Lullabies - Gea

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




Piccolo spazio-me:
Gea è un racconto che fa parte di una sorta di un ciclo intitolato “Lullabies”, ossia ninnananne. Sono una serie di storie senza nesso le une con le altre, accumunate tutte dalla stessa aria sovrannaturale che regna in questa. Le pubblicherò man mano, ovviamente indicando nel titolo che sono Lullabies. Alcune saranno one shot, altre brevi long-fic, della lunghezza di questa all’incirca. Spero vi piaccia e vogliate seguirle.
Buona lettura!
 
Ah, giusto, quasi dimenticavo: Questo scritto è di mia unica proprietà; è pertanto Vietato copiare/riportare/tradurre altrove questo (integrale, sue parti, i personaggi etc etc) senza il consenso dell’autrice (ovvero la sottoscritta)! Nessuno vorrà farlo, ma è sempre meglio prevenire! ;)
 
 
 
 
 
La sirena risuonò, rompendo il silenzio della notte.
Da qualche parte, una frenata brusca, un’imprecazione soffusa, dispersa dalla brezza marina.
Sola, guardavo il soffitto della mia stanza, contando i battiti che, dal cuore, mi rimbombavano nel cervello.
“Una non è nulla. Una non significa niente. Vedrai che smette, vedrai... è l’avviso, una tromba d’aria, un altro terremoto forse. Vedrai che smette, vedrai che smette”
Non ho mai saputo pregare; non c’era un luogo di culto qui in città, quasi nessuno era più devoto. Ormai, la ragione aveva avuto la meglio.
Questa è la nostra punizione, dicevano i Radicali.
Se è così è ingiusto, affermavo io.
“Una non è nulla”mi ripetevo senza convinzione. Pregavo, anche se non lo sapevo.
 
Quando la sirena suonò di nuovo, sentii i miei genitori agitarsi, alzarsi velocemente e aprire cassetti. Sapevo cosa cercavano: da mesi ormai vivevamo con le valigie stipate di vestiti e degli oggetti più cari, pronti al peggio.
Dalla stanza vicina, un singhiozzo. Mia sorella non si era mai realmente arresa. La sentii correre a chiudere le persiane con forza, quasi che, tenendo fuori l’eco dell’allarme, potesse cancellarlo.
Io rimasi distesa al letto. Le braccia lungo i fianchi pesanti come fossero di marmo, incapace di muovermi. Avevo il fiato corto, il respiro interrotto. Sospesa, mentre fuori la quiete della notte era ormai persa. La gente gridava, si chiamava, accendeva la luce.
“Due rintocchi significano guerra. Guerra! C’è ancora speranza, ancora speranza, oh Dio, se ci sei, se ci sei mai stato, dimmi che c’è ancora speranza”
Dalla stanza vicina arrivava l’eco di un pianto ora. Vibrante, rimasi in attesa; sapevo, con funerea certezza.
 
Quando la sirena suonò ancora, la città parve come attraversata da una folata di vento; spazzò via ogni rumore, ogni frenesia, ogni speranza, lasciando l’immobilità. Nessuno respirò, consci della gravità del momento.
«Tre suoni significano Fine. L’Apocalisse» sussurrai, e fu come se la mia voce avesse interrotto la pausa, risvegliando il mondo.
Mio padre corse in camera mia, sollevandomi di peso e trascinandomi all’armadio. Come in trance, lo seguii fuori, sul pianerottolo in cima alle scale, trascinando la valigia, la borsa col pc portatile a tracolla. Fuori dalla mia stanza, mia madre e mia sorella piangevano abbracciate. Un borbottio, un grido acuto; mio padre apparve dal buio con mio fratello fra le braccia, uno zainetto dei puffi in precario equilibrio su una spalla.
«Ora, state tranquille. Tranquille. È un’esercitazione, solo un’esercitazione, ne abbiamo fatte a centinaia, ricordate? Dobbiamo scendere in strada, fare cento metri, e saremo al rifugio. È un’esercitazione. Non…» mio padre tacque. Cercava di rincuorarci, aprendosi in grandi sorrisi fin troppo simili a smorfie di dolore. Aveva paura, ma era in dovere di dimostrarsi forte. Mi guardò, quasi aspettandosi che perdessi il contegno, ed io gli restituì il sorriso, precedendolo lungo le scale.
Non avevo paura. Non provavo nulla, in realtà: né timore, né speranza, né aspettativa, né fastidio. Lo sapevo, l’avevo saputo sin dal primo suono. Ero preparata a questo momento: me lo sentivo ripetere da quando ero nata, a scuola, a casa, al corso di sopravvivenza dei week-end.
 
Venimmo smistati all’ingresso del capannone da un militare dall’aria assente, collo taurino e spalle massicce del giocatore di football che doveva essere stato venti o trenta chili prima, al college. Controllò i nostri certificati di nascita e le carte d’identità –mio padre le teneva in un marsupio che non si toglieva mai, salvo per fare la doccia- quindi ci spedì al bancone, davanti al quale la fila scorreva veloce.
Ci assegnarono una zona riposo ed un’area servizi igienici, consegnandoci una cartina dello stabile su cui erano segnate le aree rilevanti, come le mense, quindi ci diedero un bracciale di metallo verde con su stampato un numero. Il nostro posto letto. Mi guardai il polso: 283. Scossi il capo cacciando via quella sensazione di gelo e disagio, e seguii la mia famiglia.
Salimmo le scale, incontrando i nostri vicini, i signori Dickens. Come lo scrittore, anche se il padre, un allampanato operaio edile dalla pelle color caffè, non aveva mai voluto leggerlo per sfregio. Controllando i loro numeri, scoprimmo che avrebbero dormito accanto a noi.
«Questa era una fabbrica tessile, una volta. Il mio bisnonno ci lavorava, facevano la seta damascata ed il broccato per la capitale» sentii il figlio minore dei Dickens dire a mia sorella, che arrossì. Aveva una cotta per lui da tre anni, da quando erano finiti in classe insieme, in prima media.
Guardandomi intorno, potevo vedere ancora l’ombra delle enormi macchine tessili, simili a quelle dei disegni sui libri di storia, che tendevano fili su fili senza sosta, riempiendo l’aria di vapore e rumore sordo.
Fu a quel punto che lo notai.
La mia vita era stata, come quella della maggior parte dei nati nell’era moderna, contraddistinta da un ronzio basso, nota di sottofondo costante ed inascoltata. Il vibrare della corrente, di apparecchi elettronici in funzione, la tensione nei cavi, nelle lampadine, nei frigoriferi e nelle tv. Il sottile lavorio di ingranaggi sempre più moderni.
Ora, il silenzio era perfetto.
Non c’erano lampadine accese nella soffitta. Una donna dalla faccia pratica con una torcia chimica in mano ci indicò un corridoio davanti a noi, ricavato attraverso pareti di cartongesso che dividevano lo stanzone in cubicoli, ognuno dei quali chiuso da una porta di compensato dall’aria economica.
«Dal numero 281 al 285» lessi a voce alta, e meccanicamente ognuno di noi si guardò il polso; poi mio padre aprì la porta, lanciando un cenno di saluto distratto ai nostri ex vicini di casa, ora vicini di letto, che s’inoltravano nel cubicolo alla destra del nostro.
Entrammo; illuminati da una luce chimica aranciata c’erano cinque letti in ferro che mi portarono alla mente quelli degli ospedali, ognuno con le coperte piegate ed appoggiate sopra un cuscino dall’aria triste. Rimpiansi di non aver preso il mio, uscendo di casa.
“Casa… la rivedrò mai?”sospirai tra me eme rifacendo il letto, ed un’ondata di nostalgia mi travolse. “Chissà come gli sconvolgimenti cambieranno il mondo. Lo riconoscerò, uscendo?”
 
 
 
 
Piccolo spazio-me (ancora): La storia è classificata come Soprannaturale. Ammetto di aver avuto un attimo di smarrimento cercandone la classificazione precisa, ma trovo che questa sia quella che le si addice benissimo. Spero saprete dirmi voi, in seguito, se ho fatto la scelta giusta. Nel caso, vedrò di confermare o modificare :)
Inoltre ho deciso di dividerla in bevi chap non molto lunghi, di cui questo è il primo. Li aggiornerò ogni mercoledì.
Immaginate un mondo molto simile al nostro, però a qualche anno di distanza: più tecnologico, più evoluto. È un mondo di ragione e scienza, senza fede (il Dio che nomino potrebbe essere qualunque divinità, esistente o meno) sull’orlo dell’Apocalisse annunciato. Cosa lo provoca, e cosa accadrà, vedremo poi :)
La città e lo stato in cui si svolge la storia non verranno precisati. Immaginatela dove volete: America, Scozia, Italia, Pakistan o il mondo che avete in testa e dove ambientate i vostri sogni! Scegliete voi :) e magari fatemi sapere dove vi piacerebbe fosse ambientata! Ai fini della storia, comunque, non è importante sapere il dove, ma solo che Gaia è il nome di questo mondo ipotetico .
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




Un altoparlante diffondeva musica e comunicati ad intervalli regolari. Era piazzato al centro della grande sala comune situata all’estremità opposta delle scale, dopo la fila di cubicoli.
L’altoparlante era modernissimo, alimentato dalla stessa energia chimica che teneva accese le luci e fredde le dispense, nel seminterrato.
Non c’era più corrente da ore, oramai.
«Il divieto assoluto di uscire rende pressoché impossibile lo scambio di informazioni con le altre colonie. Nonostante questo, nessun Segnale è stato inviato, il che vuol dire senza ombra di dubbio che altrove la situazione è calma come nella nostra colonia. All’esterno il clima si mantiene sereno, temperatura gradevole, segno che nonostante i Dissuasori Climatici abbiano smesso di influenzarlo, il tempo non s’è ribellato, come previsto dai nostri scienziati…»
Non c’erano state catastrofi, stavolta. L’elettricità si era semplicemente spenta, come se tutti gli interruttori del mondo fossero stati disattivati contemporaneamente. Non era più tornata, e dubitavo che l’avrebbe fatto.
Un predicatore una volta disse che Dio avrebbe distrutto prima la nostra scienza poi noi, e francamente iniziavo a credergli. Era scritto nelle vecchie Pietre, dopotutto.
«… niente terremoti. Non sono previsti uragani. La corrente è tuttora assente, ma le scorte di lampade chimiche e sostanze sono bastevoli a garantire alla colonia la sopravvivenza per venti anni comodamente. Come ricorda il Generale Loweratt, la struttura entro la quale ci troviamo è dotata dei più moderni sistemi di isolamento, in grado di resistere a sbalzi termici dallo zero assoluto fino alla temperatura solare, intorno ai… mmm…  mi dicono, superiore ai seimila gradi testati. La tecnologia è quella impiegata quindici anni fa dagli astronauti per la sonda solare, e le moderne tecnologie l’hanno resa…»
Ricordavo lo sbarco sul sole. Avevo sei anni e rimasi incollata quasi sedici ore allo schermo, seguendo l’impresa minuto dopo minuto.
Ora, ricordai, quella stessa missione era stata ampliata, portata ai massimi livelli per la…
«… colonizzazione di Gea. La nuova stazione dovrebbe essere pronta nell’arco di un anno, tempo trascorso il quale le colonie verranno fatte sbarcare in sicurezza. Ogni colonia dispone di una serra in cui vengono coltivate le principali specie di ortaggi transgenici destinati al nutrimento della colonia stessa, e conservati i semi della pressoché totalità delle specie vegetali al mondo. Animali vengono allevati secondo il regime standard di massima produzione, mentre il dna di tutta la fauna è conservato nelle celle chimiche, pronto per essere replicato nel caso l’Apocalisse fosse distruttivo. Copie digitali di ogni opera conosciuta sono conservate negli archivi…»
Lo sapevo. Sapevo ogni cosa; a scuola, c’avevano fatto capire chiaro e tondo che ogni colonia altro non era che un immenso vivaio di informazioni. Se anche solo una comunità fosse sopravvissuta, l’intera Gaia sarebbe stata replicabile in ogni suo aspetto.
«Pensi che verranno davvero a prenderci?» mi chiese un ragazzo con la cresta di un assurdo verde acido.
«Lo speriamo tutti. Perfino loro» sussurrai di risposta, indicando l’altoparlante con un cenno del capo. Il ragazzo sorrise, tirato, sedendosi vicino a me.
«Non voglio morire qui» mi sussurrò all’orecchio. Aveva un profumo leggero, l’ombra di una qualche essenza che non riuscivo a riconoscere ma che m’era familiare. Accantonai la cosa, guardandolo negli occhi. Sorrise ancora.
«Gabriel» si presentò, con un beffardo inchino del capo «Charles Gabriel, in realtà. Ma preferisco il secondo nome»
«Aleena» sussurrai in risposta, donandogli un mezzo sorriso. Gabriel mi strinse le spalle, avvicinandomi a lui.
«Non è vero. Ho sentito tua madre chiamarti col tuo vero nome. Ma fa nulla, sarai Aleena per me, se vuoi»
Avevo ancora addosso la camicia da notte con la quale, un tempo lontano quasi una vita, mi ero svegliata al suono della sirena.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***




Quella notte piovve.
Troppo agitati per dormire, gli ospiti della colonia se ne rimasero distesi nei loro letti, consci che la fine era realmente iniziata, ora.
Non c’erano segni evidenti, né la pioggia sembrava diversa da quella che, per secoli, aveva bagnata Gaia; eppure, tutti parevano sapere. Percepire.
Nessuno mi chiese dove stessi andando. Scivolai fuori dal letto chiudendomi la porta alle spalle, ed entrai nella sala comune deserta, dove il rumore della pioggia era più intenso, il silenzio meno gravoso.
«Una parte di me desidera uscire, sentire qual è il tanto decantato odore della pioggia. Infantile ed inappropriato, non trovi?» disse una voce dal lato più scuro della stanza.
Lui era lì. Mi attendeva, come sapevo che avrebbe fatto.
Lasciai scivolare paura e pudore a terra assieme agli abiti, pensando che, se era la morte quella mi aspettava al varco, almeno l’avrei raggiunta senza il rimpianto di non aver mai provato.
Nessuno venne a disturbarci. Sapevamo che riti del genere si perpetravano ovunque ve ne fosse la possibilità, nella colonia. L’odore degli istinti penetrava l’aria, saturandola come un miasma antico, genuino.
Eravamo nel giusto.
 
Il giorno ci sorprese distesi, io nell’incavo delle braccia di Gabriel, stretti l’uno all’altra come se non avessimo niente altro al mondo.
«Non ti conosco che da un giorno» gli sussurrai contro il petto, sperando dormisse.
«È così per entrambi. Ma chi stabilisce quale sia il tempo giusto? Non può esistere alcun parametro logico e coerente che lo quantifichi con certezza. E qui… qui c’è il succo del mondo che ci ribolle intorno, veemente ed antico, più potente di quanto noi stessi possiamo solo tentare di immaginare. C’è Dio, se vuoi. E questa forza ci influenza, nonostante queste pareti, nonostante la scienza e la ragione. Non ne siamo immuni, non lo siamo mai stati»
«E questo cosa vuol dire, Gabriel?»
«Vuol dire che quando il tempo e lo spazio e la ragione stessa perdono di senso, come accade lì fuori, allora anche innamorarsi con uno sguardo è possibile. Allora anche legarsi per sempre, sentirsi parte di uno stesso destino e sapere che sarà così, e volerlo, e viverlo, è possibile. Possibile e giusto e vero. Mi capisci?»
Capivo.
Strinsi più forte a me Gabriel, e questo parve bastargli come risposta.
 
Ci rivestimmo con calma, quindi andai al mo cubicolo, davanti al quale sorpresi mia sorella legata per le labbra al figlio dei Dickens. Sorrisi e passai oltre, muovendomi in punta dei piedi per non svegliare mia madre, mio padre e mio fratello. Presi la borsa e tornai alla sala.
Gabriel se n’era andato, ma non me ne preoccupai più di tanto: sapevo dov’era, avrei potuto perfino dire cosa stesse facendo.
Quel clima apocalittico ampliava le mie percezioni, rendendomi più nitida e palese ogni cosa. Avvertivo il suono di una lite al pianterreno, il disappunto di uno stalliere che si accingeva alla seconda mungitura della mattinata, le vibrazioni di paura ed aspettativa.
Aprii la borsa ed accesi il pc.
Era un vecchio modello, privo del trasformatore necessario per alimentarlo con le batterie chimiche d’ultima generazione. Andava a corrente, ed era lento, di qualità inferiore come confort e schermo, senza parlare dei programmi; eppure, per me aveva un fascino che trascendeva ogni cosa, rendendomi impossibile cambiarlo con qualcosa di più moderno.
Volevo scrivere –tenevo un diario elettronico che aggiornavo di tanto in tanto- ma qualcosa attirò la mia attenzione, un impulso repentino.
Accesi il dispositivo di chat e sorrisi fra me e me della mia ingenuità.
Non c’era segnale di rete, non avrebbe potuto esserci con tutti i ripetitori fiori uso.
Eppure, qualcosa apparve sul mio schermo.
“Salve”
Rimasi a fissarlo come in trance, muovendo il cursore col touchpad verso l’indicatore di linea. Nulla.
Il mio cuore perse un colpo.
“Ci sei?” apparve di nuovo, come a dirmi che si, era reale. Istintivamente, controllai il livello della batteria. Nove ore di autonomia, tipico dei vecchi modelli.
«Ci sono» scrissi in fretta, e quindi «Sei uno della colonia? Come fai a collegarti? Avete ripristinato la rete qui dentro?»
“Colonia?”
«Si. Io sono all’ultimo piano, proprio sotto il tetto. Tu dove sei?»
“Sulla spiaggia”
Aggrottai la fronte, contraendo le sopracciglia.
«Dì sul serio. Non mi va di sprecare batteria. Dimmi da dove trasmetti»
“Dalla spiaggia, te l’ho detto”
«Non è possibile. Nessuno è rimasto fuori, morirebbe. Ed in ogni caso non potresti trasmettere, non qui dentro. Siamo schermati. Dove sei?»
“Sulla spiaggia”
«Se sei davvero sulla spiaggia, allora dimmi com’è la fuori» scrissi, sentendo la rabbia montarmi dentro. Non avevo mai sopportato d’essere presa in giro.
“Piove, ma le gocce sono calde. Sembra un temporale estivo, sai, di quelli che ti bagnano completamente nel giro di qualche istante ma che sono delicati sulla pelle, quasi che ogni goccia sia il tocco di un dito gentile. La sabbia è dura, compatta, ed il mare ruggisce alle mie spalle, arrivando ogni tanto a bagnarmi i piedi. Sono scalza, mi piace la sensazione dell’acqua fredda, è… viva. Come non lo è stata da una vita. C’è un odore meraviglioso, puro e ricco ad un tempo. Non vorrei essere in nessun altro posto, ora”
Lessi quelle parole tutto d’un fiato, chiusi gli occhi e le ripetei nella testa. Potevo vederla, e questo mi spaventò.
«Hai una giacca nera, lunga fino alle caviglie, che lasci slacciata. È rovinata, ma non te ne curi. Ti piace, in realtà, ha l’aria vissuta e ti rende più vecchia di quello che in realtà non sei. Sotto, indossi jeans sporchi di sabbia ed una camicia legata poco sotto il seno. Hai capelli neri e corti e le orecchie… no di quelle non posso parlare, né delle tue mani, né dei tuoi piedi, ma so come sono»
“Lo so”
«Ho indovinato?»
“Potrei dirti qualunque cosa, lo sai. E tu, crederesti comunque a quello che vuoi credere”
«A cosa voglio credere?»
“A quello che sai”
Quasi senza accorgermene, annuì, come se lei potesse vedermi. Poi mi sentii chiamare.
“Ci sentiremo ancora?” mi scrisse. Non risposi. Chiusi schermo e conversazione, voltandomi verso mio fratello, che festoso mi chiedeva cosa facessi.
Risposi che scrivevo, non mentendo in fondo. Omisi a chi, né lui me lo chiese.

Andammo a pranzo, e per un po’ dimenticai.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***




Parlai ancora con quella mia nuova, strana amica.
Mi disse che la pioggia stava lavando via ogni cosa che l’uomo avesse costruito, lasciando che la natura si riprendesse il mondo. Mi parlò di foreste e boschi e laghi e piante mai viste ed io, nonostante tutto, cominciai a crederle ed a desiderare di vedere questo nuovo mondo.
Stavo attenta a connettermi solo una volta la settimana, per dieci minuti al giorno. Anche così, però, in capo a undici mesi mi trovai a dover fare i conti con la fine della batteria.
Erano successe poche cose di rilevanza in quasi un anno: io e Gabriel eravamo innamorati, ed in cuor mio sapevo che sarebbe durata per sempre. Mia sorella, invece, aveva lasciato il figlio dei Dickens per quello di una famiglia due cubicoli dopo il nostro, per poi stancarsi anche del nuovo amore e spingersi più lontana per cercarlo. In breve, mio padre aveva dovuto costringerla nel cubicolo per evitare che la nomea le si tatuasse indosso.
Mio fratello aveva imparato a contare grazie soprattutto all’aiuto di mia madre e di un paio di due sue nuove amiche, con le quali aveva allestita una sorta di scuola nella sala di ritrovo.
La sera precedente, un forte boato aveva fatto tremare il suolo, creando il panico nella colonia e costringendo i militari ad interrompere il lungo silenzio radio che il risparmio energetico aveva imposto per diffondere messaggi confortanti.
Non aveva mai spesso di piovere.
Quella mattina l’avevo trascorsa al pc, intenta a leggere avida di una nuova specie che s’era accampata a nord-est della colonia, sulle rive di un fiume sorto all’altezza della mia vecchia scuola materna, quando dall’altoparlante venne una musica allegra, seguita dalla voce squillante di quella che sembrava una giovane donna.
D’improvviso, calò il silenzio, ed io mi accorsi che quella strana corrente d’eccitazione che aleggiava dalla sera prima nell’aria stava per concretizzarsi.
«Siamo lieti di comunicarvi il rientro della missione di colonizzazione, ed il suo pieno successo. L’astronave è entrata nell’atmosfera terrestre nella tarda nottata, e capsule monoposto sono scese con messaggi. Ci viene consigliato di prepararci perché, tempo un giorno, saremo tutti a bordo della SkySoldier, diretti a Gea»
Un urlo di gioia salì spontaneo dalle gole di ogni singola persona presente nella colonia. Ancora oggi, trovo quella scena così carica, così umana, che mi risulta difficile credere che lì per lì non compresi di non fare già più parte di quel mondo: intorno a me la gente si abbracciò, ridendo e baciandosi mentre l’aria si saturava di felicità pura e speranza.
Io rimasi in un angolo, il pc sulle ginocchia, a fissare attonita il mondo attorno a me. Gabriel mi abbracciò ed io avvertii la sua nostalgia, il suo disagio.
“Ragazza?” lampeggiò una scritta sul mio schermo “dove sei finita?”
«Parto» fu la mia risposta, e nello scriverlo un groppo doloroso mi si formò alla gola, serrandola.
“Non devi” ripose dopo qualche secondo “non se non vuoi”
«Come fai a sapere che non voglio?»
“Ti conosco. È qui che vuoi stare. Qui con me, con l’ombra di Gaia, con questo mondo che stiamo creando per noi, per te”
«C’è la mia famiglia qui»
“C’è anche qui fuori, se la vorrai” mi disse, ed ebbi la fugace visione di creature lanciate al galoppo. La scacciai, scuotendo la testa. Gabriel mi strinse più a se.
“Porta anche lui. Porta chi vuoi. Lascia andare gli altri. Questo mondo non è per loro”
«Io…» cominciai, ma lo schermo diede un guizzo, abbassando la luminosità improvvisamente. La batteria stava cedendo.
“Ti attendo sulla spiaggia, dove ci siamo conosciute. Resterò lì, finché non arriverai. So che lo farai. È la cosa giusta” mi scrisse.
Poi lo schermo divenne buio.
 
I bagagli erano pronti già da un’ora quando decisi.
Radunati nella sala comune, venivamo smistati in base all’ordine alfabetico quando qualcosa perforò la struttura metallica, ritraendosi subito dopo. Un pezzo di ferro grande quanto un cane , conseguenza della presenza in orbita della navicella. Una parte di supporto, a giudicare dalla forma.
I soldati intimarono di tenersi alla larga dalla chiazza d’acqua piovana che s’allargava sul pavimento; la folla, tuttavia, già si spintonava nel tentativo d’allontanarsi. Sapevano.
Anche io lo sentivo.
“Stalle lontano se vuoi rimanere integra”diceva un istinto di conservazione del tutto umano nelle nostre teste “allontanati se non vuoi che ti cambi per sempre”.
Guardai Gabriel, che annuì.
Fuori, la luce grigiastra del giorno di pioggia illuminava una parte di tetto spiovente ed un terrazzino.
Presi un respiro ed iniziai a correre, seguita in parallelo da Gabriel.
Quando la pioggia toccò il mio viso, seppi che niente sarebbe stato più lo stesso.
Poi fu solo la sensazione di vuoto ed un lancinante dolore alle ossa. 

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