baciotti



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Capitolo 2
*** Capitolo 1.1 ***


olivia
fragolottina's time
buongiorno care, continuiamo con questo dlirio...
dunque questo capitolo è di un lunghezza decente da chiamarlo tale, qualcosa vi spiego, ma molto poco in realtà...
purtroppo, ci muoveremo molto lentamente e le spiegazioni arriveranno un pezzetto per volta...dai se vi dico tutto e subito poi che ci diciamo?
va beh...ci vediamo più giù...



15 anni


CAPITOLO 1.1

Quando mi trasferii da zia Phoebe rimasi tappata dentro il sottoscale per settimane, affascinata dal fatto che fosse l’unica stanzetta di quella casa senza finestre e quindi – nella mia ingenua visione di dodicenne – la più sicura. Uscii solo dopo un sogno.
    Sognai di essere davanti ad una finestra chiusa. Dall’altra parte del vetro c’era lui, non aveva volto, non aveva forma, una macchia indistinta con le sembianze umane che raccoglieva in sé ogni mia paura; nel mio sogno sapevo che se avesse voluto sarebbe potuto entrare, che la maniglia abbassata non era un vero ostacolo per lui. Continuavo a fissarlo terrorizzata finché non mi rendevo conto di avere una chiave in mano. Un oggetto antico e lucido. Mi alzavo e quando l’avvicinavo alla finestra sentivo scattare qualcosa; lui allungava la mano, allora, e cercava di aprire, ma non poteva, non ci riusciva.
    Quando avevo aperto gli occhi, sapevo che quella chiave doveva essere lì intorno da qualche parte e mi ero messa a cercare tra le cianfrusaglie che mia zia aveva accumulato durante la vita. C’erano buste di vestiti smessi, scatoloni di libri di quando era andata a scuola; se non avessi avuto tanto bisogno di quella chiave per il mio equilibrio interiore, mi sarei resa conto che non era poi tanto diverso dal cercare il profetico ago nel pagliaio. Ma non mi arresi ed infine la trovai, dentro un porta gioie infondo ad una scatola piena di decorazioni natalizie. Era appesa ad una catenina argentata e me la feci passare intorno al collo.
    Mi alzai cauta per non sbattere la testa contro il soffitto troppo basso e mi avvicinai alla porta del sottoscale, come nel sogno si sentì lo scatto della serratura; allungai la mano ed abbassai la maniglia, io potevo uscire liberamente, ma lui non poteva entrare.
    Ero andata da mia zia rigirandomi la chiave tra le dita – la prima volta di quello che sarebbe diventato un vizio. Lei era in cucina a preparare la marmellata, non si mostrò stupita nel vedermi, continuò quello che stava facendo.
    «Posso tenerla?» le avevo domandato.
    Aveva alzato gli occhi e mi aveva studiata. «Solo se ricominci ad andare a scuola ed a stare nella tua camera.» avevo annuito. «Aiutami.» aveva continuato lei. «Sciacqua qui barattoli, tra poco dovrò riempirli.» mi ordinò continuando a girare la frutta nella pentola.
    Quel giorno, però, avevo anche sentito per la prima volta la sua voce.
    ‘A diciassette anni, non ci sarà serratura in grado di tenermi lontano da te.’
    L’avevo ignorata, ma le mie mani avevano iniziato a tremare.

‘Non lasciarti prendere, Livy.’

Mi sentivo un’estranea. Sempre. Ovunque. Quando parlavo era come se non fossi io a farlo, quando sorridevo mi chiedevo perché, quando un ragazzo mi invitava ad uscire non trovavo un motivo valido per andare. Lo avrei lasciato a diciassette anni, avrei lasciato tutto a diciassette anni. Niente aveva senso.
    Le persone intorno a me si affaticavano, compiti, interrogazioni, essere popolari, niente destava il mio interesse, perché niente sarebbe durato. La zia continuava a ripetermi che c’era ancora la possibilità che andasse tutto per il verso giusto, ‘Infondo tua madre si è uccisa per questo, no?’, ma io non ne ero così sicura. Lei non aveva sentito quella voce, io si.

Quel giorno pioveva, uno deglii ultimi veri temporali prima dell'estate, probabilmente, e tutti gli altri studenti erano in fermento alla ricerca di impermeabili, cappucci da alzare, fortuiti passaggi da chi più lungimirante di loro aveva pensato di prendere un ombrello.
    Io ero china alla ricerca del mio, non ero in fermento, non avevo fretta, sapevo che l’ombrello c’era, mi ero vista sotto il portico di casa mia chiuderlo ed infilarlo nel portaombrelli circa mezz’ora dopo, le mie visioni non sbagliavano mai. Ma a volte non arrivavano con sufficiente anticipo.

Un bullo in vena di fare dispetti tira il cappuccio di una compagna, la ragazza si volta sorpresa, travolgendone un’altra troppo occupata a cercare l’ombrello sul fondo dello zaino per guardare il mondo che la circonda.

Ci scontrammo in uno sparpaglio di libri e carte con il dorso rigirato.
    Si coprì la bocca con la mano sinistra stupita, come se non avesse idea di cosa fosse successo; era una tipa bizzarra, una specie di strega new-age simile a quelle che alle bancarelle vendevano porta fortuna per pochi spiccioli. Era carina, aveva i capelli scuri, intrecciati troppo mollemente che lasciavano diverse ciocche ad incorniciargli il viso.
    Si chinò a raccogliere le nostre cose ed io la seguii aiutandola, feci per sollevare una carta, ma lei mi fermò prima che la toccassi.
    «Aspetta!» la guardai sorpresa, lei mi regalò un sorriso abbagliante, per contrasto con il suo rossetto scuro i denti sembravano bianchissimi. «Chiudi gli occhi e scegli quella che ti sembra calda, fredda o ti resta attaccata alle dita.»
    Alyssa Masen, sedicente veggente, leggeva i tarocchi nei bagni per un dollaro. La conoscevo di fama, non sapevo se fosse davvero in grado di leggere il futuro, ma per essere sicura che non leggesse il mio, le stavo alla larga, evitando il bagno dove praticava la sua arte.
    Ritirai le mani come se mi fossi scottata. «Ti ringrazio, ma meglio di no.» dissi cercando di essere gentile e chiudendo i pugni per non farle vedere che tremavo.
    «Dai!» mi incitò. «È stagione di balli, non vuoi sapere se ‘lui’ ti inviterà?» cercò di tentarmi.
    Per poco non le scoppiai amaramente a ridere in faccia. Si, probabilmente qualcuno mi avrebbe invitata, ma io non ci sarei andata, non guardavo i ragazzi come non avrei guardato un vestito che non potevo permettermi.
    «Non devi avere paura del tuo destino.»

Cento facce, cento Alyssa Masen che sorridono, in cento versioni e vestiti differenti. «Non devi avere paura del tuo destino.»

Io lo conoscevo il mio destino e si, mi faceva paura terribilmente.
    Ma continuare a dirle di no significava soltanto rimandare quella tortura.
    Alzai gli occhi al cielo sospirando, poi li chiusi e le porsi la carta che avrei voluto raccogliere, quella che lei mi aveva detto di non toccare; quando li riaprii lei stava sorridendo della mia testardaggine, ma non appena abbassò lo sguardo il suo sorriso si spense.
    La morte.
    Davvero divertente.
    Mi fissò sorpresa, ma non spaventata o mortificata come mi sarei aspettata, sembrava più cha altro pensierosa. «Tu sei sua.» sussurrò. «Tu sei…»
    «Non importa.» la interruppi bruscamente raccogliendo un paio di libri senza nemmeno guardarli, il corridoio scolastico era appena diventato troppo stretto, troppo affollato, soffocante. Volevo uscire di lì al più presto.
    Mi rincorse. «N-non…aspetta!» mi prese per un braccio trattenendomi, alcuni ragazzi intorno a noi si fermarono a guardarci, qualcuno tossicchiò un ‘lesbiche’, credendo di essere divertente. «Io, te…non capisci?» nei suoi occhi c’era una luce, un qualcosa di febbrile e spaventoso.
    Indietreggiai lentamente, poi scappai via sotto la pioggia.
    Solo sulla metropolitana mi accorsi di aver preso il suo libro invece del mio, sfogliai alcune pagine, imbattendomi in scritte, disegnini, faccine tristi e felici, come i libri di tutte le ragazze. Trovai anche un segnalibro fatto a mano, un ritaglio di giornale incollato sul del cartoncino ed avvolto nello scotch, profumava di cannella; me lo tenni premuto contro il naso per tutto il tragitto fino a casa, per scacciare l’odore di chiuso e di troppe persone stipate nello stesso spazio.
    Mia zia era in veranda, ricamava qualcosa seduta su una sedia di vimini; era un’infermiera e nel tempo libero che le lasciavano il lavoro in ospedale e l’occuparsi di me, si dedicava a tutti quei passatempi che prevedevano l’uso di ago e filo. Una volta aveva cercato di insegnarmi, ma con scarsi risultati. Lanciò un’occhiata speculativa ai miei vestiti zuppi, che non mi sfuggì, ma non fece domande, questo significava semplicemente che aveva già le risposte.   
    «Hai mai pensato ad un lavoretto estivo?» mi chiese, mentre io mi sedevo su una sedia come la sua. Sul tavolo davanti a noi mi aveva apparecchiato la merenda: un bicchiere di limonata e due tramezzini con burro e salmone, i miei preferiti.
    Era una tradizione, lui le aveva insegnato cosa mi piaceva e lei ne aveva approfittato credendo di farmi contenta. Trovavo fuori luogo da parte sua che parlasse e discutesse tranquillamente con qualcuno in realtà tanto pericoloso per me, come poteva aiutarmi ad essere libera se fraternizzava con lui?
    «Sta arrivando l’estate, avrai tanto tempo libero. Trovo meraviglioso che lo scorso anno tu abbia passato la bella stagione a leggere, ma mi piacerebbe vederti fare anche qualcos’altro.» non risposi, scelsi accuratamente il tramezzino più bianco e lo addentai, masticando lentamente. «Potresti anche divertirti, fare amicizia.»
    «Claire è la mia migliore amica.» o almeno così avevo imparato a considerarla, sedevamo insieme alle lezioni ed a pranzo e parlavamo di cose futili. Il massimo a cui credevo di poter aspirare.
    Nonostante non alzasse gli occhi dal lavoro non mi sfuggì il suo scetticismo. «Magari un’amica con cui parlare di tutto…» azzardò uno sguardo mentre prendevo un sorso di limonata. «tutto.» precisò.
    Risi. «E credi che una persona del genere esista?» le domandai sarcastica.
    «Credo, che ne avresti bisogno.»
    Non fu quello che disse, fu come lo disse. Il tono pacato e disinteressato, ma allo stesso tempo invitante, stava cercando di persuadermi. «Non fai prima a dirmi quello che hai visto?» sbottai secca, odiavo quando si metteva fare certi giochetti con me. A volte avrei voluto che la smettessimo con la pagliacciata della vita normale, famiglia normale, amicizie normali. Vivevo con la certezza di avere poco tempo a disposizione, che la mia vita non era normale, che mia madre aveva preferito mandare giù una manciata di pillole piuttosto di vedere la mia ora suonare, che l’amicizia si fondava sulla sincerità, sul condividere ed io non avevo nessuna verità da condividere. Non sarebbe stato molto meglio chiamare le cose con il loro vero nome? La mia vita era breve e tragica.
    «Sai, che non sono brava come te.» mi rispose paziente.
    Era vero, per quanto le mie visioni potessero essere ritardatarie erano precise e nitide. Erano qualcosa di mio e per me, non avevo mai avuto bisogno di chiarire il loro significato, era come se parlassero la mia lingua. Quelle di mia zia erano in cinese mandarino e lei non era affatto una brava interprete, capiva il senso generale, ma niente dettagli, niente spiegazioni.
    «Ti ho vista sorridere. Per davvero, non come fai con i figli dei vicini quando ti salutano.» si strinse nelle spalle ed alzò gli occhi dal suo ricamo per fissarmi. «Secondo me vale la pena tentare.»
    Avrei anche potuto farlo, infondo, non avevo molti impegni che mi occupassero la vita, ma avevo quindici anni. «A nessuno serve qualcuno tanto giovane.» soprattutto perché era potenzialmente illegale, dubitavo che la polizia esaminasse i documenti negozio per negozio di tutti quelli che ci lavoravano, ma nessuno si sarebbe mai preso un impegno del genere: se mi fossi fatta male, se fossi anche soltanto inciampata, sarebbero stati problemi.
    «Quella ragazza può aiutarti.» disse con finta nonchalance, lanciandomi un’occhiata veloce per vedere l’espressione sgomenta sul mio viso.
    «Hai visto anche lei?!» domandai incredula ed infastidita che mi rivelasse le cose a rate.
    Mi studiò critica per il mio tono. «Prendi un sorso di limonata, Olivia.» sospirai, ma obbedii. «Si, ho visto anche lei. Eravate insieme quando tu stavi ridendo, dalle una possibilità. Ci sono cose che con lei puoi condividere.»
    La sua follia, per esempio.
    Mi alzai diretta in camera mia. «Ci penserò.» bugia. Ci avevo già pensato ed ero arrivata alla conclusione che: primo, non sapevo dove trovarla fuori da scuola; secondo, non avevo intenzione di avvicinarla a scuola, mai più finché non mi fossi diplomata; terzo, confessare quello che ero ad una persona tanto eccentrica poteva essere decisamente pericoloso. Quindi, no, grazie.
    Non appena varcai la soglia della mia stanza, la serratura scattò, ma io sbiancai lo stesso. La finestra era aperta.
    Corsi a precipizio a chiuderla ed afferrai la chiave che mi portavo sempre al collo per sigillarla, non guardai al di là del vetro, dopo quella visione – che mi aveva aiutata, ma anche terrorizzata – avevo sviluppato una paura cieca per quello che poteva esserci dall’altra parte di un vetro; quindi, non appena fui sicura che lui non potesse entrare, tirai bruscamente la tenda. Deglutii con il cuore in gola e mi voltai a studiare la mia camera con il terrore che fosse troppo tardi, che lui fosse già entrato; un brivido caldo e freddo mi si addensò dietro la nuca, ricoprendomi improvvisamente la schiena di una patina di sudore.
    Ma la mia stanza era vuota.
    Lasciai la borsa sul letto e scivolai a sedere con la schiena contro la porta; lì ero nascosta dietro l’armadio, io non potevo vedere la finestra, non avrei visto nessuna ombra indistinta dalla forma umana, e se ci fosse stato qualcuno non avrebbe potuto vedere me. È stata solo la zia, per cambiare aria. Quando ci sono io è sempre tutto chiuso. Ma il mio cuore martellava insistentemente nel petto, come un tamburo di morte.
    ‘Non lasciarti prendere, Livy.’
    La mia borsa si aprì lasciando cadere i libri, anche quello che avevo preso per sbaglio ad Alyssa Masen, magari non volevo ascoltare il consiglio di mia zia, ma in ogni caso quel testo andava restituito; lo recuperai chiedendomi se non potessi essere tanto fortunata da trovare il suo indirizzo o numero di telefono scritto all’interno della copertina. Non lo scrivevo mai nemmeno io, anche se il primo giorno di scuola tutti i professori ci invitavano a farlo, proprio in previsione di incidenti come quello.
    Ma quando lo sollevai un cartoncino rotondo si sfilò dalle pagine e rotolò sotto il mio letto. Gattonai più vicina ed allungai una mano per recuperarlo. Era un sotto bicchiere di quelli che usavano i pub per proteggere i tavoli, da un lato c’era stampato il nome del locale: ‘Draw Cuts’. Feci una smorfia, ‘tirare a sorte’, davvero simpatico.
    Me lo rigirai tra le dita, dall’altra parte scarabocchiato a penna c’era il messaggio che avrebbe cambiato tutto la mia vita.
    ‘Cercasi perennemente personale, perché ci piacerebbe barattare Sebastian con un cameriere vero.’

Un ragazzo alto e moro, i capelli lunghi fino alle scapole ed intrecciati in lunghi dreadlocks; sorride ad Olivia accanto a lui ed Olivia non riesce a staccargli gli occhi di dosso perché ha un sorriso bellissimo. Dice qualcosa, qualcosa che la fa arrossire, poi si sporge verso di lei e la bacia.
 
Mi scrollai da quella visione, metà imbarazzata e metà eccitata e tornai a studiare il dischetto di cartone che avevo tra le mani; la calligrafia veloce, ma chiara che aveva scritto il messaggio. Il ‘Draw cuts’.
    Il libro di Alyssa Masen avrebbe dovuto aspettare, ma zia Phoebe sarebbe stata contenta.


che vi dico?
vi posso dire che se le mie capacità di sintesi sono leggermente accettabili nel prossimo capitolo dovrei riuscire a spiegarvi qualcosa...no, non ci contate, ho una visione nel quale continuo a scorrere pagine e pagine...e pagine e pagine di Word...
in ogni caso, anche dovessi dividere in due il capitolo 1.2 - che diventerebbe il capitolo 1.2 prima parte...no, non chiedetemi perchè chiamarli come tutte le persone normali mi faceva così schifo...non lo so - ci sarebbe qualcosa di interessante da leggere...
come cosa? il figo della situazione!
chiunque si sentirà così coraggioso da recensirmi verrà ricordato nelle mie preghiere!
baciconfusiquantovoi!


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Capitolo 3
*** Capitolo 1.2 - prima parte ***


olivia fragolottina's time
mie care lettrici, come potete vedere sono stata profetica...quindi, no, niente spiegazioni...
ma nel prossimo si, ve lo prometto...
comunque per compensare la mancanza di una trama intellegibile, vi presento un paio di personaggi fondamentalissimi! quindi ricordateveli bene ed iniziate a volergli bene...
vi dico più giù...



CAPITOLO 1.2 – prima parte

Chiesi a mia zia se sapesse dov’era il locale ed anche se feci di tutto per sembrare relativamente disinteressata, evidentemente non riuscii ad essere abbastanza riservata da impedirle quel sorrisetto alla ‘Te l’avevo detto’. Non ero del tutto sicura che fosse una buona idea, se, come io ipotizzavo, era proprio lui a far sì che sia io che mia zia vedessimo, probabilmente cercava di guidarmi verso la strada che mi avrebbe più facilmente spinto nella sua gabbia: naturale. Ma non potevano essere tutte sue concessioni, altrimenti non mi avrebbe lasciato scoprire la chiave per tenerlo lontano da me.
    Mi massaggiai le tempie con le dita affranta, a volte era così difficile capire quale fosse la cosa migliore da fare. Mi guardai intorno, alcune persone mi osservavano curiose dai sedili della metropolitana; cercando di darmi una ricomposta e sembrare più normale, frugai nella mia borsa e ne estrassi il dischetto di cartoncino prelevato dal libro di Alyssa Masen. Lo avvicinai al naso con una sorte di incosciente intuizione: anche quello profumava di cannella, doveva aver assorbito il profumo del segnalibro.
    Zia Phoebe mi aveva spedito in periferia, in confronto a dove abitavo io sembrava proprio un altro mondo; con lo stipendio da infermiera e l’assicurazione sulla vita, che mamma si era premurata a lasciarmi, potevamo permetterci una bella casetta nella zona residenziale della città. Era come quelle dei telefilm: bianca, con due piani e la mansarda, il giardino sul davanti e la staccionata di tavole bianche. Uguale ad altre mille case in quel quartiere.
    Dove mi trovavo, quando sbucai fuori dal sottopassaggio della metropolitana, non c’erano casette, né giardini. C’erano palazzi. Altissimi ed austeri, appartamenti ammassati uno sopra l’altro come tante scatole. Mi guardai intorno non sapendo esattamente dove dirigermi, mi sentivo un po’ persa; come Alice nel paese delle meraviglie, presi a scrutare tutto alla ricerca di un Bianconiglio che mi guidasse, o di una visione che mi desse un indizio.
    Niente. Forse lui non voleva che ci andassi. Se era così dovevo assolutamente raggiungerlo.
    Chiesi informazioni ad una signora che spingeva una carrozzina e lei mi disse di continuare in quella direzione e che presto avrei trovato un’insegna. Seguii il suo consiglio superando una chiesa gotica, mi fermai per un secondo a guardare l’enorme rosone colorato, all’interno era troppo buio però perché riuscissi a distinguere il disegno; per un secondo pensai di entrare e dare un’occhiata, ma guardandomi in giro mi accorsi che il sole stava già tramontando ed io dovevo essere a casa quando faceva buio.
    L’insegna era al di là di un incrocio che provvidi ad attraversare. Mi fermai a studiarla, era scolorita e vecchia, ma si poteva ancora riconoscere il logo – due dadi lanciati – il nome ed una freccia che indicava a sinistra; alla mia sinistra c’era un vicolo deserto e dall’aria non molto confortante. Osservai il sole sempre più basso nel cielo, chiedendomi quante ore di luce avessi ancora a disposizione e quanto ‘a sinistra’ fosse quel locale; forse sarebbe stato meglio tornare il giorno dopo, feci per rigirarmi e tornare alla metro, ma sospirando rimasi a guardare quel vicolo.
    Non mi sarebbe mica successo niente di male, no? Infondo, era una strada come un’altra, solo un po’ meno frequentata. Se per una volta avessi tardato un pochino a rientrare non sarebbe stata di certo la fine del mondo, avrei chiamato la zia quando fossi stata sulla metropolitana avvertendola che ero in arrivo e che non doveva preoccuparsi.
    Si, avrei fatto così.
    All’inizio cercai di evitare le pozzanghere, poi mi arresi, la strada era tutta dissestata e il temporale di poco prima l’aveva fatta sembrare una specie di palude; sospirando mi chiesi perché non poteva essere in centro, vicino al mio negozio preferito di vestiti, o nel centro commerciale, niente acqua lì. Guardai da entrambi i lati del vicolo con apprensione e sovrappensiero cercai la mia chiave stringendola come la mia personale ancora, era fredda, come sempre, per quanto stesse a contatto con la mia pelle non si scaldava mai.

Una ragazza castana di spalle, con i capelli legati in cima alla testa in un coda di cavallo. Una borsa le pende dalla spalla sinistra fin sotto il sedere, indossa una giacca a vento impermeabile ed un paio di jeans troppo lunghi resi più scuri sul fondo dall’acqua.

Rallentai incerta e mi guardai, quella ragazza ero io.
    Aguzzai le orecchie ed iniziai a sentire il tonfo di passi alla mie spalle, qualcuno mi seguiva. Il battito del mio cuore fece una capriola spaventata, iniziando a bussarmi nelle orecchie come se volesse urlarmi la sua apprensione: grazie tante, ma sono anche io preoccupata.
    Deglutii, ma continuai a camminare, in ogni caso non c’era molto altro che potessi fare; di persone, non ce n’erano e se fossi tornata indietro gli sarei solamente andata incontro. Avrei trovato il locale, una volta attraversata la soglia lui non sarebbe potuto entrare e se non fosse stato lui, comunque ci sarebbe stato qualcuno a cui chiedere aiuto. Dovevo solo raggiungere il ‘Draw Cuts’ prima che chiunque avessi alle spalle, raggiungesse me.
    Iniziò a fischiettare un motivo che conoscevo, un pezzo che facevano sentire molto spesso alla radio; saperlo così sicuro di prendermi da fischiettare e continuare a camminarmi dietro tutto tranquillo non mi rendeva molto felice, ma…
    ‘Draw Cuts’. Guardai l’insegna sopra la porta incredula, l’avevo raggiunto, ce l’avevo fatta. Mi avvicinai e provai ad abbassare la maniglia, per impallidire subito dopo: era chiuso. Provai ancora, bussai sul vetro sbirciando all’interno, ma era tutto buio ed a quel punto io ero…
    Chiunque mi stesse seguendo si fermò dietro di me.
    Continuai a fissare con un nodo in gola il cartello con gli orari di apertura che sembrava deridermi, era un locale notturno ed io ero in trappola.
    Sentii uno scatto, qualcosa che avrei dovuto riconoscere, ma che la mia mente troppo spaventata non riusciva a collegare. «Stupidissimi cosi!» sbottò una voce seccata.
    Mi lanciai una cauta occhiata alle spalle e lo vidi. Era il ragazzo della mia visione che inveiva contro un accendino, per poi tirarlo lontano da lui indispettito. Indossava una giacca di pelle nera, sportiva, sotto lasciava vedere una maglietta verde militare; aveva un paio di pantaloni molto larghi e molto consumati, tanto da farmi trovare sorprendente che non si fossero ancora strappati. Rimasi a guardare all’altezza delle sue ginocchia, scoprendo che in effetti erano strappati.
    «D’ora in poi solo fiammiferi.» borbottò tra sé.
    Non potevo sbagliarmi, quante persone avrei potuto incontrare con tutti quei dread? E comunque…no, non potevo sbagliarmi era senz’altro lui ed era…bello. Aveva gli occhiali, questo non l’avevo visto, ma non rovinavano affatto la sua immagine…no, per niente.
    «Ciao.» mormorò studiandomi pensieroso, con la sigaretta ancora spenta che gli pendeva dalle labbra.
    «C-ciao.» balbettai in risposta.
    «È chiuso.»
    Deglutii, avevo ancora una mano sulla maniglia e la stavo stringendo in modo spasmodico, ma la paura mi stava scorrendo nelle vene al posto del sangue, densa e paralizzante, ed avere a che fare con il lui che stavo cercando – e non quello che cercava me – non era proprio la cosa che più mi avrebbe calmato.
    Si avvicinò a me cauto e si tolse di bocca la sigaretta, continuando a fissarmi. «Ti senti bene?»
    «Io…io c-c-credevo…» eddai, Olivia! Lo osservai affranta.
    Lui si avvicinò ancora e strattonò la mia mano. «Lascia.» alzai il viso per guardarlo, lui lo stava già facendo. «Su, da brava, ragazzina.» mi tolse un dito alla volta, poi mi sistemò il braccio lungo il fianco. «Ecco, bravissima.» continuava a parlarmi con una strana voce rassicurante come se si trovasse davanti qualcuno con evidenti problemi mentali.
    «Ehi!» sbottai infastidita.
    Lui ridacchiò. «Ho una visione.» annunciò, posandosi una mano sugli occhi e lasciando vagare l’altra come davanti ad un sfera di cristallo, lo fissai attenta e curiosa. «Tu sei senz’altro un’amica di mia sorella.» sospirò. «Che avrete in quella testa…» cercò nelle tasche e tirò fuori un mazzo di chiavi tintinnante. «Cos’è sei arrivata in ritardo per il ritrovo pomeridiano?»
    «Non conosco tua sorella.» alla fine c’ero riuscita a dire una frase completa e di senso compiuto, avevo mormorato, ma non importava.
    «Ah, no?» mi prese in giro. «Non sei qui per chiederle se il bello della situazione ti inviterà al ballo, quindi?» mi domandò ironico appoggiandosi allo stipite, provocatorio ed in attesa di mie spiegazioni.
    «Oddio!» e non ci voleva assolutamente una visione per collegare tutto. «Alyssa Masen è tua sorella.» sgranai gli occhi incredula.
    «Già…» esclamò lui tornando a trafficare con la porta.
    Oh, sicuramente stava pensando che ero una di quelle disperate, pronte a dare un dollaro per farsi sfogliare un mazzo di carte, che cosa patetica. «Ma io non sono qui per lei…» mi sbrigai a giustificarmi. «io sono qui…» mi lanciò un’occhiata curiosa, non potevo mica dirgli che ero arrivata fin lì per cercare lui.
    «Guarda che non devi vergognarti.» scosse la testa sorridendo. «Non di me, almeno…» mi fece un cenno con la testa invitandomi a precederlo e si strinse nelle spalle. «sono il fratello della ‘sensitiva’.»
    Risi passando sotto il suo braccio che mi teneva aperta la porta. «Ma non sono qui per quello.» ripetei ancora.
    «No, no, certo.» acconsentì sarcastico, seguendomi e chiudendosi la porta alle spalle.
    Il locale non era del tutto vuoto, infondo alla sala principale, illuminato da una candela, c’era un tavolo e sedute a quel tavolo due ragazze chine a sbirciare qualcosa; in piedi, a qualche passo di distanza da loro, una terza persona aspettava con le mani incrociate sul petto, fingendo di non ascoltare quello che dicevano.
    «Aly, ce n’è un’altra.» la avvertì il fratello.
    Lei sollevò il viso e fissò me immediatamente. «Finalmente!» esclamò alzandosi in fretta e venendo nella mia direzione, avevai capelli sciolti in quel momento e le scivolavano come un'onda morbida e nera fino ai gomiti. «Signore…» chiamò le sue due ‘clienti’ superandola. «le sedute sono sciolte.» mi raggiunse prendendomi la mano calorosamente. «Sono contenta che tu sia passata.» mi guardai intorno perplessa, ma suo fratello era andato dietro un bancone da bar e parlottava con un altro ragazzo indicandomi e…oh, fantastico…ridendo.
    «Non è giusto, Alyssa, ho aspettato mezz’ora!»
    Lei alzò gli occhi al cielo sospirando, poi si voltò e le lanciò un’occhiata. «Tu non vuoi che Benjamin Stuart inviti Sally, giusto?» le domandò partecipe. «Ma potrebbe succedere se mi fai innervosire.»
    Per un po’ continuarono a guardarla, poi capirono che lei non aveva niente da perdere, mentre loro, si.
    Aspettò che si chiudessero entrambe la porta alle spalle, prima di tornare a prestarmi davvero attenzione, mi fece l’occhiolino complice, mentre io continuava a studiarla a dir poco…stupita? Decisamente un eufemismo. «Sistemiamo le cose qui, poi andiamo a fare due chiacchiere più in solitario, che dici?»
    «Ecco, io veramente…» non impazzivo dalla voglia di rimanere troppo sola con lei.
    «Sapevo che saresti stata d’accordo!» annuì tirandomi verso il bancone, quando fummo davanti si schiarì la voce ed entrambi i ragazzi smisero di fare quello che facevano per ascoltarla. «Maxi, Sebastian, vi presento Olivia Mulligan.»
    Maxi alzò gli occhi al cielo sospirando. «Perché ho il presentimento che quello che dirai non mi piacerà?» le domandò il fratello.
    «Benvenuta al ‘Draw Cuts’, cara.» mi sorrise gentile l’altro porgendomi la mano, era il tipico ragazzo dai capelli rossi: pelle pallidissima, occhi verdissimi e tante, tante, tante lentiggini; non poteva definirsi propriamente bello, quello che aveva in mezzo al viso era decisamente un naso molto importante, ma aveva l’aria simpatica. «Io sono Sebastian.»
    «Ciao.» risposi intimidita stringendogliela, cos’altro avrei potuto fare a quel punto?
    «Bene…» esordì Alyssa. «fatte le presentazioni posso annunciarvi che da questo fine settimana lei lavorerà qui.» tutti e due la fissarono increduli, troppo stupiti per dire qualsiasi cosa. «Ora dovresti proprio tirare fuori quel sotto bicchiere.» mi suggerì in un bisbiglio.
    «Oh…» mi chinai iniziando a frugare nella mia tracolla, rimescolai il suo contenuto per un bel po’ prima di tirare fuori quel cartoncino e posarlo sul piano del bancone.
    Maxi sbuffò. «Lo vedi, Seb, in un modo o nell’altro è sempre colpa tua!» lo rimproverò dandogli un colpetto dietro alla nuca. «Alyssa, sorellina…» iniziò. «sii ragionevole, forse un altro barista ci serve sul serio, ma lei…» mi studiò sospirando. «non che abbia qualcosa contro di te, insomma, come vedi le psicopatiche sono ben accolte, ma…»
    «Ehi!» sbottai ancora, non ero psicopatica…poco convenzionale diciamo, ma la mia psiche era perfetta…beh, insomma.
    «Maxi, fratellone…» sorrise Alyssa tutto miele. «se non accetti tu, che gestisci, chiederò a Diego, che è il proprietario.»
    «Fregato!» lo prese in giro Sebastian ridendo.
    Lui chinò la testa all’indietro piagnucolando e si lasciò andare ad un momento di sconforto, poi si risollevò risoluto. «Guarda, che è il locale di tuo padre, dovresti essere molto più preoccupato di me.»
    Il ragazzo si strinse nelle spalle senza staccare gli occhi da Alyssa. «Sai, che a casa mia non dubitiamo mai delle sue parole.» lanciò un’occhiata a Maxi. «Tanto vale che le trovi qualcosa da fare, mio padre non la contraddirà mai.»
    «Ok, ok.» fece il giro del bancone e si sedette su uno sgabello, facendomi cenno di accomodarmi in quello vicino. «Sebastian e Alyssa, intanto iniziano ad apparecchiare i tavoli, io faccio finta di farti un colloquio.»
    Seguii con lo sguardo Alyssa avvicinarsi ad un mobile e tirare fuori un pacco di tovagliette di carta e tovaglioli, mentre Sebastian iniziava a tirare giù le sedie.
    «Dunque, il tuo nome.»
    «Olivia Mulligan.»
    «Quanti anni hai?» si coprì gli occhi con la mano spaventato dalla mia risposta.
    «Ehm…» deglutii. «Sedici.»
    Mi lanciò un’occhiata scettica sollevando la mano. «C’è scritto così sulla tua carta d’identità?» feci per rispondere, ma lui mi bloccò. «No, lascia stare. Non dirmelo.» sospirò appoggiandosi con un gomito al bancone. «C’è qualcosa che sai fare per la quale potresti tornarmi utile qui?» mi chiese speranzoso, ma io scossi la testa. Magari avevo anche qualche capacità nascosta, ma visto che fino a quel momento era rimasta inutilizzata, non ne ero a conoscenza.
    Si morse il labbro iniziando a giocherellare con il sottobicchiere che avevo portato io, nonostante i dread, il suo profilo appariva comunque dignitoso ed in qualche modo, nobile. Era nei suoi occhi, nelle sue mani, negli occhiali dalla montatura pesante; qualcosa che sapeva di sacrificio, forza di volontà e orgoglio. Affascinante. Era un libro senza copertina e consumato, anche se non potevi sapere di cosa trattasse, doveva essere interessante se qualcuno l’aveva letto così tante volte da ridurlo in quel modo.
    «Hai meno di sedici anni. Non puoi vendere alcolici, figurarsi berli, in realtà non potresti nemmeno lavorare.» sospirò. «Ma Diego ti dirà di sì se glielo chiede Alyssa e chissà cosa ti farà fare.» rifletté sconsolato e la guardò. «Posso impegnarti con quello che fa lei: apparecchi e ripulisci. Durante la settimana mi basta che vieni per un’oretta, in modo che quando apriamo è tutto pronto, ma nel weekend c’è più gente, devi stare qui e liberare i tavoli man, mano che la clientela viene e va. Dovrai anche darci una mano a servire ai tavoli se siamo con l'acqua alla gola.» alzò gli occhi su di me. «Che ne pensi?»
    Non c’avevo pensato, non davvero. Non ero venuta per un lavoro, ero venuta per lui, perché l’avevo visto baciarmi e perché io non avevo mai baciato nessuno.
    No…però io conoscevo il sapore dei baci…non lo ricordavo, ma lo conoscevo…
    «Oddio, ti fissi proprio come lei!» mi schioccò le dita davanti agli occhi. «Sveglia, ragazza!»
    Scossi la testa tornando al punto della situazione. «Si…va bene…»
    «Ottimo. Cominci tra due giorni, dopo fatti dare il modulo per il consenso dei tuoi genitori.»
    «Non ha genitori.» ci raggiunse la voce di Alyssa, tragicamente mi stavo abituando al fatto che in qualche modo avesse un filo diretto per curiosare nella mia vita.
    Maxi mi studiò per un lungo momento pensieroso. «Mi dispiace.» si scusò. «Io non potevo sapere a differenza di lei.»
    Sorrisi. «Non è niente.» risposi ad occhi bassi.
    «No.» lo guardai, ma la sua espressione mi parve indecifrabile. «Non è vero.» disse convinto. «Comunque, mi serve la firma del tuo tutore legale.»
    Annuii, mia zia non avrebbe fatto storie, era stata lei a mandarmi lì.
    Alyssa ci raggiunse trotterellando contenta. «Lei ha fatto, io finisco dopo.» mi prese la mano, era più calda di me, ma presto mi ci sarei abituata. «Dobbiamo andare a discutere di alcune cose, ma torno presto.»
    «Fammi indovinare, a raccontarle cosa c’è nel suo destino?» domandò ironico il fratello.
    Ma lei scosse la testa sorridendo. «Lei cosa c’è nel suo destino lo sa già.»
    E stranamente la cosa non mi rendeva felice quanto lei.

è carino Maxi...ed io iniziavo ad aver voglio di parlare di qualcuno di diverso...e poi, dai, sono l'unica a pensare che gli outsider siano affascinanti?
spero di no.
vogliate bene ad Alyssa, al suo essere vagamente logorroia e svampita, perchè io gliene voglio molto...
che altro vi posso dire?
mm...
ah, beh, naturalmente nel prossimo capitolo che parleranno loro due vi racconto un po' di che bestia bizzarra è Olivia...prima o poi doveva succedere...
prima che lo scopriate o che iniziate a chiedermelo...uff, si è grande anche Maxi, non tantissimo, ma mi sa che siamo di nuovo sugli otto anni più di Alyssa e Olivia...non c'è un motivo preciso, ma nella trama - che non sembra, ma vi assicuro che esiste - mi funziona così...sennò poi dopo non mi si incrociano le cose...
va beh...
per eventuali domande fatemi sapere...
baciconirasta!

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Capitolo 4
*** Capitolo 1.2 - seconda parte ***


olivia fragolottina's time
...ma non li potevo chiamare capitolo 1 2 3...etc... no, capitolo 1.2-seconda parte...bah!
tornando a noi...questo capitolo mi piace abbastanza...soprattutto la parte finale...ve lo avevo già detto che sono un po' sadica, vero?
comunque ci vediamo più giù, va!


CAPITOLO 1.2 – seconda parte

Alyssa Masen era pazza sul serio.
    «Attenta!» le urlai mentre attraversava la strada, ignorando del tutto quella buona regola che invitava a controllare a destra e sinistra prima di farlo.
    Si fermò nel centro esatto delle due corsie, beccandosi schiamazzi ed urli da parte di tutti gli automobilisti. «Cosa c’è?» mi domandò stringendosi nelle spalle.
    Sospirai, era tutta colpa di mia zia e sarei stata ben lieta di sottolinearlo quando fossi tornata a casa…sempre che riuscissi a sopravvivere, cosa tutt’altro che scontata.
    Dopo aver controllato, la raggiunsi e la tirai per un braccio, perché si togliesse da lì in mezzo.
    «Non capisco perché ti preoccupi tanto, non mi avrebbero investita.»
    Sbuffai. «Perché l’hai visto?» chiesi sarcastica, da come si comportava sembrava che le sue visioni fossero l’unica legge che seguisse.
    Annuì tutta sorridente ed io la studiai incredula, la follia era molto radicata in lei. Ok, le visioni, nemmeno io le mettevo in dubbio, ma…non è che volessi verificare la loro veridicità rischiando che un camion mi passasse sopra. Tutti gli esperimenti, andavano eseguiti in sicurezza.
    «Ci prendiamo una cioccolata calda?» mi offrì.
    Piegai la testa osservandola. «Non è un po’ troppo…primavera?» dissi guardandomi intorno.
    Scrollò le spalle e mi prese la mano per tirarmi verso un bar. «Aspettiamo che si freddi.» rispose pratica.
    Era pazza. Pazza, pazza.
    Sedute su una panchina davanti ad un campetto di pallacanestro, aspettavamo pazienti che le nostre cioccolate calde si freddassero; osservai i giocatori, erano ragazzini più piccoli di noi e dalle loro espressioni sembrava che ne andasse della loro vita. Nemmeno fucilassero i perdenti.
    «Raccontami.» mi invitò, sistemandosi il fazzoletto nero che portava annodato al polso. Era la cosa più normale che indossasse. Il suo abbigliamento consisteva in una gonna di jeans appena sopra il ginocchio, con le gambe fasciate in spesse calze a righe multicolori ed un paio di scarponcini viola come il piumino. 
    «Cosa? Sai, già molto della mia vita.» obbiettai fredda, mentre paragonavo il suo look al mio: tutta colorata come si trovava, era di certo più interessante di me, lei era in technicolor, io in bianco e nero.
    Sorrise. «Sono curiosa di lui, cosa ha fatto per te?»
    Le lanciai un’occhiata amaramente divertita. «Ha ucciso mio padre ed ha fatto suicidare mia madre.» lei rimase zitta e stupita, finalmente. «Non è una cosa bella. Non so perché tu ne parli e ti comporti come se lo fosse.» sospirai e la guardai apertamente, dispiaciuta per la sua espressione sempre più terrea; non mi piaceva parlare della mia famiglia per ovvi motivi, ma quello sfogo non era per lei, così cercai di rendere il mio tono di voce meno aggressivo. «Lui vuole incatenarmi da qualche parte e tenermi a sua disposizione.» mi frugai sotto la giacca e tirai la catenina della mia chiave per mostrargliela. «Posso tenerlo lontano da me finché non avrò diciassette anni. Poi addio scuola, addio lavoro, addio tu, tuo fratello e chiunque incontri.» addio Olivia.
    Alyssa era sconcertata. «Perché dovrebbe volere te come sua schiava?» domandò senza capire.
    Scossi la testa. «Non lo so. Per come la vede mia zia, mamma pensava che avrebbe fatto di me la sua amante…» deglutii. «che io lo voglia o no.» non era una bella prospettiva, non avevo mai baciato un ragazzo, figurarsi farci l’amore e se mia madre si era suicidata con la speranza di riscattarmi, dubito che la Morte le avesse detto che sarebbe stato l’apice della mia felicità.
    Si coprì la bocca con la mano. «Ma è una cosa orribile.» mormorò con partecipazione.
    «Già…» scoperchiai il bicchiere della mia cioccolata e ne bevvi un sorso, non mi andava, ma era un ottimo diversivo; la mano mi tremava mentre lo facevo, forse ero un po’ meno stoica ed indifferente di quanto avrei voluto.
    «Mi dispiace.» si scusò. «Io non sapevo…non potevo sapere!» precisò più decisa. «Tutte le visioni che ho avuto mi hanno portato benefici: quando mia madre è andata in overdose, l’ho visto ed ho potuto chiamare l’ospedale…» si fermò per un secondo, mentre io assimilavo che sua madre era una drogata. «era troppo tardi, ma se non l’avessi fatto, Maxi non avrebbe saputo niente ed io non lo avrei conosciuto.»
    Conosciuto? Non era suo fratello? Tuttavia ritenni di cattivo gusto fare una domanda tanto personale a qualcuno che conoscevo tanto poco; non che lei mi usasse la stessa premura, ma in ogni caso io non ne ero capace. Odiavo così tanto che mi chiedessero della mia vita, da cercare di risparmiare a chiunque lo stesso impaccio.
    «Ed anche quando mi sono vista a l’ippodromo. Se non ci fossi andata, non avrei mai incontrato Diego, non gli avrei suggerito il cavallo vincente, aiutandolo con i suoi debiti e lui non avrebbe offerto la gestione del suo locale a mio fratello per ringraziarmi. Sarei in una casa famiglia ora.»   
    Evitai il suo sguardo per tornare a prestare attenzione alla partita con qualcosa di fastidioso all’altezza del petto: invidia. Perché con lei era stato carino e amorevole e con me no?
    «Credi che voglia la stessa cosa anche da me?» mi chiese.
    La guardai e per un attimo fui sul punto di dirle di no, perché avrei dovuto distruggere la sua felicità con nefaste previsioni per il futuro? Perché avrei dovuto spaventarla? La realtà era che io non lo sapevo, magari lei era solo un suo capriccio, tipo un criceto del quale aveva voluto prendersi cura.
    Scossi la testa dispiaciuta e decisi di essere sincera. «Non lo so.»
    Per alcuni secondi rimanemmo entrambe in silenzio, troppe concentrate sulla partita per essere credibili; tutte due troppo perse nel nostro destino in realtà.
    «Qual è il tuo libro preferito?» mi domandò, le lanciai un’occhiata interrogativa per sapere se stesse dicendo sul serio. «Lui è uno specie di dio, il figlio della Morte o qualcosa del genere, lo sai, vero?» annuii e lei si strinse nelle spalle. «Se lui fra due anni verrà a rapirci e portarci all’inferno, tipo Persefone o roba così, non potremmo farci niente.» sembrava svampita, ma forse non lo era tanto quanto appariva. «Ma se fra due anni saremo insieme…» continuò con un sorriso. «sarà più semplice, non credi?»
    Era una proposta di amicizia, lei voleva che fossimo amiche.
    Feci una smorfia, era una sfida molto dura, dovevo averne almeno mille di libri preferiti. «’Orgoglio e Pregiudizio’ è troppo banale?» le chiesi andando incontro al suo impegno di alleggerire l’atmosfera, tutto quello che aveva detto era vero.
    «Jane Austen non è mai banale. Il mio è ‘I Demoni’.»
    Aggrottai la fronte. «Di chi è? Non l’ho mai letto.»
    «Dostoevskij, se vuoi te lo presto.» mi propose.
    Per alcuni secondi rimasi troppo sbigottita per pensare che lei leggeva Dostoevskij, il lungo, immenso, colossale, Dostoevskij…coraggiosa. «Film preferito?» le chiesi io.
    «Il mistero di Sleepy Hollow.» rise. «Prima che tu me lo chieda, si. Ho una cotta stratosferica per Jhonny Deep.»
    Risi anche io. «Beh, Jhonny Deep è Jhonny Deep. A me piaceva Heat Ledger, sto ancora cercando un sostituto.»
    «Oh…» sospirò affranta. «mi è così dispiaciuto quando è morto.» il suo dispiacere per quel particolare evento, però, durò appena un battito delle sue lunghe ciglia indurite dal mascara. «Lo guardi ‘Teach me*’?» mi chiese elettrizzata, molto elettrizzata, cosa che mi fece capire che conosceva già una risposta.
    Strizzai gli occhi ridendo imbarazzata. «Mi sono scaricata puntata per puntata.» era banale e poco realistico, insomma, quale professore era tanto sexy, tanto affascinante, tanto divertente, tanto sagace, tanto intelligente e, soprattutto, tanto innamorato di un’alunna? Avevo visto la prima puntata perché ne parlavano tutti, fermamente convinta della scemenza della serie e di chi la seguisse. Successivamente si era scoperto che ero anche io una scema e che mi ero innamorata anche io dell’eroe della situazione, nonché del telefilm, ovviamente.
    «Visto?» esclamò lei contenta. «Abbiamo trovato un punto di incontro.»
    «Cameron Wilde.» era così che si chiamava il protagonista maschile.
    Per un paio di secondi rimanemmo a fantasticare entrambe su di lui.
    «Potremmo guardarlo insieme qualche volta.» mi invitò.
    Annuii osservandola, era una cosa così normale che quasi mi stupì, ma mi scaldò anche. Mi sarebbe piaciuto sul serio.

Ci separammo davanti al sottopassaggio della metropolitana, ci separammo da amiche, anche se non lo eravamo ancora, entrambe sapevamo che lo saremmo diventate: la zia l’aveva visto, Alyssa l’aveva visto e…beh, si anche io l’avevo visto. Mi abbracciò calorosamente – Alyssa Masen era una grande fan dei contatti fisici – e mi resi conto che anche lei profumava di cannella.
    «Allora, ci sentiamo.» mi disse con un sorriso indicando il suo cellulare, sul quale poco prima avevo scritto il mio numero.
    Annuii facendole cenno con la mano prima di scendere.
    Feci appena in tempo a saltare sul vagone, per fortuna avevo l’abbonamento, altrimenti avrei dovuto aspettare il prossimo ed io odiavo aspettare sulla banchina di notte, perfino quando ero con la mamma; con tutta la gente che c’era stipata riuscire ad infilarmi una mano in tasca, recuperare il cellulare e comporre il numero di mia zia non fu affatto semplice, ma alla fine riuscii nella mia missione e la avvisai del mio ritardo, fornendole anche una rapida spiegazione del perché.
    «Non preoccuparti, ma ora vieni a casa, non mi piace saperti in giro di buio.»
    Nemmeno a me, quindi avevo tutta l’intenzione di rispettare il suo volere.
    Mentre me ne stavo lì in piedi ad aspettare che raggiungessimo la mia fermata, pensai ad Alyssa, al fatto che la sua vita non era stata molto facile, né la sua infanzia allegra se la madre era morta per overdose; trovavo incredibile che nonostante quella serie di cose molto brutte, molto tristi e molto dure da superare lei sembrasse così vitale. Mi chiesi se io non esagerassi, confrontate alle sue tragedie le mie erano molto meno drammatiche; mio padre era morto in un semplice incidente automobilistico: un tizio non si era fermato al rosso. Certo, sia io che mia madre avevamo sempre pensato allo zampino di lui, ma era stato comunque un incidente. Ed anche il suicidio della mamma, beh, non era stato molto peggio dell’overdose della madre di Alyssa, anzi, visto che lei aveva inghiottito una manciata di pillole, erano decisamente simili.
    Era evidente che Alyssa fosse più forte di me e che io fossi una piagnucolona. Chissà forse lui mi aveva spedito lì per distruggere la mia autostima.
    La vocina preregistrata della metropolitana mi avvisò che ero arrivata.
    Scendere dalla metro fu complicato per colpa dell’affollamento, qualcuno che stava entrando mi strattonò la giacca ed i capelli, scusandosi un secondo dopo; gli feci un mezzo sorriso, consapevole che in certe situazioni era difficile rispettare l’altrui fisicità.

Henry Douborn fa tre passi nel vagone e controlla cauto quello che è riuscito a strapparle. Dal collo della sua giacca aperta aveva visto luccicare qualcosa ed aveva sperato in una collana: la catenina non deve avere un grande valore, non è nemmeno sicuro che sia argento, ma quello che c’è appeso gli fa ben sperare. Una chiave. Sembra antica e sembra argento e se la pietra che vi è incastonata è vera, potrebbe aver trovato qualcosa per cui valga la pena di andare al banco dei pegni perfino in taxi.

La mia chiave.
    Mi voltai a guardare le spalle nascoste sotto un giubbotto di jeans, mentre mi portavo una mano alla gola come in trance, con l’assurda speranza di trovare la mia catenina, speranza vana: aveva rubato la mia chiave.
    Le porte scorrevoli si chiusero sotto i miei occhi ed io mi riscossi con un momento di ritardo dalla mia personale ipnosi, cercai lo stesso di saltare giù dalla banchina; potevo dargli tutti i soldi che avevo con me, potevo mostrargli casa mia e fargli dare denaro anche da mia zia, ma la mia chiave no, mi serviva, era troppo importante.
    Un braccio mi afferrò per la vita trattenendomi dal finire sotto i binari, continuai a divincolarmi per…non so nemmeno io per fare cosa, tutti i miei pensieri si affollavano su un unico punto: non ero al sicuro senza la mia chiave.
    «Smettila!» mi ordinò, tirandomi indietro.
    Riconobbi la sua voce, la stessa che tre anni prima mi aveva chiesto con un sorriso di potermi accompagnare a casa, la stessa che mi era sembrata così gentile e piacevole da ascoltare.
    ‘Non lasciarti prendere, Livy!’
    «No!» urlai dando una gomitata alla cieca dietro di me, si poteva picchiare il Figlio della Morte? Si faceva male? Beh, se era tipo infrangibile io ero fregata, quindi tanto valeva tentare.
    Il Figlio della Morte provava dolore perché mi lasciò con un verso strozzato di sorpresa sofferenza. «Ora mi picchi, anche?» chiese con tono indignato, come se gli dovessi obbedienza, devozione o che ne so.
    Non gli diedi retta, non appena fui libera iniziai a scappare, più veloce che potevo tra la gente che andava e veniva, nessuno mi prestò particolare attenzione, immaginavo che mi vedessero solo come una ragazza in ritardo per la prossima corsa. Ero consapevole che la mia fuga fosse una follia, se mi aveva presa lì, proprio mentre mi buttavo, significava che in un modo o nell’altro, poteva osservarmi in ogni momento e raggiungermi in ogni momento. Ma semplicemente non potevo arrendermi all’inevitabile e starmene ferma ad aspettare il mio destino.
    Salii le scale per tornare in superficie, la strada per casa mia era a destra – la prima cosa che mi aveva insegnato mia zia era stato come usare la metropolitana e tornare a casa da ogni parte della città – ma era prevedibile che cercassi rifugio lì, così andai a sinistra, in direzione del parco.
    Di notte, senza persone che correvano e passeggiavano, senza cani al guinzaglio, senza bambini che giocavano nella vasca di sabbia, era un posto da brividi; troppe scene da film horror, in cui l’eroina della situazione veniva brutalmente uccisa dal sanguinario assassino di turno, iniziarono a vorticarmi in mente, costringendomi a guardarmi intorno con le mani strette alle braccia. Il mio mostro personale, il mio incubo, mi stava cercando ed avrei fatto bene a sperare che l’unica cosa che volesse da me in quel parco fosse la mia vita.
    Mi nascosi sotto lo scivolo di legno, dove le tre pareti che lo sostenevano, formavano una sorta di casetta; cercai di farmi piccola, piccola in un angolo con le ginocchia strette fortissimo al petto per impedirmi di tremare. Faceva freddo, nonostante fosse primavera le temperature erano troppo basse perché si stesse bene di notte con una semplice giacca a vento.

Due figure sfocate si fermano davanti ad Henry Douborn. La Morte e suo Figlio lo osservano rigirarsi tra le dita la chiave che ha rubato ad Olivia.
    «Hai progetti per quest’uomo, mia signora?» domanda serio.
    La Morte scuote miseramente la testa nella sua condanna. «Fanne quello che vuoi.» e sparisce.
    Il Figlio della Morte lo osserva per alcuni secondi, poi allunga un braccio toccandolo proprio al centro della fronte. Per alcuni istanti non succede niente, poi improvvisamente si porta le mani alla testa gridando con il viso contratto in un’espressione di dolore. Tossisce buttando fuori fiotti di sangue e…c’è sangue dappertutto. Gli scende dagli occhi arrossati come macabre lacrime, gli cola dalle orecchie lungo il collo fino a venir assorbito dalla camicia.
    Quelli seduti accanto a lui sul vagone si scostano urlando, mentre altri si portano il cellulare all’orecchio nella speranza di riuscire a cercare aiuto.
    L’unico a non muoversi ed a continuare a fissarlo è il Figlio della Morte.

Feci appena in tempo a sporgermi in avanti per impedirmi di vomitarmi addosso, restai ferma a quattro zampe per un tempo che sembrò lunghissimo, riuscivo solo a pensare – nonostante ne avessi di cose a cui prestare attenzione – che era un fortuna avere i capelli legati. Mi ritirai indietro appoggiandomi contro la parete di legno e mi strinsi di nuovo le ginocchia al petto, appoggiandoci sopra la testa; continuai a respirare piano per tenere buono il mio stomaco, mentre desideravo con tutta me stessa di essere a casa.
    Quando sentii dei passi mi bloccai, muovendo solo gli occhi per paura di fare rumore. Lui era a pochi metri di distanza dallo scivolo, ma non guardava verso di me; per un folle e luminosissimo attimo pensai di potercela fare, non c’era logica nella mia speranza, solo la disperata voglia di poter credere in un miracolo.
    Superò il quadratino di mondo che io riuscivo a vedere dal mio nascondiglio ed io mi morsi il labbro tesa, continuando a non muovermi; decisi che anche se se ne fosse andato sarei rimasta lì tutta la notte, non potevo sapere se mi stesse ancora cercando, non potevo fare una mossa tanto stupida. Mi sarei presa un raffreddore, ma, al diavolo, era sempre meglio di lui, la mamma sarebbe stata d’accordo con me.
    Tornò indietro.
    Mi coprii la bocca con le mani per impedirmi il più piccolo rumore.
    Mi guardò.
    Tirai su con il naso cedendo infine alla tentazione di piangere, della mia stupidità e delle mie sciocche speranze.
    Il secondo dopo era davanti all’unica entrata della casetta sotto lo scivolo, niente di più di un ragazzo con una camicia a quadri sul grigio ed un paio di pantaloni della stessa tinta; scoppiai a ridere istericamente, il mio look era simile a quello del Figlio della Morte, ero pronta a scomettere che anche Alyssa avrebbe trovato la cosa piuttosto divertente. Ma la mia stridula risata si trasformò in singhiozzi.
    Lui si accucciò davanti a me e lanciò un’occhiata speculativa alla chiazza di vomito sulla terra. «Mi dispiace che tu sia stata costretta a vedere.»
    Rapitore e gentiluomo.
    Deglutii fissandolo, non era altro che la versione cresciuta del ragazzino di tre anni fa; un bel viso, bei capelli biondi e mossi, begli occhi verdi, bella bocca, facile entusiasmarsi a dodici anni se una ragazzo così si offre di accompagnarti a casa.
    Indietreggiai spingendomi contro la parete.
    Ridacchiò dei miei vani tentativi. «Vuoi darmi un’altra botta e riprovare a scappare?» mi domandò sarcastico. «Possiamo fare questo gioco per tutto il tempo che vuoi, ma io ti troverò…» si interruppe pronunciando la mia condanna e la pronunciò con il sorriso sulle labbra. «sempre.»
    C’era qualcosa di talmente definitivo in quella parola da gettarmi in un baratro di disperazione.
    «Ora tu vieni con me.» annunciò allungando una mano per afferrarmi un braccio.
    «No!» gridai evitandolo e dimenandomi per impedirgli di toccarmi. «Urlerò, qualcuno mi sentirà e…»
    Sospirò, poi schioccò le dita. «Ti chiedo scusa anche per questo.»
    E io mi fermai e non mi mossi più. Era come se avesse tagliato i fili che mi permettevano di muovere il mio corpo, sentii il mio viso distendersi, i miei muscoli tesi allentarsi e diventare morbidi e malleabili; lui mi prese la mano ed il mio corpo lo seguì docile fuori dalla casetta, i miei urli, le mie proteste ed i miei disperati tentativi di ribellarmi rimasero ben chiusi ed inascoltati nella mia mente.


secondo me...non c'avete capito gran che...ma abbiate fede e gioite della vostra parziale conoscenza perchè nel prossimo capitolo riuscirò a confondervi ancora di più...impossibile?
ma no, datemi un po' di fiducia...
davvero, sono così pazza se mi piace questo capitolo?
non vi garba?
baci

ps. ...mi sono scordata...ah, no ecco! tutto quello che piace sia ad Alyssa che ad Olivia piace anche a me...quindi, anche se magari si criticano tra di loro o non condividono...io sono dalla loro parte...

pps. voi non avete letto 'I Demoni'?! vergogna! no, scherzo, è da pazzi mettersi a leggere certe epopee interminabili...però io lo trovo un libro straordinario...sono una grande fan di Dostoevskij!

*eddai passatemela! alla fine mi serviva un telefilm o una storia che conoscessi bene, bene, bene...sono veramente poche le storie che conosco più di quelle che ho scritto io!

stavolta è davvero tutto!
baciallaprossima


 
   




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Capitolo 5
*** Capitolo 1.3 ***


olivia fragolottina's time
ehilà è un sacco che non ci si vede...
scusate, ma sono andata via un paio di giorni, poi ho iniziato a studiare, poi sto scrivendo anche altro che probabilmente - se niente non si mette in mezzo - presto vedrete in questa rete...insomma, sono parecchio indaffarata!
anf...
ma cmq, è un po' cortino questo capitolo, ma è denso e...oh...a me piace da matti, soprattutto la prima parte...
vediamo quanto riesco a confondervi...


CAPITOLO 1.3


Non mi fece ripercorrere la strada dalla quale ero arrivata, ma camminammo in direzione del parcheggio. Era quasi deserto tranne che per una macchina con i vetri appannati – all’interno dovevano esserci due ragazzi che si davano parecchio da fare – ed un auto sportiva e tirata a lucido. Naturalmente quella era la macchina del Figlio della Morte.
    Mi accompagnò fin davanti allo sportello del passeggero e me lo aprì nella sua migliore interpretazione di gentleman, il mio corpo salì senza esitazioni, nonostante io cercassi disperatamente di costringere i miei i piedi a cambiare direzione. Rimasi sola mentre lui faceva il giro per sedersi dietro il volante ed io continuai imperterrita ad obbligarmi a muovermi: sarebbe stato il momento perfetto per scappare, dubitavo di poterne avere un altro – a meno che la mia fuga non comprendesse il saltare da un’auto in corsa – eppure non mi mossi di un millimetro.
    Risalì in macchina e mi guardò con le mani appoggiate al volante, sembrava rattristato dal frenetico lavoro della mia mente per raggiungere il mio corpo, invano. «Non piace nemmeno a me.» mi disse. «Sai, se avessi voluto una ragazzina inanimata mi sarei comprato un bambola gonfiabile.» borbottò contrariato, mentre apriva il cassettino davanti alle mie ginocchia, compostamente unite, e ne tirava fuori un pacchetto di fazzoletti.
    Mi osservò per un secondo, poi iniziò con calma ad asciugarmi il viso dalle lacrime, con attenzione, con affettuosa abitudine, come se dovesse mantenermi pulita ed in buone condizioni; un pezzo d’antiquariato, un fumetto che avrebbe perso valore se rovinato. Lontana dal mio corpo presi coscienza, quella notte per la prima volta, di una cosa agghiacciante, sconvolgente, inaspettata: io avevo un valore per lui. Non sapevo quale, non sapevo perché, ma lui mi voleva per il mio valore.
    La sua mano strinse il fazzoletto ormai zuppo, mentre le sue dita indugiavano un attimo sotto il mio occhio, nell’angolo più pronunciato dello zigomo; avevo una macchia lì, un’irregolarità della pelle quasi perfettamente rotonda, forse la piccola cicatrice lasciata da un brufoletto, in genere la coprivo con il correttore. Lui strofinò piano fino a scoprirla. Sorrise premendola con il dito, quasi fosse stato il pulsante per far aprire qualcosa.
    «Mi piace.» mormorò con tenerezza.
    Era vicino adesso, presa a trovare il modo di liberarmi non aveva prestato poi così tanta attenzione ai suoi movimenti – ero molto più interessata ai miei, assenti – si sosteneva con un braccio al mio sedile, le sue dita mi sfioravano la coscia, ma senza intenzione. Quando metabolizzai, tutto il mio corpo avrebbe voluto tremare di paura e consapevolezza, mentre interiormente mi davo della sciocca: come poteva essere arrivato così vicino senza che io me ne accorgessi? Non che, in ogni caso, avessi potuto agire in qualche modo al riguardo, certo, ma il minimo che potessi fare era restare vigile.
    Continuò a fissarmi immobile e la sua mano scivolò dal mio viso, lungo il mio collo, fino a posarsi sulla mia spalla, con il pollice che mi sfiorava piano la clavicola. Era assurdamente inconcepibile come tutto il mio organismo non reagisse a nessuno dei suoi movimenti: il mio cuore non batteva più forte, la mia pelle non era più sensibile, i miei occhi non stavano più piangendo.
    «OK…» sussurrò con il viso troppo vicino al mio, ero un bambola di porcellana in attesa, immobile, del suo destino. «ma solo un pochino.»
    Sbattei le palpebre come risvegliandomi da un’ipnosi, tutti i miei muscoli erano fatti di piombo, non sarei mai riuscita a scappare, ma tutti quelli involontari ricominciarono a comportarsi bene: il mio cuore iniziò a bussare tanto forte da scuotermi tutta – e finalmente mi scuoteva – mentre il mio respiro iniziava ad essere più veloce ed ansante. Muovere le braccia era faticoso quanto poteva esserlo trascinare un sacco di calce, ma essere in grado di conficcare le unghie nella pelle dei sedili, era già rassicurante.
    «Meglio?» chiese, girai il viso verso il suo con gli occhi enormi e spaventati, in cerca del modo di parlare. Lui lesse la mia inquietudine, lasciò la mia spalla scendendo in punta di dita lungo il mio braccio fino a stringermi la mano. «Puoi farlo. Piano, piano.»
    Deglutii e mi concentrai al massimo. «La…» faticoso, era come se le mia labbra e le mie corde vocali fossero rimaste inutilizzate per anni, la mia voce era gracchiante ed incerta. E bassa, tremendamente bassa, lui era l’unico che avrebbe potuto sentirmi. «Lasciami.» di più era impossibile.
    I suoi occhi abbandonarono i miei, bassi, si persero nelle nostre mani e nei miei deboli tentativi di scrollarlo via. «No.» mi sfuggì un lamento, un lento mugolio di protesta, spietatamente il Figlio della Morte rise. «Ti aspettavi che dicessi di sì?» domandò tornando a guardarmi. «Tu ordini ed io obbedisco?» il suo sguardo si indurì, tagliente e freddo. «Ma con chi credi di parlare, Liv?»
    Chiusi gli occhi, a strizzarli non ce la facevo, nonostante desiderassi ardentemente sigillarli ermeticamente. Si avvicinò, sentii il suo respiro sulle mie labbra e cercai di indietreggiare con la testa, nascondendomi. Tentativo inutile, il poggiatesta dietro di me era una barriera invalicabile. Poggiò la fronte contro la mia, i suoi capelli mi facevano il solletico sopra il naso e li sentivo smuovermi le ciglia; c’era qualcosa di fastidiosamente intimo in quel contatto, in come i nostri nasi si strusciavano, mi chiesi se in passato, se quando lo avevo conosciuto a dodici anni fossimo stati così vicini. Perché sembrava di si.
    Si allungò su di me ed io riaprii gli occhi prendendo fiato, mi resi conto che ad un certo punto dovevo essere rimasta in apnea; afferrò la cintura di sicurezza e la allacciò al mio fianco, prima di ritornare sul suo sedile. Mi lanciò un’occhiata derisoria, carica di sarcasmo. «Paura?» ne sembrava molto compiaciuto.
    Lo guardai cauta ed annuii piano.
    Scosse la testa ridendo ed accese il motore, che rombò dolcemente. «Tu non sai cos’è la paura, Liv.»
    E qualcosa mi spinse a credere che lui avesse tutta l’intenzione di insegnarmelo.

Avrei voluto seguire il percorso, ma mi sentivo confusa, ubriaca, forse soltanto stanca.
    Qualsiasi cosa mi avesse fatto, muovermi bruciava molte più energie del solito ed a quel punto mi sentivo senza forze, anche tenere gli occhi aperti non era uno scherzo. Lui continuava a guidare ignorandomi con le mani strette al volante e lo sguardo perso al di là del parabrezza, dentro di me cercavo di figurarmi la dinamica del fare l’amore con lui: sarei stata nuda, lui avrebbe voluto che io facessi cose e…avrebbe fatto male, sapevo che avrebbe fatto male. Una lacrima solitaria, sopravvissuta fino a quel momento, mi scivolò sulla guancia.
    Si voltò e mi guardò come se ne sentisse l’odore. «Basta, Liv.» mi supplicò.
    «Io non voglio.» piagnucolai con voce fievole, tutta la voce che riuscii a trovare.
    Lui sospirò ed accostò. «Perché, credi che io sì?»
    Non mi diede il tempo di guardarlo, scese dalla macchina e fece il giro per aprirmi lo sportello. Si chinò su di me, spinse il pulsante per sganciare la cintura di sicurezza, poi mi tirò per un braccio in piedi. Ora che non era più lui a ‘sostenermi’ in qualche modo, non mi sentivo molto stabile, anzi, non lo ero per niente, tanto che, contro ogni mia volontà, gli finii addosso; mi trattenne dal cadere a terra senza sforzo, costringendomi con un braccio intorno alla vita ad appoggiarmi a lui.
    Tirò indietro la testa per poter fissare il mio viso. «Guarda, cosa mi fai inventare per un abbraccio.» mi prese in giro.
    Probabilmente era così che sembravamo alle persone: due ragazzi innamorati ed abbracciati. Chiusi gli occhi, umiliata dal mio stesso arrossire, non avevo mai abbracciato nessuno così.
    «Ok…» ci osservò riflettendo. «occorre un rapido cambio, così non riusciamo a muoverci.» mi sistemò meglio addosso a lui in modo da non farmi cadere, poi mi allontanò. «Aspetta, eh?» afferrò la mia mano e si fece passare il mio braccio intorno alle spalle. «Dovresti guardare dove sei, Liv.»
    Alzai gli occhi su una casa, non una casa qualsiasi. Sotto quella veranda io ci facevo merenda e su quella sedia di vimini mia zia ricamava. «Casa…»
    Non rispose, non disse niente, si limitò a guidarmi piano attraverso il vialetto.
    Mia zia stava aspettando dall’altra parte della zanzariera, il fucile tra le sue mani creava un accostamento bizzarro con la sua vestaglia beige. La studiai incerta e sorpresa, davvero, mia zia aveva un fucile? Dove lo teneva nascosto?
    Lui mi aiutò a salire gli scalini del portico, ignorando lei e la minaccia che voleva rappresentare con quell’arma. Si fermò proprio davanti alla porta, fissò gli occhi di mia zia tranquillo, poi sospirò e si strinse nelle spalle.
    «Puoi spararmi. Io non muoio e lo sai.»
    Ecco, perché non era preoccupato. Cercai con tutte le forze di salvare quell’informazione da qualche parte nella mia testa, nonostante la confusione: di certo non era una buona notizia, ma era pur sempre qualcosa.
    Non si lasciò intimidire. «Ma puoi essere ferito.»
    Mi sarei procurata un’arma per il futuro ed avrei seguito un corso di autodifesa, ad Alyssa la prospettiva sarebbe piaciuta.
    «Non sono stato io.» disse serio.
    «Che le hai fatto?»
    Mi guardò. «Niente, domani mattina starà bene. Ho fatto solo in modo che collaborasse.»
    Zia Phoebe sollevò il fucile e lo caricò, puntandoglielo in faccia.
    Mi strinse di botto, mettendosi tra me e lei. Volente o no, avevo il viso premuto contro il suo torace: il Figlio della Morte aveva un cuore ed in quel momento stava galoppando all’impazzata. Aveva paura.
    «Collaborasse per venire a casa!» sbottò. «Non l’ho toccata!»
    Rimase ad osservarlo per un po’, pensierosa, poi aprì la zanzariera e si fece da parte per farci entrare. «Ce la fai a portarla nella sua stanza?»
    «Certo.»
    Mi passo un braccio sotto le ginocchia e mi sollevò, la mia unica protesta consisté in un mugolio appena udibile. Mia zia non gli avrebbe permesso di farmi del male. Aveva anche tirato fuori un fucile per me.
    Per tutto il tragitto verso la mia camera zia Phoebe lo fece camminare davanti a lei, in modo che non potesse fare niente che lei non giudicasse opportuno. Solo quando fummo in prossimità della porta, lo superò per aprirla e sollevare le coperte del mio letto, dove mi adagiò dolcemente: il profumo del mio cuscino sotto la testa rimase per mesi l’odore più fantastico che potessi immaginare.
    Il Figlio della Morte fece un passo indietro, mentre mia zia mi sfilava le scarpe e mi rimboccava le coperte.
    «Non sono stato io.» ripeté.
    La zia sospirò. «È stata lei?» domandò accarezzandomi i capelli.
    «Non lo so.» si sedette sulla sedia a dondolo della mia stanza. «Probabilmente sì.»
    «Hai recuperato quello che le è stato preso?»
    Si frugò nelle tasche, poi lanciò qualcosa che atterrò con un tonfo ovattato sulle mie lenzuola, la zia lo recuperò e mi sollevò poco la testa per farmelo passare intorno al collo: la mia chiave era tornata al suo posto.
    Lanciai un’occhiata verso la sedia a dondolo, dove lui continuava a stare seduto; incontrò il mio sguardo e sorrise paziente. «Non serve a niente, Liv. Se non ti ho presa è perché non ho voluto.» mi spiegò calmo.
    «Smettila!» intimò mia zia. «L’hai strapazzata abbastanza per stasera. Lasciala riposare.»
    Si tirò in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Non posso restare, vero?»
    «Lei non vuole, mi dispiace.»
    Le dispiaceva?!
    Lui si alzò e si diresse verso la finestra, si voltò all’ultimo secondo prima di uscire e mi fece un sorriso. «Che ne dici di Oliver?» fece una smorfia. «’Lui’ è un po’ troppo vago per i miei gusti.»
    E se ne andò.

allora, allora, allora...
non posso dirvi niente...quindi non fate domande...
anzi, fatele che mi fate sentire realizzata. datemi la soddisfazione di sapere che ho turbato le vostre menti! ah...
ok, basta così...
ultimamente sono più su di giri del solito...bene!
cmq fatemi sapere che ne pensate, ok?
bacifatalosi


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Capitolo 6
*** Capitolo 1.4 ***


olivia fragolottina's time
carissime buongiorno.
in questo capitolo ci sono tante, tantissime cose che vi dovreste appuntare da qualche parte, perchè più in là probabilmente serviranno.
c'è anche un momento discretamente simpatico..no, dai, è simpatico eccome! verso la fine...
siamo precoci per essere delle quindicenni...mi sa che non ci sono più abituata...
a più giù...


CAPITOLO 1.4

«NO!» mi svegliai urlando senza sapere nemmeno cosa stessi sognando. Ero sudata e tremante. Volevano bruciarmi, quelle persone volevano bruciarmi!
    «Olivia.» mi girai di colpo verso la sedia a dondolo, dove mia zia stava sferruzzando quella che aveva tutta l’aria di essere una sciarpa, alzò gli occhi dal suo lavoro e mi osservò calma. «Va tutto bene, guarda: sei nel tuo letto.»
    Deglutii, poi iniziai a fissare gli occhi sulle cose intorno a me: la mia libreria, la mia cartella con accanto un i libri di scuola impilati per terra, la scrivania con il computer e la mia borsa, il mio letto, la mia lampada, il televisore, l’armadio. Niente fuoco da nessuna parte.
    «Ho sognato di essere una strega durante l’Inquisizione spagnola.» dovevo scappare, dovevo nascondermi, ero giovane, ma avevo un lunga ciocca di capelli bianchi, era stato il diavolo. «Poi mi trovavano e…»
    Mia zia lasciò il suo lavoro e si sedette sul mio letto, prendendomi una mano dolcemente. «Era un sogno, Olivia, solo un incubo.»
    La mia borsa. Oliver.
    Quello non era un sogno, anche se aveva tutte le caratteristiche per essere considerato un incubo.
    La afferrai stringendola tra le mani, per accertarmi che fosse vera. Ricordavo di averla con me sul vagone della metropolitana, ma non mentre scappavo e tutto il resto era troppo confuso per un dettaglio del genere.
    «L’ho trovata questa mattina fuori della tua finestra.» mi spiegò con calma.
    Era andato a recuperarla, poi era tornato a portarmela.
    Deglutii spaventata di trovarlo sul mio balcone, ma l’unica cosa che vidi fu il cielo azzurro che rimarcava la vittoria della primavera sull’inverno.
    La chiave.
    Mi appoggiai la mano in mezzo al petto frettolosa, ne riconobbi il profilo sotto la maglietta che avevo indossato il giorno prima; stranamente la cosa non mi tranquillizzò, non serviva a niente, se non mi aveva presa era perché non aveva voluto.
    Fissai gli occhi di mia zia senza capire…quasi niente in realtà. «A cosa serve?» domandai supplichevole, avevo bisogno di qualcosa di certo a cui aggrapparmi. I sogni, la notte precedente, Alyssa, Maxi, tutto si mescolava in un’enorme pappa senza darmi modo di distinguere niente.
    «È servita a farti uscire dal sottoscale.» la zia mi accarezzò i capelli, cercando di calmarmi. «A farti andare a scuola con tranquillità. A stare in questa casa ed in mille altri luoghi chiusi senza paura.» appoggiò la sua mano sopra la mia. «Ti ha aiutata in più cose di quante immagini.»
    «Ma perché?»
    Scosse la testa. «Questo puoi saperlo solo tu.»
    Per un po’ rimasi zitta, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, con scarsi risultati. Non trovavo un senso nelle sue azioni, perché riportarmi la chiave? Perché gonfiare una bugia del genere? Per farmi uscire dal sottoscale? Dopo quello che avevo vissuto la notte prima, sapevo che aveva modi molto più semplici per farmi fare quello che voleva. A meno che il suo scopo non fosse solo quello di giocare con me: imbrogliarmi, darmi qualcosa di sicuro, togliermelo, gustarsi le mie reazioni contrastanti. Forse il suo essere carino si limitava al criceto-Alyssa.
    Mia zia mi diede una leggera pacca sulla gamba. «Dovresti farti una doccia, poi mangiare qualcosa.»
    «La scuola?» dal sole che entrava dalla finestra capii che ero già in ritardo, se non fossi stata distratta da altro me ne sarei già accorta. «E il tuo lavoro?»
    Lei mi sorrise. «Niente scuola per te e niente lavoro per me. Mi sono data malata, non volevo lasciarti sola.»
    «Grazie.»
    Continuò a sorridermi poi si alzò e fece per uscire dalla porta. «La doccia.» mi ricordò, prima di andarsene.
    «Anche del fucile.» le dissi.
    Zia Phoebe scosse la testa. «Quando sei nata ho promesso ad Hope che se le fosse successo qualcosa mi sarei presa cura di te.» mi fece l’occhiolino. «Ho tutta l’intenzione di mantenere la mia parola.»
    Rimasi ancora qualche minuto nel letto, studiando tutto quello che sentivo: il peso delle coperte, il battito ancora spaventato dal sogno del mio cuore, il tranquillizzante freddo della chiave. Il ricordo di trovarmi lontana dal mio corpo e senza nessun canale di comunicazione con esso, era probabilmente la cosa che più mi terrorizzava della notte precedente. Avrebbe potuto ridurmi all’impotenza e fare di me qualsiasi cosa, senza che io avessi neanche la possibilità di protestare. Provai a muovere le braccia, poi piegai le gambe per accertarmi che funzionasse tutto. Mi alzai appoggiandomi cauta alla scrivania accanto al mio letto, non ci furono cedimenti di sorta così lasciai il mio appiglio: tutto il mio corpo rispondeva perfettamente agli stimoli e non sembrava intenzionato a tradirmi.
    Presi della biancheria pulita ed un pigiama dal cassetto – visto che non avevo programmi per la giornata, non aveva senso cambiarmi – poi mi diressi in bagno.
    Non avevo realizzato quanto in realtà fossi sporca; la notte prima avevo pensato a nascondermi, non a tenermi pulita. Spogliandomi, studiai con pazienza i vestiti luridi: i pantaloni avevano tutto il dietro sporco di fango – mi ero nascosta nel parco dopo un temporale pomeridiano – mentre la mia giacca a vento era schizzata di qualcosa che mi convinsi ad archiviare come altra terra, anche se avevo il terribile sospetto che fosse, beh…vomito. Senza ulteriori indugi, infilai tutto nella cesta del bucato. In mutandine e reggiseno continuai a guardarlo mordicchiandomi distratta le pellicine intorno alle unghie.
    Recuperai tutto e lo chiusi in una busta. Non volevo tenere quella roba, non sarei riuscita ad indossarla mai più senza tremare di paura. Tanto valeva buttarla.
    Io volevo buttarla.
    La doccia fu d’aiuto, mi diede la confortante sensazione di potermi lasciare scivolare via tutto lo ‘sporco’ della giornata precedente insieme alla schiuma dello shampoo. Rimasi con il getto caldo puntato sulla schiena per un’eternità, aspettando che il calore raggiungesse tutti i miei muscoli ancora contratti e li allentasse della tensione.
    Ero al sicuro?
    La chiave non funzionava, ma effettivamente per tutto quel tempo lui non mi aveva mai fatto del male. Il termine ultimo della mia libertà, prima che venisse a riscuotere erano ancora i miei diciassette anni? Perché proprio diciassette?
    Sospirai girando la manopola della doccia, per tutto quel nervosismo accumulato serviva molto più di un po’ d’acqua calda a distendermi. Sarei dovuta andare in un centro massaggio e rimanerci per almeno due giorni.
    Mia zia stava preparando l’arrosto di spalle, io mi sedetti al tavolo della cucina, versandomi un ciotola di latte ed aggiungendoci poi i miei cereali preferiti.

«Ma sono orribili!»
    «A me piacciono.»

Mi voltai di botto, facendo involontariamente spostare la sedia sulla quale ero seduta con un gran fracasso, mi aspettavo quasi di trovarmi vicino due persone che parlavano.
    Zia Phoebe interruppe quello che stava facendo per lanciarmi un’occhiata perplessa. «Olivia?»

«Tu sei strana.»
    «Non è vero.»
    «Ma si che è vero.»

Scossi la testa come scacciando le voci che avevano iniziato ad abitarla.

«Perché sei qui, allora? Trovati una ragazza normale.»

Ricambiai lo sguardo di mia zia confusa. Non era stata una visione, in realtà non avevo visto niente. La cucina, mia zia, la scatola dei cereali, tutto era rimasto esattamente al suo posto. Solo che c’erano altre due voci, due persone che discutevano in soggiorno; ma io sapevo che in soggiorno non c’era nessuno, che era tutto nella mia testa.
    Sospirai osservando la mia tazza piena di latte ed una decina di cereali che ci galleggiavano dentro, forse stavo impazzendo sul serio: le voci nella testa sono sempre associate alle malattie mentali. La mia psiche, già fragile, stava risentendo dello stress degli ultimi giorni, avrei finito per fare a pezzi mia zia proprio come in quel film horror che avevo visto. Sperai che tenesse il fucile sotto il letto e che avesse il coraggio di spararmi se l’avessi sorpresa nel sonno brandendo una mannaia.
    Che cosa orribile.

«Non saprei che farmene.»

Sussultai. «Zia, voglio vedere uno psichiatra.» la supplicai.
    Lei rise divertita, come se avessi fatto una battuta particolarmente spiritosa. «Oh, Livy, la tua mente è sanissima.»
    «Ma sento le voci!» obiettai.
    «E vedi le cose…» aprì lo sportello sotto il lavandino ed iniziò a pelare le patate sopra il secchio dell’immondizia. «come me e tua madre. Non è un problema di sanità mentale.»
    Sbuffai quasi offesa che non credesse alla mia follia. «Non ho mai sentito le voci.» borbottai.
    «Forse era una visione in piena regola che tu semplicemente non eri pronta per vedere.» rifletté scostandosi una ciocca di capelli rossi da davanti agli occhi con il dorso della mano. La donne della mia famiglia erano tutte rosse, tutte tranne me. «Tieni presente che è il tuo inconscio a filtrare qualsiasi cosa ti venga mostrato.» mi chiesi se non avesse frequentato un corso di psicologia, di cui non sapessi niente. Mi lanciò un’occhiata severa. «Mangia.»
    Obbedii versando un altro po’ di cereali nella mia ciotola e prendendone una cucchiaiata, masticai con cura, assaporando ogni petalo di mais tostato e glassato: a me piacevano, comunque.

Io e la zia pranzammo insieme, non capitava spesso che fossimo a casa, così aveva preparato un pranzo degno del Giorno del Ringraziamento. In realtà ne sbocconcellammo davvero una minima parte ed una volta riordinato, mentre io facevo i compiti, lei sigillò tutti gli avanzi in porzioni piccole dentro alcuni contenitori di plastica: aveva appena risolto il problema pasti per la settimana seguente.
    Provai a stare nella mia stanza, ma la sedia a dondolo mi rendeva inquieta; mi aspettavo da un momento all’altro di rivederci lui – Oliver, mi corressi mentalmente – seduto sopra, oppure sorprenderla in un ultimo dondolio, segno che se ne era appena andato. Forse era ora di sostituirla con un’altra con i piedi ben piantati a terra. Ma mi piaceva accoccolarmi lì sopra a leggere, lasciandomi cullare.
    Sospirando decisi che avrei visto come sarebbe andata la nottata: se fossi riuscita ad addormentarmi tranquilla, sarebbe rimasta; se fossi rimasta con gli occhi spalancati nel buio, l’avrei eliminata. Potevo farmi aiutare dalla zia e spostarla in soggiorno e quando ne avrei avuto voglia, sarei potuto stare lì a leggere.
    «Livy, hai una visita!» mi chiamò la zia dal piano di sotto.
    Una visita? Io? C’era davvero qualcuno della mia scuola che sapesse dove abitavo? Mentre scendevo le scale riflettei che probabilmente Claire lo sapeva, era anche l’unica che mi venisse in mente che potesse aver voglia di venirsi ad informare della mia assenza scolastica.
    Ma quella in soggiorno con indosso una salopette di jeans corta, spesse calze di lana ed i suoi evidentemente soliti scarponcini viola, non era di certo Claire.
    «Alyssa?» domandai incredula. A lei di certo non avevo detto dove abitavo.
    Sorrise ed io mi sorpresi di nuovo a pensare a quanto sorridesse, con tutte quelle che le erano successe, dove la trovava la forza di essere felice?
    «Ciao.» mi salutò, aveva un sacco di libri tra le mani, così corsi giù e ne presi alcuni dalle sue mani per posarli sul tavolo. «Oh, grazie.»
    «Sei la nuova amica di Olivia.» si mise in mezzo la zia porgendole la mano. «Io sono sua zia Phoebe.»
    Lei gliela strinse contenta. «È un piacere conoscerla, signora Mulligan.»
    «Il piacere è tutto mio, cara.» poi mi guardò. «Falla accomodare, se vi serve qualcosa sono in cucina.»
    Aspettai che si allontanasse prima di invitarla a sedersi sul divano, faceva strano vederla lì nel soggiorno di mia zia color pastello: lei era decisamente una ragazza a tinte forti. Come me si assicurò che mia zia non fosse a portata di orecchi, prima di prendermi le mani accalorata.
«Oh, ho visto quello che è successo!» mi disse partecipe. «Devi esserti così spaventata…stai bene?»
    Avrei dovuto prevederlo, come avevo potuto non pensarci?
    «Si…» le risposi piano con un piccolo sorriso. «solo che ero un po’ scossa questa mattina e sono rimasta a riposarmi un po’.» deglutii. «Hai visto tutto, tutto?» per qualche motivo pregai che mi dicesse di no.
    Scosse la testa dispiaciuta. «No, non so quello che è successo sulla macchina. Spero che non…» lasciò la frase in sospeso, studiandomi timorosa.
    Tirai un sospiro di sollievo continuando a domandarmi perché non volessi condividere quei particolari con lei, avremmo potuti analizzarli insieme, trovare un significato. «No, stai tranquilla.»
    Mi dissi che era lo shock. Un giorno quando sarei stata pronta a parlare di quella notte, l’avrei fatto e le avrei raccontato ogni minimo dettaglio, solo non ero ancora pronta.
    Lasciò le mie mani e si strinse le ginocchia al petto infelice. «È un peccato, volevo invitarti a casa mia questa sera.» si strinse nelle spalle. «Maxi è al Draw e noi avremmo potuto vedere la tv e prenderci una pizza.»
    Non risposi, non che non mi piacesse l’idea, anzi, era così carina da commuovermi, ma ero relativamente certa che non sarei salita sul vagone di una metropolitana per i prossimi due secoli. Soprattutto di notte.
    «Vacci, Livy.» ci voltammo entrambe verso mia zia vicina alla porta della cucina. «Posso accompagnarti e rivenirti a prendere.»
    Guardai Alyssa, tutta scintillante di felicità, annuire freneticamente per cercare di convincermi, poi tornai a fissare mia zia. Non era rimasta a casa dal lavoro soltanto per farmi compagnia: lei sapeva che Alyssa sarebbe venuta, che mi avrebbe invitata a casa sua, che io sarei stata troppo spaventata per accettare, che avrei avuto bisogno di lei.

Appena Maximilian Masen appoggia le labbra sulle sua Olivia resta troppo sorpresa per fare qualsiasi cosa. È lui a prenderle le mani e portarsele intorno al collo, è lui a stringersela addosso con insistenza. Ma è lei a dischiudere la bocca sulla sua ed approfondire quel bacio, nato per sbaglio e cresciuto per consapevolezza, mentre le mani di lui imprimono sulla sua schiena la traccia delle sue carezze. Di secondo in secondo più sicura, Olivia allunga la mano per passare le dita tra le strette trecce dei suoi deadlocks, tirandoli piano; Maximilian non protesta, le avvolge le braccia intorno alla vita e la porta sulle sue gambe. Il divano è grande, quasi troppo grande per chi vuole un contatto più intimo.

    Deglutii ed espirai piano. «C-c’è un divano a casa tua?»
    Alyssa sorrise annuendo. «Una divano enorme!» esclamò, lasciandomi nel dubbio che avesse visto anche lei.
    «Ok.» mormorai mentre la mia nuova bizzarra amica mi si buttava addosso abbracciandomi.
    «Ma alle undici spaccata ti vengo a prendere, domani tornate a scuola tutte e due.» mi avvertì la zia e sperai proprio che lei non avesse visto.

riusciremo a viverlo questo bacio? o continuiamo a vederlo di sfuggita e basta?

allora, vi annunico ufficialmente che questa fase della mia storia (chiamata dai più intimi capitolo 1) finisce qui...salutate i quindici anni, 'ciao quindici anni', dal prossimo capitolo (non siete elettrizzate di entrare finalmente nel capitolo 2?!) sei ufficialmente delle sedicenni...grazie al cielo!

ce la spasseremo discretamente.
Maxi sarà molto più presente (e per fortuna).
ci sarà un momento, che è di un tormentosobarrafrustrantebarraroamnticobarraperchèleisieiono...che ho scritto non si sa!

insomma, fin qui era tipo introduzione...il vivo della questione arriva al prossimo!
mm...vi ho detto tutto direi!
baci!
fatemi sapere che ne pensate!

ps. nel prossimo capitolo...o in quello dopo se le mie doti di sintesi fanno di nuovo cilecca...andiamo non solo a casa di Alyssa, ma anche in camera di Maxi...

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Capitolo 7
*** Capitolo 2.0 - prima parte ***


olivia
fragolottina's time
purtroppo un avvertimento è d'obbligo...
è un capitolo forte, decisamente forte...quindi vi avviso in anticipo.
anche se avevo detto di continuare con la trama, volevo perdere un po' di tempo per raccontarvi la storia di come Diego, Sebastian, Maxi ed Alyssa si siano incontrati e stretti forte. mi piaceva arvi capire come, quando il destino ci mette lo zampino, le cose si intrecciano ed incrociano...mi paiceva anche l'idea che aiutare una persona possa giovare anche al primo...no, in genere non sono così fiduciosa nell'umanità, ma in un mondo popolato da l Figlio della Morte tutto è possibile, no?
ci vediamo più giù...

16 anni


CAPITOLO 2.0 - prima parte

Il ‘Draw cuts’ era l’oasi delle anime spezzate.
    Tutti noi, che lavoravamo lì, avevamo bisogno di un rifugio, un posto dove non si facessero domande, un posto dove le persone avevano a che fare con la sofferenza già da parecchio tempo, quindi rispettavano la sacralità del silenzio e del dolore altrui.
    Nessuno di noi quattro, cinque se contavamo anche Diego, era lì solo per i soldi.
    Io vedevo tutto e spesso mi sembrava di violare un giuramento solenne.

Nel silenzio di Diego si celava il dolore del suo cuore, il ritratto di una donna bellissima con i capelli rossi di suo figlio. Avevo visto il loro matrimonio, Diego non era un uomo brutto, rientrava nella media, ma lei, Courtney Dennis, lei era una dea. Immaginavo la felicità di essere stato tanto fortunato, l’incredulità della prima volta che le aveva chiesto di uscire e di essersi sentito rispondere di sì.
    Immaginavo l’amara consapevolezza e rassegnazione, quando lei se ne era andata lasciandogli un bambino che le somigliava in modo devastante; una vita da crescere ed accudire, quando lui non aveva più alcuna voglia di vivere; il locale che una volta era stato così felice di gestire, il locale dove lui e Courtney avevano ballato per la prima volta insieme, in bancarotta, quando Diego non aveva nessuna voglia di lottare per tenerlo insieme.
    Le scommesse, intossicanti quasi quanto la droga che suo figlio si iniettava nelle vene.

Sebastian non aveva mai fatto niente per nascondere quello che si faceva. All’inizio aveva un sacchetto di erba sul comodino, le cartine erano dentro il cassetto per una questione di igiene: non voleva certo fumarsi la polvere, la marijuana bastava.
    Ma solo i primi tempi.
    Ben presto si era reso conto che quella polverina bianca somigliava tantissimo alla polvere di fata che aveva visto nel cartone di Peter Pan. Certo, costava di più. Ma se suo padre non si accorgeva di un sacchetto di Maria sul comodino, quando si sarebbe accorto del furto di un paio di banconote dalla cassa?
    Poi l’LSD. Lo trovava così affascinante: un quadratino minuscolo sul fondo di un cocktail colorato. Di tutte le droghe chimiche che aveva provato quella era la sua preferita. A casa prendeva una bottiglia di birra dal frigo – aveva diciotto anni, suo padre non poteva negargli una birra e comunque non se ne sarebbe accorto – faceva scivolare nel collo quel pezzettino di carta, poi diceva a suo padre che usciva. ‘Non aspettarmi alzato’, lo tranquillizzava con un sorriso. Spesso Diego si era già addormentato sulla poltrona, davanti ad una partita in televisione, con il biglietto di una scommessa ancora in mano.
    Se l’eroina non fosse stata così piacevole, non l’avrebbe mai provata. Era troppo crudo infilarsi un ago nelle vene e poi bisognava andarla a comprare in un postaccio pieno di prostitute. La prima volta era stata una ragazza ad essere così gentile da iniettargliela; gli aveva chiesto se non preferisse un posto nascosto, l’inguine, o un alluce, ma non c’erano rischi che qualcuno vedesse qualcosa.
    L’eroina era il paradiso. Ed in paradiso si stava in pace.
    Però costava un sacco ed i soldi nella cassa del suo vecchio ed assente papà erano sempre meno. ‘Giuro che ti pago’, lo ripeteva tanto spesso che i suoi amici – se poi si poteva parlare di amici – avevano preso a chiamarlo ‘Giuringiurello’.
    Accartocciato in un angolo della strada, con la cintura stretta al braccio ed il buco ancora fresco, si era chiesto, mentre l’effetto scompariva, come trovare più soldi. Guardandosi intorno si era domandato quanta grana avrebbe potuto tirare su a prostituirsi. Ed aveva visto poco lontano da lui un ragazzo in ginocchio davanti ad un uomo con i pantaloni slacciati, li osservava con distaccato interesse: quel tizio doveva avere circa la sua età e sembrava cavarsela, era eccitante anche solo guardarlo. Ma forse erano gli strascichi dell’eroina, lui era eterosessuale, anche se un servizietto ben fatto era sempre un servizietto ben fatto.
    Aveva aspettato con pazienza che finissero, poi si era alzato e gli si era avvicinato. Il ragazzo tremava tutto, tremava tanto da non riuscire ad accendersi una sigaretta; non ci aveva pensato, gli aveva preso l’accendino dalle mani e gliela aveva accesa. Lui aveva biascicato un grazie e si era frugato nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto, con cui pulirsi le mani ed il viso.
    Lo aveva studiato tutto con attenzione. «Cento per una sega; duecento di bocca. Tutto il pacchetto, cinquecento.»
    «Davvero?!» aveva chiesto Sebastian stupito, contando le dosi che si sarebbe potuto comprare con quei soldi. «Sono tanti…»
    «È una buona tariffa.» aveva risposto secco. «Me ne hanno dati mille per la prima botta.» aveva trovato buffo che cercasse di giustificarsi. «E comunque è la mia tariffa, se non ti va bene, più giù c’è uno che vuole di meno, ma ha la sifilide.»
    «Quanto fai a sera?» gli aveva domandato.
    «Quanto mi serve.» era stata la sua enigmatica risposta.
    «Ti fai anche tu?» gli aveva chiesto di getto, speranzoso, un altro fratello assuefatto alle stesse sostanze deliziosamente lavorate. Potevano diventare amici.
    Ma il tipo non era stato affatto contento, aveva tirato indietro un pugno e l’aveva colpito fortissimo alla mascella. «Sparisci, fottuto di un drogato!» Sebastian era caduto per terra, si era morso la lingua ed il sapore ferroso e rivoltante del sangue gli aveva riempito la bocca. «Io ci pago l’affitto con i soldi, le bollette, i libri di mia sorella, le colpe di quel figlio di puttana di mio padre.» gli aveva urlato stravolto e lui l’aveva guardato senza capire cosa avesse detto per farlo infuriare tanto. «Ed io da quelli come te non voglio un centesimo.» si era allontanato a testa alta, andando incontro ad un nuovo cliente.
    Quella notte Sebastian aveva capito che una puttana aveva più dignità di lui. Quella notte Sebastian aveva frugato nel cassetto del suo comodino ed aveva trovato una bustina di roba vecchia: un po’ d’erba, qualche pasticca d’ecstasy. Quella notte Sebastian era andato in overdose.

Maxi non aveva mai capito come avesse fatto Alyssa ad avere il suo numero, ma rispondere a quella chiamata era stato come scoperchiare il vaso di Pandora. Gli aveva chiesto aiuto e lui avrebbe potuto dire di no, ma quella era sua sorella. Solo per mezzo sangue e, se contava che non l’aveva mai vista, non avrebbe dovuto provare niente per lei. Ma quella era sua sorella. Era nell'ospedale dove era appena morta la madre e tutta le sua roba era ammucchiata in una borsa.
    I nonni di Maxi l’avevano iscritto proprio quell’anno all’università, sua madre era di nuovo in riabilitazione, a volte trovava incredibile essere nato sano ed intelligente senza che tutta la merda che Dalila Stone continuava a prendere intaccasse le sue cellule. I nonni non gli volevano bene, per questo gli avevano lasciato il cognome di suo padre, ma si sentivano in obbligo verso il bambino di una sedicenne drogata che non aveva chiesto di venire al mondo. Avevano fatto in modo che avesse tutto quello di cui avesse bisogno, ma si erano dimenticati di amarlo.
    Lasciò tutto per lei: nonni che cercavano di fingere di essergli affezionati, una madre che usava lui per avere soldi dai suoi genitori, gli sguardi amari di tutte le persone che lo indicavano con compassione e finta partecipazione. Lasciò tutto, perché quando Alyssa lo vide, sorrise sollevata e lo abbracciò forte piangendo. Lasciò tutto, perché nessuno lo aveva mai abbracciato con tanto affetto quanto sua sorella: lei era la sua famiglia.
    I nonni non approvarono, ma gli lasciarono tenere i soldi che gli ridiedero indietro quando ritirò l’iscrizione all’università, in un certo senso sembravano quasi sollevati di non averlo più tra i piedi. Il caro vecchio papà Masen, spacciatore di professione, drogato per piacere, non poteva di certo fare obiezioni sul destino di Alyssa. Non poteva certo chiamare la polizia.
    Trovò un monolocale, trovò lavoro in un fast-food. I soldi non bastavano mai, anche se Alyssa era meravigliosa nel fare economia: sapeva cucire, cucinare, si tagliava i capelli da sola e prendeva i libri dalla biblioteca. Si prendeva cura della casa e di lui diligentemente ed a dodici anni era già una massaia eccellente, forgiata da anni di vita nella casa di due genitori sconsiderati. Ma aveva bisogno di vestiti quando non si potevano aggiustare, aveva bisogno di cibo da cucinare ed i libri di scuola andavano comprati.
    Più bollette ed affitto.
    I soldi non bastavano mai.
    Una sera, mentre tornava a casa dal turno di notte a piedi – figurarsi se potevano permettersi una macchina – un’auto elegante e sicuramente costosa, gli si era accostata vicino ed aveva abbassato il finestrino. Un uomo distinto gli aveva chiesto con strana cortesia quanto volesse, ma lo aveva ignorato continuando a camminare. L’uomo non si era arreso seguendolo lungo il ciglio, gli aveva domandato ancora se da quella parte era vergine e Maxi ancora non aveva detto niente.
    «Te ne do cinquecento subito.»
    Maxi si era fermato ed aveva guardato il rotolo di banconote che gli stava allungando. Lo aveva preso timoroso ed aveva contato: erano cinquecento, era bravo a contare, voleva studiare ingegneria.
    «Se sei vergine dopo te ne do altri cinquecento.»
    Che facevano mille.
    Non erano gli stenti a spaventarlo, né accontentarsi delle briciole di Alyssa, che comunque riusciva in un modo o nell’altro a dividere tutto ed a farli stare bene entrambi. Era perderla che lo terrorizzava. Se un giorno fosse andata a scuola in disordine, se un giorno tagliandosi i capelli da sola fossero venuti male – erano sempre perfetti, ma gli incidenti erano reali – se una delle cuciture che aveva fatto non avesse retto, un’insegnante avrebbe potuto insospettirsi. Fare ricerche sulla loro situazione. Avvisare gli assistenti sociali. Portargliela via.
    «Ti prometto che non ti farò male.»
    Avrebbe fatto un male del diavolo.
    Ma mille erano un sacco di soldi.
    Ed anche se era una cosa orribile, sarebbe stata una cosa orribile ben retribuita.
    Lo aveva osservato soppesando l’affidabilità del tipo. «Sulla macchina.» aveva recuperato il cellulare dalla tasca della sua giacca. «Se mi porti da qualche parte chiamo la polizia.»
    L’uomo aveva annuito e gli aveva fatto un cenno del capo verso i sedili posteriori, i vetri erano oscurati. «Anche qui se vuoi.» doveva avere sui quarant’anni, Maxi ne aveva ventuno, aveva fatto l’amore con due ragazze in tutto.
    Mille. Ci rientravano un affitto, due bollette ed un letto anche per lui, visto che fino a quel momento lui ed Alyssa avevano diviso un lettino. Con lo stipendio del fast-food ci veniva anche tutto il resto. Avrebbe potuto cambiare quella cavolo di lente degli occhiali che si era rigata e lo faceva impazzire di fastidio.
    «Ok.»
    L’uomo era sceso e gli aveva aperto la portiera del sedile posteriore.
    Salire su quell’auto era stata la cosa più difficile del mondo, ma l’aveva fatto.
    Dopo l’uomo gli aveva chiesto se stava bene, Maxi aveva risposto di sì, stanco e dolorante. Gli aveva dato i soldi promessi, più altri cento perché gli aveva sporcato i capelli ed ad un certo punto era sicuro di avergli fatto male. Il ragazzo si era pulito il viso con le mani distaccato, noncurante, dicendogli che non importava.
    «Ce la fai ad andare a casa?»
    No, ma ce l’avrebbe fatta lo stesso: non voleva che quell’uomo vedesse dove abitava.
    A casa aveva trovato Alyssa rannicchiata in un cucina in lacrime, il pigiama zuppo della sua disperazione e Maxi aveva capito che quando diceva di vedere, diceva sul serio. Lo aveva fatto sentire anche più sporco di quanto era; aveva pescato dalla tasca i due rotoli di banconote che aveva guadagnato, ma lei non si era consolata. Così alla fine si era seduto accanto e l’aveva abbracciata.
    «Solo…solo finché non ci sistemiamo.» si era accorto di tremare e solo in quel momento Alyssa aveva smesso di piangere e lo aveva stretto forte, consolandolo. Non aveva avuto paura di sporcarsi, non si era lasciata intimidire per quello che aveva fatto, l’aveva abbracciato e basta.
    Il giorno dopo gli aveva intrecciato i capelli dopo aver studiato dal computer della scuola come si facevano i dreadlocks. «Così puoi tenerli indietro e non si sporcano.
    E Maxi non li aveva mai più sciolti.
    Aveva cercato un posto dove ci fossero più donne che uomini. La tariffa era sempre la stessa sia per le poche signore, che comunque a volte capitavano, sia per i maschi. Era un po’ altina e lo sapeva, ma gli garantiva una clientela più pulita, più istruita, che capiva l’importanza dell’igiene e del preservativo. Solo quando era veramente agli sgoccioli cercava di essere meno schizzinoso e si metteva in saldo.

Diego non scommetteva più. Frequentava un gruppo di sostegno e due volte al mese andava a trovare Sebastian chiuso dentro ad una clinica dove l’avevano disintossicato. Avrebbe voluto riportarlo a casa, ma aveva il terrore che ricominciasse, che la prossima volta non sarebbe stato tanto fortunato. E poi non aveva un soldo, forse avrebbe potuto vendere il vecchio ‘Draw cuts’. Non andava, continuava a succhiare grana alla sua anima nostalgica; magari un fesso a cui spacciarlo per un affare sicuro, lo trovava.
    «Non lo faccia, la prego.»
    Aveva guardato sorpreso la ragazzina in piedi davanti a lui, doveva avere dodici, forse tredici anni ed era bagnata come un pulcino; quella mattina presto aveva piovuto a dirotto, da quanto era lì? Sembrava disperata.
    Si era voltata verso il centro dell’ippodromo dove i cavalli si stavano preparando a correre. «Posso dirle chi vincerà. Posso assicurarle che sarà l’unico a puntare su di lui e vincerà tutto quanto.»
    «Vuoi degli spiccioli, ragazzina?» si era frugato nelle tasche, le avrebbe dato i soldi per prendersi qualcosa di caldo.
    «Non sono i soldi.» aveva detto a voce più alta di quella che aveva usato fino a quel momento. «La prego, si fidi di me.» i suoi occhi enormi avevano lo sguardo più triste del mondo. Non sapeva cosa le fosse successo, ma non doveva essere niente di piacevole.
    Aveva scommesso talmente tante volte, che differenza poteva fare? Avrebbe fatto contenta quella poverina.
    «Ok.» aveva acconsentito alzandosi e tirando fuori il portafogli. «Andiamo a fare una puntatina. Allora, a chi vuoi che dia la mia fiducia?» le aveva domandato, mentre lei lo seguiva docile fino al gabbiotto delle scommesse. Infondo, non aveva niente da perdere: Courtney l’aveva abbandonato, Sebastian era quasi morto, il ‘Draw cuts’ finito. Difficilmente una scommessa per quella tipetta avrebbe potuto peggiorare le cose.
    Lei si era morsa il labbro. «Deve promettermi una cosa.»
    «Ti ascolto.» l’aveva rassicurata, anche se si era fatto improvvisamente guardingo.
    Nei suoi occhi c’era qualcosa di solenne, non avrebbe potuto tirarsi indietro da quel patto. «Prometta di tornare qui, domani mattina e di aiutarmi.»
    «Sei nei guai?» le aveva chiesto dispiaciuto. In che razza di mondo vivevano se una bambina finiva nei guai?
    Lei aveva abbassato gli occhi. «Lei è nei guai, suo figlio è nei guai, mio fratello è nei guai. Insieme possiamo mettere apposto tutto quanto.»
    Una voce registrata gli aveva annunciato che le puntate si sarebbero chiuse tra pochi minuti.
    «Ma come diavolo…?» Sebastian, la clinica, erano cose di cui non parlava mai. Erano la sua colpa e trovava da vigliacchi scaricarla su qualcuno per dividerla.
    «Non c’è tempo.» l’aveva interrotto. «Hunter.»
    «Sicura? È famoso per arrivare sempre secondo.»
    «Il primo cadrà poco prima del traguardo.»
    Aveva puntato tutto quello che gli rimaneva nel portafogli, poi si era voltato a cercarla, ma della ragazzina non c’era traccia.

Flash rimase in testa fino all’ultimo, seguito come al solito da Hunter. Cadde poco prima del traguardo, consegnando all’eterno secondo la vittoria ed a Diego abbastanza soldi per ricominciare.


vi chiedo scusa in anticipo se qualcuno troverà che io non abbia affrontato questi argomenti con la giusta profondità o delicatezza...non lo so. non ho mai scritto qualcosa di così drammatico, quindi non so bene come regolarmi...il vostro giudizio sarà un buon metodo di valutazione...
ho cercato di rimanere piuttosto distaccata e delicata...queste cose mi impressionano tanto, non ce l'avrei fatta altrimenti.
ma volevo assolutamente raccontarvi le loro storie, io le conoscevo ed ho pensato che potesse interessare anche a voi...
beh, fatemi sapere!
baci

ps. spero davvero, di non aver scosso troppo qualcuno...nel caso mi dispiace!

pps. però vi avevo avvertite, eh!

ppps. nel prossimo Diego ed Alyssa metteranno apposto le cose, abbiate fede...poi giuro solennemente che torniamo al succo del discorso...consentite questa parentisina di un paio di capitoletti!



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Capitolo 8
*** Capitolo 2.0 - seconda parte ***


olivia
fragolottina's time
basta, proprio basta.
dopo questo mezzo capitolo la piantiamo con tutta questa devastazione...ok, che è una storia drammatinca e di per sè la trama è già bella triste...ma stiamo toccando punti di deprssione inimmaginabili! e che cos'è?!
sbraitò quella che scrive...si, bene.
dunque, ce la passiamo un po' meglio qui...almeno siamo proiettati in un futuro roseo, ma va beh, l'argomento è quello che è, non posso farci niente!
ci vediamo giù

ps. non sono proprio sensata in quanto a citazioni, ma questa ci stava troppo per non mettercela!


CAPITOLO 2.0 - seconda parte

Remember all the sadness and frustration
And let it go.
Let it go.


Sebastian era seduto ad un tavolo della sala comune della clinica. Era un bel posto e, a differenza di quello che aveva pensato all’inizio, non lo trattavano come un detenuto o un reietto. Poteva passeggiare, poteva guardare la tv, poteva unirsi ad una delle mille sedute giornaliere e parlare con psicologi o altre persone che erano stati dei ‘fottuti drogati’ come lui.
    Ma quel giorno era troppo freddo, quindi aveva scelto un tavolo davanti ad una finestra ed aveva iniziato a disegnare. Aveva scoperto che gli piaceva e che era anche abbastanza bravo; i medici incoraggiavano quelle attività, le ritenevano terapeutiche, quindi avevano fatto in modo di procurargli tutto quello che voleva. Era al sicuro lì dentro e non gli mancava niente.
    Era rimasto piuttosto sorpreso, quando suo padre si era seduto davanti a lui insieme ad una ragazzina. Quel mese era già venuto a trovarlo due volte, non si aspettava di vederlo prima di novembre.
    «Ciao.»
    Lo aveva fissato sorpreso e timoroso come sempre, suo padre lo faceva sentire in soggezione. Quanti soldi gli aveva rubato dalla cassa del ‘Draw cuts’? Se il locale era in declino, era anche colpa sua.
    «Se tu sei d’accordo vorrei riportarti a casa.»
    Aveva continuato a guardarlo di secondo in secondo più stupito, non aveva mai avanzato certe ipotesi ed alla fine Sebastian era giunto alla conclusione che non lo volesse più.
    «Non lo so.» voleva tornare a casa? «Potrebbe essere pericoloso, potrei ricaderci.»
    «I medici credono che tu possa farcela.»
    «Non lo credo io!» aveva sbottato a voce alta. C’erano persone lì che continuavano a raccontare della loro terza riabilitazione, della loro quarta riabilitazione, lui era soltanto alla prima: amaramente si aspettava di ricominciare a drogarsi almeno una seconda volta. Fuori di lì il mondo era uno schifo, ognuno dentro la propria bolla isolato dagli altri, suo padre che non si accorgeva della sua presenza. Era meglio stare lì. Non avrebbe rischiato di farsi sbattere in faccia da una puttana la sua superiorità.
    «Sono una veggente.» aveva lanciato un’occhiata scettica alla ragazzina. «Non succederà. L’ho visto, io so che funzionerà.»
    A quel punto aveva guardato suo padre con un aperto rimprovero, la prima espressione vera da quelli che gli sembravano secoli. Davvero? Aveva portato lì una sedicente veggente per convincerlo a tornare a casa?
    Ma lui si era stretto nelle spalle. «Dovresti crederle, sai? Mi ha fatto vincere tanti soldi da vivere di rendita per un anno all’ippodromo.» lei aveva sorriso orgogliosa di sé stessa, Sebastian aveva pensato che era una ragazzina, ma che un sorriso così bello non l’aveva mai visto nemmeno nei suoi migliori deliri da LSD. Il padre le aveva appoggiato una mano sulla spalla. «Ma noi non vivremo di rendita. Ci rimboccheremo le maniche. E visto che tu sei mio figlio, mi aiuterai.»
    «Tu non mi hai aiutato.» non era sicuro nemmeno di averlo detto, non ricordava di averlo pensato, ma era come se quella frase fosse sempre stata là, solo in attesa del momento migliore per scaricare la sua disperazione. Avrebbe potuto notare l’erba sul comodino, avrebbe potuto controllare cos’era quella polvere bianca sulla scrivania della cameretta, avrebbe potuto notare il sacchettino di quadratini di carta al posto dell’erba, avrebbe potuto vedere – perché erano così dannatamente evidenti – i segni rossi sulle sue braccia.
    «Lo so.» disse piano suo padre. «Mi dispiace. Ma ci sto provando ora, dammi una possibilità.»

Quando Diego aveva visto Maxi era rimasto per un lungo momento senza parole a guardarlo: era appoggiato ad un lampione e continuava a sfregarsi le mani. Quella sera l’aria non era particolarmente rigida per essere ottobre, ma sul tardo pomeriggio aveva piovuto di nuovo e l’umidità che era rimasta si incollava ai vestiti e penetrava nelle ossa.
    Aveva controllato di nuovo la foto che gli aveva dato Alyssa, non aveva dubbi che fosse il ragazzo giusto, ma il punto era proprio quello: era solo un ragazzo. Quanti anni poteva avere? Diciotto? Venti? Quale depravato pagava un ragazzotto per farsi fare certe cose?
    Sospirando aveva accostato la macchina davanti al lampione ed aveva abbassato il finestrino. Con triste abitudine, lui si era avvicinato ed aveva sbirciato all’interno. «Cento, una sega; duecento di bocca. Tutto il pacchetto cinquecento.»
    Diego era rabbrividito al solo pensiero, a volte non sapeva se il mondo era diventato incomprensibile per lui o se lui non riusciva più a capirlo. «Per venire a fare due chiacchiere con me quanto vuoi?» aveva chiesto con rimprovero. Se ne era pentito, insomma, il racconto di Alyssa era stato crudamente semplice e non lasciava alito ad interpretazioni: disperazione, solitudine, un ragazzo che si era ritrovato a fare l’uomo. Dio, non era colpa sua. Ma lo offendeva pensare che ai suoi occhi lui era uno schifoso porco, tale e quale ai suoi clienti abituali.
    Maxi aveva fatto un passo indietro sospettoso. «Tutto quello che vuoi, ma qui.» disse con decisione. «Non vengo da nessuna parte.» aveva continuato palesemente sulla difensiva. Si era guardato intorno con apprensione, aveva paura.
    Quante volte aveva avuto paura? Diego non voleva pensarci.
    «Non si parla di affari in mezzo alla strada.»
    Il ragazzo gli aveva scoccato un’occhiata velenosa e spavalda. «Sono un libero professionista, non ho bisogno di un ‘protettore’.»
    Diego aveva realizzato che di quel passo non sarebbe arrivato da nessuna parte: quel posto era una merda e quel ragazzo era abituato a trattare con tipi di merda. Non si sarebbe fidato di lui nemmeno se fosse stato una suora. Non in mezzo ad una strada, dove salire sulla macchina sbagliata avrebbe potuto significare farsi stuprare e poi, magari, uccidere.
    «Ho tua sorella.» aveva chiuso gli occhi vergognandosi di ricattarlo, di fare la parte del rapitore di bambine.
    «Non ho una sorella.» aveva risposto tranquillo, ma i suoi occhi lo fissavano con attenzione morbosa.
    Aveva sorriso spietato. «No? Carina, piccolina, mora…»
    «Come altre mille?» l’aveva deriso.
    «Come altre mille veggenti?»
    Aveva visto il panico scendergli addosso e si era sentito tremendamente in colpa, ma le aveva promesso che avrebbe fatto tutto il possibile e lui non aveva davvero rapito una ragazzina, era lì di sua spontanea volontà. Anzi, era stata proprio lei a cercarlo.
    Non aveva detto niente, aveva stretto i pugni ed era salito in macchina.

«Sta bene?» gli aveva chiesto serio, mentre guidava.
    «Si, è con mio figlio.»
    «Se tuo figlio la tocca gli strappo l’uccello a morsi.» aveva minacciato.
    Diego aveva deglutito affranto, quante volte aveva dovuto ingoiare? Quante volte aveva dovuto mordersi la bocca per non urlare? Quante volte si era fatto schifo, guardandosi allo specchio? Quante volte aveva fatto davvero l’amore?
    «Nessuno la toccherà.» aveva promesso. «E nessuno toccherà te.»
    Aveva abbassato il finestrino e si era acceso una sigaretta, non gli erano sfuggite le mani che tremavano. «Soldi? Ne ho quanti ne vuoi, ma solo dopo che la lasci.»
    «Non toccherei quei soldi nemmeno con le pinze.»
    Maxi aveva riso sarcaastico. «Perché? Ti faccio schifo? Mi dispiace…se lo avessi detto prima avrei trovato qualcosa di pulito da mettermi, invece di questi pantaloni luridi della sbobba d’altri!» aveva commentato.
    «Piantala, moccioso!» l’aveva ripreso e di nuovo i sensi di colpa lo avevano morso: se avesse sgridato Sebastian, se gli avesse dato delle regole, se si fosse aspettato che le seguisse, non avrebbe mai rischiato di morire. Era fortunato, poteva ancora rimediare. «Quello che sei costretto a fare fa schifo!»
    Si era zittito, un silenzio rabbioso dettato soltanto dal buonsenso: quell’uomo aveva sua sorella.
    «Che tu non ne abbia colpa è un’altra faccenda.» aveva aggiunto a voce più bassa.
    «Magari mi piace…» aveva commentato debolmente.
    «Se così fosse forse tua sorella non mi avrebbe supplicato di aiutarti.»

Alyssa e Sebastian erano seduti ad un tavolo del ‘Draw cuts’, mangiavano patatine e bevevano Coca-cola. Tutto abbastanza normale da sembrare sorprendente. Stava cercando di farle un ritratto e lei ne era entusiasta, ma non stava ferma un secondo.
    «Ma non mi somiglia!» si era lamentata.
    Allora il ragazzo aveva aggiunto un paio di baffi arricciolati sotto il naso del disegno. «Ecco, è perfetta!»
    Lei aveva assunto un’espressione oltraggiata che era di un buffo indescrivibile, dandogli uno schiaffo scherzoso sul braccio, che era riuscito soltanto a farlo scoppiare a ridere.
    Quando però era entrato suo padre seguito dalla puttana per la quale aveva passato sedute su sedute psichiatriche a parlare, Sebastian aveva smesso di ridere e si era fatto pensieroso. Si erano guardati entrambi sicuri di riconoscersi.
    «Bene, ora che siete tutti qui, vi dico come andranno le cose d’ora in poi.»
    Alyssa gli aveva preso la mano ed aveva sorriso. «Andrà tutto bene.» lo aveva rassicurato. Poi si era alzata e si era avvicinata al fratello, per dimostrargli che era sana e salva, nessuno le aveva fatto niente.
    «La prima cosa da fare è rimettere in sesto questa baracca.»
    Maxi aveva riso. «Non ho così tanti clienti da riempirti il locale, spiacente.» aveva spiegato ironico. «Ma conto di fare molte conoscenze la notte di Halloween.» Diego l’aveva guardato e gli era sembrato infinitamente stanco. «Che ti aspetti? Se avessi invidiabili capacità imprenditoriali non starei sul marciapiede.»
    L’uomo gli si era avvicinato e Maxi aveva fatto indietro, trascinandosi Alyssa con sé per un braccio. «Ho promesso a tua sorella che avrei fatto tutto il possibile per aiutarti. Grazie a lei abbiamo un sacco di soldi, abbastanza da provvedere a tutti e tre per qualche mese…»
    «Nessuno ha chiesto il vostro aiuto.» lo aveva interrotto senza smettere di indietreggiare, né di tenerela sorella.
    «Maxi! Non ci farà niente!» aveva protestato lei.
    «Sopra casa nostra c’è una specie di appartamento indipendente. È un buco, ma voi due ci starete fin troppo comodi. Domani mattina vai a fare tutte le analisi.»
    «Tuo figlio è un eroinomane e fai fare le analisi a me?» ma si era fermato: non cercava più di scappare. Era già qualcosa.
    Sebastian aveva sussultato, ma non aveva detto niente.
    «Mio figlio viene da una clinica di riabilitazione, ci si aspetta che sia pulito.» l’aveva fissato. «Tu vieni dalla strada, ci si aspetta che sia sporco. Ai virus sessualmente trasmissibili non importa che tu abbia il cuore d’oro.» il ragazzo l’aveva guardato con tanto di quell’odio da costruirci una casa, ma Diego non aveva mollato. «Basta, droga. Basta, scommesse. Basta, prostituzione.»
    «I soldi mi servono.»
    «Hai ancora il lavoro al fast-food e non voglio affitto. Se trovi il modo di recuperare questo posto avrai due stipendi onesti.»

All’inizio Maxi era stato solo scontroso, diffidente come un gatto randagio non abituato ad avere un padrone. Aveva fatto le analisi, ma non aveva preso la macchina. Gli avevano diagnosticato un’infezione di qualche genere, ma completamente curabile e che non avrebbe lasciato strascichi permanenti. Gli era andata decisamente bene.
    Si erano sistemati nell’appartamento sopra il loro. Alyssa aveva ripulito tutto in due pomeriggi e Sebastian l’aveva accompagnata ad un negozio dell’usato per comprare qualcosa che facesse arredamento; a Maxi non piaceva nemmeno un po’ che la sorella passasse tutto quel tempo con un ex tossicodipendente, ma ben presto era stato evidente che non si sarebbe lasciata influenzare dai suoi pregiudizi. Piena di spirito di iniziativa aveva cominciato a leggere le carte alle sue compagne di scuola per soldi.
    Diego li controllava da lontano, contento che la situazione sembrasse completamente sotto controllo. Le bollette arrivavano tutte a lui e finché i soldi della vincita bastavano non avrebbe avuto problemi a pagarle. Tutte le sere apriva il ‘Draw cuts’, aveva dieci clienti abituali che bevevano un bicchiere di birra e passavano ore a chiacchierare. Sebastian lo seguiva sempre e si dava un sacco da fare, anche se non ce n’era bisogno. Era silenzioso ed ancora poco abituato ad avere gente intorno, ma vedeva i progressi e se passare la scopa o pulire il bancone tre volte in una sera lo aiutava, chi era lui per opporsi?
    Maxi li aveva raggiunti una sera, tutti lo avevano guardato come se si trattasse di un alieno. Un faccia nuova in quel posto non si vedeva da parecchio tempo.
    «Questo posto è una topaia.» aveva detto senza cerimonie.
    Diego non si era scomposto, certo che era una topaia, ma tutto sommato fruttava qualcosa e lui aveva deciso di fidarsi della ragazzina senza timori. «Vuoi da bere?»
    «Birra.»
    Diego gli aveva servito una lattina di coca-cola ignorandolo.
    «Questo posto è una topaia ed è introvabile. Ci ho messo un quarto d’ora io che la cercavo!» si era seduto su uno sgabello ed aveva appoggiato sul piano del bancone un blocchetto iniziando ad appuntare cose, gli tremavano ancora le mani e la sua scrittura era tutta disordinata. Sovrappensiero Diego si chiese se non avesse bisogno di uno psicologo. «Bisogna comprare un’insegna più grande e bisogna motivare le persone a venire. I talent vanno forte, si potrebbero ospitare dei dilettanti con la promessa di dargli…boh, il venti per cento della serata?» si era stretto nelle spalle. «Saranno soprattutto ragazzini con sogni di gloria. I nuovi Nirvana, i nuovi Sex Pistols, i nuovi Pink Floyd…orrendi! Ma porteranno amici, parenti e li obbligheranno a spendere per ricavarne qualcosa e noi ci intascheremo i frutti dei loro sforzi.»
    Diego lo stava fissando da un po’, riflettendo che quel ragazzo aveva talento imprenditoriale, eccome. Anche i suoi abitué sembravano perplessi.
    «Hai chiesto un’idea.» si era lamentato, davanti alla mancanza di entusiasmo.
    «Alyssa lo appoggerebbe, papà.» gli aveva ricordato Sebastian.
    «D’accordo. Domani pomeriggio vi do le nuove regole.» aveva riempito di nuovo il boccale di un tizio. «Va a casa ora, domani mattina devi andare a lavoro.»

Erano tutti e tre seduti sul divano, Alyssa al centro ed i due ragazzi uno per lato. Tutti e tre in attesa che parlasse.
    «Dunque, la gestione, l’organizzazione e tutto quanto, sono compiti di Maxi. Sei mai stato dietro ad un bancone?»
    Il ragazzo aveva scosso la testa.
    «Bene, è ora che impari. Stasera vieni al locale e fai pratica con i miei clienti abituali, le cerimonie a loro non interessano.» aveva spostato lo sguardo sul figlio. «Sebastian, aiutalo.» lui aveva annuito senza incertezze. «Io provvederò a rendere la cucina praticabile.» un tempo il ‘Draw cuts’ era stato molto più di un bar e forse poteva tornare ad esserlo. Certo, erano qualcosa come dieci anni che non usava la cucina, ma in qualche modo avrebbe fatto in modo che potesse essere riutilizzata.
    «Ed io?» aveva domandato Alyssa. «Anche io voglio fare qualcosa.»
    «Tu, signorina, fai tutti i compiti e dopo vieni a mettere a posto i tavoli.» lei aveva annuito eccitata. «Ma poi torni di corsa a casa perché la mattina dopo hai scuola.»
    «E se non va?» Diego aveva guardato Maxi, aveva i pugni stretti nelle tasche della felpa, si era accorto che notava sempre quando gli tremavano le mani; l’uomo iniziava ad essere seriamente preoccupato che non smettesse più. «Che faccio torno sul marciapiede?»
    Aveva sospirato. «Non pensiamoci adesso.»
    «Voglio sapere se è un’eventualità.»
    L’aveva fissato negli occhi. «Se non va riproveremo. Non ci torni sul marciapiede.» gli aveva promesso. «Alyssa, funzionerà?»
    «Assolutamente si. Non ci possiamo aspettare immediatamente grandi guadagni, ma nel giro di tre mesi il ‘Draw cuts’ ci manterrà tutti e quattro.»
    «Vedi, ragazzo? Io mi fido di tua sorella, dovresti farlo anche tu.»

Mi fermai con una tovaglietta di carta tra le mani.
    Alyssa e Sebastian scherzavano poco distanti da me; studiai il sorriso del ragazzo, cercando qualcosa che mi confermasse tutto quello che avevo visto. Ma l’unica cosa che vidi confermata fu la sua straordinaria passione per il sorriso di lei. C’era stato dolore, aveva scavato fosse profonde, loro erano riusciti a salire in cima ed ora sbirciavano giù con due pale in mano e piano, piano stavano ricoprendo di nuovo quei buchi. Il passato andava lasciato andare e dimenticato.
    Guardai Maxi, stava riempiendo le scodelline di patatine ed altri stuzzichini per gli aperitivi. Vidi distintamente la sua mano tremare, lui scosse il pugno con decisione ed abitudine e quando tornò ad arrotolare il sacchetto di chipster, perché non si seccassero, era di nuovo fermo e tranquillo. Alzò il viso e mi lanciò un’occhiata.
    «Ti sei fissata ancora, Liv.» mi prese in giro.
    Sarei voluta andare da lui ed abbracciarlo, dirgli che ora andava tutto bene, che era tutto finito.
    Ma non lo feci.
    Io violavo un giuramento solenne a sbirciare il loro passato, anche se non ne ero del tutto colpevole. Ero migliorata, ma non era ancora completamente in grado di controllare le mie visioni. Alyssa diceva che a diciassette anni per me sarebbe stato come cambiare canale alla tv: avrei visto il mio rapimento in alta definizione, bello.
    Arrossii e distolsi lo sguardo, lui ridacchiò, spietatamente divertito da una ragazzina che arrossiva perché la beccava a guardarlo. Gli davo molte soddisfazioni.
    Alyssa mi si avvicinò sorridendo e mi strinse la mano, mentre con l’altra recuperavo quattro bicchieri da sistemare. Mi ero abituata alla sua passione per i contatti fisici, era tutta un toccare ed abbracciare.
    «È un pensiero carino da parte tua.» le lanciai un’occhiata. «Ma non gli piace parlarne.» lo immaginavo. «Tu gli piaci proprio perché non ne dovresti sapere niente!» rise tornando al tavolo che aveva interrotto per venirmi a parlare.
    Lanciai un’occhiata a Maxi, cercando di stare attentissima a non farmi vedere, ma lui stava guardando me, quindi, non mi rimase altro da fare se non sbuffare alla sua seconda risata.
    Ma restò un pensiero dolce a galleggiare nella mente: io gli piacevo.

fine...lasciamoci alle spalle questa cosa, per carità...
fatemi sapere che ne pensate, ça va?
bacichenonnepossonopiùdiscrivererobatantotragica!

ps. la canzone è Iridescient dei Linkin Park...bella, mi piace...

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