Der Reise - il Gigante di Hannibal Smith (/viewuser.php?uid=147837)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitlo I - Il dottore e la sua coscienza ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Tre esperimenti ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Date, Ricordi, sotterfugi ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Nel
1933 un uomo senza scrupoli, approfittando dei
disordini politici e della sua capacità di attirare
l'interesse della
popolazione, salì al potere in Germania ed
instaurò nel giro di poco tempo una
dittatura che sarebbe diventata la più grande e terribile
minaccia per tutte le
democrazie del mondo.
Rimanendo fedele al suo utopistico progetto di
purezza, perfezione e supremazia razziale, il Fuhrer sfruttò
vari, se così si
possono chiamare, metodi; incentivò la ricerca scientifica
nel campo militare,
perché l'esercito tedesco fosse pronto alla guerra che stava
preparando, e
quella scientifica in senso stretto, nel campo medico, fisico, tecnico.
A questo scopo venne istituito nel 1935 il
"Gruppo 935", un gruppo di scienziati di varie discipline che
avrebbero dovuto impegnarsi nella ricerca di nuove armi per la
Wehrmacht, nuove
fonti energetiche e tecnologie rivoluzionarie.
Da quell'anno, fino alla fine della guerra in
Europa, il Gruppo progettò una notevole quantità
di armi individuali, veicoli e
velivoli che anticipavano i tempi di almeno vent'anni.
Tuttavia nel Febbraio del 1945 tutti gli scienziati
del Gruppo, e i soldati di stanza al complesso scientifico scomparirono
improvvisamente
senza lasciare nessuna traccia; quello stesso anno avrebbero dovuto
rispondere
dei loro crimini contro l'umanità a Norimberga, come tutti
gli altri esponenti
del III Reich.
Una squadra di soldati Alleati, su un ordine del
Direttore Intelligence Militare, preoccupato del verificarsi di qualche
grave
incidente, si recò nel campo di concentramento dove questi
professori
conducevano i loro esperimenti, non potevano nemmeno immaginare di
trovare l'orrore,
un orrore ben più grande di qualunque altro mai visto prima,
una verità
talmente sconcertante da mettere in dubbio il concetto stesso di
"scienza"...
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Capitolo 2 *** Capitlo I - Il dottore e la sua coscienza ***
CAPITOLO
I
Il
Dottore e la Sua Coscienza.
1
I
due uomini si trovarono, dopo ore, davanti al
risultato delle loro fatiche: anni e anni di studi sulla balistica,
sulla
chimica e sull'elettromagnetismo condensati in quell'oggetto, ora
giacente sul
tavolo su cui era stato pazientemente assemblato.
Il più alto dei due osservò l'oggetto e, a
braccia
incrociate, fece una smorfia di assenso: «Caro Edward, ce
l'abbiamo fatta,
finalmente».
Edward lo guardò dal basso, essendo di qualche
centimetro meno alto del suo collega, e sorrise: «Hai ragione
Ludwig, è fatta» disse
con voce roca e con l'erre moscia tipica della pronuncia germanica.
«Sarà il caso di presentarla al Generale
Gobbels?».
Ludwig sospirò dubbioso: «Non so se è
il caso,
vogliono dei risultati concreti quelli delle SS, ma ormai il tempo
stringe...».
Ed aveva ragione ad essere preoccupato, il Dottor
Maxis, uno dei migliori fisici di tutto il "Gruppo 935", di cui era
anche il direttore, perché ormai gli Alleati avevano
dimostrato che potevano
essere degli avversari temibili; la notizia delle vittorie alleate in
Nord
Africa e la sconfitta conseguente degli African Korps di Rommel
suscitò nello
Stato Maggiore delle SS non poche preoccupazioni.
Tuttavia, mentre Himmler, capo delle SS era
impegnato a sedare questi tumulti e a gestire l'apparato organizzativo,
altri
si occuparono per lui di amministrare i gruppi di ricerca sparsi nei
vari campi
di concentramento, e questi pretendevano dei risultati concreti, pena
l'internamento.
Edward prese l'oggetto con cautela e lo ripose in
una custodia per fucili, poi entrambi gli scienziati uscirono dal
piccolo e
angusto stanzino in cui stavano lavorando; la porta stagna si
aprì rivelando lo
sconcertante paesaggio: una gigantesca struttura industriale gremita di
scienziati intenti a discutere, operai concentrati nella costruzione e
naturalmente i vigili e austeri soldati della Waffen SS, che
pattugliavano a
gruppi di tre ogni centimetro di cemento e acciaio.
Uno degli scienziati, vestito con un camice bianco
sporco e unto avvicinò Maxis: «Signore? - lo
chiamò con un accento bavarese -
abbiamo quasi terminato la costruzione del teletrasporto Z-C e del
Mainframe...
li stiamo collegando proprio adesso».
«Ottimo, e per quanto riguarda i nostri ospiti?»
chiese
lui gelido.
«Purtroppo non abbiamo volontari per procedere».
Edward sbuffò e lo aggredì: «Come
possiamo portare
avanti il nostro lavoro se non abbiamo le materie prime, razza di
incompetente!».
L'uomo rabbrividì con ogni particella del suo corpo
ed iniziò a tremare mentre guardava il suo superiore in
quegli occhi blu
elettrico iniettati di sangue: «Ma signor Richtofen, io non
ne posso nulla, ci
hanno quasi del tutto privati dei fondi stabiliti a causa della
guerra... i
Feldmarescialli preferiscono mandare i soldati sul fronte piuttosto che
perderli nei nostri esperimenti...».
«Se vogliono veramente raggiungere la perfezione
della Razza, dovranno fare qualche sacrificio...»
sentenziò.
«Avanti Edward - lo scalzò il collega - lascialo
in
pace... tu piuttosto, torna al lavoro».
«Sì, certo signore disse congedandosi e scappando
via».
«Novellini - si lamentò Richtofen - trovano sempre
un sacco di scuse...».
Maxis si bloccò, poi si girò verso l'amico:
«A
proposito, penso che dopo tutto a Gobbels vedere questa bellezza in
azione non
farebbe poi così male, potrebbero riprometterci i fondi
necessari per
procedere!».
«Magnifico - esultò il suo collega - allora
finalmente ti sei convinto...».
Maxis prese un lungo respiro: «Andiamo forza, prima
ci sbrighiamo e meglio sarà per tutti».
Richtofen annuì.
"Speriamo solo che la tua carta vincente non
sia un vaso di Pandora".
2
I
due scienziati si condussero in una zona vicina
alla struttura centrale, la sede dei laboratori vari, ma molto diversa
come
estetica: la sezione amministrativa, dove l'intero campo era gestito in
modo
impeccabile, dalla
logistica alla burocrazia,
dalla gestione delle attrezzature alle comunicazioni.
A capo dell'intero campo vi era un veterano della
prima guerra mondiale, già combattente per il Secondo Reich
di Bismark e
Guglielmo I, un ufficiale senza scrupoli che aveva seguito il partito
nazionalsocialista fin dagli albori, scontento come tanti suoi
connazionali della
pesante sconfitta subita, fino a che ne diventò un
importante esponente: il
Generale Hans Gobbels.
Il nome del Generale marchiava la porta del suo
ufficio, Maxis deglutì, Richtofen rimase impassibile: a
causa di alcuni screzi
lo scienziato e l'ufficiale non potevano sopportarsi, ma erano
costretti dalle
circostanze a farlo, "Per il bene del Reich" disse Gobbels a Maxis
qualche giorno prima, confidandogli quanto Richtofen fosse...
"eccentrico".
Maxis prese un po' di coraggio e bussò sul legno
liscio:
«Chi mi importuna?» tuonò
una profonda voce oltre la porta.
«Sono Maxis, Generale, le ho portato la Wunderwaffe
DG-2».
«Entrate»
Aperta la porta si trovarono davanti al Generale, un
uomo canuto e tarchiato, come tutti i tedeschi d'alto rango,
dall'aspetto
ordinato e insieme sinistro; stava davanti alla finestra ad osservare
il
complesso industriale da cui i due scienziati provenivano, due
ciminiere
tagliavano il cielo eruttando fumo senza sosta, ingrigendo il
già triste
panorama dei palazzi in vetro, cemento e acciaio.
Fissando oltre le finestre, parlò: «Spero proprio
che abbiate veramente portato quello che avete detto... è
una brutta giornata,
non vorrei che peggiorasse... per voi intendo».
«Non è il caso di essere sarcastici signore...
ecco
a lei la Wunderwaffe DG-2».
Maxis fece un cenno a Richtofen, che estrasse dalla
custodia la DG-2: un fucile dall'aspetto avveneristico, simile nella
forma ad
un fucile mitragliatore, ma molto più leggero ed elegante,
alla luce della
lampadina sul soffitto sembrava quasi splendere.
«Accidenti - disse il Generale notando l'arma dal
riflesso sul vetro e girandosi per ammirarla - questa è la
famosa DG-2?».
«Proprio lei - intervenne Richtofen prima che Maxis
potesse aprir bocca - la nostra arma...».
«Incredibile... forse le speranze di risollevarci
dopo El-Alamein sono ben riposte dopo tutto - disse il Generale
dapprima
fissando l'arma, poi rivolgendosi a Maxis - vi porto davanti allo Stato
Maggiore miei signori... i gerarchi devono sapere che i nostri
scienziati non
hanno perso nulla della loro genialità!».
Mentre diceva questa parole con speranza, si
avvicinò alla sedia e prese con violenza la cornetta del
telefono e compose un
numero; Maxis e Richtofen si scambiarono un'occhiata colma di gioia,
perché i
loro sforzi sarebbero stati ripagati, finire davanti allo Stato
Maggiore voleva
dire di parlare faccia a faccia con Himmler del progetto, ed ottenere i
fondi
necessari per continuare gli studi, e per estensione ottenere la
fiducia del
Fuhrer.
Al solo pensiero, Maxis rabbrividì.
«Sì, vorrei parlare con il Feldmaresciallo Himmler
se è possibile - disse Gobbels alla cornetta - Ah! Non lo
sapevo, non è
arrivata nessuna comunicazione ufficiale... Sì si tratta di
un progetto
completato dal Gruppo 935 di stanza al campo di cui ho la gestione...
Dunque
saranno loro a venire? Durante l'ispezione? Ottimo allora, grazie e
arrivederci»
Gobbels appoggiò la cornetta sul telefono e
si sedette dietro la scrivania, asciugandosi
la fronte ambia con un fazzoletto che poi ripose in una tasca dei
pantaloni
della divisa: «E' cosa fatta caro Maxis e... caro Richtofen -
disse con
sarcasmo - purtroppo Himmler non è contattabile
direttamente, è impegnato in
una qualche ricerca di tipo archeologico, dunque la segretaria mi ha
detto che sola
cosa che potete fare, per ora, è aspettate l'ispezione di un
suo vicario presso
il quartier generale delle SS, ne approfitteranno anche per vedere i
vostri
progressi... ben fatto!».
«Grazie signore - ringraziò Maxis - e Heil
Hitler!>>.
«Heil Hitler» gridò Rictofen alzando il
braccio
destro, per poi ricomporsi e riporre l'arma nella custodia.
«Heil Hitler - ribattè il Generale - e ora vedete
sparite, visto che mi pare che abbiamo tutti un gran da fare!»
I due scienziati uscirono dalla stanza mentre il
Generale scuoteva la testa con una smorfia di dissenso; una volta
chiusa la
porta, tornò a sbrigare le sue mansioni.
«Che stronzo! - si lamentò Richtofen mentre
camminavano lungo il corridoio - noi gli faremo fare bella figura con i
gerarchi e lui ci tratta così, che modi!».
«Cerca di calmarti adesso Edward - ribattè Maxis -
tanto siamo qui... vivi, grazie a lui, nonostante tu gli stia altamente
sullo
stomaco».
«Gli sto sullo stomaco? Bene, bene - disse con uno scatto
d'ira - se ne accorgerà!».
I due colleghi uscirono dal complesso amministrativo,
Maxis diede un'occhiata intorno, in cuor suo era felice per la riuscita
del suo
lavoro, ma sapeva che il Gigante era molto di più che
qualche edificio e tante
belle parole.
Il Gigante era la sua vita.
Il Gigante era l'apoteosi della scienza moderna.
Il Gigante era la sua condanna eterna.
3
La
struttura nota come Gigante fu costruita nei
pressi della città di Breslau, o Breslavia, all'inizio del
1935, concepita
dapprima come campo di concentramento per tutti quegli elementi che
"inquinavano" la razza ariana, poi convertita in un complesso
scientifico tre anni dopo, quando un'incredibile scoperta scientifica
convinse
lo Stato Maggiore ad investire delle corpose cifre nell'approfondimento
del
fenomeno che la scoperta comportava; non di meno l'approfondire alcune
conoscenze in campo medico e biologico sfruttando gli internati come
cavie.
Inutile dire che tra i discutibili metodi utilizzati,
le precarie condizioni di salute portate dall'internamento e la
cattiveria di
soldati e "scienziati", le cosiddette cavie morivano nelle
più atroci
sofferenze e nei peggiori modi.
Maxis, in quanto direttore del Gruppo 935, fu
incaricato di portare avanti la ricerca anche in questo campo, meglio:
fu
costretto a farlo dalle circostanze; i risultati furono talmente
sorprendenti e
incredibili, che i rapporti che inviava periodicamente allo Stato
Maggiore, che
poi si incaricava di inviarli a sua volta al Ministero della Scienza e
dell'educazione e al Ministero delle armi, munizioni e armamenti,
venivano
puntualmente letti, derisi e archiviati nella polvere.
Grazie a questi inconvenienti Maxis divenne per la
Cancelleria del Reich un ciarlatano e un pazzo visionario, che
però aveva la
fiducia del Generale sotto cui lavorava, del suo staff e una notevole
Laurea in
Fisica fieramente appesa alla parete della sua camera da letto.
Ma si sarebbe presto riscattato: la telefonata di
Gobbels avrebbe innescato il processo di ascesa in seno
al Reich e il ciarlatano sarebbe diventato il
più grande scienziato del secolo.
Tutto però stava nel prepararsi adeguatamente alla
visita dei gerarchi, così in una sala del complesso, lo
studio dello stesso
Maxis, il Gruppo 935 si riunì.
La stanza era arredata in modo spartano: un tavolo
con penne, calamai e fogli di carta intestata, subito a fianco una
libreria
piena di libri spessi e ingialliti, le pareti scure, una vetrata che
dava sul
cantiere del Mainframe, un disco di metallo fissato a terra da cui
partivano
degli spessi cavi elettrici, e gli operai, naturalmente sorvegliati,
che ci
lavorano intorno.
Oltre a Maxis e Richtofen , lo staff era composto da
altre due persone: Sophia, coetanea di Maxis, di aspetto grazioso ed
elegante,
con il corpo magro e slanciato, portava una certa "allegria"
suscitando gli appetiti dei più rozzi soldati e viscidi
operai, anche se tutti
sapevano che tra lei e il Direttore del Gruppo c'era del tenero, e non
solo.
L'altro membro, un certo H. Porter, veniva
direttamente dai laboratori di progettazione balistica della
società Mauser,
storica produttrice di molte armi in uso dalla Wehrmacht e
dall'esercito
Imperiale già dal secolo precedente; venne scelto da Maxis
in persona perché riconobbe
il suo talento nel progettare armi, nonostante la sua giovane
età,
relativamente a quella dei tre colleghi.
I quattro si trovarono nello spartano ufficio del
Direttore che, affiancato come sempre dal suo assistente, e amico di
ormai
vecchia data, Richtofen, diede la notizia, con una certa emozione nella
voce
solitamente piatta: «Signori, vi ho convocato con questa
urgenza perché tra
pochi giorni avremo il piacere di ospitare alcuni gerarchi delle SS,
inviati da
Himmler in persona per verificare la... qualità del nostro
lavoro qui al
Gigante».
Sophia tremò e si guardò intorno nervosamente,
Porter invece strinse la mano al suo capo: «Sono contento per
lei signore!».
«Grazie Porter... ma vedete, questo non sarebbe mai
successo se ci fosse stato questo team, - poi si rivolse a Richtofen -
e anche
un grande amico con cui collaborare!».
«Ho fatto solo il mio dovere!».
«Vero, ma l'dea della DG-2 è stata tua!».
«Ma le competenze ce le hai messe tu!».
Sophia li interruppe mentre Porter seguiva il ringraziarsi
a vicenda dei due scienziati: «Ma cosa faremo per dimostrare
il nostro lavoro?».
Porter si irrigidì: «Eh, bella domanda!».
Maxis fece un sorriso appena accennato: «Ma è
proprio qui che si trova il... "trucco": noi dobbiamo dimostrargli
che meritiamo quei soldi, e che ne vale la pena, perciò
dobbiamo essere pronti
a qualunque loro domanda o dubbio, dobbiamo soddisfare ogni
perplessità, e
naturalmente rendere il più appetibile possibile l'oggetto
delle nostre
ricerche!».
«Però il teletrasporto è ancora
inattivo, senza l'Ununpentio
ad alimentarlo...» avvertì Porter.
«E' vero, ma è quanto abbiamo stabilito, il
frammento di Ununpentio deve restare sotto chiave, sapete che cosa
è in grado
di fare, se non lo usiamo con cautela, giusto?».
Porter abbassò la testa, imbarazzato; Sophia fissava
Maxis negli occhi, lui si sentì a disagio:
«Dobbiamo fargli vedere... tutto?».
«E' necessario...» disse Maxis avvicinandosi alla
donna.
«Potrebbe essere pericoloso, Ludwig» gli
sussurrò in
un orecchio.
Maxis prese le mani della donna e le accarezzò:
«Se
dovesse accadere il peggio, farò in modo che i Soggetti non
ti tocchino neanche
con un dito!».
Richtofen Tossicchiò e i due dottori sciolsero il
legame, Porter alzò la testa, deglutì
amareggiato: «Allora, come procediamo
capo?» chiese sospirando.
«Dobbiamo procurarci indubbiamente delle...
cavie, su cui sperimentare le potenzialità dell'Elemento -
spiegò Maxis - e
credo proprio che il campo di concentramento qui vicino faccia al caso
nostro... vero Edward?».
«Ja... ma non volevi soldati di genealogia germanica
pura?».
«Visto che i soldati sono impiegati al fronte,
conviene arrangiarci, vedi se riesci a recuperare i cadaveri di qualche
prigioniero, potremmo fare i test su di loro e mostrare i risultati ai
gerarchi»
continuò il Direttore.
«Splendida idea
Ludwig!» esultò Sophia.
«E io che faccio?» chiese Porter speranzoso.
«Non volevi costruire quell'arma di cui mi avevi mostrato
i progetti?».
Porter lo guardò con incredulità:«La
X2? Vuoi
davvero che costruisca la X2?».
«Mettiti al lavoro!».
«Sì certo signore!» ed uscì
seguito da gongolante
Richtofen; Maxis e Sophia rimasero soli nell'ufficio.
«E io che faccio, dottore?» chiese lei con tono
malizioso.
«Tu controlla i teletrasporti, e per la carità,
stai
attenta... sai che ci tengo molto a te...».
«Ludwig... - disse mentre respinse il dottore, che
voleva abbracciarla - pazienza tenere... provare a tenere il segreto ai
colleghi, ma non dovresti dirlo a Samantha?».
«Dirgli cosa?» disse facendo finta di non sentire.
«Ma come cosa? Di noi due!».
«E' ancora troppo piccola, non si è più
ripresa
dalla morte di sua madre... le ho promesso un futuro
migliore...».
Sophia lo guardò con il suo sguardo penetrante: «E
sarebbe questo quel futuro?».
«Senti Sohpia, questo è solo un punto intermedio
nel
percorso: quando avrò ottenuto i fondi dallo Stato Maggiore
sarà tutto più
facile, io sarò rivalutato come scienziato... potremmo
finalmente sposarci e
costruire una famiglia, insieme!» fantasticò.
«Ludwig - lo interruppe - sei così preoccupato
della
reputazione che hai ufficialmente che non ti accorgi di non avercela
né come
marito... né come padre... pensaci».
Lui si bloccò guardando verso il basso, Sophia ne
approfittò per uscire dall'ufficio: «Vado, che
purtroppo il Teletrasporto C-Z è
ancora in costruzione, avranno bisogno di me al cantiere».
Chiuse la porta lasciando il Dottor Ludwig Maxis,
Direttore del Gruppo 935, laureato in Fisica a Berlino, padre di una
bambina da
pochi mesi orfana, a riflettere da solo nel suo ufficio su
ciò che lui è e ciò
che dovrebbe in realtà essere.
Ma la tentazione di essere qualcosa di più di quello
che era in quel momento lo corrodeva da dentro.
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Capitolo 3 *** Capitolo II - Tre esperimenti ***
CAPITOLO
II
Tre
esperimenti
1
L'enorme
struttura adiacente al Gigante era il campo
di concentramento che all'inizio costituiva il centro
dell'attività nel campo;
lo scenario era particolarmente desolante: un complesso di baracche
sovraffollate affiancate l'una all'altra, poi le grigie strutture come
l'infermeria, un'armeria, gli alloggi di soldati ed ufficiali, i posti
di
guardia con palizzate, un'acciaieria, una catena di montaggio e gli
edifici di
camere a gas e forni crematori, le cui ciminiere sputavano fuoco a
ritmo
continuo.
La zona recintata da una rete metallica sovrastata
dal filo spinato, robusto e tagliente; Richtofen arrivò nel
campo da un'entrata
che collegava l'area al Gigante, scortato da alcuni soldati; il pallido
Sole
della primavera appena iniziata si fece largo tra le grigie nuvole, ma
la luce
era troppo fioca per trapassarle.
In quel momento il campo era gremito di uomini di
tutte le età, anche bambini e giovani, che trasportavano
sacchi, tubi,
attrezzi, materiali vari; erano tutti uomini perché nei
Lager uomini e donne
erano divisi in una prima fase subito dopo l'arrivo, poi ad ogni
detenuto
veniva dato un distintivo che ne indicava la razza e venivano tatuati
con un
numero sul braccio, in quel momento la loro umanità veniva
annientata del
tutto.
La filosofia del campo era semplice, quasi
animalesca: dimostrati forte e sopravviverai più a lungo,
dimostrati debole o incapace
e verrai annientato... sia moralmente che fisicamente.
Questo tipo di "prigioni" erano usate dal
Terzo Reich per raccogliere ed uccidere tutti quelli che inquinavano la
razza:
criminali di ogni tipo, zingari, storpi, malati di mente... poi le
vittime
supreme della Soluzione Finale, su cui i soldati delle Waffen- SS si
avventavano con una tale ferocia da oscurare la cattiveria con cui
venivano
trattati gli altri internati: gli Ebrei, accusati fin dall'inizio del
Governo
Hitler di avere la colpa, totalmente discutibile, di aver crocifisso
Gesù
Cristo, e altre scuse simili.
Le radici dell'antisemitismo però si perdono nei
venti del tempo e della storia, ma è tristemente noto come
durante la Seconda
Guerra Mondiale raggiunse il suo spaventoso culmine.
Un soldato piuttosto giovane si avvicinò al
picchetto di Richtofen, un soldato semplice armato di MP40: «Alt! Devo
chiedervi l'autorizzazione!».
«Dottor Edward Richtofen, dal Gigante... vorrei
parlare con il comandante del campo!».
Il militare rimase un po' disorientato, ma si
sbloccò quasi subito: «Ma... certo, mi segua
Dottore!».
Il picchetto dello scienziato entrò nel Lager,
calpestando il fango con i piedi, ed osservando i prigionieri mentre
venivano
scherniti dagli altri commilitoni: i visi scavati dalla fatica, i corpi
freddi
e scheletrici, le vesti a righe bianche e nere sporche di fango e
strappate, le
espressioni vuote e puntate sul nulla da occhi vitrei e spenti... non
erano più
uomini, nemmeno numeri.
Comandati con uno spaventoso zelo dai Kapò del Lager,
ovvero altri internati che fungevano da capo-gruppo, eseguivano
diligentemente
il loro lavoro, chi cadeva o si lamentava veniva fucilato; chi era
ritenuto
tale durante le selezioni veniva eliminato, perché inutile
perfino come forza
lavoro.
Impassibile di fronte a quel raccapricciante
spettacolo, Richtofen attraversò il campo con i soldati,
fino ad un edificio in
mattoni costruito su due piani: il gruppo entrò dalla porta
in legno
sorvegliata a vista, ma solo a Richtofen, una volta verificato che
fosse un
membro del Gruppo 935, venne dato il permesso di varcare la soglia del
Comandante del Lager; un uomo vile e senza scrupoli, ma non abbastanza
per
passare alla storia come i suoi colleghi al comando di altri campi di
sterminio
più famosi.
Richtofen aprì la porta e si trovò nell'ufficio
del
comandante, simile alle altre stanze: arredamento ridotto allo stretto
necessario, una libreria piena di documenti polverosi; una scrivania, un pacco di fogli di carta
intestata, penne e
calamaio su quest'ultima, un telefono nero avorio appeso alla parte
destra; il
comandante scriveva come una macchina da scrivere su quei fogli, poi li
timbrava e li accumulava in una seconda colonna, e continuò
così finché
Richtofen, entrando, sbatté involontariamente la porta.
Il comandante alzò la testa e si accigliò, lo
sguardo degli occhi turchini come d'acciaio: «Ah! Dottor
Richtofen,
direttamente dal Gigante... cosa poso fare per lei?».
«Comandante... - esordì lo scienziato - dovrei
parlarle di alcune questioni della massima importanza!».
«Prego... mi dica...».
«Stiamo conducendo alcuni esperimenti medici e... ci
servirebbero i corpi di alcuni internati...».
Il Comandante sgranò gli occhi: «corpi...
morti?».
Richtofen fece spallucce: «Solo per questa volta,
almeno...».
La reazione del Comandante non era casuale: i biechi
scienziati del Terzo Reich sarebbe passati alla storia per la
crudeltà dei loro
esperimenti, compiuti su internati accuratamente selezionati, sulla resistenza all'assenza
di ossigeno, per
i paracadutisti della Luftwaffe, e il congelamento, oltre agli studi
sulle
malattie epidemiche, come la petecchia, e i rudimentali esperimenti di
Eugenetica, la rivoluzionaria disciplina scientifica votata al
perfezionamento
della specie umana, che nelle mani dei nazisti divenne un'arma a doppio
taglio
molto pericolosa.
«E io in
cosa
posso esserle utile, per la vostra... ricerca?».
«Dovrebbe concedermi l'autorizzazione a selezionare
e prelevare i cadaveri...» spiegò Richtofen con
voce piatta.
«E sia...» disse l'ufficiale prendendo un foglio,
scrivendoci sopra qualcosa
e
timbrandolo.
«Prima che me ne vada a fare il mio dovere... posso
chiederle una cosa, Signore?».
«Ma certo Dottore..».
«Bene - spiegò con calma - ho notato una nota di
scherno nella vostra voce alla pronuncia della parola... "ricerca",
chiedo il motivo di tale tono, Signore».
Il Comandante rimase impassibile, rigido e immobile:
«Semplicemente perché voi state togliendo soldi
che servirebbero ai soldati...
sono loro che vincono le guerre con il loro sangue e il loro sudore,
giorno
dopo giorno!».
«Ma le ricerche in campo balistico hanno fornito al
nostro Reich i mezzi per conquistare l'Europa: non ho ricevuto
lamentele circa
l'uso della MG42, o dell'MP40, del Gewer43 e delle altre armi di
recente
impiego...».
«La scienza è per gli incapaci come lei; non
è forza
come la Guerra, ma è ignoranza della vera vita, conquistata
con l'onore e il
sangue... mi fate quasi pena con i vostri bei camici bianchi e i
foglietti
ordinati, soprattutto quando mi vengono in mente i nostri fratelli
caduti a
Orano, Kasserine, El-Alamein!».
Richtofen rimase a sua volta impassibile, guardò con
sufficienza il Comandante, prese il foglio dalla scrivania e fece per
uscire,
quando un'altra domanda gli attraversò il Cervello:
«E delle scienze occulte...
cosa ne pensa?».
«Sono un tipo pratico di natura, quelle sono tutte
stronzate!».
Richtofen sorrise maligno: «Bene, allora quando
parlerò a Himmler dei promettenti risultati delle "ricerche"
- disse
imitando la voce del Comandante - verrà a sapere che la sua
passione e speranza
di vittoria assoluta è stata chiamata "stronzate" da un
incompetente
Comandante che a malapena sa fare di conto e che pretendeva di essere
superiore
ad uno scienziato».
Il Comandante rimase a bocca aperta.
«Hail Hitler - uscì dall'ufficio e chiuse la porta
dietro di sé - cazzone!».
2
Sophia
si guardò intorno pensierosa: il
teletrasporto era stato costruito in un capannone, ed appariva come un
gabbiotto di metallo sormontato da apparecchiature elettriche e
dall'immancabile Svastica Nazista; in quel momento il capannone era
gremito di
operai e tecnici impegnati ad avvitare e saldare i vari componenti.
Il capo cantiere, l'ingegnere che Richtofen aveva
rimproverato quando uscì dal laboratorio con Maxis e la
DG-2, notando la
scienziata in arrivo, abbandonò la sua mansione di
supervisore e si avvicinò
alla donna: «Buongiorno dottoressa - la salutò -
abbiamo quasi terminato la
costruzione del teletrasporto, mancano gli ultimi ritocchi».
«Vedo - disse lei senza emozioni - avete seguito le
specifiche tecniche?».
L'ingegnere annuì: «Sì signora, abbiamo
predisposto
tutto... solo...».
Lei lo guardò gelida: «"Solo..." cosa?».
Tremante, l'ingegnere rispose: «Ecco, ho dovuto
rifare i calcoli per via di un pezzo che non combaciava... mi sono
imbattuto
nel calcolare l'energia totale necessaria per
l'alimentazione».
«E quindi? Cosa c'è che non va?».
Lui si accigliò, preoccupato, ed intimorito
dall'espressione glaciale della dottoressa: «Nulla,
è tutto perfettamente
progettato... però io ho dei dubbi che le nostre riserve
abbiano carbone o
petrolio sufficiente per alimentarle le apparecchiature... non penso
che
l'energia sia sufficiente per trasportare la materia vivente dal
teletrasporto
al mainframe, ci vorrebbero migliaia di Watt di energia...».
«Ottima deduzione - si complimentò lei -
però devo
darle una pessima notizia».
«Cioè?>> chiese lui impaurito.
«Non useremo il petrolio o il carbone, bensì un
combustibile... unico nel suo genere».
E si allontanò dall'ingegnere, che rimase a guardare
il vuoto qualche secondo, finché si sbloccò e
seguì la dottoressa come un
cagnolino segue il padrone per strada: «Ma... come sarebbe?
Quale
combustibile?».
Lei si fermò quasi davanti al teletrasporto: vide
gli operai che notandola accennavano sguardi maliziosi che,
ricordandosi dei
soldati armati, diventavano torvi e seri, concentrati sul lavoro da
fare; compiaciuta
osservò il risultato delle sue fatiche realizzarsi un pezzo
alla volta, con
calma e discrezione.
Si girò poi di scatto, spaventando l'ingegnere
sottomesso: «Non vi riguarda, sappiate solo che non useremo
nessun combustibile...
tradizionale».
«Non capisco signora» disse rassegnato.
«Meglio così, tenetevi fuori dagli affari non di
vostra competenza».
L'ingegnere abbassò il capo, confermando la sua
sottomissione: «Sì, certo signora...».
Era praticamente impossibile dare del filo da
torcere a quella donna, il suo carattere e il carisma
la rendevano un avversario temibile, ed era
consapevole di avere delle competenze notevoli; competenze utili agli
scopi del
Gruppo 935... e a quelli di Maxis, ovviamente, che rimase folgorato
dalla sua
bellezza, laddove aveva perso ogni interesse per il gentil sesso quando
rimase
vedovo dopo una decina d'anni di matrimonio.
La vita famigliare non era adatta ad un tipo come
lei, ma amava Maxis, ed era disposta a tutto pur di sostenerlo e
stargli
accanto; inoltre lei e Samantha, la giovane ed ingenua figlia di Maxis,
avevano
instaurato un bel rapporto di amicizia.
Insomma, la loro vita sembrava perfetta: amore,
amicizia ed un lavoro prestigioso, ma si sa che prima o poi il piacere
finisce
e allora subentrano le peggiori disgrazie.
«Tra quanto sarà pronto per le
sperimentazioni?»
chiese osservando il teletrasporto.
«A breve signora» squittì l'ingegnere.
«Eccellente - disse compiaciuta - avete fatto
davvero un ottimo lavoro... vi ricordo che avremo presto delle visite
importanti, per allora dovrà essere pronto e in
funzione!».
L'ingegnere si affiancò alla scienziata, guardando
il teletrasporto a sua volta: «Visite importanti?».
Lei si girò verso l'uomo e lo fissò negli occhi
scioccati: «Una delegazione di gerarchi delle Waffen- SS
direttamente da
Berlino... verranno appositamente per constatare di persona la
qualità del
nostro lavoro».
L'ingegnere rimase immobile, indeciso se gioire o
tremare al pensiero di trovarsi davanti a quelle
persone che erano personificazione
dell'ideale nazista e della volontà di Hitler in persona.
Gli operai lavorarono qualche minuto sotto la
direzione della dottoressa, finché non venne collegato al
teletrasporto un
lungo tubo che lo collegava al mainframe; fissato il tubo, i tiranti e
le viti,
gli operai si allontanarono dal teletrasporto formando un semicerchio
attorno
ad esso, la dottoressa fece capolino tra la massa ad osservare il
lavoro
ultimato.
Sorrise constatando di persona che era ormai pronto
a svolgere la funzione per cui era stato costruito, e con lei gli
operai e gli
altri scienziati nel cantiere; solo i soldati di guardia rimasero
freddi e
insensibili a quelle grida di felicità e soddisfazione.
«Chiamate il dottor Maxis! - disse lei a colleghi,
che sparsero subito la voce nel gruppo - sarà orgoglioso del
nostro lavoro».
3
Hai
mai assistito ad una... risurrezione? ».
«No capo, mai...».
«Allora sta a guardare, guarda e impara, come si usa
dire oggi giorno».
Maxis e Porter si trovarono in una stanza sotterranea,
costruita sotto il complesso mainframe dei teletrasporti, che
proseguiva con un
lungo corridoio, fino ad una porta stagna, blindata, praticamente
inespugnabile.
«Allora è lì che si trova l'Ununpentio?
chiese
Porter un po' a disagio».
«Proprio così figliolo - confermò Maxis
- là dentro
c'è la nostra salvezza da questo squallore!».
Porter si accigliò: «Chiedo scusa signore ma...
perché
lo teniamo così nascosto?».
«Ah... caro Porter, hai ancora tanto da
imparare...».
«Allora mi insegni quello che devo imparare!».
Maxis sospirò divertito dalla spigliatezza del suo
assistente: «D'accordo, allora lezione numero 1: l'Ununpentio
è un elemento
inesistente sulla Terra, quel poco che si sa lo dobbiamo agli studi
compiuti
sull'asteroide precipitato a Tunguska nel 1908...».
«Ah sì, l'evento di Tunguska, mi ricordo che
quando
ero piccolo ho sentito delle storie al riguardo!».
«La verità è che quell'asteroide
contiene al suo
interno delle venature dell'Elemento 115, che è all'occhio
come un metallo di
colore grigio argenteo, con proprietà radioattive -
spiegò Maxis mentre
attraversavano il corridoio che dalla stanza conduceva all'entrata
blindata -
per questo lo teniamo là dentro, al sicuro, dove la
radiazioni sono
completamente schermate!».
«Piombo dunque».
Maxis annuì, camminarono finché si trovarono
davanti
alla porta, lucida e austera; Porter si grattò la testa:
«come si fa ad
entrare? Non vedo pannelli o serrature!».
«Ne sei proprio sicuro?» lo sfidò Maxis.
Porter si irrigidì, poi osservò attentamente ogni
centimetro del lucido metallo di era fatta la porta, ma niente di
particolare
attirò la sua attenzione.
«Chiedo scusa ma qui non vedo nulla signore!».
Maxis sorrise compiaciuto: «Questa porta non è poi
tanto dissimile da quelle delle nostre case, come tutte le porte
infatti,
necessita della chiave più adatta...».
«Ma... - tentennò lo scienziato - ripeto il fatto
che non vedo serrature!».
Maxis a quelle parole di adombrò: «Eh!
Perché non
sai guardare!».
Con un cenno del braccio fece spostare indietro il
suo sottoposto e si avvicinò alla porta,
picchiettò sul metallo con la nocca
del dito indice fino a che non sentì, soddisfatto, il suono
del vuoto dietro il
metallo; si rivolse a Porter con un sorriso, il collega parve
contrariato.
Maxis spinse con la mano sul punto che aveva tastato
e un rettangolo, grande quanto la mano del professore,
rientrò nella porta; un
rumore di pesanti ingranaggi invase il corridoio, finché la
porta non si aprì
lentamente verso l'interno, e lo videro.
Il frammento era posto dentro una grossa teca di spesso
vetro, nel centro della stanza, e poteva essere maneggiato soltanto
tramite dei
guanti che sporgevano all'interno della teca stessa; una volta entrati
Maxis accese
la luce abbassando una leva, infilò le braccia in quei
guanti e prese in mano
il frammento con molta cautela; Porter osservò con
curiosità quel pezzo di
roccia marrone scuro che stranamente brillava.
Maxis, notò la preoccupazione sul volto dello
scienziato: «Ecco, vedi? Questa brillantezza è
data dall'Elemento 115 al suo
interno...».
«Accidenti, non avevo mai visto una cosa del genere
Dottore...».
Maxis rise: «Certo, perché non esiste nulla di
simile sulla Terra... - fissò il pezzo di roccia mentre lo
reggeva in mano - ed
è piovuto dal cielo perché lo usassimo al fine di
essere superiori, caro
Porter!».
«Ma, Dottore... pensavo che ci servisse per i suoi
esperimenti sui cadaveri...».
Maxis annuì mentre sistemava il frammento in un
contenitore simile ad una ventiquattro ore rivestita di metallo; Porter
era
sempre più confuso: «Allora perché
dovrebbe renderci superiori?».
«Perché, caro ragazzo - disse Maxis mentre era
intento a chiudere la valigetta - l'Elemento 115 è anche un
incredibile
combustibile, talmente potente da oscurare in termini di resa
energetica quelli
attuali... inoltre ne bastano pochi grammi per produrre
elettricità sufficiente
a mantenere per qualche mese città grandi quanto la nostra
gloriosa Berlino».
Porter deglutì dallo stupore al solo pensiero
dell'incredibile energia che un oggetto così piccolo poteva
contenere, e di
quello che poteva essere fatto con un tale potenziale.
«Parliamo anche di... nucleare?» chiese preoccupato.
«Sì, anche - disse Maxis sfilandosi i guanti e
prendendo la valigetta dalla teca adiacente a quella del frammento,
usata come
transito - volendo ci sono migliaia di usi possibili».
Quindi anche... bombe, ordigni, oggetti che
recano... danno, alle persone?».
Maxis sorrise di nuovo: ma stavolta era un sorriso
che a Porter parve quasi maligno, rabbrividì sperando che
fosse solo
un'impressione e che avesse frainteso le parole del professore.
Recuperata la valigetta Maxis e il suo assistente
uscirono dalla stanza, chiusero l'unico accesso e, percorso lo stesso
corridoio
di qualche minuto prima, salirono sull'ascensore che li avrebbe portati
nuovamente in superficie.
Porter si sentì a disagio ad essere al fianco di
Maxis, in quanto quella luce maligna nel volto del suo superiore
l'aveva
spaventato, ma volendo rompere il ghiaccio, un po' per non pensarci, un
po'
perché effettivamente la curiosità in lui
cresceva, chiese: «Allora... -
tentennò - lei mi ha chiesto se ho mai assistito ad una...
una resurrezione...».
«Esatto» ribatté Maxis piatto.
«E
io chiaramente ho risposto di "no"
perché non è possibile una cosa simile, non si
possono riportare in vita i
cadaveri...».
Maxis lo guardò con aria di sfida, con le labbra
serrate a formare un ghigno: «Ne sei davvero così
sicuro?».
Porter sgranò gli occhi: «Ma certo, è
assurdo,
impossibile... grottesco e... immorale...».
Maxis sospirò, quasi volesse apparire spossato:
«Caro
Porter, tra le incredibili potenzialità di questo Elemento
c'è anche
l'incredibile possibilità di riportare alla vita i morti...
certo, può sembrare
estremamente demoniaco come potere ma... è questo il motivo
per cui siamo qui!».
Porter si morse la lingua, imprecando nella sua
mente per aver posto quella domanda.
«Il Gruppo 935 fu composto proprio per studiare
questa particolare caratteristica dell'Ununpentio - spiegò
Maxis - dal punto di
vista medico infatti non siamo ancora in grado di spiegare come mai si
verifichi un simile fenomeno, tuttavia ci hanno ordinato di trovare
nuove
soluzioni per i campi di battaglia, e c'è da dire un
esercito simile sarebbe
virtualmente inarrestabile, oltre che economico su ogni aspetto... non
ti
sembra?».
Proprio alla fine di quella frase, con enorme
sollievo da parte di Porte, l'ascensore si fermò di colpo e
con un fastidioso
stridio metallico, le porte di sicurezza si aprirono e i due si
trovarono
accolti da una gran folla, formata da operai, scienziati dello staff e
soldati,
riunita attorno all'entrata dell'ascensore; Maxis aggrottò
le sopracciglia
vedendo Edward e Sophia in testa al gruppo, sui loro volti espressioni
di
soddisfazione e compiacimento.
Maxis uscì dall'ascensore, seguito da un Porter
decisamente a disagio trovandosi davanti a tutte quelle persone che lo
guardavano,
e si portò davanti ai colleghi, reggendo saldamente la
valigetta e il suo
inestimabile contenuto.
«Sicché - esordì guardando Richtofen
negli occhi -
deduco dalle vostre espressioni che siamo a buon punto, non
è vero?».
«Assolutamente - rispose Sophia anticipando
Richtofen - anche l'ultimo Teletrasporto è pronto: ultimato
e collegato...».
Io invece ho preso i cadaveri di alcuni internati...
almeno se da vivi sono stati feccia, da morte saranno utili alla causa
spiegò
Richtofen.
«Bene - disse Maxis alzando con cautela la valigetta
per metterla in mostra - io invece ho la Chiave di Volta... deduco che
siamo
finalmente pronti per i nostri esperimenti, signori!».
Porter rimase in disparte ad assistere alla scena:
tre grandi scienziati, luminari del loro campo, che stavano per sfidare
Madre
Natura e la Morte per ottenere il successo agli occhi del dittatore del
loro
Stato d'origine; maledicendosi tra sé e sé per
essere sempre stato troppo
timido e "codardo", pensò che forse far parte di
quell'ingranaggio
infernale l'avrebbe portato alla dannazione eterna.
In cuor suo, inconsciamente, l'umile ingegnere aveva
già capito quale fosse stato il suo Destino
4
«Bene,
adesso diamoci da fare, signori!»
incitò Maxis i suoi collaboratori, con tono
convinto ed espressione seria.
Nella stanza del teletrasporto C, l'ultimo costruito
dei tre teletrasporti, lo staff si era adeguatamente preparato per il
primo
test: nel piazzale venne installata una postazione radio su di un
tavolo in
legno e uno degli ingegneri rimase seduto a controllare quella
postazione;
intanto Maxis e Richtofen controllavano che il teletrasporto fosse
nelle
condizioni ideali per il "collaudo".
Da una serie di leve e contatori, Richtofen poté
controllare lo stato del teletrasporto, mentre Maxis segnava i dati su
di un
taccuino: «Dunque, adesso è tutto spento - disse
Richtofen controllando le spie
- possiamo procedere Ludvig!».
Maxis scrisse sul taccuino appoggiandosi al tavolo,
mentre dalla sedia lì accanto l'ingegnere, un giovane
trent'enne, lo guardava
ansioso: «Come procediamo signore?» chiese.
Maxis alzò lo sguardo dal foglio e ripose la penna
nel calamaio: «Anzitutto abbiamo segnato le condizioni del
teletrasporto senza
energia, in modo da poter calcolare quanta ne servirà quando
sarà attivo... il
tuo compito è di registrare quello che io dirò
nel microfono volta per volta...».
Mentre Maxis addestrava il fedele collaboratore, che
pendeva letteralmente dalle sue labbra, Richtofen si guardò
intorno, ammirando
il teletrasporto: una struttura cilindrica semicircolare dalla cui
sommità si
dipartivano quattro cavi agganciati al soffitto, che erano i cavi
dell'alimentazione che confluivano verso il generatore
dell'elettricità, più
un quinto, più lungo e spesso degli altri,
che collegava il macchinario direttamente al mainframe.
Osservando quei dettagli volò con la fantasia:
pensò
all'incredibile potenziale di quella tecnologia; se l'esperimento con i
cadaveri, che erano sistemati in terra, poco lontano dalla capsula
teletrasporto e coperti da alcuni lenzuoli, sarebbe riuscito, ovvero
essi
sarebbero "scomparsi" dal sito del teletrasporto per essere poi
trasportati
e quindi "ricomposti" al mainframe senza danni o altre conseguenze,
avrebbero trovato una soluzione sostitutiva ai mezzi di trasporto e al
risparmio che ne derivava.
Avrebbero però dovuto però sfidare le leggi della
Fisica, beffandosi perfino di Einstein e della sua "Teoria della
Relatività"... e qui entrava in gioco l'Elemento 115 e le
sue strabilianti
proprietà di combustibile.
«Bene, hai capito tutto? - chiese Maxis gesticolando
verso la radio con fermezza - è fondamentale per noi che
queste registrazioni
rimangano... ci serviranno in futuro, va bene?».
«Sì professore...» disse lui sedendosi
composto con
le gambe sotto al tavolo.
Maxis spostò lo sguardo verso Richtofen: «Edward,
siamo pronti a procedere!».
Richtofen sorrise strofinandosi le mani chiuse in
due guanti neri isolanti: «Bene, al lavoro dunque!».
«E... senti Edward...».
«Dimmi Ludvig».
«Chiamami "Dottore" se parli mentre
registro - lo ammonì - ricordati che queste parole finiranno
nelle orecchie di
un Gerarca del Reich, mi spiacerebbe fare brutta figura...».
Qualcosa nella mente di Richtofen scattò: fino a
qualche ora prima erano amici, colleghi, tante belle parole sono state
dette e
tante confidenze fatte... ed ora Maxis voleva buttare via anni di tutto
questo
per cosa? Per piacere a qualche burocrate, magari del tutto ignorante,
che avrebbe
rifiutato quelle teorie definendole "tutte stronzate", come il
Comandante del Lager adiacente il Gigante?
Non poteva permetterlo... ma mentre la rabbia in lui
aumentava gradatamente che rifletteva, istintivamente non
poté fare a meno di
eseguire gli ordini di Maxis; proprio Maxis ben presto si sarebbe
pentito di
tutto, solo che sarebbe stato troppo tardi, per lo scienziato, ottenere
il
perdono.
Così nella mente di Richtofen una strana idea venne
in superficie, un'idea malsana già consapevole dei rischi a
cui andava in
contro.
«Bene - disse Maxis rivolto verso il microfono
all'operatore - avvia la registrazione!».
«Sissignore!» disse l'altro eseguendo l'ordine,
mentre Richtofen rimaneva davanti al quadro comandi del teletrasporto a
rimuginare.
«Qui è il Dottor Ludvig Maxis del Gruppo 935 di
stanza al Gigante, struttura di ricerca scientifica avanzata del Campo
di
lavoro e sterminio a Breslavia... stiamo conducendo i primi esperimenti
riguardante un progetto rivoluzionario, che potrebbe cambiare perfino
le sorti
di questa guerra contro i nemici del... del nostro grande e nobile
Reich...».
Richtofen sbuffò annoiato, con lo sguardo fisso in
avanti, verso il nulla; l'angolo del labbro superiore, com'era
posizionato sul
volto dello scienziato, formava una smorfia di rabbia e frustrazione.
«Ora i teletrasporti sono disattivati, abbiamo
segnati i valori ad alimentazione zero- spiegò Maxis
chiudendo gli occhi e
parlando molto vicino al microfono - in questo modo potremo calcolare
l'energia
media necessaria per l'intero processo di teletrasporto dal punto A,
ovvero il
teletrasporto numero "Z-C", al punto B, la destinazione prestabilita
per l'esperimento, ossia il mainframe, a cui il teletrasporto di nostro
interesse
è direttamente collegato».
Richtofen sbatté gli occhi e scosse violentemente il
capo, ansioso di cominciare l'esperimento.
«Come combustibile - continuò Maxis - non useremo
né
petrolio, né gas, né tantomeno carbone... ma un
particolare elemento chimico
trovato in un asteroide precipitato nel 1908 a Tunguska, in Siberia...
questo
elemento sembra essere refrattario all'accelerazione di
gravità e ha anche
notevoli proprietà radioattive... questo ci fa ipotizzare
che può essere un
ottimo combustibile, oltre ad essere molto pericoloso da
maneggiare».
Maxis fece un cenno, riaprendo gli occhi,
all'operatore, che spense all'istante la registrazione, Richtofen
fissò il
collega con rabbia, cercando di farla tornare da dove era arrivata.
«Come procediamo? chiese infine Richtofen.
«Adesso attiviamo il generatore, mettiamo un
cadavere nel teletrasporto e diamo energia... che Dio abbia
pietà di noi e ci
aiuti tutti quanti».
«Soprattutto te, lurido infame» sussurrò
Richtofen a
denti stretti, mentre Maxis ordinava all'operatore di andare ad
accendere il
generatore azionando la leva sul quadro comandi.
Richtofen sorrise maligno mentre osservava il
"ragazzo" uscire dall'edificio; Maxis lo vide ed interpretò
quella
smorfia come uno dei soliti momenti in cui il suo amico si "bloccava"
per fantasticare su qualcosa.
Il problema era proprio quel qualcosa su cui la sua
fervida immaginazione s'arrestava.
Cercando di distrarsi da quei pensieri maligni,
Maxis sentì un crepitio, ed una voce, da alcuni altoparlanti
disse: «Generatore
dell'elettricità attivo».
Maxis sorrise, vedeva finalmente i suoi sforzi e le
sue speranze diventare realtà; mentre fantasticava il
"ragazzo" tornò
a sedere davanti alla radio.
«Edward, siamo pronti?».
«Sì... dottore» disse inespressivo
voltandosi verso
il quadro comandi del teletrasporto, afferrando con forza le leve di
controllo.
«Bene, allora calibriamo la capsula... - poi si
rivolse all'operatore, che stava riprendendo fiato per la corsa appena
fatta -
accendi quest'affare e diamoci da fare!».
«Soltanto un momento - disse una voce familiare ai
due scienziati - non vorrete cominciare senza di me, non è
vero?».
Era il Generale Gobbels, affiancato da sue statuari
soldati, armati di MP40, che entrò nell'edificio con fare
preoccupato;
probabilmente in cuor suo non era convinto dell'utilità di
quegli esperimenti,
vedendo i cadaveri poi pensò che forse Maxis e Richtofen
erano semplicemente
due pazzi... ma del resto gli ordini erano di lasciarli lavorare.
«Hail Hitler Generale!» salutò
l'operatore con
fervore, Maxis e Richtofen si limitarono ad alzare il braccio destro
fissando
l'ufficiale, che ricambiò a sua volta.
Il ragazzo si rimise al suo posto e Gobbels si
avvicinò a Maxis: «Dunque? Cos'avete intenzione di
fare? - ed indicò i cadaveri
- voglio dire: mi è stata fatta in
ufficio una telefonata secondo cui Richtofen ha
deliberatamente
minacciato il Comandante Holler, del Lager qui vicino...».
«E allora? - chiese Maxis senza scomporsi -
quell'uomo fa compiere massacri e atrocità sui prigionieri
tutti i santi
giorni... qualunque insulto indirizzatogli non può che
meritarselo, dato che è
un buzzurro ignorante e violento!».
«Questo solo perché non ha fiducia nelle vostre
ricerche... e forse anche io non ne ho Ludvig...».
«E allora perché sei venuto qui?».
«Perché voglio vedere se la mia fiducia
è ben
riposta, dopotutto!».
Ci fu una pausa di pochi secondi, durante i quali i
presenti incrociavano fra di loro i rispettivi sguardi.
«Voglio darti un ordine, Ludvig... e questa volta
è
tassativo...» disse Gobbels con voce ferma e decisa.
«Cioè?».
«Se scopro ancora una volta che uno dei tuoi manca
di rispetto ad un Alto Ufficiale della Wehrmacht, vi sbatto tutti a
calci e la
struttura andrà in rovina... voglio vedere come lo
spiegherete ai Gerarchi, a
Himmler, al Fuhrer...».
Maxis abbassò lo sguardo, Richtofen guardò il
Generale con sguardo torvo, come un felino che studia da lontano la
preda.
«Bene, iniziate, dunque» li esortò
Gobbels con un
cenno della mano, sospirando per calmarsi dalla sfuriata.
Maxis alzò lo sguardo e si avvicinò alla radio,
sussurrando all'operatore: «Bene... accenti e preparati per
la registrazione!».
«Certo signore - disse inespressivo mentre spingeva
dei bottoni e accendeva il microfono - è attivo
signore!».
«Qui Ludvig Maxis, del gruppo 935, stiamo
effettuando il test numero
uno sul
teletrasporto "Z-C"... Edward, prepara le... le cavie...».
«Certo dottore!» disse tranquillamente Richtofen
con
tono servizievole.
Lo scienziato trascinò, a fatica, uno dei cadaveri e
lo sistemò dentro la capsula del teletrasporto, poi lo
scoprì: un uomo
piuttosto anziano, dall'aspetto spaventato e denutrito, e con i primi
segni
della decomposizione sul corpo scavato dalla fame e dalla fatica,
completamente
nudo e violaceo.
Sistemato il cadavere in posizione seduta, Richtofen
si portò davanti al quadro comandi, in attesa.
Bene Edward, ora dai energia al macchinario!>>
disse incrociando lo sguardo di Gobbels, colmo di tensione e paura.
Richtofen abbassò due leve e controllò gli
indicatori
di energia: pressione, intensità, consumo e indicatore di
sovraccarico, in quel
momento con la lancetta rivolta verso l'area verde scuro del misuratore.
Dalla parte superiore della capsula scaturì un
fascio elettrico che investì completamente il cadavere, che
cominciò a
scuotersi violentemente e a sbattere violentemente contro il fondo del
teletrasporto, osservato dai tre scienziati; Richtofen si
allontanò per non
essere a sua volta folgorato o accecato dalla luce emanata da quella
scarica
elettrica, Gobbles distolse lo sguardo e girò dall'altra
parte con gli occhi
lacrimanti.
Il quadro comandi del teletrasporto emanò alcune
scintille, Richtofen si parò il volto alzando il braccio,
Maxis fece in tempo a
fare lo stesso per poi sentire uno scoppio violento e uno strano odore
di carne
bruciata.
I presenti guardarono istintivamente verso la
capsula, scoprendo con orrore l'amara verità: il cadavere
era collassato ed
esploso, spargendo membra, sangue, umori ed interiora nella capsula,
che
scivolarono dalla superficie e si riversarono sul pavimento.
Gobbels fece in tempo a riprendersi dall'accecamento
per voltarsi di nuovo alla vista del macabro spettacolo, soccorso dai
soldati
altrettanto impressionati; Richtofen rimase di fianco alla capsula ad
ammirare
quel tripudio di sangue e carni, senza batter ciglio o mostrare segni
di
impressione, Maxis tremava come un bambino, sorpreso da un simile e
inaspettato
risultato, l'operatore ebbe uno sforzo di vomito trattenuto a fatica.
Infastidito dall'odore nauseabondo, Maxis si rivolse
ansimante verso Richtofen: «Edward, ma che diamine
è accaduto?».
Richtofen guardò verso la capsula, poi guardò il
collega:
«Mi sembra che sia chiaro cos'è accaduto
dottore...».
«No! - urlò furioso - mi riferisco al come! Come
è
potuto succedere? Hai calibrato il sistema come ti ho detto?».
«Sì dottore» rispose lui tranquillamente.
«E invece no! Non sarebbe successo questo... diastro
maledetto!».
Gobbels si avvicinò a Maxis, era pallido in volto:
«Ludvig...» sussurrò appena.
«Sì?» chiese lui impaurito dal pensiero
delle parole
che il Generale stava per pronunciare.
«Io non so se i vostri esperimenti sono davvero
rivoluzionari... dopo oggi sappi che non avrai, da parte mia, nessun
incoraggiamento, raccomandazione... niente... più niente!
Sono stato abbastanza
chiaro?».
«Sì, sì certo» disse Maxis a
testa bassa, ferito
nell'orgoglio.
«Bene, buon lavoro... sempre che riusciate ad
ottenere qualcosa!».
Detto questo il Generale si allontanò verso il suo,
seguito dai sempre volenterosi e ligi soldati, mentre Maxis lo guardava
andarsene insieme alle sue speranze.
«Dottore... - disse l'operatore - la registrazione
era accesa quando...».
«Sì, ho capito - disse lui senza girarsi - allora
rifacciamo tutto... Edward, dai una ripulita a questo schifo e
ricalibra tutto!».
«Signore, sarebbe meglio non sovraccaricare il
tutto... potrebbe saltare tutto il sistema».
«Non mi interessa! - gridò girandosi di scatto e
sbattendo fragorosamente le mani sul tavolo - non mi fermerò
fino a che non
avremo ottenuto qualche risultato che possa riabilitarci!».
Tremante, l'operatore distolse lo sguardo da quello
glaciale di Maxis e si limitò ad annuire e a tornare seduto
composto.
«Chissà se potrò mettere tutto in
formaldeide per le
analisi!» gioì sorridente Richtofen.
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Alla
vista il mainframe poteva apparire come un
semplice disco concavo fissato ai pannelli metallici che formavano il
pavimento
del cortile principale; il mainframe, in particolare, era installato su
di un
piano rialzato raggiungibile da una breve scala a gradini.
Mentre gli operai svolgevano i loro lavori di
routine, così come i soldati, che erano intenti a
sorvegliare l'area, Sophia
era vicino al mainframe, in attesa; all'improvviso sentì un
crepitio e le
centraline elettriche sfrigolarono: il generatore era acceso ed in
funzione, la
scienziata sorrise soddisfatta.
«Generatore dell'elettricità attivo»
annunciò una
voce lontana e profonda.
Con lei anche il solerte Porter, che fino al momento
in cui era arrivato non aveva ancora staccato gli occhi dal mainframe.
«Tra poco sapremo se gli esperimenti avranno
successo o meno...» disse Sophia.
«Sì... bene - farfugliò Porter -
però non so quanto
tutto questo sia di nostra pertinenza...».
«Cosa vorrebbe insinuare?» lo fulminò la
collega.
«Diciamo che noi siamo stati assegnati ai test della
Wunderwaffe DG-2 e alla costruzione della Ray Gun modello
X2...».
Sophia lo guardò dall'alto al basso, ed ebbe
compassione per lui: «Allora faccia i suoi dannati
test...».
«Benissimo,
ricordo soltanto che non ho competenze riguardanti
l'elettromagnetismo e
simili, per cui ho bisogno dell'unico esperto in materia disponibile...
voi,
signorina Maxis».
Lei guardò il suo interlocutore con più
attenzione,
chiedendosi come facesse a sapere: «Deve aver frainteso, io e
il dottor Maxis
non siamo sentimentalmente legati...».
«Però nemmeno vi impegnate per celarlo, il
legame...».
Lei rimase stupito dal fatto che Porter fosse così
cinico e improvvisamente chiacchierone, ricordando infatti quel timido
costruttore e progettatore di armi che si era presentato alla soglia,
che amala
pena guardava in faccia le persone quando parlava, se parlava.
«Cercate di badare agli affari che vi riguardano...
signor Porter».
«Lo farei più che volentieri - disse annuendo - se
non fosse per il fatto che questo è anche un mio affare,
poiché, se dovessero
scoprire che voi e il dottor Maxis siete... legati, smantellerebbero
all'istante il Gruppo 935, lasciandoci tutti in mezzo alla strada o
forse nelle
cuccette del campo qui vicino».
Sophia sgranò gli occhi con stupore, rimanendo per
la prima volta nella sua vita senza parole: anche lei era consapevole
della
crudeltà di Gobbels, non minore quanto quella del Comandante
Holler.
«Vale la pena perdere i nostri privilegi per
qualche... - rimase in silenzio cercando mentalmente una parola che
rendesse
l'idea senza che sembrasse scurrile - sì insomma, qualche
moina, ecco...».
Da lontano, per gli estranei, quella poteva sembrare
una semplice discussione, o un pettegolezzo, ma lo scopo di Porter era
più
profondo dell'apparenza delle parole: "un ricatto bello e buono -
pensò la
dottoressa fra sé e sé - tanto vale assecondarlo
prima che faccia danni".
«Sentiamo - disse lei curiosa - cos'ha intenzione di
fare per mettere alla prova la DG-2?».
Porter, che stava guardandosi intorno, distratto,
sentendo la voce della collega si girò di scatto.
«Dunque? Come vuole testare la DG-2?»
ripeté lei.
Dall'espressione del collega capì che lui non aveva
idee, comprese il motivo di tanta insistenza, lui non aveva la
più pallida idea
di come procedere con quell'arma.
Porter si guardò intorno sospettoso, i soldati parevano
fissarlo malignamente: «Mi segua signorina...».
Lei rimase a guardarlo, confusa dalle sue parole.
«Subito» continuò scandendo le sillabe.
Convinta, decise di seguirlo: scesero dalle scale
verso il piano terra, percorsero il cortile principale e superarono
alcune
porte stagne, rigorosamente sorvegliate a vista, svoltarono direzione
un paio
di volte ed entrarono in quello che aveva l'aria di essere un garage
lasciato a
sé stesso: pezzi di ricambio, gomme, fusti di combustibile
piegati, attrezzi
sparsi sui tavoli e sul pavimento macchiato di olio e grasso per motori.
Sophia arricciò il naso, disgustata dal forte odore
di petrolio che permeava l'aria: «Ma dove mi sta portando
questo è solo uno
sporco garage?».
Lui si bloccò e si girò verso la collega, che era
rimasta
indietro per seguirlo: «Non dovete preoccuparvi, questo
garage, non sporco,
bensì... "dimesso" fa parte della mia particolare copertura,
se
vogliamo chiamarla così...».
«Quale copertura?» chiese lei quasi senza fiato e
confusa.
«Si ricorda quando Lud... il dottor Maxis mi ha dato
il consenso per costruire la X2?>>.
«Ah sì! Adesso ricordo...» disse
cercando di evitare
quell'odore malsano.
«Bene, siccome è un progetto segreto mi sono
dovuto
arrangiare con quello che avevo... lassù - ed
indicò con il dito indice una
finestra al piano superiore visibile dalla loro posizione -
lassù c'è il mio
laboratorio... meglio che niente, del resto».
Per nulla preoccupato del disagio della collega
continuò il percorso, lungo una rampa di scale a due
direzioni, una verso il
suo laboratorio, l'altra verso il teletrasporto Z-B; percorsero una
passerella
sospesa che costeggiava le ampie pareti del garage ed entrarono nel
laboratorio.
Come altri ambienti nella struttura, il laboratorio
di Porter era austero e d'arredamento semplice, ed era simile ad una
officina
racchiusa in una stanza di medie dimensioni: un grande tavolo con
disegni,
schizzi e progetti appoggiati e tenuti fermi da due pesi: una gavetta e
una
pinza.
Sophia cominciò finalmente a respirare normalmente,
cercando di riprendersi dalla sgradevole sensazione, guardandosi
intorno poté
notare la precisione quasi maniacale di Porter: tavolo a parte tutto
era in
ordine nelle casse, nei cassetti, impilato per terra; osservando questi
dettagli si soffermò sui progetti appoggiati sul tavolo.
«Ed ecco il mio... covo» disse lo scienziato, del
tutto ignorato.
Sophia fissò il foglio più grande, su cui era
perfettamente disegnato il progetto di un'arma, una specie di pistola,
dall'aspetto decisamente futuristico; notò nell'angolo a
destra la dicitura che
spiegava tutto:"Progetto finale RayGun X-2".
«Sì ecco - disse rassegnato - è
lei...».
«Accidenti Porter - ribatté lei - è
magnifica... ma
come hai fatto a progettare un'arma simile?».
«Diciamo solo che non è proprio tutta farina del
mio
sacco... ecco».
Sophia lo guardò perplessa, come se il suo idolo
d'infanzia gli stesse crollando davanti agli occhi.
Lui si massaggiò il collo, pensieroso: «Vedi,
grazie
alle nostre spie sparse in tutto il mondo siamo riusciti a trovare
tracce di
attività extraterrestri...».
Lei sgranò gli occhi quasi spaventata.
«Sappiamo che gli americani tengono gelosamente
custodito qualcosa di importante in Nevada, Maxis e Richtofen ritengono
si
tratti di queste armi... e forse anche i corpi di chi le ha progettate
- spiegò
del tutto inespressivo, con lo sguardo basso e assente - ma siamo
comunque venuti
a sapere che funzionano con l'Elemento 115, in forma minerale pura...
io l'ho
semplicemente progettata basandomi sull'energia che una
quantità tale di
Ununpentio può generare».
«Ma non possediamo tutto quel combustibile... basta
a malapena per gli esperimenti sul teletrasporto»
constatò lei con amarezza.
«Appunto, ecco perché rimarrà un
progetto finché non
troveremo un'adeguata quantità di Elemento 115 che possa
permetterci di
procede...» disse lui altrettanto amareggiato, consapevole
dell'impossibilità
di trovare una considerevole quantità di Elemento 115
nemmeno rivoltando
l'intero pianeta come un calzino.
«Però è incredibile - sbottò
Sophia senza staccare
gli occhi dal progetto - questa civiltà è
riuscita a dominare un elemento
chimico così pericolo...».
«Già - ribatté Porter con cinismo -
talmente
pericoloso che non sappiamo nulla: se è naturale o se
è ricavabile in
laboratorio, se ha degli effetti collaterali o meno sul corpo umano...
non
sappiamo nemmeno se ha delle ripercussioni sui cadaveri».
Sentirono un rumore di metallo battente ed una
figura entrò nella stanza: «Che diavolo ci fate
qui voi due, non dovevate
essere al mainframe?».
«Ci scusi dottor Richtofen, stavamo visionando i
progetti della X2» si scusò Porter, mortificato.
«Stupidaggini! - sbottò Richtofen - venite
piuttosto
a darci una mano...».
«Cos'è accaduto? - chiese Sophia preoccupata -
Ludvig come sta?».
Lui la guardò come si guardava ad un
lebbroso:<
«Chiedo scusa dottore - chiese Porter prendendo
coraggio - ma cos'è successo esattamente?».
«Le scariche elettriche derivate da radiazioni di
Ununmpentio hanno fatto collassare il cadavere...» detto
ciò si girò e fece per
uscire a passo svelto.
I due scienziati si guardarono, Porter, vedendo la
preoccupazione in Sophia, raggiunse a fatica Rchtofen, che stava
tornando
indietro: «Ma... come sarebbe, "è collassato il
cadavere?"».
«Troppa l'energia sprigionata, anche se il teletrasporto
era perfettamente calibrato...» disse lui senza voltarsi e
degnare il suo
interlocutore di uno sguardo.
«Ma, pensavo che conosceste l'Elemento 115, che
l'aveste studiato a fondo prima di utilizzarlo...».
Richtofen si girò furioso e si fermò molto vicino
a
Porter, lo afferrò con forza per il colletto del camice,
fissandolo negli occhi
e sentendone il respiro affannato: "Dunque hai paura piccolo Porter?"
pensò istintivamente, provando piacere nella cosa; Porter,
davvero impaurito,
cominciò a tremare cercando di distaccare lo sguardo da
quello del collega: «Ma...
io... signore, veramente non volevo...».
«SILENZIO! - gli gridò in faccia mentre
sopraggiungeva anche Sophia, atterrita dall'urlo - ti rendi conto che
io e il
dottor Maxis conosciamo praticamente ogni aspetto dell'Ununmpentio?
Certo che
l'abbiamo studiato, anche a fondo e a lungo... e le sue
proprietà fuori da ogni
logica scientifica lo rendono estremamente pericoloso da
maneggiare!».
Porter lo guardò sempre più impaurito.
«Non è solo un proiettile per il tuo giocattolo...
l'Elemento 115 è il futuro!Ricordatelo, piccolo
ingrato...» e si scostò,
lasciando la presa, per proseguire il suo cammino lungo la rampa e poi
giù
dalle scale.
Sophia si avvicinò al collega per sostenerlo mentre tirava
un sospiro di sollievo: «Ma che gli è preso? Per
poco non mi ammazzava...».
«Credo che se avesse avuto l'occasione l'avrebbe
fatto senza alcun problema...».
La scienziata pensò che qualcosa in Richtofen era
cambiato, era sicura che Maxis ne fosse il responsabile; era il momento
di
affrontare il suo capo gruppo per capire cosa stava succedendo.
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Capitolo 4 *** Capitolo III - Date, Ricordi, sotterfugi ***
CAPITOLO
III
Date,
ricordi, sotterfugi
1
Quella
sera il dottor
Ludvig Maxis tornò a casa particolarmente avvilito: dato che
gli esperimenti di
quel giorno furono un notevole fallimento, sentì crollare
addosso a sé tutto il
"suo" mondo, il Generale gli aveva negato ogni aiuto, la scorta di
Elemento 115 scarseggiavano e il tempo a sua volta si esauriva.
Mentre percorreva a
testa bassa la strada dal cancello in ferro battuto del Gigante alla
sua
abitazione, rimuginò a fondo su tutto ciò che gli
era successo durante l'orario
lavorativo:
"Ammonito da un
superiore, ammonito dalla mia consorte, due esperimenti falliti,
impossibilità
di procedere... ma cosa devo fare? - si guardò intorno: la
fiumana di operai
che andava verso la città, i soldati verso l'accampamento
adiacente il confine
cittadino, il profilo delle case con i loro tetti spioventi e il cielo
rosso
del tramonto leggermente oscurato da nuvole cariche di piogge in arrivo
- che
quello che mi è stato ordinato come capo del Gruppo 935 sia
troppo?".
Mentre proseguiva il suo
cammino lungo la strada lastricata, controllata ai margini dai sempre
vigli
soldati delle SS, una voce femminile chiamò il suo nome:
«Ludvig!».
Lui si girò subito
trovandosi davanti a Sophia, che appariva piuttosto provata:
«Sophia! Ma che
diavolo...».
«Ho bisogno di
parlarti Ludvig» disse con voce piatta.
Lui tese le braccia
in direzione della città: «Intanto
proseguiamo?».
Lei sospirò e si
incamminò seguita dal dottore, che dopo qualche passo le si
affiancò:
«Sentiamo... cos'è mai accaduto?».
«Si tratta di
Edward...».
Lui sgranò gli occhi
con sorpresa: «Come? Edward? Che mai ha fatto?».
Lei gli si parò
davanti e lo fissò dritto negli occhi, era veramente
scioccata:«Ha preso Porter
per il bavero, lo voleva strangolare per un'inezia».
Maxis si guardò intorno
per prendere tempo ed elaborare una risposta, si accorse che le nuvole
stavano
espandendosi, minacciando davvero pioggia: «Edward
è sempre stato un tipo un
po'... sadico, sai cos'ha fatto quando era al Wittenau di Berlino, e il
soprannome che si è guadagnato».
Lei annuì: «Il
Dottore...».
Maxis ammiccò: «Vedi,
Edward non è peggio di tanti nostri colleghi... pensa a quei
medici di stanza
nei campi di concentramento più grandi».
«Io sto cercando di
capire perché questo suo cambiamento».
«Scusami, non riesco
a capire cosa intendi esattamente...».
Sophia continuò a
fissare il suo amante con quegli occhi azzurri chiari e penetranti come
il
ghiaccio, poteva quasi vederne l'anima: «Con noi non si
è mai, mai comportato
in quel modo!».
Maxis rifletté un
istante, intanto la fiumana di operai e lavoratori si era esaurita ed
era
scomparsa tra le case e le vie della vicina Breslavia, perfino i
soldati
stavano per andarsene parlando fra di loro del maltempo e
dell'eventuale
prostituta che avrebbe fatto il giro della camerata.
Infastidito da quel
vociare impiegò qualche secondo per riflettere, e intanto
Sophia lo guardava
con sguardo accusatorio, a braccia conserte e occhi sbarrati; poi si
ricordò
che aveva ammonito Edward per fare bella figura con i Gerarchi quando
avrebbero
ascoltato le comunicazioni registrate durante gli esperimenti: comprese
che
forse Edward si era infastidito da quel comportamento, dato che erano
amici e
colleghi da anni pur avendo ambiti di ricerca diversi.
Maxis corrugò la
fronte pensando ad una soluzione.
«Allora?» lo intimò
Sophia.
«Va bene... parlerò
con Edward e chiederò scusa, speriamo che non se la sia
presa troppo».
«Bene Ludvig - disse
abbracciandolo e baciandolo - sono fiera di te».
Lui ricambiò gli
abbracci e i baci, sussurrandole nell'orecchio: «E ti
prometto che lo sarai
ancora di più».
Con il mento
appoggiato sulla spalla del dottore, lei deglutì:
«Hai intenzione di parlare
con Samantha?».
«Non solo - disse
sorridendo - porterò a termine i nostri progetti, dovessi
stare qui al Gigante
altri dieci anni e oltre!».
«Dottor Maxis! -
disse lei scostandosi e sciogliendo l'abbraccio - sa che la
sottoscritta vi ama
perché siete un uomo colto ed intelligente, quando
volete?».
«Mia
cara... l'unico motivo per cui
siamo qui è questo lavoro... Se riusciremo a portarlo a
termine nei tempi
previsti saremo una vera famiglia, tu, io e la piccola
Samantha».
Toccata da quelle parole, Sophia
rimase in silenzio, soltanto Maxis era riuscito a farla rimanere senza
parole,
poiché sia con i sottoposti che con i parigrado aveva, o
doveva avere per
inclinazione caratteriale, sempre l'ultima parola.
«Questo è ciò che mi spinge... certo,
essere d'aiuto al proprio Stato sfruttando la propria Arte o Scienza
è una cosa
non poco gratificante, ma io voglio qualcosa di più: un
futuro certo, sicuro -
spiegò Maxis a cuore aperto - e qualunque sacrificio
sarà ben accetto per
raggiungere questo obbiettivo, non scordarlo mai...».
Maxis si guardò intorno, erano rimasti
gli unici ad occupare la strada, in più le prime gocce
cominciavano a cadere
dal cielo: il sole e il suo rosso del tramonto avevano ceduto il posto
alla
nuvole scure, la calma e la pace erano ora sostituite dai fulmini e dai
lampi;
Maxis si perse a contemplare quell'incredibile forza che si esprimeva,
e tutta
quell'energia che andava irrimediabilmente persa.
Contrariamente da lui Sophia cominciò
a correre verso la città, per evitare la pioggia, ma fu
tutto inutile; una
pioggia scrosciante cominciò a cadere, il dottore
già fradicio raggiunse così
la sua compagna, pensando che forse avrebbe dovuto sposarla una volta
terminato
il suo lavoro al Gigante.
Ebbro d'amore per quella donna,
sorrise vedendola bagnarsi sotto la pioggia e gridare per le gocce
fredde che
picchiettavano sull'impermeabile in pelle nuovo di zecca; decise
così di
corrergli dietro per raggiungerla.
Sembravano così allegri e sereni,
incuranti dei problemi che avrebbero dovuto affrontare nel prossimo
futuro;
arrivarono i città sempre in corsa cercando invano di non
bagnarsi,
attraversarono un paio di vie, incrociarono alcuni picchetti di
soldati, che
riconobbero i due scienziati lasciandoli tranquillamente passare, fino
alla
soglia di una casa con i mattoni a vista, che apparentemente on aveva
niente di
speciale o significativo.
Una casa con la porta in legno, le
finestre anch'essere in legno e i vetri coperti dalle tende di seta
bianca
dall'interno; non aveva nulla di speciale, per questo Maxis la scelse
come
dimora provvisoria per il suo soggiorno a Breslavia, rifiutando gli
alloggiamenti previsti per gli altri scienziati.
Maxis, accortosi di essere davanti a
casa sua, affiancato da Sophia, salutò la sua "collega" con
un lungo
bacio; quella volta non si dissero nulla prima di lasciarsi davanti la
villa,
soltanto quel bacio appassionato e uno sguardo.
"Uno sguardo vale più di mille
parole, dicono".
E lo sguardo che la dottoressa lanciò
al dottore fu chiarissimo, Maxis non dovette nemmeno chiedere
spiegazione,
sapeva cosa fare.
Così mentre Sophia procedette verso la
sua abitazione, sguardo in avanti, Maxis si girò a
contemplare la facciata
della sua casa, vide poi sbucare dalle tende il viso di un angelo che
sorrideva
guardandolo dalla finestra; lui sorrise a sua volta e il volto angelico
sparì
dalla finestra in un grido di pioggia.
"La mia piccolina - disse
avvicinandosi alla porta - tutto questo lo faccio per lei".
Il dottore afferrò la maniglia ed aprì
la porta, fece qualche passo in avanti, fermandosi su uno zerbino, fu
travolto
da una gioiosa voce femminile, e una bambina lo abbracciò;
lui la prese in
braccio: a quanto pare perfino un ruvido e analitico scienziato come
Maxis
aveva un cuore.
ricambiò
con affetto l'abbraccio e baciò sua
figlia, stringendola sé; il Gigante poteva aspettare fino
alla mattina dopo, e
anche Gobbels, e tutte le altre cose che accadevano là
dentro.
Il contatto tra i suoi abiti bagnati e
il grembiule pulito e leggero della sua bambina lo fece rabbrividire...
Che
avrebbe fatto se avesse perso anche Samantha?
Tuttavia è vero che hai bambini non si
può nascondere nulla; lei vide sul volto del padre
un'espressione cupa, quindi,
con tutta l'innocenza della sua tenera età lei disse, con
una vocina
leggermente stridula:
«Cos'hai, papà?».
Lui sciolse l'abbraccio, riponendola
delicatamente a terra e si ricompose: «Niente, bambina...
Sono solo un pò
stanco... Perdonami».
Lei sorrise, lui invece si sentì in
colpa per quella bugia; per farsi perdonare la prese per mano,
conducendola
dentro casa, mentre con l'altra mano chiuse la porta dietro di
sé.
Anche se Maxis non ne aveva la più
pallida idea, altre forze erano in gioco in quello stesso momento,
forze
dettate dalla pazzia di un uomo dalla psiche debole, catalizzata
dall'odio e
dalla rabbia repressa in tanti anni di maltrattamenti dati e subiti, di
segreti, bugie e sete di potere, che andava conquistato.
Oltre a tutto ciò c'era anche una
buona quantità di scheletri ben riposti nell'armadio; le
leggende attorno alla
figura di quest'uomo vogliono quegli scheletri con ancora la carne
attaccata
alle ossa.
2
Arrivata
la sera, mentre alla fabbrica e al campo
iniziava il turno di notte con il cambio della guardia, il Gigante
chiuse, e
coloro che ci lavoravano tornarono alle loro case; coloro che facevano
parte
dell'esercito erano di stanza nella caserma della città,
coloro che erano
invece di piantone per sorvegliare sia il Gigante che il lager potevano
usufruire di una caserma interna al campo di concentramento medesimo.
Data l'importanza delle due strutture, un
laboratorio segreto e un campo di prigionia, la sorveglianza era
strettissima:
i soldati si davano il cambio ogni tre ore ed erano tenuti a fare il
controllo
perimetrale ogni quarto d'ora, per controllare che le spie entrassero o
i
prigioniero filassero.
Dunque arrivata l'ora i sei soldati di pattuglia si
divisero: due rimasero all'entrata, gli altri andarono a fare il giro
di
controllo in direzioni opposte, seguendo il pesante muro in mattoni a
vista;
una figura si avvicinò al cancello principale passando a
piedi per la strada
che collega Breslavia al complesso, notandola i due soldati subito si
allertarono: «Achtung - gridò uno dei due puntando
la figura, sempre più
vicina, con il Kar-98 - questa è una zona militare
riservata, indietreggiate o
faremo fuoco»
Senza batter ciglio la figura continuò con decisione
la sua marcia, alche anche l'altro soldato, più alto e
snello del suo
commilitone, puntò con il fucile il forestiero in arrivo:
«Questo non molla -
disse quello alto appoggiando il fucile alla spalla e seguendo con il
mirino la
figura - siamo costretti a sparare..».
La figura si avvicinò ancora di qualche passo ed
alzò il braccio destro: «Heil Hitler!».
I due soldati si guardarono poco convinti: «Meglio
controllare - disse quello basso - non si sa mai...».
L'altro sbuffò: «Vado io, tienilo sottotiro, mi
raccomando».
Il soldato più alto si avvicinò alla figura, che
apparve anch'essa piuttosto alta: «Chiedo scusa dottore -
disse lui sottomesso
vedendo il volto dell'uomo - non pensavamo che anche di
notte...».
«Limitatevi a sorvegliare il Gigante voialtri, che
ai miei affari ci penso già abbastanza io».
«Ho ordine di controllare i documenti, caso mai
foste una spia o simili, dovremmo anche sapere il motivo della vostra
presenza
fuori orario».
La figura sbuffò annoiata: «Devo finire stilare i
rapporti da presentare a Gobbels domani mattina, se me lo concedete...
altrimenti spiegherete voi al Generale perché non
è stato aggiornato sullo
stato del nostro lavoro, che è palesemente non di vostra
competenza».
L'uomo rimasto nei pressi del cancello abbassò
l'arma ad un cenno del commilitone, che rabbrividì; come
tanti suoi degni
colleghi, Gobbels era in un certo senso il prototipo dell'ufficiale
nazista:
freddo, esigenze ed estremamente pignolo, veterano di una guerra che
aveva
annientato completamente l'anima della Germania... finché un
Demone non la
estirpò sfruttandola per il suo folle ed utopistico piano di
dominio assoluto.
In virtù poi della fama che Gobbels vantava, ovvero
l'essere intransigente con i trasgressori, i soldati preferivano
stargli alla
larga il più possibile, evitando comportamenti per cui
averlo davanti al naso
in un colloquio faccia a faccia.
«E va bene - acconsentì il soldato con la faccia
paffuta e crudele di Gobbels stampata nella mente - ma vi prego... fate
presto».
«Il tempo che ci vuole soldato, il tempo che ci
vuole...».
I soldati
aprirono il cancello, formato da due ali
chiuse
da due spesse catene; con un frastuono metallico i due soldati
rimossero
faticosamente le catene e tirarono uno dei due lati verso l'esterno, in
modo
che fosse possibile entrare.
«Grazie, signori» ed
entrò nella struttura mentre i soldati richiusero e
bloccarono tutto nella
speranza che nessuno notasse quello strappo alla regola.
Il cancello era
posizionato sotto un arco di mattoni, alla cui sommità era
fissata una targa
bronzea: "Waffenfabrik - Der Riese".
La figura percorse
alcuni metri nel cortile fino a trovarsi nell'area del mainframe, si
fermò a
contemplarlo, poi spostò lo sguardo verso una porta in
acciaio su cui era
inciso il simbolo del Gruppo 935: la rappresentazione di un apparecchio
elettrico con della
valvole da cui
scaturivano dei fasci elettrici circolari, sullo sfondo un ingranaggio
sembrava
racchiudere quel macchinario.
Era chiaro però che
dietro quella porta c'era qualcosa di importante: tutte le porte che
collegavano
i vari ambienti del Gigante erano pitturate con quel simbolo, ma quella
porta
recava un segno, simile ad una sbavatura della vernice bianca del
disegno per
non destare sospetti; il misterioso dottore doveva esserne a
conoscenza, perché
aveva osservato tutte le porte per cercare quella cui stava davanti,
sorrise
soddisfatto mentre afferrava la maniglia e tirava orizzontalmente per
accedere
a ciò che voleva: una stanzino scuro e minuscolo, una sedia
di legno, un tavolo
di legno, una radio appoggiata su di esso e un lampada ad olio.
Il dottore si tolse
il cappello marrone recante uno dei tanti simboli adottati del Terzo
Reich
(l'Acquila ad ali spiegate), ed il volto di Richtofen si
rivelò; il dottore
però arricciò subito il naso: la polvere,
l'umidità e la pioggia appena cessata
dovevano aver dato il loro contributo per riempire lo stanzino di uno
strano
odore stantio.
"Dovrò trovarmi
un nuovo ufficio".
Chiudendo la porta
che separava lo stanzino dal resto del Gigante, pensò "Se
lassù va come
previsto avrò un nuovo lavoro".
"Certo! Certoooh"
rantolò una voce.
«Chi è là? T'avverto,
non fare scherzi!» disse mentre istintivamente si
ritrovò con la Luger
d'ordinanza, di solito ben riposta nella fondina,
stretta nella mano destra.
«Chi vuoi che sia?
Sono... Te!» rispose la voce.
«La voce! Ancora Tu!
Cosa vuoi ancora?» disse Richtofen avvicinandosi a tentoni al
tavolo.
«Cosa voglio? Quello
che vuoi tu, naturalmente».
«Balle! - Sbottò il
dottore - Tu vuoi solo portarmi lassù!» disse
fregandosi le mani e accendendo la
lampada quasi bruciandosi con il fiammifero
a causa di un improvviso tremolio nevrotico.
«Calunnie, Amico Mio!
- disse la Voce con leggerezza - Voglio solo ciò che
è meglio per entrambi, e
poi sei stato Tu ad Osare di toccarCi!»
Richtofen, vedendo che
ora lo stanzino era abbastanza illuminato, seppur in modo tenue, decise
di
chiudere la porta per evitare problemi, infine si sedette ed accese la
radio,
che cominciò a gracchiare con il sottofondo di un fastidioso
e acuto sibilo.
«Se vuoi ritornare
lassù sarà meglio ne valga la pena!»
disse afferrando il microfono impolverato
e, disse la Voce, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto,
girando le
manopole nel tentativo di eliminare il maledetto sottofondo.
«Non immagini neppure
cosa saremo in grado di fare per mezzo di te, mio Caro Amico».
«Basta,
sei solo la
mia fervida immaginazione» disse mentre girava le manopole,
alla ricerca della
giusta frequenza; peccato la radio non funzionasse.
«Siamo, la tua
fervida immaginazione... Ne sei convinto? Da quando hai toccato la
Piramide una
parte di Noi ora è in Te... Il trasferimento ora deve essere
totale!».
«Basta, ho detto!»
gridò assestando un pugno verticalmente sul telaio della
radio, che si liberò
di chissà quanto tempo di polvere adagiata su di esso;
incredibilmente anche la
voce sparì.
Scrollando la mano
per far cessare un leggero dolore alla mano, Richtofen si chiese se
anche
quella sera sarebbe riuscito a farla franca, non si era ancora abituato
a
quella voce che ogni tanto saltava fuori dai recessi della sua mente;
essa
aveva gridato più volte nel corso dell'ultimo periodo,
invitandolo ad uccidere,
ordinando senza esitazione di far soffrire chi lo sfidava, ma era
sempre
riuscito a soffocarla... Fino a quando Porter non mise in dubbio le sue
conoscenze dell'Ununpentio.
"Dannato 115 -
pensò confortato dall'assenza della Voce - sarai la mia
fortuna o la mia
rovina? Bah, non m'importa!".
Pochi secondi di
attesa, che parvero secoli, e Richtofen capì che la fortuna
girava, almeno in
quel momento, a suo favore; dall'altra parte del collegamento radio,
dovunque
fosse, una voce profonda e tranquilla rispose:
«Qui Stazione Grifone
- disse con la tipica cadenza della parlata tedesca - passo».
Richtofen avvicinò il
volto al microfono: «Qui Nido dell'Aquila a Stazione Grifone,
ci sono
aggiornamenti, Dottor Groph?».
«Temo di no
dottore... Abbiamo cercato di capire il funzionamento della macchina,
ma
fin'ora... Niente! Non riusciamo a capire... Non solo è
sigillata, ma reagisce
con scariche elettriche al contatto diretto con la cute, dobbiamo
controllare
più a fondo... Lei invece? Sente ancora quella
Voce?».
«Purtroppo sì dottor
Groph, oggi durante un esperimento si sono scatenate... Ho paura che
non se ne
andrà fin quando non avrete finito
lassù».
«Appena sapremo
qualcosa riferiremo immediatamente dottore... Ora mi scusi se mi
permetto ma di
quale esperimento si trattava?».
Richtofen fece
spallucce: «Un semplice tentativo di teletrasporto, Maxis si
aspettava un morto
vivente addomesticato, invece si è trovato in mezzo al
magazzino di un
macellaio!».
Rabbrividì pensando
all'immagine delle interiora di quel prigioniero sparse ovunque, e di
quanto a
quella vista, in quel momento, godette.
«Capisco - disse
Groph - Forse la chiave non è l'elettricità... Ma
l'Elemento stesso... Avete
provato con l'irradiamento diretto?».
«Purtroppo no -
rispose Richtofen con dispiacere - Non abbiamo abbastanza
Elemento...».
«Non si ricorda di«
quel frammento nel Pacifico? - chiese Groph - Se non sbaglio da quelle
parti
c'è un avamposto...»
A quelle parole un
lampo gli attraversò il cervello, e si ricordò di
un dettaglio che era rimasto
in letargo nella memoria fino ad allora.
«Dottore, la prego di
perdonarmi, ma mi sono reso conto di qualcosa di importante che non
avevamo
ancora considerato... Tornate al lavoro e buona fortuna, Nido
dell'Aquila,
chiudo».
«D'accordo Nido
dell'Aquila, proseguiremo con gli esperimenti... Mi rifarò
vivo io nel caso di
aggiornamenti... Stazione Grifone - annunciò sospirando -
passo e chiudo».
Quindi la radio si
spense con uno scatto sordo, e calò il silenzio; Richtofen
si lasciò andare
sulla sedia, che scricchiolò minacciosa, ed
abbandonò il suo sguardo alla
fiammella della lampada, che ondeggiava nel vetro in modo ipnotico.
«Bene, bene - disse
la Voce - Adesso sì che si ragiona... Quando hai intenzione
di mettere in atto
il nostro schema? Eh?! Eh?!».
«Non ti riguarda -
l'ammonì - Prima dobbiamo verificare un dettaglio, poi si
vedrà».
«Ooooh - disse la
Voce con stupore, come se avesse visto un oggetto prezioso - Non mi
avevi ancora
mostrato questo nei tuoi pensieri...».
Richtofen, forse
inconsciamente, sorrise in modo beffardo, nella penombra.
3
Nel
momento in cui
Maxis abbracciava sua figlia e Richtofen guardava la fiamma ardere
nella
lampada ad olio, un brivido corse sulla schiena di entrambi, portandoli
sulla
macchina del tempo più efficiente che l'uomo avesse mai
costruito: i ricordi...
Essi li trasportarono
indietro nel tempo... A quando tutto, nel bene e nel male, ebbe inizio.
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