On the Road. di LarcheeX (/viewuser.php?uid=101658)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Rapimento ***
Capitolo 2: *** 2. Compagni di viaggio ***
Capitolo 3: *** 3. Tour Eiffel ***
Capitolo 4: *** 4.Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi spettegulesss) - parte 1 ***
Capitolo 5: *** 5. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2 ***
Capitolo 6: *** 6. Il metrò, luogo infestante. ***
Capitolo 7: *** 7. I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri esposti, grazie. ***
Capitolo 1 *** 1. Rapimento ***
On the Road.
1.
Rapimento.
Mugugnò
soddisfatta, mentre
scorreva giù con il mouse per visualizzare tutta la pagina
del computer, dove
era impegnata a vedere il risultato del suo esame finale. Ed eccolo
lì,
campeggiare sovrano in testa alla classifica:
Rin Jordan: 100 con lode.
Si
alzò con aria trionfante,
disinfettandosi le mani che erano state a contatto con la tastiera, si
infilò
le pantofole e schizzò in cucina dalla madre:
“Mamma, ho superato l’esame con
il massimo dei voti!” esclamò, alzando un pugno in
aria con fare vittorioso.
Isabella si girò, sorridente, mentre finiva di mescolare con
il mestolo
l’impasto per una torta: “Brava tesoro.”
Rimasero
un po’ così, con Rin che
guardava la madre, curiosa, e lei che girava e girava con il mestolo
nella ciotola.
Dopo
qualche minuto fu la madre a
prendere la parola: “Senti, stavo giusto pensando…
ora che hai diciannove anni,
non credi che sia tempo che cominci a vivere normalmente?
Intendo… non vuoi
guarire?”
Il
volto della giovane si
rabbuiò: sua madre faceva quelle storie da quando ne aveva
memoria, ma lei,
Rin, aveva un unico, insormontabile problema che si chiamava
agorafobia. Non
era mai uscita di casa, e aveva sempre studiato a casa con un
professore pagato
(tanto) per non farla uscire.
Il
fatto era che bastava solo un
alito di vento, una macchina, una goccia di pioggia per farla schizzare
dentro
le sue confortanti quattro mura domestiche. E, soprattutto, aveva il
terrore
dei germi.
“Noo,
io sto bene così!” esclamò,
mettendo le mani avanti. Guarire significava prima di tutto andare da
un
dottore. E andare da un dottore significava uscire. Quindi no.
Isabella
la fissò, obliqua,
mentre diceva: “Ho il tuo regalo per il diploma.” A
quella frase Rin si fece
pensierosa: in teoria doveva essere felice, ma le occhiate oblique di
sua madre
le facevano paura. Sia perché il viso di Isabella metteva un
cipiglio
inquietante, sia perché le idee di sua madre non si potevano
certo definire
sicure, considerata la sua delicatezza.
“Oh,
che bello… cos’è?” chiese,
curiosa. La madre guardò l’orologio, che segnava
le nove e mezza di mattina del
dieci giugno, con un sorrisetto per niente rassicurante:
“Arriverà tra poco.”
Rin
non sapeva se esserne felice
o meno.
Fece
per dirigersi di nuovo in
camera, ma fu fermata dalla voce della sua cara mamma: “Rin,
ma perché non ti
metti qualcosa di più estivo?” lo sguardo della
diretta interessata scese sul
maglione di lana blu che si ostinava a mettere per paura di un
raffreddore, la
gonna verde a pieghe della divisa, le calze verdi, gli scaldamuscoli
blu e le
ballerine con il tacco nere. “Io sto benissimo
così!” esclamò. Avrebbe giurato
che la madre avesse scosso la testa sconsolata. Ma, per lei, anche se
c’era il
sole c’era il rischio di prendersi un malanno.
Ad
un certo punto suonò il campanello.
Rin
si irrigidì: chi stava
suonando alla porta era portatore di germi, anche se probabilmente
avrebbe
portato il suo regalo. Si sedette sul divano, mentre la madre correva
ad
aprire, con lo stesso sorrisino poco rassicurante che aveva poco prima.
Sulla
soglia della sua casa
igienicamente asettica apparve un uomo che sembrava gridare tutto il
contrario,
e che le ricordava vagamente il rozzo motociclista di qualche film
degli anni
ottanta: era un ragazzo di circa vent’otto anni alto, con i
capelli scuri
legati in un codino e gli occhi blu profondi come il mare. Ma la cosa
più
sconvolgente e preoccupante era il suo abbigliamento: era vestito con
una
maglietta a maniche corte rossa, macchiata qua e là,
pantaloni che somigliavano
vagamente a jeans molto rappezzati e un paio di anfibi infangati. Con
il dito
della mano destra reggeva una giacca di pelle scura dall’aria
vissuta. Una
persona da storcere il naso. “Ciao Miroku!”
esclamò Isabella, sorridendo. Rin
si rabbuiò ancora una volta: chi era quell’uomo?
Non era un rimpiazzo di suo
padre, vero? Perché in tal caso non l’avrebbe
perdonata: suo padre era morto e
doveva conservarne la memoria!
“Rin,
lui è Miroku, il figlio di
una mia amica.” Lo presentò lei, e la ragazza si
vide costretta a risvegliarsi
e stringere con un sorriso che aveva un che di schifato la mano di
sicuro
impolverata del ragazzo, che sorrise a sua volta, marpione. Si
sentì
immediatamente a disagio. “Pia…
piacere…” piagnucolò, cercando di
evadere
strisciando lentamente sempre più lontano da lui, che le
mise una mano sulla
spalla, gioviale: “Su, Rinuccia! Vedrai che ci
divertiremo!” esclamò lui, tutto
euforico.
Ci? Che razza di storia è questa?
Pensò, disperata. Quella faccenda
sapeva terribilmente di congiura. Rivolse un’occhiata bieca
alla madre, che
ridacchiò divertita. Allora era una complice!
“Dove
sono le valigie?” chiese il
ragazzo, parlando questa volta a Isabella. “Di sopra.
Accomodati.” Rispose,
indicandogli le scale che conducevano alla camera di Rin.
La
povera vittima lasciò che
l’indesiderato ospite si dirigesse a profanare il suo tempio
per poi rivolgersi
furente alla madre: “Che storia è questa? Di che
valigie andava blaterando?”
sibilò, attenta a non farsi sentire da Miroku. Isabella
sorrise, ridacchiò e
socchiuse gli occhi, per poi rispondere: “È il tuo
regalo.” La ragazza non fece
in tempo ad aprire di nuovo bocca che il ragazzo scese, portando in
mano quella
che era una valigia scura piuttosto grande, che sembrava piuttosto
vissuta,
come se avesse viaggiato molto. Miroku aveva un ghigno terribilmente
affabile
dipinto sul volto: “Bene, Rinuccia, ora andiamo? Ci aspetta
l’avventura!” disse
poi, uscendo un attimo per posare il bagaglio nel retro di una macchina
grigia
e scalcinata. Lei scosse violentemente la testa: “Noo, io
rimango qui e non
esco.” Disse, più a sé stessa che a
qualcuno in particolare, anche perché la
madre la stava spingendo verso la porta. Lei si opponeva in ogni modo
ma,
avendo trascorso tutti e diciannove gli anni della sua vita in casa, in
quanto
a muscolatura scarseggiava, e ogni sforzo risultava inutile, almeno
finché non
si aggrappò allo stipite dell’uscio aperto. Poi
intervenne anche Miroku a
tirarla per le caviglie.
La
scena vista da fuori, poteva
essere assai comica: Rin era aggrappata alla porta con tutte le sue
forze,
anche se le sue gambe ormai stavano fuori, Miroku la tirava per le
caviglie,
sforzandosi di non pensare a quello che poteva esserci sotto la gonna
che
portava la ragazza, e Isabella che spingeva da dentro con la schiena.
Alla
fine al ragazzo venne
l’illuminante idea di prendere la ragazza sul groppone.
“Cosa
fai!? Lasciamiii!” gridò
Rin, scalciando in aria e battendo i pugni sulla schiena magra del suo
rapitore, mentre guardava inferocita la madre che salutava con la mano.
Cominciò a inveire molto acidamente su Miroku, che sembrava
il più divertito
della scena, mentre i passanti si giravano, sconvolti dal linguaggio
colorito
della ragazza: “Ciao Rin, ci vediamo a settembre!”
cinguettò la signora Jordan,
sventolando un fazzoletto.
“Cosa!?
Settembre?! Lasciamiii!”
gridò ancora la ragazza, battendo ancora i suoi inutili
pugni sulla schiena di
Miroku, che la scaraventò nella sua auto, nel posto accanto
al volante,
legandola con la cintura. Cercò di divincolarsi, pensando
che quella era una
macchina, dove regnavano i germi, e magari dove il cosiddetto Miroku
faceva le sue cose con le sue
donne, ma il ragazzo
salutò veloce sua madre e partì a cinquanta
all’ora.
Cominciò
a tremare, e forte
anche, sia perché era in uno di quei trabiccoli orribili e
pieni di germi, sia
perché, a quanto pareva, stava partendo per fuori
con uno sconosciuto con la faccia da maniaco.
“Picchi
forte. Sembravi la mia
ragazza.” constatò Miroku, dopo qualche minuto di
silenzio. Lei si allontanò,
per quanto possibile, da lui, facendosi ancora più piccola
di quello che già
non fosse.
“Ma
dai, non sei contenta?” parlò
ancora lui. Rin le rivolse la sua occhiata più feroce,
cattiva e acida, ma non
fu notata visto che il ragazzo sembrava preso dalla strada.
Però
Miroku sembrava incline a volerla
distogliere dalla sua paura degli spazi aperti: “Pensa
all’aria fresca!”
“Raffreddore.”
Rimbeccò lei,
imbronciata.
“Al
bagno nei mari limpidi!”
“Meduse.”
“Ai
concerti!”
“Folla.”
“Alla
montagna!”
“Orsi.”
Lui
sembrò ridacchiare:
“Agorafobica fino all’eccesso, eh? Con questo
viaggio guarirai.”
Rin
assunse un’espressione del
tipo non credo proprio e si
appuntò
mentalmente che, una volta tornata, avrebbe dovuto chiudersi per sempre dentro la sua camera. E
soprattutto impedire alle persone di nome Miroku con la faccia da
maniaco di
mettere piede in casa sua. E, inoltre, si appuntò di farla
pagare alla madre,
perché infondo è lei che aveva organizzato tutto
quello.
“Dove
stiamo andando?” chiese
dopo un po’ infarcendo il suo tono calmo con
l’acidità più velenosa che
riuscisse a simulare. Lui ci mise tutto il suo tempo per rispondere,
gettandole
prima un’occhiata divertita, poi sbuffando leggermente:
“A Londra.” Al nome
della città la ragazza sobbalzò. Così
lontano? Si chiese, sgomenta. Già era tanto se era
uscita si casa, e ora la
portavano addirittura a Londra? Qualcuno forse la voleva indurre al
suicidio.
Senza il forse.
“E
perché andiamo a Londra?”
chiese ancora, con lo stesso tono di prima, anche se cominciavano a
sentirsi le
prime incrinature di nervosismo. Lui ridacchiò:
“Per prendere un aereo.”
Il
passero mangiava tranquillo il
suo verme sul suo albero. Almeno finché non passò
un’auto un po’ scalcinata
dalla quale provenne un urlo disumano: “CHE
COSA?!?!?!?!?!?!?!”
Il
passero, ormai traumatizzato,
cadde a terra, vittima di un ictus, un infarto e perché gli
era andato di
traverso il verme che stava mangiando.
Miroku
sembrava trattenersi con
tutte le sue forze dallo scoppiare a ridere, cosa che Rin
trovò terribilmente
irritante: “COSA TI RIDI???? SONO IN UNA SITUAZIONE DEGENERE
E TU RIDI!!!”
strillò, con voce acuta.
A
quel punto il sorriso di Miroku
si fece un po’ più serio: “Guarda che le
uniche cose degeneri siete tu e la tua
malattia.”
Rin
si accasciò sul sedile della
macchina, sconfitta. A quella frecciatina non poteva certo ribattere.
Il
silenzio piombò di nuovo nella
macchina, mentre Miroku imboccava l’autostrada. Rin cercava
di non pensare che
stava fuori, con un tipo con la faccia da maniaco, e che, a quanto
pare, se ne
stava andando da qualche parte con un aereo. Cercava di chiudere gli
occhi, ma
le sue palpebre sembravano riluttanti ad abbassarsi a causa del
nervosismo. Si
accorse poi di tremare.
Un
grido soffocato provenne poi dalla giacca di Miroku,
sembrava quasi la voce di un cantante rock piuttosto alta, poi Rin
capì che si
trattava del cellulare del suo rapitore che squillava.
Everybody's
got their problems,
Everybody says the same thing to you.
It's just a matter of how you solve them,
And knowing how to change the things you've been through.
I feel I've come to realize,
How fast life can be compromised. *
Con tutta la calma del mondo il ragazzo infilò
la mano nella tasca e ne
tirò fuori un cellulare che urlava a tutta potenza.
“Sango, che piacer…” provò
a rispondere, ma fu interrotto da una voce squillante e ancora
più alta della
suoneria stessa: “MIROKU, QUANDO CASPITA CI METTI A
RISPONDERE?” a quel punto
il diretto interessato sobbalzò, facendo sbandare lievemente
la macchina. Rin
artigliò le mani al sedile.
“Ehm,
Sango…” provò a spiegare
lui, ma fu interrotto di nuovo dalla stessa voce, questa volta
più calma:
“Comunque. A che ora partiamo?”
“Alle
due e venti.”
“E
credi di riuscire a venire per
le due e venti in aeroporto?” questa volta la domanda era
leggermente
sarcastica.
“Sì.”
“Ok.
Ci vediamo lì. Ti amo.”
“Ti
amo anch’io. Ciao Sanguccia.”
Rin
era sconvolta. La persona al
telefono cambiava umore alla velocità della luce: prima
gridava così forte che
a momenti rompeva il telefono, poi diceva ‘ti
amo’… valla a capire, certa
gente.
Miroku
intascò il cellulare con
l’espressione beata di chi sa di avere tra le sue braccia
l’anima gemella, o
forse era davvero così, Rin non avrebbe potuto saperlo,
visto che, non uscendo
mai di casa, non si era nemmeno mai innamorata. Certe volte si sentiva
davvero
vuota, se così poteva esprimersi, ma il solo pensiero di
uscire la inchiodava
in casa.
Ma
una domanda ancora persisteva
nella sua testa: che cosa doveva fare su un aereo a Londra? Dove doveva
andare?
Perché sarebbe tornata a settembre? A pensarci bene le
domande erano tre.
Aprì
bocca, ma fu interrotta:
“Suppongo ti stia chiedendo perché tu stia
partendo.” Constatò Miroku, con il
sorriso sghembo di chi la sa lunga che gli incurvava leggermente le
labbra.
Annuì.
“Beh,
faremo un bel viaggetto in
tutta Europa, dalla Francia alla Russia. Senza lasciare la
Grecia.” Cominciò:
“Tua madre aveva detto alla mia che doveva trovare un modo
per farti guarire
dalla tua irrazionale paura degli spazi aperti e poi sono spuntato io,
che
stavo organizzando questo viaggio “on the road” con
alcune persone che avevano
risposto al mio annuncio sul giornale, e quindi ben presto sei stata
scritta
nella lista dei partecipanti, tua mamma ha pagato la quota e mi ha
pregato di
non dirti nulla. Poi il giorno del risultato dell’esame, che
era anche quello
della partenza, come hai visto, sono venuto e ti
ho…”
“Rapito.”
Completò Rin,
sconsolata. Ecco risolto il mistero. Sarebbe andata in giro per
l’Europa per
tre mesi, grazie a una congiura tramata da sua madre e quel pervertito
di nome
Miroku. Non sapeva perché lo chiamasse così, ma
la sua faccia le faceva pensare
a qualcuno di fin troppo libertino.
Miroku
ridacchiò e aumentò la
velocità della macchina, mentre canticchiava ancora le dolci note della sua suoneria.
***
Londra
era grigia. Ora ne aveva
anche la prova. Lo aveva sempre saputo, considerato il fatto che
leggeva
tantissimo, ma vederla dal vivo era tutta un’altra cosa.
Avrebbe preferito
rimanere a casa.
Miroku
parcheggiò, circa tre ore
più tardi, alle dodici e quaranta, sotto una casa che sapeva
di vecchio.
Probabilmente la sua, ma, visto il proprietario, Rin non avrebbe
comunque messo
piede dentro. Ci sarebbero voluti comunque molti sforzi per convincersi
a
uscire in un luogo pieno di germi come quella città. Non
aveva smesso di tremare
per tutto il tempo, e lo faceva anche adesso. Aveva paura. Sentiva
ovunque
l’oppressione tipica dei grandi palazzi di città,
e questo le faceva venire il
panico.
“E
ora andiamo all’aeroporto.”
Annunciò Miroku, prendendo il suo bagaglio, uno zaino
enorme, e consegnando la
valigia a Rin, che non appena la prese in mano crollò a
terra. Ma quanto era
pesante? Che ci aveva messo dentro sua madre?
Quando
vide un autobus fermarsi
davanti a loro e Miroku intento a salirci il panico salì a
cinquecento: lei, in
un autobus dove chissà quante persone che erano salite e
chissà quante ne
sarebbero salite?
“Devo
riprenderti in braccio?”
chiese Miroku, lievemente scocciato. Per paura di una figuraccia, la
ragazza
salì sul mezzo, riluttante.
Il
suo rapitore si era tranquillamente
seduto su uno dei posti liberi, non senza prendere il giornale che se
ne stava
abbandonato sul sedile prima di lui. Lo aprì come se niente
fosse e cominciò a
leggere. Dopo un po’ se ne uscì con un
“NOO!” che fece sobbalzare tutte le
persone che stavano lì vicino. Rin si mise un pugno in bocca
per evitare di
strillare per lo spavento. “Il City… ha perso di
nuovo.” Gemette poi Miroku,
abbassando il giornale quel poco per bastava per scorgere il volto
incazzato
nero della ragazza, che sembrava dire: ma
vaffanculo!, e si nascose di nuovo dietro i fogli.
“Potresti
cadere.” Disse poi,
rivolgendosi alla sua recalcitrante accompagnatrice, che non osava
né
appoggiarsi a uno dei sostegni, né sedersi, per paura dei
germi. Lei scosse il
capo, ostinata: “Chissà quanti germi ci
sono…” disse. Vide Miroku alzare gli
occhi al cielo.
Erano
le tredici e dieci quando
finalmente riuscirono a farsi fare il chek-in e imbarcare i bagagli.
Erano
arrivati correndo, dribblando tutti, sgomitando, gridando, ma alla fine
ce l’avevano
fatta. Anzi, diciamo che Miroku aveva corso e aveva trascinato una Rin
stravolta, dribblando tutti, sgomitando e gridando frasi di convenienza
quando
atterrava nella sua corsa spericolata qualche disgraziato di passaggio,
ma alla
fine era arrivato.
“Bene,
ora aspettiamo qui le due
e venti.” Disse poi il ragazzo, sedendosi in uno dei posti
davanti al gate 7,
dove spiccava a caratteri cubitali il volo
Londra-Parigi
ore: 14.20
“Vedi,
quello è il nostro volo,
quello che ci porta a Parigi.” Illustrò per poi
tornare al giornale che aveva
cominciato in autobus.
Rin,
dal canto suo, tremava come
una foglia. Non era mai uscita di casa, e come prima volta quella
bastava a
farle pensare che sarebbe stato meglio se si fosse murata viva dentro
la sua
camera. Non osava sedersi per paura dei germi, quindi passeggiava
avanti e
indietro per il nervosismo. Anzi, no, per il panico. Era talmente
impanicata
che non si accorse della ragazza bruna che si stava avvicinando a
Miroku,
trasportando un borsone gigante rosso senza alcuna fatica.
“Interessante?”
chiese al
giovane, abbassando gli il giornale. Miroku sembrò metterci
qualche secondo per
riconoscere la persona che gli si era parata davanti, con il suo seno
prosperoso, ma poi gridò, saltando in piedi:
“Sanguccia!” Almeno tre persone si
girarono divertite, mentre altre dieci soffocavano nella bibita o nel
panino
che stavano mangiando, per lo spavento.
“Wow,
mi hai riconosciuto.”
Ridacchiò quella. Non sembrava molto offensiva.
Quindi
quella era Sango, la
ragazza di Miroku, quella che a momenti rompeva il suo cellulare con la
sua
delicata voce. Non era assolutamente brutta: era alta, con un fisico
slanciato
e muscoloso, tipico di chi fa molto sport, capelli color castagna
legati in una
coda e due vispi occhi da cerbiatta. Era vestita con un paio di shorts
in
jeans, una canottiera sportiva che le evidenziava le curve e un paio di
scarpe
da ginnastica.
Rin,
in un momento di debolezza
come quello in cui si trovava, avrebbe davvero voluto essere come lei:
alta,
sicura di sé, atletica, ma allo stesso tempo bella. Non
poteva dirsi una sua
fotocopia, piuttosto il contrario: lei era minuscola, non superava il
metro e
cinquantacinque, aveva un fisico sottile e piuttosto delicato, forme
più o meno
normali, niente di che, e soprattutto, era agorafobica. Mai aveva
rimpianto
l’esserlo, e purtroppo questo non l’aiutava, anzi
aumentava il suo timore nei
confronti dell’esterno.
“Oh,
che scemo…” disse Miroku:
“Lei è Rin, viaggerà con
noi.” La presentò, prendendola dal suo angolino e
portandola davanti alla sua ragazza. Sango sorrise.
“Pia-piacere.”
Balbettò. Non era
mai uscita di casa e non aveva avuto altre relazioni sociali oltre
quelle con
la madre e con l’insegnante che le faceva da maestro. Come
avrebbe fatto?
*
“The Hell Song” by Sum 41
beh, era ora che dessi il
mio stupido
contributo con una long fic a questa sezione XD
no, vab, scherzi a parte, spero che vi piaccia :)
|
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Capitolo 2 *** 2. Compagni di viaggio ***
2. Compagni di viaggio.
Neanche
aveva fatto in tempo a
dire qualche parola in più rispetto a quella balbettata in
presenza di Sango
che qualcun altro gridò, da lontano:
“MIROKUU!!!”
Si
girarono tutti e tre,
sobbalzando.
Quattro
persone si stavano
dirigendo a gran velocità verso di loro. Rin gemette tra
sé. Con quante altre
persone impolverate avrebbe dovuto convivere?
Ben
presto la piccola Rin vide
davanti a sé un gruppo di persone piuttosto strano: prima di
tutto, c’erano due
demoni. Anzi, un demone e un mezzodemone. Non ne aveva mai visti in
vita sua,
perché sua madre serbava comunque un po’ di timore
per quella classe sociale
demoniaca che conviveva con quella umana da circa cento anni e non ne
aveva mai
invitato uno, e le uniche cose che sapeva le aveva lette su dei libri
di
attualità. Per esempio spesso veniva nominato Inuken Tashio,
potente demone
cane, che era rimasto famoso per l’aver firmato, cento anni
prima, d’accordo
con la maggior parte del popolo che rappresentava, il contratto che
sanciva
l’unione della società demoniaca e quella umana.
Insomma, un nome importante,
ecco.
I
demoni in questione erano due
maschi. Il primo, il mezzodemone, le faceva pensare a qualcuno di
irritabile,
visto che già stava litigando con una ragazza
perché secondo lui gli aveva
pestato il piede: aveva i capelli candidi e lunghi, due orecchiette
canine che
spuntavano sulla testa (che avevano l’aria di essere davvero
morbide) e un paio
di occhi dalle iridi dorate. Il secondo somigliava in un certo modo al
primo,
anche se la sua espressione fece pensare a Rin che anche lui fosse
stato
trascinato contro la sua volontà: anche lui aveva i capelli
lunghi e candidi,
due orecchie a punta, una voglia azzurrina a forma di mezzaluna sulla
fronte e
dei segni violetti sulle guance. Ma la cosa più terribile
erano i suoi occhi:
dorati, freddi, taglienti, sospettosi, diffidenti,
intelligenti… avrebbe potuto
trovare mille aggettivi per quegli occhi, ma tutti che lasciavano
pensare a
qualcuno di freddo. Entrambi i demoni erano vestiti semplicemente, con
un paio
di jeans e una maglietta il primo, una camicia l’altro e un
paio di pantaloni.
Miroku li salutò come se fossero vecchi amici: diede una
pacca sulla spalla al
mezzodemone, ma non toccò l’altro, che poi aveva
un’espressione del tipo toccami e
sei morto. Decisamente poco
rassicurante.
Poi
c’erano altre due persone,
due ragazze che si somigliavano terribilmente: avevano entrambe i
capelli
lisci, neri e due occhi color nocciola, un fisico snello. Una stava
litigando
con il mezzodemone, ed era vestita con un completo giallo a pois
fucsia,
l’altra se ne stavano in disparte, come se la cosa non la
riguardasse, cercando
di farsi il più invisibile possibile dentro la sua maglietta.
“Ma
ti dico che non ti ho pestato
il piede!” protestò la prima ragazza, alzando la
voce, mentre quell’altro
ribatteva: “Ma come no!? Tutto il tuo dolce peso mi
è arrivato dritto dritto
sul pollice, pretendo delle scuse!” ringhiò.
“Ehm,
ehm” prese la parola
Miroku, tossendo leggermente. I due si interruppero subito, guardandosi
in
cagnesco: “Bene, ora che i nostri
gentili…” cominciò, ma fu di nuovo
interrotto,
stavolta da una voce femminile che gridava:
“PISTAAAA!!!”
Era
una ragazza impegnata a
saettare con uno skateboard tra la folla, facendo nascere risolini
divertiti e smorfie
indignate sulle facce della gente, oltre ovviamente a quelle doloranti
delle
persone alle quali aveva arrotato i piedi. Il gruppetto
guardò la ragazza
finire una curva per arrivare davanti a loro, ma una delle ruote
slittò,
facendola cadere addosso a un povero demone lupo disgraziato che
passava lì per
caso.
La
situazione era terribilmente
comica: la ragazza, i cui capelli erano di un rosso accesissimo, era
letteralmente sopra il suo sfortunato materasso di fortuna, che
sembrava più
stupito che imbarazzato. Tutta la gente, che fino a quel momento aveva
occhi
solo per la rossa, spostò lo sguardo, tornando a farsi i
cavoli propri.
“Ehi,
ma guarda dove vai, tu,
lupacchiotta sconsiderata!” esclamò il demone,
scansandola con un gesto secco e
rimettendosi in piedi. Quella, intanto, era andata a recuperare il suo
skateboard, brontolando: “Ma eri tu che stavi in
mezzo.”
A
quel punto, il demone lupo,
punto nell’orgoglio, gridò, indignato:
“Io stavo in mezzo? Ma guarda che sei tu
che mi sei venuta addosso!” lei si girò,
infuriata: “Beh, caro il mio demone
lupo, potevi spostarti.” Si ritrovarono a ringhiare
l’uno contro l’altra.
Rin
cominciava a spaventarsi, sul
serio. Se il mondo esterno era popolato da persone del genere si
sarebbe
rinchiusa in casa a vita.
Miroku
riprese la parola con un
colpo di tosse, distogliendo lo sguardo dai due lupi, che erano passati
agli
insulti pesanti: “Allora. Ho qui l’appello. Dunque.
Sango?” Chiamò guardandosi
intorno come se non vedesse la fidanzata a due centimetri da lui. La
diretta
interessata gli pestò un piede. “Ok, lei
c’è. Poi… Inuyasha e
Sesshomaru?” il
mezzodemone con le orecchie da cane e il demone dagli occhi freddi
fecero un
cenno, uno più silenzioso dell’altro, anche se
Inuyasha stava ancora fissando
imbestialito la ragazza con il completo a pois.
“Poi… Kagome e Kikyo?” la
ragazza con il vestito a pois e quella silenziosa dissero
‘presente’, una
vivacemente, l’altra con un tono piuttosto smorto.
“Bankotsu, Jakotsu e
Suikotsu?” chiamò, guardandosi intorno per
scorgere qualcuno che rispondesse al
richiamo. Da lontano, una voce, per l’ennesima volta,
gridò: “ECCHICEEE!!!” i
tre individui più strani che Rin avesse visto stavano
venendo verso di loro:
uno aveva i capelli in una lunga treccia, l’altro pettinati
in un codino e
l’altro ancora li teneva scomposti in una zazzera
disordinata. Inoltre, sul
viso, avevano i segni più impensabili, tanto che le parve
che Sesshomaru,
quello con le macchie color porpora sulle guance, fosse molto poco
appariscente.
“Bene,
anche loro ci sono, poi…
Shippo?” anche lui arrivò al richiamo, come per
magia. Era un volpacchiotto sui
vent’anni, dai capelli rossi. Venne chiamata anche una
giovane ragazza di
vent’anni anche lei, dai capelli candidi, di nome Shiori, e
Kagura e Naraku,
due fratelli, che erano già arrivati e che se ne stavano al
bar.
“Bene,
poi… Ayame e Koga.” Chiamò
Miroku, a voce tonante e i due demoni lupo che prima stavano litigando
e che in
quel momento si stavano malmenando risposero con degli sconclusionati:
“Chi?”-“Io?”
Rin
non avrebbe potuto essere
coinvolta in un viaggio con compagni peggiori. Uno più
anormale dell’altro.
“Beh,
Miroku… ci sono e poi la
piccola Rin.” Detto questo le posò in modo
alquanto pesante la mano sulla
spalla, abbassandola più di quanto non fosse.
Mugolò una protesta inutile,
mentre tutto il gruppo si metteva in marcia al grido
dell’organizzatore: “In
marcia, miei prodi!”, che urlò brandendo il foglio
dell’appello come una spada.
Impaurita,
Rin seguì la piccola,
appariscente folla fin dentro il pulmino, impolverato fino
all’eccesso. Sango
le era risultata subito simpatica, forse perché fu
l’unica a rivolgerle la
parola.
Arrivarono
davanti a un aereo di
linea, meraviglioso, pulito, grande e terribilmente lungo, e si
diressero con
fare sicuro verso di esso, anche perché c’era
scritto, sulla fiancata ‘Air
France’.
“Eh-ehm…
ragazzi, dove state
andando?” chiese Miroku, mentre si fermava a guardare tutti
gli altri, che si
girarono incuriositi. “Sull’aereo, no?”
disse uno di quelli che finivano per
tsu, quello con i segni verdi sul viso.
“Sì,
ma quello non è il nostro.”
Disse Miroku, divertito: “Il nostro è quello
laggiù.” Detto questo indicò il
velivolo più scalcinato, vecchio e pericolante
dell’intera Gran Bretagna.
Rin
fece qualche passo indietro.
“Io lì non ci salgo.”
Sussurrò, spaventata, mentre indietreggiava ancora un
po’. Almeno finché non pestò un piede a
Sesshomaru, che, scocciato, la guardò
con odio e la oltrepassò, avviandosi verso
l’aeroplano. Rimase sola, mentre
tutti gli altri andavano avanti, cocciuta e risoluta, ripetendosi
mentalmente
che, no, lì non ci sarebbe mai salita.
Miroku
la guardò, lievemente
minaccioso: “Ti devo riprendere in braccio?”
chiese, avvicinandosi. Rin fece
ancora un passo indietro prima che il ragazzo la prendesse in groppa e
la trasportasse,
scalciante, fino al loro mezzo di trasporto.
“Bene,
ora che anche la nostra
recalcitrante Rin è entrata possiamo cominciare a
partire.” Disse, facendo
segno al pilota di mettere in moto.
Occupavano
l’aereo solo loro
sedici, ed ognuno contribuiva con la propria voce all’allegro
chiacchiericcio
che si stava via via diffondendo.
“L’ultimo
appello.” Annunciò
Miroku.
“Miroku.”
Si tastò il naso: “Sì,
penso di esserci.”
“Sango?”
“Presente.”
“Inuyasha?”
“Presente.”
“Sesshomaru?”
“…”
“Sesshomaru??”
Alla
fine, il demone, invece di
rispondere, alzò in aria il braccio.
“Oook,
un altro asociale…
Kagome?”
“Presente!”
“Kikyo?”
“Presente.” Sussurrò.
“Bankotsu,
Jakotsu e Suikotsu?”
“Presenti
tutti e tre.” Cinguettò
quello col codino, che si sedette accanto a Rin.
“Naraku?”
“C’è.”
“Kagura?”
“Presente.”
“Ayame?”
“C’è
anche lei.”
“Koga?”
“Koga
c’è sempre!”
“Felice
di saperlo. Shippo?”
“Presente!”
“Shiori?”
“Sì.”
“Rin?”
Sentendosi
chiamare la piccola
Rin alzò in aria un braccio tremante, troppo impaurita per
rispondere. Anche
perché, se avesse risposto, avrebbe di sicuro vomitato la
colazione.
“Bene
signori! Pilota Larxene,
può anche partire.” Annunciò Miroku,
sedendosi accanto a Sango. Il pilota, che
per tutto il tempo era rimasto in silenzio, nascosto dalla tenda della
sua
cabina, levò una mano dalle dita affusolate che faceva un
segno rappresentato
dal pollice, l’indice e il mignolo.
Non
passò molto tempo che si
ritrovarono in aria, planando dolcemente tra i cirri azzurrini e pieni
di sole.
A Rin venne un terribile attacco di vertigini, e abbassò la
tendina dell’oblò,
cercando di non pensare all’altezza a cui si trovava.
Solo
quella mattina era
tranquillamente seduta davanti al suo computer per controllare il
risultato del
sue esame del diploma, e invece in quel momento era su un aereo. Era
stata
costretta a lasciare ogni sicurezza per l’ignoto, cosa che le
faceva
terribilmente paura. Le veniva da piangere.
Neanche
aveva fatto in tempo a
pensarlo che una lacrima scese per la sua guancia, seguita da
un’altra, e
un’altra ancora.
Quello
che si era seduto accanto
a lei, Jakotsu, le pareva, si accorse delle sue lacrime e, da brava
mamma,
cercò di consolarla: “E ora perché
piangi?” le disse, curioso. Non rispose, non
ne aveva la forza. “Dai, non bisogna pensare a piangere, ora,
stiamo partendo
per una vacanza!” continuò allegramente, posando
una mano sul suo braccio: “Le
vacanze migliori sono quelle che cominciano col sorriso.” Si
appoggiò alla
spalla appuntita di Jakotsu, ancora piangendo:
“È… è che… ho
tanta paura.” Sussurrò,
balbettante, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
“Beh,
è normale avere paura, però
il segreto è superarla. La paura è
l’amica dei giudiziosi.” Disse lui, con aria
professionale, come se se ne intendesse: “Non fare come quel
cretino di mio fratello
che fa l’incosciente.” Rin rise sommessamente,
asciugandosi l’ultima lacrima.
(qualche
posto più avanti si
sentì uno starnuto)
“Vedi,
è facile. Il trucco è non pensarci.
Pensa a qualcosa che ti piace.” Finì Jakotsu:
“E ora lo fai un bel sorriso?”
Rin,
nonostante la situazione,
trovava Jakotsu terribilmente confortante, e sorrise, un po’
stiracchiata, ma
sorrise.
Arrivarono
in un lasso di tempo
relativamente breve, ma comunque terribilmente lungo per Rin. Aveva
passato
tutto il suo viaggio ad osservare il suo vicino di posto che ascoltava
la
musica, leggeva riviste (di moda) e chiacchierava con gli altri, oppure
spettegolava. Era una persona allegra, tutto sommato, era molto
piacevole stare
insieme a lui. Durante il viaggio scoprì che era
omosessuale, ma la cosa non la
sconvolse più di tanto, dato che il suo aspetto
terribilmente femminile le
aveva già fatto presupporre qualcosa. Per non parlare della
sua decisione di
correre appresso al mezzodemone di nome Inuyasha senza nemmeno
conoscerlo, solo
perché lo trovava carino.
Ma
Rin non aveva scoperto solo
questo. Sembrava che Jakotsu fosse informato su tutto e su tutti. Le
aveva
parlato dei suoi fratelli, Bankotsu e Suikotsu, e le aveva detto che in
realtà
ce n’erano altri quattro, e che litigavano ogni santo giorno.
Poi le aveva
detto che aveva incontrato Miroku per sbaglio, e che lui
l’aveva scambiato per
una donna e di conseguenza gli aveva palpato il sedere, e poi le aveva
detto
che era molto carina ma che doveva vestirsi meglio e non capiva come
riuscisse
a sopravvivere con un maglione in pieno giugno. In tutto il viaggio
aveva
parlato solo Jakotsu. Al massimo lei aveva riso, pianissimo, ma
l’aveva fatto,
oppure rispondeva a qualche domanda che lui le aveva posto.
“Ahh!”
esclamò poi Miroku,
uscendo fuori e stiracchiandosi ben bene: “L’aria
di Parigi è del tutto diversa
da quella di Londra, non trovate?” chiese poi, dirigendosi
fuori, dopo aver
preso il suo bagaglio.
“Sì,
anche perché Parigi è una
delle città della…” provò a
dire Shiori, ma fu interrotta da Kagura e Jakotsu,
che gridarono insieme: “MODA!!!” la giovane assunse
un’aria lievemente
accigliata: “Ma io volevo dire cultura!”
protestò, con la sua voce sottile e
angelica. Nessuno la prese in considerazione.
“Piccolo
dilemma…” cominciò
Inuyasha: “In sedici quale taxi prenderemo?”
chiese, guardando fuori, verso il
parcheggio dei taxi. In effetti era un dilemma che si erano chiesti
tutti
almeno una volta. “E chi ha parlato di taxi?” disse
Miroku, noncurante: “C’è
Sengoku.”
“Ehh?”
chiesero tutti, o meglio,
quasi tutti, visto che Sesshomaru non aprì bocca,
così come Rin, troppo
impaurita per spiccicare parola.
“Ti
prego, non ancora quell’affare.”
Gemette Sango, portandosi
una mano sulla fronte esasperata. Anche Inuyasha sembrava spaventato.
Tutti gli
altri erano ancora nella nebbia. “Ehm, cosa sarebbe questo
Sengoku?” chiese
Shippo, con l’aria di chi è preoccupato per la
salute di qualcuno. Miroku si
limitò a ridacchiare e guidarli verso un parcheggio.
Rin
doveva ammettere di essere
piuttosto curiosa. Questo Sengoku, da come ne parlava Miroku, sembrava
un amico
di infanzia a cui si vuole troppo bene, ma non capiva il nesso tra lui
e il
loro mezzo di trasporto. Sobbalzò per l’ennesima
volta, quando un clacson andò
a stridere nell’aria con il suo suono tonante. Parigi, per
come l’aveva vista
ora, era solo un immenso parcheggio pieno di auto dai guidatori
isterici, e la
cosa le metteva un certo timore.
Giunsero
in un posteggio vuoto,
tranne che per qualcosa di azzurrino e piuttosto grosso che svettava
sull’asfalto
grigio cotto dal sole.
“Non
mi pare di essere venuto fin
qui per rottamare furgoncini malmessi.” Brontolò
Sesshomaru, con una voce
fredda come i suoi occhi. Rin, per la seconda volta, rimase stregata da
Sesshomaru, e si voltò quel che bastava per rivolgergli
un’occhiata curiosa.
Aveva una voce gelida e inespressiva, ma la cosa, non si sa come, la
affascinava. L’affascinava per come, nonostante la carente
espressività, quella
voce riuscisse a far capire ugualmente la sua irritazione.
Era… strano.
Si
costrinse a girarsi verso la
direzione che avevano imboccato gli altri, per evitare che il bel
demone si
accorgesse di essere fissato, ma, soprattutto, per evitare di perdersi
per la
seconda volta in quegli occhi dorati freddi e diffidenti.
“Infatti
nessuno lo deve
rottamare, lui è Sengoku e guai a chi me lo
tocca!” rispose Miroku,
appoggiandosi con sicurezza a una delle pareti del veicolo.
Ora
è necessaria una pausa per
descrivere quell’ammasso di ferraglia. Mettete
‘pausa’ alla storia e lasciate
che me medesima vi descriva quell’affare.
Era
uno scalcinatissimo pulmino
dalle gomme piuttosto alte, tre nere e una bianca, tutto dipinto. Sulle
fiancate c’era scritto ‘Sengoku’ in due
modi diversi, a caratteri colorati,
come se fossero state scritte e disegnate dagli artisti di strada con
le loro
bombolette. Oltre a questo il veicolo era decorato con tutto
ciò che era
possibile da attaccare. C’erano un sacco di adesivi di varie
città, disegni,
cartelli stradali, persino un paesaggio svizzero dipinto sul retro,
sempre con
le bombolette spray, anche abbastanza bene. Sembrava un quadro. Le
scritte ‘ROMA’,
‘BERLIN’, ‘BARCELONA’,
‘PRAGUE’ e molte altre svettavano prepotenti con il
loro
messaggio. Poi, sul muso, c’era un adesivo piuttosto grosso,
con lo sfondo
rosso e le lettere bianche, che recitava a caratteri cubitali:
‘DON’T STOP ME
NOW’. Ritornando alle fiancate, erano anche disegnati, come
in una miniatura,
dei momenti di concerti, quasi come fossero delle foto. Era
spettacolare di
come fossero precise. C’erano anche un sacco di autografi di
band musicali che
a Rin risultavano sconosciute. L’unica firma che riconobbe fu
quella dei Sum
41, che svettava, messa in evidenza da un cerchio in vernice rossa. Lo
sfondo,
se visibile, era azzurrino e verde.
Bon,
ora che ho finito di
descrivere, potete mettere ‘play’.
“Io
lì non ci salgo.” Disse di
nuovo Rin, facendo un passo indietro, stavolta pestando il piede a
Naraku che,
stranamente, era stato in silenzio tutto il tempo. Lui, al contrario di
Sesshomaru, non sembrò adirarsi molto, anzi, le disse:
“Ti do ragione.” Aveva
una voce profonda, cosa che le fece pensare che avesse almeno una
quarantina
d’anni.
“Su,
su, niente storie, salite
sennò vi lascio qui.” Ordinò Miroku e,
alla fine, controvoglia e imbronciati,
tutti salirono. Tutti tranne Rin, ovviamente, che non aveva smesso di
sobbalzare ai suoni dei clacson che passavano vicino.
Sesshomaru,
per la prima volta,
prima di salire le rivolse un’occhiata. Rin non avrebbe mai
saputo esplicare
ciò che significava per il demone quell’occhiata,
l’unica cosa che notò era che
Sesshomaru sembrava curioso, quasi… divertito. Subito quel
pensiero le fece
salire una rabbia devastante: come osava quel… quel
(bellissimo,
affascinantissimo e un’altra montagna di aggettivi del
genere) demone essere divertito
mentre lei era spaventatissima?
Era
rimasta fuori solo lei, e a
quel punto Miroku fece capolino dalla portiera: “Rin, Rin,
cosa devo fare con
te? Sali o ti devo portare io?” chiese, scuotendo la testa.
Alla sua muta
risposta equivalente a un altro passo indietro lui scese dal pulmino
con un
balzo, la prese sulle spalle un’altra volta e la
portò di peso dentro. Quasi a
volerlo fare a posta, la lasciò cadere su uno dei sedili,
quello tra Sesshomaru
e Naraku.
Ora,
scusate di nuovo
l’interruzione, ma serve un’altra pausa per
descrivere l’interno. Quindi
rimettete ‘pausa’ e leggete.
Il
pulmino, all’interno, se
possibile, era ancora più strambo: prima di tutto, i sedili
non erano rivolti
verso il posto guida, ma correvano per tutti i lati, lasciando il
posto, al
centro, per un tavolo cigolante. C’erano almeno una
quarantina di posti. Poi,
ai lati, alle finestre, erano appesi un sacco di poster, foto, disegni,
fogli,
liste di cose da fare e molto altro, senza parlare di portachiavi, dadi
e
gingilli vari. Poi, incassato nell’angolino destro,
c’era un frigorifero
minuscolo, forse più utile come soprammobile che come
frigorifero. Sopra vi era
appoggiata una lampada di plastica rossa, perché, con tutte
quelle cose
appiccicate ai finestrini, la luce che entrava era davvero poca.
Il
posto dell’autista, in questo
caso quello che stava andando ad occupare Miroku – che era
fermo chinato a metà
per sedersi a causa della ‘pausa’ – era
escluso dalla vista con una tenda
indiana pesante, che sembrava ricavata da un tappeto.
Ok,
la schiena di Miroku sta
cigolando, direi di rimettere ‘play’.
“Ahi,
ahi… che mal di schiena!”
gemette Miroku, sedendosi di botto al posto dell’autista.
Rin
si irrigidì al suo posto,
intimorita da entrambi i ragazzi, anche se Naraku sembrava gentile.
Comunque
evitava di guardarlo negli occhi, quel colore rosso la inquietava non
poco. Di
meno, comunque, rispetto a quelli del demone che, dopo averle gettato
un’occhiata lievemente disgustata, si ritrasse
impercettibilmente. Era
un’umana. E come tale doveva stare il più lontano
da lui.
Rin
si chiese più volte i motivi
di quel comportamento schifato, ma l’unica ragione che le
sembrava vagamente
plausibile fu quella di un odore fin troppo sgradevole. Ma lei, quella
mattina
si era fatta una doccia, quando ancora non sapeva del malefico scherzo
di sua
madre. A casa sua.
La
malinconia e il suo istinto
agorafobico presero di nuovo il sopravvento, riempiendole di nuovo gli
occhi di
lacrime. Non poteva permettersi di piangere davanti a Naraku,
né tanto meno
davanti a Sesshomaru, che, secondo lei, si era già fatto
un’idea di una Rin
ridicola. Esatto, secondo Rin Sesshomaru la considerava ridicola. In un
battito
di ciglia scacciò tutte le lacrime, e si impose con tutta
sé stessa di pensare
a qualcosa che non la rimandasse a casa.
Come
per contraddirla il telefono
cominciò a squillare insistentemente con i suoi driiin ripetuti, e Rin, con
un’occhiata rapida al display, si
accorse che a chiamarla era sua madre. Premette il tasto rosso senza
troppi
sensi di colpa. Era colpa di Isabella se era finita in quel posto
terrorizzante
insieme a gente sconosciuta.
“Chiamano
da casa?” chiese la
voce profonda di Naraku, che la scrutava curioso. Lei annuì.
“E non rispondi?”
chiese ancora. Ma i fatti suoi non se li
fa? Si chiese Rin, infastidita. “Sono molto
più interessanti quelli degli
altri.” Rispose lui, con un occhiolino. La giovane rimase
interdetta. Possibile
che intuire i suoi pensieri fosse così facile?
“Sì, se hai studiato psicologia
all’università.” Rispose lui alla sua
domanda inesistente. Rin rimase
interdetta ancora una volta. “Parli tu o parlo io?”
chiese il mezzodemone. “Sei
tu che hai cominciato.” Brontolò, incrociando le
braccia al petto. Lui
ridacchiò, ma non fece in tempo per ribattere che Miroku,
dal posto dell’autista
annunciò con la voce amplificata del microfono:
“Bene, truppa, ora ce ne
andiamo a spasso per la panoramica di Parigi! Se riuscite a vedere dal
finestrino buon per voi, sennò siete autorizzati a spostare
qualche cosa. Basta
che non fate sparire niente. E ora… partenza!”
Mise
in moto, e, tra cigolii,
scoppi di motore e rombi, Sengoku si mise in viaggio.
Non
passarono nemmeno due minuti
che Miroku prese di nuovo in mano il microfono: “Bene, ora
Sanguccia farà
passare il microfono, così potete presentarvi ben bene. Non
siete obbligati a
dire niente. Tanto prima o poi riusciremo a spettegolare.
Bene.” Disse, con un
sorriso sghembo: “Io sono Miroku Funnigan, sono nato a
Manchester e tifo per il
City, ho ventisei anni e faccio il cuoco. Mi piacciono le belle
donne” Sango
gli diede un pugno: “Ehm, sì, comunque nel tempo
libero organizzo viaggi.”
Poi
Sango prese il microfono: “Io
sono Sango Ashe, sono nata a Sydney e mi sono trasferita a Londra da
quando
avevo dodici anni, ora ne ho ventiquattro e faccio
l’insegnante di educazione
fisica.” Disse, e passò a Kagome: “Mi
chiamo Kagome Higurashi, mio padre era
giapponese ma sono nata a Londra, ho ventitre anni e studio
lingue.” Dopodiché
passò alla ragazza pallida pallida che le si era seduta
accanto, che disse si e
no quattro parole sussurrate: “Kikyo Higurashi. Stesse
cose.” Concisa, non c’è
che dire.
“Koga
Kinnon” cominciò il demone
lupo, interrotto dalla voce di Miroku: “Quello che
c’è sempre!” e qualche
risatina: “Beh, sì… comunque ho
venticinque anni, sono nato a Dublino, dove
vivo, e mi sono laureato a novembre in legge.” Qualche
applauso sparso,
soprattutto di Jakotsu, che lo riteneva carino. “Kagura
McLovett ventisei anni,
nata a Bath. Sono una segretaria, per ora.” Disse, con una
smorfia contrariata
circa il suo lavoro. Forse non le piaceva. Il microfono finì
in mano a
Suikotsu: “Suikotsu Ben, fratello di altri sei scellerati,
ventun’anni, studio
architettura.” Naraku: “Naraku McLovett, fratello
di Kagura.” Ma va’?
“Trentun’anni
e sono uno psicologo.” Solo trentun’anni e la voce
profonda di un vecchio?!?!
Ma Rin non fece in tempo a chiederlo che si ritrovò il
microfono in mano. Tutti
erano girati a guardarla, persino Sesshomaru, anche se sembrava
disinteressato.
“Ehm…”
balbettò: “Io sono… mi
chiamo… Rin Jordan. E… e ho diciannove anni e
dovrei studiare astrofisica
l’anno prossimo.” Disse, tutta d’un
fiato, e mollò l’arnese in mano a
Sesshomaru. Lui sembrò soppesare ben bene le parole, come se
dovessero essere
il più riassuntive possibili, dopodiché disse,
con voce chiara: “Sesshomaru,
vivo a Londra, medico…” ma fu interrotto dalla
voce urlata di Miroku: “Ah,
bene, ci serviva proprio un dottore, quindi sappiamo a chi rivolgersi
in caso
di analisi!” ridacchiò.
“…
legale.” Finì Sesshomaru,
alzando un sopracciglio. Miroku rispose, dopo un po’:
“Eh, eh… mi sa che allora
faremo a meno del dottor Sesshomaru…”
ridacchiò a disagio.
Dopodiché
toccò a Inuyasha:
“Bene, io sono Inuyasha Tashio, questo asociale
qua” e mise una mano sulla
spalla del demone, che assunse l’espressione tipica di chi ha
ingoiato qualcosa
di schifosamente disgustoso: “è mio
fratello” disse, ma fu interrotto da
Sesshomaru: “Fratellastro.” Inuyasha
annuì: “Esatto, fratellastro… comunque
ho
ventisette anni, abito anch’io a Londra e faccio il
professore di musica.” Finì
lanciando il microfono a Bankotsu, che stava dall’altra parte
del pulmino:
“Bene, io sono Bankotsu Ben e sono il fratello maggiore dei
Ben” decretò con un
certo orgoglio: “Ho ventisette anni e lavoro come chimico in
un’industria
farmaceutica.” Finì, pomposo, ma fu sminuito da
Jakotsu, che gli prese di mano
il microfono: “Beh, diciamo che dice di lavorare, poi si sa
che va dietro alle
donne.” Bankotsu arrossì: “Beh, comunque
io sono Jakotsu Ben e sono il terzo
fratello perché tre è il numero perfetto, ho
ventidue anni e studio qualcosa
che si chiama storia dell’arte.” Shiori:
“S-sono Shiori Hiakkikomori e sono un
mezzodemone, abito a Manchester e ho vent’anni e…
e studio musica.” Balbettò,
con la sua voce d’angelo. Ci fu un minuto di silenzio, in cui
tutti i demoni
presenti fissarono Shiori, sorpresi.
Rin
si chiedeva perché tutti
fissassero la ragazza in quel modo decisamente poco carino, anche se le
sembrava di aver sentito che la famiglia Hiakkikomori era una delle
più potenti
tra i demoni, insieme alla stirpe delle pantere, dei demoni lupo della
tribù Yoro
e quella degli Inu youkai. Ma, anche se Shiori fosse stata
un’erede, non capiva
perché ci fosse il bisogno di fissarla così.
Il
demone lupo dai capelli rossi,
infine, per spezzare il silenzio, prese in mano il microfono,
tossicchiando:
“Ahem… allora, io sono Ayame Hanvarg, ho
ventiquattro anni, vivo a Glasgow e
faccio la fotografa con un contratto con una rivista.”
L’ultimo
fu Shippo: “Sono Shippo
Fox, ho vent’anni e abito nei pressi di
Manchester… ah, studio, dovrei
studiare, medicina.”
Rin
si sentì, per più motivi,
un’emarginata: primo, tutti erano più grandi di
lei, e anche più alti, secondo,
tutti sapevano fare qualcosa e studiavano, erano adulti, e
c’era qualcuno che
aveva già fatto carriera. E lei? Lei era una studentessa che
se ne era uscita
da poco dai suoi esami di maturità.
Si
sentiva davvero minuscola.
“Bene,
ora che abbiamo avuto il
piacere di fare la vostra conoscenza… godetevi
Parigi!” esclamò Sango,
spostando un poster dal finestrino.
Rin
chiuse gli occhi, imponendosi
di non vedere. Meno vedeva l’esterno, meglio era. Si era
decisa a rimanere
tutto il tempo così, con gli occhi chiusi, ma qualcuno le
bussò delicatamente
sulla spalla. Aprì le palpebre di scatto, quasi spaventata,
e davanti a sé vide
Shippo, sorridente: “Beh, e tu che fai, non guardi? Parigi
è davvero bella!”
disse, e la fece voltare, prendendo il posto di Naraku, che si era
spostato
accanto alla sorella.
Era
così bassa che fu costretta a
mettersi in ginocchio sul sedile, appoggiandosi al vetro. Quando
l’ennesimo
poster fu spostato, rimase a bocca aperta: c’era un grande
viale alberato, che
sembrava frusciare guidato dal vento, e tanti, ma tanti passanti che
camminavano sui marciapiedi puliti, chiacchierando e scherzando. Le
case del
centro erano intonacate con decori antichi, e ogni tanto vedeva
svettare sopra
gli edifici qualche monumento. In quel momento, l’unica cosa
che riusciva a
vedere era un grande, enorme, arco di trionfo. “Signori e
signore, ecco a voi
gli Champs
Elisées!”
esclamò Miroku, riappropriandosi del microfono.
“Volete sentire aneddoti vari?” chiese, ma quasi
nessuno lo stava ascoltando:
Rin era troppo assorta a guardare fuori dal finestrino accanto a
Shippo,
Inuyasha cercava un sedile sicuro molto
lontano da Jakotsu, Naraku che chiacchierava con la sorella, che
intanto aveva
occhi solo che per Sesshomaru, mentre il demone guardava fuori dal
finestrino,
ma non sembrava stesse osservando il paesaggio, Kagome che
chiacchierava con
Koga, mentre Kikyo sembrava immobile, come se si stesse morta, cosa che
le
riusciva particolarmente grazie all’inusuale pallore della
sua pelle, Ayame e
Shiori invece stavano parlando del più e del meno. Sango
invece stava leggendo
una rivista in francese. Diciamo che stava osservando le figure visto
che di
francese non sapeva un ‘h’.
“Beh,
tanto non li sapevo.” Disse
Miroku, con una gocciolona sulla testa.
Rin
gettò uno sguardo a
Sesshomaru, molto rapido, non voleva essere colta in flagrante mentre
lo
fissava, e si accorse che il suo sguardo sembrava quasi…
contrariato. Come se
fosse arrabbiato con sé stesso. Probabilmente
sarà perché Inuyasha l’ha trascinato
qui. Pensò, curiosa. Ma dopo un po’
scosse la testa: non poteva certo impicciarsi negli affari di quel
demone solo
perché la affascinava!
-
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-
ebbene sì!
sono tornataaaa >BD
ho qualche avvertenza da
darvi ù-ù
no, non sparisco^^
allora avvertenza
n°1: ogni tanto mi divertirò a mettere significati
nascosti nei capitoli :), cioè, per esempio un avvenimento
che ricorda qualcosa che è successo nel manga... il giochino
consisterà nel trovare i significati nascosti (se vi va eh!)
:D
avvertenza n° 2:
ogni tanto, come avete visto nel 1 capitolo, ci sarà il
testo di qualche canzone: ebbene, vince la dedica del capitolo
successivo chi indovina il cantante/gruppo e il titolo (giochino :D)
euh, che dire, aspetto le
vostre recensioni?
|
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Capitolo 3 *** 3. Tour Eiffel ***
3.
Tour Eiffel.
Erano
le sei e un quarto quando
Rin scese, o meglio, fu costretta a scendere, da Sengoku, entrando
nell’aria
parigina con un potente starnuto. Guarda
se non mi ammalo! Pensò con raccapriccio, mentre
si spostava dall’area di
parcheggio infettata dai suoi germi, pulendosi la mano con un
fazzoletto
asettico.
Piagnucolò
qualcosa di sconnesso
contenente le parole “vendetta”
“casa” “mai più”, ma
così sconnesso che non si
capì nemmeno lei. Camminò strisciando i piedi per
raggiungere il gruppo che se
ne stava andando via, lasciandola sola in mezzo a quel parcheggio
parigino.
Sembrava
che tutti avessero le
fregole. Dove stavano andando di così eccitante da dover
correre così? “Guarda
che noi stiamo camminando normalmente, sei tu che vai troppo
piano.” Le disse,
Naraku, mentre rallentava per andare al suo passo. Solo in quel
momento, Rin
notò per davvero il terribile colore sanguigno delle iridi
di Naraku. E quello
faceva lo psicologo? Ma con gli occhi che si ritrovava, come minimo
mandava in
crisi cronica da incubo tutti i suoi clienti!
“Non
è la prima volta che
qualcuno lo pensa.” Le disse, leggendole ancora una volta nei
pensieri. Argh!
Ma come faceva ad intuire ogni suo pensiero? Era preoccupante!
Naraku,
pur avendo capito ancora
una volta i pensieri della sua interlocutrice col codino, non disse
nulla. La
trovava molto carina e divertente, anche se decisamente non il suo
tipo. Aveva
capito subito che Rin era agorafobica, anche perché non
faceva che tremare e
sobbalzare ad ogni più piccolo movimento d’aria.
Tremava persino in quel
momento.
La
sua mente da bravo psicologo
partì subito in quarta, automaticamente, sui modi possibili
per far guarire
quella ragazza al più presto, sia perché
sennò lei non si sarebbe potuta godere
a pieno la vacanza, sia perché non poteva accettare che un
caso clinico così interessante
gli sfuggisse di mano.
Kagura, sua sorella, lo detestava quando ragionava così,
perché, secondo il suo
linguaggio, sembrava uno scienziato pazzo che giocava con la sua cavia.
Eh, beh,
che ci poteva fare… era così divertente!
Rin
osservò scandalizzata l’uomo
che le camminava vicino: sembrava che fosse sia demone che uomo, anche
se aveva
la sensazione che Naraku non fosse un mezzodemone
“pulito” come Inuyasha. Era
strano a pensarlo. Ma l’oggetto del suo stupore, non era
certo questo: aveva
l’impressione di essere oggetto di studio, come se fosse un
esperimento, e la
cosa, abbinata al colore sanguigno dei suoi occhi, la inquietava assai.
“Ehi,
che fate soli soletti lì
indietro?” li interruppe Miroku, arretrando:
“Naraku, lo so che Rin è molto
carina, ma non le saltare addosso il giorno
dell’arrivo!” esclamò, facendogli
l’occhiolino. Rin divenne rossa per il complimento.
“Non era mia intenzione.”
Ribatté Naraku, sorridendo. Rin poté notare che i
suoi denti erano anche più
affilati del normale. Il suo cervello mandava solo un messaggio: scappaaa!!!
“Bene,
ora vi rubo un attimo la
Rin!” disse Sango, sopraggiunta in salvataggio, anche
perché Rin aveva
l’espressione di un pesciolino che si trovava tra due squali.
“Lasciali
perdere, sono maschi!”
esclamò, spingendola via, vicino a lei e Kagome, che, tra
l’altro, ancora si
fissava in cagnesco con Inuyasha: “Vieni con le compagnie
più piacevoli.”
Sorrise, presentandola alla sua amica. “Beh, Kagome, lei
è Rin e credo che
starà un po’ con noi, dato che è
già stata aggredita da qualcun altro.” Disse,
scuotendo la testa e, di conseguenza, la bella chioma bruna. Rin,
ancora una
volta, la invidiò. Si sarebbe tagliata il codino di cui
andava tanto fiera per
avere un briciolo della sicurezza e della spontaneità di
Sango.
Miroku,
dopo essersi rimesso a
capo della comitiva chiassosa, li guidò per una strada
trafficata e piena di
francesi che li guardavano curiosi, chiedendosi come mai quello
stranissimo
assembramento di turisti umani e demoniaci stesse dando sfoggio di
sé stesso su
quel comunissimo marciapiede.
Sesshomaru
rimaneva sempre un po’
indietro, ma non perché fosse lento, no, per
carità, da bravo demone maggiore –
quando era particolarmente in vena – era in grado di correre
per chilometri
alla velocità della luce senza mai stancarsi, ma
perché detestava confondersi
con la massa dei suoi futuri compagni di viaggio. Già li
odiava. Prima di tutto
la maggior parte erano umani, poi c’era anche quel cretino
del fratello che
contribuiva, con il suo odore fatto a metà, a farglieli
detestare ancora di
più.
Perché
lui, poi, in quel viaggio,
mica ci voleva venire! Nossignore! La colpa era, come al solito, di
Inuyasha.
Possibile che ogni problema della sua vita fosse causato da quella
catastrofe
dalle ridicole orecchie?
Da
qualche periodo quel bamboccio
di suo fratello aveva preso a cuore la sua vita privata, impicciandosi
anche
nei fatti più imbarazzanti – non che lui, il
grande Sesshomaru Tashio, ne
avesse così tanti – e, soprattutto, si andava a
intrufolare nella soffitta
della sua casa a cercare qualcosa
che
tradisse la presenza di una donna nella sua vita. Il suo mantra
preferito
risultava essere: andiamo Sesshomaru,
possibile che nella tua vita non abbia mai avuto nemmeno una fidanzata?
E
alla secca e gentil risposta: ficca il
tuo delicato nasino e le tue ridicole orecchie in fatti più
idonei alla tua età
mentale conseguiva sempre uno sbuffo spazientito del genere:
non è colpa mia se ho un fratello
degenere
che non ama divertirsi con qualche donna.
Questo,
poi era un insulto bell’e
buono alla sua virilità! Che cosa gliene importava a lui se
preferiva le donne demoniache
a quelle umane?
“Ehi,
fratellone, ti vedo
pensieroso!” esclamò Inuyasha, dandogli una pacca
sulla spalla. Dio quanto
odiava quel nomignolo!
Rivolse
un’occhiataccia degna di
un cane rabbioso (oops, lui era un Inu youkai molto arrabbiato, che
equivaleva
più o meno la stessa cosa) e lo ignorò,
allungando il passo. Inuyasha
ridacchiò, come se lo trovasse molto divertente. Ricattare
Sesshomaru
attraverso il loro padre era stata l’idea più
geniale che gli potesse venire in
mente, degna di un grande stratega! Ah, come si sentiva soddisfatto!
Avrebbe
potuto finalmente ammogliare il fratello, o, almeno, fare in modo che
si
trovasse una fidanzata. Perché si era preso la cosa a cuore?
Non lo sapeva di
preciso… forse perché il padre lo aveva implorato
ad aiutare il fratello, o
qualcosa del genere. Forse perché anche Inuken Tashio si
stava preoccupando per
il suo figlio maggiore che, avendo novantanove anni, ancora non aveva
trovato
una moglie.
Rin
era indecisa se ascoltare le
due ragazze che parlavano o controllare tutto ciò che le era
intorno e,
indecisa, decise di fare tutte e due le cose, con un risultato
imbarazzante:
sembrava schizofrenica, soprattutto per il movimento degli occhi che
somigliava
a quello di un povero malato mentale che sta cercando di guardare in
più posti
contemporaneamente. “Rin, tutto a posto?” le chiese
Kagome, ad un certo punto.
“Ehm… sì… cioè,
NO!” esclamò, sempre più nervosa. La
città le metteva la fifa
addosso, come se fosse un cappotto di pelliccia.
“È solo che…”
provò a dire, ma
fu interrotta dalla mano di Ayame che le scese pesantemente sulla
spalla,
abbassandola ancora di più: “Allora! Ci si conosce
veramente, vedo!” esclamò.
Non ci voleva una laurea nel vedere che quel demone lupo era
dannatamente
sicura di sé. “Beh, io sono Ayame, contate su di
me se vi servisse un passaggio
in skateboard!” disse, con un occhiolino. Koga, non troppo
vicino, ma comunque
abbastanza per sentire, brontolò: “Sì,
ma prima devo fare testamento.”
La
rossa, sentendo la battuta, si
voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata con
un mix di disgusto, vetriolo,
cianuro e gas velenosi, così venefica che l’altro
fece un passo indietro:
“Sempre che non ci sia qualche cretino a intralciare la
strada.” Soffiò Ayame,
assottigliando gli occhi. Koga, pur essendo interiormente traumatizzato
da quel
pericolo pubblico coi codini e i calzoni corti, si inalberò,
pronto ad una
rispostaccia con un uguale shekeraggio di veleno, ma fu interrotto da
Kagome:
“Ehm, va bene, avevamo un programma per le sette, no? Quindi
muoviamoci!”
esclamò, frapponendosi tra i due lupi che si guardavano in
cagnesco
(perdonatemi, ma il termine lupesco
non esiste tra i termini da me conosciuti :3 nda).
Calmati
i bollenti spiriti, il
gruppo si rimise in marcia come un sol uom…
demon… insomma tutti insieme!
Rin,
che ancora non si era
ripresa dal rapimento di qualche ora prima, tremava come una foglia, e
non si
accorse neanche di quando Miroku gridò, emozionato:
“Signori e signore, ecco a
voi la Tour Eiffel!”. O meglio, se ne accorse, ma solo per
alzare uno sguardo
inorridito sul gigantesco monumento che incombeva su di lei con la sua
forma
appuntita e un po’ curva, riducendo di un’altra
dolorosa tacca la sua autostima
e contribuendo all’ingigantirsi del suo senso di
inadeguatezza e microscopicità.
Uhu che paroloni che stava usando! Micocopici… ok, non
riusciva più a pensarlo.
Troppo difficile.
Ma,
riassumendo e semplificando
quelle parole da vocabolario, era arrivata alla sicura conclusione che
la Tour
Eiffel le faceva decisamente un gran brutto effetto.
Si
risvegliò dai suoi tetri
pensieri quando Sango la chiamò da lontano: “Dai
Rin! Noi stiamo entrando.”
Stava quasi per seguirli, quasi per rispondere positivamente quando si
rese
conto di dove effettivamente loro
stessero entrando. “Ehh?” disse, sconcertata.
Volevano
entrare nella Torre
Eiffel. Il che, essendo la Torre Eiffel una torre,
e anche abbastanza alta, era molto preoccupante. Entrare significava
salire e
salire significava… no, non ci voleva pensare! Insomma
avrebbe sofferto di
sicuro di vertigini, perciò rimase inchiodata
dov’era. “Non ci penso nemmeno!”
squittì, tutta d’un fiato. L’avrebbero
aspettata lì. Sissignore, infondo quanto
ci dovevano mettere, per salire?
Non
finì neanche il suo pensiero
che Ayame la prese per un braccio e la trascinò dentro la
biglietteria.
“Bonsoir,
que je peux
faire quelque chose pour vous?” (trad.à Buona sera, posso fare qualcosa per
voi?) cinguettò la
commessa, una donna giovane e molto bella, dai capelli biondi che le
ricadevano
in morbide onde sulle spalle, incorniciando il viso ovale e perfetto
con il
loro scintillio dorato. “Oui, cela peut indiquer où sont les escaliers?” (trad.à Sì, ci potrebbe indicare
dove sono le scale?) rispose Miroku che, a quanto pareva, sapeva il
francese.
Rin, che invece di francese non sapeva un accidente, aspettò
che qualcuno le
traducesse il dialogo tra i due, cosa che non avvenne. Si
limitò a caracollare
nella direzione che stavano imboccando gli altri, seguendo quella
indicata
dalla donna.
Si
sentì mancare quando vide davanti a sé una
lunghissima
serie di gradini.
Scosse
la testa con forza: “Non ce la farò
mai!” esclamò,
facendo per andarsene, ma fu riacchiappata per l’ennesima
volta, e da Bankotsu:
“Eh, no, piccola, se vuoi fartela gratis devi fare le
scale.” Scosse ancora la
testa, segno di cocciutissimo diniego. “Beh, se ti pesa ti
porto io.” Si offrì,
facendola salire sulla sua schiena. Rin tentennò un attimo,
intuendo
sicuramente dei doppi fini, ma scacciò via i suoi dubbi, in
fondo era pur
sempre un passaggio!
“L’ultimo
che arriva in cima è una scimmietta di mare!”
Fu
una scalata lunghissima. Molti non ce la fecero. Escludendo
Sesshomaru, l’unica fresca e riposata era Rin, che era stata
portata da
Bankotsu. Che poi, Rin, l’aria fresca e riposata proprio non
la dimostrava,
perché dava l’impressione di qualcuno preso da un
violento attacco di mal di
mare.
Sesshomaru
aveva la solita aria neutra di sempre, e
probabilmente era l’unico ad essere ancora in piedi dopo
milleseicentosessantacinque (1665) gradini. Tutti gli altri erano
barcollanti o
crollati già per terra. Tsk, che deboli.
Dopo i
primi cinque minuti durante i quali ognuno riprese le proprie forze,
erano già
tutti affacciati al balcone, estasiati. Rin rimase da parte, almeno
finche
Shippo non la invitò a godere anche lei della vista. Si avvicinò con
qualche passo insicuro,
ostacolata e imbarazzata più che altro dalla presenza di
Sesshomaru, che se ne
stava tranquillamente a osservare il panorama qualche centimetro
più in là.
Sembrava non fare caso a tutte le altre persone che si trovavano come
lui ad
ammirare Parigi dall’alto, anzi, sembrava quasi che pensasse
che non ci fosse nessuno
a parte lui. O, molto più probabilmente, era immerso nei
suoi pensieri.
Oh, no,
si stava imbambolando di nuovo a guardare Sesshomaru! (come darle
torto? Nda)
Strano, ma quel demone le faceva un effetto terribile. Forse era
perché
rimaneva comunque il primo demone mai visto in vita sua oppure
perché era
terribilmente affascinante. Da quando l’aveva visto lui aveva
spiccicato si e
no dodici parole… no, aspetta, le aveva contate?!
“Eddai,
Rin, vieni!” esclamò Shippo, mentre anche Koga
gesticolava per farla
avvicinare. C’era una strana luce aranciata
nell’aria.
Dopo
qualche passo titubante si avvicinò al parapetto, anche se
le sembrava più di
buttarsi in un burrone, ma, dopo aver gettato un’occhiata al
di là della sbarra
di ferro, rimase stupita: il sole, arancione per il tramonto, ti
tuffava a
rallentatore nell’orizzonte, inondando la città
con tenui raggi rosati e
tiepidi come la seta, delicati e non troppo forti, mentre
l’aria frizzante del
crepuscolo avanzava insieme allo sparire della luce del giorno,
circondando
tutto con la sua aura rosso scuro, abbracciando l’immensa
Parigi nella calda
coltre di una serata estiva. Man a mano che la luce del sole si faceva
più
ombrosa, si andavano ad accendere per le strade alcuni lampioni, che da
quell’altezza sembravano tanti piccoli diamanti a rischiarare
la tersa aria
notturna, mossa solo da una lieve brezza.
La sua
voce, in quel momento, non trovò altre parole per descrivere
quello spettacolo
se non un piccolo: “Oh.”
Non
pensava che un mondo così caotico trovasse in quei momenti
che sembravano
quadri attimi di calma, come se tutto si fermasse. Era…
quasi bello. Per un
solo istante dimenticò la sua agorafobia,
dimenticò anche tutto ciò che le
stava intorno, persino la presenza di Sesshomaru. Era davvero
meraviglioso.
Per un
istante.
Poi fu
bruscamente riportata alla realtà dalla voce che non si
sarebbe mai aspettata venisse
rivolta a lei: “Vedi di non sporgerti troppo, detesto
lavorare in vacanza.” Rin
scosse la testa più volte, come per liberarsi dal quieto
torpore che si era
impossessato di lei, per poi rivolgere lo sguardo al proprietario della
voce
fredda: Sesshomaru. Ovviamente, non si doveva sporgere troppo
sennò sarebbe
caduta giù, spiaccicandosi immediatamente al suolo, e al
medico legale della
situazione darebbe toccato fare analisi sul suo corpo.
Arrossì
di botto, cogliendo la sottile e antipatica battuta, mentre il demone
si
allontanava da lei.
A quel
punto intervenne Shippo che, non avendo colto lo scambio a senso unico
di
battute tra Rin e Sesshomaru, esclamò, contento:
“Non ero mai stato a Parigi,
hai visto che bella che è?” chiese, rivolgendosi a
lei. Rin annuì, ancora
imbarazzata per la figuraccia: “Tu eri mai stata a
Parigi?” le chiese. Scosse
la testa.
“Sai,
Rin, credo che tu debba parlare un po’ di
più… non è che il gatto ti ha
mangiato la lingua?” chiese Ayame, avvicinandosi. I due la
guardarono, stupiti,
ma il più indispettito sembrava Shippo. Rin vide che in quel
momento Shippo
sembrava davvero odiarla per quella molesta intromissione. Si chiese
perché.
“Nessuno
mi fa mai parlare!” protestò, infine: “O
mi rubate la parola o mi ignorate.”
Brontolò.
“Allora
dovresti ampliare il tuo repertorio e cambiare disco, dato che le tue
frasi
preferite sembrano essere ‘non ci penso nemmeno’ e
‘non ne ho benché la minima
intenzione’.” Si intromise Miroku, con un sorriso
furbo. Stava quasi per
ribattere velenosamente, quando Sango gridò, dopo essersi
accorta della calata
del crepuscolo: “Ragazzi è ora di
cenaaa!” Incurante soprattutto del fatto che
tutti gli altri sfortunati turisti si girarono, assordati e indignati.
Rin
guardò le scale dall’alto, in quel momento. Si
sentiva sul tetto del mondo, e
forse questa sensazione era data dal fatto di essere sul punto
più in alto sul
quale aveva mai camminato, ma si pentì immediatamente del
pensiero partorito,
perché un attacco di nausea la colpì,
costringendola ad aggrapparsi al
corrimano per evitare di farsi tutte le scale rotolando.
“Tutto
a posto?” le chiese Kagome, mettendole una mano sul braccio
sinistro, come per
rassicurarla. Annuì, tremante, facendo capire
all’altra che era tutt’altro
che a posto.
Koga
passò vicino a Kagome, facendole l’occhiolino.
Rin si
chiese perché tutti i soggetti maschi
fossero già così interessati a qualcuno! Insomma,
a malapena si ricordavano i
nomi i già passavano a corteggiarle! Sperava solamente che
Bankotsu non
esigesse pagamenti per il passaggio offerto in salita.
Durante
la discesa, che fu, ovviamente, molto più rilassante della
salita, anche se Rin
continuava a guardare dritto davanti a sé per evitare
attacchi di vertigini,
Kagome le raccontò praticamente tutta la sua vita: le disse
che suo padre era
giapponese ma che era morto in un incidente, che viveva in una casetta
sola
soletta con sua sorella, mentre da piccola aveva sempre vissuto con la
madre e
il nonno, le disse che aveva conosciuto Sango in una chat e da allora
erano
diventate amiche, che lei aveva accettato con entusiasmo quel viaggio
perché
ansiosa di fare nuove esperienze, che invece aveva dovuto convincere
sua
sorella Kikyo a venire, perché lei non voleva partecipare,
dato che il mese
prima avrebbe dovuto sposarsi se quel bastardo del suo fidanzato non
l’avesse
lasciata sola sull’altare, ma Kagome aveva pensato che invece
un lungo viaggio
avrebbe garantito un po’ di distrazione… poi Rin
non seppe ricordare più nulla
di ciò che le disse Kagome, seppe solamente che quando
finalmente il suo piede
si posò nuovamente sul suolo aveva l’aria
rintronata di chi aveva sentito da
vicino l’esplosione di Krakatoa *.
Ad un
certo punto fu “acchiappata” da Miroku, come se lui
volesse assicurarsi la sua
sanità mentale: “Hai visto che il mondo non
è così pericoloso, piccola Rin?” le
disse, circondandole le spalle con il braccio. Lei fece segno di no con
la
testa: “Fino ad adesso ho starnutito, avuto vertigini, nausea
e tremarella.”
Annunciò. Miroku contorse le labbra in una sorta di ghigno:
“Beh, allora è
meglio se ti rivolgi al medico del gruppo.”
Ridacchiò. Sesshomaru. A pensarci
bene si sentiva già meglio!
“Allora!”
esclamò Miroku, dopo qualche minuto: “Ora che sono
circa le sette e mezza direi
che si può andare a cena!” e, detto questo,
girò l’angolo, dirigendosi verso
Sengoku che se ne stava tranquillamente parcheggiato vicino ad un
lampione.
“Aspetta…
ma non lo avevi lasciato al parcheggio?” chiese Koga, alzando
un sopracciglio.
Il proprietario del trabiccolo lo ignorò, anzi,
cambiò proprio argomento!
“Sbrigatevi
che sto morendo di fame!”
-
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*
L’esplosione
di Krakatoa:
Nell’agosto del 1883, Krakatoa, vulcano situato in un isola
in Indonesia, esplose
con un energia equivalente a 200 megatoni, producendo il suono
più forte mai
udito sul pianeta, un boato udito per un raggio di 5000 km.
L’isola sulla quale
sorgeva il vulcano fu completamente distrutta, scatenando un maremoto
alto 40
metri.
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aggiornamento
stranamente veloce stavolta... ma non vi ci abituate :D
vabbiò, diciamo che Rin comincia a "simpatizzare" con il
mondo esterno [demoni inclusi] ^^
il prossimo capitolo sarà di "spiegazione" se
così si può dire, perchè
parlerà di tutto quello che è successo agli altri
viaggiatori prima di ritrovarsi a Londra per l'aereo.
bando alle ciance!
ringrazio di cuore:
-
-
-
-
RikaRed ^^
Suigetsu_92
Creatrice_di_Sogni
liliana87
-
per
aver messo la mia fic tra le preferite :D
-
ran
ugajin 92
Suigetsu_92
-
per
aver messo la mia fic tra le ricordate :)
-
harua_96
(ci si rivede ;) )
leloale
marychan89
Michiyo_Asuka
rossanadaipensaciunpotu (Rossy-chaan ^^)
sara1996
Tallu-chan
Thaila
toua
-
per
aver messo la mia fic tra le seguite ^^
-
-
-
-
grazie di cuore a tutti ^^ spero che questo capitolo sia di vostro
gradimento :)
LX.
|
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Capitolo 4 *** 4.Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi spettegulesss) - parte 1 ***
4.
Chiacchiere intorno al
fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 1
Senza
filarsi le domande riguardo
all’ambiguo collocamento di Sengoku, Miroku invitò
tutti i passeggeri a salire
sulla vettura gridando che aveva preparato una bella sorpresa per tutti
quanti.
Avendo
imparato cosa aspettarsi
da quella specie di organizzatore, Rin, al sentir nominare la
fantomatica
sorpresa, non seppe se mettersi a piangere o buttarsi dal finestrino
(quest’ultima opzione possibile solo dopo aver accuratamente
spostato tutti i
poster, foto, disegni che si frapponevano tra lei e la
libertà). Naraku, avendo
utilizzato di nuovo il suo sconcertante superpotere, e apparsole vicino
come
spuntato da sottoterra, le poggiò una mano sul braccio con
un’aria
professionale da far venire i brividi: “Vedrai non
sarà terribile.” Rin, quella
volta, non si fece sorprendere e rispose con un sarcastico:
“Oh, certo.”
Non
si accorse di essere capitata
tra i due fratelli. Kagura e Naraku. Del secondo aveva mai appreso
l’essenza –
cosa che probabilmente la preoccupava più di Naraku stesso
– ma Kagura rimaneva
un mistero. Era impassibile, o quasi. Diciamo che non era rimasta tanto
impassibile ad una palpatina di Bankotsu e, anzi, aveva sfoderato un
amabile
sorriso da squalo e gli aveva sbriciolato l’alluce con il suo
ancor più amabile
tacco dodici.
Ma,
a parte Bankotsu, che, tra
l’altro, stava ancora mugugnando qualcosa riguardante una
scarpa col tacco,
massaggiandosi il piede destro, Kagura era rimasta in silenzio o, al
massimo,
aveva chiacchierato con il fratello. Sembravano davvero molto uniti.
Ma, prima
che potesse pensare altro su Kagura McLovett, quella si
girò, scrutandola con
occhi curiosi, che, Rin notò con una punta di ansia, erano
dello stesso colore
del fratello. “Ciao.” La salutò, tanto
per non sembrare scortese, sperando con
tutta sé stessa di non aver balbettato troppo.
Manuale di sopravvivenza di Rin: 1) gli occhi rossi
incutono terrore,
spavento, ansia e altre patologie da infarto.
Lei
rispose con un semplice cenno
della testa, facendo ondeggiare i capelli acconciati in un
aristocratico
chignon. “È la prima volta che esci di
casa?” chiese, con un tono che Rin non
seppe definire se canzonatorio o strafottente: “Sembri
spaventata.” Ok, questa
era solo un’antipatica constatazione, ma pur sempre vera.
Annuì con imbarazzo,
mentre la donna si sporgeva verso il fratello: “Bastardo, ti
devo due
sterline!” esclamò, imbronciata. A quel punto per
Rin fu inevitabile alzarsi di
scatto dal sedile di Sengoku, indignata: “Avete scommesso su
di me!?” esclamò,
facendo scorrere uno sguardo furente sui due. Naraku, che sembrava
tranquillamente compiaciuto, annuì: “Lei diceva
che eri semplicemente fifona,
mentre io sostenevo che eri agorafobica.” Spiegò,
come se questo tagliasse la
testa al toro. Rin stava per ribattere velenosamente, ma un
provvidenziale
scossone la fece letteralmente saltare in braccio a Naraku, che
sembrava più
divertito dalla sua reazione che dal suo imbarazzo: “Ehh, lo
so che ho un
fascino magnetico, ma puoi far a meno di saltarmi addosso.”
Ridacchiò, con un
sorriso strafottente. C’era una sola parola per definirlo.
Insopportabile.
Miroku
fermò Sengoku in una
specie di spiazzo erboso isolato dal mondo se non fosse stato per
l’unico segno
di civiltà: un cestino per la cartaccia. Ma Rin, come del
resto tutti i suoi
compagni di viaggio, non capiva il nesso tra quello spiazzo erboso in
quello
che sembrava un boschetto limitrofo al parco di chissà quale
Castello e la loro
cena. E, sì, doveva ammettere di stare morendo di fame. Non
mangiava dalla
mattina, diamine! Ma interruppe il suo pensiero quando il suo cervello
collegò
mattina con casa, perché le vennero di nuovo gli occhi
lucidi.
“Guarda
che se sei agorafobica
non vuol dire che sei esonerata dal preparare la cena.” Le
disse Sango,
avvicinandosi a lei. Mugugnò qualcosa riguardo la dubbia
igiene di quel
quasi-campeggio, rifiutandosi di cucinare.
Non
che non ne fosse capace,
spesso e volentieri, infatti, quando sua madre non era in casa, aveva
dovuto
provvedere al proprio nutrimento, ma l’idea di mangiare
lì, su quel prato, le
faceva immediatamente passare la fame e venire la nausea. Forse aveva
qualche
medicina nella valigia.
Si
diresse verso il bagagliaio
aperto di Sengoku, dentro il quale Miroku stava cercando qualcosa, ma
rimase a
bocca aperta: quello non era un bagagliaio, era un hangar!
C’era,
a dir poco, di tutto: a
partire dai bagagli dei viaggiatori, per finire con una cassettiera e
una
montagna di sacchi a pelo. Miroku, intanto, pareva seriamente impegnato
nella
ricerca di qualcosa, con l’ansia tipica di chi è
partito e che si è scordato
qualcosa di importante. Alla fine, sempre guardando tra le valigie,
sacchi a
pelo e altre cianfrusaglie sbottò in uno stizzito:
“Cavolo!”
Rin,
cercando di ignorarlo, entrò
direttamente nel bagagliaio/hangar,
alla ricerca della sua valigia con dentro forse delle medicine,
sperava. Da
quella mattina aveva scoperto di avere un bagaglio, ma, sia per la
scarsità di
tempo, sia per quella piattola di Naraku che sembrava averla presa di
mira, non
era riuscita a scoprirne il contenuto.
Sembrava
di essere in un
magazzino, tanta era la roba che vi era stipata dentro. In confronto,
la
soffitta polverosa di sua madre (che non aveva mai osato sfiorare nemmeno col pensiero) era quasi
ordinata. Quasi eh!
Si
addentrò con fare titubante
tra tutti gli oggetti, inciampando almeno sei volte nello skateboard di
Ayame,
che sembrava davvero averla presa in antipatia e intenzionato a
ostacolarla
nelle ricerche. Dopodiché piombò a terra a causa
dello zaino di Shiori che, non
si sa come, aveva un righello di ottanta centimetri che sporgeva almeno
di
trenta, mentre imprecò sonoramente dopo aver sbattuto
violentemente l’alluce
sullo spigolo della cassettiera. Intanto Miroku borbottò di
nuovo qualcosa
riguardo a “le avevo portate” e spostò
un sacco a pelo in modo da farlo cadere
a pancia in sotto.
Ma,
con lo spostamento del
voluminoso ingombro, Rin riuscì a localizzare un pezzo della
sua valigia,
fiondandocisi sopra con un balzo degno di un canguro.
L’agguantò per il manico
e tirò più forte che poté, anche se
poi si accorse di aver preso un granchio, e
anche abbastanza pesante: quella non era la sua valigia, ma quella
di… c’era
scritto sul manico… Sesshomaru Tashio. Ecco, tra tutte le
valigie la sua doveva
prendere!
Anche
se il bagaglio di Sesshomaru
sembrava davvero vissuto! Accidenti, sembrava che avesse percorso
itinerari di
montagna, nel deserto, tra i ghiacci, sotto la neve, la pioggia,
grandine e chi
ne ha più ne metta, tanto era consunta. Il manico era
spellato e mezzo scucito,
la pelle delle pareti era consunta e rattoppata da qualche parte, le
cuciture
erano state cambiate perché, evidentemente, quelle originali
avevano ceduto da
un pezzo, e la lampo sembrava sul punto di cadere a pezzi. Forse
Sesshomaru
viaggiava molto di più di quello che dava a vedere, dato che
dalla sua
espressione si poteva solo capire che odiava tutto e tutti. Le faceva
pensare
ad un povero misantropo che si era rinchiuso nel suo angolino di mondo
e che si
rifiutava di vedere qualsiasi parente o conoscente.
Beh,
era ora di mettersi a
cercare il suo, di bagaglio!
Non
passò molto tempo che
inciampò nella sua valigia, aprendola ed evitando per un
pelo di farla
esplodere, tanto era piena: c’era di tutto! Pantaloni, gonne,
calzini,
magliette, maglioni, una giacca a vento di un improbabile color giallo
evidenziatore tanto sgargiante da dar fastidio, reggiseni, mutande,
canottiere,
spazzolino da denti, dentifricio (sfrittellato), pettine, spazzola,
camicette,
costumi, parei, ciabatte, scarpe da ginnastica, scarpe col tacco (ma
quando
aveva comprato tutta ‘sta roba?), guide di varie
città, un piccolo beauty case
con la crema solare e altre dai dubbi usi e…
“Due
padelle?!” esclamò,
tirandole fuori da quel marasma di vestiti & co. Erano proprio
due padelle:
una era larga e piatta, tipica per fare le frittate o le
crêpes, così larga che
non capiva come era riuscita ad entrare in quella sottospecie di
valigia
consunta, mentre l’altra era più fonda, per fare
la pasta.
Udendola,
Miroku si precipitò da
lei, felice: “Grazie Rinuccia, credevo di essermi scordato le
pignatte!” e,
presele le padelle di mano, uscì con un balzo
dall’hang… garage e cominciò a
preparare la cena.
A
quel punto, poiché non aveva
proprio nulla da dire, tanto era scioccata, il suo stomaco ritenne
opportuno
protestare per la fame. Infondo non mangiava da quella mattina!
In
pochi minuti erano tutti
seduti in cerchio, mentre Miroku girava con la padella (di Rin) per
distribuire
la pasta.
“Ecco
perché sei venuta con lui!”
rise Sango, serena, dopo che Rin l’ebbe spiegato come fosse
arrivata fino a
quel praticello francese: “Credevo che fossi la sua
amante.” Rin arrossì a quel
pensiero. Lei, l’amante di quel pervertito? HA!
“Non
sembri fidarti molto di
lui.” Riprese Ayame, quando il diretto interessato le
oltrepassò, dedicandosi
al piatto di Bankotsu.
Lei
annuì, parlando sottovoce:
“Beh, prima di me non aveva mai avuto una ragazza fissa,
andava da una
all’altra come niente fosse, e qualche volta ne vedeva due la
stessa notte, un
vero maniaco! Quindi credevo che non avesse perso il vizio.”
Kagura,
avendo seguito insieme a
Rin Ayame e Sango nel loro discorso, posò lo sguardo su
Miroku, mentre si
sedeva e cominciava a chiacchierare con Inuyasha: “Beh, ora
sembra abbia messo
la testa a posto, da come lo vedo come persona che lo ha conosciuto
oggi.”
Sango
annuì, e Rin fu sicura di
aver visto la felicità nei suoi occhi.
“Ehi,
manca il pennellone!”
esclamò Koga dopo i primi bocconi di spaghetti, attirando
l’attenzione di
tutti. “Il chi?” chiese Bankotsu, alzando un
sopracciglio.
“Ma
sì, quello alto e
silenzioso…” disse Shippo, pensieroso:
“Il fratello suo!” e indicò Inuyasha che
sogghignò quando capì che l’aggettivo
“pennellone” era tutto per Sesshomaru, ma
dopo ripristinò la sua aria bonaria e disse: “Beh,
conoscendolo, è piuttosto normale.”
Spiegò: “Non gli piace stare in mezzo alla
gente.” Concluse, prendendo un sorso
di birra che Miroku gli aveva offerto, anche se di dubbia provenienza.
“Ma
così salterà la cena!”
protestò Shiori che, nonostante fosse un mezzodemone, era di
buon cuore anche
verso gli sconosciuti.
Inuyasha
fece spallucce: “Non ti
preoccupare, ha già digiunato per sette anni, non credo che
un pasto in meno
gli peserà un granché.”
Rin,
a quel punto, si bloccò con
la forchetta a mezz’aria e la bocca aperta, stupita per
quello che aveva
sentito: digiunare per sette anni? Rabbrividì: lei era
già di costituzione
debole, se avesse digiunato per un lasso di tempo così lungo
ci avrebbe di
sicuro lasciato le penne.
Ma
Rin non era l’unica a essere
stupita: tutti erano rimasti sorpresi a quella notizia da record, e si
erano
tutti immobilizzati con gli occhi fissi su Inuyasha.
Kagome,
che era una persona che
trovava sempre un pretesto per mangiare e difficilmente ne faceva a
meno,
guardò prima la sorella, che aveva abbassato il bicchiere e
osservava curiosa
Inuyasha, poi chiese, sospettosa: “Ma come ha fatto? Insomma,
non mi sembra
un’impresa da nulla, anche per un demone.” Credeva
che Inuyasha stesse
raccontando una balla poiché, da come lo aveva visto per la
prima volta (e ci
teneva a precisare che non gli
aveva
pestato un piede), non gli sembrava un tipo molto affidabile.
Inuyasha,
invece, non capendo
l’aria sospettosa della ragazza, rispose, semplicemente:
“Beh, sai com’è, in
tempo di guerra è molto difficile trovare
cibo…”
Il
silenzio serpeggiò tra i
presenti, mentre pareva quasi di vedere un enorme punto interrogativo
sovrastare le teste di tutti, tranne quella di Inuyasha.
A
rompere il silenzio fu Naraku:
“Ehm… scusa, ma quale guerra?”
In
quel momento il mezzodemone allargò
gli occhi, come se non credesse alle proprie orecchie (morbide nda) e
disse,
come se la cosa fosse ovvia: “Ma nella Seconda Guerra
Mondiale, che domande!
Quella dal 1939 al 1945, avete presente?”
“Ma!?”
disse Naraku, alzando un
sopracciglio. Se Sesshomaru aveva digiunato durante la Seconda Guerra
Mondiale
vuol dire che doveva essere nato un po’ prima dello scoppio
di questa, per
permettere al suo corpo di sopportare la privazione del cibo per quel
lungo
periodo, il che voleva dire che…
“Scusa
ma quanti anni ha tuo
fratello?” chiese Jakotsu, inclinando la testa da un lato,
cosa che faceva
quando non capiva qualcosa.
Inuyasha,
che, si poteva
semplicemente capire dallo sguardo, non vedeva l’ora di
annunciare quella
notizia bomba, disse, come se fosse una cosa da tutti i giorni:
“Ne ha
novantanove e fa cent’anni ad agosto, è nato nel
1910.”
Rin
soffocò nel boccone di pasta
che stava per mangiare, correndo subito con la mano al bicchiere per
evitare di
lasciarci la pelle e bevendo un lungo sorso d’acqua.
Cento
anni? Per lei erano
decisamente troppi, contato che ne aveva a malapena un quinto, ma le
sembrava
strano perché Sesshomaru dimostrava sì e no
venticinque anni, mentre ne aveva
il quadruplo, e le pareva ancor più strano, dato che
quell’affascinante demone
aveva dodici anni in più di suo nonno.
Poi,
chissà per il diretto
interessato cosa significava avere così tanti
anni… magari per lui era essere
adolescente!
Però
un secolo è sempre un
secolo… chissà come ci si sentiva ad essere
così veterani della vita, chissà
cosa si provava nel rimanere sempre uguali in un mondo in evoluzione,
chissà
cosa aveva provato nel vedere la miseria, la povertà e la
fame della guerra e
chissà se il carattere freddo e austero lo aveva sviluppato
in base a qualche
dura esperienza…
Quei
pensieri la fecero sentire
come un piccolo pulcino inesperto che era appena stato buttato
giù dal nido, al
confronto con la grande e maestosa aquila che non bramava altro che
fare di lei
un antipasto. Si sentiva così piccola e goffa.
“Beh,
salute.” Disse Koga, per
rompere l’atmosfera. Qualcuno ridacchiò, ma non
Ayame, che guardò il lupo con
espressione assassina. Era ancora arrabbiata per il fatto dello
skateboard.
“Beh,
cambiamo argomento.” Disse
Miroku ad un certo punto, dopo qualche forchettata di pasta:
“Su, come tema di
questa cena dovete raccontare cosa vi è capitato prima di
arrivare qui.”
Propose, mentre Rin sperava di non dover parlare, dato che era
risultata
decisamente ridicola anche senza sparlare di sé.
“Oh,
sì comincio io!” disse
Ayame, sventolando in aria la mano.
Svitata
n°1 – Ayame Hanvarg
La sveglia suonò le sei e mezza, ma non
le badò molto, anzi, le tirò il
cuscino e si girò dall’altra parte, almeno
finché il nonno non la venne a
srotolare fuori dalle coperte, tuonando: “Nipote!”
“AHHH!” esclamò,
colta alla sprovvista, balzando giù dal letto e
mettendosi in posizione da combattimento: “Dove sono? Dove
sono, ho detto! Li
faccio fuori tutti quanti!” ma poi, essendosi accorta della
sola presenza del
vecchio del suo vecchio, si ricompose e si mise una mano dietro la nuca.
“Buongiorno nipote.” Disse il
nonno, facendo un cenno col capo:
“Muoviti, Ayame, che devi partire.” Le
ricordò, e la yasha si mise
sull’attenti.
Quando il nonno fu uscito si ricordò che
non aveva fatto la valigia. Si
infilò una maglietta a maniche corte mentre con i denti
apriva lo zaino e con i
piedi cercava di infilarci altre sei magliette, si mise un paio di
shorts
mentre si ricordava che sotto la maglietta non aveva messo il reggiseno
e
perciò, mentre aggiungeva altri abiti alla sua sacca,
pescò un reggiseno a caso
(non che poi le servisse più di tanto, dato per portava a
malapena una seconda)
e cercò di infilarselo senza levare la maglietta,
dopodiché, mentre si lavava i
denti chiuse il bagaglio e lo spedì sotto le scale con un
calcio, si allacciò
le scarpe mentre si sistemava i capelli color fuoco (o tentava di
farlo) in due
codini, anche se non sapeva come aveva fatto con sole due mani, poi
prese la
sua adoratissima macchina fotografica e la mise in un comparto riparato
dello zaino
che andava aggiunto alla sacca, dopodiché, inforcato lo
skateboard, ipod nelle
orecchie, saettò sui gradini delle scale, prese al volo la
sua sacca e uscì
fuori di casa con un Freestyle, gridando: “Ciao
nonno!”
“Non spendere troppo, mi
raccomando!” le raccomandò, fuori dalla porta.
Lei sorrise: suo nonno non si sarebbe mai smentito,
da bravo scozzese
era un risparmiatore eccezionale, dote che aveva ereditato al massimo.
Hey now you're an All Star get your
game on,
go play
Hey now you're a Rock Star get the show on get paid
And all that glitters is gold
Only shooting stars break the mold…*
Ignorò, come al solito, le proteste dei
passanti che, indignati,
strillavano al suo passaggio, mentre, veloce come un fulmine, si
dirigeva in
stazione.
“È qui che si prende il
diretto per Londra?” chiese, fermandosi di
colpo davanti alla biglietteria, saltando la fila per
risparmiare tempo, anche perché era
in ritardo pazzesco.
Il commesso la guardò, stranito, ma poi
disse, dispiaciuto: “Sono
costernato, ma il treno sta partendo in questo momento.” E
indicò il binario
più vicino, dove un treno stava per uscire dalla stazione.
Ayame imprecò sonoramente,
strappò un biglietto dalle mani del ragazzo,
lasciò i soldi e si lanciò con lo skateboard
all’inseguimento del treno, fino a
che non giunse davanti alla locomotiva, sbracciando come una
forsennata: “Ehi,
tu, pezzo di idiota maledettamente puntuale, vuoi fermarti oppure devo
piazzarmi sui binari?” non credeva che il conduttore
l’avesse sentita, perciò
accelerò, superò il treno e si mise sopra ai
binari, a debita distanza per
farlo fermare senza essere spappolata sotto le ruote.
Il poveretto, vedendo una lupa pazza apparire sulla
sua traiettoria,
sussultò e frenò di botto.
Ayame, soddisfatta, salì sul treno e
concluse il suo viaggio.
La
guardavano come se fosse
pazza: “Ehi, guardate che è davvero
successo!” esclamò Ayame.
“Non
lo mettiamo in discussione.”
Disse Sango: “Solo che sei un po’
spericolata.”
Lei
ghignò: “Solo il minimo
indispensabile.”
Koga
aveva ormai appreso che
quella là era da evitare.
“Ora
racconto io!” disse Shippo,
mettendo a posto il suo piatto vuoto. Tutti si misero in ascolto.
Svitato
n°2 – Shippo Fox
“Trenta, trenta, trentaaa!♪”
gridò una voce, uscendo dall’università
con aria trionfale e ballando la mazurca, mentre tutti gli altri
studenti che
dovevano sostenere l’esame lo guardarono malissimo.
Shippo avanzò ancora qualche passo
danzando, felice come una Pasqua per
il suo primo esame, che era andato a meraviglia, per poi cominciare a
ballare
con il bidello incredulo che, però, dopo qualche secondo
decise di rinchiuderlo
nello sgabuzzino delle scope, mentre lui cantava ancora:
“Trenta, trenta,
trentaaa!♪”
Un passante, sentendo lo sgabuzzino canterino
(Trenta, trenta,
trentaaa!♪) si allontanò velocemente, ricordandosi di non
bere mai più il
solito bicchierino prima dell’esame.
Dopodiché Shippo, sempre cantando
(Trenta, trenta, trentaaa!♪) spalancò
lo stanzino con un calcio, essendosi ricordato che, poiché
erano le undici e
ventisette, doveva prendere il treno per Londra e corse quindi via,
improvvisando prima una specie di balletto con il povero rettore della
sua
università, che aveva avuto la sfortuna di capitargli sotto
tiro (Trenta,
trenta, trentaaa!♪).
Fece tutta la strada ballando, qualche volta
saltando, facendo toccare
i talloni, come in un ballo russo, avvinghiandosi ogni tanto al primo
sfigato
che passava, imperterrito nel suo balletto di gioia (Trenta, trenta,
trentaaa!♪).
Dopo questa danza sfrenata, che, grazie al cielo,
trovò la sua fine con
un incontro molto ravvicinato tra suo inguine e la palizzata del suo
giardino
per non aver imbroccato al primo colpo l’entrata, Shippo
afferrò la valigia che
si trovava all’ingresso della casa che condivideva con suo
fratello e la moglie
e gridò, sull’uscio: “Kyle, Leah, ho
preso trenta all’esame!” non ricevette
subito risposta, ma le sue orecchie da volpe percepirono prima un
gemito
decisamente ambiguo, poi una frase: “Ma non se
n’era già andato?”
Mmh, niente male, erano le undici e trentadue e
già ci stavano dando
dentro. Ahh, allora è proprio vero che era il terzo incomodo!
“Beh, sapete, ora io parto, no?
Così potete scopare quanto vi pare!”
gridò ancora: “Ci vediamo a settembre!”
e, fatto cenno ad un immaginario
maggiordomo, se ne andò alla stazione.
[qualche camera più in là]
Kyle: “Ma te guarda che razza di
fratello!”
Leah: “For-ah… forse ci voleva
saluta-AH! piano!”
[ehm… torniamo a Shippo]
Ridacchiò, pensando alla bella sorpresa
che aveva fatto al caro
fratellino che non aveva fatto altro che bistrattarlo tutto
l’anno per
sfrattarlo e godersi – nel vero senso della parola
– la moglie.
Trotterellò (Trenta, trenta, trentaaa!♪)
fino alla stazione, finché non
prese il treno e si sedette in seconda classe, non senza rimbambire il
vicino
con la cronaca dettagliata del suo esame.
“Ma
sei veramente uno stronzo!”
esclamò Naraku, scompigliandogli i capelli.
“Beh,
se calcolate che certe
volte mi hanno chiuso fuori di casa per le loro seratine romantiche e
che ho dovuto
dormire su una panchina…” spiegò
Shippo, riparando il suo disordinato codino
dalla mano di Naraku.
“Allora
potevi andare a vivere
per conto tuo.” Disse Kikyo, parlando per la prima volta
nella serata. Naraku
non poté non notare che la sua voce sottile e tagliente era
tipica della
persona che ha ricevuto la sua più grande delusione della
vita, probabilmente
era stata lasciata sull’altare.
Non
aveva mai avuto un caso di
bidonate sentimentalmente, e il caso gli interessava decisamente, anche
perché
Kikyo era una gran bella ragazza.
Kagura
squadrò il fratello che, a
quanto pareva, aveva messo gli occhi su quella che pareva una morta, ma
era la
solita espressione da scienziato pazzo, e cominciava a preoccuparsi.
Per Kikyo.
“Ehi,
guarda che quella è la mia eredità,
non ci dovrebbe vivere lui!” protestò Shippo,
incrociando le braccia.
“Ora
dico io, io!” esclamò
Kagome, alzando anche la mano della sorella.
Svitate
n° 3/4 – Kagome e Kikyo Higurashi
“Dai Kikyo, ormai ho prenotato, non puoi
assentarti così all’improvviso!”
esclamò Kagome, mettendosi davanti ad una sorella
sprofondata nel divano a
consolarsi con il gelato, con i gomiti piantati sui fianchi.
Kikyo la guardò con indifferenza, e
mangiò un pezzo di gelato alla
fragola.
“Avanti, non puoi non venire!”
esclamò, prendendo le loro valigie e
invitandola con il movimento del braccio. “Vieni,
sennò ti chiudo in casa!” la
minacciò infine, mettendo un cipiglio arrabbiato.
Kikyo la guardò con indifferenza, e
mangiò un pezzo di gelato alla
fragola.
Kagome alzò gli occhi al cielo,
sbuffando in un “mmh” abbastanza
impaziente, avvicinandosi al divano: “Ti muovi sì
o no? Devo prenderti in
braccio?”
Kikyo la guardò con indifferenza, e
mangiò un pezzo di gelato alla
fragola.
Le cominciavano davvero a saltare i nervi, e
avrebbe di sicuro buttato
fuori la sorella a calci nel sedere, ma pensò che, vista la
critica situazione
in cui quello stronzo del futuro marito l’aveva infilata,
pensò di dover essere
più delicata verso la sua sorella.
“Dai, magari in questo viaggio incontri
un ragazzo più simpatico di…”
poi si ricordò che anche solo pronunciare il nome
dell’ex futuro marito poteva
essere fatale: “Beh, incontrerai un sacco di bei ragazzi, ne
sono sicura! Sango
ha detto che vengono degli amici del suo fidanzato e magari
c’è quello giusto
per te!” disse, dolcemente.
Kikyo la guardò con indifferenza, e
mangiò un pezzo di gelato alla
fragola.
Allorché tutti i buoni propositi di
Kagome andarono a farsi fottere, e
Kikyo si ritrovò fuori di casa.
Per colpa di quella depressa di Kikyo avevano fatto
tardi e ora si
ritrovavano a correre, ma per fortuna abitavano vicino
all’aeroporto, ed erano
già quasi arrivate alla sala attesa.
“Ehi, mi hai pestato il piede!”
gridò ad un certo punto un voce
astiosa, appartenente ad un ragazzo in corsa come loro.
“Io non ti ho pestato proprio
niente!” esclamò Kagome, irata: “E
pretendo delle scuse per le tue accuse infondate!” pretese,
sempre in corsa,
sempre affiancata dal tipo che le aveva parlato, un mezzodemone dai
capelli
d’argento e le orecchie da cane che, sentendo
l’ultima frase, esplose: “Ehi, ma
come ti permetti, ragazzina! E poi mi hai triturato un piede, con quel
tuo
dolce peso!” erano quasi arrivati, vedeva Sango!
Ma
questo qui deve rompermi le
scatole ancora per molto?
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eccomi
quiii :D (Ricchan, ci ho messo meno del previsto XD)
credevo di non farcela... il mio computer aveva completamente
cancellato tutto ciò che avevo scritto prima del 19,
praticamente tutto il capitolo, e ho dovuto riscriverlo tutto da
capo... che pizza!
bon, come avete visto ho deciso di dividere questo capitolo in 2 parti
per 2 motivi:
1 prima di tutto perché a scrivere tutto di tutti in un solo
chap è terribilmente pesante per chi legge;
2 poi dovevo documentarmi da una parte :P
-
-
-
alors,
avete visto, è COMINCIATO IL GIOCHINO DELLE CANZONIII
vi dico che questa qui che ho messo è abbastanza semplice,
diciamo, perché... no non vi dico perché,
sennò è troppo facile :P
la canzone è segnata con un asterisco blu elettrico (*)
poi
volevo ringraziare chi ha preferito, seguito e ricordato e/o recensito
la mia fic :D
e anche chi ha letto, ricordato, preferito e recensito la mia One-shot
"Il fodero è buio"
bon, mi pare di aver detto tutto...
Buona Pasqua :)
LX
°°°
|
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Capitolo 5 *** 5. Chiacchiere intorno al fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2 ***
capitolo dedicato a:
Fantasy is my passion
<3
Rikared <3
serin88 <3
per aver indovinato la
canzone: All Star - smash mouth.
io dico che chi ha
più punti poi fa la comparsa... quindi ipod alla mano!
>BD
5.
Chiacchiere intorno al
fuoco (dicesi Spettegulessssss) parte 2
Kagome
aveva notato che sia
Inuyasha che Naraku stavano guardando con non poco interesse la sua
gemella,
anche se l’espressione di quest’ultimo faceva
trapelare tutto tranne interesse
fisico. Anzi, sembrava che la stesse esaminando.
Rabbrividì:
Naraku faceva un gran
brutto effetto, ma, come vedeva dalle reazioni degli altri, non solo a
lei,
anche a Rin, a Sango, a Shippo e a tutte quelle persone che avevano
avuto la
sfortuna di intraprendere una conversazione con lui. Sarà
l’effetto degli occhi rossi.
L’unica
persona che sembrava
immune all’aura malefica di Naraku era Kagura.
“Ora
raccontiamo noi?” chiese Naraku,
rivolgendosi alla sorella, che annuì:
“Vai.”
Svitati
n° 5/6 – Naraku e Kagura McLovett
Il telefono trillava. Mh. Sticazzi. Voleva dormire,
lei! Il giorno
prima non aveva fatto altro che sgobbare per quel fottutissimo
contratto che il
suo fottutissimo capo non aveva fatto altro che declamare e sperare per
quel
fottutissimo anno.
Il telefono aveva deciso di trillare più
forte, e per lei fu
inevitabile allungare una mano fino a quel malefico oggetto e
mugugnare, senza
nemmeno avere la forza per aprire gli occhi per vedere chi fosse il
rompiballe
in questione: “Pronto?” disse, anche se
pronunciò quelle sei lettere con un
tono che sarebbe stato meglio per una frase del tipo: “Chi
cazzo sei che mi
chiami a questa fottuta ora del mattino e che cazzo di motivo hai per
scartavetrarmi le palle?”
“Buongiorno Kagura.”
“Chi è?”
“Naraku.”
Il suo cervello non connetteva ancora abbastanza
bene: “Naraku chi?”
Il suo interlocutore sembrò sbuffare:
“Tuo fratello, imbecille.”
Allora ricordò di avere un fratello,
anche abbastanza rompiballe, e
pure una sorella di diciotto anni, che, in quel momento, stava cercando
di
gridarle qualcosa attraverso la porta.
“E c’è un motivo per
cui questo idiota mi ha svegliato così presto?”
grugnì, eclissandosi sotto il cuscino.
“C’è che ti sto
aspettando alla stazione da mezz’ora.”
“Staz…? oh, cazzo.”
Disse semplicemente, ricordandosi di dover partire
alle undici e mezza. Ed erano le undici meno un minuto.
“Oh cazzo
un paio di palle!
Si può sapere dove diamine sei?”
Ma non si curò molto del resto,
precipitandosi in corridoio, a
protestare con la sorella: “Kanna! Perché diamine
non mi hai svegliato?” urlò,
mentre si infilava in bagno.
La sorella, una nanetta dai capelli bianchi e gli
occhi neri dall’aria
assente, disse, con la sua solita aria distaccata e seria:
“Ci ho provato, ma
mi hai tirato un calzino e mi hai mandato a quel paese.”
Ah. non ci poteva fare nulla, quando dormiva non
era responsabile delle
sue azioni!
Uscì dal bagno in fretta e furia,
pettinandosi i capelli con il
consueto chignon, aprendo l’armadio, seguita dalla sorella.
Si girò verso di lei, che guardava
assente il moscerino morto sul
davanzale della sua camera e brontolò: “Si
può sapere che ci fai ancora qui
come un broccolo? Corri a finirmi la valigia, marsh!”
In quattro e quattr’otto si
ritrovò a scansare la sorella dall’ingresso
– “Che ci fai qui come un broccolo?
Levati!” – e dirigersi in tutta fretta
verso la macchina, ricordandosi che poi era senza benzina e, mandandola
cortesemente a fanculo, se ne andò a piedi.
Kanna stava ancora sull’ingresso,
immobile, e poi sussurrò: “Ciao.”
Era molto difficile farlo arrabbiare, infondo aveva
sempre avuto nervi
di ferro e aveva sempre preferito il suo sorrisino sornione e affabile
ad
un’arrabbiatura. Vederlo infuriato era uno spettacolo
più unico che raro, dato
che accadeva con una frequenza di mezza volta all’anno. Ma se
c’era qualcosa
che lo faceva proprio imbestialire erano i ritardatari.
Erano la cosa che gli dava maggior fastidio in
assoluto, e doveva ben
controllarsi quando qualcuno dei suoi pazienti arrivava anche con un
minimo
ritardo, poiché erano già malati psichicamente,
non poteva di certo terrorizzarli
pure lui, che in teoria li avrebbe dovuti curare.
Oh, ma con quell’idiota di Kagura non si
sarebbe controllato.
Assolutamente no! I fratelli esistono per questo no? Per far sfogare i
maggiori.
Stava cominciando a terrorizzare la gente che gli
stava intorno:
camminava avanti e indietro con una faccia che lasciava presagire un
omicidio,
con i capelli neri che gli svolazzavano intorno per il vento, a
mo’ di
mantello, il tutto amplificato dal colore non troppo rassicurante degli
occhi.
Se probabilmente qualche poliziotto
l’avesse visto in quel momento non
avrebbe esitato ad arrestarlo.
Ghignò a quel pensiero.
“Ec…anf…ecco…anf…eccomi!”
ansimò una voce, appoggiandosi al suo
braccio, stremata per la corsa sui tacchi. Si scansò appena,
per farla cadere
per terra: “Sai che non mi piacciono i ritardatari,
Kagura.” Sibilò, avviandosi
verso la banchina del treno per Londra. Lei lo squadrò con
sguardo omicida per
la caduta non prevista, ma prese la sua valigia e lo seguì.
“Io…”
provò a dire per fargli sbollire la rabbia, mentre si
accomodavano nel loro scompartimento. “Non hai messo la
sveglia e hai tirato un
calzino a Kanna, mandandola a quel paese, quando lei aveva provato a
svegliarti.” Completò lui per lei, usando quel
dono strano che aveva sviluppato
col tempo e il lavoro da psicologo.
“Ma…”
continuò, protestando per essere stata interrotta, ma Naraku
prese di nuovo la parola: “Hai provato a sbrigarti ma ti sei
ricordata che la
tua macchina era senza benzina e quindi hai fatto tutta la strada di
corsa.”
Kagura provò a spiegare qualcosa, ma non
appena aprì bocca Naraku
immediatamente sostituì la sua spiegazione con le sue
parole: “E sei arrivata
ulteriormente in ritardo perché ti si era incastrato il
tacco sinistro nel
tombino vicino alla cassetta postale accanto all’entrata
della stazione.”
Digrignando i denti, Kagura finì con un:
“Ma vaf…”
“…fanculo Naraku, ti odio
quando fai lo scienziato pazzo con me.”
E Kagura finì inevitabilmente per
rovesciargli addosso l’acqua che
aveva nello zaino.
“E
poi dici a me che sono
stronzo!” protestò Shippo, guardando male Naraku.
Lui fece spallucce.
“E
quindi avete una sorella,
oltre a voi.” Constatò Sango, indicando i due
dagli occhi rossi. Annuirono:
“Sì, ma non ci somiglia per niente.”
Disse Kagura, che poi indicò Shiori:
“Somiglia molto di più a lei.”
“Beh,
ora se vi va bene parlo
io.” Disse Inuyasha, alzando una mano, che Rin
scoprì munita di belle e lunghe
(e pericolose) unghie che sembravano tanto artigli.
Kagome
assottigliò gli occhi ma
non disse nulla.
Svitati
n° 7/8 – Sesshomaru e Inuyasha Tashio
L’ennesimo fischio gli fece corrugare la
fronte, irritandolo ancora di
più del ritardo del cretino del fratello. Già era
tanto se aveva acconsentito
ad aspettare al di fuori di quel liceo musicale, sopprimendo ogni
lamentela a
riguardo dei fischi che disturbavano le sue povere orecchie, ma non
poteva
sopportare anche il ritardo di
Inuyasha!
Se il padre avesse deciso ancora una volta di
costringerlo a
intraprendere un viaggio con quel decelebrato mezzosangue di suo
fratello e
altri sciocchi umani sarebbe migrato in Alaska. Dove, infondo, non si
stava
così male: nient’altro che fredde lande desolate,
gente avara in quanto a
discorsi e pace! Quanta pace per le sue orecchie! Chissà
perché non ci aveva
pensato prima, ad andarsene in Alaska…
Forse il suo patriottismo e il suo orgoglio
nazionale avrebbero
protestato a riguardo, ma chi se…
“Hola!” esordì
Inuyasha, cercando di dargli una pacca sulla spalla ma
ricevendo solo un’occhiataccia: “Provaci e sei
morto e non mi frega se ci sono
marmocchi in giro.”
Capendo che a Sesshomaru giravano ancora le palle
per il piccolo e
infimo ricattino che aveva architettato a sua insaputa, Inuyasha decise
di
avviarsi verso l’aeroporto, dirigendosi verso la macchina:
“Scusami, ma avevo
lezione e non avevo finito di dare i compiti per le
vaca…”
“Nessuno te lo ha chiesto.”
Sibilò, dissimulando un ringhio infastidito
per l’ennesimo fischio di flauto. Ma non erano finite le
lezioni?
Inuyasha gli fece il verso a mezza voce, aprendo lo
sportello della
macchina per farlo entrare, ma lui rimase immobile a fissare il veicolo
come se
fosse un animale pericoloso. Non riusciva se stesse guardando con
più ribrezzo
lui o l’automobile.
“Ah, giusto.” Disse,
richiudendo lo sportello e avviandosi a piedi: “Tu
non entrerai mai in una macchina.”
“Felice che la tua zucca vuota sia
riuscita a ricordare qualcosa.” Ma,
prima che Inuyasha potesse rispondere a male parole, una macchina
passò a gran
velocità, in direzione anche lei della stazione, con la
musica dal volume così
alto che Sesshomaru dovette reprimere l’impulso di mettersi
le mani sulle
orecchie.
I get knocked down
But I get up again
You’re neva
gonna
keep me down! *
“OH! La conosco!” disse
Inuyasha, puntando il dito verso il
fastidiosissimo veicolo, anche se le sue povere orecchie da cane
vibravano per
il dolore, tanto che non riuscì a trattenere un mugolio.
“Muoviti.” Ordinò
Sesshomaru, avanzando ancora di qualche passo.
Inuyasha, affrettando la sua andatura, brontolò:
“Oh, ma come sei irascibile…
ma dimmi, te la fai ogni tanto una sana sc…” ma fu
zittito da un implacabile:
“Fatti i cavoli tuoi, che campi
cent’anni.”
Se lo diceva lui, poi!
“Ok, simpaticone” disse,
arrabbiato: “A chi arriva prima?” sapeva che
Sesshomaru non avrebbe mai rifiutato una corsa, soprattutto se si
trattava di
umiliarlo in pubblico.
“Non sfidarmi, perderesti.”
Disse lui. Evidentemente era troppo
incazzato per correre.
Guardando la schiena del fratello, che camminava
qualche passo davanti
a lui, tenendo la valigia su di una spalla come se fosse uno zainetto,
entrò
nel suo circolo di pensieri: Sesshomaru era sempre arrabbiato e, anche
se non
capiva il perché, aveva sempre un umore nero e lo sguardo di
chi ha
terribilmente bisogno di strangolare qualcuno, e la cosa lo
insospettiva. Forse
cominciava a sentire il peso degli anni? No, insomma, loro padre ne
aveva
quattrocento e passa e non aveva certo questi problemi…
forse non gli piaceva
il fatto di dover camminare insieme agli umani, infondo lui era uno di
quei
demoni che avrebbero volentieri rifiutato il Contratto tra Demoni e
Uomini,
perché riteneva questi ultimi decisamente inferiori. Oppure
era l’essere
additato dai vecchietti come “capitano”, svelando
in questo modo la sua reale
età. Sì, forse era questo: ormai tutti, tranne
loro padre, lo trattavano come
un vecchio derelitto non più in grado di intendere e volere
e, doveva
ammetterlo, la cosa avrebbe mandato su tutte le furie persino lui. O
forse era
la solitudine ad averlo forgiato così incazzato, infondo sua
madre era morta
nel partorirlo e nel mondo dei demoni ognuno stava sulle sue, non
importava se
in tempo di guerra o meno, bisognava contare solo sulle proprie forze.
O
semplicemente era solo e bisognoso d’affetto.
Ok, doveva ammettere che questa visione di un
Sesshomaru avido di
coccole lo faceva semplicemente ridere, ma gli sembrava
l’opzione più
plausibile, e a causa di questo pensiero che aveva deciso di trovargli
una
moglie. Ma, accidenti, come era difficile!
“Smettila di pensare cose assurde e
muoviti.” Ringhiò Sesshomaru.
“Come…?”
provò a chiedere, ma il demone non si prese la briga di
rispondere, anzi, cominciò a camminare molto più
velocemente, a passi larghi,
con cadenza quasi militare.
Faceva fatica a stargli dietro, tanto larghi erano
i suoi passi, mentre
arrivavano all’ingresso della stazione, e si
ritrovò a correre prima di
accorgersene.
Entrarono nella stazione, e si avviarono al gate
indicato loro da
Miroku, il suo migliore amico.
Subito sentì il peso di una persona
concentrarglisi su di un piede, e,
nella sua visuale in corsa, apparve una ragazza con un
appariscentissimo
vestito a pois. Dato che odiava con tutto il cuore chi gli pestava i
piedi le
ringhiò immediatamente: “Ehi, mi hai pestato il
piede!”
Lei si girò, sorpresa e irata:
“Io non ti ho pestato proprio niente, e
pretendo delle scuse per le tue accuse infondate!”
Ma come! Tutto il suo dolce peso gli era arrivato
dritto dritto sul
piede e lei… negava!?
Sempre più arrabbiato, esplose:
“Ehi, ma come ti permetti, ragazzina! E
poi mi hai triturato un piede, con quel tuo dolce peso!”
Eccolo, vedeva Miroku!
“MIROKUU!!!”
“Il
piede non te l’ho pestato!”
disse Kagome, arrabbiata. “Sì invece!”
ringhiò l’altro di rimando,
avvicinandosi a lei. I loro visi erano a due centimetri, ma non
sembravano
provare imbarazzo, tanto erano arrabbiati.
“Buoni,
buoni, ora racconto io!”
disse Jakotsu. “Chissà perché, ma
immaginavo che la comare pettegola avrebbe
voluto raccontare per noi.” Disse Bankotsu, posando la testa
sulla mano, mentre
stava con il gomito sul ginocchio.
“Su,
taci, che mi sto sentendo
importante!”
Svitati
n° 9/10/11 – Bankotsu, Jakotsu e
Suikotsu Ben.
DOOOOOOOONGGGGG!!!
DOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOONNNNNNGGG!!!!!!!
“Il terremoto, lo tsunami, i tedeschi,
gli alieni, la glaciazione!
Aiuto!” strillò una vocina isterica di indubbia
provenienza.
DOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOONNNNNNNNNNGGGGG!!!!!
“Bankotsu cazzo! Smettila con quel
fottuto dong!” ringhiò alzandosi di
scatto, risvegliando la sua personalità più
aggressiva.
Il povero Bankotsu, che, una volta tanto, non
c’entrava nulla, e che,
tra l’altro, era caduto dal suo letto a causa del rumore,
disse, con aria
innocente: “Ma io sono qui!”
“Ah.” disse, disarmato. Poi, il
Suikotsu più aggressivo riprese il
sopravvento: “Allora maledetto Reinkotsu! Sei stato
tu!”
Il diretto interessato, steso sul letto a scrivere
le bozze per la tesi
di laurea, gli lanciò un’occhiataccia e si rimise
al lavoro.
Il Suikotsu cattivo però non era
desideroso di arrendersi: “Allora
Jakotsu!”
“Le esplosioni, i kamikaze, i terroristi,
i…”
Sempre più incazzato, Suikotsu
sbuffò: “Allora Mukotsu.”
Un improvviso russare da maiale giunse alle sue
orecchie.
“Jinkotsu?”
“Io mi sono incastrato qui da ieri
sera.” Jinkotsu, che aveva metà
corpo in metallo, era avvoltolato nelle coperte, e, dato che nessuno si
ricordava di dare olio alle sue giunture di ferro, si era incriccato
tra le
coperte e non riusciva a muoversi.
“Ah! Kyokotsu, cornuto che non sei
altro!”
Il diretto interessato, nascosto sotto il letto per
paura del rumore,
anche se con la sua mole da due metri e venti era molto difficile non
farsi
vedere, emise un mugolio di dissenso.
“Allora… chi?” si
disse Suikotsu, tornando alla personalità semplice e
pacata che usava maggiormente.
“DANNATI TOPI DI FOGNA! USCITE DA QUELLE
PUTRIDE TANE CHE DEVO PULIRE!
RACIMOLATE IL VOSTRO PUTRIDUME E PORTATE QUEI VOSTRI CULONI FUORI DA
QUI!”
Riconoscendo i toni soavi della governante del
condominio e,
soprattutto, ricordandosi la terribile punizione destinata a chi non
obbediva,
i sette, vestiti in fretta e furia, si precipitarono per strada.
“Certo… certo che Urasue
poteva usare una trombetta per svegliarci.”
Disse Jakotsu, ansante, con le mani poggiate sulle ginocchia per
respirare.
“Tzè, conoscendola userebbe un
trombone.” Sbuffò Reinkotsu, che nella
fretta aveva lasciato i suoi appunti in camera. Gli vennero le lacrime
agli
occhi quando pensò che, viste le manie di pulizia di Urasue,
probabilmente
avrebbe dovuto riscrivere la tesi.
“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”
Esplose, disperato. Tutti gli abitanti di Liverpool
sobbalzarono, fatta
eccezione per un povero sfigato che, per il balzo fatto relativamente
allo
spavento, finì in un tombino aperto.
“Penso che se potesse si strapperebbe
tutti i capelli.” Osservò Jakotsu,
con un dito sul mento con fare fintamente pensieroso.
All’improvviso, Bankotsu fu fulminato da
un ricordo sconvolgente:
“Suikotsu, che giorno è oggi?”
Il fratello pensò un attimo e poi:
“Il dieci giugno!”, allorché Jakotsu
esplose in un: “Per dindirindina!” così
acuto e naturale da far ridacchiare la
vecchietta che passò loro vicino: “Oggi dobbiamo
partire!”
Un piccolo problema. Le valigie erano in camera
loro. E in camera loro,
quando c’era Urasue, non potevano entrare, pena la terribile
punizione!
Un piccolo insormontabile
problema.
I tre forse ex viaggiatori si guardarono,
impauriti, almeno finché
Jakotsu non fu ispirato da un’idea: “Infiltriamoci
di nascosto e prendiamo le
valigie!”
In quel momento Jakotsu era il pazzo-finocchio-con
immensa voglia di morire.
Ma, non si sapeva come, si ritrovarono a
sgattaiolare nell’ingresso
alla ricerca dei loro bagagli.
“Allora, tu la distrai e io prendo i
bagagli.” Decise Bankotsu,
indicando Jakotsu. Lui fece di no con la testa. Intavolare un discorso
con
Urasue significava:
1 passare le ore a guardare le foto dei suoi criceti, cosa scocciante, dato che erano
ottantadue;
2 aiutare con le pulizie;
3 morte sicura.
“Facciamo poco
rumore,
allora.” Disse Bankotsu, decidendo che ci si sarebbe
semplicemente intrufolati
in camera.
Aprirono lievemente la porta della loro camera. Si
sentiva una gran
puzza di bruciato. Bastò aprire ancora un po’ per
vedere un bel fuocherello
scoppiettante nel centro della stanza.
“Ma quella non è la tesi di
Reinkotsu?” chiese Jakotsu, indicando un
tomo che bruciava con particolare vivacità.
(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)
“E quelli non sono i tuoi
calzini?” chiese Suikotsu, indicando a sua
volta un paio di calzettoni a righe di Bankotsu, che bruciavano non
meno allegramente
della tesi di Reinkotsu.
(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)
“Ora capisco perché il
pavimento è più scuro in certi punti.”
Mormorò
Bankotsu, mettendosi un dito sul mento. Urasue era una pazza piromane.
“Stordiamo la vecchia, arraffiamo
ciò che dobbiamo e ce la diamo a
gambe?” propose Suikotsu, sempre sottovoce. Bankotsu
annuì: “Vado a prendere un
ombrello.”
Urasue intanto stava buttando tutto ciò
che riteneva spazzatura – un
ipod, un libro di letteratura, un paio di mutande, calzini, polvere,
matite,
penne e via dicendo – nel suo mini falò da
appartamento, ignara della tempesta
che si preannunciava.
“KYYYYAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!”
“WAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!”
“BANZAIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!”
(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)
Seguirono un tonfo, un grido strozzato, tre
“hurrà” e il rumore di sei
piedi che correvano giù dalle scale.
La
faccia degli ascoltatori era
più o meno questa: O.O
“Che
storia originale…” commentò
Sango, ravvivando un po’ il fuoco con un ramoscello. Erano le
undici e
quaranta.
“Ma
questa Urasue è una pazza
piromane!” esclamò Shiori, con la sua tipica voce
da angelo, così candida da
risultare quasi comica. Bankotsu annuì: “Per
questo siamo in tre.” Spiegò, indicando
sé e i fratelli: “Reinkotsu è rimasto a
casa per riscrivere la sua tesi.”
Lontano,
a Liverpool, si sentì un grido.
(“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!”)
“Povero…”
sussurrò Rin. In
effetti doveva essere davvero brutto dover ricominciare un lavoro che
magari
era quasi giunto ad un termine.
(“UAAAAAa-
*l’autrice sopprime Reinkotsu
con un colpo d’ascia*)
“A
chi tocca?” chiese Miroku,
aggiungendo un bastoncino nel fuoco.
“Rin?”
chiamò Jakotsu, ma la
giovane si limitò a gettare un’occhiataccia a
Miroku e sospirare lievemente:
“No grazie.”
Svitati
n° 12/13 – Rin Jordan e Miroku Funnigan
Se non vi ricordate cosa è successo
tornare al capitolo 1. ma come fate
a non ricordarvi cos’è successo? Andate avanti,
va’! nda
“Koga?”
“Agli
ordini!” esclamò l’altro.
Svitato
n° 14 – Koga Kinnon
“Mh.” Mugugnò alla
cassiera dell’aeroporto, quando gli chiese se
volesse prendere il velivolo per Londra.
“Mh.” Mugugnò al
commesso che gli chiese se con lo sbadiglio“hoahaaht*” intendesse il
cornetto con la crema da due euro.
“Mh.” Mugugnò al
poliziotto che gli chiese i documenti.
“Maleducato!” inveì
la vecchietta che si era seduta di fronte a lui al
gate per l’aereo per Londra, quando si stiracchiò
in un assonnatissimo
sbadiglio di proporzioni lupesche. Ma non ci poteva fare nulla. Si era
dovuto
svegliare alle quattro di mattina per fare la valigia, salutare tutti i
parenti
ed andarsene da Dublino, in Irlanda, a Londra, in Gran Bretagna. Non
aveva
nulla in contrario, se non fosse per il fatto di possedere la mimica
facciale
di un gibbone e due occhiaie da far invidia ad un panda, senza
ovviamente
parlare dell’aria rincoglionita D.O.C. che lo faceva sembrare
un ebete.
Ma quella vacanza gli ci voleva, cavolo! Dopo anni
passati a sgobbare
all’università ci voleva una luuunga e riposante
vacanza.
I suoi pensieri di ornitorincoglionimento*
furono interrotti dalla monotona suoneria del suo telefono, al quale
mise mano
solo dopo aver tentato tre volte di infilare la mano nella tasca della
felpa,
senza centrare il bersaglio. Allorché il suo cervello decise
di mobilitare un
altro neurone, quello necessario per prendere il cellulare e premere il
tasto
verde: “Mh?”
“Koga Kinnon?” chiese la voce
dell’organizzatore.
“Mh.”
“Io sono Miroku, ti ricordi?”
“Smh.”
“Ehm… visto che sei
l’unico che viene da fuori, ci servirebbe l’ora del
tuo arrivo all’aeroporto di Londra.”
Il suo cervello mobilitò altri due
neuroni, quello per capire le frasi
complesse con subordinate e quello per parlare correttamente
l’inglese.
“Verso le dieci.”
“Tutto a posto, amico?”
“Mi sono svegliato presto.”
Mugugnò tra uno sbadiglio e un altro.
“Ah, ok, ci vediamo davanti al gate 7
dell’aeroporto di Londra.”
“Ok.”
Pigiò il tasto rosso e si
alzò, vedendo che ci si poteva imbarcare, e
si diresse verso l’aereo.
…
No. Diciamo che cominciò a caracollare a
mo’ di zombie verso
quell’affare bianco con le ali che ai suoi occhi appannati
dal sonno ricordava
un aereo.
Finì seduto vicino ad un ciccione che
sembrava voler occupare con la
sua ciccia anche il suo posto, provvidenzialmente protetto dai
braccioli.
Considerata la stazza del vicino, cominciò a pregare che il
velivolo potesse
decollare senza troppi problemi.
Ma, contrariamente ai suoi piani di ronfata durante
il viaggio, il
ciccione, già molesto per la sua mole, cominciò a
parlare di come i demoni
fossero sgraditi alla sua vista, di come li considerasse pericolosi e
nocivi
alla collettività e soprattutto di come puzzassero
– ma si è odorato le
ascelle? – senza ovviamente
dimenticare
di disprezzare per bene gli Inu youkai ed Inuken Tashio per essersi
intromessi
per primi nella vita degli umani.
Alla rivelazione della natura demoniaca del vicino
di posto, che glielo
aveva fatto notare con un ringhio che aveva messo ben in evidenza le
zanne da
lupo e che aveva avuto il potere di svegliarlo per benino, il ciccione
divenne
tutto rosso e sudaticcio, puzzando sempre di più, e non
parlò più.
Quando scese si premurò di pestargli
accuratamente tutti i piedi.
“Tzè!”
Risero
tutti di gusto,
soprattutto all’episodio del ciccione, fatta eccezione per
Shiori ed Inuyasha,
chiaramente urtati dal fatto che alcune persone li considerassero
ancora
indirettamente inutili perché risultato
dell’unione di due razze diverse.
Miroku,
che lo
conosceva abbastanza bene per capire che era particolarmente irritato,
diede
una pacca sulla spalla ad Inuyasha: “Su, non ti rabbuiare,
noi pensiamo che i
mezzidemoni siano uguali a tutti gli altri.” Lui
annuì, mormorando qualcosa a
riguardo del fratello. Non per Sesshomaru.
“Sango?”
Lei
annuì.
Svitata
n° 15 (su
resistete, è quasi finito ;) – Sango Ashe
“Sorellona?” la
chiamò Kohaku, sulla porta
di casa. Lei si girò in direzione del suo fratellino
ventenne, facendogli
capire che lo stava ascoltando.
“Adesso tu parti per tre mesi?”
le chiese,
inclinando la testa da un lato, tipico atteggiamento di quando era
triste.
Sango annuì. Le venne da sorridere: Kohaku, anche se ormai
maggiorenne ed
adulto, le sarebbe stato sempre affezionato, come quando erano bambini
e lei lo
proteggeva dai bulli, rimproverandolo perché troppo debole.
Kohaku le si avvicinò – accidenti
quanto
è alto! – e le disse:
“Mi mancherai
sorellona!” e le diede un bacio sulla guancia. Lei sorrise e
gli scompigliò i
capelli.
“Ciao mamma, ciao
papà!” gridò,
dall’ingresso, per poi sentire le voci dei suoi genitori
gridare una risposta.
“Ci vediamo a settembre!”
Uscì a passi grandi, chiamando un taxi.
“Salve bella signorina!” disse
l’autista, un
omone grassoccio dallo sguardo non troppo ortodosso. Lei,
irrigidendosi, non
aveva mai sopportato i complimenti gratuiti per abbordare, si
limitò ad un
semplice: “Salve”, ma prima che potesse anche
finire di pronunciare quelle
poche lettere, il tipo scese dalla macchina, prese il suo bagaglio,
aprì il
bagagliaio e ce lo mise dentro. Poi, come se esigesse un pagamento, le
mise una
mano sul fianco e le palpò il sedere.
Lei, che già era abituata alle porcherie
del
fidanzato, reagì immediatamente, come se fosse scattata una
molla, e, ripresasi
la valigia, la usò come oggetto contundente/arma per colpire
quasi a morte il
suo potenziale stupratore. “Me ne vado a piedi!”
ringhiò, lasciandolo steso
davanti al suo veicolo.
Miroku
la
guardò allibito: “N-non me lo avevi
detto!” lei fece spallucce: “Beh, sono
ancora integra, quindi…”
Miroku,
distogliendo lo sguardo da Sango attizzando ancora un po’ il
fuoco, sibilò qualcosa
di molto poco carino a che fare con il brutto porco maniaco del
tassista.
Rin
guardò
Sango, che, nonostante il linguaggio colorito di Miroku che doveva aver
percepito e che doveva averla sconvolta parecchio, aveva un bellissimo
sorriso
stampato sulle labbra. Doveva essere davvero felice e lusingata e Rin
non poté
non notare il fatto che la ragazza si spostò un poco verso
il suo compagno.
“Shiori,
a te
l’onore.” Disse Miroku, dando la parola
all’ultima rimasta.
Svitata
n° 16 (parte
un boato da parte di tutti i lettori) – Shiori Hiakkikomori
La sveglia trillò fastidiosamente,
mentre
doveva lottare contro una forza negativa che le impediva di muoversi
come più
le compiaceva, e dovette fare un notevole sforzo per liberarsi della
coperta,
che equivaleva alla forza negativa. Come aveva fatto ad arrotolarsi
così?
“Buongiorno.” Si disse, giusto
per occupare
con la voce il vuoto della casa che condivideva con la solitudine e
molti cd.
Sbatté un po’ gli occhi lilla, per poi ricordarsi
che doveva partire e,
vestitasi in fretta, uscì fischiettando dalla porta.
Gli
altri la
guardarono, interrogativi: “Tutto qui?”
Certo,
rispetto
alle avventure vissute dagli altri la sua mattinata era quasi
indecente, ma non
era successo nulla di niente: il treno era arrivato in orario, era
stata praticamente
da sola tutto il tempo e nessuno le ruppe le scatole più di
tanto. Solo lei e
le sue cuffiette.
“Ah,
beh,
allora è tempo di dormire.” Disse Bankotsu,
stiracchiandosi ed alzandosi. “Ah,
un’ultima cosa!” disse Miroku, alzandosi.
“A parte le notti di pioggia è tas-sa-ti-va-men-te
vietato dormire
dentro Sengoku.” Ordinò, facendo adeguatamente lo
spelling e marcando bene la
parola ‘tassativamente’. Si girarono tutti,
incuriositi, con un’espressione
interdetta ben chiara sul volto.
“E
perché mai?”
chiese Suikotsu. “Perché poi puzza.”
Nessuno
capì il
senso di quell’affermazione.
Rin,
con le
palpebre ormai prossime al sigillarsi per un lungo lasso di tempo,
salì sul
pulmino con l’idea di cambiarsi, almeno per mettersi qualcosa
di più adatto ad
una lunga ronfata.
Peccato
che si
ritrovò accoccolata su uno dei sedili di Sengoku, da
tutt’altra parte rispetto
alla sua valigia e alla sua idea.
Quanto
era
lontano l’ultimo momento in cui aveva dormito? Le sembrava
almeno una
settimana. Si sentiva stanchissima…
Erano
le due e
mezza quando finalmente tutti decisero di andare a dormire, che Koga
decise di
andare a curiosare un po’ tra i poster all’interno
di Sengoku, trovandoci poi
una Rin addormentata nell’angolo, con le braccia incrociate e
poggiate sul
piccolo frigorifero e la testa abbandonata sopra di esse. Stava per
protestare,
ma sentì la mano di Miroku posarglisi sulla spalla:
“Lasciala dormire qui per
oggi.” Suggerì. “È stata una
giornata molto faticosa per lei.”
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ALLORA! avete isto che la
vostra Larchy non vi ha abbandonato? *qualcuno tira un pomodoro*
la canzone di oggi non so
se è molto conosciuta, ma io l'adoro :D
dunque, non ho cose da
dire... ah, sì, probabilmente troverete qualche errore verso
la fine, ma quel pezzo l'ho corretto tardi, e se avete
biasimi/proteste/frutta/uova da tirare fate pure (se potete evitate gas
velenosi e bombe a mano, il pc è molto fragile)
per il resto credo di
aver finito. sopportate un po' la lunghezza del capitolo, se
è troppo pesante giuro che il prossimo lo accorcio!
baci e buona vita a tutti.
Agathé
tykhè.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 6. Il metrò, luogo infestante. ***
questo capitolo è
dedicato a
Rika red <3
sakura_sama :D
rossy-chan <3
6.
Il metrò, luogo infestante.
Non
seppe cosa
fu di preciso a svegliarla. Forse la trombetta da stadio suonata
all’improvviso, o forse il coro di invettive lanciate in
seguito, o forse
ancora il grido soffocato e un’imprecazione non troppo
gentile, fatto sta che
si ritrovò su un pavimento, a quattro zampe, col fiatone e
la tremarella.
Quando
si
ricordò cosa fosse successo durante l’intera e
precedente giornata, ma
soprattutto quando vide uno scarafaggio zampettarle davanti al naso,
non poté
fare a meno di lanciare un grido e rotolare sotto al tavolo di legno
infisso
sul fondo di Sengoku.
“Che
succede?”
Entrarono
praticamente tutti quanti, chi allarmato, chi semplicemente
incuriosito. A
prima vista non videro nessuno, almeno fino a quando a Inuyasha non
venne la
brillante idea di guardare sotto al tavolo: “Rin, che ci fai
lì?”
“Sc…
a… scafa…
faragcsa-gi!” balbettò, sotto pressione e rossa
per l’imbarazzo. Aveva il cuore
che andava a mille.
Quando
capirono, tutti gli sguardi verterono su Miroku, che sembrava
abbastanza
imbarazzato: “Sentite, io Sengoku l’ho
pulito… non sono certo superman!”
Rin,
uscendo da
sotto al tavolo e sedendosi sopra di un sedile, notò che
Sesshomaru era tornato
tra loro. Si era già cambiato: indossava un paio di jeans e
una camicia
candida, che sembrava essere stata cucita apposta per le sue spalle
larghe e
magre, perché gli stava benissimo. Non sembrava avere quasi
cento anni (capitan
ovvio, nda), come non sembrava che avesse passato tutta la notte fuori:
il suo
viso era liscio e neutro come sempre, non una ruga, non
un’occhiaia. Beato lui.
Dopo
un
silenzio imbarazzato, Sango decise che era ora di cambiarsi, dato che
nel sacco
a pelo aveva dormito con i vestiti del giorno prima, così
come tutti gli altri.
Miroku annuì: “Prendete le valigie e cambiatevi
qui dentro, mentre gli uomini
aspettano il proprio turno.”
Sango
rimase
basita. Miroku non aveva fatto storie, né battute di dubbio
gusto. Stava per
caso male?
Mentre
i
ragazzi uscivano, le ragazze presero ognuna il rispettivo bagaglio,
anche se la
valigia di Rin fu portata da Ayame perché lei non riusciva a
sollevarla e, dopo
essersi rinchiuse nel pulmino e aver ben controllato che dai finestrini
non ci
fosse nulla, azione che impiegò i cinque minuti in cui
Miroku cercava di fare
in modo di vedere qualcosa e in cui Sango lo picchiò a
morte, cominciarono a
cambiarsi.
Dovevano
parlare sottovoce per paura che qualcuno sentisse i loro discorsi su
argomenti
come… “CAZZO!!”
Tutte,
all’esclamazione di Kagura, saltarono di almeno tre metri,
mentre Rin rotolò,
in mutande e reggiseno, sotto al tavolo, di nuovo.
“Ehm… non vi preoccupate,
l’amico Red ha anticipato di nuovo.”
Spiegò criptatamente, mentre le altre
annuivano, gravemente.
Rin,
rossa per
la vergogna per essersi dovuta spogliare davanti ad altre persone,
optò per una
camicetta rossa, pescata a caso nella valigia, un paio di jeans lunghi
e scarpe
da ginnastica, e stava per mettersi un maglione quando Ayame glielo
sequestrò:
“Eh, no, non starai qui, davanti a me, tutta imbacuccata, a
farmi morire di
caldo, ora che hai finito di vestirti fila fuori!” e, non si
sapeva come, si
ritrovò in mezzo ai maschi, fuori da Sengoku.
Non
seppe dire
perché, ma diventò bordeaux. Forse erano gli
sguardi di Miroku, Naraku, Koga e
Bankotsu che scivolarono sul suo petto, straniti da chissà
che cosa, così
interrogativi da farle abbassare lo sguardo per vedere se ci fosse
qualche
strano insetto, che, però, non vide.
Quella
situazione imbarazzante fu salvata però da Shiori, che,
scendendo da Sengoku,
inciampò in un gradino e le finì sopra, e, a
mo’ di panino, anche Kagome fece
lo stesso.
“AHI!”
si
lamentò, con le lacrime agli occhi, quando rivide la luce,
mentre veniva
pescata da una mano da terra e rimessa in piedi. Poi vide davanti a
sé la
figura di Koga: “Scusa piccola, ma sembravi quella messa
peggio tra quelle
tre.” Le disse, indicando con il pollice Shiori e Kagome, che
cercavano di
scusarsi l’una con l’altra.
“Oh,
grazie al
cielo vi siete cambiate in un tempo relativamente breve!”
esclamò Bankotsu,
dopo circa dieci minuti, quando anche Kagura si decise a scendere da
Sengoku.
“Lo dici come se te ne intendessi.” Gli
ringhiò la yasha, dopo averlo squadrato
da capo a piedi ed aver incurvato le labbra in un irriverente sorrisino
relativo all’altezza del primogenito dei Ben. Decisamente
bassa, soprattutto
dall’alto dei suoi tacchi.
Bankotsu
non se
ne accorse, o forse la ignorò per gentilezza, ma fatto sta
che in quel momento
il suo problema era un altro: fratello numero 3, ovvero Jakotsu.
Perché se c’era
una cosa che lo eccitava, e che non mancava di fargli notare, era
cambiarsi
vicino a tanti bei maschioni (citazione necessaria).
“Lo
sediamo?”
sussurrò Suikotsu, mentre salivano su Sengoku dopo essersi
presi i bagagli,
riferendosi ovviamente a Jakotsu, che, da parte sua, stava sorridendo
come un
ebete, e ciò faceva presagire nulla
di buono.
Sesshomaru,
per
fortuna sua, aveva avuto l’occasione di cambiarsi
all’alba, quando tutti erano
tranquillamente nel mondo dei sogni e quando lui era tornato dal suo
giro. Non
che fosse stato lontano, aveva semplicemente passeggiato nel bosco e
aveva
finito per arrampicarsi su di un albero, sfortunatamente a portata di
orecchio
da quello che si diceva intorno al fuoco.
Doveva farla pagare a quel cretino del
fratello, anzi fratellastro! Se c’era una cosa che odiava era
l’essere trattato
come un vecchio bacucco, lo faceva incazzare così tanto da
voler far fuori
subito la causa della sua arrabbiatura, e si fermava solo per motivi
più o meno
legali. Sarebbe stato scomodo
essere
condannati a morte per l’uccisione di un misero umano, il
gioco non sarebbe
valso la candela.
Si
appoggiò ad
una delle pareti del pulmino, in attesa, preso dai suoi pensieri al
punto di
non accorgersi di Kagura che si avvicinava.
“Ciao.”
Gli
disse, sorridendo lievemente. Lui si limitò ad
un’occhiata gelida, che intimorì
la donna ma non ebbe l’effetto di scoraggiarla:
“È una bella giornata, non
trovi?”
Se
trovò la
giornata bella, se lo tenne per sé, e si
allontanò senza dire nulla.
Kagura
stranamente percepì un venticello artico scompigliarle i
capelli, mentre la
temperatura calava drasticamente. Rabbrividì.
Poi,
all’improvviso, nel pulmino ci fu un movimento confuso, e
tutti si
precipitarono fuori, chi in boxer, chi con i pantaloni, chi con solo la
maglietta,
sotto lo sguardo perplesso delle ragazze e di Sesshomaru.
Rin,
vedendo
Suikotsu e Shippo in mutande, diventò dello stesso colore
della camicetta, e si
mise le mani sul viso, girandosi: “Oh, che
vergogna!” esclamò contro sé stessa.
Manuale di sopravvivenza di Rin: 2) gli
uomini in mutande portano solo vergogna e gote rosse. p.s. mai lasciare
soli
poveri ed indifesi uomini con Jakotsu.
Dopo
circa
dieci secondi scese Jakotsu, l’unico pronto e davvero
rilassato: “Ah!” esclamò,
allargando le braccia: “Che bella giornata!”
Tutti
i maschi
si rintanarono nel pulmino.
Dopo
la
parentesi di Jakotsu il maniaco tutti si ritrovarono in cammino verso
il museo
più famoso al mondo, il monumento che ha dato tanto lustro a
Parigi dopo la
Tour Eiffel: il Louvre.
“Giusto
per
informazione.” Cominciò Shippo, rivolgendosi a
Miroku: “Quanto dista il Louvre
da qui?” Miroku, per tutta risposta, si grattò la
testa, con fare pensieroso:
“Mah, direi più o meno dall’altra parte
della città.”
Rin
gemette a
causa dell’informazione. Tutta la giornata sarebbe sfumata a
camminare, e lei
già si sentiva stanca. Aveva dormito decisamente male, ed
aveva avuto un incubo
terribile.
“Rin,
tutto a
posto?” le chiese una voce, che poi si scoprì
essere quella di Jakotsu: “Più…
più o meno.” Balbettò.
“Seenti,
io
volevo chiederti una cosa.” Cominciò, mettendole
un braccio attorno le spalle e
avvicinando le labbra al suo orecchio: “Ma quanto porti di
reggiseno?”
Lei,
a
quella domanda
inopportuna e invadente,
si bloccò, rossa come un pomodoro, ancor più
scarlatta della tonalità decisa
della camicetta. Nel suo cervello non quadrava nulla. Avrebbe potuto
ascoltare,
non accettare, chiariamolo, quella domanda da Naraku, forse,
perché sembrava il
più invadente, ma perché gliel’aveva
fatta Jakotsu che, essendo dell’altra
sponda, non aveva interesse per quelle cose? Forse la stava facendo a
lei per
conto di qualcun altro. Ma a chi poteva importare della sua
taglia di reggiseno? Saranno stati anche fatti suoi!
“Naraku
aveva
ragione, i tuoi pensieri si leggono sul viso.”
Ridacchiò Jakotsu, con la sua
tipica risatina un po’ rauca: “Non farti troppi
film mentali, la mia era
curiosità, se mi dici la risposta ti spiego
perché.”
“Qu-quasi
una
quarta.” Balbettò, rossissima.
Allorché
Jakotsu, gridò, esaltato: “AHA!” ma
così acutamente da far girare alcuni
innocui francesi che stavano passando per la via: “Avevo
ragione, ecco perché
ti guardavano!”
“Eh?”
“Allora”
cominciò, spiegando il suo,
di film
mentale: “Ieri avevi un maglione, quindi non si vedevano le
tue grazie.” A quell’affermazione
Rin arrossì, se possibile, ancora di più:
“Ma quando sei stata buttata giù da
Sengoku oggi, non ti sei sentita osservata?”
Annuì,
ricordandosi di quello che era successo qualche minuto prima: in
effetti si era
sentita osservata un po’ troppo spudoratamente.
“Ecco, diciamo che sono rimasti
stupiti.” E, con questo, indicò Bankotsu:
“Pensa che lui ha anche detto: insomma
prima sembra piatta come una tavola
e poi assorbe più curve di un’autostrada di
montagna, non è valido!”
l’imitazione di Jakotsu era perfetta, aveva la stessa
tonalità di voce del
fratello, resa però un po’ più stridula
dalla sua.
“Ehi,
ehi,
ehi.” esclamò una voce dietro di loro:
“Guarda che Rin è una mia paziente, non
la puoi strapazzare così!” e, quando Jakotsu
lasciò libere le sue spalle, Rin
poté vedere la figura slanciata di Naraku ergersi a pochi
passi da loro. Si
bloccò: “Chi sarebbe la tua paziente?”
borbottò, contrariata.
“Ma
tu,
tesoro.” Jakotsu ridacchiò e si
allontanò con una malizia che Rin, essendo
abbastanza ingenua poiché totalmente inesperta nel mondo al
di fuori della sua
casa, non riuscì a cogliere e, anzi, scambiò per
un dispetto.
Incrociò
le
braccia e continuò a camminare, un po’ risentita
del fatto di essere ancora
sola con quello psicologo psicopatico. “Non è la
prima volta che qual-”
“-cuno
lo pensa.”
Lo interruppe Rin, mimando con la mano una bocca che parlava troppo,
scocciata.
Naraku
rimase
sorpreso: interrompere gli altri era una sua caratteristica, ma era la
prima
volta che qualcuno gli rubava le parole di bocca. Con molta
soddisfazione, si
disse che Rin non era un caso da studiare solo per agorafobia.
“Hai
lasciato
lo skateboard su Sengoku?” chiese Koga con strafottenza,
avvicinandosi ad Ayame
che, udendo la voce dell’odiato demone, si girò di
scatto, astiosa: “Perché,
volevi essere abbattuto di nuovo?” ringhiò,
avvicinando il viso al suo.
Koga
rimase un
po’ imbarazzato per quella vicinanza così
repentina, e andò indietro con il
busto per spezzarla, ma Ayame gli andò dietro e finirono di nuovo stesi per terra una sopra
l’altro. “Ma si può sapere che
ti prende, goffa lupacchiotta senza equilibrio?” ringhiò Koga,
alzandosi di scatto e
costringendo Ayame a rotolare sul marciapiede, mentre sia i loro
compagni di
viaggio che i passanti si attorniavano al loro litigio.
“Sarei io quella senza
equilibrio?!” esclamò Ayame, sempre più
irritata, tanto dal puntare un dito
contro il petto del demone: “Tra noi due sei tu il cretino
che non si regge in
piedi, stupido lupastro!”
“Eh,
non
offendermi tanto, purtroppo sei della mia stessa razza.”
Sibilò l’altro di
rimando.
“No,
perché
lupastro è l’insieme di stupido lupo e
impiastro.”
“Ah,
e io sarei
un impiastro? Ma ti sei vista? Non hai un briciolo di sex
appeal!”
A
quel punto si
poteva pensare chiaramente a due fidanzatini isterici, tanto che i
francesi che
curiosavano non riuscivano a cogliere le gentilezze in lingua
anglosassone che
i due si stavano scambiando. Ayame sarebbe di sicuro saltata addosso a
Koga a
suon di botte per fargli capire cosa ne pensasse del proprio sex appeal
se
Sesshomaru non fosse intervenuto.
Rin
pensò che
Sesshomaru fosse stato semplicemente fantastico.
Il
demone prese
Koga per un orecchio, ignorando le sue proteste, invettive e i suoi
tentativi
di liberarsi e, dopo averlo allontanato dalla ragazza, lo
spedì in avanti per
tre metri con un poderoso calcio nel sedere, poi ritornò ad
Ayame e fece la
stessa cosa, mandandola indietro di tre metri con lo stesso metodo
“Avvicinatevi più di così e vi butto
nella Senna.” Dopodiché si avviò a
grandi
passi verso il metrò.
“Ma?”
chiese
Shippo, sorpreso dal fatto che i due non avessero opposto resistenza.
Beh,
neanche lui lo avrebbe fatto, vista la presumibile
irritabilità di Sesshomaru e
la potenza muscolare ostentata dal calcio distribuito sui didietro dei
due
lupi.
“Neanche
si
conoscono e già cominciano a punzecchiarsi.”
Brontolò Sango, incrociando le
braccia. “Non ti preoccupare.” Disse Naraku, con il
suo solito sorrisino
sornione: “In realtà si amano già alla
follia.”
“Noi non ci punzecchiamo.” Disse
invece
Miroku, avvicinandola a sé mettendole la mano su un fianco.
Lei, piccata, gli
diede uno schiaffo in omaggio. “No, affatto.”
Rin
rimase
basita.
La
gente era
pazza. Il mondo era pazzo! E lei, povera, ingenua e tremante fanciulla,
era
costretta in un mondo così pericoloso!?
Sobbalzò
all’ennesimo tram che passava, girandosi di scatto per
l’ennesimo fruscio di
vento che le aveva fatto venire i brividi, dato che Ayame le aveva
sequestrato
il maglione. Poi, dalla tasca, provenne il suono di un trillo, il
tipico e
anonimo trillo del suo telefono, e, dopo averlo estratto dalla tasca,
si
accorse che a chiamarla era sua madre.
Rimase
indecisa
un paio di secondi sul rispondere o meno, poi si disse che in quel
momento era
ancora troppo arrabbiata con lei per poterle parlare civilmente e
premette il
tasto rosso. “Ti chiamano da casa?” chiese la voce
limpida di Shiori,
sporgendosi verso di lei. Rin, in quel momento, ringraziò
mentalmente Shiori,
perché, non essendo né troppo alta né
troppo grande rispetto a lei, non la fece
sentire una schifezza. Annuì: “Era mia
madre.”
Shiori
si fece
un po’ pensierosa, come se quell’informazione le
desse da riflettere, poi le
disse, con un sorriso: “Allora è meglio che la
richiami ora, non credo che nel
metrò prenda.” Il suo tono era tra i
più innocenti del mondo, e faceva quasi
sorridere.
Stava
per
spiegarle il motivo per cui non voleva sentire sua madre, quando il suo
cervello recepì la parola metrò.
Rabbrividì.
“Dove?”
chiese,
non credendo alle proprie orecchie, ma intervenne Shippo, che
circondò le
spalle di tutte e due le ragazze con le braccia: “Beh, Miroku
ha detto che a
piedi ci metteremmo troppo quindi abbiamo optato per il
metrò.” Spiegò, con
aria allegra e tosto Rin si diresse a grandi passi verso quella specie
di
organizzatore, a metà tra l’arrabbiato e lo
spaventato.
Passi
per
essere stata trascinata anche in quel giorno in un luogo pieno di
germi, passi
per la lunga camminata che probabilmente avrebbe dovuto sopportare, ma
entrare
in un orribile posto pieno di sporcizia come il metrò le
sembrava decisamente
troppo!
Tirò
Miroku per
una manica, distogliendolo dalla sua chiacchierata con Inuyasha,
sussurrandogli, concitatamente:
“Possiamoandareapiedi?”
Lui,
capendoci
più o meno la p,
alzò un
sopracciglio, interrogativo: “Eh!?”
Rin
prese un
bel respiro e, dopo essersi quanto meno data una calmata, disse:
“Possiamo
andare a piedi?” Inuyasha a quel punto, udendo finalmente il
preoccupato
borbottio della ragazza, scoppiò a ridere, tanto da attirare
l’attenzione di
qualche francese di passaggio: “Ehi, stiamo
scherzando?” ridacchiò: “A piedi
non vado nemmeno morto!”
“Strano
che tu
sia così poco resistente.” Ghignò Koga,
avvicinandosi all’improvviso di tre
metri: “Forse è per il fatto di essere un
mezzodemone. Mezza tacca.” Ridacchiò,
dopo aver posizionato le dita a forma di L sulla fronte.
Perdente.
Inuyasha chinò un po’ il capo, frustrato: sempre,
sempre, tutti, Sesshomaru per
primo, gli avevano sempre fatto sgarbatamente notare il suo essere
mezzodemone,
tanto che lui ormai ci aveva fatto l’abitudine. Ma, se forse
riusciva a
trattenersi dal saltare addosso a Sesshomaru, non poteva certo
accettare il
fatto di essere stato chiamato perdente da un quasi sconosciuto!
“Parla
per te:
sei un demone completo e neanche riesci a reggerti in piedi.”
Ringhiò, con gli
occhi accesi di rabbia.
Miroku
sgranò
gli occhi: uno a zero per Inuyasha! Certo, lui lo conosceva bene in
quanto suo
amico dalle elementari, ma mai si era azzardato ad una risposta
così pungente e
cattiva nei confronti di qualcuno. Wow.
“Certo
che i
maschi non fanno altro che litigare!” sospirò
Kagome, abbassandosi mentre si
fingeva così esasperata dal mimare la caduta delle proprie
braccia. Era vestita
con una gonna fino al ginocchio a righe gialle e arancioni accostata
con una
canottiera estiva color cielo che faceva a pugno con il resto del
vestiario.
Provocava un contrasto così evidente da sembrare
praticamente volontario. Kikyo
le diceva sempre che aveva un terribile gusto nel vestirsi, che
abbinava i
colori in un modo così assurdo da sembrare daltonica, ma per
lei, ovviamente
era facile parlare.
Kagome,
essendo
la sorella gemella di Kikyo, era sempre soggetta ad un confronto anche
perché,
chi le conosceva, si metteva in condizioni di adorare la ragazza
più seria e
composta e calcolare come nulla quella più esuberante e
fastidiosa, ma a lei,
Kagome, questo non dava particolarmente fastidio, anzi. Voleva bene a
Kikyo e
non vedeva il motivo per cui dovesse risentirsi di qualcosa che
pensavano gli
altri.
Ma
se c’era
qualcosa che le pesava allora era il comportamento altezzoso e saccente
che
questo modo di pensare provocava nella sorella. Kikyo, quella
più bella, quella
più sexy, quella più arguta, quella
più brava, quella più tranquilla. Era ovvio
che poi la diretta interessata si sentisse stracarica per quelle
lusinghe e
soprattutto, si sentisse in dovere di umiliarla. Magari non lo faceva
nemmeno
apposta, ma, alla fine, era sempre Kagome a essere ignorata.
A
scuola,
all’università, con gli aiuti della sorella, Kikyo
era diventata l’alunna più
brillante, mentre lei veniva dimenticata.
In
famiglia,
dove ovviamente gli errori di Kagome sembravano enormemente
più gravi di quelli
della sorella.
Persino
in
amore, dove, quando ad entrambe piaceva un ragazzo, Kikyo si impegnava
a
conquistarlo per prima, lasciando a lei il nulla. Basti pensare che
Onigumo, l’ex-futuro
marito di Kikyo, era l’uomo per cui Kagome si era innamorata
dai tempi del
liceo, soffiato dalla sorella.
“Posso
dirti
che i tuoi pensieri puzzano di sventura?” chiese Kagura,
poggiandole una mano
sulla spalla. Kagome, dal canto suo, si risvegliò
all’improvviso dalle sue
riflessioni, sobbalzando un pochino: “Ehm… penso
proprio che sia la definizione
giusta.” Mormorò.
Sango
aveva
immediatamente capito a cosa l’amica stesse pensando, tanto
che si rabbuiò
anche lei. Le sorrise, rassicurante, e le suggerì di pensare
a qualcosa di più
allegro.
“NON
CI CREDO!”
gridò a pieni polmoni, cercando di risalire le scale. Voleva
tornare a casa,
voleva tornare a casa!
Fu
agguantata
dalla mano di Naraku, che la prese per i capelli e la costrinse a
ritornare
giù, nella galleria del metrò: “E dai,
dovrà pur passarti ‘sta agorafobia.”
Mugugnò, senza lasciarla e facendole obliterare,
controvoglia, il biglietto.
Rin
cominciò a
piagnucolare, tremando. Era nel metrò, era nel
metrò, porca miseria! Era tutto
buio, e spaventoso, e sporco! si
vedevano macchie di umido sui soffitti polverosi – e non
poté fare a meno di
lanciare uno strilletto alla vista di un ragno – e
chissà quante gomme da
masticare per terra! E poi c’erano tante, troppe persone!
Erano le otto e mezza
e, a quanto pareva, era ora di punta, perché sembrava che
tutti i francesi di
Parigi dovessero in quel momento prendere la metro.
Dovettero
appiccicarsi tutti e sedici al muro per evitare di essere travolti
dalla folla
che usciva dal primo – e sporco! – treno, e per lei
fu un’altra mazzolata di
strizza. Prese la mano della persona che stava alla sua sinistra, in
quel caso
Kagura, e la strinse con quanta pi forza aveva.
L’altra
rimase
sorpresa: non aveva mai sentito tanto terrore in una persona in una
volta sola,
e le faceva quasi pena sentire sulla pelle tutta la paura di quella
scricciola che,
evidentemente, se la stava facendo sotto, e avrebbe di sicuro cercato
di darle
un po’ di conforto se la sua mano non avesse perso la
sensibilità a causa della
sua stretta. “Ehm… Rin?” la
chiamò, quando ormai le sue dita erano diventate
rosse. Lei, arrossendo di botto, lasciò la sua mano e si
scusò almeno mille
volte.
“Muoviamoci,
prendiamo il prossimo!” gridò Miroku, agitando le
braccia, e tutti si
incamminarono di corsa alla banchina.
Rin,
sbattendo
e facendo slalom tra la gente, non fece altro che seguire la lunga e
candida
chioma di Sesshomaru che, tra l’altro, sembrava non avere
veri problemi nel
camminare, oramai suo unico punto di riferimento in quella marmaglia di
gente.
Che schifo che schifo che schifo!
Piagnucolò mentalmente, con le lacrime agli occhi per
l’agorafobia, mentre
cercava di rincorrere, insieme a Kagura, il resto del gruppo, sempre
andando
dietro a Sesshomaru, ma così dietro che, quando finalmente
arrivarono sulla
banchina, Rin gli finì addosso, tremando come una foglia.
Certo
che la
sua camicia da così vicino era davvero
bianchissima… come aveva fatto a
mantenersi così linda in un macello simile?
Quasi
come a
voler cercare una risposta a quella domanda, alzò il viso in
direzione di
quello del demone con un’espressione così
interrogativa da risultare quella di
un’ebete, scoprendo poi negli occhi dorati del suo
atterraggio di fortuna la
più cocente irritazione. Si staccò
immediatamente: “Scu-scusami!” esclamò,
rossa per la vergogna e l’imbarazzo. Sesshomaru, per la terza
volta in due
giorni, sembrò vertere l’attenzione su di lei, e
doveva avergli fatto davvero
schifo, perché fece in modo da mettere più passi
possibili tra le sue goffe
scuse e la propria demoniaca magnificenza.
Manuale di sopravvivenza di Rin: 3) il
metrò è un luogo altamente infestante e
pericoloso per la vita, soprattutto in
presenza di certi demoni.
“Dai
Rin, siamo
quasi arrivati!” la consolò Shiori, tenendole la
mano. Lei, come aveva fatto
con Kagura, scaricò tutta la sua tensione in quella stretta,
anche se Shiori fu
tanto delicata da non farle notare il fatto di starle quasi per
staccare le
dita.
Per
lei fu un
incubo quando arrivò il treno stranamente vuoto, nonostante
il sostegno di
Shiori le avesse infuso una misera percentuale di coraggio, e si
ritrovò
abbarbicata, sempre con Shiori la santa a farle da antistress, al palo
giallo
nel bel mezzo del corridoio del mezzo.
Però,
ovviamente,
i problemi non erano finiti. Figuriamoci.
Stava
per
essere frullata chissà dove dalle scosse del treno, o
perché quello andava
troppo veloce o perché lei era troppo leggera, fatto sta che
si ritrovò
spiaccicata – di nuovo!
– contro
Sesshomaru.
Sembrava
davvero incavolato. Percepiva i suoi muscoli in tensione. Ma, prima che
potesse
anche solo accampare qualche scusa maldestra, fu scaraventata con
stizza nel
sedile immediatamente dietro di lei.
Sango,
dopo
aver provato a protestare per la poca delicatezza usata da Sesshomaru
nei
confronti della piccola Rin e dopo essere stata liquidata da una
spaventosa
occhiataccia da parte del suddetto, si sedette sopra di Miroku invece
che sopra
uno dei tanti sedili vuoti, lasciandolo sorpreso. Per mascherare la sua
sorpresa, comunque, Miroku provò a posare per
l’ennesima volta la mano sul
sedere della fidanzata, giusto per rilassarsi, ma, prima di poter
compiere il
misfatto, fu ammonito: “Provaci e ti ritroverai lungo su i
sedili mentre
qualcuno cercherà di farti rinvenire.” Ma lui,
imperturbabile, le rivolse
un’occhiata rilassata: “Allora speriamo che sia una
bella donna.” E lei, per
ripicca, incrociò le braccia: “Invece spero che
sia un grassone vecchio e
pelato.” Ma, oramai, si era capito che non stessero dicendo
sul serio.
“Siete
imbarazzanti.” Li ammonì Inuyasha, girando molto
al largo del fratello e
sedendosi a due sedili di distanza dai piccioncini: “Se
volete tubare potreste
farlo in privato.”
Naraku
pensò
immediatamente che la delicatezza e il tatto non fossero
qualità conosciute dal
mezzodemone che corrispondeva al nome di Inuyasha.
Ma
Miroku,
invece, con molta non-chalance, ammiccò verso
l’amico: “In-vi-dio-so.”
Sillabò,
e Inuyasha, suo malgrado, non poté far altro che scoccare
un’occhiata a Kikyo e
rimanere in silenzio.
Già,
Kikyo. Era
rimasta in silenzio per tutto il percorso, senza parlare a nessuno.
Chissà
perché era così taciturna. Beh, l’unica
cosa che poteva in quel momento su di
lei era che la sua bellezza e la sua grazia erano nettamente superiori
a quelle
dell’odiosa sorella.
Palais Royal – Musée du Louvre.
Pronunciò
la
voce metallica dell’annunciatrice, e finalmente tutti
poterono risalire
all’aria aperta della città di Parigi.
“Bene”
disse
Miroku, facendoli stringere in cerchio: “Siete liberi di fare
quello che
volete. La visita al Louvre per noi è gratis ma siete liberi
di usufruirne o
meno.” Annuirono: “Ci rivediamo qui alle sei e
mezza.”
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no, non sono morta :D mi
ricordo sempre di voi :D
capitolo di mezzo prima del
Louvre. oggi niente canzoncina, mi dispiace :(
AVVISO: d'ora in poi
verranno calcolati come vincitori solo il primo che azzecca
correttamente sia il titolo che l'autore, anche perchè
sennò i "punti" per la comparsa rimangono sempre pari a loro
stessi.
dunque... Rin ha
constatato da (molto) vicino quanto potrebbe essere pericoloso toccare
Sesshomaru, Bankotsu è basso, Jakotsu è un
maniaco, Ayame e Koga si odiano
amano già alla follia [cit. Naraku], Inuyasha occhieggia
dalla parte di Kikyo, la vecchia volpe di Naraku ha già
delineato le proprie prede, la mano di Shiori è in briciole,
Miroku e Sango sono imbarazzanti e l'autrice è bella che
sciroccata.
alla prossima :D
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prossimamente:
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CAPITOLO 7: I SIGNORI CLIENTI
SONO PREGATI DI EVITARE DI DAR FUOCO AI QUADRI ESPOSTI, GRAZIE.
|
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Capitolo 7 *** 7. I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri esposti, grazie. ***
con grande
richiesta del pubblico(?), ecco a voi, il settimo, attesissimo (?)
capitolo!!!
*lancio di
pomodori*
-
-
-
7.
I signori clienti sono pregati di evitare di dar fuoco ai quadri
esposti,
grazie.
Rimasero
a
guardarsi per almeno due minuti, in silenzio. Evidentemente nessuno
sapeva cosa
fare. Da fuori dovevano sembrare degli idioti, sedici idioti che se ne
stavano
in cerchio a fissarsi l’un l’altro.
Forse
a questo
stava pensando Sesshomaru, perché si allontanò
immediatamente, dirigendosi da
tutt’altra parte rispetto al museo.
I
quindici
rimanenti guardarono prima la figura del demone che si incamminava
chissà dove
con calma serafica, poi a fissarsi di nuovo, almeno finché
Ayame e Shiori non
trascinarono via Rin, dicendo: “Andiamo a vedere dentro il
museo!”
Attraversarono
la strada di corsa e si fiondarono dentro l’ingresso, ad una
velocità tale che
per un pelo non finirono spiaccicate sopra la piramide più
piccola.
Rin,
per lo
spavento, si accasciò a terra, tremante:
“Che… cavolo… vi…
salta… in… testa?”
ansimò, a quattro zampe. “Vedi cosa succede ad
andarsene con un demone e un
mezzodemone?” chiese Ayame, strofinandosi le unghie sulla
maglietta azzurra per
poi rimirarne l’effetto.
“Non
è molto
corretto” puntualizzò Shiori:
“l’abbiamo trascinata noi qui.”
Ayame
sventolò
la mano come se volesse cacciare le veritiere e innocenti parole di
Shiori come
moscerini, tirò su Rin di peso e, come se fosse un
pupazzetto di stoffa, la
mise in posa davanti ad una delle fontane prossime alla piramide, in
modo da
prendere una foto che ritraesse sia lei che il palazzo intorno e, dopo
aver
trascinato anche Shiori nella stessa posizione, fece qualche passo
indietro ed
estrasse dallo zainetto la sua fedele Ermenegilda. Cioè la
macchina fotografica.
“Preparatevi
ad
un servizio fotografico!” le minacciò:
“Ho capacità di ben oltre un milione di
foto!”
“Allora,
chi
devi pedinare?” chiesero Kagura e Bankotsu
contemporaneamente, una a Naraku,
evidentemente interessato a Rin e Kikyo, l’altro a Jakotsu,
con intenti da non
precisare.
Naraku
scrollò
le spalle: “Non mi pare di aver dichiarato
alcunché.” Ma, a quell’affermazione,
Kagura non poté far altro che sbuffare: “Ti
conosco fin troppo bene, ogni volta
che delinei la tua preda fai di tutto per analizzarla.”
Spiegò, con l’aria di
chi ormai ci è abituato, e Naraku, per quella volta, dovette
arrendersi
all’evidenza. Ma, infondo, era o non era uno psicologo d’assalto?
“Buttiamo
a
morra?” propose, e Kagura annuì: “Se
vinco io seguiamo Rin.”
Uno,
due, tre!
“Si
prospetta
una lunga giornata.” Si lamentò Kagura:
“Ci tocca seguire la donna cadavere.”
E, quatti quatti si incamminarono verso il museo.
Jakotsu,
dal
canto suo, aveva candidamente spiegato che lui a Parigi non
c’era mai stato e
intendeva vedere il museo. Inutile dire che Suikotsu gli
controllò la febbre.
“Andiamo,
truppa, a scoprire le meraviglie del Louvre!”
gridò con voce grossa Jakotsu,
come un condottiero, usando il fermaglio del proprio codino a
mo’ spada,
puntandolo verso l’entrata.
I
due fratelli annuirono,
accondiscendenti, e si avviarono insieme al loro capitano
con l’aria felice di un cadavere imbalsamato con la
vinavil.
Dopo
tre
secondi, cioè quelli che bastavano al terzogenito Ben per
irrompere nel museo
con la forza di un uragano, Suikotsu e Bankotsu rimasero attoniti nel
constatare che Jakotsu era davvero
fomentato nel vedere le opere d’arte esposte: le rimirava
come un bambino
ammira il negozio dei dolciumi. Con la lingua di fuori, come i cani. O
forse
perché c’era Inuyasha nelle vicinanze.
Infatti,
il
povero mezzodemone, dopo aver scorto quella sottospecie di uomo
sfrecciare da
una parte all’altra del corridoio delle sculture
greco-romane, nei pressi
dell’entrata, in cerca di qualcosa di non meglio definibile,
decise di fare
dietrofront verso il reparto delle antichità orientali, se
non fosse per il
fatto che, appena girati i tacchi, si scontrò con Kikyo.
Si
guardarono,
interrogativi, per poi avviarsi per la stessa strada, senza spiccicare
parola.
Intanto,
nel
salone della scultura italiana, un gruppetto di due demoni e tre umani
non
faceva altro che scattare foto.
“Certo
che
Canova è proprio un genio.” Disse Kagome,
accucciandosi accanto all’opera
“Amore e Psiche” : “Come avrà
fatto a scolpire superfici così lisce?”
Sango
fece
spallucce: per lei le mentalità degli artisti erano come le
misteriose nebulose
stellari nel cosmo. Incomprensibili ma bellissime. Ma, se lei e Kagome
erano
ragazze quantomeno interessate, cosa ci facevano Miroku, che, lo
sapeva,
trovava l’arte inutile, Koga e Shippo a seguire la visita
accanto a loro?
“Ok.”
Disse
Shippo: “Facciamo un gioco.” I suoi compagni di
viaggio lo guardarono,
interrogativi, soprattutto Koga che, essendo un demone lupo, aveva
inquadrato
la kitsune come un pappamolle.
“Là”
e Shippo
indicò il muro: “è appeso un catalogo
con tutte le opere di questa stanza, e
chi trova per primo la terza statua in lista di ogni stanza vince dieci
sterline.”
Ah,
una
scommessa. Inutile dire che tutti si misero a cercare.
“Lo
schiavo
morente, Michelangelo!” esclamò Koga, indicando
prima il catalogo, poi la
scultura accanto a lui: “Questa era facile.”
Miroku,
dal
canto suo, era abbastanza scioccato: già lui era
lì solo perché la sua
Sango aveva tanto insistito, poi,
vedere degli adulti comportarsi come scolaretti in gita lo aveva
allibito.
Era
tanto
allucinato che non si accorse che il gruppo con cui era entrato era
già sparito
al primo piano, e si rese conto troppo tardi di aver scordato di
comprare la
piantina del museo.
Kikyo
era molto
silenziosa e Inuyasha temeva che avrebbe potuto infastidirla con
qualche
domanda banale, del tipo “sei mai stata a Parigi” o
“allora, ti piace il
Louvre”, perciò si limitò a camminare
verso il piano superiore, facendo finta
di camminare da solo, non che fosse poi così difficile, dato
che la sua
accompagnatrice equivaleva alla macabra presenza di uno sventurato
spettro.
Soprappensiero,
si mise a fischiettare, senza accorgersene.
Burnt out ends of
smoky days
The stale cold smell of morning
The streetlamp dies, another night is over
Another day is dawning…*
E
stava per
lanciarsi in un imbarazzante fischio più acuto quando Kikyo,
stranamente,
interruppe la sua melodia: “È una bella
canzone.” Disse.
E
lui,
stupidamente, non poté far altro che domandare:
“Quale?” cosa che lei trovò
divertente, perché sorrise: “Quella che stavi
fischiettando.” E lui non poté
che rimanere imbambolato a valutare che, se Kikyo era bella, lo era
ancora di
più quando sorrideva.
Dopo
qualche
imbarazzante secondo si riscosse e cercò una brillante frase
da dire, in modo
da evitare figuracce: “Eh, sì, l’ho
appena fatta studiare ai miei studenti.”
Kikyo
annuì,
pensierosa, mentre camminava noncurante verso il salone dove era
esposta la
celeberrima Monna Lisa. “E ti piace insegnare?”
Che
cosa
strana, che la silenziosa e taciturna Kikyo intraprendesse una
conversazione
proprio con lui. Insomma, sì, lui era più che
interessato, ma credeva che non
fosse il tipo per una donna così seria.
Fece
spallucce:
“Beh, sì, più che altro mi piace la
musica e mi piace condividerla con gli
altri.” Oh, guarda, qualcuno che gli tirava fuori di bocca i
propri pensieri.
Insomma, non era proprio normale che lui, Inuyasha, parlasse
apertamente di sé,
era più uno a cui sembrava opportuno mascherare i propri
interessi per sembrare
più… duro? Inattaccabile? Non avrebbe saputo
definirlo con chiarezza. Forse era
il fatto di essere trattato come inferiore a causa del suo essere
mezzodemone
ad averlo costretto a costruire delle, diciamo, barriere.
Oh,
cielo,
stava cominciando a pensare come Sesshomaru!
A
proposito di
Sesshomaru, vi state chiedendo dove sia finito, vero?
In
quel
momento, cioè nel momento in cui Kikyo e Inuyasha stavano
segretamente
flirtando, il nostro misterioso demone stava tranquillamente
passeggiando lungo
la Senna, con i pensieri persi in chissà quale meandro
temporale.
Cosa
stesse
cercando, non lo sapeva nemmeno lui. Aveva evitato il Louvre per
sorbirsi il
meno possibile tutti quei turisti, tutte quelle persone sudaticce e
affaticate
che disturbavano il suo udito, il suo olfatto e la sua pazienza.
Stupidi umani
che non facevano altro che brulicare qua e là.
Fatto
sta che
si imbatté, suo malgrado, in un vecchietto. Anzi, diciamo
che quel vecchietto
sbatté su di lui, visto che aveva perso gli occhiali.
Speriamo che non abbia combattuto con me in
guerra, speriamo che non abbia combattuto con me in guerra!
Si ritrovò a
pensare.
Ovviamente
non
fu così, perché quella mummia incartapecorita
prese degli occhiali di riserva,
li inforcò e gridò, come se avesse vinto alla
caccia al tesoro: “Capitain!”(trad.
Capitano!)
Ma
perché ogni dannatissimo
matusalemme che incontrava era stato suo sottoposto nella Seconda
Guerra
Mondiale!?
Ok,
era
abbastanza datato anche lui, ma per il mondo demoniaco era poco
più che un
adolescente, un giovine giovincello, un ragazzino, e la cosa cominciava
a
innervosirlo parecchio. Cosa diavolo non capivano gli umani nel
concetto: i demoni vivono con i demoni e
hanno una
diversa concezione del tempo per ciò gli umani li devono
lasciare in pace e basta?
“Temo
ti stia
sbagliando con qualcun altro.” Ringhiò,
liquidandolo e abbandonandolo al suo
destino.
“Mi
sembro una
stalker.” Borbottò Kagura, incrociando le braccia
e appoggiandosi alla parete
nei pressi del famoso dipinto “La vergine delle
rocce”. Non era un brutto
quadro, infondo, ma preferiva l’impressionismo.
Naraku,
dopo
aver gettato una lunga occhiata ai dipinti nel corridoio,
spostò l’attenzione
sulla sua preda, in fastidiosa compagnia di Inuyasha. Quel ragazzino
già gli
dava fastidio per come aveva spifferato ai quattro venti informazioni
private
del fratello, e sperava con tutto il cuore che Sesshomaru si vendicasse.
Oh,
anche
Sesshomaru era una sua preda. Era l’unico essere sulla faccia
della terra del
quale non riuscisse a percepire né l’essenza
né i pensieri. Come se ci fosse
una barriera troppo imponente per le sue capacità di lettura
dei movimenti. In
realtà, pareva che il demone misurasse i propri movimenti
proprio per non farsi
intendere da nessuno, nemmeno da uno psicologo come lui, e la cosa lo
infastidiva parecchio. Per la prima volta riscuoteva un fallimento e
non era
proprio disposto ad accettarlo.
Kagura
fece per
chiamare Naraku, ma, vedendolo immerso nei propri pensieri,
pensò di
svignarsela a gambe levate senza dirgli nulla. Lui aveva molto
insistito per
farla venire con lui, ma e che cavolo, avrà avuto pure lei
il diritto di
gironzolare a suo piacimento per il museo!
Naraku
era un
buon fratello, per carità, aveva un carattere un
po’ spigoloso ma riuscivano
tranquillamente a convivere senza litigare, però risultava
morbosamente
persistente nel doverla sorvegliare. Era sotto il suo controllo e la
cosa la
infastidiva alquanto. E veniva anche accuratamente sfruttata per le sue
operazioni di psicanalisi.
Forse
fu per un
po’ di libertà che decise di girare i tacchi, ma,
giunta alla fine del
corridoio, incontrò quel duo pazzoide di fratelli che
cercavano di tenere a
bada il più pazzo dei tre.
“Lo
vedo
quasi!” disse Jakotsu, indicando o la fine del corridoio o
Inuyasha che,
d’altra parte, stava amabilmente chiacchierando con Kikyo. E
Bankotsu,
conoscendo il fratello, propendeva di più per la seconda
opzione.
Dietro
di loro
apparvero le tre ragazze scomparse per prime: in fila, Ayame, spavalda
e sicura
di sé, scattava foto a qualunque
cosa
stesse ferma per più di tre secondi, Shiori, che, da brava
scolaretta,
osservava i dipinti, leggeva la descrizione e prendeva appunti, e
dietro Rin,
che non faceva altro che scattare per i più piccoli
movimenti e, avvistata una
zanzara, si rintanò, tremante, dietro la yasha dai capelli
rossi.
“Toh,
ci siamo
quasi riuniti.” Notò Suikotsu, lasciando la presa
sulla maglietta di Jakotsu,
con la quale fino a un secondo prima cercava di arginare i suoi effetti
da
fomento.
“Argh!”
gridò
Rin, dopo aver gettato un’occhiata ad un quadro e notando la
polvere sulla
cornice, e si accucciò per terra, parlottando fitto fitto su
qualcosa come
“polvere”, “aiuto” e
“sporco”, tanto che il
turista italiano che le passò vicino le
scattò una foto, ridacchiando.
“Eh…
già…”
disse Shiori, sorridendo.
Passò
qualche
minuto di silenzio, in cui Rin rimase accucciata su sé
stessa a parlare da
sola, Naraku gettò un’occhiata ad un anonimo
dipinto dietro di lui, Kagura
arrivò quasi alla fine del corridoio, Bankotsu
notò che la donna aveva un bel
culo, Ayame scattò trentundici foto, Shiori
fischiettò, Suikotsu rimirava un
quadro e Jakotsu si espresse, con la sua caratteristica voce acutamente
isterica: “Yuhuuuu, Inuyaaaaaasha, siamo quiii!”
Cosa
che attirò
sì l’attenzione del mezzodemone, ma anche quella
di Kikyo e quella del resto
della gente che affollava il corridoio dove stavano loro e i tre
seguenti, e a
momenti anche quella delle persone raffigurate nei quadri.
Inuyasha
gettò
uno sguardo imbarazzato a Kikyo, a mo’ di scusa, e si diresse
con estrema e
lenta riluttanza verso il suo gruppo. Accidenti, proprio quando stava
tranquillamente solo con quella tanto attraente e misteriosa fanciulla
venivano
a scartavetrargli le palle!? Uffa.
Kikyo
sembrò
accorgersi del suo umore cambiato così repentinamente,
perché chinò lievemente il
capo per celare un sorriso lusingato, nascosto in gran parte dai due
lunghi
ciuffi che uscivano dalla sua coda di cavallo.
Naraku
e
Kagura, invece, un po’ più in là,
confabulavano concitatamente riguardo al caso
numero uno, cioè la missione sposa
cadavere.
Più che altro, Naraku esponeva ciò che aveva
dedotto e Kagura ascoltava con una
pazienza degna di un martire. “Allora,” riassunse
il mezzodemone: “molto
probabilmente è stata bidonata sull’altare
perché sennò non si spiega questo
mutismo assurdo, e poi dev’essere di per sé molto
fredda e distaccata, e la
depressione post-non-matrimonio deve aver amplificato queste sue
qualità.
Inoltre” e a questo punto si accucciò sul vissuto
e polveroso pavimento a
disegnare schemi con il dito: “è stata mollata da
un uomo, perché è curiosa di
testare se i demoni hanno sensibilità diverse rispetto al
genere umano.” Poi,
mentre Kagura approfittava del suo profondo e concentrato borbottio per
svignarsela, alzò il viso verso il soffitto, pensieroso:
“Però… Koga a prima vista
lo trova eccessivamente irascibile e/o volgare, Shippo lo ha
considerato come
un marmocchio, si è resa conto che Sesshomaru non riscuote
in lei il minimo
interesse a causa della somiglianza con il proprio carattere e quindi
sta
cercando di prendere contatto con l’universo
Inuyasha.” Concluse, borbottando
anche un avrebbe potuto scegliere me,
non accorgendosi di essere ascoltato da Rin, che gli rispose con un
candido e
ingenuo: “Tu sei troppo inquietante!” Stizzito,
rimbeccò acidamente
l’interruzione: “Non eri troppo impegnata ad
agonizzare in quanto alla polvere,
la folla e quant’altro?”
E,
come un
fastidioso quanto vero promemoria, nella mente di Rin
sfrecciò a velocità molto
elevata un ansito di paura, tanto da farla rabbrividire.
Chinò il capo,
silenziosa, e avrebbe risposto qualcosa come un debole hai
ragione, se non fosse stata interrotta da un acutissimo e
dubbiamente virile grido di Jakotsu: “Aaahhh!!!”
Puzza
di
bruciato. Ecco cosa sentiva. A lungo andare, aveva percorso quasi una
strada
circolare intorno al museo, tanto che si era ritrovato davanti
all’entrata sul
retro. E la cosa strana era che l’odore di bruciato proveniva
dal museo.
Oh,
avrebbe
scommesso qualsiasi cosa che quei quindici idioti erano coinvolti.
Sesshomaru
arraffò un secchio da un negozio e lo riempì ad
una fontanella, dopodiché si
precipitò dentro il Louvre.
“Al
fuoco! Al
fuoco!” gridò Jakotsu, guardando un dipinto
divorato dalle fiamme, accanto a
lui. Cominciò a girare in cerchio mettendosi le mani nei
capelli, continuando a
strillare come una donnicciola – non che lui si allontanasse
molto da quel
concetto – mentre tutti i presenti ponevano
l’attenzione sul pitturato esposto
nei pressi della “Vergine delle Rocce”. Bruciava
con un’allegria tale che
ricordava molto il fuocherello del falò della sera prima.
Stava
intervenendo anche il personale, mentre giungevano Kagome, Sango,
Shippo e
Koga, allarmati dalle grida che percorrevano il corridoio.
Il
fatto era
che il sistema d’allarme, evidentemente in cortocircuito,
avrebbe dovuto suonare
quando Bankotsu, sporgendosi troppo sul dipinto, si era avvicinato per
vederlo
meglio, solo che, invece del classico suono, era divampato
l’incendio.
Incredibile
di
come fosse complicato trovare un po’ d’acqua nel
museo! Tutti i turisti erano
scappati chissà dove, e il personale stava raggranellando
liquidi dai bagni e
dai rubinetti, quando, ad un certo punto, apparve una guida
grassottella che
scarrozzava un grande secchio, trotterellò fino al dipinto e
lo inondò con
l’acqua che lo riempiva.
Poi
apparve
Sesshomaru, tranquillo e distaccato come al solito.
Jakotsu
e Rin,
invece, non essendosi accorti di quello che era successo, stavano
ancora uno
correndo in cerchio, strillando come un disperato, e l’altra,
terrorizzata,
chiusa a riccio in un angolino apparentemente pulito di corridoio.
Con
quello che
rimaneva del secchio, ad Ayame parve molto giusto calcarlo in testa al
terzogenito Ben, in modo da… tranquillizzarlo.
L’ultimo
ad
arrivare fu Miroku, che, a quanto pareva, stava rischiando una crisi di
nervi a
causa del suo scarso senso dell’orientamento. Camminava a
fatica, trascinando i
piedi, parlando da solo riguardo a non meglio precisati argomenti e
ogni tanto
fermandosi a guardarsi in giro, spaesato.
Almeno
finché
non vide Sango.
“Sangucciaah!”
gridò, ritrovando le energie e percorrendo di corsa la
distanza che lo separava
dalla fidanzata.
“Ehm…”
provò a
dire Suikotsu: “Non vorrei interrompervi… ma credo
che sia arrivata la stampa.”
Tutti
si
guardarono, allibiti e, tutti e sedici, come un sol paio di piedi, si
precipitarono fuori onde evitare problemini di tipo…
ehm… giudiziario.
Bankotsu,
ovviamente, fu piuttosto malmenato, in quanto identificato come causa
dell’incendio.
“Ah,
ho fame!”
esclamò Kagome, allargando le braccia per stiracchiarsi:
“Andiamo a mangiare in
qualche bistrôt?”
Tutti
sembrarono essere d’accordo.
L’unico
perplesso rimaneva Koga: “Ehi, ma alla fine io ho vinto la
scommessa!” esclamò,
felice: “Mi dovete dare dieci sterline!”
Nessuno
lo
ascoltò, e il gruppo cominciò a camminare,
lasciandolo indietro.
“Ehi!”
Nessuno
lo filò.
“EHY!
NON
LASCIATEMI INDIETRO!”
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avete
visto? non sono scomparsa! :D
e,
anzi, dopo essermi fatta un mese di mare e due settimane a Londra sono
più agguerrita che mai! >:D
comunque,
spero che questo capitolo vi piaccia ;)
ah,
avete scorto da qualche parte il turista italiano. ecco, quella
sarà una specie di piccola rubrica, e spiega cosa pensano
gli stranieri di noi italiani. e, da Londra, giungo con tanti di quegli
insulti da riempire un vocabolario.
per
esempio, secondo gli INGLESI, noi italiani mangiamo da schifo.
cioè cibi grassi e poco nutrienti e schifosi.
capito?
GLI INGLESI dicono che siamo NOI a mangiare male!
roba
dell'altro mondo!
per
cambiare argomento, ho messo la canzone, stavolta, ma non dovete dirmi
chi la canta, ma da quale film, serie, spettacolo è tratto ;)
alla
prossima
Larchy
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