Questo momento di Macchia argentata (/viewuser.php?uid=112601)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questo momento ***
Capitolo 2: *** L'attimo dopo la tempesta ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Polvere e colombe ***
Capitolo 5: *** Chiarimenti ***
Capitolo 6: *** Temporale ***
Capitolo 7: *** Dove conduce la follia ***
Capitolo 8: *** Confessione ***
Capitolo 9: *** Ore amare ***
Capitolo 10: *** Contatto ***
Capitolo 11: *** Preludio notturno ***
Capitolo 12: *** Rose bianche ***
Capitolo 13: *** Ali di farfalla ***
Capitolo 14: *** Intimità ***
Capitolo 15: *** 16 agosto ***
Capitolo 16: *** Tenebre ***
Capitolo 17: *** Istinto ***
Capitolo 18: *** Per il suo bene ***
Capitolo 19: *** Piuma ***
Capitolo 20: *** Come carta che brucia ***
Capitolo 21: *** Natale ***
Capitolo 22: *** Legame ***
Capitolo 23: *** Tempo fermo ***
Capitolo 24: *** Come il sole ***
Capitolo 25: *** Dolce è la vittoria ***
Capitolo 26: *** La Fata buona e il prode Cavaliere ***
Capitolo 27: *** Vivere ***
Capitolo 1 *** Questo momento ***
moment
Il leggero frusciare del vento tra l’erba, il canto di un grillo in lontananza, il profumo dolciastro dei fiori di campo.
Questo momento.
Chiudo gli occhi e lascio che i raggi del sole incendino il mio viso,
il mio corpo, mai tanto esposto alla luce, come in questo momento.
Sei al mio fianco, come sempre. Ma questa volta è diverso.
Mi chiedo come sia potuto succedere…
Se aprissi gli occhi potrei vederti, supino, guardare il cielo ponendoti, forse, le mie stesse domande.
Il tuo corpo, non meno esposto del mio ai raggi solari, ricoperto di minuscole gocce di sudore.
Cosa abbiamo fatto, Andrè?
Sollevo le palpebre. Attorno a noi, l’erba alta si muove dolcemente sospinta dalla brezza. E’ piacevole.
E’ stato come essere travolti da un onda. E’ stato come quando, in Normandia, giocavamo tra i cavalloni, ricordi?
La stessa forza, lo stesso desiderio di scappare e, allo stesso tempo, restare per sfidare la sorte.
Cosa succederà, adesso?
Con la coda dell’occhio seguo distrattamente il volo di un’ape che ronza vicino al mio volto.
Le nostre spade, abbandonate a pochi passi di distanza. Le nostre vesti, sospinte dal vento poco più distanti.
Sei incredulo quanto lo sono io della piega presa dal corso del nostro duello per sfogarci dell’ultima lite?
Ne sei forse pentito? Sei pentito di avermi amato?
Penso alle tue mani sul mio corpo, e alle tue labbra sulle mie,
lasciarsi andare ad un eguale trasporto dettato da un urgenza difficile
da spiegare.
Non mi era mai capitato di essere tanto irrazionale. Non so realmente
comprendere cosa mi abbia portato ad agire in modo tanto avventato.
Ma la tua mano, che facendosi strada nell’erba, stringe la mia, sopisce momentaneamente ogni dubbio.
Qualunque sarà la nostra sorte, vorrei che non finisse, questo momento.
Nota dell'autore
Mi rendo conto che sto diventando
peggio del prezzemolo su questa sezione! Ho già due storie in
corso, ma quando un'idea chiama bisogna seguirla...E il giardino, oggi,
era troppo invitante per non portarci fuori il pc! Spero che questo
brevissimo componimento possa essere di vostro gradimento^^ Baci
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Capitolo 2 *** L'attimo dopo la tempesta ***
2
Una mano sulle
labbra e l’altra a stringermi la camicia all’altezza del
petto, osservo il mio riflesso nello specchio della toletta, cercando
una risposta nei miei stessi occhi.
Quando le nubi hanno coperto il cielo, ho sciolto le tue mani dalle mie.
“Oscar…”
Coprendomi il seno con un
braccio, ho cercato le fasce che giacevano scomposte nell’erba,
così come la camicia e i pantaloni.
Non parlare, Andrè. Non farlo, ti prego.
Siamo amici, siamo fratelli. E da oggi, siamo complici di una colpa che potrebbe cambiare tutto.
Mi sollevo dallo sgabello
della toletta, avvicinandomi alla vasca di acqua calda che Nanny,
ignara, ha provveduto a farmi trovare al rientro, e che non
basterà a lavare via la sensazione delle tue mani su di me.
Il lieve dolore che
avverto tra le cosce, la vischiosità del sangue ormai rappreso
sulla mia pelle, il sottile velo di saliva che, a contatto con
l’acqua, si stacca dal mio seno, galleggiando alcuni istanti
prima di dissolversi sono qua a ricordarmi di come, in un impeto di
follia, ti ho ceduto la mia verginità.
Non che questo
comprometterà il mio futuro. Non era nei miei doveri preservare
gelosamente intatta la mia verginità per compiacere un marito la
prima notte di nozze.
Ma tu, Andrè…
Non era previsto, che accadesse. Non sarebbe dovuto accadere.
Ma il profumo dell’erba era così invitante, e il calore del sole sulla pelle talmente piacevole…
E il tuo sorriso impertinente, che, sfacciato, si faceva beffe di me, improvvisamente irresistibile.
Almeno quanto le tue labbra.
Sfioro le mie, con l’indice, e mi sorprendo a desiderarti nuovamente steso su di me, con il corpo e con l’anima.
Tu, praticamente un fratello.
Cosa ci è successo, Andrè? A cosa porterà, questa follia?
Sono già tra le
coperte, senza riuscire a dormire, quando sento un lieve bussare alla
porta della mia stanza. So che sei tu, non ho bisogno di chiederlo.
“Oscar…”
I tuoi occhi, incredibilmente seri, incontrano i miei, nello spiraglio
che ti ho concesso per proferire ciò che sei venuto a sostenere.
“Noi…Non credi che sia giusto…parlarne?”
“Non
c’è niente di cui parlare, Andrè. Non
c’è nome per ciò che abbiamo fatto…”
Bisbiglio, improvvisamente imbarazzata.
La tua mano si posa sulla porta contro cui sono appoggiata, mentre il tuo viso si fa più vicino.
“Si che c’è un nome. Si chiama fare l’amore…”
La tua voce è un sussurro, nel buio della notte.
Amore.
Non sono sicura sia la parola che volevo sentire, da te. Anche se è stato bello.
Anche se per un momento, avrei voluto che il tempo si fermasse.
Ma guardiamo in faccia la realtà.
Siamo io e te, Andrè.
E’ stato un momento che faremmo meglio a dimenticare.
Nota dell’autore
Lo
so, doveva essere una flashfic, ma visto che in tante mi avete chiesto
un seguito, ho deciso di proseguirla, sempre in forma breve. Potrebbe
diventare una raccolta di flashfic che seguirà, naturalmente,
una trama^^
I miei Oscar e Andrè, sono piuttosto giovani. Poco più
che ventenni, direi, e non del tutto consapevoli dei loro sentimenti.
Grazie
di cuore a tutte le persone che hanno letto e commentato il precedente
capitolo, spronandomi a proseguirlo. Spero che i seguiti non deludano
le vostre aspettative…Baci^^
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Capitolo 3 *** Ricordi ***
3
C’è un
pensiero che mi ossessiona, da buona parte della nottata e della
giornata, e non vuole saperne di andarsene.
Galoppo silenziosa verso casa, sola.
Questa mattina, ti ho impedito di seguirmi. Te ne stavi lì,
all’ingresso, reggendo per le briglie i nostri cavalli, come fai
ogni mattina, mentre Nanny, borbottando, ti spazzolava via dalla giacca
le briciole della colazione.
Ma quando hai messo un piede sulla staffa, ti ho fermato.
“Oggi…non…non è necessaria la tua presenza, Andrè. Non serve che mi accompagni.”
I tuoi occhi si sono posati interrogativi nei miei, fissandoli con una
tale intensità da costringermi a distogliere lo sguardo.
So che avresti voluto ribattere. Avresti voluto farmi notare che quello è il tuo lavoro. Ma non hai detto niente.
Non ti serve domandare per sapere il motivo per cui ti sto allontanando.
“Come vuoi, Oscar.” Hai aggiunto semplicemente,
togliendo il piede dalla staffa, mentre Nanny ci osservava sospettosa,
temendo, forse, l’ennesima lite.
Salgo le scale che portano alla mia camera, silenziosa. Non ti ho ancora incrociato, da quando sono rientrata. Ma ti ho pensato.
Non ho fatto altro.
Supero la mia stanza e mi dirigo verso il corridoio che porta alla mansarda.
Se voglio dimenticare, Andrè, quello che siamo diventati in un
solo pomeriggio, cosa c’è di meglio che ricordare chi
siamo sempre stati?
Ieri non esiste più. Esistono però i lunghi anni che
abbiamo passato insieme in questa casa, e io voglio ritrovarli.
Un forte odore di chiuso raggiunge le mie narici mentre, scostando le
ragnatele che pendono dalle travi del soffitto, mi faccio strada nella
penombra del sottotetto.
La luce del pomeriggio si dipana debolmente dal piccolo abbaino
formando una colonna di pulviscolo dorato che colpisce direttamente il
pavimento di legno leggermente imbarcato. Attorno a me, mobili coperti
da drappi bianchi si tendono come una fila di fantasmi dalle buffe
forme.
Non ho più l’età per farmi impressionare da certe cose.
Quello che cerco è ricoperto da un sottile velo di polvere. Mi
inginocchio e la soffio via, lasciando che minuscoli frammenti di tempo
che scorre in forma solida si spargano attorno a me come una nuvola.
Ricordi. Ricordi di noi, Andrè.
Apro il coperchio del baule, e mi immergo nel nostro passato.
Giocattoli, libri, gli specchietti con cui comunicavamo dalle finestre del palazzo, un vecchio pallottoliere per far di conto.
Lo sollevo tra le mani, avvertendo il lieve movimento delle biglie che rotolano sui supporti.
Ed è proprio in questo momento che sento, alle mie spalle, un rumore di passi che fa cigolare il pavimento.
Mi volto di scatto.
Sei davanti a me e i tuoi occhi mi osservano incerti.
Sembri a disagio.
“Scusami, non volevo spaventarti. Ti ho vista
salire…” Mormori, quasi a voler giustificare la tua
presenza. Il tuo sguardo, forse intimorito dal mio, si abbassa sul
pallottoliere che stringo tra le dita.
Fai un cenno con la testa.
“Me lo ricordo, quello.” Ti avvicini a me, piegandoti sui
talloni. “Era mio.” Sussurri allungando una mano a sfiorare
il legno consumato. Le biglie scivolano senza far rumore sui loro
supporti quando lo stringi tra le dita, attirandolo a te.
Mi irrigidisco.
“Ricordi male, Andrè. Questo era mio.” Sussurro,
trattenendolo, senza riuscire a staccare gli occhi dal tuo volto che,
improvvisamente, mi appare perfetto.
Sei sempre stato tanto bello?
L’abaco di legno, messo a dura prova dall’usura del tempo,
inevitabilmente cede sotto alla pressione esercitata dalla stretta
delle nostre dita e una pioggia di biglie si riversa sul pavimento
tintinnando, mentre tu perdi l’equilibrio cadendo sulle ginocchia.
Il rollio delle sfere di legno in movimento attorno a noi arriva attutito alle mie orecchie.
I miei occhi nei tuoi.
Solo una biglia è rimasta in precario equilibrio sulla mia
metà di abaco, e, nel silenzio che improvvisamente ci circonda,
lentamente scivola giù rimbalzando due volte tra di noi prima
che tu, allungando una mano, non ne blocchi il movimento.
Ed è in questo momento che, contro ad ogni ragionevole buon
senso, posando una mano a terra mi sporgo verso te e catturo le tue
labbra tra le mie.
Nota dell’autore
Questo capitolo sfora di almeno un centinaio di parole la flashfic, facciamo finta di niente… XD
Grazie di cuore, come sempre, a chi
legge e trova il tempo e la gentilezza di lasciarmi la sua opinione^^
Sono felice di vedere che avete apprezzato l’evoluzione da
capitolo unico a storia con più capitoli, su vostro consiglio.
Qualunque altro suggerimento/critica/parere, come sapete, è sempre bene accetto^^
Baci
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Capitolo 4 *** Polvere e colombe ***
Cap 4
Strisciando le
ginocchia sulla polvere del pavimento, mi avvicino a te, che mi stringi
tra le braccia senza staccare le labbra dalle mie.
Non c’è spazio per le parole. Le spiegazioni che entrambi
cercavamo dovranno aspettare.
Le tue mani si spostano
alla mia uniforme cremisi, con lentezza, ed è con una
delicatezza sconosciuta che ne sciolgono le asole, lasciando che mi
cada dalle spalle, mentre io, seguendo i tuoi movimenti faccio lo
stesso con la tua giacca e con i bottoni del farsetto che indossi.
L’aria intorno a
noi è satura dei nostri respiri e degli strani schiocchi
prodotti dalle nostre labbra che si incontrano, tra i movimenti
impacciati per spogliarci delle vesti.
Le mie dita si insinuano
sotto alla tua camicia, percorrendo timorose ma inarrestabili la tua
pelle liscia e morbida, mentre la tua bocca esplora la mia,
succhiandomi le labbra.
Mi attiri a te,
sfilandomi la camicia dai pantaloni e me la sollevi fino a scoprire le
fasce che mi stringono il seno, sciogliendole con dolcezza, facendomele
passare dietro la schiena senza smettere di baciarmi. Quando anche
quelle cadono a terra le tue mani si posano con tenerezza sui miei
seni, seguite subito dopo dalle tue labbra. Ti cingo il capo tra le
braccia, snodando il nastro che ti lega i capelli, lasciando che si
spargano morbidi sulle tue spalle.
Ti sollevi, staccandoti
da me e mi osservi alcuni secondi, i tuoi occhi resi ancor più
verdi dalle onde nere che ti incorniciano il viso. Lentamente, mi
spingi indietro, facendomi sdraiare a terra, avendo però
l’accortezza di posarmi una mano dietro alla nuca accompagnando
il mio movimento.
Il pavimento cigola sotto
al mio corpo, e avverto il legno ruvido contro la pelle nuda e indifesa
delle mie spalle. Il cuore sembra impazzito.
Ti spogli della camicia,
che va ad accompagnare giacca e farsetto, e ti stendi su di me,
lasciando che il mio seno umido della tua saliva aderisca al tuo torace
nudo. La tua mano scende tra le mie cosce, là dove quel piccolo
dolore ancora non mi abbandona da ieri, e mi accarezzi attraverso la
stoffa tesa dei pantaloni, schiudendo le tue labbra bagnate sulle mie,
per lunghi minuti, fino a quando non ti sollevi, ritraendoti, per
sfilarmi gli stivali e i pantaloni, che sento scivolare lungo le mie
cosce con una punta di panico.
I tuoi, li hai abbassati
appena quando ti stendi nuovamente su di me, lasciando scivolare le
dita dietro le mie caviglie, lungo le calze di seta che non ti sei
preoccupato di sfilarmi, fin sotto alle ginocchia, sollevandole e
divaricandole con gentilezza.
Sussulto quando la tua
fronte raggiunge la mia. C’è ancora dolore, non come ieri,
ma sufficiente a ricordarmi che sei qua, che sei tu, che sta accadendo
di nuovo, inevitabilmente.
Chiudo gli occhi. Sollevo
un ginocchio, appoggiando il tallone sulla tua schiena, aggrappandomi
con entrambe le mani alle tue scapole.
Ti spingi in me, e perdi
la delicatezza che hai avuto sin’ora. Sento il legno duro
premermi contro le reni ad ogni spinta. I nostri respiri diventano
corti, singhiozzanti. Il mio si tramuta in una serie di singulti
strozzati che copri con le tue labbra, per evitare che si spandano per
la casa.
Un piacere
sconosciuto, improvvisamente, si irradia dal mio basso ventre in ogni
singola porzione del mio essere, ed è allora che ti sento uscire
dal mio corpo, e abbandonarti su di me con un gemito soffocato.
Un’accortezza da
parte tua che accende improvvisamente la mia comprensione sulla tua
consapevolezza di quanto sia rischioso questo gioco.
Di nuovo complici, di nuovo colpevoli.
Il tuo respiro caldo si
condensa sotto al mio orecchio. Le mie gambe si adagiano attorno ai
tuoi fianchi, ormai rilassate, prive di quella forza con cui si sono
strette al tuo corpo. I nastri delle calze* si sono sciolti, lasciando
che queste mi scivolassero sui polpacci, arrotolandosi intorno alle
caviglie.
Il caldo sole del
pomeriggio ha lasciato spazio ad una striscia purpurea
all’orizzonte , appena visibile dall’abbaino socchiuso, e
sento la voce di Nanny, all’esterno, impartire ordini sulla cena
alla cuoca che prende l’acqua al pozzo.
Sopra di noi, il discreto
tubare di due colombe sulle travi del sottotetto attira la mia
attenzione, e scostando leggermente il viso dai tuoi capelli osservo il
loro candido piumaggio e le figure sinuose.
Mi chiedo cosa vedano da lassù.
Un solo corpo con quattro
braccia e quattro gambe, riverso tra la polvere e i frammenti di una
vita trascorsa insieme, in bilico tra un passato ormai lontano e un
incerto futuro.
Il presente, ormai irrimediabilmente compromesso.
*Può sembrare un
vezzo tipicamente femminile, ma in quel periodo anche gli uomini erano
soliti usare dei nastri per stringere le calze, evitando così
che scivolassero lungo il polpaccio.
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Capitolo 5 *** Chiarimenti ***
4
Muovo la forchetta nel pasticcio di rognone, separando la carne dalla sfoglia sottile che l’avvolge.
Le fiammelle del candelabro davanti al mio piatto vibrano impercettibilmente al mio sospiro.
Mio padre, dall’altro lato della lunga tavolata, solleva il viso dal piatto.
“C’è qualcosa che ti preoccupa, Oscar?”
Mi concentro sul calice di vino, pieno a metà, che ho davanti.
“No, va tutto bene. Per quale motivo lo domandate?” Mormoro con un fil di voce.
“Non so, mi sembri…strana.”
Sobbalzo e per poco non lascio cadere la forchetta nel piatto.
“Sei molto pallida. Non ti senti bene?”
“N-no…Sto bene. Penso sia solo un po’ di stanchezza…”
“Mmmmh.” Mio padre annuisce, abbassando lo sguardo.
‘Cose da donne’ dice il suo atteggiamento improvvisamente distaccato.
Non sarò mai l’erede che ha sempre desiderato.
Se solo sapesse…
Risoluta porto lo sguardo nel mio piatto, tagliando una porzione di pasticcio che porto alle labbra con eccessiva foga.
Ma è tutto inutile. Non ho appetito.
Riabbasso la forchetta e, proprio in questo momento ti vedo entrare. Con te hai la bottiglia del vino.
“Generale?”
Mio padre si sposta quel tanto che ti basta per rabboccargli il calice. Giri intorno al tavolo e ti avvicini a me.
Sento che sto per rimettere quello che ho faticosamente ingoiato fino ad adesso.
Non voglio essere servita da te.
“Oscar?”
Odori ancora di polvere. O sono io che lo sto immaginando?
La polvere ha un odore?
“No, grazie.” Sussurro senza sollevare lo sguardo.
Forse hai ragione, Andrè. Dovremmo parlare di quello che è successo.
La luna è già alta nel cielo quando trovo il coraggio di bussare alla tua porta.
“Entra.” Ribatte la tua voce, quasi mi stessi aspettando.
Forse mi stavi aspettando.
La tua stanza è buia, rischiarata solo dall’argento della
luna. Chiudo la porta alle mie spalle e mi ci appoggio contro.
Sei sdraiato a letto, senza scarpe e senza calze, la camicia aperta sul
tuo petto. Lentamente, fai volteggiare qualcosa che riafferri con la
mano. Vai avanti alcuni secondi prima di bloccarti e sollevarti
mettendoti seduto.
Ci osserviamo in silenzio, e anche tra l’oscurità riesco a
scorgere le ciocche scomposte che ti sono sfuggite dal nastro.
“Vuoi sederti?”
La tua voce è leggermente roca.
“No, grazie. Preferisco restare in piedi.”
“Come vuoi.”
Ti passi da una mano a quell’altra l’oggetto che poco prima ti divertivi a riacchiappare.
“Andrè…Sono venuta per dirti…”
“Che è stato uno sbaglio.” Mi anticipi.
“Si…”
“E non dovrà più succedere.”
Ti osservo. Non sono sicura di comprendere l’inflessione del tuo tono.
Sorridi e scuoti la testa, mentre mi acciglio.
“Credi che sia un gioco, Andrè? Io…Non voglio
più parlarne. Possiamo far finta che non sia successo?”
Torni serio e mi osservi. Lentamente ti sollevi, avvicinandoti a me.
“Oh, si, possiamo. Possiamo far finta che non ci sia stato
niente. Possiamo ignorarci quanto ti pare, Oscar.” Ti blocchi,
vicino a me, troppo vicino.
“Sapevo che saresti venuta a dirmi qualcosa del genere.” Le
tue labbra respirano sulle mie. “E io, dal canto mio, non voglio
fare nulla che tu non voglia.”
Indietreggio, le spalle contro alla porta, e tu scuoti nuovamente la testa.
“Va bene. Facciamo finta di niente. Ma non torneremo quelli che
eravamo. E questo, credo che tu l’abbia capito…” Le
tue mani coprono le mie, e sento che hai lasciato scivolare qualcosa
tra le mie dita.
Ti scosti da me quel tanto che basta per abbassare la maniglia della porta, che si apre alle mie spalle con un sinistro cigolio.
“Buonanotte, Oscar.”
Mi ritrovo fuori dalla tua stanza prima che possa avere il tempo di ribattere alcun che.
Apro il palmo della mano e sento le lacrime bruciarmi gli occhi mentre osservo una delle biglie di legno del nostro abaco.
Avverto un improvviso senso di perdita. Di vuoto.
Ho paura, Andrè.
Nota dell’autore
Capitolo così così…Non ne sono convintissima. Prendetelo come un capitolo di transizione^^
Il mio Andrè è confuso,
non quanto Oscar, ma quasi. Sa di amarla, ma ancora non sa quanto. Non
è ancora un uomo trincerato nel silenzio e nella solitudine di
un amore non corrisposto...
Grazie, come sempre, a chi legge e
trova il tempo di commentare^^ Le vostre impressioni sul capitolo
precedente sono state davvero molto apprezzate…
Penso che scriverò qualcosa dal punto di vista di Andrè, ma più avanti^^
Qualunque parere positivo o negativo vorrete lasciarmi su questo nuovo capitolo, come sapete, è sempre bene accetto!
Baci!
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Capitolo 6 *** Temporale ***
6
Versailles, mai come adesso mi è parso tanto faticoso percorrere i suoi corridoi.
Attraverso il salone della guerra e mi affaccio alla galleria degli specchi.
Respiro.
Alle mie orecchie
giungono musica e risate, davanti al mio sguardo è tutto un
tripudio di abiti sgargianti ed elaborate acconciature incipriate,
immerse nell’oro degli stucchi e nello scintillio dei lampadari
di cristallo, che si riflettono negli oltre trecento specchi che ornano
le arcate dirimpetto alle finestre.
Ogni persona è duplicata, in questa stanza.
Lo sono anch’io.
Due Oscar. Una che,
temendo gli sguardi, vorrebbe indietreggiare, mentre l’altra a
breve si calerà sul volto la consueta aria indifferente e
inizierà ad avanzare tra la folla, senza indugi.
Questa è la vita, mi ripeto.
Procedere a testa alta anche se si vorrebbe fuggire. Anche quando fa paura. Anche quando fa male.
‘Nessuno può sentire ciò che sento. Nessuno può toccarmi.’
Allungo un passo e sono
tra la folla, immersa in questa corrente di promiscuità,
falsità e intrighi che contraddistingue la corte di Francia.
Sono stata a letto con il mio attendente. Cosa mi distingue da una qualunque di queste donne?
Scruto i loro sguardi
bistrati, le labbra vermiglie e il belletto di cui sono ricoperte,
mentre si sventagliano con i ventagli di fine capretto.
Non mi stupirei se ognuna di loro riscaldasse un letto lasciato freddo dal marito tra le braccia di un servitore.
Il mio pensiero,
inevitabilmente, torna a te. Al modo in cui mi hai baciato, al modo in
cui mi hai spogliato, al modo in cui ho sentito il tuo corpo muoversi
nel mio.
Si immaginerebbero,
queste dame, che l’impassibile capitano Oscar François de
Jarjayes non è poi così dissimile da loro?
Eppure, io so che quello
che c’è stato non è stato per noia, non è
stato per gioco, non è stato l’atto di levarsi una voglia.
Non so cos’è stato.
Mi fermo davanti ad una
finestra, osservando l’immenso giardino che si dipana dinnanzi al
mio sguardo. L’odore di borotalco e gli elaborati profumi di cui
sono ricoperti i presenti mi sta dando la nausea. Vorrei spalancare le
vetrate e respirare a pieni polmoni l’aria intrisa di nuvole che
promettono pioggia che c’è all’esterno.
Vorrei vederti aspettarmi davanti ad una delle fontane con Cesar.
Ma non ci sei.
Sono ormai tre giorni che ti impedisco di seguirmi.
Mi manchi, Andrè.
Torno a casa sotto ad un
cielo carico di cupi presagi. Dense nuvole scure si sono ammassate su
Parigi, e suppongo non tarderanno ad arrivare anche qua.
Il primo, lugubre, tuono
lo avverto mentre mi sto sfilando l’uniforme, accompagnato,
alcuni secondi dopo, dal crescente ticchettare della pioggia sui vetri
della mia stanza.
Mi lascio cadere su una
poltrona, osservando distrattamente la pioggia che scroscia
all’esterno, ed è in questo momento che sento la tua voce,
oltre i vetri che mi separano dal mondo fuori.
Mi sollevo, avvicinandomi alla finestra.
Lunghe fila di candide
lenzuola sventolano sotto al vento sollevato dal temporale, mentre una
minuta cameriera tenta di staccarle e infilarle in una cesta prima che
si infradicino.
Ti avvicini a lei
correndo, mentre la tua giacca sventola nella brezza, e tra una risata
e l’altra la aiuti a staccare le lenzuola dai fili su cui sono
posate.
Lei è talmente bassa che deve mettersi in punta di piedi per raggiungere le pinze.
Vedo la tua mano coprire
la sua, e scostarla gentilmente, mentre senza difficoltà hai
già fatto tre quarti del lavoro. Lei solleva la cesta con
entrambe le mani e ti segue sorridente mentre arrotoli le ultime
lenzuola, i tuoi capelli ormai completamente fradici.
Poso una mano al vetro freddo, istintivamente.
Tornate correndo verso casa.
Ti volti per levarle la
cesta dalle mani, e noti che ha la gonna del vestito ormai inzaccherata
di fango, dopo aver calpestato numerose pozzanghere.
Il tuo sorriso è
il più gentile che io abbia mai visto quando, senza indugi la
sollevi tra le braccia, tra le sue scherzose proteste, e la porti
così fin sotto al portico, sparendo dalla mia vista.
Non so perché sto correndo giù dalle scale, imboccando l’uscita.
Ansimo appena quando vi raggiungo sotto al portico.
Lei ha posato a terra la
cesta e sta strizzando la cuffietta, i capelli scuri appiccicati alla
fronte, tu sei appoggiato al muro, e stai raccontando qualcosa di
divertente, lo capisco da come gesticoli.
Il tuo sorriso si smorza appena quando ti volti, vedendomi.
“Oscar…”
Ti ignoro.
“Marie, vorrei che mi procurassi l’acqua per un bagno.”
La ragazza solleva il volto sorpresa.
“Hem…Juliette, madamoiselle…” Sussurra, presa alla sprovvista.
Assottiglio lo sguardo.
“Credi che abbia
qualche importanza? Sto uscendo a cavallo. Quando torno voglio trovare
l’acqua già pronta.”
Nessuno discute i miei ordini. Mai. Sono abituata così.
Mi allontano dal portico,
incamminandomi verso le scuderie sotto alla pioggia, indifferente al
fatto che la camicia mi si sta appiccando addosso.
E presto particolare
attenzione a non evitare nemmeno una delle pozze disseminate sul viale,
pestandoci dentro lo stivale con forza.
Non ho alcun bisogno che qualcuno si prenda cura di me, io.
Nota dell’autore
Come sempre, un grazie infinito a chi ha letto e commentato il precedente capitolo^^
Spero
di trovare il tempo di rispondere alle vostre recensioni, che sono
sempre molto apprezzate e piene di spunti e ottime analisi…
Resto
sempre piacevolmente stupita di come riusciate a trovare, in ciò
che scrivo, significati che magari non avevo proprio considerato.
E’ una bellissima soddisfazione, per me avere il vostro
riscontro, non mi stancherò mai di ripeterlo.
Spero
che anche questo capitolo non deluda, nonostante sia principalmente
introspettivo (e un po' più lungo di una flashfic standard^^)
Baci
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Capitolo 7 *** Dove conduce la follia ***
7
Nota dell’autore
Una piccola premessa iniziale per informarvi che questo capitolo vedrà Andrè come voce narrante^^
Come vedete, le mie storie raffigurano ciò che sono: una persona totalmente confusionariaXD
Non so dirvi come saranno i prossimi capitoli, questa storia va un po’ dove gli pare…
Spero
che l’improvviso cambio di punto di vista non disturbi
nessuno…E che continuerete a seguirmi, in caso
contrario…posso capirvi!
Un doveroso ringraziamento, come sempre, a chi legge e commenta^^ Il vostro supporto è davvero impagabile.
Un odore insolito riempie la cucina, avvolta nei fumi del vapore e nell’oscurità del tardo pomeriggio.
Lancio un’occhiata alle ceste ricolme di gusci perlacei stipate sul lungo tavolo di legno.
Ostriche.
Hanno l’odore del mare, un odore che ti entra dentro, riempiendoti le narici, lasciandoti stordito, quasi ubriaco.
Hanno l’odore degli abissi.
La nonna scuote la testa,
verificando la temperatura dell’acqua che bolle nel calderone
sopra al fuoco. E’ per il bagno che, con assai poco garbo, hai
chiesto prima di sparire sotto al diluvio in groppa a Cesar.
Avrei voluto seguirti. Fermarti. Parlarti.
Invece sono rimasto
appoggiato sotto al portico, guardandoti mentre ti allontanavi al
galoppo lungo il viale, i capelli gocciolanti, la camicia fradicia
attaccata alla tua schiena bianca.
Ti ho immaginato come Lady Godiva*, e mi sono eccitato delle mie stesse fantasie.
Cosa mi stai facendo, Oscar?
Eri una ragazzina secca e
dispotica, fino a poco tempo fa, sempre pronta a darmi noia. Eri
l’amica con cui passavo i pomeriggi a duellare e spettegolare
sugli spocchiosi che riempiono i corridoi di Versailles.
Adesso incendi i miei pensieri, rendi insonni le mie notti e insopportabili le mie giornate.
Mi hai amato, e mi hai chiesto di dimenticare.
Mi hai confinato a palazzo, e l’ho accettato.
Ma non posso accettare di rinunciare a te, anche se questo, sappiamo bene entrambi, va contro ogni regola sociale.
Levo i due pesanti secchi
ricolmi di acqua fumante dalle mani di Juliette, che, imbronciata, si
sta apprestando a salire le scale per adempiere agli ordini da te
impartiti.
Siamo solo servitori, dopotutto, puoi fare di noi ciò che vuoi, non è così?
“Ma,
Andrè…” Protesta la ragazza, aggrottando le
sopracciglia. Non è conveniente che ad occuparsi della padrona
sia un uomo, eppure, nello sguardo della piccola cameriera, leggo anche
una punta di sollievo.
Non devi starle particolarmente simpatica, e come darle torto?
Dispotica, lo sei rimasta.
Anche se i tuoi seni sono più gonfi, e la linea dei tuoi fianchi più sinuosa.
E le tue labbra…
Non saresti felice di sapere quali pensieri suscitano in me le tue labbra.
Quando arrivo alla tua
stanza non mi do la pena di bussare. Suppongo non ci sia più
nulla che io non abbia visto, a questo punto.
Sei sdraiata a letto, rannicchiata, e mi dai le spalle, una gamba piegata e l’altra allungata.
Sul pavimento vedo sparsi i tuoi indumenti fradici e macchiati di fango.
Indossi solo una camicia pulita e le calze, che hanno invece i talloni neri. Devi averci camminato scalza.
Ti volti appena, hai
l’aria mesta. Ma quando i tuoi occhi incrociano i miei la tua
espressione muta. Istintivamente ti sollevi, tirandoti la camicia sulle
gambe, prima di realizzare l’assurdità del gesto, e
lasciar perdere.
Poso i secchi sul pavimento.
“Vattene.” Il tuo tono, secco, non ammette repliche.
Ora seduta, fissi davanti a te, evitando il mio sguardo.
Sento la rabbia montare in me.
Per te, per me, per la confusione che sento dentro, perché ogni volta che mi respingi mi sembra di impazzire.
Vorrei farti cose che non
oserei confessare nemmeno sotto tortura. Pensieri di cui ogni uomo per
bene dovrebbe vergognarsi, che popolano le mie folli notti da quando le
mie mani hanno avuto il tuo corpo.
La sottile striscia di pelle che riesco a scorgere tra le tue calze e la camicia non aiuta.
“Ti ho portato l’acqua.”
“Bene. Allora dammi la mia acqua e vattene!”
Rifiuti anche solo di guardarmi.
“Perfetto. Eccoti l’acqua.”
Sollevo un secchio tra le
mani, e non rifletto nemmeno un istante quando, con slancio, lascio che
il suo intero contenuto attraversi la stanza, colpendoti.
Se fossimo stati ancora bambini, ne avremmo riso.
Ma ora, tutto è diverso.
Spalanchi la bocca, voltandoti con occhi sgranati verso di me, fradicia.
Il tuo letto completamente inzuppato d’acqua.
“Sei…Sei impazzito?!”
Butti le gambe giù dal letto, e ti sollevi spalancando le braccia, osservandoti per realizzare la portata del mio gesto.
Riesco a scorgere i tuoi
capezzoli attraverso la stoffa umida della camicia. Sei così
diversa dalle donne con cui sono stato fino ad ora, Oscar.
Alta e flessuosa, fragile
come un uccellino. Non hai le curve morbide in cui ogni uomo ama
perdersi, non hai stabilità, non offri sicurezza.
Sei bianca, quasi trasparente, leggera come aria, e altrettanto inafferrabile.
Ma senza aria non si vive.
Innalzo tra le mani anche l’altro secchio, e mi avvicino a te, preda di una strana rabbia mista a dolorosa eccitazione.
Il tuo sguardo si
solleva, indignato, incrociando il mio, ma non dici una parola quando,
senza ritegno, ti verso addosso la restante acqua tiepida, lasciando
che goccioli fino all’ultimo, prima di abbandonare il secchio a
terra.
Mi fissi, immobile. I tuoi capelli resi scuri e pesanti dall’acqua di cui sono intrisi.
Sollevo le mani, posandole sulle tue guancie.
Le mie labbra ad un soffio dalle tue.
“Posso fare qualcos’altro per te, Oscar?”
*Lady Godiva, nobildonna
medievale. Secondo le leggende cavalcò nuda, vestita solo dei
lunghi capelli, per le vie di Coventry, protestando così contro
le pesanti tasse imposte dal marito ai suoi sudditi.
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Capitolo 8 *** Confessione ***
cap 8
Lentamente, le tue
mani salgono ai miei polsi, fermandosi ai bordi della giacca.
Le tue iridi chiare non guardano più nei miei occhi, ma sono
abbassate.
Osservi le mie labbra.
Vorrei colmare il residuo spazio che ancora ci divide e saziarmi della
tua bocca, ma qualcosa, nella crescente pressione con cui mi stringi i
polsi, mi intima di non farlo.
Le tue mani tremano, così come il tuo mento. Le tue gote si
arrossano e vedo una lacrima impigliarsi tra le tue ciglia. Sbatti le
palpebre.
“Vai via.”
Sussurri con rabbiosa lentezza, cercando di abbassare le mani con cui
ancora ti stringo le gote in fiamme.
Stai cercando di reprimerti, lo avverto dalla difficoltà con cui
compi ogni gesto, lo leggo nella tempesta che si agita dietro allo
sguardo velato di colleriche lacrime che mi rivolgi.
“Vai via. Ti prego.”
Ed è questa parola, tanto insolita pronunciata dalle tue labbra,
a farmi capire quanto ti ho sconvolta con il mio folle gesto.
Allento la pressione che ho su di te, le tue mani ancora aggrappate ai
miei polsi.
Il tuo respiro si fa denso, affannato.
“Tu mi vuoi, Oscar.”
“Vattene Andrè. Vattene o grido.”
Le tue mani allontanano con decisione le mie dita dal tuo volto. Le
rialzo, indifferente al tuo volere e ti afferro dietro alla nuca,
posando la fronte sulla tua.
“Grida, allora. Grida! Ma rispondimi.”
Ti sento tremare dalla collera. Due lacrime furibonde rotolano lungo le
tue gote.
Posi le mani sul mio petto e provi a spingermi via, inutilmente.
Vorrei stringere il tuo esile corpo, seminudo e inzuppato
d’acqua, contro al mio. Riscaldarti. Proteggerti.
Vorrei sopire la tua rabbia e le tue insicurezze con le mie labbra. Ma
posso solo aspettare una risposta da parte tua.
“Non voglio parlarne…”
“Sono giorni che vai ripetendo queste parole, ogni volta che mi
incroci!”
Chiudo gli occhi e affondo le mie mani tra i tuoi capelli umidi,
avvertendo il tuo respiro sulle mie labbra.
“Io ho fatto l’amore con te. Io…per me non è
stato sesso.”
Confesso sussurrandolo, sorpreso io per primo delle mie stesse parole,
mentre mi sembra quasi di vedere i tuoi occhi azzurri appannati dal
pianto sgranarsi dinnanzi alla verità.
Ti irrigidisci.
Le tue parole arrivano dopo alcuni secondi di silenzio, in cui solo i
nostri respiri hanno riempito l’aria.
“Credi che questo sia sufficiente, Andrè? Tu non
sai…Tu non capisci…Le conseguenze…Io non
posso…Non posso permettermelo.”
Ti scosti da me, e io ti lascio andare.
Ti vedo arretrare, osservandomi smarrita, le tue calze impregnate
dell’acqua che ricopre il pavimento.
La camicia zuppa ti si è incollata addosso, lasciandomi scorgere
le forme acerbe dei tuoi seni.
Spinto dall’irrazionalità di una parte di me assai lontana
dal cervello, avanzo nell’acqua, e lascio che nuovamente il mio
corpo aderisca al tuo.
Ti stringo a me, una mano tra le tue scapole e l’altra che ti
solleva appena l’orlo della camicia.
Le mie labbra cercano le tue, con foga, e le trovano dischiuse.
Ti aggrappi alle mie braccia, e scosti il viso dal mio.
“No…Andrè…”
E’ una debole protesta, la tua. Ma ho giurato di non fare nulla
che tu non voglia.
“Va bene.” La mia mano risale lungo il tuo corpo, fino a
posarsi sulla tua guancia. “Va bene, Oscar. Ma non escludermi
dalla tua vita. Non lo merito.”
Mi ritraggo da te, piegandomi per sollevare i secchi.
Sto tremando, me ne rendo conto dal modo in cui la mia mano fa fatica a
stringersi al manico. Mi è bastato toccarti, seppur per pochi
istanti, per sentirmi smarrito e perduto.
“Farò venire qualcuno a
ripulire…Dirò…Dirò che sono
inciampato.”
E’ una scusa patetica, lo dicono anche i tuoi occhi seri che mi
seguono mentre imbocco la porta.
“Andrè.”
Mi volto, mi guardi.
“Io…ti sento.”
Annuisco mentre abbassi lo sguardo, senza riuscire ad aggiungere altro,
e mi richiudo la porta alle spalle.
E’ più di quanto mi aspettassi di sentire.
Poso i secchi nel corridoio, portandomi una mano al volto.
Sulle mie dita c’è l’odore della tua carne, e io ne
resto preda.
E mi scordo qualunque cosa.
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Capitolo 9 *** Ore amare ***
9
Sospeso, da ieri sono come sospeso.
Non riesco a distogliere la mia attenzione da quanto potrei perdere,
insistendo con te, ma allo stesso modo non posso impedirmi di
desiderarti, come mai nella vita ho desiderato qualcosa.
Ti sto aspettando nel patio, le redini di Cesar tra le mani, rimanendo
in attesa, come ogni mattina da qualche giorno a questa parte, del tuo
verdetto: mi impedirai di seguirti, per sfuggirmi? O lascerai che,
cavalcando con te, porti con me tutto ciò che è successo
negli ultimi giorni?
Ti tormentano i pensieri, Oscar? Ti tormentano come tormentano me?
Sono nella tua anima come tu lo sei nella mia? E nel tuo sangue, e
nelle tue viscere…in ogni parte di te, come tu sei in me?
Scendi le scale del palazzo, impeccabile nell’uniforme. Ma quando ti avvicini, lo vedo bene, sei a pezzi.
I capelli ti pendono flosci ai lati del viso, eccessivamente pallido,
persino per una donna diafana come te, mentre profonde occhiaie blu
segnano i tuoi occhi, lucidi come se avessi appena pianto.
“Buongiorno Andrè.” Mormori, senza guardarmi. Fai
una carezza sul muso di Cesar. “Buongiorno Cesar.”
“Stai bene?” Non riesco ad impedirmi di chiederti.
“Si, grazie. Vogliamo andare?”
Il mio destino è deciso. Il verdetto è stato emesso.
Ti passo le redini di Cesar, e mi volto verso il mio cavallo, ed
è in questo istante che il piede ti scivola dalla staffa.
Mantieni l’equilibrio, ma vedo una smorfia di sofferenza
attraversarti lo sguardo.
“Oscar…Sei sicura di stare bene?”
“Ma si. Andiamo.”
Non mi dai modo di replicare, dando di tacco a Cesar, che parte al galoppo, e non mi resta che seguirti, come un ombra.
“Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si modifica!” *
Origlio la conversazione di alcuni gentiluomini nei giardini di
Versailles. Deve essere una qualche sorta di nuova teoria scientifica,
ma mi viene spontaneo associarla alla nostra situazione.
Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si modifica.
Quasi una profezia.
Ti osservo. Sei tra i tuoi uomini, tutti in fila come bravi soldatini.
Al tuo fianco, Monsieur capellone ti guarda come se non vi fosse nulla di più incantevole nell’arco di miglia.
Come dargli torto?
Ho vissuto con te da quando ricordo di vivere, ma è da poco che ho questa consapevolezza.
Sei sbocciata all’improvviso, davanti ai miei occhi
inconsapevoli. E adesso, ho come l’impressione che
rischierò la cecità, guardandoti troppo intensamente.
Girodelle ti sta parlando, ma tu annuisci distrattamente. Ti vedo
stringere con forza le briglie di Cesar. Il tuo sguardo è vacuo,
vuoto.
Il tuo pallore è eccessivo.
Mi sollevo dal bordo della fontana su cui siedo, aspettando che tu
finisca l’addestramento, e muovo qualche passo nella tua
direzione, spinto da uno strano sesto senso.
Sposti con lentezza una mano alla fronte, detergendoti dal sudore. Il sole batte a picco sulla spianata.
“Madamigella Oscar, vi sentite bene?”
Anche il conte, tra tutti quei capelli, pare essersi conto che qualcosa non va come dovrebbe.
Scuoti leggermente la testa, sbattendo le palpebre.
“Ma si, si…”
E poi succede, e non ho nemmeno il tempo di proferire verbo mentre ti
guardo accasciarti lentamente e cadere da cavallo senza un lamento.
“Oscar!!”
“Madamigella Oscar!”
Siamo entrambi su di te. Girodelle teme quasi di toccarti,
perciò sono io a sollevarti il capo, posandolo nell’incavo
del mio gomito, vittima della paura.
Hai perso i sensi, e la tua fronte scotta come fuoco.
La febbre ti sta divorando.
Il tuo volto cereo quasi si confonde tra le coltri di cuscini.
E’ la seconda volta nel giro di due anni che siedo al tuo capezzale, in preda all’angoscia.
E anche questa volta la colpa non è di altri, se non mia.
Perdonami, nei miei deliri mi sono scordato di mandare qualcuno a farti
portare lenzuola e coperte asciutte. Ho lasciato che tu passassi la
notte raggomitolata nell’umido gelo causato dal mio insensato
gesto.
Sono un pazzo.
“Cosa mi dite, dottore?”
Tuo padre è fuori di sé.
Aspetto, silenzioso, a pochi passi dal tuo letto. Hai ripreso
conoscenza, ma non sei lucida. Il tuo sguardo è offuscato,
lontano, vuoto.
“Consiglierei di sottoporre la paziente a salasso, per purificare
il sangue. Così la febbre dovrebbe scendere.”
Deglutisco, quando vedo gli attrezzi che il medico estrae dalla borsa.
Sono freddi, metallici e dai sinistri bagliori.
Immaginarli sul tuo esile corpo mi fa torcere qualcosa nello stomaco.
Ti danno un bastoncino da stringere nella mano, per aumentare la fuoriuscita ematica, ma sei troppo debole per farlo.
Il medico ti arrotola la manica della camicia sopra al gomito, prima di posizionare la lancetta e posarci sopra il martelletto.
Trattengo il respiro quando il colpo si abbatte, nitido e preciso,
lasciando che la punta acuminata si conficchi nella tua vena. Il sangue
inizia a colare dal tuo braccio, raccogliendosi nella coppetta, e mi
sembra di morire.
Vorrei che fosse il mio, di sangue. Ogni singola goccia.
Ne verserei a litri, se bastasse ad evitarti questa sofferenza, lo giuro.
Quando è tutto finito, ti levano dalle labbra inerti il
fazzoletto di mussola che ti hanno dato da mordere e il medico, dopo
averti accuratamente sciacquato la ferita, se ne va con il tuo sangue.
Hai perso nuovamente i sensi. Dicono che questo sia il segnale per
capire se il salasso stia sortendo effetto, ma a me è sembrata
solo una crudeltà che andava perpetuandosi.
Rimasto solo, mi avvicino a te.
Sembri talmente indifesa, Oscar. Così fragile.
Mi stendo al tuo fianco, facendoti passare un braccio intorno alla
vita, avvertendo la tua spina dorsale a contatto con il mio corpo.
Il tuo dolore, è anche il mio.
Sprofondo il volto nella massa scomposta dei tuoi capelli, e avverto le lacrime scorrermi sulle guance.
Non lasciarmi.
Io ti amo.
* Antoine-Laurent de Lavoisier, legge di conservazione della massa (c. 1778)
** Il salasso, ai tempi, era indubbiamente una pratica medica assai
abusata, e quasi del tutto inutile, se non, anzi, potenzialmente
dannosa. Si salassava per ogni cosa: malattie virali? Salasso! Febbre e
mal di testa? Salasso! Ti rompevi un ginocchio? Salasso! Davi segni di
squilibrio mentale? Salasso! (e poi, eventualmente, manicomio…),
e via discorrendo…Insomma, si salassava a tutto spiano!
Luigi XIV ci è quasi rimasto, per un salasso, e a sua madre non
è andata meglio. Il guaio era che si pensava che il paziente
dovesse essere lì lì per tirare le cuoia, prima di
fermarsi, per dare modo a tutto il sangue ‘infetto’ di
fuoriuscire dall’organismo, purificando il corpo
malato…Quando si parla di malasanità! La cosa più
bizzarra, comunque, era che gli ‘addetti ai lavori’, erano
più che altro…i barbieri! In Francia, la compagnia dei
barbieri-chirurghi rimase attiva fino alla caduta dell’Ancienne
Regime.
Si capisce che morivano come mosche…
Nota dell’autore
Un doveroso ringraziamento, come
sempre, a chi legge e trova il tempo e la gentilezza di lasciarmi il
suo parere, come sempre apprezzatissimo. Leggo sempre le vostre
impressioni con grande interesse, anche se, purtroppo, mi manca il
tempo per rispondere come dovrei.
Grazie^^
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Capitolo 10 *** Contatto ***
9
Sono trascorsi una notte ed un giorno.
La tua stanza emana odore di sangue e alcol. Un catino pieno
d’acqua con una spugna abbandonata dentro, una tazza di tisana e
un vassoio con un piatto di brodo sono posati sul basso tavolino che
hanno affiancato al tuo letto.
Ti sei svegliata a più riprese, in stato confusionale. La terza
volta hai cercato di toglierti la fasciatura che ti comprime
l’avambraccio, là dove la lancetta del boia ha intaccato
la tua carne. Ho dovuto tenerti fermi i polsi, mentre mi domandavo se
fossero sempre stati tanto esili.
Avrei potuto spezzarteli con un movimento della mano, e questo pensiero mi ha fatto rabbrividire.
Osservo la luna, nel blu della notte, attraverso i vetri della tua stanza. Il canto lontano di una civetta riempie la notte.
Dovrei ritirarmi, ma non voglio lasciarti.
La nonna e il generale sono già passati a farti l’ultima
visita, perciò non ho nulla da temere. La poltrona su cui ho
vegliato su di te nelle ultime ore ha ormai preso la mia forma.
Sono il tuo attendente, non è forse questo il mio compito?
Mi avvicino al tuo letto. Il tuo respiro è lento, regolare.
Siedo e mi allungo verso di te, posando una mano sulla tua fronte
calda, ma non più bollente.
So che tornerai da me.
Incrocio le braccia sul tuo materasso e ci poso il capo sopra, osservando il tuo profilo sprofondato nei cuscini.
Siamo così fragili, Oscar.
Siamo stati bambini felici, insieme. Se potessi, è a quei giorni spensierati che vorrei tornare.
Non potevo sapere, allora, che un giorno ti avrei amato come un uomo ama una donna.
Sono spaventato. Da te, da me, da noi…Da quello che
c’è, tra noi. Dal male che ti ho fatto, e che potrei
ancora farti.
E’ amore? E’ stato amore? O solo la follia di un momento?
Il sonno mi accoglie lentamente tra le sue braccia con la promessa di
sopire nel torpore queste domande, e mi ci abbandono pieno di
sconforto, cullato dal suono del tuo respiro.
E’ un pallido mattino grigio quello su cui apro gli occhi.
Sbatto stancamente le palpebre, avvertendo un lieve formicolio in tutto
il corpo per la scomoda posizione in cui mi sono fatto sorprendere dal
sonno, e levo il viso verso il tuo.
Mi stai osservando.
Il tuo viso è mortalmente pallido e le tue labbra aride e secche, prive di qualunque colore.
“Andrè…” Mormori.
“Oscar…come…come ti senti?”
Non rispondi.
Allunghi lentamente una mano verso me, ma le tue dita si bloccano sulla trapunta, ad un soffio dalle mie.
Stringi la mano a pungo, quasi volessi trattenerti.
“Perdonami…” Sussurro, senza riuscire ad evitare di sentire la colpa che mi stringe il cuore, per tutto.
Scuoti la testa, piano.
“Non è stata colpa tua.”
“Si invece, io…”
La tua mano, improvvisamente libera da incertezze, si solleva, distendendosi.
“Shhhh…” Sussurri posandomi la punta delle dita sulle labbra.
Trattengo il respiro quando i tuoi polpastrelli scivolano piano sulla
mia pelle in una dolce carezza fino a che non avverto il tuo palmo
aperto sulla mia guancia.
“Non parlare, Andrè.”
Copro la tua mano con la mia, chiudendo gli occhi e assaporando fino in fondo questo contatto.
Stai bene. Starai bene. Solo questo conta, adesso.
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Capitolo 11 *** Preludio notturno ***
11
“Ho vinto, di nuovo!”
C’è un certo compiacimento nel modo in cui dispongo le carte sul tavolo, davanti al tuo sguardo corrucciato.
Non sei mai stata brava a perdere.
Lasci cadere il tuo mazzo, che si sparpaglia disordinatamente sul tavolino, sospirando pesantemente.
Fuori, il lieve canto degli uccelli attira la tua attenzione, e vedo il tuo sguardo perdersi oltre i vetri bagnati di pioggia.
“Dovrei essere a Versailles…” mormori, scrutando il cielo ricoperto di nuvole grigie e gonfie di pioggia.
Raccolgo lentamente le carte dal tavolo, mescolandole.
“Stai scherzando? Il dottore ha detto che per almeno una
settimana non potrai mettere il naso fuori dalla tua stanza, e sono
passati solo tre giorni…Rassegnati Oscar. Vuoi fare un'altra
partita?”
I nostri rapporti sono di nuovo amichevoli, tranquilli. Non so se
avverti anche tu quel lieve filo di tensione pervaderti il corpo quando
ti sono vicino. Io lo sento, quando sono con te, ma fingo che non sia
così.
Per il quieto vivere, mi ripeto. Perché non voglio più farti del male.
Perché non posso rischiare di perderti, ora che sei parte di me più di quanto tu non sia mai stata.
“No, il Whist mi ha stufato, Andrè, come tutto in questa
stanza. Non sono nemmeno sicura che si possa giocare in meno di
quattro.”*
C’è una sottile sfumatura di irritazione nella tua voce,
dovuta alla convalescenza forzata che ti sta tenendo lontana
dall’azione che è parte integrante della tua vita, ormai.
Suppongo che giocare a carte con me, per ore, non sia altrettanto entusiasmante.
“Va bene. Una partita a scacchi, allora? O forse…”
Un lieve bussare alla tua porta interrompe la mia frase a metà. Il volto della nonna fa capolino dallo spiraglio.
“Ci sono visite per te, bambina…” Esclama. Sembra
eccitata mentre si scosta, spalancando l’uscio, e mi chiedo chi
possa essere per renderla tanto euforica.
Un enorme mazzo di rose rosa fa capolino nella tua stanza, spruzzate, qua e là, da delicati boccioli color pesca.
Ma è la leonina chioma di Girodelle quella che cattura la mia attenzione, che spunta, sfavillante, tra i fiori.
“Madamigella Oscar, sono lieto di vedere che vi siete ripresa e
che siete sulla strada della guarigione.” Mormora composto il
conte, facendo qualche passo nella stanza e porgendoti il fascio di
rose.
Sei stupefatta. Ma non puoi fare a meno di accogliere i fiori tra le tue braccia e sprofondarci il viso dentro.
Mi schiarisco la voce, sentendomi improvvisamente invadere dall’irritazione, e finisco di raccogliere le carte.
So che devo congedarmi.
Mentre passo al tuo fianco mi chiedo perché non ho pensato di portarti a mia volta dei fiori.
Sarebbero stati fuori luogo? Li avresti trovati ridicoli?
“Girodelle…” Mormori sorridendo, forse presa in
contropiede dalla visita inaspettata del conte, forse lieta del
diversivo. “Portate dei fiori al vostro capitano? Non starete
cercando di ammorbidirmi, in qualche modo?” Il tuo tono è
divertito.
Sono quasi sulla soglia quando le parole del conte raggiungono le mie orecchie.
“I fiori non sono per il capitano, madamigella. Sono per voi.”
Mi chiudo la porta della tua stanza alle spalle.
Io non ti avrei portato rose rosa.
Mastico bile fino a quando non sento cigolare le ruote della carrozza del conte Girodelle che lascia il palazzo.
So che non hai interesse per quell’uomo, eppure lui ha il diritto
di corteggiarti e, se mai fosse possibile, di sposarti. Sbatto la
pezzuola con cui sto ripulendo le lame delle spade a terra e i cavalli
si agitano nei loro box.
Il ricordo del tuo corpo di donna che accoglie il mio è talmente
vivido nel mio intelletto che mi sembra di non avere altro nella mente.
E per la prima volta mi rendo conto che, giorno dopo giorno, vivo per te, solo per te.
Ma sono un uomo senza titolo, senza prospettive. Senza diritti.
Il buio della notte ha oscurato le finestre. Immobile, davanti alla
porta della tua stanza, ascolto i lievi tocchi delle tue dita sui tasti
del pianoforte.
Non stai suonando. Sfiori i tasti, forse a caso, forse sovrappensiero.
Sei inquieta.
Abbasso la maniglia, scorgendo il bagliore dei candelieri che, come due
strane e contorte braccia, escono dal pianoforte, illuminando
debolmente la tua figura.
La camicia da notte e la vestaglia che indossi sopra ti coprono appena
le caviglie, sui piedi nudi. Seduta allo sgabello, tieni le gambe
incrociate di lato, come se volessi sollevarti da un momento
all’altro. Non ti volti quando entro, richiudendomi la porta alle
spalle, ma continui a guardare verso i tasti, toccandoli appena, con la
punta delle dita.
I fiori del conte fanno bella mostra di sé in un vaso al centro del tavolo.
“Suonami qualcosa…” Chiedo. Ma la mia voce è roca, bassa, non c’è divertimento in essa.
Scuoti piano la testa, evitando il mio sguardo.
“No, stasera non mi va.”
C’è un atmosfera rarefatta nella stanza, come se qualcosa fosse cambiato.
Forse qualcosa è cambiato. Devono essere i fiori.
Abbiamo giocato a Whist per tre giorni. E abbiamo chiacchierato, e
abbiamo riso, e mentre tu dormivi io leggevo sulla poltrona davanti al
tuo letto.
Ma quello che c’è stato, Oscar, continua a bruciare sotto
questa pelle come un fuoco impossibile da estinguere. Fingere non serve
a niente.
Batti due volte su una nota, e un suono cupo invade la stanza.
Mi avvicino a te. Sono alle tue spalle e ti scosto i capelli dal collo bianco e perfetto.
Ti irrigidisci, ti volti, e i tuoi occhi mi osservano, spalancati e
immobili. Ruoto piano lo sgabello su cui siedi, fino a quando non mi
sei di fronte, e mi piego verso te, accovacciandomi sui talloni,
posando le mie mani sulle tue cosce.
“Quella sera, hai detto di sentirmi. Dimmi cosa senti…”
Ti spingi indietro, posando un gomito sulla tastiera, e un basso miscuglio di note invade la stanza, riecheggiando profondo.
La fiammella delle candele vibra impercettibilmente. Una goccia di cera scivola lungo il moccolo.
Le mie mani risalgono lungo le tue gambe, portandosi la stoffa della tua veste da camera nel loro percorso.
Poso il capo sul tuo grembo, inginocchiandomi tra le tue gambe. Le mie braccia ti cingono la vita.
Non posso fare a meno di immaginarmi come un naufrago stretto ad un faraglione.
Solo tu puoi salvarmi.
*Oscar ha ragione: il Whist, classico gioco di carte molto in voga nel
XVIII secolo, si giocava solitamente a coppie, perciò almeno
quattro persone^^ Pare che la Du Barry fosse un vero asso nel
Whist!
Nota dell'autore
Grazie, grazie, grazie per tutte le belle parole che state lasciando a questo piccolo racconto^^
Nel week end proverò a
rispondere a tutti...Scusatemi, ma undici ore di lavoro al giorno non
aiutano. Sono un po' stressata ultimamente, e la scrittura è
l'unica valvola di sfogo...
Vi abbraccio
|
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Capitolo 12 *** Rose bianche ***
12
*Piccola premessa: si
ritorna al punto di vista di Oscar, mi starete odiando per il mal di
mare che questa storia vi procura, me lo sentoXD
Tutto, Andrè. Sento tutto di te.
La pressione delle tue dita sul mio corpo, il battito del tuo cuore, il calore del tuo respiro, la forza del tuo desiderio.
Sento la disperazione della privazione che il mio allontanarti, in questi giorni, ha fatto crescere in te.
Sento il vuoto che si è creato attorno, in un mondo in cui, improvvisamente, sembri esistere solo tu.
Perché ho più bisogno di te più di quanto sia disposta ad ammettere, ora lo so.
Le mie dita ti cercano, ti vogliono, sfiorano i tuoi capelli sopra le
tempie, si stringono ad essi, scivolano lungo le tue guance e ti
sollevano il viso.
Guardami, Andrè, sei sicuro che è me che vuoi?
L’amica di una vita. La donna cresciuta come un uomo. La tua padrona, agli occhi del mondo.
Quanto difficile e pericoloso sarà questo cammino? Sei disposto a correre il rischio?
Nell’oscurità della notte, alla tenue luce delle candele,
i tuoi occhi sono velati d’ombra. Le tue mani risalgono lungo la
mia schiena, il tuo petto aderisce al mio ventre, le mie gambe ti
cingono il busto. Attiro il tuo viso verso il mio, lentamente, il tuo
mento poggia sul mio sterno, e respiro sulle tue labbra.
Qualunque cosa sia, questa forza sconosciuta che si è insinuata
in noi, lasciando che ci desiderassimo come un fratello e una sorella,
come un amico e un amica, come una padrona e il suo servitore non
dovrebbero mai desiderarsi, non ci lascia scampo.
Scappare è inutile. Fingere impossibile.
“Ho paura, Andrè.” Sussurro sulla tua bocca,
perché è giusto che tu lo sappia. Perché non
riesco ad allontanare da me questo sentimento prepotente che si
è fatto strada nel mio animo da quando, in un pomeriggio di
sole, abbiamo oltrepassato un limite che avrebbe dovuto rimanere
inviolato.
“Ho paura anch’io, Oscar.”
“E’ sbagliato. E’ pericoloso…” Poso la
fronte sulla tua, chiudendo gli occhi. Sento il lieve soffio del
tuo alito sulle mie labbra. Sotto alla punta delle dita avverto il
lieve pizzicore della tua barba di un giorno.
La tua risposta tarda ad arrivare e mi rendo conto che sto cercando una
sicurezza che non puoi darmi. Siamo entrambi sospesi sull’abisso.
Ma le tue parole, quando giungono, rischiarano per un istante il buio che ho davanti.
“E’ come quando rubavamo dalla teglia i biscotti appena sfornati, da bambini.”
Inaspettatamente, un lieve sorriso si dipinge sul mio volto.
Si, rischiavamo di bruciarci le dita, ogni volta. E rischiavamo di
essere acchiappati e sgridati. Ma se ci andava bene, passavamo il
pomeriggio nascosti a riempirci la pancia ridacchiando, complici.
Il sapore di quei biscotti, non potrò mai scordarlo.
Quando Nanny ce li metteva nel piatto per la merenda, qualche ora dopo, era inevitabilmente diverso.
Che si tratti di questo, Andrè? E’ il gusto del proibito? O era la tua presenza a dare ai biscotti quel sapore?
Se li avessi rubati da sola sarebbe stata la stessa cosa?
Io non credo. Eri tu.
Sei sempre stato tu a dare un senso alla mia vita, in fondo. A darle sapore.
Eppure, sento che il mio lato razionale non vuole cedere. Sento
chele conseguenze dei nostri gesti potrebbero portare amari
pentimenti.
“Qui non si tratta di ramanzine e mal di pancia…”
“Lo so.”
C’è una tale sicurezza nel tuo tono che mi spinge a
pensare che tu ci abbia ragionato a lungo, traendo le tue conclusioni.
Sei sempre stato maturo e coscienzioso Andrè, più di me.
“Io…Ho bisogno di tempo, Andrè.”
“Va bene.”
“Sta cambiando tutto. Io, te…quello che è successo…noi non…dovremmo…”
Ti scosti da me, delicatamente, e le mie mani sono costrette ad
allontanarsi dal calore del tuo volto, ricadendomi in grembo. Le copri
con le tue.
“Hai ragione, Oscar. Non dovremmo. E Per questo adesso è
meglio che io vada. Non voglio che tu sia confusa e spaventata, se
è del tempo che ti serve, saprò aspettare.”
Ti sollevi, piano. Vedo tutto il tuo corpo, che fino a pochi secondi
prima era rannicchiato tra le mie gambe, distendersi e allungarsi, e
una vago senso di abbandono si impadronisce immediatamente di me.
Fai qualche passo indietro, senza smettere di guardarmi, poi ti volti,
accostandoti al tavolo su cui Nanny ha disposto i fiori di Girodelle.
“Sono belli.” Sfiori un petalo con le dita, lentamente. “Ma non ti si addicono.”
Mi sollevo, silenziosa, e mi avvicino a te.
“Perché vesto come un uomo?”
Ti volti, sorpreso di trovarmi al tuo fianco. Le nostre mani quasi si
sfiorano. Sollevi la tua, posandola dolcemente sulla cintura della mia
vestaglia, e sento un brivido percorrermi interamente.
“Anche un uomo può apprezzare i fiori. Non si tratta di questo. E’ il colore…”
L’altra tua mano scivola silenziosa verso il nodo, sciogliendolo
senza sforzo. La veste da camera scivola alle mie spalle afflosciandosi
attorno alle mie caviglie.
C’è silenzio, intorno a noi, e una strana atmosfera, intrisa di attesa.
Avvicini il volto al mio. Le tue labbra quasi sfiorano le mie, ma poi risalgono.
Chiudo gli occhi mentre mi posi due baci delicati sulle palpebre, e uno sulla fronte.
“Io ti avrei portato rose bianche. Buonanotte, Oscar.”
Nota dell'autore
Il mazzo di fiori di Girodelle non
era scelto a caso: le rose rosa significano 'grazia ed eleganza', o
anche sincero affetto, mentre le rose color pesca 'amore
segreto'.
Le rose bianche, invece, indicano
'purezza e castità', e dubito che Andrè intenda quello
quando dice che le avrebbe portato rose di quel colore...Ma mi piaceva
l'idea di fargli esprimere la famosa frase che tutti, alla fine,
immaginano lui avrebbe detto se interpellato su un simile quesito ri
guardante Oscar e i fiori^^
Grazie, come sempre, a chi legge e commenta, e perdonatemi se non trovo mai il tempo di rispondervi come vorrei...
Vi abbraccio
|
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Capitolo 13 *** Ali di farfalla ***
13
“Sei molto elegante, Oscar.”
Il tuo sguardo si sofferma sulla mia alta uniforme avorio e argento,
prima di posarsi brevemente nei miei occhi. Mi apri lo sportello della
carrozza, con garbo e discrezione, senza aggiungere altro, e me lo
richiudi alle spalle.
Non viaggi con me, come hai sempre fatto, ma siedi a cassetta, come è giusto che un attendente faccia.
Non sono sicura che mi piaccia il tuo nuovo atteggiamento formale e distaccato.
Hai detto che mi avresti lasciato tempo, ma la tua distanza mi sta
privando soprattutto di un amico, ed è la cosa di cui avrei
più bisogno in questo momento.
La carrozza parte cigolando e sobbalzando, nel blu della notte, diretta
a Versailles e ai suoi splendori, che stasera, con la festa di inizio
estate fortemente voluta dalla Regina, saranno più sfarzosi del
solito.
Manco dai miei doveri da quasi due settimane, e una strana agitazione mi assale al pensiero di tornare nella calca della corte.
Un pensiero si affaccia nella mente e mi sorprendo a desiderare di far
voltare la carrozza e tornare a casa, nella quiete della mia stanza,
che in questi giorni è diventata il mio rifugio.
Non è da me.
Io ho bisogno del lavoro, dell’azione, della…libertà.
Osservo la campagna ammantata di oscurità che scorre attraverso il finestrino.
Libertà.
E’ buffo, ma credo di non essere mai stata realmente libera. Non
fino a quando tu mi hai dato la possibilità di scegliere.
La folla gremisce i giardini del palazzo, ansiosa di ammirare i giochi pirotecnici che tanto piacciono alla Regina.
C’è un atmosfera di attesa, satura di aspettativa quando
le spirali di fumo si avvolgono veloci nel cielo, esplodendo in una
miriade di scintille colorate.
I presenti esultano, applaudendo entusiasti, i volti nascosti dalle
sfavillanti maschere, le acconciature incipriate, le vesti
voluminose, che strusciano e si urtano le une con le altre.
Ed è in questa confusione che, improvvisamente, avverto la tua
mano stringere la mia. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che sei tu.
Siamo qua, immersi nella folla, eppure soli. Le tue dita intrecciate alle mie.
Nessuno bada a noi, nessuno riuscirebbe ad intuire
dall’espressione dei nostri volti che, assorti, ammirano lo
spettacolo di luci nel cielo, questo legame profondo che, contro ad
ogni razionalità, ci avvicina, consumandoci.
E’ pericoloso. E’ azzardato.
Ma non è un gioco, ora lo so.
E’ la vita, che reclama per sé qualcosa che da sempre le ho negato.
Doveri. La mia esistenza non è stata altro. L’ho bruciata
alle mie spalle, tesa come la corda di un arco pronto a tirare. Veloce
e precisa come una freccia scoccata per colpire il bersaglio.
Sono nata per questo, per raggiungere obbiettivi. Sono nata da
un’ossessione, da un sogno infranto e rattoppato alla meno peggio.
La mia anima è cucita con i fili splendenti dell’aspettativa e dell’orgoglio paterno.
Soluzioni alternative.
E tu, tu non sei il centro cui miravo Andrè.
Ma sei lo sbaglio più dolce che potessi fare.
Ti trascino con me, nella folla festante. Non badano a noi, li vedi,
sono troppo presi dai loro giochi, dai mille specchi in cui si
riflettono le loro vanità.
Maschere, null’altro. Non si sopravvive diversamente a Versailles.
Ne indosso una anche io, sovente. Ma non stasera.
Saliamo sulla carrozza dei de Jarjayes, e il lacchè parte senza fare domande.
Nessuno si accorgerà che me ne sono andata. Nessuno si farà delle domande.
Stasera voglio vivere.
L’abitacolo è buio, mentre avanziamo nella campagna
sobbalzando, riesco a stento a scorgere il tuo profilo, ma sento che mi
stai guardando. Mi leggi dentro, come hai sempre fatto, con quel sesto
senso che ti è proprio, che ti ha permesso, negli anni, di
restarmi accanto senza giudicarmi.
Siedi nel sedile dinnanzi al mio. Nessuno dei due parla.
Questo silenzio non è che un urlo represso con forza da
entrambi. Presto sfocerà, travolgendoci. Ma adesso,
è solo il lieve battito d’ali di una farfalla appena nata.
A stento percettibile, nell’immediato.
Scendiamo dalla carrozza, e avverto la tua mano che mi sfiora un polso.
“Non adesso. Verrò a cercarti.” Mormoro senza guardarti.
Sembra un complotto. Di certo è un segreto.
Quando apro la porta della tua stanza scorgo subito la tua sagoma che
si staglia davanti alla finestra, illuminata dalla luna. Le braccia
conserte, lo sguardo assorto nella contemplazione della notte.
Ti volti, piano, e mi osservi.
Restiamo sospesi alcuni istanti in questa atmosfera rarefatta, intrisa di parole non dette.
Poi mi porto le mani alla sciarpa argentata dell’alta uniforme, che porto legata in vita, e la sciolgo lentamente.
Non muovi un muscolo.
Sbottono l’uniforme, tutti gli alamari, e lascio che cada a terra. Successivamente mi sfilo gli stivali.
Mi osservi, immobile, le tue spalle bagnate dall’argento della
luce lunare. I battiti del cuore mi rimbombano sordi nelle
orecchie. Mi libero dei pantaloni, svestendomi lentamente,
una gamba alla volta. Mi piego, slacciando i nastri delle calze e le
arrotolo fino alle caviglie prima di levarle. Le piante dei miei piedi
nudi poggiano sul consunto pavimento della tua stanza e ancora i tuoi
occhi, seri e attenti, non mi abbandonano.
Quando mi sollevo nuovamente verso te i nostri sguardi si incontrano.
Incrocio le braccia davanti alla vita, la mano destra sul fianco
sinistro e viceversa, afferrando il lembi della camicia che mi sfiorano
le cosce, e me la sfilo dalla testa distendendo le braccia, che lascio
poi ricadere lungo il corpo insieme all’ultimo indumento che
indossavo.
Ciocche scomposte di capelli si posano sul mio seno nudo, indifeso, appena illuminato dalla luna.
Il tuo sguardo è quasi sofferente mentre ti avvicini, piano.
Le suole dei tuoi stivali scricchiolano sulle assi del pavimento, un passo dietro l’altro.
Ti voglio, Andrè. Più di quanto abbia mai desiderato qualcosa in vita mia.
Anche se è sbagliato.
Anche se è rischioso.
Anche se potrebbe annientarci.
Le tue mani si tendono e si posano sulla mia nuca, sulle mie
guance. Scendono sulle spalle, lungo le braccia, si posano sui miei
fianchi, risalgono lungo la mia schiena nuda, fino al collo.
La tua bocca cerca la mia, si ferma ad un soffio. Respiriamo l’uno sulle labbra dell’altra.
“Amami.”
Il mio è un sussurro, quasi una preghiera.
Non chiedo altro.
Non ho più difese.
Mi stringi a te, contro al tuo corpo ancora ricoperto dalle vesti.
Senza lussuria, senza impazienza, senza possessione.
E’ solo una farfalla che sbatte piano le ali, per iniziare a volare.
Per iniziare a vivere.
Nota dell’autore
Avrete certamente sentito parlare dell’Effetto farfalla^^
Cito da Wikipedia:
Effetto farfalla è una locuzione che racchiude in sé la
nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni
iniziali, presente nella teoria del caos.
L'idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali
producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un
sistema.
O,
per usare una citazione dal film 'The butterfly effect': 'Si dice
che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di
provocare un uragano dall’altra parte del mondo'.
Ecco…Mi sembrava semplicemente perfetto per questa storia^^
Ringrazio come sempre chi legge e ha il tempo e la pazienza di lasciarmi la sua opinione, sempre importante e apprezzatissima^^
Mi
rendo conto che questo potrebbe, in fondo, sembrare un buon finale...Ma
ho in mente ancora qualcosina per questa storia, spero che non mi
odierete!
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Capitolo 14 *** Intimità ***
cap 14
“Creonte: Tu, ehi tu, che inchiodi gli occhi a
terra: ammetti o neghi la responsabilità dei fatti?
Antigone: Io sono responsabile. Non
negherò, non voglio.”*
Il sole caldo di questo pomeriggio di metà luglio ha lasciato
spazio ad una lieve brezza, nel fuoco dorato dello scemare del giorno.
La schiena adagiata al tronco di un albero, accarezzo l’erba che
fruscia leggera intorno alla mia mano, osservando rapita le macchie di
luce e d’ombra che il gioco delle fronde, sopra di noi, disegnano
sulla mia pelle.
La tua voce risuona melodiosa perdendosi nell’aria profumata,
accompagnata dal canto degli uccelli. Intreccio una ciocca dei tuoi
capelli scuri intorno al’indice, e ascolto, socchiudendo
appena le palpebre intorpidite, consapevole del lieve peso del
tuo capo sul mio grembo.
Il rumore della carta che fruscia arriva distrattamente alle mie
orecchie dopo un attimo di silenzio, mentre sfogli il libro che tieni
tra le mani.
“Manca una pagina.” Affermi dunque, costringendomi a
riaprire gli occhi.
“E’ un libro vecchio…Chissà dove si
sarà persa.”
Indugi qualche istante, pigramente sdraiato tra l’erba, poi
abbassi il libro sul petto, lasciandolo aperto alla pagina che stavi
leggendo, e allunghi la mano verso la mela posata al tuo fianco,
prendendone un morso.
“E’ un peccato.” Mormori, muovendo il braccio verso
il mio volto e offrendo il frutto alle mie labbra.
“Conosciamo entrambi la storia.” Commento, masticando
lentamente. “Lei sosterrà le proprie ragioni fino alla
fine, contro tutto e tutti, e andrà incontro al suo tragico
destino…”
Il silenzio ci avvolge, riempito dal canto dei grilli.
Chino il capo, osservando il tuo volto rilassato. Le tue labbra
luccicano bagnate dal succo del frutto. Mi piego su di te e le
bacio dolcemente.
Quando mi sollevo respiro nella tua bocca.
“La ragione stava anche dalla parte di Creonte.” Mormori.
Sembri leggermente amareggiato.
“Avevano ragione entrambi. Ma su questioni differenti: lui
sosteneva le leggi scritte, lei quelle del cuore…”
“Impossibile stabilire chi dovesse averla vinta…”
“Non sarebbe una tragedia, se fosse stato un conflitto
risolvibile.”
La tua mano si solleva, posandosi sulla mia guancia. Le mie ciocche
dorate ti sfiorano il viso.
“Hai sempre una risposta per tutto?”
Sorrido.
“Quasi…” Sussurro, tornando sulle tue labbra, che si
dischiudono, accogliendo le mie in un bacio profondo.
La tua mano sale lentamente lungo il mio busto, carezzandomi il seno
attraverso la stoffa leggera della camicia, e avverto le tue dita
stuzzicarmi i capezzoli.
Da quanti giorni facciamo l’amore, rubando attimi e nascondendoci
da tutti? Mi sembra di non essere mai sazia delle sensazioni che la tua
pelle sa donarmi.
Ti sollevi invertendo le nostre posizioni, mentre mi lascio scivolare
supina, senza smettere di baciarmi.
Il libro, ormai dimenticato, è caduto tra l’erba, aperto.
Mi sfili la camicia dai pantaloni, e avverto la lieve ruvidezza della
tua mano che avanza sulla mia pelle nuda, fino alla curva del seno, che
avvolgi nel tuo palmo, carezzandolo spinto dal desiderio.
Le tue labbra scendono lungo il mio collo, così come la tua mano
si sposta oltre l’orlo dei miei pantaloni.
Sono costretta a spalancare gli occhi.
“No…” Esclamo, presa alla sprovvista. “No,
Andrè…” La mia mano scivola sulla tua, bloccandola.
Sollevi il viso e mi guardi confuso. Lunghe ciocche di capelli corvini
ti incorniciano gli occhi, smarriti e vagamente risentiti per il mio
brusco rifiuto.
“C’è qualche problema?”
Mi mordo le labbra, mentre avverto una vampata di calore salirmi alle
guance.
“E’…” deglutisco, nervosamente.
“E’ il mio periodo.” Concludo quindi, abbassando lo
sguardo.
“Oh…”
Passa qualche secondo, in cui ostinatamente osservo l’erba e il
suo lento frusciare. Poi avverto le tue dita che, gentili, mi sollevano
il mento, spingendomi a guardarti.
Il tuo sguardo è sereno, i tuoi occhi limpidi.
“Trovo che questa sia…una buona notizia, non credi?”
Annuisco lentamente, e tu ti abbassi per posarmi un bacio gentile sulle
labbra dischiuse.
“Non c’è motivo per cui tu debba sentirti a
disagio.” Mi accarezzi una guancia, e mi sposti una ciocca dietro
l’orecchio, prima di sdraiarti al mio fianco, facendomi passare
un braccio dietro al capo e stringendomi a te. Osserviamo le fronde
che, sopra di noi, ondeggiano lievi, lasciando trasparire, di tanto in
tanto, un raggio dorato del sole morente.
Percepisco il tuo calore, il tuo desiderio tramutato in infinita
tenerezza, il tuo tranquillo accettare ogni aspetto della mia
femminilità, e mi sento al sicuro.
Volto lo sguardo verso il libro aperto.
“Non sono nata per condividere
l’odio, ma l’amore.” Afferma Antigone,
davanti all’inevitabile condanna.
Io credo di amarti, Andrè.
*Antigone, Sofocle.
L'opera d'arte più perfetta
che lo spirito umano abbia prodotto, disse Hegel
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Capitolo 15 *** 16 agosto ***
15
Una lieve frescura
penetra dalle finestre accostate della mia stanza, muovendo
impercettibilmente le tende e mitigando, sebbene di poco, questa
torrida notte d’agosto.
Mi muovo pigramente tra le lenzuola sfatte. Il tuo torace aderisce alla
mia schiena, la tua mano scivola piano tra i miei seni nudi, la pelle
resa umida e lucida dal sudore.
Con la punta del naso scosti i miei capelli dalla guancia, posandomi un bacio sulla tempia.
“Devo andare…”
“Mmmmh…” Mi stiracchio, voltando appena il viso verso il tuo, e ti poso una mano sulla guancia.
“Devi proprio?”
“Temo di si. Preferirei uscire dalla porta, piuttosto che essere
costretto a calarmi dalla finestra quando verranno a svegliarti fra
qualche ora.” Mormori con un sorriso, strusciando la guancia
contro al mio palmo aperto.
“Potresti sempre nasconderti nell’armadio…”
Considero, immaginando la scena di te, nudo, che passi i vestiti alla
mia sbigottita cameriera personale dall’interno del mio armadio.
“Hum, forse, dopotutto, non è una buona idea.”
Ti sporgi su di me, catturando con la bocca il mio labbro inferiore e
baciandomi dolcemente, mentre mi volto lasciando aderire il mio petto
al tuo. Lascio scivolare le braccia dietro alla tua nuca e ti attiro a
me. Quando le nostre bocche si separano, abbiamo entrambi il respiro
corto.
Mi carezzi piano la guancia con il dorso dell’indice.
“Ci vediamo fra qualche ora, Oscar.” Sussurri, prima di
sgusciare fuori dal letto e, dopo esserti infilato la camicia e i
pantaloni, uscire furtivo dalla porta della mia stanza, non prima di
avermi rivolto un ultimo sorriso.
E’ l’ultima notte a vedere i tuoi vent’un anni.
Lascio ricadere la testa sul cuscino, sospirando, mentre tra le labbra
mi ritrovo versi che non pensavo mi sarebbero mai appartenuti: 'More light and light; more dark and dark our woes!'*
Eccomi, dunque, novella Giulietta a sperare che l’alba non arrivi
mai a separarmi da te. Avresti mai immaginato questo futuro per noi?
Affondo il viso nel tuo cuscino e lascio che il sonno si impadronisca
dei miei pensieri, il mio corpo ricoperto dai tuoi baci.
E’ da poco sorto il sole quando, vestita di tutto punto, apro la porta della tua stanza.
Siedi davanti alla finestra inondata di luce, il volto ricoperto di
sapone e il rasoio levato a mezz’aria. Mi guardi sorpreso.
“Sei mattiniera…”
“Anche tu.”
Sorridi, tornando con lo sguardo al piccolo specchio ovale che tieni appoggiato al catino.
“La servitù si sveglia di buon’ora.”
Non replico nulla, guardandoti mentre fai scorrere piano la lama sulla
pelle del tuo volto. Mi avvicino piano, arrivando alle tue spalle, e la
prendo dalla tua mano.
I nostri occhi si incrociano nello specchio.
“Posso?”
“Devo preoccuparmi?” Scherzi.
“No, se ti fidi di me.”
Lo sguardo che mi rivolgi vale più di qualsiasi risposta.
In silenzio, finisco di rasarti il volto. Il sole ci illumina, avverto
la morbidezza della tua pelle, il profumo del sapone, il tuo respiro
regolare.
Quando ho finito, posi la nuca sul mio ventre, espirando. Le tue mani
salgono ai miei polsi, e i tuoi occhi cercano i miei, nel riflesso del
piccolo specchio.
“Ti amo, Oscar.”
Resto immobile. Solo il lieve clangore della lama che cade a terra riempie il silenzio.
“Io…Si è fatto tardi, Andrè.” Replico,
prima di allontanarmi, sciogliendo la tua stretta ai miei polsi.
Sento il cuore martellarmi nei timpani mentre scendo le scale di corsa.
Sono una stupida.
Il sole è tramontato da qualche ora quando trovo il coraggio di bussare nuovamente alla porta della tua stanza.
Passa qualche secondo prima che il tuo volto appaia nel vano dell’uscio.
“Ciao.”
“Ciao.” Sembri tranquillo, ma riesco a leggere una certa diffidenza nel tuo sguardo.
“Ti…Ti ho portato un regalo.” Ti fisso, imbarazzata,
allungando un involucro di stoffa verso di te. “Di
compleanno.” Specifico.
“Grazie, ma non è ancora il mio compleanno.” Dischiudi la porta, invitandomi ad entrare.
“Lo so, mancano pochi minuti. Ma puoi aprirlo adesso, se ti fa piacere.”
Prendi il regalo che ti ho portato, avvolto in una sciarpa color porpora e lo sciogli lentamente.
“Non sapevo come incartarlo.” Mi giustifico, mentre ai tuoi occhi appare un abaco di legno, nuovo e lucido.
Lo osservi attentamente, facendo ruotare alcune palline con un dito.
“Ho imparato a contare da un po’, in effetti, ma…grazie.”
Mi avvicino a te, e allungo una mano verso l’abaco.
“Guarda con più attenzione.” Mormoro, indicando una
pallina che si differenzia dalle altre per colore e opacità.
E’ vecchia e logora, la riconosci?
I tuoi occhi cercano i miei.
Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si modifica, non è questo che hai detto, una volta?
“Ti amo anch’io, Andrè.”
Mi muovo piano sopra di te. Le tue mani mi sfiorano il seno e i fianchi
in tante dolci, irresistibili carezze. Ti sollevi sui gomiti, poi sui
palmi, e lascio scivolare le braccia dietro al tuo collo, attirando la
tua bocca nella mia.
Io ti amo, tu sei mio.
“Buon compleanno…” Sussurro sul tuo petto mentre mi
tieni stretta a te, nel buio della notte. “Lasciami restare, solo
per stanotte.”
“Resta per sempre.”
A svegliarmi non è il primo raggio di sole che illumina il
pavimento della tua stanza, ma un lontano cigolio che si fa strada nei
miei sogni, sino a diventare realtà.
Subito dopo, il chiasso di qualcosa che cade a terra, tra cocci rotti e
clamore di ferrame, mi porta a destarmi di colpo, con un leggero
sobbalzo.
“Buon Dio! Buon…” Esclama la voce di Nanny,
sovrastando il gocciolio della caraffa del latte che si sta riversando
dalle sue mani. Ai suoi piedi, il vassoio con la colazione del tuo
compleanno giace a terra in una miscuglio di porcellane infrante,
tè e biscotti.
Non posso nemmeno coprire la mia nudità con un lenzuolo, dato
che, nell’afa di agosto, giace ammucchiato ai piedi del
letto.
*Romeo e Giulietta, William Shakespeare
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Capitolo 16 *** Tenebre ***
16
Le foglie degli alberi ondeggiano pigramente nell’afa del pomeriggio, mosse da un tenue alito di vento.
Vedo uno passero spostarsi tra i rami. O è un tordo. Non saprei, sei sempre stato tu quello bravo a distinguerli.
A braccia conserte, osservo dalla finestra della mia stanza i giardini del palazzo, immobili sotto al sole.
So che stai preparando le valigie da qualche parte in questa casa, ma
io non ho più lacrime da versare. Non più. Così,
semplicemente, lascio che la vita mi scorra addosso.
Sono stanca, esausta. Sconfitta.
Da quando mio padre mi ha chiamato nel suo studio questa mattina per
annunciarmi, in tono serio ma piuttosto stupito, che avrei dovuto
cercarmi un nuovo attendente perché te ne saresti andato mi
sembra di respirare sott’acqua.
Riesco quasi a vederli, i miei pensieri, come bolle. Galleggiano davanti ai miei occhi alcuni istanti prima di dissolversi.
Il tuo sorriso.
Le tue mani sul mio volto.
I tuoi occhi.
Te ne andrai perché è questo che tua nonna ha chiesto al Generale.
Te ne andrai chissà dove, a lavorare per qualche illustre
famiglia, con una brillante lettera di referenze nella tasca della
livrea.
Perché siamo come il giorno e la notte, non avremmo dovuto
lasciare che i nostri mondi si mescolassero. Perché non
c’è colpa peggiore, per un servo, che credere di avere gli
stessi diritti di un nobile.
Sento ancora nelle orecchie il pianto di Nanny, seduta davanti alla
finestra della cucina. Un lieve raggio di sole illuminava il suo
profilo, lasciando intravedere nel volto sfatto tutti gli anni che si
porta addosso.
“Io lo sapevo, sapevo che sarebbe successo. Poveri bambini, cosa
vi hanno fatto…” mormorava, cullandosi avanti e indietro,
il fazzoletto alla bocca, che ogni tanto saliva ad asciugarsi gli
occhi. “Crescervi come fratelli, quando fratelli non siete mai
stati. Uomo e donna, padrona e servitore. I miei bambini…”
Ho visto la mia ombra coprirle il volto.
“Nanny…Non piangere, ti prego.” Mi sono inginocchiata al suo fianco, prendendole una mano.
Ha sospirato. Una lacrima le ha solcato le rughe degli occhi scivolando sulla guancia molle.
Ho posato il capo sul suo grembo.
“Ti prego. Non piangere. Non portarmelo via…Io lo amo.”
Un altro singhiozzo. La sua mano si è stretta sulla mia.
“Oh, bambina. Siete così giovani, voi non capite, non sapete…”
E’ stato in quel momento che ho compreso il mio egoismo.
Mio padre non è riuscito a capacitarsi del perché tua nonna gli ha chiesto di trovarti una nuova famiglia.
Non l’ha nemmeno sfiorato il dubbio che io possa aver fatto
l’amore con te. Che io possa amarti, come una donna ama un uomo.
Ma adesso, non vi è più molto da dire. La vita ha deciso per noi.
Il sole sta tramontando. Il cielo si sta sporcando di rosa all’orizzonte, riscaldando ogni colore davanti ai miei occhi.
So che sei alle mie spalle, ma non mi volto, nemmeno quando parli.
La tua voce attraversa il silenzio, spezzandolo.
“Chiedimi di restare.”
Stringo i pugni fino a farmi sbiancare le nocche.
Se separarci è l’unico modo affinché tu possa salvarti, Andrè, non sarò io a tenerti qua.
Nanny è saggia, non avrebbe reagito così se non fosse
l’unico modo per allontanarti dal pericolo che rappresento per
te, adesso lo so.
“Vattene.”
“Oscar…”
“Vattene, Andrè. Non voglio più vederti. Mai più.”
Ti sento indugiare. Poi, lentamente, lasci la mia stanza.
Cerco con lo sguardo quell’uccellino che fino a pochi secondi fa
saltellava tra i rami, ma l’oscurità sta coprendo ogni
cosa e non riesco più a scorgerlo.
Allora mi lascio cadere lentamente sulle ginocchia, e piango tra i palmi aperti.
Piango con le mani sopra agli occhi, come una bambina spaventata,
piango fino ad avere l'impressione che qualcosa dentro di me si stia
per spezzare.
Fino a quando la notte non mi avvolge tra le sue pietose eppure terribili tenebre.
Nota dell'autore
Non vi ringrazierò mai abbastanza per tutte le vostre splendide parole. Non ho molto altro da dire. Grazie, davvero...
|
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Capitolo 17 *** Istinto ***
bo
I soldati della guardia reale mi fissano, immobili.
Vedo i loro sguardi soffermarsi con insolenza su di me, quasi beffardi,
del tutto indifferenti ai miei ordini. Sono i miei uomini eppure,
improvvisamente, mi sembra di non avere più alcun potere su di
loro.
Alzo una mano, levando la spada, e i miei occhi si sorprendono di
constatare che la stoffa della divisa non copre affatto il mio braccio.
Lentamente abbasso lo sguardo, scorgendo alcune ciocche dorate che
sfiorano appena il mio seno nudo, e, più giù, il bianco
delle mie cosce saldamente ancorate ai fianchi del cavallo.
Sono totalmente indifesa, esposta a tutti.
Sola.
All’improvviso qualcosa mi scuote, e, faticosamente, riemergo
dall’incubo. Una fitta dolorosa si ripercuote sul mio fianco
sinistro e mi rendo conto di avere la guancia posata sul marmo gelido
del pavimento.
Tutto è buio, intorno.
Avverto gli occhi gonfi sotto alle palpebre, la gola secca. Il mio volto è congestionato per il troppo piangere.
“Cosa…” Farfuglio, confusamente, cercando di mettere
a fuoco l’ambiente circostante e le forti braccia che, contro la
mia volontà, mi stanno sollevando dal freddo pavimento.
“Alzati, Oscar, ti sei addormentata per terra. Mi hai fatto spaventare, pensavo ti fossi sentita male…”
Le parole mi muoiono in gola.
“Andrè…” Sussurro. La voce mi trema. “Sei tornato…”
Mi aggrappo alla tua camicia. Adesso riesco a malapena a scorgerti, tra la penombra della notte. Mi stai osservando.
“Non sono mai andato via, Oscar. Non ancora.” Mormori, e
improvvisamente ricordo. E’ la tua ultima notte a palazzo
Jarjayes, domani, con il sorgere del sole, te ne andrai.
Cerco i tuoi occhi ma le ombre li celano. Li immagino seri, e arrossati quanto i miei.
“Perché sei tornato? Intendo, da me…”
“Non lo so.” La tua voce vibra di tensione. “Non lo
so, Oscar. Volevo…Io volevo vederti, un’ultima volta. Poi
ti ho scorta a terra…” Scuoti la testa, come a voler
scacciare un immagine fastidiosa. Il tuo tono torna serio, ferito.
“Mi hai detto di andarmene.”
“Si…” Deglutisco “Si, è la cosa giusta…per te.”
“Lo pensi davvero? Pensi che starò meglio, lontano da
te?” C’è rabbia nella tua voce, indignazione. Sento
che vorresti urlare, ma le tue parole escono con un sussurro,
perdendosi tra le ombre che ci circondano. “Come credi che
sarà la mia vita senza di te?” Il tuo tono è
sporcato dalla disperazione.
Le mie mani si stringono con forza alla stoffa della tua camicia. Le tue mi afferrano le spalle.
Ricordo che siamo già stati inginocchiati su un pavimento
l’uno di fronte all’altra. Ma allora non sapevo cosa dovevo
fare.
Ti prendo il volto tra le mani, e sento che le tue guance sono umide. Poso la fronte sulla tua.
Stai tremando. Sto tremando.
“Shhhh…”
Lascio scorrere la guancia sulla tua. Le nostre lacrime si mescolano.
“Shhhh…Non parlare…”
Ti sfilo la camicia dai pantaloni, lasciando scivolare le dita sul tuo
petto, fino a posare il palmo aperto sul tuo cuore, che batte furioso.
Le mie labbra scorrono sul tuo viso, si bagnano di sale, si accostano al tuo orecchio.
“Ti amo.”
La tua bocca cerca la mia, con prepotenza, e la trova pronta ad
accoglierti. Avverto il tuo respiro rotto, l’esigenza della tua
lingua quasi non mi da modo di risponderle come vorrei.
Ti divincoli a forza dalla mia stretta, prendendomi a tua volta tra le braccia e sollevandomi.
Cadiamo sul letto, e già le tue mani sono sotto la mia camicia, la tua bocca sul mio seno.
Sussulto e tu arresti la tua furia. Posi la fronte sul mio ventre, e io allungo le braccia cingendoti il capo.
Quando ti muovi nuovamente lo fai con lentezza. La tua pelle
è macchiata dal blu della notte, i capelli scuri ti incorniciano
il volto come lunghe alghe brune, facendoti sembrare una strana e
meravigliosa creatura marina affiorata dagli abissi.
Scivoli dentro di me senza una parola. Il tuo corpo mi schiaccia, lo
attiro a me, voglio che ogni centimetro della mia pelle sia a contatto
con la tua. Sento il tuo respiro, sotto il mio orecchio, farsi
affannato. Ti sollevi, spostando le braccia così che
l’incavo delle mie ginocchia scivoli nell’incavo dei tuoi
gomiti.
Una lacrima cade dai tuoi occhi sulla mia guancia, seguita da un'altra che mi bagna la fronte, scivolando poi lungo la tempia.
“Dì che sei mia.”
“Sono tua.”
Un singhiozzo fuoriesce dalle tue labbra, e ti stringo a me.
Sono tua. Sono tua per sempre.
Ti accarezzo i capelli. La tua guancia riposa nell’incavo della mia spalla.
“Andrè, non posso chiederti di restare.”
Ti sollevi, guardandomi negli occhi. Ricambio il tuo sguardo, con serietà.
“Ma quando sorgerà il sole, verrò con te.”
“Cosa? Ma…Oscar, tu…Non puoi..”
“Shhh…” Le mie dita si posano sulle tue labbra. “Ormai ho deciso.”
Ti lasci cadere sul cuscino.
“Non hai pensato alle conseguenze?”
“Si.”
“No, non lo hai fatto. Se lo avessi fatto sapresti che andresti
incontro al disonore. E ad una vita ben diversa da quella che hai
sempre vissuto.”
“Non ha importanza. Voglio venire con te, Andrè. Sono sicura che sapremo cavarcela, in qualche modo.”
“E il tuo lavoro? Sei il capitano della guardia reale…”
Allungo una mano verso la tua.
“Adesso, più di tutto, voglio essere la moglie di Andrè Grandier.”
Il tuo sorriso stupefatto basta a ripagarmi di tutti i problemi cui probabilmente andremo incontro.
“Nelle scuderie, fra mezz’ora. Dammi il tempo di mettere insieme qualcosa da portare.”
Sei sulla soglia della mia porta e mi guardi, apprensivo.
“Sei sicura?” Il tuo tono è di nuovo incerto
“Oscar, devi esserne sicura, perché non si potrà
tornare indietro.”
Ti prendo il volto tra le mani.
“Sono sicura, Andrè. Voglio stare con te.”
Chiudi gli occhi e copri il dorso delle mie mani con i tuoi palmi.
“Vorrei solo che tu non debba avere a pentirtene. Io non ho nulla da offrirti.”
“Non mi pentirò mai di aver scelto te.”
I tuoi occhi brillano nei miei.
“Fra mezz’ora.”
“Fra mezz’ora.”
Ti pieghi verso me.
“Ti amo.”
Le mie labbra sfiorano le tue.
“Ti amo.”
Chiudo la porta della mia stanza alle tue spalle, non prima di averti
rivolto un’ultima occhiata mentre scivoli silenzioso nel
corridoio buio.
Per un istante mi pare di scorgere un leggero movimento dopo che la tua
figura è scomparsa, e il mio cuore perde un colpo, ma poi
realizzo che deve trattarsi di un semplice gioco di ombre.
Nient’altro che un gioco di ombre.
Solo un’illusione.
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Capitolo 18 *** Per il suo bene ***
18
La paglia sparsa sul
pavimento scricchiola sotto la suola dei miei stivali. Il blu della
notte non ha ancora lasciato spazio all’aurora, anche se una
tenue striscia purpurea all’orizzonte ne anticipa
l’imminente comparsa.
Un nuovo giorno. Un giorno che cambierà per sempre le nostre vite, Oscar.
Ma tu sei davvero pronta a seguirmi? Sei realmente consapevole di ciò cui andrai incontro?
Io non credo.
Le scuderie sono silenziose, i cavalli addormentati. Mi avvicino al
recinto di Cesar e i suoi dolci occhi scuri incrociano i miei. Scrolla
la criniera e sbuffa, allungando il muso verso la mia mano tesa. Il
morbido naso si posa nel mio palmo aperto, in cerca di qualche piccolo
dono che ogni mattina non manco di fargli trovare.
Ma non questa.
Dovrei essere felice, sentirmi euforico. Mi ami, Oscar. Mi ami al punto
da volermi seguire contro tutto e tutti e questo dovrebbe bastare a
rendermi l’uomo più felice sulla faccia della terra.
Ma non lo sono.
Ho paura, Oscar, anche se non te l’ho detto. Perché non ho
nulla da offrirti, non ho nessun futuro da regalarti, nessuna certezza.
Che vita vivrai al fianco di un uomo senza prospettive, tu che sei la più nobile e fiera delle creature?
Poso a terra la sacca da viaggio contenente pochi effetti personali.
Due cambi di vestiti, un pezzo di sapone e i risparmi di una vita. Non
dureranno a lungo.
Un rumore alle mie spalle mi informa del tuo ingresso, ma quando mi
volto non è la tua figura alta e sottile che mi trovo davanti.
Il mio sguardo si abbassa sulla minuta donna che avanza nella penombra
e il mio cuore accelera i suoi battiti.
“J…Juliette.” Il mio stomaco si stringe mentre la
piccola cameriera si avvicina scrutandomi negli occhi. “Sei
mattiniera.” Balbetto a disagio.
“Anche tu, Andrè.” Il suo sguardo si posa sulla sacca da viaggio “Vai da qualche parte?”
“Io…” Le parole mi muoiono in gola e in cuor mio
spero di non vederti entrare proprio in questo momento o sarebbe troppo
tardi per mettere a tacere le malelingue.
“Si, sto partendo. Lascio Palazzo Jarjayes.”
“Da solo?”
Mi muovo a disagio, fino a toccare con la schiena la parete del recinto di Cesar.
“Si, che domande mi fai, Juliette?”
Il suo sguardo, prima delle sue parole, mi dice che sa già tutto.
“Bugiardo. Vuoi scappare con lei, con la padrona.”
Deglutisco.
“Non so di cosa stai parlando…”
“Vi ho visti.”
Su di noi cala un pesante silenzio, rotto solo dai lievi sbuffi dei cavalli nei box.
“Juliette…Non devi dirlo a nessuno, promettimelo.” Riesco infine ad articolare, in preda all’angoscia.
Lei mi guarda senza staccare gli occhi dai miei.
“Perché? Perché ti ha promesso titoli e ricchezze,
Andrè?” Fa un passo avanti “Lei non ti ama,
Andrè. La padrona non ha occhi che per se stessa e i suoi
capricci. Si stancherà presto di te, cosa credi? I nobili sono
tutti uguali.”
“Non sai di cosa stai parlando, Juliette. Oscar non è…Non è come gli altri nobili.”
La ragazza scuote la testa piano e un triste sorriso compare sul suo volto.
“Sei un illuso, Andrè. Quando si sarà stufata di te
e di quello che puoi offrirle sotto alle lenzuola, ti butterà
via come un paio di vecchie scarpe. Verrai condotto alla Bastiglia come
traditore.”
Mi spingo verso di lei, in un impeto di improvvisa rabbia e la afferro per le spalle.
“Non sai di cosa stai parlando, Juliette. Tu non sai
niente.” Ansimo “Promettimi solo che non ne farai parola
con nessuno…Promettimelo, Juliette!”
Il suo sguardo si posa serio e malinconico nel mio. Vi leggo l’amarezza del tradimento e un muto rimprovero.
“E’ tardi, Andrè…L’ho fatto per il tuo
bene. Perché ne avresti sofferto, e non volevo che questo
accadesse…”
“Dio, Juliette…a chi l’hai detto?” Quasi urlo “A chi?”
“A me.” Mi fa eco una voce dal’ingresso delle scuderie.
Il sangue mi si gela nelle vene. La voce mi muore in gola.
Il Generale si muove lentamente, avanzando nel riquadro di lieve luce
del portone. Non riesco a scorgere il suo volto, ma non ho alcun
bisogno di leggere nei suoi occhi una rabbia che riesco comunque a
percepire fin sotto la pelle.
Quando mi è ormai vicino i nostri sguardi si fronteggiano e sono
tentato di abbassare il mio, tanta è l’intensità di
ciò che scorgo in quello di tuo padre.
“E così, Andrè, vorresti fuggire con Oscar.”
La sua non è una domanda. Scuote la testa. “Avrei dovuto
immaginarlo. Non te ne saresti andato da questa casa se la tua
motivazione non fosse stata Oscar. Non hai mai fatto nulla in vita tua
che non fosse collegato, in qualche maniera, a mia figlia.”
I suoi occhi si posano sulla mia sacca. Juliette, che è rimasta
muta e immobile, si esibisce in una rapida riverenza e corre via. Il
suo dovere l’ha fatto ormai.
“Quello è il tuo bagaglio?” Mi chiede il mio
padrone, l’unica figura paterna che io abbia mai conosciuto.
“Si, signore.” Stringo i pugni tanto forte da conficcarmi le unghie nel palmo.
“E’ ben misero, mi pare.” Il Generale mi fissa ora
negli occhi. “E pretenderesti, dunque, che mia figlia ti
seguisse, rinunciando al suo titolo, alla sua posizione, alla sua
ricchezza…per cosa? Cosa le può offrire un uomo che non
possiede che quella sacca?”
Mi mordo le labbra. Potrei replicare che a te non importa affatto
quello che possiedo, ma la persona che sono. Potrei spiegare a tuo
padre che il sentimento che ci lega è più forte di
qualunque regola o convenzione, che vivremo sostenendoci l’un
l’altra.
Ma sono solo parole, e le parole non ci riempiranno lo stomaco e non ci difenderanno dal freddo dell’inverno.
Per la prima volta la mia differente condizione è tutta qua,
davanti a me. La sento nelle ossa e nel sangue, nel cuore e in fondo
all’anima.
“Io non ho mai preteso nulla da Oscar. La sua è una libera
scelta.” Replico, calcando l’accento sulla parola
‘libera’. Libera, come non sei stata quando tuo padre ha
scelto per te, vent’anni fa. Io non ti farò mai nulla del
genere, Oscar.
“Può darsi che sia una libera scelta. Ma questo non vi
porterà nulla di buono. Getterai fango su mia figlia, portandola
con te.”
“Quello che voi intendete, signore, è che getterò fango sul buon nome della famiglia Jarjayes.”
Gli occhi azzurri del generale hanno un guizzo e per un attimo sono
tentato di credere che mi colpirà. Poi la sua espressione si
incupisce.
“Tu credi che questo mi importi più del futuro di mia
figlia? Sbagli, Andrè. Io mi preoccupo per lei, perché
questa è la sua casa e questa è la sua vita…Lei
non ha mai avuto altro e non sopravvivrebbe lontano. La
condanneresti.”
“Perdonatemi, signore, ma credo che sottovalutiate Oscar. Lei
è più forte di quanto voi immaginiate.” Non so dove
trovo il coraggio per guardarlo negli occhi ed esprimere questo
concetto.
“Andrè, potrei farti impiccare per questo affronto e per
il crimine di cui intendi macchiarti, non scordarlo.”
“Convengo che è in vostro potere farlo. Dunque,
perché non mettere in atto la minaccia?” La mia, ormai,
è una sfida aperta. Mi sto giocando il tutto e per tutto.
“Perché hai vissuto in questa casa per quindici anni. Sei
stato un buon servitore e un buon compagno per Oscar. Ma
adesso…Adesso hai valicato un limite che non ti era concesso
oltrepassare. Voglio solo che tu ti renda conto da solo che la vostra,
tua e di mia figlia, è una follia. Vivreste nell’indigenza
e nel disonore, farete la fame, dovrete sopportare la miseria…
è davvero questo che vuoi per lei?”
I suoi occhi sono di ghiaccio. Sono costretto ad abbassare lo sguardo.
“No. No di certo.”
“E allora vattene, ma da solo. E bada bene, lei deve credere che
sia stata una tua scelta. Una scelta consapevole. Se terrai fede ai
patti, non farò parola con nessuno di questo colloquio e Oscar
non subirà la mia collera per il suo vergognoso
comportamento.”
“No.” Le parole escono da sole, senza che abbia avuto modo
di fermarle. “Non posso rinunciare ad Oscar. Lei è parte
di me.”
“In questo caso, non mi lasci scelta.” C’è una
lieve sfumatura di tristezza nella voce del Generale. Due figure fanno
capolino dal portone della scuderia, hanno addosso l’uniforme.
Gli occhi di tuo padre si posano brevemente nei miei mentre i due
soldati mi afferrano per le ascelle, coprendomi la bocca con una mano
mentre mi divincolo cercando di urlare.
“Non posso lasciare che Oscar si rovini la vita fuggendo con un servitore.”
Sono solo lontane parole quelle che riesco a percepire prima che la mia
coscienza voli via insieme al colpo che avverto alla base della nuca.
Prima che la mia sacca venga sollevata da terra e un cavallo, il mio,
fatto uscire dal suo box.
“Portatelo alla Bastiglia. Di Andrè Grandier non deve sapersi più nulla.”
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Capitolo 19 *** Piuma ***
19
Il vento sibila forte contro le imposte, penetrando negli interstizi e facendo vibrare i vetri.
Mi sveglio di colpo, madida di sudore, nonostante l’aria pungente
dei primi giorni d’autunno abbia ormai avuto la meglio sulla
calura dell’estate morente.
Ti ho sognato, anche questa notte. Il tuo volto talmente nitido e
vicino da indurmi a pensare che se solo avessi allungato una mano avrei
potuto sfiorarlo.
Ma non l’ho fatto, e il tuo contorno ha iniziato a sfumare. Ormai
non tento più di afferrarti, di fermarti, le mie dita che
scivolano attraverso il tuo ricordo come rami che si allungano nella
nebbia.
Mi sollevo dal cuscino. L’aria fredda mi colpisce le fronte e il
collo imperlati di sudore. Mi piego velocemente sotto al letto,
estraendone il pitale, e rimetto qualunque cosa possa avere nello
stomaco a quest’ora del mattino. Quando gli spasmi si calmano
respiro affannosamente, i capelli che mi pendono ai lati del volto come
alghe bagnate. Un filo di saliva mi cola dalle labbra. Lo pulisco con
il dorso della mano e, tornando in me, riadagio il vaso
nell’oscurità da cui l’ho estratto. Più tardi
provvederò a liberarmene personalmente, nessuno deve sapere che
ormai da una settimana sono preda di un estenuante nausea mattutina.
Se ne renderanno conto in ogni caso, penso mentre mi ristendo sui
cuscini, raggomitolandomi in un bozzolo di lenzuola da cui non vorrei
più uscire. Le mie mani scendono tremanti sul mio ventre,
là dove risiede la causa del cambiamento ormai evidente del mio
corpo.
Da otto settimane ormai le mie Regole hanno smesso di manifestarsi.
I miei seni sono gonfi e dolenti, le anche più piene. Persino il
volto mi appare stravolto quando lo osservo nello specchio: labbra
turgide e una nuova morbidezza nel mio profilo affilato. Sento la
divisa tirare lungo i fianchi quando la indosso la mattina. Presto non
mi entrerà nemmeno più, e in quel momento non
saprò davvero che fare.
Una lacrima mi solca la guancia e il mio pensiero ti cerca.
Vorrei scacciarlo, come ormai mi costringo a fare, ma non ne ho la
forza. Lascio che la tua calma e la tua dolcezza mi avvolgano come un
tempo facevano le tue braccia con il mio corpo, il tuo petto contro la
mia schiena, la tua guancia sulla mia spalla, e mi lascio cullare.
Perché mi hai lasciato, Andrè?
Non riesco a credere che tu lo abbia fatto senza una spiegazione.
All’inizio non ci ho veramente creduto, nemmeno quando, quella
mattina, ho trovato aperto il recinto del tuo cavallo. Nemmeno davanti
ai cassetti vuoti della tua stanza.
Nulla ricucirà lo strappo che hai lasciato alle tue spalle.
“Riposo.” Esclamo ai miei uomini, allineati davanti a me nella frescura del mattino.
Il cielo è terso, di un azzurro che fa quasi male agli occhi
tanto è intenso. Il vento della notte ha spazzato via ogni nube.
Solo dentro me c’è una nebbia tanto spessa da non
lasciarmi scorgere spiragli. Brancolo nella bruma di un passato troppo
doloroso da rievocare e di un futuro troppo incerto in cui sperare.
Sono sola.
All’inizio, ti ho cercato, invano.
Poi ti ho aspettato. Ho aspettato che tornassi da me le notti in cui la
luna illuminava il profilo immobile dei tendaggi alle tue finestre.
Seduta sul tuo letto ormai spoglio, ho cercato una risposta che non
è mai arrivata.
Infilo la spada nel fodero e fletto le dita della mano. Sono gonfie.
“Madamigella Oscar, vi sentite bene?” Girodelle mi si affianca. “Mi sembrate piuttosto pallida.”
Abbozzo un lieve sorriso e annuisco debolmente.
“Sto bene, grazie.”
“Ne sono felice. Era da qualche giorno che volevo chiedervelo,
come trovate le nuove reclute? Io vedo del potenziale soprattutto nel
maggiore Dubois…”
Passeggiamo nei giardini. Sopra di noi gli archi di rose ormai sfiorite
si tendono come le volte di una chiesa. Le suole dei nostri stivali
pestano le foglie morte che iniziano ad imbrunire. Una fontana zampilla
poco distante, sento lo scrosciare dell’acqua oltre le siepi che
ci avvolgono, un soffuso sottofondo al vanesio chiacchiericcio di
Girodelle.
Ad ogni passo qualcosa mi si mescola dentro, come se una piuma
invisibile strisciasse lungo le pareti interne del mio ventre. E’
una sensazione potente e sconosciuta.
Mi blocco. Girodelle procede ancora di qualche passo, ignaro. Solo dopo
alcuni secondi, cercandomi con lo sguardo, mi vede piegata verso i
cespugli di biancospino che fiancheggiano il viale, in preda ai conati.
La sua mano è fresca sulla mia fronte quando mi scosta i capelli
dal viso, tirandomeli gentilmente indietro. L’erba bagnata ha
macchiato le mie ginocchia. Sotto ai palmi avverto il marciume e la
melmosità delle foglie in decomposizione mentre un penetrante
odore di terriccio mi induce un nuovo conato. Ma non ho più
nulla da rimettere.
Respiro con affanno, un sapore acido mi invade il palato e la gola dolorante.
“Madamigella, volete che mandi a chiamare il medico di
corte?” C’è apprensione nelle parole di Girodelle.
“No…N-no.” Biascico. “Non è necessario,
grazie.” Cerco di rialzarmi ma non ne ho la forza. Girodelle mi
porge il braccio.
“Vi aiuto.”
E’ solo quando le sue mani si stringono gentili alle mie spalle e
il suo respiro mi sfiora la guancia che perdo il controllo, quel
controllo che tanto faticosamente avevo cercato di mantenere.
Le lacrime scivolano lungo le mie guance, spinte da questo strano
mistero che da due mesi mi tiene in pugno. Questo sospiro segreto che
vive in me.
Ricado al suolo, trascinandolo con me. Afferro la sua uniforme tra le dita tremanti, mi aggrappo a lui.
Qualcosa dentro di me vuole calore, affetto e protezione e non si
placherà finché non ne avrà avuta almeno una
briciola.
Poso la fronte sul suo petto, scossa dai singhiozzi. Lui non capisce, ma la sua mano scivola silenziosa tra i miei capelli.
“Shhh…” Mormora soltanto.
“A-aspetto un figlio. Non so cosa fare.” Le lacrime mi scivolano tra le labbra, sono amare.
Nel silenzioso labirinto di siepi di Versailles le parole del conte
hanno il sapore di una promessa che si fonde con l’aria di fine
settembre.
“Penserò io a voi, se me lo permetterete.”
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Capitolo 20 *** Come carta che brucia ***
20
Nota dell’autore
Vorrei fare una premessa, anche se
questo non c’entra nulla con il capitolo che vi apprestate a
leggere, ma con questa storia in generale.
Non tutti, ma sicuramente qualcuno
avrà notato che in questi giorni il mio account è stato
bloccato ‘per accertamenti’.
Per correttezza nei confronti di chi
legge e di chi, probabilmente, se ne sarà chiesto il motivo, vi
dico che dietro questi accertamenti c’era non una, ma numerose
segnalazioni di plagio.
Secondo queste persone, dunque,
‘Questo momento’ non sarebbe il frutto della mia fantasia e
della mia ‘penna’, ma una mera copiatura di una storia che,
qui lo dico e lo ribadisco, non sapevo nemmeno che esistesse,
pubblicata su un altro sito.
Inutile dirvi quanto io ci sia
rimasta male. Avrei preferito che queste persone, piuttosto che
rimanere nel loro comodo anonimato e segnalarmi
all’amministratore del sito, si facessero sentire con recensioni
negative.
Lo avrei preferito, davvero.
Perché alla base di tutte queste accuse è risultato non
esserci nulla di fondato, come ha stabilito l’amministratore che
si è occupato del caso dopo aver letto le storie interessate. E
come io stessa avrei potuto chiarire, se me ne fosse stata data la
possibilità.
Sono abbastanza delusa da questo tipo
di atteggiamento, che trovo anche piuttosto meschino, e per alcuni
giorni ho preso seriamente in considerazione l’idea di lasciare
il sito. Perché ciò che scrivo lo faccio solo ed
unicamente per piacere, non per qualche vanesio desiderio di gloria.
Non mi serve copiare. Oltretutto non è nel mio stile
appropriarmi del lavoro altrui e spacciarlo per mio.
Se ho deciso di restare e portare
avanti la storia è solo grazie a tutte le (tante) splendide
persone che, al contrario, hanno dimostrato di credere in questa
piccola fic, spronandomi con i loro incoraggiamenti e le loro parole.
Queste persone sono impagabili per me. E bastano da sole ad oscurare
chiunque si nasconda dietro il tasto ‘segnala una
violazione’. Che non c’è stata.
Nessun plagio. Nessuna ispirazione.
Spero di aver chiarito.
Mi passo la mano sugli occhi, lasciandola scorrere lungo la fronte,
scostando le ciocche di capelli disordinati e sudici che vi sono
appiccicate. Le mie unghie sono nere, i palmi anche. Ma non ha alcuna
importanza finché resterò qua dentro.
Oltre la grata della cella, la luna illumina debolmente un cielo scuro
come raramente mi è parso di vederne. O forse è solo la
mia condizione a farmi scorgere malinconia ovunque io guardi.
Non conto più i giorni che passo tra queste mura. Iniziano anch’essi a perdere d’importanza.
Quando mi hanno rinchiuso ho gridato e tempestato di pugni la porta
fino a ritrovarmi le nocche scorticate e sanguinanti e la gola dolente.
Per lunghe ore ho sussurrato il tuo nome, solo il tuo nome, con la
fronte posata al legno consunto della porta che mi separa dalla
libertà, che mi separa da te, mentre le lacrime mi bagnavano le
guance.
Ma nulla ha lenito il dolore che scaturiva a fiotti da questo cuore lacero, come sangue che sgorga da una ferita insanabile.
Adesso questi occhi sono asciutti, inariditi. Una folta barba ha
ricoperto le mie guance sempre più scavate, le nocche spuntano
aguzze dalle mani quando stringo i pugni.
Sono prigioniero in questa cella, ma più di tutto, sono prigioniero di un incubo da cui non riesco a svegliarmi.
Bramo il calore del sole, il conforto di una carezza. Vorrei ancora
tuffare le dita nella seta dei tuoi capelli, immergervi il volto,
inalare il loro profumo.
Miele e lavanda.
Il tuo ricordo mi ossessiona, la tua assenza mi perseguita. Passo il giorno a chiedermi cosa stai facendo, cosa stai pensando.
Quali risposte ti sei data davanti alla mia assenza la mattina in cui avrebbe dovuto iniziare la nostra vita insieme?
Poso la schiena contro la pietra fredda della parete e mi lascio
scivolare a terra. Un sottile strato di muschio riveste questo lato
della cella, dovuto probabilmente a qualche tipo di infiltrazione.
Fa freddo. Sono solo.
Ci sono giorni in cui il tuo ricordo è tanto vivido che mi
sembra di impazzire. Altri in cui mi pare di aver scordato persino il
nome che porto.
Forse sto perdendo la ragione.
Mi rifugio nei ricordi felici della nostra infanzia e mi lascio trasportare.
La spuma del mare. Le colline di Arras. Il sapore fragrante delle mele maturate al sole.
Il tuo sorriso.
Ho sempre creduto che si potesse morire per quel sorriso.
Adesso sta accadendo.
Sto morendo per te, un giorno alla volta. E tu questo forse non lo saprai mai.
Mi hanno portato delle coperte. L’inverno ha ormai steso la sua
mano su Parigi e già due volte ho scorto qualche fiocco di neve
volteggiare oltre le inferriate della grata.
Non sono un prigioniero qualunque, lo capisco dal cibo che mi servono e
dal catino di acqua pulita che mettono a mia disposizione ogni due
giorni. Le coperte che mi hanno portato oggi ne sono un’ulteriore
prova.
Ma non cambia nulla sapere che tuo padre sta cercando di rendere meno insopportabile la mia prigionia con i suoi soldi.
Domani compirai ventuno anni. E io non ci sarò, per la prima volta.
Guardo la brocca di vino che mi hanno portato insieme alla minestra. Un dono per la Vigilia di Natale.
Nel buio della mia cella riesco a sentire i canti delle guardie. Sono
ubriache, festeggiano a loro modo la nascita di Nostro Signore.
Il tenue bagliore delle fiaccole illumina fiocamente i corridoi della
prigione. Mi avvicino alla grata della porta e lancio
un’occhiata, ma non scorgo nulla.
Risate sguaiate riecheggiano improvvise poco distanti. Mi allontano,
lasciandomi cadere sulla branda infestata di pulci che hanno messo a
mia disposizione e mi poso le mani sulle orecchie.
Il rumore dell’allegria mi è insopportabile, questa notte più che mai.
Prego Dio affinché ponga fine a questo tormento.
Solo quando un lieve odore di zolfo raggiunge le mie narici mi rendo
conto di essere sprofondato nel sonno. Apro gli occhi, li sento gonfi.
Inizio a tossire. La cella è piena di fumo.
Il mio sguardo si posa sulla porta, sotto cui vedo filtrare lunghi
nastri di nebbia che si innalzano nell’aria ormai fosca della
prigione. Oltre le grate lunghe lingue di fuoco lambiscono il legno
marcescente della porta.
Il panico mi avvolge. Mi drizzo in piedi, in preda all’angoscia e allo sbigottimento.
Le mie preghiere sono state esaudite, ma non nel modo che avrei
immaginato. La Bastiglia sta andando a fuoco, l’inferno è
sceso in terra.
Mi guardo attorno, frenetico. Con me ho solo le coperte e l’acqua rimasta nel bacile.
Improvvisamente la porta cede con uno schianto, il fuoco l’ha
corrosa come fosse stata un foglio di pergamena. Un’ondata di
fumo nero si riversa nella stanza, mi porto la trapunta al volto mentre
lunghe gocce di sudore scendono lungo le mie tempie.
Vedo l’oro dei tuoi capelli ondeggiare nel vento.
Seguo con la mano il profilo dei tuoi fianchi nudi.
Le mie labbra si posano sulle tue.
Di tutti i miei pensieri, tu sei l’unico felice.
Ed è a te che mi rivolgo un ultima volta.
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Capitolo 21 *** Natale ***
21
Nota dell’autore
Avrei voluto ringraziare, una per
una, tutte le persone che mi hanno scritto riguardo a quanto accaduto,
pubblicamente e privatamente.
Ma non ne ho avuto il tempo,
perciò proverò a ringraziarvi adesso, per tutto
l’affetto che mi avete dimostrato in una simile, non di certo
grave, ma comunque sgradevole situazione.
Grazie.
Perché senza conoscermi, senza sapere nulla di me, vi siete fidati.
Perché mi avete fatto arrivare le vostre parole. E le parole non sono mai solo parole.
Possono cambiare tutto.
Perché senza avere qualcuno
che ‘vuole sentire un’altra storia’, non ci sarebbe
nessun gusto nel raccontarla.
Potrei intrattenervi per ore, giorni,
spiegandovi cosa la scrittura rappresenti per me, e, dunque, quanto il
vostro sostegno sia importante. Ma ormai siamo ad agosto, e credo
preferireste andare in ferieXD
Perciò, grazie, semplicemente.
Io partirò nel week end,
perciò questo è l’ultimo aggiornamento pre-vacanze.
E' dedicato ad una persona molto speciale, lei capirà. Una frase
in particolare, spero vorrà farla sua^^
Ci sentiamo a settembre.
Vi abbraccio.
Scotta.
Le mie dita si ritraggono dalla tazza fumante che Nanny mi ha lasciato
sul vassoio. Seduta davanti alla finestra, osservo i fiocchi di neve
posarsi sugli alberi ormai spogli del giardino.
Tutto è silenzio, anche dentro di me.
Alito leggera sul vetro, poi poso l’indice nel mezzo della macchia opaca che si è formata.
Où êtes-vous?
Apro il palmo e lo lascio scivolare sull’umida superficie
trasparente, cancellando quelle parole fatte di respiro e condensa.
E’ il mio primo compleanno senza di te.
Le mie mani scendono senza rendersene conto, come spesso accade quando
il mio pensiero è rivolto a te, sul ventre tondo, simile ad una
luna, che giorno dopo giorno va ingrossandosi sempre di più.
Dentro ci vive un mistero fatto di bolle di sapone e farfalle, o almeno
è quello che mi sembra di portare in grembo da quando il bambino
ha iniziato a muoversi.
Penso sempre a lui come ‘al bambino’. Non ha un nome, non ha un volto, forse non lo avrà mai, per me.
Quando Victor ha posato la mano sulla rotondità della mia
pancia, la prima volte che ho sussultato sentendo il bambino muoversi,
l’ho scostata bruscamente. Poi mi sono chiusa nella mia stanza,
quella che adesso è la mia nuova stanza. Non ho lasciato entrare
nemmeno tua nonna.
Era quasi notte quando ho sentito Victor bussare. Si è seduto
sul bordo del letto, ha preso la mia mano nella sua. Lo fa quando sa
che ne ho bisogno. Lui sa di te, anche se non gli ho mai detto nulla.
La tua assenza, semplicemente, parla per te.
“Come vi sentite?”
Ho levato le spalle, distogliendo lo sguardo dal suo.
“Così. Non voglio parlarne.” Poi una lacrima
è scesa sulla mia guancia. “Non posso affezionarmi a lui,
lo sapete. Sono un soldato. Ma avrà una madre che
l’amerà, la mia governante se ne sta occupando.”
Victor ha seguitato ad osservarmi in silenzio, stringendomi la mano,
fino a quando la candela non si è consumata e le ombre non ci
hanno inghiottito, mascherando le nostre lacrime.
Ho imparato che al buio si piange meglio.
Mi ha chiesto di sposarlo, sai?
Ma io non ho potuto. Lo rispetto troppo per fargli questo. Da tre mesi
ormai vivo reclusa, confinata nella sua tenuta di campagna, abbastanza
distante da Parigi affinché nessuno lo sappia, ma non tanto da
non permettergli di farmi visita uno o due giorni alla settimana.
E’ un uomo dolce, e non lo sapevo. E’ paziente e si
è accollato un impegno di cui non gli era richiesto farsi carico.
Ha detto a mio padre che il bambino è suo. Che avrebbe voluto
sposarmi e prendersi le sue responsabilità, ma davanti al mio
diniego e alla mia volontà di proseguire la carriera militare
non può fare altro che proteggermi da uno scandalo, ospitandomi
e nascondendomi dal mondo finché il bambino non sarà nato.
Mio padre si è detto d’accordo. Aveva una strana
espressione negli occhi quando è venuto a riferirmi del loro
colloquio, quasi mesta. Non sembrava arrabbiato, solo pratico. Quasi si
sentisse in qualche modo in colpa.
Nel breve sguardo che ha rivolto al mio ventre prima di accomiatarsi,
alla mia partenza, vi ho letto la sconfitta di dover ammettere che,
contro tutti i suoi insegnamenti e la ferrea disciplina, la natura di
questo mio corpo da donna l’ha tradito infine, facendo ciò
per cui è stato creato. Ospitare la vita, darle forma.
Tua nonna troverà per il bambino una splendida famiglia, sono sicura.
Lei sa la verità.
Mi scosto dalla finestra. Il bambino è agitato, i miei pensieri devono averlo immalinconito.
Muove i pugni e mi solletica da dentro.
Con nessuno ammetterei che passo la notte a chiedermi quale sarà
il colore dei suoi occhi e che forma avranno le sue labbra. Mi domando
se ha già le unghie, se amerà la musica, se dorme con il
pugno in bocca, come facevi tu quand’eri bambino.
Una notte ho sognato di tenerlo tra le braccia. Aveva il tuo profumo.
Nostro figlio.
Mi chiedo dove tu sia. Non parlo mai di te.
Non voglio affezionarmi al bambino sapendo di dovermene separare. Ma
ultimamente non ho più il controllo che credevo di avere sulle
cose. Sui sentimenti.
Mi siedo al pianoforte, le dita sfiorano i tasti, si muovono da sole.
Chiudo gli occhi e ti immagino, seduto a terra, la schiena appoggiata
alla parete, ascoltare rapito.
Le note rotolano fuori come lacrime. Sento il bambino acquietarsi e
allora lo so. Amerà la musica, come l’amiamo noi. Suono
per voi, per lui che è dentro di me e per te che sei parte di
me. Le mie mani scivolano sulla nostra vita insieme, ricamando
pensieri, rincorrendo ricordi.
Io ti sento, Andrè. Nonostante tutto. Ti sento in ogni cosa, con ostinazione.
Dovrei lasciarti andare, ma non ci riesco. Il bambino è il mio
legame con te, vorrei che lo sentissi come lo sento io, sbocciare come
un fiore misterioso dentro al mio corpo e ai miei pensieri, invadere
ogni spazio, entrarmi nella pelle e nel sangue, respirare col mio
respiro, legare il mio cuore con nastri colorati impossibili da
sciogliere.
Dare un senso ad ogni cosa.
Le mie mani si fermano, la melodia si perde nel silenzio.
Nelle profondità che porto dentro quel mistero che chiamano vita
si è assopito, cullato dalla soavità del mio dono per te.
La tua musica preferita, come dono di Natale, affinché tu possa
udirla dentro di te, ovunque tu sia.
Ti sollevi dal pavimento con un sorriso, e quando apro gli occhi sei già sfumato lontano, disperdendoti come nebbia.
Certe cose si deve avere semplicemente il coraggio di lasciarle andare. E ricominciare.
E’ ormai buio quando Girodelle entra a passo sostenuto nel
salone, dove mi sto intrattenendo con mio padre che è venuto a
farmi visita per il giorno di Natale. Dubito ricordi che si tratta
anche del mio compleanno.
Victor porta con sé la neve e il gelo della notte, ma anche un
penetrante odore acre, qualcosa che sa di fumo e disperazione.
“Generale Jarjayes.”
“Conte Girodelle.”
I due uomini si salutano fronteggiandosi. Osservo Victor, e colgo nella
sua espressione tirata che qualcosa non va come dovrebbe.
“E’ successo qualcosa, Victor?”
I suoi occhi abbandonano quelli di mio padre per posarsi nei miei.
Sulla guancia ha uno sbaffo scuro messo in risalto dal pallore del suo
viso.
“C’è stato un incidente, a Parigi. Un’ala della Bastiglia è andata a fuoco.”
“Non è possibile! Un attacco?” La voce di mio padre
suona stranamente stridula. Si alza di scatto, ribaltando la sedia su
cui è seduto. La tazza di caffè che ha nelle mani trema
vistosamente e alcune gocce scure scivolano lungo la porcellana.
“No, signore. La causa è da attribuire alla negligenza
delle guardie di servizio.” La voce di Victor è
forzatamente calma, in netto contrasto con il suo atteggiamento tirato.
“E I prigionieri?” Prosegue mio padre, evidentemente turbato.
Gli occhi di Victor tornano nei miei.
“Morti. Tutti. Vengo da là. Vi erano quindici uomini in quell’ala.”
E’ in quel momento che i suoi occhi si posano con insistenza in quelli di mio padre.
“Ho avuto modo di consultare l’elenco dei nomi sui registri.”
Non capisco, ma so che c’è qualcosa che dovrei sapere
quando avverto il rumore della tazza di mio padre che va in frantumi,
mentre il liquido scuro si spande sul pavimento, infiltrandosi nella
trama del tappeto.
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Capitolo 22 *** Legame ***
22
“Guardatemi negli occhi.”
Un sottile filo di ragnatela si tende come un filamento di seta
dall’ottone del candelabro al bordo della brocca posata sul mio
comodino. La fiamma della candela lo illumina facendolo brillare.
Quando eravamo piccoli, Nanny diceva che erano le fate a lasciare questi segni del loro passaggio.
Ma noi non siamo più due bambini.
Lo stacco con la punta delle dita e lascio che fluttui nell’aria intrisa di silenzio che ci circonda.
“Guardatemi negli occhi e ditemi la verità. Sono ancora il vostro comandante, non dimenticatelo.”
Un ordine, che è quasi un sussurro.
La realtà, tuttavia, è che nemmeno io sto guardando negli
occhi l’uomo che siede, teso, sul bordo del mio letto.
Ho intravisto appena l’ombra che si cela dietro alla strana
espressione che indossa questa sera e la paura ha invaso i miei sensi.
Victor gratta con l’indice una piccola macchia scura sui
pantaloni della sua uniforme e tutto nei suoi gesti ha il sapore
metallico dell’incertezza.
Parole non dette gravano sospese tra di noi come nubi scure che annunciano una tempesta imminente.
Volta il viso, lentamente, le ombre lo inghiottono.
“Si tratta degli uomini morti alla Bastiglia.”
Parla lentamente. Deglutisco.
Da quando mio padre è uscito in tutta fretta, dopo le parole di
Victor, ho desiderato ardentemente sapere cosa si celasse dietro quegli
sguardi carichi di rimprovero e colpa.
Ora non sono più tanto sicura di volerlo sapere.
“Ebbene, continuate.” Cerco sicurezza in ogni angolo
dell’anima. La voce è rotta, ma sono un soldato, un
comandante. E’ mio dovere sapere ogni dettaglio di questo
incidente.
Gli occhi di Victor sono pozzi scuri. Le sue labbra si muovono, le parole rotolano fuori.
“Il nome del vostro attendente, madamigella, compariva nella
lista dei prigionieri.” Una pausa. “I prigionieri
incarcerati nell’ala andata a fuoco.”
La fiamma vibra.
Silenzio. E’ solo silenzio.
Il silenzio è un conforto, talvolta una prigione.
A volte solo il vuoto dove dovrebbe esserci un urlo.
“Vi sbagliate.” Distolgo lo sguardo, osservo i decori del baldacchino sopra di noi, mi mordo le labbra.
Il viso di Victor emerge dall’ombra, si avvicina al mio.
“No. Ho controllato personalmente quei registri, madamigella.
Sono desolato…” Allunga una mano verso la mia ma mi
sottraggo alla sua stretta.
La nostra vita insieme si dispiega davanti ai miei occhi.
Ogni lacrima, ogni sorriso.
Ogni goccia di esistenza.
“C’è…C’è
dell’altro.” La voce di Victor mi raggiunge dopo tempo
immemore. E’ lontana, sbiadita.
Lo osservo, distaccata. Il suo profilo risulta sfocato, attraverso il velo di lacrime che mi copre gli occhi.
“Andrè, lui…Non era un prigioniero come gli altri.
Era un prigioniero pagante. O meglio, qualcuno pagava per lui, per
tenerlo lì.”
Continuo a guardare Victor, ma non lo vedo.
Non vedo nulla nemmeno quando le mie gambe mi trascinano fuori dalla stanza, contro il corrimano delle scale.
“Madamig…Oscar!”
Due mani mi afferrano, mi divincolo.
“Lasciatemi, devo andare da lui…devo…”
Mi accascio davanti al primo scalino. Victor mi abbraccia. Sento Nanny arrivare di corsa.
“Lasciatemi, devo andare da lui…Devo andare da
lui…” Mormoro come una nenia, cullata da braccia che non
sono le tue.
Apro gli occhi mestamente e la camera da letto in cui ho trascorso gli ultimi mesi appare al mio sguardo.
Victor, davanti alla finestra, osserva silenzioso la neve che si posa all’esterno.
“Lui non era lì.” Esclamo semplicemente. C’è una nuova sicurezza nella mia voce.
Victor si volta, ha l’aria stanca. Si avvicina lentamente al letto in cui sono stesa.
Una donna nelle mie condizioni non dovrebbe tentare inutili atti di
eroismo, soprattutto quando non c’è nulla che possa fare.
Questo dice la sua espressione tirata.
“Oscar…”
“No.” Lo blocco. “Ascoltate.” Faccio una pausa. “Ho qualcosa da chiedervi.”
Non so da dove iniziare, ma forse è giusto che cominci dalla
verità. Quella verità lampante, eppure mai pronunciata.
“Quello che porto in grembo è il figlio di Andrè. Io lo amo.”
Victor sbatte le palpebre, ma non pronuncia verbo.
Con la mano sinistra mi scosto la manica della camicia da notte dal
polso destro. Una piccola cicatrice a forma di croce compare al mio
sguardo.
“Quando eravamo bambini,” proseguo “abbiamo fatto un
patto. Un patto di sangue. Mi basterebbe quello per saperlo, ma adesso
aspetto un figlio da lui. Un figlio che ha il suo sangue. Io lo so,
Victor. So che Andrè è vivo. Noi abbiamo un legame e, se
questo legame venisse spezzato, lo saprei prima che qualcuno venisse a
mostrarmi un certificato di morte.”
Victor mi osserva, impassibile. Le mie parole devono sembrargli
oltraggiose. Ma non posso spiegare a parole cosa sei per me. Cosa ci
tiene legati.
Ci sono volte in cui le parole, che dicono tutto, non dicono niente.
“So cosa pensate. Andrè è un servitore…”
“Non era a quello che pensavo.” Fa una pausa, poi scuote la
testa. “Non ha importanza. Avete detto che avevate qualcosa
chiedermi.”
Carezzo piano il mio ventre tondo. Se potessi, farei da me. Ma il destino ha voluto diversamente.
“So di aver già approfittato oltremodo della vostra
disponibilità, ma siete rimasta l’unica persona di cui
possa fidarmi.”
“Per voi, Oscar, farei qualunque cosa. Lo sapete.”
Chiudo gli occhi. Sotto il palmo mi pare di avvertire il bambino
allungare una mano e sfiorarmi le dita infondendomi calma e forza.
“Trovate Andrè. Trovatelo, e riportatelo da me.”
Nota dell’autore
Le vacanze sono finite, e io torno a scrivere. Spero che abbiate passato un piacevole agosto…
Io sono stata più acciaccata
di una vecchia carretta, l’età avanza
e…L’aria condizionata non è poi questa grande
invenzione…XD
Vorrei ringraziare, come sempre, tutte le persone che hanno la gentilezza e la pazienza di lasciarmi la loro opinione.
Vorrei inoltre precisare, anche se
credo che questo capitolo parli da sé, che nelle mie storie non
troverete mai un Victor meschino o subdolo. Amo molto questo
personaggio, che trovo uomo d’altri tempi (cosa che in effetti
è) nel suo amare senza speranza senza mai venir meno alla sua
devozione e alla sua fedeltà verso Oscar. Uomini del genere non
esistono, e se esistono si nascondono molto bene!
Ormai mancano solo pochi capitoli alla conclusione. Grazie per aver seguito questa storia in tutti i suoi cambi di rotta^^
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Capitolo 23 *** Tempo fermo ***
23
Sai, penso che la percezione di quanto ci circonda sia variabile da persona a persona.
Non me ne ero mai reso conto, ma è così. Come quelle cose a cui non pensi mai, perché non ne hai bisogno.
Immagini e rumori cui siamo talmente abituati, da non notarli nemmeno
più. Sensazioni che fanno parte del nostro vissuto da sempre,
tanto da scivolare silenziose e inosservate attraverso il nostro animo,
senza quasi lasciarvi traccia.
Invece, adesso, riesco a sentire frastuono anche nel silenzio, e a
provare pace nel fragore. Dormo di giorno, un sonno senza sogni, e
rimango sveglio la notte, notando cose che mai avevo considerato. Come
se mi avessero smontato pezzo per pezzo e rimontato, ma al contrario.
Ricordo che, quando eravamo bambini, l’Uomo degli Orologi era
venuto a palazzo Jarjayes per aggiustare la grande pendola del salone.
In silenzio, l’avevamo osservato scomporre quell’oggetto
misterioso e in perenne movimento, fino a quando non si era
improvvisamente bloccato il giorno prima, e disporne con cura i pezzi
su un tavolo. Nella cassa toracica di quella creatura con ingranaggi e
ruote dentate al posto del cuore qualcosa si era rotto, e il tempo si
era inspiegabilmente fermato. Ricordo di essermi chiesto, con una punta
di angoscia, cosa sarebbe successo se l’Uomo degli Orologi non
l’avesse fatto ripartire, avrei avuto otto anni per sempre?
Poi il pendolo aveva magicamente ripreso ad oscillare, scandendo
secondi, minuti e ore. Dando un senso al tempo, e la vita aveva
ripreso a scorrere.
Oggi mi sento come quell’orologio.
Quello che ho vissuto con te è stato un tempo senza tempo. Una
parentesi fuori dal mondo, un mondo senza ore e senza regole.
Ma le cose, Oscar, sono fatte per rompersi. E anche le persone.
Succede così, all’improvviso. Ci si spezza.
Poi, se si ha fortuna, qualcuno viene a ripararti. Rattoppa e ricuce quel che si può rimettere in sesto.
Ma le ferite dentro, quelle no. Quelle guariscono solo se si è
disposti a guardarsi dentro. E io non credo di volerlo fare.
Non ho tutto questo coraggio.
Dicono che ci si abitua a tutto, quando ci si è costretti. E forse è vero.
Mi sono abituato a portare in giro questo corpo accomodato. Mi sono abituato alla tua assenza.
Ma non smetterò di amarti solo perché quando hanno fatto
ripartire il tempo dentro di me, l’hanno fatto ripartire al
contrario.
Tu sei dappertutto. Non c’è una direzione che mi allontani dal tuo pensiero.
Ma il nostro tempo, quello è finito.
Un petalo di ciliegio cade ai miei piedi, la primavera è esplosa a Parigi.
Oggi dentro ho solo silenzio, a dispetto delle fanfare, dei tamburi e
delle esclamazioni della folla accalcata lungo le vie per assistere
alla sfilata del cocchio reale che si avvia in pompa magna lungo le
strade di Parigi, preceduto e seguito da lunghe file composte di
soldati.
I tuoi soldati.
Ma tu non ci sei.
Mi muovo lentamente, appoggiandomi al bastone. La gamba, dopo tutti questi mesi, mi da ancora qualche difficoltà.
Le sorelle del Sacro Cuore hanno detto che il Buon Dio ha voluto
concedermi questa grazia. Pare che sia un miracolo il fatto che io
abbia ancora una gamba, al posto di un moncherino.
Avrei voluto replicare che il Buon Dio non si era preoccupato di
chiedersi cosa me ne facessi di una gamba, quando non ho più un
cuore, ma ho ritenuto saggio non insistere. Non si discute
sull’Onnipotente con una suora che armeggia con forbici e bisturi.
Di quella notte alla Bastiglia non ricordo molto.
Immagini confuse. Frastuono. Fumo dappertutto…
Ricordo di aver attraversato le fiamme avvolto nelle coperte, verso
quella libertà che la porta andata distrutta mi prometteva.
Ricordo il fuoco che mi avvolgeva, il fumo nei polmoni, la corsa
disperata. Ricordo la sensazione della neve sulla pelle bruciata,
quando mi sono accasciato al suolo, in quel vicolo buio.
Poi, il vuoto.
Mi sono svegliato al convento del Sacro Cuore, parecchi giorni dopo.
Un uomo a cavallo mi ci ha condotto, dicono le sorelle, ma non ho mai
saputo chi fosse. Per giorni interi, sono stato così
confuso…
Ma oggi è un giorno di festa. Nostro Signore è appena
risorto e il Re e la Regina vanno a rendergli omaggio a Notre Dame.
Con l’aiuto del bastone mi sposto tra la folla. Se mi vedessi,
rideresti di me. Non ho che ventidue anni, e sembro già un
vecchio.
Rideresti, si.
In cima alla parata, il tuo secondo Girodelle cavalca impettito. O forse adesso è lui, il nuovo Colonnello.
Da quando ho ripreso a camminare, non posso negare di aver cercato di tornare da te.
Non per parlarti, sia chiaro.
Se prima non potevo garantirti un futuro, adesso meno che mai.
Preferisco che tu mi creda partito per chissà dove, piuttosto
che affrontare la realtà: sono un evaso, zoppico, e se non fosse
per le sorelle del Sacro Cuore, che mi danno alloggio in cambio di
qualche lavoretto ‘da uomo’, non avrei nemmeno un posto
dove stare.
Non vorrei compatirmi, ma in certi frangenti converrai che è il minimo che un uomo possa fare.
Ad ogni modo, una volta mi sono spinto fino a palazzo Jarjayes, sfruttando il passaggio su un calesse.
La casa è rimasta la stessa, ma tu non ci sei più.
Ho saputo che adesso vivi con il conte Girodelle. Dovrebbe essere un
segreto, ma la servitù, che ha occhi dappertutto, ti ha visto
partire con i tuoi bauli sulla sua carrozza in una mite mattina di
ottobre. La nonna è venuta con te.
Spero che tu sia serena, Oscar. Nonostante, al solo pensiero che tu
viva con un altro uomo, ho come l’impressione che mille spilli
trafiggano il mio cuore, credo che tutto sommato sia un uomo sincero.
Che ti ama certamente più di quanto non immagini.
O forse si?
Devo smetterla di farmi certe domande. Ormai sono un uomo…di chiesa, potrei quasi dire.
Vivo immerso nell’incenso e nei rosari borbottati dalle sorelle
tutto il giorno. Simpatiche donne che hanno fatto di necessità
virtù.
Non credo siano tutte ferventi religiose, comunque. Non chiedermi perché, preferiresti non saperlo.
Tuttavia, la solitudine e l’armonia di quel luogo mi hanno ridato un po’ di serenità.
Ma sono ben lontano dall’aver raggiunto la pace. Lo capisco dal
modo in cui la mia mascella si serra nello scrutare Girodelle, i suoi
lineamenti perfetti, i suoi capelli dorati.
Che Dio se lo porti se non è ancora un capellone!
E tu…
Infili le dita dentro quei capelli, giocandoci, come facevi con i miei?
Percorri con la punta delle dita il contorno delle sue labbra? Sono le
sue braccia quelle che ti tengono stretta la notte, quando la luna
illumina i tuoi fianchi nudi?
Deglutisco. Ora lo sento il rumore.
E’ assordante.
E gli occhi di Girodelle, improvvisamente fissi nei miei in un’espressione sbigottita.
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Capitolo 24 *** Come il sole ***
24
Ci vuole coraggio per
vivere, questa è la mia conclusione. Forse dirai che ci sono
arrivato presto, tutto sommato, ma io mi chiedo come possa non averlo
capito prima. Per ventidue anni esistere è stato semplice.
Respirare, svegliarsi all’alba, ridere, piangere, addormentarsi
sotto le stelle. Non ti rendi conto di ciò che vuol dire
finché non ti trascini ai margini dell’esistenza ferito, e
da lì resti a guardare, sgomento, annichilito.
Perché hai capito che non è un gioco. E ti chiedi come si
possa continuare a vivere, sapendo di non avere questo coraggio. E
rimpiangi l’incoscienza e l’inconsapevolezza con cui ti
muovevi prima di sapere che vivere è una maledetta follia,
perché chiunque può strapparti via tutto quello che hai
con la velocità di un battito di ciglia.
Avvicino il volto alla rosa fresca e profumata che si è schiusa
questa mattina. Minuscole gocce di rugiada ne bagnano i petali
delicati. Amo ancora questi fiori, come quando dissi che ti si
addicevano. Ma oggi il mio dovere è un altro.
Con un colpo di forbice trancio via tanta bellezza dal suo stelo.
Questo profumo servirà per un liquore dolcissimo, che le sorelle
producono in gran quantità durante questa stagione. Se tuo padre
vedesse la loro distilleria, impallidirebbe. Inizio a capire come si
tira avanti in un posto tanto solitario…
Voci confuse mi arrivano dal cortile. Abbasso le forbici e mi detergo
il sudore dalla fronte, ed è in questo momento che il mio cuore
perde un colpo.
Suor Madeleine avanza nel giardino verdeggiante del chiosco seguita da
un uomo in divisa. Non ho bisogno di coprirmi gli occhi dal riverbero
del sole per sapere di chi si tratta. Non sono passate neppure
ventiquattro ore da quando i nostri sguardi si sono incrociati e
lasciati tra la folla, prima che io scomparissi nella ressa, ed eccolo
nuovamente al mio cospetto.
“Andrè Grandier.” Mormora solamente, raggiuntomi. Mi
osserva come se volesse accertarsi che sono realmente davanti a lui, in
carne ed ossa, e non un fantasma pronto a dissolversi al primo alito di
vento.
“Conte Girodelle.” Replico senza troppa enfasi, abbassando le forbici. Non vorrei dargli ad intendere male.
Suor Madeleine, appurato che lo sconosciuto in alta uniforme reale
cercava proprio me, il mite tuttofare del convento, si allontana
lentamente. Mi pare quasi di vederla tendere le orecchie fin dove
riesce a sentire.
Io e il conte ci studiamo. Leggo qualcosa nel suo volto, che mi sembra
di riconoscere. Un’ombra grigia sotto le palpebre. Rughe
più marcate sulla fronte spaziosa.
Anche lui conosce il dolore.
“Credevamo foste morto.”
Credevamo?
Levo un sopracciglio.
“Come vedete, invece, sono vivo e vegeto. Un po’
ammaccato…” ribadisco, tastandomi la gamba offesa, su cui
le ustioni in via di guarigione non mi provocano più i tormenti
dei primi tempi. “Ma vivo.”
“Perché non avete tentato di mettervi in contatto con…”
“Con Oscar?” Lo anticipo. Scuoto la testa.
“Preferirei non affrontare questo argomento con voi, conte.
Ditemi piuttosto, perché siete qua? E come sapevate dove
trovarmi?”
Il conte sbatte le palpebre, leggermente stupito. Essere contraddetto
da un servitore deve essere una novità per lui. Ma riacquista in
breve il proverbiale autocontrollo che lo contraddistingue.
“Vi ho intravisto ieri, tra la folla, anche voi mi avete
visto.” Fa una pausa, in cui sembra raccogliere le idee.
“Vi ho fatto seguire, ma vi cercavo da tempo, per la
verità.” Dichiara infine, in tono pacato.
“E posso chiedervi il motivo di tanto disturbo, se è
lecito?” C’è stizza nelle mie parole, ma me ne
accorgo solo dopo averle pronunciate. Quattro mesi di reclusione in
convento non mi hanno reso meno impulsivo, devo darne atto a suor
Marcelle.
Girodelle mi rivolge un’occhiata in tralice. Forse sperava in un
atteggiamento più devoto e deferente da parte mia, ma
dovrà accontentarsi di quel che ha davanti.
“Lei mi ha chiesto di cercarvi, naturalmente.”Sussurra
infine. Le parole restano lì, sospese su di noi. Improvvisamente
mi rendo conto che ho la gola secca e le mani sudate. Stringo nel pungo
lo stelo di quella rosa appena recisa con tanta forza che una spina mi
si conficca nel palmo, ricordandomi, con una fitta, che la vita ha
aculei affilati pronti a trafiggerti alla prima occasione.
Distolgo lo sguardo. Pronunciare le parole che rivolgo al conte è come ingoiare cenere.
“Io e Oscar non abbiamo più nulla da spartire. Io ho la
mia vita e lei la sua. Con voi.” Mormoro, cercando di distogliere
dalla mente l’ultimo ricordo che ho di te, quando volevi seguirmi
e affrontare il mondo fuori con me.
Ecco cos’è il mondo Oscar, adesso l’hai capito?
Sento lo sguardo di Girodelle su di me. Sta cercando le parole.
“E’ vero, madamigella Oscar è ospite a casa mia,
anche se non so come vi siate procurato quest’informazione.
Evidentemente deve importarvi più di quanto vogliate dare ad
intendere. Ad ogni modo le cose non stanno come
immaginate…”
“Non insistete, conte!” Con uno scatto d’ira lancio a
terra la rosa che mi ha ferito la mano. Alcuni petali si staccano,
giacendo molli tra l’erba.
Il silenzio cala su di noi, carico di tensione. La spada tentenna al
fianco di Girodelle. Sono certo, dalla sua espressione, che se potesse
la userebbe senza scrupoli.
“Siete un vile.” Afferma infine il conte, in tono duro.
Il sangue mi sale al cervello. Chi è questo damerino che si
permette di venire qua e sputare sentenze su quello che provo? Riporto
il mio sguardo, ora carico d’ira, nel suo. Le carte sono ormai in
tavola.
“Un vile, dite? Voi non sapete quello che ho passato. Vi prego di
andarvene e..e di non riferire questo dialogo ad Oscar. Lei si
merita una vita migliore.”
“Ne convengo.” Asserisce Girodelle in tono tagliente.
“Ma lei non vuole una vita migliore. Vuole voi.” Sussurra
dopo qualche secondo. E gli costa, glie lo leggo nello sguardo.
L’assenza di rumori rende l’atmosfera quasi surreale. Apro la bocca, poi la richiudo.
Girodelle inclina la testa, il suo sguardo si abbassa alla rosa che giace malamente al suolo.
“Non si dovrebbe essere tanto avventati con qualcosa di
così bello e delicato. Una volta, le ho regalato delle rose,
pensavo che le si addicessero, e lo penso ancora. Ma una rosa ha
bisogno di luce e Oscar sta appassendo, senza di voi. Se non
l’amassi come la amo non sarei di certo qua a chiedervi quanto vi
sto chiedendo. Lei ha bisogno di voi, e voi vi permettete anche di fare
il prezioso.”
Queste parole mi feriscono peggio di quanto avrebbe potuto fare la sua spada.
Le parole hanno questo potere.
“Io non posso…Io, le darei solo dolore.” balbetto.
In questi mesi ho cercato di convincermi che tuo padre avesse ragione
di fare ciò che ha fatto. Forse non nei metodi, ma certo nelle
intenzioni. Ti avrei trascinato nel fango, portandoti con me. E tu non
meriti una vita di stenti al mio fianco.
Girodelle sospira.
“Volete sapere cosa penso? Penso che voi vogliate crogiolarvi in
questa scusa. E’ semplice nascondersi dietro al proprio dolore.
Pensate di avere coraggio standole lontano, invece la vostra è
solo codardia. E’ facile dichiarare di aver fallito, cullarsi
nella propria rassegnazione. Il difficile è guardarsi dentro e
trovare la forza di affrontare la realtà. Cambiare. Assecondare
la corrente e ributtarcisi dentro.” Girodelle fa un passo avanti,
avvicinando il viso al mio. “So cosa vi ha fatto suo padre. Ma
credetemi, aver paura di vivere, è la più riprovevole
forma di scarsa volontà morale che esista. Una scusa degna del
più ignavo degli uomini. Ricordate che ogni sconfitta non
è altro che un occasione per rimettersi in gioco.”
Sbatto le palpebre. Le forbici mi cadono a terra.
E capisco che ha ragione.
Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Ma nemmeno che non sarebbe stato sorprendente e straordinario.
Come il sole.
Come la pioggia.
Come le rose.
“Portatemi da lei.”
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Capitolo 25 *** Dolce è la vittoria ***
25
Stavo mangiando una mela, quando è successo.
Il mondo si è capovolto e ha iniziato a gocciolare ai miei
piedi, lasciandomi intontita, confusa. Ricordo che la mela mi è
caduta di mano, rotolando sotto una poltrona. Ricordo la scintilla di
comprensione che si è accesa sul volto di Nanny mentre imburrava
una fetta di pane da porgermi. Ricordo di aver guardato verso il mio
ventre rotondo e aver pensato che avevo paura.
Una maledetta paura.
Ma un soldato non deve avere paura. Mai.
“Spingete, coraggio, spingete!” Il tono perentorio della
levatrice non ammette repliche. Pare che abbia un'altra puerpera cui
fare visita dopo di me, e non ha tempo da perdere.
Non ha idea di come mi senta, o forse sì, ma non le importa
comunque. Non sono la prima donna a mettere al mondo un figlio, ma in
questo momento nulla può distogliermi da questo pensiero.
Il pensiero che nessuno, prima di me, abbia patito un simile dolore.
Come se le carni mi si stessero straziando e il ventre andasse
dilaniandosi. Come se tutto l’ossigeno presente nella stanza non
fosse sufficiente ai miei polmoni.
E’ dunque questo il prezzo che ogni donna deve pagare per
riparare al peccato commesso dalla nostra progenitrice? Inizio a
pensare che vivere come un uomo non fosse una scelta poi tanto
insensata e, se non fosse che dal giorno di Natale non rivolgo
più la parola a mio padre, mi premurerei di dargliene atto.
Le dita artigliate alle lenzuola sfatte, digrigno i denti come raramente mi è capitato di fare. E spingo.
“Bene, così. Brava. Riesco a vedere la testa…spingete!”
Un singulto spazientito esce dalle mie labbra. Sento i capelli appiccicati alla fronte e alle guance.
“N-non con..ti…nuate a ripeter…lo,
dan…dannazione!” Sbotto, prendendo fiato. Buon Dio, se i
miei soldati avevano pensato di avere un colonnello esigente, era
perché non avevano mai avuto a che fare con Madame Cecile.
“Ah, ma che caratterino! Volete proprio farlo da sola questo
bambino!” Esclama, sollevando il volto accigliato dalle mie cosce
tese.
Ed è in questo momento, un momento cruciale, che le mie difese crollano.
Spalanco gli occhi nel dolore.
No, io questo bambino non volevo farlo da sola. Non voglio farlo da sola.
Le viscere mi si attorcigliano. Il dolore mi appanna lo sguardo. E
quell’urlo che da nove mesi porto imprigionato dentro finalmente
esplode.
Si irradia dalla mia gola come uno stormo di uccelli che si levano allo
sparo di un fucile, colma ogni spazio della stanza, rimbomba tra le
pareti.
Ovunque tu sia, spero tu possa sentirlo, perché parla di te.
Grido e grido il tuo nome, fino a non avere più fiato, fino a
sentire la gola in fiamme, le mani molli, il volto inzuppato di sudore.
E quando sembra che urlare non abbia più senso, perché
non è altro che un eco che va spegnendosi lontano, una nuova
voce copre la mia, sconosciuta ma altrettanto potente.
E se le mie urla gridavano dolore e perdita, questa nuova voce reclama
aria e vita, con una prepotenza che fa sembrare i miei lamenti i
cinguettii di un uccello ferito.
Aria e vita.
E mi basta udirla un istante per azzittirmi di colpo, rapita,
completamente soggiogata. Sbatto le palpebre, smarrita, e
improvvisamente realizzo il vuoto che ho dentro.
Dove prima c’era un cuore, ora ne batte una sola metà.
L’altra, il resto di me, palpita fuori dal mio corpo e la sua
voce, quella voce che per nove mesi ho solo immaginato di poter udire,
raggiunge le mie orecchie con prepotenza, entrandovi dentro e
spingendomi, senza che me ne renda conto, a tendermi verso di essa.
E’ un impulso quasi irrazionale. Qualcosa di potente e
sconosciuto, ma inevitabile. Il sentimento più forte che abbia
mai provato in questa vita e nelle altre, se mai ne ho vissute.
Una catena fatta di anelli impossibili da spezzare si svolge tra me e
la creatura umida di sangue e sfinita di pianto che tiene tra le
braccia Madame Cecile. E allora lo so. Questo è un legame che si
spezzerà solo con la morte. Forse nemmeno.
“Ma guardate che meraviglia!” Esclama gaia la levatrice
“Siete stata bravissima! E’ proprio un…”
“Non ditelo.” La anticipo, ansimando. Ho finito il fiato e
la mia gola sanguina. Ma non posso rischiare di sapere oltre. Le sue
urla da sole hanno già riempito tutto lo spazio che avevo
dentro.
“Non voglio saperlo.” Distolgo lo sguardo, evitando di
guardare verso il panno bianco che si muove tra le braccia della donna.
I miei occhi trovano Nanny che, con le lacrime agli occhi, non ha mai
abbandonato il mio fianco.
“Portatelo via. Trovategli una famiglia che l’ami…” La mia voce è rotta dal pianto.
In questi mesi ho davvero creduto che, infine, saresti tornato. Ma le
mie erano solo illusioni, lo capisco adesso che sono veramente sola.
“Bambina…”
“Nanny, per favore. Voglio stare sola.”
Tua nonna annuisce. La vedo sollevarsi e accostarsi a madame Cecile,
prendendo il fagotto dalle sue braccia. Aspetto che la porta si chiuda
prima di raggomitolarmi su un fianco del letto e piangere tutte le
lacrime che mi porto dentro da mesi.
Della Oscar François de Jarjayes che conoscevi, non rimangono che cocci frantumati.
La stanchezza e il dolore sordo che avverto tra le cosce mi fanno
presto precipitare in uno stato di semicoscienza ed è solo
quando le molle del letto cigolano sotto il peso di qualcuno che vi si
siede che riacquisto una vaga consapevolezza dell’ambiente
circostante.
“Per favore…” Sussurro, con voce impastata. Non
voglio ascoltare prediche ne rassicurazioni. Voglio stare sola.
C’è silenzio nella stanza, come se le pareti avessero
assorbito tutte le urla che solo pochi minuti prima riempivano
l’aria, lasciando solo quiete.
“Va bene. Non ti disturberò a lungo, so che hai bisogno di
riposare.” Dice una voce, che sembra arrivare dalla nebbia in cui
vaga la mia coscienza. “Volevo solo che tu sapessi quanto
è bella nostra figlia.”
Il mio cuore accelera i suoi battiti.
Non può essere vero.
“Credo che abbia ereditato i miei capelli. Ne ha tantissimi, mi
ricorda un po’ quello spazzolone che la nonna usava per fare le
pulizie…” Insiste la voce. “Per gli occhi,
beh…quello si vedrà col tempo. Il colore intendo. Ma le
mani, sono le tue, Oscar. Dita lunghe e affusolate, non mi
dispiacerebbe se diventasse una pianista, un giorno,
chissà…”
Deglutisco, gli occhi sgranati verso la parete. Ho paura che voltandomi
svanirai come un refolo di vento. Come è accaduto in tutti i
sogni che ho fatto.
E’ il silenzio che cala all’improvviso che mi fa improvvisamente paura, spingendomi a parlare.
“Ti…Ti ho aspettato tanto.”
“Lo so.” Silenzio. “Non trovavo la strada, perdonami. Perdonami.”
Ruoto il volto, piano. Ho gli occhi gonfi, i capelli appiccicati al
viso. Attraverso le ciglia imperlate di lacrime, il tuo volto mi appare
vicino e familiare. I nostri occhi si osservano, si leggono dentro e il
tempo sembra riavvolgersi su sé stesso. Tra le tue braccia,
nostra figlia si agita avvolta nelle coperte.
“E’…” farfuglio, senza riuscire a distogliere
lo sguardo da quel piccolo involto di tessuto bianco, da cui mi pare di
scorgere un ciuffo di capelli scuri come ombre.
“E’ bellissima. E’ la cosa più bella che io abbia mai visto.” Mi sorridi.
Ti avvicini, e mi sollevo debolmente.
Quando sei ormai ad un soffio, ti fermi. I tuoi occhi mi scrutano. I
tuoi capelli sono corti, adesso, e piccole cicatrici sconosciute
solcano il tuo volto, senza tuttavia deturparne la bellezza. Sembri
più adulto. Un uomo, non il ragazzo che ricordavo.
Allungo una mano verso la tua nuca, ti attiro a me. Le nostre fronti si toccano e chiudo gli occhi.
“Non ho mai smesso di aspettare che tornassi da me…” sussurro.
“Adesso sono qua.”
Riapro gli occhi, li abbasso, senza muovermi.
Una lacrima mi riga il volto, cadendo dal mio mento alla guancia di
nostra figlia. Muove i pugni, contrariata, stringe gli occhi,
spalancando le piccole labbra e mettendo in mostra le gengive nude.
Hai ragione, è bellissima. La cosa più bella che io abbia mai visto.
La cosa più bella che io abbia mai fatto.
Non ci sono parole per esprimere il calore che si sta irradiando ovunque, dentro di me.
Con le dita della mano le sfioro appena la guancia rotonda e soffice.
Come un petalo di rosa. I suoi occhi si spalancano, curiosi, e si
posano nei miei.
E in un attimo il passato è dimenticato. Non è mai
esistito. La persona che ero prima di questo momento svanita
chissà dove.
Un singhiozzo fuoriesce dalle mie labbra, tramutandosi in un sorriso.
La mia mano si posa a coppa sul suo capo minuscolo, saggiando la
morbidezza di quei capelli disordinati e corvini.
“Hai ragione, Andrè. Somiglia davvero allo scopettone di Nanny!”
Parliamo. Sdraiati sul mio letto parliamo per quelle che mi sembrano ore.
I volti vicini, le fronti che si sfiorano, le dita che si cercano. Tra
di noi, nostra figlia, ormai sazia, dorme con i pugni stretti e la
fronte aggrottata. Un cipiglio che denota una sospetta somiglianza con
mio padre.
Il sole compie la sua traversata nel cielo e solo quando tinge di arancio le pareti della stanza sento bussare alla porta.
Ti sollevi, rimanendo seduto sul bordo del letto e mi sembra di vederti
rilassare la mascella tesa quando al tuo sguardo appare Victor.
“Madamigella Oscar, non volevo disturbarvi. Come vi sentite?”
Gli sorrido. E’ un sorriso sincero, aperto. Il primo vero sorriso in nove mesi.
“Meravigliosamente.”
Victor, rigido davanti alla porta, distende la fronte.
“Ne sono lieto.” Mi sembra impacciato.
“Non volete conoscere mia figlia, Victor?” Mi sollevo tra i cuscini, sollevando la bambina tra le braccia.
Un gorgoglio indispettito esce dalle sue labbra, ma il sonno ha il
sopravvento. Le poso il palmo sotto la nuca, sorreggendola. Nessuno me
lo ha spiegato, ma sembra che io sia stata creata per questo. Era tutto
dentro di me, pronto all’uso in caso di evenienza.
Victor si avvicina, sorridendo vagamente a disagio. Anche tu guardi la bambina. Sembri il padre più orgoglioso del mondo.
Tu, un padre. Mi sembra ieri che mi infilavi biscotti sbriciolati nel
colletto della camicia, e adesso abbiamo una figlia insieme. La vita
può davvero sorprendere alle volte.
“E’ davvero…bellissima. Le mie congratulazioni, Oscar. Avete già pensato ad un nome?”
I miei occhi si posano brevemente sul volto della bambina, poi nei tuoi, leggermente perplessi.
Allungo una mano verso quella di Victor, senza smettere di guardarti, e la stringo nella mia.
“Sì, la bambina avrà lo stesso nome del suo padrino.” Annuncio.
Il mio sguardo incrocia quello del mio secondo. L’uomo che ha salvato la donna che non avrei mai potuto diventare.
“Senza di voi, Victor, tutto questo non sarebbe stato possibile.
Siete il migliore amico che potessi mai avere, vi devo tutto.”
Sussurro, davanti ai suoi occhi divenuti improvvisamente lucidi.
“Victoire…” Mormori. “Victoire, è un nome bellissimo.”
E lo è davvero.
Dolce è la vittoria, amore mio.
Nota dell’autore
Siamo agli sgoccioli ormai^^ Ancora un capitolo e poi l’epilogo…
Non so davvero come ringraziare tutte
le persone che seguono, leggono e commentano questa storia. Il vostro
supporto è sempre impagabile, lo sapete, si?
Vi abbraccio
|
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Capitolo 26 *** La Fata buona e il prode Cavaliere ***
26
Caldo, un caldo
innaturale invade l’ambiente. Mi slaccio il nodo della cravatta,
arrotolo le maniche della camicia, ma non basta. Lunghe gocce di sudore
mi colano dalle tempie.
Il fumo è dappertutto, invade i miei polmoni e mi impedisce di
vedere oltre. La nebbia mi avvolge e vedo il mio corpo consumarsi
lentamente, i vestiti tramutarsi in cenere, le ossa candide delle
braccia ardere come tizzoni ardenti…
Mi sveglio di soprassalto, la guancia mi scivola dal palmo. Ansimo.
E’ buio, intorno, e fresco.
L’aria è nitida e pura, e profuma di fiori. E’ il
gelsomino che si arrampica lungo i muri e corre intorno alla finestra a
impregnare di profumo la stanza in cui dormi, ora ricordo.
I miei occhi si posano sul tuo letto sfatto e lo trovano vuoto. Ma non
devo guardarmi a lungo per scorgerti accanto alla finestra.
La camicia da notte, di un tessuto impalpabile, non lascia molto
all’immaginazione, ma non è quello a catturare la mia
attenzione. Ti muovi piano davanti al riflesso della luna, dolcemente,
cullando nostra figlia.
Nostra figlia…
Solo poche ore fa non avrei mai creduto che tanta perfezione potesse
esistere. Che avrei amato così prepotentemente qualcuno dopo un
solo sguardo.
Quando sono arrivato alla villa avevo paura. Una maledetta paura.
Sono state le tue urla a distogliermi dal mio egoismo, dal mio stupido egocentrismo.
Gridavi il mio nome. Lo sguardo che Girodelle ha lanciato alle scale ha fatto il resto.
Ho salito i gradini due a due, senza chiedermi come e perché, senza badare al dolore sordo che sentivo alla gamba lesa.
A interrompere la mia corsa, davanti alla tua porta, la nonna.
La nonna sbigottita. La nonna confusa, meravigliata, stupefatta.
La nonna che reggeva tra le braccia nostra figlia.
E’ bastato uno sguardo, ed ero suo. Perso in quel piccolo volto
vermiglio e congestionato di grida, in quegli occhi spalancati e
curiosi, attenti.
Ho allungato le braccia e lei era lì. Un peso dolcissimo, deposto per sempre sul mio cuore.
Ho vissuto a lungo con te, Oscar, prima di comprendere quale fosse la reale portata del sentimento che mi lega a te.
Con Victoire è bastato un secondo. Ed è giusto
così, perché lei è parte di te, che sei parte di
me. Lei è fatta del nostro sangue e dei nostri respiri.
E’ intessuta di sogni e colma d’amore.
Osservo la tua figura snella camminare dondolandosi. Mi pare di
sentire, biascicata in sottofondo, l’eco di una nenia che cantava
la nonna quando eravamo bambini.
Sei insicura, lo capisco da come farfugli, un po’ stentatamente, facendo lunghe pause. Ma ai miei occhi, sei perfetta.
Vent’anni di dura educazione maschile nulla hanno potuto contro la saggezza atavica del tu sesso.
Certe cose si hanno dentro e basta.
Ti osservo e il mio animo si rasserena. Mi rimetto comodo sulla
poltrona sul quale mi sono addormentato per lasciarti riposare, e mi
lascio cullare dalle tue parole.
Continuerò a sognare il fuoco a lungo, forse per sempre, e una
parte di me seguiterà a brancolare senza requie tra le tenebre.
Ma tu sarai il balsamo su queste ferite e la luce nelle notti buie della mia esistenza.
Tu mi salverai, Oscar.
Tu mi hai già salvato. E io non voglio chiedere più nulla a questa vita.
“Buon Dio, cosa mi tocca sentire!” Esclama la nonna, al colmo dell’indignazione.
Un tiepido sole illumina le pareti, bagnando il pavimento di macchie di luce.
Passeggio per la stanza muovendo piano la mano sulla schiena delicata
di Victoire. Immagino minuscole vertebre e una impercettibile colonna
vertebrale correre sotto le mie dita, attraverso la sua pelle profumata
e non smetto di sorprendermi di quanta perfezione ci sia, anche nelle
cose più piccole.
Seduta sul letto, stringi i nastri sciolti della camicia aperta sul seno con uno sguardo pensieroso.
“La prozia Adeline? Ma come ti è venuto in mente, Andrè?”
Mi avvicino a te, scostando la bambina dalla mia spalla. Un filo di
saliva si tende dalla mia camicia alle sue piccole labbra a cuore.
“Andiamo Oscar, guardala bene. Adesso immaginala con un turbante
di piume di struzzo e un grosso e tremolante neo finto, proprio
qua…” Indico la guanciotta piena e rosea di nostra figlia,
e lei emette un vagito di protesta.
Evidentemente nemmeno Victoire è molto contenta di assomigliare
alla prozia Adeline. La pecora nera della famiglia, nonché
motivo di imbarazzo ed eterno cruccio di tuo padre.
Mi guardi con il sopracciglio levato.
“Andrè, devo forse ricordarti che per anni, da bambini, ci
siamo chiesti se la prozia Adeline fosse effettivamente una zia e non,
piuttosto, uno zio?”
Sbuffo, riprendendo a passeggiare con Victoire stretta al petto.
“Ma solo perché aveva i baffi!”
Il tuo sopracciglio non sembra voler scendere a compromessi.
“Andrè…”
“E fumava la pipa. Beh, era una donna piuttosto emancipata per i tempi. Non vorresti che Victoire lo fosse?”
“Andrè, mia figlia non assomiglia affatto alla prozia Adeline, levatelo dalla testa!”
Sorrido tra me e me, scostando il capo di nostra figlia dal mio cuore.
“La mamma se la prende solo perché a lei la pipa non ha
mai donato…” Le sussurro alle orecchie. Due minuscole ali
di farfalla.
“Se è per questo nemmeno i turbanti di
struzzo…” Puntualizzi, incrociando le braccia al petto e
guardandomi di sbieco.
“Mi è sempre stata simpatica la prozia Adeline…”
“Solo perché ti ha insegnato a barare a carte.”
“Mi riempiva le tasche di dolci…”
“Per farsi versare due volte il brandy.”
“…E una volta mi ha anche allungato un Luigi sottobanco.”
“Sì, quando ti ha chiesto di rubare il parrucchino di mio padre e metterlo in testa al suo cavallo.”
“La prozia Adeline era una che sapeva come divertirsi!”
“La prozia Adeline era matta, Andrè.”
Sorrido tra me e me, carezzando la testolina lanuginosa di nostra figlia.
“Tu vorrai bene a papà, vero fragolina? Dovrai volergliene
tanto, perché come vedi la mamma non glie ne fa passare
una…”
“Oh, insomma!” Esclama infine la nonna, prendendo la
piccola Victoire dalle mie braccia e mettendo fine al nostro scambio di
opinioni. “Che orrore paragonare questo delizioso frugoletto
a…a…quella donna.”
Quella donna è il
massimo insulto cui la nonna può arrivare in tua presenza, ma
sono certo abbia anche dell’altro nel suo arsenale. Lo so per
esperienza.
La osservo divertito cullare e vezzeggiare nostra figlia e vengo a
stendermi al tuo fianco, posandoti un bacio delicato su una guancia,
che tu ricambi con un buffetto.
“La prozia Adeline…Che idee!” Borbotta la nonna,
osservando la bambina con aria beata “Piuttosto, io direi che
somigli a…” ma non ha il coraggio di dirlo.
Abbiamo notato tutti la fronte corrugata e il broncio perenne sul
visino della piccola Victoire, e i suoi pugni serrati, stretti come
morse quando pretende qualcosa.
E non c’è alcun bisogno di aspettare per sapere che i suoi
occhi, ora velati d’ombra, saranno azzurri e limpidi.
Ma non come i tuoi, che hanno la dolcezza e il colore vellutato del
mare e del cielo. I suoi saranno tersi come acqua di fonte e
altrettanto cristallini. Indomiti.
Un rumore improvviso ci distoglie dalle nostre chiacchiere. Una carrozza si è appena fermata nel cortile.
“Victor?” Mormora Oscar, osservando pensierosa la finestra
aperta, da cui entra l’odore della primavera. Mi levo dal letto,
affacciandomi, e il mio cuore perde un colpo.
Un uomo in alta uniforme scende dal predellino e i suoi occhi si levano
intimidatori alla casa. Involontariamente arretro di un passo,
deglutendo, senza riuscire a distogliere lo sguardo.
“Andrè?” Mormori, incerta davanti alla mia reazione.
“E’ tuo padre, Oscar.” Deglutisco, incerto. Vedo il
Generale scrollare le spalle e voltarsi verso la carrozza, tendendo il
braccio. Una mano inguantata si tende dall’abitacolo, posandosi
nella sua e una donna completamente velata scende al suo seguito. La
osservo incuriosito, ma nella bassa statura e nella corporatura ben
modellata non mi pare di scorgere nessuna delle tue sorelle…
“Non voglio vederlo.” Esclami perentoria. Tendi le braccia
alla nonna, che ti porge la bambina e la stringi a te. “Non
permettergli di entrare, Nanny…”
La nonna è combattuta. Io sospiro. Sapevo che questo momento
sarebbe arrivato. Che sarei dovuto scendere dal paradiso, prima o poi,
per tornare nel mondo, un mondo in cui io sono un uomo senza diritti e
tu una contessa. Un mondo in cui abbiamo una figlia illegittima che
potrebbe esserci strappata via senza troppi complimenti.
“Oscar…E’ pur sempre tuo padre.” Mi costringo a mormorare, davanti al tuo sguardo di terrore.
“Andrè, ti stai forse dimenticando quello che ti ha
fatto?” C’è una nota stridula nella tua voce.
“No. No…Ma lui ti vuole bene, e anche tu glie ne vuoi. E
non è giusto che non vi rivolgiate più la parola a causa
mia. Questa situazione andava affrontata, prima o poi…”
“Non lo conosci…”
“Io credo di sì, invece. E poi, c’è una donna
con lui…Non credo arriverà a commettere un omicidio
davanti a testimoni, non credi?”
“Ma…”
Le tue parole vengono bloccate da un discreto bussare alla porta. La
nonna si accosta titubante alla maniglia e io mi avvicino protettivo a
te e Victoire. Finché avrò vita giuro che vi
difenderò da tutto e da tutti.
Ma non è il Generale quello che ci troviamo davanti, quando la
cameriera di Girodelle, a capo chino, si fa da parte per lasciare
entrare la donna misteriosa, che avanza in un frusciare di gonne.
La dama scosta il velo, e l’incarnato più bello
dell’intera Francia fa capolino dagli strati di pizzo: le guance
rosee e i brillanti occhi azzurri la fanno apparire ancora una bambina,
e probabilmente Maria Antonietta lo è davvero, con quel modo di
fare gioioso e privo di formalismi.
“Vostra Maestà!” Esclamiamo io, te e la nonna, chinando il capo, assolutamente esterrefatti.
“Oh, Oscar! Sono così lieta per voi…ero tanto in
pena!” Esclama gaia la Regina, avvicinandosi. Alle sue spalle,
tuo padre appare rigido e torvo nel riquadro della porta, osservando la
scena senza dire una parola.
Mi scosto per farla avvicinare al tuo letto. Sembra il ritratto della gioia.
“E’ un maschietto o una femminuccia?”
“E’ una bambina, Maestà…” Mormori, perplessa, ma innegabilmente lieta della visita inaspettata.
“E’ deliziosa! Che amore…Posso?” Esclama la
Regina, tendendo le mani. Appena Victoire le viene deposta in braccia
inizia subito a gorgogliare e farle versetti buffi di ogni sorta,
cullandola con amore.
Tuo padre non accenna a muoversi, nemmeno quando la Regina si volta verso di lui con un sorriso.
“Generale Jarjayes, avete una nipotina adorabile! Non venite a
vederla? Oh, è un tesoro…Guardate che occhioni, e quanti
capelli! Accipicchia Generale, mi ricorda voi in maniera
impressionante!”
Io e Oscar sospiriamo lanciandoci un’occhiata.
Maria Antonietta gorgogliando di delizia culla la bambina con amorevole tenerezza.
“Sapete Oscar, mi siete mancata moltissimo. Per fortuna il
maggiore Girodelle non mancava di tenermi informata sulle vostre
condizioni. Ma sapete, ho dovuto faticare per cavargli le parole di
bocca all’inizio: quell’uomo è più riservato
di un gufo! Poi, quando ho saputo…Ho praticamente costretto
vostro padre a condurmi da voi! Un rapimento in piena regola si
direbbe!” Esclama, estasiata dall’insolita avventura. Poi,
avvicinandosi, ti sussurra all’orecchio: “Poveretto, credo
si senta alquanto in imbarazzo per la situazione. Ma non mi avrebbe
negato questo piacere Oscar. Vostro padre è davvero un
brav’uomo. E vi ama teneramente, era tanto nervoso durante il
viaggio in carrozza…Ah, ma quasi mi scordavo!” Maria
Antonietta sembra cercare qualcosa in una piccola borsa che porta
appesa al polso. Ne estrae un foglio di pergamena sgualcito e
spiegazzato, chiuso da un sigillo di ceralacca. “E’ per
voi, Oscar, e per Andrè, naturalmente.” Il suo sorriso
è semplice e diretto. Scalda il cuore.
“Cosa contiene, Maestà?” Sei titubante. La Regina sorride.
“E’ un dispaccio reale, vergato dal Re.
Un’autorizzazione di matrimonio. Io mi sono permessa di
aggiungere una piccola concessione di titolo per Andrè. Non
è molto, ma è pur sempre un titolo. E’ stato vostro
padre a fare la richiesta…”
La mia bocca si spalanca.
I tuoi occhi, nel sentire queste parole, si posano nei suoi, a lungo.
E i suoi nei tuoi.
Poi, un colpo di tosse.
“Oscar…Sono lieto di vedere che stai bene.”
C’è un’incertezza che non conosco nella sua voce,
lui che è sempre tanto sicuro. Il suo sguardo cerca il mio.
“Andrè…”
“Signore.”
“Posso parlarti, in privato?”
Tentenno, solo un secondo. Sento il tuo sguardo su di me.
“Si, signore.”
Ho imparato che le cose vanno affrontate quando è il momento di affrontarle. Perché arriva sempre questo momento.
La porta si chiude alle nostre spalle, il corridoio è silenzioso.
“Andrè io…Ho sbagliato con te.”
“Volevate proteggere vostra figlia. Il suo onore.”
“Si. Si, e lo voglio ancora. Ma…Ho sbagliato nei modi,
ecco. Sono stato molto in pena, molto in pena, per te.” I suoi
occhi si posano nei miei. “Puoi perdonarmi?”
Si, mia figlia ha ereditato i suoi occhi. Non solo nella fierezza, ma anche nella dignità e nella saggezza.
“Signore, non posso negare di avervi odiato. E per lunghe notti,
quand’ero in prigione, vi ho maledetto senza tregua.”
Faccio una pausa, lui mi osserva, impassibile. “Poi, lentamente,
ho compreso le vostre ragioni. Avete fatto ciò che in quel
momento vi è sembrata l’unica soluzione. Perché
amate Oscar sopra ogni cosa.”
“Si, è così, Andrè. Amo questa figlia
più di quanto mi abbia dato il Signore Iddio nella vita.”
Annuisco.
“Voglio che sappiate che anch’io amo Oscar più di
ogni cosa. Più della mia stessa vita. E adesso…Adesso che
anch’io sono un padre, riesco anche a comprendere meglio le
vostre ragioni. E vi perdono.”
“Voglio che tu sappia che ti ho sempre considerato come un
figlio, Andrè.” Fa una pausa “Hai coraggio e
umiltà. Sarai un buon padre.”
Sbatto le palpebre. Qualcosa pizzica all’angolo del mio occhio sinistro.
“Grazie, signore.”
“Vieni, rientriamo. Voglio conoscere mia nipote…Ah, Andrè?”
“Si, signore?”
“Sono lieto che la gamba sia salva. Era in condizioni talmente
pietose, quando ti ho trovato, che ho avuto paura non ce
l’avresti fatta a conservarla. Devo ammettere che le suore sanno
il fatto loro però.”
Quando rientriamo nella stanza devo avere uno sguardo talmente
stupefatto che mi lanci un’occhiata allarmata, ma subito la tua
fronte si distende.
Tuo padre mi precede, sembra si sia tolto un grosso peso dal cuore.
“Posso vedere mio nipote?” Esclama rivolto a Nanny, che ha
ripreso la bambina dalle mani della Regina la quale, seduta sulla
poltrona che ho occupato questa notte, sta snocciolando una lunga serie
di aneddoti e pettegolezzi su quanto accaduto a corte durante la tua
assenza senza mai prendere fiato.
Il riso si gela sulle labbra della nonna.
“Vorrete dire, vostra nipote, conte…vero?”
“E io cos’ho detto? Mio nipote, dico bene, no?”
Il silenzio cala sui presenti, interrotto solo dal placido ronzio di una coppia di mosche.
“Non sapete proprio stare allo scherzo.” Conclude il
Generale con un accenno di sorriso. “Datemi la bambina,
Nanny.”
Victoire viene posata tra le braccia del nonno e lo osserva con una smorfia, mentre tutti tratteniamo il respiro.
E’ una guerra tra Titani.
Poi le rughe sulla fronte di tuo padre si distendono mentre con un dito le sfiora piano una guancia.
“Le donne saranno la mia rovina. Ma è una splendida
bambina, Oscar. Le mie congratulazioni. Anche se…” Il suo
sguardo pare corrucciarsi. Gli occhi si stringono. “Diavolo, non
vi sembra che somigli alla prozia Adeline?”
Nota dell’autore
Un capitolo decisamente leggero ed ottimista. Volevo farmi perdonare tutti i drammi passatiXD
Sfora indiscutibilmente la flashfic,
ma mi dispiaceva spezzarlo in due, così l’ho caricato
intero^^ Spero che vorrete farmi sapere le vostre, sempre
apprezzatissime, impressioni.
A questa storia manca ormai solo l’epilogo, che conto di caricare a breve…
Un doveroso grazie, come sempre, a
tutte le splendide parole che avete avuto fin’ora per me. Non
penso di meritare tanto, ma grazie. Davvero grazie.
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Capitolo 27 *** Vivere ***
27
Il leggero frusciare del vento tra l’erba, il canto di un grillo in lontananza, il profumo dolciastro dei fiori di campo.
Questo momento.
Apro gli occhi e sorrido al cielo, riparandomi dal riverbero del sole con una mano.
La tua voce riempie l’aria, divertita, sporcata dal ronzio delle api e dal frinire delle cicale.
“Coraggio piccola, vieni da papà. Pa-pà…Pa-pà…”
“Da-da-da-da. Ghhhh…”
Sorride, Victoire, con soli due denti a riempire la cornice di quella
labbra a cuore dolcissime e perfette. Due minuscole perle bianche,
piazzate lì nelle gengive nude, che la fanno assomigliare ad un
vispo scoiattolo con una cuffietta gialla in testa.
Tu non desisti.
“Non è difficile topolino. Pa-pà…”
“Da-da-da. Bap.”
Nostra figlia, per nulla interessata ai tuoi sforzi, chiacchiera per
conto suo. Sorride di delizia, agitando le gambe nude nell’erba.
Poi rimane rapita guardando un fiore, che cattura tutta la sua
attenzione.
Ti lasci cadere all’indietro, al mio fianco, sospirando esausto per via dell’insuccesso, ma segretamente divertito.
“Ci rinuncio. Essere genitore è un lavoraccio.”
Borbotti, sollevando una ciocca dei miei capelli e lasciandola
scivolare tra le dita. “Oltretutto, scarsamente retribuito. Quasi
quasi, torno a fare lo stalliere…Chissà se tuo padre
sarebbe disposto a riassumermi…”
Ti sorrido, osservando la bellezza sul tuo volto.
“Che bisogno c’è di chiedere a mio padre? Ti assumo
io. Rimpiango i tempi in cui ti aggiravi tra le scuderie e il cortile
in modo assolutamente impresentabile, facendo arrossire tutte le
cameriere.”
I tuoi occhi si accendono di malizia.
“Ah, sì?”
Ti fai un po’ più vicino. “E tu, non arrossivi?”
“Io? No.”
“No?”
“No.”
“Però sei tu quella che, alla fine, mi ha
sposato…” La tua mano scivola piano lungo il mio collo. Le
tue labbra sfiorano le mie e un sorriso dispettoso si dipinge nei tuoi
occhi “Togliendo il pane di bocca a quelle povere
cameriere…”
“Mai sentito il detto ‘chi disprezza compra’, mio caro visconte?”
“Può darsi, colonnello…”
Le tue labbra premono cariche di dolci promesse sulle mie, ma il
momento viene interrotto dai gorgoglii di contentezza di nostra figlia.
Nella mano sinistra regge il pallottoliere, quello stesso pallottoliere
che era nostro prima di diventare il suo giocattolo preferito, e un
filo di saliva si tende dalle sue labbra alle palline di legno colorato.
Sorride estasiata perché una grossa farfalla bianca le si
è appena posata sul ginocchio, sbattendo piano le ali delicate.
“Aia!” Afferma, sorridendo di contentezza. Ma quando la sua
piccola mano paffuta si tende verso le fragili ali dell’insetto, questo
prende il volo con leggerezza, spostandosi verso un fiore.
E allora è il nostro momento di restare a bocca aperta
perché, dopo aver abbandonato senza indugi il pallottoliere,
Victoire appoggia le mani a terra, spinge indietro il sedere e si alza
sulle ginocchia tremolanti.
Fa un primo passo, incerto, come più di una volta ha provato a
fare negli ultimi giorni. Poi un altro. E un altro ancora. E infine,
senza più incertezze, senza più fermarsi, rincorre la
farfalla.
E noi siamo orgogliosi e commossi insieme. E ci guardiamo sorridendo, e
leggiamo, l’uno nelle iridi dell’altro, che ricorderemo per
sempre questo momento.
Il momento in cui nostra figlia ha mosso i suoi primi passi. Il momento
in cui ha capito che nella vita, quando vuoi qualcosa, devi alzarti e
andarla a prendere. Perché è così che funziona.
Posi una mano sulla mia e la stringi nella tua. Due anni sono trascorsi
da quando, in un giorno come un altro, la nostra vita è cambiata
per sempre.
Oggi, il risultato delle nostre scelte, è la cosa più
preziosa che possediamo. E dovremo averne cura, proteggerla da ogni
cosa, insegnarle ciò che sappiamo.
E sarà la sfida più emozionante e l’avventura più straordinaria vissuta insieme.
Perché lei è parte di noi. Noi che ci apparteniamo da sempre.
E allora, proveremo a parlarle del mondo. E di com’è viverci.
Le insegneremo che avere un nome, qualunque esso sia, è
importante, perché è il punto d’inizio di ogni
individuo, ma non determinante, perché è ciò che
siamo dentro a decidere il cammino.
Le spiegheremo che ogni cosa ha il suo contrario, e non sempre ciò che sembra giusto lo è davvero.
Bisogna ragionare con la testa ma saper scegliere col cuore.
Imparerà che ci sono norme che regolano il mondo, e persone che
hanno il coraggio di andare oltre. Perché a volte è
necessario farlo per essere liberi. Per afferrare un sogno.
Ma dovrà sapere che c’è un limite, capire
qual’è il confine, quando bisogna rinunciare.
Perché ognuno ha un limite che non può essere superato.
E’ la linea oltre cui si rischia di perdere sé stessi.
E allora cercheremo di spiegarle che rinunciare a qualcosa, in fondo,
non sempre significa arrendersi. A volte è solo un modo saggio
di dimostrare coraggio. Ci sono cose che non ci appartengono, anche se
pensavamo il contrario, e bisogna lasciarle andare. Occorre farlo anche
per lasciare liberi sé stessi.
Dovrà imparare a fidarsi di sé, dei suoi pensieri,
perché sarà l’unica persona con cui dividerà
ogni istante di vita. E dovrà accettarsi così
com’è. Conoscersi nel profondo per non tradirsi, amarsi
per non sminuirsi, capirsi per non contraddirsi.
Sarà una bella persona e dovrà diffidare da chi affermerà il contrario.
Capirà che il mondo ha denti aguzzi da cui si dovrà guardare, ma anche mani pietose che sapranno consolarla.
Che bisogna avere un posto in cui tornare quando fuori infuria la tempesta.
E allora le parleremo di noi, della nostra infanzia. E le ricorderemo
che, sopra ogni cosa, è importante avere un amico leale al
proprio fianco. Qualcuno che conosca l’importanza del silenzio e
sappia leggerci dentro. Qualcuno che possa essere forte anche per noi,
quando non ne siamo in grado, e conosca il valore di una promessa.
Qualcuno che sia sincero, anche se questo significa disingannarci.
Persone del genere sono tanto rare quanto preziose e non bisogna tradirle.
Proveremo a raccontarle che esiste un sentimento chiamato amore. E che
ha tante forme quante quelle delle nuvole nel cielo. Che può
scaldarti il cuore fino a farlo ardere o strappartelo via,
perché nella sua forza ha questo duplice potere. Ma non bisogna
averne paura. Mai.
Perché senza, non saremmo che bambole di pezza.
Le spiegheremo che spesso la via più veloce è anche la
più facile, ma ci sono volte in cui allungare la strada
può portare a cose inaspettate e meravigliose. Cose che non
avremmo immaginato potessero succedere.
Tuttavia, ci saranno anche momenti in cui le cose non andranno come
avevamo sperato. Momenti in cui le salite saranno più delle
discese, e saranno lunghe e faticose. E allora le insegneremo che non
bisogna scoraggiarsi, mai.
Le spiegheremo che bisogna lottare per ciò in cui si crede,
perché avere obbiettivi da raggiungere e ideali cui tener fede
ci rende persone migliori. Bisogna avere sogni, e saperli rincorrere
con determinazione.
A volte non basterà. Perché, a dispetto dello splendido nome che porta, la vita è fatta anche di sconfitte.
Ed è giusto così, anche se fa male. Ma questo non deve fermare il cammino di una persona, mai.
Ci saranno volte in cui qualcuno tenderà una mano. Altre in cui
sarà necessario contare solo su sé stessi per rialzarsi.
Ci saranno risate, ma anche lacrime. E anche questo è giusto, perché il dolore, tanto quanto la gioia, rende vivi.
Dovrà sapere che la paura è necessaria, perché i
mostri non abitano solo nelle favole. Ma imparerà che certe
paure sono solo ombre pronte a dissolversi davanti alla voglia di non
lasciarsi scoraggiare
Le spiegheremo che il bene e il male non sempre sono scissi e ben
distinti. Che c’è disonestà nel più
irreprensibile degli uomini e pietà nel più scaltro
furfante e, per questo, non sempre la legge è la più alta
forma di giudizio. Bisogna avere una coscienza in grado di stimare il
valore di un individuo al di là delle apparenze.
Le riveleremo che farà molti errori, che sbaglierà e
sbaglierà ancora, ma la rassicureremo sul fatto che è
solo molto umano. Perché senza sbagliare non si può
imparare. Perché ogni sbaglio commesso arricchirà la sua
esperienza, forgerà la sua anima. Ci sono volte in cui sbagliare
è necessario a migliorare. Perché non tutti gli errori
rovinano la vita.
A volte la rendono inaspettata e meravigliosa.
Imparerà che in certe occasioni è concessa una seconda possibilità.
Una seconda possibilità per riparare ad un torto,
rincorrere qualcuno, cogliere un’opportunità, andare fino
in fondo, chiedere perdono. Una seconda possibilità per mettere
in fila le parole giuste. Quelle che dicono tutto.
Quelle che non siamo riusciti a dire quando avremmo dovuto.
Sono le seconde possibilità che vanno afferrate con le unghie e
con i denti quando si presentano, che non vanno sprecate perché
la vita, talvolta avara, non sempre ne concede.
Perché imparerà che i rimorsi bruciano tanto quanto i
rimpianti. Perché ci sono cose che vanno dette quando è
il momento di dirle o resteranno imprigionate in noi per sempre.
Ci sono corse che vanno fatte.
Muri che vanno scavalcati.
Mani che vanno tese.
Prima che sia troppo tardi.
Infine, le racconteremo che una vita intera può cambiare in un
momento. Un momento qualsiasi, tra i migliaia di quelli che riempiono
un’esistenza.
Guarderemo il cielo e capiremo che all’improvviso, questo momento, è il punto di svolta. L’inizio.
Ogni persona ha un momento così, lungo il proprio percorso.
Spesso più di uno. Istanti destinati a cambiarti dentro, a
fare di te qualcuno che un attimo prima ancora non esisteva.
E allora proveremo a farle comprendere che bisogna accettare il cambiamento, quando cambiare significa crescere.
Fare tesoro del passato, ogni frammento, ma abitare il presente e guardare il futuro.
Andare avanti.
Perché questo è vivere.
Nota dell'autore
E così, anche questa storia
è giunta alla fine. Ne sono un po’ dispiaciuta, ma tutto
sommato, essendo partita da una one-shot, credo che sia andata ben
oltre le mie iniziali aspettative in termini di lunghezza.
Scrivere questa storia è stato
come pescare nastri colorati da un cilindro: inizi a tirare e,
inaspettatamente, vengono fuori metri e metri di parole. Parole che non
pensavi nemmeno di avere, ma tantè. A volte succede.
Eppure, senza di voi, lo sapete, non
sarebbe stata la stessa cosa. Come ho già detto, non credo ci
siano storie che vadano la pena di essere raccontate se non
c’è nessuno disposto ad ascoltarle. Le storie non vivono
chiuse nei cassetti o nei quaderni: le storie vivono nell’aria e
dentro le persone che sanno ascoltarle. Le storie non sono di chi le
cede, ma di chi le accoglie. Le storie ci cambiano, anche. A volte lo
fanno.
Per questo, vi devo un doveroso grazie. Per aver ascoltato. E ancora grazie. Per aver espresso ciò che pensavate.
Per aver fatto vostre e rielaborato
le mie parole. A questo proposito, un grazie speciale ad Elisa85, che
ha messo la sua arte a disposizione di questa storia regalandomi degli
splendidi disegni ispirati a vari capitoli, che per praticità
raccolgo qua:
Intimità
16 agosto
Natale
Natale1
Dolce è la vittoria
Questa storia è per voi, che l’avete apprezzata.
Vi abbraccio
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