The sound of silence.

di alessiasc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Novembre 2009 ***
Capitolo 2: *** chapter two. ***
Capitolo 3: *** Dicembre 2009 ***
Capitolo 4: *** chapter four. ***
Capitolo 5: *** chapter five. ***
Capitolo 6: *** chapter six. ***



Capitolo 1
*** Novembre 2009 ***


Il silenzio è la cosa migliore che ci sia al mondo.
E' forte, sicuro, rilassante.
E' tensione, paura, allegria.
E quello che c'è dopo è sempre inaspettato e sorprendente.
Potrebbe essere qualsiasi cosa, a rompere il silenzio.
Spesso si spera sia il suono di una chitarra,
ma può essere anche qualcosa di terribile.
Un urlo. Uno sparo.
Non c'è niente di meglio del silenzio, e del suono che produce.
Perché potrebbe essere che dopo quel lungo silenzio,
magari nato dal forte dolore,
ci sia qualcosa di meraviglioso che non ti saresti mai sognato di vivere.
Qualcosa di magico, di reale.
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Il cielo era coperto da nuvole nere che promettevano pioggia, e Milano sembrava spenta. Uscita da scuola, quel primo Novembre, ero subito andata a casa, mi ero velocemente cambiata ed ero andata al lavoro. Lavoravo da Arnold's Cafè, una copia italiana di Starbucks, in una via isolata del centro, vicino ad un'università. Un posto carino, completamente fuori dal traffico della città e poco frequentato. Aveva aperto da pochi mesi e io l'avevo trovato immediatamente e altrettanto velocemente avevo fatto domanda per un posto da cameriera. Essendo poco frequentato, mi avevano dato l'okay anche se potevo lavorare solo dalle 14 alle 17 e, nei giorni di apertura serale, anche la sera. Entrai nel locale e trovai Elisa che cercava di fare un cappuccino con doppia panna montata senza far colare tutto quanto sul bancone. Alzò lo sguardo e mi salutò con un cenno della testa; ricambiai il saluto e mi infilai il grembiule, per poi dare il cambio alla donna grassa e silenziosa che si spostò dalla cassa, si sfilò il grembiule rosso scuro e, a passo lento, salutando tutti con un «ciao» non troppo urlato, uscì dalla porta a vetri. Elisa mi passò affianco con il suo vassoio per servire i tavoli e mi sussurrò nell'orecchio: «Meno due» e prima che potessi dire qualsiasi cosa sparì tra i tavoli. Meno due, erano i giorni che mancavano al concerto dei Jonas Brothers, la band che più adorava. A me, personalmente, non facevano impazzire. Erano la tipica band uscita da Disney Channel che faceva soldi a palate cantando due o tre canzoni sicuramente scritte da altri. Questo, ad Elisa, non lo dicevo mai. L'unica volta che avevo provato a dire qualcosa contro di loro o contro la loro musica commerciale, aveva cominciato ad urlarmi contro, quindi ci avevo rinunciato. Più che altro, mi piaceva vederla così felice, allora fingevo di essere felice anche io per l'arrivo di queste tre superstar di Hollywood. Io non avevo mai avuto una band preferita, o meglio, ce l'avevo, la band di cui avevo tutti i cd e che ascoltavo in continuazione, ma non era un'ossessione, non avrei preso nessun aereo per vedere un concerto e non avrei passato ore davanti ad un hotel per vederli passare circondati da bodyguards. Erano i Sum41, e mi piacevano da qualche anno. Ma niente di che, quindi non potevo capire tutto l'amore che Elisa provava per quei.. Brothers. «Judie, riesci a crederci, due giorni!» disse la mia migliore amica, tornando indietro con il vassoio sporco di panna. Risi e consegnai il resto alla cliente davanti a me. Aveva una collana enorme con un gufo color verde marcio. Orribile. «Cos'hai, Eli, tredici anni?» dissi passandole il biglietto con l'ordinazione e cominciato a fare un Arnold Shake al caramello. «No, diciassette, ma ho comunque lo spirito della bambina contenta e felice in questi giorni. Cioè, Jey, due giorni! Solo due! Domani vieni a fare shopping con me? Devo vedere se alla Mondadori vendono le nuove magliette, perché quelle che ho mi stanno troppo piccole» scossi la testa, un po' dispiaceva. Mi piaceva andare in giro con lei. Guardava e toccava tutto quello che le si trovava vicino. «Mio padre vuole che domani, verso mezzogiorno, io sia al Melia, perché dice che il bar ha bisogno di me. La barista si è ammalata e domani tutte le stanze saranno prenotate e avranno qualche casino. Che palle, El, i casini li avrò io qui con il capo, se gli chiedo un altro giorno di vacanza. Io penso che mio padre dovrebbe cominciare a crescere e prendersi le sue responsabilità!» mio padre lavorava, appunto, al Melia, uno dei più importanti hotel di Milano, e tutte le volte che serviva qualcosa lì, io dovevo abbandonare tutto – scuola, amici, lavoro – per aiutarlo. «Io penso che tuo padre dovrebbe semplicemente smetterla di sottrarti a me tutte le volte che ho bisogno di te! Quella storia di andare a trovare la nonna nel Mississipi quando dovevamo andare a fare quel bellissimo week-end a Parigi? Questo è sfruttamento minorile!» la guardai storto mentre alzava la mano serrata in un pugno al cielo, in segno di protesta. «Che c'entrano il Mississipi e mia nonna con lo sfruttamento minorile?» «No, cioè, dicevo... l'hotel, è una rottura, e pure il Mississipi.» sbuffò, versando il latte nel bicchiere e lo mise sul vassoio pulito. «Più l'hotel del Mississipi. Almeno lì ero vicina a casa..» ero nata in Texas, ad Houston, e in seguito mi ero trasferita ad Oklahoma City e a 10 anni mi ero trasferita a Milano, per stare vicina a mia nonna che stava morendo. Mia madre aveva insistito così tanto per trasferirci che alla fine eravamo rimasti a Milano per stare vicino a mio nonno, rimasto solo. «Ma in Texas ci sei andata? No, quindi è stata una scocciatura e basta» rise, e mi diede una pacca sulla spalla. Sapeva che mi mancava il Texas più di qualsiasi altra cosa. Più di Oklahoma, perché lì ci avevo passato solo un anno, e avevo fatto solo la quinta elementare, ma in Texas ci ero nata e cresciuta, e ci avevo passato anche alcune estati, nella vecchia casa di famiglia che non avevamo venduto per i capricci miei e di mio fratello. Da quando stavamo in Oklahoma, progettavo di scappare di casa e rifugiarmi a Houston insieme a mio fratello più grande. Il nostro progetto di vita, era finire la scuola a Milano, e poi trasferirci insieme a casa. «E' quella casa nostra, Judie, e vivremo lì con le nostre famiglie e i nostri figli» mi diceva quando aveva dodici anni e io dieci, in viaggio verso l'Italia. Ora io ne avevo quasi diciassette e lui diciannove appena compiuti, e vivevamo entrambi a Milano, lui i un appartamento in centro, rigorosamente pagato da papà, con la sua ragazza, io a casa dei miei genitori, sempre in centro. Insomma, eravamo la tipica famiglia americana con qualche soldo in più degli altri, anche se non sembrava affatto. Eravamo molto modesti e le poche cose che potevano dimostrare la quantità di denaro che possedevamo erano casa e viaggi, che non mancavano quasi mai. «El, guarderò per te se al Melia ci sono i tuoi amici Disney, se scopro qualcosa ti chiamo» dissi, passandole affianco con un altro vassoio pieno e pronto da portare al tavolo. «Sei un angelo, Jey» disse mandandomi un bacio con la mano. Aveva anche evitato di urlarmi addosso per averli chiamati “Disney”. Era davvero felice allora. Le sorrisi. Tornai al bancone e preparai un cappuccino. La porta a vetri si aprì ed entrò Marco. «Meglio tardi che mai» gli dissi, guardandolo storto. Lui fece il giro e colpì con un calcio la porticina che chiudeva il bancone. Aveva il fiatone e buttò lo zaino nello stanzino per lo staff. «Se lo dici al capo ti strappo tutti i capelli» disse, si legò il grembiule dietro la schiena e mi baciò la guancia. «Tutto bene?» «Tutto okay, anche se quando vedrai Elisa non ti sembrerà più che io stia così bene. Sembra una bambina a cui hanno appena comprato il suo giocattolo preferito!» risi e andai a servire gli altri tavoli. Sentii la voce calda di Marco che diceva: «Al cioccolato o al caramello?» Marco era un ragazzo alto e magrissimo, con gli occhi verdi e i capelli a spazzola neri. Era bellissimo. Lo conoscevo da qualche anno perché avevamo sempre lavorato insieme. Facevamo quei lavori stupidi e inutili, come distribuire volantini o invitare gente ad entrare nei ristoranti. Elisa ne era segretamente innamorata da sempre, e io ero l'unica persona a conoscenza del suo piccolo grande segreto. «Eli, è arrivato Marco, dagli il cambio alla cassa e fai venire a servire lui. Stai sudando come non so cosa..» dissi quando mi passò di fianco. Mi fece una linguaccia. E un'altra giornata al lavoro stava passando. Quella sera tornai a casa, come sempre, affiancata da Marco e Elisa, che discutevano ridendo. «I Jonas Brothers sono una buona band, smettila di stressarmi!» «Els, sono pessimi, quello lì, Nick, il più piccolo, non penso nemmeno che sappia davvero tenere in mano una chitarra!» ribatté lui ridendo. «Ah perché tu sei bravissimo, no?» dissi io, spingendolo leggermente. «Io sono il re della chitarra, signorina Hayes» io ed Elisa scoppiammo a ridere. «Che avete da ridere?» «Ma SMETTILA!» urlammo all'unisono. E di nuovo a ridere. Appena arrivata a casa ero così stanca che non ripassai nemmeno Letteratura per il giorno dopo, anche se quasi sicuramente non sarei andata a lezione per l'hotel, mi buttai sul letto ancora vestita e truccata e mi addormentai.

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Capitolo 2
*** chapter two. ***


«DOVE DIAVOLO SEI, JUDE!?» la voce di mio padre mi perforò un timpano. Allontanai il cellulare dall'orecchio. Erano le sette del mattino. Cosa voleva mio padre alle sette del mattino un giorno in cui mi aveva permesso di saltare scuola per lavorare da lui?
«Forse, Judith, vorrei che tu venissi a lavorare da me!» disse. Forse la domanda che mi ero fatta nella testa l'avevo fatta anche a lui ad alta voce.
«Okay, scusa daddy. Dammi mezz'ora e sono lì.» dissi e chiusi il telefono. Mi alzai di peso e mi stropicciai gli occhi, macchiandomi tutte le mani di matita nera. Sbuffai, corsi in bagno e mi lavai accuratamente ma velocemente, mi sfilai la maglia sporca e il reggiseno, per infilarmene uno pulito seguito da una camicia bianca. Mi riempii di deodorante alla menta, mi sfilai pantaloni e slip, e me ne infilai di puliti. Jeans scuri, stretti e a sigaretta. Mi legai i capelli in una coda di capelli e fermai i ciuffi ribelli con delle forcine nere. Presi la matita e me la passai sotto gli occhi, dell'ombretto beige sulle palpebre e del mascara sulle ciglia.
Mi infilai delle scarpe da ginnastica bianche e il mio cappotto di pelle beige. Presi la borsetta nera, ci infilai cellulare, trucchi, portafoglio, i-pod e chiavi di casa e uscii, salutando mia mamma con un urlo simile a «ci vediamo dopo!» ma che sarebbe potuto sembrare qualsiasi cosa. In ascensore, mentre scendevo dall'ottavo piano al piano terra, mi sistemai le ciocche di capelli ancora fuori posto.
Un quarto d'ora dopo circa, ero nella hall del Melia e mio padre mi stava venendo incontro di corsa, con l'aria preoccupata. «Hai fatto veloce, Judie, allora, non è solo il bar che ha bisogno in realtà. Anzi, il bar è a posto. Giovanni si è offerto di lavorare lì e poi di spostarsi sul retro stasera. Qui dentro sono tutti degli incapaci. Ascolta, ce ne sarà per molto. Ma puoi cominciare con quella coppia di inglesi mentre io parlo con quei francesi laggiù. Devi solo cercare il loro nome nell'elenco sul PC e spiegargli le solite cose, il numero della loro camera, fargli vedere le stanze dell'hotel ed esporgli gli orari dei pasti. Oh, bimba mia, grazie, ti adoro!» mi baciò sulla guancia e sparì veloce come era arrivato. Sbuffai, mi diressi verso il bancone e lasciai borsa e giacca. Mi tirai su le maniche della camicia e presi i fogli che mi passò la segretaria. «Sono tutte le informazioni su quella coppia, ho pensato che averle con te sarebbe stato più facile che leggere tutto dal computer» mi sorrise.
«Oh, Angelica, che tu sia benedetta. Grazie!» le dissi rivolgendole un enorme sorriso. Poi mi diressi verso gli inglesi.
«Buongiorno, voi siete i signori Louis, right?» chiesi – in inglese – alla signora sui cinquanta che mi stava davanti.
E così cominciò la prima di 54 conversazioni in lingua madre.
Quando arrivò sera, mi sedetti a terra, vicino ad Angelica, la segretaria, e bevvi un sorso d'acqua dalla bottiglietta che avevo comprato dal bar. «Non ce la posso fare. Quanti altri ospiti devono arrivare?» chiesi. Lei alzò le spalle, si aggiustò gli occhiali sul naso e guardò sul computer.
«Nessuno, puoi andare al bar dietro e bere qualcosa. Giovanni ti coprirà volentieri e io anche. Tuo padre non lo saprà mai. Vai, su!» mi ordinò, dandomi un leggero calcio sul ginocchio. Mi alzai in piedi e, con un lieve sorriso sulle labbra andai verso al bar sul retro, che vendeva alcolici. Era aperto solo la sera ed era per gli ospiti dell'hotel. Mi sedetti al bancone. «Giò, a beer, please!» urlai, sorridendo. Giovanni, un omone ordinato con il sorriso sempre stampato in volto, si girò e mi sorrise. «Subito, madame!»
«Gio io stavo parlando inglese!» risi mentre lui mi passava la birra già stappata.
«Lo so, signorina Hayes, ma io l'inglese non lo so» presi la bottiglia tra le dita e la passai da una mano all'altra. L'alzai e la portai alla bocca, ma mi fermai a metà percorso. «Non dirai niente a mio padre, vero?» «Nothing, signorina.» mi sorrise.
«Allora lo vedi che qualcosa di inglese la sai anche tu» dissi e bevvi un bel sorso di birra fresca.
Guardai la gente al bancone. Erano tutti ordinati, con la camicia chiusa fino all'ultimo bottone e la cravatta che stringeva il collo. Tutti tranne uno. Che mi sembrava così famigliare. Mi ritrovai ad osservarlo.
Aveva la camicia aperta agli ultimi due bottoni, dal collo bianco come il latte pendeva una catenina con attaccata una targhetta. Teneva tra le dita una bottiglia di birra, della stessa marca della mia, e ne faceva un sorso ogni tanto. Teneva le spalle leggermente ricurve e lo sguardo perso davanti a se. Ogni tanto portava la mano destra in testa, facendo passare le dita tra i ricci castani. Dove diavolo l'avevo già visto? Non era un viso così comune. Sicuramente non era italiano. Aveva qualcosa di inglese, ma il contorno del volto era certamente americano. Anche il modo di muoversi.
Mi arrivò un messaggio, così staccai gli occhi dal riccio affianco a me e tirai fuori il cellulare. Aprii il messaggio.
“Allora, sono lì?” era Elisa. E allora mi ricordai. Quel tipo era uno dei Jonas Brothers, forse il più piccolo, Nick Jonas o come si chiamava. Misi il cellulare nella tasca e mi avvicinai di due posti.
«Scusa ma tu sei..» cominciai, nel mio inglese perfetto. Lui si girò di scatto verso di me. «Nick Jonas?» chiesi.
Lui sbuffò ed annuì. «Sì, vuoi un autografo, una foto o un mio capello?» disse. Sembrava alquanto scocciato. «Mhm, in realtà, niente di tutto ciò. Volevo solo sapere se eri chi pensavo che fossi. Ma a quanto pare, non sei quello che la gente pensa che tu sia» dissi, e mi allontanai di un posto. Questa volta ad avvicinarsi fu lui. Ero davvero scocciata. Ma chi credeva di essere? Anche io avrei saputo cantare canzoncine della Disney!
«Okay, scusa, non avrei dovuto risponderti così, è che, è stata una giornata davvero stressante e...» lo guardai. Sembrava davvero stanco.
«Ah, sì? Hai dovuto imparare a memoria non una ma ben due canzoni scritte da altri e non da te? Che lavoraccio, già. Sai, anche io lavoro da stamattina, e nessuno mi ha scritto un copione per lavorare, eppure è dalle sette del mattino che parlo con stranieri cercando di spiccicare qualche parola in francese, però io ho mantenuto la mia educazione, vedi?» bevvi in un sorso la birra che rimaneva nella bottiglia. Non vedevo l'ora di arrivare a casa e chiamare Elisa per dirle quanto fosse maleducato uno di quei tre cretini di quella band del cazzo che amava così tanto.
«Senti, scusa, davvero, non volevo essere scortese, è solo che... hey! Guarda che le canzoni che canto le scrivo io! E comunque, è dalle cinque del mattino che giro per Milano per interviste, shopping, prove di smoking, prove della macchina, cambio macchina, radio, e casini vari. E con il fuso orario non ci sto più con la testa. Possiamo fare finta che io non abbia detto niente?» fece una pausa, io rimasi in silenzio e guardai davanti a me. Aveva una bella voce, e da vicino era ancora più carino che da lontano.
Vidi la sua mano sporgersi verso di me. «Piacere, io sono Nicholas, ma mi chiamano Nick» lo guardai. Sembrava davvero imbarazzato e dispiaciuto. Così gli strinsi la mano. «Judith, ma non chiamarmi Judith, mai. Jude, Jey, come ti pare insomma» dissi. Mi sorrise.
«Quanti anni hai?»
«Diciassette a dicembre, tu?» alzò un sopracciglio.
«Davvero non sai quanti anni ho?» scossi la testa.
«Scusa, non sono io la grande fan. La mia migliore amica, oh, dovresti parlare con lei di cose come la tua età, il tuo luogo di nascita, il colore del tuo spazzolino da denti o robe del genere. A me interessa più tuo fratello.. mhm, Kevin, quello più grande, si chiama così vero?» rise.
«Il mio spazzolino da denti?»
«Sì, è.. giallo, giusto? Così mi ha detto Elisa..» rise più forte e si portò la bottiglia alle labbra. Erano sottili.
«Giallo, già. Dille che quando lo cambierò lo prenderò verde. E sì, mio fratello più grande si chiama Kevin e si sposerà a dicembre, mi dispiace» sospirai, fingendomi distrutta.
«Come farò ora? L'unica cosa che mi rimane da fare e buttarmi sull'alcool» dissi, sporgendomi e prendendo un'altra birra. La stappai e mi sedetti di nuovo. E lui rise di nuovo.
L'avevo giudicato forse un po' troppo velocemente. Forse poteva essere anche simpatico, un po'. Comunque piacevole. Poco.
«Giustamente. Comunque ho diciassette anni» annuii.
«Tu a diciassette anni giri il mondo e io sono bloccata qui. Bello» sbuffai e bevvi. Lui bevve. E appoggiammo la bottiglia sul bancone nello stesso momento.
«Hai un buon inglese, come mai?»
«Nata a Houston, trasferita ad Oklahoma, nonna nel Mississipi.» lui mi guardò per un secondo, poi annuì.
«Wow, figo.» tirò fuori il cellulare dalla tasca, che vibrava, e rispose. Aveva un modo di parlare strano, tutto rilassato e biascicava le parole. Parlava così veloce che quasi faticavo a capire quello che diceva. Poi disse «ya bro!» e riattaccò. Si alzò in piedi, bevve l'ultimo sorso di birra e lasciò trenta euro sul bancone.
«Beh, è stato un piacere conoscerti Jude-Jey. Ci si vede in giro!» disse, e si allontanò. Scossi la testa e tornai a bere la mia birra.
«Ti pago da bere e non mi chiedi neanche il numero?» la sua voce mi rimbombò nella testa. Mi girai di scatto. Mi aveva fatto perdere almeno cinque anni di vita. Quando mi resi conto di quello che mi aveva chiesto, arrossii.
«Io... emh, cioè, io... non credevo di... potere, ecco... cioè» «Cioè, di solito i ragazzini che cantano canzoni scritte da altri non ti chiedono il numero? Beh, anche se io canto canzoni mie, te lo chiedo» sospirai e gli dettai il numero. Lui mi fece uno squillo e mi fece l'occhiolino, «Buonanotte» disse, prima di allontanarsi.

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Capitolo 3
*** Dicembre 2009 ***


“ Nick Jonas si è recato al matrimonio del fratello maggiore (Kevin Jonas) in compagnia della sorella minore della sposa. Aveva preparato una canzone giusto per l'evento, così importante nella famiglia Jonas, ma arrivato il momento di cantare, si è tirato indietro per paura che non fosse buona come sperava.
Forza piccolo Nick! Sappiamo tutti che quella canzone è meravigliosa e non vediamo l'ora di sentirla!”
«Lo sapevi, Jey?» mi chiese Elisa, sedute al tavolo dell'Arnold, perennemente vuoto grazie alle vacanze di Natale.
«No, non lo sapevo, Eli, non lo sapevo» dissi, scocciata, sfogliando il Corriere della Sera.
«Ti piace Nick, vero? Alla fine ti sei arresa al suo potere disarmante e al suo fascino da ragazzo perfetto» disse, lanciandomi un'occhiataccia. Le avevo raccontato più e più volte quello che era successo quel 2 Novembre, e da quel giorno lei si era convinta che io fossi perdutamente innamorata di Nick e della sua musica. Cosa che avevo sempre negato, sia a lei che a me stessa.
Nick Jonas? Ma dai. Da quando aveva il mio numero non mi aveva scritto nemmeno una volta. Non che mi interessasse. Gli avevo scritto solo io. Il giorno dopo, prima del concerto, e l'avevo pregato di programmare un incontro con Elisa. Lui, ovviamente da bravo burattino della Disney, aveva accettato e Elisa aveva coronato il suo sogno. Aveva toccato con le sue mani – come ripeteva sempre – i suoi idoli, aveva fatto millecinquecento foto e aveva l'autografo di tutti e tre. Anche del bodyguard, Big Rob.
«A me non piace Nick Jonas, Elisa, per la millesima volta. Se sparisse dalla faccia della terra non mi cambierebbe niente. Avrei un numero in più da cancellare in rubrica e basta» sbuffai e sorseggiai il mio cappuccino medio. Marco si sedette tra di noi con un caffè grande in mano. Ci aveva messo dieci minuti buoni per farlo perché non bastava farlo una volta per avere così tanto caffè.
«Però quando lo vedi sulla copertina di una di quelle stupide riviste, subito la compri eh» disse addentando il muffin al cioccolato e annuendo guardandomi dritto negli occhi. Scossi la testa.
«Che riviste stupide?» chiese Marco, visibilmente soddisfatto del suo caffè. «Quelle con sopra Nick Jonas.» biascicò Elisa, con il muffin in bocca. «Jude è innamorata di lui ma non vuole ammetterlo» continuò.
«Io non sono innamorata di Nick Jonas! Per l'amor del cielo!» esclamai. Rimasero in silenzio qualche secondo e poi il mio cellulare sul tavolo vibrò, rompendo la tensione. Rimasi ferma. Tremavo per il nervoso. Odiavo quando Elisa faceva così. Era più di un mese che mi ripeteva questa cosa, e non ne potevo più. I miei nervi erano tirati come le corde di una chitarra.
Il cellulare continuava a vibrare, così Elisa si sporse in avanti e guardò lo schermo. «E' Nick Jonas» disse, poi si rimise comoda.
Non poteva essere Nick Jonas. «Non prendermi per il culo Els, sarà mio padre, di nuovo.» dissi alzando la testa. Elisa aveva la bocca tutta sporca di briciole di cioccolato. Era poco credibile. Sarebbe stata poco credibile anche se fosse stata la verità.
«Ti dico che è lui, ma se non vuoi controllare, fatti tuoi. Tanto non ti piace giusto?» la fulminai con lo sguardo. Il cellulare smise di vibrare. Sospirai di sollievo, ma non feci in tempo a finire il sospiro che riprese. Alzai gli occhi al cielo e afferrai il cellulare. "NICHOLAS JONAS" era scritto a caratteri cubitali sullo schermo. Sgranai gli occhi. Non era una cazzata, mi stava chiamando sul serio. Mi lasciai sfuggire un piccolo, minuscolo, quasi inesistente gridolino di eccitazione e di sorpresa. Marco e Elisa mi guardarono ridendo. Risposi.
«Pronto?»
«Finalmente, credevo mi evitassi, anche se è solo la seconda volta che ti chiamo. Ho pensato fossi impegnata, magari al Melia, sbaglio?» la sua voce era... Non sapevo nemmeno come descriverla. Mi sentii solo tremendamente idiota.
«Sbagli, sono da Arnold's Cafè con Elisa» la mia amica fece un gesto di saluto «che ti saluta, e stiamo bevendo del caffè bollente per scaldarci. E scusa per la chiamata, non ho sentito la vibrazione. Perché... mi hai chiamata?» sentii qualcuno dall'altra parte del telefono, di sottofondo. Una risata. Maschile.
«Per parlare un po' con qualcuno che non dica le parole "album", "tour" o "musica" ogni due secondi. Disturbo?» Avrei voluto urlare "sì che disturbi, perché sto allegramente fingendo che tu mi stia sulle palle, così la mia migliore amica smette più velocemente di assillarmi!" e invece scossi la testa e dissi semplicemente: «No, parla pure» rise.
«No, speravo che parlassi tu. Come va la scuola? La vita normale? Elisa come sta? Hai visto le foto del matrimonio?» sorrisi.
«Mhm, bene, meno bene, bene, sì» rise ancora, così risi anche io.
«Sei veloce a rispondere alle domande, ma questa è più difficile: perché la vita meno bene? Preferiresti cantare testi scritti da altri?»
«Preferirei essere a Houston, in realtà, ma mio padre ha detto che questo Natale lo passeremo qui, quindi non va bene come speravo sarebbe andata. E sì, sono davvero veloce, magari approfondisco. Mhm, il matrimonio.. Se io potessi sposarmi in un posto così, beh, wow, mi sposerei il posto, mica il mio ragazzo» un'altra risata di sottofondo e poi sentii un cane abbaiare.
«Uh, quale ragazzo? Questa parte della tua storia me l'ero persa» disse «se posso sapere eh. Non vorrei mai fare gossip» Marco e Elisa mi guardavano curiosi di sapere cosa stessimo dicendo. Nessuno dei due andava così bene in inglese, ma sfido chiunque a capire quello che dicono due stranieri al telefono. Stranieri che per di più parlano molto, molto velocemente.
«Nessun ragazzo, ma prima o poi sposerò qualcuno, no? O puoi anche prevedere le cose e mi stai dicendo che non sposerò mai nessuno?»
«Se fossi così bravo, non penso canterei. Oppure sì, perché amo farlo» fece scoccare la lingua. «E mi piace molto scriverle le canzoni»
«Per poi avere paura di cantarle al matrimonio di tuo fratello, giusto? Beh, giusto!» scoppiammo a ridere entrambi e il cane abbaiò più forte. «Elvis, zitto!» era la voce di un bambino, forse il loro fratellino minore.. Frank. O qualcosa del genere.
«Non avevo paura di cantare, solo non pensavo fosse il momento adatto... Come sai queste cose, Judie, hai cominciato a leggere il gossip che ci riguarda?»
«No, ho una migliore amica a dir poco ossessionata, quindi certe cose o si sanno, o si sanno» dissi. «HEY! Questo l'ho capito! Io non sono ossessionata da nessuno!» urlò Elisa - in italiano - nascondendo un sorriso.
Qualcuno chiamò il nome di Nick e lui rispose qualcosa che non capii. «Scusa Jude, devo andare a sentir parlare di album, tour e musica. Ci.. sentiamo! Buon Natale!» disse, con la voce di chi ha un sorriso sulle labbra.
«Ehm, anche a te. Buon album, tour, musica. Ciao!» lo sentii ridere e poi riattaccò.

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Capitolo 4
*** chapter four. ***


Mi sdraiai sul letto e giurai a me stessa di rimanere chiusa in camera mia fino al 2010. Presi il primo libro che mi capitò in mano – Orgoglio e Pregiudizio, e cominciai a leggere. Ero in una posizione a dir poco scomoda ma non avevo né voglia né intenzione di muovermi. Avevo le braccia alzate che tenevano il libro abbastanza lontano dagli occhi per leggere, le gambe leggermente piegate e la testa appoggiata sul cuscino.
Qualcuno bussò alla porta, ma non risposi. Avevo voglia di stare da sola. Di non pensare. Di non fare niente. Di dormire e godermi le vacanze di Natale. Chiusi il libro appena sentii alcuni passi che si allontanavano. Mi misi seduta, e rimasi ferma, ad ascoltare il silenzio che mi circondava. Sbuffai. Poi mi alzai in piedi, mi trascinai fino alla scrivania e accesi il PC. Mi sedetti sulla sedia imbottita e girevole e misi comodamente i piedi sulla scrivania. Il mio HP fece il solito rumore di accensione e apparì la schermata dell'account. Inserii la password e appena si fu caricato tutto quanto, avviai internet. Andai su Google e scrissi “discografia Jonas Brothers” sul motore di ricerca. Cliccai. Poi scossi la testa e chiusi tutto, cliccai su start e spensi il computer. Rimasi in silenzio, poi mi decisi ad alzarmi e misi Underclass Hero, l'ultimo CD dei Sum41, nello stereo. Partii immediatamente, e nello stesso momento squillò il telefono fisso che tenevo sulla scrivania accanto al PC.
«Rispondete voi!» urlai. E il telefono continuava a squillare.
Lo afferrai, scocciata. Spensi lo stereo e risposi. «Pronto?» «Tesoro mio! Judie! Sono la nonna!»
Il suo accento americano era inconfondibile e mi aprì il cuore. Non la sentivo da quell'estate e mi era mancata così tanto. Mia nonna era il mio punto di riferimento. Da quando ero piccola, mi aveva sempre accudita lei quando i miei genitori erano impegnati. Mi aveva cresciuta a modo suo e non come i miei genitori avrebbero voluto che mi crescesse. Se volevo il gelato, mi dava il gelato. Se volevo guardare i cartoni animati alle due di notte perché non riuscivo a dormire, me li faceva guardare e, anzi, restava sveglia con me a guardarli e rideva a battute che facevano quegli animaletti animati anche se non facevano affatto ridere, solo perché io, piccola com'ero, scoppiavo a ridere e la guardavo, aspettandomi che, ovviamente, ridesse anche lei. E lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo, rideva sempre e mi faceva sentire grande, matura, intelligente.
«Nonna! Come stai? Come mai chiami? Non che mi dispiaccia, anzi..» dissi, appoggiandomi al muro.
«Cara, io sto bene, grazie. Cercavo tua madre, è lì per caso? Volevo proporle qualcosa di particolare per questo capodanno..» disse, e sette ore dopo eravamo su un aereo diretto nel Mississipi, a Jackson, la capitale, dove viveva mia nonna e dove avrei passato il capodanno con la mia famiglia.
Eravamo appena scesi dall'aereo ed era pomeriggio tardi quando il cellulare prese a squillare. Ero stanca, il viaggio era stato faticoso, il sedile dell'aereo scomodo e dietro di me c'era un bambino che aveva tirato calci per tre ore di fila prima di addormentarsi e russare. Mi aveva fatto promettere di non avere figli per nessun motivo al mondo. Tirai fuori il cellulare dalla tasca e sbadigliai per poi leggere sul display l'ultimo numero che mi aspettavo di vedere: Nicholas Jonas. Esitai un secondo e poi risposi.
«Buongiorno. In Italia è mattina vero?» chiese la sua voce allegra.
«Non ne ho idea, sono a Jackson, nel Mississipi, conosci?» fece una pausa «Nick? Ci sei? Scherzavo eh, so che conosci Jackson!» risi.
«Sì, sì ci sono, scusa, è che è strano pensarti negli Stati Uniti»
«Già, anche per me è strano, ma mi piacerebbe essere da tutt'altra parte..» non sapevo nemmeno perché lo stavo dicendo a lui, ma era assolutamente vero. Odiavo andare a Jackson perché eravamo vicini al Texas, vicini ma non abbastanza per scappare a casa per qualche ora. Qualche secondo. Giusto per cogliere quell'odore di vaniglia che emanavano i divani e le tende, e quell'odore di legno consumato che si sentiva quando ti avvicinavi ad un mobile. Mi mancava uscire di casa e stare al fresco sul portico, vedere la pioggia che si trasformava in sole in pochi minuti. Certo, queste ultime cose potevo farle e vederle ovunque, ma lì era a casa, e tutto è più bello quando sei a casa.
«Come mai? Credevo amassi gli Stati Uniti..» ero quasi sicura di non averglielo mai detto.
«Amo gli Stati Uniti e sono felice di vedere mia nonna, ma sapere che sono vicina a casa e non ci posso andare io.. non lo so.. mi fa male. Ma lasciamo perdere. Mi hai chiamata per parlare con qualcuno che non ti parla di musica?» lo sentii sorridere.
«Veramente ti ho chiamata per parlare proprio di musica. Volevo chiederti la tua mail per mandarti alcune canzoni. Scritte da me, ovviamente. Vorrei un parere di qualcuno che non mi muore dietro e che pensa che la mia musica faccia pena» risi. La sua musica non mi faceva più così pena, ma questo dettaglio lo tenni per me.
«Wow, dovrei esserne onorata? Comunque la mia email è..» «A questo punto non penso mi serva la tua email ma l'indirizzo di tua nonna, no?» risi. Scherzava. Scherzava, vero?
«Stai scherzando?»
«No, quanto rimani? Potrei convincere i miei a passare il capodanno a Jackson. Loro amano il Mississipi, e la famiglia di mio padre non potrebbe comunque ospitarci a casa sua perché è alle Hawaii per le vacanze, quindi.. Non ti dispiace vero, vedermi?» Mi dispiaceva, vederlo? Nemmeno io lo sapevo. Era così.. strano. Cioè, ero al telefono con Nick Jonas, non con Luca o Davide – miei compagni di scuola – e sembrava alquanto strano chiedere ad una star, una superstar, per quanto a mio parere non meritasse questa nomina, di passare il capodanno con me. Non ebbi nemmeno il tempo di rispondere qualcosa di sensato, o di pensare. Mio padre mi fece scendere dall'auto (su cui non ricordavo nemmeno di essere salita) annunciandomi di essere arrivati a casa della nonna, e dalla finestra, che aveva le tendine aperte, vidi mio fratello. Il mio cuore accelerò il battito. Cosa ci faceva Daniel dalla nonna? Perché non me l'aveva detto? Non doveva essere con la sua ragazza in qualche strano posto in Egitto?
«Ehm, no, certo che non mi dispiace. Senti Nicholas, c'è.. facciamo che ti scrivo un SMS dopo con l'indirizzo. Ci.. sentiamo, va bene? Scusa..» dissi, e sentii solo «Okay, ci..» prima di riattaccare, senza staccare gli occhi dal ragazzo dietro il vetro.
Salii gli scalini dell'entrata di corsa e suonai il campanello. Passarono solo due secondi prima che mia nonna, raggiante e sorridente aprisse la porta. «Ohh, Judie cara! Come stai? Com'è andato il viaggio?» mi abbracciò con la sua delicatezza. Inspirai il suo profumo. Gelsomino. Metteva lo stesso da sempre. Lo amavo. «Il viaggio è andato bene, grazie nonna. E tu come stai? Dov'è il nonno?» dissi ricambiando l'abbraccio.
Mi fece strada fino al salotto dove mio fratello stava avendo una discussione con mio nonno, seduto sulla sua solita poltrona rossa, davanti al caminetto acceso. Era davvero Daniel. Era davvero lui.
Non aspettai nemmeno un attimo in più, gli corsi incontro e gli saltai letteralmente addosso interrompendo la sua conversazione. Mi abbracciò. «Scimmia! Finalmente siete arrivati!» esclamò lui prendendomi al volo.
«Che cosa ci fai qui tu? Non dovresti essere con Jasmine in Egitto?» non lo vedevo da quasi due mesi. Mi era mancato un sacco. Gli baciai il collo, la spalla, la guancia e la fronte.
«Io e Jasmine ci siamo lasciati e abbiamo deciso di comune accordo di interrompere la vacanza. Sono arrivato qui due giorni fa, ma prima ho passato un po' di tempo a casa» A casa. A casa.
«A CASA?!» urlai. «E non mi hai detto niente? Non mi hai chiamata?! Invitata?!» lo spinsi sul divano e mio nonno scoppiò in una risata goffa. Mi girai verso di lui e lo abbracciai forte. «Scusa nonno, ho un fratello idiota. Come stai? Ti trovo molto bene, molto giovane. Quanti anni hai ora? 25 o 30?» rise ancora. Una risata mischiata a tosse.
«Eh Judie, Judie, non mentirmi. So bene di essere conciato maluccio ma vado avanti. Continua pure ad urlare contro tuo fratello va, io vado a bere un sorso d'acqua e a chiamare gli ultimi invitati..» disse, e sparì in cucina.
«Invitati?» «E' quello che cercavo di dirti. Sono stato ad Houston solo per due giorni, sono venuto qui per aiutare i nonni per la festa di stasera. Mi hanno pregato in tutte le lingue di esserci, e allora eccomi qui. Non avercela con me!» disse, alzando il sopracciglio destro.
Mio fratello mi assomigliava in molte cose, come ad esempio nel vizio di alzare il sopracciglio destro. Però lui lo faceva sempre, io solo quando ci provavo con un ragazzo. Era alto e aveva i capelli abbastanza corti, castano chiari, gli occhi verdi e una bocca stupenda: labbra rosse, strette e che potevano aprirsi in un sorriso che avrebbe ucciso chiunque. Io, come lui ero alta e magra, avevo un bel seno, se si può dire così, i capelli biondi lunghi e mossi, quasi ricci. Gli occhi azzurri erano accesi sul mio viso pallido e pieno di nei. Il naso era costellato di lentiggini e le labbra erano rosse e carnose. Era raro che mettessi il rossetto o un lucidalabbra che fosse diverso da quello quasi trasparente.
«Beh, spiegami, cos'è questa storia degli invitati?» sospirai. Basta sorprese. Basta, basta, basta.
«Nonna ha pensato che se avesse invitato qualcuno dei nostri vecchi amici con le famiglie per un barbecue nel giardino sarebbe stata un'idea carina» guardando la mia espressione sbalordita-scocciata continuò «dovevi vederla, nonna. Era così agitata ed entusiasta che ha comprata una serie di luci e lampioni per illuminare il giardino, ha preso un tavolo e l'ha tutto decorato con dei disegni di fiori per i bicchieri e le bottiglie, ti prego, ti prego, cerca di sopportare tutto questo casino. Sarà solo per stasera. Per la nonna» mi fece gli occhi dolci, e non riuscii a resistere.
«Va bene, va bene, farò la brava. Chi sono gli invitati?»
«Non ne ho idea, su questo i nonni sono stati muti come pesci. Hanno detto “sarà una sorpresa” e non ne hanno fatto più parola. Ti prego, dimmi che hai portato un bel vestito» ovvio che avevo un bel vestito. Non vado da nessuna parte senza portarmi almeno due vestiti firmati. Era la mia unica fissa da ragazza ricca. I vestiti da sera. Oh, come li amavo.
«Sì, ce l'ho. E' bianco. Un po' corto, ma perfetto» dissi, roteando gli occhi. Lui sorrise e mi baciò la guancia. «Brava sorellina, grazie davvero. I nonni saranno felici e gli ospiti saranno qui tra due ore. Porta la tua roba di sopra e preparati.» sgranai gli occhi, ma poi evitai di ribattere con qualcosa come «DUE ORE?!», presi le mie valige e le trascinai nella mia stanza, al piano di sopra. Era arredata come l'avevo lasciata l'estate prima. Il muro bianco con a metà una striscia di fiori rosa, rossi e le foglie verdi, molto eleganti. Il letto matrimoniale con una coperta che riprendeva il motivo del muro e tanti libri sulla scrivania. Armadio bianco aperto e profumato, bagno attaccato alla stanza perfettamente pulito.
«Wow, si comincia.» dissi, svuotai in poco tempo le valigie e mi cambiai.

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Capitolo 5
*** chapter five. ***


Il vestito bianco che avevo scelto per la serata non aveva le spalline e sul seno c'era un'elegante piega. Era attillato e mi arrivava molti centimetri sopra le ginocchia. Mi spazzolai i capelli e mi truccai leggermente. Misi uno strato leggero di ombretto bianco sulle palpebre e della matita nera. Ripassai il mascara più volte e mi misi del burro cacao sulle labbra.
Il primo campanello suonò proprio mentre stavo per scrivere l'sms a Nicholas. Mi presi ancora qualche secondo, e finii di scrivere l'indirizzo e la data di partenza, il 3 Gennaio.
«Judie, vieni giù! C'è gente!» eravamo già al terzo campanello. Lasciai il cellulare sul letto, mi infilai delle semplici ballerine bianche e scesi le scale. Stavano entrando i Collins con la figlia più piccola, che aveva due o tre anni meno di me. Feci una smorfia e sperai che non fossero tutti così gli ospiti. Intravidi mio padre che si dirigeva verso il giardino. Aveva una camicia e dei jeans a vita abbastanza alta da notarsi. Poi mia madre gli corse dietro con in mano una macchina fotografica. Era vestita di rosa, un vestito che sembrava estivo ma sapevo bene quanto tenesse caldo, l'avevo indossato tante volte.
Evitando i Collins, uscii in giardino che con mia grande sorpresa era già pieno di gente. Qualcuno mi prese per le spalle e mi fece girare. Daniel. «Hey, una faccia famigliare..» dissi, sorridendo.
«Per forza, tutta la gente che conosciamo è già con un bicchiere in mano davanti al famoso tavolo decorato dalla nonna..» disse, indicandomi un gruppo di ragazzi. Riconobbi immediatamente Rachel, Lucia, Cindy e Mathias. Poi un ragazzo moro si girò ridendo a una qualche battuta e mi notò. Mi girai di scatto verso Daniel.
«Che cosa ci fa qui Jeremy Carter?» chiesi in preda al panico. Daniel mi prese le spalle. «Era il mio migliore amico prima che ci trasferissimo a Milano, Judie, nonna non sa niente di voi due. Era palese che l'avrebbe invitato.» disse.
Jeremy Carter era stato la mia prima cotta e avevamo avuto una specie di storia durante le estati in cui venivo negli USA. Non lo vedevo da un anno circa, se non di più.
Mi rigirai verso il mio gruppo di vecchi amici e Rachel mi vide. Corse verso di me e mi abbracciò. «Oh mio Dio Jude, quanto sei bella!» disse stringendomi forte e stampando le sue labbra – sicuramente già rifatte e cosparse di rossetto – sulla mia guancia.
«Rachel! Quanto tempo! Sei cambiata tanto! Come stai?» non fece in tempo a rispondere che Cindy prese il suo posto e mi abbracciò, seguita da Lucia. «Ragazze! Wow come siete belle! Come state? Dove andate a scuola?»
Cindy cominciò a parlare. «Io sono stata bocciata l'anno scorso, e ho cambiato. Ora sono alla Carolyna High School, è privata ed è molto vicina ad Houston, anche se non è proprio in città» e questo racconto ne seguirono altri dieci tutti uguali. Non era cambiato molto.
«Ma guardate chi c'è, Judith Hayes» disse la voce di Jeremy, facendosi spazio tra Cindy e Rachel.
«Jeremy» dissi. Lui mi fece l'occhiolino e mi baciò sulla guancia. «Tutto bene?»
«Al solito, tu? Vedo che stai perdendo il tuo accento americano perfetto. Sono deluso»
«Il mio accento sta benissimo e io anche. Quante volte sei stato in galera alla fine?»
«Solo una, ma solamente perché mi hanno beccato una volta sola, capisci no?» scossi la testa ridendo e mi feci accompagnare a prendere qualcosa da bere, proprio da lui.
Cominciammo a parlare del più e del meno, partendo da quello che stava succedendo nella sua scuola e finendo a come io ed Elisa eravamo riuscite a trovare un buon lavoro non troppo faticoso. Mi raccontò che la sua ultima ragazza l'aveva lasciato per un ragazzo di un anno più piccolo di lui e cominciai a prenderlo in giro.
«Non è così divertente eh» disse mentre mi piegavo in due dal ridere. Eravamo finiti contro la staccionata marrone scuro che separava il giardino dei nonni da quello dei vicini.
Ricordavo che una volta, da piccola, mi era finito il pallone dall'altra parte della staccionata e lo lasciai lì fino a che mio nonno non mi chiese dov'era finito il pallone con cui solitamente passavo la vita e che non vedeva da qualche giorno. Dopo un po' di insistenza gli avevo detto quello che era successo e lui era andato a riprenderlo dai vicini, che non avevano fatto nessuna storia e, sopratutto, non l'avevano mangiato, come avevo temuto avrebbero fatto.
«E' divertente invece!» esclamai scossa dalle risate. Jeremy mi prese i fianchi e si avvicinò pericolosamente a me. Lo guardai negli occhi e smisi di ridere.
Poco dopo mi trascinava per il cortile, verso l'entrata, poi su per le scale, e si chiudeva la porta di camera mia alle spalle, allentandosi la cravatta. Mi fece sdraiare sul letto e si sdraiò sopra di me.
Prese a baciarmi lentamente, accarezzandomi il viso, scendendo sul collo, poi le braccia. Gli misi le mani nei capelli, le dita che toccavano i suoi ciuffi neri e morbidi. Mi slacciò il vestito con la cerniera che avevo sul fianco e mi accarezzò la pelle nuda facendomi venire i brividi. A quel punto lo allontanai.
«Che fai?» chiese mentre seduta con lui praticamente sopra cercavo di riallacciarmi il vestito. «Jude? Che cosa stai facendo?» scossi la testa.
«oh Jeremy, te lo devo spiegare, non lo capisci da solo quello che sto facendo? E' così complicato? Hai avuto così pochi rifiuti nella tua vita che quando te ne si presenta uno sotto gli occhi non riesci nemmeno a distinguerlo? Ti sto rifiutando, Jer» dissi, spingendolo e alzandomi in piedi. Andai verso la porta ma lui mi trattenne per un polso.
«Grazie di avermi chiarito il rifiuto. Ma la mia domanda è: perché? Che ho fatto?» disse trascinandomi a se.
«Sei viscido, pensi solo al sesso, è l'unica cosa di cui ti importa, e il mio corpo non è in vendita, non per così poco, non a te. E ora, se non ti dispiace, ho del tempo da passare con vecchi amici che non vedo da troppo tempo» strattonai il polso ma lui non mollò la presa. Lo fulminai.
«Amo il tuo accento italiano. E sai che quello che voglio non è il tuo corpo, lo sai bene, Judith»
«Odio quando mi chiami Judith, sai? Puoi piantarla?» sbuffai e cercai di farmi lasciare il polso. «E puoi lasciarmi andare?!»
«Dopo?» disse, baciandomi sulla tempia. Mi accarezzò i capelli e mi strinse a se. Mi lasciò il polso e io appoggiai la testa sul suo petto, lasciandomi stringere. Sbuffai e sentii le sue labbra posarsi sulla mia testa, tra i miei capelli. «Profumi di buono, sai? Sembra... vaniglia» sussurrò.
«E' vaniglia. Dopo, torniamo giù» dissi, e lui annuì. Aprì la porta e la oltrepassò prima di me. Non ero ancora fuori quando il cellulare sul letto vibrò e lo schermo si illuminò. Mi girai e tornai sui miei passi, lo afferrai e lessi l'sms che mi era appena arrivato.
“Ricevuto bella. Domani mattina alle dieci. Fatti trovare pronta e fai in modo che non ci sono troppi paparazzi. Non vorrei che pensassero che sei la mia ragazza.
PS. porta ciò a cui tieni di più. E un costume. Niente spiegazioni.
A domani”
Rilessi l'sms quattro volte prima di rendermi conto di non essermelo immaginato. Un costume? La cosa a cui tenevo di più? Ma a che razza di gioco stava giocando? Non lo conoscevo neppure... Non mi conosceva! Cosa passava per la mente di quel ragazzo? Scossi la testa e uscii dalla stanza lasciando il cellulare al suo posto, per tornare alla festa.

Forse avevo bevuto qualche bicchiere di vino di troppo, ma non ero ubriaca. Solo brilla, allegra. Niente che potesse risentirne la mattina seguente. Fatto sta che, quando l'ultima luce della casa fu spenta – o meglio, la penultima – e tutti gli ospiti erano andati a casa – o meglio quasi tutti – io e Jeremy, nella mia stanza con le pareti spesse, non avevamo alcuna intenzione di spegnere niente. Le sue mani si muovevano veloci sul mio corpo, accarezzandolo, palpandolo, centimetro per centimetro. Risi e lui mi baciò sorridendo. «Shh che ci sentono» sussurrò.
Ma tutti sapevano che Jeremy era rimasto e nessuno osava aprire la porta della mia stanza, solo perché era successo un altro centinaio di volte. Lui che rimane una notte, fa colazione con la famiglia felice la mattina e poi scompare per una manciata di anni. Era un copione già visto, studiato e imparato a memoria.
«Mi sei mancata, Judie, davvero» sussurrò lui sfilandomi gli slip.
«Lo dici solo perché stiamo per fare sesso un'altra volta» gli dissi soffocando una risata. Vino di merda. Però sapevo, ubriaca, brilla o sobria, che andava bene così. Perché nessuno mi aveva mai fatto provare qualcosa come quello che provavo per Jeremy. Nessuno mi aveva mai guardata, toccata, baciata come faceva lui. E andava bene così perché a quel punto anche io sapevo il copione a memoria, e recitavo al meglio le mie parti, sapendo già cosa mi aspettava in seguito. Le notti insonni, i ricordi, i brividi e le lacrime. Era già tutto stato vissuto e quella sofferenza, quel Jeremy che compariva e scompariva dalla mia vita da anni – da quando avevo sei anni, per la precisione, quando mio fratello l'aveva conosciuto ad un campus estivo – ed ero preparata al dolore. Una parte di me sapeva che Jeremy mi usava e basta, l'altra però era così innamorata, così sognatrice, che credeva in un futuro.
Il Jeremy che non avevo era sempre con me, ogni giorno, ed era quasi bello poterlo avere sempre che quando l'occasione di stare con lui, di sentire il suo calore sulla pelle, di viverlo si presentava, non riuscivo a dire no. Lui era tutto ciò che volevo e che non avrei avuto per più di una notte all'anno. Era il mio regalo segreto.
Ripensai all'sms di Nicholas, in quell'istante prima di fare un altro errore da accumulare agli altri, pensai a quelle parole. “Porta ciò a cui tieni di più” «Oh Nicholas, ti porterei Jeremy» pensai, e poi fui sua in ogni modo possibile, per tutta la notte.

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Capitolo 6
*** chapter six. ***


La mattina seguente, quando mi svegliai, ero nuda, ricoperta dalle lenzuola bianche e leggere che rivestivano il mio letto. La testa mi faceva leggermente male e, cosa più importante, ero sola. Mi alzai in piedi, aprii la valigia e presi i primi slip che trovai, aprii l'armadio e presi la prima maglia di mio fratello che mi capitò davanti e dei pantaloncini. Mi stropicciai gli occhi e li sentii umidi. Mi alzai in piedi e mi guardai allo specchio. Le lacrime mi stavano già bagnando le guance, ma le asciugai subito e mi sforzai il più possibile di non lasciare più spazio a quel tipo di emozioni. Feci per uscire dalla stanza quando mi resi conto di quello che avrei dovuto fare quella mattina stessa.
Corsi fino alla scrivania dove trovai il mio cellulare, guardai l'ora. Nove e trenta. «Merda!» sussurrai.
Mi catapultai in bagno con in mano biancheria pulita, una camicia e dei jeans, mi spogliai ed entrai nella doccia. Lasciai che i nervi si sciogliessero sotto il getto d'acqua bollente e, dopo essermi accuratamente lavata, uscii circondata da vapore, mi asciugai e mi vestii velocemente. Mi infilai delle scarpe da tennis, presi una borsa e ci infilai un costume che trovai in uno dei cassetti dell'armadio. Poi dalla valigia presi una scatoletta e dopo averci pensato qualche secondo, infilai anche quest'ultima nella borsa. Uscii dalla stanza e scesi le scale con i trucchi in mano. Mi misi un po' di mascara guardandomi nello specchio che c'era vicino alla cucina e decisi che, per non far lacrimare gli occhi, la matita non mi serviva. Poi, finalmente, entrai in cucina, già affollata. Passai affianco a mio fratello e gli stampai un bacio sulla guancia. Lui fece una smorfia.
«E' in salotto» disse, per poi sorridermi e aggiungere: «Buongiorno bellissima sorellina!»
Sgranai gli occhi. In salotto? Percorsi la stanza velocemente con un pancake in mano ed entrai nell'enorme salotto di mia nonna, arredato di mobili antichi e di un divano enorme e comodissimo. Daniel mi oltrepassò e si sedette affianco al suo vecchio amico che aveva in mano una manetta della playstation e guardava lo schermo della televisione come se ne fosse ipnotizzato.
«'Giorno» dissi scocciata. Non volevo che rimanesse. Rendeva tutto più difficile. La colazione era passata, era ora che levasse le tende. Perché era sul divano a fare il coglione con mio fratello? C'era un copione da rispettare, non poteva cambiare le regole di quel gioco in quel momento. Non ora che si era preparata al post-notte.
«Hey Jude, volevo svegliarti ma dormivi così bene..» disse Jeremy, mi fece l'occhiolino e mi mandò un bacio.
Stavo per mandarlo a quel paese quando suonarono il campanello. Sospirai e mi precipitai ad aprire. Avevo completamente dimenticato il motivo della mia preparazione così frettolosa, così quando aprii la porta a Nick Jonas mi sembrò estremamente strano. «C-ciao!» balbettai. «Entra!» dissi, spostandomi dall'entrata per farlo passare. Lui rise e mi guardò, poi abbassò lo sguardo e rise ancora.
«Cosa ridi?» dissi, sorridendo.
«Niente, niente. Buongiorno! Sei pronta?»
«Emh, sì. Ti va un caffè prima? Ho avuto un contrattempo e non sono riuscita a bere il mio..» lui acconsentì, così percorremmo insieme l'ingresso e poi il salotto per entrare in cucina, seguiti poco dopo da Daniel e Jeremy.
Presi due tazze e le riempii di caffé fumante, ne passai una a Nicholas e sorseggiai il mio.
«E' buono» disse lui. «Certo che è buono, è italiano» risposi io, sorridendo.
In quel momento entrarono Jeremy e Daniel ridendo, ma si fermarono appena ci videro.
«C...ciao? Ci conosciamo?» chiese Jeremy, mentre Daniel si avvicinò e gli porse la mano.
«Daniel Hayes, il fratello di Jude. Tu sei... Nick Jonas, vero? Quello dei Jonas Brothers?»
«Ma dai! Judie?» sbottò Jeremy. Mi pentii di aver invitato Nick a bere un caffè. Lui porse la mano a mio fratello e annuì.
«Sì sono io» disse, educatamente, rivolse uno sguardo a Jeremy e poi guardò me. Sembrava uno sguardo disperato, così sorrisi, mi avvicinai, lo presi per un braccio e lo trascinai fuori dalla stanza scusandomi con Daniel e Jer, dicendo che dovevo andare e che sarei tornata verso sera.
Eravamo già fuori quando dissi a Nick di aspettarmi un secondo, tornai dentro e fulminai Jeremy. «Non puoi essere così scortese con gente che conosco. Non mi importa se hai passato la notte qui o cazzate varie. Non ci vediamo da quasi due anni, e ho conosciuto altra gente. Piantala di intrometterti nella mia vita solo quando ti fa comodo e solo per qualche ora, distruggendo tutto e facendo il maleducato con tutte le persone che mi rivolgono la parola. Non sono tua. Chi frequento non è affar tuo, non lo è ora e non lo è mai stato. Cazzo! Ci vediamo l'anno prossimo, eh!?» dissi e senza sentire la sua risposta uscii di casa sbattendo la porta, per poi entrare nella Mustang di Nick parcheggiata davanti a casa della nonna. Ci salii con parecchia rabbia, sbattendo la portiera e buttandomi letteralmente sul sedile, per poi assumere un'espressione imbronciata con lo sguardo dritto davanti a me e le braccia strette al petto. Sembravo una bambina, una stupida, piccola, viziata bambina che voleva la caramella e che ora si lamenta del mal di pancia. Stupida caramella. Stupida me.
Affianco a me Nick mi guardava, con aria quasi divertita, che però era ben nascosta da un'espressione quasi-seria. Aspettò ancora qualche secondo prima di accendere il motore, fare retromarcia sul vialetto per poi percorrere la via. Svoltò a destra e poi a sinistra fino a quando ci ritrovammo sulla superstrada.
Dopo qualche minuto cominciai a distendere i nervi, ma solo quando cambiai posizione, mettendomi con il gomito appoggiato al finestrino e gli occhi che seguivano l'asfalto sotto di noi, che scorreva veloce, Nick si decise a parlare.
«Prima di parlare di quello che è successo, devo chiederti un favore» fece una pausa così mi girai a guardarlo. Aveva lo sguardo fisso sulla strada, attento, ma ogni tanto buttava un'occhiata divertita su di me, il sorriso stampato sulle labbra. «Non guardare i segnali stradali. Nè quelli che ci dicono dove siamo, nè quelli che ci dicono cosa abbiamo passato nè quelli che ci fanno sapere dove stiamo andando. Promettilo. Fino alla fine del viaggio» lo guardai strano. Che cosa significava? Non voleva farmi sapere dove mi avrebbe portato? Ma che gioco perverso era questo? Eppure, qualcosa mi diceva che dovevo solo chiudere gli occhi e annuire. Fidarmi, insomma. E così feci.
«Va bene. Ma la musica la scelgo io!» dissi, ma prima che potessi portare la mano alla radio per accenderla, lui l'allontanò.
«Hey! Non credere di poter cambiare argomento. Se lasci la porta aperta, quello che dici, fuori, si sente. Chi è quel tipo?» chiese, lasciandomi la mano. Sbuffai.
«Speravo davvero che te ne dimenticassi. Alla fine non è così importante» rise.
«Oh, lo è, lo è eccome. Però mi conosci appena, quindi se non vuoi parlarne con me non ci sono problemi. Sappi anche, però, che sono un buon ascoltatore, sto guidando quindi non posso parlare molto, so mantenere un segreto, non giudico la gente e se vuoi puoi parlarne, mi fa piacere» sorrisi.
«Owh. Eccolo il tenero della situazione, l'uomo perfetto. E va bene, ma solo perché insisti tanto» sapevo perfettamente che non aveva insistito affatto, ma avevo un innaturale bisogno di parlare di Jeremy con qualcuno. E Nick era lì. Era così un male?
«Parla pure..» mi invitò con un sorriso, e così cominciai:
«L'ho conosciuto tanti anni fa, prima di trasferirmi in Oklahoma. Era il compagno di camerata di mio fratello durante una vacanza con la scuola estiva. Io avevo 6 anni, loro 9. Sono diventati molto, troppo amici, così tanto che Daniel, mio fratello, si è fatto trasferire nella scuola di Jeremy e hanno fatto elementari e medie in classe insieme. Quando avevo 11 anni - quindi loro 14 - ci siamo trasferiti a Milano. Sto saltando il periodo Oklahoma perché è stato l'unico anno in cui sono stati separati per un lungo periodo, e se ti racconto tutto alla fine muori di noia. Quindi, dicevo... Milano, sì. Tutte le estati e per le vacanze di Natale, torniamo in America per festeggiare con la nostra famiglia. Solitamente stiamo dai nonni, ora. Ma prima, quando la casa in Texas era più abitata dato che mio padre ogni mese ci passava una settimana, era frequente che il Natale, ad esempio, si passasse a casa nostra e invitassimo anche gli amici che durante l'anno non potevamo vedere, tra cui Jeremy e la sua famiglia» presi un respiro, e continuai «Un'estate, io avevo 13 anni e lui 16, ci mettemmo insieme e passammo così due estati circa. Poi lui mi tradì con l'ex ragazza di mio fratello, lo venni a sapere, lo lasciai e da quel momento la cotta da bambina di 13 anni divenne qualcosa di più serio, così tanto che l'estate dopo persi la verginità con lui, e l'estate dopo ancora lo feci di nuovo e... beh, cosa ti posso dire? Sono quattro anni che ci rincorriamo e sette almeno che sono follemente innamorata di lui. Ma sai.. lui è uno stronzo. Uno che gioca. Lo sanno tutti, anche i miei. Lui arriva, viene con me, e poi sparisce. E' così, sono il suo contentino. Ma cosa posso farci? Quando me lo ritrovo davanti non riesco a provare nient'altro che assoluta felicità. E non riesco a dirgli di no quando comincia a baciarmi e... okay, forse è meglio che la smetta» rimasi in silenzio e lui anche per qualche minuto. Lo guardai. Era pensieroso.
«Lui non ti merita, ma se tu lo ami quanto dici di amarlo, devi lottare sul serio per avere quello che vuoi tu e non quello che vuole lui.»
«Nicholas, grazie. Davvero, dovresti fare lo psicologo, altrochè cantante» risi, poi tornai seria. «No davvero, grazie di avermi ascoltata e capita, è importante»
«Quando vuoi Jude!»


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okay finalmente sono riuscita ad aggiornarla tutta quanta :D Spero che vi piaccia sul serio, andrò avanti presto. Ho tanti progetti *ç*

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