Il ragazzo della città dei ponti

di Natalja_Aljona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Utcái fiúk - Ragazzi di strada ***
Capitolo 2: *** A Nyomda - La Stamperia ***



Capitolo 1
*** Utcái fiúk - Ragazzi di strada ***



Il ragazzo della città dei ponti


Uno

Utcái fiúk - Ragazzi di strada


Debrecen, Provincia di Hajdú-Bihar, Ungheria Orientale

13 Dicembre 1847


Si diceva che mettesse i brividi, il ragazzo della città dei ponti.

Era un rivoluzionario, ma uno dei più selvaggi, di quelli che sarebbero anche passati sul cadavere della propria madre, per quella Forradalom tanto agognata.

Era un rivoluzionario dei più spietati, ma i teppistelli di Duna Sugárút non lo temevano affatto.

Nessuno sapeva dire quanti anni avesse, il ragazzo della città dei ponti.

C'era chi lo credeva un ragazzino, chi addirittura un giovane uomo.

Di anni avrebbe potuto averne quindici o ventitré come centoquattordici, ma i teppistelli di Duna Sugárút gli avrebbero insegnato a stare al suo posto.

Non c'erano leggi precise, nella periferia di Debrecen.

Forse, solo una parola, Forradalom, ripetuta ad ogni passo dalle suole bucate degli stivali della stagione passata, nello scroscio costante e familiare del Danubio, gridata contro il vento dai ragazzi di quel vicolo stretto stretto ch'era un po' la leggenda, lo storico suolo dei rivoluzionari di Debrecen.

A Duna Sugárút non contava come ti chiamassi, se avevi il nome di un principe o di tuo nonno erbivendolo o pescatore, se avevi il nome di tua madre o della figlia dello zar di Russia.

La cosa più importante, l'unica che veramente avesse valore, in quel fazzoletto di città, in quell'angolo di periferia dove non batteva il sole, era vivere in nome della Forradalom, la Rivoluzione.

Dùnja Geréb, per esempio, sapeva di non essersi sempre chiamata Dùnja.

Era quasi certa che all'anagrafe, e forse addirittura anche tra le amiche di sua madre, qualcuno la conoscesse ancora come Anasztázja, poiché codesto era il nome di sua nonna, della sua bisnonna e di qualche altra trisavola a caso, e suo padre non era mai stato famoso per la fantasia, ma se a Duna Sugárút qualche povero illuso, magari anche in buona fede, avesse chiesto di Anasztázja Geréb, avrebbe certamente trovato chi non si sarebbe fatto problemi a mandarlo al diavolo.

In Russia Dùnja era il vezzeggiativo di Avdotja, e una volta uno sventurato dei quartieri alti aveva pure provato a chiamarla così, ma oltre ad uno sputo in un occhio non aveva ottenuto reazioni da parte della ragazza.

Nonostante la Russia fosse il suo sogno e suo padre vi lavorasse da più di dieci anni, la piccola Geréb vi aveva messo piede solo tre o quattro volte in tutta la sua vita.

I teppistelli di Duna Sugárút l'avevano sempre chiamata Dùnja per la Duna, il nome ungherese del loro caro Danubio, il fiume ch'era la luce dei suoi occhi, più ancora del meraviglioso Lago Balaton, il fiume sulle cui rive aveva raccolto catini d'acqua da far bollire o per lavare i piedi la sera, il fiume sulle cui generose e materne sponde aveva riposato quando, ad affitto scaduto, il signor Leszik l'aveva buttata fuori di casa con mamma, papà e fratelli.

A Dùnja non era che importasse un granché, di questo fantomatico ragazzo della città dei ponti -semmai le importava di Budapest, la Capitale, di cui era innamorata fin da bambina-, ma una cosa era certa: se aveva intenzione di arrivare al banco di Nándor Dénes, giovane originario di Győr con la passione per i dolci, a comprare la sua quotidiana stecca di croccante -e guarda caso era proprio quello che voleva fare-, avrebbe dovuto passare davanti a lui.

Nándor Dénes le aveva già sorriso, avendola vista pensierosa sui gradini di casa, e le stava facendo segno di avvicinarsi.

Il suo croccante era rinomato, a Duna Sugárút, ma lei si alzava sempre talmente presto che un bel pezzetto di quella prelibatezza alle nocciole avvolto frettolosamente in un foglio di carta stagnola, poiché a quell'ora del mattino, in genere, Nándor Dénes aveva appena finito d'imbandire la sua bancarella, lo doveva per forza trovare.

-Come fa di cognome?- domandò con discrezione a Mitrej, il suo vicino di casa russo, ch'era giusto giusto uscito sulla soglia di casa ad attendere il padre di ritorno dalla miniera.

-Csónakos- rispose a bassa voce Dmitrij Romanovič, badando bene di non farsi notare dal diretto interessato.

Dùnja annuì con estrema compostezza, guardando il giovane che si stagliava nella penombra mattutina del cuore un po' tenero un po' rude della periferia di Debrecen.

Era grande, Debrecen, anche se non come Budapest.

Era grande, la città, la città vera, ma la periferia, il cui massimo, misero splendore era raggiunto a Duna Sugárút, era un altro mondo.

Il suo.

-Csónakos come?-

-Il suo nome non lo sa nessuno- l'informò Mitja, con un'aria tanto cospiratoria che Dùnja non seppe trattenersi dallo scoppiare a ridere.

Con molta cautela ruotò la testa in direzione del ragazzo della città dei ponti, guardandolo con sospetto.

-Dùnjetshka!- la riprese Mitrej, spaventato da tanta sfacciataggine nei confronti del nuovo, inquietante arrivato, usando il vezzeggiativo di quando era alta quanto il tavolo della cucina.

-Cosa vuoi che pensi, ad essere scrutato a quel modo?-

-Non lo so, ma...possibile che nessuno ne conosca il nome?-

-Sai come sono Fëdor e Aleksej- sospirò il ragazzo, facendo il saluto militare nel pronunciare i nomi degli eroi indiscussi di Duna Sugárút.

-Non chiamano nessuno, loro... Sono gli altri ad andarli a cercare, e mai a testa alta-

Dùnja alzò gli occhi al cielo.

Fëdor e Aleksej erano degli scapestrati fatti e finiti, ma per un' assurda -e indubbiamente discutibile- combinazione di stelle, erano anche due dei suoi più cari amici.
Li conosceva più dei riflessi del Danubio, ed erano della stessa pasta di Ìmir e Baldr, i suoi fratelli maggiori.

Sospirando, fece per fare un passo in direzione della bancarella di Nándor Dénes, ma fu costretta a fermarsi: il ragazzo della città dei ponti s'era avvicinato alla sua meta e pareva proprio essersi piantato lì, davanti al regno del croccante, evidentemente senza la minima intenzione di spostarsi.

-Ma guardalo! Se ne sta lì immobile, come un cretino...- protestò, tormentando una ciocca dei capelli biondi che non tagliava da una vita e che costantemente sua madre le acconciava nella treccia che ogni giorno si divertiva a sciogliere durante la strada per la Stamperia.

Erano il marchio di fabbrica delle ragazze Geréb, quei capelli.

Di un biondo chiaro ereditato tutto da suo padre -ma anche dalla mamma e dalla nonna, originarie di Presburgo, l'antica capitale del Regno d'Ungheria-, indecentemente lunghi e meravigliosamente spettinati.

Sua madre, che pure non era da meno, era soggetta a vere e proprie crisi isteriche, quando non li legava, e più di una volta le aveva gridato dietro: "quando te li calpesterai sarai contenta, immagino!".

Ma di questo, se mai fosse successo, avrebbe dovuto parlare con nonna Eireann, l'unica che aveva davvero rischiato di calpestarseli, e che era tuttora la quarantatreenne più affascinante e la "ragazza" più ammirata di Debrecen.

-Secondo me è un cretino- commentò Dmitrij, serio serio -E la Rivoluzione la vuole fare solo per dimostrare che non tutti i rivoluzionari sono intelligenti-

Dùnja scompigliò affettuosamente i capelli scuri dell'amico, sebbene quest'ultimo avesse due anni più di lei.

-Parla per te, Mitja-

-Lascia stare Mitrej e prendi un po' di croccante anche per noi, Dùnjetshka- l'interruppe l'accento polacco e la voce fin troppo sicura di sé di Fëdor Rájk.

Biondissimo, malauguratamente diciassettenne -i ragazzi più grandi erano sempre insopportabili, a detta della piccola Geréb- e originario di Cracovia, "il ragazzo dalle vanaglorie di capo di Duna Sugárút", come Dùnja era solita chiamare Fëdor, le aveva messo in mano una manciata di fillér, più allegro che mai.

Accanto a lui, un po' più scuro di capelli, diciannovenne -ma non si vedeva neanche un po'- e nato a Brno, Aleksej Doroevskij le sorrideva, serafico.

-Ecco Castore e Polluce- sbuffò la ragazzina, ma era evidente che la presenza dei due la preoccupasse non poco: se loro erano già in piedi, allora anche i suoi terribili fratelli dovevano essere lì lì per svegliarsi!

E i suoi terribili fratelli, si sapeva, erano ghiotti di croccante.

-Devo riuscire a precedere Ìmir e Baldr!- fece presente ai tre baldi giovani presenti, per poi correre verso la bancarella di Nándor Dénes.

-Sbrigati, però!- le gridò dietro Fëdor, battendosi una mano sullo stomaco.

In quel momento Dùnja aveva una voglia incredibile di lanciare i suoi fillér nel Danubio, girarsi e fargli una linguaccia, ma c'era davvero il rischio di non trovare più croccante, così si costrinse a contenersi.

E, com'era prevedibile, si trovò davanti il ragazzo della città dei ponti.

Inizialmente sussultò, poiché il giovane di Budapest, pur non essendo particolarmente imponente, le sbarrava completamente il cammino, ma poi l'orgoglio e la fame vinsero su qualsiasi forma di soggezione.

Nonostante l'aria apparentemente malinconica, l'altezza non esattamente degna di nota ed il fisico esile e provato dalla povertà, il ragazzo aveva il sorriso più apertamente sfacciato che Dùnja avesse incontrato sui volti dei ragazzi di Duna Sugárút.

Nemmeno Fëdor -ed era tutto un dire- era mai arrivato a tanto!

Sembrava proprio incurante del mondo, il ragazzo della città dei ponti.

Sorrideva a chissà chi, sorrideva al cielo, più che altro, con gli occhi persi e perdutamente grigi, ebbe modo di notare Dùnja.

I capelli erano neri e folti e, Dùnja ebbe un moto di simpatia verso il giovane, nell'accorgersi di questo particolare, irrimediabilmente spettinati.

Stava giusto per chiedergli di spostarsi, quando il ragazzo della città dei ponti starnutì.

Fëdor scoppiò a ridere di gusto, tenendosi le mani sul panciotto mal stirato, senza alcun contegno.

Poco ma sicuro, quella sera tutti i ragazzi di Duna Sugárút avrebbero saputo che "Dùnjetshka aveva fatto starnutire il ragazzo della città dei ponti".

-Conosci quel ragazzo?- le domandò inaspettatamente il giovane, stiracchiando un mezzo sorriso apparentemente amichevole.

-Oh, Fëdor? Certo che lo conosco. Comanda lui, qui. Si chiama Fëdor Rájk, ed è polacco. E' un mezzo delinquente, ma basta guardarlo, del resto. E' simpaticissimo, ma insopportabile. So che può sembrare incoerente, ma...credimi-

Senza che nessuno glielo chiedesse -e soprattutto senza aspettare reazione alcuna da parte del suo interlocutore-, Dùnja continuò il discorso, come se stesse parlando da sola:

-Mi ha chiesto di essere la sua fidanzata, quando avevo sette anni, ma poi lui mi ha pestato un piede, io gli ho sputato un occhio, lui mi ha tirato i capelli, e...-

-Non è finita bene, insomma-

-Non esattamente. Ma guardalo! Ti pare uno che può farle finire bene, le cose?-

Il ragazzo della città dei ponti scosse la testa, divertito.

Scrutandolo con crescente curiosità, Dùnja dedusse che doveva essere stato un giovane di bell'aspetto, chiaramente prima di cadere nel Danubio -poiché questa era l'impressione che dava-.

Non di una bellezza irriverente come quella di Fëdor, ma un certo fascino doveva averlo avuto, quantomeno nella sua città d'origine.

-Sembri il moro di Venezia- pensò ad alta voce, guardandolo con più attenzione.

Il ragazzo si accigliò.

-E' un complimento?-

-Non so. Poi ha soffocato la moglie sotto un guanciale, Otello, ma a me stava abbastanza simpatico. Me l'ha detto mio fratello Baldr: lui l'ha letto-

"Il moro di Budapest" pareva confuso.

-Cosa?-

-L'Otello-

-Gli ha letto la mano?-

-Il libro! E'...bello, credo-

Il giovane annuì, serio.

-Lo penso anch'io-

-Bene...- Dùnja sorrise, pregustandosi il "potresti spostarti, adesso?" che aveva sulla punta della lingua, ma lui la precedette.

-Mi chiamano Csónakos. Ed io lo so, perché mi chiamano Csónakos. E' il cognome di mio padre, quindi anche il mio-

-Già...- le sembrava un ragionamento logico, ma preferì non offenderlo.

Perlomeno non era come Fëdor, che la prima volta che l'aveva vista, sebbene fosse pressoché in fasce, non aveva esitato a chiederle due forint e cinque fillér per comprarsi un pezzo di focaccia al rosmarino.

Il giorno dopo le aveva chiesto di sposarlo, ma doveva averlo detto per scherzare, perché subito dopo le era scoppiato a ridere in faccia, e le aveva chiesto altri quattro forint.

Lanciò uno sguardo distratto all'oggetto dei suoi pensieri, che la stava maledicendo in polacco per la sua dannata abilità nel perdere tempo, per di più davanti alla bancarella del croccante.

-Com'è Budapest?- chiese d'un tratto, curiosa.

Sebbene il suo interlocutore non le paresse particolarmente sveglio, era maledettamente curiosa di sapere com'era cambiata la sua amata Capitale.

Il ragazzo della città dei ponti posò su di lei uno sguardo scintillante, quasi febbricitante.

Dùnja dimenticò il croccante, nel muto rancore e nella sfida che brillava negli occhi di Csónakos.

-Troppo bella per rimanere in mano agli Asburgo-



Note


Forint: Fiorini ungheresi.

Fillér: “Centesimi” di fiorini.

Presburgo: Attuale Bratislava, capitale della Slovacchia. Fu la Capitale del Regno d'Ungheria prima di Budapest.

Duna Sugárút (ungherese): Letteralmente, “Viale Danubio”, strada di mia invenzione.


Ho sempre desiderato ambientare una storia in Ungheria, sempre.

Da quando ho letto I ragazzi della via Paal, innamorandomene follemente, l'Ungheria è uno dei miei scenari preferiti.

Molti dei cognomi dei personaggi (per adesso Geréb, Csónakos e Leszik), infatti, sono citazioni del sopracitato romanzo, la mia Bibbia di nomi e cognomi ungheresi ;)

Il nome Dùnja Geréb, per esempio, nasce dall'Avdotja “Dùnja” Romanovna Raskòlnikova del meraviglioso Delitto e Castigo di Dostoevskij (a cui ho “dedicato” il personaggio di Fëdor, anche se in comune hanno solo il nome, e Aleksej, da Aleksej Karamazov) e Dezsö Geréb dei Ragazzi della via Paal.

La città dei ponti è Budapest, la meravigliosa Budapest, durante la Rivoluzione Ungherese del 1848.

Sperando che questo capitolo vi sia piaciuto, lascio a voi la parola! ;)


A presto,
Marty



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Capitolo 2
*** A Nyomda - La Stamperia ***



Due

A Nyomda - La Stamperia


Se c'era qualcosa di cui i ragazzi di Duna Sugárút davvero non potevano fare a meno, quello era la Stamperia.

L'Antica Stamperia di Debrecen, che un po' cadeva a pezzi e certi giorni era tenuta in piedi soltanto da loro, i piccoli eroi che ci trovavano un mondo, tra le mura di quello che -nessuno ricordava con esattezza da quando, così preferivano pensare che non ci fosse stato un inizio vero e proprio, ma una storia destinata a sfidare l'eternità- era da sempre il loro Quartier Generale.

Quando era nata Dùnja era già stata "liberata", la Stamperia, ma Fëdor, che era più grande di lei di sei anni, un giorno le aveva fatto leggere il Diario di Guerra di Isaakij Rájk, suo fratello maggiore, il primo documento che i ragazzi di Duna Sugárút avessero mai stampato.

Isaakij adesso lavorava tutto il giorno giù alla miniera, e quando tornava a casa aveva giusto la forza di tirare giù dalla sua stellina un po' triste un sorriso stanco che, con quella curva un po' amara nel bel viso stravolto, riempiva sempre tutti di malinconia.

Una volta gliel'aveva chiesto, Dùnja, perché, se il lavoro in miniera lo rendeva tanto triste, continuasse ad andarci.

Aveva riso, quel giorno, Isaakij, e Dùnjetshka, al pensiero che ridesse di lei, che la stesse prendendo in giro, s'era tanto dispiaciuta che l'aveva lasciato lì, con i piedi in ammollo nel Danubio e la sua canna da pesca in mano, che le aveva riportato Fëdor il giorno dopo.

Ma forse era davvero troppo triste e stanco, Isaakij Rájk, quel giorno, per risponderle.

Forse non poteva davvero fare a meno di lavorare in miniera, e lei non l'aveva capito.

"Del resto, tu sei la figlia di Jànos Geréb, l'astronomo a tempo perso. Lui fa così, per difendersi, per star meglio, per non disimparare a sognare. Ma lo sai, tu, che laggiù in Russia, dove lavora, scende anche lui in miniera, che è per questo che ha sempre le mani nere di fumo, quando torna a casa, ed è per questo che tua madre lo abbraccia così forte, quelle sere? Lei non vorrebbe vederlo andare via e lui, se potesse, resterebbe!

Ma non lo sai, tu, perché non può restare, perché poi ci torna sempre, laggiù nelle miniere dei Carpazi, perché quando ti bacia ti fa sempre il solletico con quella barba ch'è grigia come il carbone per cui scava, e quanti anni ha, tuo padre? Come dici? Non sai ancora contare? Ma certo. Sei una bambina, tu. Ne deve fare ventisette? Ecco: l'hai visto. Io non sono come lui, però. E' coraggioso, tuo padre. Io non ce la faccio".

No, lui non ce la faceva.

Anche lei ce l'aveva, una stellina a cui aggrapparsi, ma era un po' acerba, la sua, ma ci trovava la forza di scherzare con Fëdor e gli altri, di ricacciare indietro le lacrime, e le bastava, le bastava.

Ad ogni modo, Isaakij Rájk era stato il primo a scrivere per la Stamperia, uno dei pochi che sapeva scrivere, tra i ragazzi di Duna Sugárút.

Lui, nel suo Diario di Guerra del 1833, aveva raccontato della loro lotta contro chi la Stamperia la voleva buttare giù, contro chi diceva che, tanto, ormai non serviva più a niente.

Poi era arrivato il 1837, Isaakij aveva compiuto tredici anni ed era sceso in miniera per la prima volta, e alla Stamperia un po' aveva dovuto dire addio, ma ogni volta che riusciva a tornarci, anche solo a fermarsi per un attimo a guardarla da lontano, gli brillavano gli occhi.

I ragazzi di Duna Sugárút non avrebbero saputo dove andare, se, tutt'un tratto, non ci fosse più stata la Stamperia.

Alla Stamperia, gli undici anni di Dùnja si confondevano un po' con i ventitré di Isaakij, nessuno pensava più all'età, tra le mura della Stamperia.

Ognuno aveva qualcosa da dire, all'Antica Stamperia di Debrecen.

C'era Isaakij che parlava della miniera, quando poteva, e Mitrej che un giorno aveva levato un pugno al cielo, gridando: "qui bisogna fare qualcosa!" e Fëdor che gli aveva messo una mano sulla spalla ed aveva lasciato cadere nell'aria una domanda, un triste: "e cosa, amico?", con quel suo sorriso che spezzava il cuore.

Qualche volta si stampava anche, alla Stamperia, ma solo quando c'erano Isaakij e i ragazzi più grandi, che in genere lavoravano tutto il giorno, che sapevano leggere e scrivere e provavano a insegnarlo agli ultimi arrivati, con risultati così buffi che si finiva per ridere sempre tanto, alla Stamperia.

Un giorno Fëdor era arrivato con un sorriso strano, ed era cambiato tutto, alla Stamperia.

Avevano parlato del ragazzo della città dei ponti e degli Asburgo che occupavano Budapest.

Era finita con un pugno battuto sul tavolo e coi capelli biondi di Fëdor che, un poco scomposti dal vento che entrava dalla porta miseramente ridotta, gli davano quell'aria da patriota settecentesco ch'era proprio quello che serviva.

Era meraviglioso il modo in cui Fëdor, Isaakij ed i Rájk avevano preso a cuore l'Ungheria, pur essendo piuttosto fieri delle loro origini polacche.

Era finita con un "chi è con me metta una firma qui!" e con il respiro mozzato di Dùnja e l'aria di lacrime trattenute, perché lei la firma proprio non la sapeva fare.

Era finita con Fëdor che aveva guidato la sua mano sul foglio un po' ingiallito dal tempo che non perdonava e poi le aveva sorriso in quel certo modo un po' speciale che era come una specie di solletico al cuore, era finita che il tempo non poteva certo aspettare loro, che un po' non sapevano scrivere e un po' non capivano dove dovessero firmare, e che alla fine era bastata la parola, ad una sola voce, dei ragazzi di Duna Sugárút, era finita ch'era cominciata la Forradalom.

Ora bisognava dirlo al ragazzo della città dei ponti, però!

Fëdor era troppo orgoglioso, Aleksej era peggio ancora ed entrambi avevano preso a dare tante di quelle gomitate a Dmitrij che il povero ragazzo era ormai lì lì per acconsentire, giusto per non divenire tutto un livido.

Eppure era stato il ragazzo della città dei ponti, alla fine, ad andare da loro.

Per una questione di cavalleria, sarebbe stato suo dovere presentarsi subito a Fëdor, ch'era il capo, ma forse nella città dei ponti la cavalleria era relativa, perché Csónakos aveva preferito incontrarli in gruppo.

Li aveva colti di sorpresa, aspettandoli appena fuori dalla Stamperia.

E questo, forse per una questione d'orgoglio, di rispetto o, appunto, di cavalleria, ai ragazzi di Duna Sugárút non era piaciuto affatto.


-Conoscete i piani di Lajos Kossuth?-

Il ragazzo della città dei ponti era lì, davanti all'insegna consumata dagli anni.

Fëdor Rájk teneva una mano sulla porta, su quel "Régi Nyomda Debrecenben" che si leggeva ancora per miracolo, in un istintivo gesto di difesa della loro cara Stamperia.

Dalla compatta schiera dei ragazzi di Duna Sugárút si levava un leggero brusio, la confusione e l'agitazione di essere stati "scovati" proprio nell'uscire dal loro Quartier Generale.

La domanda di Csónakos era rimasta nell'aria, e a Fëdor ancora pareva d'udire l'inflessione della voce, impassibile proprio come il ragazzo, che lo sfidava apertamente con lo sguardo, come a prendersi gioco di lui.

In un moto d'incontrollabile ira e frustrazione, forse solo per non rimanersene lì, immobile, con le mani in tasca e lo sguardo d'un tordo cascato dal ramo, afferrò Dùnja per la treccia e le tirò uno schiaffo.

-Perché gliel'hai detto?-

-Non gliel'ho detto!- protestò la ragazzina, strofinandosi la guancia con il dorso della mano, con il cuore che ancora le batteva forte per la reazione inaspettata del suo amico.

-Nessuno ci ha parlato a lungo quanto te-

-Ma non gli ho parlato di questo- replicò, testarda -E tu...-

-Sta zitta, Dùnja, per carità-

-Tu sai ragionare solo con la violenza- continuò lei, sprezzante.

-C'è un altro modo, forse? Dùnja, qui si muore di fame. Se scopro che mi si vuole portare via l'unico che posto in cui c'è un po'...un po' d'umanità...-

-Lui non ci vuole portare via niente, Fëdor!-

-Sei stata tu?-

Il giovane polacco ripeté la domanda con estrema lentezza, ed una voce così bassa che le fece quasi paura, da tanto che era irreale.

-No!-

Negli occhi chiari di Fëdor, in cui aveva visto passare, un tempo, anche la dolcezza, ora c'era solo una grande tristezza.

Oh, ma era così...esagerato!

Come poteva...?

Si era sempre fidato di lei, Fëdor.

Anche lei ci teneva tanto, troppo, alla Stamperia.

E lo sapeva, lui.

Quanto al ragazzo della città dei ponti, non lo conosceva affatto.

Doveva averli seguiti, ma non sembrava avere cattive intenzioni.

-Mi dispiace, Dùnjetshka-

Fëdor Rájk la salutò con una tenerezza insperata, un buffetto sulla guancia e un sorriso un po' mesto e un po' severo, poi fece un cenno ad Aleksej, che incominciò a guidare i ragazzi alle porte di Duna Sugárút, alle spalle della Stamperia.

-Ma qual è il problema?- gli gridò dietro Dùnja, ma oltre a quel sorriso triste non ottenne niente, dal suo vecchio amico polacco, dal suo Fëdor Rájk, sempre così irragionevole e impulsivo, sempre così, sempre così...

Il ragazzo della città dei ponti, ch'era rimasto in silenzio fino a quel momento, la osservava con occhi dispiaciuti.

-Mi hanno scambiato per un invasore, vero?-

Dùnja scosse la testa, un po' sbuffando un po' ferita.

-Sei così strano, tu... Così diverso da Fëdor, che le cose te le dice in faccia, così... A volte fai quasi paura-

Csónakos spalancò gli occhi, un po' sorpreso un po' divertito.

-Io?-

-Perché sei venuto qua? Non ci viene mai nessuno, alla Stamperia. Saremmo venuti a cercarti noi, stavamo per venire a cercarti noi... Adesso ti vedono come un nemico, loro, e prima di domani li avrai tutti contro, li conosco, io... Non ci viene mai nessuno, qui, se non per dichiarare guerra a noi... E noi non possiamo permetterci di perderla un'altra volta, la Stamperia-

Il ragazzo della città dei ponti pareva seguire il discorso, ma come Dùnja terminò, strappandosi il nastro dai capelli con un gesto di rabbia, se ne uscì con una domanda del tutto incoerente con l'argomento, che lasciò la piccola Geréb ancora più perplessa.

-Quanti anni hai?-

Gliel'aveva chiesto con una curiosità un poco sfociante nell'impertinenza, a cui Dùnjetshka rispose con uno sguardo di sfida.

-Dodici-

Csónakos parve sospettoso.

-Li hai già compiuti?-

Dùnja sospirò.

Compiere gli anni la notte del 31 Dicembre non era una cosa particolarmente simpatica.

Scosse la testa, ma di abbassare lo sguardo non se lo sognava nemmeno.

-Io ne ho sedici-

La piccola Geréb si morse il labbro inferiore, non troppo entusiasta della scoperta.

Ora non solo avrebbe avuto l'ennesima prova della leggendaria presunzione dei ragazzi più grandi, ma, avendo Csónakos un anno in meno di Fëdor, orgoglioso come pochi, il capo di Duna Sugárút non l'avrebbe mai ascoltato.

-Sei uno scriccioletto, tu- aveva continuato lui, con un sorriso un po' tenero un po' incomprensibile.

-Proprio piccola piccola. Ma sei abbastanza simpatica-

Dùnja sgranò gli occhi, i suoi begli occhi di quell'azzurro chiaro per cui li avevano sempre scambiati per fratelli, lei e Fëdor.

Non lo capiva, il ragazzo della città dei ponti.

Fëdor se n'era andato, e adesso anche i suoi amici di una vita, forse, avrebbero cominciato a dubitare di lei.

A cosa le serviva essere "piccola piccola, ma abbastanza simpatica"?

E poi...piccola piccola? Sarà stato grande lui!

-Senti, tu... Tu li conosci, i piani di Lajos Kossuth?-

L'aveva già sentito nominare, Dùnja, quel Lajos Kossuth.

L'aveva chiesto anche a Fëdor e agli altri ragazzi, quello Csónakos, e pareva proprio deciso ad ottenere una risposta.

-Non li conosce neanche Fëdor...-

-Tu li conosci?-

-No- ammise, e le era costato tutto il suo orgoglio.

Lui annuì con un sorriso lieve lieve, ma sul suo volto non parevano esserci tracce di scherno.

Fece scivolare dalla manica del cappotto un foglio ripiegato più volte, visibilmente stropicciato.
Come cadde ai suoi piedi si chinò a raccoglierlo, dopodiché glielo mise in mano.

-Dallo al tuo capo-

Dùnja annuì, anche se un poco confusa.

-Tu non ce l'hai, un capo?-

Lui scosse la testa, sorridendo malinconicamente.

-E chi ascolti, quando non sai cosa fare?-

Csónakos non lo doveva sapere, ma, a pensarci bene, a volte neanche Fëdor, che teoricamente era il suo capo, sapeva cosa fare.

-Ascolto la voce di Budapest-

-E cosa dice, adesso?-

-A Forradalom ami beszél ég, mi megcsináljuk minket-

Dùnja sorrise.

Non le avrebbe mai dimenticate, quelle parole.

La Rivoluzione di cui parla il cielo, la faremo noi.


-Ehi, Csónakos...-

Il ragazzo della città dei ponti la guardò, in attesa.

-Come ti chiami?-

Non ricevendo risposta, e infastidita da tale silenzio, gli voltò le spalle e fece per andarsene.

-Dùnjetshka!-

La ragazzina si voltò, guardandolo un po' storto.

-Vuoi sapere come mi chiamo?-

Nonostante tutto, Dùnja continuava a morire di curiosità.

-Beh...dimmelo, se vuoi-

Il ragazzo della città dei ponti sorrise, forse intenerito dalla sua diffidenza forzata.

-Njörðr. Njörðr Csónakos-

Dùnjetshka socchiuse gli occhi, cercando di ricordare i racconti di suo fratello Baldr, che, chiamandosi come il dio della luce, era piuttosto informato in materia.

-E' il dio del mare della mitologia norrena, vero?-

Njörðr Csónakos rise, annuendo.

-Non gli somiglio neanche un po'-

La fanciullina lo guardò attentamente, pensierosa.

-Insomma, non somigli molto a un dio in generale. Ma sei più ragionevole di Fëdor. E poi tu...-

Dùnja sorrise, cominciando ad allontanarsi.

-Sei il ragazzo della città dei ponti-

-Sono cosa?-

Con una corsa Dùnja raggiunse Duna Sugárút, preparandosi ad affrontare Fëdor e gli altri, dopodiché ripeté, stavolta gridando:
-Sei il ragazzo della città dei ponti!-

Solo allora si voltò.

Sorrideva anche lui.




Note


Régi Nyomda Debrecenben (ungherese): Antica Stamperia di Debrecen.

Ed ecco il secondo capitolo! ;)

A Nyomda, La Stamperia, Régi Nyomda Debrecenben, l'Antica Stamperia di Debrecen, il Quartier Generale dei ragazzi di Duna Sugárút.

Il secondo incontro tra Dùnja e Csónakos, Njörðr Csónakos.

Ci ho pensato tanto, al nome da dargli, ma Njörðr...insomma, gli si addice. ;)

E' entrato in scena Isaakij, il fratello di Fëdor, personaggio a cui sono particolarmente affezionata, e lo stesso Fëdor ha il suo ruolo, un po' positivo e un po' no, in questo capitolo.

Ma è un ragazzo particolare, Fëdor.

Non è cattivo, ma...è tutto difficile, per lui.

Si capirà meglio nei prossimi capitoli, il suo personaggio.

Poi c'è Jànos Geréb, il padre di Dùnja, forse uno dei personaggi più positivi della storia, che presto entrerà in scena di persona.

E infine c'è Lajos Kossuth, Lajos Kossuth che è stato davvero il capo della Rivoluzione Ungherese del 1848, e che ha guidato il popolo magiaro -ungherese- verso l'Indipendenza dagli Asburgo, e che ha anche una statua in Hősök tere -Piazza degli Eroi-, a Budapest.

C'è la Rivoluzione che è alle porte, e ribalterà davvero tutto, questa Rivoluzione.

Per oggi è tutto, mi pare. ;)

Questo capitolo lo dedico alla mamma, perché oggi è il suo compleanno e perché...se lo merita, ecco! ;)


Grazie a tutte per le recensioni e a presto!

Marty

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