Trionfi della Morte

di Satomi
(/viewuser.php?uid=29664)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per troppo zelo. ***
Capitolo 2: *** Per troppo odio ***
Capitolo 3: *** Per troppa infamia ***
Capitolo 4: *** Per troppo rancore ***



Capitolo 1
*** Per troppo zelo. ***


Per troppo zelo 

 

 

 

Il luogotenente della nuova Folgore si considerava ed era considerato un buono stratega, dotato d’un coraggio a tutta prova e non imbarazzato a usare il pugno di ferro; rispettato da sottoposti e ufficiali, occupava una posizione di prestigio.
Che immancabilmente finiva per stemperarsi dinanzi alle doti del suo capitano.
Pierre le Picard non aveva mai provato invidia verso il signor Morgan, superiore a lui in coraggio e astuzia; lo sapeva migliore di lui e lo rispettava per questo.
Ma la sua innata ambizione gli impediva di limitarsi a quanto era il suo dovere, risoluto a mostrare agli altri e a se stesso di non esser da meno del suo valoroso comandante.

 

Per ben due volte s’era ritrovato a rivestirne la carica.
Per ben due volte aveva fallito.
In qualità di capitano era riuscito a organizzare e condurre in salvo un pugno di marinai sopravvissuti a un naufragio, finendo però per perdere di vista i prigionieri spagnoli, due dei quali avrebbero poi rapito la signorina di Ventimiglia.
In qualità di comandante di vascello aveva guidato un gruppo di filibustieri camuffati da spagnoli con lo scopo di carpire informazioni al nemico, finendo per cadere in un tranello e perdere buona parte dei suoi uomini.
Due pericolosi fallimenti che, se non avevano minato la stima che Morgan aveva per lui, avevano scalfito la sua reputazione presso gli altri filibustieri. Persino Carmaux e Wan Stiller, inferiori a lui per grado ma superiori per confidenza col capitano, dopo l’ultima e più pericolosa disavventura avevano preso a guardarlo in maniera diversa, e il significato dei loro sguardi era palese.
Morgan, al suo posto, avrebbe usata una maggiore prudenza e non avrebbe messo da parte il fucile per far quattro salti con le dame spagnole.
Perché un vero comandante non abbassa mai la guardia.
 

Pierre le Picard, minato nell’orgoglio, s’era ripromesso di cercar quanto prima la sua occasione di rivalsa.
Trovandola a Panama, nel palazzo del governatore.
Ma questa volta il desiderio di porsi sullo stesso piano di Morgan – come capitano e come protettore di Jolanda - gli sarebbe costato qualcosa di più della semplice reputazione.

 

"Muori per mano del bastardo!..."
Un grido di dolore aveva seguito lo sparo, ma non lo mandò Jolanda, bensì Pierre le Picard.
Il bravo filibustiere con una mossa fulminea aveva coperto la fanciulla ed aveva ricevuto la palla nel petto.
Tuttavia era rimasto in piedi. S’appoggiò al muro per non cadere, levò a sua volta la pistola e fece fuoco contro il gruppo formato dai quattro spagnoli abbattendo uno dei due ufficiali.
"Sono vendicato" ebbe appena il tempo di dire.[1]

 

Era morto così Pierre le Picard.
Con gli occhi addolorati di Jolanda fissi su di lui e la feroce certezza d’aver spedito all’inferno un suo nemico.

 

[470 parole]

 

 

 

 

Note dell’autrice: il personaggio di Pierre le Picard, luogotenente di Morgan nel terzo libro del Ciclo delle Antille, non è mai stato nelle mie grazie, lo ammetto. Non lo odio ma nemmeno posso dire di apprezzarlo.
Rileggendo “Jolanda” con maggiore attenzione mi sono accorta di come, in effetti, più di una volta avesse fatto il passo più lungo della gamba. E la sua morte nell’ultimo capitolo è stata un’inevitabile conseguenza che a distanza di anni non mi sembra più così sorprendente come lo fu alla mia prima lettura del romanzo.

Satomi

 

Note introduttive alla raccolta: è stata proprio la sventurata sorte di Pierre le Picard a farmi capire come, in effetti, tutti i morti di quel giorno a Panama non fossero stati casuali: consapevolmente o meno Salgari ha mandato al patibolo quattro persone che, in modi diversi, hanno valicato un confine.
E come Ulisse (l’inferno di Dante docet v.v), reo di aver superato le colonne d’Ercole fino a raggiungere la montagna del Purgatorio, fu sommerso con tutta la sua nave, così quattro personaggi salgariani sono stati puniti per l’aver valicato ciascuno un diverso limite.



[1] da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, XXXV capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Per troppo odio ***


Per troppo odio 

 

 

Essere un pezzo grosso della società di Maracaibo aveva i suoi vantaggi: rispetto, guadagni eccellenti, cene importanti, conoscenze di cui vantarsi.
Don Raffaele Tocuyo y Caldara, ricco scapolo e ultimo discendente di una generazione di piantatori, aveva imparato ben presto a godere dei suoi privilegi prima di accorgersi che, oltre a portare piaceri, erano anche motivo di grosse rogne.
Non poteva dirsi altrimenti quanto gli era capitato in quella che avrebbe dovuto essere una tranquilla serata in taverna, allietata dal vino e da un combattimento di galli su cui fioccavano scommesse.
Serata che, se gli aveva fruttato un bel gruzzolo di piastre, s’era anche trasformata nel suo peggiore incubo.

 

Da quel momento in poi era stato un susseguirsi di sempre maggiori disgrazie: il rapimento, l’interrogatorio dell’almirante della flotta corsara, due tentate impiccagioni.
I  filibustieri, di cui era divenuto suo malgrado collaboratore, lo vedevano come una botte di carne su cui sollazzarsi e l’avrebbero accoppato se due di essi, un po’ per simpatia un po’ per senso dell’utile, non si fossero eletti a suoi protettori.
Gli spagnoli, cui aveva voltato le spalle, lo consideravano un traditore.
E uno di essi s’era ripromesso d’ucciderlo.
Dal giorno in cui aveva condotti i due fidi di Morgan al convento dei Carmelitani don Raffaele s’era sentito indosso gli sguardi minacciosi del capitano Valera. E a nulla erano servite dapprima la lontananza, poi le precauzioni e la protezione di Carmaux - che forse non l’aveva mai preso sul serio.
Un attimo e s’era ritrovato preso alle spalle e gettato in mare, ma la fortuna che sovente proteggeva i filibustieri era passata a lui facendolo naufragare sulle coste del Venezuela.

 

Il ricongiungimento coi corsari di Morgan e il rapimento di Jolanda avevano risolto il pacifico e innocuo piantatore a lasciarsi indietro timori, scrupoli e patria in nome dell’odio verso il capitano Valera.
Odio alimentato dal piacere d’aver trovato qualcuno che volentieri s’era fatto carico della sua vendetta.
Odio che gli diede l’illusione d’aver ricevuti una forza e un coraggio che mai erano stati suoi.
Odio che lo rese dimentico d’ogni precauzione, preso com’era dal piacere di vedere il suo persecutore in difficoltà.

 

"Son morto!..."
Era il capitano Valera che aveva fatto il suo colpo.
A poco a poco, sempre indietreggiando, si era accostato a don Raffaele e, dopo essersi assicurato con un rapido sguardo, che ormai si trovava a buona portata, con un salto da tigre si era gettato fuori dalla linea della spada di Carmaux, poi con una stoccata fulminea aveva immerso il ferro nella gola del piantatore.
Il disgraziato, colpito a morte, era stramazzato al suolo mandando quel grido:
"Son morto!..."
Carmaux, vedendosi sfuggire l'avversario, era piombato su di lui, urlando: "Ora vendicherò don Raffaele!..."[1]

 

Era morto così don Raffaele.
Con l’urlo feroce di Carmaux negli orecchi e la dolorosa consapevolezza che quel suo odio s’era spinto troppo oltre.

 

[490 parole]

 

 

 

Note dell’autrice: quando lessi per la prima volta “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero” mi stavo appassionando anche a “I promessi sposi”. Sarà per questo che non solo, nella mia testa, don Abbondio e don Raffaele avevano lo stesso aspetto, ma quest’ultimo era da me considerato un prete (il “don” mi aveva tratto in inganno). Deliri di una tredicenne XD
Don Raffaele è, nel romanzo, una macchietta di cui però non si può fare a meno; se sono riuscita ad appassionarmi al ciclo corsaro è anche grazie a lui (che nei primissimi capitoli viene preso per il naso da Carmaux e Wan Stiller... quanti ricordi *nostalgica*).
Ammetto che, con gli anni, il fascino di questo romanzo mi ha un po’ lasciato, soppiantato dalla venerazione per i primi due tomi del ciclo, però don Raffaele continua a starmi simpatico. E continuo a imprecare contro Carmaux ogni volta che, nelle mie riletture, si fa scappare Valera e lascia che quel povero piantatore venga ucciso. Meno male che le cose in seguito si “aggiustano”... come capirete quando posterò la prossima flash.
Satomi


[1] da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, trentacinquesimo capitolo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Per troppa infamia ***


Per troppa infamia 

 

 


“Un intimo amico del conte di Medina e un po’ anche la sua anima dannata.”[1]
Non aveva errato don Raffaele a definir così Juan de Valera, ufficiale tanto audace quanto ambiguo. Neanche gli uomini con cui era in maggior confidenza avrebbero saputo dir cosa celasse il grigio dei suoi occhi mobilissimi, in cui sovente appariva una scintilla sprezzante e beffarda.
Il governatore di Maracaibo aveva trovato in lui, più che un amico, un braccio destro valente e senza scrupoli. L’ideale per custodire un prezioso ostaggio quale era Jolanda di Ventimiglia.
Senza tema che si facesse irretire dal suo fascino di fanciulla o sferzare dall’acuta favella della figlia d’un corsaro.

 

Il braccio di Valera era avvezzo a uccidere chi gli fosse d’impiccio, a viso aperto ma anche alle spalle, se occorreva.
Sovente la sua bocca era stata sporcata dalla menzogna, tanto da risultar sempre più convincente, e non gli era occorso poi molto per raggirare quell’idiota d’un francese e il suo compare, facendosi credere un galantuomo e un onesto ufficiale.
Non aveva un titolo da far rispettare come quei cialtroni di nobili che tanto tenevano al loro onore, lasciando che fossero altri a compiere per loro le peggiori nefandezze. Quanto alla coscienza, aveva imparato da tempo a chiuderla a doppia mandata in un angolo recondito del suo cervello.
Il conte di Medina, meno attento all’onore di quanto non paresse, l’aveva scelto come braccio destro anche per questo. Erano i risultati a interessargli, non i metodi.

 

Quando v’era stata l’occasione di gettare in mare don Raffaele a tradimento, non aveva esitato.
Quando aveva potuto aprire una nuova falla nel veliero che lo teneva in ostaggio assieme al conte,  non s’era risparmiato.
Quando s’era ritrovato dinanzi il piantatore, vivo e vegeto ma impaurito, non s’era lasciato sfuggire l’opportunità di sgozzarlo come un maiale quale era.
Quando v’era stato da osare nei confronti della figlia del Corsaro, indifesa mentre i suoi protettori lottavano attorno a lei, aveva osato.
Una volta di più.
E per l’ultima volta.

 

Il capitano, agile come un gatto, si era nuovamente gettato da una parte, precipitandosi addosso alla signora di Ventimiglia che non si era accorta del grave pericolo.
Già stava per cacciarle la spada fra le spalle, quando Wan Stiller, che era a pochi passi, e che aveva udito il grido di furore di Carmaux, con una stoccata poderosa inchiodò l'ufficiale alla parete, poi, ritirato il ferro fumante di sangue, tese il braccio armato per coprire la fanciulla.[2]

 

Era morto così il capitano Valera.
Con la spada dell’amburghese nel cuore e in corpo la stizza rabbiosa di chi ha mancato al suo dovere.

 

[450 parole]

 

 

 

Note dell’autrice: pur con tutta la buona volontà non sempre Salgari riesce a rendere odiosi gli antagonisti principali dei suoi romanzi; a mio parere gli riesce molto meglio coi personaggi secondari.
Perché se, nel Ciclo delle Antille, c’è un personaggio che detesto è proprio il capitano Valera. E non tanto per la sua falsità e ambiguità, ma perché ha tentato in tutti i modi di rovinare i piani dei corsari, si è accanito contro don Raffaele che non poteva nulla contro di lui e alla fine l’ha ucciso. In quelle righe ho imprecato contro di lui, contro Carmaux che si è fatto fregare come un’idiota, contro l’autore che ha mandato a morte un poveretto.
Però alla fine mi sono dovuta ricredere sullo zio Emilio.
Perché vedere il personaggio più odioso in assoluto ucciso per mano del tuo personaggio preferito è una bella soddisfazione, non trovate?
Satomi

 


[1] da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, VII capitolo. 

[2] da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, XXXV capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Per troppo rancore ***


Per troppo rancore 

 

 



Il futuro governatore di Maracaibo era poco più d’ un bambino quando la sorellastra partì da Veracruz per non tornar più mai. Il duca Wan Guld, logorato dalla scomparsa di Honorata e perseguitato dal Corsaro Nero, avrebbe passati gli ultimi anni della sua esistenza a cercare la figlia e a fuggire dal suo mortale nemico.
Mentre il suo figlio bastardo, cui fu imposto il titolo di conte di Medina e Torres, cresceva nel rancore.
Verso il padre che mai s’era curato di lui.
Verso l’uomo che gli aveva portata via l’unica persona che tenesse a lui.
E infine, verso il frutto di quell’unione.

 

“Ho da vendicare mio padre!... Mi  avete indovinato!... Vi spezzerò in due!”[1]
Una bugia che lui medesimo s’era costruito e che, col passare degli anni, era divenuta la sua verità, una parvenza di giustifica al suo operato. Al rapimento di Jolanda di Ventimiglia, all’insensata persecuzione nei suoi confronti.
La vendetta non c’entrava affatto: come avrebbe potuto il vecchio fiammingo affidare un tal compito a un ragazzino frutto d’una relazione illegittima? Se vi era una molla a spingere il conte di Medina era il rancore verso Jolanda, fiera e traboccante di gioventù.
Il frutto di un amore che sarebbe stato fatale alla sorellastra Honorata.
Il simbolo di una famiglia cui lui non sarebbe mai appartenuto.
A completare il tutto, la rivendicazione di Jolanda dei beni ricevuti in eredità dalla madre. Quei beni che sarebbero dovuti toccare a lui.
Era stata l’ultima goccia.

 

Jolanda era bellissima, ma nulla aveva di Honorata: era troppo decisa, fiera, persino sprezzante. E quel colorito alabastrino, quei capelli ricordavano fin troppo il Corsaro Nero.
Forse, se l’inchiostro di quelle iridi si fosse tramutato in argento e il nero della chioma fosse stato oro, il conte di Medina avrebbe agito diversamente: in fondo non era Jolanda che odiava ma ciò che le sue fattezze e la sua indole indicavano.
Per tutta la durata della prigionia la fanciulla s’era mostrata ferrea nelle sue decisioni, tagliente nelle parole usate per portare le sue ragioni. Nulla di più diverso dalla dolcezza e dalla serenità di Honorata.
Più cercava in lei dei tratti in comune con l’amata sorellastra, più Jolanda gli opponeva quelli del padre e persino del nonno.
E il rancore cresceva, offuscandogli gli occhi e il senno con uno spesso e oscuro velo che si sarebbe strappato solo quando, riverso a terra con la spada di Morgan nel petto, il conte avrebbe visti sopra di sé gli occhi umidi della fanciulla.
Gli occhi di Honorata.
E il rancore, giunto al suo limite ultimo, era sfumato.

 

“Sono stato... cattivo...” mormorò con voce semispenta. “Perdonate...mi... Jolanda... perdona...temi... dite...lo...”
“Vi perdono, signor conte” rispose la fanciulla, singhiozzando.[2]

 

Era morto così il conte di Medina.
Col perdono sincero di sua nipote a scaldargli il cuore sempre più debole e nell’animo una serenità a lui nuova, e per questo più amata.

 

[490 parole]

 

 

Note dell’autrice: curioso come Salgari abbia voluto concedere un minimo di redenzione proprio all’antagonista principale del romanzo, nonché figliastro di Wan Guld (al contrario di questi che è morto nell’odio, seppure di propria mano).
Il conte di Medina mi ha sempre fatto una gran pena: non so perché ma mi riesce facile immaginarlo come persona avara di affetti, forse proprio per la sua natura di figlio bastardo.
L’idea che la vendetta verso Jolanda non venga dal padre quanto da una sua idea fissa è di mia invenzione, sia chiaro: Salgari mostra tutt’altro eppure, facendo due conti, mi sembra strano che Wan Guld abbia affidato una missione simile a un ragazzino di undici anni circa (tanto doveva avere il conte ai tempi de “Il Corsaro Nero”, e poco di più ne “La Regina dei Caraibi), visto che nel terzo libro viene detto che ha trent’anni), perlopiù bastardo. Come pure io stessa mi sono immaginata l’affetto che legasse i due fratellastri; purtroppo Salgari è fin troppo avaro quando si tratta di rapporti estranei all’azione, mannaggia a lui ^_^
Satomi



[1] da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, XXVII capitolo. 

[2]  da “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, XXXV capitolo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=798668