FUGGIRE LONTANO NON E' LA SOLUZIONE

di __WeatherlyGirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E POI SPEGNERE QUEL TELEFONO, PER SEMPRE. ***
Capitolo 2: *** ODIAVA QUEL TELEFONO. AMAVA IL SUO CONTINUO VIBRARE. ***
Capitolo 3: *** I RICORDI FANNO MALE ***



Capitolo 1
*** E POI SPEGNERE QUEL TELEFONO, PER SEMPRE. ***


-Sei sicura di volerlo fare?- Emma lo guardava piangendo

-E’ un passo importante, sei sicura?-

-Sì,- continuava a singhiozzare sommessamente -ho causato loro troppe sofferenze. Devo solo andarmene e saranno finalmente felici!-

-Emma!- Lui la stava guardando tristemente, sapeva che era decisa a farlo, non poteva fermarla -Emma, ma lo sai che staranno male quando non ti vedranno tornare!-

-All’inizio. E’ solo questione di tempo, poi, lentamente, si dimenticheranno di me. Tanto so che lo faranno!- Lui le appoggiò una mano sulla spalla, cercando di incrociare il suo sguardo:-Perché?- le sussurrò lentamente nell’orecchio.

-Perché sì, Luigi! Poche storie. Non sono più nessuno, ormai. Ho distrutto i miei ed i loro sogni, uno ad uno. Devo solo fare in modo che siano di nuovo felici, come quando non c’ero. Insomma, a scuola sono un disastro e ho stracciato l’autorizzazione firmata per partecipare a quel concorso di recitazione. E’ ancora nella scatola degli anacardi in cui l’ho messa, disintegrata in mille pezzettini. Credevo che stracciare quel foglietto mi avrebbe fatto sentire meglio e invece ho solo pianto di più. Basta, devo farla finita!- Tolse la sua mano dalla spalla, prese il borsone e si voltò, lui la fermò un’ultima volta:-Hai i soldi?-

-Sì, non preoccuparti. Sono abbastanza.-

-Chiamami quando arrivi-

-Okay, ci si sente-

E così lei salì sul treno, ancora piangendo, ma almeno aveva smesso di singhiozzare. Nella borsa c’era il minimo indispensabile, nemmeno un phon, solo qualche vestito, qualche sapone ed i soldi. Tutti i soldi che aveva. Poi un diario, scrivere le aveva sempre fatto bene. Aveva lasciato, a casa, un biglietto d’addio, solo con delle scuse ed un malinconico “arrivederci”, troppo formale per i suoi gusti ma aveva pensato che ci potesse stare bene. Aveva messo tutto sotto la confezione degli anacardi ed era uscita di casa, chiudendosi la porta alle spalle. Luigi l’avrebbe accompagnata in stazione e da lì, nei suoi piani, non si sarebbero più rivisti. 

Era stato l’addio più difficile, il suo amico di sempre che la salutava in quel modo le aveva fatto impressione, quasi l’aveva convinta a rimanere, ma poi si era dominata ed era salita su quel treno. Per Venezia. Chissà perché aveva scelto quella meta. Milano e Torino erano fuori discussione: a Milano abitava sua cugina e c’era la possibilità che si incontrassero, a Torino suo padre. Niente. Solo Venezia le era parsa una buona meta. 

Aveva ancora nelle orecchie le parole di sua madre: “Mi hai deluso! Molto!”, aveva capito di procurare più sofferenza che gioia, in famiglia, per questo era partita. Per sistemare le cose. Per fare in modo di ristabilire la felicità altrui, a costo di rinunciare alla propria. E quella scatola di anacardi era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, diceva: “My Party”, questo era il nome. Sembrava uno scherzo di cattivo gusto. Il suo sogno rinchiuso in una scatola con la scritta “La mia festa”, ma cosa c’era da festeggiare? Nulla.

Passò il controllore, le timbrò il biglietto e se ne andò. Anche lui non era interessato a lei. Faceva il suo mestiere meccanicamente, senza capire veramente. Ma d’altronde cosa c’era da capire? La maggior parte dei passeggeri di quel treno erano pendolari, persone che percorrevano quello stesso tragitto ogni giorno, due volte. Non gli importava di guardarsi intorno, a lei sì. Lo doveva percorrere una volta sola, quel tragitto. Una seconda sarebbe stata di troppo. 

Campi. Ecco cosa c’era intorno a lei. Sempre e solo campi. Ogni tanto qualche stazione di periferia, che le ricordava “Il dottor Zivago”, e poi ancora quel paesaggio monotono. Ma a lei piaceva. Il paesaggio e quello che rappresentava. E ancora sperava che sua madre fosse tornata a casa, avesse trovato il biglietto e provasse a chiamarla. Aveva il telefono acceso, silenzioso, tra le mani. Voleva che cominciasse a vibrare, forte, e che la sua vicina se ne accorgesse e dicesse:

-Le vibra il telefono.- Così, per rispondere solamente:-Lo so- e fingere che nulla stesse accadendo. No, non fraintendetemi, non si stava pentendo, voleva solo essere considerata un’ultima volta. E poi spegnere quel telefono, per sempre.

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Capitolo 2
*** ODIAVA QUEL TELEFONO. AMAVA IL SUO CONTINUO VIBRARE. ***


Era ancora in treno, aspettando di arrivare a Venezia, era questione di minuti. Pochi minuti. Il suo telefono non aveva ancora vibrato. Dopo sarebbe stato troppo tardi, avrebbe dovuto spegnere quel telefono, per sempre. Così controllò ancora una volta l'orario e prese una rivista, cominciando a sfogliarla disinteressatamente. Alla stazione di Venezia il treno si fermò, i passeggeri si erano già alzati, avevano preso i loro bagagli e si stavano avviando disordinatamente verso l'uscita. Lei era ancora lì seduta, col telefono tra le mani, fissandolo persa. Poco dopo il treno era già vuoto, lei si era ripresa e si stava alzando. Aveva ancora quel dannato telefono tra le mani. Vibrava. Forte, senza pausa, vibrava. Dapprima lei quasi non se ne accorse, poi realizzò quello che stava succedendo e lo guardò, non aveva mai guardato il telefono in quel modo. Era uno sguardo malinconico e carico d'odio allo stesso tempo. Non sapeva cosa fare. Aveva sperato che quel momento arrivasse, era pronta ad interpretarlo come un "andare a Canossa" da parte dei suoi, ma non aveva previsto come avrebbe reagito lei. Era nel panico.

Riordinò brevemente le idee e decise di scendere dal treno, per prima cosa; poi avrebbe deciso cosa fare. Scese. I rumori della stazione erano forti e ben riconoscibili al telefono, perciò decise di allontanarsi. Uscire dalla stazione e poi, ancora, pensare. Fuori dalla stazione c'era un gran via vai di macchine, taxi e autobus. Persone che urlavano, bambini che piangevano e venivano presi in braccio dai loro genitori. Sentì il bisogno di andarsene.  Il telefono aveva ormai smesso di suonare. Emma immaginava la scena: sua madre disperata che provava a chiamarla, scattava la segreteria e lei metteva giù. Avrebbe riprovato a chiamarla nell'arco di pochi secondi. In quel lasso di tempo avrebbe potuto allontanarsi dalla stazione, trovare un punto isolato  dove continuare a riflettere sul da farsi. Era quello ciò di cui aveva bisogno: riflettere. Era partita senza sapere cosa andare a fare, come guadagnarsi da vivere e dove stare. Ora doveva solo pensare a quello. Ed alla telefonata.

Si ritrovò a correre, veloce e lontano. Solo correre via dai rumori di Venezia, quella città che la opprimeva ancora prima di averla conosciuta. Odiava già quel posto. Il desiderio era uno solo, semplice e chiaro nella sua mente: voleva casa. Casa come le persone, i familiari e gli amici. Casa come i posti della sua infanzia, la casa e le vie conosciute. Casa come le sensazioni che non provava più, i sentimenti di amore. Non quelli d'odio. Quella non era casa. Si trovava vicino ad una panchina ombreggiata. Alzò lo sguardo e notò le nuvole chiare del cielo tardo-primaverile.

Quel maledetto telefono aveva ricominciato a suonare. Era di nuovo nel panico. Provò a rispondere, ma non riusciva a controllare il suo dito. Non voleva. Il suo indice non voleva pigiare quel tastino verde. Respirò a lungo e chiuse gli occhi. Spinse un tasto a caso e li riaprì. Aveva appena riattaccato. Ora sicuramente sua madre non l’avrebbe più richiamata, avrebbe provato a contattare il padre e l’avrebbe chiamata lui, quello no. Non era pronta ad affrontare due genitori contemporaneamente. Decise, perciò, di togliere la SIM dal telefono e buttarla via. Salvò il numero di Luigi nella memoria del dispositivo in modo da poterlo richiamare dopo. Raggiunse una cabina pubblica e lo chiamò. Le ci volle un po’ di tempo prima di capire come funzionasse quell’aggeggio. Le risputò le monetine ben quattro volte e poi non compose il numero giusto. Insomma, era quasi tentata di lasciar perdere quando ci riuscì. E Luigi rispose.

-Emma! Tutto bene?-

-Ehm, sì, sì. Tutto a posto. Tu?-

-Non molto. Hai sentito tua madre?-

-Ha chiamato, come previsto. Non ho risposto.-

-Hmm, mi sento in colpa, Emma-

-Io no. Non sentirti in colpa. Basta. Devo mettere giù. Addio-

-A presto-

Il saluto di Luigi la turbò, perché le aveva detto ‘a presto’? Sapeva qualcosa. Stava per confessare di averla aiutata nella fuga? Ma non sapeva dove fosse andata, perciò...Emma aveva deciso di nascondere la meta a Luigi, come nei film di mafiosi: meno sa meno dice, aveva pensato. Lui era stato fin troppo leale, non glielo aveva neanche chiesto. Si aggirò per il parco pubblico finché non sentì le gambe tremare. Aveva bisogno di sedersi su una panchina, e di piangere. Non poteva piangere in pubblico, doveva aspettare la notte. La notte porta consiglio, dicevano, e porta anche tranquillità. Ma, diamine, erano le cinque e mezza, non poteva aspettare così a lungo. Doveva conoscere la città in cui era, saper dove dormire, dove mangiare, cosa fare. Sapeva bene cosa voleva fare. Aveva una terribile nostalgia, nostalgia di tutto: di casa, di affetto. Quel maledetto telefono che continuava a suonare le aveva fatto venire voglia di mamma, di papà, e di famiglia. Odiava quel telefono. Amava il suo continuo vibrare. Si diresse verso la stazione. Se doveva star lontano da casa, poteva pur sempre farlo nella sua città.

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Capitolo 3
*** I RICORDI FANNO MALE ***


I ricordi fanno male, avevano detto. Vero. molti, quasi tutti, alcuni in particolare. E quello era terribile. Il ricordo della gioia scava gallerie nell'animo. Gallerie profonde e nascoste, perfino a te. La gioia provata in quel momento si tramutava ora in dolore, sofferenza e lacrime. Emma piangeva, accostata al ciglio della strada, appena fuori dalla stazione. Si rivedeva bambina, una bella bambina paffuta e felice. Ora era una ragazza: alta, magra e triste. Cosa preferiva davvero? Un momento particolare aveva in testa; anzi, due, strettamente collegati: l'inizio e la fine di un sogno. Era un febbraio, lei era in quinta elementare ed era tornata a casa da catechismo con la baby-sitter, sua madre era già lì, ad aspettarle. E con lei il suo pianoforte, nuovo, appena comprato. In fondo al salone eccolo che spuntava nel suo marrone mogano. Emma era saltata addosso alla madre ridendo dalla gioia: lo desiderava, più di ogni altra cosa. E poi ecco l'altro giorno: luglio. I facchini erano in casa a portarlo via, carcassa di sogni infranti. Quello era diventato il pianoforte, strumento di masochismo. Trappola di ricordi. E quei giovani ragazzi forti lo stavano portando via, per sempre. Cosa poteva rimanerle da fare?, guardava quell'operazione fingendo di esserne compiaciuta. In fondo l'aveva chiesto lei. Ma non sempre si desidera ciò che si chiede, e così quel pianoforte era diventato ancora più terribile in quel momento. Gemeva lasciando quella casa. O era un'illusione della coscienza?
Chissà, sta di fatto che ora era sul ciglio di quella strada, sentiva adesso lontani i fischi dei treni e anche le voci. Aveva il biglietto per Firenze, ormai Bologna era diventata troppo triste per poterci ritornare. In un solo giorno, con poche semplici azioni, era riuscita a cambiare per sempre la propria esistenza. Peccato che ancora non sapesse se in bene o in male. Così Firenze le era sembrata una buona meta, un posto dove nessuno l'avrebbe cercata. Niente amici; niente parenti; niente ricordi. Nulla la collegava a Firenze, se non quel pezzo di carta, quel biglietto che aveva in mano. A Venezia non sapeva come muoversi, invece era stata a Firenze, sapeva almeno dove andare. In realtà conosceva soltanto i monumenti ma almeno questo le dava sicurezza. In fondo cosa poteva fare? Era una questione di tempo, prima o poi - e lei sperava poi - l'avrebbero trovata, e la parte più difficile sarebbe iniziata. Di nuovo domande, di nuovo volti familiari...di nuovo quei dannati ricordi da cui si sentiva perseguitata ovunque andasse. Questa è la vita, tanti ricordi. Tante belle sensazioni provate che si possono rievocare. Ma perché a lei, in quel momento, evocavano soltanto un'infinita tristezza?

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