Le Cronache di Death Island

di Cheche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uccello in Gabbia ***
Capitolo 2: *** Il conte e sua figlia ***
Capitolo 3: *** Il cavallo nero ***
Capitolo 4: *** Il giorno dell'incontro ***
Capitolo 5: *** Katana vs Armonica ***
Capitolo 6: *** Avviso ***
Capitolo 7: *** La forza di cambiare ***



Capitolo 1
*** Uccello in Gabbia ***


Capitolo 1: Uccello in gabbia
 
 
 
Death Island è una grande isola nell’Oceano Sconfinato. Le sue dimensioni raggiungono quasi la notevole estensione dell’Oceanica, nell’Oceano Interno, un’isola grande quanto un continente. Death Island è molto montuosa. Il dato è ancora incerto, ma non si esclude la presenza di vulcani. Le coste dell’isola sono alte e rocciose: narra la leggenda che una principessa, per sfuggire a un matrimonio imposto dal padre, si sia gettata da una rupe sulla scogliera. Oggi quella rupe porta il nome di “Picco del Cattivo Esempio”, nome che invita principi e principesse a non agire con egoismo come fece la loro predecessora, ma a pensare prima di tutto al bene del loro regno e ad accettare il loro destino.
[F. Stein, Storia di Death Island, Frammento]
 
Il popolo di Death Island viveva, ottocento anni fa, in totale isolamento dal resto del mondo. L’unica eccezione era rappresentata da un giovane dottore, un luminare in tutti i suoi campi di ricerca, l’illustre professor Franken Stein, autore del frammento riportato sopra. Egli era curioso e avido di sapere. La maniera febbrile e ossessiva in cui cercava le risposte alle domande dell’epoca aveva fatto diffondere la diceria che il dottore non avesse tutte le rotelle al loro posto.
Visto che in quegli anni gli abitanti di Death Island ignoravano qualunque cosa del mondo esterno, Stein compiva numerosi viaggi di ricerca. Alla giovane età di trent’anni aveva già scritto numerosi trattati sui paesi stranieri, che venivano largamente consultati da chiunque avesse un minimo di curiosità su ciò che era arcano, sconosciuto (all’epoca non esisteva la stampa, quindi ad essere sfogliati e consumati erano nientemeno che gli scritti originali di Stein). Nei suoi viaggi aveva dato un nome a tutti i paesi del mondo, ignorando come li chiamassero all’estero. Per fare degli esempi, nel testo di cui sopra sono riportati dei nomi a noi sconosciuti: quello che per Stein è l’Oceanica sarebbe la nostra Australia, così come l’Oceano Interno è l’Indiano e l’Oceano Sconfinato è il Pacifico. Fu proprio Stein a inventare la prima cartina che Death Island avesse mai visto, e la sua mappa era la più completa che esistesse in tutto il mondo, sebbene fosse un po’ imprecisa (in fondo il professore aveva solo trent’anni, non aveva avuto quindi il tempo materiale per vedere bene tutto il mondo nell’insieme).
La cultura di Stein era talmente ampia che il sovrano di Death Island, Re Shinigami, l’avrebbe voluto come mentore per suo figlio, il Principe Death the Kid. Ma Stein rifiutò l’invito del Re, suscitando scalpore, incentivando la teoria della presunta follia di Stein. In realtà l’uomo era un tipo abitudinario, era legato alla sua terra natale, la Contea di Alamar, e non avrebbe mai voluto lasciarla per andare nella capitale che ospitava la reggia di Shinigami, la caotica Death City. Shinigami era un re magnanimo, e capì le ragioni di Stein.
Ma quest’ultimo fu comunque mentore della contessina di Alamar, la giovane Maka, figlia del conte Spirit Albarn di Alamar. Maka era una ragazza che amava trascorrere molto tempo a leggere. Si può dire che amasse i libri e la cultura più di ogni altra cosa. Gli insegnamenti di Stein contribuirono, negli anni, a fare di lei una giovane donna di classe, oltre che una fine poetessa. Alla giovane età di sedici anni, Maka aveva già scritto una raccolta di poesie, che circolavano in tutto il regno di Death Island, suscitando meraviglia anche nei lettori più colti e critici.
Stein era molto affezionato a Maka, anche se non sembrava: era suo mentore da appena tre anni, ma l’aveva vista crescere. Dall’acerba tredicenne introversa che era all’inizio, si era trasformata davanti ai suoi occhi in una raffinata e bella sedicenne amante della cultura e delle arti.
Oramai Maka aveva raggiunto quella che allora era l’età da marito. Il conte Spirit adorava la sua prodigiosa figliola, ed era molto geloso di lei. Fino ad allora si erano fatti avanti moltissimi pretendenti alla mano di Maka, ma Spirit li aveva respinti tutti, senza eccezione alcuna.
Maka era più contenta così. Non le erano mai piaciuti troppo gli uomini. In tutti quei pretendenti vedeva solo ipocrisia, nessun reale interesse nei confronti di Maka, ma solo bramosie di potere.
Maka era convinta che non le mancasse nulla, non le serviva affatto l’amore. Aveva cultura, fama, soldi, potere e una grande amica, la sua dama di compagnia, Tsubaki Nakatsukasa.
Questa era una ragazza di umili origini contadine. Veniva da quello che Stein chiamava l’Arcipelago di Fuoco (ovvero il Giappone), dove viveva in un piccolo podere con i suoi genitori e il fratello maggiore. Era stata notata dal conte Spirit in uno dei suoi viaggi all’estero, e lui era rimasto colpito dalla bellezza gentile, ma al contempo sensuale, della giovane. Non era un mistero che il conte fosse un gran dongiovanni e che apprezzasse particolarmente la bellezza femminile, quindi pensò ad un modo per poter ammirare la ragazza anche dopo il suo ritorno ad Alamar. Le offrì quindi di diventare la dama di compagnia della figlia, un onore veramente grande per un’umile campagnola del tredicesimo secolo.
Da una parte Tsubaki fu molto onorata dalla proposta di quell’affascinante conte straniero ed era tentata di accettare, ma era anche timorosa nel lasciare la famiglia che tanto amava. I genitori erano molto felici per la fortuna toccata alla loro figliola, e la incitavano ad accettare, anche se a malincuore, poiché loro stessi avevano difficoltà a lasciare andare la loro figlia. Il fratello Masamune invece non vedeva l’ora di liberarsi della sorella, di cui provava una certa invidia per la sua buona sorte. Quindi la incoraggiò ad andarsene, dicendole che una donna come lei in campagna è inutile, che per mandare avanti una fattoria servono le braccia forti di un uomo, e che faceva meglio ad andare con il conte: sarebbe diventata una fanciulla raffinata, avrebbe vissuto in un ambiente denso di cultura e avrebbe indossato abiti di tessuti pregiati tutti i giorni.
Le parole di Masamune convinsero Tsubaki. Lei provava molto affetto per il fratello, e credeva ingenuamente che lui avesse detto quelle cose per il suo bene. Ma nonostante tutto, Tsubaki aveva fatto la scelta giusta, se lo sentiva ancora prima di incontrare Maka e questo le fu confermato anche dopo averla incrociata per la prima volta. Le due ragazze si piacquero fin da subito e divennero amiche nel giro di un anno. Tsubaki si sentiva onorata di avere un’amica così illustre, mentre Maka era molto felice di avere un’alleata di due anni più grande.
All’inizio della nostra storia Tsubaki aveva diciotto anni. Anche lei, essendo una dama, avrebbe potuto trovare marito. Vista la sua indubbia bellezza, i corteggiatori non mancavano di certo, ma Tsubaki non si sentiva pronta a prendere marito, e per questo li rifiutava tutti.
Una sera, Maka, Tsubaki e il conte Spirit erano seduti alla tavola insieme ad alcuni ospiti illustri, tra cui Stein. I ricevimenti formali si davano quasi tutte le sere a Palazzo Albarn, e ormai anche Tsubaki ci stava facendo l’abitudine. I suoi modi diventavano sempre più raffinati di serata in serata. Da rozza contadinella quale era, si stava trasformando sempre di più in una bella donna d’alta società, seppure manteneva un contegno umile e per nulla altezzoso.
Il salone in cui si celebravano le serate era sempre la solita sala da pranzo, con la tavola imbandita lunga una quindicina di metri e posta esattamente al centro della stanza. Nella sala il soffitto di pietra era abbastanza alto da far riecheggiare le voci dei presenti nei momenti di allegria e il rumore delle stoviglie nei lunghi istanti di silenzio.
Lo spazio libero nel salone era lasciato non a caso, perché dopo la cena avveniva tradizionalmente l’esibizione dei giullari. Quella sera c’era grande attesa, perché si sarebbe esibito un nuovo, giovane artista al suo debutto. Gli astanti nutrivano grandi aspettative nei confronti del nuovo giullare, anche perché era il fratello minore del famoso Wes Evans, una vera celebrità nella contea di Alamar. Tutti erano sicuri che il fratellino non sarebbe stato da meno. In fondo, la sua era una famiglia di artisti.
“Hai sentito, signorina? Pare che stasera vedremo all’opera il nuovo giullare, il fratello minore di Wes…” Fece Tsubaki, addentando con grazia una coscia di pollo.
“Ah, si? E cos’altro sai di lui?” Chiese la contessina, non troppo interessata.
“Beh, non l’ho mai visto di persona, ma pare che abbia diciassette anni e che si chiami Soul… ehm… qualcosa.”
“Soul? Sembra un nome sciocco. Bah, comunque sia non credo potrà eguagliare la classe di Wes, e sicuramente è anche meno carino.”
“Non giudicare prima di vedere!” Ridacchiò Tsubaki, che trovava facile rimproverare la sua amica col sorriso sulle labbra.
Detto fatto, nella sala calò il silenzio. Maka si era finta disinteressata per tutto il tempo, ma ora che quel Soulqualcosa stava per fare il suo ingresso, la contessina tratteneva il respiro. Era chiaro che la curiosità le stesse rodendo il fegato, tanto che le parve di sentire una lieve fitta proprio sul fianco.
Il silenzio regnava, vero sovrano di quella stanza, schiavizzando nobili e conti che non potevano fare altro che subirlo. L’attesa era asfissiante, le aspettative soffocanti. In fondo si parlava del fratello di Wes, uno dei più grandi artisti del secolo. Mica si trattava di uno qualunque.
E così, nel silenzio più assoluto, i passi di Soul Eater Evans risuonarono sul pavimento di pietra al suo ingresso, disarmonici e pesanti.
Maka lo guardò bene. Era buffo, bassino, con quegli abiti ridicoli e bicolori e quel cappello munito di campanelli così grossi che quasi ricadevano sui capelli, candidi come quelli del fratello maggiore. Le veniva da ridere, ma si trattenne per non complicare le cose. Non guardò gli altri, ma dentro di sé Maka aveva l’intima consapevolezza che tutti provassero il suo stesso sentimento di scherno. Ma si sarebbe permessa di ridere solo dopo aver visto la sua esibizione, che già si preannunciava disastrosa.
Infatti, il giullare aveva iniziando spiccando un balzo, per arrivare così al centro della sala, ma il pesante cappello era caduto miseramente sul pavimento producendo un fastidioso tintinnio di sonagli e campanellini. Il giovane non si prese la briga di raccoglierlo.
Ma questo fu all’inizio. Quando il ragazzo estrasse dalla tasca un’armonica e cominciò a suonare, guadagnò davvero parecchi punti agli occhi di Maka. La melodia era strana, poco orecchiabile, ma bella come poche. Non la posso descrivere, tanto questa era particolare, ma voi immaginate una musica talmente meravigliosa che ogni parola su di essa sarebbe sprecata. Solo questo si può dire su quella melodia, null’altro. Non esistono parole adatte.
Finita la musica, ad un cenno impercettibile di Soul, subentrò dietro di lui Wes, con in mano una grande lira dorata. Wes era veramente bello: i suoi capelli brillavano come filamenti di platino sottili, i suoi occhi profondi erano adombrati dalla leggera piega delle lunghe ciglia, le sue labbra chiuse erano sottili e lisce, le sue meravigliose mani pizzicavano le corde della lira con le dita lunghe e bianche. Ma Maka non riusciva a guardarlo. I suoi occhi erano rapiti dal suo buffo fratellino, che si muoveva a ritmo di danza. Era un po’ fuori tempo rispetto alla musica della lira, ma la contessina rimase comunque affascinata dal suo stile. Le sue movenze non erano pesanti, eppure lui si muoveva senza rispettare il ritmo della musica, ma… caspita, se non comunicava con quel corpo! Sembrava voler mandare un messaggio agli astanti, che solo i più sensibili avrebbero potuto afferrare. La sua arte non era per tutti, insomma.
Maka analizzò a lungo i suoi movimenti. Istintivamente lo paragonò ad un uccello in gabbia. Si muoveva in uno spazio ristretto, come se avesse segnato per terra delle linee che non poteva assolutamente superare. In poche parole, la sofferenza emanata dalle sue movenze era quella di uno che si è imprigionato da solo. Era strano, ma era questa la sensazione che Maka provava guardandolo. La situazione le sembrava talmente assurda che non riusciva ad intenderlo, ma era proprio questa incomprensione a coinvolgerla. Realizzò improvvisamente: aveva voglia di conoscerlo meglio, di parlare con lui per ore. Desiderò di chiedergli la sua storia, sperando che lui avrebbe accettato di raccontargliela.
Quel Soul Eater Evans era il tassello che avrebbe completato il puzzle della sua vita.
L’aveva solo visto muoversi e Maka aveva capito: in qualche modo, aveva bisogno di lui.



Ho iniziato questa fanfiction circa un anno fa, e un anno fa ho smesso di scriverla. Per questo ero indecisa se mettere o no "incompiuta" tra gli avvertimenti, insieme a quell'AU che ci sta a pennello. Potrebbe rimanere incompiuta, oppure potrà continuare. Tutto dipende da come l'accoglieranno i lettori. Odio dipendere così dalle opinioni altrui, ma per una fanwriter alle prime armi è fondamentale!
Ho postato questo capitolo spinta da chissà quale forza oscura, e non ho neppure controllato se ci sono imprecisioni o errori nello stile. Se ci sono, vi prego di farmeli notare!
Grazie di aver letto fino a qui, commentate in tanti!

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Capitolo 2
*** Il conte e sua figlia ***


Capitolo 2: Il conte e sua figlia
 
 
 
Quando l’esibizione finì ci fu un lungo momento di silenzio. Quando succede questo, in genere qualcuno inizia ad applaudire, da solo, coinvolgendo poi anche gli altri. Effettivamente Maka fu l’unica ad applaudire all’inizio. Ma anche dopo. Solo lei batteva le mani, gli occhi lucidi di commozione. Tutti gli astanti lanciarono delle occhiate alla contessina, ma lei non li calcolò. Fu Tsubaki ad arrossire al posto suo, quasi avesse una qualche colpa.
Soul si raddrizzò dalla posizione contorta in cui aveva terminato la sua esibizione. Lanciò un’occhiata a Wes, poi al pubblico silenzioso, che lo scrutava. Alcuni volti erano indecifrabili, altri beffardi, altri ancora indignati. Soul strinse i pugni, irritato dalla mancanza di senso artistico di quella platea di nobili incompetenti. Era talmente furioso che non sentì il sincero applauso della contessina Maka. Lottò con sé stesso per non scomporsi e non aggredirli a suon di parolacce, o avrebbe potuto rimetterci la vita. Si voltò rapidamente e uscì di fretta da un portone che dava in un lungo corridoio.
Wes fece per seguirlo, ma la voce di Spirit l’aveva bloccato sul posto. Le parole del conte non nascondevano l’irritazione dovuta al penoso spettacolo di Soul, che a suo parere era decisamente un inetto.
“Fermati, Wes! Almeno tu facci divertire in questa triste serata!”
Tu vali molto di più di tuo fratelloera sottinteso, chiunque l’avrebbe capito e avrebbe concordato. Chiunque tranne Maka, ovviamente.
Wes rimase un secondo a guardare la porta a forma d’arco a sesto acuto da cui era uscito Soul, poi si voltò lentamente verso il conte, senza troppa convinzione.
“Ai vostri ordini, mio signore.”
Detto questo imbracciò la lira e ricominciò a suonare, cantando una filastrocca su una strega cattiva o qualcosa del genere. La sua voce era limpida come le acque di un laghetto di montagna. Ma, per la prima volta, Maka non riuscì a concentrarsi sulla sua musica. Ripensava a Soul, da cui non era riuscita a staccare lo sguardo fino a quando era scomparso dietro l’uscita. Decise che, finita l’esibizione di Wes, sarebbe andata a cercarlo.
Dopo circa un quarto d’ora, Wes terminò la sua esibizione, lasciando via libera a Maka. Tutti, dopo i vari applausi e i complimenti, si alzarono in piedi e cominciarono a parlare animatamente tra di loro prima di congedarsi e tornare ognuno a casa propria. La contessina fece un rapido cenno al padre che le scoccò un’occhiata confusa, quindi sgattaiolò fuori dalla stanza sfruttando la confusione.
Passata sotto l’arco a sesto acuto, Maka si ritrovò in un lungo corridoio semibuio, leggermente rischiarato dalle luci delle fiaccole attaccate al muro. Suo padre le aveva accennato che quel corridoio portava alle stanze della servitù, e le aveva anche raccomandato di non andarci mai, perché una bella e nobile signorina non avrebbe dovuto mai insudiciarsi gli occhi vedendo in che condizioni vivevano quelle ‘bestie umane’. Fino ad allora Maka non l’aveva mai fatto, ma in quel momento stava pensando che fosse un’enorme sciocchezza. E che suo padre dicesse sempre e solo sciocchezze grandi come un castello. Imprecò mentalmente contro suo padre, mentre si affrettava per il corridoio sinistro, stando attenta a non pestarsi la lunga gonna del pomposo vestito. Non sapeva neppure dove stesse andando, dove fosse mai andato quel giullare che era riuscita tanto ad incantarla.
Dopo qualche minuto si ritrovò in un altro corridoio più largo, illuminato un po’ meglio del precedente. Tra una fiaccola e l’altra v’erano delle porte di legno bruno, piuttosto pesante, con una finestrella in alto munita di sbarre di ferro arrugginite.
Maka capì che doveva essere arrivata alle stanze della servitù. Si fermò, riprendendo a respirare dopo quella lunga corsa spossante. E quando riprese a inspirare col naso, un odore nauseabondo le giunse alle narici. Di cosa sapesse quel tanfo lo lascio alla vostra immaginazione.
Maka si guardò attorno per un secondo, timorosa. Non vide nessuno. Stava per fare dietrofront per tornarsene indietro, quando una voce alle sue spalle la fece sussultare.
“Cercavate me?”
Maka si voltò lentamente, pallida in volto per lo spavento. Davanti ai suoi occhi apparve proprio quel Soul che stava cercando così affannosamente da lungo tempo. Sul viso di Maka si aprì un sorriso di pura gioia. Il giovane giullare ricambiò con un sorriso sghembo e mesto al tempo stesso. Aveva ancora indosso l’abito bicolore – rosso e verde, per la precisione -, e in mano teneva il buffo cappello coi campanelli.
“Sì, cercavo proprio voi!” Confermò Maka, il cui sorriso si era ormai allargato fino alle orecchie.
Soul si avvicinò per vederla meglio. La luce calda delle fiaccole rischiarava il suo volto. La contessina doveva ammettere che da vicino non era affatto male. Aveva occhi cremisi, intensi, resi più profondi da leggere occhiaie. I capelli erano molto simili a quelli del fratello, candidi, con riflessi arancione tenue a causa delle fiamme che rischiaravano l’ambiente. Il sorriso sghembo del ragazzo rivelava due file di denti aguzzi che Wes sembrava non avere. Aveva un volto decisamente strano, ma Maka lo trovò bellissimo.
Dal canto suo, Soul si trovava davanti una ragazza magrolina, spalle strette e collo fino. Il vestito non lasciava immaginare neppure una curva, e la lunga gonna nascondeva le gambe, che il giovane immaginò sottili e dritte come stuzzicadenti. Il volto era gradevole, per la verità. La pelle era liscia e chiara come quella di una bambina. Gli occhi, verdi e velati come i vetrini dimenticati da secoli sulle spiagge le conferivano un’espressione smarrita, che ispiravano istinti di protezione. I capelli, legati in una elegante acconciatura, erano biondi come il grano non completamente maturo, quando non è stato ancora stato tagliato e ha un colore verdastro. Il sorriso che le si era aperto quando aveva visto Soul era abbagliante, gli faceva venire voglia di coprirsi gli occhi per non rimanere accecato.
Il giovane giullare già immaginava la risposta, ma volle comunque chiedere per sicurezza. Nel porre la domanda i tratti del suo volto si indurirono, conferendogli un’espressione ostile.
“Cosa volete? Siete venuta fin qui per prendermi in giro?” La sua voce era bassa e piuttosto roca.
Maka rimase un attimo interdetta, mentre il sorriso le moriva in volto.
“No! Se avessi voluto fare una cosa del genere non avrei compiuto l’impresa titanica di venirvi a cercare fin qui!”
“Una principessina viziata, eh? Immagino siate la contessina…” Disse Soul, rilassando il volto e concedendo un sorriso alla sua interlocutrice.
“Sì… Mi chiamo Maka Albarn…” Disse lei, lievemente imbarazzata.
“Il mio nome è Soul Eater Evans, ma mi potete chiamare Soul. Allora, cosa volete?”
“Voi, piuttosto, cosa ci fate in questo posto così maleodorante?”
“Una di queste celle puzzolenti è casa mia. Al tanfo ormai mi sono abituato, non temete. Sto aspettando che la guardia venga a chiudermi dentro, ma è in sala a guardare l’esibizione di Wes…” Queste ultime parole furono pronunciate con un tono più basso rispetto a quelle iniziali. Nel nominare il nome del fratello, Soul si rabbuiò. “E voi? Non preferite andare a vedere mio fratello invece di perdere il vostro prezioso tempo con uno come me?”
Maka si sentì prudere le mani dalla voglia di tirargli uno schiaffo. Cos’era quella ridicola mancanza di autostima? Era proprio uno stupido! Si trattenne dal malmenarlo, ma un impulso improvviso le fece prendere le mani di lui, stringendole con forza.
“Stolto! Dovreste vergognarvi per quello che avete appena detto!” Strillò lei, la voce incrinata dall’ira. “Voi siete molto meglio di vostro fratello! Lasciate perdere le opinioni di quell’idiota di mio padre!”
Soul sgranò gli occhi. In realtà non era l’autostima a mancargli. La frase di prima aveva una punta di ironia canzonatoria, ma quella ragazzina sembrava non aver capito. Ma era comunque contento che almeno lei avesse recepito la sua arte. Poi però si bloccò, indurendosi di nuovo.
“Dite la verità, è uno scherzo, vero? In realtà vi state prendendo gioco di me ed ora scoppierete a ridere dicendo che ci sono cascato e che sono una frana, non è forse così?”
Maka lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Era un tipo difficile, lo immaginava, ma questo le diede fastidio più di quanto avesse immaginato. Aveva sempre avuto a che fare con tipi relativamente semplici, come ad esempio suo padre, e ora, davanti a quel Soul non sapeva bene come comportarsi.
In difficoltà, la ragazza si mise una mano sul petto, pronunciando parole solenni.
“La stima che provo per voi è sincera, lo giuro sul mio onore di contessa.”
 Soul stette un attimo a fissarla, mantenendo in volto la sua espressione truce. Poi, dopo qualche secondo il suo viso si distese nuovamente, donando a Maka un nuovo sorriso, che lei non poté fare a meno di ricambiare.
“Va bene, vi credo. Ma badate: se mi avete mentito perderete il vostro onore!” Soul terminò la frase con una risata sguaiata, che contagiò anche la contessina. Maka rideva in modo non proprio signorile.
“Potete metterci una mano sul fuoco.” Disse lei, sorridente.
Il loro momento di allegria fu bruscamente interrotto dal rumore di passi pesanti lungo il corridoio.
“Sta arrivando! Questa non ci voleva!” Disse Soul, allarmato.
“Chi?” Chiese Maka, che non capiva.
“Come chi?! La guardia no? Riconoscerei la sua camminata tra mille!” Fece Soul. “Presto, nascondetevi da qualche parte!”
“E dove?” Ringhiò Maka. “Se anche mi nascondessi, per andarmene dovrei comunque uscire allo scoperto!”
“Avete ragione!” Sbuffò Soul, esasperato. “Allora, contessa, sono lieto di annunciarvi che siete in trappola!”
“Questo non è il momento per fare dell’ironia!” Lo zittì Maka, fulminandolo con lo sguardo.
“Oh, scusatemi, mia signora!” Disse il giullare, sarcastico.
“Scemo…” Sibilò la contessina fra i denti.
Maka aveva appena finito di pronunciare quella parola che apparve nel corridoio una guardia grande e grossa, armata fino ai denti. Questa dapprima non riconobbe la giovane padrona, e fece per puntarle contro una lunga lancia. Maka impallidì vedendosi la punta metallica dell’arma così vicina al viso, e la paura la portò a balbettare.
“F…Fermo! Non vedete… Non vedete che sono la vostra contessa?” Con mano tremante andò a toccare la spilla sul vestito, posta al centro del petto.
L’uomo la scrutò con i suoi piccoli occhi rotondi e scuri, poi riconobbe lo stemma della casata Alamar sulla spilla di Maka. Immediatamente si ritrasse, abbassando la lancia. Impallidì e arrossì subito dopo, vergognandosi di sé stesso.
“S…Sono desolato, mia signora! Ecco, rinchiudo subito questo incapace nella sua cella e vi accompagno dal vostro nobile padre!” Borbottò imbarazzato, afferrando Soul dai capelli e mandandolo con poco riguardo verso la porta del suo cubicolo.
Mentre il ragazzo veniva trascinato sempre di più nell’oscurità della sua stanza, Maka lo sentì dire delle parole che suonavano tipo ‘non invidio affatto voi nobili! Dovete sempre rispettare certe regole che a me farebbero venire il voltastomaco!’. E poi aveva sentito la sua risata, ormai lontana.
A Maka veniva da ridere. E lei di certo non invidiava lui, costretto a vivere in una cella buia e puzzolente! Ogni genere umano ha i suoi problemi.
Mentre la contessina camminava nel corridoio semibuio, affiancata dalla guardia, pensava ancora a Soul. Sembrava un tipo perfettamente adattato alla sua difficile situazione, ma Maka era sicura che la realtà fosse ben diversa. Era un tipo orgoglioso, cercava di nascondere i suoi veri sentimenti, ma quelli poi venivano fuori inesorabilmente nella maniera più indiretta possibile. E osservando la sua danza, la ragazza aveva percepito distintamente una voglia di libertà che, come aveva visto poco prima, gli era totalmente reclusa. Fu così che Maka fece un giuramento a sé stessa.
Soul non merita di ricevere quel trattamento. Giuro che un giorno lo libererò dalla sua prigione.
 
Il conte Spirit batteva nervosamente il piede sul pavimento freddo, a ritmo, facendolo risuonare per la grande aula vuota. Oramai tutti se ne erano andati e nel salone principale non c’era nessuno, fatta eccezione per lui e Stein. Lo scienziato sedeva al contrario su una poltrona, sulle ginocchia, il petto appoggiato allo schienale e il mento affondato tra le braccia, gli occhi che sbucavano appena sopra di esse, sbirciando le mosse del conte senza troppa curiosità.
“Ma dove diavolo è finita Maka?! Se la prendo la chiudo a chiave nella sua stanza per una settimana!” Sbraitò Spirit, pestando il terreno con rabbia.
“Ma dai! Non potresti chiudere un occhio?” Disse Stein, che conosceva il conte da così tanto tempo da avere il diritto di dargli del tu.
“Io ho solo una figlia, se la perdessi cosa potrei mai fare?” Piagnucolò Spirit, passandosi una mano sul volto afflitto.
“Fai un altro figlio, no? Tanto le donne non ti mancano.” Fece Stein in tono indifferente, ma con un largo sorriso crudele.
“Sei un villano privo di sentimenti! Non puoi capire come mi sento, dato che non hai figli.” Rispose il conte, fulminando lo scienziato con lo sguardo, per poi continuare a emettere borbottii lamentosi.
In quel momento Maka fece il suo ingresso nella sala, accompagnata dalla guardia. Spirit si voltò verso la figlia, guardandola come se fosse un mostro. Le parole di lui suonavano come un ringhio minaccioso.
“Maka! Dannazione, dove sei stata tutto questo tempo?” Il volto del conte era pallido e teso, tanto che la contessina capì senza problemi di averlo fatto preoccupare a morte. Ma questo la lasciò totalmente indifferente.
“Non sono affari che vi riguardano, padre.” Disse, fredda come la lama di un coltello. E, proprio come un coltello, le parole di Maka colpirono Spirit. Lui sapeva di non godere della stima della figlia, e che il loro legame era stato spezzato circa sei mesi prima da un terribile malinteso. O almeno ‘malinteso’ è la parola che avrebbe usato il conte per descrivere quella situazione, in realtà Maka aveva visto con i suoi occhi Spirit con quell’altra. E quando la sua nobile madre era venuta a sapere del tradimento da parte del marito, allora non aveva visto più nulla. Senza pensarci due volte era fuggita dal palazzo e di lei non si era saputo più niente. Mentre fino a pochi secoli prima, il tradimento da parte degli uomini era una cosa tollerata, in quell’epoca, a Death Island era qualcosa di semplicemente inconcepibile, andava contro ogni idea di amor cortese. Soprattutto per una donna come la contessa, che possedeva un carattere deciso ed orgoglioso proprio come la figlia.
La guardia e Stein osservavano silenziosi la scena. Il guardiano si stava già preparando ad assistere ad una autoritaria strigliata da parte del conte. Stein invece non si aspettava proprio nulla. Stava lì, semplicemente, a fare da spettatore, con occhi fissi e sguardo spento.
Ma la guardia dovette ricredersi un minuto dopo, quando, passato un lungo minuto di insopportabile silenzio, Spirit era esploso in lacrime. E urlava, e piangeva, come i bambini quando si fanno male.
Che schifo.Pensò Maka, fissando suo padre mentre si agitava urlando col moccio al naso. Fa proprio schifo. La contessina si portò le dita alle orecchie, non sopportando più quelle grida strazianti.
Il guardiano guardava tutto sbigottito, ma non si permetteva assolutamente di commentare o parlottare con Stein. Questo, dal canto suo, se la rideva sotto i baffi, esageratamente divertito da quella scena surreale.
“Maghaaaaaaaaaaa! Perdonami, perdonamiiiiii! Io amo te e la mamma più di qualunque altra cosa al mondoooooo!” Urlava Spirit, con voce lagnosa.
“Sì, e io ci dovrei anche credere?” Fece Maka. Poi si voltò verso Stein, che sorrideva sulla sua sedia, rivolgendo a lui un’occhiata interrogativa. “Ma… Ha bevuto?”
Stein scosse la testa in segno di diniego. Il conte era un tipo un po’ strano, ma questo erano in pochi a saperlo. Neppure Maka ne era del tutto consapevole, sebbene sapeva che lui fosse un uomo debole e facile da comandare a bacchetta, persino per una ragazzina ingenua come lei.
Spirit si strofinò infine due dita sotto il naso fradicio di muco, quindi, dopo qualche singhiozzo, si ricompose più che poté. Ora la sua voce era seria, seppure un po’ nasale. Si rivolse al guardiano, con sguardo autorevole, seppur con gli occhi ancora rossi e gonfi. “Luis, dimmi, dove hai trovato Maka?”
La contessina si irrigidì, mentre Luis, il guardiano, si apprestava a rispondere con la sua voce profonda e cavernosa. “Era nella zona delle stanze della servitù, l’ho trovata intenta a discorrere con Soul Eater Evans, mio signore.”
Spirit scoccò un’occhiataccia a Maka, che distolse lo sguardo, sbuffando piano. Stein, nel sentire quel nome, non poté trattenere un sorrisetto dal significato indefinibile.
“Ottimo lavoro, Luis, efficiente come sempre.” Fece Spirit, prima di congedare la guardia. “Puoi andare. Wes si è incamminato poco fa, accompagnalo nella sua stanza, per favore.”
Luis sorrise impettito, ma anche lievemente imbarazzato per il complimento da parte del conte. In genere non gliene faceva quasi mai, quindi non ci era abituato. “Subito, mio signore.” Già dimentico della scena penosa di cui poco prima il suo signore l’aveva reso spettatore, il guardiano si avviò a passo di marcia verso le stanze della servitù. Anche quando la sua figura possente fu scomparsa avvolta dalle tenebre, le armi con cui era equipaggiato continuarono a risuonare allegramente ancora per un po’.
Quando Maka e Spirit rimasero soli – in realtà c’era anche Stein, ma nessuno di loro ci fece caso -, il conte si rivolse verso la figliola, fissandola con occhi ridotti a fessura, ma che brillavano d’ira funesta.
“Quante volte ti ho detto che in quei corridoi non ci devi andare?” Ringhiò l’uomo, fissando la figlia in quegli occhi così simili ai suoi.
Prima di rispondere, Maka si morse le labbra talmente forte da sentire distintamente il sapore ferroso del sangue nella bocca. “Io faccio quello che voglio. Insomma, ho sedici anni, ormai sono adulta, tra poco mi sposerò, anche…”
“Questo non ti autorizza a mancare così di rispetto a tuo padre.” Fece Spirit, bollente di rabbia. “Anche quando avrai la mia età rimarrai comunque mia figlia e mi dovrai rispetto, sempre e comunque.”
“Non vi ho mai considerato un padre, lo sapete.” Fu la risposta secca di Maka.
Spirit era troppo stanco per mettersi a piangere di nuovo. Tossicchiò imbarazzato e decise di cambiare argomento. “Piuttosto, cosa ti ha spinto a socializzare con quell’incapace di Soul Eater Evans?” Disse, rintracciando il tono autoritario che stava per perdersi per la strada.
“Non avete diritto di chiamarlo incapace!” Protestò immediatamente la contessina, colpita nel profondo. “Certo, non sarà immediato come Wes, ma anche lui ha una forza espressiva degna di nota!” In quello, tralaltro, è di gran lunga superiore a Wes.
“Fandonie!” Sbottò Spirit, incrociando le braccia. “Quello non sa neppure cosa sia, la forza espressiva.”
A Maka venne da ridere. “Perché, voi lo sapete per caso, padre?”
Il conte digrignò i denti, sentendosi salire il sangue alla testa, al limite della sopportazione. “Puoi dire quello che ti pare, ma guai a te se parli ancora con quel Soul. Uno come lui, così privo di qualunque grazia, non sarebbe neppure dovuto nascere.”
La contessina non sopportava di sentir parlare così di quel ragazzo che aveva appena conosciuto, ma di cui aveva già una stima così profonda. Stava per rispondere a tono, ma le parole aspre del padre la zittirono, togliendole ogni forza di replicare.
“Ora fila in camera tua. Resterai lì per una settimana, chiusa. Uscirai solo per gli incontri con i tuoi pretendenti. E per il mangiare… Beh, ci penseranno le ancelle.”
Maka abbassò lo sguardo, avvilita. Poi lasciò la sala, avviandosi mestamente verso la sua camera, sotto gli occhi impenetrabili di Stein e lo sguardo freddo di Spirit.
 
Nei vicoli della città di Alamar dominava l’oscurità, che avvolgeva ogni cosa, celando ogni anima nelle sue ali nere. Quella sera sembrava una notte come le altre, ma in realtà non lo era. E questo perché quelle tenebre sono state testimoni di un evento: una Stella è emersa dai bassifondi. Suona strano, ma il suo avvento non si potrebbe definire in altri modi. E questo perché quel giovane senzatetto dai capelli azzurri era uscito da un vicolo in una posa talmente plastica che, pure con tutto quel buio, era impossibile non vederlo. Per questo possiamo dire che somigliasse ad una stella. Era talmente appariscente che sembrava quasi rifulgere di luce propria. E lui era davvero convinto di brillare all’ennesima potenza.
“Bene, da dove inizio ad attuare il mio geniale piano di conquista del mondo?” Il  ragazzo stella si guardò attorno, con occhi grigi e vivaci, alla ricerca di qualcosa. Improvvisamente il suo sguardo si fermò sull’insegna di una locanda, vagamente illuminata. “Perfetto! Inizia la raccolta informazioni!” Fece quello, con voce squillante. Si avviò a grandi falcate verso la porta socchiusa del malfamato locale, da cui proveniva una luce piuttosto smorta, che però dalla strada buia sembrava quella di un sole.
“Preparatevi! Il grande Black Star si appresta a conquistare l’isola, e da lì il mondo intero!”



Ed eeeecco il secondo capitolo. Spero possiate apprezzarlo. Ringrazio di cuore coloro che hanno commentato il capitolo precedente, e spero che commenterete numerosi questo capitolo ;D Anche questo non è stato ricontrollato, quindi stessa storia, se ci sono imprecisioni, vi prego di dirmelo! *_*

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Capitolo 3
*** Il cavallo nero ***


Capitolo 3: Il cavallo nero
 
 
 
Nella locanda, illuminata da una luce soffusa e rossastra, aleggiava un odore nauseabondo di alcool misto a puzzo di piscio. La gentaglia della città si ammassava in quel locale, spendendo in alcolici i pochi soldi che riuscivano ad accumulare attraverso furti e scommesse.
Black Star fece il suo ingresso avvolto in una pesante mantella lacera che nascondeva i suoi capelli azzurri e gettava un’ombra sul volto, che dimostrava non più di sedici anni. Non era mai entrato in un posto come quello, e non gli piaceva neppure un po’. Lo vedeva troppo indietro rispetto all’illustre sottoscritto. L’illustre sottoscritto, ovviamente, era lo stesso Black Star.
Lui era originario dall’Arcipelago di Fuoco, era figlio di due briganti a capo di una gang molto famosa in patria. Loro uccidevano la gente e la derubavano. Ma un giorno il governo mandò una squadra di soldati sulle tracce di quella gang e, trovandola riunita in una zona periferica di una città rurale, li sterminò tutti a suon di mazzate. Dopo che tutti i briganti furono morti, un soldato, un certo Sid Barrett, sentì strillare un neonato. Egli lo cercò e lo trovò sotto il corpo della madre, avvolto in un panno sporco del suo sangue ancora fresco. Quel neonato era Black Star.
Il piccolo fu preso in custodia da Sid stesso, che lo ospitò nella sua umile dimora per sedici lunghi anni. Ma c’era qualcosa che impedì a Black Star di affezionarsi a Sid e considerarlo un padre. Questo qualcosa era un sentimento che il ragazzo sentiva distintamente ogni volta che quell’uomo gli accarezzava la testa o gli inculcava fandonie sul suo passato. Una sensazione che noi conosciamo col nome di ‘pietà’. Veramente, Black Star non poteva sopportarlo.
Lui non era un orfanello malinconico, no, era un ragazzo allegro con una grande stima di sé stesso. Lui si sentiva grande, importante. Non doveva suscitare pietà, lui doveva incutere timore reverenziale. Effettivamente, nell’Arcipelago di Fuoco, a parte Sid e pochi altri, molti avevano paura di lui e lo odiavano. Questo perché lo riconoscevano come figlio di assassini a causa di un segno particolare, un marchio a fuoco a forma di stella sulla spalla destra, che lo contraddistingueva come membro di quella gang così tristemente celebre.
E lo insultavano quando passava per strada, lo prendevano a pietrate, troppo codardi per avvicinarglisi. Succedeva fin da quando era un innocuo bambino, che quando sentiva quegli insulti rivolti a lui non capiva neppure a cosa si riferissero. E viveva assillato dai dubbi, finché non venne a conoscenza delle sue origini.
Black Star odiava tutti e amava solo sé stesso.
Nessuno meritava la sua stima. Nessuno.
E alla luce del suo passato si poteva facilmente capire il perché.
In quegli ultimi anni si era dedicato alla ricerca di un modo per far capire la sua superiorità a tutti quegli esseri meschini e ignoranti. L’Arcipelago di Fuoco non era il posto adatto per attuare il suo piano, quindi fuggì, infilandosi nel carretto di uno scienziato straniero, un certo dottor Franken Stein. Questo proveniva da una lontana isola e si trovava lì per condurre le sue ricerche geografiche. Dentro al carretto c’era tutto quello che sarebbe servito a Black Star per il viaggio, ovvero delle coperte calde e numerose vivande. Fu così che il ragazzo, ben nascosto, mangiò e dormì per tutto il viaggio, stando bene attento a non fare rumore. Ma non immaginava di russare tanto forte quando dormiva. Infatti Stein si accorse ben presto si lui, ma non lo mosse, divertito dalla situazione. Chissà cosa pensa di fare questo ragazzino. Aveva pensato in quell’occasione lo scienziato, sorridendo. Che strano tipo. Sarebbe interessante studiarlo in laboratorio.
Fortunatamente per Black Star, quando furono arrivati a destinazione lui era sveglio e, alla prima occasione, fuggì inosservato dal carro andando ad infilarsi nei vicoli oscuri di Alamar.
E ora quello stesso ragazzo dal burrascoso passato si trovava in una delle locande più malfamate della contea, la Black Horse.
Black Star si sedette facendo meno rumore possibile su una sedia scheggiata, posta accanto ad un tavolo in un angolino buio del locale. Egli, per quanto non brillasse particolarmente d’intelligenza, sapeva benissimo che era meglio passare inosservati, in certe situazioni. Ordinò una birra, sebbene non avesse mai bevuto un alcolico in vita sua. Fece l’ordinazione a voce bassissima, sapendo di avere una voce particolarmente squillante per la sua età.
Aspettò la sua bevanda guardandosi intorno, mentre i suoi occhi grigi brillavano sotto il cappuccio liso. Che schifo di posto. Beh, del resto i veri grandi iniziano sempre dal basso. Si diceva, rassicurandosi da solo.
La sua attenzione fu attirata da un tavolo al centro della bettola. Attorno al tavolaccio rotondo sedevano alcuni vecchi mendicanti un poco brilli, che giocavano d’azzardo con certe carte talmente sudice da fare ripugnanza.
Black Star ascoltava i loro discorsi, attentamente, ma tentando di non farsi notare.
“Ehi, hai sentito? Pare che la contessina cerchi marito.”
“E a me che dovrebbe importare?”
“Mah, non so, forse potrei presentarmi.”
“E secondo te lei ti si piglierebbe? Ha sedici anni e tu cinquanta.”
“E allora? Piuttosto il problema è che tu sei uno straccione e lei è una riccastra.”
“Davvero, quanto mi sta sulle palle! Quasi quasi la rapino.”
“Ma figuriamoci. Ah, ho vinto, sganciate i quattrini.”
“Accidenti a te, Stan! Concedimi la rivincita!”
“Eh, no, troppo comodo così, eh eh!”
“Signore, ehi, signore!” Una voce femminile richiamò Black Star, che si voltò lentamente, incrociando gli occhi con quelli di una giovane oste dai capelli biondi. “La vostra birra.” Disse la ragazza, indicando il boccale ricolmo di birra schiumosa davanti a lui.
“Ah.” Commentò il ragazzo incappucciato, distrattamente. “Grazie, eh.” Aggiunse poi, afferrando frettolosamente il boccale freddo e umido. Appoggiò le labbra sul vetro spesso, ripensando a quello che aveva appena sentito. Una contessina sedicenne in cerca di un marito. Era veramente una notizia sensazionale. Se avesse sposato una fanciulla nobile e ricca come quella sarebbe sicuramente stato più vicino alla realizzazione del suo progetto di conquista del mondo. Bisognava festeggiare in qualche modo quella scoperta così succosa.
Così vuotò il boccale tutto d’un fiato e, dopo essersi pulito la bocca con una manica, urlò. “Oste! Un’altra birra!”
La voce squillante del ragazzo attirò vagamente l’attenzione dei presenti, che quando però videro quel tipo ammantato e assolutamente anonimo, non ci fecero più caso.
La graziosa oste portò al ragazzo un’altra birra, che lui le strappò di mano e si scolò prima che lei avesse il tempo di accorgersene.
“Un’altra!” Disse Black Star, sbattendo violentemente il boccale sul tavolaccio, facendolo tremare.
La ragazza scosse la testa. “Non mi pare il caso, signore. Non mi sembra che l’alcool vi faccia un buon effetto. Non vorrei che mi rivoltiate il locale…” Disse lei, con la sua voce vellutata.
Il ragazzo, ormai alticcio, le saltò al collo afferrandola per il bavero. “Vuoi che ti ammazzi?” Ringhiò minaccioso. La foga con cui Black Star aveva assalito la giovane oste fu tanta che il cappuccio della sua mantella gli ricadde alle spalle, scoprendo i capelli azzurri e gli occhi grigi e lustri per l’alcool.
La ragazza, intimorita, si liberò dalla presa di Black Star con uno strattone. Sembrava essere solo un ragazzo, ma la sua espressione era sinistra, e sotto lo sguardo di quegli occhi freddi e metallici lei si sentiva venire la pelle d’oca.
“Aiuto! Aiutatemi!” Stridette la fanciulla. “Quest’uomo vuole distruggermi il locale!”
I figuri che giocavano a carte si allarmarono. In piedi sembravano molto più grossi e imponenti, non parevano più dei vecchi raggrinziti. Di certo erano molto più grandi rispetto a Black Star, e l’ombra di uno solo di loro riusciva a coprire totalmente il ragazzo.
La ragazza osservò con un sorriso quei giganti che si avvicinavano al discolo. Lei era al sicuro. Avrebbero dato una punizione a quel ragazzo e lui non si sarebbe più fatto vedere. Ma non riusciva comunque a spiegarsi perché quel giovane non sembrasse per nulla spaventato da quegli omoni che incombevano su di lui. Un secondo dopo capì, e rabbrividì ancora di più. Con una forza sovrumana e ad una velocità impressionante, Black Star aveva annientato molti dei suoi avversari che, terrorizzati, se la davano a gambe, uscendo dal locale in fretta e furia.
La ragazza, accorgendosi che presto sarebbe rimasta sola, si imbucò dietro al bancone. Nascosta nell’ombra si sentiva un po’ più al sicuro, ma allo stesso tempo non sapeva quando sarebbe uscita fuori. Anche quando quello strano individuo proveniente da un altro pianeta se ne sarebbe andato, lei avrebbe comunque esitato a mettere la testa fuori per vedere lo scempio causato da lui. Avrebbe anche voluto tapparsi le orecchie per non sentire i tavoli frantumarsi in piogge di schegge e le urla degli uomini che venivano sbattuti qua e là, facendo gran fracasso.
Alla fine Black Star si ritrovò da solo nella locanda semidistrutta. Dopo tutto quel movimento, stranamente, non si sentiva neppure un po’ affaticato. Probabilmente tutta quell’adrenalina era dovuta all’alcool che scorreva nel suo corpo. Camminando tra le schegge di quelli che erano stati tavoli e sedie, si ritrovò vicino il bancone.
“Lo so che sei qui, donna.” Borbottò. “Avanti, esci fuori, cretina.”
Nessuna risposta.
“Non voglio ripeterlo.” Intimò Black Star, rivolto verso il bancone.
Ancora silenzio.
Il ragazzo sentì un’arteria pulsargli fastidiosamente sul collo. Raccolse da terra un attrezzo da scasso in ferro arrugginito, probabilmente perso da uno di quegli energumeni di prima. Quindi, con quell’oggetto colpì con violenza il bancone, che cedette in parte, distruggendosi in pezzi.
La ragazza strillò, mentre il suo vestito si copriva di nuove schegge acuminate.                       
Black Star la afferrò per i lunghi capelli biondi e la costrinse ad alzarsi. La giovane teneva gli occhi serrati. Non voleva vedere nulla. Si rifiutava di guardare in faccia quel criminale e di dover fare i conti con la tremenda visione di un locale ridotto in una montagna di segatura.
Il ragazzo ubriaco spinse la giovane oste contro il muro imbrattato di birra e, avvicinando il volto a quello di lei, sussurrò qualcosa, a pochi centimetri dal suo orecchio. “Se ora risponderai alle mie domande non ti farò nulla.”
La ragazza aprì immediatamente gli occhi verdi, trovandosi a fissare quelli grigi di quella specie di alieno. Ebbe la tentazione di urlare. Black Star aveva generalmente un’aria abbastanza innocua, ma ora che era totalmente ubriaco faceva proprio paura.
“Siss... Sissignore, ditemi.” Fece lei, con un filo di voce.
Black Star sorrise, compiaciuto, staccandosi lievemente dalla ragazza. In quel momento a lei parve quasi carino, rispetto a qualche secondo prima.
“Bene. Dimmi come si chiama la contessina di questa contea.”
“Si chiama… Si chiama Maka Albarn…” Balbettò la biondina, ancora schiacciata contro la parete.
Il ragazzo si avvicinò di nuovo alla giovane oste, tanto che lei ne poté sentire il respiro caldo sulla pelle, e l’odore dell’alcool le pizzicava le narici.
“E dove si trova il castello della contessina?” Domandò lui, a voce bassissima.
“Ma… Quello lo potete vedere tranquillamente, è sulla collina che sovrasta la città…” Rispose la ragazza.
Black Star digrignò i denti, mentre sul suo volto riappariva quell’espressione che tanto spaventava la giovane oste.
“Dammi una risposta precisa!” Sbottò lui. “Se continui a prendermi per il culo, finirò per farti davvero del male. Al culo, intendo.” Nel pronunciare quelle ultime parole, il ragazzo ghignò.
La ragazza rabbrividì per l’ennesima volta. Cosa intendeva? Voleva forse il suo corpo? No, questo proprio no, passi pure per il locale, ma quello non l’avrebbe mai accettato.
“Io… se volete la strada non la so…” Balbettò lei, sudando freddo. “Insomma, non ci sono mai stata…” Disse lei, preparandosi a sgusciare via non appena lui avesse provato ad alzarle un lembo della veste.
Ma lui non si mosse.
“Va bene. L’illustre sottoscritto ti concede il perdono e non ti torcerà un capello.” Disse, distogliendosi e lasciando che la ragazza si accasciasse contro il muro, finendo seduta sul pavimento freddo. “Se non lo sai non posso mica continuare ad insistere, no?”
La giovane oste lo fissò come se fosse un mostro a due teste. Si sentì di ringraziare Dio per avere creato gente così fessa che, se non fosse esistita, a quell’ora lei probabilmente avrebbe già perso la sua purezza.
A quel punto Black Star sentì qualcosa salirgli su per la gola. Senza neppure salutare la ragazza e scusarsi per la confusione creata, uscì fuori nel vicolo buio per vomitare l’anima.
Ora si sentiva un po’ più lucido di prima, mentre si asciugava la bocca con la manica del mantello logoro. Si voltò verso la luce pallida proveniente dalla porta ancora spalancata dell’osteria. La ragazza non si era affacciata e non l’avrebbe fatto neanche dopo. Devo averla proprio spaventata. C’era da aspettarselo, le aveva completamente distrutto il locale! Anzi, forse dovrei anche scusarmi, pensò Black Star. Rimase un attimo fermo, a meditare sul da farsi, mentre la testa gli martellava dolorosamente.
Alla fine decise di tornarsene nel suo vicoletto buio. Un grande come lui non aveva tempo di preoccuparsi di certe piccolezze. E poi, se avesse sposato la contessina come aveva intenzione di fare, sarebbe diventato così ricco che avrebbe potuto risarcire il locale a quella ragazza… Anzi, no! Le avrebbe dato un sacco di soldi in più, così da permetterle di costruire un locale bellissimo, talmente bello da diventare meta di tutti i nobili di Death Island. Il suo era un piano assolutamente geniale.
Con la testa pesante e gli occhi annebbiati, Black Star si avviò allegro verso il vicolo da cui proveniva, pensando che quella sarebbe stata sicuramente l’ultima notte che avrebbe passato tra la lordura. Non aveva dubbi che la contessina Maka l’avrebbe voluto come marito, convinto com’era lui di possedere un fascino senza pari.

Maka non si era ancora addormentata, quella notte. Il letto pungeva un po’ più del solito, irritando la sua pelle liscia e delicata. Ma in realtà quella era solo la causa a cui attribuiva quell’improvvisa insonnia. Non aveva mai avuto particolari problemi ad addormentarsi. Mai, in nessuna delle notti dei suoi sedici anni.
Se ne stava stesa nel suo enorme letto a baldacchino, con gli occhi chiusi, attendendo che Morfeo venisse ad abbracciarla per trascinarla tra le calde spire del sonno.
La verità era che si sentiva inquieta, pur non capendone il perché. Il suo dubbio, però, le fu chiarito presto. Accadde infatti che delle ancelle cominciassero a fare avanti e indietro proprio vicino alla porta della sua stanza, il che la irritò. Già aveva problemi ad addormentarsi per conto suo, ora dovevano mettercisi anche quelle donnicciole da poco, a fare casino?
Le parve anche di sentire strillare una di loro, come una gallinaccia, e le altre rispondere con lo stesso identico tono insopportabile.
Spazientita, Maka scese dal letto e si avvicinò alla porta con l’intenzione di urlare alle ancelle di fare meno baccano, quando improvvisamente udì qualcosa che la fece bloccare sul ciglio della porta. Pur strillando come delle matte, la contessina doveva ammettere che i pettegolezzi di quelle erano piuttosto interessanti. Ma nonostante questo, avrebbe preferito di gran lunga non sentirli.
Da quello che Maka aveva capito, era appena arrivata al castello una missiva direttamente da Re Shinigami, che annunciava un incontro prematrimoniale tra lei e il Principe Death the Kid, che sarebbe giunto il giorno dopo su una carrozza trainata da otto cavalli neri. Questo, almeno, era quello che lei aveva capito. Sperava seriamente di sbagliarsi.
Aveva sentito tanto parlare del Principe come un ragazzo bello, dai lineamenti nobili, educato, di classe, elegante e acculturato. In poche parole, il pretendente ideale per una come Maka. Ma se fino a qualche tempo prima l’idea di un possibile matrimonio combinato col Principe le avrebbe fatto fare i salti di gioia, ora la contessina si ritrovava perduta nell’abisso dello sconforto.
Sapeva che a suo padre uno come il principe Kid sarebbe andato a genio, anzi. O lui o nessun altro. Nessuno era degno di sposare la sua adorata figliola, ma per il principe si poteva fare un’eccezione.
Quindi il fidanzamento sarebbe stato ufficializzato e a breve si sarebbero celebrate le nozze. Sarebbe andata proprio così, ne era sicura. E Maka non voleva assolutamente, non si sentiva pronta per fare un passo così grande, non così presto.
Lei voleva solo continuare a vivere la sua vita come aveva sempre fatto fino a quel momento, tra litigi con suo padre, cene con nobili altezzosi e noiosi, leccornie che per venire servite costavano spesso la vita ai ciambellani, chiacchierate frivole con Tsubaki, cavalcate fino al tramonto, spettacoli coi giullari…
Voleva continuare così, non voleva diventare principessa e avere tante responsabilità. L’avrebbero sicuramente privata della maggior parte di quelle piccole cose che la rendevano felice.
Si accasciò, finendo a carponi per terra, fissando inespressiva le mattonelle rese appena visibili dallo spiraglio di luce proveniente dalla porta.
Il suo pensiero volò guidato dall’istinto e non dalla ragione, sorvolando tutto il resto, per posarsi soltanto sul ricordo di Soul, come una farfalla leggera si posa su un fiore.


Ed ecco l'entrata gloriosa e la successiva caduta di tono di Black Star! Spero di non averlo trattato male, ma credo sia da lui seminare distruzione con nonchalance, pensando con leggerezza che tutto si risolve perchè un big come lui può tutto xD
All'inizio c'era un pezzo che poi, dopo lunghe riflessioni ho deciso di togliere. Parlava di Arachne e Mosquito che discutevano di un piano segretissimo (questo pezzo si trovava tra la parte di Black Star e quella di Maka). Questo era perchè la storia all'inizio non era una AU, ma una What if...?! (e se i nostri eroi fossero nati nell'epoca in cui nacquero le prime buki? Vedete la frase di presentazione e tutto vi sembrerà chiaro, penso xD)
Comunque, spero che non siate troppo arrabbiati con Black Star per non apprezzare questo capitolo (non temete, avrà il trattamento che merita perchè, anche se lo maltratto, in fondo ci sono affezionata xD)
Ringrazio ancora quelle anime pie che hanno commentato il capitolo precedente, e spero di ricevere altrettanti commenti (se non di più, perchè no?)
Hope you like it!

PS: Ho deciso definitivamente di proseguire questa long. Oggi mi sono rimessa a scrivere da dove avevo interrotto. Spero possa farvi piacere!

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Capitolo 4
*** Il giorno dell'incontro ***


Capitolo 4: Il giorno dell’incontro
 
 
 
Il mattino dopo fu Tsubaki a svegliare Maka. La trovò profondamente addormentata sul pavimento, vicino alla porta. Emetteva un lieve ronzio ad ogni respiro.
Alla dama venne da sorridere. Che lati poco signorili mostrava, ogni tanto. Con delicatezza, si chinò verso di lei e la scosse piano, con le sue mani gentili e la sua voce flautata.
“Signorina Maka, è mattino.” Disse lei.
Lentamente la contessina dischiuse i grandi occhi verdi, incontrando immediatamente quelli blu notte della sua migliore amica, carichi di affetto e dolcezza.
Il sorriso di Tsubaki le fece dimenticare per poco le pene del giorno prima.
Tsubaki è davvero splendida. In tutti i sensi.
Maka faceva fatica ad aprire gli occhi del tutto. Con le mani se li strofinò, trovandoli umidi, toccando le guance appiccicaticce. Aveva pianto? Perché? Realizzò improvvisamente, rimembrando la sua profonda angoscia.
Tsubaki notò le lacrime calde della sua amica riaffiorare. Con un fazzoletto di seta gliele asciugò.
“Perché piangi?” La dama guardò la sua signora con occhi tristi.
Maka tentò di sorridere, suo malgrado. Le riuscì male, e se ne accorse. Quindi andò a coprirsi la bocca con entrambe le mani, mentre serrava gli occhi nel tentativo vano di trattenere nuove lacrime. Scattò su, cercando un contatto rassicurante con il corpo della sua migliore amica, che la abbracciò con vigore.
“Tsubaki! Tsubaki! Hai sentito? …Hai sentito vero?” Urlò la contessina, convulsamente, bagnando di lacrime l’abito di seta della dama. “Oggi verrà il Principe a vedermi per un incontro prematrimoniale!”
Tsubaki le accarezzò la schiena, confusa. “Ma… Dovresti essere contenta, no?”
Maka scosse la testa dieci e più volte, con forza. “No! Non voglio! Sicuramente a mio padre piacerà e ufficializzeranno il fidanzamento!”
“Ma tu mi hai sempre detto…” La povera dama ci capiva sempre meno. Sciolse l’abbraccio, guardando la sua amica negli occhi disperati. “…Mi hai sempre detto che il tuo sogno era di sposare un principe, no? Tra l’altro, di questo ne parlano tutti benissimo: dicono sia giovane e bello. Cosa puoi volere di più?”
“Non… Non lo so.” Fece Maka, tra i singhiozzi. “So soltanto che non potrei mai sposarlo.”
“Non è detto che lo sposerai per forza.” Disse Tsubaki, scrollando le spalle.
“Sicuramente. A mio padre piacerà di certo, visto che è così perfetto.” La contessina abbassò gli occhi, resi profondi dalla disperazione. Non sentiva così tanta ansia da quando era fuggita sua madre.
“Beh, ma non è detto che tu piaccia a Re Shinigami! Potresti provare a comportarti male di proposito!” Propose Tsubaki.
Maka spalancò le palpebre, sorpresa dall’idea della sua amica. “Ma tu sei un genio!” Urlò. “Come ho fatto a non pensarci?”
Tsubaki sorrise con dolcezza. Alla sua migliore amica bastava così poco per ritrovare il buon umore… Ma nonostante la gentilezza e la grazia della bella dama riuscissero a donare il sorriso a chiunque, lei era l’unica che non aveva ancora trovato la vera felicità.
Nonostante Tsubaki vivesse negli agi e avesse una grande amica, si sentiva davvero incompleta. Era da tanto che ricercava affannosamente quel grande pezzo che le mancava per essere completa, e non l’aveva ancora trovato. La sua tristezza era tangibile nella sua espressione e nel suo modo di muoversi. Era bella, ma malinconica, come un fiore privo di qualunque fragranza.
Si sentiva sempre come se volesse urlare qualcosa al mondo, ma era come se un blocco in gola non permettesse l’uscita di alcun suono dalla sua bocca. Non sapeva se quello che le mancava fosse la spontaneità. Qualunque cosa fosse, lei non riusciva a vedersi bella, perché la sua anima era soffocata e debole, e quando si guardava allo specchio lei vedeva solo la sua introversione.
Pensava questo mentre aiutava Maka a prepararsi. La contessina era talmente allegra che canticchiava. Ma dovette smettere improvvisamente, quando Tsubaki le pose una delle domande più difficile che le fossero mai state poste.
“Dimmi una cosa… Perché non vuoi sposarti?”
Maka titubò, mentre la sua spensieratezza cedeva il posto a una montagna di dubbi. “Perché…” Esitò, soffrì. Ma nonostante questo non arrivò alla soluzione del quesito. “…Non lo so il perché.” Ammise infine.
Non lo sapeva davvero. Le responsabilità di principessa le sembrarono improvvisamente delle inezie. C’era qualcosa di più grande dietro a tutto ciò.
Tsubaki lasciò improvvisamente cadere il pettine con cui stava sistemando i capelli della contessina, per poi portarsi le mani diafane alla bocca. Un moto di stupore si impadronì della dama, che formulò la sua nuova domanda con un filo di voce. Ma a Maka quelle parvero le parole più incisive che avesse mai sentito in vita sua.
“Non ti sarai per caso… Innamorata?”
L’ultima parola riecheggiò nella testa di Maka. Dopodiché, il silenzio inghiottì qualunque altro suono, compreso il respiro della contessina, che si fermò. Così anche il tempo sembrò arrestare la sua corsa frenetica.
 
Una carrozza trainata da otto cavalli neri si fermò davanti al palazzo di Alamar. Non era una carrozza qualunque. Era uno splendido modello verniciato interamente in nero, perfetto nelle sue rifiniture impeccabili, che lo rendevano un mezzo di trasporto decisamente più prestigioso degli altri del tempo. Chiunque vedesse quella carrozza era intimamente consapevole che poteva appartenere solo ed esclusivamente al Re di Death Island. Aveva avuto modo di attirare l’attenzione di tutti gli abitanti, svicolando elegante e vistosa nelle strade di Alamar. E subito le chiacchiere si erano diffuse. In breve l’arrivo del Re in quella piccola contea era diventato il pettegolezzo più quotato in ogni salotto.
Oltre al cocchiere, quattro erano i singolari personaggi all’interno della carrozza. Oltre al Re e al Principe, infatti, vi erano le due ancelle preferite dal Principe, Elizabeth e Patricia Thompson, chiamate familiarmente Liz e Patty. Le due erano sorelle di straordinaria bellezza. Avevano vissuto nei quartieri malfamati di Death City, rubando e spacciando le droghe al tempo conosciute. Ma il Principe non ebbe paura di loro. Incantato dalla loro bellezza offrì loro ospitalità nel suo castello. Liz accettò con gioia, e convinse anche Patty a seguirla. Tutto pur di abbandonare quei vicoli puzzolenti, dove chi non le temeva non faceva altro che ricordare loro la cattiva fama della loro madre.
Liz e Patty erano sorellastre. Infatti non si assomigliavano particolarmente. La madre era una donna molto bella, ma anche incline alla prostituzione. Ella andò con molti uomini di cui non conosceva neppure il nome e di cui non ricordava neanche il volto. Da una sua avventura ebbe prima Liz. Poi, dopo tre anni, nacque Patty da un’altra avventura. Non essendo in grado di accudirle, la donna abbandonò le sue due figlie in un vicolo quando erano poco più che delle bambine. E da allora quella sarebbe stata la loro casa, finché un’anima pia come quella del Principe Death the Kid non le avesse fatte riaffiorare da quel baratro tetro in cui si trovarono. Liz e Patty erano contente di poter vivere negli agi e di potersi procurare il cibo in maniera pulita, e questo le spinse ad accettare. Allora si trattava di opportunismo, ma presto si sarebbe tramutato in un profondo sentimento di devozione.
Liz in particolare non aveva occhi che per Kid. Si poteva dire che fosse la persona più vicina a lui in assoluto, e che lo conoscesse meglio di chiunque altro. Lo capiva anche più dello stesso padre del giovane Principe, il Re Shinigami che, per quanto fosse una persona cordiale, era sempre stato un po’ distaccato.
Ora anche lui sedeva nella carrozza, stringendosi in quello che sembrava una specie di mantello nero, privo di espressione sulla sua maschera a forma di teschio.
Il Principe Death the Kid era proprio affascinante come lo descrivevano, ma non era altrettanto perfetto. Anzi era piuttosto problematico. Soffriva di complessi, per non dire nevrosi, legate alle singolari strisce bianche che spiccavano sui suoi capelli corvini, la cui asimmetria rovinava l’equilibrio della sua pettinatura impeccabile. Era sempre pallido, i suoi occhi gialli scattavano da una parte all’altra, nervosamente. Le sue nevrosi non si fermavano al suo stesso aspetto fisico, ma a tutto ciò che lo circondava. Kid non sopportava ciò che non era simmetrico e in disordine. Questo lo portava ad avere gusti difficili, e aveva respinto tutte le pretendenti che avevano qualcosa che non gli andava. C’era chi aveva la frangia da un lato, chi aveva un neo solo sulla guancia destra, chi aveva delle lentiggini spruzzate in faccia senza nessun ordine e criterio. Ogni scusa era buona per respingerle. Re Shinigami era disperato per il comportamento fin troppo pretenzioso del figlio, ma quando aveva sentito dire a Franken Stein di quanto i tratti della contessa Maka di Alamar fossero delicati e armoniosi, credette di essere salvo. Quindi aveva convinto Kid a presentarsi da lei e, dopo aver avvertito il conte Spirit con una missiva, si era recato nella piccola contea di Alamar con il figlio e le ancelle, per mezzo di quella carrozza che il Principe aveva personalmente ritoccato per renderla ancor più perfetta.
Avevano viaggiato per un’intera giornata, senza sosta, a ritmo sostenuto. Si fermarono davanti al castello, i cui cancelli si spalancarono immediatamente per accogliere l’ingresso della carrozza reale e il ponte levatoio si abbassò scricchiolando, producendo un forte rumore nello sbattere contro la sponda del rigagnolo che cingeva l’imponente dimora. Non appena furono fermi e il carrozziere ebbe aiutato i suoi padroni a scendere, si congedò con un rapido inchino e si dileguò rapidamente, in preda all’impellente bisogno di mangiare e dormire. Le dame furono subito giù per accoglierli e scortarli, in un turbinio di abiti variopinti. Tra queste ragazze non c’era Tsubaki che, in quanto dama di compagnia della contessa, raramente si separava da lei.
Kid osservò compiaciuto il castello, toccandosi il mento con due dita. Non era grande come il palazzo reale in cui viveva, ma era anche questo splendidamente simmetrico, come poteva notare dai due torrioni identici e della stessa altezza che si ergevano alle sue estremità. Persino le pietre erano disposte con ordine, ed erano tutte di uguali dimensioni e dello stesso color tufo. Dopo aver fatto queste osservazioni si sfregò un poco il colletto di pelliccia per riordinare qualche pelo fuori posto, e si decise finalmente ad addentrarsi nel castello, posando i suoi regali passi per la prima volta su quel ponte levatoio, un po’ scheggiato ma ancora resistente.
Si trovò in un atrio illuminato unicamente dalla luce che proveniva dal portone aperto e da alcune, piccole vetrate variopinte poste in alto, vicino al soffitto. Kid lo trovò un ambiente piuttosto opprimente, nonostante l’ordine e la simmetria impeccabile del luogo. Si respirava odore di polvere e di chiuso, evidentemente le ancelle che lavoravano in quel luogo erano delle pettegole che facevano tutto tranne il loro lavoro. Kid non poteva sapere che tutte quelle ragazze che lavoravano sotto le dipendenze del conte erano state scelte solo per la loro bellezza, e molte di loro avevano avuto l’occasione di diventare le concubine di Spirit, che proprio non si preoccupava di aver coperto di vergogna il suo casato dopo il tradimento della moglie.
Quando il Principe aveva sentito proporre dal suo nobile padre la Contessina Maka del casato di Albarn, Kid si era fatto diffidente. Sposare una ragazza proveniente da una famiglia tanto sciagurata, seppur nobile, avrebbe potuto rappresentare un danno di immagine per la figura che Kid si era costruito di perfetto futuro sovrano, tutta basata sulle apparenze e sulle dicerie del popolino. Tuttavia aveva accettato di incontrarla per accontentare il padre. Tanto, era più che sicuro che quella Maka non si sarebbe avvicinata neppure lontanamente all’ideale di ragazza che andava cercando.
Arrivato in fondo all’ingresso giunse ad una scalinata che portava verso l’alto. Due splendide dame di corte dalle vesti di seta rivolsero al Principe un rapido inchino, prima di cominciare a salire la gradinata facendo cenno di seguirle. Questa scena si ripeté più volte. Tanti erano i corridoi da percorrere ed altrettante erano le scalinate da salire. Una persona che viveva in una baracca non avrebbe retto facilmente quella fatica, ma per un membro della famiglia reale che viveva in un palazzo ancora più grande, percorsi del genere costituivano la routine quotidiana.
Alla fine, dopo una decina di minuti, raggiunsero la sala del trono. Ci era voluto fin troppo poco, pensava Kid. A casa sua, per raggiungere la sala del trono entrando dall’ingresso ci volevano almeno venti minuti.
Si ritrovarono in un salone dai soffitti altissimi, tutti affrescati con stemmi e cieli stellati. Dipinte erano anche le mura, squisitamente decorate due secoli prima dal più grande pittore che la contea di Alamar allora poteva vantare. Anche il pavimento presentava una decorazione molto ricca (ogni mattonella era composta da un mosaico piacevolmente simmetrico). Ai lati vi erano colonne addossate al muro, che sembravano essere inghiottite da esso e davano l’illusione di reggere il soffitto. I capitelli erano anch’essi magnificamente simmetrici grazie alle regolari volute dello stile ionico, quello preferito dal Conte. Il trono era sopraelevato. Anch’esso si ergeva al termine di una breve gradinata. Era in marmo, e presentava delle immagini di draghi scolpite con la tecnica del bassorilievo. Era infatti il drago il simbolo del casato Albarn. Nonostante gli affreschi sulle mura non fossero simmetrici presentavano una certa regolarità e continuità, come voleva la pittura medievale. Le figure erano ieratiche, simili tra loro e ricordavano, per fare un esempio, lo stile bizantino. La differenza stava nello sfondo, che era dipinto, e non ottenuto dalla foglia d’oro come le decorazioni delle nostre chiese medievali. A Kid piaceva quello stile. Non era simmetrico ma dava comunque un’idea di ordine. Nel complesso la sala del trono gli piacque molto. Sorrise compiaciuto mentre i suoi occhi percorrevano con attenzione la fila di figure solenni affrescate che, non presentando chiaroscuro, parevano spiaccicate sulle mura.
Uno scricchiolio echeggiò nella sala, costringendo il Principe ad interrompere la sua contemplazione. Volse lo sguardo verso una porta in ebano scolpito, che si intravedeva in un angolo di penombra alla destra del trono. Si era aperta, e aveva lasciato passare un giovane uomo dai capelli rossi, scortato da una dama molto prosperosa, ancor più giovane di lui, che sorrideva con un’espressione giocosa in viso.
La coppia, che tutti sapevano essere composta dal Conte e dalla sua dama di compagnia, si presentò al cospetto del Principe, del Re e delle due ancelle. Quindi i due giovani si inchinarono.
“Ohoh! Spirit! Ma dai, non c’è bisogno di essere così formali!” Esclamò a gran sorpresa Re Shinigami, con voce allegra.
“Ah, ma… Vostra altezza, lo sapete che vi sono devoto. E ci tengo anche a ringraziarvi adeguatamente per la vostra visita.” Disse Spirit, portandosi una mano al petto. “Accomodatevi pure, mentre aspettate che la contessina sia pronta.” Detto questo, la dama di compagnia del Conte li guidò verso quattro poltroncine, simili al trono ma più piccole, che si trovavano in fondo alla stanza. Dopo che gli ospiti si furono seduti, la ragazza tornò da Spirit che la ringraziò, chiamandola col nome di Blair.
Non fece in tempo a calare il silenzio che, non appena i quattro ospiti si furono accomodati, la porta d’ebano da cui era entrato precedentemente il Conte si aprì di nuovo, in un istante che a tutti parve interminabile. Fu quello il primo incontro di Maka e Kid, la Contessina e il Principe.
Kid aveva gli occhi fissi su quella fanciulla, che era entrata con passo talmente leggero da risuonare meno dello strascico del suo lungo abito di seta celeste. Il colore chiaro del semplice ma ricco abito sembrava esprimere purezza, rendeva la ragazza simile ad un angelo del cielo. I suoi capelli biondo grano erano lasciati in parte sciolti sulle spalle, ricadendo in morbide onde, in parte erano appuntati dietro da un fermaglio a forma di diadema d’oro. All’altezza del petto, il vestito non lasciava intravedere alcuna rotondità. Sembrava non avere seno, e questo significava che il suo corpo presentava molto probabilmente una raffinata simmetria. I tratti del volto erano dolci e regolari, la pelle candida e luminosa non sembrava presentare nei o impurità, vista da quella distanza. Gli occhi di un verde spento, vagamente malinconico, sin dall’inizio erano stati fissi in quelli dorati del Principe, consapevoli di fissare quello che poteva essere il suo futuro marito.
 
Black Star era finalmente giunto a destinazione. Correndo come un forsennato sotto al sole mattutino era finalmente giunto sopra la collina, davanti al castello, decisamente più imponente di qualunque altra abitazione avesse visto nella Contea di Alamar o nell’Arcipelago di Fuoco. Proprio l’abitazione adatta ad un grande come lui. Sorrise soddisfatto, mentre ansimava per riprendere fiato. Una goccia di sudore scese lungo la tempia abbronzata del ragazzo. Per l’occasione aveva indossato l’unico completo non logoro che aveva, che aveva rubato nell’Arcipelago di Fuoco anni prima, e utilizzava solo nelle grandi occasioni. Si trattava di un pregiato kimono yukata color rosso porpora, fermato alla vita da una cintura dello stesso pomposo colore. A questa era fissata una lunga katana, anche quella rubata nell’Arcipelago di Fuoco. Quel mattino l’aspetto di Black Star era quello di un giovane e bizzarro samurai d’epoca medievale, abbronzato, un po’ sudato e con assurdi capelli azzurri che sparavano da ogni parte.
Era giunto fin sulla collina seguendo la carrozza reale, nascosto nell’ombra. Era stato svegliato dallo scalpiccio degli zoccoli sulla strada di fronte al vicolo nel quale dormiva, ed era uscito allo scoperto solo quando i due reali e le due ancelle erano entrate nel castello. Ovviamente, per poter seguire la carrozza doveva sbrigarsi e, nella fretta di cambiarsi i vestiti, aveva indossato lo yukata al contrario. Prima di entrare nel castello aveva preso un po’ di tempo, per assicurarsi che tutti si fossero allontanati, in modo da passare inosservato. Quindi si era specchiato nel rigagnolo che cingeva il castello e si era abbassato sull’acqua. Aveva ammirato per un po’ la sua immagine riflessa, sorridendo, constatando narcisisticamente quanto quello yukata gli stesse bene. Poi aveva immerso le sue grandi mani nell’acqua cristallina e si era sciacquato il viso.
Era davvero una bellissima giornata. Black Star si alzò in piedi, lasciando che la brezza pizzicasse il suo volto inumidito. Respirò a fondo quell’aria profumata, così diversa dal suo vicoletto maleodorante. Era aria di cambiamento.




Ok, ora mi ammazzerete. Perchè questo capitolo è lungo e succede ben poco. Inoltre non mi soddisfa neppure come è scritto, mi sono persa un po' troppo nelle descrizioni, forse. Comunque spero di rifarmi col prossimo capitolo.
Commentate in tanti e non mi ammazzate! Abbiate pietà di me xD

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Capitolo 5
*** Katana vs Armonica ***


Capitolo 5: Katana vs Armonica
 
 
 
 
Fin dal primo istante in cui il suo sguardo si era posato sulla Contessina, Kid era stato totalmente stregato dalla sua figura. L’aveva seguita attentamente con gli occhi, ghermendo ogni suo minimo movimento con sguardo avido. Lei sembrava sostenere il suo sguardo senza sentirsi in soggezione. Evidentemente era abituata ad avere addosso gli sguardi altrui, oppure era molto audace.
A Kid lei sembrava perfetta. Probabilmente la visione di lei l’aveva lasciato tanto sbigottito perché si aspettava di veder comparire l’ennesima fanciulla mediocre, senza nulla di speciale. Ma mentre Maka poteva apparire anonima ad altre persone, al Principe sembrò di aver trovato quell’armonia di lineamenti che andava cercando da lungo tempo. Decise d’impulso che la voleva. Voleva sposarla, voleva metterle l’anello al dito, voleva porre il diadema sul suo capo, voleva contemplarla e toccarla in ogni centimetro del suo corpo perfetto. Voleva tante cose, in maniera infantile. Non si rendeva conto che l’avrebbe sposata per capriccio, considerandola più come un oggetto di bellezza assoluta, che come una moglie da amare.
Ma in questo il Principe Kid era davvero ottuso. Sapeva solo che, per far sì che lei accettasse di cedergli la sua mano, doveva prima di tutto farle un’ottima impressione. Fu così che si alzò lentamente e, con altrettanta lentezza le si avvicinò, senza mai staccarle gli occhi di dosso. Una volta giunto davanti a lei, constatò quanto lei fosse minuta, e questo lo intenerì, la fece apparire ai suoi occhi come un piccolo gioiello di inestimabile valore. Fissandola ancora con sguardo adorante, si inginocchiò al suo cospetto, prendendo una delle sue piccole mani e baciandogliela.
Il Principe era perfetto proprio come Maka se lo immaginava. O quasi. Si accorse che qualcosa non andava in lui quando toccò la sua mano. Perché era così fredda e sudata? Sembrava tremasse leggermente, nervosa. Anche il contatto delle labbra con la pelle liscia della Contessina fu strano. Non ebbe il tempo di sentire la consistenza della sua bocca, perché il contatto fu fin troppo breve e nervoso. E nei suoi occhi dorati brillava una strana luce, poco sana. Le ricordò vagamente quel sinistro baluginio che intravedeva negli occhi di Stein, ogni tanto. E questo non la rassicurò. Forse voleva dire che il perfetto futuro sovrano che aveva di fronte non era poi così a posto? La voce profonda del giovane reale interruppe bruscamente le sue supposizioni.
“Incantato dalla vostra regale bellezza, Contessa.” Disse lui senza smettere di guardarla, devoto. “Io sono il Principe di Death Island, Death the Kid, e sono venuto fin qui per chiedere la vostra mano.”
Maka arrossì, imbarazzata. Si sentiva davvero in difficoltà, e non ricordava neanche cosa avrebbe dovuto dire. Come si era ripromessa di comportarsi con lui? Di cosa aveva parlato quella mattina con Tsubaki? Ricordava benissimo il breve discorso sull’amore, ma si erano dette anche un’altra cosa. Già, ma cosa? L’improvviso cigolio della porta d’ebano la riscosse, e attirò l’attenzione di tutti i presenti, che si voltarono nella direzione da cui avevano udito provenire il suono. Tutti tranne il Principe, che continuava a guardare Maka con tanto d’occhi.
L’appena giunta Tsubaki si sentì avvampare. Aveva addosso gli sguardi di tutti, e questo per lei era davvero imbarazzante. Incerta, fece un rapido inchino in segno di scusa, ed era così graziosa che tutti dimenticarono quel rumore molesto da lei provocato, e ripresero a guardare l’incontro tra la Contessina e il Principe.
Solo Maka era rimasta distratta più degli altri. Questo perché, non appena aveva incrociato lo sguardo con quello della sua dama e migliore amica, aveva ricordato immediatamente quel che aveva intenzione di fare. Aveva deciso di comportarsi in maniera altezzosa, così da non piacere né al Principe, né al Re. Sorrise a Tsubaki, quindi si volse nuovamente a guardare Kid negli occhi. Immediatamente l’espressione della ragazza si indurì.
“E’ tutto qui quello che avete da dire?” Disse Maka, glaciale. “Ho sentito queste stesse identiche parole tantissime volte, da molti miei pretendenti. Vi illudete di essere diverso da loro, e anche io avevo creduto che voi lo foste. Ma a quanto pare mi sbagliavo.”
Tutti gli astanti rimasero impietriti nell’udire quelle parole. Solo Re Shinigami era indecifrabile come sempre, quando taceva.
Kid non interruppe il contatto visivo con la Contessina, ma parve comprensibilmente confuso.
“Ma… Ma io…” Balbettò il giovane, in difficoltà. “Vi… Vi ho fatto quel complimento perché vi ho trovato davvero bella, Contessa… E quindi non…”
“Non è vero!” Sbottò Maka. Stava esagerando, ma non le interessava. Doveva liberarsi delle attenzioni del Principe al più presto. “Voi, più di ogni altro, vedete il matrimonio con me come un appagamento dei vostri meri interessi!”
Nell’udire quelle parole, anche Kid si adombrò. Aveva davvero un bel coraggio a parlargli così. Ma le sue parole non avevano senso, e lui glielo avrebbe dimostrato.
“Interessi?!” Fece dunque il Principe, secco. “Voi, che appartenete ad una famiglia di rango inferiore e che, a causa di vostro padre, è stata segnata dalla sciagura e dalla vergogna, venite a parlare di interessi a me?! Dovrebbe essere il contrario, semmai!”
Kid sembrava essersi dimenticato della presenza dell’appena menzionato ‘padre’ in quel luogo. Appena Blair udì le parole del giovane reale, prontamente estrasse un fazzoletto di seta azzurra chissà da dove e lo porse a Spirit, che aveva già cominciato a lacrimare copiosamente e a perdere muco dal naso, con un’espressione in volto che pareva quella di un bambino di cinque anni. Ma almeno, esclusi i momenti in cui tirava su col naso, stava in silenzio. Intanto, mentre Re Shinigami continuava a guardare la scena immobile, preso da chissà quali pensieri, Liz era in preda allo stupore più totale, con tanto di bocca spalancata, e sua sorella Patty pareva pressoché indifferente, perché continuava a guardarsi attorno come aveva fatto sin dall’inizio, oscillando ritmicamente il capo biondo oro.
Ma colei che rimase maggiormente sconvolta da quelle parole fu la stessa Maka, che si era resa conto che la risposta di Kid era di gran lunga più convincente e sensata della sua. Quella era la prima volta in assoluto che la Contessina veniva sconfitta a parole.
 
Vivere in una casa così grande ha certamente i suoi svantaggi. Questo pensava Black Star mentre percorreva l’ennesimo corridoio semibuio all’interno del castello. Quel posto era un vero labirinto, anche se gli piaceva parecchio. Se non avesse girato in tondo almeno tre volte, e non si fosse perso ancor più spesso, l’avrebbe già considerato come la sua casa. Era così sicuro che la sarebbe diventata tra breve, che era praticamente convinto di abitare lì. In tutto il tempo che aveva passato all’interno del maniero – circa una decina di minuti – non aveva ancora incontrato nessuno, e questo era, sicuramente, una gran fortuna. Però andando avanti così non sarebbe mai arrivato alla sua meta, e cioè la sala del trono dove la Contessina lo stava aspettando. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non perdere tutto quel tempo all’esterno, avrebbe dovuto continuare a seguire i reali nell’ombra, approfittando della piccola folla di dame. Ma lui era convinto di non aver sbagliato nulla, perché il grande Black Star non avrebbe mai ammesso un suo errore.
Quando finalmente era convinto di aver imboccato il percorso giusto, e dopo aver salito quella che credeva fosse l’ultima rampa di scale, Black Star si ritrovò davanti ad una porta aperta che dava su un cortile esterno, inondato di luce, da cui proveniva una strana musica soffusa. Oh, fantastico. Certo non era quella la sala del trono, anche se sarebbe stato un luogo piuttosto romantico per un incontro. Black Star, sbuffando sgraziatamente, si preparò a tornare indietro e a cercare una strada alternativa, quando uno strano individuo talmente coperto di luce da risultare indistinto gli venne addosso.
Black Star non si fece cogliere di sorpresa. Mosse qualche passo in dietro ma riuscì a non cadere. Invece l’altro finì sul pavimento miseramente, producendo uno strano rumore, che pareva il tintinnio di numerosi campanellini.
Istintivamente il ragazzo dai capelli azzurri, da guerriero ben addestrato qual’era, portò la mano sull’impugnatura della sua katana, pronto a difendersi da quel possibile aggressore. Lo osservò con attenzione. Ora che si trovava nella penombra, riusciva a distinguerlo meglio. Aveva prima uno strano cappello con sopra dei campanellini, ma questo era caduto, rivelando una testa coperta di folti capelli bianchi. Indossava dei bizzarri indumenti bicolori, che Black Star era sicuro di non aver mai visto indosso a nessuno prima di allora. Sembrava essere un ragazzo della sua età, anche se parecchio più strambo, secondo l’onesto parere del ragazzo dell’Arcipelago di Fuoco.
Il giovane a terra alzò lo sguardo, incrociando i suoi profondi occhi cremisi con quelli di Black Star. Quest’ultimo continuava imperterrito a stringere l’impugnatura della sua arma, stranamente silenzioso.
“Ehi, voi! Chi siete?” Disse il giovane dai capelli candidi, ancora a terra. Notò immediatamente dove era posata la mano del suo coetaneo. Era un tipo di lama che non aveva mai visto, ma sembrava molto pericolosa. “Tenete giù le mani dalla vostra arma. Non vedete che non sono in grado di difendermi?”
Black Star non obbedì all’ordine di quello strano tipo. Uno come lui poteva benissimo aver mentito, e celare nelle pieghe dei suoi strani abiti un coltello o una piccola arma di quel genere.
“Prima di risponderti, esigo sapere perché diavolo tu mi sia venuto addosso.” Ringhiò il ragazzo dai capelli azzurri, ancora sulla difensiva. “Sei impazzito o cosa?”
Il presunto aggressore si alzò in piedi, spolverandosi con le mani i vestiti bicolori. Diritto sulle sue gambe era solo poco più basso di Black Star. Dato che lo straniero non sembrava conoscere l’uso del voi, anche lui gli avrebbe dato del tu.
“Mi chiamo Soul Eater, sono un giullare di corte. Puoi chiamarmi Soul, tutti mi chiamano così.” Il giovane menestrello fece una breve pausa. “Non ti sono venuto addosso per farti del male. Ero solo corso dentro per cercare l’armonica che mi è caduta qui da qualche parte. Tu l’hai vista, per caso?”
Black Star inarcò le sopracciglia. “Armoni…che?! Non so neppure cosa sia.” Lasciò finalmente scivolare via la mano dall’impugnatura della katana, rilassando un poco il corpo.
“Ah, allora non mi puoi aiutare.” Concluse Soul, sospirando. “Prima che me ne vada puoi togliermi una curiosità? Sei per caso una guardia? Non ti ho mai visto da queste parti. Hai anche un abbigliamento curioso.”
“Guardia?!” Al giovane senzatetto venne da ridere. “Non mi abbasserei mai a fare una cosa del genere! Io sono il grande Black Star, e sono venuto qui per sposare la Contessa. E tra noi due, quello coi vestiti strani sei tu!”
Soul apparve pensieroso. La Contessa? Dunque lui era… “Allora saresti tu il Principe di cui si parla tanto? Ma non è possibile!” Scoppiò in una fragorosa risata che innervosì Black Star, prima di continuare. “Amico, senza offesa, ma i tuoi modi non sono per nulla signorili! E poi dovresti essere qui col tuo nobile padre, no?”
Lo strano samurai incrociò le braccia al petto, preparandosi a rispondere a tono al suo interlocutore. “Padre?! Chi ha bisogno di un padre? Io non ho bisogno di nessuno per conquistare il mondo! E sono sicuro che la Contessa si innamorerà perdutamente di me non appena mi vedrà!”
Soul sorrise. Quel tipo era proprio uno sciocco mitomane, ma doveva riconoscere che a modo suo era simpatico. Poteva essere paragonato ad una ventata d’aria fresca. E, sicuramente, il suo incontro con la Contessa Maka sarebbe stato terribilmente divertente. Ma di certo quel tizio non le sarebbe piaciuto. No, no.
“Ho qualche dubbio su questo, amico. Non credo che tu sia il suo tipo.” Disse il giullare, divertito. “Comunque posso dirti dove trovare la sala del trono, se è quello che stai cercando.”
“Oh, sì! Sì, sì, sì, sì! Grazie mille, sei un grande!” Strillò Black Star, euforico e chiassoso. Poi si bloccò un attimo. “Non come me, ma sei grande anche tu.” Concluse infine.
Soul sorrise nuovamente, mostrando due file di denti aguzzi. “Bene. Devi solo scendere questa rampa di scale, imbocchi il corridoio a destra e…”
“Lo porterò io alla sala del trono.” La voce di un uomo adulto interruppe la spiegazione del giullare. Black Star volse gli occhi verso la rampa di scale da cui aveva sentito provenire quelle parole. Non sembrava un tono molto amichevole, per dire la verità. La persona che vide lo lasciò a bocca aperta.
“Quanto tempo, eh?” Disse quello strano uomo dal volto coperto da cicatrici. Sorrise in modo sinistro.
Black Star si lasciò sfuggire un urlo. “Ma tu sei…!”
“Sono Franken Stein, piacere. Dimmi un po’… Era comodo il carretto? E le vivande erano buone?” Fece l’uomo, ridacchiando.
Soul fece un’espressione confusa che risultò piuttosto buffa. “Eh? Black Star, di cosa sta parlando?”
“Ah ah! Nulla di che! E’ solo che anche lui ha avuto l’onore di conoscermi, e ovviamente si ricorda di me!” Black Star rise nervosamente, mentre una goccia di sudore scivolava sulla sua fronte.
“Questo ragazzo è fuggito dalla sua terra, l’Arcipelago di Fuoco, nascondendosi nel mio carretto da viaggio. Io mi ero accorto della sua presenza, ma feci finta di nulla. Quando arrivai a destinazione volevo studiarlo in laboratorio, ma lui era già sparito.” Disse Stein, continuando a ghignare, facendo impallidire il ragazzo dai capelli azzurri. “Sono proprio contento di averlo ritrovato! Anche se non mi aspettavo proprio di ritrovarlo qui.”
Detto fatto si avvicinò e lo sollevò di peso. Black Star, un attimo prima di essere catturato, sembrava essersi ritratto, e aveva messo nuovamente la mano sull’impugnatura della katana. Però non aveva fatto in tempo ad estrarla. Quell’uomo era veloce e forte, davvero un tipo inquietante. I suoi vestiti sembravano vagamente umidi, e il povero ragazzo avvertiva una strana sensazione di gelo.
“Ehi! Fermo! Lasciami!” Gridò Black Star, contrariato, dimenandosi come un dannato.
“Oppone resistenza, eh?!” Fece Stein, vagamente affaticato. Andando avanti così avrebbe presto mollato la presa. “Ehi, tu! Aiutami! Lascia perdere quello che stavi facendo e tienigli fermi i piedi!” Disse, rivolgendosi a Soul.
Il giullare sobbalzò dalla sorpresa. Probabilmente non ne sarebbe stato in grado. E poi gli dispiaceva dover tradire così quello che sarebbe potuto diventare il suo primo amico.
“Soul! Non lo fare!” Strillò Black Star.
A quel punto Soul stava per incrociare le braccia e scuotere la testa con fare deciso, per dire che non l’avrebbe fatto. Poi però Stein gli rivolse un’eloquente occhiataccia.
“Obbedisci, incapace.” Ringhiò il ricercatore.
Soul si rabbuiò. Controvoglia prese le gambe di Black Star e cercò di tenerle ferme, ricevendo in cambio non pochi calci sui denti.
“Ehi! Che fai?!” Protestò Black Star. “Mi correggo, non sei grande, sei piccolo come una briciola di pane! Lo sapevo che l’illustre sottoscritto non poteva fidarsi di nessuno! Vi odio tutti!” Urlava quello, scalciando.
Il giullare stette immobile, cercando di abituarsi al dolore dei calci e aspettando che il suo coetaneo si stancasse un po’ di dimenarsi. Tante volte si era sentito un vigliacco, e quella non era neppure una di quelle in cui si era comportato peggio. Se si trovava nella situazione attuale era stata colpa sua, e per la sua stupidità anche suo fratello Wes c’era andato di mezzo.
“Allora? Ti vuoi muovere?!” Sbottò Stein. “Portiamo questo intruso dal Conte, e poi filerà dritto nel mio laboratorio!”
Soul si riscosse. Come al solito, quando era soprapensiero si estraniava dal mondo circostante. Annuì e cominciò a scendere difficoltosamente continuando a tenere ben salde le gambe di Black Star, che sembrava essersi stancato di scalciare, ma aveva ancora voce per sgolarsi.
“Non ti perdonerò mai! Ti odio! L’ira di un dio come me non è una bella cosa!” Continuava a strillare il bizzarro samurai.
Sai, Black Star… Anche io mi odio.

 
 

Ed eccomi di nuovo qui *_* Questo capitolo è forse un po' più attivo e meno descrittivo del precedente, e mi soddisfa di più, anche se in realtà non avevo voglia di far maltrattare Soul anche da Stein... Ma i personaggi si muovono da soli! Nel prossimo capitolo si saprà qualcosa di più sul caro Soul.
Spero abbiate apprezzato, anche perchè questo capitolo mi è costato una gran fatica... Quindi voi non risparmiatevi la fatica di recensire, please! X°°D

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Capitolo 6
*** Avviso ***


Mi scuso con tutti voi!
Il sesto capitolo è in lavorazione, ma in questi giorni sono molto incasinata per via di un concorso di disegno e ho poco tempo. Avrei dovuto postarlo oggi, ma ho avuto un imprevisto ed è ancora incompleto. Quindi mi prendo una pausa di pochi giorni (il concorso scade il cinque settembre) per lavorare a questo progetto. Potrebbe risuccedere.
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito la storia fino ad ora, e spero che continueranno a seguirmi dopo che avrò ripreso a scrivere. La pausa sarà comunque breve. Lo dico perchè fin ora ho pubblicato un capitolo al giorno, con una certa costanza, e mi dispiace dovermi interrompere così, anche se si tratterà di pochi giorni.
Grazie ancora per l'attenzione!

Cheche

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Capitolo 7
*** La forza di cambiare ***


Capitolo 6: La forza di cambiare
 
 
 
 
Non appena aveva visto le truppe reali entrare nella loro città, Wes aveva lasciato la bottega del padre ed era corso a casa. Quel giorno stava lavorando da solo, perché la malattia di suo padre era peggiorata. Si trattava di qualche linea di febbre, ma allora si moriva di quello. Nella sua corsa, Wes aveva visto i soldati bruciare abitazioni, rapire donne, uccidere i loro bambini, massacrare decine di innocenti. La sua città stava perdendo le vite che a lungo aveva ospitato, e la neve bianca si stava tingendo di rosso sangue, in ogni suo centimetro quadro. Quando quella mattina era andato al lavoro, il villaggio l’aveva salutato con risate e chiacchiere gioviali. E ora che usciva, l’unico sottofondo era quello di urla di terrore, pianti di bambini, parole volgari pronunciate dai soldati. Desiderava che il suono del vento coprisse ogni singolo respiro dei suoi compaesani, ammesso che fossero rimasti a qualcuno altri sospiri da esalare, prima di subire lo stesso, tragico destino.
Aveva sempre pensato che il Re di Death Island, Shinigami, fosse una persona magnanima che detestava i conflitti, e non voleva allargarsi a conquistare i regni vicini. Così almeno aveva sempre sentito dire. E invece era stato capace di tutto quello. Da quando un emissario gli aveva annunciato che in quel paese c’era un gruppo di vedove sospettate di stregoneria non ci aveva più visto, e aveva mandato le truppe a mettere a soqquadro il villaggio al solo scopo di trovarle ed ucciderle. E l’esercito era andato, ricorrendo a mezzi drastici, seminando morte e distruzione.
Come Wes fu arrivato a casa, aveva trovato Soul nel cortile, con in braccio il corpo di una donna che non riconobbe, tanto era trasfigurata. Solo più tardi Soul gli avrebbe detto che era la loro madre.
Soul era immobile, impalato, pallido, in preda al terrore più nero. Sui suoi vestiti e sulla neve colava il sangue della donna, ancora fresco.
“Soul, stai bene?” Urlò Wes. In quel luogo le truppe non erano ancora arrivate, non c’erano case in fiamme, e le uniche gocce di sangue a macchiare la neve erano quelle della donna, che avevano segnato in tutta la sua lunghezza il percorso di Soul con quel corpo tra le braccia.
“Che stai facendo?” Disse ancora il maggiore, raccogliendo una falce da un mucchio di utensili appoggiati ad un muretto diroccato e coperto di neve. “Prendi un’arma e preparati a combattere, invece di fissare il vuoto.”
“Che stai dicendo?” Disse Soul, che parve improvvisamente svegliarsi da una sorta di sonno ad occhi aperti. “Wes, dobbiamo andarcene, prima che ci trovino!”
“Io non abbandonerò mai questa casa! E… I nostri genitori…” Wes strinse ancor di più le mani sull’asta della falce, così forte da far sbiancare le nocche.
Soul aveva sempre desiderato andare via da quella casa opprimente, lontano da quei genitori che non facevano altro che sparare raffiche di sentenze. A loro non stava mai bene nulla di quel che faceva. Odiava essere definito da loro ‘incapace’. Tutti nel villaggio lo consideravano inferiore a suo fratello, e i suoi stessi familiari non facevano eccezione, e non facevano nulla per nascondere questa loro predilezione per Wes. Ma ora che sua madre era morta si era accorto di provarne dolore. Spesso, quando era arrabbiato con i suoi, gli aveva augurato la morte. Tanti sono gli adolescenti che lo fanno, anche se non lo pensano davvero. E lui era in tutto e per tutto un normale adolescente, di quelli che nei villaggi si possono trovare a decine. E come tutti gli adolescenti normali, alla morte di un genitore sentiva dentro un incolmabile senso di vuoto. Talmente incolmabile da dimenticare tutto il resto. E si sarebbe accorto più tardi che cosa stava per dimenticare, quali errori stava per compiere in quella tremenda giornata.
Quando Soul vide Wes prendere in mano quell’arnese arrugginito, subito gli fu addosso, cercando di strapparglielo di mano.
“Non capisci, Wes? Se restiamo qui faremo la stessa fine di nostra madre! Non fare lo stolto e metti giù quella falce! Scappiamo!” Urlava, cercando di strappargli via quella specie di arma che suo fratello teneva stretta, disperatamente. Nell’udire quelle parole, la presa del maggiore si allentò leggermente, ma non abbastanza da darla vinta al minore.
“Cosa? Vuoi dire che… Nostra madre…” Esalò Wes, con un filo di voce. Dalla sua bocca uscì una solitaria nuvola bianca, che si disperse subito nell’aria fredda.
“Proprio così, è morta! Adesso dimmi Wes, hai intenzione di finire come lei?” Ruggì Soul, continuando a tirare la falce verso di sè con prepotenza.
“Sì!” Rispose il maggiore, con tono ancora più alterato. “Preferisco morire qui, adesso, nel luogo in cui sono nato e cresciuto, difendendo tutto quello che mi è rimasto e che ho sempre amato. Lo preferisco piuttosto ad una morte in un luogo lontano tra chissà quanti anni. E’ qui che voglio stare. Nella mia casa, con te e con nostro padre. Qui io seppellirò nostra madre, e accanto a lei voglio essere seppellito, che sia oggi o che sia tra cento anni!”
Soul scosse la testa. Loro due erano troppo diversi, ora l’aveva finalmente compreso. Wes era sempre stato il figlio prediletto, si era sentito amato, aveva ricevuto un’istruzione, era un eccellente musicista ed era abile sia nella matematica che nella retorica, come aveva appena dimostrato con quel suo discorso carico di orgoglio. Tutti lo amavano, lo elogiavano e lo ammiravano. Era sempre stato felice, non gli era mai mancato nulla, non aveva mai pensato neppure mezza volta di fuggire di casa, non aveva mai augurato la morte ai suoi familiari.
Soul invece era la pecora nera della famiglia. Veniva sempre biasimato da tutti, sempre incolpato di tutto quello che succedeva, mai nessuno gli aveva fatto un complimento, in tutta la sua monotona vita. Non aveva un legame affettivo così esclusivo con quel luogo come era stato per Wes. Per lui in quella casa si respirava sempre un’aria greve, impregnata di ricordi cupi, che avrebbe voluto cancellare a tutti i costi.
Era chiaro che tra i due fratelli chi aveva sofferto di più per la morte della loro madre fosse il maggiore. Scontato e comprensibile. Ma, nonostante il dolore e le lacrime represse, Wes aveva trovato la forza di pronunciare quel discorso impregnato di orgoglio esasperato, senza mai fermarsi e titubare. E Soul non era ancora riuscito a strappargli quella dannata falce di mano. Capì che tra loro due Wes aveva un’anima più pura, più coraggiosa. Capì perché tutti avessero stima di lui, perché i suoi nemici si potessero contare sulla punta delle dita, perché la vita fino a quel giorno funesto fosse stata più giusta con lui. Questo non voleva dire che Soul avrebbe rinunciato al suo proposito di scappare. Solo non avrebbe costretto suo fratello a seguirlo. Sarebbe fuggito anche da solo, se fosse stato necessario.
 
“Vi odio! Bastardi, mettetemi giù!” Continuava a sgolarsi Black Star, trattenuto da Stein e Soul che lo trasportavano attraverso i corridoi e le scalinate.
Il giullare lo sbirciò in faccia di sottecchi. Nonostante fosse arrabbiato e deluso, il suo volto aveva la stessa luminosità di quando aveva chiacchierato pacificamente con lui. La sua voce era sempre limpida, pulita. Il suo comportamento era genuino e spontaneo. Ma se era così stupido, perché mai sembrava brillare di luce propria, come una stella? Perché nonostante fosse un mitomane aveva pensato che fosse simpatico? Lui non aveva mai sopportato le persone arroganti e aride. Gli avevano sempre riso in faccia, guardandolo dall’alto verso il basso. Ma quel ragazzo era convinto di essere fantastico, lui diceva sempre quello che pensava. Non si vantava tanto per farlo. Eppure Soul aveva capito che in passato Black Star aveva sofferto.
Quel ragazzo poi gli aveva anche fatto un mezzo complimento, prima di essere tradito da lui. Gli aveva fatto capire di essere una persona dal grande cuore. Gli piaceva quel Black Star. E allora perché lo aveva già tradito? Perché compiva sempre azioni che lo portavano a odiare sé stesso? Questo pensava Soul mentre camminava sulle scale, trasportando difficoltosamente le gambe  di quello che avrebbe potuto essere un amico e un valido alleato.
Tenne gli occhi bassi, fissi sui piedi del ragazzo dai capelli azzurri, mentre nella sua testa, tutto il tempo, si rincorrevano i rimorsi e i ricordi del suo passato.
 
Soul correva nella neve, cercando di mettere più distanza possibile tra la casa in cui aveva sempre vissuto e il suo corpo. Lui non lo capiva, ma mentre il suo corpo era già lontano, nelle campagne innevate, la sua anima rimaneva sempre legata a quel posto da cui si allontanava inesorabilmente. Inciampò, cadde, rantolò per il freddo e per il dolore. Si alzò, guardando a fatica i suoi vestiti sporchi di sangue. Era pronto a ripartire, non poteva fermarsi o sarebbe sicuramente morto.
“Soul!” La voce di suo fratello si udì chiara nell’aria agitata. Che ci faceva lì? Non voleva continuare a combattere, non voleva rimanere lì? “Dove stai andando?” Urlò ancora.
Soul si girò, i denti che battevano, le labbra che si screpolavano. “Me ne vado… Io voglio vivere!” Disse, quando fu vicino al fratello.
“Non essere sciocco! Torna indietro! Io voglio stare nella mia casa con la mia famiglia, e anche tu ne fai parte!” Wes non aveva più in mano quella falce. L’aveva gettata all’aria non appena suo fratello aveva mosso un piede fuori dalla loro proprietà, per corrergli dietro mandando momentaneamente al diavolo i suoi propositi.
“Non puoi costringermi a farlo! Non puoi costringermi a morire! Io non voglio obbligarti a seguirmi!” Urlò Soul, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. “Torna indietro, Wes! Torna a casa! Un giorno tornerò a farti visita, anche se sarai morto. In quel caso pregherò sulla tua lapide. Se invece sarai vivo ti abbraccerò, pronto a vivere con te, a seconda dei tuoi desideri. Con te e con nostro padre.”
Soul tratteneva le lacrime. Aveva capito che Wes teneva a lui nonostante tutto, e questo lo rendeva così felice da farlo commuovere. Finalmente qualcuno si preoccupava per lui, e questo non era altri che il suo segretamente ammirato fratello. Ma non doveva versare lacrime perché, qualora si fossero congelate, non avrebbe più visto niente.
“Nostro padre…” Fece Wes, ansimando pesantemente.
“Sì, nostro padre.” Soul sorrise, un secondo prima ignaro, un istante dopo improvvisamente cosciente. “Nostro padre!” Urlò, disperato.
“Sì, è ancora nella nostra casa… per questo… dobbiamo tornare…” Disse Wes, con voce sempre più flebile.
“No, io non tornerò.” Soul scosse la testa. Forse suo padre sarebbe morto comunque per via di quella febbre che lo tormentava da più di due settimane. E lui poteva ancora vivere, ma questa possibilità sfumava, se mai avesse deciso di tornare per farsi uccidere dai soldati.
“Soul…” Lo pregava Wes, cadendo in ginocchio sulla neve, debole come non mai. Soul lo guardò. Vedendo la sua schiena dall’alto, noto che anche i suoi abiti erano sporchi di sangue. Ma per suo fratello era diverso. Stavolta il sangue era il suo.
“Cosa ti è successo? Parlami! Wes!” Urlò il minore, in preda al panico. “Perché stai sanguinando?”
“Quando mi sono voltato per andarti a cercare… le truppe erano appena arrivate…” Fece Wes appena cosciente. “…E qualcuno mi ha preso a tradimento… con una freccia…”
Soul sgranò gli occhi. Allora era colpa sua, della sua codardia? Si morse le labbra, ricacciando a fatica le lacrime in gola. Prese il fratello tra le braccia e lo strinse a sé, finchè Wes non perse conoscenza. Allora se lo caricò sulle spalle. Nonostante il suo corpo fosse pesante, Soul era spinto dalla disperazione. Avrebbe fatto tutto il possibile, avrebbe preso tutte le decisioni più giuste. Doveva fare del suo meglio per Wes.
 
Ad aver apprezzato Soul c’era Black Star. E poi c’era Maka. Non appena la grande porta d’ingresso alla sala del trono si aprì, Soul la vide di nuovo, mentre Black Star salutava la luce della stanza chiassosamente.
“Lasciatemi!”
Maka fronteggiava un ragazzo che Soul non aveva mai visto. Era un tipo affascinante, dall’aspetto e dall’abbigliamento impeccabile. Dunque era lui il principe? Il giullare digrignò i denti, mentre tutti i presenti si giravano verso di loro.
In quel momento Soul avrebbe voluto che il castello saltasse in aria.
 
Aveva camminato tutta la notte, ignorando la fame e il sangue di Wes che gli inzuppava i vestiti. Ignorando il male ai piedi e la voglia di gettarsi a terra e piangere fino alla morte. Ma non avrebbe mollato così. Insomma, voleva una fine dignitosa, e voleva che suo fratello sopravvivesse.
Questo l’aveva spinto fino ad un’alta muraglia in pietra che delimitava probabilmente una città. All’entrata c’erano due guardie mezze addormentate che, non appena ebbero udito i suoi passi strascicati, si rizzarono in piedi, sveglie e pimpanti come non mai, scrollandosi dignitosamente la neve di dosso.
“Vorremmo passare.” Fece Soul, con voce stanca.
“Certo. Ma voi prima fateci vedere il permesso.” Fece il più alto, ghignando.
“Non ce l’ho. Non è che potreste chiudere un occhio? Mio fratello sta male.” Disse Soul, ansimando sotto il peso morto del fratello.
“E chi ci dice che non siate stato voi a ridurlo in quella maniera? Siete tutto coperto di sangue.” Disse il più basso e tarchiato.
“Nessuno sarebbe così stolto da andare in giro con un cadavere in spalla, non vi pare?”Fece Soul, mentre un sorriso amaro si dipingeva sul suo viso pallido e smunto. “Vorremmo passare.” Ripeté.
“Non potete. Per legge nella città di Alamar non può entrare e uscire nessuno senza il permesso del Conte.” Recitò il secondo guardiano, preciso come un manuale.
“Vuol dire che dovremmo tornare indietro?” Ringhiò Soul, che pensava già alla fine che avrebbero fatto lui e suo fratello se non fossero riusciti ad entrare in quella città.
“Potremmo lasciarvi entrare. Potremmo anche far curare vostro fratello. Ma questo a una sola condizione.” Disse il più alto delle due guardie.
“Accetto, qualunque essa sia.” Disse Soul, che vide improvvisamente la luce.
La guardia fece per spalancargli le porte della città. Prese fiato per parlare. “Dovrete stare tutta la vita al servizio del Conte, entrambi. Così vuole la legge.”
E mentre entrava, Soul si concesse di piangere per la prima volta in vita sua.
 
Soul ci pensò. Forse aveva fatto male quella volta ad accettare. Era disposto a tutto, ma non aveva pensato alla libertà, e all’affetto di suo fratello. Aveva solo pensato a vivere, come un codardo.
Io sono un vigliacco. E per colpa di questo mi trovo qui, rinchiuso in questo posto che odio, e mio fratello a malapena mi rivolge la parola. E ho tradito quello che avrebbe potuto diventare il mio migliore amico. E la Contessa sta per sposare il Principe.
Soul spostò con amarezza lo sguardo su Maka. Le parve così splendente, così bella nel suo abito. Provò istintivamente odio per il Principe, anche se non capiva cosa provava per la Contessina. Poi pensò che era davvero uno stupido a pensarla così. Era solo colpa sua se succedeva tutto quello che non voleva che accadesse.
Era perché pensava di essere un verme che tutto andava storto. Era perché vedeva tutto nero che tutti gli si allontanavano. Black Star era convinto di essere un grande, e riusciva ad apparire come tale. Maka, pur non dimostrandolo, era consapevole del suo valore, e per questo sembrava risplendere radiosa anche quando si arrabbiava. Mentre Soul era convinto di essere un vigliacco, e per questo la vita non faceva che voltargli le spalle.
Anche gli altri avevano i loro problemi, ma non per colpa loro. E invece Soul era sempre stato la causa stessa dei suoi problemi. Se tutti lo ignoravano era perché non aveva mai avuto fiducia in sé stesso. Se tutti lo biasimavano era perché lui stesso si odiava. E se compiva dei gesti meschini era perché pensava di non poter scivolare ancora più in basso di così.
Ma come aveva visto di nuovo la Contessa aveva capito di voler possedere il suo stesso coraggio. Aveva pensato che forse c’era speranza di risalire, che poteva cambiare la sua vita in quello stesso momento, che poteva imparare ad apprezzarsi con un gesto.
E quel gesto Soul lo fece.
Diede un violento strattone, e Stein si vide costretto a lasciare la presa su Black Star. Ora l’aveva liberato e l’aveva anche portato nella sala del trono, come lui voleva. Lanciò un occhiata al ragazzo dai capelli azzurri steso a terra.
Entrambi sorrisero.
Forse non è troppo tardi per cambiare.



Sono tornata! Non garantisco la costanza di una volta ma finalmente sono riuscita a postare il 6° capitolo. Gioite, amici! Questo finora è il capitolo più introspettivo. Ho sempre amato curare l'introspezione dei personaggi, e spero di esserci riuscita. Ah, per chi se lo sta chiedendo, sì, conosco la filosofia del pensiero positivo. Non l'ho mai praticata, ma ciò non mi impedisce di ispirarmici, no?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Recensite in tanti!

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