Il Dono

di Exelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ignorando gli Spettrocoli ***
Capitolo 2: *** Un castigo troppo Severus ***
Capitolo 3: *** Oltre la comprensione ***
Capitolo 4: *** Acido come un limone ***
Capitolo 5: *** Rigido come una Ringhiera ***
Capitolo 6: *** Sognando Lovegood ***
Capitolo 7: *** La Fata Sprezzante ***
Capitolo 8: *** Fletchermania! ***
Capitolo 9: *** Orgoglio Gorgoglio ***
Capitolo 10: *** Il mattino ha la carie in bocca ***
Capitolo 11: *** Tra Sogno e Baratto, Invito e Misfatto! ***
Capitolo 12: *** Come Polvere nella Notte ***
Capitolo 13: *** Mundungus Spiato! ***
Capitolo 14: *** La funerea luce del giorno ***
Capitolo 15: *** Grasse risate a Grimmauld Place ***
Capitolo 16: *** La storia del Principe Ladro ***



Capitolo 1
*** Ignorando gli Spettrocoli ***


Lily Evans amava tre cose nella vita.
I suoi genitori, le brioche alla crema e lo strato di neve  che ricopriva il giardino, quando arrivava Natale, benché quella festa non la catturasse particolarmente.
Viceversa, Lily Evans odiava moltissimo tre cose che, al contrario delle precedenti, e come appunto suggerisce la parola odiare, la piccola Lily temeva ed evitava come la peste.
Gli spioni, le camicette con i volant e i pipistrelli.
Fu per questo che, quando lo Strambo saltò fuori dal cespuglio, la prima sensazione della piccola Lily fu un’ostile, incontrollata e primordiale paura.
Lily Evan, seduta sotto al Grande Albero, rabbrividì, ripensando a quell’infausto incontro.
Era una ventosa giornata di giugno, e le grida lontane di alcuni bambini non intaccavano minimamente la solitudine di Lily, immersa nei suoi pensieri.
Immersa in un pensiero.
Piluccò ancora un po’ di pane dal cestino di latta, prima di alzarsi, spolverandosi energicamente i vestiti e raccogliendo le sue poche cose.
A passo svelto, seguendo il trillo di una campanella in lontananza, Lily Evans s’infilò nella stretta fessura dell’alto muro che delimitava il prato. Si ritrovò nel cortile polveroso della St. Bartleby, la scuola pubblica elementare del quartiere. Era deserto, soffocante e polveroso. Difficile dire che solo pochi istanti prima fosse animato da alunni impegnati a godersi l'intervallo.
Lily Evans non si preoccupò, andava bene così. Nessuno doveva vedere dove passava la sua pausa pranzo. Il Grande Albero era sua esclusiva proprietà, il suo segreto.
Dopotutto, era davvero piacevole avere qualcosa da nascondere alle sue sciocche compagne e ai bulli del St. Bartleby. Un posto dove esercitarsi in tranquillità, lontano da occhi indiscreti.
O dai pipistrelli.
Lily sospirò, camminando lentamente verso l’ingresso dell’istituto.
Era successo da meno di una settimana, forse anche meno.
Se Lily Evans ne avesse avuto il tempo, avrebbe contato il numero preciso di minuti trascorsi dall’incontro, ma dato che era già abbastanza grave riviverlo in sogno e pensarci ininterrottamente in ogni istante della giornata, Lily Evans aveva deciso di non farlo.
Lily Evans era una bambina matura, una piccola adulta che si faceva carico delle sue..
“Ciao.”
Lily Evans cacciò un urlo stridulo e fiondò per terra. I libri e il cestino di latta caddero con lei. L’astuccio si aprì, sputando tutte le matite e le penne che conteneva.
“Ti sei fatta male?”
“No” borbottò Lily con voce roca. Si rialzò piano, impiegando il più tempo possibile per radunare le sue cose. Non voleva alzare gli occhi. Ma quando l’ultima penna fu riposta nell’astuccio, non poté più cercare scuse.
Chissà perché, Lily era sicura che l’avrebbe incontrato ancora.
Forse era questa consapevolezza a renderla più determinata e sicura di sé. Ora poteva affrontarlo,e fargli rimangiare quell’insulto.
Strega..
Gli occhi verdi di Lily Evans incrociarono quelli neri del pipistrello.
E in quell’istante, tutto svanì in una nebbia azzurrina.


Il presente, Hogwarts, segrete del castello.

“Lei è strano, lo sa?”
“Taci e fila a sederti signorina Lovegood. Con il tuo voto – osceno- sul tema della pozione Frastagliante, è già tanto se ti permetto di stare in questa classe.”
Saltellando e canticchiando beata, Luna Lovegood riprese posto, scrutando con occhi estasiati la ‘T’ rattrappita che ornava il suo compito. ‘T’ come Tortoratto della Turingia, il nuovo, sensazionale animaletto scovato dal Cavillo. Non poteva sentirsi più realizzata. Si aggiustò gli Spettrocoli sulla faccia, ignorando le risate silenziose dei compagni.
Quel voto era un segno, c’era sicuramente un Tortoratto in giro per l’aula!
Severus Piton, esimio insegnante di Pozioni, rimase impassibile osservando la giovane e svampita Corvonero, fissare il soffitto con i suoi mostruosi occhiali psichedelici.
Un insegnante normale, avrebbe scosso la testa e richiamato all’ordine la ragazzina, affibbiandole una giusta punizione.
Lui no.
Severus Piton infatti, si limitava ad accettare la brillante abilità di pozionista di miss Lovegood, chiaramente senza mai lodarla né incoraggiarla, rovinata da una media disastrosa su temi e compiti scritti, ed evitando accuratamente, durante le lezioni in cui se la ritrovava in classe, di guardare in direzione della testolina platinata,.
Il mondo, secondo Severus Piton, assumeva sfumature più gradevoli se si ignoriava ciò che  lo rendeva detestabile.
E così, Severus Piton ignorava Luna Lovegood e i suoi pazzi occhiali, così come ignorava le patetiche frasi fatte del Preside, le accuse di un certo canide nero e la faccia, priva di naso, del Signore Oscuro. Non elencò Potter, perché il giovane Harry, il Prescelto-che-è- Sopravvissuto, aveva un posto tutto speciale anche nella mente dell’insegnante di Pozioni.
Una zona recondita della mente, a cui Piton accedeva solo quando aveva veramente voglia di farsi del male.
La lezione riprese.
Piton tracciò con la bacchetta gli ingredienti per il nuovo lavoro sulla lavagna- Pozione Soporifera-, dopodiché si sedette alla cattedra, dove rimase immobile a fissare minacciosamente gli studenti indaffarati.
Per i ragazzi, il riecheggiare della campanella tra le mura della segreta, fu un vero sollievo.
Uno ad uno uscirono tutti lasciando l’aula vuota… O quasi.
“Lovegood, sparisci. Non ti sei accorta che la campana è suonata?”
Luna puntò i suoi occhi, o meglio gli spettrocoli, in quelli neri e gelidi dell’insegnante.
“Non ho terminato la mia pozione, signore” rispose con un sorriso ebete. Piton notò una certa familiarità con il sorriso tipico del Preside. Forse era anche questo che gli rendeva la signorina Lovegood così odiosa.
“Allora cerca di finire alla svelta.”
“E’ quello che sto cercando di fare” replicò Luna in tono dolce. “Lei mi ha interrotto.”
Piton la ignorò. Si allontanò nella piccola dispensa degli studenti, afferrò un vasetto a caso e si mise a leggere l’etichetta. Quando si rese conto di quanto fosse stupido, tornò nell’aula. La Lovegood, era ancora lì, a tagliuzzare radici e a respirare i fumi scintillanti che si levavano dal piccolo calderone di bronzo e peltro.
Con quegli occhiali inquietanti, ricordava un Mangiamorte ubriaco.
Piton scosse la testa. Che diavolo stava succedendo? Aveva appena pensato ad una battuta?
Orribile, tra l’altro.
Con un’occhiata sospettosa alla Lovegood –quella piccola Stramba c’entrava qualcosa, ne era sicuro-, tornò alla cattedra. Ostentando un’indifferenza pari a quella di un golem pietrificato, Severus Piton si mise a pensare.
Il dono, o meglio prestito, che Silente gli aveva fatto, era un’opportunità meravigliosa. Non vedeva l’ora di tornarsene nel suo ufficio, dove poter stare in pace con i suoi ricordi e riviverli da spettatore.
Un Pensatoio. Il Pensatoio.
Cosa avrebbe dato per averne uno tutto suo. Era così…utile…No, non utile. Che parola orribile!
Era più qualcosa di poetico, per quanto Piton odiasse certe sciocchezze.
Rivivere i suoi ricordi era una cosa senza prezzo, che lo rendeva immensamente felice. Lo faceva sentire vivo.
Doveva solo aspettare qualche ora, e poi avrebbe potuto immergersi nel vortice argenteo, dimenticando tutti e tutto. Tranne il passato.
Con un’espressione insolitamente rilassata per lui, Severus Piton alzò lo sguardo sulla classe.
I suoi progetti per la serata, si disintegrarono all’istante, cancellati dallo spettacolo che gli si presentava davanti.
Luna Lovegood giaceva a terra priva di sensi, gli Spettrocoli immersi nella pozza viola di ciò che rimaneva della sua pozione.

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Capitolo 2
*** Un castigo troppo Severus ***


“E’ una fortuna che tu fossi lì, Severus”
Gli occhi azzurri luccicarono vividi da sopra le lenti  a mezzaluna, squadrando attentamente Piton.
Questi non replicò, limitandosi a guardare fuori dalle alte finestre. Era ormai calata la notte, di un bel color blu vivido, ma nessuna stella ornava il cielo fuori dai vetri dell’ufficio del Preside.
“Severus, mi stai ascoltando?”
“Si, Preside” rispose Piton, voltandosi rispettosamente verso il mago più anziano, ma tenendo comunque il capo chino. Non per rimorso, o in segno di costrizione, bensì per nascondere la smorfia arrogante in cui erano contratti i suoi lineamenti aguzzi.
Erano le undici, minuto più, minuto meno. Avevano atteso sette lunghe ore, prima che la dannata Lovegood riaprisse i suoi occhi a palla sul soffitto dell’infermeria.
Ah, per non parlare del sorriso ebete che aveva fatto quando aveva visto Silente!
Il quale, nemmeno a dirlo, aveva ricambiato con un sorriso altrettanto mieloso e sciocco.
Quei due, aveva pensato subito Piton, si trovavano proprio.
Avevano parlato per una manciata di minuti, fino a quando Silente era tornato da lui, e
come se fosse la cosa più naturale del mondo, l’alto mago gli  aveva ordinato seccamente di  filare nel suo ufficio nella torre grande, e di aspettarlo lì.
Piton aveva notato che il Preside aveva usato lo stesso tono di quando aveva sorpreso lui e il – dannato, esattamente come la Lovegood – Potter Senior, fuori dal Platano Picchiatore, in compagnia di un affranto Remus – Straccione – Lupin.
Ora, Severus Piton era lì, in piedi, in compagnia di un pennuto simile ad una gallina troppo pomposa, a dover spiegare perché e soprattutto come, miss Lovegood si era ritrovata carponi per terra, finendo dritta dritta in un lago di pozione Soporifera.
Silente sembrava reputarlo un fatto gravissimo e, anche se non lo vedeva in volto, Piton poteva intuirne la rabbia. La pozione non era di per sé pericolosa, ma presa in dosi eccessive, poteva causare un sonno irreversibile. Figuriamoci scivolarci dentro.
Il Preside non stava nemmeno fingendo di leggere Modelli a maglia- Collezione Autunno\Inverno. E il fatto stesso che si preoccupasse di più di una delle tante stramberie della Lovegood, invece che della sua pubblicazione semestrale preferita, mise Piton in allerta. Comunque, anche se la Lovegood aveva rischiato, grazie alla solita fortuna degli strambi, sembrava essersi ripresa quasi più che bene. Allora perché, Silente l’aveva convocato?
Non era  accaduto per colpa sua. Questo doveva essere chiaro anche a Silente.
 Severus Piton non aveva alcuna colpa, se non quella di non aver insistito abbastanza nello spedirla fuori dall’aula, quando era suonata la campana. Silente pur doveva comprendere che quella ragazza era… un po’ tocca, ecco, e svenire su un calderone di pozione Soporifera rientrava pienamente, almeno per Severus Piton, nella categoria ‘Pazzi furiosi’. Come classificazione era un po’ drastica, ma abbastanza realistica. Dopotutto, bastava  parlare anche solo una decina di minuti col padre della ragazza, per capire che da quella famiglia, non sarebbe mai uscito niente di buono. O di normale.
Severus Piton avrebbe preferito di gran lunga un bel cenone di Capodanno con i Weasley  (Escluso il Prescelto e il Padrino prescelto, e il Lupo Mannaro consigliere del Prescelto, naturalmente) che un pomeriggio sprecato in chiacchiere con Xenophilius Lovegood, nella sua dimora a forma di tuba.
Tutto in quell’uomo, era assurdo. Pure sua figlia.
Non occorreva una mente acuta come quella di Severus Piton, per accorgersene. Tutti gli studenti di Hogwarts…
“Severus, abbi la cortesia di guardarmi.” Disse Silente, interrompendo il corso dei pensieri  dell’oscuro pozionista.
Piton obbedì. Gli occhi neri si scontrarono con quelli vividi del Preside.
“Severus, Luna Lovegood è una tua alunna e lo spiacevole incidente di cui è stata vittima,
 è accaduto in seguito alla tua disattenzione e al tuo totale disinteresse nei suoi confronti.”
Piton aprì la bocca per parlare, ma Silente lo zittì con un gesto, parlando a voce più alta:
“L’unico momento in quattro anni in cui ti sei preoccupato di lei, è stato quando l’hai vista riversa a terra sul pavimento della tua aula. Posso capire che alcuni studenti suscitino le tue antipatie, ma la signorina Lovegood…”
“Lei non doveva essere lì!” sbottò Piton rancoroso, “Le avevo ordinato di andarsene, di uscire e di andare a qualunque lezione dovesse andare. Ma, tipicamente in stile Lovegood, non mi ha minimamente dato ascolto”
Silente inarcò elegantemente un sopracciglio, ingenuamente sorpreso:
“Tipicamente in stile Lovegood?”
“Sa cosa voglio dire”, borbottò Piton.
“No, Severus non lo so. Spiegamelo”, mormorò Silente, congiungendo la punta  delle dita ossute.
Piton incrociò le braccia, nascondendo l’agitazione dietro alla faccia imperscrutabile che aveva quasi sempre dipinta sul viso.
“Quello che intendo dire…” Piton si morse il labbro, pensando. Chissà perché, gli sembrava di avere di nuovo quindici anni e di indossare una logora divisa nera, verde e argento.
“Vai avanti” Mormorò Silente in tono sognante.
“Luna Lovegood è strana. Stravagante. Ha atteggiamenti che, a mio dire, sono al di là di qualsiasi normale comportamento, compreso il brutto vizio di fare commenti indesiderati e inopportuni su chiunque. Non ascolta e fa’ sempre di testa sua. Persino i suoi compagni sanno che non è a posto con..”
“Basta così, Severus” Silente si alzò, e Piton capì solo in quel momento quanto fosse arrabbiato. E quanto fosse inutile, cercare una scusa per ciò che aveva appena detto.
“Albus, sto solo cercando di dire che per quanto la Lovegood sia anormale è normale che le succedano incidenti del genere! Svampita e inetta, ecco cos’è” sbottò Piton, prima di riuscire a controllarsi. Non sopportava l’idea di venire ripreso da Silente solo perché una come Luna Lovegood decideva di mettersi in pericolo di vita durante la sua ora di lezione.
Il Preside trafisse Severus con uno scintillio ceruleo. Evidentemente, non era della sua stessa opinione.
Gli strumenti d’argento sui bassi tavolini cominciarono a ticchettare forsennati, emettendo rapidi sbuffi di fumo in fili leggeri, color lillà e acquamarina.
“Severus, ti ho permesso di insegnare a Hogwarts. Ho vegliato su di te e glissato sul comportamento che hai con Harry Potter e gli studenti che a tuo dire non hanno le capacità. Ma di certo non ti permetto, e bada bene perchè non te lo dirò una seconda volta, di definire pazzo un mio studente”
Silente aveva parlato in tono così duro che Piton, si sentì quasi costretto ad abbassare il capo e gli occhi.
Sentì l’anziano mago riprendere posto sulla sedia, ma solo dopo un lungo silenzio, Piton si decise ad aprire bocca.
“Non accadrà più.”
“Ne sono certo” rispose Silente con fermezza.
Piton ritenne la conversazione conclusa. Sentiva una strana nostalgia dei suoi barattoli colorati e del suo tenebroso ufficio e soprattutto, del bacile di pietra coperto di rune.
Aveva davvero bisogno di starsene un po’ per i fatti suoi nel passato, dopo la lunga giornata che aveva avuto.
“Posso andare ora?” domandò stancamente.
Silente lo guardò per un momento che parve eterno. Poi parlò.
“No.”
Piton incrociò di nuovo le braccia, sentendosi più adolescente che mai.
Cosa voleva ancora da lui, il Preside? Perché doveva continuare a infastidirlo con le sue lezioni morali, sul rispetto per gli studenti? Aveva finito i ghiaccioli al limone? O aveva rotto i ferri da maglia?
“Voglio che da lunedì prossimo, dalle sette in poi, tu stia con Luna Lovegood.”
“Cosa?” Esclamò Piton, spalancando gli occhi, sconvolto e imbarazzato insieme. “Che diamine dovrei farci?” Chiese allarmato Severus.
“Parlaci” gli rispose Silente, con la solita voce affabile: “Fate conversazione. La gente, al giorno d‘oggi, tende a sottovalutare il valore della comunicazione a parole, ma confido che tu e la signorina Lovegood, siate ancora in grado di imparare ad apprezzarlo”
Davanti ad un Piton basito, afferrò una copia della rivista Il ghiottone affamato e cominciò a leggerla, apparentemente concentrato.
“Stai scherzando, Albus?”
“No, e per questa inopportuna domanda, ti affibbio anche un pomeriggio a scelta, in giro per Hogsmeade o dovunque la signorina Lovegood, desideri andare” disse Silente da dietro la fotografia di una torta ai mirtilli e lamponi, guarnita di panna fresca.
Piton aprì la bocca, aveva una mezza idea di prendere a insulti Silente e le sue idee strampalate, quando il Preside, parlò di nuovo:
“Severus caro, ti consiglio di tacere e di andartene, se non vuoi che alla signorina Lovegood si aggiunga il Signor Potter.”
Albus Silente tornò a leggere la ricetta per la ‘Sfogliatella alle mele’ ridacchiando, mentre la porta del suo ufficio si chiudeva con un colpo secco, alle spalle dell’insegnante di Pozioni più arrabbiato di tutta Hogwarts.



Severus Piton camminava rapido e scocciato per i corridoi  deserti.
Maledetto Silente. Era decisamente nel suo stile, affibbiare un noioso e tedioso lavoro da balia a una svampita platinata. Oltretutto la Lovegood non era nemmeno della sua Casa. Avrebbe dovuto essere Vitious a farle da custode post-incidente. Anche se Severus non credeva che la giovane Corvonero ne avesse strettamente bisogno. Sarebbero bastati due giorni in Infermeria, pensò.
‘Due giorni, e tornerà a saltellare in giro parlando da sola, con i suoi tappi al collo e le sue rape appese alle orecchie’ Pensò il malevolo professore di Pozioni.
A proposito di Infermeria…
Non l’aveva fatto di proposito, eppure eccola lì, la grande porta a due battenti di bronzo, semichiusa davanti a lui. Probabilmente Madama Chips si era assentata per andarsene chissà dove e aveva lasciato l’Infermeria incustodita. Non c’era da preoccuparsi, comunque, perché non doveva esserci nessuno là dentro. A parte…
Luna Lovegood, pensò Severus Piton, più corrucciato che mai.
Con il mantello nero ondeggiante sulle spalle e la camminata nervosa che lo contraddistingueva, s’infilò nella porta socchiusa e attraversò la lunga corsia tagliata da lame di luce lunare, che filtrava dalle alte finestre piombate. I letti rifatti rilucevano nella fioca luce, asettici e ospedalieri.
Luna Lovegood giaceva nel letto in fondo, quello più illuminato dai raggi cangianti di colei che aveva il suo stesso nome.
Composta, con le mani giunte sopra il petto e capelli biondi sparpagliati sul cuscino a formare una bizzarra corona, sembrava se ne stesse sott’acqua, placida e indisturbata.
Respirava impercettibilmente e aveva un sorriso tranquillo e dolce impresso sulle labbra sottili.
Severus fece una smorfia.
Sembrava tonta e ingenua anche da addormentata, circondata da quell’alone di luce spettrale che le rendeva la pelle più pallida che mai.
L’insegnante fece per andarsene, quando lo sguardo gli cadde sul comodino di fianco al letto, anch’esso illuminato dalla fatua luce lunare.
Era vuoto, a parte gli anormali occhiali di Miss Lovegood.
Severus corrugò la fronte, pensieroso. Di solito quando un compagno finiva in Infermeria, i suoi amici, - e subito il pensiero di Severus corse a Potter, per il quale bastavano un taglietto e qualche ora in Infermeria, per trasformare il comodino del Prescelto nella fiera dei dolci di Nottingham – , portavano almeno un regalo, una scatola di Cioccorane, o un qualche biglietto strillante, per augurare una pronta guarigione all’amico malato. Eppure quel comodino era occupato solo dai coloratissimi occhiali dell’occupante del letto a fianco.
Fu  guardando quei solitari occhiali, che improvvisamente un pensiero, più subdolo degli altri e stranamente deprimente, si fece strada nella mente di Severus Piton.
Luna Lovegood non aveva amici.
Nemmeno un compagno che si degnasse a portarle un biglietto.
Con un’inspiegabile oppressione nel cuore e ricordi che mai avrebbe voluto rivivere, Severus Piton tornò nel suo sotterraneo, in cerca della compagnia della ragazza dai capelli di fiamma, e del vortice argenteo che per qualche ora gliel’avrebbe fatta rivedere.


Il passato, un altro ricordo..

Lily Evans non era una bambina cattiva, indisciplinata o disobbediente.
Anzi, come le ripetevano i genitori, gli insegnanti e i pochi che si ritenevano essere quasi suoi amici, non esisteva bambina più gentile, educata e dolce.
Lily non gli dava retta; pensava solo a essere buona e a non mettersi nei guai.
Non per piacere agli altri, ma semplicemente perché lei era così. Quella storia del ‘comportarsi bene’, era più forte di lei.
Lily Evans era una figlia modello e nessuno si sarebbe mai azzardato a dire il contrario.
Anche se in quel momento, nascosta dietro ai maleodoranti bidoni della spazzatura, nello sconnesso giardino invaso dalle erbacce e dai rifiuti, Lily Evans si sentiva una criminale.
La piccola Lily si aggiustò per l’ennesima volta la spallina della salopette, che continuava a scivolarle giù, rendendola impacciata.  Dopo un po’ rinunciò e con un ultimo, profondo respiro, alzò il capo e guardò oltre i coperchi di latta, da cui sbocciavano alcuni  gambi di sedano marcescenti.
La casa. La sua casa.
Lily l’avrebbe riconosciuta tra mille, anche se Tunia, nel darle le indicazioni per arrivarci aveva riso acida e sgradevole, augurandole di perdersi.
Spinner’s End, il lugubre quartiere cresciuto come un cancro a ridosso della ciminiera che torreggiava sulle centoquaranta case che lo componevano dando vita ad un labirinto industriale.
Centoquaranta case prive di campanello, targhetta o cani che segnalassero la presenza di un’abitante o di una famiglia all‘ombra di una torre ingrigita e puzzolente.
Con l’eco della risata di Tunia, fastidiosamente impresso nella mente, Lily aveva camminato fino a Spinner’s End, snocciolando una per una le case che le passavano davanti, osservandole, esaminando i portici. In due aveva provato addirittura a bussare ma poi, vergognandosi, era scappata, continuando la sua ricerca.
E poi eccola, la sessantatreesima.
La casa di Severus.
A Lily era bastato posarci gli occhi sopra, per capire che era la sua.
La casa con i mattoni più anneriti, con i vetri più incrinati, con le porte più sghembe. Quella evitata persino dagli accattoni di Spinner’s End, tanto era miserabile.
Casa Piton.
Trovandosela davanti, Lily non si era affatto meravigliata che Severus le avesse nascosto con tanta cura, la vera posizione della sua casa e non l’avesse mai invitata a bere il tè.
Si vergognava.
Lily si morse il labbro, pensierosa. Stava facendo la cosa giusta?
O Severus si sarebbe arrabbiato perché lei aveva fatto… Come si chiamava?
Ah, sì… Un gesto di carità. Era questo che la piccola Evans stava per fare?
Lily scosse la testa, agitando i folti capelli rossi, come per scacciare invisibili moscerini molesti.
Non era carità, era amicizia.
Lei e Severus erano amici, e quando un’ amico è in difficoltà bisogna aiutarlo.
Lui, per lei, l’avrebbe fatto, Lily non aveva alcun dubbio.
E questa era, una delle fondamentali certezze di Lily Evans.
Sentendosi intrepida e temeraria come mai prima d’ora, la bambina saltò fuori dal nascondiglio dietro ai bidoni e percorse il vialetto invaso delle sterpaglie, a passo di marcia.
Solo quando ebbe salito tutti i gradini e si ritrovò nel portico sconnesso, si accorse di aver lasciato il coraggio dietro ai bidoni, tra i gambi di sedano e i cartocci di pesce e patatine.
Con il cuore che batteva all’impazzata, Lily strinse il piccolo pugno e batté tre piccoli colpi sulla superficie scrostata della porta d’ingresso.
Niente.
Lily bussò ancora, un po’ più forte.
La porta rimase chiusa.
Spazientita, più che spaventata, Lily posò una mano sulla maniglia arrugginita e provò a spingere.
La porta, incerta sui cardini, si aprì con un lungo cigolio.
La piccola Lily non credeva a tanta fortuna. Con un mezzo sorriso si addentrò nella casa buia.

Lily Evans storse il nasino perfetto, in una smorfia desolata.
L’interno, pensò la piccola Lily, era ancora peggio dell’esterno. L’aria viziata aveva formato una cappa pesante e maleodorante che aleggiava in quello che doveva essere una specie di soggiorno.
‘Soggiorno’ era una parola grossa per definire il pavimento invaso dalle bottiglie, dal tappeto macchiato e sfilacciato e dalle pareti con la tappezzeria scollata. Gli unici mobili erano un divano che non sarebbe stato fuori posto in una discarica e librerie dove, al posto dei libri, erano disposti in un caos opprimente bottiglie, cocci e ragnatele.
In un angolo una vecchia stufa di ghisa, mostrava il suo ventre invaso da troppo carbone.
Un po’ di quel carbone era finito sul pavimento, calpestato e mai pulito.
C’erano due porte che davano sul soggiorno. Come ebbe modo di vedere Lily, portavano in una cucina e in un bagno, indistinguibili nel loro sudiciume.
In bagno, la ragazzina aveva quasi rischiato di svegliare quello che, a prima vista, sembrava un sacco di patate. Era un uomo; dormiva sdraiato nella scheggiata vasca da bagno, la testa tra le braccia. Era circondato da bottiglie semivuote e da un sentore di alcool, anche se Lily pensò essere medicinale.
Lily sentì le lacrime salirle agli occhi… Quello era…  No, non voleva pensarci.
Fece ancora un giro per il soggiorno, con l’unica consolazione della luce polverosa che filtrava dalle finestre unte. Poi finalmente trovò la scala, nascosta da una tela pesante e troppe volte rammendata.
Quando la barriera di  tessuto si richiuse dietro di lei, Lily si ritrovò nell’oscurità più assoluta e dovette avanzare quasi a quattro zampe, esaminando gli scalini sconnessi e storti davanti, tastandoli con le dita per accertarsi della loro posizione.
Fu un sollievo arrivare in cima.
Sul piccolo corridoio c’erano solo tre porte e una finestra sbarrata. Una di fianco all’altra, ugualmente rovinate e graffiate.
L’ultima però aveva un graffio più profondo e  regolare degli altri. Simile ad una ‘S’.
Lily camminò piano piano, badando a non far cigolare le vecchie assi del pavimento, fino a raggiungere la porta della camera di Severus. Aveva avuto solo una piccola esitazione quando era passata davanti alla seconda porta, quando aveva udito un curioso rumore, non dissimile da un basso guaito o singhiozzare di un bambino, ma aveva proseguito in direzione della ‘S’.
Come era stata sicura di aver individuato la casa, ora era sicura di aver individuato la camera di Severus.
Afferrò la maniglia e spinse.
La porta era chiusa a chiave. Cavolo, non ci voleva…
In quell'attimo, come nato dal nulla, ricordò le parole dell’amico, la prima volta ce l’aveva visto. Quello che all’inizio le era parso come l’insulto peggiore del mondo, le rimbombò nelle orecchie:
Tu sei una strega.
Io sono una strega, pensò convinta Lily Evans e in quell’istante, i cardini della porta  schizzarono fuori, volando contro la finestra e spaccando un vetro. La maniglia esplose, disintegrandosi. La pesante porta, priva di sostegno, si abbatté sul pavimento della stanza con un rumore infernale.
“Lily!” sibilò la voce di Severus da dentro la stanza in penombra. La bambina corse da lui,oltrepassando la porta scardinata con un sorriso a trentadue denti, che fu costretta a far sparire quando vide l’espressione dell’amico.
Severus era livido e stringeva i pugni per contenere la rabbia. Lily pensò che avrebbe dovuto tirar giù la porta con più delicatezza.
“Cosa ci fai qui?” Le disse, sgarbato.
“Volevo…”
“Aiutarmi? Lily, ti avevo detto di non venirmi a cercare! Sarei venuto io!”
Lily sentì di nuovo il pianto salirle alla gola, un dolore reso più acuto dalla delusione;
“Erano tre giorni che non ti facevi vedere, che cosa dovevo fare? Andare da sola al Grande Albero?” disse con difficoltà.
Da quando aveva conosciuto Severus, per Lily era diventato improvvisamente più difficile, quasi insopportabile, stare da sola. E forse fu proprio quella consapevolezza, a far calmare l’amico e a farlo tornare quello di sempre.
“Siediti” mormorò Severus, indicando il letto semisfatto. Era l’unica cosa in disordine in quell'angusta stanzetta, notò Lily.
La camera era infatti pulitissima, con due mensole, un tavolino e un armadio aperto, dove sul fondo, ben nascosti s’intravedevano alcuni spessi libri. Il solito Severus.
“Effettivamente ti avevo visto” continuò lui, indicando la finestra con le persiane semichiuse: “Quando hai mosso i capelli per scacciare dei moscerini, giù in giardino.”
“Moscerino?” chiese interrogativa Lily.
“Bé, ora sei qui, devo trovare un modo per farti uscire, senza farti vedere” borbottò il ragazzo, torcendosi le mani ossute.
“Severus, prima spiegami perché tu non ti sei fatto vedere” Lily si voltò verso di lui e nel farlo gli tirò inavvertitamente un colpetto sul fianco.
“Ahi!!” mugolò l’amico, prima che il respiro gli si spezzasse improvvisamente.
“Sev, non fare la piattola! Era solo…” Lily ammutolì quando vide la macchia rosso scuro, quasi la stessa tonalità dei suoi capelli, allargarsi sulla maglietta a righe dell’amico.
“Sev!?” Lily corse alla finestra e spalancò le persiane. La luce calda del sole estivo, inondò la stanza.
E Lily, vide quello che Severus aveva cercato di nasconderle rinchiudendosi in casa.
“Non dirlo…” sibilò a Lily “Non.. A nessuno.. Non ci provare..”
“Non l’avrei mai fatto. Sei mio amico” rispose la bambina con semplicità.
Parlare le sembrava la cosa più ardua da fare in quel momento. Non riusciva nemmeno a frenare le lacrime; scendevano da sole, senza essere accompagnate da singhiozzi o smorfie.
Lily Evans si sentì più triste e disperata che mai, guardando i lividi sulle braccia e il taglio sull’addome, non molto profondo ma pur sempre doloroso, che l’uomo nella vasca,  –Lily non aveva dubbi che fosse lui il colpevole-, aveva fatto al suo migliore amico.
“Ho provato… a curarlo con la magia… Ma non funzionava, allora ho…”
Indicò con una mano la benda insanguinata a terra, quella che Lily aveva mosso colpendolo inavvertitamente.
Lily si avvicinò all’amico e frugando nelle tasche della salopette, trovò un fazzoletto di stoffa con degli anatroccoli ricamati sopra. Lo premette con attenzione sulla ferita e raccomandando a Severus di tenerlo fermo, riprese a frugare nelle tasche.
“Ecco” mormorò Lily, estraendo un rotolo di scotch.
“Perché diavolo te lo porti dietro?” chiese Severus inarcando un sopracciglio.
“Un giorno te lo spiegherò…” Lily sorrise tristemente “Fatto!”
“Grazie.”
“E di che?” Rispose Lily, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
“Ora…”
Improvvisamente un grido gli interruppe:
“Eileen!”
“Dannazione, si è svegliato!” esclamò Severus. “Lily torna qui!”  
Lily Evans era tornata in corridoio, dove una voce cavernosa proveniente dal fondo alle scale, urlava e sbraitava.
“Eileen! Dannata donna…”
Un rumore di passi  pesanti e incerti cominciò a salire i gradini. Severus raggiunse Lily e l’afferrò per la mano. Piton non doveva toccarla…
Quando il vecchio fece la sua comparsa, bottiglia rotta in mano, aveva un’ espressione furiosa e la luce malvagia che aveva negli occhi, terrorizzò i bambini.
Severus si piazzò davanti a Lily, mentre il mostro avanzava implacabile verso di loro. Doveva proteggerla a tutti i costi, lui era già ferito mentre lei era così.. Indifesa.
Il mostro alzò il braccio armato di bottiglia, mentre la creatura nascosta dietro alla porta numero due singhiozzava e urlava disperata più che mai, in preda alla follia.
Severus assottigliò le palpebre, concentrandosi e richiamando la magia.
Severus Piton era una mago, e il mago avrebbe protetto la sua amica strega, Lily Evans.
Da ogni mostro, mago oscuro o padre alcolizzato che fosse.
E proprio mentre il mostro si preparava a calare il suo colpo sullo spigoloso ragazzino, la finestra sbarrata e la parete che la incorniciava esplosero, sbriciolandosi.
Calcinacci e detriti invasero il corridoio, mentre Lily Evans, abbracciando stretta il suo amico Severus, volava via dalla casa in Spinner’s End, via dalla ciminiera, via dal mostro.
Via da ogni cosa, volando verso il sole di mezzogiorno.

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Capitolo 3
*** Oltre la comprensione ***


Le cose che per Severus Piton rientravano nella categoria ‘Oltre la comprensione’, erano ben poche.
Per una mente organizzata, pragmatica e attenta come la sua, il catalogare tutto ciò che i suoi occhi pece osservavano, incontravano, analizzavano, finiva immancabilmente in una ‘cartella’ appropriata, creata dal suo raffinato cervello.
Severus Piton creava cartelle per ogni cosa.
Cose da fare, progetti, persone da incontrare, persone da evitare,libri da leggere, libri da bruciare, provette da comprare, cose da ignorare, cose da studiare, ricordi importanti, ricordi da dimenticare, segreti di Silente, Serpeverde, segreti dell’Oscuro Signore, segreti di se stesso, Malfoy padre, impegni, lezioni da preparare, studenti da tormentare, Potter, barattoli nuovi da comperare, Mangiamorte, giuramenti da mantenere, risposte pronte, la rubrica sul Pozionante Puntiglioso, Malfoy figlio, commenti sarcastici, ricette, cose da odiare, veleni, incarichi, casa…
In realtà, la lista nella testa di Severus Piton, continuava per molte centinaia di altre voci.
Tuttavia, come in altri infiniti momenti, il pensiero di Lily Evans, aveva interrotto le elucubrazioni mentali del professore più temuto di tutta Hogwarts.
Lily Evans.
Un nome così semplice, così normale.
Il nome della sua migliore amica.
Ogni volta che i suoi pensieri deviavano in zona Lily, Severus Piton era ben accorto nel riportarli sul giusto binario. Eppure, più cercava di evitare il ‘deragliamento’ e più il viso di Lily riaffiorava tra lo sciame dei ricordi incasellati, sconvolgendoli, disturbandoli, rendendoli privi d’importanza.
Era una Lily muta e inespressiva, decisamente diversa dai ricordi movimentati e allegri della loro infanzia. Severus Piton si era chiesto più volte se la colpa fosse del Pensatoio. Dopotutto, per intere settimane, aveva continuato a riversarci ininterrottamente i suoi ricordi, rivivendo con insospettabile entusiasmo i momenti passati con lei. Dentro al Pensatoio, per la gioia del suo più caro amico, Lily Evans viveva. Tornava a ridere, a scuotere i capelli, a correre e a parlare. Un eterno déjà vu, con gesti sempre uguali, sempre ripetuti, scolpiti nella memoria del tempo.
Gesti irreversibili e forzati, che non sarebbero cambiati mai.
Un’idea che Severus Piton si era rifiutato categoricamente di accettare e incastrare in qualche cartella.
Il Pensatoio era un dono meraviglioso, dove tutto era possibile.
Severus Piton aveva addirittura iniziato ad odiare il semplice pensare a Lily; l’immaginazione si disintegrava di fronte alle magiche virtù del Pensatoio e al sorriso, mai così reale, dell’ eternamente giovane Lily Evans.
Certo, Silente aveva accennato ad un compito, assieme alla custodia del Pensatoio.
Compito che l’anziano Preside sembrava aver dimenticato, senza farne più parola con Severus.
Forse, aveva ipotizzato Piton, Silente se ne era totalmente scordato.
Sia del compito, sia del prodigioso bacile.
O ancora, era semplicemente troppo pigro per scomodarsi a recuperare ciò che era di sua proprietà.
Per tutti i folletti Silente, scendere nei sotterranei? Giammai!
Severus Piton sogghignò. E se il vecchio si dimenticasse del tutto di possedere un Pensatoio?
Un piccolo, efficace Oblivion!, e tutto si sarebbe risolto… a favore di Severus!
Avrebbe potuto stare con Lily per il resto dei suoi giorni.
A chi importava del futuro, quando il passato era così dolce?
Di certo non a Severus Piton, che nel futuro non vedeva altro che alunni ebeti e discorsi inutili, fino al termine della sua parabola decadente, una morte poco gloriosa e poco piacevole per mano di un certo Lord Oscuro, privo di appendice olfattiva.
Non avrebbe nemmeno avuto la consolazione della pensione.
Ma se sceglieva la via del Pensatoio… i momenti bui e deprimenti che angosciavano il suo sconfortante futuro, potevano diventare un po’ più rosei, più vivibili.
Sarebbe potuto andare incontro al destino mano nella mano con Lily, come aveva sempre sognato! Anche se non proprio in modo tradizionale.
Doveva però mettere in conto che un giorno i ricordi sarebbero finiti, come tutto del resto.
 E allora cosa avrebbe fatto?
Severus Piton ci aveva pensato mille e molte volte, e finalmente, aveva raggiunto ciò che amava definire ‘compromesso’, che del compromesso, non aveva proprio nulla.
Li avrebbe rubati. Dopotutto, l ’aveva già fatto in passato, rifletté con una stretta al petto. A Severus Piton non piaceva ricordare quel periodo, ma ora, che scelta aveva? Lei non c’era più. Non ci sarebbe stato tempo per i litigi e per i rimorsi, ma solo per i ricordi.
 E infiltrato assieme ai membri dell’Ordine della Fenice, i più cari amici di Lily…
Quale migliore occasione? Sarebbe stato l’araldo salvatore del tempo e avrebbe restituito alla memoria dei posteri - la sua memoria- la figura di Lily Evans, la sua.. Migliore amica.
Lily lo avrebbe apprezzato.
Lily c’era sempre stata per lui, nel bene e nel male. Quando tutto era crollato, Lily gli aveva teso la mano, quando nessuno si sarebbe abbassato a dare aiuto al ragazzo con i vestiti spaiati.
Gli aveva dato una casa. Una famiglia. E per quello e per tutto, Severus Piton era grato.
Lui le avrebbe restituito il favore. Non l’avrebbe dimenticata.
Severus chiuse gli occhi, e fu quel semplice gesto a riportarlo alla realtà e a quello che - non - stava facendo.
Stava tenendo una lezione, per mille Goblin!
Mise a fuoco ciò che vedeva e per poco non vacillò. Il disagio, fissando quelle faccette incuriosite e beffarde, lo investì. Cercando di rimettere l’imbarazzo nella cartella ‘Emozioni da sopprimere’, Severus Piton provò a riprendere il filo del discorso, se mai c’era stato.
Il suo sguardo scivolò sugli studenti silenziosi nei banchi vuoti, cercando disperatamente un segno, uno sguardo, un indizio, un qualcosa.
Incrociò lo sguardo smeraldo di Lily,- Potter, non Lily, Potter!-, e riprese a parlare:
“La prima legge di Golpalott…”
La mano della Granger scattò in aria, e per una volta, Severus Piton si sentì quasi sollevato nel cederle la parola.
La Granger  scattò in piedi, con quell’assurdo cespuglio che aveva per capelli saltellanti sulle spalle, ma quando parlò non citò la terza legge di Golpalott.
Tutt’altro.


Il passato, un ricordo.

Bianca.
Questa fu la prima parola che si affacciò nella mente del giovane Severus Piton, quando vide la casa di Lily Evans. Una graziosa villetta, con un’altrettanto grazioso giardino, cinto dal tipico steccato bianco e regolare. Dalle finestre alte e appena appannate, si intravedeva una luce calda e accogliente, carica di promesse come cioccolata, gentilezza, affetto.
Si distingueva dalle altre case per l’insolita aura di bontà, quanto quella di Sev per la trascuratezza e l’abbandono.
Chissà perché, Severus era dell’idea che Lily e la sua famiglia non potessero vivere in nessun’altro posto che non fosse quello.
La casa sembrava costruita a immagine e somiglianza di lei.
Semplice, bella, familiare.
“Vieni” disse Lily, precedendolo a passi leggeri, attutiti dal fruscio della salopette troppo grande che portava. Sulle ginocchia, aveva ancora le macchie verdi del prato in cui erano atterrati esausti dopo la loro rocambolesca fuga. Severus ricordò con piacere la luce del sole e l’odore di fieno di quel posto.
Era stato davvero un bel pomeriggio, ma ora…
Severus rimase immobile, pensando.
“Sev?” Lily si era voltata e lo fissava, impaziente.
L’amico fece un lungo sospiro prima di parlare: “Forse non dovrei.”
Lily lo guardò intensamente per un lungo minuto.
“Perché?”
“Perché non voglio approfittare della tua ospitalità, Lily.”
“Sev, sono io che ti chiedo di entrare…” la rossa sorrise “E poi non hai mai visto casa mia!”
“Credo di poter aspettare ancora un po’, ora è molto tardi.”
Severus aveva ragione. Il cielo era passato dal rosso tramonto al blu nero della notte, e le luci della via stentavano a tenere lontana l’oscurità. Ma Lily non voleva arrendersi.
“Entra” gli intimò.
“Non voglio che tu venga… cioè, che tu finisca nei guai.”
“Sev, i miei genitori non sono come i tuoi, non si arrabbieranno di certo per…”
Lily si maledì, per non essersi morsa la lingua in tempo.
“Mi fa molto piacere sapere che i tuoi genitori sono migliori dei miei, grazie Lily.”
“Non intendevo…” provò a giustificarsi la ragazzina.
“Non ti ho chiesto io si venire a Spinner’s End.” Gli occhi di Sev erano scuri e profondi e Lily, con estremo disappunto, si accorse di non poterci leggere alcunché. Come era stata stupida!
Stupida ed egoista.
“Io volevo aiutarti, erano giorni che non ti vedevo e…”
“Potevi aspettare.”
Severus si girò e cominciò a percorrere a ritroso il vialetto. Lily lo rincorse e gli si piazzò davanti.
“Sei ferito, non puoi andartene.”
“Se non torno, domani questo sembrerà un graffio!” esclamò Sev con amarezza.
“Ma io non potevo lasciarti lì!  Sono i tuoi genitori, certo, ma nessun figlio dovrebbe avere genitori simili.”
Gli occhi di Lily scintillarono, nella sera sempre più buia: “Resta qui.”
“Lo sai che…”
“Se esci da quel cancello, non tornerai a casa e rimarrai in giro per i fatti tuoi, aspettando che tuo padre esca e se ne vada.”
Lily evitò di aggiungere: ‘finché non tornerà ubriaco marcio, dimenticando quello che è successo’.
Severus girò il viso fissando un punto lontano fuori sulla strada, dove le luci dei lampioni si facevano sempre più fioche.
Lily Evans sapeva riconoscere una vittoria.
Strinse la mano all’amico e lo guidò di fronte alla porta d’ingresso, spingendo il batacchio dorato.
La porta si aprì e il sorriso di sua madre, li accolse nell’amorevole atmosfera di casa Evans.


“Davvero meravigliosa, una bella casa, sì?”
Severus Piton, adulto e appoggiato alla balaustra dell’ampia veranda della residenza Evans si voltò sorpreso. Non era abituato ad altri visitatori nel Pensatoio.
L’incedere elegante del Preside, non sembrava per nulla fuoriposto nel vialetto curato. Così come non appariva fuori posto la veste smeraldo che indossava.
Sembrava un ramarro con la barba. Ammesso che i ramarri portassero occhiali a mezzaluna.
Piton non rispose. Dopotutto, come rispondere ad un uomo che s’introduceva senza permesso nei ricordi altrui?
Silente salì con grazia gli scalini e studiò il battente con aria interessata. Da dietro la porta, giungeva la voce trillante di Lily che faceva le presentazioni e il signor Evans che rideva per qualcosa che la figlia aveva detto.
“Una bella famiglia.”
Silente si sedette sul divano di vimini puntando lo sguardo sullo steccato, osservando ogni millimetrica variazione del legno levigato. “Sono vivi, lo sapevi?”
“Non ne avevo idea” disse Piton “Dove..?”
“Cos’è successo oggi a lezione?” domandò amabilmente Silente, senza guardarlo.
“Nulla.”
Silente si pizzicò l’attaccatura del naso, sogghignando divertito. “Bloccarti per mezz’ora, di fronte ad una classe in attesa di apprendere … lo chiami nulla, Severus?”
“E’ stato un attimo di distrazione.”
“Un attimo di distrazione!” Silente rise di più, colto da un’inspiegabile, almeno a Piton, eccesso di  ilarità.
“Credo di aver perso un pezzo di giornata.” Sembrava folle detto a parole, ma era l’unica spiegazione che Severus era riuscito a darsi per lo strano fenomeno che l’aveva colto quella mattina.
“Buffo… E quindi, se la signorina Granger non ti avesse fatto notare che la tua ora era trascorsa da un pezzo, tu saresti ancora lì a spiegare la prima legge di Golpalott?”
“Probabilmente” ammise Piton a denti stretti.
Silente cominciò a ridacchiare come una vecchia zia.
“L’ultimo insegnante che mi sarei aspettato di cogliere impreparato!”
“Silente, smettila. Se tu sai cosa diavolo mi è preso, potresti anche degnarti di darmi una spiegazione o un chiarimento, non credi?” borbottò l’oscuro pozionista in tono antipatico.
Silente, per nulla intimidito dal tono scontroso dell‘uomo, parlò con naturalezza. “Dato che non so niente, Severus caro, temo che dovrò limitarmi a farti notare che la signorina Lovegood è su nel tuo ufficio ad aspettarti e faresti bene ad andare. Da quasi un’ora aggiungerei, quindi sbrigati per cortesia.”
“Luna Lovegood?”
“Non dirmi che ti sei dimenticato anche di lei!”
‘Disgraziatamente no’ pensò irritato Severus. Scese giù per il vialetto poi si girò, fissando Silente. Il vecchio si era spostato e fissava l’interno di casa Evans dalle finestre, come un guardone qualunque.
Un guardone conciato in modo decisamente stravagante.
“Silente, non vieni?”
“Severus caro, credo che la signora Evans stia cucinando la sua famosa torta al rabarbaro, e penso seriamente che la sua variazione con burro di mandorla sia così interessante che richieda almeno un’occhiata da parte mia…” Silente socchiuse gli occhi, senza staccarli dalla finestra: “Anche se vista da qui, perciò vai e non preoccuparti per me!”
Severus Piton, che si considerava strano quanto bastava per accettare la miriade di stranezze e fissazioni del Preside ultracentenario, uscì dal vialetto, dirigendosi spedito fuori in strada.
Ringraziò il familiare risucchio che lo trasportava lontano dalle nebbie rassicuranti del passato e dalla zuccherosa torta al rabarbaro della signora Evans, che aveva mangiato solo per farle piacere.
Per la prima volta, Severus Piton era felice di uscire da un ricordo.


Il presente, Hogwarts.

“Buongiorno” disse educatamente Luna Lovegood.
Se era stupita di vedere il suo insegnante più arcigno e tenebroso, uscire da un bacile di pietre runiche, non lo dava certo a vedere.
Ordinaria amministrazione, nel mondo psicotico dei Lovegood,.
La ragazza portava i suoi Spettrocoli colorati sulla sommità della testa, e aveva gli occhi inspiegabilmente truccati di uno sfarzoso blu pervinca.
Sembrava una variopinta divinità indiana, protettrice dei tonti e dei folli.
Severus Piton era felice di non essere né l’uno, né l’altro. Era molto meno felice del fatto che la Corvonero, in uno spasmo di confusione, si fosse accomodata al suo posto alla cattedra, e avesse invaso il piano di lavoro con le sue pergamene e i suoi libri di scuola, e -colmo dei colmi-, con il più completo orrore di Severus Piton, una copia nuova fiammante del Cavillo, che titolava la prodigiosa scoperta delle  Nacchere Nuocicuoci.  L’illustrazione era troppo confusa e fantasiosa per dare una spiegazione su cosa fossero, o se la loro esistenza fosse in qualche modo comprovata.
Il Cavillo. Severus Piton si era chiesto più volte se i lettori del periodico di Xenophilius, includessero qualcun altro oltre alla stramba figlia.
L’immagine di un vecchio barba bianca con un sorriso placido e inebetito, gli suggerì l’identità del lettore numero due.
“Lovegood,” Severus lanciò un’occhiata prolungata all’orologio appeso alla parete: “Mancano venti minuti, perciò prendi pure le tue cose e torna alla torre.”
“Signore, il professor Silente ha detto che l’avrebbe detto, signore”
 La voce di Luna era talmente svagata da sembrare una presa in giro.
“Il Professor Silente al momento è impegnato in una faccenda seria, quindi sono io a decidere”
“Ha detto qualcosa a proposito di una torta, signore.” Rispose la ragazza.
Santo cielo! Piton era inorridito, non tanto dal fatto che la Lovegood potesse ritenere una torta come ‘faccenda seria’, bensì dalla temerarietà del Preside che parlava di ricordi strettamente privati ad un’alunna mentalmente instabile.
“Che altro ha detto Silente?” ringhiò Piton, improvvisamente incattivito.
“Il professor Silente…” Luna Lovegood sembrava aver perso il tono mistico in favore di una saccente cadenza alla Granger: “… Ha solo detto di aver bisogno di parlare con una vecchia amica”
Vecchia amica?
Cosa diavolo voleva dire?
“Ha detto solo questo?”
Luna sbatté candidamente le palpebre. Piton non poté non chiedersi perché gli occhi non le schizzassero fuori ogni volta che lo faceva. Erano davvero sporgenti.
Luna afferrò la copia del Cavillo e cominciò a leggere.
“Lovegood, rispondi.”
Luna riemerse dalle profondità delle Nacchere Nuocicuoci.
“Le ho risposto, signore.”
Piton si passò una mano sul viso, mentre la platinata prendeva a canticchiare un’ignota canzone.
Chi aveva offeso, maltrattato o aggredito, per meritarsi quel tormento?
Incrociò le braccia e si schiarì la voce. Lui e quella ragazzina dovevano risolvere la questione. Non doveva permettere  a Silente di trascinarlo nei suoi piani contorti e astrusi, che terminavano sempre con lui come malvagio di turno.
Malvagio puntualmente maltrattato da Santo Potter, of course.
“Lovegood, credo che entrambi abbiamo cominciato col piede sbagliato”
“Io non l’ho presa a calci!” trillò inspiegabilmente la Corvonero. La rivista le scivolò di mano, colpendo la boccetta d’inchiostro, che si rovesciò sui compiti disordinati sulla cattedra.
Un lago nero e traslucido oscurò il Sistema Solare che la ragazzina stava completando.
“Proprio una roba da Paciock” sbottò Piton.
“Lei non è molto gentile” commentò Luna scrutandolo con i suoi occhi a sfera. Non sembrava intenzionata a pulire o a far Evanescere il disastro che aveva combinato. Rimase a specchiarsi  sulla superficie liquida, dove i suoi capelli rilucevano argentei. Sembrava incredula e stupita di vedere il proprio riflesso.
“Non mi piace perdere il tempo in gentilezze” mormorò Piton estraendo la bacchetta.
Macchia Ivanesca!”
La pergamena tornò linda e pinta, ma Luna era ben lungi dal ringraziare.
“Lo sa? Lei è maleducato e i suoi commenti sono sgradevoli e offensivi. Farebbe bene a trattare gli studenti con un po’ più di tatto” sbottò con una serietà decisamente fuori luogo e inappropriata per lei.
 Da quando, rifletté Piton, i pazzi danno lezioni di comportamento?
L’insegnante alzò lo sguardo sulla ragazzina. La cattedra, frapposta fra loro, sembrava l’unica cosa che potesse impedirgli di afferrare quell’impertinente e di strangolarla, con buona pace di Silente e le sue leggi sulla tolleranza e l’amore!
Era straordinariamente tentato di far esplodere il mobile e afferrare il colletto inamidato della platinata, abbastanza perché imparasse quale fosse il modo e le parole con cui rivolgersi ad un’insegnante.
Era stata una giornata difficile, tra vuoti di memoria e vecchi vestiti di verde affetti da strane manie pasticcere, e l’idea di un omicidio cominciò ad apparire a Severus come la degna conclusione di quelle ore sprecate.
Luna cominciò a riordinare le sue cose, con rapidità crescente. Piton si accorse che la ragazzina aveva un tic all’occhio sinistro e si mordeva il labbro. Era arrabbiata?
“Non voglio stare qui un minuto di più, lei non ha il diritto di offendere…”  si bloccò alzando gli occhi al cielo per una frazione di secondi: “…  I miei conoscenti, sì.”
“Lovegood, esigo delle spiegazioni. Non puoi rivolgerti in questo modo ad un tuo insegnante!” ringhiò Severus in risposta. Non era ancora nato lo studente in grado di tenergli testa. E sicuramente non sarebbe stata la giovane Lovegood.
Luna non gli rispose, o almeno non  fin quando non ebbe la cartella a tracolla.
“Non le devo niente di niente. Proprio niente.” Sembrava aver ritrovato il suo tono soave, anche se gli occhi a bulbo sprizzavano scintille rabbiose.
“Lei è un maleducato irrispettoso, e io sono troppo intelligente per stare qui ad ascoltarla.”
, penso Piton, quello era tutto da vedere.
Luna curvò la bocca all’ingiù, come una sconvolta maschera greca. Sembrava aver intuito i perfidi pensieri di Piton che colpito, si limitò a richiamarla. Non poteva nemmeno punirla. La prospettiva di doverci passare altro tempo era troppo aberrante.
“Lovegood!”
Luna saltellò tranquillamente alla porta, riprendendo a canticchiare. Severus riconobbe abbastanza chiaramente le parole: Maleducato cafon che vivi in un trombon.
Era davvero troppo! Che diavolo di follia era mai quella? Non aveva nessun senso!
Piton  aveva un’incredibile desiderio di mettersi a urlare.
“Lovegood se uscirai da quella porta…”
SBAM!
La porta si richiuse con un colpo secco alle spalle della Corvonero.
La voce di Silente, interruppe il fiume di pensieri confusi che attraversava il cervello dell’ oscuro pozionista.
“Un successone come primo giorno, eh?!”



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Capitolo 4
*** Acido come un limone ***



Il passato, ricordi.
All’inizio dell’estate del 1969, Severus Piton cominciò a vivere stabilmente sotto il tetto di casa Evans, e se ad alcuni poteva apparire strano o quantomeno inusuale e inspiegabile, poco importava.
I signori Evans, sempre sorridenti e gentili, avvolti nel loro bozzolo di felicità, non vennero toccati dalle voci e dai pettegolezzi che affollavano il quartiere di Daffodils Court Road riguardo all‘apparentemente sudicio bambino che aveva accolto nella loro dimora.
Non passò molto tempo che quei pettegolezzi, così come erano apparsi, si volatilizzarono ben presto nelle nebbie della memoria. Nessuno venne a reclamare Severus, e Lily, lungi dal preoccuparsi, ritenne la mancanza di interesse filiale dei signori Piton, come una benedizione del cielo.
Aveva un amico, ora, quasi un fratello.
Senza badare a fatti insignificanti come la famiglia, il sangue o l’aspetto, i due ragazzini vissero sotto lo stesso tetto in pace e tranquillità. Sotto la benefica influenza di Lily e degli Evans, Severus Piton migliorò.
Si tagliò i capelli, tanto per incominciare. Frequentò anche gli ultimi giorni di scuola, sostenuto dalla sua amica. Divenne un maniaco dell’igiene personale e, la signora Evans in persona, lo accompagnò ad acquistare il suo primo vestito su misura.
Forse quella sarebbe potuta sembrare un’esagerazione ma, come disse la signora Evans:
“Ormai sei un ometto!”
Severus avrebbe sputato in faccia chiunque avesse osato ribadire una cosa del genere, ma in quella nuova, straordinaria fase della sua vita, rispose alla signora Evans con un sorriso. Si era allenato parecchio per imparare a sorridere con naturalezza, cercando prima di ispirarsi alle pubblicità per dentifrici e poi, lasciandosi trascinare dall’entusiasmo e dalla felicità di essere vicino a Lily.
Severus Piton non avrebbe mai immaginato, nemmeno nei suoi sogni più arditi, che una famiglia potesse essere così … Magica.
Il tempo sembrò dilatarsi, raggiungendo nuovi e insospettati ritmi, fatti di grazia, tepore e armonia.
Le giornate trascorrevano in infinite passeggiate, visite allo zoo, ai parchi e ai giardini.Con gli Evans andarò a Blackpool, alla ruota panoramica e a mangiare mele candite. A Dieppe a visitare la comunità di pittori. A Bath alle piscine, poi in Cornovaglia e nel Devonshire, a visitare le residenze nobiliari adorate da Lily. Non mancò Londra, dove Severus, incoraggiato da Lily e da suo padre, acquistò un libro pieno d’illustrazioni, ‘Il Principe Felice’ che immancabilmente, si conquistò il secondo posto dopo le esercitazioni magiche nel bosco, tra i passatempi prediletti dai due bambini.
Era là, vicino al ruscello e al riparo da sguardi indiscreti, che Lily e Severus, mettevano alla prova i loro sconfinati doni. Si concentravano, provando a far muovere ceppi contorti, a guidare le rane e a far saltellare l’acqua. Un giorno, per errore, Severus dette fuoco ad un ramo e solo con l’aiuto della strega, potè salvare l’albero. Tornarono a casa fuligginosi e con gli occhi arrossati, come due giovani piromani in erba, e dribblando le domande incuriosite e stupefatte dei genitori di Lily, ricominciarono a progettare gli ‘esperimenti’, come li definiva Severus, per il giorno dopo.
Non c’erano segreti o commenti detestabili in quell’estate a Daffodils Court. L’unica potenziale minaccia per Severus Piton, era stata allontanata, rinchiusa al campo estivo di WickHalf vicino a Mosborough.
Un posto deprimente quanto Spinner’s End, secondo le ricerche di Severus.
‘Reclusione’ a cui lui aveva dato un piccolo, ma utile contributo.
Era stata la sua ultima azione deplorevole, prima di cominciare, almeno per quell’estate, a vivere stabilmente sotto il tetto degli Evans.
Se c’era una cosa che accomunava Piton bambino e Piton adulto, era sicuramente la sua tendenza a fare piani. Chiamò il progetto per allontanare la sorella di Lily, ‘Estirpare la Petunia Molesta’.
Petunia Evans, infatti, non rappresentava solo una minaccia per i commenti acidi e i continui riferimenti alle ‘anormalità’ di Severus e Lily. Era anche un catalizzatore dell’umore della sorella, che per non entrare in conflitto con lei, si zittiva e l’assecondava.
Severus ricordava amaramente un episodio nel bosco, accaduto circa una settimana prima del bizzarro tentativo di Lily di sradicarlo da casa Piton. Petunia li aveva letteralmente spiati, e lui, in un attimo incontrollato, aveva permesso alla magia di prendere il sopravvento. Quel giorno, aveva davvero temuto di aver rovinato tutti i progressi con Lily.  L’arrabbiatura dell’amica era durata meno di un giorno, ma il ricordo di quella Lily offesa e irata, tormentava ancora il ragazzino.
Petunia era un problema, aveva pensato Piton, e andava eliminata. Così, dopo soli tre giorni di permanenza a casa di Lily, era giunta un’interessante lettera nella buca della posta della famiglia. Era indirizzata alla Stimata, Adorabile ed Emerita figlia maggiore, e proponeva una serie di divertenti e rispettabili depliant sul campo-scuola più esclusivo d’Inghilterra.
Un campo scuola per giovani molto dotati.
Inutile dirlo; Petunia era stata conquistata dalla prospettiva di sbattere in faccia a Lily e al suo ‘lurido amichetto’, la sua ‘sfacciata fortuna’ e quanto fosse ‘richiesta’.
Dopo soli due giorni d’attesa e dopo aver contrattato a lungo con i genitori, con una mezza scenata e un inaspettato aiuto da parte di Lily che l’aveva incoraggiata, -ovviamente pensando di essere nel giusto-, a perseguire il suo obbiettivo, era partita col primo treno per il Nord.
Il piccolo Billy Fraser, il ragazzino di terza elementare a cui Severus aveva sottratto i depliant e l’invito personale per il campo-scuola per ‘Gli Amici dei Quattro zampe’, se ne sarebbe rimasto a casa con il suo terranova Hogg, lasciando alla ben più fortunata Petunia, la possibilità di sguazzare tra fango, cani sbavanti e corse canine a ostacoli.
Severus era intelligente, molto intelligente; una constatazione che lo rendeva orgoglioso e felicemente spaventato insieme.
Non ci era voluto molto a incantare Petunia e a farle apparire le foto e le scritte come chiari inviti. La ragazzina era preda della magia di Severus, convinta di essere una privilegiata, una vera 'Prescelta'.
 Lei doveva andare a WickHalf e, nonostante l'iniziale sbigottimento dei genitori, aveva ottenuto ciò che voleva.
Con Petunia fuori da casa Evans, Severus aveva potuto mettersi in riga tranquillamente, stando ben attento a non parlare mai della sua meschina azione. L’aveva fatto a fin di bene, si ripeteva le prime sere, in cui spossato e con le palpebre pesanti, si accingeva a dormire. Ma poi, i desideri e l’entusiasmo prendevano il sopravvento, e il ragazzino si addormentava felice tra le candide e soffici lenzuola, ignorando i tormenti della coscienza.
Aveva Lily, e, almeno per quell’estate, era tutta per lui.
Severus Piton, si dimenticò poco a poco della sua vecchia vita a Spinner’s End. I suoi primi anni trascorsi nella vecchia casa fatiscente apparivano come un lungo e tortuoso incubo, che il ragazzino si affrettò a riporre in una ‘cartella’.
Cominciava proprio allora la costruzione del castello della memoria di Severus Piton, dove col trascorrere degli anni, avrebbe catalogato, stipato e conservato pensieri.
Alcuni vividi, altri sbiaditi, altri che ancora avrebbe fatto di tutto per dimenticare. Ma neanche uno, -escludendo quello di Lily-, poteva rivaleggiare con quel vecchio canuto che diceva a suo padre, che Severus Piton, era un mago.  
 
 
 
Lily Evans si stupiva di quanto fosse cambiata, nel corso di una sola estate. Appoggiata di striscio alla porta lucida, origliava, cercando di non perdere pezzi della conversazione in corso nella stanza accanto. Severus, accanto a lei, cercava di sbirciare dalla serratura, senza ottenere risultati soddisfacenti.
“Beve il the. Tre cucchiaini di zucchero… No quattro…” mugugnò il ragazzino.
“Zitto, Sev. Ci sentiranno, quello è un...”
La porta si aprì sul salotto, con uno sbuffo di fumo violetto, che non appena si dissipò, rivelò i genitori sorridenti di Lily, seduti composti sul divano di pelle bianca immacolato e il terzo, misterioso, personaggio.
Se ne stava seduto in poltrona, con il soprabito color prugna in grembo. Ciò che stupiva realmente Lily però, era la disinvoltura con cui sfoggiava la lunga barba candida e i capelli, raccolti in un’unica coda. Aveva un’aria stravagante, da artista circense o di un personaggio buffo e saggio, saltato fuori da un libro.
Si chiese che cosa avrebbe pensato Tunia nel vederlo.“Piacere di conoscervi, Lily e Severus.”
Gli occhi azzurri del nuovo venuto indugiarono a lungo su entrambi, prima di riprendere la parola.
“Il fumo era opzionale, solo per dare una breve dimostrazione a te e ai tuoi genitori, signorina.”
L’uomo fece un sorriso cordiale, che Lily si affrettò a ricambiare:“Ho sentito che anche a te piacciono gli effetti teatrali.”
Lily sorrise ancora di più.
“Lei è un mago!” esclamò la bambina. L’uomo non si scompose ma sorrise con naturalezza.
“E tu, mia cara, sei una strega. Ma credo che lo sapessi già da molto più tempo di me.”
Gli occhi azzurri, incorniciati dagli occhiali a mezzaluna, si spostarono su Severus che raddrizzò la schiena, cercando di assumere una posa formale e deferente.
“Lei è Albus Silente.”
Lily non poté che ammirare il tono serio dell’amico. Nella sua voce non c’era traccia di titubanze o insicurezze. Sembrava … un adulto.
Poi un ricordo la sorprese. Quello era l’uomo di cui Severus le aveva parlato, il Preside di…
Silente si alzò dalla poltrona e si diresse verso di lui, tendendogli la mano. Severus la prese e rimasero lì a fissarsi per un lungo istante. Dopodiché il mago si rivolse a Lily.
“Congratulazioni, signorina. Come credo saprai, e non ho dubbi per non credere che il nostro giovane amico qui non ti abbia istruito a sufficienza, sei stata ammessa alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts!”
Lily, presa dall’emozione, si esibì in un piccolo inchino. Silente ridacchiò, seguito dai genitori di Lily che rossissima, mormorò un flebile: ‘grazie’.
“Ne ho parlato con i tuoi genitori e credo che a loro non dispiaccia …”
I signori Evans raggiunsero Lily e la abbracciarono.
“Non ci credevamo all’inizio, ma … è meraviglioso!” disse la signora Evans ,”... e anche tu, Severus!”
Il signor Evans diede un bacio a Lily e una leggera pacca sulla spalla al ragazzo: “Congratulazioni, ragazzi! Abbiamo due prodigi in famiglia!”
“Il signor Silente ha portato qualcosa per te, Lily” disse la signora Evans, indicando una busta spessa sul tavolino al centro del salotto.
Quella pergamena sembrava fuoriposto, tra il servizio di porcellana di Herend della signora Evans.
La bambina si avvicinò e l’afferrò, con l’ombra di un sorriso e le mani tremanti. I genitori le si avvicinarono, incoraggiandola ad aprirla. Severus rimase a osservarla, mentre qualcosa in fondo allo stomaco, si agitava rabbioso.
Era un quadretto così perfetto, così irreale. Eppure, stava accadendo davanti ai suoi occhi.
Invidia. Severus Piton, non credeva che un sentimento del genere potesse esistere in quel momento. Ma stava accadendo e cercò di trattenersi. L’istinto di gettarsi addosso a Lily e strapparle la lettera, passò. Come poteva essere geloso della sua migliore amica?
Doveva essere contento per lei e per la sua famiglia.
“Abbiamo una strega in famiglia.” Stava dicendo la signora Evans. Lily saltellava, gli occhi brillanti di felicità, troppo lontana e irraggiungibile, come quel giorno alle altalene. Il giorno in cui le aveva parlato la prima volta.
Severus era troppo preso nel combattere i sentimenti acidi e sprezzanti che minacciavano di prendere il sopravvento, per accorgersi del braccio di Silente che con fermezza lo guidava fuori, in giardino.
Uscirono sul portico, indifferenti allo sguardo di un certo insegnante di pozioni, l'unico reale in quel mondo di ricordi, che fissava allibito la ragazzina nascosta sulle scale, con la faccia cavallina contratta dal disprezzo. Doveva aver ascoltato tutti i discorsi avvenuti nel salotto. Con un ultimo sguardo risentito al ragazzino dai capelli corvini e al vecchio sul portico, Petunia sparì al piano superiore.  

 

Il presente, Hogwarts.

Severus Piton, insegnante di pozioni, se ne stava seduto nel suo freddo e cavernoso studio, studiando attentamente il compito in bianco dell’allievo Paciok. Si rese conto, con immenso stupore, che non provava nessuna fitta di gioia, nel segnare la familiare ‘T’ nera sul compito. Socchiuse gli occhi, cercando di trovare quella piacevole scossa che lo solleticava quando si ritrovava a valutare l’ignoranza di studenti deficienti.
Con un brivido d’orrore, si accorse che nemmeno il voto di Potter, -Desolante-, riusciva a rallegrarlo.
Con espressione risentita, Severus appoggiò la piuma intrisa d’inchiostro, afferrò la bacchetta e agitandola pigramente, ripose i compiti, accuratamente piegati e valutati, in uno degli armadi bassi.
Mentre seguiva lo svolazzare delle pergamene, simili a scarti di cenere in un incendio, il suo sguardo nero e privo di calore si posò sul bacile di pietra scolpito. S’intravedeva, il malvagio, tra l’anta a vetri di uno degli armadietti pieni di barattoli stipati di vasetti colorati. Gli stessi vasetti baluginanti nella luce grigio azzurrina del Pensatoio. Forse era colpa della penombra, o della luce traballante del fuoco nel camino, ma Severus vide un volto, un volto disegnato coi tratti delle rune sghembe. Combattendo la voglia di afferrare il bacile ed annegare nei suoi pensieri che si agitavano indefiniti sotto alla patina azzurrina, afferrò il mantello e uscì, richiudendo con attenzione la porta dietro di sé.
Solo quando raggiunse la Sala Grande, si accorse dello strano silenzio che aleggiava nel castello. Solo i fantasmi argentei sembravano vagare per Hogwarts, indifferenti ai vivi. Un’ombra, più solida delle altre, cominciò a spazzare il pavimento della Sala d’Ingresso.
Piton si preoccupò di raggiungerla.
“Gazza.”
“Signore?” gracchiò il custode. Piton rimase zitto per un minuto buono, bruciante di vergogna, per la domanda stupida che stava per fare.
“Dove sono gli studenti?”
“A Hogsmade, Signore. E‘ sabato, signore.”
Borbottando parole incresciose nei confronti dei ‘ragazzini molesti’, il guardiano riprese a spazzare. Insolitamente perplesso, Piton uscì, incamminandosi lungo il viale e poi giù per i prati, verso il lago Nero. Anche da quella distanza, riusciva a intravedere i tentacoli della piovra, agitarsi tra le lastre di ghiaccio sottile e crepitante.
Un leggero strato di neve copriva i prati, non ancora spesso e gelato, mentre il vento freddo scuoteva impaziente i rami spogli e artigliati degli alberi. Era la prima o la seconda settimana di novembre, ricordò Severus all’improvviso.
Era arrivato sulla riva del lago, disseminato di piccole e fastidiose lastre di ghiaccio gracchiante. L’erba ingiallita e secca sporgeva qua e là e nessun fiore sembrava essere sopravvissuto al gelo.
Persino il sole, si rifiutava di apparire da dietro la coltre di nubi ferrose.
Per questo, quando vide la chiazza turchese a cento metri da lui, credette di essere vittima di un’allucinazione.
C’era una ragazzina, che saltellava sui sassi piatti e scivolosi a margine della riva, indifferente al pericolo di cadere nelle acque gelide. Stava recitando una filastrocca, incurante al freddo e alla situazione.
E, anche se imbacuccata e vestita con una tenuta degna di un perfetto cittadino eschimese, Piton non ebbe difficoltà a riconoscerla.“LOVEGOOD!” sbraitò.
Sbraitò così forte e con così tanta cattiveria che Luna, mentre si girava per capire da dove veniva quel verso, così simile all’urlo straziante di un Grollofrugolo Montanaro, mise un piede in fallo e inutile a dirlo, scivolò oltre il sasso, scomparendo alla vista.
Severus rimase allibito, a fissare l’acqua o le onde concentriche mosse nel punto in cui la Corvonero poteva essere caduta. Non ne vide.
Allora cominciò a camminare rapido in direzione dei sassi affioranti, troppo sconvolto e scioccato per pensare alcunché. Solo a metà strada si mise d’impegno e cominciò seriamente a correre.
Estrasse la bacchetta e nonostante il continuo scivolare e inutile arrampicarsi sui massi, rimase bloccato sulla riva impantanata.
Severus, preso da una crescente disperazione, dimenticandosi di essere un mago, buttò la bacchetta a terra, entrò nelle acque ghiacciate e s’incamminò, sprofondando man mano che avanzava nelle acque sempre più nere.
Solo dopo sette passi si accorse di non potersi più muovere. Il corpo intorpidito e le membra intirizzite, rifiutavano di compiere un qualsiasi movimento o anche solo piegarsi.
I suoi denti avevano anche cominciato a battere a ritmo di conga, e fu proprio questo a infastidirlo di più. Si girò con fatica verso la riva, là dove la bacchetta di ebano nero riluceva sulla neve biancastra. Impotente.
Ac-Accio!” cercò di articolare l’arguto insegnante.
ACCIO!”
La bacchetta rotolò sul bordo dell’acqua, rimase in bilico su un paio di steli rinsecchiti e poi cadde giù, scomparendo tra le increspature create dalle piccole onde. Purtroppo non posso riferire quello che disse in quel momento.
Severus cercò di riscuotersi, ma proprio quando riuscì a muovere un poco la gamba sinistra, piantò uno scivolone e si ritrovò giù, con l’acqua alla gola. Imprecò malamente e un’onda impertinente gli schiaffeggiò la faccia.
“Lovegood!” ululò. Non ci poteva credere. Quella mocciosa sarebbe morta, e lui, grazie ai precedenti, sarebbe stato di nuovo accusato.
E poi…
“Sì?”
Piton, compiendo uno sforzo sovrumano, si girò verso i sassi e là, su quello più alto, vestita con un giaccone turchese tre volte più grandi di lei, apparve Luna Lovegood.
Firvtami forvi!”
Luna lo guardò interrogativo. Sembrava, – a ragione- , non comprendere il linguaggio insensato del Professore.
Vovvegg-g-god. I-i-lutami!”
“Il mio nome è Lovegood…” cinguettò Luna; “Non Vovvegod, signore.”
Piton le lanciò uno sguardo rancoroso, i muscoli bloccati e il fango che gli impregnava le vesti. Non gli era mai capitato di sentirsi tanto umiliato.
O meglio, non davanti ad un’allieva. Se c’era una cosa che a Severus Piton non mancava, erano i ricordi umilianti. Avrebbe potuto riempire il doppio dei suoi vasetti nelle segrete, con quelli.
Indifferente ai drammi esistenziali che consumavano i minuti di Piton, ormai nel braccio dell’ipotermia, Luna si mise a piroettare, saltando agilmente da un sasso all’altro.
“L’acqua è bassa, si tiri su” disse, cadenzando ogni parola ai salti, come se stesse ripetendo una filastrocca. Piton provò ad alzarsi, ma ricadde pesantemente nell’acqua, sollevando una nuvola scura di fango.
“Vo- volevo aiutarti. Credevo...” sibilò con enorme e rabbiosa fatica.
“Aiutarmi? A cercare il mio pigiama?”  domandò Luna incuriosita, le ciocche bionde ondeggianti.
Piton la guardò sconvolto e Luna parlò di nuovo: “Mary Greyard ha nascosto il mio pigiama iridescente.” Lo disse in tono pratico, come se fosse una cosa normale vedere compagni di classe rubare indumenti agli altri. “Lo trova …divertente. Credo”, mormorò Luna roteando vistosamente gli occhi, soppesando pensieri noti solo a lei.
Piton aveva ormai la gola congelata e con orrore, si accorse di non poter più parlare.
Luna incurante, rimase tranquilla a ciarlare delle cattiverie che subiva, anche se a sentire le sue  parole si trattava solo di scherzi da parte di gente con l’umorismo contorto.
Per questo, quando il professore di nero vestito si addormentò nell’acqua torbida, scivolando nell’ abbraccio del gelo, ci mise un po’ a pensare al da farsi.
Le opzioni, valutò Luna, erano due.
La prima era restituire alla vita un’insegnante acido come un limone, inimicandosi un altro paio di studenti. La seconda, rendersi responsabili di… Pitoncidio?
Luna si sistemò i capelli con un cerchietto verde e infine, con un semplice incantesimo, saltò sulla superficie dell’acqua, camminando delicatamente tra le increspature. Puntò la bacchetta  sull'esangue maestro di Pozioni e mormorò:
Levicorpus!”
Chissà se le avrebbe detto grazie.
 
 
Severus si accorse che scivolare nell’acqua gelida, era un po’ come cadere nel Pensatoio.
Curioso come i suoi pensieri riprendessero il filo interrotto …
Petunia sapeva. Aveva sempre saputo.
Certo, gli Evans e Lily stessa l’avevano messa al corrente degli sviluppi avvenuti quell’estate, eppure, lui aveva sempre ritenuto che la gelosia nei confronti della sorella, fosse troppo accesa e immotivata. Troppo… Babbana.
Improvvisamente, il gesto che quella ragazzina dalla faccia cavallina e l’aria schizzinosa avrebbe commesso un paio di anni dopo la visita di Silente, assunse tutto un altro significato. Ma adesso non aveva importanza … Era troppo stanco per pensarci.




Da EXELLE
Ciao a voi lettori del Dono. Per causa di forza maggiore, non potrò postare i successivi capitoli, almeno non prima di settimana prossima. Anche se confido di trovare un computer prima o poi, è sempre meglio avvisare!
Vi porgo le mie scuse e vi lascio con la promessa di riprendere a postare i prossimi capitoli entro la fine della prossima settimana.
Saluti a tutti voi!



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Capitolo 5
*** Rigido come una Ringhiera ***


Capitolo Cinque

RIGIDO COME UNA RINGHIERA

"Sei conciato male Mocciosus. E, detto sinceramente, credevo che alla tua età avessi imparato a non essere maleducato…”
James Potter sorrise.  Alzò la bacchetta, ma una voce lo distrasse:
“James!”
Il ragazzo si voltò, sorpreso e ammirato insieme. “Lily.”
Quando lei lo raggiunse, gli occhi verdi della ragazza schizzarono allarmati sulla vittima del suo fidanzato, illuminandosi di bagliori cupi.
“Potevi chiamarmi”sibilò indispettita.
Lily estrasse la bacchetta e Severus Piton gridò di dolore.


“Non urlare Severus! Per cortesia, abbi rispetto anche degli altri malati!”
Albus Silente riemerse dalle pagine di Dieci auto d’epoca da avere, preceduto dal suo naso rotto. Aveva il solito sguardo impertinente e brillante, mentre esaminava l’arcigno insegnante sdraiato rigidamente sul letto. Severus si guardò attorno e si accorse di essere l’unico inquilino dell’Infermeria.
“Brutti sogni?” domandò il Preside con voce accattivante.
“Sempre” borbottò l’altro insegnante in risposta. Severus stava morendo di caldo, sentiva la pelle appiccicosa e le ossa doloranti non gli davano tregua.
Non aveva bisogno di ricordare  di chi fosse la colpa.
“Lovegood.”
Silente lo guardò con uno sguardo di divertita pietà, prima di commentare.
“La signorina saltava sui sassi. Mi ha detto che stava cercando un pigiama e che tu, gridando, l’hai spaventata…”
Severus corrugò le sopracciglia e strinse le mani a pugno, appariva quasi amareggiato. “E poi, da brava sciocca, è caduta in acqua. E dire che dovrebbe essere una Corvonero… Sarebbe stata molto meglio a Tassorosso, assieme al degno Pacio..”
Dieci auto d’epoca da avere sbatté violentemente sul vistoso setto nasale dell’insegnante di Pozioni. Piton lanciò un urlo indecoroso.
“La signorina Lovegood non è caduta in acqua, è atterrata su un altro sasso. Ha un’agilità insospettabile” commentò gioioso Silente, riappropriandosi del giornale.
“Che spiegazione ridicola” la voce dell’insegnante di pozioni era soffocata mentre, con le dita premute sul naso, cercava di valutare i danni inflitti dalla rivista al suo prezioso naso aquilino.
“Comunque è lieta del fatto che tu ti sia preoccupato per lei. Ha detto che è molto raro che qualcuno lo faccia. Di solito, parole sue, non lo fa’ mai nessuno.”
“E’ davvero piacevole sapere che esiste gente tanto schietta, allora” rispose Piton con una smorfia. Davvero, pensò Severus, qualcuno doveva correggere quella brutta abitudine della ragazzina che parlava sempre a sproposito. Ecco a voi Luna Lovegood, priva del nobile senso del pudore e del buongusto della privacy.
“Quella ragazzina dovrebbe imparare a comportarsi, ha delle abitudini irritanti” borbottò Piton.
Silente sospirò indeciso se riprendere ad usare la rivista come arma per percuotere quell’insensibile del suo dipendente. Alla fine si limitò a riaprire la rivista a pagina 12 – pulire il motore con classe -, ma fu di nuovo disturbato dall’agitarsi di Piton che stava per scendere dal letto.
“Fermo lì” gli intimò sfoderando la bacchetta.
Piton si ritrovò bloccato al letto, sdraiato scompostamente sui cuscini immacolati. Solo con molta fatica e forza di volontà, si rimise seduto composto.
“Devo tornare al lavoro, Albus. Vuoi per caso negarmelo?”
Silente annuì solennemente. “Precisamente. Almeno fino a domani mattina.”
I lineamenti del viso di Severus, si contrassero in una smorfia indispettita.
“Ancora nove ore bloccato qui?”
“Tecnicamente ancora dieci ore e quarantatrè minuti.”
“Ma io devo…”
“Severus sei più rigido di una ringhiera.” Silente sorrise, “Dovresti divertirti ogni tanto, prendere le cose in modo leggero. Passi tre quarti del tuo tempo a  dire cose sgradevoli.”
“E lei, con tutto il rispetto signore, a dire cose insensate.”
Silente sorrise accondiscendente. “Colpito… Ma non affondato.”
Rimasero un po’ in silenzio. Severus osservò il cielo rosso tingersi di blu, mentre la sera avanzava.
Silente lesse ancora un paio di pagine della sua rivista e infine interruppe le sue meditazioni sulle Ford del 1934. “Non hai portato a termine ciò che ti avevo chiesto” disse senza alzare gli occhi.
Severus rimase concentrato a guardare la linea tra il tramonto e la notte, l’arancio del sole mutarsi in viola.  “E’ un compito che non spetta a me.”
“E’ vero. Spetta a Luna.”
Severus si girò, fissando gli occhi cristallini del Preside.
“Cosa vuoi dire Silente?”
“Non sta a me spiegartelo, Severus. Continui a comportarti da sciocco, non capisci? Perché ti ostini a non fare ciò che ti dico?”
Severus prese un po’ di respiro prima di ribattere:
“Io faccio la spia per te, vedo la gente lottare per te, sto a fianco dell’Oscuro Signore per te.”
Piton lo sfidò con i suoi occhi carbone.
“Io non farei niente per te? E ora anche la balia ad una pazza? Per te?”
La faccia di Piton era contratta in una rabbiosa incredulità che non preoccupò, nemmeno per un istante, il vecchio Preside canuto.
“Caro Severus, non essere stupido. Non lo fai affatto per me. Sappiamo entrambi per chi lo fai, anche se ultimamente ritengo tu te ne sia dimenticato.” Silente aveva centrato il bersaglio. Posò la rivista e congiunse le mani, rimanendo a vedere l’effetto delle sue parole ridisegnare lineamenti nuovi sul viso dell’insegnante di Pozioni.
“Io non dimentico. Non la dimentico mai.”
Silente fece spallucce, come se le parole di Severus fossero irrilevanti e prive di peso.
Come se in realtà non gliene fregasse niente, per dirla alla Potter, pensò Piton. Sentì un’onda di rabbia investirlo, mentre guardava Silente alzarsi e dirigersi alla porta.
“Devi a Luna Lovegood un incontro serale e un pomeriggio. Ti conviene non deludermi, non questa volta.” Silente lo disse con una voce che non era abituato a usare. Una voce inflessibile e stentorea che però non frenò Severus, dal nominare quel dubbio che lo aveva attanagliato, prima di scivolare nelle acque gelide del Lago Nero.
“Tu sapevi che Petunia era là.”
“Buona serata, Piton.”
Severus lo guardò attraversare la corsia e uscire silenziosamente. Forse aveva ragione, forse Severus avrebbe davvero dovuto dormire un po'.
Domani, a quanto sembrava, sarebbe stato un giorno da balia.


La porta dell’ufficio si aprì di uno spiraglio.
Uno spiraglio da cui, silenziosa come la polvere, entrò Luna Lovegood.
“Siediti” mormorò Piton indicando la sedia davanti alla scrivania. L’aveva posizionata con cura, ad una distanza che non voleva né essere minacciosa, né troppo confidenziale.
Solo… Una distanza adatta a trattare.
Se davvero Silente voleva che lui sorvegliasse o facesse addirittura amicizia con quella svampita, non gliel’avrebbe certo data vinta. L’avrebbe battuto sul tempo, convincendo Luna stessa a dire che non aveva bisogno di lui.
“Bene.”
Luna rimase immobile a fianco della sedia, senza accomodarsi.
Piton tamburellò con le dita sulla scrivania, fissandola e ripetendosi di rimanere calmo. Poi, dopo cinque lunghissimi secondi, Luna trascinò la sedia due piastrelle indietro e la mise di sbieco rispetto alla scrivania. Infine si sedette e cominciò a sbattere le palpebre, con quel suo fare da ritardata che Severus trovava così odioso.
“Bene” ripeté l’insegnante. Notò che la ragazzina non indossava la divisa, ma un abito nero con un colletto bianco e severo. Sembrava vestita come…
“Lovegood, perché ti sei vestita come me?”
Luna puntò i suoi occhi vacui e argentei su Piton, senza vederlo davvero.
“Volevo ridere un po’” rispose la ragazzina con disarmante sincerità.
Piton era talmente allibito, da non riuscire a ricordare come ci si arrabbiava. Così, costernato, le domandò: “Essere vestita come me ti fa ridere?”
“Sì” rispose la ragazzina, serissima.
Piton cercò di reprimere l’istinto di uscire dall’ufficio e correre ad annegarsi nel lago Nero.
“Dunque,” cominciò Luna inaspettatamente “Volevo dirle che sono desolata per non averla aiutata tempestivamente e di averla fatta preoccupare.” Luna sbatté le palpebre, una volta sola, ma con una lentezza esasperante.
“Bene” ripeté per la terza volta uno stupito Severus. Era la prima volta che la ragazzina pronunciava una frase abbastanza  lunga e di senso compiuto davanti a lui.
Rimasero in silenzio. Luna era  tutta intenta a ipotizzare a quanti a Nargilli avessero fatto il nido in quel luogo umido, lasciando Severus a riflettere sul da farsi. Quando il silenzio divenne insopportabile, l’uomo chiese:
“Lovegood, tu sai perché Silente vuole che tu stia con me, vero?”
A Severus venne voglia di maledirsi non appena pronunciò quelle parole, ma non vedeva altre alternative. Con immensa sorpresa, ascoltò la risposta di Luna.
“Non è lei che deve passare tempo con me. Sono io che devo passare del tempo con lei, signore.”
Piton trattenne un fremito di disagio. “E’ questo che ti ha detto il professor Silente?”
Luna annuì frettolosamente, con tanta convinzione da far traballare la sedia. Poi starnutì.
Piton scosse impercettibilmente la testa, in segno di disapprovazione. Che follia era quella?
Lui aveva bisogno di Luna Lovegood? A che gioca stava giocando, il vecchio citrullo?
“Mi ha detto anche che se farà come dice, lui aggiusterà la composizione.”
“La composizione?”
“Ha detto che i gigli sono troppo nobili per stare con le petunie. E che, a volte, le cose belle sopravvivono anche vicino a quelle orribili.”
Piton, fissò con rinnovato interesse la ragazzina dai capelli traslucidi davanti a lui, cercando il significato nascosto tra quelle parole incomprensibili, figlie della mente allucinata del Preside.
Era chiaro che alludevano a Lily. E a Petunia.
Severus voleva sbattere fuori dall’ufficio la platinata e andare a riesaminare tutti i ricordi ammassati nel Pensatoio, alla ricerca di una risposta. Una risposta che, a sentire Luna, Silente conosceva già.
“Ti ha detto altro?”
“Mi ha chiesto se mi andava uno Zenzerotto glassato, signore.”
Piton sbuffò d’impazienza e Luna lo fissò come se lui, il grande Maestro Pozionista, fosse stato una specie in via d’estinzione.
“Nient’altro?”
“Ha… Cos’è?” Luna fissava qualcosa oltre le spalle di Piton, e muoveva la testa a ritmo, come se quel qualcosa ondeggiasse.
Piton si voltò e vide una lama di riflesso argenteo, ondeggiare sul vetro dei vasetti ricolmi di liquido colorato. S’irradiava, da qualche punto della stanza, evocando un richiamo irresistibile. La sua mente lampeggiò, cominciando a martellarlo con: Pensatoio, Pensatoio, Pensatoio.
Quando si girò di nuovo, vide Luna a fianco dell’anta dell’armadio che nascondeva il bacile.
Era spalancata.
“Cos’è?” Domandò Luna con ingenua ingenuità.
“Non…”
Luna Lovegood allungò un dito e non appena il suo polpastrello sfiorò la superficie argentea, sparì tra le spire di una nebbiolina azzurrina.
Severus Piton si accasciò sulla sedia, parzialmente svenuto.


Il ricordo in cui precipita Luna Lovegood, il passato.

“Dovremo dirlo a tuo padre. Lo capisci?”
Severus annuì. La ragazzina biondiccia al suo fianco, lo fissava, affascinata. Gli occhi di lei, innaturalmente sporgenti, schizzavano da qual ragazzino strambo - strano come le sembrasse familiare-, al Preside. Luna gongolò. Silente poteva anche vestirsi da ricco Babbano eccentrico, ma lei l’avrebbe sempre riconosciuto.
Provò a chiedere: “Professore, dove siamo?”
“Credo sia opportuno che ti accompagni, hai davvero bisogno di qualcuno. La tua situazione…” disse Silente. Aveva una faccia seria e pacata, così insolita per lui.
“Lo farò da solo, non ho bisogno di lei… per questo.” Il ragazzino dai capelli neri piegò la testa mentre pronunciava quelle parole. Gli occhi di Silente, lampeggiarono cupi.
Entrambi ignorarono la biondina sgomenta accanto a loro che, invano, cercava di interagire con i due. Era forse diventata invisibile? Luna si guardò e si toccò le braccia. No, era lei in tutto e per tutto. Vide un ramo per terra e provò a sollevarlo, per richiamare l’attenzione del Preside, ma cacciò un gridolino stupito quando si accorse che la sua mano attraversava il legno.
Meravigliata, si convinse di essere finita dentro una Rimemfuga.
Cavillo, numero centoventitrè, pagina 52, paragrafo uno, sezione in basso a sinistra.
Rimemfuga: prodigiosa bacinella conserva visioni.  Oggetti rarissimi, posseduti dai commediografi, per immaginare le loro commedie in scena.
Luna sorrise, come se quelle poche righe lacunose bastassero a giustificare ciò che vedeva. Si diresse verso una panchina, ignorata sia da Silente che dal bambino, domandandosi perché quello scontroso insegnante di Pozioni, scrivesse soggetti teatrali sul Preside.
Forse era un lavoro a quattro mani?
Luna si sedette, aggiungendo ai numerosi interrogativi che le balenavano in testa il ‘Perché non affondo nel ferro battuto se sono incorporea?’
“So bene che la tua situazione è difficile e sono pronto ad appoggiarti. Fidati di me.”
“Lei è il Preside, io l’allievo. Lei mi ha detto di venire nella sua scuola e ci verrò.”
Silente rimase zitto, mentre l’altro continuava:
“Avvisare mio padre è compito mio. Mia madre è una strega, lui è… Preparato.”
Luna osservò il ragazzino tendere la mano e dire con un tono più acido del limone, “Mi dia la lettera.”
Senza replicare, Silente estrasse la lettera d’ammissione e la porse al bambino. Poi con un saluto garbato, si diresse verso la grande casa bianca. Lo vide sparire oltre la veranda.
Luna dedicò un po’ di attenzione all’ambiente che la circondava.
Un giardino Babbano, sicuramente.
Era troppo ordinato, con il prato troppo verde e tosato, circondato da uno steccato bianco e regolare, come quello che suo padre amava disegnare quando illustrava le abitazioni dei Babbani pazzi.
Luna, troppo persa a scrutare il cielo rosato e i rami spogli dell’albero, si accorse a malapena del ragazzino, che prese posto accanto a lei.
“Dannazione” borbottava. Luna, si ripropose di chiedere al professor Piton che cosa affliggeva il personaggio del ragazzino. Rimase accanto a lui mentre, con lentezza esasperante, apriva la lettera e cominciava a leggerla a voce bassissima.
Luna avrebbe voluto conoscere il nome del bambino, ma un movimento sul retro della grande casa la distrasse cosicché non riuscì a leggere nemmeno l‘intestazione della missiva.
Caro signor Severus Piton…
Ma Luna Lovegood era troppo lontana per sentirlo. Ma, abbastanza vicina alla ragazza, dalla faccia così simile a quella di un cavallo che, con lo zaino in spalla, si calava da una stretta finestra del primo piano e si allontanava, non vista, tra i filari del piccolo orto.
Un po’ sorpresa e molto confusa, Luna tornò sotto all’albero e si meravigliò, nel trovare il suo posto occupato da una ragazzina dai capelli rossi.
Molto più lucidi e scuri di quelli di Ginny Weasley, notò Luna. E molto più pallida.
Stavano parlando animatamente, e quando Luna si avvicinò abbastanza, poté sentire Capelli Rossi esclamare, arrabbiata: “Arrangiati! Volevo solo aiutarti! Anche Silente…”
“Silente cosa, Lily? Di preciso, cosa?” gridò Capelli Neri, sputacchiando saliva.  Il ragazzino si alzò e gettò a terra la lettera, che si sporcò di terriccio. Era furibondo.
“Tutti volete aiutarmi, e perché? Perché sono il figlio di un disgraziato! Povero me, che faccio sempre pena a tutti e devo sempre essere aiutato! Che fastidio per una come te, Lily Evans!”
La bambina pallida non rispose e rimase a fissarlo impietrita, mentre l’altro si allontanava oltre lo steccato. Luna inclinò il capo, osservandoli.
Capelli Rossi o Lily, come l’aveva chiamata Capelli Neri, scoppiò in lacrime.
Luna si allontanò, preferendo seguire il ragazzino dal naso sproporzionato.
Gli stava vagamente simpatico.


Lily Evans piangeva.
Piangeva disperata, chiedendosi che cosa aveva fatto di male.
Non poteva vedere la biondina fluttuante che si allontanava verso la strada, seguendo le orme di Severus.  Semplicemente perché, quella biondina, era uscita da un presente troppo lontano e invisibile agli occhi di quella Lily, bloccata nel passato, in lacrime su una panchina di ferro.
La ragazzina frenò appena il pianto, quando vide il professor Silente uscire dalla veranda e salutarla, prima di sparire con una mezza giravolta. Lily rimase affascinata da quella magia, ma la tristezza che l’aveva assalita cancellò anche quella piccola gioia.
Perché dava sempre a Sev l’impressione che essergli amica era, tutt’al più, un gesto caritatevole?
Finivano sempre per litigare.
Tutto perché i regali e le carinerie che i suoi genitori concedevano all’amico, a lui apparivano come gesti di pietà. E la stessa cosa, era accaduta alle gentili parole di Silente, che si era offerto di aiutarlo ad avvisare il padre per l’ammissione a Hogwarts.
Era così assurdo pensare che Sev la vedesse unicamente come una crocerossina, desiderosa di aiutarlo. Ma se c’era un ombra sulla loro amicizia, era proprio quella.
Un continuo tormento, cercare di non dare mai l’impressione che la sua gioia non fosse solo di circostanza. E, per tutti gli sbilenchi, era così difficile!
Perché Severus si ostinava a vedere cose inesistenti, celate dietro alla loro amicizia? Perché cercava sempre motivazioni e spiegazioni? Era sempre così ossessionato, dal cercare di capire perché una come lei potesse essere sua amica, da non accorgersi che erano amici e basta.
Quell’estate, ormai agli sgoccioli, Severus era stato felice. E il merito era solo suo, della piccola Lily Evans. Ma lei aveva mai osato rinfacciarlo al suo amico? No!
Le bastava vederlo felice come quando, alla sera, sedendosi sul dondolo della veranda e al riparo dalle orecchie dei genitori di Lily, progettavano il loro futuro da maghi.
Era così assurdo pensare ad essere solo amici, senza interessi, senza ombre, ma solo per il piacere di esserlo?
Lily Evans, raccolse la lettera da terra e ricominciò a piangere.


Severus aprì la scalcagnata e cigolante porta d’ingresso della casa dei Piton. Non pensava a quel luogo come a casa sua, ma solo come ad un luogo di transizione. Aveva sempre saputo di essere destinato a qualcos’altro. Ad un altro posto da chiamare casa. Perché casa sua era…
Dov’è Lily, suggerì il suo cervello.
“Da nessuna parte” mormorò lui, avanzando nella penombra.
“Chi c’è?” La voce gracchiante di Eileen Prince giunse dalla cucina e Severus si avvicinò.

Quando suo figlio apparve sulla soglia, Eileen  non lo riconobbe. Era davvero Severus, così benvestito e con i capelli tagliati, ordinati, puliti?
Con quella luce di chi è stato amato, splendidamente viva negli occhi?
Eileen, stupita e incredula, fece cadere il piatto sudicio che stava pulendo. I cocci rimasero a terra anche quando, con uno sguardo malevolo, chiese a Severus: “Cosa ci fai qui?”
Severus guardò sua madre, quella donna che la vita aveva rovinato e ingrigita. Si soffermò su quel profilo che li rendeva così simili, così uguali. Così Prince.
“Devo dirti una cosa. A te e… A lui.”
“Vattene.”
Severus si sentì vacillare. Era abituato a sentirsi maltrattare da suo padre, non da quella madre che quando non soccombeva alle botte del marito, si rinchiudeva in camera a piangere.
E ad ignorare il figlio.
“Vado a Hogwarts.”
“Per quanto mi riguarda, puoi andartene all’inferno.” Eileen si chinò a raccogliere i frammenti di ceramica da terra, ignorando il figlio che, ferito, si appoggiò allo stipite, in cerca di parole per replicare. Solo dopo un po’, si accorse che sua madre stava piangendo silenziosamente. Come se non volesse disturbarlo.
“Non abbiamo soldi” disse Eileen a denti stretti “Non ne abbiamo più.”
“Ci penseranno gli Evans” mormorò Severus con difficoltà. In realtà nessuno, a partire da Lily, aveva accennato a quella possibilità ma in quel momento, mentire sembrava l’unica cosa da fare.
Inutile dire che Eileen, smise all’istante di piangere e lanciò al figlio un’occhiata omicida.
“Gli Evans.” Non era una domanda.
Severus, sembrò rendersi conto a malapena della sciocchezza che aveva detto. Madre e figlio rimasero a fissarsi finché, un rumore dall’ingresso, non li distrasse.
“Eileen!”
“E’ tornato..” sibilò la donna, affannandosi a radunare i frammenti di ceramica con la straccio. Si tagliò, e un rivolo di sangue cominciò a scorrergli giù per la mano, fino a sparire nella manica. Cerchietti di sangue si disegnarono sul pavimento sporco. Il loro plic plic, era ancora più assordante dei passi alle spalle di Severus, che rimase immobile. Non voleva girarsi, non voleva affrontare… Lui.
“E così, il figliol prodigo è tornato.”
“Non sono prodigo e non sono tuo figlio.”
“Come?”
“Non sono tuo figlio!” Urlò Severus Piton, voltandosi di scatto.
Invano, la ragazzina bionda e incorporea che lo aveva seguito, cercò di frapporsi fra lui e il colpo che lo mandò a sbattere contro un armadietto sbilenco, attraversando la sagoma invisibile di Luna. Luna Lovegood, rimase atterrita a fissare il ragazzino gemere di dolore. Odiava la violenza. E anche se quelle immagini erano state inventate dal professor Piton, aspirante tragediografo, non riuscì a reprimere il dolore, nel vedere quella scena. Era così reale, come se, da qualche parte, fosse accaduta.
L’uomo che lo aveva picchiato, forse suo padre, forse uno sconosciuto, sollevò Capelli neri per il bavero e lo scosse.
“Se non sei mio figlio, chi sei? Eh?”
“Sono… Un … Mago…”
L’uomo si rivolse alla donna lacrimante, accucciata per terra.
“E’ opera tua?” domandò ringhiando. La donna non rispose.
“E’ op…”
L’uomo si bloccò a metà frase, pietrificato. Severus scivolò dalla sua stretta e finì a terra.
Luna sapeva riconoscere un  Incanto Pietrificante quando ne vedeva uno. E, anche se lui non poteva sentirla, mormorò il nome del nuovo arrivato che, a bacchetta tesa, occupava l’ingresso.
“Albus Silente.”
Severus sentì una lacrima scorrere lentamente sulla guancia dolorante, mentre Silente, senza guardare né Eileen, né il pietrificato, né Luna, lo raccoglieva da terra e se lo metteva in spalla.
Uno sforzo impressionante, per un uomo che appariva così anziano. Ma Albus Silente non sembrava né anziano né fragile in quel momento, e Luna Lovegood, si sentì stranamente orgogliosa nel sapere che quell’uomo era il suo insegnante.
“Questo ragazzo è un mago. Ed è degno di stare nella mia scuola” disse Albus, a tutti e a nessuno in particolare. Poi, con il cappotto prugna svolazzante e il ragazzino in braccio, uscì.
Luna sorrise involontariamente. Severus Piton poteva essere un disgraziato, nell’intraprendere rapporti umani alunno-studente, ma come scrittore visionario, ci sapeva davvero fare.
Lo pensava anche mentre, con sua sorpresa, uno strano risucchio la faceva scomparire in una nebbia argentea e azzurrina, tiepida e confortante.
Finchè i suoi piedi non ritoccarono solidamente la pietra di un pavimento.

Il presente, Hogwarts, ufficio di Severus Piton.

Quando Piton si riebbe, trovò Luna Lovegood tutta intenta a disegnare dall’altro lato della scrivania.
Ricordava vagamente di averla vista vicino al Pensatoio…
L’immagine della Corvonero che scivolava tra i suoi pensieri, era ancora stranamente vivida…
Era accaduto veramente? O se l’era solo immaginato?
Solo quando vide il soggetto ritratto nel disegno di Luna, si sentì mancare di nuovo.
La ragazzina stava cercando il prugna più adatto, per colorare il soprabito dell’uomo che, mano nella mano con un ragazzino imbronciato e determinato, si allontanava dalla casa fatiscente sullo sfondo.


Grazie per la pazienza con cui seguite il Dono. Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo, a cui tengo parecchio.
Un saluto, Exelle.

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Capitolo 6
*** Sognando Lovegood ***


Capitolo Sesto
Sognando Lovegood


“Luna Lovegood prende ripetizioni da Piton.”
“Miseriaccia.”
“Cosa? … ”
“Luna Lovegood…”
“No, non quello, intendevo…”
“Intendevi perché?” domandò Hermione accigliata. “E come potrei saperlo, scusa?”
Ron si strinse nelle spalle, lanciando un’occhiata veloce ad Harry.
Sovrappensiero, il Ragazzo-che-è Sopravvissuto, si strinse nelle spalle: “Anche se fosse?”
“Harry!” esclamò a voce un po’ troppo alta Ron, che guardò preoccupato in direzione del professor Ruf. L’insegnante fantasma non diede segno di aver sentito alcunché. Continuò a spiegare con voce monocorde, indifferente all’apatia crescente tra i suoi studenti.
“Harry…” riprese Ron a voce un po’ più bassa, “Non eri tu, quello che si preoccupava della sua fedeltà all’Ordine? Del fatto che è un po’ strano che solo, e dico solo, Silente si fidi di lui? E’ un ex-Mangiamorte, Harry!”
“Un ex-Mangiamorte che lavora per l’Ordine, Ron” soggiunse Hermione, “Concediamogli il beneficio del dubbio.”
“E allora perché da’ ripetizioni a Luna?” borbottò Ron in tono cospiratore.
“Forse perché in realtà non è portata in Pozioni” rispose Hermione con un cenno di superiorità.
Ron scrollò il capo, poco convinto. “Strano, da quello che so Luna va alla grande in Pozioni. Fa un po‘ pena nel fare i temi, l’ha detto Ginny, ma se c‘è un genio negli intrugli tra i Corvonero… Bè, è Luna.”
Hermione scoccò un‘occhiata a Harry, stranamente silenzioso.
“Dalle voci che girano, e ne girano parecchie, sembra che dietro ci sia Silente.”
“Non ci credo” sibilò Harry, improvvisamente toccato dalla conversazione.
“Credici” replicò Hermione.
“Da quando ti sei data ai pettegolezzi?” chiese Ron, curiosamente risentito.
“Da quando frequento i bagni per ragazze, Ronald.”
“A-Ha.”
“Chi l’ha detto?” domandò Harry.
“Cho Chang.”
Hermione vide lo sguardo di Harry spostarsi sulle file di teste chine, metà Corvonero e metà Grifondoro.  Hermione non nascose un sogghigno, notando lo smarrimento di Harry.
“Che c’è?” chiese Harry , intercettando l’espressione divertita dell’amica.
“Dimentichi sempre che Cho non frequenta le lezioni con noi! Eppure, appena abbiamo lezione con quelli di Corvonero, ti aspetti di vederla apparire.”
“Stavo solo guardando Ruf, e tu perché non prendi appunti?” rispose Harry il viso in fiamme, punto sul vivo.
Hermione , afferrò una penna e cominciò a segnare date di battaglie sul lindo quaderno, ma sempre con un mezzo sorriso stampato in faccia.
Fu Ron a interrompere il silenzio che era caduto tra loro:
“Comunque… se vogliamo sapere cosa combina il vecchio Piton, bhè, perché non lo chiediamo direttamente a Luna?”
Harry guardò Ron indicare con un cenno del capo, un punto della classe.
La testolina platinata era un paio di file davanti a loro, un po’ troppo inclinata. Il posto alla sua destra era vuoto. Solo un flebile raggio di sole, aveva il coraggio di battere su quel ripiano di legno scuro e desolato. Luna, non sembrava interessata né alla spiegazione del professor Ruf, né tantomeno, al cicaleccio svogliato che pervadeva la classe. Sembrava starsene nella sua isoletta felice, nella sua bolla di vetro, ignorando ciò che accadeva intorno, senza  rendersi pienamente conto di dove si trovasse.
“Giusto” mormorò Harry.
“Così Hermione ti proverò che Luna Lovegood è un genio in Pozioni!” sibilò Ron trionfante.
Hermione storse il naso, curiosamente infastidita dagli elogi di Ron.
“Sarà anche un genio in Pozioni ma…” cominciò la ragazza, subito interrotta da Harry, improvvisamente colto da un’illuminazione:
“Ehi… Ora che ci penso, perché Luna è in questa classe?”

“Luna, ehm, ciao!”
La ragazzina, che si stava allontanando nel corridoio a passo di lepre, si voltò.
“Ciao Harry Potter.”
Harry si passò una mano fra i capelli, buttando un’occhiata alle sue spalle. Come da copione, Ron ed Hermione, se ne erano rimasti in un cantuccio all’inizio del corridoio, intavolando una conversazione che Harry sospettava non avere nulla di spontaneo. Perché, cielo, l’avevano mandato da solo?
“Allora… Come va?”
“Bene, Harry Potter.”
Harry infilò nervosamente le mani nelle tasche dei pantaloni. Da dove cominciare?
“Sai, Luna ci chiedevamo, anzi, mi chiedevo, perché frequenti le lezioni del quinto anno? Non sei al quarto con Ginny, tu?”
“Corretto, Harry Potter.” I capelli di Luna, ondeggiarono come alghe pallide mentre annuiva.
“Perché me lo chiedi?”
Luna, si sistemò accuratamente la borsa blu marino su una spalla, prima di rispondere.
“Perché sbaglio aula, Harry Potter.”
“Sbagli aula?” Harry avvertiva una curiosa sensazione; come se la mascella, gli si sganciasse per la sorpresa.
“Sì, Harry Potter. A te non capita mai di sbagliare?”
“Certo… Ma…”
“Arrivo spesso tardi alle lezioni di Erbologia, e l’aula del professore fantasma è più vicina. Mi piacciono le sue lezioni, posso leggere il Cavillo, senza sentire Terry Steeval o venire disturbata.”
“Terry Steeval?”
“Oh, è stato lui a coniare Lunatica. Mi si addice, trovo. Ora che ci penso, potrebbe fare il poeta.”
Harry si sentiva stranamente a disagio. Sapeva che Luna non era molto popolare, ma sentirlo dire da lei, che ripeteva ciò che gli altri le dicevano alle spalle, infarcendo il tutto di cose assurde senza capo né coda…  Bhè, era roba da duri.
“… Forse dovrei presentarlo al professor Piton. Potrebbe aiutarlo nella sua carriera.”
Harry tornò bruscamente alla realtà, e al vero scopo per cui s’era messo a parlare con Luna Lovegood.
“Severus Piton?”
“Ne conosci altri, Harry?”
‘Grazie al cielo, no’ fu il primo pensiero di Harry che tuttavia, fece in tempo a rispondere:
“Perché Piton potrebbe aiutare Terry?”
“Perché Piton è un brillante scrittore di teatro!” disse Luna sgranando gli occhi bulbosi.
Harry scoppiò sonoramente a ridere, facendo sobbalzare il fantasma della Dama grigia, che scivolava piangendo lungo il corridoio.
“Luna non scherzare, io vorrei sapere perché…”
Harry si bloccò e si rese conto di quanto fosse sciocco. Era davvero affar suo, se Luna prendeva ripetizioni da un ex-Mangiamorte, ora spia dell’Ordine della Fenice? No, suggerì una vocina, certo che no. Eppure--
“Perché prendi ripetizioni da Piton, Luna? Hai ottimi voti in Pozioni….”
“Corretto, Harry Potter. Ma non credo che farmi queste domande sia in qualche modo utile a te o ai tuoi bizzarri amici.”
Harry si voltò, cercando il punto nel corridoio dove aveva lasciato Ron ed Hermione. Dapprima non li scorse, ma dopo un po’notò che a due poco lontane armature, erano spuntati i capelli. Una chioma era rossa e liscia, l’altra crespa e arruffata.
Harry cercò di vincere l’imbarazzo della situazione: “Ehm… era solo per…”
“Harry Potter, non cercare di comprendere quello che non sai, se non lo comprendi” mormorò Luna sognante. Harry, rimase talmente spiazzato da quella spiegazione che non spiegava assolutamente nulla, che replicò semplicemente con:
“Capisco. Ci vediamo alla prossima lezione dell’E.S., va bene?”
“Sarò certamente lì, Harry Potter.”
Le alghe bionde e la loro proprietaria, si allontanarono giù per il corridoio, lasciando un Harry basito e molto poco convinto. Luna sembrava molto più sfuggente e seria e, cosa ancor più inquietante,  totalmente tocca. Se  Harry credeva che quella Luna con la fissa dei Gorgosprizzi e la collana di tappi Burrobirra, fosse stravagante…  
Quella Luna che si era trovato davanti, teneva alta la sua reputazione di giovane squilibrata.
Forse era per la veste nera di taglio maschile, che indossava sotto al mantello. O per il fatto che si era infilata non solo nell’aula sbagliata, ma addirittura in una lezione per quelli del quinto anno.
O forse, oltre a tutte queste già di per sé folli e stralunate, era il fatto che per tutta la durata della conversazione, gli occhi bulbosi di Luna Lovegood erano rimasti fissi a terra e le sue pupille non avevano mai incrociato lo sguardo del ragazzo.
Nemmeno per un folle istante.






Severus Piton aveva momentaneamente traslocato.
Ancora non ricordava con che parole aveva usato Silente per convincerlo al grande passo, ma ecco che d’un tratto, lui e le sue cose, si erano ritrovati in una torretta dell’ala Est. Mancavano solo i vasetti colorati -un insulto all’arredamento, li aveva definiti il Preside- che erano rimasti a vegliare, nell’ufficio nelle segrete.
Benchè nel complesso, l’attuale domicilio del professore fosse migliorato, Severus Piton era ancora restio a chiamare quel posto arioso ed elegante, come ‘suo’. Era così assuefatto alla sua immagine cupa e tenebrosa, da abitante delle umide cantine sotterranee, che non aveva mai pensato a costruirsi un altro ruolo.
‘Dannata Lovegood’ pensò Piton avvicinandosi alla finestra. Da quando si era svegliato con uno strano mal di testa e l’aveva trovata nel suo ufficio, in preda ad uno strano delirio -per una qualche ragione la Corvonero si era  convinta che lui, Severus Piton, magico pozionista spia, potesse essere un novello Shakespeare-  Severus non faceva a meno, di pensare a sé stesso come ad una macchietta, o ad un grottesco comprimario di un qualche libro strampalato.
Ricordava vagamente di averla vista scivolare nel Pensatoio, ma aveva allontanato subito quella terribile possibilità, fingendo di interessarsi alle stramberie della ragazzina.
Anche se…
Severus Piton ci aveva ragionato spesso, sulla possibilità di tradurre la sua vita in un epico racconto, da tramandare alle generazioni future. Aveva la stoffa del protagonista e tutti, più o meno, gli attributi di un eroe. Non aveva il fisico o i tratti leggiadri di un bellimbusto qualunque, ma aveva vissuto un’infanzia difficile e un’esistenza ombrosa, culminata con la perdita del suo unico, grande amore. E non dubitava di morire in qualche istante drammatico, durante una qualche battaglia per la libertà del mondo magico.E il fatto di essere il quasi confidente di un perfido mago oscuro, non faceva che rendere più avvincente la trama.
 Severus represse un brivido. C‘era solo una cosa che lo frenava. L’idea di trasformare Lily, la sua Lily, in una semplice figuretta letteraria non lo entusiasmava, anzi lo faceva sentire più viscido e meschino di quanto già non fosse.
Spalancò la finestra, studiando il cielo del pomeriggio, il lago Nero, e quei mille particolari di Hogwarts che da tempo, avevano smesso di affascinarlo.
I suoi pensieri scorrevano veloci, tra i mille meandri in cui li teneva custoditi.
E poi pensò a lei. Petunia Evans.
L’adorabile, onesta Tunia.
Era la zia di Potter. Un ostacolo. Se Severus si fosse azzardato a cercarla, Potter lo sarebbe venuto a sapere e allora addio, rassicurante anonimato da innamorato sconfitto. Piton sapeva che i rapporti tra Potter e i suoi parenti Babbani non erano dei migliori, ma l’insegnante non voleva rischiare d’incappare in una qualche fastidiosa situazione, con Silente che faceva da pacere, mentre Potter e il suo pazzo padrino cane, si sbellicavano all’idea di ‘Mocciosus amava Lily’.
Quale affronto, per l’inquieto professore pozionista!
Ma cos’altro poteva fare, per risolvere quel  mistero che lo attanagliava da anni? Da quell’ultimo, fatidico anno a Hogwarts…
Petunia l’aveva sempre odiato. Ed era per colpa sua… Per colpa della sua invidia…
Severus Piton, serrò sbattendo la finestra e si sedette alla sua nuova scrivania, cominciando a segnare sulla carta, cifre di anni andati e frammenti di ricordi. Doveva collegare, unire, comprendere. O tutto sarebbe sfuggito via, rimanendo vano e inutile. Lily Evans non gli aveva lasciato niente, a parte ricordi tristi e l’impossibilità di amare qualcun altro, completamente e totalmente, all’infuori di lei.
Come una maledizione.
Seguendo il filo dei suoi pensieri contorti, Severus Piton si smarrì. Più cercava di fissare le cose sulla carta, e più quelle scivolavano via, come acqua. Ad un tratto, mise a fuoco ciò che aveva scritto.
A circa metà pergamena, i numeri prendevano vita e diventavano lettere. Lily…Lily…Lily…
All’infinito, su tutta la pagina, fino agli angoli.
Piton si accasciò sulla scrivania, la testa tra le mani, troppo infastidito e confuso, per fare alcunché.
Riemerse dalla disperazione solo quando una voce gentile lo chiamò. Una voce conosciuta, una voce che in quel momento non sembrava conoscere disperazione…
“Severus? Sev…?”
La voce arrivava soffocata e tremolante da un angolo vicino all’ingresso, nell’altra stanza. Severus non alzò lo sguardo, si limitò ad ascoltare i passi leggeri che salivano i pochi scalini e si avvicinavano alla scrivania.
“Sev, ma che fai?”
Quando il viso dell’insegnante, abbandonò il rifugio sicuro delle sue braccia scheletriche, ebbe un mancamento. Non ci poteva, non ci voleva credere.
Lily Evans, undicenne, con la sua linda divisa di Hogwarts, se ne stava di fronte a lui, seduta sul bordo della rigida sedia in legno. I capelli avevano la stessa sfumatura rossa che Severus ricordava, e gli occhi verdi erano gli stessi, brillanti smeraldi che l’avevano guardato per più di vent’anni. Sembrava davvero una piccola adulta, seduta lì tutta rigida e impettita. Solo il sorriso che ingenuo e affascinante, tradiva la sua vera essenza.
Severus Piton, distolse con fatica lo sguardo dalla sua piccola amica.
Qualcosa non tornava.
Anzi, il fatto che Lily Evans, morta quindici anni prima, assieme a suo marito - il sempre sia dannato Potter Senior- fosse lì davanti a lui, con solo undici anni dipinti sul suo grazioso viso…
Non tornava affatto. Era un allucinazione?
Severus storse la bocca, mentre Lily lo osservava, speranzosa, in attesa di qualcosa.
E non era nemmeno nel Pensatoio!
Stava accadendo veramente?
Piton non conosceva quella magia. Era forse un’illusione di Silente? Un incantesimo, legato alle stanze di quella torretta? O era la sua mente stanca e sconfitta, a giocargli brutti scherzi?
Lily storse la bocca, offesa.“Sev, sei il solito maleducato. Tutto smorfie e niente saluti.”
Anche la voce era la stessa… La voce che chiedeva ‘Tu chi sei?’, in un assolato giorno estivo, vicino ad un’altalena.
“Lily?”
Lily sorrise, gentile e rassicurante come Piton ricordava.
“C’è qualcun altro qui?”
Piton osservò la schietta  e sfrontata Lily Evans. Aveva sempre creduto che se l‘avesse rivista, si sarebbe sentito felice. Ma ora, non avvertiva altro che tristezza .
“Che ci fai qui?”
“Mi ha mandato Silente” rispose candidamente Lily.
‘A-ha’ pensò Piton, ‘ecco l’infame che si svela!’
“Perchè fai quella faccia, Sev?”
Piton scosse la testa, amareggiato. “Perché ti prendi gioco di me? Sei solo un’illusione.”
“Che cosa?” Lily sembrava davvero sorpresa.
Seveus si alzò e si mise di fronte all’amica, che si alzò a sua volta.
Dio, come era piccola; gli arrivava a malapena a metà del petto.  
Incredibile; un tempo, anche lui era stato così basso e così esile.
Solo che faceva sempre più fatica a ricordarlo. Severus, osservò ancora per un po’ la sua amica dai capelli mogano. Era così perfetta, così Lily… ma non era reale. Non poteva esserlo.
Severus Piton si sentì molto triste, quando parlò:
“Vatttene. Sei solo una patetica illusione. Un’illusione creata da un vecchio pazzo, che non rispetta i sentimenti altrui. Sparisci.”
“Ma che cosa stai dicendo? Perché… Sev? Noi siamo amici…”
L’espressione sul viso di Lily, era così addolorata, che Piton  l’abbracciò d’istinto, aspettando di sentire l’amica undicenne svanire o diventare incorporea, come uno spettro.
Come l’impronta di un’anima dipartita.
Solo che non accadde.
Lily era solida, fatta di ossa, carne e capelli rossi.
Severus abbassò lo sguardo e gli occhi di Lily lo scrutarono, incuriositi.
Qualcosa non andava.
Gli occhi della bambina, non erano più color smeraldo… anzi, apparivano scoloriti, grigiastri…
E, invece che essere a mandorla, sembravano simili a bolle.
E quei rapanelli alle orecchie… così poco Evans…
E i capelli rosso mogano… anzi, biondo platino…

Severus Piton, ci mise un po’ a realizzare che stava abbracciando Luna Lovegood, ma quando lo capì, lanciò un urlo, atrocemente imbarazzato. E, come raramente accadeva in quei casi, il suo colorito giallastro e malsano, divenne di un bel rosso semaforo, suscitando lo stupore e la meraviglia della giovane Corvonero.
Severus Piton era un tragediografo e anche un Metamorfomagus?
Assolutamente un soggetto per il Cavillo!

                                                                    


“Lovegood… ti prego di scusarmi.”
Severus Piton, parlò borbottando. L’espressione ‘ti prego di scusarmi’ non era frequente, nel suo vocabolario.
“Oh, non si scusi. Sono felice di vedere che lei ha gesti umani… ogni tanto… E la capisco, stava provando una parte. Sono lieta di aver assistito” esclamò Luna in tono sognante.
“Farò finta di aver capito quello che stai dicendo, signorina Lovegood. Solo… mantieni il riserbo su quanto è accaduto. Preferisco… mantenere un profilo discreto, ecco.”
‘L’ultima cosa che voglio è una reputazione da molestatore a Hogwarts’ pensò Severus.
Chissà quanto l’avrebbe trovato divertente il vecchio Barba Bianca.
“Oh, non si preoccupi. A chi mai dovrei raccontarlo?”
“Ai tuoi amici… Anche se non devi dirglielo, Lovegood.”
“Non ho amici” rispose Luna sorridente “E le ho già promesso che non dirò nulla. Lei è un po’ svampito, professor Piton.”
Normalmente, se qualcuno -studente o canide che fosse- si fosse azzardato a dare dello svampito all’arcigno professore di Pozioni, avrebbe dovuto traslocare nei sotterranei, a mettere sott’olio rospi cornuti fino alla fine dei suoi giorni.
Per questo, Severus Piton si sorprese, quando dalle sue labbra uscì tutt’altra domanda:
“Non hai amici? Come sarebbe a dire?”
Luna lo guardò, con uno sguardo di commiserazione così palese, che Piton si affrettò a replicare.
“Ho capito quello che hai detto, Lovegood. Solo che mi sembra strano.”
Gli occhi bulbosi di Luna lampeggiarono. “Anche lei è strano professor Piton, ma io non glielo faccio notare. Non sarebbe cortese.”
Una vena, cominciò a pulsare nervosa sulla tempia unticcia di Piton.
“Me lo hai fatto notare poco prima di svenire nella mia aula!”
Luna, per nulla impressionata, cominciò a dondolare la testa,  cercando la risposta.
“Io le ho detto che era strano, perché aveva sempre lo sguardo nel vuoto. E’ dall’inizio dell’anno che si perde, professor Piton.”
‘Allora qualcuno l’ha notato’ pensò allarmato Severus.
Era dall’inizio dell’anno che possedeva il Pensatoio. I continui smarrimenti, le allucinazioni…
Era tutto collegato…?
“E poi ho sentito Hermione Granger dire che lei si era interrotto, e che non era la prima volta che accadeva” Luna aveva cominciato ad aggiustarsi i polsini, ripiegandoli. Poi, stufa, si era messa ad annodarsi i capelli, sempre chiacchierando con quel tono indifferente e fastidiosamente onesto.
“Hermione Granger lo diceva a Harry Potter, signore, e tutti quelli del loro anno ridevano perché lei sembrava… un certo tipo di pesce sottosale, ma non ho capito la parola, perché hanno usato un curioso termine Babbano. Effettivamente, deve essere stato molto divertente.”
Piton avrebbe ringhiato, se fosse stato un animale.
‘Ci mancava solo il figlio di Amatemi-Sono-James, e la sua combriccola!’ pensò, sentendo lo sguardo accendersi d‘ira.
Luna, con un’occhiata rapida all‘insegnante, decise che, almeno per una volta, era meglio tacere.
Piton, rimase silenzioso a riflettere, lasciando Luna tutta intenta a provare nuove, nodose acconciature, al dì là della scrivania.
Era preoccupato; non credeva che un oggetto magico come il Pensatoio, potesse avere delle controindicazioni. Eppure, tutto coincideva. Gli smarrimenti, le allucinazioni; perdere il senso del tempo e scivolare nel vuoto. Severus Piton scosse la testa. Non poteva essere vero, un ridicolo bacile conserva ricordi, non poteva modificare la percezione. Non la sua.
Era solo stanco; i lavori dell’Ordine procedevano a rilento, la gente spariva e il Signore Oscuro era sempre più ansioso, in attesa di tornare al potere. E, tutte queste cose assieme, non facevano che rendere la vita di Severus Piton più infernale e stressante che mai.  
“Harry Potter mi piace. Lui è gentile” mormorò Luna dopo un po’, per spezzare il silenzio.
 “Ecco Lovegood. Ce l’hai un amico” sibilò acido Piton.
Il viso di Luna si rabbuiò e divenne molto, molto triste.
Severus lo trovò insolito, anche per una che sorrideva contenta se le rubavano il pigiama.
O le scarpe.
“Harry Potter è amico di Hermione Granger. E di Ron Weasley.. Ma non è mio amico. Cerca solo di essere gentile perché sono stravagante e questo, è un male. Credo provi pietà.”
Severus Piton, odiava sentirsi vicino alle persone. E odiava ancora di più, l’idea di comprendere il prossimo. E in quel momento, sentì di odiare profondamente Luna Lovegood, la sua infantile ingenuità e quelle ultime parole, che la ragazzina aveva pronunciato con un mezzo sorriso.
“Lovegood.”
Luna che aveva cominciato a canticchiare, voltò gli occhi bulbosi in direzione dell’insegnante.
“Signore?”
“Torna alla tua sala comune, Lovegood. Non voglio vederti fino a lunedì.” Piton andò verso la finestra e osservò  la notte prendere il sopravvento, sugli ultimi sprazzi rossi.
“Mi dispiace. Ma mancano ancora quindici minuti, signore.”
“Questo conterà come un pomeriggio settimanale, sappilo” rispose acidamente Piton.
“Contava già come un pomeriggio. E’ stato Silente a mandarmi qui, mi ha detto di andare a vedere il vostro nuovo ufficio, signore” replicò Luna in tono cortese.
Cadde di nuovo il silenzio. La notte aveva ormai nascosto le montagne e reso infinito il lago, quando Luna, se ne uscì con un’altra brillante domanda.
“Chi è il ragazzino?”
“Quale ragazzino, Lovegood? Qui non ci sono ragazzini.”
Era un po’ una risposta stupida, considerando il fatto che si trovavano in una scuola piena di maghi minorenni, ma Severus Piton era troppo nervoso e infastidito, per sottostare all’interrogatorio di una Corvonero asociale e disturbata.
“Il ragazzino nella Rimenfuga.”
“Che diavolo è una Rimenfuga?” sbottò Piton.
“Lei ne ha una, professor Piton! Volevo solo sapere chi è l’amico di Lily Evans, signore.”
Fu come ricevere una mattonata in testa. Una mattonata molto pesante.
Piton si girò con uno scatto e si avvicinò minaccioso alla sedia dove era appostata Luna. Il viso livido dell’insegnante, si rifletté nei grandi occhi sferici della ragazzina. Luna non ne sembrò intimorita, perché continuò, allegra.
“Lei è un ottimo inventore di storie, sa? Il modo in cui ha creato quelle scene… Anche la descrizione del professor Silente era notevole! Non vedo l‘ora che la sua commedia venga rappresentata a teatro, signore!” concluse entusiasta la ragazza.
“Come conosci quel nome, Lovegood?”
“Silente? Bhè, lui è il Preside.. Lo conosce anche lei.. Credo.”
“Non Silente, Lovegood! Evans, Lily Evans!”
“Gliel’ho detto.. Quando sono finita nella Rimenfuga-” attaccò di nuovo Luna, ma s’interruppe subito, non appena vide Piton vacillare e appoggiarsi alla scrivania. Luna lo capiva; anche lei si sarebbe infastidita, se qualcuno avesse sbirciato le sue commedie, ancora prima di terminarle.
Maledizione! Pensò Piton, mascherando l’ira dietro la sua solita espressione arcigna e imperscrutabile.
La Lovegood era caduta veramente dentro al Pensatoio!
Non era stato affatto, un crudele scherzo dell’immaginazione!
Severus Piton si risedette pesantemente sulla scrivania, senza il coraggio di guardare l’eterea quattordicenne davanti a lui.
Maledizione!
Tra tutti i ficcanaso… Tanto valeva che ci finisse dentro Potter!
Fortunatamente, anche se era tutta una faccenda di punti di vista, Luna pensava che ciò che aveva visto fosse finto.
 O meglio, situazioni create da lui per…
Per cosa?
Luna non ci mise molto a fornirgli la risposta.
“… Come volevo dirle prima, trovo che lei abbia creato un’ ottima commedia, professor Piton, signore.”
Piton si sentì scivolare un po’ lungo la sedia.  Ecco perché Luna pensava a lui, come ad un’aspirante Shakespeare!
Doppia Maledizione…
O forse no?
Piton s’impose di rilassarsi un po’, cercando di assumere quell’aria distesa e socievole che ad Albus, a Lupin e a quei simpaticoni dei signori Weasley, veniva così naturale. Voleva che Luna Lovegood si fidasse di lui, e per cercare di rendersela amica, tentò un sorriso.
Luna cercò di non scoppiare a sghignazzare. Harry Potter non aveva torto, a prendere in giro il professore; era davvero brutto!
Piton, ignaro della magra figura che stava facendo con la sua allieva, congiunse le lunghe dita pallide.
“Ecco, Lovegood, preferirei non parlare…”
“Ma lei scrive in un modo meraviglioso … Ha creato un mondo vero, reale…! I personaggi erano così…così…”
“Babbani?” esclamò Piton, sovrappensiero.
‘Oddio’ pensò terrorizzato ‘ricominciano le amnesie e i vuoti!’
Luna lo guardò, interessata e seria come non mai.
“Anche. Perché l’ha ambientata tra i Babbani? Se quel ragazzino avesse vissuto con dei maghi, non avrebbe avuto quei orribili genitori. O quell’orrore di casa. Non mi fraintenda, è una bella storia, ma alcune cose proprio non mi vanno giù e…”
Piton era brutalmente sbalordito, ma cercò d’ignorare le pungenti osservazioni di Luna.
“… non mi è sembrato giusto. Perché Lily Evans ha tutto e..”
“…Alan” le suggerì Piton.
“Alan?”
“E’ il nome del ragazzino.”
‘Un bel nome’ pensò Piton, complimentandosi con sé stesso ‘Forse potrei davvero fare lo scrittore.’ Poi Severus si ricordò con chi aveva a che fare, e cancellò all’istante le sue fantasie letterarie.
Aveva un problema, e intendeva risolverlo.
“Vai avanti, Lovegood.”
Luna annuì e riprese il discorso, infervorata:
“Perché Lily Evans ha tutto e Alan non ha niente? E’ così ingiusto, così egoista.”
“La vita non è giusta, Lovegood.”
Luna chiuse gli occhi, pensando ad una risposta convincente:
“Se i genitori di Alan fossero stati dei maghi capaci, Alan sarebbe stato felice.”
“Alan aveva Lily” mormorò Piton, prima di correggersi :“Lui ha Lily. Cioè, il personaggio. Nella, come dire, commedia” Severus strinse gli occhi, corrucciato. “La finta commedia.. Perché.. Non è reale. Per nulla.”
Luna incrociò le braccia, scuotendo il capo.
“Lily è un’idiota. Sta lì, a piangere su una stupida panchina, mentre Alan affronta suo padre“
“Ma anche i genitori di Lily sono Babbani” commentò Piton “E lei vive in una bella casa e loro la amano. Non tutti i Babbani sono cattivi.”
“Bell’affare. E’ pur sempre una privilegiata piagnona .. Scusi” aggiunse Luna in tono molto poco sognante, intercettando l’occhiata malevola dell’insegnante.
“Lovegood, non capisco. Credi che solo i maghi sicuri di sé, siano perfetti?”  
“Sì.”
‘Ecco’ pensò Piton ‘un’altra Mangiamorte al servizio dell’Oscuro Signore’
“Perché lo pensi?”
“Perché i maghi amano i loro figli. Non ho mai visto un mago o una strega maltrattare i propri figli.”
Nella mente di Severus Piton, affiorò la faccia di Sirius Black e il ritratto di una vecchia starnazzante.
“Non è vero Lovegood”affermò l’uomo, compiaciuto suo malgrado.
Luna sbattè lentamente le sopracciglia, pensando.
“La maggior parte li ama.”
“Ringrazia che sia così, Lovegood. Perché ti vengono in mente certe idee, ragazzina?”
Mentre Luna si sforzava di trovare una risposta, Severus si ripromise di andare il prima possibile,
 a fare una lavata di capo a Xenophilius. Quel pazzo, stava crescendo sua figlia come una seguace dell’elitè Purosangue. Terreno fertile, per le idee dell’Oscuro Signore.
“Perché è così” affermò lei, con l’aria di chi ha  pronunciato una verità incontestabile.
“La madre di Alan …” borbottò Piton “… è una strega.”
“Ma non è una madre” ribattè Luna, sicura di sè  “E’ debole, ed è stata egoista. Ha voluto un figlio e poi l’ha praticamente abbandonato a sé stesso. E Lily non lo aiuta per nulla, non si accorge dei sentimenti di Alan.”
“I sentimenti di Alan?” sbottò Piton, confuso.
Luna sbatté candidamente le ciglia, parlando in tono dolce: “Alan ama Lily, no? E poi, la storia l’ha scritta lei professor Piton! Sono suoi i personaggi! Non cerchi d’ingannarmi, signore.”
Severus Piton, non conosceva la Salsa-Merengue, altrimenti avrebbe associato a quel ballo, il contorcesi delle budella nel suo stomaco.
“Lovegood, ma quanto è durato il tuo… ehm… viaggio, nel Pens..Rimenfuga?”
“Non lo so. Abbastanza. Da quando Alan parla con Silente -a proposito, l’ha proprio fatto uguale a com’è nella realtà!- sotto all’albero, fino al momento in cui lo va a riprendere a casa.”
“E hai capito tutte queste cose?”
“Ehm… Sì. Credo.”
Piton era stupito. Aveva davanti una seria minaccia ai suoi segreti più nascosti e poteva solo sperare, che Luna Lovegood se ne stesse zitta e buona, per il resto degli anni a venire. Cosa che non accadde, perché lei riprese a fare domande inopportune.
“Perché ha scelto di creare una storia così triste?”
‘Ecco, ci risiamo’ pensò l’impassibile pozionista; un’altra che pensava che la sua vita fosse triste e disgraziata.
“Perché..” l’ occhio di Piton, scivolò sulla pendola nell’angolo.
“Lovegood!”
“Signore!”
“Sono le undici. E’ giunto il momento di dissolverti. ”
Luna chinò il capo, raccolse la sua vistosa borsa blu e si avviò verso l’uscita.
Sulla soglia, si voltò:
“Chi è la ragazza misteriosa?”
“Quale ragazza, Lovegood?”
Severus era stanco, non vedeva l’ora che quella giornata finisse.
Ed era stufo di subire interrogatori, intrisi di menzogne.
“La ragazza che scappa dal tetto… Quella con i denti da cavallo…”


Il passato, casa Evans
La nebbia azzurrina si diradò e si materializzò un soggiorno…


“Tunia, tesoro!” la signora Evans, si chinò ad abbracciare la sua figlia maggiore, seguita dal marito.
“Ti aspettavamo una settimana fa, dov’eri finita?”
“Il campo è durato una settimana in più del previsto” rispose gelidamente la bambina.
“Tunia, Tunia, Tunia!” Lily Evans entrò correndo nel soggiorno, gettando le braccia al collo della sorella, che rimase immobile, la fronte corrugata. Petunia non dava segno di voler restituire l’abbraccio. Lily però continuò a sorridere, entusiasta per aver rivisto la sorella.
Severus Piton, adulto, osservò contrito la scena. Vedeva il disprezzo di Petunia riversarsi come aria avvelenata nella stanza, sulla sorella, sui genitori che ignari avevano acconsentito a spedirla in un campo estivo disastrato e su quel ragazzino, l’intruso che in quel momento, faceva il suo ingresso nella stanza.
Severus Piton adulto, osservò sé stesso bambino, mentre si avvicinava a Petunia e la salutava con un basso, rigido: “Ciao.”
Petunia non perse tempo a rispondere al saluto. Alzò il braccio e stampò un rapido ceffone, sulla guancia ossuta di Severus, che indietreggiò, arrossendo.
“Tunia!” esclamò Lily, ma la sorella non la guardò.
“Vattene da casa mia, sudicio insetto!”
“Tunia smettila, chiedi scusa a Severus!” gridò la signora Evans.
“Mi rifiuto, di chiedere scusa a uno serpente che s’infila in casa d’altri.”
“Tunia, ora basta.”
Il signor Evans si avvicinò, afferrò Severus e lo portò fuori dalla stanza, indicandogli con un sorriso triste le scale.
“Lily ti raggiungerà tra poco.”
Il signor Evans tornò in soggiorno, chiudendo fermamente la porta dietro di sé.
Severus Piton adulto, vide il sé stesso più giovane, tremendamente più giovane, avviarsi lentamente su per gli scalini, nel buio.
Mentre il bambino Severus saliva, al piano inferiore, cominciarono le urla arrabbiate del signor Evans e gli strilli lacrimosi di Petunia.
Il bambino Severus, si sentì dolorosamente in colpa e incapace di piangere.


La porta della cameretta si aprì di uno spiraglio.
Nell’oscurità, gli occhi socchiusi di Severus colsero un bagliore rossastro.
“Lily?”
Lily non ripose. Si limitò ad aprire gli armadi, cercando le sue coperte e il suo pigiama. Irritato e dispiaciuto, Severus evocò un fuocherello azzurrino che rischiarò la stanza.
“Smettila, Piton. Torna a dormire.”
La fiammella azzurra si spense di colpo.
“Dove vai?”
“Dormo con Tunia” rispose Lily. Aveva un tono strano, freddo e incurante.
“Ma poi torni?” domandò Severus speranzoso.
Senza aprire bocca, Lily radunò velocemente le sue cose, chiudendo seccamente la porta dietro di sé. Il piccolo Severus, sentì una lacrima, una sola, colorare inesorabile lungo lo zigomo affilato.
Fuori, cominciò a piovere.
Grosse e pesanti gocce, cominciarono a colpire la terra, distruggendo i cespugli e lapidando i bei fiori della signora Evans. Le luci dei lampioni cominciavano a spegnersi mentre la pioggia diventava rapidamente fitta e torrenziale, mutando in tempesta, quando il piccolo Severus, con i suoi vecchi vestiti di nuovo addosso e il libro del ‘Principe Felice’, nascosto sotto al cappotto informe, si avviò verso Spinner’s End.


Il presente, torri di Hogwarts

Severus Piton adulto, si volatilizzò nella nebbia azzurrina, ritrovandosi nel suo nuovo e spazioso ufficio nella torre. Anche lì, come nel Pensatoio, era notte e nell’aria aleggiava il vago sentore delle candele spente.
Severus Piton non voleva tornare nel Pensatoio. Sapeva che cosa sarebbe successo a quel bambino che camminava sotto la pioggia battente, con ‘Il Principe felice’ sotto braccio.
Il bambino sarebbe arrivato a casa, fradicio, soffocato dai rimorsi e dalla tristezza.
Sarebbe entrato in casa e avrebbe visto sua madre a terra, la pelle fredda come quella di una statua con un rivolo rosso, disegnato sul viso come una lacrima, a rovinare il pallore perfetto.
Il bambino, avrebbe corso in cerca di aiuto sotto la pioggia, vagando per le strade invase dall’acqua con i fulmini a colpire le sue grida rabbiose.
Sarebbe passato davanti a casa Evans e, avrebbe visto, in controluce alla finestra, le ombre di due bambine che chiacchieravano con i genitori.
Ma il bambino era troppo arrabbiato, troppo sciocco e troppo Severus, per fermarsi a chiedere aiuto.
Severus Piton sentì le forze abbandonarlo. Sconfitto da un dolore che sempre più spesso, aveva la meglio su di lui, si sedette su uno dei divani e si assopì.
Non si meravigliò, quando nei suoi sogni apparve Lily Evans.
Rimase vagamente stupito quando, intorpidito dal sonno, sembrò scorgere nella penombra, la sagoma di Luna Lovegood che lo esaminava con un’incomprensibile interesse scientifico.

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Capitolo 7
*** La Fata Sprezzante ***


Capitolo Sette

La Fata Sprezzante

“Cavallo in E7”.
La pedina galoppò in avanti, sotto lo sguardo sorpreso dell’anziano mago, spodestando un maldestro alfiere che aveva osato sfidarlo.
Mundungus Fletcher storse le labbra in un ghigno, mettendo in mostra i  pochi denti che avevano il coraggio di sopravvivere nella sua bocca macilenta.
“Eh, Albus, che te ne pare?”
Silente non parve turbato da quell’incubo dentistico, ma accennò un inchino col capo.
“Ottima mossa, Mundungus. Ma temo dovrai ricrederti!”
Silente sfiorò con un cenno la scacchiera e le pedine sembrarono agitarsi, percorse da un’insolita elettricità.
“Regina, avanti!”
La sua  Regina bianca, con grande dignità e uno schiacciante sguardo altero, avanzò a passo di marcia verso il Re di Mundungus, lasciato scoperto dall’incauto alfiere, e lo decapitò con la sua minuscola falce.
La testolina ammaccata del Re, rotolò in grembo ad uno sbalordito Mungundus.
“Hai perso” sogghignò Silente. “Di nuovo.”
“Per mille Doxi! Tu bari, Albus!” esclamò Mundungus, arrossendo violentemente e agitandosi nel logoro cappotto di pelliccia.
“Anche se fosse?” replicò l’anziano mago con un’alzata di spalle e un altro ghigno.
Mungundus scoppiò a ridere, affondando una mano in tasca ed estraendo decine di brandelli di pergamena, su cui si era appuntato una miriade di schemi e mosse certe per vincere a scacchi. Alcune pedine doppie rotolarono fuori dai polsini consunti del suo pastrano.
“E dire che io neanche li ho usati! Sono proprio uno sciocco!” Mundungus riprese a sghignazzare, con le lacrime agli occhi. Silente, con un sorriso divertito, si diresse verso un piccolo armadio a muro arabescato -il vecchio alloggio del Pensatoio- ritornato alla sua originaria funzione di portabottiglie.
“Vino? Brandy? Incendiario?” chiese il Preside passando in rassegna le bottiglie. “O qualcosa di più esotico?” Silente tornò alla scrivania, posando sul tavolo una bottiglia bianca e gialla con delle palme sull'etichetta, decisamente appariscente.
“Che diavolo è, Albus?” chiese Dung, estraendo un bicchiere sbeccato da chissà dove e versandosi una generosa dose del liquido giallino.
“Piña Colada, direttamente dalle Antille. Ne ho prese almeno otto casse, dieci anni fa, quando sono andato in vacanza laggiù,” spiegò con orgoglio il vecchio mago, mentre l’amico ingollava l’alcolico in un unico sorso. “Non ho mai avuto occasione di aprirle. Sorprendente, vero?” concluse Silente estasiato.
Dopo sette secondi esatti , Mundungus si picchiò un pugno sullo sterno, gonfiò le guance e sputò con uno spruzzo il liquore sulla scrivania.
Silente inarcò un sopracciglio, mentre ad un suo cenno, la Piña sputata sulla scacchiera e sulle sue carte, evaporava.
“Se non ti era gradita potevi dirlo. Avrei evitato di aprirla.”
“Ma Albus!” Guaì il poveraccio, “La Piña è un liquore alla frutta! Non si conserva bene come il Whisky, o il vino!”
Silente lo guardò con un’aria carica di disapprovazione. “Ma certo che si conserva, Mundungus… Sei solo schizzinoso.”
“Prova a berla, vecchio mio e poi prova a dirmi ancora se sono schizzinoso.”
Per tutta risposta, Silente trasfigurò uno dei portacarte che ingombravano la scrivania in un calice e con precisione, si riempì il bicchiere di liquore. Poi se lo portò al naso, lo annusò e lo fece ondeggiare nel bicchiere come un sommelier, prima di berlo tutto d‘un fiato.
“Visto?” disse il vecchio mago boccheggiando “Assolutamente deliziosa.”
“Albus, stai diventando verde” commentò Mundungus, gli occhi cascanti resi febbrili dal divertimento.
“Sciocchezze” replicò amabilmente Silente, con una smorfia disgustata.
Il colorito di Albus passò veramente da rosa a verde, fino a stabilizzarsi ad una sfumatura giallo azzurrina, ma Dung ebbe il buongusto di evitare altri commenti derisori.
Silente allontanò la bottiglia in direzione di Mundungus, rifiutandosi di guardarla.
“Potresti rifilarle al vecchio Aberforth. Alla Testa di Porco sarebbero un successone!” poi per un attimo l’espressione di Dung si fece velata, in una parodia di tristezza “Anche se dovrei vestirmi da strega per entrare là dentro.”
“Non so perché dovrei darle via, Mungundus. E’ un’ottima Piña Colada, piena di tutte le qualità che si richiedono ad una tale bevanda.”
Silente squadrò Mundungus con i suoi occhi laser. O almeno, a Mundungus, sembrò proprio così; si era sempre domandato, se il grande Albus, possedesse poteri ignoti ai maghi comuni.
O forse era una semplice sensazione, dovuta alla bottiglia che si era già scolato con il povero Black a Grimmauld Place prima di partire da Londra. Dung avrebbe voluto dire ad Albus di lasciarlo libero qualche volta o Sirius avrebbe davvero dato di matto, chiuso là in quella topaia.
Ma non quella sera. Quella sera si parlava d’affari.
Mundungus si frugò nel logoro pastrano, tirando fuori un mozzicone di sigaro e la bacchetta, con cui se lo accese. Espirò un  densa nuvola di fumo azzurrognolo nell’aria, che veleggiò in direzione di un contrariato Silente, prima di svanire.
“Scusa” tossicchiò Mundungus estraendo dal cappotto, un posacenere incrinato che si appoggiò in grembo, vicino alla testa del Re. Silente squadrò interessato la figuretta puzzolente dell’uomo davanti a lui. “Che fine ha fatto la pipa? Ti sei convertito ai sigari?”
“Già.” Mundungus si lanciò in un tiro profondo del sigaro e quando si fu svuotato dalla nube di fumo che aveva nei polmoni, si mise a parlare in tono molto professionale.
“Allora Albus, sai quanto io e te siamo amici, ma che diamine, suppongo tu non mi abbia invitato qui solo per una partita e un bicchiere.”
“No, infatti. Devo affidarti una commissione.”
“Una commissione? Di che tipo?”
“Un oggetto. Raro. Molto prezioso.”
“Quanto paghi?”
Silente sorrise amabilmente. Molte persone, guardando il Preside sorridere in quel mondo, dicevano di poter comprendere la sua grande benevolenza. Sciocchi. Mungundus sapeva che dietro quell’espressione gentile, si nascondeva una fregatura. Quasi sempre.
“Lo voglio gratis.”
Mundungus ruttò sonoramente e per la sorpresa il sigaro gli sfuggì dalle mani, bruciacchiandogli il cappotto.
“Albus, per mille diavoli, ti piace scherzare!” esclamò Dung recuperando il sigaro.
“Certo che no” replicò amabilmente Silente.
“Albus, io e te siamo amici. Amici di vecchia data, e sai che verso di te nutro la più totale devozione…”
“Mungundus,” lo interruppe Silente, afferrando un brandello di pergamena e cominciando a scrivere, “Certo che siamo amici, non hai bisogno di sorprendermi con voti di fiducia. Ma, dato che siamo amici…” e qui il sorriso di Silente si allargò di un paio di molari, “Non ti dispiacerà farmi un favore.”
Silente spinse il frammento di pergamena verso Dung, che lo afferrò con la mano libera, punteggiata dalle macchie scure del mal di fegato.
“Per i figli di bolide! A che ti serve Albus?”
“Credo che questo non sia affar tuo.”
“Ma ne possiedi già uno!”
“Corretto. Ma me ne serve un altro.”
Lo sguardo rossastro di Mundungus rimase fisso nel vuoto per un po’.
“Niente da fare Silly, troppo pericoloso recuperarlo. Non saprei a chi chiedere.”
Silente congiunse le dita ossute.
“Oh, sì che lo sai Dung. Lo sai benissimo.”
“No Albus, non lo so” disse l’uomo, allungandosi sulla sedia e accarezzandosi la barba con aria professionale. "Puoi trovare qualsiasi cosa. Prendila come una sfida stimolante."
"Un bicchiere del tuo liquore, ecco cos'è stimolante" replicò Dung tossendo fragorosamente. Silente attese in silenzio.
“Duecento Galeoni” borbottò dopo un attimo, gettando il sigaro nel posacenere.
“Gratis” disse sorridendo Silente.
“Centonovanta e sessanta falci.”
Silente mosse il capo, in un irremovibile cenno di diniego.
“Centosettanta. Non uno di più, non uno di meno.”
“Gratis.”
“Cento cinquanta e amici come prima.” 
“G-r-a-t-i-s” sillabò Silente, in tono cortese.
“Cent…” Dung s’interruppe, alla vista di Albus che estraeva la bacchetta e cominciava a lucidarla con un lembo della vestaglia cerulea.
“Per i piedi del Troll. Hai vinto.”
“Me lo dovevi comunque, dopo il guaio con Harry Potter!” disse Silente gioviale, riponendo la bacchetta.
“Era un affare importante…” si giustificò inutilmente l’uomo.
“Non ne dubito, ma me lo devi. A proposito, alla fine ti sei scusato con Arabella?”
Gli occhi iniettati di sangue di Mundungus brillarono fiochi.
“Quando mi sono materializzato sul vialetto mi ha mandato contro i suoi gatti. Quei piccoli sorci stavano per azzannarmi… Ho provato a chiarire con lei, ma alla fine è venuta fuori con una scopa e ha provato a picchiarmi. Grazie al cielo sono riuscito a sfuggirle.”
Mungundus rabbrividì al ricordo.
“Lasciale un po’ di tempo”, commentò placidamente Silente.
Mundungus intascò il foglietto di pergamena, borbottando:
“Chiederò a quel figlio di Bolide di Zerkinski. Sta a Londra in questi giorni, spero di riuscire a incrociarlo.”
“Allora mi affido a te, Mungundus” disse Silente alzandosi solennemente. Strinse la mano dalle unghie annerite dell’amico, fissandolo intensamente. “Niente errori.”
Dung regalò all’alto mago, un ampio sorriso malconcio, avviandosi verso la porta.
“Mungundus, esci dal passaggio dietro lo specchio al settimo piano…”
“Credevo che fosse bloccato!”
“Caro Mundungs, cerca di affidarti un po’ meno alle informazioni dei Weasley. Non hanno sempre ragione.”
Mundungus sbuffò divertito.
“Quei due faranno strada. Forse spezzeranno il cuore ad Arthur con le idee strampalate che gli bazzicano in testa, ma faranno affari d’oro, sì.”
Mundungus abbassò la maniglia e uscì.
“Ci vediamo, Al.”
Silente lo congedò con un cenno del capo, prima di risedersi alla scrivania.
La porta si richiuse, lasciando Albus immerso nei suoi pensieri e nelle prime luci dell’alba che avanzava.

***


Luna Lovegood si era alzata felice quella mattina.
Felice, circondata da un’aura fatta di pura pace e tranquillità; leggera e in totale armonia con il mondo. Una sensazione che la spingeva ad andare in giro come in un sogno, con un sorriso più ebete del solido e gli occhi lucidi. Chiunque, vedendola, l’avrebbe creduta in preda al deliro della febbre.
Luna tuttavia, non notava che la sua felicità interiore scatenava risolini e occhiate più divertite del solito tra i suoi compagni. Avanzava imperterrita per i corridoi, i libri legati con una cinghia violetta all’avambraccio e una piuma dietro l’orecchio destro.
Legate alla cintura, con una lenza recuperata chissà dove, portava delle boccette d’inchiostro in due colori, rosa e turchese.
Decisamente, un soggetto che attirava l’attenzione. Anche se Luna, persa a fantasticare su quello che le aveva raccontato Severus Piton la sera precedente, non sembrava rendersene conto.
Quello strambo insegnante, cominciava a starle simpatico. Silente le aveva pregato di avere un po’ di pazienza; il professor Piton all’inizio sarebbe stato un po’ scostante, le aveva detto, ma con un po’ di pazienza e tatto, non sarebbe stato difficile cominciare a parlaci.
Eppure, sul perché Luna dovesse parlare con Severus Piton però, Silente non si era dilungato.
Luna ricordava con precisione, ogni singola voluta di fumo prodotta dagli strumenti d’argento nello studio del Preside,  ma del discorso che Silente le aveva fatto, non riusciva a rievocare altro che parole confuse.
Solo un concetto le frullava per la mente svagata.
Aiutalo.
Proprio Luna che non aveva mai aiutato nessuno, -escludendo i Plimpi d’acqua giù al torrente, vicino a casa sua-, o almeno, non intenzionalmente. Non aveva alcuna esperienza nell’aiutare il prossimo. Eppure, aveva sbattuto educatamente le palpebre e aveva risposto semplicemente ‘Sì’.
Anche se, a dire la verità, a Luna non era ancora ben chiaro quello che Silente intendeva con ‘aiutare Severus Piton’. Forse parlava della sua carriera di scrittore o, semplicemente dei contatti umani, tutt’altro che numerosi, del bizzarro professore.
Luna, beatamente indifferente al fatto che lei stessa non fosse una campionessa di rapporti sociali, aveva deciso di portare a termine il compito affidatole. Non importava se per aiutare il decollo della carriera del bizzarro tragediografo, avrebbe dovuto obbligare suo padre a finanziare un’impresa teatrale. E non le importava nemmeno l’idea di perdere tempo a stare ad ascoltare i problemi di Piton, se mai l’arcigno professore avesse preso in considerazione l’idea di dirle qualcos’altro, oltre a: ‘Lovegood, dissolviti’.
Luna, persa nei suoi pensieri, e totalmente disinteressata alla lezione di Aritmanzia che avrebbe dovuto seguire di lì a poco, si avventurò fuori, nei cortili del castello.
Scelse la zona del chiostro sotto al grande orologio, uno dei posti che preferiva in tutta Hogwarts.
Non solo per essere libero dai Nargilli e dei Festuliabi,  (bizzarri tronchetti d’albero che si aggrappavano agli stinchi dei passanti, in cerca di feste), ma anche per essere libero da alunni chiacchierini.
A Luna non dispiaceva avere dei compagni vocianti attorno a lei, semplicemente perché le bastava sbattere le palpebre e smarrirsi dentro la sua testa per ignorarli . Eppure, a volte, preferiva allontanarsi fisicamente da tutti.
Ultimamente, le accadeva un po’ troppo spesso, ma forse, era solo la crescita.
Luna si sedette al centro del cortile lastricato, facendo attenzione alla sua cintura di boccette. Dopodiché, sfilò il suo blocco da disegno dalla cinghia e cominciò a disegnare uno degli alberi storti nelle aiuole. 
Non era passata neanche un’ora, che accadde l’irreparabile.

Severus Piton, con la sua solita aura di disprezzo verso tutto e tutti ben evidente sopra il capo, ( ma visibile solo a chi avesse avuto l’ardire di osservarlo con un po’ di attenzione - cosa assai rara), si arrangiò a portare su per  le scale strette e avvinghiate su loro stesse, appunti, pergamene di studenti inetti e due libri di Saggistica Pozionistica a cui aveva personalmente collaborato sotto falso nome.
In precario bilico sopra la pila, ondeggiava il registro nero ricolmo di fogli  neri.
Anche se, a ben guardare, risultavano ricoperti dalla sua fitta e sottile grafia.
Quando l’insegnante arrivò sulla cima della scala, prese un profondo respiro e si maledì, per aver mantenuto la fastidiosa abitudine Babbana di portare in giro le cose senza magia.
Tuttavia, nonostante sentisse la confortante presenza della bacchetta in tasca, non la prese finché non raggiunse lo scalino sotto agli ingranaggi dell’orologio.
Sapeva che un uomo come lui, non aveva certo il tempo di mantenersi in forma andando in palestra, ma compiere quei piccoli sforzi che facevano gemere i suoi muscoli avvizziti, lo facevano sentire leggermente atletico e non così vecchio, come le prime rughe sul viso si ostinavano a ripetergli.
Con fare molto poco decoroso si sedette sullo scalino, senza evocare sedie né altro.
I suoi occhi neri, vagarono un po’ sugli ingranaggi stellati che ruotavano lenti, in un universo meccanico fatto di movimento perpetuo. Si distrasse guardando l’ampia arcata, aperta sul cielo davanti a lui e la fragile balaustra che impediva agli incauti di volare di sotto.
La prima volta era venuto lì con Lily, durante le loro prime perlustrazioni del castello. A quell’epoca, quando erano solo due semplici studenti in Case rivali, per loro era quasi una fissazione trovare posti appartati dove parlare liberamente.
La Torre dell’Orologio pareva perfetta. Isolata, autosufficiente e poco frequentata.
Eppure, da quando Lily era morta, Severus ci era tornato rare volte e sempre da solo (Cosa abbastanza ovvia. Era da  più di trent’anni che la sua vita sociale stentava a ingranare) , per starsene in compagnia dei propri cupi pensieri.
Ma ora, l’alcova nella torre dell’orologio, si era rivelata di nuovo utile.
Quale posto migliore, per starsene in pace a svolgere il proprio lavoro d’insegnante?
Severus Piton, infatti, odiava la sua nuova sistemazione nella torre della zona Ovest.
Certo, i pregi del suo nuovo alloggio erano innegabili; l’arredamento, i locali ampi, la vista eccezionale. Ogni cosa sembrava bella e brillante lassù. Ma quel luogo era troppo nuovo, arioso e pulito, per permettergli di starsene buono e tranquillo. Inoltre, era in zona Guferia, e il continuo svolazzare di quei rapaci, assieme ai loro versacci, aveva finito per procuragli l’emicrania.
Certo, aveva provato a riutilizzare almeno il suo vecchio ufficio, ma a quanto pareva, ora era abitato da un’Elfa Domestica ubriacona che gli aveva lanciato dietro le patate che stava pelando, quando lui aveva provato a riappropriarsi della sua cattedra.
Severus avrebbe voluto andare da Silente e supplicarlo di ridargli i suoi vecchi alloggi, ma ultimamente, il Preside sembrava più concentrato sui problemi dell’Ordine.
O almeno, questo era quello che credeva lo scorbutico Piton. Se solo il nostro arcigno avesse avuto la dignità di utilizzare un po’ di Legilimens sul suo principale, avrebbe visto che la maggiore preoccupazione  del Preside, in quei giorni, fosse smerciare una partita di Piña Colada avariata.
Quanto più lontano dai nobili compiti che il povero Severus, tema di Finch-Flenchtey in mano e bacchetta per le correzioni nell’altra, immaginava.
Severus Piton non sapeva spiegarsi l’astio verso la nuova ‘casa’. Forse, l’aver passato un’infanzia precaria, agevolata unicamente dalla carità di qualche amica, l’usare sempre e solo cose di seconda mano, comprate in negozi dimenticati anche dai clienti più infimi e il continuo conteggiare a cui sottoponeva le sue cellule a fine mese, quando cercava di stabilire quanto aveva guadagnato…
L’avevano reso un amante del vintage.
Vintage…
Gli occhi di Severus si restrinsero a due fessure, mentre afferrava il compito successivo e iniziava a correggerlo con rabbia. Il destino aveva osato sbattere sulla sua strada Luna Lovegood, e ora, grazie a lei,  passava le ore a cercare ironiche e spiritose parole per descrivere la sua vita disgraziata. Com’era possibile che una tale svampita, con le sue inconsistenti ciance da squilibrata, potesse anche solo pensare di friggere il cervello a lui, il nobile, il coraggioso Severus Piton, mago di Hogwarts?
Luna Lovegood era un demone, non c’era altra spiegazione. Aveva il potere di trasformarsi in nebbia, scivolare leggera tra le persone e insinuarsi nelle loro menti, capovolgendo la loro percezione e il loro modo di ragionare. Succhiava loro la vita, rendendoli folli schiavi al suo servizio, creando un esercito con cui avrebbe…
Severus interruppe le sue fantasticherie e si rese conto, con sublime orrore, di due cose; la prima era che la sua visione di Luna-generale-dei folli, non era altro che un plagio tra ’Dracula’ di Bram Stoker, malamente mischiato all’ascesa dell’Oscuro Signore.
La seconda, (e qui, il suo orrore fu ancora più grande) …
Aveva bruciato il compito di Draco Malfoy.
Il quadratino nero, grande come un bigliettino da visita, se ne stava ritto tra pollice e indice, come un soldato obbediente. Unico superstite del doppio rotolo con illustrazioni, consegnato da Draco il giorno prima. Severus guardò la bacchetta, -nera come la sua anima, naturalmente-, ancora fumante.
Dannata Lovegood!
Era colpa di quella squinternata e dei ragionamenti assurdi che aveva insinuato nella mente razionale dell’arguto professore se ora lui, durante i momenti di nervosismo, metteva al rogo i compiti di studenti volenterosi!
Lei, i suoi giochetti di parole, gli occhioni sgranati, i suoi improvvisi e sporadici lampi d’intelligenza sferzante…
Severus Piton osservò il frammento bruciacchiato svolazzare nell’aria, raggiungere l’ampia arcata sul cortile, e disintegrarsi al sopraggiungere di una folata di vento.
Quello sarebbe stato il momento perfetto per una risata liberatoria.
Sarebbe.
Severus Piton, avrebbe potuto ridere della situazione surreale, di quel compito frammentato in pura cenere o di quella ragazza dall’aria sorpresa a cui aveva accettato di fare da balia; o anche solo dei vuoti di memoria, delle visioni e dei sogni che al calare della notte si affrettavano ad inseguirlo.
Ma lui era Severus Piton e aveva una parte, un ruolo ben definito. Non poteva perdere tempo a ridere dietro a cose futili e sciocche, prive d’interesse  per un uomo come lui, impegnato in una personale crociata contro il potere oscuro.
Certo, a vederlo così, di primo acchito, il povero Severus figurava più come un servo, - un po’ sfigato-, al servizio delle diaboliche tenebre, piuttosto che un’anima nobile al servizio del bene.
Ma lui non aveva certo tempo per pensare al proprio aspetto.
Severus Piton scosse la testa, mentre la frustrazione lo assaliva di nuovo, potente e snervante.
Alzò lo sguardo verso l’arcata, gli ingranaggi scricchiolanti dietro di lui.
Il compito di Vincent Tiger cominciò a bruciacchiarsi leggermente, ma Severus Piton era ormai lontano mille miglia dal preoccuparsene.
Lily Evans, quindicenne  più bella che mai, appoggiata distrattamente alla balaustra, occhi chiusi e capelli fluttuanti nel vento, ascoltava l’incessante ticchettio dell’orologio.
Un’altra allucinazione.
O un’altra Lovegood?


A ventisette metri di distanza in linea d’aria, sul selciato antistante la Torre dell’Orologio, Luna Lovegood benediceva il suo blocco da disegno con l’inchiostro nero.
Cercava di disegnare Alan, il piccolo eroe della tragedia del professor Piton. Aveva deciso di dare anche un‘ambientazione al suo disegno cosicchè il ragazzino sulla tela, la fissava dalla carta ritratto in una posa torva e scontrosa, appoggiato alla balaustra della torre orologiaia. Vicino a Luna, sparsi sul lastricato, giacevano come giornali abbandonati, schizzi di alberi, scorci del chiostro e un tentativo di nuvola vaporosa. A dominare il caos, la cintura di lenza, completa di boccette, parzialmente nascosta dal compito di Incantesimi.
Luna Lovegood sedeva ritta come un fuso, gli occhialetti giallo fluorescente -trovati in una delle numerose tasche della borsa-, ben calati sul naso e un sorriso plastico ben impresso sulle labbra.
Chissà come sarebbe stato sorpreso, Severus Piton, quando gli avrebbe mostrato il suo disegno!
L’ avrebbe sicuramente supplicata di partecipare al progetto, in qualità di scenografa. Luna non aveva dubbi; anche se era un po’ presuntuoso ammetterlo, intuiva che il professore la teneva in alta considerazione; un’alunna amabile e molto diversa dagli altri studenti, quelle teste di legno che aveva incontrato sul suo cammino.
Mentre sfregava un mozzicone di carboncino sui contorni, cercando di non macchiare l’inchiostro umido, Luna osservò i tratti di Alan. Avevano qualcosa di familiare e interessante insieme. Quell’espressione corrucciata, le sopracciglia aggrottate e la pelle sottile tesa sulle ossa affilate, in un muto segno di sfida. Luna lo ricordava proprio così. Quel disegno era esatto al novanta per cento all‘immagine nella Rimenfuga, e ritraeva  qualcosa che lei aveva già visto… Qualcuno…
 “Lunatica.”
Luna alzò lo sguardo dal disegno annerito. Non tirava una gran aria di buono, avrebbe detto lo strano ragazzo Weasley. Ma nessun Weasley era lì con lei, quindi Luna non aveva la certezza matematica di quello che avrebbe detto Rupert Weasley se fosse stato lì. Aveva solo le sue boccette d’inchiostro nella cintura di lenza, che ora se ne stavano strette strette, nel pugno di Draco Malfoy.
“Furettus” lo salutò Luna con un sorriso dolce. Si tolse gli occhialetti e li agganciò alla collana di tappi, aspettando.
Il ghigno perfido del biondo, si restrinse di un paio di molari. I suoi scagnozzi corrucciarono ulteriormente le loro smorfie minacciose, per evitare di ridere.
Sotto i loro sguardi arroganti, la ragazzina appoggiò il blocco da disegno, si rialzò con un saltello, piroettò sul posto e tese la mano.
“I miei inchiostri, prego.”
“Non così in fretta, Loony Moony”  sibilò Malfoy con un sorriso gelido, degno dei migliori antagonisti.
Luna colse un movimento sulla balaustra. Troppo improvviso e nero, per distinguere alcunché.
“Che diavolo guardi?” grugnì lo scimmione numero Uno.
Gregory Goyle, a giudicare dalla faccia da orango.
“Perché non sei sul tuo banano?” domandò Luna in tono cortese. Goyle emise un verso storto. Fu l’altro scimmione a rispondere.
“Banano sarà tuo padre, spostata!”
“Siamo in Scozia, non ci sono banani, piccola Lovegood” disse Malfoy con la sua voce strascicata, rabbrividendo alla rozza risposta del suo sgherro. Si ripromise di scegliersi spalle più brillanti per il suo futuro da intimidatore. Un Mangiamorte  affiancato da cobra spietati, faceva molta più paura di un buffone in nero circondato da ippopotami scemi.
“Non confondere le idee hai miei…amici…” mormorò il biondo.
“Temo siano già confusi abbastanza, Furettus” Luna roteò vistosamente gli occhi, pensando: “Ora, prego, rivorrei i miei inchiostri.”
“Cancellati da quella sudicia bocca mezzosangue quel ridicolo nomignolo!” sbottò Malfoy. Era davvero stufo. Sentirselo dire una volta al giorno era già abbastanza; il suo orgoglio era stato fin troppo vessato.
Luna sorrise conciliante, prima di rispondere meravigliata e piacevolmente sorpresa, da un‘inattesa scoperta.
“Guarda Malfoy, le tue orecchie sono rosse come quelle di Weasley. Siete parenti?”
“Mezzosangue!” ululò Malfoy “Sudicia impertinente!”
Gli occhi bulbosi di Luna si restrinsero; le palpebre si abbassarono come serrande di un negozio a metà pomeriggio. Le sopracciglia si agitarono, corrucciandosi all’ingiù verso il centro.
L’espressione più cattiva che Luna riusciva a fare.
“Sono più Purosangue di te, Malfoy. Rivolgi i tuoi insulti ai galoppini che ti porti appresso o a quel carlino che ti corre dietro quando piagnucoli.”
Sul chiostro calò il gelo.
Persino Tiger e Goyle, avvolti dal loro Mantello dell’ottusità -metaforicamente parlando-, si erano accorti del tempestivo cambio di direzione. Avevano creduto che fosse Malfoy a condurre il gioco, ma a quanto pareva, la platinata pazza sapeva il fatto suo. I due scimmioni non sapevano che cosa avesse detto di preciso, ma l’espressione sprezzante di Loony Moony la diceva lunga.
“I miei inchiostri, prego.”
Malfoy le si gettò addosso se una mano robusta non l’avesse trattenuto. Il gesto sorprese infinitamente i suoi schernani che benchè ottusi e poco interessati al resto del mondo, si erano abituati più a un Malfoy vagamente codardo e più portato per offendere a parole che fare a botte. Quando questo pensiero attraverso loro la mente vuota, tesero le braccia simili a prosciutti per trattenerlo.
“Che diavolo fai, Gregory? Lasciami!”
“È una ragazza non…”
Malfoy indietreggiò, scostando arrabbiato la manona di Goyle.
“Non è una ragazza. È una psicopatica, praticamente nessuno.”
Luna non sembrò udirlo; pareva più concentrata su un qualche punto della Torre dell’Orologio, come se il trio davanti a lei fosse solo parte di uno sfondo.
“Andiamocene” ordinò Draco con tonop imperioso, tradito dal viso furente.
Draco era a metà strada verso la porta quando, con uno scatto fulmineo, lanciò lenze e boccette d’inchiostro verso Luna. I contenitori di vetro arrivarono quasi a tre centimetri dalla faccia della loro proprietaria, prima di esplodere. Luna fece in tempo a vedere Malfoy che riponeva la bacchetta, prima di venire oscurata da un caleidoscopio confuso di rosa e turchese.
Con le mani sugli occhi in fiamme, sentì solo i passi controllati del ragazzo che si avvicinava, raccoglieva qualcosa -una pergamena- e la scrollava nell’aria.
“Questo lo tengo io, Lovegood. Chi è? Il tuo ragazzo? Povero sfortunato.”
Luna non rispose; se fosse stata Ginny Weasley gli avrebbe spedito contro una fattura Orcovolante.
Se fosse stata Hermione Granger, sarebbe stata l’occasione per un bel pugno.
Ma lei era Luna Lovegood, troppo folle e decisamente troppo superiore, per replicare ad una provocazione di quello sfiduciato di Malfoy. O almeno, questo era quello che lei amava pensare accasciata a terra cercando di ripulirsi dal colore.
“Se per caso ti interesserà riaverlo, ti basterà un cenno. Un cenno e qualche informazione su dove tu e i tuoi amichetti Tassorosso, Corvonero, Grifondoro e Potter andate a imboscarvi alla sera, nei corridoi del quinto piano.”
I passi si allontanarono.
Passò un po’ di tempo e Luna rimase lì, inginocchiata tra i fogli. Avrebbe potuto usare un ‘Tergeo!’ per darsi una ripulita ma era troppo intenta a riflettere su quanto sarebbe stata dispiaciuta nell’andare dal professor Piton a mani vuote. Ci teneva parecchio a quel disegno; poteva essere un trampolino di lancio per la carriera di scenografa.
Dopo un po’, la ragazzina riuscì a cogliere il bagliore del sole; filtrava incerta tra la patina lilla che le annebbiava la vista. Luna finalmente poteva vedere, appena in tempo per ammirare il maligno e freddo vento scozzese spargere i pochi fogli rimasti attorno a lei. Luna li lasciò volar via, tra le colonne dei chiostri e l’edera che copriva il lungo ponte di legno. Poi raccolse la borsa e inforcò gli occhialetti gialli saltellando verso l‘ingresso.
Un po’ meno entusiasta del solito, però.



Bene. Ecco, in veste di autore di questa storia, vi devo comunicare un piccolo impiccio di carattere tecnico. Dobbiamo fare un leggero saltello indietro. Tranquilli, ancora non siamo ai flashback strappalacrime di Severus Piton.  Si tratta solo di una faccenda di pochi minuti. Non vi dispiace, vero?
Bene. Facciamo finta che questo sia un lettore DVD.

Ora premerò REW (<<),  per una manciata di secondi diciamo, e andiamo a vedere perché Luna sembrava tanto interessata alla sommità della Torre Orologiaia….



“No, non di nuovo!” gemette Severus Piton rimettendosi in piedi. Barcollava un po’ troppo però; come se avesse passato la sera a bere Whiskey Incendiario senza mai alzarsi dalla sedia.
Piton abbassò lo sguardo, affrettandosi a raccattare le sue cose e a reimpilarle.
“Lovegood, allontanati da quella balaustra o cadrai di sotto. Hai già rischiato un paio di volte di morire in mia presenza, e forse questa volta potrebbe essere la volta buona.”
“Lovegood?”
“Senti stupida sciocca, non giocare all’allucinazione con me. Non sono dell’umore e come ti dovrebbe insegnare la mia reputazione e la prima impressione che suscito negli studenti normali, non lo sono mai, perciò…” Severus alzò lo sguardo astioso che l’aveva tanto aiutato a costruire la sua fama di acido bastardo. E si bloccò all’istante, inebetito.
Maledetti i ratti di Stockbridge. Quella non era Luna Lovegood.
Forse era un’allucinazione più convincente del solito ma, diamine, non poteva essere Luna Lovegood.
Quella era Lily Evans, quindicenne e arrabbiata.
Gli occhi verdi mandavano lampi, la posa -braccia conserte e spalle curve in avanti, pronta a lanciarsi per combattere chi la offendeva…- , quella era Lily.
“Non so di cosa stai parlando Sev, ma faresti bene a spiegarti.”
Un brivido incerto scosse la schiena inarcata di Piton. Anche l’ultima volta, era stato sicuro di aver visto la vera Lily, prima di abbracciarla e ritrovarsi con un’alunna dagli occhi a palla davanti.
Ma questa volta…
Qualcosa nello sguardo e la mancanza di quell’aura che sembrava classificarla come allucinazione…
Ecco cos’era, Lily s’integrava alla perfezione nel paesaggio. Sembrava corporea e realistica, tanto da avere delle piccole macchie d’inchiostro sulle dita come se avesse scritto tutto il giorno, o il piccolo taglietto sulla guancia, appena appena visibile. I vestiti erano spiegazzati, come se li avesse indossati tutto il giorno, seduta tra scomodi banchi di legno. Il nastro nero tra i capelli era sgualcito ad arte. O era quella vera, o era un’ultima copia.
“Cosa sei?” sussurrò Piton, avanzando di un passo.
“Lily Evans, la tua amica, Sev. Te lo devo ripetere ogni volta?”
“Tu sei…”
Lily s’incupì e lo guardò interrogativo, poi come se avesse trovato un’improvvisa soluzione, un sorriso le illuminò il volto.
“…Qui con te!”
Sospetto. Molto sospetto, pensò Severus. Questa Lily era un po’ smielata. ‘Qui con te’ sapeva troppo di fasullo. Dannazione, se James Potter fosse stato ancora vivo avrebbe potuto incolpare lui, per quelle fantastiche apparizioni disgraziate.
“Già, sei tu” borbottò Severus.
“Ti avevo detto di venire qui prima, ma come al solito sei in ritardo. Volevo davvero che tu lo sapessi!”
Lily  congiunse le mani e allargò il sorriso.
“Abbiamo un invito alla festa di Lumacorno!”
Sospetto. Severus Piton aveva partecipato ad una sola festa di Lumacorno e ci era andato solo grazie a Lily. Sapeva benissimo - e anche Lily, quella vera- che per quanto lui fosse dotato in Pozioni, il caro Horace non l’aveva mai invitato né alle cenette, né a festicciole di alcun genere. E l’unica a cui era andato, non era certo finita a rose e cherubini…
“Odio le feste” disse meccanicamente Piton
“No che non le odi! James…” l’allegria indisponente nella voce di Lily, traspariva come un gioiello in vetrina, alterando il suo amico. Piton passò dal suo colorito pergamena ad un’elegante texture color barbabietola. Furioso all’idea che anche le allucinazioni realistiche si facessero beffe di lui con l’odiato nome del rivale, tirò un calcio alla pila curata dei suoi carteggi da insegnante.
La pila di carte traballò e così il registro ancheggiante sulla sommità, ma  non cadde. A quanto sembrava, anche i fogli e i temi dei suoi alunni lo reputavano un fallito poco forzuto.
“James Potter è morto, Lily! E anche tu” sibilò Piton, incattivito. La gelosia lo rendeva ancora più crudele e acido del solito e s’intristì. Quello che aveva detto era davvero orribile. Abbassò il capo, finchè la ragazza non rispose.
“Certo. Certo.”
Lily si girò e con uno scatto fece per lanciarsi giù dalla balaustra. Una caduta di venti metri sul lastricato, che non ci fu.
Lily voltò il bel viso verso Severus che la tratteneva per il braccio. L’uomo aveva la faccia sorpresa; Lily era fatta di ossa, carne e un cuore che batteva. Era umana, nel senso tangibile del termine. Niente allucinazioni, niente trucchi; era corporea. I due rimasero fermi, a fissarsi per lunghissimi istanti, attraverso le ciocche confuse che ricadevano sul viso di entrambi. Severus non poteva fare a meno di sentirsi vecchio e brutto di fronte a quella ragazza leggiadra che un tempo e un paio di realtà indietro, era sua amica. Lo era ancora forse, ma in modo del tutto diverso.
Poi il silenzio ticchettante si spezzò …
“Lunatica.”
A fatica Piton distolse lo sguardo da Lily e guardò giù nel chiostro. Impossibile non riconoscere i contendenti. Malfoy, piccola testa platinata col fisico da fiammifer, aveva parlatoo. Tiger e Goyle, due noci di cocco sopra montagne di carne.E Luna Lovegood.
Lovegood. Severus si esentò dal descriverla, ormai la vedeva troppo spesso.
“Lovegood” sussurrò Lily accanto a lui, il volto oscurato da un‘ombra.
Severus tornò a crogiolarsi negli occhi smeraldo.
“La conosci?” domandò stupidamente.
“E’ il nome che hai pronunciato prima, Sev. È la tua nuova amica?” Lily sorrise leggermente. Un sorriso troppo stucchevole e maledettamente tirato. Così diverso…
“Affatto. Cosa avrei mai da spartire con quella sciocca?”
“Sciocca? Giudizio pesante per qualcuno che non conosci, Sev!” Lily ostentò un’espressione fintamente imbronciata. "Mi stai forse mentendo, amico mio?”
Severus avrebbe negato volentieri, ma era troppo preso a seguire lo scambio d’insulti giù nel cortile.
“Mezzosangue! Sudicia impertinente!”
“Senti senti Sev… ti sei trovato un’altra amichetta Mezza…”
“Sono più Purosangue di te, Malfoy. Rivolgi i tuoi insulti ai galoppini che ti porti appresso o a quel carlino che ti corre dietro quando piagnucoli.”
Severus si accorse di provare ammirazione per quella squinternata che sapeva il fatto suo. Luna aveva zittito Malfoy…
“Direi proprio di no” sussurrò Piton a mezza bocca.
“Sei un bugiardo, Sev. Un’insignificante, sciocco bugiardo.”
Piton si voltò verso Lily, squadrandola.
Ora aveva capito chi era quella Lily. Anzi, a quale fase della sua breve vita corrispondeva.
“Sparisci Lily. Ora non abbiamo proprio nulla da dirci. Non così come sei ora, comunque.”
Lily storse il viso in un ghigno. Sembrava una malefica fata irlandese, intenzionata a spaventarlo e a renderlo insicuro e traballante come un budino; ma Sev ormai ricordava. Aveva odiato quell’atteggiamento di Lily all’epoca e ora sentì l’antico astio riemergere. "Parli ancora per enigmi? Povero contorto Sev. Eppure continuavi a lamentarti su come eri incompreso e triste!"
Piton sentì la sua faccia chiazzarsi di rosso. "Non l'ho mai fatto!"
Lily assunse un'espressione derelitta e affranta. "Vuol dire che hai rotto le scatole solo a me? Oh, Severus, quando ti deciderai a crescere?"

Cercando di vincere la vergogna e il dispiacere bruciante, Piton disse: “ Quando hai compiuto quindici anni tu sei cambiata, Lily Evans. Pertanto, vattene Lasciami solo.”
 “Sev non essere…” Lily guardò oltre la balaustra, distogliendo lo sguardo dall’amico che continuò a parlarle, sempre più amareggiato, incapace di accorgersi dell‘indifferenza di Lily.
“Quella che sei adesso non ha mai avuto niente da spartire con me, Lily Potter.”
Inaspettatamente, Lily allargò le braccia e rise. Una risata di pochi secondi con un tono frivolo e canzonatorio che non le era mai appartenuto.
“Solo una cosa Sev…” gli occhi di Lily brillavano di gioia, mentre fissava qualcosa a ventisette metri di distanza da loro.
Lily indicò con un cenno il cortile, appena in tempo per vedere l’esplosione di molte boccette d’inchiostro in faccia alla Corvonero. Severus Piton vide Luna Lovegood cadere a terra con le mani sugli occhi, cominciando a sfregarli energicamente. Era forse un singhiozzo quello che l’aveva piegata? Severus aprì la bocca e fece per gridare ma si bloccò. Allungò un braccio verso Luna, ma si rese conto che ventisette metri erano davvero troppi per una stretta di conforto. O una pacca d'incoraggiamento sulla spalla.
“Che disdetta. Peccato tu non fossi lì ad aiutarla” commentò Lily con maligna cordialità.
Severus Piton, incattivito, fece un passo verso la porta ma un sospetto lo fermò.
“E’ opera tua?” chiese, piano.
“Non ho questo potere. Sono solo una studentessa del quinto anno Sev, proprio come te. E non farei mai del male a qualcuno tanto inferiore…”
La voce le era tornata dolce e tranquilla piena di comprensione, carica di promesse d’amicizia.
“Non ti credo.”
“Credici Sev. Così va il mondo e tu lo sai meglio di tutti, vero?”
Piton si girò a fronteggiarla.
“Lo sappiamo entrambi, Lily.”
Lily storse il naso, alzando gli occhi al cielo. Severus aveva il timore che quella conversazione non avesse nè capo nè coda. “Può darsi, ciò non toglie che la tua nuova amica è in difficoltà. Muori dal desiderio di aiutarla, vero Sev?”
La ragazza avanzò verso di lui, i capelli più rossi e danzanti che mai. Quindici anni.
Era la Lily Evans perfetta e meravigliosa. La ragazza che aveva fatto voltare più di uno studente per i corridoi, quando aveva deciso di staccarsi da quel piccolo sfigato chiamato Mocciosus ed entrare di diritto nella cerchia dei ragazzi più osservati, studiati e brillanti. Quei ragazzi tanto ammirati che nei sette anni in cui avevano corso tra le mura di Hogwarts, avevano lasciato un segno indelebile nella memoria di tanti. All’età di quindici anni, Lily Evans aveva raggiunto il fulcro splendido della parabola della sua breve vita. Inconsapevolmente, si era trasformata nell’oggetto del desiderio, nell’unica soluzione per la brama di possesso che aveva sconvolto il giovane Piton. Un sentimento così diverso dall’affetto e dal senso di protezione e amore silenzioso che aveva governato, prima di allora i rapporti di Severus adolescente con Lily.
Ancora adesso, quando Severus adulto ed insegnante sognava Lily, la ricordava con quell’aspetto, con quegli occhi e con quella sfolgorante bellezza di adolescente.
Tuttavia, quella Lily quindicenne -anche prima della comparsa del Pensatoio- non gli aveva mai parlato nei sogni.
E quando l’aveva fatto in vita, gli aveva sempre, letteralmente, massacrato il cuore.
Ora, quella Lily era di nuovo davanti a lui. Severus rimase immobile nonostante una vocetta, - simile a quella di un certo Preside- urlasse dentro di lui.
‘Aiuta Luna, lei è come te! Ha bisogno di qualcuno, ora più che mai…’
Lily si alzò sulle punte, mani dietro alla schiena, avvinandosi quel tanto che bastava per sussurrargli crudelmente:
“E tu Sev? Mi hai aiutato, quando sono stata in difficoltà?”
‘Sciocco! Corri a dare ‘Troll’ a Malfoy e a togliergli ottanta punti!’
Ma Severus era lontano anni luce di consigli della sua odiata coscienza Silentiana. Esistevano solo lui e Lily, e gli ingranaggi ticchettanti, compagni del tempo rarefatto attorno a loro. Severus doveva risponderle, ma l’espressione atterrita e sconvolta dell’insegnante la diceva lunga. Piton non si sforzò nemmeno di cambiarla. E Lily sfoggiò uno sguardo vittorioso.
“No che non l’hai fatto.” Lily ricadde sui talloni “Hai preferito immolare la mia famiglia all’altare della tua stupidità e del tuo egoismo.”
Severus Piton non rispose. Era la verità, la futile, amara, ovvia, banale, dannata verità. La compagna morale e odiata di tutta la sua vita da doppiogiochista. Per quei trent’anni e più le aveva corso a fianco, ma mai una volta che s’incrociassero. E anche adesso, Sev pensò a un modo di sfuggirle.
Ma non lo trovò.
Lily si passò un dito sullo zigomo, proprio sul taglietto rossastro.
“Io sono un ricordo Severus Piton, un ricordo bloccato nel tempo e nella tua memoria. Nella tua memoria dalle mille risposte e dai mille sentimenti da poveraccio, purtroppo. Avrei davvero preferito un luogo più confortevole… l’altare dorato su cui mi hai posto nei tuoi pensieri è così orribile!”
Lily rabbrividì  aggiustandosi il fiocco tra i capelli. L’espressone tanto dura da avere la meglio sui suoi tratti gentili.
“Gli altri ricordi mi sussurrano cose… Mi rivelano la verità…” Lily ora aveva uno sguardo da folle, ancora di più dell’ingenua pazzia di Lunatica Lovegood.
“…Mi hanno rivelato la mia fine, Severus Piton, la mia fine… quella che tu, piccolo egoista insulso hai scelto per me…”
“Io non ho scelto niente per te!” sbraitò Severus, travolto da un‘impareggiabile tristezza.
“Oh, sì che l’hai fatto Severus Piton, da quando hai spiato dal buco di quella serratura.”
Lily rise perfidamente, socchiudendo gli occhi: “E non sto parlando di quella volta a casa mia!”
Severus Piton divenne talmente violaceo, da somigliare ad una melanzana coltivata ad Algeri.
Prima che potesse trattenersi, l’antico odio, l’antica furia e il dolore, tornarono a galla, e guidarono il suo braccio; Severus spinse Lily che indietreggiò verso la balaustra. La spinse ancora e ancora, gli occhi neri riflettevano le fiamme dei capelli di lei.
Lily si trovava ormai con la schiena contro la bassa balaustra, ma continuava a sorridere beffarda.
“Buttami giù, Severus Piton. Per una volta, impegnati in prima persona, invece di fare il viscido e lasciare tutto agli altri.”
Severus stava per toccarla, ma appena la sfiorò si accorse di quanto fosse fragile ed evanescente. Lily Evans stava tornando nel mondo dei morti o nel qualunque dannato posto da dove fosse sbucata.
“Come temevo, mi hai fatto uccidere, ma sei solo un piccolo inetto, incapace di fare le cose da solo. Sei una delusione, il che non è una novità…”
“Perchè…?” gracchiò Severus.
“Perché voglio che tu mi lasci in pace Severus Piton. Non volevo essere disturbata da te in vita, né tantomeno da morta.”
Con il soffio di una risata di scherno, Lily si gettò indietro. Il suo corpo non incontrò la resistenza della balaustra, era ormai puro spirito.
Severus la vide cadere e solo con un po’ di spinosa volontà trattenne un grido.
A metà della caduta, Lily Evans si dissolse nell’aria, lasciando un vago sentore di gigli e un Severus sull’orlo di quelle che noi chiameremmo lacrime, ma che lui preferiva definire effetto collaterale di una non meglio precisata causa.





Ciao a tutti!
A scanso di equivoci, sappiate che questa storia è stata prima pubblicata su Acciofanfiction. Ho deciso però di revisionarla e quindi eccola arrivata e corretta su EFP! Quindi, vi consiglio di leggerla qui..
Ho notato che faccio e facevo davvero cumuli di errori!
Mancano ancora due capitoli, ma tempo quattro giorni e comincerò a caricare gli 'inediti. Ringrazio tutti coloro che mi leggono, è un piacere ricevere messaggi positivi e di sostegno.
Passate un Buon Natale, anche se a me come festa, non mi solletica particolarmente... ^__^
Saluti!
Exelle




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Capitolo 8
*** Fletchermania! ***


Capitolo 8
*Fletchermania!


Le gocce dai colori turchesi, rosa e di uno strano violetto primula, macchiavano il pavimento, gocciolando dal leggero vestito di Luna Lovegood, decisamente inadatto per un giorno di novembre. E ancora più inadatto per vagare silenziosa tra i gelidi corridoi di Hogwarts poco prima del coprifuoco.
Indifferente al richiamo dei due annoiati e rassegnati Prefetti Corvonero, - “Lovegood, per l’ennesima volta, non usc…”-, Luna era corsa via, lontana dalla sua Sala Comune, sotto lo sguardo severo del Pennuto Inquisitore.
L’obbiettivo?
L’ufficio di Severus Piton.
O meglio, il suo proprietario; per quanto Luna ammirasse la nuova sistemazione del suo nuovo 'amico',
- termine quanto mai improprio per descrivere il loro rapporto-, non poteva non dire di essere decisa a cercarlo solo per la sua elegante e ariosa sistemazione. No.
Non era turbata per l’aggressione di Malfoy. Anzi, l’aveva seppellita nei recessi della sua mente come unico collegamento in relazione alla sparizione del disegno di Alan. Avrebbe dovuto mettersi al lavoro e farne un altro, ma ogni volta che prendeva la penna in mano la mano iniziava a tremarle.
Non sarebbe mai riuscita a farne uno uguale, qualunque suo tentativo sarebbe stato solo una pallida copia.
Forse aveva solo di chiedere consiglio al suo scontroso, ombroso e poco socievole insegnante.
Così eccola qui, Luna Lovegood, saltellate e più Loony che mai, alla ricerca di una parola schietta per ritrovare la sua ispirazione perduta…

Da brava autrice versatile ed egocentrica quale sono, concediamoci qualche attimo nel presente della storia, seguendo la giovane eroina, crogiolandoci nelle descrizioni e nell‘immediatezza del dialogo…
(Scusate le mie ingerenze nel testo, ma ultimamente ho un sacco di problemi e avere delle digressionisenza senso e scopo nel bel mezzo della storia è un po’ una terapia).


Luna corre per i corridoi. La strada la conosce; già la prima volta che è venuta in quest’ala del castello ha esplorato tutti i percorsi possibili per raggiungere la torre dell’insegnante di Pozioni. Conosce gli arazzi, le finestre e le statue. Riconosce i personaggi nei quadri e loro riconoscono lei. Alcuni la salutano con inchini, altri con risate e applausi. Alcune dame imbellettate, nascondono le loro smorfie di orrore dietro ai ventagli, alla vista dei capelli di Luna. Quei capelli gocciolanti, simili a piante marine.
Luna sembra un anemone girovago, ma la cosa le è indifferente. Non s’interessa a sciocchezze come il decoro, lei.
Sale una scala, rapida e scattante. Fa gli scalini due a due. Ogni quattro scalini una giravolta, ogni giravolta un applauso.
Gli occhi bulbosi non esplorano i soffitti invasi dall’oscurità, né le armature cigolanti sui piedistalli di marmo. Luna corre per Hogwarts, ma è da un’altra parte. I suoi piedi percorrono una strada ignota alla sua mente, occupata a riflettere su cose che lei ritiene più importanti e fondamentali.
Pensi a Malfoy, Luna? O al sorriso triste di Alan? O al modo in cui le figure sulle vetrate piangono quanto piove?
Forse ci sbagliamo, perché ora Luna non pensa.  Fa quello che le sensazioni le dettano. Ora può, non c’è nessuno, a parte le figure bidimensionali sulle pareti, a giudicarla…
Ha delle scarpe Babbane. Sono un regalo, una rarità trovata da Øefus Fefferl, un collaboratore neozelandese di origine ebraico-norvegese di suo padre. Per lo più lavora sui servizi in arrivo dal Godswana, ma a noi questo non interessa.
Sono stivaletti grigio topo con le frange. Un accessorio alquanto improbabile con la veste nera simil-Piton che Luna si è pazientemente cucita…
Ecco, gli stivaletti finiscono in una losanga di luce, sufficiente ad illuminare anche il viso della loro proprietaria. E’ il solito viso di Luna Lovegood, risplendente di rivoli turchesi e lillà. Gli occhi bulbosi sono arrossati, le iridi argento alienate in reticoli carminio.
I capelli hanno smarrito il loro colore biondo pallido. Ora sono degni di un’acconciatura punk, se solo Luna avesse una vaga idea di acconciatura punk, o del punk in generale.
Sembra una banshee, per tenere il paragone sul mondo magico. Una banshee piccola, matta e per nulla paurosa. Altro che il Molliccio di Seamus Finnigan…
Smettiamo di seguire Luna che corre. Vederla da fuori è uno spettacolo assai divertente, ma inferiore, rispetto a quello che le gira adesso in testa.
Immaginiamo di solcare quelle ciocche turchesi e rosate e di addentrarci nel mare tempestoso dei suoi pensieri svitati…
Stump!
Ahia. Chi l’avrebbe previsto che scivolando nella mente di Luna Lovegood, saremmo letteralmente scivolati? Come Alice nella tana del Bianconiglio.
Come bambini dal ciglio di un dirupo.
Come curiosi poco rispettosi.
Siamo al buio. Non sappiamo quanto sia grande questa stanza, né se è davvero una stanza.
Curioso. Ci aspettavamo prati verdi e sole perenne, ma qui c’è solo una strana e pressante notte.
Avanziamo nel silenzio e scintille  blu cominciano a filtrare nel nero. Scintille insignificanti come porporina, nel nero puro che ci avvolge. Le scintille ci girano attorno, incuriosite dalla nostra presenza estranea. Solo quando si avvicinano le vediamo per ciò che sono.
Scarabei dalla corazza di opali e d’oro; impossibile trovarli su un qualunque libro, magico o Babbano che sia. Abitano solo nella testa di Luna Lovegood, con le loro alette nascoste e le dodici zampette affusolate.
Gli scarabei formano una scia luminosa. Seguiamoli.
Chiudete gli occhi e ascoltate. Da qualche parte c’è una donna che canta.
C’è anche una melodia, ripetitiva e tremendamente nostalgica. Non sembra prodotta da strumenti normali. Percussioni di un cuore che batte e corde di lacrime di gioia, mosse dal vento. Strumenti curiosi, anche per l’immaginazione di Luna Lovegood. Anche se non la vediamo, quella donna è intorno a noi e ci osserva come osserva sua figlia. Quella donna è la madre di Luna.
C’è una casa vicino al ruscello. Alcuni Plimpi pattinano tra le increspature, ma non possiamo fermarci, dobbiamo andare verso quella casa maestosa e sbilenca che ci nasconde il sole.
Non sappiamo di chi sia, né da dove sia apparsa, ma è lì.
Non sapremmo nemmeno dire da quale sogno sia uscita. Forse un incubo vittoriano, un sogno disperato e confuso. Un palazzo dei desideri caduto nell’oblio.
La cupola di vetro che protegge le serre sul retro è sfondata, e più ci avviciniamo al portico circolare e più i cocci che costeggiano il vialetto diventano grandi e aguzzi. Mancano molte tegole e alcune travi spuntano fuori, come frecce scagliate da giganti arrabbiati. Ci sono due alberi torti vicino all’alto cancello arrugginito e alle sue volute. Sui rami degli alberi,  sono legati nastri e campanelli e riposano alcuni uccelli del paradiso, avvolti dai loro colorati piumaggi.
Le finestre sono chiuse da assi inchiodate alla rifusa. Sul lato sinistro, un rampicante dai fiori arancioni e bianco-verdi cerca di prendere il possesso della facciata.
I camini respirano nuvole dense di porpora. Qualcuno ci abita quaggiù…
Saliamo gli scalini di pietra, protetti da due leoni dai musi sfregiati. Uno dei loro occhi di pietra ci guarda in tralice; sembra quasi che sappia che non siamo altro che spioni…
Bussiamo e il batacchio ci rimane in mano. Dopo tre secondi la porta si spalanca e lo sguardo crudele di Severus Piton ci osserva dallo spiraglio…

“Cosa diavolo vuoi Lovegood?”
Luna aprì la bocca e fece per rispondere, ma Piton la interruppe.
“Non dirmelo, limitati a sparire. Non ho proprio voglia di giocare a fare il pazzo con te.”
Severus Piton chiuse la porta, ma Luna mise il piede tra quella e lo stipite, bloccandola.
“Vattene via” borbottò acidamente l’insegnante, tentando di chiudere l’ingresso.
La Corvonero rimase immobile e silenziosa, anche quando la luna oltre la finestra si tolse la maschera di nubi e riempì il corridoio di luci argentina.
Se Severus fosse turbato nel vedere i segni della colluttazione con Malfoy ancora ben impressi sul viso di Luna, non lo dette a vedere.
Piton spinse ancora la porta, ma il piede della ragazzina era ancora lì. I casi erano due; o Luna era incredibilmente forte e lui era uno smilzo rachitico senza nerbo, o era all’opera una magia. Severus ritenne valida la seconda opzione. Non faceva bene all’orgoglio essere schiacciati da un‘adolescente…
Adolescente…
Lily.
Lily, maledizione.
Incredibile. Luna Lovegood aveva quasi la stessa età dell’apparizione di quel pomeriggio, e non poteva essere più diversa. Perché non gli era venuta in mente prima? Era una coincidenza così bizzarra…
-Ti poteva venire in mente se, invece di scappare, ti fossi fermato a vedere come stava…
Suggerì il Silente interiore dentro di lui, la voce della nuova coscienza datagli ‘in dotazione’ dopo l’abbandono del credo dell’Oscuro Signore.
Luna Lovegood…
Così indifesa e così infantile, lontana mille miglia da quella Lily sprezzante e sicura di sé. Non bella, non popolare. Insignificante nel grande schema degli eventi.
Luna Lovegood era irrilevante. Un sassolino strano, di un colore e una forma insolita raccolto in ricordo di un giorno al fiume. Quel sassolino che ci ritroviamo in tasca tornando a casa e che gettiamo via incuranti, chiedendoci ‘Perché diavolo l’ho raccolto? E’ inutile’.
Così come gli occhi verdi di Lily traboccavano di sentimenti e sensazioni, quelli arrossati di Luna, al contrario, rimanevano insondabili e vacui. Come mappe vuote, senza latitudini e meridiani, senza longitudini e paralleli. Specchiavano la realtà passivi, senza osare prendere parte nel gioco umano degli schieramenti.
L’inquieto insegnante avrebbe voluto scagliarle una Fattura e mandarla via, ma quella poca umanità che gli era rimasta sapeva che quell’allocca, era tutto quello che gli era rimasto, al momento. L’unica a cui rivolgere la parola che non fosse un alunno testa di legno o un’ansiosa Mc Granitt o un confuso Silente.
Severus Piton immaginò di spalancare la porta, afferrare il braccio di Luna e farla accomodare in uno dei divani sotto alle finestre. Tazze fumanti in mano, le avrebbe raccontato delle apparizioni che lo tormentavano e dei dubbi e del dolore che ogni volta - Lily- lo soffocava.
-Allora fallo!
Luna Lovegood era al momento la cosa più vicina ad un’anima affine che avesse, e proprio per quello, avrebbe dovuto sbattergli la porta in faccia.  
All’istante.
Scacciò l’immagine rassicurante di loro due intenti a scambiarsi confidenze e tornò, a fronteggiare quegli occhi insondabili, con l’implacabile rabbia che lo contraddistingueva. Non si sarebbe fatto sconvolgere da una bambinetta vittima di bullismo. Severus non aveva dubbi: Luna Lovegood era venuta a fare la spia su Malfoy e sull’incidente nel chiostro. Un comportamento davvero deplorevole.
Fare la spia è un comportamento molto poco nobile.
-Detto da te è davvero spassoso, Severus…
Incidente… Severus non si era nemmeno interessato più a quello dopo aver ascoltato le sprezzanti parole di Lily nella Torre Orologiaia.
Per dirla alla Ron Weasley, se ne era strafregato….
Aveva cose più importanti a cui pensare; i suoi valori e le sue colpe, per esempio. E quindi, correre all’istante nelle sue stanze ad auto rassicurarsi sulla propria integrità e sui suoi doveri, gli era sembrata la cosa più giusta da fare. Altro che i litigi adolescenziali della Lovegood!
Il bullismo infantile era una sciocchezza; quella ragazzina non si sarebbe certo allarmata per una cosa così…
-Tu invece, Severus? attaccò una vocina familiare -Tu sei diventato adulto egregiamente, vero? E ora se Sirius Black ti chiama Mocciosus ti fai solo una bella risata…
Severus Piton sbarrò gli occhi, rispondendo inconsciamente alla voce insolente:  
Ma io adulto lo sono diventato lo stesso, anche con tutto quello che ho passato’ riflettè.
-No, Severus. Tu sei diventato un Mangiamorte.
Lo sguardo di Severus ricadde su Luna, con una nota apprensiva nelle iridi nere.
Sì, sembrava proprio il tipo di soggetto che il Signore Oscuro poteva circuire…
“Non ho tempo per te Lovegood, ho molto da fare” affermò con un sorriso tirato.
Luna non cambiò espressione “Io volevo parlare con…”
“Io invece no. Quindi non farmelo ripetere oltre, è molto tardi.”
Luna ritrasse il piede e roteò gli occhi lattiginosi verso l’insegnante. Strinse i pugni e prese un bel respiro. Aveva ancora un po’ di domande, lei….
“Io devo parlare con lei!” esclamò in un tono secco e pratico, molto poco Lovegood. “E volevo  un disegno, che Malfoy mi ha ha raccolto e volevo chiederle…”
‘Tipico vittimismo infantile’ pensò Severus.
“Lovegood, non diventerai mai grande se non impari a tener testa ai tuoi compagni! Era solo il signor Malfoy, santo cielo!”
“Il signor Malfoy e i suoi oranghi, ma non è questo il punto. So tenergli testa da sola, grazie. A me interessa riavere il disegno” gli occhi di Luna roteavano minacciosi e le dita tremavano leggermente.
“Allora vattelo a riprendere, sciocca ragazzina. Non venire a piangere da me perché ti rubano le cose” borbottò acido l’insegnante, cercando di chiuderle la porta in faccia.
Inutile; Luna lo bloccò con un braccio.
Luna schioccò le dita e si morse il labbro. I tratti del suo viso si distorsero in una smorfia furente e schietta, diametralmente opposta a quella di sognatrice regalatale dalla natura.
Una smorfia troppo normale, troppo umana, per lei.
“Io non piango, ma Malfoy è uno studente della sua casa e mi chiedevo se lei avrebbe potuto aiutarmi. Tengo in particolare a quel disegno.”
Le sopracciglia di Piton si alzarono, per poi riabbassarsi minacciose.
“Non ne so niente, Lovegood. Torna alla tua Sala Comune. I tuoi problemi non sono affari miei.”
-Invece sì…
Luna sembrò zittirsi poi, nell’abituale tono soave mormorò:
“Lei era all‘Orologio…”
Piton distolse lo sguardo dagli occhi venati di rosso di Lunatica. Dannazione, ora avrebbe fatto la figura dell’infido. Cosa che di per sé non gli dispiaceva, almeno non con Potter e i suoi amichetti, ma che con quella stramba diventava qualcosa di più che un leggero senso di colpa.
“Lei è un egoista…” sussurrò Luna in un tono dolce, come una cucchiata di miele.
Severus Piton, dimenticandosi buone maniere, self-control e tutte quelle cavolate che si vantava di aver imparato durante quei trent’anni di vita -sprecati-, afferrò, deciso ma non troppo duramente, le ciocche tricolore di Luna Lovegood, allontanandola nel corridoio.
La porta della Torre si chiuse con un rumore secco e Luna, in un gesto non da lei, sbatté un pallido pugno sul legno lucido. Odiava gli adulti che fanno i bambini.
Severus Piton rimase immobile dietro la porta di legno spesso, trattenendo il respiro.
Quando sentì i passetti allontanarsi, girò la chiave nella serratura.
Aveva la testa vuota. O meglio, completamente svuotata da tutti quei pensieri che solitamente l’affollavano, minacciosi e indagatori.
Pensieri scrupolosi, ora accantonati in favore della bionda platinata e delle sue lamentele.
Si avvicinò al Pensatoio, barcollando. Era stufo di quella vita, dieci anni diviso in aule, lezioni, semestri. Dieci mesi all’anno gomito a gomito con persone vuote, uscite da schemi esistenziali insignificanti e che si rifiutava di comprendere. Non voleva finire la sua vita in quella routine, sconvolta ogni tanto dai piani ignoti di Silente o dalle deboli pazzie  di una ragazzina.
Severus rivoleva se stesso. Rivoleva la sua Lily.


Il passato, un ricordo.

Lily Evans dondolava le scarpe da bambola che portava, seduta sule alte panchine di pietra del chiostro.
La luce rossastra ricolorava i capelli della ragazza, rendendoli più scarlatti che mai. Il pomeriggio stava morendo e i castelli di nubi si tingevano di viola cupo.
Ottobre. Autunno. Decisamente la stagione preferita di Lily.
Alcuni studenti a gruppetti o in solitaria si affrettavano a rientrare nel castello, diretti verso la Sala Grande e le sue promesse di cibo sfizioso.
Era già ora di cena, riflettè Lily con rammarico.
Lanciò una fugace occhiata all’orologio che dominava il cortile squadrato. Le lancette, alternate a falci di luce rossa, segnavano le otto e mezza.
Lily s’incupì. Stava aspettando da tre ore, sola, nel chiostro sempre più buio.
Maledetto…
Lily Evans non sapeva se ridere o piangere per la sua stupidità. Come aveva potuto essere così sciocca?
Aveva davvero pensato che lui avrebbe avuto il coraggio, o quantomeno la decenza di presentarsi?
Dopotutto lui le aveva posto l’invito, ma a quanto pare il signorino aveva cose più importanti da fare, senza dover prendersi la briga di disdire gli impegni precedenti.
Lily stava per alzarsi e marciare risoluta in Sala Comune, quando lacrime bollenti le scesero sulle guance, finendo sul colletto della camicia che indossava.
Una camicia con i volant…
Se Severus gliel’avesse vista addosso non le avrebbe più rivolto la parola.
Chissà dov’era andato a nascondersi, pensò tristemente Lily, asciugandosi le lacrime con il polsino della camicia.
In Biblioteca? O nella sua Sala Comune?
Era dal giorno prima che non si vedevano; più precisamente dal mattino in corridoio, quando Lily gli aveva raccontato, con palese entusiasmo, con chi sarebbe vista il giorno successivo.
E anche se era stato solo per un misero istante, Lily aveva colto lo sguardo di rabbia che era balenato negli occhi offesi di Severus.
Poi, senza una parola, il ragazzo aveva afferrato le sue cose e se ne era andato. Aveva iniziato ad evitarla. Lily l’aveva appena intravisto quella mattina a colazione, poco prima che Mary McDonald la trascinasse in bagno con le altre, nel tentativo di estirparle quella novità a cui Lily teneva come un gioiello.
Aveva fatto una cosa sbagliata a dirlo a Sev. Lui lo detestava. Ma Lily non aveva resistito alla tentazione di ferirlo un po’. Erano quattro anni che girava per quella scuola con Severus come unico vero amico. Un amico che pian piano, aveva cominciato ad apparirle come una zavorra.
Lily sapeva di essere ingiusta, ma più il tempo passava e più si rendeva conto di quanto fosse sola e al margine della vita che gli altri ragazzi si costruivano a Hogwarts.
Hogwarts era molto diversa dalle estati a Daffodils Court Road.
Quando aveva provato a contare gli amici che si era fatta a scuola, era rimasta a contemplare i pugni chiusi per mezz’ora, sforzandosi di ricordare qualcuno con cui avesse scambiato più di un ciao o una conversazione sui compiti.
Lily Evans sapeva di avere del potenziale. Se ne era accorta quell’estate, quando distrattamente aveva lanciato un’occhiata nello specchio in bagno e quando, per scherzo e all’insaputa di Petunia, aveva provato uno dei suoi abiti.
Si era accorta di essere graziosa, di essere bella.
C’era solo un problema. Severus Piton.
Non che a Lily dispiacesse. Era il suo migliore amico, ma quella possessività, quelle domande mascherate da attenzioni premurose che le rivolgeva quando la vedeva un po’ troppo distratta o interessata a qualcosa che non fosse la loro amicizia, la soffocavano.
E più il tempo passava e più lei si sentiva schiacciata, vincolata in un legame che le pesava sempre di più.
Non era colpa sua se Sev era … Mocciosus.
Era stufa di fare la ragazza caritatevole dall’animo buono. Stanca di starsene in disparte, chiusa dietro libri e mutismo, condizionata da un’unica persona. Avrebbe dedicato i successivi tre anni ad Hogwarts mettendo al primo posto se stessa e la sua felicità.
Non voleva recidere il legame con Severus, solo allentarlo un po’.
Ma ora, nel cortile quasi buio, sentiva tutta la meschinità di quella decisione. Il suo desiderio di una normale vita sociale da studentessa le si era rivoltato contro, e ora ne pagava le conseguenze. Aveva passato due mesi strani, sopportando pazientemente l’interesse e i discorsi delle altre ragazze Grifondoro, stupite dalla sua improvvisa voglia di socializzare. E, a dispetto di tutto le aveva conquistate.
Un sorriso, una parola gentile… Lily Evans si era meravigliata della semplicità con cui si stringevano i rapporti.
Ma ora non c’era nessuna delle sue amiche a tenerle compagnia. Nessuno che venisse a cercarla o si preoccupasse per il suo appuntamento mancato.
Lily rimpianse di essere stata così sciocca e così superficiale. Doveva trovare Sev e scusarsi, anche se si sentiva imperdonabile. Afferrò la borsa e saltò giù dalla panchina, avviandosi verso il portone.
“Evans!”
Lily si girò imbestialita. Erano quattro ore che aspettava, con che coraggio...
Poi lo vide in viso e l’espressione imbestialita che le contraeva i lineamenti si allentò.
Non era lui, per sua fortuna.
“Potter” sibilò rigidamente Lily, alzando il viso con superbia. Sperava con tutto il cuore che il ragazzo non notasse i suoi occhi lucidi.
Perché Sirius aveva mandato il suo amico?
“Sirius non è potuto venire, mi dispiace.”
“L’avevo intuito” rispose Lily con falsata allegria. “Grazie di avermi avvisato in tempo, avevo temuto di perdere l’intero pomeriggio…”
Potter alzò le mani in segno di resa.
“Evans, non essere arrabbiata con me, te ne prego. Ho saputo solo poco fa che Sirius non era venuto…”
“Ah, davvero? E da chi l’hai saputo?”
“Bhè… Da lui…”
Lily alzò uno sguardo esasperato al cielo, cercando di trattenere i lucciconi che stavano per debordare.
‘Non davanti a Potter, non davanti al suo amico…’ pensò Lily.
“… Evans non ti chiederò di scusarlo. Ti capisco, fai bene ad essere arrabbiata.”
“No” sbottò Lily abbassando il capo.
“No… cosa?” domandò incuriosito il ragazzo.
“Tu non capisci” rispose lei scuotendo lentamente la testa, la bocca impastata. Come era difficile parlare con la bocca occlusa dal pianto!
“Ti hanno mai dato buca Perfetto Potter? Non credo proprio. Ti sei mai sentito preso in giro? Certo che no.”
James Potter fissò accigliato quella ragazza impertinente, poi d’un tratto sorrise. Un sorriso più malinconico che beffardo.
“Hai ragione Evans. Ma so arrabbiarmi e addirittura intristirmi quando vedo che il Boccino preferisce finire tra le grinfie del bolide che…”
Lo sguardo del ragazzo cadde verso un punto lontano del chiostro, incuriosito da un movimento. Poi tornò a fissare Lily che lo studiava con evidente curiosità, dimentica delle lacrime.
Inaspettatamente, Lily scoppiò a ridere.
“Che metafora è?”
Potter sorrise con sincero piacere: “Sono un giocatore di Quidditch, Evans, non un poeta.”
Lily sorrise a sua volta e quando lui le tese la mano, non poté fare a meno di afferrarla.
“James.”
“Lily.”
Rimasero a fissarsi ancora per un po’ di minuti. Lily sentiva la sua mano piccola piccola, intrappolata in quella grande ed elegante di lui. Le ombre si addensavano intorno a loro e dalla Sala Grande cominciarono le risate e il grattare delle sedie. Ora di cena.
“Vuoi uscire con me, Lily Evans?”
Dall’angolo buio in cui era nascosto, il giovane Severus Piton sentì il suo viso in fiamme. Pregando con tutto il cuore che la sua Lily, mandasse al diavolo quel subdolo Potter, strinse le mani. Avrebbe voluto correre in mezzo al cortile e atterrare su Potter, rempirlo di pugni e offrire la sua testa a Lumacorno per qualche distillato di perenne dolore. Ma il giovane Severus Piton era un infido e un codardo, incapace di lottare per la ragazza che occupava il primo, il secondo e il terzo posto nella graduatoria dei suoi affetti.
Era solo capace di pensare alla sua Lily come ad un accessorio, come ad un’inestimabile proprietà. Non le perdonava di averlo abbandonato o quantomeno evitato, per starsene con quattro oche Grifondoro. Odiava vedere la sua amica cercare di integrarsi ed essere socievole con qualcuno che non fosse lui.
E l’aveva odiata in quelle ore, in cui da brava idiota sentimentale, se ne era rimasta ad aspettare il principino Sirius Black.
Sciocca, sciocca Lily!
Era stata mal consigliata da quelle che lei ora chiamava amiche. Da quella McDonald che voleva vederla fallire là dove lei non era nemmeno riuscita ad arrivare…
Non stupiva che l’invito di Black fosse solo una presa in giro nei confronti di quella rossa secchiona.
Severus conosceva la cricca di Potter. Avrebbe lasciato che Lily si scottasse un’altra volta, solo una.
E poi, forse, si sarebbe deciso a intervenire.


Il presente, Londra. Black Friar’s Bridge.

La pioggia fine tagliava il cielo a sbarre, imprigionando i passanti in immaginarie prigioni.
Mundungus Fletcher si strinse nel pastrano, cercando di isolare il suo corpo fradicio e tarchiato dalle gelide folate di vento che gli sollevavano i lembi del cappotto.
Con uno sbuffo di somma fatica, pescò il pacchetto di sigarette Babbane in una delle tasche e tremando come un’anima in preda alle convulsioni tento dì accenderla con l‘affarino di plastica che il negoziante gli aveva rifilato assieme al pacchetto.
‘Fottuto Brillafiamma. Fottuto!’ pensò il nostro, mentre in preda alla rabbia cominciava a scuotere l’accessorino di plastica e metallo che il tabaccaio all’angolo di Chester Street gli aveva venduto, assieme a quella ridicola scatolina con il cammello.
Davvero strani i sigari Babbani. L’aveva sempre detto; non erano veri uomini a fumare quelle misere striscette simili a paglia arrotolata in carta velina.
Chiodi di bara, ecco cos’erano. Buoni solo a fotterti i polmoni.
Un sigaro, un bel sigaro Wizarpower importato dall’Ecuador, ecco quello che Dung desiderava.
Eppure, quella mattina, aveva dovuto adeguarsi. Doveva rendersi simile a loro se voleva portare a termine la  missione -il compito ingrato- che Silente gli aveva affidato.
Ma passare da Babbano, doveva essere più difficile di quanto avesse supposto.
Un paio di passanti armati di ombrelli lo fissarono insospettiti. Forse si chiedevano come mai quell’uomo piccolo, sudicio e dall’aria puzzolente, non si rassegnasse all’idea di gettare quell’accendino scarico che agitava nell’aria sotto la pioggia, con grottesca disperazione.
Mungundus si arrese. Il suo ‘Brillafiamma’, finì nelle acque torbide del Tamigi. Afferrò la bacchetta, e ben imbacuccato e girato verso la balaustra, si accese finalmente una sigaretta.
Passarono altri dieci piovosi minuti e tre autobus rossi.
Una donna biondiccia, un po’ in carne e con un abbacinante rossetto fucsia, guardò verso di lui, che ricambiò con la sua miglior espressione seducente.
La donna, schifata, passò oltre, nascondendosi dietro al suo ombrello giallo, trapuntato di api.
‘Sciocca Babbana’ pensò Mungundus, masticando il filtro fradicio della sigaretta.
Passarono altri quindici minuti e due sigarette. Il traffico sul ponte cominciò a scemare, la pioggia a inspessirsi. Mungundus divenne più fradicio di uno straccio per le pulizie; sconsolato, si appoggiò al lampione di ghisa.
“Ehi.”
Qualcuno gli strinse una spalla. Dung sentì che il suo pastrano si strizzava come un asciugamano. Un asciugamano molto umido e molto bagnato.
“Boris?” domandò Dung, voltandosi di scatto, la sigaretta tra le mani.
“No amico, niente Boris Karloff. Hai una paglia?” chiese il ragazzo.
‘Ragazzo’ era una parola un po’ riduttiva per definire l’individuo che aveva davanti.
Alto almeno due metri, la testa rasata e magro abbastanza da lasciar intravedere il profilo dei muscoli sotto, -incredibile con quel freddo-, la t-shirt strappata.
Dung notò che anche i pantaloni che portava sembravano lacerati. Si chiese in che animale fosse incappato quel disgraziato per ridursi così. Doveva aver tentato di rimettere assieme gli squarci con delle spille da pannolino.
Dung corrugò la fronte, incapace di comprendere la strana richiesta.
“Amico, non ho paglia con me. N‘spiace” borbottò in tono scontroso, tanto per tagliare corto.
“A-ha. Allora perché ne hai una con te, nanerottolo?” ringhiò il pelato.
Dung chinò la testa e studiò la sua persona. Non capiva cosa diavolo volesse lo sconosciuto.
“Senti amico, non so…”
Il pelato lo afferrò per il colletto e lo sollevò senza sforzo per almeno venti centimetri.
Dung sentì che un paio di cose gli scivolavano fuori dalle tasche, mentre il gigante rachitico cominciava a scuoterlo.
“Non sono tuo amico, buffone irlandese! Anche se ti ho chiesto una paglia, non hai il diritto di chiamarmi amico!”
Dung, scoprì i denti spezzati in una smorfia incerta.
“…Veramente… Sono di Norfolk…”
“Non mi interessa, cazzo!” sbraitò testa rapata, scuotendolo più forte.
“Fai il buffone con me, eh? Fai il buffone, nanerottolo? Lavori in un circo, bamboccio di Norfolk?” gridò il pelato sputacchiando saliva sulla faccia e sul bavero di Mundungus, già lerci per conto loro.
Dung, fece un altro tiro dalla sigaretta, espirando pazientemente. Non era la prima volta che qualcuno faceva lo sbruffone con lui. Durante la sua… carriera, aveva avuto più di un simile imprevisto da gestire.
Il rapato non era peggio di tanti altri, tanto più che era sicuramente un diavolo di Babbano.
“Ti conviene mettermi giù…” sussurrò Mundungus con un’espressione affabile.
“E perché, amico?” domandò il rapato incattivito.
“Perché sono un mago, un grande, potentissimo mago…”
“Che?!”
Testa rapata lo guardò in tralice e un‘espressione beatamente vuota. Dung poteva vedere i neuroni del suo cervello tentare di connettersi sbattendo tra di loro a ritmo folle.
Dieci secondi dopo, Mundungus Fletcher volava oltre la balaustra del Black Friar’s Bridge, precipitando nelle tumultuose acque del Tamigi.
Il suo urlo venne coperto dalla sirena di una delle chiatte che affollavano i lati del fiume.



Mundungus aprì lentamente le palpebre, gli occhi brucianti. Sembrava che qualcuno avesse cercato di schiacciarli i bulbi oculari nelle orbite. Cercò di alzarsi, ma il suo corpo reagì con scosse di disapprovazione. Non era ancora pronto a sorreggersi sulle gambe da solo. La sensazione di essere uno straccio, umido e pesante, si acuì.
“Hello, Herr Fletcher” disse una voce squillante davanti a lui.
Dung alzò leggermente il capo in direzione del suono e la donna bionda del ponte, lo intercettò con un sorriso di un rosa violento.
“Zerkinski…” fiatò Mundungus, riconoscendo il luccichio familiare degli occhi, che sul ponte gli era sfuggito.
“Herr Fletcher” ripeté la donna. Si accese un sigaro pasciuto, schioccando le lunghe unghie rosse: “Temevo che il volo improvviso ti avesse ucciso, grande mago.”
La donna sbuffò fumo giallognolo in direzione di Dung con un’espressione imbronciata:  “Mi duole ammettere che così non è.”
“La mia scaltrezza mi ha salvato ancora” biascicò Dung con un sorriso storto.
La mascella gemette sofferente, scricchiolando in modo preoccupante.
Gli occhi luccicanti della bionda fissarono rabbiosi il sacco informe e puzzolente chiamato Mundungus, il quale fece in tempo a notare la mazza da golf con cui la donna aveva sostituito l’ombrello.
Un ferro 13, in puro stile Zerkinski.
“Allora, Dungy- Boy. Che ti porta qui al Black Friar’s?”
“Qui non siamo certo al Black Friar’s, non più” sibilò Dung occhieggiando l’ambiente attorno dal pavimento dove era accasciato. Una stanza vuota, eccetto per un tavolo storto e traballante e i tre materassi sporchi appoggiati alle pareti, rivestiti di pannelli di legno che un tempo, dovevano valere un sacco di soldi. Il soffitto basso faceva pensare ad una cantina, la porta a zanzariera, al capanno di un cacciatore squattrinato.
“Benvenuto sulla Liebe Fraulein! , Fletcher.”
“Credevo che Alastor te l’avesse affondata…. Parecchio tempo fa….” abbaiò Dung.
“Ci ha provato, in effetti” sbuffò la donna facendo dondolare la mazza da golf minacciosamente “Ma ho avuto la fortuna di riuscire a recuperarla, ringraziando la mia buona stella… che anche in questo momento, brilla decisamente più della tua, Fletcher.”
“Se sei così fortunato Zerkinski, perché stai dentro il corpo di una donna? Essere un ciccione ti ha rotto?”
“Sottile ed elegante come al solito, caro il mio Fletcher. No, non mi sono rotto di essere un ciccione, semplicemente la mia situazione mi impedisce di aggirarmi per la City con il mio aspetto.”
“Capisco. Eri stufo di essere un ciccione” replicò Mundungus sornione.
“Perché continui a studiare la sorte Fletcher? Sii più gentile, o finirò quello che il giovane punk ha iniziato sul ponte.”
Mundungus alzò i palmi delle mani davanti a sé: “Pace Zer. Chiedo venia.”
“Allora cosa vuoi?”
“Una cosa. Per… un amico. Un caro amico.”
“Deve essere proprio un amico molto caro se osi ripresentarti davanti a me, con l’unica consolazione di farmi vedere quanto più in basso sei caduto, Fletcher” sibilò la bionda schioccando vistosamente le labbra.
“Un biglietto. Il Biglietto.”
“Got! Per la Tube o per il treno? Vai a King’s Cross, lì li trovi entrambi” sbottò la donna soffiando una nuvola di fumo verso il volto di Dung, steso a terra.
Dung scosse la testa, intorpidito dalla stanchezza, dalla noia e del dolore.
“Sai di cosa sto parlando.”
Zerkinski inclinò la testa e la vaporosa chioma bionda ondeggiante, pensieroso.
“Sì, so di cosa stai parlando. Non ce lo più.”
“Come? A chi l’hai venduto sciocco?!” esclamò Mundungus, scattando in piedi “Sei pazzo? Non ha prezzo!”
“Se non ha prezzo, come speravi di comprarlo tu, Herr Fletcher?”
Mundungus si morse la lingua. Aveva sperato che Zerkinski gli rivelasse dove lo teneva, così da soffiarglielo con facilità. Ma a quanto pareva, il ciccione oltre all’aspetto aveva cambiato pure cervello.
“Ho capito che volevi quel fottuto affare non appena hai posato i tuoi sudici piedi sul mio ponte, Herr Fletcher. Peccato. Eravamo Freund una volta, ma sono disposto a sacrificare la nostra amicizia per proteggere l’identità dei miei clienti, perciò, non aspettarti pietà alcuna.”
Dung estrasse la bacchetta: “A chi l’hai venduto, barattolo di lardo?”
“Non è con le tue classiche buone maniere che otterrai la risposta, Dungy, sappilo.”
La biondona cominciò a far roteare il ferro da golf, così veloce che le sferzate d’aria colpivano sul volto Dung, facendogli drizzare i peli delle sopracciglia.
“A chi l’hai venduto pezzo di stupido?” biascicò Mundungus.
La bionda sorrise, poi posizionò il sigaro ancora acceso dietro l’orecchio e afferrò la mazza con entrambe le mani.
Dung, troppo concentrato a fissare le labbra a cuore e rivestite di rossetto sgargiante di Zerkinski descrivere in un muto labiale il nome dell’acquirente, non vide arrivare il colpo.
Dieci denti, fra cui due in oro e tre placcati in argento, schizzarono assieme ad un fiotto di sangue denso e scuro dalla bocca di Dung, macchiando uno dei materassi lerci. Lui fiondò a terra, urlando per quel dolore così troppo Babbano.
Halò, Herr Flechter. Cura la tua Sehnsucht!
 Le ultime parole che Mundungus udì, prima di scivolare nel Babbano oblio del dolore, furono tre. Wir mir Benzin!



*Una nota: Il titolo del capitolo è un gioco di parole sull'evento più importante della WWE-World Wrestling Entertaiment e va quindi pronunciato a quel modo.


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Capitolo 9
*** Orgoglio Gorgoglio ***


Capitolo Nove
Orgoglio gorgoglio


Severus Piton salutò l’alba di Hogwarts con la schiena dolorante e la faccia arrossata. Lo sforzo di sollevare casse di libri e provette con la sola forza delle sue esili braccia bianchicce, rischiava seriamente di menomare la sua fragile corporatura. Si tirò su riabbassandosi le maniche fino ai polsi. Quando si raddrizzò del tutto, la colonna vertebrale schioccò con un suono secco che risuonò fino al soffitto. Idiota.
Sfilò con grazia la bacchetta dal mantello, picchiettò le casse, una per una, e quelle si sollevarono, cominciando a defilarsi fuori dalla porta in una fila ordinata, dirette ai sotterranei.
Severus Piton sorrise brevemente, le mani chiuse a pugno sui fianchi.
Che roba, essere un mago. Era nel realizzare le cose più semplici, nel fare quelle sciocchezze dietro a cui i Babbani si dannavano, a renderlo orgoglioso di appartenere alla razza magica.
Razza…
La faccia serpentina di Voldemort fece capolino tra i suoi pensieri, le labbra atteggiate a sussurrare quella stessa parola. Severus Piton chiuse gli occhi e sospirò. Non se ne sarebbe liberato mai. Superiorità, orgoglio, emarginazione. La filosofia del Mangiamorte era ancora fin troppo radicata nei suo tenebrosi neuroni.
Uscì di gran carriera dalla porta, lanciandosi giù per le strette scale a chiocciola. Raggiunse le casse nel corridoio di sotto, proprio mentre quelle stavano cercando di dileguarsi in un’altra ala. Il cupo insegnante estrasse rapido la bacchetta, e in un lampo di luce bianca le scatole s’immobilizzarono a terra.
La bacchetta sparì di nuovo nelle tasche del mantello e Piton si diresse verso le casse imballate. Lanciò uno sguardo all’interno, scorgendo tappi di barattoli, coste di libri, penne d’oca, mantelli neri di ricambio. Tutto ordinato meticolosamente, tutto catalogato. Con un profondo sospiro, Severus Piton sollevò la prima delle tre casse. Con le giunture che dolevano, cominciò a trascinarla verso la scala a chiocciola.
Anche per quel giorno, avrebbe rinunciato a ritraslocare negli alloggi sotterranei.
A costo di arrivare in ritardo in classe, Severus Piton avrebbe dimostrato a sé stesso di essere ancora un robusto mezzo Babbano.

“Spero che alla Umbridge non venga in mente di presentarsi qui, oggi.”
“… Coda di Lombrico? Temo non sia giusto..”
“Dieci galeoni, lo so. Costa, ma fidati ne vale la pena…”
“Quella svampita della Cooman! Sostiene che la mia carta astrale..”
“Settimana prossima a Hogsmeade, credo..”
Quel giorno, i frammenti di conversazione nell’aula di Pozioni rimbalzavano con più leggerezza di fronte alla bolla di indifferenza dell’allieva Lovegood. Stranamente pacificata dal fatto che, fino a quel momento, i suoi compagni non l’avessero messa al centro di un qualche scherzo di cui lei non coglieva l’umorismo, Luna contemplava i ramoscelli nerastri ricolmi di fiori secchi che le pendevano sopra il capo. Li fissava con concentrazione quasi maniacale, come un erborista pazzo.
Chi l’avesse studiata da fuori, l’avrebbe presa per una naturalista dedita a cercare insetti nelle paludi, ma non Ginny Weasley, che scivolò con calma nella seggiola al fianco di Luna. Era l’unica a non avere un compagno di laboratorio, aveva constatato Ginny, per nulla sorpresa. Raramente qualcuno desiderava sedersi a fianco degli svagati e inquisitori occhi di Lunatica, a meno di non esserci costretto.
“Ginny” sospirò Luna, continuando a fissare le piante sul soffitto.
Ginny sorrise brevemente, incerta su come iniziare una conversazione che non fosse destinata a morire dopo due frasi. “Verrai all’ E.S. questa sera?” le bisbigliò.
Luna chiuse gli occhi. Li riaprì solo quando la sua faccia si riposizionò a venti centimetri da quella della rossa. In tono cospiratore bisbigliò: “Sì, per mille Nargilli.”
Ginny tossì, dissimulando una risatina derisoria. Faceva ancora un po’ di fatica ad abituarsi al modo di fare di Luna che, tuttavia, la sorprese non poco, quando se ne uscì con uno schietto:
“Ci sarà anche Cho. Ormai non credo possa fare a meno delle lezioni di Harry.” Luna scosse la testa, apparentemente indispettita da qualche pensiero.
“Non pensavo avesse bisogno di altri amici....” borbottò ancora qualcosa di incomprensibile, concludendo con un: “La trovo un po’ strana..”
Ginny rimase zitta. Sotto i capelli rossi, le orecchie erano diventate del medesimo colore di quelle.
Sorrise vaga, quando Luna sbottò con: “…E anche un po’ arrogante.”
Ginny fece finta di tossire per dissimulare l’imbarazzo ma prima che potesse frenarsi, bisbigliò:
“Non sono le lezioni che le interessano..”
Luna fece vorticare i suoi occhi bulbosi verso Ginny, carichi di aspettativa. “Credi che sia entrata nell’E.S. per scoprire i piani di Quidditch di Grifondoro?”
L’espressione basita della Weasley non toccò minimamente Luna. La Corvonero continuò a fissarla con un sorriso gentile e pieno d’entusiasmo. In un modo quasi inquietante.
“Non per quello! Per Har..” Ginny non riuscì a finire la frase, perché uno scossone la fece trasalire.
L’aula piombò nel silenzio, mentre Severus Piton faceva il suo ingresso in aula.  Ginny osservò i suoi compagni rimpicciolirsi e far sparire dolci di Mielandia, riviste e bacchette nelle borse. Terry Steeval imboscò qualcosa di simile ad una barretta di Torrone Sanguinolento nell’astuccio. Piton si diresse alla lavagna, senza degnare nessuno di uno sguardo e senza afferrare il registro degli appelli. Aveva appena concluso di picchiettare le istruzioni della pozione Turmentante, quando la porta del sotterraneo si aprì di nuovo con uno scricchiolio. Dolores Umbridge, fastidiosa tosse compresa, fece dono di uno dei suoi viscidi sorrisi alla classe muta. Ginny trattenne un verso di stizza.
Luna, al suo fianco, continuò a far dondolare il capo al suono di una melodia nota solo a lei. Ginny avrebbe volentieri dato parte del suo cervello per riuscire ad apparire disinteressata e per nulla coinvolta nella lezione. Sapeva che nessuno avrebbe osato dire alcunché a Luna, né porle domande e  tantomeno interrogarla. Non perché andasse male a scuola o incapace di comprendere, ma proprio per quella sua aria imbecille, che di certo non invogliava chi le stava intorno ad averci a che fare.
Ginny si sentiva quasi cattiva  a pensare quelle cose, ma gli occhi lunari della sua vicina di banco le ispiravano un curioso misto di disapprovazione e pena. Due sensazioni che non le piacevano per nulla.
Quasi a confermare le impressioni di Ginny sulla sua presunta stupidità, Luna estrasse i suoi occhiali da pseudo demente con spirali colorate al posto delle lenti e se li posiziono sul capo, come una corona. Il perché tirasse fuori quegli aggeggi mentre chiunque in classe si affrettava a far sparire la minima cosa che potesse attirare l’attenzione -Da un incarto di torta troppo voluminoso, a una piuma di un bel blu pervinca-, rimase per Ginny un inspiegabile mistero. Non pensò tuttavia che questo potesse comportare qualche problema.
Era solo Luna Lovegood.


L’inizio di un novembre passato, un  ricordo.

“Hai mai paura?”
“No. A volte. Dipende.”
Lily sorrise cortesemente. Cominciò a far vagare lo sguardo sui ciottoli della riva, cercandone uno abbastanza piatto da far saltare sulla superficie dell‘acqua.
“Che risposta è?”
“In realtà è abbastanza semplice” mormorò James passandole davanti, scostandola con gentilezza e chinandosi sulle ginocchia. La sua mano dalle dita lunghe e magre afferrò con sicurezza un ciottolo bianchiccio, simile a un biscotto troppo infarinato.
“Perché semplice?” riprese Lily, incoraggiandolo a parlare.
“Perché la tua..” rialzandosi da terra s’interruppe, piegò mollemente il braccio, il piccolo sasso piatto stretto tra le dita. Lo lanciò con precisione tra le increspature dell’acqua, assottigliando gli occhi.
Il sasso rimbalzò una, due, tre, quattro.. Più volte. Lily lo osservò sparire tra la nebbiolina che aleggiava sul lago, perdendo ben presto il conto dei rimbalzi. Il suono secco che produceva, si fece via via più fioco, fino a tacere.
James osservò i cerchi dipanarsi sull’acqua scura, ingrandendosi fino a sparire con un mesto sorriso di trionfo. Magia senza bacchetta.
Lily rimase dietro di lui, in silenzio. I capelli fiammanti, sfuggenti dal laccio in cui li aveva imprigionati malamente, le ricadevano disordinati attorno al viso arrossato dall’aria gelida. Piccole gocce d’acqua le punteggiavano la divisa e strisce di fanghiglia le si erano incollate alle scarpe senza stringhe.
La ragazza non portava né cappello, né guanti. Con le mani  bianchissime e rese insensibili dal freddo, stringeva saldamente la borsa di cuoio, rimanendo in attesa della risposta di James.
Si chiese perché, invece che rimanere in Sala Grande a pranzare con gli altri, quell’idiota l’avesse trascinata fuori al freddo, senza nemmeno il mantello o sciarpe a ripararli, a lanciar sassi e a scarpinare sulla riva fangosa. Lily sentiva il vento accarezzarla duramente attraverso gli abiti, creando quel fastidioso effetto pelle d’oca. Ci mancava poco, presto avrebbe cominciato a battere i denti. Eppure, il coraggio di intimare a James di rientrare prima di beccarsi una polmonite, sembrava non sfiorarla mai. Non sapeva se per codardia o curiosità. O semplice educazione.
Lily sentì gli occhi lacrimarle, mentre una folata più fredda delle altre le sventolava in faccia il colletto della divisa. Si sentì fare un verso strano, cosa che attirò l’attenzione di James, ma non fino al punto di fargli notare quanto lei soffrisse il freddo.
“Andiamo ancora un po’ avanti” disse, passandosi una mano tra i capelli corvini. L’umidità li aveva resi flosci e cascanti sulla fronte, cosa che lo obbligava ogni tre minuti a lisciarseli e ad appiattirli sul capo.
Senza successo.
Lily lo seguì a malincuore. Offesa con sé stessa per la sua arrendevolezza e per il fatto che lui non le rispondesse, nonostante tutti i suoi tentativi di fare conversazione, riprese a camminare nella sua scia, lo sguardo puntato sulla nuca di James.
Il rumore dei passi sulla riva sassosa, produceva un rumore indistinto e confuso. Più volte Lily si domandò se fossero solo loro due a camminare nella nebbia o se qualcos’altro, si fosse avvicinato alle rive del lago a loro insaputa.
La sagoma  di James si confondeva nell’aria rarefatta e ben presto Lily si accorse che rischiava di perderlo di vista. Si arrischiò a corrergli dietro, commettendo l’errore di avvicinarsi troppo al lago, reso quasi invisibile dal banco di nebbia che li stava imprigionando. Si ritrovò con l’acqua al ginocchio; gridò terrorizzata, più per la morsa gelida del lago che per lo spavento. Si ritrasse rapidamente, trascinandosi sulla riva e cadendo all’indietro tra i sassolini. La borsa le sfuggì di mano, aprendosi e liberando le pergamene e i libri che conteneva, sulla terra umida.
Lily trattenne un qualcosa che alle sue orecchie sarebbe, in altri frangenti, apparsa come la più volgare delle imprecazioni. Doveva fare sempre la figura della..
“Sbadata, oggi?”
La mano di James comparve sopra la spalla di Lily, che la osservò dapprima con riluttanza, prima di accettarla. Rimase immobile a massaggiarsi i gomiti e le braccia, mentre James raccattava il contenuto sparso della borsa, riordinandolo all’interno di essa. Gliela porse, ma Lily distolse il capo, offesa.
James sollevò il sopracciglio, infastidito. “Non è colpa mia se sei finita nell’acqua.”
Lily tacque, ma al ragazzo non sfuggì la ruga sottile che le si era disegnata sulla fronte e le due agli angoli della bocca. Allora, scoppiò a ridere.
Lily lo guardò con odio, punta sul vivo. Gli strappò la borsa di mano, cominciando ad arrancare verso il castello -ovunque fosse in mezzo a quella nebbia-, zoppicando per via della gamba irrigidita dal gelo dell’acqua novembrina.
I passi misurati, ma rapidi, di James, la costrinsero ad accelerare il ritmo, tentando di sfuggirgli, almeno finché lui non l’afferrò per la spalla, costringendola a voltarsi.
“Evans.”
Lily cercò di storcere il naso, troppo rosso e troppo ghiacciato. “Potter.”
James cercò di trattenersi dal ridere di nuovo, storcendo la bocca. “Mi dici che c’è?”
“Fa’ freddo, ecco che c’è!” sbottò Lily, facendogli il verso. “Come ti può venire in mente di trascinarmi fuori, a novembre…” la voce di Lily si affievolì, perdendo grinta, man mano che James scuoteva la testa divertito. “Bastava chiedere”, rispose il ragazzo.
Frugò rapido nella borsa, da dove estrasse un vasetto di vetro in cui brillava una fiamma cerulea e guizzante. Lo depose tra le mani di Lily come un fiore delicato e la invitò ad avvicinarselo al viso per riscaldarsi le guance arrossate.
Dopodiché, con un gesto che sorprese prima lui che Lily, le posò una mano sulla schiena, di modo che potessero camminare vicini, fianco a fianco, senza perdersi di vista.
James si sentì vagamente un piccolo adulto a camminare in quel modo, vicino a Evans. Stava attento a toccarla il minimo, pur circondandole la schiena con un braccio, quasi cercando di stabilire un compromesso, ra la millimetrica distanza  dela barriera del disinteresse e quella che ti descriveva come un polipo approfittatore.
Era come cercare di stare vicino ad una donna. O cercare di proteggere un fiore.
“Giglio” disse a bassa voce. Lily lo udì distintamente, arrossendo, questa volta, per un altro ignoto motivo. Aveva timore a voltare il viso, per paura di ritrovarsi a pochi centimetri da quello di Potter. Non perché l’idea di trovarselo così vicino, le desse una sensazione fastidiosa, ma più inopportuna. Dopotutto, erano solo due compagni di scuola… Severus non si era mai permesso di toccarla con tanta confidenza.
James sembrò riscuotersi dal torpore sognante in cui era fuggito; continuando a seguire l’invisibile percorso che aveva delineato davanti a sé, riprese a parlare.
“Allora, cosa volevi sapere su di me, Evans?”
Lily socchiuse gli occhi, mentre microscopiche gocce di pioggia cominciavano ad offuscarle la vista. I rumore dei ciottoli smossi dai loro passi, rischiò di coprire la sua flebile, sciocca domanda.
“Quando voli.. Hai mai paura?”
“Dell’altezza?”
Lily inclinò il capo, riflettendo. “In generale.”
James sollevò il capo e sorrise sfrontato. “Mai”, rispose “Io sono Potter. Il magico Potter!”



Il presente, Hogwarts, una cantina familiare.


“Le piace insegnare?”
La voce di Dolores Umbridge giunse distorta all’orecchio di Severus Piton.
Era come se quella donna parlasse da sotto un cumulo di lamiere e tubi ferrosi, cosicché i versi che spacciava per parole, le uscivano dalla bocca insolitamente striduli e acuti. Come una vecchia cornacchia, benché nell’aspetto ricordasse uno dei rospi che Thomas Bower - a seguito di una punizione per.. Severus non se lo ricordava, stava distribuendo ai suoi taciturni e guardinghi compagni.
Piton non aveva mancato di notare che le schiene dei suoi allievi fossero più rigide del solito e non di certo per la sfumatura più nera del nero mantello che aveva indossato quel giorno. No. Il vero motivo della loro compostezza era lì, alla sua destra. Armato di taccuino, piuma e spille leziose con gattini dai vistosi occhioni azzurri.
Che donna mostruosa!
Chissà perché quei balordi del Wizengamot le avevano offerto una sedia. Banda di imbecilli. Piton si chiese se non l’avessero buttata nel consiglio tanto per sostituire il suo altrettanto rimbambito - ma se non altro accattivante, ogni tanto, tra una sciocchezza e una dichiarazione d’amore per Potter all’anno-, datore di lavoro.
Era colpa loro, se ora era lì a fingere di essere un mago normale, evitando di finire esonerato da un lavoro che aveva perso il suo significato il giorno stesso in cui aveva iniziato a svolgerlo, e a combattere per un posto in classifica che fosse il più possibile lontano da Hagrid l’allevatore di mostri e la regina delle previsioni azzeccate a metà e dello sherry andato a male.
Severus pensava spesso che avrebbe dovuto ritirarsi a vita privata e aprire un posteggio per camper in Cornovaglia, invece che..
Professor Piton? Professor Piton? Mi ascolta?”
Severus si rese conto che per qualche ignota ragione, stava strabuzzando gli occhi, spingendoli fuori dalle orbite, fissando un punto vuoto davanti a sé. Maledizione. Si era di nuovo estraniato da sé stesso! Come poteva permettere al suo spirito di andarsene in giro a passeggiare, progettando camper-parking e abbandonare il suo corpo alla mercé di teste di legno e di un rospo? ..
“Mi A-S-C-O-L-T-A?!”
Oddio, pensò Severus Piton, l’ho fatto di nuovo.
Si accorse di dover rimediare in fretta a quella spinosa situazione. Il suo sguardo scivolò sugli studenti non più molto rigidi ma bensì sorpresi dalla strano confronto che stava avendo luogo davanti a loro. Lavoravano ancora alla pozione, sgozzando i loro rospi e pesando il bergamotto, ma all’insegnante non sfuggirono le occhiate furtive che quegli inetti gli rivolgevano.
Incrociò le braccia  e sollevò capo, mantello e sopracciglia in una posa imperiosa. Severus non era molto alto, ma confidava nella bassa struttura ossea dell’Inquisitore per torreggiare minacciosamente su di lei.
“Abbastanza soddisfatto”, mormorò nel suo tono più greve.
“Di essere sordo?” replicò la Umbridge con un sorriso tagliente.
Piton storse la bocca in un misto di odio e offesa. “Di insegnare qui”, sibilò stentoreo.
Gli occhi della Umbridge scivolarono indagatori sulle erbe appese, sui barattoli colorati e il loro viscidume galleggiante e sui puzzolenti e dannosi calderoni degli allievi. Non si preoccupò di mascherare il suo disprezzo o brividi di disgusto nell’osservare la segreta. “Sono sicura che è orgoglioso di tutto questo“ cantilenò con un sorriso mellifluo. Piton inarcò un sopracciglio, ma non disse nulla. “Bene, bene, hem hem, che altro mi può dire sul.. suo.. affascinante..lavoro?”
“Insegno Pozioni.”
“Questo lo vedo” la donna-rospo sfoderò il suo lezioso sorriso, mettendo in mostra denti aguzzi e piccolissimi, luccicanti alla luce delle torce. Severus Piton si domandò se non fossero finti. Dopotutto, una donna, a quell’età.. Era già tanto se aveva un incisivo suo, giusto?
La classica vena unticcia, cominciò a pulsare vivacemente sulla tempia di Piton. “Insegno Pozioni. Punto. Erbe, veleni, sudore e sangue. Lavoro duro e tanto, per me, per tutti. Contenta?”
Il sorriso lezioso si allargò notevolmente: “Sempre. Ora prego, farò un giro tra i suoi allievi per, hem, osservare il suo livello di preparazione. Questo è il quarto anno, giusto?”
Senza attendere una risposta dall’arcigno collega la Umbridge cominciò a scribacchiare. Quando terminò, indicò la cattedra e disse: “Può stare qui seduto mentre lo faccio. Non si preoccupi.”
Troppo scioccato per rinfacciare a quella donnaccia la sua presunzione nel comandarlo a bacchetta, Severus Piton si ritrovò seduto alla sua sedia, ritrovandosi a ipotizzare il modo più doloroso e atrocemente mortale per togliere la vita a quella megera. Il suo sguardo impenetrabile vagò minaccioso sugli studenti che si affrettarono ad abbassare il capo e a tornare ai loro fumi giallastri odorosi di fallimento. La Umbridge quasi scompariva dietro alle volute di uno dei calderoni, intenta a confabulare con alcuni giovani Grifondoro. Piton seguì per un po’ la conversazione, benché troppo fioca per essere udita e poi, qualcosa di rosso catturò la sua attenzione.
Maledizione, non di nuovo. Stupide allucinazioni.
La Lily quindicenne dei suoi ricordi più amari, quella Lily tanto desiderata che l’aveva ‘aggredito’ alla torre orologiaia, era ora seduta ad un banco, sventolando una mano in un gesto strano dal fondo dell‘aula, salutando lui, con un sorriso al tempo stesso ammiccante e perfido.
Storceva la bocca, parlandogli in silenzio e ridendo. Piton non aveva dubbi, lo stava prendendo in giro, con quel modo così simile a quello di Potter e i suoi amici..
Quello che Lily aveva poi adottato..
Severus Piton sentì un fremito nelle mani, cosa insolita avendo il resto del corpo paralizzato dalla paura -poteva essere quella?- e dall’imbarazzo.
Andava bene vedere fantasmi evocati dalla sua psicologia contorta quando era da solo. Andava meno bene se c’era qualche svitata come Lovegood in zona.
Ma, la prospettiva di ritrovarsene uno, davanti a quasi trenta persone in una truce e fumosa aula, compresa una vecchia befana che alla minima occasione se ne sarebbe approfittata per ...
Per qualcosa…
Severus non riusciva nemmeno a ipotizzare le conseguenze di una tale disgrazia. Conseguenze che, se non avesse fatto qualcosa, l’avrebbero fatto scivolare nella classifica del peggior insegnante dell’anno, con tanto di espulsione dal corpus docente.
Severus alzò gli occhi verso i fondo dell’aula. Lily era ancora lì, ma ora brandiva un coltello e si apprestava a procurarsi le cornee del rospo di Vilcabamba, con un vecchio coltello dalla punta uncinata. Senza guanti di protezione e con una cattiveria non da lei. Come se il rospo le avesse fatto un affronto personale.
Al momento di infilare il coltello sotto la palpebra per far scivolare l’occhio dell’anfibio fuori dall’orbita, Lily sollevò la testa verso Severus con un sorriso meschino.
L’insegnante si morse il labbro e guardò con vero orrore quel viso di ragazza deformato da.. Severus non sapeva nemmeno definirlo. Era trionfo, era disprezzo, era malattia. Le orbite di Lily gli apparivano cave nella luce scarsa delle torce e nella penombra dei fumi, tossici senza dubbio, pensò Severus, studiando distrattamente le prima, la seconda e la terza fila di destra della classe.
Si sentì sollevato a metà, quando si accorse che nessuno degli allievi sembrava essersi accorto del suo smarrimento o del fatto che, in fondo alla classe, si fosse palesata la presenza di un allieva morta da tempo e che, in barba a tutte le regole magiche, metafisiche, naturali, stava versando le interiora e le cornee del rospo squartato in un calderone.
Severus Piton si ripeté di non commettere l’errore che in quei casi lo aveva portato a fare scelte discutibili -Abbracciare Luna Lovegood, mettere sul rogo il compito di Malfoy..-, e decise di alzarsi con circospezione, avvicinandosi a Lily intenta al lavoro. Per un momento si chiese se non fosse ancora Luna.. Ma no, eccola lì. Proprio a lato di Lily, immobile..
Lo sguardo di Severus tornò rapito verso la sua amica d’infanzia. Più si avvicinava, muovendosi con una naturalezza e una calma che in quegli istanti non gli appartenevano, si accorse che il rosso dei capelli di lei era molto più color carota che mogano, per non parlare di quelle lentiggini che all’occhio critico di Severus, le deturpavano letteralmente il viso.
E finalmente, qualche entità superiore sgombrò il cervello del laconico insegnante, così da potergli mostrare..
“Weasley..” mormorò sconvolto. Quell’allucinazione era orribile. Tutte erano orribili. Tempo due settimane e avrebbe rischiato di confondere anche Hagrid per una quindicenne ragazza morta.
Dannazione, dannazione, dannazione. Ogni suo controllo veniva annientato da quel ricordo malevolo. E Severus sapeva di non poterci fare nulla, perché se lo meritava. Se Lily era morta e lo tormentava era solo colpa sua.
Come  sapeva che avrebbe continuato a farlo, finché non si fosse deciso  a smetterla di rifugiarsi nel Pensatoio ogni volta che poteva, voleva, doveva.
Lily era stata il suo ossigeno, la sua immobile, incrollabile ragione di vita. Ma da quando era scomparsa, Severus si rifiutava di comprendere che ciò che stava respirando, era solo aria viziata.
“Mi è sparito il rospo, professore” disse Weasley senza inflessioni particolari nella voce. Non c’erano né paura, né timore nel suo modo di rivolgersi a lui. Piton corrugò arcigno le sopracciglia, ritrovando sé stesso. Non era Lily, non lo era affatto. Ma lui era un insegnante di Hogwarts e ora, ora era in classe e come tale doveva comportarsi. La femmina Weasley era famosa per la sua schiettezza e il cipiglio irremovibile, ma non era un problema per l‘arcigno Piton, anche se la ragazza costituiva una seria eccezione tra membri dello smidollato Potter Club. Da Granger Sotutto o dal fratello Pel di carota, per non parlare di Paciock o dei due gemelli Weasley . Era anche abbastanza graziosa, benchè Severus considerasse tutte le ragazze rosse di capelli come copie mal riuscite della sua Lily.
Piton fissò gli occhi di Ginny, in silenzio. Poi parlò:
“Non è un problema mio, Weasley.”
Ginny assottigliò leggermente le palpebre. “Lo comprendo, la pozione è compito mio. Ma il mio rospo è sparito e mi sono allontanata solo un attimo, perciò...”
“Sciocchezze Weasley. Ti ho visto io dalla cattedra mentre lo sezionavi.”
Ginny s’impuntò. Lei non aveva mentito, quel maledetto rospo non l’aveva nemmeno toccato.
“Come ha fatto a vedermi se io stessa non ho visto il mio rospo?”
Piton si portò una mano tra gli occhi, massaggiandosi la fronte, scocciato. Era un diverbio così stupido.
Lily è stata Lily Evans, avrebbe voluto ringhiare in faccia a quella pretenziosa Potter-Fan, solo che è più comodo dare la colpa a te, perché tu sei viva e lei è morta.
Piton rimase immobile, più teso di quello che la sua maschera imperscrutabile suggerisse. Non gli riusciva difficile, eppure un dilemma lo assalì: Weasley non si era accorta di essere, come dire, posseduta? Se di possessione si era trattata..
Fissò la ragazza davanti a lei, che non accennava ancora ad abbassare gli occhi carichi di rabbia e sfida. Piton congiunse le mani, con esasperata lentezza, riflettendo.
Non era il momento di porsi simili interrogativi su presenze dell‘aldilà più o meno reali, bisognava trovare un capro espiatorio per l‘anfibio scomparso. Piton si voltò verso un fumoso punto della classe e ringhiò: “Signor Bower, perché non hai dato il rospo a Weasley?”
Il viso di Bower spuntò da una nuvola verde elettrico, l’espressione intimorita. “Ma professore, io ho dato a tutti il loro rospo. Ce n’era uno per ognuno, non credo che..”
“Certo. Sta zitto. Allora Weasley,” disse Piton incrociando le braccia con aria annoiata e infastidita, “Sembra che bisognerà levare qualche punto ai Grif..”
La voce sognante e un po’ stridula di Luna Lovegood interruppe il discorso di Piton come una scossa elettrica. O almeno, così Piton la percepì.
“Ginny, le budella del tuo rospo sono cotte, faresti meglio a scolarle.”
La faccia coloratamente occhialuta di Luna emerse dai fumi giallini del calderone di peltro, per poi tornare al suo, da dove si sprigionavano flebili fili turchesi. Guardandola Piton comprese che se qualcuno, quel giorno, era riuscito a ultimare la pozione, bè, era stata la Lovegood.
La fronte di Piton si decorò di varie rughe, mentre controllava il contenuto del calderone della Weasley. L’occhio bulboso del rospo galleggiò sulla superficie, per poi esplodere con un plop! sommesso. “Bene, Weasley. Ora giochiamo a fare le bugiarde? Sappi che i preziosi punti della tua Casa te li leverò lo stesso, per essere un’ingrata. Preferivi mettere nei guai Bower?”
Ginny sembrò boccheggiare, farfugliando interdetta. “Non sono stata io! Non l’ho nemmeno toccato! Stavo strappando le zampe all’Avonero!” si guardò attorno, allargando le mani.
“Non ci sono nemmeno gli scarti qui!”
“Certo” disse Piton sardonico, “Adesso mi dirai che sei stata posseduta.”
Ginny si arrabbiò per l’ingiusta frecciata che la riportò indietro ad un certo incidente fatto di serpenti e fogne. Piton cercò di leggerci dell’altro in quella rabbia, ma non ci riuscì. Si appuntò mentalmente di schiaffare sul cervellino della femmina Weasley, un bel Legilimens per risolvere l’arcano.
“Dieci punti via da Grifondoro. Più una nota di demerito sul registro, Weasley. E..” Piton sollevò un braccio intimandole di starsene zitta, “ Un tema di trenta pagine sulle specie di rospi diffusi nel Sud America, se non riuscirai a terminare la pozione entro..” Piton si fissò il polso come se ci fosse un invisibile orologio, “Oh, sì. Entro venti minuti.”
“Ma..” Ginny scoccò uno sguardo furente a Luna, ormai estraniatasi da ciò che la circondava. Sicuramente era stata lei a sezionare il suo rospo e a versarlo nel pentolone, per fare una di quelle che lei definiva gentilezze, probabilmente. Poteva dirglielo prima!
“Non è giusto! Non è assolutamente giusto!” le mani di Ginny si chiusero a pugno, cosa che non intimorì per nulla Severus, che incrociò le braccia, imperioso.
“Signorina, vorrei dirti che la vita non è giusta, ma rischierei di ripetermi.”
Piton fece per allontanarsi, senza dedicare ulteriore attenzione alla Weasley e, soprattutto alla Lovegood. Non le aveva più rivolto la parola da quando era venuta alla torre a lamentarsi, ma la cosa non lo preoccupava affatto. C’era anche da dire che  Luna Lovegood in classe, era un’entità diversa rispetto a quella che lo tormentava fuori dall’aula. Com’era ovvio, non si preoccupò di giustificare o di premiarla per aver inguaiato la Weasley. Solo, la ignorò.
Hem, hem.
Severus Piton si ritrovò a sbattere contro Dolores Umbridge. A quanto sembrava l’aveva raggiunto alle spalle, durante la diatriba con la Wesley e doveva averla seguita con vivo interesse, a giudicare dagli occhi luccicanti e le narici frementi come un cane che fiuta la preda. Severus inclinò il capo, abbastanza perché potesse guardarle il viso e l’assurda permanente che lo decorava, in attesa.
“Apprezzo i suoi metodi educativi”, chiocciò la strega. “Soprattutto il fatto che punisca i bugiardi.”
I suoi occhi lampeggiarono, incrociando quelli furenti di Ginny.
“Tuo padre lavora nel derelitto settore dei Babbani al Ministero, non è vero?”
“Sì”, rispose Ginny a denti stretti.
“Povero Archibald. Aggiungere altra vergogna alla sua precaria posizione! Sono i bambini come te, il pericolo per la nostra società, piccoli fili d’erba malvagi..” Dolores Umbridge rise, indifferente all’espressione calcolatrice e diffidente che Severus manteneva dietro la sua cortina untuosa.
“Ma”, continuò la donna, “Non credo che ci sia da punire solo la giovane Weasley, qui. Se permette.”
 La sua tozza mano ingioiellata spinse Piton di lato, energicamente. Con sorpresa di quest’ultimo, la vecchia strega tarchiata si posizionò, le braccia sui fianchi, davanti a Luna, che continuava a rimestare la sua pozione, per nulla coinvolta o interessata al dibattito che si stava volgendo attorno a lei, nonostante tutti ormai nella segreta tacessero e si fossero messi a fissare l’evolvere degli eventi nel fondo dell‘aula.
“Trenta punti in meno alla sua Casa, signorina. E una punizione con me, domani nel mio ufficio. Io, a differenza del suo magnanimo e altruista professore, non punisco solo i bugiardi, ma anche gli infami. Come te.”
Luna sollevò lo sguardo dal ventre del calderone, spingendosi gli occhiali sulla fronte. Gli occhi bulbosi rotearono dalla Umbridge, a Ginny - che ora era combattuta tra una perfida gioia e il dispiacere-, a Piton.
Severus rimase interdetto. Aveva saputo della perfidia dell’ Inquisitore supremo e di come si divertisse a infliggere punizioni, da cui lui stesso traeva spesso spunto e idee, ma in quel momento, per qualche inspiegabile ragione, avvertì un moto di disappunto.
Gli occhi vacui di Luna si posarono su di lui a lungo e, forse per la sua immaginazione o semplicemente perché la faccenda era così e basta, erano grevi di accusa e sfida.
Avrebbe osato ribattere?
La Umbridge parlò di nuovo, prima di riprendere il suo giro: “Domani alle sette, signorina. Non porti piume o libri. Ho io quello che serve.”
Luna abbassò gli occhi, senza far vedere agli altri quanto poco fossero sognanti in quel momento. Non erano nemmeno tristi o arrabbiati, sentimenti già più che umani, bensì vacui e privi di vita come quelli dei pesci stesi sui letti di ghiaccio del mercato.Tornò a lavorare sulla sua pozione Turmentante, quasi ultimata.
Ginny osservò la Corvonero a lungo. Avrebbe voluto dare ascolto a quella parte di sé stessa che le imponeva di criticare e impedire ogni ingiustizia e aggredire la Umbridge, ma era troppo amareggiata per le punizioni inflitte da Piton e per il fatto che Luna, nonostante i suoi sforzi di trattarla da amica, fosse troppo lunatica o disinteressata per capirlo. Comprendeva quasi tutte le sue stranezze, ma accettare il suo parlare a vanvera e a sproposito, non era fra quelle.
Piton tornò verso la cattedra, senza guardare nessuno. Il gorgogliare di calderoni e lo sciabordio dei mestoli accompagnarono i restanti minuti della lezione, fino a venire interrotti a loro volta, dal suono della campana.


Ancora novembre, il Lago Nero, il passato.

La pioggia li aveva colti di sorpresa. Impreparati. Si erano rifugiati sotto un albero, stranamente accartocciato su sé stesso, con le fronde abbastanza fitte da riparli dalle gocce fini e punzecchiati come spilli.
Lily sfruttò finalmente la sua abilità nelle magie casalinghe, per asciugare gli abiti di entrambi e seduti attorno alla calda fiammella sottovuoto, se ne stettero tranquilli ad aspettare il diradarsi della nebbia che li avvolgeva.
Sedevano entrambi con le schiene appoggiate al tronco dell’albero, ancora di fianco l’una all’altro. Lily si sentiva ancora imbarazzata per quella strana scelta. Quando era con Severus sedevano sempre l’uno di fronte all’altra. Non era abituata a quel contatto, nemmeno con le sue amiche.
“Allora Evans, hai finito con le domande sul Quidditch?”
“Credo, almeno”, Lily sorrise. “Insomma, è qualcosa di strano per me..”
James si girò verso di lei, “Ma al primo anno hai volato anche tu, no?”
“Sì, bè… non è stata un’esperienza molto felice”, mormorò Lily con lo sguardo basso.
James rise. “Non è stata un’esperienza molto felice? Evans, ma come diavolo parli?”
Lily lo guardò con occhi sbarrati, incerta. James rise ancora di più, posandole una mano sul capo e scuotendole con grazia i capelli.
“Sei troppo perbene, Evans. Dovrebbero portarti ad Azkaban per eccesso di buone maniere!”
Lo sguardo atterrito di Lily alle sue parole, costrinse James a tornare serio. “Che hai?”
“Azkaban.”
James le scoccò uno sguardo interrogativo. “La prigione magica, Evans, non dirmi che..”
“Si, so cos’è. Me l’ha detto Severus”, mormorò Lily. “Da quando me ne ha parlato non riesco a non..”
“Averne paura?” James afferrò un lembo del pullover di Lily e cominciò a giocherellarci. “Mocciosus è un povero idiota oliato. Non ha la minima idea di come parlare ad una ragazza! E a spiegare le cose è un cane. Parlare di Azkaban piuttosto che di Quidditch? Deve essere..”
“Smettila James” disse Lily in tono deciso, cosa che colpì il ragazzo, almeno quanto il fatto che lei si fosse rivolta a lui usando il suo nome. “Lo sai. Sev è un mio amico, non devi.. offenderlo.”
“Un giorno dovrai dirmi perché ci passi tutto quel tempo. Cos’ha quello che io non ho?” domandò James, sinceramente interessato. “Un naso più grande del mio?”
Lily trattenne un sorriso.
“Capelli più lucidi?”
Lily sbuffò, indecisa se ridere o riprenderlo per la sua impertinenza.
“Non sei spiritoso” replicò la ragazza, corrucciata, “So che lui è un po’... paranoico riguardo a te e ai tuoi amici, ma non ha sempre…”
James fece un espressione gongolante, i denti luccicanti in una smorfia euforica. “Riguardo a me? Sono il suo peggior incubo, non è vero?”
Lily lo fissò imbronciata. “Sei pregato di smetterla. Severus non saprà difendersi, ma io sì. E molto bene, te lo assicuro.” Per rimarcare le sue parole, fece il gesto di sfilare la bacchetta dalla manica in cui la riponeva.
James, per nulla turbato dal cipiglio di Lily, le mollò un pugno scherzoso sulla spalla.
“Sempre a difendere i deboli, vero? Sempre Mocciosus.. Però quando devi offendere Sirius io devo stare zitto, vero?”
Lily sbatté le palpebre, colpita. “Scusami, io non ..”
“Lascia stare, sei perdonata. Non sarai l’ultima che gli darà addosso per la sua.. Insensibilità maschile!”
Lily non riuscì a trattenere un sorriso. “Insensibilità maschile? E poi sono io quella che parla altisonante!”
James si atteggiò scherzosamente a duro, parlando con voce roca.
“Tesoro, devo nascondere il mio lato sensibile.”
Lily rise divertita, riso che si spense non appena vide l’espressione seria di James.
“Ti piace ancora?”
Lily distolse i suoi occhi verdi da quelli nocciola di James, cercando di nascondergli quello che il suo cuore conteneva. O almeno così credeva.
“Non lo so. A volte.”
James corrugò la fronte, contrariato. “Quindi, accettare di uscire con me oggi è stato un bieco tentativo di corrompere me per arrivare a Sirius?”
Lily spalancò la bocca, interdetta. “Uscire con te? Questo è un appuntamento?”
James sostituì alla sua aria seria un espressione offesa. “Perché? Non lo sembra? Credevo che quando.. All’orologio, due settimane fa.. Avevi accettato, se non sbaglio!”
Lily spalancò ancora di più gli occhi, indecisa tra un sorriso o una smorfia di disappunto. “Trascinarmi fuori sotto la pioggia senza spiegazioni, al lago, in pieno autunno...
E' un appuntamento per te?”
“Bè, non potevo certo portarti a Hogsmeade come le altre, Evans.”
Lily non riuscì a nascondere in fretta l’espressione amareggiata che le calò sul viso, al che James si affrettò a rimediare, torcendo il busto e cercando di mettersi davanti a lei, parlandole a quattr’occhi.
“Non fraintendere, Evans. Se ti ho trascinato qui, perché ti ho trascinato è vero, l’ho fatto perché non volevo che fosse un appuntamento. Volevo.. Che ci fossi tu. E io. Insomma, una cosa così. Diversa dalle altre. Solo io... E te.”
Lily rispose titubante. Una strana sensazione di paura e tranquillità le pervadeva le membra, per non parlare della pancia che le doleva, per qualche inspiegabile ragione. Avvertiva una certa tensione nell’aria umida e immobile. Forse era colpa di quella nebbia che nascondeva tutto, rinchiudendoli in una bolla ovattata dove regnava solo quella bianca foschia. Sembrava che le stesse parole di James, avessero evocato quella sensazione, come una formula magica per il mal di stomaco e il dubbio.
“Io e te.. Come.. amici?”
Questa volta fu James a distogliere lo sguardo. Lily vide i suoi occhi incupirsi, la bocca diventare una linea sottile. “Certo. Come amici, Evans. Naturalmente avrei invitato anche Moccio.. Scusami, intendevo il caro Severus, ma non si può dire che frema di gioia all‘idea. Anche perchè credo voglia uccidermi.”
Lily gli batté amichevolmente la mano sul ginocchio, tanto per rimarcare le parole poco convinte del ragazzo e maledicendosi per il sorriso divertito che le era spuntato, quando James aveva parlato di Severus. Era sollevata, per un attimo aveva creduto che.. No. Era stato solo il salto di umore di James che l’aveva disorientata e cercò di rimediare.
“Quand’è che abbiamo smesso?” gli domandò.
“Smesso cosa?” domandò James laconico. Tornò a guardarla negli occhi, ma a Lily non sfuggì il velo inquieto e amaro che ora gli animava le pupille.
“Di essere.. conoscenti. Insomma.. Prima ci salutavamo a malapena..”
“Sarebbe..” James tossicchiò, indeciso su come esprimersi. “Sarebbe meglio dire che non ci sopportavamo.”
“Da quel giorno sul treno”, disse Lily.
“Da quel giorno sul treno”, gli fece eco James, il velo di inquietudine un po’ allentato sulle sue iridi. “Sembra che il quinto anno a Hogwarts porti bene”, commentò con un sorriso sghembo. Lily si rese conto che ora la stava guardando, la stava guardando veramente. E non solo perché gli unici abitanti del mare di nebbia, in quel momento, fossero loro due.
“Stai crescendo anche tu, Lily Evans” disse piano, scegliendo con cura le parole. James parlò con il tono di uno più grande, come se non fossero coetanei.
“Mi chiedo come hai fatto. Sei tornata di nuovo qui, dopo l’estate, come tutti gli altri anni, ma.. Eri, sei.. dannatamente diversa.” Il tono di James si fece beffardo, nel cercare di spiegare un concetto che a lui stesso sfuggiva, “E.. hai scelto Sirius, perché è quello che le ragazze a quest’età fanno. Come le tue amiche.. Buffo, vero?”
Corrugò le sopracciglia, non perché fosse offeso ma come se stesse ragionando su un problema difficile da districare.
“Ti comporti come se ti piacesse Sirius e, credimi, hai tutte le qualità per piacergli..”
“Ma?” domandò Lily piano. Non capiva dove volesse andare a parare il ragazzo. Non capiva ciò che stava cercando di dirle..
James posò lo sguardo sulla riva, dove l’acqua sciabordava piano, nascosta dal vapore delle nebbie. “Ma rimani come una bambina. Ingenua, senza malizia. E non capisco quello che vuoi veramente.”
Lily scosse il capo, intristita. “Non è un gran complimento.”
“Oh, no, mi hai frainteso!” James tornò a dedicarle tutta la sua attenzione, gesticolando allarmato. “Il mio è un grande complimento. Detesto le persone.. Come dire.. Tu sei diversa da loro.”
James le aveva preso la mano di scatto e aveva cominciato a parlare con foga.
“All’inizio ho pensato fossi stupida quando sei rimasta là, impalata ad aspettare Sirius.. Uguale a tutte le illuse che ti avevano preceduta. E solo parlando con te mi sono reso conto di quanto fossi caparbia, fiera, orgogliosa!” James stava sorridendo entusiasta e Lily non ne capiva il perché. Sembrava preda di un incantesimo Esaltante. Poi, tornò serio.
“Non ti ho mai prestato attenzione, la dovuta attenzione, perché.. Non riuscivo a inquadrarti. Non ti capivo. Eri con Mocciosus, eppure non eri.. Come lui. Stavi con le tue amiche.. Ma non eri come loro.”
Lily si accorse che gli occhi le bruciavano e di non poter parlare, perché se l’avesse fatto avrebbe cominciato a piangere come una patetica fontana e non sarebbe stata sicura di riuscire a fermarsi.
“Tu sei Lily Evans. E me ne sono reso conto solo quando ti ho parlato, in quel momento, in quell’istante. Ti ho visto così, senza difese.. E mi è venuta voglia di difenderti.”
James s’interruppe. Rimase a contemplare il viso di Lily, mentre un tarlo nella sua testa urlava freneticamente: Baciala! Baciala! Baciala ora, idiota di un Potter!
Inclinò leggermente il capo. Inevitabile, quando il tuo naso è un po’ più lungo. Li separavano solo pochi centimetri..
Il rumore di passi frenetici, troppi passi, sui ciottoli della riva fece voltare Lily di scatto. James non fece in tempo a maledirsi che un enorme cane nero si slanciò fuori dalle pareti di nebbia, ringhiando in tono basso.
Lily sgranò gli occhi, ma non urlò. Sapeva chi si celava dietro quella sagoma. Severus glielo aveva detto. “A che gioco giochi Potter?” sibilò incattivita e guardinga. Che sciocca farsi abbindolare così, ma era James Potter e avrebbe dovuto aspettarselo. Si sentiva un’ ingenua, esattamente come aveva detto lui. Aveva davvero creduto che quei pochi minuti trascorsi assieme a parlare di sciocchezze avessero potuto cancellare l’arroganza e la presunzione che trasudava da ogni poro di Potter.
James scrollò attonito il capo. “A Quidditch!” accennò un sorriso sghembo, che fece ancor di più infuriare Lily.  “Severus ha ragione a criticare te e i tuoi modi! Sei solo..”
La pelle bianchissima di Lily si era imporporata notevolmente, segnalando al ragazzo che forse l’entrata in scena di Sirius aveva abbastanza scombinato i suoi piani.
Perché quell’idiota non aveva aspettato che Evans se ne fosse andata?
All’inferno, pensò James, tirandosi in piedi velocemente. Lily fece lo stesso, ma a differenza sua, afferrò la borsa e cominciò a correre, sparendo nelle nebbie. James si riprese in fretta e cercò di andarle dietro, ma il vapore si era ormai richiuso dietro di lei, rendendola introvabile.
La voce di Sirius lo riportò alla realtà. “Paura, eh?”
James si lanciò dietro di lui. Non era arrabbiato con Sirius, non gli riusciva quasi mai con lui, ma offeso sì.
“Stupido cane!”
“Ehì!” Sirius mise le mani davanti a sé, per afferrare il braccio levato di James, ancora in lotta con sé stesso per capire se doveva colpirlo seriamente o in modo scherzoso.
“Dovevi portarla ai Manici di Scopa e offrile uno di quei drink con ombrellino e fiori. Ovvio che sia fuggita. Un appuntamento sotto un albero? Mentre piove? In pieno novembre?” Sirius scosse il capo, deluso. “Hai perso del tutto il tuo tocco magico James. Il vecchio metodo Potter attirava di più.”
“Smettila per favore.”
“Per favore?” Sirius fece una faccia esageratamente sbalordita. “Quella donna ti ha cambiato amico mio. Vedi di tornare in fretta  te stesso!”
L’occhiata che James gli indirizzò fece tacere per un po’ Sirius che iniziò a fischiettare la sigla di apertura di MagoMatto, popolare show radiofonico del momento. Il fatto che quella trasmissione fosse incentrata sugli scherzi molesti, fece agitare qualcosa nella mente di James, ancora affascinata dall’immagine di Lily sotto la pioggia, a pochi centimetri da lui.
“E' un po' di tempo che Mocciosus se ne va in giro allegro per i corridoi, non credi?” mormorò distrattamente, cominciando a frugarsi nelle tasche alla ricerca dell’ultimo Boccino vinto, trofeo di una partita Grifondoro-Serpeverde.
Sirius rispose dopo un attimo di silenzio, incerto tra un ghigno e una risata accondiscendente. "Davvero lo trovi allegro, James?”
“Sì” rispose James cercando di scrutare tra le nebbie, là dove Lily era sparita.
Le sue mani si richiusero a pugno sul Boccino e lo strinse finchè le nocche divennero bianche, prima di liberarlo nell’aria, dove cominciò a librarsi, zigzagando. “Quell'idiota ha qualcosa che io non ho, Sirius.”
Sirius fece spallucce, sbuffando divertito. “Non essere avido, James. E poi dubito che Mocciosus abbia qualcosa che possa essere di valore per te... Tranne, bè...” Sirius all'improvviso sorrise, comprendendo dove voleva andare a parare l'altro.
James fece una presa particolarmente riuscita vicino all’orecchio dell’amico. Senza emettere il minimo verso o fare una smorfia. Impassibile. “Non è giusto" disse "Una ragazza tanto bella, vicino ad un essere così brutto...”
Sirius sorrise ancora. Un sorriso entusiasticamente perfido e calcolatore, che rese i tratti del suo bel viso più famelici e arroganti, simili a quelli di un vero Black, come avrebbe detto la sua cara madre.
“In fondo,” riprese James guardando ora il Boccino svolazzante, ora lanciando significative occhiate a Sirius, “Una simile ingiustizia...”
L’amico allargò il sorriso, gli occhi luccicarono febbrili.
“..Deve essere corretta.”


Il presente, torri di Hogwarts.

Il senso di colpa per Severus Piton era un vecchio amico. O quasi. Era più uno scomodo compagno di vita, che anno dopo anno, fin da quando era dolorosamente venuto al mondo, lo aveva accompagnato in ogni istante, oscillando da eventi banali -come l’avere mentito ai signori Evans sul campo estivo in cui avrebbero mandato Petunia- a quelli più gravi -aver condannato a morte, colei che aveva trasformato la sua misera e vigliacca esistenza in qualcosa di vagamente umano.
Perciò quando il senso di colpa, perennemente presente nel suo macchinoso e oscuro cervello si fece più pressante e pungente, Severus Piton cercò di non farci molto caso, sbrigando le faccende quotidiane come se nulla fosse. Maledisse Potter, tolse punti ai Grifondoro e agli altri odiosi studenti affiliati. Privilegiò i Serpeverde, evitando tuttavia la riconsegna dei compiti, ignorando la faccia delusa di Malfoy, ed evitò Silente. Chiacchierò in tono lugubre con la Mc Grannitt, scrisse un gufo a Shakebolt per rimandare la sua partecipazione alla riunione di quella sera, tra la muffa di Grimmauld Place e ne spedì uno a Lucius Malfoy, in cui scrisse cose che gli mettevano rabbia e furia nel cuore al solo immaginarle.
Non aveva voglia di occhiate astiose a cui ribattere in modo pungente e sarcasticamente arguto, a cani e lupi, a nobili o a serpenti. Fare l’ambigua spia tra bene e male, costava la sua discreta fatica.
Così, quando la sera calò sul castello e Severus Piton si ritrovò affacciato alla finestra serrata, dove qualcuno dall’alto dei cieli lanciava secchiate di pioggia battente, non poté fare a meno di pensare all’ingiustizia subita da Luna Lovegood quel mattino.
Il fatto stesso che ai suoi occhi quel fatto gli apparisse come un’ingiustizia era di per sé, straordinario. Severus Piton non si faceva problemi a privilegiare i Serpeverde e a maledire tutti gli altri o a fare il sostenuto, l’arcigno, il perfido sempre e comunque, con chiunque, perché Severus Piton sapeva di avere la sua parte.
Era un uomo solo, non ci voleva granché a rendersene conto. Lui stesso, guardandosi allo specchio, oh, mesi dopo la morte di Lily, aveva compreso che non sarebbe più riuscito ad essere un vero essere umano che stringe legami regolati da sistemi affettivi più o meno duraturi, più o meno complessi.
Non sarebbe stato più nessuno. Il fatto che vivesse in una scuola dove il senso comunitario e il cameratismo erano alla base dei valori dei fondatori, non lo influenzava minimamente.
Severus Piton era un uomo solo, spezzato a metà. Privato della sua luce, aveva compreso che il resto dei suoi anni, che sarebbero stati sicuramente una manciata, li avrebbe trascorsi diventando una marionetta sotto l’egida di Silente, calcando al massimo quel lato acido e incattivito della sua anima, fino a rendersi una macchietta, uno stereotipo. Il tenebroso professore delle segrete di Hogwarts, insegnate di Pozioni.
Severus Piton non esisteva più e lui lo sapeva. Gli era rimasta solo quella corazza da eroe gotico che lotta per un redenzione che con tutta probabilità, non gli sarebbe mai stata concessa.
E adesso, c’era quell’emarginata di Luna Lovegood con i suoi problemi e i blandi tentativi di Silente che voleva fargli trascorrere del tempo assieme, come se lui Piton non avesse altra gioia nella vita che diventare il guardiano di una svitata con gli occhi a palla.
Piton aveva il sospetto che Silente leggesse troppe riviste di Stregapsiche, con tutti quegli articoli sul ‘come creare situazioni per incrementare il dialogo in famiglia’. L’idea delle serate e dei pomeriggi che il Preside gli aveva intimato di trascorrere con la Lovegood era abbastanza balzana da essere scaturita da quelle pagine, rifletté.
Il fatto che la Lovegood avesse fatto la spia sulla Weasley, anche se con tutta probabilità si era solo limitata a straparlare come al solito, lo spinse a pensare che, forse, Luna Lovegood non avesse bisogno di una guida, quanto di un po’ di Magiscotch per tenerle chiusa la bocca. Molto Magiscotch.
Il riflesso della sua faccia cattiva sul vetro bagnato lo catturò. Si trovò terrificante, simile ad un mago mistico troppo preso da sé stesso per sforzarsi a pensare agli altri. Silente si era fatto sfuggire che Luna avrebbe dovuto aiutare lui, ma come? E, cosa non meno importante, perché?
In fondo, lui era Severus Piton. Solo, sì. Spezzato? Certamente. Scontroso? Non v’era alcun dubbio. Perché prendersi il disturbo di aiutare qualcuno già perduto in partenza?
Severus inclinò il capo, cercando di vedere oltre lo spesso strato d’acqua che scorreva a cascata giù per il vetro. Facendolo, colse il baluginio di una luce perlacea alle sue spalle, un ellisse né liquida né gassosa. Il Pensatoio.
Pensare all’incidente Lovegood-Weasley - più l’Inquisitore, ricordò Severus pieno d’orrore. La sua vita era già abbastanza brutta senza che lui pensasse a quella befana-, gli aveva fatto scordare per un attimo la visione che l’aveva scatenato.
Era fuor di dubbio che questa volta l’allucinazione di Lily, si era, in qualche modo, proiettata sulla Weasley e - qui il cervello di Piton s’illuminò-, probabilmente si era anche impossessata del suo corpo senza che lei se ne rendesse conto. Come spiegare altrimenti l’incidente del rospo nel calderone? Non di certo con una presenza fantasma che vedeva solo lui.
Lo scrosciare della pioggia fuori dai vetri bui coprì il gemito soffocato di Severus. E se le allucinazioni stessero diventando solide? Lily poteva forse ritornare, grazie a lui, grazie alla strenua insistenza con cui cercava di rivivere i ricordi passati?
Lanciò uno sguardo allo scintillante magma del bacile, posato nella vetrinetta dei libri. Di cosa poteva essere capace quell’artefatto?
L’aveva usato talmente tanto che era quasi possibile ipotizzare effetti collaterali non spiegabili..
Eppure, queste domande risuonarono vuote, prive di risposta, mentre l’oscuro insegnante si allontanava dalle finestre a larghi passi, verso l’opalescente scintillare del Pensatoio.
Quando si fece scivolare nella sua poderosa collezione di ricordi e memorie, strappate all’oblio del tempo, tutto svanì. L’Ordine della Fenice, il Signore Oscuro, il compito bruciato di Malfoy, Harry Potter, Albus Silente, l’angoscia delle allucinazioni, i Mangiamorte,  il senso di colpa, Luna Lovegood, i suoi doveri, le sue scarse ambizioni..
Ogni cosa, tutto, si dissolse nel vacuo luccicare d’argento e di una fitta nebbia bianca, sulle rive del Lago Nero, in un ricordo non suo. Un ricordo rubato, eppure tanto caro, tanto odioso, di una ferita all’orgoglio all‘inizio di novembre.


Ciao a tutti!
Allora, questo è stato l'ultimo capitolo disponibile su Accio =)
Sono quasi identici, a parte ovvie correzioni. Comunque. Da domani inizierò a postare i nuovi capitoli -ultimamente il tempo libero moi piove addosso- perciò continuate a leggere e a commentare!
Ringrazio tutti coloro che mi recensiscono e mi hanno scritto messaggi di apprezzamento (Sì è vero, adoro scrivere questa storia).
Vi saluto!
Exelle

Nota sul capitolo: So che scrivere spiegazioni su ciò che si è scritto esce un po' dall'etica dello 'scrittore' (Nel mio caso fan writer), tuttavia, sappiate che il ricordo in cui cade Piton alla fine del capitolo è quello che ho descritto in due parti nel corso della storia. Metterlo alla fine sarebbe stato un po' paccoso... Ehm.

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Capitolo 10
*** Il mattino ha la carie in bocca ***


              ***Capitolo Dieci
Il mattino ha la carie in bocca


Mundugus Fletcher riaprì gli occhi cisposi con uno scatto deciso. La luce biancastra del sole lo colpì con violenza e glieli fece richiudere con altrettanta rapidità. 
Era il peggior dopo-sbornia della sua vita, rifletté. E il fatto che si fosse ritrovato in quelle condizioni senza aver nemmeno bevuto, non faceva che rendere il tutto più doloroso, impressione ancor più ingigantita dalle fitte che gli attraversavano la schiena e i lombi, come se fosse atterrato sulla pietra da una grande altezza.
Aveva gli abiti incollati alla pelle e nonostante si fosse abituato da anni al fetore che circondava la sua persona, un misto di polvere, whiskey vecchio e fumo vecchio, quel mattino, sempre che fosse mattino, si trovò particolarmente disgustoso.
Doveva essere precipitato in una piscina di liquami e melma, condita di vari rifiuti tossici. Un’immagine gli balenò nella mente: topi di venti centimetri nuotavano squittendo attorno a lui, in circolo. Come se fosse stato uno scarto da mangiare o un ratto più grosso degli altri desideroso di unirsi al loro gruppo.
Mundungus represse un brivido, ma non  riuscì a trattenere la tosse che cominciò a squassarli il torace con violenza, sollecitando il dolore della bocca. I denti.
Aveva perso quasi metà di suoi denti! E, con suo orrore, non solo quelli veri che benché marci e macchiati, resistevano ad ogni maltrattamento, ma anche le sue belle protesi d’oro cesellato. Si passò la lingua negli incavi, avvertendo il sapore del sangue. La bocca impastata non gli aveva permesso di sentirlo prima. Aveva le gengive come addormentate, la stessa sensazione di quando ti vengono le formiche alle gambe, se stai troppo fermo al freddo.
Zerkinski. Bastardo. Oh, gliela avrebbe fatta pagare a quel sudicio cugino di un troll. Poteva camuffarsi quanto voleva, fingersi miss Strega ‘95, ma Dung l’avrebbe trovato e lo avrebbe ripagato con la stessa moneta. Anzi, non si sarebbe limitato a una mazza da golf  Babbana. Avrebbe rubato dieci mazze, le avrebbe incantate e le avrebbe usate per percuotere la massa di lardo di quel ciccione infame. E, per buona misura, avrebbe percosso anche sua madre.
Dung si passò ancora la lingua sulla gengiva ormai spoglia, contando i solchi dove un tempo sorgevano i suoi amati denti. Assaporò ancora il suo sangue, constatando che aveva un gusto marcio quanto il resto di lui e riprovò a riaprire gli occhi, più attentamente e con circospezione. Questa volta, sopportare la luce fu più facile e anche prepararsi al poco familiare panorama.
Il cielo coperto di nubi bianco sporco aveva tonalità giallastre ed era attraversato da rari pennuti gracchianti che volavano in tondo sulle acque grigie per poi tuffarsi a recuperare qualcosa tra le onde scure e schiumose. Rumore di ferro battuto, uomini e urla, imprecazioni più o meno pesanti venivano interrotte dai fischi delle navi in partenza e il ruggito dei grandi motori dei piroscafi e delle ventole si accompagnava al cigolio delle gru che sollevavano grandi cassoni di metallo scolorati e molto spesso arrugginiti, nelle stive o su,  fino ai ponti brulicanti di uomini.
Era ancora a Londra, ai Docks di Londra. Nella parte più vecchia, a giudicare dai grandi casermoni di mattoni rossi coi tetti di lamiera ricurva e i larghi vetri affumicati, grevi di sporco vecchio di almeno un centinaio d’anni.
Dung giaceva sdraiato in uno stretto e umido vicolo che correva tra due capannoni, dove l’inconfondibile odore di piscio si amalgamava con quello della spazzatura abbandonata da giorni a sé stessa, tra vecchi e malconci bidoni anteguerra. Un paio di passi davanti Dung,  il vicolo - fatto di numerosi ciottoli sconnessi, notò Dung, cosa che spiegò il dolore alla schiena che aveva accompagnato il suo buongiorno al mondo- s‘inclinava e scendeva tramutandosi in scalini, nelle acque puzzolenti di quel tratto di Tamigi.
Tutto sommato, Dung era stato fortunato. La sua smaterializzazione di emergenza lo aveva spedito in un posto dove il suo pastrano e i vestiti lerci non sfiguravano, e ben lontano da ragazzi decorati da spille da balia o da obesi che giocano a fare le modelle.
Si frugò nelle tasche alla ricerca della bacchetta, irta di nodi, esattamente come i suoi capelli. Provò anche a passarsi una mano tra quelli, ma non riuscì a districarli. Qualcosa con la consistenza di super colla e interiora di pesce, li teneva saldamente uniti. Orribile. Dung trovò la bacchetta nella manica (Doveva essere scivolata lì chissà come, ma ringraziò l‘Incanto Legatis che gli impediva di perderla in giro, cosa che agli inizi della sua carriera accadeva assai spesso), ma fu meno contento di rivedere le sue sigarette babbane, con i filtri deformati dall’acqua e il tabacco fradicio a spasso per la sua tasca. Tirò fuori quella poltiglia dalla tasca, senz’altro più profumata di lui, accompagnandola con una disinibita serie di versi e imprecazioni disgustate che non riporterò per non avere problemi di censura.
Si tirò su con fatica, la schiena scricchiolante. Dovette appoggiarsi alla parete respirando affannosamente per farsi forza, mentre le ginocchia tremolavano impazzite.
Che vita schifosa la sua.
Il fatto che fosse stato Silente con la sua richiesta a farlo finir lì, fu un pensiero di pochi secondi. Fondamentalmente non ce l’aveva con Albus per l’ingiusta e poco -per nulla- retributiva missione che gli aveva affidato, ma ce l’aveva con sè stesso per il modo in cui stava gestendo quella ridicola caccia al tesoro.
Se durante quegli anni non avesse sempre fregato Zerkinski, il loro incontro sarebbe stato diverso. Se non si fosse messo a dibattere con i Babbani sui ponti, se si fosse impegnato a trovarsi una brava donna invece che un buon Whiskey, se fosse stato più intelligente, perchè, come gli ripeteva sua madre furbizia non fa’ rima con sapienza, le cose sarebbero state diverse. Le dita dalle unghie sporche e spezzate fecero leva tra le crepe dei mattoni e Dung cercò di raddrizzarsi e camminare. Le possibilità offerte dai se, gli ronzavano in testa in un infinito carosello di opportunità perdute. Maledizione.
Non aveva l’età per giocare al ladruncolo di serie C.     
Aveva l’età per l’ospizio, ecco cosa. Ne era praticamente sicuro, mentre a passi lenti e barcollanti, con una mano appoggiata al muro annerito si avvicinava agli scalini e all’acqua. Mentre contemplava le piccole onde di schiuma e bolle, inquinamento Babbano, ripensò a quanto era stato fortunato a smaterializzarsi prima di finire arrostito da quel pazzo meticcio polacco, bulgaro o quel che era. Il suo doveva essere proprio un odio viscerale se aveva cercato di ammazzarlo dando fuoco alla sua cara barchetta da contrabbandiere filo-Babbano.
Dung scese due dei viscidi scalini che scomparivano nelle acque torbide del fiume. Non ricordava se la smaterializzazione l’avesse fatto prima finire nell’acqua, come i suoi abiti fradici facevano pensare, o se fosse finito direttamente sui ciottoli del vicolo con un bello schianto. Non lo ricordava, ma non era importante. L’importante era essere vivo. Mundungus sorrise, storcendo la bocca e la faccia. La patina di sangue secco che gli colorava il viso si crepò in mille frammenti. Contemplò lo squarcio di porto che si apriva davanti a lui, cominciando a pensare alla prossima mossa.
Il porto, a differenza della buona parte di Londra, era poco frequentato dai maghi. Per qualche ragione pochi di loro amavano veramente il mare, troppo concentrati com’erano a fissare i loro domini e il loro potere sulla terra ferma. Sarebbe stato alquanto improbabile incontrarne qualcuno a passeggio per i Docks, tantomeno una banda di Mangiamorte. Di certo quei brutti ceffi repellevano gli sforzi combinati di più Babbani e dei loro rumorosi macchinari che si ostinavano a trascinare oltre infinite -per loro- distese marittime, casse cose e carcasse.
Anche Mundungus non li capiva, ma lui a differenza dei Mangiamorte, tollerava più che bene l’odore di pesce marcio. Avrebbe potuto attraversare il porto, comportarsi da Babbano e raggiungere Grimmauld Place, ma la metro e quei terrificanti autobus privi di Sensori Frenanti lo atterrivano. Occorreva un diversivo.
Mundungus Fletcher stirò le braccia e le sue ossa scricchiolarono. Era pronto a riprendere la caccia all’oggetto chiesto da Silente, un qualcosa da vendere -più o meno-, etichettare, smerciare. Ma prima, aveva bisogno di una buon’anima che gli offrisse un the caldo e un po’ di cure dato che Dung aveva avuto un paio di diatribe con quelli del San Mungo, a seguito di alcune pozioni curative, lenzuola, occhi di lucertole Nottilucose, foglie di Lauro rosso e altre cose scomparse e sarebbe stato da scemi andar a chiedere aiuto lì senza una copertura seria..
Pregustando uno stufato di cavolo e biscotti al rabarbaro, cominciò a girare su sé stesso, direzione Little Whinging, Surrey.

 

                                                                                                                                  ***

 

Severus Piton benedì il suo giorno di riposo settimanale versandosi una generosa dose di vino elfico al tavolo della colazione in Sala Grande. Ignorò smaccatamente l’occhiata di disapprovazione della McGranitt, evitando di farle notare che pochi posti più in là, oltre la sedia vuota del Preside, Sibilla Cooman dava il peggio di sé, rivestendo un’enorme brioche con della panna montata e correggendo il suo succo di zucca con dello sherry Rosenthal & Son. Contemporaneamente.
Severus Piton contemplò amareggiato quel disgraziato spettacolo culinario, prima di tornare alla sua colazione. Diversamente dal suo solito, vale a dire farsela spedire dalle cucine direttamente nel suo alloggio per non vedere faccette felicemente assonnate già alle prime ore del mattino, quella mattina aveva abbastanza entusiasmo in corpo, -laddove entusiasmo viene qui usato al posto di noia-, per affrontare l’inizio della giornata in compagnia di qualcun altro che non fosse lui stesso. In realtà, quella scelta dipendeva dall’attribuire al brusio degli studenti affamati il potere di distrarlo, facendogli lanciare occhiate imperiose ai gruppi più chiassosi, riducendoli più spesso al silenzio, piuttosto che ad un quieto e rispettoso mormorio.
Severus Piton si divertiva con poco, dopotutto.
Quella mattina però aveva la strana sensazione che i gruppi di studenti chiassosi fossero già stati azzittiti da qualcuno. Non solo. Anche se Severus Piton non era un assiduo partecipante delle colazioni in Sala Grande, notò che pochi studenti affollavano i tavoli delle Sale Comuni. Era più facile vedere, constatò, studenti indaffarati a depredare i piatti da portata per poi sparire alla chetichella verso la grande porta ad arco e disperdersi in altre zone del castello, prima dell‘inizio delle lezioni mattutine. Piton studiò tre di loro, Padma Patil, Gloria Stauton e Bill Foster, nascondere senza tanta circospezione, numerosi biscotti glassati nelle tasche delle borse, per poi uscirsene a braccetto fuori dalla Sala, accompagnati dalle loro risatine da ribelli occasionali. Si appuntò mentalmente di punirli in qualche lezione successiva, non perché stessero commettendo un‘infrazione, ma per il malessere che quelle occhiatine complici e infingarde, avevano rievocato in lui.
I bui, imperscrutabili occhi dell’insegnante vagarono per la sala, cercando la ragione di quella nuova, strana abitudine degli studenti. Avrebbe capito se fosse stata estate, in cui una colazione gomito a gomito con cento persone poteva rivelarsi un po’ opprimente ma, Santa Priscilla, era novembre inoltrato!
L’interesse di Severus ben presto sembrò scemare, quando un punto color rosa confetto, talmente rosa da sentirsene ferito, fornì la spiegazione più ovvia. A quanto pareva quel rospo ministeriale che rispondeva al nome di Dolores Umbridge, faceva così schifo agli studenti del castello che essi disertavano la colazione in Sala Grande.
Eccola là, con il suo rossetto perla, il suo girocollo pacchiano e una spilla sagomata a gattino sul petto. Sorseggiava il the a sorsi microscopici, tenendo la tazza con la minima parte di polpastrelli, come provasse disgusto bere e a toccare la porcellana.
Piton rimase intento a studiarla, osservandone gli occhi guizzanti, indaffarati a schedare ogni studenti ai tavoli. Un osservatore distratto non se ne sarebbe accorto, così come non si sarebbe mai accorto del disprezzo che Piton aveva nei suoi confronti, ma chi avesse avuto la pazienza di guardarla avrebbe notato il gelo calcolatore nelle iridi cerulee.
Severus strinse impercettibilmente le labbra. Se la sarebbe presto ritrovata in classe, pronta ad un’altra verifica. Vecchiaccia. Poteva rimanersene nel sudicio buco da cui era uscita, avrebbe solo fatto un favore al mondo magico.
Il fatto che ora il rospo stesse fissando una testa irta di ribelli capelli corvini e occhiali rotondi, non attenuò il disprezzo che Severus provava nei suoi confronti. La vide appuntare qualcosa su una pergamena -sempre sorseggiando il the e con gelida grazia, diversamente dalla Cooman-. Severus vide le labbra della donna stirarsi in un sorriso conciliante dietro il bordo dorato della tazza e avvertì una strana sensazione. Un misto di furia e ..gelosia? Era inevitabile che Potter finisse tra le grinfie di quella laida amante dei gatti. Dopotutto, da quando era a Hogwarts, Harry Potter finiva sempre tra le grinfie di qualcuno. Ma questa volta non si trattava dei lunghi artigli del Signore Oscuro, ma di quelli inutili e stupidamente ciechi del Ministero, a cui non importava nulla fuorché dell’ordine e della tranquillità, elevando a virtù la stupidità ed eliminando..
Bè. Quelli come Silente e Potter.
Severus Piton riportò la sua attenzione alla colazione, ma la fame gli era ormai passata. Riposizionò accuratamente bicchiere, posate e piatto, si alzò, e senza guardare nessuno, sparì nella porta laterale alla Sala, evitando accuratamente di passare in mezzo alla marmaglia degli studenti. Era il suo giorno di riposo settimanale, dopotutto.

Un’ora e mezza dopo, Severus Piton sedeva immobile in fronte alla finestra, fissando il cielo plumbeo e solo quello, dalle finestre arcuate della torretta in cui Silente aveva momentaneamente fatto traslare l’alloggio del tenebroso professore.
Era il suo giorno libero, vero. Ma lui era anche una persona sola e triste e solitamente, le persone così, non sono all’apice dell’euforia nei giorni liberi da impegni.
Severus Piton aveva anche chiuso l’unica vera fonte di distrazioni a doppia mandata nella vetrinetta dei libri costosi, dopo aver solennemente promesso a sé stesso -verso le tre del mattino del giorno prima, in un penoso stato confusionale e amareggiato- dopo essere riemerso da un ricordo non particolarmente esaltante, di non ricaderci più.
Almeno per un po’.
Eppure, mentre il cielo biancastro fuori dai vetri offuscati dalla condensa veniva attraversato da qualche raro gufo, il suo pensiero si trovò di nuovo, inevitabilmente, dolorosamente avvinghiato al Pensatoio e a ciò che conteneva. Ora, solo il bacile sembrava riempire la sua testa nient’altro, ma questa volta c’era qualcosa di diverso. I suoi occhi si soffermarono sulla condensa delle finestre, un dettaglio all’apparenza insignificante, ma che gli riportò alla mente un banco di nebbia. Una riva umida, ciottoli smossi da passi, suoni smorzati. Lily.
E Potter. E Black.
Quello che aveva visto poche ore prima. Nel ricordo.
Severus Piton corrugò le sopracciglia e si rese conto, per la prima volta da quando Albus gli aveva affidato il Pensatoio, che per quanto i suoi pensieri fossero confusi, schiavizzati dalle allucinazioni e apparentemente impossibili da disciplinare, ora riusciva a guardare quell’insana ossessione per il passato con un po’ di obbiettività.
Stava seguendo un percorso. L’aveva già deciso in precedenza ma capiva che c’entrava anche il suo istinto. Non lo ricordava bene, ma riconosceva che c’era del metodo, nel suo modo di abbandonarsi ai ricordi per stare accanto a Lily, anche se solo in spirito o nei meandri della memoria. Seguiva un ordine vago, ma adesso non ricordava se l’avesse fatto con coscienza o solo per casualità.
Come se l’avesse fatto per sciogliere i nodi del passato.
La sorella di Lily, Silente che li spiava con lui da una veranda...
Severus si rese conto di come facesse fatica a distinguere il vero dal falso, i ricordi dalla finzione, quando era stato adulto e quando era bambino. La testa cominciò a dolergli ma s‘impuntò. Doveva rimettere ordine.
Ricordava il primo in cui si era gettato, il primo in cui aveva iniziato a parlare, parlare davvero, con Lily. Erano seguiti quelli dei giorni estivi in cui ancora la spiava con la sua famiglia dalle finestre, senza il coraggio di bussare... Della sua fuga da casa con lei, la vita con gli Evans e l’arrivo di Silente, il ritorno di Tunia e il primo diverbio con Lily... Pian piano, cominciò a trovare un nesso.
Lui che tornava a casa sotto la pioggia, sua madre stesa per terra, svenuta...
Questi erano tutti i ricordi principali, inframmezzati da altri più insignificanti di brevi momenti in cui si gettava a seconda dell’umore. Lui che faceva pace con lei, alcune passeggiate assieme, l’una di fronte all’altra a confrontare i compiti, in giro per Hogsmeade, la prima partenza dal Binario 9 e 3\4 .. Cosa vuoi Severus? Una Lily comprensiva, una Lily che fissa la volta di foglie in una radura? O una Lily furiosa, vendicativa...
Come quella della torre dell’Orologio.
Solo che, pensò lo spigoloso Severus, quella non era stata un ricordo. Anche se quella Lily sembrava proprio uscita dal 1975, in gloria e bellezza. Quella che aveva detto tutte quelle cose orribili, cose che Severus adesso, lì in poltrona, non ricordava. Le aveva dimenticate apposta, tanto erano dilanianti e affilate.
Piton aveva usato -e usava- i suoi ricordi, per rivivere la sua vita e la vita di Lily, cercando di non pensare al finale già noto di quella storia, niente di più.
Lo faceva con ostinazione, come se quel mare non solido, non gassoso e non liquido ma che era tutto e non era nulla, possedesse il potere di cambiare l’inevitabile. E forse stava funzionando, perché...
Quelle allucinazioni dovevano pur significare qualcosa, no?
Severus si contemplò le mani nodose, la pelle giallina tesa sulle falangi, bianca sulle nocche. Mani morte e malate, mani da pozionista, brutte a vedersi.
E se le allucinazioni  fossero Lily? Trovò il coraggio di chiedersi. Sapeva quanta ingenuità c’era in quell’interrogativo, ma era talmente amareggiato e offuscato da flebili speranze, che si rifiutò di trovare una spiegazione logica. Come sempre, ultimamente.
Era stata quella Lily all‘orologio, più di allucinazione ma meno di un fantasma, ad aver aperto la strada ai ricordi successivi, quelli con cui  adesso Severus si ritrovava a fare i conti, tutti un‘altra cosa, rispetto a quelli dolceamari dell‘infanzia.
L’inizio del quinto anno. La fissazione di Lily per Sirius Back e Potter... Potter che cominciava a ronzarle attorno, invece di limitarsi a starsene a distanza  a giocare al re del mondo, al signore del castello.
Era stato un salto brusco, ma Piton, il Piton adulto seduto solo alla finestra con gli occhi neri quasi vitrei, l’aveva inspiegabilmente accettato. Lui era un naufrago nel mare dei suoi stessi ricordi. Che diritti aveva di scegliere quelli con cui crogiolarsi? Tutti, rispose quella ancorata saldamente al suo amore incondizionato. Nessuno, contrattaccò la sua parte logica.
E mentre pensava a questo, la mente di Severus Piton cominciò a ragionare con quell’errato sistema con cui ragionano tutte le menti umane, qualcosa che aveva sempre temuto di fare.
Cominciò a unire fatti, collegare cose, tracciare confini e conseguenze. Eliminare le coincidenze, giustificare tutto e dargli un senso preciso. Come se facesse parte di uno schema, di un destino già deciso.
Aveva avuto il Pensatoio da Silente. Silente aveva accennato a un compito, ma erano passati quasi due mesi e il Preside non gli aveva detto più nulla...
Severus aveva cominciato a considerarlo quasi come un dono. Aveva iniziato ad usarlo per rivivere i suoi ricordi, da bravo egoista. La tentazione era stata troppo forte.
E... Forse Silente glielo aveva passato proprio per quello...
Se si fosse trattato d’altro, Piton sapeva che il suo atteggiamento sarebbe stato ben diverso. Custodisci qualche aggeggio magico! Spia Lord Voldemort! Aiuta Harry Potter!
Severus aveva sempre obbedito ciecamente a ogni ordine del Preside, rispettandone ogni sfumatura. Ma quando aveva saputo che cosa avrebbe dovuto custodire questa volta, bè..
Non era certo bastata la morte di Lily a fermare Piton, il folle, pazzo Piton che ora si ritrovava lì a riflettere sulle complicazioni e su quello che poteva derivarne. Pronto a tentare di risolvere il dilemma.
I ricordi si erano succeduti, quasi rispettando un ordine. Infine, erano cominciate le allucinazioni, culminate all’episodio della torre orologiaia.
E lì, Lily 1975 gli aveva parlato da pari a pari. Vagando tra reminescenze -come il vaneggiare su una festa di Lumacorno- e cose che la vera Lily -Severus ci sperava, ingenuamente-, non gli avrebbe mai detto. E da quando era accaduto, i ricordi del Pensatoio erano schizzati avanti nel tempo immobile ed eterno in cui vivevano. Al quinto anno.
Severus ricordò con amarezza quello più nitido nella sua memoria; il giorno in cui Lily era rimasta per ore, vestita in modo assurdo, ad aspettare l’arrivo di Black.. Senza sospettare di essere vegliata dal suo iperprotettivo amico d‘infanzia.
Piton battè le sue mani giallastre. Se fosse stato un uomo normale si sarebbe azzardato ad urlare un Eureka!
Aveva trovato la coincidenza delle coincidenze. Quel ricordo non era forse capitato proprio dove, nel presente, sarebbe apparsa l’allucinazione? Un’allucinazione corporea oltretutto... Severus chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Con tutto quel lavorio di meningi era in preda al mal di testa e alla frustrazione. Perché non riusciva a trovare un nesso convincente? Perché, si ricordò, c’erano altri dilemmi insoluti che si agitavano sul confine tra certezza e follia che gli impedivano di vedere il quadro completo.
La Lily comparsa a Pozioni era più simile a quella dell’Orologio o a quella muta, che si era proiettata su Luna Lovegood e che lui aveva per sbaglio abbracciato?
C’era la possibilità di parlare ancora con Lily? La vera Lily?
E quei  momenti in cui il suo cervello s’inceppava, definizione orribile per un’intellettuale come lui, avevano a che fare con il Pensatoio o era il proverbiale stress dell’essere insegnanti, acuito dal fatto che lui, oltre a insegnare, fosse anche una spia con triple coperture?
E, infine, perché il ricordo del mare di nebbia l’aveva sconvolto a quel punto, ora che si era fermato a rifletterci sopra?
La risposta a questo è infinitamente semplice, amico mio, suggerì una voce melliflua dentro di lui. Una voce conosciuta che un tempo, oltre a quella di Lily, era stata l’unica ascoltata, prima ancora di quella dell‘Oscuro Lord..
Sei un essere spregevole, Severus Piton. Brami e concupisci, ma non fai nulla per ottenere ciò che desideri. Nulla per rendere le cose più semplici..
E poi era la sua voce a rispondere, ridotta a un ringhio basso. Allora dillo, dimmelo! Cosa devo fare?
Comincia a lottare, rispondeva la voce, ma non al suo gioco perchè non ne sei in grado. Usa l’astuzia, scendi al compromesso e soprattutto, non essere debole.
Nella mente di Severus Piton, comparve un immagine, un frammento.
Un filo d’argento, perlaceo.. Si tendeva e si attorcigliava, all’estremità di una bacchetta. Saliva in volute, scendeva in gocce simili ad acqua. Severus Piton, seduto davanti alla finestra, ricordò. Avvertiva un lancinante dolore al petto, la gola riarsa. Il dolore dell’anima diventava fisico. Le mani tremanti.
Sapeva perché quel ricordo faceva più male degli altri e perché lo sconvolgeva.
Era stato il primo che aveva rubato.
E  l’aveva fatto senza rimorsi, proprio come Malfoy gli aveva spiegato.             

                                                                                                                                       ***

Arabella Figg cominciò la sua giornata con stracci al braccio e detersivi vari sottomano, radunati in una cesta colorata, fornita di rotelle, con cui li trascinava in giro per casa.
Aveva alzato i termosifoni e il riscaldamento al massimo e, contemporaneamente, aveva fatto partire un cronometro per non dimenticarsi di riabbassarli ad una temperatura accettabile. Una volta aveva fatto l’errore di tenerli accesi troppo a lungo ed aveva avuto un poco piacevole incontro con il Babbano responsabile del gas.
A volte, se lo sognava ancora la notte.
Camminando a piccoli passi con le sue ciabatte infeltrite, raggiunse la cucina, il carrellino dei detersivi subito dietro di lei, traballante. Decise di cominciare dalle piastrelle dietro il lavandino, con quei girasoli dai colori brillanti che la rendevano così accogliente, coperti da una leggera patina d‘unto.
Arabella si voltò verso il carrellino, studiando attentamente i tappi e i dosatori a spruzzo dei vari prodotti.  Sarebbe stato più indicato un Lucida-Facile per superfici lisce e inalterabili o uno Sgrassasubito all’aroma di lavanda? Entrambe le confezioni erano incredibilmente accattivanti..
La donna rimase bloccata per un po’, le narici dilatate ad annusare il profumo migliore. Sarebbe rimasta lì ancora a lungo, se un fracasso alla porta d’ingresso non l’avesse riscossa dal torpore contemplativo in cui era precipitata.
Il batacchio stava ancora sbattendo, a giudicare dallo scossone che aveva ricevuto. Arabella afferrò entrambi i detersivi e posizionò gli indici sui grilletti degli spruzzatori, dopo aver regolato le modalità di erogazione di entrambi da ‘Schiuma’ a ‘Spruzzo’.
Era una Maganò, ma anche se quello all’ingresso fosse stato Tu-Sai-Chi in persona, lei gli avrebbe sgrassato eroicamente la faccia .
Si trascinò con le ciabatte infeltrite fino al tinello, la schiena curva, mentre camminava rasente i muri. Oltre i vetri smerigliati, una sagoma tozza e scomposta che non aveva nulla di umano, attendeva.
Un piccolo Troll a Little Whinging, proprio lì, a Privet Drive?
Arabella fece due più due. Probabilmente l’avevano mandato a cercare Harry Potter. E quello doveva davvero essere un Troll più stupido del normale, perché:  
a) Harry Potter era a Hogwarts.
b) Il mini-Troll aveva sbagliato numero civico.
c) Aveva messo i suoi sudici piedi sullo zerbino di Arabella Figg.
Arabella sbuffò impercettibilmente. Avrebbe voluto tornare indietro e sostituire gli spruzzatori con un arma più consistente, un aspirapolvere magari, ma non c’era tempo.
Era invece tempo di un’azione eroica.
Scivolò rapida di fronte alla porta, allungando una delle mani armate verso il pomello e cominciò a ruotarlo lentamente. Con un clic! Sommesso, la porta si aprì..

Quella mattina, il postino addetto alla periferia Sud di Little Whinging assistette a una scena curiosa. Fermò il camioncino davanti al numero undici, imbucò la lettera nella buca di Mr. Marrowe e camminò rapido sul marciapiede, la testa ondeggiante al ritmo della musica sparata nelle cuffie dal walkman. Si fermò quando vide lo scempio in una delle aiuole della signora Buster. A quanto pareva, un ignoto vandalo aveva malamente sradicato alcune delle sue orchidee e un paio di girasoli, per non parlare delle manciate di gelsomino e passiflora che qualcuno aveva strappato a manciate. Era un vero peccato, non solo perché quei fiori erano in sé belli, ma anche per la fatica che miss Buster faceva a mantenerli vivi anche nel cuore dell’autunno tra concimi speciali e lampade-calorifero.
Il postino vide le orme nette che vecchie scarpe avevano lasciato nelle aiuole, le stesse che proseguivano poi su per il marciapiede. Incuriosito, le seguì.
Non ci volle molto a individuare il colpevole. Se ne stava bello bello sul pianerottolo d’ingresso alla casa della vecchia signorina Figg, quella vecchia gattara svitata. Il losco figuro, teneva i fiori martoriati disposti a formare un bouquet che avrebbe tormentato e disilluso il più incapace dei fioristi nascosti dietro alla schiena. Le tracce di terra portavano dritto dritto alle sue scarpe incrostate.
Il postino, forte del suo senso civico, si era quasi deciso ad andare da quel sudicio ometto, la cui figura emanava cattivo odore al sol guardarla da venti metri di distanza, a chiedere spiegazioni, quando la porta di vetro e vernice smeraldo della vecchia Figg si aprì. La scena dopo fu assai confusa, tanto da far inorridire il postino, invogliandolo a nascondersi dietro uno degli arbusti a lato del selciato.
Dalla porta era emersa la signora Figg, in tutta la sua vegliarda stramberia. L’anziana non perse tempo in convenevoli. Cominciò a spruzzare qualcosa da dei flaconi colorati negli occhi dell‘ometto sudicio, i capelli sfuggenti dalla retina rosa che li teneva in ordine in testa. L’uomo, colto di sorpresa, cadde sulla schiena schiacciando i fiori rubati tenendosi le mani sugli occhi e gemendo disperato. La Figg continuò ad aggredirlo almeno finché non urlò -Maledetto Fletcher!- l’uomo abbassò le mani dal viso, e smise di contorcersi, dando una nuova opportunità alla donna di aggredirlo con i suoi flaconi, urlando stridula.
Il postino rimase ancora un po’ a osservare quella scena allibito, dopodiché raccolse la sua borsa e se ne tornò rapido alla camionetta. Forse, quel per giorno, avrebbe evitato di fare il giro stradale più corto.

“Figgy, smettila sono io!” ululò Mundungus, capovolto sulla schiena come una tartaruga ubriaca. Non che le tartarughe fossero delle alcolizzate, ma il puzzo di alcolici che usciva dalla nefanda bocca di Fletcher suggerisce questa metafora.
“Figgy, abbi pietà, sono io, Mundungus!” rincarò l’uomo. “Proprio perché sei tu faccio così, Fletcher, maledetto!” replicò la Maganò. Spruzzò ancore qualche bella dose di sgrassante alla lavanda nella sudicia bocca di Fletcher, incurante delle sue grida di dolore. Dolore che fu così forte - Dung aveva appena perso quasi mezza dentatura, dopotutto- che l’uomo si rialzò, gli occhi rossi e acquosi per il mix di detersivi e caricò Arabella a testa bassa. Finirono entrambi nel tinello urlando, lasciando la porta quasi spalancata.
“Harry Potter, Mundungus, maledetto!” Dung cercò senza successo di ripararsi dalla gragnola di colpi che Arabella riversava sul suo capo bisunto, attendendo che si calmasse. Quando i colpi rallentarono, provò a parlare. “Argh! Figgy, sono stato aggredito!”
“E chi se ne frega?” Stump! “Avrebbero dovuto aggredirti più seriamente! Almeno ora non saresti qui!”
Il flacone del lucidante lo colpì sullo zigomo, “Fetente di un Fletcher!”
Passarono altri dieci minuti di colluttazione, che si conclusero solo quando Arabella vide le macchie di terra umida sul tappeto d’ingresso. Assestò un ultimo deciso scappellotto sulla crapa di Dung, prima di mormorare con la voce intrisa di dispiacere: “Il mio bel tappeto..”
“Su, su..” Mundungus sfilò la sua bacchetta dalla manica, mormorò un incantesimo e le macchie di terra sparirono.  O almeno, la terra sparì, lasciando aloni umidi e poco invitanti sul tappeto. Arabella strinse gli occhi e storse il naso, in preda ad una furia gelida. “E poi sono io la Maganò..”
“Scusa scusa” borbottò Dung alzando le mani più per proteggersi che per scusarsi, “Però conosco un tipo che.. “
“Oh, Fletcher. Certo che conosci un tipo. Magari lo stesso che ha fatto quella cosa alla tua faccia” sibilò la signora Figg, ciabattando verso la cucina con piglio altero.
“Allora te ne sei accorta?” ribattè Dung meravigliato, seguendola e sedendosi al tavolo coperto da una tovaglia incerata dai colori autunnali con un motivo a castagne.
“Certo. E fagli i miei complimenti. Ora sei ufficialmente l’essere più ripugnante del Sud e del Nord della Gran Bretagna.”
Dung, invece di sentirsi offeso replicò, sornione: “Perché, prima no?”
“Oh, prima non avevi ancora battuto Nessie. Povera creatura, meglio lei in casa mia che te, puzzone!” Arabella riafferrò degli stracci dal suo carrello e cominciò a pulire le piastrelle con i girasoli, cercando di ignorare la puzzolente presenza di Dung alle sue spalle. Cosa non facile dato il fetore che lo circondava come un mistico alone. “Si può sapere dove sei stato?”
“Beh.. Un po’ dappertutto.. Qui.. Là.. La vita dell’intrepido oltre la barricata. Top secret.”
Arabella si girò, lanciò un occhiata al viso martoriato di Dung e alla depressione che gli deturpava il brutto muso, dove un tempo avrebbero dovuto starci dei denti.
“Già, immagino.”
“E dai, Figgy Fi, non fare l’indisponente” mugugnò Mundungus affranto. Arabella lo ignorò, ma cominciò a sfregare le piastrelle con più energia, finché un mugolio non la scosse.
Si voltò di nuovo e vide che Little Chopra, la gatta che aveva recuperato in un cassonetto due settimane prima, era entrata in cucina, diretta verso Mundungus. Ora era lì a strusciarsi contro di lui e il suo pastrano, adagiandosi sul suo grembo e facendo fusa così fastidiose e rumorose che impedirono ad Arabella di ricominciare a pulire. Sospirò, ripose il kit casalingo nel carrello e sì sedette al tavolo di fronte a Dung, intento ad accarezzare il gatto e a ridacchiare.
“Ehi, gli piaccio!”
Arabella strinse le guance. “Solo perché puzzi di pesce marcio, signore degli unti.”
“Ah-a. Arabella per quanto ti dovrò domandare scusa? Avevo un aff..”
La signora Figg si protese verso di lui, il viso fossilizzato in un’espressione furiosa.
“Non ci provare, Mundungus, non ti azzardare a campare scuse!”, sibilò.
“Pace sorella!” ribattè Dung, sollevando le mani in un gesto di resa.
“Non sono tua sorella, grazie al cielo. Se lo fossi dovrei avere degli orribili baffi rossicci probabilmente.”
“Ma io non ho i baffi.”
“Non hai nemmeno una sorella, ma sei orribile lo stesso.”
“Ma se avessi una sorella baffuta, sarei meno orribile?”
“Ti ci vorrebbe ben più di una sorella baffuta per sembrare anche solo lontanamente simpatico, sai?”
“Ehi, dai, Figgy, scusami per il tappeto. E per Potter. E poi non è vero che sono antipatico, cioè, Sirius..”
“Oh, certo” Arabella alzò gli occhi al cielo. “Ovvio che quel caro ragazzo, cominci a trovarti simpatico dopo tutti questi mesi in cui se ne sta rinchiuso a  Londra.”
“Divertente”, borbottò Dung, colpito nel segno. Maledetta Arabella, era più acida di un pompelmo avvizzito.  I gambaletti color carne, il vestito sbiadito e la retina ingannavano, facendola  passare per un’un anziana Babbana matta, la cui unica gioia era catalogare i gatti che recuperava qua e là, ma in realtà, era fatta di tutt’altra pasta. Anche se un po’ matta lo era davvero.
Una Maganò con gli attributi, ecco cosa, ma evitò di dirglielo. Non voleva renderla troppo orgogliosa.
“Avresti dei vestiti da prestarmi?”
“Oh, Mundungus” Arabella roteò gli occhi, smettendo di fissare il cielo biancastro fuori dalla finestra e puntandoli sul sudicio dell’uomo davanti a lei. “Hai di nuovo ripreso a vestirti da donna?”
“No, per l’amor di Merlino, no!”
“Ti hanno cacciato da un altro pub?”
“No! Solo... Devo andare al San Mungo a farmi riattaccare qualche incisivo.”
Arabella si alzò e cominciò a trafficare con la teiera, borbottando distintamente: ‘A farsi riattaccare mezza mandibola, altro che due incisivi’.
“Ti ho sentito..” borbottò Dung in risposta, con un sorriso affaticato. Sentiva ancora il gusto del sangue. Rimasero per un po’ zitti, mentre l’acqua messa a bollire cominciava a gorgogliare e le fusa del gatto si facevano sempre più rilassate.
Arabella attese che il fischio del bollitore rompesse la quiete, prima di domandare:
“Perché proprio i miei vestiti? Non potevi andare a Diagon Alley a ramazzarli da qualche parte, vecchio balordo?”
“Ma dai Figgy, perché sbattermi in giro a cercare, quando abbiamo la stessa taglia!”
Arabella smise di versare il the fumante e lo fulminò con lo sguardo, “Mi stai dando della nanerottola sovrappeso?”
Mundungus sfoggiò appena in tempo la sua miglior espressione sincera. Fu quasi credibile con la faccia violacea, gialla e rossastra.
“Ma Figgy, no! Tu sei meravigliosa! I tuoi calzini sono...”
“Oh, ti prego. Risparmiami i tuoi tentativi di.. Qualunque cosa siano.”
Mundungus non se lo fece ripetere due volte, ma scattò in piedi, lasciando scivolare giù il gatto con un miagolio acuto. Arabella strabuzzò gli occhi, indispettita. Si preparò a lanciargli il the bollente addosso, ma Dung si affrettò a dire:
“Sono in missione per Silente.”
Arabella cominciò a prendere la mira.
“Te lo giuro, Figgy Fuggy!”
La Maganò si preparò a lanciare, chiudendo un occhio e aguzzando l’altro. Dung cominciò a spostarsi da destra a sinistra, sempre tenendo il tavolo a frapporsi tra lui e Arabella. “Devo recuperargli una cosa, in fretta. Sai com’è fatto Albus, tutto strano, tutto sulle sue. Vuole sempre che facciamo tutto senza sapere perché.. Sai, il gioco dei bravi soldatini che difendono il bene.. Sorveglia quello, schianta quello, spia quell’altro, trova il mistico..”
“Il mistico Accendisigari del mago di Buddemore..” suggerì una voce gentile .
“Sì, vero, cose così.” Mundungus si risedette al tavolo, convinto che fosse stata la Maganò. Non si rese conto che Arabella aveva abbassato la teiera e dell’espressione confusa che le risaltava sul viso.
“Albus?”
Mundungus recuperò il gatto sotto al tavolo, mugugnando: “Si Figgy, te l’ho detto. Il grand’uomo mi ha mandato in missione. Molto pericolo. Top secret.”
“Vero, lo confermo” continuò la voce melodiosa alle spalle di Dung. E allora, toccò a lui sorprendersi. Si voltò, trovandosi faccia a faccia con il vetusto Preside di Hogwarts, in tutto il suo aureo fascino. Dung quasi si strozzò con l’aria che stava respirando.
Diversamente dal solito, Albus Silente non indossava una delle sue vellutate e pacchiane vesti con cappelli coordinati. Sembrava più un Babbano eccentrico, con un lungo cappotto nero dagli ampi risvolti e dai bottoni dorati, che attirarono l’occhio rapace di Mundungus come calamite.
“Sfortunatamente per te sono di bronzo, amico mio” disse cordialmente il vecchio mago, intercettando lo sguardo dell’altro. “Mi concedi una sedia, Arabella?”
“S-sì, Albus.” La vecchia Maganò lo osservò a lungo.
Non era intimorita da Silente, non lo era mai stata. Per lei era solo un caro amico, eppure, il fatto di esserselo ritrovato in casa, così, d’un tratto, aveva dell’incredibile. E non doveva nemmeno essere passato per chiedere di Harry Potter, perché Harry Potter era a Hogwarts... Sempre che...
“Albus, come sta Harry?” domandò con un po’ di allarme nella voce.
Silente non nascose un sorriso compiaciuto che non si estese agli occhi. L’azzurro delle iridi rimase adombrato da qualcosa a cui Arabella non sapeva dare un nome, ma quando parlò, lo fece con la solita cordialità. “Magnificamente, da quello che so. A quanto pare l‘arrivo della signorina Dolores Umbridge ha fornito una scossa di intraprendenza a lui e hai suoi amici. Spero solo che non cominci a girare troppo per i pub dal nome poco elegante, vero Mundunguns?”
“Altrochè...” borbottò Dung in risposta. “Comunque Al, non chiedermi più di spiarlo alla Testa. Vabbè il travestimento, ma stare così vicino ad Aberforth mi ha fatto venire una strizza..”
“Su, su..” Albus allargò le braccia e invitò il gatto che lo osservava da terra, a salirgli in grembo, cosa che il felino fece con piacere. Dung lo guardò e gli lanciò un occhiata offesa.
Arabella intanto, continuò a cercare una tazza in più, possibilmente non sbeccata, con cui servire il the ad Albus.
“Scusami se sono entrato senza annunciarmi. Ma a quanto pare eravate in preda  a una conversazione animata. Ho interrotto qualcosa?"
“No!” dissero Dung e Arabella in coro.
“Comprendo”, replicò Silente in tono cordiale.
“Mundungus vuole vestirsi da donna” sbottò Arabella, sbattendo con violenza tazze e piattini sul tavolo.
“Di nuovo.”
“Non mi pare ci sia un gran problema!” esclamò gioioso Albus. “Ho trovato un bel modello a maglia, proprio adatto al tuo fisico!” All’improvviso però si fece serio:
“Se non fossi così impegnato a convincere il Ministero del ritorno di Voldemort, te lo farei io stesso.”
Dung e Arabella avevano la stessa identica espressione basita, non tanto per l’aver sentito udire il nome di Voldemort, ma per l’apparente noncuranza con cui Albus aveva parlato.
“Su, su...” riprese il vecchio mago. “Non volevo turbarvi così. Sapete, è brutto affrontare le cose solo con serietà. Voldemort ha già fatto abbastanza danni, ma se gli permettiamo anche di levarci il senso dell’umorismo, abbiamo perso in partenza.”
Le mascelle cadute dei due tornarono al loro posto, rimanendo, tuttavia, per nulla convinti.
Arabella servì il the, e si sedette al tavolo, passando le zollette di zucchero ai due.
“ Allora Albus”, attaccò Dung, tra un sorso rumoroso e l’altro. “Che ci fai qui? Sei venuto a trovare me, Figgy o a quegli svitati Babbani a cui hai affidato Potter?”
Albus posò con grazia la tazzina sulla tovaglia incerata, senza versarne una goccia, poi ricominciò ad accarezzare il gatto sulla testolina, con le lunghe dita arcuate. La bestiola socchiuse le palpebre, ronfando a tutto volume.
“Nessuno di voi in effetti. E nemmeno i parenti di Harry.” Alla parola parenti le pupille si restrinsero un poco.
“E allora?” sbottò Mundungus “Dicci, dicci..! Sei vestito come un dannato damerino londinese o come un Jrog svedese.. Punti di vista.. Ma.. Che combini?”
“Fletcher sii educato!” lo ammonì Arabella con il suo miglior tono da zitella acida.
Silente si accarezzò la lunga barba dondolando il capo.
“Amici miei, non voglio infastidirvi con la burocrazia. Vi prego. Ero di passaggio a Londra e ho pensato di venire a fare un saluto ad Arabella. E che fortuita coincidenza trovarti qui, Mundungus!”
Fortuita?” borbottò Mundungus con voce catarrosa, per nulla convinto.
Silente lo ignorò, preferendo dedicare la sua attenzione a cercare qualcosa nelle tasche del cappotto. Per avere maggior mobilità, fece levitare il gatto a mezz’aria. La bestiola non si accorse di nulla, nemmeno quando ridiscese dopo che Silente ebbe recuperato ciò che cercava.
“La mia pipa!” ululò Dung entusiasta.
“La tua pipa Puzzona, vorrai dire” disse Arabella allarmata, “Albus, non potevi dargliela dopo?”
“Tranquilla, mia cara. Mundungus, sii gentile, aspetta di essere uscito prima di fumare.”
Mundungus si cavò la pipa di bocca con espressione desolata, spegnendo la punta della bacchetta sul pastrano. “Dov’hai detto che stava?”
“Non l’ho detto”, disse Silente. “Comunque era nel mio ufficio. Dev’esserti caduta senza che tu te ne sia accorto. Fortuna vuole che io stesso, mi occupi della pulizia del mio studio.. Non voglio immaginare cosa sarebbe accaduto se l’avesse rintracciata un elfo domestico.”
“Sarebbe stato un elfo felice, fidati”, rispose Dung, osservando la vecchia pipa, con una smorfia paterna negli occhi iniettati di sangue.
“Non lo sapremo mai” replicò Silente in tono amabile, “Tuttavia, il tempo è tiranno, soprattutto per me che ho la vescica saltellante. Devo ripartire, amici. Mundungus, è sempre un piacere. Arabella, il tuo the è sempre ottimo.”
“Figurati Albus” rispose la Maganò, sfilandosi la retina dai capelli e osservandolo. “Se è per il bagno..”
“Tranquilla, posso resistere per una materializzazione!” Silente si alzò, il gatto tra le braccia lunghe, fasciate dalla maniche nere.
“Porto fuori questo giovanotto, avrà bisogno di sgranchirsi le gambe!”
“Certo, certo...” annuì Arabella, seguendolo nel tinello. Albus aveva appena posato la mano sul pomello, quando Dung fece capolino dallo stipite del vano della cucina.
“Albus, non sei venuto qui per controllarmi, vero?”
L’alto mago lo osservò, una luce divertita negli occhi azzurri. Incurante dello sguardo curioso di Arabella, si limitò a dire: “Perché dovrei? Mi fido di te, Mundungus.”
Il mago basso e tarchiato annuì lentamente, la pipa spenta di nuovo in bocca.
“Allora, n’derci Albus. A presto.”
“A presto. Ciao, Arabella” si chinò e le diede un bacio sulla guancia, più per cortesia che per altro. Oltrepassò la porta e si diresse verso un angolo nascosto del piccolo giardino, dove posò il gatto. La signora Figg, seguendolo fuori sul prato con le ciabattine di feltro, gli domandò un ultimo favore.
“Albus, Harry Potter! Porta i miei saluti a Harry Potter!”
Il viso cordiale di Silente si adombrò, ma non rispose. Volteggiò tre volte su sé stesso e sparì con uno schiocco deciso.

Arabella tornò in casa, e recuperò un vecchio scialle consunto dall’appendiabiti. Se lo avvolse sulle spalle e tornò in cucina, dove l’accolse un distinto odore di calzini bruciati.
“Fletcher!” strillò.
Mundungus spalancò gli occhi, mentre nuvolette di fumo color indaco uscivano con inusitata rapidità dal fornello della pipa. Arabella si lanciò contro di lui e prima che Dung potesse fermarla, la donna gli sferrò una sberla decisa che gli fece schizzare via la pipa dal labbro pendulo. La pipa sfrecciò verso il frigo, lo colpì con decisione e una gragnola di pezzi e piccoli oggetti si sparpagliò sul pavimento.
“L’hai rotta, me l’hai rotta!” si lagnò Dung, pestando i piedi.
“Sciocchezze, è..“, disse Arabella raccogliendo la pipa da terra e mostrandola a Mundungus. La donna aveva ragione, nemmeno un graffio. L‘unico difetto era la puzza che la circondava.
“Intera! Ma allora..”
Sia Arabella che Mundungus si chinarono sul pavimento, raccogliendo quelli che al principio avevano creduto frammenti.
“Perle?” mormorò Dung, sospettoso.
“Denti?”mormorò Arabella, schifata.
Il ladruncolo si girò verso l’anziana donna, le sopracciglia sollevate per la sorpresa, fin quasi all’attaccatura dei capelli.
L’uomo si abbassò sul pavimento, raccogliendo i frammenti nel pugno chiuso. Quando ebbe finito, si guardò nel palmo.
Erano proprio i suoi denti, i suoi dieci denti perduti, carie e protesi d’oro comprese. Sulla sua brutta faccia si allargò un sorriso goliardico. Pazzo, pazzo Albus!
Cosa non faceva, pur di obbligarlo a portare avanti la missione che gli aveva affidato. Mundungus era combattuto tra l’esasperazione e qualcosa che somigliava ad una vaga sensazione di contentezza. Alla fine, si decise. Avrebbe fatto ciò che Albus gli aveva chiesto, con tutto se stesso. Dieci denti valgon bene un furto, no? Sempre che si dovesse arrivare a quello.
Dung afferrò  la bacchetta, stringendo denti e protesi nel pugno. Non gli sarebbe costato nulla riattaccarseli da solo. Non era la prima volta che qualche bastardo glieli faceva schizzare via.
Niente San Mungo, niente vestiti da donna per Dung, quel giorno!
Ci mise meno di dieci minuti, sotto lo sguardo scioccato e apprensivo di Arabella. Quando ebbe ultimato il lavoro, le domandò: “Ehi, Figgy, mi prepari un po’ di minestra di cavolo take-away? Dovrei fare un viaggetto…”
Per tutta risposta, Arabella Figg si avvicinò al carrellino dei detersivi.

Halò!
Ecco a voi il primo dei nuovi capitoli del Dono!
Allora, cercherò di lavorare più celermente per rispettare la cadenza di un giorno =)
Come sempre, infinite grazie a chi mi segue e a chi mi scrive.
A presto,
Exelle.

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Capitolo 11
*** Tra Sogno e Baratto, Invito e Misfatto! ***


Capitolo Undici
Tra Sogno e baratto, Invito e Misfatto!


“Vorrei che fosse domenica” mugugnò Ron, cominciando a disegnare un bel paio di baffi a una delle streghe ritratte sul libro che stava tentando di leggere. Le streghe, tutte con in testa dei vistosi elmi vichinghi, cominciarono a insultarlo atone, indignate. Una di loro, si espresse con un gesto ben poco medievale, servendosi dell‘ingioiellato dito medio. Harry, vedendola, rise mentre Ron, offeso, chiudeva il libro facendolo sparire nella borsa.
“Perché domenica?” chiese Harry, tornando svogliatamente alla sua copia  di Storia Magica e affini, Vol. 5.
“Perché...”
“Perché così potrebbe dire Oh, ragazzi perché non è venerdì?
“Grazie Hermione. Continua a parlare per me, almeno sapranno che sono un anfebeta oltre che un portiere scarsone.”
“Analfabeta, Ron” disse la ragazza, senza alzare gli occhi dal paragrafo che stava divorando.
“Grozie, Arrghmione.”
“Andateci piano, per favore” disse Harry sbadigliando e mettendo a sua volta il libro in borsa. Era stufo di studiare, stufo di vichinghe in rivolta, parole, date e concetti.
Opinione non condivisa da Hermione.
“Harry, se finiamo il capitolo adesso, non avremo problemi con Ruf lunedì, avanti!”
Ron e Harry si guardarono, sbalorditi da tanta intraprendenza. “Ma abbiamo il week end per rimediare!”
Hermione sbuffò, preparandosi a riversare sui suoi amici un’altra delle sue prediche sulla coscienza e il buon senso. Lo sguardo dei due amici però, la invogliò a cambiare strategia.
“Come non detto. Ma non lamentatevi che poi passate i giorni liberi a mettervi in pari.”
“Hai detto qualcosa?” le chiese Ron con espressione distratta. Lui e Harry si erano alzati, cominciando a raccogliere borse e piume.
“Dove state andando?” disse Hermione sorpresa “Non...”
Ron le battè l‘astuccio di pelle sulla spalla, come se fosse stato una clava. “Ora di cena. Cibo, Ron fame. Ron vuole pollo.”
Harry scosse la testa, ma riuscì a cogliere l’attimo di distrazione di Hermione per chiuderle il libro e farglielo sparire di mano, nascondendolo sotto al divano.
“Harry!”
Il ragazzo alzò le mani, in un gesto di resa con un sorriso. “Ora di cena!”
Hermione storse la bocca, leggermente contrita, ma raccolse la sua borsa senza altre proteste. Harry le ridiede il libro, un po’ impolverato.
“Harry, però, ora che ci penso...”
Harry si voltò verso Ron, incuriosito.
“Potresti chiedere a Dobby di farci spedire il cibo qui” osservò il rosso allargando le braccia per indicare l’ampiezza, il calore e le soffici poltrone della Sala Comune.
Hermione gli scoccò un’occhiata disgustata.. “E tu saresti il difensore dei diritti della libertà?”
“Non ho mai detto di esserlo!”
“Lo sei diventato quando ti sei unito al C.R.E.P.A., Ron.”
Hermione storse il naso. “Sei comunque il tesoriere della società da più di un anno! Quasi due!”
“Buono a sapersi” replicò il ragazzo alzando le spalle, “Comunque...”
“Mangiare assieme a scuola è uno degli altri espedienti per aumentare il senso comunitario” replicò Hermione in tono amabile, ancor prima che Ron finisse di parlare. Sembrava una cespugliosa parodia di Silente.
“Oh, sì. Mi sento molto comunitario quando Goyle sventra il fagiano con il cucchiaio e Malfoy risucchia il brodo come uno scarico!”
Hermione lo guardò scioccata, poi suo malgrado, rise. “Ma non è vero!”
Ron rimase serissimo. “Questo perché in realtà non hai senso comunitario, Hermione. Se tu ce lo avessi lo sapresti, quindi non fare le prediche a noi, perché per una volta vogliamo che ci servano del cibo in Sala Comune.”
Harry scosse la testa, ridendo, mentre Hermione combatteva tra il mettere su un cipiglio offeso o ridere a sua volta.
Nessuno di loro parlò finchè il ritratto della Signora Grassa si richiuse dietro di loro. Avevano appena iniziato ad avviarsi per il corridoio quando Harry domandò.
“E comunque, chi sarebbe tanto matto da pretendere di farsi spedire la cena in camera, a Hogwarts?”


Severus Piton avrebbe potuto anche non svegliarsi più fino al mattino dopo, addormentato com’era sulla poltrona dal rigido schienale davanti alla finestra. Ma, naturalmente, sarebbe stato quasi un sacrilegio per un uomo attivo come lui.
Quando riaprì le sottili palpebre violacee e vide che il cielo biancastro era ormai tinto di viola e indaco, con qualche rara stella a punteggiare il cielo, avvertì un senso di vertigine. Si era giocato il suo giorno libero dormendo in una poltrona modello inquisizione, scribacchiando sciocchezze sui suoi ricordi, prima di cedere al sonno. Scostò le pergamene che lo circondavano, cercando un qualche riferimento temporale per la stanza.
Era già sera, maledizione. Guardò la pendola alla parete -un altro simpatico gioiellino d’arredamento in stile medievale-, sospirando. Le sette in punto, ora di cena.
Non aveva voglia di scendere in Sala Grande. Il mondo, quel giorno, gli stava più antipatico del solito. Non gli restava che chiedere qualcosa giù in cucina. Dopotutto, se lo meritava. Quel mattino si era sacrificato e aveva fatto la colazione in Sala Grande.
Si avvicinò con la schiena dolente alla scrivania, rischiando di incespicare sugli scalini del piccolo rialzo di pietra. Era incredibile come diventava goffo e impacciato, quando non doveva atterrire gli studenti o stare con qualcuno che non fosse lui.
Si domandava che fine avrebbe fatto la sua reputazione, se gli altri si fossero accorti di quanto il solenne e misterioso Severus Piton fosse incapace nella vita di tutti i giorni, nel fare le cose più banali. Anche nell’attraversare una stanza senza inciampare.
Quando non doveva giocare al mago oscuro, sulla linea tra bene e male, quando non doveva fare incantesimi, insegnare, preparare pozioni o uscirsene con qualche commento acido, andava tutto storto. In quel frangente oltretutto, era un guaio maggiore, con la testa sgombra da pensieri soffocanti e angosciosi.
Il senso di spossatezza aveva distrutto il suo aplomb gotico.
Raggiunse la scrivania e si chinò verso la fila dei cassetti in cerca di altra pergamena. Ne trovò un pezzo abbastanza grande e cominciò a scrivere con la piuma il suo nome. Quando dovette scegliere cosa mangiare però rimase perplesso. Solitamente le rare volte in cui si faceva portare la cena o il pranzo in ufficio -la colazione era un‘altra drammatica storia-, gli bastava scrivere il nome di ciò che aveva mangiato o ricordava di aver mangiato, il giorno precedente.
Severus Piton non dava importanza al cibo. La sua vita era talmente piatta e amara che non riusciva a distinguere i sapori, quindi perché affannarsi a pensare a cosa mangiare?
A lui andava bene tutto, purché fosse commestibile.
“Io opterei per delle patatine fritte. Anzi, facciamo Fish’n’Chips. Un po’ di colesterolo in pancia mette allegria.”
Severus alzò lo sguardo dal biglietto in cui aveva scritto il suo nome in caratteri neri e rattrappiti. Albus Silente, se ne stava sorridente davanti a lui, mentre fiamme verdi brillavano nel camino di pietra alle sue spalle. Il mago pareva altissimo, per via del nero cappotto che fasciava la sua figura. Contrariamente al suo solito, teneva gli occhiali a mezzaluna agganciati al taschino.
“Non mangio quella robaccia” borbottò Piton, stritolando la piuma che teneva tra le dita.
“Severus, se fosse per te, ti limiteresti a nutrirti con le radici di rapa nel tuo armadio dello scorte.”
Piton sentì il sangue affiorargli al volto, le labbra irrigidirsi. Tuttavia non disse nulla. Si limitò a scarabocchiare rape sul biglietto, anche se non aveva voglia di rape.
“Severus, stasera avrai un ospite a cena. Vuoi davvero condividere delle rape? Capisco che la tua possa sembrare l’attraente vita ritirata di un eremita, ma...”
“Un ospite?” chiese piano Piton incrociando le braccia e sollevando le sopracciglia, aaccigliato.
“Fammi indovinare Albus. Hai intenzione di spedirmi qui Luna Lovegood.”
Silente scoppiò in una gioiosa risata alla Santa Claus. “Mio caro Severus, non ti si può nascondere proprio nulla!”
Severus strinse le labbra, irritato per il sarcasmo che il suo principale sembrava usare solo con lui. Non poteva risparmiarselo per i suoi studenti?
“Non la voglio qui, né da nessun’altra parte nel raggio di quaranta metri dalla mia persona” replicò Piton, serio fino alla morte. Odiava essere messo nella condizione di fare noiose ramanzine al suo principale per cose così futili. Anche perchè sarebbe dovuto essere Silente l'ultracentenario a consigliare lui, non il contrario.
“Sinceramente parlando Silente, non credi di essere un po’ azzardato? Il Profeta ti da’ del matto e tu lo assecondi elaborando giochetti a spese degli altri? Tu stesso hai tracciato dei confini, quando sono stato assunto. Ci sono gli insegnanti e ci sono gli alunni. Questa è Hogwarts. Una scuola.”
Silente scosse la testa. “Severus...”
Piton appoggiò lentamente i pugni sul tavolo, le nocche sbiancate, il cipiglio deciso. “Anche tu ti stai attenendo a questa regola. Forse credi che mi sia sfuggito, ma ho notato che, a quanto pare, il signor Potter non è più tra le tue priorità...”
Lo sguardo di Silente si indurì e Severus comprese di aver parlato un po’ troppo, errore imperdonabile. Doveva piantarla di essere così, così... emotivo.
“Non voglio discutere di Harry Potter con te, Severus. E per quanto la mia idea di affidarti Luna Lovegood ti pesi, confesso che forse non mi sono spiegato bene.”
Silente tornò a un espressione bonaria, gli occhi cerulei di nuovo gentili.
“Luna Lovegood deve parlare con qualcuno che non la tratti da matta.”
“Oh, certo. Io sono perfetto in questo caso” sbottò Piton. Silente lo ignorò.
“Severus. Non te lo ripeterò un’altra volta. Cerca di comprendere.”
“Comprendere cosa esattamente, Albus? Che da spia sono diventato un potenziale...”
Silente si accarezzò la lunga barba. “Ti prego. Non metterla in questi termini. Confesso di averti presentato la faccenda Lovegood, come un ridicolo espediente per creare una situazione che possa essere accattivante per un pubblico di lettori di Fan fiction, con quei lunedì e quei pomeriggi a cadenza precisa... Che oltretutto non hai ancora rispettato, ma...”
Piton sostituì la sua espressione incattivita con una interrogativa.
“Fan Fic...?”
Silente era ormai perso a contemplare i suoi pensieri, iniziando a vagheggiare con parole che a  Piton apparivano minacciose e oscure.
“Finirò tacciato di clichè nei blog e nei forum...” Silente si accorse dello sguardo smarrito dell'uomo e si riscosse, riprendendo a parlargli.
“Reminescenze Babbane, Severus, non angustiarti. E per una volta di più, abbi fiducia in me. Ora ti saluto, la cena sta cominciando e ho il sospetto che Filius mi ruberà i canditi se ritardo anche solo di un attimo. Buon appetito.”
Severus battè il piede per terra, scese gli scalini con il mantello nero ondeggiante e seguì Silente vicino al camino. Il vecchio mago era già tra le fiamme verdi, quando Piton chiese:
“A che ora arriverà Luna Lovegood?”
“Decidi tu, professor Piton. Sarai tu stesso a invitarla!” gorgheggiò il Preside con un sorrisetto soddisfatto.
Silente sparì in un lampo verde, prima che Severus potesse dire alcunchè. Il pozionista tornò alla scrivania, tamburellando i polpastrelli ingialliti gli uni contro gli altri. Quando abbassò lo sguardo sulla superficie di legno opaco, vide che il biglietto con le sue ordinazioni -Rape- era sparito.
Severus sbuffò, un tantino affranto. Aveva davvero pensato di scamparla?
Sciocco, sciocco Piton. Sì allontanò dalla scrivania, dirigendosi a larghe falcate verso il camino. Silente voleva che lui offrisse una cena a Luna Lovegood? Perfetto, l’avrebbe fatto con la stessa professionalità con cui svolgeva i compiti dell’Ordine.
Così, il vecchio Preside non si sarebbe lamentato e lui si sarebbe tolto un peso. Afferrò dalla ciotola sbeccata sulla mensola di marmo, una manciata di polvere scintillante che sparse sulle ceneri grigie. Fiamme smeraldo guizzarono rapide e si aprirono per far posto a Piton e al suo mantello. Dove andare a recuperare Luna Lovegood?
“Sala Grande” borbottò doppiamente affranto.


“Non lo mangi?”
“No, prendilo tu.”
“Ron!”
“Eddai, R’Mione, ha detto che o’n mangia, que è l’prob’ema?”
“Il fatto che tu sia un ingordo, Ron..”
Ginny spinse il piatto verso il fratello, sorridendo a Hermione. “Tranquilla, va bene così. Non ho molta fame stasera.”
Ron agguantò felice il piatto di Ginny, cominciando a manggiare le patate al burro con largo entusiasmo, lanciando occhiate soddisfatte a Hermione. La ragazza, indispettita, preferì dedicarsi ad altro. Si girò verso Harry, che sedeva alla sua destra e, in tono cospiratore, sussurrò: “Ti sei ricordato del giro di galeoni?”
“Per l’E.S.?” rispose Harry, preso di soprassalto mentre addentava il suo roast-beef.
“Shh!” lo riprese Hermione. “Non...”
“Tranquilli, la stregaccia non c’è” disse Harry, indicando con un cenno del capo, la tavola degli insegnanti. “Avrà avuto qualcosa di più divertente da fare.”
"Sbaciucchiare gatti e foto di Caramell?" suggerì Ron.
“Punire Luna” affermò Ginny in tono lugubre.
“Cosa?” chiese Harry, interessato. Ginny arrossì “Ecco, io..”
La ragazza raccontò velocemente il diverbio del giorno prima, durante Pozioni. Accennò vagamente a quello che aveva detto Piton, spiegò di Luna e del fatto che la Umbridge l’avesse punita, con tono dispiaciuto.
“...E io non ho detto niente, ma avrei dovuto, accidenti. Solo che in quel momento ce l’avevo con Luna, perché..”
“Perché, se fosse stata zitta, non sarebbe successo niente” concluse Hermione in tono pratico.
Ron le lanciò un occhiata perplessa: “Dai, Hermione. Sappiamo che Luna è così. Poteva capitare a chiunque, comunque...”
Hermione corrugò la fronte: “Sarà, ma Luna avrebbe dovuto accorgersi che con la Umbridge vicino...”
Harry però, era di tutt’altro parere e interessato a un altro particolare della storia.
“E il rospo? Come ci è finito nel tuo calderone?”
I ragazzi lo guardarono incuriositi. Ginny scosse la testa.
“Io questo non lo so. Cioè... Credevo... L’ho preso io stessa dalle mani di Bower. E poi era nel calderone...”
Ron domandò, cominciando a versarsi della maionese nel piatto. “Luna aveva il suo rospo?”
“Sì, credo...”
“Secondo me Luna l’ha sezionato per farti un favore, ma si è dimenticata di dirtelo. Tutto qui” tagliò corto Hermione, “Stiamo facendo di un problema sciocco una questione importante. Ginny, posso darti una mano io se Piton ti ha dato un compito in più...”
Ron e Harry guardarono indignati l’amica: “Perché lei sì e noi no?”
“Perché, a quanto pare, anche Santa Granger vi ritiene due indubbie zucche vuote” affermò una voce gelida alle loro spalle.
“Tipica presunzione da Sotutto, vero Granger?”
Il viso di Hermione diventò color fragola come le orecchie di Ron. Harry fece per alzarsi in piedi ma Ginny gli afferrò il braccio.
Piton lo guardò, gli occhi neri traboccanti di derisione. “Calmo, Potter. Non sono qui per punire te, a meno che tu non mi dia l’occasione.”
“E allora che ci è venuto a fare? A spiarci mentre mangiamo? A togliermi punti perché tengo male la forchetta?” rispose Harry, con un tono di voce più alto. Non si curò degli altri Grifondoro che avevano smesso di mangiare e iniziavano a seguire la scena, interessati dal quel diversivo serale.
“Per quanto la prospettiva di punire il tuo galateo sia intrigante Potter, non sono qui per te” disse, mellifluo, “Weasley.”
Ron alzò lo sguardo dal piatto giallo di maionese, le orecchie come semafori: “Che ho fatto?”
Piton inarcò un sopracciglio infastidito, la pelle malaticcia alla luce della foresta di candele. “Non tu, Weasley. L’altra Weasley.”
Ginny lasciò il braccio di Harry, posando i suoi occhi fermi su Piton.
“Volevo informarti che sei esentata dal consegnare il tema di punizione. A quanto pare, questa volta, la tua pozione era Accettabile.”
Ginny annuì una volta sola, lentamente. Non ringraziò. Harry lanciò uno sguardo perplesso a Piton. La situazione era abbastanza strana da sembrare opera di una visione stile Voldemort. Ron e Hermione, guardarono a loro volta Piton, incuriositi.
“Ha finito?” domandò Harry sgarbatamente.
“Sì, Potter” replicò Piton. “Felice pasto a tutti voi” disse l‘insegnante, con l’aria di chi spera tutt’altro, allontanandosi nel corridoio tra i tavoli.
“Piton ti ha esentato da un compito?” mormorò Ron a mezzabocca.
“Piton ci spia mentre mangiamo?” domandò Hermione.
“Piton mi ha dato Accettabile?” esclamò sorpresa Ginny.
Harry si aggiustò gli occhiali sul naso, soppesando un involtino di panna e prosciutto e di fronte alle facce allibite dei tre amici, mormorò in un tono molto pratico e non da lui:
“A quanto pare...”


Maledizione!  
Era l’unica parola che agitava i pensieri di Piton mentre si affrettava a tornare alla Sala d’Ingresso, per tornare al caminetto del circuito metropolvere di Hogwarts. Quanto era stato tonto?
Si era dimenticato che quella sera la Lovegood era in punizione con la Umbridge, grazie anche e soprattutto, al fatto di non averle affibbiato un bel compito per aver messo in cattiva luce la Weasley. Se l’avesse punita prima lui, ora non si sarebbe dovuto affannare a cercarla in giro.
E Silente non ti avrebbe detto di invitarla a cena, suggerì la sua voce interiore.
Severus Piton si bloccò al centro dell’ingresso, dritto come un fuso. Vecchio furbastro!
Quello doveva essere un altro espediente dei suoi, escogitato proprio per andare a salvare quella bionda disgraziata con gli occhi a pallone. E lui, Bam!
C’era cascato. Di nuovo.
Severus lanciò un occhiata al grande caminetto a lato dell‘ingresso. Sarebbe stato sgarbato infilarsi nel camino di una collega senza essere richiesto.
Anche se era quello di quella befana ministeriale.
Piton sbuffò, incattivito. Si voltò verso lo scalone e cominciò a salire, allontanandosi dal brusio della Sala Grande, verso i piani più bui del castello.
Passando vicino alle finestre gli sfuggì un’ occhiata verso l’orologio. Quasi le otto.
Quanto duravano le punizioni degli altri insegnanti?
Severus aveva sempre saputo di detenere il record per quelle più lunghe e fantasiose, ma quella Umbridge aveva un cipiglio perfido da formidabile avversario...
Cosa poteva aver escogitato contro Luna Lovegood? Personalmente, come aveva già potuto appurare, non ci provava alcun gusto nel punire i soggetti come Luna.
Era troppo... Severus non lo sapeva. Ma quella ragazzina era priva della caparbietà, della vanità o dell’incapacità, doti che spettavano solo a quelli della risma di Potter o del pavido Paciock. Il suo sistema punitivo funzionava in modo molto sottile. Non si basava solo sulle preferenze, come appariva ai più, visto il suo continuo privilegiare la casa di Serpeverde e non tanto sulle antipatie. Difatti, Potter era  un eccezione e l’unico motivo per cui Piton si accaniva contro i suoi amici, era semplicemente perché, probabilmente e in quel frangente, se lo meritavano.
Severus Piton odiava i difetti esasperati che caratterizzavano le persone. O almeno, quelli che lui credeva di vedere in loro. Non tollerava l’arroganza intellettuale della Granger, le manfrine di Lavanda Brown e della ragazzine in generale. Anche la dabbenaggine di Weasley e Paciock, il continuo prendersi gioco di tutto dei gemelli -sempre Weasley erano, dopotutto-, tanto per fare degli esempi, erano motivo sufficienti per togliere punti. Esistevano soggetti simili anche a Corvonero e Tassorosso e Severus Piton, il fiero paladino anti-vizi era pronto ad affibbiare loro la giusta punizione.
E Luna Lovegood non ne era esente, ma i suoi difetti nuocevano più a lei che a chi le stava intorno.
Anche se a volte quel parlare a sproposito.. Suggerì la solita voce interiore.
Piton scosse la testa. Il difetto di Luna Lovegood era quello di essere una stramba, emarginata in base alle regole stabilite da gente che, per molti aspetti, era più anormale di lei. Ed era per quello che Severus preferiva ignorarla, piuttosto che confrontarsi. Perché nonostante fosse cresciuto, fosse ferito nell’animo e si fosse costruito una bella corazza di inquetudini e sarcasmo, fondamentalmente, era sempre un emarginato.
Si afferrò il braccio sinistro, là dove il teschio e la serpe marchiavano la pelle. Si nascose tra le ombre di una delle alcove del corridoio. Anche quando aveva cercato di fare parte di un gruppo, aveva solo partecipato a massacri d’innocenti, vissuto nel terrore e fatto uccidere la sua amata. L’unica cosa buona che era riuscito a fare, era stata quella di diventare un pochino più furbo e ad imparare di farsi i fatti suoi.
Per il resto, la sua vita era un cumulo di cenere.
Un fallimento su tutta la linea.
Severus si appoggiò al muro, guardando fuori dai vetri e dai complessi disegni a filo di piombo che li ornavano. In quel momento desiderava morire. Sarebbe stato così semplice.
Fine dei problemi, fine dei tormenti. La sua anima si sarebbe fatta una bella passeggiata all’inferno e, forse, sarebbe riuscita a scaldarsi un po’ tra quelle fiamme roventi.
“Pensi davvero che staresti meglio laggiù piuttosto che qui, Sev?”
Severus alzò gli occhi neri dal pavimento di pietra. Le torce che fino a poco prima l’avevano illuminato si erano spente e l’odore dell’olio che le imbeveva, aleggiava tra le ombre bluastre. Fissò il punto da cui aveva udito provenire la voce e non ne fu affatto sorpreso quando ne emerse una figura familiare.
Lily Evans avanzò verso di lui. Era talmente reale che sulle lastre di pietra si udiva  il rumore dei suoi passi regolari. Si avvicinò e si sedette al lato opposto dell’alcova di pietra, di fronte a Severus, dove solo la luce azzurrina che entrava dalle finestre li illuminava. Mentre lo faceva, si aggiustò la gonna a pieghe sulle ginocchia.
“Stai per dirmi di andare via, Sev?” mormorò con un sorriso dolce.
Piton cercò di guardare oltre la figura di lei, parlando piano. “Sai che non lo farò.”
Lily ridacchiò. “Sì, lo sospettavo. Ma c’è una prima volta per tutto. Forse prima o poi lo farai.”
“Forse” ribattè Severus, la voce fioca. Si sentiva debole, infinitamente. Come se d’un tratto fosse finito in un posto molto caldo o molto freddo, perdendo la sensibilità degli arti, mentre il suo cuore batteva a mille miglia lontano da lui, sotto una campana di vetro.
Lily fece un’espressione scontenta. “Non ti piace più chiaccherare con me, Sev?”
Piton scosse la testa, si sentiva confus  e lucido allo stesso tempo, e le banalità irritanti di quella Lily non lo aiutavano.
“Smettila di fare giochetti da spirito con me, Lily. Non volevi essere più disturbata da me. Non più.”
Lily appoggiò il capo alla parete, pensierosa. “Ho detto tante cose, Sev.”
Questa volta Piton la fissò, sempre mantenendosi guardingo. “Davvero? Come quelle all’orologio?”
Lily inclinò il capo, trafiggendolo con i gelidi smeraldi che aveva per occhi. Non c’erano stelle nel gelido cielo di novembre, eppure a Severus parve di vederne a migliaia, riflesse in quella iridi.
Vuoi sentirti dire che sono reale, Severus Piton?”
Severus non rispose. Girava tutto attorno a quella domanda, dopotutto. Era il fuoco attorno a cui si consumavano le sue speranze. Rispondere sarebbe stato un sacrilegio, perchè avrebbe potuto distruggerle. E lui non era pronto. Lui non lo voleva.
 Lily lo guardò, ancora più bella, ancora più beffarda. Nessun dubbio su chi fosse la più forte, lì, in quel momento. Su chi detenesse il potere e il controllo.
“Hai portato la mia anima nella notte, Severus” cominciò, come cantando. “Possano le stelle guidarmi...”
Severus si sporse verso di lei, staccandosi dalla dura pietra del muro a cui si appoggiava. Si tese verso di lei, la voce ridotta a un filo, a una flebile supplica.
“Che cosa vuoi dire, Lily? Io posso...”
Lei scosse la testa, i lunghi capelli come nastri di raso, la camicia linda e brillante nella luce acquamarina.
“No, Sev. No. Non puoi avere il ruolo del salvatore e del carnefice, non contemporaneamente.”
Prima che potesse rendersene conto lui stesso, Severus afferrò le spalle di Lily e la tirò verso di sé. In quel momento non si preoccupò di essere vecchio, brutto e probabilmente, pazzo. In quel momento si sentiva bene, come se per un istante tutto il male, il dolore, l’odio e l’ossessione fossero implosi, lasciando solo un vuoto dove riusciva ad esistere, senza colpe e senza rimorsi.
Erano quindici anni che non abbracciava qualcuno.
Il viso di lei contro la sua spalla, Lily immobile tra le sue braccia ossute. Profumava di gigli, un profumo che la vera Lily non aveva mai avuto.
Severus non ci badò. Pregò solo che quell’istante fosse vero e per un istante, il suo cervello lo accontentò, smettendo di fare congetture, concedendogli di cadere in quel dolce oblio, rosso e gelido. Lontano eppure familiare. Il suo abisso.
Se ne avesse avuto il coraggio, forse, sarebbe riuscito anche a piangere. Lì, abbracciato a Lily...Ma  una Lily che non solo era morta, ma anche falsa, dati i quindici anni che dimostrava. Una Lily che apparteneva più al regno dei morti che a quello dei vivi.
E, dato che i morti non  piangono perché si sono ormai rassegnati, i vivi devono regolarsi di conseguenza.
La ragazza si liberò dalla stretta, allontanando le braccia ossute lentamente, ma con fermezza.
“Invecchiare ti ha reso sentimentale, Sev?”
Piton si guardò le mani, contemplandone ogni segno, cicatrice, tendini e ossa. Aveva fatto qualcosa che per lui, abituato alle cose definitive e inalterabili del mondo, sarebbe stato impossibile da fare, per quanto desiderata.
“Non sono vecchio” sussurrò stupidamente, ben conscio del suo viso segnato, della pelle malaticcia, dello sguardo cupo. Delle conche viola nelle orbite, dei capelli flosci.
Non aveva nemmeno quarant’anni ed era un relitto umano.
“Vero. Sei marcio. Marcio e inutile.” mormorò Lily con voce sincera e gentile. Era davvero convinta che nelle sue parole ci fosse del buono.
I suoi occhi smeraldo divennero più scuri, si liquefarono nelle pupille lucenti.
“Che cosa sei?” domandò Piton, fingendo di non averla sentita, avvicinando una mano al viso di Lily. Si sentiva disperato e tentato. E infinitamente sciocco.
“Un mostro, Severus” gli occhi di lei divennero del tutto bui. Le orbite sembrarono vuote, come quelle delle Lily alla lezione di Pozioni. Come quelle di un teschio.
Severus non batté ciglio e non ritrasse la mano. “E ti ho creato io, immagino.”
“Che acume!” ridacchiò Lily, scuotendo il capo, ora sinceramente divertita.
Severus tornò ad appoggiarsi alla nuda pietra dietro di lui. L’oscurità della notte si era fatta più tenue, rischiarata dall’alone giallastro della luna. Era una scena strana, quella che i suoi raggi illuminavano.
Una scena che molti anni prima sarebbe stata alquanto familiare a vedersi, era diventata pericolosa e onirica, costruita sul sottile confine tra realtà e follia.
“L’ultima volta.. Mi hai detto che eri un ricordo, un ricordo tra gli altri...” mormorò Piton debolmente. Non sapeva come riprendere il discorso. Eppure, le parole confuse che Lily, la Lily dell’orologio,- e la stessa di adesso non v'era dubbio-, gli aveva detto, continuavano a punzecchiargli l’anima con spilli velenosi. Sevrus Piton si rese conto di ricordarle a malapena. Erano state tanto terribili che le aveva rimosse del tutto, e ora, ora non sapeva se pentirsi o ritenersi fortunato.
Lily si tese verso di lui e alcune ciocche scarlatte le scivolarono lungo il viso, nascondendo parte del viso, del collo bianchissimo e della camicia leggera che indossava. Severus vide che il taglietto che aveva sulla guancia era ancora lì, benché meno evidente.
“Ti interessa davvero quello che ho detto l’altra volta, Sev?” sussurrò Lily sbattendo le ciglia, continuando a sorridere come se fosse la persona più entusiasta, libera e felice del mondo. “Ti interessa davvero?”
No, non voglio sapere, non lo voglio più sentire, disse il cervello di Severus, ma Severus rimase zitto.
Lily allargò il suo sorriso. Troppo. Lo tese talmente tanto che il suo viso sembrò contorcersi in una beffarda espressione da marionetta e mentre questo accadeva, gli occhi verdi riemersero dalle ombre tornando a scintillare. Poi lei allungò un braccio verso di lui, come un artiglio. Rapida e con una stretta salda, troppo salda, gli afferrò il braccio, proprio dove il marchio nero riposava, nascosto dalla stoffa nera della manica.
Severus si ritrovò il viso di Lily talmente vicino che riusciva solo a contemplarne gli smeraldi che lo animavano e d’un tratto, ricordò ogni parola, ogni sillaba, ogni espressione di disprezzo. La voce di lei s'infilò urlando nella sua testa.
Hai preferito immolare la mia famiglia all’altare della tua stupidità e del tuo egoismo.
Io sono un ricordo Severus Piton, un ricordo bloccato nel tempo e nella tua sudicia memoria.

Gli occhi di Lily si strinsero a fessure, ma Severus li vide brillare divertiti, mentre lo costringeva a ricordare e sentire, una per una, quelle parole amare che lei gli aveva detto alla torre dell’orologio.
 Avrei davvero preferito un luogo più confortevole … l’altare dorato su cui mi hai posto nei tuoi pensieri è così orribile!
Severus si rese conto di essere incapace di reagire, mentre la sua mente confusa sentiva riemergere le parole dell‘allucinazione. Quando aveva ripensato alle parole della conversazione all‘orologio, in quei giorni, si era limitato ad etichettarle come ‘orribili e non da Lily’ ma ora, lei gliele stava facendo risuonare nella testa, perché non voleva, lei non voleva affatto che lui le dimenticasse o le classificasse. Non voleva che lui riuscisse a ignorarle.
Come temevo, mi hai fatto uccidere, ma sei solo un piccolo inetto, incapace di fare le cose da solo. Sei una delusione, Sev...
Voleva ucciderlo davvero probabilmente, ma Severus non cercò di liberarsi dalla sua stretta. Non cercò di combattere. Rimase immobile a fissare gli occhi di lei, mentre la  voce argentina riecheggiava nella sua testa, sentendosi vigliacco, indebolendosi, schiacciato dall‘ossessione che da anni covava segreta e gelosa nella sua anima nera.
 ...Voglio che tu mi lasci in pace Severus Piton. Non volevo essere disturbata da te in vita, né tantomeno da morta.
Ci fu un’ultima stretta, che dal braccio gli percorse il resto del corpo. Poi Lily ritirò la mano, il sorriso scomparso e il volto serio.
Severus si afflosciò contro la parete, respirando piano, abbattuto.
“Quello che gli amici si dicono, non va dimenticato” disse piano Lily, guardando il cielo bluastro fuori dai vetri piombati. Poi si girò di nuovo verso di lui, sorridendo appena.
“Fortunatamente per te, ci sono io, Sev a ricordartelo.”
“Che immancabile fortuna” gemette Piton debolmente. Lui per primo si stupì per il tono fioco della sua voce.
Era mai possibile che... Lei, la sua presenza... lo indebolisse?
Lily lo squadrò, squadrandolo: “Siamo diventati sbruffoni, Sev? Sarcastici?”
Lily si avvicinò di nuovo e quasi accennò ad abbracciarlo. La luce della finestra, screziava di viola i fili carminio dei suoi capelli rendendo la sua figura mistica e irreale. Lily parlò in un sibilo, talmente lieve che la persino la polvere che cadeva l’avrebbe coperto. Ma Severus Piton, spalle al muro, circondato da quella figura di ragazza lo udì distintamente.
“Adesso mi chiamerai Mezzosangue, Sev?”
Severus si sentì gelare, ricordando quel giorno sulla riva. Era un giorno caldo e fatto di pace, o almeno lo aveva creduto all’inizio.. Era stato il giorno in cui tutto era cambiato.
“O mi ruberai qualcos’altro?”
“Non lo farei, non lo farei mai.. Mai più... Niente...” sibilò Piton a fatica. Sembrava che qualcosa gli fasciasse il petto, come costretto fra bende di ferro che gli rendevano difficile parlare, respirare. E c’era quel profumo di gigli e i capelli di lei che gli sfioravano lo zigomo ossuto...
“Vorrei crederti... Lo vorrei tanto...” rispose lei, dolcemente in un sussurro.
“Perché?...” iniziò a dire Severus, prima di rendersi conto che la sua bocca non emetteva più alcun suono. Sentì il viso di Lily contrarsi accanto al suo. Stava sorridendo.
“Perché lo faccio, Severus Piton?”
Lily si scostò un momento da lui e afferrò di nuovo il braccio sinistro di Severus. Nonostante la manica fosse stretta, riuscì a mettere a nudo l’intero avambraccio e il  Marchio Nero. Sembrava essere appena stato impresso sulla pelle, tanto era nero e lucido.
Lily lo rimirò a occhi socchiusi e Severus seguì lo sguardo di lei, percorrerne ogni forma, studiandolo nell‘anima.
“Perché tu hai barattato la mia vita per la tua, Severus Piton. E, adesso...”
Lily gli fece scivolare le braccia attorno al collo di Piton, guardandolo come se fosse stato la miglior cosa che le fosse capitata fino a quel momento. Almeno in apparenza.
“… Io ricambierò il favore e correggerò le cose.”
Severus non si accorse di avere il respiro mozzo, né di come brividi di piacere e tormento gli squassassero il corpo ossuto. E, soprattutto, non si accorse di quanto fosse grottesca la situazione. Disdicevole, a voler essere cauti.
Severus sentì le palpebre appesantirsi, il corpo di Lily accanto al suo, consistente, vivo. Il suono del suo cuore. Era ancora seduto sulla pietra gelida, bloccato, ma l’unica cosa che sentiva era il peso di lei, le braccia attorno alle sue spalle e per Merlino Farlocco, quanto era stanco...
Severus chiuse gli occhi. Non c’era niente che non andava. Poteva stare benissimo lì, in un corridoio deserto. Nascosto in una nicchia di pietra, abbracciato ad uno spettro di carne e sangue. Stare lì a riposare, a dimenticare ogni cosa, ogni dovere.
Dimenticarsi di vivere, combattere, mangiare...
Mangiare..
Severus ricordò e infine arrivò la voce, quella voce che non era di Malfoy, né quella della sua coscienza, né quella della sua perfidia. Quella voce che sembrava tanto quella del suo Principale, tanto era divertita e ottimista.
Io opterei per delle patatine fritte. Anzi, facciamo Fish’n’Chips. Un po’ di colesterolo in pancia mette allegria.
E corri a prendere Luna Lovegood, tontolone di un Severus.



What's Up!
Come sempre grazie a voi, lettori e commentatori del Dono!
Spero di avervi divertito e affascinato in questo penultimo giorno del 2010!
Ci rivediamo nel prossimo anno (72 ore circa, forse un po' di più perchè avrò un dopo sbornia alla Mundungus) con un nuovo capitolo.
Salutissimi Vivissimi.
Exelle


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Capitolo 12
*** Come Polvere nella Notte ***


Capitolo Dodici
Come polvere nella notte



Tin!
La tazza da the tintinnò seccamente contro il piattino, ma nemmeno una goccia dell’infusione rosata gocciolò sulla scrivania di cedro lucido e color caramello. Il suono si propagò nella stanza, accolto dai miagolii sornioni dei gattini nelle porcellane appese alle pareti.
Gattini con occhi molto grandi, molto azzurri e molto elettrici.
Dolores Umbridge fece un sorriso affettato ai suoi piccoli tesori. Pensò a Lord Curlington Usher III, il suo adorabile persiano, chiuso nella sua casa di Londra. Non si era fidata a portarlo a Hogwarts, un luogo dove la feccia poteva contaminarlo. Un peccato. Davvero un peccato.
L’Inquisitore ascoltò deliziata i miagolii dei felini nelle loro circonferenze di porcellana, ma quando un nuovo suono, raschiante e fastidioso, cominciò a diradarsi per la stanza, la vecchia strega assunse un espressione contrariata.
“Potresti evitare di tenere quella posizione, cara ragazza?
Luna Lovegood raddrizzò la schiena incurvata come una gobba e alzò gli occhi vacui e baluginanti dalla pergamena che stava compilando. Le lunghe ciocche biondo cenere le erano scivolate dalle spalle lungo il collo, fino a sfiorare la pergamena. Dolores Umbridge si domandò che razza di capelli fossero,  per produrre un suono simile, se sfregati contro la carta. Probabilmente, quella stupida li sciacquava con del fango.
Luna allontanò un poco le ciocche dal foglio e riprese a scrivere in silenzio, la nera piuma affilata in mano. Si era abituata subito alla punizione. Non aveva fatto scenate alla Potter, né di mera sorpresa, nel vedere il sangue che cominciava a filtrare, delineando le lettere, oltre la manica della camicetta blu. Anzi, a dir la verità, non aveva fatto niente, mentre le parole sanguigne cominciavano a marchiarle la pelle.
Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia.
Una gran bella frase, perfettamente adatta alle sciocchezze che quella testolina platinava conteneva.
Dolores Umbridge contorse la sua bocca larga in un sorriso indeciso, un misto di compiacimento e delusione.
Era compiaciuta, perché era di nuovo riuscita a punire un soggetto pericoloso per il mantenimento dell’ordine. Con quei vestiti stropicciati, la collana di tappi e gli orecchini di vetro e sassi e l’infinito arsenale di cianfrusaglie che gli aveva confiscato, tra cui degli occhiali giocattolo -A quell’età, non era normale!-, Luna Lovegood era un perfetto esempio di elemento non socialmente integrabile.
Dolores Umbridge sarebbe stata più felice nel  vedersela levare di torno del tutto, ma in mancanza d’altro, si accontentava della perversa soddisfazione di infliggerle una giusta punizione.
Tuttavia, il fatto che non si fosse lamentata o ribellata, rappresentava uno smacco. Avrebbe potuto prolungare la punizione, se quella biondina sciocchina si fosse dimostrata un po’ più riottosa.
Dolores si portò nuovamente la tazza alle labbra contratte.
Aveva davanti a sé un soggetto interessante. Indifeso ed emarginato. Le labbra secche della donna, si contrassero ancora in un nuovo sorrisetto contro il bordo della tazza. Voleva prolungare i suoi tormenti, la sua punizione? Dolores era combattuta. Provava più gusto a punire ragazzini sfrontati piuttosto che apatici... Eppure, Luna Lovegood, con quell’aria schizzata e remissiva, la intrigava.
Rappresentava un tipo diverso di scarto della società. Xeno Lovegood, avrebbe dovuto mettere sua figlia come stranezza sulla prima pagina del Cavillo, altro che delle bestiacce inventate.
“Ti piacciono i gattini, Luna?” le domandò in tono lezioso. La biondina sollevò nuovamente gli occhi argentei, le iridi colme di ... nulla. Dolores le indirizzò un sorriso gentile, ma la giovane non rispose e riprese a scrivere, apparentemente sorda alla domanda dell‘Inquisitore. Si limitò a fissarla di sbieco, ogni tanto.
La manica destra intrisa di sangue scuro, come un‘ombra sulla stoffa.
Avrebbe dovuto buttarla quella camicetta, pensò deliziata Dolores. Povera Lovegood.
“Non li trovi adorabili? Scommetto che ti piacerebbe averne uno!”
Mentre parlava, la mente della strega ripercorse rapida le sue informazioni sulla ragazza. Già prima di assumere l’incarico di Insegnante-Inquisitore, aveva chiesto a Caramell di poter tracciare biografie schedate per ogni studente del castello che lei, aveva meticolosamente studiato.
Dolores Umbridge era una donna  previdente.
Conoscere il nemico da combattere, era il primo passo per distruggerlo.
Il fatto che gli elementi schedati fossero solo degli studenti, non la turbava minimamente. Il male contro la società si annidava ovunque, soprattutto dietro a delle faccette da mocciosi.
Mentre rifletteva sulle informazioni che aveva sulla strana famiglia Lovegood, Dolores Umbridge si ricordò di un importante dettaglio, qualcosa che le fece allargare il sorriso zuccheroso di un paio di molari, prima di trasformarlo in una smorfiosetta dispiaciuta. “Forse la tua mamma non vuole gatti che girano per la tua bella casetta, giusto?” sussurrò. Luna smise all’istante di scrivere.
Ora si metterà a piangere, riflettè la strega, intimamente divertita. Mi insulterà e io...
In realtà, Luna non fece nulla. Rimase immobile, le lunghe e pesanti ciocche dondolanti e la pelle pallida, nemmeno resa un po’ rosea dall’imbarazzo. Il cambiamento avvenne nelle sue iridi argentee, ma fu tanto infinitesimale che la delusa Dolores non se ne accorse e, quando Luna parlò, non riuscì a creare una facciata leziosa abbastanza in fretta.
“Mi fanno schifo i gattini” disse Luna con voce melodiosa, anche se il suo sguardo gelido suggeriva tutt’altro. Disprezzo e superiorità. Sentimenti non adatti ad una pazza instabile.
Dolores assottigliò le palpebre rugose e contrasse le dita tozze come artigli attorno alla tazzina. Senza accorgersene, ruppe il sottile manico a stelo, staccandolo di netto dalla tazzina che traballò. La rabbia l’aveva irrigidita e le impediva di lasciarlo andare.
Prego?” sussurrò.
Luna continuò a guardarla, impassibile e insondabile. Ancora una volta era lontana da quella sé stessa sognante e poco terrena. Aveva abbandonato la penna e appoggiato le braccia sul tavolo. La manica insanguinata aveva lasciato archi rossastri, là dove era stata sfregata sulla carta. Luna non ci badò.
Dolores inspirò profondamente, prima di iniziare a strillare.
“Piccola schizzata, come ti permetti? Io ti faccio una domanda gentile e tu osi rispondermi in quel modo?!”
Luna fece spallucce. Mantenne ancora il suo tono svagato, quando disse:
“La sua era una domanda. Io le ho solo risposto.”
Dolores Umbridge saltò in piedi, picchiando i pugnetti spugnosi sulla scrivania. La tazza vibrò e il manico rotto cadde sul pavimento, tintinnando e spezzandosi.
Non ci credeva. A quella squinternata erano occorsi meno di due minuti per farle perdere del tutto la calma. Una cosa che di solito non accadeva. Anzi, non accadeva mai. Dolores Umbridge era più un tipo da furia gelida, piuttosto che da strepiti...  Lei non perdeva la pazienza, mai.
Ma quella piccola, malmessa ragazzina era riuscità là dove pochi sconfinavano.
E l’avrebbe pagata cara, perché a Dolores Umbridge, non piaceva sentirsi dire quanto fossero detestabili le piccole e gioiose creaturine come i micetti che amava.
Afferrò rapida la bacchetta e fu ancora più rapida quando allungò il suo braccio carnoso per afferrare la testa di Luna e le lunghe ciocche scompigliate che la rivestivano, come una chioma regale. La tirò verso di sé con uno strattone e Luna gridò, ritrovandosi a pancia in giù sulla scrivania, il naso sbattuto contro il lucido piano di cedro, la testa a pochi centimetri dalla tazza senza manico.
Con un altro strattone le sollevò il capo, in modo da poterla guardare meglio. Infine, Dolores Umbridge si chinò, gli occhi furenti. Tutti quelli dei gattini dipinti e appesi nei loro piatti alle pareti, s’illuminaronono di rosso come quelli della loro padrona. I loro piccoli denti aguzzi si scoprirono, famelici.
“Il tuo grazioso visetto è già abbastanza deturpato da questi begli occhioni da ranocchio, bambina mia” sibilò soave, accompagnata da un coro di miagolii d’assenso. “Ma credo che se eliminassi questa paglia secca che hai in testa, ti farei solo un favore!”
Per sottolineare meglio le sue parole scrollò la testa di Luna, evitando di correggersi riguardo ai capelli. Effettivamente, a toccarli erano soffici e puliti, cosa che fece uscire ancora più dai gangheri la strega dal viso anfibio. Con la mano brandì la bacchetta, minacciosamente.
Luna nel vederla strabuzzò se possibile ancora di più gli occhi, gridando. Non poteva essere vero!
“Mi lasci! Non..!”
Gli occhi di Luna ne fissarono la punta, dove piccole scintille scoppiavano beffarde.
“Lo faccio per il tuo bene, piccola Lovegood!” ringhiò la Umbridge, tra le strida più acute dei gattini.
“Piccolo, empio demone...”
Lo schizzo di catarro giallo paglierino che Luna gli sputò sull’occhio sinistro con la perfetta mira di un cecchino, interruppe in malo modo il sermone dell’Inquisitore supremo. La strega, allibita, non cercò nemmeno di pulirsi. La bacchetta le scivolò di mano tremente di rabbia, mentre con l’altra, altrettanto fremente, strinse più saldamente le lunghe ciocche della ragazza.
Dimenticando i piani di vendette parrucchiere in favore dell’ira assoluta, Dolores Umbridge sollevò ancora di più Luna dalla testa, nonostante gli sforzi di quest‘ultima per divincolarsi. Dolores era troppo corpulenta e Luna troppo magra e ossuta per opporsi. Cercò rapida la bacchetta, ma un ennesimo scrollone la fece cadere lontano prima che potesse impugnarla bene. La stecca di legno chiaro rotolò vicino alla pendola a muro.
Dolores Umbridge non nascose un sorriso di scherno: “Volevi aggredirmi, piccola disgraziata?”
Quando il capo di lei fu ad un’altezza accettabile dal piano della scrivania, l’Inquisitore la rispinse giù, a sbattere con violenza contro il ripiano di cedro.
Il rumore di qualcosa che si spezzava, fu coperto dalle grida di giubilo dei gattini.
La macchia rossa che si allargò sulla scrivania, coprì le macchie lasciate dalla manica di Luna che rimase inerte, a faccia in giù sulla scrivania.
Dolores Umbridge si raddrizzò con un sorriso di trionfo. Non le importava delle conseguenze.
Ora era libera, sollevata da un peso opprimente. Quella schifosa paranoide ci avrebbe messo un po’ -forse mai- per tornare a giocare all’anormale nella Sua scuola. Riguardo a Silente e agli altri, poteva risolvere lanciandole un bell’Oblivium e..
“Che diavolo ha fatto?”
Dolores Umbridge alzò l’espressione trionfante che le animava la faccia flaccida. Appena individuò colui che aveva parlato, si sentì raggelare.
Nel vano della porta, gli occhi neri di Severus Piton brillarono, illuminati da una luce malvagia.


                                                                                                                        ***



Severus Piton aveva percorso il corridoio come un ubriaco. Non sapeva come aveva fatto a ripigliarsi, dopo essere rimasto sdraiato contro quella gelida pietra, nell’alcova. Non sapeva come era riuscito a fare le scale e nemmeno come aveva potuto trovare l’ufficio della Umbridge, con quelle ombre nere che gli svolazzavano davanti algli occhi e la testa gemente.
Sapeva solo che un momento prima c’era Lily e quando aveva riaperto gli occhi non c’era più.
E poi  gli era tornata in mente Luna Lovegood, e lui si era ricordato di lei, di doverla cercare.
Grazie a quella voce coscienziosa che aveva il tono di Albus Silente.
Si era alzato, ovunque fosse, e l’aveva trovata. Appena in tempo, pensò amaramente.
Aveva visto solo la parte finale della scena, ma gli era bastata per fargli accapponare la pelle, a lui, al tenebroso Severus.
Non sapeva se odiarsi per aver perso tempo a stare a strusciarsi addosso ad un’allucinazione o aver incautamente atteso a rivelarsi finché che la testa di Luna Lovegood non si fosse fracassata sulla scrivania di quella vecchia odiosa. Spezzandosi il naso, a giudicare dal suono.
In entrambi i casi, era davvero un vigliacco. Aveva sbagliato tutto.
Si avvicinò a passi lenti, soppesando le conseguenze di quello che avrebbe voluto dire e di quello che invece andava fatto. I gatti ora tacevano e fissavano il nuovo arrivato con lo stesso elettrico spavento con cui lo fissava la nuova padrona.
Severus rimase zitto, spostandosi a lato di Luna. Le indirizzò giusto uno sguardo per verificare come stava. Era ancora china, ma ora si era portata le mani al viso e piccoli sussulti le percorrevano la schiena.
Severus Piton sentì la bacchetta pesargli nella veste, come se fosse stata una trave di ferro.
Avrebbe potuto agire in mille modi in quel momento. Avrebbe potuto aggredire l’Inquisitore ed essere giustificato a farlo. Avrebbe reso giustizia a Luna Lovegood.
Ma non poteva, perché questa storia deve rimanere fedele al Canon e uccidere Dolores Umbridge ora sarebbe controproducente. E anche perché Severus Piton non poteva certo farsi nemico qualcun altro, soprattutto non qualcuno del Ministero che avrebbe potuto, volendo vendicarsi, scoprire il suo delicato ruolo di spia.
Così, fece quello che sapeva fare meglio. Fingere.
“L’ha infastidita?” mormorò mellifluo, accennando un sorriso complice che ebbe il solo effetto di inquietare ancora di più quella che vergognosamente si definiva strega.
Dolores Umbridge lo guardò come se fosse stata appena aggrediata da una campana battente.
“Io... Cosa?”
Piton scoccò uno sguardo in tralice a Luna, ringhiando: “La signorina Lovegood l’ha infastidita?”
Il viso di Dolores si fece risoluto. Come se avesse compreso..
“Infastidita? Infastidita?! Mi ha aggredito! Certo!” gracchiò con un ombra della sua vocetta leziosa. “Altrimenti perché punirla? Non sono una...”
“Certo, certo...” Piton agitò una mano annoiato. “Credo sia meglio che io riaccompagni questa... Insolente... Alla sua casa.”
Dolores annuì in fretta e lo stesso fecero i gattini nei piatti. “Se lo meritava, lo sa?” disse tra miagolii d’assenso. Aveva la pelle flaccida chiazzata sgradevolmente di rosso arancio.
Severus  si avvicinò alla scrivania, diede un colpetto a Luna sulla spalla e lei, docilmente, si sollevò dalla scrivania, rimanendo a capo chino, i capelli biondi arruffati a nasconderle i lineamenti. Severus evitò di guardare con attenzione la chiazza di sangue che si era allargata sulla scrivania, sporcando la pergamena che si trovava lì sopra.
“Lo immagino” sibilò Piton gelidamente. “Tutti così, questi piccoli insolenti.”
La Umbridge lo guardò con rinnovata simpatia, ora era soddisfatta. Non tremava più per la rabbia. Inconsciamente, credeva che quell’uomo sudicio fosse quasi... Un alleato. Non avrebbe detto niente a nessuno. “Le ho anche confiscato delle cose, a questa piccola birbantella. Credo sia meglio…”
“Le dia a me. Me ne occupo io” disse Piton in tono sfiancato. Non ne poteva più. Afferrò deciso il sacchetto che la donnetta gli porgeva. Guardandone il contenuto di sfuggita, lo passò a Luna che lo mise nella borsa. Tenendo una mano sulla spalla di Luna - e Luna a debita distanza da lui-, Severus andò verso la porta.
Stavano per uscire dalla stanza, quando puntò la bacchetta verso la pendola e appellò quella di Luna che filò dritta dritta in mano alla proprietaria. Lei non lo ringraziò, ma lui non si offese.
Lenti e maestosi, i nostri ossuti eroi uscirono nel corridoio, senza salutare.
Uno sentendosi un vigliacco, l’altra, meno forte di quello che credeva.


                                                                                                                                  ***
 
Se le circostanze fossero state diverse, Severus Piton avrebbe annoverato quel momento tra quelli più imbarazzanti della sua vita. Non aveva idea di come comportarsi, nè di cosa dire, tranne che per un decisione.
Severus Piton non avrebbe mai riportato Luna alla Sala di Corvonero quella sera e non solo per le disposizioni che Silente gli aveva dato.
Quella sera, avrebbe dovuto davvero aiutarla.
Il senso di colpa per non averla trovata prima, lo seguì per tutta la strada fino alle sue nuove stanze, come un guardiano. Luna non accennò a parlare, né a sollevare il capo dal pavimento che fissava con ostinazione.
O almeno così sembrava a Severus, dato che la cortina di capelli biondi di lei gli impediava di vedere cosa fissasse e i suoi stessi capelli neri gli ostruivano la visuale. Luna non si lamentò per la lunga strada. Non disse nulla di sconveniente. Non chiese dove stessero andando.
Ma forse quello lo indovinava già.
Il posto che era momentaneamente l’ufficio di quello stravagante insegnante di Pozioni. Salirono la scala a chiocciola che si avvitava su per la stretta torretta, scomparendo nel buio. Piton precedette Luna che ancor,a rimaneva a capo chino, i capelli simili ad alghe albine dondolanti. Nella luce azzurrina, sembrava una creatura acquatica. Erano a metà della scala, quando Severus sentì i passi leggeri di Lovegood fermarsi.
Si voltò di scatto, il mantello nero strusciò sule scale.
Luna si era fermata e fissava una delle nicchie in cui si celavano le finestre dalle vetrate istoriate. Aveva il viso sollevato e macchiato di viola,. No, non viola, si corresse Severus. Macchiato di sangue.
La luce notturna nascondeva i colori e mascherava la realtà, dopotutto.
Si avvicinò a lei come se fosse stata sonnanbula, cercando di ignorare l’impulso di afferrarla con la sua mano simile ad un pallido ragno e abbracciarla. Confortarla un po’. Severus scosse la testa. L’aver abbracciato qualcuno dopo quindici anni, un’allucinazione per di più, gli aveva  mandato fuori rotta il cervello.
Perché diavolo voleva abbracciare tutti, adesso?
Severus si mantenne alla distanza di sicurezza di due scalini. Era così preoccupato nel non voler valicare quel limite che quando capì che Luna Lovegood in quel momento non era affatto la solita tocca, ma una ragazzina normale che si era trovata in una situazione in cui nessuno dovrebbe trovarsi mai, lei stava già piangendo in silenzio, come la figura di donna nella vetrata colorata davanti a loro.
L’unica differenza era che le lacrime della figura di vetro, erano pioggia.
Severus Piton sentì le sue presunte interiora contrarsi in una morsa dolorosa. Dolores Umbridge avrebbe dovuto morire in una prigione ben peggiore di Azkaban, assieme a Tobias Piton e a quell’indifferente piagnona di Eileen Prince.
L’unica cosa buona che sperava adesso, per Luna Lovegood soprattutto, era che lei non desiderasse morire. Un desiderio che Severus aveva abbandonato solo dopo l’incontro con Lily e che era tornato a fargli compagnia solo negli ultimi tempi. Più o meno gli ultimi tre lustri della sua esistenza.
“Vorrei davvero dirti qualcosa di confortante, Lovegood” disse piano, cercando di scrutare la notte fuori dalle finestre. “Dirti che potrei scendere da questa scala, e andare... A sistemare la faccenda.”
Luna non si era mossa, continuò imperterrita a fissare gli occhi bianchi della figura di vetro e filo di piombo, ma Severus non smise di parlare, con voce bassa e attenta.
“Ma io non lo posso fare, Lovegood.”
Perché sei un vigliacco, disse la voce di Lily.
Perché sei un sudicio pazzo, disse quella di Petunia Evans.
Perché sei un essere meschino, disse quella di Lucius Malfoy.
“Perché non servirebbe a te. A nessuno serve un guardiano protettore che ci difenda, se noi stessi, per primi, non siamo in grado di proteggere e difendere... Ciò che siamo.”
Severus sfiorò leggermente la spalla di Luna, evitando di farla pesare. La toccò come se fosse stata una creatura d’acqua, aria e polvere, pronta a dissiparsi nell‘atmosfera.
Come se fosse stata uno spirito.
“Mi hai capito, Lovegood?”
Luna annuì leggermente, il naso ammaccato.
Severus le fece cenno di precederlo. Luna cominciò a salire gli scalini, più rapida e con tratti del suo antico passo da entusiasta. Severus la seguì, il mantello nero ondeggiante e l’anima un po’ più chiara di come l’odio e la passione per l’inganno, gliel’avevano dipinta.



“Ci sono delle Gragnugole nel ketchup, signore.”
Severus Piton alzò lo sguardo dal suo misero piatto di verdurine stufate, posando delicamente le posate sul tovagliolo. “Lovegood, quelli sono dei chiodi di garofano.”
Con la medesima lentezza con cui le aveva appoggiate, l’inquieto insegnante impugnò le posate e infilzò un gambo di sedano ammosciato. Stava per mangiarselo quando fece cadere la forchetta, colmo di disappunto e con le sopracciglia giunte. Dall’alto del suo naso, i suoi occhi si fissarono su Luna, seduta all’altro capo del tavolo. “Lovegood. Tu hai parlato” sbottò, perplesso.
Luna alzò la mano ed indicò la piccola zuppiera di salsa rossa, punteggiata di puntini neri.
“Bè, dovevo avvisarla. Mica vorrà mangiarsi delle Gragnugole, signore.”
“Lovegood, quelli sono chiodi di garofano.”
“Questo è quello che le fanno credere loro” affermò Luna bisbigliando e indicando la zuppiera con occhi allarmati. Sembrava davvero convinta di ciò che diceva.
Piton raccolse la forchetta, un po’ infastidito. “Non dire sciocchezze, Lovegood. Sono chiodi di garofano e sì, ne sono sicuro.”
“A lei piace il ketchup con i chiodi di garofano, signore?” domandò Luna incuriosita.
Piton fece una smorfia, addentando un cetriolo sospetto. Ci mise un po’ a risponderle.
“No, non particolarmente. Come non mi piace particolarmente il fatto che l’elfo che mi ha portato la cena mi abbia messo un ombrellino nel bicchiere.”
Luna lo guardò, confusa: “Non le piacciono gli elfi, i bicchieri o gli ombrellini?”
Piton si appoggiò allo schienale della sedia, abbandonando del tutto l’idea di crogiolarsi nella tranquillità di una cena silenziosa. “Lovegood, sono contento che tu abbia riacquistato la capacità di parlare. Ma se devi dare aria alla bocca, limitati ad aprirla senza emettere suono.”
Luna abbassò lo sguardo sulla tavola. Piton si ritrovò a sgranare gli occhi. L’aveva forse offesa? Severus si rimproverò da solo. Dopotutto era Luna la vittima e va bene l’acidità dell’insegnante malmostoso e …
“Lovegood?”
“Signore?” la ragazza alzò il viso. Sembrava normale.
Severus rimase un attimo a bocca aperta. Cosa poteva dire? Fu Luna a venirgli inaspettatamente in aiuto.
“Mi dispiace di averle rovinato la cena signore.”
“Come?” lo sguardo di Piton contemplò l’infinito mare di piatti, vassoi con carne pesce e verdure, ceste di frutta, scodelle, torte, dolci, cartocci di Fish’n’Chips, salse francesi, filetti, budini e tutte le altre cose che i disgraziati elfi gli avevano spedito in camera su ordine di Silente. Quell’infame.
Davvero il Preside si aspettava che Severus Piton si mangiasse tutta quella roba? Che razza di spreco.
“Perché ti dispiace Lovegood?”
“Perché era apparecchiato per due, signore” disse lei indicando la tavola. “Sono stata un imprevisto.”
“Ah.” Piton rimase in silenzio a guardarla sgranocchiare rumorosamente delle arachidi in insalata.
“Chi doveva venire, se posso..” Luna s’interruppe per guardare una pila di ciambelline guarnite di crema e panna, che si ergeva tentatrice da degli spiedini di fragola e melone e dei crostini salati all’uovo e spinaci. Chissà come sarebbe stato mangiare tutta quella roba contemporaneamente.
Piton agitò la mano, come per difendersi. “Nessuno.. Cioè Silente. Sai, il Preside.”
Luna annuì con la bocca piena. “Sì, le avevo già detto che le conosco signore. Cenate spesso assieme?”
Severus cominciò a tormentare un ravenello con la punta del cortello. “No, mai.”
“E perché oggi sì?”
Severus si passò una mano sulla fronte corrugata, lanciandole uno sguardo stanco, prima di parlare con voce palesemente irritata. Perché doveva trovarsi a gestire una situazione del genere? L’eterno dolore e i pericoli da spia erano solo metà del pacchetto-viaggio per avere il perdono?
“Lovegood, se la tua preoccupazione adesso è sapere come passo le mie serate, vuol dire che non sei affatto una persona seria, lo sai questo? Perché non mi parli di compiti come le persone normali?”
Luna inclinò il capo. Non capiva cosa c’entrasse il sapere la serietà con il cenare con il Preside con la normalità e con i compiti. Il cervello del professore di Pozioni doveva avere degli intervalli di stallo nelle sinapsi per fare certe astruse connessioni. Luna pensò che forse era un po’ in difficoltà per la scena a cui aveva assistito. Chi era lei per giudicare un uomo sensibile e incapace di fare discorsi sensati? Dopotutto era un tragediografo. Andava capito, non offeso, riflettè la Corvonero.
Decise di aiutarlo dicendo:
“Dovrei piangermi ancora addosso perché Dolores Umbridge mi ha rotto il naso?” domandò a bruciapelo.
Severus Piton quasi si strozzò con la forchettata di mais insipido che aveva preso.
“Lovegood…” gorgogliò colto di sorpresa.
Con in viso un’espressione pacifica e serena, Luna spostò lo sguardo su una torretta di cialde e gelato alla violetta e pistacchio. “Ma la ringrazio di avermelo messo a posto.” Severus annuì lentamente, ancora scosso. Era stata la prima cosa che aveva fatto non appena erano arrivati nelle stanze della torre. L’unica cosa veramente utile e necessaria, rifletté. Aveva solo dovuto usare la bacchetta e un calice di Soluzione Piastreplasma, e aveva potuto levarle il sangue dal viso e dal naso rimesso a nuovo con una stoccata della bacchetta.
Qualcuno avrebbe potuto vederci qualcosa di strano ma, pensandoci a mente fredda, Severus aveva compreso che non si sarebbe potuto comportare altrimenti. Aveva fatto solo il suo dovere.
“Credo che proverò il gelato” disse Luna in tono sognante. “Le spiace?”
Severus non fece in tempo a dirle di no che Luna afferrò un cucchiaio e cominciò ad ammucchiare generose porzioni di gelato nel suo piatto, accanto alle patatine fritte intrise di salsa tartara e agli spiedini di gamberetti, pescati chi sa dove nel mucchio di cibo. Sotto i piccoli crostacei s’intravedevano rimasugli di torta di mele e miele.
Guardando la Lovegood, Severus ebbe un flash di Sibilla Cooman e dei suoi esperimenti culinari. Prima che Luna potesse assaporare il pistacchio, Severus si levò in piedi, protese sulla tavola, puntò la bacchetta e fece evanescere il piatto stracolmo di Luna Lovegood.
Luna lo guardò a bocca aperta, simile ad una ‘O’.  Osservò lo spazio vuoto dove un tempo si trovava il suo piatto a lungo, finché le sopracciglia non le si unirono in un’unica linea.
“È una punizione?” chiese sgomenta.
Severus si risedette composto e sibilò rigidamente: “Ti ho salvato la vita, sciocca signorina Lovegood. E se contesti la mia scelta, la punizione ci sarà davvero.”
Luna socchiuse gli occhi, in un tentativo apparire minacciosa. “Da quando il gelato è un pericolo, signore?”
“Da quando lo si mischia con altre cose per farne tritolo” ringhiò Piton socchiudendo a sua volta gli occhi. Nel suo caso, forse per gli anni di allenamento o semplicemente perché i suoi bulbi oculari non erano così sporgenti, l’effetto fu orribile e minaccioso. Luna lo fissò atterrita, sollevando le sopracciglia intimorita.
“Mi è passata la fame.”
“Meglio” replicò Piton con espressione cupa e voce affabile. Era davvero colpito dalla velocità con cui a quella piccola strega mangiatutto era passato l’appetito. Forse era colpa del carisma con cui le aveva intimato di smettere di mangiare. Si ripromise di essere un po’ meno convincente.
Luna prese a far tintinnare i rebbi della forchetta sul calice. In realtà aveva ancora fame. Una fame disperata. Era una ragazzina di fronte ad un banchetto, ma Severus sembrava essersene scordato.
Convinto di aver sedato l’ingordigia dell’allieva, si azzardò a far vagare il suo sguardo sulla tavola, alla ricerca di qualcosa con cui concludere la sua magra cena vegetariana.
Aveva appena allungato il braccio, per afferrare una minuscola coppettina di sorbetto al lime, seppellita sotto una catasta di canditi e bacchette di liquirizia, che un movimento dall’altra parte della tavola lo distrasse.
“Lovegood. Posa quelle rape. Ora.
Luna gonfiò le guance offesissima. Sbatté sul tavolo le rape bianco violacee che aveva cercato di imboscare nel tovagliolo.
“Nemmeno se mangio le schifezze che mangia lei va bene, vero?” sibilò con un tono sospettosamente simile a quello con cui Severus parlava abitualmente.
“Perché mangia solo quelle cose da coniglio?” domandò con tono impertinente.
Sdegnato, Severus le fece cenno di rimetterle in una delle tante ceste.
“Niente rape per gli schizzinosi.”
Luna gli scoccò uno sguardo in tralice. “Lei mangia verdurine bollite quando ha in tavola del gulash. Chi è lo schizzinoso qui?”
Severus incrociò le braccia. “Lovegood, smettila. Sono un insegnante, non un tuo amico. Parlami ancora in quel modo e...”
Luna aveva smesso di ascoltare e guardava fuori dalle finestre, ammirata.
“Stelle” sussurrò. Si alzò dalla tavola imbandita e andò verso le grandi finestre a ogiva, ipnotizzata.
“Ha smesso di piovere.”
Prima che Severus potesse impedirglielo, Luna aprì il gancio di ferro che teneva chiusa la finestra davanti a lei. Con uno strano grido di gioia, si sporse fuori, mentre una folata di gelida aria novembrina si impossessava della grande stanza. Fu quella a far rinsavire Piton e a fargli gridare:
“Lovegood, per l’amor di Merlino, torna...”
Ma Luna non ascoltava. Con un balzo agile si mise sul bordo della finestra, e si sedette sul ripiano, i capelli biondi ondeggianti nella gelida brezza notturna. Protesa nel vuoto, contemplava la notte.
“Lovegood. Torna dentro, non costringermi a farti un incantesimo.”
Severus Piton, accorgendosi che lei non lo ascoltava minimamente, si avvicinò a lei, mettendosi al suo fianco, a osservare la volta del cielo notturno e la sommità delle altre torri di Hogwarts, animate da caldi rettangoli di luce arancione. L’aria intrisa ancora dell’odore della pioggia battente  e della pietra umida del castello che scintillava alla luce della luna e delle scarse stelle.
Come potesse Luna Lovegood ammirarle con quella meraviglia, rimaneva per Severus un mistero.
Erano solo stelle.
“Sono solo stelle” disse Luna dolcemente. “Ma è confortante sapere che sono lì.”
Severus le lanciò uno sguardo perplesso. Per un Occlumante come lui, troppo abituato a nascondere i pensieri e le emozioni, era diventato quasi impossibile comprendere le emozioni altrui. Certo, poteva riuscirci con i soggetti più banali, ma Luna Lovegood continuava ancora a sfuggirgli, inclassificabile e aliena com‘era.
Si chiese se un giorno sarebbe riuscito a capirla e a renderla prevedibile, così come avrebbe voluto capire perché la sua stupida esistenza da mago si era consumata in un fastello di disgrazie.
Erano un’immagine strana quei due alla finestra.
Entrambi pallidi ma, l’una con una tonalità da ninfa, l’altra da epatico all’ultimo stadio. Uno più vecchio dei suoi anni, l’altra, facilmente confondibile con una bambina.
Severus Piton non aveva compreso il disegno di Silente. Qualunque esso fosse, in quel momento non importava. Aveva smesso di preoccuparsi di un’eventuale caduta della Lovegood. Ora era in pace, le mani gialline e nodose appoggiate alla pietra, tranquillo, a fissare le stelle e a sentire la notte scivolargli addosso, rassenerandolo. Aveva la strana sensazione di essere a casa.
Quello era un momento così semplice e pacifico che avrebbe potuto passarlo con Lily…
In quell’istante, la pace interiore che aveva colto il cuore dell’acido insegnante si dileguò nell’aria fredda.
Si voltò verso Luna Lovegood e per quanto cercasse di impedirlo, un moto d’odio lo attraversò. Era tutto sbagliato. Chi era quella sciocca per starsene lì e giocare alla sostituta di Lily?
Severus socchiuse gli occhi, cercando di riprendere la sua proverbiale calma. Si sentiva diviso. Come se una parte di lui ragionasse del tutto staccata dalla sua volontà.
Desiderava fare del male a Luna. Lei lì, era fuoriposto. Lui doveva starsene solo con il suo dolore, non a inseguire la pace interiore. L’altra sua parte giudicava quell’onda d’odio ingiustificabile e incomprensibile.
Eppure, non poteva fare a meno di provare astio e rancore.
Severus Piton non aveva fatti, né prove a cui attaccarsi, ma aveva il sospetto che quella Lily delle allucinazioni gli fosse entrata nelle vene, alterando la sua capacità di giudizio.
Per nulla a conoscenza dell’ennesimo dibattito interiore che animava il turpe cuore del pozionista, Luna concentrò la sua attenzione su un gruppo di finestre luminose cercando, nonostante la distanza, di individuare i proprietari delle sagome che le animavano. Quando si stufò di quel gioco si voltò, cercando di tornare nella stanza. Con sua sorpresa, trovò Severus Piton accanto a lei, intento a fissarla.
Luna non era brava a cogliere le cose al volo, non sempre. Per lei dipendeva dalle occasioni.
Spesso era colta da intuizioni fulminanti, altre rimaneva assorta a osservare, senza domandarsi il perché delle cose.
Ma quella volta, accadde qualcosa di insolito anche per lei, qualcosa che non riusì a intuire o prevedere. Si spaventò.
Gli occhi di Severus Piton erano popolati di ombre, e in quel momento lei riusciva a vederle tutte, mentre si agitavano in quelle fosse nere. Una più evidente delle altre.
Luna spalancò gli occhi, mordendosi il labbro. Non capiva, ma non si affrettò a domandarsi il perché.
C’era qualcosa nell’aria gelida della notte. Qualcuno che non era né Luna, né lo strambo insegnante di Pozioni, ma che li circondava, opprimendoli con un’aura malignia.
Qualcosa a cui l’arcigno Severus Piton non  era immune.
Luna saltò di nuovo dentro la stanza con un balzo leggero, rassettandosi i vestiti. Severus Piton rimase in silenzio, girandosi lentamente a fissarla a braccia conserte.
“Devo andare” disse Luna frettolosamente. “Grazie per la cena e per bè, sì... Arrivederci.”
Luna Lovegood cominciò ad arretrare con un sorriso di circostanza. Meglio essere un po’ meno sognante e allontanarsi per il momento. Ma Severus Piton non era della stessa opinione.
La Corvonero aveva appena cominciato a scendere gli scalini del rialzo della grande  stanza-ufficio, che lui l’afferò per il gomito sinistro, in un gesto meccanico.
Luna non poteva saperlo, ma Severus stava cercando di combattere un demone molto più forte di lui.
“Vattene Lovegood” disse a voce bassa.
Luna si voltò verso di lui, l’espressione sorpresa sostituita da un cipiglio d’autorità perplessa.
“Lo farei, se mi lasciasse il braccio.”
Severus rovesciò gli occhi vuoti su di lei. I lineamenti del viso ossuto, scolpiti con linee precise e dure. Sembrava stesse cercando di trattenersi dal fare o dire qualcosa.
Istintivamente Luna cercò di scostarlo, divincolandosi con fermezza. Severus la riafferrò di nuovo, questa volta per l’avambraccio sinistro. Rimasero immobili, Luna con gli occhi argentei fissi, senza accennare a sbattere le palpebre. Solo quando rivide uno scintillio negli occhi scuri dell’insegnante si azzardò a respirare normalmente. Severus Piton le lasciò il braccio, scombussolato. Si guardò incuriosito il palmo della mano, con cui aveva stretto il braccio di Luna Lovegood e la sue labbra si strinsero in una linea dura. Ben presto riprese il controllo di sé e anche l’uso della voce.
“Resta qui.”
Luna, nonostante la vaga sensazione d’ansia che le svolazzava nel cervello, rimase dritta come un fuso. Mentre Piton andava a chiudere la finestra,
studiò gli abbondanti avanzi della cena, ancora in tavola.
Quando l’ombra nera dell’uomo tornò di fronte a lei, rimase a contare la gamma di colori che si rincorreva in uno dei cesti di caramelle gommose e Cioccorane.
“Questo è sangue, Lovegood.” Piton le fece vedere il palmo della sua mano, macchiato distintamente di rosso. “Come è successo?”
Luna abbassò lo sguardo, mormorando qualcosa di incomprensibile.
“Si tratta ancora del tuo naso? O è qualcosa che a  che fare ancora con Dolores Umbridge?”
Gli occhi grigi della ragazzina si abbassarono ancora di più.
Severus battè il piede a terra, tirando su col naso. Ci mancava solo il raffreddore adesso. Rimase a guardare la macchia di sangue sulla pelle, poi fissò Luna Lovegood con un misto di esasperazione e diffidenza.
“Bene. Sistemiamo quest’incresciosa faccenda.” Tirò fuori la bacchetta e la puntò sulla manica sinistra di Luna che lo vide troppo tardi.
“Diffindo!”
“No!” Luna tirò la manica lacerata dietro la schiena, gli occhi fuori dalle orbite.”Mi ha rotto il pullover!”
“Sciocchezze” disse Piton mettendo via la bacchetta. “Quello lo puoi ricucire. Avanti, che hai fatto al braccio?”
“Lei cuce?” domandò Luna affascinata. “Non lo sapevo...”
“Non cambiare argomento, Lovegood. Ti ho rotto il pullover, dovresti odiarmi a morte no?”
“Infatti” gli occhi di Luna brillarono cupi. “Però se adesso me lo aggiusta siamo pari” aggiunse soave.
Severus si aggiustò i polsini della camicia e della veste, soppesando ciò che stava per dire. “So che te ne vuoi andare, ma prima dimmi che diavolo hai combinato. Non si può essere così sbadati. Anche tu dovresti avere un limite.”
Severus Piton sapeva di avere di nuovo ritrovato l’aria del professore inflessibile, ma la sua curiosità su cosa Luna si fosse fatta al braccio era troppo pungente. Interessarsi a lei era meglio che provare inconsulti moti d’odio, in fondo.
A malincuore, Luna gli porse il braccio, mettendo a nudo una larga chiazza di sangue sulla pelle dell’avambraccio, tra i lembi svolazzanti della camicia e del maglione brutalmente tagliati. A quella vista, Severus assistè a un’affastellarsi di ricordi più o meno confusi. Lui che si copriva delle ferite con delle bende, Lily che interveniva, un luogo fatiscente, Voldemort…
Senza proferir parola, Severus sfilò un’ennesima volta la bacchetta. Con una stoccata, la pelle di Luna Lovegood tornò immacolata. O quasi…
“Lovegood, non sei un po’ grande per i tatuaggi?” chiese perplesso.
“Cosa?” chiese Luna fissandosi il braccio. “Oh, dannato sia il Bradoracchio!”
Luna Lovegood non perse certo tempo a tornare sognante e mistica. Va bene, quello strano del professore di Pozioni era stato abbastanza gentile con lei -sguardi d’odio  e fastidio a parte-, ma perché ora si era fissato sul volersi accertare di ogni minima goccetta di sangue?  
Poi Luna guardò il suo braccio. Strare lì a cena, gli aveva quasi fatto dimenticare.
Le parole Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia, erano ancora incise sulla sua pelle, frapposte tra i due come una barriera.
Il tempo sufficiente perché Severus le vedesse bene e capisse.
Ecco in cosa consistevano le tanto paventate punizioni dell’Inquisitore. Una barbarie. Si domandò perché quella befana non fosse già passata nella barricate del Signore Oscuro. Avrebbe potuto sostituire con orgoglio Bellatrix Lestrange al fianco di Voldemort.
Ormai allo scoperto, Luna abbassò il braccio, in attesa di essere di nuovo sottoposta ad un giro di strane, vagamente apprensive e curiosamente rincuoranti domande.
Dal canto suo, Severus Piton si sentiva infinitamente stupido. Non era capace a capire l’ingenuità o i sentimenti più innocui e buoni nelle persone. Non era in grado di essere seriamente di conforto a qualcuno. Aveva giocato all’apprensivo e se l’era cavata con vari scossoni -Fra cui quell’istante in cui aveva desiderato ucciderla-. E ora, questo. Non ce la faceva davvero più. La sua poca esperienza nel gestire le relazioni infrapersonali che non fossero dettate da lavoro, ordini o missioni, erano un garbuglio troppo arduo da districare. E le sfortune che avevano agitato la serata di Luna Lovegood, richiamavano dolori troppo conosciuti, troppo vividi per lui. Decise di essere egoista. Decise di tagliare corto.
“Non c’è niente di male nell’essere un po’ diversi, Lovegood. E…” qui Severus distolse lo sguardo,
“… E sono abbastanza sicuro che non ci sia niente di male nell’essere una spia.”
Toccò il braccio di Luna con la bacchetta, cominciando a mormorare un incanto simile ad una canzone. Le parole che marchiavano la pelle della ragazzina si dissolsero, sciogliendosi. divennero gocce d'acqua ed evaporarono. Con un ultimo tocco, sia il pullover che la camicia tornarono integri.
Luna, che se ne era rimasta in silenzio per tutto il tempo, sollevò il viso verso di lui, i lineamenti pallidi e levigati, impassibili.
“Tolga la punizione a Ginny Weasley” disse con dolcezza. “Non se la meritava. Non c’entrava nulla, non ha gettato lei il rospo nel calderone.”
Dopo un momento di smarrimento, Severus si ricordò di respirare.
“L’ho già fatto. Le ho detto che non importava più.” disse. Cercò di parlare il più piano possibile. Luna lo fissava come sotto ipnosi, inebetita eppure lucida. Stava forse per confessare qualcosa sulle allucinazioni? Severus sentì un’onda di speranza avvolgerlo. Pregò che Luna Lovegood gli facesse questo dono.
Doveva dirgli che lei era reale. Lily...
“C’era nell’aula qualcuno? Vicino a te?” disse con foga, afferrandole la spalla. “Chi è stato Lovegood? ”
Luna lo guardò con gli occhi argentei, calmi e limpidi come specchi. Lontani mille miglia.
“Io.”
Severus sentì la forza abbandonarlo. La stretta che gli attanagliava i visceri, lasciò la presa. Si sentiva svuotato.
Come quando puliva i suoi barattoli dal viscidume che contevano.
“L’ho fatto per essere gentile con Ginny. Ma non mi sono accorta che bè… pensavo di dirglielo dopo. Si è trattata di una disattenzione di pochi secondi e invece…” Luna accennò un sorriso incerto.
“Non sono granchè sveglia in certe cose.”
Luna si guardò il braccio fasciato dalla manica, dove poco prima era ancora incisa la scritta infamante.
“Sono stata un po’ svampita, ma se le avessi parlato nei sotterranei, avrei fatto la spia. Spero che Ginny mi perdoni, ma una punizione con lei, signore, è meglio che con quella donna, come  vede.”
Luna tornò a guardarlo. “A volte è meglio starsene zitti, non crede?” disse con totale assenza di malignità. Eppure, Severus Piton sentì il sospetto trafiggerlo. Possibile che Luna...
No. Era semplicemente capace a leggerlo. Meglio di sé stesso, in effetti.
Severus provava sensazioni contrastanti. Voleva urlare a Luna di dire la verità, di parlare della ragazza dai capelli rossi che non era la Weasley, che aveva squartato quel dannato rospo.
Voleva dirle di smetterla di essere così disarmante.
Così onesta.
Ma Luna Lovegood era sincera. Non c’era nessuna Lily a tormentarlo nel mondo dei vivi. Era solo colpa sua, della sua mente malata e delle sue ossessioni, se si ritrovava ad essere disturbato e in uno stato pietoso, inseguito da uno spirito partorito dalla sua crescente solitudine.
Guardò la pendola al muro e la stretta scala di pietra che portava alla sua stanza. Severus Piton desiderava dormire. Era il modo migliore per dimenticarsi di tutto. Della delusione.
Sperando che i sogni non gli riservassero sorprese.
“Torna alla tua torre, Lovegood. Credo che per questa sera tu ne abbia passate abbastanza” disse stancamente. Era quanto più vicino a un ‘Buonanotte’ potesse dirle.
“Arrivederci, signore.”
Luna Lovegood si avviò fluttuando verso la porta. Severus Piton la guardò finché non disparve alla vista. Nonostante fosse deluso e amareggiato, ne ammirò la forza con cui aveva sopportato le angherie di quella giornata, di quelle passate e di quelle che sarebbero arrivate, cosa che lui, in tutta una una vita, non sarebbe mai riuscito a fare.


Luna Lovegood scese rapida gli scalini di pietra. Quando si ritrovò ancora una volta davanti alla nicchia della vetrata, quella davanti a cui le sue lacrime avevano per un momento ceduto, si fermò. Si sedette nel piano di pietra della nicchia, respirando piano ma affannosamente, gli occhi brucianti. Si abbracciò le ginocchia, tremante, sussurrandosi parole di conforto.
Lei non era pazza, non lo era.
Per questo aveva dovuto mentire.
Era felice di essere uscita dall’ufficio di Severus Piton. Gli era grata, davvero. Aveva passato dei momenti piacevoli in sua compagnia, quella sera. L’aveva salvata.
Ma ora, si sentiva più al sicuro per essersi allontanata da lui e dalla ragazza dai capelli color sangue, stranamente familiare. La stessa che era comparsa a Pozioni e che l’aveva fissata muta e con odio raggelante, in quegli occhi verde petrolio. La stessa che era caduta dalla torre dell’Orologio.
La stessa che si era avvicinata a loro mentre guardavano le stelle, convinti di essere in pace.
Luna Lovegood non aveva paura della Umbridge, dei prepotenti o delle botte. Sapeva di essere in grado di affrontare il mondo e tutte le sue creature e ingiustizie.
Ma quella ragazza, dagli occhi carichi d‘ira, che non era né viva, né un fantasma e apparentemente invisibile, la terrorizzava a morte.
Giunse le mani, gli occhi fissi in quella figura davanti a lei,  ritratta con pezzi di vetro colorato e piombo.
Qualunque cosa le avrebbe riservato il futuro, sperò con tutto il cuore che quello spettro terrificante svanisse, come polvere nella notte.



Lettori del Dono, come va?
Spero di avervi deliziato -forse non è la parola giusta- con questo nuovo capitolo!
Allora, un paio di notizie. Ho ricevuto la mia prima Fan Art (Grande emozione) e quindi, grazie Spluccica! (Se volete occhieggiarla, http://spluccica.deviantart.com/#/d366nbn ),
sono sopravvissuta al Capodanno ed ho infilato un paio di omaggi a film e fiction che amo tanto anche in questo capitolo. Provate a beccarne qualcuno!
(Non che negli altri non lo avessi fatto, però..)
Ora che ci penso credo di aver calcato la mano, in questa parte della storia, ma bazzico da un po' il mondo delle FF e spero che tra voi ci sia qualcuno in grado di apprezzarla.
Insomma, una volta lessi una Sirius\Fierobecco.
Auguri a tutti voi e all'anno venturo (che è già iniziato), ci sentiamo fra quattro giorni!
Exelle


Ps: Cap. Tubero, se non commenti verrò a citofonarti a casa.
      ..... Ma non sentirti in obbligo! Cieo!

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Capitolo 13
*** Mundungus Spiato! ***


Capitolo Tredici
Mundungus Spiato


L’inizio del nuovo giorno fu, per Mungundus Fletcher, ben migliore del precedente.
Anziché svegliarsi nei puzzolenti Docks di Londra con le ossa doloranti, si svegliò nel suo puzzolente covo di Notturn Alley,
sopra la friggitoria Frogger&Worms- Specialità per palati disgustosamente forti.
Per un essere umano normale, la sua sistemazione sarebbe rientrata nella categoria stanza immonda o anticamera dell’inferno. Ma per Mundungus Fletcher, uomo dalle improbabili capacità, quella stanzetta dalle pareti scrostate, raggiungibile solo con una stretta scaletta esterna di ferro e ruggine, era semplicemente casa.
Almeno finché uno dei suoi creditori o uno di quelli che aveva truffato nel corso della sua furfante carriera, non si fossero presentati alla porta, minacciando di trascinarlo in gabbia o peggio.
Si rotolò ancora un po’ nel letto dalle lenzuola grigio topo. Odoravano di polvere e umidità.
Si appuntò mentalmente di cercare qualche incantesimo detergente, non tanto per la pulizia, ma per evitare che tra quelle federe si creasse l’ecosistema perfetto per qualche famigliola di scorpioni.
Dopo essersi stropicciato meticolosamente gli occhi, Dung contemplò a lungo il soffitto scarno, studiando una per una le macchie gialline che lo costellavano. Quale di quelle infide escrescenze aveva deciso di cominciare a far sgocciolare acqua nella sua  dimora?
Aveva appena individuato la colpevole che una tosse catarrosa cominciò a scuotergli il petto. Cercò di soffocare i versi battendosi un pugno sulla cassa toracica, finché non riuscì a tornare alla respirazione normale.
Maledetta umidità, maledetta vita sregolata e maledetto tabacco.
Per scaricare il nervosismo, caricò la pipa, l’accese con la bacchetta e cominciò a spandere anelli verdognoli nell’aria. Fuori dalla finestra o meglio, dalla patina di polvere e unto che la copriva, si vedevano solo le facciate delle case davanti, grigie e sporche. Alcune grondaie prive di vari sostegni, ondeggiavano pigre nel vento.
Difficile farsi un’idea di come fosse il tempo fuori guardando da lì.
Stiracchiandosi e imprecando, scalciò via le coperte. Con qualche contorcimento, si ritrovò in piedi sul pavimento di assi gibbose. Depose la pipa su uno dei due comò invasi da posaceneri, candele tozze, documenti falsi, insetti pigiati in vasi, passaporti e pergamene consunti, gioielli pacchiani, libri contabili fasulli e svariate tipologie di oggetti di dubbia provenienza.
Su tutti, torreggiava una confezione di plastica verde acido. Un paio di opere prima aveva contenuto una deliziosa minestra di cavolo che Dung aveva consumato nella solitudine della sua stanza, mentre compilava una lista mentale di cose da fare. Non era stato granché corretto, nei confronti di Arabella, mentirle su un ipotetico viaggio per avere della minestra, ma Dung era ben lungi dal porsi problemi morali di qualche tipo.
Doveva portare a termine il maledetto incarico di Silente e poi avrebbe potuto riprendere a farsi i fattacci suoi. Come se adesso non lo facessi, sogghignò Dung brevemente e guardandosi attorno furtivo. Albus forse lo stava ancora controllando…
Con muggiti che non sarebbero stati fuori posto in una stalla, s’infilò il pastrano abbandonato su una delle sedie con le gambe sbilenche e guanti dalle dita tagliate.
Recuperò la pipa infilandosela nel pastrano dopo averla spenta con uno sputo. Poi raccolse e indossò dei consunti stivaletti a punta e se ne uscì nella gelida mattina, lo stomaco gorgogliante.
Chiuse la sottile porta finestra del suo alloggio  con un doppio giro di chiave, saggiando più volte la maniglia di scarso ottone. Era tutt’altro che affidabile, quella porta.
Poco importava, sarebbe tornato nel giro di un attimo.
Per maggior sicurezza, la picchiettò la porta con la bacchetta, invocando un Incanto Sensore.
Chi l’avesse aperta, avrebbe avuto una bella sorpresa targata Fletcher.
Scese la scaletta cigolante, tenendosi il più possibile vicino al muro di mattoni. Gli era già capitato di scivolare per quell’infida struttura che somigliava più a una barzelletta di scala, piuttosto che all’accesso marmoreo all’attico, descritto dal tizio che gli aveva affittato quel cesso di stanza.
Quando giunse nel cortiletto interno dietro la friggitoria, trattenne il solito conato di vomito.
A quanto pareva, con l’inverno e il Natale fra poco più di un mese, avevano incrementato il numero di sporcizia e residui nei grandi bidoni ammaccati. La neve sporca di rossastro e le ossa appartenute a creature non identificabili sparse sul selciato, la dicevano lunga su che cosa si cucinasse in quel buco d’inferno.
E non avevano nemmeno acceso le friggitrici e il forno. Brr…
Mundungus si affrettò ad uscire da una delle porte che davano sui vicoli, richiudendola con l’abituale catenaccio. L’odore di morte e frittura scadente, fu rimpiazzato dal sentore della strada, umida e sporca. Difficile dire quale fosse il peggiore, ma Dung era un veterano per certe cose.
Mani in tasca e sguardo basso, scese per il vicolo dove parecchi ciottoli erano stati scalzati e mai sostituiti. Passò sotto le varie gallerie che si creavano quando le case grigie si univano in caseggiati unici sopra le strade, evitando di esporsi troppo alla vista dei malconci e divelti balconi di legno.
Non incontrò quasi nessuno. Dung ebbe il sospetto che fosse mattina presto.
La sua intuizione fu certa, quando vide di essere l’unico avventore alla tavola calda di Boff ‘Ossoduro’ Grantson, che se stava dietro al bancone, a pulire con uno straccio macchiato il ruvido piano di lavoro.
Il locale, a ben guardare, era oltre gli standard del quartiere e quelli a cui era abituato Dung.
Era quasi un miraggio fatto  di pulizia, ordine e calore, con tavolini dalle tovaglie appena lavate e sedie non spaiate.
A parte la polvere che il proprietario aveva il vizio di spazzare per terra, per poi accumularla negli angoli non proprio nascosti e il lampadario storto, sembrava quasi di essere in un posto per bene.
Dung si avvicinò con passo flemmatico verso il bancone, su cui batté le nocche segnate. Era come sempre abbagliato dalle piastrelle rosse e bianche che decoravano due delle pareti, su cui correvano mensole cariche di bottiglie di varia provenienza per poi diramarsi sul soffitto come passerelle.
“Desidera?” Boff si era avvicinato, abbandonando la sua attività di pulitore, anche se lo straccio continuò a lavorare da solo, lucidando alla bell‘meglio il banco.
Il gestore del locale, rifletté Dung, non rendeva la minima giustizia al suo soprannome. Non era affatto ossuto e non appariva certo un duro. Non era grasso, ma la pelle flaccida che gli pendeva dal viso, dal collo e dalle braccia, dava l’impressione di un poveretto sottoposto a una dieta rapida che l‘aveva sì svuotato del grasso, ma lasciandogli in regalo una coperta di carne pieghettata.
“Eddai Boff, sono dieci anni che vengo qua e hai il coraggio di darmi del lei?”
Boff lo guardò con gli occhi cisposi ridotti a fessure, sotto alle pieghe della fronte.
“Sei tu, Fletcher?”
Dung sbuffò. “Vengo tutte le mattine Boff…”
“Non è affatto vero. Sono un paio di giorni che il tuo brutto deretano non entra nel mio locale. Vuoi mandarmi in rovina?” replicò acidamente l’altro.
Mundungus si arrampicò con vari sforzi su uno degli sgabelli di ferro e pelle logora.
“Ho avuto da fare.”
“Zerkinski?” domandò l’uomo, cominciando a rovistare fra le bottiglie alle sue spalle.
Dung sentì la pelle del viso diventare bollente. “Chi…?”
“Il solito giro di chiacchiere” disse l’uomo schiaffando un basso bicchiere e una bottiglia panciuta di liquore al caffè e gin davanti al suo unico cliente, all’improvviso fortemente in imbarazzo.
“Dice che ti ha ammazzato. Bruciato assieme a quella sua chiatta, la Libano Flora o quel diavolo che è.”
Lieben Fraulein” gorgogliò Dung. “E quindi?”
“Quindi ti si credeva morto, Fletcher. Mi era spiaciuto saperlo, ormai eri solo tu che facevi girare l’economia di questo posto.” Boff guardò con evidente orgoglio le pareti che li circondavano. Forse si aspettava un complimento che il malconcio ladruncolo non fece. Dung si versò una generosa dose di liquore bruno nel bicchiere. La mano gli tremava e ne rovesciò un po’ sul bancone.
Lo straccio accorse a pulire in fretta e furia.
“Però sono vivo, no? Boff?”
Ossoduro Boff si strinse nelle spalle. “Appunto. Buon per te Fletcher, lo dicevo che quel ciccione mentiva.”
Boff sembrava sghignazzare sotto i baffi, ma a Dung non sembrò molto convinto dalla spiegazione. Era difficile stabilirlo con tutta quella pelle cascante che aveva sul viso. Mundungus riflettè.
Se Silente aveva trovato Zerkinski -e l’aveva trovato, recuperando i macilenti denti di Dung-, Ossoduro non ne era ancora a conoscenza. Quindi, se le cose stavano così, la notizia non aveva ancora raggiunto nessun orecchio indiscreto.
Mundungus non sapeva se esserne felice o meno. Al momento, faceva la figura del derelitto maltrattato ma se si veniva a sapere la verità, ne sarebbe uscito con un’immagine ben peggiore; quella di uno che non sapeva sbrigarsela a meno che, un ultracentenario infiocchettato non venisse a rendergli giustizia.
Al diavolo la dignità, pensò Dung ingollando un sorso del liquore dolciastro, me la  sono giocata quando ho smesso di lavarmi una volta al mese.
Ossoduro sembrò essere della stessa opinione. Con tono canzonatorio e fintamente ammirato, in modo tanto sottile che un ascoltatore casuale non ci avrebbe fatto caso, continuò a parlare.
“Come ha fatto a metterti K.O.? Se sei vivo, non credo dovrei nemmeno credergli a quel figlio di ratto!”
Dung affondò il muso nel bicchiere, vergognoso.
“Un duro scontro” borbottò. Il vetro del bicchiere si appannò.
Il locandiere lo guardò in tralice. “Ha dato davvero fuoco alla barca con te sopra? Avrei scommesso tre galeoni con Curtis Bazzico che non era vero. A quanto sento da te ho fatto bene…” disse lentamente, soppesando la sua eventuale complicazione in una scommessa di quel tipo.
Dung si versò un altro bicchiere, prima di riprendere il discorso. Maledetto Zerkinski. Lo avrebbe…
Lo avrebbe fatto ammazzare da qualcuno. Che diavolo!
Quel cumulo di lardo avrebbe dovuto comprarsi dieci pancere Maga Snella pur di rientrare nei suoi abitini da cocktail. La vendetta che Mundungus avrebbe architettato sarebbe stata implacabile.
“Che fine ha fatto la gente? Thom Nocker? Jimmy Sverso? ” disse Dung guardandosi attorno nel locale vuoto. “E Albert Squirrel? Avevo bisogno di chiederci due cosette…”
Gli occhi di Ossoduro divennero quasi lucidi. “La clientela, dici? Puff, scomparsa Fletcher. Brutto momento per i locali che servono toast e panini oltre all’alcool.”
Lo sguardo di Boff schizzò in varie direzioni, le pupille come palline da flipper. Poi si chinò verso Mundungus con fare cospiratore: “Si stanno muovendo!” biascicò.
“I clienti? Dove vanno?” domandò Dung con la bocca semiaperta in uno sbadiglio, fingendosi poco interessato. Mai far vedere che una notizia ti incuriosisce. La curiosità porta alla tomba.
“Sciocco!” ringhiò l’altro, infervorato. La pelle del suo viso tremolò. “Non la leggi la Gazzetta? Non vedi cosa si muove per Notturn Alley?”
Dung, che la sapeva abbastanza lunga in quel campo, assunse la sua miglior espressione tontoleggiante.
“Il prezzo del pelo di Yut è sceso?”
Boff scosse la testa. “Idiota. Sta succedendo di nuovo. La calma, il discredito. Attaccano adesso quello svitato di Albus Silente, anche se si sa da una vita che è tocco. E quell’Henry Potter… cosa ti devo dire di più, Dung? Tu ci vivi a Nocturn Alley, come me, quindi sai che si dice in giro. Ultimamente si sono viste un po’ le stesse facce…”
“Mah. La tua solita paranoia” disse Dung, la faccia di bronzo e le viscere strette.
Boff scosse il capo, per nulla convinto. “I cari maghetti che bazzicano per Diagon Alley e per le comunità babbane possono giocare a quelli con l’affettato sugli occhi, ma qui la storia è diversa, Fletcher. Noi siamo al confine con la metà oscura…” sussurrò in un tono che voleva essere convincente. Dung sentì la saliva fargli su e giù per la trachea. Se solo Ossoduro Boff fosse venuto a sapere quanto lui era a conoscenza di quella metà oscura e di quelli che la combattevano, l’avrebbe preso a calci fino allo Yorkshire.
“Non...”
“E non puoi immaginare chi ieri è entrato nel locale! Proprio qui! Yaxley!”
“Chi?” mormorò Dung, fingendosi interessato ad un ennesimo sorso di liquore.
“Non fare il tonto, Dung. Sai chi è.”
“Come no. E cosa voleva questo Yankee?” domandò nella sua miglior voce indifferente.
Boff fece spallucce. “Mi ha chiesto di usare il bagno. Lo si è visto spesso da queste parti, ultimamente. Come ti dicevo, qualcosa si muove…”
Mundungus scese con un balzo dallo sgabello, gettando tre falci sporche sul bancone appena pulito.
“Prega che siano i tuoi affari a muoversi, non qualche sfigato nel bagno.”
Boff raccolse il denaro, arcigno e incattivito. Odiava farsi dare del paranoico.
Dung si diede una scrollata. Si sentiva tutto indolenzito e senza notizie particolarmente interessanti sul groppone. A parte il fatto che un ex-Mangiamorte usava il bagno della sua tavola calda preferita.
Tentò un’ultima domanda.  “E comunque, non sai dove possa essere n’dato Al Squirrel?”
Ossoduro Boff scosse vigorosamente il capo. “Non lo troverai, Fletcher. Si nasconde da un pezzo, quelle fiale di Giugurta che gli ha rifilato Greg Groggle l’hanno cacciato nei pasticci con il Dipartimento anti-Truffa…” Ossoduro fece un sospiro sconsolato. Sembrava sinceramente dispiaciuto per la sorte di Squirrel.  
“Il Ministero ha perquisito il suo nascondiglio in Marble Grave Street” aggiunse, tentando di sollevare le sopracciglia in mezzo al flaccide. “Ma dubito che ci stia ancora qualcosa là.”
“Ma tu sai dov’è Squirrel?” ripetè Dung cercando di essere paziente. Ossoduro non lo fu più.
“Cos’è vuoi rifilargli qualcosa? Comprare cacca di Drago? Non lo so dov’è! Nel mio pub non c‘è…”
Concluse, carico di tristezza e con uno sguardo offeso. Mundungus annuì, sibilando delle scuse fiacche.
“Scusami tu Fletcher. Ma non è un gran periodo…”
Dung fece ruotare il bicchiere, il fondo scuro roteò all’interno. “Già, nemmeno per me. Missioni del cavolo!”
Ossoduro gli scoccò un'occhiata penetrante e sospettosa insieme. “Missioni? Che tipo di missioni?”
Mundungus alzò gli occhi iniettati di sangue, correggendosi velocemente.
“Commissioni, Boff. Sai, clienti, ordini… La solita roba” borbottò a sua difesa. Ci mancava solo che il  barista di fiducia dei tre quarti della bassa criminalità di Londra, venisse a sapere che il suo miglior cliente -quando non si faceva fare credito- fosse un membro dell’Ordine della Fenice.
Alla fine, Boff sembrò convinto e cessò di studiarlo. Dung, più rilassato, si appoggiò al bancone, indicando la vetrinetta dei toast e delle torte. Tanto valeva mangiare qualcosa.
“Sganciami anche qualche fetta di butter bread, allora. Non ho ancora fatto colazione.”
Controvoglia, il locandiere si lasciò scivolare accanto all’espositore e si mise a infilare brutalmente alcune fette unte e croccanti in un sacchetto color senape.
Dung, nel vederlo così scontento, commise un’imprudenza.
“Sta attento” disse Dung con un sorrisaccio che voleva essere confidenziale.
“Tieniti fuori dai pasticci. C’è davvero qualcosa là fuori.”
Boff annuì lentamente, improvvisamente guardingo, tornando a recuperare il suo straccio. Mundungus uscì in fretta. Gli spiaceva comportarsi in quel modo, ma non c’era altro modo. Era un bene che la gente cominciasse a capire, ma quei toni cospiratori e spaventati non aiutavano nessuno. Di solito pensava a salvare sé stesso, ma per il gestore della sua tavola calda preferita, poteva fare un’eccezione.
Tornò a casa a passo svelto. Dung aveva la mente di un commerciante, spesso intorpidita dall’alcool, ma questo non significava  che non fosse in grado di comprendere quali fossero le conseguenze della comparizione di un ex-Mangiamorte (Probabilmente tornato anche in carica) a Notturn Alley.
Presto avrebbero cominciato a farsi vedere anche gli altri. Per reclutare o per uccidere, o entrambe le cose.
Trattene uno sbuffo di disappunto ed evitò di incrociare lo sguardo di una megera, accasciata sotto un androne. Non aveva avuto notizie utili per ciò che aveva chiesto Silente, ma aveva avuto una dritta per l’Ordine. Almeno quello, in quella giornata grama!
Tenendo il sacchetto del pane sotto al braccio, s’affrettò a salire la scaletta traballante. Aveva così fame, che quando si precipitò nella stanza, non si accorse di una cosa fondamentale.
Era riuscito ad entrare in casa senza chiave e senza dover sbloccare l’incantesimo di protezione.
Maledizione.
Dung non ci mise molto a fare mente locale. Aveva una buona memoria - che lo abbandonava solo dopo due dozzine di bicchieri-, con la quale catalogava e teneva il conto delle numerose trattative in sospeso, concluse o che aveva intenzione di aprire. Tuttavia, impiegò un’ ora buona per controllare a fondo nei due armadi sghembi, nei comò, sotto al letto e sotto alle assi del pavimento. Smontò con foga crescente lo specchio sopra il lavandino, fece sollevare la vasca con un Wingardium leviosa e perlustrò la botola sul soffitto.
Anche dietro il finto scarico del water. Nulla, nessuno sembra aver messo mano fra le sue cose.
Si sedette sul letto, mangiucchiando il pane e ungendosi le dita che pulì meccanicamente nelle lenzuola.
Non aveva idea di chi potesse venire a rubare oggetti scadenti da ricettatori di terza mano come lui, ecco la verità. Chiunque potesse farlo -chiunque fosse così sfigato e bislacco- sarebbe finito stordito nel giro di tre secondi, giù nel cortiletto, tra ossa e marciume vario. Sarebbe rimasto lì il tempo giusto perché Dung lo trovasse e gli facesse vedere che cosa meritava un ladro che rubava ad un altro ladro. Non che Mundungus Fletcher non lo facesse, ma aveva almeno la dignità di non farsi quasi mai cogliere sul fatto.
Ma qui, riflettè Dung con lo sguardo che vagava per la umida e scarna stanza, si trattava senza dubbio di un professionista.
Di qualcuno che, con tutta probabilità, si era limitato a ispezionare e a controllare. A raccogliere informazioni.
Per accertarsene, Mundungus estrasse la bacchetta e con un pigro svolazzo, la agitò.
Intrusae Revelio!”
Fu come se qualcuno avesse steso una patina blu su ogni cosa e superficie della stanza. Un blu tanto intenso che si riverberava sul viso affranto di Dung che, grazie al suo incantesimo, riuscì a vedere come si era mosso l’indesiderato ospite. Era uno solo, quello era certo. Una sola sequenza di passi che entrava e cominciava ad aggirarsi nella stanza. Le macchie magenta sul pavimento non mentivano.
Con il lento scivolare dei secondi, Dung osservò le altre macchie rosso-viola sbocciare come fiori un po’ ovunque, dappertutto. Alcune si vaporizzarono nell’aria, segno di un qualche rimasuglio di magia. Poi si materializzarono sulle ante degli armadi, sui muri, sull’intelaiatura delle finestre, nei cassetti. I libri si aprirono e vennero sfogliati da una mano invisibile che li macchiava di rosso.
Le sue cose  vennero spostate, studiate e poi rimesse al loro posto. I passi magenta si diressero al minuscolo bagno e altre macchie comparirono sul lavandino, lo specchio e persino il nascondiglio nel water. Al diavolo l’ingegno!
Sempre più innervosito, Dung vide i passi che aveva percorso l’intruso farsi più vicino al suo letto, vicino alla testata. Proprio dove era seduto lui…
Finitum Incantatem!” La patina blu e le macchie magenta sparirono. Gli oggetti tornarono perfettamente immobili, esattamente come quando Dung era entrato.
Con gli occhi iniettati di sangue e cattiveria, Mundungus Fletcher cominciò a riflettere.
Se non era stato un ladruncolo, non erano nemmeno stati quelli del Dipartimento Anti-Raggiri del Ministero. Data la tontolaggine di entrambi, Dung aveva il sospetto che, se fossero stati loro, se li sarebbe ritrovati giù in cortile grazie al Sensore. Chiunque era entrato era stato fin troppo accorto, talmente accorto che era riuscito a entrare, cercare e… Farsi beccare.
Le opzioni, valutò Mundungus crogiolandosi nel suo intuito intuitivo, si potevano ricondurre a due soli casi.
Primo. Era entrato un professionista, aveva frugato la stanza ma, non trovando ciò che cercava, si era allontanato, dimenticandosi di cancellare tutte le sue tracce e riattivare il Sensore, rimettendo a posto le cose ma non le sue tracce, troppo distratto dall‘insuccesso.
Secondo. Era entrato un professionista, aveva fatto tutte le cose descritte nel punto primo, ma si era limitato a riordinare, lasciando intenzionalmente tracce trovabili da un Incanto di Rivelazione e del fatto che fosse entrato nella sua tana. Probabilmente auspicando che in quel gesto, Mundungus Fletcher ci leggesse qualcosa di itimidatorio.
Mundungus digrignò i denti. Chi poteva avere interesse a introdursi in casa sua -nella sua stanza in affitto-?
La lista non era breve. Creditori, Auror, Maghi Oscuri, ladri invidiosi, la sua ex-moglie, gente derubata, elfi domestici, streghe mollate all’altare, Troll…
Si accese la pipa, pensando intensamente. L’effetto dei due bicchieri da Boff Ossoduro era svanito, e ora si ritrovava, probabilmente controllato, sudicio nella sua sudicia stanza, senza un goccio d’alcool da mettere nelle budella. Non sapeva nemmeno che diavolo d’ora era.
Tra uno sbuffo di fumo rancido e l’altro, rimpianse i bei tempi della gioventù in cui non c’erano missioni, Ordini e le richieste di un Preside matto a pendergli sul collo.
Solo il caro, nostalgico taccheggio. Quanto avrebbe voluto dire a Silente ...
“Coff! Coff! Eeehh.. Coff!” Mundungus si agitò sul letto, preda di una tosse convulsa. La sua testa aveva appena fatto un ragionamento da un milione di Galeoni, per Merlino smutandato!
Non aveva guardato nell’unico posto importante. Quello dove teneva gli ordini e le commissioni per oggetti seri e di valore, mica quelle porcate di infima e sconosciuta qualità che smerciava di solito.
Pensare a Silente gli aveva ricordato del foglietto su cui aveva scritto la sua richiesta, durante la sera passata tra scacchi e vomitevole liquore caraibico.
Mundungus si passò una mano tra i capelli incrostati. Da quando Silente si era fatto vivo da Arabella, si era concentrato -finora nel vero senso della parola, dato che perlopiù aveva pensato alla missione, non lavorato- sulla missione affidatagli. Dopotutto, il vecchio gli aveva fatto ridare i suoi denti e con tutta probabilità, spedito Zerkinski in qualche comunità dimagrante in Zimbaue.
 Dung scosse il capo, infastidito dalle sue fantasticherie. Vero, Silente forse sapeva cosa stava facendo e lui, per ora, non aveva fatto ancora nulla di decisivo, ma dopo ore di elucubrazioni, era giunto alla soluzione. Contattare Albert Squirrel. Ottenere informazioni.
Questo era stato lo scopo di andare da Boff Ossoduro, oltre che farsi del pane fritto e scroccargli del liquore a buon prezzo. Solo che adesso si ritrovava con un intruso in casa, che aveva frugato dappertutto e che probabilmente aveva anche guardato nell’unico posto importante. Il posto che Mundungs, nella sua bieca arroganza, non aveva nemmeno controllato.
Con il cuore in gola, la pipa pendente all’angolo della bocca, Dung si girò sul letto, fissando i vecchi tubi di ferro che componevano la testata del suo letto cigolante.
Pregò che si stesse sbagliando. Che stupido era stato a bloccare l’Intrusae Revelio a due passi dal posto più importante da controllare!
Si sputò sui palmi delle mani e cominciò a svitare uno dei tubi verticali della testata. Quel maledetto era avvitato così stretto che Dung dovette impegnare varie imprecazioni e gocce di sudore prima di costringerlo a svitarsi con lunghi cigolii.
Con il viso color pomodoro per la faticaccia, Dung sollevò il pezzo di ferro ad altezza occhio.
L’asta di ferro tubolare, con più di cinquanta centimetri di lunghezza per due di diametro e l’interno cavo, era perfetto per nascondere i biglietti delle commissioni per oggetti speciali e non proprio legali. Non il posto più sicuro in assoluto, ma abbastanza affidabile per un ladro del calibro di Mundungus Fletcher.
Solo che, come l’occhio strabuzzato di Dung poté constatare, l’interno del tubo metallico era perfettamente, sorprendentemente vuoto.

 

***


‘Luna, mia diletta figlia. Sorridi!’
Luna sorrise. Riprese a leggere la lettera, masticando rumorosamente i suoi cereali con frutta secca.

Qui nevica! Fammi sapere quando arrivi.
                                                    Papà.


P.S. Ho allegato una foto del Cretulo Gracchiante, il caro Fox Cleaver ce la manda dall’Alabama. Potremo scrivere qualche commento su di lui non appena torni, cara!
P.S.S. Intendo sul Cretulo, non Fox Cleaver. Perdona il mio errore!
P.S.S.S. Come padre sono un disastro, vero? Un abbraccio, mia Luna.’


Luna ingoiò i suoi cereali, le guance arrossate e le palpebre un po‘ abbassate per il sonno. Suo padre si era di nuovo confuso con la partenza da Hogwarts per le vacanze.
Al povero Xenophilius Lovegood bastava vedere un po’ di neve sul vialetto per gridare al miracolo e stare a guardare il cielo in attesa di avvistare Babbo Natale, aspettando di vedere Luna sbucare in fondo alla strada, a fargli ciao ciao con la mano.
Luna rilesse la lettera altre tre volte, continuando a pescare dalla sua tazza quantità generose di latte al cacao e cereali. Non vedeva l’ora di tornare a casa e di starsene seduta al suo tavolo in cucina o vicino al ruscello a cercare Plimpi. O a dipingere.
Suo padre era sicuramente dimagrito. Lui e Luna erano due cuochi pessimi in due, figurarsi se abbandonati a sé stessi. 
Luna socchiuse gli occhi e immaginò i giorni che le mancavano. Meno di tre settimane.
Non riusciva a stabilire se fosse un tempo più o meno lungo. E calcolarlo in base ad un orologio, era stupido. Luna non credeva nei meccanismi, nelle meridiane o nel passare delle ore. Per lei erano solo una convenzione. Il tempo, nella percezione di Luna Lovegood, era fatto di momenti, quelli che restano e quelli che dimentichiamo. Calcolare tali frammenti era inutile e pretendere di dividere le giornate per dargli un senso, rientravano in uno schema folle. Almeno per lei.
Perché decidere di considerare ore che sarebbero presto finite in un cassetto, dimenticate e abbandonate?
Luna si passò una mano sulle labbra sottili, come prevenzione anti resti colazione. Prese la lettera, la piegò con cura e la infilò nella borsa. I suoi occhi sporgenti e sgraziati vagarono sulla tavola, fino a trovare la busta, schiacciata sotto la caraffa del latte. La prese e sbirciò all’interno. Niente foto.
Luna Lovegood sorrise divertita. Suo padre si era dimenticato di metterla nella busta.
La cosa non la infastidì, anzi, aumentò il suo interesse verso il misterioso Cretulo.
Si guardò in giro. Gli occhi roteanti indugiarono un po’ sulla tavola degli insegnanti, ma -Luna provò una strana sensazione, curiosità mista a dispiacere- nessun Severus Piton con sguardo arcigno, seduto lassù.
Tanto per ricordare a sé stessa quello che era successo la sera prima, si frugò nella borsa. Il sacchetto di velluto con dentro i suoi Spettrocoli e le sue cose, bigiotteria più che altro, erano ancora lì.
Ringraziò mentalmente Severus Piton per averli prontamente ripresi dalla stregaccia rospo.
Era stato un gesto gentile.
Il fatto stesso che si fosse preoccupato per quelle che -Luna ne era sicura- riteneva sciocchezze, lo metteva in una luce diversa agli occhi della ragazzina.
Era indecisa se rimanere in Sala Grande ad aspettare l’immancabile secondo gufo, - Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima che suo padre si sarebbe dimenticato qualcosa-, ma l’arrivo di una chiassosa compagnia di Corvonero, tra cui quello strano Giggins e il suo sospetto ferro tra i denti - Chiapparecchio, l‘aveva chiamato- decise per lei.
Prese ancora un po’ di tempo, raccogliendo i granelli di zucchero sparsi vicino alla sua tazza e guardando il soffitto dalle tinte grigie.
Nuvole, nuvole e ancora nuvole.
Niente neve dal cielo, sospirò Luna un po’ delusa. S’infilò la borsa a tracolla, si aggiustò la cravatta blu e bronzo, un po’ più lunga del normale e con un nodo a fiocco tutto storto,
avviandosi all’uscita.
Il suo posto, circondato dal vuoto più assoluto, fu occupato in fretta da un paio di fantasmi sibilanti, insospettiti da quella ragazzina dagli occhi vacui che mangiava sempre da sola.
Luna Lovegood cercò di camminare a passo svelto, senza farsi notare troppo. Compito facile, dato che quella mattina solo metà scuola sembrava essersi interessata a scendere in Sala Grande.
A dir la verità, erano un paio di mattine che la situazione era quella, ma Luna aveva cose ben più importanti che le svolazzavano per la testa.
Luna accennò un distratto saluto a Neville Paciock, al piatto e alla pianta dai molti occhi che portava in mano, quando lo incontrò vicino al tavolo di Grifondoro, in attesa di trovare un posto dove sedersi a mangiare le sue uova strapazzate. Neville ricambiò con un sorriso timido e un po’ spaventato, domandandosi perché Luna si fosse infilata una fetta di pane tostato nel taschino della divisa.
Luna, incurante del disappunto di Neville, tirò dritta verso le scale, cominciando a salire gli scalini due a due, cercando di tenere il viso basso e il respiro inudibile. Doveva diventare un tutt’uno con il muro e rendersi invisibile perché, quella mattina, Luna Lovegood non sarebbe andata a lezione.
L’aveva deciso la sera prima o meglio, durante la notte quando, di ritorno dall’ufficio dallo strano professor Piton, aveva cominciato a riflettere sulla ragazza dai capelli rossi.
Luna Lovegood provava una stravagante sensazione.
Aveva visto quella ragazza vagare muta a fianco di Severus Piton, l’aveva vista cadere dalla torre dell’orologio e l’aveva vista prendere il posto di Ginny, proprio accanto a lei. E, tutte e tre le volte, l’aveva vista sparire nell’aria, lasciando per ultimo lo scintillio dei suo occhi smeraldo.
Qualcosa che Luna sapeva di conoscere, ma non di collocare.
Luna sospirò, rallentando appena il passo. Quegli occhi, troppo verdi e troppo rabbiosi per essere scordati facilmente, avevano cominciato ad apparire nei suoi sogni.
Si chiese se apparissero anche nei sogni di Severus Piton.
“… Ti dico solo che non è giusto, Harry. So che Angelina ce l’ha con te ma…”
“La Umbridge non cambierà idea. Squalifica a vita.”
“Prendi il mio posto, allora. Te lo cedo volentieri!”
“Ron, te lo già detto, se te ne vai anche tu rimarranno tre giocatori in squadra…”
Luna strabuzzò gli occhi sorpresa. Fece per girarsi e scendere la scala, ma quella si era ormai staccata dal pianerottolo e si stava girand,
proprio verso quello dove Harry Potter e il suo amico Ronald Weasley attendevano.
Luna si sentì improvvisamente avvampare. O meglio, ne provò la sensazione, dato che era talmente pallida che la facoltà di arrossire le era preclusa. Doveva smetterla, stava diventando imbarazzante.
La scala si assestò con uno scossone. Luna sentì i passi dei due avvicinarsi, così come le loro voci.
“Ciao Luna.”
“Ciao, Harry Potter. Ciao amico di Harry Potter” mormorò Luna in tono basso ed educato, fissando un quadro dove alcuni geografi, affollati attorno ad un mappamondo cubico,
cercavano di usare i rispettivi compassi per cavarsi gli occhi a vicenda.
Luna rimase a scrutarli per un po’, affascinata dalle loro improbabili gorgiere. Solo quando fece per salire la scala, si accorse che Harry e il suo amico rosso erano ancora lì.
“Che c’è?” domandò un po’ troppo seccamente, aggiustandosi nervosamente la tracolla.
Cercava di apparire seccata, ma ai due sembrò solo in preda al prurito. “Che c’è?” ripeté in tono più cordiale.
Gli occhi di Harry s’illuminarono per la sorpresa. Da quando aveva cominciato a parlarci, all’inizio dell’anno, aveva notato come Luna passasse con palese noncuranza dall’irritazione ad una gioiosa indifferenza, dalla serietà all‘assurdo. Si domandò, confuso, se fosse prerogativa delle ragazze in generale o solo di quella Corvonero davanti a lui. Era un interrogativo così importante che quasi dimenticò la domanda che stava per farle.  
“Niente, cioè, scusami …” Harry prese fiato, accigliandosi. “Volevo domandarti se tornerai a casa per le vacanze di Natale.”
Luna aggrottò le sopracciglia inesistenti. La cortesia di Harry Potter il-Ragazzo-che-è-Sopravvissuto le pareva infinita.
“Direi di sì, Harry Potter. È un test per l‘E.S.? Ci darai dei compiti?” replicò a sua volta Luna, con un sorriso gentile.
Ron trattenne uno sbuffo divertito, poi diede una pacca sulla spalla ossuta di Harry facendolo trasalire. Gli occhiali di Harry scivolarono un po’ lungo il naso e lui se li rimise a posto con il palmo, lanciandogli un‘occhiata storta e nervosa. Molto nervosa.
“Harry vuole chiederti se sai se Cho Chang torna a casa per le vacanze, Luna” spiegò Ron con uno sguardo di divertita sufficienza verso l’amico.
“Ma lei non deve sapere che te l‘ha chiesto, perciò mantieni il segreto” aggiunse bisbigliando e ridacchiando.
Luna il sorriso di Luna cambiò impercettibilmente divenendo un sorriso di circostanza, senza che i due se ne accorgessero. Anche se si era aspettata di peggio.
Inclinò il capo nella sua migliore espressione dubbiosa, senza sbattere le palpebre sugli occhi sporgenti.
“Ma lui non me l’ha chiesto, me l’hai chiesto tu. E se …” Luna girò lo sguardo argenteo verso il ragazzo, studiandolo attentamente.
Si avvicinò millimetricamente al suo colletto, sbirciando la gola e il collo.
“Soffri di Seppiole Mormurea, Harry?”
“Cosa?”
Luna si portò le mani alla gola, come se volesse strangolarsi da sola. E con quegli occhi bulbosi e vorticanti, l’effetto era assolutamente realistico. Harry la guardò spaventato, mentre Luna sussurrava con voce strozzata:
“Si attaccano alle corde vocali e ti cossstringono a cercarti qualcuno che parli per te...” Di fronte all’espressione inerte dei due amici, Luna abbassò le mani, annuendo come se avesse appena spiegato una delle tre verità fondamentali dell‘universo.
“Perché si mangiano la tua voce e tu rimani muto e zitto per il resto dei tuoi giorni.”
Ron rise. “La verità è che Harry è troppo tim …”
“Parla il re degli intraprendenti!” sbottò Harry arrossendo in zona zigomi.
“Ma Weasley è davvero un re!” replicò Luna, il viso disteso in un sorriso sognante ed entusiasta. Fu il turno di Harry ridere anche se ebbe la gentilezza di trasformare la sue risa in tosse, di fronte all‘occhiataccia di Ron. Il ragazzo, offeso, brontolò con una faccia desolata e incupita:
“Ehi. Vacci piano, sono una persona sensibile e dal cuore a pezzi perciò…”
Prima che riuscisse a trattenersi, Luna scoppiò a ridere in modo stridulo, tenendosi i fianchi. Quella reazione, scatenò un vago senso di disagio nei due ragazzi che si guardarono ancora, con occhi allarmati. Ron, che per una volta non stava scherzando e non aveva fatto alcuna battuta, si sentì seriamente preso in giro.
La guardò storto finché Luna non si calmò, riprendendo a parlare.
“Cho torna sempre a casa per Natale, Harry Potter” disse in tono vago, gli occhi nebulosi.
“Grazie” rispose Harry sollevato. Si girò verso Ron e gli mollò un pugno sul braccio. “Grazie anche a te.”
“Adesso però trova il coraggio e vacci a parlare” borbottò Ron in risposta.
“Lo avrei già fatto se qualcuno non l’avesse aggredita sui Tornados…” replicò Harry piccato.
Ron storse il naso, accennando un sorrisetto. “Ma certo…”
Harry lo guardò indeciso tra una risata o un ennesimo pugno sul braccio.
Tagliata fuori dalla conversazione, Luna Lovegood decise di uscire di scena. Si aggiustò la borsa sulla spalla e  si frugò in tasca, picchiettando la punta del piede sul pavimento con fare irrequieto, dicendo: “Bene. Ci vediamo in giro. Buona fortuna.”
Poi tese una mano, serissima. Harry, stupito, gliela strinse, intercettando lo sguardo divertito di Ron.
Cogliendolo di sorpresa, Luna lo tirò verso di sé, inforcò gli Spettrocoli che aveva preso dalla tasca con l’altra mano e scrutò il viso di Harry, a pochi centimetri dal suo.
“Hai degli occhi sorprendentemente verdi, Harry Potter.”
Luna li fissò con tanta attenzione da sfiorare la maleducazione. Avevano qualcosa di familiare, notò la Corvonero, per nulla interessata all‘espressione sorpresa ed ebete del ragazzo. Ne guardava solo le iridi. Quella tonalità, quelle screziature luminose.
“Sono color garofano” concluse dopo la sua pseudo ispezione. Dopodiché si voltò e riprese a salire la scala a passo deciso, quasi correndo, lasciando Ron Weasley a domandarsi dove Luna Lovegood avesse visto un garofano verde e Harry Potter, a chiedersi quando avrebbe trovato il coraggio di chiedere a Cho Chang di uscire con lui.
Un piano più sopra, fuori portata da sguardi indiscreti o da alunni sciamanti nelle rispettive classi, Luna si sedette ai piedi di un’armatura, senza fiato per la corsa. Appoggiò il capo ondeggiante ad uno dei gambali di ferro, cercando di riprendere a respirare con normalità.
Chiunque, avrebbe potuto pensare che Luna Lovegood avrebbe trovato ben più di una rassomiglianza tra gli occhi dell’apparizione che affliggeva Severus Piton e quelli di Harry Potter, il Ragazzo- che-è-Sopravvissuto, ma Luna Lovegood non è chiunque.
L’idea che quegli occhi fossero gli stessi, non la sfiorò minimamente.
Gli occhi della ragazza erano troppo rancorosi e cattivi, tutta un’altra cosa rispetto a quelli limpidi e tranquilli del ragazzo con la cicatrice, occhi che aveva trovato così affascinante osservare.
Luna Lovegood era vaga, distratta e sognante. Difficilmente riconosceva l’ovvio o ci faceva caso, ma aveva l’insospettabile attitudine di notare ciò che agli altri sfuggiva e di riuscire a parlare con schiettezza, stravolgendo tutto quello che ritenevano giusto e corretto.
Perciò, anche se quegli occhi erano obbiettivamente identici, nel cervello di Luna Lovegood essi vennero registrati come diametralmente opposti.
Si alzò e riprese a camminare in direzione della biblioteca. Non aveva un piano preciso su come svolgere le sue ricerche, non sapeva nemmeno se definirle tali. E non era nemmeno sicura se avesse dovuto recarsi lì, data la sua diffidenza verso  buona parte dei libri che riportavano solo metà delle cose che si aggiravano per il vasto mondo, ma tanto valeva provare.
Luna Lovegood, aspirante cacciatrice di ombre e ragazze spettrali, si era però fatta un lungo elenco mentale di cose che avrebbe potuto cercare in ordine alfabetico, cominciando da ‘A’ di apparizione  fino alla ‘Z’ di zombie.
Mentre avanzava a passo di marcia verso la grande sala della biblioteca, incrociando qualche altro alunno solitario e due fantasmi con abiti da giullari, i pensieri di Luna Lovegood formarono ricordi confusi e amareggiati. Si sentiva un po’ troppo incapace e spaventata, a dirla tutta.
Era passato quasi un mese da quando Albus Silente, le aveva chiesto di aiutare il professor Severus Piton e, sempre a distanza di un mese, lei non aveva fatto ancora nulla.
Non solo perché ogni volta che cercava di parlargli si finiva a battibeccare, o a svenire per terra, o sbattendosi una porta in faccia ma forse perché, Severus Piton non era ancora capace di accettare l’idea di aver bisogno di una mano.
E Luna, a causa di quell’incapacità di trovare un modo per capirlo e sentendosi intimamente in colpa, non conosceva ancora che tipo di aiuto gli servisse.
Poteva essere per combattere la ragazza dai capelli rossi o le stramberie che lo rendevano così stravagante e malmostoso, Luna Lovegood non lo sapeva ma, giurò a sé stessa che da quel momento, sarebbe stata fermamente decisa a scoprirlo.


***


Mundungus Fletcher addentò la mela che aveva sgraffignato al fruttivendolo all’angolo tra Paradise Street e Lameeth Walk con voracità, sbrodolandosi di saliva sul mento.
Dopotutto, tre fette di pane unto e un paio di bicchieri non costituivano che una piccola parte di una colazione sana e nutriente.
Si pulì con una manica del pastrano, occhieggiando la strada con occhi soddisfatti e giocondi.
Per nulla infastidito dai Babbani che cambiavano strada o lo fissavano inorriditi al suo passaggio, Dung scese per Regent Street, attraversò Kensington Cross -rischiando di venir investito da un taxista iracondo- e imboccò Chester Street con piglio deciso.
Non aveva la minima idea di dove stesse andando, ecco la verità.
L’unica cosa che lo rincuorava era l’essere uscito da Notturn Alley, un posto dove -adesso lo sapeva- era diventato un bersaglio mobile. Sparire per un po’ dentro la grande Londra, tra folle di Babbani ignoranti e a tre rapide giravolte dal quartiere dell’Ordine - Il cervello bacato di Dung sembrava aver dimenticato che Grimmauld Place era raggiungibile, con lo stesso sistema, anche dall’Alaska o dai Pirenei-,  lo faceva sentire con le spalle quasi coperte. Aveva valutato di scippare una macchina a qualche Babbano, ma riflettendoci, una passeggiata gli sarebbe stata ben più utile e salutare.
Vagò ancora per le strade lucide di pioggia, mentre londinesi sciamanti per le strade si destreggiavano tra macchine parcheggiate, bidoni e vetrine luccicanti e addobbate.
Dung ammirò con stupore le lucette sugli alberelli messi lungo Upper Kennintong Lane. Era talmente preso a riflettere su come avesse potuto procurarsene un paio e rivenderle al vecchio Arthur Weasley, che si accorse a malapena di essere sbucato davanti alla stazione di Vauxhall e all‘incrocio di strade luminescenti e ululanti di gente, in mezzo a cui sorgeva.
Infreddolito e con lo stomaco più gorgogliante che mai, gettò il torsolo tra un piccolo stormo di corvi che svolazzarono via, incattiviti. I loro occhietti liquidi dardeggiarono verso Mundungus che ricambiò con altrettanta acidità nelle iridi sanguigne. Senza preoccuparsi del cartello ‘Sottopassaggio’ per attraversare la strada, Dung scavalcò la bassa recinzione, strappandosi l’orlo già strappato dei pantaloni. Un tempo erano gessati, ricordo di una gita al ministero, ma ora le righe bianche erano stinte, cosicchè i pantaloni ora riproducevano in bianco e nero quella che era, a tutti gli effetti, la texture di una buccia d’anguria.
Si lanciò in mezzo alla strada, dribblando come una palla di stracci le macchine e i loro autisti esterrefatti. Non ci mise molto a ritrovarsi sull’altro marciapiede, di fronte alla costruzione di mattoni e pietra colorata e arcate di legno bianco e vetro. Vittoriana, senza dubbio.
Dung si grattò il collo, guardandosi in giro con fare distratto. I suoi occhi passarono su uno dei pannelli con la mappa di Londra, in uno dei lati ombrosi dell’edificio.
Si avvicinò, frugandosi in tasca, alla ricerca dei fammiferi e di un sigaro in buone condizioni. Pregò che il fumo gli facesse passare la fame che faceva dolere il suo stomaco malconcio.
Senza degnare di uno sguardo le linee colorate che indicavano le varie tratte, si appoggiò alla plastica cigolante, facendo vagare gli occhietti rossi su ogni singolo viaggiatore che entrava o usciva dalla struttura e si accese voluttuosamente un sigaro.
Niente.
Cominciò a camminare rasente al muro, aggirando la stazione. Quando arrivò sul lato dell’edificio che dava sul grigio Tamigi, imboccò l’ingresso, superò i tornelli ed entrò, incurante della scritta ‘vietato fumare’. Anche lì, Babbani di fretta, lucette lampeggianti e alberi carichi di addobbi e altre sciocchezze luccicanti -benchè quelle dorate stuzzicassero in modo piacevole gli occhi di Mundungus-.
Cominciò a camminare lentamente lungo la bassa galleria, illuminato dai lampioni che ne segnavano il centro come una luminosa spina dorsale. Il soffitto basso e a volta era decorato da due frecce rosse se movibili. Babbanate, pensò Dung sbuffando fumo nell’aria calda.
Escluse le voci agli autoparlanti e il sottofondo sferragliante dei treni, Mundungus si sentiva schiacciato in una piccola e coperta riproduzione della Londra esterna, quasi un segmento asportato.
Come nella grande Londra, anche lì in quel microcosmo vigevano regole identiche e le stesse tipologie di Babbani, tutti con la loro voglia di distinguersi dalla massa, di spiccare nel mare delle facce anonime.
Dung si appoggiò a una delle colonne lungo i muri, incastrata tra i gabbiotti grigi delle biglietterie e degli uffici. Aspirò lentamente il fumo, gli occhietti guizzanti oltre la cortina nebbiosa.
Nessuno l’avrebbe notato. Mundungus sapeva che il modo migliore per non farsi beccare, tra quella massa di distratti amanti della scienza e del razionale, era assomigliare a uno di quei poveri disgraziati lasciati a loro stessi, sotto ad un androne o sdraiati su una panchina, che i Babbani snobbavano tanto.
Certo, le sue ragioni di look non avevano quell’unica motivazione, sarebbe stato da stupidi, ma servivano al loro scopo, lì, nel mondo dei normali.
Tanto normali che si comportavano tutti all’unisono, correndo senza fermarsi mai, trascinandosi dietro bambini in lacrime, valigie simili a carrelli e altri desolati compagni d’avventura.
A Mundungus, le stazioni facevano venire tristezza.
Si allontanò strisciando i piedi, gli occhi vigili sulla folla. Diversamente da molti passanti accanto a lui, nessuno lo urtava o inciampava nella sua persona.
I Babbani non lo vedevano, ma contemporaneamente lo avvertivano e lo disprezzavano.
Lo evitavano come tutto ciò che non riuscivano a spiegarsi.
Colpa mia che non mi lavo da un mese, ghignò Dung sotto i baffi, interrompendo il suo vagheggiare malinconico. Pregò che gli passasse vicino uno di quelle donne altezzose della City, con i loro tailleur, le valigette e le nuvole di profumo artificiale  al guinzaglio. Quanto erano volgari.
A Dung le donne piacevano, ma le vere donne erano un’altra cosa. Non appena nel suo cervello formulò questo pensiero, nel suo cervello si materializzò Arabella, con le braccia alzate in una posa di karate e suo aroma di detersivo. Dung scosse il capo, cacciandola via dai suoi pensieri. E che diamine!
Doveva allargare i suoi orizzonti in quel capo, prima di atteggiarsi da playboy azzimato. Al momento era impegnato, ma non appena avesse avuto un attimo libero avrebbe fatto strage di cuori.
Si avviò lungo la galleria, finché sulla destra non vide un conosciuto cartello con molte sagomine sedute.
La sua memoria non l’aveva tradito, aveva beccato il posto giusto.
Sala d’Aspetto. Che posto dal nome rassicurante.
Dung che da quella giornata confusionaria non sapeva cosa aspettarsi, spinse il maniglione a sbarra e ci si fiondò con sollievo. Era deserta e, cosa ancor più utile, i vetri che davano sulla gallery avevano quella tonalità scura che permetteva di osservare l’esterno indisturbati. Un po’ di privacy, pensò gongolando.
Proprio quello che ci voleva. Dung ghignò, il sigaro stretto tra i denti.
Come depistaggio era stato fatto un po’ alla cavolo, ma ormai non aveva più dubbi.
Sapeva di essere seguito e non era stata solo la sensazione di minaccia mentre affrontava le vie di Londra con  passo noncurante. Da chi era seguito Mundungus non lo sapeva, ma bastava attendere. Presto lo spione sarebbe entrato e Dung avrebbe avuto il piacere di accoglierlo e di fargli sputare tutto, comprese le Promesse rubate. Oltre ad insegnargli che cosa accadeva a chi entrava in casa di Dung ‘Astuto’ Fletcher.
Il sedere di Dung scivolò un po’ sulla sedia di plastica. Seduto scomposto e con un sorriso ebete in faccia, crogiolandosi nella contemplazione della sua intelligenza sopraffina, Mundungus Fletcher guardò le facce dei Babbani distratti che, oltre i vetri, inseguivano il tempo.
Come facessero a vivere senza magia, mistero, azione  e la felicità a due passi, non lo sapeva. Certo, per Mundungus Fletcher, lo stato di felicità era rappresentato da una bottiglia di Whiskey o brandy sotto al letto, -“liquida, sexy e disponibile”-  ma era comunque una domanda inspiegabile. Si ripromise di chiedere ad Albus. Quel Babbanofilo aveva di certo la risposta giusta e anche se avrebbe avuto a che fare con le solite baggianate sull’amore, bè…
Se non altro avrebbe soddisfatto la sua curiosità.
Mundungus Fletcher si grattò la pancia, sbadigliando. Un po’ di fumo fungino gli uscì in volute delle narici.
Che palle.
O il suo inseguitore e servo del male, era lento come un sasso immobile sul greto di un fiume, o era frutto della paranoia di Mundungus. Quale delle due fosse più umiliante, il ladro-ricettatore non lo sapeva.
Ebbe la tentazione di materializzarsi direttamente a Grimmauld Place o in una delle sue tane sparpagliate in città, ma sospirando, vide la faccia contrita di Albus Silente e s’impose di rimanere seduto.
Mordicchiando il sigaro con i denti sghembi, si passò una mano sulla fronte aggrottata, massaggiandosi le tempie. Aveva fame, freddo e sonno.
E voleva un goccio di sambuca ribes con seltz, come quella che gli serviva Sirius dopo quel teatrino di riunioni che erano gli incontri dell’Ordine della Fenice.
Che palle.
Mundungus si ritrovò a desiderare quel drink con tanta intensità che si dimenticò del tutto di dove si trovava e cosa stava facendo. La folla fuori dai vetri sciamava con lo stesso ritmo, le stesse facce ripetute all‘infinito.
Dung non le dedicò più di un’occhiata ed era troppo tardi quando, uno di quei visi, più definito degli altri, con una strana consapevolezza sui tratti del viso segnato e i vividi occhi azzurro grigiastro infossati, si mise a guardare dentro la sala d’aspetto con intensa concentrazione, oltre i vetri scuri.
Non sta guardando me, non sta guardando me. Si sta specchiando, si sta specchiando. Paranoia, paranoia, paranoia.
Dung si tirò sulla sedia in fretta e con un colpo di reni fu in piedi. Lui e l’uomo fuori dai vetri oscurati continuarono a guardarsi negli occhi, mentre uno scricchiolio,
il suono del ghiaccio che si stacca da una parete, si faceva via via più secco e crepitante.
Sul vetro tra Dung e il nuovo venuto, cominciò a scavarsi una crepa profonda, mentre lo sconosciuto sorrideva, sollevando appena gli zigomi squadrati, in quella faccia da mummia stitica.
Il sigaro di Dung cadde dal suo labbro penzolante, lasciando dietro di sé una cometa di cenere.
Quando il vetro si frantumò del tutto, ormai era chiaro anche a Dung che quello  -ovviamente, stupido- era un mago e che lui, per sua sfortuna, era di nuovo nei guai.
Con un boato il vetro esplose, scagliando frammenti aguzzi, grossi come pietre all’interno della sala d’aspetto.
Mundungus Fletcher, spronato dal suo innato istinto di sopravvivenza, si gettò sotto una fila di sedie di plastica.
Terrorizzato e con le budella in fermento, fece una cosa che non avrebbe mai ritenuto possibile.
Si smaterializzò in posizione orizzontale.





BAM! Benvenuti al 14esimo  capitolo del Dono!
Dunque, per oggi non ho grandi precisazioni da fare, se non un grosso grazie per le recensioni e i messaggi di ringraziamento e complimenti.
Non è mai superfluo dire quanto mi facciano piacere! (E per favore, sparatemi una critica negativa qualche volta, vivo con la consapevolezza che  un giorno mi adagerò sugli allori!)
Su questo capitolo -lo so, lo so, non è bello quanto quello passato ma vedrò di rifarmi- non ho particolari accorgimenti da aggiungere se non che Mundungus sta rapidamente scalando la mia personale classifica di gradimento. E' un puzzone trendy. So che è anche il primo capitolo senza l'ombra cupa di Severus, ma mi serviva un po' di stacco con il nostro ombroso pozionista preferito! Sezionarlo psicologicamente toglie energie anche a me! ...Forse sono vittima di Lily?
Ho deciso di inserire Yaxley (Il tizio della sala d'aspetto, chi di voi non l'aveva intuito?) perchè oltre ad essere un Mangiamorte con poche indicazioni su chi sia e come sia (A parte il fatto che come Malfoy lavora al Ministero era quello che dal punto narrativo mi lascia più libertà.
Il suo nome proprio è ignoto (anche se credo che lo chiamerò Rawdon Yaxley. Ha un bel suono), mentre per l'aspetto fisico cercherò di basarmi sull'attore che lo interpreta nel film.
Ora come sempre, saluti a voi!
 
Exelle

Il prossimo capitolo lo concluderò sabato o domenica, quindi tenete d'occhio la pagina.




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Capitolo 14
*** La funerea luce del giorno ***


Capitolo Quattordici
La funerea luce del giorno


“Non ti capisco Sev. Perché scrivi così piccolo? Diventa tutto illeggibile!”
“Ridammi quel libro Lily e per favore, fammi studiare. Almeno adesso.”
“Studi anche durante un funerale, Sev?”
Severus Piton alzò lo sguardo dai margini del libro, smettendo di segnare annotazioni rattrappite.
Come aveva fatto a non accorgersi della pioggia sottile e della voce monocorde dell’uomo vicino alla fossa?
Si voltò verso Lily, seduta al suo fianco. Occupavano l’ultima fila delle bianche sedie pieghevoli assiepate in linee regolari, divise nel mezzo da un passaggio. Erano lontani dalle altre uniche persone presenti, oltre al celebrante. Tre figure in nero a capo chino e coperto. Severus non sapeva chi fossero, ma non era nemmeno intenzionato a scoprirlo.
“Dove siamo?” domandò, aggrottando le sopracciglia. Si rese conto di essere adulto e di sentirsi molto stupido, notando il libro di scuola e la sua vecchia borsa posata a fianco della sedia.
“Domanda inutile, farla qui non serve” replicò Lily gentilmente, sfiorandogli il ginocchio con la mano. Lei, al contrario di Severus, sembrava avere un’età non definita.
Anche guardandola, Severus Piton non riusciva a capire se avesse tredici, venti o quindici anni. I suoi modi di fare oscillavano continuamente tra quelli della sua adolescenza, ma nessuno di quelli le apparteneva veramente.
Di fronte allo smarrimento di Severus, Lily sorrise compostamente e tornò a osservare la funzione,  aprendo un ombrellino nero con cui riparò entrambi.  Era tanto leggero, da essere la preda perfetta di un qualsiasi alito di vento. Solo che, su quella collina ammantata di verde brillante, l’aria era rarefatta come in una palude, e niente vento a scuotere le fronde dell’unico salice, i cui rami pendevano sul punto dove si trovava la fossa. Severus guardò quel rettangolo nero con malcelato disgusto.
Nonostante fosse seduto lontano, riusciva a sentire le piccole zolle staccarsi dalle pareti di terra, scavate in fretta e furia, cadere sul coperchio di legno della bara non visibile.
Ma forse era solo la sua immaginazione.
Non che ne avesse mai avuta molta ma, su quella collina, di suo sembrava possedere solo l’aspetto.
E avere un’immaginazione fervida adesso sembrava qualcosa di assolutamente plausibile.
Seduto rigidamente, gli occhi fissi sul buco rettangolare che spezzava in modo brusco la perfezione di quel prato verdeggiante e soffice, Severus mormorò:
“Di chi è il funerale?”
“Prova a indovinare” disse Lily in risposta. A Severus non servì guardarla per sapere che aveva pronunciato quelle parole con il sorriso sulle labbra. Infastidito da tanta prevedibilità, con una tranquillità inumana e glaciale, replicò: “È il mio, non è vero?”
“Non essere egocentrico.” Lily appoggiò il capo sulla spalla di Sev, sospirando.
“È il mio.”
A quell’affermazione, Severus non seppe cosa rispondere. Non perché non trovasse le parole, ma solo perché accettò la risposta di Lily come una verità inconfutabile.
“Sorpreso?” sussurrò Lily ammiccante, prendendogli affettuosamente la mano. “Scosso? Turbato?”
Severus Piton rimase immobile come un asceta. Non si domandò se in qualche altro posto -la realtà-, ne sarebbe stato capace.
“Non è il tuo funerale. Non è stato così” le rispose. “Le fosse erano due.”
“E la gente era molta di più, e piangevano, parlavano e piangevano. Quanta disperazione, non è vero?”
Severus sentì che il capo di Lily pesava quasi di più sulla sua spalla, una contatto caldo e rassicurante. Nonostante la odiasse -almeno lì, ovunque fossero- sapeva di volerla e amarla come il primo giorno in cui l’aveva vista. Ma non riusciva a far altro che starsene immobile, a farsi prendere in giro dai suoi sorrisi e dalle sue frasi gentili e crudeli. Si biasimava, sentendosi viscido, gretto e meschino, schiavo di un desiderio perverso e inumano.
E, tuttavia, non riusciva a scacciarla. Non ci sarebbe riuscito mai.
Con uno sforzo immane per lui, intrappolato nell’embolia dei sentimenti disse:
“Immagino che a te piaccia la disperazione, Lily. Non è forse disperato voler assistere al proprio funerale?”
Lily chiuse gli occhi, beata. Intrecciò le sue dita sottili ed eleganti in quelle di Severus.
“Mi piace la tua disperazione. Un sentimento tanto abbietto e pietoso non merita forse ammirazione?”
Severus chinò il capo verso di lei, ammansito. Riusciva solo a vedere la sommità della sua testa dai capelli vermigli, ma ascoltò le sue parole e rabbrividì.
“Non sei felice del regalo che ti ho fatto?”
“Sarebbe questo?” Severus indicò con un lento cenno del capo la fossa, il celebrante e le tre figure sedute. Non proveniva nessun suono da loro. Forse parlavano, ma lui non li udiva.
Lily sollevò lo sguardo verso di lui. Gli occhi grandi, verdi e limpidi. Severus sentì una dolorosa stretta allo stomaco. Inopportuna per un uomo vecchio e brutto come lui. Quanto era ripugnante.
Ma in mezzo a quel disgusto verso sé stesso, non poté non sentirsi follemente e indissolubilmente attratto e legato a quella Lily che, nonostante tutto, era più bella di cento meraviglie del mondo.
Ed era lì al suo fianco.
A tormentare lui, solamente lui. C’era qualcosa di morboso in questo, ma Severus non ci badava, abbandonato com’era nel suo ideale amore delirante.
“Ti sei mai chiesto come sarebbe stato se avessi assecondato i tuoi patetici desideri, Severus Piton?”
La mano elegante di Lily indicò sorniona la fossa, dove la pioggia che vi cadeva dentro, trasformava in fango il ciglio di quel funereo abisso.
Uccidi il figlio e il padre, mio Signore. Ma dai lei a me…” bisbigliò Lily all’orecchio di Sev, stringendo ancor di più la mano alla sua. “Rendi lei a me…
“Menti” disse rigido Severus, distogliendo lo sguardo dall’esequie e da quella scellerata creatura.
“Tu menti. Questo non è…”
“Saremmo stati davvero felici assieme, non è vero Severus Piton? Mio caro, caro Sev” Lily chiuse l’ombrello, scrollandolo; la pioggia fine e nervosa aveva ormai cessato di cadere.
Nonostante le parole di Lily  fossero sarcastiche, c’era un’infinita dolcezza in loro. Una dolcezza che risvegliò tutte le speranze che Severus aveva centellinato nel corso degli anni, sperando che un giorno…
Speranze morte il giorno in cui l’amore, quello per un inetto e arrogante bastardo, avevano allontanato Lily da lui. Severus tuttavia si rifiutò di pensare, di aver avuto un ruolo preciso in quell’allontanamento.
Per quanto fosse egoista. Per quanto fosse infantile.
“Io avevo… Io però ho chiesto, dopo… Di risparmiarvi tutti…” mormorò a sua discolpa. Era vero, in fondo. Quando aveva chiesto al Signore Oscuro di salvare la vita a Lily e lui aveva negato, non aveva esitato a rinunciare a quello che aveva creduto la sua via. Aveva supplicato Silente pur di farla rimanere in vita, accettando l’idea di non averla per sé e di lasciarla vivere con la famiglia che si era creata.
Ma, come i lettori di tre quarti del mondo sanno, non era bastato. Severus Piton aveva sperato che il dolore lo uccidesse, ma aveva compreso troppo tardi che una morte di quel tipo sarebbe stata una clemenza impossibile da concedere a lui, un assassino della peggior specie. E allora, aveva cercato di andare avanti e aveva doppiamente fallito.
Perché lei era ancora lì, come il dolore, ancorati nel suo cuore spregevole.
“Io vedo nella tua anima Severus. E so che cosa desideri, da sempre. Da quando mi hai fatto schiacciare da tre metri di terra gelida” Lily Evans gli mise una mano a lato del viso, costringendolo a fissarla con quegli occhi neri, coperti da un velo di apatia e rassegnazione.
“Tu non ti chiedi come sarebbe stato se io ti avessi amato. O se io non avessi incontrato James o se tu non fossi diventato …” l’altra mano di Lily lasciò per un momento quella di Severus, sfiorandogli l’avambraccio, il Marchio Nero. “… Non ti domandi niente di tutto questo” continuò.
“Tu ti chiedi cosa sarebbe successo se il Signore Oscuro mi avesse lasciata a te, Severus Piton. Il tuo egoismo è così grande, che ti ha portato a chiedergli di sacrificare la mia felicità con coloro che amavo per il tuo stupido desiderio.”
La faccia di Severus era talmente rigida che avrebbe potuto essere scolpita nella pietra.
“E tu non riesci a pentirtene. Perciò ecco perché siamo qui, Severus. Guarda le conseguenze delle tue azioni.” Lily tornò a guardare la cerimonia. Severus rimase a guardare lei.
“Io ...”
“Ti prego.” Lily lo fulminò con lo sguardo “Le scuse e il rimorso non hanno alcun valore. Soprattutto nel mondo dei morti, Sev. Perciò è tutto inutile. Levati quell’espressione addolorata.”
Severus si rabbuiò. Cosa voleva allora? Con voce gracchiante domandò: “Cosa è successo? Come…”
“Vieni.”  La mano di Lily scivolò nella sua e si alzarono. Severus inspiegabilmente fece per abbassarsi e raccogliere la sua borsa di scuola, ma quella e i libri erano svaniti. Stranito, seguì Lily tra la fila  e lungo il corridoio creato tra i due gruppi di sedie sgombre, verso il celebrante e le altre tre figure.
Fu in quel momento che Severus capì che quello era un grigio funerale Babbano e che una delle tre sagome era una donna. L’uomo accanto a lei le stringeva la mano, tremando entrambi. Nonostante avessero i visi abbassati, Severus li riconobbe.
“I tuoi genitori.”
Lily annuì..“Mia sorella si è dimenticata di me, come vedi, ma loro no… mai.”
“E chi…” Severus rivolse l’attenzione alla terza figura, un uomo. Aveva i capelli neri ed era l’unico ad indossare un mantello…
“Oh, non sperarci Sev. Non potresti mai essere tu!” Lily si strinse al suo braccio, ridendo giocosa. Si alzò sulle punte e gli bisbigliò all‘orecchio: “Guarda.”
Lo sconosciuto sollevò il capo e mostrò un viso noto. Quello fiero e orgoglioso di Sirius Black. Non portava i segni di Azkaban sul volto, ma un dolore incommensurabile aveva reso i suoi occhi cupi e impenetrabili.
Severus s’irrigidì, deglutendo. Quale inferno era mai quello?
“Dove sono gli altri?”
Lily fece spallucce, ridacchiando. “Sono morti o in fuga, Sev” gli batté una mano sul petto rachitico, guardandolo allegramente: “Opera tua e del tuo Signore.”
L’orrore investì come un’onda Severus Piton, distruggendo ogni sua difesa. Debole e affranto, si portò una mano alla bocca e cadde in ginocchio. Ma non riuscì a lasciare la mano di Lily, ora divenuta quindicenne, come quella delle sue allucinazioni. Forse lo era sempre stata.
Lei si inginocchiò al suo fianco, mentre lentamente tutto cominciò a svanire. Le sedie, Black, i genitori di Lily e il celebrante scomparvero e la fossa di Lily fu sostituita da una lapide bianco sporco, con inciso il suo nome e le date di nascita e morte. Il cielo, da grigio e gravido di pioggia, si tinse di rosso fiamma, ma nessun tramonto illuminò la collina erbosa.
“Lily Evans, 1960-1982” lesse Piton in un soffio. Per un momento sembrò riprendersi, voltandosi di scatto verso la ragazza. “Mi stai mentendo. Tu non sei morta nel…”
“Severus, non comportarti da sciocco. Non hai capito? Questo è il nostro futuro. Io e te” Lily sollevò le loro mani intrecciate, con delicatezza. “Come hai sempre voluto!”
Severus mosse la testa di scatto, irato. “Vuoi giocare al Canto di Natale con me, Lily?”
“Non sto giocando, Severus” disse seria. “Questo è vero… o sarebbe potuto esserlo.”
Piton si alzò, lasciando la mano di Lily ed avanzando barcollante verso la lapide. Posò le mani sulla pietra. Stupefacente quanto la sensazione ruvida e gelida fosse… reale.
Chinò il capo, nascondendosi dietro la cortina di capelli neri.
“Parla” sibilò.
Lily non si avvicinò questa volta, rimanendo alle sue spalle.
“Non c’è molto da dire. Sono diventata tua, tutta tua.” Lily sollevò lo sguardo verso il cielo, contemplando le nuvole color vinaccia. “Lord Voldemort e i suoi seguaci, i liberatori, gli eroi.. Sono stati i trionfatori della Grande Guerra Magica. E soprattutto …” Lily puntò i suoi occhi smeraldo come frecce sulla schiena di Severus “… Severus Piton, colui che ha permesso la morte dell’unico che avrebbe potuto opporsi all’Evento, ha realizzato il suo sogno. Tutti lo amano e possiede colei che ha amato da quando ha un cervello …”
“Sciocchezze” replicò Piton incredulo e amaro. “Eroe non è la parola che userei per me.”
“No, infatti. Alla fine non eri molto importante per lui …” sogghignò la ragazza. “E quando ho parlato di te stavo scherzando. In realtà, la tua sorte è stata molto più grama Sev, ma se te la svelassi temo che scoppieresti a piangere e ...”
Lily si ritrovò con le spalle serrate dalle mani ossute di Severus, scossa come una bambola di pezza.
Sembrava volesse ucciderla a scrolloni, ma lei rimase imperturbabile finché l’uomo non si calmò.
“Smettila con tutto questo! Ti ordino di smetterla e di tacere, mi hai capito?” Severus la lasciò, voltandosi verso la tomba, la voce roca. “Non volevi che ti lasciassi in pace?“
“Infatti Sev. Ma non mi sembra di aver parlato di me…”
Severus contrasse le dita, nervosamente cercò di aggiustarsi le maniche sui polsi.
“Allora… allora ricordi ciò che mi hai detto e quello che hai fatto …”
“Io esisto, Sev. Non ti basta?”
Si guardarono negli occhi. Quelli di Lily erano trionfanti e lo furono ancora di più quando Severus, suo malgrado chiese accennando alle tristi esequie mute:
“Che è ne è stato di lei?”
Lily Evans lo guardò, ferendolo con l’onestà che brillava nelle sue iridi.
“Di me? Sono morta Sev.”
“Ti ho …” l’uomo sentì la domanda morirgli in gola.
“Oh, no. Non mi hai ucciso tu, non ne avresti mai avuto il coraggio. Il tuo amore per me è rimasto incrollabile anche qui” Lily allargò le braccia. Oltre e intorno alla collina c’erano solo altre colline, tutte uguali, all’infinito. Qualunque universo fosse quello che lei gli strava mostrando, a lui era del tutto ignoto.
“Disgraziatamente, essere la causa della morte di mio marito e mio figlio, è stato un po’ un ostacolo al nostro rapporto…”
Lily camminò verso di lui, implacabile. Quando furono l’una di fronte all’altra, parlò di nuovo.
“Suicidio, Sev” mormorò, totalmente indifferente all’espressione sconvolta di Severus.
“E non ho nemmeno potuto usare la magia, per questo ho dovuto… Arrangiarmi.”
Lily sollevò gli occhi dolenti verso Severus. Per un attimo li vide neri, neri e tenebrosi, proprio come i suoi. Era così rapito dal suo viso, una creatura che era Lily ma con il suo sguardo, che non si accorse del taglio profondo e scuro che le solcava la gola, come un orrido sfregio.
Quando sbatté le palpebre, non c’era più.
“Dovresti vedere la tua faccia Sev” disse in un sospiro, abbracciandolo e tenendolo stretto a sé. “Sembri un cadavere.”
E Severus lo sembrava davvero, bloccato nel suo corpo tetro, ossuto e ignobile. Quella non era realtà, eppure non riusciva a essere obbiettivo e a capire dove stesse il vero e dove la finzione.
Forse niente era vero e niente era finzione e lui si ritrovava perso nella sfera del possibile, nell’unica opzione che avrebbe voluto vedere realizzata ma che ora si rivelava essere solo cenere e sangue.
“Perché fai tutto questo?” mormorò con voce rotta, lo sguardo lontano. “Perché?”
Lily mise le mani a lato del viso di Severus, costringendolo a piegarsi verso di lei.
Il suo viso malinconico si rischiarò di un sorriso e in uno sguardo, di nuovo color smeraldo, indifeso e ossequioso.
“Perché? Perché io ti amo…  Mio Signore.” Lily cominciò a ridere, lisciando all’indietro i capelli vermigli.
Severus si raggelò e con suo orrore capì che non era per le parole sardoniche della ragazza.
Aveva provato un brivido di piacere. Sembrava quasi che il suo cuore battesse con un ritmo diverso, accompagnando quell’istante in cui si era perversamente sentito vivo.
Non riuscì nemmeno a compatirsi, perché aveva capito quanto sarebbe stato ipocrita. E allora, scacciò quell’impulso dal suo cuore e fece l’unica cosa che si sentiva di fare.
Avvicinò il viso a quello di Lily, benché conscio di essere un uomo debole e sconfitto. E di stare compiendo il suo gioco.
Per un attimo, il suo universo sembrò di smeraldo, ma non riuscì ad avvicinarla abbastanza.
Lily si divincolò e sfuggendo alla sua presa, gli diede la schiena e barcollò verso la lapide, le spalle sussultanti e il respiro frammentato. Si piegò su quella, afferrandone il bordo con mani tremanti.
Severus si riscosse dal torpore e mosse due passi verso di lei, la mano tesa. Aveva già vissuto una scena simile, da qualche altra parte. In un altro mondo, forse.
Guardò Lily e per una frazione di secondo, a lei si sostituì Luna Lovegood, curva e derelitta, maltrattata perché diversa.  E poi l’immagine svanì.
Severus camminò rapido verso l’amica, circondandole le spalle tremanti con le braccia.
“Lily, non fare così ... Scusami, non volevo ma tu sei … Così …”
Le sollevò i capelli rossi, con una carezza fin troppo gentile. E si maledì per l’ennesima volta.
Lily Evans stava ridendo. No, non ridendo. Stava sghignazzando come un’indemoniata, portandosi le mani al ventre per tutta quella perfida ilarità che le corrompeva i lineamenti in un’espressione folle.
“Così seeeerio. Così enigmatico e sarcastico … Dov’è la tua dignità, Severus Piton?” lo accusò Lily sorridendo, senza fiato per il gran ridere.
“Sono una ragazzina, nel caso non te ne fossi accorto. E tu sei disgustosamente vecchio per me.”
Severus, privo ormai di ogni difesa, sollevò le mani in un gesto di resa. Provava quasi una liberazione, un sentimento che aveva incontrato rare volte sul suo cammino e, sempre e solo quando era sfuggito alle leggi che regolano il mondo buono per rifugiarsi in uno dominato dalla cupidigia, dalla superbia e dal potere.
“Mi sembrava giusto” ammise, guardandola negli occhi, vinto.
Si aspettò altre risa o almeno qualche smorfia di derisione, ma niente. Lily aprì la bocca, ma non parlò, limitandosi ad annuire. Il suo sguardo luccicò in modo risoluto, l‘ironia scomparsa.
Appariva quasi diversa ora. Onesta. Vera. Severus avrebbe davvero voluto fidarsi di lei, ma come poteva?
Di fronte all’esitazione dell’uomo, Lily si  passò una mano tra i capelli rossi, accennando un sorriso colpevole. “Cominci a capire” disse.
Severus scrollò il capo. Quello era un altro modo per schernirlo?
“Cosa dovrei capire, Lily?” replicò, irretito suo malgrado. Santo cielo, era pur sempre lei, la sua adorata. Avrebbe potuto calpestarlo e lui si sarebbe sottomesso.
Si sorprese nel pensare così schiettamente a quelle parole. Nella realtà non sarebbe neppure stato in grado di formularle col pensiero.
Lily sollevò le mani, mostrando i palmi. Vedendo l’espressione guardinga che Severus aveva assunto, disse:
“Tranquillo. Non posso farti niente, sono solo una ragazzina. Giusto?”
Si avvicinò ancora, incrociando le braccia e fissandolo pensierosa.
“Cominci a capire quello che vuoi, Sev. Non è sorprendente? Credevo che non saresti mai riuscito ad essere tanto onesto con te stesso …”
“Sarebbe sorprendente capire te, piuttosto. Chiunque tu sia.”
Lily strinse gli occhi, un po’ demotivata. “Lo sai chi sono. Perché continui a negarlo?”
Severus fece un verso strano. Qualcosa tra l‘esasperazione e il divertito.
“Sei un mostro che ho creato io. Tu non puoi essere lei.”
Lily s‘imbronciò, offesa.  “Ma io sono la tua amica del cuore, Sev. La tua Mezzosangue preferita! Perché ci giri intorno?” sollevò una mano elegante e gliela posò sul cuore. Questa volta il contatto fu gelido e fece trasalire Severus. “Io sono te.”
Poi sollevò le iridi verso di lui, e sussurrò flebile “E sono Lily.”
“Volevi realizzare i tuoi desideri Sev? Ebbene, eccomi qui” aggiunse euforica.
Severus ostentò la sua miglior aria glaciale. Avrebbe voluto parlare con quel tono basso e ringhiante con cui cercava di incutere timore ai suoi studenti, ma la voce gli uscì incerta.
“Sei qui per portarmi con te? Nel tuo caro regno dei morti?”
Lily sollevò il viso, altera. “E chi ti dice che io non ti stia facendo un favore, Severus Piton? Ammettilo. Sarebbe la migliore delle liberazioni. Saresti felice.”
Severus ebbe un sorprendente flash di sé stesso, seduto su una nuvola, costretto a nascondersi da James Potter che voleva toglierli l’aureola. Oh, sì. Sarebbe stato indubbiamente felice.
“La felicità non fa per me” borbottò inquieto. “E la prova è nel fatto che continui a tormentarmi.”
“Saresti più felice se non ci fossi?” replicò lei sagace.
Severus sollevò lo sguardo verso l’albero. I lunghi rami sembravano ondeggiare come ciocche marine.
Gli ricordavano qualcuno. Un qualcuno che aveva lasciato a casa, come se lui ne avesse mai avuta una.
Che sensazione curiosamente incomprensibile. Forse era solo una reazione dovuta allo smarrimento creato da quel sogno visionario. Un mondo onirico dominato da Lily e dalle sue parole crudeli.
“Non stai bene nel mondo reale. Non stai bene qui, che è dove si è realizzato il tuo desiderio” mormorò Lily.
“A che scopo continuare a respirare? Sei solo un corpo vuoto, Sev, e tu lo sai. Ti hanno detto che il tempo guarisce ogni tipo di ferita, ma più sei caparbio, insistendo a trascinarti per giorni, mesi, anni… e ti accorgi che non è vero. Ti hanno mentito, Sev.”
Piton non si scompose. Anzi, rimase quasi rasserenato, perché lei non gli stava dicendo nulla di nuovo e non aveva senso preoccuparsi. Le parole di Lily erano dettate da qualcosa di malvagio, ma a lui erano note da tempo. Lui stesso le pensava.
“Tu stessa mi hai detto che l’inferno non è liberazione.”
Lily ondeggiò il capo, osservandolo con candore: “Però saresti così impegnato a soffrire, a soffrire veramente, che non avresti tempo da dedicare a me.”
Severus strinse gli occhi, sospettoso: “Parli come se ci fossi stata.”
“E tu come uno che ha un gran desiderio di andarci” ribattè la ragazza pronta, battendo per un istante le ciglia. “Potremmo andarci assieme.”
Severus Piton non aveva una grande esperienza in diplomazia, ma ammise che le parole di Lily possedevano una forza dannatamente persuasiva. Conscio della debolezza delle sue argomentazioni, decise comunque di lottare. Non poteva vincere sempre. Lui lì era l’adulto, era quello in grado di capire i meccanismi che regolano l’esistenza.
Un’allucinazione, un mostro, una fantasia malata che lui aveva creato, non potevano sottometterlo. Lui li era l’autore, non la vittima. Forse.
“Tu mi detesti Lily, ma credi che la tua presenza sia un supplizio per me? Che le tue siano minacce?”
Piton le prese la mano, abbassandogliela. Si sentì strano, nel farlo. Come se stesse recidendo qualcosa.
“Io voglio che tu stia con me, sempre. Non m’importa dell’orrore in cui mi trascini. Se ci sei tu, per me è perfetto.” Nel dirlo, sentì una sensazione strana attraversagli il corpo.
Qualcosa che gli schiacciava lo stomaco e fulminava il cuore con una fitta penosa.
Era quello l’amore fisico? Severus si sentiva vittima di un inganno. Aveva amato qualcuno fin da quando i suoi ricordi avevano preso forma, eppure quanto poco amore aveva ricevuto in cambio!
Non era giusto e quello lo sapeva. Ma ora, si sentiva in grado di ammettere che lui, quell’amore che tutti sembravano possedere e avere a portata di mano, lo pretendeva
Gli occhi verdi di lei, brillarono per lo stupore. Appariva quasi entusiasta alle parole di lui e Severus, dal canto suo, pregò che non fosse solo la sua immaginazione a confonderlo.
“Sei stato molto bravo, Severus Piton” disse Lily in tono graffiante. Il suo sorriso però era dolce e non c’era malizia nell’occhiata che gli rivolse. “Adesso possiamo anche andarcene.”
Severus abbassò lo sguardo sul polso di lei, ma si accorse di stare stringendo solo aria. La guardò ancora, le iridi dilatate per lo spavento, allarmato. “Non mi hai detto perché siamo qui!”
La voce gli uscì distorta, come se stesse parlando da dentro una bottiglia. Quella di Lily, nonostante la sua figura fosse ormai diafana e trasparente, gli arrivò chiara e argentina.
“Perché l’hai voluto tu, Severus Piton.”
Il suo viso sbiadito venne attraversato dall’ombra di un ghigno, un sorriso distorto dal nulla.
“Ci rivedremo. Più presto di quello che credi, Sev.”
“No!” Severus allungò le braccia verso di lei, ma non c’era più nulla da stringere. Era così sciocco. La sua mente aveva penato - per ore, sembrava-  cercando il modo di allontanarla o di zittirla e ora che lei non c’era più, la rivoleva accanto a sé. A offenderlo, a sussurrargli enigmi e a sorridergli comprensiva.
Mentre il suo cercava di riordinare i brani confusi della conversazione che avevano avuto, intorno alla nera figura dell’uomo, anche quel piccolo universo cominciò a sciogliersi e a scolorirsi.
Una raffica di vento,- Ora c’è il vento? Si domandò Piton, allibito-,  spazzò la cima della collina e i rami del salice si sollevarono come nastri, perdendo tutte le loro foglie che iniziarono a volteggiare come catene vegetali nell’aria sempre più fredda. L’albero, ormai spoglio, divenne di un bianco simile a gesso. Severus corse al riparo di quel tronco candido, ma sfuggì appena in tempo, quando iniziò ad essere solcato da crepe scure e a sgretolarsi. Ben presto non ne rimase più nulla, solo i frammenti roteanti che presto caddero sui pendii. Da essi, nacquero altri alberi secchi e spogli, ben più piccoli del salice maestoso.
I fili d’erba ingiallirono e seccarono. Alcune zolle volarono via, lasciando un terreno sconnesso e sassoso.
Il cielo tornò color ferro poi, da antracite divenne blu scuro ed infine nero, soppiantando le calde tonalità del tramonto e Severus si ritrovò solo, sull’unica collina ventosa e gelida, i capelli in faccia e il mantello agitato dall’aria. Solo, nella notte.
Si rese conto di avere la bacchetta in mano, l’unica fonte di luce, e di essere sfiancato e ansimante, come dopo una lunga corsa …
Anche se era una cosa che non ricordava di aver mai fatto in vita sua.
Guardandosi attorno allargò le braccia, scrutando nell‘oscurità. Riconosceva quel posto e sapeva cosa stava per accadere.
Bentornato nel tuo passato, Severus Piton, disse la voce di Lily nella sua testa.
Nell’aria balenò una luce bianca ed accecante e Piton si sentì scivolare in ginocchio e la bacchetta scivolargli via dalle dita. L’alone luminoso investì la collina ma Severus non chiuse gli occhi, anzi, li sentì spalancarsi e quando finalmente tornò a vedere, capi di essere nel suo ufficio sulla torre, riverso sul letto.
E bentornato nel tuo futuro.
Severus si passò una mano sul viso. Era tutto a posto, era nella sua stanza. Guardò la stretta e alta finestra, spalancata. L’aria fredda entrava nella piccola camera, portando con sé il respiro dell’inverno e un inspiegabile, nostalgico ed inesistente, sentore di gigli.


Severus Piton rimase bloccato nel suo letto per un’altra lunga e tormentosa ora. Non sarebbe riuscito ad alzarsi. Non ne era in grado.
Si sentiva debole, di una debolezza straziante, la stessa che poteva infliggergli uno di quei disgraziati Dissennatori. Quanto odiava quelle creature, con la loro fame di ricordi felici. Ogni volta che se ne trovava uno vicino, si sentiva soffocare. Gli strappavano come carne dall’osso quei pochi frammenti piacevoli di vita che aveva vissuto. Agivano allo stesso modo di Lily, rifletté, la vista annebbiata dalla luce mattutina.
Lo privavano dell’entusiasmo. Meglio, della forza di andare avanti.
Severus dopotutto non viveva. Lui si trascinava come un rottame. Ed era pure cieco e stolto, perché per l’ennesima volta si era fatto abbindolare da lei.
Da una creatura che non aveva altro piacere che quello d’ingiuriarlo e regalargli null’altro che sofferenza.
Aveva sognato. Niente allucinazioni, niente Pensatoio questa volta.
Ma, pensò, sollevando le mani con uno sforzo estremo e osservandosele attento, perché aveva ancora la sensazione di aver stretto quella di lei, di averla avvicinata a sé?
Provò a ricordare, ma più tornava lucido e più il sogno sfumava, sottraendosi alla sua comprensione e a ciò che avrebbe reso possibile capirlo.
Il funerale. Black. Un suicidio. Ora gli apparivano come cose scollegate e prive di senso che la sua parte razionale, sempre pronta a fornire soluzioni convincenti, s’affrettava a spiegare con giri di parole più o meno verosimili.
Si tirò su e si accorse di essere ancora vestito come la sera precedente. Seduto sul letto, le gambe stese davanti a sé, si sentiva stranito. Aveva un vuoto di memoria, anzi di più, perché non ricordava praticamente nulla da…
“Lovegood.”
La platinata s’affacciò fra i suoi pensieri affastellati, con il suo sguardo vago. Inspiegabilmente, se l’immaginò nell’atto di salutare lui, la mano mossa appena. E, contrariamente alle sue abitudini pragmatiche, non giudicò quella fantasia inopportuna o irrazionale. La trovò confortante.
La rivide seduta davanti a lui, montagne di cibo a dividerli. Sentì la pelle giallastra imporporarsi, ripensando all’imbarazzo di quella conversazione stentata, pronta a cadere nel baratro delle cose insensate che ultimamente sembravano aver trovato lui come bersaglio.
Come se essere un insegnante e una spia triplo giochista, non fossero attività già di per sé complicate.
Facendo leva sulle braccia rachitiche, cercò di tirarsi un po’ più su, scalciando via le coperte e cercando di appoggiare la schiena al muro alle sue spalle. Nel farlo, pensò a quanto si sentiva strano nel compiere le azioni più banali. Come quando si legge un libro e il tuo personaggio preferito si lava i denti e tu sai che c’è qualcosa che non va, perché è un’azione talmente ordinaria che abitualmente, il tuo personaggio del cuore non compirebbe, a meno che non debba salvare il mondo con lo spazzolino o che quel dentifricio non sia avvelenato tanto da compromettere lo sviluppo del racconto stesso.
Severus mosse il capo come per scacciare un insetto molesto. Stava ricominciando.
Ecco che pensava alla biondina stralunata e i suoi neuroni, così mirabilmente funzionanti fino ad un paio di mesi prima, s’ingegnavano a creare elaborate congetture sul perché di…
Nulla. Assolutamente nulla di degno d’attenzione da parte dell’oscuro pozionista, distraendolo dal tentativo di cercare di conservare la ragione e ricordare che cosa aveva in programma quel mattino.
Lezione? Sicuramente. Il giorno libero era trascorso da un bel po’ d’ore, eppure Severus, invece di essere giù nei suoi umidi sotterranei, se ne stava tutto allegro - mai modo di dire fu più inappropriato- nel suo letto.
Fece un rapido calcolo mentale. Che giorno era? Martedì? Venerdì? Probabilmente mercoledì se ieri era il suo giorno libero, riflettè ma, la data del giorno? Da qualche parte nella sua mente lampeggiò la parola novembre, ma nessun’altra indicazione temporale utile venne a soccorrerlo.
 Severus Piton si passò una mano sulla fronte, cercando di ritrovarsi in quel luogo pacifico che era la culla della sua concentrazione. Ma non ci riuscì.
Immagini più o meno note si levarono dalla polvere della memoria, confondendosi e creandone di nuove.
Con indicibile sollievo, abbandonò ben presto l’idea di mettere in ordine razionale i giorni e gli impegni e decise di dedicarsi a quell’attività che negli ultimi tempi sembrava aver coinvolto e intrappolato tutto il resto.
Cercare di capire qualcosa in quell’ammasso di visioni, allucinazioni smaliziate e sogni negli universi del possibile. Allungò la mano sul tavolino a lato del letto, abbandonato lì a mo’ di comodino.
La sua bacchetta era lì, opaca. C’erano pure i vistosi segni dei suoi polpastrelli, non solo sull’impugnatura ma anche per tutta la sua lunghezza. Santissimo Salazar!
Severus arricciò il naso. Un altro paio di serate così e sarebbe diventato uno straccione alla Remus Lupin, con gli abiti stazzonati e la bacchetta tutta unta.
Immaginò sé stesso con una bella giacca color muschio, con toppe di cuoio sui gomiti e pantaloni di velluto senza piega e tremò. Meglio anima nera odiata da tutti che compagnone trasandato.
L’afferrò quasi con disgusto, sfregandola con un lembo della coperta. Due o tre scintille azzurrine scoccarono felici, lasciando nell’aria un vago odore di zolfo. Severus starnutì.
Si girò di scatto, recuperando uno dei suoi larghi e grigiastri fazzoletti di stoffa che teneva sotto il cuscino, - un’umile abitudine che aveva conservato dai suoi primi anni Babbani- e si soffiò il naso, cercando di fare il minor rumore possibile, benché fosse solo -questa era invece un’abitudine che aveva acquisito a Hogwarts, dove aveva appreso che non era bene soffiarsi il naso in presenza di certa gente-.
Ricacciò il fazzoletto sotto al cuscino, inspirando e risistemandosi contro al muro, mettendosi un po’ comodo. Cominciava ad apprezzare in modo maggiore i suoi momenti di pausa.
Il fatto che ultimamente si riposasse parecchio, non aveva ancora intaccato la sua personalità di uomo costantemente attivo e attento ai dettagli e ai suoi compiti. Per ora.
Puntò la bacchetta verso la finestra e quella si chiuse docilmente, abbassando anche il gancio che la teneva serrata. Perfetto. Severus Piton iniziò a pensare.
… aveva visto il futuro. Severus aggrottò le sopracciglia. No, non era il futuro quello. Era solo un percorso diverso, dove le sue scelte l’avevano portato a vivere quello a cui aveva ambito per tutta la vita.
Lily, la Lily quindicenne, aveva ragione: era quello il vero desiderio del suo cuore.
Possedere Lily a qualsiasi prezzo. Poco importava che la moneta di scambio fossero vite di altri e la sconfitta di quella che, genericamente, definiva la compagine del bene -flash di Silente che lo salutava con la mano-.
Severus si coprì gli occhi con i palmi delle mani, oberato da troppi concetti che lo assalivano e lo punzecchiavano. Lily aveva detto che lei era lui e Lily assieme. Quindi, a rigor di logica, lui doveva conoscere già quel futuro e doveva, anche se non sapeva come, avere il potere di comprendere le allucinazioni. Forse anche poteva controllarle. avvertì un brivido di piacere che cercò di reprimere il più in fretta possibile. Chiamare Lily a suo piacimento …
Scacciò quel pensiero, spronandosi a continuare nel suo ragionamento. Non aveva bisogno di altri sproloqui su ciò che desiderava ma, tuttavia, come era stato piacevole ammette con sé stesso ciò che veramente voleva, dentro a quell’incubo! Non si sentiva affatto pentito di aver espresso concetti -ributtanti a pensarci a mente lucida- come il voler immolare la felicità di Lily Evans pur di realizzare la sua o il voler fregarsene di vedere l‘Ordine della Fenice disossato pur di avere ciò che gli spettava.
Ma ora era sveglio ed era nella realtà, perciò sentì i suoi sentimenti deviati in un’unica scelta. Quella della contrizione e dell’autocritica. Il pensiero di essere un’ipocrita non lo sfiorò minimamente.
Era di nuovo nel mondo vero e lì, la coscienza gravava sugli atti di chiunque. Anche su quel triste sasso che lui aveva nel torace e che si intestardiva a chiamare cuore.
Chiuse gli occhi e provò a rivedere il funerale. Cercò di abbandonarsi ad uno stato di veglia per meglio catturarne i particolari, ma l’unica cosa che il suo cervello riprodusse, fu la visione di fittizia di quel futuro che lui aveva progettato per Lily, se il Signore Oscuro l’avesse risparmiata.
Sarebbero fuggiti. Severus non sapeva dove, ma aveva sempre immaginato un posto piccolo, con case dagli infissi in legno e dalle tegole sbeccate, circondato da boschi fitti e silenziosi.
C’era un particolare ricorrente in quelle sue fantasticherie: la luce dorata del sole che filtrava nel fogliame, illuminando la terra umida e coperta di foglie secche. Quella luce calda che rendeva i capelli di Lily rossi e lucenti, tanto brillanti da renderli visibili ovunque, in modo che lui potesse trovarla sempre.
Avrebbero avuto un casa e Lily, oh, Lily, avrebbe presto dimenticato ciò che aveva perso, in favore di ciò che aveva guadagnato - Severus stimava due settimane quando era di buon umore, arrivando fino a tre mesi quando credeva di non riuscire a portare a termine correttamente il suo piano-.
Vedeva loro due seduti in un soggiorno, o in cucina, ovunque nella loro dimora allegra e ordinata, ma sempre ridenti e con gli occhi brillanti di gioia ed entusiasmo perché loro quella vita l‘avevano davvero voluta e l‘avevano realizzata.
Ogni volta, arricchiva le sue visioni di innumerevoli dettagli, dialoghi e situazioni.
Come se stesse tracciando il copione della sua utopia.
E all’epoca, tra riunioni di Mangiamorte, morti, patti infranti e lotte, sembrava un paradiso a portata di bacchetta. L’unica certezza incancellabile nella desolazione più totale, creata dalla paura e dal terrore. Quanto era stato ingenuo. Quanto ancora lo era, perché per lui quelle fantasie familiari erano tutt’ora un riparo dal grigiore della quotidianità.
Frammenti mai vissuti di Lily che spalancava una finestra, cercando di afferrare una stalattite di ghiaccio, sorprendendosi al contatto con il freddo. Lily che si addormentava, raggomitolata e con il sorriso sulle labbra. Lily davanti allo specchio, intenta a provarsi un vestito, facendo facce divertite al suo riflesso.
Non c’era paura, non c’era timore né angoscia nel futuro ideale progettato da Severus Piton e l’idea che quel futuro Lily se lo fosse già costruito con James Potter, non lo toccava.
Il suo era migliore.
Il suo era quello giusto per Lily, quello in cui lei avrebbe dovuto vivere.
Quello in cui lei avrebbe voluto vivere.
La morte di Lily non l’aveva fermato. Severus Piton andava avanti, ricostruendo sempre con maggior precisione quelle scene di vita che non avrebbe vissuto mai, attingendo dalla sua memoria e creandone di nuovi.
Si emozionava persino pensando a come avrebbe reagito se lui le avesse regalato un gatto. O se le avesse preparato la cena. Una passeggiata sotto la neve, insieme. In giardino magari, nella serra.
Severus Piton si cancellò in fretta il sorriso trasognato che aveva solcato il suo viso cattivo.
Quell’allegria nel sognare era immotivata. A che scopo abbandonarsi a quelle fandonie mentali?
Era come cercare la bontà di Lily in quella creatura diabolica, solo per trarne conforto.
E, cosa più importante, le sue erano davvero fantasie senza fondamenta e possibilità perché, a quanto gli aveva mostrato Lily - O lui stesso, ad ascoltarla-, sarebbero rimaste tali anche se lui fosse riuscito ad averla tutta per sé. Anche senza Potter tra i piedi, avrebbe perso.
Nel futuro che aveva voluto per loro, lei sarebbe morta dopo solo un anno. Si sarebbe uccisa.
L’immagine di Lily -quindicenne- con la gola squarciata e nera di sangue, si riformò nella sua mente, rempiendolo di dolore e avversione.
Quell’immagine rappresentava la disgregazione del suo futuro esemplare.
Severus s’incurvo su sé stesso, rigirandosi la bacchetta tra le dita magre e nodose. Cercava di essere razionale, ma l’unica domanda che gli tormentava l’anima era: come era accaduto?
Dove aveva sbagliato in quel futuro, in cui Lily era sopravvissuta solo un anno più rispetto all’esistenza che lui aveva pronosticato?
Il dolore, è stato il dolore a ucciderla, rifletté Severus, soppesando la sua bacchetta, le spalle incurvate come se si vergognasse. Il dolore per la morte di Potter e del figlio.
E lui, vedendola così devastata, avrebbe visto il loro futuro insieme ridursi in cenere. Forse le aveva pure dato un mano a togliersi la vita, con tutto quell’egoismo che si portava appresso…
No. Io non l’avrei mai fatto, io l’avrei salvata, si disse, scosso da quelle idee meschine.
Il suo pensiero tornò di nuovo al funerale e si corresse. Ci avrei provato, ma non ci sarei riuscito.
Severus fletté inconsciamente il braccio sinistro. Per quanto fosse disdicevole e massacrante, pensandoci adesso, avrebbe voluto conoscere anche quel futuro.
Tanto per non precludersi nessuna opzione …
Stupido demente, si disse tra sé e sé. Non gli bastava abbandonarsi al passato ed essere costantemente vittima del giudizio di uno spettro?
Purtroppo per lui, quegli interrogativi non sortirono alcun effetto. I suoi desideri e il suo bisogno di Lily cozzavano con ogni tipo di morale e contro la sua etica interiore.
Come se ne avesse mai avuta molta.
“Potresti almeno aiutarmi a comprendere” borbottò, vergognandosi subito dopo. La sua voce echeggiò cupa contro le pareti di pietra e intonaco. Sentì il rossore affiorare sui suoi zigomi giallastri e si odiò. Stava davvero cercando di parlare con qualcuno che vedeva solo lui e che ora, non era nemmeno presente nel modo in cui può esserlo uno spirito? Con un’allucinazione?
Sì, lo stava facendo. Vinse l’imbarazzo e riprovò, sussurrando il suo nome.
“Lily?” mormorò flebile, rivolto al silenzio pigro nella sua stanzetta monacale. Niente.
Sbuffando, si alzò dal letto, cercando di non muoversi troppo. Aveva un insospettabile dolore alle giunture, come se si fosse rotolato su un letto di chiodi. Si avviò verso l’armadio, andando a cercare una veste pulita.
Aprì le ante con piglio deciso, incrociò le braccia e si mise a fissare i suoi vestiti ordinatamente appesi.
Ogni mattina gli toccava una scelta così difficile.
E dire che quelle vesti erano tutte nere e tutte uguali.
Ne afferrò una e si diresse al bagno, senza accorgersi della finestra di nuovo spalancata e della ragazza dai capelli rossi che lo scrutava ridacchiando, seduta sulla soglia.

 ***


Minerva McGranitt odiava le missioni da gufo postino.
Soprattutto quando non erano missioni e anche perché, se aveva una seconda natura animale, era quella di un gatto. Un gatto con gli occhi cerchiati e lo sguardo vivido, ora impegnato a salire silenziosamente gli scalini verso le stanze di Severus Piton. Se Minerva McGranitt avesse avuto un paio d’anni di meno, -qualche decina o ventennio- sarebbe stata gelosa della nuova sistemazione del collega di Pozioni, ma la vecchiaia e un’anca non più molto solida, le avevano fatto apprezzare il suo ufficio ai piani intermedi, con l’accesso facilitato da scale semoventi. Altro che torri oltre il settimo piano, inerpicate su alture di scalini stretti e torti su sé stessi come viti. Con gli spifferi e l’inverno alle porte, non si sarebbe sorpresa di trovare il professore di Pozioni stecchito e congelato su una seggiola vicino al camino spento o abbracciato ad un calderone.
Il gatto emise un miagolio di disapprovazione. Non era normale che Severus Piton passasse tutto quel tempo con sé stesso, con l’unico conforto delle sue pozioni, tra una lezione e una riunione tra quei cani di Mangiamorte. Il gatto zampettò in una delle tante nicchie con le piccole vetrate scavate nel muro.
La luce di un tiepido sole gli fece dilatare le pupille feline, costringendo a strizzare gli occhi cerchiati.
Si piegò in avanti, tendendo le zampette tigrate e sfoderando gli artigli. Le sue povere ossa avevano bisogno di qualcosa di più di quello stretching mattutino per rimettersi in sesto.
Con passo leggero arrivò all’ultimo pianerottolo, dove si ritrovò davanti una porta di noce scuro con vistosi cardini e parti in ferro. Al posto della maniglia, pendeva un semplice anello lucido e non c’era nemmeno un batacchio per richiamare l’attenzione dell’inquilino. Minerva si esibì in un miagolio insoddisfatto.
Girovagò un attimo davanti alla porta e le sue iridi giallastre luccicarono, nel cogliere una lama di luce bianca.
La porta non era affatto chiusa. Era solo accostata.
Alzando la zampetta davanti a sé, la spinse di un poco, lo spazio necessario per sgusciare all’interno, la schiena inarcata e la coda ondeggiante.
Le orecchie puntute abbassate, pronte a captare suoni sospetti.
Oltrepassata la porta si ritrovò in una piccola anticamera quadrata e luminosa. Salì tre scalini e si ritrovò nella grande sala circolare della torre, illuminata dalla luce bianca e rarefatta del mattino, baluginante tra i vetri. Un raggio colpiva uno stretto specchio alla parte, creando un gioco luminoso che avrebbe abbagliato chiunque fosse entrato, ma non certo Minerva, trasfigurata nelle sue sembianze feline.
Il primo pensiero di Minerva McGranitt fu di soddisfazione. Il suo ufficio e le stanze attigue, tutto tende di tartan, pannelli di larice e stampe scozzesi erano ben più calde e confortevoli di quella sala semivuota, circondata da finestre piombate, ad archi stretti, con solo delle tende nere e impolverate che nessuno sembrava chiudere da anni. Era divisa a metà da un rialzo di pietra di tre scalini, che il gatto si affrettò a salire con circospezione, ponendosi al centro della stanza e osservando, dribblando le pile di libri ammucchiati ovunque e tre grosse scatole vuote, abbandonate al loro destino sugli scalini. Nella metà inferiore della stanza, trovavano posto armadi a vetrinette, una pendola sghemba e due quadri dai soggetti non identificabili appesi alla bell’meglio.
In quella superiore, troneggiava una scrivania con una gamba più sottile delle altre tre, ingombra di carte, penne  e tavolini bassi su cui erano disposte - provvisoriamente, sperò il gatto- file e file di provette e alambicchi e due o tre calderoni formato portatile. Una sedia di cuoio e bulloni era disposta, altro fattore poco comprensibile, in direzione di una delle finestre da cui si intravedeva la sagoma del Lago Nero.
Difficile immaginare Severus Piton, nervoso e cupo, seduto lì ad ammirare la bellezza delle aspre valli scozzesi. Il gatto, zampettando sul pavimento di pietra, il muso intelligente levato, in altri frangenti si sarebbe emozionato alla vista di quel panorama, ma ora la sua attenzione era calamitata da un tavolo, posto vicino ad una scala che saliva, senza dubbio, alle stanze di Severus Piton.
Un tavolo con le gambe quasi piegate sotto alla mole di cibo che se ne stava bello bello a crogiolarsi nel sole mattutino.
Le vibrisse di Minerva fremettero. La scusa di essere un povero single votato alla sua materia e al suo delicato ruolo di spia, non poteva giustificare tutto quello spreco, quell’ingordigia, quel…
Non voleva nemmeno pensarci.
Il suo giudizio su Severus Piton si riempì di nuove ombre. Per quanto fosse restia a giudicare dalle apparenze, trovò deprecabile il fatto che un insegnante se ne dovesse stare a passare il giorno libero rinchiuso tra libri e corbellerie culinarie. Prolungando quel giorno anche al mattino successivo.
Davvero indecoroso.
Il gatto inclinò il capo e un attimo dopo, al suo posto, si materializzò una donna con un severo cappello da strega dalla tesa larga, il profilo aquilino e gli occhi acuti incorniciati dai fini occhiali da vista. Teneva le labbra contratte in un’espressione perplessa, mentre studiava circospetta l‘ambiente. Con la trasformazione, i suoi sentimenti da gatto assunsero una dimensione nuova.
Si sentiva quasi dispiaciuta per Severus Piton e per i pensieri poco gentili che aveva espresso nei suoi confronti. Dopotutto l’uomo non stava certo passando un momento facile, diviso tra i compiti dell’Ordine della Fenice e il suo infinitamente necessario ruolo di spia nelle schiere di Voldemort.
Era assai comprensibile se aveva voglia di strafogarsi di cibo, pensò la donna, occhieggiando preoccupata delle patatine fritte mollicce, conficcate in quella che doveva essere stata una coppa di crema e gelato.
Provò a immaginarsi il collega intento a depredare quella tavolata, ma per quanto ci provasse, non ci riuscì. Notò che c’era anche della carne, sepolta sotto strali di dolciumi, confetture e piatti di verdure allegramente - o almeno lo erano state- disposte. Curioso. A quanto ne sapeva lei, Severus Piton era vegetariano.
Insomma, tutte quelle verdurine bollite e il fisico smunto suggerivano quell’opzione. Avvicinandosi lentamente, quasi che il mix di cibi sulla tavola potesse risvegliarsi, amalgamarsi e divenire un mostro pronto ad attaccarla,  Minerva McGranitt studiò attentamente le bottiglie assiepate in una zona della tavola.
Succo di zucca, Acquaviola, Tiramisuper… Bevande analcoliche?
Tra gli occhi svegli di Minerva si formò una piega sospettosa. Che fine aveva fatto il Severus Piton tutto vino elfico e solo-un-bicchiere-d’acqua-grazie? L’indagine tra i rimasugli di quella cena selvaggia la portò a fare altre interessanti scoperte, con solo il prezzo di sollevare cibo quasi  in decomposizione.
Contò sei bicchieri, ma solo due erano stati usati. Uno a un capo della tavola e l’altro all’estremità opposta.
C’era anche un piatto, con le posate accanto. Contò un’altra coppia di posate dove però la forchetta giaceva abbandonata tra delle pannocchie mentre il coltello, conficcato come una spada in un melone, aveva fatto crollare una pila di ciliegie, more e cioccolatini al whiskey. Trovò anche due salviettine usate. Una appena stropicciata e posata accanto all’unico piatto, l’altra semiavvolta su sé stessa, al riparo di una zuppiera di asparagi di Catalogna, tappezzata di macchie untuose.
Forse qualcuno -o qualcosa- era venuto a trovare il professor Piton per una cena.
Minerva McGranitt si ripromise di riscoprire chi fosse. Se si fosse ritrovata nella situazione di dover invitare quella medesima persona, si sarebbe premurata di proteggere il suo ufficio o la sua sala da pranzo con un Incanto Assolvipulente.
“Ti serve qualcosa, Minerva?” borbottò una voce scorbutica poco sopra di lei.
Minerva McGranitt alzò lo sguardo. Severus Piton, appoggiato alla balaustra con l’espressione guardinga, sostenne rigidamente quello sguardo acuto e perplesso assieme, apparso da sotto la tesa del cappello.
La strega inarcò le sopracciglia, accigliata. “Buongiorno a te Severus” disse sollevando il naso aquilino. “Volevamo solo sapere dove fossi finito stamani.”
Fu la volta di Severus inclinare lo sguardo: “Come vedi, sono qui” ribatté in tono piatto. Le pupille della strega, nell’udire quella risposta, luccicarono come capocchie di spillo, irritate.
Severus fletté le dita, temporeggiando. Distolse lo sguardo, aspettandosi una bella ramanzina sull’educazione e sul rispetto che andava tributato ai colleghi. Non che di solito non ne avesse, anzi, Severus era abbastanza ossequioso nei confronti di coloro per cui nutriva rispetto, senza mai scivolare nell’adulazione. Ma quella mattina, un po’ per il sogno e un po’ per lo strano tepore residuo della sera precedente, sembrava aver preso spunto dalla Lovegood, con una risposta secca e coincisa.
“Lo vedo Severus” ribatté con altrettanta schiettezza la strega, sorprendendolo. “Posso capire.”
Si tradì rivolgendo un mezzo sguardo alla tavola e al macello culinario che vi alloggiava. Gli occhi funerei di Piton si spalancarono ed egli si ritrovò a scendere rapido la corta scala, il mantello ondeggiante.
“No!”
Minerva si voltò di scatto, ritrovandoselo accanto. Piton impugnò la bacchetta e cominciò a far evanescere alcune delle cibarie nelle condizioni più penose, sotto gli occhi sbigottiti della McGranitt.
La donna lo fermò con un gesto del braccio. “Basta così, non mi devi spiegazioni.”
Severus, momentaneamente smarrito, ritornò nella sua abituale posa composta, rivolgendole un’espressione interrogativa. “Spiegazioni su cosa?”
“Su come gestisci le tue cene o quello che era…” occhiata imperiosa alla tavola, “… Questo.“
“Vedi, Severus, comprendo che quello che fai sia difficile da sostenere e forse anche ingiusto. Credo anche che tu possa ritenerti più libero in certe cose, dato il peso che ti porti addosso … Ma sii più attento a te  stesso.”
Lo sguardo della donna slittò velocemente da arcigno a vagamente gentile.
Voleva forse essere rincuorante? Con lui?
Severus Piton, assunse la sua miglior posa da misterioso personaggio le cui intenzioni non erano mai chiare. Aveva il sospetto che quelle parole si riferissero alla sua missione di infiltrato Mangiamorte, eppure si scoprì ad associare quelle parole al suo compito, altamente gravoso ma non mortale, di vegliare su Luna Lovegood, tendendole una mano in segno di amicizia.
“Forse dovrei dire ad Albus che non importa, almeno per oggi. Posso chiedere a Pomona di coprire le tue classi, naturalmente” il tono della strega era ritornato distaccato e professionale, il capo sollevato in modo altero. Era persino più alta di lui, cosa che non mancava mai di mettere Severus a disagio.
Lei era stata la sua insegnante e il fatto di non essere cresciuto più di tanto, lo rendeva ancora un po’ più alunno, piuttosto  che un docente al suo stesso livello. E come  un alunno, si ritrovò ad accampare scuse e giustificazioni, in tono basso. Minerva McGranitt era certamente gentile, ma lui aveva altre idee su chi poteva dividere i suoi pensieri e le sue intenzioni.
“Niente sostituzioni. In fondo, sono appena le …” Piton guardò di sbieco la pendola a muro.
“… Nove e mezza. Posso fare tutte le mie lezioni del pomeriggio, naturalmente.”
Le indirizzò uno sguardo freddo, pregando che si accomiatasse e se ne tornasse in classe. Dopotutto, lui non era l’unico insegnante di Hogwarts e anche la McGranitt avrebbe dovuto essere a insegnare ad una manica di teste di legno. Piton ebbe la vaga impressione che se lui cominciava a -non- fare qualcosa, dormire di più mattina per esempio, tutti cominciavano a farsi gli affari loro e a girovagare per il castello, abbandonando i loro doveri. Come se lui fosse l’unico docente a prendere seriamente il lavoro.
A parte forse Dolores Umbridge, anche se da quello che aveva visto ieri sera, era una diligente pazza sadica pronta a tutto pur di infliggere una giusta punizione.
“Perfetto” disse l’alta strega riportando Severus alla realtà, con un rapido ritorno ai suoi modi bruschi e distaccati. Lanciò uno sguardo all’orologio a muro, le labbra contratte.
“Ora è tempo della mia lezione. Confido, Severus, che tu non debba più ritrovarti in una situazione di questo tipo.”
 Gli occhi pungenti della McGranitt si soffermarono su di lui, pensosi.
“Quantomeno, prima di assentarti, avvisa.”
Severus Piton annuì rigidamente e tamburellò le dita sul tavolo, prima di domandarle, altrettanto bruscamente:  “Ti ha mandato Silente?”
La McGranitt si voltò sulla soglia. Incredibile quanto sembrasse altera e forte, anche senza fare assolutamente nulla. Aveva lo straordinario dono di apparire inarrivabile e meritevole di rispetto in qualsiasi momento. Severus Piton le invidiò quella naturale fermezza composta, senza che lei avesse fatto nulla in particolare.
Lui doveva essere sempre freddo ed indisposto per impedire agli altri di avvicinarsi. Cosa che a Minerva McGranitt, riusciva perfettamente naturale.
“Naturalmente” affermò brusca la McGranitt, dandogli la schiena e sparendo nell’ingresso.
Severus Piton si lasciò cadere su una delle sedie, cercando di mantenersi rigido e composto. Cosa non facile.
Doveva avere due lezioni nel pomeriggio con quelli del terzo e del primo. Assolutamente perfetto.
Quei bambini erano ancora così facilmente suggestionabili che non gli avrebbero reso il pomeriggio completamente obbrobrioso e sfiancante. Poteva stare tranquillo, si disse, eppure si accorse di essere ancora tormentato da tarli e interrogativi senza nome.
Per distrarsi, impugnò di nuovo la bacchetta, cominciando a pulire i resti della cena. Sollevò perplesso la crosta di quello che sembrava un pasticcio di carne, che recava i segni di quelle che sembravano zanne.
“Lovegood.”
Lasciò cadere la crosta, scrollando il capo. I ragazzi di adesso non avevano il minimo rispetto per nulla…
Severus rabbrividì. Ecco che ricominciava a ragionare come un anziano.
Come un vecchio rimbambito, lo corresse la voce di Lily.
“Smettila” le borbottò in risposta ben sapendo che non c’era nessuno. Fece evanescere un piatto di zucchine ripiene con insolita ferocia, puntando la bacchetta con troppa veemenza e colpendo la superficie rossastra di una delle zuppiere, schizzandosi la veste e la bacchetta.
Severus si fermò, contemplando la propria sbadataggine. Lui non era Minerva McGranitt composta e meticolosa in una sua azione. Non era Sirius Black, arrogante e intraprendente, tostissimo anche nella mera azione di grattarsi il naso. Non era Remus Lupin, comprensivo e amichevole nonostante la sua condizione da emarginato.  Lui era lui.
Era in grado di atteggiarsi da misterioso, da persona precisa e autosufficiente e, contemporaneamente, possedeva tutte le caratteristiche opposte, quando era sé stesso, nella sua solitudine.
A volte, aveva l’impressione di non essere cresciuto mai, ma solo di aver rafforzato una facciata severa e sprezzante, sempre intento a giudicare ciò che lo circondava da una posizione quantomeno scomoda: quella di anziano rompiscatole.
Era l’essere Mangiamorte che l’aveva reso così duro e sarcastico? O erano doti innate?
No, si disse, ero così anche prima. L’immagine di un ramo spezzatosi addosso ad una bambina dalla faccia cavallina, lo confermò. Era sempre stato perfido e indisponente, ma solo da adulto era riuscito a ritirare fuori quel lato del suo carattere per difendersi.
Lo era stato anche nei suoi anni a Hogwarts, ma era difficile fare i saccenti arroganti quando si era continuamente esposti alle umiliazioni e alle prese in giro.
Tergeo.” La veste e la bacchetta tornarono pulite. Fece scomparire un vassoio di risotto ai funghi, ormai cementato in un unico grumo dalla consistenza rocciosa.
Aveva fatto sparire buona parte delle pietanze, quando, sotto ad una zuppiera di porcellana blu dalle dimensioni di una piscina, rinvenne due piccole rape violette, parzialmente avvolte in un tovagliolo macchiato, a sua volta schiacciato da un vassoio.
‘Perché mangia solo quelle cose da coniglio?’
‘Niente rape per gli schizzinosi.’

Che maleducato era stato. No, ho fatto bene. Si stava avvelenando da sola.
Però -si disse- era solo una cena, per educazione avresti dovuto farle fare ciò che voleva.
Da quando l’educazione vuol dire farsi gli affari propri,  fregandosene dell’educazione stessa? Replicò a sé stesso.
Si sedette al posto che aveva occupato Luna Lovegood, abbandonando la bacchetta sul tavolo. Rimase fisso a studiare quelle piccole rape, aspettandosi da un momento all’altro di vederle balzare e correre in giro per la stanza. Pensieri da Lovegood.
Strano. Non provava alcun fastidio ora, mentre rifletteva sulla poliedrica essenza di quella ragazzina dagli occhi svagati e roteanti. Provava più fastidio verso sé stesso per averla cacciata a quel modo, tanto sgarbato che persino lei voleva andarsene. Anche se, a dirla tutta, era stato condizionato da ben altri fattori.
Severus Piton sentì uno sgradevole rossore affiorargli alle guance. Aveva provato pace, per un momento, stando accanto a Luna a fissare le stelle. E poi aveva provato odio e gelosia. L’aveva scacciata e l’aveva trattenuta… Non c’erano dubbi. C’entrava sicuramente Lily, in quell’altalena di eventi.
Ma poi anche l’odio si è dissolto, Severus congiunse le mani pensoso.
Una scritta sanguigna attraversò i sui pensieri come una meteora, agitandoli.
Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia.
Avvertì le sue mani più fredde del solito, nel ricordare la scoperta di quello sfregio sulla pelle della ragazzina e di come l‘aveva curata. Era stato un momento così strano, delicato quasi, a cui non aveva pensato veramente. Si era sentito bene nell’aiutarla, nel far sparire quelle parole vergate con il prezzo del sangue. Aveva apprezzato e riconosciuto la gratitudine negli occhi assenti di Luna e ne era stato quasi felice.
E che sciocca coincidenza. Quella frase sembrava davvero associabile a lui, come metà degli incoerenti pensieri di Luna Lovegood…
Severus Piton scattò in piedi, d’improvviso agitato. Era ovvio che c’era un legame tra le allucinazioni e il suo stupido lavoro da balia! Qualunque cosa potesse dire Silente…
Ecco, pensò Piton stringendo le dita a pugno. Un pugno molto magro e nodoso, ma lo stesso tremante per l’eccitazione del trionfo. Silente sapeva delle allucinazioni, era l’unica spiegazione!
Anzi, forse lui stesso ne era il mandate. Come aveva fatto a sfuggirgli un dettaglio così sottile eppure tanto evidente? Anche quella fosse stata solo una supposizione -di cui Severus ne aveva tuttavia la certezza-, Silente sapeva come Piton usava il Pensatoio e di certo non si sarebbe tirato indietro nel spiegargli eventuali effetti collaterali…
Perché aveva titubato, vagheggiato, tormentandosi quando la soluzione era così a facile portata?
Se questo era il quadro, Luna Lovegood era il mezzo per… bè, sicuramente rappresentava la tipica pedina che Silente avrebbe potuto sfoggiare in uno dei suoi mirabili, macchinosi e assolutamente inutili piani per regalare conforto ai derelitti. Il pensiero che Albus Silente lo considerasse alla stregua di un mentecatto desideroso d’affetto, fece contorcere i lineamenti ringhianti di Piton.
L'immagine confortante di Luna sparì. Sentì di detestarla, come la sera prima alla finestra ma questa volta ne comprendeva il motivo. Quella sua aria ingenua, sognante..
La rendevano la marionetta perfetta per le altruistiche intenzioni del Preside!
Non era giusto essere trattati così.
Provò un moto di disgusto verso sé stesso. Si vantava di essere così bravo a capire le sottigliezze dell’animo umano, analizzare gli strati mutevoli delle azioni altrui… ma quanto era stato cieco!
“Anche opera tua, immagino” ringhiò, guardandosi attorno, nel vano di ogni finestra, quasi aspettandosi di veder spuntare Lily da uno dei davanzali. Sperava quasi che lei gli rispondesse, tanto per avere conferma della sua lucida follia. Attese ancora un attimo, finché la rabbia non minacciò di sopraffarlo.
Infine, uscì a passo di marcia, il mantello svolazzante e il viso contorto dall’ira.
Scese le scale solennemente, formulando e preparando accuratamente ogni domanda da porre a Silente.
Non voleva dargli tregua, né il tempo di accampare spiegazioni  in cui sicuramente c’entravano vaghe argomentazioni quali sacrificio, missione e amore.
Severus Piton era talmente preso dallo stilare quel suo interrogatorio per il principale che, quando giunse al secondo piano quasi oltrepassò il granitico mostro che custodiva l’ingresso dell’ufficio.
Tornò indietro con le spalle curve, ma non fece in tempo a sussurrare la parola d’ordine -Banana Split - che quello si animò e lo interruppe.
“Il Preside non c’è” gracchiò il Gargoyle stridulo, guardando infastidito la nera sagoma di Severus Piton.
L’insegnante ricambiò con altrettanto disprezzo, come se quella brutta statua cornuta fosse stata una dei suoi alunni e non un pezzo di arredamento incantato.
“E non affannarti a chiedere quando tornerà a Hogwarts, perché non ce l’ha mica detto!” gorgheggiò il ritratto di una strega con un alto cilindro appesa alla parete vicina, in tono altrettanto giocondo e gli occhi gialli fissi su Severus che, a sua volta, squadrava arcigno il muro che celava l‘accesso all‘ufficio del Preside.
“Forse non lo dirà nemmeno a te, perciò vai pure dove devi andare, nonnetto” rincarò il Gargoyle, scoprendo le zanne in quello che voleva essere un sorriso grottesco.
“Sta zitto, brutto sasso” ringhiò il pozionista. “Ha parlato quello bello” grugnì la statua in risposta, prima di scivolare di nuovo nel suo stato pietroso.
Severus Piton strinse gli occhi, allontanandosi nel corridoio senza una parola. Avrebbe dovuto dire due paroline a Silente sul ‘custode’ del suo ufficio.
Oltre ad interpellarlo in modo serrato sulle allucinazioni, sul Pensatoio, sulla Lovegood, cercando di avere risposte serie e inoppugnabili, naturalmente.
I passi echeggiavano cupi sulla pietra, e ogni volta che i suoi occhi neri incrociavano la luce opalescente che filtrava da fuori, sembrava che ne venissero feriti.
Non era ancora mezzogiorno, pensò. Il brusio degli studenti affaccendati nelle lezioni, qualche grido distante e frasi spezzate, che costituivano il sottofondo della routine di ogni giorno normale a Hogwarts rimbalzava tra le pareti di pietra, assieme ai passi degli alunni in giro per i corridoi.
A Severus Piton, quei suoni sembrarono così distorti e incoerenti che era come se li udisse la prima volta.
Ultimamente si era rifugiato - Anche se lui amava pensare di esserci stato costretto- in situazioni così irreali e assurde che l’ordinaria vita al castello gli risultava incomprensibile.
Era qualcosa di ordinario, talmente spiazzante nella sua ripetitività che non si era mai soffermato a pensare ad altro, a parte il suo piccolo svago da spia.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Si soffermò davanti a una delle feritoie trasformate in finestre e si costrinse a fissare quella luce accecante e incolore, senza sbattere le palpebre.
...Lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Provava lo strano desiderio di uscire un po’ alla luce, a respirare aria gelida e ventosa.
Aria vera, non quella creata dai sogni. Non quella che sapeva di gigli stantii, di marionette lunatiche o di vecchi fuori di zucca.
Si aggiustò i polsini sulle mani scheletriche, si sistemò il mantello al collo chiudendone gli alamari e si avviò allo scalone. Il suo passo si era impercettibilmente velocizzato, tanto che quando arrivò alla Sala d‘Ingresso ansimava leggermente, le mani nelle tasche del mantello.
Non incontrò nessuno, per sua fortuna. Senza avere una meta precisa, con l’unica prerogativa che ovunque fosse andato sarebbe stato un posto pieno di luce, uscì nell’aria frizzante della tarda mattinata, lasciandosi alle spalle quei suoni che gli parevano tanto insopportabili.
Assordanti.
Severus Piton, con i capelli svolazzanti in faccia, scese per la strada lastricata e imboccò rapidamente uno dei larghi sentieri serpeggianti verso il lago, incurante della neve farinosa che si appiccicava al mantello, all’orlo dei pantaloni e agli stivali. Si era reso conto di essere terrorizzato dal rumore della normalità.
E, cosa ancor più spaventosa, di esserne perfettamente conscio.
Invano, cercò di riportare sé stesso sul tragitto verso il castello, verso anche solo le serre -un buon compromesso tra la luce e la civiltà di Hogwarts-. Invano, tentò di arrestare il suo cammino.
Quando si rese conto di essere arrivato sulle rive del Lago Nero e di essere avvolto dalla tanto agognata luce ossea, s’immobilizzò. Avrebbe potuto mettersi a urlare come fanno gli esseri umani travolti ed oppressi da schiaccianti sensazioni di desolazione e sconforto. Avrebbe potuto urlare per sfogarsi e scacciare il disappunto verso la confusione, le ingiustizie, verso i suoi sentimenti patetici e sventurati e la bramosia che gli ardeva nel cuore. O urlare e basta, tanto per fare qualcosa che non fosse il pensare cervellotico e dannoso che gli comprimeva la testa.
Ma dopo sette libri, sette film di cui cinque mal riusciti, innumerevoli fan fiction e i tredici capitoli di questa storia, sappiamo che Severus Piton non era un essere umano normale.
A prestargli attenzione, forse lui stesso nemmeno credeva di essere un uomo. Era troppo egoista e spregevole.
Un uomo che pretendeva e basta, un uomo a cui era stata tolta la capacità di dare.
Perciò, l’unica cosa che fece, fu sedersi su quella terra spolverata di neve, mentre il calore tiepido del debole sole e lo scintillio argentato dell’acqua lo distraevano con la loro semplice, normale, ordinaria bellezza.

***


Luna Lovegood sollevò gli occhi bulbosi dal libro che stava consultando.
Un dei passi le sfilarono accanto, ma non si fermarono. Forse non l’avevano notata, imboscata com’era tra l’intrico di alcuni cespugli frondosi, punteggiati di fiocchi spessi, residuo di una precedente nevicata. La ragazzina si mise in ascolto, sfilandosi la bacchetta da sopra l’orecchio.
Non udì più nulla, ma non si sentiva granché sicura a starsene nascosta lì. Certo, dubitava che qualcuno avesse voglia di farsi una gita in riva al lago a novembre inoltrato, a meno di non essere lei, ma la prudenza per una volta venne a consigliarla, come una buona amica. Luna si affrettò a infilare i libri della biblioteca, il blocco da disegno e le pergamene di appunti nella borsa già stracolma, pregando che la cinghia non le si rompesse. Cacciò anche le penne d’oca e le boccette d’inchiostro nelle tasche, incuneandole attentamente tra il Saggiomaglio e una Radiogorda di scorta.
Se la mise a tracolla, cercando di fare attenzione a non fare rumore. Si sentiva protetta, sotto alla bassa volta di rami odorosi di legno e resina, ma era tempo di cambiare posto.
A Luna, non importava tanto di essere beccata in una specie di tana per cervi quanto di essere sorpresa laggiù con i noiosi tomi della biblioteca. Anche se non ci aveva trovato nulla di utile su allucinazioni, spettri e quant’altro si potesse avvicinare ad una ragazza dagli occhi pieni d’odio con il brutto vizio di apparire e sparire a sorpresa, le avrebbe dato fastidio dare l’idea di una che non teneva con cura le cose prese a prestito.
Luna Lovegood metteva in alta considerazione le cose altrui. Gli oggetti posseduti da altre persone si meritavano la massima premura nell’essere maneggiati.
Aveva deciso di saltare le lezioni quel giorno, vero. Ma fare la figura della studentessa poco diligente era un’inezia rispetto a quella di venir considerata un’irresponsabile.
Con le mani gracili e bianchissime, riaprì il varco fra i rami, scivolando senza difficoltà tra quelli senza che con le loro piccole foglie puntute, osavano trattenerla. Uno dei rametti le sfiorò il viso e Luna la considerò come una carezza d’addio, da parte di quel posto che aveva custodito lei e le sue piccole indagini in segreto.
Si rialzò in piedi, spazzolandosi la gonna e il mantello, piegata un po’ su un fianco per controbilanciare il peso della borsa da cui i libri, pesanti quanto inutili, spuntavano come lapidi.
Cacciò le lunghe ciocche biondastre oltre la spalla, facendo roteare gli occhi sulla riva, proteggendoli con il palmo della mano, un po’ sporco di terriccio.
La luce bianca era ancora accecante, tuttavia era divenuta giallina là dove i raggi del debole sole cercavano di filtrare. Luna si soffermò un po’ a osservare il cielo, mentre un vento freddo e secco cominciava a insinuarsi fra i suoi capelli disordinati, liberandoli dalle foglioline che vi erano rimaste intrappolate.
Luna Lovegood era pronta ad andarsene, ma trovò qualcosa di più interessante del suo ritorno al castello.
Sulla riva una sagoma nera sostava immobile, seduta.
A Luna bastò un singolo, lento abbassamento di palpebre per capire chi fosse.
Conosceva solo una persona in grado di essere tanto cupa e tanto nera in mezzo ad un mare di luce.
Luna inclinò il capo, soppesando la situazione. Severus Piton era un insegnante e avrebbe potuto tranquillamente trascinarla al castello, metterla in punizione o fare la spia agli altri insegnanti.
Eppure si era dimostrato tanto gentile con lei, l’aveva aiutata, l’aveva guarita da quelle orribili parole sulla pelle. Aveva diviso la sua cena, con lei.
Luna gonfiò le guance, poi le sgonfiò, poi le rigonfiò.
Le avrebbe chiesto perché era lì e Luna avrebbe dovuto spiegarglielo o mentirgli, come la sera prima.
E se gli avesse mentito, sarebbe stata male di nuovo. A Luna Lovegood non piaceva mentire; lei non sapeva perché, ma posso spiegarlo a voi lettori dicendo che andava contro la sua natura schietta.
Guardò i libri nella borsa - l’insegnante non doveva vederli- e tentò di coprirli con un lembo della spessa sciarpa di lana viola acceso. Non ci riuscì, perciò se la tolse,e la depose sopra alla borsa semiaperta, rimanendo con la gola candida alla mercé del vento gelido.
Luna strinse le mani a pugno, alzando una gamba e rimanendo nella posa di meditazione del fenicottero che lei e suo padre adottavano per riflettere su una decisione importante.
Dopo lunghi secondi, ondeggiando nell’aria, rimise il piede a terra e saltellò verso Severus Piton, rimanendo sulle zolle di terreno meno coperte di neve, cercando di non far rumore.
Si avvicinò claudicante per il peso della borsa, un po’ ingobbita, le palpebre un po’ abbassate. La brina levata dal vento, vorticava attorno a lei e le sue scarpe leggere sembravano non lasciare alcuna orma sul terreno che calpestava. Non fece il minimo suono nell’avvicinarsi a Severus Piton.
Seduto per terra, con più naturalezza del solito dopo aver bandito l’austerità dalla sua persona, almeno per quel folle minuto in cui aveva disperatamente voluto vedere la luce ed esserne avvolto, Severus Piton non pensava a nulla. Le semplici azioni dell’essere seduto per terra e di fissare le increspature dell’acqua scintillante, avevano assorbito e schiacciato ogni suo altro pensiero.
Luna si fermò giusto due passi dietro di lui, alla sua destra, abbastanza per poter vedere lo sguardo dell’insegnante fisso sull’acqua. Tremendamente fisso.
Luna Lovegood ebbe il sospetto che tutti i suoi progetti di non farsi scoprire e le preoccupazioni, non fossero nulla più che sciocchezze. Sgranò gli occhi così tanto che se qualcuno le fosse passato vicino, si sarebbe affrettato a ricacciarglieli nelle orbite prima che le cadessero a terra.
Quello non era Severus Piton. Era un pupazzo di Severus Piton seduto.
Prima che anche la mascella le si sganciasse per la sorpresa. Luna Lovegood sfoderò la bacchetta e la tese, la mano tremante. Il movimento provocò una reazione nel Pitonpazzo -Luna si complimentò con sé stessa per il neologismo che aveva creato- che si voltò verso di lei e gracchiò, irrigidendosi ancora di più:
“Dieci punti in meno alla tua Casa se non posi quella bacchetta, Lovegood.”
Luna inclinò il capo con un’espressione stupita. Il suo viso non sembrava nemmeno il suo con la sorpresa dipinta negli occhi e nella piega incerta delle labbra.
Quando il pupazzo parlò ancora, con altrettanta sorpresa, Luna Lovegood capì di aver fatto un grosso grossissimo errore.
“Cosa ci fai qui?” il luccichio sprezzante fece intuire a Luna che quello era davvero il suo insegnante di Pozioni e non un impostore pupazzo a grandezza naturale.
“Girini” rispose Luna in un sospiro poco convinto.
Le sopracciglia di Piton si congiunsero in un’unica, severa linea nera. “Ma davvero.”
Luna si reinfilò la bacchetta sull’orecchio, restando in silenzio. Non sarebbe riuscita a mentire, non per due giorni di fila e non con la stessa persona.
“Perché non sei a lezione?” le domandò ancora Piton, con straordinaria calma. Luna, sempre con lo sguardo fisso a terra borbottò ‘Ricerche’.
In fondo, non era nemmeno una bugia vera e propria, no?
Era un pensiero talmente concreto che la mente di Luna lo scacciò in fretta, e lei rimase a fissare inebetita l’insegnante, senza il coraggio di sorridere.
Non riusciva a capire come il Severus Piton che le stava davanti potesse corrispondere a quello della sera prima. Era una differenza così sottile che lei si limitava ad avvertire, ma non ne capiva la natura. Era glaciale. E sembrava che tutto quel gelo fosse indirizzato a lei.
Era troppo calmo. Non angustiato, ringhiante o amareggiato. Era come un cassetto liberato dai sogni e riempito con dei calzini di spugna. Non era pacificato. Era svuotato.
Severus Piton la stava studiando allo stesso modo. C’era qualcosa di diverso in Luna Lovegood.
Sembrava più normale che mai, con lo sguardo furtivo, la schiena curva, il mordersi il labbro, pensierosa.
Severus si accorse, con un’amara punta di delusione, che Luna Lovegood ora gli sembrava uguale a tutti gli studenti e alle ragazzine adolescenti banali che vedeva aggirarsi per i corridoi di Hogwarts, cinguettanti frignanti e tentate dalla menzogna. Come se Luna Lovegood avesse improvvisamente deciso di impegnarsi nella vita, facendo qualcosa di reale. Qualcosa di utile.
A Severus quel pensiero risultò insopportabile. Eccezion fatta per l’aspetto strampalato -mantello slacciato, cravatta a fiocco allentata, vegetazione tra i capelli, scarpette sporche-, quella davanti a lui non era più la strana creatura che gli aveva donato un attimo di tregua, e che l’aveva messo in imbarazzo o a disagio, rendendolo una persona qualunque, distogliendolo per un po‘ dalla grigia contemplazione della sua vita. Era una marionetta addestrata a dovere per renderlo un mansueto e docile uomo di Silente.
Cercò di studiarla in quegli occhi lunari che sembrarono riflettere solo la sua delusione.
Avrebbe voluto urlarle addosso e ricacciarla a scuola -dove a giudicare dalle foglioline e dagli aghi nei capelli- sembrava non essersi addentrata da un po’ ma Severus si limitò ad alzarsi.
La luce intorno a loro non era più abbagliante, anzi, il cielo grigio ferro cominciava a minacciare pioggia.
Severus Piton si alzò lentamente, evitando di guardarla. Era ora di finirla con quella baggianata. Era tutto così stupido.
Silente aveva davvero pensato che quella sciocchina ingenua avrebbe potuto servirgli?
Aiutarlo, addirittura? Che lui l'avrebbe a sua volta aiutata?
Tu stesso l’hai pensato e l'hai fatto, Severus! Disse una tra le tante voci che ricominciavano a prendere possesso della sua testa sgombra. Non ricordi quello che lei hai detto ieri sera?
Perché non servirebbe a te. A nessuno serve un guardiano protettore che ci difenda, se noi stessi, per primi, non siamo in grado di proteggere e difendere.. Ciò che siamo.’
Ecco, lei lo sta mettendo in pratica! Ora ha smesso di essere una svampita sognatrice ed è diventata normale, pronta ad essere sé stessa! Non ha bisogno di un guardiano, Severus.
Non ha bisogno di nessuno. Tantomeno di te.

Luna aveva cominciato a dondolare, avanti e indietro, avanti e indietro, lo sguardo febbrile.
Ma Severus provò irritazione, non apprensione. “Smettila” ringhiò, chinandosi verso di lei e ritraendosi come se fosse contagiosa. Era disgustato dal suo comportamento e da quell’impertinenza che lei sembrava mostrargli orgogliosa, come se fossero stati amici. La punizione della Umbridge non le aveva insegnato nulla?
Severus incrociò le braccia, torreggiando sulla scheletrica figuretta di Luna.
“Dovresti essere in classe a studiare, non a seguire me come una povera sfaccendata. Ieri sera ti sarai anche divertita a mie spese, ma se c‘è una cosa che non sopporto sono gli invadenti come te, Lovegood.”
Luna sgranò gli occhi, rimanendo bloccata, la bocca semiaperta. Sembrava che tentasse in tutti i modi di strizzare i muscoli ai lati delle orbite come se volesse evitare di …
“Non ti mettere a piangere” le intimò Piton, rinvigorito da un’inaspettata dose di antica perfidia.
“I piagnistei di una bambina non mi commuovono” l’immagine di Luna davanti alla vetrata la sera prima lo fece vacillare. Ma quella era un’altra ragazzina, cercò di ricordare a sé stesso.
Aveva avuto l’illusione che Luna Lovegood fosse in qualche tratto simile a lui, con quella sua perspicacia nascosta. La cosa l’aveva dapprima turbato e ora, che trovava conferma di quanto essa fosse illusoria, -come tutto del resto-, era frustrato.
“E non voglio più vedere la tua assurda presenza vicino a me, Lovegood. Non so quali siano le tue idee in merito, ma fai lo sforzo di trovarti qualcosa di normale da fare che non sia essere la mia ombra e tormento.”
Il pensiero che Luna Lovegood non fosse proprio la prima colpevole di quella situazione, non lo sfiorò minimamente.
“Fatti degli amici, importuna Potter, va a difendere Paciock, gioca a Gobbiglie! Fa qualsiasi sciocchezza adatta a te, basta…”
Ci fu un lampo di luce color limone. Severus sollevò il braccio sinistro davanti a sé e lo sentì quasi scottare, prima di cadere all’indietro sullo strato di neve e fango denso vicino al lago.
Uno schizzo gli arrivò sul viso. Allibito, si passò una mano pallida e altrettanto sporca sullo zigomo.
Non imprecò, era troppo sorpreso. Luna Lovegood era davanti a lui, l’espressione altrettanto sbalordita.
Si fissarono, Luna ancora con la bacchetta alzat,a in mano, Severus con le vesti inzaccherate e il viso giallastro e roseo per la vergogna. Non riuscì a concepire nessun pensiero sensato, nessuna parola... Provò a  divincolarsi ma non riuscì a rimettersi in piedi. Che umiliazione. Cercò di rimanere il più composto possibile, anche in quella disdicevole situazione.
Dopo un attimo di silenzio raggelante, cominciò di nuovo a parlarle, sputando ogni parola come se ogni sillaba gli avesse fatto un grave torto personale.
“Non hai la minima idea di cosa hai appena fatto, Lovegood!” ringhiò Piton guardandola con gli occhi lampeggianti d’ira. “Non ne hai la minima idea!”
Luna Lovegood inspirò. Aveva le guance altrettanto rosee, ma quando rispose lo fece con fermezza, nonostante il tremore che le agitava le braccia magre. Aveva perso la pazienza, per la prima volta in vita sua forse, ma quando parlò lo fece nell’abituale tono sognante.
“Non avrebbe dovuto essere gentile con me per poi dirmi queste cose. E' crudele ed insensato.”
Seveus inclinò il viso, scrutandola, furioso. Non aveva più bisogno né voglia di fingere impassibilità e distacco. Non con quella piccola… -il ricordo soffocante dello studio della Umbridge lo avvolse- disgraziata. Si odiò per l’averlo pensato, ma l‘ira non se ne andò.
Perché ciò che poche ore prima gli appariva giusto ora era tutto sbagliato?
“Adesso mi dirai che non l’hai fatto apposta a colpirmi, vero Lovegood?”
“Ma io l’ho fatto apposta” disse Luna soavemente seria. Il cuore di Severus fece una capriola. Forse non l’aveva persa del tutto. Forse era lui ad essere uscito di senno e ad essere diverso?
Forse Luna era una vittima, come lui?
Poi inaspettatamente, Luna  gli tese la mano sottile, arrossata dal freddo, lo sguardo fisso e un sorrisino triste e gentile. Severus Piton sentì tutto quello che lo circondava riacquistare un senso. Percepì l’aria, il fango sotto le mani, lo sciabordio delle piccole onde. Le cose erano riemerse dalla luce abbagliante ed avevano recuperato i loro contorni, il gracidio di alcuni corvi.
La realtà lo circondava di nuovo ed ora non ne era più infastidito od oppresso. Le macchinazioni che l'avevano confuso e reso astioso, si dileguarono nell'aria frizzante.
Le prese la mano e riuscì ad alzarsi - non si sorprese particolarmente della forza di Luna, dopotutto, entrambi erano più che scheletrini pallidi dal peso di foglie secche- sentendosi stranito.
Quando il terreno gli ondeggiò sotto i piedi e si ritrovò a fissare Luna dall’abituale altezza, contrasse le labbra in una linea dura.
Che idiota era stato.
Luna Lovegood rimise la bacchetta all’orecchio.
“Volevo colpirla perché stesse zitto. Mi perdoni, ma non sapevo cos’altro fare” disse con semplicità, sollevando appena le spalle e lasciandogli la mano rapidamente, sporcandogliela di terra umida.
Luna non se ne curò e non abbassò gli occhi bulbosi.
Severus Piton cercò di ritrovare la sua dignità in quegli abiti fangosi. Era la seconda, dannata volta che quando finiva sulla riva del lago con Luna Lovegood, si ritrovava nella melma. Letteralmente.
“Spero ti renda conto di cosa hai fatto comunque, Lovegood. Hai saltato le lezioni e hai aggredito me, un insegnante” Severus strinse gli occhi “Venticinque punti in meno a Grifondoro.”
Luna roteò gli occhi bulbosi “Sono di Corvonero, signore.”
Lo sgradevole rossore riprese possesso degli zigomi di Piton.
“L’abitudine, Lovegood. Comunque, venticinque punti in meno a Corvonero. E le mie scuse…” fu il turno di Piton per abbassare lo sguardo, “… A te.”
Gli occhi nebulosi di Luna si rasserenarono per un attimo.
“Ha detto scuse?” mormorò trepidante. Sembrava talmente contenta che Severus non ebbe il coraggio di risponderle se non con un’altra bella frase acida.
“Non ti montare la testa Lovegood. Quella che si è data alle aggressioni contro l’autorità qui, sei tu.”
L’espressione di Luna tornò vaga: “Certo, mi scusi per averla gettata nel fango, non era mia intenzione.”
Severus Piton non riuscì a celare la sua espressione incredula dietro ad una impassibile, ben più convincente.
“Mi hai appena detto di averlo fatto apposta!”
Luna divenne dubbiosamente ignara: “L’ho fatto?”
“Lasciamo perdere” disse Severus seccato. “Ora. Cosa ci fai qui?”
“Quindi non stava dicendo sul serio prima?” rincarò Luna con un’espressione preoccupata e speranzosa insieme. Severus incrociò le braccia penzolanti e incrostate di fango. Qualunque fosse stato l’incantesimo di Luna gli aveva bucherellato le maniche. Quella sinistra poi, era bruciata fino al gomito.  
“No, non dicevo sul serio. Allora…”
Gli occhi sporgenti di Luna furono attraversati da una cometa scintillante.
“Potrò ancora venire a trovarla? Mi parlerà della sua commedia? O…” ad un tratto divenne pensierosa. “Potrei farle una torta se lei mi ha offerto la cena…”
“Lovegood! Smettila!” sbottò. Poi, di fronte all’espressione atterrita di Luna, cercò di essere più cortese.
“Fammi spiegare.” Luna annuì di rimando, ammutolita.
“Non volevo dirti… Io. Ho commesso un grave errore. So che volevi… Volevi…” Piton corrugò le sopracciglia, in evidente difficoltà.
“Salutarla” disse Luna.
“Si, giusto, salutarmi. Ma mi hai colto di sorpresa, e io...”
"Ha fatto il maleducato" replicò lei con gentilezza.
Come al solito, rifletté Piton invece di contraddirla per puro sfizio.
“Ultimamente è più strano del solito, è vero” gorgheggiò ancora la ragazzina, sovrappensiero, portandosi un dito alla tempia.
In realtà, credeva di conoscere la causa delle stranezze dell’insegnate di Pozioni. La stessa causa a cui Severus stava pensando.
“Però andrà  lo stesso da Silente e dirà che non vado bene per aiutarla?” Luna cominciò a tormentarsi una delle lunghe ciocche bionde, avvolgendosela e srotolandola attorno al dito.
Era preoccupata. Forse un po' triste. Severus annuì lentamente, cercando di essere il più delicato possibile. “Non gli dirò proprio questo. Ma solo di sospendere i nostri incontri.”
“E le dispiace?”
Piton s’irrigidì, ponderando le conseguenze di ogni sua possibile risposta.
Gli sarebbe mancata Luna Lovegood, con il suo svenire in classe, cadere nel Pensatoio, con le sue assurde teorie,  farlo cadere nell’acqua e nel fango, con le sue verità imbarazzanti e fulminanti, con il suo farlo finire in infermeria, come l’esempio di come avrebbe dovuto reagire alle angherie durante l’adolescenza, come l’unica persona con cui parlare che non gli facesse avvertire ignoranza, rabbia o umiliazione?
“Non c’è stato il tempo per dispiacersi” concluse.
“Naturalmente” concordò Luna con un sorriso smagliante. E falsissimo. Severus finse di non averlo notato.
“Credo sia ora di tornare al castello.”
Luna fece roteare gli occhi sulle macchie che punteggiavano l’ossuta figura dell’insegnante. C’era talmente eloquenza in quello sguardo vorticoso che Severus si affrettò a frugarsi nelle tasche del mantello e della casacca, ma non la trovò. Ricordò di averla posata - e abbandonata- sul tavolo ancora semi imbandito.
Aveva commesso il più grave errore che un mago potesse fare!
Tergeo!” disse la voce un po’ arrochita di Luna. Severus Piton si accorse che si era avvicinata e stava di nuovo puntandogli la bacchetta addosso, levandogli ogni singola macchia umida o secca dal vestiario e dalla pelle consunta. Quando ebbe finito cercò di allontanarla, respingendola sulla spalla con la punta delle dita.
Ci mise tutta la sua forza, naturalmente, ma non ebbe successo.
“Lovegood non è appr…”
“Aspetti” disse Luna tranquilla. “Ce n’è ancora una.”
Gli cinse il polso sinistro, girandogli leggermente l’interno dell'avambraccio e alzando la bacchetta con la precisione di un Guaritore assorto nel suo lavoro. Severus era così preso a sospirare, esasperato, che non si accorse che Luna Lovegood si era immobilizata, senza sussurrare alcun incantesimo.
“Cosa…?” abbassò gli occhi cupi, e in un momento si rivide la sera prima, intento a curare le parole sanguigne e dolorose che Dolores Umbridge le aveva impresso sulla pelle. Solo che adesso i ruoli erano ribaltati e che ciò che Luna credeva di poter cancellare con un tocco di bacchetta, era qualcosa di ben più vincolante ed infamante e, a giudicare dallo sguardo di Luna Lovegood, terrorizzante.
Le orbite del teschio sembravano fori, tanto erano nere e profonde e la bocca spalancate del serpente era pronta ad inghiottirli.
Il Marchio Nero si riflesse nelle iridi stupefatte di Luna e annegò in quelle di Severus.
“Lei è uno di loro?” gli domandò con cortesia disinvolta guardandolo con intensità micidiale. Non muoveva nemmeno un micromuscolo.
“Non è…” Severus s’interruppe. Cosa poteva dirle per giustificarsi senza compromettere sé stesso e tutti gli sforzi, i sacrifici, i pericoli e le sottili trame che facevano di lui il legame tra Albus Silente e l‘Oscuro Signore? (Nonché la sorpresona finale del settimo volume, of course)
Luna gli lasciò il polso con un piccolo singhiozzo. Ora, la nebbia nei suoi occhi d’argento spento si era dissolta, sostituita dall’orrore. Poi, prima che lui potesse anche solo chiamarla per nome, si voltò e cominciò a correre verso il sentiero. Piton, con lo sguardo fisso, da pazzo, la seguì, ma il vento gli era nemico. Vedeva la sua copertura smascherata aggrappata a quelle ciocche saltellanti, color platino.
A quella figuretta incerta e imprevedibile.
Si costrinse ad andare più veloce, incurante della brina che gli arriva negli occhi, di due passi messi in fallo, prendendosi due dolorose storte. A Luna Lovegood non andò meglio.
Nel tentativo di essere più rapida, aveva deviato fuori dal sentiero salendo su un declivio ripido, in mezzo a una zona dove la neve era più alta. Fu il suo errore. Severus la vide scivolare all’indietro, le braccia alzate, mentre la borsa pesante la trascinava con sé, più in basso, tra il fogliame e il terriccio.
Severus aveva già il fiatone ma corse più rapidamente, o almeno ne ebbe l’impressione, con i legamenti in fiamme. Si era forse fatta male? Ma no, eccola rialzarsi in piedi e frugare tra le foglie. Aveva rotto la borsa.
Severus rischiò d’inciampare e si fermò, le mani ancorate alle ginocchia, mentre il mondo li vacillava accanto. “Lovegood, aspetta…” rantolò così debolmente che lui stesso non si sentì.
La ragazzina alzò lo sguardo e per un attimo i loro occhi si incrociarono.
Severus si sentì quasi male, quando vide quelli di Luna colmi di una delusione infinita.
Con alcune delle sue cose strette in mano, purtroppo non era riuscita a prendere tutto, Luna ricominciò a salire, incuneando i piedi tra i sassi sporgenti, nella terra smossa, cercando di recuperare l’equilibrio e tenendosi ai ciuffi di erba secca e rigida che spuntavano dal terreno. Si ruppe un’unghia, ma non le importava, a scuola c’era l’Infermeria. Non perse nemmeno tempo a prendere la bacchetta e ad affatturarlo. Voleva solo allontanarsi.
Severus Piton è un Mangiamorte,Severus Piton è un Mangiamorte, Severus Piton è un Mangiamorte, le rimbalzava nei pensieri con una furia tale da cancellare tutto il resto.
Quando il suo sguardo febbrile vide l’ingresso del castello, non perse tempo a sentirsi sollevata. Si fiondò tra le mura di pietra spessa, correndo ancora a più non posso. Sulla soglia si voltò, ma non scorse la sagoma nera dell’insegnante tra gli alberi spogli o tra i cespugli, o sul sentiero ghiaioso.
Con il piccolo petto alzato e abbassato da rantoli frettolosi, stringendo a sé alcuni libri, il Saggiomaglio, il sacchetto con la sua bigiotteria, gli Spettrocoli, l’astuccio, la lettera di suo padre, mezzo blocco da disegno e due pergamene sporche si addentrò dentro Hogwarts, camminando rasente i muri, gli occhi lucidi.


Severus Piton non aveva seguito Luna fino al castello. Anche se all’improvviso avesse ritrovato la forza e la capacità polmonare, non si sarebbe comunque mosso. Fermo nel medesimo punto in cui Luna Lovegood era scivolata, fece vagare lo sguardo tra il fogliame e le cose sparse della Corvonero, tenendosi il petto martellante. Aveva l’impressione che il cuore gli battesse anche nelle tempie, nei polsi, nel collo magro.
Tentò di deglutire ma tossì e basta, piegandosi a metà. Era davvero distrutto.
Si chinò accanto alla sciarpa viola e arancio di Luna, restando quasi accecato da quell‘improponibile mix di colori. Alcune pergamene, tre mappe di Astronomia, piume e boccette erano disseminate qua e là. Due di quelle erano atterrate su un sasso piatto, rompendosi e mischiando l’inchiostro nero di una con quello zaffiro dell’altra. Severus seguì con gli occhi il rivolo, scivolare e scomparire nel terreno smosso. Con le dita magre raccolse la  cinghia della borsa di Luna e una specie di cipolla viola verde dal ciuffo esuberante. La parte inferiore della sacca giaceva poco lontano, spalancata. Severus andò verso quella zoppicando. Si abbassò di nuovo, frugandone il contenuto.
Non conteneva molto. Una copia del Cavillo risalente a tre anni prima, un libro senza copertina che si rivelò essere Trasfigurazione Pratica vol. Quattro, e un grosso tomo con il timbro della biblioteca di Hogwarts con qualche pagina svolazzante. Severus lo aprì, suo malgrado incuriosito, nonostante il pericolo imminente costituito da quello che Luna adesso sapeva.
Vide che quelle che gli erano parse come pagine staccate, erano parte di un blocco da disegno. Le sfilò e le depose accanto a lui. Si rigirò il libro tra le mani secche, leggendone qualche brano, la fronte corrugata, le narici dilatate come se fosse in attesa di una preda.
‘ … l’illusione può essere creata dal mago stesso o indotta da un altro mago, nel tentativo di dare un’immagine fittizia della realtà …’
‘Esistono vari tipi di illusione, ognuna con la sua natura. Possono riguardare luoghi, situazioni o persone, e coinvolgere la vittima a tal punto che egli o ella non può essere più in grado di distinguere la realtà dalla finzione.’
‘ …per crearle esistono infiniti modi come infinita è la gamma di incantesimi preposti. Risalire alla natura delle illusioni e distinguere la loro natura da quella per esempio, di un vero spirito è arduo e complesso e…’

Severus chiuse il libro turbato, rimirandone prima i segni delle sottolineature. Lo voltò sulla costa, e ne lesse il titolo. “Vedere quello che non c’è. La molteplice multiforme essenza dell’arte illusoria” di Gottfierd Soleskin. Mai sentito, eppure, complice la parola illusione, qualcosa si agitò negli oscuri meandri della mente di Severus Piton, con tanta forza da farlo trasalire.
Inspirò l’aria fredda, cacciandosi via dal volto le ciocche nere e svolazzanti, infastidito dal crepitio delle foglie secche. Allungò la mano verso il blocco e ne sfogliò i disegni, pagina per pagina.
Una casa a forma di tuba, un giocatore di Quidditch con i capelli disordinati, il suo ufficio con le sue molte finestre, la statua di una donna. Il meccanismo di un orologio, una creatura con lunghe antenne, uno stagno. Di nuovo il suo ufficio, visto da un’altra angolazione, l’autoritratto di Luna ma con occhi di una grandezza normale.
E poi, sull’ultimo foglio disegnato, trovò la risposta a ciò che cercava e a ciò che già sapeva.
La figura di Lily Evans quindicenne, lo fissava immobile dalla carta rugosa, vergata con tratto sicuro e marcato, il sorriso beffardo e gli occhi rabbiosi, come lui la vedeva e ricordava.
La sua allucinazione personale era ritratta lì, tra le sue mani fredde e nodose.
Severus Piton alzò lo sguardo verso il lago e il cielo plumbeo. La brina si era trasformata in pioggia fine che presto, si sarebbe ritrasformata in neve.
Luna Lovegood aveva carpito due sfaccettature della sua anima e con l’ingenuità della sua età, le aveva fraintese entrambe. E lui, lui non sapeva più cosa pensare, in quella giornata funesta e funerea tranne che lui e solo lui, era la cosa reale che rendeva Luna Lovegood  vagamente interessata a ciò che la circondava.



Ciao, lettori del Dono!
Ecco a voi il lunghisssimo capitolo 14 della storia. E' stato davvero difficile scriverlo -Riuscirò mai a battere 'Come polvere nella notte?-!!
Ho anche l'impressione di essere uscita un po' dal Canon con Luna... Ma dopotutto è la prima volta che comincia a interessarsi ad un problema reale, che tanto reale non è!
Per quanto possa sembrarvi roba da telefilm metafisico americano, ho adorato scrivere la scena del funerale e inserire la sottotrama di Vesper -L'imbrunire (Si forse l'ho svelata un po' troppo ma tant'è.. Non accadrà solo quello)
Tornando a questo capitolo... Mi sono davvero sentita sfiancata. Sono andata in confusione, mi sono pure arrabbiata con me per non essere in grado di analizzare bene ciò che scrivevo.
Erano sentimenti inaspettatamente complessi e ogni volta che ne parlavo, ne sollevavno altri.
Forse sembro esagerata, ma, mio Dio. Che fatica! Ho sentito tutto il peso che comporta descrivere Severus.
Vado con i saluti! Come sempre, un grazie a chi legge, a chi commenta e ai recensori sempre pronti a recensire!
Causa esami, potrò pubblicare il capitolo settimana prossima -Si, anch'io sono triste- e spero di renderlo ancora migliore di qualsiasi cosa possa aver scritto finora.
Alla prossima, Exelle







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Capitolo 15
*** Grasse risate a Grimmauld Place ***


Capitolo quindici
Grasse risate a Grimmauld Place


Di tutte le cose strane, curiose o inspiegabili che capitavano a Londra ultimamente, la caduta di un grosso fagotto umano in una piazzola di erba incolta in una delle zone più decadenti della città, rientrava quasi nella categoria del più che normale.
Rotolandosi tra l’erba secca, rimettendosi in piedi e cercando di recuperare i veli neri che le ornavano la testa, ridotti a ragnatele scure, la vecchia -perché così appariva quella figura derelitta e stracciona- cercò di camminare tra le pozze d’ombra che si allungavano sulla strada, là dove la luce fioca dei lampioni non arrivava.
Non che alle finestre fumose dei numeri undici e tredici ci fosse qualcuno intento ad osservarla, ma la prudenza, soprattutto in quegli ultimi giorni, era qualcosa di fondamentale a cui attenersi.
La vecchia si trascinò dall’altra parte della strada, attraversando un rigagnolo d’acqua sporca, scivolando nella nuvola di odore mefitico che aleggiava tra dei sacchi d’immondizia, addossati poco oltre il cancello sghembo del numero undici.
La strega strinse i pugni, e oltre il velo nero, strizzò le palpebre, concentrandosi su un pensiero.
Passarono lunghi secondi, apparentemente intervallati da qualche scoppio di risa o musica, che si levavano dalle case vicine. Ma nessuno si accorse di nulla.
Qualcuno cominciò a strimpellare una chitarra e fra le note distorte di quel suono improponibile, accadde ciò che la vecchia aspettava. Avvolta nei suoi veli neri e nei suoi stopposi capelli verdastri lunghi fino alla vita, non sembrò sorpresa nel vedere quella strana apparizione prendere forma sotto i suoi occhietti rossi.
Le due case cominciarono a spostarsi di lato, per far posto ad un’altra dimora che sembrò gonfiarsi tra le due, senza tuttavia alterare l’aspetto della strada stessa.
In perfetto accordo con lo stile della zona, anche la nuova facciata, benché  ridotta ad un ombra spoglia della vecchia signorile ricchezza, aveva muri sporchi e finestre annerite, ma a differenza delle altre case che apparivano almeno abitate, questa sembrava vuota da molto, molto tempo. Non aveva nemmeno una finestra rotta.
Guardandosi in giro in un ondeggiare di veli scuri, la vecchia guardò la via, scrutandone gli angoli più bui.
Tutto deserto, nessun’anima in giro. Solo stolti Babbani incapaci di pizzicare due corde, pensò.
La vecchia megera oltrepassò il cancello cigolante e rugginoso, salendo gli scalini polverosi e viscidi con passo claudicante, diretta verso la porta scrostata che si era appena materializzata.
La vecchia puntò una stecca di legno al batacchio a forma di serpente d’argento. Si udì una serie di gemiti ferrosi, antichi ingranaggi mettersi in moto e infine lo stridio di una catena.
Con un cigolio, la porta si aprì.


“Voleva uccidermi” esordì Mundungus in un rantolo.
Si passò una mano tra i capelli rossicci ed incrostati, alla ricerca delle forcine con cui aveva fissato la parrucca dai lunghi capelli verdi e i veli per nascondersi il volto graffiato.
Non si era mai troppo prudenti. Soprattutto con un Mangiamorte alle calcagna.
“Un minuto me ne sto tranquillo a fumare e quello dopo, quell’infame di un Ghoul, che il diavolo se lo porti, fa’ saltare la parete, Bam! E io mi ritrovo sotto le sedie per non finire sfigurato dal vetro!”
“Tutta la parete, Sir! Vetro spesso così! Ci fa’ una crepa e quello mi sorride, tutto contento… Non c’aveva il minimo problema a far saltare il muro davanti a trenta Babbani! Non gli fregava se lo vedevano, capisci? E sta’ tranquillo che il Ministero non ne ha saputo niente, perché sarà scappato, il bastardo… Se ne fregano loro della sicurezza dei cittadini come me1”
“Io, diamine, avrei potuto rispondergli, ma dannazione, eravamo in una stazione Babbana, ‘cidenti…” Mundungus scosse il capo, offeso al ricordo del nemico che lo derideva.
Sembrava seriamente provato, con i gomiti appoggiati sul duro ripiano della lunga tavola della cucina e lo sguardo vacuo.
Sirius Black lo guardò con un sorriso a metà tra il divertito e il dubbioso, prima di girarsi verso uno degli armadietti dalle ante cigolanti e recuperare una bottiglia di liquore, una di sciroppo di ribes ed un secchiello di alluminio recuperato nella ghiacciaia. Mentre Mundungus biascicava l’elenco delle sue innumerevoli disgrazie con il capo tra le mani, Sirius preparò due drink che si affrettò a far veleggiare verso il tavolo, davanti all’amico.
Alla vista del seltz galleggiante nel liquido rubino, gli occhi iniettati di sangue di Dung s’illuminarono. La sua figura curva sembrò riscuotersi, raddrizzandosi sulla sedia e assumendo un atteggiamento rilassato. Afferrò il bicchiere e ne ingurgitò un lungo sorso. Quando rimise il bicchiere sul tavolo, con il contenuto dimezzato, cominciò ad annuire, schioccando la lingua.
“Oh, mio Dio. Oh, mio Dio! Erano due giorni che me lo sognavo, Sirius. Due giorni.”
Sirius prese posto accanto a Mundungus sedendosi a capotavola, ancora sorridente. La sua faccia incavata sembrava leggermente più giovane quando lo faceva e vagamente triste.
Dung non se ne preoccupò. Ci aveva fatto l’abitudine aquella faccia e, dopotutto, Sirius era uno dei pochi che gli piaceva davvero, lì all’Ordine della Fenice. Era anche l’unico che non passava il tempo a guardarlo schifato o a giudicare su come si guadagnasse da vivere. Dung sospettava che ci fosse anche un sottofondo di stima, nella loro amicizia.
Si sfregò le mani ruvide, aggiustandosi la lunga gonna nera di pizzo. Era ancora vestito da strega, ma Sirius, abituato a quanto pareva a cose ben più strane di un vecchio amico vestito da megera, non aveva fatto commenti. Nemmeno sullo smalto che copriva lo sporco delle unghie, un dettaglio forse eccessivo, assieme al rossetto porpora con cui si era colorato le labbra secche.
Con un cenno del capo, Mundungus  indicò alcune sedie stipate in un angolo della lunga stanza cavernosa.
“C’è stata una riunione?” domandò, riafferrando il bicchiere.
Sirius guardò le sedie con sufficienza, scostandosi i capelli scuri dalla fronte aggrottata. “Se ci fosse stata saresti stato il primo ad essere chiamato, Dung. Probabilmente sei l’unica persona a cui è capitato qualcosa di interessante da qui a cinque mesi fa. Escluso Harry e i due Dissennatori, naturalmente.”
La pelle chiazzata di Mundungus si colorò di un vivace rossore: “Ah già, diamine Sir…”
Sirius lo interruppe con un cenno, e un altro ghignò solcò la sua faccia segnata: “Dovrei ancora essere arrabbiato con te per quell’incidente?Ti sei già scusato, no? E non essere sciocco, era fuor di dubbio che Harry se la sarebbe cavata.”
Sirius tamburellò le lunghe dita magre accanto al bicchiere, sollevando un po’ il capo, quasi parlando più a sé stesso che all’uomo accanto a lui.
“Tutti si preoccupano di Harry, Molly cerca persino di fargli da madre. Nessuno capisce che è perfettamente in grado di fare le cose da solo e può conoscere e sopportare quello che sappiamo noi… Che è relativamente poco.”
Sirius strinse gli occhi, lanciando uno sguardo obliquo alle sedie accatastate in attesa dell’arrivo di un’improbabile quanto inutile riunione.
“A volte penso che sarebbe meglio uscire e ad andare a stanare Voldemort e la sua allegra compagnia di mattacchioni, invece che starcene nella cucina di mia madre, a pensare a come sorvegliare al meglio il mio figlioccio.”
Mundungus annuì alle parole di Sirius, apparentemente affascinato dall’ondeggiare del liquido rubino nel bicchiere luccicante.
“Cristallo di Boemia?” domandò Dung con l’occhio socchiuso dell’intenditore.
“No, Turingia. Quello che credo, Mundungus, è che dovremo fare qualcosa di serio. Quanta gente morta dobbiamo conteggiare ancora prima di capire che forse, questo non è il modo giusto?” sbottò Sirius irritato. Sapeva che impegnarsi in una conversazione del genere con Mundungus Fletcher era un po’ una faccenda a senso unico, ma chi altri aveva con cui parlare?
Non è che a Grimmauld Place la gente venisse a frotte per fare una o due chiacchiere ogni tanto, a parte qualcuno come Dung.
Anche le riunioni avevano iniziato a diradarsi con l’arrivo dell’inverno, quasi che con il freddo, pure le azioni dell’Ordine si congelassero nell’apatia. E definirle azioni, era già di per sé un complimento troppo grande per lo svolgere compiti assolutamente passivi come la sorveglianza di una palla profetica all’ufficio Misteri e di Harry.
Soprattutto l’accanimento con cui si tendeva a cercare di sorvegliare il ragazzo, rendeva Sirius Black astioso nei confronti di Silente e delle sue decisioni. A quanto ne sapeva Sirius, ogni volta che la sorveglianza si faceva stretta attorno ad Harry o gli si imponevano restrizioni varie, il figlio di James finiva sempre coinvolto in qualche situazione pericolosa, uscendone vivo grazie al cielo, ma deludendo le aspettative di chi s’imponeva di tenerlo sotto controllo.
Harry era come James ed era in grado di cavarsela anche meglio di tanti altri, pensò Sirius.
Non aveva bisogno di un comitato di baby-sitter, mascherato da associazione contro la lotta del male assoluto.
E Silente doveva farsene una ragione.
Per proteggere i loro piani segreti -inesistenti- e le loro astuzie anti Voldemort -indefinite-  non serviva a nulla segregare lui in casa o tenere all’oscuro l’unico che avrebbe dovuto sapere tutta la verità.
Il nuovo atteggiamento del Preside di Hogwarts, indifferente e sordo alle domande, sembrava davvero rispecchiare l’impotenza in cui l’Ordine si trovava.
“Sai Sir, credo che ultimamente Silente sia uscito di senno” gorgogliò Mundungus, quasi in risposta agli amari pensieri di Sirius. L’uomo spostò il suo sguardo vacuo sul sudicio ometto accanto a lui, d’improvviso interessato. “Cosa intendi dire?”
Mundungus allungò le mani davanti a sé, afferrando il bordo del tavolo, pensieroso. Dibattendosi nella possibilità di raccontare della commissione rifilatagli dal Preside. Forse a lui poteva dirlo, no?
“Ecco, dovrei cominciare un po’ dal principio…”
Sirius sembrò spazientirsi, sbuffando irritato: “Comincia allora.”
“Non sono stato solo seguito, mi hanno anche derubato…” borbottò Dung vergognoso.
“Un paio di settimane fa sono andato da Albus e…”
Sirius si era appena portato il bicchiere alle labbra, gli occhi fissi su Mundungus, che un urlo stridulo ed infinitamente acuto scosse la casa fin dalle sue fondamenta vecchie e pietrose.
“Stupido ritratto!” borbottò Sirius levandosi di scatto e dirigendosi verso l’ingresso, ancora con il bicchiere in mano. Spari oltre gli scalini, e Dung sospirò sentendo i passi dell’amico risuonare sulla pietra del corridoio. Risuonarono due voci maschili concitate, subito coperte da una stridula di vecchia che Mundungus già conosceva: “Feccia! Sudici esseri abbietti! Vergogne della razza magica fuori da casa mia!
Mundungus si frugò nel corsetto con fare sornione, recuperando la pipa. Si sfilò la bacchetta dalla manica e l’accese, cominciando a diffondere nell’aria quell’aroma di calzini bruciati che lui solo sembrava trovare così deliziosamente inebriante. Impegnato a fumare, contemplò i vari armadi e vetrine che affollavano le pareti della stanza, facendo un rapido inventario sui bicchieri di cristallo che Sirius poteva effettivamente possedere. Il numero sembrava aggirarsi sul centinaio; provò a convertirli in cifre, in quanti galeoni ne avrebbe ricavato se li avesse venduti. Con la testa affollata dai calcoli, avvicinò la sua sedia al camino, protendendo le mani verso le fiamme calde, aspettando che Sirius facesse ritorno.
Con un’ultima tirata sui: ‘Maledetti ibridi contaminatori!’ il ritratto all’ingresso tacque. Dung si riavvicinò con la sedia al suo posto, recuperando il bicchiere e cominciando a rigirarselo tra le mani.
Due voci, fra cui quella di Sirius, cominciarono a riecheggiare nel corridoio, sostituendo quella del ritratto ma  affievolendosi man mano che i passi si avvicinavano alla cucina.
Dung non riuscì a distinguere l’altra, e nemmeno di cosa stessero discutendo, finché non sollevò lo sguardo verso il basso ingresso di pietra, dove la magra figura di Sirius era apparsa, seguita da quella altrettanto smunta di Remus Lupin.
La prima considerazione di Mundungus nel vederli insieme, così cupi e affilati, fu che l’essere membri dell’Ordine della Fenice era meglio che seguire una dieta dimagrante.
Ringraziò il cielo per essere solo un membro part-time.
Mundungus levò una mano tozza in segno di saluto, il viso nascosto da una nuvola di fumo.
“Mundungus.” Lupin si accomodò di fronte a lui con un sorriso stiracchiato, mentre Sirius si risedette a capotavola, in mezzo ai due, il camino alle spalle e lo sguardo fisso. Sembrava molto contrariato.
Lupin si affrettò a posare il mantello sulla sedia accanto a lui, congiungendo le mani.
Sete, Remus?” disse Sirius sfoderando la bacchetta ma rimanendo rigido a fissare l’estremità vuota della tavola, dall’altra parte.
“No, grazie” replicò Lupin in tono gentile. Mundungus notò che gli occhi erano un po’ ansiosi. Che diavolo succedeva?
Sirius levò comunque la bacchetta verso una delle vetrinette smerigliate, che si aprì di scatto facendo uscire due panciute bottiglie che si affrettarono a volare verso di loro, con enorme soddisfazione di Dung.
Lupin, sempre con un sorriso cordiale in volto, non commentò, ma si rivolse a Mundungus, lo sguardo interessato. “Sei stato attaccato Dung?”
Mundungus lo guardò, confuso: “Chi te l’ha detto?”
Lupin lanciò uno sguardo obliquo a Sirius, come se fosse stata tutta colpa sua. “Kingsley, stamattina. Ha sentito un contatto all’ufficio del terzo piano, uno che lavora con lui, che l’ha informato riguardo una conversazione su di te, Mundungus."
"E chi sa quando l‘avremmo saputo se non avessimo avuto questo colpo di fortuna” aggiunse palesemente infastidito, nonostante il solito viso gentile.
Sirius portò un braccio oltre lo schienale della sedia, grattandosi la tempia e facendo una smorfia.
“Non puoi farmene una colpa se non ti ho detto subito che Dung era qui. Te l'avrei detto non appena ti saresti fatto vivo.”
Lupin evitò di guardarlo e quando parlò mantenne il tono gentile, ma dal suo volto sparì ogni traccia di cordialità.
“Rinfacciarsi le colpe è un problema da poco, ma celare informazioni importanti è un guaio ben più grave.”
Questa volta l’occhiataccia fu rivolta a Mundungus e a Sirius, entrambi con il bicchiere in mano. L’unica differenza era che tra gli occhi di Sirius si era formata una piega, mentre in quelli di Dung, nascosti dal fumo della pipa, c’era solo un crescente imbarazzo. Lupin continuò a parlare, la voce leggermente alterata.
“Un membro dell’Ordine della Fenice viene attaccato da un Mangiamorte che dovrebbe avere una copertura sicura al Ministero e noi lo veniamo a sapere dopo due, tre giorni?”
Mundungus si sentì dissolvere davanti allo sguardo, ora palesemente irritato, di Lupin.
“Volevo avvisarvi non appena l’avessi… ehm… seminato…” pigolò Dung accennando alla parrucca verde, abbandonata sul tavolo di rovere. “Io… insomma, eddai. Un esplosione, Remus!
Grossa così! Per tutta Vauxhall… Cioè, che vi frega a voi se non ve lo dico subito? Tanto ce li avete i contatti, no? Avreste fatto due più due e avreste capito che…”
“Al Ministero nessuno ha parlato di un esplosione. Anzi, non se ne è parlato proprio per nulla. Solo i giornali Babbani lo hanno definito di un cedimento strutturale” disse Lupin a voce bassa, controllata ma i suoi occhi brillavano guardinghi. Mundungus scrollò le spalle. “Quindi niente mago cattivo?”
“Esatto. Per questo continuo a insistere che dobbiamo tenerci sempre allerta, sempre…”
“Che ne sapevo io che cercavate Dung?” sbottò Sirius, schiaffando il bicchiere sul tavolo. “Sono due settimane che non facciamo una … riunione” disse, storcendo la bocca disgustato pronunciando l’ultima parola.
Lupin tossì, prima di replicare in tono vagamente saccente:
“Perché questi sono gli ordini. Se succede qualcosa…” Sirius lo interruppe, scrutandolo incattivito.
“Smettila Remus. Il ruolo del capo non fa per te. Questa faccenda dello spionaggio, delle coperture e della segretezza vi sta facendo saltare il cervello a tutti quanti… Non fate niente per mesi e all’improvviso, uno di voi viene attaccato e invece di essere felici perché è riuscito a scamparla, gli date ancora addossso?”
Sirius si versò del gin, alzando le sopracciglia: “…Questa sì, che è coerenza.”
Lupin abbassò un poco il viso, arrossendo. “Non sto giocando a fare il capo… Ma devi anche ammettere, Sirius che…”
“Che l’attacco a Dung è la cosa più importante capitata in quasi cinque mesi? Sì, lo ammetto, ma invece di venir qui e fare gli allarmisti, perché non cercate di capire cosa c‘è dietro, visto che siete così bravi?” continuò Sirius acidamente, di fronte allo sguardo perplesso di Mundungus e a quello stranito di Lupin.
“Sirius, tu sei uno di noi” gli rispose, senza essere minimamente convincente. Sirius non sprecò tempo a ringhiargli addosso, ma solo a rispondere in tutta calma:
“Piacevole sapere che tu voglia farmi sentire parte del gruppo, ma io non sono uno di voi.  A parte ricoprire il ruolo dell’ospite, o del tizio che serve da bere” disse sardonico, gli occhi levati al soffitto.
“Sirius, cerca di capire. Come possiamo coinvolgerti se sei un ricercato pluriomicida? E anche esserti fatto vedere a King’s Cross è stato un errore…”
“Un errore che sto pagando ancora adesso, grazie!”
Lupin posò un braccio sul tavolo, sospirando esasperato. Aveva abbandonato i modi da capo esigente e da quelli di ragazzetto intimorito. Sirius aveva ragione, non gli si addicevano, non erano da lui. Quando parlò lo fece nel suo tono amichevole e tranquillo, cercando di calmare le acque.
“Capisco quello che stai passando. Silente…”
“Silente è un mentecatto!” borbottò Sirius tra gli sguardi allarmati di Dung e Lupin.
“Sirius, zitto, lui è ovunque!” gli occhi iniettati di sangue di Dung puntarono alla porta, quasi si aspettasse di vedere la canuta figura del Preside di Hogwarts, entrare con solennità a punire chi l’aveva offeso.
Sirius incrociò le braccia, guardandoli con occhi di sfida. “Non vi aspetterete davvero che arrivi, vero?”
Un rumore di strascicati passi lungo il corridoio li fece trasalire. I tre ammutolirono, guardandosi in faccia e poi fissandosi sull‘ingresso della cucina in attesa, mentre i passi si facevano più distinti.
“Tutta colpa tua, Sirius!” bisbigliò Lupin a mezzabocca. Mundungus aveva già alzato l’indice e lo puntava preventivamente contro Sirius, pronto a smascherare il colpevole.
“Feccia!” ululò Kreacher apparendo nel vano d’ingresso, agitando i piccoli pugni e facendo una pernacchia.
Lupin e Mundungus urlarono, e quest’ultimo cadde addirittura dalla sedia. Sirius, l’unico a mantenere la calma, puntò annoiato la bacchetta verso l’elfo domestico.
Reducto.”
L’elfo allargò le braccia. Colpito in pieno petto dall’incantesimo, volò all’indietro, sparendo alla vista.
La porta della cucina si chiuse con un tonfo sordo.
Lupin, leggermente tremante, si risedette mentre Dung, afferrata la mano che Sirius gli porgeva, si risollevò da terra, raddrizzando gonne, veli e corsetto. Recuperò la pipa in fretta, aspirando velocemente delle rapide boccate, gli occhi vaganti come palle da biliardo.
Non appena furono di nuovo tutti seduti, Sirius scoppiò in una risata simile ad un latrato, ben presto seguito da Lupin e da Mundungus. Apparentemente, bastò quello per riconciliarli.
Fu Lupin a riprendere la parola, facendosi serio.
“Allora Dung, cos’è successo?”
Mundungus, la cui risata si era ormai trasformata in tosse, si battè la mano sul petto, cercando di ritrovare il respiro. “Sono… coff!… entrati in casa mia, e dopo tre minuti, mentre me ne vado in giro per la città per capirci qualcosa, mi trovo questo figlio di cane, scusa Sir…” Sirius gli fece cenno di continuare, “… A Vauxhall, che mi guarda e mi sorride tutto contento. E diavolo se non era un Mangiamorte!!Non era uno dei soliti tizi che mi danno la caccia o uno di quelli in …ehm.. Affari con me. Comunque. Avevo controllato di non essere seguito, sempre, eppure me lo sono beccato lì davanti, capite? Puff! Dal nulla!”
Mundungus si ricacciò la pipa in bocca, sbuffando fumo come un vecchio piroscafo.
Lupin annuì lentamente: “E hai aspettato due giorni per depistarlo? Dove sei stato?”
Nella mente di Mundungus si materializzò il cassonetto dove si era rintanato nelle ultime quarantotto ore.
“Un po’ qui, un po’ là… Quello che conto è che già il primo giorno non ce l’avevo più sotto al naso, però ho preferito aspettare. Insomma, sapevo di dover venire qui alla fine, ma con un Mangiamorte nel codazzo, non credo fosse il caso” rispose Dung.
“Buona mossa, Fletcher” disse Sirius allungandogli una pacca sulla schiena. Dung mostrò i suoi denti in un sorriso molto aureo e molto sporco, prima di farsi di nuovo triste e derelitto. In realtà, stava decidendo come dire ai due del furto, cercando di suonare il più possibile preoccupato.
“L’unico problema è che mi hanno rubato tutte le Promesse.”
Sirius tossicchiò, mentre un po’ del gin che stava bevendo gli andava di traverso.
 “Cosa? Te le hanno rubate?”
Lupin guardò entrambi, interrogativo. “Promesse? Che …”
Sirius scosse la testa, rassegnato. “Remus, sei troppo fuori dall’ambiente per conoscere certi dettagli. Diglielo tu Dung, per favore.”
“Gli ordini, le commissioni…” si affrettò a spiegare Dung, gesticolando con la pipa. “Ogni tanto qualcuno mi chiede qualche articolo particolare, che so,  il cuore di un drago, polvere di ossa d’oro, robette così, costose, un po‘ introvabili nei negozi, capisci?…”
Mundungus assottigliò gli occhi, cercando le parole con cui spiegare ad un profano le sottigliezze che rendevano il suo ‘lavoro’ così entusiasmante.
“Allora, il tale che vuole l’oggetto, mi scrive il nome di quello che vuole su una pergamena, ci fa un incanto, e se io non gli recupero l’oggetto… Bhè.” Mundungus si allungò verso Remus, sornione. “Non credo che alle tue orecchie da principessina mannara piacerebbe sentire una cosa del genere.”
Remus si portò una mano alla tempia, grattandosi là dove i suoi sottili capelli castani cominciavano ad ingrigire, dubbioso più che spaventato.
“Non mi sembra un grande affare per te! Se non recuperi l’oggetto ti dovrebbe colpire una maledizione, giusto?”
Mundungus si sfregò le mani, annuendo. “Sì, ma è anche una garanzia per me. In caso il tizio che mi ha affidato la Promessa non mi paghi, la maledizione si ritorcerà su di lui. Mica scemo.”
“E il Mangiamorte che ti ha seguito a Vauxhall te le ha prese, giusto?” disse Sirius, riportando la conversazione su quello di cui dovevano davvero parlare.
Mundungus si passò la lingua sui denti, versandosi un po’ di gin e mischiandolo con il fondo di sambuca ribes. “Esatto, o almeno credo. Insomma gente, un minuto prima mi frugano nel cassetto delle mutande e quello dopo mi attaccano. Non so voi ma credo che la gentaglia che mi sta dietro sia la stessa!” disse in tono pratico. “E no, non erano commissioni importanti, ma me le hanno rubate comunque e questo vuol dire che se non le recupero e non le porto a termine, potrei ritrovarmi con le budella un po‘ fuoriposto.”
Remus aveva posato il mento sulla mano, riflettendo. Anche Sirius, con le braccia incrociate sembrava essere preso a valutare le implicazioni di quel furto.
Fu lui a fare la domanda che Dung temeva e che prima, grazie al suo troppo fidarsi, aveva quasi spiattellato a Sirius, da bravo ladro pettegolo.
“Qualcuno dell’Ordine ti ha commissionato qualcosa? Qualcosa che è segnato tra le Promesse?”
Mundungus smise di fumare la pipa, ricacciandosela nel corsetto e parlando in un falsetto stentato:
“La mia etica professionale… No. E non hanno preso nient‘altro dall‘alloggio” gorgogliò Mundungus, vedendo che Remus aveva la bocca aperta, pronto a porgergli un’altra domanda.
“Abbiamo capito, Dung” replicò Sirius ridacchiando. Mundungus ridacchiò a sua volta, tirando un immaginario sospiro di sollievo. Forse avrebbe potuto dire loro della curiosa commissione di Albus, ma aveva il sospetto che trascinare i due uomini su una diatriba sul loro attuale capo, sarebbe stato controproducente.
Dung faceva parte -in parte- dell’Ordine, ma prima di fare gli affari dell’Ordine, faceva gli affari di Dung.
E se ora stavano anche cercando di ucciderlo, era molto meglio starsene zitti e quieti senza tirare di mezzo gli affari. Il pensiero che la commissione di Silente potesse avere a che fare con la lotta a Voldemort, l’aveva scartato già in partenza. Occultare quell’informazione ai membri dell’Ordine, non avrebbe portato certo altri problemi, oltre a quelli che avevano già.
“A me piacerebbe solo sapere chi è quel bastardo, Remus” biascicò Mundungus “E riavere le mie Promesse. Potrei anche farne a meno, ma…” Lupin lo interruppe, pensieroso.
“Quello che non mi è chiaro è perché quel Mangiamorte abbia deciso di seguire proprio te. Hai forse fatto qualcosa in particolare?”
Dung scrollò il capo: “Ti pare? Ho imparato la vostra lezione da setta segreta, grazie tante.”
“Remus, credi davvero che Voldemort si intestardisca a voler seguire Mundungus? Probabilmente non saprà nemmeno che fa’ parte dell’Ordine!”
Mundungus fece una smorfia offesa: “Grazie della considerazione, eh!”
“Credo solo che sia successo qualcosa perché Rawdon Yaxley segua Mundungus, al punto dallo scoprirsi” affermò Remus sollevando le mani, quasi volesse difendersi dalle congetture sbagliate.
“Ma allora sai il suo nome!” gorgogliò Dung sorpreso “Come…”
“Ve l‘ho detto, è stato Kingsley. Il suo contatto lo ha sentito parlare riguardo ad una ‘perquisizione’” rispose laconico Lupin, passandosi una mano tra i capelli. “Indovina con chi, Sirius?”
“Malfoy, immagino.”
“Esatto. Yaxley è come lui, un altro dei redenti dopo la caduta di Voldemort” disse Lupin pacato.
“A quanto sappiamo adesso, non ha solo mantenuto le vecchie amicizie, ma anche i vecchi compiti.”
“Che fa sto’ Yaxley al Ministero, di preciso?” borbottò Mundungus sempre meno interessato alla conversazione, data la brutta piega che stava prendendo. “Cuce ratti? Segretario del Ministro? Babbione?”
Lupin corrugò la fronte, parlando piano. “La cosa strana è questa. Non è a capo di nessun ufficio, è solo un vice sovrintendente dell’Ufficio per il Controllo Edilizio Magico che a sua volta è uno degli uffici minori del Reparto Catastrofi. Strana collocazione.”
“Mi sa di Babbanata” gorgheggiò Mundungus con il gin in gola. “Non so nemmeno se un tizio del genere sia autorizzato ad entrare in casa d’altri.”
“Oh, bè, è anche un Mangiamorte, un servo del male. Credo che quello lo autorizzi” replicò ironico Sirius, di fronte all’espressione accigliata di Mundungus.
Remus estrasse la bacchetta, si alzò e si diresse al camino, riattizzando le braci e facendo veleggiare verso di sé alcuni ciocchi di legna. Le fiamme sembravano essersi dissolte da tempo.
“Ora resta solo il decidere il da farsi. Se ho ragione, e spero proprio di no,” Lupin si grattò lo zigomo, riflettendo, mentre uno ad uno faceva saltare i pezzi di legna tra le braci con delle capriole entusiaste “Qualcuno potrebbe aver scoperto che Mundungus collabora con noi e potrebbero prenderlo per ricavarne informazioni.”
Mundungus sgranò gli occhi, intimorito: “Voi non lo permetterete, vero?”
“Certo che no” disse Lupin tranquillo. “Ma sarà bene organizzare una riunione per discuterne.”
Sul viso di Sirius si allargò un ghigno. Si sfregò le mani, contento e dicendo: “Giusto, una bella missione suicida! Dov’è la nostra spia preferita?”
Remus sospirò: “Ora ricomincia. Sirius, per l’amor del cielo… Non puoi pretendere che ogni volta che abbiamo un problema,  dobbiamo ritrovarci a coinvolgere Severus per risolverlo. Potrebbe compromettere la sua copertura.”
“E chi se ne frega?” sbottò Dung ridacchiando, battendo un cinque con Sirius. Nemmeno a lui piaceva quel tizio. Metteva i brividi, e non solo per il modo in cui teneva i capelli o il costume da pipistrello.
Sirius si accarezzò il mento, divertito: “Perché, tu credi davvero che ne abbia una?”
Lupin scrollò il capo, esasperato. Se ne uscì con una frase stupida quanto banale.
“Non puoi smetterla? A Natale dovremmo essere tutti più buoni.”
“Quello è un luogo comune” disse Mundungus, allungandosi e stiracchiandosi sulla sedia.
Sirius non si ammansì. “Quando lo capirete che quell’idiota di Piton è tutto, meno che uno di noi?”
Fu Remus ad inarcare un sopracciglio. “Ah. Ora siamo tornati noi? Questa storia di Severus che ci sta tradendo…”
“Oh, quello sì che è un luogo comune” disse loro Dung grattandosi freneticamente il collo.
Sirius sghignazzò, divertito. Non faceva certo mistero della sua avversione per quell’idiota di Mocciosus, con tutte le sue sciocche vanterie sul pericolo e sull’importanza della dissimulazione. Quanto lo disgustava, averlo sotto il suo stesso tetto. Sirius pregò che stesse patendo i tormenti dell’inferno, pagando il prezzo di essere libero. Qualcosa che a lui, decisamente ed obbiettivamente meglio come essere umano rispetto a quel piccolo e sudicio pozionista, era precluso. Sirius si segnò mentalmente di studiarsi un paio di battute con cui farlo svergognare alla prossima riunione. Ne aveva già pronte un paio sulla variazione di unticcio.
Sorprendente, era un vero mago con le parole. In un’altra vita, invece di diventare -almeno agli occhi di un intero paese-  un assassino alla gogna pubblica avrebbe potuto fare il poeta.
“E anche se Severus compromettesse la sua copertura, non credi che una morte da eroe lo riempirebbe di orgoglio?” rincarò Sirius con finta indifferenza. “Mocciosus il Salvatore. Pensa a come riderebbe James.”
Il suo sorriso sarcastico divenne una smorfia, a metà tra il triste e il rabbioso.
“Perché dobbiamo sempre volgere la conversazione intorno a questo punto, Sirius?” sbottò Lupin, “Silente…”
Sirius incrociò lo sguardo sornione di Mundungus e biascicò: “Gne gne gne. Mocciosus, se sei pronto, se sei in grado… bah, personalmente penso che nemmeno Voldemort sia tanto felice di averlo nella sua banda di accoliti. Brr, ma ci pensi Dung? Quell’idiota che non sa lavarsi nemmeno i capelli…”
Mundungus sghignazzò socchiudendo gli occhi languidi, prima che la frase di Lupin non costringesse lui e Sirius a doverlo guardare in cagnesco.
“Non credo sia corretto che voi ridiate dell’igiene personale di Severus.”
Mundungus fece dardeggiare i suoi occhietti verso Lupin, facendo ondeggiare mollemente la manica di pizzo in cui aveva riposto la bacchetta. “La mia è una scelta di vita, Remus. E poi quel lugubre tizio è adulto, non c’è mica bisogno che lo difenda tu, amico.”
Remus alzò dal cielo, e Sirius colse l’occasione per ricominciare a parlare con veemenza .
“Giusto, insomma è la personalità di Mundungus, diamine!” spiegò, indicandolo: “Lui  è quello rude e selvaggio, io il bello e dannato e tu, Remus, quello mannaro e liso.”
L’ennesimo scoppio di risa coinvolse, un seppur un poco riluttante Remus Lupin che ben presto, si ritrovò a fare da ammonitore. “Prima o poi dovremmo smetterla con questa faccenda di dare addosso a Moc… Severus. Ora è parte dell‘Ordine, dovremmo comunque…”
Sirius intrecciò e mani dietro la nuca, gli occhi brillanti per il bere e per il riso.
“Dove sta la tua lealtà, Remus? La lealtà verso James? Quanto ci ha fatto penare quel piccolo sudicio ficcanaso?”
“Non è mai stata in discussione la lealtà di nessuno” replicò Lupin a bassa voce, evitando di guardare Sirius.
“Come vuoi” replicò Sirius neutro. “Però Severus puzza.”
Un sorriso molto più rilassato degli altri increspò le labbra di Lupin. Mundungus battè la mano sul tavolo, preda di un’altra risata tossicchiante.
Sirius si passò una mano sugli occhi, poi si accarezzò il mento, improvvisamente inquieto.
“Prima era davvero tutto più semplice, non è vero?” Nonostante i suoi due amici ora fossero divertiti, lui si era fatto serio e si era alzato, avvicinandosi al camino, bicchiere alla mano.
“Prima era tutto più semplice” mormorò, mentre le fiamme si rispecchiavano nei suoi occhi scuri.
“Bastava alzare la bacchetta e chi ci dava fastidio aveva la sua bella punizione.”
Lupin affondò le mani nelle tasche sfilacciate dei pantaloni lisi, sospirando.
“Non eravamo proprio nel giusto, Sirius.”
Sirius contrasse gli occhi, fissando le braci pulsare, arancioni e brillanti, senza parole.
Mundungus, ancora seduto alla tavola ed intento a fissare la scarsa quantità di gin rimasta nella bottiglia, si voltò verso i due, per nulla toccato dall’amarezza della conversazione. Non gli faceva piacere vedere Sirius cupo, nonostante ultimamente lo fosse spesso. Così gli domandò, tanto per parlare:
“Che gli avete combinato a Piton, quando eravate a scuola, Sir?”
Sirius, che fino ad un momento prima era curvo di fronte al camino, si voltò di scatto, bevendo teatralmente un lungo sorso di gin. Qualche goccia d’alcool finì nel fuoco, facendolo crepitare.
“Intendi scherzi, Mundungus?” levò gli occhi al cielo, appoggiandosi il bicchiere  alla tempia.
“Difficile dirne uno. Gliene abbiamo fatti tanti, vedi, i migliori erano con James…” Sirius sorrise rievocando quei momenti in compagnia del suo migliore amico. “Non puoi immaginare cosa gli ha fatto passare.”
Remus annuì e sorrise suo malgrado. “James era un bravo ragazzo, ma quando ci si metteva… La cosa curiosa è che abbiamo sempre sospettato che lo facesse per Lily.”
Mundungus si allungò sul tavolo, recuperando l’altra bottiglia, ancora sigillata. “James non poteva essere peggio di te Sir” replicò Dung con l’ombra di sorriso. Aveva conosciuto James Potter una volta, ma quello aveva appena indossato la veste di padre amorevole e Dung, anche se non l’aveva provato sulla sua pellaccia, sapeva che non c’era niente come un figlio per far rivoltare le priorità di una persona.
Sirius soppesò il bicchiere, cupamente divertito.
“Forse non era peggio di me, ma era diverso nel modo di fare.”
All’improvviso gli occhi di Sirius baluginarono di una luce maligna e si rivolsero a Lupin.
“Quando lui e Piton sono diventati amici è stato davvero eccezionale.”

***

                                                                                
Di tutte le cose strane, curiose o inspiegabili che capitavano a Severus Piton ultimamente, il fatto di non riuscire ad avere la meglio su una studentella, apparentemente tocca e fuori dal mondo come Luna Lovegood, aveva dell’incredibile. Nonostante il suo giudizio su di lei, avesse subito innumerevoli scossoni, passando da epiteti quali ingenua, sciocca, incapace a spia manovrata da Silente a ragazza sensibile che sapeva cogliere verità che gli altri, lui compreso, non sarebbero mai riusciti nemmeno a concepire, l‘unica cosa certa era che quella ragazzina era totalmente imprevedibile.
E che gli aveva mentito.
Luna Lovegood, al di là dei suoi pazzi occhiali e di quei vacui occhi a bulbo, era in grado di vedere Lily Evans. Quella Lily che era germinata grazie alla sua immaginazione da…
Non sapeva nemmeno come definirsi. Un tempo amava dirsi innamorato, ma quale deviazione perversa aveva preso ora quel sentimento bello e sofferto?
C’era da aspettarselo, forse. Lui stesso aveva, fin dall’inizio, tentato di classificare Luna Lovegood, ricondurla in quello schema su cui si fondavano le personalità di tutti gli studenti che gli capitavano a tiro, ma no, lei no. Lei era l’unica che continuasse a sorprenderlo, apparentemente senza far nulla, a parte fargli notare quanto fossero belle ed insignificanti le stelle o riuscire a vedere qualcosa che nella realtà non avrebbe dovuto affatto esserci.
L’aveva pure colpito con un incantesimo e lui non aveva fatto nulla per impedirglielo. Non le aveva nemmeno affibbiato una punizione, a parte degli insignificanti venticinque punti.
Certo, forse quella non era stata una gran occasione per togliere punti e forse, ma solo forse, lui se l’era meritato. Non era stato forse lui, Severus, ad attaccare Luna Lovegood per primo?
Non aveva usato la bacchetta, non l’avrebbe mai fatto -escluso qualche raro caso di Potterccezione- su uno studente, ma aveva usato armi che a volte padroneggiava fin troppo bene e che spesso si rivelavano a doppio taglio. Parole, dannate parole. Quelle troppe parole spregevoli che Severus aveva il vizio di elargire con insolita facilità, l’avevano messo in situazioni orribili e dolorose ben più di una volta e ora, non dubitava che anche questa volta gli si sarebbero ritorte contro.
L’immagine della mano di Luna che si tendeva verso di lui per aiutarlo a sollevarsi dalla fanghiglia, mitigò un poco quel funesto presentimento. Era stata gentile.
E lui era stato così abietto.
Luna Lovegood era lo strumento di Silente per controllare lui, ma lei non aveva colpe, se non quella di riuscire a non farlo sentire del tutto fuori di sè.
E si trovato era così -suonava a orribile a dirsi- indifeso quando se l’era trovata vicino sulla riva, come se fosse capitata lì per caso, e allo stesso tempo come se dovesse essere lì con lui.
Severus aprì il cassetto della scrivania e vide la pergamena con il ritratto di Lily, arrotolata. Sembrava un osso. L’aveva accuratamente legata con un laccio nero e dal giorno sulla riva del lago, non l’aveva più aperta. Erano trascorsi quasi tre giorni.
In tutto quel tempo, il suo pensiero era stato fisso su Luna Lovegood, cercando di non pensare al fatto che la ragzzina fosse in grado di vedere Lily, ma a qualcosa di ben più ostico da affrontare.
Il Marchio Nero.
Severus flettè il braccio sinistro, sospirando. Forse non era così grave. Dopotutto la sua carriera di ex-Mangiamorte non era certo un segreto: maghi con il peso di meno di una generazione sulle spalle, potevano  ancora associare la sua faccia agli ex-seguaci del Signore Oscuro, con un po‘ di sforzo.
Si era salvato dai processi grazie a Silente, ma se il suo nome era lentamente caduto nel dimenticatoio era stato grazie anche alla sua stessa discrezione e al rintanarsi in fretta e furia a Hogwarts, cominciando a dare sfoggio della sua abilità di insegnante.
Ricordare a Cornelius Caramell quel dettaglio - e alla famiglia Weasley, e a Potter, e a mezza infermeria- non era stato uno dei suoi colpi migliori, ma che importava?
Almeno finché il Signore Oscuro non si fosse davvero mostrato, lui avrebbe potuto continuare ad agire indisturbato. Nessuno si sarebbe preoccupato di un ex-Mangiamorte che insegnava Pozioni ai loro figli e non avrebbero cominciato ad accorgersene, se Severus, all’improvviso non avesse iniziato a mettersi t-shirt o canotte mettendo a nudo le sue braccia rachitiche e quel tatuaggio infamante.
E lui era ben lungi dal farlo.
Tra i Serpeverde la cosa era certo risaputa. L’arroganza di Draco l’aveva certo spinto a rivelare dettagli abbastanza scomodi sulla scena pubblica ma determinati nella Casa verde e argento.
Sciocco ragazzino, pensò Severus, passandosi una mano sulla fronte aggrottata.
E poi c’era Potter, naturalmente, con i suoi amichetti. E a voler essere proprio precisi c’erano tutti i figli dei maghi a Hogwarts, e gli insegnanti stessi… tutti loro dovevano essere a conoscenza del passato di Severus, anche se Severus stesso, con la sua idea di essere un uomo che doveva mantenersi in ombra, o almeno sotto quella di Albus Silente, era dell’idea che se ne fossero dimenticati.
Come se lui non fosse rilevante nel grande schema delle cose, se mai ve ne era uno.
Lei è uno di loro?
Quella domanda gli tornò alla memoria e distrusse tutte le accurate spiegazioni di Severus.
Luna Lovegood non aveva mai saputo che lui era - perché per certi aspetti doveva esserlo ancora- un Mangiamorte.
Anzi, forse non l’aveva nemmeno mai sospettato, persa nel suo mondo popolato da animali inesistenti e visto attraverso lenti caleidoscopiche.
Severus allungò la mano verso la pergamena, afferrandola lentamente e soppesandola tra le dita, senza il coraggio di aprirla.
Anche se Luna Lovegood avesse parlato del Marchio, non sarebbe cambiato nulla. Non doveva preoccuparsi.
Molta gente ne era già a conoscenza e anche chi non lo fosse stato, avrebbe potuto tirare in ballo altri esempi che di certo non si nascondevano in ruoli di terza fila.
Lucius Malfoy era uno di loro e sicuramente non se ne stava in un’aula umida, attorniato da mocciosi a spiegare i poteri del salnitro pestato.
Però erano tre giorni che lui stava attento ad ogni singola chioma biondo platino che passava per i corridoi o che spiccava tra le teste dei Corvonero, nel tentativo di beccare Luna Lovegood.
Aveva avuto ben due lezioni con il quarto anno e con la classe di Luna, ma l’unica cosa che era riuscito a fare, era stato avvicinarsi con circospezione al tavolo dove la ragazzina lavorava in solitudine, senza riuscire a trovare nemmeno una scusa per punirla e costringerla a venire nel suo ufficio per chiarire quello spiacevole equivoco che pesava sullo stomaco di Severus come un vero e proprio malessere fisico.
Non gli piacevano i malintesi, le situazioni incerte. Non quando era lui a subirne le complicazioni. Dal malinteso si genera l’errore e la natura perfezionista e precisa di Severus, così prevedibile, così razionale, non li tollerava. Passò un dito sul nodo che teneva chiuso il rotolo di pergamena, ma ancora non lo disfò.
Voleva davvero chiarire la sua posizione con Luna Lovegood. La sentiva quasi come una disperata necessità.
Severus si alzò dalla sedia e andò verso la finestra. Il tardo pomeriggio aveva portato altri fiocchi di neve, preceduti da una pioggia leggera.
Novembre scivolava in dicembre, in modo tanto impercettibile che presto sarebbe ricominciata l’estate e lui nemmeno se ne sarebbe accorto…
Da quella finestra non riusciva a vedere la riva dove si era trovato con Luna, ma solo una piccola porzione di lago color ferro e grumi scuri di vegetazione.
Le era davvero corso dietro? Il pensiero lo imbarazzò. Come gli era venuto in mente?
Rivide gli occhi di Luna e la delusione che le aveva offuscato le iridi. Severus sapeva che adesso, poteva giudicare quell’inseguimento forsennato come un errore deplorevole, ma nello sguardo amareggiato di Luna Lovegood c’erano tutte le giustificazioni del mondo e se avesse voluto avrebbe potuto riconoscersi dalla parte giusta. Qualunque essa fosse.
Severus strinse la presa attorno alla pergamena disegnata. Era meglio metterla al sicuro, non stare a contemplarla. Si avvicinò ad uno degli armadietti bassi dove aveva riposto le cose di Luna, come in una speranzosa attesa che la loro proprietaria tornasse a prenderli. Non aveva nemmeno restituito  Vedere quello che non c’è. La molteplice multiforme essenza dell’arte illusoria in biblioteca. Severus cominciò a scostare il libro di Trasfigurazione di Luna e la copia datata del Cavillo, recuperando i fogli svolazzanti del blocco da disegno.
Per puro sfizio, riprese a sfogliarli, studiandone particolari di ognuno. Era rimasto colpito da quello in cui Luna si era ritratta con gli occhi di una grandezza normale, come se sapesse che in qualche modo quegli occhi lunari e nebulosi la rendessero più svitata o quantomeno diversa.
Forse anche lui avrebbe potuto provare a disegnarsi con un naso diverso, invece che con quell’imbarazzante appendice adunca. Forse sarebbe apparso meno arcigno, meno brutto. Più normale.
Prese i due disegni del suo nuovo alloggio, osservandoli minuziosamente. Benchè Luna si fosse limitata ad usare acquarelli tenui ed inchiostri, era riuscita a rendere in pochi tratti tutto quello che si trovava nell’ufficio di Piton, persino le ombre degli oggetti e le crepe nei muri. Aveva anche rappresentato correttamente i disegni a filo di piombo alle finestre, notò Severus ammirato suo malgrado.
I contorni di quei due scorci sfumavano in un bianco azzurro che man mano si diradava verso i bordi del foglio. Severus Piton non era mai stato in grado di apprezzare molto la bellezza.
Aveva uno spettro molto limitato in quel campo, ma la precisione di quel disegno non era solo degna di ammirazione, ma anche di sinceri complimenti.
Desiderò che Luna Lovegood fosse lì per complimentarsi, solo per quello. E al diavolo Silente.
Erano giorni che il Preside non si faceva vedere a scuola, impegnato chissà dove. Piton era quasi sicuro che lo facesse apposta, ad evitarlo, il maledetto.
Non che adesso gli dispiacesse. Stava cominciando ad abbandonare, almeno per un po', il progetto di dire al lungimirante Albus che lui rinunciava al progetto di custodia di Luna Lovegood - anche perché cominciava ad avere sempre più il sospetto che in realtà fosse il contrario-.
La sensazione di essere diventato un mistero da svelare per gli occhi bulbosi della platinata, metteva Severus al centro di dubbi e congetture. Da un lato era lieto perché, oltre ad aver fatto ritrovare un po’ di lucidità a lui stesso, Luna dimostrava di essere umana e non solo quando l’aveva vista maltrattata da quella orrida Umbridge.
Per contro, Luna Lovegood non poteva giocare al detective di spiriti o chi sa cosa sarebbe successo. Non aveva idee precise in merito, ma data la stella sfortunata sotto cui era nato, non poteva certo trattarsi di nulla di buono.
Severus Piton si rialzò, ma non mise il disegno di Lily nello stipetto. Cominciò a rigirarselo tra le mani, misurando a grandi passi la stanza, gli occhi cupi rivolti a terra.
Se la Lovegood non avesse visto il Marchio sarebbe stato tutto a posto. Avrebbe potuto sfruttare il suo…
Bhè, per qualche ragione contorta e noto solo a lei, Luna Lovegood all’inizio non l’aveva giudicato come patetico o odioso, quindi sarebbe stato facile scoprire cosa vedeva e sentiva quando Lily appariva. Forse l'aveva pure trovato simpatico, pensò Severus con un vago, dolceamaro ribrezzo.
Il guaio era che la Lovegood era anche caduta nei suoi ricordi… e se si fosse accorta che la piccola ragazza dai capelli rossi che aveva visto all’ora era quell’adolescente che seguiva lui come un’ombra?
Improbabile, ma non da escludere.
Severus si passò una mano sul viso. La testa stava cominciando a fargli male.
Perché non poteva correre alla torre dei Corvonero e prelevare Luna Lovegood di peso? O imporgli una punizione seria?
Perché sarebbe controproducente.
Luna Lovegood non ha bisogno di un altro Malfoy, di una Umbridge o di qualcun altro che la maltratti…
Lo sguardo di Piton cadde sulla pergamena che stringeva tra le dita nodose e magre.
Aveva l’impressione di essere a pochi passi dalla soluzione che avrebbe portato Luna a fidarsi di lui o almeno a parlargli.
Gli bastava solo riaverla saltellate per la stanza, anche per una sera, pensò. Qualunque cosa, purché lei gli rivelasse da quanto tempo vedeva Lily.
Qualunque cosa perché lo distraesse dalla sua stupida mania di pensare.
La parola fiducia gli lampeggiò nella mente, e lui si attaccò a quella come se fosse l’unica certezza per arrivare ad una soluzione. Come si faceva ad ottenere, a riottenere la fiducia  di qualcuno?
Severus  Piton aveva zero esperienza in quel campo, purtroppo per lui.
Si era bloccato in mezzo alla stanza, la fronte aggrottata e gli occhi infossati. Poteva farle un regalo.
Non era forse quello che fanno le persone per accompagnare le scuse, pur di non farle sembrare vuote o prolisse? Un dono. Una soluzione così semplice.
Lui era dalla parte del torto, lui avrebbe usato un dono per convincere Luna Lovegood ad ascoltarlo. Si sarebbe riguadagnato la sua fiducia e lei gli avrebbe raccontato per filo e per segno quanto reale fosse lo spirito di Lily. Perché se Luna riusciva a vederla, voleva dire che lei era reale.
Severus Piton, non si stava accorgendo che ogni progresso fatto tre giorni prima, quando Luna l’aveva buttato a terra costringendolo a realizzare che esistono cose ben più importanti che il continuare a vivere nelle illusioni, si stava sciogliendo come neve al sole.
Tornò verso l’armadietto di Luna frugando tra le sue cose con maggior cura. Forse restituirle le sue cose non era proprio un gran dono però…
Emise qualcosa di vagamente simile ad un ringhio, rimettendo libri e fogli da disegno su una delle mensole. Sarebbe stato davvero da ipocriti.
D’altra parte non poteva certo andare ad Hogsmeade o a Diagon Alley a comprare robe strane da regalare ad una quattordicenne. Avrebbe fatto una ben magra figura e la visione di sé stesso, in un negozio che non vedesse roba da pozionisti o schifezze oscure, lo metteva a disagio.
L’oscuro professor Piton non poteva certo destreggiarsi nelle compere prenatalizie come un mago capofamiglia qualunque.
Tanto più che non era capo di nessuno, e che di certo non aveva una famiglia.
Era talmente preso da queste considerazioni che si ritrovò ad allungarsi sotto all’armadietto per recuperare il disegno di Lily, rotolato là sotto e raccogliendo polvere.
Non poteva certo permettere che Luna Lovegood perdesse un altro disegno…

Disegno. Aggressione. Malfoy.
Severus si rimise in piedi ansante, le mani sulle ginocchia, il disegno di Lily ora posato al sicuro sul ripiano davanti a lui, un sorriso trionfante a distorcergli i lineamenti.
Avrebbe fatto in modo di ridare il disegno a Luna Lovegood. Il disegno a cui lei teneva tanto, talmente tanto da sfidarlo davanti alla sua porta, pensò, ricordando quella sera in cui se l’era ritrovata davanti, con i capelli colorati di rosa e turchese e lo sguardo deciso, offesa ma non piegata dall’arroganza del figlio di Lucius.
Il fatto che anche quella volta lui si fosse comportato proprio con cortesia lo fece vergognare un poco.
“Non dirmelo, limitati a sparire. Non ho proprio voglia di giocare a fare il pazzo con te….
Non ho tempo per te, Lovegood, ho molto da fare e se non sai tenere testa al signor Malfoy…”
…“Il signor Malfoy e i suoi oranghi, ma non è questo il punto. So tenergli testa da sola, grazie. A me interessa riavere il disegno…”
“Allora vattelo a riprendere, sciocca ragazzina. Non venire a piangere da me perché ti rubano le cose”
“Io non piango, ma Malfoy è uno studente della sua casa e mi chiedevo se lei avrebbe potuto aiutarmi. Tengo in particolare a quel disegno….”
“Non ne so niente, Lovegood. Torna alla tua Sala Comune. I tuoi problemi non sono affari miei.”

Ora erano affari suoi davvero. Avrebbe fatto a Luna Lovegood un dono, restituendole qualcosa a cui lei teneva. Sarebbe stato gentile e cortese.
Severus Piton sapeva quanta ipocrisia c’era in quel gesto, ma accantonò quel pensiero in un angolo. Ultimamente era stato fin troppo severo con sé stesso. Nascondere una meschinità in più, non avrebbe fatto nessuna differenza. Si meritava un po’ di tregua, un po’ di rispetto.
Tamburellandosi sul palmo della mano con la pergamena, si diresse verso l’armadio in cui aveva chiuso il Pensatoio. Girò la chiave con un groppo in gola. Non l’avrebbe usato, questa volta…  Avrebbe riposto solo accanto al bacile il disegno di Lily cosicché potesse starsene al sicuro, senza guardarlo.
La chiave scattò e le vetrinette color vetro pervinca smerigliato, si aprirono.
Lo sguardo dell’insegnante corse subito alla placida superficie lucida che baluginava nel vano scuro dell’armadio. Severus si costrinse a non tendere la mano, né a prendere la bacchetta, nonostante parte dei suoi ricordi riposasse ancora oltre quella sostanza argentea. Posò il disegno accanto al bacile e arretrò di un passo. Doveva andare a cercare Malfoy… sarebbe stato così grave tardare di un ora o due?
Aveva tutto il tempo del mondo, no? …
Ma la Lovegood forse possiede la soluzione, che senso ha aspettare?
“Fossi in te mi ci butterei dentro di corsa, Sev. Sembri una falena intorpidita dalle fiamme.”
Severus Piton non si voltò, ma rimase a braccia incrociate davanti al bacile di pietra. “Lily.”
“Non è educato dare la schiena alle persone, Sev. Fossi in te mi girerei quando ti parlano. Soprattutto se sono io a farlo” disse lei con voce velata.
Severus, con un brutto nervo pulsante sulla tempia, si voltò lentamente. Nella grande stanza circolare non c’era nessuno. Tantomeno Lily. Fece due passi verso il centro, verso gli scalini del rialzo in pietra, ma solo il suono dei suoi passi echeggiò tra le pareti e sul soffitto.
“Dove sei?” disse voltandosi di scatto, il mantello ondeggiante. “Lily, dove sei?”
Si udì un fruscio vicino al caminetto e Severus vide le fiamme, rosse e vive attaccare i ciocchi di legna secca. Si accorse anche di aver la bacchetta in mano, puntata verso quel rettangolo annerito dove ora germogliava il fuoco. “Sei stata tu?” domandò con calma alla stanza, apparentemente deserta.
“Oh, hai fatto tutto da solo, non allarmarti. Avevo un po’ di freddo, tutto qui.”
Severus si girò di nuovo, verso l’armadio dove aveva stipato il Pensatoio. Lily era lì, appoggiata ad una delle ante, tra le mani la pergamena con il disegno di Luna, quella che la ritraeva, intenta ad osservarla.
Il suo sguardo era freddo e distaccato. Non sembrava particolarmente colpita nel vedersi ritratta o nel venire a sapere che qualcun altro, oltre a Severus, aveva la facoltà di vederla.
“Questi occhi sono troppo cattivi per essere i miei. Non trovi, Sev?” Lily gli lanciò un‘occhiata carica di perfidia, esattamente come  quella con cui Luna l’aveva disegnata.
Solo il sorriso cortese costituiva una variazione a ciò che la Corvonero aveva tracciato sulla pergamena.
Lily arrotolò la pergamena con malagrazia, stropicciandone i bordi. Con quella stessa mano si scostò le lunghe ciocche rosse oltre le spalle, prima di rimettersi appoggiata alla vetrinetta a braccia incrociate e il volto cupo.
“Faresti bene ad andartene un po’ nel Pensatoio, Sev” sibilò. “Ti vedo alquanto deperito. Startene troppo nel mondo reale ad annoiarti, ti ucciderà.”
Piton distolse lo sguardo. Per la prima volta riuscì a vedere quanto quella creatura fosse ripugnante. Aveva perso ogni tratto della personalità di Lily e persino l’attrazione che aveva provato per lei,
le altre volte che gli era apparsa, anche nel sogno del funerale, sembrava essersi volatilizzata. Pregò che non fosse solo una cosa temporanea; voleva sbarazzarsi di lei e ora non aveva tempo per stare lì a farsi umiliare, doveva andare da Draco a prendere il disegno.
“Ti conviene ascoltare le mie parole, invece che sentirti disgustato.”
Lily ora era davanti a lui, le braccia lungo ai fianchi.
“Per favore, non comportarti così” gli disse in tono di supplica, gli occhi imploranti. Severus fece un passo indietro, molto lentamente, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei.
“Oggi non ho voglia di stare con te” disse a voce bassa.
“Eppure fino ad un po’ di tempo fa’ gongolavi all’idea di potermi chiamare a tuo piacimento, non è così? Perché non ti va mai bene nulla Severus? Sei un vecchio sciocco e sentimentale.”
Lily gli sorrise con indulgenza. “Hai trovato qualcuno che è meglio di me?”
Severus la squadrò con i suoi occhi color pece. “Può darsi” rispose vago.
“Non mentirmi. Sai che non ti credo e che non ti crederei mai.” Lily fece un passo nella sua direzione, abbattendo la distanza tra loro. “Adesso mi troverai anche repellente e fastidiosa, ma presto ti accorgerai che non hai  nessun’altra ragione di vita all’infuori di me. E che tornerai strisciando” disse Lily in tono soave.
“Fossi in te non ne sarei tanto sicura” ringhiò Piton lanciandole uno sguardo obliquo.
Lily rimase sorridente, in silenzio. Una leggera piega sulla fronte, suggeriva che non era poi così dolce come voleva fargli credere.
“Presto scoprirò come farti tornare da dove sei venuta. E potrai lasciare in pace me e la memoria di Lily” disse Piton con lo sguardo colmo di risentimento. Perchè ogni volta che si impegnava a fare qualcosa lei si metteva in mezzo?
"Vattene" le disse, con la vana speranza che accadesse. Almeno quel giorno.
Lily fece una smorfia rabbiosa e si scagliò contro di lui, battendogli i piccoli pugni sul petto.
“Idiota! Idiota! Quando lo capirai? Io sono Lily! Io sono te, non puoi …”
Severus la prese per i polsi e l’allontanò da sé con fermezza. I capelli le erano ricaduti sul viso, ma non abbastanza da nascondere l’espressione d’odio che le animava i lineamenti.
“Sei solo un volgare traditore, Piton.”
Severus le lanciò uno sguardo beffardo. “E tu una seccatura.”
Lily inspirò, ma con sorpresa di Severus si limitò a riordinarsi i capelli e riordinarsi i vestiti, un poco spiegazzati. “Va’ a fare quello che devi fare Severus” gli disse, arretrando verso la vetrinetta e guardandolo fisso con i suoi occhi color smeraldo. Teneva il disegno ancora in mano, e lo stropicciava lungo i bordi con le lunghe dita eleganti. “Questo però lo tengo io.”
"Fa pure" replicò Piton sollevato. Aveva vinto?
Lily si mise davanti al Pensatoio, sempre sorridente e Piton dovette riconoscerlo, di nuovo, che era sempre bellissima.
Ma ricordò a sè stesso che fuori era Lily ma dentro era marcia. Come lui.
“Sei proprio sicuro di non volermi più Sev?” gli chiese a voce bassa. “Per te è inutile cercare di fare qualcosa, all’infuori della tua missione di espiazione. Lo sai, vero?”
Gli occhi di Lily divennero neri, luccicando come braci ardenti. Puntò il dito verso l’armadio dove Severus aveva riposto le cose di Luna, e senza accorgersene Severus ripeté lo stesso gesto.
Solo, con la mano che teneva la bacchetta. Severus sgranò gli occhi.
Incendio!” sibilò Lily, trionfante.
“Incendio” disse attonito Severus.
L’armadio con le cose di Luna Lovegood prese fuoco. I suoi disegni, la sua borsa che Severus aveva in parte riparato, i suoi disegni. Tutte le prove, dell’insolita capacità di Luna di vedere quell’allucinazione altera che ora era, per l’ennesima volta, davanti a lui, furono inghiottite dalle fiamme.
Severus avrebbe dovuto capire che ai fini di ciò che voleva chiedere alla Corvonero, quelle cose non erano poi così fondamentali.
Ma si sentì male lo stesso nel vedere le fiamme crepitare e avvolgere il mobiletto. Si accorse di non poter muoversi e di non poter nemmeno usare la bacchetta, perché Lily non lo voleva.
Solo quando al posto dell’armadietto rimase un cumulo di ceneri, Severus si accorse di poter tornare a muoversi. Allora non perse tempo. Doveva salvare l’unica prova rimasta.
L'unica che gli avrebbe ricordato che non si stava sognando tutto, che Luna sapeva.
Il ritratto di Lily, che Lily stessa tormentava tra le mani. Che cosa sciocca.
Severus Piton si lanciò contro di lei, ancora in piedi davanti alla vetrinetta, nel tentativo di bloccarla.
Ma non si scontrò affatto con il corpo caldo e rassicurante di lei, quello che aveva abbracciato in ben più di un’occasione negli ultimi giorni.
Non ci fu nessun impatto perché, questa volta, l’allucinazione di Lily era incorporea e lui si ritrovò a schiantarsi nel vano dell’armadio, proprio sopra il Pensatoio.
Il suo gomito sfiorò la superficie argentea e per la prima volta si ritrovò a scivolare nel baratro gridando e la consapevolezza che nonostante tutte le sue paranoie morali, non avrebbe voluto uscirne tanto presto, ora che aveva avuto il ‘coraggio’ di entrarci.
La risata di Lily echeggiò ancora attorno a lui, quando Severus cadde, senza provare alcun dolore, su un selciato innevato, fra un gruppo di studenti in una gelida mattina di Hogwarts.





Ciao a voi, lettori del Dono!
Brr… un ‘altra faticaccia, come direbbe Mundungus.
Ecco un paio di veloci delucidazioni e domande:
-Non trovate simpatico Sirius? ^__^
-Originariamente questo capitolo doveva essere un po’ più lungo, ma per coerenza, ho deciso di dividerlo in due parti. Volevo rendere un po’ di giustizia al ricordo di Piton invece che liquidarlo in tre righe (Questa settimana la trascorrerò tra piano carriera, birra e il suo passato probabilmente)
-Trovo la parte con Lily un po’ fiacca, ma forse è perché sta un po’ perdendo colpi. A quanto pare Severus si sta rendendo conto che c’è qualcun’altra attorno a lui … -non pensate male, mi raccomando!-
-Ho deciso di modificare il finale del ricordo in ‘Orgoglio Gorgoglio’. Era infatti un po’ improbabile che già al terzo anno i malandrini fossero già Animagi. Grazie a due o tre controlli su HP3 e HP Wikia ho visto che il tentato Pitoncidio può essere collocato sul finale del giugno del (75 o 76?) insomma, l’anno a cui risale il Peggior ricordo di Piton. Non temete, l’ho fatto per dare maggiore coerenza alla storia e non sarebbe relativamente importante ai fini della trama stessa del Dono. Anzi, al massimo giustificherà un paio di cose che all’inizio mi sembravano alquanto campate per aria.
Allora, grazie come sempre ai recensori e a coloro che mi inviano spesso e volentieri graziosi messaggi di commento!
Ci sentiamo settimana prossima -Domenica-, con il sedicesimo capitolo del Dono!

Exelle

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Capitolo 16
*** La storia del Principe Ladro ***


Capitolo sedici
La storia del Principe ladro
 
Il passato, Hogwarts, primi di dicembre
 
“Lo trovi un posto abbastanza comodo, Mocciosus?”
La risata chioccia di Peter Minus trillò argentina nell’aria rarefatta, prima di trasformarsi in una tosse simile ad uno squittio.
Al suo fianco, Sirius Black abbassò di un tanto la bacchetta. Non la mise via e non diede segno di voler attaccare di nuovo,
ma il ritmico tamburellare del suo piede sul selciato, suggeriva che non aveva del tutto abbandonato l’idea di lasciare in pace Severus, accasciato a terra.
“Perché ti intrometti sempre e comunque, Piton?” Sirius fece lanciò la bacchetta in aria  e la riprese, la lanciò e la riprese.. 
“Sei forse innamorato di Peter?” Sirius guardò in tralice Minus accompagnando l‘occhiata con un sorriso sghembo. Minus, al suo fianco arrossì e cominciò a sputare parole di disprezzo, tra le risate di qualche studente, tra i gruppetti che affollavano il chiostro nell’ala Est. Il pomeriggio freddo non sembrava aver sconfitto la voglia degli studenti di Hogwarts che volevano godersi qualche ultimo raggio di pallido sole, prima del calare della sera.
L’unico che non sembrava godersi quell’atmosfera nevosa e il colore piacevole delle finestre scintillanti di Hogwarts era, immancabilmente, Severus Piton.
Letteralmente sdraiato sul lastricato coperto di nevischio a braccia spalancate, con l’acqua gelida che gli inzuppava i vestiti
e i libri sparsi tutt’attorno, crollati dalla pila che aveva con lui mentre cadeva, a fargli da bizzarra cornice, si ritrovava a contemplare il cielo biancastro, la faccia arrossata dal freddo e dalla vergogna.
Cercava di non pensare alle decine di studenti con gli occhi fissi sulla sua disgraziata persona, perché era ovvio che lo stavano guardando, come si guarda qualcosa di disgustoso attaccato sotto ad un banco.
Sapeva che avrebbe dovuto farci l’abitudine a quello stato di cose. Ma per ora, la sua percezione era ristretta al semplice voler vedere la fine di quella tortura, al desiderio di strisciare al riparo da qualche parte a progettare una bella fattura da scagliare su Black alla primissima occasione.
A pensare ai mille modi in cui poteva ucciderlo e a quelli con cui sbarazzarsi del suo cadavere.
Severus era convinto che in una situazione alla pari, di combattimento faccia a faccia, avrebbe avuto la meglio su Black e Potter insieme e maledì la sfortuna che lo faceva sempre trovare impreparato e lo metteva perennemente nella situazione di essere attaccato alle spalle.
Cercò di sollevare un poco la testa, ma l’incantesimo che Black gli aveva scagliato lo aveva rammollito, dando al suo corpo ossuto, la struttura fisica di una patata bollita incapace di fare alcunchè.
Uno scalpiccio di passi affrettati nella neve bagnata e alcune voci sommesse riscossero Severus dal suo torpore contemplativo, riportandolo bruscamente alla realtà. Il progetto di rimanere sdraiato nella neve ad aspettare la fine della tortura sfumò, quando intuì l’identità del nuovo arrivato.
“Non è l’angelo di neve più brutto che tu abbia mai visto, James?” sogghignò Sirius all’amico che lo degnò di una lunga occhiata distratta, prima di fissarsi sulla sagoma nera e zuppa di Severus.
“Che ha fatto questa volta?” domandò James in tono piatto. “Non se ne era parlato?”
Sirius inclinò il capo, stupefatto. “Degli angeli di neve?”
“Sirius, non…” James alzò le mani in segno di resa. “Lascia perdere. Questa volta non c’entro.”
Sirius incrociò le braccia, l’attenzione del tutto catalizzata dall’espressione insofferente dell’amico. Persino Minus faceva schizzare i suoi occhi puntuti dall’uno all’altro, dimenticandosi di emettere i soliti gridolini estasiati alle prodezze di Sirius.
“Non ti ho chiesto nulla, James” sbuffò Sirius ridendo. “Di che parli?”
“Di questo” James fece un cenno con il capo in direzione di Piton che era riuscito miracolosamente a sollevare di un tanto la testa fradicia e lottava per rimettersi in piedi. Attorno a lui la folla si stava dissipando, ma molti, molti di più a dir la verità, avevano cominciato a seguire il diverbio tra Potter e Black. Era alquanto insolito trovarli in disaccordo, soprattutto davanti a così tanti testimoni e soprattutto, davanti a qualcosa che fino al giorno prima aveva messo d’accordo entrambi.
“Stai facendo l’idiota James, l’idiota” replicò Sirius a bassa voce ma ostentando un espressione divertita. Poi, con pochi passi rapidi si avvicinò a James e gli battè la mano sulla spalla.
“Ti secca perché non ti ho aspettato, vero?” affermò con un sorrisetto furbo.
James fece un passo indietro. Il braccio di Sirius rimase a penzoloni, finchè lui non si rianimò. Cominciò a grattarsi la nuca, vagamente indispettito, voltandosi di nuovo verso la figura strisciante di Severus, annichilito a terra.
“Ehi, Mocciosus, ti sei fatto un alleato! Digli quanto lo apprezzi!”
La faccia sofferente e rabbiosa di Piton si sollevò contorta, come se emergesse dalla neve. Sirius si finse immensamente inorridito e guardò spaventato James. “Richiama il tuo terrificante amichetto!”
“Non è mio amico, Sirius” rispose James a bassa voce, trattenendo quello che sembrava un sorriso.
“Inutile discuterne con te adesso. Cresci.”
Gli occhi inquieti di James si persero a studiare i gruppetti degli studenti. Ognuno di loro fece finta di guardare altrove, riprendendo qualunque cosa stessero facendo prima dell’intermezzo creato dal trambusto di Sirius.
Gli occhi di James si fissarono in particolare in un angolo del chiostro, dove gli era sembrato di intravedere una fiamma.
Del rosso danzante. Sperava che non si fosse allontanato.
Ma forse era solo la sua impressione.
“Come vuoi. Io e Peter ce ne andiamo” Sirius scoccò un occhiata furente a Peter, come se fosse lui il responsabile della brutta figura da mentecatto che stava facendo davanti a mezza Hogwarts.
James lo osservò andarsene lentamente, la mano dentro la veste, almeno finchè non fu al riparo sotto alle volte delle gallerie che circondavano il chiostro. Allora la estrasse e la puntò ancora verso Severus, il quale si ritrovò bersagliato da pesanti palle di fango e neve che lo fecero ricadere, disteso a terra.
James spalancò gli occhi e suo malgrado sorrise, ricambiando la risata simile ad un latrato di Sirius che scomparve ben presto alla vista, probabilmente diretto alla Sala Comune.
James sentì lo sguardo di diversi studenti su di lui, apparentemente intento a fissare la figura mal messa di Piton che tentava di rialzarsi. Di nuovo. 
Sembrava troppo derelitto anche solo per ingaggiare un duello, ma James lo tenne d’occhio finchè uno degli studenti che affollavano il cortile non gli si avvicinarono, mentre le voci degli altri studenti avevano ripreso a dare vita all’atmosfera rarefatta del cortile.
“Che succede con Sirius, James? Non… ”
James scosse la testa e sorrise con gentilezza a Bill Corwack e ad Angie Ducktoe, che tenendo nelle mani due copie di Creature Magiche: dove scovarle, sembravano essere sopraggiunti in quel momento.
James si grattò un poco la nuca, con fare disinvolto e simulando una noncurante alzata di spalle.
“Non succede niente. Non è un problema.”
“Meglio così” disse Angie in un sorriso, mettendosi a pochi passi da lui e lanciando un’occhiata eloquente a Bill, che la intercettò con un po’ di confusione.  “Oh. Eh? Ah, certo. James?” disse Bill.
“Sono qui” James sollevò le sopracciglia, divertito. “Cosa dovete dirmi?”
Angie, che era molto più robusta di Bill, lo scostò con una leggera spallata. “Quello che Bill vuole dirti, è che abbiamo recuperato l’autorizzazione per il campo da Quidditch per stasera. Un ultimo allenamento per le vacanze estive, ricordi?”
James, che con la coda dell’occhio aveva ripreso a guardare tra le arcate del chiostro, riportò lo sguardo sulla tracagnotta Angie, annuendo distrattamente. “Certo. Ci sarò. Alle sette?”
“Benissimo. Cerco di trovare gli altri ora e… Capitano?” disse ancora Angie poco prima di andarsene, rivolta a James.
“Mi fa’ piacere che ultimamente tu affidi a me questi incomodi, ma torna presto tra noi.”
Bill diede uno sguardo perplesso ad Angie, accennando a tirarle una gomitata, come se fosse stata irrispettosa.  
“Non fa’ niente” disse James, rivolto a Bill. “Angie, hai ragione. Ti chiedo scusa. A stasera.”
Angie annuì un ultima volta, poi seguita dall’amico allampanato, si diresse verso il portone d’ingresso.
James rimase ancora un po’ fermo, poi si avviò verso l’ingresso anche lui, mentre fiocchi di neve densa cominciavano a cadere di nuovo dal cielo. Se avesse tenuto gli occhi bassi, non l’avrebbe vista.
Mocciosus non era più a terra. Ora, era seduto sulle scale vicino al portone d’ingresso, intento a ripulire i libri dalle macchie acquose che inzuppavano le copertine, le sopracciglia arcuate in un’unica riga contrita.
Al suo fianco, Lily Evans gli dava una mano a pulire alla bell’emeglio i libri, sorridendo. Sembrava parlare del più e del meno, come se volesse far dimenticare tutto a Severus parlandogli di cose futili e sciocche. James l’avrebbe giudicato un tentativo banale, ma pian piano le sopracciglia di Piton si distesero e poté vedere un’espressione più tranquilla sui suoi brutti lineamenti.
Lily non sembrò accorgersene; continuò a chiacchierare imperterrita, e prima che James se ne rendesse conto, si ritrovò a camminare nella loro direzione, finchè non fu ai piedi dei gradini dove i due si erano seduti.
Quando si accorsero di chi si fosse messo loro davanti, Lily smise di parlare, irrigidendosi, e l’espressione di Severus tornò ombrosa e cupamente offesa. James si sentì per la prima volta a disagio. Si girò verso Lily e dovette guardarla per un silenziosissimo  e lunghissimo momento, finchè lei non sbottò acidamente: “Che vuoi?”
Oh, solo te, Evans, disse il cervello di James. Ma James costrinse il suo cervello a dire una cosa diversa.
“Scusami” disse, rivolgendosi all’arcigno Piton, poi di nuovo ad Evans. “Ci vediamo.”
Senza guardare oltre, James si allontanò da loro, salendo gli scalini e sparendo nei corridoi di Hogwarts, irti di fiaccole, senza voltarsi indietro.
Severus Piton adulto, seduto sugli scalini nevosi a fianco del sé stesso più giovane e di Lily, rimase ad osservare l’espressione del giovane sé stesso incupirsi in una smorfia interrogativa, mentre Lily, per la prima volta sembrava scivolare in una polla di silenzio pensieroso, guardando la sagoma di James sparire nel corridoio. Al suo fianco il sé stesso più giovane, non se ne accorse.
Severus si chiese dove avesse sbagliato. Forse era sempre stato in errore e lui non era mai riuscito a comprendere niente, a parte sé stesso.
E poi tutto, cominciò a sfocare, diventando azzurrino e liquefacendosi in vaporosi vortici di ricordi. 

Severus, quello adulto e vero, si senti muovere tra le nebbie grigie, che formavano sagome, contorni di ambienti e infiniti cieli. Non sarebbe uscito dal Pensatoio. Sarebbe andato solo verso un altro ricordo sconnesso, precipitando tra voci e occhi che lo guardavano, attraversati da lampi d’accusa o compassione. 
Si ritrovò nella fumosa sala d’accesso alla Torre di Grifondoro, dove man mano le cose divennero definite: gli archi delle finestre, i bagliori delle torce e il ritratto della Signora Grassa. 
Con altri sbuffi di argentee memorie, presero forma le sagome di due ragazzi  e Severus vide sé stesso tenere Lily Evans per l’avambraccio, scivolando attraverso la loro stretta. 
Vide la sua espressione e se ne rammaricò.
Era una scena che ricordava; era accaduta qualche giorno dopo l’aggressione nel chiostro. 
Quel giorno, quel momento che aveva davanti ora era… Severus ricordò. aveva aspettato Lily fino a tardi, aspettando che lei tornasse all‘ingresso della sua Sala Comune, come avevano concordato.. Avrebbe voluto di chiederle di andare ad Hogsmeade il giorno seguente, ma si era troppo arrabbiato per il suo ritardo…
“Dove sei stata?”
“Da nessuna parte, Sev. Te ne prego, lasciami il braccio. Io …” Lily si divincolò. Severus la lasciò andare, arrossendo. “Scusami, non so cosa mi è preso io…”
“Severus, non capisco. Perché devi essere…”
Il rumore di passi nel corridoio fece voltare entrambi e gli occhi di Piton s’incupirono quando James Potter si unì a loro due, alzando la mano in un vago cenno di saluto e fermandosi davanti al ritratto della Signora Grassa, che stava sventolandosi pigramente il volto con un ventaglio di lunghe piume iridescenti.
“Ehi. Piton. Evans” James si frugò nella divisa, per poi afferrare una pergamena e porgerla a Lily, con un sorriso gentile. “L’avevi dimenticata.”
“Grazie” disse Lily impassibile. Severus seguì con apprensione il passaggio della pergamena dalle mani dell’una all’altro. Fu sollevato, nel vedere che non si sfiorarono nemmeno con un centimetro di pelle.
Sapeva che era a dir poco insolito e quantomeno poco giustificabile la presenza di Potter lì, soprattutto se non attorniato dalla sua cricca.
Guardò Lily e poi Potter, trovando la forza di sibilare: “Stavo parlando con lei.”
James si girò verso di lui con un sorrisone pieno di entusiasmo che fece rabbrividire persino i polpastrelli di Piton. “Giusto. Scusami. Evans, ci vediamo nella Sala Comune.”
“Può darsi…” replicò Lily altrettanto vaga, guardandolo sparire dentro al buco del ritratto con un breve cenno di saluto.
“Perché Potter era… “ attaccò Severus, cercando di non perdere l’occasione, ma Lily lo zittì con un’occhiata.
“Sev, l’altro giorno ti ha anche chiesto scusa. Non…”
“Sì, ma perché c’eri tu, Lily. Voleva solo fare bella figura davanti a te, è lampante!” replicò Severus, accorgendosi che stava arrossendo. Ultimamente gli sembrava di dire sempre le stesse cose, ripetute all’infinito, con la stessa foga e più lui si ostinava, meno Lily lo considerava.
Anche adesso gli occhi verdi di Lily si erano ristretti a due fessure guardinghe e l’unico pensiero che attraversò la testa di Severus fu di completa incredulità. La Lily di prima non si sarebbe mai comportata così. La sua amica non l’avrebbe mai guardato così.
“Perché vuoi controllarmi, Sev? Ero con James in biblioteca, esattamente come l‘altro giorno ero al Lago con…”
Lily si fece rossa come i suoi capelli. Si morse un labbro, prima di sillabare un sommesso ‘accidenti a me’.
Il giovane Severus si sentì invadere da una fastidioso senso di delusione. Qualcosa di simile alla sensazione che si prova a venire abbandonati; la riconobbe subito, ci aveva convissuto tutta la vita.
“Sei davvero uscita con James Potter.” Non era una domanda.
Lily distolse lo sguardo, arretrando verso il ritratto della Signora Grassa.
“Sì” si limitò a rispondere, non aveva cuore di fare ancora la sgarbata con Severus, nonostante tutti i problemi che ultimamente gli causava. 
Se solo fossero stati in grado di essere solo un po’ più onesti l’una verso l’altro…
“Credevo lo odiassi” mormorò Severus con un’alzata di spalle, cercando di nascondere la sua profonda tristezza.
Rimpianse di non essere nella sua Sala Comune, mettendo leghe d’acqua nero verdastra fra lui e Lily.
Fra lui e quello che Lily era diventata.
“Bugiarda” aggiunse in un sospiro. Non era un’accusa, solo una constatazione che Lily incassò senza replicare, per una volta in cui avrebbe dovuto farlo davvero. Severus le diede le spalle, senza incrociare ulteriormente il suo sguardo furente ed aggiustandosi un poco il colletto. Si allontanò nel corridoio, sorpassando una coppia di fantasmi, intenti a guardare il nevischio aggrapparsi alle vetrate.
Sentì dei brevi passi dietro di lui, come se Lily volesse seguirlo. Ma poi i passi si fermarono e Severus non si voltò più.


 
Il passato, Hogwarts, metà dicembre
 
Severus Piton sapeva di risultare un ragazzo contorto agli occhi degli altri.
Almeno per chi si fosse preso la briga di abbassarsi  a parlare con lui.
In realtà, dentro di sé, preferiva pensare a sé stesso come un limpido stagno, dove le sue intenzioni erano cerchi netti che increspavano la superficie. Fingere di essere contorto era solo una mascherata che mirava a renderlo più interessante, ma Severus era troppo orgoglioso per accettare che quella facciata non aveva alcun successo.
L’eventualità di avvicinarla, semplicemente, e parlarle, venne spazzata via dalla mente calcolatrice di Severus. Non avrebbe trascorso il Natale da casa di Lily, quell‘anno. Era l’unica cosa che era riuscita a sibilargli, quando se l’era trovato davanti.  Severus aveva anche da poco scoperto, tramite una lettera con un curioso e burocratico nome babbano, che i suoi genitori avevano abbandonato la casa di Spinner’s End, sparendo chissà dove.  Non che ci volesse tornare, certo, ma tutto sembrava finire in vicoli ciechi ed ombrosi, in cui non poteva districarsi, né comprendere, né trovare soluzione.
Aveva bisogno di un consiglio, voleva solo un maledetto consiglio per capire che cosa avrebbe dovuto fare. Un piano.
Qualcosa per prevedere e capire Lily, per capire come proseguire.
Erano passati giorni da quando aveva lasciato Lily davanti al ritratto e ancora non aveva trovato il coraggio di avvicinarsi a lei, riprenderle a parlarle davvero. Scusarsi magari, nonostante Severus sapesse che per una volta, le scuse avrebbe dovuto esigerle lui, almeno in parte.
Occorreva un vero piano d’attacco. Severus non poteva più tollerare di ritrovare a scrutare, sopra la sua tazza di tè a colazione, la testa di Potter accanto a quella di Lily, un poco curva verso di lei ed intenta a parlarle.
Aveva pensato persino di chiedere a Sirius Black, che a quanto pareva non era propriamente entusiasta della nuova frequentazione dell’amico, di quel modo di fare pseudo adulto che l’aveva portato a rinnegare gli amici di prima.
Ma quelle erano sciocche fantasie che Severus congetturava prima di addormentarsi e che si dileguavano non appena Black faceva la sua comparsa, puntandogli la bacchetta addosso e minacciandolo di riempirlo di bubboni fluorescenti.
Fantasie, appunto.
Severus non poteva allearsi con un personaggio del genere. Sarebbe stata un’altra allucinazione contorta, un altro piano destinato a deformarsi ed ad accartocciarsi su Severus stesso.
Per quello e per la mancanza d’immaginazione, ritrovandosi senza l’unica amica, l’unica che contasse davvero, l’unica che lo apprezzasse, Severus cominciò ad immaginare quale sarebbe stata la sua mossa se avesse avuto solo un po’ di coraggio, anche solo un po’ d’iniziativa.
La risposta ai suoi dubbi e alle sue congetture, si presentò sul finire di un pomeriggio di uno sterile giovedì.
Severus sentiva di non poter studiare in biblioteca, né in un aula, né ai tavoli della Sala Grende o tra le verdi luci baluginanti della Sala Comune di Serpeverde. Non riusciva a stare calmo, e per quello si era sistemato in uno dei cortili, sotto un arco di pietra. Faceva abbastanza freddo, e l’intensità di quel gelo poteva solo aumentare, con l’approssimarsi della sera. 
Teneva il libro di Storia della magia tra le mani tremanti, appena riparate dai mezzi guanti. Il fuocherello sotto vetro che teneva in grembo era troppo debole, un riflesso della sua tensione. Severus si domandava se i sentimenti potessero influire sulla magia e, a guardare quella misera fiammella violetta, pensava proprio di sì.
‘… Ulfrich lo Schiaccione proclamò l’indipendenza della Magicissima Società dei Rabdomanti di Tangeri nel 1348. La società venne altresì definita MASORATA, dopo il convegno tenutosi l’anno successivo, alla presenza di Al-Abraihm ‘Dente Rotto’ Dahari, presidente del Consiglio d‘Amministrazione. La conferenza ebbe una durata di tre mesi, ed il  punto principale del convegno, nonché unico argomento all’ordine del giorno,  fu la sostituzione dell’acronimo MSRT, ritenuto troppo difficile da pronunciare…’
Severus lesse perplesso un altro paragrafo, sfregandosi il naso. Non avrebbe resistito ancora a lungo aleggere al freddo, tuttavia si costrinse ad arrivare alla fine della frase. Severus doveva sapere tutto.
‘… Soprattutto per Dahari Dente Rotto e le sue evidenti difficoltà di pronuncia.’ 
Severus Piton non era mai stato tanto sollevato all’idea di vedere un punto fare capolino dopo una scia di lettere. Chiuse il libro di scatto, contemplandone le pagine serrate. Avrebbe voluto che la mente di Lily fosse stata quel libro. Ci pensava da un po’ di tempo. Un libro da poter consultare, in cui venivano trascritti i suoi pensieri, le sue emozioni… Quello che faceva quando Severus non era con lei.
Severus represse un debole fremito di colpa. Non era giusto voler controllare la vita di Lily, affannarsi a farne disperatamente parte, ma che soddisfazione, sarebbe stata. 
Essere sempre un passo avanti a lei, precederla, non cadere mai in errore, prevenire e scoprire qual era il modo per tornare ad essere quello che Severus e Lily erano stati l’uno per l’altra. Per far sì che Lily tornasse Lily, per far sì che non gli preferisse Potter.
Perché a Severus ormai era fin troppo lampante. Se n’era accorto già al quarto anno, di come Potter guardava Lily…
Ma Lily era stata così scettica nel parlare, così cieca in alcune cose e troppo limpida in altre, che Severus aveva sperato e creduto che forse non se ne sarebbe accorta. Che non se ne sarebbe accorta mai.
Avrebbero trascorso i rimanenti anni ad Hogwarts nella più totale armonia, preservando la loro amicizia e quando sarebbero riusciti a terminare la scuola, bè… La prima idea di Severus sarebbe stata aprire un negozio di pozioni.
A Lily le pozioni piacevano. Piacevano a Severus, era qualcosa che condividevano.
Severus aveva scarabocchiato anche l’insegna in uno dei suoi quaderni malconci. Disegnata piccola, così piccola da sembrare un geroglifico. Un calderone traballante, con un filo di fumo a forma di punto interrogativo che saliva dalla pozione, in una voluta scherzosa. Sotto, nella sua grafia minuta e stretta, aveva scritto le loro iniziali. Doveva solo lavorare su un nome efficace per rimediare una discreta clientela, e con…
Severus aggrottò le sopracciglia, cercando di dissipare quella fantasticheria. 
Si era ormai guastata, da quando l’ombra di Potter si era affiancata a quella di Lily. E lui ora era bloccato lì, contro la pietra fredda, a fissare un libro chiuso, disperandosi perché non c’era modo, per lui, di sapere quello che Lily faceva quando non era in sua compagnia. Non c’era modo per sapere cosa James voleva da lei, davvero.
Non c’era modo di capire le intenzioni di nessuno, perché su quel piano, Severus mancava di fantasia.
Aveva iniziato a pensare che avrebbe potuto provare con la magia, quando sentì dei passi nella sua direzione. Il suo cervello si affrettò a creare l’immagine di Lily, a materializzargliela davanti agli occhi, quando si ritrovò davanti, nella scala delle improbabili improbabilità la persona più improbabile da incontrare.
“Piton” esordì James Potter. Sembrava cercasse di sorridere con forzata cortesia. A Severus sembrò solo una variante del suo ghigno saccente. Fece scivolare il libro tra le ginocchia, portandosi una mano dentro la veste e sfilando la bacchetta.
Nel farlo torse un poco il petto rachitico, e il barattolo che custodiva la fiamma riscaldante cadde e s’infranse sul lastricato. La fiamma brillò ancora per qualche attimo, poi una folata di vento la spense.
“Scarso” commentò Potter, alzando le mani in segno di resa. Severus cercò di leggere della derisione, mischiata a quel tono sospettosamente gentile, ma non ne trovò. La cosa era ancor più preoccupante.
“Devo parlare con te.”
Severus  gli lanciò uno sguardo acido e non rispose. Strinse la bacchetta mentre si preparava ad attaccare, guardandosi un poco intorno per vedere se Potter era compagnia dei suoi amichetti, tenendo le spalle ancorate al muro freddo per evitare brutte sorprese. Potter continuò ad osservarlo, l’espressione tranquilla, ma pur sempre ridanciana, senza fare alcun gesto, ne diede segno di voler prendere la sua bacchetta. Quando aprì la bocca per parlare, Severus si chiese che incantesimo ne sarebbe uscito.
“Tu sei amico di Evans.”
Severus, spiazzato, allentò la presa sulla bacchetta. Sentì solo un fiotto d’odio scivolargli fra le viscere, avvelenandogli il cuore già abbastanza saturo di cattiveria e disprezzo per quel viscido noncurante che aveva davanti.
Perciò continuò a rimanere zitto, fissandolo con quanto più disprezzo poteva. 
“Tu sai che cosa le piace, immagino” mormorò James in tono distratto, le mani nelle tasche della veste. Poi, James fece spuntare un altro paio di denti nel suo sorriso già inverosimilmente esteso e compiaciuto. 
“Vorrei farle un regalo. Arriva Natale, hai presente?” 
Se tu sparissi sarebbe il regalo migliore di sempre, rifletté Piton, ma rimase in silenzio, cercando di mantenere la sua faccia impassibile, chiedendosi che cosa avesse fatto di male.
Non si fidava di Potter, non si sarebbe fidato mai, nonostante avesse visto che negli ultimi giorni si fosse distanziato da Black. Almeno un po’. Severus non ci sarebbe mai cascato, voleva solo arrivare a Lily.
Rimasero in silenzio alcuni minuti, a fissarsi in cagnesco, almeno da parte di Piton, perché James sembrava stranamente a suo agio.
“Capisco, immagino che dovrò leggerle nella mente” disse James Potter, infine. Severus per la prima volta aveva vinto, stando in silenzio. “Bè. Bella conversazione. Passa un buon Natale. Ovunque tu vada.”
Severus lo guardò allontanarsi con passo flemmatico, così come era arrivato. Gli puntò la bacchetta tra le scapole, la mano bluastra per il freddo. Si era quasi deciso a colpirlo, quando lo vide svoltare l’angolo e sparire.



 
Era stato così che era cominciata.
L’ossessione dei ricordi. Inconsapevolmente, era stato proprio Potter a dargli la spinta giusta.
Severus non poteva capire e controllare Lily. Non poteva prevedere le mosse di Potter. Ma era un mago, e nella sua ingenua e ottimistica visione, Severus sapeva che la magia poteva fare tutto. La magia, gli aveva dato Lily.
Così, quando la scuola si era svuotata, in quei giorni d’inverno, gli era occorso poco tempo per capire cosa avrebbe dovuto fare, leggendo qualche libro confuso e, a chi chiedere consiglio, se non a qualcuno che era stato uno studente brillante e capace, qualcuno che l’avrebbe aiutato a definire la natura stessa del suo desiderio, di quello che avrebbe dovuto fare?
Era stato Lucius Malfoy a spiegargli come prendere i ricordi. Quello che era un Pensatoio, a cosa serviva.
E così Severus, in un lungo pomeriggio d’inverno, con l’oscurità che avanzava sulle vie di Hogsmeade, ne era stato folgorato. Malfoy non aveva fatto domande, anzi. Si era limitato ad incoraggiarlo, in qualunque cosa volesse fare, perché se Piton era così intraprendente e Malfoy, Malfoy lo capiva.
Avrebbe solo potuto aiutarlo in ciò che stava per succedere fuori da Hogwarts, più avanti. Qualcosa di grande.
Aveva avuto tutto il resto di dicembre per prepararsi, Severus.
Aveva preparato del Veritaserum da rifilare a Gazza e non ci era voluto molto a trovare il modo per interrogarlo, con una domanda casuale, mentre era impegnato a lucidare le armature. Gazza non schifava del tutto Piton. Forse perché lo trovava più miserabile di sé stesso. Piton lo odiava e non si era posto alcun problema nell’ingannarlo. Gazza gli aveva risposto subito dove avrebbe potuto trovare un Pensatoio. C’era uno sgabuzzino, su al settimo piano, da qualche parte lì in giro.
Gazza ci portava i mobili vecchi, perché quello era un Pensatoio, no? Un vecchio mobile, gliel'aveva detto Silente…
Piton era stato così entusiasta da correrci subito, ma ciò aveva reso solo la delusione più cocente, quando aveva visto le pareti di pietra desolata e muta. Ma non si era dato per vinto. L’aveva percorso trafelato, avanti e indietro, avanti e indietro, cercando e pensando solo che doveva aver sbagliato qualcosa nel Veritaserum, perché non c’era nessuna stanza con mobili e cose nascosti, nessuna stanza in cui era nascosto un Pensatoio…
E poi la porta era apparsa, e Piton si era trovato in un altro mondo, popolato da Cose. Cose, tantissime e diversissime, dappertutto. E lì ne aveva trovato uno. Un Pensatoio, vero.
Come quello descritto da Malfoy.
Il resto dei giorni era trascorso in fretta e quando Hogwarts si era ripopolata.
Aveva rivisto Lily, ancora inavvicinabile. Severus aveva capito che non sarebbe riuscito a rubarle i ricordi.
Sarebbe stato scorretto, rubare qualcosa a Lily. Così, aveva deciso di rivolgere i suoi sforzi a Potter.
ora era con lui che Lily passava buona parte del suo tempo.
Aveva pensato che quella sarebbe stata la parte più difficile del piano. Black sembrava aver riguadagnato la sua posizione di primo piano nella vita dell’infame, ma Severus non s’era perso d’animo.
In fondo, si era dimostrato davvero brillante negli ultimi giorni. 
La soluzione, nella missione ruba i ricordi a Potter, era stato Minus. 
Severus aveva solo dovuto chiedere la collaborazione di Rosier, per rubare un po’ di Polisucco tra le scorte di Lumacorno,
le fiale che usava per le dimostrazioni. Minus era un altro abbietto e usarlo sarebbe stato solo un piacere. 
Severus sapeva quanto fosse debole. Aveva fiuto per riconoscere i deboli da schiacciare, era uno di loro.
Black e Potter erano talmente arroganti che non si sarebbero mai presi la briga di difenderlo, se non per il gusto di cogliere in flagrante Severus ed avere così il pretesto per umiliarlo. Un'ennesima volta.
E così, con le sembianze di Minus, era riuscito ad avvicinarsi a Potter, abbastanza da sfiorargli distrattamente la testa con la bacchetta, nei panni di Minus, imitando quel suo modo di fare imbranato e avventato, facendo finta di cadere, colpendolo accidentalmente, applaudendo un poco troppo entusiasta, vicino alla tempia di James mentre lo guardava giocare con il boccino. E segregare in fiale, chiudere nella propria testa, i ricordi di Potter.
Severus era riuscito a prendere il primo ricordo, mentre Potter era sovrappensiero, intento a fissare chissà cosa.
Il ricordo era un giorno di novembre, la sponda del lago nero. Lily.
Lily che scappava, spaventata da un cane nero, un cane nero che era Black. 
Se Piton l’avesse raccontato in giro, l’avrebbero di sicuro ammazzato.
Quel ricordo aveva fatto nascere il desiderio, il desiderio di saperne di più. Ne aveva rubati altri, dopo.
Per quasi tutto gennaio.
Momenti insignificanti. Potter che guardava Lily studiare, per esempio.
O mentre ridevano, tra Mandragole e Lattobacilli ad Erbologia.
Momenti di lucidità. Black che chiedeva a Potter perché avesse difeso Severus e Potter che gli rispondeva che così avrebbe fatto centro al cuore, perché in fondo Evans amava gli amanti dei derelitti, non i derelitti.
Black e Potter che organizzavano la messa in scena nel chiostro, l'idea di aggredire Severus. L'idea di far finata di mal sopportarsi perchè ora James aveva... una morale.
Momenti dolorosi. James che abbracciava Lily, in biblioteca. Lei che arrossiva e si allontanava, un libro stretto al petto, guardandolo con occhi insolitamente brillanti.
Al riparo dal mondo, nel deposito di Cose, Severus aveva vissuto la vita che James Potter aveva. 
Fino al giorno in cui, benchè quella fosse stata solo una banale e corta sessione di giorni nel mare del tempo, Severus aveva visto ciò che non avrebbe mai voluto vedere.
Aveva visto ciò che gli aveva fatto distruggere il Pensatoio di pietra trovato nella stanza, dalla rabbia. Facendo dissipare il vapore di pensieri, vederlo sollevarsi come polvere, e sentirlo finire fin dentro le sue ossa.
I ricordi di James Potter diventare davvero parte di lui, per la rabbia causata da quel ricordo.


 
Hogwarts, fine di gennaio
 
“Evans!” urlò James Potter. “Evans!”
La raggiunse correndo, giù per la discesa. Era più veloce di lei, meno impacciato e più determinato. 
Prima che potesse sgusciarle via, tese il braccio e l’afferrò per la manica della divisa, strattonandola.
Lily si girò, cercò di allontanarlo, tirargli un ceffone, ma James si ritrasse, schivandolo e accennando un mezzo sorriso.
Non voleva lasciarla andare, a costo di prendersi tutti gli schiaffi del mondo. Tutti gli schiaffi di Lily.
“Evans, per favore calmati… ” cominciò in tono ragionevole ma Lily si divincolò ancora, sbilanciandosi sul terreno ripido e sconnesso. James fu colto di sorpresa. Spalancò gli occhi, ingigantiti.
Incrociò quello di Lily che fece un verso inarticolato, a meta tra un sospiro stridente e qualcosa che avrebbe dovuto essere la parola James. Poi, entrambi, caddero in avanti ruzzolando giù. 
James sentì la bacchetta scivolargli via dalla veste, ma trattenne Lily per la stoffa della veste, provando ad afferrarla più saldamente. Si ritrovò con la faccia affondata in un cumulo di neve, le narici otturate dal freddo. Rialzandosi, starnutì. Stava davvero starnutendo neve. Incredibile.
Sentì Lily raddrizzarsi accanto a lui, dopo qualche momento. Fece lo stesso. Erano a metà del declivio, e quando James si girò verso di lei per vedere come stava, se la ritrovò proprio al fianco, così vicina che non aveva più bisogno di trattenerla.
La lasciò andare, guardandone il viso arrossato, gli occhi lucidi, i capelli scompigliati, sporcati di neve e residui di rametti. Trovarono il coraggio di guardarsi negli occhi dopo un lungo istante, i cuori martellanti e il petto che si alzava e sia abbassava velocemente.
Era come essere cristallizzati in un tempo fisso e immobile, mai trascorso, eppure già parte del passato.
Del loro passato, pensò James, perché quello era un momento che avrebbe condiviso con Lily e solo con lei, perché era lei che era lì e non poteva non pensare a niente se non al suo nome, se non al fatto che la creatura che stava guardando si chiamava Lily e oddio, era davvero Lily. E lui era sconnesso, e i suoi pensieri erano immateriali e concentrici, perché tutto aveva come centro Lily, e tutto ritornava sempre a lei.
E i suoi pensieri non avrebbero mai preso nessun’altra direzione, se non quella di lei.
James aveva l’impressione che il suo piccolo mondo stesse trattenendo il respiro insieme a lui.
“Ti amo, Evans.”
Non era vero, James lo sapeva. Forse anche Lily. Ma lui non conosceva altre parole, per definire quell’abnegazione assoluta che gli attraversava il cuore. Era amore, ma in una forma che sfuggiva alla sua scala di classificazione. E non sapeva perchè provava qualcosa del genere, sapeva solo che era Lily a farglielo provare.
Lily lo fissava imperscrutabile, la bocca socchiusa. Un fiocco di neve intrappolato tra la ragnatela di capelli rossi, poco vicino allo zigomo. Poi sorrise, le labbra appena incurvate all’insù. James la fissava, cercando di scacciare l'impulso di sfilarle via quel fiocco inopportuno. E allora, Lily lo baciò e il tempo ricominciò a correre normalmente, insieme al vento freddo, alle increspature sul lago lontano. 
Il mondo riprese a funzionare nell‘universo del Pensatoio, se mai poteva funzionare davvero, mentre Severus Piton, adulto, intento a rivivere quel ricordo, l’ultimo da lui rubato, avvertiva la sensazione che tutto si fosse rotto, e che il colpevole era lui, lui solo.
C’era un grande schema, fuori dalla sua testa. Uno schema di cui lui non poteva farne parte, perché non lo riguardava, si era fatto tagliare fuori. Era lo schema, il mondo di Lily e James che andava incominciando. Qualcosa che stava già incominciando prima che Potter inseguisse Lily fuori dal castello, per ragioni che ormai nessuno avrebbe più potuto conoscere.
Severus non credeva nel destino, nel tempo determinato, nella successione meccanica.
Ci credeva solo quando non riguardava lui, nella sua ansia di correggere, risistemare, salvare. Rimediare.
Eppure, con la scena di Potter, delle braccia di James Potter attorno a Lily, di lei che rideva, gli pareva che il destino si fosse in parte mostrato, e non era triste, non era ingiusto, perché finalmente, avvertiva qualcosa di vero, qualcosa di autentico.
“Bella scena” la voce di Lily era un paio di passi dietro a lui, come se la ragazza si fosse fermata poco dietro alle sue spalle, quasi per fargli uno scherzo. Ma c’era una Lily anche davanti a lui, quella intenta a fissare intimidita James Potter, mentre il vento le faceva ondeggiare le ciocche rosse. Era lei che sembrava vera, adesso. Severus era un intruso.
“Lo è” replicò Piton con calma.
Severus non voleva voltarsi. Sapeva che se l’avesse fatto, la Lily dietro a lui gli sarebbe apparsa in tutto e per tutto uguale a quella seduta tra la neve sul pendio e questo avrebbe distrutto…
Non avrebbe distrutto niente. Ma non l’avrebbe sopportato. Ne aveva fin troppi di ricordi metafisici, adesso.
“Perché lei può vederti?” chiese Severus ricordando all'improvviso, apparentemente al vento, ostinandosi a darle le spalle.
“Perché tu lo vuoi. Io non sono niente, senza di te” replicò con calma la voce di Lily, mentre l’altra Lily ridacchiava, dando un leggera spinta a James. La Lily dietro di lui, sembrava sapere a chi Piton si riferisse davvero.
“Perché siamo qui?” continuò Severus. In quell’universo, comprese, non poteva ottenere risposte sulla realtà in cui poteva interagire, parlando di cose che appartenevano al mondo. 
Parlare di Luna Lovegood lì, era fuori discussione. Non era caduta nelle nebbie azzurrine questa volta.
Nel Pensatoio, era meno reale di un essere umano onesto con sé stesso, pensò Piton.
“Perchè siamo qui?” ripetè.
“Perché se tu affronti i tuoi ricordi e ne cancelli le trame ancora in ombra, potrai conviverci, nasconderli o domarli, se lo vorrai… ” Lily sembrò fare una pausa, prima di aggiungere:
“Perché così Sev, sarai tu il padrone del tuo passato e non il contrario. Capire è il primo passo per accettare e accettando, saprai come vivere. Andando avanti. Basta, guardare indietro.”
“Come faccio se sei tu a dirmelo? Proprio tu?” Severus strinse le mani a pugno, ingobbendosi su sé stesso, scrutando con autentica felicità eppure perdita, la figura di Lily e quel futuro che le era appartenuto, quel futuro che lui aveva distrutto, quel futuro che era cominciato con James Potter, in quel lontano giorno di gennaio.
“Tu appartieni al passato” mormorò amaro. “Appartieni a chissà quale inferno, ciò che dici non può essere giusto.”
“L’inferno non esiste, Severus” disse Lily, la voce sempre più fioca. “Si va solo… oltre.”
Piton abbassò un poco il capo, sentendosi sconfitto eppure felice, perché sapeva che tutto il viaggio, per quel giorno, stava per giungere al termine. Il cielo lattiginoso si stava rapidamente incrinando tra volute azzurrine e sempre più dense, e il paesaggio scoloriva, sciogliendosi in tonalità pallide e rarefatte.
Il mondo del Pensatoio diventava sempre più stinto, privo di dettagli veri.
“Portami a casa” le disse, anche se nemmeno lui sapeva cosa in realtà volesse dire.
E Lily, quella dietro di lui, di cui aveva sentito solo la voce, lo fece.
 



Hogwarts, il presente
 
Se Lucius Malfoy fosse spaventato, o insospettito, o anche solo incuriosito dal vedere Severus Piton materializzarsi tra le ante semi-aperte di uno degli armadi del suo nuovo studio, non lo diede a vedere. 
Era l’imbrunire. Doveva aver passato fin troppo tempo tra i vapori argentei che racchiudevano i suoi ricordi.
Non lo rimpiangeva. Severus si accorse subito del Mangiamorte seduto in prossimità della sua scrivania, intento a sfogliare un libro malconcio. Il suo registro. Forse cercava qualche annotazione su Draco.
Se era così, non ne avrebbe trovate, a parte qualche voto mediocre, ingentilito da un più.
Severus lo fissò negli occhi grigi, mettendosi compostamente in piedi. Era una bizzarra casualità.
Poi pensò che bizzarra era più una parola da Lovegood, e allora deformò il suo pensiero in era una funerea casualità.
“Lucius.”
“Severus.”
Piton abbassò lo sguardo, facendo un passo in avanti ed immobilizzandosi. Si ritrovò a scrutare negli occhi inquieti di Lily, quella disegnata. Si chinò, raccolse il disegnò da terra e lo ripose nella vetrinetta, badando bene a non mostrarlo più di tanto
a Malfoy, sentendo il suo sguardo sulla schiena.
“Cosa ti porta qui?” chiese bruscamente, avvicinandosi e sedendosi lentamente dall’altro lato della scrivania.
Era una domanda retorica che gli  rivolgeva tutte le volte, un rituale falso e formale.
“Affari, Piton. Non certo vedere il bizzarro arredamento che mantieni nel tuo nuovo ufficio.”
Severus vide le fredde iridi acciaio dell’uomo, indugiare un istante di troppo nella penombra, sul cumulo di ceneri annerite che era stato l’armadietto in cui aveva riposto le cose di Luna Lovegood. Aveva l’impressione, sgradevole, che la caccia al disegno perduto di Luna, quello preso da Malfoy figlio, avrebbe dovuto essere posticipata a data da destinarsi.
Contrasse un poco il muscolo vicino alla tempia, sapendo quello che lo aspettava. Malfoy era venuto di rado ad Hogwarts, dall’inizio di quell’anno. Certo, non faceva più parte del Consiglio di amministrazione da un bel po‘ di tempo, eppure contava ancora sull’appoggio di alcuni membri che non ritenevano dannoso spedirlo a Hogwarts.
Lucius accettava di buon grado. 
Non c’era miglior copertura che il benestare di un paio di vecchi e ricchi imbecilli, per spedire un Mangiamorte a Hogwarts a fornire informazioni. Perché le poche volte che era apparso fra le mura del castello, era apparso essenzialmente per quello.
“Spiegati” mormorò Severus, aggrottando le sopracciglia.
“Si dà il caso, che abbiamo un piccolo e potenzialmente dannoso problema, Piton.”
Severus arricciò le labbra in un sorriso storto. “Io non risolvo problemi. Io osservo e riferisco, Lucius. Lo sai.”
Lucius aprì le mani, a indicare una qualsiasi possibilità “Non questa volta, Severus. Non questa volta.”
Si appoggiò allo schienale, chiudendo lentamente il registro, prima di ripensarci e aprirlo ancora, apparentemente a caso. “Diciassette ottobre. Accettabile?” domandò.
“Pensavo che l’avrebbe stimolato a fare meglio.”
“Draco è mediocre. Non dargli troppe false speranze. Non ne ha bisogno, è fin troppo arrogante” Lucius rimise il registro sulla scrivania, alzando il sopracciglio.
“Pensa troppo bene di sé stesso. Sono pronto a credere che la gente veda in lui qualcosa che è del tutto assente” mormorò sovrappensiero, prima di tornare a rivolgere la sua attenzione a Severus, che lo scrutava imperturbabile.
A Piton non piaceva farsi coinvolgere negli affari dei Malfoy, qualunque essi fossero, perciò si astenne dal commentare.  
Si ritrovò tuttavia a pensare che era strano, avere davanti quello stesso uomo che da ragazzo arrogante, gli aveva spiegato il modo per appropriarsi dei ricordi altrui, in un rudimentale sistema, permettendogli di allargare quel mondo fatto di pensieri e momenti rubati. Ma non poteva più farsi coinvolgere, adesso.
“Io mi curo di ciò che riguarda l’Ordine” gli disse stancamente, interrompendone le riflessioni genitoriali.
“Appunto. Sono qui per questo. Come ti dicevo, il problema era il problema di qualcun altro, ma ora come ora, adesso è diventato tuo” replicò Malfoy mellifluo. “E’ sconfinato nel tuo… campo d'azione.”
“Cosa sarebbe questo problema?” borbottò Piton, contrariato, incrociando l’occhiata di Malfoy che sorrise con troppa cortesia, con fin troppa cordialità.
“Fletcher” sussurrò dolcemente. “Mundungus Fletcher.” 
 
 
 
Continua...
 
Angolo delle Notizie a Casaccio
 
Lo aspettavate, è??? Eh???
Non vi chiederò perdono, perché so di essere imperdonabile. 
Vi dirò solo che continuerò a scrivere il Dono. Certo, richiedo tempi lunghi, ma ho intenzione di finirlo. 
Questo capitolo forse non è granché, ma sappiate che il momento finale tra Lily e Severus nel ricordo mi ha emozionato abbastanza nello scriverlo. Tra parentesi, scivolare da una scarpata può essere pericoloso.
Ci sono più rivelazioni sub-text in questo capitolo che potrei già piazzarci la parola fine.
No, non è vero.
Naturalmente, domani potrebbe venirmi una diavolo d’idea che mi porterebbe a cambiare del tutto il corso del Dono, ma questa è un’altra faccenda. C’è ancora Mundungus al pascolo, in fondo. Le trame princiapali staranno per incrociarsi?
Ci ho messo tanto, come avrete intuito, anche perché dovevo descrivere tutto il processo di come Severus è diventato un ladro di ricordi e anche adesso la verità che ho scelto non mi soddisfa del tutto, ci sono delle cose forse poco credibili.
Sento che mi sto allontanando dai libri per scivolare nell‘assurdo. Quel pezzo in cui parlo di come si procaccia i ricordi. Già solo per descriverlo avrei dovuto fare un altro spin-off.
Alla fine ho tirato su una sintesi alla Chuck Palahniuk e tanto basta, anche se è davvero assurda. 
Sto facendo scivolare Severus&Luna in un baratro onirico e non so se risaliranno.
Mi aspetto critiche severe per questo capitolo, ma io ve lo passo lo stesso. Sono abbastanza forte da accettarle.
 
Aureen, Emily e Natalie_S, questo capitolo è per voi e per tutti quelli che mi seguono, o che hanno recensito nei mesi passati, o che hanno scritto messaggi per informarsi della mia salute o augurandomi di schiattare perchè non andavo avanti con la storia.
 
A risentirci (Ma se volete augurarmi di schiattare fatene pure a meno),
Exelle.

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