Dogma

di ChopSuey
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Unicron's spawns ***
Capitolo 2: *** Sweet Sixteen ***
Capitolo 3: *** This is the last straw! ***



Capitolo 1
*** Unicron's spawns ***


Dogma:
sm
verità rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa ai fedeli, con l'obbligo di credervi
sm
[in senso figurato] principio assoluto affermato come verità indubitabile e indiscutibile

 
 
 
Ho imparato il concetto di “dogma” molto prima di conoscere la parola usata per descriverlo: “Sides ci sarà sempre” è stata la mia personalissima verità assoluta da che mi è dato ricordare.
 
All’epoca, però, non avevo ancora il minimo sospetto che questo sarebbe equivalso ad una vita infernale.
 
Chiariamoci subito, io a Sides gli voglio bene. E’ che a volte mi chiedo cosa abbia fatto di male per non essere nato figlio unico.
Il problema è che mio fratello ha una strana, non necessaria e completamente inspiegabile sindrome da crocerossina, quando si tratta del sottoscritto. Il semplice fatto che sia nato per secondo farebbe di lui il “fratello maggiore che deve prendersi cura del più piccolo”, e neppure i mille testi scientifici e legali che l’ho obbligato a leggere per fargli capire che siamo gemelli e quindi tale distinzione è puramente convenzionale sono serviti a qualcosa.
 
“Non preoccuparti Sunny! Ci sono qua io adesso!” è la frase che più mi terrorizza al mondo, quando è mio fratello a pronunciarla.
 
Io lo so che non lo fa apposta a essere così stupido e fastidioso borderline suicida, ma questo non mi aiuta nel buon proposito di non commettere fratricidio. Almeno finchè non abbia trovato un buon alibi, intendo.
 
La prima volta che ho avuto uno scorcio della mente disturbata di Sides avrò avuto si e no quattro anni, e vi giuro che non mi sono immaginato quello che sto per riportare fedelmente.
Eravamo seduti per terra, intenti a costruire una torre di cubi di legno (Sideswipe) e  disegnare (il sottoscritto. Giusto per la cronaca, il soggetto era probabilmente una Lamborghini dorata, dato che dopo averla vista in tv me ne ero letteralmente innamorato – o così sostiene papà – tanto che tutti i miei disegni dell’epoca sono contraddistinti dalla predominanza di macchie gialle e dalla forma vagamente ellissoidale).
 
Ad ogni modo, avevo finito il colore fondamentale, e stavo disperatamente cercando di attirare l’attenzione di mia madre perché mi riempisse di nuovo la ciotola.
I vasetti per il finger-paint, di cui la mia augusta genitrice era perdutamente innamorata, anche se ad essere sincero a me faceva un po’ schifo metterci la mano dentro, erano troppo grandi e, soprattutto, pieni di colore potenzialmente letale se lasciato nelle mani di due mocciosi iperattivi (uno dei quali pure stupido, e sto ovviamente parlando di mio fratello); la soluzione era quindi lasciarli fuori dalla nostra portata, solitamente sul tavolo in salotto, e distribuirne il contenuto in porzioni più piccole e meno devastanti in caso di incidenti.
 
Non so perché, ma quel giorno mia madre era troppo impegnata per ascoltarmi, probabilmente concentrata su qualche eruditissima discussione medica con le colleghe via conferenza, e stavo quindi per ricorrere alla mia personalissima arma di distruzione di massa: il pianto disperato. Lo so, non è onorevole e tutt’oggi me ne vergogno, e ogni volta che Sides prova anche solo ad accennare a questo mio umiliante passato di fronte a testimoni si becca un pugno poco amorevole e fraterno dal sottoscritto, ma tutto sommato una sana frignata mi permetteva di ottenere quasi sempre ciò che volevo o, quantomeno, l’attenzione indiscussa dei presenti (e pure di qualche vicino di casa).
Stavo quindi cominciando a raccogliere riserve d’aria  per scatenare un inferno sonoro il più potente e dannoso possibile, quando accadde qualcosa che mi fece correre un brivido sulla schiena: mio fratello mi abbracciò alle spalle e mi dette un bacio sulla guancia.
 
Ora, io odio, disprezzo e aborro il fatto che gli adulti abbiano sempre insistito che io e mio fratello, in quanto gemelli, ci coccolassimo a vicenda: “Dai un bacino a Sunny!”, “Fai vedere a Sides quanto gli vuoi bene!”, “Dagli la manina” e tutte quelle cazzate.
No, mamma, io non voglio prendere la mano di mio fratello, chissà dove l’ha messa ed è sempre appiccicoso, e non voglio che mi dia un bacino, perché finisce con lo sbavarmi, e non voglio coccolarlo, voglio solo tentare di soffocarlo perché, ancora una volta, mi ha svegliato tirandomi un calcio!
 
Purtroppo la pratica del “infastidisci il tuo gemello con atti d’affetto random” sembrava aver attecchito nell’open space che è il cervello di mio fratello, quindi Sides non esitava e buttarmi le braccia al collo, baciarmi le guance e in generale tentare di soffocarmi, mentre io rispondevo tirandogli i capelli e spingendolo via (e comunque secondo me faceva apposta, sapendo quanto mi desse fastidio. Mio fratello è uno stronzetto con la faccia da angelo, lo sappiamo tutti in famiglia).
 
Tra l’altro temo che questo shock infantile sia ciò che sta alla base della mia avversione per le dimostrazioni fisiche di affetto: ciò che ti traumatizza da piccolo, te lo porti sulle spalle per sempre.
 
Comunque non è questa la cosa importante.
Già, la “cosa importante”, altrimenti nota come “l’origine di tutti i mali”, è che Sides mi stava abbracciando, biascicando un: “Tranquillo Sunny!”, altra frase che ho cominciato a temere fin dalla più tenera età.
 
Non ricordo esattamente perché non l’ho fermato, quando mi ha preso per mano e ha cominciato a trascinarmi verso il tavolo. Incolpo tutt’oggi il terrore cieco che mi ha colto all’improvviso.
 
Non so nemmeno perché Sides non scelga mai la soluzione più semplice, cioè, in questo caso, cercare di attirare l’attenzione di nostra madre. No, il mio fratello amante dell’indipendenza e stupido (so che mi ripeto, ma mi sembra importante sottolineare questo punto) ha sempre voluto fare tutto da solo, nonostante sia privo di quella finesse strategica che avrebbe davvero potuto aiutarlo nello scopo.
 
Il piano più immediato contemplava ovviamente l’uso di una sedia per arrivare al tavolo, escamotage a cui avevamo fatto ricorso più di una volta nella nostra ostinazione di toccare anche quello che i nostri genitori cercavano di tenere lontano dalla nostra portata.
Purtroppo, allora come oggi, le sedie di casa nostra avevano un secondo uso, forse meno nobile e ormai quasi primario rispetto al normale “sedersi”: fanno da mensole insomma. Tutto quello che non riusciamo ad appoggiare sul tavolo, la scrivania, il divano o altre superfici piane, finisce lì. Quel giorno non era un’eccezione, e Sides sapeva benissimo le conseguenze legate ad una caduta da una sedia troppo piena di schifo per essere veramente stabile. Tutto sommato, mio fratello è stupido, non masochista.
 
Con uno sguardo di amara desolazione subito sostituita da ardore fraterno, l’inferiore coprotagonista della mia attesa venuta al mondo aveva quindi deciso di passare al piano B, dove B sta per “balengo”, come la conclusione avrebbe dimostrato di lì a pochi attimi.
 
La geniale pensata del mio fratellino prevedeva infatti di aggrapparsi alla tovaglia plastificata che sporgeva da un angolo del tavolo e usarla per arrampicarsi (io incolpo ancora la visione ripetuta di “Aladdin” per quella fissa di scavalcare e scalare gli articoli d’arredamento di casa nostra) e raggiungere così gli ambiti colori.
 
Mentre il sottoscritto, che scemo non era, incominciava a ri-accumulare aria per lanciare un urlo possibilmente demoniaco e riscuotere mamma dall’ipnosi che sembrava averla colta, cosicché venisse a fermare quel deficiente con cui condividevo il DNA, il prevedibile accadde: a causa del peso di Sideswipe la tovaglia scivolò inesorabilmente verso il suolo, mio fratello sbatté la testa senza gravi conseguenze (d’altronde, è sempre stata bacata anche in precedenza) e otto vasetti mi si riversarono addosso, aprendosi al contatto con la mia – all’epoca terrorizzata – persona e ricoprendomi di colore denso, freddo e, fortunatamente, lavabile.
 
Ovviamente il conseguente pianto disperato, subito trasformatosi nel tentativo di strozzare il mio ridente fratello, viene ancora ricordato nel vicinato. Il vecchietto svitato del piano di sopra ci chiama ancora adesso “la progenie di Unicron”, qualunque cosa voglia dire.
 
Non è quindi giustificato il senso di malessere (che spesso si evolve in un mal di testa coi contro cazzi) che mi coglie ogni volta che Sides ha quella sacra luce negli occhi da buon Samaritano che ha come scopo nella vita quello di aiutare il suo sfortunato fratello?
 
No, non dite niente. E’ una domanda retorica.
 
 
 
 
 
L'angolo dell'autrice ♥
Bhe, non posso farci niente, adoro Sunstreaker e Sideswipe e, nonostante ritenga siano tra i personaggi più complessi della serie, ogni tanto mi piace immaginarli così, leggeri, divertiti e (spero) divertenti.
 
Versione umana perchè, come già detto, ne sono diventata addicted! C;
 
Un grazie mille se leggerete, e ancora più se vorrete lasciarmi un commentino, chè il feedback mi aiuta a capire cosa sbaglio quando scrivo! C;
 
Oh, e prima che me ne dimentichi! I TFs non sono miei, e purtroppo non ho Sunny e Sides come vicini di casa, e non posseggo nemmeno una, due o più Lamborghini (lo so, è una triste realtà): tutto appartiene a Hasbro/Takara e altre persone che non conosco, ma invidio fortemente... 

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Capitolo 2
*** Sweet Sixteen ***


Neanche la crescita e una maggiore padronanza del linguaggio hanno permesso a quel demente di capire il significato di “lasciami-stare-non-ho-bisogno-del-tuo-aiuto”.
Anche in questo caso avrei milioni di esempi da proporre, ma uno mi pare estremamente esemplificativo del fatto che il mio gemello sia inferiore al resto dell’umanità, indipendentemente dall’impegno che investe nello spacciarsi per un individuo di media intelligenza.
 
Avevamo sedici anni, e di sicuro avevo già capito che quella dei “sweet sixteen” era una cazzata inventata da adulti depressi e nostalgici.
Non è che qualcosa in particolare andasse male, ma allo stesso tempo niente andava davvero bene. Mi sentivo circondato da un branco di persone mediocri e fondamentalmente stupide, quasi tutto ciò con ci venivo a contatto mi dava noia se non fastidio, e l’unica pace la trovavo nella pittura e nella comprensione che solo mio fratello, nonostante la sua idiozia, riusciva a darmi.
 
Era quindi un periodo buio e di incazzatura costante per il sottoscritto, che da adolescente doc non voleva altro se non essere lasciato in pace quando il momento lo richiedeva.
Essere chiuso in casa, con la febbre a quaranta e troppo debole persino per prendere in mano una matita costituiva proprio l’epitome di tale momento: quel giorno volevo solo sonnecchiare sul divano, ascoltare musica e imbottirmi di medicinali.
 
Questo era proprio quello che ero riuscito a fare al mattino, dopo aver convinto mamma che no, per una volta non stavo fingendo di stare male per non andare a scuola e no, non avevo nemmeno intenzione di ridipingere le pareti del salotto (incidente di cui preferisco non parlare) se mi avesse lasciato a casa da solo.
Con la casa silenziosa tutta per me e l’assenza di un gemello rompiballe (che aveva implorato fino all’ultimo nostra madre di lasciarlo a casa per prendersi cura del suo fratellino malato), ero riuscito a recuperare il sonno perduto la notte precedente, fatta di lenzuola sudate, assurdi incubi incentrati su robot giganti dagli occhi rossi e un appello delirante perché Sides mi salvasse da una chiave inglese volante. Ammetto di dire cose senza senso, quando ho la febbre.
 
Allo scoccare dell’una erano però ricominciati i sudori freddi. Mio fratello sarebbe tornato dopo poco, mentre i parents sarebbero arrivati solo in tarda serata: questo significava almeno cinque ore in balia dell’idea che mio fratello aveva di assistenza ai malati.
 
Quaranticinque minuti dopo la Bestia di Satana era tornata.
Senza nemmeno togliersi la giacca Sides era corso in salotto, mi aveva preso la testa tra le mani con una morsa degna di un wrestler professionista più che di un fratello preoccupato, aveva appoggiato le sue labbra gelate sulla mia fronte, congelandomi ben oltre lo strato epiteliale, e aveva chiesto quasi in lacrime: - Come stai, Sunny? - .
 
Stavo troppo male per lamentarmi con coerenza dell’abominevole nomignolo che non mi aveva abbandonato da quando ero ancora troppo piccolo per oppormi con veemenza ad esso, quindi avevo optato per spingerlo via con un mugolio e rannicchiarmi sotto le coperte.
 
Chiaramente l’implicito “lasciami stare” sotteso alla mia reazione era un messaggio troppo sottile perché i neuroni in decadenza di Sides lo cogliessero, quindi l’imbecille aveva concluso che stessi implicitamente chiedendo il suo aiuto.
 
- Tranquillo Sunny! Ci sono qua io adesso! - .
 
Ecco. L’aveva detto.
 
Ero fottuto.
 
Lo stress della situazione aveva probabilmente causato un’impennata verso il basso nei miei fidi anticorpi, tanto che la febbre era risalita fino a lasciarmi stremato e inerte di fronte alla tv (drammaticamente sintonizzata su Studio Aperto e il rischio di estinzione del panda rosso). Non ho perciò memoria di cosa accadde precisamente, so solo che venni riscosso dal torpore da un improvviso sobbalzare del divano, prima che la voce di mio fratello sussurrasse: - Tieni Sunny! Mangia qualcosa, ti sentirai meglio… - .
 
Non è un’esagerazione, ero paralizzato dal terrore.
 
Dal famoso episodio dei quattro anni, avevo questo sano timore di rimanere in spazi confinati assieme a mio fratello, soprattutto se contenitori pieni di sostanze di vario tipo erano coinvolti. L’immagine di Sides con in mano una tazza ricolma di una brodaglia fumante rientrava totalmente in quello che il mio sano e superbo cervello etichettava come pericolo.
 
Di fronte al sorriso disarmante e totalmente idiota del cerebroleso che mi ostino comunque a chiamare gemello e a quell’arma impropria e bollente che insisteva a spingermi tra le mani, era solo una la cosa da fare: avevo preso quello schifo, me l’ero appoggiato in grembo e avevo cominciato a studiarlo perplesso immergendoci il cucchiaio.
Sides non si era mosso dal mio fianco, e mi guardava con quel sorriso incoraggiante e vagamente minaccioso che sfoderava ogni volta che si aspettava qualcosa da me.
 
Non avevo speranza di successo.
 
Potevo solo ingoiare quella sbobba e pregare che tutto andasse bene.
 
Alla prima cucchiaiata (“Signore aiutami, sono troppo giovane per morire”) avevo pensato che l’influenza e l’assenza di percezione da parte delle mie papille gustative non fossero così male, dopotutto; alla seconda (“Buddha, reciterò il Sutra del Loto ogni giorno, ma ti prego non lasciare che questo cibo indegno mi uccida”) avevo deciso che la consistenza quasi gelatinosa potesse essere ignorata; alla terza (“Manitù, tu che sei grande e potente, assistimi”) avevo capito che la lingua era ormai completamente insensibile a causa dell’ustione di terzo grado a cui era stata sottoposta; alla quarta (“Zeus”) avevo storto la bocca in una smorfia che Sides aveva scambiato per un sorriso di ringraziamento; alla sesta (“Allah”) avevo cercato di convincere il mio ostinato e culinarmente incolto fratello che ero già pieno; alla cinquantesima (“Primus”, dato che avevo cominciato pure ad inventare divinità) avevo finalmente finito quell’obbrobrio, e potevo tornare ad ignorare il resto del mondo, cioè il mio gemello.
 
E’ stato due ore dopo che il calvario è iniziato davvero. Avevo cominciato ad avere i sudori freddi, le dimensioni della mia lingua sembravano essersi triplicate, faticavo a respirare e avevo una nausea incredibile. Ovviamente non potevo far altro se non soffrire in silenzio, pena attirare l’attenzione di Sides che per il momento era – Deo gratia -  concentrata sulla Xbox.
 
Dopo un’altra mezz’ora di virile sofferenza, però, non avevo potuto far altro che alzarmi di scatto dal divano, correre in bagno e, senza neppure avere il tempo di chiudere la porta, avevo cominciato a vomitare l’anima.
Ancora.
E ancora.
 
Quattro ore e un viaggio all’ospedale dopo avevano reso chiaro che la mia era la normale reazione a una grave intossicazione da cibo, connessa al fatto che quel deficiente che avevo deciso di rinnegare come fratello avesse usato lo yogurt sperimentale fatto in casa da nostra madre come ingrediente chiave della sua zuppa di merda.
 
Quella volta non solo ebbi la riprova di avere un deficiente come gemello, ma come pure mia mamma non fosse del tutto a posto, dato che bloccò la sfilza di (meritatissimi) insulti che stavo riversando su Sides con una tirata sull’egoismo del vostro umile Sunstreaker, ingiustamente accusato di essere incapace di apprezzare gli sforzi di un amorevole fratello.
 
E’ stato per un miracolo che non ho aperto la portiera della macchina per sfuggire alla pazzia che imperversava nella famiglia, limitandomi invece ad un urlo di frustrazione strozzato e un vaffanculo sussurrato.




Ed ecco il secondo capitolo! C:
In lieve ritardo rispetto alla schedule che mi ero prefissata, ma ho ricominciato a lavorare (e sono pure in depressione... == )
Anyway, spero che enjoyate i twins in questo nuovo, avventuroso (?) capitolo! C;

E adesso corro a vedere 21! ♥
E...se mi lasciate un commentino mi fate felice! C:

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Capitolo 3
*** This is the last straw! ***


Tutto questo però era impallidito di fronte all’ultima, ma non per questo definitiva, impresa del mio deficiente fratello.
 
Per quanto io mi ritenga (a ragione, ci tengo a precisare) superiore alla mediocrità che mi circonda, sono allo stesso tempo consapevole che non tutti apprezzino l’arte così come la intendo io. Non che questo mi abbia mai impedito di continuare a dipingere ciò che io, ed io soltanto, ritengo degno di essere ritratto per comunicare ciò che io sento e voglio condividere.
Ero quindi relativamente preparato al fatto che il mio relatore mi dicesse senza mezzi termini che considerava l’ottanta per cento delle opere che gli avevo proposto per l’esame finale uno schifo completo.
Quell’uomo non ha senso del gusto e, non meno importante, della decenza. Non riconoscerebbe un’opera significativa nemmeno se gli cadesse addosso dal cielo.
D’altro canto, un essere incapace di apprezzare Egon Schiele non si merita il mio rispetto.
 
E’ per questo che non gli avevo spaccato il naso mentre ce l’avevo lì davanti. Avevo invece assunto un atteggiamento contrito, come se davvero me ne sbattesse qualcosa della sua compassata e totalmente cretina visione dell’arte, e avevo mantenuto la calma pensando a quanto sarebbe stato bello rigargli la macchina dopo l’esame, magari dandole pure fuoco e ballandoci attorno nudo, in perfetto stile “rito di passaggio dal mondo liminale dell’adolescenza a quello (non meno schifoso) dell’età adulta”.
 
Purtroppo questo è quello che avevo urlato in faccia a Sidewipe appena tornato a casa, giusto perché – in qualche modo – dovevo pur sfogarmi.
Non che avessi davvero intenzione di modificare il mio stile per adattarmi alle assurde richieste di quello stronzo, ma allo stesso tempo non volevo venire escluso dall’esposizione finale delle opere degli allievi (azione che ero sicuro non fosse troppo bassa per un individuo meschino come lui): non mi rimaneva altro che rinchiudermi in quello che, fin troppo generosamente, chiamavo “studio” e cercare una soluzione alternativa, almeno per il momento, alla violenza.
 
Non appena avevo sentito le fantomatiche parole: “Tranquillo Sunny, ci penso io!” seguire il mio monologo, un brivido mi era corso lungo la schiena, ma mi ero illuso che la massima conseguenza sarebbe stata incorrere in un altro degli incoraggiamenti culinari, chiamiamoli così, di mio fratello.
 
Non potevo immaginare che la realtà sarebbe stata decisamente più spaventosa.
 
Quando, due giorni dopo, con le mani sporche di colore e un’espressione omicida sulla faccia avevo risposto al telefono, non mi aspettavo che il rettore mi avrebbe convocato nel suo ufficio.
Anche perché non avevo la più pallida idea del perché mi volesse vedere.
Ero rimasto in casa quasi per quarantotto ore, interrompendomi solo per accompagnare mamma da una delle sue amiche pazze la sera precedente, nonostante fossi io il fratello che aveva da fare: Sides era apparentemente scomparso, la genitrice doveva assolutamente vedere quell’altra psicolabile, ed io ero stato costretto a sedere con loro per quasi due ore, sorseggiando caffè e cercando di pensare ai fatti miei, prima di poter effettivamente ritornare in macchina, superare la barriera del suono e tornare a lavorare sui miei progetti.
Era forse successo qualcosa mentre io mi estraniavo dal resto dell’umanità? (la tortura subita su ordine materno non rientrava nella mia idea di socializzazione, questo era certo).
 
Ad ogni modo, quarantacinque minuti dopo ero seduto di fronte al Magnifico.
Di fronte alla sua espressione assassina, un sottile ma persistente velo di angoscia aveva cominciato a farsi strada nel mio sistema nervoso: che cavolo era successo?
 
- La riconosci? – aveva sibilato spingendomi in mano alcune foto.
 
Io avevo solo potuto fissare con orrore la Datsun dell’ ’84 che ne era soggetto. Il colore originario era praticamente seppellito sotto tonnellate di vernice rosa – ed erano brillantini quelli che vedevo sul tettuccio? -, mentre un gigantesco, enorme ed infinito graffio sembrava percorrerne tutti i lati. Gli specchietti erano stati completamente distrutti, probabilmente perché colpiti con un oggetto contundente, le gomme erano tristi e sgonfie e la fiancata sinistra era decisamente ammaccata, come se qualcuno l’avesse ripetutamente percossa con una mazza da baseball o qualcosa di ancora più dannoso, mentre su quella di destra faceva bella mostra di sé, in vernice nera: “Fuck u. S”.
Mi stavo per sentire male alla sola idea che una macchina, anche se non era la mia, potesse essere ridotta in tale stato.
Ma tutto sommato, cosa c’entravo io?
 
Questo è quello che avevo chiesto anche all’incazzatissimo rettore, ed ovviamente la risposta non mi era piaciuta nemmeno un po’: apparentemente la sera precedente il sottoscritto aveva teso un’imboscata a quella povera Datsun, distruggendola.
Alcuni testimoni, tra cui il rettore stesso, avevano assistito alla scena, ma prima che la polizia arrivasse sul luogo, io ero scappato. Certo, non c’erano ancora prove certe, anche perché il vandalo aveva avuto l’accortezza di coprirsi parzialmente il volto con una kefia, ma una prima, breve indagine aveva indicato il sottoscritto come sospetto ideale, sia per la somiglianza fisica col soggetto sia perché, dopo l’ennesima discussione con quel coglione del mio relatore, era convinzione universalmente condivisa che io ce l’avessi con l’istituto in toto.
 
Che culo.
 
Non era bastato il tono di affronto con cui avevo sostenuto che MAI avrei fatto una cosa simile (in quanto non avrei intenzionalmente usato quel punto di rosa così smorto): solo l’intervento di una altrettanto irritata genitrice, testimone insieme all’amica del fatto che la serata precedente io l’avevo passata in loro compagnia, e non in giro a devastare macchine altrui, aveva evitato le fastidiose conseguenze legali di una mia presunta colpevolezza, nonché il totale disastro di una mia espulsione.
 
Mentre seguivo mamma verso casa, continuavo comunque a chiedermi quante fossero le probabilità che il mio sosia decidesse proprio in un momento critico di distruggere la macchina del mio rettore. Non era possibile, ero davvero troppo sfigato! Ma cos’avevo fatto di male? Ero già stato punito con l’avere Sides come fratello, mi sembrava davvero troppo infierire ulteriormente!
 
Per quanto riflettere sulla questione potesse essere estremamente interessante, non avevo tempo per complicarmi ulteriormente la vita per qualcosa di cui, tutto sommato, non me ne fregava niente: il rettore poteva disperarsi per la sua Datsun quanto voleva, avevo anch’io i miei casini, di cui erano esempio perfetto i mille quadri che dovevo finire nel più breve tempo possibile.
 
Ovviamente la mia vita non poteva essere tanto semplice, dato che neanche due minuti dopo Sideswipe era entrato nello “studio”.
 
- Non preoccuparti Sunny! Ci ho pensato io a difendere l’onore del mio fratellino! – aveva esclamato con tono fin troppo compiaciuto.
 
Al momento ero stato tentato di ignorarlo, mentre rovistavo tra i tubetti di colore per cercare il giusto tono di rosso di cui avevo bisogno.
Poi però avevo registrato le sue parole.
 
Un terribile presentimento aveva cominciato a farsi strada nel mio cervello.
 
- Cosa intendi? – avevo sibilato, cercando di mantenere un tono calmo.
 
- Bhe, hai presente quel prof che si è comportato da stronzo? Ecco, diciamo che ora avrà di sicuro capito qual è il suo posto! – era stata la risposta soddisfatta del mio oscuro gemello.
 
Oh.
Mio.
Dio.
 
Non poteva essere. No, Sides non poteva essere stato così stupido da fare ciò che ero ormai sicuro avesse fatto.
Una breve analisi delle sue mani, con le unghie ancora sporche di pittura rosa, aveva costituito l’unica prova necessaria: credendo di farmi un favore, quel cretino non solo aveva deciso di devastare la macchina del mio relatore PRIMA che io passassi effettivamente l’esame finale, ma aveva addirittura sbagliato target, colpendo invece il rettore dell’Accademia.
 
Era deciso: l’avrei ammazzato.
 
Con un urlo incoerente, sbraitando maledizioni inframmezzate da spiegazione sul perché la morte di Sideswipe avrebbe liberato il mondo da una piaga letale, avevo cominciato a colpire mio fratello, mirando a fargli più male possibile.
Non era servito molto perché lo stronzo cominciasse a difendersi, e l’unica cosa che mi aveva fermato dal commettere fratricidio era stata l’intromissione di nostra madre, che, abituata alle nostre litigate (anche se, almeno per me, quest’ultima aveva assunto lo status di  vera e propria guerra) era intervenuta con l’unica arma capace di distogliere la nostra attenzione dagli istinti omicidi: una secchiata d’acqua.
 
Quella sera uscii dallo studio solo in tarda notte. Non avevo voluto vedere nessuno, avevo chiuso la porta a chiave e non le minacce dei miei genitori né, dopo qualche ora, le scuse di Sideswipe mi avevano convinto a riaprirla.
L’idea di tornare nella camera che dividevo con mio fratello mi faceva sentire male. Ero ancora abbastanza incazzato da voler uccidere qualcosa, ma allo stesso tempo non potevo fare a meno di pensare a cosa Sides fosse disposto a fare per me. Per difendermi.
 
E’ una cosa questa che, ogni volta che ci penso, mi fa quasi paura. Mi fa anche incazzare, perché io sono io, una persona a parte e distinta dal mio gemello, e so prendermi cura di me stesso. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che il dogma “Sides ci sarà sempre” ha anche un terribile e fantastico corollario: “Non sarò mai costretto ad affrontare la vita da solo”.
Quante persone possono dire altrettanto?
 
Con un sospiro ero così rientrato in camera.
Mio fratello era immobile nel suo letto, e proprio questa totale assenza di movimento, troppo studiata per essere vera, era stata l’unico indizio necessario per farmi capire fosse ancora sveglio, probabilmente intento a ripensare a cosa era andato storto nel suo brillante piano e a come rimediare.
 
Dopo un attimo di indecisione, mi ero seduto accanto a lui. Avevo fissato a lungo la testa di Sides, parzialmente coperta dal lenzuolo. Poi, prima che potessi cambiare idea, gli avevo sussurrato quello che mi ero rifiutato di ammettere in tutti quegli anni:
- Io avrei fatto lo stesso, Sides. Grazie. - .
 
Se fossi rimasto seduto sul suo letto ancora un attimo, avrei di sicuro visto il sorriso esultante di mio fratello, come se nel mondo tutto avesse cominciato, proprio in quell’istante, a girare nel verso giusto.
Invece avevo deciso di buttarmi a peso morto sul mio e di dormire, finalmente, il sonno dei giusti.
 
Vedete, non è semplice quando l’altra parte di te stesso è stupida come Sides.
D’altronde, credo che neppure per lui sia facile avere a che fare con un sociopatico come il sottoscritto.
Ma so per certo che nessuno dei due vorrebbe cambiare le cose.
 
E questo è forse il Dogma più importante di tutti.



Ed ecco finalmente finita questa piccola one shot! C:
Spero vi sia piaciuta, vi abbia fatto sorridere almeno un po' e abbia diffuso il mio amore per questi due gemelli... e per i personaggi collaterali che ho disseminato "in maniera occulta" nella fic! C;
E andate a vedere un po' di G1 ora, kids! ♥

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