Hauntress. di Maggie_Lullaby (/viewuser.php?uid=64424)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Hauntress.
Prologo.
Chi
ha occhio, trova quel che cerca anche ad occhi chiusi.
{Italo
Calvino}
Jacksonville,
Florida; Casa Turner
Blu
zaffiro. Due pozze di pietra preziosa, profonde. Bellissime. Belle
come il mare. Brillanti, come cristalli. Grandi.
La
ragazza, proprietaria di quegli occhi meravigliosi, sorrise,
arricciando le labbra carnose, attentamente truccate, mostrando una
fila di denti bianchi e perfetti.
Dondolando
il bicchiere di champagne che aveva in una mano e si avvicinò,
con passo sicuro di sé anche sui tacchi alti, quasi
vertiginosi, verso un uomo sui trentacinque anni, cingendogli il
collo con un braccio e stampandogli un bacio leggero ma sensuale sul
collo.
«Ti
sono mancata?», domandò a bassa voce, con voce fresca e
seducente, facendo voltare l'uomo.
«In
ogni istante in cui non ti vedo mi manchi, Caroline», rispose
lui, sorridendo, prendendola per i fianchi in una morsa forte, ma
senza farle del male, e avvicinandola quanto più possibile a
lei.
La
ragazza sorrise, abbandonando la coppa di alcolico a uno dei
camerieri che passavano in mezzo alla folla, rassettandosi in un paio
di secondi il lungo abito rosso passione, per poi circondargli il
collo con entrambe le braccia.
«Hai
sempre le mani così fredde», constatò l'uomo,
rabbrividendo appena.
La
giovane donna inclinò lievemente il capo verso destra, la
cascata di capelli mori d si spostarono con lei, ricadendo lungo il
suo fianco, accarezzandolo sino alle scapole.
«Vuoi
che non ti tocchi?», domandò semplicemente, senza
cambiare espressione, rimanendo sempre appena sorridente, sicura,
mentre toglieva le mani e le lasciava ricadere lungo i fianchi.
«No!»,
ringhiò l'uomo, riprendendole e stringendole. «No! Io ti
voglio, qui, con me!».
La
ragazza avvicinò le labbra sino a un suo orecchio, mentre con
le mani tornava a stringergli delicatamente il collo.
«Non
vado da nessuna parte»,
mormorò, mordendogli lievemente il lobo, facendolo sorridere.
Si
muovevano piano, lui che le cingeva i fianchi, lei che continuava a
tenere le braccia intorno al suo collo, al ritmo melodico della banda
che suonava.
Intorno
a loro, decine e decine di altre coppie li imitavano, le donne
fasciate nei loro eleganti abiti da sera firmati, gli uomini con
indosso smoking fatti su misura.
«Clive...»,
sussurrò la ragazza, tra il vociare degli altri invitati della
serata e la musica. «Questa
mattina non siamo riusciti a finire il nostro discorso.».
Lo
sentì irrigidirsi quasi impercettibilmente sotto le sue mani.
«Non
capisco come mai ti interessi così tanto»,
sbottò irritato, avvicinandosi poi con le labbra al collo
della compagna e baciandolo.
Quest'ultima
lanciò indietro la testa, socchiudendo per un istante gli
occhi.
«Te
l'ho detto. Voglio la verità»,
disse, tornando poi alla posizione originale.
«Solo
questo?».
Clive alzò un sopracciglio, come se non ci credesse.
La
giovane donna abbassò il capo, arrossendo.
«Beh,
in realtà c'è dell'altro»,
sussurrò.
«Lo
sapevo»,
constatò semplicemente Clive, mentre nei suoi occhi neri come
la pece si accendeva una luce di vittoria. «Cosa?».
«Io
sono... curiosa»,
disse lei, alzando di nuovo gli occhi così blu su di lui e
quasi inchiodandolo al posto per l'intensità di quello
sguardo. «Di
quello che fai».
«Curiosa?»,
chiese incredulo l'uomo, stringendole il fianco più forte.
«Sì.
Sono sempre stata affascinata dall'omicidio. Anche da bambina. Sai,
prima ho provato ad uccidere piccoli insetti... Animali... Ma non mi
bastavano. Non mi soddisfacevano abbastanza. Crescendo, sentivo il
bisogno di uccidere
gli esseri umani, di vedere la luce dei loro occhi spegnerli, di
sentire la vita abbandonare i loro corpi, ma non sono mai riuscita a
commettere un omicidio.»,
iniziò a spiegare piano, volteggiando sempre piano sentendo la
musica. «Quando
poi sei arrivato tu, Clive, e ho capito che eri come me. Che anche tu
vuoi uccidere. Se non fosse per un piccolo dettaglio...»,
riavvicinò le labbra al suo orecchio destro, mentre il respiro
del compagno diventava sempre più veloce. «...Tu
hai già ucciso, non è vero, amore?».
Clive
le lasciò improvvisamente i fianchi e le prese il viso con
energia, avvicinandolo velocemente al
suo e baciandola con passione. La ragazza ricambiò il bacio,
alzando le mani e accarezzandogli i capelli mentre il bacio diventava
man mano sempre più passionale.
«Non
è vero, Clive?», ansimò, staccandosi un poco.
«Sei tu il Serial Killer di Jacksonville. Sei tu lo Squartatore
della Spiaggia. Perché lasci le tue vittime sulla spiaggia, e
non ti preoccupi di metterle in una qualche tipo di posizione. Le
uccidi... e basta, senza rimorso. Perché tu non provi rimorso,
ucciderle ti fa solo stare bene.»
L'uomo
annuì, con decisione, cercando di baciarla di nuovo, ma la
ragazza scosse il capo.
«Voglio
sentirtelo dire, amore, voglio sentirti parlare, voglio che tu mi
dica che sei tu l'uomo dei miei sogni, l'uomo con cui voglio
uccidere».
Clive
la guardò negli occhi, accarezzandole una guancia per poi
scostale una ciocca di capelli dagli occhi. Lei teneva ancora le mani
intorno al suo collo.
«Sì,
sono io. Sono io lo Squartatore della Spiaggia.», disse, senza
sussurrare, con un sorriso sornione e soddisfatto sulle labbra rosee.
«Sono io. E tu ora sarai con me».
La
giovane donna annuì, felice, un gran sorriso che le incrinava
le labbra.
«Nancy
Doole. La ragazza sparita questo primo pomeriggio... L'hai presa tu,
non è vero?», chiese.
«Sì.
Vuoi ucciderla? Sarà la tua prima vittima», il sorriso
di Clive si apriva sempre più di parola in parola.
«Sì»,
disse sensualmente la compagna. «voglio ucciderla io. Dove si
trova?».
«Nel
capanno degli attrezzi di casa mia. C'è un bunker, lì
sotto. La tengo lì». Sembrava eccitarsi solo all'idea di
vedere la sua ragazza uccidere una persona. Rubare una vita umana.
«Perfetto»,
sorrise la donna. «Veramente... perfetto.».
«Andiamo
ora, su.», propose Clive, fermandosi e cercando di prenderla
per mano.
«No,
no Clive, sei troppo impaziente», lo bloccò lei, sempre
senza smettere di sorridere, con quel sorriso sicuro e strafottente.
«La festa è appena iniziata, e tu sei il festeggiato,
parrà strano se te ne andrai dopo nemmeno un'ora, non trovi?».
L'assassino
la baciò con passione.
«Intelligente
e previdente, oltre che bella», disse. «Sei la donna dei
miei sogni.»
«Ooh,
Clive, così mi fai arrossire», disse, scostando appena
il capo e mordendosi il labbro inferiore.
«Io
non mento», disse lui. «Va bene, aspetteremo. Ma la
uccideremo questa notte, intesi?».
Lei
gli lasciò un bacio a stampo sulle labbra.
«Prometto.»,
disse. «Vai a prendere da bere, brindiamo alla nostra unione...
Per sempre.».
Clive
si allontanò da lei, sparendo tra le folla, rimanendo ogni
tanto intrattenuto da qualche collega e amico che gli facevano gli
auguri per il trentacinquesimo compleanno e l'imminente promozione.
Bingo,
pensò la ragazza, avvicinando l'orologio da polso alle labbra
e premendo un piccolo tasto. «Ho
la confessione. Irrompete. Nancy è in un bunker sotto il
capannone degli attrezzi nel giardino di casa di Olden. È
viva.», disse velocemente, rimontando il sorriso deciso di poco
prima giusto in tempo per il ritorno di Clive.
«Grazie»,
mormorò felice, scontrando il cristallo del proprio bicchiere
con quello del festeggiato e bevendo velocemente un sorso di
champagne.
Tra
la folla, nel frattempo, l'agitazione stava crescendo. La gente si
spostava in fretta, facendo domande e lanciando imprecazioni. In
pochi attimi otto agenti, con giubbotti antiproiettile e una pistola
in mano li accerchiarono, puntando le canne delle armi contro Clive.
«Clive
Olden, lei è in arresto per l'omicidio di Sasha Jones, Rita
Turner, Olivia Tucker, Hannah Spacer e per il rapimento di Nancy
Doole!», esclamò ad alta voce un uomo alto, di colore, i
capelli rasati e la scritta FBI sul giubbotto antiproiettile.
Mentre
Clive strabuzzava gli occhi, stupito e incredulo, gli occhi neri che
si riducevano a fessure, uno dei due agenti con la scritta Polizia
sul giubbotto antiproiettile lanciò un paio di manette alla
ragazza che, con gesto veloce e scattante, prese le mani di Olden e
gliele mise dietro la schiena, ammanettandole.
«Clive
Olden, ha il diritto di rimanere in silenzio, qualsiasi cosa che dice
potrebbe essere usata contro di lei in tribunale. Può
avvalersi del suo avvocato, se non ne ha uno le verrà
assegnato uno di ufficio. Ha capito i suoi diritti?», domandò
la giovane donna, non più con la voce sensuale che usava
prima ma con tono freddo, pieno di odio.
«Co...
che cosa? Caroline, cosa diavolo stai facendo?!», urlò
Clive Olden. «C'è un errore, io non ho fatto nulla!».
«Ho
la registrazione, Clive, smettila di fare il piantagrane. E, per la
precisione, io non mi chiamo Caroline», sbottò lei.
Spingendolo in direzione degli agenti, che nel frattempo avevano
abbassato le armi e riposte nella fondina.
«Ottimo
lavoro, Sparks», si complimentò con lei un uomo alto,
dai capelli corti e scuri, l'espressione dura e seria, mentre Olden
veniva afferrato per le spalle da due nuovi agenti della polizia
appena comparsi.
«Grazie.
L'Agente Aaron Hotchner, immagino»,
disse Samantha Sparks, avvicinando le mani alla spilla di finti
rubini che teneva attaccato al vestito e consegnandoglielo,
mostrandogli un piccolo registratore nascosto. «C'è
tutto, signore».
«Ben
fatto», disse Hotch, voltandosi poi verso agli invitati.
«Signori, vi prego di avviarvi ordinatamente verso l'uscita e
di lasciare i vostri nomi agli agenti di polizia.», spiegò
ad alta voce. Appena finito di parlare, la massa iniziò a
muoversi, seguendo le sue indicazioni.
«Nancy
Doole?», chiese
Samantha.
«L'hanno
trovata. Sta bene.», le assicurò Hotch.
«Grazie
al cielo», mormorò l'Agente FBI, spostando lo sguardo
verso gli altri Agenti Federali e l'Agente della Polizia, Lucas
Monroe.
«Lucas,
è un piacere rivederti», sorrise appena Samantha.
«Ottimo
lavoro davvero, Samantha.», si congratulò anche lui.
Samantha
scrollò le spalle. «È il mio lavoro».
«Lasci
che le presento il resto della mia squadra.», disse Hotch,
riprendendo la parola.
«Oh,
aspetti», lo interruppe lei, voltandosi verso gli altri cinque
agenti e guardandoli negli occhi, uno per uno. «Tu devi essere
Emily Prentiss, ovviamente», disse indicando la donna dai
capelli scuri e i grandi occhi marroni. «Voi invece Jennifer
Jerau, Derek Morgan, Spencer Reid e David Rossi», continuò,
indicando ciascuno di loro. «Sono onorata di potervi
conoscere».
«Il
piacere è nostro», disse Derek, allungando una mano
verso di lei per stringerla.
Samantha
ricambiò la stretta.
«Beh,
come dire, un altro serial killer andrà in prigione e altri
dieci stanno per commettere un omicidio, direi che possiamo andare in
centrale ora, che dite?», domandò, senza l'accenno di un
sorriso. «Devo togliermi questo abito di dosso, Dio mio mi
hanno dato una taglia troppo piccola, non respiro.».
Gli
agente del B.A.U annuirono, stringendole a loro volta la mano. Tutti,
ad eccezione di Spencer Reid, che la salutò sventolando la
mano.
Samantha,
uscendo, si affiancò a David Rossi.
«Agente
Rossi, mi permette una domanda?», chiese.
«Naturalmente.»,
annuì l'uomo, mentre si slacciava il giubbotto antiproiettile.
«Ho
letto il suo ultimo libro», disse. «E ho una curiosità».
«Mi
dica», sorrise David, incuriosito.
«*È
vero che i criminali non hanno mai un motivo valido per quando
uccidono? Faccio questo lavoro da due anni, sono stata a stretto
contatto con serial killer per intere settimane
e non sono mai, mai riuscita
a rispondere a questa domanda.», chiese lentamente Samantha.
«Non
ne hanno mai uno valido*», spiegò Rossi.
La
ragazza annuì, assimilando le parole.
«Grazie,
signore». Disse, avanzando il passo e avvicinandosi verso
l'uscita ed entrando nella prima volante che vide.
Quella,
se lo sentiva Rossi, non sarebbe stata l'ultima volta in cui
avrebbero lavorato assieme.
Continua...
Nuova
storia. Nuove vicende. Nuovi scleri.
Questa
fic, “Hauntress”, letteralmente “Cacciatrice”,
vi avverto, non è che la prima fiction di una serie che ne
comprenderà tre. E
devo dire che mi piace da impazzire, e la cosa è stranissima!
Spero vi piaccia almeno un terzo di quanto piaccia a me.
Ho
deciso di postare perché sono curiosa di vedere le vostre
opinioni riguardanti questa fiction, ho già altri sei capitoli
pronti, ma non vi preoccupate (e chi si preoccupa?! nd. Voi)
Somewhere in my mind
non verrà influenzata da questa fic, l'aggiornamento del
quinto capitolo è semplicemente rimandato a domani o venerdì,
massimo.
Criminal
Minds non mi appartiene e i personaggi che fanno parte di questa
serie televisiva non sono di mia esclusiva proprietà (posso
aggiungere uno sfortunatamente, sì?). Il personaggio di
Samantha Sparks e gli altri mai comparsi nella serie di Criminal
Minds (che invece appartengono a quel genio di Ed Bernero), invece,
sono di mia invenzione e mi appartengono in quanto tali. Questa
storia non è stata scritta a scopi di lucro. Criminal Minds
appartiene alla CBS.
Questa
fiction è ambientata nella quinta serie, dall'episodio undici
in poi: Haley è quindi morta, ma alcuni casi che seguono da
questo avvenimento sono totalmente differenti e inventati dalla
sottoscritta. Reid ha già i capelli corti perché amo
come sta con questa pettinatura e anche perché non trovavo
una foto decente con cui fare il fotomontaggio ù.ù
Se
mi so spiegare? Certo che no. -.-”
La
frase tra questi segni qui → * * è tratta dall'episodio
6x10.
N.B.
Ho messo come nota OOC perché non so se riuscirò a
rendere ai personaggi già esistenti i loro effettivi
caratteri, ma saranno il più possibile uguali a quelli
presenti nella serie TV.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1. ***
Capitolo1.
C'è,
per le scoperte, un tempo di maturazione prima del quale le ricerche
sembrano infruttuose.
{Jean-François
Marmontel}
Quantico;
Virginia
Quando
Samantha entrò negli uffici di Quantico, nella sede dell'Unità
di Analisi Comportamentale dell'FBI, pioveva. Era uno dei tanti
giorni di pioggia della stagione, ma per lei, che era nata e
cresciuta a Londra, a suo parere una delle città più
piovose d'Europa, non la infastidiva; piuttosto le dava una strana
idea di casa, di pace. Fosse
dipeso da lei sarebbe rimasta per ore sotto a un diluvio ad ascoltare
solamente il rumore delle gocce che scrosciavano a terra.
Quando
entrò nel grosso ufficio dell'Unità il rumore dei
tacchi che indossava rimbombò nell'atrio silenzioso, e si
guardò intorno. Lei stessa lavorava poco lontano, ma il suo
studio si trovava su un solo piano, vicino al pentagono dove si
allenava quasi quotidianamente.
«Agente
Sparks?»,
si sentì chiamare da una voce femminile.
Samantha
si voltò e vide JJ avvicinarsi a lei, con un piccolo sorriso.
«Oh,
salve Agente Jerau»,
la salutò la ventisettenne, stringendole le mano
delicatamente.
«Ha
bisogno di aiuto?»,
chiese la bionda federale, osservando la ragazza con un'occhiata
affascinata. Conosceva molto bene la sua fama ed era sempre stata
incuriosita dal suo lavoro, per quanto non sarebbe mai riuscita a
svolgerlo: bisognava avere dei nervi assolutamente saldi nelle
situazioni più disperate, non lasciarsi mai prendere dal
panico e soprattutto avere la capacità di rimanere a stretto
contatto con gli assassini – spesso di intere famiglie, di
stragi – senza provare ribrezzo evidente.
«Stavo
cercando l'Agente Hotchner»,
spiegò la mora, estraendo dalla propria borsa un fascicolo
contenente il suo rapporto sull'ultimo caso. «Devo
consegnargli questo».
«La
accompagno»,
si offrì JJ, servizievole.
«Grazie.»,
la ringraziò Samantha, seguendola quando Jennifer si mise a
camminare in direzione dell'ufficio del proprio capo.
Passarono
in mezzo alle scrivanie nell'open-space, dove Emily Prentiss stava
scrivendo una lunga email al computer, mentre Derek Morgan era chino
su un documento e lo stava leggendo con occhiata attenta.
«Agente
Sparks», si stupì quest'ultimo, vedendola attraversare
la stanza affiancata da JJ, camminando con la sua solita camminata
sicura ed elegante.
Samantha
chinò il capo in segno di saluto e fece cenno con le mani
indicando che avrebbero potuto parlare dopo. Morgan annuì.
JJ
la lasciò davanti allo studio di Hotch e raggiunse gli altri
nell'open-space, sedendosi sulla scrivania vuota di Spencer Reid,
andato a prendersi l'ennesimo caffè della mattinata.
Samantha
bussò due volte, aspettando di ricevere risposta.
«Avanti.»,
disse l'Agente Capo dell'Unità.
La
ragazza entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
«Oh,
Agente Sparks», sorrise Hotch, vedendola, lasciando cadere
sulla scrivania il documento che teneva tra le mani e sporgendosi
verso di lei per stringerle le mano. «Prego, si accomodi.».
Samantha
eseguì, con aria rigida, appoggiando sulle ginocchia fasciate
da un paio di pantaloni scuri in seta il rapporto.
«Sta
bene?», domandò Hotch, con cortesia.
«Molto,
grazie signore. Lei?».
«Bene,
la ringrazio. In che modo posso esserle utile?», chiese ancora
Aaron.
«Il
mio rapporto, signore», spiegò Samantha, porgendogli il
fascicolo in carta con il timbro dell'FBI stampato sopra.
«Grazie
mille, poteva mandarlo tramite posta interna», constatò
l'uomo, posandolo in cima a una pila fatta di fascicoli identici.
Samantha
scrollò le spalle.
«Non
avevo altro lavoro da fare, una passeggiata mi faceva piacere.»,
spiegò tranquillamente, curvando
le labbra con un velo di lucidalabbra sparso sopra.
Aaron
annuì.
«Le
volevo ancora fare le mie congratulazioni per come si è
comportata con Clive Olden. Davvero un ottimo lavoro.», ripeté,
con un sorriso quasi invisibile.
«Grazie
mille, ma ho fatto solo il mio lavoro. Olden ha fatto anche la sua
parte, la sua psicosi era talmente avanzata che credeva che avessimo
un rapporto serio da anni, anziché una – brutta –
esperienza di poco meno una settimana.», si sminuì la
ragazza, scostandosi una ciocca mora dagli occhi.
Hotch
annuì, ascoltandola.
«Beh,
posso sperare che il suo lavoro sia stato apprezzato dal suo Capo».
«Bruce?
Agente Hotchner, lo conosce, è una persona riservata, non dice
mai nulla, se non per criticare.». Per quanto, tutto sommato,
non sembrasse un complimento, Samantha inarcò un po' gli
angoli della bocca, con affetto.
Hotchner
si disse mentalmente che quella giovane donna aveva inquadrato
benissimo il suo Capo.
«Spero
di poterla rivedere presto», spiegò, imitando Samantha
che si era appena alzata, evidentemente per congedarsi.
«Lo
spero anch'io. Arrivederci, Agente Hotchner». Gli strinse la
mano e fece per uscire dalla porta, quando a questa qualcuno bussò,
aprendola pochi secondi dopo senza aspettare una risposta.
La
chioma bionda di JJ fece capolinea nella stanza, reggendo in mano una
cartelletta.
«Mi
spiace interrompervi, ma mi hanno appena chiamato urgentemente da
Tucson, abbiamo una riunione», disse velocemente.
«Arrivo
subito». L'espressione di Hotch tornò immediatamente
dura e seria, mentre JJ si chiudeva la porta alle spalle. «Agente
Sparks, ha altri casi di cui si deve occupare?».
Capendo
immediatamente dove l'uomo stava andando a parare, Samantha scosse il
capo.
«Le
dispiacerebbe partecipare anche lei a questa riunione e, se le pare
necessario, partire con noi per l'Arizona? Un aiuto esterno può
esserci molto utile.», disse Hotch. Non avrebbe mai ammesso di
essere speranzoso a quella prospettiva: le piaceva il modo in cui
lavorava quella ragazza, la maniera in cui sapeva muoversi con gli
S.I. e con cui manteneva la calma anche nelle situazioni più
drastiche. Gli era stata raccontata una volta che un S.I. le aveva
puntato una pistola alla testa, accusandola di essere una serva di
Satana, e Samantha, senza perdere nemmeno per un secondo i nervi
tesi, era riuscito a disarmarlo e a renderlo inoffensivo.
Questo,
quando solo aveva venticinque anni e aveva iniziato a lavorare
nell'FBI da soli pochi mesi, non immaginava di cosa era capace ora,
dopo due anni passati ad allenarsi strenuamente nei corsi di
addestramento intensivo.
«Assolutamente
no, lo farò con piacere.», sorrise lei, avvicinandosi
all'uscita e aprendo la porta. Hotch le fece cenno di uscire e la
guidò alla sala riunioni, dove, seduti intorno al solito
tavolo rotondo erano seduti tutti i membri dell'Unita.
«Vi
ricordate dell'Agente Sparks?».
«Naturalmente»,
replicò Emily, alzandosi e stringendole la mano. «Piacere
di rivederla.».
«Piacere
mio», replicò caldamente la mora, scrutando curiosa
l'unica persona che non aveva visto.
«Samantha
Sparks, Penelope Garcia, il nostro tecnico informatico.», fece
le presentazioni Rossi.
«Meglio
conosciuta come colei che esaudirà tutti i tuoi desideri»,
ridacchiò Garcia, con un gran sorriso sulle labbra colorate di
un rossetto color passione. I suoi vestiti eccentrici, dai colori
luminosi, erano una botta all'occhio in quella stanza dalle pareti
grigiastre.
«Felice
di conoscerla», disse Samantha anche se non con molta
sincerità, quella donna non le pareva esattamente il tipo che
ci si aspetta di trovarsi in un ufficio federale.
«Oh,
ti prego, dammi del tu e chiamami Garcia.», sorrise la rossa.
Samantha
annuì e si sedette su una sedia che Morgan la aveva appena
portato.
Lo
ringraziò con un piccolo sorriso.
«JJ,
cosa abbiamo?», domandò Hotch, sedendosi al proprio
posto e prendendo la propria copia del fascicolo.
Samantha
si sporse leggermente per osservare meglio il grosso schermo su cui
JJ stava proiettando delle immagini.
«A
Tucson, Arizona, sono stati trovati i cadaveri di tre donne dai
trenta ai trentacinque anni, tutte e tre
erano madri single in carriera. Le donne sono state soffocate.».
«I
segni trovati sul collo della prima vittima, Laura Randall, sembrano
essere causati da mani umane, mentre sulle altre due sembrano
piuttosto segni di una cintura. Il soffocamento a mani nude non è
facile come sembra, evidentemente l'S.I. deve aver provato e una
volta capito che ci voleva troppo tempo e troppe energie è
passato alla cintura.», iniziò a spiegare Reid, muovendo
le mani, scostandosi ogni tanto i capelli forse un po' troppo lunghi
dal viso.
Era
la prima volta che Samantha gli sentiva pronunciare un'intera frase.
«Come
sono state prese le vittime?».
«L'ultima
volta che sono state viste accompagnavano i figli a scuola, o
all'asilo. La borsa di Irina Isaac è stata trovata a terra,
vicino alla sua macchina, davanti a una lavanderia. L'S.I non ha
rubato niente al suo interno, o per lo meno nulla che si sappia: le
chiavi di casa, della macchina, il portafoglio e i documenti erano
tutti all'interno. C'era anche una busta con una collana preziosa che
Irina aveva appena ritirato dopo averla ritirata dall'orefice.».
«Laura
Randall era una sarta, Irina Isaac un'avvocatessa, mentre Kimberly
Dawson una donna delle pulizie.», constatò Emily.
«L'S.I
non bada al livello sociale», concluse per lei Morgan.
«L'unica
cosa che le accomuna è l'età», disse Rossi.
«Fisicamente, anche, erano completamente diverse: Kimberly era
bassa, dai capelli neri; Laura robusta e bionda; mentre Irina rossa e
magra. Non ci sono affinità ulteriori».
«I
bambini? Quanti sono?», domandò Samantha, parlando per
la prima volta.
«Laura
aveva una bambina di diciotto mesi; Kimeberly due gemelli di tre
anni, un maschio e una femmina; mentre Irina un bambino di cinque.»,
le rispose JJ.
«Bene,
partiamo per Tucson. Garcia, nel frattempo tu fai controlli
incrociati tra le vittime: voglio sapere se frequentavano luoghi
comuni, se avevano amici comuni, e mandami tutto quello che puoi
sulle scuole dei bambini, i professori, e anche l'orefice in cui è
andata Irina Isaac prima di morire. Tutti sul jet entro mezz'ora.
Agente Sparks, lei cosa vuole fare?», domandò infine
alla ragazza dopo aver dettato gli ordini.
La
ragazza si alzò, lanciando un'ultima occhiata allo schermo su
cui era ritratta l'immagine del cadavere di Kimberly Dawson, prima di
parlare.
«Ho
una ventiquattr'ore pronta nel mio ufficio, datemi il tempo di
andarla a prendere.»
Continua...
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Capitolo 3 *** Capitolo 2. ***
Capitolo
2.
Dove
tutto è male, deve essere bene conoscere il peggio.
{Francis
Herbert Bradley}
«Beh
il fatto che il BAU ti abbia richiamata è una buona cosa»,
aveva snocciolato Bruce Atwood, il capo di Samantha, penetrandola con
i suoi occhi piccoli e scuri. «Vedi di non fare casini.».
Ora
Samantha si trovava seduta sul jet privato dell'Unità di
Analisi Comportamentale, seduta su un sedile accanto a Morgan e
davanti a Emily, quest'ultima vicina a Rossi.
Teneva
il capo chino sul suo fascicolo, i capelli mori che le accarezzavano
le guance mentre con la mano destra tamburellava le dita su una
gamba. Le immagini delle donne ammazzate, seminude, sulle foto, le
passavano davanti agli occhi senza che lei desse la minima reazione
di essere impressionata. Ne aveva visti anche troppi di cadaveri,
spesso gente che conosceva che moriva sotto ai suoi occhi.
Chiuse
gli occhi per un istante, cercando di tenere a freno i ricordi di
quando era ragazzina, contando sino a dieci. Sua madre glielo diceva
sempre: conta sino a dieci, pensa al sole e ai fiori, alla luce e
alle risate. E lei lo faceva sin da quando aveva sedici anni.
Si
scostò una ciocca di capelli dagli occhi blu e alzò lo
sguardo sulla squadra, chiudendo il fascicolo con un colpo secco.
«Allora?
Che pensate?», domandò seriamente, attirando su di sé
lo sguardo degli altri sei agenti e per un secondo pensò di
aver interrotto i loro ragionamenti da profiler.
JJ
la guardò e si rivolse agli altri.
«Sarà
meglio iniziare ad inquadrare questo S.I.»
«Giusto.
Non credo sia un sadico.», iniziò Morgan osservando con
particolare attenzione la foto di Irina Isaac. «Non ci sono
segni di tortura, deve essere un maniaco sessuale che si sente
impotente nei rapporti con l'altro sesso. Questo potrebbe essergli
fatto notare da una donna tra i trenta e i trentacinque anni, come le
vittime. Magari l'impossibilità di avere un figlio, una
separazione dalla moglie potrebbe essere stato il fattore di
stress.».
«Perfetto.
Reid, mettiti in contatto con Garcia e chiedigli di cercare la lista
degli uomini divorziati di Tucson le cui ex mogli hanno fatto
nell'ultimo anno degli esami ginecologici per avere figli che non
hanno avuto risultati positivi.».
«Subito.»,
annuì Reid, iniziando a smanettare con il computer e
mettendosi in contatto con la loro tecnica informatica.
«Tu
come pensi di muoverti, Samantha?», domandò Emily.
La
ragazza si compose, intrecciando le mani.
«Come
nell'ultimo caso, quando avremo una breve lista di sospettati
deciderete tramite il profilo chi, per voi, sia l'assassino. Mi
infiltrerò nella sua vita, in qualsiasi maniera, e cercherò
prove che vi permettano di incriminare suddetto S.I., poi il resto si
svolgerà come con il caso Olden.».
«Mi
sembra perfetto.», annuì Emily, sorridendo.
«Quando
atterreremo ci divideremo i compiti: Morgan, Prentiss voi andrete
sull'ultima scena del crimine; Reid, Rossi, voi andate all'obitorio,
fatevi dare una spiegazione accurata dal medico legale mentre JJ,
Sparks ed io andremo al commissariato.», spiegò Hotch,
guardando uno alla volta ognuno dei suoi Agenti e la nuova
collaboratrice.
Samantha
annuì.
«Quanto
tempo è passato tra una vittima e l'altra?», chiese
incuriosita.
«Laura
Randall è stata trovata il sedici Gennaio, Irina Isaac il
dieci Febbraio mentre Kimberly Dawson ieri, il diciassette Febbraio»,
recitò Reid, velocemente, ripetendo i dati che aveva letto su
un foglio adocchiato nello studio di JJ.
«Una
rapida escalation, l'S.I. è passato da ventiquattro giorni tra
un omicidio all'altro a solo una settimana.», grugnì
Morgan.
«Questo
significa che potrebbe esserci presto una nuova vittima. JJ, quando
arriviamo a Tucson indici una conferenza stampa, ragguaglia la
popolazione su un serial killer e di stare attenti e di evitare di
uscire soli di giorno, per quanto possa essere fastidioso l'S.I non
si muoverà molto facilmente se ci sarà un intero gruppo
di persone. Se deve rapire una donna, farà le cose per bene,
evitando di lasciarsi dietro testimoni scomodi o ulteriori
cadaveri.».
La
bionda annuì, appuntando il tutto su un block-notes.
«Ora
riposiamoci un po', abbiamo ancora qualche ora prima dell'arrivo a
Tucson, riprenderemo una volta arrivati in Arizona.».
Tutti
annuirono, disperdendosi in altri posti liberi del jet per restare un
po' soli e provare a dormire.
Reid
si alzò, appoggiandosi con le mani sui braccioli dei sedili
mentre si massaggiava il ginocchio destro, con una smorfia di
fastidio sul volto.
«Tutto
bene, Reid?», domandò Morgan, alzando un sopracciglio
guardando l'amico e collega, mentre tirava fuori dal suo bagaglio a
mano le cuffie del proprio mp3.
«Sì,
sì, solo un po' di fastidio. Chi vuole del caffè?»,
ripiegò Reid, con un piccolo sorriso, avvicinandosi alla
cabina di pilotaggio dove si trovava la macchina del caffè.
Samantha
gli lanciò un'occhiata, guardando il suo profilo esile mentre
versava nella tazza di caffè una quantità esagerata di
zucchero.
Nel
frattempo JJ si era sdraiata su un sedile lungo per riposarsi, Emily
guardava fuori dal finestrino osservando le nubi, Hotch e Rossi si
erano messi l'uno accanto all'altro, per discutere del caso,
ovviamente non pensavano di avere il tempo di riposarsi, loro, invece
Morgan ascoltava la musica, gli occhi chiusi.
Reid
si sedette nel posto che si era liberato di fronte a Samantha e le
porse un caffè che non aveva chiesto.
«Mmh...
Grazie.», disse lei, prendendola con una mano e avvicinandola
alle labbra rosee.
«Prego.»,
ricambiò lui, imitandola, mentre con una mano continuava a
massaggiarsi il ginocchio.
Samantha
inclinò il capo verso sinistra, come per osservarlo meglio,
mentre strizzava un poco gli occhi.
«Cosa
ti sei fatto?», chiese, accennando con il mento al ginocchio
del collega.
«Mi
hanno sparato al ginocchio.», iniziò a spiegare lui.
«Qualche mese fa, a volte torna a fare un po' male, ma spesso
non mi ricordo nemmeno quale ginocchio mi sia ferito.».
La
ragazza annuì mentre parlava.
«Mi
spiace.», disse.
«Non
è niente. Sai, le statistiche dicono che un Agente Federale ha
il settantasei percento di possibilità di rimanere ferito sul
campo.», citò come un'enciclopedia.
«Memoria
eidetica?», chiese ridacchiando lei.
«Come
fai a saperlo?», domandò Reid.
«Ho
sentito parlare di un certo Agente genio nella vostra Unità.»,
sorrise Samantha. «E ora ho scoperto chi è.»
Reid
arrossì appena.
«Era
un complimento.».
«Lo
so... Grazie.».
Samantha
gli sorrise appena, incrinando un poco gli angoli della bocca in su,
poi estrasse un libro dal proprio bagaglio a mano. Prima di iniziare
a leggere, alzò di nuovo gli occhi su Reid.
*
Tucson;
Arizona
«Agente
Mars? Sono l'Agente Speciale Derek Morgan, dell'Unità di
Analisi Comportamentale, e lei è la mia collega, l'Agente
Speciale Emily Prentiss.», fece le presentazioni il bell'uomo
di colore allo sceriffo di Tucson, un uomo sui quaranta dai capelli
corti e scuri e uno sguardo penetrante ma solcato da profonde
occhiaie e di rughe di preoccupazione.
«Oh,
Agenti, sono felice di conoscervi, anche se avrei preferito farlo in
alte circostanze.», disse, guardandosi intorno con aria
preoccupata. «Il resto della squadra?». Era chiaramente
preoccupato: non credeva che soli due agenti in più avrebbero
potuto cambiare la situazione. Emily lo comprese perfettamente.
«Ci
siamo divisi tra qui, l'obitorio e il commissariato.», spiegò.
«Ci rivedremo più tardi nel vostro ufficio.».
«Bene.
Perfetto. Beh, come sapete la vittima è Kimberly Dawson,
trentadue anni, lavorava in tre diverse case di famiglie benestanti
come governante e donna delle pulizie. Strangolata. È stata
stuprata.», riassunse velocemente lo sceriffo Mars.
«Prima
o post morte?», domandò Morgan.
«Stanno
facendo degli esami in questo momento, ma il medico legale
intervenuto sul luogo al momento del ritrovamento del cadavere disse
che gli pare fosse stata violentata dopo essere stata uccisa. Questo
vi dice qualcosa?».
«Probabilmente
è un uomo impotente o è convinto di esserlo, forse
condizionato dall'opinione di un ex fidanzata o una ex moglie. Il
nostro tecnico informatico sta facendo delle ricerche.»,
continuò Derek. Si avvicinò a un punto del terreno su
cui c'era un piccolo cartello della polizia con il numero uno
stampato sopra. «E' stata trovata qui?».
La
zona era un punto abbastanza trafficato, eppure il punto in cui era
stata trovata Kimberly era nascosto da una spessa parete di cespugli
che divideva la strada da un piccolo parco. L'S.I poteva
tranquillamente abbandonare un cadavere, sempre che il parco fosse
stato vuoto, senza che nessuno lo potesse vedere.
«Sì.»,
rispose lo sceriffo Mars, chiamando a sé un collega e, una
volta che questi l'ebbe raggiunto, consegnando a Morgan delle foto.
L'uomo le osservò attentamente, poi le passò ad Emily.
«Sono
state messe in posa», notò la donna, guardando bene
l'immagine del cadavere di Kimberly Dawson.
La
donna era sdraiata sulla schiena, le gambe dritte, le mani
posizionate attentamente sugli occhi, come un bambino che non vuole
vedere la scena di un film e si ripara con l'unica protezione che
crede possibile. Per il resto, il corpo aveva semplicemente un po' di
terra sparsa sulle vesti e i capelli spettinati.
«Rimorso?»,
domandò Emily, guardando il collega mentre restituiva le foto
allo sceriffo.
«No,
non direi. Se fosse stato rimorso le mani sarebbero state sul cuore,
oppure il corpo sarebbe stato girato sulla pancia. No, questo S.I. le
mette in posa come se volesse che le sue vittime non vedano chi è
stato ad ucciderle. Si nasconde.».
Mars
spostò lo sguardo dall'uno all'altro agente.
«Volete
andare in centrale oppure controllare qualcos'altro qui nei
dintorni?», domandò.
«Andiamo
in commissariato.», annuì Emily. «Qui non possiamo
fare altro.».
*
Il
primo caso di che era capitato sul tavolo di metallo di James Wilson
fu quello di uno strangolamento, quindi quando il corpo di Kimberly
Dawson arrivò in obitorio quasi non si stupì: sembrava
quasi palese che dovesse concludere la sua vita professionale nello
stesso modo in cui era iniziata.
Infilò
un paio di guanti in lattice e ne passò altre due paia a Rossi
e Reid, appena arrivati.
«Cosa
ci può dire?», domandò il primo, indossando i
guanti mentre osservava il cadavere bianco, nudo, ricoperto solo da
un velo della giovane donna.
«Beh,
dalle condizioni dello stomaco risulta che l'ultima cosa che ha
mangiato non è stata digerita, quindi, considerando che si
pensa che l'ora del rapimento sia avvenuta intorno alle dieci del
mattino, credo che sia morta circa un paio d'ore dopo.», spiegò
James Wilson, controllando la propria cartella medica. «La
morta è sopraggiunta per strangolamento da parte di una
cintura, sono rimaste delle tracce di fibre che ci indicano che sia
in cuoio ma nessuna impronta digitale. Evidentemente l'assassino
indossava dei guanti come stiamo facendo noi adesso. Non ci sono
tracce di tortura, a parte qualche piccola contusione che deve
essersi procurata dibattendosi a terra mentre veniva soffocata.».
Reid
annuì, guardando attentamente la ragazza stesa sul tavolo
davanti a sé.
«Non
ha trovato nessuna anomalia, quindi?», continuò Rossi.
«Assolutamente
no. A parte lo stupro post morte. Non ho trovato alcuna traccia di
DNA, chiunque abbia approfittato di lei avrà utilizzato un
anticoncezionale.».
Rossi
sospirò: avevano di fronte a loro un uomo organizzato, un S.I.
disorganizzato non avrebbe mai pensato di nascondere le proprie
tracce in quella maniera.
Mentre
osservava il giovane collega controllare con attenzione il corpo
della signorina Dawson, nella sua mente si stendeva velocemente un
profilo preliminare abbozzato: maschio, tra i trenta e i
quarant'anni, bianco, probabilmente reduce di una recente separazione
o divorzio, sessualmente impotente, organizzato.
Si
rese conto che in quella maniera aveva descritto più o meno la
metà degli abitanti di Tucson.
«Mi
scusi, dottore.». Rossi si riprese dai propri pensieri sentendo
Reid parlare mentre, chinato sul lato destro della ragazza, chiamava
il medico legale. «Da cosa è dovuto questo sangue?»,
domandò.
«Sangue?»,
chiese allibito James Wilson, inforcando il proprio paio di occhiali
e chinandosi nel punto indicatogli da Spencer. Solo allora notò,
incrostato, del sangue sulle pareti dell'orecchio destro di Kimberly.
«Non
l'avevo visto...», disse stranito il medico, prendendo degli
attrezzi da una cassetta e abbassando uno sgabello per arrivare alla
stessa altezza della parte insanguinata con più comodità.
Rossi
e Reid si scambiarono parecchie occhiate mentre questi cambiava
spesso oggetti ed esplorava l'orecchio di Kimberly.
«Rettifico
ciò che dicevo prima: c'è qualcosa di strano.»,
borbottò Wilson, piuttosto scosso.
«Cos'ha
trovato?».
«Non
so se sia lo stesso anche per l'altro orecchio, ma il timpano di
questo è stato bucato.».
«Bucato?»,
ripeté David, spalancando gli occhi.
«Con
un oggetto appuntito piuttosto affilato, sì.». James
Wilson si allontanò turbato dal cadavere di qualche passo.
«Posso chiedervi di uscire mentre continuo i miei esami? Avrete
tutto ciò che ho scoperto appena possibile.».
David
e Spencer ubbidirono, uscendo dalla stanza e buttando in un cestino i
guanti.
Rossi
doveva aggiungere un altro particolare al suo profilo: sadico.
«Sì,
capisco Reid, venite qui appena possibile, ne discuteremo di persona.
A tra poco.», disse Hotch, riattaccando il cellulare e
voltandosi verso JJ e Samantha che lo guardavano, la prima appoggiata
a una scrivania della centrale di polizia, mentre l'altra in piedi
rigida, la ventiquattr'ore ancora in mano.
«I
timpani di Kimberly Dawson sono stati perforati tramite un oggetto
appuntito.», spiegò l'uomo. «Dobbiamo riuscire a
scoprire se era così anche per Laura Randall e Irina Isaac.».
«Possiamo
chiedere alle famiglie se possiamo riesumare i corpi», propose
JJ, una mano appoggiata su un fianco mentre l'altra ricadeva
semplicemente lungo il suo fianco.
«Occupatene
tu, per favore. Agente Sparks, lei venga con me.», si rivolse
poi verso la mora che teneva le braccia incrociate al petto e si
stava guardando attorno. Questa annuì, seguendolo lungo i
corridoi della piccola centrale della polizia di Tucson.
«Vice
sceriffo Matthews?», disse Hotch ad alta voce, attirando
l'attenzione di un uomo che aveva da poco superato i trenta, i corti
capelli chiari e gli occhi verdi.
«Esattamente.
Voi siete gli Agenti dell'FBI, immagino.», rispose l'uomo,
alzandosi dalla sedia su cui era seduto mentre compilava delle
scartoffie e stringendo le mani ed entrambi.
«Io
sono l'Agente Speciale Supervisore Hotchner, capo dell'Unità
di Analisi Comportamentale, questa è l'Agente Samantha Sparks,
Infiltrata Speciale dell'FBI.», presentò Hotch,
indicando la collega. «L'addetta alle comunicazioni stampa,
Jennifer Jerau, sta facendo una telefonata, ci raggiungerà
presto; gli altri Agenti sono all'obitorio e sull'ultima scena del
crimine.».
«Sì,
mi è stato comunicato. Seguitemi, abbiamo sistemato un ufficio
per voi.», indicò loro una porta chiusa a vetri e li
fece accomodare. «Se avete bisogno d'altro, basta chiedere.».
«Grazie
mille, per ora va bene così.», rispose Hotch, guardando
la grossa bacheca che era stata messa a loro disposizione.
«La
macchinetta del caffè più schifoso dell'Arizona è
in fondo al corridoio.», aggiunse Matthews, con un piccolo
sorrisetto divertito. «Ora scusatemi, devo finire di firmare un
rapporto da consegnare entro un'ora e devo telefonare la
scientifica.».
«Grazie
della disponibilità», disse Samantha, parlando per la
prima volta in presenza del vice sceriffo.
«Dovere.».
Chinò il capo in cenno di saluto e si allontanò.
La
ragazza lo osservò allontanarsi lentamente, poi abbassò
il capo e tirò fuori dalla propria ventiquattr'ore una pistola
calibro 44.
«Come
pensa di muoversi?», domandò a questo punto, pensando
già alle varie tipologie da utilizzare con il Soggetto Ignoto
per estorcergli una confessione, chiunque esso sia.
«La
prego, chiamami Hotch.», disse Aaron, con un piccolo sorriso.
Samantha
annuì.
«Allora
tu chiamami Sparks, o Samantha. Niente Agente. Odio essere
etichettata con il mio nominativo lavorativo.»,
ribatté velocemente lei, scrollando le spalle.
Hotch
accettò.
«Le
famiglie di Irina Isaac e Laura Randall hanno accettato a far
riesumare i corpi.», disse JJ, entrando velocemente nella
stanza, il cellulare ancora in mano. «Chiedono se debba esserci
qualche familiare durante la riesumazione.».
«No,
devono semplicemente firmare dei documenti che gli spediremo via
fax.».
«Meglio
così, non apprezzavano l'idea.», disse la giovane madre,
scostandosi una ciocca bionda dagli occhi azzurri e mettendosela
dietro ad un orecchio. «Gli altri?».
«Arriveranno
a momenti.», replicò Hotch.
Samantha
si alzò e guardò fuori dalla grossa finestra che
illuminava l'ufficio.
«Pensate
che riusciremo a prenderlo prima che ci regali un altro cadavere?».
Né
JJ né Hotch risposero.
Continua...
Mi
scuso per il ritardo, ma non è stata una settimana facile e mi
sono completamente dimenticata di aggiornare. Chiedo venia.
Il
prossimo capitolo di Somewhere
in my mind
verrà postato presto, sto finendo di aggiustare le ultime
cose.
Spero
che questo capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere le vostre
opinioni! ;)
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3. ***
Capitolo
3.
La
somma dei dolori possibili per ogni anima è proporzionabile al
suo grado di perfezione.
{Henri
Frédéric Amiel}
«Ti
rendi conto di quello che mi stai chiedendo?», sbottò
Garcia al telefono con Reid, tamburellando le dita sui tasti del
proprio computer. «Tutti gli uomini divorziati di Tucson
nell'ultimo anno? Bambino, io faccio magie, non miracoli.».
«So
che la lista è piuttosto lunga...», ammise il giovane
genio, e sentì la donna ridere dall'altra parte della
cornetta. «Ma così ci faremo un'idea di chi può
essere il nostro S.I., ci serve per indirizzare l'Agente Sparks...».
«Hai
idea di quante persone vivano
a Tucson? Non rispondere!»,
aggiunse velocemente, conscia che Reid stava per darle la risposta
esatta. «Lo
farò, comunque, cioccolatino al latte. Ordunque, mentre le mie
creature lavorano, dimmi come si comporta Samantha.».
Spencer
si grattò il naso e si voltò, osservando il profilo
della giovane ragazza che discuteva con Emily e Morgan a proposito
del caso.
«Se
la cava bene, non può fare molto, al momento, ma sembra... a
posto. Competente.»,
disse velocemente.
«È
proprio una bella ragazza, Reid.», ridacchiò Garcia.
«Datti da fare sinché sei in tempo».
«Garcia!»,
esclamò il ventottenne, arrossendo.
«Oh,
comprendo, la maga dalle mille magie ti lascia, manderò i
risultati della mia ricerca non appena saranno disponibili, tesorino,
la lista è talmente lunga che i miei amori non hanno ancora
finito.», nella voce dell'eccentrica informatica c'era
fastidio. «È incredibile il numero dei divorzi in questa
città.»
«Statisticamente
una coppia su tre divorzia dopo appena tre anni di matrimonio»,
citò Reid.
«Il
matrimonio è superfluo. Ti lascio, amor. Garcia chiude!».
Reid
riattaccò il telefono e fece un sospiro, prima di raggiungere
il resto della squadra.
«Garcia
sta facendo delle ricerche, ci manderà i risultati non appena
sarà possibile.», dichiarò. «Aggiunge che
non ci aiuteranno, la lista è troppo lunga.».
«Ovviamente.»,
sbuffò Prentiss. «Come ci muoviamo?».
Hotch
dava loro le spalle, il viso concentrato sulla bacheca a loro
disposizione su cui avevano appeso le foto dei ritrovamenti di Laura,
Iris e Kimberly, i luoghi in cui erano stati trovati i cadaveri e una
foto di ciascuna di loro di quando erano ancora vive, i loro sorrisi
felici mentre abbracciavano i propri figli congelati in un momento
che non sarebbe più tornato.
«A
che ora sono state rapite le vittime?», chiese poi, voltandosi
verso la squadra.
«Tra
le dieci e le dieci e mezzo del mattino», dichiarò
Rossi.
«Gli
asili dei figli delle vittime non sono in centro città, ma in
periferia», iniziò. «Chiediamo a Garcia di fare un
confronto tra i risultati che avrà degli uomini divorziati
nell'ultimo anno e quelli che abitano o lavorano in un raggio di
trenta chilometri dagli asili.».
«Saranno
comunque decine di nomi, se non centinaia.», disse JJ, con tono
sconfitto.
«Lo
so, ma almeno restringeremo un poco il campo. Dobbiamo parlare con i
genitori delle vittime e i conoscenti; Sparks, ti unisci a noi?»,
si riferì a Samantha, che lo stava ascoltando con attenzione.
La
ventisettenne annuì.
«Certamente.».
«Perfetto,
Morgan tu ascolta i genitori di Laura Randall; Emily, tu quelli di
Iris Isaac; mentre tu, JJ, i genitori di Kimberly Dawson. Rossi, tu
ed io ascolteremo il fidanzato di Laura. Reid, Sparks, voi due il
padre biologico dei bambini di Iris Isaac.», dispose gli ordini
con serietà, dando un'occhiata all'orologio che teneva al
polso.
«Dovrebbero
essere già qui. Muoviamoci.».
*
Samantha
entrò nel piccolo ufficio in cui il vice sceriffo Matthews
aveva fatto accomodare Lance Gregors per prima e si sedette dietro la
scrivania.
«Signor
Gregors, io sono il Dottor Reid Spencer Reid, dell'Analisi di Unità
Comportamentali dell'FBI, lei è la mia collega, l'Agente
Sparks.», si presentò Reid, sedendosi accanto a Samantha
dopo essersi chiuso la porta alle spalle.
Lance
Gregors era un uomo alto, ben piazzato, che nonostante l'età,
che non doveva raggiungere i quaranta,
stava già iniziando a perdere i capelli sulla cute. Gli occhi,
marroni, erano umidi.
«Siamo
spiacenti per la sua perdita.», disse Samantha. Nonostante
Irina e Lance dovessero aver concluso la loro relazione da un po' di
tempo, ciò non significava che il dolore fosse minore.
Lance
annuì, scuotendo il capo con forza.
«Io...
Io non so cosa sia accaduto.», balbettò. «Mi hanno
detto che è stato un omicidio, ma non so altro. Vi prego,
potete... Mi spiegate cosa sia successo alla madre di mio figlio?».
Nei suoi occhi, ora, c'era determinazione.
«Signor
Gregors...», iniziò Reid, sporgendosi verso di lui.
«Irina è stata uccisa da quello che crediamo essere un
serial killer che ha iniziato ad uccidere nell'ultimo mese e mezzo
qui a Tucson, rapita e soffocata nell'arco di poche ore. Come sa, è
stata ritrovata in un parco non troppo lontano da qui.».
Lance
annuì, mentre una lacrima gli sfuggiva dagli occhi. Se la
asciugò velocemente, sperando che nessuno dei due Agente FBI
l'avesse vista.
«Avete
una pista? Un sospettato?», domandò.
«Stiamo
investigando, signore, siamo arrivati solo poche ore fa. Vorremmo
farle qualche domanda.», prese la parola Samantha, con tono
freddo e distaccato, ma allo stesso tempo affettuoso.
Era
meraviglioso sentirla parlare: sapeva essere capace di estrema
freddezza e allo stesso tempo convincere la persona con cui stava
parlando che andava tutto bene, che lei era lì per lui. Reid
si chiese se avesse studiato linguaggio per essere così brava,
oppure fosse nata con quella capacità innata.
Lance
fece un gesto con la mano che stava ad indicare un sì.
«Com'erano
i suoi rapporti con Iris?», domandò Reid, dopo aver
guardato Samantha per un breve istante.
«Com'erano?
Perfetti. Lei... lei era meravigliosa, capite? La donna più
grandiosa che abbia mai conosciuto. Andavamo molto daccordo. Noi...»,
iniziò a parlare, esitando sull'ultima frase.
«Sì?»,
domandò Samantha, con tono suadente, quasi ipnotico,
arrotolandosi una ciocca di capelli intorno all'indice della mano
destra.
Lance
la fissò ipnotizzando, prima di ridestarsi e abbassare gli
occhi velocemente.
«Noi...
eravamo amanti. Sapete, dopo esserci lasciati quando è nato
Benjamin – nostro figlio – abbiamo frequentato entrambi
altra gente. Abbiamo ricominciato a frequentarci l'anno scorso,
eravamo entrambi single, e... è successo. Semplicemente. Non
l'abbiamo detto a nessuno. Uscivamo, stavamo insieme, per vedere come
andava, sapete... Avevamo...», la sua voce si era ridotta a un
sussurro roco. «Avevamo appena deciso di tornare a vivere
insieme, avevamo deciso di riprovarci, capite? Per Ben... Per
noi...». Seppellì il volto tra le mani scoppiando in
pianto.
Reid
sembrava non sapere come muoversi e gli porse un fazzoletto,
gentilmente.
«Signor
Gregors, capisco che per lei non è il momento migliore, ma
dovrebbe rispondere a questa domanda: Iris le aveva parlato di
qualcuno che aveva appena conosciuto? O comunque un uomo che non le
aveva fatto una buona impressione? Con cui aveva avuto un diverbio?».
Lance
si asciugò le lacrime, mentre Samantha lo guardava, il capo
lievemente inclinato verso destra.
«Mi
disse di aver litigato con un nuovo associato dello studio legale in
cui lavorava, una brutta litigata. Ha cambiato studio legale a causa
sua. Non ricordo il nome.», disse Lance Gregors.
«Nient'altro.».
«Grazie
mille, signore.», lo ringraziò Samantha, con un sorriso
leale.
«A...
a voi. Abbiamo finito? Vorrei tornare da mio figlio, l'ho lasciato a
casa di mia sorella, non si è ancora reso conto di ciò
che è accaduto.».
«Naturalmente.
La preghiamo di non allontanarsi da Tucson finché non saranno
concluse le indagini, nel caso avessimo bisogno ancora della sua
collaborazione.», disse Reid.
Lance
annuì e si alzò, tamponandosi gli occhi umidi con il
fazzoletto.
Appoggiò
la mano sulla maniglia, per poi voltarsi di nuovo verso i due agenti.
«Lo
prenderete, vero?», domandò, e nella sua espressione
c'era disperazione.
Samantha
lanciò un'occhiata a Reid, che, però, fissava Gregors
tristemente.
«Faremo
il possibile.».
Lance
annuì, scrollando le spalle, e uscì, chiudendosi la
porta alle spalle.
Spencer
e Samantha rimasero un paio di minuti in silenzio, poi Reid si alzò,
passandosi una mano tra i capelli.
«Cosa
ne pensi?», gli domandò lei.
«Solo
che, ora come ora, non siamo in grado di restringere la cerchia di
sospettati», ammise, «e ho paura che avremo un altro
cadavere prima di quanto ci aspettiamo.».
«JJ
sta per fare una conferenza stampa», aggiunse però la
mora. «Forse non troverà presto una nuova vittima.»
«Non
credo la seguiranno in molte», disse Reid con aria infelice.
«Tu lo faresti? Una donna impegnata, single, con figli a carico
e tanti, troppi, impegni non ha il tempo di trovare pure un amico che
le faccia da accompagnatrice durante la giornata.»
A
questo Samantha non seppe ribattere.
*
«Al
momento non sono disponibili molte informazioni circa questo omicida,
vogliamo però allertare tutte le donne single con figli di
Tucson: l'assassino è un uomo, tra i trentacinque e i
quarant'anni di età, bianco, probabilmente una persona
attraente che stordisce le proprie vittime dopo averle attirate nella
sua trappola. Sin ora ha ucciso tre donne in un'età compresa
tra i trenta e i trentacinque anni di età, ripetiamo, single
con figli. Quest'uomo non bada né alle distinzioni
fisiologiche né alla razza. Invitiamo la popolazione, quindi,
a non uscire soli la mattina ma di essere sempre in compagnia,
possibilmente di un uomo o comunque più donne, e di non
sottovalutare assolutamente la situazione. Grazie per l'attenzione.».
Jamie
Hudson spense la radio da cui proveniva la voce di Jennifer Jerau e
infilò un CD, facendo partire una dolce melodia.
Era
infastidita, non facevano che mandare in onda quella conferenza
stampa dalla sera precedente, su tutti i canali televisivi e le radio
della città. Jamie si disse che l'FBI pretendeva troppo da una
semplice donna: come se tutte avessero a disposizione delle amiche o
un uomo per farle da baby-sitter tutto il giorno, tutti i giorni sino
a chissà quando! Bastava essere semplicemente stare attenti e
non sarebbe successo nulla, le donne che erano state uccise
probabilmente si erano lasciate abbindolare da un complimento. Questo
era ciò che succedeva, ad essere poco prudenti! Avere la
scorta in giro per la città non serviva a nulla se appena
qualcuno diceva “sei davvero una bella donna, ti piacerebbe
fare un provino per diventare modella?” si abboccava come pesci
all'amo.
No,
decisamente inutile, lei era perfettamente capace di cavarsela da
sola senza nessuno che la seguisse dappertutto. Aveva cresciuto una
bambina da sola per sei anni, senza molte risorse economiche, poteva
sopravvivere tranquillamente a una giornata di lavoro e a fare la
spesa nel supermarket sotto casa.
Sbuffò
mentre rallentava a un semaforo rosso e chiuse gli occhi ascoltando
le note dei Genesis che risuonavano dell'abitacolo della macchina,
mentre pensava a cosa doveva fare quel giorno: aveva appena
accompagnato Claire, sua figlia, a scuola, ora doveva passare dalla
tintoria in cui aveva lasciato un giubbotto a smacchiare che ormai
doveva essere pronto, e poi sarebbe potuta andare nell'ufficio legale
in cui faceva la segretaria.
L'ultimo
avvocato che era arrivato era insopportabile, estremamente
egocentrico e ottuso. Nessuno lo sopportava, aveva sentito che
un'avvocatessa si era trasferita in un altro studio legale proprio a
causa sua. Jamie non la conosceva, era stata assunta lì da
solo poche settimane.
Quando
al semaforo scattò il semaforo verde ingranò la marcia
e partì di nuovo, girando verso destra in direzione della
lavanderia e parcheggiando nel primo posto che trovò libero,
purtroppo un po' lontano dall'ingresso del servizio.
Non
appena scese dall'auto constatò che c'era qualcosa di strano,
sentiva nell'aria un odore acre, come di metallo, dolciastro, che le
fece arricciare il naso. Rimase ferma qualche secondo, guardandosi
intorno, le chiavi della macchina ancora in mano. Poi si ricordò
che lì vicino c'era una fabbrica di prodotti chimici e che
probabilmente la puzza proveniva da lì.
Si
incamminò verso la lavanderia, pensando all'appuntamento che
avrebbe avuto da lì a due sere: aveva
conosciuto quest'uomo, Ian, un dirigente educato e dai modi gentili
che semplicemente stravedeva per
sua figlia. Si frequentavano da un paio di mesi, ma Jamie se lo
sentiva che era l'uomo giusto. Dopo la fine della sua relazione con
il padre di Claire, fuggito a gambe levate una volta saputo che
sarebbe diventato padre, non aveva frequentato quasi nessuno. Ma
Ian... Ian era diverso, se lo sentiva nelle ossa.
Proseguì
la sua strada, quando si sentì chiamare.
«Aiuto!»,
urlò una voce maschile dietro di lei. Jamie si voltò in
direzione della voce, ma non vide nessuno. Nervosa, riprese a
camminare, più velocemente, pensando di esserselo immaginato.
«Aiuto,
per favore, qui!», urlò nuovamente la voce, questa volta
con più disperazione. «Aiuto! C'è qualcuno?!
Aiutatemi, per favore non riesco a muovermi!».
La
prudenza, il sesto senso del pericolo, l'istinto di sopravvivenza a
cui aveva pensato sino a poco prima Jamie la abbandonarono e si mise
a correre in direzione della voce.
«Sono
qui!», gridò, arrivando dietro al furgoncino dove le
sembrava di aver sentito la voce, rimanendo con la bocca semi aperta
non vedendo nessuno.
«C'è
qual...?», non poté finire la frase che sentì un
botto sulla nuca, seguito da un dolore lanciante alla testa. Si
accasciò a terra, con una smorfia di dolore, una lacrima che
le sfuggiva dagli occhi.
Dopodiché
fu solo il buio.
Continua...
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4. ***
Capitolo
4.
La
morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se
non si urla, vuol dire che si acconsente.
{Gesualdo
Bufalino}
«Trent'anni,
madre single di una bimba di sei anni, strangolata, con i timpani
bucati. Stesso modus operandi, è il nostro uomo.»,
snocciolò Morgan, chinato sul cadavere di Jamie Hudson mentre
intorno a lui si muovevano a decine tra poliziotti e medici della
scientifica.
«Ha
avuto un'escalation, prima aspettava ventiquattro giorni tra una
vittima e l'altra, poi una settimana ed infine solo due giorni.»,
sospirò tristemente Rossi. «C'è qualcosa di
diverso, in questa vittima?».
Derek
annuì e, indossando un paio di guanti in lattice, alzò
la camicetta della donna storcendo il naso.
Rossi
osservò la scritta incisa sul ventre della donna.
«Mai.»,
lesse. «Vorrà
intendere che non lo riusciremo a prendere.».
«Spero
solo che questo figlio di puttana si sbagli», sputò
Morgan. «Jamie Hudson ha cresciuto la figlia Claire da sola, il
padre non è segnalato nemmeno all'anagrafe, e non ha parenti a
cui possa andare la custodia della figlia. Dovrà essere
adottata.».
Jamie
era stata ritrovata il mattino dopo essere stata uccisa. Le
insegnanti di Claire, vedendo che non era andata a prendere la figlia
a scuola, l'avevano chiamata a lungo per ore, senza mai ricevere una
risposta. Solo verso sera la professoressa che aveva portato a casa
con sé Claire aveva chiamato la polizia, e il cadavere
ritrovato alle otto del mattino.
Rossi
sospirò e si voltò, osservando Emily che parlava
insieme a JJ con lo sceriffo Mars, visibilmente sconvolto dallo
svolgersi degli eventi.
«Reid
e Hotch?», domandò, notando la loro assenza.
«Credo
siano andati a parlare con i colleghi della vittima insieme a
Sparks.», disse Morgan, alzandosi, permettendo ai medici della
scientifica di poter portare in obitorio il corpo della donna.
«Non
capisco il senso di bucare loro i timpani... Di renderle sorde.»
Rossi
meditò a lungo.
«E
se fosse anch'egli sordo?», ipotizzò, senza crederci
troppo.
«E
si sfogasse sulle sue vittime rendendole anch'esse prive di udito
prima di ucciderle?», continuò Morgan.
«Esattamente.».
«Non
lo so», ammise Derek. «Non si capisce nulla, di questo
S.I.».
«Notizie
da Garcia?», domandò Rossi, allontanandosi al fianco del
collega per dirigersi verso il loro SUV.
«Ci
sono ottantasette nomi sulla lista che ci ha dato.», spiegò
Morgan. «Non possiamo restringere ulteriormente il campo, ora
come ora.»
David
si mise al posto di guida, passandosi nervosamente una mano tra i
capelli.
«Io
odio Tucson.», dichiarò, prima di accendere l'auto e
avviarsi verso la stazione di polizia.
*
Come
Reid, Hotch e Samantha varcarono le porte del “Law National
Studio” capirono immediatamente il tipo di luogo in cui si
trovavano. Quello era considerato da molti uno dei più
importanti – e costosi – studi legali di tutta l'Arizona.
Due
guardie armate li avevano perquisiti prima che potessero varcare la
soglia e, come avevano mostrato loro il distintivo, uno di loro era
andato a chiamare il dirigente.
«Gli
Agenti dell'FBI?», chiese una donna sulla cinquantina, i
capelli tinti di nero, vestita elegantemente, porgendogli la mano e
stringendola calorosamente. «Piacere, Susan Holmes».
«Io
sono l'Agente Speciale Supervisore Aaron Hotchner, loro sono il
Dottor Reid e l'Agente Sparks», fece velocemente le
presentazioni Aaron. «Signora, potremmo parlare in privato?».
«Ovviamente,
seguitemi.», disse Susan, dopo aver dato a ognuno di loro una
seconda occhiata, e facendogli strada lungo un corridoio dal
pavimento in marmo, riccamente decorato, conducendoli in un grosso
ufficio.
Susan
si sedette sulla poltrona dietro alla scrivania, aggiustando una
fotografia nervosamente, poi fece segno a Hotch, Reid e Samantha di
sedersi sulle comode sedie davanti a lei.
«Come
posso esservi utile?», chiese, intrecciando le mani.
«Signora
Holmes, lei conosce Jamie Hudson?», domandò Aaron, con
fare pratico.
«Ovviamente,
sì. È una segretaria, assunta solo tre settimane fa,
una cara ragazza, giovane. Sfortunatamente ha un difetto chiamato
“ritardo”», lanciò infastidita un'occhiata
al grosso orologio a pendolo dall'altra parte dello studio. «Ieri
non si è presentata al lavoro senza avvertire e anche oggi è
in ritardo, né ha avvertito che non sarebbe venuta.».
«Signora
Holmes, Jamie Hudson è stata uccisa ieri mattina.», la
interruppe Hotch, prima che Susan potesse riprendere a parlare.
La
dirigente si zittì immediatamente, serrando la bocca e
strabuzzando gli occhi.
«Oh.
Questo è... un vero peccato.», disse Susan, chiaramente
sorpresa e dispiaciuta. «Io... Ehm, come è morta?».
«Sospettiamo
sia la quarta vittima di un serial killer.», la informò
Reid, rimanendo sul vago.
«Ho
letto sui giornali, sì.», mormorò Susan,
alzandosi lentamente dalla sedia e avvicinandosi al distributore
d'acqua lì vicino e bevendone un gran sorso. Fece loro cenno
se ne volevano, ma tutti e tre scossero il capo.
«Signora
Holmes, Jamie Hudson ha avuto qualche problema qui al lavoro? Ha
litigato con qualche collega... Le pareva nervosa, irritata?»,
domandò Samantha, sempre con quella sua voce melodiosa e
insieme autorevole
Susan
annuì.
«Come
vi ho già detto, è stata assunta solo tre settimane fa,
non la conoscevo bene», iniziò, gesticolando, «ma
come tutti ha litigato con Sean O'Connor, un nuovo avvocato associato
qui allo studio. Una persona molto, molto difficile, credetemi, se
non fosse così bravo
nel suo lavoro non l'avremmo nemmeno assunto. Un nostro avvocato,
Iris Isaac, si è addirittura fatta trasferire nella sede
dall'altra parte della città a cau...», spiegò
Susan, salvo venir
prontamente interrotta da Hotch.
«Mi
scusi, ha detto Iris Isaac?», domandò Aaron,
trattenendosi appena dall'alzarsi dalla poltrona.
«Sì,
esattamente», ripeté Susan, avvertendo la tensione
palpabile creatasi tra i tre Agenti dell'FBI.
«La
seconda vittima.», pensò Reid ad alta voce, facendo
trattenere rumorosamente il fiato a Susan.
«Ir...
Iris è morta?», domandò la dirigente, portandosi
una mano al cuore, mentre gli occhi le si inumidivano di lacrime.
«Ci
perdoni, signora», disse Hotch, cercando di darla un minimo di
conforto con le parole.
«Lei...
io... oh, mio Dio», mormorò Susan, mentre le lacrime
scivolano lente, calde a inesorabili dal suo volto. «Lei... è
stata uccisa sempre da quest'uomo?».
«Sì,
signora», annuì Aaron.
«Oh
mio Dio», ripeté Susan Holmes, alzandosi aggrappandosi
ai braccioli della poltrona. «Io... io ho bisogno di stare
sola, mi spiace.».
«Certamente
signora, la capiamo. Torneremo questo pomeriggio per parlarle»,
disse Hotch, seriamente, alzandosi e congedandosi con un cenno del
capo.
Reid
e Samantha lo imitarono, seguendolo e chiudendosi la porta alle
spalle.
Hotch
era già al telefono.
«Garcia,
devi mandarci tutto quello che trovi a proposito di Sean O'Connor,
avvocato, lavora qui al “Law National Studio”.»,
stava dicendo velocemente attaccato alla cornetta, per poi
riattaccare il cellulare e infilandolo in tasca e voltandosi verso
Samantha e Reid. «Sparks, credo che ti abbiamo appena trovato
un sospettato.».
La
ragazza fece un sospiro di sollievo.
«Grazie
al cielo, mi stavo annoiando a morte!».
Continua...
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 5. ***
Capitolo
5.
[…]
finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la
maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri
o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè
fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo,
non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine
prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti?
{Luigi
Pirandello}
Una
donna dal fisico felino, i lunghi capelli mori tenuti stretti da una
pinza elegante che le conferiva un'aria sofisticata, le labbra
truccate attentamente con un rossetto rosso, una camicetta bianca e
un tubino beige attraversò l'atrio del “Law National
Studio”, facendo voltare verso di lei numerose occhiate
curiose, di cui la maggior parte mostravano un chiaro desiderio da
parte del pubblico maschile.
Samantha
muoveva il proprio corpo lentamente, adattando la camminata ai gesti
sensuali che stava facendo, come aggiustarsi il ciuffo dei capelli
volutamente sbarazzino.
Camminò
elegantemente sino agli ascensori e premette il tasto che l'avrebbe
portata al settimo piano, la ventiquattr'ore nella mano destra.
Mentre
saliva, sola nell'ascensore, si mise a canticchiare Emotional
Rescue, dei Rolling Stone,
tenendo il ritmo con la mano sinistra.
Quando
le porte si aprirono si ricompose e, riprendendo la camminata di
prima, si diresse verso l'ufficio che indicava il nome di Sean
O'Connor.
Prima
di bussare, prese in mano la targhetta che teneva sempre al collo e
vi stampo sopra un bacio, un vecchio rito che condivideva da quando
aveva iniziato a lavorare all'FBI e, dopo aver passato il dito indice
sull'incisione, bussò alla porta in legno su cui la targa
“Sean O'Connor – Avvocato Penalista” risplendeva
splendida.
«Avanti.»,
disse seccamente una voce d'uomo dall'altra parte della porta e
Samantha entrò, montando un bel sorriso gentile e
servizievole, ma allo stesso tempo seducente, per poi richiudersi la
porta alle spalle.
«Buongiorno,
signor O'Connor.», disse lei, avvicinandosi alla scrivania dove
era seduto l'avvocato e porgendogli una mano per stringergliela.
«Sono Elena Foster, la sua nuova segretaria personale, se ben
ricorda abbiamo parlato ieri pomeriggio.»
Sean
O'Connor ricambiò la stretta, la presa non molto salda. Era un
uomo vicino ai cinquantacinque anni, gli occhi piccoli e scuri, i
capelli corti attentamente curati di un moro particolare,
probabilmente tinto, la corporatura massiccia. Sarebbe stato
capacissimo di stordire una persona. Samantha se lo segnò
mentalmente.
La
ragazza gli porse il contratto da lei firmato che le era stato
mandato il pomeriggio precedente e lo appoggiò sulla
scrivania.
Sean
vi lanciò una piccola occhiata, prima di parlare.
«Certamente».
«Mi
dia un posto dove poter svolgere il mio lavoro e sono pronta per
iniziare, signore.», sorrise Samantha, mentre tentava di
mantenere sotto controllo l'antipatia che sentiva a pelle per
quell'uomo.
«La
scrivania qui fuori dalla porta.», disse Sean, guardandola,
passando con gli occhi sul suo corpo flessuoso e fermandosi più
volte sulle sue curve.
La
ragazza lo guardò. «Grazie mille, signore. Se mi dice
cosa posso fare, inizierei immediatamente a lavorare.».
«Torni
qui tra cinque minuti», sbottò l'avvocato, facendole
cenno di uscire.
Samantha
annuì e chinò il capo, come per ringraziarlo. Fuori dal
suo studio, sulla sinistra, c'era una grossa scrivania vuota con una
sedia in legno. Probabilmente, quella era appartenuta alla stessa
Jamie Hudson. La ragazza si sedette e appoggiò la propria
ventiquattr'ore sulla superficie in legno della scrivania, dopodiché
la aprì e tirò fuori una cornice argentata che ritraeva
un bambino sorridente.
Il
giorno prima lei, Hotch, Reid e Garcia avevano lavorato strenuamente
sino a tarda notte cercando di fare più ricerche possibili su
Sean O'Connor. Era venuto fuori che era divorziato da due anni e
separato da un secondo matrimonio conclusosi dopo soli cinque mesi.
Non aveva figli. Dalle ricerche era venuto a galla che si trattava di
un maschio alfa, con gravi scatti d'ira; aveva lavorato sempre come
avvocato, cambiando però spesso studio legale. Guadagnava
tanto e risparmiava poco. Sembrava ossessionato dal proprio aspetto
fisico, che curava recandosi in palestra quattro giorni a settimana,
seguito da un personal trainer, e aveva una passione per le macchine
sportive, i locali e gli orologi costosi.
Il
piano era quello che Samantha si sarebbe infiltrata nel suo ufficio
come segretaria personale - grazie all'aiuto di Susan Holmes che, non
appena aveva saputo che sospettavano di O'Connor, aveva dato la
propria disponibilità per partecipare alle indagini -
spacciandosi per una trentenne single con un figlio, Russel, a
carico. Padre assente. La foto era stata scattata il giorno prima, e
il bimbo ritratto non era altro che il figlio di uno dei poliziotti,
ritoccato un po' da photoshop.
L'unico
ostacolo era quello di far dimostrare a Samantha di avere trent'anni,
poiché di per sé ne dimostrava appena venticinque, ma
era un problema sorvolatile. Ora l'unica cosa su cui Samantha doveva
concentrarsi era una: far confessare O'Connor in qualsiasi maniera
possibile.
Mise
a posto qualche documento sulla scrivania, qualche penna in un
portapenne e, dopo aver bussato, si ripresentò da Sean,
esattamente cinque minuti dopo.
O'Connor
la guardò e fece un minuscolo sorriso di apprezzamento.
«Chiamami
l'avvocato Tyson allo Utah Insitute e me lo passi sulla linea 2,
inoltre voglio che mi trovi tutto ciò che puoi sul caso
Andersen negli archivi. E mi porti un caffè macchiato».
Quell'ultima richiesta, Samantha lo sapeva, era una prova: una
segretaria non doveva portare il caffè al capo come ordine, e
non molte avrebbero eseguito senza rispondergli male. Lei,
semplicemente, fece un sorriso.
«Con
o senza zucchero?», domandò.
Il
sorriso di Sean si fece man mano più grande.
«Due
cucchiaini.».
«Come
fatto.», disse lei, gentilmente, uscendo dall'ufficio, gli
occhi del suo capo puntati sul suo fondo schiena.
**
Samantha
lavorava come segretaria di Sean da due giorni e, in quel lasso di
tempo, non vi furono ritrovamenti di nuovi cadaveri. Questo fece
supporre alla squadra che l'S.I., se si trattava di O'Connor, aveva
già messo gli occhi sulla sua prossima vittima: e quella era
Samantha.
Ogni
sera, dopo il lavoro, la ragazza si fermava qualche minuto in più
oltre l'orario insieme a O'Connor, facendogli vedere quanto tenesse
al suo lavoro, dandogli anche la possibilità, nel caso, di
cercare di aggredirla dati gli studi vuoti, avendo in questa maniera
la prova per incriminarlo, oppure per farsi invitare fuori per un
drink, tale da poterlo ubriacare a magari farsi rilasciare una
confessione dopo molte avance.
Dopo
l'ufficio la ragazza andava nell'hotel in cui alloggiava insieme al
resto della squadra e facevano il punto della situazione. Ora come
ora erano tutti propensi a sospettare di O'Connor, anche se non
abbandonavano altre possibilità, anche se le loro ricerche per
ora non avevano portato ad ulteriori sospettati.
Era
la sera del terzo giorno di lavoro di Samantha, e la ragazza stava
sistemando gli ultimi archivi prima di andarsene. Prima di uscire
bussò alla porta chiusa di O'Connor e quando ricevette
risposta la aprì.
«Signor
O'Connor, io andrei. Buona notte.», disse, con un gran sorriso.
Sean
era chino sui suoi documenti, ma come la sentì entrare voltò
lo sguardo verso di lei.
«Aspetta,
Elena.», la richiamò, vedendo che stava per uscire.
Chiuse i documenti in un cassetto a chiave e si avvicinò a
lei.
Samantha
non gli aveva mai detto che poteva darle del tu, era un lusso che si
era preso da solo, ma lei non si lamentava.
«Mi
dica.», disse.
Sean
richiuse la porta e istintivamente l'agente infilò una mano
nella tasca destra dove teneva un coltellino.
«Vuoi
uscire a cena con me, questa sera?», domandò.
Samantha
lo guardò qualche secondo, mentre dentro di sé pensava
che era il piano perfetto, il momento che stava aspettando.
«Con
molto piacere, signore», commentò lei, ingrandendo
sempre più il sorriso.
«Chiamami
Sean», disse lui.
«Come
vuoi, Sean. Devo passare a casa a cambiarmi e a lasciare mio figlio
da mia sorella, dove ci incontriamo e a che ora?», chiese lei.
«Al
Lime Night, sulla Ventisettesima Strada. Diciamo... alle otto?».
Samantha
annuì e uscì dall'ufficio, afferrò la propria
borsa e si diresse lentamente verso l'ascensore, chiamandolo.
Nel
parcheggio riservato ai dipendenti era rimasta solamente la sua auto,
una vecchia Ford datele a disposizione dalla polizia, e la bella
Ferrari rossa nuova fiammante di O'Connor. Non appena salì il
suo sorriso si sciolse e digitò il numero di JJ al telefono.
«Tirami
fuori un abito da sera dall'armadio, per favore. Questa sera si va a
ballare.»
*
«Sei
sicura?», le aveva chiesto Rossi mentre Samantha si preparava
ad uscire dall'albergo sola, con una rivoltella infilata nella
piccola borsa che si sarebbe portata con sé. Rossi si era
offerto di rimanere insieme a Morgan o Prentiss con lei a spiare
O'Connor ed intervenire in caso di necessità.
Samantha
aveva annuito, sicura della sua decisione.
«Sono
abituata a lavorare in questo modo. Vi chiamerò se ci sarà
bisogno d'aiuto. Voi state pronti.» ed era uscita, lasciando
David con l'asciutto in bocca e una brutta sensazione allo stomaco.
Al
contrario, lei era tranquillissima. Aveva lavorato con individui ben
peggiori di Sean, e sapeva perfettamente che l'unica cosa che voleva
O'Connor era una: il sesso.
Era
sempre riuscita a tirarsi indietro da simili avance dei suoi
sospettati, facendo la preziosa, cosa che li mandava insieme sia
fuori di testa sia arrabbiare. In questa maniera, si era beccata un
paio di schiaffi ma fortunatamente nulla più.
Salì
sulla Ford e guidò sino al Lime Night con molta calma, mentre
nell'abitacolo risuonava un CD di Kate Bush. Sapeva che,
probabilmente, a meno che Sean non avesse provato subito ad
aggredirla, non ci sarebbe stato modo di estorcergli alcun tipo di
informazione, non quella notte. Era troppo preso. Avrebbe dovuto
aspettare ancora qualche giorno prima di riuscirci.
Il
suo lavoro era così, calmo e metodico, e Samantha era
perfettamente consapevole che bisognava avere una solida preparazione
psicologica per affrontarlo; quanti avrebbero avuto la solidità
di nervi di non puntare a fine serata una pistola alla tempia del
sospettato dopo aver passato un'intera serata a parlare solamente di
sciocchezze e flirtare? Quanti sarebbero riusciti a quasi avere un
rapporto sessuale con un probabile pluriomicida, sapendo
perfettamente ogni cosa che faceva alle sue vittime?
Samantha
era stata formata per quel lavoro, da quando aveva sedici anni aveva
deciso che doveva fermare persone come i serial killer, doveva
fermare i cattivi, ma non solo lavorando a distanza da loro,
avendo con loro un confronto solo in occasione dell'arresto, o
dell'interrogatorio. No, lei voleva essere lì mentre
confessavano di aver distrutto intere vite umane, voleva essere lei
a far loro ammettere di essere dei mostri.
E
ci era riuscita. E amava il suo lavoro, per quanto sporco e schifoso
a volte potesse essere.
Sospirò,
mentre parcheggiava davanti al locale e spegneva l'auto. Mancavano
esattamente due minuti alle otto.
Con
un sorriso raggiante scese dalla macchina, lasciando che l'abito nero
che JJ le aveva scelto le accarezzasse le gambe snelle sino a metà
coscia. Afferrò la propria borsetta e, camminando con le sue
scarpe quasi vertiginose, entrò nel locale dopo essersi fatta
aprire la porta da un bodyguard.
Il
Lime Night era un piccolo bar dalle luci colorate tendenti al blu e
al verde soffuse, molto elegante e, Samantha ci scommetteva,
altrettanto costoso. Non era entrata da nemmeno quindici secondi che
un cameriere giovane, vestito di tutto punto, le si avvicinò
con un sorriso a trentadue denti.
«Posso
esserle utile, signorina?», domandò servizievole.
Samantha
annuì, sfilandosi il lungo giubbotto in tinta con il vestito e
consegnandoglielo gentilmente.
«Sto
cercando Sean O'Connor», disse poi.
«Oh,
la signorina Foster! Prego, mi segua.». L'uomo si mise il
cappotto sottobraccio e le fece strada sino a un separé
piuttosto appartato in cui era seduto Sean O'Connor.
«Buona
serata.», augurò loro il cameriere, prima di lasciarli
soli.
«Ciao,
Sean.», disse Samantha, avvicinandosi al suo capo e questi, non
appena udì la sua voce, si alzò dal divanetto su cui
era seduto e le sorrise.
«Elena.»,
mormorò, prendendole la mano destra e baciandola. «Sei
bellissima».
«Grazie,
anche tu», ricambiò Samantha, abbassando il capo
fingendo di essere imbarazzata per il suo complimento. Dirgli che era
bello era già un punto a suo favore, O'Connor era un maschio
alfa e avere la certezza della sua bellezza fisica gli dava
rassicurazioni.
«Sei
perfettamente puntuale.», sorrise Sean, compiaciuto.
«Non
amo fare la preziosa arrivando volutamente in ritardo», spiegò
la ragazza sedendosi accanto all'uomo, toccandosi i lunghi capelli.
O'Connor
deglutì, probabilmente quel gesto aveva innescato in lui
chissà quale reazione.
Samantha
si voltò verso di lui, una mano straordinariamente vicina alla
sua gamba, puntando i suoi grandi occhi blu in quelli di Sean.
«Ordiniamo
da bere?», domandò volutamente a bassa voce e l'uomo
annuì velocemente. Samantha si rese conto in quel momento che,
nonostante l'età che avanzava, Sean conservava ancora un certo
fascino giovanile e, ne era sicura, sul suo viso non c'era traccia di
lifting.
Afferrò
con una mano il menù degli alcolici, sporgendosi volutamente
verso di lui lasciando intravedere per pochi secondi la scollatura
dell'abito.
O'Connor
distolse lo sguardo e prese a sua volta un menù, svogliandolo
attentamente, cercando di non farsi vedere mentre, a tratti, con la
coda degli occhi la guardava.
«Io
ordinerei una vodka lemon.», disse la ragazza. «Tu?».
«Un
mojto.», borbottò, chiudendo il menù e tornando a
fissarla. «Spero che tu non abbia avuto qualche problema a
lasciare tuo figlio da qualche parte con così poco
preavviso.».
Stava
spezzando il ghiaccio. Era una buona cosa.
Samantha
sorrise.
«Affatto.
Mia sorella, Annika, è stata molto disponibile,
fortunatamente».
«Com'è
che si chiama tuo figlio, scusami?».
«Russel.».
«Splendido
nome.», disse Sean, inarcando gli angoli della bocca in su.
«Immagino sarà un bellissimo bambino.».
Samantha
ridacchiò, scostandosi una ciocca di capelli e sistemandosela
dietro un orecchio.
«Molto.».
«Avrà
preso tutto dalla mamma.», la adulò Sean.
«Oh,
Sean, così mi fai arrossire!», mormorò lei,
acuendo leggermente il tono di chi è imbarazzato.
«E
invece dimmi, il padre?».
«Il
mio ex compagno non ne ha voluto saperne di prendersi simili
responsabilità quali un figlio. Ma non c'è problema: si
è perso cinque anni di gioie», disse lei, muovendo una
mano mentre parlava mentre l'altra era sempre pericolosamente vicina
a una gamba del suo capo.
Sean
adocchiò la mano della sua sottoposta e sorrise.
«Mi
spiace.», disse.
Samantha
scrollò le spalle.
«Non
importa. Russel ed io ce la caviamo bene comunque. Ma ora, dimmi
qualcosa di te: hai figli?».
Sean
stava per iniziare a parlare, quando un cameriere, lo stesso che poco
prima aveva accompagnato Samantha nel separé, chiese loro le
ordinazioni, per poi sparire di nuovo.
«No.»,
riprese l'avvocato. «Non ho figli, anche se mi piacerebbe.».
Samantha
cercò di nascondere per un istante la sorpresa a
quell'affermazione.
«Non
hai ancora trovato la donna giusta per mettere su famiglia?»,
domandò fingendosi ignorante riguardo alla sua vita privata e
sorseggiando un goccio di vodka. Solitamente gli agenti non dovevano
bere quando erano in servizio, ma oltre al fatto che sarebbe sembrato
strano non ordinare un alcolico in un locale, Samantha riusciva a
sopportare benissimo l'alcol.
«Sembrerà
banale, ma sì.», disse Sean, aprendo le braccia
lasciandole poi ricadere lungo i fianchi. «Le mie ex mogli
erano troppo preoccupate alla propria forma fisica per rischiare di
perderla con una gravidanza.».
Man
mano che parlava Samantha tentava sempre più di tenere a bada
la sorpresa; quell'uomo, dalle sue parole, sembrava essere capace di
avere figli. Quindi non era impotente. Non si adattava al profilo.
A
meno che non mentisse.
«Oh,
sei stato sposato più volte?», chiese lei, continuando a
bere il proprio drink. Sean la imitò.
«Sì,
due. Non erano quelle che mi aspettavo che fossero.».
La
ventisettenne lo stava del tutto rivalutando e più era al suo
fianco più si rendeva conto che quell'uomo non si adattava
affatto al profilo. Avevano sbagliato strada, il fatto che Iris Isaac
e Jamie Hudson avessero avuto entrambe dei contatti con lui era, per
una volta, una mera coincidenza.
Chinò
il capo sconfortata socchiudendo gli occhi per lo sconforto mentre
O'Connor, ormai, parlava della sua vita, dei suoi soldi, della sua
famiglia e della propria persona.
Era
arrogante, un maschio alfa, narcisista, certo, ma non era l'S.I.
«Tu
hai preso qualche precauzione?», le domandò un'ora e
cinque drink più tardi, intontito per la quantità
d'alcol assunta senza nemmeno mandare giù un pezzo di pane.
«Di
che genere?», chiese Samantha, che era ancora a metà del
terzo alcolico e si sentiva perfettamente lucida.
«Per
il serial killer di quest'ultimo mese.», disse Sean, un braccio
ormai totalmente intorno alla vita della ragazza.
«So
cavarmela da sola.», ribatté lei.
«Non
dovresti affidarti solo a te stessa.», disse O'Connor. «Sono
morte tante donne.».
«Lo
so.», annuì tristemente l'agente. «Lo so.».
«Due
di loro lavoravano con me.», continuò lui.
«Un'avvocatessa... e la segretaria prima di te. Uccise
entrambe. Forse il nostro studio legale è maledetto, chissà.»,
buttò giù di un solo fiato l'ultimo sorso della sua
vodka e si asciugò la bocca con la manica della camicia.
«Non
credo al sovrannaturale.», disse Samantha.
Sean
annuì, comprensivo.
«Dimmi,
Sean, tre giorni fa, alle dieci, dov'eri?», domandò la
ragazza, rendendosi conto che poteva fargli quella domanda senza il
rischio che il mattino dopo l'uomo se ne ricordasse, e se avesse
fatte domande ora come ora poteva benissimo confonderlo con una bugia
di poco conto.
«In
ufficio, che domande!», singhiozzò lui. «Come
mai?».
«Credevo
di averti visto in un supermercato vicino a casa mia...», disse
lei, mentendo.
«Ah»,
fece lui, avvicinando il proprio capo a quello della ragazza e
iniziando a baciarle il collo. Samantha lo lasciò fare,
chiudendo gli occhi. Ora ne aveva la certezza: Sean O'Connor non era,
nel modo più assoluto, l'S.I.
Quando
la mano destra dell'avvocato si fece più molle e scivolò
sino al seno della ragazza, Samantha scosse il capo.
«È
ora che io vada.», disse. «Si è fatto tardi.».
Sean
grugnì seccamente.
«Mi
spiace. Devo andare a prendere Russel.», insistette Samantha,
vedendo che Sean non accennava a volersi alzare. «Forse è
meglio che ti chiami un taxi...».
«No,
sono perfettamente capace di tornare a casa da solo»,
sbottò lui. Arrogante, giusto, non bisogna ferire il suo
orgoglio, ricordò la ragazza.
«Va
bene.», annuì lei, alzandosi e chinando il capo su di
lui dandogli un bacio a fior di labbra. «Ci vediamo domani
mattina, capo.».
Sean
O'Connor annuì, con un sorriso arricciato sulle labbra
sottili.
Samantha
si fece portare il proprio cappotto dal cameriere, lasciò una
banconota da trenta dollari sul tavolo, e si allontanò,
dirigendosi verso l'uscita, voltandosi soltanto una volta per
osservare l'avvocato.
Non
l'avrebbe rivisto mai più, lo sapeva benissimo.
Continua...
Posterò
“Somewhere in my mind” in settimana. :)
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Capitolo 7 *** Capitolo Sei. ***
Eccomi
di nuovo anche con questa storia. Scusate anche qui per il ritardo.
D:
Ho
cancellato il capitolo che avevo precedentemente postato perché
avevo saltato erroneamente un capitolo, ovvero questo.
Così le cose dovrebbero essere più chiare... (:
Spero
vi piaccia! <3
Capitolo
6.
Gli
occhi molto belli sono insostenibili, bisogna guardarli sempre, ci si
affoga dentro, ci si perde, non si sa più dove si è.
{Elisa
Canetti}
Samantha
si passò il cotone imbevuto di struccante sugli occhi
lentamente, mentre il mascara, la matita e l'ombretto sparivano pian
piano, lasciandole qualche macchia sul viso che fu prontamente
ripulita dalla mano agile della ragazza.
Era
tornata in albergo da più di un'ora e, come era entrata, aveva
convocato una riunione con i membri del B.A.U., riferendo loro i suoi
sospetti secondo i quali Sean O'Connor non fosse l'S.I. Avevano
discusso a lungo e una volta finito erano giunti tutti alla
conclusione che l'avvocato non poteva essere il colpevole. Era un
narcisista arrogante, certo, ma non un uomo impotente abbandonato
dalla moglie.
Solo
verso l'una erano risaliti ognuno nella propria camera, dandosi
appuntamento alle sette del mattino nell'atrio dell'albergo per
andare alla centrale della polizia.
Ora,
Samantha si era tolta l'abito che aveva utilizzato durante la serata
ed era avvolta semplicemente nella sua camicia da notte, i lunghi
capelli mori che le accarezzavano la schiena.
Prese
il proprio cellulare per installare la sveglia alle sei del mattino e
sbuffò: aveva ancora cinque ore di sonno. L'unica cosa a cui
non si era mai abituata – e probabilmente non ci sarebbe mai
riuscire – era dormire poco. Sin da ragazzina era stata una
ragazza che necessitava di almeno otto ore di sonno al giorno. Da
quando era entrata all'FBI, ovviamente, questa condizione era
drasticamente cambiata.
Sospirò
e fece per infilarsi sotto le coperte del proprio letto quando sentì
qualcuno bussare alla porta.
«Sì?»,
domandò, nascondendo il tono seccato della propria voce.
«Ehm,
Samantha, sono io, Reid.», disse una voce maschile dall'altra
parte, un po' incerta.
«Oh,
è successo qualcosa?», domandò la ventisettenne
mentre si avvicinava velocemente a una sedia su cui aveva abbandonato
la propria vestaglia e infilandosela prima di aprire la porta.
Reid
era vestito così come lo era da quella mattina, e aveva una
strana espressione confusa sul volto.
«Avete
scoperto qualcosa?», chiese la ragazza, stringendosi il più
possibile nella vestaglia leggera.
«Ehm...
no, no. Volevo parlare con te... Posso?».
Samantha
lo osservò insieme curiosa e confusa per qualche secondo, poi
gli fece spazio per farlo entrare. Reid entrò nella camera con
aria incerta, guardandosi intorno nervosamente mentre la ragazza si
richiudeva la porta alle spalle.
«È
tutto okay?», domandò lei, facendogli segno di sedersi
sul piccolo tavolo tondo in mezzo alla stanza.
«Sì...
sì... Non voglio disturbarti. Vuoi che parliamo un'altra
volta? Magari vuoi dormire...», disse lui.
Samantha
scosse il capo, mentendo, incuriosita dal giovane uomo che le stava
davanti.
Reid
si sedette dove gli era stato indicato, sospirando. Se doveva essere
sincero, non aveva veramente idea del motivo che l'aveva spinto ad
andare nella camera d'albergo di una pressappoco sconosciuta all'una
e mezzo del mattino. Sapeva solo che quella ragazza lo affascinava in
un modo strano ed era incuriosito da lei, dal suo lavoro, dal suo
modo di fare, dai suoi gesti e dal suo comportamento. Non sapeva se
ormai quella di Samantha fosse deformazione professionale e riuscisse
ad incantare molti – se non tutti – gli uomini con cui
aveva contatto oppure era semplicemente lui ad essere incuriosito da
lei.
Gli
suonava strano pensare alla parola attrazione.
Raramente nella sua vita era stato attratto da una ragazza ma, lo
sapeva, mai come con lei.
Per
una volta non sapeva dare una spiegazione logica a ciò che gli
passava per la testa.
Si
disse che la sua era solo stanchezza e basta.
«Sei
sicuro di star bene?», domandò ancora la ragazza.
«Sì.
Io sì, sto bene...», fece lui, battendo il piede per
terra per il nervosismo. «Volevo... solo parlare.».
«Parlare.»,
ripeté la ragazza.
«Parlare»,
affermò Reid, con più convinzione.
«Beh,
parliamo, allora.», gli sorrise Samantha, per nulla
infastidita. Quel ragazzo le piaceva*, era incuriosita da lui e dal
suo modo di fare, dal suo cervello.
Rimasero
qualche minuto in silenzio a guardarsi, lui perso negli occhi
talmente blu di lei e Samantha intenerita da quelle due pozze da
cerbiatto di Reid.
«Hai
mai paura di morire?», domandò infine il ragazzo,
tenendo il capo chino sulle mani che teneva strette sopra il tavolo,
per poi alzare il capo verso di lei.
Samantha
lo fissò, spiazzata dalla domanda. Non gliel'aveva mai chiesto
nessuno.
«No.»,
disse lei, non totalmente sincera. C'erano delle volte in cui aveva
paura di morire, di perdere tutto, ma raramente. Molto raramente.
Reid
la fissò incuriosito.
«Tu?».
«Sì»,
ammise lui. «Sì. Come fai a non aver paura della
morte?».
«Prima
o poi tutti moriamo, Reid. Che sia oggi, o tra sessant'anni moriremo
tutti. È un fatto. Ed ora come ora non mi cambierebbe molto
morire.».
«Nessuno
di noi due ha ancora avuto il tempo di vivere.», commentò
lui tristemente.
«È
vero. Ma se dovessi morire, che so, domani mattina, non avrei nessuna
faccenda in sospeso... Certo, ad eccezione della risoluzione di
questo caso.».
«Non
hai una famiglia?», domandò Reid, rendendosi conto solo
dopo aver parlato che non era una domanda opportuna.
Samantha
si stiracchiò la schiena dopo aver serrato le labbra per un
decimo di secondo, che però Reid notò ugualmente.
«Mio
padre è morto quando era una ragazzina, mentre mia madre...
mia madre non sentirebbe la mia mancanza.», dichiarò
poi, piuttosto seccamente anche se non di sua totale intenzione. Già,
sua madre, non poteva dirgli che Daisy Sparks, vedova del generale
Ronald Sparks, figlia di due ex membri del Congresso di Washington
D.C. era vittima di una malattia priva di cura a causa della quale
non la riusciva nemmeno a riconoscere: l'Alzheimer. L'aveva contratto
cinque anni prima ed era andato peggiorando ogni anno di più.
Ormai, quando Samantha andava a trovarla nella casa di cura in cui
era ricoverata, Daisy la scambiava per una delle infermiere che le
portavano il pranzo.
Reid
arrossì.
«Mi
spiace, non dovevo chiedertelo.», mormorò.
«Non
potevi saperlo.», disse Samantha, con tono gentile, con una
frase degna di un cliché che si rispetti.
Reid
si strinse nelle spalle, appoggiando la schiena allo schienale della
sedia e passandosi una mano tra i capelli.
«Se
devo essere sincera, Spencer, non capisco perché tu ti
preoccupi della morte in questa maniera.», ammise Samantha.
«Siamo giovani...».
«Guarda
il lavoro che facciamo.», disse il ragazzo, sorpreso dal fatto
che la ragazza l'avesse chiamato per nome.
«Guarda
il lavoro che facciamo, quello che vediamo tutti i giorni... L'ultima
volta che ho rischiato la vita è stato poco più di
cinque mesi fa, e non so quante volte sia capitato a te.».
«Vuoi
dire che il tuo lavoro non ti piace?».
«No,
ti sbagli, io amo il mio
lavoro. Ma a volte vorrei semplicemente, sai, una pausa. Staccare per
un po'.».
«E
allora fallo.».
Reid
non rispose. Non era così semplice, non voleva dare l'idea di
essere debole, anche se non lo dava a vedere già il fatto di
essere il più giovane della squadra aveva un suo peso, ma
dimostrare che non riusciva a tenere il passo degli altri era
un'altra storia.
«E
comunque, se vogliamo vedere il lato positivo, morire è una
delle poche cose che si possono fare stando sdraiati.», disse
Samantha, alzandosi e prendendo dal mini-frigo due bottigliette
d'acqua e porgendone una al ragazzo.
Reid
sorrise.
«Woody
Allen.».
«È
il mio modello.», ridacchiò la ventisettenne,
scostandosi i capelli dagli occhi.
«Anche
se non è teoricamente giusto, si può morire stando in
piedi a causa di un infarto fulminante, una pallottola, oppure
seduti, o anche...», prese a raccontare a manetta il giovane
genio.
«Dio
mio, come sei pignolo.», rise Samantha, scuotendo il capo.
Reid
sorrise ancora, per poi aprire la bottiglietta d'acqua e
sorseggiandolo un po'.
«L'S.I.
che stiamo cercando, quanto pensi aspetterà prima di uccidere
di nuovo?», domandò la ragazza dopo qualche minuto di
silenzio.
Spencer
sospirò, appoggiando la bottiglietta sul tavolo.
«Ho
fatto un calcolo delle probabilità.», disse. «Il
33% delle statistiche dicono quattro giorni, il 7% una settimana
mentre il 60% un giorno.», recitò.
Samantha
non parlò subito.
«Sono
solo statistiche senza delle vere basi per confrontarle però,
no?», mormorò lei. «Non è detto che quel
60% sia corretto.».
«No,
infatti», la assecondò lui.
Nessuno
dei due ci credeva veramente.
«Della
tua famiglia, invece, cosa mi racconti?», chiese Samantha,
quasi mezz'ora più tardi e le lancette dell'orologio
sfioravano le due e trenta del mattino.
«Sono
figlio unico. Mio padre... Beh, mio padre se n'è andato di
casa quando ero un bambino e non l'ho più rivisto se non sino
all'anno scorso, per un caso di omicidio. Credevo fosse l'omicida e
invece... Stava solo cercando di proteggere mia madre, che era
rimasta coinvolta senza esserne a conoscenza. Mia madre», si
bloccò, facendo un respiro. «Mia madre è una
paranoide schizofrenica.».
Samantha
lo fissò un solo secondo, per poi trasformare il proprio bel
viso in una maschera di comprensione.
«Non
eri tenuto a dirmelo.», disse, con tono gentile.
«Che
senso ha nasconderlo? È così, ci ho convissuto tutta la
vita, non ha senso continuare a tenerlo nascosto.», replicò
Reid.
Samantha
cercò nei suoi un segno di tristezza, di cedimento. Trovò
solo una luce di chi ormai si è arreso all'evidenza.
«Mia
madre soffre d'Alzheimer.», disse velocemente, senza veramente
accorgersi di ciò che stava dicendo. Fu tentata dal desiderio
di coprirsi la bocca con una mano, ma non lo fece solo per una grande
determinazione.
Spencer
strabuzzò leggermente gli occhi.
«Mi
dispiace.», balbettò.
Samantha
scrollò le spalle.
«Non
importa. Volevo solo farti capire che so che cosa significa avere un
genitore malato. Tutto qui.».
Reid
le sorrise riconoscente e lanciò un'occhiata al proprio
orologio.
«Sono
le tre!», esclamò stupito. «È meglio se ti
lascio dormire qualche ora. Mi spiace di averti tenuta sveglia.».
«Non
fa niente, mi ha fatto piacere chiacchierare con te», gli
sorrise sinceramente alzandosi inconsciamente elegantemente.
Spencer
si alzò, forse troppo velocemente, sentendo una fitta al
ginocchio ferito facendo una smorfia di dolore che non sfuggì
alla ragazza.
«Stai
bene?», domandò preoccupata.
«Sì,
sì, devo solo... Limitare i movimenti bruschi», le
sorrise per farle capire che andava tutto bene.
Samantha
lo accompagnò alla porta e la aprì, aspettando che il
ragazzo uscisse e sfiorandogli la schiena
con una mano mentre lo accompagnava. Spencer rabbrividì appena
a quel contatto.
«Ci
vediamo tra quattro ore.», gli sorrise Samantha, inarcando
appena gli angoli della bocca.
«Grazie
per avermi ascoltato», replicò lui. «Buonanotte.»,
fece per allontanarsi, zoppicando appena, quando fu richiamato dalla
voce soave della ragazza.
«Ehi,
Spencer, se vuoi parlare anche domani sera, io sono qui!», lo
disse velocemente, insieme conscia e inconscia delle proprie parole.
Ma quando finì di parlare il suo sorriso si fece più
raggiante.
Reid
si voltò e annuì, felice.
Continua....
*
con “quel ragazzo le piaceva” non intendo dire a livello
sentimentale, come una specie di cotta, bensì più che
altro amichevolmente, Samantha trova Reid una persona gradevole,
gentile. Probabilmente l'avrete capito ugualmente, ma volevo fare
chiarezza perché non mi sembrava che quella parte fosse
spiegate benissimo.
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Capitolo 8 *** Capitolo 7. ***
Capitolo
7.
Quando
la sveglia suonò Samantha la spense con un gesto secco e
nascose la testa sotto il cuscino, gemendo. Per i successivi cinque
minuti provò a cercare qualche ragione per cui avrebbe dovuto
alzarsi così presto, omettendo quella di un serial killer che
stava uccidendo delle giovani donne.
Si
alzò, trascinando i piedi sino al bagno e si legò i
capelli in una crocchia disordinata, buttandosi poi sotto la doccia
cercando di non bagnare i capelli: non aveva il tempo per asciugarli.
Si
vestì piano, con gli occhi chiusi, sentendo il tessuto degli
abiti accarezzarle la pelle lisa e morbida. Quando li riaprì,
si diede un'occhiata allo specchio: sotto quei due pozzi blu c'erano
due pesanti occhiaie, chiaro segno che aveva riposato poco o male. Le
coprì con un velo di fondotinta e si passò una matita
viola sulle palpebre, accompagnata dal mascara.
Si
aggiustò meglio la camicetta che aveva indossato e, dopo aver
afferrato la fondina, pistola, distintivo e una giacca scura in seta,
uscì dalla camera mentre mangiucchiava una barretta ai
cereali: non aveva tempo per fare una colazione degna di essere
chiamata tale.
Quando
scese nell'atrio trovò già tutta la squadra già
pronta, vestita di tutto punto, ad eccezione di Hotch.
«Buongiorno.»,
fece la ragazza, reprimendo a stento uno sbadiglio.
«Buongiorno.»,
le risposero gli altri, chi con più chi con meno enfasi,
dovuta al sonno.
Reid
le accennò un piccolo sorriso e lei ricambiò senza
farsi notare dal resto della squadra.
«Hotch?»,
chiese poi la mora, guardandosi intorno.
«Ha
ricevuto una telefonata.», spiegò Emily, «ci starà
per raggiungere.».
Samantha
annuì, comprensiva, mentre indossava la giacchetta.
Morgan
e Reid iniziarono a chiacchierare del più del meno,
approfittando degli ultimi momenti di relax prima che il lavoro
tornasse ad incombere su di loro, parlando del bisogno impellente di
trovare caffeina, in qualsiasi forma. Avrebbero bevuto con gioia
anche quella brodaglia che in centrale osavano chiamare “caffè”.
«Spero
che con O'Connor sia andato tutto bene.», disse JJ, voltandosi
verso Samantha dopo aver finito una piccola conversazione con Rossi.
«Al
solito, forse addirittura meglio.», disse, scrollando le
spalle, «più che altro sono rimasta colpita dal fatto
che non fosse lui l'S.I.».
«E
di questo ne sei proprio sicura?», chiese Morgan, pentendosi
delle sue parole non appena le pronunciò.
La
ragazza si voltò verso di lui, trafiggendolo con i propri
occhi blu. Se c'era una cosa che non le potevano toccare, era la sua
bravura nel lavoro, perché, di quello ne era certa, lei era
brava.
«Assolutamente.»,
sibilò.
«Scusami,
non volevo.»,
disse subito Morgan, seriamente pentito, muovendo le mani.
«Non
fa niente.»,
grugnì la ventisettenne, quando poi interruppe Hotch nel
gruppo, un'espressione seria e dispiaciuta allo stesso tempo.
«Hanno
trovato una nuova vittima», annunciò.
JJ
si passò una mano sul viso ed Emily scosse il capo,
abbassandolo, mentre tutti gli altri facevano una smorfia.
«Quando
è stata uccisa?»,
domandò Rossi.
«Ieri
sera, alle undici circa.».
«Questo
esclude completamente O'Connor dalla lista dei sospettati.»,
disse Samantha. Nonostante la grande frustrazione per la morte di
un'altra donna, e l'orribile sensazione di occlusione allo stomaco
per il fatto che non avevano altri sospettati – nessuno di
concreto, comunque – si sentiva lievemente soddisfatta di sé
stessa per aver dimostrato di non essersi sbagliata. Emozione che
sfumò nell'arco di tre secondi, sostituita dallo sgomento.
«Deve
essere cambiato qualcosa, l'S.I, ha sempre ucciso il mattino, questa
volta di notte»,
notò Rossi.
«Ci
aspettano sulla scena del crimine.», disse ancora Hotch, dopo
aver annuito alla riflessione di David.
«Io
cosa posso fare?»,
domandò Samantha.
«Non
lo so.»,
ammise Hotch. «Anzi,
Reid, Morgan, voi restate in centrale con Sparks, cercate di
perfezionare il profilo, poi chiamate Garcia e ditele di restringere
il campo più che può.».
Morgan
e Reid annuirono, sinceramente sollevati dal fatto che non dovessero
vedere un altro cadavere, per
quanto man mano negli anni diventasse una faccenda di routine ognuno
dei membri della squadra odiava vedere
il corpo privo di vita di una donna, un uomo, o un bambino, gente che
aveva ancora da vivere e che non avrebbe mai potuto più farlo.
«Ci
vediamo al commissariato non appena abbiamo finito di esaminare la
scena del crimine.», disse Hotch, poi si separarono, prendendo
strade diverse.
«La
vittima si chiamava Barbra Oswell, trentadue anni, un figlio di sette
mesi.», disse lo sceriffo Mars non appena Hotch, Prentiss, JJ e
Rossi giunsero sulla scena del crimine.
Emily
si accovacciò accanto al corpo privo di vita della donna,
notando come al solito le mani posate sugli occhi, in posa, e uno
sfogo sul collo che indicava che era stata soffocata.
«È
stata stuprata?», domandò.
«Sì,
post morte, come per le altre.», annuì Jason Mars.
«E
i timpani...».
«Bucati.».
La
donna si alzò.
«Barbra
è stata uccisa esattamente come le altre vittime, l'unica cosa
che cambia è l'ora in cui è stato compiuto l'omicidio».
«Cosa
gli ha fatto cambiare idea?», rifletté ad alta voce
Rossi, facendo scrollare le spalle agli altri.
«C'è
dell'altro, però», disse Mars. «Abbiamo un
testimone».
«Come?»,
domandò stupita JJ, attirando l'attenzione che si era di nuovo
spostata sul corpo esanime di Barbra sullo sceriffo.
Mars
indicò un uomo vicino a una delle macchine della polizia.
«Non
voglio illudervi, non ha visto l'assassino in volto. Passava qui di
fronte per andare a prendere la macchina e ha visto la sagoma di un
uomo chinata sul corpo di Barba a scattare delle fotografie.»
«Foto?»,
domandò ancora Rossi.
Mars
annuì.
«È
stato un omicidio disorganizzato, quindi. Sin ora non aveva mai
rischiato di farsi vedere», disse Hotch.
«Anche
il luogo, se ci pensate.», intervenne JJ. «Ha ucciso
tutte le altre vittime in zone solitarie, dove il rischio di farsi
vedere era ben minore, qui invece siamo in un parcheggio sotto a
numerosi uffici.».
«Era
di fretta, forse il bisogno di uccidere era troppo impellente per
essere soppresso sino al giorno dopo», ipotizzò Emily.
«Che
uffici ci sono qui sopra?», domandò JJ a Jason Mars.
«Sono
studi di moda, per servizi fotografici, sfilate.».
Rossi
prese il cellulare e digitò il numero di Morgan.
**
«Non
è possibile che quel bastardo sia sempre un passo avanti a
noi!», sbottò Samantha, irritata, legandosi i capelli
sciolti in una coda alta dietro la testa e camminando avanti e
indietro per la stanza.
Reid
la osservò mentre si lamentava e, infine, si lasciava cadere
su una sedia girevole con uno sbuffo, le braccia incrociate e un
broncio che la faceva assomigliare terribilmente a una bambina.
Sorrise,
nonostante tutto, a quell'immagine. Samantha si era sempre presentata
come una ragazza composta e seria, concentrata sul lavoro e che
sapeva reprimere i propri sentimenti. Ma Reid sapeva che quella non
era altro che una delle tante facciate di quella giovane, bellissima
quanto pericolosa, donna.
Morgan
era uscito per andare a recuperare tre bicchieri del cosiddetto caffè
della centrale e loro due erano rimasti per cercare di inquadrare
meglio che potevano l'S.I. e di riuscire a stringere il campo sui
centosessantacinque nomi che aveva mandato loro Garcia.
Reid
si rese conto che Samantha mostrava i propri sentimenti soltanto
quando erano solo lei e lui, sembrava che non riuscisse ad aprirsi.
Si domandò se fosse solo una sua impressione o era realmente
così.
«Lo
prenderemo.», la rassicurò con un piccolo sorriso
consolatorio.
Samantha
annuì, guardandolo nei suoi occhi da cerbiatto.
«Eccomi.»,
disse Morgan, interrompendo quel loro contatto visivo e lasciando
sulla scrivania tre tazze colme di caffè. «Qualche nuova
idea?».
«A
parte il fatto che stavo pensando che questo S.I è
terribilmente irritabile nulla.», disse Samantha, prendendo una
delle tazze e bevendo un sorso della bevanda, reprimendo a stento una
smorfia.
«Gli
altri hanno chiamato?», chiese ancora il bell'uomo di colore,
ricevendo una risposta negativa.
Rimasero
in silenzio alcuni secondi, ognuno perso nei propri ragionamenti.
Reid era appollaiato su una sedia e guardava quasi distrattamente la
bacheca su cui avevano appuntato tutto ciò che sapevano sul
Soggetto Ignoto; Morgan tamburellava le dita su una gamba, cercando
di trovare elementi sufficienti per accorciare la lista dei
sospettati; Samantha, invece, si sentiva inutile: lei non era una
profiler, non era una di loro che, con un'occhiata, sapevano dire lo
shampoo preferito dell'assassino, lei era un'Infiltrata Speciale,
un'attrice, non era abituata a starsene ferma con le mani in mano
cercando di dare una mano su un profilo quando non ne aveva le
capacità.
Il
rumore del cellulare di Morgan che squillava strappò ognuno di
loro dai propri ragionamenti.
«Sì?»,
disse Derek, una volta aver risposto. «Come? Certo, aspetta,
come si chiamano gli studi? Okay, ti facciamo sapere appena
possibile. A tra poco, va bene.». Non aveva attaccato da
nemmeno cinque secondi che subito digitò un altro numero.
«Oracolo
di Quantico ai tuoi servigi!», trillò la voce entusiasta
di Garcia.
«Bambolina,
ho bisogno di un tuo miracolo.», rise Morgan sentendo la voce
dell'amica.
«Era
ora, cioccolatino, credevo ti fosti dimenticato di me», disse
Penelope. Morgan sapeva che aveva montato un bellissimo broncio dopo
aver parlato.
«Vedrò
di farmi perdonare quando torno a casa.», disse ammiccante
Derek mentre Samantha ascoltava la telefonata in viva voce a metà
tra il divertito e lo sbalordito.
Reid
rideva sotto ai baffi.
«Sai,
io sono forte anche al tele...».
«Ciao
Garcia!», la interruppe Reid, parlando ad alta voce, facendo
zittire la donna.
«Oh,
io odio il viva voce!», sbuffò divertita. «Ditemi,
miei uomini, cosa vi serve sapere dall'Oracolo?».
«Devi
fare un controllo incrociato tra la lista che abbiamo di sospettati e
i dipendenti di uno studio fotografico chiamato Stylist», disse
Morgan.
«Beccato!»,
esclamò Garcia nemmeno tre secondi dopo. «Jackson Utah,
trentasette anni, ha divorziato due mesi fa da Patricia Goswald, la
donna si era sottoposta per due interi anni a dei trattamenti per
rimanere incinta».
«Senza
successo, immagino.», commentò Samantha.
«Esatto,
zuccherino! Piacere di sentirti, Samantha!», disse sorridendo
la bionda informatica.
«Piacere
mio.», sorrise la mora, ora in piedi, mentre si scioglieva i
capelli e, dopo aver estratto uno specchietto dalla borsa, si passava
del rossetto sulle labbra sotto gli sguardi confusi dei due uomini,
poi si sbottonò i bottoni della camicetta sino a far
intravedere per bene la scollatura e fece per uscire, nascondendo la
pistola nella borsa.
«Dove
pensi di andare?», fece Morgan inseguendola, allibito,
attaccando il telefono.
«A
fermare e incastrare quel bastardo, ovvio.», disse Samantha,
stupita dal suo comportamento.
«No.»,
si intromise Reid. «Non puoi.».
«È
il mio lavoro.», disse la ragazza, digrignando i denti.
«Non
siamo preparati, non puoi entrare da lui come niente fosse. Non siamo
preparati.», cercò di farla ragionare Derek,
ripetendosi.
Samantha
lo osservò un secondo, gli occhi ridotti a fessure.
«E'
in pieno delirio, mi pare di aver capito», disse Samantha.
«Quell'uomo, sempre che sia lui l'S.I., potrebbe uccidere
qualcun altro questa sera stessa, come facciamo a sapere che
aspetterà altri due giorni?», domandò irritata.
«Non
lo sappiamo. Ma se piomberai nel suo ufficio e cercherai subito di
estorcergli una confessione, o cercare delle prove, può
scoprirlo e noi non possiamo essere lì per aiutarti. E
l'ultima cosa che ci serve è che tu ti faccia ammazzare.»,
disse Reid prendendo i redini della situazione sotto l'occhiata
sbalordita di Morgan e quella innervosita di Samantha.
«Va
bene.», ringhiò alla fine, riallacciandosi la camicetta
e prendendo una salvietta struccante dalla borsa levandosi il
rossetto.
Poco
dopo irruppe nella stanza il resto della squadra, che venne
prontamente informata degli sviluppi.
Emily
chiamò lo studio e, fingendosi interessata agli studi e a
voler fare delle foto, prese un appuntamento con Jackson Utah il
giorno dopo.
«Samantha,
è molto semplice, tu ti fingerei la cliente e...»,
iniziò a spiegare Rossi.
«...inizierò
ad attaccar bottone, parlando della mia famiglia sottolineando che
sono una trentenne single con una figlia a carico e chiedendo della
sua, se è veramente lui, essendo in pieno delirio, cercherà
di aggredirmi. Io devo stare pronta all'eventualità e
chiamarvi con la radio», concluse per lui, snocciolando il
piano.
Rossi
annuì.
Hotch
lanciò un'occhiata all'orologio: si era fatto primo
pomeriggio.
«Andate
a riposarvi, sino a domani non possiamo fare nulla.», disse con
una vena di impazienza nella voce. «Ci vediamo questa sera in
hotel, per la cena.».
**
Erano
le undici quando Reid sentì qualcuno che bussava alla porta
della sua camera. Era salito da poco nella stanza dopo aver
chiacchierato con tutto il resto della squadra sia del caso che di
cose più tranquille, come prendere in giro Morgan per la sua
ultima conquista o chiedendo a JJ di come stavano Will e il piccolo
Henry.
Samantha
aveva partecipato alla conversazione, ma Reid la sentiva più
distante, probabilmente dovuto al fatto che ancora non li conosceva
bene e non voleva far domande a tutti per capire esattamente di cose
stessero parlando. Ogni tanto Spencer si voltava verso di lei e gli
spiegava chi fossero Henry, Will o altre persone citate da loro che
Samantha di certo non poteva conoscere. Ad ogni volta che le parlava
la vedeva sorridere, un sorriso bellissimo, pieno di sincera
riconoscenza.
«Sì?»,
chiese curioso.
«Sono
io... Samantha.», disse la voce suadente della ragazza
dall'altra parte della porta.
Reid
fece girare la chiave e aprì la porta, trovandosela davanti in
tutta la sua bellezza, gli occhi blu che splendevano.
«Ciao.»,
disse lui stupito.
«Ehi.»,
rispose la ragazza. «Ti disturbo?».
Reid
scosse velocemente il capo e si spostò, facendola entrare
nella propria camera.
Samantha
si guardò un attimo intorno, era uguale alla sua l'unica cosa
diversa erano gli enormi libri poggiati sopra al letto.
«Saggi
sulla criminologia.», spiegò Reid alla sua occhiata
confusa.
Samantha
ne prese uno in mano e lo sfogliò.
«Prima
o poi me ne dovrai prestare uno.», disse con un piccolo
sorriso. «Il vostro lavoro sembra affascinante.».
Reid
annuì, sorridendo.
Samantha
si avvicinò a lui, il suo viso era mutato ed ora era maschera
di dispiacere.
«Mi
spiace per aver perso le staffe, oggi.», mormorò.
«Eri
stressata e stanca, non è colpa tua.», disse subito
Reid.
«Il
fatto è che... Capisci, sono morte già tante donne, e
sapere che quel bastardo forse ne sta uccidendo un'altra in questo
stesso momento...», continuò lei, alternando i suoi
sguardi tra gli occhi da cerbiatto del giovane uomo e il pavimento in
moquette.
«Sono
sicuro che questa notte non ucciderà nessuno. Puoi stare
tranquilla.», la tranquillizzò lui, con voce pacata.
«Come
fai a saperlo?».
«Me
lo sento.».
Samantha
provò a ridacchiare a quell'affermazione, il Dottor Reid che
per una volta non usava statistiche e percentuali per descrivere un
caso ma semplicemente il proprio sesto senso sembrava poco credibile.
«Beh,
spero che tu abbia ragione.», disse.
Si
sedettero intorno al piccolo tavolo a disposizione nella camera,
Samantha si torturava le mani mentre Reid la guardava e osservava le
mille emozioni che sembravano dipinte sul suo volto, le sfumature dei
suoi occhi di zaffiro, i capelli che le accarezzavano le guance per
poi scendere lungo la schiena quasi sino alle scapole.
«Posso
chiederti una cosa?», domandò lei dopo quelle che
sembrarono ora di silenzio scandite solamente dal ticchettio
dell'orologio a muro.
«Certo.».
La
ventisettenne sospirò.
«Credi
che il mio lavoro sia simile a quello di una... puttana?»,
domandò infine, sostenendo lo sguardo di puro stupore del
giovane.
«Che
cosa? No, certo che no!», esclamò lui.
«Davvero?
È solo che... Oggi, quando stavo per andare da Jackson Utah e
mi sono slacciata la camicetta, ho osservato la reazione di Morgan, e
mi sembrava scandalizzato.».
«Sparks...».
«Seriamente,
lo posso capire, dopotutto...».
«Sparks...».
«...non
è facile capire ciò che faccio.»
«Samantha!»,
allungò le mani e le mise un dito sulle labbra, rimanendone
lui stesso più sorpreso dallo slancio che aveva avuto.
La
ragazza lo fissò prima incuriosita, poi sorrise e annuì.
«Il
mio lavoro è, in un certo senso, simile a quello di una
prostituta. Cerco di ammaliare gli uomini con il mio corpo, con la
mia voce, con le mie parole. So che ci sono voci di corridoio che
dicono che vado a letto con ogni uomo con cui ho a che fare durante
le indagini», fece una risata senza gioia. «mi chiamano
la Cacciatrice di Uomini, sai? Ma io non ho mai fatto sesso con
nessuno di loro. Mai. È una cosa troppo disgustosa,
addirittura per me. Io sono una Cacciatrice, ma una
Cacciatrice e basta.».
Reid
la osservò.
«Perché
mi dici queste cose?», domandò poi.
«Non
lo so. Forse perché non voglio che tu pensi certe cose di me,
quando la mia fama arriverà sino ai vostri uffici. Non volevo
che tu mi giudicassi.», disse, scrollando le spalle.
«Non
ti avrei giudicata comunque.».
«Grazie.».
Fu
esattamente come la sera prima, ma questa volta con più
intimità, con più dolcezza, e allo stesso tempo
entrambi erano sempre più aperti l'uno con l'altra.
Man
mano che parlavano Samantha si diceva che stava raccontando a Reid
certe cose – questioni che, addirittura, non aveva mai rivelato
a nessuno – solo perché quel ragazzo sapeva ascoltare ed
era interessato a quello che gli veniva raccontato, piuttosto che
ammettere che le parole le veniva via dalla bocca prima che potesse
decidere il contrario.
Si
sentiva affascinata da lui, dal suo modo di fare ed essere. Dal suo
lato da genio incompreso chiuso nel suo mondo, dalla sua capacità
di non restare mai a corto di argomenti, dal fatto che nonostante
tutto anche lui amava i silenzi ma non erano mai imbarazzanti in sua
presenza. E poi la faceva ridere.
«Come
mai quella catenina?», chiese Reid, notando che la ragazza
stava giocando con la targhetta che teneva al collo.
Samantha
abbassò il capo e sospirò.
«Apparteneva
a mio padre», iniziò a spiegare con voce improvvisamente
roca.
«Oh,
mi spiace, io non dovevo...», iniziò Reid, arrossendo
impacciato per la brutta figura.
«No,
non fa niente, io voglio raccontartelo». Ed era così
dannatamente vero.
Fece
un respiro profondo.
«Come
sai, mio padre è morto quando ero ragazzina. Io sono nata a
Londra, ho vissuto lì sino ai sedici anni. Mio padre, Kyle,
era un generale dell'esercito, mia madre, Adison, era socia di
un'associazione umanitaria. Sin da bambina recitavo...», i suoi
occhi si illuminarono. «Forse è soprattutto grazie alla
recitazione che faccio questo lavoro. A quattordici anni iniziai a
recitare al Queen Theatre, un teatro londinese piuttosto importante.
I miei erano... così orgogliosi di me. Della loro bambina.»,
abbassò il capo.
«A
sedici anni, durante la prima di una nuova rappresentazione teatrale,
un uomo, un cecchino nascosto tra il pubblico, sparò un colpo
e uccise mio padre.», continuò i pugni chiusi talmente
forte da far diventare le nocche bianche. «Un
terrorista.».
Reid
trattenne leggermente il fiato.
«Mio
padre aveva tanti nemici, essendo un generale, ma mai nessuno aveva
provato a...», la voce di Samantha si arrochì.
«Comunque, mia madre era nata a Washington e dopo il funerale,
appena due settimane dopo l'omicidio di mio padre, ci siamo
trasferite qui. Io ho ripreso a recitare, a studiare con più
impegno, mi allenavo quasi quotidianamente al poligono e in difesa
personale... Sapevo cosa volevo fare della mia vita. Sono andata a
studiare a Berkley e sono tornata a D.C. per continuare la
specializzazione a Quantico e anche per mia madre, che ormai si era
ammalata. Ed ora eccomi qui.».
«Questa
targhetta», riprese, una volta resasi conto che si era aperta
sulla propria vita ma non aveva risposto alla domanda di Spencer. «Mi
ricorda ogni giorno perché faccio questo lavoro, perché
sopporto quello che vedo e faccio: è il mio portafortuna.».
Il
ragazzo la guardò.
«Crederai
che sono una stupida.», quasi ridacchiava.
«Non
è assolutamente vero, lo sai.».
Samantha
allungò istintivamente una mano e prese la destra di Reid che
era appoggiata sopra al tavolo.
«Grazie,
Spencer.».
Si
alzò pochi istanti dopo e si avvicinò alla porta, Reid
si affrettò a raggiungerla.
«Buonanotte,
Reid.», disse lei, velocemente, stampandogli un bacio a fior di
labbra su una guancia per poi uscire di corsa dalla stanza.
Poco
dopo, si udì una porta chiudersi. La sua.
Spencer
si toccò la guancia, stupito e incredulo.
Il
suo cervello, per la prima volta in vita sua, non sapeva dargli una
risposta logica a ciò che provava.
Continua...
Non
so perché non ho postato per secoli questa storia, essendo già
finita e archiviata. o.o Non chiedetemelo, quindi.
Somewhere
in my mind prometto che arriverà
presto. Almeno lo spero.
Scusatemi.
D:
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Capitolo 9 *** Capitolo 8. ***
Capitolo
8.
«Fa
attenzione, Sparks.», le raccomandò Rossi, porgendogli
una piccola radiolina che la ragazza infilò subito nella
borsa.
«Lo
faccio sempre, signore.», replicò Samantha con un
piccolo sorriso rassicurante.
«Noi
saremo pronti ad intervenire qualora ci fossero problemi.»,
assicurò Hotch.
La
ragazza annuì, mentre si scostava una ciocca di capelli
dal viso.
Reid,
dall'altra parte della stanza, lo osservava preoccupato, le braccia
incrociate e una strana sensazione di occlusione allo stomaco. L'idea
che si esponesse, disarmata, ad un possibile S.I lo metteva a
disagio. Avvertiva nei suoi confronti un senso di protezione: lui
doveva proteggerla.
E
una vocina nella sua mente gli diceva che non doveva lasciarla andare
da Jackson Utah.
Scosse
il capo, conscio che qualunque cosa potesse dire lei non sarebbe mai
rimasta in centrale, facendo fare il suo lavoro a qualcun altro. Non
dopo ciò che gli aveva detto i giorni prima, in quegli attimi
di intimità strappati alla routine dei serial killer.
Samantha
voltò lo sguardo verso di lui e gli fece un piccolo sorriso,
che poteva valere più di mille parole.
Reid
annuì sconsolato. Non riusciva a capire come, in una
settimana, quella ragazza riuscisse a fargli un simile effetto. Lui,
il logico e razionale Dr Reid, per la terza volta da quando era nato
era attratto da
qualcuno.
Non
si capacitava di come potesse essere accaduto, cosa esattamente
di
lei gli facesse quell'effetto: forse il fatto che era una ragazza
complicata, misteriosa, tutta da scoprire, il fatto che avessero due
storie simili – padre assente, anche se per ragioni differenti,
e madri malate – o forse quel sorriso magnetico e contagioso. O
quel suo carattere, prima freddo e deciso, poi improvvisamente quella
dolcezza e affettuosità che si permetteva solamente negli
attimi di intimità che il lavoro le permetteva.
La
osservò uscire dalla stanza del commissariato in cui erano
riuniti, i capelli sciolti sulla schiena, la forma del corpo
perfetto.
«Tutto
bene, Reid?», domandò Morgan, comparendogli alle spalle
strappandolo ai suoi pensieri.
«Sì.»,
rispose il giovane, senza ascoltarlo veramente.
«Hai
un'aria strana.».
«Voglio
solo prendere quest'uomo e tornare a casa.», disse Reid.
Morgan
inarcò un sopracciglio.
«Reid.».
«Sarà
meglio prepararci per andare nel parcheggio sotto lo studio di
Utah.», disse questo.
Morgan
scosse il capo mentre lo guardava avvicinarsi ad Hotch e Mars;
l'aveva osservato negli ultimi giorni e si era reso conto che era
diverso del solito e più di tutto aveva notato la complicità
con Samantha. Inizialmente aveva creduto fosse per la vicinanza
d'età, d'altronde a separarli c'era solo un anno di
differenza, ma aveva capito che c'era qualcosa di più quando
aveva visto Reid spiegare a Samantha di chi stessero parlando durante
la conversazione della sera prima e lo sguardo di lei, e soprattutto
quando la notte precedente aveva visto Samantha uscire dalla camera
di Reid trafelata ma con un sorriso che le partiva da un orecchio
all'altro.
Sorrise,
felice, assistere a Spencer Reid alle prese con i flirt e le avance
nei confronti del gentil sesso era un evento assai raro, e uno
spettacolo che non voleva perdersi. Sperava solo che non ci stesse
male nel caso non andasse a finire bene.
«Morgan,
stiamo andando.», lo chiamò Emily, il giubbotto
antiproiettile già legato intorno al busto, porgendogliene un
altro.
«Grazie.
Arrivo subito.», disse con un piccolo sorriso.
Lanciò
un'occhiata a Reid, che parlava con JJ, e si ritrovò a pensare
che per lui quel ragazzino era davvero quasi un fratello.
**
«Signorina?
È il suo turno.»,
disse una giovanissima segretaria bionda, con un sorriso cordiale,
facendo segno a Samantha.
Samantha
si alzò dalla sedia di plastica su cui era seduta e ricambiò
il sorriso.
«Può
per favore lasciarmi per favore un suo documento?»,
domandò ancora la segretaria. L'agente annuì, sempre
senza calare il sorriso cordiale, e consegnandole il documento falso
che le era stato consegnato quella mattina, poco prima di lasciare
l'albergo.
La
bionda segnò il nome falso di Samantha su un registro:
Madeline Pay.
«Prima
porta a destra, signorina Pay.».
«Grazie.»,
ricambiò la mora, seguendo le sue indicazioni.
Non
appena le diede le spalle il sorriso le si sciolse dalle labbra, si
sciolse i capelli vaporosi che sin ora aveva tenuti legati in una
treccia. Poi si riprese tra le mani la targhetta militare che era
appartenuta a suo padre e vi stampò sopra un bacio,
accarezzando poi l'incisione. «Ti voglio bene, papà.»,
mormorò, prese un respiro profondo e bussò alla porta
dello studio fotografico di Jackson Utah.
«Avanti.»,
disse una voce sottile dall'altra parte della porta.
Samantha
entrò.
«Buongiorno,
signore.», disse, mostrando un sorriso felice.
«Buongiorno»,
ricambiò. «Signora...?».
«Pay,
Madeline Pay. E signorina, per favore.», disse subito la
giovane donna.
Jackson
Utah annuì. Era un uomo piuttosto robusto, anche se la voce
poteva far presumere il contrario, doveva essere sui quarant'anni, i
capelli erano corti e scuri, gli occhi due pozzi neri. Un uomo a suo
modo affascinante.
«Bene,
signorina Pay. Mi dica, che genere di servizio fotografico
vorrebbe?», domandò, lanciandole un'occhiata
circospetta. «Per quale occasione?».
«Sto
cercando un lavoro come attrice o modella.», mentì
spudoratamente quanto perfettamente la giovane. «Devo mostrare
delle foto ai giudici e sceneggiatori, quindi... Non lo so, mi
consigli lei.».
Utah
meditò a lungo, sfogliando un catalogo.
«Escluderei
un nudo», disse. «Magari qualche foto con lei vestita
così com'è e qualcun'altra con un abito da sera...».
«Non
ho abiti da sera.», disse Samantha, con tono dispiaciuto,
abbassando lievemente il capo e mordendosi il labbro inferiore.
«Che
taglia indossa?», domandò Utah.
«Trentotto»,
disse lei.
Jackson
le fece cenno di aspettare e sparì dietro a una porta che
doveva portare a un magazzino, Samantha lo osservò, pronta a
difendersi in caso l'uomo si fosse presentato con qualcosa di
pericoloso.
Pochi
minuti dopo il sospetto S.I. tornò con un abito grigio
accuratamente protetto da una carta trasparente tra le mani.
«Si
può cambiare dopo», disse.
«Ora, cominciamo con le foto di lei vestita ora come ora.»
Samantha
annuì e si sedette su uno sgabello posto accuratamente in un
set per la fotografia, sorridendo raggiante e mettendosi in varie
pose, da alzata e seduta.
Utah
ogni tanto le consigliava come spostare un braccio, una mano, lo
sguardo, sembrava un fanatico dei dettagli, particolare che Samantha
registrò subito.
«Da
quanto tempo fa questo lavoro?»,
domandò interessata, iniziando a fare domande.
«Quasi
sette anni», rispose
meccanicamente Jackson.
«Deve
essere un lavoro molto interessante!»,
riprese lei. «Mi ha sempre
affascinato la fotografia, mi sarebbe piaciuto fare qualche corso per
intraprendere una carriera in questo campo.».
«Se
vuole, perché non lo fa?»,
domandò l'uomo, più per gentilezza che vero
interessamento.
«Beh,
sono una donna single con un figlio a carico e un lavoro a tempo
pieno, non ho proprio il tempo»,
rispose lei, con finta disinvoltura, scostando lo sguardo ma
guardando Jackson Utah con la coda dell'occhio. Lo vide esitare e
irrigidirsi a quelle parole.
«Davvero?»,
domandò. «Quanti anni ha suo figlio?».
«Cinque.»,
disse Samantha, sorridendo all'obbiettivo mentre si metteva una mano
dietro la testa e l'altra la mise su un fianco, in posa per la
prossima foto.
Utah
scattò un altro paio di istantanee e poi le fece cenno di
prendere l'abito e di andare a cambiarsi nel camerino.
La
ragazza annuì, afferrò l'abito e si allontanò
con aria circospetta, senza lanciarsi occhiate alle spalle solo
grazie al suo fermo autocontrollo. Aveva uno strano presentimento che
non riusciva a spiegarsi, ma si disse che era solo paranoia.
Si
infilò l'abito quasi in trans, mettendosi a posto i capelli e
poi tornando da Utah, il quale stava camminando avanti e indietro per
la stanza, borbottando tra sé e sé.
«Eccomi!»,
disse la ragazza.
Utah
annuì e Samantha si risedette sullo sgabello, accavallando le
gambe; notò che Jackson aveva modificato lo sfondo dietro di
lei, da azzurrino ora mostrava una stradina tipica di New York.
«Mi
dica, lei invece ha famiglia?», domandò.
L'uomo
si irrigidì ancora di più.
«Sì.»
disse seccamente.
«Figli?».
Jackson
Utah iniziò a toccarsi un orecchio con nervosismo.
«No.».
«Quindi
è sposato.», disse la mora, pressandolo, conscia che se
avesse continuato a metterlo sotto pressione sarebbe scoppiato.
Il
fotografo annuì, sembrava non volesse parlare.
«Avete
intenzione di avere figli?», continuò.
«No.».
«No?
Sua moglie non vuole dei figli? Non lo sa che i figli sono la gioia
della vita? Credo che ogni donna vorrebbe dei figli e impazzirebbe
nel caso non li avesse. Avere dei figli è un privilegio a cui
non si può rinunciare. Strano che sua moglie non ne voglia. Lo
sapeva che...», disse, parlando a manetta, mentre una mano di
Utah iniziava a tremare.
«Basta!»,
urlò l'uomo, sbattendo un piede a terra. Samantha montò
un'espressione innocente sul volto.
«Ho
detto qualcosa di sbagliato?», chiese dolcemente.
«Se
ne vada di qui.», disse Utah, serrando i pugni. «Subito!».
«Va
bene, okay», fece la mora, alzando le mani in segno di resa.
«Mi rivesto e vado via. Mi dia qualche minuto, mi scusi.».
L'uomo
la guardò sfilargli accanto e chiudersi nel camerino.
Velocemente
la ragazza si infilò la maglietta, i jeans e le scarpe,
mandando un avvertimento a Hotch di iniziare a intervenire con
cautela. Sapeva che la squadra si tornava nel parcheggio in cui era
stata trovata Barbra insieme ad alcuni poliziotti di Tucson.
Uscì
dal camerino ma non fece nemmeno un passo che sentì
improvvisamente un dolore lanciante dietro la testa e cadde a terra,
portando le mani in avanti per impedire di farsi male al viso. Si
voltò indietro, la vista era sfocata, ma riuscì
comunque a scorgere la figura di Jackson Utah con in mano un piede di
porco.
«L'ho
capito subito che eri della polizia.», disse seccamente,
guardandola dall'altro verso il basso ed osservandola mentre si
portava una mano alla testa e gemeva. «Solo voi poliziotti
avete una simile puzza sotto il naso».
Samantha
lo guardò negli occhi: non aveva paura.
«Non
ho paura di te, lo sai questo, sì?», chiese con tono
sprezzante, trattenendosi appena dallo sputargli in faccia.
Jackson
Utah si chinò leggermente verso di lei mentre si portava una
mano alla vita e iniziava a slacciare la cintura.
«Vedremo
sino a che punto.», mormorò, brandendo l'oggetto e un
sorriso malizioso che gli incrinava le labbra.
**
Hotch
estrasse la propria pistola dalla fondina e fece cenno ai membri
della sua squadra di seguirlo insieme allo sceriffo Mars e ai suoi
agenti lungo il corridoio che portava allo studio di Utah. Il piano
iniziale era quello di aspettare un esplicito segno di Samantha ad
intervenire, ma da quando aveva detto loro di intervenire con cautela
non l'avevano più sentita e non aveva risposto per due volte
al telefono.
Reid
era davanti insieme a Morgan e camminavano velocemente, con passi
corti ma svelti.
«Oh
mio Dio!», esclamò una giovane ragazza bionda, vedendoli
e sbiancando velocemente. «Cosa succede?».
«Via,
via di qui!», le ordinò JJ, avvicinandosi a lei e
facendole segno di andarsene. La segretaria si allontanò,
lanciandosi delle occhiate alle spalle con aria spaventata, e fu
prontamente fermata ad un certo punto da un altro poliziotto per
interrogarla a proposito del suo capo.
«Jackson
Utah, FBI!», urlò Morgan, provando ad aprire la porta ma
trovandola chiusa a chiave.
Si
scambiò un'occhiata con Rossi alle sue spalle e dopo qualche
istante alzò una gamba, dando un possente calcio alla porta,
la quale si aprì con un rumore secco. Derek entrò nello
studio, subito seguito da Reid e il resto della squadra.
«Qui!»,
disse loro la voce di Samantha e subito la seguirono, allarmati e
insieme sollevati dal sentirla parlare.
Davanti
a loro, quando la raggiunsero, si parò una scena tutta nuova:
Samantha era in piedi, una mano che si reggeva la testa, una lieve
smorfia sul viso misto a un sorriso vittorioso e a terra c'era
Jackson Utah, le mani legate con la sua stessa cintura, gli occhi
chiusi e l'ombra violacea di un livido che iniziava a disegnarsi
sulla tempia destra.
«Eccovi.»,
disse la ragazza. «Portate
questo bastardo lontano dalla mia vista, ve ne prego.».
Non
appena finì di parlare tre agenti della polizia di Tucson lo
presero per le spalle, trascinandolo fuori mentre un quarto si
premurava di chiamare un'ambulanza.
«Stai
bene?», le domandò gentilmente JJ, vedendo la smorfia
che le percorreva il viso.
«Mi
ha colpito alla testa», disse lei. «Ma sto bene, davvero,
mi serve soltanto un po' di ghiaccio.».
«Sicura?»,
domandò Hotch, penetrandola.
«Assolutamente.»,
annuì la ragazza, sorridendo appena e mostrandosi
completamente serena.
«Andiamo
via di qui.», disse poi Reid, avvicinandosi a lei e Samantha
annuì sollevata.
Per
un'altra volta era finita.
**
Quella
sera il jet era silenzioso. La stanchezza che aveva accompagnato i
membri del BAU per quella settimana e mezzo si stava facendo sentire
e ognuno di loro approfittava del viaggio di ritorno per riposare,
ascoltare la musica o dormire.
Samantha
era seduta vicino a un finestrino, da sola, in silenzio, le cuffie
dell'iPod infilate nelle orecchie e la melodia di When
I get home che risuonava nella
sua testa.
Pensava
a Jackson Utah. Sapeva già che gli avrebbero dato l'ergastolo
senza possibilità di uscire sulla parola, ma non era tanto
quello ad interessarla, più che il pensiero di tutte le donne
che aveva ucciso, le vite rubate non solo a loro, ma anche i figli,
la maggior parte dei quali non avevano un padre su cui contare e che
sarebbero finiti in affidamento. Pensava agli amici delle vittime,
con i quali magari avevano pensato di organizzare una vacanza
che non sarebbe mai avvenuta.
Sospirò
e fece una smorfia quando appoggio la nuca al sedile dell'aereo:
nonostante avesse insistito di stare bene, Rossi l'aveva atta
visitare da un medico, il quale aveva accertato che non si trattava
altro che di una brutta botta.
Pochi
istanti dopo vide una mano affusolata che le porgeva un panno
rigonfio.
Reid
le sorrise incoraggiante.
«Ti
ho portato del ghiaccio.», spiegò, arrossendo appena.
Samantha
lo afferrò e lo ringrazio con un sorriso, mettendosi poi il
ghiaccio sulla nuca e fece subito un sospiro di sollievo.
«Meglio?».
«Decisamente.
Grazie, Reid.», sorrise Samantha, facendolo arrossire ancora di
più.
La
ragazza spostò di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino. Le
parole che gli aveva detto Utah continuavano a rimbombarle in testa
«L'ho capito subito che
eri della polizia», ed
ogni volta era una continua sconfitta.
«Che
cos'hai?», domandò il giovane genio, scrutandola con
aria preoccupata.
Samantha
scrollò le spalle.
«Utah
sapeva che ero della polizia non appena sono entrata in quello
studio.», borbottò. «Non sono riuscita ad
ingannarlo.».
Reid
le fece un piccolo sorriso di comprensione, capendo immediatamente
ciò che la ragazza stava cercando di dirgli.
«Capita
a tutti.».
«Ma
a me no, faccio questo lavoro da anni e sono sempre riuscita ad
ingannare qualsiasi S.I. o sospettato quale fosse, se mi scoprivano
avveniva solo dopo tanto tempo che ero con loro, Jackson Utah ha
capito che ero un federale non appena sono entrata lì
dentro.».
«Samantha»,
fece Spencer, sporgendosi in avanti e guardandola fissa negli occhi.
«lui ora è in prigione e ci rimarrà per il resto
della vita, tu invece sei qui fuori. È questo l'importante.».
La
ragazza annuì, abbassando lievemente il capo.
«Grazie
Spencer.».
«Di
cosa?».
«Di
essere te».
«Oh,
grazie, non so essere nessun altro*».
Samantha
ridacchiò. «Già, è proprio questo che mi
piace di te*.».
A
quell'affermazione Reid si fece color porpora e abbassò il
capo, passandosi una mano tra i capelli.
Rimasero
in silenzio a lungo, scambiandosi delle occhiate ogni volta che
pensavano che l'altro non lo vedesse.
«Ehm...»,
iniziò Reid, rendendosi conto di avere la voce improvvisamente
roca. Se la schiarì. «Samantha, io... volevo chiederti
una... una cosa.».
La
mora si voltò a guardarlo.
«Dimmi.»,
gli sorrise incoraggiante.
«Ecco,
io mi chiedevo se... sì, se uno di questi giorni... Sai, ti
andrebbe di andare a prendere un
caffè insieme.».
Il
sorriso che si era dipinto sul volto di Samantha si sciolse man mano
che il ragazzo parlava, fino a scomparire del tutto.
Già
da quel gesto, Reid avrebbe voluto non aver aperto bocca.
«Reid...
Io... Non posso, mi dispiace.», balbettò, seriamente
dispiaciuta.
«Oh,
capisco. Non... non importa, davvero.».
«No,
ti prego, lasciami spiegare. Tu sei una persona meravigliosa, e mi
piacerebbe poter uscire con te per quel caffè, ma... Non
possiamo permetterci che quell'uscita diventino tre, quattro, dodici
sino a diventare quasi quotidiane, mi capisci? Noi...», abbassò
il tono sino a sussurrare in modo tale che non la sentissero. «siamo
colleghi, capisci? Il protocollo dell'FBI dice che...».
«Lo
so», la interruppe il ragazzo, «lo so. Non importa, era
solo un caffè». Nonostante la finta indifferenza,
Samantha percepì il dispiacere nella voce di Spencer.
Tornò
a guardare fuori dal finestrino. Se Reid non fosse stato un suo
collega, avrebbe accettato quell'invito senza quasi pensarci, ma non
se lo poteva permettere. Sapeva che quel caffè si sarebbe
trasformato ben presto in una prima colazione, e poi in un pranzo, e
poi in una cena e dopo ancora tutte e tre le cose. Sarebbero arrivati
i week-end da passare insieme, le uscite, l'invito al cinema, gli
spettacoli a teatro, i concerti. E sarebbero probabilmente divenuti
una coppia. Se lo sentiva, non sapeva come, ma si sentiva che se
avesse accettato quell'invito lei e Reid avrebbero avuto una
relazione; era strano pensare una cosa simile dopo solo una settimana
e mezzo passati insieme, praticamente impossibile, ma era come se tra
loro fosse scoccato quel qualcosa
che se non si troncava sul
nascere sarebbe divenuto qualcosa di importante. Di estremamente
importante. Ed ecco cosa doveva fare, troncare sul nascere. C'era un
motivo per cui l'FBI vietava le relazioni tra colleghi, per quanto
potessero lavorare sporadicamente insieme: non ci si poteva
permettere distrazioni sul campo, non potevano mettere a rischio la
propria persona e quella dei proprio colleghi nel tentativo di
salvare o aiutare il proprio compagno o compagna. E lei osservava il
protocollo, da sempre, perché lei era fatta così:
previdente, devota alla legge e alle più piccole regole, per
quanto le potessero far dispiacere.
Chiuse
gli occhi, lasciandosi cogliere dalle braccia di Morfeo mentre si
cercava di convincere che era la decisione giusta.
**
Reid
salutò il resto della sua squadra con la mano, augurando a
tutti la buonanotte e dicendo che si sarebbero visti tutti da lì
a due giorni poiché il giorno dopo era stato concesso a tutti
un giorno di riposo dalla Strauss tra il sollievo generale. Samantha
era andata via, tornata nel suo ufficio non appena il jet aveva
toccato terra.
Sospirò
amareggiato mentre entrava in ascensore e premeva il bottone che
l'avrebbe portato sino al parcheggio sotterraneo; quando l'aveva
invitata ad uscire per quel caffè non sperava molto in una
risposta positiva, anzi ad essere sincero non l'aveva nemmeno
premeditato, erano state le sue labbra a muoversi quasi senza il suo
consenso. Non era sorpreso del fatto che gli avesse detto di no,
d'altronde lei era bellissima, probabilmente poteva
avere qualsiasi uomo desiderasse, e lui era... Beh, era solo lui.
Si
incamminò lungo il parcheggio vuoto verso la propria macchina,
tenendo il capo chino verso la propria borsa a tracolla mentre
cercava le chiavi dell'auto.
Quando
le trovò alzò di nuovo il capo, conscio di essere
arrivato davanti alla macchina e la sua bocca disegnò una 'O'
dalla sorpresa.
Seduta
sul cofano dell'auto, a gambe incrociate, i capelli sciolti e un
sorriso sereno sul volto, c'era Samantha.
«Mi
chiedevo se l'invito per quel caffè fosse ancora valido.»,
disse, senza accennare di smettere di sorridere.
Spencer
Reid la guardò stupito, poi le sue labbra si curvarono
all'insù. E sorrise.
The
End.
Finita!
Ho postato gli ultimi due capitoli insieme altrimenti mi sarei
dimenticata di postare, di nuovo.
Tecnicamente
ci sarebbe un seguito, di cui ho già scritto un paio di
capitoli. Ma non sono sicura se postarlo o meno. Vedremo.
Grazie
mille a tutti voi per le recensioni, i preferiti, i seguiti e le
ricordate. Vi adoro. GRAZIE. <3
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