Der Reise - il Gigante

di Hannibal Smith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitlo I - Il dottore e la sua coscienza ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Tre esperimenti ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Date, Ricordi, sotterfugi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

PROLOGO

 

Nel 1933 un uomo senza scrupoli, approfittando dei disordini politici e della sua capacità di attirare l'interesse della popolazione, salì al potere in Germania ed instaurò nel giro di poco tempo una dittatura che sarebbe diventata la più grande e terribile minaccia per tutte le democrazie del mondo.
Rimanendo fedele al suo utopistico progetto di purezza, perfezione e supremazia razziale, il Fuhrer sfruttò vari, se così si possono chiamare, metodi; incentivò la ricerca scientifica nel campo militare, perché l'esercito tedesco fosse pronto alla guerra che stava preparando, e quella scientifica in senso stretto, nel campo medico, fisico, tecnico.
A questo scopo venne istituito nel 1935 il "Gruppo 935", un gruppo di scienziati di varie discipline che avrebbero dovuto impegnarsi nella ricerca di nuove armi per la Wehrmacht, nuove fonti energetiche e tecnologie rivoluzionarie.
Da quell'anno, fino alla fine della guerra in Europa, il Gruppo progettò una notevole quantità di armi individuali, veicoli e velivoli che anticipavano i tempi di almeno vent'anni.
Tuttavia nel Febbraio del 1945 tutti gli scienziati del Gruppo, e i soldati di stanza al complesso scientifico scomparirono improvvisamente senza lasciare nessuna traccia; quello stesso anno avrebbero dovuto rispondere dei loro crimini contro l'umanità a Norimberga, come tutti gli altri esponenti del III Reich.
Una squadra di soldati Alleati, su un ordine del Direttore Intelligence Militare, preoccupato del verificarsi di qualche grave incidente, si recò nel campo di concentramento dove questi professori conducevano i loro esperimenti, non potevano nemmeno immaginare di trovare l'orrore, un orrore ben più grande di qualunque altro mai visto prima, una verità talmente sconcertante da mettere in dubbio il concetto stesso di "scienza"...

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Capitolo 2
*** Capitlo I - Il dottore e la sua coscienza ***


CAPITOLO I

Il Dottore e la Sua Coscienza.

 

1

I due uomini si trovarono, dopo ore, davanti al risultato delle loro fatiche: anni e anni di studi sulla balistica, sulla chimica e sull'elettromagnetismo condensati in quell'oggetto, ora giacente sul tavolo su cui era stato pazientemente assemblato.
Il più alto dei due osservò l'oggetto e, a braccia incrociate, fece una smorfia di assenso: «Caro Edward, ce l'abbiamo fatta, finalmente».
Edward lo guardò dal basso, essendo di qualche centimetro meno alto del suo collega, e sorrise: «Hai ragione Ludwig, è fatta» disse con voce roca e con l'erre moscia tipica della pronuncia germanica.
«Sarà il caso di presentarla al Generale Gobbels?».
Ludwig sospirò dubbioso: «Non so se è il caso, vogliono dei risultati concreti quelli delle SS, ma ormai il tempo stringe...».
Ed aveva ragione ad essere preoccupato, il Dottor Maxis, uno dei migliori fisici di tutto il "Gruppo 935", di cui era anche il direttore, perché ormai gli Alleati avevano dimostrato che potevano essere degli avversari temibili; la notizia delle vittorie alleate in Nord Africa e la sconfitta conseguente degli African Korps di Rommel suscitò nello Stato Maggiore delle SS non poche preoccupazioni.
Tuttavia, mentre Himmler, capo delle SS era impegnato a sedare questi tumulti e a gestire l'apparato organizzativo, altri si occuparono per lui di amministrare i gruppi di ricerca sparsi nei vari campi di concentramento, e questi pretendevano dei risultati concreti, pena l'internamento.
Edward prese l'oggetto con cautela e lo ripose in una custodia per fucili, poi entrambi gli scienziati uscirono dal piccolo e angusto stanzino in cui stavano lavorando; la porta stagna si aprì rivelando lo sconcertante paesaggio: una gigantesca struttura industriale gremita di scienziati intenti a discutere, operai concentrati nella costruzione e naturalmente i vigili e austeri soldati della Waffen SS, che pattugliavano a gruppi di tre ogni centimetro di cemento e acciaio.
Uno degli scienziati, vestito con un camice bianco sporco e unto avvicinò Maxis: «Signore? - lo chiamò con un accento bavarese - abbiamo quasi terminato la costruzione del teletrasporto Z-C e del Mainframe... li stiamo collegando proprio adesso».
«Ottimo, e per quanto riguarda i nostri ospiti?» chiese lui gelido.
«Purtroppo non abbiamo volontari per procedere».
Edward sbuffò e lo aggredì: «Come possiamo portare avanti il nostro lavoro se non abbiamo le materie prime, razza di incompetente!».
L'uomo rabbrividì con ogni particella del suo corpo ed iniziò a tremare mentre guardava il suo superiore in quegli occhi blu elettrico iniettati di sangue: «Ma signor Richtofen, io non ne posso nulla, ci hanno quasi del tutto privati dei fondi stabiliti a causa della guerra... i Feldmarescialli preferiscono mandare i soldati sul fronte piuttosto che perderli nei nostri esperimenti...».
«Se vogliono veramente raggiungere la perfezione della Razza, dovranno fare qualche sacrificio...» sentenziò.
«Avanti Edward - lo scalzò il collega - lascialo in pace... tu piuttosto, torna al lavoro».
«Sì, certo signore disse congedandosi e scappando via».
«Novellini - si lamentò Richtofen - trovano sempre un sacco di scuse...».
Maxis si bloccò, poi si girò verso l'amico: «A proposito, penso che dopo tutto a Gobbels vedere questa bellezza in azione non farebbe poi così male, potrebbero riprometterci i fondi necessari per procedere!».
«Magnifico - esultò il suo collega - allora finalmente ti sei convinto...».
Maxis prese un lungo respiro: «Andiamo forza, prima ci sbrighiamo e meglio sarà per tutti».
Richtofen annuì.
"Speriamo solo che la tua carta vincente non sia un vaso di Pandora".

 

2

I due scienziati si condussero in una zona vicina alla struttura centrale, la sede dei laboratori vari, ma molto diversa come estetica: la sezione amministrativa, dove l'intero campo era gestito in modo impeccabile,  dalla logistica alla burocrazia, dalla gestione delle attrezzature alle comunicazioni.
A capo dell'intero campo vi era un veterano della prima guerra mondiale, già combattente per il Secondo Reich di Bismark e Guglielmo I, un ufficiale senza scrupoli che aveva seguito il partito nazionalsocialista fin dagli albori, scontento come tanti suoi connazionali della pesante sconfitta subita, fino a che ne diventò un importante esponente: il Generale Hans Gobbels.
Il nome del Generale marchiava la porta del suo ufficio, Maxis deglutì, Richtofen rimase impassibile: a causa di alcuni screzi lo scienziato e l'ufficiale non potevano sopportarsi, ma erano costretti dalle circostanze a farlo, "Per il bene del Reich" disse Gobbels a Maxis qualche giorno prima, confidandogli quanto Richtofen fosse... "eccentrico".
Maxis prese un po' di coraggio e bussò sul legno liscio:
«Chi mi importuna?»  tuonò una profonda voce oltre la porta.
«Sono Maxis, Generale, le ho portato la Wunderwaffe DG-2».
«Entrate»
Aperta la porta si trovarono davanti al Generale, un uomo canuto e tarchiato, come tutti i tedeschi d'alto rango, dall'aspetto ordinato e insieme sinistro; stava davanti alla finestra ad osservare il complesso industriale da cui i due scienziati provenivano, due ciminiere tagliavano il cielo eruttando fumo senza sosta, ingrigendo il già triste panorama dei palazzi in vetro, cemento e acciaio.
Fissando oltre le finestre, parlò: «Spero proprio che abbiate veramente portato quello che avete detto... è una brutta giornata, non vorrei che peggiorasse... per voi intendo».
«Non è il caso di essere sarcastici signore... ecco a lei la Wunderwaffe DG-2».
Maxis fece un cenno a Richtofen, che estrasse dalla custodia la DG-2: un fucile dall'aspetto avveneristico, simile nella forma ad un fucile mitragliatore, ma molto più leggero ed elegante, alla luce della lampadina sul soffitto sembrava quasi splendere.
«Accidenti - disse il Generale notando l'arma dal riflesso sul vetro e girandosi per ammirarla - questa è la famosa DG-2?».
«Proprio lei - intervenne Richtofen prima che Maxis potesse aprir bocca - la nostra arma...».
«Incredibile... forse le speranze di risollevarci dopo El-Alamein sono ben riposte dopo tutto - disse il Generale dapprima fissando l'arma, poi rivolgendosi a Maxis - vi porto davanti allo Stato Maggiore miei signori... i gerarchi devono sapere che i nostri scienziati non hanno perso nulla della loro genialità!».
Mentre diceva questa parole con speranza, si avvicinò alla sedia e prese con violenza la cornetta del telefono e compose un numero; Maxis e Richtofen si scambiarono un'occhiata colma di gioia, perché i loro sforzi sarebbero stati ripagati, finire davanti allo Stato Maggiore voleva dire di parlare faccia a faccia con Himmler del progetto, ed ottenere i fondi necessari per continuare gli studi, e per estensione ottenere la fiducia del Fuhrer.
Al solo pensiero, Maxis rabbrividì.
«Sì, vorrei parlare con il Feldmaresciallo Himmler se è possibile - disse Gobbels alla cornetta - Ah! Non lo sapevo, non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale... Sì si tratta di un progetto completato dal Gruppo 935 di stanza al campo di cui ho la gestione... Dunque saranno loro a venire? Durante l'ispezione? Ottimo allora, grazie e arrivederci»
Gobbels appoggiò la cornetta sul telefono e  si sedette dietro la scrivania, asciugandosi la fronte ambia con un fazzoletto che poi ripose in una tasca dei pantaloni della divisa: «E' cosa fatta caro Maxis e... caro Richtofen - disse con sarcasmo - purtroppo Himmler non è contattabile direttamente, è impegnato in una qualche ricerca di tipo archeologico, dunque la segretaria mi ha detto che sola cosa che potete fare, per ora, è aspettate l'ispezione di un suo vicario presso il quartier generale delle SS, ne approfitteranno anche per vedere i vostri progressi... ben fatto!».
«Grazie signore - ringraziò Maxis - e Heil Hitler!>>.
«Heil Hitler» gridò Rictofen alzando il braccio destro, per poi ricomporsi e riporre l'arma nella custodia.
«Heil Hitler - ribattè il Generale - e ora vedete sparite, visto che mi pare che abbiamo tutti un gran da fare!»
I due scienziati uscirono dalla stanza mentre il Generale scuoteva la testa con una smorfia di dissenso; una volta chiusa la porta, tornò a sbrigare le sue mansioni.
«Che stronzo! - si lamentò Richtofen mentre camminavano lungo il corridoio - noi gli faremo fare bella figura con i gerarchi e lui ci tratta così, che modi!».
«Cerca di calmarti adesso Edward - ribattè Maxis - tanto siamo qui... vivi, grazie a lui, nonostante tu gli stia altamente sullo stomaco».
«Gli sto sullo stomaco? Bene, bene - disse con uno scatto d'ira - se ne accorgerà!».
I due colleghi uscirono dal complesso amministrativo, Maxis diede un'occhiata intorno, in cuor suo era felice per la riuscita del suo lavoro, ma sapeva che il Gigante era molto di più che qualche edificio e tante belle parole.
Il Gigante era la sua vita.
Il Gigante era l'apoteosi della scienza moderna.
Il Gigante era la sua condanna eterna.

 

3

La struttura nota come Gigante fu costruita nei pressi della città di Breslau, o Breslavia, all'inizio del 1935, concepita dapprima come campo di concentramento per tutti quegli elementi che "inquinavano" la razza ariana, poi convertita in un complesso scientifico tre anni dopo, quando un'incredibile scoperta scientifica convinse lo Stato Maggiore ad investire delle corpose cifre nell'approfondimento del fenomeno che la scoperta comportava; non di meno l'approfondire alcune conoscenze in campo medico e biologico sfruttando gli internati come cavie.
Inutile dire che tra i discutibili metodi utilizzati, le precarie condizioni di salute portate dall'internamento e la cattiveria di soldati e "scienziati", le cosiddette cavie morivano nelle più atroci sofferenze e nei peggiori modi.
Maxis, in quanto direttore del Gruppo 935, fu incaricato di portare avanti la ricerca anche in questo campo, meglio: fu costretto a farlo dalle circostanze; i risultati furono talmente sorprendenti e incredibili, che i rapporti che inviava periodicamente allo Stato Maggiore, che poi si incaricava di inviarli a sua volta al Ministero della Scienza e dell'educazione e al Ministero delle armi, munizioni e armamenti, venivano puntualmente letti, derisi e archiviati nella polvere.
Grazie a questi inconvenienti Maxis divenne per la Cancelleria del Reich un ciarlatano e un pazzo visionario, che però aveva la fiducia del Generale sotto cui lavorava, del suo staff e una notevole Laurea in Fisica fieramente appesa alla parete della sua camera da letto.
Ma si sarebbe presto riscattato: la telefonata di Gobbels avrebbe innescato il processo di ascesa in seno  al Reich e il ciarlatano sarebbe diventato il più grande scienziato del secolo.
Tutto però stava nel prepararsi adeguatamente alla visita dei gerarchi, così in una sala del complesso, lo studio dello stesso Maxis, il Gruppo 935 si riunì.
La stanza era arredata in modo spartano: un tavolo con penne, calamai e fogli di carta intestata, subito a fianco una libreria piena di libri spessi e ingialliti, le pareti scure, una vetrata che dava sul cantiere del Mainframe, un disco di metallo fissato a terra da cui partivano degli spessi cavi elettrici, e gli operai, naturalmente sorvegliati, che ci lavorano intorno.
Oltre a Maxis e Richtofen , lo staff era composto da altre due persone: Sophia, coetanea di Maxis, di aspetto grazioso ed elegante, con il corpo magro e slanciato, portava una certa "allegria" suscitando gli appetiti dei più rozzi soldati e viscidi operai, anche se tutti sapevano che tra lei e il Direttore del Gruppo c'era del tenero, e non solo.
L'altro membro, un certo H. Porter, veniva direttamente dai laboratori di progettazione balistica della società Mauser, storica produttrice di molte armi in uso dalla Wehrmacht e dall'esercito Imperiale già dal secolo precedente; venne scelto da Maxis in persona perché riconobbe il suo talento nel progettare armi, nonostante la sua giovane età, relativamente a quella dei tre colleghi.
I quattro si trovarono nello spartano ufficio del Direttore che, affiancato come sempre dal suo assistente, e amico di ormai vecchia data, Richtofen, diede la notizia, con una certa emozione nella voce solitamente piatta: «Signori, vi ho convocato con questa urgenza perché tra pochi giorni avremo il piacere di ospitare alcuni gerarchi delle SS, inviati da Himmler in persona per verificare la... qualità del nostro lavoro qui al Gigante».
Sophia tremò e si guardò intorno nervosamente, Porter invece strinse la mano al suo capo: «Sono contento per lei signore!».
«Grazie Porter... ma vedete, questo non sarebbe mai successo se ci fosse stato questo team, - poi si rivolse a Richtofen - e anche un grande amico con cui collaborare!».
«Ho fatto solo il mio dovere!».
«Vero, ma l'dea della DG-2 è stata tua!».
«Ma le competenze ce le hai messe tu!».
Sophia li interruppe mentre Porter seguiva il ringraziarsi a vicenda dei due scienziati: «Ma cosa faremo per dimostrare il nostro lavoro?».
Porter si irrigidì: «Eh, bella domanda!».
Maxis fece un sorriso appena accennato: «Ma è proprio qui che si trova il... "trucco": noi dobbiamo dimostrargli che meritiamo quei soldi, e che ne vale la pena, perciò dobbiamo essere pronti a qualunque loro domanda o dubbio, dobbiamo soddisfare ogni perplessità, e naturalmente rendere il più appetibile possibile l'oggetto delle nostre ricerche!».
«Però il teletrasporto è ancora inattivo, senza l'Ununpentio ad alimentarlo...» avvertì Porter.
«E' vero, ma è quanto abbiamo stabilito, il frammento di Ununpentio deve restare sotto chiave, sapete che cosa è in grado di fare, se non lo usiamo con cautela, giusto?».
Porter abbassò la testa, imbarazzato; Sophia fissava Maxis negli occhi, lui si sentì a disagio: «Dobbiamo fargli vedere... tutto?».
«E' necessario...» disse Maxis avvicinandosi alla donna.
«Potrebbe essere pericoloso, Ludwig» gli sussurrò in un orecchio.
Maxis prese le mani della donna e le accarezzò: «Se dovesse accadere il peggio, farò in modo che i Soggetti non ti tocchino neanche con un dito!».
Richtofen Tossicchiò e i due dottori sciolsero il legame, Porter alzò la testa, deglutì amareggiato: «Allora, come procediamo capo?» chiese sospirando.
«Dobbiamo procurarci indubbiamente delle... cavie, su cui sperimentare le potenzialità dell'Elemento - spiegò Maxis - e credo proprio che il campo di concentramento qui vicino faccia al caso nostro... vero Edward?».
«Ja... ma non volevi soldati di genealogia germanica pura?».
«Visto che i soldati sono impiegati al fronte, conviene arrangiarci, vedi se riesci a recuperare i cadaveri di qualche prigioniero, potremmo fare i test su di loro e mostrare i risultati ai gerarchi» continuò il Direttore.
«Splendida idea Ludwig!» esultò Sophia.
«E io che faccio?» chiese Porter speranzoso.
«Non volevi costruire quell'arma di cui mi avevi mostrato i progetti?».
Porter lo guardò con incredulità:«La X2? Vuoi davvero che costruisca la X2?».
«Mettiti al lavoro!».
«Sì certo signore!» ed uscì seguito da gongolante Richtofen; Maxis e Sophia rimasero soli nell'ufficio.
«E io che faccio, dottore?» chiese lei con tono malizioso.
«Tu controlla i teletrasporti, e per la carità, stai attenta... sai che ci tengo molto a te...».
«Ludwig... - disse mentre respinse il dottore, che voleva abbracciarla - pazienza tenere... provare a tenere il segreto ai colleghi, ma non dovresti dirlo a Samantha?».
«Dirgli cosa?» disse facendo finta di non sentire.
«Ma come cosa? Di noi due!».
«E' ancora troppo piccola, non si è più ripresa dalla morte di sua madre... le ho promesso un futuro migliore...».
Sophia lo guardò con il suo sguardo penetrante: «E sarebbe questo quel futuro?».
«Senti Sohpia, questo è solo un punto intermedio nel percorso: quando avrò ottenuto i fondi dallo Stato Maggiore sarà tutto più facile, io sarò rivalutato come scienziato... potremmo finalmente sposarci e costruire una famiglia, insieme!» fantasticò.
«Ludwig - lo interruppe - sei così preoccupato della reputazione che hai ufficialmente che non ti accorgi di non avercela né come marito... né come padre... pensaci».
Lui si bloccò guardando verso il basso, Sophia ne approfittò per uscire dall'ufficio: «Vado, che purtroppo il Teletrasporto C-Z è ancora in costruzione, avranno bisogno di me al cantiere».
Chiuse la porta lasciando il Dottor Ludwig Maxis, Direttore del Gruppo 935, laureato in Fisica a Berlino, padre di una bambina da pochi mesi orfana, a riflettere da solo nel suo ufficio su ciò che lui è e ciò che dovrebbe in realtà essere.
Ma la tentazione di essere qualcosa di più di quello che era in quel momento lo corrodeva da dentro.

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Capitolo 3
*** Capitolo II - Tre esperimenti ***


CAPITOLO II

Tre esperimenti

 

1

L'enorme struttura adiacente al Gigante era il campo di concentramento che all'inizio costituiva il centro dell'attività nel campo; lo scenario era particolarmente desolante: un complesso di baracche sovraffollate affiancate l'una all'altra, poi le grigie strutture come l'infermeria, un'armeria, gli alloggi di soldati ed ufficiali, i posti di guardia con palizzate, un'acciaieria, una catena di montaggio e gli edifici di camere a gas e forni crematori, le cui ciminiere sputavano fuoco a ritmo continuo.
La zona recintata da una rete metallica sovrastata dal filo spinato, robusto e tagliente; Richtofen arrivò nel campo da un'entrata che collegava l'area al Gigante, scortato da alcuni soldati; il pallido Sole della primavera appena iniziata si fece largo tra le grigie nuvole, ma la luce era troppo fioca per trapassarle.
In quel momento il campo era gremito di uomini di tutte le età, anche bambini e giovani, che trasportavano sacchi, tubi, attrezzi, materiali vari; erano tutti uomini perché nei Lager uomini e donne erano divisi in una prima fase subito dopo l'arrivo, poi ad ogni detenuto veniva dato un distintivo che ne indicava la razza e venivano tatuati con un numero sul braccio, in quel momento la loro umanità veniva annientata del tutto.
La filosofia del campo era semplice, quasi animalesca: dimostrati forte e sopravviverai più a lungo, dimostrati debole o incapace e verrai annientato... sia moralmente che fisicamente.
Questo tipo di "prigioni" erano usate dal Terzo Reich per raccogliere ed uccidere tutti quelli che inquinavano la razza: criminali di ogni tipo, zingari, storpi, malati di mente... poi le vittime supreme della Soluzione Finale, su cui i soldati delle Waffen- SS si avventavano con una tale ferocia da oscurare la cattiveria con cui venivano trattati gli altri internati: gli Ebrei, accusati fin dall'inizio del Governo Hitler di avere la colpa, totalmente discutibile, di aver crocifisso Gesù Cristo, e altre scuse simili.
Le radici dell'antisemitismo però si perdono nei venti del tempo e della storia, ma è tristemente noto come durante la Seconda Guerra Mondiale raggiunse il suo spaventoso culmine.
Un soldato piuttosto giovane si avvicinò al picchetto di Richtofen, un soldato semplice armato di MP40:  «Alt! Devo chiedervi l'autorizzazione!».
«Dottor Edward Richtofen, dal Gigante... vorrei parlare con il comandante del campo!».
Il militare rimase un po' disorientato, ma si sbloccò quasi subito: «Ma... certo, mi segua Dottore!».
Il picchetto dello scienziato entrò nel Lager, calpestando il fango con i piedi, ed osservando i prigionieri mentre venivano scherniti dagli altri commilitoni: i visi scavati dalla fatica, i corpi freddi e scheletrici, le vesti a righe bianche e nere sporche di fango e strappate, le espressioni vuote e puntate sul nulla da occhi vitrei e spenti... non erano più uomini, nemmeno numeri.
Comandati con uno spaventoso zelo dai Kapò del Lager, ovvero altri internati che fungevano da capo-gruppo, eseguivano diligentemente il loro lavoro, chi cadeva o si lamentava veniva fucilato; chi era ritenuto tale durante le selezioni veniva eliminato, perché inutile perfino come forza lavoro.
Impassibile di fronte a quel raccapricciante spettacolo, Richtofen attraversò il campo con i soldati, fino ad un edificio in mattoni costruito su due piani: il gruppo entrò dalla porta in legno sorvegliata a vista, ma solo a Richtofen, una volta verificato che fosse un membro del Gruppo 935, venne dato il permesso di varcare la soglia del Comandante del Lager; un uomo vile e senza scrupoli, ma non abbastanza per passare alla storia come i suoi colleghi al comando di altri campi di sterminio più famosi.
Richtofen aprì la porta e si trovò nell'ufficio del comandante, simile alle altre stanze: arredamento ridotto allo stretto necessario, una libreria piena di documenti polverosi; una scrivania,  un pacco di fogli di carta intestata, penne e calamaio su quest'ultima, un telefono nero avorio appeso alla parte destra; il comandante scriveva come una macchina da scrivere su quei fogli, poi li timbrava e li accumulava in una seconda colonna, e continuò così finché Richtofen, entrando, sbatté involontariamente la porta.
Il comandante alzò la testa e si accigliò, lo sguardo degli occhi turchini come d'acciaio: «Ah! Dottor Richtofen, direttamente dal Gigante... cosa poso fare per lei?».
«Comandante... - esordì lo scienziato - dovrei parlarle di alcune questioni della massima importanza!».
«Prego... mi dica...».
«Stiamo conducendo alcuni esperimenti medici e... ci servirebbero i corpi di alcuni internati...».
Il Comandante sgranò gli occhi: «corpi... morti?».
Richtofen fece spallucce: «Solo per questa volta, almeno...».
La reazione del Comandante non era casuale: i biechi scienziati del Terzo Reich sarebbe passati alla storia per la crudeltà dei loro esperimenti, compiuti su internati accuratamente selezionati,  sulla resistenza all'assenza di ossigeno, per i paracadutisti della Luftwaffe, e il congelamento, oltre agli studi sulle malattie epidemiche, come la petecchia, e i rudimentali esperimenti di Eugenetica, la rivoluzionaria disciplina scientifica votata al perfezionamento della specie umana, che nelle mani dei nazisti divenne un'arma a doppio taglio molto pericolosa.
 «E io in cosa posso esserle utile, per la vostra... ricerca?».
«Dovrebbe concedermi l'autorizzazione a selezionare e prelevare i cadaveri...» spiegò Richtofen con voce piatta.
«E sia...» disse l'ufficiale prendendo un foglio, scrivendoci sopra  qualcosa e timbrandolo.
«Prima che me ne vada a fare il mio dovere... posso chiederle una cosa, Signore?».
«Ma certo Dottore..».
«Bene - spiegò con calma - ho notato una nota di scherno nella vostra voce alla pronuncia della parola... "ricerca", chiedo il motivo di tale tono, Signore».
Il Comandante rimase impassibile, rigido e immobile: «Semplicemente perché voi state togliendo soldi che servirebbero ai soldati... sono loro che vincono le guerre con il loro sangue e il loro sudore, giorno dopo giorno!».
«Ma le ricerche in campo balistico hanno fornito al nostro Reich i mezzi per conquistare l'Europa: non ho ricevuto lamentele circa l'uso della MG42, o dell'MP40, del Gewer43 e delle altre armi di recente impiego...».
«La scienza è per gli incapaci come lei; non è forza come la Guerra, ma è ignoranza della vera vita, conquistata con l'onore e il sangue... mi fate quasi pena con i vostri bei camici bianchi e i foglietti ordinati, soprattutto quando mi vengono in mente i nostri fratelli caduti a Orano, Kasserine, El-Alamein!».
Richtofen rimase a sua volta impassibile, guardò con sufficienza il Comandante, prese il foglio dalla scrivania e fece per uscire, quando un'altra domanda gli attraversò il Cervello: «E delle scienze occulte... cosa ne pensa?».
«Sono un tipo pratico di natura, quelle sono tutte stronzate!».
Richtofen sorrise maligno: «Bene, allora quando parlerò a Himmler dei promettenti risultati delle "ricerche" - disse imitando la voce del Comandante - verrà a sapere che la sua passione e speranza di vittoria assoluta è stata chiamata "stronzate" da un incompetente Comandante che a malapena sa fare di conto e che pretendeva di essere superiore ad uno scienziato».
Il Comandante rimase a bocca aperta.
«Hail Hitler - uscì dall'ufficio e chiuse la porta dietro di sé - cazzone!».

 

2

Sophia si guardò intorno pensierosa: il teletrasporto era stato costruito in un capannone, ed appariva come un gabbiotto di metallo sormontato da apparecchiature elettriche e dall'immancabile Svastica Nazista; in quel momento il capannone era gremito di operai e tecnici impegnati ad avvitare e saldare i vari componenti.
Il capo cantiere, l'ingegnere che Richtofen aveva rimproverato quando uscì dal laboratorio con Maxis e la DG-2, notando la scienziata in arrivo, abbandonò la sua mansione di supervisore e si avvicinò alla donna: «Buongiorno dottoressa - la salutò - abbiamo quasi terminato la costruzione del teletrasporto, mancano gli ultimi ritocchi».
«Vedo - disse lei senza emozioni - avete seguito le specifiche tecniche?».
L'ingegnere annuì: «Sì signora, abbiamo predisposto tutto...  solo...».
Lei lo guardò gelida: «"Solo..." cosa?».
Tremante, l'ingegnere rispose: «Ecco, ho dovuto rifare i calcoli per via di un pezzo che non combaciava... mi sono imbattuto nel calcolare l'energia totale necessaria per l'alimentazione».
«E quindi? Cosa c'è che non va?».
Lui si accigliò, preoccupato, ed intimorito dall'espressione glaciale della dottoressa: «Nulla, è tutto perfettamente progettato... però io ho dei dubbi che le nostre riserve abbiano carbone o petrolio sufficiente per alimentarle le apparecchiature... non penso che l'energia sia sufficiente per trasportare la materia vivente dal teletrasporto al mainframe, ci vorrebbero migliaia di Watt di energia...».
«Ottima deduzione - si complimentò lei - però devo darle una pessima notizia».
«Cioè?>> chiese lui impaurito.
«Non useremo il petrolio o il carbone, bensì un combustibile... unico nel suo genere».
E si allontanò dall'ingegnere, che rimase a guardare il vuoto qualche secondo, finché si sbloccò e seguì la dottoressa come un cagnolino segue il padrone per strada: «Ma... come sarebbe? Quale combustibile?».
Lei si fermò quasi davanti al teletrasporto: vide gli operai che notandola accennavano sguardi maliziosi che, ricordandosi dei soldati armati, diventavano torvi e seri, concentrati sul lavoro da fare; compiaciuta osservò il risultato delle sue fatiche realizzarsi un pezzo alla volta, con calma e discrezione.
Si girò poi di scatto, spaventando l'ingegnere sottomesso: «Non vi riguarda, sappiate solo che non useremo nessun combustibile... tradizionale».
«Non capisco signora» disse rassegnato.
«Meglio così, tenetevi fuori dagli affari non di vostra competenza».
L'ingegnere abbassò il capo, confermando la sua sottomissione: «Sì, certo signora...».
Era praticamente impossibile dare del filo da torcere a quella donna, il suo carattere e il carisma
la rendevano un avversario temibile, ed era consapevole di avere delle competenze notevoli; competenze utili agli scopi del Gruppo 935... e a quelli di Maxis, ovviamente, che rimase folgorato dalla sua bellezza, laddove aveva perso ogni interesse per il gentil sesso quando rimase vedovo dopo una decina d'anni di matrimonio.
La vita famigliare non era adatta ad un tipo come lei, ma amava Maxis, ed era disposta a tutto pur di sostenerlo e stargli accanto; inoltre lei e Samantha, la giovane ed ingenua figlia di Maxis, avevano instaurato un bel rapporto di amicizia.
Insomma, la loro vita sembrava perfetta: amore, amicizia ed un lavoro prestigioso, ma si sa che prima o poi il piacere finisce e allora subentrano le peggiori disgrazie.
«Tra quanto sarà pronto per le sperimentazioni?» chiese osservando il teletrasporto.
«A breve signora» squittì l'ingegnere.
«Eccellente - disse compiaciuta - avete fatto davvero un ottimo lavoro... vi ricordo che avremo presto delle visite importanti, per allora dovrà essere pronto e in funzione!».
L'ingegnere si affiancò alla scienziata, guardando il teletrasporto a sua volta: «Visite importanti?».
Lei si girò verso l'uomo e lo fissò negli occhi scioccati: «Una delegazione di gerarchi delle Waffen- SS direttamente da Berlino... verranno appositamente per constatare di persona la qualità del nostro lavoro».
L'ingegnere rimase immobile, indeciso se gioire o tremare al pensiero di trovarsi davanti a quelle  persone che erano personificazione dell'ideale nazista e della volontà di Hitler in persona.
Gli operai lavorarono qualche minuto sotto la direzione della dottoressa, finché non venne collegato al teletrasporto un lungo tubo che lo collegava al mainframe; fissato il tubo, i tiranti e le viti, gli operai si allontanarono dal teletrasporto formando un semicerchio attorno ad esso, la dottoressa fece capolino tra la massa ad osservare il lavoro ultimato.
Sorrise constatando di persona che era ormai pronto a svolgere la funzione per cui era stato costruito, e con lei gli operai e gli altri scienziati nel cantiere; solo i soldati di guardia rimasero freddi e insensibili a quelle grida di felicità e soddisfazione.
«Chiamate il dottor Maxis! - disse lei a colleghi, che sparsero subito la voce nel gruppo - sarà orgoglioso del nostro lavoro».



3

Hai mai assistito ad una... risurrezione? ».
«No capo, mai...».
«Allora sta a guardare, guarda e impara, come si usa dire oggi giorno».
Maxis e Porter si trovarono in una stanza sotterranea, costruita sotto il complesso mainframe dei teletrasporti, che proseguiva con un lungo corridoio, fino ad una porta stagna, blindata, praticamente inespugnabile.
«Allora è lì che si trova l'Ununpentio? chiese Porter un po' a disagio».
«Proprio così figliolo - confermò Maxis - là dentro c'è la nostra salvezza da questo squallore!».
Porter si accigliò: «Chiedo scusa signore ma... perché lo teniamo così nascosto?».
«Ah... caro Porter, hai ancora tanto da imparare...».
«Allora mi insegni quello che devo imparare!».
Maxis sospirò divertito dalla spigliatezza del suo assistente: «D'accordo, allora lezione numero 1: l'Ununpentio è un elemento inesistente sulla Terra, quel poco che si sa lo dobbiamo agli studi compiuti sull'asteroide precipitato a Tunguska nel 1908...».
«Ah sì, l'evento di Tunguska, mi ricordo che quando ero piccolo ho sentito delle storie al riguardo!».
«La verità è che quell'asteroide contiene al suo interno delle venature dell'Elemento 115, che è all'occhio come un metallo di colore grigio argenteo, con proprietà radioattive - spiegò Maxis mentre attraversavano il corridoio che dalla stanza conduceva all'entrata blindata - per questo lo teniamo là dentro, al sicuro, dove la radiazioni sono completamente schermate!».
«Piombo dunque».
Maxis annuì, camminarono finché si trovarono davanti alla porta, lucida e austera; Porter si grattò la testa: «come si fa ad entrare? Non vedo pannelli o serrature!».
«Ne sei proprio sicuro?» lo sfidò Maxis.
Porter si irrigidì, poi osservò attentamente ogni centimetro del lucido metallo di era fatta la porta, ma niente di particolare attirò la sua attenzione.
«Chiedo scusa ma qui non vedo nulla signore!».
Maxis sorrise compiaciuto: «Questa porta non è poi tanto dissimile da quelle delle nostre case, come tutte le porte infatti, necessita della chiave più adatta...».
«Ma... - tentennò lo scienziato - ripeto il fatto che non vedo serrature!».
Maxis a quelle parole di adombrò: «Eh! Perché non sai guardare!».
Con un cenno del braccio fece spostare indietro il suo sottoposto e si avvicinò alla porta, picchiettò sul metallo con la nocca del dito indice fino a che non sentì, soddisfatto, il suono del vuoto dietro il metallo; si rivolse a Porter con un sorriso, il collega parve contrariato.
Maxis spinse con la mano sul punto che aveva tastato e un rettangolo, grande quanto la mano del professore, rientrò nella porta; un rumore di pesanti ingranaggi invase il corridoio, finché la porta non si aprì lentamente verso l'interno, e lo videro.
Il frammento era posto dentro una grossa teca di spesso vetro, nel centro della stanza, e poteva essere maneggiato soltanto tramite dei guanti che sporgevano all'interno della teca stessa; una volta entrati Maxis accese la luce abbassando una leva, infilò le braccia in quei guanti e prese in mano il frammento con molta cautela; Porter osservò con curiosità quel pezzo di roccia marrone scuro che stranamente brillava.
Maxis, notò la preoccupazione sul volto dello scienziato: «Ecco, vedi? Questa brillantezza è data dall'Elemento 115 al suo interno...».
«Accidenti, non avevo mai visto una cosa del genere Dottore...».
Maxis rise: «Certo, perché non esiste nulla di simile sulla Terra... - fissò il pezzo di roccia mentre lo reggeva in mano - ed è piovuto dal cielo perché lo usassimo al fine di essere superiori, caro Porter!».
«Ma, Dottore... pensavo che ci servisse per i suoi esperimenti sui cadaveri...».
Maxis annuì mentre sistemava il frammento in un contenitore simile ad una ventiquattro ore rivestita di metallo; Porter era sempre più confuso: «Allora perché dovrebbe renderci superiori?».
«Perché, caro ragazzo - disse Maxis mentre era intento a chiudere la valigetta - l'Elemento 115 è anche un incredibile combustibile, talmente potente da oscurare in termini di resa energetica quelli attuali... inoltre ne bastano pochi grammi per produrre elettricità sufficiente a mantenere per qualche mese città grandi quanto la nostra gloriosa Berlino».
Porter deglutì dallo stupore al solo pensiero dell'incredibile energia che un oggetto così piccolo poteva contenere, e di quello che poteva essere fatto con un tale potenziale.
«Parliamo anche di... nucleare?» chiese preoccupato.
«Sì, anche - disse Maxis sfilandosi i guanti e prendendo la valigetta dalla teca adiacente a quella del frammento, usata come transito - volendo ci sono migliaia di usi possibili».
Quindi anche... bombe, ordigni, oggetti che recano... danno, alle persone?».
Maxis sorrise di nuovo: ma stavolta era un sorriso che a Porter parve quasi maligno, rabbrividì sperando che fosse solo un'impressione e che avesse frainteso le parole del professore.
Recuperata la valigetta Maxis e il suo assistente uscirono dalla stanza, chiusero l'unico accesso e, percorso lo stesso corridoio di qualche minuto prima, salirono sull'ascensore che li avrebbe portati nuovamente in superficie.
Porter si sentì a disagio ad essere al fianco di Maxis, in quanto quella luce maligna nel volto del suo superiore l'aveva spaventato, ma volendo rompere il ghiaccio, un po' per non pensarci, un po' perché effettivamente la curiosità in lui cresceva, chiese: «Allora... - tentennò - lei mi ha chiesto se ho mai assistito ad una... una resurrezione...».
«Esatto» ribatté Maxis piatto.
«E io chiaramente ho risposto di "no" perché non è possibile una cosa simile, non si possono riportare in vita i cadaveri...».
Maxis lo guardò con aria di sfida, con le labbra serrate a formare un ghigno: «Ne sei davvero così sicuro?».
Porter sgranò gli occhi: «Ma certo, è assurdo, impossibile... grottesco e... immorale...».
Maxis sospirò, quasi volesse apparire spossato: «Caro Porter, tra le incredibili potenzialità di questo Elemento c'è anche l'incredibile possibilità di riportare alla vita i morti... certo, può sembrare estremamente demoniaco come potere ma... è questo il motivo per cui siamo qui!».
Porter si morse la lingua, imprecando nella sua mente per aver posto quella domanda.
«Il Gruppo 935 fu composto proprio per studiare questa particolare caratteristica dell'Ununpentio - spiegò Maxis - dal punto di vista medico infatti non siamo ancora in grado di spiegare come mai si verifichi un simile fenomeno, tuttavia ci hanno ordinato di trovare nuove soluzioni per i campi di battaglia, e c'è da dire un esercito simile sarebbe virtualmente inarrestabile, oltre che economico su ogni aspetto... non ti sembra?».
Proprio alla fine di quella frase, con enorme sollievo da parte di Porte, l'ascensore si fermò di colpo e con un fastidioso stridio metallico, le porte di sicurezza si aprirono e i due si trovarono accolti da una gran folla, formata da operai, scienziati dello staff e soldati, riunita attorno all'entrata dell'ascensore; Maxis aggrottò le sopracciglia vedendo Edward e Sophia in testa al gruppo, sui loro volti espressioni di soddisfazione e compiacimento.
Maxis uscì dall'ascensore, seguito da un Porter decisamente a disagio trovandosi davanti a tutte quelle persone che lo guardavano, e si portò davanti ai colleghi, reggendo saldamente la valigetta e il suo inestimabile contenuto.
«Sicché - esordì guardando Richtofen negli occhi - deduco dalle vostre espressioni che siamo a buon punto, non è vero?».
«Assolutamente - rispose Sophia anticipando Richtofen - anche l'ultimo Teletrasporto è pronto: ultimato e collegato...».
Io invece ho preso i cadaveri di alcuni internati... almeno se da vivi sono stati feccia, da morte saranno utili alla causa spiegò Richtofen.
«Bene - disse Maxis alzando con cautela la valigetta per metterla in mostra - io invece ho la Chiave di Volta... deduco che siamo finalmente pronti per i nostri esperimenti, signori!».
Porter rimase in disparte ad assistere alla scena: tre grandi scienziati, luminari del loro campo, che stavano per sfidare Madre Natura e la Morte per ottenere il successo agli occhi del dittatore del loro Stato d'origine; maledicendosi tra sé e sé per essere sempre stato troppo timido e "codardo", pensò che forse far parte di quell'ingranaggio infernale l'avrebbe portato alla dannazione eterna.
In cuor suo, inconsciamente, l'umile ingegnere aveva già capito quale fosse stato il suo Destino

4

«Bene, adesso diamoci da fare, signori!»  incitò Maxis i suoi collaboratori, con tono convinto ed espressione seria.
Nella stanza del teletrasporto C, l'ultimo costruito dei tre teletrasporti, lo staff si era adeguatamente preparato per il primo test: nel piazzale venne installata una postazione radio su di un tavolo in legno e uno degli ingegneri rimase seduto a controllare quella postazione; intanto Maxis e Richtofen controllavano che il teletrasporto fosse nelle condizioni ideali per il "collaudo".
Da una serie di leve e contatori, Richtofen poté controllare lo stato del teletrasporto, mentre Maxis segnava i dati su di un taccuino: «Dunque, adesso è tutto spento - disse Richtofen controllando le spie - possiamo procedere Ludvig!».
Maxis scrisse sul taccuino appoggiandosi al tavolo, mentre dalla sedia lì accanto l'ingegnere, un giovane trent'enne, lo guardava ansioso: «Come procediamo signore?» chiese.
Maxis alzò lo sguardo dal foglio e ripose la penna nel calamaio: «Anzitutto abbiamo segnato le condizioni del teletrasporto senza energia, in modo da poter calcolare quanta ne servirà quando sarà attivo... il tuo compito è di registrare quello che io dirò nel microfono volta per volta...».
Mentre Maxis addestrava il fedele collaboratore, che pendeva letteralmente dalle sue labbra, Richtofen si guardò intorno, ammirando il teletrasporto: una struttura cilindrica semicircolare dalla cui sommità si dipartivano quattro cavi agganciati al soffitto, che erano i cavi dell'alimentazione che confluivano verso il generatore dell'elettricità, più  un quinto, più lungo e spesso degli altri, che collegava il macchinario direttamente al mainframe.
Osservando quei dettagli volò con la fantasia: pensò all'incredibile potenziale di quella tecnologia; se l'esperimento con i cadaveri, che erano sistemati in terra, poco lontano dalla capsula teletrasporto e coperti da alcuni lenzuoli, sarebbe riuscito, ovvero essi sarebbero "scomparsi" dal sito del teletrasporto per essere poi trasportati e quindi "ricomposti" al mainframe senza danni o altre conseguenze, avrebbero trovato una soluzione sostitutiva ai mezzi di trasporto e al risparmio che ne derivava.
Avrebbero però dovuto però sfidare le leggi della Fisica, beffandosi perfino di Einstein e della sua "Teoria della Relatività"... e qui entrava in gioco l'Elemento 115 e le sue strabilianti proprietà di combustibile.
«Bene, hai capito tutto? - chiese Maxis gesticolando verso la radio con fermezza - è fondamentale per noi che queste registrazioni rimangano... ci serviranno in futuro, va bene?».
«Sì professore...» disse lui sedendosi composto con le gambe sotto al tavolo.
Maxis spostò lo sguardo verso Richtofen: «Edward, siamo pronti a procedere!».
Richtofen sorrise strofinandosi le mani chiuse in due guanti neri isolanti: «Bene, al lavoro dunque!».
«E... senti Edward...».
«Dimmi Ludvig».
«Chiamami "Dottore" se parli mentre registro - lo ammonì - ricordati che queste parole finiranno nelle orecchie di un Gerarca del Reich, mi spiacerebbe fare brutta figura...».
Qualcosa nella mente di Richtofen scattò: fino a qualche ora prima erano amici, colleghi, tante belle parole sono state dette e tante confidenze fatte... ed ora Maxis voleva buttare via anni di tutto questo per cosa? Per piacere a qualche burocrate, magari del tutto ignorante, che avrebbe rifiutato quelle teorie definendole "tutte stronzate", come il Comandante del Lager adiacente il Gigante?
Non poteva permetterlo... ma mentre la rabbia in lui aumentava gradatamente che rifletteva, istintivamente non poté fare a meno di eseguire gli ordini di Maxis; proprio Maxis ben presto si sarebbe pentito di tutto, solo che sarebbe stato troppo tardi, per lo scienziato, ottenere il perdono.
Così nella mente di Richtofen una strana idea venne in superficie, un'idea malsana già consapevole dei rischi a cui andava in contro.
«Bene - disse Maxis rivolto verso il microfono all'operatore - avvia la registrazione!».
«Sissignore!» disse l'altro eseguendo l'ordine, mentre Richtofen rimaneva davanti al quadro comandi del teletrasporto a rimuginare.
«Qui è il Dottor Ludvig Maxis del Gruppo 935 di stanza al Gigante, struttura di ricerca scientifica avanzata del Campo di lavoro e sterminio a Breslavia... stiamo conducendo i primi esperimenti riguardante un progetto rivoluzionario, che potrebbe cambiare perfino le sorti di questa guerra contro i nemici del... del nostro grande e nobile Reich...».
Richtofen sbuffò annoiato, con lo sguardo fisso in avanti, verso il nulla; l'angolo del labbro superiore, com'era posizionato sul volto dello scienziato, formava una smorfia di rabbia e frustrazione.
«Ora i teletrasporti sono disattivati, abbiamo segnati i valori ad alimentazione zero- spiegò Maxis chiudendo gli occhi e parlando molto vicino al microfono - in questo modo potremo calcolare l'energia media necessaria per l'intero processo di teletrasporto dal punto A, ovvero il teletrasporto numero "Z-C", al punto B, la destinazione prestabilita per l'esperimento, ossia il mainframe, a cui il teletrasporto di nostro interesse è direttamente collegato».
Richtofen sbatté gli occhi e scosse violentemente il capo, ansioso di cominciare l'esperimento.
«Come combustibile - continuò Maxis - non useremo né petrolio, né gas, né tantomeno carbone... ma un particolare elemento chimico trovato in un asteroide precipitato nel 1908 a Tunguska, in Siberia... questo elemento sembra essere refrattario all'accelerazione di gravità e ha anche notevoli proprietà radioattive... questo ci fa ipotizzare che può essere un ottimo combustibile, oltre ad essere molto pericoloso da maneggiare».
Maxis fece un cenno, riaprendo gli occhi, all'operatore, che spense all'istante la registrazione, Richtofen fissò il collega con rabbia, cercando di farla tornare da dove era arrivata.
«Come procediamo? chiese infine Richtofen.
«Adesso attiviamo il generatore, mettiamo un cadavere nel teletrasporto e diamo energia... che Dio abbia pietà di noi e ci aiuti tutti quanti».
«Soprattutto te, lurido infame» sussurrò Richtofen a denti stretti, mentre Maxis ordinava all'operatore di andare ad accendere il generatore azionando la leva sul quadro comandi.
Richtofen sorrise maligno mentre osservava il "ragazzo" uscire dall'edificio; Maxis lo vide ed interpretò quella smorfia come uno dei soliti momenti in cui il suo amico si "bloccava" per fantasticare su qualcosa.
Il problema era proprio quel qualcosa su cui la sua fervida immaginazione s'arrestava.
Cercando di distrarsi da quei pensieri maligni, Maxis sentì un crepitio, ed una voce, da alcuni altoparlanti disse: «Generatore dell'elettricità attivo».
Maxis sorrise, vedeva finalmente i suoi sforzi e le sue speranze diventare realtà; mentre fantasticava il "ragazzo" tornò a sedere davanti alla radio.
«Edward, siamo pronti?».
«Sì... dottore» disse inespressivo voltandosi verso il quadro comandi del teletrasporto, afferrando con forza le leve di controllo.
«Bene, allora calibriamo la capsula... - poi si rivolse all'operatore, che stava riprendendo fiato per la corsa appena fatta - accendi quest'affare e diamoci da fare!».
«Soltanto un momento - disse una voce familiare ai due scienziati - non vorrete cominciare senza di me, non è vero?».
Era il Generale Gobbels, affiancato da sue statuari soldati, armati di MP40, che entrò nell'edificio con fare preoccupato; probabilmente in cuor suo non era convinto dell'utilità di quegli esperimenti, vedendo i cadaveri poi pensò che forse Maxis e Richtofen erano semplicemente due pazzi... ma del resto gli ordini erano di lasciarli lavorare.
«Hail Hitler Generale!» salutò l'operatore con fervore, Maxis e Richtofen si limitarono ad alzare il braccio destro fissando l'ufficiale, che ricambiò a sua volta.
Il ragazzo si rimise al suo posto e Gobbels si avvicinò a Maxis: «Dunque? Cos'avete intenzione di fare? - ed indicò i cadaveri - voglio dire: mi è stata fatta in  ufficio una telefonata secondo cui Richtofen ha deliberatamente minacciato il Comandante Holler, del Lager qui vicino...».
«E allora? - chiese Maxis senza scomporsi - quell'uomo fa compiere massacri e atrocità sui prigionieri tutti i santi giorni... qualunque insulto indirizzatogli non può che meritarselo, dato che è un buzzurro ignorante e violento!».
«Questo solo perché non ha fiducia nelle vostre ricerche... e forse anche io non ne ho Ludvig...».
«E allora perché sei venuto qui?».
«Perché voglio vedere se la mia fiducia è ben riposta, dopotutto!».
Ci fu una pausa di pochi secondi, durante i quali i presenti incrociavano fra di loro i rispettivi sguardi.
«Voglio darti un ordine, Ludvig... e questa volta è tassativo...» disse Gobbels con voce ferma e decisa.
«Cioè?».
«Se scopro ancora una volta che uno dei tuoi manca di rispetto ad un Alto Ufficiale della Wehrmacht, vi sbatto tutti a calci e la struttura andrà in rovina... voglio vedere come lo spiegherete ai Gerarchi, a Himmler, al Fuhrer...».
Maxis abbassò lo sguardo, Richtofen guardò il Generale con sguardo torvo, come un felino che studia da lontano la preda.
«Bene, iniziate, dunque» li esortò Gobbels con un cenno della mano, sospirando per calmarsi dalla sfuriata.
Maxis alzò lo sguardo e si avvicinò alla radio, sussurrando all'operatore: «Bene... accenti e preparati per la registrazione!».
«Certo signore - disse inespressivo mentre spingeva dei bottoni e accendeva il microfono - è attivo signore!».
«Qui Ludvig Maxis, del gruppo 935, stiamo effettuando il test  numero uno sul teletrasporto "Z-C"... Edward, prepara le... le cavie...».
«Certo dottore!» disse tranquillamente Richtofen con tono servizievole.
Lo scienziato trascinò, a fatica, uno dei cadaveri e lo sistemò dentro la capsula del teletrasporto, poi lo scoprì: un uomo piuttosto anziano, dall'aspetto spaventato e denutrito, e con i primi segni della decomposizione sul corpo scavato dalla fame e dalla fatica, completamente nudo e violaceo.
Sistemato il cadavere in posizione seduta, Richtofen si portò davanti al quadro comandi, in attesa.
Bene Edward, ora dai energia al macchinario!>> disse incrociando lo sguardo di Gobbels, colmo di tensione e paura.
Richtofen abbassò due leve e controllò gli indicatori di energia: pressione, intensità, consumo e indicatore di sovraccarico, in quel momento con la lancetta rivolta verso l'area verde scuro del misuratore.
Dalla parte superiore della capsula scaturì un fascio elettrico che investì completamente il cadavere, che cominciò a scuotersi violentemente e a sbattere violentemente contro il fondo del teletrasporto, osservato dai tre scienziati; Richtofen si allontanò per non essere a sua volta folgorato o accecato dalla luce emanata da quella scarica elettrica, Gobbles distolse lo sguardo e girò dall'altra parte con gli occhi lacrimanti.
Il quadro comandi del teletrasporto emanò alcune scintille, Richtofen si parò il volto alzando il braccio, Maxis fece in tempo a fare lo stesso per poi sentire uno scoppio violento e uno strano odore di carne bruciata.
I presenti guardarono istintivamente verso la capsula, scoprendo con orrore l'amara verità: il cadavere era collassato ed esploso, spargendo membra, sangue, umori ed interiora nella capsula, che scivolarono dalla superficie e si riversarono sul pavimento.
Gobbels fece in tempo a riprendersi dall'accecamento per voltarsi di nuovo alla vista del macabro spettacolo, soccorso dai soldati altrettanto impressionati; Richtofen rimase di fianco alla capsula ad ammirare quel tripudio di sangue e carni, senza batter ciglio o mostrare segni di impressione, Maxis tremava come un bambino, sorpreso da un simile e inaspettato risultato, l'operatore ebbe uno sforzo di vomito trattenuto a fatica.
Infastidito dall'odore nauseabondo, Maxis si rivolse ansimante verso Richtofen: «Edward, ma che diamine è accaduto?».
Richtofen guardò verso la capsula, poi guardò il collega: «Mi sembra che sia chiaro cos'è accaduto dottore...».
«No! - urlò furioso - mi riferisco al come! Come è potuto succedere? Hai calibrato il sistema come ti ho detto?».
«Sì dottore» rispose lui tranquillamente.
«E invece no! Non sarebbe successo questo... diastro maledetto!».
Gobbels si avvicinò a Maxis, era pallido in volto: «Ludvig...» sussurrò appena.
«Sì?» chiese lui impaurito dal pensiero delle parole che il Generale stava per pronunciare.
«Io non so se i vostri esperimenti sono davvero rivoluzionari... dopo oggi sappi che non avrai, da parte mia, nessun incoraggiamento, raccomandazione... niente... più niente! Sono stato abbastanza chiaro?».
«Sì, sì certo» disse Maxis a testa bassa, ferito nell'orgoglio.
«Bene, buon lavoro... sempre che riusciate ad ottenere qualcosa!».
Detto questo il Generale si allontanò verso il suo, seguito dai sempre volenterosi e ligi soldati, mentre Maxis lo guardava andarsene insieme alle sue speranze.
«Dottore... - disse l'operatore - la registrazione era accesa quando...».
«Sì, ho capito - disse lui senza girarsi - allora rifacciamo tutto... Edward, dai una ripulita a questo schifo e ricalibra tutto!».
«Signore, sarebbe meglio non sovraccaricare il tutto... potrebbe saltare tutto il sistema».
«Non mi interessa! - gridò girandosi di scatto e sbattendo fragorosamente le mani sul tavolo - non mi fermerò fino a che non avremo ottenuto qualche risultato che possa riabilitarci!».
Tremante, l'operatore distolse lo sguardo da quello glaciale di Maxis e si limitò ad annuire e a tornare seduto composto.
«Chissà se potrò mettere tutto in formaldeide per le analisi!» gioì sorridente Richtofen.

5

Alla vista il mainframe poteva apparire come un semplice disco concavo fissato ai pannelli metallici che formavano il pavimento del cortile principale; il mainframe, in particolare, era installato su di un piano rialzato raggiungibile da una breve scala a gradini.
Mentre gli operai svolgevano i loro lavori di routine, così come i soldati, che erano intenti a sorvegliare l'area, Sophia era vicino al mainframe, in attesa; all'improvviso sentì un crepitio e le centraline elettriche sfrigolarono: il generatore era acceso ed in funzione, la scienziata sorrise soddisfatta.
«Generatore dell'elettricità attivo» annunciò una voce lontana e profonda.
Con lei anche il solerte Porter, che fino al momento in cui era arrivato non aveva ancora staccato gli occhi dal mainframe.
«Tra poco sapremo se gli esperimenti avranno successo o meno...» disse Sophia.
«Sì... bene - farfugliò Porter - però non so quanto tutto questo sia di nostra pertinenza...».
«Cosa vorrebbe insinuare?» lo fulminò la collega.
«Diciamo che noi siamo stati assegnati ai test della Wunderwaffe DG-2 e alla costruzione della Ray Gun modello
X2...».
Sophia lo guardò dall'alto al basso, ed ebbe compassione per lui: «Allora faccia i suoi dannati test...».
«Benissimo,  ricordo soltanto che non ho competenze riguardanti l'elettromagnetismo e simili, per cui ho bisogno dell'unico esperto in materia disponibile... voi, signorina Maxis».
Lei guardò il suo interlocutore con più attenzione, chiedendosi come facesse a sapere: «Deve aver frainteso, io e il dottor Maxis non siamo sentimentalmente legati...».
«Però nemmeno vi impegnate per celarlo, il legame...».
Lei rimase stupito dal fatto che Porter fosse così cinico e improvvisamente chiacchierone, ricordando infatti quel timido costruttore e progettatore di armi che si era presentato alla soglia, che amala pena guardava in faccia le persone quando parlava, se parlava.
«Cercate di badare agli affari che vi riguardano... signor Porter».
«Lo farei più che volentieri - disse annuendo - se non fosse per il fatto che questo è anche un mio affare, poiché, se dovessero scoprire che voi e il dottor Maxis siete... legati, smantellerebbero all'istante il Gruppo 935, lasciandoci tutti in mezzo alla strada o forse nelle cuccette del campo qui vicino».
Sophia sgranò gli occhi con stupore, rimanendo per la prima volta nella sua vita senza parole: anche lei era consapevole della crudeltà di Gobbels, non minore quanto quella del Comandante Holler.
«Vale la pena perdere i nostri privilegi per qualche... - rimase in silenzio cercando mentalmente una parola che rendesse l'idea senza che sembrasse scurrile - sì insomma, qualche moina, ecco...».
Da lontano, per gli estranei, quella poteva sembrare una semplice discussione, o un pettegolezzo, ma lo scopo di Porter era più profondo dell'apparenza delle parole: "un ricatto bello e buono - pensò la dottoressa fra sé e sé - tanto vale assecondarlo prima che faccia danni".
«Sentiamo - disse lei curiosa - cos'ha intenzione di fare per mettere alla prova la DG-2?».
Porter, che stava guardandosi intorno, distratto, sentendo la voce della collega si girò di scatto.
«Dunque? Come vuole testare la DG-2?» ripeté lei.
Dall'espressione del collega capì che lui non aveva idee, comprese il motivo di tanta insistenza, lui non aveva la più pallida idea di come procedere con quell'arma.
Porter si guardò intorno sospettoso, i soldati parevano fissarlo malignamente: «Mi segua signorina...».
Lei rimase a guardarlo, confusa dalle sue parole.
«Subito» continuò scandendo le sillabe.
Convinta, decise di seguirlo: scesero dalle scale verso il piano terra, percorsero il cortile principale e superarono alcune porte stagne, rigorosamente sorvegliate a vista, svoltarono direzione un paio di volte ed entrarono in quello che aveva l'aria di essere un garage lasciato a sé stesso: pezzi di ricambio, gomme, fusti di combustibile piegati, attrezzi sparsi sui tavoli e sul pavimento macchiato di olio e grasso per motori.
Sophia arricciò il naso, disgustata dal forte odore di petrolio che permeava l'aria: «Ma dove mi sta portando questo è solo uno sporco garage?».
Lui si bloccò e si girò verso la collega, che era rimasta indietro per seguirlo: «Non dovete preoccuparvi, questo garage, non sporco, bensì... "dimesso" fa parte della mia particolare copertura, se vogliamo chiamarla così...».
«Quale copertura?» chiese lei quasi senza fiato e confusa.
«Si ricorda quando Lud... il dottor Maxis mi ha dato il consenso per costruire la X2?>>.
«Ah sì! Adesso ricordo...» disse cercando di evitare quell'odore malsano.
«Bene, siccome è un progetto segreto mi sono dovuto arrangiare con quello che avevo... lassù - ed indicò con il dito indice una finestra al piano superiore visibile dalla loro posizione - lassù c'è il mio laboratorio... meglio che niente, del resto».
Per nulla preoccupato del disagio della collega continuò il percorso, lungo una rampa di scale a due direzioni, una verso il suo laboratorio, l'altra verso il teletrasporto Z-B; percorsero una passerella sospesa che costeggiava le ampie pareti del garage ed entrarono nel laboratorio.
Come altri ambienti nella struttura, il laboratorio di Porter era austero e d'arredamento semplice, ed era simile ad una officina racchiusa in una stanza di medie dimensioni: un grande tavolo con disegni, schizzi e progetti appoggiati e tenuti fermi da due pesi: una gavetta e una pinza.
Sophia cominciò finalmente a respirare normalmente, cercando di riprendersi dalla sgradevole sensazione, guardandosi intorno poté notare la precisione quasi maniacale di Porter: tavolo a parte tutto era in ordine nelle casse, nei cassetti, impilato per terra; osservando questi dettagli si soffermò sui progetti appoggiati sul tavolo.
«Ed ecco il mio... covo» disse lo scienziato, del tutto ignorato.
Sophia fissò il foglio più grande, su cui era perfettamente disegnato il progetto di un'arma, una specie di pistola, dall'aspetto decisamente futuristico; notò nell'angolo a destra la dicitura che spiegava tutto:"Progetto finale RayGun X-2".
«Sì ecco - disse rassegnato - è lei...».
«Accidenti Porter - ribatté lei - è magnifica... ma come hai fatto a progettare un'arma simile?».
«Diciamo solo che non è proprio tutta farina del mio sacco... ecco».
Sophia lo guardò perplessa, come se il suo idolo d'infanzia gli stesse crollando davanti agli occhi.
Lui si massaggiò il collo, pensieroso: «Vedi, grazie alle nostre spie sparse in tutto il mondo siamo riusciti a trovare tracce di attività extraterrestri...».
Lei sgranò gli occhi quasi spaventata.
«Sappiamo che gli americani tengono gelosamente custodito qualcosa di importante in Nevada, Maxis e Richtofen ritengono si tratti di queste armi... e forse anche i corpi di chi le ha progettate - spiegò del tutto inespressivo, con lo sguardo basso e assente - ma siamo comunque venuti a sapere che funzionano con l'Elemento 115, in forma minerale pura... io l'ho semplicemente progettata basandomi sull'energia che una quantità tale di Ununpentio può generare».
«Ma non possediamo tutto quel combustibile... basta a malapena per gli esperimenti sul teletrasporto» constatò lei con amarezza.
«Appunto, ecco perché rimarrà un progetto finché non troveremo un'adeguata quantità di Elemento 115 che possa permetterci di procede...» disse lui altrettanto amareggiato, consapevole dell'impossibilità di trovare una considerevole quantità di Elemento 115 nemmeno rivoltando l'intero pianeta come un calzino.
«Però è incredibile - sbottò Sophia senza staccare gli occhi dal progetto - questa civiltà è riuscita a dominare un elemento chimico così pericolo...».
«Già - ribatté Porter con cinismo - talmente pericoloso che non sappiamo nulla: se è naturale o se è ricavabile in laboratorio, se ha degli effetti collaterali o meno sul corpo umano... non sappiamo nemmeno se ha delle ripercussioni sui cadaveri».
Sentirono un rumore di metallo battente ed una figura entrò nella stanza: «Che diavolo ci fate qui voi due, non dovevate essere al mainframe?».
«Ci scusi dottor Richtofen, stavamo visionando i progetti della X2» si scusò Porter, mortificato.
«Stupidaggini! - sbottò Richtofen - venite piuttosto a darci una mano...».
«Cos'è accaduto? - chiese Sophia preoccupata - Ludvig come sta?».
Lui la guardò come si guardava ad un lebbroso:<
«Chiedo scusa dottore - chiese Porter prendendo coraggio - ma cos'è successo esattamente?».
«Le scariche elettriche derivate da radiazioni di Ununmpentio hanno fatto collassare il cadavere...» detto ciò si girò e fece per uscire a passo svelto.
I due scienziati si guardarono, Porter, vedendo la preoccupazione in Sophia, raggiunse a fatica Rchtofen, che stava tornando indietro: «Ma... come sarebbe, "è collassato il cadavere?"».
«Troppa l'energia sprigionata, anche se il teletrasporto era perfettamente calibrato...» disse lui senza voltarsi e degnare il suo interlocutore di uno sguardo.
«Ma, pensavo che conosceste l'Elemento 115, che l'aveste studiato a fondo prima di utilizzarlo...».
Richtofen si girò furioso e si fermò molto vicino a Porter, lo afferrò con forza per il colletto del camice, fissandolo negli occhi e sentendone il respiro affannato: "Dunque hai paura piccolo Porter?" pensò istintivamente, provando piacere nella cosa; Porter, davvero impaurito, cominciò a tremare cercando di distaccare lo sguardo da quello del collega: «Ma... io... signore, veramente non volevo...».
«SILENZIO! - gli gridò in faccia mentre sopraggiungeva anche Sophia, atterrita dall'urlo - ti rendi conto che io e il dottor Maxis conosciamo praticamente ogni aspetto dell'Ununmpentio? Certo che l'abbiamo studiato, anche a fondo e a lungo... e le sue proprietà fuori da ogni logica scientifica lo rendono estremamente pericoloso da maneggiare!».
Porter lo guardò sempre più impaurito.
«Non è solo un proiettile per il tuo giocattolo... l'Elemento 115 è il futuro!Ricordatelo, piccolo ingrato...» e si scostò, lasciando la presa, per proseguire il suo cammino lungo la rampa e poi giù dalle scale.
Sophia si avvicinò al collega per sostenerlo mentre tirava un sospiro di sollievo: «Ma che gli è preso? Per poco non mi ammazzava...».
«Credo che se avesse avuto l'occasione l'avrebbe fatto senza alcun problema...».
La scienziata pensò che qualcosa in Richtofen era cambiato, era sicura che Maxis ne fosse il responsabile; era il momento di affrontare il suo capo gruppo per capire cosa stava succedendo.

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Capitolo 4
*** Capitolo III - Date, Ricordi, sotterfugi ***


CAPITOLO III

Date, ricordi, sotterfugi

 

1

Quella sera il dottor Ludvig Maxis tornò a casa particolarmente avvilito: dato che gli esperimenti di quel giorno furono un notevole fallimento, sentì crollare addosso a sé tutto il "suo" mondo, il Generale gli aveva negato ogni aiuto, la scorta di Elemento 115 scarseggiavano e il tempo a sua volta si esauriva.
Mentre percorreva a testa bassa la strada dal cancello in ferro battuto del Gigante alla sua abitazione, rimuginò a fondo su tutto ciò che gli era successo durante l'orario lavorativo:
"Ammonito da un superiore, ammonito dalla mia consorte, due esperimenti falliti, impossibilità di procedere... ma cosa devo fare? - si guardò intorno: la fiumana di operai che andava verso la città, i soldati verso l'accampamento adiacente il confine cittadino, il profilo delle case con i loro tetti spioventi e il cielo rosso del tramonto leggermente oscurato da nuvole cariche di piogge in arrivo - che quello che mi è stato ordinato come capo del Gruppo 935 sia troppo?".
Mentre proseguiva il suo cammino lungo la strada lastricata, controllata ai margini dai sempre vigli soldati delle SS, una voce femminile chiamò il suo nome:
«Ludvig!».
Lui si girò subito trovandosi davanti a Sophia, che appariva piuttosto provata: «Sophia! Ma che diavolo...».
«Ho bisogno di parlarti Ludvig» disse con voce piatta.
Lui tese le braccia in direzione della città: «Intanto proseguiamo?».
Lei sospirò e si incamminò seguita dal dottore, che dopo qualche passo le si affiancò: «Sentiamo... cos'è mai accaduto?».
«Si tratta di Edward...».
Lui sgranò gli occhi con sorpresa: «Come? Edward? Che mai ha fatto?».
Lei gli si parò davanti e lo fissò dritto negli occhi, era veramente scioccata:«Ha preso Porter per il bavero, lo voleva strangolare per un'inezia».
Maxis si guardò intorno per prendere tempo ed elaborare una risposta, si accorse che le nuvole stavano espandendosi, minacciando davvero pioggia: «Edward è sempre stato un tipo un po'... sadico, sai cos'ha fatto quando era al Wittenau di Berlino, e il soprannome che si è guadagnato».
Lei annuì: «Il Dottore...».
Maxis ammiccò: «Vedi, Edward non è peggio di tanti nostri colleghi... pensa a quei medici di stanza nei campi di concentramento più grandi».
«Io sto cercando di capire perché questo suo cambiamento».
«Scusami, non riesco a capire cosa intendi esattamente...».
Sophia continuò a fissare il suo amante con quegli occhi azzurri chiari e penetranti come il ghiaccio, poteva quasi vederne l'anima: «Con noi non si è mai, mai comportato in quel modo!».
Maxis rifletté un istante, intanto la fiumana di operai e lavoratori si era esaurita ed era scomparsa tra le case e le vie della vicina Breslavia, perfino i soldati stavano per andarsene parlando fra di loro del maltempo e dell'eventuale prostituta che avrebbe fatto il giro della camerata.
Infastidito da quel vociare impiegò qualche secondo per riflettere, e intanto Sophia lo guardava con sguardo accusatorio, a braccia conserte e occhi sbarrati; poi si ricordò che aveva ammonito Edward per fare bella figura con i Gerarchi quando avrebbero ascoltato le comunicazioni registrate durante gli esperimenti: comprese che forse Edward si era infastidito da quel comportamento, dato che erano amici e colleghi da anni pur avendo ambiti di ricerca diversi.
Maxis corrugò la fronte pensando ad una soluzione.
«Allora?» lo intimò Sophia.
«Va bene... parlerò con Edward e chiederò scusa, speriamo che non se la sia presa troppo».
«Bene Ludvig - disse abbracciandolo e baciandolo - sono fiera di te».
Lui ricambiò gli abbracci e i baci, sussurrandole nell'orecchio: «E ti prometto che lo sarai ancora di più».
Con il mento appoggiato sulla spalla del dottore, lei deglutì: «Hai intenzione di parlare con Samantha?».
«Non solo - disse sorridendo - porterò a termine i nostri progetti, dovessi stare qui al Gigante altri dieci anni e oltre!».
«Dottor Maxis! - disse lei scostandosi e sciogliendo l'abbraccio - sa che la sottoscritta vi ama perché siete un uomo colto ed intelligente, quando volete?».

«Mia cara... l'unico motivo per cui siamo qui è questo lavoro... Se riusciremo a portarlo a termine nei tempi previsti saremo una vera famiglia, tu, io e la piccola Samantha».
Toccata da quelle parole, Sophia rimase in silenzio, soltanto Maxis era riuscito a farla rimanere senza parole, poiché sia con i sottoposti che con i parigrado aveva, o doveva avere per inclinazione caratteriale, sempre l'ultima parola.
«Questo è ciò che mi spinge... certo, essere d'aiuto al proprio Stato sfruttando la propria Arte o Scienza è una cosa non poco gratificante, ma io voglio qualcosa di più: un futuro certo, sicuro - spiegò Maxis a cuore aperto - e qualunque sacrificio sarà ben accetto per raggiungere questo obbiettivo, non scordarlo mai...».
Maxis si guardò intorno, erano rimasti gli unici ad occupare la strada, in più le prime gocce cominciavano a cadere dal cielo: il sole e il suo rosso del tramonto avevano ceduto il posto alla nuvole scure, la calma e la pace erano ora sostituite dai fulmini e dai lampi; Maxis si perse a contemplare quell'incredibile forza che si esprimeva, e tutta quell'energia che andava irrimediabilmente persa.
Contrariamente da lui Sophia cominciò a correre verso la città, per evitare la pioggia, ma fu tutto inutile; una pioggia scrosciante cominciò a cadere, il dottore già fradicio raggiunse così la sua compagna, pensando che forse avrebbe dovuto sposarla una volta terminato il suo lavoro al Gigante.
Ebbro d'amore per quella donna, sorrise vedendola bagnarsi sotto la pioggia e gridare per le gocce fredde che picchiettavano sull'impermeabile in pelle nuovo di zecca; decise così di corrergli dietro per raggiungerla.
Sembravano così allegri e sereni, incuranti dei problemi che avrebbero dovuto affrontare nel prossimo futuro; arrivarono i città sempre in corsa cercando invano di non bagnarsi, attraversarono un paio di vie, incrociarono alcuni picchetti di soldati, che riconobbero i due scienziati lasciandoli tranquillamente passare, fino alla soglia di una casa con i mattoni a vista, che apparentemente on aveva niente di speciale o significativo.
Una casa con la porta in legno, le finestre anch'essere in legno e i vetri coperti dalle tende di seta bianca dall'interno; non aveva nulla di speciale, per questo Maxis la scelse come dimora provvisoria per il suo soggiorno a Breslavia, rifiutando gli alloggiamenti previsti per gli altri scienziati.
Maxis, accortosi di essere davanti a casa sua, affiancato da Sophia, salutò la sua "collega" con un lungo bacio; quella volta non si dissero nulla prima di lasciarsi davanti la villa, soltanto quel bacio appassionato e uno sguardo.
"Uno sguardo vale più di mille parole, dicono".
E lo sguardo che la dottoressa lanciò al dottore fu chiarissimo, Maxis non dovette nemmeno chiedere spiegazione, sapeva cosa fare.
Così mentre Sophia procedette verso la sua abitazione, sguardo in avanti, Maxis si girò a contemplare la facciata della sua casa, vide poi sbucare dalle tende il viso di un angelo che sorrideva guardandolo dalla finestra; lui sorrise a sua volta e il volto angelico sparì dalla finestra in un grido di pioggia.
"La mia piccolina - disse avvicinandosi alla porta - tutto questo lo faccio per lei".
Il dottore afferrò la maniglia ed aprì la porta, fece qualche passo in avanti, fermandosi su uno zerbino, fu travolto da una gioiosa voce femminile, e una bambina lo abbracciò; lui la prese in braccio: a quanto pare perfino un ruvido e analitico scienziato come Maxis aveva un cuore.
 ricambiò con affetto l'abbraccio e baciò sua figlia, stringendola sé; il Gigante poteva aspettare fino alla mattina dopo, e anche Gobbels, e tutte le altre cose che accadevano là dentro.
Il contatto tra i suoi abiti bagnati e il grembiule pulito e leggero della sua bambina lo fece rabbrividire... Che avrebbe fatto se avesse perso anche Samantha?
Tuttavia è vero che hai bambini non si può nascondere nulla; lei vide sul volto del padre un'espressione cupa, quindi, con tutta l'innocenza della sua tenera età lei disse, con una vocina leggermente stridula:
«Cos'hai, papà?».
Lui sciolse l'abbraccio, riponendola delicatamente a terra e si ricompose: «Niente, bambina... Sono solo un pò stanco... Perdonami».
Lei sorrise, lui invece si sentì in colpa per quella bugia; per farsi perdonare la prese per mano, conducendola dentro casa, mentre con l'altra mano chiuse la porta dietro di sé.
Anche se Maxis non ne aveva la più pallida idea, altre forze erano in gioco in quello stesso momento, forze dettate dalla pazzia di un uomo dalla psiche debole, catalizzata dall'odio e dalla rabbia repressa in tanti anni di maltrattamenti dati e subiti, di segreti, bugie e sete di potere, che andava conquistato.
Oltre a tutto ciò c'era anche una buona quantità di scheletri ben riposti nell'armadio; le leggende attorno alla figura di quest'uomo vogliono quegli scheletri con ancora la carne attaccata alle ossa.

 

2

Arrivata la sera, mentre alla fabbrica e al campo iniziava il turno di notte con il cambio della guardia, il Gigante chiuse, e coloro che ci lavoravano tornarono alle loro case; coloro che facevano parte dell'esercito erano di stanza nella caserma della città, coloro che erano invece di piantone per sorvegliare sia il Gigante che il lager potevano usufruire di una caserma interna al campo di concentramento medesimo.
Data l'importanza delle due strutture, un laboratorio segreto e un campo di prigionia, la sorveglianza era strettissima: i soldati si davano il cambio ogni tre ore ed erano tenuti a fare il controllo perimetrale ogni quarto d'ora, per controllare che le spie entrassero o i prigioniero filassero.
Dunque arrivata l'ora i sei soldati di pattuglia si divisero: due rimasero all'entrata, gli altri andarono a fare il giro di controllo in direzioni opposte, seguendo il pesante muro in mattoni a vista; una figura si avvicinò al cancello principale passando a piedi per la strada che collega Breslavia al complesso, notandola i due soldati subito si allertarono: «Achtung - gridò uno dei due puntando la figura, sempre più vicina, con il Kar-98 - questa è una zona militare riservata, indietreggiate o faremo fuoco»
Senza batter ciglio la figura continuò con decisione la sua marcia, alche anche l'altro soldato, più alto e snello del suo commilitone, puntò con il fucile il forestiero in arrivo: «Questo non molla - disse quello alto appoggiando il fucile alla spalla e seguendo con il mirino la figura - siamo costretti a sparare..».
La figura si avvicinò ancora di qualche passo ed alzò il braccio destro: «Heil Hitler!».   
I due soldati si guardarono poco convinti: «Meglio controllare - disse quello basso - non si sa mai...».
L'altro sbuffò: «Vado io, tienilo sottotiro, mi raccomando».
Il soldato più alto si avvicinò alla figura, che apparve anch'essa piuttosto alta: «Chiedo scusa dottore - disse lui sottomesso vedendo il volto dell'uomo - non pensavamo che anche di notte...».
«Limitatevi a sorvegliare il Gigante voialtri, che ai miei affari ci penso già abbastanza io».
«Ho ordine di controllare i documenti, caso mai foste una spia o simili, dovremmo anche sapere il motivo della vostra presenza fuori orario».
La figura sbuffò annoiata: «Devo finire stilare i rapporti da presentare a Gobbels domani mattina, se me lo concedete... altrimenti spiegherete voi al Generale perché non è stato aggiornato sullo stato del nostro lavoro, che è palesemente non di vostra competenza».
L'uomo rimasto nei pressi del cancello abbassò l'arma ad un cenno del commilitone, che rabbrividì; come tanti suoi degni colleghi, Gobbels era in un certo senso il prototipo dell'ufficiale nazista: freddo, esigenze ed estremamente pignolo, veterano di una guerra che aveva annientato completamente l'anima della Germania... finché un Demone non la estirpò sfruttandola per il suo folle ed utopistico piano di dominio assoluto.
In virtù poi della fama che Gobbels vantava, ovvero l'essere intransigente con i trasgressori, i soldati preferivano stargli alla larga il più possibile, evitando comportamenti per cui averlo davanti al naso in un colloquio faccia a faccia.
«E va bene - acconsentì il soldato con la faccia paffuta e crudele di Gobbels stampata nella mente - ma vi prego... fate presto».
«Il tempo che ci vuole soldato, il tempo che ci vuole...».
 
I
soldati aprirono il cancello, formato da due ali chiuse da due spesse catene; con un frastuono metallico i due soldati rimossero faticosamente le catene e tirarono uno dei due lati verso l'esterno, in modo che fosse possibile entrare.
«Grazie, signori» ed entrò nella struttura mentre i soldati richiusero e bloccarono tutto nella speranza che nessuno notasse quello strappo alla regola.
Il cancello era posizionato sotto un arco di mattoni, alla cui sommità era fissata una targa bronzea: "Waffenfabrik - Der Riese".
La figura percorse alcuni metri nel cortile fino a trovarsi nell'area del mainframe, si fermò a contemplarlo, poi spostò lo sguardo verso una porta in acciaio su cui era inciso il simbolo del Gruppo 935: la rappresentazione di un apparecchio elettrico  con della valvole da cui scaturivano dei fasci elettrici circolari, sullo sfondo un ingranaggio sembrava racchiudere quel macchinario.
Era chiaro però che dietro quella porta c'era qualcosa di importante: tutte le porte che collegavano i vari ambienti del Gigante erano pitturate con quel simbolo, ma quella porta recava un segno, simile ad una sbavatura della vernice bianca del disegno per non destare sospetti; il misterioso dottore doveva esserne a conoscenza, perché aveva osservato tutte le porte per cercare quella cui stava davanti, sorrise soddisfatto mentre afferrava la maniglia e tirava orizzontalmente per accedere a ciò che voleva: una stanzino scuro e minuscolo, una sedia di legno, un tavolo di legno, una radio appoggiata su di esso e un lampada ad olio.
Il dottore si tolse il cappello marrone recante uno dei tanti simboli adottati del Terzo Reich (l'Acquila ad ali spiegate), ed il volto di Richtofen si rivelò; il dottore però arricciò subito il naso: la polvere, l'umidità e la pioggia appena cessata dovevano aver dato il loro contributo per riempire lo stanzino di uno strano odore stantio.
"Dovrò trovarmi un nuovo ufficio".
Chiudendo la porta che separava lo stanzino dal resto del Gigante, pensò "Se lassù va come previsto avrò un nuovo lavoro".
"Certo! Certoooh" rantolò una voce.
«Chi è là? T'avverto, non fare scherzi!» disse mentre istintivamente si ritrovò con la Luger d'ordinanza, di solito ben riposta nella fondina,  stretta nella mano destra.
«Chi vuoi che sia? Sono... Te!» rispose la voce.
«La voce! Ancora Tu! Cosa vuoi ancora?» disse Richtofen avvicinandosi a tentoni al tavolo.
«Cosa voglio? Quello che vuoi tu, naturalmente».
«Balle! - Sbottò il dottore - Tu vuoi solo portarmi lassù!» disse fregandosi le mani e accendendo  la lampada quasi bruciandosi con il fiammifero a causa di un improvviso tremolio nevrotico.
«Calunnie, Amico Mio! - disse la Voce con leggerezza - Voglio solo ciò che è meglio per entrambi, e poi sei stato Tu ad Osare di toccarCi!»
Richtofen, vedendo che ora lo stanzino era abbastanza illuminato, seppur in modo tenue, decise di chiudere la porta per evitare problemi, infine si sedette ed accese la radio, che cominciò a gracchiare con il sottofondo di un fastidioso e acuto sibilo.
«Se vuoi ritornare lassù sarà meglio ne valga la pena!» disse afferrando il microfono impolverato e, disse la Voce, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto, girando le manopole nel tentativo di eliminare il maledetto sottofondo.
«Non immagini neppure cosa saremo in grado di fare per mezzo di te, mio Caro Amico».
«
Basta, sei solo la mia fervida immaginazione» disse mentre girava le manopole, alla ricerca della giusta frequenza; peccato la radio non funzionasse.
«Siamo, la tua fervida immaginazione... Ne sei convinto? Da quando hai toccato la Piramide una parte di Noi ora è in Te... Il trasferimento ora deve essere totale!».
«Basta, ho detto!» gridò assestando un pugno verticalmente sul telaio della radio, che si liberò di chissà quanto tempo di polvere adagiata su di esso; incredibilmente anche la voce sparì.
Scrollando la mano per far cessare un leggero dolore alla mano, Richtofen si chiese se anche quella sera sarebbe riuscito a farla franca, non si era ancora abituato a quella voce che ogni tanto saltava fuori dai recessi della sua mente; essa aveva gridato più volte nel corso dell'ultimo periodo, invitandolo ad uccidere, ordinando senza esitazione di far soffrire chi lo sfidava, ma era sempre riuscito a soffocarla... Fino a quando Porter non mise in dubbio le sue conoscenze dell'Ununpentio.
"Dannato 115 - pensò confortato dall'assenza della Voce - sarai la mia fortuna o la mia rovina? Bah, non m'importa!".
Pochi secondi di attesa, che parvero secoli, e Richtofen capì che la fortuna girava, almeno in quel momento, a suo favore; dall'altra parte del collegamento radio, dovunque fosse, una voce profonda e tranquilla rispose:
«Qui Stazione Grifone - disse con la tipica cadenza della parlata tedesca - passo».
Richtofen avvicinò il volto al microfono: «Qui Nido dell'Aquila a Stazione Grifone, ci sono aggiornamenti, Dottor Groph?».
«Temo di no dottore... Abbiamo cercato di capire il funzionamento della macchina, ma fin'ora... Niente! Non riusciamo a capire... Non solo è sigillata, ma reagisce con scariche elettriche al contatto diretto con la cute, dobbiamo controllare più a fondo... Lei invece? Sente ancora quella Voce?».
«Purtroppo sì dottor Groph, oggi durante un esperimento si sono scatenate... Ho paura che non se ne andrà fin quando non avrete finito lassù».
«Appena sapremo qualcosa riferiremo immediatamente dottore... Ora mi scusi se mi permetto ma di quale esperimento si trattava?».
Richtofen fece spallucce: «Un semplice tentativo di teletrasporto, Maxis si aspettava un morto vivente addomesticato, invece si è trovato in mezzo al magazzino di un macellaio!».
Rabbrividì pensando all'immagine delle interiora di quel prigioniero sparse ovunque, e di quanto a quella vista, in quel momento, godette.
«Capisco - disse Groph - Forse la chiave non è l'elettricità... Ma l'Elemento stesso... Avete provato con l'irradiamento diretto?».
«Purtroppo no - rispose Richtofen con dispiacere - Non abbiamo abbastanza Elemento...».
«Non si ricorda di
« quel frammento nel Pacifico? - chiese Groph - Se non sbaglio da quelle parti c'è un avamposto...»
A quelle parole un lampo gli attraversò il cervello, e si ricordò di un dettaglio che era rimasto in letargo nella memoria fino ad allora.
«Dottore, la prego di perdonarmi, ma mi sono reso conto di qualcosa di importante che non avevamo ancora considerato... Tornate al lavoro e buona fortuna, Nido dell'Aquila, chiudo».
«D'accordo Nido dell'Aquila, proseguiremo con gli esperimenti... Mi rifarò vivo io nel caso di aggiornamenti... Stazione Grifone - annunciò sospirando - passo e chiudo».
Quindi la radio si spense con uno scatto sordo, e calò il silenzio; Richtofen si lasciò andare sulla sedia, che scricchiolò minacciosa, ed abbandonò il suo sguardo alla fiammella della lampada, che ondeggiava nel vetro in modo ipnotico.
«Bene, bene - disse la Voce - Adesso sì che si ragiona... Quando hai intenzione di mettere in atto il nostro schema? Eh?! Eh?!».
«Non ti riguarda - l'ammonì - Prima dobbiamo verificare un dettaglio, poi si vedrà».
«Ooooh - disse la Voce con stupore, come se avesse visto un oggetto prezioso - Non mi avevi ancora mostrato questo nei tuoi pensieri...».
Richtofen, forse inconsciamente, sorrise in modo beffardo, nella penombra.

 

3

Nel momento in cui Maxis abbracciava sua figlia e Richtofen guardava la fiamma ardere nella lampada ad olio, un brivido corse sulla schiena di entrambi, portandoli sulla macchina del tempo più efficiente che l'uomo avesse mai costruito: i ricordi...
Essi li trasportarono indietro nel tempo... A quando tutto, nel bene e nel male, ebbe inizio.

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