Blood and Honour

di suzako
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Waking Alone ***
Capitolo 2: *** Death is a master from Germany ***
Capitolo 3: *** England expects every man to do his duty ***
Capitolo 4: *** Recalling things that other people have desired ***



Capitolo 1
*** Waking Alone ***


 

1 Settembre 1939: la Germania invade la Polonia, dando inizio guerra.

2 Settembre 1939: Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania.

10 Maggio 1940: Winston Churchill diventa Primo Ministro.

14 Giugno 1940: Parigi cade

10 Luglio 1040: Inizia la Battaglia d’Inghilterra. La Luftwavve bombarda Londra per 47 notti consecutive.

8 Settembre 1941: Inizia l’assedio di Leningrado.

26 Novembre 1941: Pear Harbor, Hawaii, viene bombardato dagli aerei giapponesi.

8 Dicembre 1941: Gli USA dichiarano guerra al Giappone.

11 Dicembre 1941: Roosevelt, 32° presidente degli USA, muore in seguito all’aggravarsi improvviso della sua poliomielite. Il vicepresidente Harry S Truman ne assume la funzioni.

3 Gennaio 1942: Il presidente Truman dichiara che gli Stati Uniti non prenderanno parte alle operazioni di guerra in Europa.

23 Novembre 1942: La Germania abbandona l’offensiva nei confronti della Russia.

 24 Marzo 1943: Wiston Churchill si ritira dalla carica di Primo Ministro. I motivi e le circostanze rimangono avvolti nel mistero.

12 Luglio 1943: Gli Stati Uniti sganciano “la” bomba su Hiroshima, Nagasaki e Tokyo. Resa del Giappone. Inizio delle trattazioni di pace con la Germania.

15 Settembre 1943: Gli Alleati vengono annientati durante l’Offensiva delle Ardenne.

1 Novembre 1943: L’Inghilterra viene invasa dalle truppe tedesche.

29 Novembre 1943: URSS e Terzo Reich firmano un accordo di pace, dividendosi i territori europei.

24 Dicembre 1943: Viene instaurato un governo nazista in Inghilterra.

31 Gennaio 1943: La Germania vince la guerra.
 

 

Blood and Honour

 

Capitolo 1

 

“Waking Alone”

 
 

Luglio 1940
Westchester, Inghilterra
 

I bombardamenti andavano avanti da giorni.
Non c’era pace nelle città, dove le sirene degli allarmi anti attacco suonavano incessantemente tutte le notti, costringendo la popolazione a rifugiarsi nelle metropolitane e nelle cantine come ratti, pronti a qualsiasi cosa pur di sopravvivere.

Ma non sempre ce la facevano. La gente moriva, tutte le notti.

Anche Londra stava morendo, distrutta pezzo per pezzo dal fuoco tedesco.

Solo nelle campagne si ritrovava una relativa e illusoria pace. I bambini erano stati mandati lì, da soli, perché potessero salvarsi.

Ma perché poi?

I bambini erano completamente inutili nel grande schema delle cose, nella guerra. Non potevano combattere, e non potevano aiutare in alcun modo l’industria: erano un peso che il paese non poteva permettersi, quindi perché tutti ci tenevano tanto a difenderli? Come se ci fosse stato qualcosa per cui valesse la pena sopravvivere.

No, la verità era che gli adulti li odiavano. Li volevano vivi, sì, ma solo per egoismo, e per vederli soffrire. Qualcuno doveva ricordare quella guerra, e le morti, e le bombe, e le grida e chi poteva farlo meglio di un bambino? Sarebbe stato condannati a vivere e ricordare per sempre, mentre gli adulti giacevano soddisfatti nelle loro bare, e le iscrizioni sulle loro tombe sarebbero state di ammonimento, e di disprezzo.

Noi siamo morti

Perché non potevate combattere

Adesso tocca a voi

Buon divertimento.

Era solo un altro modo per liberarsi di loro. Alla fine, si dice che la morte risolva ogni cosa, no?

Su questo rifletteva Charles Xavier, dall’alto dei suoi dodici anni, seduto per terra sul pavimento della cucina. Era notte, e faceva freddo, e sentiva quei rumori che fanno tutte le case grandi, vuote ed isolate nel bel mezzo della notte quando c’è un bambino sveglio, e anche il bambino è vuoto, ed isolato.

Charles si strinse un po’ di più le ginocchia contro il petto, affondando la testa nella flanella del pigiama. Ancora poche ore e sarebbe arrivata l’alba, e con lei Mrs. Ackleton con il resto della servitù, e anche se pulivano casa senza dire una parola almeno non sarebbe stato solo fino all’arrivo del suo tutore.

Rimase così fermo a lungo, e forse si addormentò, ma ad un certo punto un rumore ben distinto gli fece alzare la testa di scatto. Si guardò intorno, strabuzzando gli occhi nella penombra della stanza.

Era sicuro di non aver sentito qualcosa, ma qualcuno.

Si alzò in piedi senza far rumore, ma ciò che vide contro la luce artificiale del frigorifero gli fece scappare un grido di sorpresa.

<< Oh, Tesoro, cosa stai facendo? >>

Charles deglutì nervosamente, incapace di distogliere lo sguardo sua madre, che se ne stava lì con una bottiglia di latte in mano, vestita del suo abito rosso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Non rispose.

<< Che aspetti, torna a dormire? Su, vai >>

Fu in quel momento che si accorse del tremore nella sua voce, della velocità con cui concludeva le frasi. Aveva paura, almeno quanto lui. Forse di più.

Charles strinse la lebbra e si concentrò profondamente.

Mia madre è morta. Chi sei tu?

La donna indietreggiò con con un sussulto, incapace di togliergli gli occhi di dosso, terrorizzata. Charles fece un passo in avanti.

Dimmi chi sei, o ti costringerò a farlo.

Lentamente la sua pelle incominciò a crepitare, mentre un soffice fremito la percorreva, come di piume. La pelle di sua madre diventò blu, gli occhi gialli come quelli di un gatto, i capelli rosso fiamma.

E davanti ai suoi occhi adesso si trovava una bambina, la più incredibile che avesse mai visto, e lo guardava con curiosità e timore, senza dire niente.

Charles sorrise. Spontaneamente, come non gli succedeva da molto tempo, e anche quella bambina gli sorrise allora, timidamente, quasi incerta.

<< Lo sapevo >> questa volta parlò, incapace di contenere la sua emozione << Lo sapevo che dovevano esserci altri come me! Come ti chiami? >>

<< Raven. Raven Darkholme >>

<< Raven. Io  sono Charles Xavier >>

E le tese una mano. Raven lo guardò tentativamente.

Charles rise e le prese la sua, e la strinse, e gli occhi gialli della sua amica erano enormi e stupiti.

<< Come sei arrivata qui? Dove sono i tuoi genitori? >>

Raven abbassò lo sguardo e smise di sorridere. Charles si rese subito conto del suo errore, ma non lasciò andare la sua mano.

<< Scusami. Non volevo offenderti. Magari più tardi mi racconterai tutto, ma ora hai fame? Vuoi mangiare? Resterai qui, vero? Non ti farò mancare niente, stai tranquilla. E non dovrai più nasconderti o scappare, penserò a tutto io. Ti proteggerò! >>

In un attimo, Raven gli si aggrappò al collo abbracciandolo così stretta che per un attimo gli mancò l’aria. Charles le strinse le mani attorno alla schiena, stringendo più forte che poteva, sentendo la strana consistenza della sua pelle sotto le mani, ruvida e liscia allo stesso tempo. Era più fredda della sua. Ed era reale. Charles ancora non poteva crederci, ma in quel momento seppe che entrambi avevano trovato una casa.

 

Novembre 1946
Oxford, Inghilterra

 

Erano le 7.43 minuti e Charles era in ritardo.

Teoricamente, le lezioni non avrebbero dovuto iniziare prima delle otto in punto.

In realtà chiunque arrivasse dopo le 7.50 veniva ampiamente rimproverato di fronte a tutta la classe e dopo le 8.00 semplicemente non si veniva neanche ammessi in aula.

Di certo non sarebbe stata la prima volta.

Era ormai al suo terzo anno ad Oxford e ancora non aveva trovato una strategia per per svegliarsi in tempo, e detto sinceramente, lui era un genio, quindi evidentemente non c’era speranza. Verso la fine di Ottobre aveva deciso che presto avrebbe comunque avuto il suo diploma, ergo era troppo tardi, ergo non valeva la pena sprecare tempo ed energie ulteriori sulla questione.

Ergo quella mattina sarebbe rimasto chiuso fuori.

Come infatti accadde.

Rimase di fronte alla porta per qualche secondo a riprendere fiato, prima di allontanarsi con un sospiro frustrato. Un’altra mattina sprecata. Raven era al lavoro, sarebbe stata una buona occasione per mettersi a lavorare sulla sua tesi.

O tornare a casa e dormire.

Stava per decidere sul da farsi, decisamente più inclinato verso la seconda opzione, quando si accorse di non essere stato il solo fuori dalla porta, quella mattina.

<< Sean! Sean Cassidy, giusto? >>

Il ragazzo alzò gli occhi e rispose con un eloquente << uh? >>

<< Sono Charles, Charles Xavier. Segui anche tu il corso di Fisica Teorica del Professor Lawrence, vero? >>

Il ragazzo aggrottò leggermente le sopracciglia e lo guardò fissamente per qualche secondo, come se stesse processando la gran quantità d’informazioni che gli erano state inviate.

<< Sì. Sì è così, perché? >>

Charles si passo una mano tra i capelli, passandosi casualmente le dita sulla tempia.

Forse è una spia? Mi hanno beccato. Lo sapevo. Adesso mi chiederà di svuotare le tasche e io sarò fottuto.

<< Nessun motivo. Sono arrivato anche io in ritardo >> offrì Charles con un sorriso che voleva essere rassicurante.

Funzionò. Finalmente anche l’altro sembrò rilassarsi e piegò le labbra in un mezzo sorriso che sembrava più un ghigno.

<< Non una grave perdita, se posso permettermi >>

<< Permesso accordato >> scherzò Charles.

Sean rise, e con una scrollata di spalle disse << Beh, a questo punto tanto vale andare a prendersi una birra, no? >>

Charles scoppiò a ridere, sorpreso.

<< Ma sono le otto del mattino! >>

<< Mi piace incominciare bene la giornata >>

<< Se ci scoprono… >>

<< Diremo che volevamo brindare al nostro Führer  e allo splendore del Terzo Reich, in questa gloriosa mattina. Forza, andiamo >>
 

 

*
 

Erano le dieci e mezza passate quella sera, quando Charles finalmente tornò a casa. Le chiavi erano particolarmente scivolose e la maniglia sembrava aver cambiato locazione. Posò una mano sul legno liscio e massiccio per tenersi in equilibrio: il legno aveva dei pensieri? Chissà se avrebbe potuto leggere il legno. Sarebbe stato un Legnepate, che però suonava un po’ troppo come lagnarsi. Ma quindi le due parole avevano una radice semantica in comune, il che voleva dire…

La porta si aprì improvvisamente e Charles cadde a terra disteso. Alzò gli occhi, e riconobbe subito le ginocchia di sua sorella, e dal modo in cui stavano perfettamente tese e allineate capì che doveva essere nervosa.

<< Charles. >>

A Charles piacevano un sacco gli eufemismi.

<< Ciao Raven. Bella vista >> salutò con un ghigno.

Raven lo fissò perplessa per qualche secondo prima di afferrare il concetto e arrossire furiosamente. Fece un brusco passo indietro stringendosi i lembi dell’ampia gonna a palloncino, come per assicurarsi che fosse ancora lì.

<< Sei un idiota! >> sibilò irritata.

<< Hai appena interrotto un’importante scoperta scientifica >>

<< Non ho la benché minima idea di cosa tu stia parlando >>

<< Neanche io. Mi aiuti ad alzarmi? >>

Con un sospiro, la ragazza afferrò la mano che le veniva porta e senza troppo sforzo tirò Charles sui due piedi. Non durò molto, perché nel momento esatto in cui le suole delle sue scarpe toccarono terra, lui le crollò addosso.

<< Charles! >>

<< Raven! >>

<< Sei ubriaco >>

<< Hai intenzione di dirmi qualcosa che non so? >>

<< Il nuovo film di Leni Riefenstahl dura esattamente sessantatré minuti e undici secondi >>

<< Grazie, me ne ricorderò >>

<< Sempre un piacere >>

Pausa

<< Charles, credo che tu stia facendo cose decisamente poco appropriate alla mia spalla >>

Raven cercò di scrollare via il fratello, spingendolo tentativamente per le spalle, ma con poco successo. Charles Xavier sembrava perfettamente contento con la sua testa affondata nella spalla di Raven, le labbra pressate nell’incavo del suo collo.

Raven non sapeva se baciarlo o prenderlo a pugni.

<< Mmh… Amy>>

A ripensarci un paio di calci nelle costole sarebbero stati ancora meglio.
 

 

*

 

Raven non era una stupida.

Certo, non era un genio della scienza e non era entrata ad Oxford all’età di quindici anni, non sapeva parlare correttamente cinque lingue, non era talmente brillante da riuscire a prendere il massimo dei voti in un esame di una materia completamente sconosciuta perché aveva sbagliato aulae nemmeno poteva leggere nella mente della persone.

Studiava da cameriera, non perché non fosse in grado di applicare normalmente ad un’università, ma perché non sarebbe stata debitrice di Charles più di quanto non fosse. Parlava solo inglese e tedesco come praticamente chiunque su quell’isola (ma il suo russo era in costante miglioramento, non che potesse andare in giro a vantarsene), e metà della sua vita l’aveva passata in mezzo alla strada.

Diciamo che se la sapeva cavare.

Anche tralasciando il dettaglio di essere una mutaforma.

No, Raven non era una sciocca. E soprattutto, non era una codarda.

Raven era stanca di nascondersi. Voleva combattere.

Ma nell’Inghilterra nazista degli anni quaranta, quello non era semplicemente un desiderio, ma una necessità, perlomeno per tutti quelli come lei.

Tutti, tranne Charles.

<< Che stai facendo? >>

Raven accese la luce della cucina scoprendo Charles, in pigiama e vestaglia, appeso alla portiera del frigorifero, una luce fredda che gli illuminava metà del volto, rendendo il blu dei suoi occhi asettico, quasi innaturale.

<< Uh. Avevo fame >>

Lo vide strascicare i piedi fino al tavolo, barattolo di marmellata e pane e in mano. Li posò sul tavolo e rimase a fissarli intensamente.

<< Raven >> mormorò con voce roca.

<< Dimmi >> rispose lei, mite.

<< Non ho preso il coltello >>

Raven sentì le mani prudergli. Lo avrebbe sgozzato,altro che.

Aprì un cassetto, prese il primo coltello mezzo arrugginito che gli capitò sotto mano, e lo sbatté sul tavolo con forza eccessiva. Charles sussultò al rumore, evidentemente nel bel mezzo di un violento post-sbornia.

<< Sono quasi le due, e domani hai lezione. Che ci fai ancora sveglio? >>

<< Te l’ho detto. Ho fame >>

<< Già >> concluse seccamente Raven, e si girò, pronta ad alzarsi.

<< Scusami per oggi >>

Charles aveva parlato inaspettatamente, con tono sommesso e senza guardarla in faccia. Ma erano comunque delle scuse, e sincere.

<< Vorrei solo che tu mi dicessi cos’è successo, invece di trattarmi come un’estranea. A parte quando ti fa comodo, ovviamente >>

Charles si morse nervosamente il labbro, come ponderando la verità delle sue parole. Raven si godette il momento di trionfo, sapendo che non sarebbe durato a lungo. Suo fratello sapeva esattamente cosa dire e quando dirlo, e non mancava mai di farlo.

<< Sono arrivato in ritardo a lezione, non mi hanno fatto entrare, e sono andato ad ubriacarmi con Cassidy. Tutto qui >>

Raven non offrì risposta.

Con un sospiro, Charles si passò una mano fra i capelli e andò avanti.

<< Lo so che non è questo il punto, Raven. Lo so che ci sono cose di cui dovremmo parlare, ma penso che tu non possa biasimarmi se non mi ritengo particolarmente entusiasta all’idea. Odio quando litighiamo >> mormorò Charles, sorridendo al barattolo di marmellata d’arancia.

E tu sai esattamente quando litigheremo, avrebbe voluto rispondere Raven, ma si bloccò.

<< Charles. Guardami in faccia >>

Il ragazzo alzò gli occhi di scatto, ma li riabbassò subito.

Raven da sotto il tavolo afferrò i lembi della propria vestaglia in una morsa. Calma. Doveva stare calma. Non voleva arrabbiarsi con Charles, non questa sera.

Oh, al diavolo.

<< Ti faccio schifo, non è così? Non sono abbastanza umana e conforme per i tuoi gusti, non è vero? Perché è quello che vuoi adesso, no? Essere come tutti gli altri >> sibilò a denti stretti, incapace di contenere la rabbia << non sai fare altro che nasconderti, e giocare al bravo ragazzo e al bravo fratello e al bravo nazista, sei talmente bravo che mi disgusti! >>

<< Raven, abbassa la voce, ti prego >>

<< Abbassa la voce? Abbassa la voce? >> la ragazza lo guardava incredula.

<< Non è affatto come dici tu, e lo sai… >>

<< No, non lo so! Ti dirò la verità, Charles, sei talmente un bravo attore che hai ingannato anche me. Non so più cosa pensi, quando fingi e quando è reale. Non so più chi sei. Io non so più chi sei >>

Charles si alzò subito e andò verso di lei, poggiando tentativamente una mano sulla sua spalla.

<< Sono sempre io. Non è cambiato niente in me. Tu sei mia sorella, nulla potrà cambiarlo. Le circostanze sono diventate spiacevoli, lo ammetto, ma puoi darmene la colpa? Abbiamo perso la guerra, e dobbiamo affrontare le cose così come stanno. Tutto quello che faccio, Raven, è per la tua tranquillità. Io voglio che tu stia bene, voglio che tu sia felice >>

Raven si coprì il volto con le mani. Le tremava il respiro.

<< Non sarò mai felice finché dovrò nascondermi >>

<< Lo so >>

<< No, tu non lo sai! Tu sembri umano, almeno. E io? Sembro un mostro. Nessuno mi amerà mai o mi vorrà bene per come sono realmente, tutti si affezionano alla ragazzina bionda e sorridente, ma non sono io Charles, non sono io! Tu sei l’unico, sei l’unico eppure… >> scoppiò in lacrime, incapace di andare oltre. Charles la strinse, senza dire nulla per molto tempo, aspettandosi che i suoi singhiozzi si calmassero.

<< Mi dispiace, Raven. Mi dispiace >>

Non riuscì a dirle altro.

La mattina dopo, Charles aprì gli occhi alle sette in punto, senza sapere perché.
Non aveva neanche puntato la sveglia. 

C’era un’aria fredda, un vento gelido che sembrava provenire da lontano. Si alzò tentativamente dal letto, cercando di ricostruire gli eventi della notte prima, e camminò fino alla cucina.
La marmellata era sul tavolo, ancora aperta, mentre del pane rimanevano solo briciole.

Raven. Dov’era Raven?

<< Raven? >> incominciò a chiamarla a gran voce, improvvisamente preoccupato. Era sciocco, sua sorella era probabilmente ancora addormentata, e si sarebbe arrabbiata terribilmente se lui l’avesse svegliata prima.

Arrivò di fronte alla porta della camera a grandi passi, e la spalancò.

Era vuota.

Il letto rifatto, non mancava nulla dalle mensole. L’armadio era pieno.

Alle sue spalle, la porta sbatté, spinta dalla corrente.

Con un brivido, Charles tornò verso il corridoio.

La porta di casa era aperta. Raven se ne era andata.

Solo in quel momento notò un pezzo di carta piegato e lasciato per terra. Si chinò a raccoglierlo, e quando lo aprì riconobbe subito la scrittura familiare di sua sorella. Erano solo due parole.

Mi dispiace.





 

 

 

Waking Alone
At the hour when we are
Trembling with tenderness
Lips that would kiss
Form prayers to a broken stone. 

(T. S. Eliot, The Hollow Men)


 

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Capitolo 2
*** Death is a master from Germany ***



Blood and Honour

 



Capitolo II

 
 
“Death is a master from Germany”






 
 
 
 
 
Novembre 1940
Auschwitz, Polonia
 
 
Camminavano sotto la pioggia incessante, bagnati fino al midollo.
Erik teneva lo sguardo basso, cercando di non ascoltare i ruggiti dei soldati nazisti attorno a lui, tentando di non fissare le loro uniformi e i loro stivali e i bastoni che tenevano stretti in una morsa d’acciaio.
 
L’acqua gli colava da sotto il berretto, rendendo i contorni delle baracche e dei volti attorno a lui indistinti e sfocati. Anche la mano di sua madre era fredda e bagnata.
 
Camminavano, una lunga colonna di persone pressate l’una contro l’altra, ed Erik si strinse ancora di più la mano di sua madre. Suo padre era alla sua destra.
 
Finché fossero rimasti uniti, sarebbe andato tutto bene.
 
<< Muovetevi! Continuate a camminare! Muovetevi! >>
 
Arrivarono al cancello, cinto da filo spinato. Attraverso il muro d’acqua, Erik faticava a distinguerne i contorni.
 
Improvvisamente qualcuno lo tirò per un braccio, mentre sua madre e suo padre venivano forzati nell’altra direzione, e prima che potesse fare alcunché, la sua mano fredda e bagnata era vuota.
 
<< No! >> urlò con voce roca, lottando per liberarsi dalla stretta del soldato.
 
<< Tu devi andare da quella parte >> sibilò l’ufficiale che l’aveva preso, spostandolo con decisione verso sinistra.
 
<< No! Mamma! >>
 
<< Erik! Erik! >>
 
<< Sta’ calma, per carità, fai silenzio, ci fucileranno! >> suo padre cercava di calmarla posandole una mano sulle labbra, ma lei continuava a gridare, a gridare, e c’erano urla ovunque ed Erik si accorse che stava gridando anche lui.
 
Un altro soldato lo stringeva per le spalle, facendogli male. Il cancello di metallo si chiuse davanti a lui.
 
Era chiuso.
 
Li avevano separati.
 
No.
 
No.
 
<< No! No, lasciatemi! >>
 
Non potevano farlo. Non l’avrebbero fatto.
Erik utilizzò tutte le sue forze per raggiungere il metallo: spingere doveva spingere, il metallo lo chiamava perché oltre quel metallo c’erano i suoi genitori, e loro lo chiamavano, lo chiamavano.
 
Erik chiamava il metallo, e il metallo rispondeva.
 
No no no no no no no no
 
Sentì un rumore, come di una catena che si spezzava, e un bruciore terribile gli si diffuse per tutto il corpo e lui si tendeva, si tendeva, e si sarebbe presto spezzato ma mancava così poco.
 
Un colpo alla nuca, e poi tutto divenne buio.
 

 
*

 
 
<< No! >>
 
Si svegliò di soprassalto, con un grido strozzato. Sbatté negli occhi nel buio, cercando franticamente una luce nel buio, una qualsiasiluce, prima di ricordarsi della lampada sul suo comodino. Allungò una mano nel buio e tastò fino a trovare l’interruttore, e quando la stanza si rischiarò poté finalmente respirare.
 
Guardò le sue mani, che stringevano le lenzuola spasmodicamente. Non se n’era accorto.
 
Rilassò i palmi e flesse un paio di volte le dita, contemplando le vene azzurre e grigie sul dorso bianco della mano. Lentamente, cauto, si tastò i contorni del volto, i capelli, le orecchie.
 
Va tutto bene. Sono io, sono sempre io. Va tutto bene.
 
Non è che avesse paura del buio, perché quello francamente sarebbe stato ridicolo.
 
Il buio era una cosa a cui era perfettamente abituato.
 
Era semplicemente che dopo queisogni doveva assicurarsi in qualche modo di essere ancora in sé. Non sapeva spiegarlo, ma forse era una non tanto celata paura di essere inghiottito nella coscienza di qualcun altro, o che questo qualcun altro fosse il vero sé stesso, e che lui non fosse altro che un sogno. Un’illusione.
 
Si ributtò contro il cuscino, cercando di calmare la propria mente.
 
Da quando si era trasferito in città, verso la fine della guerra, era capitato spesso che i sogni e le memorie altrui si infilassero nei suoi. Doveva ancora imparare a bloccarli perfettamente, ma nel sonno era molto più difficile.
 
(ed era peggiorato da quando Raven era andata via)
 
Dopotutto, si diceva, era normale. Con tutte le esperienze traumatiche che la gente aveva vissuto durante la guerra, e a che a lui erano state risparmiate, gli sembrava quasi di meritarlo.
 
Il sogno era stato particolarmente vivido, e Charles lasciò che svanisse dalla sua mente senza alcun rimorso. Non ci teneva a ricordare. Sfregò i palmi delle mani contro le coperte, sentendoseli umidi e freddi.
 
Campo di concentramento
 
La parola era ormai impressa a fuoco nella sua mente, e non se ne sarebbe liberato per un po’.
 
Gli tornarono alla mente alcune leggende metropolitane di cui parlavano gli ex-soldati più giovani, quelli che erano sopravvissuti. Con ogni probabilità quei misteriosi “campi” neanche esistevano, e se così fosse stato, non potevano essere la metà terribili di quanto si vociferasse.
 
Con un ultimo sospiro, Charles spense la lampada, si girò e riprese a dormire.
 
Alles ist gud, si ricordò prima di cadere fra le braccia di Morfeo.
 
 
 
Ottobre 1946
Berlino, Germania
 
<< Doktor! Herr Doktor! >>
 
I corridoi del Centro di Ricerca e Sviluppo erano, contrariamente agli altri laboratori in cui Hank aveva “collaborato” nel corso della sua carriera, rivestiti da grandi pannelli di mogano scuro, e illuminati da una luce calda e accogliente. Le finestre erano perennemente oscurate da lunghi drappi neri e rossi, bordati di oro, dove la svastica troneggiava imponente e minacciosa.
 
I suoi passi risuonavano appena, attutiti dai tappeti.
 
<< Doktor, aspetti! >>
 
Schmidt, il direttore del progetto di Perfezionamento dell’Uomo, si fermò quasi immediatamente, con un amabile sorriso che gli piegava gli angoli della bocca.
 
<< Hank McCoy, il mio più giovane e brillante ricercatore. Dimmi tutto >>
 
Il ragazzo si schiarì la voce nervosamente, prima di sistemarsi gli occhiali sul naso.
 
<< Stavamo facendo alcuni test su Cerebro, Dottore, e credo che abbiamo trovato qualcosa >>
 
<< Te, e chi altro? >> domandò Schmidt, sempre sorridento.
 
<< M-Miss Frost, signore >>
 
<< Chiaramente. La telepatia è sicuramente un dono incredibile, non trovi? >> Hank non seppe cosa rispondere, limitandosi a tentare un sorriso incoraggiande. Schmidt non si preoccupò di ricevere una risposta e andò avanti << Forza, fammi strada e vediamo cos’avete scoperto >>
 
I piani sotterranei erano completamente diversi dalla facciata rassicurante che offriva il livello superiore del centro.
 
Inoltrandosi nelle viscere dell’edificio, seguito dal Dottore, Hank si fece strada tra le rampe di scale metalliche e porte completamente in vetro, fino a giungere al suo laboratorio, situato vicino all’Hangar.
 
Finalmente, raggiunsero la stanza di Cerebro.
 
Hank aprì la pesante porta di metallo, e subito vennero investiti da una forte luce bianca. Nonostante ciò poté vedere chiaramente il sorriso di Schmidt allargarsi a dismisura, i suoi occhi fissi sul macchinario, non affetto dalla luce accecante.
 
<< Ah! E’ sempre una spettacolo così affascinante >>
 
<< Grazie, signore >>
 
Al centro della stanza, circondata dalla ringhiera protettiva e all’interno del cilindro catalizzatore, stava Emma Frost, gli occhi chiusi, immobile come una statua di ghiaccio.
 
Il monitor segnalava una piena attività.
 
<< Ecco, vede >> mormorò il ragazzo avvicinadosi a uno schermo che visualizzava la mappa del Terzo Impero Germanico. Incominciò a digitare sulla tastiera, facendo apparire un ingrandimento della Gran Bretagna, precisamente Londra.
 
<< Durante i test continuavamo a scontrarci su questa zona, e utilizzando uno scanner basato sui sistemi radio inglesi sono riuscito ad isolare la zona, e abbiamo trovato… questo >>
 
Hank premette un’altra combinazione di tasti, e lo schermo si riempì di numeri.
 
Schmidt si avvicinò a leggere, un sopracciglio alzato.
 
<< Il livello di energia atomica è stranamente alto. Ma non è così sorprendente, dopotutto. Abbiamo fatto aprire centri di ricerca nucleare in tutte le zone dell’Impero… >>
 
<< Non c’è nessuna centrale nucleare nel pieno centro di Londra >>
 
La voce chiara e cristallina di Emma tagliò tra di loro come il diamante. Schimdt si voltò verso di lei, e sorrise.
 
<< E’ qualcosa di completamente diverso… Sebastian >>
 
Il Dottore spalancò gli occhi, improvvisamente interessato.
 
<< …Ora capisco. Sarà meglio mandare qualcuno a dare un’occhiata allora, non credi? La situazione potrebbe essere interessante >>
 
<< E pericolosa, signore >> ci tenne a precisare McCoy.
 
Schmidt gli rispose con un altro dei suoi freddi sorrisi.
 
<< Allora dobbiamo essere grati di avere la migliore armadel mondo dalla nostra parte, no? >>
 
Emma si lasciò sfuggire un sorrisetto, mentre lo guardava dal cilindro trasparente, con le mani sui fianchi.
 
<< Vuoi mandare quel ragazzo? Da solo? E’ troppo giovane, non è credibile >>
 
<< Ma è appunto per questo, mio cara, che è il più adatto. Se non sbaglio una delle aree dove si registra maggiore attività è Oxford >> digitò alcune combinazioni sulla tastiera prima di continuare con tono soddisfatto << Ah sì, vedete? Vicino a questa università >>
 
Hank ed Emma si scambiarono un’occhiata.
 
<< Ma signore, Londra è sempre stata il centro dell’attività politica e l’ultima roccaforte della resistenza, quindi pensavamo che Ch-
 
<< Sciocchezze. Londra è stata la città più bombardata su suolo inglese, ed è per la cecità del nostro sublime comando che non si è riusciti a sradicare completamente qualsiasi focolaio di resistenza. E’ troppo palese. E’ fumo negli occhi. >>
 
Schimdt rimase in silenzio alcuni secondi.
 
<< Tuttavia vale la pena indagare. Hank, mettiti in contatto con Angel immediatamente e mandala da me >>
 
Hank annuì ossequiosamente, e si voltò nuovamente verso i macchinari prima di interrompersi e chiedere:
 
<< E per quanto riguarda…? >>
 
Schimdt sorrise.
 
<< Ad Erik ci penserò io >>
 
 


Novembre 1946
Oxford, Inghilterra

 
 
<< Charles! Charles! Ma mi ascolti? >>
 
Charles Xavier alzò gli occhi dal foglio di appunti: una ragazza gli stava parlando. Anja, si ricordò mentalmente. Quello era il suo nome.
 
<< Scusami, ero distratto >> rispose immediatamente con un sorriso << Cosa stavi dicendo? >>
 
<< Senti, lo vedi quel tizio là? Quello seduto in seconda fila, il più lontano dalla cattedra? >>
 
Charles girò la testa senza preoccuparsi di sembrare circospetto. La lezione di Inegneria Genetica era più noiosa del solito, e lui si limitava a scrivere i risultati degli esercizi prima ancora che il professore avesse tempo di scriverli alla lavagna, solo per passare il tempo.
 
Finse di scrutare l’aula, ma per comodità cercò direttamente il volto in questione nella mente di Anja.
Vide un ragazzo, più grande di lui, lineamenti marcati e tipicamente teutonici, occhi chiari e sopracciglia corrugate.
 
<< Ah, sì, lo vedo. Chi è? >>
 
<< Non lo so, speravo potessi dirmelo tu >>
 
Charles le rivolse la migliore versione del suo sopracciglio all’inglese per esprimere tutta la sua perplessità.
 
<< Non ti seguo >>
 
<< Te conosci tutti Charles, magari potevi presentarmi. Sembra un tipo interessante >>
 
<< Non so sicuro di voler sapere cosa ti interessi di lui, Anja >> replicò Charles con tono pieno di malizia.
 
La ragazza arrossì furiosamente e si limitò a sbuffare, prima di girarsi verso il professore e lasciarlo il pace.
 
Charles ritornò volentieri al proprio foglio.
 
Si accorse solo in quel momento di aver continuato a scrivere gli esercizi anche durante la conversazione.
 
 

*

 
 
Raven se ne era andata, e la cosa peggiore era che tutto sembrava esattamente come prima.
 
Charles si svegliava, arrivava a lezione in ritardo, parlava con persone di cui a malapena ricordava il nome, beveva, a volte tornava a casa e lavorava sulla sua tesi, altri volte il silenzio era insopportabile e allora usciva e bevevadi nuovo, poi beveva ancora, infine barcollava fino a casa per poi ricominciare da capo.
 
La verità era che Raven era la sua unica amica. E adesso era rimasto solo.
 
Erano passate due settimane. Non l’aveva cercata, convinto che entro qualche giorno sarebbe ritornata da lui.
Si era reso conto troppo tardi dell’errore.
 
Si dava altre due settimane, e poi avrebbe iniziato a cercarla veramente, anche se così avrebbe spezzato la propria promessa.
 
Ma Raven aveva rotto per prima la sua.
 
Si diresse verso il pub. Non sarebbe arrivato alla fine di quella giornata senza una birra.
La prima persona che riconobbe, seduto alla tavolata che occupavano di solito, fu Sean, i suoi capelli rossi inconfondibili anche nella folla delle cinque di sera.
 
E poi, ancora prima di visualizzare i volti degli altri presenti, riconobbe qualcun altro. Qualcuno che neanche conosceva, in realtà.
 
Occhi chiari, lineamenti marcati, capelli biondo scuro pettinati all’indietro.
 
Si avvicinò al tavolo improvvisamente cauto, come se temesse che lo sconosciuto si lanciasse contro di lui per attaccarlo da un momento all’altro. Il che era ridicolo, non aveva nemmeno mai parlato con quel ragazzo, eppure…
 
C’era qualcosa in lui, nei suoi occhi chiari e freddi, nella postura, mai rilassata, anche mentre chiacchierava amabilmente con Anthony, che gli diceva di stare all’erta. Che quel ragazzo era pericoloso, e che avrebbe fatto molto meglio a girare i tacchi e andarsene in quel preciso istante.
 
Ma era troppo tardi, e l’istante era già passato.
 
<< Charles! Che ci fai lì impalato? Siediti con noi! >>
 
Sean l’aveva visto.
 
Senza esitare, con passo tranquillo e sicuro e un sorriso per piantato sulla faccia, Charles si avvicinò al tavolo, salutando tutti i presenti. Poi il suo sguardo si posò sullo sconosciuto.
 
<< Charles, ti presento Erik. E’ arrivato a Oxford da poco, ha fatto uno scambio con la sua università, Berlino vero? O era Monaco? In realtà non ho capito, la cosa importante è che stavamo per fare il terzo giro: ti unisci a noi, ovviamente >>
 
Charles non aveva smesso un attimo di sorridere.
 
<< Ovviamente >>
 
Si voltò nuovamente verso il ragazzo, Eriksi chiamava. Gli porse la mano destra:
 
<< Molto piacere di conoserti. Charles Xavier >>
 
<< Erik. Erik Lenssher >>
 
Il sorriso di Charles si allargò impercettibilmente, e decise in quel momento di approfittarne per cercare di scoprire se i suoi sospetti fossero fondati o no. Gli sarebbe bastato un attimo, non voleva di certo violare la privacy di Erik. Si concentrò.
 
Vide pioggia.
 
Pioggia freddissima, che penetrava sin nelle ossa.
 
E poi un lampo, senza il tuono, e vide lame e metallo e un volto inquietante, Herr Doktor, pensò con una mente che non era la sua, e sentì dolore, e rabbia, e ogni oggetto metallico della stanza era eco del suo dolore.
 
Uno sparo.
 
Charles si ritrovò circondato da sbarre di metallo, intrappolato, e poi sentì una voce che non riconobbe, e una sola parola.
 
Fuori.
 
La stretta durò pochi secondi, forse solo un istante più del normale.
 
Terminate le presentazioni, si sedette tranquillamente su uno sgabello, di fianco a Sean, ordinò la sua birra, alternando sorsi e conversazione.
 
Tutto perfettamente normale.
 
In realtà, non poteva fare a meno di notare con una certa apprensione, che ogni qualvolta alzava gli occhi dal suo bicchiere, lo sguardo freddo di Lenssher incrociava il suo, e i suoi occhi si indurivano ulteriormente.
 
Non capitava spesso che Charles fosse preoccupato.
 
E ormai non poteva fare a meno di osservare Lenssher a sua volta, lui ed ogni sua mossa, sicuro più che mai che stesse solo aspettando il momento giusto per fare qualcosa.
 
Il modo in cui sorrideva, affilato e con un’incredibile quantità di denti bianchissimi, non lo rassicurava affatto.
 
Buttando giù con velocità inusuale la sua birra scura, Charles chiarì dentro di sé tre punti molto importanti rispetto alla sua breve incursione nella mente di Erik Lenssher.
 
Il primo, era che i suoi sospetti erano perfettamente fondati.
 
Il secondo, che Erik si era reso conto di ciò che era successo, e si era difeso.
 
Il terzo e più importante punto: essenzialmente, era fottuto.
 
 

*

 
 
Due ore più tardi, Charles decise che aveva sopportato abbastanza sguardi omicidi per un’intera settimana, e e non era sufficientemente ubriaco per reggere oltre la situazione.
 
Per un momento ponderò se prendere un’altra birra.
 
Fu in quel momento che si rese conto che, no, l’alcool non era la soluzione a tutti i problemi.
 
<< Signori e signorine, vi annuncio che è arrivato il momento del mio ritiro >> proclamò Charles alzandosi in piedi, con un tono di esagerata solennità.
 
I suoi compagni di tavolo esplosero in un boato di disapprovazione.
 
<< Un ultimo brindisi, Charles! >> interruppe Sean alzando il bicchiere. Charles abbassò gli occhi sul fondo scuro del suo boccale. Il terzo? Il quarto? Non ebbe risposta.
 
<< A cosa brindiamo? >> domandò accomodante, girandosi verso Sean.
 
<< Alla guerra! Sola igiene del mondo! >> gridò Hank Pym, un ragazzo biondo con un genio per le scienze che Charles conosceva abbastanza bene.
 
Si sforzò di sorridere e di mostrare lo stesso entusiasmo degli altri ragazzi alla tavola.
 
<< Sì, alla guerra! E a un futuro di vittorie per l’Inghilterra e il Terzo Reich! >> aggiunse qualcun altro.
 
Charles strinse impercettibilmente le mani attorno al bicchiere.
 
Erik, pur ridendo con gli altri, lo stava guardando, notò.
 
Doveva andarsene. Doveva andarsene il prima possibile.
 
Vuotò il boccale e una volta concluso il brindisi girò i tacchi e si diresse verso la porta il più in fretta possibile. Voleva solo arrivare a casa e dimenticare quello che era appena accaduto, la guerra e i nazisti e ignorare il fatto che non sarebbero mai, mai più stati liberi.
 
Era buio pesto e il vicolo isolato. Charles affrettò il passo. Odiava stare da solo, ma da quando Raven se ne era andata, non aveva scelta se non abituarvisi.
 
Immerso nell’autocommiserazione, gli ci volle un po’ prima di accorgersi che i suoi passi non erano gli unici a risuonare sul selciato.
 
Si fermò bruscamente.
 
<< Non sei silenzioso come credi, temo >>
 
Si girò. Il volto di Lenssher completamente oscurato dalla fedora, ma Charles lo aveva riconosciuto ancora prima di voltarsi.
 
Fece alcuni passi in avanti. Charles non si mosse.
 
<< Che senso ha cercare di nascondersi da un telepate? >> rispose Erik con tutta tranquillità, come se le sue parole non avessero alcun peso.
 
Come se in quel preciso momento non lo stesso condannando.
 
<< Non so di cosa tu stia parlando >>
 
<< Il trucchetto di prima… Non avresti dovuto farlo, Charles. Ci tengo alla mia privacy >>
 
<< Non avevo la benché minima intenzione di-
 
<< Non mi interessa, stai fuori dalla mia testa>>
 
C’era una nota di chiara minaccia nella sua voce, e non del tipo che sarebbe caduta a vuoto.
 
<< Va bene >>
 
Erik aprì la bocca come per rispondere, ma non ne uscì alcun suono. Sembrava sorpreso, come se non fosse quella la risposta che si aspettava.
 
<< Ho sbagliato. Mi dispiace. So che non è giusto frugare nelle menti altrui senza il loro permesso, è che è difficile per me… >> si interruppe. Dubitava che Lenssher fosse interessato ai suoi problemi << Comunque, ti assicuro che non avevo cattive intenzioni. Mi scuso, e ti prometto che non succederà più >>
 
Erik annuì lentamente.
 
<< Allora siamo d’accordo >>
 
Fece per voltarsi, ma Charles lo fermò prima che potesse anche solo fare un passo.
 
<< Aspetta! >>
 
Erik si fermò, girando la testa per lanciargli uno sguardo dalla coda dell’occhio.
 
<< Cosa c’è? >>
 
<< Tu sei… Sei come me, non è così? >>
 
<< Sì >>
 
Charles non poté fare a meno di sorridere. Istintivamente, si avvicinò a lui. Erik si voltò completamente, la sua espressione illeggibile.
 
<< Lo sapevo! Ho sentito qualcosa, prima, sapevo che c’era… Dimmi per caso è qualcosa che ha a che fare con il metallo? >>
 
Invece di rispondere, accennò un sorriso ed estrasse la mano destra dalla tasca. Nella penombra del vicolo, Charles vide una moneta luccicare fra le sue dita, sospesa a mezz’aria.
 
<< Puoi controllare il metallo >>  non era una domanda.
 
<< E’ così >> confermò Erik.
 
<< E’ incredibile! Seiincredibile! E’ fortissimacome mutazione, veramente! >>
 
<< mutazione?>> ripeté aggrottando le sopracciglia.
 
Charles sorrise.
 
<< Sì, perdonami, è un termine che ho iniziato ad utilizzare nel corso dei miei studi di genetica, e penso che sia appropriato, diciamo, ad indicare le nostre abilità >>
 
<< Sì… Sì, lo so >> mormorò Erik distrattamente.
 
Mi chiedo come faccia a saperlo tu.
 
Il modo in cui Charles parlava, la sua terminologia e la naturalezza con cui giudicava tutto come un fenomeno naturale e scientifico, gli avevano ricordato vividamente Hank McCoy, il ragazzino che Schmidt teneva chiuso nel laboratorio del centro di ricerche.
 
Calò il silenzio, ed Erik sentì la necessità di porre fine il prima possibile a quella conversazione. La situazione gli era improvvisamente sfuggita di mano. Era lì per trovare mutanti, possibilmente un’organizzazione, ma questo Charles Xavier per quanto rientrasse nella prima ipotesi, non sembrava neanche lontanamente essere a conoscenza della seconda.
 
Quando Erik lo aveva seguito in quel vicolo, si era aspettato un combattimento, non un’amichevole conversazione.
 
A meno che non fosse stato tutto un diversivo.
 
Erik smise di pensare appena si rese conto che aveva iniziato a farlo. Dopo, si ricordò. Non era sicuro farlo nei pressi di un telepate, anche se Charles sembrava completamente e sinceramente ignaro rispetto a ciò che gli stava passando per la testa, altrimenti sicuramente avrebbe cercato di smentirlo, o di ucciderlo.
 
<< E’ stato un piacere >> Erik gli rivolse il suo sorriso più disarmante e porse la mano a mo’ di commiato.
 
Charles rispose alla stretta senza esitazione e dissi con tono amichevole << Altrettanto. Mi dispiace per il malinteso >>
 
<< Nessun problema. Arrivederci, Charles >>
 
<< Buonanotte >>
 
Erik si voltò, questa volta definitivamente, e prese a camminare verso il proprio alloggio.
 
Doveva contattare Schmidt al più presto possibile.
 







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Capitolo 3
*** England expects every man to do his duty ***


 
 


Blood and Honour



 

 
 

Capitolo III


 
 
 
“England expects”



 

 
 
 
 
Novembre 1946
Londra, Gran Bretagna
 
 
 
<< Il tuo nome è Raven, giusto? >>
 
<< Sì. Raven Darkholme, signore >>
 
Aveva avuto premura di nascondere il suo legame con Charles: non lo voleva esporre, in nessun modo. La loro parentela doveva rimanere segreta il più a lungo possibile.
 
Sempre che non la trovasse prima, pur ammettendo che la stesse cercando.
 
Raven si trovava in un ufficio apparentemente innocuo nella zona sud di Londra. Era completamente diverso dalla città nord, ancora in fase di ricostruzione, e non l’aveva mai visitata prima, durante i suoi viaggi nella capitale.
 
Quando ancora era con Charles, ovviamente.
 
<< Maria Hill mi ha parlato molto bene di lei, Raven. Durante la guerra ha fatto l’infermiera, giusto? >>
 
<< Sì, signore. Mi sono arruolata nel ’44, poco prima della fine. Avevo il grado di sergente >>
 
<< Sotto lo pseudonimo di Irene Adler >> concluse per lei Mr Braddock, con un impercettibile sorriso.
 
<< Era l’unico modo. Non avevo l’età per arruolarmi. >>
 
L’uomo annuì con aria accondiscendente.
 
<< Aveva solo quattordici anni, non è male. >>
 
Raven a suo malgrado, arrossì.
 
<< Si troverà bene qui, vedrà >> continuò Braddock incominciando a guardare tra alcune carte << noi della Resistenza ci consideriamo come una famiglia. Le ho assegnato un appartamento, è abbastanza lontano da qui, molto a nord, ma è necessario rimanere dislocati per non attirare troppo l’attenzione. Domani le sarà comunicato il suo nuovo posto di lavoro, e lì potrà iniziare la missione. Visto le tue particolari abilità, Raven, ho pensato che per te infiltrati negli Uffici direttivi della Wermacht a Londra non dovrebbe essere così difficile >>
 
Raven annuì e si alzò dalla sedia. Arrivata alla porta, con una mano sulla maniglia, si girò e chiese:
 
<< Se posso permettermi, signore, qual è la nostramissione? >>
 
Braddock distese le labbra sottili in un sorriso sardonico.
 
<< Uccidere Hitler, ovviamente >>


 

*


 
 
Se Erik pensava che dopo la loro conversazione in quel vicolo di aver terminato qualsiasi  rapporto con Charles Xavier, si sbagliava di grosso.
 
Quel ragazzo era ovunque, o più precisamente, ovunque Erik decidesse di andare.
 
Non che la cosa non potesse andare a suo vantaggio.
 
Era comunque leggermente snervante per Erik, anche perché era ben lontano dal fidarsi della sua promesso di leggere mai più nella sua mente. Se era concentrato, se ne sarebbe accorto e avrebbe potuto arginare il danno, ma non poteva fare nulla di concreto in realtà per impedirlo.
 
<< Non ti fidi di me, non è così? >>
 
Erik smise immediatamente di scrivere, e girò lo sguardo verso il compagno, il quale teneva gli occhi fissi verso il professore e prendeva appunti come se nulla fosse.
 
<< Non ti girare, o si accorgerà che non stai seguendo >>
 
Erik ubbidì.
 
<< Ti conosco da una settimana, mi sembra perfettamente normale >>
 
Con la coda dell’occhio, vide Charles sorridere.
 
<< Oh, Erik, possibile che debba ricordarti qual è il tuo concetto di normalità? >>
 
Piegare i metalli al tuo volere, completò nella sua mente il telepate.
 
Erik strinse le dita attorno alla penna, premendola con forza eccessiva sul foglio. Fuori,pensò.
 
<< Questo è il motivo per cui non mi fido di te >> mormorò di risposta, con perfetta calma.
 
<< E’ una semplice forma di comunicazione. Non stavo leggendo la tua mente, Erik, te lo giuro. Ma se ti da’ fastidio anche questo, non lo farò >>
 
C’era qualcosa nel tono della sua voce, nel modo in cui aveva concluso la frase, che costrinse Erik a voltarsi nuovamente verso di lui. Charles teneva la testa appoggiata al palmo della mano, e non scriveva più, gli occhi azzurri vacui e lontani, molto oltre la lavagna polverosa di quell’aula.
 
<< Perché ci tieni così tanto? >>
 
<< In che senso? >> rispose quietamente Charles, senza mostrare sorpresa all’improvvisa domanda.
 
<< A usare i tuoi “poteri”, con me >>
 
<< E’ passato molto tempo dall’ultima occasione che ho avuto di comunicare veramente con qualcuno. E’ come se i tuoi amici ti chiedessero di girare sempre bendato in loro presenza. Potresti sempre parlare, e toccarli, e li sentiresti e non sarebbe molto diverso, ma comunque non è la stessa cosa, non è così? >>
 
Anche Charles si era voltato a guardarlo adesso, ed Erik dovette costringersi a diffidare di lui, perché qualsiasi altro istinto gli diceva che Charles era meritevole di fiducia, e affezione.
 
Al contrario di Erik.
 
Per qualche minuto ci fu silenzio, e anche Charles tornò a scrivere diligentemente ogni parola uscisse dalla bocca del professore.
 
<< Chi era? >>
 
Smise di scrivere.
 
<< Chi era che se ne è andato, con cui potevi comunicareveramente? >>
 
Charles abbassò gli occhi e poi lo guardò di sottecchi, con un’espressione seria e combattuta come se non desiderasse affatto rispondere a quella domanda ma avesse già deciso di farlo comunque.  Erik non avrebbe dovuto fare quella domanda. Non erano affari suoi. Non avrebbe dovuto.
 
<< Mia sorella >> disse piano, dopo qualche secondo di esitazione.
 
Erik strinse le labbra in una linea sottile. Non sapeva cosa dire. Non sapeva confortare le persone, non era in grado di offrire loro parole gentili. Non veramente. Sapeva recitare, sapeva dare la perfetta imitazione della commozione e del pentimento, avrebbe ingannato chiunque.
 
Ma non Charles. Era un telepate, dopotutto.
 
<< Se ne è andata >> continuò il ragazzo << Qualche tempo fa. Abbiamo avuto delle divergenze, ecco tutto. Nessun’altro sa che sono un telepate. >>
 
Alzò gli occhi verso di lui, quegli occhi azzurrissimi e circondati da linee premature, con un sorriso terribilmente sforzato e poco credibile.
 
<< Grazie, Erik >>
 
<< Di cosa? >> rispose lui, sinceramente confuso. Non aveva fatto niente. Non aveva neanche parlato, cosa c’era da ringraziare?
 
Charles non diede risposta, ma solo un altro sorriso enigmatico e riprese a scrivere.
 
In quel momento Erik Lenssher realizzò tre fatti molto importanti.
 
Il primo, che non avrebbe mai avuto la certezza che Charles non stesse usando i suoi poteri.
 
Il secondo e ancor più grave, che nonostante ciò avrebbe finito col fidarsi di lui ugualmente.
 
Terzo fatto, e peggiore di tutti: era fottuto.
 
Prima che potesse cadere completamente nel pozzo di autocommiserazione che si stava accuratamente scavando, Charles lo prese per il polso, e costringendolo ad alzarsi dalla sedia, procedette a trascinarlo fuori dall’aula.
 
<< Questa lezione è insopportabile e mi annoio. Te sai giocare a scacchi, vero? >>

 
 
 
Berlino, Germania
Dicembre 1946
 
 
<< Che cos’hai intenzione di fare con i russi? >>
 
Schmidt, o meglio dire Sebastianfinse di non averla sentita, e andò tranquillamente avanti a versare brandy nei bicchieri di cristallo.
 
<< Non puoi liberarti di tutti i politici che non fanno quello che dici tu >> proseguì Emma, sul punto di spazientirsi.
 
Sebastian alla fine si voltò verso di lei, e le porse un bicchiere, sorridendo.
 
<< Allora non dovremo far altro che essere più convincenti, non credi? >>
 
Emma, suo malgrado, sorrise.
 
<< Sebastian, quello è ciò che faccio io >>
 
Lui rise, buttando la testa all’indietro come solo un uomo senza preoccupazioni potrebbe fare.
 
<< Ed è ancheper questo che sei così importante per me, mia cara >> le posò una mano sui capelli, un tocco così leggero da sembrare inesistente. Poi la sua mano si mosse fino a tracciare l’ovale del suo viso. Emma non si mosse. Schimdt ritirò la mano.
 
<< E comunque, se non ricordo male, di Churchill non ci siamo liberati affatto, no? E con il caro Harry siamo arrivati ad un accordo perfettamente accettabile, quindi penso che tu stia esagerando >>
 
<< Per ora. Lenssher è in Inghilterra per mettere a posto la faccenda, lo sappiamo bene entrambi >>
 
<< Oh sì, ma potrebbe esserci ben più di un fastidioso omino, laggiù. D’altronde, Emma, come hai detto tu bisognerà ricordare alla Russia esattamente chiha vinto questa guerra >>
 
<< La Germania? >>
 
Il sorriso di Sebastian può essere descritto solo come pericoloso.
 
<< Oh no, affatto. Intendevo dire noi>>
 
 
 
 
Oxford, Inghilterra
Novembre 1946
 
 
La caffetteria era affollata, calda e impacchettata di persone, dal loro vociare e dal loro calore. E pensierigemette tra sé e sé Charles, mentre sentiva l’inizio di un mal di testa attaccare ferocemente le sue tempie.
 
In fila per prendersi una tazza di tè, sentì una gomitata tra le costole che quasi lo fece cadere in avanti. Costringendolo ad appoggiarsi al carrello dei vassoio. Ricevette alcune occhiate perplesse per la sua goffaggine, e questo non fece altro che aumentare la sua irritazione.
 
<< Chi diavolo-
 
Non gli importava chi fosse in realtà, era stanco, infreddolito e solo e l’unica cosa che lo teneva in piedi era l’idea di una tazza di tè e questo bastava a sfogare tutta la sua frustrazione sul primo malcapitato, che non era altro che Anja.
 
<< Charles! >> squittì la ragazza per farsi sentire sopra la folla. Sentì una fitta alla testa e dovette mordersi la lingua per non farsi sfuggire una risposta scortese.
 
<< Dimmi >>
 
<< Ho visto che hai fatto nuoveamicizie >> la malizia nella frase venne accentuata da una strizzata d’occhio e un’ulteriore gomitata nelle costole.
 
Quella ragazza doveva sparire.
 
<< Non credo di seguirti, in realtà >>
 
<< Oh, andiamo, sai benissimo di chi parlo! >>
 
Ti prego, lasciami in pace.
 
<< Dai, presentamelo, non ti costa nulla! >>
 
Lasciami stare.
 
<< Allora, che ne-
 
Vattene!
 
I rumori, le luci, tutti i suoni del refettorio si erano come attutiti e Charles non se ne era accorto, non fino a quel momento, quando tornò tutto indietro, di colpo e con una violenza che lo colse di sorpresa, togliendogli momentaneamente il respiro. L’emicrania che l’aveva solo minacciato fino a quel momento, esplose in piena potenza.
 
Fece un respiro profondo, costringendosi a riaprire gli occhi e finire di affrontare la ragazza di fronte a lui. Le avrebbe spiegato con calma e tranquillità che non si sentiva bene, e avrebbe pensato a una scusa per non presentarle Erik un’altra volta.
 
Aprì gli occhi.
 
Di fronte a lui non c’era nessuno.
 
Oh no. No, no no no no.
 
<< Ti muovi? Stai bloccando la fila! >>
 
Allora il suo corpo si mosse in automatico, e senza neanche rispondere, prese una tazza dalla piramide ordinatamente impilata, una bustina di Earl Grey, e versò l’acqua bollente, per poi uscire immediatamente dalla caffetteria.
 
Cos’ho fatto? Che cosa ho fatto? Non le ho fatto male, dio fa’ che non le abbia fatto male
 
Doveva allontanarsi solo un attimo e si sarebbe sentito meglio. Doveva stare da solo.
 
Hank, Sean ed Erik lo aspettavano all’uscita, fumando una sigaretta.
 
<< Finalmente, signorina! >>
 
<< E’ inutile Hank, per il vecchio Charles il tè viene prima degli amici >> sbuffò Sean, andandogli incontro.
 
<< C’era coda, non è colpa mia! >> protestò debolmente, con un sospiro annoiato. L’aria fredda gli sferzava le guance, e si sentì subito più lucido.
 
<< Bene, se te hai finito di fare l’anziano noi vorremmo iniziare ad essere giovani. C’è Anja con altre ragazze alla caffetteria in fondo alla strada, tra cui Janet. Lo dico solo perché so che tanto ad Hank non interessa >>
 
<< Non mi interessa infatti. Per niente. Andiamo? >>
 
<< Io passo >>
 
Charles non avrebbe potuto sopportare un solo secondo. Anche solo la parola ragazzegli aveva fatto venire mal di testa.
 
<< Anche io >>
 
Questa volta era stato Erik a parlare.
 
Charles si voltò a guardarlo, sorpreso, ma Sean ed Hank si limitarono ad una scrollata di spalle prima di salutare e incamminarsi.
 
<< Potevi andare con loro. Non mi sarei offeso >>
 
<< Lo so. Preferisco un po’ di quiete, semplicemente. Che ne dici di una partita a scacchi? >>
 
Charles sorrise.

 
 
 
Dicembre 1946

 
 
<< Erik >> la voce di Charles era lontana, come un eco lontano che provenisse da dieci blocchi di distanza.
 
Completamente perso nei suoi pensieri, gli ci volle un istante per ricordarsi dove si trovava, e che ad Oxford non c’erano blocchi.
 
Alzò gli occhi, trovando l’amico che lo fissava intensamente, le sopracciglia aggrottate e le labbra strette in una linea severa che non gli si addiceva.
 
<< E’ il tuo turno. Da dieci minuti circa >>
 
Gli basta un’occhiata per capire che è vero.
 
Erik, a quanto pare, aveva fissato la scacchiera per dieci minuti senza neanche vederla.
 
<< Scusami, mi ero distratto >> mormorò senza guardarlo, e mosse il cavallo in avanti, senza neanche rifletterci in realtà.
 
<< Amico mio, lascia perdere gli scacchi. Cos’è che ti preoccupa? >>
 
Erik non ricordava esattamente quando Charles avesse iniziato a riferirsi apertamente a lui come amico, e la cosa lo spaventava ancora di più della consapevolezza che quella era la verità.
 
Gli era sembrato così naturale che non se ne era neanche accorto.
 
Avrebbe dovuto fuggire, tornare a Berlino appena se ne fosse reso conto. Ma adesso, era troppo tardi, e comunque inutile: presto avrebbe dovuto tornare. Schmidt era sempre più impaziente ed era questione di giorni finché l’avrebbe richiamato al centro.
Charles non c’entrava nulla con la politica e i piani del Dottore, e loro avevano già una telepate, quindi perché coinvolgerlo? Era chiaro che non aveva nulla che potesse interessare a Schmidt.
 
In pochi giorni Erik se ne sarebbe andato, Charles avrebbe continuato con la sua vita di sempre, e a lui sarebbe rimasto il ricordo dell’unica persona che poteva chiamare amico. Anche se per finta.
 
Era tutto perfettamente calcolato.
 
Non c’era nulla che lo preoccupasse.
 
<< Niente. Assolutamente niente. Sono solo molto stanco >>
 
Charles, ovviamente, non credeva ad una sola parola. E quanto lo guardava in quel modo, fisso e silenzioso e concentrato, Erik non poteva fare a meno di temere che quella fosse la volta buona, che Charles avrebbe veramente visto chi era e le cose che aveva fatto, e lo avrebbe odiato per sempre.
 
Ma non era così. Semplicemente, si era lasciato sfuggire qualche dettaglio personale di troppo. Per quanto si fosse attenuto al personaggioche gli era stato dato da interpretare, Charles era in qualche modo riuscito a entrargli sotto la pelle. Lo conosceva.
 
<< Va bene. D’accordo. Come vuoi >> c’era una nota di impazienza nella sua voce, e il modo in cui tamburellava nervosamente il piede non prometteva nulla di buono. Si abbandonò sulla sedia, gli scacchi ormai ignorati, prima di passarsi una mano fra i capelli e sospirare nervosamente.
 
<< Devo parlarti di una cosa molto importante. Riguarda mia sorella >>
 
Erik annuì, improvvisamente teso. Questo non l’aveva programmato.
 
<< Non ti ho detto tutta la verità, ho paura >>
 
Basta quella semplice frase e il sangue di Erik si fa di ghiaccio, è una doccia fredda e già lo sente, Charles gli dirà che sa tutto, sa che è un traditore, o peggio ancora riderà di lui e gli dirà che non era tutto uno scherzo, che non l’ha mai veramente considerato un’amico e…
 
<< Lei è una mutante, come noi >>
 
Oh.
 
<< Le nostre divergenze erano di natura ideologica, diciamo. C’è stata una guerra, dopotutto >>
 
C’è una pausa, ed Erik incomincia a capire dove la conversazione potrebbe andare e non gli piace affatto. E’ territorio pericolo, anche per lui, e se si caccia nei guai Schmidt potrebbe…
 
<< Sì, me ne sono accorto >>
 
Charles strinse le labbra in una linea sottile e andò avanti a parlare, gli occhi fissi sulla scacchiera e le mani giunte.
 
<< Certo. La differenza principale, amico mio, è che voi >> preso in mano la regina prima di muoverla diagonalmente lungo la scacchiera << avete vinto. >>
 
Ho perso l’alfiere, si accorse vagamente Erik.
 
<< Mentre noi>> e in quella particella stava tutta la differenza, tutta la solitudinedi Charles << abbiamo perso >> concluse con un sospiro.
 
Erik non sapeva come rispondere.
 
<< So che non è un argomento da affrontare con leggerezza. Mettere in discussione le proprie lealtà al reich non è una buona idea, ma non voglio più nascondermi, Erik. Ho odiato questa guerra, odio la violenza e tutte le morti che ne sono derivate, eppure >>
 
Con un gemito di frustrazione Charles si prende la testa fra le mani, ed è come stesse reggendo la decisione più importante della sua vita, e se lascia andare, cadrà a terra e si romperà in mille pezzi, e si stringe i pugni e resiste, rimarrà tutto intatto esattamente com’era prima.
 
Charles lascia che le mani gli cadano in grembo, e quando torna a guardarlo, nei suoi occhi c’è una risolutezza che Erik non aveva mai visto prima.
 
<< Charles, cosa stai-
 
<< …Odio il nazismo ancora di più. Odio Hitler e l’odio che predica la sua idelogia. Vorreiodiare questa stupida, stupidaInghilterra che si è fatta trascinare in un conflitto che non poteva vincere, la Francia che è essere caduta così miseramente e l’America per averci abbandonato… Ma non posso. >> conclude la frase con un smorfia sconosciuta sul suo volto, un’espressione mai vista prima. E’ simile al disgusto.
 
<< Non posso perché non voglio che sia l’odio a guidare ogni mia azione. Non desidero la vendetta. E’ troppo tardi ormai, e la colpa è mia >> sorride, ma è un sorriso vacuo e freddo << …e della mia totale incapacità di fare alcunché >>
 
<< Non avresti potuto fare niente >> la risposta giunge spontanea sulle sue labbra, ed Erik sa che in fondo è quello che dice a sé stesso ogni sera, perché lo aiuta a chiudere gli occhi. Aveva avuto appena tredici anni quando era scoppiato il conflitto, Charles non poteva averne più di undici.
 
<< Raven non la pensava allo stesso modo.  Ed è per questo che ne è andata. Per combattere >>
 
Con deliberata lentezza, Charles congiunse le mani di fronte a sé, per poi finalmente alzare lo sguardo verso Erik, i suoi occhi chiarissimi puntati su di lui.
 
<< Credo che sia riuscita a trovare l’organo della lotta armata, la cosidette Resistenza. Credo che si sia unita a loro, e che stia combattendo per loro, e potrebbe anche morire per loro. Io voglio ritrovarla, a qualsiasi costo. Non m’importa quali sono le sue scelte di vita, è mia sorella, e io la troverò e starò al suo fianco, sempre e comunque >>
 
Il peso delle parole di Charles è immenso e non può venir ignorato, perché in quel momento Erik sa di avere pieno controllo su di lui. A meno che non glielo impedisca in qualche modo o gli cancelli la memoria (e non è sicuro che sia in grado di farlo) Erik potrebbe uscire da quella stanza in quello stesso momento, riferire il suo grado alla più vicina stazione di polizia, e Charles verrebbe arrestato entro la mezzanotte.
Sarebbe completamente in suo potere.
 
Ed è solo lì che se ne rende conto. Il punto non è quello che lui potrebbe fare. Il punto è quello che Charles sta facendo.
 
Si sta fidando di lui. Completamente.
 
Avrebbe dovuto fermarlo.
 
<< Erik. Io mi fido di te. Questo, l’avrai già capito. Se mi vorrai denunciare, non ti impedirò di farlo. So che la lealtà verso il proprio paese viene prima di tutto. Mi sto prendendo la responsabilità per ciò che sono, nell’unico modo che conosco. >>
 
Erik non si mosse.
 
<< Ma se per caso >> la voce di Charles si incrina per un istante, e lui si passa una mano sul volto prima di continuare << Se per caso tu volessi agire diversamente, prendere un percorso diverso, quello che ti sto chiedendo è di venire con me, Erik. Aiutami a trovare mia sorella. Sei l’unica persona di cui mi fidi completamente, e l’unico che può farlo. Adesso, la mia vita è praticamente nelle tue mani, amico mio. Tocca a te decidere: da che parte stai? >>
 
Non è mai stata una domanda vera e propria. Niente più di una domanda retorica, seriamente, che scelta poteva avere Erik?
 
Non sa ancora se sta tradendo Charles, ma sa che prima o poi succederà comunque. E’ una questione di quando.
 
La risposta può essere una sola.
 
<< Verrò con te >>


 
 
Due settimane prima

 
Quando raggiunse il suo appartamento, situato quasi fuori Oxford, era ormai notte fonda. Erik si sedette sul letto senza neanche togliere il cappotto o il cappello. Sedette, pietrificato, per qualche secondo.
 
Infine si decise a prendere il telefono. Non gli importava di disturbare Schmidt, questoera qualcosa che non poteva aspettare.
 
La voce del dottore non sembrava minimamente sorpresa.
 
<< Un telepate. Hai trovato un telepate >>
 
<< Sì >>
 
<< Erik, non puoi essere sinceramente convinto che questo ragazzo non nasconda qualcosa… o qualcun altro. Potrebbe farti credere qualsiasi cosa. Questa conversazione potrebbe essere tutta frutto della tua, no, della sua immaginazione >>
 
<< Non è così >> replicò Erik con un tono brusco, spazientito.
 
Poteva quasi sentireil sorriso di Schmidt quando gli rispose.
 
<< Oh, lo so perfettamente. Non sei uno sprovveduto. Ti ho allenato io stesso, d’altronde >>
 
Allenato. Come sempre, le sue scelte di parola erano poco più che eufemismi.
 
<< Cosa devo fare? >>
 
Sempre pronto a prendere ordini. Patetico.
 
<< Hai un mese di tempo. Angel è già a Londra. In primo luogo è importante che tu capisca l’entità dei suoi poteri. Cerca di sfruttarlo a nostro vantaggio. Dopotutto, è uno di noi. Sono sicuro che riuscirai ad essere abbastanza persuasivo >>
 
Erik deglutì. Era stato un errore chiamare Schmidt. Non gli stava dicendo nulla che non sapesse già.
 
<< E se non lo fossi abbastanza? >>
 
L’uomo all’altro capo del filo rise.
 
<< Devi ucciderlo, ovviamente >>
 
<< Sì, signore >>
 
La linea cadde.

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Capitolo 4
*** Recalling things that other people have desired ***



Blood and Honour
 








Capitolo IV

 
 
 
“Recalling things that other people have desired”

 
 
 
 
 
Londra, Inghilterra
Dicembre 1946
 
 
<< Aspetta. E’ qui >>
 
Charles gli appoggiò una mano sul polso ed Erik si fermò bruscamente. Il suo battito era regolare e tranquillo, al contrario di quello del telepate, che continuava a deglutire nervosamente.
 
Londra era brulicante di vita e di morte allo stesso tempo. Cantieri sorgevano sui crateri lasciati dalle bombe, l’intera città era un cimitero senza lapidi.
 
Entrarono a Carnaby Street, stretta e quieta al buio della sera. C’erano poche luci, e la strada era deserta all’infuori di loro due.
 
Charles, d’altronde, sembrava avesse appena ripreso a respirare.
 
Avevano setacciato tutta la città, camminando sin dalle prime ore del giorno. Sapevano che Raven si trovava lì, e non solo lei, con ogni probabilità. Quindi non avevano fatto altro che girare per le vie della capitale, mentre Charles cercava la traccia mentale della sorella. Portarsi una mano alla tempia lo aiutava enormemente e gli facilitava la concentrazione, ma avrebbe finito con attirare l’attenzione, e aveva dovuto farne a meno.
 
<< Charles, fermati un attimo >>
 
<< Mi è sembrato… Mi era sembrato di sentirla, Erik, era vicina >>
 
<< Sì, ma hai bisogno di fare una pausa, finirai con-
 
<< Un ultimo sforzo. Devo solo fare  l’ultimo sforzo >>
 
In preda all’esasperazione, Erik lo afferrò per le spalle costringendolo a voltarsi verso di lui. Gli occhi di Charles, vacui e lontani, tornarono a focalizzarsi e lo guardarono con sorpresa, come se fosse stupito di trovarlo lì.
 
Si era praticamente dimenticato che Erik fosse presente.
 
Charles era troppo pallido, e i suoi occhi erano cerchiati. Erik pensava che non avrebbe resistito così a lungo, ma evidentemente si era sbagliato.
 
<< Fermati un attimo >> ripeté.
 
Per un attimo sembrò che stesse per divincolarsi e proseguire per la sua strada, ma alla fine chiuse gli occhi, prese un profondo respiro, ed Erik sentì le sue spalle rilassarsi impercettibilmente.
 
Lo lasciò andare, e fece un paio di passi indietro.
 
<< Va bene >>
 
Si fermarono di fronte ad un pub. L’insegna diceva Florence Mills Social Club. Dal locale proveniva musica jazz di vecchio stampo, come Erik ne aveva sentita prima della guerra.
Ed era completamente frequentato da afroamericani.
 
Charles deglutì.
 
<< Lei è qui. E’ sicuramente qui >>
 
<< Charles >> Erik si avvicinò a lui << Non sono sicuro sia una buona idea entrare qui. Finiremo per attirare l’attenzione. Non puoi farla uscire? >>
 
Il ragazzo annuì e si portò una mano alla tempia. Dopo qualche secondo la lasciò ricadere sul fianco. Tremava leggermente, notò Erik.
 
<< Si rifiuta. Dobbiamo entrare >>
 
E senza dire altro si fece strada all’interno del pub.
 
Il posto era poco illuminato, e non c’erano molte persone. Tre uomini giocavano a carte lontano dal bancone. Due coppie sedevano vicino al palco, e un uomo al bancone. Tutti con la pelle scura.
 
Si fece subito silenzio.
 
Una delle ragazze sedute al tavolo si girò verso di loro, e sorrise. I suoi denti parevano bianchissimi sulla pelle color dell’ebano. Aveva gli occhi grandi, e lunghi capelli ricci sciolti sulle spalle. Si alzò e camminò verso di loro, fermandosi di fronte a Charles, il quale la guardava con occhi spalancati e soprattutto spaventati.
 
<< Raven >>
 
Era lei.
 
 

*
 

 
 
Raven era una mutaforma, e questo aveva spiegato il suo aspetto, oltre che alla sorpresa di Charles. Non era abituato a vederla utilizzare il suo potere con tanta leggerezza.
 
<< Sei riuscito a trovarmi, alla fine >>
 
Era nel club da più di mezz’ora, e nessuno sembrava più fare caso alla loro presenza. Erik si limitava ad osservare l’incontro fra i due fratelli, sorvegliando la situazione, e cercando di apparire rilassato beveva tranquillamente il suo rum scuro.
 
Charles, al contrario, stringeva troppo forte il bicchiere e fissava la sorella con una certa durezza nello sguardo.
 
<< Non è stato facile, ma come vedi sono qui >>
 
<< Ti ci è voluto un mese intero. Te la sei presa comoda >>
 
<< Ho aspettato, Raven! Speravo che avresti smesso con questa follia e saresti tornata a casa, ma vedo che è solo peggiorata! Cosa ci fai qui? Perché sei in mezzo a queste persone? >>
 
<< Queste personesono esattamente come me e te: oppresse, e costrette a nascondersi. E vogliono lottare >> fece un sorriso freddo << vedo che i tuoi studi di genetica hanno condizionato il tuo pensiero più di quanto credessi >>
 
Charles abbassò lo sguardo, senza offrire risposta, ma Erik poteva quasi vedere la furiaformarsi attorno a lui, come una tempesta pronta ad abbattersi a tutta forza.
Alzò la testa, e il suo sguardo era calmo e sereno.
 
<< Adesso cambi il tuo aspetto continuamente? Cosa farai se ti scopriranno, visto che non ci sono più io a proteggerti? >>
 
Raven lo guardava, ma i suoi grandi occhi scuri erano privi di espressione.
 
<< Non sono da sola, Charles. C’è chi bada a me >> poi si voltò verso Erik << il tuo amico. Ci possiamo fidare di lui? >>
 
<< Gli affiderei la mia vita >> rispose il telepate senza esitazione.
 
Erik strinse impercettibilmente il bicchiere e decise che era il momento adatto per vuotarne il contenuto.
 
<< Allora >> proseguì la ragazza alzandosi dal tavolo con un movimento aggraziato << è venuto il momento che voi conosciate la Resistenza >>
 
 
 

Berlino, Germania
Una settimana dopo

 
<< Li ha trovati >>
 
Il sorriso sulle labbra di Schmidt era qualcosa di innaturale e inquietante, ma non spaventava Emma. Non più. Sorrise anche lei, dolcemente.
 
<< Te lo avevamo detto, che si trovavano a Londra >>
 
<< Ed avevi assolutamente ragione! Un’intero esercitodi mutanti, raccolti in un unico punto e addestrati a combattere: non sembra un sogno? >>
 
<< Addestrati a combattere contro di noi, Sebastian >>
 
L’uomo si sedette di fianco a lei e la prese per mano, senza smettere un attimo di sorridere.
 
<< Per ora, mia cara, per ora >>
 
Suo malgrado, Emma si trovò a ricambiare quel sorriso.
 
<< Oh, so quanto sai essere persuasivo >>
 
<< Esattamente >> balzò improvvisamente in piedi, e si diresse verso uno dei contenitori pressurizzati del laboratorio << e come pegno della mia fiducia, i russi mi hanno dato questo >>
 
Era un elmo. Emma inclinò la testa e guardo la luce riflettersi sulla superficie liscia dell’oggetto. Ricordava un manufatto antico, come quelli che dovevano aver indossato gli antichi templari. Non la stupiva notare che in Russia, gli uomini sembravano rifarsi alla stessa mitologia tanto cara al Terzo Reich.
 
Sebastian lo indossò, e qualcosa in lui sembrò mutare.
 
<< Dimmi cosa sto pensando >>
 
Era completamente oscurato. Invisibile alla sua mente. Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe giurato che non fosse neanche lì. Era inquietante in un senso, ma affascinante in un altro: era così per tutti loro?
 
<< Non posso >> disse con semplicità.
 
Lui sorrise, evidentemente soddisfatto.
 
<< Stavo pensando che sei bellissima, Emma >> le sue labbra si strinsero in una linea severa << e che temo non potrò accompagnarti in Russia, in quel piccolo viaggio diplomatico >>
 
<< Perché? >>
 
<< La situazione a Londra potrebbe essere più di quanto Erik ed Angel possano gestire. Voglio essere qui, in caso venisse richiesto il mio intervento >>
 
<< Capisco >>
 
Si sedette nuovamente vicino a lei, passandole un braccio attorno alle spalle.
 
<< Sarà per poco. Ti raggiungerò appena possibile. Se andrà tutto bene, non dovrò nemmeno andare in Inghilterra >>
 
Emma sorrise.
 
<< Dirò ad Azazel e Riptide che porgi i tuoi saluti >>
 
Il suo sorriso si allargò << Certamente >>
 
Fu solo quando Sebastian si fu alzato e uscì dalla stanza, che Emma si accorse che non aveva più tolto l’elmo.
 

 

*
 

 
 
Si trovavano lì da una settimana, ed Erik desiderava scappare ogni giorno di più.
Non che ci fosse nulla di sbagliato in quel posto: dietro la rassicurante facciata dell’azienda Braddock & sons per le ricostruzioni, si nascondeva l’ufficio di recutramento più efficace che Erik avesse mai visto.
 
Era completamente diverso dal laboratorio di Schmidt, e dalla sua guerra privata col genere umano.
 
Lì mutanti e umani lavoravano e si allenavano insiemeper quanto inconcepibile e degradante la cosa apparisse ai suoi occhi.
 
Erano tutti drammaticamente convinti che ce l’avrebbero fatta, che il loro piccolo esercito mutante sarebbe stato in grado di rovesciare l’Impero di Hitler, ed Erik sapeva che non sarebbe mai successo, tutto questo per colpa sua.
 
Sono una spiapensava, sono una spia e un traditore e vi condannerò tutti.
 
Ma a quanto pareva, Charles non aveva rotto la sua promessa. Non gli aveva letto nel pensiero. Non l’aveva sentito.
 
Charles era il lato peggiore di tutta la faccenda. Charles che si fidava di lui. Charles che gli parlava con occhi che brillavano e non lo lasciava mai solo, Charles che cercava di nascondere dietro al suo scetticismo l’entusiasmo e la semplice gioiache sembrava causargli la convivenza forzata tra uomini e mutanti che chiaramente non avevano nulla in comune se non il desiderio di vendetta.
 
<< E’ più di quello, amico mio, è molto di più. E’ la base per un futuro migliore, un futuro in cui ci sia finalmente pace, capisci? >>
 
<< Questo non accadrà mai e lo sai benissimo. E’ dalla notte dei tempi che le specie lottano per la sopravvivenza: gli uomini hanno passato gli ultimi duemila anni a farsi a pezzi reciprocamente, perché con noi dovrebbe esserci alcuna differenza? Siamo pericolosi Charles, e una volta finita questa guerra, ne inizierà un’altra >>
 
<< Oh Erik, ma è proprio per questo che siamo qui: per evitare che succeda. Se lottiamo insieme adesso, rimarremo uniti. >>
 
Erik scosse la testa, deciso a non rispondere. L’idealismo di Charles era troppo doloroso, e non solo quello: avvicinare quel ragazzo era stato un errore. Non avrebbe dovuto. Avrebbe solo reso tutto più difficile… dopo.
 
<< Lo sai >> continuò il ragazzo, mentre Erik fissava ostinatamente di fronte a sé << Mio padre ha combattuto nella Grande Guerra, e lui mi raccontava che quando combatti, il legame che si forma tra compagni diventa l’unica cosa che conosci. Essi diventano per te madre, padre e fratello: ti fidi di loro con la tua vita, e loro fanno altrettanto. E’ un tipo di amore più profondo di ogni altro, e non se ne vai mai >>
 
Gli affiderei la mia vita. Le parole di Charles erano troppo fresche nella sua memoria perché potesse sopprimerle in qualche angolo buio. Il loro peso non era mia stato così reale, disteso fra di loro come lo spazio fisico che li divideva.
 
Non ti fidare di me. Non devi fidarti di me.Avrebbe voluto dirlo, ma le parole si rifiutavano di uscire. Sarebbe stata la fine. Non poteva farlo. Schmidt avrebbe ucciso lui e Charles e chiunque altro: così invece, aveva una possibilità di salvarlo. Anche se significava farsi odiare, e perderlo comunque.
 
<< Non è sempre così, non è così semplice >>
 
Aveva parlato a denti stretti, la voce un sussurro appena udibile.
 
Charles gli aveva posato una mano sulla spalla senza dire niente, calda anche attraverso la pesante stoffa della giacca, ed Erik si sentì meglio e peggio allo stesso tempo senza sapere come fosse possibile.
 
<< Non è semplice, ma è così. Anche tu prima o poi dovrai fidarti di qualcuno, e andrà tutto bene >> disse Charles, e anche lui parlava pianissimo, ed erano così vicini, come se stessero dividendo un segreto.
 
Ma lui scosse la testa con forza, perché per quanto volesse crederci sapeva che non era vero, e anche Charles aveva il diritto di saperlo, e lui aveva il diritto di non mentire almeno una volta, non è così?
 
Non è così?
 
<< No, Charles. Sei tu che non capisci. Io non sono come voi. E’ diverso per me >>
Si fermò, cercando di calmarsi, ma era impossibile, era troppo e non ce la faceva e lo odiava.
 
<< Non servirà a niente. Tutto questo è già successo, ed è destinato a fallire, è perfettamente inutile >>
 
Charles non gli offrì risposta, ed Erik sapeva che non poteva capire. Per quanto avesse voluto non poteva lasciare che lui comprendesse.
Avrebbe solo voluto lasciarlo leggere i suoi pensieri, almeno sarebbe finita.
 
Era impossibile, ovviamente. Non sarebbe mai finita.
 
<< Erik, ti prego, ascoltami >> la mano di Charles sulla sua spalla lo avvolgeva completamente ed Erik si accorse quanto lo avesse lasciato avvicinare, metaforicamente e non, e se ne vergognò terribilmente << Tu non sei solo. Hai capito? Non sei solo >>
 
Erik chiuse gli occhi, e si lasciò tenere da Charles ancora per un po’, dalle sue mani calde e le sue parole gentili. Poi avrebbe chiamato Schmidt per il suo rapporto giornaliero sulle attività della Resistenza.
 
 

*

 

Aveva incontrato Angel due giorni dopo i loro primi contatti con Braddock, fuori dal suo ufficio. Charles aveva insistito per accompagnare Raven, e anche se a loro non era stato chiesto di partecipare attivamente alla causa, temeva che Charles potesse lasciarsi convincere in qualche modo.
 
Meno si fosse fatto coinvolgere, più sarebbe stato facile per Erik salvargli la vita.
O almeno così credeva.
 
Così si era messo ad aspettare fuori, ed un gruppo di persone gli era passato davanti e l’aveva vista immediatamente, i suoi tatuaggi più inconfondibili dei suoi stessi occhi.
Lei non aveva nemmeno incrociato il suo sguardo. Schmidt addestrava bene le sue spie, e loro ne erano la prova vivente.
 
Erik uscì dall’edificio e si mise ad aspettare sul retro, fumando una sigaretta.
 
Non dovette aspettare molto.
 
<< Cosa ci fai qui? >> sibilò lei appena lo vide.
 
<< Ero ad Oxford, e ho seguito una traccia >>
 
<< Che incredibile coincidenza! Cazzate, ti ha mandato qui il Dottore, vero? >>
 
Erik ignorò il veleno con cui sembrava sputargli le parole addosso e spense la cicca della sigaretta con la punta della scarpa.
 
<< Il Dottore mi ha mandato ad Oxford, Angel. E se prendi il fatto che io sia qui come un segno di sfiducia da parte sua, la cosa non mi riguarda minimamente >>
 
La ragazza non rispose, limitandosi a guardarlo freddamente.
 
<< Sono qui da un mese. Sono riuscita a farne arrestare alcuni, ma erano solo umani. Schmidt praticamente non vuole che io faccia nulla, si può sapere da che parte stiamo?! >>
 
Sputò a terra, e la sabbia divenne divenne nera di cenere in un minuto.
 
<< Ne so quanto te. Io sono qui da due giorni, ma sinceramente non voglio farmi coinvolgere troppo. Non è la mia missione. Me ne andrò il prima possibile >>
 
La ragazza alzò lo sguardo e lo guardò, scettica.
 
<< E’ quello che ti ha detto Schmidt? E tu ci credi? >>
 
Erik strinse le mani in due pugni ma non disse niente. Cosa doveva significare la domanda? Quella ragazzina si stava prendendo gioco di lui. Ignorandola, le passo di fianco, e mentre si dirigeva nuovamente verso l’entrata, tirò il metallo dei suoi tacchi con un gesto casuale, facendola cadere a terra.
 
 
*
 
Quello era stato il giorno in cui aveva scoperto il potere di Raven, e la sua vera forma. C’era qualcosa in quella ragazza che lo attraeva e lo respingeva allo stesso tempo: era bellissima, molto semplicemente. Erik non riusciva a staccarle gli occhi di dosso quando entrava in una stanza, ed ogni suo movimento emanava una grazia magnetica, qualcosa di animalesco ed elegante allo stesso tempo.
 
Perlomeno, quando decideva di non nascondersi come un banale essere umano.
 
Sì, Raven era splendida, ma sotto il suo incredibile aspetto, la sua mente era banalein modo quasi frustrante. Lei non combatteva per i mutanti, per gli altri come lei, no: combatteva per gli essere umani. Voleva essere come loro, forse sperava che lottare nella loro guerra li avrebbe aiutati ad accettarla.
 
Se Erik avesse posseduto poteri telepatici, non avrebbe esitato a utlizzarli per correggerela sua mente.
 
Poi era passata una settimana, e Charles gli aveva annunciato che non aveva più intenzione di lasciare sua sorella da sola, e che doveva rimanere al suo fianco, in pratica aveva deciso di prendere parte attiva a tutte le idiozie che la Resistenza credeva di fare.
 
E a quel punto, Raven era diventata l’ultimo dei suoi pensieri.
 
Tre giorni dopo, stavano infiltrando un campo dell’occupazione dell’esercito tedesco.
 
 

*

 
 
Alla fine, Raven non era neanche con loro. Braddock li aveva molto chiaramente manovrati, ma questo non lo stupiva.
 
Quello che Erik non capiva, era perché luifosse lì.
 
La ragazza era in grado di introdursi indisturbata in praticamente qualsiasi ufficio governativo, insomma la spia perfetta. Schmidt avrebbe sicuramente apprezzato una creatura simile dalla sua parte.
 
Erikla voce di Charles nella sua mente interruppe il suo rimuginare Ho bisogno che tu disarmi le tre guardie all’entrata del campo.
 
Scannerizzò l’area attraverso il binocolo, e li vide. Erano poco più che tre ragazzini, i loro fucili erano bassi e uno di loro sedeva a terra, pulendosi le unghie col taglierino.
 
Erano nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma non era colpa sua.
 
Con un gesto della sua mano, il taglierino sfuggì falle mani del soldato e si conficcò nella sua gola. Gli altri due fecerono appena in tempo ad accorgersi con orrore cosa fosse successo, che le loro pistole si alzarono contro di loro. Bastarono due colpi.
 
Erik!Sussultò mentalmente. Charles stava gridando nella sua testa ed era tutt’altro che piacevole che cosa hai fatto? Sei impazzito?
 
Li aveva disarmati. Esattamente come aveva detto. Erik era bravo ad obbedire gli ordini.
 
Li hai uccisi! E pensi che gli spari non abbiamo svegliato l’intero campo? Dobbiamo andarcene.
 
Erik si trovò mentalmente confuso alle parole di Charles, prima che la gelida realizzazione lo colpì come un fulmine.
 
Charles non lo sapeva.
 
Non sapeva che il piano di Braddock, fin dall’inizio, era quello di fare piazza pulita dell’intera base.
 
No, Charlescercò di pensare il più gentilmente possibile, ma sapeva che sarebbe stato inutile adesso dobbiamo ucciderli tutti.
 
Non lo farò. la sua voce era sorprendentemente calma.
 
Allora lo farò io.
 
Charles aveva ragione. Gli spari avevano svegliato l’intero accampamento, me i primi ufficiali e soldati erano appena emersi dalle loro tende che Erik aveva iniziato.
 
Era troppo tardi.
 
Il metallo lo chiamava, invitante e familiare come sempre. Con un sorriso, sollevò entrambe le mani, e lo sentì risponderea lui, piegarsi al suo volere: centinaia di armi erano al suo comando, un solo tocco gli sarebbe bastato per dare fuoco all’intero accampamento.
 
Era il potere. Il potere assoluto.
 
Erik! Fermati, ti prego! Non devi farlo! Non è questo che dovevamo fare!
 
Povero, ingenuo Charles.
 
E’ troppo tardi ormai. Se non li uccido, ci uccideranno loro, lo sai benissimo. E’ per questo che non mi hai ancora fermato, anche se potresti farlo in questo stesso istante.
 
E’ furioso. Erik per un istante vede rossoe la sua mente sembra attraversata da mille, minuscoli spilli. E’ una frazione di secondo, e prima ancora che possa rendersene conto la sensazione di sgradevole impotenza lo abbandona, lasciandolo con l’impressione di un secchio d’acqua gelata sulla testa.
 
Erik. Non c’è altra scelta?
 
Potrebbe ridere, ma l’inaspettata intrusione da parte del telepate nella sua mente lo priva di qualsiasi scrupolo: la sua risposta è brusca.
 
Tra sei minuti si saranno messi in contatto con comando centrale, e ti assicuro che la notizia di un’intera divisione tedesca minacciata da armi volanti non ci impiegherà molto ad arrivare ai piani alti.
 
Erik sta pensando Hitler, Goring, Himmler, Hitler, Goring, Himmler come un’odiosa cantilena, qualsiasi cosa pur di non pensare Sm-
 
…Charles, non abbiamo altra scelta.
 
Il silenzio del telepate questa volta è nero e controllato, come un motore che tuona nella distanza. Appena percettibile, ma costante.
 
Aspetta.
 
Charles-
 
…Ti ho detto di aspettare!
 
Gli sta dando ordini. Questo ragazzo che non ha mai combattutto in tutta la sua vita, che non hai mai dovuto lottare, uccidere, gli sta dando ordini!
 
Erik stringe i pugni, e non può far altro che complimentarsi con sé stesso, perché il suo controllo è decisamente migliore di quello di Charles. Se così non fosse, quest’ultimo avrebbe rimpianto la decisione di indossare un orologio.
 
Li ho addormentato. Ora fallo. Fai quello che devi fare.
 
La sua voce è fredda, ma calma. Rassegnata. Senza esitare, Erik lascia.Lascia andare la presa, e le pistole, i fucili, le baionette sparano contemporaneamente. Un colpo, amplificato ed affievolito dalla distanza. Un colpo, ed è tutto finito. Non ci sono urla o grida. L’unica cosa che sente in quel silenzio inquietante, è il respiro affannoso di Charles.
 
<< Non erano questi i patti! Che cosa ti è preso? >>
 
Sono nel retro del furgone di ritorno a Londra, e Charles continua a respirare forte, troppo pallido per lo sforzo di renderli invisibili per tutto il tragitto. Questo non gli impedisce di attaccare Erik appena ne ha l’occasione.
 
<< Quellierano esattamente i patti, Charles. La tua ingenuità finirà con l’ucciderti, credimi >>
 
<< La mia ingenuità ha appena ucciso duecento persone! >>
 
No, pensa Erik, sono io che li ho uccisi.
 
Charles aggrotta le sopracciglia.
 
<< La responsabilità è mia quanto tua >>
 
<< Stai fuori dalla mia testa >> la risposta è automatica, e se soloCharles sapesse…
 
<< Braddock mi aveva assicurato che avremmo solo dovuto rendere la divisione ineffettiva… >>
 
<< E’ così che si rende una divisione ineffettiva! Sembra che tu non abbia mai combattuto in guerra! >>
 
<< Sì, esatto, non sono mai stato in guerra! Vuoi disprezzarmi per questo? >>
 
Non è quello che voleva dire, ma ormai è troppo tardi: l’inefficienza di Charles lo ha reso irritabile, e per la prima volta si chiede veramente cosa stia facendo lì.
 
Ma d’altronde, è la stessa cosa che si domanda ogni volta che Schmidt lo guarda negli occhi. Non è poi così diverso, e gli occhi di Charles sono diversi. Forse è diverso, ma allo stesso modo non riesce a spiegarselo.
 
<< Mi ha ingannato. Quell’uomo. Braddock mi ha ingannato >> il suo tono di voce è incredulo, i pugni serrati ed Erik può quasi vedere i suoi pensieri schizzare da un angolo all’altro del suo cervello, alla ricerca della punto di collisione, del momento che non è riuscito a interpretare correttamente, il battito che è sfuggito ai suoi occhi. Lo studente furbo di Oxford, quello più intelligente di tutti i suoi compagni, è stato giocato: potrebbe ridere, quasi.
 
<< Ne sei sicuro, Charles? >>
 
<< Che cosa intendi? >> con tutta la sua frustrazione e la sua indignazione, non ha ancora capito. Non ha capito affatto.
 
<< Forse sei tu che ti sei lasciato ingannare >>
 
Charles non risponde.
 
 

*

 
 
Sono appena rientrati a Londra quando Erik intuisce che c’è qualcosa che non va. Il retro del furgone non ha finestre, ma ha memorizzato la strada che lo portava al suo alloggio sin dal primo giorno, ed è sbagliata. Stanno andando da un’altra parte, e non sa dove.
 
La prima cosa che gli viene in mente è tradimento(dovrebbe saperlo bene, dopotutto) ma potrebbe fermare quel mostro di metallo in ogni momento, spezzare la frizione o chiudere completamente il serbatoio di benzina, ma quando si volta verso Charles si accorge che ha una mano incastrata nei capelli, le sue dita vicino alla tempia, lo sguardo fisso ed Erik collega tutto, capisce perché nell’ultima mezz’ora non aveva più fiatato.
 
<< Dove stiamo andando? >>
 
<< Zitto Erik, sto cercando di concentrarmi >>
 
<< Charles>> la sua voce si abbassa, ed è un tono pericoloso, ma è anche un avvertimento: se cerca di zittirlo di nuovo, gli strapperà la mano dal polso.
 
<< Braddock ha alcune spiegazioni da darmi. Stiamo andando da lui >>
 
<< Come fai a sapere dove si trova? >>
 
E’ una domanda stupida, tuttavia Erik non pensava, gli ci erano voluto giorniper trovare Raven…
 
Charles tenta di sorridere, gli occhi ancora incollati al suolo, ma esce più come una smorfia.
 
<< Nessuno può nascondersi. Non da me >>
 
Dovrebbe suonare minaccioso, ma come poteva essere spaventato da Charles? Come poteva Erik, che aveva ucciso ed era stato ucciso mille volte, aver paura di quel ragazzino, delle sue mani bianche e della sua ingenuità così banale?
 
Eppure era vero. Solo un ragazzino, eppure così potente. Erik si trovò a sorridere, e di sicuro non ebbe bisogno di forzarlo.
 
Il furgone si fermò bruscamente, e nello stesso istante la mano di Charles gli ricadde sul grembo come un peso morto. Senza perdere tempo a recuperare il fiato, Charles balzò in piedi, e saltò a terra con più agilità di quanta Erik gli avrebbe dato credito, e senza aspettarlo si mise a camminare a passo spedito. Si trovavano in centro, ed Erik ne fu sorpreso. Charles si dirigeva verso la metropolitana, e prima di seguirlo Erik lanciò uno sguardo al conducente, un ragazzo, Pete Wisdom così si chiamava, e vide che non aveva smesso di tenere il volante in una stretta convulsa, e che i suoi occhi erano assenti. Spaventati.
Si girò, in tempo per vedere Charles inghiottito dalla ferrovia sotterranea. Si sbrigò a seguirlo, prendendo il secondo ingresso, sotto l’occhio dell’aquila fascista che decorava tutte le entrate.
 
 

*

 
 
<< Charles. Erik. Che piacere vedervi, unitevi a noi: posso offrirvi una tazza di tè? >>
 
Non risposero, ammutoliti dallo stupore, Charles ancora fremente di rabbia.
Questonon l’aveva anticipato.
 
Senza aspettare una risposta, Braddock raccolse un contenitore di metallo da sotto un panchina, insieme a due bicchieri di carta, e dopo averci soffiato li riempì per tre dita di tè scuro, e glieli porse come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se la loro presenza lì fosse assolutamente normale, come se il fatto che si trovassero in un maledetto rifugio per senzatettonon dovesse turbarlo o stupirlo minimamente.
 
Charles Xavier detestava essere colto alla sprovvista.
 
Con il sorriso più amabile che riuscì a produrre, ringraziò e prese con delicatezza entrambi i bicchieri, porgendone uno ad Erik, che lo prese senza dire una parola, e dopo qualche secondo lo avanzò tentativamente alle labbra.
 
Non avrai veramente intenzione di berlo, vero?Gli domandò silenziosamente, non potendo trattenere il moto di disgusto.
 
Erik non si voltò a guardarlo, e il suo sorriso era talmente impercettibile che Charles seppeche era solo per lui.
 
Oh, e anche se fosse? Comunque non c’è veleno. Sembra sicuro.
 
Charles non rispose e tornò a spostare la sua attenzione su Braddock – irriconoscibile, i capelli biondo sporco coperti da un cappellaccio i vestiti larghi e sformati -  che nel frattempo parlava come se nulla fosse con un gruppo di sette persone, donne e uomini, (uno addirittura di colore!) e passarono alcuni secondi prima che questi si voltò nuovamente verso di loro, questa volta senza sorridere.
 
<< Cos’avete fatto a Mr. Wisdom? >>, c’era qualcosa di severo nella sua voce, era completamente diversa dal tono suadente che aveva usato fino a quel momento.
 
Charles non abbassò lo sguardo.
 
<< L’ho aiutato a collaborare, tutto qui. Non gli ho fatto alcun male >>
 
<< Ne sei così sicuro, Mr. “X”? >> rispose Braddock con un irritante sorrisino di superiorità stampato in faccia.
 
<< Che cosa vuol dire? Che cosa stai dicendo? >>, Erik sentì una nota di panico nella voce del telepate e si voltò verso di lui, cercando il suo sguardo, ma Charles continuava a fissare Braddock, cercando la risposta con i suoi stessi occhi.
 
<< Perché me lo chiedi? Ti basterebbe guardarenon è così? Certo, so che non lo farai. Il tuo codice morale e lo impedisce. Ma dimmi solo una cosa, ti aiuta veramente? Serve a farti sentire una brava persona? Ti senti buono, magnanimo? O forse solo debole…? >>
 
<< STAI ZITTO! >>
 
Tutti i volti dei presenti si voltarono verso di lui, attoniti.
 
Charles proseguì come se nulla fosse.
 
<< Quello che è successo oggi non deve ripetersi maipiù mi hai sentito? Non accetterò in alcun modo di essere sfruttato. Io ho scelto di aiutare te e perché la tua causa è giusta, ma tu, Braddock, sei tutt’altra cosa, non è così? Io so a cosa miri. So cosa speri di ottenere, una volta liberata l’Inghilterra… >> sorrise appena, e Braddock non disse nulla, sostenendo il suo sguardo << Un tiranno per un altro. Complimenti, ottimo piano. Cosa pensi che direbbero i tuoi compagni se lo sapessero? >>
 
Questa volta fu il turno di Braddock di sorridere.
 
<< Nulla. E te lo sai benissimo. Non direbbero o farebbero nulla, perché l’alternativa a me è il caos. Perché sono il male minore, e sono l’unico che può liberarli, ridare splendore e proteggere l’inghilterra >>
 
Era vero. E Charles lo sapeva. Cosa poteva rispondere a quello? Cosa poteva fare. Era stato uno sbaglio, aveva sbagliato tutto, non avrebbe dovuto farsi coinvolgere.
Eppure, forse, quella era la sua unica occasione per fare finalmente qualcosa. Per rimediare a tutti gli errori che nonaveva commesso.
 
<< Quello che fai te non mi riguarda. Hitler e la Germania sono per noi un obbiettivo comune. Io desidero solo la pace, e che mia sorella stia al sicuro. Ma ricordati una cosa, Braddock >> si avvicinò a lui e prese a scrutarlo in volto con un’intensità disturbante. L’uomo non si mosse di un millimetro << Te non sei come noi >> riprese Charles, quasi in un sussurro << So chi sei, non credere che mi sia sfuggito: un ragazzino che ha ricevuto un dono, e adesso sei solo un uomo con uno scettro. Pensi di questo ti dia il diritto di essere Re, pensi di essere superiore. Ma ricordati, che senza quel dono tu non sei nessuno. Non eri niente prima, e sei noite ne priviamo, tornerai a non essere nulla. Noi siamo i figli dell’atomo, e tu non puoi fare niente, mi hai capito, nienteper fermarci. >>
 
Erik non riusciva a smettere di fissarlo, attonito.
 
Braddock indietreggiò velocemente, pallido in volto, ma sul suo viso si apriva un sorriso. Sembrava soddisfatto.
 
<< Hai perfettamente ragione, X. Siamo diversi. Ma sei così sicuro di essere migliore di me? >>
 
Charles strinse i pugni e per un attimo sembrò che stesse per rispondere. Poi Braddock si voltò nuovamente, come se non ci fossero mai neanche stati, ed Erik prese Charles per un braccio e lo trascinò via.
 
 

*
 

 
 
<< Hai intenzione di spiegarmi cosa ti è preso, prima? >>
 
Charles prese il bicchiere che Erik gli porgeva con un cortese cenno del capo, ma non rispose immediatamente. Fece un breve sorso e sentì il sapore familiare del brandy che gli bruciava la gola. Erik sedeva di fronte a lui, sul letto, attendendo una risposta.
 
Finalmente, il telepate si decise ad alzare gli occhi verso di lui e rispondere.
 
<< Ero arrabbiato, Erik. Detesto essere ingannato, penso che sia assolutamente normale. Posso aver reagito in modo esagerato, lo ammetto, ma converrai che con quello che c’è in ballo… >>
 
<< Non penso che tu abbia reagito in modo esagerato. Penso che tu avessi ragione, e che non dovresti cercare di giustificarti per questo >>
 
<< Oh >>
 
Ripensò alla scena a cui aveva assisto, e quello che Charles aveva detto. C’era stato qualcosa di quasi crudelenel suo tono di voce. Come un gigante pronto a schiacciare un insetto. E poi, c’era quello: i figli dell’atomo. Anche Schmidt usava dirlo spesso: gli aveva insegnato che era stato le radiazioni ad amplificare i loro poteri, e velocizzare il processo di evoluzione.
 
Poi si accorse che la situazione aveva del paradossale, e non riuscì a trattenere il ghigno sarcastico che gli piegò le labbra.
 
<< Cosa c’è di così divertente? >> scattò Charles, alzando la testa.
 
<< Oh, tutto. Un telepate che si lamenta quando qualcuno mente. A volte dubito della tuo abilità >> solo a volte, però, ma questo non lo disse << Perché non hai letto i suoi pensieri? L’avevi già fatto tanto, no? Se avevi intuito che tipo di persona egli sia ne avresti avuto tutto il diritto >>
 
Charles aggrottò le sopracciglia, stringendo forte il bicchiere.
 
<< Il diritto? Erik, io non ho alcun diritto. Leggere i pensieri altrui, conoscere cose che gli altri non vorrebbero mai rivelare, è sbagliato! Quando abbiamo parlato per la prima volta con Braddock, volevo solo essere certo che non fosse una trappola e che non saremmo finiti tutti arrestati come traditori. Ho visto più del dovuto, purtroppo, ma non era mai stata mia intenzione violare la sua privacy >>
 
Erik lo guardò, la sua incredulità a malapena celata.
 
<< Sbagliato? Cosa c’è di sbagliato? E’ quello che sei, Charles. Sei diverso da quell’uomo, non hai cercato i tuoi poteri, non ti sono stati dati. Hai ragione, noi siamo diversi da lui: siamo migliori. E’ ciò che siamo, e non dobbiamo vergognarcene. Non dovremmo nasconderci >>
 
A quelle parole, Charles si irrigidì visibilmente.
 
<< Ci sono conseguenze, Erik. Non è così semplice >>
 
Erik strinse il bicchiere.
 
<< Quello lo so bene >>, mormorò, prima di prendere una lunga sorsata.
 
Charles sorrise senza vera allegria e disse: << Amico mio, io mi fido di te. E non ho bisogno di entrare nella tua testa per farlo, contrariamente forse a ciò che tu pensi. Se facessi come tu mi stai consigliando, non dovrei forse, in questo stesso istante, scavare tra i tuoi pensieri, estrarre ogni tuoi segreto e renderlo mio? >>
 
Erik serrò la mascella prima di guardarlo a occhi stretti.
 
<< Non lo faresti mai. Ti ho chiesto di non farlo >>
 
<< Esattamente. E questo perché ho un codice morale, perché ho definito con me stesso ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se così non fosse, avrei perso il controllo molto tempo fa >>
 
<< E cosa ci sarebbe di male! >> rispose Erik in preda all’esasperazione, guardando Charles, Charles che aveva un potere immenso e si costringeva a non usarlo perché aveva paura,lui che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, era quello che aveva paura! E se ne stava lì, seduto con le mani strette così forte da fargli male con ogni probabilità, terrorizzato da sé stesso e nessun altro. Era la cosa che più lo faceva arrabbiare.
 
<< E’ già successo. So perfettamente cosaaccadrebbe di male >>
 
Erik aggrottò le sopracciglia, senza capire.
 
<< Cosa intendi? >>, chiese, ma troppo tardi: Charles si era già voltato, e preso il sua cappotto era alla porta. Senza attendere una risposta Erik lo inseguì lo afferrò per un braccio prima che potesse posare la mano sulla maniglia.
 
<< Charles >> mormorò a voce bassissima.
 
Il telepate si voltò a guardarlo, e i suoi occhi erano sereni in modo così perfetto da essere ingannevole.
 
<< E’ successo molto tempo fa, Erik, non è nulla di cui tu debba preoccuparti adesso >>
 
<< Voglio sapere di cosa stai parlando >>
 
Con un sorriso mesto, Charles appoggiò la mano sulla sua, e la strinse per un breve istante: << Tu hai i tuoi segreti, io ho i miei. Adesso per favore, lasciami andare: è tardi, e vorrei molto parlare con mia sorella >>
 
Erik lasciò la presa.
 



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