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di Akiko chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Cap XX ***
Capitolo 21: *** Cap XXI. ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII. ***
Capitolo 23: *** Cap. XXIII. ***
Capitolo 24: *** Capitolo XIV. ***
Capitolo 25: *** Cap XXV. ***
Capitolo 26: *** Cap XXVI. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I

 

Il cielo era interamente coperto da un’opprimente coltre di nuvole color piombo, squarciate a tratti irregolari, da luminose scariche elettriche che esplodevano nell’aria con assordante intensità. La pioggia sferzante scendeva copiosa, impregnando senza sosta il corto vestito di cotone azzurro che aderiva, ormai fradicio, al corpo snello della giovane ragazza dai lunghi capelli castani, che camminava solitaria lungo i Champs Elysées in direzione di Place de la Concorde.

 

I locali affacciati lungo la famigerata via parigina, erano affollati sino all’inverosimile; i numerosi passanti, colti di sorpresa dall’improvvisa, violenta tempesta estiva, si erano rifugiati nei bar, accalcandosi gli uni agli altri, spintonandosi tra di loro per accaparrarsi i pochi posti a sedere rimasti ancora liberi.

 

Ma la fanciulla proseguiva imperterrita, sotto la pioggia scrosciante, incurante dell’acqua, dei tuoni e dei fastidiosi brividi di freddo che le scendevano veloci lungo la schiena. Gli splendidi occhi cerulei risaltavano sul volto pallido, apparentemente concentrati a scrutare la strada, ma se qualcuno si fosse soffermato ad osservare con maggiore attenzione, si sarebbe immediatamente reso conto, che non percepivano assolutamente nulla del mondo caotico che, in quella piovosa giornata di fine estate, le vorticava attorno.

 

Solitaria e silenziosa, proseguiva senza arrestarsi mai, attraversando viali costeggiati da alberi centenari, strette vie dai nomi rinomati, incroci affollati dove automobilisti nervosi pigiavano con furia sul clacson allo scattare del verde; sempre dritta, sempre assente, finché esausta, tremante e palesemente confusa, fu costretta a cedere ai limiti del proprio corpo.

 

Pose fine a quell’inutile marcia, fermandosi, a sera inoltrata, davanti ad una bassa costruzione, un tempo forse di un caldo color ocra, ma ora completamente annerita dal malsano smog cittadino. Una lunga fila di grandi finestre illuminate consentiva di intravedere l’interno del locale, dove un paio di camerieri con espressione annoiata, si aggiravano tra i tavoli ormai quasi deserti, raccogliendo svogliatamente i bicchieri disseminati qua e là. 

 

Un ennesimo, sgradevole, gelido brivido la fece capitolare eliminando anche l’ultimo barlume di indecisione che la teneva immobile in mezzo la strada sotto la pioggia che ora scendeva sottile. Raddrizzò le spalle esili tentando di darsi almeno una parvenza di coraggio e spinse la porta di vetro smerigliato sulla quale spiccava l’immagine minacciosa di un’aquila nera, con le enormi ali spiegate e gli artigli adunchi ben in vista in un’aggressiva posa d’attacco. L’insegna al neon, che lampeggiava poco sopra l’entrata, recitava infatti “Tavola calda Aquila Nera”.

 

La sua esitante entrata nel locale venne accompagnata dal ritmico tintinnio dei campanellini di ottone appesi all’angolo della porta. L’interno del bar non era fatiscente come l’esterno, era stato arredato con sobrio gusto casalingo e sarebbe stato decisamente accogliente, se non fosse stato per l’acre odore di tabacco mescolato a quello dolciastro delle zuppe sfornate in quella fredda giornata, che la investì, provocandole un vago senso di nausea.

 

Scrollò con apparente disinvoltura i lunghi capelli gocciolanti, passandovi attraverso le dita affusolate, tentando così di staccare le ciocche fradice dal corpo intirizzito.

 

Individuò in fretta un tavolino appartato che le permettesse di sottrarsi alle occhiate curiose dei pochi avventori del locale. 

 

Un giovane cameriere le si avvicinò quasi subito, brandendo in mano l’inseparabile blocco corredato di penna e la ragazza, mentre ordinava un the caldo, fingendo di non notare lo sguardo insistente del ragazzo che la passava in rassegna con maleducata insistenza, si ritrovò a maledire mentalmente l’abitudine prettamente umana di invadere senza permesso gli spazi altrui.

 

Il giovane la fissava pienamente conscio della sua sfacciataggine, ma incapace di fare altrimenti. In Francia non era raro incontrare belle donne, coi capelli scuri, gli occhi chiari ed il sorriso amichevole, il carattere solare ed estroverso, ma questa le batteva tutte. Non era molto alta e, non c’era dubbio, non aveva affatto un sorriso amichevole, e probabilmente neppure un carattere socievole, perlomeno non in quel frangente, ma la figura armoniosa era ben modellata, l’espressione imbronciata suscitava una languida tenerezza, un fascino acerbo difficile da ignorare. La stoffa leggera dell’abito era completamente incollata al corpo invitante, evidenziandone ogni singola curva, morbida e piena. Era giovane, molto giovane. Quindici, sedici anni al massimo.

 

-Tutto bene, mamoiselle?- chiese gentilmente il cameriere, sporgendosi un poco verso di lei, insospettito dal suo aspetto mesto.

-Non credo siano affari suoi, il mio the- replicò gelida in perfetto francese, nonostante il taglio degli occhi tradisse una qualche parentela orientale.

 

Il ragazzo si allontanò con una rassegnata alzata di spalle, ritornando pochi istanti dopo, con la bibita fumante appoggiata ad un usurato vassoio d’acciaio.

 

Posò lentamente il the davanti alla giovane, dilungandosi a studiarla con rinnovata attenzione -Decisamente non sta affatto bene- pensò con una punta di sincera preoccupazione -Trema come una foglia, e la cosa non mi sorprende, dal momento che é inzuppata sino alle ossa!-

 

-Le conviene andare a casa a cambiarsi, prenderà un malanno…- le consigliò, stringendo distrattamente il vassoio vuoto al petto.

-Ho capito- tuonò la fanciulla, sbattendo la tazza sul tavolo ed incenerendolo con lo sguardo -Lei non è minimamente intenzionato a farsi gli affari suoi!-

-Insomma mi sto solo preoccupando per te- si schermì piccato, ricambiandole l’occhiata ostile -Non ho nessuna intenzione di adescarti, se è questo che ti rende così acida!-

 

Non sopportava che un suo genuino gesto di cordialità venisse così sgarbatamente disprezzato. Ma era abbastanza onesto con se stesso, da ammettere che gli era impossibile portare a lungo rancore a quella splendida creatura, per quanto scortese e sprezzante essa fosse. Si rendeva conto che in quel momento, doveva apparire ai suoi occhi come un bambino un po’ capriccioso che non si voleva staccare dalla vetrina del negozio di giocattoli, ma proprio non riusciva a fare a meno di ammirare inebetito quegli incredibili occhi color ghiaccio, la cui limpidezza era in parte offuscata da scintille di collera repressa che saettavano come dardi incandescenti nello sguardo della giovane ragazza, che sperava, ne era certo, di spaventarlo con la sua spavalderia.

 

-Ah no? Quindi non ti interessa abbordarmi…- la sentì invece dire con sua enorme sorpresa.

-Eh? No certo che no…- blaterò confuso, preso in contropiede dalla nuova espressione che aleggiava sul bel volto della giovane, di cui non riusciva a comprenderne appieno il significato.

-Siediti- ordinò la ragazza perentoria.

-Cosa?!!?-

-Siediti- ripeté freddamente con un tono che non ammetteva repliche.

 

Il ragazzo si guardò attorno. Nel locale c’erano solo pochi avventori che si stavano lentamente avviando alla cassa per pagare le ultime consumazioni della giornata. Si sedette ormai più incuriosito che stupito, da quella affascinante, strana, triste fanciulla.

 

La ragazza puntò su di lui i suoi occhi gelidi, facendolo sentire piccolo ed indifeso sotto quello sguardo tagliente come una lama d’acciaio, che sembrava avere il potere di farlo a pezzi in qualsiasi momento lei lo avesse desiderato. Percepì distintamente un fastidioso brivido di paura scendere veloce lungo la colonna vertebrale, ma non si scompose, sostenendo quello sguardo incredibile con imperturbabile fermezza. Non era certo da lui mostrarsi in difficoltà di fronte ad una ragazzina sull’orlo di una crisi isterica!

 

-Mi trovi brutta forse?- esordì lei a bruciapelo, senza la benché minima inflessione nella voce, innaturalmente piatta.

-Co…cosa? No…- mormorò ancora una volta disorientato dall’assurdità di quel comportamento.

-No- ripeté pensosa, volgendo lo sguardo altrove. Solo in quel momento il cameriere comprese il reale motivo del suo inspiegabile disagio. Lo sguardo di lei era assente, lontano anni luce, in quel momento stava parlando con lui, ma era come se si rivolgesse ad un altro, era in quel posto ma la sua mente era in ben altri luoghi.

 

La esaminò con calma, soffermandosi sulla deliziosa smorfia di disappunto che increspava la bella bocca rosea che spiccava sull’ovale pallido del volto delicato. Quell’espressione corrucciata la faceva sembrare ancora più giovane, donando ai lineamenti eleganti, un qualcosa di vagamente infantile, era di una bellezza sconvolgente, quasi eterea.

 

-Senti io ho finito il mio turno…- borbottò incerto, nel vago tentativo di porre fine allo sconosciuto turbamento che lo tormentava da qualche minuto.

 

Nemmeno un muscolo si mosse sul bel volto di lei, immobile e freddo come una statua di inanimata pietra, ma un guizzo negli occhi grigi, gli fece capire che lo aveva perlomeno udito, se non compreso.

 

-Mi senti? Io vado a cas….- si alzò di colpo sbalordito, protendendosi verso la fanciulla per assicurarsi di non aver preso un abbaglio -Ma …ehi che ti prende ora?!- esclamò non potendo credere ai propri occhi.

 

Fissò attonito le due grosse lacrime che scintillavano agli angoli degli occhi trasparenti, per poi, non più trattenute dalle deboli ciglia, scivolare veloci lungo le gote livide, lasciando dietro di loro una lunga scia umida.

 

-Stai male?- chiese preoccupato, guardandosi attorno in cerca di aiuto. Ma non vi era più nessuno nel locale oltre a loro due ed il proprietario che, come al solito, ogni sera a quell’ora, era indaffarato dietro la cassa a contare i soldi della giornata, non prestando la benché minima attenzione alla giovane ragazza disperata e al nuovo cameriere assunto pochi giorni prima.

 

-Sì…portami a casa- rispose esausta, accasciandosi di colpo sul tavolo come un burattino a cui erano stati crudelmente recisi i fili.

-Sì certo…aspetta qui, non ti muovere- farfugliò confusamente prima di precipitarsi a recuperare due impermeabili gialli, sempre pronti accanto alla porta del personale in caso d’urgenza. Ritornò di corsa dalla ragazza, ancora immobile nella medesima posizione, china sul tavolo, con il volto affondato nell’incavo delle braccia, i lunghi capelli castani sparpagliati disordinatamente sulle spalle irregolarmente scosse da singulti a stento controllati.

 

-Infila questo. Fuori ha ricominciato a piovere. Dai muoviti!- la incalzò, scuotendola dolcemente.

 

-Ho capito- concluse, constatando sconsolato che lei non era assolutamente in grado di reagire. La sollevò afferrandola con cautela sotto le ascelle ma, rendendosi conto che non riusciva a reggersi sulle gambe, la fece aderire dolcemente alla parete vicina, infilandole adagio il giubbotto cerato. Le afferrò una mano bianca e sottile, era gelata e inerme tra le sue dita. La guardò perplesso avviandosi all’uscita e la sua preoccupazione aumentò ancora quando lei lo seguì fuori dal locale come un docile cagnolino, senza opporre la benché minima resistenza. Se invece di lui avesse incontrato qualche mascalzone, sarebbe stato un gioco da ragazzi approfittare dello stato confusionale in cui si trovava la fanciulla.   

 

-Da che parte andiamo?- chiese una volta all’aperto, cercando di dare alla propria voce un tono rassicurante. Un vento freddo faceva svolazzare ovunque pagine di vecchi giornali e cartacce abbandonate sul ciglio del marciapiede.

 

 -Insomma come faccio a portarti a casa se non mi dici dove abiti? Guarda sta diluviando…- esclamò tirandosi su sino al mento la zip dell’impermeabile per ripararsi dalle taglienti follate di vento –hai capito che ho detto? Tra poco saremo bagnati fradici!- proseguì indicandole con un dito il cielo da cui la pioggia continuava a scendere fitta.

 

La ragazza non fece alcun cenno d’intendimento, trincerata dietro un ostinato silenzio si limitava a fissare assente la punta dei suoi eleganti sandaletti estivi ormai completamente rovinati.

 

-Ehi…va bene…faccio di testa mia- concluse allargando le braccia in un gesto di esasperazione -Poi non ti lamentare …ah al diavolo! Con te è tutto tempo perso- sbottò afferrando senza tante cerimonie il braccio sottile della ragazza e trascinandola con decisione lungo la via deserta.

 

 

-Ecco indossa questo- disse il giovane soccorritore qualche tempo dopo, porgendole un pigiama maschile color blu notte -Puoi dormire in camera mia. Io mi sistemerò sul divano…hai fame? Uffa! Sono stufo del tuo silenzio … ti decidi a parlare?- sbuffò stizzito, perdendo definitivamente la pazienza. In fondo, che gli importava di quella sconosciuta? Gli stava procurando solo un mucchio di fastidi, eppure gli era impossibile ignorarla, così fragile e disperata… probabilmente stava sbagliando tutto, era evidente che non era cosciente, avrebbe dovuto portarla all’ospedale, non a casa sua. Si morse nervosamente il labbro, mentre pensava sgomentato al grosso pasticcio in cui si era cacciato.

 

-No, non ho fame…- borbottò la ragazza uscendo dal mutismo in cui era piombata -Voglio solo andare a letto-

-Benissimo ti mostro la stanza. Mi dici almeno come ti chiami?-

-Andree…- rispose meccanicamente.

-Andree? Ma è un nome maschile…uhm…lasciami indovinare, non hai voglia di parlare! Che bella novità! Beh almeno non vuoi sapere come mi chiamo io?-

-No- fu la sconfortante risposta.

 

Distesa sul letto, finalmente con qualcosa d’asciutto addosso, Andree fissava immobile il soffitto intonacato della piccola camera da letto, incapace di farsene una ragione.

 

Tutto poteva aspettarsi, ma non quello! Un tradimento così infame! No, non infame…solo umiliante. Vergogna, rabbia, disprezzo…per lui? No, magari. Solo per se stessa. Purtroppo non era riuscita in alcun modo ad esternare la rabbia, che continuava indisturbata a crescere dentro di lei, alimentandosi delle sue emozioni, rosicchiandole l’anima e sgretolando infidamente la sua autostima. Si odiava. Odiava il suo corpo. Odiava il suo essere donna. Eppure la verità era quella. Era una donna. Bella e desiderabile per di più …o no?

 

Andree gettò all’aria la sottile trapunta puntellata di fiorellini bianchi, ricamati a mano probabilmente da sapienti ed amorevoli mani femminili, sgattaiolando fuori dal letto con un agile balzo felino. Accese la luce, guardandosi attorno confusa. Ma che ci faceva in quella casa sconosciuta?

 

Lui!

 

-Maledizione!- imprecò avventandosi selvaggiamente contro l’anta dell’armadio a muro.

La spalancò con foga, facendola scricchiolare sui cardini non perfettamente oliati. Fissò compiaciuta il grande specchio appeso all’interno del mobile che rifletteva il suo volto pallido e stravolto. Non indugiò ulteriormente a compiangersi o a criticare le borse nere sotto i grandi occhi grigi insolitamente vacui, ma si sfilò con un veloce gesto la maglia del pigiama, sotto la quale non indossava nulla e, dopo un minuscolo istante di esitazione, si sfilò anche i pantaloni, rimanendo completamente nuda.

 

Solo allora si concentrò ad esaminare la sua immagine riflessa. La pelle era candida e liscia, senza alcuna imperfezione, il collo sottile e flessuoso, i seni forse un po’ troppo pieni, ma sodi e ben fatti, il ventre piatto ed i fianchi stretti. Le gambe, sebbene non lunghissime, erano comunque affusolate e toniche …non c’era niente in lei che non andava…eppure qualcosa ci doveva essere…Ma cosa? Cosa? Maledizione, cosa?

 

Aveva bisogno di una risposta. Doveva avere una risposta. O sarebbe affogata nella vergogna. Con quel pensiero martellante in testa, uscì dalla stanza ormai preda di un’eccitazione febbricitante che le impediva di ragionare e di controllare le sue azioni coscienti.

 

Non appena mise piede nel corridoio, venne inevitabilmente attratta da una fioca luce proveniente dal modesto salotto che fungeva anche da cucina. Si avvicinò con passo felpato al divano rivestito da una ormai logora stoffa beige, posto in un angolo della stanza. Il ragazzo, incontrato poco prima nel bar, vi era comodamente disteso, il braccio sinistro mollemente ripiegato dietro la nuca e le lunghe gambe, coperte da una morbida coperta di lana, erano leggermente inarcate. Era il ritratto della tranquillità e l’espressione assonnata, con cui scorreva pigramente la pagina del grosso libro che teneva appoggiato al ventre, era la prova evidente che il torpore del sonno stava avendo la meglio su di lui.

 

Non si era accorto dell’intrusione della ragazza che, poco distante, tratteneva il respiro, cercando di controllare il battito tumultuoso del cuore che sembrava volerle uscire dal petto. Andree strinse istintivamente le braccia attorno al petto in un tardivo gesto di pudicizia, sobbalzando al contatto con la sua pelle serica, come se solo in quel momento si fosse resa conto della sua completa nudità.

 

Il ragazzo soffocò uno sbadiglio mentre voltava lentamente pagina, fu in quell’attimo che distolse lo sguardo dal libro e scorse, con la coda dell’occhio, una figura  affianco a lui. Incredulo, balzò a sedere emettendo un gemito strozzato mentre il pesante volume scivolava a terra con tonfo sordo ed il languore del sonno lo abbandonava di botto.

 

Incapace di proferire parola, fissò attonito la ragazza completamente nuda a pochi passi da lui.

 

-Pazza…questa é totalmente, dannatamente pazza! - pensò rimanendo rigidamente inchiodato allo schienale del divano, timoroso di fare un qualsiasi movimento  - E io me la sono tirata in casa! Lo sapevo che mi sarei ficcato nei guai! Povero me e ora che faccio?-

 

E poi, inaspettata come una coltellata alle spalle, l’inevitabile voltafaccia del suo corpo. Una languida debolezza, lenta ma implacabile, gli salì dal basso ventre inlanguidendogli in fretta ogni singola fibra. Era inesperto sì, ma non così stupido da non capire che gli stesse accadendo e la consapevolezza, invece di tranquillizzarlo, aumentò a dismisura la sua angoscia….accidenti a lei… ma quanto era bella?

 

Tremendamente, sfacciatamente bella, quasi irreale.

 

Ecco la spiegazione! Era un miraggio, null’altro che una splendida visione evocata dai suoi ormoni impazziti di adolescente -Che brutti scherzi giocano questi scombussolamenti ormonali....ah ah mi vien da ridere! E sì che lo sapevo che non dovevo guardare certa robaccia....che mi venga un colpo se sbircio un altro di quei giornaletti negli spogliatoi....Forza ora chiudo gli occhi...così....e quando li riapro, lei non c’é più...oplà!- pensò chiudendo le palpebre con forza per riaprirle qualche istante dopo.

 

-Oplà un corno! Tu sei vera!- urlò agitato, cercando di balzare in piedi, ma prontamente bloccato da una mano di lei che, appoggiata con forza sulla sua spalla contratta dal panico, lo costrinse a ritornare dov’era.

 

-Pazza… pazza...pazza..-

 

-A…Andree…che stai combinando?- balbettò confuso, prendendo coscienza, con crescente smarrimento, di quanto fosse sconcertante il suo odore ed incredibilmente invitanti le sue curve.

 

-Allora, mio bel salvatore…-lo apostrofò lei con tono sensuale, accantonando ogni ridicolo pudore, di nuovo dominata da quell’insana follia che l’aveva portata sino a quel punto -Prima dicevi di non trovarmi brutta…sei sempre dello stesso parere?-

-Io…cosa…Andree per l’amor di Dio, copriti!- protestò disperato, tentando di drappeggiare quel corpo splendido con la coperta di lana abbandonata sul divano.

-Perché? Ti piaccio di più vestita?- sussurrò maliziosa, respingendo con uno stizzito gesto della mano, la coperta che lui le porgeva.

-Andree se non la smetti…io…non…non…non garantisco delle mie azioni!- protestò tentando disperatamente di appiattirsi contro il divano e di volgere lo sguardo altrove.

 

-Non garantire allora…- incalzò sinuosa, affondando senza tenerezza le mani nei folti capelli scuri di lui, obbligandolo così a reclinare il capo all’indietro e a guardarla dritta in faccia -Ma prima dimmi che mi trovi bella- ordinò impietosa.

 

Il ragazzo subì impotente l’ondata di spossatezza che gli intorpidì le membra rilassandogliele, mentre i suoi occhi scuri si liberavano inconsapevolmente del panico per riempirsi di puro e semplice desiderio carnale. Ma nonostante tutto, una vocina interna gli impediva di ignorare l’assurdità dell’intera situazione. La coscienza gli ripeteva che doveva ribellarsi a quella debolezza, reagire con fermezza. Andree non era in sé e lui non poteva permettere che accadesse nulla di cui poi si sarebbero sicuramente pentiti, una volta tornati alla ragione. Doveva avere buon senso per entrambi, non poteva cedere! Non doveva assolutamente affondare in quelle ipnotiche pozze di ghiaccio incandescente, altrimenti sarebbero stati perduti! Non doveva, non doveva…eppure …lo fece.

 

Frugò smanioso negli occhi di lei con trepidante trasporto, conscio di essere ormai una nave strappata dalla sicurezza dell’ancora, sballottata crudelmente in mezzo ai marosi della tempesta.

 

Stordito dall’intensità delle sue stesse emozioni, ammise sinceramente ciò che il suo cuore gli aveva urlato sin dal primo istante in cui l’aveva vista nel bar -Bella? Oh Andree! In tutta la mia vita non ho mai visto nulla di più bello…sei stupenda…togli il respiro…-

 

Lei colse senza indugi la sincerità di quella focosa dichiarazione ed il suo orgoglio calpestato, ebbe un guizzo di rivalsa, che le diede la forza necessaria per sostenere lo sguardo bruciante del ragazzo sconosciuto.

 

Le iridi ambrate di lui, dilatate dalla passione, la sondarono ancora più a fondo, con tale impeto che sembravano non accontentarsi della nudità del corpo, ma reclamassero anche quella dell’anima.

 

Ma questo Andree non glielo poteva concedere, la sua anima si era rifugiata in un posto lontano, dove neanche lei poteva raggiungerla e si stava silenziosamente leccando le ferite inferte da quella vergognosa verità...

 

-...e Andree? Lei che significa per te? Non puoi negare che ti piaccia!-

-Ma che dici! È solo una copertura. Uno specchietto per le allodole...sei tu che imperi nei miei sogni e nel mio cuore...-

 

Andree rabbrividì all’eco lontano di quelle parole crudeli e percepì a malapena le mani bollenti del ragazzo che si chiudevano come una morsa sui suoi fianchi delicati, trascinandola a forza sul divano.

 

La ragazza non si oppose, assecondando passivamente i gesti impacciati del suo amante. Non c’era più possibilità di scampo, e anche se avesse voluto fuggire, non avrebbe saputo dove andare. Come si può fuggire al dolore e alla vergogna? Ringraziò mentalmente il corpo pesante di lui che gravava sul suo, inchiodandola al tiepido giaciglio, non lasciandole alcuna possibilità di scelta. A volte scegliere è un privilegio, altre però é un’ingiusta condanna.

 

Il passo lo aveva fatto, forse inconsapevolmente, forse superficialmente, ma ormai non poteva fare altro che andare sino in fondo, toccare il nero terreno della disperazione e poi sperare di trovare la strada per risalire in superficie.

 

Affidò con un gemito il suo corpo a quelle braccia che la circondarono saldamente. Un nauseante senso di panico la colse per un attimo, quando si rese conto di quanto fossero sviluppati e possenti i fasci muscolari che l’avevano stretta contro il torace robusto del ragazzo. Se lui per un qualche strano capriccio, avesse voluto farle del male, non avrebbe potuto opporsi in alcun modo: quello era il corpo di un maschio virile e lei non era affatto preparata a ciò. Si irrigidì, provando un istintivo moto di ribellione, ma la rabbia ed il rigetto verso il suo corpo, ridicolmente morbido e fragile, ebbero la meglio. Gettò il capo all’indietro sospirando, in un gesto di resa totale, infischiandosene delle sue paure di mocciosa viziata, delle sue angosce, della frustrazione che implacabile la soffocava ad ondate irregolari e, soprattutto, tentando di distruggere per sempre la sua pietosa femminilità. Abbandonò se stessa, il suo corpo, la sua anima, nelle mani di un estraneo, con sprezzante disinvoltura, come se fossero un ripugnante fardello di cui doveva assolutamente liberarsi.

 

Era tutto così nuovo ed eccitante per lui, era avido di conoscere ogni centimetro di quella pelle di velluto, di sentirla scorrere, calda e liscia, sotto i polpastrelli, di respirare quell’odore tipicamente femminile, di perdersi in lei, di sentirla cedere arrendevole dinnanzi al suo dominio maschio, di compenetrare le loro carni. Si lasciò andare, trascinato e dominato dall’istinto animale che ruggiva in lui, che pretendeva di essere saziato, dopo essere stato così impunemente stuzzicato.

 

Non indugiò oltre. Non poteva e non voleva. Si abbassò i pantaloni ed i boxer con un unico gesto, non si preoccupò neppure di sfilarseli e si avventò su di lei, penetrandola con irruenza, persuaso che fosse solo quello, ciò che lei desiderava. La sentì sussultare, rigida e tesa sotto il suo corpo accaldato, gli sembrò anche che soffocasse un urlo contro la sua spalla, ma era troppo inesperto, per distinguere il dolore dal piacere. Inebriato da quella sconosciuta sensazione d’onnipotenza, spinse ancora più forte, sempre più a fondo, con impeto rinnovato, affondando il suo essere in quel rifugio incantato, per poi esplodere con violenza dentro di lei.

 

Poco tempo dopo, tormentata da un dolore pulsante nella parte più intima della sua femminilità martoriata e dal silenzio straziante della sua coscienza, che si rifiutava di comunicare con lei dopo quello scempio ingiustificato, Andree riemerse dal vuoto oblio in cui era precipitata.

 

Non urlò, anche se lo desiderava con tutta se stessa.

 

Non pianse, anche se ne aveva un bisogno viscerale.

 

Non odiava e non provava rancore.

 

Tanto meno  piacere o soddisfazione.

 

Solo il dolore fisico non riusciva e non era riuscita ad eliminare. 

 

Un lancinante, acuto, crudele dolore, che l’aveva sfregiata nel profondo. Un dolore che sarebbe rimasto in lei come una traccia indelebile e che l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita. Un dolore totale che l’aveva smembrata in tanti piccoli, insignificanti frammenti. Frammenti d’anima che, forse, non sarebbe più stata in grado di riunire assieme.

 

L’aveva sverginata con cattiveria, con un colpo netto, scatenandosi in lei senza alcun riguardo, come se fosse stata un oggetto, un essere insensibile o peggio ancora una puttana. E lo era stata. Faceva male anche solo pensarlo, ma era proprio così. Puttana. Non c’era modo più adatto per descriverla.

 

Spostò inorridita il braccio muscoloso di lui ancora avvinto attorno ai suoi fianchi snelli, in un gesto di virile possesso. Dormiva beato, fiero e compiaciuto, convinto di aver fatto il suo dovere di uomo, ma, in fondo, che colpa ne aveva lui?

 

Nessuna.

 

Evitò di indugiare sui lineamenti distesi dal sonno del suo inconsapevole aguzzino, sfumati dalla tenue luce della lampada, dimenticata accesa. Non riuscì però ad impedire alla sua mente in subbuglio di registrare la macchia rossastra che spiccava come un orribile occhio iniettato di sangue, sul divano chiaro -Dovrà cambiarlo...ben gli sta- pensò sorridendo senza gioia di fronte al simbolo della sua innocenza perduta, dubitando ampiamente della sua sanità mentale.

 

Ritrovò silenziosamente la camera da letto e, indossato in fretta l’abito azzurro ancora umido di pioggia,  uscì da quella casa in cui aveva lasciato anche l’ultima briciola della sua discutibile dignità.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II

 

New York, 7 anni dopo

 

Da diversi minuti Micheal Fox giocherellava nervosamente con un prezioso portasigari d’oro massiccio con sopra incise le sue illustri iniziali, ultimo regalo fattogli dalla sua ex moglie, prima di ricevere l’istanza di divorzio. Appoggiò il pesante oggetto sul ripiano della grande scrivania di mogano lucidissimo che troneggiava al centro del suo ufficio al trentasettesimo piano dell’Empire State Building. Sospirò ancora una volta mentre, incredulo e perplesso, posava per l’ennesima volta, il suo temibile sguardo sul fax giunto quella mattina dal Giappone. La sua fedele segretaria, nonché passionale amante, glielo aveva diligentemente appoggiato al centro della scrivania, con attaccato un vistoso post-it fucsia, con su scritto a lettere cubitali “URGENTE”. Ma quel messaggio era del tutto superfluo, il fax era chiaro e sufficientemente esplicito:

 

“Spettabile studio legale Fox and Co.,

La federazione calcio giapponese richiede con urgenza il miglior avvocato disponibile per una delicata questione di abuso di sostanze dopanti che vede coinvolti quattro giocatori della nazionale nipponica. I particolari della questione saranno rivelati in appropriata sede all’avvocato che la vostra ditta, famosa e rispettata a livello mondiale, riterrà opportuno inviarci. Non vi sono limiti di compenso, la Federazione si impegna a pagare qualsiasi cifra, purché la questione venga risolta prima dell’inizio del campionato mondiale e permetta al Giappone di partecipare con la formazione titolare alle selezioni. Attendiamo con urgenza una vostra risposta. Cordiali saluti. Il Presidente della federazione calcio giapponese F. Y. Marshall”

 

Non c’era altro da aggiungere, né tanto meno tempo da perdere. Le selezioni per i mondiali erano imminenti, per quel che ne sapeva lui, questione di un mese o poco più, giusto il tempo di bloccare la causa alle indagini preliminari. E non vi era dubbio che fosse proprio quella la richiesta implicita del presidente nipponico: bloccare lo scandalo, impedirgli di varcare le soglie del tribunale ed insabbiare il tutto con nauseante nonchalance. Una questione delicata. Estremamente delicata. Gli esperti del settore parlavano del Giappone come la grande rivelazione di quei nuovi mondiali, i nomi dei calciatori nipponici, finalmente degni di essere accostati a quelli dei grandi campioni europei e sudamericani, erano nelle mire di tutti i maggiori club calcistici internazionali. Un futuro pieno di gloria che rischiava di trasformarsi in un orribile incubo per l’incauto gesto di qualche sportivo fasullo.

 

Chi poteva inviare? Esperto di doping, che sapesse districare la matassa in silenzio e celermente, senza sbagliare, senza tanti scrupoli di coscienza, che sapesse sfoderare con maestria una massiccia dose di ipocrisia… Ma sì certo, indubbiamente vi era tra i suoi dipendenti la persona giusta!

 

Spietata, decisa, perspicace, dura, cinica, inflessibile, ambiziosa, capace, tutte doti adatte a quel caso!

 

Si trattava di riabilitare quattro giocatori colti in flagrante come bambini con le mani impastate di marmellata, questi con il sangue e le urine zeppi di schifezze. Drogati per vincere qualche coppa in più! Far sparire nel nulla le prove delle loro colpe e permettere che continuassero indisturbati a mostrare al mondo di tifosi creduloni, l’incredibile talento che madre natura aveva loro “generosamente donato”. Questo era un compito che nauseava molti dei suoi collaboratori, ma non l’avvocato a cui pensava. Lui la coscienza la dimenticava fuori dalle porte del palazzo di giustizia.

 

Beh… forse esagerava, come era suo solito di fronte a casi di doping che nauseavano la sua coscienza di appassionato spettatore sportivo, non era proprio droga in senso lato, ma sostanze anabolizzanti, che gonfiavano i muscoli, aumentandone la potenza, la resistenza e l’elasticità, morfina, nandrolone, eritropoietina… Tutti termini per lui senza senso, ma c’era chi sapeva dare loro il giusto significato.

 

Schiacciò il pulsante grigio dell’interfono accanto al telefono.

 

-Dica Avvocato Fox- la voce professionale di Gwen gli giunse all’orecchio deliziandolo, quella donna lo faceva letteralmente impazzire, prima o poi doveva decidersi a sposarla. Nonostante i quattro matrimoni falliti alle spalle e la continua ripromessa i non sposarsi mai più, l’avvocato Fox era un inguaribile romantico e non riusciva proprio ad avere una relazione scevra di complicazioni sentimentali.

 

-Gwen, l’avvocato Takigawa immediatamente nel mio ufficio-

 

Un paio di minuti dopo, un deciso bussare alla massiccia porta di rovere, preannunciò l’entrata dell’avvocato che infatti fece capolino nella stanza, attraversandola in fretta con la sua andatura elegante.

 

-Ciao Fox cos’è tutta quest’urgenza?- esordì l’avvocato attendendo un cenno del superiore prima di accomodarsi in una delle due morbide poltrone di pelle antistanti all’imponente scrivania presidenziale.

 

-Come stai? Ti vedo in splendida forma- prese tempo Micheal Fox, soffermandosi ad esaminare con occhio critico ogni particolare della bella donna di fronte a lui.

 

Indossava, come al solito, un impeccabile tailleur grigio perla, dal taglio raffinato, che esaltava in modo particolare i famigerati occhi color cenere, ormai incubo e sogno di tutti i tribunali degli USA. Lasciò scivolare lo sguardo sul petto rigonfio dell’avvocato senza farsi troppi problemi di etichetta, in fondo l’aveva vista nascere ed una volta aveva persino assistito ad un poco edificante cambio di pannolino in qui l’avvocato, più cinico e freddo d’America, strillava infastidito dai bruschi maneggiamenti della balia.

 

Decisamente avrebbe preferito che quella donna fosse più generosa con il sesso maschile e lasciasse ammirare qualche centimetro in più del suo splendido decolté, allietando le lunghe e stressanti giornate di lavoro che si susseguivano ininterrotte nel famoso studio legale. Ma non vi era nulla da fare, quelle grazie erano celate con austero rigore e lui aveva avuto il privilegio di osservarne la portata, solo perché era riuscito a coglierla di sorpresa in qualche situazione extraprofessionale. E come tutti gli uomini dello studio, poi, doveva resistere all’impulso di afferrare il primo paio di forbici che gli capitava a tiro, ed accorciare di almeno dieci centimetri la gonna castigata che perennemente portava. Per non parlare dei lunghi capelli castani che teneva prigionieri in complicatissimi chignon, nessuno sospettava che splendidi riflessi dorati avessero, quando volteggiavano liberi nell’aria.

 

Ventitre anni. L’avvocato Takigawa aveva soli ventitre anni, ma possedeva il rigore e la condotta di una fredda zitella di sessant’anni, anche se il volto delicato e soprattutto la pelle incredibilmente liscia, non lasciavano dubbi sulla sua giovanissima età. Bella ed inavvicinabile, ecco i due aggettivi più adatti per descrivere l’avvocato Andree Takigawa.

 

Ma in fondo Micheal non faticava a comprendere il motivo di quell’aspetto sempre controllato ed inappuntabile. Non le doveva essere stato facile farsi strada in un mondo prettamente maschile, dominato da un’obsoleta mentalità antifemminista, con lo svantaggio non solo di essere donna, ma anche di essere esageratamente giovane, per non parlare del fatto che, in molte situazioni, essere così attraente doveva essere stato più un impiccio che non una marcia in più. Ma Andree aveva lottato per meritarsi la stima ed il rispetto dei colleghi, dimostrando che non erano i suoi seni alti ed invitanti o il suo fondoschiena sodo, i suoi pregi maggiori, ma la sua acuta intelligenza che, unita alla sua capacità di lottare, l’avevano portata in brevissimo tempo ai vertici della carriera legale. Andree sapeva come vincere, sempre e comunque. Leale a modo suo, con solidi principi nei quali credeva fermamente, ma anche cinica e spietata all’occorrenza, pronta a colpire anche il più indifeso degli uomini, se riteneva il fine abbastanza importante da giustificare il mezzo. Un cocktail esplosivo di arguzia ed efficienza, condito da una dose massiccia di ferrea determinazione e, perché negarlo, sfacciata arroganza. A conferma di ciò, aveva da poco concluso una causa di doping sulla quale nessun avvocato avrebbe scommesso un dollaro. E non era neanche la prima volta che arricchiva il suo curriculum con imprese titaniche di quel tipo, semplicemente per avere la soddisfazione di riuscire dove altri avrebbero sicuramente fallito.

 

-Grazie ma veniamo al sodo. Di che si tratta stavolta?- chiese Andree con tono incolore, accettando con filiale rassegnazione l’esame accurato di Fox. Permetteva a Micheal certe confidenze solo perché era per lei un padre vicario, presente nei momenti in cui il suo latitava, eventualità non rara per la verità. Ma se qualsiasi altro uomo avesse solo accennato a scrutarla in quel modo indagatore, gli avrebbe fatto passare il peggiore quarto d’ora della sua vita.

 

-Doping- rispose laconico l’uomo studiandola con rinnovata ammirazione, questa volta esclusivamente professionale. Nonostante fosse la figlia di uno dei suoi migliori amici, non vi era falsità o affettazione nel suo giudizio. La sua stima era sincera, sapeva riconoscere un buon avvocato ad un chilometro di distanza, e Andree Takigawa era la migliore nel suo campo.

 

-Uhm interessante…giochiamo in casa…allora vediamo la nazionale di softball? No? Pallanuoto? Pallavolo? Mi arrendo…-

-Calcio-

-Ah…- commentò la donna mordendosi involontariamente il labbro pieno e roseo coperto da un leggero strato di lucidalabbra.

-Che c’è, non ti piace il calcio?-

-Decisamente no. Io sono piuttosto impegnata in questo periodo, non potresti chiedere a Braiton?-

-Balle. Non sei per niente impegnata, hai appena concluso con successo il caso di doping della nazionale di basket. A proposito non ti ho ancora fatto i miei complimenti …-

-Grazie…comunque non scherzo. Questo caso non mi interessa-

-Andree non approfittare della mia benevolenza. Ho deciso che questo caso lo seguirai tu e nessuno, ripeto nessuno, può permettersi di mettere in discussione una mia decisione. Sono stato chiaro?- affermò accentuando il timbro duro ed autoritario della sua voce in genere pacata.

 

Andree gli scoccò un’occhiata intimidatoria ma Micheal non si fece prendere in contropiede e sostenne lo sguardo magnetico dell’avvocato apparentemente senza alcun problema. Il presidente della Fox and Co. era, infatti,  una delle pochissime persone in grado di reggere per più di qualche secondo il glaciale sguardo dell’avvocato Takigawa. E questo lei lo sapeva bene ed indubbiamente il fatto conferiva al presidente dei punti importanti nella sua rigorosissima classifica personale in cui incasellava le rare persone degne della sua ammirazione.

 

Andree incrociò le belle mani davanti alla bocca, mordicchiando leggermente l’unghia del pollice perfettamente curata, gesto che solo pochi eletti sapevano voler significare profonda indecisione.

 

Ed infatti due forze contrastanti si stavano dando battaglia nella bella testolina della donna. Se non fosse stato per Micheal, ora lei non sarebbe stata uno degli avvocati più pagati e famosi d’America. Nessun’altro avrebbe scommesso una lira su una giovane ventunenne laureata prematuramente in legge con il massimo dei voti in una delle scuole più selettive degli Stati Uniti. Un po’ di riconoscenza gliela doveva, e poi cos’erano tutte quelle storie? Solo perché quel figlio di puttana era un calciatore non poteva odiare tutto il calcio….no non aveva senso, e fare cose irrazionali non rientrava nella sua natura, non più almeno.

 

-Chiarissimo Fox. Dimmi di che si tratta- capitolò infine gratificando il suo capo con uno dei suoi rarissimi sorrisi.

-Tieni leggi questo- replicò asciutto Micheal Fox porgendole il fax giunto quella mattina.

 

L’uomo si riappoggiò con apparente noncuranza all’alto schienale della sua imponente poltrona imbottita, sbirciando il volto della donna concentrato nella lettura del foglio mentre, in segreto,  gongolava felice per aver avuto la meglio in quella piccola lotta, che non era stato poi certo di vincere. Sapeva, per diretta esperienza personale, che quando ci si trovava di fronte ad Andree era impossibile prevedere in anticipo la piega che avrebbero preso gli eventi. Ma per fortuna la ragazza rispettava l’autorità che lui indubbiamente rappresentava.

 

Andree scorse in fretta le poche righe e aggrottò la fronte perplessa -Giappone? Ora capisco…il fatto che io sia giapponese per metà c’entra qualcosa?-

-Certo il fatto che il giapponese sia la tua madre lingua, che tu conosca le leggi di quel paese e le sue strane usanze, è indubbiamente un enorme vantaggio, ma non si tratta solo di questo e tu lo sai. Quando pensi di poter partire?-

-Discrezione, velocità, proibito fallire. La mia parcella sarà stratosferica…- celiò sorridendo divertita - Ok, concedimi solo due giorni per sistemare le cose con la scuola …- aggiunse ritornando al suo freddo tono professionale.

-Porterai Josh con te?- chiese sorpreso il presidente mentre si affrettava a sistemare le carte necessarie in un cartellina azzurra.

-Tanto vale che te lo dica adesso. Avevo intenzione di chiederti il trasferimento nella sede di Tokyo. Come hai detto tu, conosco le usanze di quello “strano paese” e ci tengo che anche Josh le apprenda…vorrei che crescesse in Giappone…-

-E i tuoi che dicono?-

-I miei? Ma fammi un piacere, Fox. I miei non lo possono soffrire mio figlio- sbottò Andree, lasciando trapelare, suo malgrado, una punta di dolore.

-Non dire così. Cerca di metterti nei loro panni e….-

-Già fatto Capo. Vuoi il risultato? La raffinata e snob signora Takigawa non lo riesce proprio ad accettare che a 16 anni la sua unica figlia si sia fatta mettere incinta da uno sconosciuto di cui non vuole rivelare nulla. Il temuto imprenditore Takigawa ama la sua tenera bambina, ma una marachella così grossa non gliela può proprio perdonare. In fondo, forse, un po’ di affetto per il piccolo bastardo lo prova anche, ma non riesce a sostenere lo sguardo colmo di rimprovero della moglie, che lo aggredisce ogni volta che prova solo ad accennare al piccolo Joshua. Per quanto riguarda quella figlia degenere, non ha potuto fare altro che lottare strenuamente per far nascere quel figlio che la buona società non voleva ed il buon senso le suggeriva di rinnegare. Quello scottante fardello, che contro tutti e tutto, si è ostinata a tenere, ha scatenato in lei un fortissimo desiderio di rivalsa che l’ha portata ad affogare l’amarezza e la mancanza di sostegno nello studio, laureandosi nella metà del tempo che le persone normali ci impiegano, diventando una feroce macchina da guerra in grado di vincere le battaglie più impossibili, trincerata sempre dietro una maschera di fredda superiorità, mai paga dei risultati raggiunti. Sai come mi chiamano in tribunale? Sei perplesso? Credi che non lo sappia? La “macchina infernale”…ma… mi sta bene. Mi sta bene…- disse concludendo quello sfogo assurdo con un sospiro di sofferta rassegnazione.

 

Micheal la scrutò pensoso. Non era facile assistere ad un cedimento della fredda Andree. Ma era unicamente in momenti come quelli che era possibile andare appena oltre le apparenze e scorgere, dietro la facciata di donna in carriera, la vera persona che lei celava con tanta cura agli occhi della gente. Non occorreva essere dotati di particolare acume per capire che il marchio di ragazza madre, gli anni di recriminazioni e la totale insensibilità dei genitori verso il nipote, avevano contribuito a farla diventare la donna glaciale che era adesso, ma bastava vederla giocare con il figlio per comprendere tutta la dolcezza e l’amore di cui era capace.

 

-Andree…salutami la piccola peste-

-Sarà fatto Fox. Tu sei l’unica persona che mi mancherà quando sarò in Giappone-

-L’unica? Ed il dottor Lee?-

-Noam? Come non lo sai? Lui è già in Giappone da due settimane, ha chiesto ed ottenuto il trasferimento all’ospedale di Tokyo, è il nuovo medico legale ora-

-Oh devo dedurre che la donna di ghiaccio non sia poi così ghiacciata…-

-No ti sbagli. Le maldicenze su me e Noam dilagano, ma ti assicuro che vi sbagliate tutti quanti-

-Ok non sono affari miei. Ti prenoto il volo per dopodomani e Gwen si occuperà di tutto il resto. Tienimi informato Andree-

-Certo capo. A presto

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III

 

-Perché non mi mostri cosa stai disegnando?- chiese la giovane donna comodomante sdraiata sul lussuoso divano di damasco nero, sbirciando incuriosita la testolina castana del bimbo seduto carponi poco distante su un tappeto della stessa tinta avorio delle pareti della stanza.

-No…è uno scarabocchio-

-Ma se è un’ora che stai lavorando su quel disegno-

-Te ne sei accorta? Credevo fossi impegnata con le tue carte-

-é vero, ma non sono mai tanto impegnata da non accorgermi di quello che fai Josh- puntualizzò la donna appoggiando sul basso tavolino di vetro trasaprente il plico di carte che stava esaminando con attenta cura -Questo dovresti saperlo bene…-

 

Il bimbo si morse il labbro inferiore sollevando sulla madre due bellissimi occhi ambrati -Sì mamma lo so. Ma non chiedermi di mostrarti il disegno…- insistette, scrutando con cura la reazione della genitrice.

-Perché no?-

-Perché non ti piacerebbe…-

-Ma a me piacciono sempre i tuoi disegni-

-Questa volta no- tagliò corto il bambino rimettendosi a colorare il disegno con un pastello rosso fuoco.

-Basta Joshua. Ora lo voglio proprio vedere, mi hai incuriosita-

-Uffa!- sbottò Josh balzando in piedi e dirigendosi verso il divano con il foglio in mano -Tieni...- borbottò porgendole rassegnato il foglio, sapendo bene che quando la madre lo chiamava con il suo nome intero era segno che si stava arrabbiando sul serio.

 

La donna prese il foglio ed esaminò il disegno con attenzione. Decisamente non era in grado di essere molto critica con il figlio, tutto ciò che lo riguardava era per lei splendido. Ma anche un cieco avrebbe notato che il suo piccolo aveva delle doti artistiche superiori alla sua età. Il disegno rappresentava un’enorme porta da calcio davanti alla quale un portiere stava in attesa della palla nella classica posizione accucciata mente l’attaccante si preparava al tiro.

 

-Perché non dovrebbe piacermi? È bellissimo…- esclamò sincera, afferrando un braccio paffuto del figlio e tirandolo verso di sé.

-Perché a te non piace il calcio- rispose Josh con il genuino candore che caratterizza i bimbi di quell’età.

-Amore, il fatto che non puoi calciare la palla in giro per casa come se fossi in un campo sportivo, non significa che a me non piaccia il calcio. Mi hai mandato in frantumi tre lampadari, un intero servizio di bicchieri in cristallo ed una lampada costosissima che mi aveva regalato il nonno- elencò Andree sforzandosi di mantenere la calma nonostante il ripensare alla sua lampada preferita finita in mille pezzi, le provocasse ancora una certa irritazione.

-Mamma…- miagolò Josh salendo cavalcioni sul ventre piatto della madre ed assumendo l’espressione tattica per farsi perdonare tutte le malefatte –Io sono stato cattivo e ti ho disubbidito, ma so che a te il calcio non piaceva da prima…a te non piace e non vuoi che io giochi-

 

Suo malgrado, Andree accusò il colpo. Involontariamente si irrigidì e si affrettò a volgere lo sguardo altrove per sfuggire agli occhi disarmanti del figlio -Ehm…Josh…come ti vengono in mente certe cose?- tentò di mentire, pur sapendo che il bambino aveva colto nel segno.

-Eh non ci vuole mica un genio! Mi hai iscritto al club di karate, basket, nuoto, pallavolo, persino danza, facendomi fare la figura del pappamolle davanti a tutti i miei compagni dell’asilo a New York, ma non hai mai voluto iscrivermi al club di calcio nonostante te lo avessi chiesto mille volte…-

 

Era vero. Maledettamente vero. Il calcio le ricordava un periodo triste della sua vita. No, bugiarda. Era stato il periodo più bello della sua vita sino a che…ma poi...e poi proprio un bel niente! Era inutile pensarci, il passato era morto e sepolto.

 

Andree ritrovò il coraggio di incrociare gli occhi nocciola del figlio e come sempre si soffermò ad ammirarne le bellissime pagliuzze dorate che illuminavano quelle iridi gioiose rendendo lo sguardo del bimbo particolarmente intenso. Scostò sovrappensiero una ciocca di capelli castani dalla fronte liscia di Josh, indugiando in una tenera carrezza sulla sua guancia vellutata -Ci tieni tanto a giocare  a calcio?- chiese infine, piegata dalla tenera dolcezza del figlio.

 

-Sì mamma é la cosa che più mi piacerebbe fare...- rispose candido Josh anche se il sorriso trionfante, che gli increspava la bella bocca identica a quella della giovane madre, palesava senza possibilità di errore, la perfetta consapevolezza di averla avuta vinta.

-Va bene- cedette infatti Andree -Domani ti accompagno alla nuova scuola e mi informo se c’é un club calcistico, ok?-

-Oh mammina ti voglio tanto bene!- escamò entusiasta il bimbo affondando il volto nell’incavo tra il collo e la spalla della madre per poi ringraziarla ancora con un sonoro bacio sulla bocca.

-E come sempre si fa come vuoi tu! Ma bada bene Josh, niente pallone in casa altrimenti ti proibirò di giocare per il resto della tua vita, chiaro?-

-Sì mamma chiarissimo- disse compito.

-E ora a nanna furfante, che per oggi puoi ritenerti soddisfatto!-

 

Andree strinse freddamente l’enorme mano del tecnico sportivo dei pulcini che avrebbe seguito la preparazione atletica di suo figlio. Aveva sperato sino all’ultimo che la scuola in cui aveva iscritto Joshua non fosse dotata di un club di calcio, ma le sue tenui illusioni erano crollate miseramente di fronte all’attrezzatissimo campo da calcio con tanto di spalti, tribune e spogliatoi.

 

D’altronde suo figlio l’aveva messa in trappola e ora non poteva certo rimangiarsi la parola! Poco prima quella peste travestita da angioletto, era entrata in aula fiera e sorridente nel suo nuovo grembiulino blu, invitandola, con un gioioso occhiolino, ad onorare la promessa fatta. E come poteva lei opporre resistenza alla volontà di una creatura che sapeva strapparle qualsiasi promessa con tanta disarmante dolcezza? Se i suoi colleghi avessero visto come suo figlio riusciva sempre a raggirarla, avrebbe perso all’istante tutta la credibilità che si era guadagnata con tanta fatica!

 

L’allenatore era un uomo grande e grosso, sulla quarantina, leggeremente stempiato con un grosso naso rubicondo che avrebbe reso la sua espressione particolarmente minacciosa, se non fosse stato per gli occhi vivaci ed il sorriso gentile. Andree si irrigidì ulteriormente, constatando con disappunto che l’uomo tratteneva la sua mano più di quanto la normale cordialità richiedesse. Tossicchiò nervosamente, ritraendosi con un brusco strattone, a malapena celato dietro ad un sorriso di circostanza -Bene signor Cooper le affido mio figlio. Ora se vuole scusarmi ho un’importante appuntamento di lavoro-

-Certo signora Takigawa, non si preoccupi farò di suo figlio un campione....-

-Non ne dubito - borbottò Andree allontanandosi in fretta.

 

-Manca solo che quel dongiovanni fallito metta strane idee un testa a Josh...altro che campione!- sbottò la donna di pessimo umore sbattendo con foga la portiera della sua Bmw nera decappottabile ed avviandone il potente motore. Poco maternamente sperava che suo figlio fosse negato per quello sport e che desistesse in fretta da quella passione che la turbava tanto. La sua fredda razionalità le stava suggerendo in tutti i modi che il suo astio contro il calcio era del tutto infondato, che il suo era un atteggiamento immaturo ed in rotta di collisione con la sua mentalità concreta e calcolatrice. Ma era più forte di lei. Ogni volta che solo sentiva nominare quello stupido sport qualcosa nel suo profondo si agitava facendole rivivere sensazioni che avrebbe di gran lunga preferito non aver mai provato.

 

Si immise sgommando nell’affolata tangenziale, lanciando una rapida occhiata all’orologio digitale sul pannello luminescente della vettura -Accidenti sono in lieve ritardo- brontolò pigiando ulteriormente sull’acceleratore.

 

L’incontro con il mister di Josh le aveva fatto perdere più tempo del previsto ed ora era costretta a correre oltre i limiti di velocità per le strade della capitale giapponese. Ma la velocità non le dispiaceva, anzi. Se non avevsse temuto per la sua acconciatura, avrebbe volentieri abbassato la capotte dell’auto permettendo così al vento di sferzarle il volto e scompigliarle i lunghi capelli, nella speranza che si portasse via anche i cupi pensieri che quella mattina spingevano per intrufolarsi nella sua mente.

 

Per fortuna la sagoma dell’imponente Ishall Palace, sede storica della federazione sportiva giapponese, si stagliò all’orizzonte, cancellando definitivamente qualsiasi preoccupazione che non avesse a che fare con il suo imminente incarico.

 

Ricontrollò l’ora constatando con piacere che il ritardo era di soli pochi minuti.

 

Rapidamente, mentre sistemava la potente auto nel parcheggio riservato agli ospiti attesi, ripensò agli incartamenti che aveva esaminato la sera precedente. Non molto in realtà. Era evidente che la federazione non desiderava assolutamente che particolari scottanti della vicenda venissero divulgati. Per questo motivo, nel rapporto che le era pervenuto, non vi era nulla più che i dati medici incriminati, l’elenco delle sostanze utilizzate e qualche vaga annotazione su quattro titolari coinvolti. Né un nome, né un indizio, che potesse permetterne l’identificazione.

 

-E va bene signori vi tirerò fuori dal fango senza che la vostra bella immagine venga intaccata....una sfida che si preannuncia interessante- esclamò mentre uno scintillio divertito le attraversava veloce le iridi grigie. Andree amava le sfide. La eccitavano e la facevano sentire viva. Volontariamente andava alla ricerca di situazioni in grado di metterla in difficoltà e, come era facilmente prevedibile visto il suo carattere duro ed ambizioso, non accettava sconfitte. Non le importava granché che i suoi clienti fossero innocenti o colpevoli, non era ciò a fare la differenza. Su alcuni errori era disposta a chiudere gli occhi con indifferenza, a patto che questi non superassero i limiti che la sua coscienza le imponeva. Indubbiamente era contraria al doping, anche se non ne capiva pienamente il senso e reputava l’abuso di sostanze dopanti un atto di stupidità più che un crimine. Forse la pensava così perché non era mai stata una sportiva e quindi non poteva sapere esattamente che cosa spingesse un atleta a doparsi e quale delusione provasse un tifoso nello scoprire che lo sportivo preferito falsasse le sue prestazioni. Fatto sta che nella sua scala di valori non era certo il delitto più efferato e più di una volta le era capitato di far dichiarare innocenti atleti che sapeva bene essere colpevoli, senza che questo le provocasse alcun rimorso. Ciò che il suo ambizioso ego non era assolutamente disposto ad accettare era perdere una causa. E questo finora non era mai successo anche grazie al ricorso di menzogne ben assestate. Non le importava il danno che certe sostanze potevano causare a giovani atleti, erano tutti grandi e vaccinati e secondo lei pienamente consapevoli dei rischi che correvano. Per questo non meritavano la sua compassione. E non avevano neppure bisogno della sua comprensione. Da lei volevano solo un’assoluzione. Un’assoluzione che puntualmente arrivava. Una rivincita che esigeva dalla vita professionale. Una magra consolazione che la ripagava in parte della sconfitta che invece aveva subito in ambito affettivo. Una sconfitta che le aveva dato un figlio...

 

Recuperò la ventiquattrore in pelle dal sedile posteriore dell’auto, scrollando il capo infastidita da quell’inusuale mescolanza di pensieri professionali e personali, quindi si avviò con passo deciso verso l’edificio.

 

Esaminò con aria critica la sua immagine riflessa dalla grande porta a specchi del palazzo, assicurandosi che non una piega dell’austero completo giacca e pantaloni color sabbia che indossava, fosse fuori posto. Constatò con disappunto che una ciocca dei lunghi capelli era sfuggita alle forcine che reggevano lo chignon severo, doveva decidersi a tagliarli, erano diventati veramente troppo lunghi, ma a Josh piacevano tanto, sosteneva che le principesse nelle fiabe avevano sempre i capelli lunghissimi e che lei assomigliava tanto ad una principessa....che spirito romantico aveva il suo cucciolo!

 

Ma che le stava succedendo? Ora si lasciava andare anche a languide effusioni materne!

 

Appoggiò stizzita la valigetta a terra e sistemò in fretta la ciocca ribelle, poi spinse decisa la porta ed entrò nel palazzo.

 

-Insomma questo avvocato che fine ha fatto?- tuonò un uomo dai lunghi capelli corvini che gli ricadevano ribelli sulle spalle massicce, lanciando l’ennesima occhiata assassina alla porta d’ingresso.

-Calma, calma ragazzi...ora mi faccio mandare una segretaria e faccio rintracciare l’avvocato al cellulare- disse il presidente della federazione calcistica premendo il pulsante dell’interfono, simulando una calma che era ben lungi dal provare.

-Bravo, datti una mossa Freddy!- sbottò un altro giovane ragazzo moro, seduto poco rispettosamente sulla grande scrivania presidenziale di radica lucidissima, muovendo nervosamente le gambe a penzoloni, talmente muscolose che non lasciavano alcun dubbio sulla sua professione.

 

-E tu siediti composto! Per Dio sei nel mio ufficio non al bar!- urlò Freddy Marshall lanciando un’occhiataccia all’irriverente ragazzo che ricambiò quello sfogo con un’arrogante alzata di spalle.

-Ehi calma, non mettetevi a litigare come al solito voi due- intervenne un terzo ragazzo affondato in una comoda poltrona di pelle scamosciata, di cui però non sembrava apprezzarne le doti rilassanti dal momento che vi era seduto rigidamente, con il volto contratto in un’espressione di preoccupata tensione.

 

Un discreto bussare alla porta mise a tacere ogni altra obiezione.

 

-Avanti!- urlò quasi Marshall, a cui quel battibecco col suo pupillo aveva fatto perdere quella falsa parvenza di serenità che si era imposto.

 

La giovane donna fece capolino nella stanza, aprì la bella bocca umida di lucidalabbra per parlare, ma venne subitaneamente messa a tacere dal tono di comando dell’uomo in piedi al centro della stanza -Servizio efficentissimo in questo posto, non c’è che dire!- sbottò Marshall guardando a malapena la donna.

 

-Veramente...- cominciò Andree perplessa di fronte a quell’originale accoglienza. Diede una rapida occhiata alla targhetta appesa alla porta, che ancora teneva spalancata, per assicurarsi di non aver sbagliato stanza, ma non vi era alcun errore.

 

-Si certo, non perdiamo tempo- incalzò ancora Freddy -Signorina mi scovi immediatamente il numero privato dell’avvocato....come si chaima quel cazzo di avvocato? Ah sì ...Takigawa... e gli dica di schiodare il suo merdoso culo da qualsiasi posto in cui si trova e di portarlo qui in fretta!-

 

-Devo usare esattamente queste espressioni?- chiese Andree modulando ad arte la sua intonazione, nascondendo magistralmente sia l’indignazione sia la sorpresa.

-Cosa?!? Certo che no, trovi lei la forma più adatta ma il messaggio implicito deve essere efficace....quel vecchio bavoso di un agita scartoffie, che crede? Che lo aspetteremo all’infinito?-

 

Marshall perse totalmente il controllo e diede sfogo alla sua frustrazione con un’accesa invettiva farcita di colorite espressioni contro quell’avvocato che non si decideva ad apparire.

 

Andree assistette impassibile a quello sfogo d’ira. Ma la maschera inespressiva che celava il suo reale stato d’animo, si stava velocemente sgretolando e la donna sentiva il sangue ribollirle nelle vene sempre più prepotentemente ad ogni ulteriore ingiuriosa parola dell’uomo.

 

Freddy si volse nella sua direzione e notando con disappunto che la ragazza non si era mossa dalla sua posizione, l’apostrofò in malo modo -Ancora qui? Non ha capito che deve fare?- sbottò fulminandola con un’occhiataccia.

 

-Ho capito benissimo invece!- esordì lei con un tono tagliente come una lama d’acciaio, spingendo con una gesto, a dir poco irato, la porta di noce che si chiuse con un  sonoro tonfo alle sue spalle -E spero che lei abbia delle valide spiegazioni per il suo comportamento, diciamo selvaggio, per non rinverdire le sue signorili espressioni, perché non ritengo i miei quindici minuti di ritardo, un motivo plausibile per giustificare questa vergognosa sceneggiata!- tuonò, impalando l’uomo con i suoi occhi glaciali.

 

-Co..cosa?!?!- blaterò Freddy mentre una maschera di confusione e stupore scendeva sul suo volto bruno.

 

-Sono l’avvocato Takigawa, posso sapere con chi ho....ehm...”l’onore” di parlare?- proseguì Andree imperterrita. Il suo tono autoritario fece scendere il gelo nella stanza.

 

-Non é possibile- affermò Freddy allibito, squadrando ora con una certa attenzione la giovane donna che lo stava turbando con i suoi occhi implacabili.

 

 -Allora sto aspettando!- ordinò furibonda muovendo qualche passo verso il centro della stanza, ignorando deliberatamente le espressioni ebeti degli altri uomini presenti.

 

Dal momento che non sembravano in grado di riprendersi dallo stato semicatatonico in cui erano piombati, Andree concesse loro qualche secondo di tregua, approfittandone per registrare ogni minimo dettaglio della scena, con il suo occhio professionale. Quel selvaggio, che probabilmente altri non era che il presidente della federazione, era un uomo sulla sessantina, bello e curato nonostante l’età e l’evidente mancanza di educazione. Il ragazzo sfacciatamente seduto sulla scrivania, atteggiamento che provocò in Andree un’ulteriore impennata al suo disappunto, in quanto una tale mancanza di rispetto per le alte cariche dell’organizzazione non faceva presagire niente di buono, era, doveva ammetterlo, un bellissimo giovane dall’espressione intelligente ed arrogante, i lineamenti marcati lasciavano trasparire un che di aristocratico che tradivano i suoi nobili natali. I due ragazzi seduti alla sua destra la fissavano increduli, uno era palesemente disorientato, forse addirittura vicino al panico, mentre l’altro boccheggiava comicamente come un pesce fuori dall’acqua. Infine il quinto, carismatico giovane dai lunghi capelli incredibilmente neri, indubbiamente affascinante, ma una veloce occhiata era bastata all’avvocato per percepire lo spirito indomito del giovane, allergico alle regole e alle imposizioni sociali. Andree provava un odio istintivo per le persone ribelli ed aggressive, una delle peggiori specie in circolazione, per i suoi gusti.

 

-Non é possibile. Ci deve essere un errore signorina, lei non può essere l’avvocato Takigawa- disse infine Marshall, riprendendosi un poco ed assumendo improvvisamente un tono educato che provocò un guizzo di sorpresa nella donna.

-Signor....-

-Marshall, Freddy Marshall, presidente della federazione calcistica giapponese-

-Signor Marshall, non credo si tratti di un errore, ma lo possiamo verificare immediatamente- affermò, ridando un tono pacato e professionale alla sua bella voce mentre l’ira, che qualche istante prima brillava nel suo sguardo freddo, si annidava in fondo ai suoi occhi, senza però scomparire del tutto -Il mio nome é Andree Takigawa, sono l’avvocato incaricato dalla Fox and Co. per seguire il caso di doping che coinvolge quattro giocatori professionisti, che immagino siano i signori presenti-  suppose scrutando i presenti una seconda volta, sicura di essere nel giusto, in quanto i fisici scolpiti, impossibili da ignorare, non potevano appartenere ad altri che a degli sportivi professionisti.

 

-Le ripeto non é possibile. C’é un errore. Il caso é serio ed estremamente delicato, non possono averci inviato un avvocatuccio alle prime armi. Mi perdoni la schiettezza signorina, ma non credo che lei abbia più di ventisei anni-

-Ventitre per la precisione- replicò asciutta con un’espressione tra l’annoiato e l’irritato.

-Cosa? Ma si sta forse prendendo gioco di noi? La avverto che se ...-

-Senta signor Marshall- lo interruppe Andree decisa -Posso capire la sua perplessità, ma non la giustifico. Sono giovane è vero, ma ciò non toglie che la mia competenza nel campo sia altamente qualificata. Forse la mia agenzia non le ha fornito informazioni esaurienti e comunque rimediamo subito. Sono io l’avvocato che ha seguito il processo O’Neill, e mio é anche il caso Sqwart e Sauders. Le dicono niente questi nomi?-

-Certo, l’incredibile conclusione di quei processi di doping contro i maggiori campioni del basket americano hanno fatto il giro del mondo. Ma io non posso credere che un avvocato così giovane possa aver fatto ...-

 

-Ora basta lei mi offende!- tagliò corto la donna ormai al limite della pazienza -Qui c’é il mio curriculum e lì un telefono dove può contattare Micheal Fox, veda lei come comportarsi. Per quanto mi riguarda, so che volete bloccare tutto alle indagini preliminari per tenere nascosta tutta questa vergognosa faccenda alla stampa, non mi sembra quindi che possiate permettervi di perdere tempo in inutili discussioni-

 

-Ehi ragazzina stai bleffando, tu non puoi essere il tizio che ci tirerà fuori dai pasticci- intervenne il ragazzo seduto sulla scrivania facendo un balzo atletico ed atterrando a pochi passi da Andree.

 

Andree, nonostante i tacchi alti, non gli arrivava neppure al mento e dovette alzare il capo per poterlo guardare dritto in faccia, ma la prestanza fisica non era mai stata una dote sufficiente a metterla in soggezione.

 

-Non osi mai più rivolgersi a me in questi termini- replicò feroce, sostenendo sdegnosamente lo sguardo profondo dell’uomo, rilevando compiaciuta un’ombra di incertezza in fondo agli occhi incredibilmente scuri di lui.

 

-Sono d’accordo con Benji qui c’é qualcosa di strano, cazzo quest’avvocato é più giovane di me!- sbotto il ragazzo dai lunghi capelli neri agitandosi sulla poltrona e sbattendo i pugni sui braccioli imbottiti.

 

-Calmatevi ora- ordinò un terzo alzandosi maestosamente dalla poltrona -Non credo sia giusto investire l’avvocato in questo modo perché é più giovane e ...carino di quanto ci aspettassimo. Lei si é presentata e ha esposto con precisione la sua posizione, ora sta a noi accertare la veridicità delle sue affermazioni ed assicurarci che non vi siano errori. Per quanto mi riguarda se lei é chi dice di essere, io sarei più che felice di averla dalla nostra parte. Inanzitutto mi presento, sono Oliver Hutton, il capitano della nazionale giapponese- disse amichevolmente il ragazzo porgendole una mano grande e nervosa.

 

-Finalmente qualcuno che conosce le elementari regole del vivere civile, credevo di essere capitata in un branco di trogloditi. Piacere di conoscerla signor Hutton...- rispose rabbonita dal comportamento educato del ragazzo, ricambiando freddamente la stretta vigorosa di lui.

-Holly, la prego-

-Mi spiace, non sono abituata a dare confidenza a miei clienti-

-Ma noi non siamo certi di esser suoi clienti...avvocato- disse il quarto ragazzo del gruppo alzandosi e parlando per la prima volta.

-Che intende dire signor....-

-Perchè dovrei dirle il mio nome? Magari é una giornalista che si é intrufolata qui sotto mentite spoglie- l’affrontò gelido squadrandola con ingiustificato rancore.

 

L’insinuazione del ragazzo fece tremare i polsi ai presenti ed Holly ritrasse istintivamente  la mano, spaventato per imprudenza che aveva commesso rivelando il suo nome.

 

-Questo é troppo- sibillò Andree tra i denti montando su tutte le furie -Ecco- proruppe ormai senza controllo, sbattendo la sua costosissima borsa di pelle sul tavolo ed estraendone con rabbia un voluminoso plico di carte -Questo é il mio curriculum, leggetelo con calma e attenzione perchè non vi ripeterò oltre le mie incredibili gesta. Questi sono gli incartamenti che voi mi avete fatto avere riguardo al vostro caso e questa é una copia del fax che avete spedito in America. Che altro...vediamo…ah sì il mio tesserino di riconoscimento, la mia patente, la carta di identità. Il primo di voi che dice un’altra parola offensiva nei miei riguardi o che farà insulse insinuazioni si ritroverà con una bella denuncia per diffamazione. Sono stata chiara?-  concluse, compiacendosi del silenzio teso che aveva fatto seguito alle sue parole. Finalmente la prendevano in considerazione!

 

-Metta via questa roba avvocato e ci scusi. Io ...possiamo ricominciare tutto da principio?- chiese  Marshall con espressione contrita.

-Non credo dimenticherò in fretta una tale accoglienza, ma sono disposta a passarvi sopra- replicò acida, risistemando con apparente calma i documenti nella borsa -Ora permettetemi solo una telefonata- aggiunse infine.

-Si certo- concesse il presidente facendosi da parte in preda ad un evidente imbarazzo.

                  

Andree prese il ricevitore dalla scrivania compose in fretta il numero attivando il vivavoce.

-E ora aprite bene le orecchie signori....-

Dal vivavoce una voce professionale rispose in americano –Fox and Co. per servirla. Segreteria dell’avvocato Micheal Fox, posso esserle d’aiuto?-

-Gwen? Ciao sono Andree. Micheal é in ufficio?-

-Salve avvocato, glielo passo subito. Ci sono problemi in Giappone?-

-Qualcuno, ma li sto risolvendo in fretta-

-Non ne dubito. Ecco l’avvocato Fox é in linea-

-Pronto? Andree?Che succede?-

-Ciao Micheal. Ho qualche problema con la federazione giapponese. Vedi loro si aspettavano un avvocato ...ehm...vecchio e bavoso...-

-Ma che stai dicendo?-

-Lasciami finire. Si aspettavano un avvocato con più esperienza nel campo...-

-Più esperienza di te? Ma non dire idiozie. Se vogliono un lavoro fatto bene, veloce e “pulito”, questo lo puoi fare solo tu. Si sono impressionati davanti al tuo faccino innocente?-

-Faccino innocente? Da quando?- ribatté la donna sarcastica.

-Scherzavo cara. Avere una giovane donna é un problema per loro?-

-Credo di sì, ma chiediglielo direttamente, sei in vivavoce nell’ufficio del presidente della federazione nipponica, il signor  Marshall-

-Oh salve signor Marshall-

-Salve avvocato Fox mi scusi il disturbo- replicò un impacciato Marshall riconoscendo la voce del presidente della Fox and Co. con cui aveva avuto modo di parlare in un paio di occasioni negli ultimi giorni. Ormai non nutriva più alcun dubbio sull’onestà della donna che aveva di fronte, anche se continuava a studiarla con sospetto.

-Allora, mi dica, qual’é il problema?-

-Nessuno. Si é trattato di un malinteso da parte mia....-

-Bene allora tutto risolto, l’avvocato Takigawa vi tirerà fuori dai pasticci non ne dubiti-

-Certo...arrivederci avvocato Fox-

-Arrivederci signor Marshall...e non si faccia ingannare, Andree conosce alla perfezione il suo lavoro, é capace e intelligente, la migliore nel suo campo. Le assicuro che non potreste essere in mani migliori. Arrivederci-

 

Il termine della comunicazione intercontinentale fu seguito da un silenzio carico di stupore ed attesa. Andree fu costretta a prendere in mano le redini della situazione, invitando i presenti a prendere posto ed accomodandosi a sua volta nella poltrona rimasta libera accanto al ragazzo altissimo che al suo arrivo era seduto scompostamente sul bordo della scrivania.

 

-Bene- esordì con tono professionale- Appianata ogni incomprensione e fugato ogni dubbio, veniamo a noi. Vorrei sapere i vostri nomi signori e come si è svolta esattamente la faccenda-

-Avvocato- prese parola Marshall prendendo posto dietro la sua scrivania, suo malgrado conquistato dall’aurea di professionale autorità che quella giovane donna emanava- Oltre a me e al capitano Hutton che si è già presentato, i signori presenti sono Benjiamin Price il portiere titolare della nazionale, Mark Lenders attaccante e Tom Becker centrocampista, anche loro titolari. La faccenda è seria. Una settimana fa, dopo di un’amichevole contro la Cina a Pechino, è stato fatto un controllo antidoping a sorpresa. Quattro giocatori giapponesi sono stati sorteggiati, i signori qui presenti appunto e … incredibilmente sono risultati positivi ai test. Sostanze proibite sono state rinvenute in dosi massicce sia nelle urine che nel sangue dei miei giocatori. Siamo riusciti a tenere tutto nascosto alla stampa grazie al repentino intervento del giudice sportivo a nostro favore. Il primo incontro con il tribunale sportivo è per lunedì prossimo…la carriera e il futuro della nazionale dipendono dall’esito di questo primo processo…- Marshall tacque osservando circospetto la bella donna seduta di fronte a lui.

 

Andree rifletté velocemente ripetendosi mentalmente ogni singola parola dell’uomo. La faccenda era seria ma non disperata -Siete stati molto abili con la stampa sportiva. Uno scoop del genere potrebbe cambiare la vita di molti giornalisti…Comunque queste non sono questioni che ci interessano. Allora veniamo a noi. Le corrego un’imprecisione signor presidente: lunedì non affronterete un processo ma un GUP ovvero un’udienza prelimenare che deciderà se vi siano o meno i presuppoposti per un’azione legale. Lunedì non saranno ammessi né testimoni né spettatori, solo gli indagati, l’avvocato difensore, il giudice e la pubblica accusa. Ma a parte queste noiose notizie legali veniamo al nocciolo della questione.Voi quattro, signori, siete titolari da quanto tempo?-

 

-Abbiamo iniziato assieme nella nazionale Juniores a sedici anni, da cinque facciamo parte della nazionale nipponica- rispose Holly, l’unico dei quattro giocatori che sembrava disposto ad accettare che quella giovane donna fosse la persona che li avrebbe tirati fuori da guai.

 

-Da quanti anni vi conoscete?- incalzò Andree rivolgendosi a tutti e quattro ma ottenendo risposta solo dal capitano, decisamente non le stavano rendendo le cose facili.

-Già alle elementari le nostre scuole disputavano periodicamente degli incontri-

-Quanti anni avete?-

-Io ne ho ventiquattro e anche Tom. Mark ventisei e Benji venticinque-

-Siete piuttosto giovani…e da quanto tempo fate uso di sostanze proibite?- la domanda di Andree, posta con piatta professionalità, freddò i presenti, spezzando immediatamente quel sottile filo di collaborazione che si era faticosamente instaurato.

-Ehi avvocato dei miei stivali che vuoi insinuare? Apri bene le tue delicate orecchie: nessuno di noi ha mai preso niente!- sbottò Mark con ferocia balzando in piedi ed incombendo pericolosamente su Andree. Ma chi le aveva detto che i Giapponesi erano tutti bassi? Quanti pregiudizi circolavano liberamente per il mondo!

 

-Si sieda e apra bene le orecchie lei. Sono il vostro avvocato, giusto?- aspettò un cenno di assenso prima di proseguire ma l’unico ad asserire a quella domanda fu Holly. Andree sospirò lentamente - Signori- disse impaziente- così non andiamo da nessuna parte. Discutetene tra voi in tranquillità ed entro stasera fatemi sapere la vostra decisione, ma una cosa dev’essere chiara. Se mi accettate come vostro legale, dovrete fidarvi ciecamente di me, indipendentemente dalla mia età e dal mio sesso. Quest’atteggiamento di sfiducia non mi permetterà di svolgere il mio lavoro-

-Avvocato forse non mi ha ascoltato bene, prima ma le ho detto che il processo preliminare è lunedì e oggi è venerdì…non abbiamo altra scelta che fidarci di lei- replicò Marshall asciutto.

-E allora esigo rispetto e lealtà da parte dei miei assistiti-

-Rispetto e lealtà?- ripeté Tom con un tono sarcastico che suscitò una curiosa perplessità nei compagni di squadra.

-Sì, qualcosa non le quadra?- chiese Andree secca lanciando un’occhiata penetrante al centrocampista che sostenne con fierezza lo sguardo di ghiaccio della donna.

 

Si confrontarono in silenzio per alcuni istanti, il volto di Andree freddo ed impassibile, quello di lui alterato da uno strano turbamento. Il ragazzo scosse la testa impercettibilmente abbassando lo sguardo –No, quadra tutto- sussurrò piegato dalla ferrea autorità di lei.

-Bene. Riprendiamo da dove abbiamo interrotto… da quanto tempo fate uso di sostanze dopanti?-

-Mai fatto uso- scandì Benji agitandosi sulla poltrona.

-Price….é forse parente dell’imprenditore William Price?- chiese osservandolo attentamente.

-è mio padre- fu la laconica risposta del portiere

-Ecco perché mi risultava vagamente familiare….assomiglia molto a suo padre…fisicamente-

-Conosce mio padre?- chiese il ragazzo sinceramente stupito.

-Ho lavorato un paio di volte con lui…tempo fa. Quindi lei è ricco sfondato oltre ad essere…il portiere della nazionale…Non capisco…no mi lasci finire- disse mettendo a tacere la replica di Benji con un imperioso gesto della mano -Lei gioca a calcio da quando era bambino e voi anche. Da circa sette anni militate in nazionale, perché il doping proprio ora? Stress da campionato? No, non è la prima volta che affrontate un campionato mondiale. Infortuni che vi hanno indebolito? Tutti e quattro contemporaneamente che strana coincidenza….ansia da prestazione? Cosa? Che cosa ha fatto sì che degli sportivi come voi che praticano il calcio fin dalla giovanissima età, ricorrano ad un certo punto a questi meschini aiuti, che sono una vergogna non solo per lo sport, ma anche per la vostra stessa coscienza di uomini? -

-Avvocato ha colto nel segno. Siamo nati calciatori, rispettiamo il calcio e noi stessi e mai e poi mai ci sogneremmo di vincere ricorrendo a sostanze proibite. No la prego, noi abbiamo ascoltato lei e ora lei ascolti noi- ordinò Holly fermando la replica di Andree con un’eloquente occhiata dei suoi profondi occhi scuri. Quello sguardo vellutato le provocò un rapido flashback:

 

-… Josh ci tieni tanto a giocare  a calcio?-

-Sì mamma é la cosa che più mi piacerebbe fare...-

 

Perché le veniva in mente suo figlio? Che c’entrava Josh con il capitano della nazionale giapponese? Andree scosse confusa il capo ma nessuno dei presenti comprese il suo turbamento, attribuendo quel gesto ad un motto d’impazienza nei confronti del tono autoritario con cui Hollly le si era rivolto. Ai quattro campioni nipponici era ormai chiaro che quella donna era fatta per comandare e che non accettasse la minima imposizione da nessuno.

 

-Vuole che noi ci fidiamo di lei?- proseguì Holly incurante della soggezione in cui l’avvocato lo metteva -Allora lei deve fare altrettanto. Sarà il nostro avvocato e lunedì andrà davanti al giudice a dire la verità e cioè che noi non abbiamo mai fatto uso di sostanze dopanti.-

-E allora le analisi signor Hutton?-

-Non lo so. Le giuro che quando ci hanno detto che siamo risultati positivi per noi è stato uno shock…-

-Beh questo non fatico a crederlo- affermò beffarda.

-Insomma lei non ci crede!- sbuffo Mark saltando in piedi una seconda volta.

-Signor Lenders si metta nei miei panni. Sono stata convocata qui perché hanno trovato le vostre analisi fuori norma, hanno aperto una causa contro di voi e siete qui costretti, vostro malgrado, in una stanza a discutere con un avvocato di cui non avete la benché minima fiducia, e mi venite a dire che è tutto un errore? Che siete candidi come gigli? Mi dispiace ma non sono stupida. E vi conviene non esserlo neanche voi. Ricordate che un avvocato è come un confessore: nulla di quello che mi direte uscirà dalla mia bocca. Io voglio sapere come stanno le cose per decidere come muovermi ma il fatto che io le sappia non significa che lo dovranno sapere anche gli altri….capite che voglio dire?-

-Cioè lei ci sta dicendo che se anche noi ammettessimo di esserci dopati lei andrà lo stesso in tribunale  a proclamare ai quattro venti la nostra estraneità ai fatti?- chiese allibito Tom.

-Esatto è quello che farò-

-Ma questo è mentire- asserì perplesso il centrocampista.

-No. Faccio semplicemente ciò per cui mi pagate-

-E che altro è disposta a fare per onorare la sua parcella, avvocato Takigawa?- chiese sprezzante il ragazzo.

 

Andree sbatté le palpebre incredula, non poteva credere alle proprie orecchie! Ma si sbagliava sicuramente, non vi poteva essere alcun doppio senso in quella domanda. Esaminò ancora una volta il ragazzo, ma l’espressione seria con cui attendeva la sua risposta non le fece comprendere quale fosse la sua vera intenzione.

 

Fu Marshall a porre termine quell’inutile battibecco -Basta Tom, che razza di insinuazioni fai? Avvocato non gli badi i ragazzi sono sconvolti per questa faccenda proprio perché non c’entrano nulla. Non sanno come sia accaduto e non se ne fanno una ragione-

 

-Lei crede in loro presidente?- chiese atona Andree decidendo di ignorare le basse insinuazioni del ragazzo dettate da chissà quali pregiudizi.

-Si conosco questi ragazzi da una vita, so da che spirito e da che principi sono guidati, sono pronto a scommettere qualsiasi cosa sulla loro innocenza-

-Va bene, se questa è la linea che volete tenere, ne prendo atto. Posso avere le analisi complete e la scheda anagrafica di ognuno di voi?-

-Ecco, le ho già preparato tutto avvocato- disse Marshall estraendo una voluminosa cartellina blu dal cassetto della sua scrivania.

-Bene, per ora non c’è altro. Se ho dubbi la contatterò signor Marshall, altrimenti ci vediamo lunedì mattina in tribunale. Arrivederci- salutò sbrigativamente prendendo la cartellina sottobraccio e avviandosi alla porta.

-Arrivederci- fu l’altrettanto freddo commiato dei ragazzi.

 

Non appena il rumore dei tacchi dell’avvocato si spense nel corridoio, Benji emise un lungo fischio, ammettendo con riluttanza -Accidenti mi sento come se mi avesse investito un ciclone. Sono tutto sottosopra-

-Già…e chi se lo aspettava?- rincarò Mark sullo stesso tono.

-Secondo me ci possiamo fidare. È in gamba- asserì Holly convinto.

-Tu sei il solito ottimista Oliver…comunque lunedì lo sapremo…e d’altronde non abbiamo scelta- concluse rassegnato Benji, poi, colto da una curiosità improvvisa, si volse verso Tom - Ma che battuta era la tua? Quella donna è bellissima ma ha uno strato di ghiaccio sopra che prima di scioglierlo farebbe passare gli ardori anche ad un eremita che non vede una donna da anni…-

-Non credo- fu la laconica risposta del centrocampista mentre i suoi occhi ambrati continuavano a fissare pensosi la poltrona vuota dove qualche istante prima vi era l’avvocato Andree Takigawa.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV

 

Andree arrestò la potente Bmw con un brusco stridore di pneumatici. Era nervosa ed irritata oltre ogni dire. Decisamente l’incontro con i ragazzi della nazionale giapponese non era stato per niente piacevole e a ciò si era aggiunta un’incomprensibile inquietudine che non le dava tregua, aumentando ulteriormente il suo disappunto.

 

Per quante difficoltà le si presentassero, era pressoché impossibile che lei perdesse il controllo della situazione, eppure quella mattina più di una volta si era abbandonata a scoppi d’ira e a reazioni dettate più dall’istinto che dalla razionalità. Una debolezza inconcepibile per la sua fredda mentalità.

 

Chiuse meccanicamente l’auto avviandosi verso l’imponente accesso dell’ospedale civile di Tokyo.

 

Attraversò l’affollata hall stringendo al petto la cartellina blu che Marshall le aveva fatto avere, quindi si arrestò dinnanzi alla reception -Per favore, mi può indicare lo studio del Dottor Noam Lee?- chiese gentilmente alla giovane infermiera che la scrutava incuriosita.

 

-Ha un appuntamento? Il dottore è impegnato in sala operatoria, non so se ha già finito….-

-Può controllare?- insistette Andree accennando un  sorriso.

-Certo. Chi devo dire?-

-Ferma lì Patty! Per la signora Takigawa sono sempre disponibile- una profonda voce maschile dal timbro basso e rassicurante  fece girare all’unisono entrambe le donne.

 

Patty, la graziosa infermiera della reception, gratificò istintivamnete il nuovo medico con un timido sorriso di apprezzamento. Come di consuetudine, nessuna donna era in grado di resistere al fascino magnetico del giovane medico americano. Sposate o fidanzate, non faceva alcuna differenza, Noam aveva l’innegabile potere di calamitare su di sé la benevolenza del gentil sesso con un semplice battito di ciglia. Ma il sorriso della minuta infermiera non era nulla in confronto alla radiosa espressione che illuminò il volto di Andree.

 

-Noam!- esclamò felice andandogli incontro.

-Andree che bello vederti! Mi chiedevo quando ti saresti fatta viva…-

-Ma se sono arrivata solo ieri mattina…-

-Appunto da più di ventiquattrore e ancora non eri passata a salutare il tuo vecchio amico…-

-Ma ora sono qui …- disse candida affondando con piacere lo sguardo inquieto negli occhi blu di lui. Noam era il suo migliore amico. L’unico in grado di calmarla con uno sguardo o una semplice parola.

-Vieni cara seguimi- la invitò il medico passandole un braccio attorno alla vita sottile e trascinandosela dietro con delicatezza.

 

Andree lo lasciò fare, voltandosi solo un istante per ringraziare con la mano l’infermiera che l’aveva gentilmente accolta. Sorrise divertita nell’osservare il capannello di infermiere che si erano riunite intorno al bancone e guardavano con invidia il dottore che la trascinava via con fare tanto confidenziale.

 

Come al solito Noam aveva fatto una strage di cuori, puntualmente infranti ... poverette loro non potevano sapere ciò che lei sapeva. Con civetteria tutta femminile, di cui anche Andree, nonostante le fredde apparenze, era dotata, si strinse ancor più contro il corpo massiccio del dottore che si voltò a guardarla con espressione interrogativa.

 

Noam condusse Andree nel suo studio, ampio e luminoso anche se infinitamente caotico, una cattiva abitudine che l’avvocato considerava il peggior difetto del suo amico. Nonostante i suoi continui rimproveri, Noam continuava imperterrito a sguazzare nella confusione perenne, e non contento la rimproverava di eccessiva meticolosità ai limiti della maniacalità. Le loro rare liti erano scaturite proprio da questa antitesi inconciliabile dei loro caratteri. Ma era comunque una questione troppo banale per mettere dell’attrito in una relazione perfetta che si protaeva da ormai tre anni. Inoltre da qualche parte aveva letto che il disordine era un tratto distintivo dei geni e lei sospettava che Noam genio lo fosse realmente.

 

Sbirciò tra il divertito e l’irritato l’imponente figura del medico che senza imbarazzo spostava  montagne di carte, scatole di provette sterili e qualche altra cianfrusaglia che Andree si rifiutò persino di identificare, da una delle poche sedie presenti nella stanza per permetterle di accomodarsi.

 

Battendo nervosamente un’unghia su un angolo del tavolo, attese che Noam terminasse di “far ordine” assumendo appositamente un’espressione di impazienza che sapeva bene irritare l’amico.

 

-Uffa potresti anche darmi una mano- sbottò infatti Noam guardandosi attorno alla disperata ricerca di un ripiano dove appoggiare una scatola di medicinali.

 

Andree non rispose limitandosi a sbuffare e ad aumentare il picchiettio sul tavolo.

 

-Ecco fatto. A lei signora- disse il medico sorridendole e mostrandole fiero la sedia finalmente libera.

 

Andree lo scrutò seria ammirando i lineamenti marcati dell’uomo. Indubbiamente Noam era il più bell’uomo che le fosse mai capitato d’incontrare. Alto un metro e novanta, muscoloso ed aitante, aveva dei cortissimi capelli biondi che portava sempre tagliati a spazzola, cosa che gli conferiva un’aria da ventenne scapestrato anche se in realtà aveva già superato i trent’anni. La dolcezza ed il calore che era in grado di trasmettere con uno sguardo lo rendevano praticamente irresistibile ed il legame speciale che li legava era lampante.

 

Eppure il dottor Noam Lee non era l’amante dell’avvocato Andree Takigawa, nonostante molti lo credessero. Ed in effetti vedere l’espressione perennemente arcigna di Andree trasformarsi in una pozza di dolcezza, era una cosa che avveniva solo in presenza di pochissimi eletti ed il dottor Lee era certamente il primo tra quelli.

 

-Allora!? Hai finito di fissarmi? Ho il resto del pranzo attaccato al naso?- chiese scherzosamente Noam  perplesso dall’attenta cura con cui Andree lo stava esaminando.

 

-No…oh come sono felice di vederti- esclamò la donna mollando la cartellina sull’unico quadratino della scrivania rimasto miracolosamente libero e gettandosi tra le braccia dell’uomo che l’avvolsero dolcemente.

 

-Cara come stai? E Josh? Come ti sei sistemata? Cosa…-

-Fermo Noam non riuscirò mai a rispondere a tutte le tue domande! Sto bene e anche Josh, mi sono sistemata in uno stabile tranquillo ed abbastanza dignitoso…-

-Abbastanza dignitoso?-

-Sì lo sai come sono perfettina-

-Diciamo amante del lusso –

-No, semplicemente mi piacciono le cose belle-

-Ok e di certo sei dotata di buon gusto, sono sicuro che avrai trasformato la tua nuova casa in un paradiso di bellezze…a partire dalla padrona di casa…-

-Scemo…non dire idiozie…-

-Ma è vero. Ti trovo bene, sei bellissima, lo sai che sono sempre stato un sostenitore del fatto che la collera ti renda ancora più affascinante…-

-Ma che dici sfacciato? E poi…come fai a sapere che sono arrabbiata nera?-

-Te lo leggo nel fondo dello sguardo di ghiaccio più caldo che io conosca-

-Basta prendermi in giro Noam- disse con tono serio smentito dal guizzo divertito che attarversò veloce le iridi grigie dell’avvocato.

-Ok Andree, sputa il rospo-

 

La donna si staccò a malincuore dall’abbracico confortevole dell’amico, per una ragione a lei incomprensibile, quel giorno si sentiva particolarmente bisognosa di protezione.

 

-Noam si tratta del caso per cui sono qui, ti ricordi te ne ho accennato-

-Sì doping…-

-Ecco in questa cartellina ci sono gli esami completi dei miei assistiti, vorrei che tu dessi un’occhiata-

-Va bene- accondiscese il medico aprendo la cartellina e sfogliando silenziosamente il mucchio di carte, estraendo di tanto in tanto qualche foglio che scorreva con espressione improvvisamente seria, in netto contrasto con la scapestrata ilarità con cui aveva accolto l’amica.

 

-Che c’è che non va Andree?-

-Niente, è che loro sostengono di essere innocenti…-

-E che altro vuoi che ti dicano?-

-Sì lo so, ma il mio scrupolo professionale mi dice di accertarmene. Dai un’occhiata a quelle analisi-

-Ok …vediamo….non ci sono dubbi i valori limite sono abbondantemente stati superati…però che pere si sono fatti…e non li hanno mai beccati prima?-

-No che io sappia, ma controllerò meglio gli incartamenti, sono venuta direttamente da te dopo averli visti-

-Ah e così sono stati loro a farti arrabbiare-

-Eccome- Andree raccontò con enfasi all’amico, l’eccentrica accoglienza che aveva trovato ad attenderla, la reazione dei ragazzi, le insinuazioni velate e la sfiducia che avevano apertamente palesato nei suoi confronti.

-E dai tesoro non te la prendere dev’essere stato uno shock per loro trovarsi la sorella meno famosa di Miss America invece di un vecchio gobbo dall’alito fetido…- disse Noam sogghignando divertito.

-Non ridere- ordinò lei fingendosi offesa.

-Scusami ma la situazione è così comica….- scoppiò a ridere il medico incapace di trattenersi oltre e contagiando ben presto anche Andree.

 

-Ora devo andare a prendere Josh. Ascolta, per qualsiasi cosa sai come rintracciarmi. L’udienza preliminare è lunedì alle nove- puntualizzò prendendo la cartellina e affrettandosi verso l’uscita.

-Ok se c’è qualcosa te lo farò sapere per tempo- salutò Noam facendole un ampio cenno con la mano- Arrivederci bellezza e salutami il discolo-

 

-E poi mamma Jeremy mi ha passato la palla e io ho tirato in rete al volo ... mamma ... al volo ho tirato e la palla è andata dentro e…mamma ma mi ascolti?- chiese il bimbo osservando la madre seduta di fronte a lui assorta nella contemplazione delle foglie d’insalata che girava e rigirava nel piatto da parecchi minuti.

-Mamma?-

-Cosa? Certo che ti ascolto….hai un nuovo amichetto allora….- affermò incerta portando un pomodorino alla bocca.

-Mamma non mi ascoltavi!- la rimproverò severo il bambino gesticolando con la forchetta stretta in pugno.

-Certo che ti ascoltavo…ma amore perché non mangi con i bastoncini? Siamo in Giappone…-

-Non cambiare discorso- l’ammonì il bimbo aggrottando le sottili sopraciglia castane in un gesto di impazienza.

-E va bene, mi hai scoperta. Ero distratta Josh, scusami…-

-Mamma hai qualche pensiero?-

-Lavoro amore, niente di grave- rispose Andree che proprio non riusciva a togliersi dalla mente l’incontro del pomeriggio -Hai finito di mangiare? Aiutami a preparare la tavola così mi racconti tutto da capo. Ti prometto che ora starò attenta-

-Va bene mamma- accondiscese pazientemente il bimbo prendendo il piatto e seguendo la donna in cucina.

 

Qualche tempo dopo Josh dormiva placidamente appoggiato al petto della madre, rannicchiati entrambi sul morbido divano. Andree accarezzò i soffici capelli castani del figlio assaporandone il tenue profumo. E così le sue speranze erano naufragate. Josh le aveva raccontato che il primo giorno di allenamenti era stato un vero successo e nonostante fosse uno dei più piccoli, lo avevano subito accettato in squadra, stringendo subito amicizia con tutti ed in particolare con un certo Jeremy che era anche nella sua stessa classe. Era felice per lui, anche se avrebbe continuato a giocare a calcio. Josh era un bimbo solare, vivace ma anche riservato e restio ad adattarsi ai nuovi ambienti, faticava ad instaurare nuove amicizie, almeno all’inizio, invece grazie al calcio sembrava essersi adattato alla perfezione ed in tempi da record. Chissà da chi aveva preso quella sfrenata passione per quello stupido sport, da lei non di certo … e allora … dal padre? Mah ... questo lo poteva solo supporre, non ricordava assolutamente nulla di quella notte in cui aveva concepito suo figlio, né un volto, né una voce. Assolutamente nulla. In realtà non ci aveva neanche più ripensato e dopo tanto tempo la sua memoria non poteva certo ricordare ciò che non ricordava neanche allora. E la nuda verità era che non le interessava affatto sapere chi fosse il padre di suo figlio, Josh era solo suo ed in ogni caso il problema non si poneva neppure: anche volendo non avrebbe potuto risalire all’uomo che l’aveva messa incinta sette anni prima, quindi inutile crucciarsi.

 

Si alzò a fatica sollevando il corpo abbandonato del figlio, cominciava a pesare il suo pulcino, ancora qualche mese e non sarebbe più riuscita a sollevare il suo tenero tesoro. Lo depose nel lettino rimboccandogli le coperte sino al mento -Buonanotte amore mio- sussurrò piano sfiorando con le labbra la fronte innocente del figlio.

 

Si accoccolò nuovamente sul divano tirandosi sulle gambe la coperta di caldo pail a losanghe rosse e blu, sorseggiando lentamente il suo the fumante. Fuori la pioggia continuava a cadere incessante picchiettando regolarmente contro le vetrate delle finestre. Andree rabbrividì nonostante il confortante tepore della sua casa. La pioggia la scombussolava sempre, quella notte pioveva, lo ricordava questo … c’era pioggia, tanta pioggia …

 

Scrollò stizzita le spalle ed afferrò decisa il primo plico di carte che aveva appoggiato sul basso tavolino di vetro trasparente con zampe di pregiatissimo marmo. Obbligandosi ad abbandonare una volta per tutte quei ricordi fastidiosi, cominciò a scorrere con interesse le pagine che raccontavano la vita di quattro campioni finiti miseramente nel fango.

 

Mark Lenders nato a Tokyo ventisei anni prima. Figlio di Rosaly Aders e Carl Lenders, primogenito ……tre fratelli ed una sorella……orfano di padre a nove anni………lavori saltuari…talento calcistico…borsa di studio per la Toho School a 11 anni………due volte campione nazionale con la sua squadra…………a sedici anni lascia il Giappone per perfezionare la sua tecnica in Europa. Milita nei giovanissimi della Juventus, del Manchester United e nel Olympic Lione. Ventunenne viene acquistato dal Tokyo Intenational. Capitano  carismatico, attaccante implacabile, per tre anni consecutivi sotto la sua guida, la squadra vince la coppa del Giappone………… tra le sue maggiori doti determinazione, forza, caparbietà…

 

-Un atleta modello…il classico uomo che si è fatto da sé….eppure…- sospirò amaramente Andree prendendo il secondo plico.

 

Tom Becker nato a Osaka … orfano di madre all’età di due anni, allevato e cresciuto dal padre pittore giramondo. Proprio i continui spostamenti del padre hanno permesso a Becker di giocare in molte squadre internazionali, sia in Giappone che in Europa, la sua tecnica fantasiosa é perfetta, indubbiamente il  risultato di questa confluenza di esperienze diversissime. Non esiste situazione di gioco in grado di sorprendere il più bravo centrocampista della nazionale… … spalla perfetta non solo per il capitano Oliver Hutton, con cui forma la famosa Golden Combi, ma anche per tutta la squadra, a cui è legato da decennale amicizia. Giovanissimo entra  a far parte della Nankatsu e conosce Hutton…tra i due……

 

-Amici nel bene e nel male- commentò acida Andree ripensando con una punta di astio alle parole offensive con cui il ragazzo l’aveva apostrofata quella mattina. Ma come si permetteva? Che voleva insinuare? Che era arrivata dov’era andando a letto con colleghi e giudici?

 

Bevve un altro lungo sorso di the sperando di eliminare quel vago senso di antipatia per il suo cliente. Non voleva assolutamente che giudizi esclusivamente personali interferissero con il suo lavoro. Quella situazione era già abbastanza delicata, non necessitava certo di ulteriori complicazioni. Tranquillizzata dalla sua ferrea razionalità, ricominciò a leggere.

 

Benjamin Price unico figlio dell’imprenditore William Price e della moglie Natalie. Sin da giovanissimo si è distinto come miglior portiere delle scuole. A soli sedici anni stipula un contratto con l’Amburgo … gioca con il club tedesco per tre anni...un grave infortunio ai legamenti del ginocchio destro lo costringe ad una lunga convalescenza in un’esclusiva clinica francese... una volta ristabilito conclude la stagione nella squadra tedesca  dopo di che decide di tornare in Giappone. Dopo lunghe trattative con i maggiori club nipponici, sceglie il Fujisawa dove gioca da due anni assieme ai suoi amici di sempre, Oliver Hutton e Tom Becker

 

Andree giunse infine all’ultimo plico. Una fastidiosa depressione si stava impossessando di lei. Non riusciva ad accettare che degli sportivi, dei modelli di vita sana per milioni di ragazzi, fossero in realtà così infami. Quelli non erano sparute comete in cerca dell’attimo di notorietà, ma sportivi veri, come ormai se ne trovavano pochi. Ragazzi nati per il calcio e cresciuti nell’effige di quello sport. Perché allora il doping? Che senso aveva falsare prestazioni che erano già ai massimi livelli? Possibile che avessero iniziato a doparsi ancora minorenni? No improbabile ... non avrebbero mai potuto eludere i controlli per tutti quegli anni. Eppure solo dei fisici altamente abituati a quelle sostanze potevano sopportare dosi così massicce di medicinali. Noam le aveva fugacemente fatto notare quanto quei valori fossero elevati...

 

Oliver Hutton nato a Camberra, Australia da genitori giapponesi…trasferitosi giovanissimo a Fusjisawa entra a far parte della Nankatsu…amicizia con Benjiamin Price…Tom Becker…eterna rivalità con Mark Lenders, col quale però forma una coppia vincente nella nazionale…due anni in Brasile con Roberto Sedigno…per altri due anni al Barcelona e una breve apparizione nel Marsille…Francia…

 

Insomma tutti bravi ragazzi apparentemente incapaci di simili bassezze. Eppure lei era lì per loro, aveva attraversato mezzo mondo per difenderli in un’aula di tribunale da tristi accuse.

 

La donna appoggiò la tazza ormai vuota sul tavolo. Sprofondò nel comodo divano rilassando le membra irrigidite.

 

Non era da lei farsi coinvolgere da un caso giudiziario, la sua professionalità non le aveva mai permesso di fare una sciocchezza del genere. Eppure, questa volta, qualcosa non stava andando per il verso giusto.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


CAPITOLO V.

 

L’entrata della donna nella piccola e fredda aula del tribunale di Tokyo, riservata alla visione preliminare delle prove a carico dei possibili imputati, fu accolta da una serie di occhiate apprensive che la trapassarono da parte a parte. Andree colse l’incertezza nell’espressione tesa dei suoi assistiti e questo le provocò un guizzo di disappunto. Decise saggiamente di contare sino a dieci prima di rivolgere loro la parola.

 

-Signori buongiorno… signor Marshall…- esordì avanzando lentamente verso di loro.

 

-Avvocato…- salutò con titubanza Freddy Marshall facendosi portavoce del gruppo.

 

Non ci volevano doti empatiche di particolare rilievo per cogliere la tensione mista a paura che faceva tremare percettibilmente la voce dell’uomo. Indubbiamente il presidente della federazione calcio giapponese aveva uno speciale legame con i suoi calciatori, vincolo che  che andava ben oltre il mero interesse professionale. Le era chiaro, ormai, il forte rapporto di amicizia che univa ineluttabilmente quei cinque uomini.

 

Osservò con maggiore attenzione i ragazzi che continuavano a fissarla immobili e silenziosi. Notò solo allora i segni scuri sotto gli occhi inquieti e l’inconfondibile espressione da cani braccati che puntualmente gli imputati, colpevoli o innocenti che fossero, assumevano non appena mettevano piede in tribunale. A nessuno piaceva essere giudicato, questo era ovvio.

 

- Ragazzi- disse la donna incapace di frenare l’irrazionale bisogno di rincuorarli che le era sopraggiunto cogliendola del tutto impreparata -State tranquilli tra poco sarà tutto sistemato, avete la mia parola- proseguì dando alla sua voce quel dolcissimo timbro materno che sino a quel momento era stata prerogativa esclusiva di Josh.

 

Per un motivo che neanche loro avrebbero saputo spiegare, i quattro giocatori trassero all’unisono un sospiro di sollievo, come se le parole di Andree avessero magicamente sistemato tutta quella brutta faccenda.

 

-Avvocato- disse Benji rivolgendole un sorriso tirato -Appena questa storia sarà finita la inviterò a cena- tentò di scherzare il ragazzo scoccandole un’occhiata incerta.

-Grazie signor Price, ma credo che la mia parcella sia più che sufficiente a ricompensarmi del disturbo- replicò Andree recuperando il consueto tono impersonale e rimproverandosi mentalmente per la debolezza di poco prima -Ora scusate, vado ad indossare la toga-

 

La donna si allontanò velocemente. Appoggiò la ventiquattrore in pelle sul bancone in prima fila e recuperò una toga rossa da un attaccapanni posto discretamente in un angolo. Indossò con grazia il leggero indumento che le si adagiò addosso alla perfezione, conferendole un alone di rispettosa autorità.

 

L’avvocato era nel suo ambiente ideale e lo si notava in ogni suo semplice gesto, eseguito con spontanea naturalezza.

 

Salutò cordialmente il pubblico ministero seduto nel tavolo accanto al suo, si trattava di un uomo di circa quarantanni, di altezza modesta, vistosamente stempiato e con spessi occhiali dalla montatura in osso. Il pubblico ministero ricambiò il cordiale cenno di saluto della bella donna e tutti notarono, Andree compresa, la languida occhiata con cui accarezzò per un attimo il corpo sinuoso dell’avvocato, fasciato da un rigoroso tailleur color crema.

 

Andree non batté ciglio, totalmente indifferente a quelle occhiate lussuriose che la lasciavano del tutto impassibile. Sapeva che non era consuetudine incontrare donne giovani ed attraenti in un’aula di tribunale ed era, quindi, ormai abituata a quell’incredulità mista ad apprezzamento tipicamente maschile a cui era immancabilmente esposta. 

 

Si limitò a sollevare lo sguardo ed incontrare quello tormentato dei suoi clienti. Un ultimo cenno di incoraggiamento nella loro direzione, poi Andree diede loro definitivamente le spalle, mettendo in secondo piano la loro presenza, quella del pubblico ministero, persino se stessa. Un bagliore indefinibile illuminò il suo sguardo glaciale e tutta la sua attività cerebrale venne incanalata in un’unica precisa direzione.

 

Ora era perfettamente concentrata, pronta ad affrontare l’udienza con impeccabile professionalità.

 

Il trillo acuto del campanello, che preannunciava l’entrata del giudice, arrivò ai suoi sensi allertati come il gong che avverte il pugile dell’inizio dell’incontro. La sensazione era più o meno quella, o perlomeno così ad Andree piaceva pensarla, anche se in realtà non era mai salita su un ring. 

 

Un composto fruscio accolse l’entrata del giudice Emma Shelley che prese posto invitando i presenti a fare lo stesso. Era una donna di cinquant’anni dall’aspetto volitivo. Era piccola e florida, anche se non grassa. I capelli color argento erano raccolti in un basso chignon alla base della nuca, il carattere forte e deciso, non incline a compromessi, era intuibile dagli zigomi alti e dalle labbra sottili. Gli occhi piccoli, scuri e ben distanziati, esprimevano un’acuta intelligenza. Probabilmente non era mai stata una bella donna, ma era certamente quella che si sarebbe potuto definire un tipo interessante, ed i corteggiatori non le dovevano essere mancati.

 

Andree provò un istintivo moto di rispetto per quella donna, e la constatazione la riempì di soddisfazione, se c’era una situazione professionale che la esasperava, rendendola eccessivamente aggressiva, era avere a che fare con giudici ottusi ed indisponenti.

 

Ma era stata fortunata. Questa volta vi erano veramente tutti i presupposti per una causa interessante. Puntualmente il familiare, elettrizzante brivido di sfida attraversò il suo corpo teso facendola sentire incredibilmente viva.

 

-Avvocato Takigawa- chiamò il giudice con un timbro pacato e gradevolmente rauco.

 

-Presente signor giudice- rispose Andree con voce chiara e determinata.

 

Il giudice scrutò l’avvocato con cipiglio impassibile. Le due donne si confrontarono per qualche istante e la loro espressione appagata, palesava che la reciproca impressione doveva aver soddisfatto entrambe.

 

-Non mi aspettavo che fosse così giovane…- commentò il giudice sistemandosi gli occhiali sul naso piccolo e dal taglio aristocratico.

-Lo so, è una sorpresa per molti- rispose Andree ripensando fugacemente alla reazione che i ragazzi alle sue spalle avevano avuto qualche giorno prima.

-Immagino. Pubblico Ministero Bowes- tagliò corto il giudice rivolgendosi all’ometto in piedi alla sinistra di Andree.

-Presente-

-Bene possiamo dare avvio all’istruttoria di indagine preliminare per la verifica della accuse a carico di Hutton Oliver, Price Benjiamin, Lenders Mark, Becker Tom. Gli imputati sono presenti avvocato?-

-Sì signor giudice, sono tutti presenti- rispose prontamente Andree con uno sguardo che non tradiva incertezze.

 

Quando il giudice Shelley allungò il collo per vedere in fondo all’aula, i ragazzi si agitarono nervosamente sulle panche di legno con una smorfia di sofferenza in volto che poteva far credere fossero seduti sui carboni ardenti.

 

-Bene. Pubblico ministero procediamo con l’accusa- continuò il giudice distogliendo lo sguardo dagli imputati ed iniziando a sfogliare il fascicolo che il cancelliere le aveva prontamente sporto.

 

-Signor giudice, i signori da lei appena citati sono accusati di abuso di sostanze proibite dal codice ufficiale della federazione sportiva internazionale. Le analisi delle urine ed ematiche a cui sono stati sottoposti, subito dopo una partita amichevole contro la Cina, tenutasi a Pechino dieci giorni fa, non lasciano dubbi sul fatto che i quattro giocatori titolari della nazionale giapponese, in quell’occasione, hanno fatto uso di sostanze atte a migliorare le loro prestazioni, contravvenendo alle regole sportive. Pertanto chiedo che vengano chiamati a rendere conto del loro deplorevole comportamento davanti a questo tribunale e davanti alla società intera. Come ben saprà, signor giudice, sono contrario al silenzio stampa che si è tenuto su questo increscioso fatto, in quanto ritengo che i tifosi abbiano il sacrosanto diritto di sapere come si comportano i loro beniamini. Per tutto ciò esigo che si proceda con un processo pubblico di fronte al tribunale superiore sportivo e che i sopra citati accusati siano sottoposti ad una pena esemplare di monito per chiunque intenda seguire il loro esempio. Deve essere chiaro, per l’ennesima volta, il messaggio che lo sport non ha nulla a che spartire con tali meschini mezzi ed auspico che la vicenda giudiziaria degli accusati sia l’emblema del fatto che essere famosi e potenti non è un alibi sufficiente a giustificare un atto ignobile quale è il doping! Infamia contro lo sport, contro chi crede in esso, contro gli stessi sportivi! Signor giudice ho terminato- concluse enfaticamente il pubblico ministero dando prova di una combattività che Andree non avrebbe mai sospettato, celata alla perfezione dietro l’aspetto mesto dell’uomo. Ma uno degli insegnamenti cardine del suo lavoro era proprio diffidare soprattutto delle persone all’apparenza più innocue. 

 

E quindi era battaglia aperta…e guerra fosse.

 

-Avvocato Takigawa che cosa replica?- chiese il giudice dandole il consenso di difendere i suoi assistiti.

 

-Signor giudice- esordì Andree alzandosi con encomiabile tranquillità ed assumendo quel famigerato tono che si diceva fosse in grado di convincere le giurie di tutto il mondo che il nero era bianco -Non solo mi vedo costretta a contestare più punti delle richieste del mio esimio collega, ma mi devo anche bonariamente lamentare per le più o meno velate accuse morali che le sue parole contengono. Posso capire tanta acrimonia, probabilmente il pubblico ministero è uno dei tanti tifosi di questo Giappone che da anni fa sognare il paese. Nonostante ciò, invito il pm e voi giudice, a riflettere su alcuni punti. Innanzitutto il mio collega sostiene, giustamente, che siamo qui per delle analisi trovate positive all’antidoping. Niente di più vero. Ma siamo sicuri che queste analisi provino inconfutabilmente che i signori miei assistiti abbiano realmente fatto uso di tali sostanze? A che pro? Il pm dice per migliorare le loro prestazioni atletiche … io mi chiedo signor giudice … migliorare?!? Migliorare cosa? Cos’hanno da migliorare dei campioni che militano nella nazionale, prima juniores poi effettiva, da più di otto anni? Ragazzi che si sono distinti sin da fanciulli come talenti fuori dal comune? Anche i profani sono a conoscenza del fatto che gli atleti dopati hanno delle prestazioni favolose isolate, che permettono loro di vincere al massimo una medaglia o una gara, per poi tornare nel totale anonimato, ma signori, qui stiamo parlando di campioni con la C maiuscola, sulla cresta dell’onda da otto lunghi anni…-

 

Andree proseguì nella sua accesa arringa dando sfoggio di una capacità dialettica inimmaginabile, in grado di tenere il pubblico col fiato sospeso, avviluppato in un armonioso fiume di parole, affascinato dalla semplicità con cui quella donna creava e disfava complicati sillogismi atti a mettere in dubbio anche l’evidenza più incontrovertibile.

 

Quando infine Andree tacque, un silenzio carico di incredulo stupore scese nell’aula e la tensione creata dall’eccellente arringa divenne quasi palpabile. A nessuno importava più di quelle analisi risultate positive all’antidoping, nessuno in quell’aula era più certo di cosa fosse realmente accaduto o del perché si trovassero quella mattina riuniti in quella fredda aula di tribunale. I quattro imputati apparivano esempio di virtù intoccabili, povere vittime sacrificali coinvolte in un complotto ordito da chissà chi.

 

Andree aveva fatto in modo di far apparire abominevole il solo aver pensato di dare la faccenda in pasto alla stampa o di iniziare un processo che avrebbe inevitabilmente varcato le porte del tribunale divenendo di dominio pubblico, la proposta sembrava talmente ingiusta che lo stesso pubblico ministero, anch’egli vittima dell’abilità oratoria del difensore, si chiedeva come avesse potuto fare delle richieste così assurde.

 

In fondo all’aula, Marshall annuiva compiaciuto. Aveva dubitato di quell’avvocato sino all’ultimo momento, ma ora nemmeno uno stuolo di avvocati provenienti dall’olimpo della legge, lo avrebbe convinto a rinunciare alla difesa di quella donna. Una maga. Doveva certamente trattarsi di una fattucchiera, troppo perfetto era l’incantesimo fatto, a cui nessuno era rimasto immune, nemmeno il giudice Shelley aveva potuto sottrarsi all’arcano potere dell’avvocato.

 

Marshall si voltò a guardare i suoi ragazzi che allibiti fissavano le spalle esili della donna che ora taceva intenta a risistemare gli appunti che aveva appena sbirciato. Andree aveva fatto il suo discorso a braccio come se ogni parola le sgorgasse dal cuore, avrebbe veramente convinto un condannato a morte che l’inferno era il paradiso, se solo avesse voluto.

 

Il giudice si schiarì la voce cercando di ricomporre la maschera di impassibilità che l’avvocato aveva abilmente annientato, prima di prendere la parola e spezzare quel momento di magia che ancora aleggiava -Avvocato Takigawa… ora capisco perché la sua fama la precede ovunque, lei sa trasformare la realtà e cambiare il significato degli avvenimenti con ragionamenti che non fanno una piega. Ma qui ci troviamo davanti a fatti che non posso ignorare. Le analisi sono qui sotto i miei occhi e nessuna sua parola può cambiare ciò. D’altra parte ammetto e accetto tutte le attenuanti che lei mi ha brillantemente enunciato, per questo la mia decisione è la seguente- il giudice si alzò in piedi pronunciando la sentenza con voce stentorea -In nome del potere conferitomi dallo stato del Giappone, io, giudice Emma Shelley, decreto che i signori Hutton Oliver, Price Benjiamin, Lenders Mark, Becker Tom siano squalificati dalle due prossime partite di qualificazione ai mondiali che si terranno a fine mese, ma che null’altro sia fatto nei loro confronti, né legalmente né moralmente, quindi potranno riprendere la loro attività agonistica a partire dalla terza partita di qualificazione e mi auspico che questa storia, benché non pubblicizzata, resti impressa nelle menti dei quattro signori e che prima di rifare un errore del genere ci pensino bene perché la prossima volta non sarò così magnanima ... nonostante il talento oratorio del loro avvocato. Accetta la mia offerta avvocato?-

 

-Mi oppongo, signor giudice. Neanche un bambino scoperto a rubare due caramelle avrebbe avuto una punizione così blanda!- tuonò il pubblico ministero indignato, ricorrendo all’ultimo impeto di rivalsa rimastogli, anche se ormai era inesorabilmente rassegnato a perdere una causa che sembrava vinta in partenza.

 

-Pubblico ministero attento alle sue parole. La mia decisione è questa, avvocato?-

 

Andree notò con la coda dell’occhio, il pubblico ministero che piegava il capo clamorosamente sconfitto. Un vago sorriso trionfante increspò le labbra della donna mentre la familiare scarica di inebriante vittoria la attraversava da capo a piedi, facendola tremare impercettibilmente. Certo che accettava! Un’offerta così era molto più di quello che si aspettava, era la vittoria totale su tutta la linea!

 

Il cigolio sommesso della porta che veniva cautamente aperta, interruppe Andree in procinto di rispondere alla domanda retorica del giudice. Indispettita si voltò verso l’uscio da cui fece capolino un giovane uomo alto e biondo. Noam!

 

-E lei chi è? Non è possibile agli estranei entrare durante un’indagine preliminare- tuonò il giudice sistemandosi meglio gli occhiali sul naso e squadrando con acrimonia l’intruso.

 

-Mi scusi signor giudice ma devo comunicare con l’avvocato Takigawa immediatamente- replicò Noam gettando uno sguardo d’intesa ad Andree che si ritrovò meccanicamente ad annuire ancor prima di aver afferrato il significato delle parole del medico. Era talmente abituata a fidarsi ciecamente della professionalità di Noam che, anche se all’oscuro delle sue intenzioni, non le passava nemmeno per l’anticamera del cervello di contraddire l’amico.

 

-Mi perdoni signor giudice, le presento il Dottor Lee primario di chirurgia d’urgenza dell’ospedale di Tokyo, nonché medico legale della polizia di stato. Posso chiedere a sua signoria due minuti?- chiese Andree con tono sommesso, sperando di arginare il disappunto del giudice per quell’improvviso colpo di scena.

 

-Certo avvocato, faccia pure- concesse il giudice osservando con cura l’uomo che la gratificò con uno dei suoi famosi sorrisi capaci di far sciogliere un iceberg.

 

-Per fortuna il fascino di Noam funziona con le donne di qualsiasi età- pensò Andree notando sollevata le gote dell’attempato giudice farsi di un bel rosa pesca.

 

-Spero tu abbia una buona spiegazione per questa tua entrata ad effetto…- iniziò l’avvocato lasciandosi trascinare in disparte da Noam. La donna fu costretta ad interrompere a metà la sua frase, bruscamente interrotta dalla voce irata di Benij.

 

-Dimmi chi è questo! Che vuole?- tuonò infatti il ragazzo frapponendosi tra lei e Noam e dimenticando qualsiasi formalità a dispetto delle esplicite richieste di Andree.

-Signor Price…-lo redarguì lei severa.

-Rispondi!- intervenne perentorio Tom seguito da Mark Holly e Marshall che la squadrava ancor più furioso dei ragazzi, se possibile.

 

Andree si portò una mano alla bocca e addentò l’unghia come sempre faceva quando era indecisa sul da farsi. Avrebbe potuto spiegare in poche parole il ruolo di Noam in tutto quel caso, ma ciò significava ammettere di aver dato dei documenti riservatissimi in mano ad una terza persona senza autorizzazione, anche se poteva giustificare il tutto come una consulenza per aiutarla a comprendere termini e sigle con cui aveva scarsa dimestichezza. Ma la bugia le appariva poco credibile dal momento che  il suo campo era proprio il doping quindi si esigeva che lei sapesse leggere delle analisi mediche senza alcun aiuto.

 

-Ecco…- tergiversò Andree stupendosi lei stessa del suo imbarazzo, non sapeva che dire, lei che si guadagnava da vivere con le parole!

 

-Salve signori mi chiamo Noam Lee e come ha detto Andree sono un medico, ma non sono qui come medico…vedete Andree ed io siamo amici…molto amici…- sottintese rivolgendo un malizioso occhiolino ad Andree che la fece arrossire di collera. Ma che stava blaterando Noam? Non era certo facendo credere a tutti che erano amanti che l’avrebbe tratta d’impaccio, o sì?

 

-Questa poi…ma non potevi aspettare? Lei sta lavorando che diavolo devi dirle di così importante da non poter aspettare due minuti in più?- tuonò Mark livido in volto, tentando strenuamente di controllarsi, ma era chiaro che lo sforzo era quasi oltre le sue possibilità.

 

-Calmati Mark…e poi a pensarci bene il dottore ci ha fatto un piacere…Avvocato che intende fare?- chiese Benji ripassando al formale “lei”.

-Come che intendo fare?-ripeté Andree interdetta -Accettiamo la sentenza non potrebbe andarvi meglio. Anzi sbrighiamoci che il giudice non cambi idea…-

-No, lei rifiuta- sentenziò Tom lapidario.

-Cosa?!!? Ma siete impazziti?!?!- sbottò la donna tra il confuso e l’irritato.

-Senta avvocato, se fossimo colpevoli questa specie di sentenza sarebbe una manna dal cielo, ma si da il caso che noi siamo innocenti e questo deve essere ben chiaro a tutti- disse Holly facendosi portavoce ufficiale dei compagni.

-Ma non ci posso credere! Nessuno saprà mai niente, vi inventerete un infortunio per saltare quelle due partite e poi tutto sarà finito, io…-

-Andree, noi siamo innocenti. Non abbiamo mai preso niente, quelle analisi non sono nostre!- sbottò Tom affrontandola con determinazione e pronunciando per la prima volta il suo nome di battesimo.

 

Lei non lo notò neppure, troppo sconcertata dall’assurdità della loro richiesta. Rifiutare la sentenza? Ma era una cosa fuori da ogni grazia di dio!

 

-Ma a chi importa? Nessuno saprebbe niente!- insistette Andree di fronte a tanta insensatezza. Ma non capivano che rischiavano la carriera?

-Tu sai- replicò laconico Tom.

-Io?!?! Ma che c’entro io?- chiese ora non tentando neanche più di dissimulare la sua confusione.

-Tu ci credi colpevoli. E pure il giudice ed il pm ed invece a tutti deve essere chiaro che noi non siamo dopati!- esclamò con enfasi Benji appoggiandole confidenzialmente una mano sulla spalla esile dell’avvocato.

 

Istintivamente Andree si voltò a guardare la nervosa mano dell’uomo risaltare sulla stoffa rossa della toga e si ritrovò irrazionalmente a calcolare quante ore di duro allenamento ci fossero volute per rovinare in quel modo della mani tanto belle.

 

Il ragazzo ritrasse la mano temendo una delle solite occhiate glaciali di Andree, era consapevole di essersi lasciato andare troppo con una donna che non tollerava nessun contatto fisico, ma che aveva nelle vene?

 

-No, mi dispiace, non vi porterò al macello. Vi impedirò di fare questa follia. Mi spiace ma io accetto e voi mi ringrazierete- replicò atona.

-Tu non puoi fare di testa tua- tuonò Holly con un insolito tono di comando che raramente adoperava fuori dal campo.

-Oh sì che posso, ora vedrete- disse cocciuta, dando loro le spalle ed avviandosi verso il giudice incurante delle occhiate di furiosa impotenza dei ragazzi che sentiva quasi conficcarsi nella  schiena.

 

-Andy!- il tono deciso di Noam la bloccò. I ragazzi si voltarono osservando meravigliati l’uomo che aveva osato rivolgersi all’avvocato con quel tono. Non avrebbero mai creduto che esistesse al mondo un uomo in grado di rivolgersi a lei in quel modo.

 

-Fa come dicono-

 

-Noam…- mormorò titubante la donna, voltandosi con un’espressione di rispetto e fiducia che trasformarono per un attimo il freddo ghiaccio dei suoi occhi in un pezzo di limpido cielo.

 

-Fa come dicono- ripeté Noam in tono serio -Chiedi un rinvio di almeno dieci giorni- aggiunse ignorando l’aria sbalordita dei ragazzi. La sua bugia dell’urgente messaggio amoroso non avrebbe più retto ed Andree avrebbe dovuto spiegare perché lui aveva visionato quelle analisi. Ma il sospetto che si era insinuato nella sua mente era troppo grave per fermarsi davanti ad una questione di così scarsa importanza.

 

Andree non aggiunse altro. Non serviva.

 

Avanzò altera sino al suo posto, schiarendosi la voce prima di riprendere la parola -Signor giudice, chiedo ancora scusa per l’interruzione, ma era doverosa. I miei assistiti mi chiedono di rifiutare la sentenza- annunciò chiedendosi preoccupata che cosa le facesse rischiare la faccia in quel modo. E se Noam si sbagliava? Accidenti che pasticcio! E pensare che avevano vinto! Che idiozia stava facendo?

 

Lo stesso pensiero doveva attraversare la mente del giudice che con voce perplessa chiese -Cosa avvocato? Può spiegarmi il motivo di questa decisione?-

-Ecco se ci fossero dei colpevoli in quest’aula la sua sentenza sarebbe stata anche troppo magnanima, ma qui ci sono solo innocenti, signor giudice, e quindi la sua decisione risulta un’offesa all’onestà dei miei clienti. Un’offesa che non siamo disposti ad accettare-

-Offesa?!?! Avvocato mi servono prove concrete non solo parole. La prossima volta non sarò così…. “magnanima”. Come intende procedere?-

-Chiedo un rinvio di dieci giorni. Per allora le porterò le prove concrete dell’innocenza dei miei clienti-

-Bene avvocato ha una settimana a partire da oggi-

-Ma signor giudi..-

-L’udienza è tolta. A presto avvocato, spero sia consapevole del guaio in cui lei ed i suoi clienti vi siete cacciati- concluse il giudice fulminando Andree con un’occhiata torva che le fece comprendere quanto il suo rifiuto l’avesse delusa. Probabilmente il giudice stava rivalutando in negativo la prima impressione che aveva avuto del giovane avvocato.

 

-Stupida, stupida e stupida- si ripeté mentalmente Andree desiderando urlare per la frustrazione.

 

-Allora tra una settimana avvocato- l’apostrofò con tono di scherno il pubblico ministero oltrepassando Andree che, non trovando nulla d’appropriato da replicare, non le rimase che chinare il capo affranta.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


CAPITOLO VI.

 

-Ragazzi è furiosa…non fiatate sino a che non l’ho calmata chiaro?- mormorò Noam guardando di sottecchi i quattro uomini al suo fianco.

-E tu sai come calmarla?-chiese Benji dubbioso.

-Non sempre…eccola!- mugugnò il medico tra i denti, sfoderando un sorriso smagliante in direzione della donna che stava avanzando con un’espressione sprezzante dipinta in volto e lampi di collera che le attraversavano gli occhi grigi, freddi come l’acciaio.

 

-Noam togliti dalla faccia quel sorriso innocente altrimenti te lo faccio sparire a suon di pugni e voi spiegatemi esattamente che cosa vi passa per al testa…dov’è Marshall?- sbottò Andree guardandosi attorno furibonda.

-è andato via…credo che neanche lui approvi la nostra scelta…- rispose con ingenua avventatezza Holly.

 

L’avvocato imprecò sommessamente, stringendo forte i pugni sino a conficcarsi le unghie nella delicata carne dei palmi delle mani, se i suoi occhi avessero potuto incenerire, dei cinque uomini di fronte lei non sarebbe rimasta neanche la polvere.

 

-Andy…cara calmati…- cercò di tranquillizzarla Noam passandole incautamente un braccio attorno alle spalle.

 

-Non mi toccare- reagì infatti lei, ritirandosi bruscamente.

 

-Ok ascolta- proseguì Noam alzando le mani in un gesto di resa - Credo che qui tutti abbiamo bisogno di spiegazioni. Ragazzi siete liberi ora? Ci troviamo tutti nel mio studio in ospedale?-

 

-Sì credo proprio che qui ci sia qualcuno che ha molte spiegazioni da darci- insinuò Tom lanciando ad Andree un’occhiata severa.

 

-Allora andiamo- tagliò corto Noam bloccando sul nascere la reazione collerica dell’amica.

 

Nel parcheggio il medico diede appuntamento ai ragazzi nell’atrio dell’ospedale. Andree non li degnò neppure di uno sguardo e salì a bordo della sua Bmw, immettendosi per prima in strada, seguita a breve distanza dal fuoristrada del medico e dalle auto sportive dei giocatori.

 

Qualche tempo dopo erano tutti riuniti in quello che Noam si ostinava a chiamare ufficio, ma che lei reputava un ripostiglio di cartacce e provette.

 

-E quindi?- esordì Mark crollando su una sedia di metallo che Noam aveva fatto sbucare da chissà dove insieme ad altre cinque sedie. La domanda era chiaramente rivolta ad Andree e l’espressione dell’uomo la ammoniva a non sognarsi neppure di tentare di rigirarlo con inutili fiumane di parole. D’altronde l’avvertenza era del tutto superflua, lei non aveva la minima intenzione di eludere la doverosa spiegazione -Ho chiesto a dottor Lee di dare un’occhiata alle vostre analisi per assicurarmi che non vi fossero errori-

-Senza chiedere il nostro consenso?- esplose incredulo Benji.

-è un professionista serio di cui mi fido ciecamente….- si difese Andree sollevando il mento in un gesto di sfida, atteggiamento che li avvertiva di stare molto attenti alle insinuazioni che avevano intenzione di azzardare.

-Avvocato non credo sia lecito ciò che ha fatto, ma comunque non ha nessuna importanza…- replicò Mark cogliendo al volo il tacito monito della donna e realizzando che era del tutto inutile imbarcarsi in un braccio di ferro che li avrebbe ulteriormente danneggiati -Dottore che ha da dire?- proseguì il cannoniere ignorando appositamente la replica che l’avvocato era sul punto di fare.

 

-Andree calmati e ascolta. Lo so che sei furiosa- cominciò Noam con tono suadente immaginando lo stato di frustrazione in cui la sua amica si doveva trovare, in  gran parte per colpa sua. Ma era inutile tirarla ancora per le lunghe, lei ed i ragazzi dovevano immediatamente essere messi al corrente del reale motivo che lo aveva portato ad interrompere l’udienza -Stammi a sentire. Ho visionato le analisi come mi avevi chiesto e come avevi intuito c’è qualcosa di strano…-

 

L’attenzione si focalizzò all’istante sull’imponente figura del medico.

 

-Cosa?- incalzò la donna agitandosi nervosamente sulla sedia.

-Guarda tu stessa- disse Noam porgendole le analisi dei quattro giocatori. Andree prese i fogli dalle mani dell’amico ed iniziò a sfogliarli con cura.

 

-Ebbene? Che c’è di strano?- chiese dopo un paio di minuti con un’espressione perplessa in volto.

-Guarda i valori incriminati…-

-Li vedo, sono tutti oltre la norma … molto oltre … in effetti ... troppo oltre … efedrina 30 microgrammi/millilitro, ma è assurdo!- proruppe la donna facendo un salto sulla scomoda sedia su cui era seduta.

-Appunto. Qui deve esserci un errore…dobbiamo rifare le analisi complete-

-Quanto ci vuole?- indagò asciutta, sapendo bene che dalla risposta del medico dipendeva l’esito del processo. Una settimana poteva non essere sufficiente.

-Per le analisi mi bastano due giorni ma devi riuscire a farmi avere il permesso per visionare le provette, un affidamento d’incarico da parte della federazione ed i permessi firmati da te…insomma la solita lenta e fastidiosa burocrazia che richiede un sacco di tempo-

-Ho capito contatto immediatamente Marshall e la federazione, ti farò avere tutti i permessi…-

-Avvocato possiamo fare qualcosa?- chiese Benji speranzoso.

-No mi arrangio io- replicò distrattamente –Voi potete andare- aggiunse congedandoli con un vago gesto della mano senza neppure guardarli in faccia, totalmente presa dalle cifre assurde che ora le apparivano quasi grottesche.

 

-Smettila!- tuonò brusco Tom facendola sussultare -Smettila di trattarci come bambocci stupidi e fastidiosi. Perché sei così fredda e distaccata? Perché non ci lasci partecipare a qualcosa che ci riguarda in prima persona? Che temi Andree?-

 

-Lei non sa che sta dicendo!- si difese lei sentendosi stranamente a disagio come se l’avessero colta a fare qualcosa di sconveniente -Comunque mi spiace aver urtato la sua sensibilità signor Becker. Tenterò di controllare il mio dispotismo. La mia intenzione era semplicemente invitarvi a stare tranquilli, mi occuperò io di tutto- puntualizzò affrontando con decisione lo sguardo cupo del centrocampista.

 

-Calmatevi ora, credo che qui siamo tutti un po’ troppo nervosi che ne dite di un caffè e una fetta di torta in tranquillità? Così ci conosciamo meglio…- suggerì diplomaticamente Benji, sfoderando uno dei suoi affascinanti sorrisi in grado di rianimare le pietre.

 

-Price…la sua è fatica sprecata- sbottò piccata Andree, accavallando stizzosamente le gambe, restia ad ammettere che l’atteggiamento impertinente del portiere le cominciava ad essere simpatico.

 

-Ma dai avvocato, non si metta subito sulla difensiva. Non ci sto provando…non me lo sogno neanche lei è troppo…inavvicinabile per me, non potrei mai corteggiare una donna che mi mette a tacere con un’occhiata. No davvero, lei è troppo complicata per me…-

 

Andree faticò a non sorridere di fronte ad una così singolare dichiarazione, ma non poteva lasciarsi andare davanti a dei clienti. Decisamente quella faccenda stava sfuggendo la suo controllo professionale. Guardò l’orologio di oro bianco che portava al polso e trasalì notando quanto fosse tardi -Ora devo andare- disse alzandosi in piedi e frugando nella borsa - Tenete, qui c’è il mio indirizzo ed il mio cellulare, per qualsiasi problema non esitate chiamarmi a qualsiasi ora- aggiunse compita, mettendo in mano a Benji un biglietto da visita color panna ed apprestandosi ad uscire.

 

-Andree- la chiamò Tom con tono indecifrabile -Tu ci credi ancora colpevoli?-

 

Andree rimase immobile con la mano appoggiata sulla maniglia della porta. Passò qualche secondo prima che si decidesse a rispondere come se stesse cercando con cura le parole adatte per comunicare, senza alimentare ulteriori inutili incomprensioni, la difficile situazione in cui l’avevano costretta -Io credo solo a ciò che vedo e per ora non vedo chiaro in questa faccenda e abbiamo solo una settimana …- sentenziò con freddezza, prima di aprire il pannello bianco e richiuderlo silenziosamente alle sue spalle.

 

Il pesante silenzio che inevitabilmente susseguì l’uscita dell’avvocato, venne coraggiosamente rotto dalla voce calda ed amichevole di Noam -Ragazzi non ve la prendete, Andree è una donna complicata ma non è cattiva come sembra solo che, per una ragione che ancora non conosco, si rifiuta di vedere le cose come stanno, ma le faremo cambiare idea- concluse gaio ficcandosi le mani in tasca con fare scanzonato.

 

-Ma allora tu ci credi!- scattò in piedi Mark osservando il medico incredulo.

 

-Certo che vi credo. Chi sarebbe quel pazzo che si fa una pera di efedrina capace di far venire un arresto cardiaco ad un toro?- replicò allegramente Noam, celando magistralmente, dietro ad un’aria allegra, la profonda preoccupazione che l’attanagliava.

 

Andree attraversò l’ombreggiato giardino della scuola raggiungendo la piccola tribuna che corredava il campo da calcio dove i bambini della scuola sfrecciavano felici, urlando a squarciagola incitamenti ai compagni. Si sedette sulle gradinate scrutando assorta il bimbo minuto fermo a centrocampo con stampato sul dorso il numero undici che risaltava come un marchio sulla maglietta gialla. Angosciata, osservò la sfera minacciosa che sfrecciava con inaudita velocità proprio in direzione di Josh. Andree saltò in piedi portandosi le mani al volto ma rimase pietrificata ad ammirare incredula il figlio che, con impeccabile abilità, agganciava il pallone e scattava veloce verso la porta avversaria. Il bambino correva saltando compagni, dribblando gli avversari con una sorprendente spontaneità, una sicurezza nei gesti che solo un talento naturale poteva giustificare. Ma dove accidenti aveva imparato a giocare così?

 

-Bravo vero?- affermò una vellutata voce accanto a lei. Si voltò spaventata, non si era accorta di non essere sola. Squadrò con diffidenza il bel ragazzo castano apparsole accanto dal nulla. La superava di pochi centimetri, ma solo perché era aiutata dai tacchi, i lineamenti signorili erano illuminati da due occhi nocciola dall’espressione vivace ed intelligente.

 

La donna arretrò di un passo, ergendo la consueta barriera d’innata sfiducia che provava nei confronti degli estranei, ma la sua naturale ritrosia venne istantaneamente abbattuta dal sorriso disarmante dell’uomo -Scusa ti ho spaventata…-

-No, figurati, solo che ero concentrata sui bambini…-

-Ho visto. Il numero undici è davvero bravo- proseguì il ragazzo distogliendo a malincuore lo sguardo dalla splendida donna, fingendosi interessato ai bambini in campo.

-Sì mi pare di sì- ammise Andree lasciandosi sfuggire un sospiro.

-Non mi sembri contenta, eppure avrei scommesso che lo conoscessi- sorrise il ragazzo lanciandole l’ennesima penetrante occhiata. Ma lei non lo notò neppure, intenta com’era a scrutare il figlio che rincorreva un compagno in possesso di palla.

-Sì infatti lo conosco- mormorò distrattamente.

-E non ti va che giochi a calcio?-

-No, preferivo che praticasse un qualsiasi altro sport- si lasciò sfuggire - Ma a quanto pare sembra predisposto per il calcio- convenne dovendo arrendersi all’evidenza. Una splendida scivolata di Josh aveva infatti atterrato l’avversario e la palla era tornata di nuovo in possesso del figlio che ora correva indisturbato verso la porta tra le urla animate dei compagni.

 

-Predisposto?!? Quel bambino è nato per giocare a calcio, vedrai sarà un grande campione- disse con enfasi il ragazzo scrutando con occhio critico l’impeccabile passaggio del bambino ad un compagno di squadra.

 

-Uhm mi sembra presto per fare certe affermazioni….- replicò dubbiosa.

 

Il ragazzo la scrutò divertito -Insomma il tuo fratellino diventerà un campione e questo è il massimo di incoraggiamento che tu gli dai?-

-Beh intanto è da vedere se diventerà un campione e poi non è mio fratello, Josh é….-

 

-Mammaaaa- la voce squillante del bambino attraversò il campo facendo girare all’istante la giovane donna. In men che non si dica, Josh attraversò il campo, saltò le transenne che dividevano la piccola tribuna a gradini dall’area di gioco, e si gettò tra le braccia della mamma che lo accolse con un radioso sorriso –Piano peste...se corri così ti farai male prima o poi...- protestò arruffandogli affettuosamente i capelli sudati.

-Mamma hai visto che bravo? Da quanto sei qui? Hai visto il goal?- la interrogò in preda all’eccitazione il bimbo

-No amore non l’ho visto, ma ho visto lo splendido passaggio che ti ha fatto il numero dieci a centrocampo e come hai stoppato...-

-Mamma il dieci è Jeremy voglio presentartelo, lo vuoi conoscere?-

-Certo amore, sarei onorata di conoscere il tuo amico Jeremy-

-Eccolo che arriva- disse il Josh indicandole un bambino dai capelli cortissimi che stava sopraggiungendo di corsa.

-Joshuao è la tua mamma?- chiese il nuovo arrivato fermandosi di botto  a pochi passi da Andree.

-Sì- replicò Josh gonfiandosi il petto fiero.

-Ma è proprio bella come dicevi…e io che non ti credevo- constatò incredulo Jeremy scrutando a bocca aperta ogni particolare del bel volto di Andree che accettò divertita l’esame accurato a cui il bambino la stava sottoponendo.

 

-Lo so, la mia mamma è bellissima, la più bella mamma del mondo- replicò Josh circondando con enfasi le ginocchia della madre in un gesto possessivo come a far capire all’amico che doveva limitarsi a guardarla.

 

-Basta bambini mi fate arrossire. Tu sei Jeremy allora, ciao io sono Andree-

-Ciao Andree io…. Julian!- urlò il bimbo notando solo allora la figura atletica del ragazzo che si era ritirato in disparte pochi istanti prima che Josh investisse festoso la mamma.

 

-Ciao Jeremy- salutò gaio avvicinandosi al piccolo gruppetto.

-Lui è Julian il mio fratellone- esclamò Jeremy fiero e felice di avere anche lui un mezzo per stupire l’amico.

-Julian Ross!? Il “Principe”?- chiese incredulo Josh sgranando i suoi occhioni ambrati.

 

Andree osservò con maggiore attenzione il ragazzo che aveva avuto un così grande effetto sul figlio. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare che suo figlio le avesse mai parlato del fratello maggiore del suo compagno di classe.

 

-Sì sono io, piacere di conoscerti Josh e…sono felice di conoscere anche la tua…mamma-

-Anche per me è un piacere…. “Principe”?- replicò dubbiosa, cercando nella sua mente se in Giappone esistesse qualche forma di monarchia.

-Mamma ma sai chi è?- chiese Josh guardando la donna con una punta di rimprovero nella voce. Era certo che la sua mamma non sapesse affatto chi fosse Julian Ross, lei non sapeva proprio niente di calcio!

-Julian il fratello di Jeremy- rispose lei candidamente, credendo di soddisfare il figlio con quella risposta evasiva.

-Non solo mamma. Lui è il “Principe del calcio”, il difensore più bravo della nazionale giapponese...- spiegò il figlio con gli occhi che gli brillavano di eccitazione.

-Ah…- esclamò facendosi improvvisamente seria. Un altro giocatore quindi. Andree piegò la testa distogliendo imbarazzata lo sguardo dal volto amichevole del ragazzo che, avendo colto l’improvviso turbamento della donna, ora la scrutava con aperta curiosità.

 

Andree accarezzò pensosa la guancia paffuta del figlio, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo di Julian. Al diavolo il calcio! Non poteva continuare con quell’ossessione, erano passati così tanti anni, il suo rifiuto era semplicemente ridicolo, sembrava una paranoica.

 

-Beh Principe o non Principe, sono felice ugualmente di conoscerti- capitolò infine, tornando a guardarlo in faccia, sforzandosi di mettere da parte i suoi segreti timori.

 

Julian rise divertito -In genere non é questa la reazione che le donne hanno non appena scoprono chi sono!-

 

-E cosa fanno? Ti saltano addosso solo perché sei un giocatore famoso? Non ci credo...- replicò maliziosa, stupendosi della sua civetteria. Da quanto tempo non civettava con qualcuno? Da quando aveva concepito Josh, sette anni prima … un’eternità … il suo istinto di donna spingeva per uscire…

 

-Uhm…attenta potresti illudere un cuore sensibile come il mio…- scherzò Julian.

 

-Perdono, non era nelle mie intenzioni- rispose seria anche se l’espressione birichina che le illuminava gli occhi grigi, rivelava esattamente il contrario. Spiazzata dalle sue stesse, inconsuete reazioni, cercò di darsi un contegno rivolgendosi al figlio e distogliendo così, senza far nascere sospetti, l’attenzione dal volto sorridente di Julian, che tanto la scombussolava -Josh sei tutto sudato, vatti a cambiare prima di prendere freddo-

 

-Sì mamma, faccio prestissimo, tu aspettami qui. Andiamo Jeremy- urlò il bambino correndo via, seguito a ruota dall’amico.

 

-Che vitalità- commentò distrattamente Julian, osservando le piccole sagome dei due bambini già arrivate al di là del campo verde.

-Già-

-E così Josh è tuo figlio…-

-Sì-

 

-…-

 

-Fa piuttosto freddo per essere settembre- commentò il ragazzo dopo qualche istante di silenzio, esaminando con apparente attenzione il cielo che si stava lentamente ma inesorabilmente rannuvolando.

-Uhm…ci aspetta un lungo inverno- considerò Andree guardando a sua volta le nuvole scure all’orizzonte.

-Ti va una cioccolata calda?-

-Veramente…-esitò incerta. Spiò con la coda dell’occhio il ragazzo che aspettava fiducioso a suo fianco, come dirgli di no? Aveva un’espressione talmente gentile, e poi aveva deviato il discorso con lodevole eleganza, risparmiandole le occhiate curiose di rito, che le venivano rivolte non appena qualcuno scopriva il suo reale legame di parentela con Josh. Certo lo stupore era naturale e anche sul volto di Julian l’aveva colto, ma era stato solo un breve attimo, il ragazzo aveva glissato dimostrando una sensibilità fuori dal comune, un premio se lo meritava proprio. E anche lei se lo meritava, era stata una giornata difficile, carica di tensione, aveva bisogno di mollare le redini per un po’, liberando la sua mente dalle pesanti incombenze legali.

 

-Sì se ci aggiungi una montagna di panna- rispose risoluta, felice di poter momentaneamente deporre la facciata di glaciale avvocato -Una cioccolata non è tale senza panna!- aggiunse gaia onorando il difensore giapponese di uno dei suoi rarissimi ma irresistibili sorrisi.

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


CAPITOLO VII

 

-Fox te l’ho già detto non mi forniscono i documenti che mi occorrono…no non mi posso permettere tempi tecnici e panzane del genere, fammi avere ciò che voglio entro domani mattina. Mobilita il governatore, la polizia, anche il presidente se necessario, ma voglio quei permessi per domani…sì mi fido di te…ciao- Andree riappese il ricevitore del telefono lasciandosi cadere all’indietro, piombando di peso sul divano del suo lussuoso salotto. Incrociò pensosa le mani sul petto rigonfio, mentre un sospiro spazientito le sfuggiva dalle labbra carnose.

 

L’espressione cupa e le sottili rughe che increspavano la bella fronte, solitamente liscia come l’alabastro, tradivano il nervosismo frammisto a stanchezza che la pervadevano ormai da parecchie ore.

 

Quella mattina, dopo aver accompagnato Josh a scuola, si era recata agli uffici amministrativi della federazione, presentando l’elenco dei documenti necessari per permettere a Noam di visionare le provette dei ragazzi. La segretaria, una donna grassa e lentigginosa, dall’aria poco perspicace, le aveva paventato una settimana di attesa! Ridicolo! Lei le voleva entro poche ore! Allora si era rivolta a Marshall, ma l’uomo sembrava non avere la più pallida idea di come procedere e si era imbarcato in una serie di telefonate che avevano ridotto i tempi di attesa da una settimana a cinque giorni.

 

Decisamente troppi.

 

Il presidente aveva approfittato della sua visita per esternarle tutta la sua perplessità nell’aver deciso di rifiutare la sentenza del giudice. Bella scoperta che era stata un’idiozia! Ma quell’uomo perché non si era svegliato prima? C’era anche lui in tribunale, perché non aveva tentato di far ragionare quei quattro somari?

 

-Vede avvocato- aveva replicato con tono estremamente gentile -So che abbiamo fatto un’assurdità e se tornassi indietro non la rifarei di certo, ma in quel momento il mio ruolo di presidente della federazione calcistica è stato scavalcato dagli anni di affetto e stima che mi legano a quei ragazzi. Io li ho visti crescere sia come giocatori sia come uomini. Lo sa che Benji è il mio figlioccio? No? Non lo sapeva? I genitori mi hanno affidato la tutela quando il ragazzo aveva appena otto anni. L’ho sempre seguito e, sono stato io a formarlo,  per questo so che lui è innocente. Come lo sono anche gli altri tre. Su questo non nutro alcun dubbio!-

-Ma la gente non sempre fa quello che noi ci aspettiamo, ci sono situazioni, circostanze che condizionano le persone- aveva replicato lei con fredda razionalità, cercando di fargli notare con tatto che la vita spesso riservava sorprese inaspettate e per nulla piacevoli.

-No avvocato lei non li conosce- aveva risposto senza che un’ombra di indecisione offuscasse i suoi occhi intelligenti -Se li conoscesse si renderebbe conto dell’assurdità delle sue parole. Nulla porterebbe quei ragazzi a tradire la loro ragione di vita. Per loro il calcio non è solo un mezzo per far sold  o un passatempo trasformato in remunerativo lavoro, ma uno stile di vita, una religione quasi, che loro seguono con rispetto e lealtà-

 

Lei non aveva saputo che altro aggiungere. I sentimentalismi non rientravano nel suo lavoro. Da lei si esigevano ben altri aiuti. E questo era quello che aveva tentato di fare per tutta la giornata. Aveva messo a soqquadro l’intero palazzo della federazione sportiva, aveva chiesto, minacciato, ordinato, provocato ed infine persino supplicato, aveva mobilitato tutti gli uffici amministrativi dello stato maggiore del Giappone, ma era stato tutto inutile, non era approdata assolutamente a nulla.

 

E così, non appena giunta a casa, aveva inforcato il telefono ed era ricorsa al suo ultimo asso nella manica: Micheal Fox e le sue influenti amicizie. Non sapeva per quali strade il suo capo sarebbe arrivato dove lei non riusciva, ma sapeva che non sarebbe stata né la prima né probabilmente l’ultima volta che carte riservatissime arrivavano “magicamente” tra le sue mani nel giro di poche ore.

 

Andree si piegò in avanti slacciando distrattamente la fibbia delle scarpe nere con tacco a spillo che corredavano il suo elegante tailleur gessato. Non aveva proprio nulla da rimproverarsi, aveva fatto tutto quello che era in suo potere e ora non le restava che attendere che le cose facessero il loro corso.

 

 A piedi nudi si avviò, sbadigliando, in bagno, non prima però di aver gettato un’occhiata nella stanza di Josh ed essersi assicurata che il figlio dormisse placidamente. Era crollato stanco morto. Da quando andava alla nuova scuola, trascorreva tutti i pomeriggi a correre su quel campo verde e arrivava a sera esausto. Rimboccò le coperte del bimbo chiedendosi ancora una volta perché il destino avesse voluto che suo figlio si innamorasse dell’unico sport che lei non sopportava.

 

E fosse solo quello, rifletté sinceramente, uscendo in punta di piedi dalla stanza del figlio ed arrossendo come una scolaretta alla prima cotta. Il primo ragazzo che dopo anni era riuscito a suscitarle una qualche emozione era un calciatore! Era inutile negarlo, ammise iniziando a spogliarsi, Julian l’aveva colpita.

 

Il giorno prima avevano preso una cioccolata calda in un piccolo ma accogliente bar in centro, chiacchierando del più e del meno per quanto fu loro possibile, continuamente interrotti dai due bambini che facevano a gara per raccontare le loro prodezze in campo. Andree rabbrividì ripensando all’indefinibile piacere che aveva provato quando le loro mani si erano casualmente sfiorate per bloccare il bicchiere che Jeremy stava per far cadere a terra. Niente di eclatante, certo, solo un piccolo brivido di piacere, come una fiammella che improvvisamente riemergeva dalle ceneri e si riaccendeva. Niente di esuberante o da far girare la testa, d’altronde a certe sciocchezze bisognava credere ciecamente per provarle. E lei non ci credeva. Almeno non più. 

 

Aveva amato una volta sola in ventitre anni e a sedici anni anche lei era stata abbastanza ingenua per sperimentare tutte quelle sdolcinatezze che i poeti scrivevano sull’innamoramento: farfalle, vuoti allo stomaco, campane, attimi eterni fatti di trepidazione, sospiri che sgorgavano incontrollati...

 

Aveva provato tutto, con un’intensità tale da riuscire a scombussolarla ancora a distanza di anni. Ma era bastato un attimo per spezzare il debole incantesimo dell’amore e con crudeltà disumana le era stata sbattuta in faccia la sua ingenuità adolescenziale, lo shock era stato insopportabile e l’aveva gettata nel baratro più nero della sua vita. Depressione e sconforto erano diventati il suo pane quotidiano, finché la vita non l’aveva richiamata all’ordine. Quella creatura che aveva scoperto di portare in grembo, l’aveva risvegliata da letargo artificiale in cui era piombata, risvegliando in lei sentimenti di rivalsa e voglia di andare avanti, di vivere per lui, suo figlio. Aveva superato tutto per Josh. Gli strepiti che la sua famiglia aveva fatto alla notizia della sua gravidanza, le minacce più o meno velate di sua madre, la freddezza e l’indifferenza egoistica di coloro che credeva amiche che avevano preferito allontanarla piuttosto che rischiare di essere etichettate come frequentatrici di una ragazza madre, nulla di tutto ciò era riuscito a smuoverla di una virgola dalla sua decisione di tenere il bambino.

 

Il male, l’ipocrisia, la cattiveria umana le erano scivolate addosso come l’acqua sugli aghi di pino, senza lasciare alcuna traccia visibile. La sua forza, il suo immenso potere era tutto rinchiuso in un minuscolo embrione di pochi centimetri che giorno dopo giorno cresceva in lei e con lei.

 

Josh non era figlio dell’amore, su questo non c’era ombra di dubbio. Suo figlio era stato concepito con uno sconosciuto di cui lei non ricordava nulla. Ma questo non cambiava le cose, lei lo amava con tutta se stessa e nella sua vita non c’era posto per null’altro.

 

L’amore per suo figlio era stato l’unico sentimento positivo che le aveva impedito di diventare una cinica figlia di puttana. Ne aveva la propensione e tutte le carte in regola per esserlo, lo sapeva. La sua determinazione a non abbassare mai il capo qualunque fosse il prezzo da pagare non era un mistero per nessuno nell’ambiente professionale.

 

Non che amasse in modo particolare la sua parte fredda e calcolatrice, ma le era indispensabile per proteggere lei e suo figlio dai colpi bassi della vita. Cercava di tenerla sotto controllo, di limitarla alla sfera lavorativa e di non mescolare mai la sua personalità legale con quella privata. Fino  a quel momento vi era riuscita egregiamente. Ma ora percepiva che qualcosa stava cambiando. Un groviglio di sentimenti indistinti si agitava da qualche parte dentro di lei mandandole di tanto in tanto dei messaggi ambigui.

 

Li aveva colti uno ad uno ma non ne aveva decifrato nessuno. La facilità con cui lasciava trapelare il suoi stati d’animo in presenza dei suoi quattro clienti, la compiacenza con cui aveva ceduto all’assurda richiesta di Noam, le sensazioni altalenanti che la prendevano alla sprovvista facendola apparire ora più dolce ora più cinica di quanto volesse e per la prima volta dopo tanto tempo, l’incapacità di opporsi ai suoi istinti.

 

Julian era l’ultima goccia che aveva fatto traboccare il fantomatico vaso. Uno sconosciuto, affascinante certo, ma pur sempre un perfetto sconosciuto, aveva scardinato con un sorriso tutte le sue certezze.

 

Un compagno per lei? Un padre per Josh? Non ci aveva amai pensato. O almeno così era stato sino al giorno prima … possibile che avesse realmente bisogno di un compagno? E quel compagno poteva essere Julian?

 

-Ah Andree come corri…lo conosci appena, non sai nulla di lui, magari è già impegnato e poi….e poi non è amore…tu non sai più amare un uomo- si rimproverò duramente, ripensando umiliata al terribile dolore che quella notte aveva provato e pregando che non riaffiorasse come spesso le accadeva.

 

Scosse la testa con forza per allontanare quei fantasmi molesti ed i lunghi capelli, tenuti a stento da un fermaglio d’osso, le ricaddero leggeri sulle spalle scosse da impercettibili tremiti di vergogna.

 

Aprì il rubinetto della doccia, si spogliò in fretta, formando un mucchietto di indumenti spiegazzati ai suoi piedi e si infilò sotto il getto sperando che l’acqua calda le scorresse lungo il corpo spossato, cancellando quei tristi ricordi e permettendole di rilassare le membra appesantite da quella lunga ed inconcludente giornata.

 

Ben presto la doccia fece effetto e, man mano che riprendeva lucidità, un sorriso caustico le si disegnava sulle labbra. La costante consapevolezza che la sua era una disperata corsa contro il tempo non le dava pace. Una corsa che avrebbe potuto evitare, ma che il suo migliore amico e quattro stupidi ragazzi, decisi a dimostrare chissà cosa, l’avevano obbligata ad intraprendere. Per dimostrare cosa poi?

 

Andree spalancò gli occhi color del ghiaccio mentre, come un lampo, due occhi scuri le attraversarono la mente.

 

-Andree… Tu ci credi ancora colpevoli?-

 

Becker! Che strano uomo. Sembrava incapace di scegliere una posizione netta nei suoi riguardi. Ora l’ attaccava con astio e diffidenza, ora la supplicava come se la sua opinione fosse quanto di più importante al mondo per lui. Davvero non lo comprendeva. Le era chiaro che il ragazzo era profondamente provato dalla situazione incresciosa in cui si era trovato invischiato, come d’altronde lo erano anche Hutton, Price e Lenders, ma ciò non giustificava quell’incomprensibile altalena di reazioni che il centrocampista manifestava nei suoi confronti.

 

Innocenti? Possibile? Se così era i quattro giocatori dovevano trovarsi in uno stato psicologico intollerabile. Poveri ragazzi…

 

Complimenti! Ora ci mancava anche la compassione. Ma se non ne aveva avuta neppure per se stessa quando ne aveva un vitale bisogno, come poteva averne per dei clienti? Per lei non rappresentavano altro che una sfilza di zeri su un assegno, e allora che diavolo le stava succedendo?

 

Innocenti. Che importanza aveva saperlo? Non le era mai importato niente dell’innocenza dei suoi assistiti.

 

-Calma Andree, ci deve essere una spiegazione razionale a tutto ciò- mormorò irrequieta, insaponandosi il corpo accaldato.

 

Sicuramente era la nuova passione di Josh a condizionarla. Suo figlio ammirava i componenti della nazionale, credeva in loro. Il solo pensiero della cocente delusione che avrebbe potuto provare nello scoprire che i suoi eroi erano degli imbroglioni, la faceva fremere di collera. Sì era per quello che le stava tanto a cuore quel caso. Solo per quello.

 

Solo!?!?

 

Una smorfia beffarda apparve sul suo volto, la sua coscienza si stava beatamente prendendo gioco di lei e la donna non poté far altro che ammettere di non essere in grado di imbrogliare se stessa. La sua anima di legale aveva già individuato l’inghippo: il semplice fatto che si ponesse la questione era di per sé indice palese che vi era dell’altro.

 

Con gesto stizzito chiuse il rubinetto dell’acqua e si avvolse nella morbida spugna dell’accappatoio. -E va bene- pensò infine –La tesi della difesa non regge ma un patto con me stessa me lo posso concedere: la sentenza non la voglio conoscere!- decise risoluta avviandosi in camera.

 

Ormai la certezza che qualcosa non quadrava era netta, ma qualunque cosa fosse, non si sentiva affatto pronta ad affrontarla e probabilmente non o sarebbe mai stata, quindi tanto valeva far finta di niente.

 

 

Il trillo insistente del telefono interruppe bruscamente il profondo sonno di Andree, che borbottando qualcosa di irripetibile, sollevò il ricevitore.

 

-Pronto- biascicò stordita dal sonno.

-Andree cara ti ho svegliata-

La voce allegra di Micheal ebbe su di lei l’effetto di una doccia ghiacciata –Fox!? Ma che ore sono?-

-A New York le 13.30 in Giappone….oh caspita Andree sono…-

-Le cinque e mezzo del mattino Fox!- imprecò seccata, ripiombando sui cuscini spiegazzati.

-Cara scusami, ma ero così ansioso di comunicarti le novità che non ho pensato al fuso orario! Ascolta, ho risolto tutto, le carte che ti servono sono già in viaggio ed oggi il dottor Lee riceverà le provette che gli occorrono e tutti i permessi necessari che tu dovrai controfirmare-

-Oh Fox sei grande!- esultò la donna dimenticando all’istante l’irritazione per il imprevisto risveglio - Non ti chiedo neanche come ci sei riuscito tanto non me lo diresti-

-Appunto, ti lascio la curiosità. Ammetto che sono un po’ perplesso sul modo in cui stai conducendo la causa, ma mi fido di te-

-Beh…io non avrei così fiducia-

-Andree!- la rimproverò severo -Regola numero uno: un avvocato non deve mai dubitare di se stesso-

-Sì lo so, ma questo caso sta diventando una colossale idiozia, con quei quattro che non fanno altro che ripetermi che sono vittime di un madornale errore e quello scemo di Noam che si è messo a dar loro man forte! Ancora mi chiedo come ho fatto a farmi convincere….tutta colpa di Noam- sbottò giocherellando nervosamente con il filo del telefono.

-Eh lo so quel dottorino ha un magico ascendente sulle donne …e tu sei donna nonostante le apparenze … ah l’amour…- esclamò Micheal con voce sognante -Ma non perdere la tua lucidità- aggiunse tornando serio.

-Non è come credi- sbottò infastidita dalle chiare insinuazioni del suo capo - Comunque sta tranquillo mi sono lasciata convincere non accecata da un improbabile amore per il dottor Lee, ma dalla fiducia cieca nella sua abilità di medico…lo sai che è un genio nel suo campo-

-E allora speriamo che non fallisca proprio questa volta. In questo caso sono sicuro troverai una soluzione alternativa adatta-

-Lo spero….- disse non riuscendo a mascherare il suo tono poco convinto.

-Andree! Che ti ho detto? Regola numero uno…-

- … avere fiducia in se stessi. Recepito capo a presto e grazie-

-A presto cara, rimettiti a dormire. Un bacione alla peste-

 

Andree riagganciò, sbadigliando rumorosamente. Non era molto signorile, ma alle cinque del mattino, nell’intimità della sua stanza, poteva anche concedersi qualche strappo alle ferree regole del galateo.

 

Si alzò dirigendosi in cucina, di rimettersi a dormire non se ne parlava proprio. La sua mente aveva già cominciato a lavorare febbrilmente e a quel punto era impossibile arrestarla. Si concesse il lusso di un caffè forte con brioches alla crema, continuando a rimuginare sulle oscure sfaccettature di quel caso che si stava rivelando incredibilmente complicato e, purtroppo, non solo dal punto di vista legale.

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


CAPITOLO VIII.

 

-Ecco Andree una firma qui e abbiamo finito- affermò Noam passandole l’ultimo foglio di una forbita pila –Caspita ma come hai fatto? Ancora non credo ai miei occhi- proseguì il medico, prendendo tra le mani il porta provette su cui erano infilati otto campioncini contenenti le urine ed il sangue dei quattro giocatori, tutti diligentemente corredati di etichetta con stampato in calce nome, cognome e codice di identificazione.

 

-Non è merito mio…la mano di Micheal Fox si è allungata per la nostra causa…- replicò Andree scrutando divertita l’espressione incredula con cui l’amico esaminava il liquido scuro che oscillava appena all’interno delle provette di vetro.

 

-Uao il grande capo in persona!-

-Già. Ma ora mettiamoci sotto seriamente Noam- iniziò Andree spazzando l’aria davanti a sé con la mano in un gesto che invitava Noam a non perdere altro tempo prezioso in inutili lungaggini -Dimmi per filo e per segno le ragioni che ti hanno spinto a venire in tribunale l’altro ieri-

 

-Ok- annuì il medico facendosi immediatamente serio -Come hai già notato, ci sono dei valori esageratamente oltre la norma ed ad un buon medico certe incongruenze non possono passare inosservate. In breve il mio dubbio è: come fa uno sportivo, con un po’ di sale in zucca, ad iniettarsi delle dosi così massicce col pericolo di venir scoperto? E qui stiamo parlando di professionisti non di incauti amatori del fine settimana…-

-Ma loro non potevano sapere dell’esame- replicò Andree individuando senza difficoltà uno dei punti deboli della tesi dell’amico.

-Uhm il rischio c’è sempre e loro lo sanno bene, non ci si espone mai in quel modo…inoltre ci sono altre valutazioni tecniche che non mi quadrano- si affrettò ad aggiungere Noam bloccando sul nascere l’obiezione di Andree – Lo so bene che queste sono solo ipotesi e che in tribunale te le distruggerebbero in un nanosecondo, ma vi è dell’altro Andy, fidati di me-

-Non è un problema di fiducia…. Qui c’è di mezzo la mia reputazione, in parte la tua e la carriera di quattro professionisti-

-Prima di espormi vorrei analizzare di persona queste provette- sospirò Noam conscio della difficile situazione in cui aveva messo l’amica.

-Va bene, quanto ti ci vorrà?-

-Ventiquattr’ore-

-Perciò domani pomeriggio….giovedì…- ragionò Andree, contando preoccupata, sulla punta delle dita, la manciata di giorni che mancavano alla prossima udienza.

-Lo so che hai il tempo contato, ma i tempi tecnici sono questi, i vetrini non mi sedimentano prima di venti ore e le altre quattro mi servono per elaborare i dati, di più non posso proprio fare-

-Lo so….lo so…la mia non voleva essere un’accusa, solo che l’unica cosa che non abbiamo è il tempo-

-Non me ne dimentico un solo istante, non preoccuparti. Ma ti vedo stanca Andy, perché non ti prendi qualche ora di svago? Tanto sino a domani non puoi fare nulla…- disse con calma il medico fingendo una noncuranza che non provava affatto, sapeva benissimo che quanto stava per dire avrebbe turbato enormemente Andree costringendoli ad una spiacevole ma doverosa discussione -Mi hai detto che Josh oggi non ha scuola…perché non lo porti a conoscere i suoi beniamini?-

-Cosa?!?!?- sobbalzò Andree sgranando gli occhi incapace di credere alle proprie orecchie.

 

-Me l’hai detto tu di questa nuova passione di Josh per il calcio, che poi nuova non è perché me ne aveva già parlato in America qualche mese fa…-

-E allora?- tagliò corto la donna mettendosi sulla difensiva. Non le piaceva per niente la piega che stava assumendo la conversazione.

 

-Portalo a vedere gli allenamenti dei ragazzi…faresti la sua felicità e anche la loro…- continuò allegro Noam squadrando Andree dalla testa ai piedi, incurante delle occhiate ammonitrici con cui la donna tentava di scoraggiarlo.

 

Quel giorno la donna, non prevedendo incontri formali, aveva sostituito il solito impeccabile tailleur, che la faceva apparire più severa ed inavvicinabile di quanto non fosse in realtà, con un paio di comodi jeans ed una felpa di un bel rosso fuoco che le fasciava sinuosamente i seni pieni ed ancora incredibilmente alti nonostante avesse allattato Josh per quasi un anno. Inoltre i lunghi capelli finalmente sciolti, le ricadevano in morbide onde sulla schiena, addolcendo la sua espressione grave e facendola sembrare una ragazzina spensierata.

 

-Ma che idiozie vai dicendo?- replicò la donna ignorando deliberatamente l’occhiata l’allusiva di Noam per non fomentare ulteriori tensioni.

-Perché Andree?- chiese Noam fissandola con impudenza ed incrociando cocciutamente le braccia sul petto muscoloso, intenzionato ad affrontare l’argomento che gli stava a cuore una volta per tutte.

 

Il loro era sempre stato un rapporto schietto, sincero. Noam aveva avuto il coraggio di confidare ad Andree la sua doppia vita e lei aveva accettato la rilevazione con encomiabile sangue freddo, dimostrando un’apertura mentale ed un’onestà intellettuale davvero rare. Da quel momento, affinché la loro amicizia non fosse sbilanciata da una parte sola, il medico aveva preteso dalla donna la stessa franchezza ed Andree, dopo una tenue resistenza iniziale, si era aperta a lui, confidandogli particolari delicati della sua vita, fobie e blocchi psicologici che nessuno avrebbe mai sospettato potessero appartenere ad una personalità così dura ed inflessibile. L’avvocato Takigawa nascondeva un lato umano di incredibile profondità, un animo reso estremamente sensibile da una violenza che l’aveva segnata con crudeltà. Noam aveva accettato le confidenze di Andree e sino a quel momento non aveva mai ritenuto necessario intervenire nelle sue scelte. Più volte l’aveva vista attaccare con cattiveria solo per placare i suoi intimi turbamenti, colpire impietosa i lati deboli delle persone per mascherare la sua profonda frustrazione. Pur non approvandola, non era mai intervenuto e le aveva lasciato credere che il suo silenzio fosse un tacito assenso, anche quando così non era affatto. Ma da qualche giorno tutto era cambiato. Aveva sempre visto Andree come una donna che aveva saputo reagire con dignità ad una situazione difficile, forte e determinata al punto da crearsi un equilibrio psicologico inamovibile che le aveva permesso di vivere serenamente e di garantire a Josh una vita perfetta. Indubbiamente era una madre modello. Sensibile ai bisogni del figlio, attenta e presente in qualsiasi momento, disposta a mettere tutto, se stessa compresa, in secondo piano rispetto al benessere del bambino. Ma non era Andree-madre a preoccuparlo in quel momento. La sua indole materna continuava a sorprenderlo piacevolmente, a riempirlo di ammirazione, ad intenerirlo e ad emozionarlo. Quello che lo tormentava era Andree-donna. Il suo essere femminile, per tanti anni represso, aveva deciso di tornare alla scoperto, di reclamare tutte le attenzioni e le soddisfazioni che per tanti anni la donna si era negata. Noam non aveva la più pallida idea di chi o che cosa avesse spezzato le catene che Andree aveva messo alla sua femminilità, ma era intenzionato a scoprirlo, o meglio, a fare in modo che fosse lei stessa a scoprirlo. Una presenza sconosciuta stava facendo vibrare una corda misteriosa nell’intimo dell’amica e lui era intenzionato a capire di che corda si trattasse e soprattutto che cosa la facesse vibrare. E doveva fare in fretta perché Andree, invece di affrontare la battaglia, si stava rinchiudendo sempre più in se stessa, rifiutandosi di fare i conti con la realtà. Era tremendamente spaventata e la paura le stava facendo anche perdere la lucidità sul piano professionale. Si muoveva con incertezza, faticava ad individuare i punti critici della situazione e questo era estremamente pericoloso per un avvocato. Con Andree in quelle condizioni, lunedì non sarebbero mai riusciti a vincere la causa. Decisamente non poteva più tollerare che l’amica fingesse che tutto andasse bene, che nulla fosse avvenuto.

 

-Perché cosa!?- chiese perplessa Andree non capacitandosi dell’atteggiamento insolitamente provocatorio dell’amico. Era lei la lunatica, l’impenetrabile, la scostante, non Noam. Lui era trasparente, cristallino, diretto, solare… Che stava tentando di comunicarle?

 

-Perché sei così glaciale con quei poveri ragazzi?- le chiese il medico a bruciapelo.

 

-Togliti la maschera Andy, dimmi ciò che il tuo cuore urla, togliti i tappi dalle orecchie e ascoltalo…ascoltiamolo insieme sarà più facile ... lo so che hai paura ma non devi, ci sono io con te…-

 

-E che altro dovrei fare?!- sbottò Andree troppo in fretta per apparire sincera. Quindi il suo intimo tormento non era proprio così ben celato come credeva -Sono miei clienti e sto semplicemente seguendo la mia etica professionale- continuò sfuggendo lo sguardo penetrante dell’amico, pregando di scoprire dove volesse andare a parare Noam prima di essere costretta a svelare i suoi reconditi timori.

 

Ma Noam non era certo così ingenuo da cadere nei giochetti da avvocato. Lo sapeva bene che la donna attaccava sempre per prima, e più appariva agguerrita e sicura di sé, più ci si avvicinava al suo punto di rottura, l’importane era non desistere e perseguire una linea precisa, senza esitare mai, perché Andree, alla prima incertezza, sarebbe ripartita alla carica, non lasciando scampo.

 

E lui quella mattina aveva un obiettivo solo in testa: far aprire gli occhi a quella cocciuta -Non mentire. Ho visto come ti rivolgi a loro, senza umanità, senza comprensione-

 

-Loro non vogliono né la mia umanità né la mia comprensione, ma solo che io rimedi ad una enorme cazzata che hanno fatto- sentenziò acida sperando che il suo tono minaccioso facesse ritornare il medico sui suoi passi.

-Ne sei convinta? Sei veramente così sicura che abbiano fatto ciò di cui li accusi?-

-Non esser sciocco, hai visto anche tu le analisi- lo sfidò a viso aperto, le era chiaro che Noam non avrebbe lasciato cadere quello scontro assurdo.

-E allora? Lo vedi che ti ostini a non capire? Ti ho già detto che quelle analisi sono strane…-

-Strane? Un termine un po’ ambiguo per un medico del tuo calibro…-puntualizzò con tagliente ironia.

-False, Andree, ecco cosa intendo- replicò asciutto Noam squadrandola severo.

-False!?!?!Tu sei pazzo!-

-Andree apri gli occhi perdio!- urlò furioso -Che cosa sta accecando il tuo istinto infallibile e la tua professionalità impeccabile? Dov’è la donna che ammiro e stimo più di ogni altra persona al mondo? Dove diavolo se ne è andata? Che ti sta succedendo? Cosa ti ossessiona al punto da farti perdere la lucidità?-

-Noam…- balbettò sconcertata dallo scoppio d’ira del medico e ancor più dalle sue domande a suo parere insensate. Da quando lo conosceva quella era la prima volta che vedeva Noam perdere il controllo. Lui era sempre stato sorridente, gaio, positivo, un atteggiamento che gli aveva permesso di superare incolume le brutture a cui era costretto quotidianamente in sala operatoria.

 

-Rifletti cara- aggiunse il medico recuperando il tono dolce ed incoraggiante che lo contraddistingueva -Cerca di conoscere quei ragazzi, non lasciare che siano solo dei nomi su carta e allora anche tu vedrai finalmente i fatti per quel che sono- proseguì facendo marcia indietro. Forse stava esagerando, doveva portarla alla consapevolezza un poco per volta, non poteva attaccarla con quell’irruenza, così facendo l’avrebbe solo spaventata, facendola chiudere ancora di più.

 

Andree abbassò il capo frastornata, si sentiva vicina alle lacrime ma il suo orgoglio le impediva di scoppiare piangere come una donnicciola qualsiasi. D’altro canto non riusciva a trovare dentro di sé il coraggio necessario per difendersi dalle accuse del medico. Non riusciva a far altro che rimanere lì, immobile al centro del caotico ufficio di Noam, fissando attonita le cartacce sparse sul pavimento chiaro. Non vi era soluzione applicabile, era totalmente annientata da qualcosa che non riusciva neppure a definire, un miscuglio di tormenti e paure non delineate. Era del tutto inutile continuare quella tortura, capitolò infine vergognandosi della sua codardia. Con passi lenti e strascicati raggiunse l’uscio, lo aprì silenziosamente e uscì dall’ufficio dell’amico senza aggiungere altro.

 

Non capiva perché Noam l’avesse attaccata così duramente, mettendo in discussione non solo la sua capacità professionale ma anche umana. Non le aveva mai parlato in quel modo, e la cosa l’aveva scombussolata nel profondo.

 

Ringraziò distrattamente l’infermiera che aveva badato a Josh durante il suo colloquio con il medico, allontanandosi con il figlio che l’aveva presa per mano mentre con l’altra salutava allegro l’infermiera.

 

Giunti nel parcheggio, fece salire Josh nel posto passeggero, assicurandosi che le cinture fossero ben agganciate. Prima di salire in macchina volse una rapida occhiata alla finestra dell’ufficio di Noam al secondo piano dell’imponente edificio. Perché le aveva detto quelle cose? Che voleva farle capire?

 

Salì in auto arrendendosi finalmente all’evidenza: Noam le aveva sbattuto in faccia una realtà che lei non poteva più continuare a negare. Si immise con calma nella strada affollata, rendendosi conto che avrebbe seguito il consiglio del medico e si sorprese della piacevole sensazione di sollievo che l’improvvisa decisione le provocò.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Ciao a tutte le lettrici di Tracce Indelebili. Mi volevo scusare per aver saltato l’aggiornamento la scorsa settimana ma l’influenza mi ha stroncata. Chiedo venia! Spero che questo nuovo capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative. Grazie a tutte per il sostegno morale che mi date. A presto.

Akiko chan

 

CAPITOLO IX.

 

Josh scattò sul sedile incollando il naso al finestrino dell’auto -Mamma ma non stiamo andando a casa- constatò accorgendosi che avevano imboccato la superstrada anziché girare verso il centro.

-Te ne sei accorto subito…- mugugnò la donna senza distogliere gli occhi dalla strada trafficata.

-Dove stiamo andando?- chiese il piccolo osservando curioso il profilo perfetto della madre concentrata nella guida.

-Questo non te lo posso dire, è una sorpresa-

-Una sorpresa per me?- cinguettò eccitato il bambino- E mi piacerà?-

-Credo proprio di sì – rispose Andree allungando una mano per accarezzare la guancia paffuta del bimbo- Ora però stai tranquillo, non ci impiegheremo molto ad arrivare-

-Ma non mi puoi dare qualche indizio?- insistette il bambino agitandosi sul sedile.

-No, altrimenti che sorpresa sarebbe?- replicò la donna sforzandosi di sorridere.

 

Le insinuazioni di Noam le frullavano ancora per la testa generando in lei ondate di ribellione miste a sconfortante frustrazione. Da una parte rifiutava di accettare le accuse dell’amico, ritenendole ingiuste ed infondate, ma d’altra sapeva che il turbinio di sentimenti contrastanti che non le dava tregua, era la prova lampante che il medico non aveva parlato a vanvera.

 

Poco tempo dopo posteggiava l’auto nel parcheggio sotterraneo dello stadio, dove si allenava la nazionale giapponese. Arrestò l’auto generando un piccolo rumore di pneumatici sull’asfalto lastricato mentre Josh allungava il collo in ogni direzione tentando di capire dove fossero. Seguì incuriosito la mamma sulle scale mobili tentando di non lasciarsi sfuggire neppure un particolare ma, pur scrutando ogni cosa con attenzione, il posto era completamente nuovo per lui e nulla sembrava suggerirgli alcunché. Andree sbirciò di sottecchi il bimbo concentrato alla ricerca di qualche dettaglio rivelatore e sorrise tra sé e sé compiaciuta … la sorpresa sarebbe stata totale…

 

Ma la curiosa eccitazione sul volto di Josh contrastava con l’espressione imbronciata della giovane donna che proprio non riusciva a capacitarsi del suo comportamento irrazionale. Scosse forte il capo come se volesse dipanare il velo di nebbia che le oscurava la mente. Che ci faceva lì? Possibile che le parole di Noam avessero avuto un effetto così totale sulla sua volontà? Lei non era cieca e parziale, la sua obiettività era chiara e soprattutto veniva sempre prima di tutto, o no? Sì certo che era così, e la dimostrazione era proprio la sua presenza lì con il figlio! Non avrebbe mai permesso a Josh di venire a contatto con persone che lei non ritenesse dei buoni modelli, e quei ragazzi, tutto sommato, erano degli esempi abbastanza degni, nonostante quella stupidaggine che avevano fatto…..analisi false? Ma che assurdità si era messo in testa Noam? Era quella la linea che voleva tenere? Davvero pensava che lei sarebbe stata così pazza da proclamare in tribunale che le analisi erano false? Accidenti, aveva accettato la sua assurda richiesta perché sperava che il medico avesse individuato qualche errore, qualche negligenza che le avrebbe permesso di invalidare le analisi e chiedere che venissero rifatte. E questa volta si sarebbe accertata lei stessa che quei quattro incoscienti fossero “puliti”. Ma presentarsi lunedì davanti il giudice Shelley e dire con espressione candida che quelle analisi erano addirittura state falsate, era un’idiozia immane. Noam non poteva pretendere che lei desse un calcio del genere alla sua carriera. False! E chi mai le avrebbe falsificate? E come? Perché? La sua capacità dialettica arrivava lontano ma non poteva certo varcare i limiti della credibilità. No, non si sarebbe mai coperta di ridicolo in quel modo… 

 

-Ehi ragazzina qui è proibito transitare!-

 

Una voce maschile profonda e dal chiaro tono intimidatorio la fece arrestare a metà dell’asettico corridoio che lei e Josh avevano imboccato da pochi minuti.

 

La donna si volse con lentezza verso l’individuo che l’aveva apostrofata con tanta maleducazione. Squadrò impassibile la divisa blu notte dell’addetto alla sicurezza e senza battere ciglio estrasse dalla tasca posteriore dei jeans il lasciapassare che Marshall le aveva procurato per permetterle di muoversi liberamente nel mondo della federazione calcistica.

 

-Scusi- replicò asciutta porgendo all’uomo il tesserino plastificato. Il sorvegliante gettò un’occhiata dubbiosa al documento poi sollevò su di lei due occhi sbarrati -Avvocato Takigawa!?!?- esclamò restando a bocca aperta -Mi scusi ma….sembra una di quelle ragazzine pestifere che cercano di entrare per avere gli autografi dei calciatori. Mi scusi ancora-

-Non si preoccupi è colpa del mio abbigliamento informale…- rispose atona Andree, chiedendosi se fosse il caso di farsi vedere in quelle condizioni dai suoi assistiti. Ma ormai era troppo tardi per qualsiasi ripensamento, l’aumento della pressione della mano di Josh nella sua era il segno tangibile che il bimbo aveva colto la parola “calciatori” e che questa aveva avuto su di lui un prevedibile effetto.

 

La donna non fu affatto sorpresa dall’eccitazione palese che permeava la voce del figlio mentre quasi tremando le chiese -Mamma dove siamo?-

-Ora vedrai - replicò tranquilla -Scusi da che parte devo andare per raggiungere il campo?-

-Sempre dritta avvocato, non può sbagliare- indicò il custode fattosi improvvisamente gentile per non dire ossequioso.

 

Andree lo congedò con un semplice cenno del capo poi percorse un altro centinaio di metri prima di immettersi nel lungo tunnel d’acciaio e cemento che collegava gli spogliatoi direttamente al campo da gioco.

 

Man mano che avanzava, percepiva sempre più distintamente l’odore inconfondibile dell’erba da poco tagliata e le voci concitate dei ragazzi impegnati nell’allenamento.

 

-Mamma…- mormorò il bambino in preda ad una forte emozione che aveva ridotto la sua voce in genere acuta ad una sorta di gemito strozzato.

-Dai amore non avere paura, c’è la tua mamma con te-

 

Josh trasse un profondo respiro facendo ricorso a tutta la forza di volontà di cui un bambino di sei anni era capace per dimostrare alla sua mamma di essere forte e coraggioso. Andree sbirciò con la coda dell’occhio il figlio, sorridendo intenerita per l’evidente sforzo che il bimbo stava compiendo per compiacerla. Gli scompigliò teneramente i capelli cercando di trasmettergli la sua approvazione con quel semplice gesto.

 

Un attimo dopo la luce artificiale dei neon venne sostituita da quella calda del sole. Il passaggio era stato talmente brusco che madre e figlio dovettero ripararsi gli occhi per proteggerli e permettere che si abituassero gradatamente alla luce del giorno.

 

Dopo poco Andree poté finalmente scrutare l’immenso spazio verde che le si stendeva davanti a perdita d’occhio. Per chi non vi era abituato, la vista del campo contornato dagli altissimi spalti vuoti, era uno spettacolo davvero sorprendente. La donna constatò di trovarsi appena ad una manciata di metri dalla bianca linea di fondocampo.

 

I ragazzi erano impegnati in una concitata azione di gioco. Nonostante non ne capisse molto di calcio, anche lei era in grado di ammirare ed apprezzare la perfezione dei passaggi, la potenza dei tiri, la classe dei movimenti, indubbiamente erano tutti degli ottimi professionisti e guardarli era un piacere per gli occhi.

 

Due giocatori, in uno dei quali Andree riconobbe Julian, stavano strenuamente lottando per il possesso della palla che sembrava miracolosamente incollata ai piedi del “Principe” del calcio. L’avversario stava tentando il tutto e per tutto per riprendersi la sfera con una serie di finte che avevano come unico risultato il fatto di far arretrare il difensore sino quasi alla linea bianca che delimitava il campo.

 

I due duellanti si stavano avvicinando velocemente e le loro voci agguerrite le arrivarono distintamente.

 

-Tutta fatica sprecata Danny, non ce la farai a prendermi la palla-

-Lo vedremo Julian attento- replicò il ragazzo dai corti capelli scurissimi scivolando tra i piedi del compagno di squadra che evitò l’entrata con un balzo felino atterrando qualche passo indietro.

 

-E allora? Non sai fare di megl..Andree!- esclamò Julian facendo una mezza piroetta su se stesso e notando solo in quell’istante la donna ed il bambino alle sue spalle. Per la sorpresa il ragazzo lasciò che la palla gli scivolasse dal piede rotolando veloce verso Andree.

 

-Ciao Julian- salutò lei un po’ imbarazzata per la sua inopportuna interruzione. Istintivamente si accucciò per recuperare la palla che le era andata a sbattere contro le caviglie mentre Josh la osservava incantato -Continua pure, non volevo interromperti…-disse sorridendo incerta al giocatore e restituendogli la palla che il ragazzo si affrettò a bloccare col piede.

 

-Non ti preoccupare, ormai abbiamo finito…ciao Josh- disse allegro il difensore avanzando e tentando di tergersi il sudore dalla fronte con la manica della maglietta.

-Ciao- rispose il bambino rincuorato nel vedere una faccia nota.

 

-Caspita che sventola. Ehi bambola da dove sbuchi?- si intromise Danny rialzandosi e fiondandosi alle spalle di Julian.

 

-Danny- tuonò una voce irata alle spalle del giovane centrocampista nipponico che Andree non faticò a riconoscere.

-Che hai Mark? Hai visto che meravigliosa amica ha Julian? Ma tutte a lui capitano quelle così?- esclamò il ragazzo divorando Andree con gli occhi ma arretrando di un passo con espressione confusa non appena lei lo incenerì con un’occhiataccia.

-Ehm…ti ho offesa? Scusa io….- balbettò il ragazzo palesemente a disagio.

-Io ti avevo avvertito- lo canzonò Mark sopraggiungendo e passando un braccio attorno alle spalle del compagno di squadra -Non lo sai che l’avvocato Takigawa può distruggere un uomo con un semplice battito di ciglia?- sogghignò divertito dando un pugno in testa a Danny per invitarlo ad eliminare dal volto l’espressione ebete che non gli donava affatto.

-Signor Lenders lei esagera- si difese Andree anche se sapeva che le cose stavano più o meno così –Comunque fa bene ad ammonire il suo amico, lei sa bene che non tollero certe espress…-

-Non è possibile…avvocato!- esclamò Benji arrivando di corsa seguito da tutti gli altri giocatori ed interrompendo a metà il rimprovero di Andree- Caspita ma è proprio lei?-

-Avvocato?!- ripeté Julian perplesso- Volete dirmi che Andree è l’avvocato di cui mi avete parlato?!?! Perché non mi hai detto niente?- chiese poi rivolto alla donna.

-Non sono tenuta a parlare con nessuno del mio lavoro…- replicò asciutta.

-Ops e io che mi sono permesso di rivolgermi a lei in quel modo deplorevole…mi scusi avvocato….ma caspita è così giovane e…- blaterò Danny passandosi e ripassandosi nervosamente le dita tra i capelli a spazzola.

-Sì Danny in effetti a vederla così non ha proprio nulla del terribile avvocato che ci terrorizza con le sue gelide occhiate….- puntualizzò Mark ammirando compiaciuto le belle forme della donna messe in risalto dalla felpa aderente per poi spostarsi più giù -Ehi ma qui c’è un bel bambino- esclamò stupito, staccandosi dal compagno di squadra e sporgendosi verso Josh che si era velocemente nascosto dietro le gambe della madre.

-Ciao piccolo e tu chi sei?- proseguì il cannoniere con un tono di voce insolitamente dolce per la Tigre. Ma non era un mistero per nessuno che quell’energumeno pieno di muscoli si trasformava in un tenero micino in presenza di bambini.

 

Josh trasse un profondo respiro prima di rispondere con voce malferma -Joshua ma tutti mi chiamano Josh…solo la mamma quando è arrabbiata mi chiama Joshua…- aggiunse intimidito, stringendo ancor più forte le manine attorno alle cosce di Andree.

-Ah capisco…E capita spesso?- chiese Mark con tono comprensivo, piegandosi leggermente in avanti per poter osservare meglio il visetto paffuto del bimbo.

-Uhm…veramente no…a parte quando gioco a pallone in casa…allora sì che sono guai…- rispose il bimbo guardando timoroso il cannoniere della nazionale.

-Sai Mark, Josh gioca a calcio ed è un vero talento- intervenne Julian ridendo -Perché non fai due tiri con lui? Anzi perché non riprendiamo la partita con Josh in attacco?- propose il difensore, ottenendo come risposta degli urli di incoraggiamento per il piccolo che era palesemente spaventato dalla presenza dei giocatori.

 

-Vieni Josh- disse il “Principe” porgendo una mano al bimbo che la guardò dubbioso, poi volse uno sguardo alla mamma – Posso?- chiese incerto.

-Non so …Julian non sarà pericoloso?- indagò Andree preoccupata.

-Pericoloso per un campione come lui? Dai vieni Josh, segnerai uno splendido goal a Price!-

-Il SSGK? Nooooo- cinguettò il bimbo, afferrando la mano di Julian e lasciandosi guidare a centrocampo.

 

-Attento Josh riceverai la palla dal capitano Hutton in persona- lo avvertì Julian passando la palla ad Holly che la colpì di tacco facendola rotolare con delicatezza sino ai piedi del bimbo. Josh lasciò tutti di stucco, agganciando la palla con la destrezza di un campione e scattando come un razzo verso la porta di Benji, con una decisione che non aveva più niente a che fare con il bimbo impaurito di poco prima. Senza la minima esitazione avanzò verso Tom, scartandolo all’ultimo momento mentre il centrocampista rimaneva immobile come una statua, allibito dall’essere stato beffato con tanta facilità da un frugoletto che gli arrivava a malapena al basso ventre.

 

-Ehi ma allora fai sul serio- urlò il numero undici della nazionale riscuotendosi e rincorrendo divertito la piccola peste che proseguiva veloce come una saetta.

 

-Con me non passerai!- urlò Mark parandosi davanti al bambino che fece un balzo indietro con la palla stretta tra le caviglie.

 

-Passa Josh- gridò Julian affiancandosi al piccolo che mostrando una straordinaria prontezza di riflessi,  fece un perfetto passaggio in direzione del difensore.

 

-Ehi mi hai beffato!- imprecò Mark simulando un disappunto clamorosamente smentito dal sorriso radioso che gli aleggiava in volto.

-E questo non é niente Tigre!- lo avvertì il bimbo agguerrito puntandogli contro un dito e subito dopo passandogli in mezzo alle gambe, lasciando l’attaccante a bocca aperta.

 

-Ma allora vuoi la guerra!- proruppe il cannoniere rincorrendolo ma faticando a stargli dietro a causa delle risate che gli spezzavano il fiato.

 

Andree seguiva ogni azione del figlio con il cuore che traboccava di materna ammirazione, suo figlio era un vero fenomeno, ed i ragazzi gli stavano facendo uno splendido regalo. Avrebbe voluto piangere ed urlare per la gioia immensa che provava nel vedere Josh così felice.

 

Suo figlio aveva una passione vera, una passione che gli faceva toccare le vette più alte del piacere di vivere, ora aveva la certezza che Josh ed il calcio erano indissolubilmente uniti e mai più avrebbe interferito con la scelta di suo figlio, qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare.

 

Il suo piccolo campione aveva ripreso il possesso della palla grazie ad un passaggio di Julian e ora si preparava al tiro ormai definitivamente solo davanti al portiere. Tutti gli altri giocatori si erano arrestati alle sue spalle e lo incoraggiavano a tirare con suggerimenti ed incitamenti di ogni sorta urlati a squarciagola.

 

-Dai Josh fagli vedere a quel pallone gonfiato di Benji chi è il vero campione- urlò Mark saltando eccitato.

 

Josh calciò la palla, era un tiro di una grande potenza per un bimbo di quell’età anche se non certo in grado di superare il grande Benji Price che intercettò senza problemi la traiettoria della sfera, arrestandola con sicurezza contro il petto, ma finse egualmente di perdere l’equilibrio e di cadere a terra a pochi centimetri dalla linea della porta.

 

-Ehi Josh che bomba! C’eri quasi ma devi allenarti ancora per poter segnare a me- affermò Benji rialzandosi lentamente da terra con il pallone ancora stretto tra le braccia e l’inseparabile cappellino che gli copriva parzialmente il volto ma non ne celava il sorriso divertito.

 

Andree avanzò lentamente attraverso il prato verde in direzione del gruppo che si era formato attorno a Josh cercando di individuare tra la moltitudine di teste brune e di fisici scolpiti la piccola sagoma del figlio..

 

Quando finalmente lo scorse, si arrestò osservandolo compiaciuta mentre accettava raggiante e i consigli ed i complimenti affettuose dei giocatori.

 

-Ehi avvocato tuo fratello è proprio un portento- disse Mark prendendo in braccio il bimbo che lo guardava con occhioni adoranti facendo scorrere incredulo le piccole manine sui muscoli potenti delle spalle del cannoniere.

 

Andree stava per replicare ma venne messa a tacere dalla vocina squillante del figlio -Anch’io gioco a calcio- proclamò Josh fiero – Anche a me verranno dei muscoli così?-

 

-Dipende…se ti allenerai molto sì. In che ruolo giochi Josh?- chiese Mark deponendo con delicatezza il bambino a terra.

-Centrocampo con la maglia numero undici … la stessa di Tom Becker- 

-Ah sì?- intervenne il ragazzo chiamato in causa, accucciandosi a pochi passi da Josh in modo che il suo volto fosse alla stessa altezza di quello del bambino- E ti piace giocare con il numero undici?-

-Sì molto, l’ho scelto io proprio perché è il tuo numero e me piace molto come giochi… io… cioè mi piacete tutti ma… io spero di diventare bravo come te ….- ammise con disarmante sincerità il bambino, balbettando imbarazzato per il fatto che tutti i giocatori lo osservavano attenti .

 

-Oh Josh- sospirò la donna sentendosi stringere il cuore a quelle parole. Se solo suo figlio avesse saputo in che razza di pasticcio si trovava Tom.

 

Il bimbo, come se avesse percepito il sospiro preoccupato della madre, si volse a guardarla nello stesso istante in cui anche Tom alzava su di lei i suoi profondi occhi nocciola. Per alcuni istanti i loro sguardi si allacciarono ed Andree constatò che per la prima volta il ragazzo non la stava squadrando con astio e diffidenza. Scoprì all’improvviso il calore di cui quello sguardo era capace e si sentì scuotere sino nel profondo del suo essere.

 

-Credi che diventerò bravo come Tom… mamma?- chiese candidamente il bimbo spazzando via il turbamento della donna ma creandone inconsapevolmente dell’altro.

 

-Mamma!?!!?!?- ripeté Benji sgranando gli occhi e dando voce allo stupore generale.

 

Un silenzio teso scese improvviso tra i ragazzi che attoniti fecero vagare lo sguardo dal bambino alla donna, esaminandoli disorientati. Andree era talmente abituata a quelle reazioni sbigottite che le sembrava quasi di poter sentire le rotelle nei cervelli dei ragazzi impegnate in ovvie constatazioni e basse illazioni.

 

Affrontò senza timore quegli sguardi curiosi e, facendo ricorso alla sua proverbiale imperturbabilità, non fece trapelare assolutamente nulla del disagio che in realtà provava. Ci mancava solo che si mettessero a fare della morale sulla sua condotta. Era una ragazza madre ma questo non cambiava il rispetto che loro le dovevano.

 

Non la sorprendeva tanto incredulità, né tanto meno la feriva, quella era l’abituale reazione della gente conformista e bigotta che non concepiva il fatto che una ragazza a sedici anni potesse rimanere incinta. Accadeva invece, era raro, era ingiusto, ma era successo.

 

-Qualche problema Price?- chiese Andree gelida squadrando il portiere con occhi gelidi che non lasciavano trapelare nulla.

-No…solo che….- borbottò il ragazzo abbassando sugli occhi la visiera del cappellino in preda ad un forte imbarazzo dandosi dello stupido per non aver saputo controllare le proprie reazioni.

-Solo che?- lo imbeccò implacabile Andree che non accettava giudizi morali da nessuno, tantomeno da chi la coscienza non doveva averla certo pulita.

-Niente- tagliò corto Benji scuotendo la testa infastidito dall’atteggiamento provocatorio della donna. Aveva sbagliato era vero, ma lei era impietosa, come al solito.

 

Il portiere guardò il bambino che li osservava attento benché non comprendesse del tutto il significato di quello scambio di battute e si sentì terribilmente in colpa per le sue tacite considerazioni.

 

-Josh vieni qui- ordinò Andree in un impulso di protezione nei confronti del figlio. Il bimbo ubbidì e in un attimo le fu accanto, fissandola attento con i suoi enormi occhi ambrati. Andree gli rivolse un sorriso rassicurante ed immediatamente il bimbo si rilassò ricompensandola con un risolino felice.

 

-Allora peste ti è piaciuta la sorpresa?- chiese tranquillizzata dalla mano calda ed arrendevole di Josh tra le sue. Niente la toccava, nulla la scuoteva, se suo figlio era accanto a lei.

 

-Oh mammina, sapessi quanto!- cinguettò il bambino abbracciando le ginocchia della mamma, facendola piegare leggermente in avanti.

 

-Possiamo andare ora? Sei soddisfatto?-

-Non possiamo rimanere ancora un po’?-

-Ma hanno finito gli allenamenti!ti porterò ancora-

-Quando domani?-

-No domani no, ma presto-

 

Josh sembrava contento del compromesso perché gratificò la mamma con un urletto esultante.

 

-Ora andiamo. Hutton, Price, Lenders e Beker vi posso parlare?- disse Andree cancellando in fretta l’espressione tenera con cui si era rivolta al figlio, talmente in fretta che i quattro ragazzi chiamati in causa ci chiesero se quell’espressione se la fossero solo immaginata. Per quanto li riguardava l’immagine dell’avvocato che si erano creati era del tutto inconciliabile con quella della giovane madre che avevano di fronte. La discrepanza li disorientava e li confondeva, lasciandoli più turbati del solito. Ormai erano abituati ad essere presi in contropiede da quella donna dalle mille e più sfaccettature ma erano allibiti dal constatare che ogni volta credevano di avere scorto almeno uno scorcio di quella intricata personalità, ecco che lei cambiava le carte in tavola, rimettendo tutto in discussione. Se era questo l’effetto che faceva alle giurie, potevano ritenersi più che al sicuro: nessuno poteva neppure lontanamente immaginare che cosa provasse o che cosa pensasse realmente l’avvocato Takigawa quando imperturbabile difendeva il cliente di turno.

 

-Sì certo- si affrettò a rispondere Holly per tutti, seguendo la donna ed il bambino.

 

Non appena furono abbastanza lontani dal gruppo Andree annunciò con una chiara nota d’orgoglio nella voce-Volevo solo comunicarvi che in questo momento il dottor Lee sta già lavorando sui vostri prelievi-

-Cosa? E come ha fatto? Marshall aveva detto che era impossibile avere i permessi prima di una settimana…- esclamò Holly incredulo senza togliere gli occhi da quella donna che ora gli sembrava un dio onnipotente.

-Incredibile…ma come ha fatto avvocato?- chiese Mark.

-Molte cose sono impossibili a molti…ma non a tutti …- sentenziò Andree altera, anche se sapeva che non era proprio tutto merito suo.

-Lei è un vero pozzo di sorprese avvocato- sospirò allusivo Benji, osservando prima il bimbo per poi indugiare con espressione languida sul corpo morbido della donna

-Price non mi costringa a ricordarle quale è il suo posto, per quanto mi riguarda lei oggi ha superato abbondantemente il limite- replicò categorica –Poi non dica che non l’avevo avvertita…arrivederci a tutti- salutò freddamente, dando loro le spalle e scomparendo velocemente con il figlio dentro il tunnel.

 

Benji uscì dalla doccia sfregandosi il petto bagnato con la salvietta. Il cipiglio severo con cui l’avvocato l’aveva messo in guardia, avrebbe dovuto impedirgli di porsi qualsiasi ulteriore domanda, eppure la curiosità, che quella donna glaciale suscitava in lui, era decisamente più forte del suo discutibile buon senso.

 

-Julian ma tu com’è che conosci il nostro avvocato?- chiese incapace di trattenersi oltre dal porre le domande che gli frullavano in testa.

-Mio fratello è nella stessa classe di Josh oltre che nella stessa squadra. L’ho incontra per caso una volta quando sono andato a prendere Jeremy- rispose il difensore evasivo.

-Uhm…che fortuna…e così con la scusa del fratellino corteggi la giovane madre….- borbottò allegramente Benji aprendo l’anta dell’armadietto e rovistando all’interno alla ricerca degli indumenti puliti

-Giovanissima direi…- puntualizzò Tom di pessimo umore finendo di allacciarsi le scarpe.

-Ma quanti anni ha il bambino?- proseguì Benji imperterrito, ignorando la laconica puntualizzazione del centrocampista.

-Sei, frequenta la prima elementare- rispose Julian a disagio -Ma non credo spetti a noi far commenti…-

-Dicevo tanto per dire…ma il marito che ne pensa?- buttò lì il portiere infilandosi un paio di jeans scuri.

-Non è sposata- replicò Julian con finta indifferenza, in realtà tutto quell’interesse del portiere per Andree lo indispettiva. Conosceva bene la passione sfrenata di Benji per le belle donne e, anche se lui non era da meno, sapeva che ben poche erano in grado di resistere al fascino magnetico di Benji Price.

-Dai…intendo il padre del bambino…- insistette Benji spazientito.

-A quanto mi ha detto Jeremy, Josh non ha mai conosciuto il papà, non sa neanche come si chiami…ma non so altro- tagliò corto con tono duro sperando di far comprendere al compagno che la discussione non gli piaceva per niente.

-Beh con pazienza lo scoprirai…credo che non sia ancora nata la donna in grado di resistere al nostro dongiovanni numero uno…dicci la verità vuoi aggiungere il bel avvocato alla lunga lista delle tue spasimanti?-lo provocò Mark con una punta di invidia per la facilità con cui il dolce “principino” riusciva far cadere le donne ai suoi piedi, e pensare che lui erano due anni che girava intorno sempre alla stessa e non era ancora riuscito a combinare niente!

 

-No Lenders- replicò Julian serio scuotendo leggermente il capo - Se mai riuscirò ad avere quella donna non sarà solo un nome in un elenco. Non so se ve ne siete resi conto ma una come Andree quando la conosci non la dimentichi più-

 

Lo sbattere violento dell’anta di un armadietto, che rimbombò nella stanza semivuota come una fucilata, fece girare di scatto i pochi ragazzi rimasti nello spogliatoio.

 

-Scusate mi è scivolato- borbottò Tom scuro in volto gettandosi il borsone sportivo in spalla ed avviandosi stranamente silenzioso verso l’uscita.

 

-Ma che gli prende?- chiese Julian osservando allibito la porta oltre la quale era scomparso Tom.

 

-Che vuoi Julian, la situazione di merda in cui ci troviamo ci sta facendo impazzire e Tom sembra reggere male lo stress…- spiegò Holly con fare noncurante infilandosi una felpa verde acqua. Il capitano aveva compreso benissimo che vi era qualcosa di strano in Tom, qualcosa che non aveva nulla a che fare con il processo in corso, ma era certo che l’amico non volesse che i suoi personali tormenti divenissero materia di intrattenimento negli spogliatoi, per quel motivo aveva mostrato un’indifferenza che non provava affatto ed aveva abilmente sviato l’attenzione della squadra dall’inconsueto comportamento del centrocampista.

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


CAPITOLO X.

 

Alle quattro in punto di quel tiepido giovedì pomeriggio di inizio ottobre, Andree entrò nel caotico ufficio di Noam guardandosi attorno dubbiosa. Era del tutto inutile anche solo pensare di poter trovare i risultati delle analisi dei suoi clienti in mezzo a quella miriade di carte. Sospirando rassegnata, si avvicinò alla vetrata osservando con espressione cupa il vialetto di accesso due piani più sotto, dove i pazienti passeggiavano tranquilli in compagnia dei parenti in visita. Preferiva vedere quella massa di sconosciuti impegnati a chiacchierare o a consumare qualche gelato piuttosto che dover guardare il disordine insopportabile che regnava ovunque nella stanza.

 

Ma il caos attorno a lei era solo un palliativo di scarsa consistenza, un’ignobile scusa che si era inventata per comodità. La vera ragione della sua inquietudine aveva tutt’altra natura.

 

La sera precedente aveva faticato non poco a mettere a letto Josh, ancora eccitato per l’incontro del pomeriggio con i giocatori della nazionale. Senza sosta, l’aveva subissata di domande a cui lei aveva stentato a rispondere con esauriente sincerità. Di certo non poteva dire al figlio come e perché conosceva i campioni nazionali del Giappone! Le si stringeva il cuore al solo pensiero della delusione che la verità avrebbe fatto scendere sul volto paffuto del figlio, eliminando dai suoi occhi dorati quella luce di genuina felicità.

 

Una volta addormentato, gli aveva amorevolmente rimboccato le coperte come era solita fare ogni sera. Sollevando il capo aveva indugiato scettica sull’enorme poster che Josh l’aveva costretta ad appendere in camera, rovinando la carta da parati a righine blu e azzurre di cui lei andava tanto fiera. I ventidue componenti della nazionale posavano sorridenti ordinatamente distribuiti in tre file. No, non era giusto infrangere i sogni di suo figlio. Josh né nessun altro bambino doveva avere quella terribile delusione, e lei non avrebbe mai permesso che ciò accadesse. Avrebbe vinto quella causa a qualsiasi costo, dopotutto c’era riuscita una volta, poteva benissimo farcela una seconda.

 

Tamburellò nervosamente con le dita sulla finestra. L’attesa di Noam si stava facendo più lunga del previsto. L’infermiera della reception che l’aveva fatta entrare, le aveva riferito che il dottore era da poco uscito dalla sala operatoria e che si sarebbe liberato a momenti.

 

Povero Noam! Era già oberato di lavoro, non aveva certo bisogno che lei gliene desse dell’altro, e poi quasi sicuramente era tutta fatica sprecata. Eppure una via d’uscita la doveva trovare assolutamente. Non si trattava più solo di una questione di prestigio professionale ma ora anche i sogni di suo figlio erano entrati in gioco, sogni che lei era disposta a difendere ad ogni costo.

 

Il rumore della porta aperta frettolosamente, la fece voltare all’improvviso. Scrutò con affetto il sorriso solare di Noam che gli illuminava il volto bellissimo in quel momento solcato da profonde occhiaie che testimoniavano implacabilmente lo stato di stanchezza in cui si trovava il giovane medico. Andree fece alcuni passi verso di lui senza parlare. Se lo conosceva bene, aveva passato in piedi l’intera notte, controllando che i vetrini sedimentassero alla perfezione e allontanandosi solo il tempo necessario per ingurgitare l’orribile brodaglia che sui distributori era falsamente etichettata come “caffè”.

 

La donna sentì acuirsi il senso di colpa per essere in parte artefice di quella stanchezza. Ma immediatamente un altro pensiero si affiancò al primo. L’improvvisa apparizione di Noam in tribunale e la sua richiesta di rifiutare la sentenza, era la reale causa di quella situazione disperata. Se non fosse stato per lui a quest’ora tutto sarebbe stato sistemato nei migliori dei modi … se lo meritava, non doveva sentirsi in colpa! Lui piuttosto, avrebbe dovuto rendere conto di quel fallimento giudiziario a cui la stava mandando incontro!

 

In ogni caso non vi era rancore nel suo cuore, era pienamente consapevole che in qualsiasi modo si sarebbe risolta quella storia, non avrebbe mai portato del risentimento a suo migliore amico

 

-Noam tutto ok?- chiese accarezzandogli dolcemente la guancia ruvida di barba.

-Sì Andy sto benissimo e tu?- replicò l’uomo appoggiandole amichevolmente le mani sui fianchi morbidi e deponendole un bacio leggero sulla fronte candida.

 

La donna gli lanciò un’occhiata penetrante. Sapeva bene che la domanda di Noam non implicava affatto un’evasiva risposta del tipo “ tutto bene grazie”. Andree non aveva alcun dubbio a cosa il medico si riferisse e lei non aveva più alcuna intenzione di nascondersi dietro a delle ombre irreali. Forse parlare con Noam l’avrebbe aiutata a capire, a far ordine, a venire a capo di quel caos che si agitava nella sua testa.

 

-Ieri ho portato Josh allo stadio- ammise con titubanza, non era certa che quello fosse il modo migliore per intavolare il discorso, ma da qualche parte doveva pur iniziare.

-Ha conosciuto i suoi eroi?- chiese il medico con tono scherzoso lasciandola andare e dirigendosi lentamente verso la sua scrivania.

-Sì e non ti dico in che stato di eccitazione era ieri sera…-

-Me lo immagino- replicò il dottore ridendo di gusto -Ah quella peste ha una grande passione nel sangue…-

-Nel sangue non lo so….da me non ha preso e per quando riguarda l’altra metà non so che dirti…-

-Già questo resterà un mistero in eterno. Comunque non siamo qui per rivangare vecchi e tristi ricordi. Sono felice che tu abbai riflettuto sulle mie parole ed il fatto che abbia permesso al tuo adorato bambino di avere un contatto con i ragazzi, significa che non li consideri più dei poco di buono, imbroglioni, drogati…-

-Ehi non esagerare, io non ho mai parlato di loro quattro in questi termini-

-Solo perché la tua etica professionale te lo ha impedito, ma con me certe cose non serve che le dici, io le so-

-Non riesco a capire dove vuoi arrivare…è da ieri che fai il grillo parlante. Mi insinui dubbi e non mi dai alcuna risposta, dove vuoi portarmi con le tue insinuazioni?-

-Un po’ alla volta …ci arriverai un po’ alla volta. Le risposte che cerchi non te le posso dare io, anzi sei tu che le devi dare a me e a te stessa. Ma ora Andree non è il momento abbiamo una questione più pressante che incombe…- disse il dottore facendo una mezza piroetta su se stesso e sollevando da una sedia un plico considerevole di carte –Mia signora ecco a lei i risultati delle analisi!-

-E quindi?- chiese Andree frugando speranzosa negli occhi azzurri del medico alla ricerca della soluzione tanto agognata.

-Quindi cara ho bisogno di tutta la tua attenzione e soprattutto libera la tua mente da inutili pregiudizi…Fai finta che questi ragazzi siano uguali a tutti gli altri clienti che hai assistito fino ad oggi…-

-Ma lo sono, non serve che finga-

-…fingi che per te siano un semplice caso giudiziari da risolvere- proseguì Noam imperterrito tralasciando del tutto l’obiezione della donna –Fingi che quella strana inquietudine che ti confonde ogni volta che si parla di loro non esista. Fingi ancora per un po’ Andy…e poi non farlo mai più-

-Vieni al sodo- tagliò corto Andree decidendo che davvero non valeva la pena mettersi a discutere con il medico, decisamente si era messo in testa delle idee che a lei non piacevano affatto.

-Ok guarda tu stessa- acconsentì Noam facendo spazio sul piano della scrivania e dispiegando un paio di fogli.

 

Andree seguì attenta il dito scattante del dottore che scorreva sulla carta lungo una colonna di valori contrassegnati da asterischi.

 

-Ma sono sempre fuori norma!- proruppe la donna sfogliando in fretta le analisi di tutti e quattro gli imputati.

-Sì infatti non c’era alcun errore nella analisi precedenti-

-Allora abbiamo perso solo tempo-

-E qui ti sbagli mia cara. Insomma, sei famosa per il tuo intuito e per la tua mente sveglia, che ti è successo? Il Giappone ti intasa le meningi? O c’è una ragione che io non conosco per questa tua aggressività nei confronti di quei quattro ragazzi?-

-Non essere sciocco non ho nessuna aggressività… solo che… non mi piace ciò che hanno fatto- ammise mordendosi l’unghia del pollice -Se avessi visto come li guardava mio figlio! E sai quanti altri bambini li ammirano come il mio? Come hanno potuto imbrogliare così i loro tifosi? Il solo pensiero mi riempie di rabbia e disgusto-

-Non ti avevo mai sentita parlare così prima d’ora- disse il medico non nascondendole una grande ammirazione- Stai maturando bambina, finalmente cominci distinguere le sfumature. E questo caso è proprio l’ideale…Osserva bene e imprimiti ogni mia parola nella mente: queste analisi sono palesemente false-

 

Andree lo fissò attonita -Lo devo dimostrare non basta che dica al giudice che i valori sono troppo oltre la norma per essere credibili, penserà che sono pazza: sono incriminati proprio per questo!-

-E allora sveliamo il trucco fai attenzione….prendiamo queste…Price…ecco cosa leggi qui?-

-Desametasone…valore tre volte superiore al limite consentito….-

-Esatto. Ma tu sai bene che il desametasone è un corticosteroideo e come tale aumenta la massa muscolare e la potenza della prestazione, è diffuso infatti nell’ambiente del body building. Che c’entra la massa muscolare con un portiere? E la resistenza a sforzi prolungati? Il compito di Benji è basato sulla velocità, la concentrazione, la forza ci deve essere ovvio, ma non è quella a fare la differenza. Uno steroideo mi aspetterei di trovarlo in un attaccante….avrebbe senz’altro più senso…e invece…- Noam afferrò un altro foglio e lo porse ad Andree – Guarda che strano nel sangue di Lenders abbiamo una dose massiccia di acebutolo…un betabloccante che come sai…-

-…aumenta la concentrazione, la prontezza di riflessi e la resistenza a discapito della potenza muscolare….-

-E Mark punta tutto sulla sua massa muscolare. Ben strano non trovi che abbai deciso di assumere un farmaco che contrastasse con le sue doti principali: la forza e la potenza….-

-…è come se avessero invertito le analisi!-

-Potrebbe essere una spiegazione ma non trovi la coincidenza alquanto sospetta? Errori del genere sono pressoché impossibili-

-Che ne sai? Magari un’infermiera inesperta o distratta ha mescolato le etichette…-

-Già…-

-Come facciamo a sapere se il nostro sospetto è legittimo?-

-L’esame del DNA è l’unico modo per sapere con certezza a chi appartengono questi liquidi ematici-

-Esame del DNA? Oh Noam non abbiamo abbastanza tempo!-

-No infatti. Dovrai basare la difesa su semplici constatazioni, dovrai essere molto convincente….-

-Uhm…il giudice Shalley non mi darà mai un altro rinvio-

-Devi fartelo dare ad ogni costo-

-E i valori di Holly e Tom?-

-Nulla di particolarmente rilevante: rilevato nandrolone, efedrina in gran quantità ed un ematocrito ai limiti della norma…-

-La faccenda per loro si complica….Mettiamo che i dati che mi hai dato siano sufficienti ad imbastire una difesa abbastanza convincente per Mark e Benji, ma per Tom ed Holly cosa mi invento?- obiettò la donna chiedendosi scioccata come mai fosse passata con tanta spontaneità al nome di battesimo dei ragazzi.

-Insinua il dubbio che come c’é la possibilità di un clamoroso errore su due delle quattro analisi, vi è il forte sospetto che anche le altre siano errate-

-Non basta- contestò scettica Andree scuotendo il capo affranta – E poi l’esame del DNA è molto costoso, deve esserci un validissimo motivo per richiederlo, il giudice non si accontenterà delle mie perplessità-

-Devi farcela, non vi é altra modo per salvare quattro persone innocenti!- sentenziò il medico scrutandola con intensità.

 

Andree uscì dall’ospedale con la mente in fibrillazione. Con lucidità nella sua mente si stava formando il discorso che avrebbe propinato al giudice condito con una faccia tosta da manuale e una sicurezza che doveva assolutamente acquisire in quei tre giorni che la separavano dall’udienza. Sussultò preoccupata quando, uscendo nel parcheggio dell’ospedale, si rese conto che il sole era già tramontato e che i primi lampioni della sera erano già stati accesi. Accidenti era tardissimo!

 

Sfrecciò abbondantemente oltre i limiti di velocità sulle strade della capitale giapponese, pregando di non incontrare una volante della polizia. Trasse un sospiro di sollievo solo quando arrestò l’auto nello spiazzo antistante la scuola del figlio. Per questa volta la contravvenzione l’aveva scampata.

 

Raggiunse trafelata il campo sportivo sospirando confortata solo quando scorse due piccole sagome accanto alla porta impegnate a calciare una palla, in una delle due Andree riconobbe Josh. Avvicinandosi in fretta si accorse che mollemente appoggiato al palo della porta vi era qualcuno, non le fu difficile identificare chi fosse.

 

-Scusa Julian ho fatto più tardi del previsto…- disse mortificata avvicinandosi al ragazzo

-Non ti preoccupare- la rassicurò lui rivolgendole un caldo sorriso  -Solo che l’attesa ci ha fatto fame, stavamo andando  a mangiare qualcosina, ti unisci a noi?-

-Ma io veramente non vorrei disturbarti oltre…- tergiversò incerta.

-Ma quale disturbo! Non puoi dirmi di no!-

-No non posso- replicò ridendo divertita dall’espressione implorante del ragazzo.

 

Indubbiamente la disarmante dolcezza di Julian, il suo manifestare senza problemi ciò che provava e il chiedere esplicitamente ciò che voleva, le piaceva molto. Per una persona come lei, sempre abituata a controllare ogni minima espressione, ogni parola anche la più insignificante, tanta spontaneità la rilassava, le faceva venir voglia di lasciarsi andare, le suggeriva che la vita a volte poteva essere lasciata scorrere a briglie sciolte. Una constatazione che la divertiva, la agitava e la eccitava, un miscuglio decisamente niente male.

 

Cenarono in allegria, chiacchierando sino a notte fonda in un intimo ristorantino a pochi isolati dalla scuola dei bambini. Julian raccontò  ad Andree della sua infanzia, della passione per quello sport che per tanti anni aveva creduto di dover abbandonare a causa di una malformazione congenita al cuore, delle lunghe cure a cui si era sottoposto ed infine dell’operazione avvenuta in Inghilterra, che gli aveva permesso di archiviare per sempre i suoi problemi cardiaci e dedicarsi anima e corpo alla sua unica passione. Le confidò con semplicità le paure che per anni lo avevano tormentato, la disperazione di fronte al suo fisico che cedeva miseramente alla minima sollecitazione, ma anche la voglia di non arrendersi mai, di sperare che un giorno tutto si sarebbe risolto, come infatti accade.

 

Emozionata Andree seguì ogni singola parola dell’uomo, percependo con intensità quasi palpabile la forza e la caparbietà che gli avevano permesso di avere la meglio sulla malattia ed esultò felice perché contro tutti i prognostici medici il “Principe” aveva vinto la sua battaglia più importante, eliminando per sempre l’incubo dell’arresto cardiaco.

 

Quella sera Andree ascoltò molto ma raccontò poco. Della sua vita non se la sentiva di parlare e Julian fu estremamente comprensivo su questo punto, scivolando via con grazia ogni volta che la discussione sfiorava anche solo lontanamente la vita privata della donna. Non che la vita di Andree non lo incuriosisse, anzi moriva dalla voglia di sapere le circostanze del concepimento di Josh, dei rapporti che c’erano o c’erano stati tra quella splendida donna e il padre di suo figlio.

 

Era geloso. Geloso da morire di uno sconosciuto che supponeva lei avesse amato molto e forse amava ancora. Lui il bellissimo Julian Ross, accanito libertino, instancabile dongiovanni era cotto e stracotto e per di più geloso di una donna dagli occhi di ghiaccio, dal temperamento inflessibile ma dall’anima inondata di amore materno. Julian tremava emozionato davanti agli sguardi bollenti che Andree rivolgeva al figlio e più di una volta quella sera aveva sperato di scorgere anche solo un minima parte di quel calore in quegli occhi mentre si posavano su di lui.

 

Ma da questo punto di vista era destinato a rimanere deluso. Lo guardava certo, spesso e con cordialità, ma non con quella luce abbagliante che gli faceva accelerare i battiti del cuore. Mentre si dirigevano alle loro auto la scrutò di sottecchi mentre trasportava in braccio il figlio con le belle labbra piene appoggiate alla testolina castana di Josh abbandonata sulla spalla della madre e la manina chiusa a pugno mollemente abbandonata sul seno pieno che spuntava dalla scollatura della camicetta resa più ampia dal peso del bambino.

 

Julian pregò il cielo che facesse sparire per qualche attimo i bambini e permettesse a lui di appoggiare le mani su quelle curve morbide, di perdersi per sempre in quel corpo meraviglioso.

 

E invece fu costretto a limitarsi a deporre Jeremy sul sedile posteriore della sua auto e ad aiutare cavallerescamente Andree a sistemare Josh sul sedile della Bmw,  coprendolo con cura con la sua felpa.

 

Andree gli rivolse un sorriso appena accennato -Grazie Julian è stata una magnifica serata-

-Spero di poter replicare presto- replicò il ragazzo restio a farla andare via così.

-Lo spero anch’io. Buonanotte- disse cortesemente lei aprendo la portiera dell’auto.

-Aspetta-

 

Il suo era stato un sussurro, una richiesta fatta con titubanza, una speranza espressa con semplicità. Non era certo di sapere cosa dirle, di come farle capire ciò che desiderava. Sapeva solo che la voleva come mai aveva voluto una donna in vita sua, non se la sentiva di parlare di amore, non dopo solo quattro giorni che la conosceva, ma di certo era un istinto incontrollabile quello che lo spingeva verso di lei.

 

Osservò incantato il volto bianco di Andree reso quasi luminescente dalla luce artificiale del neon, gli occhi incredibilmente grigi che lo scrutavano interrogativi in attesa che lui parlasse. Ma lui non aveva più alcuna intenzione di parlare. Incurante della reazione di lei posò sfacciatamente lo sguardo sulle sue labbra piene, attendendo una sua qualche reazione alla sua esplicita richiesta.

 

Il silenzio di lei lo incoraggiò e lentamente sollevò una mano sfiorandole con reverenza le labbra turgide che a quel contatto si dischiusero appena. 

 

Julian fece scivolare la mano dal volto di Andree sino alla spalla, lì fece una lieve pressione attirandola contro di sé e intercettandole la bocca con la propria. Non era certo di quali emozioni quel contatto avessero acceso nella donna, ma era pienamente consapevole della bufera che si era scatenata dentro di lui. Man mano che approfondiva il bacio ed il sapore dolce e fresco di lei gli si insinuava nel cervello e nell’anima eliminando qualsiasi altro pensiero, si rendeva sempre più conto che non avrebbe più potuto rinunciare  a lei. Si era innamorato! Come uno stupido aveva perso la testa per una donna che conosceva appena. Per la prima volta non era il suo sesso a dettare legge in quel gioco fatto di dolcezza ed urgenza, ma il suo cuore che batteva come un forsennato alla disperata ricerca della frequenza del cuore di lei. Eppure, come una doccia fredda, la netta consapevolezza che vi fosse qualcosa di stonato in quel frangente, spense il suo ardore facendolo ritrarre.

 

Incerto frugò negli occhi di lei sperando di non vedere ciò che temeva. Rimase perplesso di fronte all’espressione dubbiosa di Andree. Lo osservava con…curiosità?!?! Possibile? Come poteva una donna bella ed attraente come lei essere incuriosita da un bacio? Doveva saperlo più che bene che effetti avesse quel gesto così intimo e primordiale. Gli amanti non dovevano certo esserle mancati e il bimbo che dormiva pacifico a pochi passi da loro era la prova lampante che non era poi così ingenua su certe questioni. Eppure sembrava sorpresa. Imbarazzata e tremendamente sorpresa.

 

-Che c’è?- chiese riluttante tenendola ancora stretta a sé anche se il calore di quel corpo invitante che per ora non poteva avere, lo torturava.

 

Andree non gli rispose limitandosi a divincolarsi con grazia. La domanda di Julian implicava troppe risposte che lei non era pronta a dare. Lo implorò con un’occhiata a desistere e lui, con la solita sensibilità che lei tanto apprezzava, si limitò a sollevare le spalle rassegnato e a borbottare un frettoloso saluto.

 

-Buonanotte- replicò lei sollevata, salendo velocemente in auto ed immettendosi in strada senza neanche voltarsi a vedere se lui avesse fatto altrettanto.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


CAPITOLO XI.

 

Il venerdì mattina Andree si svegliò di soprassalto in una pozza di sudore. Il letto era completamente disfatto, le coperte erano scivolate  a terra, solo il lenzuolo, di sottile lino bianco, le copriva ancora il  corpo ansante. Si portò le mani alle tempie pulsanti, massaggiandole delicatamente con ritmici movimenti circolari. Doveva aver passato una notte piuttosto agitata, probabilmente tormentata da incubi, ma come al solito non ricordava assolutamente niente.

 

Si alzò lentamente controllando l’ora sulla sveglia del comodino, le lancette segnavano le sette e qualche minuto. Aveva tutto il tempo per concedersi una lunga doccia rilassante primi d svegliare Josh. Aprì l’acqua calda lasciando che l’ambiente si riempisse di caldo vapore mentre si spogliava davanti al grande specchio del bagno, indugiando qualche istante ad esaminare il suo corpo nudo.

 

Forse lo scroscio dell’acqua, forse frammenti degli incubi che l’avevano tormentata durante la notte, forse semplicemente la vista del suo corpo di donna appena più tondo e morbido di qualche anno prima, le provocarono un inaspettato, quanto doloroso,  flashback che la paralizzò.

 

Una ragazzina di appena sedici anni in una stanza sconosciuta che si guarda allo specchio alla ricerca di una qualsiasi imperfezione che potesse farle capire il motivo della scelta del suo ragazzo…ex ragazzo…l’aveva tradita…

 

Sempre quella ragazzina, accecata dal dolore e, perché negarlo, dall’orgoglio ferito, che cerca conferme in una casa estranea …una luce in fondo alle scale…un salotto…un divano…e di nuovo il buio totale, il nauseante nulla…

 

Un familiare dolore al basso ventre ridestò Andree facendola tornare alla realtà.

 

Si piegò in avanti sbiancando ed appoggiandosi con una mano al lavello mentre con l’altra premeva con forza il basso ventre. Perché ora? Perché dopo tanto tempo? Solo un ricordo resisteva nitido nella sua memoria: quel dolore che per parecchi giorni dopo quella notte l’aveva accompagnata, sino al momento in cui aveva scoperto di essere incinta. Un dolore che si ripresentava ogni volta che ripensava alle circostanze del concepimento di Josh.

 

Poche per la verità, pochissime.

 

Possibile che il bacio che lei e Julian si erano scambiati la sera precedente avesse risvegliato con tanta violenza ricordi assopiti? Poteva un semplice bacio farle tanto male? E che sarebbe accaduto se con Julian ci fosse stato dell’altro?

 

Il solo pensiero di un uomo che le si avvicinava in quel modo, con quella precisa intenzione, la faceva tremare e sudare freddo. Raddrizzò le spalle sollevando lo sguardo ed incontrando i suoi occhi grigi nello specchio. Due iridi forgiate nel ghiaccio ma sciolte nel fuoco. Il fuoco della vergogna, del rimpianto, della paura e della solitine. Il marchio scottante di un errore irreparabile che aveva racchiuso per sempre la sua parte femminile in un castello di sofferenza.

 

Ma lei era una donna! Non poteva continuare ad annullare quella parte di se stessa, far finta che non esistesse. La sua femminilità esisteva eccome, e pretendeva la sua parte di soddisfazione.

-Ci voleva Julian per capirlo Andree?- si chiese in un tormentato dialogo interiore mentre il vapore riempiva totalmente la stanza e sfocava l’immagine nello specchio. Era evidente, vista la sua sofferenza di quella mattina, che ci voleva proprio un dolce giapponese dallo sguardo di velluto e dal sorriso disarmante per farle aprire gli occhi. Eppure, per quanto innegabile fosse l’influenza che il fascino del bel giocatore aveva su di lei, una vocina indistinta le suggeriva che non era esattamente il bel “Principe” la causa primaria del suo scombussolamento.

 

Aveva un problema, era giunto il momento di ammetterlo, un grossissimo problema che necessitava di una veloce e concreta soluzione se voleva avvicinarsi nuovamente ad un uomo. Altrimenti meglio lasciar perdere tutto e continuare la sua vita fingendo che tutto andasse bene. Ma se così avesse fatto che ne sarebbe stato di lei? Non appena Josh fosse diventato indipendente lei sarebbe rimasta con un pugno di mosche in mano, un’arida zitella in perenne attesa che l’unica fonte di amore della sua vita le regalasse qualche briciola del suo tempo. Josh si sarebbe sposato, avrebbe avuto una compagna fedele accanto, avrebbe avuto a sua volta dei figli e chissà in che angolo della terra il destino lo avrebbe condotto…no!

 

Non voleva fare quella fine, non voleva un destino così arido e privo d’amore!

 

-Cosa vuoi?- si chiese finalmente scevra di qualsiasi sterile maschera.

 

Voleva essere amata ma soprattutto voleva amare.

 

Ecco perché aveva ricambiato il bacio di Julian nonostante fosse certa che né la situazione, né il momento e forse neppure la persona fosse adatta, eppure aveva accettato quell’intimo contato dopo sette anni di totale astinenza, aveva assistito con trepidante curiosità al risveglio della parte più profonda del suo essere, aveva compreso ed accolto il bisogno, da troppo tempo insoddisfatto, di un contatto fisico con un uomo.

 

Non era difficile comprendere che cosa fosse avvenuto in lei mentre il sapore di un altro essere umano le entrava in bocca stuzzicando ed eccitando tutti i suoi sensi. Il suo istinto di donna si era ridestato portando con sé una valanga di spiacevoli conseguenze che ora doveva trovare la forza ed il coraggio di affrontare una ad una.

 

Lo stato pietoso in cui si trovava in quel momento era un segnale abbastanza esplicito del fatto che non fosse affatto pronta ad iniziare una relazione sentimentale di alcun genere.

 

Eppure al di là della pericolosa porta che Julian aveva spalancato inconsapevolmente, la sensazione che le labbra del ragazzo avevano ridestato in lei non era esattamente quella che si sarebbe aspettata. In un certo senso sapeva che l’incendio che avrebbe dovuto travolgerla avrebbe dovuto essere di ben altro tipo. Forse i suoi blocchi psicologici avevano impedito ad altre emozioni di manifestarsi apertamente, ma era certa che da parte sua non vi fosse stato niente di almeno simile all’amore.

 

-Forse ci vuole tempo- pensò obbligandosi a respirare a fondo per allentare la tensione che le contraeva tutti i muscoli dal bacino in giù - Forse per riaccendere certi sentimenti spenti da tempo ci vuole più di un bacio…o forse non sono più capace di amare … di provare piacere…- rifletté, rifiutandosi di cedere alle lacrime che pungenti le erano salite agli occhi.

 

Il dolore fisico si placò a poco  a poco sotto il getto bollente dell’acqua e quando la donna entrò nella camera del figlio per svegliarlo, il suo corpo era tornato perfettamente alla normalità.

 

L’abbondante colazione e soprattutto l’allegria spensierata di Josh fecero accantonare ad Andree gli arcani tormenti che quella mattina faticavano a ritornare nell’oblio. E quando incrociò Julian nel giardinetto della scuola, mentre recuperava lo zainetto di Josh dal sedile posteriore della sua BMW, la solita fredda compostezza aleggiava sul suo volto.

 

- Ciao Andree…Josh…- salutò il ragazzo avvicinandosi a lei tenendo per mano Jeremy.

-Julian…ciao- rispose freddamente per celare il reale imbarazzo che provava.

Il calciatore percepì l’atteggiamento distaccato della donna – Qualcosa non va?- chiese inarcando preoccupato le sopracciglia.

Andree lo scrutò inquieta mentre sistemava lo zaino sulle spalle del figlio -No- mentì con un tono che non avrebbe convinto neppure un bambino.

 

Ed infatti Julian ricambiò la sua occhiata con un’espressione sempre più interrogativa -Che succede? Perché non ne parliamo seriamente?-

 

Andree aprì la bocca per replicare ma si accorse con rammarico di non avere niente di appropriato da dire. Accidenti ma che le stava succedendo? Possibile che un uomo potesse metterla così in difficoltà? Julian sembrò notare il disagio della donna anche se non ne capiva il motivo.

 

-Ehm…- iniziò lei schiarendosi la voce -Scusa ma i bambini faranno tardi- aggiunse voltandogli le spalle e avviandosi lungo il vialetto.

 

-Allotillante di Jeremy fece arreta Jul te ne sei dimenticato?- la voce squillante di Jeremy fece arrestare Josh che costrinse la madre a fare altrettanto.

-Cosa?- chiese curioso il bimbo  guardando il compagno di classe e il suo famoso fratello.

-Jun e io domani andiamo la parco e volevamo sapere se tu e la tua mamma potevate venire- disse il bimbo sciogliendosi dalla mano del fratello immediatamente imitato da Josh.

-Uao che idea! Al parco! Evviva!- saltellò felice Josh –Mamma andiamo?-

-Veramente…- prese tempo Andree scrutando il figlio preoccupata. Come avrebbe fatto a rifiutare senza deludere Josh?

-Andree non puoi dire di no! Domani è sabato!- la incalzò Jeremy peggiorando la situazione della donna.

 

La donna fece vagare lo sguardo inquieta da un bimbo all’altro -Devo lavorare- disse infine pentendosi immediatamente delle sue parole di fronte al faccino deluso di Josh e del suo amico.

-Ma mamma è sabato! Il sabato noi lo passiamo sempre insieme!- protestò il figlio rabbuiandosi.

-Questa volta…- iniziò senza però riuscire a infierire oltre. Non avrebbe mai trovato una scusa credibile, era vero che il sabato pomeriggio e le domeniche erano tutte per Josh. Era sempre stato così e ora non aveva alcuna scusa plausibile per rifiutare quell’invito –Hai ragione amore, avevo pensato di fare un’altra cosa insieme ma se tu preferisci il parco…-

-Sì mamma sì…-

-Allora per me va bene- capitolò ormai messa alle strette.

 

I due bambini si allontanarono esultanti parlando fitto tra di loro su cosa avrebbero fatto al parco l’indomani.

 

-Sei un avvocato di fama mondiale ma le bugie le dici maluccio…- constatò Julian richiamando l’attenzione della donna intenta a seguire le sagome dei bambini che sparivano all’interno della scuola.

 

Andree lo guardò guardinga, non poteva continuare a comportarsi in maniera così infantile con un uomo che conosceva da pochi giorni, era giunto il momento di finirla -E va bene…- iniziò fissandolo senza più timore - Sono imbarazzata per quello che è successo ieri sera…io…forse stiamo correndo troppo e non me la sento- disse tutto d’un fiato.

 

-Ho capito mi stai scaricando ancor prima di iniziare- obiettò il ragazzo sorridendo anche se in volto gli si leggeva una palese delusione.

- Ti sto chiedendo solo di rallentare..-

-Rallentare?!- sbuffò Julian infastidito -Cavoli sei una donna adulta, con un figlio, non mi sembra che un bacio per te voglia dire correre troppo!-

 

Andree si irrigidì -Che vuoi dire? Che solo perché ho avuto un figlio in giovane età sono solita andare  a letto con il primo che capita senza pensarci su?- lo provocò inchiodandolo con una delle sue glaciali occhiate che il ragazzo non aveva ancora avuto occasione di conoscere.

-No no…non volevo assolutamente dire ciò- replicò sconcertato arretrando di un passo -Volevo semplicemente dire che per me non stiamo correndo troppo ma se tu pensi che sia così… beh … sono disposto a rallentare… se non lo avessi capito tu mi piaci davvero Andree- affermò guardandola con intensità -Non so che idea tu abbia di me o che voci ti siano giunte sul mio conto. È risaputo che non sono un santo, ma ti garantisco che non ho mai illuso nessuna donna. Il ruolo che avevano nella mia vita era loro ben chiaro sin da principio e lo accettavano anche se si trattava di una notte soltanto. Quindi se ti dico che tu non sei come le altre mi puoi credere-

 

-Non è questo il punto- puntualizzò la donna con maggiore durezza di quanta avrebbe in realtà voluto -Inoltre sappi che non raccolgo mai i pettegolezzi degli altri ma mi ritengo abbastanza capace da poter dire di saper giudicare le persone con cui ho a che fare basandomi esclusivamente sulle mie personali opinioni- rincarò pungente aprendo la portiera della sua auto –Solo che è evidente che i miei ritmi non sono i tuoi. Ora se vuoi scusarmi ho veramente una marea di lavoro da svolgere. A domani- tagliò corto infilandosi in auto e non lasciandogli la benché minima possibilità di replica.

 

Andree finì di sistemare i piatti sporchi della cena nella lavastoviglie ripercorrendo per l’ennesima volta la breve discussione che aveva avuto con Julian quella mattina. Ma era proprio lei quella donnetta imbarazzata davanti ad un uomo qualsiasi? Vigliacca, vigliacca e vigliacca! Ecco cos’era! Per tutto il giorno aveva soppesato ogni singola parola che si erano scambiati e ancora non riusciva a capacitarsi della sua reazione alle insinuazioni del ragazzo.

 

Ma perché si sentiva tanto terrorizzata? Perché aveva paura di ciò che Julian avrebbe potuto portare nella sua vita.

 

Forse amore. Sicuramente sesso.

 

Ci poteva girare intorno all’infinito ma poi la sostanza era quella e lei non era così stupida da credere di potersi mentire all’infinito. Julian era il primo uomo che era stato capace di accendere in lei un barlume di attrazione fisica da quando aveva concepito Josh. No da prima. Per il padre di Josh di certo non aveva provato alcun tipo di attrazione dal momento che non ne ricordava più neppure il volto.

 

Si appoggiò allo stipite della porta ad arco che separava la cucina dal salotto, cercando nella stanza la piccola sagoma del figlio. Josh era inginocchiato sul suo tappeto preferito contornato da una miriade di gessetti colorati sparsi ovunque. Le sue manine paffute scorrevano senza sosta su un foglio.

 

Josh… la dimostrazione che la follia non sempre è foriera di male. Era innegabile che lo avesse concepito nel modo più sbagliato possibile, si era concessa ad uno sconosciuto solo perché non aveva saputo interiorizzare il dolore di un tradimento…ma quale innocente ragazzina innamorata sarebbe stata in grado di superare un trauma come il suo? Non aveva affrontato la situazione nel migliore dei modi, ma chi poteva biasimarla?

 

Andree scosse il capo con forza facendo ondeggiare i lunghi capelli castani che le ricadevano in morbide onde sulle spalle. Non voleva ricordare, perché proprio ora? Perché proprio in quel momento quegli occhi blu notte riapparivano nella sua vita? Perché un angelo poteva infliggere una pena tanto vergognosa?

 

L’ultima barriera eretta dalla sua volontà cedette miseramente e la sua mente tornò per incanto a quel soleggiato pomeriggio di sette anni prima … al viale di accesso della villa dei LeBlanc …

 

Correva felice lungo il viale ghiaioso con il sole tra i capelli e la brezza leggera che le faceva svolazzare il corto vestito azzurro attorno alle cosce snelle, ignara che ogni passo la avvicinava sempre più ad un destino ingiusto. Aveva superato sorridendo l’imponente portone di quercia tenuto ossequiosamente aperto da un maggiordomo in livrea dall’aspetto compito.

-Buongiorno mamoiselle Takigawa-

 -Buongiorno Domenic- aveva replicato frettolosamente animata unicamente dalla voglia di raggiungere al più presto il ragazzo che sapeva al piano di sopra. Il suo ragazzo! Ancora non ci credeva! Eppure era proprio così. Quello era il loro primo anniversario: un mese. Un mese di amore folle e totale…almeno così credeva. Lui! Il ragazzo più bello della scuola, il capitano della squadra di calcio, corteggiato e desiderato da tutte le ragazze di Francia! E tra tutte aveva scelto lei, una giovane ragazzina per metà giapponese e per metà americana che aveva vinto una borsa di studio di 15 mesi in uno dei college più rinomati della capitale francese.

 

-Il signorino non è solo- l’aveva avvisata il maggiordomo abituato alla sua frequente presenza nella villa e per niente scandalizzato dal fatto che lei si stesse dirigendo in camera del ragazzo. Lei e Pierre trascorrevano molti piacevoli pomeriggi nella fornitissima videoteca della villa o in piscina assieme agli amici.

 

-Ah no? E chi c’è con lui?- aveva chiesto delusa.

-Il signorino Napoleon-

-E guarda che novità- aveva sbuffato non preoccupandosi minimamente di nascondere il suo disappunto.

 

Louis Napoleon era il migliore amico di Pierre nonché sua inseparabile spalla in campo. Era un ragazzo gioviale ed estroverso che suscitava una spontanea simpatia a cui lei non era certo immune,  solo che la sua presenza stava diventando decisamente troppo invasiva. A suo avviso, una giovane coppia aveva bisogno di un’intimità maggiore rispetto a quella che lei e Pierre condividevano,  un po’ perché appunto Napoleon era sempre con loro, un po’ perché il suo affascinante fidanzato, nonostante la fama di donnaiolo, sembrava piuttosto timido. Non che lei fosse il tipo di ragazza da infilarsi nel letto con un uomo già dal primo giorno, però era pazzamente innamorata di Pierre e desiderava il suo affascinante fidanzato senza vergognarsene. Lo trovava del tutto normale e giusto.

 

Aveva percorso il lungo corridoio parzialmente coperto da pregiati tappeti dai raffinati motivi geometrici riflettendo intensamente alla ricerca di una scusa plausibile per congedare Napoleon senza creare inutili tensioni.

 

Era talmente assorta nei suoi pensieri che solo all’ultimo momento si era accorta che la porta della stanza di Pierre era socchiusa e dall’interno provenivano risate soffocate.

 

-Mi fai il solletico cattivo!-

 

La voce di Pierre. Ma che strano timbro aveva…roco, caldo, sensuale…Istintivamente qualcosa dentro di lei era scattato, una vocina che le suggeriva di arretrare, di non fare neanche più un passo in avanti, di non guardare nella stanza per nessun motivo al mondo, di fuggire a gambe levate e  dimenticare qualsiasi cosa…Purtroppo non era una codarda e nonostante il cuore che le martellava in gola soffocandola quasi, si  era affacciata cautamente alla porta sbirciando all’interno tramite la sottile fessura.

 

 -Ah sarei io il cattivo! Tu piuttosto mi stai facendo veramente soffrire!-

-Io?! Che ho fatto Louis? In che ti ho offeso?-

-Lo sai…-

-No!-

 

La protesta di Pierre le aveva letteralmente perforato il cervello, rendendo la sua percezione surreale. Quasi in trance aveva osservato ipnotizzata  le mani tanto belle del suo amato insinuarsi tra le gambe del compagno di squadra stringendosi delicatamente sul vistoso rigonfiamento mal celato dai leggeri pantaloni di lino bianco che Napoleon indossava.

 

-Andree… lei mi fa soffrire…e non tentare di distrarmi con le tue carezze- aveva protestato Louis fingendo di respingere la mano dell’amante ma per poi subito riprenderla e riappoggiarla sulla sua virilità eccitata.

-Andree?!?-

-Sì Andree! Lei che significa per te? Non puoi negare che ti piaccia!-

-Ma che dici! È solo una copertura. Uno specchietto per le allodole...sei tu che imperi nei miei sogni e nel mio cuore...-

 

Era arretrata di scatto finendo addossata alla parete opposta del corridoio. Si era portata una mano ghiacciata al petto impazzito. Avrebbe voluto urlare, dio quanto lo avrebbe voluto fare, avrebbe dato la vita piuttosto che lasciarsi andare in balia di quella sensazione orribile che l’aveva portata a compiere quel gesto folle… ma non un suono era uscito dalla sua bocca inaridita, non una lacrima era scesa sul suo viso…tutto in lei si  era come prosciugato…per sempre annientato…

 

-Mamma hanno suonato…mamma!?- la voce gioiosa di Josh la riportò bruscamente alla realtà. Una vampata di antica vergogna le imporporò le guance di fronte allo sguardo innocente del figlio.

 

-Mamma stai bene?- indagò il bimbo incuriosito dall’espressione smarrita della madre.

-Certo amore…non ti preoccupare per il campanello è lo zio Noam…ha le chiavi…salirà da solo-

-Lo zio?!?!? Oh mamma aiutami a finire questo cielo, voglio mostrare allo zio il disegno finito…- strillò il bimbo chinandosi sul foglio e facendo scorrere con frenesia il gessetto sul disegno.

 

-Fa vedere quanto ti manca…- disse la donna inginocchiandosi sul tappeto accanto a Josh.

-Qui mamma, colora qui- le indicò il bimbo ficcandole in mano un gessetto azzurro.

-Qui?- chiese lei attenta.

-Sì sbrigati! Sento l’ascensore che si apre…-

 

Andree seguì diligentemente le indicazioni di Josh, quel tranquillo diversivo la stava aiutando a scacciare il senso di nausea che i ricordi di poco prima le avevano procurato. Sbirciò incuriosita il resto del disegno, come al solito il soggetto era una partita di calcio. Quello che Josh stava rifinendo con tanta cura era il braccio teso di un portiere con il cappellino rosso fuoco, e lei ormai ne sapeva abbastanza per sapere che quello era nient’altro che Benji Price il portiere  paratutto”.

 

 

-Permesso? Ma qui nessuno viene ad accogliermi?- la voce allegra di Noam attraversò la stanza ma nessuno gli prestò attenzione.  Madre e figlio continuarono a dargli le spalle entrambi accovacciati sopra il disegno, totalmente concentrati sul loro compito.

-Ciao Noam-  borbottò distrattamente la donna senza sollevare il capo -Accomodati…un attimo e sono da te…-

-Ma che state combinando voi due?- chiese il dottore perplesso avvicinandosi.

-No zio stai lì…non guardare- ordinò Josh cambiando velocemente gessetto.

-Ehm…Andree …- borbottò Noam.

 

La lievissima venatura di esitazione nella voce dell’amico non sfuggì alla donna che conosceva il dottore meglio delle sue tasche. Allarmata sollevò finalmente la testa –Ma…- esclamò incapace di proseguire.

 

Lasciò cadere a terra il gessetto azzurro che rotolò sino ai piedi del basso tavolinetto con zampe in pietra scolpita. Alle spalle di Noam vi erano altre quattro persone che lei non faticò a riconoscere.

 

Imbarazzata si alzò in fretta strofinandosi le mani sporche contro i pantaloni lisi, rivelando agli inaspettati ospiti un abbigliamento alquanto trasandato. Scoccò un’occhiata carica di rimprovero a Noam, non le piaceva essere sorpresa da estranei in attimi di privata intimità familiare e questo il suo amico lo sapeva più che bene.

 

-Andree io ho suonato un paio di volte…-tentò di scusarsi il medico cogliendo al volo il disagio dell’amica e dispiaciuto di averle procurato un ulteriore problema..

-Non importa…è colpa mia…prego avanti non statevene sulla porta del salotto…- tagliò corto lei  gratificando gli ospiti di un raro sorriso. L’ospitalità era una legge sacra in qualsiasi momento e circostanza e Andree, allevata in una famiglia molto attenta all’etichetta, non lo dimenticava mai.

 

-Finito!- esclamò Josh esultante. Il bimbo saltò in piedi e solo allora si accorse dell’inusuale affollamento nel salotto di casa sua -Mamma! Un’altra sorpresa!- esclamò incredulo.

-No amore questa volta la sorpresa ce l’ha fatta Noam!- replicò con sarcasmo.

-Lo zio? Oh grazie- esultò il bimbo pronto a fiondarsi tra le braccia del dottore per farsi sollevare in aria, gioco che lo riempiva di gioia.

 

Dopo parecchie acrobazie in aria Noam lo depose finalmente a terra ed il bimbo sembrò ricordarsi all’improvviso dei quattro giocatori. Intimorito si guardò intorno e senza dire una parola salì in braccio alla mamma che si era accomodata sull’unica poltrona rimata libera.

 

-Josh dovresti andare a letto…è tardi- disse Andree poco convinta accarezzandogli la testa e ben consapevole che neanche un miracolo avrebbe convinto suo figlio a lasciare quella stanza.

-No…mamma non è tardi- brontolò infatti il bimbo rivolgendole un’occhiata supplichevole.

-Invece è tardissimo- intervenne Mark- Io alla tua età a quest’ora dormivo già da un pezzo. I campioni devono dormire molto lo sai?-

-Oh…- esclamò Josh guardandolo adorante.

-Len…Mark ha ragione tesoro…- insistette Andree percependo l’indecisione del bimbo.

-Va bene però prima mamma mi prepari il latte…bello caldo….e lo bevo…-

-Sì ho capito furbone…con questo stratagemma hai guadagnato dieci minuti- rise la donna sollevandosi col figlio in braccio e riadagiandolo sulla poltrona -Vado un attimo in cucina scusatemi- disse rivolta ai ragazzi.

-Mamma bello caldo!-

-Ho capito! Comunque a te il latte piace tiepido…-

-Nooooooo! Caldo caldo altrimenti non lo bevo-

-Birbone- sbuffò la donna prima di sparire oltre l’arco che divideva il salotto dalla piccola e modernissima cucina.

 

-Allora qui abbiamo di fronte gli unici due uomini in grado di comandare a bacchetta l’avvocato Takigawa- cominciò sarcasticamente Benji osservando il bimbo dall’espressione soddisfatta e il bel volto marcato del biondo dottore.

-Eh? Due? No, no Benji ti sbagli. Qui ce n’è solo uno….ma glielo dico sempre ad Andree che lo vizia troppo….per fortuna Josh è un bimbo dolcissimo e non fa troppi capricci ma ottiene sempre quello che vuole…-

-Anche tu- insinuò Tom

-Anche io cosa??!- chiese Noam guardando perplesso il centrocampista seduto sulla poltrona accanto a Josh.

-Anche tu le fai fare ciò che vuoi…l’altro giorno in tribunale l’’hai convinta con una parola mentre

era completamente sorda e cieca alle nostre richieste…-

-Ma quello è lavoro- osservò con apparente noncuranza Noam -Io ed Andree collaboriamo da quando lei era una semplice tirocinante, tra di noi vi è un rapporto basato sull’assoluta fiducia e rispetto reciproco- spiegò scrutando con attenzione il ragazzo. Lo aveva già intuito da tempo che nel centrocampista albergava una non ben definita animosità nei confronti di Andree, ma Noam non riusciva ad identificarne la causa. Era indubbio che Tom era irresistibilmente attratto dall’avvocato, ma il medico non riusciva a definire bene di che tipo fosse quell’attrazione.

-Perché l’hai fermata? Perché tu ci credi e lei no?- intervenne Holly ignaro delle elucubrazioni del medico..

-Ne parliamo dopo- tagliò corto Noam indicando con un impercettibile cenno il bimbo che ascoltava le loro parole silenzioso e attento –Ehi campione hai fatto un nuovo capolavoro?-

-Sì zio lo vuoi vedere?-

-Certo-

 

Josh scivolò giù dalla poltrona e corse a prendere il disegno abbandonato sul tappeto. Un’espressione fiera illuminava lo sguardo ambrato del bimbo mentre porgeva a Noam il suo disegno e le sue gote paffute si tinsero di un bel rosso quando i quattro giocatori si strinsero attorno a loro per vedere il suo disegno.

 

Ma la sua aria soddisfatta venne spenta dall’arrivo della madre -Ecco il latte- annunciò infatti la donna poggiando la tazza fumante davanti a Josh.

-Già pronto!?- chiese deluso il bambino.

-Basta con i giochetti Joshua, bevi il latte e fila a letto!- replicò Andree decisa squadrandolo severa e facendogli così passare qualsiasi intenzione di fare ulteriori capricci.

 

Poco dopo Josh si accomiatò anche se controvoglia, ma l’espressione della mamma non gli aveva lasciato alternative. Prima di ritirarsi si fece promettere dai ragazzi che sarebbero tornati presto a trovarlo. Rincuorato il bimbo baciò la mamma e sparì nella sua cameretta.

 

-Scusatemi. Di solito non fa tutti questi capricci ma …-

-Non si preoccupi avvocato, suo figlio è un vero gioiello- disse Mark facendole l’occhiolino – E poi è un piacere vederla sottomessa da un frugoletto alto così- scherzò.

-Non sono sottomessa- sbottò indispettita.

-Un pochino…- insistette Mark trattenendo una risata.

-Uhm…cambiamo argomento. Noam come mai questa rimpatriata?- chiese diventando improvvisamente seria.

 

-Volevo informare i ragazzi della nostra proficua discussione di stamattina sui risultati delle analisi e ho ritenuto opportuno farlo in tua presenza. La faccenda è molto seria e non avrei mai invaso così pesantemente la tua privacy se non lo avessi ritenuto indispensabile- affermò Noam aspettando un cenno della donna prima di continuare. Andree rassicurò l’amico con un mezzo sorriso e nelle due ore successive i quattro giocatori vennero messi al corrente di tutti i minimi particolari tecnici della loro situazione, comprese le argomentazioni che Andree avrebbe presentato in aula nella speranza di ottenere un ulteriore rinvio per consentire l’esame del DNA.

 

Quando, al termine della serata, i ragazzi uscirono dalla palazzina dell’avvocato, un’espressione di sollievo mista a speranza illuminava i loro volti rischiarati dalla fioca luce dei lampioni del parcheggio. Andree e Noam avevano trovato una via d’uscita! E non solo. Ora il loro avvocato sembrava pienamente convinto della falsità delle analisi e con Andree completamente dalla loro parte, si sentivano dei leoni. Nessun giudice, nessuna pubblica accusa, li avrebbe minimamente scalfiti, perché ora Andree sapeva che loro erano innocenti e una professionista del suo calibro non avrebbe mai e poi mai permesso che degli innocenti scontassero una pena ingiusta. Avrebbe spostato montagne e prosciugato oceani piuttosto che farli condannare!

 

Avevano seguito lo scambio di nozioni tra Andree  e Noam a volte capendone appieno la portata, altre perdendosi in mezzo a sigle e codici sconosciuti, ma sempre consci della verità che stava venendo a galla: analisi false! Cosa che loro sapevano benissimo ma che sino a quella sera non sapevano potesse essere dimostrata.

 

-Tu credi che riuscirà a convincere definitivamente il giudice?- chiese Holly a Noam incapace di rinunciare all’ennesima piacevole conferma.

-Sì- rispose infatti il medico senza incertezze poggiando amichevolmente una mano sulla spalla del capitano -Le ho dato molti dati fondamentali e Andree sa come sfruttarli al meglio, state tranquilli- li rassicurò ancora il medico estraendo dalla tasca dei pantaloni le chiavi della sua auto sportiva.

 

-Accidenti!- esclamò Benji facendo sussultare i compagni -Non trovo le chiavi, devo averle appoggiate sul tavolino in casa dell’avvocato…- rifletté svuotandosi le tasche dei jeans.

-Vado a prenderle io- si offrì Tom voltando le spalle al gruppo.

-Sei sicuro?- chiese Benji guardando il compagno di squadra che si era già avviato verso il palazzo

Come risposta Tom sollevò un braccio senza voltarsi -Sì …arrivo subito-

 

Andree si affrettò ad appoggiare l’ultimo bicchiere lavato accanto agli altri e tese le orecchie incuriosita. Qualcuno stava bussando sommessamente alla sua porta, probabilmente per non svegliare Josh. Staccò da un gancetto sopra il lavabo uno strofinaccio e si asciugò frettolosamente le mani mentre si dirigeva quasi di corsa verso la porta d’ingresso.

 

-Becker!- esclamò stupita spalancando l’uscio -Hai dimenticato qualcosa?- chiese osservando il ragazzo di fronte a lei.

-Benji ha lasciato le chiavi dell’auto da qualche parte…il tavolino credo…-

-Vado a vedere- disse la donna voltandogli le spalle e tornando dopo pochissimo tempo -Eccole qui infatti- disse porgendogliele.

 

Tom sollevò il braccio per prendere le chiavi appoggiate al palmo della mano aperta di Andree ma invece di afferrarle imprigionò tutta la mano della donna nella sua.  

-Ma…- protestò incerta mentre il suo cuore schizzava impazzito. Sollevò lo sguardo impaurita per quello che temeva stesse per accadere.

Ed infatti incontrò due occhi cupi come la notte. Le pupille di Tom erano talmente dilatate che oscuravano il nocciola dell’iride rendendo il suo sguardo quanto mai intenso. Andree tentò di arretrare di un passo ma la presa ferrea del calciatore non le permise di allontanarsi. Con un leggero strattone Tom l’attirò contro di sé circondandole immediatamente la vita con un braccio. Andree stava per reagire violentemente quando percepì il cuore del ragazzo pulsare furiosamente contro il suo seno. Spiazzata dalla valanga di emozioni indefinibili che quel battito le provocò, sollevò il capo terrorizzata. Un gemito di paura le salì alle labbra ma venne soffocato dalle labbra calde del ragazzo che si erano poggiate sulle sue. Andree sentì un brivido attraversarle la schiena seguito da un’esplosione di luci multicolori che eliminò anche il suo ultimo timido tentativo di ribellione e ben presto si ritrovò inconsapevolmente a ricambiare quel bacio inaspettato. Si ritrovò completamente succube di quel contatto caldo e bagnato che la scombussolava al punto da farle attorcigliare le viscere. Un senso di vertigine la colse e fu costretta ad abbandonarsi del tutto contro il corpo teso del centrocampista che accolse quel cedimento con un gemito di piacere.

Poi qualcosa in lui mutò. Andree se ne accorse subito e sentì il gelo di nuovo dentro di lei.

Il ragazzo la lasciò andare con la stessa velocità con cui l’aveva baciata. Senza fretta arretrò di un passo eliminando ogni contatto tra di loro. La osservò attento senza proferire parola e Andree avrebbe giurato che fosse delusione quella luce lugubre che brillava negli occhi del calciatore.

 

Annientata da una forza sconosciuta a cui non riusciva a dare un nome, lasciò cadere a terra le chiavi di Benji che ancora stringeva convulsamente nella mano tremante. Il suono metallico prodotto  dall’oggetto non la riscosse mentre sembrò ridestare il ragazzo che velocemente si chinò a raccoglierle per poi allontanarsi, lasciando la donna immobile, troppo sconvolta per accennare ad una qualsiasi reazione.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


CAPITOLO XII.

 

Andree balzò giù dal letto sospirando esasperata. Lanciò un’occhiata alle lancette fluorescenti della sveglia poggiata sul comodino, segnavano le quattro e un quarto del mattino.

 

Ottimo le mancava proprio di soffrire d’insonnia!

 

Senza accendere la luce si diresse verso l’ampia vetrata che le offriva una vista spettacolare della grande metropoli ancora profondamente addormentata. Le tremolanti luci della città sotto di lei delineavano strade e palazzi. Una vampata di calore le imporporò il volto mentre ripensava alla causa della sua insonnia.

 

Per eliminare il calore traditore appoggiò la fronte al vetro freddo della finestra lasciando che il suo respiro irregolare appannasse il vetro impedendole di vedere il panorama. D’altro canto non le interessava affatto vedere assolutamente nulla.

 

Niente di quello che era attorno a lei aveva la benché minima importanza in quel momento.

 

La sua vita, tutte le sue sicurezze, i paletti saldi della sua esistenza erano sfumati come neve cancellati dalle labbra calde di un uomo. Due uomini. Niente da dire, per una donna che non aveva più avuto alcun contatto con il sesso maschile per sette lunghi anni,  due baci appassionati con due uomini diversi nel giro di ventiquattrore, erano veramente un record da far perdere il sonno!

 

Prima Julian. Che dire in proposito? Era stata consenziente, anzi molto di più, era stata complice. Lo aveva incoraggiato nei suoi chiari tentativi di corteggiamento, lo aveva illuso al punto tale che lui si era sentito nel diritto di baciarla. E lei non si era opposta. Mossa dalla curiosità di vedere che cosa si provava, di scoprire se era ancora in grado di provare passione e desiderio, lo aveva lasciato fare. Lasciato fare era proprio la definizione giusta. Non era proprio stata passiva, ma comunque neppure partecipe. Quel bacio era stato una specie di banco di prova e lei era stata talmente concentrata a captare le sue reazioni, che non si era lasciata andare all’intimità del gesto. Apparentemente non ne era rimasta scossa più di tanto, eppure il suo inconscio, poche ore dopo, aveva reagito, rivoltandosi contro di lei e ricordandole dolorosamente il suo precario stato psicologico.

 

Ed era per questo che il bacio di Tom l’aveva letteralmente stravolta. Era già scossa, come dire predisposta. Julian aveva aperto una breccia nella sua fortezza e Tom vi si era subdolamente intrufolato. Quindi, quando il centrocampista l’aveva avvicinata, con quell’arroganza del maschio dominatore, l’aveva sorpresa in uno stato di inconsueta vulnerabilità. Era del tutto normale che si fosse sentita catapultare in una dimensione sconosciuta, che avesse sentito come uno strappo nell’anima e poi impotente avesse assistito allo sgretolamento della sua volontà. Non vi era dubbio che la sua reazione era stata normalissima.

 

Normalissima un corno! Non c’era niente di normale in tutta quella storia!

 

Spalancò con rabbia la finestra, sperando che la frescura della notte le schiarisse un pochino le idee.

 

La verità era che non aveva saputo né voluto respingere Tom. Le sue labbra l’avevano imprigionata, plasmandola pian piano anche contro il suo volere e lei aveva ceduto in fretta, troppo in fretta.

 

E poi l’aveva allontanata all’improvviso, lasciandola confusa e disorientata, l’aveva fissata in quel modo irreale con cui la scrutava spesso, quel misto di rabbia, risentimento, stupore e…che cosa?

 

Che cosa aveva fatto per meritarsi il rancore di Tom? Il fatto che fosse una donna era un peccato così grave da squalificarla ai suoi occhi? Gli aveva dimostrato di poterlo difendere in tribunale, di conoscere il suo mestiere molto meglio di tanti colleghi maschi più anziani, gli aveva dato ripetute prove della sua professionalità impeccabile. E sino a quella sera era andato tutto per il meglio. Sino a quella sera, appunto.

 

Forse aveva solo voluto metterla alla prova e constatare se la sua professionalità fosse veramente al di sopra di tutto, se si meritasse sino in fondo la stima e la fama di cui godeva o se derivavano solo da relazioni fortunate ed interessate. Se quella era realmente la sua intenzione, lei di certo non gli aveva dato una dimostrazione schiacciante della sua integrità morale, anzi il suo momentaneo abbandono tra le sue braccia, l’aveva definitivamente etichettata ai suoi occhi.

 

D’altro canto, come si permetteva lui di farle dei test? Con che diritto avanzava certe accuse e poi si comportava da uomo delle caverne?

 

Idiota! Come aveva potuto baciare un cliente!?!

 

Anni ed anni di ferrea condotta non le avevano dunque insegnato niente? Un attimo le era bastato per scardinare il punto fermo della sua professione.

 

Era indegna. Prima solo come donna, ora pure come avvocato.

 

Almeno prima aveva potuto colmare i suoi vuoti con le soddisfazioni professionali, ora le era stato negato anche quello. Che ne sarebbe stato di lei?

 

Era una nullità, una completa, totale nullità.

 

Non tentò neppure di frenare il singhiozzo che le era salito in gola, già tante volte si era negata la consolazione del pianto, ora non ce la faceva più -Oh Josh amore mio, come farà la tua mamma a proteggerti se non è in grado di proteggere se stessa?- sussurrò accasciandosi al suolo lasciando che le lacrime scendessero copiose.

 

Andree spense infastidita la sveglia che trillava insistentemente. Si girò nel letto faticando ad aprire le palpebre più gonfie del solito a causa dello sfogo di quella notte. Aveva pianto a lungo, finché esausta, si era infilata sotto le coperte, sprofondando in un sonno profondo e senza sogni.

 

La luce del giorno  che filtrava attraverso le tende dimenticate aperte, l’aiutò a riacquistare un po’ di serenità. Ora la situazione non le sembrava così drammatica e si vergognava del suo cedimento ingiustificato. Ma in fondo non l’aveva vista nessuno e un compromesso con se stessa lo avrebbe pur trovato. La sua coscienza non le poteva rinfacciare a lungo un attimo di smarrimento, se solo ci provava avrebbe saputo ben lei come metterla a tacere. Dopotutto anni ed anni di maniacale autocontrollo non potevano essere finiti nello scarico del cesso per un paio di baci rubati. E che diamine!

 

Recuperò con gesto rabbioso la vestaglia ai piedi del letto e ne strinse la cintura attorno ai fianchi.

 

Sollevò orgogliosa il capo fissando attenta un punto imprecisato del muro di fronte a lei. Dopo il tradimento di Pierre nulla l’aveva fatta sentire così fallita. Neppure le pungenti accuse di sua madre l’avevano mai toccata più di tanto. Possibile che un Tom Becker qualsiasi, spuntato dal nulla, avesse un tale devastante potere su di lei? Ma neanche per sogno. Lo avrebbe sistemato a dovere. In men che non si dica lo avrebbe ricollocato al suo posto. E qualcosa le diceva che quel posto non gli sarebbe piaciuto poi tanto, ma d’altronde poteva anche pensarci prima.

 

Innanzitutto doveva cercarsi un altro legale. Che la citasse pure per interruzione ingiustificata di contratto, che spiegasse al mondo intero i termini del loro contratto, che ammettesse la sua colpa davanti al mondo.

 

Camminò nervosamente su e giù per la stanza passandosi le mani gelide tra i capelli arruffati.

 

Aveva un bel blaterare Noam con le sue idee strampalate su analisi falsate e valori impossibili! Che lo dimostrassero, si sarebbe proprio divertita a vederli finire nel fango, tutti quanti, Noam per primo! Lui e le sue splendide idee di avvicinarsi con umanità ai suoi clienti. Bell’idea davvero. E con che risultati sorprendenti poi!

 

Aveva proprio una gran voglia di dire al suo grande amico che i suoi splendidi consigli avevano fatto sì che uno dei suoi quattro protetti si sentisse autorizzato a ficcarle la lingua in gola!

 

Chissà che faccia avrebbe fatto il bel dottorino. Incrociò le braccia la petto sbirciando di sottecchi il telefono accanto alla sveglia. Con una telefonata si sarebbe persa  l’espressione di Noam ma poco male, conosceva abbastanza il medico per poter immaginare la sua espressione, perennemente scanzonata, diventare improvvisamente sorpresa e poi, chissà, magari anche colpevole!

 

Come minimo doveva sprofondare nei sensi di colpa, pensava furiosa mentre componeva il numero dell’ospedale -Pronto sono l’avvocato Takigawa vorrei parlare urgentemente col dottor Lee- disse tentando di non sembrare troppo sbrigativa con l’innocente infermiera che le aveva risposto al terzo squillo.

-Mi spiace avvocato, il dottore è in sala operatoria-

-Quando si libererà?-

-Stasera forse…c’è stato un grave incidente sulla statale, due autobus coinvolti ed un centinaio di feriti, alcuni gravissimi, stanno continuando ad arrivare ambulanze e barelle…-

-Mi spiace- replicò Andree ammutolendo confusa. Come era stata sciocca, al mondo c’era gente che moriva e lei si disperava perché un suo cliente l’aveva baciata. Com’era stupida. Ed inutile.

-Avvocato lascerò un messaggio al dottor Lee vedrà che non appena…-

-No, ripensandoci non era poi così urgente- aggiunse in fretta -Non dica niente al dottore della mia telefonata-

-Come vuole arrivederci-

 

Riagganciò rimanendo immobile a fissare il telefono. Dei rumori provenienti dalla cucina la riscossero, facendola voltare di scatto. Josh doveva essersi già svegliato, strano in genere preferiva dormire sino a tardi.

 

-Oh mio dio ma io sto impazzendo- urlò spaventata dopo aver lanciato un’occhiata obliqua alla sveglia e resasi conto che erano le due del pomeriggio.

 

Non le era mai successo di dormire sino a quell’ora improponibile. Uscì di corsa dalla stanza e si bloccò sulla soglia della cucina ad osservare a bocca aperta suo figlio che mordicchiava un panino al salame, tranquillamente appollaiato su una sedia con uno dei suoi fumetti appoggiato sulle ginocchia.

 

-Josh perché non mi hai svegliata?- disse sentendosi terribilmente in colpa.

-Ciao mamma. Dormivi beata e io mi sono arrangiato…- rispose fieramente il bambino sollevando in aria il panino malconcio in cui aveva infilato in modo assai discutibile due fette di salame.

 

 -Eh vedo…ma non è meglio se preparo una zuppa di verdure? O preferisci un piatto di noodles?- chiese avvicinandosi ai fornelli e recuperando il suo grembiule da cucina.

-Noodles facciamo prima…tra mezz’ora arrivano Julian e Jeremy-

 

La donna deglutì un paio di volte prima di trovare il coraggio di accertarsi di aver capito bene-Scusa?-

-Mamma avevi detto a Julian che oggi saremmo andati al parco, ha chiamato stamattina e io gli ho detto di passare alle due e mezza- disse allegro il bambino.

-Ma…io non sto molto bene….- blaterò la donna in cerca di una rapida scusa.

-Cos’hai mammina?- chiese premuroso Josh abbandonando il suo panino sul tavolo e avvicinandosi con espressione sollecita.

 

-Non …. Cioè…. niente di grave solo che….mi ero dimenticata in realtà…forse sono ancora in tempo per disdire…- balbettò vergognandosi della sua codardia ed incapace di reggere oltre lo sguardo allarmato del figlio.

-Perché non vuoi più andare?- chiese Josh guardandola mesto.

-Ecco io…-

 

Come poteva deluderlo in quel modo? Ci teneva tanto ad andare al parco col suo nuovo amichetto del cuore, che senso aveva punire suo figlio per una sciocchezza che aveva acquistato valore solo nella sua testa?

 

-Va bene tesoro. Facciamoci da mangiare e poi prepariamoci- capitolò infine rincuorata dalle urla entusiaste del bambino che cominciò a saltellare festoso in giro per la casa mentre lei si affrettava  preparare qualcosa di commestibile.

 

Alle due e trenta in punto Andree accolse Julian e Jeremy. Per la giornata di svago il ragazzo aveva optato per un paio di comodi jeans ed una felpa con cappuccio di un caldo color beige a righe che ne risaltava particolarmente il fisico atletico.

 

-Come stai?- chiese Julian preoccupato scrutando il volto tirato della donna e le borse sotto gli occhi –Mi sembri stanca-

-No sto bene, solo che stanotte non ho dormito molto bene- replicò con un tono che invitava il ragazzo a  non indagare oltre.

-Capisco…beh una passeggiata tranquilla ti rilasserà vedrai- rispose gaio prendendo la palla che Josh gli porgeva - Portiamo anche il pallone?- chiese incuriosito rivolto al bambino.

-Sì, così mi insegnerai qualche tiro ad effetto- rispose eccitato il bimbo.

-Ma guarda questo qui e io che credevo di passare un pomeriggio in totale relax con la tua mamma…voi mi volete incastrare…- rise Julian, minacciandoli scherzosamente con l’indice e continuando a scherzare con i bambini mentre Andree si assicurava che la porta blindata fosse ben chiusa.

 

Il tragitto per il parco centrale fu breve e piacevole. La giornata era tiepida. Nell’aria si percepiva già il sapore dell’inverno che avanzava, ma al contempo vi era un tepore che testimoniava come la bella stagione non fosse affatto intenzionata ad abbandonare del tutto il campo.

 

Andree ammirò estasiata i lunghi viali costeggiati di ciliegi purtroppo destinati a rimanere spogli ancora per molti mesi. Il giallo oro delle foglie brillava al sole, ma ad ogni alito di vento qualche fogliolina abbandonava la sua presa dal ramo e svolazzava nell’aria adagiandosi dove capitava sul ciottolato dei vialetti.

 

-Dev’essere magnifico qui in primavera- constatò la donna pensando al rosa dei fiori di ciliegio.

-Sì ma anche l’autunno ha il suo fascino anche se hai ragione, la primavera è un’altra storia. Spero tu rimanga abbastanza a lungo per poter vedere i ciliegi in fiore- buttò lì Julian attendendo col fiato sospeso la risposta di Andree.

-Credo proprio di sì. Non ho intenzione di lasciare il Giappone dopo questo caso, ho chiesto il trasferimento definitivo alla sede di Tokyo, mi piace questo paese e Tokyo è una città ricca di occasioni importanti per la mia professione-

-Ma è magnifico- si lasciò sfuggire Julian incapace di nascondere la sua felicità.

Andree lo guardò curiosa attendendo che lui proseguisse.

-Cioè voglio dire- aggiunse Julian lievemente imbarazzato per essersi scoperto così ingenuamente, in fondo le aveva promesso di rallentare, anche se non aveva ben capito che volesse dire  -Josh e Jeremy hanno legato molto sarebbe un peccato dividerli…-

-Già- constatò Andree osservando beata i due bimbi che li precedevano di qualche metro, rincorrendo la palla e passandosela da un lato all’altro del viale.

 

Camminarono lungo un percorso di viali intrecciati costeggiati da elaborate fontanelle, chiacchierando allegramente di svariati argomenti.

 

-Sei stato molto coraggioso ad accettare di sottoporti ad un intervento in via sperimentale- constatò Andree  approfittando di un accenno fugace di Julian alla sua lunga convalescenza per riprendere l’argomento che avevano lasciato in sospeso la sera precedente e che a lei stava particolarmente a cuore. L’affascinava quell’aspetto della vita del ragazzo, forse era lo sconcertante contrasto tra una così grave malattia  e l’immagine dell’atleta in piena salute che aveva ora di fronte a stuzzicare il suo interesse, o forse perché quando Julian parlava di quel periodo così buio della sua vita, perdeva quell’aria da incosciente belloccio, mostrando lati molto più coinvolgenti del suo carattere.

 

-No non era coraggio, era la consapevolezza di non aver nulla da perdere-

-Potevi morire sotto i ferri, avevi tutto da perdere…- valutò Andree incredula, guardandolo con ammirazione mentre si accomodava su una panchina ai piedi di un enorme ciliegio secolare, posto su una piccola collinetta artificiale.

 

-Sarei morto lo stesso … rinunciare al calcio per sempre sarebbe stato come morire-  replicò il ragazzo accomodandosi accanto a lei –Come vedi la scelta non era affatto difficile!-

 

Andree rifletté per qualche istante fissando pensosa il piccolo spiazzo dove Josh e Jeremy giocavano rincorrendosi.

 

 –Il calcio vale più della tua vita?- chiese infine scrutandolo seria.

-Il calcio e la mia vita sono inscindibili…se mi manca uno l’altro perde di valore-

-Non ti capisco, non puoi barattare un’intera vita con uno stupido sport, vi è dell’altro al mondo, molto altro-

-Sì lo so, non fraintendermi non è che il calcio sia l’unica cosa presente nella mia vita, ma se non ci fosse, tutto il resto perderebbe di valore. Vedi non sono un santo, cerco di godermi tutti i piaceri della vita, gli agi, il lusso, le auto potenti, le uscite con gli amici…le belle donne … ma tutto questo non mi fa dimenticare il pallone. Invece quando entro in campo tutto il resto svanisce nel nulla. E per fortuna è così, altrimenti non avrei mai potuto superare la mia malattia e conoscere Holly, Tom, Benji, Mark….-

-Sono i tuoi migliori amici vero?-

-Sì e spero che presto si risolva tutto, dobbiamo tornare in campo a testa alta, liberi da quelle infamanti accuse senza senso, ancora non mi capacito di come sia potuto accadere, tu cosa ne pensi? Lunedì riuscirai a dimostrare la loro innocenza?-

-Non lo so che cosa accadrà, io farò del mio meglio ma lo sai che non posso parlare di questo…-

-Oh sì certo, scusa non volevo fare il ficcanaso e poi sono certo che li scagionerai, mi hanno raccontato cose fantastiche sul tuo conto…sei un avvocato eccezionale-

-Grazie- rispose Andree con sincera gratitudine. E pensare che quella notte si era definita un fiasco come avvocato e voleva invitare Tom a trovarsi un altro avvocato…

 

-E non solo- proseguì il ragazzo continuando a fissarla con intensità -Sei una donna stupenda e una madre meravigliosa. Hai cresciuto un bambino splendido da sola, non gli fai mancare nulla e al contempo sei una professionista impegnata ed apprezzata-

-Non è stato facile- ammise d’impulso senza pensare .

-Lo immagino. Hai fatto sempre tutto da sola?- 

Andree si irrigidì mettendosi sulla difensiva -In che senso?-

-Voglio dire, il padre di Josh non ti ha mai aiutata neppure quando il bimbo era piccolo?-

-No- fu la laconica risposta della donna che abbassò il capo cercando di nascondere la propria agitazione.

-Beh non sa cosa si è perso, è un bimbo veramente meraviglioso, certa gente non ha cervello e neppure un cuore- affermò sicuro il ragazzo appoggiando entrambi i gomiti sullo schienale della panchina e sollevando il mento offrendo il volto alla leggera brezza autunnale.

 

Andree rielaborò con lentezza le ultime parole del ragazzo….non ha cervello e neppure cuore… come poteva dirlo? C’era un uomo da qualche parte del mondo che aveva un figlio e non lo sapeva neppure. Poteva essere la persona più intelligente dell’universo ed avere un cuore immenso, ma suo figlio non lo avrebbe mai scoperto. Lei con la sua leggerezza aveva negato per sempre a Josh un padre e la possibilità di sapere che cosa ne sarebbe stato di loro se quella notte non fosse fuggita.

 

Se fosse rimasta su quel divano, tra le braccia di quel giovane profondamente addormentato che la stringeva a sé dopo essersi sfogato su di lei con irruenza, che sarebbe accaduto? Se la mattina quel ragazzo si fosse svegliato e l’avesse trovata ancora lì? Si sarebbe divertito un altro po’ e poi l’avrebbe cacciata? Probabile. D’altronde che poteva farsene di una che credeva una puttana? Di una che lo aveva rimorchiato in un bar,  che si era lasciata condurre a casa sua e che si era presentata nel cuore della notte nuda e disponibile ai suoi piedi?

 

Quegli occhi intensi come l’avrebbero vista? Che sentimento avrebbe animato quelle iridi scure se si fossero posate su di lei dopo quella notte folle?

 

Iridi scure?!?!?!

 

Andree scattò in piedi portandosi entrambe le mani alla bocca e premendole forte come se volesse bloccare un conato di vomito, in effetti un’intensa nausea le stava facendo contrarre lo stomaco ma la consapevolezza di ciò che aveva ricordato le impediva di concentrarsi su qualsiasi altra azione che non fosse la memoria.

 

-Andree che succede? Stai male?- chiese Julian preoccupato scattando in piedi a sua volta  -Ho detto qualcosa che non va?-

 

-Sssh- gli ordinò Andree. La voce del ragazzo la distraeva, la riportava alla realtà mentre lei per la prima volta era entrata in quella stanza di Parigi di sette anni prima….un divano chiaro…occhi scuri ma non troppo….un salotto trasandato…una coperta di lana a losanghe…

 

-Andree, Andree mi stai spaventando!- urlò quasi il ragazzo allibito davanti al pallore spettrale della donna.

 

-Taci taci maledizione, la tua voce cancella il ricordo…il ricordo di ciò che credevo perduto per sempre…invece non lo é…-

 

Julian l’afferrò  per le spalle e la scosse con decisione -Ora basta, io chiamo un’ambulanza-

 

-No- protestò affranta Andree sia come risposta al proposito di Julian di chiamare soccorso sia alla frustrazione per il suo ricordo che sfumava nel nulla, la solita densa nebbia era infatti scesa, riavvolgendo il tutto nell’oblio più cupo.

 

-Cos’hai? Stai meglio? Che ti è successo?- chiese sollecito il ragazzo trascinandola di nuovo sulla panchina  e facendola sedere adagio.

 

-Tutto a posto, non ti preoccupare solo che…per un attimo sono rientrata in quella casa e…- esitò un attimo traendo un profondo respiro poi tutto d’un fiato ammise ciò che aveva sempre creduto impossibile -… ho intravisto il volto del padre di mio figlio-

-Cosa?!!?Cosa vuoi dire?-

 

Che stava dicendo? Zitta. Solo Noam sapeva la verità sulle circostanze della nascita di Josh. Nessun’altro doveva sapere. Ma Noam non era lì con lei in quel momento e per quanto avesse raccontato all’amico di quei momenti, mai prima di allora, aveva avuto un flashback così vivido.

 

-É la prima volta che mi succede…prima d’ora io non avevo mai saputo come fosse fatto il padre di Josh- ripeté incapace di tenere a bada il bisogno di confidare ad un altro essere umano il tormento di quel ricordo.

Julian la fissò incredulo, continuando a trattenerla per le spalle -Ma com’è possibile?-

-L’ho conosciuto per caso una notte a Parigi…siamo finiti  a letto ma io ero…diciamo non ero in me e non ricordo assolutamente nulla di ciò che é accaduto…nulla sino a qualche istante fa…-

Julian rafforzò inconsapevolmente la presa sulle spalle della donna -Eri ubriaca? – chiese incerto

-Più o meno- rispose lei accennando un sorriso d’imbarazzo.

-Mascalzone! Ma allora si è approfittato di una ragazzina!- scattò il calciatore che non trovava niente di più rivoltante di approfittare di una donna, soprattutto se quella donna era Andree.

 

-Infame, vile bastardo e poi ….poi Andree che è successo?- chiese d’impulso, risedendosi accanto ad Andree e afferrandole una mano mollemente abbandonata sulla panca. La strinse tra le sue e constatò senza sorpresa che era ghiacciata nonostante il tepore della giornata. La sfregò con delicatezza tra le sue, contento che lei non si ritraesse a quel contatto innocente. Julian sapeva che per lei quel tocco non era altro che un amichevole gesto di conforto, ma per lui invece significava molto di più.  Non voleva illudersi, sapeva che la donna aveva posto un freno ai suoi sentimenti, se mai ne provasse nei suoi confronti, dal canto suo però non riusciva ad evitare di sentirsi incredibilmente coinvolto. Non aveva mai scorto tanta forza mista a fragilità in un unico essere. Sentiva di poterla amare, se lei glielo avesse permesso. In fondo si conoscevano da pochi giorni, anche se gli sembrava di conoscerla da sempre, e tutto poteva ancora accadere.

 

Julian attendeva col fiato sospeso la risposta alla sua domanda anche se non era poi certo che lei avrebbe risposto. Gli aveva confidato degli aspetti estremamente intimi della sua vita in un attimo di confusione e ora, dal modo in cui lo guardava, comprese che Andree si stava pentendo della sua debolezza. Avrebbe potuto lasciare cadere tutto nel nulla, ma sarebbe stato veramente troppo far finta di non aver sentito niente, e lui sperava che il loro rapporto si sviluppasse in ben altre direzioni e non certo che si arenasse in un mare di ipocrisia e di frasi non dette.

 

-Andree parlarne forse ti farà ben…-

 

Il suono secco di un ramo spezzato fece voltare di scatto il ragazzo e sussultare la donna che stava strenuamente lottando per riprendere il controllo di se stessa.

 

-Scusate l’interruzione…non volevamo essere indiscreti…- borbottò Benji incapace di staccare gli occhi dalla figura sottile dell’ avvocato. Per la prima volta quella donna non gli incuteva soggezione, anzi gli appariva fragile e bisognosa di protezione, estremamente femminile nell’evidente imbarazzo che le imporporava le gote delicate. Gli occhi grigi avevano definitivamente deposto il velo di freddezza che li offuscava, rivelandone tutto il meraviglioso splendore. Benji ammirò incantato la profondità di quello sguardo finalmente umano.

 

-Da quanto tempo siete qua dietro?- chiese Julian adirato incapace di nascondere il proprio disappunto.

 

-Ehi Ross attento a quello che dici. Il parco è luogo pubblico e si da il caso che noi passavamo di qui per caso- lo aggredì Mark per niente intenzionato a farsi accusare di essere uno spione.

 

Era vero che l’incontro era stato del tutto fortuito. Quel pomeriggio Benji lo aveva “invitato” ad una corsa al parco. Benji era l’unico a sapere dei problemi personali di Mark. Sapeva benissimo che se non lo avesse obbligato ad uscire, il cannoniere avrebbe passato la domenica chiuso in casa a crucciarsi davanti al telefono nella speranza che Maki si decidesse a chiamarlo. Lui e Maki non stavano assieme, si erano conosciuti al tempo del liceo ed erano rimasti sempre ottimi amici. Da qualche tempo però il suo sentimento nei confronti della ragazza era radicalmente cambiato, trasformandosi in un amore tenero e profondo. Cosa che lo aveva riempito di disgusto. Lui che criticava tanto tutte quelle inutili sdolcinatezze, si era trovato più cotto di una pera matura. E ora che lei stava disputando degli incontri di softball in Europa, attendeva con impazienza le chiamate della ragazza per ragguagliarlo sulle sue vittorie. Non erano molto frequenti per la verità, e in genere piuttosto freddine. Lui non aveva la più pallida idea di come confessare Maki i suoi sentimenti  e l’incertezza lo rendeva oltremodo impacciato, accentuando il suo carattere burbero e sbrigativo. Quel giorno era appunto depresso e frustrato davanti al televisore in attesa di una chiamata della ragazza ed intento a sgolarsi una lattina di pessima birra. Benji aveva suonato al suo campanello e con il suo solito atteggiamento strafottente da macho supremo, lo aveva praticamente costretto ad indossare la tuta e a seguirlo nel parco per una corsa ritemprante. 

 

Non correvano neppure da dieci minuti, quando si erano imbattuti nella Golden Combi che trottava a passo strascicato su per il vialetto che portava alla collinetta maggiore nella parte meridionale del piccolo lago artificiale che dominava il grande parco cittadino.

 

Unirsi ai compagni di squadra fu del tutto naturale e quindi avevano proseguito tutti insieme continuando a chiacchierare allegramente per quanto possibile. In realtà la conversazione era monopolizzata da un euforico capitano che aveva finalmente deciso di fare il grande passo e di chiedere a Patty, la sua fidanzata storica, di andare a vivere con lui come ultima prova prima del fatidico sì. Eccitato dall’idea, stava subissando Tom con mille domande ed il centrocampista aveva accolto con evidente sollievo l’arrivo di Mark e Benji, potendo così distribuire equamente sulle spalle di tutti l’entusiasmo prorompente di Holly. 

 

D’altro canto Mark e Benji avevano ben compreso che il comportamento eccessivamente scanzonato del Capitano, era un maldestro tentativo di coinvolgere Tom ed indurlo a confidare finalmente a qualcuno che cosa gli stesse accadendo negli ultimi tempi. Tutti, e Holly per primo, si erano accorti del malumore crescente che tormentava il loro compagno sino  a pochi giorni prima il più solare e spensierato dei componenti della nazionale.

 

Quell’allegra rimpatriata del tutto casuale, poteva rivelarsi un toccasana che avrebbe finalmente indotto Tom  ad aprirsi, Mark a chiedere il sostegno degli amici per riuscire a confidarsi ed aiutato Holly a trovare il modo adatto per fare la sua proposta a Patty.

 

Si erano arrestati all’unisono, guardandosi l’un l’altro allibiti quando avevano percepito una voce che ormai avevano imparato ad intercettare tra mille perché da essa sola dipendeva il loro futuro.

 

 

-…prima d’ora io non avevo mai saputo come fosse fatto il padre di Josh-

-ma com’è possibile?-

-L’ho conosciuto per caso una notte a Parigi…siamo finiti  a letto ma io ero…diciamo non ero in me e non ricordo assolutamente nulla di ciò che é accaduto-

-Eri ubriaca? -

-Più o meno-

-Mascalzone! Ma allora si è approfittato di una ragazzina! Infame vile bastardo  e poi… poi che è successo?-

 

Poche parole disperse dal vento, ma talmente opprimenti da pesare più di macigni sulla coscienza di qualunque essere umano.

 

Quattro paia d’occhi la fissarono sconcertati ed Andree, per una volta in loro presenza, dovette abbassare lo sguardo. La sua intimità era stata incautamente sbattuta in faccia a coloro che della sua vita non avrebbero dovuto sapere nulla più che lei era un ottimo avvocato. Di umanità aveva parlato Noam? Che umanità vi era in quella situazione assurda e quanto mai grottesca? Con quale dignità poteva affrontare il giudizio di chi ora sapeva che lei aveva scopato col primo sconosciuto capitato a tiro facendosi mettere incinta?

 

Non poteva fissare la terra ai suoi piedi all’infinito però. Doveva reagire assolutamente, sollevare il capo ed affrontare la situazione per quanto imbarazzante essa fosse.

 

Fu Benji, dimostrando un’insospettabile sensibilità, a sciogliere la tensione - Siamo appena arrivati non abbiamo sentito assolutamente nulla…di che parlavate?- mentì con incredibile faccia tosta –Ah se c’è di mezzo il nostro Julian, senza dubbio le stava facendo una sdolcinata e quanto mai noiosa dichiarazione, avvocato. Ma non si faccia raggirare da questo bell’imbusto, ci prova con tutte!-

-Idiota- sbottò Julian traendo un sospiro di sollievo.

-E dai Principino, non dirmi che ti abbiamo rotto le uova nel paniere…- lo canzonò Mark dandogli una potente manata sulla spalla e comprendendo al volo l’intenzione di Benji di sviare definitivamente l’attenzione dalla donna che appariva bianca e tesa più che mai. Sperava solo che il loro imperturbabile avvocato non finisse disteso a terra come una donnina qualsiasi, proprio non se la immaginava svenire sopraffatta dai suoi sentimenti.

 

Certo che se avevano sentito bene, la situazione era quanto mai delicata. Violentata? Possibile?

 

-Andate al diavolo tutti e quattro! Ma non stavate correndo? Ecco riprendete il vostro giro…- brontolò Julian spazzando l’aria davanti a sé nella speranza di allontanarli.

 

-E quanta fretta….Andiamo ….andiamo- rise Mark voltandosi e accingendosi a riprendere la corsa.

 

-Mammaaaaaaaaaaaaaaaaaaa-

 

L’urlo terrorizzato di Josh attraversò l’aria immobilizzando i cinque uomini e facendo sbiancare Andree. In preda al panico la donna volse lo sguardo ai piedi della collina in direzione dello spiazzo dove sino ad un istante prima Josh e Jeremy giocavano tranquillamente. Come nei peggiori degli incubi, mise  a fuoco la sagoma nera di un grosso cane  a pochi passi dal figlio, appiattito contro un basso muretto che delimitava una piccola zona recintata. Jeremy correva verso di loro piangendo –Aiuto Julian!- urlava il bambino singhiozzando.

 

-Josh…- mormorò la donna fiondandosi  a razzo giù dal pendio rischiando di spezzarsi il collo.

 

I quattro giocatori si affrettarono a seguirla mentre Julian prima di scattare anch’egli si piegò verso il fratellino- Stai qui  e non ti muovere intesi?- attese un cenno di assenso del bimbo prima di correre anch’egli verso il campo dove un enorme pit-bull sembrava avere tutta l’intenzione di sbranarsi il piccolo Josh.

 

Andree si sbilanciò in avanti rassegnata a terminare gli ultimi metri che la separavano dal figlio a ruzzoloni quando sentì una presa salda attorno al polso e qualcuno trattenerla tirandola all’indietro ed evitandole la caduta.

 

Angosciata si accorse di essere imprigionata contro il corpo massiccio del portiere che la teneva stretta contro di sé.

 

-Lasciami Benji…lasciamiiiii!- urlò tempestandolo di pugni e calci.

-Stai ferma e fidati di noi- le disse il ragazzo stringendola ancora più forte.

 

La donna si voltò angosciata e la scena che vide le passò davanti con estrema lentezza come una pessima moviola.

 

Individuò ogni singolo muscolo del grosso cane che scattava come una molla proiettandosi verso suo figlio, vide i denti bianchissima dell’animale affondare nel cotone misto  a lana della tuta gialla del figlio, vide il sangue rosso di Josh schizzare verso l’alto, sentì il sapore del sangue di Josh in bocca, quel sangue che conosceva bene perché ogni madre sa d’istinto che sapore ha il sangue del proprio figlio. Ed era proprio quel sapore ferroso e denso l’unica sensazione che le sembrava reale mentre inorridita osservava il corpo del figlio scaraventato a terra e sormontato dalla mole voluminosa del cane.

 

Paralizzata dal dolore, con la mente annebbiata dal colore rosso del sangue che si spargeva ovunque, registrò appena la sfera bianca che prendeva il pit-bull su un fianco con una violenza tale da farlo sbilanciare di lato ed abbandonare la presa dalla gamba del bambino.

 

In un attimo Tom si frappose tra il cane e Josh facendo scudo al bambino con il suo corpo mentre Mark, Holly e Julian accerchiavano il cane urlando frasi sconnesse nella speranza di spaventarlo.

 

Percepì a fatica le parole di Benji  “….un’ambulanza …sì al parco vicino al lago con la massima urgenza” urlate al cellulare.

 

Si lasciò trascinare come un pupazzo svuotato verso il bordo dello spiazzo dove Josh giaceva in una pozza di sangue gemendo appena.

 

-Drago che hai combinato! A cuccia!- urlò un uomo di mezz’età dai capelli rasati e i bicipiti pompati appena celati dalla felpa leggera -Che hai fatto stupida bestia!- imprecò tirando un pugno sulla testa del cane che guaì miseramente.

 

-I pugni in testa e non solo se li meriterebbe lei non il cane- urlò Tom fuori di sé –Preghi il signore che questo bimbo si salvi altrimenti la sbranerò io facendo bene attenzione a farle molto male- continuò in preda all’ira tentando di scaraventarsi contro l’uomo e ottenendo come risposta un ringhio feroce del cane.

 

-Calma Tom risolveremo la questione  a tempo debito…ora dobbiamo pensare  a Josh- tentò di tranquillizzarlo Holly anche se pure sul suo volto c’era una collera cieca che chiedeva vendetta.

 

-Oh Josh!- singhiozzò Andree accucciandosi accanto il figlio  e utilizzando la sua giacca di lino per fermare l’emorragia sulla gamba destra del figlio.

 

 

-Stringi forte- le suggerì Julian affiancandosi a lei e constatando preoccupato l’enorme quantità di sangue che il bambino stava perdendo.

.

-L’ambulanza- disse Benji sollevato, sentendo le sirene che si avvicinavano a gran velocità mentre in fondo al viale un grande polverone preannunciava l’arrivo dei soccorsi.

 

Non appena gli infermieri del pronto intervento caricarono Josh su una barella attaccandolo immediatamente ad una flebo e alla bombola d’ossigeno, i ragazzi si affrettarono a sospingere Andree all’interno dell’ambulanza sollevandola quasi di peso. La donna era talmente frastornata che le gambe non la reggevano più.

 

Poi, stupendo tutti, si raddrizzò ed un impeto di rabbia guizzò nei suoi occhi spiritati – Si cerchi un buon avvocato, perché ho intenzione di farla marcire in galera- annunciò trapassando il proprietario del grosso pit-bull con una violenza tale che da farlo arretrare spaventato.

 

-Non è il momento ora. Ci vediamo in ospedale- le sussurrò Tom stringendole forte la mano ricoperta dal sangue ancora gocciolante di Josh.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


CAPITOLO XIII.

 

e ci batte forte il cuore

Anche per lo stupore

Di non sapere l’orizzonte

Che colore ha…

(Mistero, E.Ruggeri)

 

Andree seguiva con espressione assente il via vai confuso degli infermieri lungo l’asettico corridoio del reparto di chirurgia d’emergenza. I suoni l’avvolgevano ovattati, i colori le giungevano sfocati, il nauseante odore del disinfettante le bruciava la gola e gli occhi, ma solo una sensazione risaltava su tutte: l’insopportabile peso del sangue ormai raffermo di Josh che le ricopriva ancora le mani, le braccia e buona parte del completo di lino.

 

Sapeva vagamente che attorno a lei vi erano Julian, Mark, Benji, Holly e Tom, che si muovevano silenziosi e discreti, alternandosi al suo fianco sulle scomode sedie della sala d’attesa, sussurrandole di tanto in tanto delle frasi del tutto inutili che le scivolavano addosso senza darle alcun conforto.

 

Attendeva solo una frase e solo quella era disposta ad udire “Josh è salvo”, solo questo avrebbe compreso, tutto il resto non aveva importanza, tutto i resto non esisteva.

 

Tom le si sedette accanto afferrandole la mano abbandonata in grembo -Andree- la sua voce era bassa e profonda, velata di apprensione e speranza -Vatti a rinfrescare…-

 

Lei lo guardò senza capire –Rinfrescare? Togliermi di dosso il sangue di mio figlio? Mai. È parte di me … non me lo possono portare via-

-Nessuno te lo toglierà. Vedrai, ce la farà- le disse stringendo tra le sue anche l’altra mano imbrattata della donna.

 

Dei passi veloci lungo il corridoio riscossero Andree dal suo torpore che in un attimo si liberò della presa del centrocampista e scattò in piedi. Non appena riconobbe la figura di Noam avanzare sicura verso di lei, la donna ne esaminò ansiosa il volto, cercando di scorgere nell’espressione dell’amico la verità sulla sorte di suo figlio, ma era troppo sconvolta per leggere qualsiasi cosa negli occhi azzurri del medico.

 

-Stai tranquilla Josh è vivo- esordì Noam senza perdere tempo, immaginando lo stato di prostrazione in cui si trovava l’amica.

 

Immediatamente il colore ritornò sulle gote livide di Andree –Oh Noam grazie- mormorò scoppiando a piangere a dirotto.

-Andree aspetta …non è il momento di lasciarsi andare, Josh ha bisogno di te-

-Cosa vuoi dire?- chiese guardandolo allibita smettendo immediatamente di singhiozzare.

-Il morso del cane ha lacerato parte della safena, il bambino ha perso molto sangue, temo un arresto cardiaco … ha bisogno di sangue-

-Dateglielo- disse lei semplicemente non capendo quale fosse il problema.

Noam scosse il capo affranto -Stamattina c’è stato un gravissimo incidente con centinaia di feriti, l’ospedale ha finito le sacche di sangue disponibili, e le nuove arriveranno tra un paio d’ore…Josh non può aspettare tanto. Ha bisogno di una trasfusione subito. È piccolo, un singolo donatore sarà sufficiente, un po’ del tuo sangue ed eviteremo qualsiasi rischio - precisò il medico spiegandole in modo chiaro e conciso la situazione.

 

Andree sbiancò inorridita –Ma io non glielo posso dare-

-Come?!?!- chiese Noam sorpreso.

-Josh non ha il mio gruppo sanguigno, ha preso quello del padre- sussurrò annichilita, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.

-Maledizione! E ora?- imprecò il medico perdendo per un attimo il suo proverbiale self-control - Uhm…potrei dargli il sangue in attesa di autorizzazione ma non è sicuro non è ancora stato sottoposto alle opportune analisi, potrebbe avere di tutto dall’aids all’epatite…- mugugnò Noam grattandosi il mento che quella mattina non aveva fatto in tempo a rasare.

-No!- urlò la donna in preda al panico.

-Però…- il medico rifletteva in fretta facendo vagare lo sguardo sui cinque uomini presenti -… il sangue dei ragazzi è controllato periodicamente a causa della loro attività agonistica. Inoltre sono giorni che non faccio altro che esaminarlo, loro potrebbero donare il sangue a Josh….ovviamente per prassi, non essendo parenti, devo sottoporli all’esame di compatibilità, ma potremmo sbrigarcela in pochi minuti…Josh resisterà ancora qualche minuto…- ragionò ad alta voce parlando più a se stesso che alla donna che lo osservava orripilata –Allora che gruppo ha Josh?-

Andree trattenne il respiro -A + - rispose poi con un sussurro.

-Chi di voi è A positivo o 0 positivo?- chiese Noam con impazienza.

-Io- si fece avanti Holly con un’espressione sollevata in volto che manifestava apertamente la sua felicità di poter in qualche modo aiutare il bambino.

 

Andree gli lanciò un’occhiata d’infinita gratitudine e dovette reprimere l’impulso di prostrarsi ai suoi piedi.

 

-Nessun altro?- insistette Noam che sperava di avere maggiori probabilità di trovare sangue compatibile.

 

-Io- disse Tom con un tono molto diverso da quello di Holly. Sul volto teso del centrocampista capeggiavano molteplici emozioni ma quelle che emergevano più nettamente erano senz’altro dolore e confusione e lo sguardo cupo che rivolse ad Andree non sfuggì a nessuno.

 

Noam non ci fece troppo caso, preoccupato solamente di non perdere altro tempo prezioso -Ok andiamo a fare il test-

 

-Non serve-

 

-Cosa?!?- il medico, che si stava già avviando verso il laboratorio analisi, si bloccò sconcertato. 

 

Noam si volse verso Tom e lo squadrò con evidente fastidio - Tom ti ho detto che il test di compatibilità è indispensabile visto che tu non sei un parente – spiegò Noam facendo ricorso a tutta la sua professionalità per non prendere il ragazzo per i capelli e sbatterlo nel laboratorio analisi -Non perdiamo altro tempo … perdio! Josh…-

 

-È mio figlio- scandì il ragazzo con una calma irreale che contrastava con la stupita tensione che la sua affermazione provocò - O almeno credo…Andree con quanti uomini sei andata a letto il settembre di sette anni fa a Parigi?-

 

Andree sbiancò e sentì le forze venirle meno ma per fortuna la sua coscienza di madre fu più forte di tutto ed ebbe la meglio sulla sua fragilità di donna –Una persona sola…una notte di pioggia….un cameriere conosciuto in un bar…- riuscì a dire a stento.

 

Questo era tutto quello di cui Tom aveva bisogno per concretizzare quello che dentro il suo cuore era già da tempo una certezza -Ok allora Josh è veramente mio figlio- concluse con voce atona come se stesse rivelando il risultato di una semplice operazione matematica –Andiamo dottore-

 

Noam si scansò per far passare il centrocampista che non degnò la donna neppure di uno sguardo, avviandosi a passi veloci lungo il corridoio che portava alla stanza di Josh.

 

Andree non avrebbe mai più saputo dire che cosa le fosse successo in quella mezz’ora necessaria per trasferire il sangue di Tom a Josh, il sangue del padre al figlio. Non ricordava quali pensieri, se pensieri si potevano definire, le avessero attraversato la mente. Non aveva la minima idea di che cosa avessero detto o fatto gli altri quattro ragazzi accanto a lei in quel corridoio.

 

Nulla avrebbe più saputo di quella manciata di minuti, di quello strascico di vita in cui la verità le era rovinata addosso scioccandola. Se non ci fosse stato il pensiero di Josh in bilico tra la vita e la morte, senza ombra di dubbio, la rivelazione di Tom l’avrebbe fatta dapprima ridere a crepapelle, dopo infuriare oltre ogni umana immaginazione ed infine, una volta stabilito che il ragazzo non mentiva, sarebbe forse impazzita schiacciata dall’incredulità e dalla vergogna

 

Dopo poco Noam tornò, sorridendo rassicurante come sempre, la prese per mano e la trascinò con sé sussurrandole dolcemente –Il piccolo vuole la sua mamma- ed il suo cuore aveva ripreso a battere, l’aria a circolare nei suoi polmoni mentre seguiva il medico troppo frastornata per essere in grado di articolare un qualsiasi suono.

 

Aprì con reverenza la porta bianca della stanza dove suo figlio giaceva steso su un enorme letto. La sua sagoma sottile si intravedeva a malapena ricoperto da un semplice lenzuolino inamidato, troppo piccolo, troppo fragile per resistere all’impulso di stringerlo forte tra le sue braccia e frapporsi tra lui ed il mondo intero, di prendere su di sé i colpi della vita per poterli evitare a quella creatura ancora troppo indifesa. Ma represse quell’istinto temendo di fargli male e si avvicinò in punta di piedi osservando preoccupata il volto pallidissimo del bimbo. Registrò con angoscia il braccino inerme, steso lungo il fianco con un vistoso cerotto nella parte interna del gomito. Avrebbe urlato di dolore se in quel momento Josh non avesse spalancato i suoi occhioni dorati guardandola con infinito amore –Mamma…-

-Shhh non ti stancare…la tua mamma è qui- disse lei con la voce rotta di pianto cadendo in ginocchio accanto al letto ed appoggiando una mano sulla fronte tiepida del suo bambino.

-Mamma sei tutta sporca di sangue….il cane ha morso anche te?- chiese Josh preoccupato sollevando il capo dal cuscino.

-No – replicò lei trattenendolo giù –Sono ancora sporca del tuo sangue, io sto bene e tu?-

-Mi fa male dappertutto mamma…soprattutto la gamba…-

-Guarirà presto- replicò sicura.

-Quanto presto? Tra una settimana ho la prima partita contro la sezione D-

-Beh…non so…credo…- Andree tremò da capo a piedi. Oltre il letto del bambino vide una barella sulla quale era disteso Tom nella medesima posizione di suo figlio, anch’egli col braccio disteso lungo il fianco ed un grosso cerotto che faceva bella mostra a metà braccio. La sua immagine era ben più corposa di quella di Josh ed il letto sembrava fin troppo piccolo per la sua stazza imponente eppure inspiegabilmente Andree provò lo stesso medesimo istinto di protezione che aveva provato poco prima per suo figlio. Gli occhi del ragazzo la sondarono preoccupati e non certo animati dallo stesso calore di qulli di Josh ma con piacere Andree notò immediatamente che erano finalmente liberi da quell’alone di diffidenza che li animava ogni volta che si poggiavano su di lei.

 

Oh quante emozioni racchiudevano quelle iridi, sensazioni che ora anche lei poteva comprendere e condividere!

Josh seguì lo sguardo della mamma -Tom! Anche tu qui? Il cane ha morso anche te?- chiese candido osservando il braccio del calciatore.-No- rispose Tom sorridendogli stancamente - Ti ho solo dato un po’ del mio sangue perché tu ne avevi perso tanto-

 

-Il tuo sangue?!!?- ripeté Josh perplesso, poi un ampio sorriso gli illuminò il volto –Uao mamma ho il sangue di Tom! Ora forse giocherò come lui!- affermò ingenuamente il bimbo inconsapevole che le sue parole avevano fatto contrarre sino allo spasmo lo stomaco ad Andree.

 

-Già- bisbigliò la donna, poi voltandosi verso il medico ancora fermo sulla soglia, richiamò la sua attenzione con voce sufficientemente controllata –Noam …?-

 

Non servivano tante parole a loro due per comprendersi, Noam sapeva bene che cosa volesse sapere Andree e si affrettò a rincuorarla –Stai tranquilla, il tuo campione tornerà in campo più forte di prima. Certo non in una settimana ma comunque presto- disse ridendo e attraversando la stanza- Capito Josh? La partita contro la D la salterai ma poi….guai a chi ti avrà come avversario-

 

-Oh no zio! Fammi guarire prima- strillò il bimbo cocciuto.

-Joshua!- lo richiamò all’ordine Andree.

Il bimbo la guardò mortificato e subito si rimise tranquillo- Va bene aspetterò- borbottò.

 

-Andy vatti a lavare. Josh rimarrà qui tutta la notte in osservazione e tu con lui ovviamente, ora mando qualcuno a casa tua a prendere un cambio per entrambi…-

 

-Vado io- si offrì Tom sollevandosi.

 

-Stai bene?- gli chiese Noam notando lo spettrale pallore del centrocampista.

 

-Mi gira un po’ la testa ma vado a mangiare qualcosa così mi passa….se per Andree va bene sono felice di potervi aiutare…-

 

-Ma hai già fatto anche troppo- si lasciò sfuggire la donna.

 

Tom le lanciò un’occhiata obliqua –A quando ti riferisci?- chiese lapidario.

Lei arrossì sino alla radice dei capelli –Io…-

-Scusa- disse lui rabbuiandosi-Mi fa piacere, se per te non è un problema-

 

Andree non replicò limitandosi ad estrarre le chiavi dalla tasca della felpa.

 

Non appena il ragazzo uscì dalla stanza la soffocante cappa di tensione si sciolse in un istante ma con essa scomparve anche quella strana sensazione di completezza che Andree non aveva mai sperimentato prima di allora.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Ciao a tutti. Scusatemi per il mio ennesimo ritardo, ma con l’estate fatico a mantenere la costanza davanti al computer. Volevo rincuorare Luxi dicendole che non ho la minima intenzione di interrompere questa ff…anche perché finalmente, con questo capitolo,  abbandono la mia visione “Andreecentrica” e mi impegno  a lasciare mooolto più spazio agli altri personaggi coinvolti. Grazie per il vostro affetto ed i vostri consigli miratissimi, mi aiutano tantissimo a capire che cosa piace e cosa no del mio stile.

Un bacione a tutte.

Akiko chan

 

 

CAPITOLO XIV. 

 

Tom si richiuse piano la porta alle spalle, appoggiandosi un attimo al pannello per evitare che il capogiro improvviso lo facesse finire a terra. Si portò una mano alla fronte imperlata di minuscole goccioline di sudore ghiacciato, chiudendo gli occhi con forza. Doveva sbrigarsi a trovare il bar dell’ospedale e mettere in corpo qualche zucchero, quel prelievo lo aveva fiaccato. Osservò con la vista ancora appannata il corridoio che portava alla sala d’attesa dove sicuramente i suoi compagni di squadra lo stavano aspettando, attendendo una sua qualche spiegazione. Che gli avrebbero detto?

 

Ma bravo il nostro Tom sotto quella faccetta da bravo bambino nascondevi uno stupratore di ragazzine indifese!

 

Già se lo immaginava il ghigno beffardo di Benji o il disprezzo negli occhi di Julian.

 

-Eri ubriaca?-

-Più o meno-

-Mascalzone! Ma allora si è approfittato di una ragazzina! Infame vile bastardo  e poi… poi che è successo?-

 

-Poi che é successo?!?! Lo vuoi proprio sapere Julian? No non ora, non ho la forza per affrontare nessuno…- mormorò staccandosi stancamente da quell’appoggio provvisorio e  avviandosi nella direzione opposta a quella dove si trovavano i suoi amici. Raggiunse in fretta l’uscita dell’ospedale. Si sentiva già meglio, le forze stavano tornando da sole. D’altronde lo sapeva che non era stato il prelievo a fiaccarlo.

 

Un figlio, un figlio un figlio.

 

Suo figlio. Josh era suo figlio.

 

A sua insaputa una donna aveva permesso al suo seme di fecondarla ed aveva accettato di portare per nove mesi suo figlio in grembo, per sei anni una creatura generata da lui era cresciuta in un angolo di mondo. Suo figlio.

 

-Andree perché mi hai fatto questo?- si chiese altalenandosi tra tristezza e rabbia mentre alzava un braccio per fermare un taxi.

 

Diede velocemente l’indirizzo dell’avvocato al taxista e poi si richiuse in un desolante mutismo, affollato di sentimenti forti e contrapposti.

 

La odiava. Sì era odio quello che provava. Puro e semplice odio. Odio per una ragazzina che lo aveva provocato nonostante le sue proteste, odio per averlo costretto a venir meno ai suoi principi, odio per averlo fatto sentire il più infame dei miserabili. La odiava perché gli aveva fatto odiare se stesso.

 

Tom strinse forte le labbra sino a farle sbiancare, sistemandosi meglio contro lo schienale in tessuto sintetico del taxi che sfrecciava sicuro per le strade affollate, concedendo finalmente alla sua mente di rifare quel doloroso salto nel passato …

 

Si era svegliato stranamente intorpidito e confuso. Il sonno era stato profondo e ristoratore, eppure sentiva una vaga spossatezza avvilupparlo. Una debolezza fatta di appagamento e di pace. Una sensazione nuova per lui. Più o meno nuova per la verità. Quella sensazione di beatitudine ogni tanto riusciva a regalarsela da solo in bagno, spesso sotto la doccia. Ma non era niente in confronto a quel languore permeato di  piacere. Aveva richiuso gli occhi e si era voltato a pancia in giù sperando di recuperare quel sogno fantastico che durante la notte doveva averlo fatto venire in maniera sublime.

 

Aveva cercato il cuscino per ficcarci sotto le mani e non trovandolo si era finalmente deciso ad alzare il capo. Si era guardato intorno confuso rendendosi conto che si trovava nel salotto di casa sua. Con la mente ancora annebbiata dal sonno, aveva osservato il libro aperto sul tappeto, la coperta per metà a terra, il tavolino leggermente spostato di lato…ma mancava qualcosa…

 

La ragazza! Quella incontrata nel bar…come diavolo aveva detto di chiamarsi? Ah sì…

 

-Andree- aveva chiamato forte. La sua voce era rimbalzata sulle pareti del piccolo appartamento che da un mese condivideva con il padre, cioè da solo, visto che suo padre tornava solo qualche fine settimana.

 

-Andree- aveva richiamato saltando giù dal divano e trovandosi disteso come un salame sopra il tavolino, imprecando tra riviste sgualcite e sopramobili finiti a terra. Era inciampato su qualcosa che gli legava le gambe e allibito aveva scrutato i pantaloni del pigiama ed i boxer strettamente attorcigliati attorno ai polpacci scolpiti da anni di attività calcistica. In un lampo tutto gli era tornato in mente provocandogli un’ involontaria erezione.

 

-Ma va fan culo…- aveva sbottato contro il suo corpo sfuggito ancora una volta al suo controllo, rialzandosi imbarazzato e risistemandosi mutande e pantaloni. Si era guardato in giro preoccupato, sperando che la ragazza non avesse assistito a quella scena pietosa. Trasse un profondo sospiro di sollievo quando aveva realizzato di essere completamente solo nel salotto. Quel sollievo però si era presto trasformato in sorpresa  e poi in preoccupazione mentre attraversava una ad una le poche stanze alla ricerca di Andree.

 

Dopo aver controllato anche sul pianerottolo e nella piccola terrazza, si era arreso all’evidenza: se n’era andata.

 

 A quel punto aveva persino dubitato della sua sanità mentale. Forse aveva immaginato tutto, Andree era frutto di un sogno erotico molto reale che lo aveva talmente sconvolto da farlo spogliare nel sonno inconsapevolmente. Poteva essere.

 

Aveva sorriso beato stiracchiando contento le braccia sopra la testa. Sì, era stato tutto un sogno. Uno strano e piacevole sogno. Meglio così, molto meglio. Proprio non gli andava giù l’idea di aver approfittato di una ragazzina incapace di badare  a se stessa.

 

Fischiettando felice si era diretto in bagno e si era concesso una lunghissima doccia seguita da una colazione da manuale. Quella mattina aveva una fame da lupi. Certo che doveva averne combinate di belle in quel sogno…mah…eppure… man mano che la sua mente si svegliava, la situazione gli sembrava sempre più strana…un sogno…ma a  chi voleva darla a bere?

 

Era scattato in piedi rischiando di rovesciare il bicchiere di latte che giaceva sopra il tavolo davanti a lui e come un folle si era precipitato in salotto. Aveva aperto le tapparelle e tirato le tende lasciando che la luce del giorno inondasse la stanza. Con fare guardingo si era avvicinato al divano e lo aveva osservato a lungo incapace di trovare il coraggio di toccarlo.

 

-Sei un cretino- si era detto scuotendo il capo infastidito e iniziando a raccogliere le riviste e i vari oggetti che aveva sparso ovunque con la sua caduta.

 

Mentre risistemava i giornali sul tavolino con la coda dell’occhio aveva scorto la macchia scura che spiccava sul divano chiaro.

 

Aveva deglutito un paio di volte mentre la sua mente realizzava di che cosa si ritrattasse. Altro che sogno! Aveva scopato con una ragazzina innocente! Vergine!?!? Cazzo era vergine e lui ci aveva dato dentro come un indiavolato. Ma che ci faceva una ragazzina vergine in casa di uno sconosciuto adescato in un bar? Che gli era passato per la testa di presentarsi da lui come mamma l’aveva fatta?

 

Inorridito da se stesso e da quello che aveva fatto, aveva girato il cuscino sedendocisi sopra per nascondere alla sua vista la prova della sua violenza.

 

Accidenti si era sentito come uno stupratore anche se non l’aveva veramente violentata. E che diamine era stata lei ad offrirsi!

 

Il taxista tossicchiò un paio di volte per richiamare l’attenzione del suo passeggero. Il ragazzo fissò stupito gli occhietti bovini dell’uomo che gli sorrideva mentre gli porgeva la ricevuta. Tom si guardò frettolosamente attorno rendendosi conto di essere arrivato sotto casa di Andree. Pagò il passaggio e si avviò verso il grande portone  a vetri dello stabile.

 

Per giorni e giorni si era ripetuto che era stata lei la causa del fattaccio, che lo aveva provocato e che lui non aveva potuto far nient’altro che accettare ciò che Andree gli aveva spontaneamente  offerto. Se lo ripeteva ogni istante del giorno mentre telefonava agli ospedali per sapere se era stata ricoverata una ragazza castana di circa quindici anni , carina con gli occhi chiari o mentre freneticamente, ogni mattina come prima attività appena sveglio, scorreva la pagina di cronaca per vedere se era stato ritrovato qualche cadavere di giovane donna. Lo aveva fatto per un mese intero. Un mese di ricerche e di apprensione. Se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Lui l’aveva avvicinata con l’unico intento di aiutarla e non di portarsela a letto.

 

Che vette avevano raggiunto i suoi sensi di colpa? Mai in tutta la sua vita aveva più provato la frustrazione di quei giorni.

 

Ad un certo punto aveva creduto di scoppiare. Il bisogno di confidarsi, di sentirsi dire che non aveva fatto nulla di male, che non era un vile approfittatore, era diventato impellente. Aveva chiamato Holly il suo migliore amico di sempre, ma la telefonata si era conclusa in un ascoltare i commenti entusiastici sull’ultima partita vinta dal San Paulo e lui non se l’era sentita di sviscerare il suo problema tra la descrizione di un nuovo tiro ad effetto e gli aspetti tecnici della difesa brasiliana. Decisamente Holly non avrebbe capito e l’ingenuità del suo capitano su certe questioni, lo avrebbe pure obbligato a scendere in particolari imbarazzanti. Meglio Benji,aveva pensato, lui almeno di certe cose era già esperto all’epoca. Ogni volta che si trovavano non faceva altro che raccontare quali prodezze sapessero fare a letto le ragazze tedesche. Ma con che coraggio avrebbe raccontato a Benji la sua…”avventura”? Quello stupido gli avrebbe spedito via cavo una simbolica manata sulla spalla e si sarebbe complimentato con lui ridendo a crepapelle per i suoi sensi di colpa. No grazie. Non aveva bisogno delle ciniche battute del portiere sul sesso. E a suo padre manco morto avrebbe detto qualcosa. Meglio arrangiarsi.

 

E il tempo intanto passava e con esso molti aspetti di quella notte cominciarono ad assumere sfumature diverse. In fondo anche lui aveva perso la sua innocenza quella notte! E che caspita la cosa valeva per entrambi no? Perciò anche lei doveva assumersi la sua parte di colpa.

 

Per un po’ questo ragionamento lo aveva tranquillizzato e l’opportunità di entrare nella squadra dei giovanissimi del Paris Saint German aveva assorbito parte delle sue energie mentali, distogliendolo da quel chiodo fisso.

 

Pian piano aveva smesso di guardare la cronaca nera, di ascoltare col cuore in gola il notiziario e si era lasciato trascinare da partite di coppa ed allenamenti insieme ai suoi nuovi compagni che non erano niente male.

 

Tom salì nell’ascensore salutando con un cenno distratto l’anziana signora che scendeva dall’abitacolo sorridendogli amichevolmente. In pochi istanti si ritrovò al quarto piano davanti alla porta dell’avvocato. Infilò le chiavi nella toppa facendo fare il doppio scatto alla serratura, il pannello si aprì senza far rumore. Ma invece di entrare il centrocampista rimase immobile sulla soglia stringendo convulsamente la maniglia di ottone nella mano destra.

 

Lì in quel punto preciso l’aveva baciata la sera prima. Che gli era preso? Aveva passato una notte insonne tormentata da ricordi vecchi e nuovi che si accavallavano senza sosta. Era vero che il suo era stato l’impulso di un momento. Ma non solo. Quel bacio era stato il suo modo di punirla e di metterla alla prova. Come poteva non ricordare niente? Da quando, una settimana prima, Andree era riapparsa nella sua vita in tutt’altre vesti, lui aveva perso la pace interiore che aveva faticosamente raggiunto dopo quella notte a Parigi.

 

Lei era entrata nell’ufficio di Marshall sicura e decisa. Niente in quella Andree ricordava la ragazzina disperata di sette anni prima. Nonostante ciò, lui l’aveva riconosciuta subito. Un lampo soltanto di quelle iridi grigie e si era ritrovato catapultato indietro nel tempo.

 

E mentre lei infieriva su Marshall, schiacciando l’uomo con la sua autorità ed arroganza, lui riviveva la sensazione di quel corpo teso e arrendevole sotto il suo che si contraeva nell’attimo in cui la violava.

 

Solo qualche tempo dopo, quando il sesso era entrato a far parte integrante della sua vita, aveva imparato a distinguere le reazioni del corpo femminile. In breve era diventato un buon amante, a detta di molte anche un ottimo amante, attento e premuroso. Si era applicato con scrupolo ed entusiasmo sempre però senza esagerare. Di certo la sua attività sessuale non era paragonabile ai ritmi frenetici di Julian e Benji, ma era comunque di tutto rispetto.

 

La sua esperienza gli aveva fugato qualsiasi dubbio sul fatto che l’urlo di Andree, soffocato con stoicismo contro la sua spalla, non avesse niente a che fare con il piacere. E ripensandoci si era reso conto che lei quella notte doveva aver goduto assai poco e sofferto molto. Ma col tempo era diventato un uomo maturo, un calciatore famoso e sicuro di sé sia fuori che dentro un letto e il ricordo di quella notte gli provocava solo un leggero rimorso di coscienza che si affrettava a scacciare come un pensiero quanto mai molesto.

 

Tutto era andato per il meglio sino a quando quel fantasma tanto faticosamente messo in ombra, si era ripresentato davanti a lui. Una cosa era un ricordo senza consistenza, un altro un essere umano in carne ed ossa.

 

E lo guardava pure. E come lo guardava. Con indifferenza, con freddezza come se tra loro non ci fosse mai stato nulla. Quanta rabbia aveva provato nel constatare che lei non lo aveva neppure riconosciuto? L’avrebbe voluta sbattere a terra e violentarla seduta stante sotto gli occhi allibiti dei suoi compagni e di Marshall, per farle pagare il tormento che gli aveva fatto passare. Lui si era arrovellato cervello e corpo per mesi, se non per anni, altalenandosi tra rimorsi, sensi di colpa, rimpianti e quant’altro e la signora manco si ricordava il suo volto!

 

Tom chiuse la porta con una spinta lasciandola sbattere alle sue spalle. Un tonfo sordo che rimbombò dentro di lui mescolandosi all’eco dei suoi ricordi, creando un vortice fatto di frammenti taglienti e pesanti

 

-Tutto bene, mamoiselle?-

-Non credo siano affari suoi, il mio the-

 

E non lo erano. Perché aveva insistito? Perché non aveva mandato il suo collega  a servirla concentrandosi solo sulla pulizia degli ultimi tavoli come stava facendo prima che lei entrasse?

 

-Mi trovi brutta forse?-

-Co…cosa? No…-

-No-

Sì, …perché non aveva mentito? Mentire a volte era meglio che dire la verità.

 

-Insomma come faccio a portarti a casa se non mi dici dove abiti? Guarda sta diluviando…Hai capito che ho detto? Tra poco saremo bagnati fradici!-

 

Lasciala lì…lasciala lì…

 

-Ehi…va bene…faccio di testa mia-

 

Idiota!

 

-Allora, mio bel salvatore …Prima dicevi di non trovarmi brutta…sei sempre dello stesso parere?-

 

Perché non aveva avuto la forza di reagire? Perché un corpo di donna doveva essere più forte della volontà di un uomo?

 

-Io…cosa…Andree per l’amor di Dio, copriti!-

 

Perché non lo aveva ascoltato? Sarebbe stato meglio per entrambi….

 

-Perché? Ti piaccio di più vestita?-

-Andree se non la smetti…io…non…non…non garantisco delle mie azioni!-

-Non garantire allora…Ma prima dimmi che mi trovi bella-

 

Dea tentatrice anche il ciliegio in fiore sfigura accanto a te…

 

-Sono l’avvocato Takigawa, posso sapere con chi ho....ehm...”l’onore” di parlare?-

 

Lame di acciaio i suoi occhi che lo avevano trafitto con freddezza ed indifferenza. Lui moriva sopraffatto da se stesso e lei neppure se ne accorgeva…

 

-Ma noi non siamo certi di esser suoi clienti...avvocato-

-Che intende dire signor....-

-Perchè dovrei dirle il mio nome? Magari é una giornalista che si é intrufolata qui sotto mentite spoglie-

 

Voleva ferirla, si era sentito come un leone colpito a morte e quindi disposto a tutto prima di soccombere, l’avrebbe sbranata se solo avesse potuto…

 

-E che altro è disposta a fare per onorare la sua parcella, avvocato Takigawa?-

 

Quanti uomini aveva sedotto come aveva fatto con lui? Non lo sorprendeva che fosse famosa in tutto il mondo, sapeva che le sue doti di persuasione erano più che convincenti…

 

- Ragazzi…State tranquilli tra poco sarà tutto sistemato, avete la mia parola-

 

L’aula di tribunale era il suo regno, si vedeva da come si muoveva, sicura ed altera, quasi regale, mentre lui ed i suoi compagni vagavano impacciati. E quindi il destino aveva deciso di darle una rivincita. Ora lui piangeva accasciato su una panca di legno di tribunale mentre attendeva impotente di assistere alla sua carriera fatta a brandelli e lei dominava su tutti con in mano il potere di decidere se lasciarlo soccombere o aiutarlo…Lo aveva aiutato. Lei aveva avuto la forza e la capacità di tirarlo fuori dal fango e lui  invece…non la meritava…lei voleva essere protetta e invece l’aveva meschinamente usata…

 

-Mi confondi a tal punto che non so neppure se ti odio o se ti amo-

 

-Smettila! Smettila di trattarci come bambocci stupidi e fastidiosi. Perché sei così fredda e distaccata? Perché non ci lasci partecipare a qualcosa che ci riguarda in prima persona? Che temi Andree?-

 

Glielo aveva schisto ma non aveva ottenuto alcuna risposta e di nuovo il risentimento era montato in lui cancellando sul nascere qualsiasi sentimento che non fosse il rancore  e l’odio. Era troppo fredda, troppo invincibile, troppo superiore per suscitare in lui dolcezza o affetto. Ma poi …

 

-Credi che diventerò bravo come Tommamma

-Mamma!?!!?!?-

 

-Mamma?!? Un figlio tuo e …mio? Poteva essere, i conti tornavano, poteva benissimo essere…non ci credevo, non ci potevo credere, era troppo. Senza che io sospettassi nulla, tu hai portato in grembo mio figlio, l’hai fatto nascere e lo hai cresciuto….e bene anche. Molta della mia rabbia si è sciolta osservandoti con Josh. In quei frangenti è impossibile odiarti, emani troppo amore, susciti troppa tenerezza quando tuo figlio è accanto a te. Ma allo stesso tempo mi chiedo chi ti ha autorizzata ad avere un figlio mio. Come hai potuto fare tutto da sola? Perché non sei più venuta a cercarmi? Perché non mi hai dato la possibilità di assumermi la mia parte di responsabilità e risparmiarmi una valanga di sensi di colpa?-

 

Tom attraversò il salotto dirigendosi nella zona notte, individuò subito la stanza di Josh. Aprì l’armadio e riempì una sacca con il pigiamino ed un cambio per il bambino. E così, grazie alle scelte di Andree, lui varcava solo ora la soglia della stanza di SUO figlio. Cosa piaceva a Josh? Qual’era il piatto che lo faceva impazzire? Boh…La sua favola della buonanotte? Chissà… Il suo gioco preferito? Beh almeno a questo sapeva rispondere: il calcio. D’altronde era suo figlio no? E l’eredità genetica non sbaglia. Nonostante lei avesse fatto di tutto per separarli un filo inscindibile era rimasto in sospeso tra padre e figlio.

 

Tom sorrise mestamente osservando il poster da dove lui ed i suoi compagni sorridevano spensierati al fotografo che li stava immortalando prima di una partita.

 

Era accovacciato in prima fila tra Julian e Holly. Già Julian…. Non aveva ben chiaro che cosa ci fosse tra il suo amico e Andree ma a qualsiasi punto fosse la loro relazione, ora era tutto cambiato. Per lui lo era. Per Andree avrebbe fatto in modo che lo fosse, e a Julian non rimaneva che accettare il tutto.

 

Uscì dalla stanza del figlio aprendo la porta di  fronte, sicuro che quella fosse la stanza di Andree. Una madre protettiva come lei non poteva avere la camera da letto molto lontana da quella del figlio. E non si sbagliava. Un bel letto matrimoniale occupava buona parte della parete orientale dell’ampia stanza completamente arredata su toni caldi che andavano dal crema al mattone. Ottimo gusto. Tutta la casa denotava la personalità raffinata dell’avvocato. Una donna abituata al lusso, agli agi, ai particolari belli e costosi. Una donna di classe all’apparenza, ma in realtà molto meno raffinata di quel che poteva sembrare. Una donna capace di infilarsi nel letto di uno sconosciuto, di fare sesso con lui e di allevare il figlio di un gesto senza senso. Un figlio che non aveva colpe ma che non avrebbe mai dovuto essere concepito.

 

Tom fremette di rabbia nel pensare alla sua situazione. Si sentiva dilaniato tra l’affetto che nonostante tutto provava già per Josh, il risentimento che covava per quella donna ed il subdolo desiderio che si dibatteva in lui. Si faceva schifo per quell’ennesima debolezza, eppure era lì in lui forte e scalpitante come allora. La voglia di lei. Di sentirla di nuovo cedere sotto di lui, di averla ancora una volta.

 

La razionalità gli diceva di lasciar perdere che la situazione era già abbastanza complicata così com’era, che non era proprio il caso di aggiungere altre tensioni eppure non poteva dimenticare quante volte avesse cercato i suoi occhi nelle donne che aveva avuto, quante volte aveva pronunciato nomi femminili pensando al suo nome, un nome di uomo su un corpo di donna. Un corpo che lui voleva ancora qualsiasi fosse il prezzo da pagare. E questa volta, quando finalmente il suo insano desiderio sarebbe stato soddisfatto del tutto, sarebbe stato lui ad allontanarla senza spiegazioni, come aveva fatto lei sette anni prima.

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


CAPITOLO XV.

 

-Insomma che fine a fatto Tom?- sbuffò Julian arrestando il suo nervoso andirivieni lungo il perimetro della saletta d’attesa –Io vado a vedere- decise il ragazzo passandosi con rabbia una mano tra i capelli arruffati.

 

Holly squadrò l’amico con apparente calma –Dove vuoi andare in quelle condizioni? Aspettiamo ancora un po’…-

 

-Non ci penso neanche! Quel figlio di puttana mi deve un bel mucchio di spiegazioni- ringhiò

il ragazzo guardando con ira il corridoio vuoto.

 

-Julian!- lo riprese immediatamente Holly -Come puoi parlare di Tom in questo modo?é un tuo amico!-

 

Il difensore portò il suo sguardo adirato sul suo capitano, esaminandolo con freddezza –Tu lo sapevi?-

 

Holly si irrigidì e cominciò ad agitarsi sulla poltroncina nella vana speranza di scovare le parole adatte per calmare il suo compagno. Sostenne a fatica la furia del difensore, con somma preoccupazione constatò che non aveva mai affrontato un Julian Ross così fuori di sé e decisamente non sapeva come comportarsi.

 

-No- si decise infine a rispondere il capitano sforzandosi di assumere un tono disinvolto.

 

La notizia della paternità di Tom era stata un colpo per lui quanto per gli altri. Holly si era indubbiamente accorto che da qualche giorno lo stato d’animo di Tom era profondamente mutato, ma non aveva potuto neanche lontanamente sospettare quale ne fosse la reale causa. Anche se lui si riteneva il migliore amico del centrocampista e maggiore confidente, dovette, a malincuore, ammettere che Tom non gli aveva mai neppure accennato ad un’avventura sessuale avuta una notte a Parigi quando era ancora un ragazzino. Nei giorni passati, non trovando una spiegazione plausibile per l’inconsueto malumore del compagno, si era convinto che la tensione di Tom fosse esclusivamente imputabile alle analisi trovate positive.

 

Le analisi!

 

Loro avevano ancora un processo in sospeso e l’udienza sarebbe stata proprio lunedì! E con Andree in quelle condizioni, come potevano sperare di vincere la causa?

 

Holly scattò in piedi attirando le occhiate interrogative dei compagni – Andree non potrà assisterci dopodomani- affermò scuotendo il capo affranto.

 

-Stavo pensando la stessa cosa, purtroppo- borbottò Benji passandosi una mano sul bel volto dai lineamenti tirati per la stanchezza e l’apprensione accumulate nelle ultime ore.

 

-Voi credete che non ce la farà a recuperare un po’ del suo sangue freddo?- chiese Mark guardandoli speranzoso.

 

-Uhm… sfido chiunque  riprendersi da un colpo simile- replicò Holly alzando le braccia in un gesto di disperata rassegnazione - Per fortuna ora Josh è fuori pericolo, ma la storia della paternità…-

 

-Non ho mai premesso alle mie questioni personali di interferire con il mio lavoro, e non intendo certo iniziare ora-

 

La voce che aveva pronunciato quella frase con ferma decisione riecheggiò  nella stanza facendoli sussultare. I ragazzi squadrarono allibiti la figura altera del loro legale apparsa silenziosamente alle loro spalle. Il viso era pallidissimo, i capelli insolitamente in disordine, gli abiti spiegazzati ancora macchiati in più punti, ma  la sicurezza dello sguardo glaciale era inalterata. Nessuno ebbe il coraggio di prendere la parola per timore di far sparire quella che ritenevano essere un’apparizione irreale, rimasero immobili, trattenendo persino il respiro in attesa che lei proseguisse.

 

-Ammetto che questa volta i miei problemi hanno superato il limite, ma ciò non toglie che con voi ho preso un impegno ben preciso che intendo rispettare- proseguì Andree scrutandoli con espressione imperscrutabile – Ragazzi….- mormorò vergognandosi per l’inconsueto fremito che le fece tremare la voce –Ragazzi- ripeté rincuorandosi nel udire un timbro un pochino più fermo -Grazie per aver soccorso Josh…il minimo che posso fare per ricambiare é tirarvi fuori dai guai una volta per tutte, voi che dite?-

 

-Non sei obbligata a fare niente che non ti senti in grado di portare a termine- replicò Benjji avvicinandosi all’avvocato con estrema calma come se temesse di spaventala e di farla fuggire via -Chiunque sarebbe accorso in aiuto di tuo figlio…non sei in obbligo con noi-

 

-Grazie ma vi assicuro che sono in grado di difendervi in tribunale- obiettò convinta guardando il portiere dritto negli occhi.

 

-Allora se è così per noi è un gran sollievo- esclamò Holly esultando felice, ritrovando a tempo di record il suo consueto buonumore che in più occasioni aveva fatto la differenza in campo, infondendo in quel modo speciale, conosciuto solo a lui, il suo ottimismo all’intera squadra - Sei il miglior avvocato che avremmo potuto avere e ci fidiamo solo di te-

 

Andree si sforzò di sorridere nonostante avesse solo voglia di piangere –Grazie, ma ora andate a casa a riposare…Tom se né già andato da un pezzo…-

 

-Ah sì?!?!!?senza dirci niente?- sbottò secco Julian rabbuiandosi.

 

-Avrà avuto i suoi buoni motivi per andarsene. Non credo la situazione sia facile neanche per lui, quindi vi pregherei di non giudicarlo sino a che non avrete sentito cosa ha da dirvi- lo difese Andree nonostante la spossatezza le rendesse difficile anche  formulare dei semplici pensieri.

 

-Non ci deve spiegazioni- replicò Mark trapassando il difensore con uno sguardo che lo ammoniva a non osare neppure ad azzardarsi ad aggiungere una sola parola –Caso mai ne deve a te- aggiunse spostando la sua attenzione su Andree e squadrandola con un’inconsueta dolcezza.

 

-No Mark io ne devo a lui…Tom non ha colpe…quella notte- balbettò Andree sentendosi arrossire ma troppo stanca per provare vergogna per quella debolezza –Sono stata io a sedurlo…lui non voleva- concluse tutto d’un fiato, non disposta ad accettare che pensassero che il loro compagno fosse uno stupratore.

 

I quattro uomini la fissarono perplessi -Beh…difficile da credere…- affermò Julian sarcasticamente.

 

-Eppure è andata così, non mi ha fatto alcuna violenza…è stato una leggerezza adolescenziale. Ora però scusatemi ma non voglio lasciare Josh da solo troppo a lungo….- tagliò corto, congedandoli in fretta con un stanco gesto della mano.

 

Andree riprese posto accanto al letto del figlio profondamente addormentato non prima di avergli sistemato le coperte in modo che gli coprissero le spalle esili. Noam gli aveva somministrato un analgesico che aveva anche effetti soporiferi per evitare che il bimbo sentisse dolori e verso mezzanotte lei avrebbe dovuto dargliene un altro. Se non subentravano altre complicazioni, Josh sarebbe stato dimesso già lunedì.

 

Respirò a fondo tentando di allentare la tensione che aveva accumulato nelle ultime ore. Doveva stare bene attenta a non rilassarsi troppo però, era consapevole che un eccessivo abbassamento della guardia le sarebbe stato fatale. In fondo, per quanto razionale e controllata essa fosse, era pur sempre fatta di carne ed ossa, ed il suo limite massimo era già stato abbondantemente superato. Non era certa di quale arcana forza dentro di lei le avesse impedito di cadere a terra svenuta almeno una decina di volte nel corso delle ultime ore. Quello che le era accaduto andava ben oltre ogni umana sopportazione, non solo la paura di perdere il suo piccolo, ma anche la sconcertante scoperta che lo sconosciuto che aveva sedotto tanti anni prima, da più di una settimana era nuovamente al suo fianco. Se un veggente le avesse predetto quella eventualità, avrebbe sicuramente riso in faccia al folle che le prospettava un così assurdo destino.

 

Ed invece, a dispetto di ogni umana razionalità, ora poteva pronunciare il nome del padre di suo figlio.

 

Tom Becker. Ecco il nome dell’uomo che le aveva cambiato la vita.

 

Tom che la confondeva con uno sguardo, Tom che le risvegliava con un semplice gesto emozioni dimenticate, Tom che la criticava, la giudicava, la biasimava, Tom tanto incomprensibile quanto sconcertante, Tom… ora tutto le era finalmente chiaro.

 

Lui l’aveva riconosciuta subito, su questo non aveva alcun dubbio. L’ostilità che le aveva manifestato non era dovuta al fatto che fosse un giovane avvocato donna, come aveva da principio supposto, ma al fatto che era la donna che gli si era offerta con spudorata sfacciataggine una notte di pioggia.

 

E il suo subconscio la verità l’aveva già percepita da tempo. L’inquietudine, il panico, la confusione degli ultimi giorni, erano tutti imputabili alla sua parte più intima e inconscia che aveva ritrovato in quel calciatore il cameriere di sette anni prima.

 

Che stupida! Perché non aveva analizzato tutto con più calma? Se solo si fosse sforzata di capire…di ricordare…

 

Aveva interpretato il bacio di Tom come l’arrogante gesto di un uomo frustrato che non sapeva accettare che una donna fosse più potente di lui, che fosse in grado di tenere in mano le redini della sua vita, invece aveva sbagliato tutto, quel bacio, quel fantastico bacio che lei aveva ricambiato con una passione di cui non si sarebbe mai creduta capace, era una domanda, una domanda tanto semplice quanto sconcertante: “ti ricordi di me”? Ma erano stati frammenti di memoria troppo piccoli quelli che le sue labbra esigenti avevano riportato in superficie, davvero troppo pochi per permetterle di comprendere che stava baciando il padre di Josh.

 

Il padre di Josh!

 

Osservò con un’attenzione del tutto nuova il volto addormentato di suo figlio. Le somigliava molto ma ora, forse era solo suggestione, ma per la prima volta notava una nuova fisionomia nei tratti del bambino. Vide il volto di Tom in Josh.

 

Ora Josh aveva un padre con un nome e un cognome, un padre che non aveva esitato un solo istante a venire alla scoperto e salvargli la vita. Se Tom non fosse stato presente lei avrebbe dovuto assistere impotente alla sofferenza del figlio e forse alla sua…morte!

 

Il solo pensiero la fece tremare dalla testa ai piedi. Non un semplice brivido, ma una scossa potente che l’attraversò dalla radice dei capelli alla punta dei piedi.

 

La porta alle sue spalle si aprì silenziosamente. Andree rimase immobile a scrutare il figlio, non si voltò neppure, in fondo non le serviva vedere per sapere chi fosse entrato, il suo cuore traditore infatti le aveva già suggerito di chi si trattasse, battendole furiosamente in petto.

 

Era giunto il momento quindi. Il fatidico istante in cui si sarebbero finalmente guardati negli occhi per quello che erano: i genitori di Josh.

 

-Appoggio qui- sussurrò Tom senza neppure salutarla, posando un paio di borse ai piedi del letto.

 

-G…grazie…- balbettò incapace di guardalo in faccia e ringraziando mentalmente la semioscurità della stanza che celava il turbamento che era certa le si leggesse a chiare lettere in viso.

 

-Vatti a rinfrescare, sto io con Josh finché non torni-

 

-Grazie- ripeté alzandosi lentamente –ma non serve, avvertirò un’infermiera e…-

 

-Andree- sbottò tagliente pronunciando il suo nome in fretta come se gli desse fastidio averlo sulle labbra - è mio figlio-

 

Andree sbiancò, non era pronta a sentirglielo dire.

 

-Questo cambia molte cose tra di noi lo capisci vero?- proseguì lui  avanzano di un passo. Aveva parlato con un timbro di voce basso e la donna percepì quel suono come un’ insinuante carezza, rabbrividì anche se lui in realtà non l’aveva neppure sfiorata.

 

Non era psicologicamente pronta ad un’emozione così intensa ed era puro panico quello che la fece arretrare sino quasi alla parete della stanza –Noi!?!-

 

-Sì- affermò Tom stupendosi per lo spavento che aveva scorto per un attimo sul volto di Andree –Abbiamo un figlio e io voglio prendermi le mie responsabilità. Finora ti sei sempre occupata tu di lui, ma ora siamo in tre-

 

-Che vuoi dire?- chiese lei ritrovando in un lampo parte della sua sicurezza, il dubbio che le parole di Tom le aveva insinuato la fece scattare sull’attenti, pronta a difendere ciò che più amava la mondo -Stai pensando di far riconoscere i tuoi diritti sul bambino in tribunale?-

 

Tom la fissò stringendogli occhi come se volesse perforare l’oscurità della stanza e cogliere ogni minimo particolare di Andree -Ovvio-

 

-Ovvio?!?!!? Josh è mio e basta. Ti sono grata per quello che hai fatto ma non hai nessun obbligo verso di lui- affermò mentre la maschera di glaciale compostezza riprendeva forma sul suo volto solo un attimo prima stravolto dall’emozione.

 

Tom seguì allibito la trasformazione avvenuta in quella donna sconcertante. Era entrato nella stanza con la predisposizione d’animo di un bracconiere in procinto di ammazzare una rara specie animale, ma gli era bastato vederla fragile e stanca, china su Josh, per essere colto da un impellente desiderio di prenderla tra le braccia e di rassicurarla come se fosse stata la ragazzina disperata di tanti anni prima, e ora invece la donna fredda ed insensibile, che aveva avuto la sfortuna di conoscere in quei giorni, gli si ripresentava davanti, facendolo andare su tutte le furie.

 

Era rabbia quella che trasparì dalla sua voce quando riprese a parlare – Perché ti scaldi tanto? Io non ho obblighi verso Josh. Ho dei diritti! Come avvocato…-

 

-Come avvocato ti avverto che non hai la benché minima possibilità di ottenere l’affidamento del bambino. Se non lo sapessi la legge preferisce dare i minori in affidamento alla madre e io posso garantire a mio figlio una vita più che dignitosa…il mio stipendio di avvocato non ha nulla da invidiare al tuo di calciatore…- sbottò inviperita passandosi una mano sugli abiti spiegazzati..

 

Aveva bisogno di una doccia, si sentiva troppo sporca e in disordine per affrontare la situazione con la dignità necessaria.

 

Tom la squadrò allibito – Affidamento?!!? Stipendio?!!? Ma di che stai parlando? Io non voglio avviare una causa per portarti via il bambino, io voglio solo che lui sappia che ci sono e che d’ora in poi, se vorrà, potrà contare anche sulla presenza di un padre-

 

Andree spalancò la bocca incredula –Ma…dici sul serio? Non me lo vuoi portare via?- biascicò sentendosi stupida e meschina per aver solo pensato che lui avesse in mente una tale bassezza.

 

Tom strinse forte i pugni per resistere a quel insulso impulso, a quella voglia matta di stringerla forte al petto e non lasciarla più andar via. Era una madre che difendeva il suo cucciolo, ed in quel momento ebbe la netta certezza che al mondo non vi fosse nulla di più bello ed importante di quella donna dagli occhi color del ghiaccio ma dall’anima incendiata di amore.

 

-No non ti farei mai  questo…-

 

-No certo che no! Josh ti adora come potrei fargli una cosa così crudele?-

 

-Ma allora…-

 

-Ma allora bisogna trovare il modo di dirgli che sono suo padre senza traumatizzarlo. Ma ci penseremo con calma…insieme faremo tutto quello che c’è da fare nel migliore dei modi- replicò lui in tono pacato sentendosi improvvisamente svuotato di qualsiasi energia. Lottare con le sue emozioni che oscillavano senza preavviso in direzioni imprevedibili, lo distruggeva sia fisicamente che psicologicamente. Aveva una terribile emicrania e il ginocchio aveva ripreso a pulsare con dolorosa insistenza.

 

Andree non si accorse del cedimento del calciatore e si ostinò a scrutarlo come a sincerarsi che non vi fosse alcuna minaccia nelle sue parole.

 

Fu uno scambio silenzioso quello insito nel loro sguardo allacciato. Per un attimo le loro anime si sfiorarono, sancendo un segreto patto.

 

-Ora vatti a sistemare. Fai pure con calma resterò sino a che non tornerai- disse Tom desiderando solo sedersi per qualche minuto. Andree si spostò di lato per permettergli di accomodarsi sull’unica poltroncina disponibile e osservò perplessa la smorfia di dolore sul volto di lui mentre si accingeva a sedersi.

 

 –Ahi!- si lasciò sfuggire involontariamente il centrocampista attraversato da una fitta più intensa del solito.

 

-Che hai?- chiese preoccupata osservandolo con espressione interrogativa.

 

-Oh niente il ginocchio si fa sentire…il calcio che ho dato alla palla oggi lo ha sollecitato troppo- spiegò il ragazzo sorridendole rassicurante mentre si massaggiava la gamba dolorante.

 

-Sei stato tu a colpire il cane….- constatò Andree sentendosi venir meno al solo pensiero di quel mostro nero che si avventava sul suo bambino – Mi spiace …è una cosa grave?-

 

-No una brutta contusione riportata contro la Cina…una partita davvero da dimenticare quella- borbottò Tom riflettendo che proprio durante quella partita l’antidoping aveva riscontrato l’anomalia che aveva riportato Andree nella sua vita –Per evitare una brutta entrata su Holly che non si era ancora ripreso da una precedente infortunio, mi sono preso i tacchetti dell’attaccante cinese sulla mia rotula…-

 

-Vuoi che dica a Noam di darti qualcosa?-

 

-No grazie, ho già le mie pasticche solo che oggi, con quello che è successo, mi sono dimenticata di prenderla…-

 

-Ho capito…va bene io vado a sistemarmi…-

 

Tom attese che la donna uscisse dalla stanza prima di riprendere a respirare normalmente. Per tutto il tempo del loro colloquio era stato talmente teso da non riuscire neppure a controllare le sue più elementari funzioni fisiologiche. Per quanti sforzi facesse non riusciva proprio a stabilire un giusto equilibrio in presenza di Andree. In un modo o nell’altro lei lo sconvolgeva, mandandolo nella più totale confusione. Ora la voleva abbracciare e proteggere, ora la voleva picchiare e disintegrare…insomma si comportava peggio di un paranoico in preda ad uno sdoppiamento di personalità.

 

Eppure un equilibrio andava stabilito. Lo dovevano trovare per quel piccolo essere che non meritava di portare su di sé gli errori di due persone che non erano neppure in grado di discutere del più e del meno senza avere l’impressione di essere seduti sopra una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro.

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


CAPITOLO XVI.

 

-Uffa mamma quando possiamo andare a casa?- chiese Josh buttando da parte il giocattolo che l’infermiera gli aveva fatto avere al posto del pallone che lui aveva esplicitamente richiesto.

 

-Smettila di farmi sempre le stesse domande! Te l’ho già detto almeno dieci volte: forse domani- rispose la donna in tono annoiato senza alzare lo sguardo dal foglio che stava tentando di scrivere da più di due ore. Aveva chiesto a Noam di sistemarle un tavolino con una sedia in un angolo della stanzetta d’ospedale del figlio, in modo da permetterle di buttare giù il discorso per l’udienza dell’indomani senza doversi allontanare da Josh.

 

Andree sbuffò gettando sul tavolo la penna stilografica. Si appoggiò con espressione sconsolata allo schienale della sedia e sbirciò il cielo che si rabbuiava al di là della finestra alla ricerca di una qualche ispirazione. Mancavano davvero poche ore alla resa dei conti.

 

Si alzò, camminando sù e giù per la stanza per sgranchirsi le gambe e con la vana speranza che le sovvenisse qualche idea brillante. Ma la stanchezza unita al nervosismo non le permetteva di concentrarsi come avrebbe voluto. Durante la notte Josh si era svegliato più volte e Noam aveva dovuto aumentargli la dose di analgesico per calmare i dolori del bambino, ovviamente la preoccupazione per il figlio le aveva impedito di chiudere occhio per tutta la nottata. Inoltre, durante la giornata, si erano susseguite una serie infinita di visite da parte dei ragazzi che volevano accertarsi delle condizioni del bambino. Andree era loro infinitamente grata per l’affetto e la sincera preoccupazione che continuavano a dimostrare nei confronti di Josh, ma ciò nonostante aveva avuto un moto di impazienza quando Julian aveva tentato di trattenersi più della mezz’ora che Noam gli aveva concesso.

 

-Dobbiamo parlare- le aveva detto scrutandola con impazienza e lei si era trovata costretta a ricordargli che quello non era assolutamente né il luogo né il momento opportuno, che quattro dei suoi migliori amici stavano rischiando la carriera e che lei doveva concentrarsi per trovare il modo di sistemare la loro delicata posizione.

 

Il ragazzo aveva reagito con un moto stizzito assumendo un’espressione imbronciata che le aveva ricordato tanto Josh quando faceva i capricci. In quel momento si era chiesta come aveva fatto a non capire sino a che punto Julian fosse viziato ed egoista. La vita lo aveva messo a dura prova, questo era innegabile, ma ciò non gli consentiva di pretendere che tutti saltassero sull’attenti quando lui lo pretendeva. Le persone avevano i loro ritmi ed i loro impegni ed il “Principe”, qualche volta, avrebbe fatto bene a rammentarlo.

 

Comunque non erano neanche i capricci di Julian a turbarla in quel momento, ma qualcosa di molto più insistente e sconcertante.

 

Tom Becker.

 

E chi altri se no? Ormai quando lei aveva un pensiero questo assumeva le connotazioni di Tom Becker. Per due motivi il centrocampista giapponese occupava la sua mente in quel preciso istante. Primo, per tutto il giorno non si era fatto vedere. Aveva solo chiamato un paio di volte Noam per informarsi sullo stato di salute del bambino, ma visti i bei discorsi della sera precedente, poteva anche trovare due minuti per far visita a suo figlio.

 

Andree corrugò la fronte perplessa mentre perseverava nel suo andirivieni. Il solo pensare a Josh come al figlio di Tom il giorno prima la scombussolava gettandola quasi nel panico, ora invece le sembrava quasi normale. Aveva fatto in fretta ad abituarsi alla nuova realtà dei fatti, sperava solo che Josh accettasse la novità con la stessa facilità

 

Il secondo motivo per cui stava insistentemente pensando a Tom erano le sue analisi. Mentre per Benji e Mark aveva imbastito una difesa a prova di bomba, basata sull’incongruenza delle sostanze trovate nel loro sangue, per Tom e Holly queste incongruenze erano molto meno evidenti e lei aveva ben poco materiale su cui basare la sua tesi difensiva.

 

Più si sforzava di trovare un appiglio e meno idee le sovvenivano.

 

-Si può?-

 

Andree si bloccò di scatto e come al solito il suo cuore cominciò a galoppare impazzito. Eccolo! La donna lo squadrò incapace di proferire parola. Era veramente affascinante con quei semplici  jeans scuri blandamente sbiaditi che gli fasciavano le gambe muscolose e il leggero maglioncino chiaro a collo alto che enfatizzava i suoi lineamenti virili e dolci allo stesso tempo. Come aveva fatto a non notare prima quanto fosse sensuale la piega della sua bocca e quanta voglia di protezione suscitava quell’ampio torace?

 

Com’era stupida! Sembrava una bimbetta in preda ad uno sfogo ormonale e tutto questo perché quello era l’unico uomo con cui fosse andata a letto!

 

-Ciao- Tom la salutò degnandola di un freddo e frettoloso sorriso, niente in confronto alla raggiante espressione che gli illuminò il volto mentre il suo sguardo si posava sul figlio -Ciao campione, come stai?-

 

-Tom! Che bello vederti mi annoiavo così tanto- esultò Josh muovendosi con impeto sul letto ma bloccandosi subito, sbiancando.

 

Andree accorse allarmata –Sciocco non ti devi muovere!- lo rimproverò risistemandolo con estrema cautela contro i cuscini.

 

-Oh mamma quanto male….- piagnucolò il bambimo sforzandosi di trattenere le lacrime.

 

-Mi spiace è colpa mia…- disse Tom con aria mortificata.

 

-Ma che dici! Se questo testardo non mi ascolta non è colpa di nessuno- affermò decisa Andree, sentendo uno strano calore invaderle il petto di fronte all’espressione contrita del centrocampista.

 

-La mamma ha ragione Tom è tutta colpa mia….solo che…- e Josh si lanciò in un acceso dialogo con il padre raccontandogli di quanta voglia avesse di tornare a giocare .

 

Tom lo ascoltava intervenendo qua e là con un fare estremamente serio ed Andree, che si era ritirata in disparte per osservarli con la massima calma, non poté reprimere quella sconosciuta ed indecifrabile sensazione che la vicinanza di padre e figlio le suscitava. Incantata, spostava lo sguardo dal volto infantile e paffuto del figlio a quello virile e marcato del calciatore, stupendosi ogniqualvolta scorgeva un tratto comune tra i due. Si assomigliavano molto più di quanto si sarebbe aspettata e ora si chiedeva, con una punta di sconcerto, come avesse fatto ad non accorgersi subito dell’evidente somiglianza.

 

Sentendo lo sguardo della donna fisso su di sé, Tom sollevò il capo, incrociando i begli occhi di lei.

 

Imbarazzata e nel vano tentativo di darsi un qualche contegno, Andree cercò affannosamente  nella sua testa una qualche frase di circostanza  –A…allora come….come va il ginocchio?-

 

-Il ginocchio?- ripeté Tom perplesso senza staccarle gli occhi di dosso –Ah bene- affermò, ricordando l’episodio del giorno prima - A casa ho preso il mio analgesico e mi è passato tutto-

 

-Bene- buttò lì lei non sapendo che altro aggiungere. Distolse bruscamente lo sguardo accomodandosi con simulata noncuranza sulla poltrona e fingendosi completamente presa dai fogli delle analisi sparsi sul tavolino.

 

L’associazione fu fulminea quanto imprevista. La sorpresa la fece balzare di nuovo in piedi.

 

-Che succede?- chiese Tom allarmato alzandosi di scatto a sua volta e pronto a soccorrerla temendo un suo improvviso malore.

 

-Che..che cosa prendi per il ginocchio?-

 

Tom sbatté le palpebre stupito prima di rispondere con tono esitante -Del semplice analgesico…mesulid…ma che c’entra ora?-

 

-A base di lidocaina vero?- lo incalzò Andree ignorando la sua domanda e trapassandolo con fredda determinazione.

 

-Sì ma qual’è il problema? Per usi terapeutici è consentito e poi è in dose minima…- si difese lui stabilendo che decisamente quell’atteggiamento di Andree gli dava i nervi, non sopportava che lo guardasse in quel modo distaccato come se lui fosse trasparente.

 

Andree sorrise trionfante -Lo so ma per quanto ridotta doveva veni fuori…-

 

-Che intendi?- indagò sempre più confuso, realizzando in un misto di stupore e sollievo, che non stava più parlando con la madre di suo figlio, ma con il cinico avvocato che l’indomani lo avrebbe tirato fuori dai guai. Quella constatazione gli permise di accettare almeno in parte il tono impersonale della donna, ma quella era l’ultima volta, decise, che avrebbe concesso ad Andree di trattarlo con freddezza, voleva solo passione e calore da lei. Quel pensiero lo fece avvampare e dandosi dello stupido per le sue reazioni incontrollate, abbassò lo sguardo fingendo di sistemare le coperte di Josh.

 

Ma Andree era troppo presa dalle sue congetture per notare la miriade di sentimenti che si stavano velocemente susseguendo nell’animo di Tom. La mente della donna era ritornata al loro scambio di battute della sera prima, battute a prima vista insignificanti ma che ora invece si stavano rivelando la chiave vincente per quel processo -Inoltre mi hai detto che anche Holly prende degli analgesici…-

 

-Sì ma roba ancora più leggera….non ricordo il nome…ma che importanza ha?- ribatté Tom sentendosi di nuovo padrone di se stesso e quindi pronto a riaffrontare Andree.

 

-Stai qui con Josh- gli ordinò lei raccogliendo in fretta tutti i fogli sul tavolo –Io devo correre da Noam…Ah…- esclamò allegra prima di sparire oltre la porta -Dormi tranquillo stanotte, ora finalmente so come tirarvi fuori dai guai-

 

Un’espressione serena aleggiava sul bel volto concentrato dell’avvocato Takigawa mentre varcava la soglia dell’aula di tribunale. Cercò con lo sguardo i suoi clienti e, una volta individuato il gruppetto ormai tanto familiare, si avviò nella loro direzione con passo deciso. Lo splendido sorriso che regalò ai giocatori non aveva niente a che fare con la composta freddezza con cui solo una settimana prima li aveva salutati in quel medesimo posto.

 

Sorrise al pensiero che fosse trascorsa solo una settimana, a lei sembrava fosse passata un’intera esistenza. In sette giorni la sua vita, quella di suo figlio e quella di una persona di cui non ricordava nulla sino a pochi giorni prima, era ineluttabilmente cambiata.

 

Ma questo era un argomento che lei e Tom avrebbero affrontato con la calma e il tatto necessari una volta che il processo fosse stato definitivamente archiviato.

 

-Avvocato come sta?- chiese Benji porgendole formalmente la mano.

 

Andree ricambiò il gesto di saluto con la stessa formalità ma trovò la situazione alquanto forzata. Guardò negli occhi il portiere e la sua  capacità di comprendere i sentimenti umani, affinata da anni di professione legale, le permise di scorgere dietro a quel sorriso composto una scintilla di complicità. Era giusto che fosse così. Potevano anche darsi del lei e scambiarsi fredde strette di mano, ma era sulle spalle di quegli uomini che lei aveva cercato appoggio e conforto durante le terribili ore passate in ospedale dopo l’incidente di Josh, era proprio contro il petto di Benji che aveva soffocato l’urlo straziante di una madre in preda al panico, era uno di loro il padre di suo figlio e gli altri tre silenziosi testimoni di una storia che non era la loro ma che riuscivano egualmente a comprendere con la sensibilità di chi era abituato a vivere la propria vita con maturità ed altruismo. Come aveva potuto solo pensare che degli animi così generosi ed onesti potessero imbottirsi di steroidi ed altre schifezze per imbrogliare chi credeva in loro? Stupida. Cieca e stupida, ecco cos’era stata. Noam aveva tentato in tutti i modi di farle aprire gli occhi ma lei no, troppo testarda e presuntuosa per ammettere che i suoi ragionamenti avessero dei limiti concreti. La razionalità non poteva decodificare ciò che apparteneva all’istinto e al sentimento.

 

Un acuto scampanellio attirò l’attenzione di Andree distogliendola da suoi pensieri -Ci siamo- disse abbracciandoli con lo sguardo – Ancora qualche minuto e tutto sarà finito-

 

Si sistemò in fretta al suo posto indossando la toga rossa mentre il giudice faceva la sua entrata.

 

L’atmosfera era più tesa della prima volta ed ad Andree bastò una rapida occhiata per cogliere l’atteggiamento distaccato e diffidente del giudice nei suoi confronti, ma questo non cambiò il suo stato d’animo di una virgola.

 

-Bene- esordì il giudice Shelley senza sforzarsi minimamente di nascondere il disappunto per aver dovuto rimandare un processo che lei aveva concesso di concludere in maniera dignitosa alla prima udienza, una settimana prima - Per volontà sua, avvocato Takigawa- proseguì calcando la voce in modo da ribadire per l’ennesima volta che lei non era responsabile della pietosa fine che avrebbero fatto i quattro giocatori da lì a poco - Abbiamo rinviato a data odierna. Esonero il pubblico ministero dalle sue accuse, che conosco molto bene e sono disposta ad accettare, se lei avvocato non mi mostra le famose prove di cui parlava una settimana fa-

 

Il tono del giudice sfiorò lo scherno ed Andree non accettò di buon grado tanta impudenza. Giudice o non giudice, non permetteva a nessuno di calpestare la sua dignità di avvocato, d’istinto si erse in tutta la sua statura e sollevò il mento in un pericoloso gesto di sfida avvertendo tutti i presenti che era pronta alla battaglia.

 

Lo sapeva bene che il giudice non andava mai provocato, ma lei era troppo convinta delle prove in sua mano per ammettere di essere anche solo apostrofata e la sua voce risultò forse eccessivamente dura e decisa quando iniziò la tesi difensiva -Signor giudice non mi dilungo in inutili giri di parole. Sono qui oggi per darle le inconfutabili prove dell’innocenza dei miei quattro assistiti. Anzi dirò di più, le dimostrerò che non di errore si è trattato ma bensì di pura e semplice frode- fece una pausa ad effetto, permettendo ai presenti di registrare l’ultima parola su cui voleva focalizzare l’attenzione generale – Non sono impazzita signor giudice, ma lucida e convinta di poter dimostrare quanto sto affermando. Le analisi analizzate durante l’amichevole contro la nazionale cinese nel laboratorio del paese ospitante, e poi rivalutate su mia richiesta dal Dottor Noam Lee nell’ospedale di Tokyo, non possono assolutamente appartenere ai quattro giocatori qui presenti- scandì ogni parola, sfidando con lo sguardo chiunque osasse dubitare delle sue ragioni -Ora le prove dopo le parole. Ecco controlli lei stessa- esclamò melliflua Andree avvicinandosi al banco del giudice e porgendole i quattro fogli con i dati dei ragazzi – Iniziamo da Mark Lenders e Benjiamin Price, se non le dispiace- nonostante l’apparente accondiscendenza Andree sembrava una fiera pericolosa in procinto di sbranare il primo che osasse anche solo sospirare -Per favore giudice Shelley presti attenzione ai nomi ed ai valori che le ho segnato nelle analisi dei due giocatori-

 

Il giudice Emma Shelley fece quanto l’avvocato le aveva chiesto. In breve Andree fece notare al giudice ciò che lei e Noam avevano constatato, affermando l’incompatibilità delle sostanze riscontrate nel sangue di Mark con le caratteristiche sportive del calciatore e la controproduttività di un portiere di assumere steroidi in quelle dosi.

 

-Ammetto la stranezza del caso…- cedette il giudice quando Andree tacque – E degli altri due che mi dice?-

 

Andree sorrise soddisfatta -Oh per quanto riguarda Hutton e Becker- la sua voce tremò impercettibilmente nel pronunciare il nome di Tom, nessuno se ne accorse ma lei rabbrividì egualmente all’idea dell’influenza che quell’uomo aveva già assunto nella sua vita – Le prove sono ancora più schiaccianti, se possibile. Come mi è stato riferito dal medico della nazionale, e quindi facilmente verificabile da chiunque, il capitano Hutton aveva riportato una lussazione alla spalla destra nel corso di un allenamento e durante la partita con la Cina non aveva ancora recuperato del tutto, tanto che era ancora sotto cura con codeina. Un farmaco innocuo che non ha alcun potere dopante quindi l’uso ne è consentito anche senza denuncia, ma per quanto leggero, la sua presenza doveva comunque essere rilevata dalle analisi ematiche. Signor giudice io non sono riuscita a trovare tracce di codeina nel sangue di Hutton, ci provi lei … forse sarà più … fortunata- la provocò Andree con una punta di perfida soddisfazione. Il sapore della vittoria la stava deliziando come consuetudine, in fondo era felice di constatare che alcune sensazioni in lei non erano affatto cambiate nonostante gli scombussolamenti degli ultimi giorni, ciò le faceva sperare di avere ancora qualche controllo su se stessa  -Infine Becker. Durante la partita con la Cina un intervento falloso dell’attaccante cinese ha provocato al centrocampista una dolorosa distorsione al ginocchio che sta ancora curando con un analgesico di media entità a base di lidocaina. Sostanza che è stata comunque debitamente dichiarata dal medico che gliel’ha somministrata. Ah…è evidente che sto invecchiando e che la mia vista non è più quella di un tempo perché nel sangue di Becker non sono riuscita a trovare la minima traccia di lidocaina, eh sì che la dose assunta non è affatto trascurabile….deve pur essere da qualche parte…-

 

-Ho capito avvocato, non serve che mi punzecchi in questo modo- sbuffò il giudice guardandola rassegnata. Quella donna era una strega, neppure un assassino colto con le mani intorno al collo ancora caldo della sua vittima sarebbe stato condannato con un avvocato del genere dalla sua parte – La sua tesi è chiara e inconfutabile. Queste analisi non appartengono ai quattro imputati, questo però mi obbliga ad aprire un’altra inchiesta per frode sportiva verso ignoti…-

 

-…e non dimentichi l’accusa di tentata diffamazione…- aggiunse Andree con palese compiacimento.

 

-Certo mi occorreranno tutti i dati dei ragazzi e l’esame del DNA, il dottor Lee se la sente di assumersi l’incarico?- chiese il giudice riponendo tutte le carte in un’unica cartella che il cancelliere teneva ossequiosamente aperta.

 

-Credo di sì, le faccio avere il numero del suo ufficio-

 

-Bene- tagliò corto il giudice alzandosi e sistemandosi meglio gli occhiali sul naso aquilino – Dichiaro concluso questo processo con la totale assoluzione degli imputati in quanto il fatto non sussiste e le prove a loro carico si sono rivelate false e inattendibili. Scusate signori per le accuse infamanti, continuate per la vostra strada e buona fortuna per gli imminenti campionati- concluse, concedendo ai presenti uno dei suoi rari sorrisi.

 

Andree accettò distrattamente i complimenti del pubblico ministero mentre una parte della sua mente era impegnata a registrare le urla esultanti degli uomini alle sue spalle. Trasse un profondo respiro mentre si sfilava finalmente la toga, conscia che si apprestava ad affrontare una battaglia ancora più dura. Ora infatti, non aveva veramente più nessuna scusa per rimandare un doveroso chiarimento con Julian, con Tom e soprattutto con se stessa.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


CAPITOLO XVII.

 

-Non puoi evitarla ancora per molto- constatò Holly guardando preoccupato il profilo corrucciato  del suo migliore amico risaltare contro il cielo striato da lunghe lingue arancioni. I due compagni di squadra se ne stavano appollaiati sui piccoli spalti del modesto stadio in cui si allenavano i giovanissimi della nazionale, i futuri campioni che un giorno li avrebbero sostituiti in campo e nel cuore dei tifosi. Ma Tom e Holly, in realtà, non stavano prestando alcuna attenzione al gioco in corso per quanto interessante, al contrario di Josh che, seduto qualche panchina più avanti, seguiva con estrema cura i passaggi precisi delle giovani promesse nipponiche ignaro dell’ininterrotto brusio provocato dai due uomini alle sue spalle.

 

Tom sospirò –Lo so- ammise con riluttanza spostandosi dalla fronte una ciocca di capelli castani che la brezza autunnale continuava a scompigliare – Ma non so come affrontarla … non so che devo dirle … o meglio che voglio dirle…- si corresse puntando i gomiti sulle gambe leggermente divaricate e poggiando stancamente il mento sui palmi delle mani –Vedi, un secondo la vorrei strozzare, quello dopo la vorrei stringere al petto e quello dopo che ne so? Andree mi spiazza…e io non so come far fronte all’enorme influsso che quella donna ha su di me. Mi vergogno, che credi? Non sono più il diciassettenne inesperto che l’ha messa incinta ma in fondo non sono cambiato poi molto se non sono ancora in grado di gestire le mie emozioni. Davvero Holly, sono conscio che evitarla non è una soluzione, tanto più che Josh mi chiede sempre più insistentemente di uscire tutti e tre assieme…ma io non sono pronto…e chissà se lo sarò mai!-

 

-Sciocchezze- sbuffò Holly mettendo una mano sulla spalla del compagno e facendo una lieve pressione. Nell’ultima settimana lo aveva lasciato parlare  a ruota libera, ascoltando sino a notte fonda i suoi sfoghi confusi, senza interromperlo, senza criticarlo, sempre attento e presente,  ma ora riteneva fosse giunto il momento di dare a Tom un altro punta di vista. Decisamente il centrocampista era troppo coinvolto per capire che la situazione non era poi così tragica come la dipingeva lui.

 

-Parlatene  a viso aperto almeno una volta … perché non affrontate la questione con schiettezza per quello che é?-

 

-é imbarazzante- replicò secco Tom raddrizzandosi di scatto e fissando il figlio che si stava agitando sulla panca – Josh non ti muovere troppo o farai saltare i punti- gli disse ricevendo come unica risposta uno sguardo distratto del figlio..

 

-Ma è passato tanto tempo- insistette Holly non facendo caso all’interruzione e non disposto a cedere neanche di un millimetro.

 

-E che c’entra? La conseguenza della nostra bravata è sotto i nostri occhi-

 

-Per fortuna! È un bambino bellissimo ne dovresti essere fiero-

 

-Eccome lo sono!- esclamò Tom scrutando perplesso il suo capitano.

 

-E non pensi che Josh è un dono di Andree? Lei ha scelto di farlo nascere e lo ha cresciuto facendone il bambino sano e spensierato che è ora, questo non è un buon motivo per perdonarle il fatto di essere sparita nel nulla dopo aver…si insomma hai capito…-

 

Tom rifletté a lungo sulle parole del suo amico -Ma non è solo rabbia! – disse dopo qualche istante di silenzio parlando molto adagio come se  stesse soppesando con estrema cura ogni singola parola -Non solo almeno …. è un groviglio di emozioni che non comprendo…sono confuso, come posso affrontarla in queste condizioni, che le dico?-

 

-Non dirle niente, intanto cominciate  a vedervi, a stare un po’ assieme, a conoscervi, poi magari entrate in argomento e qualcosa ne verrà fuori- suggerì sicuro Holly per il quale non esistevano problemi irrisolvibili -Caspita Tom, tu hai urgente bisogno di risposte ma né io, né il pallone  e neppure Josh possiamo dartele!-

 

-Andree invece conosce le risposte alle mie domande?- chiese dubbioso il centrocampista incapace di sopprimere una sfumatura di amaro sarcasmo.

 

Holly annuì convinto -Forse, ma se non le parli non lo saprai mai-

 

Tom tacque, fissando assorto un punto indefinito del cielo infuocato. Holly aveva ragione, doveva smetterla di fare il vigliacco e affrontare la situazione per quello che era.

 

-E va bene- capitolò alzandosi con decisione e simulando una spavalderia che non provava affatto -Mi hai convinto. Vieni Josh andiamo a trovare la…mamma-

 

-Tom…- lo chiamò il capitano alzandosi a sua volta –C’è un’altra persona che non puoi assolutamente evitare ancora per molto…-

 

Tom si irrigidì volgendo lo sguardo altrove – A chi ti riferisci?- chiese con tono improvvisamente duro e distaccato  pur conoscendo bene la risposta.

 

-Julian – confermò Holly senza farsi intimorire dal brusco cambiamento avvenuto nell’amico –Tra una settimana iniziano le partite per le qualificazioni ed il fatto che tra voi due vi siano delle tensioni non risolte, non farà bene né al vostro rendimento né a quello della squadra-

 

Tom sorrise caustico –Sta parlando l’integerrimo capitano della nazionale o il mio amico Holly?-

 

-Tutte e due, non inalberarti, lo sai che ho ragione-

 

Tom prese in braccio il figlio e non aggiunse una parola limitandosi a salutare Holly con un freddo cenno del capo, al contrario di Josh che non si preoccupava di nascondere tutta la sincera simpatia che provava per il capitano e si sbracciava felice oltre le spalle di Tom salutando con gridolini estasiati il suo amico Holly.

 

-Non ti agitare così Josh!- fu costretto a riprenderlo Tom sistemandosi meglio il bambino tra le braccia stringendo forte i denti per non farsi sfuggire qualcuna delle  sconvenienti imprecazioni che le ultime parole di Holly gli avevano fatto salire alle labbra. Sapeva con precisione che il capitano aveva dannatamente ragione, ma proprio non se la sentiva di affrontare uno scontro con Julian, e di scontro si sarebbe sicuramente trattato, non aveva alcun dubbio in proposito. Era lui il codardo della situazione, di questo era conscio. Julian aveva ripetutamente tentato di contattarlo, sia al cellulare che a casa, ma lui si era sempre ostinatamente rifiutato di rispondere, sino a che il compagno, comprensibilmente esasperato dal suo silenzio, gli aveva lasciato un minaccioso messaggio in segreteria. D’altronde era troppo tormentato da Andree per poter pensare con freddezza e la dovuta serenità ad un chiarimento con Julian. E poi che diavolo voleva quel dongiovanni da strapazzo? Con tutte le belle donne che c’erano in giro, proprio su Andree dovevano fissarsi le sue bramosie? No, decisamente Julian era un problema che andava affrontato, ma non prima di aver sistemato le cose con Andree. 

 

 

 

-Sì grazie fallo passare tra due minuti- replicò con voce rassegnata Andree alla segretaria che le annunciava, tramite l’interfono, l’arrivo dell’ultimo inaspettato cliente di quella lunga e noiosa giornata di lavoro.

 

Si appoggiò allo schienale della poltrona imbottita sospirando delusa. Doveva smetterla, si disse, di sussultare e di andare in fibrillazione ogni volta che il telefono squillava o che Marion le passava una comunicazione.

 

Eppure non riusciva a stare tranquilla e a ritrovare la calma di un tempo. Era trascorsa un’intera settimana dall’udienza che aveva scagionato definitivamente i ragazzi della nazionale.

 

Con il cuore in gola aveva accettato i complimenti entusiastici dei giocatori, attenta a cogliere le reazioni di uno di loro in particolare. Uno con cui aveva un grossissimo conto in sospeso e che lei era ansiosa di sistemare. Ovviamente non si era illusa che la situazione con Tom si chiarisse con una chiacchierata e un patto di reciproca collaborazione per il bene di Josh, ma neanche si sarebbe aspettata quel lungo e, a suo avviso, ingiustificato silenzio.

 

Da una settimana si aspettava da un momento all’altro di vederlo apparire alla porta di casa o nel suo ufficio, che ormai occupava stabilmente in un lussuoso palazzo del centro della metropoli giapponese, ed invece lui si era limitato a chiederle il permesso di passare qualche ora con il figlio da solo dopo la scuola. Non si era opposta, anche se avrebbe preferito essere inclusa in quel delicato riavvicinamento. Josh ogni sera le raccontava entusiasta delle mille avventure che viveva assieme a Tom, le visite allo stadio, il cinema, il gelato con Holly e Benji, e tantissime altri piccoli momenti che rafforzavano il solido legame che padre e figlio stavano insieme costruendo.

 

Josh ancora non si chiedeva il motivo della costante presenza di Tom. Probabilmente si era convinto che la mamma doveva lavorare e che lo aveva momentaneamente affidato al centrocampista sino a che la sua gamba non fosse completamente guarita.

 

Andree sapeva bene però che ben presto il bambino avrebbe cominciato a sospettare la verità e lei voleva esserci nel momento in cui Tom gli avrebbe rivelato quale fosse il suo reale ruolo nella vita del bambino.

 

Come avrebbe reagito Josh? Era indubbio che ammirava il calciatore e che godesse appieno sua della compagnia. Un pochino lei ne era persino gelosa, anche se capiva bene che suo figlio era giunto in quella fase critica in cui aveva bisogno di una figura maschile con cui confrontarsi.

 

In fin dei conti Tom era riapparso nel momento giusto. Cioè forse sarebbe stato meglio che non fosse mai ricomparso, ma visto che era accaduto, meglio in quel frangente. Ma era davvero convinta che avrebbe preferito non rincontrare mai più il padre di suo figlio?

 

Il pensiero di lui, dei suoi caldi occhi castani capaci di infiammarla, del suo volto dolce e virile, del suo fisico solido e compatto, tutto insomma, le suggeriva ampiamente che l’esistenza di Tom non le dispiaceva poi tanto…

 

 

 

-L’avvocato la riceverà tra due minuti, signor Ross- gli comunicò la segretaria che lui aveva convinto ad infilarlo nel lungo elenco dei clienti di Andree. Era incredibile, pensò Julian esterrefatto, dopo aver gettato una rapida occhiata al suo orologio, quanta gente a Tokyo avesse bisogno di assistenza legale.

 

-Grazie- replicò sfoggiando uno dei suoi sorrisi più sensuali per abbattere definitivamente i sensi di colpa della donna. Osservò compiaciuto le guance di lei farsi di un bel rosso acceso e la bocca sottile, bagnata di rossetto, dischiudersi in un inequivocabile invito ad andare oltre. Si affrettò a distogliere lo sguardo fingendo un improvviso interesse per una graziosa stampa appesa alla parete,  non aveva la minima intenzione di spassarsela con quella donna, per quanto carina essa fosse.

 

Nell’ultima settimana aveva provato a cancellare Andree  dalla sua mente recuperando dalla sua fornitissima agenda il numero di qualche vecchia amica disposta a tenergli compagnia. Ma l’espediente non aveva sortito l’effetto sperato: invece di diminuire il suo desiderio dell’avvocato, questo era aumentato ancor di più, facendogli raggiungere il vertice massimo della sua tolleranza alla frustrazione.

 

Dio quanto la voleva! Il solo pensiero di lei gli faceva ribollire il sangue nelle vene, gli offuscava la mente, lo faceva fremere d’impazienza. La desiderava più di ogni altra donna al mondo. Era disposto a tutto pur di averla.

 

Possibile che lei preferisse Tom a lui? Non era possibile! Sicuramente era confusa, disorientata dalla sconcertante scoperta che l’uomo che aveva abusato di lei era riapparso nella sua vita. Probabilmente le ci voleva del tempo per assimilare ed elaborare la notizia. Ma poi? Che se ne sarebbe fatta di Tom Becker quando poteva avere lui? E soprattutto, come poteva accettare Tom dopo che l’aveva sedotta e messa incinta quando era solo una ragazzina? Aveva un bel dire che era stata lei a sedurlo. Ma a chi voleva darla a bere? Povera piccola, era rimasta così traumatizzata che con gli anni si era convinta che la colpa di quanto successo fosse tutta sua.

 

Julian socchiuse minacciosamente gli occhi riducendoli a poco più di due fessure. In realtà non era ancora al corrente dei particolari della relazione tra Tom ed Andree. Quel poco che sapeva, glielo aveva detto lei al parco e sinceramente erano state delle confessioni frammentarie e confuse che non gli avevano permesso di ricostruire un quadro completo della situazione. Per di più quel vigliacco di Tom si rifiutava categoricamente di parlargli. Se lo avesse avuto di fronte in quel momento lo avrebbe disintegrato, altro che compagno di squadra! Il solo pensiero di averlo di nuovo  tra i piedi gli faceva venire la nausea. Ormai mancava solo una settimana alla prima partita per le qualificazioni ai mondiali e lui non voleva proprio saperne di trovarsi a  fianco a fianco con l’uomo che minacciava di portargli via la donna che amava e voleva.

 

-Può passare ora- disse la segretaria scrutandolo speranzosa e ponendo bruscamente fine ai suoi truci pensieri. Era ovvio, da come lo scrutava, che si aspettava un qualche invito da lui, ma, per quanto lo riguardava, poteva aspettare all’infinito. Attraversò la sala d’attesa con passo deciso senza degnarla neppure di uno sguardo, ormai era risoluto: più nessuna donna avrebbe avuto neanche un briciolo delle sue attenzioni sino a che Andree Takigawa non fosse stata sua.

 

Entrò nell’ufficio dell’avvocato con un sorriso smagliante stampato in volto e non cambiò espressione neanche quando vide lo stupore lasciare il posto al fastidio sul bel volto della donna.

 

Era ancora più bella di come la ricordava. Il tailleur severo, di un tenue ed elegante color azzurro cielo, non toglieva assolutamente niente al fascino magnetico di quel corpo sinuoso che lui ormai sognava ogni notte.

 

-Immagino che la tua non sia una visita professionale- iniziò Andree scoccandogli una gelida occhiata –Credo che Marion mi dovrà delle spiegazioni …-

 

-Lasciala stare, le ho mentito dicendole che ero un cliente- mentì Julian che non aveva certo dovuto giungere a tanto per abbattere le timide resistenze di Marion.

 

-Non mi ha detto il tuo nome- incalzò Andree sospettosa – E non eri neppure inserito nella lista degli appuntamenti …- aggiunse sfogliando in fretta un notes posto in un angolo della sua scrivania

 

-E se lo fossi stato che avresti fatto? – la provocò lui con un sorrisetto ironico ignorando deliberatamente le sue inutili obiezioni -Ti saresti rifiutata di ricevermi?-

 

-Sì- pensò la donna lanciandogli un’occhiata sbieca.

 

 -Perché avrei dovuto?- replicò invece sforzandosi di mantenere un tono piatto ed incolore.

 

-Aspettavo una tua telefonata- l’affrontò diretto Julian, cambiando tono ed espressione. Finse di non cogliere il compassato gesto di Andree che lo invitava a prendere posto in una delle due poltroncine antistanti il grande tavolo. Senza staccarle gli occhi di dosso, aggirò la scrivania appoggiandovisi con apparente noncuranza, sistemandosi a pochissimi centimetri da lei.

 

Andree non protestò per quella sua sgradita invasione, limitandosi a seguire ogni movimento dell’uomo con estrema circospezione. A Julian non sfuggì il lampo di collera che le attraversò veloce le iridi grigie, ma la cosa lo lasciò del tutto indifferente. Peggio per lei, non era disposto a darle tregua e avrebbe usato tutte le armi di seduzione a sua disposizione per farla capitolare.

 

L’avvocato represse l’accorata protesta che le era salita alle labbra, ritenendo più saggio per il momento, prendere tempo e comprendere appieno le intenzioni del difensore -A che proposito?-  chiese fingendo di non aver colto il nocciolo della questione.

 

Julian sbuffò risentito -Proprio non ne vuoi sapere di darmi una mano vero?-  si chinò verso di lei appoggiando una mano sul bracciolo della poltrona della donna e sfiorandole intenzionalmente la mano, Andree non si ritrasse ma il suo cuore accelerò i battiti -E va bene avvocato facciamo come vuoi tu! – proseguì imperterrito rincuorato dalla passività con cui lei accettava la sua vicinanza – Non ti ho mai nascosto la mia attrazione e all’inizio mi sembrava di aver capito che la cosa andasse bene pure a te, no ti prego non mi interrompere lasciami finire- obiettò il ragazzo bloccando il suo tentativo di replica e fissandola con rinnovata intensità – Poi mi hai detto che stavamo correndo troppo…ho accettato quella banale scusa e mi sono adeguato alle tue regole. Stavamo iniziando una storia, ma la notizia che Tom sia il padre di Josh ha posto un freno alla nostra relazione. Ora io posso capire che scoprire la verità ti abbia sconvolta, ma credo che questo centri poco con quello che c’è tra noi. In fondo con Tom  ci sei andata a letto sette anni fa e, citando le tue parole, è stata solo una “leggerezza adolescenziale”. E allora per quale motivo dopo l’udienza sei sparita?-

 

Andree si alzò dalla sedia incapace di tollerare oltre la vicinanza impostale da Julian. Non era assolutamente preparata a nessun tipo di contatto con un uomo che non fosse Noam o suo figlio. La consueta agitazione cominciò a farsi strada in lei, ma Andree fece del suo meglio per ignorarla.

 

-Non credo che la nostra si possa definire storia- replicò felicitandosi con se stessa per la fermezza della propria voce che non lasciava sospettare nulla dell’agitazione che invece la scuoteva nel profondo - Mi spiace Julian, ma non ricambio i tuoi sentimenti e in questo momento ho solo bisogno di mettere ordine nella mia vita e di fare i conti con questa nuova realtà che non ho ancora accettato. Come credi stia ora? Come faccio a dire a Josh che suo padre è Tom? E con che coraggio posso affrontare Tom dopo tanto tempo? Davvero sono troppo confusa per pensare a qualsiasi altra cosa che non sia il legame tra me Tom e Josh-

 

-è una sciocchezza, non puoi tagliarmi fuori così!- sbottò il ragazzo guardandola con aria supplichevole.

 

-Ma tagliarti fuori da che? Sveglia Julian tra me e te c’è stato solo un bacio, noi non ci conosciamo neppure!-

 

-Solo un bacio dici? Ne sei sicura?- con una sola falcata Julian coprì lo spazio che li divideva e l’afferrò per i fianchi obbligandola ad appoggiarsi a lui.

 

Andree gli puntò i pugni al petto guardandolo severa –Ti prego, non voglio-

 

Ma lui sembrò non sentirla neppure, troppo preso dalle sue esigenze per accorgesi del puro panico in cui il suo gesto impulsivo aveva gettato la donna. Il suono metallico dell’interfono distrasse il ragazzo e scosse Andree facendole recuperare in fretta un po’di autocontrollo. Tremante e confusa si divincolò con determinazione dalla presa del giocatore, si fiondò sul pulsante che la metteva in contatto col mondo esterno e le forniva la via di fuga da quella spiacevole situazione.

 

-Non provarci mai più chiaro?- ringhiò guardandolo minacciosa un istante prima di aprire la comunicazione – Sì Marion?-

 

-Mi scusi avvocato c’è suo figlio con…scusi come ha detto che si chiama?...Ah Becker-

 

Andree sentì il suo cuore saltare un battito – Falli passare tra un minuto- mormorò ancor prima di realizzare che stesse facendo.

 

-Parli del diavolo…- constatò Julian sollevando le spalle e alzando le braccia al cielo in un gesto di rassegnazione.

 

Andree lo squadrò con tutta la freddezza di cui era capace -Io non so come comportarmi con te, davvero! Mi spiace di averti illuso con quel bacio ma mi sembrava di essere stata chiara, comunque se è questo l’atteggiamento che vuoi tenere nei miei confronti, è chiaro che noi due non abbiamo altro da dirci -

 

Julian la scrutò serio -Ha abusato di te, come puoi amarlo?- chiese a bruciapelo.

 

-Cosa?!?- esclamò scandalizzata -Primo non ho mai detto di essere innamorata di Tom, secondo non ha abusato di me ero consenziente-

 

-Si come no, disperata e forse ubriaca…-

 

-Non ero né ubriaca né drogata…disperata sì ma lui non poteva sapere …-

 

-Va bene difendilo finché ti pare. Ricordati solo una cosa Andree. Io ti amo veramente e sono sicuro che tra noi potrebbe funzionare….pensaci ti prego-

 

-Ok ma tu non osare mai più avvicinarti a me senza il mio permesso- disse evitando di guardarlo in faccia in modo da non fargli neppure intuire il suo vergognoso segreto.

 

-No cara…- mormorò Julian sorridendole dolcemente -La prossima volta sarai tu a supplicarmi di baciarti e …io sarò felicissimo di esaudire ogni tuo desiderio- aggiunse con un timbro di voce roco e quantomai suadente, prendendole una mano e portandosela alle labbra ignaro che la remissività di Andree alle sue avances era dettata da sentimenti ben diversi da quelli che lui immaginava.

 

Il ragazzo concentrò tutta la sua attenzione nel tenero bacio che depose sul palmo della mano dell’avvocato. Non il bacio di un corteggiatore, ma il tocco di un amante, dato per eccitare. Per sedurre. Andree provò un brivido al contatto inconsueto di quelle labbra e un sollievo indicibile la pervase constatando come il ragazzo fosse troppo preso dal suo ruolo di seduttore per comprendere il suo reale stato d’animo.

 

Era incredibile come Julian sapesse trasformarsi, prima l’aveva praticamente assalita con la stessa arroganza di uno abituato a vedere esauditi tutti i suoi desideri al solo schioccare delle dita, ora invece la corteggiava e la lusingava con parole e gesti d’amore che avrebbero fatto sciogliere qualsiasi donna.

 

Qualsiasi….ma non lei…purtroppo. Lo avrebbe voluto, ma le era davvero impossibile …

 

-E va bene lo terrò presente- concesse ritraendosi e sperando di liquidarlo in fretta.

 

Un  sommesso bussare distolse definitivamente la sua attenzione dall’uomo che aveva davanti.

 

-Mamma ciao….oh Julian- esclamò Josh cristallino entrando nella stanza ancora visibilmente claudicante. Il bambino alzò in alto le braccia in un chiaro invito a prenderlo in braccio. Julian non se lo fece ripetere due volte e lo sollevò, ignorando totalmente la figura alta e cupa alle spalle di Josh.

 

-Forse siamo capitati nel momento sbagliato- osservò con sarcasmo Tom squadrando Andree con freddezza e rabbuiandosi ancor di più nel notare le gote arrossate della donna.

 

-No Julian se ne stava andando- si affrettò a rispondere Andree concentrandosi sulla risata gaia di suo figlio che era palesemente felice di rivedere il fratello del suo amico Jeremy.

 

-Non lo sballottare così … ha ancora dolori alla gamba- sbottò Tom con sguardo truce -Dammelo qua- ordinò con un tono che fece scendere il gelo nella stanza.

 

-No Julian non mi fa male…- lo difese Josh fissando Tom confuso.

 

-Taci e vieni qui- ordinò duro afferrando Josh di scatto e strappandolo letteralmente dalle braccia di Julian.

 

Il difensore per paura di far male al bambino lo lasciò andare subito -Becker sei impazzito? Tu gli farai del male se lo tratti così- sibilò Julian guardandolo minaccioso. I due uomini un tempo amici leali, si squadrarono in cagnesco e dalle loro espressione era lampante che, se avessero potuto, si sarebbero saltati al collo all’istante.

 

Andree ritenne opportuno intervenire e solo l’amore per suo figlio le impedì di spedire Tom fuori dal suo ufficio con una serie di calci ben assestati nel fondoschiena.

 

Trasse un profondo respiro -Julian ci vediamo presto- riuscì a dire con un tono sufficientemente neutro.

 

-Certo a presto- rispose il ragazzo inarcando le sopracciglia e rivolgendole un’occhiata preoccupata che voleva dire “per lui mi metti da parte?!?!”, quindi senza aggiungere altro e non degnando Tom di uno sguardo, uscì lasciandoli soli.

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


CAPITOLO XVIII.

 

Andree attese qualche istante in silenzio, fingendosi intenta ad ascoltare i passi di Julian che si allontanavano, ovattati dalla fitta moquette che ricopriva il lungo corridoio esterno. Prese un profondo respiro e finalmente si decise a squadrare con flebile calma Tom che si accingeva a deporre cautamente Josh a terra. Dal modo in cui il bimbo se ne stava rigido tra le braccia del padre, Andree comprese, non senza una punta di perfido compiacimento, che il comportamento arrogante ed autoritario del giocatore non aveva offeso solo la sua sensibilità.

 

Si concesse un secondo respiro a fondo per accertarsi che la voce le uscisse accettabilmente pacata ed indifferente -Josh che ne diresti di andarmi a prendere un caffè? Ti prego amore ne ho proprio bisogno …- chiese rompendo quell’attimo di imbarazzante tensione ed evitando di dare particolare importanza allo sguardo adirato di Tom. Bella faccia di bronzo, davvero! Se la poteva anche togliere dal volto quell’espressione risentita, lì l’unica ad avere il diritto di essere furiosa era lei…e Josh! Andree fremette ed iniziò un lungo conteggio mentale nella speranza di conservare quella calma apparente che si stava imponendo con notevole sforzo.

 

Il bambino la squadrò con sospetto porgendole tutta la sua attenzione, come se nella stanza non vi fosse nessun’altro -Perché non ci mandi Marion?- ribatté con sospetto.

 

-A Marion non piace andare al bar da sola – replicò - Lo faresti questo piacere alla tua mamma?- insistette con dolcezza ma nel suo tono era insita una nota di fermezza che al bambino non sfuggì.

 

Il figlio la scrutò perplesso, era ovviamente troppo sveglio per lasciarsi abbindolare da una scusa tanto banale, ma Andree non aveva trovato nessun altro espediente per non far sentire alle delicate orecchie di Josh, gli insulti che aveva intenzione di riversare su Tom da lì a qualche minuto.

 

-Va bene mamma- cedette infine inviandole un timido sorriso -Però mi prendo anche un gelato- aggiunse facendole un furbo occhiolino e sciogliendo almeno in parte la tensione della madre.

 

-Ne hai già mangiato uno- la voce profonda di Tom suonò dura e severa. Il suo intervento era stato così inaspettato che il bimbo sussultò spaventato, come se realmente avesse cancellato dalla sua mente la presenza dell’uomo alle sue spalle.

 

-Me ne prendo un altro- lo sfidò Josh riprendendosi in fretta e senza neppure degnarlo di uno sguardo, dichiarando così, se ancora ve ne fosse bisogno, il suo disappunto per come aveva trattato Julian poco prima e ritenendosi oltremodo offeso da quell’insulsa scenata.

 

-Non mi rispondere così!- lo rimproverò duramente Tom, muovendo un passo verso il bambino con l’intenzione di afferrarlo per un braccio ed esigere l’attenzione di cui riteneva di aver diritto.

 

Josh non si mosse di un millimetro, ma fece scattare di lato la testolina castana incontrando lo sguardo di Tom con un espressione in volto che Andree non gli aveva mai visto prima. Sfida, determinazione, rabbia si alternavano veloci sui lineamenti paffuti facendolo sembrare per la prima volta molto più grande dei suoi sei anni. Era questo l’effetto di un modello maschile sul carattere dolce e remissivo di suo figlio?!?!

 

Tom si bloccò con il braccio a mezz’aria stupito quanto Andree da quella nuova manifestazione del carattere di Josh. I due genitori cercarono istintivamente l’uno il sostegno dell’altro come forse era naturale che fosse. Naturale in qualsiasi coppia normale di genitori, cosa che loro ovviamente non erano. Lo scomodo pensiero doveva aver attraversato simultaneamente la mente di entrambi perché distolsero nello stesso istante lo sguardo, imbarazzati e confusi.

 

-Mamma…- chiamò il bambino rilevando l’esitazione di Tom e rivelando con un tono inequivocabile che non era disposto ad accettare imposizioni e divieti se non da sua madre.

 

Andree eliminò quell’attimo di confusione, ritrovandosi di nuovo preda di un’ira funesta che gridava vendetta-Va bene amore, ma un gelato piccolo, non vorrei che poi ti venisse il mal di pancia- accondiscese premendo in fretta il tasto di chiamata per la segretaria.

 

Non appena Josh uscì in braccio a Marion, Andree attese solo pochissimi istanti prima di abbandonare definitivamente la maschera di compostezza che si era calata in presenza del figlio.

 

-Come osi rivolgerti a mio figlio così?!?!- lo investì senza mezzi termini con gli occhi scintillanti d’indignazione e dando così finalmente voce alla rabbia che le ribolliva letteralmente in corpo.

 

Il volto di Tom era più scuro che mai -Tu piuttosto, come osi contraddirmi davanti a Josh?! Se io gli dico che non può fare una cosa tu non puoi lasciargliela fare-

 

-Ma senti questo! Vuoi insegnare a me come si alleva un figlio? Tu che non sai neppure che vuol dire essere genitore?-

 

Tom la fulminò con un’occhiataccia -Non per volontà mia!- ringhiò feroce tra i denti, irrigidendosi nello sforzo di controllare le sue emozioni..

 

Se sperava di metterla a tacere con quell’espressione truce o con quel tono minaccio, si sbagliava di grosso. Andree non arretrò di un passo, imponendosi di ignorare i grossi pugni chiusi lungo i fianchi del giocatore, il suo respiro affrettato e la tensione che lo attraversava tipica della belva pronta all’attacco -E va bene Tom Becker, diciamoci le cose come stanno fuori dai denti una volta per tutte!- lo attaccò infatti con glaciale determinazione - Se dopo pochi giorni fossi tornata dicendoti che ero incinta, che avresti fatto? Eri anche tu un ragazzino all’epoca!- lo accusò scrutandolo con freddezza, ma incrociando le braccia al petto in un involontario gesto di protezione.

 

A dispetto della rabbia che le stravolgeva i bei lineamenti, mescolata al purtroppo familiare dolore sordo ed avvolgente, vi era comunque una sensazione che dominava su tutte le altre, che le torceva lo stomaco provocandole ripetute ondate di nausea e che minacciava di piegarla da un momento all’altro: incontrollato ed irrazionale panico.

 

-Potevi lasciare scegliere a me. Il bambino lo avevamo concepito in due, anche io avevo il diritto di dire la mia- dichiarò Tom con un tono di voce alterato a causa dell’eccessiva tensione accumulata in quelle ultime settimane.

 

Andree schioccò la lingua infastidita mentre un lampo di gelido sarcasmo le attraversò le iridi rendendole pericolosamente simili al ghiaccio. Lo fissò per qualche istante con il capo impercettibilmente reclinato di lato come se stesse soppesando se veramente valeva la pena far uscire quelle parole che probabilmente avrebbero ferito entrambi, portandoli ad un punto di non ritorno.

 

La decisione fu fulminea e molto meno dolorosa di quanto avesse preventivato -Che mi avresti detto? Un figlio, sei pazza? Non è mio oppure abortisci?- parlò con estrema lentezza, concedendo a Tom di cogliere appieno il significato delle sue accuse, concessione che in tribunale evitava accuratamente sapendo che alla controparte non doveva mai essere lasciato il minimo margine di riflessione, ma a lui lasciò il tempo necessario per comprendere che le sue risposte, da quel momento in avanti, avrebbero determinato la riuscita o meno di ogni loro futuro, eventuale rapporto.

 

-Non ti avrei mai chiesto una cosa del genere- obiettò d’impulso ma impallidendo leggermente.

 

-Ah no?- lo rimbeccò lei con un ghigno di amara derisione -Ne sei sicuro?-

 

Andree lesse un’inequivocabile espressione di incertezza negli occhi nocciola di Tom –Come immaginavo- constatò guardandolo senza battere ciglio. Forse doveva provare compassione se non per lui almeno per se stessa, ma non ne aveva più, o forse, semplicemente, l’autocommiserazione non rientrava del suo carattere – Così oltre a quelle dei miei genitori, avrei dovuto sopportare anche le tue di pressioni! No grazie, é stato già abbastanza difficile così- sbottò appoggiandosi contro la scrivania scossa dal fiume di ricordi che la travolse come un torrente in piena suo malgrado.

 

Si era imposta di affrontare quella discussione con distacco e freddezza ma era evidente che ciò non le era umanamente possibile, troppe emozioni a lungo represse, stavano uscendo allo scoperto, tante frasi mai dette stavano per venir formulate e soprattutto molte risposte potevano finalmente essere date.

 

Tom la fissò incredulo osservando con un senso di panico il pallore che sostituiva piano piano il rossore dell’ira sul bellissimo volto di Andree, ignorando che lo stesso terreo pallore era sul suo stesso viso -I tuoi volevano che tu abortissi?- formulò quella domanda con apparente indifferenza ma un glaciale senso di oppressione lo avvolse, sconvolgendolo sino nel più profondo del suo essere.

 

-Certo che sì!- sbottò lei sorpresa ed infastidita dall’incredulità con cui l’uomo apprendeva parte delle enormi difficoltà che aveva dovuto affrontare per far nascere Josh. Che cosa credeva, che i suoi genitori avessero fatto i salti di gioia scoprendola incinta? Che parenti ed amici si fossero affrettati a complimentarsi con lei? Ma da che pianeta veniva quell’individuo?

 

D’improvviso rimembrò che in fondo Tom non sapeva assolutamente nulla della sua vita privata -Sono l’unica figlia di un noto imprenditore, molto conosciuto e rispettato nell’alta finanza americana- spiegò. esponendo con calma la sua situazione familiare – Una famiglia in vista come la mia non poteva certo accettare di buon grado la prematura ed inaspettata gravidanza della loro rampolla, senza contare che non solo non ho accettato alcun matrimonio riparatore, ma non ho mai neppure voluto rivelare chi fosse il padre- Andree sorrise amara lanciandogli un’occhiata sbieca - D’altronde, anche volendo, il tuo nome l’ho saputo solo pochi giorni fa-

 

Tom non sapeva che rispondere -Mi dispiace- borbottò sentendosi uno sciocco nel rendersi conto che non avrebbe potuto dire cosa più ovvia, poi scrutandola con una strana espressione in volto, stupendosi di scovare tanta umana fragilità dietro l’imperscrutabile facciata  che Andree gli aveva propinato sino a quel momento, chiese con il suo consueto tono basso e dolcissimo –Come hai fatto ad allevare Josh da sola?-

 

Andree si strinse nelle spalle troppo presa dai suoi dolorosi ricordi per rilevare il repentino mutamento avvenuto nell’uomo che ora la scrutava con ammirazione mista a qualcosa di più intenso ma meno definibile - è un bambino molto buono-

 

Tom tacque per un istante ammaliato dalla forza interiore di quella donna complessa -Non intendevo quello- mormorò -Le pressioni morali, la paura di scoprirti incinta di uno sconosciuto a sedici anni e lo stato psicologico in cui eri…mi sono chiesto migliaia di volte cosa ti fosse successo- attese un attimo soppesando se fosse il caso di chiederle apertamente ciò che gli stava a cuore, la domanda che per anni si era posto infinite volte –Me lo vuoi dire? Che ti era successo Andree?-

 

Nella stanza scese il silenzio, ogni traccia di rabbia sembrava essersi volatilizzata nel nulla, sostituita da una sconvolgente e pressante voglia di capire, di comprendere le ragioni inconfessate che li avevano portati a quel punto assurdo.

 

Dopo qualche tempo che sembrò ad entrambi eterno, Andree trovò la forza di rispondere anche se la sua voce era pressoché un bisbiglio -Sono affari miei … - tentò di resistere, in un ultimo, strenuo tentativo di celare al mondo l’umiliazione che aveva subito .

 

Tom la avvolse tutta con un unico sguardo, determinato più che mai a dipanare una volta per tutte le ombre tra di loro -Ma mi potrebbe aiutare a capire…-

 

Andree sospirò rassegnata. Inutile resistere, aveva tanto bisogno di dirglielo quanto ne aveva lui di saperlo -Una delusione d’amore…banale no? Quel pomeriggio avevo scoperto il mio ragazzo a letto con…un altro-

 

-Altro?!?!?-

 

-Era omosessuale e io solo una copertura…-

 

Tom inclinò la testa verso Andree ed un’espressione incredula gli piegò le belle labbra -Ora capisco perché continuavi a chiedermi se ti trovavo bella…il tuo orgoglio di donna era stato calpestato-

 

Andree scosse il capo con decisione, distogliendo lo sguardo dagli occhi intensi di lui, era evidente che quei ricordi la turbavano ancora profondamente –No, non l’orgoglio, ma la mia stessa femminilità era stata calpestata. Mi sentivo rinnegata, inadeguata nel mio corpo di donna-

 

-Sciocca…- sbuffò lui sentendo un’ondata di infinita tenerezza invaderlo prepotentemente. Si avvicinò a lei e, abbandonandosi ad un istintivo impulso, le sfiorò appena una guancia con le nocche – Non vi è nulla di inadeguato nel tuo corpo…e quella notte me lo hai ben dimostrato- mormorò osando andare oltre afferrandola per i fianchi e attirandola a sé -Io non volevo, te lo giuro, ho tentato di riportarti alla ragione, ma non ce l’ho fatta, eri troppo bella, troppo seducente…- le sussurrò all’orecchio con un tono pregno di eccitazione e trasporto.

 

Andree fremette spaventata dalle emozioni che il corpo di Tom le trasmetteva, mescolandosi al suo stesso desiderio. Si irrigidì tra le sue braccia ma si sforzò di contrastare l’impulso di ritrarsi, pregando che lui non la lasciasse andare, che la proteggesse da se stessa eliminando per sempre quel malessere che le impediva di darsi nuovamente ad un uomo.

 

Tom percepì il cambiamento nel corpo di lei, il brusco passaggio dall’abbandono al rifiuto, ma non se ne sorprese più di tanto, in fondo non si sarebbe meravigliato nello scoprire di averle in qualche modo trasmesso l’insano impulso animale di prenderla lì sopra la scrivania e di buttare all’aria l’ordine impeccabile e quasi angosciante dello studio. L’intensità di quel sentimento sconvolgeva lui per primo ed Andree, scossa com’era dai ricordi, non poteva certo starsene rilassata tra le sue braccia. Ma lui non voleva spaventarla, il suo intento era esattamente l’opposto: proteggerla e darle conforto, lo stesso identico intento che lo aveva animato sette anni prima, peccato che il risultato era stato ben poco edificante per la sua moralità.

 

Che schifoso animale era stato… quella creatura era indifesa e sconvolta e lui…una bestia, un cane arrapato incapace di dominarsi. Si faceva schifo. Non la meritava. Non meritava quel corpo morbido e caldo tra le braccia. Non meritava un figlio bello, sano ed intelligente come Josh.

 

Josh! Solo lui lavava in parte la sua colpa, era paradossale : il frutto della sua debolezza era anche l’arma del riscatto, la fonte del suo orgoglio.

 

Sospirò affondando ancor più il volto nei capelli raccolti di lei che profumavano di vaniglia, quanto avrebbe voluto liberarli da quel mare di forcine e farsi avvolgere completamente da quelle ciocche di seta. Non la lasciò andare anzi la strinse ancor di più a sé, nonostante desiderasse solo fuggire lontano da stesso impedendo così che quella donna pura venisse nuovamente contaminata.

 

L’innocente tenerezza che le sconcertanti rivelazioni di Andree sulle difficoltà che aveva attraversato a causa della sua famiglia e di quel bastardo che le aveva spezzato il cuore, lo aiutarono a riprendere il controllo, respingendo il senso di ripugnanza che il suo comportamento gli aveva fatto provare. Solo Andree poteva ridonargli la pace, cancellare per sempre il suo profondo senso di colpa e ridargli la serenità che aveva perso definitivamente da quando aveva scoperto che pesanti conseguenze aveva avuto la sua leggerezza.

 

Il febbrile rimuginare gli permise di riprendere, in qualche modo, il filo coerente dei suoi pensieri e, pur continuando a tenerla stretta al petto e a cullarla con dolcezza come se fosse la ragazzina di allora bisognosa di consolazione, si rilassò, allontanando definitivamente ogni istinto lussurioso.

 

Anche Andree riprese il controllo di sé ed accettò l’innocente conforto che lui le offriva mentre una vocina da qualche parte nella mente le chiedeva come facesse ad essere così certa che l’abbraccio di Tom fosse “innocente”. Ovviamente non sapeva rispondere da dove le venisse una così certa consapevolezza, tanto più che nonostante la sua inesperienza con il sesso, non era così sciocca da non aver colto la prepotente eccitazione di lui qualche istante prima, ma ora tutto era cambiato, si sentiva come se avessero varcato l’immaginaria soglia della pace dei sensi, uno stato di serenità totale dove nessun sentimento umano, bello o brutto che fosse, poteva entrare.

 

Ma quella condizione immaginai durò molto poco e ben presto l’emozione riprese a scorrerle nelle vene riportandole in circolo il pesante bagaglio dei suoi ricordi -Non ricordo quasi niente di quella notte, ma so che non mi hai obbligata, non mi hai fatto alcuna violenza, lo so bene che sono stata io ad offrirmi- disse tentando distrattamente di sistemare un filo fuoriuscito dalla felpa del ragazzo appena sotto la spalla del calciatore dove lei era appoggiata. 

 

Tom sussultò. Quelle semplici parole abbatterono con un sol colpo, se ancora ve ne fosse qualche bisogno, il muro di rancore ingiustificato aveva erto nella sua anima e di cui si era avidamente nutrito nelle ultime settimane per proteggersi dal sentimento molto più complesso e profondo che aveva cominciato a farsi strada nel suo cuore –Dici davvero?-

 

-Certo che sì!- affermò Andree stupita, staccandosi da lui per poterlo osservare meglio in viso – O mio dio non avrò per caso fatto o detto qualcosa che ti ha fatto pensare che ti ritenessi responsabile della follia di quella notte?-

 

In effetti Andree non aveva mai fatto nulla del genere, era stato lui, accecato dai suoi sensi di colpa, a credere che lei lo pensasse –Io mi sento colpevole…tu non eri cosciente-

 

-E tu eri solo un ragazzino con gli ormoni al punto giusto…che colpa ne hai?-

 

-Oh Andree…io ho sbagliato tutto ti prego lasciami la possibilità di rimediare …frequentiamoci, conosciamoci, permettimi di farti capire come sono realmente-

 

-Non ti voglio illudere, quello che c’è stato allora non c’entra niente con quello che siamo oggi, ma abbiamo un figlio che ha diritto al nostro amore perciò va bene Tom, conosciamoci- concesse facendosi improvvisamente timida ed impacciata e tentando di porre più distanza possibile tra di loro.

 

Ma Tom non era dello stesso avviso e, afferrandola per un polso, la trattenne -Che ne dici di un cena al ristorante stasera?- chiese gaio scrutandola speranzoso.

 

-Va…va … bene- farfugliò sempre più imbarazzata.

 

-E il cinema domani-

 

-Si può fare … - concesse cominciando a divertirsi anche lei.

 

-E del Luna Park domenica-

 

-Come corri, ne riparliamo con calma- rise finalmente rilassata, fingendo che fosse del tutto normale la forza gentile ma determinata con cui Tom la stava nuovamente trascinando tra le sue braccia – Non…non mi è piaciuto lo scatto che hai avuto con Julian prima- aggiunse seria sforzandosi di non pensare al calore del petto di Tom sul suo seno che la riscaldava come brace ardente nonostante i pesanti strati di vestiti che li dividevano.

 

-Non so che mi ha preso, vedere Josh felice in braccio ad un altro mi ha fatto infuriare- ammise sincero –Per non parlare del pensiero di che stavate facendo voi due- pensò, ma ritenne opportuno non dirglielo, invece aggiunse –Scenata di gelosia credo…-

 

-Geloso di tuo figlio?!? Ma Josh ti adora…-

 

-Ma adora anche gli altri uomini che ti stanno intorno- esclamò guardandola in uno strano modo -Senti io credo che per non confondere il bambino dovresti smettere di frequentare altri uomini-

 

Andree sbatté le palpebre perplessa –Scusa?-

 

-Si insomma la tua relazione con Julian o con il dottor Lee, magari confonde Josh…-

 

-Con Julian ho chiarito ogni cosa- disse secca- Per quanto riguarda Noam, Josh lo ha visto sempre al mio fianco da quando è nato e ti assicuro che la sua presenza non lo ha mai confuso-

 

-Ma io preferirei…-

 

-Ed io preferirei se ti concentrassi a non rovinare i tuoi di rapporti con Josh- borbottò infastidita allontanandolo -Un altro scatto come quello di oggi e credo che mio figlio non ne vorrà più sapere di te, indipendentemente dagli uomini che frequenta sua madre-

 

-Ok ho capito- sbuffò lui passandosi nervosamente una mano tra i capelli e scompigliandoli un poco come faceva sempre quando era nervoso -Allora mettiamola così: io non voglio che tu frequenti altri uomini al di fuori di me-

 

Andree lo fissò scandalizzata -Non siamo nel medioevo mio caro io ci lavoro in mezzo agli uomini-

 

-Non far finta di non capire, non mi interessano gli uomini con cu hai rapporti d’affari ma quelli con cui vai a letto-

 

Andree represse il primo impulso di ribellione chiedendosi se aveva capito bene, quando fu certa che non vi erano possibilità di errore, lo incenerì disgustata –Il mio letto non ti riguarda-

 

-Forse non ancora ….- sorrise serafico Tom deridendo deliberatamente il suo sdegno e prendendola così completamente in contropiede – Ma è mia intenzione rimediare in fretta - le sussurrò ficcandole un dito sotto il mento e costringendola a sollevare il capo – E un sesto senso mi dice che tu non hai obbiezioni valide…- aggiunse con un tono talmente sensuale che Andree sentì qualcosa liquefarsi nella sua anima mentre lui le sfiorava appena le labbra con le proprie – Sbaglio, avvocato?-

 

Non attese risposta, d’altronde sapevano entrambi che si trattava di una di quelle domande retoriche fatte semplicemente per esprimere una certezza. E come poteva respingere con dignità tanta arrogante sfacciataggine mentre la sua bocca si dischiudeva compiacente accogliendo estasiata la lingua di Tom?

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


CAPITOLO XIX.

 

L’indomani mattina sarebbe partito per la Russia per affrontare il ritiro e la prima partita di qualificazione per i prossimi mondiali, sarebbe stato via solo quattro giorni, ma gli sembravano una desolante eternità. Poggiò due occhi colmi di paterna tenerezza sul bambino in ginocchio ai suoi piedi impegnato a terminare un disegno che lui avrebbe portato con sé come portafortuna. Josh aveva disegnato l’intera squadra giapponese con la coppa del mondo stretta saldamente tra le mani del capitano Hutton.

 

Sentì un rumore metallico provenire dalla cucina e distolse a malincuore lo sguardo da quel quadretto rilassante per mettere a fuoco un’altra immagine, altrettanto cara. Andree era china sulla lavastoviglie intenta a programmare il lavaggio della sera.

 

In quei giorni si erano frequentati assiduamente, entrambi avevano sfruttato ogni momento libero per stare insieme a Josh, il quale sembrava aver completamente dimenticato la sua vergognosa sceneggiata nell’ufficio della madre. Con Andree aveva stabilito un rapporto d’amicizia e confidenza ed avevano trascorso molte ore a parlare delle loro vite, con Josh placidamente addormentato con il capo abbandonato sul suo ventre ed i piedi sulle gambe di Andree.

 

Eppure a Tom, per quanto cara gli fosse quell’atmosfera familiare, sentiva che quella situazione non lo soddisfaceva più. Infatti nonostante i suoi tentativi più o meno determinati, Andree aveva rifiutato categoricamente ogni suo avvicinamento fisico. O meglio, lo lasciava avvicinare quando c’era Josh o erano in un luogo pubblico, ma quando si trovavano da soli, lei si ritraeva nel suo incomprensibile guscio e diventava un pezzo di ghiaccio inospitale. Non riusciva a capacitarsi del comportamento della donna, e le sue scuse non lo avevano convinto per niente. Lei sosteneva che voleva procedere con cautela perché in ballo non c’erano solo i loro sentimenti ma anche, e soprattutto, quelli di una creatura innocente che non doveva assolutamente subire le conseguenze dei loro errori, quindi dovevano essere più che sicuri di voler iniziare una relazione stabile. Ma essere sicuri di che? Di quali altre sicurezze aveva bisogno quel diavolo di donna per aprirgli le porte della sua camera da letto? Lei lo voleva quanto lui voleva lei. Di questo aveva una certezza assoluta. Le parole potevano ingannare, nascondere, deviare, ma il corpo parlava un linguaggio sincero ed inequivocabile. Oltre al bacio in ufficio era riuscito a strappargliene altri due ed ogni volta la passione era stata sempre più prepotente. Vi era un fuoco tra di loro che li divorava e li stordiva, perché non lo ammetteva e vivevano finalmente come una normale coppia? Non vi erano legami che potessero ferire terze persone, o perlomeno lui non riteneva Julian un potenziale innamorato respinto, era certo che tutto quell’accanimento per Andree fosse dovuto ad una sorta di orgoglio maschile, il bel “Principe” non era in grado di tollerare l’idea che una donna gli preferisse un altro e per quanto riguardava il Dottor Noam Lee, lei gli aveva giurato che per quanto intimo potesse sembrare all’apparenza il loro rapporto, tra loro non c’era, e non c’era mai stato, altro che una casta amicizia.

 

E allora perchè lo rifiutava? Che temeva? Credeva che lui volesse solo portarsela a letto e poi scaricarla? Magari all’inizio la rabbia gli aveva anche fatto balenare fugacemente un’idea del genere, ma ora il solo ripensare a quel proposito idiota lo faceva sorridere per la sua ingenuità.  Lui la amava! Da sempre e per sempre. Ci aveva messo un po’ ad ammetterlo ma poi la consapevolezza dei suoi stessi sentimenti si era fatta strada senza difficoltà, mettendolo di fronte ad una realtà che in fondo aveva sempre conosciuto. Sì, ammettere di amare Andree era stato fin troppo semplice e ciò non lo aveva stupito, il sentimento totale che provava per quella donna era quanto di più appagante avesse mai provato. Andree era entrata nel suo cuore quella notte di pioggia a Parigi e da allora non ne era più uscita, semplicemente si era nascosta dietro a strati di rabbia e di confusione che lo avevano avvelenato per anni.

 

E proprio quel rancore accumulato nel tempo, gli aveva fatto dapprincipio scambiare l’amore per odio. Etichettare quel sentimento devastante, che lo spingeva verso di lei, come odio era stato infinitamente più semplice. Ma Andree aveva abbattuto una ad una le sue barriere difensive, mostrandogli che madre eccezionale fosse, che donna coraggiosa e che animo nobile celasse dietro alla sua apparente freddezza. Ora capiva che quel manto di superiorità, che indossava dinnanzi al mondo, le era stato indispensabile per proteggere se stessa e suo figlio dall’ignoranza e dalla cattiveria del mondo. Non poteva più ignorare l’amore che provava per lei ora che sapeva come era realmente.

 

Tom sbatté le palpebre confuso sentendosi tirare per una manica della felpa. Si voltò e lo sguardo attento del figlio, tanto simile al suo, gli provocò un piacevolissimo tuffo al cuore.

 

– Ecco ho finito, ti piace?- gli chiese il bambino porgendogli il foglio colorato e guardandolo sorridente.

 

Tom prese il disegno quasi con revenzialità, osservando con cura per qualche istante le linee colorate tracciate con  notevole talento – Meraviglioso Josh! Lo terrò sempre con me accanto alla mia maglietta!- esclamò con un impeto di sincera fierezza.

 

Il bambino si illuminò accoccolandosi accanto al padre- Dici davvero? E vincerete Tom?-

 

-Certo! Hai dubbi?- lo provocò Tom fingendosi offeso e scompigliandogli con affetto i folti capelli castani.

 

 Josh rise felice mentre il padre lo trascinava sul suo grembo tenendolo stretto e  facendogli il solletico dappertutto.

 

Andree, richiamata dalle risate e dalle rumorose grida di Josh, si affacciò alla porta e, appoggiandosi appena allo stipite della porta, godette con infinita gioia di quella scenetta di appagante serenità familiare.

 

Ormai era solo questione di tempo, Josh era quasi pronto ad apprendere la verità. Si era del tutto abituato alla presenza di Tom in casa e a lei non era sfuggita la trepidazione con cui il bambino accoglieva ogni volta il calciatore. Era contenta che tra padre e figlio vi fosse quella corrente di simpatia istintiva ed era anche lei impaziente di rivelare a Josh che Tom era il suo papà.

 

Eppure non riusciva a reprimere una punta di fastidiosa reticenza: ammettere la verità col figlio per lei avrebbe significato rinunciare anche all’ultima tenue barriera che la separava da Tom.

 

I suoi sentimenti avevano smesso da qualche tempo di essere un rifugio, non era così codarda da non ammettere che voleva bene a Tom, che desiderava la sua compagnia ed apprezzava ogni lato di lui, dalla sua intelligenza vivace, alle sue innumerevoli passioni  che spaziavano, neanche a dirlo, dalla pittura al calcio, dal suo fisico virile ed atletico alla rassicurante espressione di dolcezza che gli illuminava il volto ogni volta  che le sorrideva in quel modo speciale che le faceva sempre rischiare un arresto cardiaco. La sua mente era definitivamente conquistata e anche il suo corpo lo voleva, rispondeva con passione alla sua vicinanza eppure…tutto questo sembrava non essere sufficiente.

 

Di che cosa accidenti aveva ancora bisogno? Perché non si lasciava andare ai suoi baci appassionati? Perché non riusciva a vincere quel panico che l’attanagliava avvolgendola in una sgradevole quanto familiare spirale fatta di dolore che raggelava le sue emozioni, costringendola a rifuggire qualsiasi contatto intimo?

 

Per quanto tempo ancora avrebbe potuto tenere celato il suo blocco psico-fisico? Tom aveva già intuito che qualcosa in lei non andava, sempre più spesso la osservava dubbioso ma si era sempre astenuto da qualsiasi commento e lei lo aveva semplicemente adorato per quel suo proverbiale tatto. Ma per quanto ancora potevano fingere che tutto andasse bene?

 

Il borbottio rassicurante della caffettiera la fece sussultare, distogliendola dalle sue spinose riflessioni, sospirando si rifugiò in cucina, uscendo qualche attimo dopo con due tazze di caffè fumante in mano.

 

Si accomodò sulla poltrona di fronte a Tom e Josh ancora disordinatamente allacciati nelle loro giocose schermaglie, incuranti del disordine in cui avevano gettato il lussuoso divano di damasco blu notte. Andree sbirciò assorta il delicato tessuto sfrigolare sotto le ciabatte di Josh ed il peso imponente di Tom e, per la prima volta, vedere i suoi bei mobili presi d’assalto in quella barbara maniera non le provocò alcuna irritazione. Una casa era fatta per essere vissuta in tutte le accezioni del termine e non per rappresentare una vetrina di prestigiosi oggetti di finissima qualità.

 

E lo stesso valeva per la sua vita: era tempo e ora che si decidesse a viverla…in tutte le sue accezioni … appunto … Si lasciò sfuggire un gemito mentre un pensiero tanto sconveniente quanto stuzzicante le balenava in testa. Tom sollevò il capo di scatto scrutandola perplesso e immediatamente smise di torturare il figlio – Basta Josh o la mamma ci caccia tutti e due…- disse continuando a fissarla con una sconcertante intensità.

 

Andree tacque imbarazzata limitandosi a porgergli la tazza di caffè e sforzandosi, per quanto le era possibile, di condurre la conversazione su terreni rassicuranti.

 

Chiacchierarono per qualche tempo finché Josh non crollò addormentato in un angolo del divano dopo essersi fatto più volte promettere solennemente che il Giappone avrebbe vinto la partita contro la Russia.

 

 -Lo metto a letto…tu va pure, domani dovrai affrontare un lungo viaggio- bisbigliò Andree alzandosi e prendendo con cautela in braccio il bambino.

 

Tom le sfiorò una mano -Ti aspetto qui non sperare che me ne vada …- abbassò ancora di più la voce riducendola ad un bisbiglio appena intelligibile -Stasera noi due abbiamo qualcosa da dirci-

 

Andree spalancò gli occhi fissandolo ipnotizzata mentre stupore e angoscia si alternavano con sconcertante velocità sul suo volto. Il tono di Tom non le lasciava alcun dubbio su quali fossero le sue intenzioni e lei si irrigidì stringendo troppo forte Josh tra le braccia che mugugnò qualcosa di incomprensibile come protesta. Incapace di parlare a causa del pesante nodo proprio a livello della bocca dello stomaco, la donna rinunciò ad ogni forma di protesta e, in assoluto silenzio, portò il figlio in camera. Lo depose nel lettino indugiando più del necessario a rimboccargli le coperte e sistemargli il lumino per la notte; si muoveva come un automa ad una lentezza esasperate eppure aveva l’impressione che tutto le vorticasse attorno ad una rapidità inaudita.

 

Un pensiero intollerabile le rimbombava in testa, stordendola e facendola rabbrividire. Tom voleva fare l’amore con lei!

Quel pensiero la sconvolse fino in fondo all’anima come un tuono in piena notte.

D’altronde perché tanto stupore? Prima o poi doveva accadere, no? Un uomo non poteva certo accontentarsi di qualche bacetto rubato qua e là! E chi poteva biasimarlo? Lui aveva tutto il diritto di provare certe esigenze, il problema era che lei non era affatto pronta a darsi ad un uomo né tanto meno a spiegargli perché non poteva farlo.

Andree si guardò attorno in cerca degli oggetti familiari che in qualche modo potessero infonderle il coraggio necessario per affrontarlo. Non poteva starsene ancora per molto lì nascosta in un angolo buio della stanza di Josh sperando che Tom sparisse.

 

Deglutendo a fatica mosse qualche passo incerto poi, respirando ancora più a fondo, con un enorme sforzo di volontà, scovò la determinazione necessaria per ritornare in salotto. Fu sorpresa nel trovare la sala immersa quasi totalmente nell’oscurità e per un attimo, tra il deluso e il sollevato, pensò che Tom se ne fosse realmente andato, ma poi la sua mente registrò dei dettagli inequivocabili: una rilassante ballata di Bach in sottofondo, l’atmosfera pregna di aspettativa e soprattutto l’uomo che l’attendeva in piedi accanto al divano con due calici pieni a metà di liquido ambrato e uno sguardo carico di desideri inconfessabili.

 

Andree, nonostante l’angoscia che ormai dilagava in lei senza remore, non poté impedirsi di notare quanto fosse affascinante il gioco di luce soffusa sui lineamenti netti del calciatore e di come brillassero le sue iridi al punto che sembravano realmente dei carboni di brace ardente.

 

Per un attimo temette e desiderò essere bruciata viva da quegli occhi.

 

Tom attese qualche istante nella speranza che lei avanzasse ma vedendola immobile ed indecisa inclinò la testa di lato scoccandole un’occhiata interrogativa –Allora? Perché te ne stai lì impalata a fissarmi?-

 

Andree si sentì definitivamente smarrita – Tom …. Io sono stanca….beviamo questo drink e poi per favore vorrei andare  a letto…-

 

-Anch’io- affermò candido, indirizzandole un malizioso occhiolino e facendole accapponare la pelle sino a farle male.

 

–Non…non scherzare- disse a fatica percependo un doloroso strappo dentro di sé che la fece sbiancare, costringendola a portarsi involontariamente una mano al grembo.

 

Tom appoggiò i bicchieri sul tavolo e scuotendo il capo le si avvicinò in fretta. Lei fece per ritrarsi ma lui fu più veloce – Dove scappi! Non voglio farti niente…Andree dimmi che succede-

 

-N…niente-

 

-Allora vieni sul divano con me…voglio solo parlare- era una bugia detta senza convinzione, lo sapevano entrambi, ma Tom, per la prima volta, realizzò ciò che aveva già notato ma che si era rifiutato di analizzare più a fondo: Andree era terrorizzata dall’intimità…ma perché? Ricordava alla perfezione il suo corpo bellissimo perciò non poteva essere una qualche menomazione fisica a metterla così a disagio…a meno che il parto non le avesse lasciato dei brutti segni di cui lei si vergognava, ma la cosa gli sembrava improbabile, gli aveva raccontato della nascita di Josh e aveva detto chiaramente che era stato un parto normalissimo senza la benché minima complicazione. E allora? Qualche incidente accadutole durante quei sette anni? No, non gli aveva accennato a nulla del genere.

 

La fece accomodare sul divano sedendole accanto e  notando con apprensione ed insofferenza le spalle rigide di Andree e le sue mani contratte in grembo. Non riusciva a capacitarsi di quell’eccessivo disagio e la sua ostinazione a non volerlo guardare in faccia non lo stava di certo facilitando a capire.

 

Si chinò in avanti a prendere i bicchieri di brandy e gliene porse uno, Andree lo afferrò meccanicamente senza accennare ad alzare gli occhi.

 

Eppure non aveva dubbi sul fatto di piacerle. Lo aveva capito da come lo osservava quando credeva fosse distratto, dal modo sensuale con cui si soffermava sul suo corpo come se frenasse dalla voglia di toccarlo e soprattutto dal calore divorante con cui lo accoglieva ogni volta che si baciavano.

 

Appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo lanciandole una fuggevole occhiata, Andree aveva tracannato la sua bibita in un unico sorso ma continuava a stringere il calice tra le mani come se fosse una specie di scudo dietro il quale nascondersi.

 

Decisamente c’era qualcosa che non andava e lui non si sarebbe dato pace finché non avesse scoperto di cosa si trattava.

 

-Andree…- iniziò lentamente cercando le parole adatte – Perché non mi dici che cosa c’è che non va? Tra di noi non vi è solo amicizia lo sai il nostro è un rapporto diverso. O almeno per me lo è-

 

Andree trovò finalmente il coraggio di guardarlo in faccia. Doveva dirglielo, doveva dirglielo o lo avrebbe perduto.

 

-…quello che voglio dire- proseguì Tom togliendole il bicchiere dalle mani e afferrandogliene una con forza e dolcezza – è che ti amo-

 

Andree tremò. Quanto aveva desiderato sentirsi dire quelle semplici parole? Anche Julian gliele aveva dette qualche tempo prima ma non le avevano fatto affatto quell’effetto. Era come se un mondo meraviglioso e sconosciuto le se schiudesse davanti – Oh Tom … - esclamò incapace di aggiungere altro.

 

-Cara ho bisogno di sapere se anche tu….cioé se anche per te è lo stesso…io…- all’improvviso la sicurezza che lo aveva sorretto sino a quel momento sembrava scomparsa del tutto, la reazione di Andree era per lui così incomprensibile da gettarlo nell’incertezza più cupa.

 

Sciocco. Certo che lo amava, come poteva non saperlo? Lo amava con tutta se stessa e non solo perché condividevano Josh, ma soprattutto perché solo lui la faceva tremare e gioire, solo lui sapeva come entrarle nel  profondo, toccandola in punti di anima preclusi a chiunque altro.

 

Aprì la bocca per parlare ma non le uscì alcun suono. Fissò le loro mani intrecciate appoggiate sulla sua coscia. Quella di lui era calda abbronzata e grande, la sua gelida bianca e leggermente tremante.

 

Tom la guardò supplichevole, perché Andree non parlava? Che si fosse sbagliato? Che lei avesse tollerato la sua presenza solo per Josh? Oh non lo avrebbe mai sopportato!

 

-Mi ami Andree?- chiese di nuovo afferrandola per le spalle e voltandola completamente verso di lui.

 

-- pensò la donna fremendo – Non ci vorrà mica tanto a dire sì? Perché non ci riesco? Perché se glielo dico devo anche confessargli che…Tom ti amo  ti amo ti amo ma…non sono pronta accidenti! Voglio fuggire…non ce la faccio più!-

 

Tom la fissò sconcertato –Mi sono sbagliato dunque? Mi hai accettato al tuo fianco solo per Josh? Non mi rifiuto di crederlo!- sbottò alzandosi di colpo –I baci che ci siamo dati, il modo in cui mi guardi, tu mi ami lo so!-

 

-- perché non sentiva la voce della sua anima?

 

-Dimmi qualcosa almeno! Che c’è?- esclamò cadendole ai piedi in ginocchio e prendendole il volto a coppa tra le mani in modo da impedirle di sfuggire il suo sguardo –Dimmelo! voglio sapere che cosa ci impedisce di essere una coppia normale! Possiamo essere felici, il destino ci ha fatti ritrovare, abbiamo un figlio e…ne voglio altri Andree…ti amo sei l’unica madre che voglio per i miei bambini, l’unica donna che voglio nel mio letto!-

 

Che cosa voleva di più? Era una dichiarazione splendida, erano i suoi stessi desideri espressi in semplici parole colme d’amore. Era tutto semplice, perfetto, come doveva essere.

 

Lo voleva. Voleva il suo corpo e la sua anima. E li aveva. Doveva solo dire “sì” e tutto ciò che desiderava di più al mondo sarebbe stato suo.

 

Tom attendeva, fissandola ormai vicino al panico, non si era aspettato quella mancanza di reazione da parte di lei, eppure era così pronta in tribunale, praticamente infallibile, ma nella vita privata, Andree era più impacciata timorosa di una bambina.

 

Possibile che avesse preso un così colossale abbaglio? A volte la gente immagina sensazioni che non esistono e si crea mondi  che in realtà vi sono solo nella loro fantasia.

 

E lui aveva un tale bisogno di lei che forse aveva lasciato galoppare la sua immaginazione senza saperlo … senza volerlo …

 

No. Non poteva essersi ingannato sino a quel punto.

 

Eppure lei taceva, teneva lo sguardo basso e non diceva una parola. Non sembrava contenta di quella sua dichiarazione, ma che altro si era aspettata? Lui la amava non lo aveva forse capito da tempo? Non glielo aveva dimostrato in tutti i modi in quella splendida settimana trascorsa assieme? Non l’aveva coccolata, corteggiata, lusingata, fatto tutto ciò che un uomo innamorato poteva fare per manifestare i propri sentimenti?

 

Che le prendeva? Perché non spiaccicava parola? Possibile che fosse talmente sorpresa dalle sue parole? No improbabile … Andree sapeva da tempo quali erano i suoi sentimenti, sentirseli dire così esplicitamente non poteva averla sconvolta al punto da non farle pronunciare neppure una sillaba.

 

In preda ad un ultima speranza Tom avvicinò il suo volto a quello di lei e le sfiorò le labbra con le proprie. Andree non si mosse limitandosi a chiudere gli occhi. Tom la osservò solo un istante lasciandole un margine di tempo per ritrarsi se lo avesse voluto. Ma Andree non fece nulla del genere e galvanizzato dalla sua accondiscendenza continuò a baciarla con tenerezza via via crescente sino a che il desiderio non lo avvolse e, sollevandosi da terra, si sporse in avanti sospingendola sul divano. Premette con tutto il suo peso sul corpo morbido e caldo di lei costringendola a sdraiarsi e impedendole qualsiasi via di fuga. Continuò imperterrito a stuzzicarle le labbra con veloci colpi della lingua mentre le sue dita affondavano nella massa morbida dei suoi capelli, glieli tirò un poco obbligandola a voltare il capo ed offrirgli così il collo nudo attraversato da una vena rigonfia che pulsava impazzita. Le sfiorò la pelle delicata ed il battito convulso della carotide di lei contro la sua bocca lo sconvolse di piacere facendolo rabbrividire e spingendolo ad osare di più. Andree non si opponeva anzi il suo respiro corto testimoniava che lui non poteva essersi sbagliato più di tanto. Lei voleva tutto quello e  … ancora di più.

 

Gemette in preda ad un’eccitazione ormai quasi incontenibile, la sua virilità pulsava alla stessa velocità del cuore della donna che stava per accoglierlo, provocandogli un misto di piacere e dolore tra le gambe. Non ricordava di nessun’altra amante che lo avesse portato così in fretta a quei livelli non facendo assolutamente nulla. Se non si sbrigava sarebbe venuto nei suoi stessi pantaloni facendo la figura del perfetto imbranato. Con una certa urgenza si sollevò su un gomito, quel che bastava per permettergli di infilarle una mano sotto la felpa, ma non appena sfiorò la pelle calda e liscia del ventre di Andree, fremendo da capo a piedi di anticipazione, questa scattò all’indietro puntandogli le mani al petto e spingendolo via con forza – Che stai facendo?- lo aggredì fissandolo glaciale.

 

Tom sbatté le palpebre perplesso. Secondo lei che stava facendo? Doveva risponderle? Cosa, accidenti? Che cazzo voleva sentirsi dire?

 

-Ti amo e tu?- chiese scrutandola confuso.

 

Sì lo amava ma non era sufficiente. Non ce la faceva ad abbattere la barriera psicologica che le impediva di appartenere ancora ad un uomo. Non ci poteva fare niente, tutto andava bene per alcuni istanti ma poi una morsa violenta le chiudeva le viscere stritolandola come se mani invisibili gliele stessero strappando dal corpo. Una sensazione orribile, dolorosa e ripugnante. Era inutile, ci aveva provato, ma era tutto inutile. Non avrebbe mai potuto dare  a Tom una vita normale, una donna normale, tanto valeva tagliare subito, avrebbe fatto meno male ad entrambi. Forse non era ancora troppo tardi per risparmiare ad entrambi frustrazione ed umiliazione.

 

-Ci ho provato ma non ce la faccio Tom…non ti desidero, non ti voglio come compagno ….mi spiace non ti amo- pronunciò quella sfilza di bugie in fretta come se le bruciassero sulle labbra ma il tono era limpido, categorico, credibile, era il tono che l’avvocato Takigawa usava per raggirare le giurie più pignole.

 

Lui le credette, glielo lesse in faccia. Andree soffocò l’urlo di dolore che le ruggiva in petto chiedendosi se fosse dovuto più ai suoi blocchi o  all’infinita pena che scese sul volto dell’uomo che adorava.

 

-Non ti credo- sbottò Tom in un ultimo impeto di protesta, alzandosi di scatto e passandosi entrambe le mani tra i capelli.

-Fattene una ragione- replicò seccamente, risistemandosi la felpa ma evitando di alzarsi, non era certa che le gambe l’avrebbero sorretta – Ho fatto tutto per Josh ma non ce la faccio più. Mi spiace, ovviamente puoi vedere il bambino quando vuoi e spero riusciremo a mantenere i nostri rapporti…amichevoli- aggiunse inespressiva celandosi dietro ad un atteggiamento di gelida indifferenza.

-Amichevoli? Puah- replicò acido Tom schiumando letteralmente di umiliazione, se il suo obiettivo era ferirlo nel profondo, c’era riuscita in pieno – Che vi può essere di amichevole tra di noi? Lo sai quali sono i miei sentimenti e credevo di sapere quali fossero i tuoi…ma sei brava a confondere la gente, è ovvio che mi ero sbagliato in pieno- constatò con amarezza squadrandola con astio ma, vedendo che lei non reagiva, ostinandosi a non guardarlo, sciorinò una serie di imprecazioni irripetibili, quindi girò sui tacchi ed uscì in fretta da quell’appartamento la cui vista gli era diventata ormai intollerabile.

 

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Capitolo 20
*** Cap XX ***


CAPITOLO XX.

 

Oliver Hutton gemette sommessamente guardandosi attorno alla disperata ricerca di qualcuno che lo potesse aiutare nel disperato tentativo di frenare quella furia umana che lo precedeva di una manciata di passi. La constatazione di essere solo ad affrontare Julian Ross in uno stato di alterazione del tutto insolita per l’equilibrato difensore nipponico, lo riempiva di apprensione, senza contare la valanga di sensi di colpa che lo tormentavano a più riprese, facendolo sentire il più ripugnante dei vermi. Non aveva la benché minima scusante: da tempo sapeva che la situazione si era fatta insostenibile e che era ineluttabilmente destinata a degenerare. Allora perché non aveva fatto qualcosa per evitare di arrivare sino a quel fatidico punto di rottura? Idiota! Ecco cos’era: un perfetto, inetto idiota! Non se la meritava la fascia di capitano. Un capitano veramente degno di quel nome, aveva la responsabilità morale di ogni singolo giocatore e non permetteva che le tensioni personali arrivassero sino al punto da interferire con la prestazione della squadra. Inoltre Tom non era neppure un giocatore qualsiasi, ma il suo migliore amico, la sua spalla, l’altra metà della Golden Combi!

 

-Dov’è quel coglione! Ma adesso me la paga … e con gli interessi pure!-

 

La voce innaturalmente stridula di Julian riecheggiò contro le fredde pareti imbiancate da poco, facendo quasi tremare le imponenti vetrate smerigliate da cui filtravano i pallidi raggi del sole moscovita, privo di qualsiasi calore.

 

-Fermati, lascia che ci parli prima io … - supplicò Holly affrettando il passo per non lasciarsi distanziare – Calmati e ragiona…- aggiunse sporgendosi in avanti nel tentativo  di afferrare il compagno per la maglietta, ma ottenendo, come unico risultato, una violenta spinta che gli fece quasi perdere l’equilibrio.

 

Julian proseguì con passo sempre più accelerato sciorinando colorite sfilze di imprecazioni e spalancando, una ad una, le numerose porte che si affacciavano lungo l’asettico corridoio che collegava il campo da calcio alla zona riservata ai calciatori ospiti. Holly ringraziò mentalmente il cielo che a quell’ora tarda del pomeriggio il personale dello stadio russo se ne fosse già andato altrimenti, di fronte a quella scena pietosa, si sarebbe sicuramente fatto un’idea del tutto distorta e sicuramente poco lusinghiera del “mite e controllato” popolo giapponese.

 

 -Dove sei infame!- rimarcò il difensore ormai fuori di sé dalla collera passandosi inconsciamente una mano sul torace dove la maglietta, impregnata di sudore, gli si era incollata alla pelle ed il cuore gli batteva in petto come un martello impazzito.

 

Ad Holly non sfuggì quel gesto nervoso che per molti anni aveva rappresentato un campanello d’allarme per tutti coloro che erano a conoscenza della malformazione cardiaca del “Principe”. Sapeva che ora  quella specie di tic, non era altro che un retaggio scomodo di cui Julian faticava a liberarsi, ma nonostante quella consapevolezza, non poté impedire all’antica preoccupazione per la salute dell’amico di farsi strada in lui. Non aveva mai visto Julian tanto infuriato. Il capitano osservò perplesso la schiena del difensore scossa da sussulti violenti che gli facevano alternativamente arrossire e poi sbiancare il volto mentre si accaniva contro l’ennesima porta, spalancandola con tanta furia da mandarla sbattere contro la parete retrostante.

 

-Ti prego ascoltami…- insistette Holly pur sapendo che ormai ogni suo sforzo era vano –Non sei in condizioni di…-

 

–Taci!- lo zittì Julian urlandogli la sua collera in faccia -Hai visto che mi ha fatto…- aggiunse digrignando i denti per lo sforzo di controllarsi - Sei il capitano cazzo!-

 

Svoltando improvvisamente a destra, come folgorato da un’improvvisa intuizione, Julian si infilò dentro una pesante porta di palissandro socchiusa che dava su una spartana anticamera rivestita di mattonelle di ceramica scura e arredata solamente con un paio di sedie in stile settecentesco rivestite di raso blu notte. Julian si guardò attorno per un attimo e, individuato ciò che cercava, si lanciò come una furia contro la porta a soffietto che faceva da divisorio tra quella specie di atrio e gli spogliatoi veri e propri. L’esile pannello non resse l’attacco violento del giocatore e, dopo aver scricchiolato penosamente sui cardini per qualche istante, fuoriuscì dal binario originale, accartocciandosi a terra con un tonfo sordo.

 

-Eccoti … stronzo-

 

Il Principe scandì quelle due parole con estrema calma muovendo appena le labbra, una forzatura che Holly registrò con crescente angoscia, sapendo che l’immobilità di Julian e soprattutto l’innaturale rigidità del suo profilo aristocratico, erano solo il preludio di un’esplosione d’ira tanto inevitabile quanto incontenibile.

 

Con un gemito d’esasperata rassegnazione Holly distolse lo sguardo dal difensore per mettere a fuoco l’interno della stanza quasi totalmente in penombra. I suoi occhi si abituarono in fretta alla scarsa luminosità e una morsa penosa gli strinse il cuore non appena riconobbe la larga superficie della schiena della sua inseparabile metà.

 

Tom Becker s’immobilizzò al suono della voce del compagno facendo scattare appena le spalle all’indietro.

 

Nell’ampio stanzone scese un pesante silenzio e persino il fiato sembrava essersi mozzato nelle gole dei tre calciatori.

 

Solo un rumore, spiacevolmente cadenzato, disturbava quella quiete apparente.

 

Holly spostò, sempre più sbalordito, lo sguardo dalla schiena del compagno al pavimento. Quel suono sinistro altro non era che il regolare gocciolio di liquido scuro che fuoriusciva dalle mani di Tom mentre questi chiudeva e riapriva ritmicamente i pugni irrigiditi e contratti contro le cosce muscolose fasciate, oltre che dai soliti pantaloncini bianchi di cotone, anche da un paio di ciclisti di folta lana, protezione indispensabile contro il pungente freddo russo.

 

Migliaia schegge di legno di svariata grandezza, che un tempo componevano una delle numerose panchine disseminate lungo le pareti dello spogliatoio, giacevano ovunque attorno ai piedi del numero undici nipponico.

 

Il capitano, incapace di proferire parola per lo sconcerto, mosse un passo oltre la soglia e il rumore metallico prodotto dai suoi tacchetti contro la ceramica del pavimento, fece voltare di scatto Tom. I capelli castani, ancora impiastricciati di fili d’erba e sudore, sferzarono le guance livide del centrocampista, circondandogli il volto in una disordinata criniera, mentre l’espressione dura, oltre cui era impossibile intravedere anche solo un barlume dell’antica dolcezza, lo facevano assomigliare in maniera impietosa ad un animale braccato. Un lampo feroce screziò il dorato castano delle iridi offuscate dall’ira mentre queste si posavano sul volto irrigidito di Julian, stagliato nel rettangolo luminoso della porta. 

 

-Eccoti qui vigliacco!- iniziò il Principe  intercettando lo sguardo del compagno e avanzando lentamente nello spogliatoio che odorava di detersivo alla lavanda – E mollami Holly, starmi appiccicato al braccio non mi impedirà di sbarazzarmi di questo essere immondo- ringhiò tentando di scrollarsi di dosso il capitano con uno strattone insofferente.

 

Holly non mollò la presa, stringendo con ancor maggior fermezza le lunghe dita attorno al bicipite tesissimo del numero quattordici e, anche se il suo intervento non sembrava in grado di far desistere Julin dalla sua intenzione di staccare la testa a Tom, non si rassegnava a lasciarlo libero di sfogare la sua rabbia. Il capitano chiuse con forza gli occhi sperando di schiarirsi le idee all’istante. Come diavolo ci erano arrivati a quel punto? Che diavolo era successo a Tom per sconvolgerlo in quel modo? Lui avrebbe potuto fare qualcosa per impedire che i rapporti tra i due compagni degenerassero arrivando sino all’ormai inevitabile scontro?

 

Holly riaprì gli occhi sentendo dei passi affrettati alle sue spalle. Un attimo dopo Mark e Benji fecero la loro comparsa scavalcando con un agile balzo la porta ormai divelta dello spogliatoio.

 

-Ma cosa…- borbottò Mark esaminando allibito la scena che gli si parava davanti.

 

Benji si mosse veloce dimostrando di possedere un tempismo migliore del numero nove e del capitano stesso, indubbiamente gli anni di vita scapestrata, che lo avevano visto ripetutamente fautore di scazzottate e risse vere e proprie, lo avevano reso insensibile al clima di confusione che regolarmente precedeva una lite -Qui dobbiamo calmarci tutti- intervenne prendendo saldamente in mano le redini della situazione,  posizionandosi con le braccia ben alzate al centro della stanza, esattamente tra Julian e Tom, sperando che il suo famoso carisma fosse sufficiente a raffreddare gli animi.

 

Ma l’ottimista portiere non aveva fatto i conti con l’ira funesta del difensore nipponico che ignorò il suo tono autoritario e lo provocò colpendo con un manata il suo braccio disteso a mezz’aria -Calmarmi! Calmarmi hai detto?!!?- sbraitò Julian fulminando Benji come se avesse detto chissà quale eresia – C’eri anche tu in campo Price! Hai visto che mi ha fatto quel figlio di puttana!-

 

-Ora basta con gli insulti Julian- lo riprese con durezza Mark affrettandosi a chiudere a chiave la porta dell’anticamera e sperando che nessun altro giocatore della nazionale venisse a ficcare il naso in quel pasticcio, la situazione era già difficile da gestire tra pochi intimi, figurarsi con una mandria di animi accalorati sul collo.

 

Mark sapeva che Tom aveva torto marcio e che l’ira di Julian era più che giustificata. Cazzo! Se avesse ricevuto lui un fallo simile, del bel centrocampista ora non ci sarebbero state neppure le ossa a testimoniare il suo passaggio su questo mondo. E lo stesso pensiero, era certo, serpeggiava nella mente di tutta la squadra che avrebbe volentieri messo Tom al linciaggio in quel preciso istante senza la minima possibilità di appello. Solo che loro erano amici, o almeno gli unici che lui definiva tali oltre ad Ed e Danny, e il compito di un amico era comprendere il motivo di certi comportamenti per quanto sbagliati e pericolosi essi fossero.

 

-Sei stato tu ad iniziare- il tono di Tom fu talmente debole che i compagni, fissandolo muti, si chiesero se avesse realmente parlato o lo avessero solo immaginato.

 

Julian fu il primo a riaversi dallo stupore e il suo bel volto divenne una maschera grottesca di rabbia repressa -Non osare aprire bocca Becker perché ti giuro che non so cosa mi trattenga dallo spaccarti il culo!- sputò fuori fulminando con un’occhiata di fuoco la mano di Holly convulsamente avvinta attorno al suo bicipite e quella di Benji, ancora fasciata nei guantoni da portiere, ben aperta sul suo petto -Lo sai che il fallo che mi hai fatto poteva spezzarmi una gamba? Certo che lo sai! È questo quindi quello che volevi? Rispondimi è questo che vuoi? Stroncarmi la carriera solo perché ci ho provato con Andree?-

 

Andree!

 

Quel nome scosse Tom più di un pugno in faccia.

 

Serrò con violenza la mascella facendo scattare la testa di lato, non voleva che gli leggessero in faccia il dolore e l’umiliazione che il solo ricordo del rifiuto di Andree provocavano in lui, facendogli contorcere le viscere per la frustrazione.

 

“Non ti amo…”

 

Quell’affermazione che gli aveva sbattuto in faccia con la sua tipica, insopportabile, disgustosa freddezza, gli bruciava addosso più che se gli avessero martoriato con una lama affilata la carne viva. Faceva un male cane, eccome se ne faceva. Ma doveva farsene una ragione, non sapeva quando, non sapeva come, ma sapeva che doveva farlo al più presto o sarebbe impazzito dal dolore. 

 

E invece non ci riusciva! Lei era SUA, era la madre di SUO figlio, lei gli apparteneva di diritto.

 

Lei non era il freddo avvocato che da un paio di settimane era apparso nella sua vita. Lei era la ragazzina fradicia che sette anni prima aveva annientato con la sua acerba bellezza tutti i suoi principi. Lei era la ragazza indifesa che aveva saputo trasformarsi in donna in nome di un figlio che aveva fatto nascere contro il parere di tutti coloro che la circondavano. Lei era una madre generosa, che si donava a suo figlio in maniera totale senza risparmiarsi neppure un pezzetto di anima. Lei era la donna fantastica che si era presa le proprie responsabilità liberandolo dai ciechi sensi di colpa che lo avevano tormentato per anni e lo avevano quasi fatto impazzire quando aveva sospettato la verità su Josh. Lei era tutto questo e ancor di più. Lei era Andree.

 

 La amava come mai avrebbe creduto di poter amare.

 

E allora quale crudele destino faceva si che lei non lo ricambiasse? Che cosa c’era in lui che non andava? Preferiva Julian? Era colpa di Julian se lei lo aveva rifiutato?

 

Questo fastidioso pensiero si era fatto strada in lui con nauseante insistenza durante l’allenamento del pomeriggio, proprio mentre stava tentando di recuperare la palla che Julian aveva agganciato dopo uno splendido intervento su Mellow.

 

Tom si passò nervosamente una mano sugli occhi, gemendo piano. La testa gli pulsava terribilmente mentre riviveva l’agonia  e la confusione che gli avevano stravolto la mente nelle ultime ore.

 

Erano arrivati in Russia la sera precedente, dopo nove lunghe ore di aereo. Quella mattina Freddy li aveva subito messi sotto torchio con minuziose fasi di riscaldamento, susseguite da un lungo e noiosissimo  ripasso degli schemi di gioco più recenti. Finalmente nel pomeriggio il Mister li aveva invitati a  dividersi in due squadre e a disputare una breve partita di trenta minuti per permettergli di constatare se le decisioni sulla formazione, che aveva deciso di schierare in campo contro i padroni di casa, fosse la migliore in assoluto. Mancavano pochi minuti alla fine dell’amichevole e la sua squadra, capitanata da Mark, stava vincendo per uno a zero, ma la Tigre, non contenta, era partita in attacco alla ricerca del secondo goal, seguito dal fedele Mellow e da lui stesso pronto a fargli da spalla in caso di necessità. Julian, che capitanava la squadra avversaria, aveva impartito chiari ordini ai compagni, rendendo la difesa impenetrabile ed in breve, prevedendo con la sua solita lucida acutezza le intenzioni degli avversari, aveva recuperato la palla sottraendola proprio tra i piedi di Danny. L’astuto difensore aveva eseguito un dribbling da manuale e si accingeva a spedire la palla a centrocampo dove Phillip Callaghan attendeva impaziente. Il fattaccio era accaduto in pochi istanti. Aveva compreso le intenzioni di Julian e si era avventato su di lui con eccessiva foga, lanciandosi in una pericolosa mossa di recupero. Ma mentre entrava fallosamente sul compagno la sua mente si era come disgiunta dal corpo, volando lontano. Non stava assolutamente pensando al gioco o ai suoi movimenti pericolosi, ma stava constatando con disappunto che quella era la prima volta che si avvicinava di sua spontanea volontà al difensore da quando era avvenuto l’incidente di Josh al parco. Incredibile ma vero, lui e Julian da allora non si erano più rivolti la parola e più il tempo passava meno entrambi cercavano un chiarimento. La tensione c’era, nonostante ora non avesse più alcun reale fondamento, dal momento che Andree lo aveva liquidato. Eppure un istinto perverso gli si era insinuato nel cuore mentre Julian tentava di dribblarlo tenendo il gomito forse troppo alto, al limite della regolarità. La sua mente aveva registrato con maniacale precisione ogni dettaglio del compagno, il profilo teso per la concentrazione, la linea gentile del naso che gli conferiva quell’aria aristocratica che faceva impazzire le donne, la bocca tumida che nascondeva i denti perfetti, gli occhi castani appena più scuri dei suoi ed i capelli imperlati di sudore che gli ricadevano tutt’attorno al viso dall’incarnato delicato come un’impalpabile e morbida aureola, i muscoli possenti che guizzavano armoniosi con quell’innata eleganza che gli aveva avvalso il soprannome meritatissimo di “Principe”. L’associazione gli era apparsa fulminea e spietata: era quella naturale nobiltà a dare a Julian quel qualcosa in più che lui non aveva! In fondo anche Andree proveniva dall’alta società, mentre lui, misero figlio di un pittore che solo da pochi anni aveva cominciato ad avere qualche successo, aveva pressoché vissuto sempre ai margini della povertà. Gli mancava la raffinatezza di Julian, la sua aristocratica compostezza, non conosceva a menadito i segreti del galateo e non parlava più di due lingue, non ne capiva assolutamente niente di moda e trovava noiose le feste mondane. Lo aveva notato il lusso nell’appartamento di Andree, il suo abbigliamento ricercato, la classe del suo ufficio e persino i vestiti di Josh erano opere di alta sartoria. Josh!

 

Josh era anche suo! Non c’era solo il sangue blu della madre a scorrere nelle vene del bambino, ma anche il suo di umile figlio di un pittore squattrinato!

 

Ora la sua ingiustificata illazione gli faceva quasi pena. Era solo uno sciocco e il suo tentativo di voler nascondere dietro a bugie inesistenti la realtà era una pietosa farsa di nessuna utilità. Andree non era una snob e non gli aveva mai fatto pesare la loro differenza di classe, il punto era ben altro.

 

E faceva ancora più male.

 

“Ci ho provato ma non ce la faccio …”

 

Provato a fare che? Ad amarlo? Era così difficile volergli bene per quel che era?

 

Tom riportò a fatica lo sguardo su Julian. Gli stava parlando e gli si era avvicinato ancora con Holly sempre appeso al braccio, Mark alle spalle pronto ad afferrarlo e Benji che si frapponeva tra di loro con una mano appoggiata al petto di Julian e l’altra che sfiorava il suo.

 

La scena poteva anche essere comica dopotutto. Un rimescolamento delle parti. Una volta erano Mark e Benji gli attaccabrighe in cerca di ogni occasione per azzuffarsi negli spogliatoi e loro tre sempre pronti a fermarli e a nascondere i danni delle loro scazzottate agli occhi sospettosi del Mister.

 

Guardò con infinita tristezza i pezzi della panca sparpagliati attorno ai suoi piedi, alcuni sporchi di sangue ancora fresco tanta era la furia con cui si era accanito contro quel mobile, fracassandolo a suon di calci e pugni. Accidenti! Che aveva fatto? Che razza di persona era diventato? Un pazzo furioso incapace di controllarsi? Aveva quasi spezzato una gamba ad un suo compagno, ad uno dei suoi migliori amici! Solo la prontezza di riflessi di Julian e la sua decennale esperienza, avevano impedito che succedesse il peggio. Se fosse entrato in quel modo su un giocatore meno esperto del Principe, lo avrebbe azzoppato per sempre. Tom rabbrividì ripensando al folle gesto che aveva commesso.

 

Julian Ross. L’avversario tra i più temibili delle medie. L’amico inseparabile delle superiori. L’anima razionale della squadra. Amato, apprezzato, ammirato e rispettato più di ogni altro giocatore per la sua contagiosa voglia di vivere e la vivacità con cui godeva della vita che a contrario di molti si era battuto per conservare. Un amico che dispensava generosamente l’importante insegnamento che, nel bene o nel male, la lunga e tragica malattia con cui aveva dovuto fare i conti nell’adolescenza, gli aveva impartito. Julian che sapeva trasmettere fiducia ed ottimismo con uno sguardo, giocatore insostituibile ma soprattutto amico sincero dall’animo leale e generoso.

 

Poteva dare un colpo di spugna a tutto ciò solo perché avevano commesso l’errore di innamorarsi della stessa donna? Poteva dimenticare anni di sincera e profonda amicizia? Poteva portare rancore ad un uomo che aveva visto la morte in faccia e per questo motivo sapeva più di chiunque altro vivere con intensità ogni avventura che la vita gli offriva? Poteva farlo anche se questa volta l’avventura in questione era Andree?

 

Oddio che aveva fatto.

 

Perché?!?

 

Perché era ottenebrato dal dolore e dalla collera. Perché amava e non era riamato e al mondo non c’era niente che facesse più male, non vi era destino più ingiusto, pena più amara da sopportare. Aveva una tale rabbia in corpo sufficiente a far esplodere l’intero pianeta. Ma perché sfogarla su Julian? Non era certo lui la causa della sua infelicità anche se dare una giustificazione al comportamento incomprensibile di Andree, in un certo modo, gli dava una flebile parvenza di sollievo.

 

“Mi dispiace Tom …l’ho fatto  per Josh ma non ce la faccio più…”

 

La rabbia poteva essere superata e dimenticata, ma il dolore invece? Quel terribile baratro fatto di buio e solitudine che lo martoriava e gli toglieva forza e senno?

 

Tom sentì le ginocchia farsi improvvisamente molli e senza rendersene conto crollò a terra tra le schegge della panchina distrutta.

 

Julian osservò a bocca aperta il capitombolo del compagno -Che cazzo combini … Becker!-

 

Il bel volto del Principe si fece improvvisamente livido e una confusione mista a preoccupazione sostituì in fretta la rabbia, ora Julian temeva seriamente per la sanità mentale del compagno. Cercò con lo sguardo l’appoggio del capitano e quando vide in Holly riflessa la sua stessa ansia, gli anni di genuina amicizia ripresero il sopravvento cancellando in un batter d’occhio tutte le incomprensioni generate dagli ultimi avvenimenti.

 

Contemporaneamente i quattro ragazzi si sporsero verso l’amico a terra -Tom che fai!- sbottò Holly  – Alzati stupito, ti puoi tagliare con questi legni- disse con cautela afferrando Tom per le spalle e tentando di scuoterlo.

 

Mark arretrò di un passo non appena scorse le lacrime che scesero silenziose sulle gote del compagno – Uhm…uhm…- fu la massima espressività che l’attaccante riuscì ad esprimere. Le lacrime lo sconcertavano sempre e a ventisei anni ancora non si rendeva conto di come facesse un uomo a piangere. Distolse lo sguardo in preda ad una sorta di imbarazzo anche se in fondo sapeva che quello sfogo estremo, che lui si rifiutava categoricamente di concedersi,  era una potente consolazione e, seppur effimera, ridonava più forza e vigore di qualsiasi altra forma di virilità maschile.

 

-Tom amico mio che hai?- insistette Holly passando le braccia sotto le ascelle del compagno e sollevandolo di peso –Che ti succede?- chiese ringraziando con gli occhi Julian che si era sporto per aiutando a sorreggere il peso di Tom abbandonato a corpo morto tra le sue braccia.

 

I due compagni lo deposero con cautela su una panca intatta e non appena lo lasciarono andare, Tom si afflosciò su se stesso come un sacco improvvisamente svuotato del suo contenuto –Mi dispiace Julian…non volevo…- singhiozzò prendendosi il volto tra le mani incapace di guardare il compagno in volto.

 

-Becker….- borbottò Julian osservandolo immobile con una strana intensità – Avanti sputa il rospo-

 

Tom sollevò gli occhi arrossati e scoccò al compagno un’occhiata  di profonda disperazione – Andree non mi ama, ha detto che non mi vuole come compagno della sua vita, che ci ha provato in nome di nostro figlio ma che non ce la fa…- le parole gli uscirono confuse, frammentate, singhiozzate, si sentiva un bambino in preda ad una crisi isterica, ma non gliene importava nulla, il dolore non tiene mai conto della dignità e dell’orgoglio.

 

Forse Julian avrebbe dovuto gioire nell’udire quelle parole, eppure non fu così, una dolorosa pena mescolata a sorpresa si fece strada in lui – Ma non è possibile! vi sarete capiti male! Quella donna ti ama alla follia, di questo sono certo-

 

Tom lo guardò sorpreso – No io credo ami te-

 

-Idiozie! Ti assicuro che non prova assolutamente niente per me, e se lo dico io ne puoi star certo, stai sicuro che se solo avessi compreso di avere anche una possibilità non me la sarei lasciata scappare. No Tom lei ama te, nonostante ciò che le hai fatto-

 

Tom sentì il sangue defluire dal suo volto in un solo istante -Che le ho fatto? – chiese più angosciato che mai.

 

Julian esitò cercando le parole giuste che non offendessero più del necessario l’amico già abbondantemente provato –Sì… insomma lei dice che tu quella volta non l’hai …ehm … obbligata e che lei era consenziente. Ma potete metterla come volete, quello che capisco io è che lei aveva solo sedici anni, era sconvolta e tu l’hai messa incinta. Forse ha qualche rancore che non è ancora riuscita a superare per questo ti vuol fra un po’ soffrire … sai come sono le donne, strane, complesse, vendicative…e chi le capisce!-

 

-Rancore?- Tom rifletté qualche istante…no non rancore ma…che cos’era? Perché Andree si irrigidiva ogni volta che lui la toccava? Perché rifuggiva ogni contatto intimo? C’era qualcosa che gli era sfuggito, a cui non aveva posto la dovuta attenzione … qualcosa che non andava….non rancore…ma … cos’era quel distacco che le leggeva negli occhi quando tentava di possederla? Paura?

 

Paura!?!?!?

 

Che razza di trauma le aveva procurato?

 

Tom balzò in piedi  come folgorato da un’idea. Si passò l’avambraccio ancora sporco d’erba sul volto cancellando le ultime tracce di pianto mentre una debole fiammella di speranza gli riaccendeva gli occhi castani, ridonandogli parte dell’antica lucentezza. Il suo volto ritrovò immediatamente tutta la sua bellezza: quello sguardo dolce e sereno non era fatto per esprimere sofferenza ed umiliazione, erano la dolcezza e la gioia di vivere il segreto del fascino di quelle iridi screziate d’oro.

 

Se l’intuizione che Julian gli aveva fatto avere era corretta, allora ciò poteva voler dire che non era affatto vero che Andree non lo amava, ma che aveva paura di lui o, meglio, di far sesso con lui!

 

Uno scroscio di pugni in rapida successione contro la porta fece sussultare i cinque ragazzi nello spogliatoio, ponendo fine alle febbrili quanto confuse congetture del centrocampista –Aprite immediatamente- la voce imperiosa di Freddy Marshall, storico allenatore della nazionale nonché presidente della Federazione Calcio Giapponese, attraversò il pesante pannello di solido palissandro, risuonando nella stanza in tutta la sua imperiosa autorità.

 

Mark si affrettò ad aprire e un a dir poco adirato Freddy fece la sua comparsa. Osservò senza commentare la panchina sfasciata e solo un’involontaria contrazione della mascella tradì il suo reale stato d’animo. Bloccò sul nascere, con un gesto stizzito della mano, ogni inutile tentativo di spiegazione e, dopo essersi soffermato un attimo sul volto stravolto di Tom, esclamò perentorio – Becker sei fuori-

 

Tom sbatté le palpebre perplesso mentre la portata di quella breve ma lapidaria frase si faceva strada nella sua mente –Co … cosa?-

 

-Non giocherai domani contro la Russia- spiegò Freddy scrutandolo con determinazione rincuorato dal fatto che le lenti scure degli occhiali da sole impedissero ai ragazzi di scorgere la sua debolezza. Li amava tutti quanti. Erano per lui come dei figli adottivi, i figli che non aveva mai avuto. E come ogni buon padre sapeva che Tom in quel momento aveva un disperato bisogno di conforto e lui glielo avrebbe dato, ma a modo suo. Lo lasciava libero di raggiungere quel diavolo di donna che sembrava aver stravolto la mente di uno dei suoi migliori giocatori.

 

Maledì tutte le donne del mondo mettendoci particolare impeto per le avvocatesse.

 

-Mister un momento lei non può lasciare Tom in panchina-

 

-Hai ragione Hutton, non starà neppure in panchina- affermò voltando loro le spalle -Se vuole Becker può prendere il primo aereo per Tokyo e tornarsene a casa a risolvere i suoi problemi, in queste condizioni qui non è di nessun aiuto- aggiunse lasciandosi dietro un silenzio attonito interrotto solo dai suoi passi cadenzati che risuonavano tristemente contro le fredde mattonelle del corridoio.

 

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Capitolo 21
*** Cap XXI. ***


CAPITOLO XXI.

 

Andree entrò in casa accolta da un familiare tepore che le confortò l’anima rattristata. Si tolse il leggero soprabito che produsse un flebile fruscio mentre lo appendeva con cura all’attaccapanni accanto alla porta d’entrata. Un brivido di freddo le serpeggiò lungo la colonna vertebrale, facendole rimpiangere amaramente di non aver optato quella mattina per il cappotto di lana pesante. Negli ultimi due giorni  la temperatura si era bruscamente abbassata ed una morsa di gelo invernale teneva in pugno la metropoli giapponese, nonostante fossero appena entrati nel mese di novembre.

 

Mosse alcuni passi verso il salotto soffermandosi poco prima della soglia. Osservò la testa biondissima di Noam fare capolino dal divano ed il basso borbottio accanto al medico le fece intuire la presenza del figlio, anche se da quella posizione non poteva vederlo. Il medico e Josh non si erano nemmeno accorti della sua entrata e lei, che aveva corso come una pazza per arrivare a casa in tempo per l’inizio della partita, convinta che la sua presenza fosse indispensabile, increspò la bocca in una smorfia risentita, constatando che nessuno era in ansiosa attesa del suo arrivo. Se la passavano benissimo anche senza di lei!

 

Andree sospirò massaggiandosi con energia il collo intorpidito e cominciò a togliere qualcuna delle numerose forcine che le sorreggevano l’acconciatura. Attraverso lo schermo del televisore, le giungeva la voce concitata del cronista sportivo che proprio in quel momento terminò un lungo monologo atto ad enumerare le caratteristiche tecniche della squadra russa, concludendo con un breve accenno al clima rigidissimo della capitale moscovita.

 

La donna rabbrividì ancora mentre si lisciava le lunghe ciocche che ora le scendevano fluenti sulle spalle, se lì a Tokyo faceva freddo a Mosca si doveva letteralmente gelare!

 

Si appoggiò mollemente allo stipite della porta sollevando un piede per slacciarsi il cinturino della scarpa e concedendosi un veloce massaggio all’arto intorpidito. Sfilò in silenzio anche l’altra calzatura, chiedendosi se fosse giunto il momento di far notare la sua presenza.

 

Infilò le pantofole appoggiate poco distante -Buonasera- annunciò infine con una nota di finta noncuranza nella voce.

 

Noam sussultò spaventato e Josh saltò in piedi sul divano facendo capolino accanto al medico – Mamma! Non ti abbiamo sentita entrare-

 

-Me ne sono accorta- borbottò la donna con un tono colmo di sarcasmo -Eravate concentrati a guardare la tv…- constatò avvicinandosi e scompigliando la bruna chioma di Josh dove subito dopo depose un leggero bacio.

 

Il figlio le rivolse un sorriso radioso -Eh sì tra poco inizia la partita…Tom mi ha promesso che vincerà-

 

Tom …

 

Andree trattenne il fiato e distolse lo sguardo imbarazzata fingendosi interessata a grattar via un’ immaginaria macchia sullo schienale del divano. Da quando era partito per la Russia non lo aveva più sentito. Aveva chiamato solo una volta, un freddo ed impersonale messaggio in segreteria in cui le comunicava il numero di telefono del suo albergo nel caso avvenisse una qualche improbabile emergenza.

 

Tom …

 

Quante volte durante le lunghe notti nel dormiveglia pronunciava quel nome sull’orlo di una crisi di pianto? E quante volte di giorno doveva sforzarsi di scacciarlo dalla mente per potersi concentrare sul lavoro? E ancora, quante volte aveva composto il numero dell’albergo russo riattaccando ad una sola cifra dalla fine in preda ad una frustrazione senza eguali?

 

Era una tortura a cui non riusciva a porre rimedio. Un circolo vizioso che aveva alimentato con le sue stesse mani, in cui aveva vissuto per anni senza troppi problemi ma da quando aveva commesso l’imprudenza di innamorarsi di quel calciatore, era diventato una tortura intollerabile. Un peso gravoso che le toglieva pace e serenità. Doveva consultarsi con uno specialista, chiedere aiuto, ormai la situazione non era più gestibile, e inoltre non era neanche poi tanto convinta che lo fosse mai stata.

 

Che c’era di normale in una giovane e bella donna che considerava il sesso il più temibile dei pericoli?

 

Magari Noam avrebbe potuto darle qualche consiglio. Gliene avrebbe parlato quella sera stessa dopo la partita.

 

-Come mai così tardi?- le chiese il medico osservando il suo orologio, in effetti mancavano solo una manciata di minuti alle dieci.

 

-Uhm all’ultimo momento è arrivata una cliente- rispose Andree mentre una sottile ruga di incertezza le solcava la fronte candida. Ripensare a quella strana donna, che aveva atteso pazientemente tutto il pomeriggio nella sua sala d’attesa, nonostante Marion l’avesse invitata a prendere appuntamento per il giorno seguente, spiegandole che non vi era alcuno spazio libero per quel pomeriggio, le provocava più di qualche perplessità. Alla fine impietosita ed esasperata dall’insistenza della cliente, Marion le aveva chiesto il permesso di farla passare.

 

Aveva squadrato con insofferenza l’esile figura della donna che era entrata nel suo ufficio con un timido sorriso stampato in volto. Un semplice abito di lana color bronzo fasciava un corpo sottile dalle forme appena accennate. Era una giovane donna piuttosto insignificante ad eccezione del brillante caschetto di capelli color rosso ramato che incorniciavano un volto dall’incarnato molto pallido. Andree l’aveva squadrata con mal celata insofferenza, ed a stento aveva represso un motto di stizza quando la signora Noris, così aveva detto di chiamarsi la cliente, le aveva esposto succintamente la questione legale che la angustiava. Si trattava di una banalissima pratica di divorzio che aveva deciso i avviare dopo aver scoperto il marito con un’altra.

 

Manifestando una calma che era ben lungi dal provare, Andree le aveva spiegato che quel tipo di questioni non erano di sua competenza. Di fronte all’espressione dubbiosa della donna, aveva aggiunto con tono didascalico che gli avvocati non avevano tutti eguali competenze, ma varie specializzazioni differenziavano i vari campi di azione.

 

-Ma mi hanno garantito che lei è la migliore…- aveva insistito la cliente con tono sospettoso che le irritò ancor più i nervi.

 

-La ringrazio- aveva replicato con cordiale freddezza totalmente indifferente al tentativo della donna di conquistarla con le lusinghe -Ma le ripeto che il suo problema non è i mia competenza-

 

-E quali sarebbero le sue competenze?-

 

Andree aveva vagamente colto una stonata nota di minaccia nella voce della donna ma, intenzionata a liberarsi di quell’inopportuno contrattempo quanto prima per poter raggiungere Josh e Noam prima dell’inizio della partita, aveva accantonato i suoi sospetti, sfoderando un freddo sorriso di circostanza -Frode sportiva, doping- aveva replicato laconica.

 

-Doping?! La fa passare franca a dei drogati imbroglioni?-

 

Andree l’aveva squadrata con fastidio –Non credo l’argomento sia di suo interesse, comunque le dinamiche legali della frode sportiva sono le più svariate. Come può ben capire cambiano notevolmente da caso a caso- aveva concluso asciutta, alzandosi in piedi ed avvertendo così la donna che la discussione era terminata.

 

-Cosa? E Tom dov’è?- la tonalità stranamente stridula di Josh, distolse bruscamente Andree dalle sue riflessioni ed osservò sorpresa il figlio proteso verso il televisore con un’espressione di panico dipinta in volto, i piccoli pugni rigidamente premuti contro la stoffa damascata del divano. Indirizzò la sua attenzione sullo schermo, cercando di capire che cosa lo avesse tanto sconvolto. Lo speaker terminò di elencare i giocatori nipponici, riserve comprese, e le note dell’inno giapponese uscirono dagli altoparlanti dello stadio mentre la telecamera passava in rassegna gli undici giocatori schierati in campo, ordinatamente distribuiti in fila. Andree aguzzò la vista, scrutandoli uno ad uno. La casacca verde oltremare, completata da un vistoso quanto eccentrico berretto rosso fuoco, le permise di identificare immediatamente il portiere Benjiamin Price che apriva la fila, al suo fianco riconobbe Oliver Hutton con la fascia azzurra di capitano stretta attorno al braccio destro, quindi via via tutta la formazione sino all’ultimo della fila, il numero quattordici Julian Ross.

 

In un lampo comprese ciò che aveva tanto turbato Josh sentendosi anch’essa terribilmente in ansia. Mancava il numero nove, Tom Becker! Non era neppure stato nominato tra le riserve!

 

Andree non fece caso al brivido fulmineo che le fece accapponare la pelle, un unico interrogativo le volteggiava in testa spezzettandole i pensieri in tanti frammenti privi di coerenza: che era successo a Tom?

 

Scosse il capo con vigore, allontanando l’idea di qualche disgrazia, ritenendo che se gli fosse accaduto qualcosa di grave, i giornali ne avrebbero sicuramente  parlato e comunque qualcuno si sarebbe preso il disturbo di avvertita.

 

E allora? Dov’era finito Tom?

 

Josh tirò su rumorosamente col naso -Mi aveva promesso…-  iniziò con gli occhi ambrati annebbiati dalle lacrime che si sforzava di trattenere – Mi aveva pro…pro…pro…promesso…-  balbettò incapace di proseguire.

 

La madre aggirò velocemente il divano sporgendosi verso di lui nel tentativo di afferrarlo ma il bambino, con uno scatto fulmineo, fece un balzo nella direzione opposta, saltando giù dal divano

 

-Per … per … perché papà non gioca?- urlò disperato, lanciando alla madre uno sguardo smarrito mentre grossi lacrimoni gli colavano inarrestabili sul volto arrossato, straziando il cuore della donna che non tollerava vedere il figlio in quello stato.

 

Era talmente atterrita dalle lacrime di Josh che solo in un secondo momento comprese il reale significato delle sue parole. Rimase immobile, letteralmente paralizzata con la mano a mezz’aria ancora protesa nel vano tentativo di afferrare il bambino. Aprì la bocca ma, sopraffatta dalla confusione, la richiuse, continuando a fissare con gli occhi sbarrati il figlio.

 

Che aveva detto? Papà!?!? PAPA’?!?!?

 

Gli era sfuggito inconsapevolmente o Josh era perfettamente cosciente di ciò che aveva detto?

 

Andree cercò con lo sguardo l’aiuto di Noam, ma anche il medico sembrava totalmente spiazzato dall’inaspettato e sconcertante sfogo di Josh.

 

–Per… perché?- ripeté Josh che ora piangeva a dirotto con i pugni stretti davanti agli occhi.

 

-Amore calmati- mormorò la madre sentendosi del tutto inadeguata nel suo ruolo di genitrice ed incerta persino se abbracciarlo fosse la mossa giusta da fare. Cercò nuovamente il sostegno di Noam ma vedere lo stesso suo stupore riflesso negli occhi cerulei dell’amico, le provocò un’ondata di puro panico. Mai come in quel momento si era sentita tanto impacciata, incerta su cosa fosse corretto fare … Poteva far finta di non aver sentito, sfoderare un sorriso di circostanza e vezzeggiare il bambino sino a calmarlo con coccole e carezze … Poteva far ricorso all’ipocrisia e alla falsità … oppure … scoprire se Josh sapeva che Tom Becker era suo padre.

 

E come diavolo lo aveva scoperto? Possibile che Tom glielo avesse detto senza consultarla? No impossibile … e allora?

 

Andree respirò a fondo -Che hai detto Josh?- chiese con tono estremamente cauto, decidendo infine per la ricerca di spiegazioni.

 

-Perché papà non gioca?- ripeté caparbiamente il bimbo togliendo le mani dal viso per poter incrociare lo sguardo della madre e capire se gli diceva la verità sulla sorte che era capitata al suo papà.

 

-Come fai a sapere che Tom è il tuo papà? Te lo ha detto lui?-

 

-No, a che serve che qualcuno me lo dica?- ribatté il bambino - Lo è vero?-

 

Andree deglutì a fatica, le sembrava di avere un macigno incastrato in gola  –Sì- ammise con un fil di voce – Ma tu come lo hai saputo?-

 

-Oh mamma che c’entra adesso?- sbottò irritato Josh spazzando l’aria davanti a sé con insofferenza come se lo infastidisse fornire delle spiegazioni che riteneva oltremodo banali - Ho visto come si comporta con me e con te, come tutti gli altri papà, è diverso dallo zio Noam e da Julian…io …l’ho capito anche se non so perché è arrivato solo ora…perché quando ero piccolo non c’era?-

 

Andree fissò il figlio stentando ad accettare che il bambino avesse intuito la verità con tanta disarmante semplicità quando a lei e Tom la questione era sembrata infinitamente complessa e nessun discorso era apparso abbastanza delicato per rivelargli il legame filiale. Avrebbe dato un calcio alla sua carriera purché Tom le fosse accanto in quel frangente, ed invece si ritrovava ad affrontare da sola una situazione che lei per prima non era pronta ad accettare, a dare spiegazioni di cui si vergognava, a fare i conti con fantasmi che ancora la spaventavano.

 

–Non sapeva di te … non glielo avevo detto-

 

Josh spalancò gli occhi sorpreso –Ti sei dimenticata di dirglielo?- chiese scrutandola dubbioso - Oh be ma non ha importanza – si affrettò ad aggiungere - Io non lo voglio come papà. Non mantiene le promesse- sbottò con rabbia incrociando le braccia  al petto e mettendo il broncio.

 

-Non dire così Josh- lo rimproverò la madre forse un po’ più  duramente di quanto avesse avuto intenzione di fare ed impallidendo davanti allo sguardo arrabbiato del figlio – Scusa … solo che magari Tom sta male…non sappiamo che sia successo- tentò di rimediare sperando da una parte di calmare il bambino e dall’altra di ristabilire l’immagine positiva di Tom ai suoi occhi. 

 

Noam gli si avvicinò prendendolo in braccio e Josh lo lasciò fare, evidentemente le parole della madre avevano, se non convinto, almeno stillato un dubbio in lui. Dopo qualche altra lacrima e un paio di capricci, il bambino acconsentì a seguire egualmente la partita con il medico e la madre anche se il suo papà non giocava.

 

Purtroppo però il morale di Josh peggiorò sempre più nel corso dei novanta minuti di gioco e a nulla valsero i due splendidi goal segnati dal capitano Hutton. Non appena l’arbitro annunciò, con il triplice fischio, la fine della partita, scivolò silenziosamente giù dal divano e borbottando uno strascicato ed inintelligibile “buonanotte” se ne andò a letto accompagnato dagli sguardi preoccupati della madre e di Noam.

 

-E così la Peste ci è arrivato da solo- commentò Noam qualche tempo dopo sorseggiando adagio il the bollente che Andree aveva preparato nella speranza di distendere i nervi che sentiva a fior di pelle -Era prevedibile, è un bambino talmente sveglio-

 

La donna fece una piccola smorfia –Non volevo che lo sapesse così- replicò affranta –Io e Tom volevamo informarlo con la dovuta calma….oh Noam come pensi accoglierà il padre non appena tornerà dalla Russia?-

 

Noam alzò le spalle –Non lo so, era molto deluso e arrabbiato…chissà che cosa è successo, tu non lo hai sentito vero?-

 

-No-

 

Il medico le lanciò una lunga occhiata interrogativa -Che cosa non ha funzionato tra di voi?-

 

Sul volto di Andree passò un’ombra di incertezza, non era abituata a cercare consolazione e comprensione negli altri, il suo orgoglio non le consentiva di accettare sguardi di commiserazione. Aveva trasformato la sua vita in una fortezza impenetrabile ma forse era giunto il momento di chinare il capo, respinse la voce dell’istinto che le suggeriva di scrollare vigliaccamente il capo e sorridere con indifferenza fingendo che fosse tutto posto – Non sono riuscita a rivelargli il mio…blocco- ammise abbassando lo sguardo e arrossendo sino alla radice dei capelli ma felice di aver finalmente trovato il coraggio di confidare all’amico il suo intimo cruccio.

 

-E quindi lo hai liquidato senza spiegargli perché?-

 

-Molto peggio- borbottò sull’orlo di una crisi di pianto sentendosi stranamente libera da un pesante fardello ma allo stesso tempo priva di qualsiasi difesa -Gli ho raccontato un mucchio di bugie del tipo che non lo amavo e che avevo accettato la sua corte solo per il bene di Josh…-

 

Noam si sporse in avanti afferrandole una mano tra le sue e facendole così capire che le era vicino –Ma lui ti ha creduto?-

 

Andree fece un lieve cenno di assenso. Il dolore acuto che la trafisse al solo ricordo dello sguardo colmo di angoscia di Tom, le serrò la gola impedendole di parlare.

 

-Ti rendi conto di quello che hai fatto?- proseguì il medico guardandola comprensivo - Stai buttando alle ortiche la tua felicità, quella di Tom e quella di tuo figlio. Non posso lasciarti compiere questo scempio, domani stesso ti fisso un appuntamento con un mio amico psicologo, una persona molto in gamba-

 

Andree annuì di nuovo – Grazie-

 

Noam la fissò allibito, si era aspettato una strenua resistenza da parte dell’amica, come sempre aveva fatto quando lui l’aveva invitata a parlare del suo problema con un esperto –Tu lo ami sul serio quel calciatore- commentò con un misto di sorpresa e felicità.

 

Andree non rispose limitandosi a scoccargli un’occhiata che, per quanto fugace e imbarazzata,  non lasciava alcun dubbio sui suoi reali sentimenti per il padre di suo figlio.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII. ***


Eccomi qua, questa volta abbastanza puntuale. Volevo ringraziare tutte le lettrici di Tracce Indelebili sia per le recensioni sia per le mail carinissime e piene di consigli utilissimi di cui faccio tesoro. Come vedete il vostro affetto mi è stato di sprono e ieri sera ho scritto sino a notte inoltrata per poter pubblicare oggi il XXII capitolo. Spero sia all’altezza delle vostre aspettative.

Vi abbraccio tutte.

Akiko chan

 

CAPITOLO XXII.

 

La segretaria si sistemò gli occhiali sul naso soppesando compiaciuta la prestanza fisica dell’uomo che le stava di fronte -Mi spiace ma l’avvocato è in udienza sino a tardi- replicò con tono cordiale.

 

Tom Becker si protese leggermente in avanti facendo del suo meglio per reprimere una smorfia di disappunto –Ma non sa dirmi a che ora finirà?-

 

-No, è impossibile saperlo- spiegò con calma la donna prendendo un appunto su un foglietto adesivo –Dipende dal processo. Comunque ho preso nota del suo nome, farò sapere all’avvocato della sua visita- disse rivolgendogli un sorriso sincero.

 

Tom fece vagare nervosamente lo sguardo per la spaziosa sala di attesa che faceva da anticamera all’ufficio dell’avvocato Takigawa, indeciso se continuare ad insistere o rassegarsi definitivamente a quella sorte avversa.

 

Era partito da Mosca subito dopo la partita, viaggiando per quella che per lui risultava essere sera inoltrata ma, a causa del fuso orario, era giunto a Tokyo nelle prime ore del pomeriggio e, incurante della stanchezza e della tensione accumulata, dall’aeroporto si era precipitato nell’ufficio da Andree senza neppure passare per casa. Era dolorante, assonnato, demoralizzato e di pessimo umore. In due parole, completamente distrutto.

 

I suoi compagni sarebbero ritornati il giorno seguente, dopo aver festeggiato la meritata vittoria. Era stata una bella partita, anche se i russi non si potevano certo reputare tra gli avversari più forti che li attendevano in quell’imminente campionato. Erano di ben altra stoffa le squadre che potevano mettere in difficoltà il Giappone. Ma questa consapevolezza non era stata sufficiente a lenire i suoi sensi di colpa, non solo nei confronti di Julian, ma dell’intera squadra, il suo comportamento inqualificabile aveva tradito l’amicizia e il rispetto che legava indissolubilmente i ventidue componenti della nazionale. Era stato proprio un grandissimo imbecille e non vi era alcuna scusante che potesse sminuire le sue colpe e ciò metteva in seria crisi la sua speranza di poter un giorno rimediare. Nessuno gli aveva rinfacciato niente, ma sapeva perfettamente che certe ferite si annidano nel profondo dell’anima, avvelenando i rapporti piano piano, attimo dopo attimo.

 

Tom strinse forte i pugni contro la stoffa dei jeans neri che gli fasciavano le gambe muscolose in  quel momento indolenzite per il lungo viaggio intercontinentale, la sua impotenza lo riempiva di frustrazione e, pur sapendo che avrebbe dovuto sistemare i rapporti con i suoi compagni al più presto, spiegando loro le ragioni del suo comportamento, non riusciva a prendere seriamente in considerazione quella delicata faccenda e sapeva che non ci sarebbe riuscito finché Andree avesse continuato ad insinuarsi in ogni suo pensiero.

 

Fremeva letteralmente dal desiderio di un chiarimento con lei e quell’ennesimo contrattempo lo aveva disorientato prospettandogli, nel migliore dei casi, ancora molte ore di attesa.

 

Lo squillo acuto del telefono lo fece sussultare riportandolo bruscamente al presente, cercò con lo sguardo gli occhi della segretaria nella disperata illusione di avere un appiglio tangibile in quel mare di pensieri confusi.

 

-Segreteria dell’avvocato Andree Takigawa- disse Marion con tono incolore sollevando la cornetta e ricambiando lo sguardo spaesato dell’uomo, il suo cuore di donna aveva già intuito quale fosse la pena che lo tormentava e non le ci era voluta poi tanta sagacia per collegare Tom Becker  al malumore manifestato dall’avvocato negli ultimi giorni .

 

E così era questo l’uomo che aveva sciolto la corazza di ghiaccio di Andree Takigawa, la donna più fredda ed inavvicinabile che le fosse mai capitato d’incontrare. Ad essere onesti, nelle rare occasioni che aveva avuto il piacere di lavorare con l’avvocato Takigawa, era sempre rimasta stupita e sorpresa della preparazione e della professionalità di quella donna così giovane. La prima volta che l’aveva vista era stato circa un anno prima in occasione di un processo che aveva condotto l’avvocato in Giappone per un brevissimo periodo. Quando gliel’avevano presentata, l’aveva scrutata dubbiosa, squadrandola con diffidenza e chiedendosi se il grande Micheal Fox si fosse definitivamente bevuto il cervello. Non aveva voluto credere alle illazioni che dilagavano malevole sul modo in cui l’avvocato avesse convinto Micheal Fox ad assegnarle il caso, il suo istinto le aveva suggerito che quella donna era incapace di ricorrerete alla sua indubbia avvenenza per scopi utilitaristici, e la conferma ce l’aveva avuta pochissimo tempo dopo quando l’avvocato vinse la causa in tempo da record, ottenendo una piena assoluzione dove nessuno sarebbe riuscito ad ottenere neppure uno sconto della pena.

 

Nessuno aveva più dubitato delle capacità professionali di quella giovane donna e Marion, che aveva iniziato ad ammirarla incondizionatamente, si era subito offerta come segretaria personale non appena era giunta dall’America la notizia che l’avvocato si sarebbe definitivamente trasferito nella sede di Tokyo. Ormai erano circa sei settimane che Andree occupava quell’ufficio e lei aveva imparato a stimare anche l’aspetto umano della donna, scoprendo con piacere la sua totale dedizione di madre e la sua encomiabile umanità. Le si era sinceramente affezionata e la rattristava vedere come Andree fosse chiusa e diffidente verso qualsiasi uomo le si avvicinasse, non capiva come una donna così bella potesse stare da sola. Ma era ovvio che finalmente qualcuno aveva trovato il modo di vincere le resistenze del freddo avvocato ed era felice che quel qualcuno fosse proprio Tom Becker. Lo conosceva di fama, sapeva delle sua carriera sportiva perché i suoi due fratelli gemelli erano dei tifosi sfegatati di questa “nazionale dei miracoli” come ormai era conosciuta nel continente dopo la vittoria del campionato asiatico per due anni di fila ed il bellissimo esordio alle qualificazioni per i mondiali contro la Russia. Marion non sapeva perché Tom fosse collegato all’avvocato, poteva intuirne la causa anche se sperava di sbagliarsi, non le piaceva l’idea che uno degli idoli dei suoi fratellini fosse coinvolto nel giro del doping, preferiva credere, da ingenua romantica quale era, che altre vie misteriose ed avvincenti lo avessero portato da Andree. 

 

- Ah avvocato è lei….- disse la donna corrugando la fronte attenta e facendo cenno di attendere all’uomo di fronte a lei che la scrutava con apprensione.

 

Lo osservò ancora una volta da sopra le lenti degli occhiali ammirandone il corpo perfetto e i lineamenti permeati da quel misto di dolcezza e virilità che, se non fosse stata totalmente devota all’avvocato, provando per lei una più che leale amicizia, un uomo così le avrebbe sicuramente fatto fare follie.

 

Tom ricambiò imbarazzato lo sguardo quieto della donna, rendendosi conto di apparire ridicolmente teso, alla stregua di uno scolaretto in attesa di una qualche notizia da parte della fanciulla che gli aveva rapito il cuore, ma non aveva la prontezza di riflessi necessaria per nascondere le sue reali emozioni e la stanchezza non gli stava certo facilitando il compito.

 

-Sì…- proseguì Marion con tono squisitamente professionale –Sì ricordo perfettamente…un attimo cerco il recapito telefonico nell’agenda dei periti …- aggiunse sfogliando in fretta una grossa rubrica con la copertina di pelle rossa  – …Ecco l’ho trovato … il numero del dottor Muller è …-

 

Marion scandì i numeri uno ad uno, ripetendoli poi una seconda volta più velocemente – Avvocato c’è qui il signor Becker … ha un minuto? Glielo passo? Benissimo, arrivederci-

 

La donna porse il ricevitore al Tom che la guardò incerto, incredulo di fronte ad un così inaspettato colpo di fortuna, proprio quando si stava per dichiarare definitivamente sconfitto -Andree!- esclamò impugnando la cornetta.

 

-Ciao Tom- la voce della donna era frettolosa ma non fredda – Scusa ma ho solo pochi secondi, sono in udienza…-

 

-Lo so- si affrettò a rispondere sforzandosi di apparire tranquillo e perfettamente a suo agio, non voleva che lei lo immaginasse in bramosa attesa, cosa che invece corrispondeva perfettamente alla realtà, ma già bastava la figura da pivello che stava facendo davanti alla segretaria, non era proprio il caso di mettere in piazza altri imbarazzanti debolezze –Ero passato per una chiacchierata … sì insomma niente che non si possa rimandare ma … quando ci possiamo vedere?-

 

La sentì esitare dall’altro capo del filo e trattenne il respiro temendo in un suo netto rifiuto.

 

-Stasera alle dieci da me può andar bene?-

 

Il sollievo fu talmente tanto che dovette appoggiarsi con una mano al ripiano lucido della scrivania per non barcollare -Così tardi?!- si lasciò incautamente sfuggire mordendosi subito dopo il labbro per la sua goffaggine, per fortuna non doveva farle capire che era impaziente …

 

–Purtroppo credo di non riuscire a liberarmi prima…- disse lei sinceramente dispiaciuta -Qui prevedo una lunga discussione …-

 

-Ok allora a stasera- borbottò rassegnato ma anche confortato dalla prospettiva di un appuntamento sicuro.

 

Restituì il ricevitore a Marion con un ampio sorriso di gratitudine mentre una serie di espressioni si susseguivano veloci sul suo volto esplicitando, se ancora ve ne fosse bisogno, tutta la miriade di emozioni che lo scombussolavano sino nel profondo del suo essere.

 

Marion ricambiò il sorriso –Lei è molto fortunato- commentò la donna con fare comprensivo.

 

Tom non replicò pensando tra sé e sé se era corretto definire un colpo di fortuna il suo incontro con Andree dopo tanti anni. La amava e amava suo figlio e in quel momento non riusciva più ad immaginare una vita senza di loro. Ma le incertezze che gli impedivano di comprendere lo strano comportamento di Andree, erano ancora troppe per convincerlo che ritrovarsi fosse stato un colpo di fortuna. In fondo la sua vita prima di ritrovarla, procedeva in maniera soddisfacente e le avventure galanti non erano mai state un problema su cui soffermarsi a riflettere. Non era in ansiosa ricerca di una compagna per la vita, non aveva mai sofferto di solitudine e i legami senza impegno erano sufficienti ad appagarlo. Ora invece tutto era mutato e si ritrovava pericolosamente ed irrimediabilmente dipendente da una donna, che forse non voleva saperne di lui. No, decisamente la segretaria si sbagliava, la sua situazione non era affatto fortunata.

 

Salutò Marion ringraziandola ancora per la sua cordialità e lasciò il palazzo. E quindi avrebbe dovuto aspettare sino a sera prima di poter vedere Andree. Ancora molte ore di attesa tormentato dal dubbio che Julian gli aveva stillato nel cuore.

 

E se si stava solo illudendo? Se la verità fosse semplicemente quella che sembrava?

 

Sospirò rumorosamente cacciandosi con stizza le mani in tasca alla ricerca delle chiavi dell’auto. Meglio non tormentarsi e trovare un valido diversivo per far passare quel lungo pomeriggio di attesa.

 

Andree appese il phon al muro del bagno ricoperto di mattonelle dai fini ricami floreali, prese la spazzola e diede qualche colpetto ai lunghi capelli castani dai riflessi appena dorati, ammirandone soddisfatta la compatta lucentezza nello specchio. Sorrise alla sua immagine riflessa lisciandosi sul davanti il morbido maglioncino di angora color pesca dal taglio classico. Nonostante la tensione per l’imminente incontro con Tom, il suo aspetto era splendido. I capelli appena lavati formano una morbida aureola attorno ad un volto illuminato da due occhi brillanti. Indubbiamente era felice di rivederlo e quella felicità traspariva, illuminandola di una luce nuova e meravigliosa che neppure l’ansia per quello che doveva rivelargli era in grado di attenuare.

 

Uscì dal bagno sentendosi quasi euforica.  Si soffermò solo un attimo davanti alla stanza di Josh, intenta a cogliere il respiro profondo e regolare del figlio, quindi, una volta accertatasi che il bambino dormisse sereno, chiuse il pannello della porta, che di solito restava socchiuso, per evitare che Josh si svegliasse e trovasse Tom in casa. Non gli aveva ancora perdonato il fatto di non aver giocato contro la Russia e, nonostante i suoi tentativi di difendere il giocatore, il figlio non aveva voluto sentir ragioni e le aveva chiesto di non nominare più Tom. Lei aveva desistito di malavoglia, ripromettendosi di riaffrontare la questione non appena Tom fosse tornato ed avesse spiegato a lei e al bambino il motivo della sua assenza in campo.

 

Ma quel chiarimento si poteva rimandare. Quella sera era tutta per loro, non voleva che Josh si intromettesse, aveva delle questioni più urgenti da discutere con Tom e soprattutto voleva scoprire se, aprendogli il suo cuore, sarebbe finalmente riuscita a superare quell’assurdo trauma che si portava dentro. Doveva riuscirci. Voleva riuscirci perché…

 

Andree avvampò ed inciampò maldestramente nel tappeto finendo dritta distesa sul divano a pancia in giù. Sbatté le palpebre perplessa sorridendo nervosamente. Se solo il pensiero di fare l’amore con lui la metteva k.o., la questione si faceva veramente seria.

 

Si mise a sedere imponendosi di non pensare a cosa voleva che succedesse quella sera ma immagini libidinose le si prospettarono nella mente, stuzzicando i suoi sensi già esageratamente eccitati. Lo voleva con tutto il suo essere, inutile negarlo. Voleva le sue mani ovunque, nei punti più sensibili, quei punti che neppure lei sapeva di possedere perché mai nessuno vi era arrivato. Il sesso non poteva essere quel dolore freddo ed inconsistente, quel tocco frettoloso che lasciava  solo solitudine ed insoddisfazione, doveva trattarsi di qualcosa di molto diverso da quello che Tom le aveva fatto provare quando erano solo due ragazzini inesperti. Altrimenti non si spiegava perché tutti amassero tanto farlo. E poi lo sentiva.

 

Il suo istinto sapeva ciò che stava cercando e lei voleva assecondarlo.

 

Strinse con forza i pugni sopra le ginocchia mentre un luccichio caparbio le illuminò gli occhi grigi. Quella sera avrebbe fatto violenza a se stessa, non voleva più cedere alla sua debolezza, avrebbe superato i suoi limiti e si sarebbe donata  a Tom.

 

Un trillo deciso riecheggiò nel salotto facendola voltare di scatto verso la porta d’ingresso. Rimase seduta ancora qualche secondo, respirando a fondo per calmare il cuore che aveva preso a batterle furiosamente in petto.

 

Quindi con movimenti lenti ma fluidi si alzò e si diresse verso la porta d’ingresso.

 

Trasse un ultimo profondo respiro, quindi spalancò la porta con un sorriso di benvenuto stampato in volto, sorriso che le morì sulle labbra non appena vide il volto truce del suo visitatore.

 

-Che cos…-

 

Andree annaspò incredula portandosi una mano al ventre mentre le parole le morivano in gola tranciate dal dolore acuto causato dalla pallottola che la penetrò, squarciandole le carni appena sotto il seno sinistro. In un lampo tutto attorno a lei scese una fitta e gelida nebbia rossastra, poi anche quella scomparve  lasciandola totalmente al buio mentre una lacrima di ribellione le scendeva silenziosa sulla gota pallida. Stava morendo senza aver avuto il tempo di confessare a Tom il suo amore, stava lasciando il suo bambino nelle mani di quell’assassino.

 

I tratti delicati del volto del figlio, così come lo aveva visto l’ultima volta, beatamente addormentato nel suo lettino ed ignaro che la sua mamma lo stava lasciando per sempre, fu l’ultima immagine coerente che le balenò davanti agli occhi prima di perdere definitivamente conoscenza.

 

 

 

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Capitolo 23
*** Cap. XXIII. ***


CAPITOLO XXIII.

 

Tom contemplò minaccioso la spia dell’ascensore che continuava imperterrita a lampeggiare sulla scritta “occupato”. Non aveva alcuna intenzione di farsi nove piani di scale, ma quell’arnese proprio non si decideva a scendere. Sbuffò rumorosamente roteando gli occhi all’indietro in un gesto di cupa esasperazione. Indubbiamente quello che Andree aveva scelto per sé e per il figlio, era un palazzo di gran classe, situato in una zona di gente altolocata, ma vi erano delle considerevoli pecche, sulle quali lui non era assolutamente disposto a soprassedere. Per prima cosa, e forse la più grave a suo modo di vedere, non vi era un portiere vero e proprio, ma una specie di sorvegliante che dimorava al piano terra e si faceva vedere solo se i condomini lo andavano espressamente a chiamare. Così il portone d’entrata rimaneva perennemente aperto sino a mezzanotte e chiunque poteva entrare indisturbato senza alcun controllo. Seconda considerazione, che in quel momento gli procurava un grosso fastidio, vi erano solamente due ascensori che servivano ventiquattro appartamenti disposti su nove piani e, proprio quella sera, sembravano entrambi bloccati al nono piano. Tirò leggermente su la manica del pesante giaccone imbottito per poter controllare l’ora sul suo costoso rolex, unico vero lusso che si era concesso da quando i privilegi di cui godeva un calciatore del suo calibro lo avevano esonerato dall’incombenza di far quadrare i conti per arrivare a fine mese.

 

In effetti, non stava aspettando poi da molto, circa due minuti, ma nello stato emotivo in cui si trovava, gli sembravano più di un’eternità.

 

Lanciò un’ennesima truce occhiata al dispay luminoso ma, notando che nulla era mutato, si rassegnò, arretrò di due passi e con forza spinse la porta a vetri che separava la tromba delle scale dalla hall, iniziando celermente a salire le nove rampe che lo separavano da colei che tra qualche istante avrebbe deciso del suo destino.

 

Giunse alla nona rampa praticamente correndo, l’impazienza gli stava giocando davvero un brutto scherzo e quel futile esercizio fisico non aveva fatto altro che aumentare il suo stato ansioso.

 

Non appena mise piede sul pianerottolo dell’appartamento di Andree vide di fronte a sé, lo spazioso vano illuminato di uno dei due ascensore completamente deserto. Fece un altro paio di passi avanti e scorse un sottile foglio di carta attaccato con del nastro adesivo davanti alla fotocellula che regolava la chiusura automatica delle porte. Tom scosse il capo incredulo, chiedendosi chi avesse potuto attuare uno scherzo così idiota, ma si rincuorò constatando che almeno l’altro ascensore aveva ripreso a funzionare e in quel momento segnalava il piano terra.

 

Avanzò ancora, deciso a sbloccare l’ascensore quando, con la coda dell’occhio, scorse una leggera fessura tra la porta dell’appartamento di Andree ed il muro. Un orribile presentimento gli fece accapponare la pelle mentre si precipitava verso il pannello socchiuso. Senza attendere oltre, diede due veloci colpi alla porta sospingendola subito dopo con decisione.

 

Lo spettacolo che si ritrovò davanti sarebbe rimasto per sempre impresso a fuoco nella sua mente, saldamente in cima ai suoi peggiori incubi. Sul pavimento chiaro, ai piedi dell’attaccapanni, il corpo della donna che amava giaceva immobile, riverso a terra su un fianco, in una posa innaturale. Il braccio sinistro disteso in avanti, poggiava tra la massa di lunghi capelli castani che creavano un’aureola disordinata attorno ad un volto da cui era scomparsa qualsiasi nota di colore. Tom gemette piano mentre il suo sguardo si spostava sull’altra mano di Andree serrata con forza attorno al maglioncino chiaro da cui spiccava una vistosa chiazza rossastra che si stava lentamente espandendo. Tom inorridì di fronte alla desolante immobilità del torace della donna e solo la sua strabiliante forza di volontà gli impedì di cedere all’ondata di nausea che gli stava rivoltando lo stomaco. Socchiuse gli occhi per poter allontanare almeno per un attimo quella scena raccapricciante ed estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans scuri  componendo in fretta il numero del pronto intervento. Non appena udì una voce dall’altro capo del filo, scandì l’indirizzo, spiegando succintamente che vi era una donna ferita gravemente. Una volta assicuratosi che il telefonista avesse ben annotato l’indirizzo, Tom riattaccò incurante che dall’altro capo del filo gli stesero rivolgendo ancora delle domande.

 

Un nuovo gelido terrore si era impadronito di lui facendogli toccare le vette più alte dell’umano sgomento.

 

Josh!

 

Aggirò il corpo di Andree reprimendo l’insano ed irrazionale impulso di afferrarla e scuoterla sino a farla rinvenire, sapendo bene che ogni minimo movimento poteva esserle fatale, sempre che fosse ancora viva.

 

-Dio fa che sia così, non me la portare via, ti scongiuro - pregò in una muta richiesta mentre si precipitava nella camera del figlio. Accese la luce al volo e come una furia si gettò sul letto di Josh, strappandogli di dosso le coperte. Il bambino spalancò gli occhi terrorizzato rannicchiandosi su se stesso in un istintivo gesto di difesa – Tom!?- esclamò riconoscendo il padre -Che stai facendo?-

 

Tom ignorò la domanda del figlio continuando nella sua febbrile ispezione. Lo toccò dappertutto per sincerarsi delle sue condizioni, restio a fidarsi dei suoi stessi occhi che avevano già stimato che nessuna ferita evidente vi era sul corpo del figlio - Stai bene?- gli chiese preoccupato toccandogli per l’ennesima volta la gambetta.

 

-Sì ma lasciami stare….- protestò Josh scalciando per liberarsi da quel fastidioso esame di cui non comprendeva il senso -Dov’è la mamma?- chiese stropicciandosi gli occhi offesi dalla luce artificiale.

 

Tom smise di toccarlo e lo guardò smarrito.

 

-Dov’é la mamma?- ripeté i bambino fissandolo a sua volta.

 

Tom si raddrizzò distogliendo lo sguardo dal volto innocente del figlio – Stai qui non ti muovere- ordinò con quanta più calma gli era possibile.

 

Ma Josh aveva ormai capito che qualcosa di terribile era accaduto -Voglio la mamma, MAMMA!- urlò con tono stridulo cercando di saltare giù dal letto ma bloccato al volo dal calciatore.

 

Lo strillo disperato del figlio gli spedì un brivido gelido lungo la schiena che lo sconvolse sino nel profondo, ma sarebbe morto piuttosto che permettere a Josh di venire a contato con quella realtà atroce con cui neppure lui riusciva a venire a patti.

 

-Stai qui ti ho detto-  

 

-Voglio la mamma, dov’è la mia mamma?-

 

Tom sentì qualcosa frantumarsi dentro di lui mentre il pensiero della donna nell’altra stanza riversa a terra in una pozza di sangue, riprendeva forma davanti ai suoi occhi -Stai qui, la tua mamma ha avuto un…incidente ed è meglio che tu non la veda e stia qui buono-

 

-Lasciami! Vattene via! Mamma , mamma-

 

Facendo violenza al suo istinto che gli suggeriva di prendere il figlio tra le braccia e portarlo da Andree, lo sbatté con forza sul letto e approfittando dell’attimo di comprensibile smarrimento del bimbo, si fiondò fuori dalla stanza, chiudendo a chiave la porta dall’esterno.

 

Un’improvvisa debolezza lo avvolse mentre una nebbiolina biancastra gli appannò la vista, Tom percepì nettamente le forze gli stavano venendo meno e la nausea che ricominciava a tormentarlo. Scosse il capo lasciando che i corti capelli gli sferzassero le guance livide, quindi respirando adagio tentò di avvicinarsi al corpo di Andree ma le gambe non lo ressero per più di qualche passo e crollò a terra in ginocchio ad alcuni metri da lei, appena oltre la soglia del lussuoso salotto il cui ordine perfetto faceva apparire ancora più irreale quella tragedia inaspettata.

 

Eppure era tutto vero. Crudele, ingiusta, barbara realtà.

 

Reclinò il capo di lato scrutando con minuziosa attenzione la posizione della donna, nella speranza di individuare qualche differenza rispetto a prima, ma purtroppo nulla era cambiato, Andree non si era mossa di un millimetro, solo il sangue aveva continuato a fuoriuscire e ora formava un’ampia pozza che spiccava beffarda sul pavimento chiaro. Si trascinò a gattoni sino al margine estremo di quel liquido scuro che fluiva impietoso da lei, consegnandola all’abbraccio agghiacciante della morte.

 

Dalla camera di Josh provenivano ininterrotte urla frammiste a singhiozzi isterici e a ripetuti  colpi contro la porta.

 

Tom continuò spingersi avanti, incurante del sangue che aveva iniziato ad inzuppargli i pantaloni e le maniche del pesante giaccone- Lo senti amore mio?- mormorò una volta giunto a pochi centimetri da lei accarezzandole piano la fronte bianca con la punta delle dita -La senti la voce di nostro figlio? Non vorrai mica lasciarlo vero? Non te lo perdonerebbe mai…- continuò mentre lacrime amare gli annebbiavano la vista e si mescolavano all’odore pungente della morte.

 

La abbracciò con lo sguardo chiedendosi angosciato quante ferite poteva avere. Non riusciva a capirlo e sapeva che non doveva toccarla. Lasciò cadere la mano, sfiorandole appena la guancia in una lievissima carezza. Sentì la pelle ancora tiepida della donna scivolare sotto la sua mano ed un guizzo di flebile speranza si riaccese in lui anche se da quelle labbra mortalmente pallide non usciva neppure un tremulo soffio d’aria.

 

In lontananza il suono acuto di una sirena si faceva sempre più insistente.

 

Tom rimase immobile, contemplandola in silenzio, sino a che delle figure anonime dai contorni sfocati riempirono la stanza con il loro chiassoso andirivieni. Lo fecero spostare, spingendolo da parte senza troppe cerimonie e si affaccendarono attorno al corpo inerte di Andree.

 

Non obiettò, limitandosi a rialzarsi in piedi e a ritirarsi discretamente in un angolo, osservando con sguardo inebetito il mondo che impazzito gli scorreva attorno. Non si riscosse neppure quando aprirono la porta della camera di Josh e una poliziotta cicciotella afferrò al volo suo figlio stringendolo con forza tra le braccia e premendogli con insistenza il volto contro il petto florido per impedire così al piccolo di scorgere i medici che portavano via in barella il corpo sanguinante della madre.

 

Qualche tempo dopo, quando sia Josh che Andree erano scomparsi dalla sua vista, si rese conto dell’insistente brusio al suo fianco e con un enorme sforzo di volontà si obbligò a prestare una minima attenzione al poliziotto che pazientemente gli stava rivolgendo le domande di rito. Il calciatore rispose a caso con cenni distratti, mentre il suo sguardo ritornava ripetutamente, come ipnotizzato, alla pozza di sangue scuro dove era rimasta chiaramente percepibile l’impronta del corpo di Andree.

 

-Ha chiamato lei l’ambulanza?-

 

Tom annuì.

 

–Il suo nome per favore?- ripeté per la quarta o quinta volta il poliziotto che era chiaramente al limite della pazienza.

 

-Tom Becker-

 

-Quel Tom Becker? Il centrocampista della nazionale?- chiese l’uomo squadrandolo con rinnovata attenzione.

 

Al cenno affermativo del ragazzo, proseguì  - E’ parente della signora?-

 

-No-

 

-E’ il fidanzato?-

 

-No-

 

-Il bambino è il figlio della signora?-

 

-Sì-

 

-Dov’è il padre?-

 

-Sono io-

 

Il poliziotto esitò un istante, riflettendo in fretta- Non è il fidanzato ma il bambino è suo, è forse l’ex marito o ex amante?-

 

-No-

 

-Signor Becker – iniziò l’uomo schiarendosi la voce con impazienza - Lei non ci sta aiutando. Qui hanno tentato di uccidere una donna chiudendo il figlio a chiave in camera e lei si trova sul posto grondante di sangue e non da alcuna spiegazione coerente …credo sia meglio che mi segua alla centrale-

 

Le parole dell’uomo fecero breccia nella mente sconvolta del calciatore che sussultò come se fosse stato colpito da un’improvvisa frustata. Finalmente riuscì a staccare gli occhi dal pavimento per mettere a fuoco l’uomo petulante che da diversi minuti lo stava tormentando con le sue domande insistenti. Si trattava di un ometto basso di statura, dal volto rubicondo e il naso da pugile, due occhietti esageratamente ravvicinati scintillavano arguti, nonostante l’aspetto del poliziotto fosse, nel complesso, tutt’altro che brillante.

 

Tom lo guardò come se solo in quel momento si rendesse conto della presenza di un essere umano al suo fianco -Tentato ha detto? Vuol dire che Andree non è morta?- chiese temendo di vedersi strappare anche l’ultimo impalpabile filo di speranza che gli impediva di impazzire di dolore.

 

-Non è morta- confermò l’uomo senza alcuna emozione nella voce -Ora se mi vuole seguire…- aggiunse facendosi da parte e invitandolo con la mano a precederlo.

 

- Ma io voglio andare in ospedale, stare con Josh…-

 

-Mi dia retta é meglio che mi segua. La terremo informata sulle condizioni della signora, per quanto riguarda il bambino per ora rimarrà con un’assistente sociale che sa come comportarsi in questi casi, poi verrà affidato ai parenti più prossimi della madre, lei sa chi sono?-

 

-I genitori di Andree, ma sono in America e lei non è in buoni rapporti. Sinceramente non credo voglia che Josh vada dai nonni. Lo terrò io finché la madre non si sarà ripresa-

 

-Temo ciò sia impossibile, forse lei non ha capito la gravità della sua situazione. Questa notte è stato tentato un omicidio e lei  per ora è accusato del fatto-

 

Tom lo fissò come se avesse di fronte un folle visionario –Eh?!?!? Io … cosa?- ma vedendo che l’uomo non rispondeva, limitandosi a fissarlo con circospezione a debita distanza di sicurezza, continuò con tono alterato – Ma io non ho fatto niente, non fare mai del male ad Andree , alla madre di mio figlio!-

 

-Bene se è così spiegherà con chiarezza la sua situazione al comandante Navarra. Le chiedo di seguirmi senza fare storie o sarò obbligato ad usare la forza-

 

Tom scosse il capo sconcertato, rendendosi conto che non vi era sistema per convincere l’uomo dell’assurdità delle sue accuse, ma per il momento non aveva importanza, l’unica cosa che per lui contava era sapere che non l’aveva ancora persa, che Andree era viva, quindi, senza aggiungere una parola, seguì l’uomo sino alla centrale senza fare storie.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo XIV. ***


CAPITOLO XXIV.

 

L’asettica stanza d’ospedale era immersa in una riposante penombra e solo il fastidioso fischio del respiratore, a cui era collegata la giovane donna distesa immobile nel letto, interrompeva un silenzio quasi perfetto. Ma se si aveva la pazienza di aspettare qualche istante, si potevano cogliere anche altri lievi rumori, come ad esempio lo scalpiccio ovattato di passi frettolosi che si alternavano nel corridoio oltre il pannello bianco della porta oppure un sommesso bisbiglio che emergeva a tratti da un angolo buio della stanza.

-Ecco come si è ridotta! Oh Adam abbiamo sbagliato tutto- mormorò una delicata voce femminile dal forte accento americano, incrinata e lievemente stridula per lo sforzo di trattenere le lacrime.

L’uomo in piedi al suo fianco si voltò verso di lei poggiandole con delicatezza una mano sull’avambraccio in un timido gesto di incoraggiamento. L’elegante abito scuro era solcato in più punti da lunghe pieghe, segno evidente della terribile nottata trascorsa accoccolato su una delle tante scomode sedie della sala di attesa dell’ospedale.

 

-Siamo stati troppo duri con lei…- mormorò spostando lo sguardo dalla moglie all’esile figura della figlia, attaccata ad una ragnatela di tubicini trasparenti che confluivano tutti in una complessa macchina che controllava la respirazione, la pressione e la frequenza respiratoria di Andree.

 

-Io lo sono stata! è tutta colpa mia- proruppe la donna incapace di controllarsi oltre e portandosi una mano tremante alla fronte imperlata da un sottile velo di sudore ghiacciato - Tu lo volevi accettare Josh …io invece …. guarda come sono stata meschina, come ho ridotto la mia bambina!- sbottò con sincera commiserazione per se stessa -Neppure ora accetto che…- la voce della donna venne spezzata da un singhiozzo a cui ne seguì subito un altro ed infine scoppiò a piangere senza ritegno. Suzanne Takigawa portò entrambe le mani al volto ridotto ad una maschera di angoscia e dolore asciugandosi gli occhi col dorso delle mani e venendo meno, forse per la prima volta in vita sua, alle rigide regole dell’etichetta che le imponevano di controllare ogni umana debolezza, concedendosi finalmente di saggiare sino in fondo lo strazio per il suo fallimento di madre.

 

-Quello sporco approfittatore lo voglio vedere in faccia! Non gli bastava averla messa incinta, no anche morta la vuole…oh la mia bambina!- inveì il signor Takigawa pronunciando quelle parole con tutta la rabbia di cui era capace.

 

-Neanche io so se sarei capace di guardarlo in faccia…Oh caro cosa ho fatto…-

 

-No Suzenne, non fare così, non prenderti tutte le responsabilità. Io ho torto quanto te. Avrei dovuto farti capire che Josh non c’entrava nulla in tutta questa storia e avremmo dovuto perdonare ed accettare tanti anni fa…Andree ha sbagliato ma è la nostra bambina…-

 

La donna smise di singhiozzare e fissò attonita il fragile corpo della figlia sospeso tra la vita e la morte – Voglio rimediare…oh signore dammi la possibilità di rimediare…-balbettò con voce tremante portandosi una mano al petto che si sollevava affannoso.

 

-Dobbiamo avere fede, il dottor Lee dice che potrebbe svegliarsi dal coma molto presto …-

 

- … o tra qualche anno…o mai….-

 

-Noi dobbiamo avere fede- ripeté l’uomo fissandola con determinazione e cingendole  le spalle con un braccio per darle e ricevere un po’ di conforto –Andree è forte e testarda…ce la farà…-

 

-Ma hai sentito che ha detto il medico? Non c’è alcun motivo fisico che spieghi il suo stato comatoso, sembra che Andree non voglia più svegliarsi, come se avesse rinunciato a vivere….-

 

-Sciocchezze!- la mise a tacere l’uomo con un gesto stizzito della mano -La nostra bambina non abbandonerebbe mai suo figlio, è una madre fantastica nonostante il pessimo esempio che le abbiamo dato-

 

“Ascolto ogni singola parola di quest’ incomprensibile dialogo tra i miei genitori, ma mi sembra uno scambio di battute da commedia di teatro dell’assurdo, accidenti a me se ci ho capito qualcosa!

 

Meglio riderci sopra. Una risata fragorosa, quelle che mia madre definisce “da ragazzotte plebee” e la fanno tanto infuriare, ma che io mi concedo quando sono particolarmente di buon umore.

 

E in questo momento sono decisamente euforica.

 

E quei due a piangere e a blaterare frasi senza senso … Chissà di che stavano parlando … meglio non crucciarsi e assicurarsi di aver messo tutto il necessario in valigia.

 

Che assurdità! Annuncio di aver vinto una borsa di studio per il miglior collage parigino e loro parlano di morte e figli… che diavolo hanno per la testa?

 

Ma che succede?Perché i contorni degli oggetti sono così sfocati? La stanza … non la riconosco più … dove sono? Tutto gira attorno a me …che sensazione sgradevole … è come se un Moira dispettosa avesse preso passato, presente e futuro e li avesse shakerati insieme…

 

Dove mi trovo?!??! In  un lontano passato… o… un prossimo futuro?

 

Ah… ma sta tornando tutto alla normalità … Ecco ora va decisamente meglio … vedo  papà che tira  fuori dal rinomato bar di famiglia lo champagne d’annata che conserva per le grandi occasioni, lo guardo versare il prezioso liquido nei bicchieri, li sento tintinnare e mi godo la deliziosa sensazione suscitata dalle bollicine all’interno della mia bocca… 

 

Dio che felicità! Mi sembra di toccare il cielo. Parigi! Mi troverò bene a Parigi … me lo sento.

 

Andree si rilassò e la macchina produsse una sequenza di bip-bip registrando l’improvviso cambiamento avvenuto nella muscolatura della paziente. La madre avanzò di un passo fissando sperduta l’infernale aggeggio che le mostrava una doppia fila di onde che scorrevano a ritmo regolare dopo aver riportato una sequenza di picchi. Spostò lo sguardo sul volto inespressivo della figlia sperando di cogliere un qualche cambiamento ma, non rilevando alcun mutamento, sospirò delusa.

 

Il cielo parigino è di un accesso azzurro, come quello americano, forse lievemente più nuvoloso, ma neanche tanto, il caldo estivo invece è molto più afoso e a volte mi riesce difficile tollerarlo… mi sembra di soffocare … come in questo momento …

 

Per fortuna il collage è una favola, proprio come me lo ero immaginato … invece … qui in Francia c’è qualcosa, anzi qualcuno, che supera ogni mio più ardito sogno … non sospettavo neppure lontanamente che al mondo vi fossero cose più belle dei sogni … invece … il capitano della squadra di calcio è  … è … non esiste parola terrena per descriverlo!

 

Pierre LeBlanc.

 

Reincarnazione di un angelo.

 

Pierre … bello da mozzarmi il fiato in gola, di una gentilezza squisita e dai modi raffinati … il principe azzurro delle fiabe in carne e ossa!

 

Ho deciso: nel mio cuore non vi sarà nessun’altro … né prima né dopo di lui ...

 

Un tenue sorriso piegò verso l’alto gli angoli delle labbra pallide di Andree. La madre, come richiamata da un suono inesistente, si accostò, quasi correndo, al letto della figlia – Adam! Sorride! Andree mi senti? Andree!-

 

-Calmati Suzenne non la scuotere così può essere pericoloso – la rimproverò il marito -Vado a chiamare il dottor Lee-

 

Dove vai papà? E chi è adesso questo dottor Lee?Non conosco nessuno con questo nome anche se … uhm … però mi piace il suono  Lee … caldo e affettuoso … sa di lunghe serate passate  su un morbido divano a discutere di tutto e di niente… sa di bollente the al limone ed ha il colore tenue del mare placido …  serena tranquillità di un’amicizia sincera…

 

Ma ecco Pierre che torna, dio come è bello, mi tremano le gambe al solo suo apparire. I miei pensieri fluiscono a briglie sciolte … mi travolgono in un turbine sconosciuto di sensuale passione. Mi eccita la sua presenza, i suoi casti baci non placano affatto la sete che ho di lui. Oh Pierre … che il cielo mi perdoni per queste immagini libidinose ma … è questo e molto altro ciò che vorrei fare con te …

 

Peccato che ci sia sempre il tuo inseparabile amico tra di noi … Louise Napoleon

 

Fa male il tradimento.

 

È come il deserto che avanza inarrestabile strappando terra fertile alla foresta così egli fa con me, mi inaridisce il cuore e toglie la linfa vitale alla mia anima.

 

Ma perché questi truci pensieri proprio ora? Adesso che io e Pierre stiamo insieme e ci amiamo alla follia? Non ha senso…

Il cielo azzurro sparisce da sopra la mia testa e una coltre più nera della pece mi avvolge. Guardo giù. Forse sono scivolata in qualche voragine senza accorgermene …

Non lo so ... non capisco più nulla … é una sensazione troppo crudele, e forse, FORSE, ho fatto bene a non fiatare, a non farmi vedere.

Non avrei sopportato di vedere la passione che provavo per te brillare nelle tue iridi color smeraldo mentre abbracciavi lui.

Eppure se lo avessi fatto, se avessi avuto il coraggio di staccarmi da quel fottuttissimo muro, la mia vita sarebbe stata completamente diversa.

Come sarebbe stata?

Vorrei scoprirlo.

Lascialo quindi, lascia quel muro e spalanca quella maledetta porta.

Così…brava!

-A…Andree- il volto di Pierre sbianca davanti a me  e gli occhi chiari che ho tanto amato in un tempo già lontanissimo, si dilatano pieni d’inconfondibile imbarazzo.

-E quindi le cose stanno così. Bello schifo…-

Sì suona bene …  una frase adatta alla circostanza.

-No aspetta lasciami spiegare…-

Obiezione scontata. Porco!

-Inutile il tuo cazzo parla per te…ehm i vostri…-

E vai! Così mi sembra perfetto. Ora sì che sto davvero bene…non mi hanno educata alla volgarità, ma non mi hanno neppure mai detto che mi sarei trovata in una situazione così …così … così come?Umiliante? Sì, decisamente umiliante.

Credo di stare meglio ora … forse … ma è un sollievo momentaneo, neanche il tempo di godermelo e già non c’è più …

Che soddisfazione ho tratto da questo sfogo insulso?

E intanto la pioggia continua a scendere su questo mondo di merda, mi bagna, mi entra nelle ossa.

Odio la pioggia e non c’é niente per cui sorridere … non voglio più vivere …

Questa volta faccio di testa mia.

Noam si chinò su Andree, le sollevò una palpebra, proiettando una lama di luce sottile direttamente sulla pupilla grigia e smorta. Niente nessuna reazione. Scosse il capo affranto – Mi spiace signora si sarà sbagliata…-

-Dottore le dico che ha sorriso, vero Adam? L’hai vista anche tu?-

Il marito non rispose, sfuggendo vigliaccamente lo sguardo della moglie, gli sembrava di aver visto ma non ne era affatto sicuro, anzi, osservando il volto inespressivo della figlia, ora era quasi certo che si fossero ingannati.

Ma c’è qualcosa maledizione!

Qualcosa che mi impedisce di abbandonare per sempre questa vita che mi grava addosso con tutto il suo fastidioso peso.

Che cosa diavolo é?

Sciogliete questo laccio e lasciatemi andare tranquilla verso la Signora del nulla…

Accidenti! Questo qualcosa viene da dentro me … non lo posso espellere …

Calmati Andree, forse è solo una sensazione … no è molto di più … è la consapevolezza, l’assoluta certezza che LUI c’è!

Una presenza sconosciuta, annidata nel mio essere, ancorata alle mie profondità, nutrita dal mio stesso sangue.

Ho la netta coscienza e la triste colpa che da qualche parte nel mondo un uomo diventerà padre, ma non lo saprà MAI.

Si é riaccesa in me la fiamma della sopravvivenza, mi ha riportata nella galassia della vita, non credo sia ciò che voglio in questo momento, ma non mi posso opporre, non posso abbandonare il mio cucciolo d’uomo.

Così accade, da sempre e per sempre, quando nel ventre di una madre il figlio prende forma, quando la vita sboccia e porta con sé un carico d’amore … ancora … e ancora … perchè amare si può sempre.

Ma loro, i miei genitori non lo vogliono. Non gliene importa nulla a loro se JOSH é amore e io sono madre.

Josh?

Se ne fregano di quel che provo e dell’essere che ho il dovere di proteggere.

Vivere per loro? Ne vale la pena?

Non si sono mai chiesti se volessi o meno diventare madre. Mi hanno offerto una scelta, la loro scelta, e io l’ho rifiutata. Nessuno ha il diritto di scegliere per me e così …  Josh é nato!

A dispetto delle chiacchiere della gente, dei pregiudizi, dell’invidia.

L'unica cosa importante per loro era non dare scandalo e una gravidanza a sedici anni è scandalo, o no? Ma è così importante, poi, il giudizio degli altri? Non sanno che se qualcuno è felice, la cattiveria della gente non lo sfiora neppure? Si viaggia in un’altra dimensione, si vola su nuvole di pace e serenità. Che t’importa della cattiveria del mondo quando tuo figlio succhia il latte dal tuo seno, spingendo forte contro di te con i suoi pugnetti innocui?

Josh!

Dov’é ora mio figlio?

Josh!

Svegliati Andree! Non lo puoi abbandonare, è ancora troppo piccolo, così indifeso…

Ecco di cosa stavano parlando i miei!

Hanno sbagliato a rifiutarlo, ma non sono certa di voler perdonare e dare loro la possibilità di rimediare. In fondo loro non mi  hanno dato alcuna possibilità né tanto meno perdono.

Ma qualcosa non torna … manca un pezzo in questo puzzle confuso di frammenti di tempo e frangenti di vita … c’é un particolare che la mia mente si rifiuta di rivelarmi … qualcosa che mi inquieta … chi diavolo mi ha messa incinta?

Non lo so… e qui è sempre più buio, fa freddo e continua a piovere…

Josh non mi lasciare, ti prego non lasciare la tua mamma!

Troppo tardi… figlio mio stai scivolando nuovamente nell’oblio… sei poco più di una luce tenue in fondo ad un tunnel buio … e io non ho la forza per raggiungerti …

Josh avanzò nella stanza trattenendo il respiro per paura di disturbare la mamma. Piccolo e serio, appariva tremendamente fragile ma allo stesso tempo incredibilmente forte. Scrutò con i suoi enormi occhi nocciola la coppia accanto al letto della madre, gli avevano detto che quelli erano i suoi nonni, i genitori della mamma, eppure lui non li aveva mai visti prima, lo guardavano sempre in uno strano modo come se lui fosse diverso da tutti gli altri bambini e poi, con i loro continui ed impacciati tentativi di avvicinarlo, lo spaventavano e lo infastidivano.

Noam gli appoggiò una mano sulla spalla facendo una lieve pressione –Forza campione, la tua mamma sarà felice di vederti- disse piano sospingendolo avanti con delicatezza.

Mamma!

Josh alzò il capo di scatto al suono di quella parola pregna d’incanto, frugò negli occhi del medico alla ricerca di un qualche conforto - Come fa a vedermi se non apre mai gli occhi?-

-Ti ho già spiegato…-

-Sì, che sta dormendo, ma sono cinque giorni che dorme – lo interruppe con un’espressione di sconfinata angoscia sul volto -… e non mi risponde mai – bisbigliò sospirando mortificato – Lei non sta dormendo…- concluse abbassando lo sguardo pieno di lacrime

Suzanne Takigawa abbandonò il capezzale della figlia affrettandosi verso il nipote -Non fare così, devi avere fiducia, la tua mamma si sveglierà presto…-

-E che ne sai tu!- rispose il bimbo guardando la nonna con astio come se avesse finalmente trovato contro chi sfogare l’inquietudine accumulata in quei lunghi giorni di attesa –Non ti ho mai vista prima, non ti importa niente a te della mia mamma…-

Suzanne indietreggiò di un passo urtata dalla reazione violenta del nipote ma incapace di provare rancore, era straziata dal dolore che vedeva riflesso nelle iridi traslucide del nipote, non era giusto che un bambino così piccolo vivesse una situazione così penosa.

Josh voltò le spalle alla nonna non degnandola più di alcuna attenzione e si avvicinò al letto della madre – Ciao mamma … perché non ti svegli? Perché non mi guardi? Mi manchi e mi sento tanto solo…- sbottò tirando con forza il braccio inerme della madre e scoppiando a piangere nonostante avesse promesso allo zio Noam di essere forte – Lo …lo zio Noam si prende cura di me e … e…- il bimbo si bloccò un istante tirando rumorosamente su col naso - … anche Holly, Benji, Mark, Julian … sono tutti buoni con me e mi fanno compagnia ma mi manchi troppo … mammina non ce la faccio più … almeno ci fosse il mio papà qui con me …dov’è Tom mamma?-

Josh tacque e alle sue spalle udì un gemito strozzato -Per favore non nominare quell’uomo- protestò Suzanne con impeto nonostante si sentisse la gola chiusa per l’emozione. Le parole del nipote l’avevano profondamente toccata, ma quando lo aveva sentito nominare quell’uomo disgustoso un moto di ribellione si era risvegliato prepotentemente in lei.

-Tom- ripeté il bimbo caparbiamente senza nemmeno voltarsi a guardare la nonna – Tom è il mio papà e la mamma gli vuole bene- proseguì con voce velata di pianto.

-Basta Josh- gli intimò la nonna afferrando il nipote per un braccio e scuotendolo con forza.

Josh girò il capo di scatto verso la nonna e strillò al limite di una crisi isterica – TOM!TOM!TOM!T..-

-Smettila ti ho detto!-

-Per favore signora Takigawa si calmi- intervenne prontamente Noam -Cerchi di comprendere la situazione del bambino. Tom Becker è realmente suo padre e ha tutto il diritto di pronunciare il suo nome di fronte ad Andree-

-Sarà anche il padre ma è anche l’assassino di mia figlia!- lo zittì Suzanne Takigawa mollando bruscamente il braccio del nipote e fissando il medico con uno sguardo colmo di disapprovazione.

-Questo non lo può dire! E’ solo una sua opinione, Tom è vittima di una serie di circostanze sfavorevoli, ma quando Andree si sveglierà si risolverà tutto-

-Ne è così certo dottore? Eppure mi risulta che ora sia in galera e se lo hanno trattenuto un motivo ci sarà … o no?-

Noam vide con la coda dell’occhio il bambino sbiancare e provò per lui un’infinita pena, quello non era certo il modo che lui aveva programmato, per fargli sapere perché suo padre non era al capezzale della madre - La prego signora- la riprese nuovamente Noam questa volta però con una chiara sfumatura di minaccia nella voce, quella donna insensibile stava davvero superando qualsiasi limite umanamente tollerabile.

Tom  in galera? Perché?

E soprattutto … CHI E’ TOM?

E questa pioggia che non smette di scendere.

Odio la pioggia… PENETRA  nelle ossa … nella carne … nell’intimo di una donna…

Ho paura.

Non è la pioggia ad entrare in me … ma qualcosa di più doloroso ... più ingombrante.

È l’umiliazione del possesso maschile, la cruda supremazia dell’uomo sulla fragilità della donna.

È dolore.

È violenza.

È la traccia indelebile.

La tensione è insopportabile come l’aria elettrica prima d' un temporale, l'atmosfera surreale di impaziente aspettativa, il cielo è oscurato da una coltre opprimente di nubi e la pioggia mi cade addosso … basta!

Basta! Non ne posso più!

Quella bambina che cammina con aria infelice, inzuppata sino alle ossa, gocce come lacrime le  scivolano addosso, accarezzano con voluttà quel corpo dalle forme ancora teneramente acerbe, scendono veloci, esplorandola tutta, per poi depositarsi a terra … e con esse si squagliano al suolo anche pezzi di fragile anima di cristallo.

Non voglio QUEL destino per quell’angelo innocente.

Tentò di muovere una mano per fermare quella debole creatura, per impedirle di giungere in quel luogo tetro. Ma non vi riuscì, per quanto si sforzasse il suo corpo era diventato come un grosso blocco di inerme granito ed ogni suo tentativo di riprenderne possesso era vano, le braccia, le gambe, tutto era pesante ed insensibile.

Eppure voglio svegliarmi. Non voglio che la piccola arrivi in quel bar, non voglio che venga dilaniata …

Povera bimba indifesa entrata da sola nella tana del lupo. Voglio andare da lei, abbracciarla, stringerla forte al petto e portarla lontano, impedirle di scoprire quanto fa male il mondo, quanto sia sporco e triste.

E invece sono qui ad assistere impotente a questo scempio d’innocente candore. Guardo con gli occhi sbarrarti la vita che vomita addosso ad un essere puro chili di immondizia.

Chiudo gli occhi e mi tappo le orecchie. Forse non sentire né vedere mi regalerà l’illusione che non sia successo niente.

Eppure lo so …  quella bimba non griderà, non piangerà … è  forte …  più di me.

Ed eccolo lì il dolore salire violento.

Noooooooooo.

Fa ogni volta più male, ma quanto posso sopportare ancora?

E può l’amore far così male?

Amore?!??!

Che c’entra l’amore con questa violenza?

Ma IO ora lo so: l’amore può. Può il possibile ma soprattutto l’impossibile.

Ce l’ho fatta!  Ecco dove ti eri nascosta, anima mia! Ti ho scovata, sfogliata, carpita … finalmente ti ho recuperata da quella landa sperduta in cui ti eri rifugiata, offesa per essere stata sfregiata con tanta noncuranza.

Ce l’ho fatta! Ho toccato il fondo di me stessa!

Ora sono pronta a svelare al mondo intero, ma soprattutto a te Tom Becker, unico amore mio, ciò che ho scoperto.

Dedico a te questo viaggio catartico che mi ha liberata dal giogo che io stessa ho stretto per tanti anni attorno al mio cuore.

Tom, sei entrato in me quando non ero pronta ad accoglierti e  per questo ti ho odiato. Hai violato la mia innocenza, sfogando dentro di  me il tuo istinto animale. Te l’ho concesso io, è vero, ma ciò non cambia le cose, anzi fa ancora più male perché oltre al rimorso si aggiunge il rimpianto.

Non ti ho perdonato dapprincipio.

Ma poi tutto è mutato. È sbocciato l’amore. E ora mi chiedo: può questo tenero sentimento che ci unisce cancellare tutto ciò che è stato? Può eliminare l’odio che ho nel cuore, può dissolvere il rancore che mi divide da te, può lavare l’onta che ho subito e che mi impedisce di essere tua?

Io lo voglio e tu? Tom lo vuoi?

Dove sei amore mio, perché non sei qui con me? Vedo mamma e papà. Vedo Noam, vedo Josh…e tu dove sei? Non mi lasciare proprio ora. Ti amo. Ti appartengo. Prendimi amore, prendimi ancora una volta e tienimi con te. La prima volta mi hai regalato Josh, ora regalami te stesso ed accettami. Io ho accettato tutto. Il dolore ma soprattutto l’amore.

Ti amo”

-Tom…-

-Oh mio dio! Andree bambina mia! Dottore si è svegliata!- la signor Takigawa si appoggiò al letto della figlia per non crollare poco elegantemente a terra – Dottore che le avevo detto?- disse tra le lacrime afferrando la mano della figlia e stringendola forte tra le sue.

-Tom…- ripeté Andree sbattendo le palpebre, si sentiva stanca e delusa, dove era Tom?

Josh si protese verso la madre scrollandola  – Mamma!-

-Togliti Josh e anche lei signora, si allontani- disse Noam sollevando il bambino di peso e sospingendolo da parte insieme alla nonna -Fatemi vedere … Andree mi senti?-

La donna socchiuse le palpebre osservando attraverso le folte ciglia il bellissimo volto dell’amico chino sopra di lei, gli occhi azzurri sempre vivaci e allegri erano in quel momento cupi per l’ansia. Richiuse gli occhi respirando piano.

-Andree mi senti?- ripeté il medico tastandole con delicatezza il polso.

-Non sono mai stata sorda…- mormorò, sforzandosi di muovere il braccio libero –La smetti di starmi addosso? Non mi fai respirare…mi manca l’aria…-

-Sono le canule…- borbottò il medico staccandole con gesti esperti la cannetta dal naso – Va meglio ora?-

-Uhm…- mugugnò la donna respirando a fondo – Sì decisamente…-

-Andree lo sai dove ti trovi? Chi sono io?-

Andree spalancò gli occhi grigi colmi di incredulità -Mi prendi i giro?- indagò sospettosa.

-Sei stata in coma cinque giorni- le spiegò il medico spegnendo il respiratore artificiale.

-Cinque giorni!?! Josh!- esclamò Andree cercando il bambino con lo sguardo e calmandosi solo quando lo vide apparire accanto a lei – Chi si è preso cura di te?-

-Lo zio Noam-

 

-Ah…grazie … dottor Lee…- disse sorridendo grata alla sorte che le aveva concesso la fortuna di avere un amico così prezioso al suo fianco.

 

-Bambina …- esclamò la madre.

 

-Mamma?! Papà … che ci fate qui?- chiese guardando confusa verso i genitori ma poi, senza attendere risposta, distolse lo sguardo da loro facendolo vagare per la stanza alla ricerca di persona che però non riuscì a trovare.

 

-Chi cerchi?-le chiese il medico accarezzandole con affetto la fronte pallida.

 

-Tom…-

 

-Andree- iniziò Noam con cautela continuando ad accarezzarla con infinita dolcezza –Tom é… in carcere-

 

Andree allontanò bruscamente da sé la mano dell’amico e balzò a sedere sul letto manifestando un’energia che Noam non si aspettava. La mossa maldestra strappò l’ago della flebo infilato nel braccio destro della donna, che fuoriuscì da sotto il cerotto spruzzando sul lenzuolo bianco un fiotto di sangue rosso cupo.

 

-Sei impazzita?- la rimproverò il medico appoggiandole le mani sulle spalle e sospingendola verso i cuscini –Stai giù!- le ordinò severo risistemandole in fretta l’ago sul braccio.

 

Andree era sbiancata per il dolore e scrollò la testa nella speranza di allontanare quella nebbia sottile che era scesa nella stanza -Noam- disse aggrappandosi con le poche forze rimastole ai polsi dell’amico – Non crederanno mica che sia stato Tom a spararmi?- chiese sondando ansiosa negli occhi del medico alla ricerca della verità – Oh mio dio!-esclamò tremando per l’orrore -Non è stato Tom!-

 

-Chi è stato? Chi ti ha sparato?- le chiese il medico liberandosi dalla presa della donna e premendo il pulsante delle emergenze posto di fianco al letto. Andree era comprensibilmente agitata e una piccola dose di tranquillante non poteva farle che bene.

 

-E’ stato ...- Andree si interruppe ripensando incredula al volto folle della persona che si era trovata di fronte con la pistola stretta in pugno – E’ stata …una donna!-

 

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Capitolo 25
*** Cap XXV. ***


Ciao e BUON 2005 A TUTTI! Avrei voluto regalarvi gli ultimi capitoli di “Tracce Indelebili” per Natale ma non ce l’ho fatta…Purtroppo mi si sono sormontati una serie di imprevisti che hanno assorbito tutto il tempo a mia disposizione. Mi sono dovuta ammalare per trovare un po’ di pace e poter scrivere il penultimo capitolo. Eh sì! Siamo quasi alla fine! Lo sapete che mi state seguendo da quasi un anno? Ancora non riesco a credere che la mia ff vi piaccia tanto … Siete fantastiche e non finirò mai di ringraziarvi.

 

CAPITOLO XXV.

 

Andree sprimacciò a lungo il cuscino prima di risistemarselo dietro la schiena nella vana speranza di trovare una posizione più comoda che le desse un po’ di pace. I diciassette punti che le avevano dato al fianco sinistro, le provocavano ancora un fastidiosissimo dolore pulsante, per nulla attenuato dal blando analgesico che Noam si era premurato di somministrarle regolarmente ogni quattro ore.

 

L’amico le aveva spiegato che il disagio sarebbe perdurato al massimo un’altra settimana, dopo di ché l’unico ricordo tangibile di quell’orribile esperienza, sarebbe stata una lieve cicatrice a malapena percepibile. Ovviamente, lo stress psicologico ci avrebbe messo molto più tempo a venir metabolizzato, Noam l’aveva adeguatamente messa in guardia sulla concreta possibilità della comparsa di spiacevoli incubi ricorrenti che probabilmente l’avrebbero portata a soffrire d’insonnia, sintomi peculiari di quello che i medici definivano in gergo “stress postraumatico”.

 

Ma per il momento la donna non era affatto preoccupata dei risvolti che quell’inspiegabile attentato avrebbero avuto sulla sua psiche. La sua mente era un caos totale e difficilmente qualcosa avrebbe potuto scombussolarla ancora di più.

 

Si riappoggiò mollemente contro i cuscini, facendo scivolare con lentezza le sue iridi di ghiaccio da uno all’altro dei due uomini ai piedi del letto che da più di mezz’ora la stavano annoiando con una serie di domande alle quali lei rispondeva svogliatamente. In realtà, la sua esperienza di avvocato le rivelava che quell’insistenza era più che giustificata, per niente superflua, ma questa consapevolezza non le rendeva certo la situazione più piacevole.

 

Andree non riusciva a dedicare energie mentali a null’altro se non a … Tom Becker.

 

Voleva parlargli, doveva dirgli che l’amava, che le dispiaceva che avesse passato dei guai per causa sua, che Josh sapeva, che lei lo aveva rifiutato perché si portava dentro un assurdo trauma che non riusciva a superare, che …

 

Domande e risposte. Da lui. Solo da lui.

 

Squadrò con impazienza la porta chiusa da cui qualche minuto prima era uscito Josh assieme al capitano Hutton ed ad una giovane infermiera. Il bambino era affamato e così la madre lo aveva convinto ad andare al bar a mangiare un panino, ma era riuscita a persuaderlo solo dopo molte insistenze e la solenne promessa di non rimettersi a dormire. Aveva pazientemente spiegato al figlio che non rischiava più di entrare in coma e che non doveva stare in ansia ogni volta che lei chiudeva gli occhi, ma Josh per ora, non sembrava propenso a correre rischi e le aveva proibito categoricamente di addormentarsi.

 

D’altronde mantenere quella promessa non le costava alcuna fatica, non sarebbe riuscita a prender sonno neanche volendo. L’immagine del bruno centrocampista le balenò davanti agli occhi facendola sospirare mentre le sue mani pallide scorrevano nervosamente su e giù sulla ruvida coperta del letto.

 

-Pedro- disse rivolgendosi familiarmente al comandante della pattuglia in servizio a Tokyo incaricato del suo caso – Sei sicuro di aver trattato Tom con il dovuto riguardo?- chiese scettica fissando l’uomo in divisa scura accanto a Noam.

 

Conosceva Pedro Navarra da tre anni, ovvero da quando Noam glielo aveva presentato durante una tranquilla cena a casa sua. Andree era l’unica persona a conoscenza del reale motivo per cui il medico avesse maturato l’idea di abbandonare l’America, dove aveva da poco intrapreso una fulgida carriera tutta in salita, per andarsi ad occupare di un anonimo reparto di chirurgia d’urgenza nel Paese del Sol Levante. Noam aveva avuto la forza ed il coraggio di fare quella scelta che metteva in crisi la maggior parte del genere umano, anteponendo, senza sterili rimpianti, la sua personale felicità alle soddisfazioni della carriera.

 

Andree reclinò impercettibilmente il capo all’indietro, soppesandoli entrambi con gli occhi socchiusi. A primo acchito erano due persone agli antipodi, almeno da un punto di vista squisitamente fisico. Noam era biondo, con occhi chiarissimi e la perenne abbronzatura tipica del californiano, che lo faceva assomigliare più a un aitante surfista che ad un medico di fama internazionale; Pedro invece era uno spagnolo purosangue, tratti spiccatamente mediterranei, carnagione olivastra, occhi scuri e vellutati, una cortissima zazzera di capelli nerissimi. Ma le differenze si fermavano lì. Entrambi erano solari, atletici, spigliati, intelligenti capaci di autoironia e, particolare che non la smetteva mai di divertirla, erano corteggiatissimi dalle donne, che sembravano perdere ogni amor proprio di fronte al bel medico o al tenebroso poliziotto. Ma la fedeltà ed il rispetto reciproco erano capi saldi ben assodati del loro duraturo rapporto.

 

Non appena era uscita dal coma e Noam le aveva dato la scioccante notizia che Tom era in carcere accusato di tentato omicidio, era quasi impazzita all’idea dell’uomo che amava rinchiuso in una cella male illuminata, sovraffollata e circondato da delinquenti della peggior risma. Aveva trovato un po’ di pace solo quando l’amico le aveva confidato che era proprio il suo compagno, Pedro Navarra, il responsabile del caso e che in via privata aveva provveduto ad assicurarsi che Tom fosse trattato con tutti i riguardi possibili. Aveva così assicurato al calciatore un trattamento speciale rispetto a quello concesso normalmente agli accusati di omicidio, evitandogli snervanti e sgradevoli interrogatori, l’esame di imbarazzanti intercettazioni ambientali e altri mezzi più o meno invadenti usati per mettere alle strette gli accusati e costringerli a confessare.

 

In ogni caso, l’ingerenza era stata accettata di buon grado dal comandante Navarra che sin da principio si era convinto dell’innocenza del calciatore anche se, il suo ruolo istituzionale, lo aveva obbligato a trattenerlo sotto custodia sino al risveglio di Andree o, alla peggio, all’udienza preliminare.

 

-Il tuo boy se l’è persino spassata in cella - le rispose il poliziotto facendole un occhiolino complice – Aveva persino la televisione privata  … ed eravamo lì per mettergli anche la ballerina di lap dance …-

 

-Spiritoso…- bofonchiò Andree con un smorfia eloquente –Ma come ti è venuto in mente di arrestare Tom?!!?- aggiunse ritornando repentinamente aggressiva e per niente disposta a farsi distrarre dall’affabilità de poliziotto.

 

-E che dovevo fare?- si difese l’uomo facendo spallucce -Era lì accanto a te, inzuppato di sangue, che dalle analisi è ovviamente risultato essere il tuo, e dovevi tirargli fuori le parole con le tenaglie…- spiegò con calma –Non ho potuto neppure concedergli gli arresti domiciliari e se tu non lo avessi scagionato, la prossima settimana sarebbe apparso davanti al giudice-

 

Andree lo trapassò con una fredda occhiata carica di impotente frustrazione -Ma non c’erano prove contro di lui- affermò ostinatamente.

 

-Effettive no, ma circostanziali sì. Ha dichiarato di essere il padre di tuo figlio, affermazione confermata dagli esami medici, eppure la situazione familiare non risultava chiara, il bambino non è mai stato riconosciuto, e da indiscrezioni mi risulta che il vostro rapporto non sia proprio limpido …-

 

-E ora?- lo interruppe bruscamente la donna che non aveva alcuna intenzione di mettere in piazza il suo complicato rapporto con Tom - Quando lo rilasciate?-

 

-E’ già libero. Non appena hai aperto gli occhi e lo hai scagionato, Noam mi ha chiamato e io ho provveduto a scarcerarlo …-   

 

La donna gettò un’ennesima occhiata alla porta -Allora perché non è qui?- chiese inquieta

 

-Cara, lasciagli il tempo di riprendersi…in fondo si è fatto cinque giorni di galera…- intervenne prontamente Noam.

 

-Ma mi avete detto che lo avete trattato bene….-

 

-Ed eccola che ricomincia- brontolò il comandante Navarra sollevando in alto le mani in un gesto di resa totale – Non abbiamo spostato un capello al tuo calciatore-

 

-Non è mio- sbuffò Andree scimmiottando il tono allusivo del poliziotto, ma il vivo rossore che si profuse sulle sue guance ancora pallide, la tradì, palesando ai due amici il suo reale turbamento.

 

I due uomini si scambiarono un’occhiata complice e ridacchiarono divertiti indicandola con il dito.

 

-Uff! siete insopportabili!- protestò Andree sollevando le coperte e ficcandoci sotto la testa –Vi odio. Andatevene via e mandatemi il … mio calciatore- brontolò da sotto le coperte sforzandosi di non ridere.

 

Un discreto bussare la fece riemergere velocemente dal suo nascondiglio, togliendole in un colpo solo il piacevole colorito che le aveva ravvivato la pallida carne del volto.

 

-Avanti- disse Noam dopo qualche secondo, notando, con stupore, che l’amica sembrava aver perso l’uso della parola.

 

Il visitatore aprì la porta adagio ed infilò dentro la testa –Ciao- salutò una bassa e calda voce maschile non appena scorse la paziente seduta sul letto.

 

Andree non si stupì della sensazione di vuoto allo stomaco che la colse e si passò velocemente una mano tra i capelli, nel vano tentativo di risistemarsi dietro le orecchie le lunghe ciocche che erano sfuggite alla treccia in cui l’infermiera glieli aveva raccolti.

 

Mentre il suo cuore continuava la sua folle corsa diretto chissà dove, la donna si rimproverò mentalmente pensando all’aspetto orribile che doveva  avere e soprattutto al fatto che invece di perder tempo a fare la lagna con Pedro e Noam, avrebbe almeno potuto darsi una sistemata!

 

Ma lo sguardo adorante con cui Tom continuava a fissarla e soprattutto il dolcissimo sorriso che gli curvò leggermente le labbra, cancellò in un baleno ogni sua remora, facendole dimenticare qualsiasi inutile cruccio. Lo osservò silenziosa mentre lui richiudeva la porta alle sue spalle, esaminandone con avidità ogni particolare. Un sospiro le sfuggì involontariamente notando le profonde occhiaie scure che alteravano la bellezza di quel volto altrimenti bellissimo, e le si strinse il cuore in petto nel rilevare i segni tangibili della sofferenza patita dal calciatore a causa sua.

 

Tom rilevò con la coda dell’occhio la presenza dei due uomini nella stanza -Dottor Lee …Comandante Navarra…- salutò rigido mentre ogni traccia di sorriso scompariva dal suo volto, divenuto all’improvviso una maschera tesa e ostile.

 

-Becker! Finalmente sei giunto- proruppe con tono gaio il comandante Navarra fingendo di non aver notato il brusco cambiamento avvenuto nel calciatore -Andree non la smetteva più di martoriarmi con “e quando arriva” “ e come lo hai trattato”… “perché non è qui”…-

 

-Pedro!- lo riprese la donna fulminandolo con un’occhiataccia.

 

-Non è vero cara?- chiese in poliziotto sfoderando una ridicola espressione da angioletto a cui Andree replicò con una poco signorile linguaccia.

 

Tom assistette immobile a quello scherzoso scambio di battute, chiedendosi come mai quel lato gioviale dell’inflessibile avvocato non fosse mai emerso con lui. Volse lo sguardo altrove, vergognandosi della fitta di gelosia che lo colse violenta, facendogli fare mille fantasiose illazioni sul motivo di tanta familiarità tra Andree e quell’odioso individuo.

 

-La mia assenza non era certo imputabile alla mia volontà- puntualizzò acido dopo qualche istante, recuperando in fretta il controllo di se stesso ed avanzando verso il letto di Andree, deciso a mettere bene in chiaro che quello ora era “territorio di sua proprietà”.

 

Ne aveva passate davvero troppe a causa di quella donna e ora non era disposto a vedere la propria felicità minacciata dal primo sconosciuto di passaggio.

 

-Mi dispiace non ho potuto fare altrimenti…- replicò Navarra osservando con un guizzo divertito negli occhi scuri le mosse di Tom -Le circostanze erano tutte a suo sfavore e purtroppo sino a che Andree non l’ha scagionata, io avevo mani e piedi legati – terminò intercettando lo sguardo astioso del calciatore per qualche istante -Anche se speravo che Andree ci fornisse informazioni utili sulla possibile colpevole- proseguì il poliziotto fingendo noncuranza e sfogliando distrattamente la cartella clinica della donna appesa ai piedi del letto- Invece brancoliamo nel buio ….-

 

-Sulla? È una donna?!?- chiese Tom perplesso continuando a fissare con circospezione le manovre del poliziotto.

 

Andree annuì attirando su di sé l’attenzione di Tom. I loro sguardi si fusero assieme e per un breve, ma indimenticabile istante, le loro anime sembrarono sfiorarsi.

 

Frugò rapita in quelle iridi nocciola che si riempivano di indefinibile calore non appena si posavano su di lei. Come aveva potuto anche solo pensare di poter gettare al vento tutto quello? Come era stata sciocca al solo pensare di poter vivere anche un solo giorno senza di lui!

 

Pedro ruppe a malincuore quel quadretto romantico, richiamato al dovere dalla sua inflessibile etica professionale che gli intimava di proseguire nelle indagini quanto prima – Sì, una donna che si è presentata nel ufficio di Andree qualche giorno fa, esattamente la sera della partita contro la Russia. L’avvocato dice che la signora si è presentata col nome di Norris, ma dalle nostre indagini risulta essere un nome falso…-

 

-E perché voleva ucciderti?- chiese Tom incapace di distogliere lo sguardo da lei e rifiutandosi ostinatamente di rivolgere la parola al comandante.

 

La donna scosse il capo guardandolo confusa -Non lo so proprio, ma … -

 

Un sonoro bussare interruppe a metà la frase di Andree. Un uomo tarchiato con la divisa da poliziotto, fece velocemente capolino – Comandante Navarra ci sono novità!- esordì il nuovo arrivato salutando i presenti con un distratto cenno della mano.

 

-Dalla tua agitazione immagino importanti novità, Manuel- rispose il comandante che non gradiva certe forzate irruzioni in una camera d’ospedale. Sapeva che Noam concedeva delle libertà in nome del loro legame, ma non voleva approfittare dell’indulgenza del medico e rischiare di sollevare delle inutili e fastidiose lamentele.

 

-Eccome. Abbiamo una foto di una certa signora Norma Norris che ha alloggiato da sabato scorso sino alla notte dell’attentato in un albergo di seconda categoria nella zona orientale della città - disse fiero il poliziotto sventolando in aria la riproduzione – E’ abbastanza chiara ma l’abbiamo egualmente ingrandita, così l’avvocato Takigawa può dirci se la riconosce…- concluse passandola pomposamente al suo superiore.

 

Pedro esaminò attento la giovane donna dai capelli rossi, imbacuccata in un cappotto scuro che la copriva quasi sino ai piedi. Il volto era stato ripreso di tre quarti, mentre la giovane sembrava in attesa davanti all’entrata di un mediocre albergo di sua conoscenza. Probabilmente la foto era stata scattata da una delle telecamere del servizio di sicurezza del parcheggio antistante.

 

-Tieni Andree vedi se ti dice qualcosa- disse affiancandosi alla donna e porgendole la foto.

 

Andree fissò l’immagine per un paio di secondi -Mio dio! E’ LEI!-  esclamò incredula.

 

Il comandante Navarra si protese verso di lei sfiorandole la spalla con il braccio, ignaro delle sguardo assassino del calciatore fisso su di lui – Sei sicura?-

 

-Certamente. Ritengo di avere un’ottima memoria per i volti – confermò lei senza la minima incertezza.

 

Il comandante riprese in mano la foto –Bene, ora non ci resta che scoprire chi è veramente questa donna e perché diavolo ce l’ha con te…- commentò raddrizzandosi e lanciando uno sguardo eloquente al suo subalterno che scattò sull’attenti.

 

Tom sbirciò l’immagine mentre questa passava dalle mani di Navarra a quelle dell’altro poliziotto, desiderava solo che quegli scocciatori se ne andassero in fretta e li lasciassero finalmente soli, ma la curiosità di vedere che aspetto avesse la pazza che aveva osato fare del male alla sua donna, fu più forte di lui.

 

In una frazione di secondo, le sue pupille scure si dilatarono per lo stupore -Ma io la conosco!- affermò strappando quasi la foto dalle mani del poliziotto che lo fissò allibito cercando subito dopo con lo sguardo il suo comandante che con un impercettibile cenno del capo gli intimò di stare fermo.

 

-Sì …questa é…. – balbettò stringendo forte l’immagine tra le mani, incapace di credere ai propri occhi.

 

Sa il nome di quella donna?- lo incalzò Navarra con una chiara nota d’impazienza nella voce.

 

-Sì…ma non posso credere che sia stata lei a sparare…-

 

-Becker non mi importa un fico secco di ciò che lei crede. Il nome. Voglio il nome della donna che ha sparato all’avvocato Takigawa!- disse Pedro con tono autoritario scuotendo il calciatore dallo stato di stupore in cui sembrava piombato.

 

-Amily …. Amily Aoba- rispose Tom tutto d’un fiato -E’ la ex manager della Mambo, la squadra in cui ha debuttato Julian Ross…sono stati anche fidanzati per un periodo…-

 

-Uh …. interessante- commentò il poliziotto accarezzandosi pensosamente il mento –Forse abbiamo trovato il movente di quello che sembrava il gesto insensato di un folle…Che legame c’è tra Andree e questa Amily? – rifletté ad alta voce NavarraAndree hai avuto una relazione con Julian Ross?- chiese a bruciapelo ignorando lo sguardo smarrito della donna.

 

-No…cioè non esattamente…- balbettò imbarazzata stropicciando senza sosta il lenzuolo tra le dita pallide -Julian mi ha corteggiata per un periodo ma non vi è stato nulla …ora siamo amici…- aggiunse in fretta notando con disappunto di essere arrossita vistosamente. Era ovvio che la convalescenza l’aveva scossa più di quanto lei potesse immaginare, rendendola incapace di rispondere con dignità a delle banali domande di fronte alle quali, in circostanzi normali, non avrebbe fatto una piega.

 

-Ma forse questa Amily non è del tuo stesso parere-

 

-Non so che dire… io …-

 

-Ora basta- intervenne prontamente Noam che in qualità di medico sapeva esattamente quanto labile fisse l’equilibrio di Andree in quel momento – Credo che la mia paziente sia stata disturbata a sufficienza… signori se volete uscire per favore, l’interrogatorio lo continuerete un’altra volta…-

 

-Certo dottore ci scusi- replicò il comandante mentre nella sua mente andava chiarendosi in tutte le sue sfumature quel caso di tentato omicidio - Ora sappiamo chi cercare…- rifletté ad alta voce -A presto Andree … e … Becker per favore non mi giudichi così male, io ho solo fatto ciò che la mia posizione mi imponeva, ma le assicuro che non ho mai sospettato seriamente di lei-

 

-Solo un pazzo poteva pensare che avessi sparato io- dichiarò Tom porgendogli la foto che ancora teneva in mano – Comunque comprendo che non ha potuto fare altrimenti…- ammise rilassandosi un poco.

 

Attesero che i poliziotti e il medico uscissero finalmente dalla stanza prima di guardarsi ancora negli occhi.

 

– Mi spiace per quello che ti è successo, deve essere stato terribile- iniziò Andree con una certa titubanza.

 

-Stare lontano da te e Josh, saperti in pericolo di vita- replicò Tom sedendosi sul bordo del letto –La paura di non vederti più ... solo questo definisco terribile-

 

-Tom…- mormorò abbassando lo sguardo smarrita. Il cuore le batteva all’impazzata e non era certa di riuscire a reggere tanta emozione –Io ti devo dire una cosa molto importante…io…ti ho mentito quando ti ho detto che non ti amo e che ho cercato di far funzionare la nostra storia solo per il bene di Josh -disse tutto d’un fiato  

 

-Lo so-

 

-Come lo sai?- mormorò guardandolo smarrita.

 

-Ci ho riflettuto a lungo- rispose fiero - In Russia stavo impazzendo, le tue parole continuavano a girarmi in testa e più ci riflettevo, più mi sembravano assurde, tutto il tuo comportamento mi risultava incomprensibile- aggiunse lanciandole un’occhiata di bonario rimprovero -Ma per fortuna accano a me ci sono degli amici sinceri che mi hanno aiutato a fare chiarezza: tu hai un blocco…un trauma…non so quale sia la definizione giusta…comunque non vuoi che io ti tocchi-

 

Andree arrossì sino alla radice dei capelli ma si sforzò di non farci caso -è più forte di me…io voglio, ma ogni volta che la situazione sta diventando…intima…io provo lo stesso dolore che ho provato la prima volta…anzi mille volte più forte….perché la paura mi fa irrigidire sempre di più … sino allo spasmo- il tono di lei era basso e incerto, del tutto privo della sua innata sicurezza.

 

Tom la scrutò  con gli occhi scuri annebbiati dal senso di colpa -Mi spiace io non potevo immaginare che tu fossi vergine….-

 

-Lo so, infatti tu non hai colpe…solo che…- Andree trasse un profondo respiro per farsi forza e poi di impulso afferrò le mani del centrocampista stringendole forte tra le sue -Tom …io … mentre ero in coma mi è successa una strana cosa-

 

Tom ricambiò la stretta fissandola silenzioso in paziente attesa che lei proseguisse.

 

- … ho viaggiato nel tempo, sono ritornata in … Francia. Ho rivisto la mia partenza per il college, ho ripercorso la mia storia con Pierre-

 

-Pierre!??!-

 

-Pierre Le Blanc è il nome del ragazzo che mi ha tradito e che mi ha gettata nella disperazione in cui tu mi hai trovata quella sera…-

 

-Pierre le Blanc! Incredibile…-

 

-Lo conosci?-

 

-Ci ho giocato assieme. Poco dopo averti incontrata ho fatto il provino per entrare nella squadra di Pierre e per otto mesi siamo stati compagni di squadra…-

 

-Così hai conosciuto anche Napoleon…-

 

-Sì certo … ma è lui il ragazzo con cui l’hai trovato?-

 

Lei annuì.

 

-Sospettavo che tra quei due ci fosse qualcosa ma non avrei mai creduto che Pierre fosse omosessuale, era sempre circondato da uno stuolo di ammiratrici e mi avevano detto che si era a poco lasciato con una ragazza american….eri tu!-

 

-Già…-

 

-Ma non sei più tornata al collage-

 

-No, sono partita il giorno successivo al nostro…incontro. Dopo un paio di mesi ho cominciato a stare male, nausea, vomito, stanchezza…insomma ero incinta ma questa parte della storia già la conosci. Invece, mentre ero qui, in questo letto, la mia mente è ritornata nella casa di Pierre al momento in cui l’ho sorpreso, ho rivisto tutto però…ho cambiato il finale ho immaginato come avrebbe potuto essere stata la mia vita se invece di fuggire sotto shock avessi affrontato quella situazione…-

 

-Migliore?-

 

-Solo … diversa. Ma non avrei incontrato te…non avrei avuto Josh-

 

-Ma lo abbiamo concepito nell’incoscienza…e tu sei rimasta traumatizzata-

 

-Ciò non cambia nulla. Mio figlio è il dono più bello che la vita mi ha offerto sino a…che non ti ho rincontrato-

 

-Ma come puoi parlar così…io ti faccio paura-

 

-Non tu  ma il…sesso-

 

-Il sesso con me-

 

-Il sesso in generale-

 

Lei era arrossita e Tom le si avvicinò un poco cercando con lo sguardo il contatto con quegli splendidi occhi grigi -Vuoi dire che da allora non hai avuto nessun’altra relazione?-

 

Andree annuì un’altra volta, incapace di sostenere lo sguardo stupito del calciatore, quella era senza dubbio l’ammissione più imbarazzante che le fosse capitato di fare –Mi sono gettata a capofitto nel lavoro e in pochissimo tempo sono diventata la “macchina infernale”, così mi chiamano in tribunale….dicono che sono fredda come il ghiaccio…-

 

-Amore tu non sei affatto fredda…cioè a volte sì…- rettificò ricordando certe gelide occhiate che lo avevano quasi fatto impazzire -Ma non nel privato, sei la mamma più dolce e tenera che io conosca e …sei anche una donna bellissima che può dare molto-

 

-E io lo voglio dare tutto a te amore mio. Ti amo Tom Becker, ho vagato a lungo tra i fantasmi della mia psiche, ho rivissuto ogni attimo del nostro primo incontro, ho riprovato ogni dolore e sofferto la stessa glaciale umiliazione…eppure da tutto questo sono uscita con una sola certezza: l’amore che provo per te è più forte delle mie paure, dei miei traumi, dei segni che hai lasciato in me… quello che è stato, per quanto sbagliato, mi ha dato Josh e te…e io non ringrazierò mai a sufficienza il cielo per questi due doni meravigliosi-

 

-Tesoro farò tutto quello che posso per aiutarti a superare le tue paure, sarò paziente e comprensivo…vedrai…-

 

-Ti amo-

 

-Sposami-

 

-Sì-

 

-Cosa hai detto?-

 

-Sì ti sposo- ripeté calma.

 

-Ma…-

 

-Che c’è? Speravi che dicessi di no?- lo rimbeccò punta sul vivo -Non hai capito che ti amo e che voglio passare il resto della mia vita con te e renderti felice?-

 

-Oh … è che … niente è mai stato facile con te…credevo che anche questa volta trovassi delle scuse e …-

 

-Mamma sono tornato- esordì Josh entrando senza bussare. Il bambino rimase immobile a fissare la madre tra le braccia di Tom –Oh…- esclamò mentre Holly appariva dietro del piccolo poggiandogli una mano sulla spalla e sospingendolo dolcemente avanti.

 

-Vieni qui Josh, io e la mamma abbiamo delle novità importanti per te- asserì Tom alzandosi in piedi e fissando il figlio con affetto.

 

-Lo so già, tu sei il mio papà- esclamò sicuro sfoderando un’espressione da “non sono mica fesso, con chi credete di avere a che fare!”.

 

Tom sbiancò voltandosi di scatto verso Andree.

 

-L’ha capito da solo- si difese la donna – Josh non devi avercela con Tom per la partita…-

 

-Infatti non ce l’ho più con lui- affermò il bimbo gratificando il padre con un luminoso sorriso -Il capitano mi ha spiegato che sei stato squalificato dal Mister perché volevi tornare dalla mamma perché sapevi che era in pericolo…ma non hai fatto in tempo ad arrivare…comunque la mamma è viva e per fortuna hai chiamato i dottori, anche se non mi è piaciuto essere chiuso a chiave in camera … ma Holly dice che lo hai fatto perché non volevi che vedessi il sangue della mamma … e hai fatto bene perché avrei pianto tanto … ancora di più di quello che ho fatto…-

 

-Oh amore, vieni qui!- esclamò la donna con la voce incrinata per la commozione -Dimentica tutta questa brutta storia- disse stringendo forte al petto il figlio che le si era catapultato tra le braccia -La tua mamma sta bene e presto Tom sarà il tuo papà a tutti gli effetti- mormorò tra i capelli di Josh respirando a fondo l’odore familiare di suo figlio e cercando con lo sguardo, oltre la testa del bambino, colui che da quel momento in poi aveva scelto come compagno della sua vita.

 

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Capitolo 26
*** Cap XXVI. ***


CAPITOLO XXVI.

 

A tutte coloro che hanno seguito, sostenuto,

criticato, apprezzato e (spero) amato

la storia di Tom e Andree.

Per voi.

 

Andree fissò a bocca aperta i lineamenti eleganti dell’uomo seduto di fronte a lei su una delle poltrone di damasco blu notte del suo ricercato salotto. Attese qualche istante prima di parlare, nella speranza di scorgere un sorriso ironico sul volto del suo interlocutore o un qualsiasi altro segno che le rivelasse che si trattava di uno stupido scherzo, che quell’assurda richiesta era solo una burla ideata per qualche recondita ragione che non le era dato sapere.

 

Ma non vi era traccia di incertezza o di scherno sul volto deciso di Julian Ross.

 

Il calciatore divaricò lentamente le gambe, facendo frusciare i pantaloni scuri di fustagno contro il tessuto pregiato del divano –Vorrei una risposta- insistette laconico protendendosi leggermente verso di lei e fissandola dritta negli occhi in modo da sollecitarne una risposta sincera e definitiva.

 

Andree deglutì a vuoto per l’ennesima volta, rifiutandosi di accettare il fatto che lui fosse tremendamente serio. Prese tempo afferrando il bicchiere di digestivo e portandolo alle labbra, fingendosi intenta a decifrarne il gusto. Ne bevve un lungo sorso poi, decidendosi a saggiare concretamente le intenzioni del difensore nipponico, disse - Ti rendi conto di quanto sia folle la tua richiesta?- la sua voce risuonò stonata  ed innaturalmente controllata alle sue stesse orecchie, ma la donna si impose di non farci caso e di continuare ad ostentare una tranquillità che era ben lungi dal provare.

 

 -Scusa lo so che ti sto chiedendo molto ma…-

 

-Non ti scusare- lo interruppe dura, appoggiando bruscamente il bicchiere sul basso tavolino - Spiegami i tuoi motivi, solo così potrò convincermi che tu non sia impazzito del tutto- lo attaccò squadrandolo con freddezza –Julian, sinceramente non credo tu ti renda conto …-

 

-Mi rendo conto benissimo invece- replicò il calciatore senza la minima sfumatura d’indecisione nella voce -Amy ti ha sparato, ha tentato di ucciderti ed è giusto che paghi per quello che ha fatto … tentato di fare … per fortuna …- esitò un istante giocherellando nervosamente con la cinghietta dell’orologio –Ma ti chiedo egualmente di ritirare la denuncia a suo carico- proseguì infine lanciandole l’ennesima, penetrante occhiata.

 

Andree fece una smorfia disgustata -E sentiamo, che dovrei fare seconde te? Dire che mi sono inventata tutto?- sibilò tra i denti incapace di eliminare il pungente sarcasmo che ormai trapelava eloquentemente da ogni sua affermazione - Che non è stata lei a spararmi, quando invece sappiamo tutti che lo é stata? Accidenti lo ha anche confessato!-

 

-Dì che ti sei sbagliata, chiedi al comandante Navarra di sistemare le cose, so che siete molto amici…-

 

-Perché?- chiese sempre più disorientata dalla cocciutaggine dell’uomo – Perché mi chiedi questo? Quella donna non ha solo tentato di sbarazzarsi di me- proseguì accalorandosi e, incapace di sostenere oltre la tensione, saltò in piedi -Ma ha anche confessato di essere stata lei ad alterare le analisi dei tuoi quattro compagni! Ha fatto passare dei momenti terribili a quattro persone innocenti! Innocenti, maledizione! – imprecò volgarmente nonostante la rigida educazione che le era stata impartita, incapace di trattenere la furia che sentiva montarle dentro ad ondate sempre più violente. -E io che li ho accusati di essere dei drogati! –

 

Andree tacque stringendo forte i pugni contro le cosce, poi, scrollando amareggiata le spalle, iniziò a camminare su e giù per la stanza, nella speranza di riacquistare un po’ di controllo  - Se non fosse stato per Noam, che ha creduto in loro fin da principio, si sarebbero presi una bella sospensione- affermò arrestandosi e fissandolo con furia – E tu sai questo cosa significhi per uno sportivo, vero? Quando comincia a gravarti addosso lo spettro del doping? Sei finito, out, caput!- urlò quasi, incredula di fronte all’espressione impassibile del difensore  che sembrava fermo più che mai nella sua insensata pretesa -No Julian,- affermò scuotendo il capo risoluta - é una pazza scatenata…la mia moralità di cittadina non mi permette di fare ciò che tu mi chiedi … se non bastasse il fatto che la voglio vedere marcire dietro sbarre-

 

Julian scrutò l’espressione dura della donna e abbassò il capo rassegnato, lasciando che alcuni ciuffi di capelli ribelli gli coprissero parzialmente il volto deluso -Capisco la tua rabbia ma tu non sai perché Amy ha fatto tutto ciò-

 

-Eccome lo so: è pazza- le parole le sfuggirono di bocca aspre e pungenti. Schiumava letteralmente di rabbia e ogni parola di lui non faceva che crescere a dismisura la sua ira.

 

-No, non è così. Siediti per favore, calmati e ascoltami-

 

-No, no e poi no. No farò ciò che mi chiedi!- ribatté ostinata incrociando con forza le braccia al petto in un istintivo gesto di protezione.

 

-Siediti Andree e lascialo parlare-

 

La donna si voltò di scatto al suono di quella voce profonda e il molle chignon in cui aveva raccolto i suoi lunghi capelli cedette, liberando una cascata di soffici onde costane che le incorniciarono il volto contrito.

 

Lo sguardo pacato di Tom, che catturò il suo in un muto dialogo, funzionò come un balsamo lenitivo e lei, nonostante la tensione accumulata, sentì una lingua di fuoco puro serpeggiarle dentro.

 

–Il piccolo dorme…- disse il calciatore a bassa voce avanzando e prendendo posto sul divano come se niente fosse, invitando con gli occhi Andree a fare altrettanto.

 

Andree scosse la testa con una smorfia di disapprovazione ma infine cedette, sistemandosi accanto a Tom – Va bene parla- disse rivolta a Julian che stava constatando con piacere come la sola presenza di Tom sembrava averla quietata.

 

Prima di iniziare il difensore giapponese lanciò uno sguardo colmo di gratitudine al compagno che ricambiò con un veloce sorriso -Ti ho già raccontato della mia malattia, dei lunghi anni trascorsi senza sapere se per me ci sarebbe stato un domani- disse versandosi dell’altro scotch e facendo lentamente oscillare il liquido nel bicchiere - Quello che non ti ho detto è che in quegli anni non sono mai stato solo ad affrontare la mia malattia. Accanto a me, fedele e devota, c’è sempre stata Amy- bevve un lungo sorso di liquore e fece scivolare lo sguardo sul volto attento di Andree cercando di carpirne i pensieri -Eravamo poco più che bambini quando cominciai a capire che la sua devozione non era semplice altruismo o pietà, ma che vi era qualcosa di più profondo che la spingeva a starmi sempre accanto, anche quando ero insopportabile e mi rifiutavo di accettare un destino così ingiusto. Amy ha sempre sopportato i miei sfoghi, le mie sfuriate che rasentavano la violenza, i miei repentini ed incoerenti sbalzi d’umore. Ero talmente abituato ad averla accanto che quando mi ha dichiarato il suo amore ho accolto il tutto come una cosa scontata, un dato di fatto di nessuna importanza- attese qualche istante lasciando ad Andree il tempo di comprendere le delicate circostanze di quegli anni per lui terribili - Sono stato un verme, solo ora, con il senno di poi, mi rendo conto di quanto facessi schifo. Senza pudore né vergogna ho preso tutto quello che lei aveva da offrirmi. Non mi piaceva fare sesso con lei, non la amavo e non provavo alcun tipo di attrazione nei suoi confronti, eppure questo non mi ha impedito di usarla…- Julian si finse intento a studiare uno dei preziosi quadri appesi alla parete, per nascondere ad Andree e a Tom il suo sguardo pieno di vergogna e sensi di colpa. Non aveva mai rivelato a nessuno quel lato oscuro della sua personalità, un lato che avrebbe preferito dimenticare di possedere  -Stare con Amy mi faceva sentire meno solo e mi piaceva il modo che aveva di guardarmi, come se per lei io fossi un dio onnipotente quando invece mi sentivo fragile ed inutile come un sopramobile di cristallo. È una magra scusante me ne rendo conto benissimo, ma è la sola che ho … Le cose tra di noi proseguirono per un paio d’anni sino a che è apparsa la prospettiva dell’operazione. Rischiosa, ma se fosse riuscita sarei stato definitivamente libero dall’incubo della malattia. Amy tentò di persuadermi in tutti i modi, temeva che restassi sotto i ferri o forse, più egoisticamente, aveva intuito che se io fossi guarito non avrei più avuto bisogno di lei. Comunque nulla e nessuno poté impedirmi di giocarmi quella carta e per fortuna tutto andò bene. Per me ovviamente - gli sfuggì un sospiro mentre portava un’altra volta il bicchiere di liquore alle labbra - Da allora credo che per Amy sia iniziato l’inferno. Recuperai le forze in fretta e dagli esami risultò che il mio fisico aveva reagito nel miglior modo possibile, la malformazione era stata definitivamente corretta da un intervento di microchirurgia plastica e potei tornare giocare senza più lo spettro dell’arresto cardiaco sospeso sopra la testa. Nei primi tempi feci fatica a rendermi conto di essere finalmente libero dall’incubo, ma alle belle novità ci si abitua in fretta e presto cominciai ad apprezzare la vita come mai avevo fatto prima. Ora potevo vivere appieno con la consapevolezza che per me vi era un futuro, ma anche sapendo quanto fosse importante godere il più possibile ogni singolo istante. Tu stessa Andree, mi hai accusato di essere egoista e di volere tutto e subito senza preoccuparmi della volontà degli altri, senza badare al fatto che le persone possono avere dei ritmi diversi dai miei. Ma per uno che ha condiviso con la morte lunghi anni della propria vita, ti assicuro che questo è naturale. Non è che questo sminuisca le mie colpe, bada bene, non sto cercando giustificazioni, se avessi avuto una maturità maggiore forse sarei stato più attento a non ferire chi mi voleva bene sul serio. Amy è stata la prima a pagare per la mia insensibilità. Ho cominciato  tradirla senza fare niente per nasconderle le  mie scappatelle, anzi sbattendogliele in faccia e umiliandola, nella speranza che si stancasse di me e mi lasciasse, perché io non avevo neppure il fegato di scaricarla dopo tutti quegli anni. Lei piangeva, mi supplicava di non farle del male, di non lasciarla, io la accontentavo ma alla lunga la sua presenza mi era diventata persino fastidiosa, trovavo puerili i suoi tentativi di conquistarmi, di sedurmi, troppo coinvolto da ragazze più belle ed esperte di lei. Per farla breve ho trovato il coraggio di lasciarla, prendendo come scusa una borsa di studio che lei aveva vinto per uno stage in un importante centro ospedaliero cinese, lei all’epoca studiava per diventare infermiera …- tacque qualche istante ripensando con dolore e incredulità alla sua leggerezza -Prima di lasciarmi all’aeroporto mi chiese tra le lacrime “Chi si prenderà cura di te?” le risposi ridendo, impaziente di liberarmi di quel peso “I miei amici …”Loro non saranno sempre al tuo fianco…” “Sino a che continueremo a giocare  a calcio loro ci saranno sempre”… Che idiota sono stato a non capire-

 

-Non ti colpevolizzare, allora non potevi neanche lontanamente immaginare le conseguenze che le tue parole avrebbero avuto … - lo rassicurò Tom cercando e trovando lo sguardo smarrito dell’amico.

 

Julian annuì sorridendogli grato – Da allora non ci siamo più rivisti né sentiti. Sono trascorsi quattro anni e io ero convinto che lei si fosse rifatta una vita, magari sposata …e invece la polizia mi ha detto che nel suo appartamento hanno trovato centinaia di mie foto tratte da riviste sportive. Sembra che in questi anni Amy abbia sviluppato una sorta di fissazione e durante la nostra trasferta in Giappone deve esserle tornato alla mente il nostro dialogo all’aeroporto. Probabilmente ha pensato che allontanando Benji, Tom, Holly e Mark dal calcio io sarei rimasto solo e sarei tornato a cercarla…-

 

-E il fatto che io mi sia messa in mezzo, impedendo che loro venissero allontanati dalla squadra, deve esserle bruciato parecchio- commentò Andree comprendendo finalmente che non era stato il movente passionale ad armare la mano di quella donna, come invece la polizia aveva dedotto.

 

-Già. Ma se quella ragazza ha fatto quello che ha fatto è solo colpa della mia superficialità. Cerca di capirmi Andree, non sopporto l’idea che finisca in carcere rovinandosi definitivamente la vita per causa mia. Perderà il lavoro che è l’unica cosa che le rimane e io non posso portarmi anche questo peso sulla coscienza-

 

-Se io …se io ritiro la denuncia come ti comporterai con lei?-

 

Julian le scoccò un’intensa occhiata come se stesse cercando di leggerle nella mente -La farò seguire da uno specialista, anche da più di uno, i migliori del Giappone. Ti assicuro che non farà mai più una sciocchezza del genere. E una volta guarita da questa sua ossessione, spero riesca a vivere una vita finalmente serena-

 

-Potrebbe non funzionare, potrebbe fare del male anche a te…-

 

-Non credo e comunque sono disposto a correre questo rischio. La vostra storia mi ha insegnato che nella vita un gesto compiuto con superficialità può avere delle conseguenze enormi che sconvolgono per sempre la nostra vita. Ma queste conseguenze, se non si è potuto far niente per prevederle, vanno accettate e soprattutto affrontate con responsabilità. Tu Andree hai accettato e cresciuto un figlio nato da un gesto insensato, Tom ha pagato la sua leggerezza, ignorando per sei anni di avere un figlio. Ma nonostante i vostri sbagli voi vi siete ritrovati, il destino vi ha dato una seconda possibilità e voi l’avete colta. Ti prego concedi anche ad Amy una seconda possibilità.

 

Andree tacque a lungo fissando le due mani ghiacciate per la tensione strette tra loro in grembo. Chi era lei per negare a una persona sofferente la possibilità di essere felice?

 

Cercò aiuto negli occhi di Tom che ricambiò il suo sguardo sorridendole dolcemente e facendole un lievissimo cenno d’assenso con il capo.

 

Andree trasse un profondo respiro, le costava molto la decisione che si apprestava a prendere ma, nel medesimo istante in cui capitolò, sentì un profondo senso di pace pervaderla e comprese di aver fatto la scelta giusta -Va bene, farò quello che mi chiedi-

 

Julian balzò in piedi esultando –Lo sapevo che avresti capito- disse felice – Ti sarò debitore per sempre, sei una persona fantastica…-

 

-Bada bene però – lo interrupe brusca non essendo certa di meritare tanti lusinghieri apprezzamenti, in fondo era stata lì lì per rifiutare -Non la voglio più vedere intorno a me o a mio figlio o a Tom. Tienila lontana da Tokyo e se puoi addirittura fuori dal Giappone. Se solo me la ritrovo tra i piedi, la farò arrestare immediatamente, sono stata sufficientemente chiara?-

 

Dopo che Julian se ne fu andato, Andree crollò esausta sul divano, gettò il capo all’indietro portandosi una mano davanti agli occhi e rimase immobile in quella posizione per lunghi istanti.

 

-Andree…hai fatto la cosa giusta- la rincuorò Tom osservandola con tenerezza e prendendo posto accanto a lei. Era pienamente consapevole di quanto le fosse costato concedere a Julian l’immunità per Amy. Le ferite sul suo corpo erano ormai guarite, ma quelle alla sua anima erano ben  lungi dall’essere riassorbite. L’attentato aveva minato la sicurezza di Andree, rendendola vulnerabile e indifesa, una condizione che lei non riusciva a collimare con il suo carattere indipendente e volitivo. Riusciva a percepire il bisogno di vendetta della sua donna e, in parte, lo condivideva. Se Andree fosse rimasta seriamente mutilata o, peggio ancora, fosse morta, lui stesso gliel’avrebbe fatta pagare cara ad Amy.

 

Andree boccheggiò indecisa, incapace di trovare il modo giusto per dare corpo alla tempesta di emozioni che la tormentava –Uhm … forse sì, ma non è stato facile. Sono molto arrabbiata per quello che Amy mi ha fatto. Arrabbiata spaventata e assetata di vendetta, per dirla tutta. Non è stato facile mettere da parte tutto questo. E poi ho paura che possa tornare e sparare a te o a Josh… tremo alla sola idea che ci riprovi-

 

-Non accadrà vedrai- le assicurò Tom attirandola a sé e cullandola con infinita dolcezza come se fosse una bambina spaurita – Mi fido di Julian, credo che questa esperienza lo abbia responsabilizzato moltissimo. Inoltre conosco Amy e per quanto ora sia depressa e poco consapevole delle sue azioni, so che fondamentalmente non è una cattiva ragazza-

 

Andree si lasciò cullare a lungo, rilassandosi contro il petto ampio e rassicurante del suo uomo, godendo soddisfatta dei delicati baci che lui le posava tra i capelli, pian piano i suoi pensieri persero coerenza e si fecero sempre più radi sino a che il sonno cancellò ogni altra consapevolezza.

 

Tom rimase a lungo in quella posizione, godendosi il profumo e il dolce tepore della donna che amava, continuando ad accarezzarla delicatamente su una spalla.

 

Andree si mosse nel sonno voltandosi supina e il calciatore, involontariamente, si ritrovò con la mano appoggiata sopra il seno palpitante di lei. Quel contato lo infiammò da capo a piedi, facendolo irrigidire e cancellando in un baleno l’atmosfera rilassata che avvolgeva la stanza. Andree si mosse ancora e, per un istante, temette di averla svegliata, ma la donna continuò a dormire placidamente.

 

Era inutile. Poteva fingere che non aveva nessuna urgenza, che le blande coccole ed i casti baci che si scambiavano fossero sufficienti, che la consapevolezza che lei lo amava fosse sufficiente ad appagarlo. Balle. Almeno a se stesso lo poteva dire. Era stufo di salutarla ogni sera sulla soglia della camera d letto e di andarsene a dormire tutto solo nella camera degli ospiti. Non ne poteva più di soddisfare le sue voglie chiuso in bagno alla stregua di un adolescente senza nessun’altra alternativa.

 

Per fortuna l’indomani mattina Andree aveva il primo appuntamento con lo psicologo che Noam le aveva consigliato. Sperava ardentemente che il blocco di lei si risolvesse in fretta. E in quel momento nulla contava di più per lui.

 

Cercò di ignorare il piacevole calore che quella parte morbida del corpo di lei gli trasmetteva, con un enorme sforzo di volontà ritrasse la mano imponendosi, per quanto possibile, di rilassarsi. Ma, purtroppo, il meccanismo era ormai stato azionato e lui non riusciva a ricacciare indietro il bisogno fisico che premeva impellente. Doveva assolutamente svegliarla o non ce l’avrebbe fatta a controllarsi anche se, dopo tutto quello che aveva passato, era un peccato interrompere un sonno così sereno.

 

Strinse i denti rassegnato, conscio di amare quella donna al punto tale da anteporre le necessità di lei alle sue. Passò il braccio sotto le spalle di Andree, attirandola cautamente sopra il suo petto, poi le infilò una mano sotto le ginocchia e con movimento fluido e lento si alzò, sollevandola.

 

La trasportò in camera, tenendola delicatamente tra le braccia. Una volta deposta sul grande letto matrimoniale, trascorse alcuni istanti immobile, con le mani infilate nelle tasche della tuta, osservando il volto bellissimo, reso angelico dal sonno rilassato in cui era sprofondata.

 

Sospirando e respingendo la tentazione di riempirla di baci, la coprì con la calda trapunta posta ai piedi del letto, spense la luce e si volse per uscire dalla stanza. La sentì mugugnare nel sonno e si arrestò in ascolto.

 

-Resta…-

 

Fu solo un sussurro e Tom non era neppure certo di aver compreso bene, ma l’illusione che lo volesse accanto, era troppo invitante per non prenderla in considerazione. Aggirò il letto sistemandosi accanto a lei compiendo dei movimenti lenti per non svegliarla. L’eccitazione di poco prima era in parte scemata, sostituita da una languida tenerezza e quindi si sentì abbastanza sicuro di poterle dormire accanto senza ulteriori tensioni. Dopo poco tempo anche il suo respiro si fece regolare, lentamente perse conoscenza e scivolò in un sonno profondo.

 

Andree sbatté le palpebre smarrita. Era nel suo letto, ma come ci era finita? Mosse il braccio e si accorse della presenza di qualcuno al suo fianco. Sollevò il capo ed osservò sbalordita l’uomo placidamente addormentato. Tom. Era una sensazione strana averlo accanto, sarebbe stato comprensibile sentirla come un’invasione, invece le sembrava tutto estremamente naturale e … familiare, come se lei e Tom non avessero fatto altro che condividere lo stesso letto da tempo immemorabile.

 

Si girò lentamente su un fianco per studiare meglio il profilo addormentato del suo compagno. Registrò con minuziosa cura ogni particolare di quel volto tanto caro che nel sonno assomigliava in maniera impressionante a quello di Josh. Eppure, per quanto fosse stupefacente la somiglianza, erano molto diverse le sensazioni suscitate in lei da quelle palpebre abbassate, dalle lunghe ciglia che accarezzavano lievi la pelle delicata del volto, da quella bocca appena socchiusa da cui usciva un filo leggero di aria tiepida.

 

La tumida pienezza di quelle labbra attirarono la sua attenzione sconvolgendole i sensi e, ancora prima di capire che stava facendo, si ritrovò a sfiorandogliele piano con il polpastrello, ascoltando rapita l’effetto dell’alito caldo di lui contro la sua mano. Era una carezza dolce e delicata. Innocua.

 

Lo amava e si fidava di lui. Non le avrebbe fatto del male. Questa sola consapevolezza le diede la forza di continuare ciò che la sua parte istintiva stava già pregustando. Con la mano, resa malferma dal tumulto di emozioni che la sconvolgevano, slacciò i primi bottoni della felpa scoprendo un triangolo di pelle calda alla base del collo. Vi fece scorrere le dita e poco dopo anche le labbra. Tom gemette nel sonno e questo la galvanizzò come se una scarica di duecento volt l’avesse attraversata dalla testa ai piedi. Con una leggera pressione lo face mettere supino e cominciò a baciargli il collo con estrema lentezza. Ci mise tutta la dolcezza che aveva in quella scia di baci, e quando lui si scostò un poco, mugugnando qualcosa d’incomprensibile nel sonno, sorrise soddisfatta, facendosi sempre più audace. Poteva sentire il suo profumo... lo stesso profumo che la faceva tanto impazzire e fare quei sogni così azzardati ...

 

Presto quei baci cominciarono a non bastarle più e travolta da un’onda impetuosa di sensazioni sconosciute, infilò le mani sotto la felpa dell’uomo alla frenetica ricerca di un contatto con quella pelle calda e vellutata. Lo sentì mugugnare una seconda volta e si fermò ad osservarlo certa che si stesse finalmente svegliando.

 

Tom aprì gli occhi –Uhm…che sogno splendido…- borbottò richiudendo le palpebre

 

Con un gesto un po' impacciato Andree si sporse in avanti strofinandogli i seni eccitati contro il petto in un’involontaria quanto audace carezza. Gli catturò le labbra con le proprie ed esultò trionfante quando lo sentì irrigidirsi sotto la pressione della sua lingua lanciata che gli tracciava lenta il contorno delle labbra appena socchiuse.

 

Tom sbarrò gli occhi non capacitandosi che quanto stava accadendo fosse vero e non il risultato di un sogno erotico, come aveva dapprincipio supposto. Ma ora era completamente sveglio e si rendeva conto che quella era la meravigliosa realtà.

 

Andree continuò nel suo sensuale approccio, stuzzicandolo con la bocca e con la lingua, lui la lasciò fare assecondando i movimenti incerti ma straordinariamente sensuali di lei.

 

Quella carezza audace lo stava facendo impazzire al punto che si vide costretto ad attorcigliarsi il lenzuolo attorno alle mani, stringendolo forte per impedirsi di fare qualche movimento avventato. Moriva dalla voglia di stringerla tra le braccia, di esplorare ogni centimetro di quel corpo meraviglioso, di domarla e possederla, di ricambiare quella dolce tortura, ma temeva di rovinare tutto, di spaventarla ancora una volta e così si limitò a subire passivamente, aspettando pazientemente che Andree gli dicesse chiaramente che cosa si aspettava da lui.

 

Se solo non fosse stato tormentato dal timore che lei si fermasse da un momento all’altro, non osava chiedersi sino a che punto era disposta a spingersi. Aveva veramente superato il trauma che lui stesso gli aveva procurato? Era pronta ad andare sino in fondo?

 

Gli sfuggì un gemito di sofferenza quando sentì svanire il contatto di quelle labbra calde e morbide. Andree si era infatti staccata e ora lo osservava silenziosa da qualche centimetro di distanza. I suoi occhi grigi rilucevano anche al buio, simili a schegge d’acciaio scintillante ma la luce che in essi brillava era di puro fuoco, niente a che fare con la freddezza agghiacciante con cui troppo spesso in passato si era trovato a fare i conti. Ora vi era passione, amore, arrendevolezza in quelle iridi chiare e il suo ego di maschio ruggì felice nel constatare che era lui l’artefice di quel cambiamento.

 

Tom ricambiò lo sguardo ma non proferì parola. Attese pazientemente per qualche tempo. E ora? Sarebbero rimasti lì a guardarsi sino alle prime luci dell’alba?

 

-Non vuoi?- la voce di Andree era insolitamente incerta e velata di imbarazzo ma era anche roca e indicibilmente sexi.

 

Non voleva? Ma se stava persino male dalla voglia che aveva di lei, se tutto il suo essere vibrava come la corda di un violino impazzito ad ogni respiro di lei.

 

-Non so che fare…ho paura di…spaventarti- ammise sinceramente.

 

-Oh …- esclamò lei annegando nella dolcezza infinita che le iridi ambrate di lui le trasmettevano

-Sono terrorizzata ma voglio …- lo sentì trattenere il fiato – Fare l’amore con te…di nuovo- aggiunse sentendo l’amore smisurato che provava per lui montarle selvaggio nell’animo.

 

Tom si sollevò a sedere prendendole il volto tra le mani – No, ti giuro che questa sarà la nostra prima volta, ti dimostrerò che l’amore non è dolore, ma infinito piacere- mormorò rauco prima di sfiorarle le labbra in una delicata carezza che entrambi assaporarono come preludio di una passione ben più grande.

 

Andree annuì sorridendo, gli occhi scuri di lui nell’ombra, la fissavano con comprensione  e amore e lei si commosse di fronte a tanta purezza.

 

Lo lasciò fare mentre prendeva in mano le redini di quel gioco amoroso che lei aveva iniziato, seguì fiduciosa le direttive di Tom che la fece sdraiare, adagiandosi su di lei, petto contro petto, cuore contro cuore. I loro battiti accelerati si sintonizzarono e Andree seguì rapita quel ritmo tumultuoso che lavò via le ultime tracce della antiche paure e degli antichi rancori.

 

Tom appoggiò la bocca bollente sulla tenera curva del collo della sua donna, respirando a pieni polmoni l’odore dolce e speziato della sua pelle, gli ricordava la primavera e la pioggia, quella pioggia incalzante che aveva battezzato il loro primo incontro.

 

Ma questa volta non pioveva e niente sarebbe stato come allora.

 

Le catturò la bocca, rapido, ardente, sicuro. Continuò a baciarla sempre più avidamente, sempre più appassionatamente sino a che, con un piccolo grido, Andree gli strinse le braccia attorno al collo e arcuò il corpo contro il suo.

 

Qualche tempo dopo, quando anche l’ultima barriera che li separava, crollò al suolo soffocata dai loro gemiti soddisfatti, Tom sentì echeggiare in lui, mille volte più violenta dell’orgasmo che lo stava sopraffacendo, una promessa sconosciuta … “per sempre…per sempre” e continuò a seguirne l’eco rapito,  finché la sua anima non fluì nell’anima di lei sino all’ultima goccia.

 

EPILOGO.

 

La donna camminava lentamente lungo la linea bianca di fondocampo studiando con attenzione l’effetto dell’erba tenera e sottile sotto i piedi. Il profumo era delizioso e anche il tenue sfrigolio che si formava ad ogni passo. Su un campo identico a quello suo marito passava la maggior parte del suo tempo e, a giudicare dai presupposti, anche per suo figlio quel rettangolo verde avrebbe rappresentato molto. Almeno per uno dei suoi figli. Sorrise felice accarezzandosi il ventre prominente. Ancora pochi mesi e anche la piccola Genévieve avrebbe fatto udire al mondo il suo dolcissimo pianto…

 

-Andree sei proprio tu?!?!- una bassa e fonda voce maschile la fece voltare di scatto, non si era accorta di non essere più sola – Ti sto osservando da un pezzo e … non credo ai miei occhi sei proprio tu!- esclamò l’uomo dai lunghi capelli biondi affondando stupito nelle iridi grigie della donna.

 

-Ciao Pierre- disse semplicemente sorprendendosi della sua reazione, anzi della sua mancanza di reazione. Lì di fronte a lei, in tutta la sua innegabile bellezza, vi era colui che aveva inconsapevolmente tracciato il suo destino. Che avrebbe dovuto provare? Tristezza? Rancore? Imbarazzo? Rabbia? Gratitudine? Forse tutto quello assieme e molto di più. Invece non provò assolutamente niente e continuò a massaggiarsi delicatamente la pancia come se di fronte  a lei vi fosse un perfetto estraneo.

 

Pierre abbassò lo sguardo e fissò il cerchietto dorato attorno all’anulare sinistro della donna che scivolava lento sul ventre gravido –Ti sei sposata- constatò atono.

 

-Sì, sei mesi fa-

 

L’uomo la scrutò attento –Mi sembri felice…-

 

-Lo sono infatti-

 

Una follata di calda brezza estiva giocò birichina con i riccioli biondi del capitano francese -Mi sono sempre chiesto perché sei sparita così all’improvviso … ti ho cercata  al collage dove soggiornavi ma mi dissero che eri tornata in America e lì non sapevo davvero dove trovarti…-

 

-Perché mi hai cercata?- chiese inarcando curiosa le belle sopracciglia castane.

 

-Come perché?!?! Sei sparita nel nulla senza motivo…-

 

-Senza motivo dici?- lo apostrofò beffarda –Il tuo domestico non ti riferì della mia visita?-

 

Pierre arrossì ma non abbassò lo sguardo – Ci hai visti-

 

Lei annuì.

 

-Mi dispiace…-

 

-Non dovresti, senza saperlo mi hai fatto un favore-

 

-Non capisco…- mormorò l’attaccante francese, guardandola palesemente confuso.

 

-Oh non importa- replicò in fretta lei sorridendo a qualcuno che stava sopraggiungendo alle spalle del calciatore.

 

Pierre seguì istintivamente lo sguardo della donna e vide un bambino di circa sette anni correre nella loro direzione seguito da uno dei migliori giocatori della nazionale nipponica che quel pomeriggio avevano inferto alla favoritissima Francia una cocente sconfitta.

 

-Mamma, mamma- strillò il bambino non appena la scorse correndole incontro.

 

Andree abbracciò il figlio che le si era delicatamente appoggiato sulla pancia per non far male alla sua sorellina.

 

Pierre osservò sempre più perplesso il bambino mentre con la mente faceva dei rapidi calcoli, decisamente c’era qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione.

 

-Tutto bene?- chiese Tom con una velata nota di minaccia nella voce, come osava quel verme avvicinarsi a sua moglie? Dopo tutto quello che le aveva fatto passare? Ma si sorprese nell’incrociare lo sguardo sereno e felice di Andree.

 

-Benissimo amore- replicò lei facendo un passo verso il numero undici del Giappone – Mi ha fatto piacere rivederti Pierre- disse voltandosi un attimo verso il francese - Ah … per quella storia non ti crucciare più: mi hai fatto davvero un grandissimo favore- 


E mentre si allontanava abbracciata all’uomo che amava e tenendo suo figlio per mano, le venne in mente il verso di un poeta di cui non ricordava il nome, ma che si adattava così bene alla sua storia:

 

Era predetto che ti avrei ritrovato,

era destino tra di noi fin da principio.

Non potevo sbagliare, ho seguito le tracce del fato,

quelle tracce che la pioggia non ha potuto cancellare

né il vento spazzare via.

Semplicemente perché sono …

 Tracce Indelebili.

 

THE END

 

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