A un passo dal possibile.

di rainandteardrops
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** partenza ***
Capitolo 2: *** chelsea ***
Capitolo 3: *** i prefer Lizzie ***
Capitolo 4: *** pigiama party - parte prima ***
Capitolo 5: *** pigiama party - parte seconda ***
Capitolo 6: *** half-naked. ***
Capitolo 7: *** blackout - parte prima ***
Capitolo 8: *** blackout - parte seconda ***
Capitolo 9: *** sogno e realtà. ***
Capitolo 10: *** lucky girls. ***
Capitolo 11: *** lucky girls - parte seconda. ***
Capitolo 12: *** friends. ***
Capitolo 13: *** don't wanna go home - part one. ***
Capitolo 14: *** don't wanna go home - part two. ***
Capitolo 15: *** mistake - harry's pov. ***
Capitolo 16: *** he's gone. ***
Capitolo 17: *** drunk. ***
Capitolo 18: *** give me love. ***
Capitolo 19: *** midnight starlight. ***
Capitolo 20: *** puzzle. ***
Capitolo 21: *** remember me. ***
Capitolo 22: *** goodbye. ***
Capitolo 23: *** I'll be there. ***
Capitolo 24: *** stronger. ***
Capitolo 25: *** smile. ***
Capitolo 26: *** born to be together. ***
Capitolo 27: *** irresistible. ***
Capitolo 28: *** and they lived happily ever after. ***



Capitolo 1
*** partenza ***




Era a pochi centimetri da me. E non ero immobile perché ero troppo impegnata a contarli; ero immobile perché i suoi occhi mi avevano paralizzata.
Avevo i muscoli atrofizzati. L'unico ancora in vita era il mio cuore, ma se si fosse avvicinato ancora non avrei più sentito i suoi battiti.



partenza.


Ero completamente immersa in uno dei più bei sogni della mia vita, ma lo sapevo, le cose belle non erano destinate a durare per sempre.
La sveglia, in quel caso, era pronta a trillare e a distruggermi i timpani con il suo odioso suono. Sobbalzai, e la spensi con un brusco movimento della mano. Erano le quattro del mattino: ecco il motivo di tutto quel malumore.
L'aereo non poteva aspettare, e la meta era in grado di ristamparmi in viso un sorriso da idiota in piena regola, ma una parte del mio cervello stava lottando con un'altra.
Stavo per andare a Londra, grazie ad un compromesso con la mia famiglia. Dovevo scegliere tra festa di compleanno per i miei diciott'anni e viaggio, e naturalmente avevo scelto la seconda opzione.
Solo pochi giorni prima della mia partenza, però, i lati negativi di quel viaggio si stavano facendo sentire. Inghilterra, patria della band che io amavo con tutta me stessa.
Ma, per quanto avessi voluto incontrare i cinque componenti dei One Direction, sapevo che non ci sarei mai riuscita.
Quello era un sogno, e confonderlo con la realtà sarebbe stato un errore madornale, eppure non riuscivo a non pensarci.
Ecco perché avevo scelto Londra come meta: dovevo provarci. Alle delusioni ero preparata.
Quindi, mente la mia testa decideva se illudersi o oppure no, il mio corpo si mosse per dirigersi in cucina. Non avevo voglia di fare una colazione completa, perciò aprii la credenza, presi una brioche e la addentai.
Ciabattando nel corridoio, mi lavai e mi vestii, poi mi assicurai di non aver dimenticato niente.
Arrivai nella camera dei miei genitori, ancora sepolta nel buio, e mi avvicinai a mia madre. Spostai un po' il lenzuolo per scoprirle la guancia, e decisi di svegliarla.
«Mà?», la chiamai. Temevo che si sarebbe svegliata e di conseguenza momentaneamente spaventata della mia assenza. Oppure se la sarebbe presa perché non l'avevo salutata.
Lei emise un monosillabo incomprensibile, poi si voltò e aprì a stento gli occhi. Riacquistò la lucidità in qualche secondo.
«Ehi. Vuoi che ti prepari la colazione?», chiese, ancora assonnata.
«No, ho già fatto, stai tranquilla. Volevo solo salutarti». La baciai sulla guancia. Due settimane sarebbero passate in fretta, e in un battito di ciglia mi sarei di nuovo ritrovata nella mia casa di Roma.
«Oh. Ciao tesoro, fa buon viaggio». Feci per allontanarmi. «E chiamami quando arrivi! Chiamami tutte le sere!»
«Sì, sì, certo. Salutami papà». L'istinto materno no, non sarei mai riuscita a soffocarlo, e di sicuro qualche chiamata non mi sarebbe costata la vita.
Feci un salto nella mia stanza per recuperare il trolley e, preso un taxi, raggiunsi l'aeroporto.

Il viaggio non era stato poi così lungo, ma alzarmi dal sedile dell'aereo fu comunque una tortura. Non sentivo quasi più le gambe.
Fortunatamente, l'albergo dove avrei alloggiato non era lontanissimo, e avrei potuto stendermi e rilassarmi dopo alcuni minuti di cammino.
Mi guardavo intorno e vedevo... un sogno. Ero appena atterrata a Londra e ancora non ci credevo.
Di solito i miei sogni non si realizzavano, e anche se uno di essi si era appena avverato, non riuscivo a farne di tutta l'erba un fascio. Era stata solo fortuna.
La donna alla reception fu molto gentile con me, e incaricò un signore alto e brizzolato di farmi strada verso la mia stanza.
L'albergo non era molto lussuoso, ma era sufficientemente attrezzato. Le pareti bianche e rosse gli conferivano molta luminosità, e le enormi vetrate creavano sul pavimento dei meravigliosi giochi di luce. La scala in marmo, arrivati al primo piano, si ramificava e incurvava per condurre al terzo piano.
La mia stanza si trovava in fondo al corridoio del secondo piano, ultima a sinistra.
Non ero molto fiduciosa, ma speravo ugualmente con tutta me stessa che quel soggiorno a Londra potesse rivelarsi meraviglioso.

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Capitolo 2
*** chelsea ***





chelsea.


Il mattino seguente, dopo aver aperto la valigia con cautela per evitare che mi scoppiasse in faccia,  sistemai tutte le mie cose nella cassettiera e nell'armadio della mia camera. Fortunatamente, riuscii a trovare una sistemazione per tutto. 
Controllai il cellulare, ma non c'era nessuna chiamata persa e nessun messaggio. Probabilmente mamma si era già abbastanza tranquillizzata con la chiamata della sera precedente. Meglio così: non avevo intenzione di passare la vacanza a parlare con lei.
Appena il cameriere bussò alla porta, potei fare colazione, in silenzio, mentre le tende svolazzavano al mio fianco sollecitate dal vento.
I programmi della giornata non erano stati stabiliti. Credevo che avrei dormito tutto il giorno per la stanchezza, e invece alle nove ero già sveglia. Beh, magari avrei fatto un giro per la capitale, piena di dépliant e completamente disorientata. 
Eppure continuavo a pensare che se avessi avuto una migliore amica, quel viaggio tanto desiderato avrebbe avuto un altro gusto.
Bloccai quel pensiero appena nato, perché non avevo intenzione di starmene lì a rimuginarci sopra, così tirai fuori dalla valigia i poster dei One Direction, e li incollai alla parete con pochissimo scotch. Li avrei tolti, ma avevo bisogno di avere quei cinque visi sorridenti per tutto il mio soggiorno a Londra. Ero lì per loro. 
In un battibaleno mi vestii, e uscii in corridoio. Affacciata alla finestra, proprio alla mia destra, c'era una ragazza dai capelli biondi. Si voltò verso di me e mi sorrise, socchiudendo i piccoli occhi verdi. 
«Ciao», mi disse. «Sei appena arrivata?»
«Sì, ieri sera», le risposi. Sembrava simpatica. 
Prima che potessi farlo io, si presentò. «Io sono Chelsea», e mi tese la mano. Gliela strinsi con vigore. «Elisabeth, ma chiamami pure Lisa». 
Restammo qualche istante in silenzio, a sorriderci, senza sapere cosa dire. Di certo io non avrei trovato la voce per prima. Ero leggermente negata nelle conversazioni, e avevo sempre il timore di risultare antipatica o stupida. 
Fortunatamente, Chelsea interruppe quell'imbarazzante silenzio. «Allora? Sei qui in vacanza o...», non terminò la frase.
«Sì, in vacanza. E' il regalo per il mio diciottesimo compleanno», le sorrisi di nuovo. Quasi mi facevano male le guance. 
«Fantastico. Hai programmi per oggi?», chiese. Attesi qualche istante, pensandoci. «Volevo fare un giro per la città...ma non mi alletta molto stare in giro da sola», risposi, sincera.
«Se vuoi posso accompagnarti», propose, inclinando la testa. Era molto gentile. «Oppure possiamo fermarci al bar dove lavoro per un caffè».
«Vada per il caffè».
Ci incamminammo verso un piccolo locale, sulla cui insegna spiccava il nome “Peter's”. C'erano alcuni tavolini fuori dal bar, e le sedie erano quasi tutte piene. Londra era caotica, piena di semafori. Le macchine sfrecciavano lungo le strade principali; c'erano taxi ovunque. Vidi anche un autobus a due piani.
«Il locale è di tuo padre?», chiesi, ipotizzando sul nome Peter. 
«Sì. Siamo aperti da circa cinque anni». 
“Bello”, pensai, quando varcai la soglia. A prima vista sembrava un bar davvero professionale. 
Bancone lungo circa quattro metri, in marmo; dipendenti in divisa, e parecchi tavoli in legno anche all'interno. C'erano scaffali ovunque, stracolmi di bottiglie; un profumo di caffè davvero invitante.
Chelsea si avviò alla sua postazione, e indossata la divisa, cominciò ad andare avanti e indietro, salutando i colleghi con una pacca sulla spalla. La vidi baciare sulla guancia un signore alto, grasso e semi calvo, forse sulla cinquantina. Aveva un viso molto simpatico, come la figlia d'altronde. 
Io mi sedetti sulla sediolina di fronte al bancone, e aspettai il mio caffè.
Cominciai a ticchettare le dita sul marmo, in attesa, finchè mi voltai verso destra, verso l'entrata. 
Facevano ingresso cinque sagome, e più si avvicinavano più riuscivo a distinguerli. Erano cinque ragazzi, dai visi molto familiari.
Il cuore perse un battito, poi un altro, finchè finii in iperventilazione. Non riuscivo a credere ai miei occhi. 
 

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Capitolo 3
*** i prefer Lizzie ***





I prefer Lizzie.

“Oddio”, pensai. 
Le gambe continuavano a tremare, quasi non le sentivo, e respiravo a fatica. Cosa c'era di sbagliato in me? Appoggiai i gomiti sul bancone del bar, e mi presi la testa fra le mani. Ero facilmente suggestionabile. 
“Non sono loro, calmati. Non sono loro”. A poco a poco l'agitazione scomparve, ma a quanto pare sul mio viso era ancora evidente la mia reazione, visto che Chelsea mi guardò con fare preoccupato.
«Ehi, che hai?», mi chiese, appena la guardai.
Riuscii a trovare la voce. «C-credevo... », deglutii, e mi voltai per guardare quei cinque ragazzi. Come avevo fatto a confonderli? Il desiderio di vederli era così forte da provocarmi le allucinazioni?
«Ehm..», scossi la testa, e incrociai lo sguardo confuso della ragazza. «Credevo fossero...», continuai, indicando debolmente il tavolo poco distante da me. «...i One Direction», terminai.
Mi avrebbe presa per pazza, sicuro. 
E invece, mi sorrise. «Per caso hai qualche potere soprannaturale?», chiese, sfociando in una risata.
«Come?»
«Come facevi a sapere che i One Direction frequentano questo bar?»
«C-cosa? Non lo sapevo», risposi sincera, ma in quel momento la mia mente faticava a collegare le varie informazioni.
«Oh», disse, quasi a scusarsi. «Beh si, credevo sapessi che sono la sorella di Louis»
Spalancai gli occhi, la mascella quasi mi cascò sul piano in marmo. «Tu?», domandai. «Tu sei la sorella di Louis?»
Lei confermò, e io ancora non ci credevo. Non credevo nella fortuna, eppure in quell'istante mi sentii baciata dalla dea bendata. Ero a Londra, e nell'albergo dove alloggiavo avevo conosciuto una simpatica ragazza di nome Chelsea, meglio conosciuta come la sorella di Louis dei One Direction. Dovetti sbattere le palpebre più volte per ritornare alla realtà, e per qualche istante, riuscii a fare una domanda quantomeno intelligente, forse, credo. «Scommetto che qualcuno si è approfittato di questa cosa, vero?»
Alzò le sopracciglia e fece un'espressione triste. «Già», acconsentì. «Sono troppo ingenua e troppo buona», disse, asciugando dei piattini di ceramica. 
Non sapevo che dirle. Avevo appena digerito il fatto che fosse la sorella di Louis, e che i One Direction frequentassero quel bar. Non riuscivo ad essere triste per lei, non in quel momento, quando tutto sembrava filare per il verso giusto e quando tutto sembrava essere più che vicino. Eppure provai a mettermi nei suoi panni. Non ero molto brava a consolare le persone; trovavo assolutamente ingiusto approfittare di quella simpatica ragazza solo per incontrare i propri idoli, ma in quell'attimo non riuscii a dirle niente. Diciamo che non ero molto d'accordo con la frase 'Il fine giustifica i mezzi'.
Con mia sorpresa, saltò la parte deprimente di quella storia. «Da quanto tempo sei loro fan?», mi chiese, servendomi il caffè che stavo aspettando. Lo accompagnò con un sorriso.
«Da dicembre», risposi. Un bel po' di tempo, considerando che eravamo a fine agosto.
Lei annuì, interessata. «Il tuo preferito chi è?». 
Non mi lasciai fermare dalla sua parentela. «Li amo tutti, ma il mio preferito è assolutamente Harry», le risposi, mentre sorseggiavo il caffè.
«Ti capisco», disse, con fare malizioso. «E' molto carino» , mi sorrise.
Io mi limitai ad abbassare la testa per nascondere il viso, in silenzio.
«Ultimamente non hanno molti impegni, se vuoi posso chiamare Louis per chiedergli di passare di qua con i ragazzi». Quando pronunciò quelle parole, mi sentii a tre metri da terra. 
«Se possono... se vuoi», farfugliai. 
«Mi fa molto piacere», affermò, e mi strizzò l'occhio, poi cercò nella tasca della divisa e ne estrasse il cellulare. 
Mentre aspettavo che Louis le rispondesse, il cuore batteva a ritmo incredibile. Era stato così facile? 
Chelsea cominciò a parlare, salutò il fratello e gli chiese di passare nel pomeriggio perché aveva voglia di vederlo. Non fece nemmeno un riferimento a me, e ne fui contenta. Avrei potuto passare un po' di tempo a fissarli, seduti al loro tavolo, senza fare la fan appiccicosa.
 
Ero assolutamente elettrizzata. Avevo mangiato solo un panino e avevo la nausea; dire che le farfalle si stavano divertendo allegramente nel mio stomaco era un eufemismo. 
Alle quattro del pomeriggio ero già al bar. I clienti venivano e se ne andavano dopo pochi minuti, e tutto quel movimento non faceva altro che mettermi in agitazione.
Facevo respiri profondi, chiudevo gli occhi e svuotavo la mente, ma serviva a poco se quando li riaprivo vedevo davanti a me i loro sorrisi. Chelsea sembrava preoccupata per il mio stato mentale; beh, lo ero anch'io.
Quella mattina avevo sperimentato come sarebbe stato incontrarli, e la reazione aveva sorpreso anche me. Speravo di non svenire, e di non sembrare una cretina o una ritardata, ma era parecchio difficile.
Non sapevo a che ora sarebbero venuti, e l'attesa era ormai diventata snervante.
Ringraziai quell'angelo sceso dal cielo che avevo incontrato per caso nell'albergo, e lei fu talmente gentile da non prendermi per idiota al trentesimo ringraziamento. Sorrideva sempre.
Io in quel momento avevo la fronte aggrottata ed ero sudata fradicia.
Per evitare di fare la figura della puzzola, andai nel bagno del bar, e aprii il rubinetto. Lasciai scorrere l'acqua fredda finché divenne congelata, e mi bagnai il viso e le braccia. Poi estrassi dalla borsetta un campioncino di profumo e ne spruzzai un po' dappertutto. 
Mi guardai nello specchio e... ero un caso perso. 
Avevo il top bianco bagnato in alcuni punti, i capelli scompigliati, un'unica ruga che mi solcava la fronte e gli occhi scuri preoccupati. 
Probabilmente sarebbe stato meglio incontrarli per strada, vivere un'esperienza extracorporea per qualche minuto e poi sclerare dopo che se ne fossero andati, e non accumulare ansia e agitazione in una manciata di ore. Ma mi accontentavo, come avrei potuto fare altrimenti?
Appena uscii dal bagno, Chelsea cercò di intrattenermi con alcune domande su di me. Mi fece parlare della mia famiglia; le dissi che non avevo sorelle o fratelli, che mia madre era pasticciera e mio padre medico, ma era impossibile che mi distraessi. 
In una conversazione lunga circa venti minuti, interruppi il discorso circa sei volte per dire: “Non posso farcela”.
Ormai quella povera ragazza non sapeva più che fare, quando finalmente i One Direction varcarono la soglia del locale. 
Nella mia mente la scena si stava svolgendo a rallentatore. Come in un film, quando il protagonista era appena scampato con successo a una sparatoria, e camminava per le strade deserte della città come un sopravvissuto, come una leggenda, come una star.
In questo caso i protagonisti erano cinque, ed erano entrati in un bar; non c'era stata nessuna sparatoria, e si comportavano come le persone più normali del mondo.
In quel momento mi sfiorò l'idea di consegnarmi a degli psicologi professionisti.
Ero agitatissima. Non seppi descrivere esattamente come mi sentii quando li vidi entrare. So solo che tremavo, il cuore batteva all'impazzata e li guardavo di sottecchi per non attirare l'attenzione. 
Afferrai il braccio di Chelsea che stava per raggiungere suo fratello. La guardai. Ero nel panico. 
«Che faccio?», le chiesi. Non avevo idea in che stato fosse la mia faccia. Probabilmente sembravo una condannata a morte.
Una parte di me voleva nascondersi, l'altra diceva al mio corpo di muoversi, correre verso di loro e abbracciarli tutti.
«Vieni con me», disse, sciogliendo la presa della mia mano intorno al suo polso. Si avviò verso suo fratello, ancora in piedi davanti all'entrata del locale insieme agli altri quattro.
Chelsea abbracciò tutti e li invitò a sedersi. 
Tutti presero posizione, Harry si tolse gli occhiali da sole. Io decidevo se alzarmi o restare seduta su quella sediolina per sempre. Era la mia occasione.
Ad un certo punto, la ragazza si voltò verso di me, e mi indicò. All'improvviso mi ritrovai sei paia di occhi puntati addosso. Per me era la peggiore delle torture.
Il cuore batteva così forte che sembrava volesse uscirmi dal petto, ma mi alzai, e ovviamente inciampai. 
Quando i riflettori erano puntati su di me, succedeva sempre qualcosa di imbarazzante. Fortunatamente non caddi.
Mi avviai verso di loro, con le gambe molli e la bocca secca. Avevo un groppo in gola, stavo per piangere. 
Quello era il giorno più bello della mia vita.
Appena li raggiunsi, le loro teste si inclinarono all'indietro per guardarmi, soprattutto Liam, che mi era proprio affianco. “Non svenire, non svenire”, mi ripetevo come un mantra. Funzionò.
«Ragazzi, lei è Elisabeth», Chelsea mi presentò ai ragazzi. I loro occhi mi scrutavano e l'incendio che stava imperversando sulle mie guance aumentava. «L-Lisa», riuscii a correggerla io, con la voce rotta dall'emozione e dall'agitazione. Ritenevo Elisabeth troppo formale. 
Il mio sguardo si alternava tra pavimento e il volto di Chelsea, anche se avrei voluto solo scappare via, ma riuscii a vedere Harry sorridere, prima che incrociassi i suoi occhi. «Lizzie», propose lui, con un sorrisetto divertito. 
Appena vidi le sue fossette, credetti di poter prendere fuoco da un momento all'altro, sul serio. Quasi fui tentata di controllarmi i vestiti. 
Louis sorrise insieme ad Harry; Niall si voltò a guardarlo.
Io non sapevo che dire. 
«Dobbiamo presentarci anche noi?», sentii Zayn rivolgersi a Liam. Ma non arrivò una risposta.
«Quale soprannome vorresti che scrivessimo sull'autografo?», chiese Louis, ed Harry rise. Mi chiedevo se si fossero messi d'accordo per ridere ad ogni frase dell'altro.
«Quello che preferite», riuscii a dire. Somigliavo ad un peperone, o a un gambero o a un pomodoro, ne ero sicura al cento per cento. 
Non vidi Chelsea allontanarsi per prendere un foglio, ma notai che lo poggiò sul tavolo, tra Harry e Louis. Il primo prese il foglio con foga. «Io preferisco Lizzie», affermò. Prese una penna, e prima di cominciare a scrivere mi guardò e mi sorrise. Ero immobile come una statua, paralizzata.
«Allora ragazzi, avete impegni in questo periodo?», chiese Chelsea. Io guardavo Harry scrivere, i suoi ricci che quasi accarezzavano il foglio. Sentii la domanda un po' in ritardo. 
Rispose Liam. «Direi che abbiamo ben tre settimane libere, poi partiremo con l'annuncio delle date del tour, e poi...»
«... inizieremo il tour», concluse Niall con un sorriso. Aveva un viso dolcissimo. Le foto non gli rendevano giustizia. 
Lo stesso valeva per Liam, e per tutti gli altri. Non riuscivo a credere di aver meritato una fortuna simile.
«Allora che ne dite di passare la serata di domani con noi?», propose. 
E io mi sentii morire. 
«Io sono libero anche di mattina», si intromise Harry, mettendo il tappo sulla penna e consegnandomi l'autografo. Riuscii ad afferrarlo e a ringraziarlo, accompagnando la voce con uno dei miei migliori sorrisi. 
Gli altri membri della band si unirono ad Harry. «Grande, passeremo la giornata insieme», concluse Chelsea, voltandosi verso di me con uno sguardo complice. 
Sì, era un angelo.
 



alloooora, grazie di aver messo la mia storia nei preferiti, di averla visualizzata e commentata (:
spero che questo capitolo non sia risultato noioso! ahahah un bacio!

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Capitolo 4
*** pigiama party - parte prima ***





pigiama party - part one.

 

Quella notte dormii molto poco. 
Era difficile chiudere gli occhi e allontanarsi dalla realtà, quando essa aveva cominciato ad essere molto più bella. Riuscii a farlo solo per qualche oretta. 
Il resto del tempo trascorse lentamente, ma mi accompagnarono i loro visi, più vividi che mai, impressi a fuoco nella mente; i riccioletti di Liam, il sorriso di Zayn, le battute di Louis, gli occhioni dolci di Niall e le fossette di Harry. 
Avevo gli occhi già aperti quando il sole sorse.
Mi alzai dal letto, e ciabattando raggiunsi la sala da pranzo. Spostai le tende, pensando di dover fare colazione, ma era ancora troppo presto: il cameriere sarebbe arrivato alle otto in punto.
Il cielo non sembrava sereno. C'erano nuvole grigie sparse, molte avevano la forma di un vortice; una, sottile, attraversava il cielo come un filo di cotone. Il venticello fresco mi colpì appena aprii la finestra: se non aveva piovuto quella notte, dovevo aspettarmi qualche goccia di pioggia durante il giorno.
All'improvviso sentii bussare alla porta. Mi voltai di scatto, sobbalzando, e corsi in camera da letto per prendere la vestaglia. La indossai mentre correvo all'entrata.
Controllai dallo spioncino, ma la ragazza fuori non aveva un aspetto familiare. 
Appena vidi che stava per bussare di nuovo, aprii velocemente la porta. Aveva i capelli neri come la pece e gli occhi azzurri: una bellezza particolare.
«Ciao», disse, porgendomi la mano.
Gliela strinsi, confusa, ma abbandonò dopo un secondo la presa, sul viso un'espressione indecifrabile, forse disgustata.
«Io sono Megan», si presentò, masticando freneticamente un chewingum. «Mi chiedevo se avessi una piastra per capelli. La mia non si accende più», borbottò, velocemente. Solo in quel momento notai l'aggeggio guasto tra le sue mani.
Mi guardai involontariamente intorno. «No, mi spiace», le risposi, con un sorriso di scuse. «Non la uso mai e non l'ho portata con me». I miei capelli erano fin troppo lisci. 
Mi squadrò dall'alto in basso, lo sguardo inquisitore. Allargò le braccia. «Oh, d'accordo», disse. «Scusa del disturbo», concluse, riservandomi un'ultima occhiataccia. Aveva forse pensato che non volessi prestargliela?
La guardai sparire nella sua stanza, mentre camminava ondeggiando, preoccupata. Non mi aveva dato una buona impressione: mi incuteva timore, e di sicuro sarei stata alla larga da lei.
Stavo per chiudere, quando vidi Chelsea uscire dalla sua camera. Rimasi appoggiata allo stipite, con un piede a bloccare la porta. Appena incrociò i miei occhi, sorrise. 
«Ehilà!», mi salutò, correndomi incontro per abbracciarmi.
«Già sveglia?», le chiesi, guardando il suo pigiama. Inclinò la testa. «Potrei farti la stessa domanda anch'io».
Risi, e la invitai ad entrare. Non avevo nulla da fare in quel momento, e Chelsea era un ottimo rimedio contro la noia.
Sospirai, con la testa fra le nuvole.
«Sono agitatissima: non vorrei fare la figura dell'idiota come ieri pomeriggio», confessai, ripensando all'orribile sensazione di ansia che mi aveva assalita. Per un attimo, ripensai ai ricci di Harry e al suo sorriso, per un solo lunghissimo e gradevolissimo attimo.
Poi ritornai alla realtà, e mi concentrai su Chelsea, seduta accanto al tavolo, che si guardava le mani e sorrideva tra sé. 
«Se ti dico una cosa, prometti di mantenere il segreto?», alzò la testa, speranzosa. 
Mi incuriosì. «Certo». Intanto, varai tutte le ipotesi.
Invece di usare una sedia, mi sedetti per terra, proprio vicino a lei, intrecciando le gambe. Ero pronta ad ascoltarla e a cucirmi le labbra. Ero brava a tenere i segreti, e volevo che avesse fiducia in me. 
«Sono in ansia anch'io», sussurrò. «Conosco i ragazzi da un bel po' ormai, e da qualche tempo comincio a pensare a Zayn come più di un amico. Ci sentiamo tutte le sere, ridiamo, chiacchieriamo, e mi trovo bene. Quando lo vedo ho sempre le farfalle nello stomaco, ma non trovo mai il coraggio di parlarne con lui», parlava piano e sotto voce, quasi temesse che qualcun altro all'infuori di me potesse sentirla.
Sorrisi, comprensiva. «Magari potresti cogliere l'occasione di questa uscita a sette per dirgli tutto, no?»
All'improvviso, il suo volto si fece preoccupato. Aggrottò la fronte. «E se non gli piaccio? Non voglio rovinare la nostra amicizia».
Pronta a darle qualche consiglio e a rassicurarla, passammo il resto del tempo a parlare di Zayn, finché la conversazione si spostò su Harry – con mio grande piacere ed imbarazzo – e su suo fratello Louis. 
Pensammo a qualche diversivo per trascorrere la giornata, una serata in in giro per Londra, una al cinema, oppure in un parco giochi, poi, trovando un accordo, decidemmo di pranzare in pizzeria e di organizzare un pigiama party. Restava da scegliere solo la stanza.
Su questo, non perdemmo tempo. «Ti prego, facciamo in camera tua», dissi. «La mia è in disordine, non posso farcela a sistemare tutto»
«D'accordo», acconsentì. «Ma... sai cosa? La mia è messa peggio della tua, ma accetterò lo stesso perché non m'importa di ciò che pensano i ragazzi. E dovresti fare lo stesso anche tu. Piantala di preoccuparti così tanto e goditi questi giorni, intesi?»
 
Facemmo colazione insieme, poi Chelsea tornò nella sua stanza per vestirsi. Ci trovammo allo stesso orario nella hall, pronte per scendere le scale dell'albergo, quando dalle porte a vetri vedemmo un'orda di fans scatenate. 
Chi porgeva fogli ai ragazzi, chi – armata di macchina fotografica – elemosinava una foto ricordo con loro. C'erano urla acute, nomi pronunciati a ripetizione; insomma, un vero caos. 
Il mio sguardo era fisso sui loro volti. Erano gentili con tutte, sfoderavano i loro sorrisi da capogiro, e abbracciavano le fans per salutarle e per ringraziarle. Le penne sfioravano i fogli in una velocità allucinante, flash continui e accecanti illuminavano i volti di chi posava. 
Fui tentata di correre via e di rifugiarmi in camera, quando Chelsea mi afferrò il polso e mi tirò fuori.
Le urla si fecero ancora più forti. 
Nessuno si girò a guardarci, finché non ci avvicinammo ai ragazzi. Personalmente non sapevo cosa fare. Non volevo che nessuna ragazza fosse privata di un'autografo, ma le loro urla richiamavano altre fans, e la frenesia di queste attirava l'attenzione di tutti. Non saremmo mai riusciti a fare un'uscita tranquilla con loro.
Ad un certo punto, Liam, che svettava su tutti insieme ad Harry con il suo metro e ottanta, alzò le mani al cielo. «Per favore, ragazze, un po' di silenzio», disse, con la sua voce profonda. Pian piano le urla si attenuarono. «Cercheremo di accontentare tutte, abbiate un po' di pazienza», concluse. 
Vidi Harry e Niall sospirare di sollievo. Zayn e Louis continuavano a firmare e a scattare foto. 
Io e Chelsea eravamo immobili. Semplicemente ci lasciavamo spintonare dalla cerchia di fans.
Dopo un'oretta, erano rimaste solo una decina di ragazze, in attesa del loro momento. Pian piano, ci dirigemmo in strada, e dopo aver accontentato tutte, potemmo salutarci. 
Mi abbracciarono tutti, uno dopo l'altro, lasciandomi senza parole. I sorrisi impressi sui loro volti dopo un episodio del genere erano allucinanti. Avrei voluto prolungare l'istante in cui le loro braccia mi avvolgevano, ma sapevo che sarebbe durato solo per pochi secondi. Stranamente e fortunatamente, arrossii solo un po'.
Passammo la mattinata in giro per Londra. Il tempo sembrava incerto, ma alla fine il sole decise di farci un regalo, combattendo per spuntare dalla coltre di nubi.
Ci fermammo in un supermercato per comprare delle buste di patatine, coca-cola e altre schifezze simili, quando Louis, scatenando risate generali, ci chiese di comprare delle carote.
Come stabilito, pranzammo in una pizzeria del posto, e non potei fare a meno di notare l'enorme differenza tra la pizza londinese, e quella italiana. Ma tutto sommato, non era così male.
Mentre passeggiavamo per le strade, e perfino mentre mangiavamo, incontrammo qualche fans. 
I ragazzi furono come al solito disponibili, e noi sorridevamo di questo, ma ritornavamo di nuovo serie quando notavamo le occhiatacce che le ragazze ci lanciavano prima di andarsene.
Ovviamente, ci rimasi male, ma sapevo di non dover dare troppa importanza a quegli sguardi. 
Harry, notò il mio umore. «Tutto bene?», chiese. Distolsi lo sguardo dalla mia pizza, e incrociai i suoi occhi verdi. La sua domanda mi risuonò nelle orecchie. «Sì sì», mi affrettai a rispondere, il cuore che già aumentava il ritmo dei battiti.
Vidi Liam voltarsi verso di noi.
Harry tenne il suo sguardo su di me per qualche altro secondo, poi lo distolse, sorridendo e mormorando: «Lizzie». Quasi rideva di sé, o forse del nomignolo che mi aveva affibbiato. Non riuscii a capirlo.
«Posso sapere perché mi chiami così?», dissi, tutto d'un fiato, sentendo il sangue fluirmi verso le guance. 
Masticava, e mi fissava. Non faceva altro che aumentare il mio disagio. «Non lo so, mi piace», si degnò di rispondermi, dopo un minuto di silenzio. «Credo sia molto carino, non trovi?»
Rimasi un attimo paralizzata. «S-sì, lo è», balbettai, ritornando alla mia pizza. Lui fece lo stesso, poi lo vidi alzare lo sguardo, scuotere la testa e sorridere. 
Era strano quando mi chiamava così. Nessuno mi aveva mai dato quel nomignolo, ed era curioso sentirlo pronunciare da lui. 
Nessuno dei commensali si era accorto della nostra piccola conversazione. Tutti ridevano e scherzavano. Vidi il volto di Chelsea leggermente paonazzo, lo sguardo fisso su Zayn. Solo ora ci facevo caso.
Appena finimmo di mangiare, i ragazzi si allontanarono sorridenti, e ci promisero che sarebbero arrivati puntuali per il pigiama party. L'idea li aveva entusiasmati non poco.
Io non ero preoccupata, non più. L'idea di conoscerli si faceva sempre più concreta, e non vedevo l'ora di continuare il discorso con Harry, possibilmente con un po' di sicurezza in più.

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Capitolo 5
*** pigiama party - parte seconda ***





pigiama party - part two.


Erano circa le otto e mezza di sera. I ragazzi sarebbero dovuti arrivare alle nove, ma io e Chelsea sapevamo benissimo che non sarebbero stati puntuali: di sicuro qualche orda di fans li avrebbe bloccati per un pò di tempo, a meno che non si fossero travestiti come le mascotte delle squadre di football per rendersi irriconoscibili.
Quindi, avevamo un pò di tempo in più per preparare la stanza.
La camera di Chelsea era più grande della mia, ma ugualmente divisa in zona notte e giorno. Un'altra differenza consisteva nella presenza di un letto matrimoniale e un altro singolo, perciò qualcuno dei ragazzi avrebbe potuto usufruirne per riposarsi più comodamente.
Spostammo il tavolo da pranzo, avvicinandolo alla finestra, e mettemmo al centro della stanza un tavolino basso che si trovava attaccato al muro. Sistemammo su di esso coca-cola, patatine, biscotti con gocce di cioccolato, pane e nutella, e altri sfizi simili. Poi Chelsea prese i cuscini del suo letto matrimoniale, e li appoggiò per terra, in modo da poterci sedere. 
Mi preoccupai della sistemazione per la notte, ma mi assicurò che i ragazzi avrebbero portato i loro sacchi a pelo. Sospirai, e mi resi conto che non avevamo altro da fare, se non aspettare.
«Che film hai noleggiato?», le chiesi, mentre me ne stavo inginocchiata per terra, accanto al televisore.
Lei diede un'occhiata fuori dalla finestra, poi mi rispose. «Un film d'azione. Aspetta, come si chiama... », assunse un'espressione pensierosa.
Attesi, invano. 
«Lascia perdere, non me lo ricordo. E poi ho preso The Notebook».
«Secondo me sceglieranno il film senza nome», commentai, con una risata divertita.
Mi guardò, preoccupata. «Dici che The Notebook è un film da ragazze?», domandò, più a se stessa che a me. «Louis l'ha visto e non ha fatto commenti negativi», continuò. 
Feci spallucce e scossi la testa. Mi sedetti, incrociando le gambe. «Non conosco i loro gusti», dissi. «Ma di solito i ragazzi preferiscono risse e sangue, tanto». Risi, e si rilassò anche lei.
Cominciò a passeggiare per la stanza, assicurandosi che fosse tutto perfetto. 
Come dubitarne? Avevamo passato il pomeriggio a spolverare, dopo la pulizia dello staff dell'albergo. I mobili quasi luccicavano.
Il mio sguardo seguiva i suoi movimenti. «Chelsea? Sto cercando di restare calma. Ti prego, non mettermi in ansia, okay?», la supplicai. 
«Sì, scusa», disse, crollando su un cuscino. Gli altri disposti intorno si spostarono un po'. «Non vedo l'ora di vedere Zayn», confessò.
"Ed io non vedo l'ora di vedere Harry", pensai, ma tenni quel pensiero per me. Avrei voluto parlare con lui in tutta tranquillità, magari senza frasi balbettanti, guance rosse e cuore a mille, e anche se non ci credevo tanto, stavo cercando di concentrarmi per evitare di agitarmi.
Le sorrisi. «Parlagli, okay?»
«E' questo che mi spaventa», rispose, con una risatina nervosa. A quel punto non seppi cosa risponderle, visto che ero spaventata anch'io. Non potevo darle consigli se nemmeno io sapevo cosa fare. Così, cambiai discorso. 
Cominciammo a parlare del più e del meno, finchè mi ritrovai seduta su una sedia in bagno, bella comoda, mentre Chelsea mi arricciava i capelli. «Sono troppo piatti», aveva detto. Così, per passare il tempo, accettai la sua proposta. 
Grandiosa, oltretutto. Quando ogni tanto mi scottava con l'arricciacapelli, riuscivo a smettere di pensare ai One Direction, anche se solo per qualche istante.
Dopo un po', controllai l'orario. Erano le nove e un quarto, e non erano ancora arrivati. Sapevo che avrebbero ritardato, ma non impiegai tempo per chiedermi se sarebbero davvero venuti.
Quando all'improvviso, sentimmo bussare alla porta. Chelsea abbandonò l'arricciacapelli sul lavandino e corse ad aprire. Io mi preoccupai di staccare la spina e di controllare i battiti cardiaci. Feci due o tre respiri profondi, prima di alzarmi dalla sedia. 
Mi affacciai velocemente dalla porta del bagno, poi attraversai la camera da letto, finchè non li ebbi di fronte. 
Stavano ancora entrando quando arrivai in soggiorno. Le enormi buste che avevano tra le mani si scontravano le une con le altre, le loro voci riempirono il silenzio della stanza. 
«Salve ragazze», disse Niall, poggiando la sua busta a terra. Gli altri borbottavano tra loro.
Ero immobile sulla soglia, e guardavo le loro tute colorate. Louis indossava una canotta bianca, e aveva lasciato la giacca rosa aperta. Zayn aveva una tuta verde, Niall era in bianco, così come Liam.
Tutti avevano comunque i pantaloni a vita incredibilmente bassa. 
Dopo aver fatto un respiro, guardai Harry. Aveva una tuta grigia e la cerniera della giacca non era completamente chiusa, in modo da mostrare - anche se non per intero - la collanina che portava al collo.
Io stavo decidendo se farmi avanti, pentendomi di aver indossato il mio piagiama azzurro con i cagnolini. 
Chelsea aveva dei pantaloni neri, probabilmente il pezzo inferiore di una tuta - sì, anche lei in tuta - e una canotta bianca e leggera. 
In poche parole, lei era sexy e io sembravo una bambina di otto anni. Non potevo desiderare di meglio.
Intanto ero ancora lì, ferma della mia indecisione, quando tutti e cinque mi guardarono. Feci saettare lo sguardo su di loro, quando mi accorsi che la loro attenzione era rivolta a me. Ero talmente persa nei miei pensieri che non mi ero accorta che avevano già abbracciato Chelsea. 
Era il mio turno? Che avrei dovuto dire? Forse "buonasera, ragazzi", o probabilmente qualcosa di più informale.
Il secondo dopo fu una sequela di esclamazioni. «Lisa!», «Ehi, Elisabeth!», dissero, mentre i loro volti si aprivano in un sorriso e le loro gambe si muovevano verso di me. Fui immersa nel calore delle loro braccia all'istante, senza avere il tempo di riprendermi, vista la loro irruenza ed allegria. Ero sopraffatta, e lo fui ancora di più quando riconobbi le braccia che mi stavano stringendo. Ricambiai la stretta, appoggiando le mani sulla sua schiena.
Dei ricci mi stavano solleticando la guancia, il suo sussurro mi fece venire i brividi.
«Come va, Lizzie?».
Nella mia testa quell'abbraccio durò un'eternità; nella realtà, solo pochi secondi. E di certo le sensazioni che stavo provando io, non erano le stesse di Harry. «Allora, che facciamo?», chiese Louis, mentre Harry si allontanava e raggiungeva gli altri.
Feci un respiro profondo per riprendermi, e guardai i One Direction proprio davanti a me. Ero sempre stata una sfigata. A partire da quale istante ero diventata la ragazza più fortunata del mondo?
Tutti si sedettero sui cuscini, e parlavano con Chelsea dei film che aveva scelto. 
La stanza era ormai a soqquadro. Le cinque buste erano state scaraventate nell'angolo della stanza, e i sacchi a pelo erano disposti in modo disordinato uno sull'altro. Harry stringeva un cuscino che probabilmente si era portato da casa e Zayn stava già sgranocchiando delle patatine. 
Louis mi guardò. «Che fai lì impalata?», mi chiese, sorridendo. Scossi la testa, ricambiai il sorriso e mi avvicinai a loro, sedendomi sull'unico cuscino libero. «Io The Notebook non lo guardo», disse Harry, deciso. «L'ultima volta che l'ho visto ho pianto, e i ragazzi non si sono fatti scrupoli a deridermi. E' stato abbastanza imbarazzante». Tutti risero. Zayn estrasse la mano dal pacchetto di patatine per dargli una gomitata scherzosa.
«Era l'unico che frignava», rincarò la dose Niall. 
Harry lo guardò, sul punto di ridere. 
«Okay, scegliamo l'altro allora», riuscii ad intervenire. Chelsea inserì il CD nel DVD e il film partì. 
Era ambientato a Los Angeles, ai tempi nostri, ma la trama era talmente complicata che all'inizio non riuscii a capire perchè il protagonista era inseguito da dei tipi loschi.
I ragazzi erano del mio stesso avviso, visto che prestavano più attenzione al cibo che al film. Ogni tanto, mentre guardavo - non guardavo il televisore, notai qualche occhiatina di Harry, ma feci finta di niente per evitare qualche sconveniente danno collaterale da parte mia. Dovevo sembrare convinta, sicura di me e disinvolta. 
Scordai la parte degli abbracci e del loro arrivo: non avevo ancora messo in atto il mio piano, sì.
L'importante era crederci.
«Non sto capendo niente», disse Liam, sorseggiando un pò di coca, spaparanzato sul suo sacco a pelo. Harry fece segno di fare silenzio. Forse si stava appassionando al film, tra un biscotto e l'altro. 
Io e Chelsea ci guardammo, per evitare di guardare la strage di poveri innocenti che si stava appena verificando.
«Preferivo The Notebook», sussurrò lei. «Anche io», mimai con le labbra.
Ad un certo punto una luce bluastra illuminò la stanza, e sentimmo un tuono, talmente forte che i vetri tremarono. La luce si accese e si spense nello stesso istante, il DVD si bloccò e ci regalò una visione grigia e a strisce del film. Lo ringraziai mentalmente per averci risparmiato quello strazio.
Harry alzò le braccia al cielo, irritato, voltandosi verso la finestra. «No!», esclamò. 
Era l'unico interessato al film. Gli altri sembravano sollevati. 
All'improvviso, Louis esordì: «Si trovavano a Los Angeles! Grande!». Niall e Liam ridacchiarono.
«Dopo un'ora di film hai capito solo questo?», chiese Zayn. 
Lui si voltò, accigliato e infastidito. «Tu hai capito altro?».
Zayn si concesse qualche secondo per pensarci. «Dei tizi volevano ammazzarlo». 
Niall si rivolse a lui. «Perchè?», chiese. La domanda da un milione di dollari.
Scosse la testa. «Non ne ho idea», prese un'altra patatina dalla busta. Louis sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
Chelsea si inserì nel discorso: «Tu l'hai capito, Harry?». La mia amica ricevette un'occhiata pensierosa. «No, però il film era carino».
Liam, dietro di lui, gli diede un buffetto sulla testa. «Sei un'idiota», disse, ridendo, mentre lui si scansava. «E' colpa loro se non sanno scegliere un film decente!», si difese.
Il discorso continuò, e cominciarono a parlare del più e del meno, a stuzzicarsi a vicenda e a ridere. Erano buffi, ma soprattutto erano veri. Ragazzi normali che pensavano a divertirsi e a ritagliarsi un pò di spazio personale nella strada verso il successo.
Io non parlai tanto. D'altronde non ero una gran chiacchierona, ma preferivo ascoltare i loro discorsi. 
Nella conversazione, spuntarono un sacco di aneddoti ed episodi divertenti accaduti ad X Factor, e la loro narrazione mise in imbarazzo più di un membro della band.
Continuammo così fino a notte fonda, fin quando i nostri occhi si fecero più stanchi e l'attenzione non era più costante. 
Liam chiudeva a tratti gli occhi, svegliandosi all'improvviso per le nostre chiacchiere. Era tenero, e lo fu ancora di più il suo volto perso nel sonno.
Mentre tutti dormivano nei loro sacchi a pelo e la pioggia scrosciava fuori dalla finestra, io non riuscivo a chiudere occhio. 
Ero sdraiata sul letto matrimoniale insieme a Chelsea, con le mani intrecciate dietro la nuca, a guardare il soffitto. Lei era nel mondo dei sogni da un bel pezzo, i ragazzi dormivano nell'altra stanza.
Tutto era immerso nel silenzio.
Non riuscivo a capire perchè ero talmente su di giri da non riuscire a dormire. Insomma, mi ero - forse - ripresa dallo schock di conoscere i One Direction, e mi sembrava assurdamente insensato essere ancora agitata dalla loro presenza se avevano appena dimostrato di essere persone gentili, normali, simpatiche. Di quelle che ti mettono a proprio agio.
Eppure, consideravo tutto ciò ancora un sogno.
Voltai la testa per guardare la sveglia: erano le due di notte. Non aveva smesso di piovere, e mi ritrovai a pensare che era già l'inizio del quarto giorno del mio soggiorno a Londra. 
E non volevo tornare a casa, per niente.
Uscii dalla stanza, e mi ritrovai in soggiorno. I ragazzi erano spaparanzati sul pavimento, e i loro visi mi fecero una tenerezza incredibile.
Mi soffermai a guardare i loro visi, belli, illuminati dalla piccola lucina poggiata sul tavolino, che spuntava in mezzo alle buste vuote di patatine e ai pacchi di biscotti, le cui briciole erano finite un pò dappertutto.
Sorrisi, involontariamente, e andai in corridoio, richiudendomi la porta alle spalle. Senza avere un'intenzione precisa, mi sedetti sul davanzale della finestra, a fissare le goccioline di pioggia sul vetro, provando ad intravedere qualcosa quando un lampo illuminava tutto. Stetti per un pò di tempo lì, senza pensare, quando la porta della camera di Chelsea si aprì. La luce in fondo al corridoio non mi permetteva di capire chi fosse, ma pian piano, i miei occhi si abituarono alla penombra. 
Faceva capolino una chioma ricciuta, un volto dolce. 
Liam mi fissava, appoggiato allo stipite. 
«Che ci fai qui, tutta sola?», chiese, richiudendo la porta ed avvicinandosi a me. Appoggiò un gomito sul davanzale, guardando per un attimo fuori e aspettando che rispondessi.
Feci semplicemente spallucce. «Non ho sonno, e sto cercando qualcosa che mi distragga», sussurrai.
Imitò il mio tono basso di voce. «Il temporale?». Intravidi il suo sorriso alla luce di un lampo.
«Sì, amo i temporali», ricambiai il sorriso. «Un pò meno quando manca l'elettricità ed è tutto buio».
«Bè, capita spesso. E' una delle tante conseguenze». Annuii, riprendendo a guardare fuori. Vidi Liam fare lo stesso.
Per un attimo calò il silenzio fra noi, poi quando non riuscii più a reggerlo, gli chiesi la prima cosa che mi passò per la testa. 
«Ho fatto tanto rumore quando sono uscita?»
Mi fissò. «No», rispose. «Ero già sveglio, stai tranquilla». E io gli sorrisi, di nuovo, cercando di pensare a qualche altra cosa da dirgli.
Fortunatamente, fu Liam a ritrovare la voce per primo. «Quanto tempo rimarrai qui?»
«E' una vacanza di due settimane, quindi... relativamente poco, direi», già mi pentivo di non aver fatto i turni extra al ristorante per poter guadagnare qualcosa in più e prolungare il soggiorno. Idiota, idiota, idiota.
«Molto poco», asserì. 
«Già», mormorai.
Mi persi nel ricordo della mia determinazione, quando correvo tra i tavoli per servire i clienti. Ogni goccia di sudore era un passo in più verso i One Direction. Ogni soldo guadagnato era un sorriso in più, un altro passo, una possibilità.
«Dimmi un po'...», esordì Liam. La luce bluastra gli illuminò il viso. Aveva gli occhi gonfi, i capelli arruffati. «...ti piace Harry, vero?». Non parlava più a bassa voce. Aveva il tono profondo di sempre, e la domanda aveva un non so che di retorico. 
Mi ritrovai in un istante il cuore a mille. «Non lo so», dissi, ed era vero. «Non lo so esattamente», ripetei. «So solo che appena lo vedo, quando lo abbraccio e quando dice il mio nome, il cuore vuole uscirmi dal petto, e non lo conosco nemmeno», continuai. «E non ho abbastanza tempo. Due settimane passano in fretta, e mentre da un lato vorrei fare tutto in fretta e furia prima che tutto finisca, dall'altro non voglio nemmeno provarci». Notai solo dopo il tono disperato che aveva raggiunto la mia voce. Era la prima volta che dicevo ad alta voce queste cose, ed era strano che le stessi dicendo a Liam.
Lui mi guardava, in silenzio. «Ti capisco, perfettamente».
Mi sorprese. «Anche a te piace qualcuno?»
Ma la mia domanda non ebbe risposta. Dopo un tuono fragoroso, sentii chiaramente la sua voce calda.
«Riunione straordinaria? Qual è l'argomento principale?», era infastidito, senza dubbio. «Su, rendetemi partecipe», disse Harry. Mi voltai di scatto, senza fiato. Era sulla soglia, con le braccia conserte, appoggiato alla porta aperta. Da quanto tempo era lì?
Dannazione, erano due di notte passate, perchè erano tutti svegli? Non avevo mica indetto un colloquio notturno in corridoio? 
«Stavo proprio dicendo a Liam che sono stanca e andrò a dormire», dissi, scendendo dal davanzale. «Buonanotte».
Harry si fece da parte per lasciarmi passare; io non lo degnai di uno sguardo. 
Non sapevo se sarei riuscita a guardarlo di nuovo negli occhi, non se aveva sentito tutto ciò che avevo detto su di lui.
 
 
 
allooora, la mia storia ha tante visualizzazioni, e vi ringrazio per questo. ringrazio anche le 11 persone che hanno messo la storia nei preferiti, e le 9 che l'hanno messa nelle seguite.
Ma non vedo la vostra partecipazione nelle recensioni.
Insomma, non so se la mia storia vi piace o vi fa schifo, visto che non me lo fate sapere, e inoltre mi sembra insensato scrivere e continuare a postare se i miei capitoli ricevono 1, 2 o addirittura 0 commenti.
Perciò fatemi sapere cosa devo fare, se continuare a postare o abbandonare. Grazie <33
love you guys! (cit.Zayn)

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Capitolo 6
*** half-naked. ***





half-naked.


Mi svegliai con il fischio del vento, segno che il tempo stava cambiando. L'estate era quasi finita, ormai. 
Rimasi a letto ancora un pò, a fissare fuori dalla finestra; il cielo era plumbeo, ma stranamente non pioveva. Molto probabilmente però, l'acquazzone era durato tutta la notte. 
Quello era il mio quarto giorno a Londra, non potevo non pensarci. Ricordavo vividamente il discorso della sera prima con Liam, la comparsa improvvisa di Harry proprio dopo aver parlato di lui con il suo amico, facendogli intendere che avrei voluto considerarlo più di un amico. Era così, era sempre stato così. Sin dai tempi in cui l'avevo visto partecipare ad X Factor. 
Il suo viso dolce e i suoi ricci mi avevano letteralmente conquistata. Pensavo a lui giorno e notte, come era appena successo. Ma non avrei detto a nessuno - neanche a Chelsea - che l'avevo sognato.
E poi avevo un problema più grande, qualcosa che non era facilmente risolvibile come la rimozione di un sogno.
Mi aveva sentita? Da quanto tempo ascoltava la mia conversazione con Liam? 
Le probabilità mi spaventavano a morte, soprattutto il suo possibile atteggiamento nei miei confronti. Non avrei sopportato le sue risatine misteriose, le sue occhiate furtive, il tono di voce con cui pronunciava il nomignolo che mi aveva affibbiato.
Tutto ciò mi snervava, soprattutto perchè non riuscivo proprio a capire cosa gli passasse per la testa ogni volta.
Non avevo ancora imparato a leggergli dentro. Ero una brava osservatrice, ma con lui era più difficile.
Mi alzai dal letto, notando che Chelsea non era al mio fianco.
Probabilmente, ero l'unica che a mezzogiorno poltriva. Arrancai verso la finestra, ancora scombussolata, infilandomi le mani nei capelli. Non volevo vedere quella massa informe allo specchio, ma i vetri mi ingannarono. 
Avevo un nido in testa? O un cumulo di paglia? 
Lasciai perdere la mia immagine riflessa e guardai il cielo. Numerosi nuvoloni scuri e minacciosi coprivano il sole, vedevo le chiome degli alberi del vialetto muoversi, scosse dal vento. 
Sì, decisamente. L'estate era finita.
Tornai indietro, diretta in soggiorno, quando notai la porta aperta della piccola camera con il lettino singolo. Le coperte avvolgevano qualcosa, o meglio qualcuno.
Mi avvicinai, e vidi Harry Styles immerso nel mondo dei sogni. 
Il cuore prese a battere al ritmo di una vecchia macchina a vapore, sbuffando ogni tanto. La tenerezza di quella scena non era facile da descrivere.
Aveva una guancia schiacciata sul cuscino, la bocca semiaperta, le labbra rosee sembravano chiamarmi.
Una parte dei suoi capelli era nascosta sotto il suo viso, mentre un ricciolo ribelle gli copriva un occhio. Istintivamente, lo spostai, sfiorando delicatamente la sua pelle.
Era dannatamente bello. Bello il suo volto, la sua voce, i suoi capelli, il suo sorriso. Fu quell'istante ad essere bello, troppo. Ed era destinato a durare troppo poco.
Stavo sorridendo, senza rendermene conto. E appena mi accorsi dei movimenti che avevo appena compiuto, ritirai la mano, temendo di poterlo svegliare. 
Ma Harry non si mosse, per mia fortuna.
Mi allontanai velocemente, in punta di piedi, ed arrivai nell'altra stanza con il fiato corto. Non appena vidi i ragazzi alzare lo sguardo verso di me, mi ricordai dei miei capelli, e cercai velocemente di ammaccarli con le mani, con scarsi risultati visto che scoppiarono tutti a ridere.
Me ne infischiai, e feci colazione insieme a loro, dimenticandomi per qualche istante del ragazzo che dormiva nella stanza accanto. 
Scoprii che tutti si erano appena svegliati, e ne fui felice. Mi sentivo meno in colpa per aver dormito fino a quell'ora.
Notai qualche scambio di sguardi tra Chelsea a Zayn, qualche risata all'unisono e un pò di complicità in più. Erano davvero carini insieme; speravo che la loro amicizia potesse trasformarsi in qualcos'altro. Ed ero pronta ad aiutarla pur di far si che le cose potessero andare per il verso giusto. 
D'altronde, lei era l'unica persona da ringraziare per avermi permesso di realizzare il mio grande desiderio di incontrare i One Direction. 
Ed eccoli lì, tutti intorno al tavolo, a chiacchierare con me come vecchi amici. Era qualcosa che mi riempiva il cuore e che mi trasmetteva tranquillità e vibrazioni positive.
L'unica nota stonata in quell'idillio, furono le occhiate indecifrabili di Liam, alle quali non diedi molto peso.
Terminai la colazione dopo un pò, e decisi di andare in bagno a sistemarmi. Andare in giro in quello stato era un insulto.
Passai dalla stanza di Chelsea, strascicando i piedi sul pavimento freddo. Un brivido mi percorse da capo a piedi: non potevo più camminare scalza, non dopo quel drastico cambiamento climatico.
Spalancai la porta del bagno, con lo sguardo basso, infastidita dalla luce già accesa. Mi accorsi solo dopo della persona in piedi di fronte al lavandino. In boxer. 
Harry in boxer. Harry vestito soltanto con dei miseri boxer neri.
Quello fu tutto ciò che la mia mente riuscì ad elaborare, prima che mi rendessi conto che mi stava fissando. 
Non era infastidito, ma non sembrava nemmeno contento. Mi fissava e basta, e di sicuro notò tutti le sfumature di colore che il mio viso assunse. 
Rinsavii dopo una manciata di secondi.
«O-oddio, scusa», farfugliai, afferrando la maniglia della porta e tirandola verso di me, mentre uscivo dal bagno in fretta e furia, cercando di ignorare quell'odioso vuoto nello stomaco.
Lo sentii ridere, poi afferrare la porta e cercare di riaprirla. 
Mollai la maniglia, e restai lì impalata, cercando di mantenere lo sguardo sul suo sorriso. 
«Ti imbarazza il fatto che sia nudo?», mi chiese. Le sue fossette erano ipnotiche. Dolcissime. 
La mia temperatura corporea aumentava, lo sentivo. Mi stavo per sciogliere. 
«S-sì, cioè.. no», balbettai. «Non sei nudo», in teoria. In quel momento speravo solo che Harry mi chiudesse la porta in faccia e mi risparmiasse quello strazio, ma non lo fece. Si divertiva a vedermi morire di vergogna? 
A quel punto le fossette si fecero più pronunciate, il sorriso più ampio. «Vuoi che lo sia?», la voce era rotta, probabilmente voleva scoppiare a ridere, ma riuscii a cogliere nel tono un pizzico di serietà.
Tutte le parole che stavo cercando in un angolino ammuffito della mia testa si persero lungo il sentiero: la sua sfacciataggine mi lasciava ammutolita. 
Restai immobile a fissarlo, non so per quanto, mentre il mio cervello faticava a velocità massima.
Non sapevo che dire. Non avevo nessuna risposta perspicace o sfrontata quanto la sua domanda. Su, inventati qualcosa per dartela a gambe, mi dicevo. Lo feci, e ciò che dissi fu la risposta più stupida e inadatta che avessi mai fornito a qualcuno.
«Mi serve il bagno, sbrigati», mormorai, a bassa voce, per evitare che sentisse la mia agitazione. 
Le mie gambe si mossero nella direzione opposta, la testa mi si piegò istintivamente in avanti. Avevo bisogno di un sacchetto da mettermi sulla testa. 
La figura peggiore della mia vita. 
«Aspetta, Lizzie». Sentirlo pronunciare il mio nomignolo fu il colpo di grazia. Eppure mi voltai. «Hai da fare dopo?»


capitolo un pò demenziale ahahaha spero vi piaccia lo stesso (:
e grazie mille delle recensioni, e di aver messo la mia storia nei preferiti o nelle seguite <3

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Capitolo 7
*** blackout - parte prima ***





blackout - part one.


Corsi in camera mia in fretta e furia dopo aver passato un pò di tempo a chiacchierare con i ragazzi, chiusi la porta a chiave, e mi diressi verso la cassettiera per trovare qualcosa di decente. Scartavo vestiti su vestiti, con le mani tremanti. 
Nella mia testa sentivo ancora le sue parole, accompagnate dal sorriso più bello che avessi mai visto: «Ti va di fare una passeggiata?», mi aveva chiesto, speranzoso.
Non sapevo come - soprattutto dopo essere sprofondata negli abissi dell'imbarazzo - ma ero riuscita a fare un cenno della testa, accettando la sua proposta.
Erano quasi le cinque del pomeriggio. Ricordavo a stento il sole che batteva cocente a quell'ora, dato che ormai non si faceva vedere da quasi un giorno intero, e di solito un tempaccio simile in un altro momento avrebbe urlato: "rintantati sotto le coperte e fatti un sonnellino!". Invece, in quell'istante, pensavo solo all'imminente uscita con Harry.
Non sapevo se considerarlo un appuntamento, ma mi piaceva pensarlo. 
Un appuntamento con Harry Styles, l'aspettavo da una vita. Ed eccolo lì, servito su un piatto d'argento. 
Mi sfilai quel pigiama infantile - benchè mi piacesse tanto - e indossai dei vecchi jeans strappati, converse e una maglietta bianca e nera. 
Mi guardai nello specchio, pronta a sistemarmi finalmente quella massa inguardabile chiamatasi capelli.
La mia immagine riflessa, come al solito, non mi soddisfò. Non ero bellissima, non lo ero mai stata, e situazioni del genere mi facevano sentire ancora più insignificante, come se non potessi meritarle. Eppure mi bastava un suo sguardo, un suo sorriso, per dimenticarmi di tutto e per sentirmi speciale, anche se solo per qualche secondo.
Districai con tanta pazienza tutti i nodi, e spazzolai i capelli con vigore, quasi volessi strapparmeli alla radice. Se non avessi mantenuto il controllo, l'avrei fatto.
Fortunatamente, quel giorno non erano così indomabili: riuscii infatti ad ottenere delle morbide onde. 
Ero piuttosto contenta del risultato, un pò meno delle farfalle che girovagavano nel mio stomaco. Stava accadendo tutto troppo in fretta, e tutte quelle attenzioni, che non avevo mai avuto, mi scombussolavano non poco.
Con un respiro profondo, provai a calmarmi, e uscii dalla mia stanza, un po' più tranquilla di prima. 
Mi aspettava appoggiato al muro, poco distante. 
Aveva indossato dei pantaloni beige, delle semplici scarpe bianche, e una giacca nera, che copriva un'immacolata t-shirt. 
Non avevo ancora visto Harry con la giacca, non dal vivo almeno, e quel cambiamento di look mi fece sentire... strana? Era più elegante del solito, e la meta della passeggiata mi era ancora sconosciuta.
All'improvviso scosse la testa, e con una mano si sistemò i ricci, voltandosi contemporaneamente verso di me. 
Gli sorrisi istintivamente, lui fece lo stesso.
Mi avvicinai con decisione, finché non fummo faccia a faccia. «Sono pronta», dissi, rendendomi davvero conto che saremmo stati solo io e lui. Il mio sorriso si spense, rimpiazzato dall'ansia.
Probabilmente, lui la colse. «Tutto bene?», mi chiese, con fare preoccupato. Ma come diavolo faceva? 
Per me era terribilmente difficile scoprire ciò che provava, ciò che pensava. Perchè invece per lui io ero così facile da leggere? Non ero mai stata un libro aperto prima d'ora. 
«Sì, tutto okay», risposi, mentre lui mi fissava con quegli occhioni verdi.
Attese qualche istante, poi sorrise. «Oh, avanti. Lo so che sei agitata», constatò, ridacchiando, cingendomi le spalle con un braccio con fare disinvolto. Il contatto mi cosparse di brividi; cercai di non fargli notare che ero rimasta pietrificata. «Non voglio rapirti, eh! Stai tranquilla», continuò, sempre con il sorriso sulle labbra. Alzai la testa per guardarlo, lui abbassò la sua: la visuale era splendida. 
«Lo so», mormorai, e abbassai lo sguardo, sentendomi arrossire. Cominciammo a camminare, e uscimmo dall'hotel velocemente, senza più proferire parola.
La sua mano penzolava dalla mia spalla, e quel braccio intorno al mio collo mi stava facendo letteralmente impazzire. 
Nel vialetto non c'era nessuno, non ancora almeno. Vidi Harry indossare degli occhiali da sole, benchè non ci fosse il minimo raggio di sole. 
«Piccole precauzioni», mormorò tra sè.
«Non credo bastino gli occhiali da sole per renderti irriconoscibile», commentai.
Ci guardammo nello stesso istante. Distolsi subito lo sguardo. «Lo credo anch'io».
Passeggiammo per qualche metro, nei pressi del parco, finchè vidi una ragazza indicare Harry, la bocca spalancata per la sorpresa. Poi sentii urlare il suo nome.
Attirò l'attenzione di alcune ragazze nei dintorni, e ci ritrovammo circondati da fans, di nuovo. 
Harry cercava di liberare le braccia, per firmare più autografi possibili, quanto più velocemente poteva. Per qualche minuto io e lui tacemmo. Io aspettavo che terminasse di accontentare tutte, lui abbracciava le fans e firmava i fogli improvvisati di tutte.
«Lizzie?», mi chiamò all'improvviso, tra le urla. Non c'erano molte ragazze, ma provvedevano a far casino peggio di una folla. «Sono qua», risposi, senza lasciare che il panico si impadronisse di me.
«Resta accanto a me, okay?», mi disse, lasciando scivolare la penna su un piccolo bloc-notes. "Okay", pensai mentalmente, mentre guardavo il suo profilo. Ma le ragazzine mi superarono, ed io non riuscii ad obbedire alla sua richiesta. Pian piano fui spinta fuori dal cerchio.
Harry se ne accorse, lanciandomi una breve occhiata, poi consegnò la penna ad una ragazza, salutò tutte lanciando un bacio e si diresse verso di me.
All'improvviso sentii la sua pelle a contatto con la mia, le nostre dita che si intrecciavano. Cominciò a camminare a passo veloce, tirandomi, per lasciarsi indietro la piccola orda di fans. Procedemmo per un po', poi appena svoltammo l'angolo, rallentò. 
«Stai bene?», mi chiese, guardandosi intorno. Poi focalizzò la sua attenzione su di me, che lo guardavo sopraffatta. 
Ero sorpresa della sua calma, della sua disponibilità, della sua preoccupazione verso una ragazza che conosceva da un giorno o poco più. Ciò che provavo cominciava a rafforzarsi, e forse era così anche per lui. O almeno, lo speravo. 
Lo deducevo dal suo modo di comportarsi in mia presenza, dai suoi sorrisi, dagli sguardi indecifrabili che mi lanciava, ma forse era solo la mia testa che esagerava con le deduzioni.
«Ehi?», sentii la sua mano calda appoggiarsi sulla mia guancia. Lo stavo ancora guardando, senza accorgermene, senza minimamente vederlo. Appena sentii quel contatto, però, tutto ritornò alla normalità. Tutto tranne il mio viso. 
«Sì, sto bene, grazie», voltandomi e lasciando cadere la sua mano nel vuoto. «Dove mi porti?», domandai.
Mi guardava ancora incerto, come se la mia fosse stata una bugia. Forse aveva ragione, in parte. Era una mezza verità. 
«Non so, visto che abbiamo fatto colazione a ora di pranzo, ti va di andare da Starbucks?»
«D'accordo», acconsentii sorridendo, per tranquillizzarlo.
Mi cinse di nuovo le spalle con un braccio e continuammo a passeggiare. Non osavo immaginare come gli altri potevano vederci, ma non riuscii ad evitare di pensarci. Sì, sembravamo due fidanzatini, dannazione. E non mi aiutava.
«Allora? Mi parli un pò di te?», domandò. «Credo che ormai tu mi conosca alla perfezione». Sbagliato.
«Cosa vuoi sapere?»
Ci pensò su. «E' scortese chiederti quanti anni hai?».
«Lo è ma non m'importa», risposi. «Ho compiuto da poco diciotto anni»
Ridacchiò. «Cavolo, non credevo di essere più piccolo di te», disse, divertito.
«In effetti non lo sembri, alto come sei»
Arrivammo finalmente da Starbucks, dopo aver subito un'altra piccola interruzione da una fan solitaria. Mollò la presa intorno a me, e mi accompagnò dentro, poggiandomi una mano sulla schiena. 
Ormai aveva preso confidenza e dovevo abituarmi a quei contatti, ma sapevo che non sarebbe stato facile trattenere i brividi. 
Prendemmo entrambi dei muffin al cioccolato e un frappuccino, e ci sedemmo all'unico tavolo libero. 
Harry partì con l'interrogatorio, chiedendomi dove vivessi, con chi, e se avessi fratelli o sorelle. Quando parlai della mia famiglia, non potei fare a meno di pensare al divorzio dei miei.
Era stato un duro colpo, soprattutto l'allentarsi del rapporto con mio padre. Lo odiavo per aver tradito la mamma, lo odiavo per averlo tenuto nascosto per due lunghissimi anni. 
Ma evitai di dirlo ad Harry. Non volevo che quella sorta di appuntamento si trasformasse in una sessione di sfogo personale con tanto di lacrime. Così, gli sorrisi: una volta in più non avrebbe fatto male a nessuno.
Lo fece anche lui. «Sei più tranquilla ora, vero?», osservò.
Abbassai lo sguardo, ridendo tra me. «Come fai?», gli domandai, finalmente. «Come fai a capire quello che provo?», incrociai di nuovo il suo sguardo.
Assumeva un viso buffo mentre sorseggiava il suo frappuccino.
«Superpoteri», disse serio.
Scoppiai a ridere, talmente forte che mi tappai la bocca. Era una risata colma anche di nervosismo. «D'accordo», mormorai, dopo un pò.
Diedi un morso al mio enorme muffin. La mamma li faceva molto più piccoli.
«Quanto tempo resti qui?», mi chiese. 
Attendevo quella domanda da molto tempo. Desideravo sapere se la scarsità di tempo preoccupava anche lui.
«La vacanza termina sabato prossimo», gli risposi, bevendo un pò della mia bibita, vigilando la sua reazione. 
Sentii chiaro il rumore fragoroso di un tuono.
Lui annuì, alzando le sopracciglia. Come sempre, non riuscii ad interpretarlo. 
«Purtroppo», aggiunsi, sperando di vedere una reazione chiara da parte sua. Sfortunatamente potevo contare solo sulle sue parole. 
Si portò un ciuffo di capelli all'indietro, e si alzò, facendo stridere la sedia al pavimento. 
«Meglio tornare a casa», disse, e sentii sfumare la possibilità di capirne qualcosa in più. Fuori il cielo era plumbeo. Le nuvole si erano ammassate; erano quasi nere, minacciavano un temporale in piena regola, peggiore di quello della sera precedente. In strada erano già accesi i lampioni, ed erano appena le otto di sera. I fari delle auto illuminavano tutto, come se fosse già calata la notte. Dovevamo correre ai ripari prima che cominciasse a piovere, e la missione era quasi impossibile. 
«Sei pronta a correre?», mi chiese Harry, piegando le labbra all'insù e mostrandomi nuovamente quelle adorabili fossette.
La corsa cominciò appena mettemmo piede fuori. Mi prese di nuovo per mano, inaspettatamente, ed io fui di nuovo senza parole. 
Correvamo insieme per le strade di Londra, mentre la sua giacca aperta svolazzava e i suoi ricci rimbalzavano come molle. Il sorriso sul suo volto mi riempiva di gioia.
All'improvviso vidi delle gocce di pioggia bagnare l'asfalto, ed eravamo ancora a metà strada. «Corri!», urlò, ridendo. E lo feci, mentre ascoltavo il suono della sua voce. 
Quella corsa fu la parte più bella dell'appuntamento. Sfrecciavamo lungo i marciapiedi, attraversavamo la strada come dei forsennati scavalcando le auto ferme ai semafori mentre la pioggerellina leggera ci bagnava i vestiti.
Non ci fermammo nemmeno quando tutto fu illuminato dai lampi, scosso dai tuoni e immerso nell'oscurità.
Un blackout aveva bloccato Londra. 
I fari delle vetture ci aiutavano a trovare la strada, la pioggia si faceva più insistente. Arrivammo all'entrata dell'hotel completamente fradici, le risate ancora stampate sui nostri volti. 
Lo spettacolo che ci accolse per me era inquietante: l'insegna dell'albergo era spenta, la hall era buia. Il signor Dwayne ci accolse fornendoci delle candele bianche. «Le luci d'emergenza nei corridoi sono accese, ma le stanze non ne sono fornite. Siamo terribilmente dispiaciuti», si scusò. «In attesa che tutto torni alla normalità usate queste». 
Io ed Harry salimmo le scale in silenzio, mentre la mia testa pullulava di domande. Diedi sfogo alla mia curiosità. 
«I ragazzi se ne sono andati?».
«Sì. Liam mi ha mandato un sms dicendomi che sarebbero ritornati a casa. Chelsea è con loro».
La mia risposta geniale fu: «Ah».
Arrivammo nel corridoio. Le luci fornivano una scarsa illuminazione, forse perchè erano situate troppo in alto. 
Arrivata davanti alla porta della mia camera, con il cuore a mille e il fiato corto domandai ad Harry, che mi aveva seguita in silenzio: «Tu resti?»
Fece spallucce, serio in volto. «Se ti fa piacere, sì».
Lo osservai, annuendo e deglutendo, poi mi voltai. Faticai ad inserire la chiave nella toppa, perchè la mia mano non voleva smetterla di tremare. Alla fine, con un debole rumore, la porta si aprì.
La mia voce era un soffio. «Entra».


ringrazio tutte per aver commentato, per aver messo la storia nei preferiti o nelle seguite *-* Ho dovuto dividere in due perchè altrimenti sarebbe stato troppo lungo. Domani credo di scrivere il continuo, quindi non vi farò stare troppo in ansia.
spero in tante recensioni. vi amo lo stesso, anche se leggete di nascosto ahahah <3 un bacio!

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Capitolo 8
*** blackout - parte seconda ***





blackout - part two.


Mi richiusi la porta alle spalle e, casualmente, mi strizzai i capelli umidi di pioggia, pensando al da farsi.
E non era facile. Avere Harry nella mia stanza, oltretutto al buio, non mi permetteva di pensare razionalmente. 
Quando i miei occhi si abituarono all'oscurità, riuscii a vedere i contorni del suo corpo. Camminava goffamente, mettendo le mani davanti a sè per evitare di sbattere contro qualcosa.
Continuando a guardarlo intensamente, scoppiai inevitabilmente a ridere. Aveva le movenze di una scimmia, impossibile restare seri. Si voltò verso di me. «Che c'è?»
«Niente, sei solo buffo»
Finalmente trovò il divano. Sentii un tonfo, e capii che si era seduto. «Non conosco le insidie della tua stanza, non ci sono mai entrato», si giustificò. In quel momento realizzai nuovamente la cosa. Eravamo realmente soli. 
Fuori era calata la notte, illuminata soltanto ogni tanto dalla luce intermittente dei fulmini. La stanza era immersa nell'oscurità, se non fosse stato per le candele accese che Harry aveva messo in circolo sul tavolino di fronte a lui. 
Il suo viso era illuminato dalla loro luce fioca, giallastra, mossa. 
«Meglio di niente», disse, inchiodandomi con lo sguardo. 
Io ero ancora impalata davanti alla porta, senza sapere cosa fare. Con il pollice la indicai. «Vado a chiedere una torcia?», gli domandai, a voce bassa. La mia frase fu quasi interamente coperta da un tuono, ma lui mi sentì. 
«Sono sicuro che il blackout non durerà più di mezz'ora», mi assicurò, forse per tranquillizzarmi. In realtà anche dieci minuti mi terrorizzavano. Mezz'ora sarebbe stata un inferno per me.
Acconsentii ugualmente. Non potevo confessargli quello che mi stava passando per la testa. Le mie paranoie erano troppe, la fantasia correva a briglia sciolta, la paura di commettere errori era tanta. E se si fosse avvicinato troppo? Se non gli avessi resistito? Mi avrebbe respinta, oppure no? 
Come avevo detto la sera prima a Liam, la mia mente era un turbinio di pensieri contrapposti. Avrei voluto che Harry fosse qualcosa di più, eppure da un lato non volevo cambiamenti. 
Attraversai la stanza con sicurezza, cercando di ricordarmi gli ostacoli che potevano costituire il tavolo, il divanetto e il muro. Sì, anche il muro. 
«Dove vai?», sentii Harry, mentre entravo nella camera da letto. Aprii la cassettiera e, tastando qua e là, afferrai un'asciugamano. 
Magari voleva asciugarsi anche lui, così ne presi due. 
Tornai indietro, sventolandole qua e là, socchiudendo gli occhi e affilando lo sguardo per vedere dove stavo andando. 
Fuori i tuoni continuavano, forti, facendo vibrare i vetri. Ritornai in soggiorno, e vidi Harry armeggiare con il suo cellulare, la luce del display gli illuminava il viso e un ciuffo riccio gli nascondeva parte della fronte. Era dolce.
Appena mi vide, alzò lo sguardo e aggrottò la fronte. «Oh», disse, quando gli lanciai l'asciugamano.
«Dobbiamo arrangiarci, niente elettricità, niente acqua calda». Intanto tamponavo i capelli, e dopo averli sistemati alla bell'è meglio, li legai con un elastico.
Harry continuava a scuotere la testa; i ricci molleggiavano, la fiamma delle candele ondeggiava un po' ovunque. 
Appena ebbe finito, prese di nuovo il suo I-Phone tra le mani, mentre io mi sforzavo di intavolare una conversazione. Avrei tanto voluto chiedergli se aveva sentito il mio discorso con Liam, ma dovevo accumulare una gran quantità di coraggio per farlo, e in quel momento ero all'inizio dell'opera.
All'improvviso partì della musica. Era un pezzo Pop, ma non seppi riconoscerlo. Si alzò senza lasciarmi il tempo di collegare la musica e le parole al cantante. «Posso avere questo ballo?»
Lo guardai con fare interrogativo, più spaventata che confusa, però. «Non so ballare», gli risposi, con una smorfia. Su musica pop, poi? 
Lo vidi alzare gli occhi al cielo, le candele illuminavano solo il suo viso, visto che era chino su di me. «Avanti!», mi esortò, offrendomi una mano.
Con un sospiro, la afferrai e mi aiutò ad alzarmi, mentre pensavo a qualcosa tipo: come rovinare una serata con Harry Styles. 
Sarebbe sicuramente scoppiato a ridere, ma alla fine fui io quella che dovette trattenersi per non morire dalle risate.
Si muoveva come un forsennato, agitando le braccia e la testa, poi fece delle mosse davvero improbabili. Sembrava ubriaco, e non si preoccupava di andare a tempo.
Io ero ferma sul posto, troppo impegnata a non soffocare. «Oddio», mormoravo di tanto in tanto. Poi mi prese le mani, e mi costrinse a muovermi, ma il massimo che feci fu spostare il peso da una gamba all'altra e fare qualche passo.
«Sei proprio una frana», disse, ridendo, mentre la musica copriva il rumore del temporale che imperversava su Londra. La luce non era ancora tornata, ma ero troppo occupata a guardare il ragazzo impazzito di fronte a me per accorgermene.
Ad un certo punto, mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Mi resi conto di essere tra le sue braccia quando sentii l'aria scompigliarmi i capelli. Afferrai il suo collo, tenendomi più forte possibile, pensando soltanto: "ora cado". 
Harry barcollava da una parte all'altra, probabilmente tentava di fare dei passi di danza, pur oberato da un fardello di cinquanta chili.
Eppure, mi stavo divertendo. 
La musica continuava a rimbombare a volume massimo nella stanza, quasi stavo perdendo la cognizione dello spazio. 
«Mettimi giù!», urlai, pur essendo a pochi centimetri dal suo viso. Sentivo la sua risata, chiara, limpida, sincera. 
Senza rispondere, obbedì. Il brano pop era terminato, e mi accorsi a malapena della canzone che stava iniziando, troppo intenta a guardarlo. 
Avevo ancora un braccio intorno al suo collo, ed ero in punta di piedi. Abbandonai la presa, appena incrociai il suo sguardo. 
La luce improvvisata creava giochi di ombre sul suo viso. I suoi occhi assunsero un colore aranciato. Il mio cervello non elaborava le informazioni in quel momento, si era semplicemente azzerato.
A stento sentii la sua mano afferrare il mio polso e poi scorrere lungo il mio palmo finchè le nostre dita si intrecciarono. L'altra premeva saldamente sulla mia schiena. 
Era cominciato un lento, o quasi. Conoscevo quella canzone. L'avevo sentita troppe volte.
Un debole tuono non riuscii a coprire quel suono così familiare. Solo quando il cantante cominciò a cantare, ricordai il video che avevo visto circa mille volte su Youtube. La loro esibizione. 
Harry cominciò a dondolare, stringendomi forte a sè. Iniziai a muovermi anch'io, per quanto l'agitazione e le gambe tremanti me lo permettessero.
Avevo appoggiato istintivamente la testa sul suo petto; dalla sottile maglietta bianca, sentivo chiaramente il battito regolare e rassicurante del suo cuore. 
Quella musica dolcissima continuava, ma non riuscivo a concentrarmici, non se eravamo così vicini. 
«And you can tell everybody, this is your song. It may be quite simple but now that it's done. I hope you don't mind, I hope you don't mind, that I put down in words...», Harry cominciò a cantare. La sua voce era la cosa più bella che avessi mai sentito. 
Quelle semplici parole quasi mi fecero scoppiare il cuore; chissà se aveva sentito che aveva accelerato il ritmo. «How wonderful life is while you're in the world».
Chiusi piano gli occhi, mentre la sua voce mi cullava. Quante volte avevo sognato quel momento? Quante volte mi ero svegliata nel cuore della notte, con il fiato corto, provando a non scoppiare in lacrime quando realizzavo che era solo un sogno?
Cosa avrei provato se li avessi aperti e mi fossi resa conto che quel momento era la pura e semplice realtà?
Avevo accumulato un bel pò di coraggio, e non avevo intenzione di lasciare che il tempo passasse e che questo ritornasse di nuovo a quota zero.
Lo guardai appena la canzone terminò, e sentii chiaro il tonfo del mio cuore quando mi resi conto che era così, così troppo vicino. 
I suoi occhi chiari mi scrutavano, le labbra rosee erano decisamente invitanti. Le sentii sulla mia fronte, senza preavviso, morbide.
Quasi fui tentata di scansarmi, ma mi resi conto che non volevo altro. Lasciarono una dolce scia umida sulla mia pelle. 
«Mi hai sentita, Harry?», gli chiesi, tutto d'un fiato. La mia voce era l'unico suono. Il temporale era probabilmente finito, e quello era il momento perfetto: sapevo che se non gliel'avessi domandato in quel momento, non l'avrei fatto mai più. «Ieri sera, quando stavo parlando con Liam e tu sei sbucato dal nulla».
Scrutai il suo viso imperturbabile, agitata come non mai prima, ma sembrava deciso a non rispondermi. «Mi hai sentita?», ripetei. 
«Ho sentito... cosa?»
Mi chiesi se lo faceva di proposito. «Quello che ho detto».
«Perché me lo chiedi?», il suo tono provocatorio mi diede i nervi. «Hai detto qualcosa di compromettente su di me?», chiese, facendo spuntare sul suo viso un sorriso che per un istante, solo nella mia testa, illuminò l'intera stanza. Sentii un calore molto familiare invadermi le guance, chiaro segno che aveva centrato il punto. 
Feci un respiro profondo, troppo presa dal nervosismo. L'effetto rilassante di quel lento stava pian piano svanendo. Sciolsi la presa della sua mano, che ancora stringeva la mia. «Non rispondermi con un'altra domanda», dissi, incrociando le braccia. 
Lui sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Ti lascio con il beneficio del dubbio, contenta?»
«Ti conviene rispondermi, prima che ti cacci a cuscinate dalla stanza», la mia serietà non era propriamente convincente. Per un attimo immaginai come sarebbe stata una lotta di cuscini con lui, poi ripensai a ciò che gli avevo chiesto. Provai a tenergli il broncio, ma era una missione quasi impossibile, non facilitata dal fatto che scoppiò a ridere. «Non lo faresti mai», disse, convinto. 
Quella frase innescò la mia determinazione. Avevo voglia di fare sul serio. 
«Vuoi scommetterci?». Feci un giro intorno al tavolino, attenta a non urtare gli spigoli, e afferrai il cuscino del divano. Con velocità assurda glielo scagliai contro; lo colpii in pieno viso. «Non sono stupida, Styles. Il tuo tentativo di cambiare discorso è ridicolo».
«Se ti rispondessi, cosa succederebbe?».
Ci pensai su, abbassando lo sguardo. Cosa sarebbe successo? 
Mi avrebbe complicato la vita, probabilmente. Eppure volevo saperlo, volevo sapere se lui provava lo stesso, se nella sua testa c'erano i miei stessi pensieri. Volevo saperlo e basta, non avevo ancora pensato al dopo. 
Probabilmente notò la mia espressione confusa e combattuta. Lo sentii sospirare. «No, non ho sentito altro che la tua domanda finale», disse, infine. «Hai chiesto a Liam se anche lui aveva una cotta per qualcuno, quindi deduco che a te piace una persona. Sbaglio?»
Lo guardai. Lui fece spallucce. «Sono più intelligente di quanto si creda», disse, sorridendomi. 
Era una cotta la mia? Una semplice cotta per una persona che conoscevo pochissimo? Una normalissima cotta per un idolo? A meno che considerassi Harry ancora tale. 
Per me era un amico, benchè l'amicizia, almeno da parte mia, si stesse trasformando in qualcosa di più. 
Incontrare un amico non mi avrebbe procurato le farfalle nello stomaco, nemmeno la sua voce, nemmeno il suo sorriso. 
«Già», confessai. «Ma non serve a nulla». Feci una smorfia triste, rendendomi conto di quanto il mio amico fosse lontano. Erano due mondi diversi i nostri, che difficilmente sarebbero riusciti ad incontrarsi.
Fuori la pioggia continuava a scrosciare, e io che credevo che il temporale fosse finito.
Restammo qualche istante in silenzio, mentre il lettore musicale continuava con la sua lista di brani, a volume minimo. 
«Sono stanca, vado a letto», gli dissi, voltandomi e dirigendomi a tentoni nella camera da letto. 
 
 
 
 
non ho riletto, e non ero molto ispirata. a me fa un pò schifetto, ma spero che almeno a voi piaccia. scusate il ritardo! un bacio e grazie delle recensioni <33

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Capitolo 9
*** sogno e realtà. ***





sogno e realtà.


Mentre ero ancora in dormiveglia, sentii bussare violentemente alla porta. Aprii a stento gli occhi, ancora appiccicaticci, probabilmente perchè mi ero addormentata in lacrime, e mi presi tutto il tempo necessario per capire che dovevo alzarmi per andare ad aprire.
Di nuovo quattro colpi continui. Non c'era bisogno di usare tutta questa forza, a meno che non volessero sfondare la porta. Con uno sbuffo, mi misi a sedere sul bordo del letto, e indossai le mie ciabatte di pelo, con tutta calma. Diedi una rapida occhiata al display della sveglia: le sette del mattino. 
Chi diavolo disturbava alle sette del mattino? Non poteva essere il cameriere, visto che la colazione era prevista per le otto; se avessi aperto e visto Chelsea, probabilmente le avrei fatto una di quelle ramanzine lunghe un secolo.
Attraversai il soggiorno, con ancora indosso il mio pigiama azzurro con i cagolini, e mentre mi dirigevo verso la porta, mi voltai verso la finestra. Il sole non ne voleva sapere di spuntare, e forse avrei dovuto sopportare un'altra giornata di pioggia, ergo, un'altra giornata chiusa in albergo.
Ma se l'avessi trascorsa con i ragazzi, ero sicurissima che non ne sarei stata così tanto dispiaciuta. 
Il mio viaggio culturale a Londra si stava rivelando una sorta di premio vinto a causa di un biglietto omaggio, raro e portatore di fortuna, per vivere un'esperienza fantastica insieme ai One Direction. Una sostituzione davvero degna.
Intanto avevo raggiunto l'entrata. Con distrazione, abbassai la maniglia, e fui sconvolta da ciò che vidi. Per un attimo rimasi interdetta, mentre la mia bocca si apriva involontariamente a causa della sorpresa. Il mio cervello ci impiegò qualche istante per elaborare tutto. 
Cos'era? Louis travestito per Halloween prima del previsto? 
Non sapevo cosa fare e cosa dire, ero semplicemente sotto shock. In un istante, i miei pensieri saettarono sul ragazzo che aveva condiviso la stanza con me. 
«Credevo fossi morta!», sbraitò lei, un'espressione mista tra la sorpresa e il sollievo. No, la voce non era quella di Louis.
Guardai i suoi capelli corti, il suo fisico perfetto nonostante i quarantacinque anni, gli occhiali che portava a causa di un difetto di vista. Aveva le mani sui fianchi, di solito un brutto segno, ma non sembrava arrabbiata, non ancora. 
«Mamma?», domandai, appena ripresi la facoltà della parola.
Lei fece un sospiro. «Ti ho chiamata cinque volte ieri sera e l'unica a rispondermi è stata la tua dannata segreteria telefonica! Ti ho inviato mille messaggi chiedendoti se fosse tutto apposto ma non hai degnato di uno sguardo neanche quelli! Mi sono preoccupata, sai? Appena ritorni a casa facciamo i conti, signori... E quello chi è?», chiese, dopo la sfuriata, durante la quale io ero rimasta a guardarla sbigottita ed impaurita. Non riuscivo ancora a credere che fosse davanti a me.
Mi voltai, seguendo il suo sguardo. Harry comparve dal buio del corridoio, nella sua solita 'tenuta casalinga'. Si sistemò i ricci che gli coprivano un occhio. Camminava sfacciato verso di noi, senza curarsi del fatto che fosse mezzo nudo davanti a mia madre. «E LUI CHI E'?», urlò lei, perforandomi un timpano. Non avevo risposto alle sue chiamate e avevo un tizio in boxer che girovagava nella mia stanza. Ero nei guai, guai grossi.
«Sono il suo ragazzo», rispose lui, dedicandole uno dei suoi migliori sorrisi.
 
Mi svegliai di soprassalto, sbarrando gli occhi e balzando a sedere sul letto. Mi guardai intorno; era giorno. 
Il respiro riprese normalmente quando mi resi conto che era stato solo un brutto incubo, un bruttissimo incubo. Eppure, la sensazione di panico era rimasta. 
Perchè diavolo facevo quei sogni? Perchè doveva comparire proprio mia madre? Perchè Harry diceva proprio quella famosa frase?
Anche i sogni mi prendevano in giro, bene. Non potevo desiderare altro.
Feci scorrere la mano sulle lenzuola, sovrappensiero. Se ci fosse stato solo Harry non sarebbe stato un incubo, mi ritrovai a pensare. Ed era vero. Probabilmente quel sogno si sarebbe trasformato in una fiaba, dove lui era davvero il mio ragazzo, dove non c'erano problemi riguardanti i suoi impegni e la sua popolarità, dove avrei potuto semplicemente vivere di verità. Ecco cosa mi impediva di dirgli che non gli ero indifferente, a meno che non se ne fosse già accorto. A cosa sarebbe servito? A rincorrere un sogno che era distante anni luce dalla realtà? A starci male dopo aver realizzato che avevo ragione io, che i nostri erano due universi completamente diversi che non avrebbero mai potuto coesistere? Ero una semplice ragazza di città, italiana, che avrebbe voluto vivere il suo sogno. Ma si sa, se i sogni erano chiamati tali c'era un motivo. I sogni non erano abitudine, i sogni non avrebbero mai potuto fondersi con il mondo in cui vivevo. Dovevo accettarlo, e ci stavo provando. 
All'improvviso, la mia mano - che stava continuando a carezzare il tessuto - incontrò un ostacolo. 
Sobbalzai, quando mi resi conto che era il braccio di Harry. Contemporaneamente, emisi un urlo e scesi dal letto, correndo il rischio di slogarmi una caviglia. 
Il cuore cominciò a zoppicare, non sentivo più le gambe. Con la poca voce che avevo, cominciai a sbraitare. «Che diavolo ci fai nel mio letto?», gli urlai. Ma lui non si mosse di un millimetro. Aveva la bocca aperta, e ogni tanto emetteva un grugnito; i ricci gli coprivano il volto. Non riuscii a pensare a quanto fosse angelica quella visione e al fatto che avesse dormito insieme a me: ero solo colma d'imbarazzo, e tutto ciò che volevo fare in quel momento era buttarlo giù da quel dannatissimo letto.
Gli scossi il braccio, facendolo dondolare. «Harry Styles!», gridai. Poi mi appoggiai al letto, fissandolo.
La mia voce squillante lo svegliò. «Chi? Cosa?», farfugliò. «Che c'è?». Si voltò verso di me, con gli occhi semichiusi e le labbra gonfie. 
«Che. cavolo. ci. fai. nel. mio. letto?», ripetei, al ritmo di una parola al secondo. Intanto il mio stomaco reagiva male al fatto che Harry fosse nella stessa tenuta del sogno. Le ali delle farfalle avevano preso fuoco, probabilmente. Lo guardai, stavolta concendendomi di pensare solo al suo viso. Era bello, inutile continuare a negarlo o a fingere di non farci caso. Amavo persino il suono della sua voce, anche al mattino, anche quando era impastata e rauca. 
E i suoi ricci erano splendidi; avrei passato giorni interi a giocarci, ad arrotolarli intorno alle mie dita. 
Mi si formò un groppo in gola. 
«Dove altro avrei dovuto dormire?», chiese retorico, alzando un braccio e facendo una smorfia. Rimasi qualche istante a guardarlo, mentre cercavo di ricacciare indietro le lacrime che, apparentemente senza motivo, volevano cominciare a scendere. 
Afferrai il mio cuscino e lo colpii sulla testa. «Vaffanculo», mormorai, e feci per uscire dalla stanza. Ma non avevo voglia di dargliela vinta, perciò ritornai indietro. «Dove altro avresti dovuto dormire?», ripescai la sua domanda. «Dappertutto, ma non nel mio letto!», esclamai. «C'è un divano di là, se non ci hai fatto caso!», continuai, con un sorrisetto sarcastico. Intanto si stava alzando. 
«Volevo qualcosa di comodo», si giustificò, cercando di non scoppiare a ridere. La sua strafottenza mi irritava, ma dall'altro lato mi attraeva. 
Feci un verso isterico. Mi guardai intorno, e notai i suoi vestiti poggiati sulla sedia. Aveva dormito con me, in boxer, nel mio stesso letto. Impossibile non pensarci. Glieli lanciai. «Vestiti, per l'amor del cielo!», dissi. «La prossima volta sopporterò la paura del buio», mormorai tra me. Ma mi bloccai a fine frase, consapevole che la prossima volta lui non ci sarebbe stato con me, e non per mia volontà.
Per evitare di guardarlo mentre si infilava i pantaloni, e per evitare di fare pensieri deprimenti, diedi un'occhiata al mio cellulare. Due chiamate perse, fico. 
Mandai in fretta un messaggio a mia madre, scrivendole che andava tutto bene e che l'avrei chiamata in serata, ancora scandalizzata per quel sogno. Mentre digitavo i tasti, sentii la porta del bagno chiudersi. 
Posai di nuovo il telefono sul comodino, guardandomi lentamente intorno. 
Harry era in bagno, la stanza era riempita soltanto dal silenzio. 
Il mio sguardo cadde inevitabilmente sulle coperte disfatte e feci il giro del letto, per ritrovarmi dal lato dove aveva dormito. Mi abbassai per annusare il suo cuscino: aveva il suo buon profumo. 
Mi ritrassi all'improvviso, temendo che potesse uscire da un momento all'altro, ma considerai davvero l'idea di rubare la fodera e portarmela a casa.
Pensiero da maniaca, meglio scartarlo.
Ad un certo punto sentii vibrare il suo IPhone. Saltai sul letto, per arrivare in fretta al comodino e afferrarlo. Lessi il nome sul display. 
«Harry!», urlai. «Liam ti sta chiamando!». Osservai il cellulare vibrare tra le mie mani, mentre aspettavo una risposta, o lo scatto della maniglia.
«Rispondi pure», lo sentii. 
E obbedii.
«Liam?».
«Lisa? Dov'è Hazza?», chiese lui.
Era stranamente allarmato. «In bagno. Dì pure a me». 
«Ecco, abbiamo un appuntamento in radio tra un po', spero non se ne sia dimenticato. Sono le nove e dobbiamo essere lì per le nove e trenta», mi informò. Probabilmente se n'era scordato, considerando il fatto che fosse così calmo e lento, pur essendo in ritardo.
«Okay, lo avviso subito», dissi. «Lo aspetterete in radio?», domandai. Nello stesso istante sentii la porta aprirsi. Mi voltai verso di lui, ascoltando la risposta di Liam. 
«Sì, digli di sbrigarsi», e mi congedò.
Harry mi guardava con fare interrogativo. Prese il suo cellulare dalle mie mani. «Problemi?»
«Consideri un problema essere in ritardo per un appuntamento in radio?»
Sul suo viso vidi farsi spazio la consapevolezza. «Cavolo! L'avevo completamente rimosso!»
«Immaginavo», mormorai. 
Restò a guardarmi per qualche istante, squadrando il mio pigiama infantile e sorridendomi. «Vieni?», mi chiese. 
Ci misi un attimo per sentire la domanda, troppo presa a guardare i suoi denti bianchi, il suo sorriso aperto, i suoi ricci che pendevano su di me, i suoi occhi verdi. Mi aveva chiesto di andare con lui in radio o avevo sentito male? Alzò un sopracciglio. 
«Direi che... se vuoi farci compagnia dovresti sbrigarti».
«O-oh, sì, certo!», sbattei le palpebre più volte. «Mi aspetti fuori?», riuscii a proporgli. Fece un cenno con la testa, lasciando la stanza con una smorfia compiaciuta sul volto.
Se ancora non aveva capito che non gli ero indifferente, lo avrebbe capito presto. Che idiota.
Mi serviva qualcosa che mi avrebbe resa immune al suo viso, al suo corpo e alla sua voce. Immune da lui. Ma dubitavo esistesse qualcosa di simile. Solo la lontananza avrebbe potuto aiutarmi, anche solo un po'.
Ci impiegai cinque minuti per vestirmi, lavarmi e pettinarmi in modo decente. Sembravo una zingara, soprattutto dopo aver abbinato colori improbabili, ma coprii tutto con un giubbotto a tinta unita che mascherava la mia maglietta variopinta. 
Quasi inciampai sulla soglia per la fretta, quando uscii, e ciò che vidi non mi piacque affatto.
Ricordavo quella ragazza, mi aveva chiesto una piastra e le avevo gentilmente detto che non ne avevo una con me. Mi aveva detto anche il suo nome; se non ricordavo male si chiamava Megan. 
E stava parlando con Harry, mentre si toccava i capelli con fare ammiccante. E lui sembrava cascarci. Chiacchierava con lei e sorrideva, con le braccia conserte, mentre ascoltava assorto ciò che lei aveva da dire.
Considerando la conversazione già avviata, ci avevo messo più di cinque minuti. 
Ero ferma sulla soglia, a guardare quanto fosse bella lei, con quei capelli neri e lo sguardo di ghiaccio. E a pensare a quanto potessi sembrare insignificante io.
Il paragone era terribile, e mi lasciava senza fiato, con una strana sensazione di vuoto.  
Notai a malapena Harry voltarsi verso di me. Gli sorrisi, e li raggiunsi, camminando lentamente, quasi avessi le gambe congelate. «Ma io ti conosco!», disse lei. Aveva anche un bel sorriso; la mia autostima scese nelle viscere della Terra. «Sì, hai bussato alla mia porta un po' di tempo fa», affermai, deglutendo. Quando tempo era passato? Avevo perso il conto dei giorni. 
Megan annuì, mi guardò dall'alto in basso, poi spostò la sua attenzione su Harry, il cui braccio mi cingeva la vita. Ero di nuovo paralizzata. «E' molto simpatico il tuo amico», disse, rivolgendogli uno sguardo complice e giocherellando con una ciocca di capelli. 
Lui sorrise. «Aspetta di conoscermi meglio».
Mi voltai inevitabilmente a guardarlo, ma non ebbi tempo di formulare nessun pensiero collegato a quella frase, che mi trascinò dietro di sè. Aveva salutato Megan, ma non l'avevo sentito. 
Sì, eravamo in ritardo.


non ho riletto, e sinceramente mi fa schifetto anche questo.
non lo dico per sentirmi dire: non è vero. Lo dico perchè lo penso, e basta uu
Ringrazio tutte voi che avete commentato, le 29 persone che hanno questa storia tra le seguite, le 23 che ce l'hanno nelle preferite, e le due che l'hanno messa nelle ricordate (:
Spero che voi personcine che mi seguite in silenzio un giorno mi degniate di un vostro commento <33
grazie mille sul serio! a presto, e scusate il ritardo uu

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Capitolo 10
*** lucky girls. ***







lucky girls - part one.


Sapevo di non dover dare troppo peso a quella frase, sapevo che non avrei potuto fare nulla per rendere le cose diverse da quello che erano, eppure quelle parole non uscivano dalla mia testa.
Era così, dovevo farmene una ragione. Harry aveva una vita prima che arrivassi io, stava continuando ad averla, e avrebbe continuato a viverla con o senza di me.
Inoltre sapevo quanto fosse bravo con le ragazze, perciò era inutile sorprendermi del suo immediato abbordaggio. E poi Megan era splendida, molto più di me, e magari avrebbe potuto essere una fidanzata perfetta.
Anche se avessi preferito esserci io al suo fianco, in fondo al cuore sapevo che non sarebbe mai stato così: meglio rassegnarsi all'idea che di certo avrebbe trovato qualcun'altra dopo la mia partenza.
L'unica cosa che potevo sperare era che potesse trovare una persona dolce, brava ascoltatrice, e che soprattutto non gli facesse del male: era un ragazzo d'oro, non meritava nessun tipo di dolore. 
Camminavamo lungo le strade di Londra, il suo braccio intorno alla mia vita, un gesto pieno di false speranze; speranze che, nonostante tutti i discorsi che facevo a me stessa, non potevo fare a meno di nutrire.
Soprattutto perchè sembrava che Harry tenesse a me. Lo capivo dalle sue premure nei miei confronti, dai suoi sguardi, dalle sue parole - benchè strafottenti e sfacciate - e dalle sue azioni. Non lo odiavo per quello, come probabilmente avrebbe fatto qualcun altro, della serie: "Se non mi vuoi lasciami in pace". 
Mi sentivo protetta con lui, amata. E se quei gesti avessero potuto lasciarmi il ricordo di un amico, li avrei sopportati. Se quei gesti avessero potuto lasciarmi il ricordo di un viaggio e di un'esperienza indimenticabili, gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa.
Eravamo quasi arrivati, dopo una lunga passeggiata in silenzio, a passo svelto. Per fortuna, nessuno aveva riconosciuto Harry durante il tragitto. L'aria fresca di quella mattina poteva permettergli di indossare il suo cappotto nero. Indossati gli occhiali, era impossibile dire che quello accanto a me fosse il membro della band inglese. Fortunatamente, i ricci non lo tradirono.
Non sapevo cosa dirgli, e sinceramente in quel momento non stavo pensando a come intavolare una conversazione. Ero immersa nelle mie paranoie, nella mia tristezza e nell'angoscia, benchè accanto a me avessi uno dei motivi per cui essere felice.
Interruppe il silenzio solo verso la fine, per dire: «Eccoci, finalmente», con un tono misto tra sollievo e ansia. Non capii a cosa fosse dovuta la seconda.
Lasciò la presa intorno a me, di scatto, come se qualcuno gli avesse spinto via il braccio. Poi, in lontananza, vidi spuntare Liam e Louis e sentii il caos delle fans. 
Harry farfugliò qualcosa che non riuscii a capire, sistemandosi nervosamente i ricci, e continuando a camminare accanto a me.
Arrivammo nei pressi di un cancello blu che conduceva in un piazzale; più in là vidi l'edificio dove i ragazzi avrebbero dovuto fare la sessione radiofonica, e dietro l'altra recenzione una grande folla di ragazze. Erano quasi un centinaio.
«Era ora», disse Louis, dando una pacca sulla spalla a Harry, e strizzando l'occhio a me, come per salutarmi. Liam lo imitò, ma mi rivolse un allegro: «Ciao, Lisa», con uno dei suoi dolci sorrisi.
Mi ritrovai a preferire Lizzie a Lisa, e quasi feci per correggerlo, ma mi trattenni.
I due trascinarono Harry da Zayn e Niall, che appena mi videro, fecero un cenno della mano. Sorrisi spontaneamente, poi mi ricordai di urlare: «Buona fortuna!»
All'improvviso, mentre io ero occupata a guardarli allontanarsi, sentii qualcuno urlare: «Ehi, straniera!»
Mi voltai, distraendomi per un attimo dalle loro sagome. «Chelsea!», dissi, e sul volto mi spuntò un sorriso involontario.
Lei corse ad abbracciarmi, mentre i suoi capelli biondi fluttuavano leggeri. Era anche lei contenta di vedermi. La strinsi forte. «Non so se ringraziarti o ucciderti per essere scomparsa ed avermi lasciata sola con Harry», le dissi all'orecchio. 
Ridacchiò, poi mi lasciò andare e si allontanò. «Preferisco un dolce grazie»
Inclinai la testa, sorridendole. Sì, le ero infinitamente grata per avermi permesso di passare una serata con lui; un altro ricordo da conservare gelosamente. «Grazie», sussurrai, e la mia voce quasi si incrinò.
Quando fui quasi sull'orlo delle lacrime, al punto che lei se ne accorse e mi afferrò le  spalle per farmi forza, vidi due ragazze comparire all'entrata della proprietà. Il loro viso sembrava stanco, i capelli umidi di sudore appiccicati sulle tempie. Avevano l'aria di essere delle fan.  Lo si intuiva dall'agitazione palpabile che aleggiava intorno a loro, dal libro della band che stringevano con entrambe le mani. La ragazza dai capelli castani, legati con una coda di cavallo, aveva anche il cd. 
«Sono già entrati?», l'altra si rivolse a noi, a voce più alta per farsi sentire, e fece cenno all'amica di avvicinarsi. 
Guardai istintivamente l'edificio, poi loro. «Sì», rispose Chelsea, prima che lo facessi io. Le due si guardarono, quasi affrante. 
Le urla provenienti dall'altro lato del piazzale erano sempre più forti, le ragazze si dimenavano dietro la rete di sicurezza e agitavano le mani verso l'alto, in direzione delle finestre. Ci avrei scommesso tutti i miei risparmi che i ragazzi fossero affacciati e stessero mandando baci a tutte. Sorrisi involontariamente, poi prestai attenzione alle due estranee che ormai erano di fronte a me.
Quella con i capelli castani sbatteva velocemente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che le avevano reso gli occhi lucidi. Continuai a guardarla, pur sapendo che a lungo andare la sua tristezza avrebbe contagiato anche me. Intanto il cancello dietro di loro si chiudeva con un debole rumore metallico. «Ehi», le sussurrai, sfiorandole il braccio che proprio in quel momento aveva alzato per coprirsi gli occhi. Nella mano libera stringeva forte quei due oggetti, come se fossero la cosa più preziosa che avesse. «C'è qualcosa che non va?», fu la mia domanda idiota. La sua amica la guardava preoccupata, e Chelsea faceva lo stesso.
Fece una smorfia, guardando il cielo. «Sto cercando da un mese di incontrarli, cavolo. I miei genitori pensano che io sia diventata matta», disse, con le labbra tremanti. «Non chiedo tanto, mi basta anche solo vederli da lontano», concluse decisa, guardandomi. 
Ritrovai nelle sue parole il mio stato d'animo di qualche giorno fa. Incredibile come in pochissimo tempo la situazione si fosse completamente ribaltata. Con un velocissimo e imprevisto flashback, la mia mente ripercorse tutti i momenti che avevo passato con loro, dall'incontro al bar al pigiama party, dall'uscita con Harry al blackout. Mi resi conto di quanto fossi fortunata, di quante fan stavano sperando nel mio stesso sogno mentre io lo stavo realizzando. 
«E' così un po' per tutte le fan», cercai di consolarla. Era stato così anche per me, prima che la vita decidesse di farmi un regalo grande quanto il mondo, un regalo che non credevo di meritare. 
Non aspettò che finissi. «Lo so, cavolo, lo so», disse lei, stringendo i pugni. «Laggiù», e indicò con lo sguardo l'orda di fan dietro il cancello, «ci sono tante altre ragazze nella mia stessa situazione, ma credimi, non ne posso più di aspettare», farfugliò, mentre gli occhi le si gonfiavano delle lacrime che prima aveva cercato di trattere.  «Ho convinto - non so come - i miei genitori per fare una vacanza qui, e mi manca una sola settimana prima che tutto finisca», a quelle parole il mio cuore perse un battito. Era nella mia stessa situazione, più o meno. In entrambi i casi il tempo non era nostro amico. «Voglio vederli, è l'unica cosa che desidero». Le sue parole, che erano un fiume in piena, furono bloccate dal pianto. 
Asciugò velocemente e nervosamente il suo viso umido, mentre la sua amica la abbracciava forte. Nel guardare quella scena, mi sentii a disagio.
Non sapevo come consolarla, e vedere qualcuno piangere mi faceva sempre star male, perchè non sapevo cosa dire nè cosa fare. Ma quella volta avevo la possibilità di far sentire meglio qualcuno, di realizzare il sogno che io stessa avevo trasformato in realtà.
«Okay, la smetto, scusate», disse, cercando di spingere via l'amica e ridendo di sè. La invidiavo in un certo senso. Io non sarei mai riuscita a smettere di frignare se avessi cominciato a pensare che rimaneva pochissimo tempo anche a me. 
«Dai Ells, ce la faremo», disse la ragazza accanto a lei. Dedussi che anche lei aveva le ore contate.
«Ascoltate», attirai la loro attenzione, cercando di distogliere la mia mente da quel pensiero deprimente. Sentivo lo sguardo di Chelsea posato su di me. «Come vi chiamate?»
Mi rispose quella che doveva chiamarsi Ells, dicendomi il suo nome intero. «Elena»,  sussurrò, con la voce rauca. «E lei è Nikky», aggiunse. Quest'ultima, appena la guardai, mi sorrise, nascondendo la tristezza. 
Annuii, sicura di quello che stavo per fare. «Okay ragazze, posso aiutarvi, credo. O almeno spero». E la sicurezza andò via. Avrebbero aperto le porte dell'edificio, o ci avrebbero spinte fuori, sebbene io e Chelsea conoscessimo i ragazzi? 
Gli occhi di entrambe si illuminarono. «Scherzi?», disse la mora, Nikky.
Qualcuno mi toccò la spalla e mi costrinse a girarmi. «Sei matta? Non ci faranno entrare», affermò Chelsea, quasi infastidita dai miei piani improvvisati.  
«Devo aiutarle», mormorai, in tono di supplica. L'espressione del suo viso mi fece capire cosa stava pensando. Stavo esagerando? Mi stavo approfittando della possibilità che avevo? Non mi importava in quel momento. «Senti Chelsea, ho poco tempo anch'io e vorrei poter cambiare le cose in qualche modo, ma non posso. Vorrei tanto un aiuto, ma nessuno può concedermelo. Loro si trovano nella mia stessa situazione, con l'unica differenza che io posso aiutarle», continuai, a bassa voce. «Permettimi almeno di provarci».
Le mie parole, stranamente, la addolcirono. Non ero mai stata brava in quel genere di cose, e un successo inaspettato faceva sempre piacere. «Grazie», conclusi, sorridendole.
Poi mi voltai verso Nikky ed Ells. Feci loro cenno di seguirmi, mentre io e Chelsea ci incamminavamo verso l'entrata dell'edificio. Le fan dall'altra parte del piazzale, isolate dietro un altro cancello, stavolta erano tranquille, ma appena videro che ci avvicinavamo affilarono lo sguardo. Le ignorai, con la mente proiettata al probabile incontro tra quelle due ragazze semisconosciute e i One Direction. Sorrisi, avvicinandomi al videocitofono. Senza pensarci, cliccai il pulsante, con la tranquillità di chi bussava a casa propria e chiedeva alla madre di aprire. 
Appena una voce profonda mi chiese chi fossi, guardai dritta nell'obiettivo, cercando una possibile parola magica. Cominciai a farfugliare qualcosa, e a comporre una frase fatta di 'ehm'.
All'improvviso Chelsea cercò di scavalcarmi, posizionandosi davanti a me. «Sono la sorella di Louis», disse, voltandosi per sorridermi. Quella ragazza fu la mia salvezza, per la seconda volta.
Le ragazze, dietro di noi, si guardarono a bocca aperta, stringendo i libri al petto. Continuavano a ripetere 'non ci credo', 'è impossibile': non credevano, in quel caso, alle loro orecchie.
Lo scatto della porta a vetri mi fece sobbalzare, ma all'istante sorrisi anch'io, pensando al fatto che il mio piano era quasi riuscito. Ovviamente, con l'aiuto di una collega formidabile.
Nikky ed Ells ci seguirono mentre salivamo le scale, ma avevo la netta impressione che stessero per svenire. 
Elena, dopo aver pianto, aveva assunto un colorito cadaverico. Nikky, invece, guardava dinanzi a sè con aria assente. 
Cominciavano a preoccuparmi, ma non mi sorpresero. In fondo, avrei avuto la loro stessa reazione. 
Probabilmente stava accadendo tutto troppo velocemente, perciò mentre arrivavamo dai ragazzi, mi impegnai a spiegare loro cosa avrebbero trovato una volta giunte al secondo piano.
Appena fummo sul pianerottolo, Chelsea chiese ad un omone grande e grosso dove fosse suo fratello, e ci condusse verso una grande sala, poco abbellita, dove c'erano soltanto delle colonne in marmo ed una grande scrivania, come fosse una reception. In fondo alla stanza, c'era una porta grigia con una piccola apertura di vetro in alto. 
In un certo senso seguivo Chelsea, in realtà le mie gambe si muovevano da sole verso di loro. Mi ricordai di Nikky ed Elena dietro di me, e le aspettai. Beh, le loro gambe erano di sicuro più molli delle mie, e questo mi consolava.
Chelsea arrivò in prossimità della porta, e sbirciò dalla piccola apertura, poi si voltò verso le due amiche e sorrise. Entrambe si affacciarono per guardare cosa, o meglio, chi c'era dall'altro lato.
Ells si ritrasse subito, e si toccò la fronte con la mano, cominciando a girare in tondo e scuotendo la testa. Nikky imprecò, meravigliata e sorpresa. 
Le guardai, trattenendo le risate. Ce l'avevo fatta.



Un grazie enorme a tutte voi che vi seguite, di cuore. <3
non ho riletto ma spero che non ci sia nessun errore D:
p.s. il capitolo è dedicato a due persone speciali :3
alla prossima <3

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Capitolo 11
*** lucky girls - parte seconda. ***





lucky girls - part two.
 


Non riuscivo a smettere di ridere per la felicità. Le loro facce sconvolte e meravigliate allo stesso tempo mi rendevano soddisfatta. Nikky imprecava a bassa voce, passandosi nervosamente le mani sul viso e camminando per la stanza sotto gli occhi esterrefatti della signora alla reception. Il mio sorriso era anche quello di Chelsea, che era stata di grande aiuto: se non fosse stato per la sua parentela probabilmente io non avrei mai conosciuto i One Direction e di conseguenza nemmeno quelle due ragazze.
Elena era praticamente incollata alla finestrella che le permetteva di guardare all'interno della sala. Non potevo vedere il suo viso, ma ero sicura che avesse la bocca aperta e gli occhi spalancati. All'improvviso si voltò verso di me, mettendosi una mano sullo stomaco, come se fosse stata colpita da qualcosa. «Oddio», farfugliò, abbassando la testa, e sedendosi sul pavimento freddo, poco distante dalla porta. Un ciuffo sfuggì alla coda e coprì una parte del suo viso. Alzò lo sguardo verso di me. «Allora sono veri?».
Mi avvicinai a lei, ancora con un sorriso idiota stampato in faccia. Mi sarebbe venuta una paralisi facciale. 
Sentii un lieve gridolino proveniente dalla mia destra. Nikky ancora non ci credeva, e dire che ancora non li avevano incontrati personalmente.
Ma non mi lasciai distrarre. «Sì, sono veri», dissi ad Ells, una volta che mi fui inginocchiata davanti a lei, sebbene non ne fossi sicura neanche io. Portò il ciuffo ribelle dietro l'orecchio, distratta. Restammo qualche istante in silenzio, mentre lei assorbiva e rielaborava tutti gli avvenimenti. Non sapevo davvero che dirle, così le chiesi la prima cosa che mi passò per la testa quando squadrai il suo volto. «Mi prometti che non sverrai quando varcheranno quella soglia?»
«Mi sto comportando da cretina, vero?», mi interruppe lei, sviando la domanda.
«Per niente!», la rassicurai. Alle mie spalle sentii la voce di Chelsea che incoraggiava Nikky. «Ho reagito quasi allo stesso modo, se non peggio», continuai. «E' assolutamente normale. Ora che ne dici? Ci alziamo e aspettiamo che escano?». Tentavo di fare quella tranquilla, quella già abituata, anche se non avrei mai smesso di pensare alla prima domanda che mi aveva fatto quella ragazza. Sì, erano veri, eppure per me non era ancora facile crederci. Era un'esperienza assurda, senza limiti, ed era difficile svegliarsi la mattina ed evitare di pensare 'ho conosciuto i ragazzi', e non era facile nemmeno pensare che quella situazione sarebbe durata ancora per un altro po', a seconda dei loro impegni. Ero fortunata, tanto, e stavo cercando di dare un po' della mia fortuna a qualcun altro. Come se mi sentissi in colpa ad averne ricevuta troppa, come se sentissi l'irrefrenabile bisogno di condividerla.
Elena afferrò la mia mano per alzarsi, e appena fummo l'una di fronte all'altra mi sorrise. «Ti chiederei di raccontarmi tutti i particolari del tuo incontro con loro, ma temo di perdermi la loro uscita», abbassò lo sguardo, quasi ridendo di sè. Poi puntò i suoi occhioni marroni nei miei. «Mi stai aiutando a realizzare il mio sogno. Non credo di essere in grado di ringraziarti quanto basta».
«Piuttosto dovresti ringraziare loro. Io non l'ho ancora fatto, sai?». Non avevo fatto nulla di speciale, ma solo ciò che era in mio potere. 
«Lo farò io al posto tuo». Continuava a sorridere, era completamente estraniata dal resto del mondo. Nella sua testa c'erano solo quei cinque, e Nikky era dello stesso avviso. 
E tra il sussurro dei suoi respiri affannosi, sentimmo il suono di una musica familiare, preceduta dalla voce del dj. Tutte ci voltammo verso la porta, richiamate da quella canzone, sicure che fosse proprio What Makes You Beautiful. 
Elena si avvicinò alla porta con foga, seguita dall'amica. Quasi si scontrarono per raggiungerla, e accostarono le orecchie ad essa per sentire meglio, alternando sguardi agitati attraverso la finestrella. 
Nikky trattene un urlo, Ells continuava a sorridere tenendo gli occhi chiusi. Sentivamo le loro voci ovunque grazie agli altoparlanti posizionati agli angoli della stanza. Il mio cuore cominciò a battere all'impazzata, come se li stessi ascoltando cantare per la prima volta. Mi sentii come quelle due ragazze, e per un terribile istante mi promisi di non svenire al posto di Ells. 
Mi sedetti con Chelsea sulle poltroncine vicine al muro, attendendo con pazienza che i ragazzi uscissero, sconvolta e disorientata.
La testa cominciava a girarmi e le gambe mi si fecero molli. Erano le voci di cinque angeli quelle, capaci di riempiermi di brividi nello stesso numero di secondi. Ascoltai attentamente quella melodia che di solito mi metteva di buon umore, ma in quel momento riuscivo solo a pensare che il ragazzo che stava appena cantando il suo assolo era con me mezz'ora prima. Aveva dormito nel mio stesso letto, sebbene non avesse avuto il mio consenso. 
Mi aveva cantato una canzone mentre stavamo ballando sulle sue note. Impossibile. 
E i ragazzi che accompagnavano la sua voce mi avevano accolta tra loro come se mi conoscessero da una vita. Impossibile.
All'improvviso la porta si aprì con un cigolio della maniglia che nella mia testa si ripetè per vari istanti. Elena e Nikky erano impalate lì davanti, mentre spuntavano di fronte a loro cinque meravigliosi volti. 
Chelsea mi prese per mano, scuotendomi leggermente. 
Ritornai alla realtà in un attimo, mettendo a fuoco ciò che mi circondava e riuscendo perfino a sentire le loro esclamazioni meravigliate di fronte a quelle due emozionatissime fan. 
«Ehi!», dicevano, sorridendo come solo loro sapevano fare. 
Elena si avvicinò a Louis, e sentii da parte sua un debole «grazie» e poi la richiesta di un abbraccio.
Spinta da Chelsea, ci ritrovammo accanto a loro, che ci riservarono un'occhiata fugace e divertita. Le ragazze tenevano in mano i loro cimeli, porgendoli loro con gesti meccanici e nervosi. Ero nel loro stesso stato d'animo, ma cercavo di non darlo a vedere per non essere patetica. 
I ragazzi cercavano di stringere una conversazione con entrambe, ma non trovarono molto appoggio dall'altro lato. «Sono italiane», li informò Chelsea. 
Styles mi guardò di sottecchi, mentre Liam diceva 'Ciao bella' alzando una mano stretta a pugno. Tutte e due risero, ma risultava chiara l'agitazione nella loro voce. Zayn ripetè le stesse parole di Liam, mentre quest'ultimo abbozzava un 'ti amo' a Nikky. 
Mi ritrovai a guardare Harry, mentre ascoltavo quelle parole, e abbassai lo sguardo. Non è amore questo, sei ridicola, mi dissi.
Mentre Niall urlava un allegro 'ciao', Louis si voltò a guardare Zayn che firmava il libro di Elena.  «E' un po' inutile chiedere l'autografo a Zayn», disse divertito. «Avresti potuto benissimo riprodurlo con uno scarabocchio», e rise, mentre il diretto interessato alzava gli occhi al cielo e gli dava una gomitata scherzosa. 
Ells sorrise, imbarazzata dal fatto che Lou le avesse rivolto la parola. Distolse all'istante lo sguardo, rossa in viso. 
Tutto continuò finchè entrambe le ragazze ottennero un autografo e un abbraccio, poi tutto si ripetè fuori dall'edificio, quando i ragazzi si intrattennero con le altre fans. Nikky ed Elena mi stritolarono in un abbraccio caloroso prima di andarsene, un abbraccio di ringraziamento. La seconda quasi pianse. «Grazie mille, davvero», dissero entrambe, con gli occhi lucidi e un sorriso enorme stampato sul volto, riflesso del mio. Mi si riempì il cuore di gioia, e mi stavo già preparando a salutarle quando Chelsea si intromise. «Vi va un caffè?», propose. Ottima idea; in questo modo non ci saremmo annoiate a morte ad aspettare i ragazzi. 
Si guardarono per un istante, ancora agitate e con le mani tremanti, poi accettarono. 
Durante il tragitto per arrivare al bar più vicino, armeggiarono con il loro cellulare per avvisare i genitori della missione compiuta, ma si fermarono prima di premere il tasto che avrebbe avviato la chiamata: le emozioni che stavano ancora provando erano troppo disordinate e difficili da raccontare.
Giungemmo in un piccolo locale, appartato. C'erano solo due clienti al banco, uno dei quali mangiava un cornetto ripieno, in attesa di sorseggiare il suo cappuccino.
«Fate un respiro profondo, avanti», fece Chelsea quando ci fummo sedute, studiando lo stato d'animo delle due ragazze. 
Entrambe obbedirono, ma scoppiarono a ridere nel bel mezzo dell'impresa. «Urlerei se non fossimo in un luogo pubblico», confessò Nikky, scatenando le risate generali di tutte noi. 
«A me viene da piangere e urlare nello stesso tempo», disse Elena, un'espressione confusa sul volto. «E' stato... surreale?». L'amica concordò con un cenno eloquente del capo, poi si prese la testa tra le mani. «Non riesco a credere che sia successo davvero».
Non sapevo esattamente che dire, così mi preoccupai di ascoltarle e di ordinare. Mentre la conversazione tra le tre continuava anche mentre svuotavano le tazzine, io ero chiusa nel mio silenzio attento, finchè mi chiesero di raccontare il mio incontro con i One Direction.
Alla fine, scoprirono che Chelsea era la sorella di Louis, e venimmo a conoscenza dell'infatuazione senza speranza di Ells per lui, e da lì anche dell'amore platonico di Nikky nei confronti di Liam.
Io non proferii parola quando sfiorammo questo argomento, e fortunatamente le ragazze decisero di andarsene quando il telefonino di una di loro squillò, prima che potessero farmi una domanda alla quale non avrei saputo rispondere. 
Quando mi abbracciarono, sentii le loro mani tremanti sulle spalle. Erano ancora sotto shock, probabilmente. Le capivo perfettamente. Io ero sotto shock da quando ero arrivata a Londra.
«Grazie, grazie mille», ripeterono, ed entrambe mi diedero i loro numeri, in modo da poter restare sempre in contatto. Promisi ad Elena che ci saremmo viste; dopotutto vivevamo nella stessa città, niente di più facile.
Chelsea assicurò loro che avrebbe pagato lei, così le due poterono andarsene, felici dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Dopo che le vedemmo uscire dal bar, si voltò lentamente verso di me torturando la povera bustina dello zucchero, con un'espressione strana dipinta sul viso. Capii all'istante cosa voleva chiedermi, e mi preparai all'attacco. 
«Voglio sapere tutto. Tutto quello che vi siete detti stanotte, se avete parlato», disse, con una punta di malizia sull'ultima parte della frase. «Tutti i dettagli. Guai a te se tralasci qualcosa».
Sospirai, e guardai per una manciata di secondi il cerchio di caffè sul fondo della tazzina. «Abbiamo ballato», dissi, alzando la testa e guardandola. Era accigliata.
«Ballato?», ripeté. «Cioè, aspetta», sbatté le palpebre, sorpresa. «Tu e Styles eravate soli nella tua camera d'albergo, per giunta al buio e con il temporale - direi qualcosa di abbastanza romantico, almeno sotto il mio punto di vista - e avete... ballato?»
«Che c'è di tanto strano? Lo conosco appena!», ed era vero. Non potevo di certo dirgli che lo amavo, perchè non sarebbe stato vero. E d'altronde non potevo neanche dirgli che mi piaceva da morire e che avrei voluto conoscerlo meglio. Non con una settimana o poco più a disposizione. Cosa sarebbe successo poi? Sarebbe stata una relazione a distanza, se avesse funzionato? Come avrei fatto a sopportare la sua assenza? Mi era difficile già prima. E cosa sarebbe successo se mi avesse rifiutato? Colpita e affondata? Non potevo, o meglio, non ci riuscivo. Era qualcosa di troppo complicato da spiegare. 
«Dovevi farti avanti!»
Lasciai perdere il sussulto che ebbi. «Non posso»
Lei non riusciva a capacitarsi della mia resa. La vidi spalancare nuovamente gli occhi, incredula. «Perchè?»
Distolsi l'attenzione dalla tazzina che avevo ricominciato a guardare e puntai i miei occhi nei suoi. «Tu ti avvicineresti a qualcosa che potrebbe farti del male? O scapperesti?»
Si addolcì. «Se ne vale la pena, sì»
Sospirai. Sapevo che aveva ragione. Ragionando così dimostravo che avevo paura di vivere. «Mi basta così, davvero. Ho realizzato il mio più grande sogno. Li ho visti, li ho appena sentiti cantare dal vivo e sto trascorrendo con loro molto più tempo di quanto avessi mai potuto immaginare», dissi. «Non vorrei esagerare», conclusi con un sorrisetto. In realtà avrei voluto prendermi a schiaffi. Stavo scappando. 
E la mia testa era un cumulo di pensieri opposti.
«Prometto che non ne parlerò più», mi assicurò, notando il mio umore e la mia confusione. «Però tu promettimi che proverai a lasciarti andare. Potrebbe andare meglio di quello che credi»
Scossi la testa, non del tutto d'accordo.
«Sei testarda, cavolo», borbottò.
«Sembra una conversazione interessante», sentii la voce di Lou, e voltai il capo verso l'entrata del locale, il cuore che aumentava automaticamente i suoi battiti. Tutti gli altri erano dietro di lui, e come avevo previsto, la mia attenzione si focalizzò su Harry, che portava il cappotto in mano e si stava togliendo gli occhiali scuri. Fuori la strada era illuminata dal sole. 
«Siamo persone intelligenti, a differenza tua», lo provocò Chelsea. Il fratello si mise accanto a lei e le strizzò entrambe le guance, guardandomi. «Quanto è simpatica la mia sorellina?», chiese retorico, facendomi sorridere. 
«Lasciami, cretino», fece Chelsea, colpendogli una mano con un piccolo schiaffo. Lui subito lasciò la presa. «Altri appuntamenti fissati per oggi?», chiese ai ragazzi.
«Non chiederlo a me», alzò le mani Harry, tirandosi da parte. 
«Direi che abbiamo la mattinata libera fino alle due», disse Zayn con un sorriso. 
Cavolo! Avevo dimenticato di chiedere a Chelsea se c'erano stati sviluppi tra loro due, ma forse non mi serviva, visto il modo in cui si guardavano. 
«Direi che è perfetto»
«Facciamo un giretto per Londra?», propose Niall.
Entrambe accettammo volentieri. 
Chelsea si trascinò alla cassa, guardando i ragazzi in cagnesco. «La cavalleria è morta definitivamente», borbottò, mentre pagava. 
«Siamo in difficoltà economiche sorellina, estremamente vicini alla bancarotta», fece suo fratello, e tutti ridacchiarono.
Uscimmo dal bar, e fui felice di trovare qualche raggio di sole. Credevo di dovergli già dire addio. 
Zayn prese a braccetto Chelsea, e io rimasi fuori. Mi ritrovai all'istante Liam e Niall accanto e sorrisi, mentre Harry e Lou camminavano davanti al resto della combriccola. Larry, Larry. Erano carini.
Con la coda dell'occhio vidi Liam che alzava il braccio piegato verso di me. Era talmente alto che doveva guardare leggermente verso il basso per incrociare il mio sguardo. Lo afferrai, e gli sorrisi, ricambiata.
«Dopo posso parlarti un minuto?», mormorò, inclinandosi verso di me per far sì che lo sentissi.
«Certo», risposi, e sentii dei minuscoli aghi pungermi le guance. Stavo passeggiando con Liam Payne, bello.  
Continuammo a camminare, mentre io mi guardavo attorno meravigliata. Era il primo vero giro che facevo per le strade di Londra, ed era tutto fantastico. Ricordai in un flash sfuocato la mia città, Roma. Ci sarei ritornata presto, era inutile sentirne la mancanza. 
Donne che spingevano i passeggini, tizi che facevano jogging in pantaloncini lungo la strada vicina al parco, cani al guinzaglio, auto che sfrecciavano e altre che si fermavano ai semafori, una ragazza incredula che passeggiava attorniata dai One Direction. 
All'improvviso, guardando verso la mia sinistra vidi un'edicola, e il nome della band scritto a neri caratteri attirò la mia attenzione. 
«E quello?», chiesi, più a me che a loro.
Liam e Niall si fermarono. «Ehi, ragazzi!», uno di loro due chiamò gli altri, ma non riuscii a decifrarne la voce, troppo presa dalla foto stampata sul giornale che svolazzava al vento. 
Fissai l'immagine, paralizzata, ma ad un tratto una mano enorme strappò il giornale dalla bacheca a cui era fissato. 
Vedevo solo i suoi ricci, il suo volto era coperto. «Incredibile», sussurrò, poi scoppiò in una risatina. 
«Come diavolo faranno a trovarci?»
«Le misteriose risorse dei paparazzi»
«Che scena romantica, ragazzi», fece Lou. «Una corsa sotto la pioggia». Vidi a stento la gomitata che ricevette da Harry, perchè gli strappai con foga il giornale dalle mani.
Ero io quella lì. Guardavo il sorriso di Harry mentre correvamo via. Dietro di noi i faretti di un'automobile illuminavano la pioggia. 
E sotto c'era altre due foto. In una di esse il mio viso si vedeva chiaramente, ed ero sconvolta, il viso in fiamme per la corsa e i capelli bagnati, proprio come Harry. Nell'altra, c'era lui che mi accompagnava all'interno dell'albergo.
Il giornale sparì dalle mie mani e Lou lo mise dove lo avevamo trovato. Il riccioletto mi guardava intensamente. «Tranquilla, okay?»
Come potevo? Nell'articolo la domanda principale era: 'chi è la ragazza misteriosa'?. Annuii semplicemente. 
«Ragazzi, dobbiamo escogitare un piano per non essere riconosciuti», disse Lou con fare cospiratorio. 
Fu Niall a rispondere. «Tu potresti vestirti da carota gigante»
«Ottima idea!»

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ccciao belle! okay, non posto da due mesi e mezzo circa, perciò mi sembrava doveroso lasciarvi un capitolo e.e che dire, i commenti sono aumentati, così come le persone che hanno aggiunto la storia nei preferiti o nelle seguite. 
io vi ringrazio IMMENSAMENTE. siete fantastiche, sul serio.
il capitolo fa un po' schifetto, devo ammetterlo. sembra tutto incredibile e surreale, ma avevo tanta voglia di fare un regalino a nikky ed ells, perchè le adoro da morire. 
e devo ammettere anche che è stato difficilissimo spiegare il casino che liz ha in testa. mi metto sempre nei suoi panni, cerco di capire cosa prova, e per scrivere questo capitolo stavo per impazzire lolol
comunque niente, grazie ancora. se volete farmi sapere su twitter cosa ne pensate, sono @itsnovalee (capitan ovvio)
un bacio <3

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Capitolo 12
*** friends. ***





friends.

 
«Ti va di fare una passeggiata nel parco?», sentii la voce di Liam tra il frastuono dei clacson. Aveva appena indicato uno spazio verde dall'altra parte della strada, recintato da un muretto beige chiaro e pieno di alberi che, allineati, formavano piccoli viali circondati da erba e fiori. 
Persa tra il ricordo della serata precedente, tra l'articolo e le foto sul giornale, feci un po' di fatica per ritornare alla realtà ed ascoltare le parole di Liam.
«D'accordo», accennai un sorriso, mentre i battiti aumentavano leggermente. Avevo dimenticato che voleva parlarmi e l'ignoto mi faceva paura. Ma d'altronde, nessuno di quei giorni trascorsi a Londra era stato tranquillo. Ormai avrei dovuto farci il callo.
Liam disse ai ragazzi che avremmo fatto una deviazione e che li avremmo raggiunti dopo un po' al McDonald in fondo alla strada. Non stetti a sentire cosa risposero, nè li guardai in volto; fissavo un punto imprecisato davanti a me. 
Approfittando del traffico, ci infilammo tra una vettura e l'altra e raggiungemmo l'entrata del parco. Mi promisi di restare attenta e di ascoltare cosa aveva da dire, lasciando da parte le mie preoccupazioni per un istante.
«Va tutto bene?», mi chiese, e mi voltai a guardarlo, costretta ad alzare lo sguardo per incrociare il suo. Era molto alto, probabilmente quanto Harry.
«Sì», risposi, ma era più che altro un sospiro. A chi la davo a bere. «Cioè, no. Sono sui giornali, è abbastanza inquietante».
Ridacchiò con la sua voce profonda. «Stiamo cercando di farci l'abitudine anche noi», mi disse. «Capisco quanto possa essere strano vedere la propria faccia sui giornali, credimi».
«Chi meglio di te», e mi venne da sorridere.
«Già».
Stavamo camminando lungo un vialetto di mattoncini beige, ed eravamo quasi chiusi in un lungo tunnel formato dai rami degli alberi che, lunghi e sinuosi, sembravano quasi intrecciarsi sopra di noi. La tranquillità di quel posto poteva essere molto più alta, ma il frastuono delle auto rompeva tutta la magia.
Un uccello volò sulle nostre teste.
«Di cosa volevi parlarmi?», trovai il coraggio di chiedere. Il battito cardiaco era rallentato, nonostante mi fossi appena resa conto che stringevo ancora il suo braccio. 
Fece una pausa. «Ti sembrerà strano, ma volevo parlarti di Harry», disse infine. Come non detto. 
«Di Harry?»
«Sì», fece, e continuammo a camminare in silenzio per qualche istante. Aspettai che parlasse, anche perchè la mia lingua sembrava essersi attorcigliata su se stessa. Dovevo piantarla di avere queste reazioni ogni volta che l'argomento principale era lui, ogni santa volta che lo vedevo. «Se leggessi i pochi messaggi che mi ha mandato ultimamente noteresti che in tutti parla di te», disse. «In ogni singolo messaggio», rafforzò il concetto, dandomi il colpo di grazia. Come se non mi sentissi già abbastanza male, grazie Liam.
Qualcuno stava combattendo un incontro di boxe nel mio stomaco a mia insaputa. 
Non sapevo che rispondere, ero senza parole. Me? Harry parlava di me con Liam?
«E sono sicuro che parla di te con tutti i ragazzi. Ormai sei l'unica cosa che gli interessa». Mi bloccai sul colpo, arrestando la passeggiata e feci contemporaneamente un verso involontario, come se mi stessi strozzando con la saliva, o come se non riuscissi più a respirare. Ossigeno, ossigeno.  
«Che c'è?», chiese sorpreso, guardandomi.
Ero incredula. Avevo sempre dato per scontato quel concetto, perchè era impossibile, decisamente. E ora mi ritrovavo a farci i conti. «Harry? Me? Parla di me?», fu l'unica cosa decente che riuscii a dire. «Oddio, io...», ci rinunciai, e chiusi la mia maledetta boccaccia.
«E' così strano?», domandò lui.
«Sì!», quasi urlai. Lui arretrò impercettibilmente. «Scusa», feci subito. «E' che... com'è possibile? Se parla di me vuol dire che gli interesso. IO.», mi indicai. «Come posso piacere ad Harry?»
Mi fissò per una manciata di secondi, durante i quali mi sembrò di impazzire. Non ci avevo mai pensato a me in quel modo; era una dimensione troppo lontana. Avevo sempre avuto la certezza che Harry mi considerasse una sorta di amica e basta, con la quale poteva fare il cretino. Un'amica che si divertiva a far arrossire ogni cinque minuti. Niente di più. «Autostima sotto zero, eh?»
Lo guardai senza dire niente. Autostima sotto zero era vero, ma restava il fatto che era assurdo.
«Posso terminare il concetto?»
Intanto il cuore batteva talmente forte che sembrava avessi fatto un giro di corsa. Lo sentivo in gola.
Quella non ci voleva. Annuii in silenzio.
«Credo tu sappia che Harry ci sa fare con le ragazze..»
«Me ne sono accorta», mormorai tra me e me, ripensando a Megan. "Aspetta di conoscermi meglio", rievocai le parole di Harry, acida. Donnaiolo di prima categoria.
Eppure come potevo piacergli io? Forse Liam mi stava semplicemente prendendo in giro, o almeno lo speravo. Avevo intenzione, e avevo quasi preso una decisione definitiva, di stare lontana da Harry. Mi ero promessa - mentre aspettavo che i ragazzi terminassero la sessione radiofonica - che non gli avrei più parlato. Niente sguardi, niente sorrisi, totale indifferenza. Ero brava ad essere masochista, ma mi avrebbe aiutato a non esserlo dopo la mia partenza. 
Avevo eliminato qualsiasi pensiero contrario, e di conseguenza anche la recente conversazione con Chelsea. Rimossa, cancellata. 
Ma quella notizia mi lasciava a bocca aperta. 
Liam fortunatamente non mi sentì. «... e di solito non aspetta un minuto di più per fare il primo passo. Eppure con te è diverso: e' sorridente, rilassato, e non ha ancora mosso un dito»
Restai ad ascoltare in silenzio le parole del suo amico. Se Liam avesse ampliato il discorso, ero sicura che il ricordo della mamma di un mio compagno di scuola che raccomandava suo figlio a mia madre si sarebbe fatto più nitida.
«Mi ha parlato di te durante una pausa in radio, ma ho pensato alle parole che mi hai detto quella serata, al pigiama party. La pensi ancora così?»
Mi guardavo le punte dei piedi, confusa. 
«Non so che fare», gli dissi, alzando lo sguardo verso di lui. Feci una breve pausa, poi presi fiato. «Sai cosa Liam? Harry è importante per me, lo dico sul serio. Quando i miei si sono separati, sei mesi fa, lui era l'unica persona che riusciva a farmi sorridere. Guardavo degli stupidi video, vedevo il suo viso e mi sentivo bene con me stessa. Il divorzio dei miei genitori è stato un duro colpo; erano la coppia più felice del mondo, credimi, o almeno lo pensavo. E poi tutto mi è crollato addosso. I miei compagni di classe mi fissavano mentre ero seduta al mio banco, spenta, delusa soprattutto, e tutto quello che provocavo era compassione. Mi sentivo stupida anche solo per aver pensato che nel loro matrimonio fosse tutto perfetto. Non è facile da spiegare, e probabilmente quello che sto dicendo non ha neanche un fottuto senso logico, ma è quello che provo. Vedevo le vostre facce sul mio computer, i vostri sorrisi, le vostre risate, e tutto ciò che provavate voi durante quei video lo trasmettevate a me. Riuscivo a sentirmi in quel modo solo grazie a voi. E non lo so, Harry mi ha colpito. Quelle fossette, quel sorriso aperto, sincero. Mi faceva venir voglia di fuggire e di viaggiare, di non pensare a nulla, di lasciarmi tutto alle spalle, e di poter essere felice. E ora, ora che tu sei qui davanti a me, ora che vi ho conosciuto, vorrei restare qui per sempre. Vorrei non dover tornare a casa, vedere la casa vuota e desolata, mia madre a letto mentre si crogiola nei sensi di colpa. Ho paura di affezionarmi ad Harry più di quanto non lo sia già. Ho paura di sentirmi felice per una sola settimana e poi di ritornare al buio di sempre».
Mi accorsi di essere scoppiata a piangere solo quando sentii la camicia umida di Liam a contatto con la mia guancia. Mi stringeva forte, sentivo le sue mani poggiate sulla mia schiena, mentre continuava una cantilena fatta di 'shhh' pronunciati finchè gli rimaneva fiato.
Il mio cuore a contatto con il petto di Liam sembrava battere ancora più forte. 
Decidi di smetterla di frignare quando cominciai a sentirmi in imbarazzo. Cercai di allentare la presa, senza essere brusca, e Liam capì. Mi prese il viso tra le mani, asciugandomi le lacrime. «Scusa se ho tirato fuori questo discorso, non avevo idea...»
«No», lo interruppi. «Ti ringrazio. Mi sento più leggera», dissi, sorridendo appena. 
Lui annuì, comprensivo. «Fai quello che senti, okay?», mormorò. «L'importante è che tu sia felice, te lo meriti».
«Grazie», sussurrai. Fece scivolare le mani sulle mie spalle, poi mi lasciò andare. Restammo qualche secondo a fissarci, con il sorriso sulle labbra, quando con la coda dell'occhio vidi una persona avvicinarsi, una figura familiare.
Appena mi voltai e lo riconobbi, mi parve un deja vù. «Ehi, amico!», fece Liam. 
Harry avanzava sorridendo, mentre i suoi ricci erano mossi dal vento. Cercai di non pensare a quanto fosse celestiale quella visione. Mentalmente pensai "grazie"; prima o poi gliel'avrei detto.
Velocemente mi passai una mano sul viso, cercando di cancellare qualunque prova del pianto. Ma di solito quando piangevo il mio naso diventava rosso come un peperone, perciò di sicuro se ne sarebbe accorto. Oppure, nel caso la sua perspicacia fosse stata scarsa, avrebbe riso di me per quanto fossi buffa.
«Ciao ragazzi», disse, appena ci raggiunse. Mi guardò, ma stranamente non disse nulla. Continuava a mantenere quel sorriso da idiota così tenero e dolce. 
«Gli altri stanno facendo il pieno?», chiese Liam.
«Esatto. Niall ha preso ben tre Happy Meal: è un pozzo senza fondo». Sorrisi.
Liam sfociò nella sua tipica risata. Poi si affrettò a dire: «Li raggiungo, a dopo», e mi strizzò l'occhio. Lo guardai per un attimo allontanarsi, poi incrociai gli occhi di Harry. 
Ci sorridemmo, io colma d'imbarazzo, lui contento. 
«E' stato un bel gesto quello che hai fatto, sai? Ho apprezzato», fece, riferendosi all'incontro con Elena e Nikky, e mi sembrò un tantino formale rispetto ai suoi standard. 
«Ho condiviso un po' della mia fortuna», ridacchiai. 
Lui mi imitò, poi abbassò lo sguardo, e poi si voltò a guardare il suo amico che si allontanava. «Di cosa avete parlato?»
«Del più e del meno. Poi mi ha detto che i tuoi discorsi sono noiosi. Dovresti cambiare argomento, sai?», fuoco, fuoco, fuoco. Non era una delle mie tipiche risposte, ma la curiosità era troppa. 
Lui strabuzzò gli occhi, poi sorrise. «Scherzi, vero?»
Feci una risatina nervosa. «Non me l'ha detto esplicitamente ma credo che l'abbia pensato».
Scosse la testa. «Colpo basso. Non gli dirò più nulla».
Scoppiai a ridere, senza riuscire a controllare l'ansia. Fortunatamente la mia voce non era acuta e stridula. 
Mi accorsi che eravamo pericolosamente vicini. I suoi occhi verdi mi scrutavano, il suo sorriso era a pochi centimetri da me. Nel caso in cui avesse utilizzato una delle sue tattiche non avrei potuto fare nulla per impedirlo. 
Raccolsi tutto il coraggio necessario per dirgli che avrebbe dovuto lasciarmi perdere, anche se fu difficile, e feci per parlare. 
Ma lui mi battè sul tempo.
«Che ne dici di vederci stasera? In albergo?». Quella proposta mi colse alla sprovvista, e probabilmente dovette notare l'incertezza sul mio volto perchè si affrettò a spiegare. «Ti conosco a malapena. Vorrei sapere più cose sul tuo conto», disse. Prese fiato. «Spero soltanto che tu non sia una ricercata scappata dal suo paese per sfuggire alla polizia».
Quell'ultima frase ruppe la tensione che si stava creando. Scoppiai di nuovo a ridere, questa volta sinceramente. «Stai tranquillo», feci, esaurendo la risata. «Comunque okay, per me va bene», concordai, e a quel punto fui certa che la mia testa era un cumulo di contraddizioni. Decisi di non pensarci più di tanto e di rivedere le mie decisioni. 
«Perfetto. Andiamo». Mise una mano sulla mia spalla, disinvolto, e cominciò a camminare nella direzione opposta. 
«Comunque sappi che se la tua timidezza non bloccasse anche me, ti avrei già baciata».





hello :3
allora, vi ringrazio tantissimo di aver messo la mia storia nelle seguite e nelle preferite. e soprattutto ringrazio le persone che hanno commentato. SIETE FANTASTICHE <3
so che rompo con i miei complessi, le mie paranoie e le mie lagne su twitter. il fatto è che quello che scrivo non mi piace mai, e ho bisogno di qualcuno che mi dica 'avanti, stai andando bene. continua'.
e se vedo le recensioni scendere la mia autostima finisce nelle viscere della terra. per me è importante il vostro parere, credetemi. voglio consigli, critiche, tutto quello che avete da dirmi.
ma vi prego, commentate e fatemi sapere cosa ne pensate.
se le recensioni saranno poche vuol dire che la storia non piace ed è meglio finirla qui.
ora la smetto, un bacio <3 e grazie ancora :')

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Capitolo 13
*** don't wanna go home - part one. ***





don't wanna go home - part one.

 
Ero seduta sul pavimento freddo a gambe incrociate, mentre fuori era già calata la notte. La luce di un lampione a pochi metri dalla finestra della mia camera entrava fioca nella stanza e illuminava un rettangolo di parquet. Tutto era tranquillo; sentivo il rumore delle auto in lontananza, qualche porta aprirsi e chiudersi nel corridoio dell'albergo, qualche clacson, eppure nella mia testa c'era il caos più assoluto.
Succedeva sempre così quando sapevo di dover vedere Harry. Era qualcosa che non potevo controllare, qualcosa al di fuori della mia portata. E più andavo avanti più credevo di poter impazzire. Frasi dette a metà, altre piuttosto eloquenti; sguardi rubati, conversazioni brevi ma in grado di mandarmi in confusione; vicinanze pericolose, voglia incontrollabile di mandare tutto a quel paese, casa, madre, padre, parenti, Roma e l'Italia. 
E più andavo avanti più avevo bisogno di visualizzare il suo viso di fronte a me, i suoi ricci, il suo sorriso contagioso e i suoi occhi verdi.  
Eppure sapevo che non potevo restare, anche se considerare l'idea non mi era costato molto tempo. Sapevo che tutto sarebbe finito, stava già per finire, e non lo volevo. Come avrei fatto poi? Vita normale da comune fan? Come potevo? Come potevo avendo la consapevolezza che avevo rinunciato a qualcosa di meraviglioso? Sì, perchè lui era meraviglioso. 
E più andavo avanti più avevo bisogno di averlo vicino, di sentire la sua voce rivolgersi a me, ricevere le sue attenzioni, essere il centro dei suoi pensieri. Non lo ero mai stata per nessuno prima d'ora e mi piaceva esserlo, sebbene il momento non fosse uno dei più adatti. 
Potevo tradire la ragione per ascoltare il cuore? 
All'improvviso sentii bussare alla porta e sussultai, mentre il cuore mi arrivava in gola. Avevo un ospite. 
Mi alzai con fatica, e mentre mi avviavo all'entrata accesi la luce della lampada accanto al divanetto: non avevo voglia di accecarmi dopo essere stata al buio per tutto quel tempo, perciò mi accontentavo di un'illuminazione debole.
All'inizio non riuscii a distinguere i contorni del suo viso, vedevo solo una massa informe che dovevano essere i suoi capelli. Quando varcò la soglia la luce lo colpì in pieno viso, e sentii le gambe cedere. 
In un flash improvviso ricordai la frase che mi aveva detto al parco. 'Non farlo Harry, promettimi che non lo farai', pensai, ormai disperata.
E avevo solo voglia di piangere.
«Ciao», disse, dedicandomi un sorriso enorme, di quelli che non avevo mai visto su di lui. Mi morsi il labbro inferiore per fermare il tremore. 
Gli feci un cenno, invitandolo ad accomodarsi. Vidi la sua espressione preoccupata prima che si avvicinasse al divano. «Tutto bene?», lo sentii, mentre accostavo la porta allo stipite. Non volevo che vedesse il mio viso, e io non volevo guardarlo negli occhi. Attesi qualche istante, poi mi voltai verso di lui e lo vidi seduto nello stesso punto in cui ero io prima. «Perchè ti sei seduto per terra?», la mia voce era stranamente ferma. Probabilmente mi aveva distratta. 
«E' comodo», disse. Aveva le gambe incrociate e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. «Ne dubito», riuscii ad accennare un sorriso, e mi sedetti sul divano, proprio di fronte a lui. Guardai le sue mani enormi.
Per qualche istante facemmo silenzio entrambi. «Ti dispiace se comincio un interrogatorio?», mi chiese infine.
Spostai lo sguardo fuori dalla finestra. Erano le nove e ormai era già buio pesto. «Fai pure».
Non riuscivo a resistere. Sentivo i suoi occhi puntati su di me, ed erano quasi due calamite. 
«Oppure hai intenzione di ignorarmi?»
Alla fine i due poli si avvicinarono con uno scatto repentino. «No, no, certo che no», mi affrettai a dire, con la voce incrinata. Come potevo ignorarlo? Certo, ci stavo provando, ma i miei tentativi erano pressoché vani. 
«C'è qualcosa che non va?», mi chiese di nuovo, scrutando nei miei occhi che non riuscivano più a smettere di guardarlo. Poteva esistere essere più perfetto? Avrei voluto scattargli una foto in quel preciso istante, mentre mi guardava con la fronte aggrottata e l'espressione sinceramente preoccupata. Voleva che gli rispondessi, ma avevo dimenticato la domanda ormai. E io mi sentivo così stupida, così maledettamente stupida. Non avrei mai immaginato di poter provare qualcosa per lui, mai. Era soltanto uno dei membri del mio gruppo preferito, un tipo dalla voce d'angelo che sembrava simpatico e spontaneo. Non avrei mai immaginato di poterlo incontrare, di constatare io stessa che non era frutto della mia fantasia. Non avrei mai immaginato di poter passare due settimane a Londra e di potermi innamorare di lui in meno di sette giorni. Mai, neanche nei miei sogni.
Non mi accorsi di essere rimasta così tanto tempo in silenzio; me ne resi conto solo quando sentii di nuovo la sua voce. «Se non rispondi mi fai sentire un cretino»
«Scusa», feci subito. Fissavo i suoi occhi da una manciata di minuti, forse. 
Harry fece una smorfia. «Sei strana stasera. Vuoi che me ne vada?», chiese, anche se sentivo chiaro nella sua voce il desiderio di una mia risposta negativa. 
«No, no, tranquillo. Ero sovrappensiero», mi giustificai. «Parti pure con il tuo 'interrogatorio'», e mi sforzai di sorridere.
Lui fece spallucce. «D'accordo. Ehm, allora. Dove vivi?»
«Roma», risposi all'istante, intenzionata a prestare attenzione e a sciogliere un po' i nodi che i mille pensieri formavano nella mia testa. Harry, interrogatorio, interrogatorio, Harry. Tutto ciò che dovevo fare era rispondere alle domande, potevo farcela. «Vuoi anche in nome della strada e il numero civico?».
Sorrise. «Magari potrei venire a trovarti»
Risi, convinta che non sarebbe successo mai. «D'accordo. Prima di andartene chiedimelo», feci. «C'è una sola regola da rispettare: non fornirlo a nessuno. Non vorrei essere vittima di stalking, rapimenti e quant'altro».
Scoppiò a ridere, era un suono piacevole da ascoltare. Appena smise ebbi la voglia di risertirlo di nuovo. «Io ti darò il mio numero di telefono, se ti fa piacere. Ci sono solo due regole: non fornirlo a nessuno; chiamami», e mi guardò, sul viso le due fossette che amavo tanto. Il mio cuore perse un battito, ormai era zoppicante.
Sentii un calore invadermi le guance, anche se molto debole. Sorrisi. «D'accordo»
Ricambiò, poi dopo un istante mi pose un'altra domanda. «Hai fratelli, sorelle?»
«Figlia unica», risposi, con un certo rammarico. «Avrei tanto voluto avere una sorella. Sai, una persona con cui fare shopping». 
«Una volta mia sorella mi portò con sè al centro commerciale; le scelsi il vestito per il ballo di fine anno. Ho un senso della moda molto spiccato».
«Scommetto che era rosa confetto», sorrisi.
Lui mi guardò meravigliato. «Eri nascosta da qualche parte, quel giorno?»
Il mio sorriso divenne una risata spontanea. «Di solito i ragazzi hanno un senso distorto dei colori preferiti delle ragazze. Io ad esempio amo il blu».
«Però le è piaciuto tantissimo», si difese. 
«Sarà stato un caso», lo presi in giro. Ed ecco che la conversazione diventava ridicola, e continuò così, tra fiori preferiti, discussioni sui gioielli e su cosa amano le ragazze. Era bello parlare con lui, perchè mentre lo facevo non pensavo a nulla. Era tutto concentrato su di lui, nessun altro pensiero, nessun'altra preoccupazione, niente lacrime pronte a scendere, solo sorrisi accennati e risate fragorose. O almeno per il momento.
«Quando hai bisogno di uscire, non farti problemi a chiedermi di prestarti una guardia del corpo», fece, mentre parlavamo della nostra foto sul giornale di quella mattina. 
«E' tutto così... serio. Come fate a sopportarlo?»
«Amiamo quello che facciamo, e questa è una delle tante conseguenze. Dopo un po' ci si fa l'abitudine. Però ci sono anche tantissimi lati positivi: la folla, le urla, le emozioni che provochiamo, l'affetto delle persone, le ragazze».
Feci una smorfia sull'ultima parola. «Scommetto che l'ultimo lato positivo è quello che ti piace più degli altri»
Scoppiò a ridere. «Le ragazze sono il mio punto debole», confessò, sempre con il sorriso sulle labbra. Ne era sempre provvisto, ed era quello il mio punto debole.
«Ne hai tante a disposizione, c'è solo l'imbarazzo della scelta»
Mi guardò, ed ebbi paura. Sembrava volesse capire cosa stavo pensando, sembrava voler studiare ogni mia reazione. «Ho già scelto», e a quel punto le mie labbra si serrarono all'istante. Mi sentii congelare, un brivido mi percorse da capo a piedi.
Era la seconda volta che mi lasciava intendere che era interessato a me. E io che facevo finta di non saperlo, io che volevo evitare che tutto andasse in malora. L'indifferenza non era l'arma migliore da giocare, anche perchè non sapevo farne buon uso. 
«No», mormorai. In quel momento tutto mi crollò addosso, tutte le convinzioni, tutte le strategie, tutti i pensieri ingarbugliati. Ma probabilmente non sentì il mio bisbiglio incomprensibile.
Non sapevo cosa fare. Volevo scappare dal suo sguardo inquisitore, così mi diressi verso il tavolino nell'angolo della stanza e afferrai il bloc-notes e la penna. Mentre ritornavo da lui, cominciai a scrivere il nome di una delle tante strade di Roma. Ovviamente, non era quella in cui abitavo io. 
Era una mossa stupida, forse sbagliata, forse la più idiota che avessi fatto in vita mia, ma continuai a scrivere, per quando la mano tremante me lo permettesse. Avevo solo bisogno di calmarmi, era solo una distrazione. 
Mi avvicinai e mi sedetti per terra, proprio di fronte a lui. Inventai il numero civico, e intanto pensavo alle parole da dire, ma tutte sembravano spintonarsi, come volessero fare una gara tra loro. Cosa gli dico? Distruggo tutto e lo mando via? Sarebbe stata quasi la stessa tortura. 
Il 9 del numero civico era quasi uno scarabocchio, ma la penna tra le mie mani traballava. Ero talmente confusa che la testa stava per scoppiarmi.
Strappai il foglietto e glielo porsi, facendo di nuovo l'enorme sbaglio di guardarlo negli occhi. La preoccupazione si era trasformata in ansia.
Aveva paura che non fosse corrisposto o la mia agitazione lo stava contagiando? Probabilmente stava considerando l'idea di portarmi da un dottore.
Afferrò il biglietto e provò a prendere la penna dalle mie mani. «Mi scriverai il tuo numero la prossima volta», dissi velocemente, senza controllare le mie parole. Che stavo dicendo? Che stavo facendo?
Eravamo da soli, nella mia stanza, illuminati soltanto dalla luce della lampada dietro di noi. Mancava solo il temporale e sarebbe stato un deja vù.
«Liz», sussurrò. E mi resi conto che c'erano solo pochi centimetri a separarci.
Allungò la mano verso di me, accarezzandomi il viso, e infilandola tra i miei capelli. Mi afferrò saldamente la nuca, e si avvicinò pericolosamente. 
I miei battiti aumentavano, il sangue fluiva verso le guance, e mentre una parte di me diceva 'bacialo, bacialo!', l'altra considerava quel momento una tragedia.
A quel punto tutto ciò che riuscivo a vedere erano i suoi occhi e le sue labbra, e non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle ultime. Mi sentivo come sulle montagne russe, quando sei vicina alla discesa e il tuo stomaco viene inghiottito, scomparso, lasciandoti un vuoto che dura alcuni istanti.
In quel caso il senso di vuoto non aveva intenzione di andarsene. 
Sentivo la tensione intorno a me, l'elettricità palpabile, il mio cuore che pompava sangue troppo velocemente. 
Alzai una mano, e con la punta delle dita gli sfiorai la guancia morbida, spostandogli contemporaneamente un riccio. Tremavo da capo a piedi, mentre lui si avvicinava.
Chiusi gli occhi.




aaaaaaah! 15 recensioni? voi volete farmi morire afnaiksdjfs <3
siete fantastiche, e sono arrivata ad un totale di 100, tutto merito vostro. perciò ancora GRAZIE.
che dire, è una schifezza. ma anche se non mi convinceva volevo postarlo, perchè con la scuola sono in grado di aggiornare solo il sabato o la domenica, e non volevo farvi aspettare un'altra settimana. spero sia almeno decente '-'
comunque, questa storia diventa sempre più difficile ahahah la testa di Liz è la più incasinata di tutte, e ammetto che faccio fatica a mettermi nei suoi panni, però ci provo.
ora la smetto di ciarlare e ringrazio tutte le persone che hanno messo questa storia nelle preferite, nelle ricordate o nelle seguite. GRAZIE GRAZIE GRAZIE. 
fatemi sapere nei commenti :3 spero siano tanti come il capitolo precedente. 
le vostre recensioni mi danno forza.
un bacio <3

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Capitolo 14
*** don't wanna go home - part two. ***





don't wanna go home - part two.


C'era il silenzio assoluto. Sentivo chiaramente i battiti accelerati, il mio respiro affannoso, il suo fiato fresco sul mio viso, il movimento della sua testa per avvicinarsi ancora di più a me.
Ed io ero completamente paralizzata. 
In quel momento stavo sperando qualcosa in cui non avrei dovuto sperare. Tutto stava crollando sotto il peso dell'istinto; il muro che stavo tentando di costuire stava cadendo mattone dopo mattone, a metà dell'opera. 
Tremavo da capo a piedi e stringevo una mano a pugno, tenendola sulle gambe piegate. Ero inginocchiata davanti a lui, senza riuscire ad aprire gli occhi e guardarlo. Non volevo che vedesse la paura nei miei occhi e le lacrime che avrebbero cominciato a scendere copiose.
Stavo cercando di proteggermi, in qualche strano modo, e benchè stare con lui mi facesse sentire al sicuro, completa, sapevo che quel ragazzo era anche la mia rovina.
Cercai disperatamente di aggrapparmi anche all'ultimo briciolo di ragione che mi era rimasta, ma il cuore batteva talmente forte che sembrava voler prevalere e dominarmi. 
Mi sentivo sull'orlo di un precipizio. 
Baciarlo significava cadere giù, cominciare un volo del quale non conoscevo il punto d'arrivo, ma che mi avrebbe fatto male, distrutto. 
Restare in bilico significava rinunciare, essere convinti che dopo il salto non ci sarebbe stato un letto di piume. Autoconservazione, o almeno così credevo.
Forse era semplicemente paura.
Non ero temeraria, non ero coraggiosa. Ero la tipica persona che non avrebbe mai agito senza conoscere le conseguenze. E dall'altro lato mi aspettava l'ignoto, sebbene fossi convinta che non ci sarebbe stato altro che buio e dolore. 
Non era facile scegliere, soprattutto in una circostanza come quella. 
Toccavo con mano la causa di tutta quella confusione, e tremavo. Le mie dita non riuscivano a stare ferme, mentre sfioravano la sua guancia. Le feci scivolare sul suo collo, fino a fermare la mano sul suo petto. Il suo cuore batteva lento, ma ad ogni battito sembrava voler scoppiare. Contai i secondi. 
I miei occhi restavano chiusi, il suo respiro era sempre più vicino. 
Sentii le sue labbra posarsi sulla mia fronte, ed io sussultai. Nello stesso istante, il mio stomaco compiva il giro della morte. 
Mi concentrai sulla scia umida che aveva lasciato sulla mia pelle, poi sul suo naso che sfiorava il mio, e infine sul momento che, contemporaneamente, mi sembrava un sogno e un incubo. 
Quando le sue labbra furono sulle mie, fu un turbinio di emozioni contrapposte. Inizialmente sentii le forze venir meno, poi ebbi la voglia di respingerlo, e poi di ricambiare il bacio.
Scelsi l'ultima opzione.
Dischiusi lentamente le labbra e allacciai al suo collo entrambe le braccia.  Lui infilò le mani tra i miei capelli, e io feci lo stesso con i suoi ricci, morbidi come la seta. 
Sentivo il sangue fluire verso le guance e i brividi percorrermi la schiena, eppure le sensazioni di quel momento erano più forti degli effetti collaterali.
Le sue labbra si adattavano e modellavano alle mie in un modo impensabile, come se fossero state create per sfiorarsi. 
Fece scivolare le mani sulla mia schiena, tirandomi a sè, e fui costretta ad avvicinarmi, quasi senza volerlo. Era come una calamita, due poli opposti destinati ad unirsi, e in quell'istante non riuscii ad oppormi.
Il tempo passava, le nostre labbra si muovevano insieme in una danza fatta di sentimenti opposti, le sue mani mi accarezzavano e mi stringevano come se fossi l'unica persona della quale gli importasse qualcosa; mi stringeva come se io avessi potuto salvarlo.
Il ritmo dei nostri cuori era accelerato, zoppicante, e nessuno dei due aveva intenzione di fermarsi, anche se a me già mancava l'aria. Il silenzio che ci circondava era pieno di tensione, di desiderio reciproco, rotto soltanto dal mormorio delle nostre labbra.
Mi sentivo piena, consapevole che una parte di me desiderava quel momento da un bel po' di tempo, soddisfatta, felice. Non avevo aggettivi negativi per descrivere le sensazioni che stavo provando, eppure ad un certo punto me ne vennero alcuni in mente. 
Era semplicemente sbagliato
Con fatica recuperai mattoncini su mattoncini, ripensando alle conseguenze di quel gesto. Dovevo evitarle, anche se ciò mi sarebbe costato perdere lui. Sarebbe stato meglio così, probabilmente. Magari si sarebbe dimenticato di me, dopo la mia partenza. Era meglio così. Magari nessuno dei due avrebbe sofferto, quelle due settimane avrebbero fatto parte del passato. Era meglio così.
Mi allontanai da lui, accarezzandogli il viso con entrambe le mani e tenendo gli occhi chiusi, pieni di lacrime. Lo sentii muoversi verso di me, poi ci ripensò. 
A quel punto non sapevo cosa fare, cosa dire. Sarebbe bastato un 'non posso'? Forse no, ma era l'unica frase che la mia mente riusciva a formulare in un istante simile. 
Volevo guardarlo, aprire gli occhi e perdermi nei suoi occhi verdi, fissare i suoi lineamenti delicati, le sue labbra sottili, la linea perfetta del suo naso, i suoi capelli. Volevo guardarlo e rendermi conto che ciò che avevo davanti a me era stato mio per pochi minuti.
Ma tutto quello che riuscii a fare fu abbracciarlo. Lo strinsi forte, e le lacrime scesero non appena decisi di vedere quello che mi circondava. «Non posso», dissi infine, sicura che l'avrei fatto star male.
Ma era a fin di bene. Non poteva stare con una come me. Appartenevamo a mondi diversi che mai avrebbero potuto coesistere. Non avremmo potuto sentirci, vederci, toccarci, niente di tutto questo.
E nessuno dei due l'avrebbe sopportato.
Sentii la sua stretta farsi più debole. «Che significa?», sentii la sua voce profonda proprio all'orecchio. 
Lo lasciai e puntai i miei occhi nei suoi. Le lacrime rendevano la visuale sfocata.
«Non posso, Harry. Non posso fare tutto questo».
Vidi le sue sopracciglia unirsi, era confuso, perplesso. «Non... Credevo che io..»
Lo capii. «No, no, no. Non è per questo», dissi, e nello stesso istante lui mi chiese perchè stavo piangendo e cercò di asciugarmi le lacrime con le dita. Era così dolce, non meritava di soffrire. Eppure l'avrei ferito.
Afferrai i suoi polsi, costringendolo a smetterla. Scossi la testa. «Tra una settimana sarà tutto finito». Sentii una lacrima bagnarmi velocemente la guancia. 
«E con questo?»
Lo guardai sconvolta, mentre il mio cuore batteva a mille. Era tutto totalmente surreale. «E con questo? Come farò a vederti, eh? Vuoi che sia una di quelle stupide relazioni a distanza delle quali si conosce già la fine prima che inizino?»
Scrollò le spalle. «Perchè devi essere così pessimista? Non puoi evitare di pensarci?»
«E poi? E poi quando tornerò in Italia come diavolo farò senza di te, me lo spieghi?». La mia testa conosceva già la risposta: avrei svolto la stessa vita che stavo vivendo prima di incontrarlo. Era triste. Al solo pensiero mi assalì la nausea.
«Continueremo a sentirci, tranquilla. Non deve per forza finire tutto, non voglio». La tristezza nella sua voce aumentò le mie lacrime. Ormai avevo il viso bagnato. 
«Non lo voglio neanch'io. Non voglio dover tornare a casa, ricominciare tutto da capo e non pensarci. Non voglio essere abbandonata di nuovo». L'allontanamento di mio padre mi era bastato, e mi aveva reso la persona più fragile del mondo. Non sarei riuscita a sopportare un altro colpo.
«Ma non ti abbandonerò! Verrò a trovarti quando posso, ti chiamerò ogni giorno. Se nessuna relazione a distanza ha funzionato, non significa che la nostra non possa essere un'eccezione».
«Non posso», ripetei, mentre le sue mani calde sul mio viso mi facevano arrossire.
«Ti arrendi?», mollò la presa. «Ti arrendi ancor prima di provarci?».
Mi guardava con il suo sguardo intenso, e mi sembrava che fosse arrabbiato, ma i contorni del suo viso erano sfocati. «Prova a capirmi, okay? Vorresti aggrapparti ad un sogno pur sapendo che potrebbe finire male?»
«Sì! Io lo farei. Credo che pensare al presente sia la cosa migliore. Se questo è il tuo sogno - anche se è strano dirlo - inseguilo. Fallo per me.»
Ormai singhiozzavo. Non osavo pensare a cosa mi avrebbe aspettato a casa. Cosa avrei provato, cosa avrei fatto.
Scossi la testa, chiudendo gli occhi. 
Il silenzio che seguì dopo fu devastante, come uno schiaffo. Lo stavo ferendo, più di quando lo fossi io. 'Mi dispiace, mi dispiace', pensai.
«Quindi è finita?». Non era nemmeno cominciata, l'avevo bloccata sul nascere. Non arrivò una risposta da parte mia.
Lo sentii alzarsi, e a quel punto lo guardai. «Dove stai andando?», chiesi, la voce incrinata e rotta.
«A casa», mi rispose secco. Prese il suo cappotto dall'attaccapanni, e aprì la porta, prima che potessi provare a fermarlo. E poi, cosa avrei potuto dirgli? 
Restai immobile a fissarlo. «Ah», fece, fermandosi sulla soglia. Si voltò verso di me, concendendomi per l'ultima volta la visione del suo sguardo verde, alla luce fioca della lampada. «Alle volte bisogna rischiare, sai? Non sai mai cosa ti aspetta». E si richiuse la porta alle spalle.
Rimasi a guardarla per qualche secondo, mentre le lacrime non accennavano a fermarsi. Il telefono vibrò nella mia tasca.
'Mamma', lessi sul display. Rifiutai la chiamata e le inviai un messaggio, per quanto fossi lucida in quel momento.
'E' tutto okay. Ti chiamo domani, notte'.


Non mi esprimo su questo capitolo. Sapete cosa ne penso ;)
Vorrei soltanto ringraziare tutte le 42 persone che hanno messo questa storia nelle preferite, le 82 (82 ragazzi! è un numero enorme!) che l'hanno messa nelle seguite e le 14 che l'hanno inserita nelle ricordate.
Grazie delle 12 recensioni *--* E' sempre un piacere leggere i vostri commenti, sapere cosa ne pensate di questa storia. Mi rendete felice, GRAZIE! 

p.s. il prossimo sarà un pov harry :) vedremo come reagirà al rifiuto di liz.

un bacio, clà :)

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Capitolo 15
*** mistake - harry's pov. ***





mistake - harry's pov.



Dopo circa due giorni di promozione tra le varie radio, avevo finalmente un momento per me. Un momento per meditare, magari per crogiolarmi nella tristezza, e perchè no, versare qualche lacrima. Non ricordavo più l'ultima volta che l'avevo fatto, ed ero certissimo che fosse una situazione tanto importante quanto quella che stavo vivendo.
Ero seduto sul divano, sebbene 'seduto' fosse un parolone; più che altro sembravo una balena arenata sulla spiaggia, senza meta, senza più alcuna voglia di combattere per ritornare a respirare. 
Guardavo il mio cappuccino che si muoveva all'interno della tazza che stringevo tra le mani, e che tenevo sulla pancia; ne sentivo il profumo.
Stavo varcando la possibilità di berlo, o magari di lasciarlo raffreddare sul tavolino per poi aspettare che qualcuno dei ragazzi lo prendesse al posto mio. 
Intanto loro mi passavano davanti, magari mi indirizzavano qualche occhiataccia, qualcuna di compassione, e poi rinunciavano alla missione di risollevarmi il morale perchè sapevano benissimo che non ci sarebbero mai riusciti. 
E avevo la nausea: non riuscivo a credere di essermi innamorato di una ragazza in così poco tempo. Non mi era mai capitato prima, sebbene io fossi uno di quelli che accelera sempre i tempi. 
C'erano tante cose che non conoscevo di lei, e tante altre che avevo scoperto pian piano. Altre che avrei voluto scoprire, se lei non avesse mandato tutto all'aria. 
E un po' mi odiavo, perchè era impossibile che fossi già così coinvolto. Forse era gran parte colpa mia, forse non avrei dovuto farmi illusioni e architettare piani per sentirla e vederla ogni tanto, per sentirla vicina nonostante i tanti chilometri a separarci, nonostante gli impegni. 
Forse lei non ci aveva mai pensato.
E un po' mi sentivo in colpa per non aver dato alcun peso alle sue parole, alle sue paure. Liam mi aveva parlato della loro conversazione nel parco, di quanto lei fosse terrorizzata al fatto di perdere le persone a cui teneva. E io quasi non l'avevo sentita quando me l'aveva detto, forse perchè ero talmente preso dai miei sentimenti che avevo ignorato i suoi. 
Posai la tazza sul tavolino di cristallo e mi alzai velocemente dal divano. 
«Dove vai?», mi si parò davanti Lou, e poi tutti gli altri si avvicinarono, come se per tutto quel tempo avessero aspettato soltanto una mia reazione. 
«Da lei», risposi senza esitare, anche se non sapevo bene cosa avrei fatto una volta incrociati i suoi occhi.
Lou mi diede una pacca sulla spalla per incoraggiarmi, ma in realtà cominciarono a spuntare dubbi ovunque. «Saggia decisione?», domandai, per avere una conferma, visto che da solo non riuscivo proprio ad arrivarci.
Sembrava un cretino, e probabilmente per la gran parte lo era davvero, ma alle volte Louis sapeva essere un bravo consigliere. 
«Direi di sì, ma non aspettarti troppo da lei. Credo abbia messo già le cose in chiaro».
Ci pensai su. Mi sarei scusato, e poi? Sapevo che non sarei riuscito ad evitare di sperare in qualche sua mossa improvvisa, magari qualche ripensamento.
Niall mi sorrise, Zayn mi guardò, serio. «Buona fortuna», mi dissero. 
«Direi che tocca anche a te, Zayn: Chelsea non aspetta», e ammiccai. Al contrario di me, lui aveva sempre avuto difficoltà a confessare i suoi sentimenti.
Louis mi diede un'occhiata di incoraggiamento. Annuii e mi diressi verso la porta.
 
Camminavo furtivo, velocemente. Mi sistemai gli occhiali scuri e, con le mani in tasca, cercai qualche via secondaria per evitare di incontrare qualche fan scalmanata o qualche fotografo ficcanaso.
Alle volte avevo bisogno anch'io della mia vita privata e, di conseguenza, di un po' di tranquillità. 
Nel caos di Londra, mi ritrovai stupidamente a ripensare al sapore delle sue labbra, alle sue mani che si infilavano nei miei capelli, i suoi occhi lucidi puntati nei miei, e poi le parole che mi aveva detto subito dopo avermi illuso.
E prima che Liam chiarisse la mia visione distorta della situazione, avevo provato migliaia di volte a mettermi nei suoi panni, a sentirmi come si era sentita lei: in difficoltà. E in realtà l'unica conclusione alla quale ero arrivato era che non gli piacevo abbastanza, sebbene ricordavo benissimo le parole che aveva scambiato con lui al pigiama party. 
Nella mia concezione delle cose, non c'erano problemi. Io, lei, un cellulare, dei biglietti aerei e tanta pazienza, nient'altro. Ero disposto ad aspettarla, sempre e per sempre. 
Svoltai a destra, accostandomi al muro per scansare un'auto che mi aveva quasi sfiorato, e ricominciai a camminare. 
Non avevo preso in considerazione i suoi pensieri, e questa era la cosa che più mi disgustava. Non ero mai stato egoista in amore, ma sempre un tenero ed apprensivo fidanzato, sebbene avessi la fama di latin lover dovuta a qualche rara scappatella.
Da quando ero diventato così?
Varcai la soglia dell'entrata dell'hotel con lo sguardo basso, spingendo la porta girevole di fronte a me. La mia mente era proiettata al secondo piano, ultima stanza a sinistra, in fondo al corridoio. 
Come avrebbe reagito vedendomi? E se avesse pianto? Non sarei riuscito a sopportare le sue lacrime. 
Tutto quello che volevo era vederla felice, anche se la maggior parte delle volte l'avevo vista triste, pensierosa e con il broncio. Ma ovviamente non me n'ero preoccupato più di tanto. Tutto ciò che avevo fatto era stato giocare con lei, divertendomi nel vederla arrossire.
Al solo pensiero delle sue guance piene e rosee, il mio stomaco protestò con un fastidioso formicolio. 
Salutai il simpatico vecchietto alla reception con un cenno della mano e salii le scale con passo pesante.
Mi ritrovai davanti alla sua porta senza rendermi conto di come ci fossi arrivato; sentivo il volume della televisione e una canzoncina di qualche strana pubblicità. 
Alzai il pugno chiuso per bussare, facendo un respiro profondo e pensando alle parole da dire, ma non mi venne niente se non 'scusa'. Potevo dirle soltanto questo? Lei cosa avrebbe fatto? Cosa avrei fatto io? 
Avrei subito un altro rifiuto? Non avrei pensato ad altro se non al suo 'non posso' per molto ancora? Era inutile ritornare da lei. 
La risposta sarebbe stata la stessa, perchè la paura le avrebbe impedito di lasciarsi andare. E non potevo cambiare le cose, per niente.
Aveva ragione Louis: meglio non illudersi. E per farlo dovevo cominciare da quel momento. 
Fissai il color ciliegio della porta davanti a me e il mio pugno a mezz'aria, poi abbassai la mano.
Appena sentii il rumore di una maniglia che si abbassava, il mio cuore perse un battito. Ma non era stata Liz ad aprire. 
«Guarda chi si rivede», fece la ragazza dai capelli scuri che mi fissava impalata sulla soglia della sua camera, qualche secondo dopo il cigolio che mi aveva fatto sobbalzare. Me la ricordavo, anche se non benissimo. Avevamo parlato per qualche minuto mentre aspettavo che Lizzie si preparasse per uscire. 
Aggrottai le sopracciglia. «Credo di non ricordare il tuo nome», dissi, allontanandomi dalla porta per non essere sentito e avvicinandomi leggermente a lei.
Si finse offesa, dicendo qualcosa del tipo 'non posso crederci', con una voce che non le apparteneva. Odiavo quel genere di reazioni; doveva essere una di quelle che credeva di avere il mondo ai suoi piedi.
Non battei ciglio. 
«Mi chiamo Megan», disse, scocciata dalla mia indifferenza. 
Provai un po' di soddisfazione. «Mi dispiace, non mi è familiare», mentii. 
Lei deglutì, per metà sorpresa e per metà infastidita. «Hai un foglio di carta e una penna?», le chiesi, prima che potesse parlare lei. Borbottò un 'certo', e ritornò dopo pochi istanti con un bloc notes e un pennino blu.
Le sorrisi svogliatamente, poi buttai giù qualche riga. "Mi dispiace che non sia andata come speravamo entrambi, e ti chiedo scusa per non aver dato peso ai tuoi sentimenti. Ho reagito da stupido. Harry"
Staccai il foglietto e lo ripiegai, per poi infilarlo sotto la sua porta, spingendolo sulla moquette. Tirai un respiro profondo, con la convinzione di potermi sentire meglio, ma era tutta una stronzata. 
Tutto ciò che volevo era lei, lei e basta. E non avrei mai potuto averla.
Ingoiai quel boccone amaro. 
«Ti va di entrare?», mi chiese la tipa, Megan, addolcendo il tono della voce. Mi voltai, con la certezza che quella giornata non avrebbe mai potuto avere un senso. Annuii, in silenzio, mormorando solo un 'grazie' appena fui nella sua stanza.
«Ti preparo qualcosa?», mi domandò velocemente, come se non fosse stata quella la domanda che avrebbe voluto pormi. Io mi sedetti su una sedia accanto al tavolo rotondo, e mi guardai intorno. Dire che quella Megan era disordinata era abbastanza riduttivo. 
C'erano vestiti sparsi dappertutto, scarpe che spuntavano sotto il divano e persino un reggiseno che quasi stava per cadere dal puff bianco. Strabuzzai leggermente gli occhi quando adocchiai uno slip in pizzo nero su una pila di vestiti. 
Mi posi due domande: la prima sull'esistenza di un armadio o cassettiera, e la seconda sulla professione di questa Megan.
«No, grazie», mi ricordai di rispondere. Lei mi sorrise ammiccante e si sedette di fronte a me, incrociando le braccia sul tavolo davanti a se. 
Avrei potuto giurare che sotto il top bianco non indossava nulla. 
«Allora? C'è una persona importante nella 58?»
«Intuizione corretta», risposi soltanto, mentre i miei occhi erano fissi sulla sua attrezzatura.
«E' la tua ragazza?». Forse fu il tono seducente con cui mi pose la domanda, o forse la domanda stessa, ma alzai di scatto gli occhi e incontrai i suoi color ghiaccio. Di sicuro indossava lenti a contatto.
«No. Non ho una ragazza», feci, con un tono di voce monocorde e disinteressato. Forse ci sarebbe voluta tutta la mia carriera musicale - che a quanto pare si prospettava lunga - per dimenticare Liz. 
Lei sorrise, scostandosi i capelli dalle spalle con uno scatto secco della testa. «Lo sai che adoro i tuoi ricci?», fece, tentando di essere seducente. 
«Li adoro anch'io».
Sorrise, come se avesse avuto a che fare con un bambino, e si avvicinò a me. No, non indossava il reggiseno.
Poggiò le sue mani sulle mie spalle e io mi voltai per un attimo a guardare le sue unghie lunghe, finte e laccate. Poi si sedette sulle mie ginocchia, e a quel punto sentii lo stessa cosa che provavo di fronte al corpo di una donna.
Fece girare un braccio dietro il mio collo e si avvicinò al mio orecchio. «Sei dolce», mi sussurrò, provocandomi brividi diffusi.
A quel punto non sapevo se oppormi oppure no; se restare fedele ai miei sentimenti o abbandonare una missione impossibile e distrarmi da tutto il casino che avevo in testa.
E lei sarebbe stata la mia distrazione.
Mi sfiorò le labbra con il pollice e intrecciò il suo sguardo al mio, che ormai mi trovavo a pochi centimetri dal suo viso. Il suo alito sapeva di alcol, ma che diamine mi importava?
Quando le sue labbra si poggiarono sulle mie, non potei fare a meno di pensare a Liz. Non sentivo sapore di vaniglia, ma dedussi che poco prima aveva fumato due o tre sigarette. 
La sentii alzarsi, e poi tirarmi verso di lei. Mi spinse con forza, e fui obbligato a camminare all'indietro, mentre lei avvicinava di nuovo la bocca alla mia. 
Nella foga urtai qualche spigolo, forse anche il puff, e nel frattempo, quasi piena di rabbia, costrinse le nostre lingue ad intrecciarsi. 
Alla fine mi colpì sul petto e caddi sul divano proprio dietro di me. 
Si levò velocemente la maglietta, poi si adagiò su di me; a quel punto, non avevo più possibilità di scelta. 
Sentivo i suoi seni contro il mio petto, le sue labbra che mi torturavano il collo.
Erano probabilmente le dieci del mattino e no, quella giornata era destinata a non avere senso.



cccciao belle bimbe! 
chiedo scusa per non aver postato per circa... un mese e.e il fatto è che la scuola non mi dà tregua.
comunque, 13 recensioni! aigsjkda ringrazio tutte per aver commentato *-* e ringrazio anche le persone che hanno messo questa storia nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate. non ho il tempo di controllare adesso ma siete proprio tante! grazie mille, di cuore!
allooora, non ho riletto e sto postando in tutta fretta, spero non ci siano errori.
da quanto avrete capito, chelsea è ricambiata da zayn (senza saperlo) e harry ha sentito il discorso di liz e liam al pigiama party, anche se ha sempre negato :3
avrei voluto scrivere in modo diverso questo capitolo... insomma, non mi soddisfa molto, al solito.
anyway, posterò a breve. visto che domani sono a casa provo a recuperare, e per domenica sera, o per martedì, dovreste avere il nuovo capitolo :3
fatemi sapere nelle recensioni cosa ne pensate, vi prego! un bacione! <3

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Capitolo 16
*** he's gone. ***





he's gone.




Era una bella giornata, e tutto intorno a me sembrava colorarsi di una luce nuova, viva, mai vista prima. Il sole entrava dalla finestra, luminoso e accecante, un profumo d'erba appena tagliata invase la mia camera, quasi a ricordarmi che era ancora agosto. 
Il rumore dei clacson rovinava quell'idillio, ma era facile da sopportare: bastava chiudere gli occhi e concentrarsi solo su quello che avevo voglia di ascoltare.
Tra i vari suoni riuscivo a percepire il battito del mio cuore, l'ansia che lo attanagliava da circa due giorni. 
Dire che mi mancava era probabilmente un eufemismo, e dire che non mi mancava sarebbe stata una bugia grande quanto la mia fortuna.
Il fatto era che sentivo il profumo della sua pelle ovunque, anche se respiravo la mia; vedevo il suo sorriso appena le mie palpebre si abbassavano e sentivo la sua voce nella mia testa, anche se ricordavo meglio quello che era successo dopo la nostra conversazione.
Cercavo di non pensare ai motivi per cui non l'avevo dimenticato perchè era più di quanto potessi sopportare. 
Così, la mia attenzione si spostò sul giornale del giorno prima che mi aveva portato Chelsea, quasi avesse voluto affondare il coltello nella piaga. Verso la fine del quotidiano c'era un piccolo spazio riempito con una foto di Harry, una minuscola didascalia e un titolo che parlava della scomparsa della sua ragazza segreta. Dov'era finita la ragazza misteriosa? Svanita nel nulla? Tornata indietro con una macchina del tempo? 
L'avrei preferito, anche se da un lato mi piaceva pensare che per un po' il mio sogno si era realizzato e protratto per un breve periodo, benchè mi avesse lasciato un vuoto peggiore di quello che avrei sentito se non si fosse avverato.
Mi voltai verso la porta, già pronta ad accogliere il sorrisone di Chelsea e il nuovo giornale. Altre questioni da risolvere nella vita privata di Harry? O ne aveva già un'altra fiamma?
Al solo pensiero mi si chiudeva lo stomaco, ma mi rifiutavo di pensare che mi avesse dimenticata in soli due giorni. O forse era solo una sciocca convinzione. 
Sentii il suono prolungato di un clacson alle mie spalle, le tende svolazzanti che mi sfioravano il braccio nudo, e poi qualcuno che bussava.
Eccola.
Ciabattai svogliatamente verso la porta, stropicciandomi gli occhi. Non vedevo l'ora di sentire il mio cuore battere all'impazzata vedendo una sua foto, pensai sarcastica.
Dimenticalo, dimenticalo. Il sogno è finito, svegliati.
Ma i miei occhi non volevano saperne di abituarsi alla luce.
Aprii la porta lentamente, ritrovandomi di fronte il sorriso a trentadue denti della mia amica. «Buongiorno dormigliona!», gridò come un'ossessa, tanto che fui tentata di coprirmi le orecchie.
«Non urlare!», e lo feci anch'io. Lei scoppiò a ridere, poi allungò un braccio verso di me e mi afferrò il polso. Mi spuntò un sorriso. «Vieni qua, ho una cosa da farti vedere», e mi trascinò nel corridoio. «E un'altra da farti sentire», e accompagnò l'ultima frase con una risatina. 
Mentre abbassavo lo sguardo per cercare di non inciampare sul tappeto, la mia visuale si concentrò su un fogliettino bianco ripiegato in malo modo e stropicciato che ne stava spiaccicato sul pavimento, proprio sulla soglia, e che avevo appena calpestato. 
Ma fui praticamente catapultata davanti alla finestra alla fine del corridoio. «Quei due tizi che se ne stanno tranquillamente seduti sull'erba ti suggeriscono qualcosa?». 
Guardai attentamente i due uomini vestiti di nero dotati di macchina fotografica. Uno di loro fumava disinteressato una sigaretta, l'altro si guardava intorno. Mi chiedevo che diavolo ci facessero nel giardino di un albergo. 
«Paparazzi?», chiesi, confusa.
«Esatto! Ciò significa che qualcuno dei ragazzi è qui, o che sta arrivando». La guardai. «Magari è Harry», concluse, e stette per darmi una gomitata scherzosa quando mi scansai. Alzai gli occhi al cielo. «Piantala Chelsea. Piantala di nominarlo sempre. E già che ci sei, smettila anche di portarmi giornali ogni mattina solo per farmi vedere la sua faccia e peggiorare la situazione. Credimi, ci sto già male così.», feci, cercando di non esagerare con le parole.
Lei si ammutolì per un minuto, probabilmente perchè non si aspettava una mia reazione di questo tipo. Probabilmente in un altro contesto sarei semplicemente arrossita e avrei sorriso. 
«Potevi anche dirmelo prima», e mi sorrise leggermente. «Mi dispiace se ti ho fatta star male, non era mia intenzione».
Ricambiai il sorriso. «Non preoccuparti. E scusa se sono stata brusca, non volevo neanch'io.»
Alla fine scoppiò a ridere nervosamente e spezzò la tensione che si era creata all'improvviso. «Argomento tabù allora?»
«Tabù», accordai, e sentii il rumore di carta stropicciata provenire proprio da lei. Notai la mano nascosta dietro la schiena e della carta grigia spuntare ai lati del suo corpo minuto: l'immancabile giornale.
Mi rivolse un sorriso di scuse, e io feci spallucce. 
«AH, dimenticavo! Senti niente?», mi chiese, trattenendo una risata.
Aggrottai la fronte, guardandola e concentrandomi contemporaneamente sui suoni che sentivo. A parte il caos di Londra, nient'altro.
Lei notò la mia confusione e scosse la testa, poggiando entrambe le mani sulle mie spalle e spingendomi all'indietro, facendomi avvicinare alla porta di una camera. Doveva essere quella di Megan, o almeno così sembrava. 
«Ascolta meglio», fece, e quasi si strappava il labbro inferiore per evitare di ridere.
Chiusi gli occhi, ma non sentivo nulla, non ancora. Mi avvicinai alla porta, appoggiando una mano allo stipite. Se avesse aperto in quel momento avrei fatto la figura peggiore della mia vita, ma dubitavo che questo sarebbe potuto accadere. 
Appena sentii dei gemiti, sgranai gli occhi e trattenni a stento le risate. Mi coprii la bocca con una mano e mi voltai verso Chelsea.
«Shh! Sta lavorando!», sibilò lei. 
«Sei un'idiota», feci, allontanandomi subito, con un sorriso imbecille stampato sul volto. «E una pervertita di prima categoria. I cazzi tuoi mai, eh?»
Mi diressi verso la mia camera, ricordandomi all'improvviso del bigliettino. «Ma dai! E' divertente! Almeno ha sfatato i nostri dubbi sulla sua professione.»
«Magari è il suo ragazzo», feci, senza troppa convizione e interessamento. Sul biglietto cominciavo a leggere qualche scarabocchio a penna. Forse c'era scritto qualcosa per me. 
«Ma per favore! E comunque non sono una pervertita! Sono solo uscita e ho sentito quello che ho sentito.», si difese, ma non la ascoltavo quasi più. 
Mi chinai e raccolsi il fogliettino, aprendolo e leggendo quello che c'era scritto.
Cominciai a sentire le gambe molli e il cuore accelerare d'un tratto. Era per me, era da parte di Harry.
E io avevo un nodo in gola. 
"..ti chiedo scusa per non aver dato peso ai tuoi sentimenti..", lessi, e sentii le lacrime riempirmi gli occhi. Mi mancava così tanto, e sapere che non mi aveva dimenticata era qualcosa che in un certo senso mi riempiva di gioia. Sapere che mi aveva dedicato quelle poche righe e sapere che aveva accettato la mia decisione mi rendeva triste e contenta allo stesso tempo.
Avrei mai fatto pace con il mio cervello? 
Restai con lo sguardo fisso sul suo nome, sulla sua scrittura disordinata e sui tratti vuoti che la penna povera d'inchiostro aveva lasciato.
Sfiorai la carta con il pollice, e strinsi quel foglietto tra le mani. Probabilmente era l'unica cosa che mi sarebbe rimasta di lui. 
Poi la mia mente collegò le varie informazioni, quasi involontariamente, e nello stesso momento sentii una voce maschile sovrastare i gemiti di Megan. 
Avevo lo sguardo fisso su qualcosa di indefinito di fronte a me, mentre pensavo ai paparazzi appostati fuori dall'albergo, al bigliettino che la sera prima non c'era. 
E quelle voci provenienti da quella stanza..
«Chiamalo.», dissi a Chelsea, voltandomi verso di lei. 
«Chi? Cos'hai in mano?»
Deglutii. «Harry, chiamalo un attimo», mi accorsi io stessa che la mia voce tremava. «Per favore», aggiunsi.
Osservai tutti i suoi movimenti. Estrasse il cellulare dalla tasca con lentezza estenuante, e cercò nella rubrica il suo numero. 
Fui tentata di strapparglielo dalle mani e velocizzare la situazione. «Va tutto bene?», mi rivolse un'occhiata piena di preoccupazione.
«Hai trovato il numero?»
Lei mormorò un 'sì', e portò il cellulare all'orecchio. «Cos'è che devo dirgli?»
Niente, dissi tra me e me. Non risponderà.
Dopo una manciata di secondi sentii un telefonino squillare, e quel suono proveniva proprio dalla stanza di Megan. 
Vidi Chelsea girarsi a scatti verso la porta, incredula. «Stacca», ordinai.
E lei obbedì. Nello stesso istante, il suono cessò. 
Gli occhi mi pungevano, il mio stomaco era sottosopra e avevo solo voglia di scappare via. In quell'istante mi aggrappai all'unica speranza che mi era rimasta, quasi agendo d'impulso. «Riprova».
Chelsea avvicinò l'iPhone all'orecchio, ma non sentii di nuovo la musichetta del cellulare di Harry, quella stupida suoneria predefinita.
«Non fare stronzate, non stai davvero chiamando. Non sono stupida.», parlai, ma mi sentivo esattamente fuori dal mio corpo. 
La mia supposizione non era poi così errata. Nuova fiamma, in soli due giorni, uau. 
Non dovevo starci così male, no?
Lei era incredula tanto quanto me. Si portò la mano sinistra alla bocca, e chiuse gli occhi. 
Appena risentimmo il cellulare di Harry squillare, la vidi scuotere la testa. Entrambi i suoni cessarono dopo qualche secondo. «E' assurdo», sussurrò.
Annuii, in parte perchè ero d'accordo con lei, in parte perchè stavo rispondendo alla domanda che mi ero posta poco prima.
Avrei dovuto saperlo. Non sarebbe mai stato mio, l'avevo lasciato andare. «Grazie», mimai con le labbra. 
E voltandomi, arrancai verso la mia stanza, lo sguardo fisso sul numero 58 inciso sulla porta. 
L'avevo lasciato andare.

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HI! come va, belle mie? *-*
stavolta non dico 'posto martedì, sabato o domenica' perchè mi sono accorta di non poter mantenere nessuna promessa LOL
anyway, 140 recensioni esatte, e io vi amo sempre di più. siete fantastiche, e alle volte vorrei ringraziarvi con capitoli molto più belli di quelli che vi ho postato, ma faccio quello che posso e non credo sia mai abbastanza.
comunque, ringrazio le 100 persone che hanno messo questa storia nelle seguite, e le 56 che la tengono nelle preferite. SIETE TANTISSIME! *-*
in particolare, ringrazio la mia amica MARIATERESA (lo so che stai leggendo, ciao cara uu) che ogni volta recensisce per sms e mi fa morire dal ridere.
grazie a voi che commentate, grazie di aver sempre detto che scrivo bene anche se non è vero lol e grazie di aver sempre detto che i miei capitoli sono bellissimi anche se fanno schifo ahahah <3
pace e amore, GRAZIE.
alla prossima :3

p.s. non ho riletto D:

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Capitolo 17
*** drunk. ***





drunk.

 

--- harry's point of view
 
«Ecco quello che mi serve», dissi fra me e me, fissando le luci colorate intermittenti del locale e la musica assordante che era capace di bloccare qualsiasi pensiero sensato.
Andare in discoteca non mi era mai piaciuto tanto, ma in quel momento sembrava l'unica soluzione per dimenticare i miei problemi. 
Non che avessi problemi impossibili e gravi da risolvere, anzi, potevo riternermi il ragazzo più felice della Terra: avevo realizzato il mio sogno, cantavo a livello professionale con cinque persone fantastiche, avevo in programma visite in tutto il mondo - se il cd avesse avuto abbastanza successo - ed ero adorato da migliaia di ragazze. 
L'unica nota stonata in tutta quella lista piena di meraviglie, e soprattutto nell'ultimo punto, era il fatto che mi fossi innamorato di una ragazza decisamente troppo riflessiva. 
E non potevo più ritornare indietro, o almeno non subito. 
Inoltre, avevo bruciato l'ultima chance di riconquistarla andando a letto con la tizia che si trovava nella camera accanto alla sua. Pessima mossa, ma d'altronde l'avevo fatto perchè ero convinto che Lizzie non avrebbe mai potuto ripensarci.
Ovviamente, lei ci aveva scoperti. Ricordavo ancora la telefonata che Chelsea mi aveva fatto poche ore prima, accusandomi di aver ferito una delle persone più dolci dell'universo. Forse era stata proprio quella frase, oppure il suo tono incazzato, o forse l'immagine di Liz piangere per quella storia, che mi avevano fatto sentire inutile e sbagliato. 
Speravo così, di poter contare in quella musica spacca-timpani per evitare di rimuginarci su, visto che la mia testa era un cumulo di pensieri di cui nessuno riusciva a prevalere sull'altro.
I ragazzi non sapevano aiutarmi, io non sapevo aiutare me stesso: ero nella merda.
«Volete qualcosa da bere?», chiese Zayn. 
Sebbene io e Niall non fossimo ancora maggiorenni, sapevamo che i baristi avrebbero fatto un'eccezione appena avrebbero visto le nostre facce. Liam invece era fuori da ogni discorso che si incentrasse sugli alcolici.
«Qualcosa di forte», feci io, mentre ascoltavo la musica e facevo vagare il mio sguardo tra la folla.
«Vacci piano», mi disse Louis. Avessi potuto mi sarei tuffato in una botte di birra e ubriacato in modo da non avere più coscienza delle mie azioni e così da rendere la mia mente un enorme buco nero.
«Sì, mamma», gli dissi, accennando un sorrisetto sarcastico. Lui alzò gli occhi al cielo, consapevole che non gli avrei mai dato retta. «Perchè non mostri un po' a tutti le tue epiche mosse di ballo?», continuai, per togliermelo di dosso.
Sapevo che prima o poi, durante la serata, si sarebbe avvicinato a me e avrebbe cercato di calarsi nelle vesti di uno psicologo per farmi uno dei suoi soliti interrogatori. Non avevo voglia di parlare di lei e di tutto quello che stava succedendo, anche perchè nemmeno io ne avevo una visione nitida. 
Fece una smorfia, una di quelle che usava quando dicevo una cazzata grossa. «La nostra copertura salterebbe». Parlava come se fosse stato un agente segreto impegnato in una missione di importanza nazionale. 
Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo, quasi indignato. Andare in un luogo pubblico significava a priori essere consapevoli di poter essere riconosciuti.
«Vuoi restare seduto in un angolino per tutta la serata?»
Accennò un sorrisetto. «Sì, magari a tirare su il morale al mio migliore amico», mi diede una pacca sulla spalla. Lo sapevo.
Abbassai lo sguardo, perso tra i miei pensieri. Poi lo guardai, sapendo che in quel momento i miei occhi erano abbastanza lucidi. «Non puoi aiutarmi».
Non mi ero mai sentito così prima d'ora, e mi rendeva inerme. 
Qualunque discorso, qualunque parola mi rimandava a lei. Tutta la mia attenzione era sempre focalizzata sul suo sorriso, che ormai non vedevo da troppo tempo; sulle sue guance rosee che spesso s'infiammavano a causa mia; sui suoi occhi scuri e allo stesso tempo sempre vivi di una luce bellissima; sulle sue labbra morbide e sui suoi capelli lisci. 
«Ecco ragazzi», Zayn si avvicinò a noi con due grossi bicchieroni nei quali ondeggiava una qualche specie di mix alcolico che aveva sicuramente un nome poetico. Non osai chiedere quale fosse.
Afferrai il bicchiere e mi infilai tra la folla, noncurante dei corpi che si muovevano a ritmo di musica. Alzai il braccio destro per evitare che la bibita mi si rovesciasse addosso e avanzai, avvicinandomi con fatica al deejay. Ci misi qualche minuto per attraversare tutta la pista, barcollando da una parte all'altra. 
Bevvi un lungo sorso, poi mi appoggiai alla consolle e guardai attentamente il ragazzo con le cuffie proprio di fronte a me. 
«Cosa c'è, amico?»
«Potresti avvisare tutti che c'è Harry Styles in questo locale? Mi serve una distrazione», gli feci, scolando tutta la bevanda. 
Mi chiesi per un solo secondo perchè mi accontentavo delle distrazioni e non della vera realtà, ma non impiegai molto per cambiare rotta di pensiero.
Guardai i ragazzi in fondo al locale e il loro sguardo di disapprovazione. Beh, forse Zayn non era poi così incazzato. 
Liam si avvicinò all'orecchio di Louis per dirgli qualcosa, Niall scuoteva la testa e sorrideva. 
Poi non riuscii più ad intravederli perchè le persone presenti cominciarono ad alzare le braccia e a gridare. Le ragazze lanciarono urla che mi perforarono i timpani e mi entrarono nella scatola cranica come delle scosse elettriche. 
O forse era uno dei tanti effetti dell'alcol.
Alzai le braccia al cielo anch'io, urlando qualcosa che probabilmente non passò per il cervello prima di arrivare alla bocca, visto che non riuscii a capire che cazzo avevo appena detto.
Il deejay, visto l'entusiasmo, chiamò a rapporto gli altri quattro per permetterci di cantare 'What Makes You Beautiful' in esclusiva, e dopo varie occhiatacce dei ragazzi, alla fine accettarono.
Durante il ritornello scordai alcune parole, ma fortunatamente durante il mio assolo filò tutto alla perfezione, a parte la testa che mi girava come se stessi affrontando un giro sulle montagne russe.
Non sopportavo l'alcol, decisamente no. 
Eppure, alla fine dell'esibizione, quando le voci decisamente troppo alte e la musica odiosa cominciarono a darmi fastidio, chiesi un altro bicchiere.
Circa al quinto bicchiere, mentre ero seduto davanti al bancone con un'aria da uomo vissuto e depresso, mi si avvicinò una bomba sexy. 
Capelli biondi, occhi azzurri, abitino di pelle attillato e tette finte come... qualcosa. Cosa c'era di meglio? 
Dal suo sguardo ammiccante capii che le interessavo anche io. O almeno così credevo. Forse mi riteneva soltanto un povero sfigato che risultava più attraente grazie alla sbronza. 
Le sorrisi, ma ero ancora abbastanza lucido da riuscire a notare io stesso che quella era più che altro una smorfia di disgusto.
«Quanto vuoi, bellezza?», le chiesi. 
La sua espressione mutò in una maschera di finta indignazione. Ecco, finta quanto le sue tette. 
Afferrò con uno scatto repentino il suo bicchiere e mi lanciò il cocktail contenuto dritto in faccia. Provai un certo sollievo, escluse le fastidiose goccioline che mi rigavano la faccia.  
Si alzò dal suo sgabello e sparì tra la folla senza dire una parola. 
«Non ti seguo, bambolina», feci, alzando il tono. La mia voce era roca e tremante. «Odio questo genere di giochetti», e piano piano si affievolì.
Dopo un po' sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla, mentre io ero troppo impegnato ad afflosciarmi sul bancone, con la testa tra le mani. Mi asciugai la faccia, ma i miei capelli continuavano a gocciolare. In quel bicchiere probabilmente c'era l'intero Oceano Pacifico. «Sei proprio disperato, eh?», riconobbi la voce di Niall, mentre tutti i neuroni mi abbandonavano.
«Mi manca da morire», riuscii a dire. 
 
--- liam's point of view.
 
Non avevo mai visto Harry in quello stato; per me era la prima volta da quando lo conoscevo.
Ero in pena per lui, e mi maledivo per non essere capace di comprenderlo e consolarlo, anche se sapevo benissimo di non poter fare nulla. 
Se non poteva riuscirci Louis, figuriamoci cosa avrei potuto risolvere io.
Sapevo che lui aveva bisogno di lei, ed avevo constatato che anche lei aveva bisogno di lui allo stesso modo, forse anche di più. 
Dalla giornata al parco, ero diventato per Liz una sorta di punto di riferimento. Un amico, qualcuno con cui potersi confidare, ed io non potevo esserne più felice.
Lei e Harry erano due persone meravigliose, perfetti per stare insieme, ed era orribile per me vederli in quello stato, per me che mi sentivo come una sorta di mediatore nella loro 'relazione'.
Lizzie mi parlava di lui quasi ventiquattro ore su ventiquattro, lui si era ridotto ad ubriacarsi per dimenticarla.
Ed io non volevo che tutto finisse così male. Mancavano ancora un po' di giorni prima della fine della sua vacanza a Londra - impossibile dimenticarlo, aggiornava il conto alla rovescia ogni volta che scoccava la mezzanotte - e volevo che ci fosse un lieto fine, anche se arrivati a quel punto era difficile crederci ancora.
Eppure mi sentivo ancora in grado di poter fare qualcosa per loro. 
Radunai i ragazzi e chiamai Niall che se ne stava accanto a Harry, immobile, a guardarlo consumarsi il cervello con i vari cocktail, dicendogli ogni volta di smetterla ma non ottenendo mai una risposta o una reazione diversa da quella di prendere il bicchiere e scolarlo in un sorso. 
«Visto che lei è l'unica che può farlo stare bene, cosa ne dite di portarle il cadavere in camera?», proposi.
Zayn scoppiò a ridere come un idiota, poi accettò con entusiasmo.
«Lei potrebbe lanciarlo dalla finestra», disse Louis. Di certo Harry non ci era andato piano con le distrazioni.
«Proviamoci. Nel peggiore dei casi incaricheremo Niall di prenderlo al volo», feci spallucce.
Tutti e tre si guardarono, poi si strinsero nelle spalle. «Peggio di così non può andare», disse Nialler.
Spostai lo sguardo su Harry, che aveva quasi la faccia spiaccicata sul bancone. Non era certo la migliore delle visioni. 
Zayn si avvicinò velocemente a lui, afferrandolo per bene e cercando di sollevarlo, mentre Louis si accingeva a pagare i quindici alcolici che Harry aveva bevuto.
Sgranai gli occhi appena seppi il numero, ma riuscii ad avere i riflessi abbastanza pronti da afferrare il mio amico ubriaco che stava per crollare dalle braccia di Zayn. 
I suoi sessantacinque chili erano diventati centotrenta. 
A quel punto, cominciammo a trascinarlo a fatica verso l'uscita, poi tenemmo il passo di Louis che si stava dirigendo alla sua auto.
Niall ci seguiva.
 
 
Appena giungemmo davanti alla sua porta, ci bloccammo tutti, quasi come se stessimo portando il nostro amico al patibolo.
Harry cominciò a lamentarsi di nuovo, come aveva fatto per quasi tutta la durata del tragitto verso l'hotel. Forse aveva le allucinazioni, boh.
«Che aspettate?! Bussate!», sibilai. 
Louis allungò il braccio e diede due colpi secchi.
Dopo qualche minuto, durante i quali Harry sembrò diventare ancora più pesante - se possibile -, Lizzie venne ad aprire.
Aveva il suo solito pigiama con i cagnolini, e la sua espressione era totalmente distrutta. Accostò un po' la porta per evitare di farsi vedere in quello stato, poi vidi il suo viso cambiare colore.
Le guance le si infiammarono e si morse il labbro inferiore. 
Forse fui l'unico che notò i suoi occhi riempirsi di lacrime.
«Cos'è successo?», fece, la voce rotta.
«E'..», cominciò Niall. «ubriaco marcio». 
Lei spostò lo sguardo da Harry a me. «Se solo potessi tirarlo su di morale, Liz», la pregai. 
Lei scosse la testa, prima che finissi di parlare. «Hai sbagliato stanza, Liam».
«Ti prego, sei l'unica che può farlo stare meglio».
Abbassò lo sguardo. «Non è più affar mio. L'ho lasciato andare e può fare della sua vita ciò che vuole».
«Tutto ciò che vuole sei tu», intervenne Louis.
In quel momento capii dalla sua espressione che il suo stomaco stava compiendo i salti mortali e la gola le bruciava talmente tanto da poter andare a fuoco. Stava trattenendo le lacrime con tutta se stessa.
E quando mi sembrava che non ci fosse più speranza, spalancò la porta e ci fece entrare.
Io e Zayn adagiammo Harry sul divano, mentre lei ci seguiva con lo sguardo e lui dava un tono alla situazione con un lamento e qualche parola senza senso.
Tutto si svolse nel silenzio più assoluto, pieno di tensione. «Grazie», sussurrai alla mia amica prima di andare via. 
Lei mi rivolse uno sguardo che lasciava tutto intendere.
Sapevo che stava sperando in un chiarimento con Harry da ben due giorni, ed io l'avevo accontentata. «Prenditi cura di lui», aggiunsi, e sparii nel corridoio.



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devo scappaaare! lol 
è un capitolo bello lungo e mi piace un po' di più rispetto agli altri :3
ringrazio tutte le persone che hanno recensito, quelle che tengono la storia tra le seguite, tra le ricordate o addirittura nelle preferite.
ringrazio anche coloro che mi tengono tra gli autori preferiti. siete fantastiche <3 non avete idea di quanto i vostri pareri siano importanti per me. 
grazie ancora.

p.s. il prossimo capitolo sarà ancora più lungo e.e e, piccolo spoiler, il titolo sarà 'give me love'.
bacione! clà.

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Capitolo 18
*** give me love. ***






Alla mia piccola Ells.

 

give me love.




all i want is the taste that your lips allow.

 

Il tempo sembrava non passare mai, sebbene non sapessi con certezza cosa stavo aspettando. 
Me ne stavo seduta su una poltroncina a guardarlo dormire, con le gambe vicine al petto e il mento poggiato sulle ginocchia. 
Era bellissimo. I ricci ormai erano una massa informe premuta contro il cuscino, la bocca semiaperta e gli occhi chiusi rendevano innocente il suo viso stanco. Ogni tanto si voltava verso di me e borbottava qualcosa di insensato, facendomi sobbalzare; altre volte cominciava a russare e poi smetteva di colpo, così come aveva iniziato. 
Ormai dormiva da quattro ore, ed io ero sveglia, con gli occhi brucianti sia per le lacrime che per le ore di sonno perse. Ma non riuscivo a dormire, troppo presa dai miei pensieri contorti.
Non sapevo se considerare quel momento positivo o negativo. Insomma, credevo che non lo avrei visto più, quindi da un lato era classificabile in modo positivo, ma dall'altro avrei preferito dimenticarlo, dopo tutto quello che mi aveva fatto. 
Poi mi chiesi perchè non mi soffermavo su quello che io avevo fatto a lui. 
L'avevo illuso. L'avevo respinto dopo un bacio che sembrava aver mutato tutto in un'altra prospettiva. L'avevo fatto star male, e lui aveva ricambiato. Lo meritavo, no? Un po' sì. 
Eppure, nonostantante questo, non smettevo di pensare che il suo rifiugiarsi nel letto di un'altra fosse stato soltanto un gigantesco errore, molto più grande del mio.
Eppure, nonostante tutti quei ragionamenti, che avevo varato più e più volte, sapevo che l'avrei perdonato in un attimo di ciglia, se lui avesse voluto tornare da me. 
A quel punto tutte le decisioni spettavano a me. La partenza, ciò che ci sarebbe stato dopo, come mi sarei sentita io, come si sarebbe sentito lui. Ciò di cui ero certa era il terzo punto, perchè ero certa che mi sarei sentita morire dentro.
All'istante mi si formò un groppo in gola, che cercai di ignorare con scarso successo. Mi appoggiai allo schienale della poltrona e portai una mano al petto, sbattendo violentemente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, ma tutto quello che avevamo passato insieme, sebbene fosse soltanto una settimana o poco più, mi passava davanti agli occhi come dei flash confusi.
Quanto avrei voluto che tutto fosse più facile. Quanto avrei voluto eliminare tutti i pensieri dalla mia testa e vivere così, anima e cuore. 
Anima, cuore e lui.
Per un terribile istante desiderai rinnegare tutta la mia vita. Tutti i momenti finti che avevo passato con la mia famiglia e soprattutto con mio padre. Tutte le lacrime versate, tutti i problemi, tutte le volte che mi ero sentita una completà nullità. Tutte le volte in cui avevo dato l'impressione di essere una causa persa, una depressa, una persona incapace di sorridere e di amare.
Tutte le volte che mi ero sentita sola e persa, ignorata e considerata sempre la seconda scelta di tutti. 
Avrei voluto cancellare tutto e far ripartire tutto da quell'istante, tutto da capo, in modo da non sentirmi all'imbocco di un bivio, o in bilico su un precipizio.
Ma ero consapevole che non sarebbe mai successo. 
A quel punto mi sfuggì una lacrima, e io mi alzai dalla poltrona con uno scatto, allontanandomi da lui. 
Dirigendomi nell'altra stanza, lo sguardo cadde sul calendario, fiocamente illuminato dalla luce della lampada. Era il 23 agosto, alias nono giorno della mia vacanza. Restavano solo cinque giorni.
«Vaffanculo», mormorai, con la voce rotta, asciugandomi bruscamente gli occhi con il palmo della mano.
Crollai sul divano, recuperando il telecomando dal tavolino e accendendo il televisore. Abbassai il volume, finchè fu quasi impossibile anche per me ascoltare ciò che dicevano gli opinionisti del programma. Ovviamente, avevo beccato una replica. 
Di certo non potevo aspettarmi altro alle cinque del mattino. 
Cercai di aprire bene gli occhi e di seguire la discussione, ma mi ritrovai a fissare il vuoto.
 
 
All'improvviso sentii un rumore proveniente dalla mia destra, come qualcosa che sfregava continuamente contro una superficie. Pochi secondi dopo associai quel suono alla vibrazione di un cellulare.
A fatica, aprii gli occhi e visualizzai il mio Nokia illuminarsi a intermittenza. Con lentezza estenuante allungai un braccio verso il tavolino e lo afferrai, ma nel momento in cui lo avvicinai al viso, sulla schermata potei leggere '1 chiamata persa'.
E c'era anche un messaggio non letto. 
Dovetti sbattere le palpebre per un po', in modo da abituarmi alla luce accecante del display. 
Mi venne naturale vedere l'orario, che segnava le 6.45. Non c'è che dire, avevo dormito tantissimo, pensai sarcastica. Feci una smorfia, poi cliccai sul tasto centrale per visualizzare il mittente della chiamata.
Chi altri poteva essere se non Liam? Anche il messaggio era suo. Recitava: "come sta?"
Cliccai sul tasto rispondi, velocemente, in modo che non partisse un'altra chiamata. "Dorme e si lamenta. Che tortura", scrissi, riflettendo sulle ultime due parole. Già, era una tortura averlo nella stanza accanto e non avere la possibilità di stringerlo forte. 
Dopo tre secondi, ecco la risposta. "Se si comporta da imbecille, chiamami pure", sorrisi stanca, mentre gli occhi punzecchiavano e bruciavano. 
"Allora tieniti pronto"
Mentre aspettavo la risposta, guardai fuori. La luce cominciava a fare capolino tra le solite nuvole di Londra, qualche auto contribuiva a rendere tutto un po' più vivo. Tutto si rischiarava, tutto tranne i miei pensieri, dei quali non riuscivo a trovare quello giusto.
Il cellulare vibrò tra le mie mani e spostai lo sguardo sul display. "Sempre al suo servizio, Miss"
"Ecco, ora sei imbecille tanto quanto il tuo amichetto ubriaco"
Non aspettai che rispondesse, e inviai in fretta un altro messaggio. "Che faccio?"
Non che avessi bisogno di consigli, di altre idee per arrivare alla soluzione. 
Avevo due pensieri fissi: abbandonare - come stavo tentando di fare - o rischiare. Avevo solo bisogno che qualcuno mi spronasse a sceglierne uno.
"Sai benissimo cosa fare".
E all'istante, nella mia testa, spuntò solo uno di quei pensieri. 
Era come lanciare una monetina in aria. Questa avrebbe dovuto scegliere al posto di chi l'aveva lanciata, visto che questa persona proprio non riusciva a decidersi. Così, si affidava alla sorte.
In realtà, la monetina era un'ottima consigliera. Niente sorte, niente fortuna, niente affidato al caso.
Nel momento in cui essa volteggiava in aria, la persona eternamente indecisa avrebbe capito in cosa stava sperando. E quella sarebbe stata la decisione definitiva, quella dettata dal cuore e dalla mente.
E così quella frase. Agli occhi di un'altra persona sarebbe risultata un pessimo aiuto, qualcosa che apriva una miriade di orizzonti diversi, che spingeva soltanto alla confusione massima. 
In realtà, mentre il mio sguardo scorreva sul display del cellulare e si soffermava su ogni singola lettera, nella mia testa era comparso un volto. Un solo desiderio, una sola scelta. 
Quasi senza volerlo, avevo avuto la soluzione all'enigma. 
"Potrò mai ringraziarti abbastanza?"
Aspettai una manciata di secondi, rileggendo l'ultimo messaggio che mi aveva inviato. Poi arrivò la sua splendida risposta. "Se riuscirai a rendere felice Harry, allora non sarai più in debito con me".
Ripensai alle video diary di XFactor, alle cazzate che avevano fatto, all'amicizia che avevano instaurato in uno stupido reality. Per alcune persone poteva essere qualcosa di pianificato, qualcosa di falso. 
Io, una semplice fan che ci credeva senza averne mai dubitato, ne stavo avendo la conferma. Erano fantastici; sarebbero stati capaci di sacrificarsi l'uno per l'altro.
"Che ragazza fortunata, eh? Sono ancora convinta di sognare. In realtà sono nella mia casa di Roma, sotto le coperte a dormire. Sicuro".
"I sogni più belli finiscono in un attimo. Se non ti sei ancora svegliata, allora puoi tranquillamente dire che questa è la realtà", e sorrisi.
"Prima o poi riuscirò a metabolizzare tutto questo, te lo prometto", scrissi.
Liam rispose subito. "No, ti prego! Non hai ancora metabolizzato e pensi troppo, figuriamoci il contrario".
Scoppiai a ridere. Il suono della mia risata, che liberazione. Era bello sentirlo. 
Proprio mentre digitavo la risposta, ancora con il sorriso sulle labbra, sentii un rumore provenire dall'altra stanza. 
Posai il cellulare sul divano, e appena vidi una sagoma enorme correre verso il bagno con una mano premuta sulla bocca, il mio cuore precipitò, sopprimendo i polmoni.
Respirando a fatica, mi immersi nel buio della camera da letto, camminando a tentoni, e mi avviai verso il bagno, dal quale provenivano rumori strozzati.
Con la mano tremante, accesi la luce. 
Harry era lì, inginocchiato e piegato sul water, mentre vomitava tutto quello che aveva bevuto poche ore prima. Vedevo solo i suoi capelli, e per il momento era meglio così. 
Per un attimo mi misi nei suoi panni, e immaginai che gli stesse scoppiando la testa. In tutta la mia vita, mi ero ubriacata solo una volta. Era successo a una delle feste di compleanno di un mio compagno di scuola, che aveva compiuto diciotto anni. Tutti prendevano un drink, e per non sentirmi messa in disparte o diversa dagli altri - come d'altronde mi ero sempre sentita - l'avevo fatto anche io, ingerendo circa nove superalcolici.
Dopo la sensazione orribile che mi aveva assalita dopo la sbornia, avevo deciso che alle feste avrei bevuto solo acqua. A quanto pareva, Harry non aveva ancora varato questa decisione. 
Appena smise di tossire, mi resi conto di essermi fermata sulla soglia del bagno. Mi avvicinai a lui, quasi correndo, e mi inginocchiai.
«Ehi», sussurrai, poggiando una mano sulla sua spalla e tirandolo all'indietro per vedere il suo volto. Fortunatamente collaborò, e alzò lo sguardo verso l'alto, cominciando a guardare il soffitto bianco. Illuminato dalla luce al neon del bagno, il suo viso sembrava ancora più pallido. 
«Dove sono?», bofonchiò, con la voce rauca e impastata. Poi guardò me, ma aveva gli occhi socchiusi e stanchi, e non riuscii a prendermi in quell'immensa distesa verde che erano le sue iridi. 
All'istante una sensazione fastidiosissima mi attanagliò lo stomaco. Mi resi conto che la sua voce mi era mancata da morire, e risentirla dopo due giorni interi mi faceva girare la testa.
«Sei nella mia camera d'albergo», gli risposi, ignorando gli effetti collaterali che lui stesso mi stava causando.
«E come ci sono arrivato?», domandò, a voce ancora più bassa. Poi si prese la testa fra le mani, e dopo qualche istante si piegò di nuovo sul water.
Mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento, cercando di ignorare le farfalle che svolazzavano agitate nel mio stomaco. La luce accecante, le pareti e le mattonelle bianche, mi davano l'impressione di trovarmi in un'ospedale. Anche la maglietta che indossava era bianca.
«Sono stati i ragazzi a portarti qui», gli dissi, sebbene sapessi che non mi stava ascoltando, troppo impegnato a liberarsi delle schifezze che aveva bevuto.
Attesi un istante. «Va tutto bene?», gli sfiorai il braccio, ma lui respinse la mia mano con un gesto brusco.
«Vai via di qui», biascicò, ricominciando a tossire. Tenni lo sguardo fisso sulle due collanine che gli penzolavano dal collo. «Per favore», aggiunse.
Mi alzai, dirigendomi in soggiorno e riempiendo d'acqua un bicchiere di plastica. Poi, pensandoci su, presi la bottiglia e portai anche quella con me. In meno di un minuto, ritornai da lui. 
Non me ne sarei andata di lì, neanche se mi avessero costretta con la forza. 
Non sapevo perchè. In fondo, non era bellissimo assistere ad una scena del genere, ma sentivo l'irrazionale bisogno di stargli accanto, di aiutarlo. 
«Ti ho portato dell'acqua». Posai la bottiglia sul pavimento, sedendomi di nuovo a gambe incrociate. E aspettai che mi degnasse della sua attenzione.
Si voltò lentamente verso di me, guardandomi di sottecchi. Sbuffò, ma non sembrava infastidito. 
Se lo fosse stato l'avrei cacciato a calci dalla mia camera.
«Grazie», borbottò, prendendo il bicchiere dalle mie mani. Probabilmente la visione che stava avendo di me era quella di una ragazza tranquilla, per niente in ansia. In realtà avevo il cuore che stava per scoppiare e il respiro affannoso, ma ci avevo fatto l'abitudine. Niente che non potessi sopportare, insomma.
Bevve fino all'ultima goccia, poi lo riempii di nuovo. Glielo porsi. 
Lui mi guardò come se fossi pazza. «Non sono un cammello», brontolò. 
«Bevi e taci», dissi. «La prossima volta ci penserai due volte prima di affogare i tuoi dispiaceri nell'alcool». Stavo appena ripensando al fatto che la sua pelle aveva incontrato quella di qualcun altro, che i suoi occhi avevano fissato degli occhi color ghiaccio e le sue labbra avevano baciato quelle rifatte di Megan. Cose di poco conto, pensai sarcastica.
Alla fine si arrese, e scolò in un unico sorso il secondo bicchiere d'acqua. Allungai un braccio verso l'asciugamano e gliela porsi perchè si asciugasse il sudore. Tutto avvenne nel completo silenzio.
«Come ti senti?», chiesi, addolcendo il tono della voce, sebbene sentissi un macigno sul petto e avessi voluto soltanto schiaffeggiarlo.
«Uno straccio», fece. «Mi scoppia la testa». Immaginavo.
«Ti va di fare una passeggiata?», domandai. Lui si alzò di scatto e tirò lo sciacquone.
Alzai lo sguardo. Era altissimo.
Con mia sorpresa, mi offrì la mano per alzarmi. La afferrai, tirandomi su, poi cercò il mio sguardo. «Perchè?», mi rispose con un'altra domanda.
«E' per farti sentire meglio. Di solito aiuta». Stare di nuovo così vicina a lui era surreale, ed era terribile per me scoprire che nulla era cambiato. Sentii le mie guance colorarsi.
«No, non intendo questo», replicò. «Perchè fai tutto questo per me?», mi chiese, sinceramente curioso di sapere la risposta.
I miei neuroni partirono alla disperata ricerca di qualcosa da dire, qualcosa che non fosse una bugia ma nemmeno la verità. 
Ma i suoi occhi che mi scrutavano rendevano il compito ancora più difficile, ed io quasi non riuscivo a sostenere il suo sguardo. 
Era assurdo come una persona che conoscevo da pochissimo fosse stata capace di ritagliarsi un angolino dentro di me. Mi erano mancate le piccole cose, come la sua voce, i suoi ricci, la sua pelle morbida, le sue labbra muoversi mentre parlava, il modo in cui mi guardava, le sue domande che mi mettevano terribilmente a disagio, la sua capacità di guardarmi dentro...
«Perchè mi sei mancato da morire», e nello stesso istante in cui pronunciai quelle parole, mi chiesi se le avevo dette davvero. 
Vidi il suo sguardo cambiare, i muscoli del viso rilassarsi, e sentii il mio cuore battere più forte del solito.
Mi morsi il labbro inferiore e feci qualche passo indietro. «Andiamo», farfugliai con lo sguardo basso, voltandomi e uscendo dal bagno, dirigendomi poi a grandi passi verso la porta d'entrata. 
Harry spuntò nella stanza, e mi guardò, sogghignando. «Hai intenzione di uscire conciata così?», sul suo volto spuntò uno dei suoi sorrisi mozzafiato.
Rossa in viso, mi guardai. Ero in ciabatte e in pigiama, quello solito con i cagnolini, quello infantile e ridicolo. Non poteva andare peggio. 
Incrociai lo sguardo di Styles e desiderai sparire all'istante.
Ritornai indietro, facendo uno slalom da campionessa per evitare di sfiorare lui, che se ne stava impalato a fissarmi, e chiusi la porta che separava la camera da letto dal soggiorno dietro di me. Feci un respiro profondo, cercando di calmare l'agitazione; avrei voluto mordermi la lingua. Se non avessi detto quella frase non sarei diventata così impacciata e patetica. 
Aprii la cassettiera, e presi la prima cosa che mi capitava a tiro e la indossai, pettinandomi poi i capelli furiosamente e legandoli in una coda disordinata. Lavai i denti e usai un po' di correttore per coprire le occhiaie. Avevo sonno, tantissimo, ma le ultime figure di merda mi avevano impedito di chiudere gli occhi e serrarli per le prossime dodici ore.
Ritornai da lui con lo sguardo basso, avviandomi direttamente verso la porta e uscendo. Ricordavo tanto un toro.
Harry mi seguì, con il solito sorrisetto strafottente sulle labbra.
«Incredibile», bofonchiai, tra me e me.
Mi sentì, ovviamente. «Cosa?»
«Che tu abbia la forza di deridermi anche con l'emicrania».
«Sono indistruttibile», fece. Scossi la testa, stropicciandomi gli occhi. Uscimmo dall'albergo in silenzio, e sbucammo in giardino subito dopo aver sceso le scale dell'edificio. La luce era ancora fioca, dopotutto erano appena le sette e un quarto passate, ma le auto cominciavano già a fare il solito chiasso. Dopo un po' guardai Harry: non indossava gli occhiali da sole. 
Ma feci spallucce. Un'altra foto, dopo tutte quelle che erano uscite su di noi, non mi avrebbe uccisa.
Camminavamo in silenzio, l'uno accanto all'altra. Lui calciava tutti i sassolini che incontrava, io tenevo lo sguardo basso.
«Va un po' meglio?», gli chiesi, dopo alcuni minuti. La sua voce, la sua voce. Già mi mancava. Era come una dipendenza.
«Sì», fece, socchiudendo gli occhi per guardare il sole. «E tu come stai?»
Lo guardai. «Perchè me lo chiedi?», risposi, esistante.
«Sembri stanca..», fece, ma non ero sicura che fosse quello il vero motivo.
Mi schiarii la voce. «Ho dormito pochissimo stanotte», risposi. Ma non volevo esattamente dirgli che non avevo chiuso occhio per guardarlo dormire. Era stata una delle cose più belle che mi fossero mai capitate; solo a pensarci mi si formava un groppo in gola.
«Se è stato per causa mia, mi dispiace», si scusò. 
«Non è colpa tua», risposi subito, guardandolo e sorridendogli per un istante.
Ebbi la sensazione che fosse sul punto di dire altro ed io ero decisamente troppo a disagio. «Possiamo tornare in albergo, hai bisogno di riposarti», si preoccupò. La tenerezza di quel ragazzo era quasi pari alla facilità con cui abbordava le ragazze. Di certo non ci aveva messo molto per conquistare Megan. Chissà se si erano scambiati i numeri, chissà se lei lo aveva cercato dopo quell'episodio...
«Sicur...»
«Va molto meglio, davvero», assicurò.
Aggrottai le sopracciglia. «D'accordo». Facemmo retro front e percorremmo la stessa strada di prima, di nuovo immersi in un silenzio imbarazzante. Io guardavo le auto che passavano, lui era perso tra i suoi pensieri. Guardai l'orologio, non erano neanche le otto.
Entrammo di nuovo nell'edificio, attraversammo la hall e mi lasciò avanzare per prima.
Stavo per impazzire. Cercavo qualcosa da dire, ma scartavo tutte le idee all'istante perchè mi sembravano stupide. Lui non si preoccupava di intavolare una conversazione e quel silenzio era diventato assordante.
Fortunatamente, arrivammo in breve tempo davanti alla porta della mia camera. Inserii la chiave nella toppa e girai, agitata dalla sua presenza. Ormai la mia vita sembrava essere fatta di deja vù. Ricordavo come fosse stato ieri quella serata. Io entravo in camera e lui non sapeva se fare lo stesso oppure no. Era in corso un temporale a Londra, e c'era stato un blackout. 
Avevamo ballato sulle note di una canzone, gli avevo lanciato un cuscino ed ero scappata via, per poi svegliarmi il mattino seguente tra le coperte insieme a lui. Il mio stomaco protestò con un'orribile sensazione di vuoto.
Intanto Harry era ancora bloccato sulla soglia, con una mano dietro la nuca. «Ti lascio riposare», disse. «E grazie di avermi accudito stanotte», accompagnò la frase con un sorriso. 
Spalancai la porta, quasi addolcendomi, sebbene il pensiero di Megan fosse ancora stampato nella mia mente. «Ti va di farmi compagnia?», gli chiesi, tirando un respiro profondo.
Lui rimase interdetto, sorpreso. «Ehm.. Sì, certo. Mi farebbe piacere».
Da dove arrivava tutta quella formalità e quell'imbarazzo? Se così poteva essere chiamato, ovvio. Mi stupivo del fatto che Harry potesse sentirsi in imbarazzo.
Entrò esitante, ed io chiusi la porta dietro di lui. La stanza era ancora nella penombra, a causa delle tende chiuse. Vidi il cellulare, che avevo lasciato sul divano, con il display ancora illuminato, e corsi a recuperarlo. 
«Sarebbe meglio avvisare i ragazzi che sei ancora vivo», feci, con una risata nervosa. L'ansia che mi attanagliava quando ero con lui era onnipresente.
Non avendo una risposta, mi voltai verso di lui, e lo vidi immobile, con le mani nelle tasche dei pantaloni. E mi fissava. 
Il mio sorriso scomparve, rimpiazzato dalla paura.
Il suo sguardo era in grado di uccidermi. Poteva essere un'esagerazione ma era proprio così che lo percepivo. La sua arma, così come il suo sorriso. Erano i miei punti deboli, e non potevo cambiare le cose. Con un suo sorriso mi sentivo in paradiso.
Cercai di fuggire da quegli occhi verdi, e gli passai accanto, farfugliando un 'ti prendo un po' d'acqua', ma lui mi afferrò un braccio, costringendomi a fermarmi e a voltarmi. Mi ritrovai faccia a faccia con il suo petto. 
Sentii la sua mano sotto il mio mento che tentava di farmi alzare lo sguardo per incrociare il suo, e un calore molto familiare impossessarsi delle mie guance. 
«Non so davvero cosa tu abbia pensato ieri mattina, ma qualunque cosa ti sia passata per la mente, dimenticala. Non mi importa nulla di Megan, nulla. E sono stato un idiota a fare quello che ho fatto, ma credevo che ormai non potessi fare più nulla per averti», disse. «Prendimi pure a schiaffi, me lo merito».
La mia mano partì in quarta, quasi come se non fossi stata io a darle il comando. Sentii il rumore sonoro del mio palmo contro la sua guancia, e vidi il suo viso spostarsi verso sinistra, sotto il peso del colpo. 
Il mio sguardo era fisso sul suo volto, e avevo le labbra serrate e tremanti. Le lacrime erano pronte a scendere, ma stavo cercando con tutta me stessa di trattenerle.
Si voltò verso di me, guardandomi intensamente negli occhi. «Mi dispiace. Mi dispiace di averti abbandonata». E a quel punto non riuscii più a controllarmi. Appena vide le mie lacrime, le asciugò con le dita, prendendomi il viso tra le mani. 
Abbassai la testa, sfuggendo alla sua presa. Odiavo piangere. Odiavo che le persone mi vedessero in quello stato, vulnerabile, indifesa, piccola e insignificante. 
«Sei l'unica cosa di cui mi importa in questo momento, credimi quando lo dico. Se solo tu potessi perdonarmi...»
«Sei un idiota!», sbottai, piangendo e singhiozzando. La mia visuale era appannata dalle lacrime. «Come puoi pensare che io non ti abbia ancora perdonato?»
Sentivo le sue mani sul mio viso bagnato, poi all'improvviso fui avvolta dalle sue braccia. 
Mi lasciai cullare, mentre le mie lacrime pian piano si esaurivano sulla sua maglietta, pensando che quello era uno dei pochi abbracci che avevo ricevuto. Ed era spontaneo e improvviso.
Erano così belli gli abbracci. Mi sentivo protetta.
«Mi dispiace, mi dispiace», continuò a dirmi.
Sospirai. «Stai zitto», farfugliai, con la testa premuta contro il suo petto.
Sentivo i suoi baci suoi capelli, le sue mani enormi accarezzarmi la nuca. Sarei rimasta in quella posizione per sempre, con il mio corpo a contatto con il suo, le sue braccia forti che mi stringevano.
Ma mi allontanai. 
Lo guardai negli occhi, stavolta più facilmente. La luce entrava fioca nella stanza, ma il suo viso era immerso nel buio. I suoi occhi verdi non mi confondevano.
«Sorridimi», gli chiesi.
«Perchè?», domandò, obbedendo quasi senza volerlo. 
Le sue labbra si allargarono e piegarono all'insù, e il suo sorriso perfetto mi fece sentire in pace. Eccolo, il mio paradiso.
Poi si avvicinò a me, lentamente, come se temesse una mia reazione negativa. Ero immobile tra le sue braccia, le sue labbra si avvicinavano alle mie e le mie alle sue. Chiusi gli occhi, godendo a pieno del contatto. 
Mi sentivo a tre metri da terra, come se tutto quello che mi circondava non esistesse e non fosse mai esistito.
C'eravamo solo io e lui, solo io e Harry, solo le nostre labbra che si muovevano e si cercavano come in un circolo vizioso. Era un bacio diverso, era voluto, desiderato.
Mi strinse ancora più forte, facendo aderire il mio corpo al suo. Sentivo la sua mano sulla mia schiena, l'altro braccio che mi stringeva all'altezza delle spalle, la sua bocca che danzava insieme alle mie labbra e la sua lingua giocare con la mia.
Cominciò a muoversi all'indietro, ed io lo seguii. Alla fine, dopo aver urtato il tavolino e persino la porta, ci ritrovammo nella camera da letto. 
Appena me ne resi conto, il mio respiro si fece affannoso, ma non riuscivo a fare nient'altro che baciarlo. Il sapore delle sue labbra era delizioso.
Mi fece stendere delicatamente sul letto, poi si spostò nell'incavo del mio collo e cominciò a torturarlo. 
Sentivo il suo corpo sul mio, ma anche le sue braccia fare forza sul letto per evitare che il peso gravasse troppo su di me. Infilai le mani tra i suoi capelli e cercai la sua bocca, già in astinenza.
C'era il silenzio assoluto, rotto soltanto dai nostri respiri accelerati e dal movimento lento dei nostri corpi.
Tentai di mettermi in ginocchio, e lui fece lo stesso. In quel modo, potei afferrare i lembi della sua maglietta a mezze maniche e farla sparire in un attimo. Harry lanciò la mia sul pavimento della stanza; il resto dei nostri vestiti finì in bilico ai lati del letto. 
Ci ritrovammo così, l'uno di fronte all'altra, nella penombra della mia camera d'albergo, nudi, vestiti solo delle nostre emozioni.
Mi strinse a sè, facendo scivolare la sua mano tremante sulla mia schiena. Sentii i brividi attraversarmi da capo a piedi. 
Mi avvicinai al suo orecchio, lasciandomi cullare dal suo cuore che batteva contro il mio petto. «Ti amo», sussurrai.




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Okay, questo capitolo è più lungo della Bibbia. Spero non vi abbia annoiate, dico davvero °-°
Ci ho messo l'intera giornata per scriverlo, e ci tengo davvero tantissimo che venga apprezzato. Ormai Harry e Lizzie sono parte di me, non so se riuscite a capire. Cioè, sono miei amici. Sento di conoscerli, sono i MIEI personaggi e li adoro da morire, singolarmente e ancora di più insieme. 
Mi emoziono insieme a loro, mi sento partecipe della loro storia. Spero che sia così anche per voi.
Comunque, vorrei ringraziare le persone che hanno messo questa storia nelle seguite, preferite o ricordate, le persone che mi tengono fra gli autori preferiti (jnhlkjfgfh) e quelle che ovviamente recensiscono questa storia. Sappiate che le vostre recensioni mi fanno sclerare maledettamente AHAHAHAHAHA mi gaso troppo, amo leggerle e sapere cosa ne pensate.
Btw, vorrei ringraziare la mia amica Mary, come sempre, che sclera per questa storia e per la coppia Hazzie (?) AHAHAHAHAH e poi la mia piccola ells, a cui ho dedicato questo capitolo.
GRAZIE A CHI HA LETTO TUTTO QUESTO PAPIRO. VI AMO. <3

 

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Capitolo 19
*** midnight starlight. ***





midnight starlight.




Non mi era mai piaciuto dovermi svegliare al mattino. Di solito c'era scuola, e di conseguenza la solita ansia dovuta alle possibili interrogazioni e agli sguardi dei miei compagni che sembravano ogni volta volermi giudicare. 
In realtà, non mi era mai piaciuto lasciare i sogni che la mia testa aveva generato - forse - dal nulla, durante la nottata. Era così bello rifugiarsi lì, avere un posto in cui giudicare era una parola sconosciuta, un posto in cui tutto quello che volevo era a un palmo dal mio naso, un posto in cui, soprattutto, quello che volevo potevo ottenerlo. 
Ma quella volta, quella volta era diverso.
In primo luogo, dal colore dei raggi del sole che entravano dalla finestra, potevo dedurre che era pomeriggio, forse le cinque; in secondo luogo, non c'era scuola, non c'erano compagni, e non ero costretta ad abbandonare nessun sogno.
Forse perchè questo si era trasformato in realtà, o viceversa. Non l'avevo ancora capito.
Sentivo il fruscio delle lenzuola causato dalle mie gambe che si muovevano inconsciamente; il tessuto caldo ma allo stesso tempo leggero, a contatto con la mia pelle nuda. 
Ero magicamente avvolta in una nuvola morbida - fin troppo da poter creare la sensazione di volermi alzare da quel letto - e fissavo il quadrato di luce che si era formato sul pavimento della stanza. 
Nello stesso tempo, visualizzai una maglietta bianca distesa per terra in malo modo, accanto al comodino. 
Appena la mia mente ricapitolò ciò che era successo prima che mi addormentassi, sentii il cuore cominciare a zoppicare e la quiete che avevo dentro trasformarsi in un'emozione difficile da decifrare. Era un misto tra ansia, meraviglia e felicità, qualcosa che non avevo mai provato prima e che per questo motivo non sapevo gestire.
Ripercorsi tutte le tappe di quella mattinata, e sentii le mie guance infuocarsi. Anche se per un po' di tempo mi ero sentita a disagio, non potevo non considerare quel momento assurdamente meraviglioso. 
Proprio mentre provavo a calmare i battiti, sentii la porta aprirsi. Chiusi gli occhi, quasi a volerli serrare, nel momento in cui il cuore disubbidiva e cominciava ad accelerare.
«Sei sveglia?», sentii il sussurro caldo di Harry, e poi una voragine inghiottirmi lo stomaco.
Sbattei le palpebre, dopo essermi accecata a causa del sole che stava calando inesorabilmente.
Mi voltai verso di lui, combattendo l'istinto di girarmi nuovamente per l'imbarazzo appena vidi che indossava solo i pantaloni a vita estremamente bassa. Oltretutto, le immagini che mi passavano davanti agli occhi riguardanti ciò che era successo tra noi poche ore prima non mi aiutavano.
Il suo sorriso era meraviglioso, e le fossette che erano comparse sulle sue guance erano la cosa più dolce che potesse esistere. 
Sentii le mie labbra piegarsi all'insù, involontariamente, forse per il nervosismo, forse perchè era tutto troppo bello per essere vero. 
Mi rigirai tra le lenzuola, facendo attenzione a coprirmi. Lui si avvicinò al letto e poggiò un ginocchio sul materasso, per poi avvicinarsi a me gattonando. 
Vidi il suo viso farsi sempre più vicino al mio, e sentii il cuore sempre più vicino alla distruzione.
Le mie guance erano ancora in fiamme.
Chiusi gli occhi appena fui in grado di vedere nient'altro che i suoi occhi verdi puntati nei miei, poi sentii le sue labbra sfiorarmi.
Sapevano di caffè. 
Si mosse su di me, afferrandomi saldamente per le spalle e continuando a baciarmi. Non sapevo dove fosse finito il mio stomaco, nè che fine avrebbe potuto fare quel povero muscolo che batteva all'impazzata nel mio petto. 
Mi allontanai dalle sue labbra appena sentii il mio respiro farsi affannoso, e mi aggrappai a lui, avvolgendo le mie braccia dietro il suo collo. 
Lo tirai verso di me, inspirando quanta più aria possibile.
Il battito era amplificato a causa dei nostri corpi a contatto, e sembrava che il cuore volesse uscirmi dal petto per bussare alle porte del suo.
«Che bel risveglio», boccheggiai. Concentrai la mia attenzione sulle sue labbra premute sul mio collo. Infilai la mano destra nei suoi capelli, in attesa che si liberasse dalla presa per guardarmi.
Lo fece dopo qualche secondo. 
Sul mio viso spuntò un sorriso a trentadue denti appena vidi il suo, accompagnato da due occhioni verdi e lucidi.
«Aaah», fece un lamento di disapprovazione, poi mi baciò fugacemente, cogliendomi di nuovo alla sprovvista. «Devo andare».
«Dove?», fu la mia domanda spontanea. Gli accarezzai il volto con entrambe le mani, sfiorandogli poi le labbra con il pollice e cominciando a fissarle mentre parlava. Adoravo il modo il cui muoveva la bocca. 
«Ennesima intervista in radio», disse, ma non sembrava annoiato o altro. Era decisamente di buon'umore. 
Lo guardai negli occhi. Non avrei mai creduto di poterli vedere da vicino. Prima erano solo carta, solo un dettaglio sfocato e insignificante di un poster. E invece eccoli lì, brillanti più che mai. 
Il suo ciuffo ribelle mi toccò la fronte. «A che pensi?», mi domandò. 
«A niente», mormorai, riavvicinandomi alle sue labbra morbide per un castissimo bacio a stampo. Mi trattenni per qualche secondo, o forse di più, poi mi allontanai. Quando ci sfioravamo, il tempo e lo spazio sembravano qualcosa di assolutamente sconosciuto. «Prometti di tornare presto?».
Sapevo che una volta varcata quella porta ne avrei sentito all'istante la mancanza, come una droga. Ero già assuefatta.
«Appena termina la sessione radiofonica», sbuffò. «Sempre le stesse noiose domande», premette di nuovo la bocca sulla mia. 
«Con una bella risposta puoi renderle diverse», sorrisi, subito dopo essermi ripresa. 
Era così. I dettagli davano un sapore nuovo alle cose, una risposta poteva dare uno spunto per una nuova domanda, lui poteva dare nuova luce alle mie giornate, anche se pian piano sembravano farsi sempre più corte e il tempo pareva scorrere più velocemente di prima.
Con uno slancio si voltò verso la mia destra, e mi tirò con sé. 
Alla fine mi ritrovai su di lui, a pochi centimetri dal suo viso perfetto. Guardai i suoi occhi, poi le sue labbra, consapevole di avere le guance calde e rosse. 
Harry mi spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Perché ho dovuto aspettare così tanto per trovarti?»
Perché mancava così poco prima che tutto finisse?
Tracciai con la bocca il contorno della sua mandibola, poi mi nascosi nell'incavo del suo collo, respirando segretamente il suo profumo. Mi appoggiai sulla sua spalla, lasciando che mi stringesse forte. 
«Non voglio farti arrivare in ritardo all'appuntamento», sussurrai, giocherellando con le due collanine che portava al collo. 
Sentivo la sua mano enorme premuta sulla mia schiena. «Altri cinque minuti», disse, prima di baciarmi la fronte.
Con tutta la forza di volontà possibile, mi resi conto che la meravigliosa persona che avevo accanto a me, più vicina che mai, non poteva assolutamente arrivare cinque minuti più tardi. 
«Okay», feci, risoluta. Mi misi in ginocchio sul letto, staccandomi con difficoltà da lui e coprendomi con le lenzuola. Avevo la sensazione che fossimo due poli opposti: impossibile non essere attratti l'uno dall'altra. Le leggi della fisica lo confermavano.
«Alzati immediatamente e vai a vestirti, dai. I ragazzi ti staranno già aspettando». 
Lui con un sorriso sfacciato mi guardava, beatamente sdraiato e con entrambe le mani dietro la nuca. Poi con una spinta si alzò e si avvicinò a me, superandomi in altezza anche in ginocchio. 
Afferrò un pezzo di stoffa con il quale mi coprivo il seno e mi guardò con l'entusiasmo di un bambino che sta per commettere una stupidaggine pur sapendo di poter essere rimproverato. La luce aranciata del sole lo colpiva in pieno viso, e rendeva il sguardo ancor più magnetico.
Abbassai il viso, mordendomi il labbro inferiore e spingendolo via premendo una mano sul suo petto. «Sbrigati», sorrisi. 
Stavolta mi ascoltò e, dopo aver afferrato la sua maglietta che stava per cascare dal letto e averla infilata, si diresse nell'altra stanza.
Tirai un respiro profondo, eliminando tutta l'agitazione che si era accumulata in me negli ultimi venti secondi in cui ero rimasta a guardarlo come un'idiota, e lasciando che il mio cuore si calmasse.
Sentivo il suono potente del battito nelle orecchie.
«Ti ho preparato qualcosa da mangiare», disse un po' più forte per farsi sentire. Il famosissimo tè delle cinque!
O almeno così speravo. 
Nello stesso istante in cui ci pensai, il mio stomaco protestò con un brontolio. 
Raccattai con velocità estrema la mia biancheria intima sparsa per la stanza ed estrassi dalla cassettiera una tuta semplicissima.
Appena tornai da Harry, lo vidi armeggiare con il cellulare. «Scommetto che è Liam il rompiscatole».
«Louis», fece lui, stringendosi nelle spalle. Si avvicinò per baciarmi velocemente sulle labbra. 
«A dopo», sussurrai a un palmo dal suo viso. Mi sorrise come al suo solito, poi aprì la porta e la richiuse alle sue spalle.
La mia testa poté ragionare tranquillamente, e immaginai il mio stomaco esultare appena vidi una tazza di tè con dei pasticcini sul tavolo della cucina. 
Emisi un'esclamazione di gioia e saltellai come un'idiota verso la salvezza. Avevo saltato la colazione ed il pranzo. Una tazza di tè non era proprio il massimo per riempire la mia povera pancia, ma i pasticcini sembravano invitanti, soprattutto perchè Harry aveva pensato bene di prenderne alcuni ricoperti per metà con del cioccolato. Un po' fuori tradizione, ma per me andavano più che bene.
Afferrai il primo biscotto e lo addentai, nel momento in cui il cellulare mi avvisò che era arrivato un messaggio. 
Masticando con foga, lo presi dal divano su cui l'avevo lasciato e lessi l'sms.
"Mi manchi già. Preparati, stasera ti porto in un posticino speciale"
 
 
Me ne stavo nel giardinetto dell'albergo, avvolta nei miei jeans scuri e nella mia maglietta preferita. Non avevo optato per un'abbigliamento elegante, dato che non conoscevo il 'posticino speciale' in cui mi avrebbe portata. Speravo di andargli bene così, anche se non avevo dei tacchi alti dieci centimetri e indossavo le mie adorate converse nere.
All'istante la mia testa si chiese: 'perchè diavolo hai pensato una cosa simile?'
In fondo, fatto un resoconto della giornata, non potevo esitare sul suo conto. Mi aveva dimostrato già abbastanza. Mi aveva visto indossare un pigiama assolutamente ridicolo; non avrebbe di sicuro battuto ciglio. 
Dai Liz, la tua mente può farcela a formulare pensieri meno imbecilli, mi dissi.
Nello stesso momento, mi resi conto che mi ero abituata al nomignolo che mi aveva affibiato, e sorrisi.
Interruppi la mia impegnativa attività di scovare i sassolini tra l'erba per calciarli, e con lo sguardo lo cercai. Dopo un po' di tempo, lo vidi spuntare dietro l'angolo, da solo. 
Probabilmente i ragazzi erano già andati a casa. 
«Ehi!», dissi, correndogli incontro istintivamente. Il sole era quasi calato del tutto, e stava lasciando il posto alla luna.
Stavo correndo verso di lui, a dimostrazione del fatto che mi era mancato terribilmente.
Mi fermai a un metro da lui, con il fiatone. Più eravamo vicini più aumentava la voglia di annullare le distanze.
Attesi che allargasse le braccia, poi mi ci tuffai. Lui mi baciò i capelli. 
Era bello sapere che c'era un'altra persona al mondo per la quale ero importante così come questa era importante per me. 
«Dobbiamo cercare un taxi», mi disse. Mi allontanai per guardarlo negli occhi.
«Per andare...?»
Sorrise. «Lo scoprirai»
Alla fine capii che Londra era una città che non dormiva mai. I taxi giravano a tutte le ore, per compiere anche i viaggi più lunghi. Inoltre, la fama che aveva Harry riusciva ad addolcire chiunque tassista. 
Durante il tragitto non chiusi occhio neanche una volta, grazie alle ore di sonno di poco tempo prima. E poi non avrei voluto perdere neanche un istante del tempo passato con Harry.
Alla fine, dopo un'ora circa, durante la quale la luna aveva già compiuto un po' di percorso per arrivare nel punto più alto del cielo, il taxi si fermò nel bel mezzo dell'autostrada. 
Non riuscii a capire dove fossimo, anche perchè non avevo avuto la possibilità di sentire il nome della località che Harry aveva suggerito al tassista, così l'unica alternativa era scendere dall'auto.
«Vengo qui quando ho del tempo libero.», spiegò lui. «Trovo sia un posto perfetto».
La mia bocca era completamente spalancata a causa della meraviglia di quel luogo. Avrei voluto dire qualcosa, ma la salivazione era scesa a zero e il mio respiro era rallentato impercettibilmente. 
Sentivo una sensazione di pace dentro di me che non potevo descrivere a parole.
Il rumore delle onde che si infrangevano contro la parete rocciosa era debole, grazie al mare calmo. Mi avvicinai allo strapiombo con passi incerti, camminando sull'erba, presa dal luccichio che la luna produceva sull'acqua. Tra le nuvole riuscivo ad intravedere la luce delle stelle. 
«Io...», farfugliai.
Sentii le braccia di Harry avvolgermi da dietro e intrecciarsi sul mio stomaco. «Bello, vero?»
«Bello è riduttivo, davvero riduttivo», riuscii a dire, dopo qualche secondo di silenzio. Avevo sempre amato i luoghi di quel genere, quelli che con la loro estrema semplicità riuscivano a colpirti, quelli che erano talmente belli da star male, quelli che ti liberavano da tutti i pensieri sbagliati e malsani che viaggiavano nella mente.
I luoghi che ti suggerivano che la vita era meravigliosa. 
«Posso sapere cosa ti ha fatto cambiare idea?», mi chiese, continuando a stringermi. «Sembravi decisa a non lasciarti andare».
Non ebbi esitazioni. «Avrei perso qualcosa di meraviglioso», risposi. «Tutte le cose finiscono, secondo il nostro volere o non, ed è giusto aver paura di perdere ciò a cui teniamo», sussurrai, tenendo lo sguardo fisso verso la luna. «Quello che non è giusto è rinunciare a qualcosa che potrebbe essere la cosa migliore che ci sia mai capitata, assecondando questa paura. E tu lo sei, lo sei davvero. Non mi importa se tra cinque giorni ti perderò, se tra cinque giorni non potrò più abbracciarti, baciarti, sentire il profumo della tua pelle, o guardarti negli occhi. So per certo che ne sarà valsa la pena».
Sentii il suo cuore accelerare. Fece per dire qualcosa, ma rimase muto.
Premette le labbra sui miei capelli ed aumentò la stretta.



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Hello! Non posto da un mese, lo so, sono imperdonabile. Ma la scuola mi sta uccidendo sul serio, davvero non ho più tempo per fare nulla.
Comunque, lasciando da parte i miei drammi, ecco il capitolo.
Non l'ho riletto, non lo faccio mai. E non lo faccio perchè so che mi verrebbe voglia di cancellare tutto LOL.
E' un capitolo di passaggio, un po' da carie AHAHAHAH ma fa parte di me, scusate uu 
Nel prossimo ci sarà qualcosa che smuoverà la situazione, poi qualche altro capitolo e poi l'ultimo, quello conclusivo.
Sì, la storia è quasi finita :)

A proposito di questo, vorrei chiedervi una cosa: vi piacerebbe un capitolo extra su Chelsea e Zayn? :3

Cooomunque, grazie di tutte le recensioni. Cioè, all'ultimo capitolo sono arrivate a 21. VI RENDETE CONTO? VENTUNO. è un nuovo record AHAHAHAHA e poi siete tantissime ad avere questa storia tra le seguite o tre le preferite, siete meravigliose. GRAZIE GRAZIE.

p.s. ho in mente una nuova fan fiction e non fra molto la posterò . sarà incentrata su zayn e sarà un po'... strana lol la mia mente malata partorisce idee contorte e difficili da sviluppare, ma amo le sfide. spero mi seguirete anche lì c:

pps. non so se il posto che ho descritto alla fine esista davvero, e non so se i taxi viaggiano a tutte le ore ahahah usate l'immaginazione, yo.

Ancora GRAZIE, un bacio! <3 (firmatevi con il nick di twitter se recensite, così vi avviso quando posto :3)

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Capitolo 20
*** puzzle. ***





puzzle.


La certezza della fine di un'altra giornata mi assalì appena riaprii gli occhi, e l'ansia che mi attanagliò lo stomaco mi rese consapevole dell'inesorabile scorrere del tempo. 
Avevo le dita della mano destra intrappolate nella sua mano enorme e calda, e il mio viso era talmente vicino al suo, e il silenzio così forte che riuscivo a sentire chiaramente il suo respiro e i movimenti lenti del suo petto. 
Le sue labbra erano di un rosa opaco, e i capelli troppo lunghi gli ricadevano su una parte del viso, coprendogli un occhio. Sebbene dormisse, la sua presa era ben salda. 
«Buongiorno», sussurrai, anche se in quel momento sembrava ancora nel mondo dei sogni. Guardarlo e rendersi conto che era davvero mio era devastante. Una bella sensazione, che poteva regalarti di negativo solo il batticuore, ma devastante.
Era come se tutto fosse realmente possibile. Nessun limite esisteva per il momento, nessun gran numero di chilometri a separarci. Eravamo sotto lo stesso cielo, nella stessa stanza, vicini più che mai.
La mia mano cominciò a tremare nella sua, appena pensai che tra soli quattro giorni non avrei più visto il suo volto così poco distante dal mio, non avrei più visto i suoi occhi luccicare, o il suo sorriso capace di creare un varco dentro di me, capace di risucchiare qualsiasi cattiva sensazione.
Lo sentii prendere un respiro profondo, poi riaprì lentamente gli occhi indirizzandomi uno sguardo verde smeraldo.
«Ehi, buongiorno», disse con la voce impastata e rauca, piegando gli angoli della labbra all'insù e facendomi sentire la persona più fortunata dell'universo. Gli spostai il ciuffo ribelle dal viso. 
«Dormito bene?», gli chiesi. Lui per tutta risposta fece scivolare la mano sotto le lenzuola fino a poggiarla sul mio fianco. Mi tirò a sé, ed io mi avvicinai volentieri.
Sentivo il suo respiro caldo sul mio viso, i nostri nasi si sfioravano. «Ti ho sognata, sai?».
Sorrisi a pochi centimetri dalle sue labbra. «Ero più bella di come sono nella realtà?», chiesi a bassa voce, sicura che potesse sentirmi.
«Scherzi?», avvicinò la bocca alla mia. «Sei sempre bellissima». Sentirlo da lui, con quella voce sincera e calda era la cosa più bella che potesse accadermi. Chiusi gli occhi e restituii il bacio, mentre le farfalle svolazzavano allegre nel mio stomaco. La mia mente mi restituì un replay lentissimo dell'ultima frase, che mi rimbombò in testa per un paio di volte. E mi sentii all'altezza.
Mi accoccolai tra le sue braccia, godendomi quel calduccio così familiare e accogliente, sebbene fossimo in piena estate. Mi sentivo protetta, mentre le sue mani si intrecciavano dietro la mia schiena. 
Sentivo il buon profumo che emanava la sua pelle morbida. 
«Resterei così per sempre», mormorò lui. Allungai il collo per baciargli delicatamente la spalla.  «Prometti che sarà sempre così?»
Mi ammutolii all'istante e sentii come un pugno allo stomaco. Probabilmente Harry sentì il mio corpo irrigidirsi. «Non te ne andrai, vero?», chiese, con un tono che mescolava la speranza con l'angoscia. 
Fui assalita dalla nausea. 
«Non puoi andartene», continuò, come in un monologo. «Penseremo ad una soluzione, giusto?»
Non osavo fiatare, sia perchè avevo la salivazione azzerata, e sia perchè nelle mie parole non avrebbe trovato conforto. E sapevo che se avessi parlato, non ne sarei uscita incolume neanche io. 
«Guardami». Allentò la presa e si allontanò di poco per alzarmi il mento con una mano. Aveva gli occhi velati di preoccupazione, io probabilmente ero sul punto di piangere. 
Mi sentivo in catene.
«Non posso lasciare mia madre da sola», farfugliai. «Mi stai chiedendo di abbandonare la mia vita e lasciarmi tutto alle spalle».
«In realtà non pensavo di dovertelo chiedere», rispose freddo, facendomi sprofondare il cuore.
Deglutii. «Lo sai benissimo che se scegliessi di seguire il mio istinto resterei qui, con te, fino alla fine dei miei giorni. Ma la testa mi dice altro, e non riesco ad ignorarla...», confessai.
Non potevo lasciare la mia casa, non potevo sparire da un giorno all'altro, non avevo abbastanza soldi per permettermi di restare lì e non ero così insensibile da riuscire a dirlo a mia madre con una telefonata.
«Non importa», fece, allontanandosi bruscamente per alzarsi dal letto. Mi lasciò da sola tra le coperte, con un'orribile sensazione di vuoto e di freddo. 
Rimasi per qualche istante immobile, poi mi ripresi. «Che significa "non importa"? Credi che sia così facile, Harry? Ho passato tre quarti della vacanza a pensarci, e tu mi dici che non importa?!», il cuore batteva irregolarmente e gli occhi cominciavano a pungere.
«Credi che voglia ritornare in quella casa, in quello schifo di vita? No che non voglio, dannazione! Ma anche se lì sono una persona morta e fredda, credi davvero che sia così facile mandare tutto all'aria?», stavo urlando come una matta, mentre la visuale veniva offuscata dalle lacrime. Lui camminava per la stanza, aggiustandosi il colletto della camicia e dandomi le spalle. Afferrò la cintura che penzolava dalla sedia. 
«Rispondimi!», sbraitai, con le labbra tremanti e il respiro corto.
Si voltò verso di me con uno scatto. «Io lo farei! Rischierei tutto per te!», gridò, facendomi sobbalzare e rendendomi piccolissima davanti alla sua voce profonda e alta.
Lo fissai con uno sguardo colmo di lacrime, mentre qualcuna solcava le mie guance. «Quindi adesso sarei anche quella che non ti ama abbastanza?».
Rimase immobile a guardarmi. Scosse debolmente la testa. «Non ho mai detto questo».
Mi sentivo completamente vuota. Di nuovo inutile e insignificante. «Però l'hai pensato. Ed è quello che mi stai facendo capire», dissi con una voce incolore.
«Devo andare», bofonchiò.
«Dove?», gli chiesi subito. Mi sentii assalire dall'ansia.
Mi guardò fugacemente, poi sparì nell'altra stanza. «Dai ragazzi», mi rispose, mentre la sua voce si affievoliva pian piano e scompariva insieme a lui. Il rumore della porta della camera contro lo stipite mi lasciò senza fiato.
Senza neanche pensarci più di tanto afferrai il mio cellulare dal comodino e mandai un messaggio a Liam. "Dove siete?", gli scrissi. 
Poi mi alzai, quasi presa da un raptus di follia, e aprii a caso dei cassetti prendendo dei vestiti altrettanto a caso. Mi ritrovai ad uscire dall'albergo con degli enormi occhiali da sole per coprire gli occhi rossi, i capelli legati in malo modo e una t-shirt larghissima. 
Appena svoltai l'angolo, Liam rispose e mi diede tutte le indicazioni per raggiungerli. Guardavo davanti a me, sperando di intravedere tra la gente un ragazzo alto, con una camicia bianca e i capelli ricci. Ma non c'era traccia di lui. 
Sentivo addosso tutti gli occhi dei passanti, nelle orecchie la sua voce e le parole che aveva detto durante la litigata. Ripensai anche alle mie, e non trovai niente che avrei voluto cambiare, nessuna frase da modificare. Magari se avessi potuto rifare tutto da capo, non gli avrei mai risposto. 
Quasi mi sentivo controllata, seguita in ogni minimo movimento. Mi voltai assecondando il mio istinto, e subito la mia attenzione fu catturata da un flash che immortalò il mio viso distrutto. 
Un secondo dopo essermi ripresa ed essermi resa conto che un paparazzo mi aveva appena fotografata, cominciai ad accelerare il passo. 
Tenevo le braccia distese rigidamente lungo i fianchi, le scarpe aderivano al cemento perfettamente. Quasi sembravo un robot preso dal panico.
«E' lei!», sentii dietro di me.
Ed io mi chiesi perché. Perché quella giornata era cominciata così.. così di merda.
Mi sentivo persa, inseguita e allo stesso tempo attirata dalla mia ipotetica vita futura. Non sapevo più dove fosse il passato.
Nell'istante in cui nella mia testa risuonarono altre voci sovrapporsi alla prima, cominciai a correre, più in fretta che potevo. 
Non che fosse una novità essere ritratta in una foto come la ragazza di Styles - e il solo pensiero mi provocò le vertigini - ma non mi aspettavo che fossero addirittura pronti ad inseguirmi. 
Sentivo il vento scompigliarmi i capelli e il caldo misto alla corsa togliermi il fiato.
Arrivai in una strada deserta e all'improvviso, guardandomi intorno, mi chiesi se avevo sbagliato oppure no. 
Mi fermai sul marciapiede, affiancata soltanto dalle foglie verdi che sbucavano dalla recinzione di una proprietà privata. 
Seguii con lo sguardo un'auto scura che spuntò all'imbocco della via e scomparve, dirigendosi verso destra.
Mi voltai di nuovo, mentre il cuore mancava di un battito.
«Come mai sei qui?», sentii una voce baritonale rompere il silenzio.
Arretrai di un passo istintivamente, portandomi la mano al petto e soffocando un urlo appena mi resi conto che era Liam. Ansimai. «Ti ho spaventata?»
Mi preoccupai di scuotere la testa per quanto riuscissi a muovermi. Ero tentata di accasciarmi per terra e riposarmi per un solo istante. 
E sarebbe stato bello se Harry fosse spuntato all'improvviso e mi avesse abbracciata.
«Dov'è Harry?», chiesi, a mezza voce.
«Aaah», fece Liam, guardandosi intorno, come se pronunciando il suo nome avessi scatenato un polverone. «E' stato convocato dal management. Al momento stanno discutendo»
«Devo parlargli», dissi, quasi non prestando attenzione alle sue parole.
«E' successo qualcosa?»
Guardai dietro di lui, poi incontrai il suo sguardo preoccupato. «No», ma la mia voce si ruppe.
Lui sospirò, ed io feci lo stesso, rendendomi conto che aveva capito che era una bugia bella e buona.
«Quattro giorni», e con quelle due parole avevo praticamente spiegato il motivo del mio malumore barra dispiacere barra angoscia.
Lui fece una smorfia e mi circondò le spalle con un braccio. «Andiamo». Entrammo nella proprietà privata che era proprio accanto a noi - il che mi sollevò, facendomi capire che le mie capacità di orientamento non facevano così schifo - e passeggiammo fino all'entrata dell'edificio chiaro davanti a noi. C'era una porta spalancata sul fianco della costruzione, e salimmo le scale per entrare da lì.
Nel frattempo spiegai a Liam tutto ciò che era successo, e lui stranamente mi diede il suo supporto.
Appena fummo all'interno, ci inoltrammo in un corridoio bianco, costellato di porte da un solo lato. 
Da una di queste, riuscii a sentire la voce di Harry. 
«Raggiungo gli altri», disse Liam, appena notò che mi ero bloccata sul posto. 
Lo lasciai andare, e non vidi neanche dove si diresse, troppo occupata a guardare il colore chiaro del legno della porta di fronte a me.
«Hai intenzione di continuare così?», urlava qualcuno all'interno della stanza. «Vuoi fare il cantante o vuoi soltanto attirare l'attenzione dei media con uno scoop?»
«Nessuno scoop, vivo solo la mia vita»
«Sarebbe meglio se cambiassi il modo di viverla, allora. Non abbiamo intenzione di assecondare le tue stupide entrate in scena sulle pagine dei giornali»
«Come se fossi io a volere i paparazzi intorno!», sentii Harry esplodere in una risatina nervosa. «Sono dappertutto! Cosa dovrei fare, chiudermi in casa?»
«Solo cercare di non conquistare la prima pagina. Tu e gli altri dovreste concentrarvi sulla vostra musica e sul cd che uscirà a breve, non impegnarvi con delle ragazze. Non vogliamo scoop, credo che la cosa sia abbastanza chiara.»
«E' un discorso che non ha alcun senso».
«Volete diventare popolari grazie ai paparazzi o grazie alla vostra musica?»
Me ne stavo in silenzio ad ascoltare, incollata al muro e immobile, mentre fuori gli uccellini cantavano. «Che razza di domanda è?»
«Non c'è tempo per le relazioni, Harry».
«Credo di sapere se ho del tempo a disposizione oppure no, e poi state tranquilli, quattro giorni e i giornali non avranno più nulla di cui parlare.»
«Non aspetteremo quattro giorni»
La porta si aprì con un rumoroso cigolio della maniglia. Sobbalzai. «Vaffanculo», disse, mentre varcava la soglia e richiudeva la porta alle sue spalle con un colpo secco.
Alzò lo sguardo e mi vide. 
Avevo il cuore schiacciato contro la gabbia toracica, un groppo in gola e le gambe molli. 
Restò davanti a quella dannata porta a guardarmi, scrutandomi e cercando di decidere o forse capire cosa fare. 
L'unica cosa che volevo era sentire le sue braccia intorno a me.
Il silenzio era assordante ed imbarazzante. «Mi dispiace», disse alla fine. 
A grandi passi attraversò il corridoio e venne da me. «Avrei dovuto farlo prima, quando ti ho vista piangere», e mi abbracciò, così forte che mi sentii rimessa insieme. Non stavo più cadendo a pezzi.
Con un singhiozzo, le mie lacrime cominciarono a scendere e a bagnare la sua maglietta. «Dispiace anche a me», riuscii a dire.


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E' il capitolo più orribile che abbia mai postato :')
non voglio dire assolutamente nulla perchè sono schifata ahaha potevo fare di meglio, ma è un capitolo di passaggio e non ero molto ispirata. Comunque vi ringrazio delle 19 recensioni. Ringrazio tutte le persone che seguono questa storia. GRAZIE.
Posterò presto comunque, sono pronta a cogliervi di sorpresa.
Anyway, salterò dei giorni e arriverò direttamente all'ultimo, nel prossimo capitolo. Sappiate che ho cambiato il finale della storia e spero di non deludervi e di non cadere nella banalità.
Ora me ne vado. Spero mi lasciate almeno cinque recensioni AHAHAHAHAH ç_ç

p.s. non ho riletto e_e

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Capitolo 21
*** remember me. ***





remember me.


«Dove andiamo?», chiesi con noncuranza, guardando le persone che passeggiavano tranquillamente sui marciapiedi. L'aria era fresca a causa del tramonto del sole che stava lasciando posto alla luna. Tutto ciò che mi circondava, compreso il caos delle auto, era considerabile un paesaggio tranquillo rispetto al casino che avevo io dentro. 
Ma preferivo non pensarci e guardarmi intorno per cercare qualche distrazione, sebbene la sola presenza di Harry contribuisse già a farmi perdere il filo dei pensieri.
Avevo sempre amato il crepuscolo. Conferiva un'atmosfera di malinconia e tristezza che aveva sempre fatto parte di me e che in quel momento calzava terribilmente a pennello. 
Mi strinsi ad Harry, poggiando involontariamente una mano sul suo petto, mentre scrutavo i passanti e speravo che nessuno lo riconoscesse.
Poi abbassai lo sguardo e presi a fissare le mie ballerine e le mie gambe nude che al momento stavano soffrendo a causa delle leggere folate di vento, ma nello stesso istante la mia attenzione si focalizzò sulla sua enorme mano poggiata sulla mia spalla che mi dava un briciolo di calore.
«E' una sorpresa», cantilenò lui, facendo roteare nella mano libera un pezzo di stoffa nero del quale non avevo ancora capito l'utilità.
Alzai la testa per guardarlo, continuando a passeggiare insieme a lui. I suoi capelli scuri contrastavano terribilmente con il pezzo di cielo che lo sovrastava.
Sorrideva, e in quel momento cominciai a fissarlo per imprimere nella memoria quell'immagine serena. «Dai», lo implorai, con voce dolce. «Sono pronta a fare gli occhi da cucciolo e il labbruccio per convincerti».
Sghignazzò divertito, causando l'entrata in scena delle sue adorabili fossette. «Non funziona».
«Impossibile», risposi indignata. Mi misi all'opera, allungando il collo per far si che mi guardasse in viso. «E dai, girati!»
«Non ho intenzione di cedere», fece lui, senza smettere di ridacchiare.
Sbuffai, voltandomi per guardare la strada. «Spero sia una bella sorpresa», brontolai, dopo essermi arresa. Ero quel genere di persone che non rincorreva le cause perse; non ero determinata, non ero combattiva.
Solo in quel momento mi accorsi che stavamo andando in direzione del fiume. 
«Lo è. Però devi indossare questa», rispose, mollando la presa intorno a me e fermandosi all'improvviso. Mi voltai per capire cosa stesse facendo ma poggiò sui miei occhi il pezzo di stoffa che aveva portato con sé. Portai entrambe le mani all'altezza delle tempie per sistemarlo.
«Una benda», mormorai tra me e me, e sorrisi. La chiuse delicatamente dietro alla mia nuca, attento a non farmi male.
«Questa sì che è una vera sorpresa», dissi, pensando poi al fatto che sarei potuta finire contro un palo della luce. «Dammi la mano però, non vedo nulla».
«Ma non mi dire!», fece sarcastico, intrecciando le sue dita con le mie - e provocandomi un vuoto assurdo allo stomaco - e alzando il braccio per farlo passare sulla mia testa, in modo da cingermi contemporaneamente anche all'altezza della vita. 
Trovandomi scomoda, gli concessi l'altra mano e passai il braccio libero dietro la sua schiena. 
«E' orribile non poter vedere dove vado»
Fece qualche minuto di silenzio, mentre continuavamo a passeggiare. «Chiamo un taxi»
Aspettai un po' ferma, accanto a lui, chiedendomi cosa potessero pensare le persone che mi vedevano. Una pazzoide con una benda sugli occhi, bene.  
Ad un certo punto, Harry mi disse di camminare in avanti e di entrare nel taxi. «Abbassa la testa», mi consigliò, per evitare un bernoccolo in fronte. Mi venne da ridere. Appena fu anche lui seduto vicino a me, feci: «Posso toglierla? Ti prego»
«Sei peggio dei bambini», disse lui, e mi trattenni dal rifilargli una linguaccia.
Il tragitto fu relativamente breve. Dopo qualche minuto passato a farci il solletico e a darci pizzicotti, sentii l'auto inchiodare. 
Molto probabilmente avevo la benda da soli dieci minuti, e fui sorpresa quando mi resi conto che sentivo già la mancanza del suo viso, e soprattutto del suo sorriso. Una strana sensazione mi invase lo stomaco, ma non erano le solite farfalle; era la consapevolezza di una separazione.
Mi svegliai da quello stato di trance appena la sua mano sfiorò la mia. Mi aiutò ad uscire dall'abitacolo e fummo fuori, di nuovo all'aria aperta. 
Non gli chiesi più se potevo togliere la benda, ormai presa dai miei pensieri che correvano a briglia sciolta, impossibili da fermare in quanto il buio che vedevo li liberava, anziché legarli.
Harry mi afferrò il polso e cominciò a camminare velocemente. Mi sentivo scalza, e avevo paura di inciampare in qualcosa o di finire spiaccicata contro qualche passante. All'improvviso sentii un chiacchiericcio farsi sempre più forte, finché realizzai che avevo una fila di gente proprio accanto - o almeno così credevo.
«Aspetta qui», disse, mollandomi all'improvviso. 
«Harry», implorai disperata dopo aver sentito la sua voce, appena mi lasciò sola. Mi guardai intorno, anche se non riuscivo a vedere nulla. Fui tentata di liberarmi gli occhi, ma misi a freno le mani cominciando a sfregarle l'una contro l'altra, decisa a non rovinare la maledettissima sorpresa.
Non mi sentivo per niente bene. Avevo un malessere che mi stava divorando dall'interno. 
Era un misto di angoscia e paura, e un insieme di varie sensazioni: abbandono, tristezza, solitudine. La mia testa si stava preparando al cambiamento imminente, e allo stesso tempo il mio corpo lo rifiutava.
Non stringevo nulla tra le braccia, e così sarebbe stato d'ora in poi. Mi sentivo di nuovo nuda e vulnerabile, e così sarebbe stato a partire dall'alba del nuovo giorno. 
Ero cieca, non riuscivo a vedere la luce. Tutto sarebbe ritornato ad essere nero come un tempo, e quello era un assaggio. 
Il mio cuore accelerava, le persone che mi circondavano parlottavano del più e del meno, si lamentavano di quanto fosse lunga la fila e di quanto fosse caro il biglietto. 
Non riuscii a capire dove mi trovavo e a cosa potesse servive un biglietto perché Harry venne a prendermi prima del tempo.
«Vieni con me», disse, prendendomi delicatamente per mano. Mi lasciai condurre da lui, ancora persa nei miei pensieri. Poggiò poi entrambe le mani sulle mie spalle, lasciando che fossi io a procedere per prima.
Era orribile avere quella benda, mi sentivo impotente. Speravo che la sorpresa fosse abbastanza bella da poter scacciare via tutti quei sentimenti orribili. 
Il chiacchiericcio si allontanava, sentivo il rumore leggero del fiume sempre più vicino. «Alza un piede», disse lui, e obbedii. 
«Posso camminare?», gli chiesi, ed Harry acconsentì alla mia domanda. Feci qualche passo, mentre dietro di me potei sentire il rumore di una porta metallica che si richiudeva. 
Non sentivo più alcun suono, a parte il fruscio dell'aria condizionata. Mi sentivo chiusa in una sorta di bolla insonorizzata.
«Perfetto, ora possiamo toglierla», sentii la voce profonda di Harry e le sue mani che cercavano di sciogliere il nodo dietro la mia nuca.
Tenni gli occhi chiusi, facendo un respiro profondo e cercando di liberarmi del peso che mi opprimeva il petto.
Era l'ultima sera che avremmo passato insieme, l'ultima dannatissima sera. L'ultima volta che lo avrei visto, l'ultima in cui avrei potuto abbracciarlo, baciarlo, sentire il profumo della sua pelle, ascoltare la sua voce, vedere i suoi occhi brillare, sfiorarlo...
«Apri gli occhi», e come sotto ipnosi, feci come mi aveva detto. 
La prima cosa che vidi davanti a me fu l'azzurro intenso del cielo, poi mi resi conto che c'era una parete di vetro a separarmi da esso, ed infine ebbi la sensazione di muovermi all'interno di questa enorme palla trasparente. Guardai Harry, e vedere di nuovo il suo viso fu devastante. «Dove..?»
«Siamo sul London Eye».
Pian piano la mia bocca si spalancò, e mi strinsi a lui appena la capsula si mosse bruscamente. Notai solo in quel momento che ci stavamo sollevando; il panorama si faceva sempre più esteso e lontano. 
Guardavo estasiata le luci che illuminavano Londra e che si riflettevano nel fiume. Il cielo era stranamente libero delle nuvole, scuro e terso. 
Mi voltai a destra, poi a sinistra, cercando di tenermi in equilibrio mentre la capsula oscillava leggermente. 
Harry mi teneva stretta a sé, io non riuscivo a spiccicare parola, avevo le labbra incollate e la saliva azzerata. Non riuscivo a credere di essere davvero sul London Eye, insieme a lui. Non riuscivo a credere che avesse programmato tutto.
Era tutto talmente magico che non poteva essere descritto a parole. Avevo davanti ai miei occhi un panorama da cartolina, costellato da luci che potevano sembrare stelle, provenienti da tutti i monumenti importanti della città e dagli edifici in lontananza. Quasi non li distinguevo, ma se aguzzavo lo sguardo riuscivo a definire i contorni di qualsiasi cosa.
«Respira», la voce di Harry ruppe il silenzio, dominato solo dai forti battiti del mio cuore. Obbedii, anche se avevo quasi dimenticato come si faceva.
Annuii debolmente, stringendo la sua camicia bianca con la punta delle dita, all'altezza del petto. Inspirai profondamente, poi espirai come se avessi appena affrontato la scalata dell'Everest e fossi stanca morta.
La ruota panoramica continuava a muoversi, il panorama ad ingrandirsi, l'altezza aumentava. Guardavo ancora ciò che si estendeva davanti ai miei occhi, allibita, sconvolta, meravigliata, senza parole. «T-tu...», balbettai, bagnandomi poi le labbra con la lingua, per quanto riuscissi a muoverla. 
Avevo lo stomaco sottosopra, le gambe molli. 
Non erano i 135 metri di altezza a spaventarmi. Probabilmente mi sentivo così perché quello era il più bel gesto che avessero mai fatto per me. La sorpresa più bella, la dimostrazione di quanto fossi importante per qualcuno... per lui.
Sentii la mia gola andare a fuoco, gli occhi pizzicare. «Io?», mi incitò.
«Hai fatto tutto questo per me?», riuscii a dire, senza guardarlo, flebile. Non me la sentivo di rovinare quell'atmosfera tranquilla con un tono di voce più alto, e non me la sentivo di farlo perché sapevo che non sarei riuscita a trattenere le lacrime.
«Era il minimo che potessi fare».
Mi voltai verso di lui, alzando la testa per incrociare il suo sguardo. «Tu fai già tanto per me. Sei qui con me, mi sei stato vicino per tutto questo tempo... è già un regalo immenso»
All'improvviso notai che la ruota si era fermata. La capsula oscillò un po', poi ritrovò stabilità. 
Mi allontanai da lui e mi avvicinai al vetro. Eravamo sulla verticale del baricentro, ergo, nel punto più alto del London Eye.
La smisi di guardare in basso perché stavo cominciando ad avvertire dei giramenti di testa, e concentrai la mia attenzione davanti a me. 
Era tutto così romantico e bello, come in quei film maledettamente sdolcinati, o come nei libri, dove tutto poteva succedere. 
Sentii Harry avvicinarsi, poi la sua mano sfiorare la mia. Mi costrinse a voltarmi.
«Non dirmi che hai speso altro denaro per fermare la ruota», farfugliai sconvolta, e nello stesso istante notai un carello rivestito da un drappo azzurro, sul quale erano poggiati una bottiglia di champagne e due bicchieri tenuti insieme da un nastrino legato alla loro base. Ai piedi del carrello c'erano delle candele basse unite a formare un cuore, e un mazzo di rose rosse. 
Scossi la testa e sbattei le palpebre, spostando lo sguardo su di lui, cercando di rimettere a posto i pensieri e far finta di non aver visto nulla di tutto quello.
Forse era un sogno, ma di sottecchi rividi di nuovo tutto ciò che avevo visto un istante prima. Okay, era un sogno davvero realistico.
Poi ripensai al fatto che eravamo fermi e bloccati in cima alla ruota, e se non era stato lui probabilmente c'era stato un problema tecnico. 
Magari, nella più apocalittica delle visioni, il London Eye sarebbe precipitato nel fiume e saremmo morti tutti.
Harry mi sorrise. «Sì, ma non sono poi così famoso da poterla fermare per chissà quanto tempo», fece, illuminando quel buio.
Dopo qualche secondo di trance, ricambiai il sorriso, senza sapere che dire: quel ragazzo mi lasciava ogni giorno più sorpresa. O meglio, quello sarebbe stato l'ultimo giorno in cui avrebbe potuto farlo. Mi voltai a guardare per l'ennesima volta il panorama mozzafiato, con un groppo in gola.
Pose la sua mano destra sul mio fianco, cingendomi a sé. «Lì c'è il Big Ben, guarda», affermò, indicandolo con il dito. «Là c'è il Parlamento, il Westminster Bridge...», continuò, elencando tutto ciò che vedeva.
Appoggiai la testa all'altezza della sua spalla, seguendo con lo sguardo la traiettoria del suo indice.
Poi, calò il silenzio.
«Grazie», mormorai, dopo qualche istante. 
«Vorrei che ti ricordassi di questo. In due settimane avresti dovuto conoscere Londra, e invece hai conosciuto me. Ti offro una parte della città, quella che non hai visitato a causa mia». 
Sorrisi. «Non rimpiango niente, niente, di questo soggiorno qui. Non mi importa se non ho visitato musei o visto monumenti. Ho conosciuto te, e vali più dell'intera Londra, per me».
Fece un passo di lato, per abbracciarmi da dietro e per incrociare le braccia sul mio stomaco. Abbassò la testa per baciarmi la tempia, poi la curva della mandibola. «Mi dispiace soltanto di aver capito troppo tardi chi era davvero Liz; mi dispiace di averti fatta piangere o di non essere stato il ragazzo perfetto, il ragazzo che meritavi», mi disse all'orecchio. 
Chissà se si era accorto che i battiti del mio cuore erano aumentati velocemente. 
Voltai leggermente la testa per guardarlo negli occhi. Eravamo ad un centimetro di distanza; non vedevo altro che i suoi occhi verdi e le sue labbra invitanti. «Non avrei potuto desiderare nulla di meglio», mormorai. 
Avvertivo una certa malinconia intorno a noi, nelle sue iridi, nelle mie parole. Tutto suonava fin troppo come un addio. 
Allungai una mano verso il suo viso e avvicinai la mia bocca alla sua. Assaporai le sue labbra lentamente, dolcemente, come se quella fosse l'ultima volta, e probabilmente era vero. 
Con un nodo in gola, lo sentii restituire il bacio. Gli carezzai la guancia con il pollice, delicata, come se avessi avuto paura che si sarebbe dissolto sotto un tocco diverso.
Anche il sapore delle sue labbra sapeva di addio, anche i suoi movimenti, il modo in cui mi stringeva. 
All'improvviso ci accorgemmo che la ruota aveva ricominciato a muoversi, e ci allontanammo con il sorriso stampato sul viso. Il mio forse, però, era più somigliante ad una smorfia.
Harry si avvicinò al carrellino con passo deciso e stappò la bottiglia di champagne. Osservai la sua figura slanciata sotto la luce soffusa della capsula, assorta. 
Mi porse il calice frettolosamente, consapevole che il giro era quasi finito.
 
 
Probabilmente le sensazioni che si erano accumulate dentro di me stavano uscendo fuori tutte insieme, tutte in quel momento. Mi ero liberata degli shorts con rabbia, e li avevo appena lanciati in un punto imprecisato della stanza. Volevo distruggere tutto ciò che avevo a portata di mano. 
Avrei voluto far scomparire tutti i ricordi di quella vacanza, in modo da non avere nessun motivo per soffrire, una volta tornata a casa. 
Non volevo fare la valigia, non volevo stare lì a raccattare ogni cosa, ogni brandello di felicità, per poi arrivare a Roma e trovare nient'altro che tristezza, perché quei brandelli non avevano avuto modo di respirare, soffocati tra i vestiti.
Volevo semplicemente addormentarmi e risvegliarmi a casa mia, senza aver dovuto dire addio a nessuno, senza aver dovuto guardare nei suoi occhi.
Senza ritegno, le labbra tremavano e una sensazione orribile mi attraversava all'interno, giocherellava intorno ad ogni organo per poi fermarsi sulle pareti del cuore.
Stavo indossando i pantaloni del pigiama senza vederlo, perché le lacrime non me lo permettevano. 
Respiravo a malapena, mentre mi chiedevo perché la vita era così ingiusta, perché ogni cosa era destinata ad avere fine, perché tutto non era più semplice. 
Perché non potevo stare con lui? Perché non avrei potuto più abbracciarlo? Perché era così lontano da me? Perché i nostri mondi erano così diversi? Perché non avrei potuto svegliarmi con lui accanto, ogni mattina? Perché non avrei potuto più ascoltare la sua voce rivolgersi a me? Perché non avrei più potuto sfiorarlo? Perché non avrei potuto più baciarlo? Perché non avrebbe più potuto consolarmi?
Perché? Perché? Perché? 
E a tutte quelle domande non trovavo una risposta. Ce n'era una prestabilita, per ogni occasione, che faceva capolino ogni volta che cercavo una soluzione.
Quasi spingeva per farsi spazio tra i pensieri, quasi si innalzava scritta su un cartello con un pennarello indelebile: "E' così e basta".
E quando ti spunta in testa, non puoi fare altro che rassegnarti.
Senza accorgermene, mi ero seduta per terra, sul parquet tirato a lucido di quella camera d'albergo, e stavo torturando tra le mani la mia maglia.
«Ehi», sentii una voce alle mie spalle, e mi affrettai ad asciugarmi gli occhi e ad alzarmi come se nulla fosse successo. Ma era difficile da dire, siccome dietro di me avevo lasciato una scia di distruzione. 
Il letto era disfatto, la valigia aperta giaceva in un angolo della stanza e alcuni vestiti fuoriscivano, penzolanti, altri erano sparsi sul pavimento. La lampada sul comodino era caduta, così come una sedia in soggiorno.
Mi sistemai la maglietta stropicciata, consapevole che quella era l'unica cosa che potevo aggiustare in quel momento.
Tenevo lo sguardo basso, senza riuscire a guardarlo. Sapevo quanto era bravo a leggermi dentro, e le tracce delle lacrime sul mio viso erano ben visibili. Inoltre, ero quasi sicura che il suo stato d'animo era molto simile al mio, anche se non lo dimostrava, anche se non aveva scatenato un uragano in una camera d'albergo.
Nella mia scarsa visuale, vidi le sue converse bianche avanzare, per farsi vicine ai miei piedi, poi sentii le sue braccia avvolgermi.
E lì, sulla sua camicia, lasciai tutte le mie emozioni. Quelle belle, quelle brutte, i dispiaceri, la felicità, la tristezza, l'angoscia, la pace, la paura. 
Non ebbi timore di piangere, perché sapevo che lui era lì. Sapevo che avrebbe potuto capirmi, sapevo che sarebbe stato capace di fermare le lacrime, sapevo che mi avrebbe tenuta stretta finché non avessi smesso.
Portai le mie mani sul suo petto, mettendole come barriera tra lui e me. Poi ci ripensai e decisi di abbracciarlo forte come lui stava abbracciando me. 
«Ho paura», dissi, singhiozzando. E non sapevo esattamente di cosa.
Delicatamente, come se fossi fatta di porcellana, mi fece sedere sulla poltroncina dietro di me. Lui si sistemò a gambe incrociate, per terra. 
Si guardò le scarpe enormi, tanto che l'unica cosa che potei vedere furono i suoi capelli ricci, poi incontrò i miei occhi. «Volevo darti questo», e dalla tasca estrasse un braccialetto argentato, con dei ciondoli che penzolavano molto distanti gli uni dagli altri. Erano delle pietre lilla e dei cuoricini bianchi.
Lo afferrai dolcemente, temendo di romperlo. Scrutandolo, uno di questi cuoricini era più grande degli altri, e sembrava diviso a metà.
Harry notò che aveva catturato la mia attenzione. «Aprilo», fece. E appena lo guardai mi rivolse un sorriso di incoraggiamento.
Con gran cura, cercai il gancio e lo aprii. C'erano due parole incise al suo interno: "Remember me".
E appena le lessi, sentii il mio cuore zoppicare e le lacrime fuoriuscire di nuovo, senza che io potessi controllarle.
Lo richiusi all'istante. «Come potrei dimenticarmi di te?», farfugliai, trattenendo i singhiozzi. 
Lui abbassò di nuovo lo sguardo. «E poi volevo cantarti una cosa», disse, mentre io mi asciugavo nuovamente il viso come un'idiota. «E' un pezzo di una canzone che abbiamo inciso per il nuovo album.»
Io annuii, pronta ad ascoltarlo. 
Si schiarì la voce, poi lo sentii cantare, con il suo timbro caldo e profondo. «If we could only have this life for one more day», e ricacciai indietro le lacrime. «If we could only turn back time», e sull'ultima parola alzò il tono di voce, ma si interruppe prima di poter finire, sul punto di crollare.
Nascose il viso per qualche istante, mentre io ero muta, cercando di imprimere nella memoria il ricordo di quelle parole cariche di emozione, poi alzò lo sguardo. Aveva gli occhi lucidi, l'espressione seria.
«Mi mancherai», mormorò infine.
Mi morsi il labbro inferiore, decisa a non piangere per l'ennesima volta. Scivolai dalla poltroncina e caddi sul pavimento accanto a lui.  Lo strinsi forte, infilando una mano nei suoi capelli e cullandolo tra le mie braccia, determinata a voler fare io la persona forte, per una volta.
«Ci sentiremo sempre, ogni sera. Ho il tuo numero, so dove trovarti», dissi, per convincermi che non proprio tutto sarebbe  finito. «E tu sai dove trovare la tua Liz, quando avrai bisogno di lei», e a quel punto mi cinse con le sue braccia.
Restammo immobili, inginocchiati sul pavimento della mia camera d'albergo, per non so quanto tempo. Le nostre prese non si affievolivano, e nemmeno la nostra voglia di combattere.
Per la prima volta nella mia vita, decisi che lui sarebbe stato il motivo per il quale avrei affrontato la mia prima battaglia.
Alla fine, distrutti ma al contempo rinvigoriti dalla speranza, ci ritrovammo sotto le lenzuola, a stringerci le mani, l'uno di fronte all'altra.
Era bellissimo averlo accanto prima di addormentarsi, ed era meraviglioso vedere come prima cosa il suo viso appena mi svegliavo. 
Guardai i suoi occhi verdi, poi mi sorrise, e giurai a me stessa che,  almeno per un'altra volta, io quel sorriso l'avrei rivisto da vicino. 


I could stay awake just to hear you breathing 
Watch you smile while you are sleeping 
While you're far away and dreaming 
I could spend my life in this sweet surrender 
I could stay lost in this moment forever 
Every moment spent with you is a moment I treasure 

Don't wanna close my eyes 
Don't wanna fall asleep 
'Coz I'd miss you baby 
And I don't wanna miss a thing 
'Coz even when I dream of you 
The sweetest dream would never do 
I'd still miss you baby 
And I don't wanna miss a thing 

Laying close to you 
Feeling your heart beating 
And I'm wondering what you're dreaming 
Wondering if it's me you're seeing 
Then I kiss your eyes 
And thank God we're together 
I just want to stay with you in this moment forever 
Forever and ever 

I don't wanna miss one smile 
I don't wanna miss one kiss 
I just wanna be with you 
Right here with you just like this 
I just wanna hold you close 
Feel your heart so close to mine 
And just stay here in this moment for all the rest of time 



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ciao a tutte!
allooora, premetto che ci sono rimasta un po' male a causa delle poche recensioni allo scorso capitolo, però ho deciso di postare adesso perché non volevo farvi aspettare un mese 'o' ahahaha
niente, questo è l'ultimo giorno che i due piccioncini sono stati insieme, ma la fan fiction non è finita. ci saranno altri capitoli, tranquille, e poi quello su chelsea e zayn che non so dove inserire loool
e boh, a me non convince come sempre, però spero vi emozioni almeno un briciolo. 
ringrazio le 12 persone che hanno commentato, le 162 persone che hanno questa storia nelle seguite, le 86 che la tengono nelle preferite e quelle che ce l'hanno nelle ricordate. sono numeri enormi! essendo anche la prima fan fiction che posto qui, non posso che essere contenta.
GRAAAZIE, e vi prego, fatemi sapere cosa ne pensate çwç mi basta anche un 'fa schifo, lascia stare' o un 'bello, continua', però recensite, perché mi date forza.

se volete potete anche farmelo sapere su twitter, sono ovviamente @stylesbreath c:

p.s. la canzone degli aerosmith è perfetta per questo capitolo e perfetta per harry e lizzie. me l'ha consigliata una mia amica. grazie mary <3

un bacio a tutte!
clà, harry e liz. lol

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Capitolo 22
*** goodbye. ***





goodbye.


"Non voglio cominciare questa lettera con un 'caro Harry' perché mi suonerebbe troppo come un addio, perciò accontentati di questo inizio un po' originale. 
In fondo, lo sai, non amo essere banale, anche se a volte mi sembra di esserlo terribilmente, forse troppo.
Un esempio è il fatto che io ti ripeta ogni volta: 'perché hai scelto me?'. 
Ecco, sono anche noiosa e ripetitiva, logorroica, troppo riflessiva, ansiosa, troppo sensibile, possessiva, e se stai pensando che lo scopo di questo elenco di difetti è quello di evitare di farti sentire troppo la mia mancanza, hai centrato il punto.
In realtà parte del mio cervello proprio ora sta pensando 'perché dovresti mancargli?', e l'altra mi dice, o almeno spera, che è perché per te sono speciale.
Lo so, lo so, me l'hai detto tante volte, ma quando vivi tutti i giorni con il pensiero fisso che non sei importante per nessuno, è difficile ammettere il contrario". 
Distolsi lo sguardo dal foglio, cominciando a fissare il tappo della penna che stringevo tra le mani e facendo una pausa per riordinare i pensieri. Dovevo sbrigarmi.
"Ogni singolo giorno di questa vacanza mi sono chiesta perché ho avuto la possibilità di ottenere tutto ciò. E' assurdo pensare che prima eri soltanto carta, pensiero, sogno. 
Non avrei mai creduto di poterti incontrare, era qualcosa di assolutamente impossibile dal mio punto di vista, e invece sono qui, mentre tu dormi nell'altra stanza.
Posso assolutamente dire di essere la persona più fortunata della Terra, credimi. E non sto parlando da fan accanita di Harry Styles, cantante dei One Direction, sto parlando da comunissima ragazza italiana, di nome Lizzie, che ha avuto il grandissimo onore di poter conoscere il vero Harry, il diciassettenne dolce, altruista, sensibile quasi quanto lei e duro solo all'apparenza. 
E me ne sono innamorata."
Alzai di nuovo lo sguardo, con un nodo in gola troppo grosso da poter sciogliere, e deglutii, cercando di trattenere le lacrime.
"Perdonami se quando ti sveglierai non mi troverai, perdonami se non ho avuto il coraggio di guardarti negli occhi e poi lasciarti. 
Mi mancherà non vedere come prima cosa il tuo viso appena mi sveglio, o prima di addormentarmi. Mi mancherà toccare i tuoi capelli ricci, vedere i tuoi occhi socchiudersi impercettibilmente per lasciare spazio ad un sorriso. Mi mancherà sentire le farfalle nello stomaco quando mi abbracci o quando mi baci, ascoltare il battito del tuo cuore o il tuo respiro lento che per me sono quasi una ninna nanna. 
Mi mancherai quella quotidianità che si era creata in pochissimi giorni: fare colazione insieme, guardare la televisione sdraiati sul letto o sul divano, chiacchierare fino a notte fonda per sfruttare ogni minuto passato insieme. 
Mi mancherai tu, la tua allegria, la tua dolcezza.
E adesso mi sembra assurdo rinunciare a tutto questo, ma ti prometto che ciò che abbiamo creato non andrà perduto. Non diventerà passato, sarà ancora presente.
E tu continua a cantare, amore, non smettere mai. Sono tanto orgogliosa di te.
 
Come ultima cosa, vorrei ringraziare Liam per essere stato un ottimo amico, Louis per avermi fatta ridere, Niall e Zayn per avermi accolta nella vostra 'famiglia'. E Chelsea, per essere stata così carina e semplicemente, per esserci stata.
 
E infine, grazie a te, Harry, di tutto. Grazie di essere stato te stesso, di aver reso la mia vita beno buia, e grazie di avermi concesso gran parte del tuo cuore.
Ti amo."
Ripiegai il foglio velocemente, senza rileggere, e riflettei sull'ultima parola.
Lui non me l'aveva ancora detto. 
Ogni volta che lo facevo io, sentivo il suo cuore accelerare e le sue labbra dischiudersi per dire qualcosa, ma alla fine non ne usciva mai un suono. Non dubitavo dei suoi sentimenti per me, per quanto io fossi terribilmente insicura e senza speranza, ma era un particolare del suo modo di essere che mi lasciava perplessa. Non pensavo avesse paura di due semplici parole, ma sapevo che quando si fosse sentito pronto l'avrebbe detto senza problemi, a meno che non ci fossero stati dei cambiamenti tra noi.
Al solo sfiorare quell'idea, mi assalì la nausea, e mi alzai dalla sedia pensando a dove avrei potuto sistemare la lettera, per distrarmi.
Poi all'improvviso guardai le tende svolazzare nella camera da letto, e restai immobile con il foglio tra le mani, guardando i vestiti di Harry sistemati sulla sedia. Dovevo vederlo prima di andare via, dovevo stampare nella mia mente l'immagine del suo volto con un inchiostro indelebile, in modo da poterla ritrovare ogni volta che ne avrei avuto bisogno, quando mi sarei sentita persa.
Tornai lucida dopo un secondo, e diedi un'occhiata all'orologio. Forse i ragazzi mi stavano già aspettando nella hall dell'albergo. La solita ritardataria.
Attraversai la stanza con tre falcate, cercando di fare meno rumore possibile, intenzionata a lasciare la lettera accanto a lui.
Non appena vidi il colore pallido della sua pelle quasi mischiarsi al bianco delle lenzuola, il mio cuore sprofondò nel baratro, e la mia avanzata si arrestò sulla soglia della camera. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime e il respiro farsi affannoso.
Mi sentivo come se fossi in procinto di commettere un delitto, quando i sensi di colpa ti assalgono e affiorano mille dubbi. Lo faccio, non lo faccio? Ma c'è qualcosa che ti spinge a prendere la decisione finale, e una piccola differenza poteva aiutarmi a spogliarmi dei panni dell'assassina. 
La frase 'non si torna più indietro' non calzava affatto a pennello in quella situazione. Nel profondo, sapevo che sarei ritornata, sapevo che non sarebbe finita. Avrei dovuto soltanto passare la prima fase e pensare ad una soluzione che potesse riportare la pace tra l'omicida e l'ipotetica vittima. 
Con una doppia dose di coraggio, mi diressi verso la parte vuota del letto e poggiai la lettera sul mio cuscino, poi alzai lo sguardo per guardarlo in viso e mi sentii... male. Di nuovo.
Ma la piccola lucina della speranza, dentro di me, mi aiutò a guardarlo per qualche minuto per riuscire ad assorbire ogni minuscolo dettaglio del suo viso. 
I capelli erano talmente scompigliati da non somigliare neanche lontanamente ai morbidi ricci che di solito aveva, il viso era bianco come il latte - ad eccezione di una macchiolina rossa che spiccava sulla sua fronte pallida -, le labbra erano prive del solito rossore. 
Era un volto stanco il suo, e non lo biasimavo. Si era addormentato verso le tre del mattino, siccome aveva deciso di non dormire e di aspettare l'alba con me, ma sapevo che era soltanto una scusa. In realtà, non voleva trovare il letto vuoto al suo risveglio, ma aveva intenzione di accompagnarmi all'aeroporto.
Fortunatamente, aveva ceduto al sonno, e anche se la mia 'fuga' mi era sembrata inizialmente un atto meschino, in quel momento sembrava essere la scelta meno dolorosa.
Lasciai il foglietto dove l'avevo poggiato e girai intorno al letto, con lo sguardo fisso sul pavimento. 
Sentivo una specie di vuoto nel petto e una sensazione di nausea che non voleva saperne di andare via. Lui era lì ed io me ne stavo andando. E mi sentivo stupida, stupida a scegliere di rinunciare ad un regalo simile, ma dovevo.
Mi fermai appena arrivai dal suo lato, e voltai le spalle alla porta per guardare lui. 
Aveva il viso rivolto verso la finestra, perciò mi avvicinai a passi lenti e decisi per poter vedere almeno il suo profilo. 
Con le lacrime agli occhi, ma al contempo pronta a trattenerle, gli sfiorai la spalla nuda con le labbra, poi con il dorso della mano, sperando di non svegliarlo.
«A presto», sussurrai. 
 
Sembrava davvero un brutto incubo, uno di quelli in cui sai di star sognando ma dal quale non riesci ad uscire. Mi venne voglia di urlare, quando il taxi si fermò all'entrata dell'aeroporto. 
Fissavo il retro del sedile di fronte a me con un'espressione che neanche io riuscii a decifrare. Non sapevo cosa stavo provando in quel momento. Era un misto di emozioni talmente contorto che non mi permetteva di distinguerle.
Liam poggiò la sua mano sulla mia gamba, come se volesse aiutarmi ad uscire da quello stato di trance.
Mi voltai verso di lui. Nei suoi occhiali da sole vedevo il riflesso della resa. «Ripensamenti?»
«Tanti», risposi all'istante. «O forse mi sto solo pentendo di non averlo salutato».
Liam afferrò l'asticella dei suoi Ray Ban e se li tolse con un gesto lento e misurato. «Capirà, vedrai». Intanto muoveva la mano in modo circolare, per darmi sicurezza ed incoraggiarmi.
«Ti odierà soltanto per un istante, quando si accorgerà che te ne sei già andata», intervenne Niall, causandomi una sensazione sgradevolissima all'imbocco dello stomaco. Liam gli mollò una gomitata nel fianco. 
Lui si lamentò per il dolore, poi capì il mio stato d'animo. 
Per un minuto interminabile il silenzio calò nell'abitacolo, poi Liam mi chiese: «Andiamo?» 
Annuii, muta. Aprii la portiera, senza preoccuparmi di pagare il tassista perché Niall aveva deciso di immolarsi. 
Appena misi i piedi sull'asfalto, mi voltai per guardare Chelsea, Zayn e Louis che uscivano uno dopo l'altro dal taxi che ci aveva seguito. Poi dal sedile anteriore vidi alzarsi Paul, in tutta la sua immensità.
Era bello che fossero venuti per salutarmi. Appena si avvicinarono a me, dalle mie labbra uscirono le prime parole che mi vennero in mente. «Grazie, ragazzi».
Feci scorrere lo sguardo sui loro visi, mentre Liam e Niall si posizionavano al mio fianco, e notai lo sguardo di disapprovazione di Chelsea.
Sapevo cosa stava pensando, sapevo che avrebbe voluto che anche Harry fosse lì, per un finale da film romantico. 
Purtroppo, quello non era un film, e la realtà era molto più difficile da affrontare. Per un terribile istante, la mia mente si soffermò sull'immagine del suo volto stanco e immerso nel mondo dei sogni. Chissà se stava sognando me, chissà se si era svegliato dopo un brutto incubo o si era accorto della mia assenza.
«E' il minimo che possiamo fare», rispose Louis.
Gli sorrisi debolmente, conoscendo il motivo dei suoi ringraziamenti. Harry era il suo migliore amico, ed io l'avevo reso in qualche modo felice. 
Ecco, quella era già una vittoria per me. Avevo reso felice una delle persone più importanti della mia vita. 
Entrammo nel terminal dopo un po'. Liam camminava al mio fianco, poggiando ogni tanto la mano dietro la mia schiena per infondermi coraggio; gli altri erano proprio dietro di noi. 
Appena il luogo si riempì del suono e delle parole che richiamavano le persone a farsi avanti per l'imbarco, spesi le mie ultime energie per dire alcune parole.
Erano davanti a me, in attesa che trovassi quelle giuste. «Io..», cominciai, impacciata. «vorrei ringraziare ognuno di voi per avermi trattata come una vecchia amica. Grazie Zayn, grazie Louis, grazie Niall, grazie Liam, grazie Chelsea. Grazie di avermi fatta ridere, di aver passato del tempo con me anche se ero e credo di essere ancora una delle tante disperate fan, di avermi consolata...», e a quel punto guardai Liam. «o di avermi fatta incazzare.», poi spostai lo sguardo su Chelsea, ricordando tutte le volte in cui mi informava che ero sulle prime pagine dei giornali, e ridacchiammo insieme. «Grazie di avermi fatto trascorrere le due settimane più belle della mia vita. Siete delle persone dolcissime, meravigliose e soprattutto vere.», sentii gli occhi punzecchiare, ma continuai imperterrita. «Continueremo a sentirci, lo prometto. E un giorno ci rivedremo, accadrà. Deve accadere, perché ho bisogno di avervi accanto. Vi voglio bene, ragazzi».
Chelsea uscì dalla fila e mi abbracciò con foga. «E tu, trova il coraggio e confessagli tutto», le sussurrai all'orecchio, strofinando la mano dietro la sua schiena. 
Allentò la presa per guardarmi in viso. «Prometto che ti farò sapere», mi assicurò con un sorriso.
Sentii di nuovo la chiamata del mio volo.
«Dai ragazzi!», fece Niall, e tutti e quattro si lanciarono su di me per un abbraccio da orso. Rimasi bloccata al centro del gruppo per qualche istante, cercando di ricordare anche la sensazione che stavo provando in quel momento: sicurezza.
Poi mi lasciarono, e Liam mi riservò un'ultima occhiata dolcissima come il miele.
Zayn spostò lo sguardo su Chelsea, prima che mi allontanassi verso il gate, e nella mia mente spuntò di nuovo il suo viso: quello era il modo in cui Harry guardava me. 
Paul, da lontano, mosse una mano per salutarmi. Era stato lui a fare il check-in, e mimai con le labbra un 'grazie'. Sorrise e annuì.
«Ciao ragazzi», li salutai per l'ultima volta, con un nodo in gola.
 
 
Avevo la testa rivolta verso il finestrino, senza avere la minima intenzione di dare un'occhiata a chi mi stava di fianco. Forse speravo di veder spuntare la sua testa riccioluta.
All'improvviso il cellulare mi vibrò nella tasca. Lo estrassi con foga, cercando di non farmi vedere dal mio vicino o dalla hostess che aveva pregato i passeggeri di spegnerli già due volte.
Era lui. Lo aprii, cercando di cliccare il tasto giusto per quanto le dita tremanti me lo permettessero.
Mi aspettavo un 'ti odio' o un 'come hai potuto?', invece recitava: 'Sei già salita sull'aereo?'
Scrissi la risposta in un millisecondo: ''. Il mio cuore batteva all'impazzata, non sapevo più cosa pensare. Ricordai le parole di Niall, e probabilmente aveva ragione.
'Bene', rispose lui. Presi a fissare il display come paralizzata, e sobbalzai quando la hostess mi chiese gentilmente di spegnere il cellulare perché l'aereo stava per decollare, con una voce calma che fece aumentare la mia agitazione.
«Un secondo», la pregai.
Lei notò la paura sul mio volto, e mi sorrise, sussurrando: «Si sbrighi».
Annuii velocemente e inviai un altro messaggio. 'Mi dispiace da morire'.
Non dovetti aspettare molto per la risposta. 'Non importa'.
'Sì che importa. Hai letto il biglietto che ti ho lasciato?', digitai, guardandomi freneticamente intorno, anche se non avevo vasta scelta. Diedi un'occhiata al finestrino, poi alle persone che se ne stavano sedute tranquille ai loro posti.
Vidi rispuntare la hostess. «Lo sto spegnendo», dissi, prima che mi rivolgesse di nuovo la domanda. Ma Harry non sembrava intenzionato a rispondere velocemente, ed io non potevo più temporeggiare.
Tenni premuto il tasto sul lato del cellulare e, senza realmente vederlo, restai a guardare lo schermo diventare nero.


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eccomi! aww, questo capitolo mi piace giusto un po' di più di quello precedente lol.
in realtà doveva finire diversamente, ma non ho avuto il tempo necessario per scrivere il continuo e volevo postare stasera, perciò il ritorno a casa lo leggerete nel prossimo capitolo uu
non so quanti capitoli mancano, non ho una scaletta precisa, perciò non so davvero rispondere lol. ma la storia NON è finita, tranquille uu
vorrei ringraziare le 160 e passa persone che seguono questa storia e coloro che ogni volta mi fanno i complimenti su twitter. siete dolcissime, davvero. 
poi le 90 (circa) persone che ce l'hanno nelle preferite e quelle che la tengono nelle ricordate. ringrazio le 10 persone che mi hanno messa tra gli autori preferiti. gikejg
è un grande traguardo per me, essendo la prima ff che posto qui.
grazie delle 24 recensioni, siete fantastiche. spero siano tante anche stavolta jgvkij.
e nulla, sono bellissime le parole che mi scrivete e sono contenta di emozionarvi. :')
volevo fare un attimino pubblicità alla fan fiction di @thankyoustyles -- 
http://efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=949355
 -- che è bellissima e merita più recensioni. <3


GRAZIE GRAZIE GRAZIE. alla prossima <3


 

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Capitolo 23
*** I'll be there. ***





I'll be there.



Appena misi piede nell'aeroporto di Fiumicino, desiderai rifare il check-in e prendere il prossimo aereo per ritornare da lui, ma quando vidi mia madre, il mio piano - che d'altronde non reggeva neanche un po' - si sfumò in due miseri secondi.
Era di fronte a me che camminava con il suo solito passo svelto per raggiungermi. Sul suo volto c'era un sorriso raggiante che le invidiavo da morire, e ammettevo di essere un po' sorpresa di vederla in quel modo. 
«Tesoro!», urlò, sistemandosi gli occhiali con una mano e abbracciandomi goffamente, incollandomi allo stesso tempo le braccia lungo il corpo.
Sorrisi svogliatamente, con il corpo a Roma, ma con la mente e il cuore a Londra.
Mi lasciò dopo qualche secondo, e prese con vigore una delle mie valigie. «Ti aiuto», mormorò, più a se stessa che a me.
«Grazie», feci, ma forse non mi sentì.
«Allora?», cominciò lei, tirando il trolley dietro di sè e dirigendosi verso l'uscita. «Com'è andata?»
Mi schiarii la voce, cercando di mostrare un briciolo di felicità. «Alla grande», risposi, e nella mia testa si fece spazio l'immagine del suo viso perfetto. Sbattei le palpebre, come se potessi spazzarla via.
«Mi fa piacere», commentò, rivolgendomi un sorrisone a trentaduedenti. 
Per un attimo misi da parte le mie disgrazie e la guardai stranita, cercando di capire cosa fosse cambiato in sole due settimane. Da quando aveva lasciato papà era passiva, di poche parole e carente di sorrisi, più o meno come me, ma in quel momento mi resi conto che in lei c'era una luce diversa.
«Che succede?», le chiesi, trascinando a fatica i miei bagagli. 
«Di che parli?», alzò lo sguardo e incrociò i miei occhi. I suoi luccicavano, e sentii come un pugno nello stomaco.
La mia testa non poteva fare a meno di fare paragoni, come con Zayn e Chelsea all'aeroporto. Vedevo le scintille tra loro, le stesse scintille che in quel momento notavo nelle iridi di mia madre. 
Era lo stesso tra me e Harry. Ogni volta che lo guardavo percepivo delle minuscole ed impercettibili scariche elettriche; ogni volta che incrociavo i suoi occhi notavo una strana luce, la stessa che Chelsea mi aveva detto di aver visto nei miei.
«Sei strana», le dissi, cercando di riordinare i pensieri.
Lei abbassò il viso, come se fosse imbarazzata. Nel frattempo, eravamo arrivate accanto alla nostra auto. 
Premette il pulsante sul suo telecomando e aprì il bagagliaio, permettendomi di posare le valigie.
«Devo dirti alcune cose», annunciò infine. «Ne parliamo non appena arriviamo a casa, d'accordo?».
Annuii. Anche io avevo delle cose da dirle, ma l'avrei fatto quando avrei sentito la necessità di sfogarmi.
Dopotutto, a Roma non avevo nessuna Chelsea; c'erano solo le solite ochette delle superiori che si impicciavano di tutto e di tutti e che fingevano di essermi amica.
Mia madre era l'unica spalla sulla quale potevo appoggiarmi.
 
Il tragitto aeroporto-casa fu più lungo del previsto e più deprimente di quanto mi sarei aspettata.
Di certo io non avevo contribuito a renderlo più movimentato. Dopo aver indossato gli auricolari e aver fatto partire qualche canzone triste che mi ricordasse lui, non avevo fatto altro che guardare il sole alto nel cielo, con la testa appoggiata al finestrino.
Ogni tanto mia madre poggiava una mano sul mio ginocchio aspettando un segno di vita, ma non faceva altro che ricordarmi Liam, e da lì ogni pensiero si ramificava fino a condurmi ad Harry. Probabilmente mi aveva anche chiesto qualcosa ma non l'avevo sentita.
Lui non aveva ancora risposto al messaggio. Forse mi odiava a morte, forse non mi avrebbe perdonata, forse non avrebbe più voluto sentirmi, o forse avrei dovuto togliere tutti quei 'forse'.
Intanto, la mente di mia madre aveva cominciato a tessere qualche dubbio e aveva cominciato a non credere che la mia vacanza fosse andata 'alla grande'. In realtà era andata molto meglio di quanto mi sarei aspettata, tanto alla grande da farmi desiderare di non ritornare più a casa.
Non poteva aspettarsi che fossi felice di essere ritornata alla mia vita di sempre, e neanche che avrei dimenticato tutto in un attimo.
In quel momento l'unica cosa che avevo voglia di fare era sdraiarmi sul mio letto e piangere.
Poi in un istante di lucidità decisi di inviare un messaggio a Liam. Mia madre sembrò sollevata dalla mia reazione; qualunque fosse stata - probabilmente anche se mi fossi lanciata dal finestrino - lei avrebbe gioito.
"E' arrabbiato con me?", scrissi nel messaggio, riprendendo a guardare fuori mentre aspettavo la risposta. 
Non staccai la musica perché sapevo che se l'avessi fatto, mia madre avrebbe cominciato a chiedermi ripetutamente cos'avevo.
Il mio Nokia vibrò due volte, e con un brusco movimento del collo, puntai lo sguardo sul display.
"Più che altro è arrabbiato con se stesso perché non è riuscito a svegliarsi in tempo". Okay, Harry era arrabbiato, e non era una buona cosa. Odiavo saperlo triste o in qualche modo privo di quel suo magnifico sorriso, ma almeno non mi odiava.
"Sicuro che non mi odi?", gli chiesi una conferma.
Mentre attendevo, presi a girarmi i pollici. "Non ci riuscirebbe mai".
Premetti il pulsante accanto al mio braccio e abbassai il vetro per far sì che il vento mi arrivasse dritto in faccia. Aprii la bocca per inspirare un'intensa boccata d'aria e per rilassarmi. Il macigno che avevo sullo stomaco era sempre lì, però.
«Che diavolo stai facendo?», chiese mia madre, nel momento esatto in cui terminò la canzone. 
«Nulla», risposi subito. «Ho caldo», mi giustificai.
Appena partì la canzone successiva presi a muovere la testa come se stessi ascoltando un pezzo house, in modo da impedirle di pormi qualsiasi altra domanda.
Un po' stupido da parte mia, siccome ero sicura che mi avrebbe messa alle strette una volta arrivate a casa, ma amavo temporeggiare, per riordinare i pensieri e per prepararmi psicologicamente a una serie di esclamazioni del tipo 'E' famoso!', 'Non potrete mai stare insieme!' o 'Appartenete a due mondi diversi, dimenticalo!'.
Con la coda dell'occhio la vidi fare una smorfia e alzare gli occhi al cielo.
Dopo circa cinque minuti, l'auto inchiodò sotto il nostro palazzo. Poggiai i piedi sull'asfalto, fissando l'edificio a tre piani che mi stava di fronte.
Non mi erano mancati per niente i mattoni rossicci che ricoprivano la facciata, né le tende da sole bianche e gialle che puntualmente si trovavano fuori ad ogni balcone, né i fiori sempre secchi della signora del secondo piano.
Mia madre utilizzò l'ascensore, portando con sè una valigia. Io utilizzai le scale, decidendo di fare, in compagnia della mia minivaligia, un po' di attività fisica per arrivare in cima all'edificio.
Mi fece uno strano effetto entrare in casa. 
Non c'era il solito odore di chiuso, le tende erano aperte ed il sole illuminava il pavimento di ogni stanza. 
Guardai le mattonelle beige sulle quali passeggiavo e mi sembrava passata un'eternità dall'ultima volta in cui le avevo viste. 
Diedi un'occhiata in ogni stanza: la cucina, il bagno, il salone, e infine mi affacciai nella mia cameretta, notando con piacere che la coperta rosa confetto era scomparsa, rimpiazzata da una di colore azzurro cielo che richiamava le tende trasparenti blu, anch'esse nuove.
La mia stanza non sembrava più la vecchia stanza cupa e piena di dolore che mi aveva accompagnata per diciotto anni. Era pronta ad accogliere una nuova Lizzie, benché lei non si sentisse ancora pronta a mostrare il cambiamento che si era verificato a Londra.
Lui non c'era, non poteva aiutarla a liberarsi del guscio che aveva usato come scudo per tutti quegli anni.
Rimasi impalata sulla soglia, visualizzando per un attimo la camera d'albergo che aveva assistito ai momenti più belli della mia vita, e sentendo un vuoto nel petto che si allargava ad ogni respiro che facevo.
Mi sentivo incompleta, come se avessi dimenticato di mettere in valigia una parte di me, insieme ai ricordi.
Già mi mancava la sua voce, non ricordavo quasi più le ombre dei suoi occhi verdi, o forse era solo il timore di dimenticare ogni piccolo particolare del suo viso che mi influenzava. 
Sentivo il disperato bisogno di visualizzarlo di nuovo accanto a me, di vedere il suo volto a pochi centimetri dal mio e le sue labbra danzare insieme alle mie, o di sentire le sue mani grandi e calde muoversi su ogni mio lembo di pelle e i suoi ricci sfiorarmi la fronte.
Mi mancava il suo sorriso aperto, ogni risata trattenuta e le sue fossette; ogni sfumatura della sua voce quando cantava, ogni suo movimento e piccolo gesto, ogni volta che mi guardava come se fossi la cosa più preziosa esistente al mondo.
Tutte le volte in cui mi aveva fatto sentire protetta, al sicuro; tutte le volte in cui mi aveva contagiato con la sua allegria, le ultime sere in cui tutto ciò che faceva era asciugare le mie lacrime, le volte in cui ci eravamo addormentati stringendoci per mano e ci eravamo svegliati proprio così, forse solo più vicini di prima.
Mi mancava e basta. Come se tutto il mio mondo avesse cominciato a girare intorno a lui e l'asse si fosse spostato terribilmente. 
E tutto ciò che avrei dovuto fare era trovare una soluzione affinchè la mia Terra potesse ritornare a ruotare come aveva cominciato a fare pochi giorni prima.
Senza nemmeno accorgermene, avevo preso il mio cellulare, e in quel momento stavo fissando il mio sfondo.
Non avevo nessuna foto di noi due, nessuna foto che potesse testimoniare che quella che avevo vissuto era la realtà, l'unica e sola, ma avevo le sue immagini. Avevo le immagini che ritraevano tutto ciò che più amavo di lui: il sorriso e i suoi occhi, benché fossi consapevole che le foto non avrebbero mai potuto permettermi di immergermi in quel mare verde.
"Mi manchi già", scrissi senza pensarci, e lo inviai a lui.
Senza attendere come una povera disperata una risposta, andai in cucina e scansai mia madre - che intanto era rientrata in casa -, dirigendomi verso la dispensa e afferrando un craker.
Quello sarebbe stato il mio pranzo.
«Dopo ci penso io, tranquilla», le dissi, notando che aveva cominciato a disfare le valigie.
Agile come una gazzella, attraversai di nuovo il corridoio ed entrai in camera mia, pronta a chiudere la porta della stanza.
«Lisa, aspetta!», urlò lei, bloccandomi prima che potessi portare a termine l'impresa. Odiavo il soprannome Lisa, ormai.
«Lizzie», la corressi automaticamente, senza neanche notare che l'avevo detto davvero.
Lei mi guardò accigliata, una volta arrivata sulla soglia. «Come?»
«Lizzie», ripetei io. «Preferisco Lizzie», risposi, senza la minima voglia di approfondire il discorso.
Lei ripetè quel buffo nomignolo per abituarsi al suono, senza smettere di fissarmi con un'espressione alla 'questa è pazza'.
«Lizzie», fece di nuovo. Quante volte l'avevamo detto in un intervallo di tempo di circa quindici secondi?
Sbuffai impercettibilmente. «Volevi chiedermi qualcosa?»
Lei sorrise di nuovo, così come aveva fatto all'aeroporto. «Sì, vorrei parlarti», disse, e notai nella sua voce un pizzico di emozione mista ad agitazione.
Spalancai la porta, invitandola a sedersi sul mio letto. Io mi appoggiai sullo sgabello di legno a forma di mano. «Spara».
«Ho conosciuto una persona. Ci stiamo vedendo tutte le sere ormai. Si chiama Leonardo ed ha un figlio di cinque anni; è dolce e premuroso, mi porta dei fiori ogni volta che ci vediamo...», cominciò a parlarmi della sua vita sentimentale, e provai gioia e frustrazione nello stesso istante, ma mi sforzai di mantenere un sorriso sincero.
Lo meritava, dopo tutto quello che aveva passato con papà. 
Mi parlò del ristorante cinese in cui l'aveva portata la prima volta che erano usciti insieme, e di come l'aveva abbordata mentre faceva benzina. Poi iniziò a parlare di come lui si preoccupava per lei, del fatto che suo figlio era una peste ma aveva i capelli biondi e un viso d'angelo. 
Lui portava la barba e il pizzetto, ma si presentava alla porta di casa sempre in giacca e cravatta; aveva trentotto anni ma ne dimostrava di meno, ed era un gentiluomo.
Finì di illustrarmi anche la sua carta d'identità e poi concluse con un 'volevo solo fartelo sapere'.
«E' fantastico, mamma», dissi, cercando di mostrare la felicità che provavo per lei, anche se era al momento oscurata da un senso di abbandono e di mancanza che si faceva sempre più forte.
Mi alzai per abbracciarla, e lei mi strinse forte, visibilmente contenta del fatto che a me facesse piacere. 
«Grazie, tesoro», mormorò, muovendo velocemente una mano dietro la sua schiena. Mi allontanai e mi sedetti di nuovo appena lei mi chiese: «E tu hai qualcosa da dirmi?»
Esitai qualche istante, cercando di spiegarle la faccenda nel modo più semplice possibile.
Adocchiai dietro di lei un poster. «Lo vedi quel ragazzo con i capelli ricci, dietro di te?», le chiesi, indicandolo con un dito.
Lei si girò, chiedendomi poi, esterrefatta: «Quello dei One Direction?», con un'accento inglese da far pena.
«Esatto», feci, cercando di calmarmi e di ignorare le farfalle nello stomaco. «L'ho conosciuto»
Lei si illuminò. «Davvero? Oh, tesoro, sono contenta per te! Mi parlavi sempre di lui e degli altri»
Sorrisi debolmente. «Stiamo... ecco, stiamo insieme», le dissi, balbettando. Feci un respiro profondo, come se avessi voluto respingere tutti i sentimenti che stavano venendo a galla grazie a quelle semplici parole.
Lei mi guardò allibita. «Che significa?».
Ecco le esclamazioni, ero pronta ad accoglierle a braccia aperte. «Lo amo, mamma», la fermezza con cui lo dissi mi spaventò. «Abbiamo passato tutta la vacanza insieme».
Avrei voluto cominciare a parlare a macchinetta come aveva fatto lei; avrei voluto raccontarle ogni particolare di lui, ogni cosa che potesse farle capire quanto meraviglioso era quel ragazzo, ma non ci riuscivo.
Sapevo che se l'avessi fatto sarei caduta a pezzi, ed ero certa che nemmeno lei sarebbe riuscita a rimettermi insieme.
«Ma lui è famoso!», eccone una.
«E con questo? Non cambia ciò che provo per lui, e ciò che lui prova per me». 
Lei si sorprese della prontezza con cui le fornivo le risposte, e della sicurezza che traspariva - finalmente - nella mia voce.
«Sembri così sicura di quello che dici», disse lei, con l'intento di smontare tutte le mie certezze. «Lo conosci solo da due settimane»
«E mi sembra di conoscerlo da una vita. E' meraviglioso, mamma. Se solo tu potessi capire», mi morsi il labbro inferiore, socchiudendo gli occhi per ricacciare indietro le lacrime. 
Il cellulare vibrò tra le mie mani, avvisandomi che era arrivato un nuovo messaggio.
All'improvviso ricordai quello che gli avevo inviato, e rimasi solo un istante a fissare il viso sconvolto e confuso di mia madre, poi parlai con quanta più calma possibile. 
«Possiamo parlarne dopo?», mi alzai e le afferrai un braccio, costringendola ad abbandonare il mio letto. 
Eravamo faccia a faccia; la guardai intensamente. «Fidati di me per una volta, okay?», le chiesi speranzosa.
Lei scosse la testa e si diresse verso la porta. «Ne parliamo dopo!», fece, richiamando le mie parole. La solita testarda.
Appena uscì, mi resi conto che le avevo tenuto testa e che non aveva esagerato con le esclamazioni devastanti, ma era meglio non cantare vittoria.
Aprii il messaggio, con la stessa ansia che di solito mi assaliva. 
"Mi manchi anche tu".
 
 
Il suo telefono squillava da un po', ma ancora nessuna risposta.
Mi rigirai nel letto, voltandomi verso la finestra, in modo che un po' d'aria fresca mi colpisse in pieno viso. Agosto era quasi finito, ma il caldo non voleva saperne di andare via. 
Erano le due di notte, all'incirca, e la luna era altissima nel cielo. 
La luce fioca aveva disegnato un rettangolo grigio sul pavimento e sulla parte finale del letto sul quale ero sdraiata. 
Mi voltai di nuovo, prendendo a guardare il soffitto, con il cellulare schiacciato sulla faccia. Squillava ancora.
In quegli ultimi giorni avevo immaginato che quella bellissima routine avesse potuto durare per sempre.
Colazione a letto, una passeggiata per le strade di Londra, il ritorno in albergo e il solito giro di lui nelle varie radio, il pomeriggio passato a chiacchierare e poi a guardare il tramonto dalla finestra della mia stanza, una passeggiata serale nel parco e infine la visione di un film noleggiato, mentre eravamo sdraiati a letto e mentre ci stringevamo forte, come se la fine del mondo fosse stata vicina. 
E infatti, era proprio così.
Il mio letto quella sera era vuoto, troppo piccolo e poco accogliente.
«Hey», rispose infine, e la sua voce mi provocò brividi diffusi in tutto il corpo, un pugno nello stomaco e le lacrime agli occhi. Non ci vedevamo da un giorno. 
Cos'era un giorno rispetto ai mesi che mi aspettavano senza di lui?
«Ciao», gli dissi, con la voce rotta. Cercai di tornare in me e di smetterla di pensare in modo negativo. Ci saremmo rivisti presto.
«Senti, Liz... non volevo che pensassi che ero arrabbiato con te. Mi dispiace tanto»
Il mio cuore perse un battito. «La colpa è mia. Tu avresti avuto tutti i motivi per esserlo. Mi dispiace di non averti salutato, ma non ce l'avrei fatta a guardarti negli occhi e a lasciarti andare un istante dopo»
Rispose subito. «Lo so, ho letto la lettera. E' bellissima amore, davvero». Riflettei sul suono dolce che quella parola aveva assunto detta da lui. 
«Non ce la faccio più. Sono passate solo ventiquattro ore e già non resisto più».
Lo sentii abbozzare una risata triste, poi fece qualche istante di silenzio. «Quando ritornerai?»
«Appena posso. Ho deciso di lavorare in un bar per racimolare i soldi del viaggio, in modo da poterti raggiungere verso la fine di settembre».
«Posso pagarti io il viaggio!»
«Scordatelo», lo interruppi. «Hai già speso troppo per me in questi giorni, tu e le tue romanticherie», ridacchiai piano, notando che il senso di vuoto si era alleviato.
Rise anche lui. La sua risata era la più bella che avessi mai sentito. 
«Sai cosa credo, invece? Che presto verrò io a trovarti. C'è un'iniziativa in corso che ci porterò a far promozione anche in Italia. Mi prometti di esserci?»
«Come potrei mancare?»
Immaginai che stesse sorridendo, perché fece una pausa.
«Ci sentiremo tutte le sere, vero?», chiese lui.
Mi riempiva di gioia sapere che per lui costituivo un bisogno di prima importanza, così come lui lo era per me. Come il cibo, l'acqua, l'aria.
«E tutte le mattine per il buongiorno. Non voglio sentire la tua mancanza neanche per un attimo»
«Non accadrà. Sarò sempre accanto a te, ricordalo. Finché mi vorrai.»
Sorrisi, piena di lui, della sua voce, della sua dolcezza e delle sue promesse. «Ti voglio ora e ti vorrò per sempre».



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Ciao tesori!
ho postato prima, avete visto? uu
per ringraziarvi delle recensioni e delle bellissima parole che ogni volta mi scrivete. 
grazie a tutte, soprattutto alle 107 persone che hanno messo questa storia nelle preferite. un giorno mi farete collassare. AHAHAHA
non ho riletto il capitolo e non mi piace tantissimo, come al solito.
sono di fretta e non posso dilungarmi (secondo me sarete anche contente ahaha), perciò adios! a presto <3 
e grazie ancora, clà.
ps. a breve, forse domani, posterò la nuova ff. se volete essere avvisate lasciatemi i vostri nick nella recensione così posso avvisarvi <3

 

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Capitolo 24
*** stronger. ***





stronger.

Camminavo lenta per le strade di Roma, cellulare alla mano, spostando lo sguardo un po' ovunque, dal cielo agli alberi, dalla ragazza in bicicletta al signore grassoccio di una macelleria. 
Era passata un settimana dal ritorno a casa, e stavo cercando di ricordare tutti i particolari della capitale, per tentare di capire se mi erano mancati, o se, in un ipotetico futuro, ne avrei avuto nostalgia.
Certo, quella città era così bella e così viva, il cielo era sempre azzurro in estate, non c'era tristezza nelle vie - a parte quella che mi portavo dietro come un'ombra -, ma ogni posto sembrava essere terribilmente vuoto senza di lui.
Probabilmente anche l'Antartide mi sarebbe sembrata accogliente e meravigliosa, con Harry accanto a me.
Sorrisi di quel mio pensiero così assurdo, cancellando l'immagine di un pinguino che mi era appena passata davanti agli occhi, e scossi la testa.
Erano le otto del mattino ma il sole cominciava a farsi caldo, sebbene fossimo ormai ad inizio settembre. Guardai i jeans chiari che mi fasciavano le gambe, continuando a camminare, e maledii il direttore del bar che aveva incluso nell'accordo l'assenza di pantaloncini o minigonne. Con quella temperatura ancora largamente estiva, avrebbe potuto fare uno strappo alla regola.
Con una sola mano, feci scivolare il cellulare all'interno della mia tracolla bianca, e attraversai la strada non appena le auto si fermarono a causa del semaforo rosso.
Dall'altro lato, proprio di fronte a me, c'era il bar dove avevo deciso di lavorare per un po', finché non avrei avuto i soldi necessari per ritornare a Londra. 
Era abbastanza grande, con un lungo bancone in legno chiaro che conferiva al locale un'atmosfera calda e familiare, e una lunga fila di tavoli circolari attorniati da sedie in ferro battuto. Un grande lampadario posto al centro provvedeva ad illuminare l'interno, e un gran numero di bottiglie riempiva gli scaffali posti sul lato destro.
La prima volta che ci ero entrata, per chiedere se avevano bisogno di personale, avevo avuto una sorta di deja-vu. Tutto l'insieme, l'insegna luminosa all'esterno, la disposizione dei tavoli e il resto, mi faceva ripensare al Peter's, il locale del padre di Chelsea.
In quel momento avrei voluto dire 'sono a casa', 'sono di nuovo qui', e invece non vedevo altro che la faccia perplessa del barista che si stava chiedendo se avevo intenzione di ordinare. 
Per fortuna dopo qualche secondo mi ero ripresa, e avevano sorvolato sul fatto che all'inizio ero sembrata una ritardata mentale rinchiusa nel suo mondo incantato. 
La paga mensile non era un numero esorbitante, ma sarei riuscita ad accumulare abbastanza denaro anche in soli trenta giorni di lavoro.
Entrai nel bar con un sorriso, pronta ad affrontare la nuova giornata, ricordando il messaggio del buongiorno che Harry mi aveva inviato quella mattina alle sei circa. Si svegliava sempre a quell'ora per guardare l'alba, e ogni volta mi inviava un sms dicendo che in quel momento pensava sempre a me, dato che, negli ultimi giorni, quello era stato un rituale che avevamo fatto insieme.
Inutile dire che la sua dolcezza era troppa ma mai abbastanza, per me che non mi ero mai sentita così importante in diciotto anni di vita, mai così speciale.
«Salve a tutti!», salutai allegra, voltandomi verso uno dei dipendenti, - di cui non ricordavo più il nome - che già indossava la divisa e si era già messo all'opera.
Il mio compito era più o meno chiedere ai clienti seduti ai tavoli di ordinare, ripulire il bancone, i tavoli e i pavimenti, e servire bicchieri d'acqua a chiunque entrasse. Cornetti, brioches e caffé mi erano ancora estranei.
Appesi la mia tracolla sull'attaccapanni posto in uno sgabuzzino separato dal resto del locale con una porta a soffietto, e indossai la mia 'divisa' bianca, se così si poteva chiamare. 
Afferrai il blocchetto delle ordinazioni dallo scaffale e lo infilai in una delle due tasche anteriori, poi presi uno straccio e, dopo essermi guardata intorno, presi a pulire i tavoli.
Ero veloce, e fortunatamente riuscii a finire prima che entrassero dei clienti.
Le ore passavano tranquillamente, per mia fortuna, ma verso le undici vidi varcare la soglia l'ultima persona che mi sarei aspettata di vedere.
Lunghi capelli biondi, occhi azzurri, camicetta rosa striminzita, shorts e tacchi alti circa dodici centimetri.
Sofia avanzò all'interno del bar facendo voltare tutti i presenti, richiamati dal suono che le sue scarpe creavano sul parquet. Dopo la sua entrata trionfale, qualcuno si rigirò verso il suo caffé; altre persone, come ad esempio i ragazzi seduti ai tavoli, presero a fissare il suo sedere, senza preoccuparsi di risultare discreti.
Ecco, lei era una delle mie ex compagne di classe del liceo, una di quelle che mi faceva sentire inutile.
Appena si voltò verso di me per rivolgermi uno dei suoi sorrisi falsi misto ad un'espressione sorpresa, sentii tutte le mie sicurezze crollare. 
Aveva i capelli lunghissimi e un fisico talmente perfetto da fare invidia alle più grandi modelle. Non era maldestra, era sicura di sé e aveva sempre la risposta pronta: insomma, il mio esatto opposto.
Abbassai lo sguardo subito dopo aver accennato svogliatamente un sorriso, e terminai di pulire il ripiano in marmo, poi andai verso di lei che si era già seduta all'ultimo tavolo con le gambe accavallate, pronta ad essere servita. Parlottava con le sue tre 'amiche' - bionde ossigenate proprio come lei e più finte delle Barbie -, ma ogni tanto mi riservava qualche occhiata.
Non c'era mai stata amicizia tra quelle quattro, era solo un rapporto di estrema convenienza. 
Appena fui vicina, spalancò gli occhi e mostrò un sorriso perfetto. «Lisa, che sorpresa!», esclamò, e fui tentata di correggere quel dannato nomignolo. Feci finta di essere contenta di rivederla, cercando di mostrare un'espressione entusiasta. 
«Ciao Sofia!», feci, ma la mia voce era più finta della sua faccia, coperta da quintali di trucco. 
«Non mi aspettavo di trovarti qui», disse, mentre le altre tre svampite ridacchiavano di chissà quale cosa. 
Cercai di restare calma, anche se mi era inevitabile pensare che stavano ridendo di me. «Ho deciso di trovare un lavoretto estivo, a casa mi annoiavo», mentii, ricordandomi all'istante che lei sapeva del viaggio a Londra.
Mi sorrise, socchiudendo gli occhi come se avesse voluto aprirmi la testa per capire se avevo detto la verità. «Hai ragione! E' tutto così noioso! Il liceo mi manca un po', sai? Non faccio altro che girare per i centri commerciali e portare a casa vestiti su vestiti.», disse, come se le dispiacesse fare shopping e spendere i soldi che i suoi genitori ricchi sfondati le fornivano. In realtà, sia io che lei, sapevamo che era l'esatto contrario.
Le sorrisi. «Dev'essere una vita così dura», le risposi sarcastica. 
Lei inclinò la testa da un lato, pronta a farmi fuori. «Allora, Lisa», sottolinenando con enfasi il mio nome. 
Mi morsi la lingua.
«Com'è andato il viaggio a Londra?», domandò, riaprendo vecchie casse piene di ricordi, vecchie lacrime, sorrisi lontani, occhi verdi che mi mancavano da morire.
«Alla grande, mi sono divertita moltissimo», ma nella mia voce non c'era traccia di entusiasmo, anzi, mi sforzai di mantenerla ferma e non tremante e rotta. Per non destare sospetti, sorrisi di nuovo, poi qualcuno mi richiamò, facendomi notare che il bar era pieno. Spostai lo sguardo sul tavolo accanto a quello di Sofia, consapevole del fatto che fosse compito mio rimuovere i bicchieri e le briciole. 
«Volete ordinare, ragazze?», domandai, estraendo dalla tasca il blocchetto e la penna. 
Sofia sembrò seccata dal fatto che il suo tentativo di estorcermi informazioni fosse andato in fumo, le altre tre dal fatto che non avrebbero potuto impicciarsi dei miei affari.
«Quattro succhi all'ananas», ordinò una delle Barbie, scatenando le risatine senza senso delle altre. Non c'era nulla di ironico in quella frase, ma molto probabilmente il loro cervello era gravemente danneggiato.
Con velocità estrema, consegnai le ordinazioni, cercando di non rovesciare il vassoio durante il tragitto verso il loro tavolo, e cercando di tenerlo lontano dalle quattro arpie per evitare qualche 'accidentale' inconveniente.
Tentai di liquidarle con un sorriso, poi portai i bicchieri e le tazzine del tavolo accanto sul bancone, e tornai munita di uno straccio per ripulirlo. 
Sofia approfittò della vicinanza per continuare il discorso precedente. «Dai, racconta un po' cosa hai fatto a Londra!», fece, creando una sorta di coro proveniente dalle altre tre ritardate che mi incitavano ad assecondare la richiesta.
Non le guardavo nemmeno, ero troppo occupata a ripassare sullo stesso punto.
«E' stato fantastico! Ho visitato tutti i musei, ho girato per i parchi, sono salita sul London-Eye... il tempo è uno schifo, neanche minimamente paragonabile a quello che c'è qui. Gli inglesi sono gentili, anche se è difficilissimo comprendere le loro parole. Per quanto riguarda il cibo preferisco quello che c'è qui. Infatti...», parlavo a macchinetta, cercando di soddisfare tutte le sue curiosità per poi filarmela senza darle altro tempo, ma lei mi interruppe.
Fissava il tavolino che mi ostinavo a ripulire, ma quando mi fece quella domanda mi inchiodò con lo sguardo.
«Sai, ultimamente sono andata in giro per i vari siti. Sembra che il cantante del gruppo idiota che adori, abbia trovato una ragazza.», mi sorrideva, e nei suoi occhi riuscivo a leggere tante cose. Sapeva che quella ragazza ero io, ed era contenta di averlo scoperto, ma non aveva idea di quanto quella frase facesse male. Per lei era solo uno scoop che cercavo di tenere nascosto.
Le sue amichette ridacchiavano, ovviamente ignare del fatto che il volto associato alla ragazza di Harry Styles era il mio. 
Deglutii, cercando di ignorare quel fastidioso senso di nausea.
Non osavo alzare lo sguardo. Sistemai le sedie intorno al tavolo e con la voce più dura possibile, dissi: «Lo so», sorridendole, quasi volessi complimentarmi con lei della scoperta. Chiaramente, essendo a conoscenza della mia vacanza, non aveva impiegato altro tempo per ficcanasare. 
Che ragazza impegnata.
«Siete davvero carini, sai? Vi completate a vicenda», continuò, mentre io mi spostavo sulla sua sinistra per pulire un altro tavolino. Sfortunatamente, erano tutti abbastanza vicini.
La vidi appoggiare il mento sulle braccia che aveva intrecciato sullo schienale della sedia. Le sue amichette spalancarono la bocca, io non osavo fiatare. «La perfezione e il nulla, accoppiata perfetta». 
Presi a sfregare lo straccio con più forza, cercando di trattenermi. Riportò a galla tutte le mie insicurezze e i vecchi pensieri, ma con tutte le mie forze, tentai di far emergere la nuova Lizzie.
Cominciai a riflettere. 
Era praticamente venuta in quel locale, e casualmente aveva trovato me, che avevo da poco terminato una vacanza a Londra di cui lei conosceva tutti i retroscena. Davvero casuale, sì. 
E a quanto pareva, non vedeva l'ora di mettermi al tappeto. «Sei solo gelosa.», constatai a bassa voce, ma lei mi sentì chiaramente. 
«Di cosa, mia cara? Non sono gelosa di una nullità».
Finalmente riuscii a guardarla, e sul mio viso sentii comparire un sorriso vittorioso. «Intanto la nullità ha accanto a sé la perfezione, cosa che tu non otterrai mai. Tutto ciò che ti meriti sono quei tre cagnolini che ti porti dietro per farti leccare il culo», dissi, notando che alcuni presenti si erano voltati nella nostra direzione.
Lei sembrò sorpresa della mia risposta, e rise nervosamente, facendomi intendere che avevo guadagnato un punto.
Lizzie uno, Sofia zero.
«Quel ragazzetto è accanto a te?», si spostò per sbirciare dietro di me e per fare scena. «Io non lo vedo, tesoro». 
Quel sorriso imbecille non se ne andava dalla mia faccia. «Da questo puoi facilmente capire che ha una vita davvero impegnata, a differenza della tua che ti lascia abbastanza tempo per impicciarti degli affari altrui. Che c'è, Sofia? Sei così disperata che passi il tempo a cercare notizie su di noi? La tua vita sentimentale fa così pena?»
Mi richiamarono di nuovo, ma non mi voltai.
«Mi dispiace mia cara, ma quella che tu chiami nullità, ha vinto. E non sto parlando di un concorso di bellezza a cui tu partecipi mostrando sfacciatamente le tue tette rifatte e i tuoi capelli tinti», e a quel punto gli occhi rivolti verso di noi aumentarono. Sofia era rossa in viso.
«Sto parlando di qualcosa di meno superficiale: ho conquistato una vita migliore della tua, a quanto pare. Sono felice
Le sue tre cagnoline ossigenate guardavano il loro capo in attesa di una risposta, ma lei non sembrava intenzionata a rispondere. Quasi credetti che avesse ingoiato la lingua.
«Ah,», continuai. «se quello che ho detto ti ha reso triste, non devi fare altro che andare in un centro commerciale e spendere tutti i soldi che il tuo paparino ti regala. Altra prova che tu non hai mai lottato per nulla, e che godi a prendere di mira le persone che invece lo fanno ogni giorno. L'invidia ti sta divorando, ma sei ancora in tempo per salvarti».
«Lisa!», la voce burbera che imprecava urlando il mio nome non mi spaventò. Fissai il succo all'ananas sul suo tavolo, ancora intatto, poi guardai le sue guance infiammate e gli occhi spalancati e pieni d'ira.
«Mi auguro che il drink ti vada di traverso», dissi infine, e girai i tacchi per fare una di quelle uscite di scena che si vedono nei film. Due a zero, avrei dovuto segnarmela.
Camminai a testa alta verso il bancone, ignorando il direttore incazzato che seguiva le mie mosse con lo sguardo. Continuai a fare il mio dignitoso e umile lavoro, facendo finta di non averlo visto e cercando di interagire con le persone che attendevano di essere servite. 
Riempii dei bicchieri d'acqua, altri con del succo, e ripulii il banco appena notai che si era sporcato, il tutto con più entusiasmo di prima.
Era bellissimo sentire i commenti d'approvazione delle persone che guardavano ridacchiando Sofia e poi si voltavano verso di me annuendo. Un signore sulla cinquantina si sporse per far sì che lo sentissi solo io. Indicò discretamente con un pollice la signorina adirata seduta al suo tavolo. «L'hai fatta fuori», mi disse, e ridacchiai, ringraziandolo educatamente. 
La diretta interessata si fece sentire, facendo battere i tacchi sul pavimento più forte di prima mentre si dirigeva verso la porta, e prima di uscire fece una ramanzina a tutti i dipendenti. «Quel succo faceva schifo!», si lamentò ad alta voce, per far sì che tutti la sentissero. «Non metterò mai più piede qui dentro!», e uscì, solo dopo essere quasi inciampata sul bassissimo scalino che collegava il bar alla strada.
Trattenni una risata, a differenza degli altri clienti che se la ridevano di gusto. Alzai lo sguardo verso il ragazzo accanto a me, quello di cui non ricordavo il nome. Mi guardava stizzito. 
«Pardon», dissi, stringendomi nelle spalle.
 
 
Ero tornata a casa, piena di una strana sensazione di onnipotenza, di vera vittoria personale.
Avevo dimostrato che ero cambiata, o che - più o meno - stavo cambiando, e tutto grazie a quel ragazzo che era stato chiamato perfezione.
Non avevo mai avuto la risposta pronta, non ero mai riuscita a tener testa alle persone che mi attaccavano, non avevo mai avuto la meglio in un litigio. 
Ero sempre quella che ad un certo punto della discussione non sapeva più cosa che rispondere, perciò rimaneva muta con lo sguardo basso da cane bastonato, senza reagire, pur sapendo di avere la ragione dalla sua parte.
Ero sempre stata quella che, dopo il litigio, passava il tempo a riflettere sulle parole che le erano state dette e trovava le più belle risposte. 
Putroppo, era sempre troppo tardi.
Perciò, era davvero una conquista per me aver visto un cambiamento da quel punto di vista. 
Harry mi aveva dato delle sicurezze, mi aveva fatto capire che nessuno nasce speciale, ma può diventarlo solo se lo vuole. Harry mi aveva fatto capire che non ero inferiore a nessuno, che ero abbastanza sia per lui che per gli altri.
Ero quasi allegra quel giorno. O meglio, quella scenata al bar mi aveva fatto sentire meglio e molto più sicura di me, anche se la sensazione di vuoto non se n'era mai andata, neanche per un istante.
Riflettei sull'istante in cui avevo detto che ero felice, e persi circa due ore a pensarci, distesa sul letto a guardare il soffitto.
Non mi mancava nulla.
Avevo un tetto sulla testa, una madre, un lavoro che mi avrebbe permesso di tornare dalla seconda persona più importante della mia vita.
Il punto però, era proprio questo. Mancava un piccolo tassello del puzzle per sentirmi davvero felice, mancava lui a colmare quel vuoto e quella sensazione di solitudine che mi attanagliava a ogni ora del giorno. 
Quel piccolo tassello poteva rendere completo il quadro della mia vita, quel tassello poteva dare vita a tutto.
«Ciao, amore», dissi, cliccando su 'rispondi', poi mi rigirai nel letto e mi voltai verso la finestra. Mantenevo il cellulare incastrato tra la mia faccia e il cuscino e gli occhi chiusi, in modo da avere la testa piena della sua voce e la possibilità di immaginare il suo viso davanti al mio.
«Hey tesoro, come stai?», il suo tono profondo e il modo lento con cui parlava mi trasmettevano tranquillità.
«Bene, credo.»
Riuscii a visualizzare le sue tenere fossette. «Credi?»
«E' stata una giornata strana», ridacchiai piano. «Sono stata quasi licenziata ma ho ridicolizzato una mia ex compagna del liceo».
«Davvero?», rise di gusto, terribilmente sorpreso. Che bel suono. «Perché?», mi chiese.
«E' andata ad indagare sui siti inglesi, visto che proprio non riesce a farsi gli affari suoi, e ha scoperto tutta la storia di Harry Styles e la ragazza misteriosa.», dissi, terminando la frase in tono ironico. 
«E come mai l'hai ridicolizzata?», rise di nuovo, e riuscii proprio a visualizzarlo mentre lo faceva. «Proprio non riesco ad immaginarti, sai?»
Sorrisi. «In effetti anche io sono rimasta piacevolmente sorpresa delle risposte che sono stata in grado di darle. Alla fine non sapeva più che dire e la sua missione non si è conclusa come si aspettava».
«Che missione? Cosa ti ha detto?».
«Che sono una nullità e cose simili.»
Fece una pausa. «Una nullità? Come si è permessa?», sentivo un briciolo di rabbia nella sua voce. Nella mia testa risuonarono le sue parole - 'che accoppiata perfetta' - e la reazione di Harry mi fece piacere, in un certo senso. 
Si preoccupava per me.
«Ha conosciuto una Lizzie diversa durante i cinque anni delle superiori.»
Attese qualche istante. «Non devi lasciare che gli altri l'abbiano vinta su di te, chiaro? Loro non sono migliori di te, e non ti conoscono. Non sanno che persona meravigliosa sei.»
«Non sono meravigliosa, ma grazie, amore», inutile descrivere il sorriso da imbecille che era appena spuntato sulla mia faccia. Era bello da morire, e con bello non intendevo alludere solo al fatto che assomigliasse ad un dio greco. 
Era bello dentro, era pulito, sincero e vero. Una persona d'oro con un'anima meravigliosa, ecco come lo vedevo io. 
Ed era solo mio, mio e basta.
Respirai profondamente.
«Per me lo sei, lo sai benissimo. E smettila di sottovalutarti, voglio vedere un cambiamento anche per quanto riguarda l'autostima».
«Senti chi parla, quello che ha paura dell'esibizione a 'Red or Black'», sghignazzai divertita. Teneva tantissimo a quella performance, e il suo assolo lo spaventava da matti.
«Hey, è la prima volta che cantiamo What Makes You Beautiful dal vivo! Sii comprensiva», si difese.
Continuai a ridere piano, solo per non farmi sentire da mia madre. Eppure, nonostante tutto, ero sicura che avesse capito che prima di dormire una chiamata notturna era d'obbligo. «Lo so, idiota! Sto scherzando», sussurrai. «Andrai alla grande, vedrai». 
E a quel punto, prese a canticchiare, diminuendo il ritmo della canzone. Continuai a tenere gli occhi chiusi, lasciandomi cullare da quella melodia.
«Baby you light up my world like nobody else, the way that you flip your hair gets me overwhelmed», e giurai di averlo sentito ridere, ma ero in dormiveglia e la mia testa non formulava pensieri coerenti. «but when you smile at the ground it ain't hard to tell, you don't know.. you don't know you're beautiful»
 

harry. 
 
Quella sera, Lizzie mi mancava particolarmente.
Ero seduto a gambe incrociate sul mio grande letto matrimoniale, da solo. Era dannatamente triste non averla più accanto tutti i giorni, fare colazione con lei e permetterle di dare un morso al mio cornetto, o semplicemente stringerla forte e addormentarmi avendola tra le braccia. 
Vedere il suo viso appena riaprivo gli occhi era il più bello dei regali. La luce fioca del sole rendeva la sua pelle ancora più pallida, facendola quasi sembrare una bambola di porcellana, al punto che le lenzuola bianche quasi si confondevano con il suo colorito.
Le avevo fatto tantissime foto, mentre era immersa nel mondo dei sogni, ma lei non lo sapeva.
E proprio mentre le stavo canticchiando quella canzone, ne stringevo una tra le mani e la guardavo, tentando di ricordare com'era averla di fronte a me e cercando di rievocare la serenità che mi trasmetteva con un solo sorriso.
«Hey?», mormorai, non appena finii di cantare il mio assolo.
Non aveva risposto, e dall'altro lato sembrava non esserci nessuno, anche se non aveva interrotto la chiamata. 
«Stai dormendo?», continuai. Era capitato più volte negli ultimi giorni. Molto probabilmente il lavoro al bar consumava tutte le sue energie.
Sorrisi, pensando a quanto fosse diventata determinata.
«Sembra di sì.», ed io mi sentivo quasi un pazzo a parlare da solo. «Quanto vorrei averti qui, ora. Mi manca il profumo della tua pelle.», non poteva sentirmi, ma avevo bisogno di continuare a parlarle. 
«E anche se l'ho sentita un minuto fa, la tua voce già mi manca».
Feci un pausa. Chissà se mi stava sognando.
«Non te l'ho mai detto, e ho sempre pensato che il tuo essere insicura potesse portarti a pensare che per me non sei abbastanza importante, ma lo sento. Sappi che sento le stesse cose che provi tu. Anche se la paura mi ha bloccato e, alle volte, mi blocca tutt'ora, ho bisogno che tu sappia che ti amo. Ti amo, Liz, e prima o poi te lo dirò guardandoti negli occhi, non tramite uno stupido telefono», dissi tutto d'un fiato, e mi sentii più leggero. «Buonanotte, amore mio.»


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Ciao a tutte :)
okay, sono un po' in ritardo rispetto all'altra volta, ma non così tanto. lol
non ho riletto il capitolo, e al solito non mi piace tanto, ma spero che vi trasmetta almeno qualcosina :)
vorrei ringraziare le persone che recensiscono questa storia, mi avete fatta arrivare a più di 300 totali! JNGKEG poooi quelle che hanno questa storia tra le preferite/ricordate/seguite, e le 20 persone che mi hanno aggiunta tra gli autori preferiti :o ahaha incredibile.
che altro diiire, spero in tante recensioni, perché sapete che ci tengo da matti, e se ne vedo poche mi butto giù, fin troppo. AHAHAHA della serie 'okay, sta storia fa seriamente schifo' lol
btw basta uu 
aah! non so se posto un capitolo su chelsea e zayn, perché non mi va di interrompere la storia che è incentrata su harry e liz e perché non ho ispirazione ee bah, poi deciderò in seguito.

PS. ho postato la nuova FF con protagonista zayn :) mi farebbe tanto piacere sapere che ne pensate <3
e visto che non so mettere i collegamenti, vi lascio il link :') 
http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1143461&i=1

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Capitolo 25
*** smile. ***





smile.
 


10 settembre 2011.
 
"Rispondi, rispondi, rispondi", ripetevo nella mia testa, mentre il suo cellulare continuava a squillare. Mi ero appena alzata dalla sedia, dopo essere stata seduta davanti al pc per guardare l'esibizione al Red or Black, e dopo aver visto le sue mani tremare e la sua espressione cambiare, durante l'assolo, non avevo esitato a chiamarlo non appena usciti dallo studio.
Era la terza volta che provavo, ma non rispondeva. 
Stavo immaginando il caos del backstage, i responsabili del programma congratularsi con loro, e lui che cercava di andarsene da quel putiferio perché non era soddisfatto della sua esibizione.
Sapevo quanto tenesse a quella performance, e avevo letto nel suo sguardo tutta la paura del mondo e tutta la delusione che aveva provato in quei pochi secondi.
Con il tempo avevo imparato anche io a leggergli dentro.
La telefonata cadde nel vuoto, per l'ennesima volta, e rimasi per qualche istante a fissare lo sfondo del mio cellulare, il suo immenso sorriso. 
Guardai le pareti della mia camera, il buio che era già calato fuori dalla finestra, poi la porta semi aperta. Cliccai di nuovo sul tasto di chiamata, e restai in attesa, pronta a sentire la sua voce, pronta a consolarlo, sebbene le parole da dire non mi fossero ancora venute in mente.
Dopo una decina di squilli, rispose la segreteria telefonica. "La tua piccola Liz è qui per te", gli scrissi un sms, e premetti il tasto 'invio'.
 
 
Sentivo delle vibrazioni, ma non capivo ancora da dove provenissero.
Dopo qualche secondo, la mia mente acquisì lucidità, e rimasi quasi accecata dalla luce del display del mio cellulare, appena riaprii gli occhi.
Cercai di fare mente locale e di ricordare cosa fosse successo, poi tentai di muovere il braccio e di cliccare su rispondi. Portai lentamente il telefono all'orecchio. «Hey», sussurrai, con la voce impastata dal sonno, visualizzando nello stesso tempo l'orario che la sveglia segnava. Era l'una e mezza di notte, bene.
Poi, come se avessi subito una scossa elettrica, ricordai che prima di addormentarmi avevo provato a chiamarlo tante altre volte, senza successo. Ricordai l'esibizione che avevo visto in streaming, i suoi occhi verdi velati di paura, le sue dita tremare verso la fine dell'assolo, il suo sospiro di sconfitta e, nello stesso momento, utile per riprendere fiato.
«Ti ho svegliata?», la sua voce era strana, molto più debole del solito. Provai un tuffo al cuore e l'irresistibile voglia di prendere il primo aereo per correre da lui e abbracciarlo. 
«No, no», mi affrettai a rispondere, stropicciandomi gli occhi e cercando di schiarirmi la voce senza farmi sentire. «Come stai?», gli chiesi, appoggiandomi su un gomito. 
La mia stanza era terribilmente buia, ad eccezione dei numeri vivaci della sveglia. La luna, probabilmente, era troppo alta nel cielo per far sì che illuminasse l'interno della mia camera.
«Bene», una risposta troppo secca per essere sincera. 
«Sicuro?». Non avevo proprio la certezza che stesse male, ma avevo seguito molto il mio istinto e la conoscenza che avevo di lui e della sua testa incasinata. Sapevo quanto ci tenesse a quella performance, e sapevo che ne era rimasto deluso.
Attese qualche istante. «No», sospirò, e la sua voce si incrinò impercettibilmente.
Mi sistemai sul letto a gambe incrociate, strofinandomi la fronte con una mano e sentendo avvicinarsi una sorta di senso di colpa.
«Ho visto la performance, sai?»
«Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a quello schifo», fece, con voce dura e ferma.
Per qualche istante rimasi a bocca aperta. «Quello schifo?», ripetei. «Mi prendi in giro?»
«Perché dovrei? Ho rovinato la nostra prima performance, è così. E non provare a dire che non è vero», minacciò.
«Non è vero, Harry!», fu la frase che automaticamente uscì dalla mia bocca.
Lo sentii sospirare, frustrato. «Sì che lo è. Non avevo fiato, ero fuori tempo...»
«Eri agitato!», lo interruppi. «E' lecito che sia così, ma ciò non significa che tu abbia rovinato la performance. E' stata bella, davvero.»
«Bella? Ti prego, se hai intenzione di mentire perché mi conosci, allora è meglio che smettiamo di parlarne.»
Eccolo, l'immenso macigno alias senso di colpa. «Perché dici questo?»
«Perché tutti pensano che non sappia cantare, perché tutti mi odiano senza un motivo valido, perché quella fottuta performance ha fatto schifo. Perché sono qui? Perché?»
«Perché hai talento e meriti tutto ciò che stai avendo. Lo meriti, davvero. Sappiamo entrambi che sai cantare, ti ho ascoltato tantissime volte. Vuoi permettere a delle persone che di te sanno solo il nome di avere la meglio? Conta ciò che pensi tu, non ciò che pensano loro.»
«Conta invece.»
«Conta finché sono critiche costruttive. Quello è solo odio, invidia.»
«Ma cos'ho fatto? Perché mi odiano?»
Feci qualche secondo di silenzio, con un groppo in gola, riflettendo sul tono che aveva assunto la sua voce. «Non lo so», risposi sincera.
Lo sentii sospirare. «Su twitter continuano a parlarne», fece un altro sospiro, stavolta più pesante, più difficoltoso. 
«Lascia perdere quello che dicono, amore. Non sanno nulla di te.», e sentii le mie labbra tremare. 
«Io non ho fatto nulla, ma c'è tanta gente che continua a dire che mi odia, che mi vuole morto, che non valgo nulla! E' questo quello che merito? Solo perché durante quella maledetta performance non avevo più fiato? Perché l'ho rovinata? Le persone sono davvero così cattive? Cos'ho fatto, Liz? Sto solo vivendo il mio sogno, non ho fatto torti a nessuno. Cosa diavolo ho fatto?».
Deglutii, per mantenere la mia voce ferma, ma non riuscivo a fare altro che asciugarmi le lacrime e a scuotere la testa.
«Mi dispiace», singhiozzai, spazzando via bruscamente le scie bagnate che erano rimaste sul mio viso con il palmo della mano. 
«Perché stai piangendo?», mi chiese, anche se lui stava facendo lo stesso.
Il mio cuore batteva veloce e avevo il respiro affannoso. «Non posso aiutarti, mi sento impotente. Tu meriti tutta la felicità del mondo, okay? Non leggere quello che dicono, è solo invidia, sono solo parole scritte perché non si ha niente di meglio da fare. Tu non fai nulla di sbagliato, Harry, smettila di pensarci. Hai talento, sai cantare benissimo, e non devi abbatterti solo perché un'esibizione non è andata come volevi, va bene? Eri nervoso, hai lasciato che l'agitazione avesse la meglio su di te, ma è stata comunque una bella esibizione, okay? Smettila di piangerti addosso e di lasciare che gli insulti ti facciano male. Pensa alle mie parole, anche se non valgono niente in questo momento, anche se sono pessima a consolare le persone. Credi in te stesso; se la gente dice quelle cattiverie è perché sei speciale e vorrebbero avere ed essere anche solo un quarto di quello che hai e sei tu», terminai, con il viso rigato e un nodo in gola impossibile da sciogliere. Probabilmente a causa del pianto alcune parole erano state difficili da capire, ma speravo che almeno il senso di quel discorso gli fosse arrivato. 
«E per favore, non piangere. Non piangere, Harry, perché è terribile aver voglia di abbracciarti e non poterlo fare. E' terribile sapere che non sono lì con te, a dirti che va tutto bene», conclusi, col respiro corto.
Chiusi gli occhi, senza riuscire a contenermi. 
Dentro di me c'erano una miriade di emozioni diverse. Delusione, impotenza, dispiacere, rabbia.
C'era la rabbia che provavo verso quelle persone e la rabbia che provavo verso me stessa, distante chilometri e chilometri da lui.
«Non sei qui con me, ma l'effetto è quasi lo stesso, sai?»
Mi strofinai bruscamente gli occhi, cercando di ignorare il bruciore immenso che li attanagliava. Feci qualche respiro profondo, rallentando i battiti.
«Dici davvero?», mi sentivo una bambina. Stavo cercando di consolare lui e la situazione si era velocemente ribaltata.
«Davvero.», affermò. 
«Okay», mormorai. «Prometti di non pensare più a questa storia? Dimostrerai quanto vali nelle prossime esibizioni.»
«D'accordo». Non mi convinse.
«Fallo per me, almeno. Voglio saperti felice».
Fece una pausa che mi parve un'eternità. «Promesso».
Sospirai sollevata. «Mi fai un sorriso?», era una proposta idiota, siccome non potevo essere certa che lo avesse fatto, ma solo il pensiero mi faceva stare bene. 
«Un sorriso? Ma..» - «Sorridi e zitto», lo interruppi.
Lo sentii scoppiare in una risata debole, ma pur sempre una risata. Mi contagiò all'istante. «Fatto»
«Grazie», risposi.
«Sei splendida», esordì lui.
«Tu lo sei»
«Sono dannatamente fortunato»
«Io lo sono»
Scoppiò di nuovo a ridere. «Mi dispiace di averti svegliata», fece, con voce sincera e dolce.
«A me no. Sono contenta di averti sentito ridere».
Calò il silenzio dall'altra parte, solo per qualche secondo. «Vai a dormire adesso, al bar non accetteranno uno zombie come dipendente».
Sospirai, con un sorriso. «Penso che tu abbia ragione», feci. «Buonanotte amore, e ricorda la promessa»
«Lo farò».
 
 
1 ottobre 2011.
 
Avevo servito tutti i tavoli che avevano ordinato, velocemente, per poter rispondere al messaggio che mi era appena arrivato.
Non potevo toccare il cellulare durante le ore di servizio, ma siccome tutti i clienti erano stati soddisfatti, credevo di poter sprecare un minuto per scrivere un sms di risposta. Estrassi il telefono dalla tasca anteriore dei miei jeans, e aprii la busta.
"Hai deciso?", recitava. Il mittente era ovviamente Harry.
"Non ancora", risposi.
Era ormai passato un mese da quando ero tornata a Roma, e potevo fieramente e felicemente dire che non era cambiato nulla tra noi. Ci sentivamo a tutte le ore del giorno, passavamo le serate a chiacchierare finché uno dei due crollava, sentivamo sempre più forte il bisogno di ritornare uniti anche fisicamente.
Se, prima della partenza, mi avessero detto che tutto sarebbe rimasto com'era, non ci avrei creduto, anche se ci speravo.
Non avevo dimenticato le linee del suo viso, e nemmeno le sfumature della sua voce. Le telefonate costanti mantenevano vivo il ricordo, e così anche le foto e i continui video con i quali mi mantenevo informata su tutti i passi della loro carriera. Ovviamente, anche il rapporto con Liam era rimasto lo stesso.
E, di norma, conoscendo ogni passo della band, sapevo benissimo che fra due giorni sarebbero stati a Milano per una signing.
Harry aveva intenzione di sapere se ci sarei stata, ma in realtà non lo sapevo ancora.
Non volevo sprecare risparmi che mi avrebbero permesso di avere un soggiorno più comodo a Londra, benché sapessi che Harry avrebbe contribuito al mio mantenimento, in attesa che trovassi un lavoro, ma la verità era che avevo paura.
Avevo paura di ritrovare una persona diversa, davanti a me. Avevo paura di non riconoscere ogni dettaglio, di rendermi conto che il tempo per lui era passato senza di me.
"Non puoi non esserci", rispose subito.
"Non lo so.."
Mi guardai intorno, erano arrivati altri clienti. Misi da parte il cellulare e presi le ordinazioni, servendo e rivolgendo ai clienti un sorriso che voleva mascherare una certa ansia. 
In tempo record, ritornai a trafficare con il cellulare.
"Mancano due giorni, quando hai intenzione di scegliere?"
"Devo avvertire mia madre e vedere se è d'accordo", ma - adesso che ci pensavo - era proprio una scusa di merda.
"Fammi sapere allora", e sapevo quanto ci fosse rimasto male.
Feci un respiro profondo. "Non voglio vederti solo per cinque secondi. Ci saranno migliaia di fans e non avrai tempo per me. Abbi un po' di pazienza e non ci lasceremo più"
"Dubito che ci saranno così tante fans... comunque, è un no?"
Presi a fissare il display, pensandoci seriamente, poi chiusi gli occhi.



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HELLO EVERYBODY!
non posto da una vita, perdonatemi, ma è un periodo di merda e non ho voglia di fare nulla.
scommetto che non vi interessano i miei drammi, quindi niente. lol
23 recensioni allo scorso capitolo, VI AMO. e questa storia è seguita da 185 persone, per non parlare di quelle che ce l'hanno nelle preferite.
SIETE TANTISSIME, GRAZIE çç
e vorrei ringraziarvi anche delle mille visite all'altra FF e delle recensioni. egkjdgks
bah che dire, non mi piace tantissimo come al solito, ma spero vi faccia emozionare almeno un po'.
mancano pochi capitoli alla fine, circa... quattro, credo. (è quasi un anno che questa fan fiction esiste, inquietante)
okay basta, GRAZIE MILLE ancora per le recensioni e per tutte le bellissime parole che mi scrivete.
se volete dirmi qualcosa, mi trovate su twitter. sono ovviamente @stylesbreath
okay vado, ciao. lol <3

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Capitolo 26
*** born to be together. ***





born to be together.

Avevo mandato all'aria tutti i miei propositi: la decisione di restarmene a casa, quella di resistere ancora un po' al senso di vuoto e di abbandono, la scelta di assecondare la mia paura di ritrovare una persona cambiata davanti a me, una che non conoscevo, e il timore di essere mandata via come qualsiasi altra fan, di non poter ricevere abbastanza tempo e abbastanza attenzioni, quelle di cui avevo bisogno da un mese a quella parte.
E per quello, mi ritrovavo in una folla immensa di fan scatenate, alcune silenziose e pazienti, altre sguaiate e maleducate che a malapena conoscevano i nomi dei miei ragazzi.
Si, ormai erano 'i miei ragazzi'. Avevo sviluppato una sorta di attaccamento verso tutti e cinque, come se fossero diventati - nel poco tempo in cui li avevo conosciuti - i migliori amici che non avevo mai avuto.
Cercai di farmi spazio con le braccia, per cercare di salvare la mia stupida vita e di non soffocare, ma mi sentivo una completa idiota.
Intorno a me la felicità era palpabile, quasi fastidiosa, perché - in un pensiero assolutamente egoistico - avrei tanto voluto provare quel tipo di felicità anch'io; invece, dentro di me esplodevano un sentimento di ansia, agitazione e paura che mi stavano lentamente divorando.
Non riuscivo a rilassare il viso, avevo i muscoli contratti e rigidi, a differenza delle persone che mi circondavano, e mi sentivo stupida; stupida perché in quel momento sarei dovuta essere tutta gioia e sorrisi, e invece avevo solo voglia di piangere. 
Ogni fan che si aggiungeva alla folla, erano dieci secondi in meno per me, e potevo giurare che quell'ammasso di ragazze era immenso.
Ripensai al suo sorriso, alle sue fossette, ai suoi capelli ricci e ai suoi occhi verdi nei quali ero solita perdermi, e sperai con tutta me stessa che tutto fosse rimasto così come lo ricordavo. Speravo di ritrovare i piccoli dettagli del suo viso, il luccichio familiare nei suoi occhi che mi faceva sempre intuire che era contento di vedermi, e le sue espressioni strane in risposta alle mie reazioni, o il sorriso che gli spuntava ogni volta che mi vedeva arrossire.
Ricordai le nottate insonni passate a pensare a lui, a quello che c'era stato e al giorno in cui ci saremmo rivisti; i pomeriggi vuoti e senza senso, quelli che mi riempivano di tristezza perché non c'era il lavoro a distrarmi dalle mie mancanze; gli sguardi preoccupati di mia madre, convintissima che stare con una persona famosa non fosse assolutamente salutare per me; le mattine in cui mi svegliavo presto, ma restavo altre due ore a letto - a guardare con lo sguardo perso fuori dalla finestra - perché non trovavo un motivo valido per affrontare una nuova giornata senza di lui.
A rassicurarmi c'erano sempre i suoi messaggi che avevano il potere di rallegrarmi la giornata. Non lasciava mai trasparire il malumore quando parlava con me, perché sapeva benissimo che mi influenzava da matti, perciò si prodigava in battute idiote e nella narrazione del tempo trascorso con i ragazzi. Ma non mancavano le volte in cui passavamo le ore a chiacchierare delle cose serie, quelle che erano capaci di toglierti il sorriso, come ad esempio quando ci saremmo rivisti e se sarebbe successo, lo stress dovuto ai mille impegni e il desiderio di un po' di pace e tranquillità.
La vibrazione del cellulare fu capace di riportarmi alla realtà, e quasi sobbalzai quando mi ritrovai di nuovo in quel caos, tra le urla frequenti che nascevano dalle apparizioni di furgoncini che - a causa della frenesia - diventavano il mezzo su cui viaggiavano i One Direction, e sotto il sole cocente delle due.
"Dimmi che sei a Milano", recitava l'sms che aveva Harry come mittente.
Accennai un sorriso, sistemandomi gli occhiali da sole. Ero più o meno in incognito.  
La band era diventata più conosciuta e le foto di Londra erano arrivate anche in Italia. Speravo che nessuno mi riconoscesse, anche se dubitavo potessero ricordarsi del mio viso così anonimo. 
Assecondando un pensiero molto random, decidi di non dirgli che ero lì. 
Ero in gioco ormai, e tanto valeva muovere le pedine senza alcun aiuto. Non volevo che i bodyguard mi assicurassero il passaggio, non volevo essere considerata diversamente rispetto alle altre fan che erano lì, e che avevano già bloccato una strada. 
Era un tuffo al passato. Ero una qualsiasi ragazza che amava quella boyband con tutta sè stessa, al punto da essere disposta a passare una giornata con il sole che picchiava forte sulla mia testa. 
Volevo confondermi tra la folla, aspettare con ansia il mio turno ed arrivare di fronte a loro nei panni di una fan, non della ragazza di Harry Styles. E magari, gli avrei fatto anche una sorpresa.
"Magari fosse così", gli scrissi, e lo inviai senza pensarci due volte.
Cercai di non pensare alla sua reazione a quella risposta negativa e di immaginare il sorriso che avrebbe avuto quando mi avrebbe vista. 
"Ci speravo, sai?"
"Mi dispiace, amore. Prometto che ci vedremo presto, prima di quanto pensi", e sorrisi.
"Okay..", rispose, e quasi mi sentii in colpa, ma non gli diedi molto peso. 
Intanto il tempo passava, il caldo era sempre più insopportabile, sebbene fossimo agli inizi di Ottobre, e le forze diminuivano pian piano. 
Cercavo di muovermi sul posto, per evitare che le gambe si paralizzassero, ma erano ormai doloranti e stanche. 
Non scambiavo neanche una parola con le fan lì presenti. Passavo semplicemente inosservata, con i miei occhiali da sole e la mia piccola statura. Quasi mi sentivo messa da parte perché non avevo una maglietta personalizzata, con disegnini di carote e cucchiai, e per un istante una risatina debole dovuta a quel pensiero spezzò la mia agitazione.
Ormai il tempo passava sempre più lentamente, i capelli sembravano bruciare - ben esposti ai raggi del sole -, lo stomaco brontolava, e mi sentivo sempre più debole. Ma mancava poco al loro arrivo, o almeno erano queste le voci che giravano. Avevano già distribuito i braccialetti, e avevano tentato di accontentare tutte le fan - il cui numero era esorbitante, di certo inaspettato - distribuendo bigliettini di vari colori. Io avevo il ticket bianco.
Ogni tanto un'anima pia ci spruzzava con dell'acqua, ed io che ero quasi vicina a lui, trovai un po' di refrigerio.
Ripensai ai loro visi, a quello di Harry principalmente, e riuscii a trovare un po' di forza per continuare a restare in piedi e per vincere l'istinto di accasciarmi a terra e non rialzarmi mai più.
Per fortuna, dopo un intervallo di tempo che sembrò un'eternità, delle urla si alzarono dall'altra parte della folla, e le mie orecchie si riempirono di quel suono così acuto e così forte, al punto da costringermi a tapparmi le orecchie.
In quel modo, il battito del mio cuore sembrò ancora più percepibile. Era veloce e deciso, come se volesse avvisarmi che di lì a poco mi sarebbe uscito dal petto. Mi sentii senza forze, un peso leggerissimo, appena notai una chioma folta e riccia uscire velocemente dal furgoncino. Mi alzai in punta di piedi, ma resistetti circa cinque secondi. 
«Oddio, oh mio Dio», continuavo a ripetere tra me e me, come una cantilena. Intorno a me tutte le ragazze sorridevano, altre tremavano e urlavano, altre piangevano. 
Io semplicemente non riuscivo a credere che dopo un mese intero l'avrei rivisto di nuovo.
Mi arrivò un altro messaggio, e tentai con difficoltà di cliccare sui tasti giusti, per quanto le dita tremanti me lo permettessero. "Non riesco a crederci, Liz!"
Stavo per rispondere "nemmeno io", ma alla fine scrissi un "Cosa?"
"Ci sono più di mille persone, è incredibile", scrisse Harry, e riuscii a percepire la felicità e la meraviglia che provava.
Sorrisi, dimenticando per un istante le mie sensazioni, ma ricordando nello stesso momento che c'erano pochi metri a separarci.
«Ve lo meritate», risposi, ma lui non disse altro. 
All'improvviso, mi accorsi che la fila stava cominciando a muoversi.
 
Avevo lo sguardo fisso su di lui, come se non ci fosse altro da guardare in quel locale, come se fossimo stati faccia a faccia e lui mi avesse intrappolata con quei suoi occhi verdi.
Non riuscivo a soffermarmi sull'interno di quel luogo assolutamente nuovo, nè su ciò che mi circondava. Vedevo solo la fila di fan che mi divideva da quel tavolo, relativamente breve, e le mie gambe molli a stento riuscivano a procedere. 
Il chiasso intorno a me si era trasformato in un suono ovattato, impossibile da decifrare come un insieme di voci, e il mio cuore aveva preso a battere irregolarmente, come non faceva da troppo tempo.
Vedevo il suo viso rilassato e contento voltarsi verso gli altri e abbassarsi per un secondo sulla cartolina da firmare, il suo sguardo incontrare quello delle ragazze di fronte a lui, per poi spostarsi e perdersi per scrutare le fan presenti che attendevano impazienti.
Sperai che stesse cercando me, nonostante gli avessi detto che non c'ero. 
Desiderai che non mi avesse creduto, che dentro di sè avesse ancora un briciolo di speranza. 
All'improvviso, mi resi conto che la distanza tra noi stava diminuendo, e guardai la chioma bionda della fan di fronte a me, prima che si spostasse e mi permettesse di incontrare gli occhi azzurri di Niall.
Il cuore perse un battito e il respiro si fece affannoso, ma riuscii a sorridere. Lui stette per salutarmi in italiano, con il suo solito accento irlandese, ma appena mi riconobbe mi dedicò uno dei suoi sorrisi un po' storti. 
«Lizzie!», disse, e feci per zittirlo non appena mi accorsi che Liam, accanto a lui, si era voltato verso di me.
Firmò la mia cartolina, mentre mi sussurrava: «Credevo non venissi»
«Volevo fare una sorpresa ad Harry», mormorai di risposta, avanzando di lato quando l'omaccione accanto a me mi spinse debolmente. Gli rivolsi un'occhiataccia che durò pochi secondi, perché ero troppo occupata a sporgermi velocemente verso Liam per abbracciarlo. Avevo dimenticato i suoi occhi dolci che ricordavano il cioccolato. «Come stai?», farfugliai, senza aspettarmi una risposta. Stava accadendo tutto troppo in fretta. Non feci in tempo a godere di quel calore e a sorridergli di rimando, che dovetti spostarmi verso Zayn. Arrivai davanti a lui con l'indice sulle labbra, in segno di silenzio, e appena mi vide la sua bocca si aprì in un largo sorriso.
«Ciao bella!», fece in italiano, e trattenni una risatina. 
Intanto mi avvicinavo sempre di più a lui, e le occhiate di sottecchi erano sempre più frequenti da parte mia, così come i buchi improvvisi che nascevano al centro del mio stomaco. Arrivata di fronte a Louis, il mio sorriso era sparito, e cercavo con tutta me stessa di trattenere le lacrime e di calmare il respiro. «Shhh», sibilai, per evitare che urlasse il mio nome, e lui ridacchiò. «Sono contento di rivederti», disse, firmando velocemente la mia cartolina e passandola ad Harry. 
Quest'ultimo rivolse un 'ciao' alla fan sconvolta di fronte a lui, poi abbassò lo sguardo per prendere la mia cartolina e firmarla. Eravamo l'uno di fronte all'altra ormai, ma non aveva ancora alzato lo sguardo. 
Il mio cuore impazziva, il respiro si faceva sempre più debole e affannoso, e sperai che mi guardasse prima che mi spingessero via. «Posso abbracciarti?», chiesi, senza riuscire a controllare la mia voce tremante. L'istante in cui incontrò i miei occhi si svolse molto lentamente nella mia testa. Riuscii a vedere le sue iridi verde smeraldo, il suo sorriso bianco e perfetto, contento, spensierato, così come le sue adorabili fossette, in quel momento parecchio evidenti. "Ciao", fece per dire mentre alzava il capo, ma appena mi riconobbe, la sua voce si bloccò, come se avessero cliccato su 'stop' nel bel mezzo di una canzone. «Liz», mormorò, e il sorriso fu rimpiazzato da un'espressione inizialmente incredula, poi euforica. Sentii qualcuno afferrarmi il braccio, e poi vidi il suo bellissimo volto allontanarsi leggermente, ma Harry guardò l'artefice di quel cambiamento di visuale - forse il bodyguard -, e una mano calda ed enorme rimpiazzò quella precedente. 
Adesso si avvicinava, sentivo che mi tirava verso di sè, e nonostante ci fosse quel maledetto tavolo a dividerci, all'improvviso percepii le sue braccia stringermi e il suo respiro caldo sul mio collo.
«Harry», sussurrai, mentre lui mi abbracciava talmente forte da togliermi il fiato. Poi d'un tratto mi allontanò, per permettermi di aggirare il tavolo e di avvicinarmi meglio a lui. 
«Che stai facendo?», disse qualcuno. «Le fans stanno aspettando, sbrigati. Così perdiamo tempo», intervenne qualcun altro, o forse era la stessa persona. Ma lui continuava a stringermi, come se non ci fosse nient'altro intorno a noi, come se avessimo avuto l'eternità a nostra disposizione. 
Sentivo le sue mani muoversi dietro la mia schiena, e le lacrime rigarmi le guance, ma nonostante tutto fui la prima ad allontanarmi. 
L'eternità era solo un'illusione.
Ci guardammo negli occhi per un millesimo di secondo, finchè non gli sussurrai: «Ti stanno aspettando»
«Non andartene», rispose lui istantaneamente. «Resta qui»
Annuii, e lui si sedette al suo posto, afferrandomi la mano e intrecciando le sue dita con le mie. Ricominciò a firmare le cartoline, e tutto procedette normalmente, ma appena mi voltai verso le fans, sentii tutti gli sguardi puntati su di me e sulle nostre mani unite. Sgranai leggermente gli occhi, avvampando, e mi inginocchiai per terra velocemente, come se fossi stata inghiottita dal pavimento.
Appoggiai la schiena a uno dei piedi del tavolo, e presi a giocherellare con la mano di Harry che mi ostinavo a stringere.
Sentivo di nuovo tutte le voci, che in quel momento si erano fatte più insistenti, e anche qualche ragazza chiedere ad Harry se fosse fidanzato.
Lui non dava mai una risposta. Fingeva di non aver sentito e congedava tutte cercando di parlare in italiano.
Mosse la mano per darmi un segno di vita, ed io sbucai da sotto il tavolo per guardarlo. 
Lui si voltò per fare lo stesso e mi dedicò un sorriso, uno dei più belli che avessi mai visto. 
Era lì, davanti a me, e per il momento quello mi bastava. L'avevo abbracciato, mi aveva dimostrato che ero importante per lui, e quello mi bastava. Era felice, l'avevo constatato con i miei stessi occhi e quello mi sarebbe bastato, persino per una vita intera.
 
«L'addio che non volevi, eh?», sentii la voce di Harry, ma ero in dormiveglia e niente mi sembrava reale, o quantomeno facilmente percepibile dai sensi. 
Le sue labbra si poggiarono sulla mia fronte, e mi sforzai di aprire gli occhi per guardarlo.
Eravamo nel furgoncino che li aveva portati allo Shu, ma questa volta eravamo diretti alla stazione: il treno che mi avrebbe ricondotta a casa non aspettava. Distesa sul sedile posteriore, con il capo poggiato sulle sue gambe, pensavo a ciò che avrei desiderato in quel momento, e di certo tornare a casa era alla fine della lista. 
Ma era bello essere lì con lui.
«Affronteremo anche questo», dissi a mezza voce. 
Mi misi seduta, poi mi accovacciai accanto a lui e poggiai la testa sul suo petto, lasciando che mi cingesse con un braccio. Guardai la strada al di là del parabrezza.
«Sono contenta che tu sia venuta», disse, baciandomi i capelli. 
Giocherellava con le mie dita, e tutto ciò - i gesti, il modo in cui eravamo vicini, il contesto - mi trasmetteva estrema tranquillità, anche se eravamo quasi vicini alla fine dell'idillio.
«Sono felice anche io, sai? Ho passato tante notti insonni a pensare a questa giornata, credendo che sarebbe stata uno strazio. Se solo non l'avessi fatto, a quest'ora non avrei voglia di dormire a causa delle ore di sonno perse.»
Ridacchiò spensierato, ed io mi strinsi a lui.
Arrivati alla stazione, il furgoncino inchiodò, e sentii nascere un genuino senso di tristezza, ma non lasciai che avesse la meglio su di me.
Harry mi aiutò a scendere, e restammo per qualche istante faccia a faccia, durante i quali mi resi conto che era diventato più alto e che il volto era più maturo. 
Intorno a noi c'era il silenzio più assoluto, ad eccezione del passaggio di qualche auto, che illuminava l'asfalto per qualche istante.
Mi sorrise, accarezzandomi dolcemente la guancia. Chiusi gli occhi, con le solite farfalle nello stomaco.
«Lo sai che ti amo, vero?»
Sentii aprirsi una voragine al centro del petto, poi il cuore riprese a battere. «Lo so»
«Bene», fece lui. Poggiò le sue labbra umide sulla mia fronte, poi mi baciò la punta del naso. 
«Ti amo», disse di nuovo, a pochi centimetri dalle mie labbra. Appena sentii il contatto, mi lanciai nel bacio con entusiasmo, infilando le mani nei suoi capelli e stringendomi a lui. 
Per un attimo, proprio come era successo poco prima, tutto intorno a noi scomparve.
Non c'era più spazio, nè tempo. Non c'era il passato, il presente, il futuro. Eravamo in una dimensione diversa, solo io e lui, finalmente insieme, finalmente da soli.
Non appena ci allontanammo, sussurrammo nello stesso istante: «Ci rivedremo presto», e sorridemmo.
E come una calamita, fui di nuovo attratta da lui. 
Lo abbracciai forte, come se in quel momento gli stessi promettendo che ci sarei sempre stata per lui, sempre. 
E lui ci sarebbe sempre stato per me.
Eravamo destinati a completarci e, da bravi, stavamo seguendo le tracce della retta via. 

   
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E' orribileeee. lol sarò mai soddisfatta di un capitolo? Probabilmente no.
E dire che questo doveva essere il capitolo migliore dell'intera fan fiction.
Okay, niente. Volevo ringraziarvi delle recensioni che mi avete lasciato, e volevo ringraziare anche le persone che continuano ad avere questa storia tra le seguite/preferite/ricordate. Non so come facciate a sopportarmi.  ahahaha
Un ringraziamento speciale va a Andy, Giada, Nikky ed Elena che mi seguono dagli esordi, due anni quindi, e non mi hanno mai abbandonata. Quindi grazie, il vostro sostegno mi commuove ogni volta, ed io non riesco mai a capacitarmene. 
Comunque volevo dire che su Twitter non entrerò più per un po', perciò non potrò avvisarvi, e mi farebbe piacere se passaste voi a controllare se ho aggiornato :) 
Vorrei scrivere altro ma conservo il papiro per l'epilogo. Mancano tre capitoli!

p.s. se non sbaglio oggi questa fan fiction compie un anno. quindi mi sopportate da un anno. 
dovrei farvi una statua d'oro.
Okay ciao. Spero che siate arrivate fin qui senza vomitare a causa del capitolo ç_ç
Un bacio!

pps. non ho riletto. se ci sono errori abbiate pietà di me e.e

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Capitolo 27
*** irresistible. ***





irresistible.


Riaprii gli occhi con un unico pensiero in testa, un pensiero che mi stava assillando da circa tre mesi. Sentivo quasi una vocina insistente nella mia testa che mi suggeriva cosa fare e che, quasi per dispetto, mi faceva venir voglia di non obbedire.
La verità era che avevo paura. Avevo paura di realizzare che il cambiamento era imminente, di metabolizzare la mia decisione di abbandonare una vita e una persona in particolare per effettuare una sorta di sostituzione che tale non era affatto.
Significava soltanto scegliere di passare il resto della propria esistenza in modo diverso, sebbene a diciotto anni una frase del genere potesse essere alquanto azzardata.
E mentre quel pensiero divorava tutti gli altri, mentre la vocina mi suggeriva 'devi dirlo a tua madre', ero sicura che quest'ultima mi avrebbe ammazzata, o - nel caso meno tragico - mi avrebbe inseguita per casa con qualche oggetto in mano, a mò di arma. 
Guardai il cielo grigio fuori dalla finestra, molto tendente al bianco, e feci un respiro profondo per autoinfondermi coraggio. 'Ora o mai più', mi dicevo.
Prima ne avrei parlato con lei, prima sarei partita, e ammettevo che la mia resistenza stava andando lentamente a quel paese, giorno dopo giorno.
Con un gesto quasi involontario, frutto dell'abitudine, presi il cellulare e lo accesi, infilandomi contemporaneamente le pantofole. 
Rimasi qualche istante seduta sul bordo del letto, stiracchiandomi e pensando all'ultima volta in cui mi ero sentita piena di forze e completamente riposata. 
Risaliva a molto tempo fa, più o meno al periodo che precedeva la mia assunzione al bar. 
Ormai eravamo all'inizio di Dicembre.
Il meteo preannunciava sempre pioggia o neve, le mie mani erano sempre ghiacciate e riuscivo già a sentire l'atmosfera natalizia grazie alle luci sparse qua e là.
Mentre formulavo questi pensieri, il cellulare vibrò nelle mie mani. 
'Buongiorno amore', recitava il messaggio di Harry, accompagnato da una faccina sorridente. 
Ecco, quello mi aiutava ad iniziare la giornata con uno stato d'animo diverso. 
Gli risposi velocemente, con un sorriso idiota stampato sul viso, e ciabattai verso la cucina, cercando di muovere le mie gambe stanche. 
Avevo ancora in testa le parole che ci eravamo scambiati la sera prima, la sua richiesta che assecondava quella vocina insistente e il mio sospiro che sapeva di ansia e agitazione, ma gli avevo promesso che ne avrei parlato con mia madre e che avrei fatto passare al massimo due giorni prima di salire su un aereo e raggiungerlo. 
Non mi dispiaceva affatto lasciare la mia casa, anche se ci avevo vissuto per diciotto anni. Non mi dispiaceva dimenticare quelle vecchie mura che avevano ascoltato tutti i litigi dei miei genitori. Non mi dispiaceva neanche lasciare la mia camera, il mio letto e il mio cuscino, che aveva assorbito una grande quantità di lacrime.
E infine, il dispiacere che provavo nel lasciare mia madre era molto relativo, non proprio tale. Ero maggiorenne ormai, avevo tutto il diritto di ricominciare a vivere proprio come aveva fatto lei con Leonardo, in Italia o non.
Mentre attraversavo il corridoio avvertii il solito profumo di caffè appena fatto e il venticello freddo invernale. Inspirai con forza, e nello stesso momento ricordai l'odore invitante di quello che Harry mi portava ogni mattina, dopo avermi svegliata con un bacio sulla fronte. 
Sentii le mie labbra piegarsi all'insù, ed ero sicura che varcai la soglia della cucina con un'espressione da idiota. «Buongiorno», sospirai mentre mi sedevo a tavola, e mia madre si voltò a guardarmi.
«Buongiorno tesoro», rispose con il suo solito sorrisone da persona finalmente felice. Quanto glielo invidiavo.
Molte volte mi ero chiesta cosa fosse la felicità. Alcune persone mi avevano sempre detto che la felicità era una fase momentanea, altre invece la consideravano uno stato d'animo che poteva durare anche per tutta la vita. 
Secondo molti, essa consisteva nella bellezza delle piccole cose; secondo la minoranza, era frutto di una serie di successi ottenuti in vari campi, come in amore così in ambito lavorativo. 
Io, a diciotto anni, non avevo ancora ben capito cosa fosse la felicità e la sua ricerca. Ero solo convinta del fatto che avevo provato una cosa simile, una sensazione di pace, ogni volta che mi svegliavo al suo fianco, ogni volta che mi baciava e tutte le volte in cui aveva dimostrato di amarmi, amarmi sul serio.
Ecco cos'era per me la felicità. 
Forse era un'opinione stupida e completamente sbagliata, ma non riuscivo a togliermi dalla testa la convinzione che Harry fosse la mia serenità e il punto di incontro di ogni emozione. 
«Caffè?», mi chiese mamma, riportandomi con una sola parola nel mondo reale. Sbattei violentemente le palpebre, sistemandomi meglio sulla sedia dopo aver notato che mi ero quasi distesa sul tavolo. «Sì, grazie», feci, prendendo dalle sue mani la mia tazza preferita.
Soffiai lentamente, spostando in varie direzioni il fumo che fuoriusciva, pensando nello stesso tempo alle parole giuste da dire.
«Mamma», cominciai, seguendola con lo sguardo mentre si sedeva di fronte a me. Lei incrociò i miei occhi, in attesa.
«Devo parlarti», esordii, ovviamente nel modo peggiore. Sapevo benissimo che quelle due parole erano in grado di mettere in ansia anche le persone più serene e tranquille. Prese un sorso di caffè e mormorò un 'dimmi'.
Mi schiarii la voce. «Ci sto pensando già da un po', e so che ti sembrerà una cosa assurda ma...». Lei aggrottò la fronte.
«Ecco, è un pensiero che ha cominciato a spuntarmi in testa circa cinque giorni dopo essere arrivata a Londra», non osavo guardarla, ma dal mio tono traspariva un'inaspettata fermezza.
Alzò gli occhi al cielo, nascondendo un sorriso. «Smettila di far roteare quella tazza. Non c'è motivo di essere agitati, so già cosa stai per dirmi», disse, con uno sguardo furbo, tenendo il suo caffè all'altezza del viso. Ero sicura che stesse ridendo di me.
Rimasi a guardarla, disorientata. «Davvero?». La mia tazza mi ringraziò per averle risparmiato il giro della morte. 
Assurdo come mia madre fosse in grado di leggere la mia mente, benché fossi sicura che non era affatto una discendente di Edward Cullen. Forse ero semplicemente un libro aperto, così come lo ero per Harry.
Sentii il rumore della ceramica sul tavolo, poi i suoi occhi incrociarono i miei dopo aver fissato per qualche istante il liquido marroncino e ondeggiante. «L'ho capito, sai? Credi non abbia notato il luccichio nei tuoi occhi quando parli di quel riccioletto? Credi che il mormorio che sento fino alle due di notte, dovuto alle tue chiamate notturne, sia passato inosservato?», e terminò con un sorriso comprensivo. «Ah, bambina mia, fortunatamente non sono nè cieca e nè sorda, e so capire quando qualcuno è davvero innamorato».
Sentii improvvisamente caldo, palesemente a causa dell'imbarazzo e non del cambiamento climatico. Abbassai lo sguardo, mentre le mie guance si coloravano improvvisamente.
Se lui fosse stato lì, probabilmente mi avrebbe preso il viso tra le mani e mi avrebbe baciata, per mettermi ancor più a disagio.
«Vuoi andare da lui?», mi chiese a bruciapelo. Sentii il cuore battere più forte al solo pensiero. 
«Non voglio fare una seconda vacanza, mamma», misi le cose in chiaro. «Ho deciso di trasferirmi». Spiai la sua reazione, ma sembrava calma.
«Grazie ai turni in quel bar ho accumulato abbastanza denaro, in modo da non pesare sulle spalle di Harry nel caso in cui la ricerca di un lavoro a Londra si facesse più difficile», le spiegai, stavolta più tranquilla di prima. «Abbiamo organizzato tutto, e per adesso mi sembra l'unica cosa giusta da fare. Sia il mio cuore che la mia testa sono d'accordo, e tanto vale non lasciarsi sfuggire questa rarità»
L'improvvisa sensazione di leggerezza che sentii subito dopo mi fece sorridere. Mi ero scrollata un grosso macigno dalle spalle, dopo più di un mese di sofferenze e di sacrifici. Sentivo che la mia vita era lì davanti a me, luminosa, felice, e in cuor mio sentivo di essermela guadagnata e di meritarla, senza eccezioni.
«Oh tesoro, meriti di essere felice. E' arrivato il momento di fare delle scelte ed io accetterò qualsiasi cosa deciderai di fare».
Allargai il mio sorriso, temendo una paresi facciale. «Grazie mamma», farfugliai. 
«Abbraccio da orso?», fece lei, poggiando entrambe le mani sul tavolo per sollevarsi. «Abbraccio da orso», acconsentii, alzandomi e girando intorno al tavolo per stringerla forte, e per stampare in mente quel calore e quella sensazione di protezione in modo da non sentirne la mancanza.
 
 
Inutile dire che l'ansia mi stava lentamente mangiando viva. 
Mentre raccoglievo le valigie, mi guardavo contemporaneamente intorno per cercare di scorgere una figura slanciata dalla chioma riccia. 
E se non fosse venuto? 
No, ma a che pensavo? Era impossibile, non avrebbe mai potuto lasciarmi lì senza darmi spiegazioni. Avevamo deciso tutto insieme, il giorno, l'ora; quasi eravamo arrivati a programmare i secondi. 
'Era solo in ritardo, sarebbe arrivato', mi ripetevo come un mantra. 
Portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, mentre mi abbassavo per cercare di afferrare i miei bagagli e tenerli comodamente. Avanzai per qualche metro con i trolley al seguito, quasi arrivando all'entrata dell'aeroporto, poi mi fermai all'improvviso, come se qualcuno mi avesse afferrato un braccio e trattenuta sul posto. 
Cercai di intrattenere la mia mente - che stava formulando i pensieri peggiori - guardando le persone che mi circondavano. 
C'erano coppie che chiacchieravano, qualche gruppo di amici, qualche famiglia, qualche anziano che portava con fatica la propria valigia, qualche bambino che sfuggiva al controllo dei genitori e scorrazzava libero.
Tirai un respiro profondo, mentre un brivido mi percorreva la schiena. Le porte scorrevoli si erano aperte e il freddo pungente era entrato, fino a penetrarmi nelle ossa. 
Tanta gente entrava, tanta gente usciva, ma lui ancora non c'era. 
Decisi di sedermi su una delle sedie grigie, messe lì per le persone abbandonate o per le vittime dei poveri ritardatari. Sorrisi dei miei pensieri così tragici e tirai i trolley verso di me per evitare di perderli, poi estrassi dalla tasca il mio cellulare per controllare i messaggi. Ce n'era uno.
"Sto arrivando", recitava, e mi rincuorò un bel po'. 
Mi era stato inviato da circa quattro minuti, quindi non avrei dovuto aspettare molto.
Presi a rileggere i vecchi sms, prediligendo quelli che avevo salvato in una cartella, alzando di tanto in tanto lo sguardo.
Dopo l'ennesima sbirciata, vidi una figura stretta in un cappotto nero aspettare che le porte si aprissero. Non appena il vetro non rappresentò più un ostacolo, sentii il mio cuore zoppicare e dopo un po' iniziare a pompare il sangue più velocemente. 
Sentii il cellulare quasi scivolarmi dalle mani, e restai immobile come una cretina a guardare i suo capelli ricci e i suoi occhi muoversi freneticamente in cerca di qualcuno. Ricordai in un istante quel verde intenso e talvolta quasi tendente al grigio, a seconda della luce. Ricordai le sue labbra assottigliarsi ogni volta che rideva e il suo sorriso accecante. Ricordai la sua andatura, il modo in cui si sistemava i capelli, le sue mani enormi e costantemente calde. 
Percepii il cuore schiacciato contro la gabbia toracica e lo stomaco sparire, inghiottito da chissà cosa e finito chissà dove, non appena si voltò nella mia direzione. 
Il respiro si fece più affannoso e le gambe preda di piccoli movimenti che non riuscivo a controllare, come se fossero ansiose di muoversi e raggiungerlo. Un nodo grosso quanto una pallina da golf si posizionò al centro della mia gola e la saliva quasi si azzerò. 
Mi chiesi se quelli erano i sintomi di un infarto o di una persona in fin di vita.
Non appena focalizzò il mio volto, mi sorrise, e domandai a me stessa perché avevo avuto il privilegio di godere di un pizzico di paradiso. Fui sul punto di piangere quando mi resi conto che eravamo distanti solo qualche metro.
Per troppo tempo c'erano stati tanti chilometri a dividerci.
Mi alzai, sperando che le mie gambe tremanti non cedessero proprio in quel momento, quando la meta era così vicina. Come una calamita, mi mossi verso di lui, deglutendo più volte e sbattendo le palpebre velocemente per ricacciare indietro le lacrime. 
Lui, munito del più bel sorriso che gli avessi mai visto, allargò le braccia per accogliermi, e a quel punto giurai di aver iniziato a correre. 
Non volevo abbracciarlo, non in quel momento. 
Gli buttai le braccia al collo non appena la distanza si annullò, e intrecciai le gambe alla base della sua schiena. 
Lui mi strinse a sè, per evitare che cadessi, e nello stesso istante le nostre labbra si incontrarono.
Sentii un turbinio di emozioni nel secondo esatto in cui potei provare di nuovo quella morbidezza senza pari, e anche dopo, mentre spostavo la mia bocca lungo la mandibola e scendevo sul collo, per poi risalire e sussurrargli all'orecchio: 'Mi sei mancato'.
Infilai la mano sinistra nei suoi capelli, e con la destra lo strinsi a me, proprio come stava facendo lui. 
Non mi importava di essere in un luogo pubblico, non mi interessavano gli sguardi delle persone che sicuramente avevamo catturato, non mi interessava che ora fosse. 
Mi interessava soltanto rendermi conto che era mio, che eravamo insieme e che non ci saremmo lasciati mai più. 
Sciolsi la presa e gli afferrai il viso con entrambe le mani, poggiando i piedi per terra. Lui mise delicatamente le sue mani sui miei fianchi, piegandosi in avanti per far sì che la distanza tra i nostri visi non fosse troppa. 
Lo guardai intensamente negli occhi, spostando ripetutamente lo sguardo sulle sue labbra e poggiando la mia fronte contro la sua. 
'Mi sei mancata anche tu', sussurrò. Mi stava cercando. Si avvicinava a me e aspettava che spostassi l'attenzione dal suo sguardo caldo. 
Lo baciai di nuovo, stavolta più dolcemente e più lentamente, assaporando ogni frazione di secondo e cercando di riempire tutti quei mesi vuoti, per poi abbandonarmi tra le sue braccia che mi ricordavano casa.
Ovunque guardassi ero circondata dal suo abbraccio, e tutto ciò che sentivo erano i nostri cuori battere all'unisono.
D'ora in avanti le nostre vite si sarebbero inevitabilmente intrecciate, e non desideravo nient'altro che passare le mie giornate nel mio meraviglioso paradiso personale.



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Ciao a tutte :')
Visto? Sono ancora viva, ragazze. 
Non posto da tre mesi, che roba vergognosa. Davvero, mi dispiace tantissimo, ma ho avuto un po' di problemi e sono stata impegnata con la scuola. Inoltre, non mi sentivo pronta e non avevo lo stato d'animo adatto per immergermi di nuovo nella storia di Harry e Liz.
Spero vi siano mancati almeno un po', anche se tantissime persone mi hanno sempre chiesto notizie su Ask e Twitter, e io vi adoro tutte.
Che dire, questo è l'ultimo capitolo e il prossimo sarà l'epilogo. Come avete letto, la nostra eroina è atterrata a Londra e i due piccioncini si sono finalmente riuniti. 
Okay, mi dilungherò nell'epilogo.
Che altro... AH, il titolo è molto riferito all'ultima parte, all'attrazione presente tra i due, ma anche alla canzone dei One Direction, che mi ricorda un po' i due protagonisti.
Spero vi piaccia e spero mi perdoniate. Grazie delle recensioni, delle settemila visite al primo capitolo; grazie alle 191 persone che hanno questa storia nelle seguite e alle 142 che l'hanno messa addirittura nelle preferite. asdfghjk
Fatemi sapere cosa ne pensate con un commento, tramite Twitter, Ask, dove ve pare. Sono stylesbreath ovunque. :)
GRAZIE MILLE.
Un bacio, Clà.

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Capitolo 28
*** and they lived happily ever after. ***





and they lived happily ever after.

Harry.


Guardavo da un bel po' il rettangolo di luce che illuminava una parte della coperta in cui era avvolta e la sua spalla nuda, riflettendo su ciò che era stato e su come eravamo arrivati a quel punto.
Il silenzio amplificava il brusio continuo dei miei pensieri che correvano a briglia sciolta.
Sostanzialmente, non credevo che una cosa del genere fosse possibile.
Non credevo di potermi innamorare in quel modo, di poter perdere la testa in due settimane e di poter resistere tre mesi aggrappato ad un'unica speranza, l'unica che mi aveva permesso di andare avanti senza averla accanto ogni singolo giorno, minuto, secondo. 
E ora che era lì, davanti a me... Ora che potevo accarezzarle di nuovo i capelli, che in quel momento giacevano liberi sul cuscino, e ora che potevo di nuovo stringerla tra le mie braccia, baciarla, prepararle la colazione e addormentarmi con il battito del suo cuore nelle orecchie, ero sicuro che non ce l'avrei fatta di nuovo a lasciarla andare.
Era come mangiare una fetta di torta e volerne un altro po', come stare distesi sul divano sotto una coperta pesante e non avere più voglia di alzarsi, come iniziare a cantare una canzone e desiderare che non finisca troppo presto, come guardare il tramonto e sperare che il sole non scompaia mai, anche se dopo spunteranno le stelle.
Liz era una delle cose belle presenti nella mia vita e una delle cose di cui non riuscivo più a fare a meno. Sentivo di aver bisogno della sua voce, delle sue carezze e dei suoi occhi lucidi; avevo bisogno di sentire le sue mani circondare il mio viso, di guardarla ridere dopo una mia battuta e vederla arrossire ogni volta che mi avvicinavo troppo alle sue labbra.
Era, allo stesso tempo, la mia rovina e la mia salvezza. E mi andava bene così.
Sussultai quando la sveglia cominciò a trillare, segnando le nove del mattino. Lizzie emise un grugnito e mormorò qualcosa di incomprensibile, poi tirò fuori il braccio dal calduccio delle coperte e lo allungò per riuscire a spegnere quell'aggeggio infernale che mi stava quasi perforando i timpani.
I ciondoli del braccialetto che le avevo regalato tintinnarono debolmente e nello stesso istante il suono cessò.
Mi avvicinai a lei e feci strisciare il mio braccio destro sulle lenzuola per cingerle un fianco e per ripiegarlo proprio sotto il suo seno. Riuscii a sentire il suo sospiro e il battito del suo cuore nello stesso momento.
La tirai verso di me e la strinsi forte. «Buongiorno», le sussurrai all'orecchio, prendendo a baciarle la spalla scoperta e sfiorata dalla luce. 
Avrei tanto voluto congelare quell'istante e riavvolgere il nastro ogni volta che volevo, così da non poterne mai sentire la mancanza.
Non era soltanto l'inizio di una nuova giornata o il bacio del buongiorno a rendere quel momento particolarmente speciale; sentivo - e probabilmente era lo stesso per lei - di aver iniziato un nuovo capitolo della mia vita, un capitolo più ricco e bello e felice, e in quel momento gli avevamo dato il via.
Liz si voltò verso di me, sorridendomi come mai prima e facendomi sentire dannatamente fortunato. 
I suoi occhi erano un luccichìo continuo ed erano talmente belli da farmi girare la testa; le sue labbra rosee morbide ed invitanti sembravano chiamarmi. «Buongiorno anche a te», rispose, muovendole dolcemente. 
Sentii la sua mano risalire delicatamente lungo il mio braccio e la sua bocca avvicinarsi alla mia. Ci spostammo contemporaneamente fino a ritrovarci seduti, abbracciati l'uno all'altra.
«Non puoi tirarti indietro, lo sai?», le dissi, prima che mi sfiorasse con bacio leggero e veloce.
Lei si allontanò di scatto. «Aaah!», protestò, gettando la testa all'indietro e trattenendo una risata mordendosi il labbro inferiore. Mi persi a fissare il suo collo perfetto finché incrociò di nuovo il mio sguardo. «Non è giusto», borbottò, senza essere realmente infastidita.
«Ho sempre passato il Natale insieme alla mia famiglia: è tradizione», le spiegai, mentre lei era impegnata a spostarmi i capelli dalla fronte. Seguii il suo sguardo.
«E se non piaccio a tua madre?», farfugliò. Sulla sua fronte si formò un'adorabile piega dovuta alla preoccupazione. Alzai gli occhi al cielo, sicuro che una cosa simile non avesse mai potuto verificarsi. «Le piacerai sicuramente, vedrai», la rassicurai.
Sospirò profondamente e sorrise, ed io mi sentii leggero e in pace con il mondo intero. «Sei perfetta», le dissi, con un'espressione seria dipinta sul volto, sperando che la mia serietà potesse essere percepibile.
Attese qualche istante. «E tu lo sei per me», rispose.
 
 
Le luci colorate che illuminavano il palco e l'intera platea quasi mi accecavano. 
La musica era altissima al punto da farmi vibrare il cuore, ma continuavo a cantare, cantare, cantare, finché la voce non fosse andata via.
Come ogni volta, impugnare il microfono ed esibirsi di fronte a centinaia di fan mi sembrava un miracolo. Ero quasi fuori di me, frastornato, ubriaco, ma continuavo a fissare un punto preciso tra la folla senza mai distogliere lo sguardo.
In prima fila, appoggiata con entrambe le braccia alla transenna, con lo sguardo puntato su di me e le labbra che si muovevano per seguire la canzone, c'era tutta la mia vita.
Dietro a quelle parole mimate si nascondeva un sorriso sincero, chiara dimostrazione di orgoglio verso di me e verso di noi. 
Ed io ero felice. Probababilmente sarei stato un pazzo se fosse stato diversamente.
Non potevo chiedere altro: avevo tutto ciò che mi serviva per vivere.
E in quel momento, la mia felicità stava allungando un braccio verso di me.
Continuai a cantare, senza fermarmi, con l'adrenalina che mi scorreva nelle vene e un moto continuo che si era impossessato del mio stomaco, come un vortice. Mi avvicinai al bordo del palco, il microfono distante pochi centimetri dalle mie labbra.
Tesi una mano verso di lei.

 
 

Okay ragazze, siamo arrivate alla fine.
E' stato un lungo viaggio, un viaggio di un anno e quattro mesi circa. Vi siete affezionate a Liz e Harry e io mi sono affezionata a loro, capitolo dopo capitolo. Mi mancheranno tantissimo, ma so che vivranno per sempre in queste pagine e nel mio cuore.
Volevo ringraziarvi del supporto, delle recensioni che parecchie volte non ho apprezzato abbastanza, delle belle parole che mi hanno riempito il cuore di gioia e che mi hanno fatto sorridere più di una volta. 
Volevo ringraziare chi mi ha seguita dall'inizio alla fine, chi ha scoperto questa storia nel mezzo e chi poco prima che finisse. 
Come al solito quest'ultimo capitolo non mi soddisfa, ma spero che almeno a voi piaccia. 
Sarei molto felice di ritrovarvi anche nella mia prossima fan fiction o a recensire i capitoli di 'the brightest darkness'. Controllate il mio account efp, ogni tanto :)
(Un bacio enorme a itsmel__, che mi ha più volte chiesto l'autografo. AHAHAHAHA matta <3)
AH! Buon 2013! Spero che quest'anno vi porti tanta felicità <3


Sappiate che Harry e Liz vi ringrazierebbero per aver ascoltato la loro storia.

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