Un attimo di starlight91 (/viewuser.php?uid=148859)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Pensieri notturni ***
Capitolo 3: *** Al tramonto ***
Capitolo 4: *** Sorprese ***
Capitolo 5: *** L'incontro ***
Capitolo 6: *** La verità ***
Capitolo 7: *** Per la prima volta ***
Capitolo 8: *** Il coraggio di pensare ***
Capitolo 9: *** Sensazioni nuove ***
Capitolo 10: *** Una notte movimentata ***
Capitolo 11: *** Risveglio ***
Capitolo 12: *** Saluti ***
Capitolo 13: *** Ancora all'aeroporto ***
Capitolo 14: *** Discorsi ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
ff13911
Prologo
Cinquantaquattro
giorni esatti. Cinquantaquattro giorni in cui si era sentita
progressivamente invecchiare, decadere, morire.
Non
pensava sarebbe stato tutto così
difficile. Così cupo. Così terribile. Non pensava
che
seppellire suo padre, barbaramente ucciso e mutilato, sarebbe stato
come tornare in quell'orfanotrofio. Bambina abbandonata, dimenticata,
triste e solitaria, messa all'angolo a ogni domanda, punita.
Solo
quel giovane prete l'ascoltava, e aveva finito per portarla via con se,
dopo nove anni di solitudine.
Finalmente
non si chiamava più solo
Vittoria, poteva avere anche un cognome. Vetra, come padre Leonardo.
Suo padre. L'uomo che aveva vissuto per tre cose soltanto: Dio, lei e
la scienza. Ma ora era morto. Sepolto sotto quella terra gelida, in un
anonimo cimitero di Ginevra.
Quel
corpo, martoriato, su quel fax
stropicciato. Quel marchio. ILLUMINATI. L'occhio gettato accanto alla
porta del loro laboratorio. Il sangue.
Ebbe
una fitta allo stomaco, l'ennesima in quegli ultimi giorni.
Da
allora non era riuscita più a
mangiare, se non qualche minuscola porzione per evitare di perdere
conoscenza. Si era abbandonata a se stessa, rifiutandosi di tornare in
quei laboratori e convincendosi di essere tornata alla routine, solo
perché aveva continuato a lavorare con lo staff e a
nascondere
il dolore sotto un sorriso. Una maschera che non era la sua.
-
Coraggio… tuo padre non vorrebbe vederti così.
Le
aveva detto un sacerdote, dopo il funerale.
-
Mio padre è morto. Non può vedermi, padre.
Gli
aveva risposto, asciugandosi le lacrime
davanti a quella lapide. Dieci giorni prima era morto, dieci giorni di
accertamenti, l'autopsia, sentirsi dare spiegazione assurde. La
verità, lei, già la sapeva, ma non poteva dirla.
"Se
solo almeno tu fossi qui…"
Vittoria
strinse i pugni, per evitare di
piangere ancora. Era sola. Sola con il suo dolore, sola con i suoi
ricordi, sola con quel fardello. Un fardello troppo pesante.
Cinquantaquattro
giorni prima era a Roma.
Cinquantaquattro giorni prima era rimasta per la seconda volta orfana,
era stata rapita, era stata salvata, era stata la causa di quella
tremenda annichilazione in cielo.
Cinquantaquattro
giorni prima era sotto
quell'uomo che dal primo momento le aveva trasmesso la voglia di andata
avanti, di non piangere, di non soffrire. Lo stringeva, lo baciava,
sperando che quel momento non finisse mai. Ma sapeva che c'era un nuovo
dolore ad attenderla.
Poche
ore di benessere. Poche ore in cui era
riuscita ad accantonare i brutti pensieri e il dolore. Aveva fatto
l'amore con lui, Robert Langdon, sperando di morire nel momento stesso
in cui lui si fosse accasciato sul suo corpo. Sperando di non
ricordarsi l'ennesimo addio.
Rievocò
quegli attimi: le carezze, i baci, i sussurri, gli ansiti, i gemiti.
Poi
di nuovo dolore, ancor più intenso.
L'aeroporto affollato, lui che era ormai sparito, pronto a prendere il
volo. Troppo lontano da lei.
Aveva
chiuso gli occhi e fatto un respiro
profondo. Era rimasta sola per la terza volta, l'avrebbe sopportato
come sempre. Ma avrebbe venduto l'anima al diavolo per averlo
lì
quando si era trovata di fronte al cadavere di suo padre, stavolta in
carne ed ossa. Quanto avrebbe pagato per avere la sua spalla, il suo
calore. Quanto aveva desiderato scappare via, correre da lui.
Ma
si era rialzata, di nuovo.
Ma
la vita, evidentemente, aveva ancora molte sorprese per lei. Sorprese
che nemmeno lontanamente si sarebbe aspettata.
Non
sarebbe stata più sola, anche se con enormi sacrifici.
Cinquantaquattro
giorni prima, quell'uomo le aveva fatto il regalo più bello
del mondo.
Un'altra
occhiata a quel bastoncino di plastica che aveva in mano.
Cinquantaquattro
giorni prima, dalla morte era germogliata la vita.
Stava
per avere un figlio.
E
per la prima volta riuscì a sorridere senza dolore.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Pensieri notturni ***
Pensieri notturni
Langdon
non seppe dire quanto tempo fosse passato, quando si rimise in piedi.
Nemmeno questo era un sogno: era davanti a quella piramide. Sotto di
lui era sepolto il sarcofago con i resti di Maria Maddalena…
lui, un docente di storia dell'arte di Harvard, aveva trovato il Graal.
Chiuse
e aprì gli occhi un paio di volte, sentendo un brivido
percorrergli la schiena. Davvero aveva vissuto quell'avventura? Davvero
esisteva Sophie Neveu? Davvero era una discendente di Gesù
Cristo?
Solo
in quel momento si ritrovò a formulare mille
domande… Tutte con risposta affermativa.
Chiuse
ancora gli occhi. Come poco tempo prima, sentì nuovamente
quella presenza ad accarezzargli il volto. Quella benedizione dal
profondo della terra.
Un
altro brivido. E la mente corse a quando era bambino. Tanti flashback.
Aggrappato alla gonna di sua madre. Mentre correva dietro al suo cane.
Mentre urlava in quel pozzo e nessuno lo sentiva. Mentre si diplomava.
Mentre entrava in aula per tenere la sua prima lezione. Mentre tentava
disperatamente di salvare il Cardinal Baggia da quella terribile morte.
Spalancò
gli occhi a quell'ultimo pensiero.
Vittoria…
Stava
giusto guardando la Tour Eiffel quando, pochi giorni prima, la mente
era volata a quei giorni a Roma. Quella scherzosa promessa: vedersi
ogni sei mesi in uno dei posti più romantici del mondo.
Abbozzò
un sorriso. Voltò le spalle alla piramide e tornò
indietro. Cominciò però a sentire uno strano peso
sullo stomaco. Come quando vedi un bambino che chiede qualche spicciolo
al semaforo e fai finta di niente… un profondo senso di
colpa giunge poi a consumarti.
Camminò
lentamente deciso a tornare in hotel, anche se la stanchezza, dopo
tutte quelle ore di sonno, era ormai svanita.
Passo
dopo passo, lottò con i mille pensieri che s'impossessavano
della sua mente.
Sophie,
quel bacio che si erano dati. Anche con lei aveva scambiato una
promessa… tempo un mese e si sarebbero incontrati a Firenze.
Una settimana, e chissà cosa sarebbe successo. Eppure,
adesso, si chiedeva perché l'avesse fatto. Avrebbe fatto
soffrire ancora una volta una persona. E soprattutto, ora che la
tempesta era passata, di Sophie gli era rimasto solo un dolce ricordo e
una grande ammirazione per quella giovane donna che aveva affrontato
quell'avventura senza tirarsi indietro.
Sarebbe
successo come con Vittoria, anche se con lei era stato tutto molto
diverso.
Aveva
sofferto non poco, separandosi da lei. Aveva pensato di richiamarla, ma
non ne aveva avuto il coraggio. Si era chiesto più volte
cosa stesse facendo. Se lo pensava… poi, pian piano, era
passata. Anche di Vittoria era rimasto un ricordo, seppur con un lieve
sapore amaro. Dopo di lei era nata in lui la voglia di cambiare la sua
vita, di dividerla con qualcuno… ma nessuna donna sembrava
esser quella giusta. Ormai era un uomo maturo, aveva passato i quaranta
dopo aver dedicato la vita ai viaggi, alla carriera, agli studi.
Tuttavia,
magari, con Vittoria avrebbe potuto funzionare, se solo lei non fosse
stata un fisico del CERN, con un'enorme carriera ad
attenderla…
In
un batter d'occhio si ritrovò davanti all'ingresso
dell'hotel Ritz, uno dei migliori di tutta Parigi.
Salì
le scale fino alla sua stanza e si chiuse poi la porta alle spalle.
C'era un silenzio piacevolissimo, anche se era un'atmosfera perfetta
per rimuginare. Accese la televisione, sperando di distrarsi. Ma
adesso, al posto del peso sullo stomaco, stava facendosi spazio un
nuovo sentimento. Un'idea. Folle quanto impellente.
"Falla
finita, vecchio pazzo…" Si disse, scuotendo la testa.
Inevitabilmente,
ripensò a quella notte, quando erano soli in quella stanza
d'albergo. Quel trasporto e quell'attrazione mai provati con nessuna
donna. I baci appassionati, gli ansiti, i gemiti.
"Smettila…"
E
poi ancora le carezze, scivolare nel sonno stringendosi. Risvegliarsi
ancora insieme, con i raggi di sole che entravano dal balcone, ancora
spalancato. Quel sorriso incantevole che l'aveva stregato.
"Basta…"
E
il dolore insopportabile mentre la vedeva andar via, dopo quell'ultimo
bacio. Sembrava serena, ma non lo era. Voleva sembrare forte, eppure
quella ragazza portava dentro un macigno davvero pesante.
Langdon
si riscosse quando l'ennesimo brivido lo fece tremare. Non riusciva a
capire come mai fosse tornato a pensare a lei, dopo così
tanto tempo.
Forse
il pensiero di poter morire senza rivederla… ciò
che aveva rischiato nei giorni precedenti. Come un anno prima si era
trovato la pistola puntata contro.
Aprì
la grande finestra e lasciò che il vento di aprile gli
sfiorasse il viso e le spalle. Solo un anno e qualche giorno da allora.
E solo in quel momento sentì davvero la mancanza di Vittoria.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Al tramonto ***
ff3
Al
tramonto
L'orologio
del computer segnava le 18.32 quando Vittoria lo guardò per
l'ennesima volta. Quella giornata era sembrata interminabile.
Aveva
desiderato così tanto tornare al suo lavoro, ma quando ci si
era trovata non aveva fatto altro che sentirsi in colpa e sperare che
l'ora di tornare a casa arrivasse presto.
Tirò
un sospiro di sollievo spegnendo l'apparecchio e alzandosi dalla sua
postazione per sfilarsi il camice bianco. Cercò di non
pensare a tutte le cose che avrebbe dovuto fare al rientro,
concentrandosi, come del resto aveva fatto tutto il giorno, sul suo
tesoro più grande.
"Chissà
come starà…"
Alle
18.35 lasciò i colleghi salutandoli con un cenno della mano
e un sorriso, dirigendosi, come sempre a testa alta, verso l'ascensore.
-
Vittoria!
La
ragazza, proprio mentre stava entrando nell'elevatore, si
voltò.
-
Hei…
Disse
soltanto, continuando a sorridere. Non c'era giorno in cui Jonathan,
altro giovane scienziato, non la raggiungesse all'uscita. Almeno
così era stato fino a tre mesi e mezzo prima, quando era
stata costretta a mettersi in ferie per maternità. Proprio
in quell'ascensore le si erano rotte le acque e proprio lui l'aveva
portata nel ospedale del CERN. Da allora era stato l'unico ad
interessarsi a lei e ad assicurarsi che stesse bene. Era stato allievo
di Leonardo Vetra, prima che morisse, ed era come un dovere, un segno
di riconoscenza verso quell'uomo a cui, solo sei mesi prima, avevano
dedicato una targa nell'atrio dell'edificio principale.
-
Allora, andato bene il primo giorno di lavoro?
Il
ragazzo fece l'occhiolino e la vide sospirare, un pò per
stanchezza e un pò di liberazione.
-
Abbastanza. In fondo non è cambiato nulla. Ho solo un'
infinità di cose da fare al di fuori di questi laboratori.
-
Nostalgia?
La
vide sorridere malinconica.
-
Ora capisco come si sentano tutte quelle donne lavoratrici. Il senso di
colpa è una delle cose più pesanti.
Giunsero
al pianterreno e fecero un pezzo di strada insieme, uscendo
dall'edificio e trovandosi in mezzo a quei moderni edifici tutti di
marmo e vetro. Li conoscevano a memoria, avrebbero saputo riprogettarli
se avessero voluto.
-
Io vado di qua…
Trovandosi,
come al solito, al bivio si scambiarono il solito cenno di saluto. Lui
abitava al padiglione A e lei al padiglione B. Due diversi livelli
gerarchici, solo perché, giustamente, l'appartamento che
fino a un anno prima occupava suo padre, era automaticamente passato a
Vittoria.
La
nursery, così chiamavano l'unico asilo della struttura, era
proprio a poche decine di metri dalla grande struttura in mattoni e
dalle rifiniture eleganti. Ancora oggi Vittoria si sentiva lievemente a
disagio nell'abitare, da sola, lì. Tutti i giovani erano
nell'altro padiglione, molto più spoglio e meno
appariscente. Eppure, anche allora, aveva dovuto adattarsi.
Lentamente
il sole calava, faceva ancora freddo e si pentì di aver
dimenticato a casa la giacca, quella mattina. Nella fretta le era
andata anche bene, nel non dimenticare nulla di fondamentale. Percorse
a piedi il breve tragitto, incontrando diversi colleghi, tutti molto
più anziani, che la salutavano con rispetto. Ogni incontro
era però una pugnalata, poiché ricordava tutte le
cene, gli incontri, le conferenze a cui aveva assistito, in cui al
centro c'era suo padre. Erano tutti suoi amici e colleghi e la cosa la
consolava.
Vide
poi la piccola struttura situata vicino all'infermeria. Un nido che
ospitava nel complesso sei bambini da 0 a 3 anni. Erano poche le donne
che preferivano mandare i figli lì anziché nei
prestigiosi asili privati di Ginevra: tutte donne come lei che, per
necessità, dovevano risiedere lì.
Suonò
il campanello e subito, dall'interno, aprirono il portone permettendole
di entrare. Attese circa un minuto e finalmente vide uscire dal salone
principale la stessa donna cui aveva affidato, a malincuore, il suo
angioletto la mattina stessa.
-
Salve! Chiedo scusa ma abbiamo avuto un piccolo problema con uno dei
bambini.
Era
una donna robusta, sulla quarantina, dai capelli biondi e lo sguardo
rassicurante. Sapeva gestire i bambini meglio di quanto una
puericultrice di un prestigioso asilo riuscisse ad insegnare a un
bambino di tre anni i numeri da uno a 100.
-
E' stata bene mia figlia?
-
Benissimo, davvero. E' stato solo difficile darle da mangiare.
Le
fece segno di seguirla ed entrarono nella grande stanza. Nella parte
destra vi erano seggiolini e sdraiette. Il resto era un grande recinto
colorato, dove i bambini più grandi giocavano in sicurezza.
Vittoria
vide la sua piccola e subito si tranquillizzò.
-
Vede. Sta bene… è una bambina tranquilla.
La
ragazza sorrise. Mai avrebbe pensato che avere un figlio avrebbe
cambiato in modo così profondo la sua vita. Lei, cui mai
erano stati simpatici i ragazzini e che non aveva mai programmato di
averne, non aveva occhi che per sua figlia. E separarsi da lei, dopo
tre mesi e mezzo in cui mai l'aveva affidata a nessuno, era stata una
sofferenza.
Si
avvicinò alla bambina e la prese tra le braccia.
-
Ciao tesoro… ti sono mancata?
Non
aveva segni di lacrime, sembrava serena e subito le regalò
un sorriso dei suoi, uno di quelli capace di trasformare una giornata
orribile in un momento magico. La strinse forte e si diresse verso
l'uscita, recuperando la piccola giacca e il berretto bianco.
Salutò ed uscì.
Robert
Langdon era seduto in taxi e guardava il sole tramontare dietro le
alpi. Non capiva come poteva esser finito fin lì.
Si
era reso conto della follia che stava commettendo solo quando l'aereo
del' Air France era atterrato sulla pista dell'aeroporto di Ginevra.
Aveva vissuto tutto come in un dormiveglia, come se stesse sognando.
Dopo
una notte insonne trascorsa all'Hotel Ritz, aveva raccolto i bagagli e,
con il taxi, aveva raggiunto il Charles de Gaulle. Aveva fatto un
biglietto per Ginevra ed aveva atteso quelle tre ore sonnecchiando su
una panchina dell'aeroporto. Un ora e dieci di volo rimuginando su
tutto ciò che era successo da un anno a quella parte e
soprattutto senza capire come, dopo più di
trecentosessantacinque giorni, Vittoria fosse tornata nei suoi
pensieri. Aveva come un senso di vuoto, come se solo rivederla sarebbe
riuscito a colmarlo. Non aveva mantenuto la promessa ma voleva comunque
rivederla, sapere come stava. Poi sarebbe tornato tranquillamente in
America, senza sensi di colpa o rimorsi.
Ora,
in quel taxi, migliaia di pensieri affioravano nella sua mente. Lei
sarebbe stata felice di vederlo? Sarebbe stata sola? L'avrebbe mandato
a quel paese?
Era
sul punto di dire al tassista di tornare indietro, ma, all'orizzonte,
vide la grande sfera simbolo del CERN.
"Al
massimo avrò speso trecento dollari per nulla…"
Il
taxi dovette fermarsi alla rotonda, davanti alla guardiola.
Pagò in dollari e rimase solo.
Con
un accenno di timore si avvicinò alla guardia, che lo
squadrò da cima a fondo con un espressione strana.
-
Buonasera.
Disse
in inglese.
-
Sono Robert Langdon.
Gli
mostrò il documento e la guardia corrugò le
sopracciglia.
-
Lei è… è l'uomo che l'anno scorso
Kohler aveva mandato a prendere!
Langdon
rabbrividì.
-
Sono io. Devo solo far visita a uno dei residenti.
L'uomo
gli restituì il documento e lo invitò ad
allargare le braccia per controllarlo con il meta detector.
Assicuratosi che non avesse nulla di sospetto, alzò la
sbarra e lo fece passare.
-
Buona permanenza.
Mentre
lo vedeva allontanarsi l'uomo ridacchiò scuotendo la testa.
"Tutto
il CERN sa chi è quel tipo…"
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Sorprese ***
cp5
Sorprese
- Eccoci a casa amore…
Vittoria spalancò la porta con un piede, lasciando cadere la
borsa sul pavimento, rabbrividendo accese subito il riscaldamento e si
recò in camera da letto. Depose delicatamente la bambina sul
materasso e sedette accanto a lei, liberandola dal cappotto e dal
berretto. Un ciuffetto di capelli castani rimase dritto sulla sua testa
e d'istinto Vittoria ridacchiò, riempiendo di baci la sua
piccola. In quei momenti si chiedeva come avesse fatto a vivere tutti
quegli anni senza di lei. Solo il pensiero di poterla perdere la
uccideva. La cambiò, infilandole una tutina più
pesante per la notte e guardò l'orologio. Era l'ora della
poppata e se l'attaccò al petto, stringendo i denti per il
dolore che le causava il non averla allattata un giorno intero. In quel
momento prese la decisione di smettere del tutto. Ormai, la maggior
parte dei pasti, era quella che avrebbe consumato al nido.
Come ogni volta che allattava sua figlia si chiedeva come fosse
possibile arrivare a quel punto in neanche un anno. Era una ragazza
libera, senza pensieri, dedita al lavoro e alle sue ricerche, a cui mai
e poi mai avrebbe rinunciato. E invece eccola lì. Vittoria
Vetra si martoriava per aver deciso di smettere di dare il suo latte
alla bambina, invece che stare china su appunti e plichi di fogli e
spremersi le meningi per capire qualche nozione di fisica. Si sentiva
in colpa nel doverla lasciare ore e ore a delle estranee, piuttosto che
partire per settimane intere per isole e mari lontani migliaia di
chilometri.
Non avrebbe mai pensato di arrivare a tanto.
Vide la piccola addormentarsi e quand'ebbe finito di mangiare la mise
nella sua culla, coprendola con cura e allontanandosi per non
svegliarla.
Fece una doccia, pronta a lavare i vestiti di sua figlia, a prepararsi
qualcosa da mangiare e a mettersi, come al solito, davanti al computer
per recuperare ciò che nel primo mese con la bambina non
aveva fatto. Era stata un impresa adeguarsi al suo ruolo di madre, per
di più completamente sola. A soli tre giorni dal parto, con
una neonata minuscola al petto, era dovuta uscire per riempire le
dispense di pannolini, creme e quant'altro. Era abituata a cavarsela,
Vittoria, ma con una neonata era stato tutto più difficile.
Stava giusto avvolgendosi l'asciugamano intorno al corpo quando
sentì il telefono squillare.
"Strano… cosa vorranno adesso?"
Solo il centralino poteva contattarla a quell'apparecchio, o qualche
collega. Ma era un fatto molto raro. Uno strano brivido d'agitazione le
percorse la schiena nel sollevare, esitante, la cornetta.
- Sì?
- Vetra?
Vittoria riconobbe immediatamente la voce di Sylvie.
- Sono io. Ha chiamato il mio interno.
La donna dall'altro capo del telefono conosceva il temperamento
irrequieto della giovane scienziata, per cui non badò
all'affermazione. Anzi, era alquanto agitata.
- C'è una persona…qui… chiede di lei.
La faccio raggiungere?
- Cosa? Sicura sia per me?
- Certo, ha chiesto espressamente di Vittoria Vetra.
"Chi diavolo può essere?!"
- Beh, sì. Il suo nome?
Ci fù un brevissimo silenzio.
- E' Robert Langdon, dottoressa.
Vittoria strabuzzò gli occhi.
"Mi prende in giro?"
- Senta io…
- Lo mando da lei. Ho più chiamate in attesa. Buona serata.
Sylvie riagganciò e lei rimase con la cornetta in mano.
"Non è da lei fare scherzi. Rischia il posto di lavoro."
Pensò, mentre metteva a posto la cornetta. Sentire quel nome
le fece improvvisamente tremare le mani.
"Robert Langdon… qui?"
Passò una mano tra i capelli, sciogliendoli e guardando il
muro recentemente dipinto d'un arancio pallido.
Vittoria sapeva che al suo ritorno da Roma parecchi colleghi avevano
messo in giro la voce di un suo flirt con uno dei protagonisti di
quella terribile vicenda.
Colpa della televisione: più volte erano stati ripresi mano
per mano. Eppure, nonostante fosse vero, non ci aveva dato peso. Era
giovane, normalissimo, per lei, avere delle relazioni. Era libera,
poteva fare ciò che voleva. Ma le cose erano cambiate quando
la sua pancia aveva iniziato a crescere e le affermazioni farsi
più pesanti. Si diceva in giro che non sapesse di chi fosse
il bambino, che fosse stata lasciata, che fosse incinta di quell'uomo
che era arrivato quella mattina con Kohler. Infatti era
così, ma aveva preferito, anche in quel caso, lasciar
correre e camminare a testa alta. Langdon era oltreoceano e non
l'avrebbe rivisto mai più. Che senso aveva dirgli che
aspettava un figlio suo?
Comunque, scherzare su una cosa simile era di cattivo gusto, e proprio
Sylvie non era il tipo. Eppure decise di richiamare il centralino.
Al terzo squillo, rispose.
- Senta, ha lasciato salire quell'uomo al mio interno?
- Sì dottoressa. Me l'ha detto lei!
- Ma è sicura fosse proprio Langdon?
- Mi ha dato il documento. Sa che non mi piace perdere tempo, ora devo
riagganciare.
"Merda!" Pensò, sbattendo sull'apparecchio la cornetta.
Non era possibile fosse proprio lì! E perché,
poi? L'unica volta che aveva provato a contattarlo, seppur con una
cartolina quattro mesi prima, non aveva risposto, a conferma di quanto
aveva sempre pensato.
"Cosa vorrà adesso?"
Corse in camera, prendendo i vestiti precedentemente preparati e
andando in bagno. Si preparò in un baleno, indossando un
jeans e una maglia, e tornò a controllare che la piccola
stesse ancora dormendo.
La guardò, stringendo la sponda della culla.
"Cosa gli dico? Non posso cacciarlo via…"
Stentava ancora a credere stesse davvero lì, pronto a
bussare alla sua porta. E di certo non poteva aprirgli e dirgli che
aveva avuto una figlia sua. Si sarebbe semplicemente voltato per
andarsene.
"Non dovrebbe importarmene…" Non pensava a lui da tanto. O
meglio, non soffriva per lui da parecchio, perché non
pensarlo era impossibile: avere davanti, ogni giorno, una creatura che
gli assomigliava in maniera incredibile, complicava molto le cose.
Aveva semplicemente accettato la situazione, considerandolo solo
un'avventura, una delle più brevi. E quella con le maggiori
conseguenze, ma quella era solo figlia sua, oramai. Aveva come cognome
Vetra e un giorno le avrebbe semplicemente detto la verità,
che suo padre non sapeva di lei perché era nata da una
relazione breve e impossibile. Una cosa in cui davvero non poteva
credere, erano le relazioni a distanza. E che distanza, tra
loro…
Sfiorò la guancia rosea di sua figlia e si
allontanò lentamente. Girò un paio di volte per
il soggiorno, poi decise di uscire sul terrazzo dell'attico.
Vide i soliti viali, contornati da grandi distese d'erba e alberi.
Gente che camminava, alcuni giovani fisici che scherzavano calciando
una bottiglia di plastica, altri fermi in mezzo al viale che
discutevano.
Poi vide lui e le parve di morire.
"No…"
Era davvero lì. Camminava verso il palazzo, con la giacca in
mano seppur facesse un freddo terribile.
In un momento, le venne in mente la peggiore delle ipotesi.
Se qualcuno gli avesse fatto arrivare qualche voce? Magari qualcuno che
non aveva mai digerito che Leonardo Vetra fosse un prete cattolico e un
fisico enormemente stimato del CERN. Quale soddisfazione migliore di
una vendetta sulla pelle di una figlia, rimasta sola, e una neonata?
No… non poteva esserci gente così infame.
Fece la scelta più saggia. Indossò la sua
maschera di donna forte e determinata e raccolse le forze per superare
anche quell'altra prova.
In fondo, ne aveva vissute di peggiori...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** L'incontro ***
ff5
L'incontro
Entrando nell'edificio principale del CERN, Langdon si sentì
ancor più osservato. Possibile che fosse rimasto
così
impresso a tutti? Forse era stato un privilegio affiancare il director
Kohler, un anno prima? O essere stato mandato da lui a compiere una
missione che col senno di poi poteva definire mortale, a Roma?
Riconobbe la centralinista. Aveva un nome che iniziava per 's', ma non
lo ricordava a mente. Si avvicinò cauto e attese che
terminasse
la telefonata.
- Chiedo scusa…
La donna alzò lo sguardo e lo squadrò da cima a
fondo,
proprio come parecchie persone, fino a quel momento incrociate, avevano
fatto.
- Mi… mi dica.
- Dovrei vedere una persona che lavora per questa struttura.
Lesse il cartellino che aveva appeso alla camicia bianca. Sylvie. Ecco
come si chiamava.
- Il suo nome, prego?
- Robert Langdon.
Proprio come con la guardia, pochi minuti prima, estrasse il documento
e lo porse alla donna, che lo esaminò un attimo e glielo
restituì.
- Chi devo cercare?
- Vittoria Vetra.
Mentre abbassava lo sguardo sul monitor, a Langdon parve di notare uno
strano sorrisetto, che scomparve in pochi secondi.
"Cosa diavolo ha questa gente?"
Sylvie tornò a guardarlo, con sguardo professionale.
- Mi dispiace, il suo turno è finito circa mezz'ora fa.
Vuole che provi a contattare il suo interno?
L'uomo annuì, nervosamente.
"Mi chiedo ancora cosa ci faccio qui…"
Gli sembrò eterno l'intervallo di tempo che trascorse dal
momento in cui la centralinista compose il numero a quattro cifre fino
a quando non ricevette risposta dall'altro capo.
Pochi minuti e fu di nuovo fuori. Nonostante il freddo, dovette
togliersi la giacca, stranamente accaldato. Ormai era al punto di non
ritorno, Vittoria sapeva che stava arrivando e non poteva di certo
darsela a gambe: in fondo aveva cambiato itinerario apposta per
rivederla. Solo un saluto, già che era in Europa…
Si avviò lentamente verso i vari palazzi. Ricordava quella
strada come se l'avesse percorsa il giorno stesso, anziché
un
anno prima. Si chiese chi avesse sostituito Maximilian Kohler, alla
direzione del CERN, e subito provò un senso di tristezza.
Quel
giorno erano morte troppe persone. Anzi, non capiva ancora come
Vittoria potesse vivere nella stessa casa in cui era stato ucciso suo
padre. Non avrebbe mai scordato il corpo di quell'uomo, con il collo
spezzato e un occhio cavato, reso grigiastro grazie al freddo
artificiale creato dai condizionatori al freon, attivati dal direttore.
"E' sempre stata forte." Pensò. Non credeva ci fossero donne
con
la stessa tenacia. Nonostante il lutto si era data da fare forse
più di lui per salvare il Vaticano e trovare l'assassino di
suo
padre. Aveva anche rischiato di essere stuprata e uccisa, e non si era
data per vinta.
Evidentemente aveva trovato la forza anche per vivere in quella stessa
casa.
Gli scappò un sorriso pensando a quel giorno. Aveva capito
di
che pasta era fatta già un ora dopo averla incontrata.
Ricordò quando vennero chiusi da Olivetti nel suo ufficio e
lei,
subito, aveva alzato la cornetta ed era riuscita, da sola, a mettersi
in contatto con il camerlengo.
Scosse lievemente la testa: dopotutto era piacevole ricordare certe
cose, dopo tanto tempo. Le aveva messe nel dimenticatoio.
Alzò lo sguardo e si trovò davanti all'elegante
edificio.
A destra e sinistra, illuminati dalla luce dei lampioni, c'erano
scienziati di ogni età, che parlavano, discutevano e
scherzavano.
Doveva solo entrare e raggiungere l'attico…
Continuò a camminare e all'improvviso si fermò.
Istintivamente guardò in alto.
Non seppe dire perché, ma il suo cuore accelerò i
battiti, nel vederla. Appoggiata alla ringhiera, con gli occhi fissi su
di lui. Sorrideva, come se si fossero visto l'ultima volta il giorno
prima.
E davvero tornò a quella sera, quando, con ancora il
diamante
degli illuminati tra le mani, l'aveva vista sul balcone della loro
stanza.
Ricambiò il sorriso, con un gesto di saluto. Lei gli fece
cenno di salire e scomparve.
Langdon, ancora con il sorriso, si diresse verso il portone aperto. Due
scienziati, riconoscibili grazie al cartellino, stavano scendendo le
scale.
Aveva una strana premura, ora che l'aveva vista, di salire da lei. Non
avrebbe saputo cosa dirle, ma voleva vederla.
Salì lentamente, senza correre e senza stancarsi.
Salì tre, quattro, cinque rampe. E all'improvviso la vide.
L'uomo non seppe dire con precisione quanto tempo impiegò
per
disincantarsi. Sapeva solo che era ancora la donna più bella
che
avesse mai visto, più di Sophie, più di tutte.
Sembrava serena, forse un pò stanca, ma sorrideva.
- Oggi è la giornata delle sorprese…
Disse soltanto, vedendolo arrivare. Aveva le braccia incrociate e la
testa leggermente inclinata a destra.
Langdon le sorrise.
- Sai com'è… quando una persona si trova di
passaggio… ne approfitta.
Aveva il respiro leggermente affaticato.
- E il cellulare l'hai dimenticato in America oppure te l'hanno rubato?
"Sempre la solita"
Si avvicinò a lei, facendo spallucce.
- vuoi che me ne vada, ti chiami, e torni qui?
Lei parve rifletterci.
- Ma no. Ormai ci sei…
- Allora, ciao.
Langdon si chinò su di lei e la baciò sulle
guance,
educatamente. Lei ricambiò. Sembrava contenta di vederlo,
anche
se per un anno non si erano sentiti.
Vittoria lo invitò ad entrare e chiuse la porta. Sapeva
fingere
benissimo, anche se non avrebbe voluto. D'istinto gli sarebbe saltata
al collo, ma non poteva, nè voleva.
- Allora, come mai da queste parti?
Gli fece cenno di sedersi sul divano e prese posto nell'angolo, a pochi
passi da lui.
- Vedo che non li leggi i giornali…
- Perché?
La vide allarmarsi ma sdrammatizzò facendo spallucce.
- Diciamo che sono stato ricercato per diverse ore. Mi hanno dato
dell'assassino e c'è mancato poco che mi chiudessero in una
delle carceri francesi. Ma tutto si è risolto.
Vittoria parve sconvolta e corrugò la fronte.
- Cioè… tu mi stai dicendo che…
- Non sono qui per rifugiarmi!
Langdon rise. Sembrava anche lui stanco, ma era abbastanza sereno.
- Mi stavano incastrando… poi c'è stata una serie
di eventi che mi hanno scagionato.
- Ovvero?
Le raccontò di Sauniere, di Fache, dell'Opus Dei e di
Teabing.
Ovviamente riassumendo il tutto. Non era lì per parlare di
questo, anche se Vittoria lo ascoltava interessata. Era incredibile,
chissà quante volte era passata in televisione la sua foto e
lei
era rimasta all'oscuro di tutto. Probabilmente sapere in quel modo che
il padre di sua figlia era ricercato dalla polizia per omicidio
l'avrebbe fatta morire d'infarto. Poi pensò che nell'altra
stanza, la piccola avrebbe potuto svegliarsi da un momento all'altro e
pregò che non accadesse. Lui non sapeva nulla, ne che aveva
avuto una figlia, ne tantomeno che era anche sua.
- Beh, il pericolo ti perseguita, devo dire.
Fu l'unico commento che fece lei, con un' alzata di spalle e un mezzo
sorriso.
- Ritengo che sia stato molto meno difficile rispetto a quando mi sono
trovato qui un anno fa.
Langdon, d'istinto, guardò l'angolo di soggiorno in cui
aveva
visto il corpo di Leonardo Vetra. Adesso c'era un tavolino di vetro. Il
mobilio e il colore delle pareti era totalmente diverso, probabilmente
Vittoria aveva avuto la brillante idea di trasformare quella casa per
riuscire a viverci di nuovo.
Poi la guardò. Era rimasta perfettamente in forma. Magari
lievemente più formosa rispetto a come ricordava, ma sempre
perfetta.
- E tu? Qualche nuova ricerca? Confutato qualche altra teoria?
- Non dirmi che sei venuto fin qui per sfottere!
Vittoria ridacchio. A entrambi venne in mente quella bella serata in
albergo, prima di finire a letto. Lui l'aveva presa in giro
più
volte.
- E comunque no. Nessun progetto in corso, ne viaggi in programma.
Insomma, vita monotona.
- Non eri partita qualche tempo fa?
- Ah, allora l'hai ricevuta la cartolina…
Lanciò quella frecciatina di proposito. Fingere
sì, ma
voleva sapere se quella non-risposta era stata voluta o semplicemente
una dimenticanza.
- Beh, sì. Mi ha fatto piacere. E scusa se non ti ho
risposto… non sapevo come contattarti e poi, sinceramente,
mi
è passato di mente.
- Apprezzo la sincerità.
Gli sorrise, non riuscendo a restare indispettita. Avrebbe voluto
dirgli così tante cose…
- Allora? Quel viaggio?
- Nulla di che. Sono rimasta lì per poco tempo. Diciamo che
non
sono stata molto utile, anzi… hanno preferito rimandarmi a
casa
per evitare problemi di ogni sorta.
Lui non capì e corrugò la fronte.
- Non hai sempre detto che eri la prima che chiamavano per questo tipo
di ricerche?
"Prima che tu mi mettessi incinta sì…" Avrebbe
voluto rispondergli, ma decise di evitare.
- Era un periodo un pò delicato. Non potevo fare immersioni,
ci
ho provato e sono stata male. Per cui mi hanno spedita a casa prima di
Capodanno.
A Vittoria tornò in mente lo spavento che prese sentendo che
le
gambe non le rispondevano più. Era stata davvero
irresponsabile
tuffandosi, incinta al nono mese di gravidanza, in quelle acque.
- Sei stata male?
Langdon sembrava preoccupato, del tutto ignaro della reale motivazione
di quell'insuccesso.
- No… semplicemente… - Vittoria cercò
le parole
giuste e decise di dirglielo nel modo più semplice possibile.
- …ero incinta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** La verità ***
ff6
La
verità
Calò
il silenzio, e lei ne approfittò per alzarsi e dirigersi in
cucina.
- Ti preparo un caffè - Disse soltanto, come se nulla fosse.
L'uomo la seguì con lo sguardo, convinto di non aver capito
bene.
"…incinta? Non è possibile…"
Cos'era accaduto in quei mesi? Si guardò intorno in cerca di
indizi, ma non trovò nulla. Le aveva guardato le mani, non
indossava anelli, ne c'erano gingilli per lattanti in giro. Tantomeno
sembrava incinta.
Confuso si passò una mano tra i capelli.
"Avrà abortito" Pensò "Una donna come lei non
rinuncia a una carriera brillante per un bambino…"
Poi gli venne in mente una cosa che gli fece stringere i pugni per
qualche secondo.
"Un bambino di chi, poi? Con chi è stata, dopo di me?"
Ebbe una vera e propria crisi di gelosia, ma fu bravissimo a
nasconderla dietro un sorriso cortese, quando la vide arrivare con una
tazza in mano.
- Grazie… - disse soltanto, sorridendo - dicevi?
Lei sospirò. Sembrava a disagio.
- Niente. Parlavo del viaggio.
- Eri incinta…
- Te l'ho già detto questo. E come vedi… non lo
sono più.
Detto questo, Vittoria bevve un sorso del tè che si era
preparata, come tutte le sere, quando non aveva fame. Nonostante stesse
quasi tremando dall'agitazione, riuscì a fingere bene anche
parlando di sua figlia.
Langdon trovò conferma a quello che aveva pensato pochi
istanti
prima. Sicuramente aveva fatto la scelta in funzione del suo lavoro.
Quel 'non lo sono più' lasciava intendere tutto. Non
sospettò minimamente di essere fuori strada.
Tuttavia quella punta di gelosia tornò a infastidirlo ancora.
Chiacchierarono tranquilli per qualche minuto, dimenticandosi, pian
piano, del discorso appena affrontato. Lui le raccontò del
suo
ultimo anno, del libro che finalmente era riuscito a pubblicare, della
conferenza e del Graal. Nemmeno Vittoria sapeva nulla riguardo Maria
Maddalena e sua figlia Sarah, e ascoltò interessata. Ma
proprio
quando stava per dirgli che non avrebbe mai pensato nulla del genere,
sentì la bambina piangere nell'altra stanza e d'istinto
guardò l'ora. Era tardissimo, doveva ancora prepararle il
biberon, vista la precedente decisione di smettere di allattarla, e
soprattutto doveva evitare di portarla in soggiorno.
- Scusa un momento…- Disse, alzandosi dal divano e
dirigendosi in camera da letto.
Langdon, senza parole, rimase immobile sul divano.
"E' uno scherzo?"
Era davvero il pianto di un neonato, e anche vigoroso. A quel punto,
non capì più nulla.
"Non ha abortito?! Ha tenuto il bambino?!"
Si alzò in piedi e si portò una mano alla fronte.
"Che ci faccio io qui?"
Gli aveva fatto davvero piacere vederla, aveva realizzato quel
desiderio risvegliatosi dopo mesi di lontananza. Ma mai avrebbe
immaginato di trovarla con un neonato…
Vittoria si avvicinò alla culla e tentò di
calmare la
bambina senza tirarla su. Desistette in pochi istanti,
poiché il
pianto cresceva d'intensità, e la prese tra le braccia.
- Hai scelto proprio il momento migliore per metterti a
urlare…
- Le disse, cullandola. Baciò la testolina dai radi capelli
castani e riuscì, pian piano, a farla smettere di piangere.
Sapeva che entro pochi minuti avrebbe ricominciato, giustamente, per la
fame. Così la poggiò sul letto e
lasciò la stanza,
con l'intento di prepararle il latte. Passando per il soggiorno,
però, trovò l'uomo in piedi. Aveva una faccia
strana.
- Robert? - Langdon quasi sobbalzò e si voltò a
guardarla - Tutto bene?
Si fermò un istante e, scrutando la sua espressione, un
brivido le percorse la schiena.
- Io credo di aver fatto un pò di confusione,
prima…
Vittoria piegò la testa, fissandolo.
- Io non credevo che tu… avessi avuto un bambino.
- Di solito la gravidanza comporta questo. Nove mesi e poi un neonato
nasce, ovvio…
Langdon scosse la testa.
- Non mi riferivo a questo… so come nascono i bambini!
"Non mi pare… altrimenti saresti stato un pò
più
attento." Pensò lei, camminando lentamente verso la cucina.
Si
accorse che lui le stava andando dietro.
- Credevo che tu… insomma avessi… abortito.
A Vittoria cadde dalle mani il poppatoio che aveva appena tirato fuori
dalla credenza. Quella parola le fece più male di quanto si
aspettasse. "Abortire…".
Lui lo raccolse e glielo porse, capendo di aver toccato un tasto
dolente. Forse non avrebbe dovuto essere così indiscreto, ma
non
ci era riuscito. La gelosia aveva preso il sopravvento.
La donna trasse un gran sospiro e riprese a preparare il latte di sua
figlia. Forse in quel momento stava davvero realizzando: lui, l'uomo
che per un anno non si era più fatto sentire e che lei
credeva
perso per sempre, era lì. Ma non sapeva di aver avuto una
figlia, che era nuovamente in lacrime nell'altra stanza.
"Mio Dio… che faccio ora?" Vittoria chiuse gli occhi per un
paio di secondi, cercando di non perdere il controllo.
- Hai preso un granchio allora… - Disse solamente,
sorridendo a mezza bocca e passandosi una mano tra i capelli lunghi.
- L'ho notato. E' che… non hai detto niente. Voglio dire,
una
cosa così importante… perché non me
l'hai detta in
quella cartolina?
- Non mi sembrava il caso. E poi non ti eri più fatto
sentire.
Che senso aveva scriverti 'Ciao Robert, sono incinta…'?
Lui si accorse del suo stato di agitazione. Sembrava stesse cercando di
non perdere la calma. In più il pianto proveniente dalla
stanza
in fondo al corridoio cresceva d'intensità.
- Ok… d'accordo. Allora ti faccio gli auguri adesso.
Si avvicinò a lei e le baciò la guancia. Era
fredda e quasi tremava.
- Grazie… - Sorrise forzatamente fissando il microonde.
- Quanto ha tuo figlio?
- Figlia… è una bambina. Ha tre mesi e mezzo.
Di nuovo Langdon tornò ad essere confuso. La vide
allontanarsi con il biberon in mano e fece due rapidi calcoli.
"Tre mesi e mezzo più nove fa dodici e mezzo…
più o meno…"
Portò la mano alla bocca, si mangiucchiò l'unghia
del pollice e camminò verso il soggiorno.
"Allora era… era già incinta quando siamo stati a
Roma!"
A quel pensiero sbiancò e si immobilizzò. Non
poteva
essere vero. Gli aveva detto che l'ultima storia che aveva avuto era
stata tre mesi prima. Ovvero nel gennaio di due anni prima. Come
faceva, Vittoria, ad avere una bambina di tre mesi e mezzo?
"Caspita… dev'essersi consolata davvero velocemente, a
quanto pare."
Capì che doveva averla concepita i giorni seguenti la sua
permanenza a Roma. O magari era nata in anticipo. Aveva in mente mille
pensieri che lo stavano facendo pentire di essere arrivato fin
lì.
Vittoria strinse al petto sua figlia e le offrì il
poppatoio. La
vide calmarsi all'istante e aggrapparsi al biberon affamata.
"Povera piccola… mi ero quasi scordata di lei."
La guardò negli occhi, ancora umidi e gonfi per il pianto, e
sorrise. Gli somigliava tanto… aveva i suoi stessi occhi e
la
stessa fossetta sul mento. Se l'avesse vista avrebbe sicuramente
capito… se già non l'aveva fatto, visto che gli
aveva
messo tutte le informazioni sul piatto d'argento.
Non si sarebbe stupita se, tornando in soggiorno, non avesse trovato
più nessuno. Ma sicuramente le avrebbe fatto male. Molto
male…
Mille dubbi s'insinuarono nella sua mente. Fino a quel giorno non si
era mai pentita della scelta fatta, quella di non dirgli nulla riguardo
la piccola. Sarebbe stato troppo squallido condividere una figlia,
sballottarla da un continente all'altro. E questo se lui l'avesse
accettata. Come poteva credere fosse davvero figlio suo quello che
aspettava? Erano stati insieme una sola notte, si conoscevano a
malapena… eppure lei, anche se non voleva rendersene conto,
si
era lasciata talmente andare con lui che se n'era innamorata. Era tanto
premuroso e romantico. Ma non aveva mai creduto nelle storie a
distanza, per cui aveva preferito dimenticarlo. Poi, nel periodo
più nero della sua vita, ecco che aveva saputo dell'arrivo
della
sua creatura. E aveva deciso che sarebbe stata solo sua.
Adesso, guardando la sua bambina e sapendo nell'altra stanza Robert,
iniziò a pensare di aver fatto uno sbaglio.
E se lui avesse voluto riconoscerla? Se avesse voluto vedere sua figlia
crescere?
Aveva più di quarant'anni, non era un ragazzino. Non lo
conosceva ma sapeva che era un uomo onesto, a prescindere dal fatto che
fosse scomparso. Gli doveva tanto, probabilmente senza di lui non
avrebbe avuto neanche la forza di tornare in quella stessa casa e
seppellire suo padre. E soprattutto non avrebbe avuto la sua bambina.
Finì di darle da mangiare e se la mise sulla spalla,
passeggiando per qualche minuto per la stanza.
"Sei ancora in tempo… puoi dirgli la verità." Le
diceva
una vocina in fondo al cuore. Mentre la mente le diceva di no, che non
poteva più farlo. Che sua figlia era solo sua, che non
doveva
coinvolgerlo in una cosa tanto grande. Che era troppo tardi.
Si guardò allo specchio e fece fatica a riconoscersi. Un
anno
prima girava il mondo in shorts e capelli al vento, spensierata,
libera. Ora aveva il viso stanco e una bimba in braccio. E mille
pensieri e preoccupazioni nella testa.
Era bastato un attimo e la sua vita era cambiata.
Guardò l'orologio. Il suo caro Topolino segnava le
ventitré in punto. Forse era davvero meglio andarsene e
riposare
qualche ora in albergo prima di lasciare definitivamente l'Europa.
Sentì la porta della camera da letto aprirsi e richiudersi e
vide riapparire Vittoria. In mano il poppatoio ormai vuoto e il viso
stanco.
- Scusa se ci ho messo un pò.
- Tranquilla. Anzi è meglio che ti lasci riposare.
Si alzò in piedi e lei lo guardò.
- Vai già via? Non è poi così tardi.
Vittoria poggiò il biberon su una mensola e si
avvicinò a lui.
- Ti vedo stanca.
- Lo sono sempre, quindi non è un problema.
Langdon la guardò negli occhi. Sembrava triste. Tanto
triste.
Sapeva indossare alla perfezione la maschera di una donna forte, ma
sotto era di burro. Sembrava volesse dirgli qualcosa.
Come un anno prima, fece il tragico errore di perdersi in quegli occhi
scuri e profondi per qualche secondo in più: vi rimase
intrappolato, senza via d'uscita.
Anche Vittoria, guardando quelle iridi azzurre, si era persa. Aveva
ricordato quanto fosse bello annegare in quel mare. E poi, tornando a
guardarlo dal vivo, si era accorta di quanto fossero identici ai suoi
gli occhi di sua figlia. E per un attimo temette di scoppiare a
piangere.
- Sei sola, Vittoria?
Non capì perché le fece quella domanda,
così, a
bruciapelo e senza smettere di guardarla negli occhi. Doveva saperlo se
aveva qualcuno, come immaginava. Ma la vide annuire lievemente, con
sguardo rassegnato.
- Sono abituata ad esserlo, ormai.
- E il padre di tua figlia?
In quel momento, Vittoria sentì le gambe cederle. Il mondo
si
fermò in un istante. Avrebbe potuto morire, avrebbe voluto
morire anziché sostenere ancora quello sguardo.
Non poteva mentire. Glielo aveva nascosto fino a quel giorno, ma non
poteva mentire. Non a lui, che nonostante tutto le aveva dato una
spalla su cui piangere quando la conosceva da poche ore. Lui che
l'aveva fatta ridere, che le aveva fatto dimenticare l'orrore che
l'attendeva, che le aveva regalato una figlia, l'unico motivo, ormai,
per andare avanti.
Si voltò bruscamente, facendo ondeggiare i capelli scuri e
portandosi le mani alla bocca. Si avviò verso la finestra e
guardò fuori. Il cielo era limpido e si vedevano le stelle.
Sentì terribilmente la mancanza di suo padre. Se solo fosse
stato lì, se solo le avesse dato uno dei suoi consigli.
Invece
era sola, a dover decidere per se e per la sua bambina.
"Papà, dammi la forza…"
Lo vide riflesso nel vetro, alle sue spalle. Lo sguardo confuso, in
attesa di una risposta.
- Ti senti bene? - Le chiese, sfiorandole la spalla.
- Sì… sto bene, scusa…
Aveva una voce strana, flebile. A Langdon parve stesse per piangere.
"Avrò detto qualcosa di sbagliato?"
- Io non volevo essere indiscreto. Scusa. - Sospirò e le
posò le mani sulle spalle. Di certo non pensava che una
follia
come andare da lei sarebbe diventata una cosa simile.
- Non devi scusarti. Non ha fatto nulla di male.
- Non mi pare. Sei strana. Forse non dovevo venire.
L'uomo la lasciò e fece per tornare al divano, per prendere
la
giacca, ma qualcosa lo fermò. La mano di Vittoria l'aveva
afferrato per un polso, delicatamente.
"Ma cosa…?"
- Robert… sei tu il padre di mia figlia…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Per la prima volta ***
ff7
Per la prima volta
Il tempo si era fermato, il mondo si era fermato. Tutto era immobile e fermo.
Anche la fragile mano di lei era ancora aggrappata al suo braccio. Non aveva quasi il coraggio di muoversi.
Langdon aveva distolto lo sguardo da lei, non riuscendo a credere a ciò che aveva appena detto.
"Sei tu il padre…"
Cosa poteva fare? Andarsene senza dire niente? No, non era da lui…
Innanzitutto, doveva rendersi conto di ciò che stava succedendo.
Delicatamente, si
liberò dalla stretta della ragazza, che tornò a guardare
fuori. In lontananza, si vedeva qualche luce proveniente dai vari
stabilimenti del CERN e dai lampioni posizionati lungo le strade. Era
tutto troppo silenzioso.
L'uomo si passò una mano sul volto, coprendosi poi la bocca con il palmo e guardando fisso davanti a se.
"Non posso credere a tutto questo…"
Non poteva credere di essere lì, in primis. E non poteva nemmeno pensare a come si stavano evolvendo le cose.
Chi l'aveva spinto fin
lì? Quale forza oscura? Aveva fatto a meno di lei per un anno,
perché quest'improvviso desiderio di rivederla?
Sapeva solo di voler
sprofondare, risvegliarsi all'Hotel Ritz o meglio a casa sua, per poi
andare a nuotare alle prime luci dell'alba, come sempre, e bere il
caffè prima di andare a lezione.
Chiuse gli occhi un paio di
volte e li riaprì. Dal ventre, a contrastare la sensazione di
smarrimento, stava salendo un'altro sentimento, ancor più
micidiale. La rabbia. Il cuore gli batteva all'impazzata.
- Ripeti per favore…
- Le disse, cercando di mantenersi calmo. Guardò le sue
spalle, il suo riflesso sul vetro. Sembrava più sollevata, ma
anche affranta. Di certo nemmeno lei immaginava di dover fronteggiare
una situazione simile.
- Dillo di nuovo, Vittoria.
La donna sospirò.
- Te l'ho già detto, Robert…
L'uomo respirò profondamente e in modo stranamente irregolare.
- Voglio sentirlo di nuovo.
- Perché?! - Vittoria si voltò, esasperata.
- Perché sì!
- Quello che dovevo dirti l'ho detto, ora fammi un favore, fai quello che ritieni più giusto e basta.
Langdon le diede le spalle,
pensieroso e sconvolto. Mai Vittoria, dal giorno in cui sua figlia era
venuta al mondo, aveva pensato di poter vivere una situazione simile.
Era la prima volta che lo vedeva in quello stato…
- Come fai ad essere sicura che sia mia?
Si aspettava quella domanda, era più che lecita.
- Semplicemente sono stata solo con te, allora.
Voleva solo che finisse tutto prima possibile, per andare a dormire e dimenticare quella serata. Stavolta per sempre.
- Robert cosa avresti fatto al posto mio?! - Gli chiese, amareggiata.
Lo vide voltarsi di nuovo verso di lei, incredulo.
- Di certo ti avrei avvisata!
- Ho provato a farlo. Una
volta. E nemmeno mi hai risposto! Non mi hai cercata mai, in un anno!
Come potevo pensare t'interessasse avere un figlio con me?
Langdon ammutolì.
Non seppe più cosa risponderle. Aveva ragione. L'aveva
abbandonata, sola e con suo padre ancora da seppellire. Avrebbe dovuto
cercarla, a prescindere. Avrebbe dovuto farsi avanti, anche a costo di
soffrire, e chiederle almeno se avesse bisogno di aiuto.
Se così avesse fatto, non sarebbe stato lì, in quell'istante, ancora incredulo per quello che stava succedendo.
Sentì la rabbia scemare e chiuse gli occhi, abbassando la testa.
- Non potevo pensare di essere rifiutata anche da te, Robert. Non l'avrei sopportato.
Quelle parole gli bastarono
per sentirsi venti metri sotto terra. Riuscì, in un attimo, a
percepire il suo dolore e la sua sofferenza nei giorni seguenti il suo
ritorno a Ginevra. Rimasta orfana per la seconda volta e senza
nessuno… e incinta.
- Ma perché, allora, hai deciso di dirmelo adesso…?
Vittoria sorrise tristemente, era sul punto di piangere e lui se ne accorse.
- Perché non potevo mentirti guardandoti negli occhi.
A quel punto, Langdon non
seppe più che fare. Si sentì proprio come da bambino, in
quel pozzo. Urlava ma nessuno lo sentiva… Adesso non poteva
urlare invece. Avrebbe voluto farlo, buttare un urlo liberatorio,
sfogarsi. Soprattutto dirle quanto gli era mancata, abbracciarla.
Eppure rimase immobile. Fu lei ad avvicinarsi, lentamente. Aveva il
viso triste ma disteso, come se si fosse liberata da un peso divenuto
insostenibile. Gli sfiorò il polso, quando ancora lui le dava le
spalle.
- Robert?
Lui non rispose.
- Comunque… sono felice che tu sia qui.
Avvertì la sua voce
come un sussurro e capì quando anche a lei fosse mancato. Forse
più di lui aveva bisogno di un abbraccio.
Rimase qualche istante
fermo, a testa bassa, pensando a cosa fare, ma alla fine prese la
decisione migliore: mandò tutto al diavolo, si voltò e la
strinse forte, esaudendo uno dei suoi più grandi desideri. Si
chiese come aveva fatto ad accantonarla, a non pensarla, per tutto quel
tempo. Dopo un anno respirò di nuovo il suo profumo,
sentì ancora il calore del suo corpo, la forza che era in grado
di trasmettergli, nonostante tutto. Sentì quel nodo nel petto
sciogliersi per lasciar posto a un'emozione fortissima, di quelle che
fanno piangere a singhiozzi.
- Volevo troppo rivederti… - Le disse soltanto, tenendola stretta.
Vittoria non si mosse,
rimase ferma, temendo di interrompere quel momento. Quanto aveva
desiderato un suo abbraccio in quei cinquantaquattro giorni d'inferno.
Oppure quando, sola nel letto, si sfiorava il grembo e sentiva muovere
sua figlia. O quando, in preda a dolori atroci, aiutava la sua creatura
a venire al mondo. Quando l'aveva tenuta tra le braccia la prima volta
si era sentita ancor più sola. Nessuno attendeva di vedere la
sua bambina, nessuno le avrebbe scattato una foto, o le avrebbe portato
un regalo. C'era solo lei.
Beh, quanto sarebbe servito
allora quell'abbraccio. E in quel momento non seppe se odiarlo, ma era
consapevole che non ci sarebbe mai riuscita.
Fu proprio la bambina ad
interromperli. Ricominciò a frignare, probabilmente non era
riuscita a riaddormentarsi da sola e si stava innervosendo.
Quando sentì quei
vagiti, Langdon si sentì mancare. Per la prima volta nella vita
si accorse di avere paura di una lattante.
"Davvero sei mia figlia?"
Pensò, staccandosi da Vittoria per lasciarla andare dalla
bambina. Ma le non si mosse, e rimase a testa bassa, come in trance.
- Cos'hai? - Le chiese, scrutandola in viso.
- Niente… - scosse la testa e si avviò piano verso la camera da letto, poi si bloccò.
- Robert…
L'uomo capì all'istante, ma fece finta di niente.
- Dimmi…
- Vuoi vederla?
Rimase indeciso per diversi
istanti, guardandosi riflesso nella finestra. Decidere se vedere una
creatura che aveva appena saputo essere sua figlia era una delle
decisioni più difficili della sua vita.
Se avesse detto di no si sarebbe negato l'unica possibilità di vedere in faccia quella bambina.
Se avesse detto di sì sarebbe entrato in gioco definitivamente.
Eppure, senza dire una parola, seguì Vittoria. Mai nessun tragitto gli era sembrato così lungo.
Nel momento stesso in cui la donna aprì la porta e accese la luce, i vagiti cessarono.
Gli fece segno di
precederla ed entrare. Langdon esitò qualche istante, poi mise
piede nella stanza e guardò la culla sistemata accanto al letto.
Vittoria si fermò sull'uscio, con la mano lo sospinse delicatamente verso la bambina, ora silenziosa.
- Come l'hai chiamata? - Le
chiese all'improvviso, ancor prima di riuscire a intravedere il
delicato profilo della piccola tra le coperte.
- L'ho chiamata come mio padre. Leonarda.
Lo vide abbozzare un sorriso.
- Bella scelta.
- Io però la chiamo Lea…
Calò di nuovo
il silenzio, fatta eccezione per qualche versetto della neonata,
incuriosita da quell'insolita voce così vicina a lei.
Langdon prese coraggio e si
avvicinò di più. Si fermò ai piedi della culla,
posando le mani sulla sponda imbottita. Gli occhi di Lea si posarono,
curiosi, su di lui, fermo immobile e privo di ogni espressione.
"Mio Dio…"
Pensò soltanto, guardando quel visetto. Aveva i suoi
occhi… ed era la bambina più bella che avesse mai visto
in vita sua.
Era quella la sensazione
che provava un padre vedendo per la prima volta la sua creatura? Si
provava anche quel forte senso di estraneità? E quella tristezza
dettata dal pensare a quanto fosse stata inutile la sua vita fino a
quel giorno?
Non disse nulla. Non
sorrise. Rimase lì, statuario, senza muovere un muscolo, solo
studiando i lineamenti di quella che da poco sapeva essere sua figlia.
Provò immediatamente un enorme senso di colpa per aver dubitato,
anche solo per un attimo, del fatto che Vittoria gli stesse dicendo la
verità.
D'un tratto sentì un
bruciore improvviso nel petto e fu costretto a distogliere lo sguardo:
stava ricevendo il primo sorriso da sua figlia.
Sentì le palpebre
farsi più pesanti e le lacrime riempirgli gli occhi, ma
lottò con tutto se stesso per evitare di piangere. Non poteva,
ne voleva…
All'improvviso sentì
qualcosa sfiorargli il fianco. Era Vittoria, si era avvicinata e, di
fianco a lui, guardava sua figlia. Lea spalancò la bocca in un
largo sorriso vedendo sua madre e, quando glielo porse, le
afferrò l'indice della mano destra.
- Robert…
Lui, ricompostosi, la guardò.
- Questo… questo non vuol dire nulla, capito?
Langdon corrugò la fronte.
- Ti ho detto la
verità, ti ho fatto vedere tua figlia. Ma non voglio niente da
te. So cavarmela benissimo da sola, come vedi.
La bambina era un fiore. A
tre mesi e mezzo era paffuta, vispa e serena. Di certo, Vittoria era
riuscita a non farle mancare niente, in fondo di soldi ne aveva eccome,
col lavoro che faceva e con l'eredità che il povero Leonardo le
aveva lasciato.
- E' un invito ad andarmene
e dimenticare quello che ho visto? - Le chiese soltanto,
continuando a guardare la sua creatura, che iniziava a spazientirsi.
Era visibilmente stanca e aveva bisogno di dormire.
Vittoria ritrasse la mano e lo guardò.
- Non ti ho detto
questo. - Pareva aver ritrovato tutta la grinta tipica del suo
carattere, ora che si era liberata di quel peso.
- Così è sembrato.
- Semplicemente credo tu abbia ben altro a cui pensare…
- Certo sì… come se fosse possibile tornare alla vita di sempre dopo una cosa simile!
La donna lo vide alterarsi. Anche lui sembrava si stesse riprendendo dallo shock iniziale.
- Senti… il succo
è questo: non ti chiedo niente. Non voglio niente. Tu sei libero
di fare quello che ritieni più giusto.
- Certo! E cosa potrebbe essere 'giusto' in questo caso?!
Le voci alterate dei due
innervosirono la bambina, che scoppiò a piangere spaventata.
Vittoria la prese in braccio e la strinse.
Lui sbuffò e le
voltò le spalle. Fece qualche passo verso la porta e si
passò una mano sul volto. Attraverso lo specchio diede un'altra
occhiata al visetto di sua figlia, poggiato sulla spalla di sua madre.
- Forse e meglio che ci
pensi un pò… - disse poi, voltandosi dopo aver ritrovato
la calma. Si avvicinò a Vittoria e la guardò.
- Hai un posto dove andare?
- L'albergo. I miei bagagli sono già lì.
Si sforzò di sorriderle. Vittoria sospirò.
- Almeno, prima di partire, fatti vivo… - gli disse soltanto, con naturalezza e rimettendo nella culla la piccola.
Langdon guardò un
ultima volta sua figlia e annuì. Poi, da solo, uscì dalla
stanza e raggiunse la porta d'ingresso.
Vittoria, stesa di fianco
sotto le coperte, faticava a prendere sonno. Tempo due ore e avrebbe
dovuto alzarsi per occuparsi di Lea e prepararsi per andare al lavoro.
Come avrebbe potuto dormire, in una situazione del genere?
La sua vita, in un anno,
era cambiata radicalmente. E nelle ultime ore, era stata stravolta di
nuovo. Faceva ancora fatica a realizzare ciò che era appena
successo: Robert era stato lì e lei gli aveva detto ciò
che era giusto sapesse.
"Adesso che farà?"
Continuava a chiedersi, rigirandosi sotto il piumone verde smeraldo.
Non aveva ancora mangiato nulla, da quasi ventiquattr'ore, ne sarebbe
riuscita a ingerire qualcosa in quelle condizioni. Pregò solo di
non collassare al lavoro, era l'unica cosa che stava andando bene nella
sua vita, ormai. In più, il seno le faceva malissimo.
Guardò il cellulare
sul comodino. L'aveva spento, per cercare di dormire, ma d'istinto
allungò la mano e lo recuperò, accendendolo.
Subito il display s'illuminò.
"Strano… non ricevo un messaggio da giorni…"
Lo aprì e lesse il mittente. Il cuore le si fermò per un istante.
"Robert…?"
Due righe. Ma le bastarono a farle tornare un minimo di serenità.
- Non posso partire senza sistemare le cose. Devo vederti, anche domani.
"Vorrà dirmi di andare a quel paese, ma va bene così…"
L'importante, per lei, era
avere un minimo di stabilità. Le avrebbe fatto male saperlo di
nuovo lontano, per sempre, nonostante gli avesse detto di aver messo al
mondo una figlia sua. Ma almeno non avrebbe avuto altri problemi.
D'istinto ripensò a
quei giorni trascorsi con lui, dopo la tragedia. Era riuscita a ridere,
a parlare di se. Si era innamorata di lui in pochissimo tempo.
Ricordò quando l'aveva creduto morto, e invece era riapparso
vestito da infermiere e l'aveva baciata, inaspettatamente, facendole
capire quanto l'amasse nonostante si conoscessero da poche ore. E si
era commossa, stringendolo e ringraziando Dio per averle ridato vivo
almeno lui.
Come avevano fatto a dimenticare quei momenti, tutti e due?
Al solo pensarci, il cuore di Vittoria aveva ripreso a battere…
Chiuse gli occhi e riuscì ad addormentarsi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Il coraggio di pensare ***
ff8
Il coraggio di pensare
Aveva percorso la strada al
rovescio come un automa. Aveva freddo, fame e non riusciva a
capacitarsi per ciò che era successo.
Dall'uomo nella guardiola si fece chiamare un taxi, che arrivò in pochi minuti.
Salì nell'auto,
disse il nome dell'Hotel e rimase immobile e silenzioso per tutto il
tragitto. Non riusciva a togliersi dalla mente ne Vittoria ne quella
bambina.
Come poteva essere successo? Davvero bastava un attimo a cambiare la vita?
C'era solo da capire se per
'attimo' s'intendeva quello in cui non aveva pensato alle conseguenze
del suo gesto, un anno prima, in quel letto, oppure quello in cui aveva
preso la folle decisione di andare da lei.
E se non fosse andato lì? Se davvero avesse continuato ad evitare di rimembrare Vittoria?
Non avrebbe mai saputo la
verità. Non avrebbe mai saputo che, in quel pezzetto di mondo,
c'era una bambina con il suo stesso sangue.
Scese dal taxi, pagò
ed entrando nell'Hotel all'una in punto riuscì a malapena a
farsi dare le chiavi della stanza. Gli dissero che i bagagli erano
arrivati e che li avevano lasciati accanto al letto.
Salì le scale e tornò a pensare a tutta la situazione.
Che avrebbe fatto?
Aprì la porta della stanza e se la richiuse alle spalle.
Rivide gli occhi azzurri di quella bambina… i suoi occhi.
Se ne sarebbe tornato in America e avrebbe dimenticato tutto?
Fece qualche passo in
avanti, raggiungendo il bagno. Si appoggiò al lavandino e si
guardò allo specchio: quello che vide era un uomo distrutto,
fisicamente e mentalmente. Sembrava uno spettro tanto era pallido.
All'improvviso gli
tornò in mente il sorriso che gli aveva regalato quella
creatura, e anche la forte emozione che aveva provato,
inaspettatamente.
Allora tornarono a
riempirgli gli occhi le lacrime. Ma stavolta si lasciò andare,
scaraventando a terra le chiavi di quella stanza e sfogandosi,
finalmente, senza che qualcuno potesse vederlo.
Si sentì un bambino.
Si sentì quasi come quando, un anno prima, in quella fontana,
aveva pianto accanto al cadavere del cardinal Baggia.
Ancora vestito, si
sdraiò sul letto, con una mano poggiata sulla fronte. Non
riusciva a scacciare quell'immagine dalla mente. Vedere sua figlia era
stato micidiale.
Come avrebbe fatto a
dimenticare di essere padre? A tornare alla vita di sempre, pur sapendo
di avere una figlia? Una figlia che aveva il suo stesso sguardo…
Chiuse gli occhi e si
calmò, recuperando un minimo di dignità. Si sfilò
la giacca gettandola in un angolo della stanza e quasi si
strappò via i primi bottoni della camicia. Aveva bisogno di aria
per riflettere.
Guardò fuori
attraverso la grande finestra e vide le stelle che andavano via via
spegnendosi: una grande nuvola scura stava avanzando minacciosa,
sconfiggendo la loro luce. La luna, invece, era ancora ben visibile.
Una luna d'aprile, come
quella che l'aveva illuminato, quella notte di un anno prima, mentre
faceva l'amore con lei, a Roma. Era distrutto, aveva male dappertutto
ma in quegli attimi aveva dimenticato tutto. Gli importava solo di
averla tra le braccia, perché sapeva che non sarebbe stato
così per sempre.
Con quel pensiero aveva concepito Leonarda.
I suoi vagiti gli riecheggiavano ancora nelle orecchie, come il suo tenero sguardo continuava ad apparirgli davanti.
Si tastò i fianchi e dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il cellulare.
Aveva ancora il numero di
Vittoria. Si sentiva del tutto insoddisfatto, avrebbe voluto dirle
mille cose ma quella nuova situazione l'aveva disorientato.
Scrisse un semplice
messaggio. Non voleva andarsene così, lasciandola di nuovo sola.
Nonostante tutto, non lo meritava…
Poi, ancora vestito, chiuse gli occhi e cadde in un sonno tanto profondo quanto tormentato.
Vittoria spalancò
gli occhi, sobbalzando. Un violento tuono aveva destato sia lei che
Lea, ma era ormai giorno e tempo dieci minuti le sarebbe suonata la
sveglia.
Faticò ad uscire dal letto, ma il pianto spaventato della bambina la costrinse a scostare le coperte e a raggiungerla.
- Vieni qui… - Le
disse dolcemente, prendendola tra le braccia e calmandola. Aveva un
sonno terribile e non si sentiva bene, ma aveva troppe cose da fare.
Si recò in cucina,
preparò il latte - rigorosamente con una sola mano - e lo
diede alla piccola, affamata e nervosa.
Mentre la teneva tra le
braccia, Vittoria pensò a quello che era successo la sera prima.
Stentava ancora a crederci, ma in fondo era accaduto l'inevitabile.
Anzi, si sentiva meglio, senza sensi di colpa e rimpianti. Ed
era… sì, era felice di aver rivisto quell'uomo, e
soprattutto di aver assaporato di nuovo un suo abbraccio, anche se in
un momento a dir poco drammatico. L'aveva del tutto disorientato,
poverino.
Ripensandoci, le scappò un sorriso.
- L'abbiamo messo proprio ko tuo padre, Lea.
La piccola, staccatasi dal
biberon, sorrise e si stropicciò gli occhi. Vittoria la
riportò in camera e la cambiò, dato che a breve l'avrebbe
portata all'asilo. Come la mattina precedente ebbe di nuovo il senso di
colpa, ma in fondo era necessario che lavorasse. E di certo non avrebbe
potuto portarsela nei laboratori.
Poi, rimessa la bambina
nella culla, toccò a lei prepararsi. Si accorse di avere una
marea di panni da lavare e il bagno completamente in disordine. Non
aveva più tempo per niente.
Ricordò poi di dover
rispondere a Langdon e, non appena riuscì a vestirsi,
recuperò il cellulare sul comodino.
- Scusa se ti rispondo ora. Se ti va bene, stasera alle sette al Parc des Bastions di Ginevra.
Non sapeva quale altro
posto potesse andar bene. Dovevano solo parlare e con una bambina di
certo non poteva andare molto lontano. Con la macchina sarebbe arrivata
lì in una ventina di minuti, giusto il tempo per prenderla
dall'asilo e fare benzina.
Finì di prepararsi e
preparò la borsa di sua figlia, assicurandosi che non mancasse
nulla, e pensò bene di mettere qualche pannolino in più
dato che non sapeva a che ora sarebbe rientrata. E un cambio di
vestiti. Prima di uscire di casa recuperò, nello sgabuzzino, la
carrozzina che fino a quel giorno aveva utilizzato solo quattro volte -
le necessarie per raggiungere qualche ufficio senza dover prendere
l'auto - e vi sistemò la piccola. Le sarebbe servita dopo il
lavoro…
Langdon aprì
lentamente gli occhi alla luce del giorno. Era grigiastra,
evidentemente non doveva essere una bella mattinata. Sentiva nell'aria
uno strano odore di pioggia e soprattutto un freddo tremendo. Aveva
lasciato la finestra socchiusa e aveva un gran mal di testa.
Si mise a sedere e si rese
conto di essersi addormentato completamente vestito. Vide la giacca
gettata sul pavimento e si stropicciò gli occhi. E in pochi
istanti ricordò tutto.
"Non è stato un sogno, allora…"
Era in quella stanza d'albergo, a Ginevra. Con in mente ancora l'immagine della sua bambina che gli sorrideva.
Rimase qualche momento
immobile, ma il brontolio dello stomaco lo costrinse a reagire. Si mise
in piedi e si spogliò, pronto ad entrare nella doccia: ne aveva
veramente bisogno, dopo quelle ore faticose. Lasciò che l'acqua
bollente lavasse via la tensione e le lacrime che aveva versato la
notte precedente. E soprattutto riuscì a riflettere.
Aveva una figlia e lo
sapeva da neanche un giorno. Per di più, era anche figlia di
Vittoria. La sua Vittoria. La stessa donna con cui aveva vissuto
quell'incredibile avventura in Vaticano, un anno prima. La stessa donna
per cui era corso, rubando un auto, a Castel Sant'Angelo, sperando di
trovarla ancora viva. La stessa donna che aveva salvato e allo stesso
tempo l'aveva salvato. La stessa donna che aveva pianto per lui,
credendolo morto.
Provò all'improvviso
una fortissima emozione. Come non gli succedeva da tantissimo tempo, il
cuore aveva ricominciato a palpitare. Aveva provato quella stupenda
sensazione anche la sera prima, quando l'aveva vista affacciata da
quella terrazza, sorridente. Quando ancora sapeva di essere coinvolto
in qualcosa di molto più stravolgente.
Chiuse gli occhi e lasciò che l'acqua calda gli scorresse direttamente sul viso.
Voleva rivederla. E, anche
se non riusciva a crederci, voleva rivedere anche Lea. L'aveva a
malapena guardata, la sera prima, e in quel momento, invece, avrebbe
tanto voluto toccarla, sentire che era vera, che non era un illusione.
Chiuse il rubinetto e afferrò l'accappatoio di spugna, infilandoselo e sfregandosi le braccia.
Vide lo schermo del telefono lampeggiare e andò a vedere chi l'avesse cercato. Era Vittoria.
Lesse il messaggio un paio di volte e abbozzò un sorriso.
Poi si vestì velocemente e scese a fare colazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Sensazioni nuove ***
ff9
Sensazioni nuove
Erano le diciannove e tre minuti quando Langdon passeggiava da solo
lungo il viale alberato. L'erba era ancora umida per quel temporale
mattutino, e il tiepido sole che era riapparso faceva scintillare
qualche gocciolina qua e là. Vi era una luce rossastra, dato che
stava quasi per tramontare.
L'uomo teneva le mani giunte dietro la schiena. Quel giorno l'aveva
passato a pensare, girando le strade di Ginevra, e aveva avuto modo di
rilassarsi e schiarirsi le idee.
In quel momento voleva solo vedere Vittoria e la bambina. Sembrava
assurdo, ma era come se la sua vita si fosse capovolta. All'improvviso
non contava nient'altro: ne Harvard, ne la storia, ne Sophie…
Poi la vide. Spingeva una carrozzina blu scuro e sembrava serena,
mentre camminava lenta lungo il viale. Le andò subito incontro,
sorridendo. Sembrava che tutto il rancore e l'inquietudine si fossero
dissolti.
- Hey… - Disse lei, vedendolo arrivare. Non aveva una bella cera, nonostante fosse tranquilla.
- Ciao. Credevo ci mettessi di più… - Rispose lui, avvicinandosi per baciarla sulle guance.
- Sono abituata a fare corse, non è stato poi tanto difficile arrivare puntuale.
Langdon sorrise e lei ricambiò. Poi sbirciò dentro la
carrozzina, e sotto la cappottina, la coperta di lana e il cappuccio
della tutina imbottita, vide il visetto addormentato di Lea.
- Dorme? - Chiese, mentre ancora la guardava.
- Menomale… ci mancava solo che iniziasse a urlare in macchina.
- Fa così di solito?
Langdon ricominciò a camminare, con lei accanto.
- Non proprio. E' che la porto fuori davvero pochissimo. Solo per
necessità, cioè fare la spesa o andare dal medico. Anzi
questa è la sua prima passeggiata "ufficiale" sai?
"Perlomeno sono partecipe almeno di questo…" Pensò l'uomo, mostrandosi sorpreso.
- Qui fa freddo, però… - Commentò soltanto, facendo spallucce.
- Beh, io ci sono abituata. Anzi sono abituata agli sbalzi termici a dire il vero.
- Intendevo per le passeggiate…
Vittoria sorrise.
- Non c'entra molto, anzi i bambini vanno portati a passeggio tutti i giorni. Sono stata un pò negligente in questo.
- Perché non ci sei mai venuta qui?
La vide alzare la spalle, con un' espressione malinconica.
- A dire il vero conosco questo parco come le mie tasche. Io e mio padre venivamo sempre qui…
Langdon si pentì di averle fatto quella domanda.
- Capisco. Scusa, non volevo che…
- Non devi scusarti sempre - Lo bloccò, sorridendo sincera - Il
fatto che abbia perso mio padre non significa che non debba
parlarne…
Vittoria sembrava davvero rilassata, anche se eccessivamente pallida.
- Ti secca sentirti dire che non hai una bella cera?
- Sono abituata anche a questo - si fermò accanto a una panchina, con l'intenzione di sedersi.
- Come mai?
- Non ne ho idea. Sarà perché non ho quasi più
tempo per mangiare. Sono due giorni che non tocco cibo. Stamattina non
ho fatto in tempo e a pranzo ho preferito continuare a lavorare. Mi
trovo abbastanza indietro con i progetti.
L'uomo sgranò gli occhi.
- Due giorni?! Sei matta? E' già un miracolo che tu sia ancora in piedi!
Le si sedette accanto e la fissò. Era davvero parecchio pallida.
E magra, tanto. Troppo. Anche più di quel che ricordava, e dopo
una gravidanza era difficile avere una così perfetta linea.
- Davvero, mi sembra di non avere più tempo per nulla. Mi alzo
alle sei, mi occupo della casa, di Lea, devo prepararle la roba,
vestirmi, portarla all'asilo e andare a lavoro. E una volta uscita devo
riprenderla, tornare a casa, farle il bagno, darle da mangiare e finire
di sistemare la casa. Se ho tempo di mangiare è davvero un
evento!
Soltanto ascoltandola, a Langdon venne addosso una stanchezza
terribile: e lui che pensava di avere una giornata piena solo
perché, dopo il lavoro, parecchie volte doveva correggere una
pila di compiti in classe!
- Beh devo dire che hai una giornata piuttosto impegnativa.
- Quale madre single non ce l'ha?
Incassò il colpo e fece finta di niente. Decise di arrivare al sodo.
- Senti io volevo… volevo innanzitutto chiederti scusa per ieri
sera. Davvero ero fuori di me, non capivo più niente.
Vittoria sospirò, ravviandosi i capelli con la mano fredda.
- No. No sono io a doverti chiedere scusa. Davvero, non avrei dovuto
scaricarti addosso tutta la verità in questo modo. Anzi, avrei
dovuto farlo dall'inizio ma… - Lasciò la frase in
sospeso, stringendosi nelle spalle rassegnata.
- Ma? - Lui la esortò a continuare e la guardò ancora in viso.
- Ero in un momento più che difficile. Mi sembrava tutto nero e
quando ho scoperto di aspettare Lea ho trovato un motivo per
ricominciare. Ma non me la sono sentita di rischiare… tu eri in
America, eri tornato alla tua vita e avresti potuto benissimo mandarmi
a quel paese.
Langdon la ascoltò, riuscendo davvero a capire in che terribile situazione si trovasse.
- Solo per quello non mi hai detto niente?
Lei sollevò lo sguardo, con sguardo incerto.
- In che senso?
L'uomo parve un momento in disagio e in imbarazzo, ma proseguì. Era lì per parlare di quello…
- Solo per paura di un mio rifiuto oppure perché non… non credevi potessi essere un genitore decente?
A Vittoria quella domanda parve ambigua e quasi le fece scappare una
risata. Lei stessa, all'inizio, aveva pensato di non poter essere una
buona madre.
- Genitori non si nasce. Si diventa. Se io sono in grado di crescere
una bambina, poi, può farlo chiunque. Non avevo mai avuto alcun
interesse nei confronti dei mocciosi, ne avrò tenuto in braccio
uno al massimo, da ragazzina. Ma quando è figlio tuo cambia
tutto.
- E' stato difficile? Abituarti intendo…
- Difficile è limitativo. E' stato estenuante, soprattutto
perché ho dovuto gestire da sola sia lei che il resto della mia
vita. Insomma, non avevo nessuno che mi aiutasse… e quando
piangeva senza sosta andavo nel panico. Però pian piano le cose
sono migliorate. Mi ci sono abituata.
In quel momento, dalla carrozzina iniziarono a diffondersi gorgheggi e
versetti. Vittoria si alzò e sorrise a sua figlia, appena
sveglia e già con il sorriso sulle labbra. Langdon pareva
pensieroso. Forse sapere quanto crescere una bambina senza nessuno
fosse difficoltoso l'aveva spaventato a morte.
In effetti, in quel silenzio, stava semplicemente pensando di non
esserne all'altezza. Non avrebbe avuto tutta la forza necessaria.
Quella che lei, chissà da dove, aveva trovato.
- Vittoria…
Lei si voltò a guardarlo.
- Come ci sei riuscita? Come hai fatto a farcela?
Non credeva di essere capace di chiederglielo, ma lo fece. Era una
domanda assurda, la forza, in situazioni simili, la si doveva trovare
per forza. Si aspettò di vederla andar via, di sentirsi
insultare, o semplicemente vederla rattristarsi. Invece la vide solo
infilare le mani sotto quelle coperte, tirar fuori la piccola e sedersi
di nuovo sulla panchina. Lesse nei suoi occhi solo un profondo amore
nei confronti di quella creatura, mentre la guardava, la baciava e la
stringeva.
- Sicuro di volerlo sapere Robert? - Gli chiese, senza smettere di guardare sua figlia.
- Certo…
Vittoria sollevò sua figlia, portandosela davanti al viso. Le
diede un altro bacio sulla guancia rosea e all'improvviso, senza dire
una parola, gliela porse.
Langdon rimase di sasso, non capendo esattamente cosa stesse succedendo.
"E questo che vuol dire?"
- Prendila - Era un imperativo. Vittoria era tranquilla, teneva ancora
a mezz'aria la bambina, che si succhiava tranquillamente una mano.
L'uomo non capì dove volesse arrivare, ma sapeva di non avere
molta scelta. Sollevò le mani e afferrò, esitante, la
piccola. La madre la lasciò e ritrasse le mani, con una strana
sensazione in corpo.
Lo vide tenere a mezz'aria la loro bambina, con un' espressione di
paura mista a stupore. Lea lo fissò, incuriosita. Nessun uomo,
prima d'ora, l'aveva tenuta in braccio. Ne lui, fino a quel momento,
aveva mai tenuto in braccio una bambina così piccola.
- Non preoccuparti. Non è una bomba. Non scoppierà da un momento all'altro...
Langdon osservò il viso di Lea, che a sua volta lo guardava. Era davvero bellissima. Era davvero sua?
Gli sembrò quasi che gli stesse scivolando dalle mani, ed ebbe
un attimo di panico. L'avvicinò al petto, per paura di farla
cadere.
All'improvviso sentì una sensazione indescrivibile, fortissima, speciale.
"Sei davvero mia?" Pensava soltanto, respirando il profumo di quella
creatura. Si rese conto che era la prima volta che teneva tra le
braccia sua figlia. Non sapeva nemmeno se sarebbe stata l'ultima.
Vittoria li guardò insieme e non riuscì a capire se
quella che stava provando era un'emozione positiva o negativa. Mai
avrebbe immaginato di vedere Lea in braccio a suo padre. Fino a poche
ore prima era stata solo sua…
Eppure era bellissimo potersi imprimere nella mente quell'immagine.
- Vedi… io la forza la trovo così. Non so se per te sia
lo stesso… - Gli disse poi, sorridendo ma con voce non del
tutto ferma. Lui la guardò, come riscuotendosi da un sogno.
Langdon annuì distrattamente. Guardò ancora sua figlia e
si perse nuovamente in quegli occhi… i suoi occhi.
Come poteva non credere che quella bambina fosse sua? Come poteva negare di amarla già perdutamente?
Gli sorrise ancora e a quel punto temette di sciogliersi. Se la
sistemò meglio sul petto, passandole un braccio dietro la
schiena, riuscendo così a rilassarsi, senza doverla tenere in
bilico tra le mani.
Sembrava una bambola, infagottata dentro quella tuta bianca e in quel
berretto di lana rosa. A malapena riusciva a succhiarsi due dita della
mano, le uniche che spuntavano dal vestiario. In effetti, faceva
abbastanza fresco, nonostante la primavera fosse entrata da un mese.
- Robert…
Vittoria lo chiamò e lui si voltò a guardarla. Sembrava seria.
- Cosa?
- Volevo… chiederti una cosa.
- Dimmi - la piccola gli afferrò l'indice della mano.
- Quando riparti?
Quelle parole lo colsero alla sprovvista. In quel momento pensava solo
a quanto fosse bello poter stringere la propria figlia, anche se la
conosceva solo da un giorno.
Sentì come un dolore al petto, inspiegabile e micidiale. Come
poteva far finta di niente? Soprattutto ora che aveva capito di volerle
bene, come se avesse vissuto da sempre con lei.
- Devo ancora decidere. Il mio volo è partito stamattina alle undici. E sono ancora qui…
Vittoria rimase interdetta.
- Non hai preso l'aereo?!
Langdon le sorrise e scosse la testa.
- Non potevo. Non ora…
La donna non sapeva se ridere o piangere, e soprattutto non capiva cosa
gli passasse per la testa. Certo, aveva saputo di avere una bambina. Ma
ora?
- E allora? Cos'hai intenzione di fare?
- Ci sto pensando.
- Avevi detto che volevi parlarmi riguardo a questo… - Era confusa e voleva che parlasse chiaro.
Lui sospirò, tenendo ancora la piccola in braccio.
- E' che ci sono mille cose da dire e da fare, Vittoria. Sinceramente non so da dove partire.
Vittoria scrutò il suo volto, cercando qualche indizio. Non traspariva molto, se non una grande confusione.
- Robert, io non voglio che la tua vita venga stravolta per questo - Gli disse, seriamente, guardandolo negli occhi.
- Troppo tardi. Ormai è successo, e non è una cosa da poco, mi pare.
- Ma se te l'ho detto è perché non potevo mentirti e tenermi questo peso dentro.
- Ma l'hai scaricato addosso a me questo peso, Vittoria.
Pronunciò quell'ultima frase con un tono malinconico e quasi
rassegnato. La donna non seppe più cosa rispondergli. Se prima
si sentiva in colpa per avergli nascosto la verità un anno
intero, ora provava un'angoscia terribile nel vederlo così
confuso. Provò a mettersi nei suoi panni: di certo sarebbe
scappata via.
- Ok… va bene. Capisco che hai bisogno di tempo. Capisco che sei
confuso ma… volevo solo capire le tue intenzioni.
A quel punto lui la fissò intensamente negli occhi. Aveva il viso disteso, nonostante la situazione.
- Vittoria, non sono ancora riuscito io stesso a capire le mie
intenzioni… so solo che sono ancora qui. E voglio pensarci
ancora.
Le sorrise, sincero, proprio nel momento stesso in cui Lea iniziava a
spazientirsi. Vittoria fece un respiro profondo per rilassarsi. Aveva
ragione, era ancora lì ed era già un passo da gigante.
Ricambiò il sorriso e, dopo aver allungato la mano per prendere
il biberon dalla borsa, tolse Lea dalle braccia di suo padre e se la
riprese.
In quel momento, Langdon sentì un profondo senso di vuoto. Era
come se, con in braccio sua figlia, avesse trovato la pace dei sensi,
mentre separandosene, solo per restituirla a sua madre, aveva percepito
come uno strappo. Però la vide rilassarsi tra le braccia di
Vittoria, mentre consumava il suo pasto, ed ebbe la sensazione di
volare: vederle insieme, serene, gli infondeva una pace incredibile. E
sentiva crescere nel petto tanto amore. Per entrambe…
In fondo, lo volesse o meno, erano la sua famiglia…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Una notte movimentata ***
ff10
Una notte movimentata
Cenarono insieme in un semplice ristorante della zona e parlarono a
lungo e tranquillamente. Lea rimase tranquilla per tutto il tempo e
Vittoria gliene fu grata. Le sembrò di ritrovare per davvero
quell'intesa con lui, la stessa che un anno prima l'aveva fatta
innamorare, dopo una lunga serie di avvenimenti e, purtroppo, sventure.
E la stessa cosa accadde in lui. Riuscirono addirittura a scherzare, a
prendersi scherzosamente in giro, proprio come quella sera su quella
terrazza, a Roma.
Non pensarono minimamente a ciò che sarebbe accaduto.
Semplicemente vollero godersi quei momenti. In fondo, lei non aveva una
vera vita sociale da parecchio e aveva una voglia matta di parlare con
qualcuno… con lui in particolare.
Gli raccontò del lavoro, di come il CERN aveva superato la crisi
dopo quel disastro, del funerale di suo padre e di come si era dovuta
adattare a lavorare da sola, senza di lui. Parlò serenamente,
nonostante il tutto le avesse provocato parecchio dolore.
Poi toccò a lui, ma non aveva molto da raccontarle. La sera
prima le aveva detto del Graal, dovette solo approfondire.
Arrivò a raccontarle di Teabing, dell'amicizia che li aveva
uniti e della delusione nel saperlo coinvolto in tutta quella storia.
Le disse di Sophie, senza però soffermarsi sul bacio che si
erano dati e sulla promessa di rivedersi dopo un mese a Firenze.
Insomma, trascorsero momenti sereni che li aiutò a rincontrarsi, a ritrovare quell'affiatamento speciale.
Langdon poi pagò il conto, e uscirono dal locale insieme,
sorridenti e rilassati. Vittoria lo invitò a seguirlo, gli
avrebbe dato un passaggio fino all'albergo e sarebbe poi tornata a
casa, a riposare finalmente. La stanchezza le stava giocando un brutto
scherzo, iniziava ad avere capogiri e a sentirsi le gambe formicolanti,
ma non disse nulla.
Quando furono in macchina continuarono a parlare tranquillamente.
Tuttavia, mentre l'uomo elogiava la cucina dell'Hotel in cui
alloggiava, gli sembrò che l'automobile sbandasse. Si
accigliò, guardando prima fuori, poi Vittoria e si accorse
dell'espressione strana che aveva. Era bianca, aveva gli occhi
arrossati e le palpebre le vibravano in modo strano.
- Va tutto bene? - Le chiese, preoccupato.
La donna annuì, sorridendo forzatamente.
- Sicura di farcela a guidare? - Insistette lui.
- Certo. Tranquillo… sono solo un pò stanca. Stanotte ho dormito solo due ore.
Langdon annuì. Stava andando molto piano, come se avesse paura
di non riuscire a tenere la strada. Guardò fuori dal finestrino,
pensando a quanto fosse stata bella quella serata, ma all'improvviso la
macchina parve oscillare.
Si voltò di scatto verso di lei.
- Ma cosa…? - La vide sforzarsi per riuscire a rimanere vigile.
- Accosta. Sei matta a guidare in questo stato?!
Le prese il volante e l'aiutò ad accostare. Sembrava stesse veramente male e vide che le tremavano le mani.
- Dammi un momento… - Riuscì solo a dire lei,
chiudendo gli occhi e poggiando la testa al sedile. Non capiva davvero
cosa le stesse succedendo, si sentiva sbronza e allo stesso tempo
febbricitante. E anche abbastanza spaventata, dato che era la prima
volta a doversi fermare per strada in quello stato.
Respirò a fondo, confidando nei suoi fidatissimi esercizi yoga.
Ma non sembrarono dare i risultati sperati, anzi: mano a mano che i
minuti trascorrevano si sentiva sempre peggio.
- Vuoi che guidi io…? - Langdon le sfiorò la spalla,
sperando di vederla riscuotersi e tornare vigile, ma non andò
così.
Ebbe appena la forza di annuire e per passare al alto passeggero
dovette appoggiarsi al tetto dell'automobile, oltre che farsi aiutare
da lui.
- Ci provo, almeno.
- Come?! - Parve ritrovare un briciolo di forza per allarmarsi.
- Non ho pratica col cambio manuale… e soprattutto non so dove andare!
Oltre che stanca, l'espressione di Vittoria divenne preoccupata.
- Andiamo bene… - Anche in quella situazione le scappò un
sorriso - Fà attenzione… c'è Lea sul sedile
posteriore.
- Sarò prudente. Cerca di guidarmi, però…
Langdon bilanciò frizione e acceleratore e ripartì,
cauto, e riuscì a fare parecchia strada senza far grattare la
frizione. Ogni tanto gettava qualche occhiata verso Vittoria, che
teneva gli occhi chiusi e sembrava, ogni minuto che passava, respirasse
sempre più a fatica.
"Cosa le starà succedendo?" Pensò preoccupatissimo. Sperava almeno di aver imboccato la strada giusta.
A un tratto riconobbe la strada fatta il giorno prima, in taxi, ed
esultò silenziosamente. Cinque minuti e sarebbero giunti a
destinazione.
- Siamo quasi arrivati. Come faccio ad entrare? - Le chiese, anche per
cercare di tenerla sveglia. Lei si mosse a disagio sul sedile e
aprì gli occhi.
- C'è l'ingresso per i residenti, dalla parte opposta.
- Cioè?
Vittoria gli spiegò come arrivarci. Aveva una voce flebile e si capiva che non stava per niente bene.
Quando Langdon parcheggiò l'auto non riusciva quasi a credere
che fossero arrivati sani e salvi. Le aprì la portiera e si
chinò su di lei, scuotendola leggermente.
- Vittoria, forza… devi scendere.
La vide fare un respiro profondo e poggiare i piedi sul selciato.
Sembrava avesse trovato di nuovo le forze, anche se non del tutto.
- Meglio?
- Diciamo…
La donna riuscì a recuperare la figlia addormentata dal suo
seggiolino e preferì lasciare tutto il resto lì, tanto
non le sarebbe servito.
Nel giro di qualche minuto, il tempo di arrivare al suo alloggio, si
sentì decisamente meglio, anche se le tremavano ancora le mani.
Non doveva strapazzarsi in quel modo, non era più libera e
spensierata, non poteva più dormire fino a tardi, ne quando
voleva. Se i primi tre mesi con Lea erano stati stancanti, ora che ci
aveva aggiunto anche il lavoro era praticamente estenuante.
Prese le chiavi dalla borsa e aprì la porta, riuscendo
finalmente a rimetter piede in casa dopo un'altra giornata faticosa, ma
conclusasi in maniera piacevole.
- Entra Robert… - Gli disse, sorridente.
L'uomo la vide riprendersi e si rincuorò-
- E' tardi - Le disse, seguendola con lo sguardo mentre sedeva sul
divano e liberava la piccola dagli abiti pesanti - forse è
meglio che chiami un taxi.
Vittoria sollevò lo sguardo, rialzandosi.
- Puoi usare il telefono - gli indicò l'apparecchio proprio accanto a lui - io intanto vado a cambiarla.
Sparì in corridoio. Langdon si avvicinò al telefono e
sollevò la cornetta, ma assolutamente non ricordava il numero.
La sera prima era stata la guardia a chiamargli il mezzo.
Sentì la bambina frignare.
- Sai per caso il numero? - gridò, per farsi sentire, ma non ottenne risposta.
- Vittoria? - ancora nulla.
Il pianto di Lea crebbe d'intensità.
"Ma che…"
Si avviò verso la camera da letto, lentamente.
- Tutto bene? - Chiese ancora. Poi la vide e gli si gelò il sangue.
Era a terra, priva di conoscenza e di nuovo pallida come un cadavere.
Evidentemente era riuscita solo a poggiare la bambina sul letto, prima
di collassare. Lea piangeva disperata.
- Vittoria! - La chiamò, precipitandosi accanto a lei. Respirava ancora ma aveva il polso debole.
"Merda!"
Le sollevò la testa, provando a svegliarla, ma era troppo
debole. Così la sollevò tra le braccia e la depose sul
letto. Era spaventato e nel panico più totale. Ricordò le
modalità di rianimazione che aveva imparato anni prima, ad un
corso, e le mise il cuscino sotto le gambe.
Le grida acute della bambina peggioravano anche le cose.
- Non mettertici pure tu! - Disse, esasperato, mentre tentava di far riprendere conoscenza alla ragazza.
Tentò di isolarsi dal rumore e sedette sul bordo del letto
accanto a Vittoria. Provava un' enorme pena per lei, doveva essere
letteralmente sfinita. Si ricordò improvvisamente di come si era
sentito quella notte, quando lei stessa l'aveva condotto fuori da
piazza San Pietro. Era talmente esausto che farfugliava cose senza
senso, vedeva ombre e luci sfuocate. Si era occupata di lui
finchè, la sera dopo, era tornato in se. Ora lui era nella
stessa situazione.
Poi la vide muoversi e sospirare.
- Vittoria! Stai bene? - Le picchettò la guancia con le dita,
aiutandola a riaprire gli occhi. Scottava. Doveva avere la febbre alta.
Vittoria, confusa, stanca e indolenzita, aprì lentamente gli
occhi. Sentiva gridare sua figlia ed ebbe un momento di paura. Poi vide
che accanto a lei c'era ancora lui e immaginò cosa fosse
accaduto.
- Ma cosa…?
- Sei svenuta. E hai la febbre. Come ti senti?
Vide il volto preoccupato di Langdon ma riuscì a tenere gli
occhi aperti solo qualche istante. Non le era mai successo di stare
così male, se non qualche anno prima, quando aveva avuto una
brutta influenza.
Provò a rispondergli ma emise solo un mugolio. Però sapeva di doversi alzare per occuparsi di Lea.
A fatica spostò le gambe facendole ricadere giù dal
letto, ma quando provò ad alzare la schiena si sentì
mancare di nuovo. Le sembrava che la stanza le cadesse addosso.
- Fermati, che stai facendo?!
L'uomo la spinse sul materasso per impedirle di alzarsi.
- La bambina… - mormorò lei, voltando appena la testa.
- Non puoi alzarti, ora.
- Sì ma… - Langdon si alzò, girò intorno al
letto e raggiunse l'angolo in cui era adagiata sua figlia, che
goffamente e disperatamente tentava di rotolare su se stessa.
L'afferrò per la vita e la fece scivolare sul piumone, fino a
farla arrivare accanto a Vittoria.
Lei allungò la mano e tentò di calmarla così,
senza riuscirci. Allora lui, tornato lì vicino, fece un ultimo
tentativo. Si allungò il più possibile, afferrò la
bambina e la poggiò sul braccio disteso della donna, che
poté così stringerla. In pochi secondi, Lea tornò
tranquilla e stremata iniziò a succhiarsi un pugno.
"Finalmente…" Pensò Langdon, che aveva ormai un mal di
testa micidiale. Poi guardò Vittoria. Sembrava in procinto di
addormentarsi. Aveva gli occhi lucidi e socchiusi.
- Robert… - Disse, a fatica, guardandolo.
- Dimmi.
- Nel cassetto… le pillole.
L'uomo aprì il cassetto del comodino e frugò alla ricerca del barattolo. Lo trovò e glielo diede.
- Grazie.
Ne prese due e le ingoiò a fatica, poi gli restituì il flacone.
- Comunque puoi andare… ti ho trattenuto già abbastanza.
Langdon non poteva lasciarla sola. Lo era già stata per tutto
quel tempo e non voleva che le succedesse qualcosa ora che stava male.
Le sorrise e d'istinto poggiò una mano sulla sua.
- Non posso andarmene ora - Vittoria sentì il calore della sua
mano e quasi trasalì. Era capace di infonderle una pace mai
provata con nessuno - Resterò fino a che non starai meglio.
Non ebbe la forza di ribattere. Semplicemente abbozzò un sorriso
e chiuse definitivamente gli occhi. Desiderava solo dormire e ora che
la piccola era tranquilla poteva.
Nel dormiveglia le sembrò di sentire qualcosa accarezzarle la mano.
Langdon guardò l'orologio di Topolino: le ventitré e zero
nove. Si passò una mano sul viso e sospirò.
Era seduto lì da circa venti minuti, con ancora la mano
appoggiata alla sua. Finalmente dormiva e pareva tranquilla. Le
sfiorò la fronte e si accorse che scottava ancora.
"Spero le passi presto…"
Lea era ancora sveglia e sembrava stesse per ricominciare a piangere.
Ovviamente, dopo venti minuti, doveva essere stanca di stare nella
stessa posizione.
L'uomo pensò a cosa fare per evitare di farla piangere e di
conseguenza svegliare Vittoria. Alla fine decise di portarla via.
L'afferrò delicatamente e per la seconda volta in quella
giornata poté stringere a se quella creatura. In silenzio,
afferrò il plaid poggiato ai piedi del letto e lo stese sopra la
donna. Poi lasciò la stanza assieme a sua figlia.
Raggiunse il soggiorno, dove aveva lasciato le luci accese, e sedette sul divano.
"E adesso?" Pensò, guardando la piccola. Aveva gli occhi
spalancati e non mostrava il minimo segno di stanchezza. Lo fissava con
sguardo serio, disorientata da quella nuova situazione. Ma quello
più a disagio era lui.
- Mi trovi tanto interessante? - Le disse, serio, inarcando le sopracciglia mentre la teneva davanti a se.
Lea continuò a fissarlo, smise per un attimo di masticare la sua stessa mano ed emise un versetto.
- Ti prendi gioco di me? - Le chiese, divertito. Ricevette come risposta un altro gorgheggio e si mise a ridere da solo.
- Sei simpatica sai? Avrai preso da me… - Sorrise fissando il
delicato visetto - Ma sei bella come tua madre… fin
troppo…
Quella bambina aveva i suoi occhi, la sua fossetta. Ma il resto era di
Vittoria: la bocca, il naso, il modo di sorridere. Aveva anche la
stessa capacità di ammaliarlo, a quanto pareva.
- Allora? Che si fa, Lea? Sono le undici, è tardi… che ne diresti di dormire?
Provò a poggiarla sul divano, ma nemmeno cinque secondi dopo il
visetto le si arricciò, pronta a scoppiare a piangere. Al primo
gemito la sollevò di nuovo.
- Va bene… va bene. L'importante è che non urli… -
Sbuffò leggermente. Iniziava ad essere stanco. Vide poggiato sul
tavolino il telecomando della televisione e decise di farsi compagnia.
L'accese e tenne il volume basso, spegnendo le luci. Forse così
le avrebbe conciliato il sonno.
L'appoggiò sulla spalla e si rilassò sul divano. Ma la pace durò pochi secondi.
Proveniva da lei un odore decisamente sgradevole e molesto. Si
augurò di aver capito male, ma annusandola scoprì con
orrore che sua figlia aveva appena deciso di fargli un regalino.
- Merda! - Imprecò - In tutti i sensi!
L'afferrò e la tenne lontana, come se potesse trasmettergli una chissà quale malattia mortale.
"Ma come fa una bambina così piccola a puzzare così
tanto?!" Si chiese orripilato e davvero indeciso sul da farsi.
Non sapeva che fare, da dove iniziare. E se l'avesse cambiata male?
Sarebbe stato comunque meglio che tenerla letteralmente sommersa dai
bisogni.
- E adesso?! La smetti di mettermi in situazioni del genere?! - Si
alzò in piedi, sempre tenendola a diversi centimetri di
distanza. Doveva assolutamente trovare un modo di cambiarla, ma non
sapeva dove Vittoria tenesse la sua roba. All'improvviso, un colpo di
genio. Vide appesa all'attaccapanni la borsa dei pannolini, che
Vittoria aveva preso scendendo dall'auto poco prima.
"Bingo!"
Costretto a tenere stretta la bambina, compì quel movimento nel
più breve tempo possibile, guardandosi poi intorno per cercare
un piano d'appoggio. I pianali della cucina sarebbero stati perfetti!
La raggiunse in un attimo, prese l'asciugamano appeso accanto al
lavandino e lo sistemò lì accanto. Poi, estremamente
piano, vi adagiò sua figlia.
- Non è affatto divertente! - Le disse, cominciando a sfilarle
la parte inferiore della tutina, in modo alquanto maldestro. Era la
prima volta che cambiava un pannolino e si sentiva peggio di quando
aveva sostenuto l'esame più importante della sua carriera
studentesca.
Lea lo guardava, beata e sempre tentando di divorarsi la mano destra.
Sgambettava e gli rendeva le cose molto più difficili.
Gli venne quasi da piangere nel momento in cui le aprì il pannolino, oltre che da vomitare.
- Porca miseria! - Imprecò, sibilando - Questo mi basterà per tutta la vita!
Lea rise gioiosa, guardando la sua espressione terrorizzata.
Dieci minuti più tardi riuscì finalmente a rimetterle la tutina e ad uscire da quella cucina.
Aveva passato uno dei quarti d'ora più brutti della sua vita, e
sapeva di non esagerare. Non avrebbe mai immaginato di poter cambiare
un pannolino a una bambina di tre mesi nel momento in cui aveva avuto
la folle idea di fare un salto a Ginevra.
- Ora vedi di fartelo durare perché non ho intenzione di
rifarlo… - Disse alla piccola, tornando a sedersi sul divano, ma
anche stavolta fu costretto a rialzarsi: sua figlia non gradiva che lui
si rilassasse.
- Che altro c'è adesso?! - Se l'appoggiò sulla spalla,
sperando di riuscire a non farla piangere, dato che sembrava sulla
buona strada.
Iniziò a camminare avanti e indietro, lentamente. All'inizio a
disagio, poi, pian piano, più sciolto. Alla fine si
ritrovò a cullarla e gli parve la sensazione più bella
del mondo. Sua figlia, adesso con la testa poggiata sul suo bicipite,
lo guardava mentre gli occhi le si chiudevano lentamente. D'istinto le
sorrise e quando vide la piccola rispondere a quel sorriso, con gli
occhi già chiusi, si sentì mancare. Pensando che avrebbe
potuto essere la prima e l'ultima volta che la sua creatura si
abbandonava al sonno, cullato dalle sue forti braccia, le baciò
la fronte. Tornando a sedersi su quel divano, senza smettere di
guardarla, si chiese come avrebbe fatto a salire su un aereo e partire,
lasciandosi la sua bambina alle spalle. No, non poteva. Non voleva
più.
Era sua figlia e nessuno gliel'avrebbe portata via, neanche il destino.
Vittoria si mosse qualche istante prima di sbarrare gli occhi nella penombra della sua stanza.
"Ma come ci sono finita qui?!"
Le sembrò d'aver sognato tutto, compreso l'inaspettato arrivo di
Langdon al CERN. Provò ad alzare la testa, ma il dolore che
provò all'altezza delle meningi le fece ricordare tutto.
Per fortuna, non era stato solo un sogno. Ricordò che al ritorno
a casa aveva appena poggiato Lea sul letto per cambiarla. Poi il buio,
i ricordi mancavano, se non qualche frammento, probabilmente catturato
nel dormiveglia, di lui che le sorrideva.
D'istinto si sollevò a sedere.
- Lea! - disse, chiedendosi come mai non l'avesse ancora svegliata
piangendo. Guardò l'orologio digitale. Le cinque e trentadue,
era passato troppo tempo e per un momento temette fosse morta nel
sonno, come capitava, purtroppo, a tanti neonati sotto l'anno
d'età.
Nonostante le girasse la testa per essersi messa in piedi troppo
velocemente, corse verso la culla, ma la sua bambina non c'era. La casa
era stranamente silenziosa. Ricordò che Langdon le aveva detto
che sarebbe rimasto lì e sperò di trovarlo da qualche
parte. Magari Lea era con lui, anzi, sicuramente era con lui.
Uscì dalla camera, infreddolita e con le ossa doloranti, e
percorse il corridoio guardinga. Tuttavia, quando si affacciò in
soggiorno, vide qualcosa che mai si sarebbe aspettata di vedere e il
cuore prese a batterle velocemente.
Lui era lì, semisdraiato sul divano e profondamente
addormentato. Sul suo petto, prona, Lea dormiva beata, con la bocca
socchiusa e la guancia appoggiata appena sotto il collo dell'uomo.
Per un attimo temette di sognare, ma il senso di vertigine la
tradì. Era tutto vero, tutto reale. Mai e poi mai avrebbe
pensato di assistere a una scena tanto toccante. Mai avrebbe pensato di
poter vedere sua figlia dormire tra le braccia di suo padre.
Non se ne rese conto, ma una lacrime le scese sulla guancia.
"Perché non gli ho detto di Lea subito?"
Il senso di colpa riprese a martoriarla, molto più crudelmente di prima.
Vedere quanto stessero bene insieme padre e figlia, l'aveva del tutto
scombussolata. Non credeva sarebbe arrivato a questo, ad occuparsi di
sua figlia dopo poche ore che aveva saputo della sua esistenza.
Per l'ennesima volta, si era dimostrato l'uomo meraviglioso di cui si
era innamorata un anno prima. E di cui si stava innamorando di nuovo.
Ancora provata e febbricitante, rassicurata dal sonno sereno di sua figlia, si voltò e tornò a letto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Risveglio ***
ff11
Risveglio
Langdon socchiuse un attimo gli occhi. Gli sembrava leggermente
più faticoso respirare, rispetto al normale. Stava sognando di
nuotare nell'oceano, ma una medusa gli solleticava il petto.
Sollevò del tutto le palpebre e guardò in basso. Non era
una medusa, era semplicemente Lea che si era svegliata e sollevava,
ancora incerta, la testolina, facendosi forza puntando le braccia sul
suo petto.
"Allora sono davvero rimasto qui, stanotte…"
Credeva di aver sognato, invece era tutto vero. E si era addormentato con la bambina in braccio.
L'afferrò saldamente e si tirò su a sedere. Aveva mal di
schiena ma non si lamentò. Vide la piccola stropicciarsi gli
occhi e sorrise.
- Buongiorno… - Le disse, sperando fosse di buon umore.
Sicuramente aveva una gran fame, dato che aveva saltato la poppata
serale.
Guardò l'orologio di Topolino, che segnava le sei e trenta, e si
ravviò i capelli. Doveva innanzitutto andare a vedere come stava
Vittoria.
Si alzò con la piccola in braccio e andò a controllare.
Dormiva ancora, ma doveva essersi alzata perché adesso il letto
era sfatto ed era coperta col piumone. Mise Lea nella culla, sperando
non si mettesse a urlare, e andò a sedersi sul bordo del letto.
Quella notte con sua figlia gli era servita, aveva riflettuto molto.
Guardò Vittoria e le scostò una ciocca di capelli dal
viso, sfiorandole poi la fronte. Era meno bollente della sera
precedente e tirò un sospiro di sollievo. Senza rendersene conto
sorrise, ammirando la sua bellezza. Si ricordò quella mattina in
cui si era svegliato, tenendola ancora tra le braccia, e l'aveva
guardata dormire per diversi minuti, finchè si era svegliata.
Era una situazione ben diversa, ma anche molto simile. Solo che,
stavolta, sapeva cosa fare.
La vide muoversi e voltarsi verso di lui, con gli occhi ancora chiusi, ma sorridendo.
- Buongiorno - le disse, ancor prima di vederla aprire gli occhi.
Vittoria si passò la mano tra i capelli e riconobbe che era uno
dei migliori risvegli che aveva avuto in un anno. Sollevò le
palpebre e sospirò.
- Buongiorno, professore… - gli rispose soltanto, guardandolo.
- Come ti senti?
- Maglio. Molto meglio… è la prima volta in tre mesi che dormo più di tre ore di fila!
Langdon ripensò a quella notte e a quanto doveva essere
difficile gestire una bambina così piccola, sette giorni alla
settimana e per tutto il giorno.
- Sono contento, davvero - Le sorrise gentilmente e l'aiutò a tirarsi su.
Vittoria sentì i versetti di sua figlia provenire dalla culla e sorrise.
- Sono una madre negligente. L'ho lasciata tutta la notte da sola…
- Non era da sola. Era con me…
Inaspettatamente, la ragazza si avvicinò a lui e gli
baciò la guancia. Langdon lottò col primitivo istinto di
scostare il viso e baciarla sulla bocca, e resistette.
- Grazie… - Gli disse Vittoria - Credo che se non ci fossi stato
tu, stanotte, Lea avrebbe continuato a piangere fino a perdere le forze.
- Credo sia mio dovere. Almeno da quando so che è anche figlia
mia - Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Non
gli importava più il fatto d'averla conosciuta da un giorno, era
semplicemente sua. Come lo sarebbe stata se l'avesse vista nascere e
come lo sarebbe stata se l'avesse vista la prima volta a quindici anni.
Lei, dopo averlo visto dormire abbracciato alla loro piccola, aveva
lottato con il senso di colpa finchè non si era riaddormentata.
Sentire quelle parole la rasserenò non poco.
- Comunque… - Proseguì lui - Credo che abbia fame.
Vittoria si riscosse. Aveva ragione.
- Poverina, deve avere una fame da lupi a quest'ora! - Scostò le
coperte e scese dal letto - E tra un ora devo anche uscire di casa!
Andò subito alla culla e prese in braccio Lea, che già cominciava a frignare. Langdon, sbigottito, rimase dov'era.
"E' pazza?"
- Dove dovresti andare, scusa?
- A lavoro, ovvio - Rispose lei con un' alzata di spalle.
- Spero tu stia scherzando…
- Perché dovrei?
L'uomo la guardò come se fosse una pazza pericolosa.
- Ti rendi conto che avevi la febbre altissima ieri sera?! - Si
alzò dal letto e le andò vicino - Sarebbe meglio che tu
ti prenda almeno un giorno di riposo.
Come se non l'avesse sentito, Vittoria si recò in cucina con sua figlia, lasciandolo lì.
"Dio ti prego… fa che Lea non sia testarda quanto lei!" Pensò, sospirando, raggiungendola.
- Ho detto qualcosa prima?
Lei, senza smettere di trafficare col biberon, sbuffò.
- Robert, so badare a me stessa.
- Da come ti ho trovata a terra ieri sera non credo proprio…
- Quanto sei noioso…
Vittoria, scaldato il latte, uscì dalla stanza e andò in
soggiorno, sedendosi sul divano per dar da mangiare a sua figlia.
- Sarò noioso ma non sono un incosciente. Non ti permetto di uscire da quella porta, oggi.
- Nemmeno mio padre si poneva con me in questo modo, sai?
- Infatti non lo sono.
Lo guardò di sbieco, con sguardo arrabbiato, poi sbuffò e desistette.
- E va bene. Passami quel telefono!
Soddisfatto, Langdon le allungò la cornetta e la sentì
dire alla centralinista che aveva la febbre e si prendeva una giornata
di permesso.
- Contento ora? - Gli disse, imbronciata, continuando a dar da mangiare a Lea.
- Molto!
Sedette accanto a lei sul divano, sorridente. La schiena gli faceva malissimo.
- Dato che pensi che io sia moribonda sappi che porterai tu la bambina
al nido - Vittoria lo guardò con aria da finto angelo. Nulla lo
metteva più in difficoltà.
- Credevo la tenessi qui, oggi.
- Sbagli. Vorrei ma le farei del male. Altrimenti non si
adatterà mai ai ritmi… - Le accarezzò la manina
con l'indice e la guardò.
- Va bene… ce la porto io. Anche se non so dov'è.
- Proprio qui dietro l'angolo!
Quando Lea ebbe finito di mangiare ed ebbe digerito, Vittoria la
portò in bagno, la cambiò e la vestì. Al suo
ritorno in soggiorno, aveva una strana espressione. Lui se ne accorse e
decise di indagare.
- Cos'hai da ridere? - Le chiese, corrugando la fronte.
- Le hai messo il pannolino al contrario!
Langdon ricordò la difficoltà estrema incontrata quella
notte, nel decidere quale parte andasse sul davanti. Il suo sesto senso
aveva sbagliato.
- E' già tanto che sia riuscito a rivestirla!
- Smettila! Sto scherzando… - Gli porse la piccola, già pronta per partire - Sei fin troppo suscettibile!
Gli fece l'occhiolino e gli diede la giacca.
- Copriti, fa freddo fuori.
- Grazie - S'infilò la giacca a fatica, passando la piccola da
un braccio all'altro. Provò all'improvviso un pizzico di
tristezza: non voleva andarsene, ma aveva assolutamente bisogno di una
doccia e di vestiti puliti.
- Grazie a te… - Vittoria, per la seconda volta in quella
giornata, si sollevò e gli baciò la guancia. Ancora una
volta, Langdon dovette lottare con l'istinto.
- Torno in albergo. Ho bisogno di cambiarmi.
- Va pure… - Anche lei aveva all'improvviso un forte senso
d'angoscia. Restare sola, senza Lea, soprattutto dopo aver trascorso
tutto quel tempo con lui, la disorientava.
Diede un bacio anche alla piccola, che pareva tranquilla in braccio a suo padre, e li lasciò uscire.
- Ti chiamo dopo! - Le disse lui, con un cenno di saluto, e si avviò lungo le scale.
Ancora divertito per ciò che era accaduto poco prima, Langdon
aprì la porta della sua stanza e se la richiuse alle spalle.
Sì, non era più un ragazzo, aveva più di
quarant'anni, ma che lo scambiassero per il nonno di Lea era abbastanza
comico. Aveva semplicemente sollevato le spalle e detto con naturalezza
"Sono il padre!", riuscendo a scandalizzare la donna che gli aveva
appena tolto dalle braccia la piccola.
Quando era uscito, era scoppiato a ridere da solo.
Si spogliò e s'infilò direttamente sotto la doccia,
restandoci per diversi minuti con gli occhi chiusi. Quelle ore avevano
dato un'ulteriore svolta alla sua vita: sentiva già la mancanza
di Lea e di Vittoria. Anzi, avrebbe tanto voluto restare con
loro…
Vittoria, poi, quando si avvicinava in quel modo, pericolosamente, rischiava di mandarlo in tilt.
Sorrise tra se, stranamente tranquillo. Si asciugò, si fece la
barba e una volta vestito scese al ristorante per mettere qualcosa
sotto i denti, assieme a un caffè.
Una strana sensazione fece capolino nel suo ventre. Pazza, come la decisione di andare da lei ormai tre giorni prima.
Vittoria diede una sistemata al bagno e alla cucina, dopo aver fatto
colazione. S'infilò sotto la doccia e si sentì subito
rinascere.
Era strano stare a casa senza Lea, era tutto così piatto e c'era
troppa tranquillità. Le mancava già tantissimo. E anche
lui… come aveva fatto a cambiare ancor di più la sua vita
nel giro di quarantott'ore?
Non riusciva a togliersi dalla mente quell'immagine, di lui che dormiva con sua figlia sul petto.
Sorridendo, lasciò che l'acqua le scorresse sul viso e sui
capelli, lavando via i brutti pensieri e il malessere. Voleva
semplicemente vivere la sua vita, qualunque cosa sarebbe accaduta.
Quando uscì dal bagno, avvolta dall'asciugamano di spugna,
andò in camera e si buttò sul letto. Finalmente un po di
pace e di tranquillità… fin troppa. Prese il cellulare
che aveva precedentemente poggiato sul copriletto e lo fissò.
"Non posso chiamarlo, è andato via neanche un'ora fa…"
Chiuse gli occhi e ripensò, come troppe volte in quei giorni, a quella sera. E le scappò un sorriso.
Recuperò poi un minimo di sanità mentale e si alzò per vestirsi.
Quando stava per infilarsi l'ultimo indumento, tuttavia, sentì suonare il campanello.
"Impossibile…" Pensò. Non riceveva mai visite.
Si sistemò velocemente i capelli ancora umidi e si avviò
verso il salotto. Mai si sarebbe aspettata che, aprendo la porta, si
sarebbe trovata davanti Robert Langdon, trafelato per aver fatto le
scale di corsa e con uno sguardo che pareva ardere di desiderio.
Non ebbe tempo di dire e fare niente, poiché lui avanzò
verso di lei e la baciò, quasi con violenza, quasi facendole
male, e chiuse la porta alle loro spalle.
Vittoria credette di sognare, proprio come quella sera, in cui l'aveva
baciata la prima volta, comparando con una tuta blu da medico, bendato,
zoppicante e pieno di sentimenti.
Come per assicurarsi che fosse vero gli toccò la guancia. Solo
dopo ricambiò il bacio, con la stessa passione e lo stesso
sentimento.
Poi lui si staccò, guardandola negli occhi.
- Perdonami… ma avevo dimenticato di farlo prima di uscire. - Le
disse soltanto, prima di attirarla di nuovo a se e catturare la sua
bocca con un altro bacio, stavolta meno rude ma maggiormente carico di
sentimento.
Lei non capiva più nulla. Non era più certa nemmeno di trovarsi ancora al CERN.
"Sono morta? Sto sognando tutto?"
Dal calore della sua bocca pareva proprio di no…
Poi la guardò di nuovo. Si sorrisero. Finalmente si erano ritrovati.
Vittoria si gettò tra le sue braccia, desiderando solo che quel
momento non finisse mai, e si aggrappò al suo collo. Lo
sentì stringerla forte e baciarle la guancia, cercando ancora le
sue labbra, e lo accontentò.
- Robert? - Gli chiese poi, sussurrando. Lui smise di baciarla e la guardò.
- Cos'hai deciso? - Per l'ennesima volta formulò quella domanda.
Lui sospirò, le prese il viso tra le mani e la guardò
intensamente. A Vittoria sembrò che il tempo non passasse
più.
- Che non voglio più lasciarti - Rispose semplicemente,
sorridendole e stringendola nuovamente a se. Langdon non poteva
lasciarsela alle spalle, come già una volta aveva fatto.
- Dio, ti ringrazio… - Riuscì solo a dire lei, mentre le
lacrime le scendevano sulle guance. Non avrebbe mai immaginato di poter
essere così felice. Nonostante si fosse ripetuta più
volte di voler soltanto stabilità, sentire quelle parole l'aveva
fatta piangere come una bambina.
Chiuse gli occhi e lo strinse forte, dimenticando tutta la sofferenza di quel faticoso anno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Saluti ***
ff12
Saluti
Robert Langdon aprì
gli occhi, ancora ansante, mettendosi supino sul letto. Non riusciva
ancora a rendersi pienamente conto di ciò che era appena
accaduto.
Volontariamente era tornato
al CERN, aveva appagato la sua voglia di baciarla e le aveva detto che
non l'avrebbe mai più lasciata. E poi… poi si erano
ritrovati a letto, nudi, a far l'amore con un trasporto tale da farli
quasi piangere, senza smettere di baciarsi e di stringersi.
Ricordava bene quanto
Vittoria fosse brava in quel campo, da buona esperta di yoga, ma anche
lui non aveva scherzato. Ora sperava solo di non aver fatto un altro
danno, o ben presto Lea avrebbe avuto compagnia.
Gli scappò un
sorriso e l'afferrò per la vita, attirandola nuovamente contro
il suo petto. Non gli sembrava vero di poterla avere di nuovo per se,
senza preoccuparsi di nulla. Anche se aveva cercato di rimuoverlo, quel
desiderio era rimasto latente per tutta la durata di quell'anno.
Vittoria, ad occhi chiusi,
respirava profondamente. Semplicemente si lasciò trascinare
verso di lui e poggiò la guancia sul suo torace, sentendosi
finalmente al sicuro e meno sola. Le baciò la fronte e la
strinse più forte. Avevano di nuovo bisogno di una doccia,
nonostante il freddo erano più che accaldati.
Lui, con le labbra, le sentì la fronte.
- Va meglio? - Le chiese, sospirando.
- Cosa?
- La febbre…
Vittoria aprì gli occhi e lo guardò, con un sorriso stupendo.
- Cosa vuoi che me ne
importi della febbre, stupido! - Lo baciò sul mento e lui colse
l'occasione per rapirle nuovamente le labbra, ricambiando il sorriso.
- Mi hai forse dato dello stupido? - Con uno scatto felino la portò nuovamente sotto di se, baciandole il collo.
- Cosa vuoi, una doppietta?
- Anche una tripletta non mi dispiacerebbe…
Vittoria spalancò gli occhi, ironica.
- Stai attento, sei anziano, potresti non reggere!
Langdon ridacchiò, guardandola negli occhi.
- Non mi pare ti sia
dispiaciuto… - La baciò di nuovo - E poi… se fossi
così vecchio non ci sarebbe nemmeno Lea, scusa…
- Ecco, appunto… -
Vittoria lo baciò e lo sospinse delicatamente, facendolo
scostare - Dato che è già successo una volta vedi di
starmi alla larga!
Si sistemò nel suo angolo di letto, coprendosi meglio col piumone. Cominciava a sentire freddo.
- Non hai poi tutti i torti
- la raggiunse di nuovo, le baciò la spalla e l'abbracciò
da dietro, rilassandosi sentendo il profumo dei suoi capelli. Chiuse
gli occhi, cadde in un dolcissimo dormiveglia dal quale non avrebbe mai
voluto svegliarsi, ma la voce di lei lo fece tornare alla realtà.
- Robert… - Iniziò lei, guardando fuori dalla finestra . Il cielo era terso e il sole splendeva.
- Dimmi.
- Prima mi hai detto
che… che non vuoi più lasciarmi. Solo che… ecco,
come farai? Qual'è il senso, insomma…
Langdon si aspettava quella
domanda, era più che lecita. Sospirò ancora, la strinse
più forte e come lei guardò fuori.
- Di certo non posso abbandonare tutto. La mia casa, il mio lavoro… non potrei.
Annuendo, Vittoria lo spronò a continuare.
- Però non voglio sparire. Insomma, non voglio che succeda la stessa cosa di un anno fa, capisci?
- Lo so, lo capisco. Ma…
- Ma voglio tornare qui da
voi ogni qualvolta ne avrò la possibilità. E spero anche
che tu faccia lo stesso. Casa mia è troppo grande e troppo
vuota, soprattutto ora che avrei qualcuno con cui riempire la stanza
degli ospiti…
Lei sorrise, anche se nascondeva un velo di tristezza. Voltò appena il capo, per riuscire a guardarlo negli occhi.
- Perché i compromessi non mi convincono?
Langdon parve rifletterci.
- Non abbiamo voluto far
funzionare la cosa, Vittoria. E, personalmente, lo ritengo lo sbaglio
più grande della mia vita…
- Solo perché c'è Lea?
Lui si bloccò. No,
non era solo per sua figlia che accettava di volare su e giù,
spendendo anche parecchi soldi. Si era pentito di non averlo fatto
già quando non sapeva dell'esistenza di Lea. Vittoria era
qualcosa di eccessivamente grande, che non avrebbe potuto rimuovere
dalla sua vita così facilmente.
- No. Di Lea non sapevo nemmeno l'esistenza fino a due giorni fa. Mentre di te ho sentito parecchio la mancanza…
Vittoria s'immobilizzò.
"Ho sentito bene?"
Il cuore prese a batterle all'impazzata, a quelle parole.
- E poi, adesso…
siamo una famiglia. Tante famiglie vivono separate per problemi
lavorativi… - Non finì la frase, poiché lei si
voltò e lo abbracciò forte, nascondendo il viso sul suo
collo.
Langdon rimase sorpreso, ma
ricambiò l'abbraccio. Pensò a quanto erano stati soli,
tutto quel tempo, e a quanto si erano negati.
Chiuse gli occhi imprimendosi nella mente quel momento.
- Eccola qui, dottoressa. Come al solito è andato tutto bene!
Vittoria prese sua figlia
in braccio, raggiante più del solito. Era davvero al settimo
cielo e pareva se ne accorgessero tutti.
- Grazie! Ci vediamo
domani! - Disse soltanto alla donna, uscendo dall'asilo con la piccola.
Fuori, ad aspettarla, c'era Robert Langdon.
- Eccoci qua… - Gli disse, raggiungendolo. Lui sorrise, contento di rivedere la sua piccola.
- Ciao Lea, come va? - Le disse, e come al solito la neonata gli sorrise.
- Non è poi tanto giusto, però… - Vittoria parve imbronciarsi.
- Perché?
- A me mi ha sorriso dopo parecchio tempo! Mentre ecco che arriva lui e tac, le sta simpatico!
Langdon sapeva che scherzava.
- Beh sarà il mio fascino.
- Spiritoso.
- Scusa, se sto simpatico alla mamma perché non dovrebbe essere lo stesso per lei?
- E chi dice che alla mamma stai simpatico?
Vittoria avanzò di qualche passo, con fare altezzoso, lasciandolo di proposito indietro.
- A posto… ci sono tante belle studentesse che mi aspettano ad Harvard!
- Ma non ti hanno fatto una figlia stupenda…
"Ma perché deve sempre avere l'ultima parola?!"
Langdon la raggiunse, la
fermò e la baciò. Non sapeva in che altro modo terminare
la conversazione e averla comunque vinta.
- Ecco, vedi? Non puoi
competere con me, professore… - Gli disse Vittoria, saccente ma
comunque, per lui, adorabile. Non sapeva come fosse possibile provare
quell'istinto animalesco per una donna capace di mettergli i piedi in
testa in qualsiasi momento.
- Me ne sono accorto da parecchio. Dai, andiamo.
D'istinto le prese la mano
e camminarono così, come una vera famiglia. Era la prima volta
che, con Lea, erano così vicini. E per la prima volta non si
sentirono a disagio.
Langdon ringraziò la
donna che gli porse il biglietto. Aveva avuto una buona idea, prendendo
il last minute aveva risparmiato almeno la metà del costo del
volo.
Tuttavia, voltandosi verso
le sue due donne, pensò che, anche se avesse preso gratis
l'aereo, non sarebbe riuscito a ritrovare il sorriso.
Si avvicinò a loro.
Vittoria, seduta su una delle sedie della sala d'attesa, teneva tra le
braccia la sua bambina, placidamente addormentata. Anche lei sembrava
alquanto triste.
Sedette accanto a lei e guardò il visetto rilassato della sua creatura.
"Quando potrò rivederla?"
Poi alzò lo sguardo su Vittoria, che cercava di apparire serena, per quanto possibile.
- Mi chiamerai appena sarai arrivato?
- Ma certo… perché non dovrei farlo?
- Anche l'altra volta dovevi richiamarmi…
Sospirò.
- Sai bene che la situazione era diversa.
- Sì, lo so… quanto manca?
L'uomo controllò il biglietto ed esitò a rispondere.
- Devo andare il prima possibile.
Vittoria lo guardò,
poi abbassò lo sguardo su Lea. Aveva addosso uno strano senso
d'angoscia. Aveva paura che accadesse di nuovo, di restare sola.
Saperlo dall'altra parte del mondo era confortante perché poteva
chiamarlo in qualsiasi momento, mentre era devastante perché non
poteva sapere cosa stesse facendo, da solo. E se davvero non si fosse
più fatto vivo? Fece un respiro profondo, sentendo gli occhi
gonfiarsi.
- Tra tre settimane dovrei andare a Firenze ma… non so ancora.
- Come non sai ancora?
- Non so se mi presenterò a quella conferenza.
- Perché?
Langdon non poteva di certo
dirle che aveva dato appuntamento a Sophie proprio in quell'occasione.
Già la sera prima, quando la francese lo aveva insistentemente
chiamato, aveva rifiutato la chiamata e al domandare di Vittoria aveva
inventato una banale scusa.
Stavano insieme da appena due giorni e già aveva dovuto mentirle.
- Non so ancora, comunque… potrei anche ripensarci - le sorrise, alzandosi in piedi e aiutando lei a farlo.
Stava succedendo di nuovo, dopo un anno. Eppure sapeva che stavolta non sarebbe stato un addio. Ma era pur sempre triste…
- Mi raccomando, devi prenderti cura di te. Non voglio più trovarti a digiuno, ok?
Le carezzò la guancia e lei annuì, abbozzando un sorriso.
Sollevarono lo sguardo sentendo chiamare il volo di Langdon, poi si guardarono negli occhi, di nuovo.
- Devi andare…
L'uomo annuì.
Già gli mancava… Si avvicinò e l'abbracciò
delicatamente, per non far male alla piccola, che si mosse infastidita
dai rumori e i movimenti.
- Posso partire tranquillo? - Le sussurrò nell'orecchio.
- Certo. Però Robert… - S'interruppe per stringersi a lui più forte - Mi mancherai…
Langdon le baciò la guancia.
- Anche a me mancherai. Anzi, mancherete…
Vittoria lo lasciò andare. Aveva gli occhi lucidi.
- E' tardi, devi andare.
L'attirò di nuovo a
se e la baciò, stavolta dolcemente. Chissà quando avrebbe
potuto farlo di nuovo… Poi si staccò, le sorrise e
abbassò lo sguardo sulla piccola. Si chinò e le
baciò i radi capelli scuri, mentre già apriva gli occhi.
- Fa la brava,
piccola… - Pensò che, all'andata di quello strano
viaggio, non sapeva nemmeno di avere un angelo simile.
Baciò di nuovo Vittoria e si voltò con un 'ciao'. Non sapeva che altro dire.
La donna lo seguì
con lo sguardo, stringendo forte a se la bambina. Non credeva che
salutarlo sarebbe stato così triste, quasi si sentiva come
all'aeroporto di Roma, un anno prima, quando doveva ancora seppellire
suo padre e, in fondo, sapeva che non l'avrebbe più rivisto.
Aveva tuttavia un rimorso… non gli aveva detto la cosa fondamentale. Sospirò e si voltò verso l'uscita.
Quand'era già alla
porta scorrevole, tuttavia, quasi le venne un colpo nel sentire che
qualcuno arrivava di corsa alle sue spalle e l'afferrava per la vita.
- Robert! - Disse sobbalzando e portandosi una mano al petto. Lea iniziò a frignare, spaventata.
- Scusa… scusa non volevo spaventarti ma… devo dirti una cosa… - aveva il fiatone ed era senza valigie.
"E' matto da legare…" Pensò Vittoria, ancora sconvolta.
- Volevo dirti che… ti amo!
Le sorrise, prendendole il
volto tra le mani e baciandola di nuovo. Vittoria gli si gettò
al collo, nonostante avesse Lea stretta al fianco.
Aveva proprio la capacità di leggerle nel pensiero.
- Anche io ti amo, Robert.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Ancora all'aeroporto ***
ff13
Ancora all' aeroporto
Vittoria si guardò
intorno. Ricordava quel posto, c'era stata esattamente un anno e mezzo
prima e non ne aveva un ricordo fantastico. Anzi, era stato un momento
terribile, ma per fortuna si era lasciata tutto alle spalle, anche se
con dolore.
Controllò il display, cercando di capire se il volo fosse atterrato o meno, ma ancora nulla.
Nonostante la stanchezza,
era felice. Era il primo viaggio che faceva con Lea e, sebbene fosse
breve, le preoccupazioni erano tante.
Innanzitutto aveva dovuto
fare il check in con una bambina di nove mesi in braccio e tutti i
bagagli, passeggino compreso. Poi, salita finalmente in aereo, aveva
dovuto sedare una crisi di pianto della piccola, ormai infastidita da
tutta la nuova situazione.
Infine, giunta lì,
essendo ancora troppo presto per sedersi e attendere l'atterraggio
dell'altro volo, ne aveva approfittato per noleggiare un'auto e, con
l'ultimo sforzo, sistemarci i bagagli.
Vittoria carezzò i
capelli scuri e lievemente mossi di sua figlia, seduta sulle sue gambe,
che succhiava pacificamente un biscotto. Sembrava tranquilla adesso, ma
non era riuscita a farla dormire nemmeno mezz'ora e da quando aveva
iniziato a gattonare era impossibile tenerla a bada se non tenendola in
braccio o, per l'appunto, quando dormiva.
La ragazza se la sistemò meglio addosso, sospirando.
"Ma quanto ci mette quel
maledetto aereo ad arrivare?" Pensò, guardando nuovamente lo
schermo. Vide parecchie persone abbracciarsi, altre tirar dritto con
appresso i bagagli.
- Tuo padre si fa
attendere, Lea… - disse poi, alzandosi per fare due passi e
sgranchirsi la schiena. Era stufa di stare lì dentro, c'era
troppa aria viziata e voleva solo potersi riposare. Lea iniziò a
scalpitare, desiderosa di poter esplorare liberamente la zona.
- Dai smettila, non puoi. -
Camminò a passo più spedito, sperando di distrarla,
facendole guardare fuori attraverso le grandi vetrate.
Non si sarebbe mai
aspettata di dover rimettere piede a Roma. Soprattutto non aveva mai
pensato di poterci tornare con lui e la loro bambina.
Era stata scelta per la sua
bravura e serietà da tutto lo staff, al CERN, per rappresentare
il nuovo progetto ad una importante conferenza che si sarebbe tenuta
due giorni dopo. Più che altro, l'avevano messa alla prova:
volevano vedere se, anche con una figlia, era la stessa Vittoria,
tenace, svelta e sempre disponibile. E di certo era una grande
opportunità, dato che da quando era rimasta incinta tutti
l'avevano quasi messa da parte, come se non fosse più in grado
di svolgere il suo lavoro.
Pensando, Vittoria non si
accorse che, alle sue spalle, si era fermata una persona. La guardava
attraverso il riflesso del vetro e sorrideva.
- La disturbo, dottoressa? - Le disse, inarcando le sopracciglia.
La ragazza trasalì.
Aveva sentito quella voce esclusivamente al telefono, per sei lunghi
mesi, mentre adesso le era giunta alle orecchie così com'era,
senza esser disturbata dalla linea e dall'eccessiva distanza.
Si voltò e
finalmente lo vide, in carne ed ossa, e non poté fare a meno di
fissarlo per qualche secondo. Il cuore iniziò a batterle
all'impazzata.
- Robert! - Gli disse, prima di avanzare verso di lui. Aveva aspettato così tanto e finalmente era lì.
- Ho fatto un viaggio lungo quasi dodici ore… posso avere un abbraccio?
Vittoria non ci pensò due volte e gli si gettò al collo, nonostante tenesse la piccola su un fianco.
Langdon la strinse a se. Finalmente poteva farlo, l'aveva desiderato così tanto in quei mesi.
- Che bello rivederti… - Le disse all'orecchio, ad occhi chiusi e senza lasciarla andare.
- A chi lo dici.
Poi, finalmente, si
guardarono negli occhi. Si avvicinarono ancora, per far incontrare
anche le loro labbra, che rimasero incollate per parecchio tempo sotto
gli occhi dei passanti, ma a loro poco importava. Erano di nuovo
insieme dopo mesi, era giusto che si baciassero quanto e quando
volessero.
Tuttavia, la piccola Lea
protestò, essendo ormai costretta a stare semi schiacciata da
quei due corpi. I suoi genitori, finalmente, si separarono di nuovo e i
loro occhi si posarono su di lei.
Langdon poté
osservare meglio la sua bambina: era così cambiata da quando
l'aveva lasciata. Vittoria gli aveva mandato qualche foto, l'ultima con
la data del ventidue agosto, ben due mesi prima. Eppure, in carne ed
ossa, era totalmente diversa, se non per quegli occhi limpidi come il
mare che teneva fissi su di lui, curiosa e attenta.
- Lea, tesoro…
guarda chi c'è! - Vittoria, al settimo cielo, baciò anche
la guancia rosea di sua figlia - E' papà…
L'uomo sorrise. Di sicuro
non poteva riconoscerlo, aveva paura di spaventarla. Allungò una
mano e si fece afferrare l'indice.
- Ciao piccola… - Disse, ancora incantato da quello sguardo serio ma allo stesso tempo dolcissimo.
- Prendila.
- Ho paura che si spaventi. Non sembra molto convinta…
- Mia figlia non ha paura di nulla… se non del rumore dell'aspirapolvere. Prendila.
Vittoria gli porse la bambina e Langdon l'afferrò per la vita.
- Caspita, è
cresciuta davvero - Strabuzzò gli occhi, divertito, sentendo
quando fosse aumentata di peso rispetto all'ultima volta.
- Ho la schiena a pezzi.
- Lo immagino… - Se
l'appoggiò al petto, sperando di non vederla scoppiare a
piangere. Lea continuava a fissarlo, ma cercava sempre con lo sguardo
sua madre, per paura di restare da sola.
- Non credo le faccia piacere vedermi…
- Robert, tesoro, ti vede adesso dopo mesi. Deve abituarsi.
Langdon le carezzò
una manina, ancora sotto l'occhio vigile di sua figlia stessa. Era in
gamba la sua piccola, altri bambini al posto suo sarebbero già
scoppiati a piangere. Le sorrise di nuovo e se la sistemò meglio
in braccio.
- Non ti ricordi chi sono,
eh, Lea…? - Le chiese poi, con una punta d'amarezza. Si era
perso parecchie cose, oltre alla sua nascita. In quei sei mesi le erano
spuntati quattro dentini, aveva imparato ad alzarsi in piedi e a
gattonare, aveva detto 'mamma', 'palla', 'latte' e 'pappa'. Lui non era
lì. E non sarebbe stato accanto a lei nemmeno quando avrebbe
mosso i primi passi, mangiato da sola e, sì, magari sarebbe
caduta per la prima volta, ma non ci sarebbe stato per consolarla e a
rimetterla in piedi.
Più volte, al
telefono, aveva detto a Vittoria quanto gli dispiacesse non poter
essere li con loro. E lei, quindi, sapeva bene come si sentisse.
Lea guardò di nuovo
sua madre, poi quell'uomo. All'improvviso, come era accaduto mesi
prima, in quella culla, senza preavviso gli sorrise.
- Bravissima, amore! -
Vittoria le battè le mani e la baciò di nuovo. Langdon,
col cuore alleggeritosi parecchio, strinse la piccola e la baciò
sull'altra guancia. Poi prese Vittoria e abbracciò di nuovo
anche lei.
Gli erano proprio mancate le sue due donne…
Vittoria sedeva dal lato
passeggero, con Lea in braccio. Aveva noleggiato un auto col cambio
automatico, sapendo la difficoltà del compagno con il cambio
manuale, e ora, impostato il navigatore, viaggiavano alla volta del
residence in cui sarebbero stati quei dieci giorni.
Era a nord ovest, a pochi
chilometri dal Vaticano, ed era di recente costruzione. Di certo, una
soluzione ben più comoda rispetto a un albergo. Con una bambina
piccola, c'era bisogno di una cucina, di una lavatrice e, soprattutto,
di un ambiente adatto, che solo una casa poteva offrire.
- Sei sicura che questo
coso funzioni? - Langdon guardava con sospetto il navigatore, che
pareva fosse programmato solo per imbottigliarlo sempre più nel
traffico.
- Sì, credo…
- Siamo in macchina da mezz'ora.
- L'aeroporto non è poi così vicino. E dobbiamo attraversare la città.
L'uomo provava uno strano
effetto percorrendo di nuovo quelle strade. Un anno e mezzo prima aveva
dovuto correre da una chiesa all'altra, vedendo cadaveri marchiati a
fuoco, assassini e quant'altro. Ora era in villeggiatura con la sua
famiglia.
- Penso che sarebbe meglio prendere un jet…
- Come? - Langdon si voltò appena verso la donna, ma capì immediatamente.
- Oh, Dio! Ma cosa… cosa le dai da mangiare?!
Vittoria rise.
- Pappine, frutta…
non credevo che i bambini avessero questa capacità eccezionale
di trasformarle in roba del genere!
- Lea dovresti imparare a usare il bagno!
- No, penso sia meglio che la cambi ora!
Lui la guardò esterrefatto.
- Ora?
- Sai quante volte l'ho dovuta cambiare in situazioni di emergenza…
Vittoria fece un movimento
fluido, poggiando prima la bambina sul sedile posteriore e
raggiungendola poi contorcendosi tra i due sedili anteriori.
Langdon, stanco, affamato e al momento anche disgustato dall'odore, continuò a camminare.
- Tutto bene la dietro? - Chiese, guardando dallo specchietto retrovisore.
- Preparati a dei giorni pieni di questa roba - La faccia della ragazza pareva più che disgustata.
- Se l'avessi saputo
prima… magari a quest'ora sarei tranquillo a casa! -
Scherzò. Lei gli diede un colpo alla spalla.
- Se io l'avessi saputo prima, invece, avrei preso la pillola caro mio…
- Come sei permalosa…
Finalmente riuscirono a
percorrere le grandi strade senza fermarsi più di un minuto ogni
volta, trovando tutti i semafori verdi e poca coda agli incroci. Pian
piano, uscirono dal centro, diretti verso la periferia.
Quando Vittoria riuscì infine a infilarle il pannolino pulito, Lea emanò un gridolino gioioso.
- Ecco… finito…
- Menomale. Abbassa i finestrini!
- Dai, povera Lea…
potresti ferire i suoi sentimenti! - Vittoria, sorridendo, si
appoggiò allo schienale del sedile guidatore.
- Dovremmo essere arrivati.
- Infatti rallenta…
ecco, gira qui! - Gli indicò una strada costeggiata da grandi
alberi, riconoscendo il nome del residence stampato su un cartello di
media grandezza. Accanto al cancello verde c'era una guardiola e, dopo
aver passato la piccola a Langdon, scese dall'auto, scambiando qualche
parola con l'uomo all'interno. Le diede le chiavi e il telecomando con
cui aprì il cancello.
- Che dici Lea, papà
ti fa guidare la macchina? Non è mai presto per imparare…
- Tenendola per la vita, premette nuovamente l'acceleratore, entrando
nel piccolo parcheggio e infilando poi l'automobile alla perfezione tra
due strisce bianche.
- Accidenti che pilota! -
Tirò il freno a mano, aprì la portiera e, slacciatosi la
cintura, scese, trovandosi davanti a Vittoria.
- Cos'è? Vuoi che uno di questi giorni mi rubi le chiavi e scappi col fidanzato? - Gli chiese, divertita.
- Non prima dei trent'anni… qual'è la casa?
Lei gli indicò
l'appartamento al pianterreno proprio di fronte alla macchina. C'erano
bei fiori piantati accanto alla porta e, dall'esterno, sembrava
un'abitazione rustica. Tuttavia, quando entrarono, si trovarono di
fronte al più moderno degli appartamenti, provvisto di tutti gli
elettrodomestici più all'avanguardia.
- Wow! - Esclamò,
vedendo finalmente una casa completamente pulita e in ordine, cosa a
cui lei non era più abituata - Credo che sia meglio che mi goda
questo bel vedere prima che questo terremoto inizi ad esplorare la zona.
- Ne parli come se fosse
una teppista… - Langdon baciò la piccola e la mise a
terra. Non fece in tempo ad alzare gli occhi che già la vide
dirigersi, gattonando, verso il tavolino nero laccato sotto il
televisore al plasma, con l'intento di appropriarsi del telecomando.
- Forse è meglio
scaricare i bagagli, così posso trovare qualcuno dei suoi
giocattoli, prima che riempia di saliva tutto quanto…
Tornarono fuori, recuperando le valigie e quant'altro, ma al loro rientro Lea era sparita.
- Lea? - Vittoria
pareva abituata a doverla cercare, ma quando la casa non era sua e non
la conosceva era abbastanza inquietante.
- E' qui… - Langdon
la trovò in camera da letto, intenta a recuperare sotto uno dei
comodini la presa della lampada.
- Te lo dicevo che è
una peste. Tu non mi credi… - Li raggiunse e si chinò,
porgendole un pagliaccio di stoffa - questo è più bello
tesoro, prendilo…
Lea abbandonò la presa della corrente e afferrò il suo giocattolo, iniziando subito a mordergli un piede.
Vittoria si rimise in piedi e finalmente riuscì a guardarlo, con tranquillità.
- Allora? Sei ancora convinto che passare dieci giorni con noi sarà rilassante? - Gli cinse il collo con le braccia.
- Sicuro. Perché non dovrebbe?
- Perchè ci saranno almeno sei pannolini da cambiare giorno e notte, biberon, pappe, pianti e urla…
- Senti chi parla… tu non hai esigenze?
Nei suoi occhi apparve una luce maliziosa.
- Le mie non possono essere soddisfatte con lei in giro.
- Sempre la solita. Non parlavo di quello…
- Beh. Il divano sarebbe un posto comodo per dormire, sai? - Fece per sciogliere l'abbraccio ma lui glielo impedì.
- Solo se ci dormi anche tu!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Discorsi ***
Sono passati ANNI. Tante cose sono successe. Eppure questa storia meritava di essere continuata. Non sono una che lascia le cose a metà, anche se ci vogliono, come in questo caso, anni, porto a termine ciò che comincio.
Spero ci sia qualcuno che si ricorda di me!
Scusandomi, riprendo il mio piccolo lavoro.
Capitolo 14
Vittoria uscí dalla doccia sentendosi più o meno dieci anni più giovane.
Era da più di nove mesi che non faceva una doccia così lunga. Di solito, doveva farsi bastare cinque minuti scarsi, dato che qualcuno sembrava avesse un radar dei più sofisticati pronto a captare il momento esatto in cui i suoi muscoli si distendevano sotto il getto caldo e ai profumi di bagnodoccia muschiati.
Non era più abituata a fare con calma, tant'è che si era tuffata in bagno come di soppiatto, afferrando al volo il beauty e l'accappatoio appena emerso dalla sua valigia beige.
Solo quando era ormai a metà dello shampoo, si era ricordata di non aver avvertito l'altro occupante dell'appartamento del suo momento di relax.
"Se ne accorgerá..." pensó abbozzando un sorrisetto, pronta a sentire da un momento all'altro i lamenti della bambina, quando si sarebbe accorta della sua assenza.
Eppure, nemmeno ora che si spazzolava con calma i capelli bagnati, Vittoria non udiva alcun pianto, ne borbottio, ne rumori sospetti.
"La stará tenendo sotto controllo?" Si chiese, iniziando a preoccuparsi. Senza le dovute attenzioni, Lea sarebbe stata capace di infilarsi nel frullatore, tanto era avida di scoprire ed esplorare.
A quel pensiero, pur essendo consapevole della sua eccessiva apprensione, poggió sulla mensola la spazzola ed aprì la porta scorrevole del bagno, lasciando che i vapori caldi si disperdessero nel disimpegno fresco e arioso.
Troppo arioso per i suoi gusti.
Volse lo sguardo a destra, nella camera da letto dove aveva lasciato la bambina addormentata, ma non la vide più tra i due cuscini che aveva accuratamente messo a protezione del suo placido sonno. La finestra era aperta sul terrazzo coperto, ed ebbe il terribile presentimento che Lea, chissà come, fosse riuscita ad aprire le imposte e ad arrivare alla balaustra.
"La tua fantasia corre troppo, cara mia!" Si disse, riscuotendosi e pensando bene di controllare, prima di pensare al peggio.
Fu allora che la vide. Non sola, ne intenta a mangiare la terra dei vasi di ortensie che adornavano quello spazio.
Lea stava celebrando un mite risveglio sulla spalla di suo padre, che seduto sul dondolo la cullava con dolcezza e pazienza, in silenzio.
Vittoria rimase qualche secondo sulla soglia, stringendosi l'accappatoio sul seno e passandosi la mano tra i capelli ancora bagnati. Erano arrivati da poche ore e già pensava al momento in cui si sarebbero dovuti separare di nuovo.
Vedere la sua bambina così tranquilla tra le braccia di quello che per lei era un perfetto sconosciuto la angosciava, poiché tornava a maledirsi per non aver avuto fiducia nei suoi sentimenti e non averlo reso partecipe della paternità a cui stava andando incontro già dall'inizio.
Erano così belli insieme...
Su quel pensiero si riscosse, disincantandosi, notando che ormai Lea sollevava la testolina, pronta a riprendere la sua corsa verso il sapere. Trenta minuti di sonno erano più che sufficienti a ricaricarsi, no?
-Siete qui- disse, per farsi notare -Pensavo foste scappati!
Langdon voltó il capo e la guardó, pensando di essere tornato a quella sera, quando l'aveva vista sulla terrazza dell'Hotel Bernini, rischiarata dalla luce della luna.
Ora, era pieno giorno, un mite giorno di metà ottobre. Il primo di quella vacanza che avrebbero passato tutti e tre insieme.
-È bellissima la vista da qui, e fuori si sta benissimo.
L'uomo si tirò su con la schiena, dato che ormai Lea era completamente sveglia.
-Da quanto siete qui?
-Cinque minuti, più o meno. Aveva iniziato a frignare e l'ho presa.
Vittoria sospiró. Non avrebbe mai immaginato che lo spuntare dei denti di un neonato fosse così estenuante. Non aveva mai dormito così poco...
-Spero ricominci a dormire un po' di più.- disse, avanzando verso di loro e ricambiando il grande sorriso che le fece la piccola, vedendola arrivare.
-Abbi fiducia- Langdon le strizzó l'occhio e le passó la bambina, che si protendeva verso sua madre ormai impaziente.
-Oh, quella non manca mai. Però vorrei che questi denti uscissero una volta per tutte!
-Domani si sveglierá con una dentatura invidiabile, ne sono sicuro.
Vittoria rise, alzando gli occhi al cielo. Non sarebbe cambiato mai! Continuava a prenderla in giro non appena ne trovava l'occasione.
Bació i sottili capelli castani raccolti in un ciuffetto e controlló l'ora sbirciando sotto la manica della giacca dell'uomo.
-Sono le cinque e mezza. Finisco di prepararmi e usciamo a prendere qualcosa da mangiare? Il frigo è vuoto.
Langdon fece spallucce.
-Sei in vacanza, stasera vieni a cena con me.
La donna finse stupore.
-Che cavaliere!- Gli porse nuovamente Lea -Allora finisco di prepararmi... dobbiamo comunque andare a prendere qualcosa per lei. Ho solo altri tre pannolini e il latte in polvere è quasi finito.
Lo storico strinse di nuovo a se la bambina e si alzó, iniziava a tirare un vento fresco e non voleva che potesse raffreddarla troppo. Vide Vittoria rientrare e la seguì, non staccandole gli occhi di dosso mentre, attraverso la porta aperta del bagno, la vide sfilarsi l'accappatoio.
Sperava davvero che Lea dormisse un pó, quella notte.
Avevano cercato un supermercato e grazie al cielo Roma non ne era di certo sprovvista. Solo la gente accalcata alle casse aveva loro ricordato che erano nella capitale Italiana, e quella confusione era attribuibile solo agli italiani. Quando Langdon aveva provato a dire qualcosa in merito si era guadagnato una occhiataccia da Vittoria.
-Non dimenticarti che anche io e tua figlia siamo italiane!
-Pensavo che Lea avesse la cittadinanza svizzera, non hai detto che è nata a Ginevra?
-Certo- aveva replicato Vittoria -Ma ho voluto darle anche la mia cittadinanza. Porta un cognome italiano del resto!
A Langdon quelle parole erano bastate per prendere coraggio e, due ore più tardi, affrontare l'argomento, seduti ad un elegante tavolo con una candela accesa al centro e la bambina che, finalmente, sonnecchiava nel suo passeggino.
-A proposito di quel discorso, Vittoria...- aveva iniziato a dire, non appena il cameriere aveva poggiato il vassoio di frutti di mare e verdure miste li accanto -Non abbiamo mai parlato seriamente di Lea...-
Aveva paura di affrontare la questione nella maniera sbagliata, o di spaventarla. Ma se davvero quella era sua figlia, era qualcosa che non poteva rimandare in eterno.
-Quale discorso?
Vittoria aveva aggrottato le sopracciglia, ma aveva iniziato a servirsi per nulla intimorita dallo sguardo serio ma pacato dell'uomo.
-Riguardo alla cittadinanza. E al suo cognome.
Solo allora capí. Doveva averlo ferito, prima, sottolineando il fatto che non portasse ne cognome ne cittadinanza paterna.
"Ma cosa potevo fare io?" Si disse, scacciando via quel senso di colpa che, meschino, era tornato a punzecchiarla.
-Allora?
Lo invitó a parlare, e lui non se lo lasció ripetere.
-Ecco... so che la situazione allora era complicata e che hai riconosciuto solo tu Lea, quando è nata...- Langdon quasi tremava. Aveva pensato per giorni a come affrontare l'argomento, piuttosto delicato. Ma era un suo diritto, caspita!
-Doveva pur essere riconosciuta, mi pare. Ovviamente non è colpa tua, non sapevi della sua nascita. Sono consapevole di aver sbagliato, se ti avessi detto che ero incinta di te un anno e mezzo fa, forse le cose...
-No, no ti prego, non volevo ripescare questa storia. Per me è acqua passata, hai avuto i tuoi motivi per non dirmi niente e nemmeno io ti ho incoraggiata a farlo dato che sono sparito... solo che... vorrei poter rimediare, in qualche modo.
Vittoria sapeva di essere l'unica responsabile e a quelle parole le venne un nodo in gola.
-E come? Non si può tornare indietro nel tempo Robert.
Langdon si accorse del suo disagio e della sua tristezza. Non voleva rovinare nessuno di quei momenti che potevano trascorrere insieme. D'istinto poggió la mano sulla sua, rassicurandola.
-È vero che non sono un ragazzino, potrei essere suo nonno, ma se tutto andrà bene potrei vederla crescere e quei mesi che ho perso li recupererei alla grande - le disse, sorridendo e con una tranquillità quasi irreale - Volevo solo dirti che mi piacerebbe portasse anche il mio nome. È l'unica figlia che ho e sicuramente sará così anche un domani...
Vittoria assorbí quelle parole una ad una, come se fossero passate di spugne pronte a lenire il bruciore alle sue ferite ancora non completamente rimarginate. Lo adorava, semplicemente lo adorava. Un altro le avrebbe fatto pesare la situazione come un macigno, o peggio ancora se la sarebbe data a gambe. Lui invece era lì, col desiderio di poter fare di più, e di essere qualcosa di più per Lea, ancora illegittima e senza padre sulla carta.
-Robert, io non so come fare, ma non ho nulla in contrario...- Gli disse soltanto, guardando la bimba profondamente addormentata li accanto e pensando a quanto fosse simile a lui.
-Penserò io a questo. Posso farlo benissimo in ambasciata, ma occorre il tuo consenso. Poi ovviamente dovrai cambiare il nome sui suoi documenti, passaporto compreso. E vorrei anche avesse la cittadinanza americana, Vittoria. Il mondo è grande e più in là potrebbe esserle utile.
La scienziata sospiró. Aveva ragione, anche se le sarebbe sembrato troppo strano non vedere più scritto Leonarda Vetra sui documenti di sua figlia.
-Va bene. Se vuoi possiamo andarci anche domani, non ho nulla in contrario, anzi. Sono felice che tu voglia entrare a far parte della sua vita definitivamente. Una volta che le avrai dato il tuo cognome non potrai più scappare!- Scherzó, per smorzare la leggera tensione che si era creata con la discussione.
Langdon sorrise, soddisfatto e felice. Vittoria era una donna indipendente, così tanto da aver rinunciato a dividere una figlia con lui pur di non dover subire un rifiuto. Andava bene così. Sua figlia era forte e in salute, oltre che splendida e intelligente come sua madre.
Si guardarono negli occhi e ad entrambi parve che il tempo si fosse fermato. Le loro mani erano ancora unite e il cibo nei loro piatti ormai freddo, ma a loro non importava.
Erano insieme, dopo tanto tempo.
Ed entrambi pensarono per un momento di aver finalmente trovato una famiglia.
Si riscosse nel salone illuminato dalla luce dello schermo al plasma della televisione.
"Che ore sono?" Guardó topolino e le sue braccia segnavano le 00.34.
"Diamine! Mi sono addormentato!" Si passó la mano tra i capelli sale e pepe, ravviandoseli, e la fece scivolare poi sugli occhi stanchi. Ricordava di essersi seduto sul divano che erano appena le 23.00, quando Vittoria aveva portato in camera Lea per farla riaddormentare. Un biberon di latte non era bastato a calmare il suo pianto nervoso e la ragazza aveva dovuto ricorrere al paracetamolo, sempre a causa del dolore da dentizione. Mano a mano che i lamenti di Lea scemavano, lui scivolava nel sonno.
Si alzó, cercando tastoni il telecomando per spegnere l'apparecchio, e lo trovó sotto uno dei cuscini. Mentre premeva il tasto off passó un fotogramma del Papa, mentre recitava l'Angelus quella stessa mattina, e Langdon si chiese cosa avesse pensato sapendo come si erano evolute le cose dal giorno della sua elezione.
Sbadiglió, chiedendosi se Vittoria lo stesse aspettando sveglia, e dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua in cucina si avvió verso la camera da letto, buia.
Dovette fermarsi qualche istante, per contemplare meglio quella visione.
Vittoria era stesa su un fianco, rivolta verso il centro del letto. La bocca appena dischiusa e le braccia avvolte attorno a Lea, placidamente addormentata con le mani chiuse a pugno sul petto di sua madre.
Per la prima volta dopo tanto tempo si sentí commosso.
Ma come era arrivato a quel punto? Cosa era successo in quelle ore a Roma, un anno e mezzo prima? Come aveva potuto farsi trasportare così tanto?
Erano non solo finiti a letto, ma anche per fare una figlia. Certo, non in modo intenzionale, ma il trasporto era stato così intenso che nessuno dei due aveva pensato alle conseguenze di quella notte passata insieme.
Langdon restó ancora qualche attimo sulla porta, prima di sbottonare i primi bottoni della camicia e dirigersi verso la metá del letto libera.
Non si era mai sentito così, nel posto giusto finalmente, mentre si stendeva delicatamente accanto a madre e figlia senza nemmeno aver disfatto il letto.
Poggió una mano sul grembo di Lea e in un attimo cadde in un sonno pacifico e profondo.
Continua...
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=815273
|