Latte&Menta

di Cassie chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Something stupid ***
Capitolo 2: *** Something blue ***
Capitolo 3: *** Something overwhelming ***
Capitolo 4: *** Something fated ***
Capitolo 5: *** Something disturbing ***
Capitolo 6: *** Something definitive ***
Capitolo 7: *** Something painful ***
Capitolo 8: *** Something important... lately... ***
Capitolo 9: *** Something awkward ***
Capitolo 10: *** Something inequivocal ***



Capitolo 1
*** Something stupid ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti! Sono ancora io la vostra carissima e bellissima (SEEEEEEHHHHH!!!!!) Cassie chan! Ho scritto questa nuova fic, che per me rappresenta un esperimento! Per questo, ho deciso di pubblicare prima della storia vera e propria, questa piccola paginetta di avvertimenti, avvisi, e segnalazioni dell’autrice, che altrimenti non ci sarebbero andati nella presentazione.

1.     Se c’è qualcuno tra quei poveretti che si apprestano a leggere questa fic e che ha letto altre mie storie, rimarrà abbastanza sorpreso! Di solito scrivo cose molto dolci e romantiche… bè, sta fic è tutto il contrario… certo, ci sono anche delle parti romantiche, delle cose carine e gentili, dato che io non ne posso fare a meno. Ma non aspettatevi una storia, che inizia e finisce in un modo, non è così! Succedono parecchie cose strane, per questo ho deciso di alzare il rating a PG13, voglio essere sicura!

2.     Questa storia è ovviamente in capitoli, saranno più o meno otto o nove, e questi sono in prima persona con il punto di vista del personaggio che compare accanto al titolo!

3.     ll linguaggio, sebbene non sia proprio scioccante, è un po’ più simile al parlato, perciò c’è qualche parola un po’ più forte; non voglio chiamarle parolacce, credo che siano parte del modo di esprimersi. Questo, soprattutto quando parlano i ragazzi, le ragazze le ho fatte un po’ più delicate, anche se pure a loro sfugge qualcosa!

4.     Ho scelto dei pairing un po’ strani, che non mi sembra di aver mai trovato, ma ho notato leggendo qualche fic di Slam Dunk, che molte di esse sono yaoi oppure hanno personaggi femminili inventati! Senza nulla togliere a queste fic, ho deciso di “staccarmi”, e di scegliere Ayako, che tendenzialmente è un bel personaggio, molto di più di Haruko Akagi, non me ne voglia nessuno! Il cognome di Ayako l’ho anche dovuto inventare!

5.     Alla fine di ogni capitolo, ho inserito una canzone che fosse rappresentativa di quello che avevo scritto, e che rispecchiasse quello che non ero riuscita a fare esprimere al mio personaggio o che volutamente era rimasto in ombra. Non dico che vi dovete leggere tutte le canzoni dall’inizio alla fine, ma mi piacerebbe che ne leggeste almeno qualche verso!

6.     Nello scrivere la fic e nel nominare Akira Sendo, ho sempre scritto il suo cognome in questa maniera. Ho scoperto tardi, quando la fic era quasi finita che si scriveva SENDOH, ma sinceramente mi rompeva un po’ cambiare tutto! Quindi, chiedo scusa, prendetelo per buono!

Prima di concludere, voglio dedicare questa fic ad una persona, Alex. Nonostante quello che è successo tra me e te, ti voglio ringraziare per avermi reso la persona che sono oggi. E adesso basta con tutti questi avvisi, buona lettura, e mi raccomando: COMMENTI!!!! Altrimenti, mi demoralizzo e addio! non saprete mai come va a finire! Va bene tutto, anche- RITIRATI!-, basta che sia sufficientemente motivato!

 

 

Capitolo 1 ---  Something stupid  (Kaede Rukawa)

 

Ancora non riuscivo a crederci. Non che non ci credessi fino in fondo, ma avevamo passato tanto di quel tempo a ripetercelo che oramai sembravano solo parole. Destinate a non diventare mai fatti, eventi concreti, che si possono vedere, toccare, assaporare, ascoltare, percepire. Tremendamente vicine a menate di adolescenti frustrati. Quella parola… TORNEO NAZIONALE… era diventata piena di milioni di significati… ne avevo piene le scatole delle pieghe che ci potevo trovare. La prima occasione per me di farmi vedere fuori dalla mia scuola e dalla mia città, la prima occasione per trovarmi faccia a faccia con giocatori, i cui nomi erano solo scritte in grassetto su riviste patinate, la prima occasione per iniziare a diventare quello che volevo. E adesso era tutto reale… sentii i pugni stringersi forte, mentre l’adrenalina non abbandonava ancora il mio corpo, dopo quell’interminabile partita contro il Ryonan. Ero morto, non mi sentivo più le braccia e le gambe, ma avrei potuto pure ricominciare a giocare. E l’avrei anche fatto, se non avessi saputo che nessuno m’avrebbe seguito, la verità è che erano tutti soddisfatti dal primo all’ultimo dei miei compagni di squadra. Li guardai… Akagi, il gorilla stava persino piangendo, Mitsui pregava l’immagine del mister, Miyagi e quel ritardato di Sakuragi si prendevano a sberle ovviamente per scherzo, o almeno così sembrava. Tutti soddisfatti naturalmente. Che c’era di meglio in quel momento? Guardai il tabellone del punteggio, uno scarto non elevatissimo… 70 a 66… 4 miseri punti… certo nelle mie migliori fantasie questa dannata partita finiva almeno 150 a 30, ma non si può avere tutto, ormai l’ho imparato, anche se a me invece piace avere tutto, in ogni campo, in ogni senso, altrimenti che senso avrebbe provarci? Non so che farmene di mezze vittorie o di scheletriche soddisfazioni. Alla fine, se ci ripenso, per quello che me ne fregava, quella maledetta partita potevamo anche perderla, l’importante era che io battessi Sendo. Non ero poi tanto sicuro di avercela fatta, mi aveva fatto fesso un paio di volte o due, specie alla fine era davvero imprendibile… i benpensanti avrebbero detto che eravamo più o meno alla pari, lui avrebbe risposto che non c’era stata storia per me, e io non avrei risposto nulla, convinto e sicuro che il sapore della vittoria su di lui non lo provavo, a meno che questo non fosse spaventosamente simile a quello di un umiliante pareggio, quelli che ti lasciano la bocca amara e lo stomaco in fiamme dall’insoddisfazione. Non che avessi mai provato il gusto della vittoria, fino a quel momento. Semplicemente non ci arrivavo, ero già oltre, alla prossima partita e ai prossimi canestri da segnare. Guardai Sendo e lo vidi ancora immobile, e solo allora mi sfuggii un sorrisetto. Sarà per l’anno prossimo, bello…

Feci qualche passo, e mi fermai di botto.

“Ce l’avete fatta!”. Ayako mi tese la mano, sollevandosi in punta di piedi. Non mi ero mai accorto che era almeno quindici centimetri più bassa di me…

“Già…” risposi con la stessa espressione di poco prima, il ghigno soddisfatto che doveva averli fatti girare a Sendo. Portai la mia mano contro la sua, e lei mi sorrise: “Finalmente, siete una vera squadra! Le mie preghiere sono servite a qualcosa almeno!”

“Preghiere?” chiesi, senza capire. Che non ci credeva che avremmo vinto?

“Sì” disse lei sorridendo, poi assunse una voce implorante e disse: “Dio, fa che Sakuragi e Kaede non si ammazzino prima della fine del campionato, Dio fa che Mitsui non si rimetta in quella banda di teppisti di strada, Dio fa che non perda la mia salute mentale a stare dietro a loro…”. Mi fece venire da ridere la sua voce, ma mi trattenni. Mi sentivo cretino a ridere per una cosa del genere.

Mi sentii chiamare da Miyagi e mi affrettai a girarmi. Ci dovevamo cambiare per la premiazione. Un altro momento inutile, perchè dovevamo assistere all’ennesima parata di quei quattro coglioni del Kainan? I campioni… quella cosa mi bruciava ancora… avevano vinto per il diciottesimo anno di fila e non c’era stato niente da fare, ero persino crollato in quella stramaledetta partita. Gli altri se ne erano scordati scommetto, in fondo non c’avevano mai creduto nel battere il Kainan, era un sogno che amavamo fare, ma niente di più. Poi c’era andata bene. Io invece me lo sentivo ancora addosso quello stramaledetto peso, che mi irritava quella apparente giornata perfetta.

Tornammo nello spogliatoio e ci infilammo solo le maglie e i pantaloni, mentre ancora scoppiavano piccoli tumulti tra i miei compagni praticamente in visibilio.

“Stasera dovremmo festeggiare!” propose Miyagi, mentre infilava la testa di Sakuragi sotto la doccia bollente

“Festeggiare?” chiese Kogure, riaggiustandosi gli occhiali, storti dopo uno scambio affettuoso di sberle con Mitsui. Erano sempre gli stessi, non c’era niente da fare… vivevamo solo per mettere quella palla in quel canestro, per litigare e per fingere di picchiarci a sangue.

“F-E-S-T-E-G-G-I-A-R-E, quattrocchi!” scandì Sakuragi “Vabbè, che non sai nemmeno il significato della parola FESTA, vista la vita da talpa che fai, ma per una sera puoi anche uscire dal tuo squallido buco!”

Kogure arrossì a disagio, e chiese dove si poteva andare, mentre gli altri ridevano a crepapelle.

“Che ne dite di quel nuovo locale che hanno aperto in centro? Si chiama - Peppermint Milk -…” chiese Ayako. Non mi ero nemmeno accorto che era con noi nello spogliatoio, era talmente abituata a passare del tempo con noi che non si faceva il minimo scrupolo a rimanere anche in quei momenti unicamente maschili. A me non faceva effetto, credo che considerassi Ayako molto vicina ad un altro componente della squadra. Ci passavo davanti senza nemmeno accorgermene, se c’era o non c’era era la stessa identica cosa per me; facevo persino fatica a distinguerla dalla sorella del gorilla e ci riuscivo solo perchè Ayako era stata mia compagna di classe alle medie.

“Va bene AYAKUCCIA!” eruppe Miyagi, slanciandosi su di lei per abbracciarla, ma lei si spostò con un sorriso, e poi uscì, dicendo di sbrigarci con la sua solita voce raramente gentile.

Evidentemente non tutti la pensavano come me…

“Che aspetti a provarci, Miyagi?” chiese Mitsui, mentre si allacciava una scarpa

“Eh? Con chi, con Ayako?” domandò sorpreso Kogure, che come al solito non aveva capito un cavolo, l’avevo capito pure io, il che era tutto dire, considerato come ero attento in queste cose…

“E con chi sennò?! Con tua nonna?!” scoppiò a ridere Sakuragi, trascinando anche gli altri in una grassa e prolungata risata, non condivisa solo da me e dal gorilla, io che mi affaccendavo nel mio armadietto e lui che si controllava preoccupato la caviglia. Doveva fargli ancora male, che faceva il forte non cambiava tutto questo… e mi aveva anche detto di non giocare da solo, che c’erano anche loro. Miyagi con quasi quattro falli, Mitsui semicosciente, lui con quella caviglia, e Sakuragi il mentecatto che faceva divertire il pubblico con i suoi numeri. Meno male che alle volte mi veniva di giocare da solo…

Sakuragi aveva preso Miyagi per il collo e lo strattonava con forza, mentre diceva con la sua migliore intonazione di persona che sa tutto del mondo, quando invece non c’ha mai capito un cazzo pure lui: “Lo sai che oltre ad essere il genio del basket, sono anche il genio dell’amore? Se non ci provi, lo farà qualcun altro ed allora addio Ayakuccia!”

Mi era quasi venuta voglia di dire…  e chi, secondo lui, c’avrebbe provato con Ayako? Tanto per il gusto di contraddire quel celebroleso… poi mi trattenni, non me ne fregava niente di quel discorso…

Miyagi annuì seriamente, poi disse, guardandolo in tralice: “E tu? Che aspetti a provarci con Haruko?”

Inutile dire che cosa accadde. Akagi si dimenticò della caviglia e corse a picchiare sia Miyagi che Sakuragi, mentre Mitsui e Kogure facevano il tifo per il gorilla. Io mi defilai, prima che mettessero in mezzo pure me. Quando c’era di mezzo quella lì, alla fine rischiavo di prenderle pure io.

Uscii fuori dallo spogliatoio, proprio mentre Ayako arrivava, richiamata dalle varie urla di gatti sgozzati, che provenivano dallo spogliatoio: “Che diamine sta facendo quella massa di ritardati?! La premiazione sta per cominciare!” urlò, le mani appoggiate sui fianchi

La guardai, sollevando le spalle, mentre lei sospirava e mi disse, la voce adesso più calma: “Per piacere chiamali, prima che mi facciano definitivamente perdere la pazienza, e allora non ci sarà più una squadra per il torneo nazionale!”

“Non li puoi chiamare tu?” replicai infastidito. Adesso si faceva tanti problemi ad entrare nello spogliatoio?

“Va bene, Kaede… figuriamoci se puoi farmi un piacere” disse con un sospiro, poi mi fece l’occhiolino e disse: “Ringrazia solamente che sono contenta che abbiate vinto, e quindi oggi sono particolarmente generosa…”

Inarcai un sopracciglio, solo adesso mi ero reso conto che mi chiamava per nome… in effetti, adesso che ci ripensavo era da quando ero nello Shohoku che mi chiamava sempre Kaede, chissà perchè me ne ero accorto solo allora. Retaggio della vecchia conoscenza, forse…

Gli altri arrivarono di lì a poco in palestra, mentre io mi ero già posizionato in palestra, nel piccolo spazio dedicato alla nostra squadra. Sentivo addosso gli sguardi degli altri giocatori e del pubblico, quei coglioni non arrivavano ancora e stavo lì a fare lo stoccafisso, ma non ci pensavo molto. Stavo cercando di configurarmi nella mente il momento in cui avrebbero nominato i migliori giocatori delle varie squadre. Sicuramente ci sarebbero stati Maki del Kainan e Sendo, ed ero certo che ci sarei stato anch’io. Almeno una piccola soddisfazione in quella merda di giornata. Mi venne quasi da ridere, era diventata una merda di giornata, una in cui ero nella seconda squadra del campionato e stavo per andare ai campionati nazionali. Ma dove avevo perso lo stimolo di una sfida, finita in un risultato non schiacciante, e dove ormai non ne sentivo più altri. Non c’era più nessuno.

Come avevo previsto, i migliori giocatori furono Maki e Jiin del Kainan, Sendo, ed io e Akagi. Prevedibile… ritirai una specie di medaglia, mentre gli applausi del pubblico a malapena mi raggiungevano le orecchie.

Mentre la gente si dileguava, Mitsui venne a dirmi che avevano programmato di andare a trovare il mister, e poi di cambiarci e di andare a festeggiare. Non ero molto d’accordo, non tanto con l’idea di andare a trovare Anzai, anche perchè credo che Mitsui mi avrebbe menato come un salame, ma con questa fottuta idea della festa. Che c’era da festeggiare?, mi dicevo, ma alla fine accettai. Non avevo nemmeno voglia di stare a casa, e di allenarmi non se ne parlava. Non avevo più sangue nelle vene, ma solamente acido lattico. Strano, ero pure stanco di allenarmi.

Andai a prendere la bici, che avevo lasciato fuori dalla palestra, legata con una catena malconcia, e mi incamminai verso l’ospedale. Pedalavo sempre più veloce, cercando di non fermarmi troppo vicino a gruppi di persone, che potevano riconoscermi. Mi davano fastidio le loro facce beote e i loro sorrisi d’ammirazione da bar; arrivammo all’ospedale tutti assieme, anche se gli altri avevano preso la metro e io ero venuto in bicicletta.

Salimmo di sopra, tra le urla delle infermiere, e demmo il grande annuncio ad Anzai, che ovviamente rise come al solito, come quei Babbo Natale troppo grassi, seduti nei centri commerciali, che prendevano sulle ginocchia i mocciosi. Lo facemmo persino balzare in aria, l’aria dei festeggiamenti che per un attimo contagiò anche me, quel vecchio, anche se era malato e debole, era capace di darci forza e coraggio, come nessuno mai. Anche a me. Di solito non mi serviva niente per darmi forza, ma nei suoi occhi vedevo quante più partite avesse visto di me, quanti canestri più difficili dei miei, quanti rimbalzi più imprevedibili dei nostri, quanti giocatori più o meno bravi di me, che io invece non avrei visto mai. Per questo, alla fine lo rispettavo. 

Mi rattristai persino quando stavamo per lasciarlo, ma non è che potevo passare la serata lì, anche se forse alla fine dei conti era lui quello con cui avrei potuto capire che cavolo mi stava prendendo. Ma mi feci trascinare fuori, e annuii quando mi dissero che ci saremmo incontrati dopo un’ora a quel locale con il nome strano… sarebbero venuti anche gli amici di Sakuragi e quelli di Mitsui, perfetto… proprio quello che volevo, e certamente non sarebbe mancata nemmeno la sorella di Akagi e le sue amiche idiote.

Tornai a casa sempre con la bici, stavolta senza fretta, avevo voglia di restarmene da solo e in silenzio. Aprii la porta di scatto, e la mia casa era naturalmente spenta. Mia madre doveva essere fuori con quel riconglionito del suo nuovo fidanzato, e mio padre… Dio solo sa dov’è pure lui…

Gettai le mie cose su una sedia, e salii di sopra, mi feci una doccia e mi infilai un paio di pantaloni azzurri e una camicia bianca. In poco meno di mezz’ora, ero pronto… perfetto, ero stato anche veloce a vestirmi, il mio programmato ritardo di un’ora non era neanche fattibile. Poi quella casa mi stava troppo stretta, non la sopportavo, quindi mi affannai ad uscire, facendo un lunghissimo giro per arrivare in quel dannato posto. Alla fine, ero comunque in perfetto orario.

Miyagi era già arrivato pure lui, lo riconobbi dal brillare del suo orecchino nel vicolo buio, sotto l’insegna verde smeraldo del “Peppermint Milk”. Stava con le mani in tasca e andava avanti ed indietro nervosamente, come se gli avessero messo qualcosa nei pantaloni.

Quando mi vide, sollevò il capo e mi fece un cenno, era elegante anche lui, portava persino la cravatta. Io mi sentivo già in carcere così, figuriamoci lui…

“Ascolta Rukawa, voglio chiederti una cosa…” mi chiese dopo un po’, guardandomi dall’alto in basso, aveva ragione Sakuragi, quando lo chiamava pigmeo. Scossi leggermente il capo e annuii.

“Senti, insomma, so che non è una domanda molto normale… ma… insomma… che tipo era Ayako alle medie? Aveva un ragazzo?” eruppe alla fine, il viso rosso più del normale. Certo che le donne fanno proprio rimbecillire, uno dei più grandi playmaker della prefettura adesso era lì, davanti a me, a balbettare come un idiota. Le donne avevano proprio un potere assurdo, e in effetti era l’unico modo con cui potevano sopravvivere. Che altro sapevano fare?

Lasciai perdere quelle mie teorie pseudo evoluzionistiche e risposi, cercando di utilizzare un po’ di tatto, che sapevo perfettamente di non avere, ma in fondo Miyagi mi faceva pena.      

“Non la frequentavo… non lo so…” risposi inespressivo come sempre

Lui si grattò il capo e mormorò con un debole sorriso: “Stasera, ho intenzione di chiederle di uscire e quindi volevo sapere qualcosa di più su di lei… ma se non sai nulla, non fa niente…”

Lo guardai ancora, senza capire, poi ci sentimmo chiamare da qualcuno alle nostre spalle. Erano Akagi e la sorella con le sue amiche, il gorilla sembrava una di quelle buffe creature da circo, costrette ad indossare giacca e cravatta, forse eravamo così abituati a vederci solo con le uniformi e con pantaloncini e maglia da gioco che quei nuovi panni ci davano un’aria spaesata e confusa. Le amiche della sorella di Akagi cercarono di spingerla verso di me, mi voltai dall’altra parte, sentendo provenire delle urla dalla parte opposta del vicolo. Come era da aspettarselo, erano Mitsui e Sakuragi con quei loro amici da rissa. Erano anche loro relativamente eleganti ed erano gasatissimi, sembrava che non fossero mai andati ad una festa.

“Chissà se troveremo qualche bella gnoc…” stavano commentando tra loro, quando rimasero tutti immobili a fissare qualcosa alle mie spalle. Mi voltai senza pensarci due volte, rimanendo con le mani in tasca. Non mi aspettavo niente di grandioso, ma dovetti rimanere anch’io un po’ sbigottito.

C’era una ragazza dietro di noi, seminascosta dall’oscurità del vicolo, i capelli ondulati resi di un colore stranissimo dalle luci di quell’insegna fosforescente. Aveva un vestito nero con delle pailletes sparse un po’ ovunque e con lo scollo rotondo, perfettamente invisibile, dato il gran numero di collanine d’argento varie ed eventuali, che portava. Era davvero una bellissima ragazza, impossibile non notarla, ma aveva qualcosa di familiare. Per questo, continuavo a fissarla come un imbecille, convinto di non avere una faccia molto intelligente in quel momento. Era strano che una ragazza mi facesse un effetto simile, di solito le ignoravo a priori, non sopportavo le loro risatine vezzose. Nella maggior parte dei casi, sono sempre oche stupide che mi infastidiscono, e sta tipa non doveva fare eccezioni, mi convinsi mentalmente. Però… insomma… era proprio carina…

“Ayakuccia!!!” sentii Miyagi gridare, correndo verso di lei, mentre quasi cadevo a terra per la sorpresa. Ayako? La stessa Ayako che conosco io? Quella, tanto per intenderci, con la maglietta rosa, le scarpe da ginnastica, la coda di cavallo e i modi violenti? Quella era una che poteva andare in passerella a fare la modella, non la nostra manesca manager.

Lei sorrise a Miyagi e disse raramente gentile: “Non mi costringere ad uscire fuori il bastone dalla borsetta…”, fece la buffa imitazione di un sorriso forzato e si avvicinò a me e a Sakuragi. Sembrò non guardarmi neppure, e disse al mentecatto, accanto a me: “Allora non entriamo?”

Quello rise con aria saccente e mormorò: “Ayako, stasera sei proprio una bomba! Ti sei messa forse in gingheri per qualcuno?”

Lei aggrottò le sopracciglia e rispose: “E per chi, razza di imbecille? Per voi, forse? Non ci sperare troppo Hanamichi!”

“Veramente non ci spero io, ma Miyagi!” rise lui sguaitamente, mentre Ayako si voltava a guardare il nostro playmaker che arrossiva vistosamente e simulava un pugno nella direzione di Sakuragi. Lei rise a sua volta e poi entrò, seguita da tutti noi. Salutò qualcuno all’entrata e la vidi mettersi a parlare cordialmente con un cameriere, un tipo biondo con gli occhi azzurri che fece svenire le amiche idiote di Haruko Akagi.

“Chi è quello?” le chiesero dopo, mentre entravamo nel locale vero e proprio “E’ proprio un figo da paura!”

Lei ostentò indifferenza e rispose tranquilla: “Chi, quello? E’ Shinichi, un mio vecchio amico… lo conoscevo bene quando lavorava in quell’altro locale in centro, quello accanto alla stazione, che hanno chiuso un mese fa. Adesso lavora qui…”

“Lo conoscevi bene?” chiese una di loro con aria maliziosa “Ci uscivi insieme?”; lei sorrise e rispose: “Qualcosa del genere, frequentavo molto quel posto e quindi anche lui…”

Mi voltai con un mezzo sorrisino verso Miyagi, che sembrava un cane bastonato. La descrizione mentale che forse aveva della sua Ayako non corrispondeva a questa nuova versione festaiola e frequentatrice di locali notturni, e per di più mezza fidanzata con un ragazzo che era almeno venti centimetri più alto di lei. E di lui.

Ayako con aria sicura ci condusse per un corridoio, al termine del quale c’era una vera e propria sala da ballo, pienissima di gente, che si pigiava sempre di più, cercando di ballare una sorta di litania di musica house. Proprio quello che volevo, un luogo pieno di gente, magari anche strafatta, che ballava scompostamente. Sentivo ancora i suoni della partita della mattina dentro di me, e forse gli volevo tenere ancora per molto in me stesso; mi piaceva da morire quando sentivo per tutto il giorno la scarica elettrica che mi dava una partita, soprattutto se alla fine avevamo vinto. Non che, come avevo già notato, fosse stata questa grandissima soddisfazione per me, ma in fin dei conti avevamo vinto. Lo Shohoku aveva vinto, almeno la squadra aveva vinto.

Gettai un’occhiata ad Akagi e a Kogure, i più riluttanti a farsi trascinare in quel vortice di luci abbaglianti e suoni assordanti, e loro mi fecero segno di seguirli in un parte della pista che sembrava più appartata e meno rumorosa. Li seguii di buon grado, mentre Sakuragi, Miyagi e persino Mitsui si facevano trascinare da Ayako. Mi sedetti con loro, ed altrettanto ovviamente iniziarono a parlare di basket, delle squadre delle altre prefetture, della stella di Aichi e di altri quasi leggendari giocatori. Stranamente, quella sera, non riuscivo a seguirli benissimo, forse ero stanco, forse era quella stramaledetta musica, oppure non lo so. Alla fine, mentre loro due commentavano delle azioni di Sendo, cosa che, descritta nei loro criteri di perfezione assoluta, me li faceva girare, mi voltai verso la pista, appoggiando le braccia sullo schienale della sedia. Se ne stavano proprio andando di testa tutti quanti… ballavano come dei forsennati, alcuni in maniera ridicola come Mitsui e Miyagi, e poi... bè, c’era un’ evidente distanza rispetto al modo che aveva invece Ayako di ballare. Non potevi fare a meno di fissarla, e non a caso aveva attorno a sé una massa di imbecilli, che le sbavavano dietro. Lei sembrava non guardarli nemmeno, e continuava ad agitarsi, come se fosse sulla pista completamente da sola, i suoi capelli catturavano ogni raggio di quella luce artificiale e si espandevano nell’aria, quasi cercando di prendere quanto più spazio possibile. Sorpresi le mie mani a tremare leggermente, che cazzo mi prendeva? Mi incazzai con me stesso, e mi voltai bruscamente, smettendo di fissarla, anche se era come se avessi un dannato terzo occhio che continuava a farmela vedere davanti al naso.

Rimasi in quella posizione tutta quella dannata serata, cercando di concentrarmi su altro, sulla partita appena giocata, su quelle che avevo ancora da giocare, ma non era semplice, come al solito. Per la prima volta, non trovavo facile pensare al basket, per la prima volta collaudavo che cosa volesse dire avere desiderio di una donna, di una ragazza o di qualsiasi altra cosa simile. Non che fino a quel momento fossi stato un verginello timido ed indifeso, che non era mai stato toccato da alcun pensiero carnale, ma era stata una cosa, potrei dire, teorica. A parte le donne luccicanti della televisione o dei giornali, nessun’altra mi aveva dato niente, la benché minima emozione. Il basket mi eccitava a tal punto da non avere più bisogno di nient’altro. E invece adesso, sebbene per poco, avevo voluto una donna. Ayako, poi… se qualcuno lo avesse saputo, si sarebbe fatto una bella risata, bè, non proprio tutti, se lo avesse saputo Miyagi, m’avrebbe menato a sangue.

Erano le due, quando iniziai a vedere la gente andarsene, e infine fummo raggiunti dagli altri, che avevano passato tutta la sera sulla pista; quella maledetta musica finalmente si era abbassata e potei di nuovo sentire la voce di qualcuno che non era a dieci centimetri da me.

“Ehi voi, potevate anche venire a ballare un po’!”. Mi voltai e vidi che aveva parlato Ayako, ma era diversa dal solito. Per essere gentili, era diversa dal solito. In quel tempo, in cui mi ero imposto di non guardarla, doveva aver bevuto abbastanza, aveva i capelli spettinati, gli occhi lucidi e barcollava, per rimanere in piedi, doveva sorreggersi con il braccio al collo di Sakuragi. A parte lei, anche gli altri erano brilli, Miyagi prendeva a spallate Mitsui, Haruko si gettò ridendo tra le braccia di Kogure, che fu subito allontanato con uno spintone da Akagi, e gli amici di Sakuragi… meglio non parlarne proprio… quello che forse stava meglio era proprio l’idiota, che reggeva Ayako, che continuò a ridere scioccamente, fino a quando crollò di sonno, addormentandosi di botto.

“Gorilla, per Haruko ci pensi tu, ma per Ayako?!” chiese Sakuragi, in preda quasi al panico, cercando ancora di reggerla, mentre lei gli scivolava dall’altro lato

“L’accompagno io a casa!!!” urlò Miyagi, ridendo fragorosamente

“Come no, tappo…” disse lui “Io devo accompagnare questi quattro idioti a casa, altrimenti domani mattina li troviamo ancora per strada, Kogure tu pensa a questi altri due, e… per Ayako…”, lo vidi guardami con gli occhi ridotti a fessure… che cazzo vuole? Mi chiesi mentalmente, già con la testa proiettata nel mio letto. Quella fascia attorno ai capelli rossi lo faceva sembrare una specie di derelitto umano, ancora di più del solito.

Mi guardò con aria di profondo disgusto, alla quale io risposi nella stessa identica maniera, salvo poi afflosciarmi, quando mi disse: “Stronzetta, sai dove abita Ayako? Non abita vicino a casa tua…?”

“E con questo?” chiesi nella mia più convincente interpretazione di gnorri      

“Accompagnala, imbecille! Saprai fare almeno questo nella tua patetica vita?!”

“Non se ne parla proprio…” dissi con indifferenza, alzandomi

“CHE COSA?!!!”. La voce dell’idiota era già salita di tono, ma stavolta fu accompagnata dalle voci anche degli altri, di solito Akagi si limitava a menare cazzotti sulla testa di quel coglione, ma adesso erano tutti d’accordo con lui. Mi sentivo scoppiare la testa, quindi alla fine annuii e mi caricai sulle spalle Ayako, che dormiva profondamente, mentre Haruko urlava: “Voglio andare io con Rukawa!!”, salvo poi riaddormentarsi dopo quattro secondi netti.

Uscii dal bar, imprecando tra me e me, cosa che si incrementò notevolmente, quando mi ricordai della bici. La dovevo pure lasciare qua… e domani mattina mi dovevo alzare tre ore prima per andare a prenderla… ma chi cazzo me l’aveva fatta ad uscire quella stramaledetta sera???!!!

Faceva abbastanza freddo, e quindi cercai di affrettare quanto più possibile il passo, me ne volevo soltanto andare a casa a dormire e invece dovevo pure fare quell’altro giro per accompagnare Ayako. Continuavo ad imprecare tra me e me, mentre sentivo il respiro regolare di Ayako sulla nuca solleticarmi i capelli. Ad un tratto, mi fermai per riposarmi un po’, e lei si svegliò, ma la sua voce era ancora impastata di sonno e di irrazionalità alcolica.

“Dove sono?” chiese, stropicciandosi gli occhi

Non avevo voglia di risponderle, quindi mormorai solamente: “Stiamo andando a casa, Ayako…”

“Chi sei?” mi chiese ancora con voce confusa, appoggiandosi di nuovo a me. Che cavolo le dovevo dire? Decisi ancora di non rispondere, sperando che si assopisse e rimanesse addormentata fino a casa sua. Ma nella sua specie di delirio non capire chi fossi doveva essere agghiacciante per lei, e quindi continuò a ripetermi quella domanda, accentuando ogni mio ennesimo diniego di risponderle con un calcio violento negli stinchi.

Alla fine, stremato le risposi: “Sono Rukawa… andiamo insieme a scuola…”

Lei si calmò all’istante, e si riappoggiò di nuovo a me, poi ridendo disse: “Conoscevo un ragazzo che si chiamava così alle medie…”

“Davvero?” sussurrai sarcastico

“Sì” continuò lei con voce malferma “Era bravo a giocare a pallacanestro… ma era un asociale nato, se la credeva un bordello…”

“Davvero?” chiesi stavolta più interessato. Era tanto per fare conversazione, per quella che in quel momento si poteva fare con Ayako, questo mi dicevo. Ma anche io mi ero reso conto che ero stranamente interessato a quello che lei pensava di me. Mi resi conto con una punta di disapprovazione per me stesso che avevo sempre voluto sapere che cosa pensasse Ayako di ognuno di noi; era sempre così sarcastica ed aggressiva, ma c’era qualcosa sotto che non mi convinceva di lei. C’era qualcosa che non diceva. E adesso forse me l’avrebbe detto.

Lei continuò, intervallando le sue parole con espressioni sconnesse e con risatine senza motivo: “Non che non fosse un tipo che non avesse motivo di credersela… era un figo da paura, tutte le mie amiche erano cotte di lui…”

“E tu?” chiesi con un sorrisetto. Il colmo sarebbe stato pure scoprire che piacevo ad Ayako.

“In prima media…” la sentii dire. La sua voce era cambiata, era diventata più malinconica e la sentivo stringermi forte la camicia tra le dita.

“E poi?” chiesi velocemente, stupendomi ancora del mio interesse. Il mio desiderio di farmi due risate esulava di molto dalla mia sollecitudine a conoscere quelli che erano stati i sentimenti di Ayako.

“Niente” rise lei in maniera acuta e fastidiosa “Lui non se ne accorse nemmeno, era troppo preso dalla pallacanestro… era veramente bravo… te l’ho detto? Me la feci passare. Mi iniziò anche a stare antipatico, se proprio la devo dire. Era bravo, ma che cavolo! Poteva anche parlare con qualcuno qualche volta, perchè doveva fare sempre la parte dell’uomo solo con il suo destino?”

Non risposi alla sua domanda, e lei poco dopo si riaddormentò di nuovo sulle mie spalle, le sue braccia strette attorno al mio collo. Rimasi parecchio con le sue parole che mi ronzavano nel cervello, come un fastidioso brusio nelle orecchie, che non voleva saperne di andarsene. Cercai di ricordarmi come era Ayako alle medie, ma non c’era alcuna immagine troppo nitida di lei. A malapena, riuscivo a rivedere una ragazzina con le trecce e i nastri azzurri, che spesso mi seguiva quando mi allenavo e che incontravo quando tornavo a casa. Lei arrossiva e scappava via, ed io scrollavo le spalle, fregandomene altamente. Poi la ricordavo diversa, sempre avvolta nelle fitte nebbie della mia totale indifferenza per lei; si tagliò i capelli e, se non mi ricordo male, se li schiarì, diventando quasi bionda. Non ci guardavamo in faccia, e quando l’incontravo, fingeva abilmente di non avermi visto. Mi parlò solo una volta, quando con aria scocciata, schioccando la lingua con fastidio, mi consegnò una lettera di una sua amica, che strappai e gettai dieci secondi dopo. Di quel periodo, ricordo solo i miei infiniti allenamenti, di lei non ricordo più niente. O meglio non so proprio niente, semplicemente perchè era già molto che sapessi come si chiamava. Anzi adesso che ci ripenso seppi il suo nome, quando entrai nello Shohoku e lei ci fu presentata come nostra manager. L’avevo riconosciuta ovviamente, ma fu lei a dirmi che si chiamava Ayako Kuno, altrimenti addio… non avrei mai indovinato il suo nome…

Finalmente ero arrivato a casa sua. Mi chiesi se ci sarebbero stati genitori o fratelli, a cui spiegare il suo ritardo, e mi feci prendere dal panico, poi mi ricordai che Ayako viveva da sola in quella casa. Non aveva mai detto il perchè non vivesse con i suoi. Aprì il cancelletto, e feci il piccolo vialetto. L’appoggiai su una sedia a dondolo che c’era fuori e armeggiai con la sua borsetta per trovare le sue chiavi di casa; dopo averle trovate, cercai quella giusta e poi la ripresi in braccio, mentre spingevo la porta con un piede. Riuscii per miracolo ad accendere la luce e la distesi su un divano che era immediatamente lì. Lei si girò di fianco, e riprese a dormire come se niente fosse. In fondo, facevo meglio a lasciarla là, chi ci sarebbe riuscito a portarla in camera sua, ammesso e non concesso che capissi quale fosse. E poi diamine avevo già fatto tanto… l’unica cosa che mi azzardai a fare fu quella di prendere un plaid, che era appoggiato su una poltrona, di aprirlo e di metterglielo addosso. Quel movimento la svegliò e mi guardò con gli occhi annacquati per qualche secondo.

“Sei a casa” le dissi “Dormi”

Lei sorrise e mi mise una mano sul viso, accarezzandomi piano una guancia. La guardai senza capire e mi chinai su di lei, mentre continuava a passare le sue dita fredde sul mio volto.

“Sei diverso da quello che conoscevo io…” mi mormorò, poi sollevò leggermente il busto e con quello stesso sorriso mi baciò sulle labbra. Così senza motivo, senza preavviso. Serrai forte i pugni e sentii nella mia il sapore della sua bocca, un sapore di alcol, un sapore nonostante tutto buono… come di latte e menta, incredibilmente dolce ed anche  forte, straordinariamente provocante e pungente, che faceva quasi male. Continuò a stamparmi piccoli baci a fior di labbra sulle mie, mentre sentivo, come prima, i nervi incendiarsi ancora di desiderio di lei. La volevo, la volevo disperatamente, ancora peggio di quando entro in area a cinque minuti dalla fine di una partita ed un giocatore in difesa ti impedisce di fare la schiacciata, che già avevi visto nella tua testa. Ancora più di voler battere definitivamente Sendo, ancora più di voler vincere milioni di miliardi di partite. Mi sconcertava tutto questo, mi faceva quasi ribrezzo desiderare qualcosa fatto solo di carne, qualcosa che in fondo era solamente una ragazza ubriaca, niente più di questo. Punto. Non era niente per cui valesse la pena perdere tempo. Me ne accorsi con rabbia e, le labbra di Ayako ancora nelle mie, morsi con furia il fiore della sua bocca, mentre Ayako crollava di nuovo di sonno sul divano. Non me ne sarei mai andato. Mai, me ne sarei andato da quelle sue labbra che avevano accarezzato le mie, fino a fino a farmi spezzare qualcosa dentro. Sì. Strano a dirsi e a pensarsi. Lei mi aveva spezzato qualcosa dentro. Qualcosa, che andava oltre le ovvie reazioni fisiche che avevo avuto. Qualcosa di estremamente stupido, ma che non avrei trovato mai più, se non in lei. Qualcosa che d’ora in poi avrebbe cambiato la mia vita per sempre.   


I am the son and the heir
of a shyness that is criminally vulgar
I am the son and the heir
of nothing in particular.

You shut your mouth
how dare you say
I go about things the wrong way
I am human and I need to be loved
Just like everybody else
Does

When you say it's gonna happen now
When exactly do you mean?
See I've already waited too long
And all my hope is
Gone

There's a club if you like to go
You could meet someone
Who really loves you
So you go and you stand on your own
And you leave on your own
And you go home
And you cry and you want to
Die.

 

(How Soon Is Now (Theme Song of “Charmed”) (love Spit Love)

 

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Capitolo 2
*** Something blue ***


Capitolo 2 – Something blue (Ayako Kuno)

Capitolo 2 – Something blue (Ayako Kuno)

 

 

La luce del sole entrava dalla finestra e feriva i miei occhi, nonostante tutto ancora chiusi. Cercai di riaddormentarmi, ma niente da fare, mentre dormivo potevo ignorare la sensazione che mi davano le mie rattrappite membra e potevo anche ignorare la mia testa che pulsava in maniera incontrollata, ma da sveglia era praticamente impossibile. Mi sollevai, stropicciandomi gli occhi ed accorgendomi che indossavo ancora il vestito che avevo messo la sera prima. Non ricordavo niente di ciò che era successo, ma adesso che confrontavo quelle sensazioni, capivo abbastanza agevolmente che la sera prima dovevo aver esagerato con l’alcol. Non mi capitava da parecchio, da quando ero ragazzina, ma nei miei ricordi confusi riconoscevo di essere stata molto euforica la sera precedente per la vittoria dei ragazzi, quindi evidentemente dovevo averci dato dentro più del normale. Mi alzai a stento e guardai l’orologio, le sette e mezzo. Fui tentata di non andare a scuola, ma la conoscevo bene la procedura di quei casi. Per la giustifica, avrei dovuto chiamare Rei e sorbirmi un enorme interrogatorio su che cosa era successo, e lei non era un tipo alla: “Zia, ieri sera sono uscita con dei ragazzi e mi sono ubriacata, non so nemmeno come sono arrivata a casa e adesso sono più morta che viva… puoi firmarmi una giustifica, per piacere?”. Lei è più un tipo che ti immagina chiusa in casa a sferruzzare, dato che ha il mio affidamento e, considerati i miei continui litigi con mia cugina Kaname, mi permette di vivere da sola e di girarle tutte le spese della mia casa. Rassegnata, ormai mi alzai e mi sfilai il vestito ormai tutto spiegazzato, gettandolo su una poltrona. Salii al piano di sopra e mi feci una doccia, mi infilai la divisa e, con i capelli ancora bagnati, mi andai a lavare i denti. Mentre mi guardavo distrattamente allo specchio, notai un rivolo di sangue tingermi le labbra. Mi sfiorai la bocca con un dito, accorgendomi del segno di un morso. Un morso, inarcai un sopracciglio. Poi sospirai, chissà che cavolo avevo fatto la sera prima, oppure nel sonno mi dovevo essere morsa le labbra. Mi legai i capelli e mi imbrattai il viso con fondotinta, cipria e fard, cercando di celare i segni della sbornia non ancora totalmente passata. Ero diventata particolarmente esperta in quell’arte.  

Scesi le scale e presi la cartella, perfettamente inutile, eravamo a maggio, e ormai in classe non facevamo praticamente niente. Doppia irritazione al pensiero di stare male e dover comunque andare a scuola. Iniziai a camminare lentamente per strada, ripensando al giorno prima. Mi scappò un sorrisetto, saremmo andati al campionato nazionale. Il nostro sogno si era avverato, o meglio il sogno dei ragazzi si era avverato. Io sognavo assieme a loro, questo facevo dalla mattina alla sera, anche se ero solo quella che li incitavo, e li passavo le bottigliette d’acqua e gli asciugamani. Era strano pensarla così… in fondo, io ero solo la loro manager, non ero il settimo uomo dello Shohoku. Eppure, loro mi facevano sognare, e alla fine il loro sogno era diventato il mio. Bellissimo, meraviglioso, apparentemente irrealizzabile. E tutto ci ruotava intorno, le loro vite, ed anche la mia. Mi ritrovai a chiedermi con onestà che cosa era cambiato per me ora che sarebbero andati al campionato. Niente, a dirla tutta. Sarei stata sempre la stessa, Ayako Kuno, quella che passa le bottigliette d’acqua e gli asciugamani.

Scrollai il capo in vista della scuola, stavo proprio sotto… se arrivavo a fare di quei pensieri, ero davvero ancora ubriaca…

All’ingresso, come era prevedibile, Sakuragi si stava vantando della vittoria, imputabile, secondo lui alle sue esclusive qualità di genio. Il peggio era che molti nella scuola gli davano corda, lui agitava il braccio come un folle dittatore e loro lo acclamavano. Scoppiai a ridere, fortunatamente nascosta dietro il cancello. Se mi avesse vista, addio… avrebbe pensato che lo prendevo in giro o peggio che riconoscevo le sue doti di genio. Altrettanto ovviamente Miyagi e Mitsui lo provocavano velatamente, mentre Akagi guardava in cagnesco Sakuragi stesso, preparandosi a picchiarlo selvaggiamente alla sua prossima frase strabordante di eccessivo orgoglio. Recuperai la mia solita espressione e mi avvicinai a loro, fermandomi accanto a Kogure.

Lui mi guardò attraverso le spesse lenti e mi chiese: “Come stai stamattina, Ayako?”

“Benissimo” mentii, il cerchio alla testa che mi opprimeva le tempie “Ieri sera ho un po’ esagerato, ma sto bene… davvero…”

Lui mi guardò con espressione strana, tanto che inarcai il sopracciglio, pronta a chiedergli il motivo di tanto interesse, ma poi preferii sorvolare e invece dissi: “Non ricordo molto bene, ma ieri sera… mi hai accompagnato tu a casa?”

Lui negò energicamente con il capo, manco gli avessi chiesto se avesse rubato in casa mia: “No, ti ha accompagnata Rukawa…”
”Kaede?!” chiesi più sorpresa che turbata. Certo che era l’ultima persona che mi aspettavo… mi passò un leggero brivido lungo la schiena, speriamo che non gli detto niente di compromettente, mentre ero ubriaca. Bestemmiai mentalmente contro me stessa e quegli stramaledetti cocktail che mi avevano fatto perdere il controllo… dovevo stare proprio male se si era deciso ad accompagnarmi proprio lui a casa.

Pensavo ancora a quelle cose, mentre un urlo sgozzato giungeva dalla bocca di Hanamichi.

Come era altrettanto prevedibile in quelle nostre scherzose mattinate, era arrivato Kaede in bici, ovviamente si era addormentato, ovviamente aveva preso Hanamichi in pieno. Immaginate già che cosa è successo dopo? Hanamichi urla come uno straccivendolo, contro Kaede ancora a terra, e il suo fan club personale interviene per difenderlo. Stavo già per andarmene in classe, le loro voci che quel giorno mi facevano particolarmente male al cervello, quando mi sento chiamare, bè chiamare è esagerato, sento il mio nome pronunciato ad alta voce da qualcuno. Ora che ci penso anche questo è esagerato, non sono certa nemmeno che mi avesse chiamato per nome.

“Che c’è, Kaede?” chiesi, voltandomi e guardandolo dal basso in alto. Certo che è proprio alto…

“Come stai?” mi chiese, la voce inespressiva come sempre

Stavo per arrossire al nuovo pensiero di me stessa priva di sensi, che straparlo, e voltai il viso dall’altra parte: “Anche tu! Sto benissimo!”

Feci per allontanarmi, poi sospirai e mi voltai di nuovo: “Comunque grazie… per avermi accompagnato a casa… e scusa… per qualsiasi cosa abbia fatto o detto… ero solo ubriaca, quindi non ci badare…”

Gli sorrisi e mi girai di nuovo. Sprecavo sempre troppi sorrisi, quando parlavo con lui. Non penso che neanche se ne accorgesse, misantropo com’era, se sorridevo o gli facevo le smorfie. E neanche mi importava, ero una ragazza educata e mi piace sorridere, ecco tutto. Ma quel giorno dovetti ricredermi. Non del tutto, quello sarebbe stato dopo, abbastanza dopo. Nei suoi occhi azzurri, era passato qualcosa. Qualcosa di bello. Ma nuovo e strano su di lui.

 

 

E’ strano quanto il tempo abbia a volte l’abitudine di accelerare all’improvviso, di scorrere velocemente e di lasciarti la sgradevole sensazione che non ti sei nemmeno ancora alzato da dormire. Sbadigliai rumorosamente, guardando di traverso Hanamichi che non si decideva a proseguire i suoi allenamenti. Si limitava a guardare male Kaede che giocava e infilava un canestro dietro l’altro, mentre lui doveva continuare i fondamentali.

“Muoviti!” urlai, spaccandogli il cranio con il mio quaderno degli appunti, quello con la copertina rigida, che ho finito da tre anni, ma che mi porto sempre appresso per sbatterlo sulla sua testa rossa.

Lui imprecò a mezza voce e poi chiese, ossessivo come sempre: “Ma perchè devo continuare con i fondamentali? Sono o non sono un genio?”

“Non lo sei, infatti… di che ti preoccupi?” replicai, incrociando le braccia, mentre la palestra si riempiva del suono fragoroso di un altro canestro del numero 11. Hanamichi si voltò verso di lui guardandolo con odio, e disse truce: “Anche lui è una matricola, perchè non fa i fondamentali pure lui?!!”

“Perché Kaede gioca da molto più tempo di te… avanti, Hanamichi, spicciati… non ho voglia di discutere oggi…” dissi ancora rassegnata, accompagnando le mie stanche risposte con un sospiro. Ero un po’ stanca in quei giorni, o meglio ero stanchissima; avevo sonno e, come se non bastasse, avevo un sacco di compiti per il giorno dopo. E dulcis in fundo, la sera stessa dovevo andare a cena da mia zia Rei e dalla mia adorabile cugina Kaname. 

Hanamichi continuava a borbottare, quindi finalmente mi decisi a gridargli contro di continuare ad allenarsi. Non si poteva essere gentili con lui, né tantomeno essere docili e fargli fare quello che vuole, sperando che gli venissero dei sensi di colpa, non funzionava assolutamente.

Mentre finalmente riprendeva a palleggiare, mi sentii chiamare alle mie spalle: “Ayako, puoi venire qui un momento?”

Mi voltai e vidi che era il mister, che mi faceva segno di avvicinarmi, gettai un’occhiata truce ad Hanamichi che colse terrorizzato il messaggio: “Va bene, va bene, continuo i fondamentali…”. Con un lieve sorriso, mi voltai e mi avvicinai al signor Anzai: “Che cosa c’è, signore? C’è qualche problema?”

Lui mi fece segno di sedermi accanto a lui in quelle scomode sedie di plastica, compagne inseparabili di ogni partita.

“Hai notato qualcosa di strano in questo periodo, Ayako? Sii sincera…” mi chiese, guardandomi in viso

Negai decisamente con il capo, e chiesi a mia volta: “Si riferisce a qualcuno dei ragazzi? Nel caso di Hanamichi, credo che sia sempre come al solito… intendo che sia irresponsabile come sempre…”
”Non mi riferisco a Sakuragi…” disse lui con un lieve sorriso “La sua assoluta mancanza di buon senso è quasi confortante… mi riferisco a qualcun altro… a Rukawa…”

“A Kaede?” chiesi sorpresa. Istintivamente, mi voltai a guardarlo, stava giocando come sempre, era un canestro dopo l’altro, e non c’era niente di strano in tutto questo. Sarebbe stato strano il contrario. Poi mi accorsi di una cosa strana, una cosa che in effetti non avevo mai notato fino a quel momento. Lui di solito era calmo e flemmatico quando giocava, certo sapevo benissimo che nel profondo, lui ardeva di voglia di vincere e di essere il migliore, ma nei suoi gesti non c’era la minima traccia di tutto questo. Anche nei momenti tragici della partita, quelli dove oramai sembrava che tutto fosse finito, lui era sempre rilassato e calmo. Proiettava nel suo cervello già il modo che avrebbe dovuto avere di vincere quella partita. Stavolta notai nei suoi gesti qualcosa di strano. Mentre faceva uno slam dunk, e vedevo l’anello tremare vigorosamente, mi accorsi che era diverso. Era arrabbiato, era nervoso, e scaricava la sua rabbia sul pallone.

“Te nei sei accorta, adesso?” mi disse Anzai, guardandomi ancora

Annuii piano: “Sembra… diverso… è… quasi… feroce…”; le mie parole non avevano molto senso, ma era il primo pensiero che mi era venuto in mente, guardandolo.

“Esattamente, Ayako… è la mia stessa impressione…”. Anzai sospirò e continuò: “Qualche giorno fa, è venuto a trovarmi a casa… aveva un’idea o meglio un progetto. Voleva andare negli Stati Uniti…”

“Negli Stati Uniti? Perché?” chiesi esitante. Non poteva, non poteva voler lasciare la squadra alla vigilia del campionato nazionale.

“Per lui non è stata una vittoria, quella con il Ryonan…” rispose Anzai quieto “Capisci?”

Improvvisamente capii tutto. La risposta a quella domanda aveva solo un nome: Akira Sendo.

“E’ per Sendo, vero?”

“Siamo onesti, Ayako… Rukawa è un ottimo giocatore, è un grande talento e sono convinto che diventerà un campione in questo sport…” andò avanti Anzai con una voce più malinconica “Ma è ancora una matricola e al momento Sendo è indubbiamente più bravo di lui… è un vero ed autentico fuoriclasse. L’unico che al momento può tenergli testa è Maki del Kainan, nessun’altro… almeno qui a Kanagawa… Rukawa voleva andare negli Stati Uniti per imparare a giocare meglio, ma per fortuna sono riuscito a fargli cambiare idea. Sarebbe stata una grande perdita non solo per la squadra…”. Notai che la voce del vecchio mister era meno serena del solito nel fare uno discorso del genere, eppure mi parlava spesso dei giocatori, segnalandomi chi voleva che tenessi d’occhio, per chi proporre un allenamento speciale, oppure chi cercare di pungolare per ottenere il meglio. Di solito, mi parlava di Hanamichi, o al massimo di Mitsui, considerata la sua forzata assenza dai campi di gioco. Ora… era preoccupato…

“Vorrei che tu gli parlassi, Ayako… lo conosci bene…” mi disse all’improvviso

“Non è proprio la verità, mister… lo conosco da più tempo… questo è tutto…” dissi quasi brusca. Che cavolo gli potevo dire?

“Parla con te…”

“IO parlo con lui, e lui risponde a monosillabi… non credo che sia parlare…” risposi ancora secca “E poi da un paio di giorni, non mi risponde nemmeno più… che ne so, magari gli ho fatto qualcosa, senza accorgermene… perchè non chiede ad Haruko di parlargli? Lei ne sarebbe più che felice, glielo garantisco…”

Le mie proteste non servirono a nulla, per lui ero la candidata perfetta ad essere massacrata dagli sguardi assassini di Kaede Rukawa. Quell’uomo era capace di farci fare qualsiasi cosa si fosse messo in testa, fosse una schema di gioco, oppure una difficile conversazione come quella. Che cavolo gli potevo dire?? Me lo chiesi per tutto l’allenamento, battendo nervosamente il piede per terra, mentre Hanamichi mi guardava straniato, ancora chino a palleggiare.

“Che c’è?!!” urlai nervosa al suo indirizzo

Lui disse timidamente: “Ho finito di palleggiare, devo allenarmi nei tiri liberi?”

“Certo, è ovvio!! Spicciati!!” gridai ancora, uscendo ancora il mio quaderno, alla cui vista Hanamichi capii che non era aria. Quanto è imbecille, borbottai nervosa… tiri liberi, tiri liberi, Kaede…

Mi battei la mano sulla fronte, sapevo esattamente che cosa fare.

 

Io che scambio l'alba col tramonto
e mi sveglio tardi nei motel
sbadiglio sopra un cappuccino
e pago il conto al mio destino
è tutto un attimo.
Io che firmo il nome come viene
dormo spesso accanto al finestrino
mi trucco il viso che ho deciso
e vivo il tempo più vicino
è tutto un attimo.
La mia vita è questa qua
che un'altra dentro non ci sta
questa vita siete voi
questo cuore immenso che
solo se ci penso
già sento tesa l'anima
la mia vita siete solo voi
siete voi...solo voi...
Io che scambio amore fino in fondo
solo nei momenti miei con te
immaginando anche un bambino
chiedo il resto al mio destino
è tutto un attimo.
La mia vita è questa qua
che un'altra dentro non ci sta
questa vita siete voi
questo cuore immenso che
solo se ci penso
già sento tesa l'anima
la mia vita siete solo voi
siete voi...solo voi...
io vivo in mezzo tra due cuori
io vivo dentro e vivo fuori
è tutto un attimo
voi...solo voi...

 

(Anna Oxa – E’ tutto un attimo)

 

 

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Capitolo 3
*** Something overwhelming ***


Capitolo 3 – Something overwhelming (Kaede Rukawa)

Capitolo 3 – Something overwhelming (Kaede Rukawa)

 

Afferrai con rabbia l’asciugamano e me lo gettai distrattamente sulle spalle. Mi veniva voglia di prendere a calci quella fottuta palestra e tutti quelli che c’erano dentro in quel preciso momento; come se nel mio sangue, non c’era più linfa vitale, ma letale veleno, che m’avrebbe ucciso. Mi venne pure da ridere così senza motivo, una risata isterica e nervosa, nettamente in contrasto con la mia solita immagine fredda e calcolatrice. Ci campavo su quella immagine, che cazzo ne so, si poteva dire parte del mio personaggio. Ognuno di noi ha un personaggio, io ho questo, quel coglione di Sakuragi la sua malcelata ed ingiustificata presunzione, e chiunque un altro ancora. Akira Sendo aveva invece il ruolo del giocatore perfetto, una impossibile ed assurda parte di una fantomatica commedia degli errori, piena di marionette. Lo vedevo continuamente, mentre infilavo la palla nel canestro il suo sorriso soddisfatto alla fine di quelle due stramaledette partite, che avevo perso contro di lui. E mi faceva rabbia, una dannata rabbia, mentre le parole di Anzai mi risuonavano nella mente. La mia apparente soluzione a questo insolubile problema, andare negli Stati Uniti, il paese dell’ NBA, si era poi rivelata una mia grande menata. Ci avevo riflettuto, alla fine, il coach mi aveva fatto pensare. Se non potevo battere Akira Sendo, che cazzo di scopo aveva andarsene oltre oceano a cercare altre persone che potevano battermi come volevano? Meglio prendere tutto ciò che era possibile da qui, e poi semmai, un giorno… andarmene… e soprattutto, prima di andarmene, volevo sconfiggere Sendo, non sarei mai scappato di fronte a lui. La prossima volta che ci fossimo incontrati, l’avrei battuto. Punto. E per questo dovevo essere il miglior giocatore del torneo nazionale. Ma non era facile pensare così, razionalmente, di solito ero solamente nervoso, e la rabbia mi dava carica e mi rendeva più forte. Era un circolo vizioso, più ero incazzato, più davo il massimo, e questo mi spronava ad essere ancora più incazzato di prima.        

Misi la testa sotto lo scroscio dell’acqua ghiacciata, lasciando che l’acqua scivolasse sui miei capelli e lungo il mio collo. Dalle orecchie ovattate d’acqua, sentii qualcuno chiamarmi: “Kaede…”. Prima ancora di voltarmi, sapevo già di chi si trattava. Il residuo della rabbia si trasformò dapprima in una morsa tiepida alla bocca dello stomaco, e poi in fastidio. Che voleva pure lei? Non sollevai il viso, continuando a fingere di bere, ma alla fine avevo ingurgitato tanta acqua da poter affrontare tranquillamente un viaggio di venti giorni nel Sahara. Quindi alzai gli occhi su di lei.

Aveva il viso rosso e i capelli sciolti, ed indossava già la divisa. Evidentemente, Sakuragi aveva finito l’allenamento, che palle poteva lasciarlo a patire un altro po’… ma, mentre guardavo quella piccola ferita che preservava sul labbro, che io stesso le avevo procurato, fui contento che quel ritardato se ne fosse andato. Cazzo, in fondo stavano sempre da soli, dopo gli allenamenti… erano in confidenza più di quanto lei lo fosse con Miyagi, o con… me…

Scrollai il capo e dissi nervoso: “Che c’è?”, cancellando quei pensieri imbecilli dalla mia mente

Lei sussultò, si doveva essere spaventata per la mia voce più brusca di prima, ma subito recuperò la sua solita voce decisa e mi disse: “Ti devo parlare, ma non qui… puoi venire con me?”

Parlare? Improvvisamente, mi ritornò in mente quel bacio di quella sera. Ed altrettanto improvvisamente mi ricordai che ci avevo pensato parecchio, quanto pensavo a Sendo ed alla nostra sfida. In classe, poco prima, mi era tornata in mente lei e il suo sapore. E solo perchè avevo visto un’ immagine di un bacio su un libro, tra due personaggi di una leggenda o qualcosa del genere. Mi ero raccontato che era perchè era stato il mio primo ed unico bacio, e mi convinsi di questo, anche mentre ce l’avevo di fronte. Non sapevo quanto mi sbagliassi, ma lo avrei saputo ben presto. E paradossalmente, sebbene presto, sarebbe stato già tardi.

Annuii con il capo e lei mi disse che m’avrebbe aspettato fuori. Mi cambiai velocemente e la raggiunsi. Faceva abbastanza fresco, anche se era ormai maggio, e lei si stringeva nelle spalle. Guardavo davanti a me la fila di lampioni rotondi del viale che portava alla nostra scuola, che si accendevano lentamente, baluginando tremuli qualche secondo, prima di prendere vigore e di splendere decisi.

La sua voce mi richiamò alla realtà, mi ero già quasi scordato di lei: “Si può sapere che hai in questi giorni? Ce l’hai con me?”

Non risposi. Ora era evidente. Non era quel bacio l’argomento della nostra fantomatica conversazione. Se ne era completamente dimenticata. O meglio non era cosciente, quando era successo. Potevo essere Sakuragi o persino il gorilla, e sarebbe stato lo stesso.

Strinsi forte i pugni, e risposi: “Io non ce l’ho con te, non sei al centro dei miei pensieri, Ayako…”

“Lo so benissimo…” disse velocemente, poi aggiunse, la voce stranamente tagliente: “Hai altro a cui pensare…”

“Esattamente…”

Rimanemmo di nuovo in silenzio, un silenzio strano, non come i milioni di silenzi che spesso calavano tra di noi. Questo silenzio era pieno di parole che lei voleva dire, ma che teneva dentro di sé.

“Deve essere stata una mia impressione allora…” continuò, riferendosi al discorso precedente “Ti ho già ringraziato per avermi accompagnato quella sera, vero? Non pensavo che ne saresti stato capace…”

“Perché?” chiesi, riuscendo persino a provare un’autentica irritazione, e mi voltai a guardarla per la prima volta, da quando eravamo usciti dalla palestra

Lei sorrise e mi rispose: “Avanti, Kaede, non sei certo la persona più affabile del mondo…”; il suo sorriso era… strano, mi faceva sentire strano… dentro… “Questo… n-non… significa… che… i-io, che insomma che i-i-o e t-e…” balbettai come un idiota. Che cazzo mi prendeva? E poi che le stavo dicendo? Che io e lei eravamo amici? Che puttanata… io e lei, amici?!

“Lo so, Kaede…” mi disse dolcemente, sfiorandomi il braccio, apparentemente senza accorgersene, ma a me sembrò che lo avesse fatto apposta “Per questo, sono qui… perchè ti voglio aiutare…”
”Aiutare?” chiesi senza capire

Lei annuii: “Parlarti, sarebbe perfettamente inutile, lo so che se vuoi ti tappi le orecchie e addio… o meglio, ti addormenti ed addio… invece in questo modo… magari, riuscirai a capirmi… eccoci, siamo arrivati…”
”Non per contraddirti, ma non mi sembra che siamo da qualche parte…” mi guardai intorno e infatti eravamo in un stradina deserta, circondata da palazzi abbandonati che ci guardavano come fantasmi di morti, esulati da ogni luogo. Faceva un freddo cane, adesso, ma lei rimaneva immobile. Si guardò attorno e annuii tra sé e sé con un sorriso, poi ritornò a guardarmi e si sfilò qualcosa dalla tasca, un fazzoletto blu notte.

“Devo bendarti, altrimenti la cosa che ho in programma non riesce…” rise lei, alzandosi in punta di piedi

“EH??!!” dissi io, decisamente sorpreso

“Muoviti Kaede, non ho intenzione di buttarti nell’oceano con una pietra al collo!” rideva come una pazza, evidentemente la mia faccia non era molto sveglia in quel momento e la facevo ridere. Non ero abituato a fare quell’effetto. Alla fine mi piegai docilmente, e rassegnato mi feci mettere l’improvvisata benda sugli occhi. Lei continuava a ridere, e, mentre mi era vicina, sentii ancora il calore del suo corpo contro il mio. Che cosa dicono i ragazzini alla prima cotta? Che il cuore prende a battere all’impazzata o altre stronzate simili? C’eravamo abbastanza vicini con l’idea. Ma stavolta notai anche il suo viso farsi rosso e le sue labbra dischiudersi leggermente, mentre mi guardava fisso negli occhi. Era come se mi passasse da parte a parte. Pura elettricità scorreva tra il mio corpo e il suo, ma ci sfioravamo appena. C’eravamo sfiorati forse più di così in milioni di occasioni. Ma stavolta faceva effetto. Su di me e su di lei.

Gli occhi coperti, la sentii sussurrare uno: “Scusami…”, poi disse: “Seguimi…”

“Dove, Ayako?! Non vedo un… non vedo niente…!” mi trattenni, cercando pure di essere gentile

Bofonchiò qualcosa, e prese la mia mano nella sua. Di nuovo, un’altra volta, qualcosa dentro cominciò a fare un paio di allegre capriole, come quando stavo male di stomaco. Strinsi le mie dita attorno alle sue, e la seguii con docilità, non avendo la minima idea di dove mi stesse portando. E soprattutto che motivo avevano tutti questi misteri. Mi fece camminare per una decina di minuti, girando diverse volte, tanto che alla fine avevo completamente perso l’orientamento, e poi mi indicò con la voce una scala, ripetendo per ogni scalino: “Gradino, gradino, gradino…” in modo che li salissi. A quel punto, ormai non sentivo più niente, né rumore di auto e tantomeno conversazioni tra persone; sentivo solo il mio respiro ed il suo.

Mi lasciò un attimo e mi disse: “Aspetta qui… e non toglierti la benda, altrimenti ti gonfio di botte!”; la sentii armeggiare con qualcosa di metallico e poi riprese la mia mano. Mi fece camminare ancora un po’, e poi mi disse di fermarmi lì, immobile, dove mi aveva lasciato. Si allontanò un po’ da me e ritornò qualche attimo dopo, porgendomi qualcosa, un pallone. Lo riconobbi, nonostante avessi gli occhi chiusi.

“E adesso?” chiesi senza capire “Posso togliermi la benda?”

“No, aspetta…” sussurrò lei, poi mi disse di mettermi in posizione e di aspettare che mi desse il segnale per tirare. Ci capivo sempre meno di prima. La sentii venire alle mie spalle, e appoggiare le sue dita fredde sulla mia nuca, dove c’era il nodo della benda.

“Vai…” mi disse all’improvviso, e lanciai la palla, come facevo sempre. Un attimo dopo, quando avevo già tirato, ma il pallone non era ancora entrato nell’invisibile canestro, lei mi tolse la benda, appena in tempo perchè io potessi vedere il mio tiro andare perfettamente a segno.

Mi voltai verso di lei con espressione interrogativa e solo allora mi resi conto di dove fossimo. Eravamo su una collinetta, da cui si vedeva tutta la città e il mare, che splendeva dei colori corallini del tramonto. C’era un campetto, ormai abbandonato, di basket; l’anello era arrugginito e privo di rete, e il campo era pieno di erbacce e di residui di bivacchi notturni, sparsi intorno a delle rade panchine con la vernice verde scrostata. Lo conoscevo quel posto, lo conoscevo benissimo… la guardai, ancora senza capire… lei… come faceva a conoscerlo lei, invece? Era venuta lì per caso? Senza accorgermene, abbassai gli occhi e vidi sotto i miei piedi qualcosa. Ed ebbi la conferma che non l’aveva fatto per caso. Leggermente coperta da una fitta trama di erba, disegnata per terra con una bomboletta spray di colore rosso, c’era una croce orizzontale. L’avevo fatta io. Lo ricordavo molto bene adesso, perchè venivo lì ad allenarmi, quando facevo le medie. Veramente ci venivo da quando ero un bambino, poi, da quando ero venuto allo Shohoku, non c’ero più tornato. Alle medie, quando avevo gli allenamenti ufficiali solo una volta alla settimana, ci venivo spessissimo. Ci stavo ore, lì, da solo, e mi allenavo. Specie nei tiri liberi. Ero una frana. Disegnai una croce lì per terra, dal punto dove avrei dovuto imparare a tirare. Facevo centinaia di tiri al giorno e alla fine imparai a tirare come si deve, ma quello fu il più difficile e lungo allenamento, a cui mi sottoposi, forse perchè era il mio primo di quel genere. La ricordavo ancora la stanchezza di quei giorni e le urla isteriche di mia madre, quando tornavo finalmente a casa, ormai a sera inoltrata. Credo che allora pensasse che mi facessi di qualcosa di molto diverso dal mio desiderio di giocare bene a basket. Ma, poi, è mai venuta ad una mia partita? Lo sa che gioco a pallacanestro? No. Punto.

Guardai ancora in volto Ayako e lei sorrise: “Sapevo che t’avrebbe fatto questo effetto… per questo, ho scelto questo posto… hai penato tanto per imparare a tirare come fai ora, e adesso sei anche capace di farlo con gli occhi chiusi… questo per farti capire, che, se hai fatto cose che anni fa, ti sembravano impossibili, anche quello che adesso non ti senti in grado di fare, diventerà realtà se ti impegnerai… sei un fenomeno, Kaede Rukawa… e ce la puoi fare… non hai bisogno di andare negli Stati Uniti, ti basta anche un campo come questo…”

Non pensai più a niente in quel momento, più a niente. A come faceva a sapere di questo posto, a chi le aveva detto del mio pensiero di qualche giorno prima, a come faceva ad immaginare come stavo allora, ci avrei pensato dopo, molto dopo. Trovando facili risposte. Era innamorata di me alle medie, e mi doveva aver seguito spesso. Anzai le aveva parlato della mia decisione e l’aveva convinta a parlarmi. Mi conosceva meglio di quanto credessi e allora sapeva perfettamente come mi sentivo. Ma ad una domanda non trovai risposta, né allora, né mai. Ma fu la prima cosa che pensai di fare in quel preciso momento.

Mi avvicinai a lei, che mi guardò a lungo, i suoi occhi castani spalancati per la sorpresa, le passai le braccia lungo la schiena e l’attirai ferocemente contro di me, contro il mio viso, i suoi capelli che si infransero sul mio viso, come le onde di un oceano caldo e morbido. La baciai con forza, affondando le mie labbra nelle sue, che non poterono fare altro che aprirsi alle mie. Sentivo le sue unghie piantarsi nelle mie braccia, non so, magari voleva staccarsi da me, ma ero vistosamente più forte di lei. Non riusciva a staccarsi, e io non glielo avrei mai permesso. Vaffanculo a Miyagi e alla sua sbandata per lei, vaffanculo al basket e a Sendo, vaffanculo anche a me stesso che mi dicevo di lasciarla stare, adesso, subito, immediatamente, mentre qualsiasi cosa lei mi aveva acceso dentro, mi diceva di prenderla adesso, subito, immediatamente, e di tenerla per sempre. Come mi dicevano le sue labbra chiuse e poi di nuovo aperte, e poi ancora chiuse ed ancora aperte, che adesso si muovevano nelle mie.  

Io e lei… due impossibili ed assurde comparse di una fantomatica commedia degli errori, piena di marionette… ci azzardammo a cambiare il copione, e il canovaccio, e la trama di quel maledetto spettacolo. Forse per questo che fummo puniti, io e lei.

 

Tienimi su la luce
Fatti vedere meglio
Fare l’amore o sesso
Qui non è più un dettaglio
Baciami la fortuna
Baciami le parole che sei già
Baciami il sangue mentre gira
Sei arrivata apposta
Come ci frega l’amore
Dà degli appuntamenti
E poi viene quando gli pare
Soffia su questo tempo
Tienilo acceso sempre tu che puoi

E andiamo verso il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Fino a quel giorno voi non svegliateci

Tienimi su la vita
Cosa combina l’amore
Vivere i soli affetti
E non sentirsi coglione
Ogni minuto è pieno
Ogni minuto è vero se ci sei

Che è già partito il giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli
Lacrime e brividi

Balla
Femmina come la terra
Femmina come la guerra
Femmina come la pace
Femmina come la croce
Femmina come la voce
Femmina come sai
Femmina come puoi
Femmina come la sorte
Femmina come la morte
Femmina come la vita
Femmina come l’entrata
Femmina come l’uscita
Femmina come le carte
Femmina come sai
Femmina come puoi

Che siamo dentro al giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli lacrime e brividi

 

(Luciano Ligabue- il giorno dei giorni)

 

 

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Capitolo 4
*** Something fated ***


Capitolo 4 – Something fated (Ayako Kuno)

 

Capitolo 4 – Something fated (Ayako Kuno)

 

Mi ritrovai a baciare Kaede Rukawa, senza nemmeno accorgermene, come se non stesse accadendo a me, e stessi solamente vedendo una scena proiettata nel mio cervello. Una scena impossibile fino a quel momento, praticamente impossibile… impossibile che Kaede Rukawa mi stesse baciando, stesse baciando me, quella che gli passa le bottigliette dell’acqua e gli asciugamani. Affondai le mie unghie nel suo braccio, volevo resistere, volevo allontanarlo, ma non c’era alcun verso. Non perchè lui fosse più forte di me, lo sapevo di essere una persona violenta, e avrei potuto dargli un calcio nelle parti basse, e fargli malissimo.

Fatalità…

Credo che fosse questo, che fu questo… me ne ero già accorta da quando gli avevo parlato in palestra, che lui mi guardava in modo diverso, e il suo sguardo mi agitava dentro, accendeva qualcosa dentro di me, che si era addormentato da tantissimo tempo. In quella palestra, piena di ragazzi, che correvano dietro ad un pallone arancione, io ero ritornata ad essere una ragazza, una bella ragazza che si divertiva a giocare. Con lui. E Kaede lo sapeva, se ne era accorto. Il profumo del silenzio tra me e lui era cambiato, era dolce e pungente, come latte e menta, come qualcosa che si aspetta per secoli e non arriva mai, attesa snervante del desiderio. Mi accorsi che mi sopravanzava in altezza, mi accorsi come i suoi occhi si accendessero di scintille azzurre, quando ero nervoso o a disagio, mi accorsi di quei suoi piccoli movimenti, che ti piace fraintendere, mi accorsi di quelle sue mille parole, nascoste tra le sue labbra sottili e disegnate, che guardavo come se mi stesse dicendo chissà che cosa. E quando ci sfiorammo, fu anche peggio, morire e rinascere due, tre, quattro, infinite volte, e perdere qualcosa. Qualcosa… della mia ragione, del mio cervello, che andava simpaticamente a farsi benedire. Per sempre. Gli presi la mano come una fidanzatina alla prima uscita di coppia, e sorrisi, mentre lui momentaneamente cieco, non poteva vedermi. Un sorriso idiota… un sorriso che era una recita, una commedia, di un ruolo che non era il mio, e che se avesse visto Haruko, avrebbe avuto ragione di fraintendere.

Per questo, quando mi baciò, non mi sorpresi. Non mi spaventai. Non mi meravigliai. Nulla di tutto questo. Quasi mi chiesi perchè non fosse stato prima. La promessa di quel bacio era nata molto prima, fuori dalla palestra, dove io avevo smesso di essere la mascolina manager della seconda squadra del campionato e lui la supermatricola del torneo, la grande rivelazione del basket.

Eravamo solo Kaede e Ayako.

Abbandonai le sue braccia… in fondo, mi dicevo, non sono la ragazza di Miyagi, in fondo io non provo niente per Ryota, in fondo che conseguenze ci saranno… Kaede non ama me e io non amo Kaede… non ci saranno conseguenze… in fondo, non siamo nemmeno amici, che me ne frega se domani non mi parla più… non mi parla neanche di solito, quindi… non ci faremo male…

Mi avvicinai di più a lui, portando le mie braccia attorno alla sua vita, rendendo il nostro bacio più profondo. Sentivo la sua lingua arrivare a toccare la mia, mentre il mio respiro accelerava, come il ritmo che si stava creando tra me e lui. La mia anima bruciava nel mio corpo, prigioniera che reclamava la libertà, lui si staccò da me e mi mordicchiò il labbro inferiore. Sentii il sapore del sangue di nuovo in bocca… un dejà vu… era stato lui quella sera allora, non mi ero sbagliata… si abbassò, continuando a baciarmi su collo, mentre reclinavo la testa, gli occhi vuoti fissi sulle prime stelle del cielo. Le sue mani correvano oltre il sottile tessuto della mia divisa, lungo la mia schiena incandescente più delle sue dita, che bruciavano ogni centimetro quadrato della mia pelle. Poi si spostò sul davanti della mia divisa, cercando di sciogliere il nastro rosso che la cingeva. Lo fermai, e lui mi guardò come una cosa nuova, come se non fossi mai esistita fino a quel momento. Come pensavo… lo volevo con tutte le mie forze, una spina nello stomaco, che sanguinava senza sosta, e che niente avrebbe ricucito, se non lui. Ma, chissà perchè, qualcosa dentro di me… quel qualcosa, presentimento lo avrei chiamato dopo, mi disse qualcosa. Aveva quello strano desiderio verso di me, e questo lo spaventava, gli faceva paura, per questo quanto prima lo avesse accondisceso, tanto prima sarebbe stato libero. Di nuovo, lontano. Lontano da me e da chiunque altro. Non glielo avrei permesso, assolutamente. Questo mi dissi, da stupida qual’ero, mi dissi che lo avrebbe ricordato per sempre, che non sarebbe stato uno sfizio che si stava togliendo, quello con me, come non lo era per me. Gli avrei lasciato un segno dentro, in quello che gli altri chiamavano cuore e lui chissà come cavolo chiamava.

Lo guardai, respirando a fatica, mentre eravamo ancora stretti l’uno dell’altra, e gli sussurrai: “Sono qui, Kaede… non ci penso proprio ad andarmene…”, lui spalancò gli occhi e mi attirò di nuovo a sé, affondando il suo volto nell’incavo della mia spalla. Mi faceva tenerezza vederlo così piegato su di me, lui che non si spezzava mai, lui che sarebbe morto, giocando una partita, un’ultima partita con il destino. Gli accarezzai la nuca, come si fa con un bambino che aveva fatto un brutto sogno.

“Ayako…” sussurrò lui, stringendomi più forte

“Che c’è?” chiesi io, guardando la sua nuca ancora una volta

Non disse nulla per molto tempo, poi si allontanò da me, recuperando la sua altezza solita, e mi guardò dall’alto in basso, come faceva sempre; vuoi perchè era alto un metro e ottantasette, vuoi perchè si considerava superiore a chiunque, ma era il suo sguardo solito. Era sempre così che guardava tutti. Peccato che me ne dimenticai quel giorno, quella dannata sera che avrebbe cambiato la mia vita per sempre, quella sera da cui è nato ogni mio più immenso dolore ed ogni mia più folle gioia, quel giorno io vidi negli occhi blu di Kaede Rukawa… dolcezza, tenerezza, delicatezza, che non avrei mai pensato esistere in lui. E soprattutto non avrei mai pensato che potesse guardare così me…

“Ayako, i-io v-voglio…” balbettò, abbassando la sguardo. Era persino imbarazzato, l’avrei mai detto? Gli misi le dita sulle labbra e gli sussurrai: “Anch’io… anch’io, Kaede…”; bè, era davvero la serata delle stranezze …

Mi mise una mano sul viso, accarezzandomi la guancia con il pollice, e poi mi attirò a sé per il mento. Mi baciò di nuovo, ancora ed ancora. Mi alzai in punta di piedi, cercando di arrivargli più vicina e gli portai le mie braccia attorno al collo. Di nuovo, fui trascinata da quel vortice strano di sensazioni, che mi toglievano il fiato, colori stupendi che nascevano sotto le mie palpebre chiuse. Fiori di fuoco fiorivano sulla mia pelle, dove lui arrivava a sfiorarla, e il loro calore si espandeva soave tra i miei tessuti; iniziò di nuovo a giocare con il fiocco della mia divisa, senza che io provassi anche solo a fermarlo, mentre continuavamo a baciarci. Riuscì a scioglierlo finalmente, mentre iniziava a solleticare i bottoni che chiudevano quella sottile camicetta, troppo sottile per allontanarci l’uno dell’altra, troppo spessa in quel momento nel dividermi da lui. Portai le mie dita sui bottoni circolari della sua giacca, che si aprirono senza difficoltà. Mi guidò verso la panchina che era lì vicina, e mi fece distendere su di essa, non smettendo un secondo di baciarmi, il suo corpo che premeva sul mio e che mi sovrastava. Finì di togliermi la camicia che mi sfilò manica dopo manica, mentre io l’aiutavo, le sue labbra che lasciavo solchi umidi sulle mie labbra, sul mio collo e sul mio seno. I nostri respiri crescevano sempre di più, diventando uno solo, veloce, come il mio cuore che non mi lasciava in pace le orecchie con il suo martellare continuo. Mi strinse più forte, come se temesse che avessi freddo, ma non potevo, non riuscivo a sentire niente di diverso da lui, lì sopra di me. Ripresi ad armeggiare con la sua giacca che cadde per terra, assieme alla maglia bianca che portava sotto; passai le mie dita inaspettatamente gelide sul suo torace scolpito e muscoloso, esattamente come me lo ero sempre immaginata, quando lo vedevo correre per la palestra. Lui prese la mia mano, baciandomi i polpastrelli uno alla volta, lentamente, prima che io riprendessi a baciarlo. Lo sentii passare la mano, lungo la mia gamba, fino ad arrivare all’orlo della gonna; stava per succedere, ormai stava per accadere.

In quei momenti, dovresti sentire una voce, che ti avverte, che ti dice di fermarti, che ti avverte del rischio che stai correndo, ma non accade, mai, non succede mai. Mai succede che una voce d’angelo ti dica nella mente di fermarti, prima che sia troppo tardi, non te lo dicono mai… il Cielo magari pensa che te la caverai da sola e non spreca i suoi preziosi angeli per mandarti un segnale. Non parla mai nessun’angelo custode nel tuo cervello. E tu allora continui come un’idiota e ti incammini a passi lunghi verso la rovina della tua vita. Sono certa, sono sicura che se allora avessi conosciuto già il mio angelo, le cose sarebbero andate diversamente. Ma non fu così: Kaede arrivò sotto quella piccola minigonna a pieghe, mentre io tremavo e spalancavo ancora una volta gli occhi al cielo muto e spaventoso di stelle. Aprii i suoi pantaloni e in un attimo lui entrò dentro di me, senza che neanche me ne accorgessi, cielo e terra che si fondevano, scoppiando in un nuovo big bang. I nostri nomi, pronunciati dalle labbra dell’altro, divennero uno solo, fatto d’aria incandescente che moriva nella bocca dell’altro. Cessò di esistere tutto, in lui, in lui in me, ogni luce moriva e diventava più forte del sole; ogni cosa che ero stata, finì. Non era la prima volta, non lo era, e forse non lo era nemmeno per Kaede… ma fu come la prima volta, davvero. Due, tre volte morimmo l’uno dentro all’altra, finchè lui cadde su di me, poggiandosi sulla mia spalla, il fiato ancora corto. Lo abbracciai forte, mentre una sola domanda mi riempiva il cuore… che ne sarà adesso di me e di te?

 

 

Guardai il soffitto viola, con gli occhi annacquati, e cercai di ricordarmi dove fossi. Non ricordavo dov’ero, come in preda ad una meravigliosa ubriacatura. Sentii un respiro più forte vicino a me, ed allora mi ricordai tutto. Mi voltai di fianco, guardando gli occhi chiusi di Kaede che dormiva placidamente accanto a me, una mano sotto il cuscino. L’altro braccio lo teneva disteso accanto a me, ma non mi toccava, era strano, quando finivamo di fare l’amore, lui evitava persino di toccarmi fino alla volta dopo. Avrei dovuto capirlo allora? Non lo so, magari a qualcuno sarebbe stato evidente, ma a me non lo era. Non lo era assolutamente. Erano due mesi che questa storia andava avanti, che io e Kaede finivamo a scadenze più o meno regolari a letto assieme, senza che nessuno dei nostri amici immaginasse minimamente qualcosa. In palestra, eravamo normalissimi, anzi persino più freddi del solito, ci rivolgevamo pochissime volte la parola, evitavamo persino di sfiorarci. Ma in fondo chi avrebbe potuto capire qualcosa? In giorni ben precisi, quando uscivo dalla palestra, trovavo lui ad aspettarmi e ci incamminavamo piano verso casa mia, in silenzio, io un’ automa incapace di ribellarmi a quella strana malia che lui aveva su di me. E puntualmente eravamo in camera mia. Che cosa eravamo, io e lui? Niente, lo capivo nel suo viso, quando cercavo di portare il discorso su quella domanda. Mi sentivo una stronza a fare questo a Ryota, a farlo ogni giorno, mentre lui continuava a ripetermi da un capo e l’altro della palestra: “Ayakuccia!”, ma non riuscivo ad impedirmelo. In nessuna maniera. In nessun ragionevole modo. Quando ero con lui, mi sentivo viva. Mi sentivo vivere. Pienamente, al massimo, come se fosse l’ultimo giorno della mia vita. E non mi era mai successo.

Amore?

Sarebbe stato troppo facile chiamarlo così… non lo sapevo nemmeno io che diamine fosse, a dirla tutta non l’ho mai saputo con estrema certezza, ma non era solo sesso… c’era qualcosa tra me e lui… era come… come se appartenessi solamente a lui… non so se riesco a spiegarmi… come se avessi un marchio a fuoco nell’anima, che mi faceva ritornare puntualmente da lui… fatalità… ecco, la parola giusta, di nuovo è la dannata parola giusta… non c’era strada diversa da quella che mi avrebbe portato da lui…

Kaede si mosse piano nel letto e spalancò i suoi occhi blu: “Che ore sono?”

Mi sporsi oltre il cuscino per guardare la piccola sveglietta sul comodino, e mormorai: “Le otto e mezzo… devi andare a casa?”… la mia voce mi parve così strana… ormai non mi riconoscevo più… ero un cucciolo nelle sue mani… e pensare che mi ero sempre considerata forte, testarda, e chi più ne ha, più ne metta… addirittura più forte di quello che doveva essere una donna normale…

Lui sporse le labbra, quelle sue meravigliose labbra che amavo tanto baciare, e disse dopo un po’: “No, posso restare qui ancora un po’…”

“Vuoi che ti cucini qualcosa?”

“Non ho fame…”

La sua voce era fredda… ci ero abituata, era sempre così, ma quella volta fece più male. Mi fece spezzare il cuore. Avevo parlato con Haruko quella mattina, e lei stava sempre lì a fantasticare su di lui, rimandando puntualmente il momento in cui gli avrebbe confessato i suoi sentimenti. E, mentre pensavo al grande segreto che mi portavo dentro, mi chiesi se valesse la pena, se valesse la pena rischiare di perdere tutto. Per lui. Quelle poche sue parole sembravano una tacita risposta, un secco diniego.

Ma non ascoltai. Sono testarda. Mi conosco. Non avrei mai ascoltato. Fino all’ultimo.

Mi alzai dal letto ed indossai una maglietta lunga a maniche corte. Era di mio fratello. Come diamine c’era finita sulla poltrona vicino al mio letto? Mio fratello… mi venne da piangere, ma mi trattenni. Cuccioletta fino ad un certo punto, ma piangere davanti a lui nel ricordo del mio defunto fratello, era troppo anche per me. Tirai su con il naso, e mormorai secca: “Se devi rimanere solamente a poltrire, te ne puoi anche andare a casa tua…”… magari, era mio fratello a darmi la forza… un angelo custode?

Mi guardò stranito e mormorò: “Che hai? Sei incazzata?”

“Fai un po’ te…” dissi, andando in bagno e presi a spazzolarmi i capelli davanti allo specchio circolare. Dopo poco, sentii i suoi passi dietro di me raggiungermi; si era messo i boxer, ma era ancora a torso nudo. Mi mise le mani sulla vita, baciandomi dietro l’orecchio, e poi mi chiese: “Che c’è, Ayako?”

Lo guardai dallo specchio, e dissi: “Kaede, che cosa siamo io e te?”

“Che significa?” chiese, staccandosi da me e guardandomi dal riflesso a sua volta

“Significa quello che ho detto…” replicai nervosa, voltandomi per tornare in camera. Lo superai e mi misi ad armeggiare con i miei vestiti: “Non fare l’idiota… mi hai capito benissimo…”

Sentii che mi stava guardando, ma non parlava. Tipico. Non sapeva che dire. O non voleva parlare, come il 90% delle volte.

“Mi sono stancata… di questa situazione…” dissi tutto d’un fiato, non guardandolo ancora “Mi sono stancata di mentire a Ryota e ad Haruko. Non so tu, ma io ci tengo a loro. Tanto. Mi sono stancata di mentire per qualcosa… per qualcosa che non esiste, Kaede…”

“Non ti sei fatta tanti problemi a farlo fino ad ora… che è cambiato?” disse arrogante, la sua voce resa fastidiosa da quel tono consueto, poi si avvicinò a me e mi voltò forzatamente il viso verso di lui, prendendomi per il mento: “E, cazzo, guardami in faccia, maledizione!”

Lo guardai senza farmi tanti problemi; mi teneva forte per il viso e mi faceva male, ma le lacrime che splendevano nei miei occhi non erano per quello.

Sbatté un paio di volte le palpebre e disse, allentando la presa: “Stai piangendo…”

In un altro momento, centinaia di anni fa, gli avrei risposto ironicamente, ma, si sa, il sesso cambia le cose, le confonde e le rende diverse, nebbie luminescenti in un mare di buio.

Mi divincolai dalla sua presa e mi accasciai sul letto, le mani a coprirmi il viso. Non volevo che mi vedesse piangere, non volevo essere debole davanti proprio a lui… magari un altro sì, ma non lui, maledizione, lui che tra quelle lenzuola si sentiva invece così forte… lo sentii sedersi accanto a me e rimanere in silenzio. Poi, piano, mi prese il viso bagnato e lo girò ancora verso di lui: “Guardami…”, e io lo guardai, le lacrime che non volevano smettere di cadere dai miei occhi rossi.

“Non devi piangere, non devi piangere per me… capito?” disse, accarezzandomi il viso “Sarà come tu vuoi… vuoi che lo diciamo agli altri? Vuoi parlare con Miyagi ed Haruko? Fallo… io non ho problemi…”

“Non è questo, Kaede, non è questo…” dissi ancora una volta, ma evidentemente lui non riusciva a capirmi “Io non so che cosa sono io per te… non posso più… sono solo… un tuo passatempo…”

Allontanò i suoi occhi dai miei e disse, gelido: “Non mi sembra nemmeno che io sappia che cosa tu provi per me… quindi siamo pari… per quanto ne sappia, potrei essere anch’io un tuo passatempo…”

“Non è così…” sibilai seria

“E allora cosa?!” ritornò a guardarmi “Cazzo, Ayako, lo vedi?! Lo vedi?! Che cosa dovrei dirti io, allora?!”; si alzò e diede un calcio alla poltrona. Pensai attentamente a lui, ai tempi delle medie e a quanto avevo sofferto per lui, al momento in cui me l’ero trovato di nuovo davanti al liceo, alle partite che aveva giocato e a quello che avevo provato mentre lo vedevo giocare. Pensai a quello che avevo provato in quei mesi, pensai alle sue carezze, alle sue rade parole, a quei momenti in cui mi sembrava che il mondo avesse finito di girare fuori da quella stanza, pensai a quello che rischiavo, continuando questa storia. Fu un attimo, un solo secondo, ma durò in me come mille vite mortali.  

“Io ci tengo a te, tanto, molto più di quanto pensi, Kaede…” dissi, alzandomi in piedi e mettendomi alle sue spalle “Io ti voglio bene, moltissimo, immensamente… ma non so dove questa cosa ci possa portare… e, se tu non senti la stessa cosa, non posso continuare. Non voglio continuare, Kaede.”

Si voltò piano, le lacrime che ormai ristagnavano sulle mie ciglia, e mi accarezzò di nuovo il viso: “Anch’io ci tengo a te, è ovvio…”, le sue parole erano quasi le mie stesse ed identiche frasi, ma non mi fecero effetto. Già allora non mi fecero effetto, non è una riflessione a posteriori, non sentii il sentimento che invece vibrava nelle mie. Non lo sentii, assolutamente. Ma quello era Kaede Rukawa, credo che non sia ancora nata la persona che possa aprire del tutto il suo cuore. In quei giorni, facevo credere a me stessa di poter essere io.

“Facciamo così…” mi disse, accarezzandomi ancora il viso “Appena finirà il torneo nazionale, decideremo che cosa fare… sono nervoso in questo periodo, lo sai…”

Annuii, accompagnando il mio gesto con uno stanco ed inespressivo sorriso: “Voglio parlare con Ryota però… non parlerò di me e di te, se non vuoi… ma non deve ancora illudersi così…”

Lui annuì, mi strinse tra le braccia e mi sussurrò nell’orecchio: “Andrà tutto bene…”. Quello fu forse l’attimo più bello tra me e lui, molto di più dei baci infuocati o di tutto quello che scorreva tra noi. Una parola. Una sola parola, di quelle che lui si rifiutava sempre di dire, mi fece andare avanti per ancora troppo tempo. Troppo tempo. Le parole sono sempre troppo importanti. Anche se sono una bugia.

 

 

Mi misi una mano tra i capelli, cercando di fermarli, mentre il vento li scompigliava, accompagnandoli nel loro volo inquieto con foglie morte, polvere e buste di plastica, immense meduse di un mare inaridito. Il mio cuore era gelido, ghiacciato tra i miei polmoni, e non faceva freddo, faceva persino caldo in quella dolce giornata di giugno. Guardai il cielo turchino e chiesi ancora una volta se era la cosa giusta, se stavo facendo la cosa giusta, ma, come ho già chiarito, di solito non ho grandi risposte da lassù. Sentii dei passi e mi voltai, trasalendo leggermente. Ero alle spalle dell’edificio scolastico, e bè si sa che succede là… risse, scambi di sostanze più o meno lecite, effusioni varie ed eventuali, anche esse più o meno consentite. Il luogo, dove si seppelliscono i segreti degli studenti e dove avrei seppellito il primo dei miei.

“Ciao Ryota…” dissi, simulando un’espressione allegra, alla quale lui rispose con un sorriso tirato. Aveva capito, chiaro… mi conosceva troppo bene, e io non so fingere. Non lo ho mai saputo fare. E poi quel posto… il luogo delle estreme sentenze… o con me o senza di me, mi suggerivano le sue pareti scrostate…

“Volevi parlarmi?” mi chiese, avvicinandosi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Lui mi ama, sarà una cosa normale con lui, poter urlare che si sta assieme ai quattro venti, andare a prendere un gelato all’uscita da scuola, vedere un film stupido al cinema e piangere come una cretina, passeggiare per i negozi e sorridere davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli, farsi offrire una crepe che poi so già che non finirò fino alla fine, perchè la cioccolata mi fa ingrassare, parole stupide a dirmi che non è vero che sono grassa, e sorrisi compiaciuti di quel nuovo vestito, che mi far apparire una taglia più magra.

Scossi la testa ed annuii: “I-io non so da dove iniziare…”. Lo sapevo esattamente da dove iniziare invece, forse non era tanto vero che le bugie non lo so dire… mento da due mesi, in fondo…

“Lasciami indovinare” disse lui, fingendo un’espressione meditabonda “Ti sei innamorata, vero? E di una persona che non si chiama Ryota Miyagi per caso?”

Annuii per semplicità di cose: “M-mi dispiace, Ryota… i-io ti voglio bene, ma…”

“Lo sapevo, lo sapevo da tanto, Ayako…” disse lui, voltandosi di lato e prendendo a calci una pietra, che si infranse poco più lontano “Questi mesi… sei cambiata… sei diversa, sei brava a non fartene accorgere, ma io ti conosco… l’avevo capito, appena mi hai detto che volevi parlarmi…”

“In che senso, sono cambiata?” chiesi invadente, spalancando gli occhi

“Non lo so, sei diversa… lo dovresti sapere più tu in che cosa sei cambiata, Ayako… non te lo devo mica dire io…” rispose tagliente. Giusta obiezione. Peccato che non so nemmeno io in che cavolo sono cambiata. Sono diversa. Questo è un fatto.

“Digli che è fortunato…” mi disse Ryota, prima di voltarsi ed andare via. La tentazione di dirgli di riferirglielo di persona, non appena fosse tornato in palestra, era forte. Un’altra faccia del senso di colpa.

 

 

Per la maggior parte delle ragazze, guardare dei maschi sudati correre dietro ad un pallone era piacere puro per i sensi. Altre avrebbero risposto che invece era una noia mortale, e non avresti potuto dargli torto, specie se le avessi viste con fidanzati più o meno ufficiali, troppo presi dal gioco e troppo poco da loro. In quella categoria, io ero una netta eccezione. Il fatto che avessi una relazione con il giocatore numero uno della nostra scuola non mi impediva di appoggiare stancamente i gomiti sulle gambe e la testa sulle mani, il fatto che fossi la manager della suddetta squadra mi vietava però in maniera inevitabile di potermi distrarre troppo. A volte mi paragonavo ad Hikoichi Aida, che prendeva appunti freneticamente come un pazzo; peccato che a lui piacesse e a me no… disegnai qualche scarabocchio sul blocco degli appunti, mentre la palestra dello Shohoku esplodeva del rumore di un altro canestro, messo a segno dalla squadra avversaria. Stavamo perdendo. Inesorabilmente. Per fortuna, era solo un’amichevole, una specie di allenamento prima dei nazionali. L’altra squadra era proprio forte, e i nostri erano altrove… potevo avere la colpa della distrazione di un solo quinto della squadra ed esattamente del nostro playmaker, ma dubitavo che il resto della squadra potesse minimamente impensierirsi per le mie patetiche vicende sentimentali. E in questa categoria annettevo anche la super matricola, Kaede Rukawa. Sospirai rumorosamente, mentre il Sannoh Kogyo segnava un altro canestro. Erano proprio forti. Ma, per la prima volta nella mia vita da manager, me ne fregava meno di niente; mi portai la mano sulla fronte, mi girava la testa ed era un paio di giorni che stavo male. Quella storia con Kaede era difficile da affrontare, e stranamente ancora più difficile, era rifiutare a me stessa di avvicinarlo e di parlargli. E di toccarlo. Quel tacito patto che avevo siglato con me stessa, era la cosa più complicata che avessi mai fatto, perchè, inutile negarlo e nasconderlo almeno quando parlo a me stessa, avevo enormemente bisogno di lui. Bisogno di potermi appoggiare a lui, quando ero stanca, quando finiva la giornata e ti chiedi ossessivamente che cosa avessi fatto in quelle ventiquattro ore, che fosse meritevole di nota. Sospirai ancora, ero innamorata allora? Guardai Kaede che marcava con tutte le sue forze un giocatore avversario,  che sembrava beffarlo con i suoi continui palleggi… fossi o non fossi innamorata, non era quello il momento. Sarebbe stato il momento, solo quando il basket avesse cessato di esistere dalla faccia della Terra… paradossale, mi ero messa pure ad odiare il basket. Mi prese ancora un capogiro, amplificato a dismisura dalle urla di incitazione di Haruko, Kogure, Mito, Okusu, Noma e Takamiya… almeno la memoria mi era rimasta, per una volta mi ricordai i nomi di tutti gli amici di Hanamichi. Mi alzai e decisi di andare a prendermi qualcosa da bere.

“Dove vai, Ayako?! Mancano tre minuti e siamo sotto di sette punti!” inveì Haruko contro di me

“Appunto, se mi allontano un attimo non c’è rischio che mi perda niente…” dissi acida, mentre Haruko mi guardava, spalancando i suoi occhi azzurri. Certo, cocca, fai anche lo sforzo di capirci qualcosa… non ne verrai a capo, non capisci da un anno che Hanamichi ti viene dietro, figuriamoci se arrivi a concepire che cosa sta succedendo a me.

Iniziai a camminare verso la scuola, per raggiungere il distributore automatico, quando sentii un fischio sordo, alzai il capo, un antifurto? Certo che è proprio potente, mi sta trapanando le orecchie. Quando poi si fece tutto buio, e sentii le gambe piegarsi come gelatina, capii che non era una causa ambientale. Ero solo io che cadevo a terra, come una cretina. Cercavo di aprire gli occhi, ma erano come incollati. E bè, a parte quel fischio, la mia testa rimbombava di voci, una su tutte, quella di Ryota; mi sembra abbastanza semplice escludere che in quelle voci ci fosse l’unica che io volessi sentire. Anche stavolta, aveva un alibi perfetto. Il suo sangue freddo. Mentre giocava, nemmeno la morte di tutto il genere umano lo avrebbe distolto da quella dannata palla.

 

 

Al risveglio, quando si è addormentati, per qualche secondo, prima di riprendere coscienza, ti sembra che i sogni siano realtà, anche nel caso si tratti di incubi infantili o di situazioni assurde. Non vi è mai capitato? Ti sembra che ogni cosa che è accaduta mentre dormivi sia vera, e tantissime volte mi sono risvegliata, preoccupandomi di quello che mi era accaduto in sogno. Quella volta non mi ero propriamente addormentata, ma comunque sobbalzai al mio risveglio, ritrovandomi nel letto bianco di una stanza che non conoscevo; mi guardai attorno spaurita ed ebbi la sensazione che il sogno che avevo fatto, porte aperte su infinite stanze immacolate, fosse vero. Stropicciai gli occhi e feci per alzarmi dal letto, ma mi colse un fortissimo senso di vertigine e un conato di vomito. Corsi verso la porta di un bagno, che vedevo spalancata, ma non riuscii a rimettere e quindi, rassegnata, tornai in camera. Una voce raggiunse le mie orecchie, una voce terribilmente acuta e fastidiosa.

“Stai giù, Ayako!” mi intimò con voce greve e pesante. Riconobbi all’istante quella voce, era l’infermiera Iromi, le mandavo alle volte i ragazzi quando si facevano male. Indossava un camice bianco stinto, che faceva risultare le unghie delle sue piccole mani tozze, laccate di un rosso scrostato. Sembrava un grosso rospo nero, con i suoi capelli appiccicaticci ed informi; i suoi occhi spenti erano coperti da un paio di occhiali dalla montatura di strass bianchi.

“Mi scusi, signorina Iromi… cosa è successo?” chiesi, cercando di essere gentile. Il suo aiuto ci era sempre comodo, specialmente quando i ragazzi si picchiavano a sangue, e, con piccoli regalini, lei taceva di fronte al preside il motivo delle loro continue visite in infermeria. Cercai soprattutto di non insistere sul “Signorina”, lo odiava, ed era abbastanza ovvio, se non era una giovane donna bella e disponibile, ma una vecchia di quaranta anni brutta e zitella.  

“Sei svenuta…” disse lei, accendendosi una sigaretta e sedendosi accanto a me; il fumo mi fece venire la nausea ancora più di prima, e mi portai impercettibilmente la mano alla bocca.

“Ah già…” disse lei, affrettandosi a spegnere la sigaretta in un piattino, il cui originario scopo doveva essere quello di fungere da piattino per il tè. Si alzò e mi guardò con un sorriso finto, come i fiori nel vaso sul comodino; disse solamente: “Si sa che le donne incinte non sopportano gli odori forti…”.

Per qualche secondo, pensai di aver capito male, le chiesi infatti di ripetere. Lei ripeté la frase con sicurezza e con una sorta di ironia cattiva, che rendeva le sue parole simili a qualcosa che non poteva esistere, almeno per me. Mi sta prendendo in giro, come cavolo ha fatto altrimenti? Mi ha fatto una ecografia mentale?

Scoppiai a ridere: “Mi sta prendendo in giro?!”

“Assolutamente no” rise lei di rimando “Ne ho viste tante, tesoro… i sintomi sono sempre gli stessi… e tu sei perfettamente il tipo da avere un rapporto, senza precauzioni, diciamo così, và…”

La mia risata iniziò a perdere vigore e chiesi: “Sì, ma non è il mio caso… io sono solo stanca, glielo garantisco, adesso devo tornare in palestra, i ragazzi stanno giocando…” e feci per alzarmi.

“La partita è finita, ed hanno perso… 115 a 104…” rise ancora lei, incrociando le braccia e guardandomi dall’alto in basso “Tiro anche ad indovinare… il padre è uno di loro? Aspetta, aspetta, non dirmelo! Hisashi Mitsui, vero? Era una specie di teppista, quindi ti piace fare la donna del boss…”. Mi alzai di scatto e chiusi la porta violentemente, quella donna che rideva ancora.

 

 

Non tornai in palestra, non volevo vedere nessuno. Pensai che potevano venirmi a cercare, che potevano essere preoccupati, ma certamente Kaede, al termine di quella sconfitta, non avrebbe pensato a me, fino a quando non avesse dato la colpa di quell’insuccesso a tutto il resto della squadra. Il che, almeno stavolta mi faceva piacere, estremamente piacere… uscii da scuola, fuori c’era ancora un gruppetto di ragazzi del Sannoh Kogyo, che commentavano la partita, ridendo sguaitamente. Uno di loro sollevò lo sguardo e mi additò ai suoi amici, dicendo ad alta voce: “Quella non è la puttanella dello Shohoku? Che c’è, bambolina, ti sei agitata e sei svenuta?”

Mi voltai a guardarlo, apparentemente senza alcun interesse… potrei essere incinta… una rabbia furiosa mi raggiunse le mani, che si contrassero febbrilmente, feci qualche passo e lo affrontai a viso aperto: “Che cazzo vuoi? Ce l’hai con me?”

Lui strinse le labbra e mi spinse via, puntellando le sue braccia sulle mie spalle, ridendo ancora. Lo guardai ancora con indifferenza…“Andrà tutto bene…”… mi scagliai contro di lui, furiosa, e gli diedi un calcio all’inguine. Quello si piegò in due dal dolore, piangendo e i suoi amici mi guardarono collerici, muovendosi verso di me. Che diamine stavo facendo? Mi sentii afferrare alle spalle e mi voltai di scatto, spaventata. Era Mito.

“Scusatela!” disse sorridendo a mò di scusa a quei ragazzi che lo guardarono, senza capire “E’ molto nervosa! Siete stati bravi! Ottima partita!”, mi prese per un braccio e mi trascinò via, mentre quelli continuavano ad imprecare al nostro indirizzo.

“Non farla tanto lunga, se ti ha fatto tanto male lei, se ti prendo io a calci che succede?” urlò verso di loro, continuandomi a tirare fino fuori al cancello. Sospirai di sollievo, mentre le loro urla si spegnevano.

“Che cavolo t’è preso Ayako?” mi chiese, non appena usciti fuori, mentre si portava la mano alla fronte, sollevato “Meno male che ti ho vista, altrimenti… come stai?”

“Bene” mentii spudoratamente, rincarando la dose: “Alla grande”

“Hanamichi e Miyagi ti stavano cercando…” disse, affondando le mani nelle tasche “Te ne sei andata dall’infermeria? Che avevi allora?”

“Niente” dissi nervosa, abbassando gli occhi “Hai visto Kaede per caso?”

“Rukawa? Sì, se ne è andato… mezz’ora fa, più o meno…”

Perfettamente consono. Adesso scaricava la rabbia da qualche parte. Io? “E’ solo svenuta, mica è morta…”; o meglio la frase adatta sarebbe: “Ayako? Ayako chi? Quella che mi faccio una volta ogni tanto?”

“Io adesso me ne devo andare… puoi avvisare tu Hanamichi e Ryota? Adesso sto bene, davvero…” dissi poco convinta. Annuii e io mi allontanai, camminando velocemente. Devo togliermi questo dubbio, mi dissi. Calma, Ayako, cerca di essere razionale. In fondo, l’infermiera non sembra nemmeno laureata ed è una poveraccia, se vai a vedere si diverte a far sobbalzare per invidia tutte le ragazze innamorate… innamorate, ormai lo ammettevo pure a me stessa… che bello, mi ero pure innamorata di Kaede Rukawa…

Arrivai nella strada principale della città e camminai velocemente, ancora un po’, la gente che mi guardava strana. Non mi ero nemmeno cambiata, avevo lasciato tutte le mie cose in palestra, che cretina… mi fermai di botto sotto l’insegna luminescente di colore verde… una farmacia… assomigliava a quella del Peppermint milk… mi sembrano secoli fa…

Respirai profondamente un paio di volte, ma, nonostante questo, ci misi venti minuti buoni prima di entrare. Come un’idiota, mi fermai a vedere una vetrina, poi mi feci un giro del palazzo, poi mi presi un caffè. Alla fine, mi trascinai dentro la farmacia. Il bancone era abbastanza lontano ed affollato, ed ebbi tempo di guardare da tutte le angolazioni il manifesto che promuoveva la nuova lozione per la perdita di capelli. Finalmente, l’ultimo cliente pagò le sue preziose pillole per la circolazione e una signora bionda ossigenata mi guardò annoiata e chiese: “Mi dica…”

Pigolai qualcosa, e lei mi chiese di ripetere, sollevai lo sguardo e dissi, nervosa: “Un test di gravidanza, per favore”

Lei, senza scomporsi, si voltò ed aprì un cassetto, uscendo fuori uno stretto parallelepipedo bianco, mi disse il prezzo e mi salutò con un asettico: “Buonasera…”. Lei sì che poteva dire di vederne centinaia al giorno di ragazze che ordinavano test, fingendo che fosse per una loro amica, per la loro mamma ultracinquantenne, oppure atteggiandosi a grandi donne di mondo, scuotendo i riccioli, che coprivano i loro occhi infantilmente rossi di lacrime, pesti di ombretti scuri, che fingessero dieci anni di più.

Uscì fuori correndo, adesso avevo freddo… un gelo che mi penetrava nelle ossa… corsi fino a casa, senza fermarmi, se non per aprire la porta. La chiusi e mi appoggiai stancamente contro di essa. Gettai le chiavi sul tavolo, e corsi in bagno.

Mentre aspettavo il risultato, chiusi gli occhi. Calma, Ayako, calma… andrà tutto bene, come erano odiose adesso quelle parole, che cazzo volevano dire? Niente può andare tutto bene, mai, se va tutto bene, vivremo in paradiso. Ma se poi è possibile che qualcosa vada bene, domani vedo Kaede e gli dico che sono innamorata di lui e che voglio stare con lui e che non voglio nascondermi più. Se poi va tutto male, bè si sa… o meglio non ne ho la minima idea… quanti sono cinque minuti? Guardai l’orologio, cercando di non sbirciare intanto il test, che giaceva accanto a me. Solo un minuto? Ma quanto cavolo ci vuole?

Finalmente il tempo passa. Finalmente sollevo lo sguardo. Finalmente prendo il test tra le mani.

Due linee. So esattamente che cosa vogliono dire. Lo so esattamente, l’ho letto cinque volte prima. Ma rileggo la scatola, di nuovo, una, due, venti volte, ma l’incarto del test si bagna di lacrime.

Positivo.

Alzo gli occhi. Sulla mensola dello specchio, c’è appoggiato uno spazzolino verde.

“Ho lasciato lo spazzolino a casa tua”… un maledetto e fioco sussurro, senza significato… lo prendo tra le mani, poi lo getto con violenza contro lo specchio. Sono proprio forte. Ho rotto lo specchio. Raccolgo i frammenti e mi taglio il dito. Le mie mani si sporcano di sangue e lacrime, sale che brucia la mia anima.

 

Non lasciarmi qui,

con il calore delle tue mani addosso,

anche se poi domani quel treno… partirà…

Non restare, vai,

se devi farlo, ti prego, fallo adesso,

anche se poi domani chissà…

Perché l’allegria, la nostalgia, la voglia che ho di te,

tutto è qui dentro, qui dentro di me…

 

Continua ad amarmi,

continua a cercarmi,

continua a ballare su di me,

che strana è la vita, ma guarda com’è…

una luce scompare nel buio che c’è…

e continua… continua…

continua a parlarmi ancora un po’ di noi, di noi…

 

Non andare via,

ho voglia di dormire tra le tue braccia,

anche se poi domani chissà…

Perché l’allegria, la nostalgia, la voglia che ho di te,

tutto è qui dentro, qui dentro di me…

 

Io e te, distrattamente, io e te,

stupidamente,

e poi che ne sarà di noi…

io e te, immensamente, io e te,

continuamente,

e poi che ne sarà di noi…

 

(Dolcenera – Continua)

 

 

Finalmente sono riuscita ad aggiornare! La verità è che sto scrivendo una fic su Harry Potter, che mi sta prendendo molto ed allora non ho molto tempo per il resto, anche se sono molto legata a questa storia! Credo che sia la cosa migliore che abbia fatto, sono molto modesta lo so! Spero che questa storia vi stia piacendo, anche se non è molto, diciamo, “convenzionale” rispetto alle altre di Slam Dunk! Non so quando arriverà il prossimo chappy, come sempre del resto! Sono molto indaffarata, specie dal punto di vista mentale! Ho milioni di idee, e dovrei avere una giornata di 75 ore per fare tutto! Un mega ringraziamento ad Apple, Sasa, Marchia… e per Lollo, che significa “eddaiii!!”, lo devo prendere bene? Ciao ciao da Cassie chan!

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Capitolo 5
*** Something disturbing ***


Capitolo 5 – Something disturbing (Hanamichi Sakuragi)

Capitolo 5 – Something disturbing (Hanamichi Sakuragi)

 

Almeno per una volta mi era andata bene. Da quando ero nello Shohoku, in quel senso, era sempre andata male. Il gorilla ed Ayako si alleavano sempre, per farmi rimanere oltre la fine degli allenamenti per allenarmi in quei fottuti fondamentali, o peggio per pulire gli spogliatoi o la palestra. E non si può nemmeno immaginare che cazzo lasciano quei maledetti… Il motivo era sempre lo stesso… “Sei un rompipalle, resta a pulire tutto, ritardato!”. Il risultato era anch’esso lo stesso: tornavo sempre a casa oltre le nove, morto di sonno; non che poi avessi molto da fare, la mattina dopo, avrei preso Mito per il collo ed avrei copiato i suoi sgrammaticati compiti, sperando che non mi chiamasse il prof. Quella sera, invece, andò meglio. Ayako non c’era, non era venuta agli allenamenti, mancava da quando avevamo giocato l’amichevole con il Sannoh Kogyo… che merda, era meglio che non ci ripensavo. Quel giorno nessuno di noi c’era, ognuno era perso dietro ai cazzi suoi, e quei bastardi avevano fatto tutto quello che volevano. La cosa peggiore era che era successo nella nostra scuola, davanti al nostro pubblico, alla vigilia della partenza per i nazionali. Una figura di merda eccezionale che bruciava ancora; il gorilla aveva intensificato gli allenamenti, ed eravamo tutti nervosi ed incazzati. Tutti, ad eccezione di Miyagi, il quale invece era pigro e svogliato, il gorilla riprendeva più lui che me ormai, il che, conoscendo quello scimmione, è tutto dire. Nessuno sapeva con certezza che cosa fosse successo a Miyagi, nemmeno io che alla fine dei conti potevo essere considerato il suo migliore amico in squadra. E penso anche fuori, non è che fosse un tipo molto socievole… almeno fuori da quella palestra.

Comunque, quella sera, ero in preda alla più reale contentezza. Gettai distrattamente le mie cose nel borsone, mentre canticchiavo qualcosa. Inaspettatamente, Rukawa si era prestato a rimanere in palestra per sistemare tutto, dato che voleva allenarsi un po’ da solo. Che imbecille, anche se si allena per trenta anni, non sarà mai un genio della pallacanestro come me… sghignazzai da solo, mentre Miyagi, accanto a me, continuava a mettere a posto le sue cose in silenzio. E poi, dato che Ayako non c’era, non mi dovevo nemmeno allenare nei palleggi. Mi venne da saltellare, ma mi trattenni. Aspetta un attimo, magari Miyagi sta così, perchè Ayako… poveretto, la mia Haruko viene a vedere gli allenamenti, ogni giorno, e invece Ayako non ci viene da una settimana. Povero Miyagi, è così sfortunato, ed infelice! Non possono essere tutti dei geni spezzacuore, come me!

Lo presi per il collo, mentre lui mi diceva apatico: “Che vuoi, Hanamichi?”

Sghignazzai: “Che ne dici, se ci andiamo a prendere qualcosa da mangiare? E ci andiamo a fare una partita alla sala giochi? E’ presto, sono solo le sei e mezzo!”

“E’ presto?” disse lui sconcertato, guardandomi “E quando cazzo studi tu? La notte?”

Risi ancora: “I geni non hanno bisogno di studiare… e poi chi se ne fotte, domani si pensa… allora vieni, nanetto?”

Mi diede una gomitata nel fianco e disse: “Va bene, ma non ho voglia di mangiare… andiamoci a fare una partita ai videogiochi… almeno mi sfogo…”

Mi chinai ad allacciarmi la scarpa e chiesi: “Per l’amichevole con quei quattro imbecilli? La prossima volta me li mangio come voglio!”

“Non è per questo…” rispose lui, chiudendo l’armadietto e sospirando “Ayako… si è innamorata di un altro… me l’ha detto due settimane fa…”

Adesso capivo. In effetti, era strano che Miyagi stesse male solo per una partita, era un tipo che non si guardava mai alle spalle, che non vedeva insuccessi o sconfitte, ma solo le vittorie che poteva aver lasciato dietro di sé. Solo quelle contavano, le altre erano bagagli silenziosi, che non facevano differenza. Esattamente come accadeva per me. Ma non eravamo amici solo per quello, ma anche perchè eravamo due sfigati, innamorati sempre delle donne sbagliate. Lo sapeva, lui lo sapeva che Ayako non era innamorata di lui, ma chissà perchè, fin quando non te lo dicono, non ci credi mai. Che cazzo ne sanno gli altri? Lei è sempre così gentile, dolce, pensa sempre a me, e poi il giorno dopo la vedi che si sbrodola appresso ad un altro, che si mette solo in mostra, ha una fortuna impressionante e mette a segno un canestro dopo l’altro, e che, tra le altre cose, non la caga proprio. Sto discorso rischiava di diventare troppo autobiografico, ormai non c’entrava più niente Miyagi con Ayako…

Gli diedi una pacca sulle spalle e gli dissi seriamente: “Mi dispiace… ma passerà, un giorno passa, io ci sono già passato cinquanta volte…”
”Nel senso esatto del numero…” aggiunse il pigmeo, un debole sorriso che illuminava il suo viso, i suoi occhi erano lucidi, ma cercava di non darlo a vedere. Gliela concessi per quella volta quella provocazione, in fondo le donne possono piangere, gli uomini possono solo scoppiare a ridere. 

“Ti aspetto fuori…” dissi, menandogli un’altra pacca, e chiusi la porta dello spogliatoio. Feci il corridoio, la borsa sulle spalle, poi a metà strada mi ricordai che avevo dimenticato le scarpe in palestra. Che coglione, con quello che le avevo pagate! Me le ero tolte in un impeto di rabbia repressa verso quel volpino del cazzo, che fa sempre il superiore, poi il gorilla mi aveva fermato. Maledetto a lui… corsi verso la palestra, la cui porta era ancora aperta, e da cui arrivava una debole luce, accompagnata dal suono ritmico di un palleggiare continuo, che riecheggiava nella scuola deserta. Speriamo che quel bastardo non sia pure cleptomane…

Stavo per entrare. Giuro che stavo per farlo. Me ne sbattevo di ficcarmi nella vita di Kaede Rukawa, sapere qualcosa che lui non avrebbe mai detto a nessuno, qualcosa che teneva nascosto a costo della vita. Ma evidentemente era destino, o che ne so… dovevo essere io a scoprire il segreto della vita di Kaede Rukawa, e a farlo uscire dalla polvere di ciò che lui nascondeva. Non era per lui, sia chiaro, ma per lei. Perché quando uno ha un segreto, c’entra sempre una donna. E’ matematico. E anche stavolta c’era. E cinque secondi prima, mi avevano parlato di lei. Si chiamava Ayako Kuno.

Mi chinai per raccogliere una moneta che mi era caduta dalla tasca, e sentii una frase, una frase detta con voce diversa, stranamente diversa, incredibilmente diversa.

Ayako era alle spalle di Rukawa, che continuava con indifferenza a gettare la palla nel canestro.

La voce di lei mi era suonata diversa, più acuta e meno decisa… rotta… come cazzo faceva lui ad non accorgersene? Pure per pietà umana? No. Lui continuava a gettare il pallone nel cesto, non sbagliando un colpo.

Mi nascosi dietro la porta di metallo, sporgendomi leggermente, mentre Ayako ripeté di nuovo quello che aveva detto prima. Stessa voce. Stessa intonazione. Stesse lacrime nascoste.

“Voltati, per piacere… ne dobbiamo parlare, Kaede…”. Lui niente, continuava a fregarsene altamente di lei. In una situazione normale, non l’avrebbe mai fatto, tutti si erano accorti che lei era l’unica a cui dava un po’ retta, che ascoltava quando era pienamente in possesso delle sue scarse capacità comunicative. Non l’avrebbe mai ignorata così, se non avesse saputo che lo poteva fare… un tremendo presentimento mi prese…

Ayako lo prese per la spalla e lo costrinse a voltarsi con violenza, urlandogli: “Guardami, Kaede… ti ho detto di guardarmi, maledizione!”

Lui la guardò, come si guardano quelle macchie di fango, particolarmente moleste, che ti sporcano le scarpe nuove. Era uno sguardo normale in quel imbecille, lo sguardo del supremo imperatore dell’Universo, che lui credeva di essere, ci eravamo abituati, chi più o meno. Io lo avrei preso a cazzotti ogni volta che mi guardava così. Gli altri ignoravano. Ayako… soffriva…

“Allora è così…” disse, la voce ancora rotta. Era tremendamente brava, non scoppiava a piangere, ma resisteva, qualcosa… dentro… le dava la forza “Adesso ti sei rotto le palle e non te ne frega niente… non è così facile, Kaede, non lo è… cazzo, siamo stati assieme quasi tre mesi! E non mi dici niente?!”

Quasi tre mesi?! Sobbalzai, avevo avuto ragione… stavano assieme da tre mesi. E lei era innamorata di… era impossibile, aveva detto no a Miyagi per… lui… e venivano tutti e due in palestra come se niente fosse, anzi adesso che ci penso, non si parlavano proprio, sotto gli occhi di Miyagi e di… Haruko…

Strinsi i pugni e mi nascosi meglio, ci manca pure che mi sentissero, quello m’avrebbe gonfiato di botte.

Finalmente si decise a guardarla e disse feroce: “Non me ne fotte un cazzo, Ayako… è finita, non so che farmene di te adesso, devo pensare al campionato… abbiamo perso, te ne sei accorta? E’ stato bello finchè è durato…”

“Come, è stato bello? Tu non puoi farmi questo! Non puoi, hai capito! Io potrei essere…”, le parole di Ayako si smorzarono tra le sue lacrime, piangeva adesso, non l’avevo mai vista piangere. Ayako, la nostra manager, forte come uno di noi, che tremava e piangeva.

“E’ un tuo problema, non mio…” continuò lui freddissimo, dandole ancora le spalle “E’ stato solo sesso, lo sapevamo entrambi, siamo grandi e vaccinati, o no? Che c’è? Volevi essere la mia… fidanzata?”, accentuò quelle parole con divertito disgusto e riprese a lanciare quella palla nel canestro. Ayako sollevò gli occhi e si asciugò le lacrime, poi gli disse adesso gelida: “Non vorrei essere la tua fidanzata per nulla al mondo, per niente… non ho bisogno di te…”
”Brava, allora vattene che mi sto allenando…”

Mi chiesi perchè avesse aspettato tanto, stavo arrivando io a prenderlo a schiaffi, ma per fortuna Ayako mi precedette, schiaffeggiandolo violentemente in pieno viso. Lui perse l’equilibrio e il pallone cadde a terra con un tonfo, rimbalzando poco lontano. Ayako lo guardava con odio, un odio talmente forte che l’aria attorno a lei sembrava crepitare, come se attraversata da scariche elettriche. Lui non si scompose minimamente e continuò a fissarla, senza muoversi, la guancia che si arrossava progressivamente.

“Un giorno, tutto questo finirà…” disse lei, gli occhi asciutti e la voce roca “Tutto questo finirà, il basket, lo Shohoku e le partite… un giorno, vorrai uscire da questa maledetta palestra, e vedere se c’è qualcuno fuori, e sai che succederà? Non ci sarà nessuno ad aspettarti, nessuno… e non potrai tornare da nessuno, da nessuno, perché saranno tutti lontani con le loro vite. E sarai solo…”, rise amaramente ed aggiunse: “Ma scommetto che non te ne fregerà niente, vero? Non pensare di tornare da me, però… non voglio vederti mai più…”

Lui riprese la palla da terra, e le diede ancora le spalle, mentre finalmente Ayako si voltava e usciva dall’ingresso principale della palestra, camminando lenta, le guance adesso rigate di lacrime. Era stata forte, era stata brava, ma alle volte non basta, alle volte puoi cercare di tenerli insieme i pezzi del tuo cuore, ma quelli si sparpagliano ugualmente. Fui tentato di uscire e di prenderlo a cazzotti, quel bastardo, volevamo tutti bene ad Ayako, e vederla soffrire non poteva farmi felice o peggio lasciarmi indifferente. E poi, come si è avuto già modo di capire, cerco ogni occasione buona per gonfiarlo. Ma fui fermato da un’ombra, accanto a me. Miyagi. Non me ne ero accorto, era vicino a me dall’inizio di quell’incredibile conversazione. Come diamine avevo fatto a non accorgermene, accidenti a me! Lui non sembrava però incazzato e nemmeno triste, solo rassegnato… in fondo, lo sapeva già che c’era qualcuno, ma fin quando non lo vedi, non ci credi nemmeno tu.

“Se vuoi, lo pestiamo…” dissi, prendendo a pugni il muro

“Lascia perdere” rispose lui, dandomi le spalle “Andiamocene su”

Mi venne da ridere per un attimo e gli dissi che cosa avevo pensato.

“Certo che ci manca che diventiamo tutti finocchi e ci sbrodoliamo appresso a lui…” dissi ironicamente “Ormai le ragazze le ha finite, deve passare all’altra sponda…”

Lui scoppiò a ridere, e io assieme a lui, mentre uscivamo da scuola. In fondo le donne possono piangere, gli uomini possono solo scoppiare a ridere.

 

 

Avete mai sentito l’espressione “Anche i muri hanno le orecchie”? A me aveva sempre fatto ridere, perchè la trovavo un’enorme stronzata, veniva usata per indicare qualcosa che si diffondeva, quasi senza colpa di alcuno. Ma a monte ci doveva essere sempre qualcuno che aveva parlato, no? Altrimenti, che si diventava preveggenti??? In quei casi, ero convinto sempre che, alla base, uno dei protagonisti del fatto del mese avesse fatto di tutto per farlo diffondere. Interessi vari ed eventuali in gioco. Se non avessi conosciuto Ayako e Rukawa, avrei pensato la stessa cosa quella volta. Due esibizionisti che si erano messi assieme e che si erano fatti i cavoli loro, e che poi alla prima crisi, avevano spiattellato tutto, senza remore, gettandosi fango addosso. Ma era di Rukawa che stavamo parlando…

Erano passati circa tre giorni da quella sera, in cui io e Miyagi avevamo scoperto tutto. Gli allenamenti andavano come sempre, a parte che per il solito particolare di quei giorni. Ayako non veniva più agli allenamenti, a quanto pare aveva lasciato il club, aveva parlato con il coach, che ci aveva dato la notizia il giorno dopo.

Ovvia sorpresa di Mitsui, Kogure, Akagi e Haruko.

Ovvia inerzia mia e di Miyagi.

Ovvia indifferenza di Rukawa.

Non altrettanto ovvio era stato quel qualcosa che si era spezzato in quella palestra. Le volevamo tutti bene, si era capito, ed era normale che ci stessimo male, ma stranamente anche qualcosa nell’equilibrio dello Shohoku si ruppe, incredibili fattori che ci facevano cozzare gli uni contro gli altri, come piccoli meteoriti impazziti. Ayako aveva sempre avuto il grande merito di riuscire a calmarci tutti in maniera più o meno gentile, era forte e sapeva tenerci testa. Adesso non era più così; la squadra si era sfaldata, tra me e Miyagi, che sapevamo la verità e che ovviamente non potevamo vedere Rukawa, anche se in me contribuiva anche il mio innato disprezzo per quello là, poi c’erano gli altri, che non ci capivano niente, e poi c’era lui stesso, solo come era sempre stato. L’assenza di Ayako mi convinse che stava soffrendo, convinse sia me che Miyagi di questo, e magicamente lei fu scagionata dalla sua partecipazione all’affare del secolo. Certo, aveva mentito, ma in fondo erano cazzi suoi, non aveva l’obbligo di mettere i manifesti in tutta la città. Era stata chiara con Miyagi, ed in quanto alla mia Haruko… per lei, era una cosa disperata fin dall’inizio, e lo sapeva pure lei.

La mancata comprensione della situazione da parte degli altri non durò molto.

In pochi giorni, spuntarono come funghi gruppetti di ragazze, che ridacchiavano agli angoli dei corridoi, le fan di Rukawa si fecero all’improvviso più agguerrite e minacciose, disertando frequentemente gli allenamenti, cosa mai fatta prima. Chiaramente quest’ultimo fatto mi fece discreto piacere, ma non poté essere lo stesso per la sua motivazione. Quelle arrapate mentali non venivano non per evitare Rukawa, ma qualcun altro, che non ero io. Assieme a loro, prese a disertare con mio sommo dispiacere anche la mia Haruko.

Seppi da Takamiya quella che era la voce che girava in giro.

Ayako e Rukawa avevano avuto una storia, di nascosto da tutti, ed erano stati a letto assieme.

Il silenzio di Rukawa e l’assenza di Ayako che mancava da scuola da ormai due settimane, davano implicite conferme ed alimentavano nuovi sordidi particolari. Girò persino la voce che Ayako fosse incinta, a detta di quella cozza dell’infermiera della nostra scuola. L’istituto Shohoku era diventato un alveare brulicante di gossip più o meno assurdi, e per giorni e giorni, i loro nomi furono sulla bocca di tutti. In palestra, guai ad aprire bocca su Ayako, quel coglione ti fulminava con lo sguardo, minacciando di pestarti a sangue. Ma per il resto, di questa storia, a lui, a Rukawa, non gliene fotteva niente, continuava ad allenarsi. Io e Miyagi provammo ad andare a casa di Ayako per sapere come stava, ma lei non c’era. La vicina di casa ci disse che mancava da diversi giorni, sembrava che fosse andata da sua zia, che abitava dalla parte opposta della città. Ayako era irreperibile, e iniziammo tutti a preoccuparci seriamente. Che cavolo le era successo? Era così grande il torto che quell’imbecille le aveva fatto? Possibile che non venisse più a scuola per lui? Ero abbastanza convinto che ci fosse dell’altro, ed ebbi ragione.

Era passato già un mese da quando Ayako non veniva più a scuola, ero in palestra, e mi stavo riscaldando. Era una maledetta giornata fredda e ghiacciata, anche se era giugno; aveva iniziato a scendere una pioggia fitta ed intensa, e le finestre della palestra producevano un ticchettio continuo e regolare. C’eravamo solo io e Mitsui, ma lui era ancora in spogliatoio. Miyagi eruppe in palestra, correndo, era tutto bagnato dalla testa ai piedi e aveva il fiatone.

“Cazzo, tappetto! Ho appena finito di pulire la palestra! Adesso asciughi tutto!!” mi incazzai. C’avevo ancora le fitte alla schiena per quante volte avevo passato quel fottuto scopettone, e quell’imbecille bagnava di nuovo tutto. Una volta era capitato che non pulissi io, certamente quel maledetto di Rukawa non c’avrebbe minimamente ripensato a ripetere il miracolo…

In un nanosecondo, capii che Miyagi era strano. Lasciai il pallone e mi avvicinai a lui: “Che c’è amico? E’ successo qualcosa?”

“Se ne va… Ayako se ne va, si trasferisce…” disse con una punta di terrore “L’ho incontrata nei corridoi e me l’ha detto…”

“Per colpa di quel bastardo, non è vero?” chiesi, stringendo i pugni

Anche Miyagi strinse i pugni, ma non disse nulla, era abbastanza ovvia la risposta. Quella situazione mi aveva rotto, non la sopportavo più. Ayako era una brava ragazza, era una bella ragazza, poteva ricominciare a vivere tranquillamente e adesso, per colpa di quel coglione, se ne doveva andare? Ma non se ne parla proprio!

“E’ ancora a scuola, non è vero?” chiesi a Miyagi, trafelato

“Credo di sì, doveva andare a parlare con il preside…” rispose incerto Miyagi “Perché, che vuoi fare? Non fare cazzate Hanamichi…”

“Non fare cazzate?! Che c’è, vuoi che se ne vada?” chiesi, nervoso, avviandomi già verso l’uscita

Miyagi sembrò pensarci qualche secondo, e io mi calmai. Era pur vero che Ayako lo aveva tradito, era pur vero che stava con quell’imbecille a sua insaputa, e ci doveva pensare. Un altro non ci avrebbe ragionato, questo lo so. L’avrebbe lasciata andare via senza pensarci due volte, ma Miyagi non è così. O si gioca o si fa sul serio, il suo motto è non lasciar mai nessuno indietro.

“Vengo con te…” mi disse, ma io l’interruppi: “Resta qui, vado io… se viene il gorilla sclera se non ci sono né io e neanche tu… trova una scusa, dì… che ho un’intervista, che ne so…”

“Certo, una scusa plausibile…” mugugnò lui ironicamente

“Appena la trovo, la porto qui…” dissi, poi corsi fuori. Pioveva ancora a dirotto, e molti se ne stavano già andando a  casa. Capivo perchè Ayako era venuta a quell’ora. Erano tutti già a casa, oppure ai vari club pomeridiani. Non avrebbe incontrato nessuno girare per la scuola… possibile che avesse già saputo che la voce si era diffusa? Lo aveva saputo da Haruko? Sospirai, continuando a correre, non credo che Ayako ed Haruko al momento si parlassero… tutta colpa di quel bastardo… in fondo, poteva essere venuta a quell’ora, anche per un solo ed unico motivo. Il bastardo in questione sarebbe stato sicuramente in palestra.  

La pioggia che cadeva lungo il mio collo, corsi fino alla scala antincendio. Da lì, si risparmiava un bel po’ d tempo e si arrivava direttamente al corridoio della presidenza; salivo i gradini a due a due, il cuore in gola, temendo di non arrivare in tempo. Era quasi confortante avvertire quel calore dentro, il potere di poter cambiare qualcosa, la speranza, l’assurda forza che muove tutto e crea tutto. Ci speravo di riuscire ad arrivare in tempo, di farle cambiare idea, ci speravo, perchè Ayako è una mia amica, e perchè nessuno meritava di soffrire per quel coglione. Né Haruko, né tantomeno lei.

Spalancai la porta antincendio, che per fortuna era semiaperta, e feci il corridoio di corsa. Finalmente arrivai all’angolo, dovevo solamente girare e sarei arrivato nell’androne della presidenza. Girai e la vidi, che, alla fine del corridoio, camminava verso la scala. Aveva appena parlato con il preside e stava per andarsene. Camminava piano, e io sospirai di sollievo, avevo fatto in tempo. Per un attimo, mi immaginai di portarla in palestra, a Miyagi, lei che dice che lo ama, che ha capito il suo sbaglio, che Rukawa è solo un impotente coglione, che non se ne va più, e Miyagi che la perdona, e la bacia, e si sposano, e titoli di coda, e musichetta pop strappacuore da primo posto in classifica, e io che mi compiaccio di me stesso. Un solo attimo e mi venne in mente pure Haruko, che prende finalmente a calci nel culo quell’idiota, dicendomi che mi vuole accanto a lei, e ci baciamo, e ci sposiamo, e titoli di coda, e musichetta pop strappacuore da primo posto in classifica, e io che mi compiaccio di me stesso.

Un solo secondo, e passano tutte queste cose nel cervello?

L’assurda forza che muove tutto e crea tutto… speranza in un solo attimo? Oppure ci misi davvero più tempo, davvero stetti più di un secondo a fantasticare, esattamente come faccio sempre?

Me lo sono chiesto tante volte.

Tantissime volte.

Continuo a chiedermelo.

Se fu un secondo, allora quello che accadde fu inevitabile.

Se furono di più… allora, il libero arbitrio non è un dono, è una condanna.

All’improvviso, non vidi più Ayako davanti a me, mi chiesi che fine avesse fatto, l’avevo vista iniziare a scendere lentamente le scale.

Urla. Strazianti.

Corsi verso la scala e sentii ripetuti tonfi. Stavo per scendere anch’io per soccorrerla, mi voltai e sentii dei passi scalpitare velocemente, erano tre figure che scappavano leste… quelle tre arrapate delle fan di Rukawa, certo, appena l’avevano vista, si erano prese quella piccola rivincita e l’avevano spinta per le scale. Che razza di mocciose imbecilli, come se così si cancellasse tutto, come se all’improvviso, vedendo Ayako rovinare per le scale, Rukawa se le sarebbe fatte tutte e tre contemporaneamente, così dov’erano.

Scesi velocemente le scale anch’io, nessun rumor di tonfi. Ayako si era fermata. La trovai qualche rampa più in basso, seduta per terra, a gambe piegate. Non piangeva, non si lamentava, niente, era perfettamente immobile.

Sospirai, per fortuna non si è fatta niente.

Mi avvicinai, tendendole la mano, e le dissi: “Sono state quelle tre imbecilli delle fan del volpino… appena le trovo, le meno… mi hanno proprio rotto le palle… ti sei fatta male?”

Lei rimase ancora immobile, gli occhi vitrei e fissi, che guardavano qualcosa, lontano. Non m’aveva sentito evidentemente, rimaneva ferma, la gonna della sua divisa spiegazzata che sfiorava il pavimento. Mi chiesi sempre perchè si fosse messa la divisa quel giorno, era una patetica forma di addio forse? Quel giorno, già lo sapeva che sarebbe stato così, oppure non sarebbe tornata in palestra nemmeno per salutarci? Ma, si sa, di domande ne esistono quante sono le persone a questo mondo, di risposte se ne esistono sei o sette, è anche molto.

“Ayako, alzati… che fai a terra? Ti sei rincoglionita?” le dissi brusco e nervoso. Possibile che solo quel coglione l’avesse resa così, una bambola morta di pezza?

Fu ancora come se non m’avesse sentito.

I suoi occhi erano fredde lame di ghiaccio nero, che continuavano a guardare altrove.

Poi quei freddi iceberg si sciolsero, si infransero gli uni sugli altri, rovinando in increspature concentriche d’acqua ghiacciata. Adesso piangeva. O meglio cercava di non piangere.

Si tirò in piedi faticosamente, e qualcosa nel suo viso era cambiato. Era ancora come se fosse sola, lei e il suo doloroso fantasma.

“Ayako…” la chiamai ancora, e lei finalmente, ottusamente assente, si voltò a guardarmi.

Diceva parole senza senso, parlava di cose strane. Almeno per quel momento. Almeno per quello che io sapevo.

Ebbi paura che avesse battuto la testa, e quindi mi avvicinai per vedere se avesse qualche ferita su per il capo.

Ma lei non mi fece avvicinare, si teneva appoggiata al muro e continuava a scendere piano, i pochi gradini rimasti. Avanzava così, lentamente, adagio, e ogni tanto le sfuggiva un gemito di dolore.

La guardavo senza capire, seguendola e scendendo le scale dietro di lei, il suo ritmo lento che era entrato anche nei miei passi. Abbassai lo sguardo e solo allora mi accorsi di qualcosa, che mi agghiacciò il sangue nelle vene. La sua gonna era impregnata di sangue, che scendeva lungo la sua gamba e che colava sulle sue scarpe. Contrastava così tanto con la sua gamba che mi diede il voltastomaco, e di sangue ne avevo visto tanto, da quando ero bambino. Sangue di uomini però… quello era sangue di donna, e questo già dice tutto.

Una donna sanguina solo per un motivo.

Cercai ancora di prenderla per il braccio, ma lei si dimenò e mi disse con voce acuta: “Devo andare all’ospedale, Hanamichi, mi devi portare all’ospedale…”, ma smise all’istante di essere così lucida. Smise immediatamente di essere tranquilla. Continuò a ripetere quella frase all’infinito, le lacrime che stavolta rigavano le sue guance, senza sosta, fiumi neri di dolore, che franavano come cascate sulle sue labbra, folli di quella litania.

Riuscì ad arrivare fuori, non riuscivo nemmeno io a fermarla. Folle. Era davvero pazza di dolore, del dolore che solo una donna tradita può provare, del dolore che solo una madre può provare. Sia essa di qualsiasi natura o tipo. Il dolore delle madri non ha pari da nessuna parte dell’universo.

Cadde in ginocchio per terra, l’acqua che piangeva su di lei e riprendeva fiato intorno a lei, per poi agitarsi per quel sangue che adesso riempiva quel lago di pioggia, che si andava formando. Si rannicchiò come una bambina, io che la guardavo con qualcosa di estremamente pesante che cadeva nelle mie viscere, e gli altri studenti che continuavano a non capire. E c’era chi rideva sotto i baffi, perchè pensava che piangesse per Rukawa, o perchè era contento così. Per loro, aveva voluto troppo Ayako, troppo aveva preteso nella sua stupida cotta per l’asso dello Shohoku. E il suo dolore alla fine dei conti era una giusta punizione. La mia pelle, ebbra d’acqua, la pelle di tutti, sembrò quasi accartocciarsi su sé stessa, quando lei, alzando il viso, iniziò a gridare, iniziò ad urlare con tutta la voce che aveva in corpo, sembrava che la terra stessa urlasse, che il cielo piangesse con lei, mentre batteva i pugni nell’acqua su duro bitume. Continuò a gridare, finchè cadde di nuovo su sé stessa, uguale in tutto e per tutto ad una bambola di stracci.

Solo allora riuscì a prenderla in braccio, e a portarla via, mentre Ayako Kuno moriva assieme a suo figlio.

 

 

Ci avevo fatto un abbonamento all’ospedale in quell’ultimo periodo. In particolar modo, al pronto soccorso. Quando ci arrivai, portando Ayako esanime in braccio, la maglia sporca di sangue, l’infermiera era la stessa a cui avevo portato la vecchia porchetta, il coach. Mi guardò stranita per un momento, alla tipo CHE-CI-FAI-DI-NUOVO-QUA? e mi chiese che cosa avesse. Non seppi rispondere, che ne sapevo che cavolo aveva Ayako, sapevo solo che stava male e perdeva sangue. Non era un motivo sufficiente per muoversi? La misero su una barella e se la portarono via, mi dissero che potevo fare una telefonata, e pensai di chiamare la zia, immaginavo che adesso Ayako vivesse da lei. Trovai il suo indirizzo e numero di telefono sull’elenco del telefono e le dissi di venire subito in ospedale, mentre lei mi chiedeva con voce stridula come stesse la nipote e il bambino. Capii tutto in quel momento, bè ne avevo già avuto sentore, avevo già intuito che Ayako fosse incinta e che quell’emorragia fosse una sorta di aborto spontaneo, ma per me era stato meglio non pensarci. Non rifletterci, fare finta di non aver capito, perchè voleva dire che quel bastardo l’aveva pure messa incinta, e non si era fatto scrupolo a lasciarla. Che grandissimo figlio di puttana. Strinsi i pugni forte e mi sedetti su una sedia nella sala d’aspetto, lo odiavo quel fottuto posto, cazzo era sempre uguale, mai che cambiassero qualcosa. Pure dipingere i muri di un altro colore andava bene. Ed invece no: sempre quei muri bianchi stinti, quelle sedie in plastica nera, quella maledetta pianta mezza appassita, che c’era pure quando ci avevo portato mio padre. Mio padre… scossi la testa, ci mancava pure questa, ripensare a mio padre, che poi è normale che lo faccia, sto cazzo di ospedale sembra fatto apposta per farmelo ricordare. L’infermiera continuava a fissarmi, era pure carina, ma già si vedeva che cavolo c’aveva scritto nella sua testa… evidentemente, pensava che io portassi sfiga, il che alla fine dei conti era quasi confermato dai fatti. Ero già lì da un’ora buona, quando arrivarono trafelati gli zii di Ayako e sua cugina.

La signora era una bella donna bionda, con grandi e sconfinati occhi azzurri, tristi, maledettamente tristi, un portamento fiero ed un cipiglio orgoglioso, un po’ l’aria che circondava Ayako. Vestiti eleganti, gioielli preziosi, un’aura di profumo forte e dolce, che mi entrava dentro, un dolore acuto e protratto da generazioni… però… dolce… come latte e menta… l’uomo invece era vestito sportivamente, pochi e radi capelli castani sul capo, un’aria sbarazzina da ragazzino, vestiti sportivi, una borsa da ginnastica a tracolla. La ragazza, la cugina di Ayako, doveva avere più o meno la mia età, minuta e esile, capelli biondissimi come la madre, una divisa azzurra, e un’espressione vivace, ma spaesata.

La donna mi si avvicinò e mi disse: “Sei tu… Sakuragi?”

I suoi occhi erano rossi e gonfi, come quelli di una madre, non di una zia, nemmeno tra le più affezionate. L’uomo e la ragazza restavano alle sue spalle.

Mi alzai ed annuii: “Sì, signora… lei è la zia di Ayako, vero?”

Annuii a sua volta: “Come sta Ayako?”, la sua voce sempre più rotta ed inquieta.

“Non lo so” risposi dolorosamente, guardando la porta a vetri che ancora non si apriva e da dove era sparita Ayako “Non è ancora uscita… i-io non sapevo che fosse…”

“Incinta?” disse lei quasi brusca. Chiaro, quella notizia non le aveva dovuto far piacere…

“Sì” annuii a mia volta, abbassando lo sguardo

“Chi è il padre? Tu lo sai, vero?!” mi chiese, con un urlo, furiosa, quasi scagliandosi su di me

In ogni altro momento, avrei detto senza esitare: Kaede Rukawa, aggiungendo l’indirizzo, il numero di telefono e il suo numero di scarpe. Invece quella volta la mia voce si perse prima di arrivare alle labbra. Non ne ebbi la forza. Ed è strano, detto da me, detto da me poi per una cosa che riguarda quello stronzo. Le avrei spifferato tutto, ma il suo urlo era così simile a quello di Ayako, sotto quella pioggia. Lei urlava ancora dentro di me, e lei stessa con quell’identica voce aveva taciuto il nome del padre di suo figlio. E chi ero io per non rispettare la sua voce?

“Calmati Rei…” intimò l’uomo, prendendola per un braccio e stringendola

Lei si calmò, mentre il suo urlo si scioglieva in calde lacrime, nascoste dietro le sue palme.

Continuammo a rimanere lì immobili per un’altra ora buona, io che continuavo a fissare quella porta a vetri, la cugina di Ayako alle mie spalle che respirava irregolarmente, e i suoi zii che andavano avanti ed indietro per quella stanza vuota.   

“E’ stato Rukawa?”. La voce ferma di un uccellino mi fece sobbalzare, e mi girai verso la ragazza alle mie spalle, che mi guardava decisa e determinata: “E’ stato lui, non è così?”

La guardai un momento, poi mio malgrado annuii con il capo.

“Quel bastardo… me la pagherà…” disse lei, gli occhi pieni di luce di lacrime, ma sicuri e decisi. Assomigliava tanto il suo viso a quello di Ayako, ma era un po’ più dolce, un po’ più sereno, un po’ più da bambina.

“Sei sua cugina vero?” chiesi, distrarre un attimo la mente mi faceva bene. E lo avrebbe fatto anche a lei.

“Sì, mi chiamo Kaname Koishikawa…”, nonostante tutto sorrise e disse: “E tu sei Hanamichi, vero? Ayako parla spesso di te…”

“Spero bene…” dissi sospettoso, lei negò semplicemente con il capo e disse: “No, proprio per niente!”

Sospirai, lo sapevo come la morte… rise della mia faccia, stonate note d’allegria in quel silenzio di dolore.

Fu allora che la porta si aprii e uno stanco medico ne venne fuori, le mani ancora avvolte in un paio di guanti bianchi. Sfregava le mani, in effetti faceva freddo, e parve rabbrividire ancora di più quando mi vide, ancora fradicio dalla testa ai piedi, e per di più con la maglia sporca di sangue. Non dovevo fare una bella impressione, per questo anche la ragazza si era tenuta a debita distanza da me.

“Siete voi i parenti della signorina Kuno?” chiese ai coniugi Koishikawa, loro annuirono con apprensione e chiesero come stesse Ayako.

“Adesso dorme…” rispose freddamente “La situazione è stazionaria, ma ha perso il bambino…”

Rei scoppiò a piangere di sollievo sulla camicia del marito, Kaname si sedette sconvolta su una sedia, erano due ore che stava in piedi, e cominciò anche lei a singhiozzare. Era esattamente come la cugina, non piangeva se non all’ultimo secondo. Erano tutti sollevati. Tutti soddisfatti che Ayako stesse bene, ed anch’io. Ovvio. Scontato. Naturale.

Il suo grido scuoteva ancora i miei nervi.

Lei lo voleva quel bambino non voluto, lei lo voleva quel figlio non desiderato. Quel figlio che non avrebbe avuto un padre, che avrebbe avuto solo lei. La immaginai stesa in quel letto, ancora inconsapevole di aver perso il suo bambino. Ancora immobile come una bambola di pezza. La vedevo cantare una ninna nanna senza parole, piena di promesse, piena di speranza, per un bambino che non sarebbe mai nato. La fottuta e dannata speranza.

Strinsi i pugni.    

Non salutai nessuno.

Ripresi a correre.

La pioggia che cadeva come inchiostro su di me.

Ripresi a correre. Verso la palestra dello Shohoku.

 

Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle
storie fotografate dentro un album rilegato in pelle
tuoni d'aerei supersonici che fanno alzar la testa
e il buio all'alba che si fa d'argento alla finestra
avrai un telefono vicino che vuol dire già aspettare
schiuma di cavalloni pazzi che s'inseguono nel mare
e pantaloni bianchi da tirare fuori che è già estate
un treno per l'America senza fermate
avrai due lacrime più dolci da seccare
un sole che si uccide e pescatori di telline
e neve di montagne e pioggia di colline
avrai un legnetto di cremino da succhiare
avrai una donna acerba e un giovane dolore
viali di foglie in fiamme ad incendiarti il cuore
avrai una sedia per posarti ore
vuote come uova di cioccolato
ed un amico che ti avrà deluso tradito ingannato
avrai avrai avrai
il tuo tempo per andar lontano
camminerai dimenticando
ti fermerai sognando
avrai avrai avrai
la stessa mia triste speranza
e sentirai di non avere amato mai abbastanza
se amore amore avrai
avrai parole nuove da cercare quando viene sera
e cento ponti da passare e far suonare la ringhiera
la prima sigaretta che ti fuma in bocca un po' di tosse
Natale di agrifoglio e candeline rosse
avrai un lavoro da sudare
mattini fradici di brividi e rugiada
giochi elettronici e sassi per la strada
avrai ricordi ombrelli e chiavi da scordare
avrai carezze per parlare con i cani
e sarà sempre di domenica domani
e avrai discorsi chiusi dentro mani
che frugano le tasche della vita
ed una radio per sentire che la guerra è finita
avrai avrai avrai
il tuo tempo per andar lontano
camminerai dimenticando ti fermerai sognando
avrai avrai avrai
la stessa mia triste speranza
e sentirai di non avere amato mai abbastanza
se amore amore amore avrai

 

(Claudio Baglioni – Avrai)

   

 

Questo è decisamente il mio capitolo preferito, mi ha divertito tanto mettermi dal punto di vista di Hanamichi! Lo so che dal punto di vista degli eventi, la cosa è abbastanza tragica, ma Hanamichi mi diverte troppo! Credo poi di essere molto simile a lui! Mi scuso per il ritardo enorme, ma sto anche scrivendo un’altra fic, anzi altre due e quindi non riesco ad aggiornare spesso! Grazie a sasa per la sua recensione! Per la tua domanda, credo di essermi incentrata molto sui personaggi, quindi ho scelto gli eventi da far accadere, come quest’ultimo, proprio per raccontare le conseguenze sugli animi delle persone coinvolte! Spero di esserci riuscita! Mi raccomando, lasciatemi anche un piccolo commento, altrimenti non riesco a capire come va la storia, e per me è vitale saperlo! Un bacione da Cassie chan!

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Capitolo 6
*** Something definitive ***


Capitolo 6 – Something definitive (Haruko Akagi)

Capitolo 6 – Something definitive (Haruko Akagi)

 

C’è una ben consolidata tradizione che prevede che, almeno una volta in un anno scolastico, una ragazza finisca a piangere in bagno. È quasi una legge non scritta che non cessa mai di ripetersi, potete chiedere a tutte e vi risponderanno nella stessa maniera. Io non ero né tanto felice e contenta, né una regina della popolarità, per costituire un’eccezione, e per non ritrovarmi, seduta per terra, in un piccolo cubicolo bianco e celeste. Mi portai il fazzoletto sulla guancia, cercando di asciugare quel pianto che non ne voleva sapere di smettere. Erano quasi trenta giorni che piangevo da sola come una cretina, e tanto più mi sforzavo di smetterla e tanto più continuavo a piangere. Chi mi guardava, mi veniva a dire che ero davvero patetica, che in fondo non era morto nessuno e che si poteva benissimo andare avanti da sole. Certo che lo sapevo, non ero tanto imbecille da non saperlo, ma ci sono attimi, momenti, in cui la tua vita cambia del tutto. E quello era uno di questi. Apparentemente ero sempre la stessa, apparentemente la mia faccia, il mio viso, i miei capelli, i miei occhi erano uguali, ma dentro, qualcosa era cambiato. Il mio cuore era cambiato. Per una cosa piccolissima, minuscola, ma da cui dipendeva tutto. Allora capisci quanto era importante, quanto poi era da quella cosa, che consideravi un semplice contorno, che dipendeva gran parte del ritmo e della musica della tua esistenza. Questo per me aveva avuto un nome: Kaede Rukawa.

E questo era ancora più patetico.

Il motivo era semplice, me ne ero già resa conto: il bellissimo asso dello Shohoku era già innamorato. Del basket. Nella sua vita, c’era posto solamente per questo, e per niente altro che lo andasse minimamente a distogliere dal suo obiettivo, diventare una stella della pallacanestro. Lo sapevo, questo già lo sapevo, lui mi aveva sempre colpito per questo, per aver dato tutta la sua anima a quel pallone arancione. Attenzione, la sua anima, non la sua vita… il che era diverso, sensibilmente, ma profondamente diverso. Takenori aveva dato la sua vita al basket, Mitsui aveva dato la sua vita al basket, Kaede Rukawa aveva dato la sua anima, il suo cuore, ogni genere di sentimento era un pegno al basket. Garanzia di un debito che lui aveva contratto con quello sport, responsabile delle sue sole emozioni. 

Rukawa non aveva bisogno di nient’altro. Tantomeno di me.

Faceva male, certamente faceva male, faceva soffrire, spezzava il cuore, ma alla fine era… non so, mi azzardo a dire, confortante… nessun’altra avrebbe avuto il mio posto, inesistente, nel cuore di Rukawa.

Ma la vita è piena di sorprese. E un uomo non può negarsi a sé stesso. È una legge del mondo, quanto quella che vede una ragazza versare lacrime nel bagno della scuola.

Un mese prima, camminavo per il corridoio con le mie amiche nella pausa pranzo, faceva caldo ed eravamo tutti su di giri perchè lo Shohoku sarebbe andato ai campionati nazionali. Durava ancora quella gioia, anche gli altri club eccellevano in molti casi, ma il basket era un’altra cosa. Era il mondo dove si sentivano nomi come Sendo, Maki, e tanti altri, quei giocatori famosi che tutti si sarebbero contesi alla fine del liceo. E adesso tra loro c’erano anche i giocatori dello Shohoku. Il professore mi intimò di entrare subito in classe, anche lui era vistosamente contento, ma il suo ruolo gli impediva di fare troppo il gaio e frizzante. E poi Aota minacciava di morte tutti quelli troppo contenti della vittoria dello Shohoku, loro con la squadra di judo avevano vinto il campionato e magari meritavano un po’ più di attenzione…

Mi sedetti al mio posto e, tre secondi dopo, ero già nel mondo dei sogni. Guardavo pigramente fuori dalla finestra, il cielo era così limpido e chiaro, e l’aria sapeva già di estate. Il professore cianciava, ma ad un tratto la sua voce si alzò di tono e urlò: “Miyazawa, smettila di scambiare bigliettini! Vuoi andare in presidenza?”; era una di quelle gattacce morte del fan club di Rukawa che parlottava a bassa voce, e fui contenta che l’avessero rimproverata. Risi tra me e me, ma dopo qualche secondo la lezione fu di nuovo interrotta. Ma era proprio cretina questa… stavolta, il professore non fu così clemente, e si avvicinò al suo banco con un perfido sorriso: “Visto che non riesci a smetterla di parlare, si deve trattare di una cosa estremamente interessante! Puoi renderci partecipi?”

In quel caso, l’innata malvagità dei prof ci faceva comodo, tra ritrosie varie e nuovi rimproveri, se ne sarebbero andati almeno venti minuti. La ragazza in questione poi era una alla NON-HO-PELI-SULLA-LINGUA, quindi avrebbe spiattellato tutto. Matematico. Avevamo trovato il gossip della settimana. Ogni cosa era buona per fare commenti. Me ne ero resa conto solo in quel momento, anche se c’ero stata in mezzo anch’io, anch’io mi ero soffermata su particolari insignificanti delle vite altrui. E adesso… anche questo era cambiato… adesso mi faceva schifo, una serie di balzi diffusi nel mio stomaco. Magari quel giorno mi fossi tappata le orecchie…

Miyazawa si alzò in piedi enfaticamente e disse, la voce vistosamente nervosa: “Quel figo di Rukawa se l’è fatta con Ayako, la manager… quella della prima sezione del secondo anno… vi rendete conto?”

“Vai in presidenza, Miyazawa!” urlò il prof. Non era riuscito a metterla in imbarazzo, e quindi il suo intervento non era riuscito. Tornando al posto, magari ci pensò per un po’ a questo nuovo pettegolezzo… Kaede Rukawa, quello della squadra di basket, con la manager, un classico…

Per tutta l’ora, regnò un silenzio irreale in classe. I ragazzi ridacchiavano tra loro, ma erano abbastanza bravi da non farsi scoprire dal prof. Finita la lezione, una folla impressionante di ragazze se ne andò in bagno, il motivo intuibile. Io uscì in corridoio e mi misi davanti all’aula di Ayako, calma, serafica, tranquilla. Ma non ne uscì nessuno, Ayako non era venuta a scuola, mancava già da qualche giorno.

Che le avrei detto poi?

Brava, ti sei fatta il ragazzo più bello della scuola? Questo, credo che già lo sapesse, senza che io glielo dicessi.

Complimenti, Rukawa era una preda difficile? Questo poi, era ancora un dato di fatto e l’avrebbe resa ancora più orgogliosa di sé.

Non potevi metterti con Miyagi? Domanda stupida, quei dieci centimetri in più in altezza aiutavano… e molto…

Mi hai spezzato il cuore? Una nuova affermazione stupida, certo che lo sapeva…

Ayako non era mia amica. Rukawa non era il mio ragazzo. Più chiaro di così si muore.

Uscii fuori dalla scuola e me ne andai in giardino, appoggiandomi al tronco di un ciliegio in fiore. Gruppetti di ragazze continuavano a gridare qua e là ed anche se non volevo sentirle, era praticamente impossibile. Sembrava pure che l’aria mi suggerisse nuove immagini di quei due insieme. Immagini strane, ma che dovevano essere accadute.

Cosa era stato? Amore, sesso o che altro?

Domande senza alcuna risposta, e ad ogni mancanza di risposta, nuove lacrime si aggiungevano alle precedenti, ma non riuscivo a piangere, non ci riuscivo. Come se avessi paura di non smettere più.

Se era stato amore, il mio teorema si sgretolava su sé stesso. Kaede Rukawa non voleva semplicemente innamorarsi di me. 

Se era stato sesso, le cose non cambiavano molto. Ero chiaramente una mocciosa ai suoi occhi, e invece Ayako… lei aveva tutti i numeri per essere desiderata e per sembrare una donna, e non una bambina. Mi guardai, fisicamente non avevo nulla che facesse presagire che avevo sedici anni compiuti, ero piatta, bassina, insignificante. Mi sedetti per terra, tutto tornava adesso, era tutto fin troppo chiaro adesso…

Mi sentii battere sulla schiena, era Mito.

Si sedette accanto a me, continuando a guardare avanti.

Non parlava e nemmeno io avevo tanta voglia di farlo, quindi rimanemmo in silenzio per un bel po’, finchè suonò la campanella del pranzo. Era passato tanto tempo? Sembravano solo tre secondi, da quando era arrivato… lui si alzò in piedi e mi disse in un sussurro leggero che si perse nel vento, che aveva preso a soffiare caldo sulla scuola, sollevando polvere: “Vai a casa… e mettiti a piangere… ti sentirai meglio…”.

Non seguì il suo consiglio.

Scoppiai a piangere trenta secondi dopo.

E solo allora andai a casa.

Da allora, era passato un mese, un mese stanco ed apatico, dove tutto quello che sembrava importante perdeva valore, scoloriva, diventava indifferente. Non ci andavo più agli allenamenti, avevo visto di sfuggita Rukawa solo qualche volta, più invisibile di tutto il resto del tempo. E per quanto riguarda Ayako… era sempre assente… a quanto pare, si trasferiva… certo, adesso se ne poteva andare, il danno ormai l’aveva fatto… intendo il danno a me, non che per lei sia stata una sofferenza stare con lui per ben tre mesi, senza dirmi niente… non poteva essere stata una sofferenza… una parte di me allora si chiese perché se ne andasse… sospirai, ma che cavolo me ne frega?

Uscì dal bagno, e mi guardai allo specchio. Avevo pianto di nuovo, e mi ero pure scordata il perchè… ah già, qualcuno aveva aggiunto nuovi particolari alla storia dell’anno, mentre eravamo in classe durante un cambio dell’ora. Particolari insignificanti su presunti sentori che si avevano… troppo strano che non si parlassero all’improvviso, troppo strano che spesso tornassero a casa assieme, troppo strano che Miyagi stesse sempre così nervoso… cazzate, enormi cazzate. Neanche Nostradamus l’avrebbe previsto, figuriamoci loro, figuriamoci… io… persa dietro alle mie follie romantiche…

Mi spazzolai i capelli e mi rimisi il lucidalabbra, cercando di sembrare più carina, una ragazza disinteressata e sicura di sé. Sarei andata agli allenamenti, Anzai mi aveva chiesto di andarci, voleva una nuova manager, al posto di quella là… dovevo incarnare l’immagine della ragazza che lui avrebbe potuto desiderare, ma stavolta non avrebbe mai potuto avere. Una ragazza lo fa sempre, quando viene rifiutata per un’altra, si prepara e lo immagina a sbavare per lei, rendendosi improvvisamente conto di quanto lei fosse bella ed attraente. È una sorta di placebo un pensiero del genere, un farmaco perfettamente inutile, ma che almeno ti dà l’illusione di stare meglio.

Uscii fuori e ritornai in classe, solito rimprovero e solita litania del prof di tre ore. Mi sedetti al mio posto e mi misi a guardare fuori dalla finestra. Pioveva a dirotto, che palle, già stavo depressa, ci mancava pure la pioggia… tutto sembra peggiore, se piove… continuai a scarabocchiare sul mio quadernetto, mentre un gruppetto di ragazzi si radunava davanti alla finestra. Era successo qualcosa, qualcuno si era fatto male…

Finalmente la campanella suonò.

Raccolte le mie cose, lasciai uscire la folla scalmanata che spingeva per tornare a casa, e poi uscii finalmente fuori. Fuori dall’aula, c’erano Okusu, Noma, Takamiya e Mito.

“Dovresti ritenerti fortunata che vieni scortata da quattro figaccioni come noi…!” rise Takamiya. Cercavano ovviamente di farmi ridere, e, nella mia parte, un bel po’ di risate forzate non guastavano. Risi a mia volta, mormorando un: “Illusi!” a denti stretti, facendomi però perfettamente sentire da loro, che giudicarono che stessi relativamente bene e quindi ripresero a parlare dei cavoli loro. Prendemmo a scendere le scale e c’erano gruppetti ancora sparsi di ragazzi, che parlottavano ad alta voce, o che aspettavano che spiovesse.

“Certo che sta storia di Rukawa ed Ayako ha dato parecchio da spettegolare…” mormorò Okusu, guardando le tre ragazzine del fan club di Rukawa, che parlavano a bassa voce, l’aria decisamente sbattuta. Sembravano stare pure peggio di me…

Mito gli diede una gomitata nello stomaco, indicandomi con il capo, ma io mi voltai verso di loro e dissi con un falsissimo sorriso: “Non vi preoccupate, sto bene… in fondo, lo sapevo da tanto di non avere speranze… non ci voleva certo Ayako per farmelo capire…”

“Eppure non le parli, no?” obiettò con la sua solita voce strascicata Takamiya, ed anche stavolta Mito gli pestò il piede, mormorando: “Ti vuoi stare zitta, scrofa!”

Sorrisi solamente, e continuai a camminare, sorpassandoli. Sentivo di voler piangere, di nuovo, ma era davvero troppo cretino, e poi mi sarei sciolta tutta, riducendomi peggio di prima. E io ero una ragazza disinteressata e sicura, eccetera, eccetera… magari quando torno a casa… sì, e Takenori mi ammazza…  la notte prima lo avevo persino svegliato, e lui si era decisamente incazzato: “Ti avevo detto di lasciarlo perdere! Rukawa sarà pure uno dei migliori giocatori del torneo, ma è un cesso dal punto di vista delle relazioni sociali! Ci avrò scambiato tre parole dall’inizio dell’anno –PASSA! -E ’ MIA!- e infine la più originale di tutti –PRENDIAMO IL RIMBALZO!-; e sono in squadra con lui! Non ti puoi prendere un ragazzo normale?!”. Avevo sorriso, e mio fratello mi aveva accarezzato la testa come quando faceva, quando ero piccolina, e mi facevo male, è difficile da credersi, ma è capace di una dolcezza infinita pure con quelle mani da… bè, da gorilla, come la direbbe Hanamichi… forse era più per lui che andavo agli allenamenti… sì, bella chiacchiera, Haruko… ci vai solo ed esclusivamente per vederlo ancora e per sperare che magari succeda qualcosa, anche se prima era una cosa improbabile, adesso è praticamente impossibile…

Aprii l’ombrello, mentre gli altri correvano, cercando di non bagnarsi, e ospitavo invece Mito sotto il mio ombrello.

“Dai, dì la verità… come stai? Intendo davvero… non voglio sapere se sei superficialmente contenta della tua salute…” mi chiese, reggendo l’ombrello, dato che era più alto di me.

“Sto meglio…” risposi con lo sguardo basso, poi lo sollevai e dissi velocemente: “Non è stata un bella cosa, ma si sopravvive…”. Ulteriore chiacchiera colossale.

“Ci sono tanti altri ragazzi che farebbero di tutto per stare con te, lo sai vero?” mi disse, guardandomi, poi continuò a guardare avanti: “Ed è anche inutile dirti chi è il primo della lista…”

Mi si gelò la testa, e mi raggomitolai su me stessa. A chi si riferiva? Non ce le vedo queste schiere di ragazzi che mi venivano dietro. Lo guardai senza capire, mentre lui sospirava: “Certo che sei davvero ingenua, Haruko Akagi… c’è una persona che si impappina ogni volta che ti vede, che arrossisce, che è persino entrato nella squadra di uno sport che odiava… di chi pensi che sto parlando?”

Sbattei le palpebre un paio di volte: “Hanamichi? Ma non dire cavolate, io e lui siamo solamente amici!”

Lui scoppiò a ridere e disse: “Fammi il favore di non dirglielo, altrimenti quello è capace di suicidarsi!”, poi si voltò verso di me e ripeté seriamente, scadendo le parole come se fossi una bambina particolarmente testarda: “Hanamichi è innamorato perso di te, è entrato nella squadra di basket per far piacere a te, e il motivo a monte per cui ce l’ha sempre avuta con Rukawa, sei sempre stata tu e solamente tu… hai capito, adesso?”, certo che questa proprio non me l’aspettavo, avevo notato che l’atteggiamento di Hanamichi era sempre affettuoso e gentile, ma mi ero convinta che fosse perchè gli ero, che ne so, simpatica…

“Certo, adesso il basket gli piace e ce l’ha con Rukawa per altri motivi, ma all’origine c’eri tu…” riprese Mito, continuando a guardare avanti “Allora che ne pensi? Intendo, lui… ti piace…?”

Mi serrai ancora nelle spalle, e rimasi in silenzio per un po’, decisamente imbarazzata, poi sussurrai: “E’ un bravo ragazzo e, insomma, è anche carino…”

“Ma?” sorrise Mito, guardandomi

Sorrisi anch’io e risposi sinceramente: “Adesso non me la sento… adesso voglio stare per conto mio…”

“Hai ragione” rispose lui quasi con voce malinconica, poi a sorpresa mi accarezzò la testa, come si fa come una bambina, come aveva fatto la sera prima mio fratello. Solo che mio fratello era mio fratello… lui, insomma, non era proprio mio fratello… fu allora che capii cosa mi differenziava da Ayako. Il motivo per cui Rukawa non avrebbe mai scelto me per vivere una romanticissima storia proibita.

Io ero una bambina, ed ero contenta di esserlo.

Ne ero felice.

I miei sentimenti si leggevano sulla mia faccia. Ero troppo schietta ed aperta per lui. Per lui, la cui vita era un costante segreto, un costante tira e molla tra quello da esternare e quello da nascondere.

Sorrisi, per la prima volta da giorni, leggermente più sincera.

 

 

Rabbrividii ancora, ma non faceva freddo. La palestra era riscaldata in fondo. Eppure avevo freddo. Mi misi la giacca addosso e rimasi seduta, mentre Mitsui faceva un tiro da tre punti e Miyagi rimaneva imbambolato a guardare la porta che era chiusa. Chi cavolo aspettava? Domanda stupida la mia… e io chi aspettavo? Mi voltavo ogni venti secondi verso la porta dello spogliatoio, sperando che si aprisse, pregando che rimanesse chiusa.

“Dov’è quel ritardato di Hanamichi? Adesso il gorilla lo picchierà a sangue!!” risero tra loro Mito e Takamiya, mentre Okusu e Noma improvvisavano un bagarinaggio di scommesse sul numero di secondi tra l’entrata in palestra di Hanamichi e il pugno scontato di mio fratello. Vinceva di gran lunga il tempo di un secondo netto.

Finalmente entrarono in palestra Kogure e Takenori, che ovviamente chiese dove fosse Hanamichi. Ryota sembrò sbiancare e iniziò a balbettare di fronte alla stazza di mio fratello… sogghignai tra me e me, in effetti faceva proprio paura… infine, Ryota si illuminò e disse decisamente soddisfatto di sé stesso: “Non manca solo Hanamichi, ma anche Rukawa…”. La mia risata si bloccò sulle mie labbra, era un sollievo per me non vederlo entrare, forse aveva la febbre o… era tornato da Ayako… abbassai gli occhi, era probabile, era possibilissimo… il mio cuore riprese a battere quando invece lui entrò in palestra, in silenzio, senza salutare nessuno, come faceva sempre. Come faceva sempre.

Ma non era così.

Non era così.

E solo io lì dentro lo avrei potuto capire. Solamente io.

Per gli altri lì dentro, eri sempre uguale… forse anche per te, eri sempre uguale… perchè i tuoi sentimenti sono scatole cinesi, e non guardi mai fino alla scatoletta più piccola. E quella un giorno è diventata enorme e ha assorbito tutte le altre. E non te ne sei accorto vero, Rukawa? Non te ne sei accorto vero? O magari sì, e ti ha fatto paura. Hai paura del tuo cuore adesso. Perché non ti puoi più negare a te stesso.

Fu quella la prima volta che nella mia mente quel bellissimo ragazzo moro dagli occhi chiari fu appellato con il suo nome… Kaede… lo avevo sempre chiamato Rukawa, il nome scritto in rosso fiammeggiante sulla sua divisa da basket, il nome urlato a squarciagola durante le partite vinte e perse, perchè nella mia mente lui era sempre Rukawa. La punta di diamante dello Shohoku, il giocatore più bravo del torneo. Mai Kaede. Mai. Non c’era alcun Kaede nella mia mente. Avrei anche detto di non conoscerlo. Adesso invece incontravo quel ragazzo che piegava il capo dietro un cognome dal suono gutturale e duro.

Avevo sentito una canzone tempo prima, o era una poesia? Non me lo ricordo più, la memoria spesso fa brutti scherzi. Comunque, riferendosi ad un amore lontano, ormai perso per sempre, l’autore diceva: “Adesso il buio ha i tuoi occhi… belli da rubare i tuoi occhi, incredibilmente azzurri, ma quasi mai sereni …”… sì, doveva essere una canzone, e io l’avevo sentita tantissime volte ed ogni volta non avevo capito che cosa volesse dire. Che cosa volesse dire che il buio avesse i suoi occhi… era nell’oscurità delle notti insonni che lui vedeva gli occhi della sua innamorata o erano i suoi stessi occhi ad essersi eclissati per quella sofferenza?

Lo capii, vedendo Kaede.

I suoi occhi azzurri erano più scuri, più freddi del solito, più silenziosi. E nei suoi occhi bui passavano altri occhi. Non i miei. Non altri sguardi che il basket gli aveva donato. Non gli occhi autoritari di Shinichi Maki, non quelli allegri di Akira Sendo, non quelli sicuri di Kenji Fujima, non quelli degli altri giocatori che aveva affrontato, i soli che avrebbe sempre sostenuto di aver guardato. Nei suoi occhi, splendevano gli occhi di Ayako.

E non se ne accorgeva, non se ne sarebbe accorto mai. Fino all’ultimo.

Presero ad allenarsi. E lui era rabbioso, crudele e spietato. Infilava quella palla nel canestro nervosamente, maltrattandola, il pallone un perfido nemico che scottava e di cui doveva liberarsi per paura di bruciarsi le mani. Magari lo negavi, non te lo dicevi, ma adesso avevi capito che a quel pallone avevi venduto la tua anima, e adesso l’avresti voluta indietro. Per darla a lei, vero?

Perché te ne eri innamorato.

E non l’avresti mai detto a te stesso, un miracolo sarebbe nato e sarebbe morto, putrefacendosi in te.

L’allenamento stava per finire, faceva ancora più freddo adesso, si gelava. Mi chiusi ancora nelle mie spalle, stranamente non mi veniva più da piangere… sentivo il cuore a pezzi, ma quasi non faceva più male. Non ero la sola. Migliaia di cuori venivano spezzati ogni giorno. E tra quelli c’era anche il cuore scintillante di ghiaccio di Kaede Rukawa.

Ad un tratto, la porta si aprì di scatto e tutti ci voltammo a guardare, la pioggia che cadeva fuori entrava in maniera  prepotente nella palestra.

Alla porta, c’era Hanamichi. Era bagnato dalla testa ai piedi ed aveva il fiatone. Aveva la maglia completamente zuppa, e sporca. Non ce ne accorgemmo subito.

I suoi amici scoppiarono a ridere, e lo additarono sopra le mie spalle.

Lui li ignorò, guardava fisso davanti a sé, guardava… Kaede…

Respirava a fatica, poi finalmente entrò in palestra, bagnando per terra. Reazione scontata quella di Takenori. Ma non fece in tempo a raggiungerlo per picchiarlo, che Miyagi si mise in mezzo.

Aveva il viso stravolto pure lui: “L’hai trovata? Le hai parlato?”

Nessuno di noi riusciva a capire, il volto di Hanamichi ancora una maschera d’acciaio.

“Ma Hanamichi… stai sanguinando!” disse Mitsui, guardando i suoi vestiti

“Non è il mio sangue…” disse lui, battendo i denti, poi si scagliò con furia su Kaede, mollandogli un pugno in pieno viso

“Figlio di puttana!” urlava, continuandolo a prendere a pugni, mentre Kaede cercava di reagire, ma lui sembrava vistosamente più forte di lui. In quel momento almeno.

Ryota e Takenori riuscirono a separarlo: “Che cazzo fai, Hanamichi?! Ti sei rincoglionito?!” chiese mio fratello, mentre tutti noi guardavamo meravigliati, le truppe di Hanamichi già pronte ad intervenire. Lui continuava a divincolarsi, gridando, mentre Kaede sputava sangue, seduto a terra, aveva il labbro spaccato e un taglio sulla guancia.

“Hanamichi, che cazzo fai?!” chiese Ryota “L’hai trovata sì o no?”

“L’ho trovata!” urlò Hanamichi, poi si rivolse con furia al playmaker e disse: “L’ha messa incinta! Questo figlio di puttana l’ha messa incinta!”

Adesso tutti iniziammo a capire. Ayako… parlavano di lei… lui, Kaede… l’aveva… 

Iniziai a tremare, mentre Kaede sollevava lo sguardo verso Hanamichi e diceva con astio divertito: “Te l’ha detto lei? Che c’è, adesso te la fai con lei? Il tuo obiettivo non era la sorella di Akagi?”

Il mio labbro continuava a tremare, incrociai lo sguardo di Mito che si voltava piano verso di me.

Ryota gli diede un calcio nello stomaco, ed anche lui fu fermato da Mitsui: “La smettete di fare gli imbecilli? Sono cazzi suoi e di Ayako…”, ma non era vero ed anche lui lo sapeva. Questa storia ormai era più di tutti gli altri che loro.

Ma furono le ultime parole di Hanamichi a far saltare tutto. Il gioco delle marionette, che era la vita di Kaede Rukawa, precipitava nell’ombra buia dei suoi spenti occhi azzurri.

Hanamichi guardò Mitsui, i suoi occhi adesso erano quasi lucidi: “Il sangue… il sangue è il suo… l’hanno spinta per le scale… ha perso il bambino… e adesso è all’ospedale…”

Quando un cuore si spezza, nessuno se ne dovrebbe accorgere. Nessuno… solamente tu lo sai.

Senti il respiro venirti meno, le gambe che si piegano, la tua anima che reclama ossigeno, ma invece è come se ti spingessero la testa sott’acqua, ed essa entrasse nei tuoi polmoni, soffocandoti. E il tuo cuore si spezza, lo senti, lo avverti il vuoto che si viene a creare nel tuo petto. Magari lo ignori, lo nascondi, ma quello c’è sempre, e dura. Tanto. Troppo. Un cuore spezzato non viene riparato subito. Un cuore spezzato non viene riparato spesso. Se è “un” amore, ne esci fuori in due mesi, se è un bell’amore in due anni, se poi è il Grande Amore… semplice, non ne esci fuori più… chissà per lui che cosa era… quello che è accaduto mi farebbe pensare per la terza ipotesi, ma poi… in fondo, poi, la vita è lunga… di uscirne se ne ha sempre l’occasione…

Il cuore di Kaede Rukawa si spezzò in quel preciso momento, me ne accorsi subito, i suoi occhi bui si illuminarono per qualche secondo e lui strinse le sue labbra sottili in una smorfia di dolore. Era come se stesse lottando con sé stesso, con un’inquieta parte di sé che non voleva farlo soffrire, perchè non era importante, perchè Ayako non era importante, perchè, a parte il basket, non c’era niente di importante. Stavolta non ce la fece, strinse i pugni violentemente, poi prese per il collo Hanamichi e gli urlò: “Dove cazzo l’hai portata, in che ospedale è?!”

Hanamichi rimase immobile per un po’, la sua voce faceva quasi paura, eravamo abituata a sentirla come un sussurro, mai come un urlo che faceva venire i brividi.

“Ci sono i suoi zii… non ti faranno mai entrare…” disse Hanamichi, guardandolo in viso, quasi divertita soddisfazione in quello che gli stava dicendo

“Dove cazzo è?!” urlò ancora Kaede, stringendolo più forte

Finalmente Hanamichi disse il nome dell’ospedale. Lui non aspettò mezzo secondo, spinse via Hanamichi e si mise a correre, uscendo dalla palestra e correndo sotto la pioggia.

Rimanemmo tutti in silenzio, nessuno che sapeva che cosa dire, gli sguardi bassi, il silenzio rotto dai tuoni e dallo scrosciare inquieto della pioggia.

Ti avevo visto correre.

Ancora una volta, non mi avevi guardata.

Ancora una volta… avevo sempre sognato di vederti correre così per me, correre, terrorizzato dall’idea di perdermi, correre, come inseguivi con furia un pallone di cuoio arancione.

Non l’hai fatto. Mai. Per me.

Ancora una volta sei passato e te ne sei andato. Per qualcosa che amavi.

Ancora non hai sentito il fragore del mio cuore che si sbriciolava.

Ma non ci sarebbe stata un’altra volta… questa era davvero l’ultima volta…

 

 

Nei film di serie C, specie in quelli apocalittici, c’è sempre qualcuno che chiede perdono in punto di morte. Pieno di ferite, sanguinante, agonizzante, alza i suoi grandi occhioni pieni di lacrime, e si rivolge al malcapitato di turno, che gli regge la mano, chiedendogli di perdonarlo per il male che ha fatto, eccetera, eccetera, eccetera. Takenori mi ammazza ogni volta che mi vede guardare un film del genere con espressione interessata. Per fortuna, in quel momento, non era in casa, ma era agli allenamenti. La scuola era finita e io me ne stavo stravaccata in poltrona a godermi il mio film strappalacrime; l’avevo visto dall’inizio, e adesso mi chiedevo che cosa avrebbe risposto Taylor alla richiesta di perdono della morente Brooke, che se le era fatta parecchie volte con suo marito. Mi chiesi come cavolo avrebbe fatto, erano amiche dai tempi del liceo, e lei l’aveva aiutata con lo scandalo della gita in pullman, ma in fondo stava morendo…

Non ebbi l’occasione di sapere come sarebbe finita, perchè il telefono squillò e mi precipitai a rispondere, imprecando tra me e me; il telefono ha sempre la sincronia di suonare al momento meno opportuno.

“Chi è? Cioè, pronto?” dissi, un occhio al televisore, cosa perfettamente inutile dato che non c’era il sonoro

“Ciao Haruko! Sono io, Mito…” mi rispose una voce allegra

“Ah ciao Mito! Dimmi” risposi, dando le spalle al televisore. Era la prima volta che mi chiamava a casa e devo dire che ero abbastanza curiosa.

“Come stai?”

“Benissimo, grazie, stavo guardando un film in televisione…”

“Non sei andata agli allenamenti? Sei diventata la nuova manager vero?”

“Sì, ma oggi il signor Anzai mi ha detto che potevo anche rimanere a casa, tanto avrebbero finito presto… tra qualche giorno, si parte per i nazionali!” conclusi entusiasta, poi aggiunsi: “Verrete anche voi?”

“Credo di sì… il viaggio costa parecchio, ma cercheremo di trovare una maniera… dobbiamo sempre fare la guardia ad Hanamichi, prima che quello si sfracelli picchiandosi con qualcuno…” rispose lui, ridendo leggermente

“Già…” risi anch’io “Le truppe di Hanamichi sono sempre in allerta!”

“Diciamo così….”

“Volevi dirmi qualcosa?” chiesi. Va bene che era piacevole starsene al telefono, ma per parlare con lui mi stavo perdendo tutta la fine del film.

“Sì, sinceramente è una cosa un po’ delicata, quindi non so se faccio bene a chiedertelo…” mi rispose imbarazzato. La cosa andava per le lunghe, quindi presi una cassetta e misi a registrare la fine del film.

“Avanti dimmi…” lo incalzai ancora

Lui esitò un po’ prima di parlare ancora, poi finalmente si decise a rispondere: “Io ed Hanamichi andiamo a trovare Ayako, è ancora in ospedale, ma la dimetteranno tra poco… dopo, sembra che si trasferirà in un’altra scuola… vuoi venire con noi?”

Mi sedetti su una sedia accanto a me e chiesi con un filo di voce: “Perché dovrei venire? Per salutarla o cosa?!”

“Lei ti vuole vedere, non lo so, forse vuole chiederti scusa… forse le dovresti dare quest’opportunità…” mi rispose lui timidamente “Hanamichi l’ha vista ieri, e lei ha chiesto di te e Ryota. Lo ha chiamato prima, e lui ha detto che verrà… adesso manchi tu… che vuoi fare?”

Rimasi in silenzio, assolutamente incapace di rispondere. Era passata una settimana da quando avevamo scoperto della gravidanza di Ayako, il giorno dopo Kaede non era venuto agli allenamenti, poi si era ripresentato, più nervoso, malinconico e furioso che mai. In quei pochi giorni, però, non rimaneva mai fino alla fine, alle cinque andava sempre via… l’orario d’inizio delle visite in ospedale… mi chiedevo se stessero di nuovo assieme, ma era una domanda sbiadita, quasi una masochistica consuetudine, incastrata sulle pareti del mio cuore. Perché mi interessava sempre meno, ogni giorno che passava. La mia anima era ancora ferita, ma lentamente iniziavo a rialzarmi. Eppure, non avevo voglia di vederla… che le dovevo dare la mia postuma benedizione per la sua relazione, gli auguri inutili per il suo bambino o che altro? E per le scuse… non eravamo in un film e lei non stava per morire… sarei potuta benissimo uscire dal palcoscenico, senza sentire i fischi del pubblico sotto di noi.

“Non lo so…” risposi “Non ci vedo molto senso in questa cosa… io non ho assolutamente niente da dirle… e mi fa più piacere non vederla che il contrario…”

Mito non parlava ancora, poi mi disse: “Lo capisco benissimo… so che questa storia ti ha fatto male, ma per lei non è stata rose e fiori come pensi tu… ha perso suo figlio, e Hanamichi mi ha detto che avrebbe voluto tenerlo, anche se non stava più con Rukawa, ci è stata malissimo davvero… non ritornerà più allo Shohoku. Ha bisogno di sentire che può lasciarsi questa cosa alle spalle, e questo glielo potete far capire solo tu e Ryota. Non dico che devi perdonarla, ma ascoltarla. Poi, sei libera di fare quello che vuoi… non sono io a doverti dire quello che devi fare…”
”Che cambierà se vengo?” dissi con durezza “Non cambierà assolutamente niente! Quella… cosa… è successa, niente cancellerà tutto quello che lei ha fatto!”

“Se non odi Rukawa - perchè tu non lo odi -, perchè dovresti odiare lei, allora? L’ha violentato forse o non hanno fatto le cose di comune accordo?” mi disse prontamente, la voce ferma e decisa. Già… io non odiavo Kaede, non lo odiavo, mi feriva dentro, ma odiarlo… non credo che ci sarei mai arrivata… e allora perchè avrei dovuto odiare Ayako?

Risposi con un filo di voce: “Va bene, hai ragione… vengo… ma non ho alcuna intenzione di perdonarla…”

Mito sospirò di sollievo e disse sollevato: “Meno male! Hanamichi m’avrebbe menato come un salame, se non t’avessi convinto!”

“E allora perchè non mi ha chiamato lui?” chiesi, ridendo

“E che ne so! Perché si vergogna o roba simile!”

Scoppiai di nuovo a ridere, tutta questa storia, anche se tragica per Hanamichi, finiva per essere comica per me… le menate degli innamorati, le mie per Kaede… chissà se una volta l’avevo fatto ridere anch’io…

“Allora ci vediamo tra un’ora davanti all’ospedale… ok?” mi chiese Mito

“Ok…” risposi, mentre lui mi salutava, poi, quando stava per riagganciare, lo richiamai.

“Che c’è?” mi chiese curioso

Abbassai gli occhi e dissi, sorridendo: “Grazie… Yohei…”

“P-prego…” balbettò lui, evidentemente sorpreso per il fatto che lo avessi chiamato per nome.

Riagganciai, continuando a sorridere. Il film era finito.

Adesso andava in onda il mio. 

 

 

Mi fermai a disagio davanti all’ospedale, non c’era ancora nessuno. Guardai l’orologio e vidi che erano già le undici e mezzo; io avevo fatto ritardo, infatti ero stata tre ore per decidere che cosa mettermi, optando alla fine per un paio di pantaloni beige, una canotta rosa, e un trucco molto leggero. Che cretina, da quando sapevo che Hanamichi era innamorato di me, volevo sembrare sempre carina e perfetta. Non che lui mi interessasse a tal punto, ma il mio orgoglio, quello ferito dalla scelta di Kaede, mi portava a cercare di mantenere vivo l’interesse che lui aveva per me. Tutto fa brodo per consolare una ragazza delusa e in preda alle crisi amorose.

Mi sentii chiamare e all’angolo della strada, comparvero finalmente Hanamichi, Ryota e Yohei.

“Ciao Harukina!” mi salutò Hanamichi, grattandosi il capo, rosso in viso. Anche in questo, ero stata proprio una cretina… Hanamichi mi chiamava così, da quando lo conoscevo, e non ci avevo mai pensato più di tanto…

Gli sorrisi e dissi: “Vi sto aspettando da quasi un quarto d’ora!”

“Scusaci, ma i qui presenti signori si stavano facendo belli!” rispose Yohei, alzando gli occhi al cielo con un’espressione che mi fece sorridere. Sia Ryota che Hanamichi lo guardarono di traverso. 

“Allora… entriamo?” chiese Hanamichi, rivolto soprattutto a me e a Ryota.

Annuii con il capo, tanto prima facevo questa cosa, tanto più sarei tornata a casa.

Entrammo in ospedale da una porta scorrevole, ma non ci fermammo in accettazione, dato che Hanamichi era già venuto a trovare Ayako e quindi sapeva dove si trovasse. Lo seguimmo fino all’ascensore, ed entrammo. Mentre Hanamichi premeva il tasto del terzo piano, però, le porte scorrevoli si riaprirono.

Davanti alla porta, c’era una trafelata ragazza bionda, che aveva impedito che le porte si chiudessero.

“Ciao Hanamichi!” disse allegra, sventolando la mano e sorridendo, per poi entrare anche lei in ascensore. Hanamichi le sorrise a sua volta e disse: “Ciao Kana, sei venuta anche oggi? Non avevi detto che saresti rimasta a casa?”

“Che c’è? Ti do fastidio?” rispose lei, guardandolo di traverso

“Un po’ sì, a dirla tutta…” rispose lui, mettendosi le mani dietro la nuca.

Mi chiusi nelle spalle, un pochino a disagio. Era veramente una ragazza carina, aveva i capelli biondi lisci e lunghi fino alle spalle, e due profondi occhi azzurri, indossava un paio di jeans e una camicetta bianca. Insomma, a parte la sua chiara provenienza occidentale, non era una ragazza che dava eccessivamente nell’occhio. Eppure… si vedeva che non parlava sul serio con Hanamichi, si vedeva che si prendevano in giro, e che scherzavano. Cavolo, una volta che lo trovo uno che mi viene dietro, c’è sempre qualcuna che me lo deve soffiare da sotto il naso…

“Ehm, Hanamichi, perchè non ci presenti?” chiese Yohei, guardando dall’alto in basso la nuova arrivata. Chiaro, piaceva pure a lui… incrociai le braccia, pure questo ci mancava…

“Si può presentare pure da sola…” rispose a tono Hanamichi, poi, guardando il suo volto decisamente nervoso, alzò gli occhi al cielo e rispose: “E va bene! Lei è Kaname Koishikawa, la cugina di Ayako. Ayako viveva a casa sua, ma poi se ne è andata di casa perchè non andava d’accordo con lei…”, Hanamichi abbassò la voce ed aggiunse: “Chissà perchè…”

“Quanto sei odioso!” rispose lei, mettendo il muso, poi porse la sua mano a me, Yohei e Ryota. La sua espressione si accigliò leggermente nel sentire il mio nome e quello di Ryota… evidentemente, Ayako le aveva parlato del delicato quadrilatero HARUKO-KAEDE-AYAKO-RYOTA .

Finalmente le porte dell’ascensore si aprirono e ci trovammo in un grande corridoio bianco. Seguimmo Kaname ed Hanamichi che continuavano a bisticciare, mentre Yohei e Ryota facevano commenti di apprezzamento sulla ragazza.

“Secondo me, le piace Hanamichi!” disse Ryota, soffocando le risate “Certo che ha proprio il gusto del macabro, la ragazzina!”

“Mi dispiace per lei, ma Hanamichi ha occhi solamente per un’altra persona…” rispose Yohei, guardandomi. 

Anche Ryota si voltò a guardarmi, ma io sperimentai la mia ben nota espressione di colei che non ci sta capendo niente, e voltai lo sguardo dall’altra parte.

Finalmente arrivammo davanti alla camera di Ayako, la numero 15.

Kaname si batté la mano sulla fronte e disse: “Accidenti, ho dimenticato di portare ad Ayako la vestaglia pulita! Adesso quella mi squarta!”

“E muoviti! Vai a prendergliela!” disse Hanamichi, con le mani in tasca

“Mi raccomando, voi non mi avete visto, ok?” sibilò con aria cospiratrice a me e agli altri, mentre Hanamichi ribatteva nuovamente: “Spicciati, vai a prendergliela!”

“La smetti?!” urlò lei, stavolta vistosamente più arrabbiata. Ovvio che se gli piaceva Hanamichi, queste schermaglie verbali le potevano far piacere fino ad un certo punto…

Hanamichi le sorrise, in effetti faceva tenerezza pure a me… le diede un buffetto sulla guancia e le ripeté stavolta più dolcemente, come ad una bambina disobbediente: “Spicciati, vai a prendergliela…”

Lei annuì con il capo, ci salutò e corse via.

“Non ti facevo così sensibile, Hanamichi!” disse Yohei, guardandolo di sottecchi, con espressione allusiva

“Ma che cavolo dici?!” rispose lui, guardandomi rosso in viso, poi distolse lo sguardo da me e riprese: “E’ solamente una bambina… mi fa tenerezza e poi, anche se fa la gran donna vissuta, le piace essere trattata così…”

Un dejà vu… la stessa sensazione l’avevo già vissuta… non un discorso, ma… la sensazione di qualcosa di tiepido che mi sfiorava…

Scossi il capo, era arrivato il momento… titoli di testa, prego…

Hanamichi aprì la porta della camera, ed entrò, seguito a breve distanza da Yohei. Per ultimi, entrammo io e Ryota.

Quello che vidi, mi lasciò completamente senza fiato.

Mi ero già fatta un bel filmetto nella mia mente. Ayako, stesa su un letto, dolorante e con gli occhi pieni di lacrime, e io che le tengo la mano, dicendole, da grande persona più matura di lei, che la perdonavo, che era tutto passato, eccetera, eccetera… falsissimo, ma quale film mai è stato vero? Questo forse l’avrei digerito meglio. Era un modo per perdonarla, e per andare avanti.

Ma invece vidi una cosa completamente diversa.

Ayako era sì a letto, ma era seduta con la coperta che le copriva le gambe. Stava leggendo un giornale e sfogliava le pagine in maniera attenta. Indossava una camicia da notte candida, come la fascia che le tratteneva i lunghi capelli ricci, che cadevano in lunghe onde sul suo collo.

Era… serena…

Meno male che doveva stare male per il suo figlio perduto ed essere disperata per il torto che aveva fatto a me e a Ryota… quando l’avrei preso a Mito…

Sollevò gli occhi e sorrise, un fresco sorriso accogliente, come se fossimo nel luogo più bello e paradisiaco del mondo.

“Ciao ragazzi!” salutò cordialmente, il suo sguardo fisso su me e Ryota “Sono contenta che siate venuti!”

Ero già pronta ad inforcare l’uscita e ad andarmene, ma cercai di trattenermi. Che cavolo di figura c’avrei fatto?

“Ciao Ayako!” rispose allegramente Yohei, avvicinandosi al suo letto “Come stai oggi?”

“Così così…” rispose lei con un sorriso “Per fortuna, domani lascio questo maledetto posto. Volevano essere completamente sicuri che…”, il suo sorriso si spezzò per un attimo, poi lei chiuse gli occhi e riprese la sua espressione precedente: “… che non ci fossero stati danni…”, ancora sorriso spezzato, occhi chiusi e nuovo estenuante sorriso: “… per quando dovrò avere un bambino…”. Tutto questo in una frazione di secondo. Credo che non se ne fosse accorto nemmeno Ryota. Io me ne dovevo accorgere. La osservavo troppo bene, proprio per cercare una cosa del genere. Dolore, sofferenza, angoscia, sul quel viso innaturalmente sereno. 

“Kaname non è ancora arrivata?” chiese, una nuova espressione pacata. Adesso capivo. Era così normale… mentre Hanamichi rispondeva, il suo viso era di nuovo tranquillo. Ovvio. Parlavano della sua insopportabilmente adorabile cugina… non parlavano più del suo… bambino…

Forse fu allora che la perdonai.

Dopo avremmo parlato, sì, lei avrebbe spiegato, ma le sue erano parole che in fondo prevedevo. Ma il suo viso mi aveva spiazzato. Lei era così maledettamente forte che faceva rimanere quel dolore incastrato in lei, e quello non usciva fuori, ma c’era, era palpabile, come una nebbiolina diffusa, che si espandeva vorticosa attorno a lei. L’avrebbe potuta nascondere e ci riusciva benissimo. Ma quella c’era.

Un attimo… e…

Conosci una persona.

Un ragazzo.

Bello da morire, l’idolo delle ragazze.

Gli sei amica.

Lo sostieni.

Lo incoraggi.

Ti piace.

Gli piaci.

Ti lasci andare.

Vivi giorno per giorno.

Ti racconti che potrebbe andare avanti.

Te ne innamori, magari.

Una mattina, ti svegli.

Sei incinta.

Lui non c’è più.

Lo perdi.

Lo hai perso.

Piangi.

Soffri.

Stai male.

E lui… no…

O almeno così sembra.

Gli altri, alla fine, sanno.

Parlano.

Giudicano.

Piangono.

Ti dici che ce la puoi fare da sola.

Magari te ne convinci.

E poi… perdi anche quel bambino… quello, da cui ti davi la forza…

Mi ritrovai a piangere, le lacrime che scorrevano lungo il mio viso, e io che le volevo fermare, e non ci riuscivo, come se si fosse rotto un argine per un fiume in piena, che minacciava da tempo di straripare. Piangevo per lei, per quanto l’avevo odiata, per me, per quanto avessi amato Kaede, e alla fine anche per lui stesso. Perché era stato diviso da lei, dalla donna che amava, e che non avrebbe mai ammesso di fare. Era quasi angosciante quanti di quei sentimenti fossero confluiti in me in quel solo momento, e quanto la loro mistura fosse letale. Non riuscivo a smettere.

“Che hai, Haruko?” mi disse dolcemente Ayako, guardandomi, subito imitata dai ragazzi.

Balbettai qualcosa e nascosi il viso tra le mani. Era lei quella che doveva piangere, non io. Ennesima prova che ero solamente una bambina… e Kaede aveva bisogno di una persona che lo sorreggesse, non che si appoggiasse ulteriormente a lui…

“S-scusami, i-io n-non so che cosa mi è p-preso…” balbettai ancora, asciugandomi il viso con il palmo della mano

“Non ti preoccupare…” rispose Ayako teneramente “In effetti, credo che stessi cercando di eludere il discorso… da quando siete entrati, l’ho cercato di evitare, ma alla fine è normale che ne dobbiamo parlare, Haruko… dopo quello che ti ho fatto, è normale che non ti dà una bella sensazione vedermi… credo di averti già chiesto troppo, facendoti venire qui… e questo vale anche per te, Ryota…”

Ryota sollevò lo sguardo, anche i suoi occhi erano tristi, ma non mi fecero la sensazione che credevo. Solidarietà intendo… vedere riflesso quello che avevo provato io… lui era triste perchè Ayako lo era, non per colpa sua. L’amava a tal punto? E davvero io amavo Kaede? Domanda da un milione di dollari. Non ero più sicura di niente.

Ayako si sollevò meglio e riprese a parlare: “So che adesso è ancora troppo presto, ma era assolutamente necessario che io vi parlassi oggi… domani lascio l’ospedale, e credo che passerò l’estate in Francia… mio zio è di lì, possiede una clinica specializzata, dove dovrò seguire una cura per riabilitarmi completamente… quando torno, poi, mi trasferisco…”

“Dove?” chiese Ryota, la voce quasi implorante

“Non lo so di preciso…” rispose Ayako, giocherellando con il lenzuolo “Sono indecisa tra il Kainan e il Ryonan… mia cugina va lì, al Ryonan intendo, ma non ho molta voglia di vederla pure a scuola… ma non ho nemmeno intenzione di andare in quella scuola di montati, che è il Kainan… insomma, non lo so proprio… comunque, indipendentemente da questo, io non tornerò più allo Shohoku. Quindi passerà abbastanza tempo, prima che ci possiamo rivedere di nuovo…”

Un aereo passò rombando sopra di noi. Volevo essere sul primo volo diretto a Timbuctu, pur di non stare lì. Lei non mi dava più la sensazione di rabbia di prima, o con cui l’avevo pensata tutti quei giorni. Ma mi faceva male, un male impressionante. Strano, più di quanto avesse fatto Kaede… chiamatela pure solidarietà femminile… e pure strano che mi fosse uscita fuori solamente adesso…

“Per questo, volevo parlarvi ora…” riprese lei, la voce serena e tranquilla “Dovrei parlare singolarmente ad ognuno di voi, e confezionare delle scuse per il tipo di torto specifico che ho fatto verso ognuno di voi, ma sintetizzo tutto in una volta…”.

Prese fiato ed iniziò: “Io non so davvero come sia successo, come sia successo che mi sia venuto in mente di…”, si fermò, i suoi occhi si erano fatti lucidi, ma lei si ostinò a continuare: “Insomma, come mi sia saltato in mente di mettermi con… ma questo non credo che vi interessi, è stata una mia scelta, una mia decisione, e non posso rimproverare nessuno, se non me stessa. L’unica cosa che mi dispiace davvero è stata che, per seguire questa mia stupidaggine, io abbia fatto male a voi due. Voi siete alcuni tra i miei più cari amici, e io vi ho ferito molto…”, chiuse gli occhi lentamente, poi li riaprì, guardando dolcemente Ryota: “Lo sapevo che mi volevi bene, lo sapevo da tanto, eppure non mi sono fatta scrupoli… avrei dovuto parlarti subito, e invece l’ho fatto solo quando le cose si erano fatte insostenibili… sono stata falsa con te per quasi due mesi, e poi quando abbiamo parlato, avrei dovuto dirti che si trattava di… di lui, insomma… è un tuo compagno di squadra e tu l’hai dovuto sapere in una maniera così brutta che… avrei dovuto dirtelo io, invece…”

Ryota annuì e rispose: “Non ci pensare… so che per te non sarebbe stato facile… e poi già sapevo che c’era qualcuno, quindi…”

Lei gli sorrise e disse: “Grazie Ryota…”, poi si rivolse a me: “Per te, invece, Haruko… mi sono comportata da vera ed emerita stronza… una parte di me forse sperava che…”, strinse i pugni e capii perfettamente che cosa voleva dire. Un discorso davanti a lenzuola sfatte… che adesso mozzava il respiro… doveva aver sperato che fosse Kaede a parlare con me… speranza vana… da innamorata…

“Comunque non è assolutamente una giustificazione…” riprese, la voce più bassa “Io ero più legata a te e avrei dovuto dirtelo io… e invece l’hai dovuto sapere come pettegolezzo… so che non siamo esattamente amiche per la pelle, Haruko, e so anche che molto probabilmente ce l’avrai a morte con me per ancora molto tempo… ma voglio chiederti scusa, davvero… sono stata presuntuosa, mi dicevo che tanto tu sapevi di non avere possibilità con lui, e che quindi il mio comportamento non avrebbe cambiato nulla, ma non è così. Le mie azioni hanno cambiato tante cose, invece…”

Rimase in silenzio, e ritornò a guardare il lenzuolo. I ragazzi si voltarono verso di me, evidentemente aspettando che rispondessi qualcosa, ma la verità era che non avevo assolutamente niente da dire. Proprio niente. C’era tantissimo da dire in realtà, ma io rimanevo zitta. Perché ogni cosa che volevo dire era perfettamente inutile.

Inutile o meno, ripresi a parlare. Quel silenzio mi dava troppo fastidio.

“Hai ragione…” dissi piano, soppesando ogni parola “Questa cosa mi ha fatto stare molto male… ti ho odiata Ayako e non posso negare che una parte di me lo faccia ancora. A me lui piaceva, e tanto, e tu questo lo sapevi benissimo. Lui non era il mio ragazzo però, non lo era, né si era impegnato con me; ciò significa che né tu né lui avevate alcun obbligo verso di me. La cosa brutta è stato saperlo così, tramite gli altri, ma l’avrei saputo lo stesso, e m’avrebbe fatto male lo stesso. Non potevo tenerlo legato a me, se non fossi stata tu, un giorno sarebbe arrivata qualcun’altra, e addio… non posso perdonarti per non avermene parlato, ma per il resto… è acqua passata, ormai…”

Stavo per aggiungere il vero motivo per cui era effettivamente acqua passata… in fin dei conti, hai avuto una bella punizione, hai perso il tuo bambino, e il mio odio sarebbe solo un inutile crudeltà gratuita… ma mi trattenni, credo che lo sapesse molto meglio di me.

La porta si aprì ed entrò Kaname, sorridente e allegra, l’aura pesante che si stava creando si sciolse in poco tempo.

“Ciao cuginetta!” salutò allegramente, porgendole la sua vestaglia pulita

Ayako riprese il suo volto consueto: “Ma quanto ci hai messo, accidenti a te!”

Presero a bisticciare, con Hanamichi che prendeva vigorosamente le parti di Ayako, solo per fare dispetto alla ragazza bionda. Quella scena mi dava la nausea, quindi salutai tutti e decisi di tornarmene a casa.

Mi sentivo strana, non felice, non triste, non arrabbiata.

Niente.

Mi sentivo vuota, come un giocattolo abbandonato sul ciglio della strada da un bambino distratto.

Lasciata lì, incerta su che cosa dovessi fare.

Stavo per uscire, quando mi sentii chiamare. Bè chiamare è esagerato, sento il mio nome pronunciato ad alta voce da qualcuno. Ora che ci penso anche questo è esagerato, non sono certa nemmeno che mi avesse chiamato per nome. Mi voltai su me stessa, e ancora vuoto… avevo di fronte a me il ragazzo di cui ero stata innamorata per un anno… e non arrossii per niente, rimasi immobile, il cuore un fastidioso rumore di sottofondo nelle mie orecchie.

Mi chiese di lei.

Di come stesse.

Poche allusioni al fatto che non lo facessero entrare, si davano il cambio la zia, lo zio e la cugina per tenerlo fuori.

Non aveva visto per niente Ayako.

Lei non lo voleva vedere più.

Gli risposi piano, lei sta bene, e altre cose.

Mi disse solo: “Grazie…” e se ne andò via.

Senza salutarmi, come faceva sempre.

Ma forse fu meglio così.

Grazie… una parola che fu un qualcosa di definitivo… e finì tutto…

Perdonami… una parola che m’avrebbe medicato le ferite… e sarebbe ricominciato daccapo tutto…

Ma, si sa, anche i migliori film, quelli da Oscar e quelli omaggiati dalla critica, avevano una fine.

E il mio, anche se di serie C, non faceva assolutamente eccezione.

 

 

 

Mentirai ai miei occhi, sbaglierai se mi tocchi

Non puoi dimenticarla una bugia quando parla

E sbaglierà le parole, ma ti dirà ciò che vuole

Ognuno ha i suoi limiti, i tuoi li ho capiti bene

E, visto che ho capito, mi verserò da bere.

Di notte, quando il cielo brilla,

ma non c’è luce, né una stella…

 

 

Ricorderò la paura che

bagnava i miei occhi, ma dimenticarti non era possibile.

Ricorderai la paura che ho sperato provassi,

provandola io, che tutto veloce nasca e veloce finisca.

 

 

La lacerante distanza tra fiducia ed illudersi

È una porta aperta ed una che non sa chiudersi,

e sbaglierà le parole, ma ti dirà ciò che vuole

c’è differenza tra amare ed ogni sua dipendenza,

ti chiamo se posso, o non riesco a fare senza,

soffrendo di un amore raro che più lo vivo e meno imparo. 

 

 

Ricorderò la paura che

bagnava i miei occhi, ma dimenticarti non era possibile.

Ricorderai la paura che ho sperato provassi,

provandola io, che tutto veloce nasca e veloce finisca.

 

 

E resterà com’è, dirselo adesso e farlo lo stesso,

però dopo niente cambierà e resterà com’è,

dirselo ora e poi dopo ancora,

dimenticando ti amerò.

Ed ogni tuo abbraccio sarà un dono,

anche se in fondo sarò solo,

senza volerlo, senza saperlo,

però dopo niente cambierà e resterà com’è.

 

 

Mentirai ai miei occhi, sbaglierai se mi tocchi

 

(Tiziano Ferro_ La paura che)

 

 

Questo è stato un capitolo di una difficoltà impressionante! Sarà perché sono stata costretta ad immedesimarmi in Haruko Akagi, una persona dal quoziente intellettivo di una primate della giungla amazzonica! L’ulteriore difficoltà è stata anche parlare di una cosa che mi è successa di recente, cioè vedere il ragazzo di cui ero innamorata, stare con un’altra! Insomma è stato un parto!!!! Per questo, chiedo perdono per il ritardo!!! Poi ho sentito la meravigliosa canzone di Tiziano Ferro che ho messo alla fine del capitolo e mi sono ispirata! Grazie Tiziano, amore! La fantasia galoppa!!!!! Grazie a Akane, Lyonel, Dreamteam, Hotaru_Tomoe  per le loro bellissime recensioni! Me felicissima! L’ho detto, io amo alla follia questa storia, è quella che preferisco tra le mie, quindi questo non può farmi che felice! Non so quando arriverà il prossimo capitolo, ma vi anticipo che sarà dal POV di Kaede. Vi anticipo anche il titolo, visto che sono buona oggi! Si chiamerà Something painful! ciao ciao dalla vostra Cassie chan!

 

 

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Capitolo 7
*** Something painful ***


Capitolo 7 – Something painful (Kaede Rukawa)

Capitolo 7 – Something painful (Kaede Rukawa)

 

Quando si avvicinavano i play off, ogni scuola cadeva in una specie di stato vegetativo. Tutto rimaneva sospeso nell’aria, promesse vaghe ed incerte di nuovi orizzonti da varcare; c’erano scatti d’ira improvvisa, pianti ingiustificati, scene di stizza e ragazzi e ragazze scoglionati, che si aggiravano per le aule alla ricerca dei loro fidanzati, profondamente persi nei cazzi loro. Era questo l’effetto play off, si trattasse di una squadra di basket o di un altro sport. I professori si erano rotti di palle, e le visite all’ufficio del preside proseguivano senza sosta.

Non sono mai stato un tipo che segue la massa. Generalmente non ho la maggior parte dei problemi, che preoccupano gli altri, ma quei giorni erano penetrati anche nel mio sangue, e quindi, senza accorgermene, avevo finito per rispondere male ad un coglione che ci insegna informatica. Peccato che questa fosse anche la quarta volta in due giorni… e quindi la speciale benevolenza che i professori dovevano avere per me, come miglior cestista dello Shohoku, era andata a farsi fottere. Quello si era incazzato e mi aveva mandato dal preside, prima ed unica volta nella mia carriera scolastica. Non avevo proprio voglia di sentirmi un’altra menata inutile, o una slinguazzata persino peggiore, e quindi varcai la porta della mia aula e decisi di andarmene sulla terrazza.

Quasi di scatto, feci il corridoio più lungo, passando davanti alla prima sezione del terzo anno; la porta era aperta e la nuova professoressa, quella vecchiaccia di letteratura, spiegava davanti ad una classe in coma. Guardai ad uno ad uno tutti gli studenti sonnacchiosi, salutandone uno con il capo, e poi mi rincamminai verso la terrazza.

Salì le scale e spalancai la porta di metallo, richiudendola alle mie spalle, poi mi stesi per terra, gli occhi fissi al cielo di maggio, solcati dalle rondini. Che cazzo di bordello che fanno… vengono dai paesi caldi a rompere qui le palle… mi ero sempre chiesto da bambino perchè non rimanessero sempre dove il tempo era più bello, in una bell’isoletta tropicale, invece di fare tutti quei fottuti giri a vuoto. Ma si sa, dove si è felici, non si vuole stare… è una rottura essere felici, l’uomo, e pure gli animali, sono fatti per non esserlo mai più di venti minuti a vita… evidentemente Dio, se esiste, ci vuole sempre così, per invocarlo più spesso…

Che cazzo di pensieri, mi distesi meglio per terra, le braccia incrociate sotto la nuca, e chiusi gli occhi. Stavo per addormentarmi, quando sentii la porta che si apriva di nuovo… sto posto stava diventando decisamente troppo celebre da un po’ di tempo a questa parte…

Una voce acuta mi perforò le orecchie: “Alzati, muoviti! Non ho tutta la giornata!”

Capii subito chi era. E mi girarono. Anzi no. Prima ebbi un fastidioso e sgradevole groppo in gola. Normale. Troppo simili quelle due dannate voci.

Mi sollevai e dissi, guardando la persona davanti a me: “Che vuoi?”

“Allenamento speciale!” trillò lei, allegra. Che cazzo c’hai da ridere?, mi veniva da chiederle. Ma mi trattenni, anche perchè credo che, se avessi fatto una domanda del genere, mi avrebbero spaccato il naso.

“E le lezioni?” chiesi, senza reale interesse. L’unica cosa che volevo fare era proprio evitare di allenarmi.

“Non te ne frega niente delle lezioni …”; ancora normale, dopo quei quattro secondi di allegria manifestata in mia presenza, ritornò scorbutica come sempre. E stavolta la domanda: “Che cazzo ti ho fatto?” sarebbe stata proprio imbecille…

“Ho chiesto un permesso… al preside…” rispose velocemente “Domani avete la seconda finale… quindi è necessario che vi alleniate…”

Annuì svogliatamente e mi alzai dal pavimento, stropicciandomi gli occhi con la mano. Che sonno… erano notti che non dormivo… incredibile anche solo a pensarci. Sono sempre stato al limite della narcolessia… e adesso non chiudevo occhio da mesi…

Seguii la ragazza davanti a me fino giù alle scale, dove si incontrò con un’altra tipa… manco, mi ero accorto che era la Akagi… lei mi salutò e si mise a parlare con l’altra fitto fitto, ogni tanto scoppiavano a ridere e si davano di gomito. Certo che le ragazze sono proprio cretine, guarda queste due… magari parlano di quei due, che le fanno sbavare, e quei due non le cagano proprio. Le molleranno quanto prima possibile. Avuto ciò che vogliono, chiaramente. Ciò che tutti vogliono… è così che vanno queste cose…

Le continuai a seguire, sgradite fitte che mi colpivano lo stomaco.  Devo avere una specie di ulcera nervosa,  non c’è altra spiegazione.

Finalmente arrivammo in palestra.

C’erano già tutti, Sakuragi che rideva del suo genio come sempre, Miyagi che palleggiava contro un muro, Mitsui che parlava con Anzai, e poi Takeichi e Hishi, che si allenavano nei fondamentali. Cercai di sgattaiolare in spogliatoio, prima che quest’ultimo mi vedesse, ma fu perfettamente inutile; quel dannato ragazzino c’aveva dei radar al posto delle orecchie.

“Ciao Kaede!” mi salutò con gli occhi luccicanti, tenendo ancora il pallone tra le mani “Il mister vuole che facciamo una partita d’allenamento! Vuoi stare in squadra con me?”

Maledetto leccaculo… non mi ricordo che io fossi così… ammiravo Akagi, ma che cazzo! Non ero così rompipalle…

“E’ il mister che decide le squadre, Eikichi…” risposi velocemente, voltandomi per andare in spogliatoio, mentre mi sentivo la nuca perforata da una coppia di sguardi assassini. Ero già pronto a mandarli entrambi a fanculo, Sakuragi e quell’altro ritardato del suo degno compare, Kikuchi Takeichi, ma mi trattenni. Sicuramente, m’avrebbero preso a calci, se li avessi provocati… quante cose cambiano…

Aprii l’armadietto dello spogliatoio e ne uscii la mia maglia numero dieci… che cazzo di nervoso, mi piaceva parecchio il mio numero undici, ma no! Hishi doveva rompere le palle, e prendersi pure quella… è sempre così, le cose ti mancano solamente quando le perdi, e ti rendi conto di quanto valgano. Lo capisci dalla loro assenza.

Distrattamente, mi voltai verso la parete sinistra, dove sopra all’appendiabiti, c’era una fotografia. L’unica fotografia della squadra dello Shohoku… della squadra dello Shohoku dell’anno prima… l’avevamo fatta alla fine dei nazionali… un’altra stagione che non era finita come volevamo… avevamo perso contro l’Aiwa Gakuin, e ci eravamo classificati quinti, stremati e forse un po’ troppo gasati dalla vittoria contro il leggendario Sannoh. Che strano, adesso a ripensarci, mi sembra quasi che fu anche una bella partita, che giocammo bene, che fummo uniti come non eravamo stati mai. Cazzate. Colossali. E lo so anche mentre lo penso. Soprattutto l’ultima… uniti… troppe cose ci avevano divisi, e io non me ne ero accorto, fino a quel momento, fino a quando non avevo guardato di nuovo quella fotografia. Certe cose a volte sono talmente evidenti che, per fartele passare sotto il naso, in maniera indolore, fingi che siano invisibili. Ma non si può ignorare un elefante in salotto, e alla fine lo vedi per forza.

Mi avvicinai meglio per guardare la foto. Il gorilla era in primo piano, immobile, erto, come era sempre stato, una roccia in mezzo alla tempesta… incapace di cedere per più di tre secondi netti… se avessi avuto uno che potevo chiamare amico o qualcosa del genere, forse sarebbe stato lui… mi parlò quel  giorno, me lo ricordo… fui quasi vicino ad ascoltarlo, era duro, freddo, distaccato. Teneva troppo alla squadra, per vederla capitolare. Ma alla fine lo mandai a fanculo, e me ne andai, esibendo la solita frase che erano solo e soltanto cazzi miei. Adesso fa un’università con una famosa squadra di basket, e studia legge. Accanto a lui, Kogure, sempre troppo gentile e moralista. Quello che tentava sempre di fare il paciere, che si metteva in mezzo, prendendole più di tutti quanti. Poteva astenersi dal parlarmi anche lui quel giorno? Assolutamente no. Ma non ascoltai nemmeno lui. Aveva lasciato il basket, e studiava per diventare medico. Ancora, vicino a lui, Mitsui. Il baciapiselli, mi veniva quasi da ridere a ricordarmelo… quello con un fucile di precisione al posto del braccio. Non poteva lasciare il basket, ma la scuola sì. Andava avanti con piccoli lavoretti e ci allenava, assieme ad Anzai; sembra che fosse già stato convocato in nazionale. Poi, Sakuragi… il nuovo numero quattro… si era messo a piangere come un moccioso, il giorno in cui avevamo perso quella fatidica partita, e quello in cui avevamo detto addio ad Akagi… era come un fratello per lui, forse l’unico che avesse sempre creduto in lui e nelle sue dubbie capacità… era sempre lo stesso, lui e la sua megalomania, e le sue menate nei miei confronti… mi rompeva sempre le palle, ma ormai lo lasciavo fare. Poi, c’ero io ed infine Miyagi… il nuovo capitano. Ovvio, ora era il più anziano tra noi. Giocava molto meglio adesso, era sempre incazzato… e mi ricordo bene che si prova quando si è incazzati con il mondo intero… io non lo sono più da tempo… non so manco io poi se sono incazzato con una persona specifica, o con tutte… mah, credo proprio di non esserlo proprio per niente. Accanto a loro, tutte le matricole del mio anno, Sasaoka, Kuwata, Ishii… loro si erano persi per strada, l’anno dopo non erano più venuti ad allenarsi… in fondo, tra me e la mezza sega, non avevano avuto storia nella squadra. E i senior, Yasuda, Shiozaki, Kakuta… venivano ad allenarsi, ma ormai pensavano ad altro, all’università, agli esami, e spesso quindi mancavano. Tra di loro, Haruko Akagi, sorridente, felice ed allegra. Stava già con Mito allora? Chi cazzo se lo ricorda più… comunque, adesso stava con lui e stava bene… meglio così, un pensiero in meno… non che si fosse mai elevata nella mia mente al grado di “pensiero”, al pari di molte altre cose…

La squadra era completamente diversa adesso. Oltre alla folla di matricole che si erano iscritte, che facevano casino e che venivano tormentate dalla testa rossa, c’erano Takeichi e Hishi, il primo che era un formidabile tiratore e che aveva preso il posto di Mitsui, e il secondo abbastanza bravo come ala, assieme a me. Avevamo buone speranze quest’anno, anche se la squadra si era allenata ben poco in partita, eravamo la testa di serie del nostro girone. Avevamo battuto facilmente il Miuradai, che aveva vinto nel suo girone, e poi lo Shoyo, la prima finalista. Ma adesso veniva il bello… domani si giocava contro il Ryonan, e tra tre giorni… il Kainan… già, non vedevo l’ora di rivedere Sendo… Maki, purtroppo, era all’ultimo anno nello scorso campionato, e sembra che la squadra avesse subito una battuta d’arresto, da quando se ne era andato…

Tornai in palestra, in tempo per sorbirmi un nuovo rimprovero della nostra manager rompipalle. L’Akagi sorrideva accanto a lei, anche se non c’era proprio niente da ridere…mi veniva quasi da prenderla a pugni, poi capii perchè, accanto a lei, c’era il fidanzato, che indicava, ridendo, Sakuragi…

“Dobbiamo aspettare i tuoi comodi, Rukawa?!” urlò ancora la manager, mentre io mi riallacciavo le scarpe. Feci finta di niente, tanto per non darle soddisfazione… che rompicoglioni, e avevo sempre le mani legate con lei…

Ci mettemmo in formazione per ascoltare il nuovo discorso di Anzai e di Mitsui.

Il mister cominciò, la sua voce era leggermente più incerta… pure lui era diventato vecchio… dopo un po’, prese a tossire e quindi dovette continuare Mitsui al posto suo: “Ragazzi, domani abbiamo la partita contro il Ryonan… anche se abbiamo vinto contro lo Shoyo, non dobbiamo assolutamente prendercela comoda… avete capito? Sono forti quest’anno… molto più dell’anno scorso… a parte Sendo, Fukuda, Koshino e Uekusa, che tutti noi ben conosciamo, e Hikoichi Aida, che è migliorato parecchio e che adesso è un buon playmaker, c’è una matricola…”, Mitsui s’interruppe, grattandosi il capo, mentre Sakuragi gridava: “Che c’è, baciapiselli? Ti sei scordato come si chiama? Sei proprio un fallito come allenatore! Non vi preoccupate, tanto con il genio dl basket vinceremo sicuramente!”

“Stai zitto, Hanamichi!” rispose la manager con voce autoritaria, facendolo tacere all’istante, mentre Miyagi gli dava di gomito, dicendo con voce allusiva: “Che romantico! Tace di fronte alla fidanzatina!”

“Taci tappo! Io almeno ce l’ho una ragazza, e tu invece? Sei un fallito, come il baciapiselli! Andate sempre in bianco!”

Sia Mitsui che Miyagi si scagliarono su Sakuragi… erano quasi confortanti quelle scene… ma non fecero in tempo a picchiarsi a sangue, che Sakuragi si mise ad urlare rivolto alla manager, dicendo: “Kana, vedi che fanno al tuo adorato tesoro? E non intervieni?”

Kaname Koishikawa non si scompose minimamente, sollevando appena gli occhi azzurri dal suo blocco di appunti, e disse tranquillamente: “Continuate pure… gli serve un po’ di disciplina…”,  poi, di fronte ai loro continui schiamazzi, perse la pazienza e iniziò ad urlare contro il suo ragazzo: “Ma chi me l’ha fatto fare a venire qui?! Stavo tanto bene al Ryonan! Proprio te dovevo incontrare! Adesso potevo essere la fidanzata di Sendo o, che ne so, di un altro giocatore più normale ed intelligente di te…”

“La prima opzione è statisticamente impossibile… lo sai meglio di noi…” scoppiarono a ridere sia Sakuragi che Miyagi, subito seguiti da Kaname stessa. Non lo capii proprio il senso di questa battuta, comunque finalmente la ragazza riprese, dicendo: “Comunque la matricola si chiama Dan Scott… è americano e gioca nel Ryonan da qualche mese… è veramente bravissimo, ha un gioco imprevedibile e, assieme a Sendo, ha creato una coppia praticamente imprendibile… è così che hanno battuto il Kainan…”

“La scimmia sarà furiosa!” rise Sakuragi, riferendosi a Nobunaga Kiota.

Americano… mi sembrano passati millenni, da quando volevo andare in America… pensavo solamente a quello… mah, chissà perchè era da un po’ che me ne ero scordato… bene, sto tipo m’avrebbe rinvigorito un bel po’… e poi Sendo… avevo un conto in sospeso da troppo con lui… domani sarebbe stato un gran giorno…

“Domai sarà un gran giorno!” rise Sakuragi, imitato da Miyagi e Kaname.

Aveva pensato la stessa cosa che avevo pensato io…

Sospirai. Era ovvio che non poteva essere la stessa cosa. La sua faccia non aveva la mia stessa espressione…

Lui sembrava quasi… divertito, sadicamente divertito…

 

 

Se c’era una cosa che mi infastidiva, erano le attese pre-partita. Ero lì come un coglione a palleggiare, e palleggiare, e palleggiare, mentre attorno il pubblico faceva casino, e, come se non bastasse, dalla tifoseria di quei mentecatti dello Shoyo, era stata lanciata la moda di portare bottiglie di plastica da sbattere sugli spalti. Quindi, c’era un casino allucinante. Accanto a me, Miyagi e Sakuragi palleggiavano distrattamente, mentre guardavano continuamente la porta d’ingresso. Come era ovvio, Sendo non era ancora arrivato e mancavano ormai sette minuti all’inizio dell’incontro. Taoka andava avanti ed indietro come un pazzo, bestemmiando tra sé e sé, mentre Hikoichi cercava di calmarlo. Pure se adesso era titolare, non aveva perso le sue doti manageriali… guardai da sopra la spalla di Sakuragi, che continuava a borbottare, e vidi seduto in panchina un tipo, che non conoscevo.  Doveva essere l’americano… non era molto alto, era sopra il metro e settanta, e non era nemmeno imponente. Era normale…comunque, almeno per i criteri di quelle ochette dietro di lui, doveva essere appetibile… continuavano ad urlare, mentre lui seraficamente se ne stava seduto in panchina, gli occhi celeste chiaro socchiusi e coperti da ciocche di capelli biondo grano. Taoka lo richiamò bruscamente dal suo sonno, e gli urlò contro, chiedendogli evidentemente dove fosse Sendo. Quello bofonchiò qualcosa, e se ne tornò a dormire. Avrei voluto essere io al suo posto.

Un paio di minuti, urla e fottuti palleggi dopo, finalmente la porta di ferro si aprì. Finalmente arrivava Sendo… il mio sollievo durò venti secondi, non era il giocatore più forte del Ryonan, ma una ragazza, vestita con l’uniforme del liceo, che stavamo per affrontare. Doveva essere una tipa famosa, perchè, non appena entrò, la curva di tifosi blu si infiammò. Che era un altro giocatore? Le frasi che le venivano rivolte, però, non erano gentili… andavano dal “Bastarda”, al “Stronza” e a ben altro. Lei si limitò a scrollare il capo e fece un gesto ironico di saluto alla curva, sorridendo. Le urla si intensificarono e allora distinsi chiaramente che si trattava di grida femminili… un’ulteriore prova di ragazze rincoglionite, che sbraitano contro una poveretta… anche se lei… mi era sembrata… divertita… ed anche stranamente abituata…

Abbastanza subito, capii perchè erano così incazzate quelle furie scatenate. La ragazza era entrata, tenendo per il polso Akira Sendo, che le stava dicendo qualcosa, alla quale lei rispose alzando la voce, ma le loro parole ovviamente si persero in quel frastuono. Certo… doveva essere una specie di fidanzata o roba del genere, un’amica stretta, che ne so… e quelle si erano incazzate… che strano, un dejà vu… e fastidioso. Scrollai il capo, non me ne fregava un cazzo delle avventure sentimentali di Akira Sendo, ma, chissà perchè, continuai a guardarli, mentre si avvicinavano alla panchina. Taoka si mise ad urlare contro tutti e due, mentre Sendo sorrideva impacciato e la ragazza annuiva vigorosamente. Lui le disse di nuovo qualcosa, e lei spalancò la bocca con espressione di finta sorpresa, lui le toccò la punta del naso e lei sorrise. Accidenti a queste quattro coglione… non riuscivo a sentire niente… Taoka riprese ad urlare, e finalmente Sendo, che indossava ancora la divisa scolastica, sparì negli spogliatoi, salutando la ragazza. Lei sorrise ancora, poi disse qualcosa al mister. Lui annuì con il capo, e lei si voltò, venendo verso di noi.

Sentii dietro di me Sakuragi e Miyagi darsi di gomito… evidentemente la conoscevano…

“Ciao Ayakuccia!” urlò Miyagi, sbracciandosi

Mi voltai di nuovo e mi chiesi che cazzo avessi al posto degli occhi… come cavolo avevo fatto a non riconoscerla? Era lei, era Ayako, era lei la ragazza che era entrata cinque secondi prima con Akira Sendo…

Ci sono momenti, che sembrano durare una vita intera. Ne avevo sentito parlare spesso, robaccia patetica da telenovele o da romanzetto rosa, che leggono le arrapate e le frustrate sessuali. Come si sente parlare che quando stai per morire, ti passa davanti tutta la tua vita. Quello che hai fatto, visto, sentito, provato.

E io stavo per morire.

Lo sentivo, perchè non aveva altra spiegazione quel ronzio nelle orecchie e la gola che si chiudeva, impedendomi di respirare. Niente che una partita potesse dare, nemmeno temere di perdere a tre secondi dalla fine.

Nella mia mente, passò tutto. Tutto, e non era una patetica fantasia.

Il mio passato, la mia infanzia… un passato incastrato in ingranaggi arrugginiti, che adesso riprendevano faticosamente a girare… mio padre che se ne andava, mia madre a letto con quello di turno, i miei allenamenti da solo, le mie partite, tutto quel vuoto, che il basket soltanto riempiva. Il mio presente, quello stato di coma, che non aveva senso, che non aveva alcuna spiegazione, la mancanza di stimoli, di qualsiasi cosa, che potesse minimamente avere un benché minimo senso, il basket ormai un sedativo in cui affondare la testa. E sono abbastanza certo di aver visto anche il futuro… non che sia un veggente, ma era facile capire tutto quel giorno, e in quel particolare momento, che sembrava durare come una vita intera.

Quel fastidioso mal di stomaco, che mi perseguitava da un anno, da quel giorno di giugno, quando un’infermiera bionda mi disse, schioccando la lingua, che Ayako Kuno era stata dimessa dall’ospedale, divenne all’improvviso più forte ed intenso, e quasi mi impedì di respirare. Ero come in apnea, aspettando la mia condanna a morte.

La mia mente però era dannatamente lucida…

Si può essere più coglione?

Arrivai persino a dirmi… allora, era per te…

Ammissione di colpa tardiva? Può essere. Possibile che lo avessi capito solo allora? Certe cose a volte sono talmente evidenti che, per fartele passare sotto il naso, in maniera indolore, fingi che siano invisibili. Ma non si può ignorare un elefante in salotto, e alla fine lo vedi per forza. Tutto questo, in pochi secondi, mentre la guardavo avanzare sorridente verso di noi. O meglio verso di loro, perchè lei evitava accuratamente di guardare me.

Già, me ne ero dimenticato… ammettere soltanto ora con me stesso che l’amavo, da impazzire, non significava che le cose cambiavano. Ayako… non la vedevo da un anno… e lei era al Ryonan… adesso era lì… aveva un’altra vita sua, dove io non c’ero, dove nessuna delle persone attorno a me, c’era…

Fermati.

Non ti muovere.

Rimani lì.

Con quei tuoi capelli ricci e i tuoi occhi dispettosi di cioccolato.

Con le tue labbra rosse, che adesso non credo di aver baciato mai.

Con quel tuo corpo morbido, che adesso mi sembra incredibile d’aver avuto tante e tante volte.

Con tutte quelle cose, che solo adesso ammetto di conoscere a memoria di te… quella leggera fossetta sulla nuca, su cui io respiravo quando ti addormentavi stanca tra le mie braccia, quella pelle morbida che hai dietro le orecchie, quelle tue dita affusolate, su cui non porti mai un anello.

Fermati.

Che il mondo possa finire.

Ora. Adesso. In questo istante, in questo qualcosa di doloroso, che mi spezza dentro.

In questo ricordo di latte e menta, di me e te insieme.

Ma invece no. Lei continuò a camminare e, con lei, camminavano i miei ricordi.

Le avevo promesso che sarebbe andato tutto bene… e non fu così…

Parlò con Miyagi, me lo disse e ci stava male.

Avrei potuto fare qualcosa allora?

Certo… stringerla, sostenerla, darle il mio… mi fa strano anche dirlo… darle il mio cuore, o come cavolo lo chiamano i ragazzini alla prima menata adolescenziale…

Svenne in partita, stava male, e la portarono in infermeria.

Non andai da lei, perchè lei era forte, perchè era solo un capogiro, perchè avevamo perso la partita con la più forte squadra del paese… volevo stare da solo… e condannai lei ad esserlo di nuovo…

Avrei potuto fare qualcosa allora?

Ancora domanda inutile… risposta come sopra…

Era incinta, era incinta di mio figlio… mi chiese che cosa avrebbe dovuto fare…

La mandai a fanculo, era affar suo, non mio. Era grande, matura, per fare le sue scelte. Non aveva bisogno della manina per andare dal medico ed abortire.

Stavolta non mi chiesi nemmeno se avessi potuto fare qualcosa… ero solo un bastardo… lei se ne era andata, lei e il mio bambino, che portava dentro…

Perse il bambino, lo perse, quando voleva tenerlo, per colpa di quelle puttanelle, che mi vengono dietro.

Corsi sotto una dannata pioggia fredda, arrivai in ospedale, e i suoi zii e la cugina mi mandarono via.

Anche adesso è chiaro… certo che avrei potuto fare qualcosa allora… sfondare una porta, menarli, andare da lei, lei che si mordeva a sangue le labbra per non piangere, come fa sempre. Perché odia piangere. E io l’ho fatta piangere tante di quelle volte, che nemmeno lo voglio sapere con esattezza. Costringendola ad odiarsi. Aiutandola ad odiarmi.

L’estate era venuta ed era passata. Il campionato nazionale era venuto ed era passato, e lei non c’era. Non c’era più. E adesso era così tardi per ripensarci.

Si può essere sul tetto del mondo.

Guardare tutto dall’alto in basso.

Giocare e vincere.

Ancora, ed ancora, ed ancora.

Ma, un giorno, devi scendere.

È matematico che debba andare così.

E, quando cadi… quando scendi… quando i tuoi muscoli non rispondono più ai tuoi comandi…

Quando perdi…

Deve esserci qualcuno… uno, che ti stia accanto, anche senza parlare… che ti faccia sentire vivo…

Non con il gioco, ma con la vita.

Perché, prima o poi, si smette di giocare. Si deve vivere.

Ed anche se sei così maledettamente fortunato, da rimanere per sempre sul tetto del mondo…

Se sei solo…

Non ha senso…

La tua vittoria… la vedi solo tu…

Gli altri sono… com’era, Ayako?

Già… saranno tutti lontani con le loro vite. E sarai solo…

La vittoria, la tua vittoria non la vedi riflessa negli occhi di nessuno… nessuno che la veda anche più grande e bella di come la vedi tu…

Ci saranno persone che ti invidieranno, odieranno, ammireranno, sogneranno, criticheranno…

Ma mai nessuno che… in tutto l’Universo… sarà diverso da loro …

Mi fa quasi male aver finalmente dato forma a questo pensiero, che dormiva placido in me da quando lei se ne era andata. Non che se ne fosse stato zitto e buono questo pensiero, mi aveva graffiato dentro già prima. Peccato che avessi sempre fatto finta di non accorgermene.

Tutta l’estate, sempre per caso, mentre dormivo sulla mia bici, mi ero sempre svegliato di soprassalto di fronte alla sua casa vuota e chiusa, scrutandola attentamente, e ritrovandola sempre vuota e chiusa.

Sempre per puro caso, avevo chiesto alla sua vicina di casa se sapeva dove la signorina Kuno si trovasse, e quella, con fare complice e cospiratorio, mi aveva risposto che mancava da diversi mesi, ma si diceva che fosse all’estero.

Sempre per semplice casualità, ero sobbalzato dal mio sonno, sentendo Sakuragi spiegare a Mitsui che la nuova manager sarebbe stata Kaname Koishikawa, la cugina di Ayako.

Casualmente, per un mese intero, mi ero attardato alla fine degli allenamenti, cercando di parlare con la manager, salvo poi essere mandato a fanculo da lei stessa… mi disse, guardandomi con astio e disprezzo: “Scordatelo… so già che vuoi sapere dove è Ayako. Dimenticatela, tanto non ci hai messo molto… scegliti una delle tue ochette, e sbattitela. Ma mia cugina… dimenticatela…”.

Dimenticatela… dimenticatela… e io c’avrei anche giurato che non avrei potuto dimenticarla… semplicemente, perchè a lei non ci pensavo proprio… era stato solo sesso… io dovevo andare in America, entrare nell’ NBA, ecc, ecc…  Invece lei era diventata una specie di piaga addosso, una ferita che faceva un male cane, ma che ormai non sentivo più. Un fastidioso dolore di sottofondo, che ormai avevo imparato ad ignorare.

Ma che quando riprendeva a sanguinare, ero costretto a sentire. Per forza.

E adesso… per forza… stavo morendo, dissanguato…

Perché lei era davanti a me.

“Ciao ragazzi… come state?” disse lei allegra, rivolta con un caldo sorriso ai miei compagni di squadra

“Benissimo, Ayakuccia!” sorrise Miyagi… l’avrei voluto prendere a pugni… l’amava ancora… e io l’amavo come lui… più di lui… piccola differenza, Ayako parlava con lui… e sorrideva a lui…

“Sei sempre uguale, eh Ryota?” disse lei, ridendo, rivolgendosi a lui

“Che ci vuoi fare? È la forza dell’abitudine!” rise Miyagi, guardandola ancora, poi, ricordandosi di Hishi e Takeichi, disse: “A proposito, Ayako… mi sono dimenticato di presentarti i due nuovi componenti della squadra… lui è Eikichi Hishi… e lui… Kikuchi Takeichi…”

Le due imbarazzate matricole porsero la mano ad Ayako, mentre Miyagi spiegava: “Lei era nella nostra squadra, poi ha lasciato lo Shohoku…”. Silenzio di Miyagi sulla motivazione.

Ayako si sporse oltre di loro, riuscendo finalmente a vedere il resto della squadra: “Ciao Hisashi, non ti avevo visto!” disse, rivolgendosi a Mitsui, che si avvicinò a lei.

“Ciao Ayako!” rispose lui, abbracciandola… stalle addosso un altro mezzo secondo, e ti ammazzo, Mitsui…

“Sapevo che eri al Ryonan, ma non sapevo che facessi la manager… me l’ha appena detto Hanamichi…” riprese lui. Quel maledetto mentecatto, sapeva tutto di lei, ma non mi aveva detto niente. Bastardo… ovviamente, quella rompipalle psicotica della fidanzata gli doveva aver detto tutto… quindi, era la manager del Ryonan… mi sembrano passati tre millenni, da quando era la nostra manager… la mia manager…

“Sì” rispose sorridendo lei “E’ una storia un po’ lunga… non avevo alcuna intenzione di fare di nuovo la manager ad un gruppo di ragazzi rompiscatole… il Ryonan vi può fare tranquillamente concorrenza! E voi mi avete fatto esaurire! Il mister me lo aveva chiesto, perchè aveva visto che ci sapevo fare, ma non avevo alcuna intenzione di accettare, non volevo proprio più saperne! Poi anche qualcun altro non era d’accordo…”

“Questa storia la so!” l’interruppe bruscamente Sakuragi, ridendo a crepapelle, mentre Kaname gli mollava una gomitata nel fianco: “Ma ti stai zitto una buona volta, accidenti a te!”

“Qualcun altro? E chi?” chiese Mitsui curioso

Lei sorrise ancora… sorrideva troppo adesso… era troppo bella, quando sorrideva… e mi faceva troppo male…

“Akira…” rispose lei semplicemente… chi cavolo era Akira? Poi come un lampo, mi venne l’intuizione… Sendo… perchè non voleva?

“Poi sono riuscita a convincerlo… e il mister mi ha fatto continuare…” tagliò corto lei, guardando altrove, poi riprese: “Ma anche a voi è andata bene, no? Adesso avete un nuovo preparatore sportivo, e persino due manager!”

“Il baciapiselli è sempre una mezza sega, anche come allenatore!” rise Sakuragi, mentre Mitsui gli mollava un pugno sulla testa: “Ma come manager ci è andata stupendamente! A parte Kana, abbiamo anche Haruko!”

“Lo so” sorrise lei, salutando la cugina, l’Akagi e Mito “Ne avrete davvero molto bisogno… quest’anno il Ryonan è molto forte!”

“Che c’è? Fai il tifo per loro? Dì la verità che tifi ancora Shohoku!” disse Sakuragi, continuando a ridacchiare

Ayako fece un’espressione fintamente seria e rispose: “Assolutamente no… adesso sono una vera e propria tifosa del Ryonan!”, poi rise ancora e disse: “Anche se tutti voi avete sempre un posto nel mio cuore… ma adesso sto bene… Tomoyuki, Hiroaki, Kitcho… Hikoichi, Danny… e ovviamente Akira… sono un’ottima squadra, e mi hanno fatto sentire a mio agio sin dall’inizio… avrei voluto rimanere con voi, ma se questo non era possibile, alla fine sono contenta di come sia andata…”

Il mio petto si riempì di spilli… non era possibile per lei rimanere con noi… e adesso stava bene al Ryonan… avrei quasi preferito che vi si trovasse da schifo, invece…

“Buongiorno signor Anzai!” salutò lei il mister, che si era lentamente avvicinato a noi. Ayako si avvicinò a lui, chiedendogli affettuosamente come stesse.

“Non c’è male, Ayako…” rispose lui, sorridendo come sempre “Mi sembra che anche tu stia bene… sono contento, non sei cambiata molto, sei sempre la solita Ayako, ne sono felice…”

Non che questo fosse del tutto vero… l’aria di Ayako era sì la stessa, sbarazzina e vivace, come sempre, ma c’era qualcosa di nuovo, di diverso. Era più serena, più tranquilla, più matura. I suoi capelli erano rimasti ricci, ma erano leggermente più chiari, e adesso li portava legati in una coda alla sommità della testa. Indossava la divisa del liceo Ryonan, una camicia bianca, una cravatta celeste, una gonna a pieghe corta sempre celeste, una sorta di lunghi calzettoni scuri, che le arrivavano oltre le ginocchia. Ma io… io vedevo in lei di più di prima… ogni cosa diversa… si era fatta i buchi alle orecchie e portava un paio di lucenti cerchi d’argento. Oppure, era comparsa una piccola cicatrice sul suo sopracciglio sinistro. Ero sicuro, certo che non l’avesse mai avuta. Vita che era trascorsa, passata, scorsa, senza di me. Qualcosa che la segnava dove io non c’ero. Anche i suoi occhi erano più sicuri, più determinati, come erano quando l’avevo conosciuta. Niente dell’insicurezza che io le avevo dato, mio malgrado, era rimasta, evaporata alla luce di un nuovo sole, accecante e incandescente. Adesso stava ridendo e stava dicendo al mister: “Taoka non ha niente a che vedere con lei, urla e strepita dalla mattina alla sera, specie con Akira, che è sempre in ritardo! E alla fine si sfoga ed urla anche con me!”

Tutti ridevano, sembrava quasi che lei non se ne fosse mai andata… se quel maledetto giorno, non avessi… lei sarebbe ancora così, con la squadra… lei sarebbe ancora qui con… me… sembrava così irraggiungibile…

Ad un tratto, qualcuno la chiamò alle sue spalle, l’americano che le faceva segno di venire lì.

“Scusatemi, ma adesso devo andare… sicuramente Akira sarà ancora in ritardo…” disse lei, guardando alle sue spalle “Danny entra in panico, quando Taoka inizia a gridare… mi ha fatto davvero piacere rivedervi… dovremo organizzare una rimpatriata una sera di queste…”
”E’ una buona idea!” esclamò allegra Haruko, guardando Mito “Potrebbero venire anche i ragazzi del Ryonan! Magari riesco a sistemare qualcuno di loro con le mie amiche!”

“Anche se in lista d’attesa, ci sono Takamiya e gli altri?” ribatté Mito, poi lui e Sakuragi si guardarono e sospirarono contemporaneamente: “E chi se la prende quella vecchia scrofa?!”

Ayako rise e si voltò per andarsene. Che ne so, fu solamente allora che sentì di nuovo i nervi dare impulsi alle mie gambe, che si mossero verso di lei. La presi per il polso e la fermai: “Aspetta”

Lei si voltò e mi guardò. Ferocemente. I suoi occhi erano cambiati, erano freddi di fiamme nere, mi guardava con odio. Era stata così calma fino ad ora, e ora era così? Semplice. Non mi aveva guardato fino a quel momento…

“Lasciami… immediatamente…” sibilò freddamente, guardandomi dritto negli occhi “Ti ho detto di lasciarmi… Rukawa…”

Mi spezzò il cuore sentirla chiamarmi così, ma mi feci forza e le dissi duramente: “Ho bisogno di parlarti”

Lei si divincolò dalla mia presa e rispose ancora: “Io non ho niente da dirti e, per il resto, mi sembra di averti già detto tutto… che cosa vuoi adesso? È passato un anno… Rukawa…”

“Smettila di chiamarmi così, maledizione!” le urlai contro. Mi faceva male ogni fottuta volta che pronunciava il mio cognome in quella maniera. Non avrei dovuto urlare. Lei si ritrasse leggermente, e la gente intorno a noi iniziò a seguire più attentamente il discorso.

“C’è qualcosa che non va, Ayako?” sentii una voce vicino a noi. Alle sue spalle, si era materializzato Akira Sendo.

Lo guardai con astio… che cazzo voleva lui adesso?

Lei si voltò a guardarlo e sorrise dolcemente: “Non è successo nulla, Akira… sto arrivando…”

Finalmente lui si volse verso di me e mi disse: “Ciao Rukawa, finalmente ci si rivede…”; il suo tono era allegro come sempre, ma qualcosa nella sua voce stonava. Chiaro, Ayako doveva aver raccontato tutto anche a lui.

Non gli risposi e invece dissi ad Ayako: “Appena finisce la partita…”

Lei non disse né di sì, e nemmeno di no, prese per il polso Sendo, voltandosi e andandosene. 

Tornai sui miei passi e presi con rabbia il pallone in mano, iniziando di nuovo a palleggiare con foga. Avevo quasi la sensazione che ora invece di farmi innervosire, mi facesse calmare. Appena fosse finita questa maledetta partita, avrei rimesso tutte le cose a posto… Ayako avrebbe lasciato il Ryonan, sarebbe tornata in squadra e tutto sarebbe andato bene. Io sarei stato bene.

Quasi inaspettatamente, l’arbitrio fischiò la fine del tempo di riscaldamento e l’inizio della partita. Ci schierammo sulla linea, io che non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla panchina del Ryonan, dove sedeva Ayako. Si era cambiata, adesso indossava una tuta da ginnastica azzurra e aderente, e stava seduta accanto a Taoka, reggendo tra le mani un blocco per appunti. La nostra formazione iniziale era ovviamente composta da me, Sakuragi, Miyagi, Hishi e Takeichi, che borbottava all’indirizzo del capitano: “Speriamo che la vostra amica non abbia rivelato tutti i nostri segreti al Ryonan!”. Non mi detti nemmeno pena a rispondere a quell’imbecille. Il Ryonan invece iniziava con Sendo, Fukuda, Aida, Scott e Koshino. Ero proprio curioso di vedere come giocava sto cavolo di americano, Anzai ci aveva detto di stare attento a lui, ma a me continuava a non sembrare tutto sto granché.

Saltarono assieme Sakuragi e Fukuda per la rimessa a due, ma la palla fu conquistata da noi. Sakuragi passò subito a Miyagi, che avanzò velocemente, come sempre era una vera scheggia, riuscendo a passare a Hishi a pochi passi dall’area. Koshino lo marcava stretto però, e quindi quel coglione ripassò di nuovo a Miyagi, che lanciò a palla verso di me. Mi ritrovai di nuovo di fronte Sendo, mi sentivo pieno di adrenalina, questa volta non gliela avrei fatta passare liscia. Quella che era la nostra antica rivalità adesso era diventata persino maggiore. Il tempo aveva fatto molto, e Ayako aveva fatto tutto, sentivo il suo sguardo su di me e su di lui. Non gli avrei lasciato quella palla per niente al mondo. Continuavamo a studiarci, io che cercavo di fregarlo, ma quello, niente, mi continuava a stare addosso. Mancavano dieci secondi, dannazione… cercai di scartarlo, ma quello riuscì a fregarmi e mi rubò la palla, correndo verso il nostro canestro. Imprecai tra me e me, e lo seguii, lui passò ad Aida, marcato da Miyagi. Aveva fatto molti progressi quel piccoletto, era diventato veloce e aveva sopperito l’assenza di un playmaker nel Ryonan; con una serie di finte, si liberò di Miyagi e passò a Scott, che era marcato da Takeichi. Nonostante fossero entrambe due matricole, non c’era praticamente storia. Dan Scott era veloce, preciso e dotato di un gioco particolarissimo, sembrava che stesse facendo una cosa, ma in realtà era in procinto di fare tutto il contrario. Takeichi rimase come un coglione, fermo, e quello riuscì a segnare. Vaffanculo… Ryonan 2 - Shohoku 0. Allora era così che giocavano gli americani… sentii di nuovo nelle mie vene quell’antico mio pensiero, che sembrava essersi perso. Volevo aver anch’io quella marcia in più, quel gioco che sembrava stare solo nel tuo sangue, e farti giocare come se stessi facendo la cosa più normale del mondo. A questo pensavo, quando sentii la voce di Ayako incitare l’americano… me ne ero dimenticato… fregai Fukuda, e mi diressi, verso il canestro, riuscendo a segnare. Quella fottuta partita doveva finire quanto prima… dovevo parlare con Ayako… dovevo parlare con Ayako…

Solo a quello pensavo in quel momento.

Dovevo parlare con Ayako.

Stavo rientrando in area, quando mi sentii urtare da qualcuno. Era quel rincoglionito di Fukuda.

Borbottai qualcosa e quello rispose: “Come sei delicato!”, non lo degnai di considerazione e continuai a camminare.

“Adesso capisco perchè Ayako ti ha lasciato…” iniziò a sghignazzare tra sé e sé.

Strinsi i pugni, cercando di ignorarlo… questo figlio di puttana… se l’arbitrio mi vedeva massacrarlo, mi avrebbe espulso…

“Lo sai che adesso sta con Sendo?”

Si può morire due volte nella stessa giornata?

A quanto pare, sì.

 

Errori io ne ho già fatti abbastanza,

se almeno poi però questa mia esperienza

mi aiutasse a chiedermi, riflettici, aspetta un secondo,

e invece no, e invece so che

io non imparerò a crescere

non perdere le cose che

almeno una volta fan crescere

non perdere le cose che almeno una volta

potevo fare giuste

e che non è difficile per uno meno instabile

solo gestirsele

e invece poi

e invece mai che riesca a tenermele strette

che riesca a conservarmele

sarà paura o sarà che…

Dentro i viali e nei vicoli

Che giro in macchina a vuoto

Vedo coppie abbracciarsi e stringersi che non avrei mai notato

Se non sapessi che

Non sapessi te

Lontana, lontano, lontanissimo

Ricorderò maledirò

Il giorno che ho detto no a crescere

non perdere le cose che

almeno una volta fan crescere

non perdere le cose che almeno una volta

potevo fare giuste

e che non è difficile per uno meno instabile

solo gestirsele

e invece poi

invece mai che riesca a tenermele strette

che riesca a conservarmele

sarà paura o sarà che è proprio il cambiamento in sé

che fa venire strane idee,

pensare di non essere adulto e non volubile.

Per crescere, non perdere le cose che almeno una volta…

Riuscire a conservarmele…

Sarà paura o sarà che…

 

(Almeno una volta_ Max Pezzali)

 

Ecco a voi, finalmente il settimo capitolo! Come vedete ci è stato un  enorme colpo di scena… eheheheh! Sono veramente perfida! Se provate a leggere le parole della canzone di questo capitolo, vedrete che sono quasi cucite addosso a Rukawa, no? Manca poco alla fine, credo uno o due capitoli massimo, devo ancora definire alcune cose… come sempre, un enorme ringraziamento a coloro che stanno avendo la pazienza di leggere e commentare questa storia, che mi è costata, non mi stancherò mai di ripeterlo, una fatica immane! Quindi un enorme bacio ad Akane (grazie enormemente, pensare che lascio senza parole è un bellissimo complimento, considerando che notoriamente non mi piace quello che scrivo!), Sasa (grazie tantissimo, avevo il dubbio perenne di aver stravolto i personaggi, ma invece sono contenta che tu li percepisca come erano nella “realtà”, era quello che volevo arrivasse!), Hinao (la tua recensione mi ha fatto davvero tanto piacere, soprattutto considerando i tuoi gusti nelle fic di Slam Dunk, quindi già per averla letta ti ringrazio! Ma grazie soprattutto per la tua recensione completa e precisa, specie su Haruko! L’ho detto, è stato difficile scrivere dal suo punto di vista, quindi insomma sono contenta, anche per la tua lacrimuccia! Evviva, me felice!), Hotaru Tomoe (la tua recensione è stata assolutamente la mia preferita, l’analisi che hai fatto di Haruko mi ha fatto pensare, ma ci ho messo davvero tutte queste cose io in lei? Credo che sia stato difficile perché ho dovuto parlare di una cosa che mi è successa di recente, vedere uno che mi piaceva mettersi con un’altra e quindi insomma… forse alla fine ci sono riuscita proprio per questa ragione! Per quanto riguarda il POV di Yohei, che anche io adoro, è su quello il mio dubbio… credo che all’ultimo capitolo, per concludere la storia, dovrò mettere un POV diverso e sono indecisa tra quello di Yohei, di Haruko o di Kaname!).

Un mega bacione anche a coloro che leggono e non recensiscono!

A presto, Cassie!

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Capitolo 8
*** Something important... lately... ***


Capitolo 8 – Something important… lately… (Ayako Kuno)

Capitolo 8 –  Something important… lately… (Ayako Kuno)

 

Il senso della vita… è una domanda da filosofi, teologi e gente troppo annoiata. Di solito, la gente la vive la vita, piuttosto che interrogarsi sul suo senso. In fondo, chi ne ha una risposta? Nessuno, e allora che chiederselo a fare? Si va avanti, salvo rapidi sprazzi di tristezza e malinconia, in cui quella domanda ritorna, piena di prepotenza. Allora, ti devi rispondere, altrimenti non vai avanti. Solo dandoti una piccola e stupida risposta, riuscirai a dimenticarti quella domanda e così riprenderai a vivere.

Me le ero fatta anch’io quella domanda.

Tantissime volte, quando la mia vita sembrava essere finita.

E non avevo trovato risposta.

Come era normale che fosse.

Poi, un giorno, a quella domanda se ne era affacciata una di risposta.

E, strano a dirsi, io non mi ero nemmeno fatta la domanda, perlomeno quella volta.

Ma arrivò lo stesso. Timida, incerta, come un’alba in un giorno pieno di nuvole, che preannunciano un temporale lontano.

Il senso della vita… siamo… noi…

Ogni persona è il senso della vita di qualcuno. Ogni persona, anche con un gesto apparentemente minuscolo, finirà per cambiare la vita di un altro. Perché, alla fine, cambiare è il senso della vita.

Con quella soluzione, tutto filava. Tutto aveva senso.

Persino… Kaede Rukawa… aveva senso nella mia vita…

Magari, è una forzatura, ma meglio cedere ad una soluzione spiccia come questa, che non trovare nulla a cui aggrapparsi e lasciarsi andare giù, in un inferno di domande che ronzano nella mente, quando si spegne la luce, e la cui risposta è così dannatamente lontana che vorresti solo smettere di pensare.

Continuai a guardare la partita tra lo Shohoku e il Ryonan, mentre Taoka accanto a me sbraitava come un ossesso contro i suoi giocatori. Per lui, non era mai abbastanza. Lo capivo. Doveva continuare a spronarli, a spingerli a giocare e a vincere. Anche se avevano battuto il Kainan, l’avversario di sempre, l’avversario di tutti. Era il rischio più grande cedere all’orgoglio, quando i giochi non erano fatti, quando si poteva ancora perdere tutto, e quando ci si lascia andare a ciò che si ha. Si sa, la molla di ogni azione umana è la nostra innata insoddisfazione; sono pochi quelli che sfuggono a questo drammatico trabocchetto, e quei pochi o sono pazzi o sono angeli.

Osservai con un sorriso Akira scartare una delle due matricole dello Shohoku, mi sa Takeichi, e segnare un altro canestro. Appena riappoggiati i piedi a terra, lui si era voltato, mi aveva guardato ed aveva sorriso. Faceva sempre così ed io, ogni volta che incontravo i suoi occhi sorridenti, dopo aver segnato, mi chiedevo che cosa pensasse in quel preciso momento. Una volta, mentre passeggiavamo, glielo avevo chiesto. Potevo avere mai una risposta normale da lui? Certamente no. Mi aveva stretto più forte la mano, mi aveva guardato, aveva sorriso come faceva sempre e aveva risposto semplicemente: “Mi viene di guardarti, di vedere la tua faccia… non lo so perchè…”, e io avevo scrollato il capo, scettica. Io non faccio mai niente senza pensare. Non che mi aspettassi una risposta diversa da lui, sapevo che avrebbe risposto così, ma mi sembrava… strano… come sempre… lui era così, Akira era così, faceva tutto perchè lo sentiva. Non pensava, sentiva. Sempre. E raramente sbagliava. O meglio, sbagliava, ma anche dal suo sbaglio, ricavava qualcosa. Insegnamenti? No, troppo semplice. Ma qualcosa sicuramente. Perché per lui sentire era vivere. Quella volta, era tornato a guardarmi, e mi aveva attirato a sé, stringendomi per la vita. Mi aveva baciato sulla tempia e mi aveva detto, ironico: “Che c’è? Vuoi che non ti guardi più?”, ed io avevo spalancato la bocca, gli avevo dato una piccola gomitata e gli avevo risposto: “Non ti azzardare neanche!”.

Un nuovo canestro. Un nuovo sguardo. Un nuovo sorriso.

Lui non pensava mai, e io pensavo troppo. Era stato questo a portarci insieme? La solita legge, vecchia come il mondo, dell’attrazione tra gli opposti? Non lo so, e non lo voglio sapere. Le mie domande, mi sono resa conto solamente adesso, sono sempre state troppo inutili, troppo futili, cose che prima sono enormi, sconfinate, infinite, nella mia mente vengono rimpicciolite delle dimensioni di una nocciola. Per quelle maledette domande, che mi faccio sempre. Adesso spesso le evito, le eludo, le aggiro, come rami d’alberi sull’asfalto di un’autostrada deserta, e ci riesco quasi sempre.

Quasi sempre…

Quasi sempre…

Sì, quasi sempre… perchè devo pensare prima di fare una cosa, specie se importante. Specie se da questa dipenderà molto di quello che ho dentro. Akira segna, e mi sorride ancora. Sono come sempre trenta millesimi di secondo, ma non ne potrei fare a meno, mi cerca e mi trova. Una sola volta non l’aveva fatto, durante la partita contro il Kainan, perchè sembrava che Danny si fosse fatto male, e mi ero quasi offesa, salvo poi sorridere di nuovo come una cretina, quando mi aveva guardato di nuovo. Stavo impazzendo… impercettibilmente il mio sguardo si fermò su Kaede Rukawa. Era immobile in mezzo al campo, non si muoveva e guardava verso di me. Ma che cavolo vuole? Mi chiesi, aggrottando le sopracciglia. Certo, che quel tipo è proprio strano, mi dissi con sincerità. Ed è proprio strano anche che io ci sia stata insieme… sembrano millenni fa… a ricordarmelo, mi fa venire la pelle d’oca. Eppure, un anno fa, stavo con lui, no? Sì, ci stavo già da un mese buono… stavo, che parola grossa… ci stavo assieme per come si può stare con uno come lui. Al buio di una camera da letto, fingendo di ignorarsi per il resto del tempo.

Ad un tratto, mentre l’azione riprende, lo vidi correre verso l’area e, mentre Akira lo scartava, dargli intenzionalmente Lo seguii, mentre riprendeva a correre, si avvicinava ad Akira, dandogli intenzionalmente una gomitata nella foga dell’azione. Akira cadde per terra, preso di sorpresa, o forse anche intenzionalmente, perchè il basket è la sola eccezione alla sua mancanza di pensieri troppo ingombranti. Cercava evidentemente di far fischiare un fallo a Rukawa. In campo, pensa sempre ed anche troppo. L’arbitrio fischiò un fallo intenzionale, mentre Rukawa abbassava il capo e sollevava la mano in segno d’assenso. Ryota corse verso di lui, rimproverandolo, mentre Akira rimaneva a terra. Mi spaventai e mi alzai di scatto dalla panchina; ebbi paura, sì, una folle paura, che mi soffocava la gola, come una nebbia scura e densa. Fui vicinissima allora… vicinissima a mettermi ad urlare, con tutta quella gente intorno, che mi guardava e che mi odiava… urlare ad Akira che lo amavo, da impazzire, come non credevo di poter mai fare. E lui sapeva che non glielo avevo detto, lo sapeva. Probabilmente gli sarebbe venuto un colpo apoplettico, se glielo avessi detto allora. Lui me lo aveva detto, anche prima che ci mettessimo assieme, scherzando, ma me lo aveva detto. Perché lo sentiva. E perchè lui raramente sbagliava. Infatti, me lo aveva ripetuto, quando c’eravamo messi assieme, tante e tante volte, l’ultima delle quali la sera prima. Ma io mi ero stata zitta, ed avevo abbassato lo sguardo. Non perchè non lo sentissi, c’erano momenti, in cui raggiungevo una consapevolezza tale da spaccarmi l’anima in mille pezzi. Ma poi c’erano altri momenti, quei maledetti attimi in cui mi ricordavo come era finita con Kaede e la mia convinzione di quei giorni di esserne innamorata. E allora stavo zitta, la paura che soffocava il mio amore. Lui, d’altro canto, non diceva niente, taceva e sorrideva come quando una cosa lo faceva stare male, ma non voleva permettersi di lasciarsi andare.

Perché il mio Akira ha sette tipi diversi di sorriso.

Uno, quando è davvero felice per qualcosa.

Un altro, quando è in imbarazzo.

Un altro ancora, per quando gioca a basket.

Un altro, per quando ti sta prendendo in giro.

Uno, per quando sorride per educazione.

E poi uno, quando mi vede arrivare.

E poi, strano a dirsi, uno per quando sta male.

Akira non sta mai male. È impossibile? Sì, lo penso anch’io. Nessun essere umano può evitare di soffrire, e, anche se tante di quelle volte lui nella mia mente si è profilato come un angelo, Akira non può fare eccezioni. E alla fine me ne sono accorta, mi sono resa conto di quanto la tristezza tocchi anche lui e sporchi il suo sorriso vuoto di pensieri ingombranti. Quando soffre, lui chiude gli occhi solo per un attimo, rimane così, come ad annegare la sua tristezza in un infinito mare di luce bianca come la sua anima, poi li riapre, sbatte le palpebre un paio di volte e poi sorride. Sì, sorride. Di un sorriso meno caldo e più tirato del solito, ma sorride. E a me spezza il cuore. Più di un urlo, di un pianto, di un scatto di collera.

Tirai un sospiro di sollievo, per fortuna, si era alzato da terra, aiutato da Danny e da Hikoichi, e io mi sedetti di nuovo. Mi fece un cenno con la mano e io annuii con il capo con sollievo.

Eccoli, quei maledetti momenti di terrore, di paura, che mi spegnevano dentro il mio “ti amo anch’io”, e stavolta non c’entrava niente Kaede. Ero solo io che agghiacciavo per tutto questo, tutto quello che era nato tra me e lui.

La mia totale dipendenza da lui.

Parliamoci chiaro, sono sempre stata una ragazza molto indipendente, una che non aveva mai bisogno di appoggiarsi a qualcuno, mai per nessun motivo. La perdita di tutta la mia famiglia, dei miei genitori prima e di mio fratello poi, mi hanno resa decisa, determinata, ferma, più forte di una persona normale. Lo sapevo io stessa, e ne ero orgogliosa; per questo, mia zia mi aveva concesso di vivere da sola, sapeva che potevo cavarmela, anche se non me l’avrebbe detto mai, comunque sicuramente non avrebbe fatto lo stesso per Kaname. Avevo chiaramente ipotizzato che dalla morte di mio figlio ne sarebbe scaturita la stessa identica realtà oggettiva. Mi sarei fatta più forte. Da un certo punto di vista, fu anche così, ero forte come una roccia ormai. La roccia è fredda, però, basta toccarla e ti fa ghiacciare la mano. Niente del tuo calore va da te a lei. Rimane fredda. Io rimanevo fredda. Ero forte, sì, ma il rovescio era che non ero nient’altro di diverso da questo. Ero solo forte. Vivere è tremendamente facile così, se niente ti tocca. E i primi mesi ero anche convinta di stare bene.

Ma credo che in fondo Dio esista. Non è mai troppo presente, e in ultima analisi, il trucco per Lui è fare le cose talmente bene che noi riusciamo ad non accorgercene, o fare finta di non essercene accorti. Magari dopo, si urlerà al miracolo, alla grazia, al prodigio. Lui fa le cose talmente bene che io non me ne sono mai accorta. 

Scelsi di andare al Ryonan per caso, e solo dopo aver saputo che Kaname si sarebbe trasferita allo Shohoku, cosa che ancora adesso non trova in me alcuna spiegazione. Un miracolo anche questo? Il primo giorno di scuola, ero lì che camminavo, persa nei pensieri più normali di questo mondo, quelli che, tanto per cambiare, mi creavo per non pensare a qualcosa di diverso, che mi avrebbero toccato troppo dentro. Allora, si finisce a pensare a cose come il cibo della mensa, oppure i soldi per comprare un nuovo braccialetto, e quelli credo fossero i miei pensieri abituali da mesi e mesi prima. Mentre come sempre pensavo ad una di quelle cose stupide, venni urtata da qualcuno. Una sagoma mi superò con uno: “Scusami!” e proseguì dritta, correndo. Solo allora mi ricordai che Akira Sendo aveva la mia stessa età, e che probabilmente avrebbe frequentato la mia stessa classe, come sarebbe successo effettivamente. I miei pensieri cambiarono e si indirizzarono su di lui per la prima volta, ma non per l’ultima. Perché lui si incastrò nella mia mente, trovando una collocazione perfetta tra il dolore sempre nascosto per la mia famiglia, la rabbia per Kaede, la disperazione per mio figlio, tra ogni cosa che rimaneva a morire nella mia anima in attesa di un giorno inesistente in cui se ne sarebbe andata. Il pensiero di lui, un giorno, divenne così grande che non riuscii più ad ignorarlo. Lui lo faceva crescere inavvertitamente, senza accorgersene, un potere meraviglioso e supremo che scaturiva da lui ogni volta che lo guardavo, gli parlavo o gli sorridevo. Fece suo tutto quello che c’era in me, purificandolo, facendolo diventare qualcosa di nuovo, qualcosa di più bello, di più colorato. Ero piena solo di lui, soltanto di Akira. Dei suoi sette sorrisi diversi e della sua mancanza assoluta di pensieri. Sembrava quasi che non ci sarebbe stato più posto per nient’altro.

Lui non mi basta mai. Questa è la verità.

Normale che, se penso che questa cosa è mortale, che è umana, che può spegnersi e finire, e che in fondo tutto quello che c’era in me, c’è sempre, anche se più nascosto e meno ribollente di prima, ho paura. Da morire. Perché non saprei che cosa fare, se non l’avessi più.

Tornerebbe tutto come prima?

Io, forte come una roccia?

Il dolore che si nasconde, o che esplode e mi uccide per overdose?

Overdose… risata amara… non sarebbe poi così strano, considerando…

Scrollai il capo, era inutile pensarci, era soprattutto stupido pensarci. Perché anticipare con le domande quello che non è ancora successo? Touchè, nuova domanda. Non sono proprio capace di farne a meno.

Taoka chiamò il time out, mi ero distratta e non stavo più seguendo la partita. Guardai preoccupata il tabellone, e respirai di sollievo; meno male… vincevamo per 82 a 75. Mi venne da ridere, chi l’avrebbe mai detto che non avrei più guardato con terrore la parte luminosa dello Shohoku stare sotto di qualche punto rispetto alla squadra avversaria? Perché allora Taoka ha chiamato il time out? I ragazzi si avvicinarono alla panchina, stanchi e sudati, ma abbastanza su di giri. Chiaro, stavano vincendo… presi le bottigliette dell’acqua e le porsi ad ognuno di loro. Arrivata ad Akira, lo vidi strano, diverso, era calmo, ma qualcosa stonava in lui. Prese la mia bottiglietta con un sorriso e mi ringraziò leggermente.

“Che hai?” chiesi, guardandolo preoccupata.

Lui sembrò risvegliarsi da una sorta di suo pensiero nascosto, sbattendo le palpebre un paio di volte. Doppiamente strano. Il motivo lo si sa. Akira non pensa mai troppo. Guardai i suoi occhi blu e mi chiesi se era giusto, o, che ne so, normale, che in una relazione lui capisse sempre tutto di me, e io quasi mai niente di lui.

“Akira!” lo chiamai ancora, prendendolo per la spalla.

Sollevò finalmente gli occhi, nel suo viso non c’era ombra di sorriso. Mi raggelò il sangue nelle vene.

“Ti ama ancora…” disse secco, l’espressione seria che stonava con i suoi tratti. Lo guardai senza capire, si riferiva a Kaede? Certo che si riferiva a Kaede… e a chi sennò? Poteva anche essere che si riferiva a Ryota… sì, come no.

Scrollai il capo e risposi altrettanto secca: “Potrebbe anche essere… ma non mi interessa… lo sai, no?”.

Quel breve momento di smarrimento, in cui la sua paura aveva trovato uno sfogo per lui troppo evidente, finì. La sua parte più profonda l’avevo tranquillizzata. Quindi, poteva ritornare il suo sorriso solito, anche se ci giuravo, quel pensiero era rimasto in lui, ma almeno era meno ossessivo di prima, tanto che poteva tornare sé stesso. Sospirai di sollievo, meno male… forse lo conoscevo abbastanza bene, in fondo…

Sorrise e rispose, socchiudendo gli occhi: “A dirla tutta, ma proprio tutta, non che io lo sappia totalmente… una certa signorina non si decide a dire due magiche paroline, nonostante io gliele abbia dette una quarantina di volte, ma lei niente…”; arrossii come una cretina, con lui era peggio che avere tredici anni. Adesso gli veniva, accidenti a lui?!!

“Ti sembra il momento?!” sibilai, guardandolo storto.

Alzò gli occhi al cielo e disse, sempre con quel suo sorriso irritante: “Già, perchè non è mai il momento giusto! È vero! Dimenticavo che non l’hanno ancora creato il momento giusto per te!”, abbassò lo sguardo e sussurrò suadente, un tono complice ed ironico, mentre si avvicinava al mio viso ed io arrossivo di nuovo: “Vedrai che ti sentirai meglio, quando me l’avrai detto… si vede che sei innamorata persa di me…”

Gli pestai il piede, dicendogli: “La smetti?!”

Lui si lamentò qualche secondo, poi scoppiò a ridere, mentre l’arbitrio li richiamava in campo.

“Me lo dai un bacio?” mi disse, sorridendo ancora. Sorriso numero 4: mi sta prendendo in giro.

“NON CI PENSO PROPRIO!” urlai. Prima mi fa incavolare, e poi mi vuole baciare?! Lo sa che mi da fastidio parlare di questa “cosa”, di sto benedetto maledetto “ti amo” che non so dire, ed è sempre lì, pronto a rimarcare! E poi ci sono quelle quattro idiote delle sue fan, se lo bacio, mi linciano. Poco importa, se quando fa quella faccia da bambino dispettoso, me lo bacerei trentacinque volte al secondo. E poi ci sono Ryota, e pure Kaede, e già quello mi vuole parlare, e se lo vede pure che mi bacia, allora me lo ammazza, e poi… che faccio in tempo a finire di ragionare? Assolutamente no! Mi prese per la vita e mi baciò, attirandomi a sé, mentre le solite ragazzine urlavano come delle forsennate. È quasi patologico che mi piaccia così tanto baciarlo, se non fosse stato per Taoka, che iniziò ad urlare come un forsennato contro Akira, per le urla, e per le risatine del resto della squadra, non l’avrei più lasciato. Mi sussurrò sulle labbra, la sua voce così dannatamente dolce che quasi mi mettevo a piangere come un’imbecille: “Ti amo…”, poi si allontanò, la sua solita voce rompiscatole che continuò per lui, mentre tornava in campo: “E già che ci sono, mi rispondo da solo: TI AMO ANCH’IO!! Tanto se aspetto te, arriva il prossimo millennio!”.

Mi guardai attorno, una mano sul capo… meno male che non l’aveva sentito nessuno… accidenti a lui, lui e la discrezione abitano in due pianeti diversi! Sorrisi mio malgrado. Non ne potevo fare a meno. Solo allora mi accorsi di uno sguardo azzurro su di me… Kaede mi stava fissando da prima. Sostenni il suo sguardo con astio. Alla fine, è quello che rimane. Quello che rimane dell’amore, o pseudo tale.

Una preghiera… Dio, scusami, se Ti scoccio ancora.. hai già fatto così tanto per me con questo angelo dispettoso e irritante come un piccolo spiritello cattivo… ma Ti prego, solo questo… soltanto questo… che qualsiasi cosa succeda, che non finisca mai così tra me ed Akira… che io non lo possa odiare mai, che non ci sia mai uno sguardo duro e freddo come roccia tra me e lui, quando questa cosa finirà… se proprio deve finire…

 

 

Guardai il tabellone nervosamente, ancora un minuto e mezzo, e finalmente la partita sarebbe finita. Eravamo in vantaggio… 110 a 102, ma conoscevo lo Shohoku, sapevano rimontare anche all’ultimo secondo disponibile, e adesso avevano loro la palla. Socchiusi gli occhi, il loro gioco era sempre potente e devastante se si coordinavano e sincronizzavano, e infatti riuscirono a segnare, vincendo la resistenza della nostra difesa. Ma sapevo altrettanto bene che Akira aveva capito… il loro punto debole… non a caso adesso l’azione era stata Ryota–Takeichi– Hanamichi. Kaede non era intervenuto, quando la palla passava a lui, il suo desiderio di fare tutto da solo faceva cadere spesso del tutto il valore dell’azione. Akira se ne era accorto, e sfruttava la cosa a suo vantaggio, mettendolo sotto pressione quando aveva il possesso della palla. Nello Shohoku, molte cose erano cambiate, difficile non accorgersene. C’erano delle crepe nella loro squadra, Akagi prima faceva da collante, ma adesso era diverso. Ryota era un buon capitano, si intuiva un legame molto profondo tra lui ed Hanamichi, infatti le loro combinazioni erano eccellenti. Buono, era anche il gioco tra Takeichi ed Hanamichi, anche loro dovevano andare abbastanza d’accordo. Il punto debole era Kaede. Non passava mai, non faceva gioco di squadra, certo, se la cavava egregiamente, ma, se gli avversari capivano il suo limite, per lui non c’era storia. Hishi era sulla sua stessa lunghezza d’onda, ma, essendo molto meno bravo di Kaede, stentava di più. E poi Kaede… era cambiato… era irritabile, commetteva errori di nervosismo, inesperienza, tensione, errori da… matricola… la matricola che non era mai stata… chissà che cavolo aveva, non che mi interessi, ma… questa storia di volermi parlare, improvvisamente me ne sono ricordata… il mio cuore perde un battito… adesso, dopo tanto tempo, lui mi vuole parlare. Come se avesse importanza quello che lui vuole… mi ricordai improvvisamente le parole di Akira… lui mi ama? Adesso mi ama? Non c’è da aggiungere un “ancora” alla frase “mi ama”, ma un “adesso”. Ricordatelo questo “adesso” e non fraintendilo con un “ancora”, che non è mai esistito.

Vero?

Mi ritrovai a tremare, ad avere una sensazione strana addosso, come se avessi freddo, come se fossi stata sotto la pioggia per ore. Arrivai anche a guardare il tabellone con terrore. Adesso volevo che la partita non finisse mai. Che controsenso. Strinsi le mani ancora, mancavano quarantacinque secondi adesso… eravamo in vantaggio di quattro punti, ma la palla l’aveva ancora lo Shohoku. Kaede palleggiava fuori dalla nostra area, non riusciva ad avanzare, Akira che non lo faceva passare. Era così strano vederli davanti ai miei occhi tutti e due assieme, in carne ed ossa… l’angelo della mia vita e il diavolo della mia esistenza. I loro occhi erano così maledettamente blu, così dannatamente simili che, per un attimo, un lunghissimo e maledetto attimo, mi sembrò di cercare disperatamente quelli di Akira e di non smettere di trovare, invece, al loro posto, quelli di Kaede.

All’improvviso, il tempo era scaduto. La partita era finita.

Non sappiamo proprio che significa sentire il tempo. Come dovrebbe essere. E come magari è.

Mi sollevai di scatto dalla sedia. Mi misi a correre, la gente attorno solo urla silenziose, come zampilli d’acqua gelata su rocce fredde.

Fredde, perchè non vogliono sentirla quell’acqua.

Vogliono sentire il sole, che le bacia dalla culla turchina del cielo.

Voglio sentire il sole, non più volubile acqua, che scorre e passa.

Gli saltai in braccio, le mie gambe incrociate attorno alla sua vita e le mie braccia strette attorno al suo collo.

Lo baciai con tutta la forza di cui ero capace.

Quella maledetta forza da roccia, che mi portavo dietro da anni.

Mi strinse, sorpreso. E mi fece girare su me stessa.

Mi staccai da lui e gli accarezzai il viso.

Quel suo viso dolce d’angelo, che non cambiava mai: “Sono contenta che abbiate vinto… Akira…”

 

 

“Hanno infilato Taoka sotto la doccia! Andiamo a vedere!!”.

Sorrisi a Danny che correva verso gli spogliatoi con addosso la maglia del numero quattro dello Shohoku, quella di Hanamichi. Feci un gesto di concessione ad Hikoichi in modo che potesse anche lui andare a godersi l’evento storico, concessione del clima di festa e vendetta programmata da mesi. Nel tragitto, si misero a litigare come due bambini su chi dei due avesse giocato meglio. È proprio vero che tutto il mondo è paese, sembrava di essere ritornati al tempo delle liti eterne tra Kaede ed Hanamichi. Saranno le situazioni tutte uguali o i ragazzi tremendamente simili? Propendo per la seconda ipotesi.

Sorrido ancora come una scema, circondata da una folla di tifosi, ragazzine e giornalisti. Una di queste, la sorella di Hikoichi, aveva preso per il braccio Akira e se le era portato dietro per intervistarlo. Quello mi fece venire un po’ meno il mio sorriso, quella lì si voleva fare Akira da quando lo conosceva, ma ero talmente allegra che glielo concessi, tanto Akira era innamorato di me, mica di lei. Ahaha! ghignai nella mia mente sadicamente divertita.

Stavo camminando per tornare anch’io negli spogliatoi per assistere alla doccia di Taoka, lo ammetto anche io ci avrei goduto alquanto, quando mi sentii afferrare per il polso e tirarmi indietro. Cercai di divincolarmi, come se stessi annaspando. Cercai anche di graffiare il mio fantomatico aggressore, ma non ci riuscii. Mi sentii trascinare da qualcuno, che mi conduceva con sé. Appena riuscii ad inquadrare che si trattava di Kaede, smisi di divincolarmi e mi feci trascinare passivamente da lui. Sarebbe stato perfettamente inutile anche mettermi ad urlare e prenderlo a calci. Non l’avevo forse imparato a mie spese? Faccio troppo la melodrammatica in effetti, mi piace farlo, specie quando ho torto marcio. Quando mai avevo preso a calci Kaede o avevo provato ad oppormi a lui? Mai, eccola la risposta. Aveva sempre fatto i suoi sporchi comodi. E l’avevo lasciato fare.

Uno sgradito pezzo di ghiaccio nel petto, mi trascinò fino ad un corridoio deserto, dove c’erano degli uffici adesso apparentemente vuoti. Ebbi quasi paura, che voleva fare? Poi mi ricordai con astio che io ero sempre stata per lui quella che si doveva nascondere, quella che nessuno doveva vedere accanto a lui. Il giorno e la notte… lui e i suoi corridoi vuoti, Akira e i suoi baci di fronte a decine di persone…

Finalmente mi lasciò il polso, che massaggiai leggermente con l’altra mano. Mi aveva fatto male. A quanto pare, non ne poteva fare a meno. Forse non sapeva fare nient’altro.

Sollevai il mio viso, dandogli un’espressione di fastidio e di odio, e dissi: “Che vuoi?!”

Lui rimase immobile, guardandomi, poi si avvicinò a me e disse, la voce piatta e fredda più del solito: “Cos’è questa cazzata che stai con Sendo?”. Ero indietreggiata, finendo contro il muro.

Lo guardai negli occhi e risposi dura: “Non sono cazzi tuoi…”. Faceva paura questo odio, faceva paura quasi quanto l’amore che avevo per Akira. Due lame, ghiacciata una, incandescente l’altra, che mi tagliavano a fette il respiro.

“Certo che sono cazzi miei!” urlò, sbattendo le mani sul muro alle mie spalle, ai lati del mio viso. Sobbalzai e distolsi lo sguardo da lui, che adesso era a pochi centimetri dal mio viso. Non l’avevo mai sentito urlare così tanto… la sua voce poi… sembrava quasi rotta… la mia voce invece si era fatta più debole, meno intensa e meno decisa. Come sempre, mi faceva quasi paura. Quasi, aggiungo… perchè Kaede non era mai arrivato a farmi paura, anche in quei giorni fatali avevo avuto molta più paura di me stessa che di lui. 

“E da quando sarebbero fatti tuoi?” risposi in un sussurro, non guardandolo ancora, poi la mia voce si ruppe del tutto. La luce di Akira era troppo lontana da me. Il suo mare solo un eco nella mia mente, come la voce delle conchiglie. Totale dipendenza da lui, ricordi Ayako? E la dipendenza richiede presenza.

Finalmente, lo guardai negli occhi: “Da quando è affare tuo la mia vita?! Eh, da quando?! Da quando mi hai lasciato, da quando me ne sono andata o da quando è morto nostro figlio?! Da quando, eh?! Ricordamelo Kaede, perchè non lo so! O magari me ne sono scordata!”. Sentivo che stavo piangendo, quindi abbassai lo sguardo. Non volevo che mi vedesse mai più piangere, mai più, specie per lui.

Tremai, mentre la sua mano sollevava il mio mento, portando i suoi occhi a tiro dei miei. Cercai di indietreggiare ancora, ma ero ormai contro il muro. Mi sentivo in trappola. Quel maledetto destino di sangue, dolore e pioggia mi avrebbe lasciato libera stavolta? Kaede mi avrebbe lasciato libera stavolta?

“Non devi piangere… tu odi piangere…” mi disse, guardandomi e avvicinandosi di più a me. Sentivo il suo respiro sulle mie labbra, chiusi gli occhi, adesso sarebbe successo. Adesso ancora sarebbe successo, e poco importava che c’era Akira, con i suoi sette sorrisi diversi, che ci fosse che io l’amavo e che non lo volevo perdere. Akira, Haruko, Ryota… sarebbero stati tutti la stessa cosa nella mia testa, nella mia anima che bruciava tutto il resto in lui, nei suoi sguardi che accarezzavano quell’animale mai morto in me. Ripresi a piangere, più forte, mentre sentivo le sue labbra sulle mie muoversi leggermente, cercando di aprirle, sapore di sale nelle mie che rimanevano chiuse. Le sue mani mi strinsero sulla schiena, attirandomi vicina a lui, mentre mi sembrava che ogni resistenza fosse vana, vanamente inutile. Rividi nella mia testa tutto quello che era successo, tutto quello che era accaduto, tutto il dolore che non era mai andato via, ma non riusciva a toccarmi, a farmi tremare di quella giusta e necessaria rabbia, che io dovevo provare verso di lui. Li sentivo ancora addosso i lividi, che lui mi aveva procurato, le ferite che non si rimarginavano, i tagli che sanguinavano, i colpi inferti, che pulsavano senza sosta. Eppure, stavo lì a baciarlo. Bè, magari no… almeno a questo non c’ero arrivata, ero lì immobile, mentre lui baciava me. Sentii ad un tratto un rumore, come di una porta che sbatteva, e meno male che non ci doveva essere nessuno in questi corridoi, per una volta Kaede aveva sbagliato i suoi calcoli… magari, era qualcuno che tornava a casa, oppure qualche giornalista che se ne andava dopo la partita. Giornalista che se ne andava dopo la partita… come rompono quelli, sempre a chiedere, sempre a fare quelle maledette domande che io detesto, come quella là… come si chiama, la sorella di Hikoichi? Ah già… Yayoi Aida, che sbava dietro ad Akira… una scarica elettrica di inaudita potenza nei miei nervi…

Un corridoio deserto, un altro non questo.

Yayoi che poteva baciare Akira.

E io qui a baciare Kaede.

Che avrei fatto, se lo avessi scoperto?

Sarei impazzita.

E io qui a baciare Kaede. 

Che avrei fatto, se li avessi visti?

Sarei morta.

E io qui a baciare Kaede. 

Che avrebbe fatto Akira, se mi avesse vista?

Sarebbe impazzito. Sarebbe morto.

 

E io sto ancora qui a baciare Kaede.

 

“Smettila!” urlai, spingendo con forza le mani contro il suo petto ed allontanandolo da me. Lui finì contro il muro, e mi guardò stranito. Certo, pensava che ormai avesse vinto. Vinto, come ogni volta che aveva a che fare con me.

“Tra me e te è finita…” ripetei tra le mie labbra, come una canzoncina “Non ti azzardare mai più…”

“Eppure, mi sembrava che ci stessimo baciando… è un po’ incoerente, lo sai?” rispose lui, guardandomi con aria sospettosa. Non che avesse tutti i torti, che cavolo mi era saltato in mente? Possibile che mi facesse ancora questo maledetto effetto?

“Tu mi hai baciato, non io…” dissi con forza. Stavolta, non avrebbe vinto. Non poteva vincere ancora.

“Io sto con Akira…” continuai, guardandolo ancora e cercando di mantenere il mio sguardo limpido

“Lo so…” rispose lui, facendo un passo verso di me, al quale io mi feci indietro e dissi: “N-non puoi farti sempre tutti i cavoli tuoi, e pretendere che la gente ti stia ad aspettare…”. Me ne dovevo andare. Subito. Immediatamente. Quel maledetto incantesimo esisteva ancora… m’avrebbe di nuovo portata a lui… e non volevo, non volevo disperatamente… prima non c’era alcun motivo, adesso ce ne erano infiniti a trattenermi al di qua del precipizio… e il primo non ero io e il mio dolore, il primo era Akira e il suo amore.

Feci per voltarmi, ma lui mi afferrò di nuovo per il polso: “Aspetta… non te ne puoi andare così… io ti devo parlare…”; stavo già per rispondergli male, lo sapevo che modo aveva lui di parlare, e lo intuii ancora meglio quando lo sentii avvicinarsi al mio collo, spostando la coda di cavallo che cadeva sulla mia nuca. Poi lo sentii bloccarsi.

“Che hai, qui?” mi chiese, nel modo più innocente del mondo, come se stessimo parlando della lista della spesa, e mise un dito sulla mia nuca. Un dito freddo, che mi diede un brivido lunghissimo. Stavolta fu forte la domanda sul che cavolo ci facessi lì, tanto forte da nausearmi. Avevo capito che aveva visto Kaede. Il tatuaggio… un piccolo numero sette di colore nero, che mi ero fatta il mese prima sulla nuca.

Sette… i sorrisi di Akira…

Sette… il numero sulla sua maglia…

Sette… il giorno del mio compleanno e il mese di quello di Akira…

Sette… gli anni che avevo, quando morirono i miei…

E poi… sette…

Sette volte che mi chiedeva di uscire e dicevo di no, prima di dirgli di sì…

Sette ore a parlare con lui, una notte, accoccolata tra le sue braccia in riva al mare, mentre faceva giorno…

Sette biscotti, che Akira divora alla mattina, quelli con le gocce di cioccolato, non con il buco al centro…

Sette scalini, per arrivare alla porta della camera di Akira…

Sette rose arancio, sulle mie gambe, il giorno della vigilia di Natale…

Sette fragole, ricoperte di zucchero a velo, in un piattino giallo, quando mi svegliai per la prima volta nel suo letto…

Sette nomignoli che mi aveva dato, che andavano dal “principessa” all’ “ape isterica”…

Forse fu quello a darmi la forza, non lo so. Ricordare come un mantra quel numero infinite volte nella mia mente, ricordarlo e capire quanto avesse contato per me in quest’ultimo anno, ricordare quanto Akira avesse contato per me in quest’ultimo anno. Non potevo fargli questo, in nessun ragionevole modo.

Distaccai la mano di Kaede dal mio collo e mi voltai, guardandolo negli occhi. Adesso ci riuscivo, chissà perchè prima non c’ero riuscita…

Lui mi guardò perplesso, una leggera smorfia sul volto. Mormorò a bassa voce: “E’ il numero della maglia di Sendo…”

Annuii, anche se era solo un millesimo di quello che quel tatuaggio voleva dire per me.

Abbassò lo sguardo, e, per un po’, rimase in silenzio.

“Io credo di essere innamorata di lui, Kaede…” bisbigliai, guardando altrove. Sbattei le palpebre un paio di volte, l’avevo detto ad alta voce, l’avevo detto che amavo Akira. La gioia mi fece salire le lacrime agli occhi. Certo, l’avevo detto a Kaede, non ad Akira, ma sorvoliamo… per la prima volta, lo avevo ammesso compiutamente.

Lui era rimasto in silenzio. Abbastanza strano che se ne stesse così fermo. Non dico le parole, che le conta una per una, ma nessuna reazione? Possibile? Mi aspettavo pure uno schiaffo…

Stavo già per andare via, ma mi sentii trattenere ancora stavolta per la vita, con un braccio mi fece ruotare su me stessa e mi strinse tra le sue braccia. Fu quello il solo secondo, in cui, in tutta la mia vita, provai pietà per lui. Magari, è un sentimento orrendo, forse più dell’odio, e magari Kaede è l’ultima persona che ispira un sentimento del genere, ma mi fece quell’impressione, una sensazione dolceamara che cozzava contro l’immagine forte, che lui ha ed offre di sé. La pietà… una degenerazione dell’amore prima, e dell’odio poi?

“Non me ne frega un cazzo di Sendo, niente… non me ne frega un cazzo, mi hai capito, mi hai capito, Ayako?!” sussurrava sui miei capelli, stringendomi sempre più forte e togliendomi il respiro. La sua voce era silenziosa, ma nel mio sangue faceva l’effetto di urlo da accapponare la pelle. Cercai di dirgli di lasciarmi, ma era come se non mi ascoltasse, ripeteva sempre queste parole come una filastrocca stonata e non accordata; staccò poi il mio viso dal suo petto, e lo prese tra le sue mani, portandolo ancora davanti a sé.

“Ti amo, ti amo, ti amo…” continuava a ripetere, cercando di baciarmi di nuovo, mentre io lo evitavo ancora, muovendomi a destra e a sinistra.

“Smettila Kaede!” urlai finalmente con tutta la voce che avevo in gola.

Finalmente, mi lasciò andare, le sue palpebre che sbattevano, come se si fosse reso conto solo ora di quello che stava facendo. I suoi occhi erano spaesati, come se mi vedesse adesso per la prima volta; faceva sempre così, quando facevamo l’amore, quando mi diceva una frase un po’ più intensa del solito, quando il suo cuore si apriva… e poi ritornava lui… guardava con gli occhi sbarrati quello che era stato per un attimo… e forse capiva… puoi anche tenere nelle tue dita una stella, ma, se le tue mani restano chiuse, se i tuoi palmi non si aprono, se le tue dita non si sciolgono, nessuno l’avrebbe mai saputo. E avrebbero riso di quello che tu hai in mano. Perché per loro non hai niente, un pugno di mosche o poco più, come una sfida di carte dove bari e dici che hai l’asso, e vale più di tutte le carte, invece è solo un colossale bluff, per far venire fuori un altro. Questo avrebbero pensato. E magari era pure vero che ce l’avevi l’asso. Magari era anche vero che mi amava, magari era anche vero, ma… non l’avrei mai creduto, fino in fondo… perchè avrei avuto bisogno di vederlo il suo amore… sempre… ogni giorno… come si dice? Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia. Non quando non c’è una partita e ti è venuta voglia. No. Soprattutto non quando ti ricordi che ho perso un bambino, che era tuo figlio. Soprattutto non quando mi hai perso, esattamente come quel piccolo angioletto. Soprattutto non quando Dio me l’ha rimandato in un’altra forma. E io non ci ho mai creduto in Lui. E magari non ci crederò mai fino in fondo, ma in Akira devo credere. Almeno in lui devo credere.

Non dissi né un “Mi dispiace”, né uno “Scusami”. Quelle parole… le parole sono sempre troppo importanti… anche se era una bugia, prima che finisse tra me e lui, l’avrei voluta sentire almeno una di loro sulle labbra di Kaede… per me… perchè mai nessuna di loro sarebbe stata più azzeccata, più di quel stupido e tardivo “ti amo”, che per lui doveva essere stato così importante. Un mio “scusami” sarebbe stato come il suo “ti amo”… stupido e tardivo, anche se magari importante… quelle parole allungano troppo i discorsi, li dilatano e quelli non finiscono mai.

Mi voltai e andai via, correndo nei corridoi come una pazza.

Volevo solo vedere Akira, solo raggiungerlo.

Lo trovai che sorrideva imbarazzato alle avances di Yayoi. Mi sorrise, vedendomi, e io sorrisi a lui, appoggiando la mano sul suo braccio: “Devi andarti ad allenarti, Sendo, domani c’è la partita contro lo Shoyo!”; lui sorrise ancora e mi strinse per la vita, mentre Yayoi prendeva il volo. Mi attirò a sé e mi baciò, ripetendo: “Cercherò di vincere per lei, manager Kuno…”.

“Bravo Sendo… non ci potrebbero essere parole migliori di queste…” sussurrai a mia volta, abbracciandolo.

Gelai, sentendolo dire: “Dove sei stata?”.

Lunghissimi minuti mi separarono dalla risposta, lunghissimi minuti in cui soppesai le parole. Ere intere, giorni e vite intere che mi passarono sotto le palpebre chiuse. Poi, alla fine, come sempre, arrivò la timida risposta.

“Con Hikoichi e Danny… hanno infilato Taoka sotto la doccia…” sorrisi gaia e frizzante.

Tra la mia risposta e il suo “Davvero?” contento passarono tre secondi netti.

Uno… li ho mentito e ci ha creduto…

Due… è la cosa giusta, ne soffrirebbe e non ne avrebbe motivo…

Tre… spero di aver fatto bene…

Dopo il suo “Davvero?”, mi concessi il lusso di un altro secondo.

Tanto tra me e Kaede ormai è finita per sempre…

Inevitabile domanda. Maledetta domanda.

Ne sei sicura?

 

 

 

 

Parla in fretta e non pensar

Se quel che dici, può far male.

Perché mai io dovrei fingere di essere fragile,

come tu mi vuoi… nasconderti

in silenzi, mille volte,

già concessi,

tanto poi tu lo sai,

riuscirai sempre a convincermi che

tutto scorre.

 

Usami, straziami,

strappami l’anima,

fa di me quel che vuoi

tanto non cambia l’idea che ormai

ho di te,

verde coniglio dalle mille facce buffe.

 

Dimmi ancora quanto pesa

La tua maschera di cera,

tanto poi, tu lo sai, si scioglierà,

come fosse neve al sole,

mentre tutto scorre.

 

Usami, straziami,

strappami l’anima,

fa di me quel che vuoi

tanto non cambia l’idea che ormai

ho di te,

verde coniglio dalle mille facce buffe.

 

Sparami addosso,

bersaglio mancato,

provaci ancora, è un campo minato.

Quello che resta del nostro passato

Non rinnegarlo, è tempo sprecato.

Macchie indelebili, coprirle è reato.

Scagli la pietra chi è senza peccato,

scagli la pietra chi è senza peccato.

Scagliala tu perché ho tutto sbagliato.

(Mentre tutto scorre- Negramaro)

 

 

Finalmente il nuovo capitolo! Allora, premetto una cosa! Quando ho iniziato a scrivere questa storia, questo, ovviamente modificato, sarebbe stato l’ultimo capitolo. La storia sarebbe finita qui perché credevo di aver raggiunto il senso di quello che avrei voluto dire. Devo ammettere che però questa storia mi ha preso la mano, molto più di quanto credessi possibile. Non so come spiegarmelo, ma è come se adesso questi personaggi avessero una vita loro e mi tirassero dove vogliono loro. Quindi, per vostra disgrazia, questa storia continuerà ancora per un paio di capitoli! Non so ancora quanti, perché devo praticamente scriverli ed inventarli di sana pianta, ma il nono è già pronto e sto iniziando il decimo. Voglio però dire un’altra cosa importante: se ho deciso di continuare questa storia, è stato anche e soprattutto per le bellissime recensioni che mi avete mandato, dire che sono le migliori che abbia mai ricevuto è poco! Ma preferisco ringraziarvi, come si deve uno per volta:

Akane: sono stata contentissima che tu abbia apprezzato il punto di vista di Rukawa, anche perché lo ammetto è quello più difficile, credo perché è il tipo di persona che odio irrimediabilmente, ma di cui poi finisco inevitabilmente per perdere la testa! Non sono bugiarda nel dirti che nemmeno io so come andrà a finire questa storia! Come premesso, per me finiva qui, ma poi mi sono resa conto che avevo lasciato troppe cose irrisolte. Quindi, non so neanche io come finirà; comunque, spero di continuare a scrivere come piace a te… a me questo capitolo non piace molto, mi farai sapere tu, ok? Un bacione!

Sasa: la tua recensione mi ha fatto un piacere immenso! Sai perché? Per gli aggettivi che hai usato per descrivere il “mio” Rukawa, era esattamente quello che volevo arrivasse. Che sia più vuoto di prima è un fatto e ti preannuncio che la cosa andrà anche peggio! Anche se in questo capitolo si è un po’ sciolto… l’ho dovuto mettere con le spalle al muro, altrimenti… per l’omicidio di Fukuda… non ci avevo pensato! Comunque, per l’allungarsi di questa fic, credo che ci sarà tempo e modo! Un abbraccio! Grazie dei tuoi meravigliosi complimenti!

Hotaru Tomoe: prima di tutto, sono megacontenta che la mia storia ti prenda così tanto! Me felicissima! Lo stacco temporale mi è venuto perché altrimenti era un po’ difficile descrivere come Ayako scegliesse di stare con Sendo! Nella mia mente, l’ho concepita come una cosa di una lentezza infinita, quindi la cosa poteva risultare noiosa. Un giorno, se avrò l’ispirazione, scriverò una storia su come si sono messi assieme… comunque, ho pensato a Sendo, primo perché ne sono sempre stata innamorata segretamente, e poi come giustamente hai notato tu, era la persona più adatta, considerato che cosa Ayako stesse passando! E poi, siccome sono di una perfidia unica, mi stuzzicava che Ayako, l’unica ragazza per cui Rukawa abbia mai provato qualcosa, stesse proprio con il rivale per eccellenza! Ehehhehe!!! Sono iper mega contenta che tu abbia scovato la canzone dello scorso capitolo, le metto sempre nel dubbio che nessuno le guardi in faccia! Un piccolo appunto: il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di un personaggio che mi hai scritto ti piace molto… indovina, chi è? Un mega bacio!

,: non penso che sia un nick, comunque un mega ringraziamento anche all’autore/autrice di questa recensione! Come vedi, questa storia non finirà per ora, se ne andranno ancora parecchi capitoli, sperando di non perdere l’ispirazione! Comunque, hai indovinato! L’angelo del capitolo 3, è proprio Sendo! In questo capitolo, l’ha chiamato proprio così… lo considera tale perché l’ha tirata fuori dalla situazione orribile in cui si trovava, quindi lo definisce così. un mega bacione e grazie ancora!

Seika: la persona che mi ha definitivamente convinto a continuare questa storia! Ero ancora indecisa, quando ho letto le tue meravigliose recensioni e ho deciso di continuare. È una gioia per una pseudo-scrittrice, quando trova una recensione così appassionata, completa ed accurata! Solamente per questo ti ringrazio! La cosa migliore che però tu abbia fatto, è trasmettermi esattamente cosa stessi provando, e ne sono stata molto felice. Sia perché tutto quello che volevo dire ti era arrivato, sia perché quello che è il messaggio che volevo trasmettere, me l’hai riportato tutto per intero, sia perché ero convinta da regina delle tenebre quale sono che il mio Rukawa fosse anche troppo tenero! Per il finale romantico, al momento non ne ho proprio idea… comunque, ti ringrazio davvero tanto per la tua recensione, mi ha dato quella decisione che mi mancava, quindi grazie! Magari tutti i recensori fossero come te!

 

 

Grazie anche a coloro che leggono e non commentano!

Il prossimo capitolo si chiama Something awkward, e siccome mi siete particolarmente piaciute con le vostre recensioni, vi faccio un piccolo e, spero, gradito regalo… un pezzettino del prossimo chappy! A presto! Un bacio!

 

 

“…Allora?!” chiesi ancora, ora la voce più alta e ferma.

Nessuno mi rispose.

Rukawa scrollò le spalle e fece un passo. Se ne stava andando. Il tacito segnale di smetterla con le menate.

Kana. Le donne sono sempre le più forti.

“Andiamo in ritiro con il Ryonan”.

“Hanno già fatto gli abbinamenti… a sorteggio…”.

Haruko. Immensamente più forti.

Rimansi basito per un secondo, certo che la sorte, quando ci si mette, è veramente bastarda..

 

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Capitolo 9
*** Something awkward ***


Capitolo 9 – Something awkward (Yohei Mito)

Capitolo 9 – Something awkward (Yohei Mito)

 

Rimasi sulla soglia per qualche istante, la mano bloccata sulla maniglia della porta. Capii immediatamente che c’era qualcosa che non andava, il silenzio, tanto per dirne una. Quando tutti si voltarono ancora mezzi sconvolti nella mia direzione, mi controllai freneticamente la cerniera dei pantaloni, stupidamente convinto che lo shock fosse dovuto ad una cosa del genere. Una volta, mi era successo e posso garantire che non è una bella esperienza; nella migliore delle ipotesi, vai incontro a battutine di ore, ovviamente allusive al punto giusto, così tu non sospetti niente per un casino di tempo, lasciando agli stronzi della situazione il loro divertimento. Quando ti accorgi della tua figura di merda, è troppo tardi; matematicamente se ne ricorderanno per mesi, forse per anni. Probabilmente quell’episodio si aggiungerà ai fottuti ricordi indimenticabili, assieme al rutto di Noma al fast food in centro, la caduta di Takamiya davanti a quella bonazza della terza D e l’autogol di Okusu al 89’ in una storica partita alla Playstation.

Ma quella volta non era andata così. Insomma, i miei pantaloni non c’entravano niente. E di questo me ne accorsi ancora prima di dare un’occhiata alla cerniera.

Me ne accorsi dalle occhiate che mi lanciarono. Da salvatore della patria.

E io sono il salvatore della patria per antonomasia. Insomma, per dirla in parole povere, c’erano rogne.

Me ne vergogno, ma la prima cosa che feci fu gettare uno sguardo ad Haruko. Ma Haruko era solo preoccupata, stava bene. I suoi occhi sorrisero mentre mormorava il mio nome con sollievo. Era arrivato anche il suo di salvatore. Distolsi il viso da lei, tornando a guardare il resto della stanza. La stanza delle riunioni dello Shohoku, così la chiamavano Kana ed Haruko. In realtà era solo un ripostiglio attinente agli spogliatoi della squadra, dove le due manager appendevano gli schemi della squadra, i calendari e le varie formazioni avversarie. E dove si parlava, o perlomeno si provava a parlare. Con una squadra di teste di cazzo come quelle, come si poteva parlare? Si gridava, ci si menava, si rideva soprattutto. Con le dovute eccezioni. Per la precisione, tre: Kaname che pensava alla squadra e al fatto che fossero in ritardo sulla tabella di marcia, Haruko che, ci scommetto, pensava a me e al fatto che fosse in ritardo per la nostra uscita, ed ovviamente Rukawa che pensava ai cazzi suoi ed al fatto che fosse in ritardo per la sua dormita. Decisamente non ci sono riunioni silenziose, credo che sia anche una contraddizione in termini. Come fanno ad esistere delle riunioni silenziose? E poi, a conti fatti, sono fermamente convinto che tutti in questa squadra lo odino il silenzio. Il silenzio è quello della sconfitta, quando negli spogliatoi arrivano le voci della vittoria degli altri, attutite solo dalle porte chiuse, e che invece rimbombano nel cervello come un martello pneumatico. E poi, anche se magari nessuno ci pensa tra le grandi star, c’è anche il silenzio dei tifosi, quelli che se ne vanno a casa scazzati e con le bandiere ripiegate lungo i fianchi.

La vittoria urla, strepita, incita, grida; non se ne sta in silenzio.

Per quanto riguarda me, nel caso vi interessi minimamente, ancora prima di entrare come salvatore della patria in questa squadra di pazzi, detestavo il silenzio. Ho scelto degli amici casinisti, una vita urlata, persino una ragazza chiacchierona come poche. E la adoro per questo. Anche se questo lei, Haruko, non lo saprà mai. Le rimprovererò sempre di parlare troppo e di darmi fastidio, quando non è minimamente vero.

Silenzio. Ancora.

Ce ne eravamo dimenticati un po’ tutti del suo sapore.

Un orribile sapore, come una medicina cattiva ed amara.

Eppure lo gustiamo per un po’, ricordandoci dove l’abbiamo già assaporato e sforzandoci al contempo di scordacene.

Bugiardi.

Sappiamo perfettamente dove l’abbiamo già sentito.

Quando Hanamichi ci disse che Ayako era incinta. Quando, immediatamente dopo, ci disse dell’aborto spontaneo.

Solo allora abbiamo conosciuto il silenzio, il suo vuoto.

E, spaventati, lo abbiamo riempito di parole. Per un anno. L’abbiamo saturato a tal punto da scordarci il sapore del silenzio, terrorizzati dall’idea che si ripresentasse nelle nostre bocche e nelle nostre orecchie.

Deduco che il motivo del silenzio sia sempre lo stesso. In fondo abbiamo rivisto Ayako solo sette giorni fa.

Ayako, già… quando la conobbi, la catalogai nella mia mente come una delle mie tante conoscenti. Carina sì, enormemente, ma fuori dalla mia portata, troppo autoritaria e violenta per i miei gusti per farci un pensiero più serio. Il mio cervello la bollò come una che avrei salutato nei corridoi affollati, con cui avrei scambiato qualche parola all’intervallo, a cui avrei chiesto come andavano gli allenamenti di Hanamichi. Solo questo.

Ed invece, volente o nolente, Ayako è stata un uragano sulle nostre vite.

Non da sola… con quella testa di cazzo di Rukawa, ovvio. Lui, però, è rimasto come un vulcano inattivo, di cui tutti avevano, e forse hanno ancora, paura. Ma non è mai esploso, non ha mai fatto danni, perlomeno a noi. Ayako invece ci ha decisamente sconvolto la vita. Nessuno l’ammetterà mai compiutamente, ma è così. Credo che, a conti fatti, tutti in questa scuola possano dire la stessa cosa, tranne le matricole arrivate solo quest’anno.

Ayako ci ha cambiati tutti, un po’.

Vedere quella ragazza che salutavo nei corridoi affollati, con cui scambiavo qualche parola all’intervallo, a cui chiedevo come andavano gli allenamenti di Hanamichi, al centro di ogni fottuta parola in quelle mura, bè… aveva fatto più male di quanto credessi possibile. Perché sapevo che non se lo meritava, perché sapevo che non era giusto, perché sapevo che non era colpa sua… cazzate, enormi e colossali cazzate… era solo perché tutti noi eravamo intimamente terrorizzati che potesse capitare anche a noi qualcosa di simile. Ed io non ho fatto eccezione, mi contavo in tasca le parole che dicevo e i gesti che facevo per non essere il prossimo gossip del mese, persino controllare la zip dei pantaloni dodici volte al giorno.

L’hanno piegata, vessata, umiliata, costretta persino ad andarsene.

Ci ha fatto pena, ovvio. Ne siamo stati dispiaciuti. Ipocriti. Enormemente e disgustosamente ipocriti. Anch’io. Eravamo sollevati, perché non ce l’avevamo più di fronte a ricordare che cazzo di macello avevamo combinato con la vita di una ragazza. Era una ragazza forte, certo, ma se lo meritava? Ne sarebbe uscita? Era una domanda dolorosa come un pugno in faccia. È rimasta scritta nel cielo per un anno sopra le nostre teste, come una spada fiammeggiante che minacciava di spaccarci il cranio.

Ma lei era forte come un uomo. Forse anche di più, nella mia mente posso tranquillamente ammetterlo anche solo per un secondo. Le donne sono sempre più forti di noi, immensamente più forti di noi.

Se fanno male, lo fanno con le parole. E ti devastano.

Noi meniamo le mani. Nella peggiore delle ipotesi, finiamo all’ospedale. In due mesi, sei fuori e sei più incazzato di prima.

Il meccanismo cardine del mondo, quello che lo fa funzionare, vuole che loro, le ragazze, non lo sapranno mai perché altrimenti si renderebbero velocemente conto di non avere nessun bisogno di essere difese da noi.

Haruko non avrebbe nessun bisogno di essere difesa da me e di sussurrare il mio nome con sollievo.

E che cazzo c’entri pensare ancora a lei, chiedermi persino perchè ho pensato di nuovo a lei, dimostra pienamente il senso del mio discorso.

Sono sempre loro le più forti.

Ayako ce l’aveva fatta. In tutti i sensi.

Era risorta come una fenice incandescente.

E noi con lei. Io con lei.

Dopo di lei, nessuno poteva permettersi di rimanere quello di prima.

Nemmeno io, il salvatore della patria, il capitano delle truppe di Hanamichi.

Quando torno a casa nel mese di settembre, ho sempre le palle girate. La scuola comincia sempre troppo presto e quando fa ancora troppo caldo. Passo davanti alla piscina ancora aperta, alla gelateria ancora troppo affollata, al parco ancora troppo pieno di gente. E mi girano. Do un pugno a Takamiya e mi metto a gridare, come un pazzo, spaventando gli uccelli sugli alberi. Questo dalla prima elementare, credo. Takamiya mi insegue e, da brava scrofa qual è, inciampa per terra, spaccandosi il naso. Credo che sia un altro dei fottuti ricordi indimenticabili e, puntualmente, ogni anno si ripete. Forse lo fa anche apposta, non lo so, per non deluderci. Corro per il viale, lasciandomi alle spalle tutti quanti, tranne Hanamichi, sempre il più veloce assieme a me. Corriamo assieme, ridendo come due pazzi, mentre quei tre sfigati tentano di raggiungerci. Un giorno, correndo, mi guardo distrattamente attorno. Improvvisamente la piscina ha le assi di legno sull’ingresso, la gelateria è diventata una rosticceria, il parco è vuoto. Mi metto a guardarlo, le foglie degli alberi sono gialle, non ci sono più uccelli spaventati. Corro, e le foglie sono rosse. Corro ancora e non ci sono più. Ho la divisa invernale e il respiro si condensa in vapore. È inverno ed hanno acceso le luci di Natale sul viale. Sono appese come serpenti morti sugli alberi spogli. Noma mi chiama, ha trovato una palla abbandonata, giochiamo a calcio. Sudo come un porco e getto la giacca all’aria, sulla cartella più leggera. Il sole picchia, mentre corro all’inseguimento di quel fottuto pallone sempre troppo lontano, spaventando ragazzine fotocopia e bambini rompipalle.

Ed un altro bel giorno, l’ultimo giorno di scuola, vengo strappato al mio rito ed iniziato ad un altro. Una bella mano piccola ed affusolata mi tira piano per la manica della camicia, indicandomi la piscina e parlandomi dei programmi per il sabato prossimo, additandomi la gelateria con sguardo goloso, correndo verso il parco e sfidandomi. I tre sfigati rimangono indietro, mentre raggiungo Haruko, Hanamichi bacia una ragazza bionda. Entro nella gelateria, lei mi parla dell’ora di economia domestica e si mordicchia il pollice, e so perché è imbarazzata, e quando mi dice che ha bruciato la sua crostata, dandomi la conferma e mettendo anche quel tassello nei fottuti ricordi indimenticabili, realizzo scioccato che mi interessa davvero che cosa sta dicendo e che la sto guardando in faccia, e non altrove.

Ah già, credo di capire anche che la mia vita è cambiata. 

E, questo, credo anche che sia stato per Ayako.

Un giorno, magari, vi dirò anche perché.

Ma oggi, no… certe cose cambiano, ma certe altre no, mai. Per fortuna.

Ero ancora il fottuto salvatore della patria e tutto il resto.

“Che succede?” chiesi, la voce serena e calma. Testata più e più volte, durante le risse con Hanamichi, perfezionata dal giorno benedetto e maledetto in cui quel coglione entrò in questa squadra.

Gli altri si volsero brevemente e fugacemente verso le primedonne protagoniste della scenetta del giorno.

Se mai ci fossero stati dubbi…

Hanamichi mi guardava ancora nervoso, sollevando il mento altezzoso, convinto come sempre di avere ragione. È sempre convinto di avere ragione, in ogni situazione. È parte di lui. Se non fosse stato così, mi sarei risparmiato un sacco di risse e rogne. Ma si sa, certe cose non credo che cambino mai. Rukawa sosteneva il mio sguardo con sufficienza, socchiudendo gli occhi apparentemente annoiato. Ma le mani erano strette a pugno, lungo i fianchi. Gli sono sempre stato sul cazzo. E la cosa è sempre stata reciproca.

Dietro Hanamichi, Kaname mi guardava con un lieve sorriso, lo tratteneva debolmente per un braccio, anche la sua presa doveva essere stata più salda prima. Anche lei era sollevata come tutti. Più di tutti, sa bene quante volte ho salvato il culo al suo prezioso fidanzato. Accanto a lei, Eikichi e Miyagi.

Dietro Rukawa, Haruko… sgranai gli occhi e sembrava ansia… no, stava solo venendo verso di me. E, controvoglia, trovai la vergogna di un respiro di sollievo, quando mi raggiunse e strinse la sua mano piccola nella mia. E non la fermai, da coglione non la staccai da me, anche se si sarebbero potute menare le mani e quindi avrei avuto bisogno di libertà di movimenti. Anni ed anni di scazzottate e di quell’esperienza da lottatore, di cui vado fiero, me lo suggerivano apertamente, eppure incrociai le sue dita con le mie nella tasca dei miei pantaloni. Coglione.

“Allora?!” chiesi ancora, ora la voce più alta e ferma.

Nessuno mi rispose. Haruko strinse più forte la mia mano.

Rukawa scrollò le spalle e fece un passo. Se ne stava andando. Il tacito segnale di smetterla con le menate.

Kana. Le donne sono sempre le più forti.

“Andiamo in ritiro con il Ryonan”.

“Hanno già fatto gli abbinamenti… a sorteggio…”.

Haruko. Immensamente più forti.

Rimansi basito per un secondo, certo che la sorte, quando ci si mette, è veramente bastarda. Di tutte le squadre, proprio il Ryonan… come avevo previsto, era ancora Ayako la causa del nostro silenzio. Arrivai facilmente a che cosa doveva essere successo. Un commento di Rukawa e una risposta incazzata di Hanamichi, supportato da Kaname e Miyagi. E adesso era il mio turno…

Trattenei il tremito della voce, mentre scrollai le spalle in chiaro segno di malcelata indifferenza.

Rukawa interpretò il mio segnale come un invito a considerare chiusa la faccenda. Mosse ancora un altro passo, scrollando il capo con disinteresse ed affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.

“Credo che sia inutile parlarne…” iniziai deciso “Il problema non si pone, in nessun caso…”, la mia voce si bloccò per qualche secondo, poi, mentre Rukawa mi affiancava, diretto alla porta, sibilai, guardandolo di sbieco: “Ayako sta con Sendo, no?”.

Lui si bloccò, serrandosi nelle spalle, e, per un solo secondo, non lo so, mi fece compassione. Strano anche solo a pensarsi, no? Non solo perché mi sta sul cazzo e tutto il resto, non solo perché non è normale provare compassione tra di noi, ma anche perché decisamente non è una persona che possa ispirare compassione in una qualsiasi situazione. Non lo so, davvero, ancora oggi non riesco a spiegarlo compiutamente. Nei suoi occhi, passò qualcosa. E non era qualcosa di decisamente normale. Come un lampo azzurro, estremamente veloce. Lo ricacciò indietro, con foga e violenza, sicuramente per non farne capire la natura. Ma quello era… dolore, ecco. E mi sentii uno stronzo per quello che avevo detto. Per tre parole, aveva sofferto. E un giorno lo avevano ucciso di pugni, ma niente. Nemmeno un gemito, un rantolo, un lamento. Niente. Piccolo particolare. Ayako era qui con noi e forse ne era già… come si può dire… infatuato? Perso? Cotto? Certo, non innamorato… non so nemmeno immaginarla quella parola tanto infima anche per me, su Kaede Rukawa. O forse, magari, è proprio così… pugni, sberle, bastonate, non ti fanno un cazzo, quando non sei… insomma, innamorato e tutto il resto. E a lui, allora, non fecero assolutamente niente. Poi ti… innamori… e tutto se va a gambe all’aria, diventi peggio di un pezzo di gelatina. Cadi e precipiti per ogni cosa, sciogliendo la tua forza e tutto quello che ci stava attorno. 

Quel secondo sparì come era nato, credo che Rukawa sia sempre molto geloso di sé stesso. Anche del suo dolore, evidentemente per lui vergognoso, come forse sarebbe stato per ognuno di noi. Lo nascose in fondo a sé, sotto lo sguardo di ghiaccio che mi colpì, non appena lui sollevò il viso.

“Non sono cazzi tuoi…” mormorò, la voce liquida e tranquilla come sempre “Come non lo sono di quell’imbecille del tuo amico… fatevi i fatti vostri con le vostre… fidanzate…”. La sua voce indugiò ironica e disgustata sul quell’ultima parola ed fu come se avesse detto qualcosa di infinitamente lontano dalla parola fidanzate. Un insulto, insomma. Non mi toccò minimamente. Puttanate. Fu solo la mano di Haruko che mi trattenne dal gonfiarlo di pugni. Il mio orgoglio se la prese quasi con lei, il resto no, arrivò a ringraziarla per avermi fermato. Il resto, qualsiasi cosa sia, lo stomaco, il sangue, il… il cuore… trovò il modo di addomesticare il mio orgoglio, sanandolo da questa ferita.

Perché le parole distruggono. E, come era prevedibile, me lo insegnò una donna.

Sorrisi velenoso e calmo, e replicai: “Spero che darai lo stesso consiglio anche a Sendo… di farsi i fatti suoi con la sua fidanzata…”. Accentuai anche io con ironia l’ultima parola, significato terso del fatto che Ayako non è mai stata la sua di fidanzata, semplicemente perché lui non l’ha voluto, semplicemente perché lui non l’ha voluta. Insomma, alla fine, si presenta sempre il conto delle tue azioni e delle tue scelte. Non puoi lamentarti che è troppo caro e salato, e non pagare. Intanto, paga. Poi cerca da solo il modo di coprire quel vuoto. E lui, Rukawa, non ha mai pagato abbastanza. Noi, invece, fin troppo. Ed avevamo meno colpa di lui… comunque non di più di quanta ne abbia lui.

Rukawa sollevò ancora gli occhi, ora pieni di fuoco azzurro. Mi sfidò con gli occhi, stringendo i pugni, l’aria crepitava di energia e sapevo che, nell’infinito codice delle regole non scritte delle risse, se avessi distolto lo sguardo, lui avrebbe capito che mi ero arreso. Ovviamente sostenni i suoi occhi, ugualmente sapevo che il prossimo passo era che mi spaccasse la faccia. Lasciai la mano di Haruko.

“Yohei…” la sentii solo dire, dandomi i brividi. Che cazzo dice e dice, mi fa sempre annaspare…

Non penso che lei abbia avuto anche effetto su Rukawa, non l’ha mai avuto per la mia attuale fortuna, per la passata fortuna di Hanamichi e per quella probabile di Haruko stessa. Si è visto che cosa è successo all’unica ragazza che avesse avuto effetto su di lui. Evidentemente, chissà che cazzo gli passò nel cervello per ringhiare qualcosa tra i denti, indubbiamente una bestemmia, ed inforcare l’uscita senza sfiorarmi.

La porta che si chiuse, fu il nuovo segnale che il pericolo era passato. Almeno per il momento. Un generale sospiro accolse quel suono nelle nostre orecchie. Eikichi si lasciò andare sfiancato su una sedia, portandosi una mano tra i capelli, ancora non abituato a quelle allegre scenette tipiche della nostra squadra. Miyagi si gettò a sua volta su una sedia, afferrando dal tavolo il regolamento del campionato nazionale, forse per vedere se c’era qualche possibilità di cambiare la squadra con cui condividere il ritiro.

Kaname, sollevata, diede un piccolo pugno sul braccio di Hanamichi, urlandogli: “Ma sei cretino?! Lo sai che vi potevate picchiare a sangue ed essere espulsi dalla squadra?! Quante volte te lo devo ripetere?!”.

“Quello è un poveraccio, me lo mangio quando voglio!” mugugnò lui altezzoso “E poi non eri tu a dire che, se si avvicinava ad Ayako, lo castravi chimicamente?!”.

“Non ho mai detto una cosa del genere! L’avrai pensato tu, razza di perverso!” rispose scandalizzata Kaname.

“Veramente l’hai detto tu, Kana…” bisbigliò timidamente Eikichi, stravaccandosi meglio sulla sedia “Hai parlato di polonio o roba del genere…”.

“VISTO?!” urlò Hanamichi soddisfatto, incrociando le braccia soddisfatto. 

Mi distolsi dall’inevitabile risposta di Kaname (“Stai zitto tu o ti faccio fare cento giri del campo in mutande durante una riunione della banda scolastica!”), mentre Haruko mi chiamava leggermente.

“Sembra che da questa storia non riusciamo mai ad uscirne…” sussurrò lei, guardando davanti a sé. Strinsi i pugni nelle mie tasche, perché so che lo fa quando è preoccupata. Lei, di solito, mi guarda sempre in faccia, tranne quando è preoccupata, che guarda altrove. E, come mi irritava sapere tutto questo perfettamente, così mi irritava di più sapere che era preoccupata per quell’imbecille. È sempre preoccupata per quel coglione, a volte penso che non se lo sia mai davvero scordato. Che cazzo ne so, si parla sempre di primo amore e del fatto che non lo si scordi mai. Questo vale solo per le ragazze, io credo, non per noi. Insomma, anche io ne avevo avuto… una specie, ma alla fine… comunque, ogni ragazza è sempre così maledettamente masochista da tenere per sempre dentro quel primo bastardo che l’ha fatta piangere. Poco importa, se tu la farai ridere ogni giorno, se ti prodigherai per essere il suo cavaliere senza macchia, tra dieci anni lei piangerà su una canzone idiota che gli ricorda lui e, se starà ancora con te, sorriderà al tuo viso irritato, dicendoti che non è niente. E magari allora, vorresti averla fatta piangere ogni giorno, e non ridere, perché la sensazione è che un fottuto giorno, lei ricorderà sempre lui. Tu, invece, sarai solo un nome su un diario vecchio ed ingiallito, chiuso nell’ultimo cassetto della scrivania. Ti consoli, pensando che tu starai con una mille volte più bella di lei e che sarai stato anche tu il primo dannato amore di una maledetta idiota, di cui non te ne mai fregato un cazzo. Ridi, perché è concesso solo a lei di piangere. Forse è, per questo, che sono sempre le più forti tra noi.

“Già…” annuii, sollevando il viso e guardando anche io altrove. Magari, così non sembrava niente… questa… cosa… irritazione profonda che ti logora dall’interno e che si nutre di menate e paranoie. Si chiama gelosia, lo so… ma, senza un nome, mi dà l’illusione di essere meno fastidiosa.

“Pensi che dobbiamo fare qualcosa?”.

“No” suonò secca la mia voce, meno indifferente di quanto avrei voluto. Haruko si voltò finalmente a guardarmi, evidentemente chiedendosi che cosa io avessi. Non mi interessava. Ero soddisfatto, come sempre quando scopro la gioia assurda ed illogica di godere nel fare male a lei e a me. Dà gioia, quando mi dico che me ne frego di lei, quando ritrovo la forza di prima, quando scordo la debolezza di adesso. È stupido, ma mi fa stare bene. Dura poco, ma alle volte ne ho bisogno. Sopporto a stento certe volte di dipendere così tanto da lei, di sapere che una sua sola parola può spaccarmi in mille pezzi, di immaginare che si potrebbe stancare di questa cosa ancora prima di me, di vedere un giorno in cui la voglio e non posso averla. Non sopporto di pensare che un giorno, qualsiasi cosa io faccia e dica, potrei essere Kaede Rukawa che guarda con odio uno che lo tiene lontano dalla sola persona che voglia. E non avere nemmeno il conforto molesto di non avere fatto nulla per impedirlo. Sapere di avere invece fatto tutto quello che era in mio potere. E sapere che non è stato sufficiente.

“Yohei, che c’è?” mi chiese con un sussurro, la voce tremula.

Mi costrinsi a risponderle qualcosa, qualsiasi cosa, pur che si fosse stata in silenzio. Lo so, lo so, ho detto che odio il silenzio, ma allora l’avrei voluto più di ogni cosa al mondo. Non la guardai ancora: “Non dobbiamo preoccuparci… Ayako sta con Sendo e non penso proprio che lui permetterà a Rukawa di fare quello che vuole… sta tranquilla, non succederà niente…”.

“Non sto parlando di Ayako e Rukawa, non mi interessa… sto parlando di te, Yohei… che hai?”.

La sua voce mi colpì come il più potente dei pugni, sferrato dal più forte dei lottatori. E lei è talmente gracile e debole che non farebbe male nemmeno ad una formica.

“Di me?” chiesi, fingendo sconcerto e guardandola alla fine “Perché, che dovrei avere?”.

Lei sorrise dolce e rispose: “Adesso, niente… adesso più niente…”.

Si avvicinò a me e fece la cosa più stupida del mondo. Mi abbracciò.

E, ancora più stupido, fu che dimenticai tutto e l’abbracciai a mia volta, forte, stretta, stringendola a me.

Le baciai i capelli, mentre sussurrava qualcosa che non distinsi.

Quando mi guardò interrogativa, ripetendo ciò che aveva detto, finalmente capii le sue parole.

E capii anche che, sarà gracile e debole, ma sarà lei un giorno a spezzarmi in mille pezzi.

Perché è lei la più forte tra i due.

Ah già, e perché mi ha appena detto che mi ama.

 

 

“Insomma, secondo te, non dovremmo fare niente?”.

“E che cosa vorresti fare, scusa, Hanamichi? Picchiare qualcuno al Comitato organizzativo? O, non lo so, ridurre in coma Rukawa? O entrambe le cose, nel dubbio?” chiesi con voce annoiata, afferrando la lattina di birra dal basso tavolino del pub, dove ci eravamo rintanati alla fine degli allenamenti.

“Yohei ha ragione, Hanamichi…” rispose Kaname, guardandolo “Ormai le cose sono andate così… che vuoi farci? C’abbiamo una sfiga pazzesca… comunque, sicuramente Ayako lo avrà già saputo. Ed anche Akira. Insomma, si saranno già preparati psicologicamente… e, in fondo, che cavolo! Rukawa sarà quello che è, ma non è un maniaco omicida! Le romperà un po’ le palle ed Akira lo manderà a quel paese! Ci sarà da divertirsi!”.

Guardammo tutti Kaname che sorrise perfida, inutile a dirsi che probabilmente avrebbe suggerito a Sendo la tecnica perfetta della castrazione chimica con il polonio.

“Mah, io non sono tranquillo…” borbottò ancora Hanamichi.

“Penso che dovremmo lasciare fare a loro due…” commentò alla fine Haruko, staccandosi da me per prendere un tovagliolo di carta, per poi risedersi in braccio a me. Inutile dire che c’era comunque una sedia vuota, accanto a Kaname… ma, bè, lei mi ama, quindi… trattenei la risatina soddisfatta che mi stava uscendo da sola.

“Ci siamo messi anche troppo in mezzo…” continuò lei “Ayako ama Sendo e Sendo ama lei, insomma… più chiaro di così… quindi, Kaede potrà fare quello che vuole… se fosse rimasta da sola, potevamo preoccuparci, ma fin quando c’è Akira… e poi non è un maniaco omicida, in fondo!”.

“Sì, solo un asociale…” aggiunse Kaname.

“Un coglione asociale che non ha relazioni con nessuno…” rincarò Hanamichi con espressione soddisfatta, bevendo la sua soda.

“Hanamichi” chiese Kana con gli occhi socchiusi “Asociale già significa che non ha relazioni con nessuno… perchè lo ripeti due volte? È un’iperbole!”.

Il mio amico la guardò con occhi annacquati. Lo capisco in pieno, che cazzo significa iperbole?

“Esagerazione, ripetere due volte delle cose che hanno lo stesso significato…”, Haruko me lo sussurrò in un orecchio, fingendo (e mica tanto!) di baciarmi dietro l’orecchio.

“Kana, quello non sa nemmeno che vuol dire asociale!” scoppiai a ridere, seguito dalle due ragazze. Hanamichi cercò di negare, ma era palese che non lo sa. Alla fine, anche lui si sciolse, ridendo di gusto.

Quando ormai la sera era calata sulla città, finimmo di mangiare. Kaname si era ricordata di dover restituire un cd ad Haruko e quindi decidemmo di accompagnarla tutti e quattro a casa. Hanamichi commentò che così potevamo anche sapere da Ayako se sa di Rukawa.

“Non credo che Ayako sia a casa…” rispose Kana, mentre armeggiava con la sua cartella “Di mercoledì, ha la riunione con la squadra. E poi esce con Akira, ovviamente. Ed ovviamente torna tardi, più di me, ma solo io vengo sgridata in quella casa…”, sorrise forzatamente e finalmente uscì dalla cartella il suo I-pod azzurro. Si mise gli auricolari e trafficò con qualche tasto, fino a quando il basso ritmo di una batteria raggiunse persino noi, nonostante le cuffie. Ascolta la musica sempre a volume altissimo e, quando in qualsiasi attimo o momento della giornata, indossa gli auricolari, sappiamo con certezza che per qualche minuto sarà irreperibile. In tutti i sensi. Non solo perché materialmente non ci sentirà parlare o chiamarla. Kaname diventa una statua di cera. Immobile a sentire le sue note preferite, scuote solo un po’ la testa bionda, per il resto nulla sembra passare nei suoi occhi azzurri così strani. Sì, strani… inutile negarlo, o fingere di non essersene accorti,lo sappiamo tutti. Credo che lo ignori solo Hanamichi. I suoi occhi sono strani non perché sono occidentali, ma per altro…

Ayako andò in Francia per l’intera estate presso la clinica dello zio per farsi curare. Gli zii volevano essere sicuri che l’aborto non avesse avuto altre conseguenze, ancora più gravi di quelle che aveva avuto. Insomma, se l’aborto fosse dovuto solo alla spinta per le scale di quelle bastarde o ad altro. I test andarono bene ed Ayako tornò a settembre. E si aprì il problema della scuola. Lo Shohoku era escluso, Ayako non ne voleva nemmeno sentire parlare. Da bravo salvatore di ogni patria, cercai di convincerla a tornare, magari cambiando classe oppure rinunciando a fare la manager nella squadra di basket. Ma lei fu irremovibile. Mi disse che non ce l’avrebbe fatta a vedere la squadra senza di lei. So che mentì. Ovviamente. La sua unica paura era quella di rivedere Rukawa. Non lo disse, strinse le labbra quando glielo chiesi, chiuse gli occhi e distolse il viso. E rispose che erano mie fantasie. Non la contraddissi, non credo che ne avessi diritto. Chi ero io per impicciarmi di una sua decisione? Chi ero io per smontare come un castello di sabbia le sue convinzioni?

Rimanevano il Kainan e il Ryonan. La scelta sembrava obbligata. Kana andava al Ryonan, quindi sembrava che Ayako si sarebbe trasferita al Kainan. Non ne era entusiasta, ma aveva deciso di iscriversi ugualmente, sostenendo che non poteva assolutamente frequentare la stessa scuola di Kaname. Sennonché Kana le aveva detto che non sarebbe andata più al Ryonan, ma che si sarebbe trasferita anche lei, ma allo Shohoku.  Quindi, Ayako scelse il Ryonan, tra quello e il Kainan preferiva decisamente il primo, considerando che i rapporti tra la nostra scuola e il Ryonan sono sempre stati migliori, rispetto a quelli con il Kainan. Chiedemmo il motivo della sua scelta a Kaname, ma lei non disse mai nulla. Nemmeno a noi. Abbiamo tutti alla fine concluso che doveva essere per seguire Hanamichi, di cui sembrava avere una bella cotta, e lei fece marciare la storia. Ma, andiamo, nessuna è talmente imbecille. Ad una così, che avesse fatto una cosa del genere per Hanamichi, poi, le avrebbero chiesto che cosa si era fumata e le avrebbero suggerito di cambiare spacciatore. Non era il caso di Kaname Koishikawa, decisamente… è troppo orgogliosa e sicura di sé. Se voleva Hanamichi, se lo sarebbe preso lo stesso, anche dal Ryonan.

La cosa era ben diversa. E nessuno di noi ancora sa nulla davvero.

Non credo che lo sappia Haruko, Ayako, né tantomeno Hanamichi. Se lo avesse saputo, me l’avrebbe già detto con la boccaccia che si ritrova.

Quella ragazza… Kaname… è sempre stata… insomma, strana… o comunque non normale… non è la stessa cosa, strana e non normale, o perlomeno lo penso io. Strana mi dà più di pazza. Per la nozione di non normalità, posso inserirmi tranquillamente anche io. Quindi, la rende una nozione meno stronza.

Non normale è sempre stato tutto in lei. L’aria occidentale, tanto per dirne una, ma quella non è né colpa né merito suo. I suoi occhi azzurri, però, a parte il colore inusuale, sono strani in tutto un altro senso. Liquidi, lucidi, trasparenti quasi sempre. Opachi come pezzi di pietra, talmente tanto spesso da chiedersi quali siano i suoi veri occhi. Tantissime volte, la vedi eclissarsi all’improvviso, nascondersi dietro della musica sparata a palla, abbassare le ciglia e chiudersi del tutto, come un riccio che ha paura del freddo. Non la capisco, davvero, ed è sempre la ragazza del mio migliore amico. Questo, nella dinamica contorta dei rapporti, dovrebbe renderla simile ad un’amica per me. Ma non lo è, né credo che mai lo sarà. Mi angoscia, sinceramente. Haruko dice che esagero, ma quella mi inquieta. Sembra sempre avere alle sue spalle un segreto prezioso come il Sacro Graal che nasconde con tutte le sue forze. Un segreto che, alle volte, viene fuori come un’ombra sul suo viso e sembra talmente dannato e maledetto da desiderare solamente di non conoscerne mai il contenuto. È solo una sensazione, ovviamente, ma insomma… è abbastanza forte. E, di solito, su queste cose non mi sbaglio.

Ma, insomma, cerco di farmela passare questa sensazione. Cazzo, è sempre una ragazza. È la migliore amica di Haruko e la ragazza di Hanamichi. Quindi, metto a tacere il mio istinto e vado avanti, sebbene è grazie all’istinto che ho avuto le cose più belle della mia vita. Hanamichi l’ho conosciuto perché un giorno feci forca a scuola, e tutto perché la maestra delle elementari si era messa un stupido vestito azzurro, che mi dava fastidio. E con Haruko… dire che l’istinto mi ha aiutato, è non rendere giustamente la cosa. Credo che sia lei, Haruko, ancora una maledetta volta la ragione. La ragione di un’altra cosa, ed esattamente la ragione per cui tollero Kana. E non perché è la sua migliore amica… ci sono pure quelle altre due fallite, ma me ne sbatto. Sono amiche sue, non mie, mica ho un contratto per farmele piacere per forza. A quelle due le ho proprio sulle palle, mettono troppe idee strane in testa ad Haruko. E lei è decisamente troppo condizionabile. Kaname la sopporto soprattutto perché le sono grato. Perché è per lei che sto con Haruko. Perché ha avuto la malaugurata idea, a mio dire, di innamorarsi di Hanamichi. Altrimenti, quello non me lo sarei mai tolto dalle palle. Era cotto fino all’osso di Haruko e chi se lo scorda? Le menate dalla mattina alla sera, le paranoie cretine, i piani imbecilli, i discorsi idioti, i rincoglionimenti continui quando la vedeva. Andava in fissa con lei come un povero idiota, rompendomi le palle come non mai. Non lo capivo, davvero, Haruko non mi sembrava proprio sto granché. Carina, d’accordo, ma c’erano sempre state di ragazze carine e sempre ci sarebbero state. Forse ce ne erano anche di migliori, Yoko, quella che gli piaceva prima era decisamente meglio. Poi era la sorella del gorilla… se non era masochismo questo… ammesso che fosse riuscito a mettersi con lei, lo avrebbe sempre avuto tra i piedi. Tanto per gradire, la trovavo anche stupida. Si sbrodolava per Rukawa e non capiva che quello la cagava totalmente. A suo favore, posso dire che, allora, ogni ragazza la trovavo stupida. O meglio, non mi chiedevo proprio se fossero o meno stupide. Passavano e vedevo in loro solo un bel davanzale e un posteriore invidiabile, e che cazzo me ne fregava allora se erano stupide o intelligenti? C’era stato un tempo, un luogo… una persona… ma adesso le cose si erano messe nella giusta prospettiva. Trovavo stupida Haruko, perché su di lei un giudizio avevo dovuto maturarlo. Perché era la donna di Hanamichi e lui era il mio migliore amico. Quando lui mi chiedeva con gli occhi accesi di cuoricini luminosi: “Non è meravigliosa la mia Harukina cara?!”, io che gli dovevo rispondere? No? E’ proprio una come le altre? Gli amici servono a questo, ad illuderti. Pure se stai morendo dal ridere, devi dire serio che è la migliore, anche se non lo pensi assolutamente. Devi essere bravo però a fingere, inventarti un tono di voce convincente, un’espressione complice e parole profonde, velate da (falsa) invidia. Se lui sapesse quello che pensi veramente, ti menerebbe come un salame, manco gli avessi detto qualcosa di male a lui. Fin qui, nessun problema. Il problema, paradossalmente, non è quando pensi che lui è un coglione di prima categoria, che quella lì fa veramente vomitare e che sta perdendo il suo tempo, no.

Il problema è quando sei d’accordo con lui. Quando pensi che lei è la migliore.

E allora tutto se ne va a puttane… te ne ricorderai per sempre come la peggiore cosa mai esistita, sarà il salto nel vuoto, la prova del nove, il balzo nel cerchio del fuoco. Se le cose andranno bene, sarete ancora amici e, anni dopo, riderete su quel ricordo. Se le cose andranno male, bé… tra qualche anno, lo incontrerai per strada e non lo saluterai, lui l’avrà lasciata o magari tu starai con un’altra e del tuo grande amico ti resterà solo un cartoncino per la partecipazione in chiesa delle sue nozze. Con una che non è lei, perché non è mai lei. Va tutto a farsi fottere per una che puntualmente non sarà la donna né della sua, né della tua vita. Magari, un giorno si tornerà a ridere e a chiedersi che cazzo aveva quella in più, ma quando succederà, sarai già chiuso in un ospizio di merda.

Oppure, sarai in paradiso, ammesso e non concesso che entrambi ci finiate.

E non era il caso mio e di Hanamichi…. quindi meglio che non è andato tutto a male per Haruko.

A me è arrivata una Kaname Koishikawa a salvarmi, ma rimane comunque la cosa peggiore che mi sia successa. E se escludo persino la famosa patta dei pantaloni aperta, che mi ha fatto prendere per il culo per due mesi… insomma la cosa è grave…

Una regola non scritta dice che ci sono tre cose sacre al mondo, solamente tue, e che nemmeno un amico deve azzardarsi a toccare. La prima è la tua macchina, la seconda tua madre, la terza la tua donna. E nell’ultimo concetto si comprende un’ampia categoria: ex mollate, ex cornificate o cornificanti, tipe che ti hanno scaricato, tipe che non ti hanno nemmeno dato una possibilità. Ed anche tipe con cui ci stai ancora provando.

Per me ed Hanamichi, non c’erano mai stati problemi. Siamo due poveracci e la macchina ce la sogniamo ancora la notte, al massimo c’è la sua bici ed è un rottame. O il mio motorino e, dopo aver portato Takamiya, non credo che sarà mai più lo stesso. Maledetta scrofa… la madre di Hanamichi è da anni in America, non si sentono mai. La mia è una santa donna e Hanamichi aspira a farsi adottare da lei. Insomma, quei due versanti tranquilli… per l’ultimo, navigavo nell’impossibilità che succedesse mai qualcosa. Hanamichi ha dei gusti di merda, diciamolo. Per il cibo e per le ragazze. Quelle che piacevano a me, puntualmente erano quelle a cui lui faceva una smorfia. E viceversa.

Poi, un fottuto giorno, Kaede Rukawa si mette con Ayako Kuno.

E spezza il cuore a quella povera scema di Haruko Akagi.

Ed un altro maledetto giorno, mi dico che Haruko forse vuole parlare con qualcuno. La incontro per i corridoi e ha gli occhi rossi, le sue amiche mi sembrano delle poveracce e… e mi fa pena, contro ogni logica umana e razionale. Mi dico che è la mia grande occasione, che da buon amico le parlerò di Hanamichi e del suo eterno ed incontrollabile amore. Lei si innamorerà di lui e tutto andrà a posto, quello non mi scasserà più e lei la smetterà di camminare per la strada con l’aria da povera martire afflitta. A me, resterà di gloriarmi solo del mio successo.

Vai lì, armato delle migliori intenzioni, pronto a combattere con la tua armatura scintillante e ad offrire anche la tua testa su un piatto d’argento al tuo amico.

Ed invece va tutto al contrario.

Per me, è cominciato tutto quel giorno di giugno che poi fu l’inizio di ogni cosa.

Lo stesso giorno che sapemmo della gravidanza di Ayako…

Pioveva, ricordo solo questo, e stranamente mi ricordo solamente il colore dell’ombrello di Haruko, un rosso fragola che mi dava l’emicrania.

Una cazzata, non so perché c’ho la maledetta abitudine di raccontare puttanate anche a me stesso, quando posso smentirmi da solo con i miei stessi pensieri…

Mi ricordo la sua faccia, quando mi disse che stava bene e che la sua cosa con Rukawa era impossibile senza bisogno che ci fosse Ayako. Fu un solo secondo, ma bastò.

La vedi e ti accolli questo compito, senza che nessuno te l’abbia chiesto. Lei piange, chiedi di raccontarti tutto, è una litania, ma la ascolti. Annuisci con il capo, dici tre frasi, lei sorride e ti fa contento. La litania continua, ascolti ancora, rispondi ancora, lei è ancora felice. È tardi e se ne va, rimani seduto su una panchina e la litania continua nella tua mente.

E magari ti dici che non è proprio stupida… da quello, arrivi come un bombardiere a stamparti in testa la sua immagine, mentre piange con le guance sporche di rimmel sciolto. Arrivi a dire che è bella.

E da allora, fanculo a tutto… sarà una discesa veloce verso l’inferno. E l’ultimo girone dell’inferno, quello nelle fauci di Lucifero, è per i traditori.

E tu sei un traditore.

Perché pensi sempre a lei, perché vuoi vedere solo lei, perché, quando sta andando via, ti rendi conto che non hai nominato il tuo amico nemmeno una volta, perché non volevi farlo. Non lo volevi tra i piedi tra te e lei.

Da salvatore della patria, diventi il traditore della patria.

Quando lo seppe, Hanamichi mi picchiò a sangue.

Lo seppe dalla boccaccia di una delle amiche idiote di Haruko. Per questo, le odio così tanto. Mi hanno fatto quasi perdere quello che per me è un fratello per la loro fame imbecille di pettegolezzi.

Gli dissero che Haruko si era innamorata di me. E che ci eravamo baciati al festino per la fine del secondo trimestre.

Era vero, l’avevo baciata, non ce la facevo più. Pensavo che baciarla, togliermi lo sfizio, me l’avrebbe tolta dal cervello. Come no. La volevo anche più di prima, come quando mangi un pezzo di cioccolata, dopo una vita di schifose gallette dietetiche, come quelle che ingurgitano mia madre e le mie sorelle. Poi, dopo la cioccolata, ti dicono di tornare indietro, alle gallette. Come cazzo si fa?

Baciarla era stato il paradiso e l’inferno.

Sentirla dire che le piacevo, fu il secondo paradiso, anche se era irrazionalmente impossibile. Sentirmi risponderle che per me non era così, fu il secondo inferno, questo, invece, razionalmente possibile.

Straziato dentro, fui anche menato da quell’imbecille.

Lo lasciai fare, perché aveva ragione.

Quando Kaname gli urlò di smetterla, chiedendogli se amava ancora Haruko, dato che stava con lei, lo uccisi di pugni. Ovviamente in senso letterale. Ce la cavammo con un naso rotto (il suo) e un braccio fratturato (il mio, ma solo perché ero caduto). Alla fine, stesi sulla spiaggia come due derelitti, scoppiammo a ridere da perfetti idioti quali siamo. Niente di nuovo, era terminata come sempre. Le stelle moleste sui nostri occhi pesti, le onde a bagnarci le scarpe, le spacconate su chi stava peggio e le risate sguaiate al cielo. Sobbalzammo, credo entrambi, quando alle nostre risate, se ne unirono altre due, più leggere e dolci. Non ci eravamo abituati, da poveri sfigati quali siamo. Stese accanto a noi, loro due. Haruko e Kaname che ridevano, a loro volta, abbracciandoci.

Ed evitammo anche il più grande iceberg sulla nostra amicizia dai tempi delle figurine della Premiere League. E quella fu una cosa grave ai tempi…

Haruko mi stringeva ancora la mano, mentre Hanamichi parlava ancora della sua probabile nuova rissa con Rukawa. Kaname era ancora momentaneamente assente. Trovarmi lì, in quel momento, con quelle persone, era la prova concreta di dove era arrivata la mia vita, di che sentiero avesse preso e di che direzione stesse seguendo.

Per un attimo, ripensai a Noma, Takamiya ed Okusu. Mi mancavano, anche se non l’avrei mai ammesso. Forse un anno prima, sia io che Hanamichi eravamo con loro, alla sala giochi, al bowling o chissà dove. A menarci, a ridere, a farci paranoie. Ogni tanto, ripenso alla vita di prima, a come adesso sia tutto diverso. Ed è come avere la coscienza di aver svoltato un angolo e di non poter più tornare indietro. Allora, fa male, ma è un dolore dolce, tenue, straziante come un ricordo. Perché amo quello che sono adesso, ma amavo a suo modo anche quello che ero prima, ma non posso essere le due cose nello stesso istante. Ed, alla fine, senza nemmeno rendermene conto, ho fatto una scelta.

E questa scelta mi ha portato ad essere qui.

Mi ha portato a non replicare nulla agli sproloqui di Hanamichi e a preoccuparmi che Kana sbatta contro un palo.

E, soprattutto, mi ha portato a stringere la mano di Haruko nella mia.

Ed è allora che penso che, in fondo, la mia vita attuale è migliore della precedente.

Me ne vergogno nel pensarlo, ma non me lo evito. Perché in fondo è la verità.

Chissà se anche per loro è lo stesso, se anche loro pensano la stessa cosa e si trovano talmente cambiati da non riconoscersi più. E da averne paura.

La risposta arrivò, come sempre.

Arrivava da tempo, ma non me ne ero mai accorto.

“Che cavolo fai, Hanamichi?!”. La voce di Kana, annoiata e seccata.

Hanamichi le aveva strappato dalle orecchie un auricolare e lo aveva indossato, urlando: “Che schifo di musica!”.

Li guardai da sopra la mia spalla destra, mentre litigavano.

Kaname, alla fine, sorrise e gli porse una cuffia, che Hanamichi afferrò prontamente.

Lui la strinse per la vita e continuarono ad ascoltare assieme, canticchiando tra loro.

In fondo, Hanamichi doveva sapere tutto di Kana. I suoi occhi azzurri erano tornati gli stessi.

E quella leggera ombra in quelli di lui, di cui avevo dato la colpa al parlare di Rukawa, se ne era andata.

Siamo davvero cambiati allora… non è solo una mia impressione… e non si può più davvero tornare indietro…

Sono contento che ci sia ancora lui accanto a me… Hanamichi, mio fratello…  forse l’unico che potrebbe capirmi, se gli dicessi di aver paura di loro, di queste due sconosciute che si sono fiondate sulle nostre vite, sconvolgendole. E sono contento perchè per lui sarà la stessa cosa. Con l’aggravante che io sono sempre stato il più forte tra i due. Su quelle spiagge non lo urlavo sempre al cielo? Qualcosa di quella vita passata, deve esserci ancora. Per forza, anche se siamo cambiati. 

In fondo… certe cose cambiano, ma certe altre no, mai. Per fortuna.

Sarò sempre il salvatore della patria e tutto il resto.

Sarò sempre più forte di lui, quando mi ritroverò a salvargli il culo mille e mille volte.

Solo una cosa, in fondo, davvero è cambiata.

La coscienza che c’è qualcuno più forte di me.

E che non lo odio, né mi verrà mai voglia di menarlo o di sfidarlo.

Perché è una ragazza, si chiama Haruko Akagi e perché ho voglia di baciarla per tutta la vita.

Ah già, credo anche perchè la amo.

 

 

“La settimana prossima, torna mia sorella…”.

“Che cosa hai detto?” chiesi, distratto ad Hanamichi. Kaname armeggiava con il cancello di casa, mentre Haruko la aiutava. Stavo morendo dalle risate, ma non volevo che se ne accorgessero. Le ragazze sono sempre molto gelose della loro invincibilità e, tra di essa, c’è anche la capacità di fare tutto. Anche se aprire un cancello con una chiave non è certamente una disciplina olimpica… in casa, non sembrava esserci nessuno, anche se al piano superiore era accesa una luce. La camera di Ayako… Kaname aveva replicato a denti stretti che probabilmente stava dormendo o che c’era Akira. Quindi, aveva preso le chiavi, borbottando.

“Non si fa così…” Hanamichi cercò di intromettersi, ma la scena era troppo forte, quindi lo fermai con un braccio, distogliendo la sua attenzione.

“Che cos’è che hai detto?” chiesi ancora con finto interesse.

“Ah già…” ricominciò lui con pazienza “La settimana prossima, torna mia sorella… penso che verrà con noi al torneo nazionale…”.

“CHE COSA?!” chiesi autenticamente scioccato, improvvisamente la lotta epica contro il cancello era passata in secondo piano “La settimana prossima, torna Anko? E quando me lo avresti detto, razza di demente?!”.

“Proprio adesso…” fa lui noncurante “Ha litigato con sua madre e quindi…”.

Evitai di spendere commenti sul fatto che la madre di Anko era anche la sua di madre. Credo che m’avrebbe ucciso a picconate, se lo avessi fatto notare. E poi l’evento in sé era già sensazionale, da prima pagina… il ritorno di Anko Sakuragi, in Giappone… sentii un pezzo di ghiaccio scivolarmi lungo il collo…

“Chi è che torna?” chiese con uno sbuffo esasperato Kaname, mentre apriva il cancello.

“Mia sorella… Anko…” rispose Hanamichi, incamminandosi per il viale d’ingresso.

“Hai una sorella?” chiese curiosa Haruko, seguendoli “Non ce ne hai mai parlato! Tu, la conosci?” concluse, tirandomi la manica della giacca.

“Certo che la conosco…” risposi, guardando davanti a me. Anko… mi faceva strano pensarci adesso a distanza di tanti anni, se ne era andata, quanto? Quattro o cinque anni prima? Sembrano così tanti, adesso… fu forse lei il primo motivo per cui mi avvicinai ad Hanamichi… ma non mi va di pensarci, adesso. È come se, anche per Anko sia oltremodo cosciente di aver svoltato un angolo allora, e di non avere alcuna intenzione di tornare indietro.

Mi accorsi di essere rimasto in silenzio per troppo tempo, quindi mi affrettai ad aggiungere, guardando Haruko: “Vive a Brooklyn da quattro anni con sua madre… è la sorella gemella di Hanamichi, ma figurati… se non me lo dicessero ogni volta, non ci crederei…”.

“Che vuoi dire, imbecille?!” borbottò Hanamichi, guardandomi di sbieco.

“Niente, niente…” aggiunsi con voce indifferente.

“E come mai vive a Brooklyn?” chiese ancora Haruko. Vidi le spalle di Hanamichi gelarsi e maledissi la curiosità ingenua di Haruko. Una sola piccola domanda, scema come quella, poteva aprire voragini impervie e profonde nell’animo di una persona, e quella persona era il mio migliore amico. Haruko continuava a guardarci con espressione confusa. Stavo già per imbastire una scusa credibile per salvare (come sempre) Hanamichi, quando il nostro silenzio fu interrotto da un frastuono proveniente dal piano superiore.

Musica a volume altissimo e rumori di vetri e oggetti infranti.

Credo che, nonostante tutto, Hanamichi nel suo cuore abbia sempre benedetto quel casino.

Evitammo l’argomento “Anko” per un bel po’, grazie ad esso. Perlomeno fino alla settimana successiva, quando partimmo per il ritiro con il Ryonan. Allora fummo costretti ad affrontarlo, specialmente io. Per gli altri, sembrò una cosa normale, normale che una ragazza tornasse a trovare il fratello dopo qualche anno all’estero. Ed invece non c’era niente di normale in tutta quella situazione. Haruko è sempre stata troppo ingenua, altrimenti lo avrebbe capito. Non c’è niente di normale in un figlio che appella sua madre come la sola ed unica genitrice di sua sorella.

Kaname spalancò la porta di scatto, correndo al piano di sopra. Hanamichi la tallonava a breve distanza, seguito da me e da Haruko. Mi sentivo il cuore in gola, appena entrato in quella casa, avevo avuto una strana sensazione. Non c’entrava niente il fatto che fosse la casa di Kana e che, per lei, non ho mai avuto una grande predilezione.

Sembrava un miasma confuso che rendeva le cose diverse.

Come una nebbia impalpabile con il potere di corrodere. Quella sembrava l’atmosfera di quella casa.

Distruzione insita nelle pareti bianche, desiderio di precipitare e cadere, senza un motivo preciso.

Ovviamente non previdi tutto questo, non sono un veggente, ci mancava anche quello. Credo che sarebbe un incubo esserlo. Lo ricostruii dopo, a mente fredda, con Hanamichi. Ma quella fu la sensazione che ebbi in quel momento. Minacciò di sopraffare anche me, mentre il rumore delle cose distrutte cresceva assieme al frastuono di una musica rock sparata a tutto volume.

Ancora prima di rendermene conto, già correvo assieme agli altri verso la stanza di Ayako.

Perché ci si abitua facilmente al dolore e lo si riconosce tra mille. Della felicità, si ha solo pudore e vergogna, non ti ci  abitui mai perché non te ne sazi mai. Intimamente sei sempre convinto di perderla all’improvviso. Il dolore, no. Intimamente sei sempre convinto di riviverlo all’improvviso. Per questo, rimani sempre di guardia.

Così facendo, ti aspetti sempre di rivedertelo davanti e ti illudi che saprai essere pronto.

Cazzate.

Non si è mai pronti.

Te ne accorgi sempre troppo tardi.

Troppo tardi, Ayako Kuno si sarebbe accorta di quanto non bisogna mai lasciarsi andare alla felicità, ma aspettare sempre il dolore. Che puntualmente arriva, come peggiore delle canaglie.

Come io, invece, mi sarei accorto troppo tardi dell’effetto ancora catastrofico che aveva su di me Anko Sakuragi.

E allora non restava altro che raccogliere i cocci di me stesso.

 

 

Lasciarono a me il compito di aprire la porta della stanza, appena socchiusa.

Eravamo tutti terrorizzati, la marea dei giorni passati si infrangeva sui fragili paletti che avevamo messo a difesa di noi stessi. Come ritornare indietro contro natura, girare all’indietro quel famoso angolo voltato tempo prima. Secoli prima, quello sembrava.

Mi riscossi, pensando a quanto fosse imbecille avere paura di una cosa del genere, una porta… che cazzo, ne ho affrontate di cose peggiori… una di quelle cose stava per tornare… Anko… scossi il capo a quel pensiero, dovevo essere lucido, razionale, freddo, distaccato. Era la prima cosa da fare, quando si affronta uno scontro di qualsiasi natura, sebbene non sapessi né volessi immaginare di che cosa si trattasse.

La mano leggermente più ferma, aprii con decisione la porta della camera di Ayako.

Per un attimo, la chitarra elettrica di una band mi frastornò le orecchie e fu come non riuscire nemmeno a vedere.

La musica era talmente alta che si sentiva tintinnare il lampadario di vetro.

La prima cosa che mi sembrò naturale fare, fu quella di cercare l’origine di quel macello e di spegnere quell’aggeggio infernale. Intravidi lo stereo in un angolo della stanza e lo spensi velocemente, imprecando tra me e me.

Mi voltai verso Hanamichi, Kana ed Haruko, e li vidi fermi sulla soglia della porta.

Impietriti che guardavano la stanza, senza parole, senza nemmeno fare un passo.

Fu allora che la guardai anch’io.

Distrutta, era completamente distrutta. La libreria di legno era stata rovesciata e decine di libri giacevano a terra, alcuni anche strappati nelle loro pagine. Il tappeto era ingombro di pezzi di carta e di fogli caduti dalla scrivania, evidentemente rivoltata del suo contenuto. I cassetti erano tutti aperti, ne pendevano cartelline di fogli vari e quaderni anch’essi semi strappati. Una furia cieca si era abbattuta anche sulla specchiera nell’angolo, miracolosamente lo specchio era rimasto in piedi, ma quello che c’era sul ripiano, era stato fatto a pezzi. Boccettine di profumi, il cui odore ora riempiva la stanza, mescolandosi in maniera odiosa, cosmetici, una spazzola, tutto a pezzi a fare compagnia con lucenti e taglienti frammenti alle varie cartacce. A completare il quadro, il letto… non rifatto, un cuscino era stato anch’esso strappato. Le piume liberatesi ondeggiavano ai nostri respiri in un modo che aveva molto di grottesco.

Pensai ad un ladro, ad un rapinatore, a che cazzo non pensai non riesco nemmeno a ricordarlo…

Poi, sentii qualcosa. Un piccolo sussulto, un lamento, che veniva dal bagno. Feci segno di stare in silenzio agli altri, che stavano riprendendo a parlare, ed aguzzai le orecchie.

Un pianto…

Sbattei le palpebre un paio di volte. Quando ci si mette intensamente in ascolto di qualcosa, si concentra la mente su di essa e gli occhi sono come ciechi. Vedono, ma non guardano in realtà. Trovai gli occhi di Haruko, senza guardare. E pensai, senza nemmeno volerlo… un giorno, ti farò piangere anche io così?

Lo so, è patologico. Sono al limite della chiaroveggenza.

Corremmo in quella direzione e anche stavolta spettò a me aprire la porta.

Non aprire quella porta… è un film del cazzo, l’ho visto qualche anno fa. Ci risi appena uscii dal cinema, scoglionato perchè avevo gettato all’aria i miei soldi. Mi aspettavo terrore, paura, angoscia, ed invece avevo riso con Noma per tutto il tempo, prendendo per il culo le urla finte degli attori e il sangue color pomodoro. Ora in un giorno lontano e diverso, quel titolo mi tornò in mente, assolvendo per la prima volta alla sua originaria funzione, quella di farmi paura.

La aprii lo stesso quella porta perché sempre sarà così. Sempre avrò paura di una porta chiusa e sempre la aprirò.

Perché certe cose cambiano ed certe altre no, mai. Per fortuna.

E io ne ho aperte troppe di porte per rinunciare ad aprirne un’altra.

Era un bagno come tutti gli altri. Piastrelle rosa e celesti, una vasca bianca, un lavandino di ceramica, uno specchio circolare dalla cornice dorata. Un bagno come tanti altri.

Ayako era seduta al centro della stanza, non la vidi subito. Non so come feci, ma fu così. Forse cercavo in alto ed invece dovevo guardare in basso. Era appoggiata con la schiena alla vasca, aveva le mani tra i capelli e il viso coperto. Piangeva. Ci arrivava solo un rantolo confuso, in ogni caso, ma era oltremodo sufficiente. Aveva numerosi tagli sulle mani, da cui scendevano rivoli di sangue. Parte si era aggrumata sulle dita stesse, diventando scura, un nero odioso e appiccicoso. Ed allora capii… niente ladro, né rapinatore… ha fatto lei quel macello…

Sentendo la nostra presenza, sollevò lo sguardo e il viso. Era rossa in faccia, aveva il fiato corto e le guance erano rigate di nero. Ancora nero. Il trucco si era sciolto e le era scivolato sul viso.

Sgranò gli occhi con vergogna e terrore e si passò velocemente le mani sul viso. Pessimo risultato. Lo sanno tutti.

Mai cancellare le lacrime con il sangue.

Era quasi inquietante il suo viso ora rosso e nero, inquietante fino all’inverosimile quell’effetto su una ragazza.

Appoggiò i palmi aperti per terra, alzandosi in piedi. Barcollò per qualche secondo, ritornò dritta, sollevò gli occhi rossi.

Perché lo fai? Perché lo fai ancora? Non sarebbe enormemente più semplice lasciarsi cadere a terra, e basta?

Onore al merito, ci hai provato, ma non è andata. Allora che cazzo aspetti? Gettati a terra e non rompere.

Non rompere a noi che invece ci beiamo di poter stare ancora in piedi.

Ci guardò come se fossimo degli estranei. Ci voleva fuori dalla sua vita e non potevo rimproverarla per questo. Dopo tutto quello che era successo un anno prima, io avrei voluto tutti fuori dalla mia vita.

“Sei tornata presto…” disse piatta, rivolgendosi a Kana. Teneva lo sguardo alto, il mento sollevato, le lacrime trattenute, ma la sua mano… la sua mano ancora sporca di sangue… la sua mano ferita… si reggeva al lavandino con tutte le sue forze. Le dita erano quasi bianche dalla forza che ci stava mettendo. La sua voce aveva assunto un accento casuale, come se stesse parlando del tempo, come se stesse parlando della scuola, di qualsiasi cosa che fosse minimamente ed ovviamente normale. Qualcosa di inutile. Sembrava che lei stessa facesse scivolare la sua voce dalle labbra come se fosse inutile, come se volesse solo usarla per consuetudine, e non per darci un’effettiva ed autentica risposta. Come se volesse dirci solamente di toglierci dalle scatole.

“Bè che c’è?” chiese nervosa. Continuavamo a guardarla, senza dire o fare nulla, era come assistere ad un spettacolo, ad una commedia patetica, come quando si ride degli sforzi di un pagliaccio per restare in equilibrio su un triciclo. Lì, però, c’era Ayako. Non indossava pantaloni larghi e sformati, scarpe grosse o altre stronzate simili, ma la sua divisa azzurra, quella del Ryonan. Una divisa macchiata di rosso sangue e di nero rimmel. La divisa che per lei era stata una salvezza, la divisa che l’aveva portata via, la divisa i cui colori l’avevano unita a Sendo. I colori che ognuno di noi si dipinge sul viso, come segno di appartenenza cieca e totale a qualcosa. Poi il blu sparisce, poi ogni colore sparisce e rimane solo il nero e il rosso, trucco di pagliaccio e sangue di cuore.

“Che è successo, Aya?” la prima a chiederglielo fu, ovviamente, Kaname. Fece un passo verso di lei, al quale Ayako si ritrasse, finendo contro la vasca da bagno.

“Nulla…” mormorò fredda e gelida, guardando altrove “Nulla di preoccupante, sto bene… voglio stare solo un po’ da sola…”.

“Che è successo alla tua camera?” chiese ancora Kana, guardandola sospettosa.

Ayako affondò il canino nel labbro inferiore, mordendolo a sangue. Voltò lo sguardo ancora una volta, stringendo le mani dietro la schiena. I suoi occhi tornarono sulla cugina, dopo aver incontrato il suo riflesso nello specchio.

Tornarono irati, furiosi, pieni di collera. Facevano paura.

La mattina prima a scuola.

Dormivo sulla sedia, mentre la prof spiegava letteratura antica. Cianciava su una maga, una donna tradita, una madre. Che cavolo dicesse, non so, stavo pensando al grandioso progetto di una scuola costruita in riva al mare, dove d’estate ci si buttasse in acqua dalle finestre spalancate. Come degli enormi trampolini, non come qui che si moriva di caldo. E, mentre saltavo da quella finestra immaginata, la prof disse che una donna, in tutte le altre cose, può essere piena di paure, debole di fronte alla forza e alla vista di un’arma, ma quando si scopre tradita nell’amore, non c’è altro cuore più assetato di sangue. Anche del proprio sangue?

“Non è successo niente, Kana…” ripeté, la voce più bassa “Non è successo un cazzo di niente… mi sono solamente impazzita e ho buttato tutto all’aria. Con quello che ho passato, è normale, sai, avere alle volte delle crisi di nervi. Dovrei prendere degli psicofarmaci, non è quello che hai sempre pensato, Kana, eh?”.

Sembrava che stesse parlando di un’altra, non di sé stessa.

“Non dire stronzate…” l’interruppe secca Kana “L’ho sempre pensato, ma sono sempre stata contenta di sbagliarmi. Anche se questo mi ha sempre dato ai nervi, non cambia il fatto che sia la verità. Sei sempre stata più forte di me. Quindi, sono sufficientemente convinta che tu abbia bisogno di psicofarmaci non più di quanto ne abbia bisogno io o chiunque altro. Non mi far cambiare idea… che cosa ti è successo?”.

Ayako non rispose ancora, ostinatamente voltò il viso verso la parete, non guardandoci di nuovo.

Quando avevamo perso le speranze, la sua voce pigolò incerta: “Sono fatti miei, solo e solamente miei. Non potete fare nulla, né voglio che facciate nulla…”, si voltò finalmente verso di noi e, gli occhi umidi, sussurrò: “Voglio andare a letto, credo di avere la febbre…”.

Si staccò pigramente dal lavandino, a cui si era sostenuta per tutto il tempo di quella conversazione, e si resse da sola in piedi, malferma sulle gambe. Doveva essere vero che aveva la febbre… sembrava essere preda dei capogiri e il viso era paonazzo. Fece un piccolo passo, ma perse l’equilibrio. Ero io il più vicino a lei e, volente o nolente, fui io a muovermi nella sua direzione, afferrandola per un gomito e trattenendola in piedi. La sua testa rimase abbandonata giù, come quella di una vecchia bambola, i capelli ricci che si aprivano come un ventaglio sul suo viso, nascondendolo alla nostra vista. Quando sollevò gli occhi, pallide biglie morte, sembrò riconoscermi appena. Lo sguardo vacuo e ottuso di Ayako mi trafisse come una pugnalata, fece un male cane, sentivo la pelle della schiena rabbrividire come se fosse percorsa da piccoli granchi. Sentii come rumori soffocati dall’acqua Haruko e Kaname uscire, dicendo che andavano a mettere a posto la sua camera, per quanto era possibile. Eravamo rimasti soli, io ed Hanamichi. Lì con lei. E fu allora che, con estrema chiarezza, mi accorsi che non volevo saperne niente. Non ne volevo sapere più un cazzo di niente. Pateticamente e schifosamente egoista, lo so. Ma non ci posso fare nulla, nemmeno volendo, nemmeno prendendo a sberle quella sensazione dentro. Sapendo che cosa le era successo, tutto sarebbe cambiato. Sembrava quasi un teorema perfetto, senza bisogno di dimostrazione. E io non volevo più cambiare. Non lo volevo più.

Anche questo, assurdo e patetico. Sono cambiato da allora, e non più per Ayako. Eppure, in quel momento, ebbi solo la forza di pensare questo.

Ma che io urlassi nella mia mente, non contò una fottuta virgola.

Ayako sollevò i suoi occhi e io mi trovai a guardarla. Uno sguardo di ghiaccio. Freddo, come non mai. E non era la febbre, per niente… cazzo, la febbre non c’entrava niente. Rabbrividii ancora, mentre lei mi guardava. Era lo stesso sguardo di Rukawa, identico. Lo sguardo di chi ogni giorno perde un pezzo della propria anima. Lo sguardo di chi dispera di avere ancora qualcosa da perdere.

E lo sguardo di chi è così coglione da pensare che, chiudendo fuori tutto il mondo, quello non lo trovi lo stesso il modo di entrare e far danni.

Perché il ghiaccio è trasparente, basta dire cazzate.

È freddo, fa male, magari non ti fa venire voglia di toccarlo. Ma è trasparente.

Si vede tutto quello che c’è dietro. Si vede la tua anima, fatta a pezzi sì, ma che è ancora lì. Si vede ciò che non vuoi perdere, poco sì, ma che è ancora qualcosa.

Come fuoco, come fiamme, che ardono senza sosta.

Un fuoco, nonostante tutto, incandescente. Anche se tu provi a gelarlo.

Ed anche se provi a gelarlo, è sempre ghiaccio che metti a tua difesa. Non pietra. Ghiaccio che è trasparente e che mostra tutto quello che c’è dietro. Perché sei tu che vuoi essere guardata, anche se non lo dirai mai. Ed un giorno, cazzo, qualcuno non ha paura di fare a pezzi quel ghiaccio, pur di toccare il fuoco che c’è dietro. Per coraggio, per forza, per voglia, per… amore…

Quindi, basta nasconderti dietro al ghiaccio, Ayako. Ci sarà sempre un eroe da strapazzo come me, pronto ad entrare e a far danni. Oggi, io. Ieri… Sendo?

Infinite volte, la vidi riflessa in me, come in un gioco millenario di specchi. E magari anche lei, mi vide in lei. Vide quello che c’era dietro anche il mio di ghiaccio. Paura di lei, dietro il coraggio. Paura di Haruko, dietro l’amore. Paura di Anko, dietro il ricordo.

Perché, alla fine, quello che un uomo ed una donna avranno eternamente in comune, sarà questo.

La paura. La stessa che, scorrendo da lei a me e da me a lei, mi dettò a sangue freddo che cosa doveva essere successo.

“E’ per Sendo, vero?” chiesi con un filo di voce. Non so ancora adesso come fece a venirmi in mente proprio lui in quel momento, sarebbe stato più normale pensare che fosse per Rukawa. Ma a me invece era venuto subito in mente Sendo… ed infatti ci avevo preso… Ayako sembrò rabbrividire, stringendosi nelle spalle, e chiudendo gli occhi per qualche istante. Li riaprì qualche attimo dopo, un mesto e mogio sorriso sulle labbra pallide. Come cazzo faceva a sorridere, in quel momento? Come cazzo riusciva ad atteggiare sé stessa ad un riflesso di felicità, quando dentro tutto era diverso? Ho sempre detestato le persone che, quando stanno male, sorridono. Come cazzo fanno? E con che coraggio, poi? È come indossare le spoglie del leone ed essere gattini indifesi, come le piume della gazza per il corvo. Mi fanno innervosire le persone così… quelle che piangono me li fanno girare, ma so gestirle. Ma queste, proprio no…

Mantenne in piedi quell’estenuante sorriso, mentre mi diceva: “Non ci può essere mai un dubbio su di me, no? O è Kaede, o è Akira… e stavolta sono tutti e due…”.

“So di Rukawa…” dissi, battendola sul tempo, la fronte che grondava sudore. Non era per il peso del suo corpo quasi incosciente, sono forte, che cazzo… non era questo… bloccandola nella sua spiegazione su Rukawa, volevo evitare che ripetesse qualcosa che le facesse male, ma mi pentii subito del mio gesto. Parlando di Rukawa, avrebbe perso tempo, mi avrebbe raccontato di cose che già sapevo e che non mi avevano fatto male. Invece, prevenendo la sua spiegazione, avevo contribuito ad avvicinare il momento in cui invece avrebbe parlato della cosa che davvero la faceva soffrire. O che la faceva soffrire più di tutto. Quella che, tanto per intenderci, sarebbe stata potenzialmente letale per tutti noi. Me la facevo sotto, ancora non volevo sapere niente, la paura che mi confondeva i pensieri. Chi sarebbe sopravvissuto questa volta? Ce l’avrei fatta anche stavolta? Ed Haruko? E Hanamichi?

Proprio Hanamichi, intuendo che stava per confidarsi con me, lasciò silenziosamente la stanza, pensando che magari Ayako voleva parlarne solamente con me. Con vergogna, mi accorsi di essere terrorizzato. Di non volere che Hanamichi mi lasciasse solo a scoperchiare questo fottuto vaso di…  come si chiama? Ah, Pandora. Mi sentivo gelare addosso, mentre i secondi si assottigliavano lentamente e il momento si avvicinava. Avrei voluto lasciarla cadere per terra, fregarmene ed andarmene, portandomi dietro Haruko. Ma non eravamo in un maledetto film e comunque anche in quella remota possibilità, il protagonista di celluloide sarebbe rimasto immobile al suo posto, compunto come il comandante di una barca che affonda, mentre gli facevano a brandelli l’anima.

Vidi le labbra di Ayako riaprirsi, mentre prendeva fiato, e chiusi gli occhi. Troppo presto… c’eravamo già arrivati… il mio ultimo istinto di sopravvivenza soccombé totalmente, mentre iniziava a parlare e me ne rimanevo al mio posto. Al mio posto, come il coglione che rimane su una barca che affonda. E la barca in questione era la mia vita.

“Rukawa è solamente la maledetta ciliegina sulla torta…” esordì, stringendo forte tra le dita la manica della mia camicia “Cazzo, sembra che tutti… il destino… o che ne so… vogliono tutti che torni con lui…”.

“Tutti chi, eh?!” dissi, sorreggendola meglio, quella era la più grande cazzata della storia. O sarebbe stata la più grande tragedia della storia, a seconda dei casi. “Certamente, non metti nel gruppo me o Hanamichi. O anche Kana… ed Haruko… insomma, penso che ti legheremmo e ti meneremmo fino a farti cambiare idea…”. Lei sorrise leggermente, inizio a capire la tecnica del ridere per non piangere. Cazzo, ti dà un po’ di sollievo, anche se per pochi secondi. Ti magnifichi di star parlando di una cosa qualsiasi e di poterci ridere anche sopra per come è piccola ed inutile. In fondo, chi cazzo vede che dentro è tutto diverso? Sono poche le persone che vedono oltre il ghiaccio.

“Ma non è lui il problema…” riprese lei, anche stavolta troppo presto. Respiravo a fatica anche io ormai, come se avessi la febbre come lei. E non avevo nemmeno una fottuta linea, anzi ero gelido. Ma dove cazzo era Hanamichi, quando avevo bisogno di lui?!!!

Eccolo, ormai c’eravamo arrivati. Ora tutto sarebbe cambiato. E fanculo al fatto che non volessi… se ne sono mai fregati di che cazzo volessi io…?!!

“Akira se ne va…” alla fine, lo disse, eccola la cosa che ci avrebbe frantumato contro gli scogli della necessità. Adesso sembrava niente, ed invece chissà che cazzo sarebbe diventata. Ai tempi, che me ne fotteva che Rukawa se la facesse con Ayako? Un cazzo, ecco. Un po’ di più, se quel bastardo la metteva incinta, ma ancora poco. E poi s’è visto che è successo…

“Se ne va in America… a Boston…” riprese lei, la voce spezzata. Ancora l’America, era proprio la giornata a stelle e strisce. Sembrava che quel continente dall’altra parte del mare fosse sempre lì, pronto a divorare chi volevi disperatamente trattenere da questa parte del cielo. Come Anko. Già, come Anko… Anko che stava per tornare… Anko che, Dio solo lo sa, come avrei voluto trattenere qui. 

“Ha avuto un ingaggio milionario per una squadra dell’ NBA… con annessa borsa di studio per Harvard…” continuò lei, la voce ormai talmente rotta che era più fatta di silenzio che di parole. 

“Che culo…” commentai a bassa voce.

“L’avrei detto anche io… se solo…” finalmente, le lacrime coprirono le sue guance e scesero a precipizio sulle sue labbra secche, portando salato ristoro al suo sorriso ormai vuoto e morto. Un singhiozzo si accompagnò alle sue ultime parole: “… se solo me l’avesse detto…”.

“Non ti ha detto niente?” chiesi scioccamente, sinceramente sorpreso.

Lei negò con il capo, una lacrima che sfiorò la mia mano: “… lo sa da tre settimane… me l’ha detto Danny, pensando che io lo sapessi. Ho dovuto anche fingere che lo sapessi…”, un nuovo singhiozzo interruppe le sue parole: “… ha il biglietto aereo e tutto. Dovrebbe partire due giorni dopo il ritorno dal ritiro per sistemare delle cose… tornerebbe solamente per giocare nel campionato nazionale… quelli dell’ NBA pensano che sarebbe una bella pubblicità al loro nuovo acquisto, se vincesse anche il campionato con il Ryonan. Gli pagherebbero tutte le spese aeree…”, la sua voce si incrinò di nuovo, mentre diceva: “Capisci? Capisci adesso?! Sa tutte queste cose da tre settimane… le sa persino Danny e chissà forse anche Hikoichi… e io… nulla. Niente… come una a cui lasci il tuo numero, sperando che non ti chiami mai, come una che ti scopi una sera e ti dimentichi la mattina dopo. Mica gli racconti la storia della tua vita… che cazzo te ne frega? E lui… credevo che Rukawa… credevo che solo lui… fosse così… ed invece… alla fine, non c’è differenza…”.

Stava iniziando a delirare, la febbre le stava salendo ancora. Gli occhi lucidi le si chiudevano da soli, mentre lei cercava ancora di parlare. La presi in braccio di peso, trascinandola fuori dal bagno fino in camera sua. Le sue ultime parole sconnesse furono qualcosa tipo: “… dopo tutto quello che ha fatto per me… è sempre colpa del basket, sempre il basket. Come riuscirò senza…?”.

L’adagiai lentamente sul letto, coprendola bene con un plaid rosso che dovevano aver lasciato gli altri, evidentemente volatilizzati al piano di sotto.

La guardai in viso attentamente. Ecco, come si riduce la donna più forte del mondo per amore.

Mi impressi la sua immagine nella mente a monito perenne.

Ecco perché avete tanto bisogno di noi. Ed ecco perché sembrate sempre deboli, quando siete mille volte più forti di noi.

Perché amate.

Perché, amando uno di noi, prendete a picconate la vostra forza.

Vi distruggete, amando.

Diventate deboli, amando.

E tutto questo accade da secoli… anzi, da millenni fa…

Accade dai tempi di una maga, di una donna tradita, di una madre.

Ah già, si chiamava Medea.

 

 

“Bè, allora?!”.

“Allora, cosa?” chiesi distratto, guardando Hanamichi con gli occhi annacquati dai pensieri.

“Non dici niente?” mi chiese ancora lui insistentemente.

“Ma che cazzo dovrei dire?! E su cosa, poi?!”. Me li stava facendo girare, decisamente. Anche quando parla normalmente, è difficilmente comprensibile nelle sue seghe mentali e nei suoi discorsi sconclusionati. Figuriamoci quando fa il vago… è come parlare con un sordomuto e cercare di capire i suoni inarticolati e scarsi che provengono dalla sua bocca. Mi strinsi nella giacca, faceva freddo quella sera, nonostante fosse giugno ormai. La strada era deserta, c’eravamo solamente lui ed io che percorrevamo il viale comune che portava alle nostre case. Avevamo lasciato Kana a casa, dopo aver messo a letto Ayako, e lei ci aveva detto che ci avrebbe fatto sapere se ci fossero state delle novità. Non che ci tenessi a saperle, comunque… avevamo lasciato Haruko a casa, più o meno cinque isolati prima, e adesso io ed Hanamichi eravamo rimasti soli. Soli, con i nostri pensieri. O perlomeno, io volevo rimanere solo con i miei pensieri, ma Hanamichi evidentemente era di un altro parere. Adesso la capisco Kana, quando si spara a palla la musica nelle orecchie. Altro che mistero o cosa nascosta, lo fa per non sentire l’idiota… deve essere così… poveretta, mi fa davvero un’enorme pena. Quel coglione c’ha sempre il sincronismo di rompere nel momento meno opportuno…

“Come, su cosa??!!” mi fece tutto incazzato “Di che cosa dovremmo star parlando, scusa?! Di Ayako!”.

Sospirai, fosse stato un altro momento l’avrei già sbattuto di testa contro un lampione, ma non avevo nemmeno la voglia di fare quello. Fissai lo sguardo su una stupida falena che volava attorno ad una luce. Baluginò qualche secondo, quasi spegnendosi, forse anch’essa rotta di palle dal gracchiare di Hanamichi. Ma purtroppo io me lo dovevo sopportare per altri cinquanta metri e passa, considerando il passo da processione che avevamo. Quindi, una fottuta risposta gliela dovevo per forza. La mia mente trovò la strada giusta per metterlo a tacere e, contemporaneamente, per dare sfogo a quello che premeva sotto la mia pelle da quando ne avevo sentito parlare.

“Potremmo anche parlare di Anko, per esempio… del motivo per cui torna in Giappone…” dissi in un soffio, le parole che bruciavano le mie labbra. Ecco, l’avevo detto… era da quando avevamo lasciato casa di Ayako che quel pensiero si era attaccato ostinato alla mia mente. O meglio… era sempre rimasto lì, da quando Hanamichi me ne aveva parlato. Ma la faccenda di Ayako lo aveva fatto passare in secondo piano. Era come una nota stonata nel sottofondo di una melodia apparentemente armonica… insomma, la ignoravo perché il resto comunque era accettabile o più importante. E quella, per tutto dispetto, continuava a vibrare in me, riducendo in frammenti quel poco di equilibrato che ancora esisteva. Sbirciai il profilo di Hanamichi, reso buio dalla scarsa presenza di illuminazione. Non indovinai i suoi pensieri, né vidi la sua espressione, soltanto le sue spalle si erano irrigidite. Ed anche il silenzio sembrava diverso. Stava pensando a che cosa dirmi. 

“Non te l’ho detto?” disse con tono casuale e tranquillo “Ha litigato con la madre…”.

Stavo per chiedere su che cosa, ma mi fermai. Lo conosco troppo bene Hanamichi, e le sue scarne parole mi avevano già fatto capire tutto. Di solito, è logorroico. Cazzo, parlerebbe anche per ore. Se non lo fa, c’è un motivo. E il motivo non può essere nulla di diverso dal fatto che non ha intenzione di parlare della vicenda, o comunque di darmi spiegazioni eccessive. Tutto quello mi sembrava strano, ovviamente… era da quando Anko aveva deciso di partire che Hanamichi mi aveva sempre detto tutto quello che riguardava la sua famiglia. Solo prima, quando c’eravamo appena conosciuti, lui manteneva un ostinato riserbo su tutto quello che aveva a che vedere con la madre. Adesso, sembrava essere tornato a quei tempi. Non sapevo spiegarmene la ragione e la fottuta curiosità faceva il resto, scuotendo i miei nervi con la sensazione che non ci fosse niente di buono nel ritorno di Anko. Ma sapevo bene che, se Hanamichi si stava comportando in quella maniera, non avrei cavato un ragno dal buco. Cercai di eludere la risposta che non voleva darmi con altre domande, in modo da avere qualche altro pezzo per capire: “L’hai più sentita da allora? Intendo da quando è partita…” chiesi cautamente, abbassando un po’ la voce.

Hanamichi sembrò pensarci sopra, poi con la medesima calma di poco prima, la calma che sapevo solamente apparente, rispose: “Una sola volta, credo… quando gli dissi della morte di mio padre… e poi altre due volte… ma… insomma, non avevo molta voglia di sentirla…”, la sua voce si interruppe quasi imbarazzata e la accolsi con un silenzio partecipe. Chi cazzo avrebbe avuto voglia di risentire Anko? Certamente non io. E, per lui, se mai questo fosse possibile, doveva essere anche peggio.

“E tu, invece?” mi chiese Hanamichi a sua volta, voltandosi per guardarmi in faccia.

Ci pensai anch’io su. Incerto su che cosa dire. Non l’avevo sentita, questo era un fatto. Ed era un fatto se per sentire si intendeva parlare o comunque comunicare con una persona. Se si intendeva altro, allora non lo so… doveva essere più o meno lo stesso. Le chiamate con il prefisso internazionale venivano puntualmente rifiutate, non appena me ne accorgevo, e le lettere… bè, quelle le facevo a mille pezzi, gettandole prima che dai frammenti potessi distinguere la più piccola sillaba. Sì, credo proprio di non averla sentita.

Negai con il capo con decisione, in fondo anche lui l’aveva cancellata dai suoi pensieri e dai suoi gesti, ed era suo fratello. Io c’avevo meno motivi di lui per mantenere un minimo contatto con lei.

“Non ci credo…” rise Hanamichi.

Nervoso, sbottai: “E perché non ci credi, razza di imbecille?!”.

“Sì, come se io non sapessi che cosa c’era tra te ed Anko…” continuò a ridere in maniera alquanto irritante “Che c’è, hai paura che lo dica ad Haruko?!”. Il suo sghignazzare me li fece girare clamorosamente, mi trattenni finché ci riuscii, ma alla fine esplosi, urlando: “Figurati a me che cazzo me ne sbatte di Anko!”. Lui continuò a ridere per un po’, il suo accesso di risa accompagnato dal latrare di un cane che avevo spaventato nel mio urlo. Lo lasciai fare, in fondo aveva diritto di riderci sopra. Anche se mi faceva incazzare… come tutte le persone che ridono per non fare… altro…

Mancava poco ormai all’incrocio, dove io avrei proseguito e lui avrebbe girato a destra. Intravedendolo alla fine del viale, sentii le mie vene permearsi di un sentimento quasi d’urgenza. C’era ancora qualcosa che volevo dirgli, qualcosa che mi pesava, qualcosa che forse solamente lui avrebbe capito. Qualcosa che mi faceva sentire in colpa, ma che al contempo mi faceva stare bene. Esitai prima di parlare, poi mi mandai a fanculo mentalmente e decisi di svuotarmi la coscienza.

“Ehi…” lo chiamai.

“Eh?”.

“Sai che c’è?” sorrisi leggermente tra me e me, guardandolo “Mi ero davvero cagato sotto, quando ho visto Ayako in quelle condizioni…”.

“A chi lo dici…” rispose lui complice “Quando siamo entrati in casa… non lo so… mi sembrava che fosse successa un’altra tragedia… come l’anno scorso, insomma… cazzo, capisco che sta male e tutto il resto… ma in fondo Sendo se ne va in America, mica muore! Ci potessi andare io! Sai come si fotterebbe Rukawa?!” ghignò soddisfatto. Sorrisi, era esattamente tutto quello che avevo pensato io. È davvero il fratello che non ho mai avuto. Poche parole che riassumevano tutto quello che mi oscillava dentro. Aggiunsi, poco prima che ci separassimo: “Se ci andassi tu, Kana salterebbe di gioia!”. Minacce di morte come saluti, urlati mentre ci allontanavamo. Poi, finalmente, silenzio.

Avrei aiutato Ayako, se fosse stato necessario. Avrei anche potuto parlare con Sendo, se ce ne fosse stato bisogno. Ma potevo anche non farlo. E questa era la cosa più bella del mondo.

Potevo continuare a ridere con Hanamichi, a interrogarmi su Kana, a stringere la mano di Haruko.

Avevo una scelta. Cazzo, potevo anche starmene fermo al posto mio. O farmi coinvolgere, sapendo che nulla di mio sarebbe venuto a rischio.

Nella vita, quella vera, arriva sempre il momento in cui l’eroe posa per terra la sua spada scintillante e sceglie di andarsene. Il momento in cui capisce che non può perdere tutto quello che ha solo per aiutare un altro. Il momento in cui capisce che è solamente uno come gli altri. Il momento in cui si scopre egoista e non si sente in colpa.

Perché essere un eroe non è essere invincibile.

È solo un’altra maschera, un’altra lastra di ghiaccio tra l’anima e il mondo.

Come ridere, se si vorrebbe piangere.

Come non parlare, se si vorrebbe gridare.

Come affogarsi di musica a tutto volume, se si teme il silenzio.

… come indossare le spoglie del leone ed essere infingardi gattini.

Nella vita, quella vera, arriva sempre il momento in cui l’eroe scopre di dover soccombere.

Perché non è invincibile. Perché è solamente un uomo. Perché ha paura.

Per me, quel momento sarebbe arrivato una settimana dopo. Con l’atterraggio di un aereo e con il ritorno di una persona che avevo solo finto di dimenticare.

La persona che mi avrebbe insegnato che nella vita, quella vera, arriva sempre il momento in cui l’eroe, prima di morire, capisce quanto è stato coglione a credersi immortale.

Perché nella vita, quella vera, l’eroe non vince mai.

Ah già, e quel che è peggio le prende più di tutti.

I am so high. I can hear heaven

            I am so high. I can hear heaven.

            No heaven, no heaven dont hear me.

 

            And they say that a hero can save us.

            Im not gonna stand here and wait.

            I'll hold onto the wings of the eagles.

            Watch as they all fly away.

 

            Someone told me love will all save us.

            But how can that be, look what love gave us.

            A world full of killing, and blood-spilling

            That world never came.

 

            And they say that a hero can save us.

            Im not gonna stand here and wait.

            I'll hold onto the wings of the eagles.

            Watch as they all fly away.

 

            Now that the world isnt ending, its love that Im sending to you.

            It isnt the love of a hero, and thats why I fear it wont do.

 

            And they say that a hero can save us.

            Im not gonna stand here and wait.

            I'll hold onto the wings of the eagles.

            Watch as they all fly away.

 

            And they're watching us

            (Watching Us)

            As they all fly away

 

Chiedo perdono! Allora, in questo periodo, mi è davvero successo di tutto! Non so nemmeno da dove cominciare! Per prima cosa, il mio computer se ne è andato completamente di cervello, cosa abbastanza risaputa, ma che è diventata gravissima, quando mi ha completamente cancellato il capitolo nove della mia storia! Volevo morire, considerando quanta fatica ci avevo messo nello scriverlo! L’ho dovuto riscrivere e, quando ho finito, mi è partito Internet… mio padre per formattare il computer, ci ha messo altri vent’anni, ed ecco il motivo del mio ritardo! Chiedo ancora scusa! Sono, stranamente per me, molto soddisfatta di questo capitolo! Ero indecisa se effettivamente il punto di vista di Yohei sarebbe stato pertinente o meno, e soprattutto se sarei riuscita a scrivere di un personaggio di cui nell’anime si sa veramente poco! Ho dato di lui una mia personale interpretazione che risente di alcune mie caratteristiche caratteriali, come la paura di innamorarsi o il nascondere quando si sta male dietro un sorriso o dietro il coraggio, ma è anche leggermente ispirato ad un mio amico, che cerca sempre di aiutare tutti, mettendosi spesso proprio a fare “l’eroe” e poi le prende da tutti quelli che cerca di aiutare! Nel caso la mia interpretazione non vi piaccia, fatemelo sapere; alla fine, è solamente un mio punto di vista, non deve essere per forza corretto! Ancora una volta vorrei fare un enorme GRAZIE ai miei lettori sia per la loro pazienza per le mie alterne vicende, sia perché lo dico sul serio, le vostre recensioni sono veramente stupende! L’attenzione che ci mettete nel leggere la mia storia, nel trarne fuori ogni cosa che io stessa posso aver lasciato in secondo piano, è un qualcosa di veramente meraviglioso. Lo ripeto, sono stata molto fortunata a trovare dei lettori così attenti e, posso dirlo, anche così appassionati e sensibili da cogliere ogni sfumatura della mia storia. L’ho detto in svariate occasioni, questa come altre, ma particolarmente questa, è una storia a cui tengo moltissimo, quindi vederla così apprezzata mi fa più piacere che in altre situazioni simili! Per questo, grazie davvero, potrà sembrare esagerato ma per me, che sogno di fare tra le altre cose anche la scrittrice, è davvero una cosa importante! Avrei voluto ringraziarvi uno per uno, ma purtroppo non ho molto tempo, devo ancora rivedere l’intero capitolo ed altrimenti perdo la possibilità di aggiornare entro oggi. Comunque, davvero grazie… il prossimo capitolo sarà il decimo, l’ho quasi finito e vi do un’anticipazione. Sarà da tre punti di vista diversi… provate ad indovinare di chi! Un enorme bacione, Cassie!

 

 

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Capitolo 10
*** Something inequivocal ***


Capitolo 10 – Something inequivocal

Capitolo 10 – Something inequivocal

 

Anko Sakuragi

 

L’odore degli aerei è sempre lo stesso, in ogni parte del mondo. È un odore intenso, penetrante, pizzicante. Sarà l’odore delle poltrone in tessuto sintetico, quello dei vani bagagli, quello delle borse e delle valigie, non lo so. O l’odore delle persone, magari. Persone che partono, che se ne vanno, che dicono addio, che spezzano cuori. Questa è la prima categoria, poi c’è la seconda, quella delle persone che tornano, che arrivano a casa, che abbracciano di nuovo, che baciano ancora. Le persone che viaggiano sugli aerei si dividono strenuamente in queste due categorie, come le due parti di Berlino divise da un muro insormontabile, fino al ‘89. Forse sono davvero le persone ad odorare così stranamente. E in questo la tesi viene avvalorata dal fatto che non c’è differenza se un aereo lo prendi per partire o per tornare, anche se le persone sono diverse. Il dannato odore è sempre lo stesso, quindi forse devo escludere i passeggeri come causa di questo odore.

Che, tanto per intenderci, mi dà la nausea. O forse è solo mal d’aria, chissà. Ho la tendenza ad esagerare le cose.

L’odore è sempre lo stesso, anche se viaggi da sola o in compagnia. Perlomeno credo, perché io non faccio testo. Fino a quel momento, io di aerei ne avevo presi solo due. E sempre da sola. Avevo preso quello, ed un altro… l’altro cinque anni prima. E l’odore era esattamente lo stesso.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.

La sola differenza sostanziale era che allora io stavo tornando, anni prima me ne stavo andando. Ma anche quella era una differenza trascurabile. Perché? Semplicissima come risposta. Allora, cinque anni prima, scappavo. Dal Giappone per New York. In quel momento, scappavo. Da New York al Giappone. Sempre di scappare si tratta, no? Credo che, anche in queste cose e non solo nei numeri, ci sia la proprietà commutativa.

Cambiando l’ordine, il risultato non cambia.

Mancava ancora un’ora al mio arrivo in Giappone, quando iniziai quelle patetiche, ma consuete riflessioni. Cominciai a riflettere sul colore delle poltrone, sul perché le facessero azzurre perché io, l’azzurro, lo odio. Chiesi ad un’hostess bionda una coca cola, chiedendomi perché le hostess fossero anch’esse tutte bionde, come delle bamboline fotocopia, come le Barbie, mai una castana o dai capelli rossi come i miei, se magari fosse una voce sul loro curriculum. Bionda naturale. Magari dava più possibilità di essere assunta. Sorseggiai la mia bibita con lentezza, guardando fuori dal finestrino, mentre la mia compagna di posto intimava alla figlia di non posare le scarpe sul sedile. La guardai per qualche secondo quella bambina, i capelli ramati legati da dei nastri rosa in due codini alti sul capo. Rosa anche il vestitino, le scarpette ed una piccola borsetta. A me sarebbe venuto da vomitare al posto suo. Mentre la bambina faceva la linguaccia alla mamma, beccandosi uno schiaffo, mi chiesi perché, all’inizio della storia, avevano scelto il rosa per le bambine e l’azzurro per i maschi.

Mio padre mi vestiva sempre di azzurro. E io l’odiavo.

Mia madre mi consigliava di vestirmi di rosa. E io l’odiavo.

Verde, giallo, viola, bianco e nero. E rosso, insomma ce ne sono di colori.

Perché, per forza, la scelta era sempre tra il rosa e l’azzurro?

Perché, per forza, la mia scelta è sempre tra mia madre e mio padre?

E, mentre quelle penose riflessioni, almeno riempitive della mia testa, evaporavano, la verità venne a galla.

La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio disperatamente bugie. Sembra orribile? Molto probabilmente è così, ma sinceramente non mi interessa. Chi dice “bugia”, pensa immediatamente a quella bugia, detta da uno che si faceva la tua migliore amica e a te diceva che andava a giocare a calcetto. O peggio a quella di un assassino, che negava con spavalderia davanti ad un giudice, nonostante il quadro probatorio completamente avverso, e che tanto ti aveva scioccato, guardandolo in televisione.

Ma io non penso a queste cose.

Per me, a questi concetti si associa più facilmente la verità. Perché, per me, le bugie sono fiabe.

Meravigliose. Colorate. Vivaci. E soprattutto indolori.

Quand’anche rivelassero la loro fatuità, non avrebbero peso. Sono sempre aria, perché nella loro menzogna non sono mai esistite. Invece, la vita è sempre una scomoda eccezione. Perché la vita, inevitabilmente, è sempre verità. Una nauseabonda pozza di verità, condita da qualche patetica e poco longeva bugia. La vedo nella mia mente e la immagino nera, colma di onde altissime che vogliono solamente affogarmi. Onde che, come se non bastasse, hanno la consistenza e la forza di valanghe di neve.

La verità, poi, ha sempre avuto una particolare predilezione per la mia persona. Assolutamente non ricambiata e non richiesta. Mi fiuta sempre, come un segugio dal naso nero. Mi stana e mi morde con i suoi denti affilati, ed alla fine mi mette sotto gli occhi le vere domande. Con le relative vere risposte. Nemmeno quelle mi risparmia, le risposte. Chi cazzo le ha chieste? Le domande ancora ancora le tollero, ma le risposte… quelle non le accetto. Perché non hanno minimamente a che vedere con il colore delle poltrone, dei capelli di una hostess e dei nastri di una bambina.

La vera domanda è una sola. Anch’essa è sempre stata la stessa, anch’essa è sempre uguale.

Perché la mia vita è sempre una scelta tra mia madre e mio padre?

Sospiro, d’accordo, l’ho capita l’antifona. Devo pensarci per forza, no? Non c’è modo per uscirne, vero? Perlomeno ho la consolazione di essere io l’artefice del mio suicidio. Una sorta di eutanasia, diciamo così. Discerno tutta la situazione con la freddezza di un chirurgo, cieca al sangue e cieca al dolore, anche fisico.

Per Hanamichi, è sempre stato diverso. Forse perché è sempre stato lui diverso. Io sono sempre la stessa.

Hanamichi non ci pensava mai a nostra madre, nemmeno quando eravamo bambini. Diceva che non gli interessava. Si metteva a giocare ai videogiochi, a calcio, a guardie e ladri, e non ci pensava. Mai.

Era una grandissima stronzata.

Ci pensava, eccome, a nostra madre. Ma a quella scelta, a quella domanda, lui aveva risposto nel giorno stesso in cui era nato, in cui entrambi eravamo nati.

Aveva scelto nostro padre. Subito, senza pensare. Aveva scelto il genitore che gli comprava il nuovo videogioco, che lo faceva arrampicare sulle sue spalle per prendere il pallone sull’albero, che faceva sempre la parte del poliziotto imbranato. Semplicemente, aveva scelto il genitore che c’era. Non che fosse stata una scelta difficile, in fondo. Era la scelta ovvia, quella che tutti avremmo fatto.

Hanamichi assomiglia molto a nostro padre. O, si dice, assomigliava? Insomma, Hanamichi è il soggetto della frase, no? Ed Hanamichi c’è sempre, quindi… invece mio padre… serrai forte gli occhi, trattenendo il respiro e stringendo i pugni. La mia vicina di posto dovette pensare che avessi un attacco di panico, chissà… pallido palliativo al senso di colpa ed al rimorso, urlai nel mio cervello il verbo nella forma presente.

Hanamichi assomiglia molto a mio padre.

Non esteticamente, intendiamoci. I capelli rossi sono di nostra madre, uguali ai miei. La figura, l’altezza, molti gesti sono sempre di nostra madre. Solo gli occhi, gli occhi di Hanamichi, erano di nostro padre. Scuri come erano quelli di mio padre. Mi morsi il labbro inferiore freneticamente, senza volere avevo usato il passato.

Erano di nostro padre, ora sono solo di Hanamichi. Perché mio padre non c’è più.

La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio disperatamente bugie.

I miei occhi sono sempre stati diversi. Verdi, assurdamente e stranamente verdi. Assurdi e strani per una bambina che si guarda allo specchio accanto al padre e al fratello gemello. Perfettamente normali per una che, invece, si guarda accanto alla madre. Sono una fotocopia di mia madre. In tutto e per tutto. Forse, per questo, i miei occhi non hanno mai visto le stesse cose che vedevano loro. 

Da piccola, non capivo, non ci arrivavo. Era un’ impressione vaga e impalpabile, una nebbiolina sui pensieri, un oscurarsi dei ricordi, un offuscarsi delle sensazioni. Era come avere una cosa sotto agli occhi con qualcuno che ti spinge a guardarla bene, e comunque non vederla, non volerla vedere. Nello stesso momento in cui davvero l’avrei vista, tutto inevitabilmente avrebbe preso forme e colori completamenti diversi da quelli che conoscevo, piccole venature di rosa in un infinito oceano di azzurro. Magari era di questo che avevo paura, magari era questo a separarmi da loro due, al di là degli occhi.

Mi nascondevo sotto il tavolo della cucina, abbracciando le ginocchia, la polvere che mi irritava il naso. Diventavo io stessa polvere, cenere di una cosa bruciata tempo prima ed abbandonata lì con assoluta noncuranza ed indifferenza. Fingevo che non ci fossi. Che fossi altrove o che non fossi mai esistita, a seconda dei casi e delle giornate. Hanamichi e mio padre tornavano a casa, ridevano e scherzavano, entrambi coperti di fango dalla testa ai piedi. Sporcavano il pavimento con enormi chiazze scure. Mio padre aiutava Hanamichi a pulirsi e si congratulava per il tiro perfetto che aveva fatto. Hanamichi gonfiava il petto e diceva che era stata una bazzecola per lui, lui che era un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni cosa. Io ero sempre lì, sotto il tavolo, e loro non mi vedevano. Mi dicevo che forse era perché io non ero un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni cosa. Mi stringevo più forte le ginocchia, poggiavo la fronte su di esse e facevo ancora finta di non esserci. Facevo finta, sì; perché comunque io lo stesso c’ero, lo stesso esistevo ancora. Chi non c’è, chi non è mai esistito, chi è morto, non sente nulla. Io invece ancora ascoltavo le loro parole. Arrivavano a parlare di bambine, di adolescenti, di ragazze. Mio padre rideva ancora ed Hanamichi si arrabbiava, nomi su nomi di persone che diceva di amare alla follia. Ogni giorno, il nome cambiava.

Poi arrivavano al mio di nome.

“Dov’è Anko?” diceva mio padre, guardandosi attorno per la casa.

E io sgattaiolavo via, gattonando da sotto il tavolo, all’improvviso troppo piccolo per nascondermi. Spuntavo davanti alla porta della cucina, fingendo che ero sempre rimasta in camera mia. Mi scrollavo silenziosamente la polvere di dosso, riassumendo un aspetto perfetto. Tingevo i miei occhi verdi di colori simili a loro, accesi di stelle vivaci e di pensieri felici, indossavo cieli azzurri per sentirmi a casa, nascondendo sotto la mia anima quelle piccole sfumature rosa, che mi facevano sentire un’estranea. Così mi sedevo accanto a loro, ridevo, scherzavo anche io, prendevo in giro Hanamichi per la sua cotta per Makoto, scoprendo però che invece si trattava di Yoko.

Chiudevo gli occhi, ridendo, e non vedevo. Non volevo vedere che già i loro visi erano cambiati. Impercettibilmente cambiati e diversi. Non peggiori, non migliori. Solo diversi. E tutto perché c’ero anch’io.

Non è da fraintendere la situazione, certo per molto tempo l’ho fatto, ma ora non è più così. Mio padre mi amava, tanto. Ed anche mio fratello, anche se certamente a suo modo. Questo l’ho capito molto dopo, in America, da sola, senza di loro. In una calda mattina di sole, mentre camminavo a Central Park tra decine di persone. Non nascosta sotto un tavolo a riempirmi di polvere. L’ho capito, uscendo da quel tavolo, che loro mi amavano con tutto il cuore. L’ho capito quando c’era già un oceano a dividerci, un oceano di acqua azzurra. Ed era già tardi.

Perché prima avevo capito un’altra cosa. Era stato il giorno del mio onomastico, quasi tre anni prima… Hanamichi aveva scartato un regalo per me, mi ero arrabbiata con lui, perché i regali erano miei, era il mio di onomastico, cavolo! Ma quello niente, figurarsi se mi aveva ascoltato. Aveva scartato il regalo di una mia prozia rimbambita. Aveva infatti pensato che fosse la festa di Hanamichi e non la mia, ed aveva spedito un complicatissimo aereo da guerra. Hanamichi chiaramente se ne era impossessato, dicendo che era una cosa da maschi, non da femmine. Mi ero ribellata, dicendo che comunque era un mio regalo, ma mio padre, ridendo, gli aveva dato ragione.

Ed era stato allora che avevo capito il perché di tutto quello che succedeva da quando ero bambina. Il perché di quella nebbia sul mio rapportarmi a loro due. Il perché del loro stare così bene assieme. La cosa che non volevo o non potevo vedere.

Era così perché erano padre e figlio, accomunati dallo stesso sesso.

Io ero diversa, semplicemente perché ero una ragazza. Insomma, la risposta era semplice, eppure mi era sempre sfuggita. Semplice, perché era sempre stata lì, ma mi era sempre sfuggita perché non avevo mai avuto un mezzo di paragone. Ero cresciuta con mio padre, con mio fratello, e fuori di lì c’era solo un’altra persona, e non era un mezzo di paragone, essendo un ragazzo anche lui. È strano che non mi voglia ricordare nemmeno il suo nome per paura che mi faccia ancora male…

Non c’era un mezzo di paragone, perché al suo posto c’era invece un’assenza, pesante come un macigno, una voragine che succhia la felicità e la tristezza, rendendole uguali, senza alcuna differenza. Non ero mai felice e nemmeno propriamente triste.

Tutto solamente per una ragione, la ragione.

La mia mamma. Mia madre, insomma. Quella persona non c’era mai stata. Era… altrove… lei, la donna della mia famiglia. Lei, quella che mi avrebbe capito più di chiunque altro. Che grandissima puttanata, ero veramente un’idiota… non posso assolvermi dal giudizio su me stessa, dicendo che era per questa ragione che lasciai il Giappone.anche se è questa la verità. Ma ho avuto modo di illustrare in che rapporto sono con quella vecchia bastarda. Le verità non devono essere necessariamente giuste e corrette. Le mie non lo sono mai state.

Mi convinsi che mio padre preferiva Hanamichi. Mi dicevo che doveva odiare mia madre e, se io non ero uguale a lui, era perché lo ero rispetto a mia madre. Ergo, lui vedeva mia madre in me. Quindi, odiava anche me.

Palle, grosse bugie gigantesche. Le uniche che davvero mi hanno fatto male.

Mio padre non odiava mia madre. L’amava ancora. Quindi, amava anche me.

E, poi, mia madre non ha niente di me. Lei non sarebbe mai tornata indietro, come infatti non aveva mai pensato di fare. E io, stupida, non me lo ricordai, quando arrivò quella maledetta. Mi sono sempre chiesta, perché avesse chiamato me, e non Hanamichi. Lei diceva di averlo fatto, ma che Hanamichi le aveva fatto gentilmente sapere che non ne voleva sapere niente di lei. Una cazzata, anche questa.

Chiamò me, perché le servivo. E forse perché già sapeva che avrei abboccato, come una povera stupida.

In fondo, è vero che mi conosce meglio di chiunque altro. Mi capisce, perché sono come lei. Ho l’anima intessuta di bugie. 

Toccai distrattamente la mia guancia, piangevo. Mi sarebbero rimasti gli occhi rossi, ma Hanamichi non avrebbe detto mezza parola, ne ero perfettamente consapevole.

Perché, nel suo profondo del cuore, mi augurava ogni lacrima che cadesse dai miei occhi.

E non potevo dargli torto.

Non avrebbe nemmeno riconosciuto una sorella nei miei occhi.

Perché sono verdi. E non sono quelli di papà. E, per sua fortuna, Hanamichi ha sempre visto solo quelli di papà.

Mai quelli della mamma.

 

 

Trascinai pigramente la mia valigia, cercando di evitare quella stessa bambina dell’aereo con i nastri rosa nei capelli. La madre la chiamava a gran voce, si chiamava Noijiiko. Mentre mi sorpassava, correndo, la trattenni per il piccolo braccio, facendola fermare. La piccola si dimenò per un po’, intanto la madre ci raggiunse entrambe, sospirando di sollievo.

“Grazie” mi disse trafelata “E’ una vera peste, non posso mai perderla di vista!”. Le sorrisi, riconsegnandole la sua pargoletta. La bambina mi guardò imbronciata, sicuramente mi odiava per averle impedito lo scatto di libertà che agognava da quando era seduta sull’aereo. Sorrisi anche a lei, non dicendole che cosa avessi pensato. Ma, come avevo già avuto modo di chiarire, il pensiero comunque raggiunse me. Fin quando hai una madre che ti chiama, impedendoti di andartene, goditela. Credimi, non è una cosa così scontata come pensi, NoiJiiko. E poi avrai sempre tempo per scappare da lei.

Salutai la donna con la bambina, ed iniziai a camminare svogliatamente per l’aeroporto. L’aereo era stato perfettamente puntuale, quindi Hanamichi doveva essere già arrivato. Che bello, non stavo più nella pelle all’idea di rivederlo. Ovviamente ero ironica. Stanca di camminare come una deficiente, priva di una qualsiasi meta, lasciai la valigia per terra, sedendomi sopra. Poggiai i gomiti sulle ginocchia e la testa sul palmo aperto, guardando ancora davanti a me, priva di un reale interesse. Davo le spalle all’ingresso, la gente che mi passava accanto, evitandomi distrattamente oppure sfiorandomi con i bagagli. Sbuffai annoiata, sarebbe stato decisamente meglio prendere un taxi ed andarmene in un maledetto albergo, altro che avvisare Hanamichi. Prima di tutto, se era rimasto come era, sarebbe arrivato un’ora dopo l’atterraggio. Ma la cosa più importante era che Hanamichi sicuramente non mi avrebbe guardato nemmeno in faccia, avrebbe preso le mie valigie in completo silenzio e avrebbe preso a camminare davanti a me, costringendomi a seguirmi. Cazzo, adesso che ci penso non sono nemmeno tornata per la morte di papà. Mi faccio schifo da sola. Lo chiamai, questo sì, e lui mi chiuse il telefono in faccia, non appena seppe che non sarei tornata. Potrei dare anche di questo la colpa a mia madre, forse sarebbe anche vero. Rose me lo diceva sempre. Diceva che non dovevo farmi controllare da lei. Diceva che anche se quella donna era mia madre, non era detto che la dovessi ascoltare, qualunque cosa dicesse.

Rose aveva sempre ragione. Specialmente perché a sua volta era madre, madre della mia.

Mia nonna.

Hanamichi non ha nemmeno conosciuto lei, Rose. Era morta un anno prima.

Siamo quasi pari, lui non ha visto morire nostra nonna e io nostro padre.

Che stronza, pretendo anche di giustificarmi in questa subdola maniera.

Era solo, Hanamichi, non c’ero con lui. Deve aver sofferto le pene dell’inferno. E io ero dall’altra parte del mondo.

Mi correggo, se mai arriverà, per prima cosa Hanamichi mi guarderà in faccia. Solo per prendere la mira e sputarmi addosso. Come cazzo mi è saltato in mente di chiamarlo? Di pretendere che mi venisse anche a prendere? Ma che cazzo di persona sono diventata? O forse sono sempre stata? Mia madre non c’entra niente, sono sempre stata così. Odiare mio padre, perché andava più d’accordo con Hanamichi; odiare mio fratello, perché mio padre aveva un rapporto preferenziale con lui; lasciarli per andarmene in America da quella donna… questo l’ho fatto prima di conoscere mia mamma. Sono proprio io che sono così.

Mi alzai di scatto dalla valigia, come se scottasse, e la presi a trascinare nella direzione opposta all’ingresso. Me ne dovevo andare, immediatamente. Prima che arrivasse Hanamichi, non avrei sopportato di vederlo. La valigia mi intralciava troppo nel camminare velocemente, fui tentata di lasciarla lì e prendere a correre come una pazza, prendere il prossimo aereo, non importa dove mi avrebbe portato.

Ma non feci in tempo.

Questa volta, mi fu impedito di scappare un’altra volta.

Una ragazza bionda mi urtò, mentre veniva dalla direzione opposta. Non le feci caso, sembrava occidentale e non avevo nessuna persona occidentale da evitare, perlomeno in quel continente. Lei, invece, mi squadrò dalla testa ai piedi, aggrottando le sopracciglia. Lo so, capita spesso, sia perché sono una bella ragazza, sia perché i capelli rossi in America sembrano strani, in Giappone poi... insomma, non detti peso allo sguardo azzurro della ragazza su di me. Poi, mi sentii afferrare per la vita e fermarmi. Fu allora che invece meditai di prendere la tipa in questione e di darle un calcio, che ne so, poteva essere una lesbica in calore. Ed invece no.

Era solamente la fidanzata di mio fratello.

“Sei Anko, per caso?” mi chiese, sbattendo le ciglia.

Annuii con poca convinzione. Non mi sembrava di conoscerla, il che avvalorava la mia tesi della pazza maniaca.

Lei sorrise quasi con sollievo, dicendo: “Meno male… credevo di essere arrivata in ritardo!”.

“Ma ci conosciamo?” chiesi a mia volta, guardandola di sbieco.

Lei si sbatté una mano sulla fronte con foga, fu forse in quel momento che intuii chi poteva essere. E in cui decisi che mi sarebbe stata simpatica. Chissà per quale motivo… solo per una stupida pacca sulla fronte… certo che le sensazioni e le prime impressioni sono veramente strane…

“Perdonami, devo averti dato l’aria di una svitata…” rispose con calore. Ribadisco, mi stava proprio simpatica.

Sorrisi, dimostrando che il piccolo incidente era dimenticato.

“Mi chiamo Kaname Koishikawa… ma tu puoi chiamarmi Kana…” mi disse, porgendomi la mano che strinsi con la mia. Forse vedendo il mio volto non illuminarsi di comprensione, soggiunse con una punta di sottile amarezza: “Sono la fidanzata di Hanamichi… tuo fratello…”.

Mi colpii il suo viso, si era come oscurato. D’un tratto, compresi. Evidentemente doveva essere rimasta delusa dal fatto che Hanamichi non mi avesse parlato di lei. Ovvio, tra fratelli ci si dice certe cose. Certo, tra fratelli… ma non tra me ed Hanamichi. Poteva anche essere sua moglie e mia cognata, e non mi avrebbe detto lo stesso niente.

Come una pugnalata, mi accorsi che non sapevo niente della vita di mio fratello di questi anni.

Che aveva fatto? Chi aveva conosciuto? Andava ancora a scuola? Amava questa ragazza?

Ne era uscito dalla morte di nostro padre?

Sorrisi, simulando un’espressione stanca di comprensione. Sono la maestra delle bugie, non l’ho forse già detto?

Le bugie hanno anche il pregevole dono di non fare male, ma addirittura di arrecare piacere.

Si può dire lo stesso della verità?

“Hanamichi mi ha parlato di te…” sorrisi ancora “Perdonami, ma non ti avevo mai visto. Per questo, non ti ho riconosciuta…”. Kana sorrise a sua volta, evidentemente sollevata che l’unica parente del suo fidanzato che avesse mai visto, avesse sentito parlare di lei. So che era anch’essa una bugia, che io sia l’unica sua parente ancora in vita, ma in fondo Hanamichi non ha mai considerato nostra madre una sua parente. quindi, effettivamente gli rimango solamente io. E, comunque, allo stadio attuale delle cose, credo di condividere il suo pensiero. Mi rimane solo lui.

“Mi ha detto di venirti a prendere…” mi disse Kana, incamminandosi verso l’uscita, poi sollevò gli occhi al cielo e sospirò con espressione affranta: “Si stava ingozzando come un maiale al bar dell’aeroporto… ovviamente ha perso troppo tempo e quindi alla fine sono entrata solamente io…”.

Le sorrisi, raccogliendo la mia valigia. Guardando la valigia ai miei piedi, ripensai al mio tentativo di fuga di poco prima. Era troppo tardi ormai.

Non sarei mai dovuta tornare.

Invece, io dovevo tornare. Da sempre. Perché quella era casa mia.

Ma non solo perché lì c’era il mio passato. Ci sarebbe stato anche il mio futuro, benché questo ancora non lo sapessi. Il mio futuro… un futuro che avrebbe avuto la faccia segnata dal dolore, esattamente come la mia.

 

 

“Che cavolo di fine ha fatto, quel decelebrato?!!” urlò Kana, schermandosi con la mano gli occhi dal sole che picchiava forte sulle nostre teste nel parcheggio dell’aeroporto, pieno di autovetture che partivano, colme di bagagli e valigie. Mi ero seduta di nuovo sulla mia valigia, sospirando, gli occhi nascosti dietro le lenti da sole scure. Avevo lo sguardo fisso su una pozza d’acqua lontana, sicuramente un miraggio del caldo. Faceva caldo quell’estate a Tokyo, me ne ero scordata quella temperatura. Non che in America facesse freddo, anzi… ma mia madre odiava il caldo con tutta sé stessa e quindi, ai primi mesi di giugno, faceva le valigie e obbligava me e Rose a trasferirci in Canada, a Vancouver, dove la temperatura era decisamente più fresca. Credo che lo facesse per far stancare Rose e farla morire, non c’è altra spiegazione. Insomma, di estati americane non ne ho vista nemmeno una, forse quella stessa, poco prima di partire. Ma era ancora giugno, quindi non faceva ancora il caldo soffocante che i telegiornali descrivevano convulsamente, mentre io sorseggiavo cioccolata calda nel nostro chalet di montagna canadese. Sospirai ancora, Kana continuava ad imprecare da sola, in realtà aveva pressoché parlato da sola per tutto il tempo. Certo, forse lei aveva pensato di stare parlando anche con me, ma io non la stavo assolutamente ascoltando, persa com’ero sui fatti miei. Anche perché, pure se ci mettevo attenzione, che cavolo avrei potuto capire? Niente, ecco cosa. Lei cianciava su un torneo nazionale, su qualcosa che aveva a che vedere con il basket, e non ci capivo che cazzo c’entrasse con me. Sembrava esagitata… avevo annuito con il capo per tutto il tempo, inserendo qualche “mm…” e “ma certo” di tanto in tanto, per darle perlomeno l’impressione che la stessi ascoltando. Guardai l’orologio distrattamente, le undici e mezzo. Ero atterrata sul suolo giapponese da tre quarti d’ora.

“Ascolta Kana… se vuoi, vado a chiamarmi un taxi e me ne vado da sola… non c’è problema…” le dissi, guardandola dal basso verso l’alto.

“Non se ne parla neanche!” inveì lei, facendomi ritrarre quasi spaventata “Se non arriva tra mezzo secondo netto, gli farò fare dodicimila giri di campo! So che sei stanca, ma è una questione di principio! E poi non hai voglia di rivedere tuo fratello?”.

“Da morire…” sibilai a denti stretti, facendo ridere Kana. Se avesse saputo che non stavo per niente scherzando… all’improvviso, vidi avvicinarsi tre persone. Una aveva i capelli rossi, cortissimi sul capo, rasati… Hanamichi… non so che diamine mi prese in quel momento, avevo programmato quel momento nella mia testa da così tanto tempo, che credevo di essere perfettamente pronta. Credevo che la cosa sarebbe andata come io volevo e che sarei stata calma, tranquilla e serena. D’accordo, erano anni che non ci vedevamo e il nostro saluto non aveva avuto esattamente un coro di violini e musica struggente in sottofondo, ma lo stesso avevo avuto modo di smaltire la cosa, di metterla nella giusta prospettiva, così da essere preparata. Chiamare Hanamichi, o meglio mandargli una mail e dirgli del mio arrivo, aspettare la sua risposta, sapere che poteva ospitarmi lui o che sarebbe venuto a prendermi, era stato enormemente facile. Non avevo sentito la sua voce, non l’avevo visto, avevo solamente letto poche e scarne righe elettroniche, illudendomi che fosse una cosa normale. E non lo era, per niente. Ma allora era molto più difficile pensare di allontanarmi da mia madre, quindi tornare da Hanamichi mi sembrava facile come bere un bicchiere d’acqua. Ma adesso che c’ero, mi sentivo crollare la terra sotto ai piedi.  Come avevo potuto pensare che avremmo potuto fare finta che non fosse successo niente? Come potevo tornare a farmi raccontare le storielle sulle sue mille risse? Come potevo pensare che tutto sarebbe andato a posto, così, semplicemente senza fare niente?

Come potevamo essere ancora fratello e sorella?

Sentivo alitarmi sul collo come un animale malvagio ed affamato lo spettro del tradimento che gli avevo riservato. Lo avevo tradito sì, in tutto. Lo avevo lasciato solo, dopo la morte di papà. Senza nessuno. Senza la sua famiglia. Aveva i suoi amici, ne ero certa. Aveva avuto anche Kana, poi. Ma la sua famiglia, quella no. Ed era quella la cosa più importante, la più vitale e necessaria. Pensateci. Ogni volta che aprite la porta di casa, che la sbattete, che ve la chiudete alle spalle. Avete sempre una porta da aprire, da sbattere, da chiudere. Camminerete per le strade, per chissà che città sconosciuta, ed avrete terrore, paura, spavento. O ne sarete affascinati, colpiti, meravigliati, persino commossi ed innamorati. Salterete nel vuoto dei vostri giorni con la matematica certezza che quella porta è sempre alle vostre spalle. Magari non vorreste aprirla più, rimpiangerete di non averla sbattuta, vi pentirete di averla chiusa. Ma quella, intanto, c’è sempre, continuerà ad esistere, come una cintura di sicurezza per le volte in cui vorrete tornare indietro. Tornerete indietro? Forse sì, forse no. Alle volte, lo farete, pentendovene. Altre volte, non lo farete, pentendovene ugualmente. La porta comunque ci sarà sempre. Con la sua intrinseca scelta. Tornare o no?

Pensate se quella porta, con la sua scelta a voi concessa, non ci fosse più.

Avreste la stessa forza di andarvene, con la paura che comunque non si potrebbe tornare indietro?

La forza nell’andare avanti, sarebbe la stessa, se ci fosse l’eterna coscienza che dietro non c’è più niente?

Andreste avanti solo perché non potreste tornare indietro.

Ed andare avanti solo per questo, non porta mai da nessuna parte.

In America, andavo avanti perché sapevo che non potevo tornare da Hanamichi.

In Giappone, Hanamichi andava avanti perché sapeva di non poter tornare indietro da nessuno della sua famiglia.

Alla fine, fratellino, qualcuno dei due è arrivato a qualcosa? Io no. Sono tornata, forse solo per avere la forza di andarmene di nuovo.

E tu, invece?

L’hai trovato un posto dove tornare?

Kana parlava, stava effettivamente dicendo qualcosa, ma io non la sentivo, non riuscivo a sentirla. Avevo nelle orecchie come un fischio indistinto che non mi permetteva di distinguere nessuna delle sue parole. Iniziai a torcermi freneticamente le mani in grembo, come il mio stomaco che si contorceva su sé stesso a ritmi sempre più forsennati man mano che lui si avvicinava. Non riuscivo nemmeno a respirare, come era possibile? Detti la colpa al caldo, all’afa, alla stanchezza, alla lunga attesa sotto il sole cocente. Che razza di raccontaballe… mio fratello si avvicinava e io avrei preferito morire per un qualsiasi tipo di causa inspiegabile, pur di non trovarmi lì davanti a lui. Era così alto mio fratello, prima? No, certo che no. L’ultima volta che ci siamo visti, avevamo dodici anni. Era alto sì, perlomeno per la sua età e in raffronto a me, ma non così tanto. Sembrava schiacciarmi con la sua altezza, comprimermi con la faccia premuta a terra. O ero solo io a sentirmi così? Era cambiato, indubbiamente, aveva un passo più sicuro e deciso, meno cadenzato e disordinato. Sembrava in forma, come uno abituato a fare sempre attività fisica. Non prima che fosse fuori esercizio, ma adesso era difficile non accorgersene. Aveva continuato a prendere a cazzotti chiunque gli desse fastidio? E perché si era tagliato i capelli? Stava bene prima… poi mi accorsi di quanto era stupido al pari di tutto il resto, farmi tutte quelle domande. Hanamichi doveva essere cambiato. Era più importante di ogni legge fisica, di ogni principio, di ogni teorema. Le cose, per non distruggersi, dovevano trasformarsi.

Hanamichi, per sopravvivere, doveva essere cambiato.

All’improvviso, semplicemente troppo vicino a me.

Arrivò davanti al mio viso ed al mio sguardo in maniera troppo rapida e repentina. Scanzonato come sempre Hanamichi, il fratello che mi faceva morire dalle risate, raccontandomi delle sue infinite avventure e storielle assurde. Capitavano sempre tutte a lui, chissà com’era possibile… ridevo e lui fingeva di offendersi, quando in realtà credo che ridesse lui stesso delle scemenze che raccontava. Ma erano le nostre scemenze, il nostro piccolo mondo, quello che gli altri avrebbero liquidato come un qualcosa di infinitamente sciocco ed infantile. Ora vorrei avere tra le mani una sola di quelle cose sciocche ed infantili, poterne ancora parlare con lui, riderne magari. Perché, invece, adesso il nostro silenzio è pieno di cose enormi ed illimitate, cose da adulti.

Ci uccideranno, come farfalle schiacciate da lastre di marmo freddo. E ne moriremo.

E il peggio è che non ci posso fare nulla. Ma, se c’è qualcosa di anche peggiore, è che non ci voglio fare nulla.

“Anko…”, anche la sua voce era diversa, era una voce da uomo. Era un uomo ormai. Lo guardai per qualche secondo, cercando di imprimere nella mia retina l’immagine di quell’estraneo che sarebbe dovuto essere mio fratello. Kana gli disse qualcosa in tono inquisitorio e lui mi lasciò immediatamente perdere per dedicare tutta la sua attenzione a lei. Adesso c’è qualcuno di più importante, no?  Parlava con lei di qualcosa che io non potevo minimamente sapere, o anche immaginare. Sembravano parlare di allenamenti o cose simili, ma non ci prestai molta attenzione. Che mi importava? Capire di che cosa stavano parlando, sarebbe stato sempre troppo poco rispetto a quello che ancora non sapevo. Volevo solamente andarmene ed ancora mi chiesi chi cavolo me l’aveva fatta fare a chiamare proprio lui, sarei potuta tornare e non dirgli niente, oppure andarmene dall’altra parte del mondo, senza che lui lo venisse mai a sapere. Sarebbe stata la scelta più logica. Ed invece, idiota come sono, lo avevo chiamato. Che grandissima demente.

“Allora, Anko, com’è stato il viaggio?” la sua voce mi sorprese come non mai. Ma stava davvero parlando con me?

“Che cosa?” chiesi scioccamente.

“Il viaggio… com’è andato…” ripeté lui con pazienza. Il suo sguardo era opaco, sorrideva amabilmente, e so per certo che Hanamichi non conosce sorrisi amabili. Quelli che si fanno solo per educazione. Lui conosce le risate sguaiate, gli accessi di allegria che ti gettano a terra, gli starnazzi dei momenti sommamente divertenti. Ma certo… Kana non sa nulla di me e di te. Sta fingendo per lei… la ama molto, allora… tranquillo, Hanamichi, in fondo siamo stati fratelli per dodici anni…

“Da schifo…”  la mia voce suonò troppo acuta, quindi cercai di restringere il tiro, incrociando le braccia e sbuffando: “E poi sei stato dodici ore per arrivare… più del tempo del volo…”. Lo guardai di sottecchi, sperando di non avere esagerato in questo eccesso di confidenza. Ma lo vidi sorridere piano, lo sguardo che si rasserenava un po’. Sorrisi tra me e me, avevo colto perfettamente l’antifona…

“Non erano assolutamente dodici ore… hai una nozione tutta sballata del tempo…” replicò lui, offeso.

“Hai ragione… erano quattordici ore…” gli risposi per le rime, ridendo. Volevo solo mettermi a gridare, ma continuai a ridere come una povera cretina. L’avevo capito che, finché ci fosse stata Kana, avremmo fatto finta che tutto fosse a posto. Come mettermi davanti agli occhi un’enorme torta sapendo che sono affamata, ma dirmi che non la posso mangiare. Era esattamente la stessa cosa. Farmi vedere come sarebbe stata se quel giorno non me ne fossi andata, ma con l’aggravante che non era per niente vero e che non lo stava certamente facendo per me.

Per la prima volta nella mia vita, odiai una bugia più della verità.

Avrei preferito che non mi parlasse piuttosto che godermi questa patetica scenetta.

Il prezzo della normalità non poteva essere null’altro che vivere in una bugia assurda e senza senso. Ed, in effetti, come avrebbe potuto essere altrimenti?

Ridevo ancora, quando mi voltai senza accorgermene. Il cuore mi balzò in petto. Non poteva essere vero… anche questo… fantastico, era davvero la mia giornata fortunata… sentivo la pelle del mio viso farsi gelida e, ci scommettevo, anche bianca, creando un contrasto strano con il colore dei miei capelli. Come potevo sperare che non venisse anche lui? Chiusi gli occhi, maledicendo la mia stupidità ancora una volta. Era lui il vero fratello di Hanamichi, non io. Il sangue non c’entrava niente. Chi cazzo se ne frega di un liquido che scorre dentro di te e che vedi solo se stai particolarmente male? Non è mai importato nulla. A tutti e tre. Era un fratello anche per me… che enorme cazzata… un fratello, sì come no. Era… tutto, tranne che un fratello. E ho tradito anche lui.

“Quindi, sei tornata davvero…”.

Accolsi l’ultima parola con un sospiro, come se mi ferisse dentro e concedessi a me stessa solamente quel respiro un po’ più intenso. E già volevo di nuovo la bugia di Hanamichi, fingere come due provetti attori, piuttosto che vomitarci addosso la verità dietro parole innocuamente buttate a caso, ma in realtà scelte con il sadismo di un killer. Sono veramente incontentabile… sollevai lo sguardo timidamente, ritrovandomi a guardarlo dopo tutti questi anni. Era cambiato anche lui, ovviamente, ma non fu quello a colpirmi. Sgranai gli occhi, sentendo qualcosa premermi sotto le palpebre. Abbassai gli occhi, spaventata.

Lacrime.

Ecco cos’era.

Stavo per… piangere… impossibile, stavo per piangere…

Non per mio fratello, ma per… lui… sbirciai con la coda dell’occhio le loro mani unite, scoprendo che mi faceva male più di quanto credevo possibile. Non ci avevo mai pensato in questi anni, ed anche questo era stato enormemente facile. Sapevo che poteva succedere, eppure non mi preoccupava. Per nulla. Quando sarei tornata, anche questo sarebbe andato a posto. In fondo, era di lui  che stavamo parlando. Mi avrebbe capito, sicuramente.

Se non rispondeva alle chiamate, era perché aveva da fare.

Se non rispondeva alle lettere, era perché non gli piaceva scrivere.

Se non si faceva sentire, era perché era ancora arrabbiato con me.

Ma gli sarebbe passata… ovviamente…

Come cazzo ho fatto a pensarla per quattro anni così?

Ci mancava solamente che pensassi che m’avrebbe potato un regalo e che mi avrebbe portato al luna park, come facevamo da bambini. Che grandissima idiota… alla fine, era ovvio il contrario. E’ andato tutto a puttane anche con lui…

Sollevai gli occhi, ringraziando le lenti scure che mi celavano ancora alla vista di tutti. I miei occhi sono sempre stati più sinceri di me, mi hanno sempre smascherata, ma, se sono coperti, sono più tranquilla. Non si vide che erano umidi, non si vide che guardavano ossessivamente quelle due mani teneramente intrecciate, non fecero indovinare i miei pensieri su dove cazzo finisse la sua ed iniziasse l’altra. Queste cose, magari, un giorno di tanti anni prima, lui le avrebbe capite semplicemente, sentendo la mia voce. Ma adesso non era più così… trattenni ancora le lacrime, cercando di controllarmi con tutte le mie forze. Ci mancava solamente che scoppiassi a piangere come una cretina. 

“Certo che sono tornata… “ dissi piano, senza rabbia, volevo perlomeno cercare di non tradire il tacito accordo di tranquillità con Hanamichi “Le promesse le mantengo, io…”.

Era stato uno sfogo represso, valevole solo per la mia persona. Me lo sarei fatto bastare in quelle serate, in cui quel ricordo si sarebbe affacciato prepotentemente nella mia mente, colorandosi ogni volta di particolari diversi ed assolutamente inediti. Solo per le mie orecchie, la parola promesse si era vestita di un tono nostalgico, aveva indossato con rabbia e foga il dolore di questi anni, aveva assunto le sembianze di tradimenti consumati e ricambiati. Nella mia sola ed unica parola, c’era tutto quello che ci sarebbe dovuto essere sempre. Era una parola persa nel vento, una parola che sarebbe vibrata a vuoto, ma almeno c’era. Almeno l’avevo detta. Almeno, paradossalmente a dirsi per me, in quella sola parola ero stata sincera.

Avevo accentuato a vuoto anche l’io, sapendo che non se ne sarebbe accorto. Ma poco importava, importava poco anche di questo. Era solo una mia stupida ed irriflessiva vendetta… my love is a vengeance, that’s never free…  la prima canzone che avevo nell’I-Pod, ricordavo solo quel verso adesso. L’avevo messa solamente perché era la canzone che c’era alla radio il giorno che seppi della morte di mio padre. Era stato un caso. Ed invece già conteneva un implicito messaggio. Il mio amore è una vendetta che non sarà mai libera.

Certe volte, le cose sono da sempre in attesa di succedere. Aspettano solamente il momento in cui fregarti.

E quello era il momento.

“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.

Yohei… dissi solamente nella mia mente, incapace di parlare, la bocca impastata. In un secondo, si riempì la mancanza di quel nome, da anni mai pronunciato nei miei pensieri per paura che mi facesse male. Come sempre, ha capito tutto.

Sorrisi, volgendo lo sguardo altrove. La presenza di una canzone, messa apposta per farmi nascondere dietro di essa. Il vuoto nella mente, messo apposta per farmi nascondere dietro di esso. E adesso questa parola ripetuta, messa apposta per farci  nascondere dietro di essa.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.

 
 
 
 
Se chiudo gli occhi, non ci sei

In fondo a tutti i miei vorrei.

Almeno tu lasciassi scia,

saprei come lavarti via.

Se chiudo gli occhi, dove sei,

davanti a tutti i dubbi miei.

Almeno tu lasciassi scia,

saprei come mandarti via.

 

 

 

Yohei Mito

Quando quella mattina mi ero alzato dal letto, per un solo secondo non mi ero ricordato che cazzo di giorno era. Quella informazione mi era giunta subdola, mentre mi facevo la doccia e l’acqua mi scorreva lentamente gelida sul viso, impregnando progressivamente i miei capelli. Suonavano lente le ultime parole di una canzone di poco tempo prima dei Limp Bizkit, gruppo che mi piaceva parecchio; avevo alzato parecchio il volume, riconoscendo l’accordo iniziale di Behind blue eyes, ed avevo aperto il rubinetto dell’acqua. Canticchiavo l’unico verso che sapevo, dato che l’inglese non c’era mai stato verso di impararlo, né a scuola né altrove. Quell’unico verso me l’aveva scritto Haruko sul diario di scuola il giorno dopo il famoso bacio, e mesi dopo, le avevo chiesto il nome della canzone. Scaricatola da internet, mi era piaciuta e quindi, sebbene con me e con lei non c’entrasse niente, era diventata una specie di nostra canzone. No one knows what’s like to feel these feelings, like I do. Questo diceva. Quella mattina, quella fottuta canzone era messa apposta lì per farmi distrarre la mente e poi darmi un colpo in testa. Era finita, quando il dj diceva che Kyoko Kyozawa aveva vinto i biglietti per il concerto dei Fall out boys per la settimana prossima. Disse la data del concerto, ricordandomi automaticamente che giorno era. E io da perfetto coglione me ne ero completamente scordato. Come un imbecille, uscii fuori dalla doccia, raggiungendo camera mia e controllai il piccolo calendario sulla scrivania tra pile di libri ormai dimenticati. Cazzo, allora era vero. Era proprio il giorno che diceva quello alla radio.

Era il giorno che tornava Anko.

Mi accasciai sul letto, gettando per terra l’accappatoio, e rimasi qualche secondo, fermo a guardare il soffitto bianco della mia camera. Cercavo di tenere a bada il cumulo di pensieri che la mia mente automaticamente stava formulando, ma, come era prevedibile, non ci riuscivo per niente. Cazzo, Anko stava per tornare. E non un stava per tornare dilatato nel tempo, ma… adesso, tra poche ore. Ero stato una settimana a dirmi che mancava ancora un sacco di tempo, finché i giorni si erano progressivamente ed inesorabilmente fatti ore. E sicuramente tutto questo era avvenuto troppo in fretta per i mie gusti. Decisamente, troppo in fretta.

“Yohei, telefono!” la voce urlata di una delle mie sorelle mi fece alzare bruscamente dal letto. Mi infilai le prime cose che avevo sotto gli occhi e scesi al piano di sotto. Reika se ne stava ferma in attesa con la cornetta in mano, sbuffando scocciata, mentre nella stanza accanto Sakura e Yukari gridavano come delle ossesse su chi avesse rovinato con un’enorme macchia di cioccolato una camicia azzurra. Come era prevedibile, erano appena arrivate a gettarsi contro ogni cosa che avessero a tiro. Dove fossero i miei in questo spargimento di sangue? Semplice. Mia madre stava in cucina a farsi i cavoli suoi, dicendo che stava cucinando, e mio padre guardava la televisione, cercando di capire come si praticasse correttamente la pesca d’altura. Speriamo che non mi metta in mezzo… la pensione ai genitori gioca decisamente brutti scherzi. Credo che, adesso, si sia reso conto con compiutezza che viviamo tutti e due in un inferno femminile e cerchi di scappare ogni momento, trascinandomi dietro. Cazzo, ci doveva pensare prima di mettere al mondo tre figlie femmine, prima di arrivare al sospirato erede maschio. Così te la vai proprio a cercare, d’accordo io non sarei mai nato, ma queste tre, anzi quattro se aggiungiamo mia madre, sono difficili da sopportare anche nei momenti migliori. E c’hanno pure Reika ventitre anni e le gemelle diciannove, quando cazzo si sposano e se ne vanno di casa?

“Vi chiudete quella fogna di bocca?!” urlai, la mano premuta sulla cornetta del telefono. Il fracasso ovviamente continuò, aggravato dalle urla di mia madre, mio padre ed anche di Reika. La casa degli orrori, ecco cos’è…

Sospirai, tanto non mi avrebbero mai sentito, e cercai di allontanarmi il più possibile, perlomeno per quanto me lo concedesse la lunghezza del filo del telefono. Se ne spendono di soldi, maledizione, ma un cordless no, eh!

“Chi è? Cioè pronto…”.

“Cazzo, oggi c’è più casino del solito…”.

“Che hai detto?!” urlai nella cornetta, non riuscendo a distinguere nessuna parola.

“HO DETTO CHE OGGI C’E’ PIU’ CASINO DEL SOLITO!!!”.

“Come se io non me ne ero accorto, sei un genio Hanamichi!”.

“Modestamente lo so…”.

Rotai gli occhi alla sua esplosione di sghignazzi presuntuosi, e gridai ancora, cercando di sovrastare le voci delle galline: “Che cazzo vuoi?!”.

“Lo sai che giorno è oggi?!” la sua voce si era fatta più bassa ed incerta, ma distinsi ugualmente ogni sillaba.

Certo che lo so, maledizione… sono quattro anni che lo aspetto sto fottuto giorno…

“Il giorno che faccio richiesta di essere adottato?” dissi nervosamente, facendo passare il fremito nella mia intonazione come conseguenza del casino che ero costretto a subire da diciassette anni. Era credibile in fondo, no? Ma era una bugia bella e buona… ed Hanamichi poteva anche capirlo. In fondo, è quel fratello che la mia vera famiglia non è stata in grado di darmi. Quindi, sa perfettamente che, come chi dice con eccessivi scatti nervosi di odiare la propria famiglia, in realtà la ama molto, lo stesso vale per me. Lo adoro sto casino, non potrei viverci senza, lo odierei il silenzio che c’è a casa sua, per esempio, adesso parzialmente rotto solo dalle voci mie, di Kana e di Haruko. Cazzo, ma lo odierei lo stesso. Lo odierei come odierei la sua causa, la mia famiglia assente. Come la odia lui, mentre ci ride eccessivamente sopra. Ognuno di noi due è sempre il contrario dell’altro. 

“Non chiedere di essere adottato dalla famiglia Sakuragi, allora…” ci rise sopra Hanamichi, come volevasi dimostrare “Avresti un culo allucinante… e con i Callaway, non ti va meglio…”.

“Escludere Sakuragi e Callaway… perfetto…” annotai “Anche perché chi ce la farebbe a diventare tuo parente?!”.

“Vuoi che ti spacchi la testa?!”.

“Quando vuoi, sempre che non te la rompa prima io quella testa di ca…”.

“Yohei!” la voce scandalizzata di mia madre mi richiamò bruscamente all’ordine. Ma che stava origliando?!

“Scusami mamma…” dissi, abbassando il capo in segno di pentimento, mentre quel bastardo se la rideva dall’altra parte del telefono, scimmiottando la mia voce: “~ ~Scusami mammina!! ~ ~.

“Quando ci vediamo, ti prendo a calci, razza di mentecatto…” lo minacciai, sibilando silenziosamente nel telefono.

“Sì, sì come no… allora, passi da casa mia tra mezz’ora? L’aereo dovrebbe atterrare tra due ore al massimo…” aggiunse allora Hanamichi, il tono ridiventato nuovamente serio. Certo, abbiamo fatto finta fino ad adesso che sia tutto normale… Hanamichi non voleva pensarci nemmeno lui. Al fatto che Anko stava tornando, intendo. Se faceva sclerare me, figuriamoci lui… doveva essere sbarellato di brutto. In fondo, che facessimo finta tutti e due, lo sapevamo che c’era qualcosa di diverso in quella giornata. Che io finga di essere arrabbiato per la mia caotica famiglia o che lui scherzi come sempre, non cambia nulla. Alla fine, sempre lì andiamo a sbattere la testa. Anko sta per tornare. Punto e basta. E nessuno dei due è pronto alla cosa. Né lui, né tantomeno io. Prenderci per il culo serve a dirci che perlomeno questo resterà uguale, ma se fingiamo davvero di non ricordarcelo che cosa accade oggi… bè, saremmo due emeriti coglioni. Lo sappiamo da tutta la vita che cosa accade oggi.

“Va bene…” risposi, senza ulteriori false amnesie “Andiamo assieme a prendere Haruko e Kana?”.

“Kana è già qui…” mi rispose allegro, mentre sentivo un saluto provenire dalle sue spalle e diretto a me.

“Ah, allora Kana è già lì… e ci sta da molto tempo?” chiesi sornione e malizioso, capendo perfettamente in che circostanza Kana si era trovata ad essere già lì.

“Ciao Yohei!” urlò Hanamichi nel telefono, non dopo aver aggiunto, spaccone: “Poi ti racconto tutto!”. Peccato che anche Kana avesse sentito tutto… prima del suono del telefono riagganciato, udii chiaramente il clangore di una padella che lo colpiva sulla testa. Speriamo che non l’abbia ucciso… quella ragazza certe volte è veramente troppo violenta…

Appoggiai nuovamente la cornetta sul telefono, poi mi sporsi in salotto per comunicare i miei programmi per la giornata.

“E così Anko torna a casa…” commentò piattamente Reika, guardandomi di sbieco. Sollevai gli occhi noncurante, fingendo disinteresse. Cazzo, raccontala una volta una cosa ad una ragazza e quella non se la scorda mai, specialmente se si tratta di tua sorella maggiore. Quel maledetto giorno di quattro anni fa, è vero che avevo quasi tredici anni, ma come cazzo mi venne di dire tutto a Reika? Sono davvero un grandissimo coglione…

“Immagino che Hanamichi sia contento…” mi disse Sakura, mentre cercava inutilmente di smacchiare la sua camicia azzurra.

“Come no…” sibilò Reika, socchiudendo gli occhi.

“Contentissimo…” cercai di correggere il tiro di quella boccaccia larga di mia sorella, considerando che le altre due e i miei invece non sanno niente.

“Quindi, l’andrai a prendere all’aeroporto?” mi chiese mia madre e mi limitai ad annuire, prima di dire che dovevo uscire tra qualche minuto e quindi mi dovevo vestire. Stavo per salire di sopra, quando Reika mi fermò per un braccio e mi trascinò in bagno. Ma che cazzo di fine hanno fatto le ragazze di una volta tutte zucchero e miele?! O meglio… sono mai esistite?!

“Che c’è?!” chiesi a mia sorella, che mi guardava con gli occhi fiammeggianti e le braccia conserte.

“Non dirmi che vuoi andare veramente a prendere… quella lì… all’aeroporto?!”.

Sospirai, ecco che cosa si guadagnava ad essere aperti e sinceri con le proprie sorelle…

Annuii di nuovo, già ne avevo una voglia pazzesca, a ribadirlo ulteriormente mi venivano i nervi.

“Ma come cavolo fai, eh?! Non ti ricordi che ha fatto ad Hanamichi?! E adesso se ne torna bella bella come se niente fosse?!” inveì Reika contro di me, scuotendomi per il braccio “Che c’è, ha finito i soldi?!”.

“Non lo faccio per lei…” fui costretto a mormorare “Figurati che cazzo me ne sbatte di lei… uno, alla fine, le cose le impara, Rei… tardi, ma le impara… no, non è per lei… è per Hanamichi… non credo che Kaname sappia niente… insomma, non voglio che…”.

“… stia da solo…” completò lei per me, venendomi incontro.

Annuii con il capo, mentre lei sorrideva leggermente.

“Fai bene…” mi rispose conciliante “Anche se secondo me, nemmeno lui dovrebbe andare a prenderla, come se niente fosse…”.

“Lo penso anch’io…” le dissi sinceramente “Ma conosci Hanamichi… se decide una cosa, nella maggior parte delle volte la motivazione se la tiene per sé… non so nemmeno perché Anko abbia deciso di tornare… non me l’ha detto…”.

“Quindi non sai nemmeno perché ritorna?!” mi chiese sconcertata Reika.

Negai con il capo, era veramente una situazione strana a guardarla in quella maniera. Non che a viverla fosse una cosa diversa, mi sentivo strano anche in quello. Non avevo la minima idea di che cosa stessi facendo. E soprattutto del perché lo stessi facendo.

“Va bene…” approvò alla fine lei “Ma mi raccomando Yohei… non farti illusioni… le persone restano sempre le stesse, sempre dannatamente le stesse. E nonostante tu ci speri che cambino, quelle rimangono sempre uguali. Non credere o sperare per un solo secondo che lei sia cambiata…”.

Le risposi male.

Dissi che non ci credevo, né tantomeno ci speravo affatto.

In realtà, era proprio nel contrario che speravo, che lei non fosse cambiata.

Ritrovando la persona che mi aveva fatto così male quattro anni prima, me ne sarebbe fregato di tutto. E l’avrei gettata fuori a calci dalla mia vita.

Ne avessi trovata un’altra, nuova, o fosse anche quell’Anko che io avevo sempre conosciuto… bè, le cose sarebbero andate decisamente a puttane.

Perché sarebbero state sempre le stesse. Sempre dannatamente le stesse.

E così anch’io dimostrerei di essere sempre lo stesso.

 

 

Ero rimasto dieci minuti buoni davanti al cancello di casa di Hanamichi, incapace di fare un maledetto passo e nemmeno di suonare il campanello. Ma in quella strana giornata, non sembrava una novità fermarmi immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Ero rimasto tre ore davanti allo specchio, apparentemente incerto tra una camicia bianca ed una maglia rossa. In realtà, me ne fregavo assolutamente, ma era sempre una scusa per perdere un po’ di tempo. Tempo perso anche per decidere se andare a piedi o in bici. Tempo perso anche per decidere se farsi un’aranciata o meno. Tempo perso anche per decidere se passare a prendere prima Haruko o meno. Ed ancora tempo perso per decidere se suonare il campanello o… suonare il campanello tra un altro po’. Appoggiai la testa al muretto che circondava la casa, chiudendo gli occhi, cercando di calmarmi, dicendomi che non mi sarei mai dovuto comportare in quella maniera penosa. Va bene, era pur sempre Anko, era sempre di lei che stavo parlando, ma cazzo! non era da me farmi prendere dalle menate in quel modo. Adesso ero cambiato, no? Adesso stavo bene, no? Adesso stavo con Haruko, no? Quindi, Anko ormai non c’entrava più niente con me. Basta, mi dovevo preoccupare solamente per Hanamichi. E pure questo, solo se era assolutamente necessario…

Allegre come sempre, le voci di Hanamichi e Kaname raggiunsero le mie orecchie, appena in tempo. Mi staccai dal muro, raggiungendo la porta del cancello, come se lo stessi aprendo proprio in quell’istante.

“Venti minuti di ritardo, complimenti!” mi minacciò Hanamichi, ancora alla fine del vialetto. Calciò con un piede una vecchia corda attorcigliata su sé stessa. Da quando è morto il padre, lascia sempre tutto in mezzo, anche quella… la corda che usavamo con Anko per arrampicarci sull’acacia… se buttasse qualcosa, non farebbe male. Ma se glielo suggerisco, quello sicuramente lo fa fare a me.

“E’ meglio che ti stai zitto… ti ricordo che già al telefono avevo promesso di prenderti a calci…” risposi noncurante.

“Perché, che ho fatto?!” fece lui scioccato. Oddio, perde anche la memoria a breve termine…

“Lasciamo perdere…” risposi, agitando la mano “Per questa volta, te la faccio passare…”. Strano, quel giorno non avevo nemmeno voglia di una sana scazzottata con lui, quelle che di solito mi riappacificano con il mondo, ed Hanamichi sembrò accorgersene, dato che non insisté oltre.

Credo che, mai come in quel momento, ci fosse un sottobosco di pensieri e di parole non dette, molto più importanti e sincere delle mille che ci potevamo scambiare, attribuendoli di volta in volta un significato ed una motivazione diversa.

“Dobbiamo andare a prendere Haruko?” mi chiese Kana, stringendo il braccio di Hanamichi. Sembrava più serena e tranquilla del solito quella mattina, lei sola tra tutti e tre. Mi azzardai anche a pensare che era persino più carina del solito; i casi erano due: o Hanamichi li aveva raccontato tutto della sua famiglia e di Anko, ma in quel caso dubito che avrebbe avuto una faccia contenta, anche se investita della somma fiducia del suo ragazzo. Oppure… sorrisi tra me e me… è rimasta con lui stanotte, Hanamichi voleva raccontarmi qualcosa e lei non voleva… quindi ci sono arrivati anche loro…

Automaticamente, mi venne a pensare a me e ad Haruko. Stavamo assieme dallo stesso momento in cui stavano assieme anche Hanamichi e Kana. Eppure, tra me e lei non era ancora successo niente del genere. Non so come, ma la vedevo sempre troppo piccola per… insomma, certo che lo volessi, il pensiero mi lasciava sveglio di notte. Ma Haruko non era solamente quello, cazzo lei… era Haruko. La mia prima vera ragazza. È una cosa demente, ma non volevo che lei un giorno se ne pentisse. Lo doveva volere con tutta sé stessa. Doveva vedere la sua prima volta necessariamente con me, non come un’eventualità che poteva nel caso accadere, dato il nostro stare assieme al momento.

Per me, era diverso. Sommamente diverso.

Non avevo una favola a cui credere, ma solo una bella storia dorata da regalare. A lei, ad Haruko.

Volevo che la sua prima volta fosse perfetta. Cazzo, era inquietante pensare che lo volessi così tanto più per lei che per me, ma era così. E non ci potevo fare niente. Non volevo una fiaba, non ce l’avevo, né tantomeno la desideravo. La mia favola sarebbe stata la sua. Il ricordo magari di un giorno lontano, in cui lei era stata felice, lei il mio primo amore. E basta. Sarà poco, ma era esattamente questo. Volere di più era inutile, superfluo. Già vedere lei in quel momento volere solamente me, sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Ci impazzivo nell’attesa, ma avere prima quello che non era ancora per me, era come… che ne so… rubare… sì, rubare, solo per non avere avuto la forza di aspettare un po’ di più ed avere così quella cosa tutta per sé. So che cosa significa rubare qualcosa che non è proprio. Strappare da dentro qualcosa che nessun altro potrà mai restituirti. Esattamente come dicevo qualche giorno prima per Ayako… aver dato ogni giorno un pezzo della propria anima a qualcuno, che non te la ridà più indietro. Alla fine, la perdi del tutto, no? E quando trovi qualcuno che può darti qualcosa non di tuo, ma di proprio, al posto di qualcosa che hai perso per sempre… vai a cercare la fregatura nel pacchetto. Quel qualcuno ti dona gratuitamente un qualcosa di così bello e luccicante, che quello che hai perso un giorno lontano, sembra una cagata.

Prima che Haruko mi donasse il suo di cuore, credevo che il mio non sarebbe mai stato tornato a posto.

O meglio, credo che ormai avessi perso il ricordo di che cosa fosse un cuore, non che mai davvero l’avessi chiamato così.

La sua assenza l’avevo nascosta dietro la mancanza di quello stesso nome.

La mancanza che Anko aveva portato… portandosi via, rubandosi… il mio cuore.

 

 

Haruko se ne stava seduta sotto il portico di casa sua, un gomito poggiato sul ginocchio e la mano aperta sotto il mento. Sorrisi nel vederla da lontano, all’imbocco della strada di casa sua, praticamente davanti a me. Vestiva di verde quel giorno, un vestitino di lino che le lasciava scoperte le gambe già abbronzate. Ne seguii la linea sinuosa per qualche secondo, concentrandomi poi sul suo viso, reso luminoso dalla luce del sole e scoperto dai capelli legati sulla nuca. I suoi occhi seguivano pensieri tutti suoi, chissà a che diamine pensava in quel momento, in cui la sua mente era solamente sua e di nessun altro, nemmeno mia. Cercai di distinguere qualcosa dei suoi pensieri dai suoi occhi lontani, ma dovevo essere un indovino per capirlo. Poteva star pensando davvero di tutto in quel momento. Geloso quasi dei suoi pensieri, la raggiunsi velocemente, sorpassando Kana ed Hanamichi che tubavano tra loro dalla mattina. Non appena mi vide, sorrise e si affrettò ad infilare velocemente qualcosa in tasca. La guardai sospettoso, socchiudendo gli occhi, ma lei mi ricambiò lo sguardo, sorridendo ancora. Lei non potrà mai avere pensieri da nascondere come i miei. Scossi la testa, decidendo di lasciar perdere. La salutai, porgendole la mia mano, la strinse mentre salutava Hanamichi e Kana.

Ci incamminammo lentamente, chiacchierando, verso la stazione della metro, arrivandoci quasi quindici minuti dopo. Ogni tanto, camminando, sentivo lo sguardo di Haruko addosso, ma quando mi voltavo per guardarla, lei faceva finta di niente. Non riuscivo assolutamente a capire che cosa avesse, ma evitai a me stesso di preoccuparmi anche di quello. Ad ogni passo, inesorabilmente si avvicinava il momento in cui avrei rivisto Anko. E, ad ogni passo, desideravo sempre di più che quella distanza si allungasse sempre di più nel tempo e nello spazio, fino a diventare infinita ed eterna. Invece, al contrario, quella si faceva sempre più vicina.

Eravamo già seduti nel treno, quando Haruko mi rivolse la parola. Ero rimasto in silenzio da quando l’avevo salutata, e i cinguettii continui di Kana ed Hanamichi non aiutavano di certo.

“Yohei…” mi chiamò leggermente.

Mugugnai qualcosa, sperando che lo interpretasse come il segnale che la stavo ascoltando.

“Quando vanno in vacanza i tuoi?” mi chiese, la mano che stringeva la mia che si era fatta improvvisamente fredda.

La guardai senza capire, sbattendo gli occhi, aveva il viso rosso e gli occhi che scintillavano in maniera strana. Mi occorse qualche secondo per rispondere, era l’ultima cosa a cui stavo pensando. Feci mente locale, poi riuscii a ricordare una data abbastanza precisa.

“Quindi, non ci sono per la fine del mese?” mi chiese ancora lei.

“No, penso proprio di no…”.

“E le tue sorelle?”.

“Le mie sorelle?” chiesi ancora senza capire. Non riuscivo a capire che razza di senso avesse quel discorso, e poi proprio in quel momento. Era ovvio che Haruko non potesse sapere che cosa mi passava per la testa, ma, cazzo, si capiva che non era certamente una cosa a cui stavo pensando. Possibile che lei invece questo non lo capisse? Quando si tratta di lei, mi basta guardare il suo viso ed immediatamente riesco a rendermi conto che è una giornata no. Lei, invece, possibile che non lo capisse per me? Scossi il capo, quanto prima finiva quella giornata, meglio era… stavo arrivando anche a mettere in dubbio Haruko. Magari se ne era accorta e stava cercando di farmi distrarre… sì, doveva essere così… e poi non è mica un’indovina, come cazzo fa a sapere di me e di Anko?

“Reika se ne va la settimana prossima… ha un seminario di ceramica o qualche stronzata del genere… le gemelle invece non so dove diamine vanno… ma per la fine del mese sicuramente non ci sono…” risposi esauriente, cercando di soddisfare interamente la sua curiosità.

Lei sorrise, stringendo più forte la mia mano ed appoggiando la testa sulla mia spalla. Accolsi il dolce peso di lei su di me, lo sguardo fisso sul panorama di cemento ed asfalto che passava fuori dal finestrino. Quanto prima quella storia sarebbe finita, meglio sarebbe stato. Decisamente. Per tutti.

Arrivammo all’aeroporto quasi un’ora prima dell’atterraggio, che comunque si prevedeva in ritardo di una mezz’oretta. Ci dirigemmo immediatamente ad un piccolo bar, dato che sia io che Hanamichi non eravamo riusciti a fare colazione quella mattina. Ci sedemmo attorno ad un tavolino circolare, Kana ed Haruko ordinarono due cappuccini, mentre come era prevedibile, io ed Hanamichi due panini megaimbottiti. Quella mattina, non avevo avuto molta fame, ma paradossalmente adesso il nervosismo si era trasformato in una fame insaziabile. E la stessa cosa doveva essere per Hanamichi, chiaramente. Mangiava troppo quel giorno, persino per uno come lui. Dopo il panino, infatti, entrambi ordinammo due porzioni di patatine fritte a testa, un altro panino ed un’insalata, dopo che Kana aveva iniziato a rompere, perché Hanamichi non stava rispettando la tabella di marcia alimentare pre-campionato, che lei gli aveva scrupolosamente preparato. Hanamichi sollevava gli occhi al cielo, dicendo che non gli interessava, che aveva fame e che lei lo teneva a stecchetto da tre settimane, ma gli sguardi in tralice verso di me mi lasciavano tranquillamente presagire che il motivo era un altro.

Il mio stesso motivo.

Haruko si agitava divertita sulla sedia, ascoltando i continui bisticci tra Hanamichi e Kana, poi quando si accorse che stavano iniziando ad alzare la voce, pensò bene di cambiare discorso. Scegliendone uno che era anche peggiore.

“Hanamichi, come mai tua sorella ha deciso di tornare a casa?” chiese ingenuamente, sporgendosi oltre il tavolo.

Mi sentii il cranio gelare, mentre per qualche minuto non avevo pensato ad Anko. Guardai Hanamichi con la coda dell’occhio, deglutendo con forza il boccone che stavo ingoiando. Hanamichi ricambiò la mia occhiata, facendomi capire che dovevo ascoltare anch’io il suo discorso. Non capivo perché, ma poi intuii che doveva trattarsi del comportamento che voleva tenere con Anko. In fondo, non avevamo parlato per niente di questo nei giorni precedenti, rimandando l’inevitabile, e dalla mattina non eravamo rimasti mai soli.

Poggiò sul piatto il panino che stava divorando, assumendo un’espressione più seria della precedente. Dubitavo che avrebbe detto il vero motivo dell’arrivo di Anko, non l’aveva detto nemmeno a me, figuriamoci a loro ed in quel momento. Per arrivare a quella risposta, pienamente sincera e veritiera, bisognava tornare indietro nel tempo nel racconto di almeno cinque anni. Ed ero sicuro che Hanamichi non l’avrebbe fatto. Ed, ammesso e non concesso che quel coglione l’avesse fatto, mi sarei alzato ed avrei finto un mal di stomaco cronico. Non l’avrei potuta sentire quella storia per l’ennesima volta; era già dalla mattina che mi si riproponeva nel cervello, proiettata a ciclo continuo come una videocassetta scassata.

“Ha litigato con nostra madre…” iniziò lui pacatamente, una piccola smorfia sul viso che solo io riuscii a distinguere. Cazzo, bel passo in avanti… nostra madre… si doveva essere violentato psicologicamente per dirlo…

“Non so su cosa…” proseguì, la faccia che chiaramente testimoniava il contrario “E poi Anko aveva bisogno di tornare a casa per un po’ per rimettere le cose a posto nella sua testa…”, continuò ancora dopo una breve pausa… breve pausa, quindi una riflessione. Sta preparando una scusa… quindi, la prossima è una cazzata. “I ritmi di vita dell’America sono molto più veloci di qui, ed era un po’esaurita, forse. Andava ad una scuola privata e tutto il resto… poi, da quello che so, è morta anche nostra nonna poco tempo fa e le si era affezionata…”, la voce più chiara e netta. L’ultima doveva essere una cosa successa veramente. Hanamichi si fermò ancora, prendendo tempo e chiedendomi di passargli un tovagliolo. Eccola, l’occhiata. Quindi, era quello che anch’io dovevo sentire attentamente.

“Ha bisogno di cose normali…” la sua voce si soffermò sull’ultima parola, calcandola di un accento forte e deciso. Forza e decisione ovviamente rivolte tutte e due a me. Strinsi le mani a pugno sotto il tavolo.

“Di cose normali?” ripetei nervosamente.

“Di cose normali…” ribadì Hanamichi, non guardandomi in viso, mentre Kana ed Haruko cercavano di capire il sottotesto della nostra conversazione.

La voce di Hanamichi non ammetteva repliche. La rabbia iniziò a montarmi nervosamente addosso, aggravata dal silenzio a cui tutte le mie domande erano sottoposte. Non potevo dire niente. Era pieno diritto di Hanamichi di starsene zitto con loro o di dire quello che voleva, tralasciando il resto. Aveva cercato di essere prudente nel parlare, facendo capire solamente a me che cosa voleva davvero dire. Quando Anko sarebbe tornata, lui avrebbe cercato di comportarsi nella maniera più normale possibile. Abbassai gli occhi, soffermando il mio sguardo sul tavolino di metallo, i pugni chiusi violentemente sotto il tavolo. Come cazzo faceva a chiedermi questo? Come cazzo poteva pensare che le cose potessero andare a posto così, all’improvviso, dopo tutto ciò che lei aveva fatto? Come si poteva? Non c’era niente di normale, non c’era mai stato, e adesso dovevamo fare finta che invece fosse tutto bello e tranquillo? Non poteva chiedermelo, non proprio a me. Poteva chiederlo a Kana, poteva chiederlo anche ad Haruko, ma non a me. Cazzo, non a me. Dopo tutto quello che tutti e due mi hanno fatto passare… ero lì, per lui, solamente per aiutarlo, se mai ce ne fosse stato bisogno, per sostenerlo, e il coglione non riusciva a capirlo. Per la prima volta, mi pentii di quella famosa giornata di tanti anni prima che mi aveva portato lì, il giorno che avevo incontrato Anko. Ed Hanamichi. Quanti anni avevo? Sembra incredibile, ma avevo solamente cinque anni. Questa fottuta storia va avanti da dodici anni, non riesco nemmeno a pensarlo. Sono in mezzo alle loro puttanate da dodici anni, e solamente allora ne sentivo il peso con forza assurda su di me. Ne sentivo il peso nel giorno in cui, per la prima volta, quelle cose mi appesantivano dentro, nel giorno in cui si erano fatte talmente gravose ed insopportabili da non tollerarle più. Hanamichi non poteva chiedermi di fare finta di niente. Non poteva chiedermelo oggi. Non poteva chiedermelo mai più.

Stavano continuando a parlare di qualcosa, ma ormai non sopportavo più niente. Mi alzai in piedi, facendo cadere la sedia alle mie spalle, e le mani nelle tasche, mi allontanai lentamente, sordo anche ai richiami di Haruko. Me ne fregavo anche di lei in quel momento. Manco lei stava capendo un cazzo di quello che mi stava succedendo, pensava anche lei ai cazzi suoi. Ed allora ero pienamente giustificato anche io se, per una maledetta volta, pensavo solamente ai cazzi miei. Uscii dal bar, sbattendo la porta alle mie spalle e spaventando una coppia di turisti irlandesi, che mi guardarono male. Fanculo pure a voi… percorsi qualche passo, prima di intravedere in lontananza il parcheggio dell’aeroporto. Mi diressi verso di esso senza motivo, finché non scorsi in prossimità della rete metallica, che separava la parte civile dell’aeroporto da quella militare, una piccola rientranza tra la rete stessa e un’uscita d’emergenza dell’edificio principale dell’aeroporto. Invitanti, anche perché seminascosti, erano due gradini che portavano alla porta stessa. Mi sedetti scomposto su di essi, frugando con foga nelle tasche dei jeans. Nervoso, estrassi un accendino ed una sigaretta, rimasta lì da tempi lontanissimi in cui me ne facevo decine al giorno.

Avevo smesso per Haruko.

Avevo cominciato per Anko.

L’accesi con rabbia, aspirandone una grossa boccata. La gola pizzicò un po’, inducendomi ad un mezzo colpo di tosse, subito represso, non appena la faringe recuperò il ricordo del letale ma piacevole aroma. La prima l’avevo fumata il giorno in cui Anko se ne era andata. Era un giorno di pioggia, un giorno di novembre. Me lo ricordo come fosse ieri e non è tanto per dire, non è come illudersi che una cosa lontanissima sia successa poco tempo fa. No. È veramente così.    

Credo che una parte della mia vita si sia fermata davvero in quel momento. Latte e menta che si mescolavano letali l’uno all’altra, essenze e sapori di mondi diversi che non dovevano esistere assieme.

Lei, per me, era stata latte e menta.

Era stata quella sensazione di pienezza quando senti che la vita ti ha dato tutto quello che volevi, la sensazione di stagliarti contro l’infinito con la forza di pochi anni di vita e dell’incoscienza di chi non ha vissuto quasi per nulla. Latte e miele caldo nella mia gola a dissetarmi di quello che non avevo mai cercato e che mi era capitato per caso, ma che adesso non avrei mai lasciato alle spalle.

Era l’abitudine di giorni eterni e notti inesistenti, e poi di giorni inesistenti e di notti eterne, quando lei se ne era andata.

Perché lei era anche menta. Anko era stata anche menta. 

Fresca nei miei sensi come tramontana d’agosto, piacevole nella mia bocca che respirava il suo sapore e al contempo pungente come solo un primo amore può essere. Risi come un povero coglione… primo amore, che enorme cazzata.

Era Haruko, il mio primo amore. Mi ero sbagliato nel pensare.

Lei, Anko, poteva essere la menta di un’illusione, fugace come una vita umana e bruciante come un incendio dentro. Ma sempre un’illusione era. Perché, poi, se ne era andata. Anko se ne era andata. Andata, come se fosse morta, e cazzo, sulla terra resta solo polvere.

Polvere alla polvere.

Polvere… e ricordo. Ricordo agli altri fottuti ricordi. Uno sopra all’altro, come un castello di carte in equilibrio contro chi cerca di buttarlo giù.

Me, per primo.

Alla fine, però, mi ero rassegnato a vederlo vacillare, ma a vederlo sempre. Le sue carte menzognere… il colore dei suoi occhi, rossi come il sole che affoga nel mare, quello dei suoi occhi, verdi come gli abissi assassini del mare, il suo profumo, amaro come un’arancia colta troppo presto… insomma, che anche cambiassi la mano con nuove carte… Haruko… cazzo, avevo creato solo un altro fottuto castello.

Il primo era sempre là.  

E mille altre carte su quelle, perché da grandissimo mentecatto ogni giorno ne sapevo ammassare di nuove sulle prime, anche se passavano ore, giorni, mesi ed anni.

Per questo, è come se fosse stato ieri quando è partita. Probabilmente fino a ieri, ho aggiunto un altro dannato pezzo al quadretto.

E ora un altro ancora… l’urticare in gola della nicotina, quando bramavo assetato latte e menta. 

Come quel giorno di novembre sotto la pioggia, gocce di mercurio dal cielo.

Ed anche se ora era giugno, anche se erano passati cinque anni, anche se faceva un caldo boia… pestai la sigaretta sotto il piede, alzandomi dal gradino e tornando indietro, le mani che scavavano coraggio nelle tasche dei pantaloni.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo perché sono io sempre dannatamente lo stesso.

 

 

Non feci in tempo a fare qualche passo che incontrai Hanamichi.

Doveva avermi seguito. Per forza, cazzo… Haruko e Kana dovevano essersi preoccupate, e la sua copertura rischiava di andarsene a fanculo.

Lo guardai distrattamente, con la freddezza di un killer che ignora chi non vuole nemmeno prendersi la briga di uccidere, e gli passai oltre.

Tre passi prima della sua voce.

“Che cazzo pensi di fare?” mi chiese, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.

“Dimmelo tu… com’era?” sibilai a denti stretti, il veleno delle mie parole che mi bruciava le labbra “Cose normali… cazzo, ne hai dette di puttanate, ma queste le batte tutte…”.

Mi afferrò per la spalla, voltandomi con violenza e affondando le dita nella carne. Lama di impotenza rabbiosa il suo sguardo.

“Che cazzo avrei dovuto fare, eh, razza di coglione?! Che cosa, eh?? È mia sorella, porca puttana!!” mi urlò contro.

Mi liberai con uno strattone della sua presa, riassettandomi i vestiti, poi lo guardai cinico, prima di dire: “Allora me ne sbatto di come la tratterai… è tua sorella, no? Quindi pensaci tu a darle cose normali…”, feci una pausa, respirando a fatica, mi mancava il fiato, maledizione… mi imposi di continuare, tornando a guardarlo con astio: “Ma non è mia sorella… quindi io farò che cazzo mi pare… non sono il tuo fottuto burattino, Hanamichi… e nemmeno il suo… non lo sono mai stato, né mai lo sarò… per me, quella che scende dall’aereo è solamente Anko… Anko, la stronza che se ne è andata cinque anni fa…”. Mi voltai, riprendendo a camminare.

Hanamichi alle mie spalle, lontano, dissi solo, ad alta voce perché lui mi udisse. “… e che non è mai tornata…”.

 

 

“Si può sapere che fine avevi fatto?”.

La voce di Haruko fu così acuta nella mia mente che mi sembrò essere quella di una sirena crudele e maliarda, che solo apparentemente affascinante, ti trascina all’inferno, se la ascolti un pochino meglio.

Scossi il capo con decisione, faceva caldo adesso e non era certamente la giornata più bella della mia vita. Quindi… normale che mi desse tutto fastidio… mi voltai verso di lei e le sorrisi, mentre lei mi guardava con la testa reclinata da un lato.

I suoi occhi sembravano… sconfinati… e mi persi per qualche istante in essi, la coscienza che qualsiasi oceano sarebbe stato buono per annegare. Qualsiasi oceano che non fossero occhi verdi… e, se poi si trattava di Haruko, allora annegare sarebbe stato ancora più dolce.

Anche se implicava morire…

“Hanamichi è venuto a cercarti… non l’hai incontrato?” soggiunse quasi preoccupata, aggrappandosi infantilmente alla manica della mia camicia.

Annuii con il capo, non aggiungendo nessuna parola, e il suo sguardo si spalancò ancora verso orizzonti neri di comprensione, a cui lei per fortuna sua… forse non mia… non arrivava. Sembrò soppesarmi ancora con lo sguardo, le iridi corone di luce che volevano illuminarmi, ma che stavolta non avevano il benché minimo effetto.

Sì, Haruko… non hai effetto su di me… e questo magari è anche un bene, non lo so.. fino a ieri, me lo auguravo… sarebbe stato non darti la giusta importanza che già, nel cuore, ti davo… oggi, invece, è toglierti questa importanza. Di forza, di getto, con la stessa delicatezza che ci metterebbe un orco a stuprare Biancaneve. Toglierti importanza… e gettarla nel cesso… sì, perché la sto dando ad Anko questa importanza. Di nuovo.

E, per la prima volta, qualcuno, dopo me stesso, lo elevo a più importante di te.

Scossi ancora violentemente il capo… cazzo, dovevo aver preso un’insolazione mica da ridere…

Cercando di scacciare i pensieri, mi guardai distrattamente attorno nella piazzola davanti al bar dell’aeroporto e poi sbirciando all’interno, non vedendo né Hanamichi ovviamente né Kaname ovviamente.

“E Kana? Dov’è andata?” chiese senza reale interesse.

L’espressione di Haruko sembrò tornare al presente. Aveva deciso che, per il momento, non era il caso di indagare su di me e sulla mia misteriosa fuga. Sempre la solita… quello che non capisci, lo lasci alle spalle… incurante, distratta come sei… bella come sei… bella della tua purezza distratta, non torni mai indietro… vai solo avanti… e nemmeno ti sembra difficile… perché non sai fare altro…

E io, invece, passo la mia vita, camminando indietro come un gambero rincoglionito…

“E’ andata al check-in… Anko sarà già atterrata ormai… ed Hanamichi non si trova…”.

E’ già qui…

Come cazzo fa caldo, il sudore mi bagna il collo della camicia e mi annebbia la vista… maledetta camicia a maniche lunghe…

Baluginare rosso nei miei occhi, baluginare incerto e sempre più distinto di lei. Lei che sta rientrando in me, come fuoco che brucia carta straccia.

La mia anima di carta.

Chiudo gli occhi e respiro ancora profondamente… non mi fai un cazzo stavolta Anko… niente, c’è Haruko adesso… cadesse il tuo aereo e morisse la terra tutta, bruciasse la città ed annegasse il mondo… tu non mi fai più un cazzo…

Afferro quasi con prepotenza la mano di Haruko, stringendola aggressivo nella mia, dammi la forza, ingiungendole di andare a raggiungere Kana.

Quando ti danno un solo minuto, prima di morire…l’ultimo desiderio… riprenditelo, figlio di puttana…

Perché l’ultimo desiderio è solamente quello di dirsi di aver deciso quando e come morire… e rendersi onnipotenti, bestemmiando Dio e la vita…

Trascinai Haruko dietro di me, secondina del mio supplizio, e mi incamminai velocemente verso l’interno dell’aeroporto. I miei passi erano lunghi, Haruko non riusciva a starmi indietro, mi chiamò un paio di volte. Ma non sapevo ascoltarla. Non volevo ascoltarla.

Perché nemmeno lei sapeva ascoltare quello che le stavo dicendo davvero.

Portami via da qui… portami via da questa strada che mi riporta da lei… da questo sentiero, dove sono stati già impressi al contrario i miei passi…

Ma lei non sapeva ascoltarmi. Forse non voleva nemmeno ascoltarmi.

Non scorgemmo nessuna testa rossa e nemmeno nessuna testa bionda. L’aereo risultava atterrato con straordinaria puntualità una mezz’ora fa. Non sapevo dove potessero essere e nemmeno mi veniva in mente. Poi immaginai che, considerata la folla presente nell’aeroporto in quella giornata, Kana doveva aver portato Anko nel parcheggio dell’aeroporto. Da lì, avevamo precedentemente deciso, avremmo chiamato un taxi per farci portare in centro. Poi, non sapevo più niente, intendo dove sarebbe stata Anko, ma presumevo ovviamente a casa di Hanamichi.

L’avremmo aiutata con i bagagli, io ed Haruko, poi l’avremmo salutata, pronti a sistemare le ultime cose per la partenza per il ritiro dello Shohoku. E tra le ultime cose, si intendeva anche un libro di preghiere per scongiurare le risse giornaliere tra Rukawa e Sendo. E le crisi di Ayako.

Aiutata… salutata… le sole cose che potevo fingere di fare…

All’entrata del parcheggio, vedemmo Hanamichi che, avendoci visti arrivare da lontano, si era fermato ad aspettarci. Non incrociai il suo sguardo e continuai a cercare di afferrare una sola delle mille parole che solcavano le labbra di Haruko, pronte a disperdersi nell’aria come fiocchi di neve sporca.

Tra queste parole vane, c’era anche un allegro e quasi entusiasta: “Allora Hanamichi, sei contento di vedere tua sorella dopo tanti anni? Chissà quante cose avrete da dirvi!”. Sorrideva Haruko e forse Hanamichi non se la sentì di essere sincero. O forse era la sua recita di normalità, notai con rabbia e disappunto. Rispose: “Non puoi immaginare quanta voglia abbia di vederla… dire che sono contento è dire poco…”.

Troppe parole. Nessuno sguardo a me e a lei. Occhi fissi davanti a sé.

Dire che è una cazzata è dire poco.

Pensò di rincarare la dose, simulando impazienza improvvisa di rivedere la sua cara sorellina, coglione, e prese a correre, cercando Kana ed Anko. Fui contento di procedere più lentamente, il passo adesso cadenzato ed annoiato. Fremeva nella mia la mano di Haruko, forse voleva correre anche lei a vedere il prodigio di una sorella di Hanamichi. Sta tranquilla, che adesso la vedi… sta sempre là… dammi solo un altro minuto… prima, non lo volevo? D’accordo, giusta obiezione, Vostro fottuto Onore. Ora ho cambiato idea. Anche questo è un reato passabile delle pena di morte? Allora, processate mezzo mondo. E l’altra metà sparatela a vista.

Ma i miei passi, prima o poi, mi portarono da lei, di nuovo.

Come era sempre avvenuto.

Non serviva litigare con Anko.

Il giorno dopo, ripercorrevo la strada all’indietro, il terrore di perdere nella gola quel sapore acerbo e vitale di latte e menta. Lei che era bellissima, e non lo sapeva ancora, lei che era potente come una regina negli occhi di me bambino, lei che aveva il potere di rendere tutto possibile… perché avrei fatto tutto il possibile per lei… tutto il possibile per vedere il sole dei suoi capelli sorgere, tutto il possibile per vedere gli abissi dei suoi occhi calmarsi, tutto il possibile per sentire l’arancia del suo profumo espandersi. E quindi anche il mio orgoglio rientrava nella categoria, quando litigavamo.

Non l’ho avuta, mai.

Mai, ho avuto Anko.

Non era farsela. Era averla in un altro senso. Ho Haruko, per esempio. Ho la certezza che faccio parte di lei, tocco i suoi pensieri, sfioro il suo cuore. Con Anko, non era così.

Lei si dava a te, ti prendeva un secondo e poi ti mollava. Ed in lei non lasciavi traccia. Andava avanti, sempre, con l’infinita coscienza e consapevolezza che era la sola cosa che poteva fare.

Haruko va avanti perché non sa fare altro. Non ha la forza di tornare indietro.

Semplicemente perché non potrebbe leggere il suo passato, troppo pieno di cose che non capisce e lascia indietro.

Anko andava avanti, perché non sapeva fare altro. Non aveva la forza di tornare indietro.

Semplicemente perché avrebbe potuto leggere il suo passato, troppo pieno di cose che avrebbe capito e voleva lasciare indietro.

Portava un enigma nel volto, piccola donna dalle forme di bambina, e questo sempre, quando giocava, quando parlava, quando rideva, quando piangeva, quando pregava, quando picchiava, quando comandava, quando dormiva.

Un Sacro Graal, fatto di carne e sangue incandescente. Cercare di afferrare il filo rosso della sua anima era tutto il senso della mia vita.

Piccola, Anko, piccola e grande assieme. Come Dio, immenso calore che sta nelle mani di un bambino.

Fragile come uno specchio dalle mille facce, perché piena di paure. Le nascondeva sotto l’abito svolazzante dei suoi colori accesi, le nascondeva come piaghe orribili sparse sul corpo.

E allora tu come lei, invulnerabile, perché non avrebbe tollerato in te altre paure che facessero ombra alla sua luce.

Argentea Anko, come mille campanelli quando rideva. L’eco delle porte del paradiso. Il miracolo di renderla contenta, e tu artista e messia. Ossessione ripetere il miracolo, nonostante sia un miracolo e non puoi chiederlo sempre. Fantasia di empireo immaginarla ridere nelle notti insonni in cui il sudore si attacca come una seconda pelle.

Piena di sogni e progetti, Anko. Sogni e progetti che erano solamente suoi, mai anche tuoi. Mai anche i tuoi.

Semplicemente non le interessava conoscerti. Se lo faceva, era solamente un caso. Desiderava solamente mille immagini riflesse della sua.

E, mentre il mondo le desiderava fare corona attorno, lei si ritirava in sé stessa sempre di più.

Espansiva, rideva e scherzava, ma era estremamente gelosa di lei stessa. Concedeva solamente qualche briciola della sua anima a me e ad Hanamichi, i servi privilegiati della sua multiforme corte. 

Fino a quando, un giorno, tacque il più grande dei suoi segreti.

Un segreto divenuto improvvisamente spaventoso, da affascinante come era sempre stato.

Il segreto che era un’evidentissima verità, ma che nessuno aveva mai guardato più attentamente.

La madre.

Quel segreto fu la madre di tutte le sue bugie. La madre della sua fuga, alla vigilia della morte del padre.

La madre del suo tradimento. Del tradimento di tutti noi.

Ma se gli altri piansero mezza giornata, pronti ad incoronare un’altra regina, io ed Hanamichi, i preferiti, piangemmo tutta la vita.

Se muore un re, il buffone è il solo a piangere.

Abbiamo riempito il vuoto di lei, alla fine. Con gli amici. Con le risse. Con il fumare. Con il bere. Con il cazzeggiare.

Con Kaname.

Con Haruko.

Ma riempire un vuoto non è sanarlo.

È solamente dimenticarlo, giocando ad essere diversi.

Mentre siamo sempre gli stessi.

Sempre dannatamente gli stessi. Come questi passi che ritornano da lei. Solo un po’ più incerti di quelli di me bambino. Ma che ritornano sempre…

Indietro…

Indietro dalle cose che restano sempre dannatamente le stesse.

 

 

Delitto.

Non averla mai dimenticata.

Castigo.

Ritrovarla donna.

Bella, come non avrei mai pensato sarebbe stata.

Bella, come non avrei immaginato. Vedi l’alba. Puoi immaginare il tramonto, ma mai vederti davanti agli occhi il fulgore corallo di quel momento.

Bella come la speranza. Il verde della speranza che indossa con disinvoltura. La speranza che sia tutto uguale. O tutto diverso, non lo so.

Ritrovarla donna che mi parla di promesse di bambini.

Ritrovarla che ricorda di me.

Ritrovarla che, possessiva, parla di quando promettevo davanti al cielo qualsiasi cosa chiedessero le sue labbra.

Ritrovarla che rivendica il suo trono.

Ritrovarla che, dietro le lenti scure, cela ancora la sua anima. Di carta come la mia. Brucia in questo inferno che ci circonda adesso.

Ritrovarla con l’anima di carta scritta a caratteri neri nel mio cuore. Che sa ancora leggere quei caratteri.

Ritrovarla, la sua anima. Ritrovarla, quella promessa. Non starò con nessuna, fin quando non tornerai tu.

E sentirmi fariseo.

Castigo.

Semplicemente… ritrovarla.

Espiazione.

“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.

 

 

 

Se chiudo gli occhi, forse sei

Tutti gli errori, quelli miei.

Almeno tu fossi poesia,

saprei cantarti e così sia.

Chiudessi gli occhi, affogherei.

E’ un fiume in piena di vorrei,

se almeno tu lasciassi scia,

saprei seguirti e andare via.

(Negramaro- Almeno una volta)

 

 

 

Premetto che questo capitolo doveva arrivare molto prima… e questo chiaramente penso che lo abbiate capito tutti. Ma questo capitolo doveva essere anche diverso, molto diverso… ci sarebbe dovuta essere anche Haruko, per questo parlavo di tre punti di vista. Ma poi ho preferito fare in questa maniera!!!! Che cosa posso dire in mia discolpa??? Una cosa semplicissima… mi sono innamorata. E quindi per mesi non riuscivo a seguire nessuna delle mie storie, perché ero troppo presa dalla mia vita in costante evoluzione. Ritengo di essere cambiata, di essere diversa, e non so se questo si capisca da quello che scrivo. Non riuscivo a scrivere, e questo per me era grave… ma poi alla fine ce l’ho fatta. Sarà stato egoista, considerando che questo racconto non è solamente mio, ma di tutte le persone che lo leggono e lo commentano, ma preferivo darvi qualcosa che fosse pienamente corrispondente a quello che volevo dirvi. Insomma, non sono una che si accontenta di scrivere quattro cose pur di andare avanti. Non so se seguirete ancora questa storia, considerando l’enorme ritardo, ma, se continuerete a farlo, vi ringrazio enormemente. Sono state le vostre recensioni a spingermi a continuare, non lo dico tanto per dire, probabilmente avrei smesso tanto di quel tempo fa se non avessi avuto voi!!!! Quindi grazie, grazie ancora… non vi nomino tutti, altrimenti probabilmente non ce la farei nemmeno oggi ad aggiornare!!! Ma prometto ringraziamenti più approfonditi nel prossimo capitolo!!!! Cassie !!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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