Lullabies - L'Arte della Rosa

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Glicine ***
Capitolo 2: *** Narciso ***
Capitolo 3: *** Rosa ***
Capitolo 4: *** Giglio ***



Capitolo 1
*** Glicine ***


Questo scritto è di mia unica proprietà; è pertanto Vietato copiare/riportare/tradurre altrove questo (integrale, sue parti, i personaggi etc etc) senza il consenso dell’autrice (ovvero la sottoscritta)! Nessuno vorrà farlo, ma è sempre meglio prevenire! ;)  



 

 
 
 
Ricordo la mia vecchia vita.
 
Sembrano passati secoli da quella ragazzina, da quella casa. Non ricordo il nome del mio paese, né quello di mia madre o di mio padre.
Ricordo invece i luoghi, chiari come se potessi ancora percorrerli. Ogni viale, ogni siepe, ogni casa.
La mia, più di tutte.
C’era un parco, e passeggiandovi il nitrito dei cavalli e l’abbaiare dei cani erano l’unico rumore di vita, di realtà.
Il vento inframmezzava ogni cosa, un vento freddo e persistente. Soffiava dalle montagne, portandosi dietro l’eco dell’Inverno eterno ed il sapore di una terra lontana, appena oltre i monti.
Ha accompagnato tutta la mia vita, quel vento.
Ricordo le corse nei corridoi, e come questi mi spaventassero: nei nostri quartieri, la servitù era ammessa solo quando noi non eravamo presenti e per tutta la mia vita non ho visto altro che ombre e solitudine.
La nostra ala della casa era la più silenziosa; talvolta, il vento soffiava così forte che mi pareva che cantasse, una litania senza ritmo in una lingua arcaica, selvaggia e prepotente, che premeva sulle finestre, urlando di lasciarla entrare. Il canto di una banshee o di una sirena, a volte di una strega; se l’avessi ascoltato, ne ero certa, sarei naufragata, perdendomi senza più poter tornare indietro. Allora avevo paura e correvo finché il cuore non mi scoppiava nel petto - correvo cercando mio padre, mia madre.
Allora piangevo. 
Ero una bambina con la testa piena di leggende e paure; una ragazzina sola.
Smisi presto di farlo. Cercare le carezze dei miei e piangere, intendo.
Crebbi.
Per il mio quattordicesimo compleanno mio padre mi regalò un’ala della casa e mia madre l’arredò, corredando ogni stanza di tutto ciò che una giovane donna può desiderare.
«Niente più balocchi, niente più bambole, principessa del nostro cuore.» mi disse mia madre, altera e distante come sempre era stata, come fu fino alla fine. Chiusero la mia vecchia camera e non mi fù più permesso entrarvi.
Avevo paura di farlo, in realtà.
Al posto dei giochi, ottenni le Muse.
Accanto alla mia stanza da letto ne trovai una con un caminetto, un tavolo per il ricamo, un pianoforte a coda coi tasti in avorio, un cavalletto in legno rosso ed uno specchio.
Perfezionai tutte le mia Muse, imparando a danzare, cantare, suonare e ricamare con maestria prima di abbandonarle.
Solo la pittura rimase. La mia Arte, la chiamavo, dilettandomi a dipingere qualunque soggetto, bramosa di perfezionarmi, di superare ogni mio limite.
Dipingevo fiori, mentre io stessa sbocciavo.
Ricordo la mia adolescenza con chiarezza, il mio corpo che mutava, allungandosi ed ammorbidendosi. Sopratutto ne ricordo la noia; interminabili giornate allietate solo dall'Arte e dallo specchio.
Era una lastra del più fine argento, stesa su un cristallo perfetto, molto dissimile dall’obbrobrio dinnanzi al quale avevo danzato; aveva una grande cornice di legno, decorata con un intreccio di foglie e glicine così reale da impressionarmi ogni volta: ne seguivo i contorni e, solo chiudendo gli occhi, potevo annusarne il profumo.
Amavo guardare il mio riflesso sulla lastra di cristallo, amavo trascorrere ore a rendermi sempre più bella. Ero giovane, troppo – una ragazza che della vita aveva ogni cosa.
Avvenenza. Ricchezza. Potere. Talento.
 
Crebbi davanti a quello specchio e con un pennello in mano, pian piano dimentica del vento, del glicine e delle rose.
Tre anni, ed ero una donna - una stupenda donna - ancora bambina nella mente, scioccamente convinta che tutto sarebbe rimasto sempre uguale. Il mio mondo, io stessa, per sempre perfetti, per sempre in fiore.
Ero un bocciolo, coltivato dai più esperti giardinieri nella migliore serra della vita.
Anche allora - a secoli di distanza da qui - il mio mondo era sempre stato calmo, immutabile
 
Poi il vento cambiò direzione, portandosi dietro la peste.


 

Questa storia ha ottenuto il PRIMO POSTO al contest "NEI PANNI DEL VAMPIRO" indetto da VaniaMajor sul forum di Efp.


Questa storia ha ottenuto il premio "MIGLIOR PERSONAGGIO FEMMINILE PROTAGONISTA" al contest "AND THE WINNER IS..." indetto da Dark Aeris. sul forum di Efp.

 
Valutazione: 
La Vampira mi ha affascinata in primo luogo perché non è un personaggio positivo. Potrebbe pure risultare odiosa, se la si guarda nel complesso, per i suoi atteggiamenti, per il suo background storico. Ma poi si va in profondità e il suo modo di pensare e di agire risultano intriganti, lasciando il lettore compiaciuto della sua conoscenza e introspezione. Ottimo lavoro.
 



(più o meno)Piccolo spazio-me:
ho scritto questa storia inizialmente come background di un mio personaggio in un GdR. Purtroppo, non ho mai usato né la storia, né il personaggio; ritrovandola, ho deciso che valeva la pena di sistemarla e pubblicarla.
Sono 4 chap abbastanza corti, circa una paginetta word ognuno, aggiornata ogni venerdì. Non ho fatto un’unica one-shot semplicemente perché, dovendo scegliere, io preferisco leggere una long non estremamente lunga (perdonatemi il gioco di parole) piuttosto che una one-shot immensa.
È parte di una ciclo di brevi long e one-shot intitolato Lullabies, raggruppate seppure non abbiano fattore comune, a parte il genere.. diciamo, particolare! Capirete leggendole!
Ora, due avvisi: 
Lo stile non è dei più leggeri – pochi dialoghi, molta introspezione. 
La storia – e la protagonista, dunque - è cruda, cinica addirittura, ma è come doveva essere la mia PG. Per far capire che non era stata la trasformazione a cambiarla, alla fin fine. Per sicurezza ho messo il rating arancione (poteva starci anche il giallo, ma preferisco esagerare, sono fatta così!)
Ora, chi non si è scoraggiato capirà che intendo :) 
Non mi aspetto di ricevere commenti, lo dico onestamente. Questo ovviamente non significa che non li voglia, anzi! 
Se vi piace, se vi fa schifo, se notate errori, imprecisioni, qualunque cosa insomma, fatemelo sapere! Sprecate due minuti per aiutarmi a migliorare o per motivarmi, per me è importante ed a voi non costa nulla, quindi su U_U vi aspetto :D


 

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Capitolo 2
*** Narciso ***



 




 

Una nave attraccò in porto, recando seco la metà dell'equipaggio e la malattia annidiata fra il sartiame, il legno ed il sudore dei marinai; soffusa fra le sete, le spezie e i profumi, dilagò come un’inondazione, travolgendo in ondate via via sempre più intense la popolazione già allo stremo.
Era inverno da troppo tempo e la mia gente aveva fame.
La peste trovò terreno fertile: non c’erano dottori in grado arginarla, né incendi in gradi di distruggerla. Crebbe, sviluppandosi come l’edera velenosa nel mio giardino di anime, consumandone la vita per alimentare la propria.
Più forte delle preghiere, della scienza, della natura stessa.
Mio padre seguì mia madre due mesi dopo che l'epidemia era scoppiata e, compressa nei pizzi del mio funebre vestito nero, pensavo solamente a ciò ch'era divenuto mio e a come il mio seno pallido, i miei capelli fulvi e la mia pelle perfetta risaltassero a contrasto con l'oscurità del lutto.
Avevo passato ore a scegliere i gioielli più fini e le sete migliori per quell’abito, non risparmiando alle mie servette la fatica di cucirmelo in tutta fretta, anche a costo di esporle alla malattia; ero orgogliosa di quella veste, e più del mio corpo che vi risaltava alla perfezione.
Molti dei nobili di mio padre mi volevano, lo leggevo nei loro sguardi avidi, nella piega maliziosa delle labbra, nel loro modo di avvicinarmi, di sfiorarmi; molti mi avrebbero presa perfino lì, a poca distanza dal corpo dell’uomo cui avevano giurato fedeltà. Diedi segno di non notarlo, mostrandomi deferente e contrita come si confaceva, recitando la parte della figlia devota che non ero mentre dentro fremevo.
Restai immobile quando avrei voluto dipingere quel momento, fermarlo sulla tela: tutti quei volti, tutta quella bramosia, la lussuria che creavo. Era la prima volta che mi trovavo fra i nobili, e le loro occhiate mi lusingavano.
Mi ripromisi di non frenarmi mai più.
Ero bella, la più meravigliosa ragazza che quel luogo avesse mai visto; ero ricca, nobile, arguta, affascinante. Come non desiderarmi?
 
Contro ogni precauzione, diedi ai miei genitori l’onore di riposare nella terra invece di essere bruciati, come la cautela imponeva.
«Mi hanno messa al mondo. La più nobile delle creature hanno generato; solo per questo, meritano di dormire con gli Dei.» rispondevo a medici e monatti, sorridendo in quel mio modo che scioglieva il cuore di ogni uomo, avvinghiandolo alla mia voce, alle mie labbra.
Feci celebrare loro il più bel rito funebre che il Druido avesse mai compiuto, poi li dimenticai.
Erano un’altra vita, un altro mondo. Ora, c’ero io.
Non seguivo consigli, non accettavo ordini. Ero libera e nessuno mi avrebbe privata di questo, ne ero certa; né uomo né donna avrebbe avuto più potere di me. Decisa, aprii la mia corte dopo tre giorni dalle esequie.
Era l’occhi del ciclone, quando il pericolo sembra passato e, scioccamente, ci si acquieta, cercando di recuperare quella normalità ormai irrimediabilmente perduta.
Convita che tutto fosse ormai finito, offrii un banchetto per i nobili ed i mercanti, tornati in porto con animali esotici e frutti mai visti.
Assaggiai l’uva succosa ed il mandarino, ridendo alle battute. Giocai, mi nascosi, ammirai il pavone e la scimmia. Danzai, volteggiando con un abito di velluto giallo come il sole, gioielli d’ambra indosso.
Dopo quella sera, molti furono i pretendenti alla mia mano. Li rifiutai, perché non c'era uomo che possedesse il mio valore, che mi fosse eguale. Grassi, sciatti, volgari approfittatori privi di avvenenza. Giocavo con loro, concedendogli il lusso di farmi doni. Civettavo, accaparrandomi amicizie e favori senza concedere che la vista delle mie labbra, un accenno di seno, una caviglia scoperta per gioco e pudicamente celata.
Oh, com’ero bella quando arrossivo! Una vergine casta come la terra, pura come l’acqua. Lasciavo la sete della passione negli uomini, facendola germogliare come un fiore raro ed impuro nei loro animi, corrodendoli senza concedere più che un sorriso. Li ammaliavo, facendoli impazzire. Giocavo con loro, divertendomi a guardarli lottare, tifando ora per l’uno ora per l’altro.

 
Li tentavo, ma nessuno colse il mio fiore. 

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Capitolo 3
*** Rosa ***


 
 
 C'era uno straniero venuto d'oltremare al funerale dei miei genitori.
Riparato da un manto lungo osservava sotto la pioggia, glaciale ed indifferente, lo svolgersi del corteo.
Non si accalcò alla base della mia portantina, ma mi osservò scendervi e salire i gradini marmorei della mia casa. Aveva una tela sottobraccio, e nessun timore del gelo della giornata.
Lo cercai per una sera, e un’altra ancora, fra i mercanti e gli artisti girovaghi, poi mi imposi di dimenticarlo.
Ero il tipo di donna che necessitava d’essere corteggiata ed ammirata, eppure bramavo la sfida; forse per questo rividi nei miei sogni quell'uomo, nelle notti seguenti. Un'ombra avvolta nel manto nero con l’Arte come compagna di viaggio, misterioso e distante ad un tempo.
Nelle mie oniriche fantasia mi si avvicinava, sorridendomi appena senza schiudere le labbra, e la sua sola vista accendeva il fuoco della passioni in me.
Sognai che mi toccava, lieve dapprima, poi sempre più intimamente, mentre intorno a noi tutto svaniva: i nobili, le bare, i Druidi e la città stessa, lasciando solo la neve.
Era su questa, non più fredda ma morbida ed accogliente, che mi stendeva, vincendo ogni mia resistenza e macchiando la neve del mio fiore.
«Sono il tuo angelo.» sussurrava, e aveva la voce del Paradiso e gli occhi dell’Inferno.
Impura, lo desideravo.
Svegliandomi, mi costringevo a dimenticarlo.
Eppure, ogni pretendente era sempre più misero, a suo confronto.
 
La peste tornò, flagellandoci come una tempesta. Chiusi il palazzo, chiusi i cancelli della mia reggia, scacciai chiunque minacciasse solo di contagiarmi.
Man mano tutti i miei nobili cominciarono ad impallidire e vennero esiliati nel mondo di dolore al di fuori.
Una notte, sognai di danzare in un cimitero, facce devastate e morte che mi guardavano, corteggiandomi, toccandomi. Mi svegliai in preda a un tremito folle, confinandomi volontariamente nella mia stanza per un giorno ed una notte.
«Sarai simile a noi.» mi avevano sussurrato quelle voci «Non avresti dovuto rifiutarci.»
Distrussi lo specchio quella notte.
Non avrei camminato fra i morti.
 
Avevo udito un pettegolezzo di servette, mentre queste mi spazzolavano i capelli e mi vestivano.
«C’è un angelo giù alla taverna.» aveva detto una e la sua faccia s’era fatta sognante, strappandomi un moto di gelosia.
«Un demone, mia signora. Questo è lui. Un demone che dipinge l’inferno in terra.» aveva risposto l’altra, toccando l’ametista che aveva al collo, simbolo degli Dei.
Quella notte stessa violai il rifugio sicuro della mia casa, varcandone la soglia ammantata del colore della notte.
Nessuno nelle strade, illuminate dal bagliore lontano dei focolai dei monatti.
Incauta, respirai a piani polmoni l’aria umida che soffiava dal mare, e per un attimo fui di nuovo una bambina che correva fra i glicini della serra.
Poi venne il tanfo della locanda, le scale interminabili, il buio della stanza. 
Il silenzio. Un vecchio amico.
Era una notte di luna piena e avevo il mio vestito migliore addosso, velluto rosso sangue e pizzi neri d'importazione.
Rubini ornavano i miei capelli, stretti nella retina vermiglia.
Rubini ornavano i pizzi dei guanti.
Un unico, enorme rubino rosso come il sangue, cupo e profondo come la notte e dalle fattezze di una rosa scendeva dal mio collo, poggiandosi nel piccolo incavo alla base.
Erano le tasse del mio popolo, quella stolta mescolanza di razze che si ostinava a criticare il mio stile di vita, il giusto lusso che la mia bellezza m'imponeva di concedermi, mentre la morte flagellava il paese.
Molti avrebbero dato la colpa a me, chiamandomi strega, sposa dei demoni.
A quel tempo, erano ancora menzogne.
 

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Capitolo 4
*** Giglio ***



 
 
 
 Salì in camera e, quando manto e vestiti calarono liberando il volto ed il corpo pallido di quel nobile angelo della notte, capii che era lui che attendevo, che sarei stata solo sua.
Dipinse il mio corpo, il mio volto, ogni mia singola espressione, ritraendomi nella luce della luna. Disse che ero la più meravigliosa espressione dell'Arte, un'opera di rara bellezza, nata per essere ammirata.
Mi disse che mi avrebbe dato la vita eterna, perché potesse per sempre godere della mia visione.
Scivolò sopra di me come fosse fatto di fumo, insinuandosi fra le pieghe dei miei vestiti, negli orli dei miei bottoni; mi ritrovai nuda fra le sue braccia, a gemere del dolore e dell’amplesso, mentre lui mi marchiava, rivendicano il suo possesso su di me, legandomi a lui per l’eternità.
 
E, quand’ebbe preso il suo piacere, mi baciò, donandomi Morte con la sua passione e Vita col suo sangue.
 
 

 
 
 Per secoli sono rimasta la sua sposa.
Noi, due principi della notte, artisti della reciproca bellezza nel castello che fu di una me diversa. Regnammo su vite sempre più rade, nutrendoci del sangue del mio popolo, brindando in saloni di marmo oscuri, riposando assieme in cripte foderate di velluto ed arazzi.
Il mondo cambiava, e noi ne dipingevamo la bellezza...
 
 ... Fino alla notte in cui la Bellezza finì. Lui partì sull'ultima nave, capitano ed equipaggio di sé stesso, ed io rimasi ad attendere le meraviglie di un nuovo mondo, e lui. Il mio sposo per le tenebre, il fattore della mia nuova vita.
Vissi anni in quel castello che i servi non riuscivano a mantenere sfarzoso, cibandomi di loro quando la sete riemergeva.
Mi chiusi in poche stanze, dipingendo il tempo corrente e me, rimpiangendo la compagnia di specchi per i quali non esistevo più, cacciando le mie prede alla luce della luna...
 
 ... Aspettandolo, come continuo a fare tuttora.
 


 

"Fu l'attimo di un bacio - l'estasi ed il dolore - prima che il suo mondo finisse, per cominciare ancora.
Il gelido forestiero le baciò il collo e fu allora che Inverno marchiò la pelle, e Autunno il Cuore.
Primavera donò la Perfezione, mentre Estate s’inserì nello sguardo.
Notte camminava con ella, guardiana e custode, e Giorno si fece sua Nemesi.
Splendida, com'era stata in vita, come si sarebbe mantenuta nei secoli. Il capolavoro di un'Artista nomade..." 

 

 

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