On the Road.

di LarcheeX
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Rapimento ***
Capitolo 2: *** 2. Compagni di viaggio ***
Capitolo 3: *** 3. Tour Eiffel ***
Capitolo 4: *** 4.Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi spettegulesss) - parte 1 ***
Capitolo 5: *** 5. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2 ***
Capitolo 6: *** 6. Il metrò, luogo infestante. ***
Capitolo 7: *** 7. I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri esposti, grazie. ***



Capitolo 1
*** 1. Rapimento ***


On the Road.

1. Rapimento.

 

Mugugnò soddisfatta, mentre scorreva giù con il mouse per visualizzare tutta la pagina del computer, dove era impegnata a vedere il risultato del suo esame finale. Ed eccolo lì, campeggiare sovrano in testa alla classifica:

 

Rin Jordan: 100 con lode.

 

Si alzò con aria trionfante, disinfettandosi le mani che erano state a contatto con la tastiera, si infilò le pantofole e schizzò in cucina dalla madre: “Mamma, ho superato l’esame con il massimo dei voti!” esclamò, alzando un pugno in aria con fare vittorioso. Isabella si girò, sorridente, mentre finiva di mescolare con il mestolo l’impasto per una torta: “Brava tesoro.”

Rimasero un po’ così, con Rin che guardava la madre, curiosa, e lei che girava e girava con il mestolo nella ciotola.

Dopo qualche minuto fu la madre a prendere la parola: “Senti, stavo giusto pensando… ora che hai diciannove anni, non credi che sia tempo che cominci a vivere normalmente? Intendo… non vuoi guarire?”

Il volto della giovane si rabbuiò: sua madre faceva quelle storie da quando ne aveva memoria, ma lei, Rin, aveva un unico, insormontabile problema che si chiamava agorafobia. Non era mai uscita di casa, e aveva sempre studiato a casa con un professore pagato (tanto) per non farla uscire.

Il fatto era che bastava solo un alito di vento, una macchina, una goccia di pioggia per farla schizzare dentro le sue confortanti quattro mura domestiche. E, soprattutto, aveva il terrore dei germi.

“Noo, io sto bene così!” esclamò, mettendo le mani avanti. Guarire significava prima di tutto andare da un dottore. E andare da un dottore significava uscire. Quindi no.

Isabella la fissò, obliqua, mentre diceva: “Ho il tuo regalo per il diploma.” A quella frase Rin si fece pensierosa: in teoria doveva essere felice, ma le occhiate oblique di sua madre le facevano paura. Sia perché il viso di Isabella metteva un cipiglio inquietante, sia perché le idee di sua madre non si potevano certo definire sicure, considerata la sua delicatezza.

“Oh, che bello… cos’è?” chiese, curiosa. La madre guardò l’orologio, che segnava le nove e mezza di mattina del dieci giugno, con un sorrisetto per niente rassicurante: “Arriverà tra poco.”

Rin non sapeva se esserne felice o meno.

Fece per dirigersi di nuovo in camera, ma fu fermata dalla voce della sua cara mamma: “Rin, ma perché non ti metti qualcosa di più estivo?” lo sguardo della diretta interessata scese sul maglione di lana blu che si ostinava a mettere per paura di un raffreddore, la gonna verde a pieghe della divisa, le calze verdi, gli scaldamuscoli blu e le ballerine con il tacco nere. “Io sto benissimo così!” esclamò. Avrebbe giurato che la madre avesse scosso la testa sconsolata. Ma, per lei, anche se c’era il sole c’era il rischio di prendersi un malanno.

Ad un certo punto suonò il campanello.

Rin si irrigidì: chi stava suonando alla porta era portatore di germi, anche se probabilmente avrebbe portato il suo regalo. Si sedette sul divano, mentre la madre correva ad aprire, con lo stesso sorrisino poco rassicurante che aveva poco prima.

Sulla soglia della sua casa igienicamente asettica apparve un uomo che sembrava gridare tutto il contrario, e che le ricordava vagamente il rozzo motociclista di qualche film degli anni ottanta: era un ragazzo di circa vent’otto anni alto, con i capelli scuri legati in un codino e gli occhi blu profondi come il mare. Ma la cosa più sconvolgente e preoccupante era il suo abbigliamento: era vestito con una maglietta a maniche corte rossa, macchiata qua e là, pantaloni che somigliavano vagamente a jeans molto rappezzati e un paio di anfibi infangati. Con il dito della mano destra reggeva una giacca di pelle scura dall’aria vissuta. Una persona da storcere il naso. “Ciao Miroku!” esclamò Isabella, sorridendo. Rin si rabbuiò ancora una volta: chi era quell’uomo? Non era un rimpiazzo di suo padre, vero? Perché in tal caso non l’avrebbe perdonata: suo padre era morto e doveva conservarne la memoria!

“Rin, lui è Miroku, il figlio di una mia amica.” Lo presentò lei, e la ragazza si vide costretta a risvegliarsi e stringere con un sorriso che aveva un che di schifato la mano di sicuro impolverata del ragazzo, che sorrise a sua volta, marpione. Si sentì immediatamente a disagio. “Pia… piacere…” piagnucolò, cercando di evadere strisciando lentamente sempre più lontano da lui, che le mise una mano sulla spalla, gioviale: “Su, Rinuccia! Vedrai che ci divertiremo!” esclamò lui, tutto euforico.

Ci? Che razza di storia è questa? Pensò, disperata. Quella faccenda sapeva terribilmente di congiura. Rivolse un’occhiata bieca alla madre, che ridacchiò divertita. Allora era una complice!

“Dove sono le valigie?” chiese il ragazzo, parlando questa volta a Isabella. “Di sopra. Accomodati.” Rispose, indicandogli le scale che conducevano alla camera di Rin.

La povera vittima lasciò che l’indesiderato ospite si dirigesse a profanare il suo tempio per poi rivolgersi furente alla madre: “Che storia è questa? Di che valigie andava blaterando?” sibilò, attenta a non farsi sentire da Miroku. Isabella sorrise, ridacchiò e socchiuse gli occhi, per poi rispondere: “È il tuo regalo.” La ragazza non fece in tempo ad aprire di nuovo bocca che il ragazzo scese, portando in mano quella che era una valigia scura piuttosto grande, che sembrava piuttosto vissuta, come se avesse viaggiato molto. Miroku aveva un ghigno terribilmente affabile dipinto sul volto: “Bene, Rinuccia, ora andiamo? Ci aspetta l’avventura!” disse poi, uscendo un attimo per posare il bagaglio nel retro di una macchina grigia e scalcinata. Lei scosse violentemente la testa: “Noo, io rimango qui e non esco.” Disse, più a sé stessa che a qualcuno in particolare, anche perché la madre la stava spingendo verso la porta. Lei si opponeva in ogni modo ma, avendo trascorso tutti e diciannove gli anni della sua vita in casa, in quanto a muscolatura scarseggiava, e ogni sforzo risultava inutile, almeno finché non si aggrappò allo stipite dell’uscio aperto. Poi intervenne anche Miroku a tirarla per le caviglie.

La scena vista da fuori, poteva essere assai comica: Rin era aggrappata alla porta con tutte le sue forze, anche se le sue gambe ormai stavano fuori, Miroku la tirava per le caviglie, sforzandosi di non pensare a quello che poteva esserci sotto la gonna che portava la ragazza, e Isabella che spingeva da dentro con la schiena.

Alla fine al ragazzo venne l’illuminante idea di prendere la ragazza sul groppone.

“Cosa fai!? Lasciamiii!” gridò Rin, scalciando in aria e battendo i pugni sulla schiena magra del suo rapitore, mentre guardava inferocita la madre che salutava con la mano. Cominciò a inveire molto acidamente su Miroku, che sembrava il più divertito della scena, mentre i passanti si giravano, sconvolti dal linguaggio colorito della ragazza: “Ciao Rin, ci vediamo a settembre!” cinguettò la signora Jordan, sventolando un fazzoletto.

“Cosa!? Settembre?! Lasciamiii!” gridò ancora la ragazza, battendo ancora i suoi inutili pugni sulla schiena di Miroku, che la scaraventò nella sua auto, nel posto accanto al volante, legandola con la cintura. Cercò di divincolarsi, pensando che quella era una macchina, dove regnavano i germi, e magari dove il cosiddetto Miroku faceva le sue cose con le sue donne, ma il ragazzo salutò veloce sua madre e partì a cinquanta all’ora.

Cominciò a tremare, e forte anche, sia perché era in uno di quei trabiccoli orribili e pieni di germi, sia perché, a quanto pareva, stava partendo per fuori con uno sconosciuto con la faccia da maniaco.

“Picchi forte. Sembravi la mia ragazza.” constatò Miroku, dopo qualche minuto di silenzio. Lei si allontanò, per quanto possibile, da lui, facendosi ancora più piccola di quello che già non fosse.

“Ma dai, non sei contenta?” parlò ancora lui. Rin le rivolse la sua occhiata più feroce, cattiva e acida, ma non fu notata visto che il ragazzo sembrava preso dalla strada.

Però Miroku sembrava incline a volerla distogliere dalla sua paura degli spazi aperti: “Pensa all’aria fresca!”

“Raffreddore.” Rimbeccò lei, imbronciata.

“Al bagno nei mari limpidi!”

“Meduse.”

“Ai concerti!”

“Folla.”

“Alla montagna!”

“Orsi.”

Lui sembrò ridacchiare: “Agorafobica fino all’eccesso, eh? Con questo viaggio guarirai.”

Rin assunse un’espressione del tipo non credo proprio e si appuntò mentalmente che, una volta tornata, avrebbe dovuto chiudersi per sempre dentro la sua camera. E soprattutto impedire alle persone di nome Miroku con la faccia da maniaco di mettere piede in casa sua. E, inoltre, si appuntò di farla pagare alla madre, perché infondo è lei che aveva organizzato tutto quello.

“Dove stiamo andando?” chiese dopo un po’ infarcendo il suo tono calmo con l’acidità più velenosa che riuscisse a simulare. Lui ci mise tutto il suo tempo per rispondere, gettandole prima un’occhiata divertita, poi sbuffando leggermente: “A Londra.” Al nome della città la ragazza sobbalzò. Così lontano? Si chiese, sgomenta. Già era tanto se era uscita si casa, e ora la portavano addirittura a Londra? Qualcuno forse la voleva indurre al suicidio. Senza il forse.

“E perché andiamo a Londra?” chiese ancora, con lo stesso tono di prima, anche se cominciavano a sentirsi le prime incrinature di nervosismo. Lui ridacchiò: “Per prendere un aereo.”

Il passero mangiava tranquillo il suo verme sul suo albero. Almeno finché non passò un’auto un po’ scalcinata dalla quale provenne un urlo disumano: “CHE COSA?!?!?!?!?!?!?!”

Il passero, ormai traumatizzato, cadde a terra, vittima di un ictus, un infarto e perché gli era andato di traverso il verme che stava mangiando.

Miroku sembrava trattenersi con tutte le sue forze dallo scoppiare a ridere, cosa che Rin trovò terribilmente irritante: “COSA TI RIDI???? SONO IN UNA SITUAZIONE DEGENERE E TU RIDI!!!” strillò, con voce acuta.

A quel punto il sorriso di Miroku si fece un po’ più serio: “Guarda che le uniche cose degeneri siete tu e la tua malattia.”

Rin si accasciò sul sedile della macchina, sconfitta. A quella frecciatina non poteva certo ribattere.

Il silenzio piombò di nuovo nella macchina, mentre Miroku imboccava l’autostrada. Rin cercava di non pensare che stava fuori, con un tipo con la faccia da maniaco, e che, a quanto pare, se ne stava andando da qualche parte con un aereo. Cercava di chiudere gli occhi, ma le sue palpebre sembravano riluttanti ad abbassarsi a causa del nervosismo. Si accorse poi di tremare.

Un grido soffocato provenne poi dalla giacca di Miroku, sembrava quasi la voce di un cantante rock piuttosto alta, poi Rin capì che si trattava del cellulare del suo rapitore che squillava.

 

Everybody's got their problems,
Everybody says the same thing to you.
It's just a matter of how you solve them,
And knowing how to change the things you've been through.

I feel I've come to realize,
How fast life can be compromised
. *

Con tutta la calma del mondo il ragazzo infilò la mano nella tasca e ne tirò fuori un cellulare che urlava a tutta potenza. “Sango, che piacer…” provò a rispondere, ma fu interrotto da una voce squillante e ancora più alta della suoneria stessa: “MIROKU, QUANDO CASPITA CI METTI A RISPONDERE?” a quel punto il diretto interessato sobbalzò, facendo sbandare lievemente la macchina. Rin artigliò le mani al sedile.

“Ehm, Sango…” provò a spiegare lui, ma fu interrotto di nuovo dalla stessa voce, questa volta più calma: “Comunque. A che ora partiamo?”

“Alle due e venti.”

“E credi di riuscire a venire per le due e venti in aeroporto?” questa volta la domanda era leggermente sarcastica.

“Sì.”

“Ok. Ci vediamo lì. Ti amo.”

“Ti amo anch’io. Ciao Sanguccia.”

Rin era sconvolta. La persona al telefono cambiava umore alla velocità della luce: prima gridava così forte che a momenti rompeva il telefono, poi diceva ‘ti amo’… valla a capire, certa gente.

Miroku intascò il cellulare con l’espressione beata di chi sa di avere tra le sue braccia l’anima gemella, o forse era davvero così, Rin non avrebbe potuto saperlo, visto che, non uscendo mai di casa, non si era nemmeno mai innamorata. Certe volte si sentiva davvero vuota, se così poteva esprimersi, ma il solo pensiero di uscire la inchiodava in casa.

Ma una domanda ancora persisteva nella sua testa: che cosa doveva fare su un aereo a Londra? Dove doveva andare? Perché sarebbe tornata a settembre? A pensarci bene le domande erano tre.

Aprì bocca, ma fu interrotta: “Suppongo ti stia chiedendo perché tu stia partendo.” Constatò Miroku, con il sorriso sghembo di chi la sa lunga che gli incurvava leggermente le labbra. Annuì.

“Beh, faremo un bel viaggetto in tutta Europa, dalla Francia alla Russia. Senza lasciare la Grecia.” Cominciò: “Tua madre aveva detto alla mia che doveva trovare un modo per farti guarire dalla tua irrazionale paura degli spazi aperti e poi sono spuntato io, che stavo organizzando questo viaggio “on the road” con alcune persone che avevano risposto al mio annuncio sul giornale, e quindi ben presto sei stata scritta nella lista dei partecipanti, tua mamma ha pagato la quota e mi ha pregato di non dirti nulla. Poi il giorno del risultato dell’esame, che era anche quello della partenza, come hai visto, sono venuto e ti ho…”

“Rapito.” Completò Rin, sconsolata. Ecco risolto il mistero. Sarebbe andata in giro per l’Europa per tre mesi, grazie a una congiura tramata da sua madre e quel pervertito di nome Miroku. Non sapeva perché lo chiamasse così, ma la sua faccia le faceva pensare a qualcuno di fin troppo libertino.

Miroku ridacchiò e aumentò la velocità della macchina, mentre canticchiava ancora le dolci note della sua suoneria.

 ***

Londra era grigia. Ora ne aveva anche la prova. Lo aveva sempre saputo, considerato il fatto che leggeva tantissimo, ma vederla dal vivo era tutta un’altra cosa. Avrebbe preferito rimanere a casa.

Miroku parcheggiò, circa tre ore più tardi, alle dodici e quaranta, sotto una casa che sapeva di vecchio. Probabilmente la sua, ma, visto il proprietario, Rin non avrebbe comunque messo piede dentro. Ci sarebbero voluti comunque molti sforzi per convincersi a uscire in un luogo pieno di germi come quella città. Non aveva smesso di tremare per tutto il tempo, e lo faceva anche adesso. Aveva paura. Sentiva ovunque l’oppressione tipica dei grandi palazzi di città, e questo le faceva venire il panico.

“E ora andiamo all’aeroporto.” Annunciò Miroku, prendendo il suo bagaglio, uno zaino enorme, e consegnando la valigia a Rin, che non appena la prese in mano crollò a terra. Ma quanto era pesante? Che ci aveva messo dentro sua madre?

Quando vide un autobus fermarsi davanti a loro e Miroku intento a salirci il panico salì a cinquecento: lei, in un autobus dove chissà quante persone che erano salite e chissà quante ne sarebbero salite?

“Devo riprenderti in braccio?” chiese Miroku, lievemente scocciato. Per paura di una figuraccia, la ragazza salì sul mezzo, riluttante.

Il suo rapitore si era tranquillamente seduto su uno dei posti liberi, non senza prendere il giornale che se ne stava abbandonato sul sedile prima di lui. Lo aprì come se niente fosse e cominciò a leggere. Dopo un po’ se ne uscì con un “NOO!” che fece sobbalzare tutte le persone che stavano lì vicino. Rin si mise un pugno in bocca per evitare di strillare per lo spavento. “Il City… ha perso di nuovo.” Gemette poi Miroku, abbassando il giornale quel poco per bastava per scorgere il volto incazzato nero della ragazza, che sembrava dire: ma vaffanculo!, e si nascose di nuovo dietro i fogli.

“Potresti cadere.” Disse poi, rivolgendosi alla sua recalcitrante accompagnatrice, che non osava né appoggiarsi a uno dei sostegni, né sedersi, per paura dei germi. Lei scosse il capo, ostinata: “Chissà quanti germi ci sono…” disse. Vide Miroku alzare gli occhi al cielo.

 

Erano le tredici e dieci quando finalmente riuscirono a farsi fare il chek-in e imbarcare i bagagli. Erano arrivati correndo, dribblando tutti, sgomitando, gridando, ma alla fine ce l’avevano fatta. Anzi, diciamo che Miroku aveva corso e aveva trascinato una Rin stravolta, dribblando tutti, sgomitando e gridando frasi di convenienza quando atterrava nella sua corsa spericolata qualche disgraziato di passaggio, ma alla fine era arrivato.

“Bene, ora aspettiamo qui le due e venti.” Disse poi il ragazzo, sedendosi in uno dei posti davanti al gate 7, dove spiccava a caratteri cubitali il volo

 

Londra-Parigi ore: 14.20

 

“Vedi, quello è il nostro volo, quello che ci porta a Parigi.” Illustrò per poi tornare al giornale che aveva cominciato in autobus.

Rin, dal canto suo, tremava come una foglia. Non era mai uscita di casa, e come prima volta quella bastava a farle pensare che sarebbe stato meglio se si fosse murata viva dentro la sua camera. Non osava sedersi per paura dei germi, quindi passeggiava avanti e indietro per il nervosismo. Anzi, no, per il panico. Era talmente impanicata che non si accorse della ragazza bruna che si stava avvicinando a Miroku, trasportando un borsone gigante rosso senza alcuna fatica.

“Interessante?” chiese al giovane, abbassando gli il giornale. Miroku sembrò metterci qualche secondo per riconoscere la persona che gli si era parata davanti, con il suo seno prosperoso, ma poi gridò, saltando in piedi: “Sanguccia!” Almeno tre persone si girarono divertite, mentre altre dieci soffocavano nella bibita o nel panino che stavano mangiando, per lo spavento.

“Wow, mi hai riconosciuto.” Ridacchiò quella. Non sembrava molto offensiva.

Quindi quella era Sango, la ragazza di Miroku, quella che a momenti rompeva il suo cellulare con la sua delicata voce. Non era assolutamente brutta: era alta, con un fisico slanciato e muscoloso, tipico di chi fa molto sport, capelli color castagna legati in una coda e due vispi occhi da cerbiatta. Era vestita con un paio di shorts in jeans, una canottiera sportiva che le evidenziava le curve e un paio di scarpe da ginnastica.

Rin, in un momento di debolezza come quello in cui si trovava, avrebbe davvero voluto essere come lei: alta, sicura di sé, atletica, ma allo stesso tempo bella. Non poteva dirsi una sua fotocopia, piuttosto il contrario: lei era minuscola, non superava il metro e cinquantacinque, aveva un fisico sottile e piuttosto delicato, forme più o meno normali, niente di che, e soprattutto, era agorafobica. Mai aveva rimpianto l’esserlo, e purtroppo questo non l’aiutava, anzi aumentava il suo timore nei confronti dell’esterno.

“Oh, che scemo…” disse Miroku: “Lei è Rin, viaggerà con noi.” La presentò, prendendola dal suo angolino e portandola davanti alla sua ragazza. Sango sorrise.

“Pia-piacere.” Balbettò. Non era mai uscita di casa e non aveva avuto altre relazioni sociali oltre quelle con la madre e con l’insegnante che le faceva da maestro. Come avrebbe fatto?

 

* “The Hell Song” by Sum 41





























beh, era ora che dessi il mio stupido contributo con una long fic a questa sezione XD
no, vab, scherzi a parte, spero che vi piaccia :)

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Capitolo 2
*** 2. Compagni di viaggio ***


2. Compagni di viaggio.

 

Neanche aveva fatto in tempo a dire qualche parola in più rispetto a quella balbettata in presenza di Sango che qualcun altro gridò, da lontano: “MIROKUU!!!”

Si girarono tutti e tre, sobbalzando.

Quattro persone si stavano dirigendo a gran velocità verso di loro. Rin gemette tra sé. Con quante altre persone impolverate avrebbe dovuto convivere?

Ben presto la piccola Rin vide davanti a sé un gruppo di persone piuttosto strano: prima di tutto, c’erano due demoni. Anzi, un demone e un mezzodemone. Non ne aveva mai visti in vita sua, perché sua madre serbava comunque un po’ di timore per quella classe sociale demoniaca che conviveva con quella umana da circa cento anni e non ne aveva mai invitato uno, e le uniche cose che sapeva le aveva lette su dei libri di attualità. Per esempio spesso veniva nominato Inuken Tashio, potente demone cane, che era rimasto famoso per l’aver firmato, cento anni prima, d’accordo con la maggior parte del popolo che rappresentava, il contratto che sanciva l’unione della società demoniaca e quella umana. Insomma, un nome importante, ecco.

I demoni in questione erano due maschi. Il primo, il mezzodemone, le faceva pensare a qualcuno di irritabile, visto che già stava litigando con una ragazza perché secondo lui gli aveva pestato il piede: aveva i capelli candidi e lunghi, due orecchiette canine che spuntavano sulla testa (che avevano l’aria di essere davvero morbide) e un paio di occhi dalle iridi dorate. Il secondo somigliava in un certo modo al primo, anche se la sua espressione fece pensare a Rin che anche lui fosse stato trascinato contro la sua volontà: anche lui aveva i capelli lunghi e candidi, due orecchie a punta, una voglia azzurrina a forma di mezzaluna sulla fronte e dei segni violetti sulle guance. Ma la cosa più terribile erano i suoi occhi: dorati, freddi, taglienti, sospettosi, diffidenti, intelligenti… avrebbe potuto trovare mille aggettivi per quegli occhi, ma tutti che lasciavano pensare a qualcuno di freddo. Entrambi i demoni erano vestiti semplicemente, con un paio di jeans e una maglietta il primo, una camicia l’altro e un paio di pantaloni. Miroku li salutò come se fossero vecchi amici: diede una pacca sulla spalla al mezzodemone, ma non toccò l’altro, che poi aveva un’espressione del tipo toccami e sei morto. Decisamente poco rassicurante.

Poi c’erano altre due persone, due ragazze che si somigliavano terribilmente: avevano entrambe i capelli lisci, neri e due occhi color nocciola, un fisico snello. Una stava litigando con il mezzodemone, ed era vestita con un completo giallo a pois fucsia, l’altra se ne stavano in disparte, come se la cosa non la riguardasse, cercando di farsi il più invisibile possibile dentro la sua maglietta.

“Ma ti dico che non ti ho pestato il piede!” protestò la prima ragazza, alzando la voce, mentre quell’altro ribatteva: “Ma come no!? Tutto il tuo dolce peso mi è arrivato dritto dritto sul pollice, pretendo delle scuse!” ringhiò.

“Ehm, ehm” prese la parola Miroku, tossendo leggermente. I due si interruppero subito, guardandosi in cagnesco: “Bene, ora che i nostri gentili…” cominciò, ma fu di nuovo interrotto, stavolta da una voce femminile che gridava: “PISTAAAA!!!”

Era una ragazza impegnata a saettare con uno skateboard tra la folla, facendo nascere risolini divertiti e smorfie indignate sulle facce della gente, oltre ovviamente a quelle doloranti delle persone alle quali aveva arrotato i piedi. Il gruppetto guardò la ragazza finire una curva per arrivare davanti a loro, ma una delle ruote slittò, facendola cadere addosso a un povero demone lupo disgraziato che passava lì per caso.

La situazione era terribilmente comica: la ragazza, i cui capelli erano di un rosso accesissimo, era letteralmente sopra il suo sfortunato materasso di fortuna, che sembrava più stupito che imbarazzato. Tutta la gente, che fino a quel momento aveva occhi solo per la rossa, spostò lo sguardo, tornando a farsi i cavoli propri.

“Ehi, ma guarda dove vai, tu, lupacchiotta sconsiderata!” esclamò il demone, scansandola con un gesto secco e rimettendosi in piedi. Quella, intanto, era andata a recuperare il suo skateboard, brontolando: “Ma eri tu che stavi in mezzo.”

A quel punto, il demone lupo, punto nell’orgoglio, gridò, indignato: “Io stavo in mezzo? Ma guarda che sei tu che mi sei venuta addosso!” lei si girò, infuriata: “Beh, caro il mio demone lupo, potevi spostarti.” Si ritrovarono a ringhiare l’uno contro l’altra.

Rin cominciava a spaventarsi, sul serio. Se il mondo esterno era popolato da persone del genere si sarebbe rinchiusa in casa a vita.

Miroku riprese la parola con un colpo di tosse, distogliendo lo sguardo dai due lupi, che erano passati agli insulti pesanti: “Allora. Ho qui l’appello. Dunque. Sango?” Chiamò guardandosi intorno come se non vedesse la fidanzata a due centimetri da lui. La diretta interessata gli pestò un piede. “Ok, lei c’è. Poi… Inuyasha e Sesshomaru?” il mezzodemone con le orecchie da cane e il demone dagli occhi freddi fecero un cenno, uno più silenzioso dell’altro, anche se Inuyasha stava ancora fissando imbestialito la ragazza con il completo a pois. “Poi… Kagome e Kikyo?” la ragazza con il vestito a pois e quella silenziosa dissero ‘presente’, una vivacemente, l’altra con un tono piuttosto smorto. “Bankotsu, Jakotsu e Suikotsu?” chiamò, guardandosi intorno per scorgere qualcuno che rispondesse al richiamo. Da lontano, una voce, per l’ennesima volta, gridò: “ECCHICEEE!!!” i tre individui più strani che Rin avesse visto stavano venendo verso di loro: uno aveva i capelli in una lunga treccia, l’altro pettinati in un codino e l’altro ancora li teneva scomposti in una zazzera disordinata. Inoltre, sul viso, avevano i segni più impensabili, tanto che le parve che Sesshomaru, quello con le macchie color porpora sulle guance, fosse molto poco appariscente.

“Bene, anche loro ci sono, poi… Shippo?” anche lui arrivò al richiamo, come per magia. Era un volpacchiotto sui vent’anni, dai capelli rossi. Venne chiamata anche una giovane ragazza di vent’anni anche lei, dai capelli candidi, di nome Shiori, e Kagura e Naraku, due fratelli, che erano già arrivati e che se ne stavano al bar.

“Bene, poi… Ayame e Koga.” Chiamò Miroku, a voce tonante e i due demoni lupo che prima stavano litigando e che in quel momento si stavano malmenando risposero con degli sconclusionati: “Chi?”-“Io?”

Rin non avrebbe potuto essere coinvolta in un viaggio con compagni peggiori. Uno più anormale dell’altro.

“Beh, Miroku… ci sono e poi la piccola Rin.” Detto questo le posò in modo alquanto pesante la mano sulla spalla, abbassandola più di quanto non fosse. Mugolò una protesta inutile, mentre tutto il gruppo si metteva in marcia al grido dell’organizzatore: “In marcia, miei prodi!”, che urlò brandendo il foglio dell’appello come una spada.

Impaurita, Rin seguì la piccola, appariscente folla fin dentro il pulmino, impolverato fino all’eccesso. Sango le era risultata subito simpatica, forse perché fu l’unica a rivolgerle la parola.

Arrivarono davanti a un aereo di linea, meraviglioso, pulito, grande e terribilmente lungo, e si diressero con fare sicuro verso di esso, anche perché c’era scritto, sulla fiancata ‘Air France’.

“Eh-ehm… ragazzi, dove state andando?” chiese Miroku, mentre si fermava a guardare tutti gli altri, che si girarono incuriositi. “Sull’aereo, no?” disse uno di quelli che finivano per tsu, quello con i segni verdi sul viso.

“Sì, ma quello non è il nostro.” Disse Miroku, divertito: “Il nostro è quello laggiù.” Detto questo indicò il velivolo più scalcinato, vecchio e pericolante dell’intera Gran Bretagna.

Rin fece qualche passo indietro. “Io lì non ci salgo.” Sussurrò, spaventata, mentre indietreggiava ancora un po’. Almeno finché non pestò un piede a Sesshomaru, che, scocciato, la guardò con odio e la oltrepassò, avviandosi verso l’aeroplano. Rimase sola, mentre tutti gli altri andavano avanti, cocciuta e risoluta, ripetendosi mentalmente che, no, lì non ci sarebbe mai salita.

Miroku la guardò, lievemente minaccioso: “Ti devo riprendere in braccio?” chiese, avvicinandosi. Rin fece ancora un passo indietro prima che il ragazzo la prendesse in groppa e la trasportasse, scalciante, fino al loro mezzo di trasporto.

“Bene, ora che anche la nostra recalcitrante Rin è entrata possiamo cominciare a partire.” Disse, facendo segno al pilota di mettere in moto.

Occupavano l’aereo solo loro sedici, ed ognuno contribuiva con la propria voce all’allegro chiacchiericcio che si stava via via diffondendo.

“L’ultimo appello.” Annunciò Miroku.

“Miroku.” Si tastò il naso: “Sì, penso di esserci.”

“Sango?”

“Presente.”

“Inuyasha?”

“Presente.”

“Sesshomaru?”

“…”

“Sesshomaru??”

Alla fine, il demone, invece di rispondere, alzò in aria il braccio.

“Oook, un altro asociale… Kagome?”

“Presente!”

“Kikyo?”
“Presente.” Sussurrò.

“Bankotsu, Jakotsu e Suikotsu?”

“Presenti tutti e tre.” Cinguettò quello col codino, che si sedette accanto a Rin.

“Naraku?”

“C’è.”

“Kagura?”

“Presente.”

“Ayame?”

“C’è anche lei.”

“Koga?”

“Koga c’è sempre!”

“Felice di saperlo. Shippo?”

“Presente!”

“Shiori?”

“Sì.”

“Rin?”

Sentendosi chiamare la piccola Rin alzò in aria un braccio tremante, troppo impaurita per rispondere. Anche perché, se avesse risposto, avrebbe di sicuro vomitato la colazione.

“Bene signori! Pilota Larxene, può anche partire.” Annunciò Miroku, sedendosi accanto a Sango. Il pilota, che per tutto il tempo era rimasto in silenzio, nascosto dalla tenda della sua cabina, levò una mano dalle dita affusolate che faceva un segno rappresentato dal pollice, l’indice e il mignolo.

Non passò molto tempo che si ritrovarono in aria, planando dolcemente tra i cirri azzurrini e pieni di sole. A Rin venne un terribile attacco di vertigini, e abbassò la tendina dell’oblò, cercando di non pensare all’altezza a cui si trovava.

Solo quella mattina era tranquillamente seduta davanti al suo computer per controllare il risultato del sue esame del diploma, e invece in quel momento era su un aereo. Era stata costretta a lasciare ogni sicurezza per l’ignoto, cosa che le faceva terribilmente paura. Le veniva da piangere.

Neanche aveva fatto in tempo a pensarlo che una lacrima scese per la sua guancia, seguita da un’altra, e un’altra ancora.

Quello che si era seduto accanto a lei, Jakotsu, le pareva, si accorse delle sue lacrime e, da brava mamma, cercò di consolarla: “E ora perché piangi?” le disse, curioso. Non rispose, non ne aveva la forza. “Dai, non bisogna pensare a piangere, ora, stiamo partendo per una vacanza!” continuò allegramente, posando una mano sul suo braccio: “Le vacanze migliori sono quelle che cominciano col sorriso.” Si appoggiò alla spalla appuntita di Jakotsu, ancora piangendo: “È… è che… ho tanta paura.” Sussurrò, balbettante, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.

“Beh, è normale avere paura, però il segreto è superarla. La paura è l’amica dei giudiziosi.” Disse lui, con aria professionale, come se se ne intendesse: “Non fare come quel cretino di mio fratello che fa l’incosciente.” Rin rise sommessamente, asciugandosi l’ultima lacrima.

(qualche posto più avanti si sentì uno starnuto)

 “Vedi, è facile. Il trucco è non pensarci. Pensa a qualcosa che ti piace.” Finì Jakotsu: “E ora lo fai un bel sorriso?”

Rin, nonostante la situazione, trovava Jakotsu terribilmente confortante, e sorrise, un po’ stiracchiata, ma sorrise.

 

Arrivarono in un lasso di tempo relativamente breve, ma comunque terribilmente lungo per Rin. Aveva passato tutto il suo viaggio ad osservare il suo vicino di posto che ascoltava la musica, leggeva riviste (di moda) e chiacchierava con gli altri, oppure spettegolava. Era una persona allegra, tutto sommato, era molto piacevole stare insieme a lui. Durante il viaggio scoprì che era omosessuale, ma la cosa non la sconvolse più di tanto, dato che il suo aspetto terribilmente femminile le aveva già fatto presupporre qualcosa. Per non parlare della sua decisione di correre appresso al mezzodemone di nome Inuyasha senza nemmeno conoscerlo, solo perché lo trovava carino.

Ma Rin non aveva scoperto solo questo. Sembrava che Jakotsu fosse informato su tutto e su tutti. Le aveva parlato dei suoi fratelli, Bankotsu e Suikotsu, e le aveva detto che in realtà ce n’erano altri quattro, e che litigavano ogni santo giorno. Poi le aveva detto che aveva incontrato Miroku per sbaglio, e che lui l’aveva scambiato per una donna e di conseguenza gli aveva palpato il sedere, e poi le aveva detto che era molto carina ma che doveva vestirsi meglio e non capiva come riuscisse a sopravvivere con un maglione in pieno giugno. In tutto il viaggio aveva parlato solo Jakotsu. Al massimo lei aveva riso, pianissimo, ma l’aveva fatto, oppure rispondeva a qualche domanda che lui le aveva posto.

“Ahh!” esclamò poi Miroku, uscendo fuori e stiracchiandosi ben bene: “L’aria di Parigi è del tutto diversa da quella di Londra, non trovate?” chiese poi, dirigendosi fuori, dopo aver preso il suo bagaglio.

“Sì, anche perché Parigi è una delle città della…” provò a dire Shiori, ma fu interrotta da Kagura e Jakotsu, che gridarono insieme: “MODA!!!” la giovane assunse un’aria lievemente accigliata: “Ma io volevo dire cultura!” protestò, con la sua voce sottile e angelica. Nessuno la prese in considerazione.

“Piccolo dilemma…” cominciò Inuyasha: “In sedici quale taxi prenderemo?” chiese, guardando fuori, verso il parcheggio dei taxi. In effetti era un dilemma che si erano chiesti tutti almeno una volta. “E chi ha parlato di taxi?” disse Miroku, noncurante: “C’è Sengoku.”

“Ehh?” chiesero tutti, o meglio, quasi tutti, visto che Sesshomaru non aprì bocca, così come Rin, troppo impaurita per spiccicare parola.

“Ti prego, non ancora quell’affare.” Gemette Sango, portandosi una mano sulla fronte esasperata. Anche Inuyasha sembrava spaventato. Tutti gli altri erano ancora nella nebbia. “Ehm, cosa sarebbe questo Sengoku?” chiese Shippo, con l’aria di chi è preoccupato per la salute di qualcuno. Miroku si limitò a ridacchiare e guidarli verso un parcheggio.

Rin doveva ammettere di essere piuttosto curiosa. Questo Sengoku, da come ne parlava Miroku, sembrava un amico di infanzia a cui si vuole troppo bene, ma non capiva il nesso tra lui e il loro mezzo di trasporto. Sobbalzò per l’ennesima volta, quando un clacson andò a stridere nell’aria con il suo suono tonante. Parigi, per come l’aveva vista ora, era solo un immenso parcheggio pieno di auto dai guidatori isterici, e la cosa le metteva un certo timore.

Giunsero in un posteggio vuoto, tranne che per qualcosa di azzurrino e piuttosto grosso che svettava sull’asfalto grigio cotto dal sole.

“Non mi pare di essere venuto fin qui per rottamare furgoncini malmessi.” Brontolò Sesshomaru, con una voce fredda come i suoi occhi. Rin, per la seconda volta, rimase stregata da Sesshomaru, e si voltò quel che bastava per rivolgergli un’occhiata curiosa. Aveva una voce gelida e inespressiva, ma la cosa, non si sa come, la affascinava. L’affascinava per come, nonostante la carente espressività, quella voce riuscisse a far capire ugualmente la sua irritazione. Era… strano.

Si costrinse a girarsi verso la direzione che avevano imboccato gli altri, per evitare che il bel demone si accorgesse di essere fissato, ma, soprattutto, per evitare di perdersi per la seconda volta in quegli occhi dorati freddi e diffidenti.

“Infatti nessuno lo deve rottamare, lui è Sengoku e guai a chi me lo tocca!” rispose Miroku, appoggiandosi con sicurezza a una delle pareti del veicolo.

Ora è necessaria una pausa per descrivere quell’ammasso di ferraglia. Mettete ‘pausa’ alla storia e lasciate che me medesima vi descriva quell’affare.

Era uno scalcinatissimo pulmino dalle gomme piuttosto alte, tre nere e una bianca, tutto dipinto. Sulle fiancate c’era scritto ‘Sengoku’ in due modi diversi, a caratteri colorati, come se fossero state scritte e disegnate dagli artisti di strada con le loro bombolette. Oltre a questo il veicolo era decorato con tutto ciò che era possibile da attaccare. C’erano un sacco di adesivi di varie città, disegni, cartelli stradali, persino un paesaggio svizzero dipinto sul retro, sempre con le bombolette spray, anche abbastanza bene. Sembrava un quadro. Le scritte ‘ROMA’, ‘BERLIN’, ‘BARCELONA’, ‘PRAGUE’ e molte altre svettavano prepotenti con il loro messaggio. Poi, sul muso, c’era un adesivo piuttosto grosso, con lo sfondo rosso e le lettere bianche, che recitava a caratteri cubitali: ‘DON’T STOP ME NOW’. Ritornando alle fiancate, erano anche disegnati, come in una miniatura, dei momenti di concerti, quasi come fossero delle foto. Era spettacolare di come fossero precise. C’erano anche un sacco di autografi di band musicali che a Rin risultavano sconosciute. L’unica firma che riconobbe fu quella dei Sum 41, che svettava, messa in evidenza da un cerchio in vernice rossa. Lo sfondo, se visibile, era azzurrino e verde.

Bon, ora che ho finito di descrivere, potete mettere ‘play’.

“Io lì non ci salgo.” Disse di nuovo Rin, facendo un passo indietro, stavolta pestando il piede a Naraku che, stranamente, era stato in silenzio tutto il tempo. Lui, al contrario di Sesshomaru, non sembrò adirarsi molto, anzi, le disse: “Ti do ragione.” Aveva una voce profonda, cosa che le fece pensare che avesse almeno una quarantina d’anni.

“Su, su, niente storie, salite sennò vi lascio qui.” Ordinò Miroku e, alla fine, controvoglia e imbronciati, tutti salirono. Tutti tranne Rin, ovviamente, che non aveva smesso di sobbalzare ai suoni dei clacson che passavano vicino.

Sesshomaru, per la prima volta, prima di salire le rivolse un’occhiata. Rin non avrebbe mai saputo esplicare ciò che significava per il demone quell’occhiata, l’unica cosa che notò era che Sesshomaru sembrava curioso, quasi… divertito. Subito quel pensiero le fece salire una rabbia devastante: come osava quel… quel (bellissimo, affascinantissimo e un’altra montagna di aggettivi del genere) demone essere divertito mentre lei era spaventatissima?

Era rimasta fuori solo lei, e a quel punto Miroku fece capolino dalla portiera: “Rin, Rin, cosa devo fare con te? Sali o ti devo portare io?” chiese, scuotendo la testa. Alla sua muta risposta equivalente a un altro passo indietro lui scese dal pulmino con un balzo, la prese sulle spalle un’altra volta e la portò di peso dentro. Quasi a volerlo fare a posta, la lasciò cadere su uno dei sedili, quello tra Sesshomaru e Naraku.

Ora, scusate di nuovo l’interruzione, ma serve un’altra pausa per descrivere l’interno. Quindi rimettete ‘pausa’ e leggete.

Il pulmino, all’interno, se possibile, era ancora più strambo: prima di tutto, i sedili non erano rivolti verso il posto guida, ma correvano per tutti i lati, lasciando il posto, al centro, per un tavolo cigolante. C’erano almeno una quarantina di posti. Poi, ai lati, alle finestre, erano appesi un sacco di poster, foto, disegni, fogli, liste di cose da fare e molto altro, senza parlare di portachiavi, dadi e gingilli vari. Poi, incassato nell’angolino destro, c’era un frigorifero minuscolo, forse più utile come soprammobile che come frigorifero. Sopra vi era appoggiata una lampada di plastica rossa, perché, con tutte quelle cose appiccicate ai finestrini, la luce che entrava era davvero poca.

Il posto dell’autista, in questo caso quello che stava andando ad occupare Miroku – che era fermo chinato a metà per sedersi a causa della ‘pausa’ – era escluso dalla vista con una tenda indiana pesante, che sembrava ricavata da un tappeto.

Ok, la schiena di Miroku sta cigolando, direi di rimettere ‘play’.

“Ahi, ahi… che mal di schiena!” gemette Miroku, sedendosi di botto al posto dell’autista.

Rin si irrigidì al suo posto, intimorita da entrambi i ragazzi, anche se Naraku sembrava gentile. Comunque evitava di guardarlo negli occhi, quel colore rosso la inquietava non poco. Di meno, comunque, rispetto a quelli del demone che, dopo averle gettato un’occhiata lievemente disgustata, si ritrasse impercettibilmente. Era un’umana. E come tale doveva stare il più lontano da lui.

Rin si chiese più volte i motivi di quel comportamento schifato, ma l’unica ragione che le sembrava vagamente plausibile fu quella di un odore fin troppo sgradevole. Ma lei, quella mattina si era fatta una doccia, quando ancora non sapeva del malefico scherzo di sua madre. A casa sua.

La malinconia e il suo istinto agorafobico presero di nuovo il sopravvento, riempiendole di nuovo gli occhi di lacrime. Non poteva permettersi di piangere davanti a Naraku, né tanto meno davanti a Sesshomaru, che, secondo lei, si era già fatto un’idea di una Rin ridicola. Esatto, secondo Rin Sesshomaru la considerava ridicola. In un battito di ciglia scacciò tutte le lacrime, e si impose con tutta sé stessa di pensare a qualcosa che non la rimandasse a casa.

Come per contraddirla il telefono cominciò a squillare insistentemente con i suoi driiin ripetuti, e Rin, con un’occhiata rapida al display, si accorse che a chiamarla era sua madre. Premette il tasto rosso senza troppi sensi di colpa. Era colpa di Isabella se era finita in quel posto terrorizzante insieme a gente sconosciuta.

“Chiamano da casa?” chiese la voce profonda di Naraku, che la scrutava curioso. Lei annuì. “E non rispondi?” chiese ancora. Ma i fatti suoi non se li fa? Si chiese Rin, infastidita. “Sono molto più interessanti quelli degli altri.” Rispose lui, con un occhiolino. La giovane rimase interdetta. Possibile che intuire i suoi pensieri fosse così facile? “Sì, se hai studiato psicologia all’università.” Rispose lui alla sua domanda inesistente. Rin rimase interdetta ancora una volta. “Parli tu o parlo io?” chiese il mezzodemone. “Sei tu che hai cominciato.” Brontolò, incrociando le braccia al petto. Lui ridacchiò, ma non fece in tempo per ribattere che Miroku, dal posto dell’autista annunciò con la voce amplificata del microfono: “Bene, truppa, ora ce ne andiamo a spasso per la panoramica di Parigi! Se riuscite a vedere dal finestrino buon per voi, sennò siete autorizzati a spostare qualche cosa. Basta che non fate sparire niente. E ora… partenza!”

Mise in moto, e, tra cigolii, scoppi di motore e rombi, Sengoku si mise in viaggio.

Non passarono nemmeno due minuti che Miroku prese di nuovo in mano il microfono: “Bene, ora Sanguccia farà passare il microfono, così potete presentarvi ben bene. Non siete obbligati a dire niente. Tanto prima o poi riusciremo a spettegolare. Bene.” Disse, con un sorriso sghembo: “Io sono Miroku Funnigan, sono nato a Manchester e tifo per il City, ho ventisei anni e faccio il cuoco. Mi piacciono le belle donne” Sango gli diede un pugno: “Ehm, sì, comunque nel tempo libero organizzo viaggi.”

Poi Sango prese il microfono: “Io sono Sango Ashe, sono nata a Sydney e mi sono trasferita a Londra da quando avevo dodici anni, ora ne ho ventiquattro e faccio l’insegnante di educazione fisica.” Disse, e passò a Kagome: “Mi chiamo Kagome Higurashi, mio padre era giapponese ma sono nata a Londra, ho ventitre anni e studio lingue.” Dopodiché passò alla ragazza pallida pallida che le si era seduta accanto, che disse si e no quattro parole sussurrate: “Kikyo Higurashi. Stesse cose.” Concisa, non c’è che dire.

“Koga Kinnon” cominciò il demone lupo, interrotto dalla voce di Miroku: “Quello che c’è sempre!” e qualche risatina: “Beh, sì… comunque ho venticinque anni, sono nato a Dublino, dove vivo, e mi sono laureato a novembre in legge.” Qualche applauso sparso, soprattutto di Jakotsu, che lo riteneva carino. “Kagura McLovett ventisei anni, nata a Bath. Sono una segretaria, per ora.” Disse, con una smorfia contrariata circa il suo lavoro. Forse non le piaceva. Il microfono finì in mano a Suikotsu: “Suikotsu Ben, fratello di altri sei scellerati, ventun’anni, studio architettura.” Naraku: “Naraku McLovett, fratello di Kagura.” Ma va’? “Trentun’anni e sono uno psicologo.” Solo trentun’anni e la voce profonda di un vecchio?!?! Ma Rin non fece in tempo a chiederlo che si ritrovò il microfono in mano. Tutti erano girati a guardarla, persino Sesshomaru, anche se sembrava disinteressato.

“Ehm…” balbettò: “Io sono… mi chiamo… Rin Jordan. E… e ho diciannove anni e dovrei studiare astrofisica l’anno prossimo.” Disse, tutta d’un fiato, e mollò l’arnese in mano a Sesshomaru. Lui sembrò soppesare ben bene le parole, come se dovessero essere il più riassuntive possibili, dopodiché disse, con voce chiara: “Sesshomaru, vivo a Londra, medico…” ma fu interrotto dalla voce urlata di Miroku: “Ah, bene, ci serviva proprio un dottore, quindi sappiamo a chi rivolgersi in caso di analisi!” ridacchiò.

“… legale.” Finì Sesshomaru, alzando un sopracciglio. Miroku rispose, dopo un po’: “Eh, eh… mi sa che allora faremo a meno del dottor Sesshomaru…” ridacchiò a disagio.

Dopodiché toccò a Inuyasha: “Bene, io sono Inuyasha Tashio, questo asociale qua” e mise una mano sulla spalla del demone, che assunse l’espressione tipica di chi ha ingoiato qualcosa di schifosamente disgustoso: “è mio fratello” disse, ma fu interrotto da Sesshomaru: “Fratellastro.” Inuyasha annuì: “Esatto, fratellastro… comunque ho ventisette anni, abito anch’io a Londra e faccio il professore di musica.” Finì lanciando il microfono a Bankotsu, che stava dall’altra parte del pulmino: “Bene, io sono Bankotsu Ben e sono il fratello maggiore dei Ben” decretò con un certo orgoglio: “Ho ventisette anni e lavoro come chimico in un’industria farmaceutica.” Finì, pomposo, ma fu sminuito da Jakotsu, che gli prese di mano il microfono: “Beh, diciamo che dice di lavorare, poi si sa che va dietro alle donne.” Bankotsu arrossì: “Beh, comunque io sono Jakotsu Ben e sono il terzo fratello perché tre è il numero perfetto, ho ventidue anni e studio qualcosa che si chiama storia dell’arte.” Shiori: “S-sono Shiori Hiakkikomori e sono un mezzodemone, abito a Manchester e ho vent’anni e… e studio musica.” Balbettò, con la sua voce d’angelo. Ci fu un minuto di silenzio, in cui tutti i demoni presenti fissarono Shiori, sorpresi.

Rin si chiedeva perché tutti fissassero la ragazza in quel modo decisamente poco carino, anche se le sembrava di aver sentito che la famiglia Hiakkikomori era una delle più potenti tra i demoni, insieme alla stirpe delle pantere, dei demoni lupo della tribù Yoro e quella degli Inu youkai. Ma, anche se Shiori fosse stata un’erede, non capiva perché ci fosse il bisogno di fissarla così.

Il demone lupo dai capelli rossi, infine, per spezzare il silenzio, prese in mano il microfono, tossicchiando: “Ahem… allora, io sono Ayame Hanvarg, ho ventiquattro anni, vivo a Glasgow e faccio la fotografa con un contratto con una rivista.”

L’ultimo fu Shippo: “Sono Shippo Fox, ho vent’anni e abito nei pressi di Manchester… ah, studio, dovrei studiare, medicina.”

Rin si sentì, per più motivi, un’emarginata: primo, tutti erano più grandi di lei, e anche più alti, secondo, tutti sapevano fare qualcosa e studiavano, erano adulti, e c’era qualcuno che aveva già fatto carriera. E lei? Lei era una studentessa che se ne era uscita da poco dai suoi esami di maturità.

Si sentiva davvero minuscola.

“Bene, ora che abbiamo avuto il piacere di fare la vostra conoscenza… godetevi Parigi!” esclamò Sango, spostando un poster dal finestrino.

Rin chiuse gli occhi, imponendosi di non vedere. Meno vedeva l’esterno, meglio era. Si era decisa a rimanere tutto il tempo così, con gli occhi chiusi, ma qualcuno le bussò delicatamente sulla spalla. Aprì le palpebre di scatto, quasi spaventata, e davanti a sé vide Shippo, sorridente: “Beh, e tu che fai, non guardi? Parigi è davvero bella!” disse, e la fece voltare, prendendo il posto di Naraku, che si era spostato accanto alla sorella.

Era così bassa che fu costretta a mettersi in ginocchio sul sedile, appoggiandosi al vetro. Quando l’ennesimo poster fu spostato, rimase a bocca aperta: c’era un grande viale alberato, che sembrava frusciare guidato dal vento, e tanti, ma tanti passanti che camminavano sui marciapiedi puliti, chiacchierando e scherzando. Le case del centro erano intonacate con decori antichi, e ogni tanto vedeva svettare sopra gli edifici qualche monumento. In quel momento, l’unica cosa che riusciva a vedere era un grande, enorme, arco di trionfo. “Signori e signore, ecco a voi gli Champs Elisées!” esclamò Miroku, riappropriandosi del microfono. “Volete sentire aneddoti vari?” chiese, ma quasi nessuno lo stava ascoltando: Rin era troppo assorta a guardare fuori dal finestrino accanto a Shippo, Inuyasha cercava un sedile sicuro molto lontano da Jakotsu, Naraku che chiacchierava con la sorella, che intanto aveva occhi solo che per Sesshomaru, mentre il demone guardava fuori dal finestrino, ma non sembrava stesse osservando il paesaggio, Kagome che chiacchierava con Koga, mentre Kikyo sembrava immobile, come se si stesse morta, cosa che le riusciva particolarmente grazie all’inusuale pallore della sua pelle, Ayame e Shiori invece stavano parlando del più e del meno. Sango invece stava leggendo una rivista in francese. Diciamo che stava osservando le figure visto che di francese non sapeva un ‘h’.

“Beh, tanto non li sapevo.” Disse Miroku, con una gocciolona sulla testa.

Rin gettò uno sguardo a Sesshomaru, molto rapido, non voleva essere colta in flagrante mentre lo fissava, e si accorse che il suo sguardo sembrava quasi… contrariato. Come se fosse arrabbiato con sé stesso. Probabilmente sarà perché Inuyasha l’ha trascinato qui. Pensò, curiosa. Ma dopo un po’ scosse la testa: non poteva certo impicciarsi negli affari di quel demone solo perché la affascinava!

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ebbene sì! sono tornataaaa >BD

ho qualche avvertenza da darvi ù-ù

no, non sparisco^^

allora avvertenza n°1: ogni tanto mi divertirò a mettere significati nascosti nei capitoli :), cioè, per esempio un avvenimento che ricorda qualcosa che è successo nel manga... il giochino consisterà nel trovare i significati nascosti (se vi va eh!) :D

avvertenza n° 2: ogni tanto, come avete visto nel 1 capitolo, ci sarà il testo di qualche canzone: ebbene, vince la dedica del capitolo successivo chi indovina il cantante/gruppo e il titolo (giochino :D)

euh, che dire, aspetto le vostre recensioni?

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Capitolo 3
*** 3. Tour Eiffel ***


3. Tour Eiffel.

 

Erano le sei e un quarto quando Rin scese, o meglio, fu costretta a scendere, da Sengoku, entrando nell’aria parigina con un potente starnuto. Guarda se non mi ammalo! Pensò con raccapriccio, mentre si spostava dall’area di parcheggio infettata dai suoi germi, pulendosi la mano con un fazzoletto asettico.

Piagnucolò qualcosa di sconnesso contenente le parole “vendetta” “casa” “mai più”, ma così sconnesso che non si capì nemmeno lei. Camminò strisciando i piedi per raggiungere il gruppo che se ne stava andando via, lasciandola sola in mezzo a quel parcheggio parigino.

Sembrava che tutti avessero le fregole. Dove stavano andando di così eccitante da dover correre così? “Guarda che noi stiamo camminando normalmente, sei tu che vai troppo piano.” Le disse, Naraku, mentre rallentava per andare al suo passo. Solo in quel momento, Rin notò per davvero il terribile colore sanguigno delle iridi di Naraku. E quello faceva lo psicologo? Ma con gli occhi che si ritrovava, come minimo mandava in crisi cronica da incubo tutti i suoi clienti!

“Non è la prima volta che qualcuno lo pensa.” Le disse, leggendole ancora una volta nei pensieri. Argh! Ma come faceva ad intuire ogni suo pensiero? Era preoccupante!

Naraku, pur avendo capito ancora una volta i pensieri della sua interlocutrice col codino, non disse nulla. La trovava molto carina e divertente, anche se decisamente non il suo tipo. Aveva capito subito che Rin era agorafobica, anche perché non faceva che tremare e sobbalzare ad ogni più piccolo movimento d’aria. Tremava persino in quel momento.

La sua mente da bravo psicologo partì subito in quarta, automaticamente, sui modi possibili per far guarire quella ragazza al più presto, sia perché sennò lei non si sarebbe potuta godere a pieno la vacanza, sia perché non poteva accettare che un caso clinico così interessante gli sfuggisse di mano. Kagura, sua sorella, lo detestava quando ragionava così, perché, secondo il suo linguaggio, sembrava uno scienziato pazzo che giocava con la sua cavia. Eh, beh, che ci poteva fare… era così divertente!

Rin osservò scandalizzata l’uomo che le camminava vicino: sembrava che fosse sia demone che uomo, anche se aveva la sensazione che Naraku non fosse un mezzodemone “pulito” come Inuyasha. Era strano a pensarlo. Ma l’oggetto del suo stupore, non era certo questo: aveva l’impressione di essere oggetto di studio, come se fosse un esperimento, e la cosa, abbinata al colore sanguigno dei suoi occhi, la inquietava assai.

“Ehi, che fate soli soletti lì indietro?” li interruppe Miroku, arretrando: “Naraku, lo so che Rin è molto carina, ma non le saltare addosso il giorno dell’arrivo!” esclamò, facendogli l’occhiolino. Rin divenne rossa per il complimento. “Non era mia intenzione.” Ribatté Naraku, sorridendo. Rin poté notare che i suoi denti erano anche più affilati del normale. Il suo cervello mandava solo un messaggio: scappaaa!!!

“Bene, ora vi rubo un attimo la Rin!” disse Sango, sopraggiunta in salvataggio, anche perché Rin aveva l’espressione di un pesciolino che si trovava tra due squali.

“Lasciali perdere, sono maschi!” esclamò, spingendola via, vicino a lei e Kagome, che, tra l’altro, ancora si fissava in cagnesco con Inuyasha: “Vieni con le compagnie più piacevoli.” Sorrise, presentandola alla sua amica. “Beh, Kagome, lei è Rin e credo che starà un po’ con noi, dato che è già stata aggredita da qualcun altro.” Disse, scuotendo la testa e, di conseguenza, la bella chioma bruna. Rin, ancora una volta, la invidiò. Si sarebbe tagliata il codino di cui andava tanto fiera per avere un briciolo della sicurezza e della spontaneità di Sango.

Miroku, dopo essersi rimesso a capo della comitiva chiassosa, li guidò per una strada trafficata e piena di francesi che li guardavano curiosi, chiedendosi come mai quello stranissimo assembramento di turisti umani e demoniaci stesse dando sfoggio di sé stesso su quel comunissimo marciapiede.

Sesshomaru rimaneva sempre un po’ indietro, ma non perché fosse lento, no, per carità, da bravo demone maggiore – quando era particolarmente in vena – era in grado di correre per chilometri alla velocità della luce senza mai stancarsi, ma perché detestava confondersi con la massa dei suoi futuri compagni di viaggio. Già li odiava. Prima di tutto la maggior parte erano umani, poi c’era anche quel cretino del fratello che contribuiva, con il suo odore fatto a metà, a farglieli detestare ancora di più.

Perché lui, poi, in quel viaggio, mica ci voleva venire! Nossignore! La colpa era, come al solito, di Inuyasha. Possibile che ogni problema della sua vita fosse causato da quella catastrofe dalle ridicole orecchie?

Da qualche periodo quel bamboccio di suo fratello aveva preso a cuore la sua vita privata, impicciandosi anche nei fatti più imbarazzanti – non che lui, il grande Sesshomaru Tashio, ne avesse così tanti – e, soprattutto, si andava a intrufolare nella soffitta della sua casa a cercare qualcosa che tradisse la presenza di una donna nella sua vita. Il suo mantra preferito risultava essere: andiamo Sesshomaru, possibile che nella tua vita non abbia mai avuto nemmeno una fidanzata? E alla secca e gentil risposta: ficca il tuo delicato nasino e le tue ridicole orecchie in fatti più idonei alla tua età mentale conseguiva sempre uno sbuffo spazientito del genere: non è colpa mia se ho un fratello degenere che non ama divertirsi con qualche donna.

Questo, poi era un insulto bell’e buono alla sua virilità! Che cosa gliene importava a lui se preferiva le donne demoniache a quelle umane?

“Ehi, fratellone, ti vedo pensieroso!” esclamò Inuyasha, dandogli una pacca sulla spalla. Dio quanto odiava quel nomignolo!

Rivolse un’occhiataccia degna di un cane rabbioso (oops, lui era un Inu youkai molto arrabbiato, che equivaleva più o meno la stessa cosa) e lo ignorò, allungando il passo. Inuyasha ridacchiò, come se lo trovasse molto divertente. Ricattare Sesshomaru attraverso il loro padre era stata l’idea più geniale che gli potesse venire in mente, degna di un grande stratega! Ah, come si sentiva soddisfatto! Avrebbe potuto finalmente ammogliare il fratello, o, almeno, fare in modo che si trovasse una fidanzata. Perché si era preso la cosa a cuore? Non lo sapeva di preciso… forse perché il padre lo aveva implorato ad aiutare il fratello, o qualcosa del genere. Forse perché anche Inuken Tashio si stava preoccupando per il suo figlio maggiore che, avendo novantanove anni, ancora non aveva trovato una moglie.

Rin era indecisa se ascoltare le due ragazze che parlavano o controllare tutto ciò che le era intorno e, indecisa, decise di fare tutte e due le cose, con un risultato imbarazzante: sembrava schizofrenica, soprattutto per il movimento degli occhi che somigliava a quello di un povero malato mentale che sta cercando di guardare in più posti contemporaneamente. “Rin, tutto a posto?” le chiese Kagome, ad un certo punto. “Ehm… sì… cioè, NO!” esclamò, sempre più nervosa. La città le metteva la fifa addosso, come se fosse un cappotto di pelliccia. “È solo che…” provò a dire, ma fu interrotta dalla mano di Ayame che le scese pesantemente sulla spalla, abbassandola ancora di più: “Allora! Ci si conosce veramente, vedo!” esclamò. Non ci voleva una laurea nel vedere che quel demone lupo era dannatamente sicura di sé. “Beh, io sono Ayame, contate su di me se vi servisse un passaggio in skateboard!” disse, con un occhiolino. Koga, non troppo vicino, ma comunque abbastanza per sentire, brontolò: “Sì, ma prima devo fare testamento.”

La rossa, sentendo la battuta, si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata con un mix di disgusto, vetriolo, cianuro e gas velenosi, così venefica che l’altro fece un passo indietro: “Sempre che non ci sia qualche cretino a intralciare la strada.” Soffiò Ayame, assottigliando gli occhi. Koga, pur essendo interiormente traumatizzato da quel pericolo pubblico coi codini e i calzoni corti, si inalberò, pronto ad una rispostaccia con un uguale shekeraggio di veleno, ma fu interrotto da Kagome: “Ehm, va bene, avevamo un programma per le sette, no? Quindi muoviamoci!” esclamò, frapponendosi tra i due lupi che si guardavano in cagnesco (perdonatemi, ma il termine lupesco non esiste tra i termini da me conosciuti :3 nda).

Calmati i bollenti spiriti, il gruppo si rimise in marcia come un sol uom… demon… insomma tutti insieme!

Rin, che ancora non si era ripresa dal rapimento di qualche ora prima, tremava come una foglia, e non si accorse neanche di quando Miroku gridò, emozionato: “Signori e signore, ecco a voi la Tour Eiffel!”. O meglio, se ne accorse, ma solo per alzare uno sguardo inorridito sul gigantesco monumento che incombeva su di lei con la sua forma appuntita e un po’ curva, riducendo di un’altra dolorosa tacca la sua autostima e contribuendo all’ingigantirsi del suo senso di inadeguatezza e microscopicità. Uhu che paroloni che stava usando! Micocopici… ok, non riusciva più a pensarlo. Troppo difficile.

Ma, riassumendo e semplificando quelle parole da vocabolario, era arrivata alla sicura conclusione che la Tour Eiffel le faceva decisamente un gran brutto effetto.

Si risvegliò dai suoi tetri pensieri quando Sango la chiamò da lontano: “Dai Rin! Noi stiamo entrando.” Stava quasi per seguirli, quasi per rispondere positivamente quando si rese conto di dove effettivamente loro stessero entrando. “Ehh?” disse, sconcertata.

Volevano entrare nella Torre Eiffel. Il che, essendo la Torre Eiffel una torre, e anche abbastanza alta, era molto preoccupante. Entrare significava salire e salire significava… no, non ci voleva pensare! Insomma avrebbe sofferto di sicuro di vertigini, perciò rimase inchiodata dov’era. “Non ci penso nemmeno!” squittì, tutta d’un fiato. L’avrebbero aspettata lì. Sissignore, infondo quanto ci dovevano mettere, per salire?

Non finì neanche il suo pensiero che Ayame la prese per un braccio e la trascinò dentro la biglietteria.

Bonsoir, que je peux faire quelque chose pour vous?” (trad.à Buona sera, posso fare qualcosa per voi?) cinguettò la commessa, una donna giovane e molto bella, dai capelli biondi che le ricadevano in morbide onde sulle spalle, incorniciando il viso ovale e perfetto con il loro scintillio dorato. “Oui, cela peut indiquer où sont les escaliers?” (trad.à Sì, ci potrebbe indicare dove sono le scale?) rispose Miroku che, a quanto pareva, sapeva il francese. Rin, che invece di francese non sapeva un accidente, aspettò che qualcuno le traducesse il dialogo tra i due, cosa che non avvenne. Si limitò a caracollare nella direzione che stavano imboccando gli altri, seguendo quella indicata dalla donna.

Si sentì mancare quando vide davanti a sé una lunghissima serie di gradini.

Scosse la testa con forza: “Non ce la farò mai!” esclamò, facendo per andarsene, ma fu riacchiappata per l’ennesima volta, e da Bankotsu: “Eh, no, piccola, se vuoi fartela gratis devi fare le scale.” Scosse ancora la testa, segno di cocciutissimo diniego. “Beh, se ti pesa ti porto io.” Si offrì, facendola salire sulla sua schiena. Rin tentennò un attimo, intuendo sicuramente dei doppi fini, ma scacciò via i suoi dubbi, in fondo era pur sempre un passaggio!

“L’ultimo che arriva in cima è una scimmietta di mare!”

 

Fu una scalata lunghissima. Molti non ce la fecero. Escludendo Sesshomaru, l’unica fresca e riposata era Rin, che era stata portata da Bankotsu. Che poi, Rin, l’aria fresca e riposata proprio non la dimostrava, perché dava l’impressione di qualcuno preso da un violento attacco di mal di mare.

Sesshomaru aveva la solita aria neutra di sempre, e probabilmente era l’unico ad essere ancora in piedi dopo milleseicentosessantacinque (1665) gradini. Tutti gli altri erano barcollanti o crollati già per terra. Tsk, che deboli.

Dopo i primi cinque minuti durante i quali ognuno riprese le proprie forze, erano già tutti affacciati al balcone, estasiati. Rin rimase da parte, almeno finche Shippo non la invitò a godere anche lei della vista. Si  avvicinò con qualche passo insicuro, ostacolata e imbarazzata più che altro dalla presenza di Sesshomaru, che se ne stava tranquillamente a osservare il panorama qualche centimetro più in là. Sembrava non fare caso a tutte le altre persone che si trovavano come lui ad ammirare Parigi dall’alto, anzi, sembrava quasi che pensasse che non ci fosse nessuno a parte lui. O, molto più probabilmente, era immerso nei suoi pensieri.

Oh, no, si stava imbambolando di nuovo a guardare Sesshomaru! (come darle torto? Nda) Strano, ma quel demone le faceva un effetto terribile. Forse era perché rimaneva comunque il primo demone mai visto in vita sua oppure perché era terribilmente affascinante. Da quando l’aveva visto lui aveva spiccicato si e no dodici parole… no, aspetta, le aveva contate?!

“Eddai, Rin, vieni!” esclamò Shippo, mentre anche Koga gesticolava per farla avvicinare. C’era una strana luce aranciata nell’aria.

Dopo qualche passo titubante si avvicinò al parapetto, anche se le sembrava più di buttarsi in un burrone, ma, dopo aver gettato un’occhiata al di là della sbarra di ferro, rimase stupita: il sole, arancione per il tramonto, ti tuffava a rallentatore nell’orizzonte, inondando la città con tenui raggi rosati e tiepidi come la seta, delicati e non troppo forti, mentre l’aria frizzante del crepuscolo avanzava insieme allo sparire della luce del giorno, circondando tutto con la sua aura rosso scuro, abbracciando l’immensa Parigi nella calda coltre di una serata estiva. Man a mano che la luce del sole si faceva più ombrosa, si andavano ad accendere per le strade alcuni lampioni, che da quell’altezza sembravano tanti piccoli diamanti a rischiarare la tersa aria notturna, mossa solo da una lieve brezza.

La sua voce, in quel momento, non trovò altre parole per descrivere quello spettacolo se non un piccolo: “Oh.”

Non pensava che un mondo così caotico trovasse in quei momenti che sembravano quadri attimi di calma, come se tutto si fermasse. Era… quasi bello. Per un solo istante dimenticò la sua agorafobia, dimenticò anche tutto ciò che le stava intorno, persino la presenza di Sesshomaru. Era davvero meraviglioso.

Per un istante.

Poi fu bruscamente riportata alla realtà dalla voce che non si sarebbe mai aspettata venisse rivolta a lei: “Vedi di non sporgerti troppo, detesto lavorare in vacanza.” Rin scosse la testa più volte, come per liberarsi dal quieto torpore che si era impossessato di lei, per poi rivolgere lo sguardo al proprietario della voce fredda: Sesshomaru. Ovviamente, non si doveva sporgere troppo sennò sarebbe caduta giù, spiaccicandosi immediatamente al suolo, e al medico legale della situazione darebbe toccato fare analisi sul suo corpo.

Arrossì di botto, cogliendo la sottile e antipatica battuta, mentre il demone si allontanava da lei.

A quel punto intervenne Shippo che, non avendo colto lo scambio a senso unico di battute tra Rin e Sesshomaru, esclamò, contento: “Non ero mai stato a Parigi, hai visto che bella che è?” chiese, rivolgendosi a lei. Rin annuì, ancora imbarazzata per la figuraccia: “Tu eri mai stata a Parigi?” le chiese. Scosse la testa.

“Sai, Rin, credo che tu debba parlare un po’ di più… non è che il gatto ti ha mangiato la lingua?” chiese Ayame, avvicinandosi. I due la guardarono, stupiti, ma il più indispettito sembrava Shippo. Rin vide che in quel momento Shippo sembrava davvero odiarla per quella molesta intromissione. Si chiese perché.

“Nessuno mi fa mai parlare!” protestò, infine: “O mi rubate la parola o mi ignorate.” Brontolò.

“Allora dovresti ampliare il tuo repertorio e cambiare disco, dato che le tue frasi preferite sembrano essere ‘non ci penso nemmeno’ e ‘non ne ho benché la minima intenzione’.” Si intromise Miroku, con un sorriso furbo. Stava quasi per ribattere velenosamente, quando Sango gridò, dopo essersi accorta della calata del crepuscolo: “Ragazzi è ora di cenaaa!” Incurante soprattutto del fatto che tutti gli altri sfortunati turisti si girarono, assordati e indignati.

Rin guardò le scale dall’alto, in quel momento. Si sentiva sul tetto del mondo, e forse questa sensazione era data dal fatto di essere sul punto più in alto sul quale aveva mai camminato, ma si pentì immediatamente del pensiero partorito, perché un attacco di nausea la colpì, costringendola ad aggrapparsi al corrimano per evitare di farsi tutte le scale rotolando.

“Tutto a posto?” le chiese Kagome, mettendole una mano sul braccio sinistro, come per rassicurarla. Annuì, tremante, facendo capire all’altra che era tutt’altro che a posto.

Koga passò vicino a Kagome, facendole l’occhiolino.

Rin si chiese perché tutti i soggetti maschi fossero già così interessati a qualcuno! Insomma, a malapena si ricordavano i nomi i già passavano a corteggiarle! Sperava solamente che Bankotsu non esigesse pagamenti per il passaggio offerto in salita.

Durante la discesa, che fu, ovviamente, molto più rilassante della salita, anche se Rin continuava a guardare dritto davanti a sé per evitare attacchi di vertigini, Kagome le raccontò praticamente tutta la sua vita: le disse che suo padre era giapponese ma che era morto in un incidente, che viveva in una casetta sola soletta con sua sorella, mentre da piccola aveva sempre vissuto con la madre e il nonno, le disse che aveva conosciuto Sango in una chat e da allora erano diventate amiche, che lei aveva accettato con entusiasmo quel viaggio perché ansiosa di fare nuove esperienze, che invece aveva dovuto convincere sua sorella Kikyo a venire, perché lei non voleva partecipare, dato che il mese prima avrebbe dovuto sposarsi se quel bastardo del suo fidanzato non l’avesse lasciata sola sull’altare, ma Kagome aveva pensato che invece un lungo viaggio avrebbe garantito un po’ di distrazione… poi Rin non seppe ricordare più nulla di ciò che le disse Kagome, seppe solamente che quando finalmente il suo piede si posò nuovamente sul suolo aveva l’aria rintronata di chi aveva sentito da vicino l’esplosione di Krakatoa *.

Ad un certo punto fu “acchiappata” da Miroku, come se lui volesse assicurarsi la sua sanità mentale: “Hai visto che il mondo non è così pericoloso, piccola Rin?” le disse, circondandole le spalle con il braccio. Lei fece segno di no con la testa: “Fino ad adesso ho starnutito, avuto vertigini, nausea e tremarella.” Annunciò. Miroku contorse le labbra in una sorta di ghigno: “Beh, allora è meglio se ti rivolgi al medico del gruppo.” Ridacchiò. Sesshomaru. A pensarci bene si sentiva già meglio!

“Allora!” esclamò Miroku, dopo qualche minuto: “Ora che sono circa le sette e mezza direi che si può andare a cena!” e, detto questo, girò l’angolo, dirigendosi verso Sengoku che se ne stava tranquillamente parcheggiato vicino ad un lampione.

“Aspetta… ma non lo avevi lasciato al parcheggio?” chiese Koga, alzando un sopracciglio. Il proprietario del trabiccolo lo ignorò, anzi, cambiò proprio argomento!

“Sbrigatevi che sto morendo di fame!”

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* L’esplosione di Krakatoa: Nell’agosto del 1883, Krakatoa, vulcano situato in un isola in Indonesia, esplose con un energia equivalente a 200 megatoni, producendo il suono più forte mai udito sul pianeta, un boato udito per un raggio di 5000 km. L’isola sulla quale sorgeva il vulcano fu completamente distrutta, scatenando un maremoto alto 40 metri.
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aggiornamento stranamente veloce stavolta... ma non vi ci abituate :D
vabbiò, diciamo che Rin comincia a "simpatizzare" con il mondo esterno [demoni inclusi] ^^
il prossimo capitolo sarà di "spiegazione" se così si può dire, perchè parlerà di tutto quello che è successo agli altri viaggiatori prima di ritrovarsi a Londra per l'aereo.

bando alle ciance!


ringrazio di cuore:
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RikaRed ^^
Suigetsu_92
Creatrice_di_Sogni
liliana87
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per aver messo la mia fic tra le preferite :D
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ran ugajin 92
Suigetsu_92
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per aver messo la mia fic tra le ricordate :)
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harua_96 (ci si rivede ;) )
leloale
marychan89
Michiyo_Asuka
rossanadaipensaciunpotu (Rossy-chaan ^^)
sara1996
Tallu-chan
Thaila
toua
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per aver messo la mia fic tra le seguite ^^
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grazie di cuore a tutti ^^ spero che questo capitolo sia di vostro gradimento :)
LX.

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Capitolo 4
*** 4.Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi spettegulesss) - parte 1 ***


4. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 1

 

Senza filarsi le domande riguardo all’ambiguo collocamento di Sengoku, Miroku invitò tutti i passeggeri a salire sulla vettura gridando che aveva preparato una bella sorpresa per tutti quanti.

Avendo imparato cosa aspettarsi da quella specie di organizzatore, Rin, al sentir nominare la fantomatica sorpresa, non seppe se mettersi a piangere o buttarsi dal finestrino (quest’ultima opzione possibile solo dopo aver accuratamente spostato tutti i poster, foto, disegni che si frapponevano tra lei e la libertà). Naraku, avendo utilizzato di nuovo il suo sconcertante superpotere, e apparsole vicino come spuntato da sottoterra, le poggiò una mano sul braccio con un’aria professionale da far venire i brividi: “Vedrai non sarà terribile.” Rin, quella volta, non si fece sorprendere e rispose con un sarcastico: “Oh, certo.”

Non si accorse di essere capitata tra i due fratelli. Kagura e Naraku. Del secondo aveva mai appreso l’essenza – cosa che probabilmente la preoccupava più di Naraku stesso – ma Kagura rimaneva un mistero. Era impassibile, o quasi. Diciamo che non era rimasta tanto impassibile ad una palpatina di Bankotsu e, anzi, aveva sfoderato un amabile sorriso da squalo e gli aveva sbriciolato l’alluce con il suo ancor più amabile tacco dodici.

Ma, a parte Bankotsu, che, tra l’altro, stava ancora mugugnando qualcosa riguardante una scarpa col tacco, massaggiandosi il piede destro, Kagura era rimasta in silenzio o, al massimo, aveva chiacchierato con il fratello. Sembravano davvero molto uniti. Ma, prima che potesse pensare altro su Kagura McLovett, quella si girò, scrutandola con occhi curiosi, che, Rin notò con una punta di ansia, erano dello stesso colore del fratello. “Ciao.” La salutò, tanto per non sembrare scortese, sperando con tutta sé stessa di non aver balbettato troppo.

 

Manuale di sopravvivenza di Rin: 1) gli occhi rossi incutono terrore, spavento, ansia e altre patologie da infarto.

 

Lei rispose con un semplice cenno della testa, facendo ondeggiare i capelli acconciati in un aristocratico chignon. “È la prima volta che esci di casa?” chiese, con un tono che Rin non seppe definire se canzonatorio o strafottente: “Sembri spaventata.” Ok, questa era solo un’antipatica constatazione, ma pur sempre vera. Annuì con imbarazzo, mentre la donna si sporgeva verso il fratello: “Bastardo, ti devo due sterline!” esclamò, imbronciata. A quel punto per Rin fu inevitabile alzarsi di scatto dal sedile di Sengoku, indignata: “Avete scommesso su di me!?” esclamò, facendo scorrere uno sguardo furente sui due. Naraku, che sembrava tranquillamente compiaciuto, annuì: “Lei diceva che eri semplicemente fifona, mentre io sostenevo che eri agorafobica.” Spiegò, come se questo tagliasse la testa al toro. Rin stava per ribattere velenosamente, ma un provvidenziale scossone la fece letteralmente saltare in braccio a Naraku, che sembrava più divertito dalla sua reazione che dal suo imbarazzo: “Ehh, lo so che ho un fascino magnetico, ma puoi far a meno di saltarmi addosso.” Ridacchiò, con un sorriso strafottente. C’era una sola parola per definirlo. Insopportabile.

 

Miroku fermò Sengoku in una specie di spiazzo erboso isolato dal mondo se non fosse stato per l’unico segno di civiltà: un cestino per la cartaccia. Ma Rin, come del resto tutti i suoi compagni di viaggio, non capiva il nesso tra quello spiazzo erboso in quello che sembrava un boschetto limitrofo al parco di chissà quale Castello e la loro cena. E, sì, doveva ammettere di stare morendo di fame. Non mangiava dalla mattina, diamine! Ma interruppe il suo pensiero quando il suo cervello collegò mattina con casa, perché le vennero di nuovo gli occhi lucidi.

“Guarda che se sei agorafobica non vuol dire che sei esonerata dal preparare la cena.” Le disse Sango, avvicinandosi a lei. Mugugnò qualcosa riguardo la dubbia igiene di quel quasi-campeggio, rifiutandosi di cucinare.

Non che non ne fosse capace, spesso e volentieri, infatti, quando sua madre non era in casa, aveva dovuto provvedere al proprio nutrimento, ma l’idea di mangiare lì, su quel prato, le faceva immediatamente passare la fame e venire la nausea. Forse aveva qualche medicina nella valigia.

Si diresse verso il bagagliaio aperto di Sengoku, dentro il quale Miroku stava cercando qualcosa, ma rimase a bocca aperta: quello non era un bagagliaio, era un hangar!

C’era, a dir poco, di tutto: a partire dai bagagli dei viaggiatori, per finire con una cassettiera e una montagna di sacchi a pelo. Miroku, intanto, pareva seriamente impegnato nella ricerca di qualcosa, con l’ansia tipica di chi è partito e che si è scordato qualcosa di importante. Alla fine, sempre guardando tra le valigie, sacchi a pelo e altre cianfrusaglie sbottò in uno stizzito: “Cavolo!”

Rin, cercando di ignorarlo, entrò direttamente nel bagagliaio/hangar, alla ricerca della sua valigia con dentro forse delle medicine, sperava. Da quella mattina aveva scoperto di avere un bagaglio, ma, sia per la scarsità di tempo, sia per quella piattola di Naraku che sembrava averla presa di mira, non era riuscita a scoprirne il contenuto.

Sembrava di essere in un magazzino, tanta era la roba che vi era stipata dentro. In confronto, la soffitta polverosa di sua madre (che non aveva mai osato sfiorare nemmeno col pensiero) era quasi ordinata. Quasi eh!

Si addentrò con fare titubante tra tutti gli oggetti, inciampando almeno sei volte nello skateboard di Ayame, che sembrava davvero averla presa in antipatia e intenzionato a ostacolarla nelle ricerche. Dopodiché piombò a terra a causa dello zaino di Shiori che, non si sa come, aveva un righello di ottanta centimetri che sporgeva almeno di trenta, mentre imprecò sonoramente dopo aver sbattuto violentemente l’alluce sullo spigolo della cassettiera. Intanto Miroku borbottò di nuovo qualcosa riguardo a “le avevo portate” e spostò un sacco a pelo in modo da farlo cadere a pancia in sotto.

Ma, con lo spostamento del voluminoso ingombro, Rin riuscì a localizzare un pezzo della sua valigia, fiondandocisi sopra con un balzo degno di un canguro. L’agguantò per il manico e tirò più forte che poté, anche se poi si accorse di aver preso un granchio, e anche abbastanza pesante: quella non era la sua valigia, ma quella di… c’era scritto sul manico… Sesshomaru Tashio. Ecco, tra tutte le valigie la sua doveva prendere!

Anche se il bagaglio di Sesshomaru sembrava davvero vissuto! Accidenti, sembrava che avesse percorso itinerari di montagna, nel deserto, tra i ghiacci, sotto la neve, la pioggia, grandine e chi ne ha più ne metta, tanto era consunta. Il manico era spellato e mezzo scucito, la pelle delle pareti era consunta e rattoppata da qualche parte, le cuciture erano state cambiate perché, evidentemente, quelle originali avevano ceduto da un pezzo, e la lampo sembrava sul punto di cadere a pezzi. Forse Sesshomaru viaggiava molto di più di quello che dava a vedere, dato che dalla sua espressione si poteva solo capire che odiava tutto e tutti. Le faceva pensare ad un povero misantropo che si era rinchiuso nel suo angolino di mondo e che si rifiutava di vedere qualsiasi parente o conoscente.

Beh, era ora di mettersi a cercare il suo, di bagaglio!

Non passò molto tempo che inciampò nella sua valigia, aprendola ed evitando per un pelo di farla esplodere, tanto era piena: c’era di tutto! Pantaloni, gonne, calzini, magliette, maglioni, una giacca a vento di un improbabile color giallo evidenziatore tanto sgargiante da dar fastidio, reggiseni, mutande, canottiere, spazzolino da denti, dentifricio (sfrittellato), pettine, spazzola, camicette, costumi, parei, ciabatte, scarpe da ginnastica, scarpe col tacco (ma quando aveva comprato tutta ‘sta roba?), guide di varie città, un piccolo beauty case con la crema solare e altre dai dubbi usi e…

“Due padelle?!” esclamò, tirandole fuori da quel marasma di vestiti & co. Erano proprio due padelle: una era larga e piatta, tipica per fare le frittate o le crêpes, così larga che non capiva come era riuscita ad entrare in quella sottospecie di valigia consunta, mentre l’altra era più fonda, per fare la pasta.

Udendola, Miroku si precipitò da lei, felice: “Grazie Rinuccia, credevo di essermi scordato le pignatte!” e, presele le padelle di mano, uscì con un balzo dall’hang… garage e cominciò a preparare la cena.

A quel punto, poiché non aveva proprio nulla da dire, tanto era scioccata, il suo stomaco ritenne opportuno protestare per la fame. Infondo non mangiava da quella mattina!

 

In pochi minuti erano tutti seduti in cerchio, mentre Miroku girava con la padella (di Rin) per distribuire la pasta.

“Ecco perché sei venuta con lui!” rise Sango, serena, dopo che Rin l’ebbe spiegato come fosse arrivata fino a quel praticello francese: “Credevo che fossi la sua amante.” Rin arrossì a quel pensiero. Lei, l’amante di quel pervertito? HA!

“Non sembri fidarti molto di lui.” Riprese Ayame, quando il diretto interessato le oltrepassò, dedicandosi al piatto di Bankotsu.

Lei annuì, parlando sottovoce: “Beh, prima di me non aveva mai avuto una ragazza fissa, andava da una all’altra come niente fosse, e qualche volta ne vedeva due la stessa notte, un vero maniaco! Quindi credevo che non avesse perso il vizio.”

Kagura, avendo seguito insieme a Rin Ayame e Sango nel loro discorso, posò lo sguardo su Miroku, mentre si sedeva e cominciava a chiacchierare con Inuyasha: “Beh, ora sembra abbia messo la testa a posto, da come lo vedo come persona che lo ha conosciuto oggi.”

Sango annuì, e Rin fu sicura di aver visto la felicità nei suoi occhi.

“Ehi, manca il pennellone!” esclamò Koga dopo i primi bocconi di spaghetti, attirando l’attenzione di tutti. “Il chi?” chiese Bankotsu, alzando un sopracciglio.

“Ma sì, quello alto e silenzioso…” disse Shippo, pensieroso: “Il fratello suo!” e indicò Inuyasha che sogghignò quando capì che l’aggettivo “pennellone” era tutto per Sesshomaru, ma dopo ripristinò la sua aria bonaria e disse: “Beh, conoscendolo, è piuttosto normale.” Spiegò: “Non gli piace stare in mezzo alla gente.” Concluse, prendendo un sorso di birra che Miroku gli aveva offerto, anche se di dubbia provenienza.

“Ma così salterà la cena!” protestò Shiori che, nonostante fosse un mezzodemone, era di buon cuore anche verso gli sconosciuti.

Inuyasha fece spallucce: “Non ti preoccupare, ha già digiunato per sette anni, non credo che un pasto in meno gli peserà un granché.”

Rin, a quel punto, si bloccò con la forchetta a mezz’aria e la bocca aperta, stupita per quello che aveva sentito: digiunare per sette anni? Rabbrividì: lei era già di costituzione debole, se avesse digiunato per un lasso di tempo così lungo ci avrebbe di sicuro lasciato le penne.

Ma Rin non era l’unica a essere stupita: tutti erano rimasti sorpresi a quella notizia da record, e si erano tutti immobilizzati con gli occhi fissi su Inuyasha.

Kagome, che era una persona che trovava sempre un pretesto per mangiare e difficilmente ne faceva a meno, guardò prima la sorella, che aveva abbassato il bicchiere e osservava curiosa Inuyasha, poi chiese, sospettosa: “Ma come ha fatto? Insomma, non mi sembra un’impresa da nulla, anche per un demone.” Credeva che Inuyasha stesse raccontando una balla poiché, da come lo aveva visto per la prima volta (e ci teneva a precisare che non gli aveva pestato un piede), non gli sembrava un tipo molto affidabile.

Inuyasha, invece, non capendo l’aria sospettosa della ragazza, rispose, semplicemente: “Beh, sai com’è, in tempo di guerra è molto difficile trovare cibo…”

Il silenzio serpeggiò tra i presenti, mentre pareva quasi di vedere un enorme punto interrogativo sovrastare le teste di tutti, tranne quella di Inuyasha.

A rompere il silenzio fu Naraku: “Ehm… scusa, ma quale guerra?”

In quel momento il mezzodemone allargò gli occhi, come se non credesse alle proprie orecchie (morbide nda) e disse, come se la cosa fosse ovvia: “Ma nella Seconda Guerra Mondiale, che domande! Quella dal 1939 al 1945, avete presente?”

“Ma!?” disse Naraku, alzando un sopracciglio. Se Sesshomaru aveva digiunato durante la Seconda Guerra Mondiale vuol dire che doveva essere nato un po’ prima dello scoppio di questa, per permettere al suo corpo di sopportare la privazione del cibo per quel lungo periodo, il che voleva dire che…

“Scusa ma quanti anni ha tuo fratello?” chiese Jakotsu, inclinando la testa da un lato, cosa che faceva quando non capiva qualcosa.

Inuyasha, che, si poteva semplicemente capire dallo sguardo, non vedeva l’ora di annunciare quella notizia bomba, disse, come se fosse una cosa da tutti i giorni: “Ne ha novantanove e fa cent’anni ad agosto, è nato nel 1910.”

Rin soffocò nel boccone di pasta che stava per mangiare, correndo subito con la mano al bicchiere per evitare di lasciarci la pelle e bevendo un lungo sorso d’acqua.

Cento anni? Per lei erano decisamente troppi, contato che ne aveva a malapena un quinto, ma le sembrava strano perché Sesshomaru dimostrava sì e no venticinque anni, mentre ne aveva il quadruplo, e le pareva ancor più strano, dato che quell’affascinante demone aveva dodici anni in più di suo nonno.

Poi, chissà per il diretto interessato cosa significava avere così tanti anni… magari per lui era essere adolescente!

Però un secolo è sempre un secolo… chissà come ci si sentiva ad essere così veterani della vita, chissà cosa si provava nel rimanere sempre uguali in un mondo in evoluzione, chissà cosa aveva provato nel vedere la miseria, la povertà e la fame della guerra e chissà se il carattere freddo e austero lo aveva sviluppato in base a qualche dura esperienza…

Quei pensieri la fecero sentire come un piccolo pulcino inesperto che era appena stato buttato giù dal nido, al confronto con la grande e maestosa aquila che non bramava altro che fare di lei un antipasto. Si sentiva così piccola e goffa.

“Beh, salute.” Disse Koga, per rompere l’atmosfera. Qualcuno ridacchiò, ma non Ayame, che guardò il lupo con espressione assassina. Era ancora arrabbiata per il fatto dello skateboard.

“Beh, cambiamo argomento.” Disse Miroku ad un certo punto, dopo qualche forchettata di pasta: “Su, come tema di questa cena dovete raccontare cosa vi è capitato prima di arrivare qui.” Propose, mentre Rin sperava di non dover parlare, dato che era risultata decisamente ridicola anche senza sparlare di sé.

“Oh, sì comincio io!” disse Ayame, sventolando in aria la mano.

 

Svitata n°1 – Ayame Hanvarg

La sveglia suonò le sei e mezza, ma non le badò molto, anzi, le tirò il cuscino e si girò dall’altra parte, almeno finché il nonno non la venne a srotolare fuori dalle coperte, tuonando: “Nipote!”

“AHHH!” esclamò, colta alla sprovvista, balzando giù dal letto e mettendosi in posizione da combattimento: “Dove sono? Dove sono, ho detto! Li faccio fuori tutti quanti!” ma poi, essendosi accorta della sola presenza del vecchio del suo vecchio, si ricompose e si mise una mano dietro la nuca.

“Buongiorno nipote.” Disse il nonno, facendo un cenno col capo: “Muoviti, Ayame, che devi partire.” Le ricordò, e la yasha si mise sull’attenti.

Quando il nonno fu uscito si ricordò che non aveva fatto la valigia. Si infilò una maglietta a maniche corte mentre con i denti apriva lo zaino e con i piedi cercava di infilarci altre sei magliette, si mise un paio di shorts mentre si ricordava che sotto la maglietta non aveva messo il reggiseno e perciò, mentre aggiungeva altri abiti alla sua sacca, pescò un reggiseno a caso (non che poi le servisse più di tanto, dato per portava a malapena una seconda) e cercò di infilarselo senza levare la maglietta, dopodiché, mentre si lavava i denti chiuse il bagaglio e lo spedì sotto le scale con un calcio, si allacciò le scarpe mentre si sistemava i capelli color fuoco (o tentava di farlo) in due codini, anche se non sapeva come aveva fatto con sole due mani, poi prese la sua adoratissima macchina fotografica e la mise in un comparto riparato dello zaino che andava aggiunto alla sacca, dopodiché, inforcato lo skateboard, ipod nelle orecchie, saettò sui gradini delle scale, prese al volo la sua sacca e uscì fuori di casa con un Freestyle, gridando: “Ciao nonno!”

“Non spendere troppo, mi raccomando!” le raccomandò, fuori dalla porta.

Lei sorrise: suo nonno non si sarebbe mai smentito, da bravo scozzese era un risparmiatore eccezionale, dote che aveva ereditato al massimo.

 

Hey now you're an All Star get your game on, go play
Hey now you're a Rock Star get the show on get paid
And all that glitters is gold
Only shooting stars break the mold…
*

 

Ignorò, come al solito, le proteste dei passanti che, indignati, strillavano al suo passaggio, mentre, veloce come un fulmine, si dirigeva in stazione.

 

“È qui che si prende il diretto per Londra?” chiese, fermandosi di colpo davanti alla biglietteria, saltando la fila per risparmiare tempo, anche perché era in ritardo pazzesco.

Il commesso la guardò, stranito, ma poi disse, dispiaciuto: “Sono costernato, ma il treno sta partendo in questo momento.” E indicò il binario più vicino, dove un treno stava per uscire dalla stazione.

Ayame imprecò sonoramente, strappò un biglietto dalle mani del ragazzo, lasciò i soldi e si lanciò con lo skateboard all’inseguimento del treno, fino a che non giunse davanti alla locomotiva, sbracciando come una forsennata: “Ehi, tu, pezzo di idiota maledettamente puntuale, vuoi fermarti oppure devo piazzarmi sui binari?” non credeva che il conduttore l’avesse sentita, perciò accelerò, superò il treno e si mise sopra ai binari, a debita distanza per farlo fermare senza essere spappolata sotto le ruote.

Il poveretto, vedendo una lupa pazza apparire sulla sua traiettoria, sussultò e frenò di botto.

Ayame, soddisfatta, salì sul treno e concluse il suo viaggio.

 

La guardavano come se fosse pazza: “Ehi, guardate che è davvero successo!” esclamò Ayame.

“Non lo mettiamo in discussione.” Disse Sango: “Solo che sei un po’ spericolata.”

Lei ghignò: “Solo il minimo indispensabile.”

Koga aveva ormai appreso che quella là era da evitare.

“Ora racconto io!” disse Shippo, mettendo a posto il suo piatto vuoto. Tutti si misero in ascolto.

 

Svitato n°2 – Shippo Fox

“Trenta, trenta, trentaaa!♪” gridò una voce, uscendo dall’università con aria trionfale e ballando la mazurca, mentre tutti gli altri studenti che dovevano sostenere l’esame lo guardarono malissimo.

Shippo avanzò ancora qualche passo danzando, felice come una Pasqua per il suo primo esame, che era andato a meraviglia, per poi cominciare a ballare con il bidello incredulo che, però, dopo qualche secondo decise di rinchiuderlo nello sgabuzzino delle scope, mentre lui cantava ancora: “Trenta, trenta, trentaaa!♪”

Un passante, sentendo lo sgabuzzino canterino (Trenta, trenta, trentaaa!♪) si allontanò velocemente, ricordandosi di non bere mai più il solito bicchierino prima dell’esame.

Dopodiché Shippo, sempre cantando (Trenta, trenta, trentaaa!♪) spalancò lo stanzino con un calcio, essendosi ricordato che, poiché erano le undici e ventisette, doveva prendere il treno per Londra e corse quindi via, improvvisando prima una specie di balletto con il povero rettore della sua università, che aveva avuto la sfortuna di capitargli sotto tiro (Trenta, trenta, trentaaa!♪).

Fece tutta la strada ballando, qualche volta saltando, facendo toccare i talloni, come in un ballo russo, avvinghiandosi ogni tanto al primo sfigato che passava, imperterrito nel suo balletto di gioia (Trenta, trenta, trentaaa!♪).

Dopo questa danza sfrenata, che, grazie al cielo, trovò la sua fine con un incontro molto ravvicinato tra suo inguine e la palizzata del suo giardino per non aver imbroccato al primo colpo l’entrata, Shippo afferrò la valigia che si trovava all’ingresso della casa che condivideva con suo fratello e la moglie e gridò, sull’uscio: “Kyle, Leah, ho preso trenta all’esame!” non ricevette subito risposta, ma le sue orecchie da volpe percepirono prima un gemito decisamente ambiguo, poi una frase: “Ma non se n’era già andato?”

Mmh, niente male, erano le undici e trentadue e già ci stavano dando dentro. Ahh, allora è proprio vero che era il terzo incomodo!

“Beh, sapete, ora io parto, no? Così potete scopare quanto vi pare!” gridò ancora: “Ci vediamo a settembre!” e, fatto cenno ad un immaginario maggiordomo, se ne andò alla stazione.

[qualche camera più in là]

Kyle: “Ma te guarda che razza di fratello!”

Leah: “For-ah… forse ci voleva saluta-AH! piano!”

[ehm… torniamo a Shippo]

Ridacchiò, pensando alla bella sorpresa che aveva fatto al caro fratellino che non aveva fatto altro che bistrattarlo tutto l’anno per sfrattarlo e godersi – nel vero senso della parola – la moglie.

Trotterellò (Trenta, trenta, trentaaa!♪) fino alla stazione, finché non prese il treno e si sedette in seconda classe, non senza rimbambire il vicino con la cronaca dettagliata del suo esame.

 

“Ma sei veramente uno stronzo!” esclamò Naraku, scompigliandogli i capelli.

“Beh, se calcolate che certe volte mi hanno chiuso fuori di casa per le loro seratine romantiche e che ho dovuto dormire su una panchina…” spiegò Shippo, riparando il suo disordinato codino dalla mano di Naraku.

“Allora potevi andare a vivere per conto tuo.” Disse Kikyo, parlando per la prima volta nella serata. Naraku non poté non notare che la sua voce sottile e tagliente era tipica della persona che ha ricevuto la sua più grande delusione della vita, probabilmente era stata lasciata sull’altare.

Non aveva mai avuto un caso di bidonate sentimentalmente, e il caso gli interessava decisamente, anche perché Kikyo era una gran bella ragazza.

Kagura squadrò il fratello che, a quanto pareva, aveva messo gli occhi su quella che pareva una morta, ma era la solita espressione da scienziato pazzo, e cominciava a preoccuparsi. Per Kikyo.

“Ehi, guarda che quella è la mia eredità, non ci dovrebbe vivere lui!” protestò Shippo, incrociando le braccia.

“Ora dico io, io!” esclamò Kagome, alzando anche la mano della sorella.

 

Svitate n° 3/4 – Kagome e Kikyo Higurashi

“Dai Kikyo, ormai ho prenotato, non puoi assentarti così all’improvviso!” esclamò Kagome, mettendosi davanti ad una sorella sprofondata nel divano a consolarsi con il gelato, con i gomiti piantati sui fianchi.

Kikyo la guardò con indifferenza, e mangiò un pezzo di gelato alla fragola.

“Avanti, non puoi non venire!” esclamò, prendendo le loro valigie e invitandola con il movimento del braccio. “Vieni, sennò ti chiudo in casa!” la minacciò infine, mettendo un cipiglio arrabbiato.

Kikyo la guardò con indifferenza, e mangiò un pezzo di gelato alla fragola.

Kagome alzò gli occhi al cielo, sbuffando in un “mmh” abbastanza impaziente, avvicinandosi al divano: “Ti muovi sì o no? Devo prenderti in braccio?”

Kikyo la guardò con indifferenza, e mangiò un pezzo di gelato alla fragola.

Le cominciavano davvero a saltare i nervi, e avrebbe di sicuro buttato fuori la sorella a calci nel sedere, ma pensò che, vista la critica situazione in cui quello stronzo del futuro marito l’aveva infilata, pensò di dover essere più delicata verso la sua sorella.

“Dai, magari in questo viaggio incontri un ragazzo più simpatico di…” poi si ricordò che anche solo pronunciare il nome dell’ex futuro marito poteva essere fatale: “Beh, incontrerai un sacco di bei ragazzi, ne sono sicura! Sango ha detto che vengono degli amici del suo fidanzato e magari c’è quello giusto per te!” disse, dolcemente.

Kikyo la guardò con indifferenza, e mangiò un pezzo di gelato alla fragola.

Allorché tutti i buoni propositi di Kagome andarono a farsi fottere, e Kikyo si ritrovò fuori di casa.

Per colpa di quella depressa di Kikyo avevano fatto tardi e ora si ritrovavano a correre, ma per fortuna abitavano vicino all’aeroporto, ed erano già quasi arrivate alla sala attesa.

“Ehi, mi hai pestato il piede!” gridò ad un certo punto un voce astiosa, appartenente ad un ragazzo in corsa come loro.

“Io non ti ho pestato proprio niente!” esclamò Kagome, irata: “E pretendo delle scuse per le tue accuse infondate!” pretese, sempre in corsa, sempre affiancata dal tipo che le aveva parlato, un mezzodemone dai capelli d’argento e le orecchie da cane che, sentendo l’ultima frase, esplose: “Ehi, ma come ti permetti, ragazzina! E poi mi hai triturato un piede, con quel tuo dolce peso!” erano quasi arrivati, vedeva Sango!

Ma questo qui deve rompermi le scatole ancora per molto?

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eccomi quiii :D (Ricchan, ci ho messo meno del previsto XD)
credevo di non farcela... il mio computer aveva completamente cancellato tutto ciò che avevo scritto prima del 19, praticamente tutto il capitolo, e ho dovuto riscriverlo tutto da capo... che pizza!
bon, come avete visto ho deciso di dividere questo capitolo in 2 parti per 2 motivi:
1 prima di tutto perché a scrivere tutto di tutti in un solo chap è terribilmente pesante per chi legge;
2 poi dovevo documentarmi da una parte :P
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alors, avete visto, è COMINCIATO IL GIOCHINO DELLE CANZONIII
vi dico che questa qui che ho messo è abbastanza semplice, diciamo, perché... no non vi dico perché, sennò è troppo facile :P
la canzone è segnata con un asterisco blu elettrico
(*)
poi volevo ringraziare chi ha preferito, seguito e ricordato e/o recensito la mia fic :D
e anche chi ha letto, ricordato, preferito e recensito la mia One-shot "Il fodero è buio"
bon, mi pare di aver detto tutto...
Buona Pasqua :)

LX °°°

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Capitolo 5
*** 5. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2 ***


capitolo dedicato a:

Fantasy is my passion <3

Rikared <3

serin88 <3

per aver indovinato la canzone: All Star - smash mouth.

io dico che chi ha più punti poi fa la comparsa... quindi ipod alla mano! >BD

5. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2

 

Kagome aveva notato che sia Inuyasha che Naraku stavano guardando con non poco interesse la sua gemella, anche se l’espressione di quest’ultimo faceva trapelare tutto tranne interesse fisico. Anzi, sembrava che la stesse esaminando.

Rabbrividì: Naraku faceva un gran brutto effetto, ma, come vedeva dalle reazioni degli altri, non solo a lei, anche a Rin, a Sango, a Shippo e a tutte quelle persone che avevano avuto la sfortuna di intraprendere una conversazione con lui. Sarà l’effetto degli occhi rossi.

L’unica persona che sembrava immune all’aura malefica di Naraku era Kagura.

“Ora raccontiamo noi?” chiese Naraku, rivolgendosi alla sorella, che annuì: “Vai.”

 

Svitati n° 5/6 – Naraku e Kagura McLovett

Il telefono trillava. Mh. Sticazzi. Voleva dormire, lei! Il giorno prima non aveva fatto altro che sgobbare per quel fottutissimo contratto che il suo fottutissimo capo non aveva fatto altro che declamare e sperare per quel fottutissimo anno.

Il telefono aveva deciso di trillare più forte, e per lei fu inevitabile allungare una mano fino a quel malefico oggetto e mugugnare, senza nemmeno avere la forza per aprire gli occhi per vedere chi fosse il rompiballe in questione: “Pronto?” disse, anche se pronunciò quelle sei lettere con un tono che sarebbe stato meglio per una frase del tipo: “Chi cazzo sei che mi chiami a questa fottuta ora del mattino e che cazzo di motivo hai per scartavetrarmi le palle?”

“Buongiorno Kagura.”

“Chi è?”

“Naraku.”

Il suo cervello non connetteva ancora abbastanza bene: “Naraku chi?”

Il suo interlocutore sembrò sbuffare: “Tuo fratello, imbecille.”

Allora ricordò di avere un fratello, anche abbastanza rompiballe, e pure una sorella di diciotto anni, che, in quel momento, stava cercando di gridarle qualcosa attraverso la porta.

“E c’è un motivo per cui questo idiota mi ha svegliato così presto?” grugnì, eclissandosi sotto il cuscino.

“C’è che ti sto aspettando alla stazione da mezz’ora.”

“Staz…? oh, cazzo.” Disse semplicemente, ricordandosi di dover partire alle undici e mezza. Ed erano le undici meno un minuto.

Oh cazzo un paio di palle! Si può sapere dove diamine sei?”

Ma non si curò molto del resto, precipitandosi in corridoio, a protestare con la sorella: “Kanna! Perché diamine non mi hai svegliato?” urlò, mentre si infilava in bagno.

La sorella, una nanetta dai capelli bianchi e gli occhi neri dall’aria assente, disse, con la sua solita aria distaccata e seria: “Ci ho provato, ma mi hai tirato un calzino e mi hai mandato a quel paese.”

Ah. non ci poteva fare nulla, quando dormiva non era responsabile delle sue azioni!

Uscì dal bagno in fretta e furia, pettinandosi i capelli con il consueto chignon, aprendo l’armadio, seguita dalla sorella.

Si girò verso di lei, che guardava assente il moscerino morto sul davanzale della sua camera e brontolò: “Si può sapere che ci fai ancora qui come un broccolo? Corri a finirmi la valigia, marsh!”

In quattro e quattr’otto si ritrovò a scansare la sorella dall’ingresso – “Che ci fai qui come un broccolo? Levati!” – e dirigersi in tutta fretta verso la macchina, ricordandosi che poi era senza benzina e, mandandola cortesemente a fanculo, se ne andò a piedi.

Kanna stava ancora sull’ingresso, immobile, e poi sussurrò: “Ciao.”

 

Era molto difficile farlo arrabbiare, infondo aveva sempre avuto nervi di ferro e aveva sempre preferito il suo sorrisino sornione e affabile ad un’arrabbiatura. Vederlo infuriato era uno spettacolo più unico che raro, dato che accadeva con una frequenza di mezza volta all’anno. Ma se c’era qualcosa che lo faceva proprio imbestialire erano i ritardatari.

Erano la cosa che gli dava maggior fastidio in assoluto, e doveva ben controllarsi quando qualcuno dei suoi pazienti arrivava anche con un minimo ritardo, poiché erano già malati psichicamente, non poteva di certo terrorizzarli pure lui, che in teoria li avrebbe dovuti curare.

Oh, ma con quell’idiota di Kagura non si sarebbe controllato. Assolutamente no! I fratelli esistono per questo no? Per far sfogare i maggiori.

Stava cominciando a terrorizzare la gente che gli stava intorno: camminava avanti e indietro con una faccia che lasciava presagire un omicidio, con i capelli neri che gli svolazzavano intorno per il vento, a mo’ di mantello, il tutto amplificato dal colore non troppo rassicurante degli occhi.

Se probabilmente qualche poliziotto l’avesse visto in quel momento non avrebbe esitato ad arrestarlo.

Ghignò a quel pensiero.

“Ec…anf…ecco…anf…eccomi!” ansimò una voce, appoggiandosi al suo braccio, stremata per la corsa sui tacchi. Si scansò appena, per farla cadere per terra: “Sai che non mi piacciono i ritardatari, Kagura.” Sibilò, avviandosi verso la banchina del treno per Londra. Lei lo squadrò con sguardo omicida per la caduta non prevista, ma prese la sua valigia e lo seguì.

“Io…” provò a dire per fargli sbollire la rabbia, mentre si accomodavano nel loro scompartimento. “Non hai messo la sveglia e hai tirato un calzino a Kanna, mandandola a quel paese, quando lei aveva provato a svegliarti.” Completò lui per lei, usando quel dono strano che aveva sviluppato col tempo e il lavoro da psicologo.

“Ma…” continuò, protestando per essere stata interrotta, ma Naraku prese di nuovo la parola: “Hai provato a sbrigarti ma ti sei ricordata che la tua macchina era senza benzina e quindi hai fatto tutta la strada di corsa.”

Kagura provò a spiegare qualcosa, ma non appena aprì bocca Naraku immediatamente sostituì la sua spiegazione con le sue parole: “E sei arrivata ulteriormente in ritardo perché ti si era incastrato il tacco sinistro nel tombino vicino alla cassetta postale accanto all’entrata della stazione.”

Digrignando i denti, Kagura finì con un: “Ma vaf…”

“…fanculo Naraku, ti odio quando fai lo scienziato pazzo con me.”

E Kagura finì inevitabilmente per rovesciargli addosso l’acqua che aveva nello zaino.

 

“E poi dici a me che sono stronzo!” protestò Shippo, guardando male Naraku. Lui fece spallucce.

“E quindi avete una sorella, oltre a voi.” Constatò Sango, indicando i due dagli occhi rossi. Annuirono: “Sì, ma non ci somiglia per niente.” Disse Kagura, che poi indicò Shiori: “Somiglia molto di più a lei.”

“Beh, ora se vi va bene parlo io.” Disse Inuyasha, alzando una mano, che Rin scoprì munita di belle e lunghe (e pericolose) unghie che sembravano tanto artigli.

Kagome assottigliò gli occhi ma non disse nulla.

 

Svitati n° 7/8 – Sesshomaru e Inuyasha Tashio

L’ennesimo fischio gli fece corrugare la fronte, irritandolo ancora di più del ritardo del cretino del fratello. Già era tanto se aveva acconsentito ad aspettare al di fuori di quel liceo musicale, sopprimendo ogni lamentela a riguardo dei fischi che disturbavano le sue povere orecchie, ma non poteva sopportare anche il ritardo di Inuyasha!

Se il padre avesse deciso ancora una volta di costringerlo a intraprendere un viaggio con quel decelebrato mezzosangue di suo fratello e altri sciocchi umani sarebbe migrato in Alaska. Dove, infondo, non si stava così male: nient’altro che fredde lande desolate, gente avara in quanto a discorsi e pace! Quanta pace per le sue orecchie! Chissà perché non ci aveva pensato prima, ad andarsene in Alaska…

Forse il suo patriottismo e il suo orgoglio nazionale avrebbero protestato a riguardo, ma chi se…

“Hola!” esordì Inuyasha, cercando di dargli una pacca sulla spalla ma ricevendo solo un’occhiataccia: “Provaci e sei morto e non mi frega se ci sono marmocchi in giro.”

Capendo che a Sesshomaru giravano ancora le palle per il piccolo e infimo ricattino che aveva architettato a sua insaputa, Inuyasha decise di avviarsi verso l’aeroporto, dirigendosi verso la macchina: “Scusami, ma avevo lezione e non avevo finito di dare i compiti per le vaca…”

“Nessuno te lo ha chiesto.” Sibilò, dissimulando un ringhio infastidito per l’ennesimo fischio di flauto. Ma non erano finite le lezioni?

Inuyasha gli fece il verso a mezza voce, aprendo lo sportello della macchina per farlo entrare, ma lui rimase immobile a fissare il veicolo come se fosse un animale pericoloso. Non riusciva se stesse guardando con più ribrezzo lui o l’automobile.

“Ah, giusto.” Disse, richiudendo lo sportello e avviandosi a piedi: “Tu non entrerai mai in una macchina.”

“Felice che la tua zucca vuota sia riuscita a ricordare qualcosa.” Ma, prima che Inuyasha potesse rispondere a male parole, una macchina passò a gran velocità, in direzione anche lei della stazione, con la musica dal volume così alto che Sesshomaru dovette reprimere l’impulso di mettersi le mani sulle orecchie.

 

I get knocked down

But I get up again

You’re neva gonna

keep me down! *

 

“OH! La conosco!” disse Inuyasha, puntando il dito verso il fastidiosissimo veicolo, anche se le sue povere orecchie da cane vibravano per il dolore, tanto che non riuscì a trattenere un mugolio.

“Muoviti.” Ordinò Sesshomaru, avanzando ancora di qualche passo. Inuyasha, affrettando la sua andatura, brontolò: “Oh, ma come sei irascibile… ma dimmi, te la fai ogni tanto una sana sc…” ma fu zittito da un implacabile: “Fatti i cavoli tuoi, che campi cent’anni.”

Se lo diceva lui, poi!

“Ok, simpaticone” disse, arrabbiato: “A chi arriva prima?” sapeva che Sesshomaru non avrebbe mai rifiutato una corsa, soprattutto se si trattava di umiliarlo in pubblico.

“Non sfidarmi, perderesti.” Disse lui. Evidentemente era troppo incazzato per correre.

Guardando la schiena del fratello, che camminava qualche passo davanti a lui, tenendo la valigia su di una spalla come se fosse uno zainetto, entrò nel suo circolo di pensieri: Sesshomaru era sempre arrabbiato e, anche se non capiva il perché, aveva sempre un umore nero e lo sguardo di chi ha terribilmente bisogno di strangolare qualcuno, e la cosa lo insospettiva. Forse cominciava a sentire il peso degli anni? No, insomma, loro padre ne aveva quattrocento e passa e non aveva certo questi problemi… forse non gli piaceva il fatto di dover camminare insieme agli umani, infondo lui era uno di quei demoni che avrebbero volentieri rifiutato il Contratto tra Demoni e Uomini, perché riteneva questi ultimi decisamente inferiori. Oppure era l’essere additato dai vecchietti come “capitano”, svelando in questo modo la sua reale età. Sì, forse era questo: ormai tutti, tranne loro padre, lo trattavano come un vecchio derelitto non più in grado di intendere e volere e, doveva ammetterlo, la cosa avrebbe mandato su tutte le furie persino lui. O forse era la solitudine ad averlo forgiato così incazzato, infondo sua madre era morta nel partorirlo e nel mondo dei demoni ognuno stava sulle sue, non importava se in tempo di guerra o meno, bisognava contare solo sulle proprie forze. O semplicemente era solo e bisognoso d’affetto.

Ok, doveva ammettere che questa visione di un Sesshomaru avido di coccole lo faceva semplicemente ridere, ma gli sembrava l’opzione più plausibile, e a causa di questo pensiero che aveva deciso di trovargli una moglie. Ma, accidenti, come era difficile!

“Smettila di pensare cose assurde e muoviti.” Ringhiò Sesshomaru.

“Come…?” provò a chiedere, ma il demone non si prese la briga di rispondere, anzi, cominciò a camminare molto più velocemente, a passi larghi, con cadenza quasi militare.

Faceva fatica a stargli dietro, tanto larghi erano i suoi passi, mentre arrivavano all’ingresso della stazione, e si ritrovò a correre prima di accorgersene.

Entrarono nella stazione, e si avviarono al gate indicato loro da Miroku, il suo migliore amico.

Subito sentì il peso di una persona concentrarglisi su di un piede, e, nella sua visuale in corsa, apparve una ragazza con un appariscentissimo vestito a pois. Dato che odiava con tutto il cuore chi gli pestava i piedi le ringhiò immediatamente: “Ehi, mi hai pestato il piede!”

Lei si girò, sorpresa e irata: “Io non ti ho pestato proprio niente, e pretendo delle scuse per le tue accuse infondate!”

Ma come! Tutto il suo dolce peso gli era arrivato dritto dritto sul piede e lei… negava!?

Sempre più arrabbiato, esplose: “Ehi, ma come ti permetti, ragazzina! E poi mi hai triturato un piede, con quel tuo dolce peso!”

Eccolo, vedeva Miroku! “MIROKUU!!!”

 

“Il piede non te l’ho pestato!” disse Kagome, arrabbiata. “Sì invece!” ringhiò l’altro di rimando, avvicinandosi a lei. I loro visi erano a due centimetri, ma non sembravano provare imbarazzo, tanto erano arrabbiati.

“Buoni, buoni, ora racconto io!” disse Jakotsu. “Chissà perché, ma immaginavo che la comare pettegola avrebbe voluto raccontare per noi.” Disse Bankotsu, posando la testa sulla mano, mentre stava con il gomito sul ginocchio.

“Su, taci, che mi sto sentendo importante!”

 

Svitati n° 9/10/11 – Bankotsu, Jakotsu e Suikotsu Ben.

DOOOOOOOONGGGGG!!!

DOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOONNNNNNGGG!!!!!!!

“Il terremoto, lo tsunami, i tedeschi, gli alieni, la glaciazione! Aiuto!” strillò una vocina isterica di indubbia provenienza.

DOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOONNNNNNNNNNGGGGG!!!!!

“Bankotsu cazzo! Smettila con quel fottuto dong!” ringhiò alzandosi di scatto, risvegliando la sua personalità più aggressiva.

Il povero Bankotsu, che, una volta tanto, non c’entrava nulla, e che, tra l’altro, era caduto dal suo letto a causa del rumore, disse, con aria innocente: “Ma io sono qui!”

“Ah.” disse, disarmato. Poi, il Suikotsu più aggressivo riprese il sopravvento: “Allora maledetto Reinkotsu! Sei stato tu!”

Il diretto interessato, steso sul letto a scrivere le bozze per la tesi di laurea, gli lanciò un’occhiataccia e si rimise al lavoro.

Il Suikotsu cattivo però non era desideroso di arrendersi: “Allora Jakotsu!”

“Le esplosioni, i kamikaze, i terroristi, i…”

Sempre più incazzato, Suikotsu sbuffò: “Allora Mukotsu.”

Un improvviso russare da maiale giunse alle sue orecchie.

“Jinkotsu?”

“Io mi sono incastrato qui da ieri sera.” Jinkotsu, che aveva metà corpo in metallo, era avvoltolato nelle coperte, e, dato che nessuno si ricordava di dare olio alle sue giunture di ferro, si era incriccato tra le coperte e non riusciva a muoversi.

“Ah! Kyokotsu, cornuto che non sei altro!”

Il diretto interessato, nascosto sotto il letto per paura del rumore, anche se con la sua mole da due metri e venti era molto difficile non farsi vedere, emise un mugolio di dissenso.

“Allora… chi?” si disse Suikotsu, tornando alla personalità semplice e pacata che usava maggiormente.

“DANNATI TOPI DI FOGNA! USCITE DA QUELLE PUTRIDE TANE CHE DEVO PULIRE! RACIMOLATE IL VOSTRO PUTRIDUME E PORTATE QUEI VOSTRI CULONI FUORI DA QUI!”

Riconoscendo i toni soavi della governante del condominio e, soprattutto, ricordandosi la terribile punizione destinata a chi non obbediva, i sette, vestiti in fretta e furia, si precipitarono per strada.

“Certo… certo che Urasue poteva usare una trombetta per svegliarci.” Disse Jakotsu, ansante, con le mani poggiate sulle ginocchia per respirare.

“Tzè, conoscendola userebbe un trombone.” Sbuffò Reinkotsu, che nella fretta aveva lasciato i suoi appunti in camera. Gli vennero le lacrime agli occhi quando pensò che, viste le manie di pulizia di Urasue, probabilmente avrebbe dovuto riscrivere la tesi.

“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”

Esplose, disperato. Tutti gli abitanti di Liverpool sobbalzarono, fatta eccezione per un povero sfigato che, per il balzo fatto relativamente allo spavento, finì in un tombino aperto.

“Penso che se potesse si strapperebbe tutti i capelli.” Osservò Jakotsu, con un dito sul mento con fare fintamente pensieroso.

All’improvviso, Bankotsu fu fulminato da un ricordo sconvolgente: “Suikotsu, che giorno è oggi?”

Il fratello pensò un attimo e poi: “Il dieci giugno!”, allorché Jakotsu esplose in un: “Per dindirindina!” così acuto e naturale da far ridacchiare la vecchietta che passò loro vicino: “Oggi dobbiamo partire!”

Un piccolo problema. Le valigie erano in camera loro. E in camera loro, quando c’era Urasue, non potevano entrare, pena la terribile punizione!

Un piccolo insormontabile problema.

I tre forse ex viaggiatori si guardarono, impauriti, almeno finché Jakotsu non fu ispirato da un’idea: “Infiltriamoci di nascosto e prendiamo le valigie!”

In quel momento Jakotsu era il pazzo-finocchio-con immensa voglia di morire.

Ma, non si sapeva come, si ritrovarono a sgattaiolare nell’ingresso alla ricerca dei loro bagagli.

“Allora, tu la distrai e io prendo i bagagli.” Decise Bankotsu, indicando Jakotsu. Lui fece di no con la testa. Intavolare un discorso con Urasue significava:

1 passare le ore a guardare le foto dei suoi criceti, cosa scocciante, dato che erano ottantadue;

2 aiutare con le pulizie;

3 morte sicura.

“Facciamo poco rumore, allora.” Disse Bankotsu, decidendo che ci si sarebbe semplicemente intrufolati in camera.

Aprirono lievemente la porta della loro camera. Si sentiva una gran puzza di bruciato. Bastò aprire ancora un po’ per vedere un bel fuocherello scoppiettante nel centro della stanza.

“Ma quella non è la tesi di Reinkotsu?” chiese Jakotsu, indicando un tomo che bruciava con particolare vivacità.

(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)

“E quelli non sono i tuoi calzini?” chiese Suikotsu, indicando a sua volta un paio di calzettoni a righe di Bankotsu, che bruciavano non meno allegramente della tesi di Reinkotsu.

(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)

“Ora capisco perché il pavimento è più scuro in certi punti.” Mormorò Bankotsu, mettendosi un dito sul mento. Urasue era una pazza piromane.

“Stordiamo la vecchia, arraffiamo ciò che dobbiamo e ce la diamo a gambe?” propose Suikotsu, sempre sottovoce. Bankotsu annuì: “Vado a prendere un ombrello.”

Urasue intanto stava buttando tutto ciò che riteneva spazzatura – un ipod, un libro di letteratura, un paio di mutande, calzini, polvere, matite, penne e via dicendo – nel suo mini falò da appartamento, ignara della tempesta che si preannunciava.

“KYYYYAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!”

“WAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!”

“BANZAIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!”

(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)

Seguirono un tonfo, un grido strozzato, tre “hurrà” e il rumore di sei piedi che correvano giù dalle scale.

 

La faccia degli ascoltatori era più o meno questa: O.O

“Che storia originale…” commentò Sango, ravvivando un po’ il fuoco con un ramoscello. Erano le undici e quaranta.

“Ma questa Urasue è una pazza piromane!” esclamò Shiori, con la sua tipica voce da angelo, così candida da risultare quasi comica. Bankotsu annuì: “Per questo siamo in tre.” Spiegò, indicando sé e i fratelli: “Reinkotsu è rimasto a casa per riscrivere la sua tesi.”

Lontano, a Liverpool, si sentì un grido.

(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)

 

“Povero…” sussurrò Rin. In effetti doveva essere davvero brutto dover ricominciare un lavoro che magari era quasi giunto ad un termine.

(“UAAAAAa- *l’autrice sopprime Reinkotsu con un colpo d’ascia*)

“A chi tocca?” chiese Miroku, aggiungendo un bastoncino nel fuoco.

“Rin?” chiamò Jakotsu, ma la giovane si limitò a gettare un’occhiataccia a Miroku e sospirare lievemente: “No grazie.”

 

Svitati n° 12/13 – Rin Jordan e Miroku Funnigan

Se non vi ricordate cosa è successo tornare al capitolo 1. ma come fate a non ricordarvi cos’è successo? Andate avanti, va’! nda

 

“Koga?”

“Agli ordini!” esclamò l’altro.

 

Svitato n° 14 – Koga Kinnon

“Mh.” Mugugnò alla cassiera dell’aeroporto, quando gli chiese se volesse prendere il velivolo per Londra.

“Mh.” Mugugnò al commesso che gli chiese se con lo sbadiglio“hoahaaht*” intendesse il cornetto con la crema da due euro.

“Mh.” Mugugnò al poliziotto che gli chiese i documenti.

“Maleducato!” inveì la vecchietta che si era seduta di fronte a lui al gate per l’aereo per Londra, quando si stiracchiò in un assonnatissimo sbadiglio di proporzioni lupesche. Ma non ci poteva fare nulla. Si era dovuto svegliare alle quattro di mattina per fare la valigia, salutare tutti i parenti ed andarsene da Dublino, in Irlanda, a Londra, in Gran Bretagna. Non aveva nulla in contrario, se non fosse per il fatto di possedere la mimica facciale di un gibbone e due occhiaie da far invidia ad un panda, senza ovviamente parlare dell’aria rincoglionita D.O.C. che lo faceva sembrare un ebete.

Ma quella vacanza gli ci voleva, cavolo! Dopo anni passati a sgobbare all’università ci voleva una luuunga e riposante vacanza.

I suoi pensieri di ornitorincoglionimento* furono interrotti dalla monotona suoneria del suo telefono, al quale mise mano solo dopo aver tentato tre volte di infilare la mano nella tasca della felpa, senza centrare il bersaglio. Allorché il suo cervello decise di mobilitare un altro neurone, quello necessario per prendere il cellulare e premere il tasto verde: “Mh?”

“Koga Kinnon?” chiese la voce dell’organizzatore.

“Mh.”

“Io sono Miroku, ti ricordi?”

“Smh.”

“Ehm… visto che sei l’unico che viene da fuori, ci servirebbe l’ora del tuo arrivo all’aeroporto di Londra.”

Il suo cervello mobilitò altri due neuroni, quello per capire le frasi complesse con subordinate e quello per parlare correttamente l’inglese.

“Verso le dieci.”

“Tutto a posto, amico?”

“Mi sono svegliato presto.” Mugugnò tra uno sbadiglio e un altro.

“Ah, ok, ci vediamo davanti al gate 7 dell’aeroporto di Londra.”

“Ok.”

Pigiò il tasto rosso e si alzò, vedendo che ci si poteva imbarcare, e si diresse verso l’aereo.

No. Diciamo che cominciò a caracollare a mo’ di zombie verso quell’affare bianco con le ali che ai suoi occhi appannati dal sonno ricordava un aereo.

 

Finì seduto vicino ad un ciccione che sembrava voler occupare con la sua ciccia anche il suo posto, provvidenzialmente protetto dai braccioli. Considerata la stazza del vicino, cominciò a pregare che il velivolo potesse decollare senza troppi problemi.

Ma, contrariamente ai suoi piani di ronfata durante il viaggio, il ciccione, già molesto per la sua mole, cominciò a parlare di come i demoni fossero sgraditi alla sua vista, di come li considerasse pericolosi e nocivi alla collettività e soprattutto di come puzzassero – ma si è odorato le ascelle? – senza ovviamente dimenticare di disprezzare per bene gli Inu youkai ed Inuken Tashio per essersi intromessi per primi nella vita degli umani.

Alla rivelazione della natura demoniaca del vicino di posto, che glielo aveva fatto notare con un ringhio che aveva messo ben in evidenza le zanne da lupo e che aveva avuto il potere di svegliarlo per benino, il ciccione divenne tutto rosso e sudaticcio, puzzando sempre di più, e non parlò più.

Quando scese si premurò di pestargli accuratamente tutti i piedi.

“Tzè!”

 

Risero tutti di gusto, soprattutto all’episodio del ciccione, fatta eccezione per Shiori ed Inuyasha, chiaramente urtati dal fatto che alcune persone li considerassero ancora indirettamente inutili perché risultato dell’unione di due razze diverse.

Miroku, che lo conosceva abbastanza bene per capire che era particolarmente irritato, diede una pacca sulla spalla ad Inuyasha: “Su, non ti rabbuiare, noi pensiamo che i mezzidemoni siano uguali a tutti gli altri.” Lui annuì, mormorando qualcosa a riguardo del fratello. Non per Sesshomaru.

“Sango?”

Lei annuì.

 

Svitata n° 15 (su resistete, è quasi finito ;) – Sango Ashe

“Sorellona?” la chiamò Kohaku, sulla porta di casa. Lei si girò in direzione del suo fratellino ventenne, facendogli capire che lo stava ascoltando.

“Adesso tu parti per tre mesi?” le chiese, inclinando la testa da un lato, tipico atteggiamento di quando era triste. Sango annuì. Le venne da sorridere: Kohaku, anche se ormai maggiorenne ed adulto, le sarebbe stato sempre affezionato, come quando erano bambini e lei lo proteggeva dai bulli, rimproverandolo perché troppo debole.

Kohaku le si avvicinò – accidenti quanto è alto! – e le disse: “Mi mancherai sorellona!” e le diede un bacio sulla guancia. Lei sorrise e gli scompigliò i capelli.

“Ciao mamma, ciao papà!” gridò, dall’ingresso, per poi sentire le voci dei suoi genitori gridare una risposta.

“Ci vediamo a settembre!”

Uscì a passi grandi, chiamando un taxi.

“Salve bella signorina!” disse l’autista, un omone grassoccio dallo sguardo non troppo ortodosso. Lei, irrigidendosi, non aveva mai sopportato i complimenti gratuiti per abbordare, si limitò ad un semplice: “Salve”, ma prima che potesse anche finire di pronunciare quelle poche lettere, il tipo scese dalla macchina, prese il suo bagaglio, aprì il bagagliaio e ce lo mise dentro. Poi, come se esigesse un pagamento, le mise una mano sul fianco e le palpò il sedere.

Lei, che già era abituata alle porcherie del fidanzato, reagì immediatamente, come se fosse scattata una molla, e, ripresasi la valigia, la usò come oggetto contundente/arma per colpire quasi a morte il suo potenziale stupratore. “Me ne vado a piedi!” ringhiò, lasciandolo steso davanti al suo veicolo.

 

Miroku la guardò allibito: “N-non me lo avevi detto!” lei fece spallucce: “Beh, sono ancora integra, quindi…”

Miroku, distogliendo lo sguardo da Sango attizzando ancora un po’ il fuoco, sibilò qualcosa di molto poco carino a che fare con il brutto porco maniaco del tassista.

Rin guardò Sango, che, nonostante il linguaggio colorito di Miroku che doveva aver percepito e che doveva averla sconvolta parecchio, aveva un bellissimo sorriso stampato sulle labbra. Doveva essere davvero felice e lusingata e Rin non poté non notare il fatto che la ragazza si spostò un poco verso il suo compagno.

“Shiori, a te l’onore.” Disse Miroku, dando la parola all’ultima rimasta.

 

Svitata n° 16 (parte un boato da parte di tutti i lettori) – Shiori Hiakkikomori

La sveglia trillò fastidiosamente, mentre doveva lottare contro una forza negativa che le impediva di muoversi come più le compiaceva, e dovette fare un notevole sforzo per liberarsi della coperta, che equivaleva alla forza negativa. Come aveva fatto ad arrotolarsi così?

“Buongiorno.” Si disse, giusto per occupare con la voce il vuoto della casa che condivideva con la solitudine e molti cd. Sbatté un po’ gli occhi lilla, per poi ricordarsi che doveva partire e, vestitasi in fretta, uscì fischiettando dalla porta.

 

Gli altri la guardarono, interrogativi: “Tutto qui?”

Certo, rispetto alle avventure vissute dagli altri la sua mattinata era quasi indecente, ma non era successo nulla di niente: il treno era arrivato in orario, era stata praticamente da sola tutto il tempo e nessuno le ruppe le scatole più di tanto. Solo lei e le sue cuffiette.

“Ah, beh, allora è tempo di dormire.” Disse Bankotsu, stiracchiandosi ed alzandosi. “Ah, un’ultima cosa!” disse Miroku, alzandosi. “A parte le notti di pioggia è tas-sa-ti-va-men-te vietato dormire dentro Sengoku.” Ordinò, facendo adeguatamente lo spelling e marcando bene la parola ‘tassativamente’. Si girarono tutti, incuriositi, con un’espressione interdetta ben chiara sul volto.

“E perché mai?” chiese Suikotsu. “Perché poi puzza.”

Nessuno capì il senso di quell’affermazione.

Rin, con le palpebre ormai prossime al sigillarsi per un lungo lasso di tempo, salì sul pulmino con l’idea di cambiarsi, almeno per mettersi qualcosa di più adatto ad una lunga ronfata.

Peccato che si ritrovò accoccolata su uno dei sedili di Sengoku, da tutt’altra parte rispetto alla sua valigia e alla sua idea.

Quanto era lontano l’ultimo momento in cui aveva dormito? Le sembrava almeno una settimana. Si sentiva stanchissima…

 

Erano le due e mezza quando finalmente tutti decisero di andare a dormire, che Koga decise di andare a curiosare un po’ tra i poster all’interno di Sengoku, trovandoci poi una Rin addormentata nell’angolo, con le braccia incrociate e poggiate sul piccolo frigorifero e la testa abbandonata sopra di esse. Stava per protestare, ma sentì la mano di Miroku posarglisi sulla spalla: “Lasciala dormire qui per oggi.” Suggerì. “È stata una giornata molto faticosa per lei.”

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ALLORA! avete isto che la vostra Larchy non vi ha abbandonato? *qualcuno tira un pomodoro*

la canzone di oggi non so se è molto conosciuta, ma io l'adoro :D

dunque, non ho cose da dire... ah, sì, probabilmente troverete qualche errore verso la fine, ma quel pezzo l'ho corretto tardi, e se avete biasimi/proteste/frutta/uova da tirare fate pure (se potete evitate gas velenosi e bombe a mano, il pc è molto fragile)

per il resto credo di aver finito. sopportate un po' la lunghezza del capitolo, se è troppo pesante giuro che il prossimo lo accorcio!

baci e buona vita a tutti.

Agathé tykhè.

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Capitolo 6
*** 6. Il metrò, luogo infestante. ***


questo capitolo è dedicato a 

Rika red <3

sakura_sama :D

rossy-chan <3

6. Il metrò, luogo infestante.

 

Non seppe cosa fu di preciso a svegliarla. Forse la trombetta da stadio suonata all’improvviso, o forse il coro di invettive lanciate in seguito, o forse ancora il grido soffocato e un’imprecazione non troppo gentile, fatto sta che si ritrovò su un pavimento, a quattro zampe, col fiatone e la tremarella.

Quando si ricordò cosa fosse successo durante l’intera e precedente giornata, ma soprattutto quando vide uno scarafaggio zampettarle davanti al naso, non poté fare a meno di lanciare un grido e rotolare sotto al tavolo di legno infisso sul fondo di Sengoku.

“Che succede?”

Entrarono praticamente tutti quanti, chi allarmato, chi semplicemente incuriosito. A prima vista non videro nessuno, almeno fino a quando a Inuyasha non venne la brillante idea di guardare sotto al tavolo: “Rin, che ci fai lì?”

“Sc… a… scafa… faragcsa-gi!” balbettò, sotto pressione e rossa per l’imbarazzo. Aveva il cuore che andava a mille.

Quando capirono, tutti gli sguardi verterono su Miroku, che sembrava abbastanza imbarazzato: “Sentite, io Sengoku l’ho pulito… non sono certo superman!”

Rin, uscendo da sotto al tavolo e sedendosi sopra di un sedile, notò che Sesshomaru era tornato tra loro. Si era già cambiato: indossava un paio di jeans e una camicia candida, che sembrava essere stata cucita apposta per le sue spalle larghe e magre, perché gli stava benissimo. Non sembrava avere quasi cento anni (capitan ovvio, nda), come non sembrava che avesse passato tutta la notte fuori: il suo viso era liscio e neutro come sempre, non una ruga, non un’occhiaia. Beato lui.

Dopo un silenzio imbarazzato, Sango decise che era ora di cambiarsi, dato che nel sacco a pelo aveva dormito con i vestiti del giorno prima, così come tutti gli altri. Miroku annuì: “Prendete le valigie e cambiatevi qui dentro, mentre gli uomini aspettano il proprio turno.”

Sango rimase basita. Miroku non aveva fatto storie, né battute di dubbio gusto. Stava per caso male?

Mentre i ragazzi uscivano, le ragazze presero ognuna il rispettivo bagaglio, anche se la valigia di Rin fu portata da Ayame perché lei non riusciva a sollevarla e, dopo essersi rinchiuse nel pulmino e aver ben controllato che dai finestrini non ci fosse nulla, azione che impiegò i cinque minuti in cui Miroku cercava di fare in modo di vedere qualcosa e in cui Sango lo picchiò a morte, cominciarono a cambiarsi.

Dovevano parlare sottovoce per paura che qualcuno sentisse i loro discorsi su argomenti come… “CAZZO!!”

Tutte, all’esclamazione di Kagura, saltarono di almeno tre metri, mentre Rin rotolò, in mutande e reggiseno, sotto al tavolo, di nuovo. “Ehm… non vi preoccupate, l’amico Red ha anticipato di nuovo.” Spiegò criptatamente, mentre le altre annuivano, gravemente.

Rin, rossa per la vergogna per essersi dovuta spogliare davanti ad altre persone, optò per una camicetta rossa, pescata a caso nella valigia, un paio di jeans lunghi e scarpe da ginnastica, e stava per mettersi un maglione quando Ayame glielo sequestrò: “Eh, no, non starai qui, davanti a me, tutta imbacuccata, a farmi morire di caldo, ora che hai finito di vestirti fila fuori!” e, non si sapeva come, si ritrovò in mezzo ai maschi, fuori da Sengoku.

Non seppe dire perché, ma diventò bordeaux. Forse erano gli sguardi di Miroku, Naraku, Koga e Bankotsu che scivolarono sul suo petto, straniti da chissà che cosa, così interrogativi da farle abbassare lo sguardo per vedere se ci fosse qualche strano insetto, che, però, non vide.

Quella situazione imbarazzante fu salvata però da Shiori, che, scendendo da Sengoku, inciampò in un gradino e le finì sopra, e, a mo’ di panino, anche Kagome fece lo stesso.

“AHI!” si lamentò, con le lacrime agli occhi, quando rivide la luce, mentre veniva pescata da una mano da terra e rimessa in piedi. Poi vide davanti a sé la figura di Koga: “Scusa piccola, ma sembravi quella messa peggio tra quelle tre.” Le disse, indicando con il pollice Shiori e Kagome, che cercavano di scusarsi l’una con l’altra.

“Oh, grazie al cielo vi siete cambiate in un tempo relativamente breve!” esclamò Bankotsu, dopo circa dieci minuti, quando anche Kagura si decise a scendere da Sengoku. “Lo dici come se te ne intendessi.” Gli ringhiò la yasha, dopo averlo squadrato da capo a piedi ed aver incurvato le labbra in un irriverente sorrisino relativo all’altezza del primogenito dei Ben. Decisamente bassa, soprattutto dall’alto dei suoi tacchi.

Bankotsu non se ne accorse, o forse la ignorò per gentilezza, ma fatto sta che in quel momento il suo problema era un altro: fratello numero 3, ovvero Jakotsu. Perché se c’era una cosa che lo eccitava, e che non mancava di fargli notare, era cambiarsi vicino a tanti bei maschioni (citazione necessaria).

“Lo sediamo?” sussurrò Suikotsu, mentre salivano su Sengoku dopo essersi presi i bagagli, riferendosi ovviamente a Jakotsu, che, da parte sua, stava sorridendo come un ebete, e ciò faceva presagire nulla di buono.

Sesshomaru, per fortuna sua, aveva avuto l’occasione di cambiarsi all’alba, quando tutti erano tranquillamente nel mondo dei sogni e quando lui era tornato dal suo giro. Non che fosse stato lontano, aveva semplicemente passeggiato nel bosco e aveva finito per arrampicarsi su di un albero, sfortunatamente a portata di orecchio da quello che si diceva intorno al fuoco.

Doveva farla pagare a quel cretino del fratello, anzi fratellastro! Se c’era una cosa che odiava era l’essere trattato come un vecchio bacucco, lo faceva incazzare così tanto da voler far fuori subito la causa della sua arrabbiatura, e si fermava solo per motivi più o meno legali. Sarebbe stato scomodo essere condannati a morte per l’uccisione di un misero umano, il gioco non sarebbe valso la candela.

Si appoggiò ad una delle pareti del pulmino, in attesa, preso dai suoi pensieri al punto di non accorgersi di Kagura che si avvicinava.

“Ciao.” Gli disse, sorridendo lievemente. Lui si limitò ad un’occhiata gelida, che intimorì la donna ma non ebbe l’effetto di scoraggiarla: “È una bella giornata, non trovi?”

Se trovò la giornata bella, se lo tenne per sé, e si allontanò senza dire nulla.

Kagura stranamente percepì un venticello artico scompigliarle i capelli, mentre la temperatura calava drasticamente. Rabbrividì.

Poi, all’improvviso, nel pulmino ci fu un movimento confuso, e tutti si precipitarono fuori, chi in boxer, chi con i pantaloni, chi con solo la maglietta, sotto lo sguardo perplesso delle ragazze e di Sesshomaru.

Rin, vedendo Suikotsu e Shippo in mutande, diventò dello stesso colore della camicetta, e si mise le mani sul viso, girandosi: “Oh, che vergogna!” esclamò contro sé stessa.

 

Manuale di sopravvivenza di Rin: 2) gli uomini in mutande portano solo vergogna e gote rosse. p.s. mai lasciare soli poveri ed indifesi uomini con Jakotsu.

 

Dopo circa dieci secondi scese Jakotsu, l’unico pronto e davvero rilassato: “Ah!” esclamò, allargando le braccia: “Che bella giornata!”

Tutti i maschi si rintanarono nel pulmino.

 

Dopo la parentesi di Jakotsu il maniaco tutti si ritrovarono in cammino verso il museo più famoso al mondo, il monumento che ha dato tanto lustro a Parigi dopo la Tour Eiffel: il Louvre.

“Giusto per informazione.” Cominciò Shippo, rivolgendosi a Miroku: “Quanto dista il Louvre da qui?” Miroku, per tutta risposta, si grattò la testa, con fare pensieroso: “Mah, direi più o meno dall’altra parte della città.”

Rin gemette a causa dell’informazione. Tutta la giornata sarebbe sfumata a camminare, e lei già si sentiva stanca. Aveva dormito decisamente male, ed aveva avuto un incubo terribile.

“Rin, tutto a posto?” le chiese una voce, che poi si scoprì essere quella di Jakotsu: “Più… più o meno.” Balbettò.

“Seenti, io volevo chiederti una cosa.” Cominciò, mettendole un braccio attorno le spalle e avvicinando le labbra al suo orecchio: “Ma quanto porti di reggiseno?”

Lei, a quella  domanda inopportuna e invadente, si bloccò, rossa come un pomodoro, ancor più scarlatta della tonalità decisa della camicetta. Nel suo cervello non quadrava nulla. Avrebbe potuto ascoltare, non accettare, chiariamolo, quella domanda da Naraku, forse, perché sembrava il più invadente, ma perché gliel’aveva fatta Jakotsu che, essendo dell’altra sponda, non aveva interesse per quelle cose? Forse la stava facendo a lei per conto di qualcun altro. Ma a chi poteva importare della sua taglia di reggiseno? Saranno stati anche fatti suoi!

“Naraku aveva ragione, i tuoi pensieri si leggono sul viso.” Ridacchiò Jakotsu, con la sua tipica risatina un po’ rauca: “Non farti troppi film mentali, la mia era curiosità, se mi dici la risposta ti spiego perché.”

“Qu-quasi una quarta.” Balbettò, rossissima.

Allorché Jakotsu, gridò, esaltato: “AHA!” ma così acutamente da far girare alcuni innocui francesi che stavano passando per la via: “Avevo ragione, ecco perché ti guardavano!”

“Eh?”

“Allora” cominciò, spiegando il suo, di film mentale: “Ieri avevi un maglione, quindi non si vedevano le tue grazie.” A quell’affermazione Rin arrossì, se possibile, ancora di più: “Ma quando sei stata buttata giù da Sengoku oggi, non ti sei sentita osservata?”

Annuì, ricordandosi di quello che era successo qualche minuto prima: in effetti si era sentita osservata un po’ troppo spudoratamente. “Ecco, diciamo che sono rimasti stupiti.” E, con questo, indicò Bankotsu: “Pensa che lui ha anche detto: insomma prima sembra piatta come una tavola e poi assorbe più curve di un’autostrada di montagna, non è valido!” l’imitazione di Jakotsu era perfetta, aveva la stessa tonalità di voce del fratello, resa però un po’ più stridula dalla sua.

“Ehi, ehi, ehi.” esclamò una voce dietro di loro: “Guarda che Rin è una mia paziente, non la puoi strapazzare così!” e, quando Jakotsu lasciò libere le sue spalle, Rin poté vedere la figura slanciata di Naraku ergersi a pochi passi da loro. Si bloccò: “Chi sarebbe la tua paziente?” borbottò, contrariata.

“Ma tu, tesoro.” Jakotsu ridacchiò e si allontanò con una malizia che Rin, essendo abbastanza ingenua poiché totalmente inesperta nel mondo al di fuori della sua casa, non riuscì a cogliere e, anzi, scambiò per un dispetto.

Incrociò le braccia e continuò a camminare, un po’ risentita del fatto di essere ancora sola con quello psicologo psicopatico. “Non è la prima volta che qual-”

“-cuno lo pensa.” Lo interruppe Rin, mimando con la mano una bocca che parlava troppo, scocciata.

Naraku rimase sorpreso: interrompere gli altri era una sua caratteristica, ma era la prima volta che qualcuno gli rubava le parole di bocca. Con molta soddisfazione, si disse che Rin non era un caso da studiare solo per agorafobia.

 

“Hai lasciato lo skateboard su Sengoku?” chiese Koga con strafottenza, avvicinandosi ad Ayame che, udendo la voce dell’odiato demone, si girò di scatto, astiosa: “Perché, volevi essere abbattuto di nuovo?” ringhiò, avvicinando il viso al suo.

Koga rimase un po’ imbarazzato per quella vicinanza così repentina, e andò indietro con il busto per spezzarla, ma Ayame gli andò dietro e finirono di nuovo stesi per terra una sopra l’altro. “Ma si può sapere che ti prende, goffa lupacchiotta senza equilibrio?”  ringhiò Koga, alzandosi di scatto e costringendo Ayame a rotolare sul marciapiede, mentre sia i loro compagni di viaggio che i passanti si attorniavano al loro litigio. “Sarei io quella senza equilibrio?!” esclamò Ayame, sempre più irritata, tanto dal puntare un dito contro il petto del demone: “Tra noi due sei tu il cretino che non si regge in piedi, stupido lupastro!”

“Eh, non offendermi tanto, purtroppo sei della mia stessa razza.” Sibilò l’altro di rimando.

“No, perché lupastro è l’insieme di stupido lupo e impiastro.”

“Ah, e io sarei un impiastro? Ma ti sei vista? Non hai un briciolo di sex appeal!”

A quel punto si poteva pensare chiaramente a due fidanzatini isterici, tanto che i francesi che curiosavano non riuscivano a cogliere le gentilezze in lingua anglosassone che i due si stavano scambiando. Ayame sarebbe di sicuro saltata addosso a Koga a suon di botte per fargli capire cosa ne pensasse del proprio sex appeal se Sesshomaru non fosse intervenuto.

Rin pensò che Sesshomaru fosse stato semplicemente fantastico.

Il demone prese Koga per un orecchio, ignorando le sue proteste, invettive e i suoi tentativi di liberarsi e, dopo averlo allontanato dalla ragazza, lo spedì in avanti per tre metri con un poderoso calcio nel sedere, poi ritornò ad Ayame e fece la stessa cosa, mandandola indietro di tre metri con lo stesso metodo “Avvicinatevi più di così e vi butto nella Senna.” Dopodiché si avviò a grandi passi verso il metrò.

“Ma?” chiese Shippo, sorpreso dal fatto che i due non avessero opposto resistenza. Beh, neanche lui lo avrebbe fatto, vista la presumibile irritabilità di Sesshomaru e la potenza muscolare ostentata dal calcio distribuito sui didietro dei due lupi.

“Neanche si conoscono e già cominciano a punzecchiarsi.” Brontolò Sango, incrociando le braccia. “Non ti preoccupare.” Disse Naraku, con il suo solito sorrisino sornione: “In realtà si amano già alla follia.”

Noi non ci punzecchiamo.” Disse invece Miroku, avvicinandola a sé mettendole la mano su un fianco. Lei, piccata, gli diede uno schiaffo in omaggio. “No, affatto.”

Rin rimase basita.

La gente era pazza. Il mondo era pazzo! E lei, povera, ingenua e tremante fanciulla, era costretta in un mondo così pericoloso!?

Sobbalzò all’ennesimo tram che passava, girandosi di scatto per l’ennesimo fruscio di vento che le aveva fatto venire i brividi, dato che Ayame le aveva sequestrato il maglione. Poi, dalla tasca, provenne il suono di un trillo, il tipico e anonimo trillo del suo telefono, e, dopo averlo estratto dalla tasca, si accorse che a chiamarla era sua madre.

Rimase indecisa un paio di secondi sul rispondere o meno, poi si disse che in quel momento era ancora troppo arrabbiata con lei per poterle parlare civilmente e premette il tasto rosso. “Ti chiamano da casa?” chiese la voce limpida di Shiori, sporgendosi verso di lei. Rin, in quel momento, ringraziò mentalmente Shiori, perché, non essendo né troppo alta né troppo grande rispetto a lei, non la fece sentire una schifezza. Annuì: “Era mia madre.”

Shiori si fece un po’ pensierosa, come se quell’informazione le desse da riflettere, poi le disse, con un sorriso: “Allora è meglio che la richiami ora, non credo che nel metrò prenda.” Il suo tono era tra i più innocenti del mondo, e faceva quasi sorridere.

Stava per spiegarle il motivo per cui non voleva sentire sua madre, quando il suo cervello recepì la parola metrò. Rabbrividì.

“Dove?” chiese, non credendo alle proprie orecchie, ma intervenne Shippo, che circondò le spalle di tutte e due le ragazze con le braccia: “Beh, Miroku ha detto che a piedi ci metteremmo troppo quindi abbiamo optato per il metrò.” Spiegò, con aria allegra e tosto Rin si diresse a grandi passi verso quella specie di organizzatore, a metà tra l’arrabbiato e lo spaventato.

Passi per essere stata trascinata anche in quel giorno in un luogo pieno di germi, passi per la lunga camminata che probabilmente avrebbe dovuto sopportare, ma entrare in un orribile posto pieno di sporcizia come il metrò le sembrava decisamente troppo!

Tirò Miroku per una manica, distogliendolo dalla sua chiacchierata con Inuyasha, sussurrandogli, concitatamente: “Possiamoandareapiedi?”

Lui, capendoci più o meno la p, alzò un sopracciglio, interrogativo: “Eh!?”

Rin prese un bel respiro e, dopo essersi quanto meno data una calmata, disse: “Possiamo andare a piedi?” Inuyasha a quel punto, udendo finalmente il preoccupato borbottio della ragazza, scoppiò a ridere, tanto da attirare l’attenzione di qualche francese di passaggio: “Ehi, stiamo scherzando?” ridacchiò: “A piedi non vado nemmeno morto!”

“Strano che tu sia così poco resistente.” Ghignò Koga, avvicinandosi all’improvviso di tre metri: “Forse è per il fatto di essere un mezzodemone. Mezza tacca.” Ridacchiò, dopo aver posizionato le dita a forma di L sulla fronte.

Perdente. Inuyasha chinò un po’ il capo, frustrato: sempre, sempre, tutti, Sesshomaru per primo, gli avevano sempre fatto sgarbatamente notare il suo essere mezzodemone, tanto che lui ormai ci aveva fatto l’abitudine. Ma, se forse riusciva a trattenersi dal saltare addosso a Sesshomaru, non poteva certo accettare il fatto di essere stato chiamato perdente da un quasi sconosciuto!

“Parla per te: sei un demone completo e neanche riesci a reggerti in piedi.” Ringhiò, con gli occhi accesi di rabbia.

Miroku sgranò gli occhi: uno a zero per Inuyasha! Certo, lui lo conosceva bene in quanto suo amico dalle elementari, ma mai si era azzardato ad una risposta così pungente e cattiva nei confronti di qualcuno. Wow.

“Certo che i maschi non fanno altro che litigare!” sospirò Kagome, abbassandosi mentre si fingeva così esasperata dal mimare la caduta delle proprie braccia. Era vestita con una gonna fino al ginocchio a righe gialle e arancioni accostata con una canottiera estiva color cielo che faceva a pugno con il resto del vestiario. Provocava un contrasto così evidente da sembrare praticamente volontario. Kikyo le diceva sempre che aveva un terribile gusto nel vestirsi, che abbinava i colori in un modo così assurdo da sembrare daltonica, ma per lei, ovviamente era facile parlare.

Kagome, essendo la sorella gemella di Kikyo, era sempre soggetta ad un confronto anche perché, chi le conosceva, si metteva in condizioni di adorare la ragazza più seria e composta e calcolare come nulla quella più esuberante e fastidiosa, ma a lei, Kagome, questo non dava particolarmente fastidio, anzi. Voleva bene a Kikyo e non vedeva il motivo per cui dovesse risentirsi di qualcosa che pensavano gli altri.

Ma se c’era qualcosa che le pesava allora era il comportamento altezzoso e saccente che questo modo di pensare provocava nella sorella. Kikyo, quella più bella, quella più sexy, quella più arguta, quella più brava, quella più tranquilla. Era ovvio che poi la diretta interessata si sentisse stracarica per quelle lusinghe e soprattutto, si sentisse in dovere di umiliarla. Magari non lo faceva nemmeno apposta, ma, alla fine, era sempre Kagome a essere ignorata.

A scuola, all’università, con gli aiuti della sorella, Kikyo era diventata l’alunna più brillante, mentre lei veniva dimenticata.

In famiglia, dove ovviamente gli errori di Kagome sembravano enormemente più gravi di quelli della sorella.

Persino in amore, dove, quando ad entrambe piaceva un ragazzo, Kikyo si impegnava a conquistarlo per prima, lasciando a lei il nulla. Basti pensare che Onigumo, l’ex-futuro marito di Kikyo, era l’uomo per cui Kagome si era innamorata dai tempi del liceo, soffiato dalla sorella.

“Posso dirti che i tuoi pensieri puzzano di sventura?” chiese Kagura, poggiandole una mano sulla spalla. Kagome, dal canto suo, si risvegliò all’improvviso dalle sue riflessioni, sobbalzando un pochino: “Ehm… penso proprio che sia la definizione giusta.” Mormorò.

Sango aveva immediatamente capito a cosa l’amica stesse pensando, tanto che si rabbuiò anche lei. Le sorrise, rassicurante, e le suggerì di pensare a qualcosa di più allegro.

 

“NON CI CREDO!” gridò a pieni polmoni, cercando di risalire le scale. Voleva tornare a casa, voleva tornare a casa!

Fu agguantata dalla mano di Naraku, che la prese per i capelli e la costrinse a ritornare giù, nella galleria del metrò: “E dai, dovrà pur passarti ‘sta agorafobia.” Mugugnò, senza lasciarla e facendole obliterare, controvoglia, il biglietto.

Rin cominciò a piagnucolare, tremando. Era nel metrò, era nel metrò, porca miseria! Era tutto buio, e spaventoso, e sporco! si vedevano macchie di umido sui soffitti polverosi – e non poté fare a meno di lanciare uno strilletto alla vista di un ragno – e chissà quante gomme da masticare per terra! E poi c’erano tante, troppe persone! Erano le otto e mezza e, a quanto pareva, era ora di punta, perché sembrava che tutti i francesi di Parigi dovessero in quel momento prendere la metro.

Dovettero appiccicarsi tutti e sedici al muro per evitare di essere travolti dalla folla che usciva dal primo – e sporco! – treno, e per lei fu un’altra mazzolata di strizza. Prese la mano della persona che stava alla sua sinistra, in quel caso Kagura, e la strinse con quanta pi forza aveva.

L’altra rimase sorpresa: non aveva mai sentito tanto terrore in una persona in una volta sola, e le faceva quasi pena sentire sulla pelle tutta la paura di quella scricciola che, evidentemente, se la stava facendo sotto, e avrebbe di sicuro cercato di darle un po’ di conforto se la sua mano non avesse perso la sensibilità a causa della sua stretta. “Ehm… Rin?” la chiamò, quando ormai le sue dita erano diventate rosse. Lei, arrossendo di botto, lasciò la sua mano e si scusò almeno mille volte.

“Muoviamoci, prendiamo il prossimo!” gridò Miroku, agitando le braccia, e tutti si incamminarono di corsa alla banchina.

Rin, sbattendo e facendo slalom tra la gente, non fece altro che seguire la lunga e candida chioma di Sesshomaru che, tra l’altro, sembrava non avere veri problemi nel camminare, oramai suo unico punto di riferimento in quella marmaglia di gente.

Che schifo che schifo che schifo! Piagnucolò mentalmente, con le lacrime agli occhi per l’agorafobia, mentre cercava di rincorrere, insieme a Kagura, il resto del gruppo, sempre andando dietro a Sesshomaru, ma così dietro che, quando finalmente arrivarono sulla banchina, Rin gli finì addosso, tremando come una foglia.

Certo che la sua camicia da così vicino era davvero bianchissima… come aveva fatto a mantenersi così linda in un macello simile?

Quasi come a voler cercare una risposta a quella domanda, alzò il viso in direzione di quello del demone con un’espressione così interrogativa da risultare quella di un’ebete, scoprendo poi negli occhi dorati del suo atterraggio di fortuna la più cocente irritazione. Si staccò immediatamente: “Scu-scusami!” esclamò, rossa per la vergogna e l’imbarazzo. Sesshomaru, per la terza volta in due giorni, sembrò vertere l’attenzione su di lei, e doveva avergli fatto davvero schifo, perché fece in modo da mettere più passi possibili tra le sue goffe scuse e la propria demoniaca magnificenza.

 

Manuale di sopravvivenza di Rin: 3) il metrò è un luogo altamente infestante e pericoloso per la vita, soprattutto in presenza di certi demoni.

 

“Dai Rin, siamo quasi arrivati!” la consolò Shiori, tenendole la mano. Lei, come aveva fatto con Kagura, scaricò tutta la sua tensione in quella stretta, anche se Shiori fu tanto delicata da non farle notare il fatto di starle quasi per staccare le dita.

Per lei fu un incubo quando arrivò il treno stranamente vuoto, nonostante il sostegno di Shiori le avesse infuso una misera percentuale di coraggio, e si ritrovò abbarbicata, sempre con Shiori la santa a farle da antistress, al palo giallo nel bel mezzo del corridoio del mezzo.

Però, ovviamente, i problemi non erano finiti. Figuriamoci.

Stava per essere frullata chissà dove dalle scosse del treno, o perché quello andava troppo veloce o perché lei era troppo leggera, fatto sta che si ritrovò spiaccicata – di nuovo! – contro Sesshomaru.

Sembrava davvero incavolato. Percepiva i suoi muscoli in tensione. Ma, prima che potesse anche solo accampare qualche scusa maldestra, fu scaraventata con stizza nel sedile immediatamente dietro di lei.

Sango, dopo aver provato a protestare per la poca delicatezza usata da Sesshomaru nei confronti della piccola Rin e dopo essere stata liquidata da una spaventosa occhiataccia da parte del suddetto, si sedette sopra di Miroku invece che sopra uno dei tanti sedili vuoti, lasciandolo sorpreso. Per mascherare la sua sorpresa, comunque, Miroku provò a posare per l’ennesima volta la mano sul sedere della fidanzata, giusto per rilassarsi, ma, prima di poter compiere il misfatto, fu ammonito: “Provaci e ti ritroverai lungo su i sedili mentre qualcuno cercherà di farti rinvenire.” Ma lui, imperturbabile, le rivolse un’occhiata rilassata: “Allora speriamo che sia una bella donna.” E lei, per ripicca, incrociò le braccia: “Invece spero che sia un grassone vecchio e pelato.” Ma, oramai, si era capito che non stessero dicendo sul serio.

“Siete imbarazzanti.” Li ammonì Inuyasha, girando molto al largo del fratello e sedendosi a due sedili di distanza dai piccioncini: “Se volete tubare potreste farlo in privato.”

Naraku pensò immediatamente che la delicatezza e il tatto non fossero qualità conosciute dal mezzodemone che corrispondeva al nome di Inuyasha.

Ma Miroku, invece, con molta non-chalance, ammiccò verso l’amico: “In-vi-dio-so.” Sillabò, e Inuyasha, suo malgrado, non poté far altro che scoccare un’occhiata a Kikyo e rimanere in silenzio.

Già, Kikyo. Era rimasta in silenzio per tutto il percorso, senza parlare a nessuno. Chissà perché era così taciturna. Beh, l’unica cosa che poteva in quel momento su di lei era che la sua bellezza e la sua grazia erano nettamente superiori a quelle dell’odiosa sorella.

Palais Royal – Musée du Louvre.

 

Pronunciò la voce metallica dell’annunciatrice, e finalmente tutti poterono risalire all’aria aperta della città di Parigi.

“Bene” disse Miroku, facendoli stringere in cerchio: “Siete liberi di fare quello che volete. La visita al Louvre per noi è gratis ma siete liberi di usufruirne o meno.” Annuirono: “Ci rivediamo qui alle sei e mezza.”

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no, non sono morta :D mi ricordo sempre di voi :D

capitolo di mezzo prima del Louvre. oggi niente canzoncina, mi dispiace :(

AVVISO: d'ora in poi verranno calcolati come vincitori solo il primo che azzecca correttamente sia il titolo che l'autore, anche perchè sennò i "punti" per la comparsa rimangono sempre pari a loro stessi.

dunque... Rin ha constatato da (molto) vicino quanto potrebbe essere pericoloso toccare Sesshomaru, Bankotsu è basso, Jakotsu è un maniaco, Ayame e Koga si odiano amano già alla follia [cit. Naraku], Inuyasha occhieggia dalla parte di Kikyo, la vecchia volpe di Naraku ha già delineato le proprie prede, la mano di Shiori è in briciole, Miroku e Sango sono imbarazzanti e l'autrice è bella che sciroccata.

alla prossima :D

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prossimamente:

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CAPITOLO 7: I SIGNORI CLIENTI SONO PREGATI DI EVITARE DI DAR FUOCO AI QUADRI ESPOSTI, GRAZIE.

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Capitolo 7
*** 7. I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri esposti, grazie. ***


con grande richiesta del pubblico(?), ecco a voi, il settimo, attesissimo (?) capitolo!!!

*lancio di pomodori*

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7. I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri esposti, grazie.

 

Rimasero a guardarsi per almeno due minuti, in silenzio. Evidentemente nessuno sapeva cosa fare. Da fuori dovevano sembrare degli idioti, sedici idioti che se ne stavano in cerchio a fissarsi l’un l’altro.

Forse a questo stava pensando Sesshomaru, perché si allontanò immediatamente, dirigendosi da tutt’altra parte rispetto al museo.

I quindici rimanenti guardarono prima la figura del demone che si incamminava chissà dove con calma serafica, poi a fissarsi di nuovo, almeno finché Ayame e Shiori non trascinarono via Rin, dicendo: “Andiamo a vedere dentro il museo!”

Attraversarono la strada di corsa e si fiondarono dentro l’ingresso, ad una velocità tale che per un pelo non finirono spiaccicate sopra la piramide più piccola.

Rin, per lo spavento, si accasciò a terra, tremante: “Che… cavolo… vi… salta… in… testa?” ansimò, a quattro zampe. “Vedi cosa succede ad andarsene con un demone e un mezzodemone?” chiese Ayame, strofinandosi le unghie sulla maglietta azzurra per poi rimirarne l’effetto.

“Non è molto corretto” puntualizzò Shiori: “l’abbiamo trascinata noi qui.”

Ayame sventolò la mano come se volesse cacciare le veritiere e innocenti parole di Shiori come moscerini, tirò su Rin di peso e, come se fosse un pupazzetto di stoffa, la mise in posa davanti ad una delle fontane prossime alla piramide, in modo da prendere una foto che ritraesse sia lei che il palazzo intorno e, dopo aver trascinato anche Shiori nella stessa posizione, fece qualche passo indietro ed estrasse dallo zainetto la sua fedele Ermenegilda. Cioè la macchina fotografica.

“Preparatevi ad un servizio fotografico!” le minacciò: “Ho capacità di ben oltre un milione di foto!”

 

“Allora, chi devi pedinare?” chiesero Kagura e Bankotsu contemporaneamente, una a Naraku, evidentemente interessato a Rin e Kikyo, l’altro a Jakotsu, con intenti da non precisare.

Naraku scrollò le spalle: “Non mi pare di aver dichiarato alcunché.” Ma, a quell’affermazione, Kagura non poté far altro che sbuffare: “Ti conosco fin troppo bene, ogni volta che delinei la tua preda fai di tutto per analizzarla.” Spiegò, con l’aria di chi ormai ci è abituato, e Naraku, per quella volta, dovette arrendersi all’evidenza. Ma, infondo, era o non era uno psicologo d’assalto?

“Buttiamo a morra?” propose, e Kagura annuì: “Se vinco io seguiamo Rin.”

Uno, due, tre!

“Si prospetta una lunga giornata.” Si lamentò Kagura: “Ci tocca seguire la donna cadavere.” E, quatti quatti si incamminarono verso il museo.

Jakotsu, dal canto suo, aveva candidamente spiegato che lui a Parigi non c’era mai stato e intendeva vedere il museo. Inutile dire che Suikotsu gli controllò la febbre.

“Andiamo, truppa, a scoprire le meraviglie del Louvre!” gridò con voce grossa Jakotsu, come un condottiero, usando il fermaglio del proprio codino a mo’ spada, puntandolo verso l’entrata.

I due fratelli annuirono, accondiscendenti, e si avviarono insieme al loro capitano con l’aria felice di un cadavere imbalsamato con la vinavil.

Dopo tre secondi, cioè quelli che bastavano al terzogenito Ben per irrompere nel museo con la forza di un uragano, Suikotsu e Bankotsu rimasero attoniti nel constatare che Jakotsu era davvero fomentato nel vedere le opere d’arte esposte: le rimirava come un bambino ammira il negozio dei dolciumi. Con la lingua di fuori, come i cani. O forse perché c’era Inuyasha nelle vicinanze.

Infatti, il povero mezzodemone, dopo aver scorto quella sottospecie di uomo sfrecciare da una parte all’altra del corridoio delle sculture greco-romane, nei pressi dell’entrata, in cerca di qualcosa di non meglio definibile, decise di fare dietrofront verso il reparto delle antichità orientali, se non fosse per il fatto che, appena girati i tacchi, si scontrò con Kikyo.

Si guardarono, interrogativi, per poi avviarsi per la stessa strada, senza spiccicare parola.

Intanto, nel salone della scultura italiana, un gruppetto di due demoni e tre umani non faceva altro che scattare foto.

“Certo che Canova è proprio un genio.” Disse Kagome, accucciandosi accanto all’opera “Amore e Psiche” : “Come avrà fatto a scolpire superfici così lisce?”

Sango fece spallucce: per lei le mentalità degli artisti erano come le misteriose nebulose stellari nel cosmo. Incomprensibili ma bellissime. Ma, se lei e Kagome erano ragazze quantomeno interessate, cosa ci facevano Miroku, che, lo sapeva, trovava l’arte inutile, Koga e Shippo a seguire la visita accanto a loro?

“Ok.” Disse Shippo: “Facciamo un gioco.” I suoi compagni di viaggio lo guardarono, interrogativi, soprattutto Koga che, essendo un demone lupo, aveva inquadrato la kitsune come un pappamolle.

“Là” e Shippo indicò il muro: “è appeso un catalogo con tutte le opere di questa stanza, e chi trova per primo la terza statua in lista di ogni stanza vince dieci sterline.”

Ah, una scommessa. Inutile dire che tutti si misero a cercare.

“Lo schiavo morente, Michelangelo!” esclamò Koga, indicando prima il catalogo, poi la scultura accanto a lui: “Questa era facile.”

Miroku, dal canto suo, era abbastanza scioccato: già lui era lì solo perché la sua Sango aveva tanto insistito, poi, vedere degli adulti comportarsi come scolaretti in gita lo aveva allibito.

Era tanto allucinato che non si accorse che il gruppo con cui era entrato era già sparito al primo piano, e si rese conto troppo tardi di aver scordato di comprare la piantina del museo.

 

Kikyo era molto silenziosa e Inuyasha temeva che avrebbe potuto infastidirla con qualche domanda banale, del tipo “sei mai stata a Parigi” o “allora, ti piace il Louvre”, perciò si limitò a camminare verso il piano superiore, facendo finta di camminare da solo, non che fosse poi così difficile, dato che la sua accompagnatrice equivaleva alla macabra presenza di uno sventurato spettro.

Soprappensiero, si mise a fischiettare, senza accorgersene.

 

Burnt out ends of smoky days
The stale cold smell of morning
The streetlamp dies, another night is over
Another day is dawning…
*

 

E stava per lanciarsi in un imbarazzante fischio più acuto quando Kikyo, stranamente, interruppe la sua melodia: “È una bella canzone.” Disse.

E lui, stupidamente, non poté far altro che domandare: “Quale?” cosa che lei trovò divertente, perché sorrise: “Quella che stavi fischiettando.” E lui non poté che rimanere imbambolato a valutare che, se Kikyo era bella, lo era ancora di più quando sorrideva.

Dopo qualche imbarazzante secondo si riscosse e cercò una brillante frase da dire, in modo da evitare figuracce: “Eh, sì, l’ho appena fatta studiare ai miei studenti.”

Kikyo annuì, pensierosa, mentre camminava noncurante verso il salone dove era esposta la celeberrima Monna Lisa. “E ti piace insegnare?”

Che cosa strana, che la silenziosa e taciturna Kikyo intraprendesse una conversazione proprio con lui. Insomma, sì, lui era più che interessato, ma credeva che non fosse il tipo per una donna così seria.

Fece spallucce: “Beh, sì, più che altro mi piace la musica e mi piace condividerla con gli altri.” Oh, guarda, qualcuno che gli tirava fuori di bocca i propri pensieri. Insomma, non era proprio normale che lui, Inuyasha, parlasse apertamente di sé, era più uno a cui sembrava opportuno mascherare i propri interessi per sembrare più… duro? Inattaccabile? Non avrebbe saputo definirlo con chiarezza. Forse era il fatto di essere trattato come inferiore a causa del suo essere mezzodemone ad averlo costretto a costruire delle, diciamo, barriere.

Oh, cielo, stava cominciando a pensare come Sesshomaru!

 

A proposito di Sesshomaru, vi state chiedendo dove sia finito, vero?

In quel momento, cioè nel momento in cui Kikyo e Inuyasha stavano segretamente flirtando, il nostro misterioso demone stava tranquillamente passeggiando lungo la Senna, con i pensieri persi in chissà quale meandro temporale.

Cosa stesse cercando, non lo sapeva nemmeno lui. Aveva evitato il Louvre per sorbirsi il meno possibile tutti quei turisti, tutte quelle persone sudaticce e affaticate che disturbavano il suo udito, il suo olfatto e la sua pazienza. Stupidi umani che non facevano altro che brulicare qua e là.

Fatto sta che si imbatté, suo malgrado, in un vecchietto. Anzi, diciamo che quel vecchietto sbatté su di lui, visto che aveva perso gli occhiali.

Speriamo che non abbia combattuto con me in guerra, speriamo che non abbia combattuto con me in guerra! Si ritrovò a pensare.

Ovviamente non fu così, perché quella mummia incartapecorita prese degli occhiali di riserva, li inforcò e gridò, come se avesse vinto alla caccia al tesoro: “Capitain!”(trad. Capitano!)

Ma perché ogni dannatissimo matusalemme che incontrava era stato suo sottoposto nella Seconda Guerra Mondiale!?

Ok, era abbastanza datato anche lui, ma per il mondo demoniaco era poco più che un adolescente, un giovine giovincello, un ragazzino, e la cosa cominciava a innervosirlo parecchio. Cosa diavolo non capivano gli umani nel concetto: i demoni vivono con i demoni e hanno una diversa concezione del tempo per ciò gli umani li devono lasciare in pace e basta?

“Temo ti stia sbagliando con qualcun altro.” Ringhiò, liquidandolo e abbandonandolo al suo destino.

 

“Mi sembro una stalker.” Borbottò Kagura, incrociando le braccia e appoggiandosi alla parete nei pressi del famoso dipinto “La vergine delle rocce”. Non era un brutto quadro, infondo, ma preferiva l’impressionismo.

Naraku, dopo aver gettato una lunga occhiata ai dipinti nel corridoio, spostò l’attenzione sulla sua preda, in fastidiosa compagnia di Inuyasha. Quel ragazzino già gli dava fastidio per come aveva spifferato ai quattro venti informazioni private del fratello, e sperava con tutto il cuore che Sesshomaru si vendicasse.

Oh, anche Sesshomaru era una sua preda. Era l’unico essere sulla faccia della terra del quale non riuscisse a percepire né l’essenza né i pensieri. Come se ci fosse una barriera troppo imponente per le sue capacità di lettura dei movimenti. In realtà, pareva che il demone misurasse i propri movimenti proprio per non farsi intendere da nessuno, nemmeno da uno psicologo come lui, e la cosa lo infastidiva parecchio. Per la prima volta riscuoteva un fallimento e non era proprio disposto ad accettarlo.

Kagura fece per chiamare Naraku, ma, vedendolo immerso nei propri pensieri, pensò di svignarsela a gambe levate senza dirgli nulla. Lui aveva molto insistito per farla venire con lui, ma e che cavolo, avrà avuto pure lei il diritto di gironzolare a suo piacimento per il museo!

Naraku era un buon fratello, per carità, aveva un carattere un po’ spigoloso ma riuscivano tranquillamente a convivere senza litigare, però risultava morbosamente persistente nel doverla sorvegliare. Era sotto il suo controllo e la cosa la infastidiva alquanto. E veniva anche accuratamente sfruttata per le sue operazioni di psicanalisi.

Forse fu per un po’ di libertà che decise di girare i tacchi, ma, giunta alla fine del corridoio, incontrò quel duo pazzoide di fratelli che cercavano di tenere a bada il più pazzo dei tre.

“Lo vedo quasi!” disse Jakotsu, indicando o la fine del corridoio o Inuyasha che, d’altra parte, stava amabilmente chiacchierando con Kikyo. E Bankotsu, conoscendo il fratello, propendeva di più per la seconda opzione.

Dietro di loro apparvero le tre ragazze scomparse per prime: in fila, Ayame, spavalda e sicura di sé, scattava foto a qualunque cosa stesse ferma per più di tre secondi, Shiori, che, da brava scolaretta, osservava i dipinti, leggeva la descrizione e prendeva appunti, e dietro Rin, che non faceva altro che scattare per i più piccoli movimenti e, avvistata una zanzara, si rintanò, tremante, dietro la yasha dai capelli rossi.

“Toh, ci siamo quasi riuniti.” Notò Suikotsu, lasciando la presa sulla maglietta di Jakotsu, con la quale fino a un secondo prima cercava di arginare i suoi effetti da fomento.

“Argh!” gridò Rin, dopo aver gettato un’occhiata ad un quadro e notando la polvere sulla cornice, e si accucciò per terra, parlottando fitto fitto su qualcosa come “polvere”, “aiuto” e “sporco”, tanto che il turista italiano che le passò vicino le scattò una foto, ridacchiando.

“Eh… già…” disse Shiori, sorridendo.

Passò qualche minuto di silenzio, in cui Rin rimase accucciata su sé stessa a parlare da sola, Naraku gettò un’occhiata ad un anonimo dipinto dietro di lui, Kagura arrivò quasi alla fine del corridoio, Bankotsu notò che la donna aveva un bel culo, Ayame scattò trentundici foto, Shiori fischiettò, Suikotsu rimirava un quadro e Jakotsu si espresse, con la sua caratteristica voce acutamente isterica: “Yuhuuuu, Inuyaaaaaasha, siamo quiii!”

Cosa che attirò sì l’attenzione del mezzodemone, ma anche quella di Kikyo e quella del resto della gente che affollava il corridoio dove stavano loro e i tre seguenti, e a momenti anche quella delle persone raffigurate nei quadri.

Inuyasha gettò uno sguardo imbarazzato a Kikyo, a mo’ di scusa, e si diresse con estrema e lenta riluttanza verso il suo gruppo. Accidenti, proprio quando stava tranquillamente solo con quella tanto attraente e misteriosa fanciulla venivano a scartavetrargli le palle!? Uffa.

Kikyo sembrò accorgersi del suo umore cambiato così repentinamente, perché chinò lievemente il capo per celare un sorriso lusingato, nascosto in gran parte dai due lunghi ciuffi che uscivano dalla sua coda di cavallo.

Naraku e Kagura, invece, un po’ più in là, confabulavano concitatamente riguardo al caso numero uno, cioè la missione sposa cadavere. Più che altro, Naraku esponeva ciò che aveva dedotto e Kagura ascoltava con una pazienza degna di un martire. “Allora,” riassunse il mezzodemone: “molto probabilmente è stata bidonata sull’altare perché sennò non si spiega questo mutismo assurdo, e poi dev’essere di per sé molto fredda e distaccata, e la depressione post-non-matrimonio deve aver amplificato queste sue qualità. Inoltre” e a questo punto si accucciò sul vissuto e polveroso pavimento a disegnare schemi con il dito: “è stata mollata da un uomo, perché è curiosa di testare se i demoni hanno sensibilità diverse rispetto al genere umano.” Poi, mentre Kagura approfittava del suo profondo e concentrato borbottio per svignarsela, alzò il viso verso il soffitto, pensieroso: “Però… Koga a prima vista lo trova eccessivamente irascibile e/o volgare, Shippo lo ha considerato come un marmocchio, si è resa conto che Sesshomaru non riscuote in lei il minimo interesse a causa della somiglianza con il proprio carattere e quindi sta cercando di prendere contatto con l’universo Inuyasha.” Concluse, borbottando anche un avrebbe potuto scegliere me, non accorgendosi di essere ascoltato da Rin, che gli rispose con un candido e ingenuo: “Tu sei troppo inquietante!” Stizzito, rimbeccò acidamente l’interruzione: “Non eri troppo impegnata ad agonizzare in quanto alla polvere, la folla e quant’altro?”

E, come un fastidioso quanto vero promemoria, nella mente di Rin sfrecciò a velocità molto elevata un ansito di paura, tanto da farla rabbrividire. Chinò il capo, silenziosa, e avrebbe risposto qualcosa come un debole hai ragione, se non fosse stata interrotta da un acutissimo e dubbiamente virile grido di Jakotsu: “Aaahhh!!!”

 

Puzza di bruciato. Ecco cosa sentiva. A lungo andare, aveva percorso quasi una strada circolare intorno al museo, tanto che si era ritrovato davanti all’entrata sul retro. E la cosa strana era che l’odore di bruciato proveniva dal museo.

Oh, avrebbe scommesso qualsiasi cosa che quei quindici idioti erano coinvolti.

Sesshomaru arraffò un secchio da un negozio e lo riempì ad una fontanella, dopodiché si precipitò dentro il Louvre.

 

“Al fuoco! Al fuoco!” gridò Jakotsu, guardando un dipinto divorato dalle fiamme, accanto a lui. Cominciò a girare in cerchio mettendosi le mani nei capelli, continuando a strillare come una donnicciola – non che lui si allontanasse molto da quel concetto – mentre tutti i presenti ponevano l’attenzione sul pitturato esposto nei pressi della “Vergine delle Rocce”. Bruciava con un’allegria tale che ricordava molto il fuocherello del falò della sera prima.

Stava intervenendo anche il personale, mentre giungevano Kagome, Sango, Shippo e Koga, allarmati dalle grida che percorrevano il corridoio.

Il fatto era che il sistema d’allarme, evidentemente in cortocircuito, avrebbe dovuto suonare quando Bankotsu, sporgendosi troppo sul dipinto, si era avvicinato per vederlo meglio, solo che, invece del classico suono, era divampato l’incendio.

Incredibile di come fosse complicato trovare un po’ d’acqua nel museo! Tutti i turisti erano scappati chissà dove, e il personale stava raggranellando liquidi dai bagni e dai rubinetti, quando, ad un certo punto, apparve una guida grassottella che scarrozzava un grande secchio, trotterellò fino al dipinto e lo inondò con l’acqua che lo riempiva.

Poi apparve Sesshomaru, tranquillo e distaccato come al solito.

Jakotsu e Rin, invece, non essendosi accorti di quello che era successo, stavano ancora uno correndo in cerchio, strillando come un disperato, e l’altra, terrorizzata, chiusa a riccio in un angolino apparentemente pulito di corridoio.

Con quello che rimaneva del secchio, ad Ayame parve molto giusto calcarlo in testa al terzogenito Ben, in modo da… tranquillizzarlo.

L’ultimo ad arrivare fu Miroku, che, a quanto pareva, stava rischiando una crisi di nervi a causa del suo scarso senso dell’orientamento. Camminava a fatica, trascinando i piedi, parlando da solo riguardo a non meglio precisati argomenti e ogni tanto fermandosi a guardarsi in giro, spaesato.

Almeno finché non vide Sango.

“Sangucciaah!” gridò, ritrovando le energie e percorrendo di corsa la distanza che lo separava dalla fidanzata.

“Ehm…” provò a dire Suikotsu: “Non vorrei interrompervi… ma credo che sia arrivata la stampa.”

Tutti si guardarono, allibiti e, tutti e sedici, come un sol paio di piedi, si precipitarono fuori onde evitare problemini di tipo… ehm… giudiziario.

 

Bankotsu, ovviamente, fu piuttosto malmenato, in quanto identificato come causa dell’incendio.

“Ah, ho fame!” esclamò Kagome, allargando le braccia per stiracchiarsi: “Andiamo a mangiare in qualche bistrôt?”

Tutti sembrarono essere d’accordo.

L’unico perplesso rimaneva Koga: “Ehi, ma alla fine io ho vinto la scommessa!” esclamò, felice: “Mi dovete dare dieci sterline!”

Nessuno lo ascoltò, e il gruppo cominciò a camminare, lasciandolo indietro.

“Ehi!”

Nessuno lo filò.

“EHY! NON LASCIATEMI INDIETRO!”

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avete visto? non sono scomparsa! :D

e, anzi, dopo essermi fatta un mese di mare e due settimane a Londra sono più agguerrita che mai! >:D

comunque, spero che questo capitolo vi piaccia ;)

ah, avete scorto da qualche parte il turista italiano. ecco, quella sarà una specie di piccola rubrica, e spiega cosa pensano gli stranieri di noi italiani. e, da Londra, giungo con tanti di quegli insulti da riempire un vocabolario.

per esempio, secondo gli INGLESI, noi italiani mangiamo da schifo. cioè cibi grassi e poco nutrienti e schifosi.

capito? GLI INGLESI dicono che siamo NOI a mangiare male!

roba dell'altro mondo!

per cambiare argomento, ho messo la canzone, stavolta, ma non dovete dirmi chi la canta, ma da quale film, serie, spettacolo è tratto ;)

alla prossima

Larchy

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