Hauntress.

di Maggie_Lullaby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Hauntress.

Prologo.

Chi ha occhio, trova quel che cerca anche ad occhi chiusi.

{Italo Calvino}

Jacksonville, Florida; Casa Turner


Blu zaffiro. Due pozze di pietra preziosa, profonde. Bellissime. Belle come il mare. Brillanti, come cristalli. Grandi.

La ragazza, proprietaria di quegli occhi meravigliosi, sorrise, arricciando le labbra carnose, attentamente truccate, mostrando una fila di denti bianchi e perfetti.

Dondolando il bicchiere di champagne che aveva in una mano e si avvicinò, con passo sicuro di sé anche sui tacchi alti, quasi vertiginosi, verso un uomo sui trentacinque anni, cingendogli il collo con un braccio e stampandogli un bacio leggero ma sensuale sul collo.

«Ti sono mancata?», domandò a bassa voce, con voce fresca e seducente, facendo voltare l'uomo.

«In ogni istante in cui non ti vedo mi manchi, Caroline», rispose lui, sorridendo, prendendola per i fianchi in una morsa forte, ma senza farle del male, e avvicinandola quanto più possibile a lei.

La ragazza sorrise, abbandonando la coppa di alcolico a uno dei camerieri che passavano in mezzo alla folla, rassettandosi in un paio di secondi il lungo abito rosso passione, per poi circondargli il collo con entrambe le braccia.

«Hai sempre le mani così fredde», constatò l'uomo, rabbrividendo appena.

La giovane donna inclinò lievemente il capo verso destra, la cascata di capelli mori d si spostarono con lei, ricadendo lungo il suo fianco, accarezzandolo sino alle scapole.

«Vuoi che non ti tocchi?», domandò semplicemente, senza cambiare espressione, rimanendo sempre appena sorridente, sicura, mentre toglieva le mani e le lasciava ricadere lungo i fianchi.

«No!», ringhiò l'uomo, riprendendole e stringendole. «No! Io ti voglio, qui, con me!».

La ragazza avvicinò le labbra sino a un suo orecchio, mentre con le mani tornava a stringergli delicatamente il collo.

«Non vado da nessuna parte», mormorò, mordendogli lievemente il lobo, facendolo sorridere.

Si muovevano piano, lui che le cingeva i fianchi, lei che continuava a tenere le braccia intorno al suo collo, al ritmo melodico della banda che suonava.

Intorno a loro, decine e decine di altre coppie li imitavano, le donne fasciate nei loro eleganti abiti da sera firmati, gli uomini con indosso smoking fatti su misura.

«Clive...», sussurrò la ragazza, tra il vociare degli altri invitati della serata e la musica. «Questa mattina non siamo riusciti a finire il nostro discorso.».

Lo sentì irrigidirsi quasi impercettibilmente sotto le sue mani.

«Non capisco come mai ti interessi così tanto», sbottò irritato, avvicinandosi poi con le labbra al collo della compagna e baciandolo.

Quest'ultima lanciò indietro la testa, socchiudendo per un istante gli occhi.

«Te l'ho detto. Voglio la verità», disse, tornando poi alla posizione originale.

«Solo questo?». Clive alzò un sopracciglio, come se non ci credesse.

La giovane donna abbassò il capo, arrossendo.

«Beh, in realtà c'è dell'altro», sussurrò.

«Lo sapevo», constatò semplicemente Clive, mentre nei suoi occhi neri come la pece si accendeva una luce di vittoria. «Cosa?».

«Io sono... curiosa», disse lei, alzando di nuovo gli occhi così blu su di lui e quasi inchiodandolo al posto per l'intensità di quello sguardo. «Di quello che fai».

«Curiosa?», chiese incredulo l'uomo, stringendole il fianco più forte.

«Sì. Sono sempre stata affascinata dall'omicidio. Anche da bambina. Sai, prima ho provato ad uccidere piccoli insetti... Animali... Ma non mi bastavano. Non mi soddisfacevano abbastanza. Crescendo, sentivo il bisogno di uccidere gli esseri umani, di vedere la luce dei loro occhi spegnerli, di sentire la vita abbandonare i loro corpi, ma non sono mai riuscita a commettere un omicidio.», iniziò a spiegare piano, volteggiando sempre piano sentendo la musica. «Quando poi sei arrivato tu, Clive, e ho capito che eri come me. Che anche tu vuoi uccidere. Se non fosse per un piccolo dettaglio...», riavvicinò le labbra al suo orecchio destro, mentre il respiro del compagno diventava sempre più veloce. «...Tu hai già ucciso, non è vero, amore?».

Clive le lasciò improvvisamente i fianchi e le prese il viso con energia, avvicinandolo velocemente al suo e baciandola con passione. La ragazza ricambiò il bacio, alzando le mani e accarezzandogli i capelli mentre il bacio diventava man mano sempre più passionale.

«Non è vero, Clive?», ansimò, staccandosi un poco. «Sei tu il Serial Killer di Jacksonville. Sei tu lo Squartatore della Spiaggia. Perché lasci le tue vittime sulla spiaggia, e non ti preoccupi di metterle in una qualche tipo di posizione. Le uccidi... e basta, senza rimorso. Perché tu non provi rimorso, ucciderle ti fa solo stare bene

L'uomo annuì, con decisione, cercando di baciarla di nuovo, ma la ragazza scosse il capo.

«Voglio sentirtelo dire, amore, voglio sentirti parlare, voglio che tu mi dica che sei tu l'uomo dei miei sogni, l'uomo con cui voglio uccidere».

Clive la guardò negli occhi, accarezzandole una guancia per poi scostale una ciocca di capelli dagli occhi. Lei teneva ancora le mani intorno al suo collo.

«Sì, sono io. Sono io lo Squartatore della Spiaggia.», disse, senza sussurrare, con un sorriso sornione e soddisfatto sulle labbra rosee. «Sono io. E tu ora sarai con me».

La giovane donna annuì, felice, un gran sorriso che le incrinava le labbra.

«Nancy Doole. La ragazza sparita questo primo pomeriggio... L'hai presa tu, non è vero?», chiese.

«Sì. Vuoi ucciderla? Sarà la tua prima vittima», il sorriso di Clive si apriva sempre più di parola in parola.

«Sì», disse sensualmente la compagna. «voglio ucciderla io. Dove si trova?».

«Nel capanno degli attrezzi di casa mia. C'è un bunker, lì sotto. La tengo lì». Sembrava eccitarsi solo all'idea di vedere la sua ragazza uccidere una persona. Rubare una vita umana.

«Perfetto», sorrise la donna. «Veramente... perfetto.».

«Andiamo ora, su.», propose Clive, fermandosi e cercando di prenderla per mano.

«No, no Clive, sei troppo impaziente», lo bloccò lei, sempre senza smettere di sorridere, con quel sorriso sicuro e strafottente. «La festa è appena iniziata, e tu sei il festeggiato, parrà strano se te ne andrai dopo nemmeno un'ora, non trovi?».

L'assassino la baciò con passione.

«Intelligente e previdente, oltre che bella», disse. «Sei la donna dei miei sogni.»

«Ooh, Clive, così mi fai arrossire», disse, scostando appena il capo e mordendosi il labbro inferiore.

«Io non mento», disse lui. «Va bene, aspetteremo. Ma la uccideremo questa notte, intesi?».

Lei gli lasciò un bacio a stampo sulle labbra.

«Prometto.», disse. «Vai a prendere da bere, brindiamo alla nostra unione... Per sempre.».

Clive si allontanò da lei, sparendo tra le folla, rimanendo ogni tanto intrattenuto da qualche collega e amico che gli facevano gli auguri per il trentacinquesimo compleanno e l'imminente promozione.

Bingo, pensò la ragazza, avvicinando l'orologio da polso alle labbra e premendo un piccolo tasto. «Ho la confessione. Irrompete. Nancy è in un bunker sotto il capannone degli attrezzi nel giardino di casa di Olden. È viva.», disse velocemente, rimontando il sorriso deciso di poco prima giusto in tempo per il ritorno di Clive.

«Grazie», mormorò felice, scontrando il cristallo del proprio bicchiere con quello del festeggiato e bevendo velocemente un sorso di champagne.

Tra la folla, nel frattempo, l'agitazione stava crescendo. La gente si spostava in fretta, facendo domande e lanciando imprecazioni. In pochi attimi otto agenti, con giubbotti antiproiettile e una pistola in mano li accerchiarono, puntando le canne delle armi contro Clive.

«Clive Olden, lei è in arresto per l'omicidio di Sasha Jones, Rita Turner, Olivia Tucker, Hannah Spacer e per il rapimento di Nancy Doole!», esclamò ad alta voce un uomo alto, di colore, i capelli rasati e la scritta FBI sul giubbotto antiproiettile.

Mentre Clive strabuzzava gli occhi, stupito e incredulo, gli occhi neri che si riducevano a fessure, uno dei due agenti con la scritta Polizia sul giubbotto antiproiettile lanciò un paio di manette alla ragazza che, con gesto veloce e scattante, prese le mani di Olden e gliele mise dietro la schiena, ammanettandole.

«Clive Olden, ha il diritto di rimanere in silenzio, qualsiasi cosa che dice potrebbe essere usata contro di lei in tribunale. Può avvalersi del suo avvocato, se non ne ha uno le verrà assegnato uno di ufficio. Ha capito i suoi diritti?», domandò la giovane donna, non più con la voce sensuale che usava prima ma con tono freddo, pieno di odio.

«Co... che cosa? Caroline, cosa diavolo stai facendo?!», urlò Clive Olden. «C'è un errore, io non ho fatto nulla!».

«Ho la registrazione, Clive, smettila di fare il piantagrane. E, per la precisione, io non mi chiamo Caroline», sbottò lei. Spingendolo in direzione degli agenti, che nel frattempo avevano abbassato le armi e riposte nella fondina.

«Ottimo lavoro, Sparks», si complimentò con lei un uomo alto, dai capelli corti e scuri, l'espressione dura e seria, mentre Olden veniva afferrato per le spalle da due nuovi agenti della polizia appena comparsi.

«Grazie. L'Agente Aaron Hotchner, immagino», disse Samantha Sparks, avvicinando le mani alla spilla di finti rubini che teneva attaccato al vestito e consegnandoglielo, mostrandogli un piccolo registratore nascosto. «C'è tutto, signore».

«Ben fatto», disse Hotch, voltandosi poi verso agli invitati. «Signori, vi prego di avviarvi ordinatamente verso l'uscita e di lasciare i vostri nomi agli agenti di polizia.», spiegò ad alta voce. Appena finito di parlare, la massa iniziò a muoversi, seguendo le sue indicazioni.

«Nancy Doole?», chiese Samantha.

«L'hanno trovata. Sta bene.», le assicurò Hotch.

«Grazie al cielo», mormorò l'Agente FBI, spostando lo sguardo verso gli altri Agenti Federali e l'Agente della Polizia, Lucas Monroe.

«Lucas, è un piacere rivederti», sorrise appena Samantha.

«Ottimo lavoro davvero, Samantha.», si congratulò anche lui.

Samantha scrollò le spalle. «È il mio lavoro».

«Lasci che le presento il resto della mia squadra.», disse Hotch, riprendendo la parola.

«Oh, aspetti», lo interruppe lei, voltandosi verso gli altri cinque agenti e guardandoli negli occhi, uno per uno. «Tu devi essere Emily Prentiss, ovviamente», disse indicando la donna dai capelli scuri e i grandi occhi marroni. «Voi invece Jennifer Jerau, Derek Morgan, Spencer Reid e David Rossi», continuò, indicando ciascuno di loro. «Sono onorata di potervi conoscere».

«Il piacere è nostro», disse Derek, allungando una mano verso di lei per stringerla.

Samantha ricambiò la stretta.

«Beh, come dire, un altro serial killer andrà in prigione e altri dieci stanno per commettere un omicidio, direi che possiamo andare in centrale ora, che dite?», domandò, senza l'accenno di un sorriso. «Devo togliermi questo abito di dosso, Dio mio mi hanno dato una taglia troppo piccola, non respiro.».

Gli agente del B.A.U annuirono, stringendole a loro volta la mano. Tutti, ad eccezione di Spencer Reid, che la salutò sventolando la mano.

Samantha, uscendo, si affiancò a David Rossi.

«Agente Rossi, mi permette una domanda?», chiese.

«Naturalmente.», annuì l'uomo, mentre si slacciava il giubbotto antiproiettile.

«Ho letto il suo ultimo libro», disse. «E ho una curiosità».

«Mi dica», sorrise David, incuriosito.

«*È vero che i criminali non hanno mai un motivo valido per quando uccidono? Faccio questo lavoro da due anni, sono stata a stretto contatto con serial killer per intere settimane e non sono mai, mai riuscita a rispondere a questa domanda.», chiese lentamente Samantha.

«Non ne hanno mai uno valido*», spiegò Rossi.

La ragazza annuì, assimilando le parole.

«Grazie, signore». Disse, avanzando il passo e avvicinandosi verso l'uscita ed entrando nella prima volante che vide.

Quella, se lo sentiva Rossi, non sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbero lavorato assieme.


Continua...


Nuova storia. Nuove vicende. Nuovi scleri.

Questa fic, “Hauntress”, letteralmente “Cacciatrice”, vi avverto, non è che la prima fiction di una serie che ne comprenderà tre. E devo dire che mi piace da impazzire, e la cosa è stranissima! Spero vi piaccia almeno un terzo di quanto piaccia a me.

Ho deciso di postare perché sono curiosa di vedere le vostre opinioni riguardanti questa fiction, ho già altri sei capitoli pronti, ma non vi preoccupate (e chi si preoccupa?! nd. Voi) Somewhere in my mind non verrà influenzata da questa fic, l'aggiornamento del quinto capitolo è semplicemente rimandato a domani o venerdì, massimo.

Criminal Minds non mi appartiene e i personaggi che fanno parte di questa serie televisiva non sono di mia esclusiva proprietà (posso aggiungere uno sfortunatamente, sì?). Il personaggio di Samantha Sparks e gli altri mai comparsi nella serie di Criminal Minds (che invece appartengono a quel genio di Ed Bernero), invece, sono di mia invenzione e mi appartengono in quanto tali. Questa storia non è stata scritta a scopi di lucro. Criminal Minds appartiene alla CBS.

Questa fiction è ambientata nella quinta serie, dall'episodio undici in poi: Haley è quindi morta, ma alcuni casi che seguono da questo avvenimento sono totalmente differenti e inventati dalla sottoscritta. Reid ha già i capelli corti perché amo come sta con questa pettinatura e anche perché non trovavo una foto decente con cui fare il fotomontaggio ù.ù

Se mi so spiegare? Certo che no. -.-”


La frase tra questi segni qui → * * è tratta dall'episodio 6x10.


N.B. Ho messo come nota OOC perché non so se riuscirò a rendere ai personaggi già esistenti i loro effettivi caratteri, ma saranno il più possibile uguali a quelli presenti nella serie TV.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Capitolo1.

 

C'è, per le scoperte, un tempo di maturazione prima del quale le ricerche sembrano infruttuose.

{Jean-François Marmontel}

Quantico; Virginia


Quando Samantha entrò negli uffici di Quantico, nella sede dell'Unità di Analisi Comportamentale dell'FBI, pioveva. Era uno dei tanti giorni di pioggia della stagione, ma per lei, che era nata e cresciuta a Londra, a suo parere una delle città più piovose d'Europa, non la infastidiva; piuttosto le dava una strana idea di casa, di pace. Fosse dipeso da lei sarebbe rimasta per ore sotto a un diluvio ad ascoltare solamente il rumore delle gocce che scrosciavano a terra.

Quando entrò nel grosso ufficio dell'Unità il rumore dei tacchi che indossava rimbombò nell'atrio silenzioso, e si guardò intorno. Lei stessa lavorava poco lontano, ma il suo studio si trovava su un solo piano, vicino al pentagono dove si allenava quasi quotidianamente.

«Agente Sparks?», si sentì chiamare da una voce femminile.

Samantha si voltò e vide JJ avvicinarsi a lei, con un piccolo sorriso.

«Oh, salve Agente Jerau», la salutò la ventisettenne, stringendole le mano delicatamente.

«Ha bisogno di aiuto?», chiese la bionda federale, osservando la ragazza con un'occhiata affascinata. Conosceva molto bene la sua fama ed era sempre stata incuriosita dal suo lavoro, per quanto non sarebbe mai riuscita a svolgerlo: bisognava avere dei nervi assolutamente saldi nelle situazioni più disperate, non lasciarsi mai prendere dal panico e soprattutto avere la capacità di rimanere a stretto contatto con gli assassini – spesso di intere famiglie, di stragi – senza provare ribrezzo evidente.

«Stavo cercando l'Agente Hotchner», spiegò la mora, estraendo dalla propria borsa un fascicolo contenente il suo rapporto sull'ultimo caso. «Devo consegnargli questo».

«La accompagno», si offrì JJ, servizievole.

«Grazie.», la ringraziò Samantha, seguendola quando Jennifer si mise a camminare in direzione dell'ufficio del proprio capo.

Passarono in mezzo alle scrivanie nell'open-space, dove Emily Prentiss stava scrivendo una lunga email al computer, mentre Derek Morgan era chino su un documento e lo stava leggendo con occhiata attenta.

«Agente Sparks», si stupì quest'ultimo, vedendola attraversare la stanza affiancata da JJ, camminando con la sua solita camminata sicura ed elegante.

Samantha chinò il capo in segno di saluto e fece cenno con le mani indicando che avrebbero potuto parlare dopo. Morgan annuì.

JJ la lasciò davanti allo studio di Hotch e raggiunse gli altri nell'open-space, sedendosi sulla scrivania vuota di Spencer Reid, andato a prendersi l'ennesimo caffè della mattinata.

Samantha bussò due volte, aspettando di ricevere risposta.

«Avanti.», disse l'Agente Capo dell'Unità.

La ragazza entrò, chiudendosi la porta alle spalle.

«Oh, Agente Sparks», sorrise Hotch, vedendola, lasciando cadere sulla scrivania il documento che teneva tra le mani e sporgendosi verso di lei per stringerle le mano. «Prego, si accomodi.».

Samantha eseguì, con aria rigida, appoggiando sulle ginocchia fasciate da un paio di pantaloni scuri in seta il rapporto.

«Sta bene?», domandò Hotch, con cortesia.

«Molto, grazie signore. Lei?».

«Bene, la ringrazio. In che modo posso esserle utile?», chiese ancora Aaron.

«Il mio rapporto, signore», spiegò Samantha, porgendogli il fascicolo in carta con il timbro dell'FBI stampato sopra.

«Grazie mille, poteva mandarlo tramite posta interna», constatò l'uomo, posandolo in cima a una pila fatta di fascicoli identici.

Samantha scrollò le spalle.

«Non avevo altro lavoro da fare, una passeggiata mi faceva piacere.», spiegò tranquillamente, curvando le labbra con un velo di lucidalabbra sparso sopra.

Aaron annuì.

«Le volevo ancora fare le mie congratulazioni per come si è comportata con Clive Olden. Davvero un ottimo lavoro.», ripeté, con un sorriso quasi invisibile.

«Grazie mille, ma ho fatto solo il mio lavoro. Olden ha fatto anche la sua parte, la sua psicosi era talmente avanzata che credeva che avessimo un rapporto serio da anni, anziché una – brutta – esperienza di poco meno una settimana.», si sminuì la ragazza, scostandosi una ciocca mora dagli occhi.

Hotch annuì, ascoltandola.

«Beh, posso sperare che il suo lavoro sia stato apprezzato dal suo Capo».

«Bruce? Agente Hotchner, lo conosce, è una persona riservata, non dice mai nulla, se non per criticare.». Per quanto, tutto sommato, non sembrasse un complimento, Samantha inarcò un po' gli angoli della bocca, con affetto.

Hotchner si disse mentalmente che quella giovane donna aveva inquadrato benissimo il suo Capo.

«Spero di poterla rivedere presto», spiegò, imitando Samantha che si era appena alzata, evidentemente per congedarsi.

«Lo spero anch'io. Arrivederci, Agente Hotchner». Gli strinse la mano e fece per uscire dalla porta, quando a questa qualcuno bussò, aprendola pochi secondi dopo senza aspettare una risposta.

La chioma bionda di JJ fece capolinea nella stanza, reggendo in mano una cartelletta.

«Mi spiace interrompervi, ma mi hanno appena chiamato urgentemente da Tucson, abbiamo una riunione», disse velocemente.

«Arrivo subito». L'espressione di Hotch tornò immediatamente dura e seria, mentre JJ si chiudeva la porta alle spalle. «Agente Sparks, ha altri casi di cui si deve occupare?».

Capendo immediatamente dove l'uomo stava andando a parare, Samantha scosse il capo.

«Le dispiacerebbe partecipare anche lei a questa riunione e, se le pare necessario, partire con noi per l'Arizona? Un aiuto esterno può esserci molto utile.», disse Hotch. Non avrebbe mai ammesso di essere speranzoso a quella prospettiva: le piaceva il modo in cui lavorava quella ragazza, la maniera in cui sapeva muoversi con gli S.I. e con cui manteneva la calma anche nelle situazioni più drastiche. Gli era stata raccontata una volta che un S.I. le aveva puntato una pistola alla testa, accusandola di essere una serva di Satana, e Samantha, senza perdere nemmeno per un secondo i nervi tesi, era riuscito a disarmarlo e a renderlo inoffensivo.

Questo, quando solo aveva venticinque anni e aveva iniziato a lavorare nell'FBI da soli pochi mesi, non immaginava di cosa era capace ora, dopo due anni passati ad allenarsi strenuamente nei corsi di addestramento intensivo.

«Assolutamente no, lo farò con piacere.», sorrise lei, avvicinandosi all'uscita e aprendo la porta. Hotch le fece cenno di uscire e la guidò alla sala riunioni, dove, seduti intorno al solito tavolo rotondo erano seduti tutti i membri dell'Unita.

«Vi ricordate dell'Agente Sparks?».

«Naturalmente», replicò Emily, alzandosi e stringendole la mano. «Piacere di rivederla.».

«Piacere mio», replicò caldamente la mora, scrutando curiosa l'unica persona che non aveva visto.

«Samantha Sparks, Penelope Garcia, il nostro tecnico informatico.», fece le presentazioni Rossi.

«Meglio conosciuta come colei che esaudirà tutti i tuoi desideri», ridacchiò Garcia, con un gran sorriso sulle labbra colorate di un rossetto color passione. I suoi vestiti eccentrici, dai colori luminosi, erano una botta all'occhio in quella stanza dalle pareti grigiastre.

«Felice di conoscerla», disse Samantha anche se non con molta sincerità, quella donna non le pareva esattamente il tipo che ci si aspetta di trovarsi in un ufficio federale.

«Oh, ti prego, dammi del tu e chiamami Garcia.», sorrise la rossa.

Samantha annuì e si sedette su una sedia che Morgan la aveva appena portato.

Lo ringraziò con un piccolo sorriso.

«JJ, cosa abbiamo?», domandò Hotch, sedendosi al proprio posto e prendendo la propria copia del fascicolo.

Samantha si sporse leggermente per osservare meglio il grosso schermo su cui JJ stava proiettando delle immagini.

«A Tucson, Arizona, sono stati trovati i cadaveri di tre donne dai trenta ai trentacinque anni, tutte e tre erano madri single in carriera. Le donne sono state soffocate.».

«I segni trovati sul collo della prima vittima, Laura Randall, sembrano essere causati da mani umane, mentre sulle altre due sembrano piuttosto segni di una cintura. Il soffocamento a mani nude non è facile come sembra, evidentemente l'S.I. deve aver provato e una volta capito che ci voleva troppo tempo e troppe energie è passato alla cintura.», iniziò a spiegare Reid, muovendo le mani, scostandosi ogni tanto i capelli forse un po' troppo lunghi dal viso.

Era la prima volta che Samantha gli sentiva pronunciare un'intera frase.

«Come sono state prese le vittime?».

«L'ultima volta che sono state viste accompagnavano i figli a scuola, o all'asilo. La borsa di Irina Isaac è stata trovata a terra, vicino alla sua macchina, davanti a una lavanderia. L'S.I non ha rubato niente al suo interno, o per lo meno nulla che si sappia: le chiavi di casa, della macchina, il portafoglio e i documenti erano tutti all'interno. C'era anche una busta con una collana preziosa che Irina aveva appena ritirato dopo averla ritirata dall'orefice.».

«Laura Randall era una sarta, Irina Isaac un'avvocatessa, mentre Kimberly Dawson una donna delle pulizie.», constatò Emily.

«L'S.I non bada al livello sociale», concluse per lei Morgan.

«L'unica cosa che le accomuna è l'età», disse Rossi. «Fisicamente, anche, erano completamente diverse: Kimberly era bassa, dai capelli neri; Laura robusta e bionda; mentre Irina rossa e magra. Non ci sono affinità ulteriori».

«I bambini? Quanti sono?», domandò Samantha, parlando per la prima volta.

«Laura aveva una bambina di diciotto mesi; Kimeberly due gemelli di tre anni, un maschio e una femmina; mentre Irina un bambino di cinque.», le rispose JJ.

«Bene, partiamo per Tucson. Garcia, nel frattempo tu fai controlli incrociati tra le vittime: voglio sapere se frequentavano luoghi comuni, se avevano amici comuni, e mandami tutto quello che puoi sulle scuole dei bambini, i professori, e anche l'orefice in cui è andata Irina Isaac prima di morire. Tutti sul jet entro mezz'ora. Agente Sparks, lei cosa vuole fare?», domandò infine alla ragazza dopo aver dettato gli ordini.

La ragazza si alzò, lanciando un'ultima occhiata allo schermo su cui era ritratta l'immagine del cadavere di Kimberly Dawson, prima di parlare.

«Ho una ventiquattr'ore pronta nel mio ufficio, datemi il tempo di andarla a prendere.»


Continua...

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.

Dove tutto è male, deve essere bene conoscere il peggio.

{Francis Herbert Bradley}

«Beh il fatto che il BAU ti abbia richiamata è una buona cosa», aveva snocciolato Bruce Atwood, il capo di Samantha, penetrandola con i suoi occhi piccoli e scuri. «Vedi di non fare casini.».

Ora Samantha si trovava seduta sul jet privato dell'Unità di Analisi Comportamentale, seduta su un sedile accanto a Morgan e davanti a Emily, quest'ultima vicina a Rossi.

Teneva il capo chino sul suo fascicolo, i capelli mori che le accarezzavano le guance mentre con la mano destra tamburellava le dita su una gamba. Le immagini delle donne ammazzate, seminude, sulle foto, le passavano davanti agli occhi senza che lei desse la minima reazione di essere impressionata. Ne aveva visti anche troppi di cadaveri, spesso gente che conosceva che moriva sotto ai suoi occhi.

Chiuse gli occhi per un istante, cercando di tenere a freno i ricordi di quando era ragazzina, contando sino a dieci. Sua madre glielo diceva sempre: conta sino a dieci, pensa al sole e ai fiori, alla luce e alle risate. E lei lo faceva sin da quando aveva sedici anni.

Si scostò una ciocca di capelli dagli occhi blu e alzò lo sguardo sulla squadra, chiudendo il fascicolo con un colpo secco.

«Allora? Che pensate?», domandò seriamente, attirando su di sé lo sguardo degli altri sei agenti e per un secondo pensò di aver interrotto i loro ragionamenti da profiler.

JJ la guardò e si rivolse agli altri.

«Sarà meglio iniziare ad inquadrare questo S.I.»

«Giusto. Non credo sia un sadico.», iniziò Morgan osservando con particolare attenzione la foto di Irina Isaac. «Non ci sono segni di tortura, deve essere un maniaco sessuale che si sente impotente nei rapporti con l'altro sesso. Questo potrebbe essergli fatto notare da una donna tra i trenta e i trentacinque anni, come le vittime. Magari l'impossibilità di avere un figlio, una separazione dalla moglie potrebbe essere stato il fattore di stress.».

«Perfetto. Reid, mettiti in contatto con Garcia e chiedigli di cercare la lista degli uomini divorziati di Tucson le cui ex mogli hanno fatto nell'ultimo anno degli esami ginecologici per avere figli che non hanno avuto risultati positivi.».

«Subito.», annuì Reid, iniziando a smanettare con il computer e mettendosi in contatto con la loro tecnica informatica.

«Tu come pensi di muoverti, Samantha?», domandò Emily.

La ragazza si compose, intrecciando le mani.

«Come nell'ultimo caso, quando avremo una breve lista di sospettati deciderete tramite il profilo chi, per voi, sia l'assassino. Mi infiltrerò nella sua vita, in qualsiasi maniera, e cercherò prove che vi permettano di incriminare suddetto S.I., poi il resto si svolgerà come con il caso Olden.».

«Mi sembra perfetto.», annuì Emily, sorridendo.

«Quando atterreremo ci divideremo i compiti: Morgan, Prentiss voi andrete sull'ultima scena del crimine; Reid, Rossi, voi andate all'obitorio, fatevi dare una spiegazione accurata dal medico legale mentre JJ, Sparks ed io andremo al commissariato.», spiegò Hotch, guardando uno alla volta ognuno dei suoi Agenti e la nuova collaboratrice.

Samantha annuì.

«Quanto tempo è passato tra una vittima e l'altra?», chiese incuriosita.

«Laura Randall è stata trovata il sedici Gennaio, Irina Isaac il dieci Febbraio mentre Kimberly Dawson ieri, il diciassette Febbraio», recitò Reid, velocemente, ripetendo i dati che aveva letto su un foglio adocchiato nello studio di JJ.

«Una rapida escalation, l'S.I. è passato da ventiquattro giorni tra un omicidio all'altro a solo una settimana.», grugnì Morgan.

«Questo significa che potrebbe esserci presto una nuova vittima. JJ, quando arriviamo a Tucson indici una conferenza stampa, ragguaglia la popolazione su un serial killer e di stare attenti e di evitare di uscire soli di giorno, per quanto possa essere fastidioso l'S.I non si muoverà molto facilmente se ci sarà un intero gruppo di persone. Se deve rapire una donna, farà le cose per bene, evitando di lasciarsi dietro testimoni scomodi o ulteriori cadaveri.».

La bionda annuì, appuntando il tutto su un block-notes.

«Ora riposiamoci un po', abbiamo ancora qualche ora prima dell'arrivo a Tucson, riprenderemo una volta arrivati in Arizona.».

Tutti annuirono, disperdendosi in altri posti liberi del jet per restare un po' soli e provare a dormire.

Reid si alzò, appoggiandosi con le mani sui braccioli dei sedili mentre si massaggiava il ginocchio destro, con una smorfia di fastidio sul volto.

«Tutto bene, Reid?», domandò Morgan, alzando un sopracciglio guardando l'amico e collega, mentre tirava fuori dal suo bagaglio a mano le cuffie del proprio mp3.

«Sì, sì, solo un po' di fastidio. Chi vuole del caffè?», ripiegò Reid, con un piccolo sorriso, avvicinandosi alla cabina di pilotaggio dove si trovava la macchina del caffè.

Samantha gli lanciò un'occhiata, guardando il suo profilo esile mentre versava nella tazza di caffè una quantità esagerata di zucchero.

Nel frattempo JJ si era sdraiata su un sedile lungo per riposarsi, Emily guardava fuori dal finestrino osservando le nubi, Hotch e Rossi si erano messi l'uno accanto all'altro, per discutere del caso, ovviamente non pensavano di avere il tempo di riposarsi, loro, invece Morgan ascoltava la musica, gli occhi chiusi.

Reid si sedette nel posto che si era liberato di fronte a Samantha e le porse un caffè che non aveva chiesto.

«Mmh... Grazie.», disse lei, prendendola con una mano e avvicinandola alle labbra rosee.

«Prego.», ricambiò lui, imitandola, mentre con una mano continuava a massaggiarsi il ginocchio.

Samantha inclinò il capo verso sinistra, come per osservarlo meglio, mentre strizzava un poco gli occhi.

«Cosa ti sei fatto?», chiese, accennando con il mento al ginocchio del collega.

«Mi hanno sparato al ginocchio.», iniziò a spiegare lui. «Qualche mese fa, a volte torna a fare un po' male, ma spesso non mi ricordo nemmeno quale ginocchio mi sia ferito.».

La ragazza annuì mentre parlava.

«Mi spiace.», disse.

«Non è niente. Sai, le statistiche dicono che un Agente Federale ha il settantasei percento di possibilità di rimanere ferito sul campo.», citò come un'enciclopedia.

«Memoria eidetica?», chiese ridacchiando lei.

«Come fai a saperlo?», domandò Reid.

«Ho sentito parlare di un certo Agente genio nella vostra Unità.», sorrise Samantha. «E ora ho scoperto chi è.»

Reid arrossì appena.

«Era un complimento.».

«Lo so... Grazie.».

Samantha gli sorrise appena, incrinando un poco gli angoli della bocca in su, poi estrasse un libro dal proprio bagaglio a mano. Prima di iniziare a leggere, alzò di nuovo gli occhi su Reid.


*


Tucson; Arizona

«Agente Mars? Sono l'Agente Speciale Derek Morgan, dell'Unità di Analisi Comportamentale, e lei è la mia collega, l'Agente Speciale Emily Prentiss.», fece le presentazioni il bell'uomo di colore allo sceriffo di Tucson, un uomo sui quaranta dai capelli corti e scuri e uno sguardo penetrante ma solcato da profonde occhiaie e di rughe di preoccupazione.

«Oh, Agenti, sono felice di conoscervi, anche se avrei preferito farlo in alte circostanze.», disse, guardandosi intorno con aria preoccupata. «Il resto della squadra?». Era chiaramente preoccupato: non credeva che soli due agenti in più avrebbero potuto cambiare la situazione. Emily lo comprese perfettamente.

«Ci siamo divisi tra qui, l'obitorio e il commissariato.», spiegò. «Ci rivedremo più tardi nel vostro ufficio.».

«Bene. Perfetto. Beh, come sapete la vittima è Kimberly Dawson, trentadue anni, lavorava in tre diverse case di famiglie benestanti come governante e donna delle pulizie. Strangolata. È stata stuprata.», riassunse velocemente lo sceriffo Mars.

«Prima o post morte?», domandò Morgan.

«Stanno facendo degli esami in questo momento, ma il medico legale intervenuto sul luogo al momento del ritrovamento del cadavere disse che gli pare fosse stata violentata dopo essere stata uccisa. Questo vi dice qualcosa?».

«Probabilmente è un uomo impotente o è convinto di esserlo, forse condizionato dall'opinione di un ex fidanzata o una ex moglie. Il nostro tecnico informatico sta facendo delle ricerche.», continuò Derek. Si avvicinò a un punto del terreno su cui c'era un piccolo cartello della polizia con il numero uno stampato sopra. «E' stata trovata qui?».

La zona era un punto abbastanza trafficato, eppure il punto in cui era stata trovata Kimberly era nascosto da una spessa parete di cespugli che divideva la strada da un piccolo parco. L'S.I poteva tranquillamente abbandonare un cadavere, sempre che il parco fosse stato vuoto, senza che nessuno lo potesse vedere.

«Sì.», rispose lo sceriffo Mars, chiamando a sé un collega e, una volta che questi l'ebbe raggiunto, consegnando a Morgan delle foto. L'uomo le osservò attentamente, poi le passò ad Emily.

«Sono state messe in posa», notò la donna, guardando bene l'immagine del cadavere di Kimberly Dawson.

La donna era sdraiata sulla schiena, le gambe dritte, le mani posizionate attentamente sugli occhi, come un bambino che non vuole vedere la scena di un film e si ripara con l'unica protezione che crede possibile. Per il resto, il corpo aveva semplicemente un po' di terra sparsa sulle vesti e i capelli spettinati.

«Rimorso?», domandò Emily, guardando il collega mentre restituiva le foto allo sceriffo.

«No, non direi. Se fosse stato rimorso le mani sarebbero state sul cuore, oppure il corpo sarebbe stato girato sulla pancia. No, questo S.I. le mette in posa come se volesse che le sue vittime non vedano chi è stato ad ucciderle. Si nasconde.».

Mars spostò lo sguardo dall'uno all'altro agente.

«Volete andare in centrale oppure controllare qualcos'altro qui nei dintorni?», domandò.

«Andiamo in commissariato.», annuì Emily. «Qui non possiamo fare altro.».


*


Il primo caso di che era capitato sul tavolo di metallo di James Wilson fu quello di uno strangolamento, quindi quando il corpo di Kimberly Dawson arrivò in obitorio quasi non si stupì: sembrava quasi palese che dovesse concludere la sua vita professionale nello stesso modo in cui era iniziata.

Infilò un paio di guanti in lattice e ne passò altre due paia a Rossi e Reid, appena arrivati.

«Cosa ci può dire?», domandò il primo, indossando i guanti mentre osservava il cadavere bianco, nudo, ricoperto solo da un velo della giovane donna.

«Beh, dalle condizioni dello stomaco risulta che l'ultima cosa che ha mangiato non è stata digerita, quindi, considerando che si pensa che l'ora del rapimento sia avvenuta intorno alle dieci del mattino, credo che sia morta circa un paio d'ore dopo.», spiegò James Wilson, controllando la propria cartella medica. «La morta è sopraggiunta per strangolamento da parte di una cintura, sono rimaste delle tracce di fibre che ci indicano che sia in cuoio ma nessuna impronta digitale. Evidentemente l'assassino indossava dei guanti come stiamo facendo noi adesso. Non ci sono tracce di tortura, a parte qualche piccola contusione che deve essersi procurata dibattendosi a terra mentre veniva soffocata.».

Reid annuì, guardando attentamente la ragazza stesa sul tavolo davanti a sé.

«Non ha trovato nessuna anomalia, quindi?», continuò Rossi.

«Assolutamente no. A parte lo stupro post morte. Non ho trovato alcuna traccia di DNA, chiunque abbia approfittato di lei avrà utilizzato un anticoncezionale.».

Rossi sospirò: avevano di fronte a loro un uomo organizzato, un S.I. disorganizzato non avrebbe mai pensato di nascondere le proprie tracce in quella maniera.

Mentre osservava il giovane collega controllare con attenzione il corpo della signorina Dawson, nella sua mente si stendeva velocemente un profilo preliminare abbozzato: maschio, tra i trenta e i quarant'anni, bianco, probabilmente reduce di una recente separazione o divorzio, sessualmente impotente, organizzato.

Si rese conto che in quella maniera aveva descritto più o meno la metà degli abitanti di Tucson.

«Mi scusi, dottore.». Rossi si riprese dai propri pensieri sentendo Reid parlare mentre, chinato sul lato destro della ragazza, chiamava il medico legale. «Da cosa è dovuto questo sangue?», domandò.

«Sangue?», chiese allibito James Wilson, inforcando il proprio paio di occhiali e chinandosi nel punto indicatogli da Spencer. Solo allora notò, incrostato, del sangue sulle pareti dell'orecchio destro di Kimberly.

«Non l'avevo visto...», disse stranito il medico, prendendo degli attrezzi da una cassetta e abbassando uno sgabello per arrivare alla stessa altezza della parte insanguinata con più comodità.

Rossi e Reid si scambiarono parecchie occhiate mentre questi cambiava spesso oggetti ed esplorava l'orecchio di Kimberly.

«Rettifico ciò che dicevo prima: c'è qualcosa di strano.», borbottò Wilson, piuttosto scosso.

«Cos'ha trovato?».

«Non so se sia lo stesso anche per l'altro orecchio, ma il timpano di questo è stato bucato.».

«Bucato?», ripeté David, spalancando gli occhi.

«Con un oggetto appuntito piuttosto affilato, sì.». James Wilson si allontanò turbato dal cadavere di qualche passo. «Posso chiedervi di uscire mentre continuo i miei esami? Avrete tutto ciò che ho scoperto appena possibile.».

David e Spencer ubbidirono, uscendo dalla stanza e buttando in un cestino i guanti.

Rossi doveva aggiungere un altro particolare al suo profilo: sadico.


«Sì, capisco Reid, venite qui appena possibile, ne discuteremo di persona. A tra poco.», disse Hotch, riattaccando il cellulare e voltandosi verso JJ e Samantha che lo guardavano, la prima appoggiata a una scrivania della centrale di polizia, mentre l'altra in piedi rigida, la ventiquattr'ore ancora in mano.

«I timpani di Kimberly Dawson sono stati perforati tramite un oggetto appuntito.», spiegò l'uomo. «Dobbiamo riuscire a scoprire se era così anche per Laura Randall e Irina Isaac.».

«Possiamo chiedere alle famiglie se possiamo riesumare i corpi», propose JJ, una mano appoggiata su un fianco mentre l'altra ricadeva semplicemente lungo il suo fianco.

«Occupatene tu, per favore. Agente Sparks, lei venga con me.», si rivolse poi verso la mora che teneva le braccia incrociate al petto e si stava guardando attorno. Questa annuì, seguendolo lungo i corridoi della piccola centrale della polizia di Tucson.

«Vice sceriffo Matthews?», disse Hotch ad alta voce, attirando l'attenzione di un uomo che aveva da poco superato i trenta, i corti capelli chiari e gli occhi verdi.

«Esattamente. Voi siete gli Agenti dell'FBI, immagino.», rispose l'uomo, alzandosi dalla sedia su cui era seduto mentre compilava delle scartoffie e stringendo le mani ed entrambi.

«Io sono l'Agente Speciale Supervisore Hotchner, capo dell'Unità di Analisi Comportamentale, questa è l'Agente Samantha Sparks, Infiltrata Speciale dell'FBI.», presentò Hotch, indicando la collega. «L'addetta alle comunicazioni stampa, Jennifer Jerau, sta facendo una telefonata, ci raggiungerà presto; gli altri Agenti sono all'obitorio e sull'ultima scena del crimine.».

«Sì, mi è stato comunicato. Seguitemi, abbiamo sistemato un ufficio per voi.», indicò loro una porta chiusa a vetri e li fece accomodare. «Se avete bisogno d'altro, basta chiedere.».

«Grazie mille, per ora va bene così.», rispose Hotch, guardando la grossa bacheca che era stata messa a loro disposizione.

«La macchinetta del caffè più schifoso dell'Arizona è in fondo al corridoio.», aggiunse Matthews, con un piccolo sorrisetto divertito. «Ora scusatemi, devo finire di firmare un rapporto da consegnare entro un'ora e devo telefonare la scientifica.».

«Grazie della disponibilità», disse Samantha, parlando per la prima volta in presenza del vice sceriffo.

«Dovere.». Chinò il capo in cenno di saluto e si allontanò.

La ragazza lo osservò allontanarsi lentamente, poi abbassò il capo e tirò fuori dalla propria ventiquattr'ore una pistola calibro 44.

«Come pensa di muoversi?», domandò a questo punto, pensando già alle varie tipologie da utilizzare con il Soggetto Ignoto per estorcergli una confessione, chiunque esso sia.

«La prego, chiamami Hotch.», disse Aaron, con un piccolo sorriso.

Samantha annuì.

«Allora tu chiamami Sparks, o Samantha. Niente Agente. Odio essere etichettata con il mio nominativo lavorativo.», ribatté velocemente lei, scrollando le spalle.

Hotch accettò.

«Le famiglie di Irina Isaac e Laura Randall hanno accettato a far riesumare i corpi.», disse JJ, entrando velocemente nella stanza, il cellulare ancora in mano. «Chiedono se debba esserci qualche familiare durante la riesumazione.».

«No, devono semplicemente firmare dei documenti che gli spediremo via fax.».

«Meglio così, non apprezzavano l'idea.», disse la giovane madre, scostandosi una ciocca bionda dagli occhi azzurri e mettendosela dietro ad un orecchio. «Gli altri?».

«Arriveranno a momenti.», replicò Hotch.

Samantha si alzò e guardò fuori dalla grossa finestra che illuminava l'ufficio.

«Pensate che riusciremo a prenderlo prima che ci regali un altro cadavere?».

Né JJ né Hotch risposero.


Continua...


Mi scuso per il ritardo, ma non è stata una settimana facile e mi sono completamente dimenticata di aggiornare. Chiedo venia.

Il prossimo capitolo di Somewhere in my mind verrà postato presto, sto finendo di aggiustare le ultime cose.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere le vostre opinioni! ;)

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

La somma dei dolori possibili per ogni anima è proporzionabile al suo grado di perfezione.

{Henri Frédéric Amiel}

«Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?», sbottò Garcia al telefono con Reid, tamburellando le dita sui tasti del proprio computer. «Tutti gli uomini divorziati di Tucson nell'ultimo anno? Bambino, io faccio magie, non miracoli.».

«So che la lista è piuttosto lunga...», ammise il giovane genio, e sentì la donna ridere dall'altra parte della cornetta. «Ma così ci faremo un'idea di chi può essere il nostro S.I., ci serve per indirizzare l'Agente Sparks...».

«Hai idea di quante persone vivano a Tucson? Non rispondere!», aggiunse velocemente, conscia che Reid stava per darle la risposta esatta. «Lo farò, comunque, cioccolatino al latte. Ordunque, mentre le mie creature lavorano, dimmi come si comporta Samantha.».

Spencer si grattò il naso e si voltò, osservando il profilo della giovane ragazza che discuteva con Emily e Morgan a proposito del caso.

«Se la cava bene, non può fare molto, al momento, ma sembra... a posto. Competente.», disse velocemente.

«È proprio una bella ragazza, Reid.», ridacchiò Garcia. «Datti da fare sinché sei in tempo».

«Garcia!», esclamò il ventottenne, arrossendo.

«Oh, comprendo, la maga dalle mille magie ti lascia, manderò i risultati della mia ricerca non appena saranno disponibili, tesorino, la lista è talmente lunga che i miei amori non hanno ancora finito.», nella voce dell'eccentrica informatica c'era fastidio. «È incredibile il numero dei divorzi in questa città.»

«Statisticamente una coppia su tre divorzia dopo appena tre anni di matrimonio», citò Reid.

«Il matrimonio è superfluo. Ti lascio, amor. Garcia chiude!».

Reid riattaccò il telefono e fece un sospiro, prima di raggiungere il resto della squadra.

«Garcia sta facendo delle ricerche, ci manderà i risultati non appena sarà possibile.», dichiarò. «Aggiunge che non ci aiuteranno, la lista è troppo lunga.».

«Ovviamente.», sbuffò Prentiss. «Come ci muoviamo?».

Hotch dava loro le spalle, il viso concentrato sulla bacheca a loro disposizione su cui avevano appeso le foto dei ritrovamenti di Laura, Iris e Kimberly, i luoghi in cui erano stati trovati i cadaveri e una foto di ciascuna di loro di quando erano ancora vive, i loro sorrisi felici mentre abbracciavano i propri figli congelati in un momento che non sarebbe più tornato.

«A che ora sono state rapite le vittime?», chiese poi, voltandosi verso la squadra.

«Tra le dieci e le dieci e mezzo del mattino», dichiarò Rossi.

«Gli asili dei figli delle vittime non sono in centro città, ma in periferia», iniziò. «Chiediamo a Garcia di fare un confronto tra i risultati che avrà degli uomini divorziati nell'ultimo anno e quelli che abitano o lavorano in un raggio di trenta chilometri dagli asili.».

«Saranno comunque decine di nomi, se non centinaia.», disse JJ, con tono sconfitto.

«Lo so, ma almeno restringeremo un poco il campo. Dobbiamo parlare con i genitori delle vittime e i conoscenti; Sparks, ti unisci a noi?», si riferì a Samantha, che lo stava ascoltando con attenzione.

La ventisettenne annuì.

«Certamente.».

«Perfetto, Morgan tu ascolta i genitori di Laura Randall; Emily, tu quelli di Iris Isaac; mentre tu, JJ, i genitori di Kimberly Dawson. Rossi, tu ed io ascolteremo il fidanzato di Laura. Reid, Sparks, voi due il padre biologico dei bambini di Iris Isaac.», dispose gli ordini con serietà, dando un'occhiata all'orologio che teneva al polso.

«Dovrebbero essere già qui. Muoviamoci.».

*

Samantha entrò nel piccolo ufficio in cui il vice sceriffo Matthews aveva fatto accomodare Lance Gregors per prima e si sedette dietro la scrivania.

«Signor Gregors, io sono il Dottor Reid Spencer Reid, dell'Analisi di Unità Comportamentali dell'FBI, lei è la mia collega, l'Agente Sparks.», si presentò Reid, sedendosi accanto a Samantha dopo essersi chiuso la porta alle spalle.

Lance Gregors era un uomo alto, ben piazzato, che nonostante l'età, che non doveva raggiungere i quaranta, stava già iniziando a perdere i capelli sulla cute. Gli occhi, marroni, erano umidi.

«Siamo spiacenti per la sua perdita.», disse Samantha. Nonostante Irina e Lance dovessero aver concluso la loro relazione da un po' di tempo, ciò non significava che il dolore fosse minore.

Lance annuì, scuotendo il capo con forza.

«Io... Io non so cosa sia accaduto.», balbettò. «Mi hanno detto che è stato un omicidio, ma non so altro. Vi prego, potete... Mi spiegate cosa sia successo alla madre di mio figlio?». Nei suoi occhi, ora, c'era determinazione.

«Signor Gregors...», iniziò Reid, sporgendosi verso di lui. «Irina è stata uccisa da quello che crediamo essere un serial killer che ha iniziato ad uccidere nell'ultimo mese e mezzo qui a Tucson, rapita e soffocata nell'arco di poche ore. Come sa, è stata ritrovata in un parco non troppo lontano da qui.».

Lance annuì, mentre una lacrima gli sfuggiva dagli occhi. Se la asciugò velocemente, sperando che nessuno dei due Agente FBI l'avesse vista.

«Avete una pista? Un sospettato?», domandò.

«Stiamo investigando, signore, siamo arrivati solo poche ore fa. Vorremmo farle qualche domanda.», prese la parola Samantha, con tono freddo e distaccato, ma allo stesso tempo affettuoso.

Era meraviglioso sentirla parlare: sapeva essere capace di estrema freddezza e allo stesso tempo convincere la persona con cui stava parlando che andava tutto bene, che lei era lì per lui. Reid si chiese se avesse studiato linguaggio per essere così brava, oppure fosse nata con quella capacità innata.

Lance fece un gesto con la mano che stava ad indicare un sì.

«Com'erano i suoi rapporti con Iris?», domandò Reid, dopo aver guardato Samantha per un breve istante.

«Com'erano? Perfetti. Lei... lei era meravigliosa, capite? La donna più grandiosa che abbia mai conosciuto. Andavamo molto daccordo. Noi...», iniziò a parlare, esitando sull'ultima frase.

«Sì?», domandò Samantha, con tono suadente, quasi ipnotico, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno all'indice della mano destra.

Lance la fissò ipnotizzando, prima di ridestarsi e abbassare gli occhi velocemente.

«Noi... eravamo amanti. Sapete, dopo esserci lasciati quando è nato Benjamin – nostro figlio – abbiamo frequentato entrambi altra gente. Abbiamo ricominciato a frequentarci l'anno scorso, eravamo entrambi single, e... è successo. Semplicemente. Non l'abbiamo detto a nessuno. Uscivamo, stavamo insieme, per vedere come andava, sapete... Avevamo...», la sua voce si era ridotta a un sussurro roco. «Avevamo appena deciso di tornare a vivere insieme, avevamo deciso di riprovarci, capite? Per Ben... Per noi...». Seppellì il volto tra le mani scoppiando in pianto.

Reid sembrava non sapere come muoversi e gli porse un fazzoletto, gentilmente.

«Signor Gregors, capisco che per lei non è il momento migliore, ma dovrebbe rispondere a questa domanda: Iris le aveva parlato di qualcuno che aveva appena conosciuto? O comunque un uomo che non le aveva fatto una buona impressione? Con cui aveva avuto un diverbio?».

Lance si asciugò le lacrime, mentre Samantha lo guardava, il capo lievemente inclinato verso destra.

«Mi disse di aver litigato con un nuovo associato dello studio legale in cui lavorava, una brutta litigata. Ha cambiato studio legale a causa sua. Non ricordo il nome.», disse Lance Gregors. «Nient'altro.».

«Grazie mille, signore.», lo ringraziò Samantha, con un sorriso leale.

«A... a voi. Abbiamo finito? Vorrei tornare da mio figlio, l'ho lasciato a casa di mia sorella, non si è ancora reso conto di ciò che è accaduto.».

«Naturalmente. La preghiamo di non allontanarsi da Tucson finché non saranno concluse le indagini, nel caso avessimo bisogno ancora della sua collaborazione.», disse Reid.

Lance annuì e si alzò, tamponandosi gli occhi umidi con il fazzoletto.

Appoggiò la mano sulla maniglia, per poi voltarsi di nuovo verso i due agenti.

«Lo prenderete, vero?», domandò, e nella sua espressione c'era disperazione.

Samantha lanciò un'occhiata a Reid, che, però, fissava Gregors tristemente.

«Faremo il possibile.».

Lance annuì, scrollando le spalle, e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Spencer e Samantha rimasero un paio di minuti in silenzio, poi Reid si alzò, passandosi una mano tra i capelli.

«Cosa ne pensi?», gli domandò lei.

«Solo che, ora come ora, non siamo in grado di restringere la cerchia di sospettati», ammise, «e ho paura che avremo un altro cadavere prima di quanto ci aspettiamo.».

«JJ sta per fare una conferenza stampa», aggiunse però la mora. «Forse non troverà presto una nuova vittima.»

«Non credo la seguiranno in molte», disse Reid con aria infelice. «Tu lo faresti? Una donna impegnata, single, con figli a carico e tanti, troppi, impegni non ha il tempo di trovare pure un amico che le faccia da accompagnatrice durante la giornata.»

A questo Samantha non seppe ribattere.

*

«Al momento non sono disponibili molte informazioni circa questo omicida, vogliamo però allertare tutte le donne single con figli di Tucson: l'assassino è un uomo, tra i trentacinque e i quarant'anni di età, bianco, probabilmente una persona attraente che stordisce le proprie vittime dopo averle attirate nella sua trappola. Sin ora ha ucciso tre donne in un'età compresa tra i trenta e i trentacinque anni di età, ripetiamo, single con figli. Quest'uomo non bada né alle distinzioni fisiologiche né alla razza. Invitiamo la popolazione, quindi, a non uscire soli la mattina ma di essere sempre in compagnia, possibilmente di un uomo o comunque più donne, e di non sottovalutare assolutamente la situazione. Grazie per l'attenzione.».

Jamie Hudson spense la radio da cui proveniva la voce di Jennifer Jerau e infilò un CD, facendo partire una dolce melodia.

Era infastidita, non facevano che mandare in onda quella conferenza stampa dalla sera precedente, su tutti i canali televisivi e le radio della città. Jamie si disse che l'FBI pretendeva troppo da una semplice donna: come se tutte avessero a disposizione delle amiche o un uomo per farle da baby-sitter tutto il giorno, tutti i giorni sino a chissà quando! Bastava essere semplicemente stare attenti e non sarebbe successo nulla, le donne che erano state uccise probabilmente si erano lasciate abbindolare da un complimento. Questo era ciò che succedeva, ad essere poco prudenti! Avere la scorta in giro per la città non serviva a nulla se appena qualcuno diceva “sei davvero una bella donna, ti piacerebbe fare un provino per diventare modella?” si abboccava come pesci all'amo.

No, decisamente inutile, lei era perfettamente capace di cavarsela da sola senza nessuno che la seguisse dappertutto. Aveva cresciuto una bambina da sola per sei anni, senza molte risorse economiche, poteva sopravvivere tranquillamente a una giornata di lavoro e a fare la spesa nel supermarket sotto casa.

Sbuffò mentre rallentava a un semaforo rosso e chiuse gli occhi ascoltando le note dei Genesis che risuonavano dell'abitacolo della macchina, mentre pensava a cosa doveva fare quel giorno: aveva appena accompagnato Claire, sua figlia, a scuola, ora doveva passare dalla tintoria in cui aveva lasciato un giubbotto a smacchiare che ormai doveva essere pronto, e poi sarebbe potuta andare nell'ufficio legale in cui faceva la segretaria.

L'ultimo avvocato che era arrivato era insopportabile, estremamente egocentrico e ottuso. Nessuno lo sopportava, aveva sentito che un'avvocatessa si era trasferita in un altro studio legale proprio a causa sua. Jamie non la conosceva, era stata assunta lì da solo poche settimane.

Quando al semaforo scattò il semaforo verde ingranò la marcia e partì di nuovo, girando verso destra in direzione della lavanderia e parcheggiando nel primo posto che trovò libero, purtroppo un po' lontano dall'ingresso del servizio.

Non appena scese dall'auto constatò che c'era qualcosa di strano, sentiva nell'aria un odore acre, come di metallo, dolciastro, che le fece arricciare il naso. Rimase ferma qualche secondo, guardandosi intorno, le chiavi della macchina ancora in mano. Poi si ricordò che lì vicino c'era una fabbrica di prodotti chimici e che probabilmente la puzza proveniva da lì.

Si incamminò verso la lavanderia, pensando all'appuntamento che avrebbe avuto da lì a due sere: aveva conosciuto quest'uomo, Ian, un dirigente educato e dai modi gentili che semplicemente stravedeva per sua figlia. Si frequentavano da un paio di mesi, ma Jamie se lo sentiva che era l'uomo giusto. Dopo la fine della sua relazione con il padre di Claire, fuggito a gambe levate una volta saputo che sarebbe diventato padre, non aveva frequentato quasi nessuno. Ma Ian... Ian era diverso, se lo sentiva nelle ossa.

Proseguì la sua strada, quando si sentì chiamare.

«Aiuto!», urlò una voce maschile dietro di lei. Jamie si voltò in direzione della voce, ma non vide nessuno. Nervosa, riprese a camminare, più velocemente, pensando di esserselo immaginato.

«Aiuto, per favore, qui!», urlò nuovamente la voce, questa volta con più disperazione. «Aiuto! C'è qualcuno?! Aiutatemi, per favore non riesco a muovermi!».

La prudenza, il sesto senso del pericolo, l'istinto di sopravvivenza a cui aveva pensato sino a poco prima Jamie la abbandonarono e si mise a correre in direzione della voce.

«Sono qui!», gridò, arrivando dietro al furgoncino dove le sembrava di aver sentito la voce, rimanendo con la bocca semi aperta non vedendo nessuno.

«C'è qual...?», non poté finire la frase che sentì un botto sulla nuca, seguito da un dolore lanciante alla testa. Si accasciò a terra, con una smorfia di dolore, una lacrima che le sfuggiva dagli occhi.

Dopodiché fu solo il buio.


Continua...



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Capitolo 5
*** Capitolo 4. ***


Capitolo 4.

 

La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente.

{Gesualdo Bufalino}

«Trent'anni, madre single di una bimba di sei anni, strangolata, con i timpani bucati. Stesso modus operandi, è il nostro uomo.», snocciolò Morgan, chinato sul cadavere di Jamie Hudson mentre intorno a lui si muovevano a decine tra poliziotti e medici della scientifica.

«Ha avuto un'escalation, prima aspettava ventiquattro giorni tra una vittima e l'altra, poi una settimana ed infine solo due giorni.», sospirò tristemente Rossi. «C'è qualcosa di diverso, in questa vittima?».

Derek annuì e, indossando un paio di guanti in lattice, alzò la camicetta della donna storcendo il naso.

Rossi osservò la scritta incisa sul ventre della donna.

«Mai.», lesse. «Vorrà intendere che non lo riusciremo a prendere.».

«Spero solo che questo figlio di puttana si sbagli», sputò Morgan. «Jamie Hudson ha cresciuto la figlia Claire da sola, il padre non è segnalato nemmeno all'anagrafe, e non ha parenti a cui possa andare la custodia della figlia. Dovrà essere adottata.».

Jamie era stata ritrovata il mattino dopo essere stata uccisa. Le insegnanti di Claire, vedendo che non era andata a prendere la figlia a scuola, l'avevano chiamata a lungo per ore, senza mai ricevere una risposta. Solo verso sera la professoressa che aveva portato a casa con sé Claire aveva chiamato la polizia, e il cadavere ritrovato alle otto del mattino.

Rossi sospirò e si voltò, osservando Emily che parlava insieme a JJ con lo sceriffo Mars, visibilmente sconvolto dallo svolgersi degli eventi.

«Reid e Hotch?», domandò, notando la loro assenza.

«Credo siano andati a parlare con i colleghi della vittima insieme a Sparks.», disse Morgan, alzandosi, permettendo ai medici della scientifica di poter portare in obitorio il corpo della donna.

«Non capisco il senso di bucare loro i timpani... Di renderle sorde.»

Rossi meditò a lungo.

«E se fosse anch'egli sordo?», ipotizzò, senza crederci troppo.

«E si sfogasse sulle sue vittime rendendole anch'esse prive di udito prima di ucciderle?», continuò Morgan.

«Esattamente.».

«Non lo so», ammise Derek. «Non si capisce nulla, di questo S.I.».

«Notizie da Garcia?», domandò Rossi, allontanandosi al fianco del collega per dirigersi verso il loro SUV.

«Ci sono ottantasette nomi sulla lista che ci ha dato.», spiegò Morgan. «Non possiamo restringere ulteriormente il campo, ora come ora.»

David si mise al posto di guida, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

«Io odio Tucson.», dichiarò, prima di accendere l'auto e avviarsi verso la stazione di polizia.

*

Come Reid, Hotch e Samantha varcarono le porte del “Law National Studio” capirono immediatamente il tipo di luogo in cui si trovavano. Quello era considerato da molti uno dei più importanti – e costosi – studi legali di tutta l'Arizona.

Due guardie armate li avevano perquisiti prima che potessero varcare la soglia e, come avevano mostrato loro il distintivo, uno di loro era andato a chiamare il dirigente.

«Gli Agenti dell'FBI?», chiese una donna sulla cinquantina, i capelli tinti di nero, vestita elegantemente, porgendogli la mano e stringendola calorosamente. «Piacere, Susan Holmes».

«Io sono l'Agente Speciale Supervisore Aaron Hotchner, loro sono il Dottor Reid e l'Agente Sparks», fece velocemente le presentazioni Aaron. «Signora, potremmo parlare in privato?».

«Ovviamente, seguitemi.», disse Susan, dopo aver dato a ognuno di loro una seconda occhiata, e facendogli strada lungo un corridoio dal pavimento in marmo, riccamente decorato, conducendoli in un grosso ufficio.

Susan si sedette sulla poltrona dietro alla scrivania, aggiustando una fotografia nervosamente, poi fece segno a Hotch, Reid e Samantha di sedersi sulle comode sedie davanti a lei.

«Come posso esservi utile?», chiese, intrecciando le mani.

«Signora Holmes, lei conosce Jamie Hudson?», domandò Aaron, con fare pratico.

«Ovviamente, sì. È una segretaria, assunta solo tre settimane fa, una cara ragazza, giovane. Sfortunatamente ha un difetto chiamato “ritardo”», lanciò infastidita un'occhiata al grosso orologio a pendolo dall'altra parte dello studio. «Ieri non si è presentata al lavoro senza avvertire e anche oggi è in ritardo, né ha avvertito che non sarebbe venuta.».

«Signora Holmes, Jamie Hudson è stata uccisa ieri mattina.», la interruppe Hotch, prima che Susan potesse riprendere a parlare.

La dirigente si zittì immediatamente, serrando la bocca e strabuzzando gli occhi.

«Oh. Questo è... un vero peccato.», disse Susan, chiaramente sorpresa e dispiaciuta. «Io... Ehm, come è morta?».

«Sospettiamo sia la quarta vittima di un serial killer.», la informò Reid, rimanendo sul vago.

«Ho letto sui giornali, sì.», mormorò Susan, alzandosi lentamente dalla sedia e avvicinandosi al distributore d'acqua lì vicino e bevendone un gran sorso. Fece loro cenno se ne volevano, ma tutti e tre scossero il capo.

«Signora Holmes, Jamie Hudson ha avuto qualche problema qui al lavoro? Ha litigato con qualche collega... Le pareva nervosa, irritata?», domandò Samantha, sempre con quella sua voce melodiosa e insieme autorevole

Susan annuì.

«Come vi ho già detto, è stata assunta solo tre settimane fa, non la conoscevo bene», iniziò, gesticolando, «ma come tutti ha litigato con Sean O'Connor, un nuovo avvocato associato qui allo studio. Una persona molto, molto difficile, credetemi, se non fosse così bravo nel suo lavoro non l'avremmo nemmeno assunto. Un nostro avvocato, Iris Isaac, si è addirittura fatta trasferire nella sede dall'altra parte della città a cau...», spiegò Susan, salvo venir prontamente interrotta da Hotch.

«Mi scusi, ha detto Iris Isaac?», domandò Aaron, trattenendosi appena dall'alzarsi dalla poltrona.

«Sì, esattamente», ripeté Susan, avvertendo la tensione palpabile creatasi tra i tre Agenti dell'FBI.

«La seconda vittima.», pensò Reid ad alta voce, facendo trattenere rumorosamente il fiato a Susan.

«Ir... Iris è morta?», domandò la dirigente, portandosi una mano al cuore, mentre gli occhi le si inumidivano di lacrime.

«Ci perdoni, signora», disse Hotch, cercando di darla un minimo di conforto con le parole.

«Lei... io... oh, mio Dio», mormorò Susan, mentre le lacrime scivolano lente, calde a inesorabili dal suo volto. «Lei... è stata uccisa sempre da quest'uomo?».

«Sì, signora», annuì Aaron.

«Oh mio Dio», ripeté Susan Holmes, alzandosi aggrappandosi ai braccioli della poltrona. «Io... io ho bisogno di stare sola, mi spiace.».

«Certamente signora, la capiamo. Torneremo questo pomeriggio per parlarle», disse Hotch, seriamente, alzandosi e congedandosi con un cenno del capo.

Reid e Samantha lo imitarono, seguendolo e chiudendosi la porta alle spalle.

Hotch era già al telefono.

«Garcia, devi mandarci tutto quello che trovi a proposito di Sean O'Connor, avvocato, lavora qui al “Law National Studio”.», stava dicendo velocemente attaccato alla cornetta, per poi riattaccare il cellulare e infilandolo in tasca e voltandosi verso Samantha e Reid. «Sparks, credo che ti abbiamo appena trovato un sospettato.».

La ragazza fece un sospiro di sollievo.

«Grazie al cielo, mi stavo annoiando a morte!».


Continua...


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Capitolo 6
*** Capitolo 5. ***


 

Capitolo 5.

[…] finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti?

{Luigi Pirandello}


Una donna dal fisico felino, i lunghi capelli mori tenuti stretti da una pinza elegante che le conferiva un'aria sofisticata, le labbra truccate attentamente con un rossetto rosso, una camicetta bianca e un tubino beige attraversò l'atrio del “Law National Studio”, facendo voltare verso di lei numerose occhiate curiose, di cui la maggior parte mostravano un chiaro desiderio da parte del pubblico maschile.

Samantha muoveva il proprio corpo lentamente, adattando la camminata ai gesti sensuali che stava facendo, come aggiustarsi il ciuffo dei capelli volutamente sbarazzino.

Camminò elegantemente sino agli ascensori e premette il tasto che l'avrebbe portata al settimo piano, la ventiquattr'ore nella mano destra.

Mentre saliva, sola nell'ascensore, si mise a canticchiare Emotional Rescue, dei Rolling Stone, tenendo il ritmo con la mano sinistra.

Quando le porte si aprirono si ricompose e, riprendendo la camminata di prima, si diresse verso l'ufficio che indicava il nome di Sean O'Connor.

Prima di bussare, prese in mano la targhetta che teneva sempre al collo e vi stampo sopra un bacio, un vecchio rito che condivideva da quando aveva iniziato a lavorare all'FBI e, dopo aver passato il dito indice sull'incisione, bussò alla porta in legno su cui la targa “Sean O'Connor – Avvocato Penalista” risplendeva splendida.

«Avanti.», disse seccamente una voce d'uomo dall'altra parte della porta e Samantha entrò, montando un bel sorriso gentile e servizievole, ma allo stesso tempo seducente, per poi richiudersi la porta alle spalle.

«Buongiorno, signor O'Connor.», disse lei, avvicinandosi alla scrivania dove era seduto l'avvocato e porgendogli una mano per stringergliela. «Sono Elena Foster, la sua nuova segretaria personale, se ben ricorda abbiamo parlato ieri pomeriggio.»

Sean O'Connor ricambiò la stretta, la presa non molto salda. Era un uomo vicino ai cinquantacinque anni, gli occhi piccoli e scuri, i capelli corti attentamente curati di un moro particolare, probabilmente tinto, la corporatura massiccia. Sarebbe stato capacissimo di stordire una persona. Samantha se lo segnò mentalmente.

La ragazza gli porse il contratto da lei firmato che le era stato mandato il pomeriggio precedente e lo appoggiò sulla scrivania.

Sean vi lanciò una piccola occhiata, prima di parlare.

«Certamente».

«Mi dia un posto dove poter svolgere il mio lavoro e sono pronta per iniziare, signore.», sorrise Samantha, mentre tentava di mantenere sotto controllo l'antipatia che sentiva a pelle per quell'uomo.

«La scrivania qui fuori dalla porta.», disse Sean, guardandola, passando con gli occhi sul suo corpo flessuoso e fermandosi più volte sulle sue curve.

La ragazza lo guardò. «Grazie mille, signore. Se mi dice cosa posso fare, inizierei immediatamente a lavorare.».

«Torni qui tra cinque minuti», sbottò l'avvocato, facendole cenno di uscire.

Samantha annuì e chinò il capo, come per ringraziarlo. Fuori dal suo studio, sulla sinistra, c'era una grossa scrivania vuota con una sedia in legno. Probabilmente, quella era appartenuta alla stessa Jamie Hudson. La ragazza si sedette e appoggiò la propria ventiquattr'ore sulla superficie in legno della scrivania, dopodiché la aprì e tirò fuori una cornice argentata che ritraeva un bambino sorridente.

Il giorno prima lei, Hotch, Reid e Garcia avevano lavorato strenuamente sino a tarda notte cercando di fare più ricerche possibili su Sean O'Connor. Era venuto fuori che era divorziato da due anni e separato da un secondo matrimonio conclusosi dopo soli cinque mesi. Non aveva figli. Dalle ricerche era venuto a galla che si trattava di un maschio alfa, con gravi scatti d'ira; aveva lavorato sempre come avvocato, cambiando però spesso studio legale. Guadagnava tanto e risparmiava poco. Sembrava ossessionato dal proprio aspetto fisico, che curava recandosi in palestra quattro giorni a settimana, seguito da un personal trainer, e aveva una passione per le macchine sportive, i locali e gli orologi costosi.

Il piano era quello che Samantha si sarebbe infiltrata nel suo ufficio come segretaria personale - grazie all'aiuto di Susan Holmes che, non appena aveva saputo che sospettavano di O'Connor, aveva dato la propria disponibilità per partecipare alle indagini - spacciandosi per una trentenne single con un figlio, Russel, a carico. Padre assente. La foto era stata scattata il giorno prima, e il bimbo ritratto non era altro che il figlio di uno dei poliziotti, ritoccato un po' da photoshop.

L'unico ostacolo era quello di far dimostrare a Samantha di avere trent'anni, poiché di per sé ne dimostrava appena venticinque, ma era un problema sorvolatile. Ora l'unica cosa su cui Samantha doveva concentrarsi era una: far confessare O'Connor in qualsiasi maniera possibile.

Mise a posto qualche documento sulla scrivania, qualche penna in un portapenne e, dopo aver bussato, si ripresentò da Sean, esattamente cinque minuti dopo.

O'Connor la guardò e fece un minuscolo sorriso di apprezzamento.

«Chiamami l'avvocato Tyson allo Utah Insitute e me lo passi sulla linea 2, inoltre voglio che mi trovi tutto ciò che puoi sul caso Andersen negli archivi. E mi porti un caffè macchiato». Quell'ultima richiesta, Samantha lo sapeva, era una prova: una segretaria non doveva portare il caffè al capo come ordine, e non molte avrebbero eseguito senza rispondergli male. Lei, semplicemente, fece un sorriso.

«Con o senza zucchero?», domandò.

Il sorriso di Sean si fece man mano più grande.

«Due cucchiaini.».

«Come fatto.», disse lei, gentilmente, uscendo dall'ufficio, gli occhi del suo capo puntati sul suo fondo schiena.

**

Samantha lavorava come segretaria di Sean da due giorni e, in quel lasso di tempo, non vi furono ritrovamenti di nuovi cadaveri. Questo fece supporre alla squadra che l'S.I., se si trattava di O'Connor, aveva già messo gli occhi sulla sua prossima vittima: e quella era Samantha.

Ogni sera, dopo il lavoro, la ragazza si fermava qualche minuto in più oltre l'orario insieme a O'Connor, facendogli vedere quanto tenesse al suo lavoro, dandogli anche la possibilità, nel caso, di cercare di aggredirla dati gli studi vuoti, avendo in questa maniera la prova per incriminarlo, oppure per farsi invitare fuori per un drink, tale da poterlo ubriacare a magari farsi rilasciare una confessione dopo molte avance.

Dopo l'ufficio la ragazza andava nell'hotel in cui alloggiava insieme al resto della squadra e facevano il punto della situazione. Ora come ora erano tutti propensi a sospettare di O'Connor, anche se non abbandonavano altre possibilità, anche se le loro ricerche per ora non avevano portato ad ulteriori sospettati.

Era la sera del terzo giorno di lavoro di Samantha, e la ragazza stava sistemando gli ultimi archivi prima di andarsene. Prima di uscire bussò alla porta chiusa di O'Connor e quando ricevette risposta la aprì.

«Signor O'Connor, io andrei. Buona notte.», disse, con un gran sorriso.

Sean era chino sui suoi documenti, ma come la sentì entrare voltò lo sguardo verso di lei.

«Aspetta, Elena.», la richiamò, vedendo che stava per uscire. Chiuse i documenti in un cassetto a chiave e si avvicinò a lei.

Samantha non gli aveva mai detto che poteva darle del tu, era un lusso che si era preso da solo, ma lei non si lamentava.

«Mi dica.», disse.

Sean richiuse la porta e istintivamente l'agente infilò una mano nella tasca destra dove teneva un coltellino.

«Vuoi uscire a cena con me, questa sera?», domandò.

Samantha lo guardò qualche secondo, mentre dentro di sé pensava che era il piano perfetto, il momento che stava aspettando.

«Con molto piacere, signore», commentò lei, ingrandendo sempre più il sorriso.

«Chiamami Sean», disse lui.

«Come vuoi, Sean. Devo passare a casa a cambiarmi e a lasciare mio figlio da mia sorella, dove ci incontriamo e a che ora?», chiese lei.

«Al Lime Night, sulla Ventisettesima Strada. Diciamo... alle otto?».

Samantha annuì e uscì dall'ufficio, afferrò la propria borsa e si diresse lentamente verso l'ascensore, chiamandolo.

Nel parcheggio riservato ai dipendenti era rimasta solamente la sua auto, una vecchia Ford datele a disposizione dalla polizia, e la bella Ferrari rossa nuova fiammante di O'Connor. Non appena salì il suo sorriso si sciolse e digitò il numero di JJ al telefono.

«Tirami fuori un abito da sera dall'armadio, per favore. Questa sera si va a ballare.»

*

«Sei sicura?», le aveva chiesto Rossi mentre Samantha si preparava ad uscire dall'albergo sola, con una rivoltella infilata nella piccola borsa che si sarebbe portata con sé. Rossi si era offerto di rimanere insieme a Morgan o Prentiss con lei a spiare O'Connor ed intervenire in caso di necessità.

Samantha aveva annuito, sicura della sua decisione.

«Sono abituata a lavorare in questo modo. Vi chiamerò se ci sarà bisogno d'aiuto. Voi state pronti.» ed era uscita, lasciando David con l'asciutto in bocca e una brutta sensazione allo stomaco.

Al contrario, lei era tranquillissima. Aveva lavorato con individui ben peggiori di Sean, e sapeva perfettamente che l'unica cosa che voleva O'Connor era una: il sesso.

Era sempre riuscita a tirarsi indietro da simili avance dei suoi sospettati, facendo la preziosa, cosa che li mandava insieme sia fuori di testa sia arrabbiare. In questa maniera, si era beccata un paio di schiaffi ma fortunatamente nulla più.

Salì sulla Ford e guidò sino al Lime Night con molta calma, mentre nell'abitacolo risuonava un CD di Kate Bush. Sapeva che, probabilmente, a meno che Sean non avesse provato subito ad aggredirla, non ci sarebbe stato modo di estorcergli alcun tipo di informazione, non quella notte. Era troppo preso. Avrebbe dovuto aspettare ancora qualche giorno prima di riuscirci.

Il suo lavoro era così, calmo e metodico, e Samantha era perfettamente consapevole che bisognava avere una solida preparazione psicologica per affrontarlo; quanti avrebbero avuto la solidità di nervi di non puntare a fine serata una pistola alla tempia del sospettato dopo aver passato un'intera serata a parlare solamente di sciocchezze e flirtare? Quanti sarebbero riusciti a quasi avere un rapporto sessuale con un probabile pluriomicida, sapendo perfettamente ogni cosa che faceva alle sue vittime?

Samantha era stata formata per quel lavoro, da quando aveva sedici anni aveva deciso che doveva fermare persone come i serial killer, doveva fermare i cattivi, ma non solo lavorando a distanza da loro, avendo con loro un confronto solo in occasione dell'arresto, o dell'interrogatorio. No, lei voleva essere lì mentre confessavano di aver distrutto intere vite umane, voleva essere lei a far loro ammettere di essere dei mostri.

E ci era riuscita. E amava il suo lavoro, per quanto sporco e schifoso a volte potesse essere.

Sospirò, mentre parcheggiava davanti al locale e spegneva l'auto. Mancavano esattamente due minuti alle otto.

Con un sorriso raggiante scese dalla macchina, lasciando che l'abito nero che JJ le aveva scelto le accarezzasse le gambe snelle sino a metà coscia. Afferrò la propria borsetta e, camminando con le sue scarpe quasi vertiginose, entrò nel locale dopo essersi fatta aprire la porta da un bodyguard.

Il Lime Night era un piccolo bar dalle luci colorate tendenti al blu e al verde soffuse, molto elegante e, Samantha ci scommetteva, altrettanto costoso. Non era entrata da nemmeno quindici secondi che un cameriere giovane, vestito di tutto punto, le si avvicinò con un sorriso a trentadue denti.

«Posso esserle utile, signorina?», domandò servizievole.

Samantha annuì, sfilandosi il lungo giubbotto in tinta con il vestito e consegnandoglielo gentilmente.

«Sto cercando Sean O'Connor», disse poi.

«Oh, la signorina Foster! Prego, mi segua.». L'uomo si mise il cappotto sottobraccio e le fece strada sino a un separé piuttosto appartato in cui era seduto Sean O'Connor.

«Buona serata.», augurò loro il cameriere, prima di lasciarli soli.

«Ciao, Sean.», disse Samantha, avvicinandosi al suo capo e questi, non appena udì la sua voce, si alzò dal divanetto su cui era seduto e le sorrise.

«Elena.», mormorò, prendendole la mano destra e baciandola. «Sei bellissima».

«Grazie, anche tu», ricambiò Samantha, abbassando il capo fingendo di essere imbarazzata per il suo complimento. Dirgli che era bello era già un punto a suo favore, O'Connor era un maschio alfa e avere la certezza della sua bellezza fisica gli dava rassicurazioni.

«Sei perfettamente puntuale.», sorrise Sean, compiaciuto.

«Non amo fare la preziosa arrivando volutamente in ritardo», spiegò la ragazza sedendosi accanto all'uomo, toccandosi i lunghi capelli.

O'Connor deglutì, probabilmente quel gesto aveva innescato in lui chissà quale reazione.

Samantha si voltò verso di lui, una mano straordinariamente vicina alla sua gamba, puntando i suoi grandi occhi blu in quelli di Sean.

«Ordiniamo da bere?», domandò volutamente a bassa voce e l'uomo annuì velocemente. Samantha si rese conto in quel momento che, nonostante l'età che avanzava, Sean conservava ancora un certo fascino giovanile e, ne era sicura, sul suo viso non c'era traccia di lifting.

Afferrò con una mano il menù degli alcolici, sporgendosi volutamente verso di lui lasciando intravedere per pochi secondi la scollatura dell'abito.

O'Connor distolse lo sguardo e prese a sua volta un menù, svogliandolo attentamente, cercando di non farsi vedere mentre, a tratti, con la coda degli occhi la guardava.

«Io ordinerei una vodka lemon.», disse la ragazza. «Tu?».

«Un mojto.», borbottò, chiudendo il menù e tornando a fissarla. «Spero che tu non abbia avuto qualche problema a lasciare tuo figlio da qualche parte con così poco preavviso.».

Stava spezzando il ghiaccio. Era una buona cosa.

Samantha sorrise.

«Affatto. Mia sorella, Annika, è stata molto disponibile, fortunatamente».

«Com'è che si chiama tuo figlio, scusami?».

«Russel.».

«Splendido nome.», disse Sean, inarcando gli angoli della bocca in su. «Immagino sarà un bellissimo bambino.».

Samantha ridacchiò, scostandosi una ciocca di capelli e sistemandosela dietro un orecchio.

«Molto.».

«Avrà preso tutto dalla mamma.», la adulò Sean.

«Oh, Sean, così mi fai arrossire!», mormorò lei, acuendo leggermente il tono di chi è imbarazzato.

«E invece dimmi, il padre?».

«Il mio ex compagno non ne ha voluto saperne di prendersi simili responsabilità quali un figlio. Ma non c'è problema: si è perso cinque anni di gioie», disse lei, muovendo una mano mentre parlava mentre l'altra era sempre pericolosamente vicina a una gamba del suo capo.

Sean adocchiò la mano della sua sottoposta e sorrise.

«Mi spiace.», disse.

Samantha scrollò le spalle.

«Non importa. Russel ed io ce la caviamo bene comunque. Ma ora, dimmi qualcosa di te: hai figli?».

Sean stava per iniziare a parlare, quando un cameriere, lo stesso che poco prima aveva accompagnato Samantha nel separé, chiese loro le ordinazioni, per poi sparire di nuovo.

«No.», riprese l'avvocato. «Non ho figli, anche se mi piacerebbe.».

Samantha cercò di nascondere per un istante la sorpresa a quell'affermazione.

«Non hai ancora trovato la donna giusta per mettere su famiglia?», domandò fingendosi ignorante riguardo alla sua vita privata e sorseggiando un goccio di vodka. Solitamente gli agenti non dovevano bere quando erano in servizio, ma oltre al fatto che sarebbe sembrato strano non ordinare un alcolico in un locale, Samantha riusciva a sopportare benissimo l'alcol.

«Sembrerà banale, ma sì.», disse Sean, aprendo le braccia lasciandole poi ricadere lungo i fianchi. «Le mie ex mogli erano troppo preoccupate alla propria forma fisica per rischiare di perderla con una gravidanza.».

Man mano che parlava Samantha tentava sempre più di tenere a bada la sorpresa; quell'uomo, dalle sue parole, sembrava essere capace di avere figli. Quindi non era impotente. Non si adattava al profilo.

A meno che non mentisse.

«Oh, sei stato sposato più volte?», chiese lei, continuando a bere il proprio drink. Sean la imitò.

«Sì, due. Non erano quelle che mi aspettavo che fossero.».

La ventisettenne lo stava del tutto rivalutando e più era al suo fianco più si rendeva conto che quell'uomo non si adattava affatto al profilo. Avevano sbagliato strada, il fatto che Iris Isaac e Jamie Hudson avessero avuto entrambe dei contatti con lui era, per una volta, una mera coincidenza.

Chinò il capo sconfortata socchiudendo gli occhi per lo sconforto mentre O'Connor, ormai, parlava della sua vita, dei suoi soldi, della sua famiglia e della propria persona.

Era arrogante, un maschio alfa, narcisista, certo, ma non era l'S.I.

«Tu hai preso qualche precauzione?», le domandò un'ora e cinque drink più tardi, intontito per la quantità d'alcol assunta senza nemmeno mandare giù un pezzo di pane.

«Di che genere?», chiese Samantha, che era ancora a metà del terzo alcolico e si sentiva perfettamente lucida.

«Per il serial killer di quest'ultimo mese.», disse Sean, un braccio ormai totalmente intorno alla vita della ragazza.

«So cavarmela da sola.», ribatté lei.

«Non dovresti affidarti solo a te stessa.», disse O'Connor. «Sono morte tante donne.».

«Lo so.», annuì tristemente l'agente. «Lo so.».

«Due di loro lavoravano con me.», continuò lui. «Un'avvocatessa... e la segretaria prima di te. Uccise entrambe. Forse il nostro studio legale è maledetto, chissà.», buttò giù di un solo fiato l'ultimo sorso della sua vodka e si asciugò la bocca con la manica della camicia.

«Non credo al sovrannaturale.», disse Samantha.

Sean annuì, comprensivo.

«Dimmi, Sean, tre giorni fa, alle dieci, dov'eri?», domandò la ragazza, rendendosi conto che poteva fargli quella domanda senza il rischio che il mattino dopo l'uomo se ne ricordasse, e se avesse fatte domande ora come ora poteva benissimo confonderlo con una bugia di poco conto.

«In ufficio, che domande!», singhiozzò lui. «Come mai?».

«Credevo di averti visto in un supermercato vicino a casa mia...», disse lei, mentendo.

«Ah», fece lui, avvicinando il proprio capo a quello della ragazza e iniziando a baciarle il collo. Samantha lo lasciò fare, chiudendo gli occhi. Ora ne aveva la certezza: Sean O'Connor non era, nel modo più assoluto, l'S.I.

Quando la mano destra dell'avvocato si fece più molle e scivolò sino al seno della ragazza, Samantha scosse il capo.

«È ora che io vada.», disse. «Si è fatto tardi.».

Sean grugnì seccamente.

«Mi spiace. Devo andare a prendere Russel.», insistette Samantha, vedendo che Sean non accennava a volersi alzare. «Forse è meglio che ti chiami un taxi...».

«No, sono perfettamente capace di tornare a casa da solo», sbottò lui. Arrogante, giusto, non bisogna ferire il suo orgoglio, ricordò la ragazza.

«Va bene.», annuì lei, alzandosi e chinando il capo su di lui dandogli un bacio a fior di labbra. «Ci vediamo domani mattina, capo.».

Sean O'Connor annuì, con un sorriso arricciato sulle labbra sottili.

Samantha si fece portare il proprio cappotto dal cameriere, lasciò una banconota da trenta dollari sul tavolo, e si allontanò, dirigendosi verso l'uscita, voltandosi soltanto una volta per osservare l'avvocato.

Non l'avrebbe rivisto mai più, lo sapeva benissimo.


Continua...

Posterò “Somewhere in my mind” in settimana. :)

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Capitolo 7
*** Capitolo Sei. ***


Eccomi di nuovo anche con questa storia. Scusate anche qui per il ritardo. D:

Ho cancellato il capitolo che avevo precedentemente postato perché avevo saltato erroneamente un capitolo, ovvero questo. Così le cose dovrebbero essere più chiare... (:

Spero vi piaccia! <3

Capitolo 6.

Gli occhi molto belli sono insostenibili, bisogna guardarli sempre, ci si affoga dentro, ci si perde, non si sa più dove si è.

{Elisa Canetti}



Samantha si passò il cotone imbevuto di struccante sugli occhi lentamente, mentre il mascara, la matita e l'ombretto sparivano pian piano, lasciandole qualche macchia sul viso che fu prontamente ripulita dalla mano agile della ragazza.

Era tornata in albergo da più di un'ora e, come era entrata, aveva convocato una riunione con i membri del B.A.U., riferendo loro i suoi sospetti secondo i quali Sean O'Connor non fosse l'S.I. Avevano discusso a lungo e una volta finito erano giunti tutti alla conclusione che l'avvocato non poteva essere il colpevole. Era un narcisista arrogante, certo, ma non un uomo impotente abbandonato dalla moglie.

Solo verso l'una erano risaliti ognuno nella propria camera, dandosi appuntamento alle sette del mattino nell'atrio dell'albergo per andare alla centrale della polizia.

Ora, Samantha si era tolta l'abito che aveva utilizzato durante la serata ed era avvolta semplicemente nella sua camicia da notte, i lunghi capelli mori che le accarezzavano la schiena.

Prese il proprio cellulare per installare la sveglia alle sei del mattino e sbuffò: aveva ancora cinque ore di sonno. L'unica cosa a cui non si era mai abituata – e probabilmente non ci sarebbe mai riuscire – era dormire poco. Sin da ragazzina era stata una ragazza che necessitava di almeno otto ore di sonno al giorno. Da quando era entrata all'FBI, ovviamente, questa condizione era drasticamente cambiata.

Sospirò e fece per infilarsi sotto le coperte del proprio letto quando sentì qualcuno bussare alla porta.

«Sì?», domandò, nascondendo il tono seccato della propria voce.

«Ehm, Samantha, sono io, Reid.», disse una voce maschile dall'altra parte, un po' incerta.

«Oh, è successo qualcosa?», domandò la ventisettenne mentre si avvicinava velocemente a una sedia su cui aveva abbandonato la propria vestaglia e infilandosela prima di aprire la porta.

Reid era vestito così come lo era da quella mattina, e aveva una strana espressione confusa sul volto.

«Avete scoperto qualcosa?», chiese la ragazza, stringendosi il più possibile nella vestaglia leggera.

«Ehm... no, no. Volevo parlare con te... Posso?».

Samantha lo osservò insieme curiosa e confusa per qualche secondo, poi gli fece spazio per farlo entrare. Reid entrò nella camera con aria incerta, guardandosi intorno nervosamente mentre la ragazza si richiudeva la porta alle spalle.

«È tutto okay?», domandò lei, facendogli segno di sedersi sul piccolo tavolo tondo in mezzo alla stanza.

«Sì... sì... Non voglio disturbarti. Vuoi che parliamo un'altra volta? Magari vuoi dormire...», disse lui.

Samantha scosse il capo, mentendo, incuriosita dal giovane uomo che le stava davanti.

Reid si sedette dove gli era stato indicato, sospirando. Se doveva essere sincero, non aveva veramente idea del motivo che l'aveva spinto ad andare nella camera d'albergo di una pressappoco sconosciuta all'una e mezzo del mattino. Sapeva solo che quella ragazza lo affascinava in un modo strano ed era incuriosito da lei, dal suo lavoro, dal suo modo di fare, dai suoi gesti e dal suo comportamento. Non sapeva se ormai quella di Samantha fosse deformazione professionale e riuscisse ad incantare molti – se non tutti – gli uomini con cui aveva contatto oppure era semplicemente lui ad essere incuriosito da lei.

Gli suonava strano pensare alla parola attrazione. Raramente nella sua vita era stato attratto da una ragazza ma, lo sapeva, mai come con lei.

Per una volta non sapeva dare una spiegazione logica a ciò che gli passava per la testa.

Si disse che la sua era solo stanchezza e basta.

«Sei sicuro di star bene?», domandò ancora la ragazza.

«Sì. Io sì, sto bene...», fece lui, battendo il piede per terra per il nervosismo. «Volevo... solo parlare.».

«Parlare.», ripeté la ragazza.

«Parlare», affermò Reid, con più convinzione.

«Beh, parliamo, allora.», gli sorrise Samantha, per nulla infastidita. Quel ragazzo le piaceva*, era incuriosita da lui e dal suo modo di fare, dal suo cervello.

Rimasero qualche minuto in silenzio a guardarsi, lui perso negli occhi talmente blu di lei e Samantha intenerita da quelle due pozze da cerbiatto di Reid.

«Hai mai paura di morire?», domandò infine il ragazzo, tenendo il capo chino sulle mani che teneva strette sopra il tavolo, per poi alzare il capo verso di lei.

Samantha lo fissò, spiazzata dalla domanda. Non gliel'aveva mai chiesto nessuno.

«No.», disse lei, non totalmente sincera. C'erano delle volte in cui aveva paura di morire, di perdere tutto, ma raramente. Molto raramente.

Reid la fissò incuriosito.

«Tu?».

«Sì», ammise lui. «Sì. Come fai a non aver paura della morte?».

«Prima o poi tutti moriamo, Reid. Che sia oggi, o tra sessant'anni moriremo tutti. È un fatto. Ed ora come ora non mi cambierebbe molto morire.».

«Nessuno di noi due ha ancora avuto il tempo di vivere.», commentò lui tristemente.

«È vero. Ma se dovessi morire, che so, domani mattina, non avrei nessuna faccenda in sospeso... Certo, ad eccezione della risoluzione di questo caso.».

«Non hai una famiglia?», domandò Reid, rendendosi conto solo dopo aver parlato che non era una domanda opportuna.

Samantha si stiracchiò la schiena dopo aver serrato le labbra per un decimo di secondo, che però Reid notò ugualmente.

«Mio padre è morto quando era una ragazzina, mentre mia madre... mia madre non sentirebbe la mia mancanza.», dichiarò poi, piuttosto seccamente anche se non di sua totale intenzione. Già, sua madre, non poteva dirgli che Daisy Sparks, vedova del generale Ronald Sparks, figlia di due ex membri del Congresso di Washington D.C. era vittima di una malattia priva di cura a causa della quale non la riusciva nemmeno a riconoscere: l'Alzheimer. L'aveva contratto cinque anni prima ed era andato peggiorando ogni anno di più. Ormai, quando Samantha andava a trovarla nella casa di cura in cui era ricoverata, Daisy la scambiava per una delle infermiere che le portavano il pranzo.

Reid arrossì.

«Mi spiace, non dovevo chiedertelo.», mormorò.

«Non potevi saperlo.», disse Samantha, con tono gentile, con una frase degna di un cliché che si rispetti.

Reid si strinse nelle spalle, appoggiando la schiena allo schienale della sedia e passandosi una mano tra i capelli.

«Se devo essere sincera, Spencer, non capisco perché tu ti preoccupi della morte in questa maniera.», ammise Samantha. «Siamo giovani...».

«Guarda il lavoro che facciamo.», disse il ragazzo, sorpreso dal fatto che la ragazza l'avesse chiamato per nome.

«Guarda il lavoro che facciamo, quello che vediamo tutti i giorni... L'ultima volta che ho rischiato la vita è stato poco più di cinque mesi fa, e non so quante volte sia capitato a te.».

«Vuoi dire che il tuo lavoro non ti piace?».

«No, ti sbagli, io amo il mio lavoro. Ma a volte vorrei semplicemente, sai, una pausa. Staccare per un po'.».

«E allora fallo.».

Reid non rispose. Non era così semplice, non voleva dare l'idea di essere debole, anche se non lo dava a vedere già il fatto di essere il più giovane della squadra aveva un suo peso, ma dimostrare che non riusciva a tenere il passo degli altri era un'altra storia.

«E comunque, se vogliamo vedere il lato positivo, morire è una delle poche cose che si possono fare stando sdraiati.», disse Samantha, alzandosi e prendendo dal mini-frigo due bottigliette d'acqua e porgendone una al ragazzo.

Reid sorrise.

«Woody Allen.».

«È il mio modello.», ridacchiò la ventisettenne, scostandosi i capelli dagli occhi.

«Anche se non è teoricamente giusto, si può morire stando in piedi a causa di un infarto fulminante, una pallottola, oppure seduti, o anche...», prese a raccontare a manetta il giovane genio.

«Dio mio, come sei pignolo.», rise Samantha, scuotendo il capo.

Reid sorrise ancora, per poi aprire la bottiglietta d'acqua e sorseggiandolo un po'.

«L'S.I. che stiamo cercando, quanto pensi aspetterà prima di uccidere di nuovo?», domandò la ragazza dopo qualche minuto di silenzio.

Spencer sospirò, appoggiando la bottiglietta sul tavolo.

«Ho fatto un calcolo delle probabilità.», disse. «Il 33% delle statistiche dicono quattro giorni, il 7% una settimana mentre il 60% un giorno.», recitò.

Samantha non parlò subito.

«Sono solo statistiche senza delle vere basi per confrontarle però, no?», mormorò lei. «Non è detto che quel 60% sia corretto.».

«No, infatti», la assecondò lui.

Nessuno dei due ci credeva veramente.

«Della tua famiglia, invece, cosa mi racconti?», chiese Samantha, quasi mezz'ora più tardi e le lancette dell'orologio sfioravano le due e trenta del mattino.

«Sono figlio unico. Mio padre... Beh, mio padre se n'è andato di casa quando ero un bambino e non l'ho più rivisto se non sino all'anno scorso, per un caso di omicidio. Credevo fosse l'omicida e invece... Stava solo cercando di proteggere mia madre, che era rimasta coinvolta senza esserne a conoscenza. Mia madre», si bloccò, facendo un respiro. «Mia madre è una paranoide schizofrenica.».

Samantha lo fissò un solo secondo, per poi trasformare il proprio bel viso in una maschera di comprensione.

«Non eri tenuto a dirmelo.», disse, con tono gentile.

«Che senso ha nasconderlo? È così, ci ho convissuto tutta la vita, non ha senso continuare a tenerlo nascosto.», replicò Reid.

Samantha cercò nei suoi un segno di tristezza, di cedimento. Trovò solo una luce di chi ormai si è arreso all'evidenza.

«Mia madre soffre d'Alzheimer.», disse velocemente, senza veramente accorgersi di ciò che stava dicendo. Fu tentata dal desiderio di coprirsi la bocca con una mano, ma non lo fece solo per una grande determinazione.

Spencer strabuzzò leggermente gli occhi.

«Mi dispiace.», balbettò.

Samantha scrollò le spalle.

«Non importa. Volevo solo farti capire che so che cosa significa avere un genitore malato. Tutto qui.».

Reid le sorrise riconoscente e lanciò un'occhiata al proprio orologio.

«Sono le tre!», esclamò stupito. «È meglio se ti lascio dormire qualche ora. Mi spiace di averti tenuta sveglia.».

«Non fa niente, mi ha fatto piacere chiacchierare con te», gli sorrise sinceramente alzandosi inconsciamente elegantemente.

Spencer si alzò, forse troppo velocemente, sentendo una fitta al ginocchio ferito facendo una smorfia di dolore che non sfuggì alla ragazza.

«Stai bene?», domandò preoccupata.

«Sì, sì, devo solo... Limitare i movimenti bruschi», le sorrise per farle capire che andava tutto bene.

Samantha lo accompagnò alla porta e la aprì, aspettando che il ragazzo uscisse e sfiorandogli la schiena con una mano mentre lo accompagnava. Spencer rabbrividì appena a quel contatto.

«Ci vediamo tra quattro ore.», gli sorrise Samantha, inarcando appena gli angoli della bocca.

«Grazie per avermi ascoltato», replicò lui. «Buonanotte.», fece per allontanarsi, zoppicando appena, quando fu richiamato dalla voce soave della ragazza.

«Ehi, Spencer, se vuoi parlare anche domani sera, io sono qui!», lo disse velocemente, insieme conscia e inconscia delle proprie parole. Ma quando finì di parlare il suo sorriso si fece più raggiante.

Reid si voltò e annuì, felice.


Continua....


* con “quel ragazzo le piaceva” non intendo dire a livello sentimentale, come una specie di cotta, bensì più che altro amichevolmente, Samantha trova Reid una persona gradevole, gentile. Probabilmente l'avrete capito ugualmente, ma volevo fare chiarezza perché non mi sembrava che quella parte fosse spiegate benissimo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. ***


Capitolo 7.


Quando la sveglia suonò Samantha la spense con un gesto secco e nascose la testa sotto il cuscino, gemendo. Per i successivi cinque minuti provò a cercare qualche ragione per cui avrebbe dovuto alzarsi così presto, omettendo quella di un serial killer che stava uccidendo delle giovani donne.

Si alzò, trascinando i piedi sino al bagno e si legò i capelli in una crocchia disordinata, buttandosi poi sotto la doccia cercando di non bagnare i capelli: non aveva il tempo per asciugarli.

Si vestì piano, con gli occhi chiusi, sentendo il tessuto degli abiti accarezzarle la pelle lisa e morbida. Quando li riaprì, si diede un'occhiata allo specchio: sotto quei due pozzi blu c'erano due pesanti occhiaie, chiaro segno che aveva riposato poco o male. Le coprì con un velo di fondotinta e si passò una matita viola sulle palpebre, accompagnata dal mascara.

Si aggiustò meglio la camicetta che aveva indossato e, dopo aver afferrato la fondina, pistola, distintivo e una giacca scura in seta, uscì dalla camera mentre mangiucchiava una barretta ai cereali: non aveva tempo per fare una colazione degna di essere chiamata tale.

Quando scese nell'atrio trovò già tutta la squadra già pronta, vestita di tutto punto, ad eccezione di Hotch.

«Buongiorno.», fece la ragazza, reprimendo a stento uno sbadiglio.

«Buongiorno.», le risposero gli altri, chi con più chi con meno enfasi, dovuta al sonno.

Reid le accennò un piccolo sorriso e lei ricambiò senza farsi notare dal resto della squadra.

«Hotch?», chiese poi la mora, guardandosi intorno.

«Ha ricevuto una telefonata.», spiegò Emily, «ci starà per raggiungere.».

Samantha annuì, comprensiva, mentre indossava la giacchetta.

Morgan e Reid iniziarono a chiacchierare del più del meno, approfittando degli ultimi momenti di relax prima che il lavoro tornasse ad incombere su di loro, parlando del bisogno impellente di trovare caffeina, in qualsiasi forma. Avrebbero bevuto con gioia anche quella brodaglia che in centrale osavano chiamare “caffè”.

«Spero che con O'Connor sia andato tutto bene.», disse JJ, voltandosi verso Samantha dopo aver finito una piccola conversazione con Rossi.

«Al solito, forse addirittura meglio.», disse, scrollando le spalle, «più che altro sono rimasta colpita dal fatto che non fosse lui l'S.I.».

«E di questo ne sei proprio sicura?», chiese Morgan, pentendosi delle sue parole non appena le pronunciò.

La ragazza si voltò verso di lui, trafiggendolo con i propri occhi blu. Se c'era una cosa che non le potevano toccare, era la sua bravura nel lavoro, perché, di quello ne era certa, lei era brava.

«Assolutamente.», sibilò.

«Scusami, non volevo.», disse subito Morgan, seriamente pentito, muovendo le mani.

«Non fa niente.», grugnì la ventisettenne, quando poi interruppe Hotch nel gruppo, un'espressione seria e dispiaciuta allo stesso tempo.

«Hanno trovato una nuova vittima», annunciò.

JJ si passò una mano sul viso ed Emily scosse il capo, abbassandolo, mentre tutti gli altri facevano una smorfia.

«Quando è stata uccisa?», domandò Rossi.

«Ieri sera, alle undici circa.».

«Questo esclude completamente O'Connor dalla lista dei sospettati.», disse Samantha. Nonostante la grande frustrazione per la morte di un'altra donna, e l'orribile sensazione di occlusione allo stomaco per il fatto che non avevano altri sospettati – nessuno di concreto, comunque – si sentiva lievemente soddisfatta di sé stessa per aver dimostrato di non essersi sbagliata. Emozione che sfumò nell'arco di tre secondi, sostituita dallo sgomento.

«Deve essere cambiato qualcosa, l'S.I, ha sempre ucciso il mattino, questa volta di notte», notò Rossi.

«Ci aspettano sulla scena del crimine.», disse ancora Hotch, dopo aver annuito alla riflessione di David.

«Io cosa posso fare?», domandò Samantha.

«Non lo so.», ammise Hotch. «Anzi, Reid, Morgan, voi restate in centrale con Sparks, cercate di perfezionare il profilo, poi chiamate Garcia e ditele di restringere il campo più che può.».

Morgan e Reid annuirono, sinceramente sollevati dal fatto che non dovessero vedere un altro cadavere, per quanto man mano negli anni diventasse una faccenda di routine ognuno dei membri della squadra odiava vedere il corpo privo di vita di una donna, un uomo, o un bambino, gente che aveva ancora da vivere e che non avrebbe mai potuto più farlo.

«Ci vediamo al commissariato non appena abbiamo finito di esaminare la scena del crimine.», disse Hotch, poi si separarono, prendendo strade diverse.


«La vittima si chiamava Barbra Oswell, trentadue anni, un figlio di sette mesi.», disse lo sceriffo Mars non appena Hotch, Prentiss, JJ e Rossi giunsero sulla scena del crimine.

Emily si accovacciò accanto al corpo privo di vita della donna, notando come al solito le mani posate sugli occhi, in posa, e uno sfogo sul collo che indicava che era stata soffocata.

«È stata stuprata?», domandò.

«Sì, post morte, come per le altre.», annuì Jason Mars.

«E i timpani...».

«Bucati.».

La donna si alzò.

«Barbra è stata uccisa esattamente come le altre vittime, l'unica cosa che cambia è l'ora in cui è stato compiuto l'omicidio».

«Cosa gli ha fatto cambiare idea?», rifletté ad alta voce Rossi, facendo scrollare le spalle agli altri.

«C'è dell'altro, però», disse Mars. «Abbiamo un testimone».

«Come?», domandò stupita JJ, attirando l'attenzione che si era di nuovo spostata sul corpo esanime di Barbra sullo sceriffo.

Mars indicò un uomo vicino a una delle macchine della polizia.

«Non voglio illudervi, non ha visto l'assassino in volto. Passava qui di fronte per andare a prendere la macchina e ha visto la sagoma di un uomo chinata sul corpo di Barba a scattare delle fotografie.»

«Foto?», domandò ancora Rossi.

Mars annuì.

«È stato un omicidio disorganizzato, quindi. Sin ora non aveva mai rischiato di farsi vedere», disse Hotch.

«Anche il luogo, se ci pensate.», intervenne JJ. «Ha ucciso tutte le altre vittime in zone solitarie, dove il rischio di farsi vedere era ben minore, qui invece siamo in un parcheggio sotto a numerosi uffici.».

«Era di fretta, forse il bisogno di uccidere era troppo impellente per essere soppresso sino al giorno dopo», ipotizzò Emily.

«Che uffici ci sono qui sopra?», domandò JJ a Jason Mars.

«Sono studi di moda, per servizi fotografici, sfilate.».

Rossi prese il cellulare e digitò il numero di Morgan.

**

«Non è possibile che quel bastardo sia sempre un passo avanti a noi!», sbottò Samantha, irritata, legandosi i capelli sciolti in una coda alta dietro la testa e camminando avanti e indietro per la stanza.

Reid la osservò mentre si lamentava e, infine, si lasciava cadere su una sedia girevole con uno sbuffo, le braccia incrociate e un broncio che la faceva assomigliare terribilmente a una bambina.

Sorrise, nonostante tutto, a quell'immagine. Samantha si era sempre presentata come una ragazza composta e seria, concentrata sul lavoro e che sapeva reprimere i propri sentimenti. Ma Reid sapeva che quella non era altro che una delle tante facciate di quella giovane, bellissima quanto pericolosa, donna.

Morgan era uscito per andare a recuperare tre bicchieri del cosiddetto caffè della centrale e loro due erano rimasti per cercare di inquadrare meglio che potevano l'S.I. e di riuscire a stringere il campo sui centosessantacinque nomi che aveva mandato loro Garcia.

Reid si rese conto che Samantha mostrava i propri sentimenti soltanto quando erano solo lei e lui, sembrava che non riuscisse ad aprirsi. Si domandò se fosse solo una sua impressione o era realmente così.

«Lo prenderemo.», la rassicurò con un piccolo sorriso consolatorio.

Samantha annuì, guardandolo nei suoi occhi da cerbiatto.

«Eccomi.», disse Morgan, interrompendo quel loro contatto visivo e lasciando sulla scrivania tre tazze colme di caffè. «Qualche nuova idea?».

«A parte il fatto che stavo pensando che questo S.I è terribilmente irritabile nulla.», disse Samantha, prendendo una delle tazze e bevendo un sorso della bevanda, reprimendo a stento una smorfia.

«Gli altri hanno chiamato?», chiese ancora il bell'uomo di colore, ricevendo una risposta negativa.

Rimasero in silenzio alcuni secondi, ognuno perso nei propri ragionamenti. Reid era appollaiato su una sedia e guardava quasi distrattamente la bacheca su cui avevano appuntato tutto ciò che sapevano sul Soggetto Ignoto; Morgan tamburellava le dita su una gamba, cercando di trovare elementi sufficienti per accorciare la lista dei sospettati; Samantha, invece, si sentiva inutile: lei non era una profiler, non era una di loro che, con un'occhiata, sapevano dire lo shampoo preferito dell'assassino, lei era un'Infiltrata Speciale, un'attrice, non era abituata a starsene ferma con le mani in mano cercando di dare una mano su un profilo quando non ne aveva le capacità.

Il rumore del cellulare di Morgan che squillava strappò ognuno di loro dai propri ragionamenti.

«Sì?», disse Derek, una volta aver risposto. «Come? Certo, aspetta, come si chiamano gli studi? Okay, ti facciamo sapere appena possibile. A tra poco, va bene.». Non aveva attaccato da nemmeno cinque secondi che subito digitò un altro numero.

«Oracolo di Quantico ai tuoi servigi!», trillò la voce entusiasta di Garcia.

«Bambolina, ho bisogno di un tuo miracolo.», rise Morgan sentendo la voce dell'amica.

«Era ora, cioccolatino, credevo ti fosti dimenticato di me», disse Penelope. Morgan sapeva che aveva montato un bellissimo broncio dopo aver parlato.

«Vedrò di farmi perdonare quando torno a casa.», disse ammiccante Derek mentre Samantha ascoltava la telefonata in viva voce a metà tra il divertito e lo sbalordito.

Reid rideva sotto ai baffi.

«Sai, io sono forte anche al tele...».

«Ciao Garcia!», la interruppe Reid, parlando ad alta voce, facendo zittire la donna.

«Oh, io odio il viva voce!», sbuffò divertita. «Ditemi, miei uomini, cosa vi serve sapere dall'Oracolo?».

«Devi fare un controllo incrociato tra la lista che abbiamo di sospettati e i dipendenti di uno studio fotografico chiamato Stylist», disse Morgan.

«Beccato!», esclamò Garcia nemmeno tre secondi dopo. «Jackson Utah, trentasette anni, ha divorziato due mesi fa da Patricia Goswald, la donna si era sottoposta per due interi anni a dei trattamenti per rimanere incinta».

«Senza successo, immagino.», commentò Samantha.

«Esatto, zuccherino! Piacere di sentirti, Samantha!», disse sorridendo la bionda informatica.

«Piacere mio.», sorrise la mora, ora in piedi, mentre si scioglieva i capelli e, dopo aver estratto uno specchietto dalla borsa, si passava del rossetto sulle labbra sotto gli sguardi confusi dei due uomini, poi si sbottonò i bottoni della camicetta sino a far intravedere per bene la scollatura e fece per uscire, nascondendo la pistola nella borsa.

«Dove pensi di andare?», fece Morgan inseguendola, allibito, attaccando il telefono.

«A fermare e incastrare quel bastardo, ovvio.», disse Samantha, stupita dal suo comportamento.

«No.», si intromise Reid. «Non puoi.».

«È il mio lavoro.», disse la ragazza, digrignando i denti.

«Non siamo preparati, non puoi entrare da lui come niente fosse. Non siamo preparati.», cercò di farla ragionare Derek, ripetendosi.

Samantha lo osservò un secondo, gli occhi ridotti a fessure.

«E' in pieno delirio, mi pare di aver capito», disse Samantha. «Quell'uomo, sempre che sia lui l'S.I., potrebbe uccidere qualcun altro questa sera stessa, come facciamo a sapere che aspetterà altri due giorni?», domandò irritata.

«Non lo sappiamo. Ma se piomberai nel suo ufficio e cercherai subito di estorcergli una confessione, o cercare delle prove, può scoprirlo e noi non possiamo essere lì per aiutarti. E l'ultima cosa che ci serve è che tu ti faccia ammazzare.», disse Reid prendendo i redini della situazione sotto l'occhiata sbalordita di Morgan e quella innervosita di Samantha.

«Va bene.», ringhiò alla fine, riallacciandosi la camicetta e prendendo una salvietta struccante dalla borsa levandosi il rossetto.

Poco dopo irruppe nella stanza il resto della squadra, che venne prontamente informata degli sviluppi.

Emily chiamò lo studio e, fingendosi interessata agli studi e a voler fare delle foto, prese un appuntamento con Jackson Utah il giorno dopo.

«Samantha, è molto semplice, tu ti fingerei la cliente e...», iniziò a spiegare Rossi.

«...inizierò ad attaccar bottone, parlando della mia famiglia sottolineando che sono una trentenne single con una figlia a carico e chiedendo della sua, se è veramente lui, essendo in pieno delirio, cercherà di aggredirmi. Io devo stare pronta all'eventualità e chiamarvi con la radio», concluse per lui, snocciolando il piano.

Rossi annuì.

Hotch lanciò un'occhiata all'orologio: si era fatto primo pomeriggio.

«Andate a riposarvi, sino a domani non possiamo fare nulla.», disse con una vena di impazienza nella voce. «Ci vediamo questa sera in hotel, per la cena.».

**

Erano le undici quando Reid sentì qualcuno che bussava alla porta della sua camera. Era salito da poco nella stanza dopo aver chiacchierato con tutto il resto della squadra sia del caso che di cose più tranquille, come prendere in giro Morgan per la sua ultima conquista o chiedendo a JJ di come stavano Will e il piccolo Henry.

Samantha aveva partecipato alla conversazione, ma Reid la sentiva più distante, probabilmente dovuto al fatto che ancora non li conosceva bene e non voleva far domande a tutti per capire esattamente di cose stessero parlando. Ogni tanto Spencer si voltava verso di lei e gli spiegava chi fossero Henry, Will o altre persone citate da loro che Samantha di certo non poteva conoscere. Ad ogni volta che le parlava la vedeva sorridere, un sorriso bellissimo, pieno di sincera riconoscenza.

«Sì?», chiese curioso.

«Sono io... Samantha.», disse la voce suadente della ragazza dall'altra parte della porta.

Reid fece girare la chiave e aprì la porta, trovandosela davanti in tutta la sua bellezza, gli occhi blu che splendevano.

«Ciao.», disse lui stupito.

«Ehi.», rispose la ragazza. «Ti disturbo?».

Reid scosse velocemente il capo e si spostò, facendola entrare nella propria camera.

Samantha si guardò un attimo intorno, era uguale alla sua l'unica cosa diversa erano gli enormi libri poggiati sopra al letto.

«Saggi sulla criminologia.», spiegò Reid alla sua occhiata confusa.

Samantha ne prese uno in mano e lo sfogliò.

«Prima o poi me ne dovrai prestare uno.», disse con un piccolo sorriso. «Il vostro lavoro sembra affascinante.».

Reid annuì, sorridendo.

Samantha si avvicinò a lui, il suo viso era mutato ed ora era maschera di dispiacere.

«Mi spiace per aver perso le staffe, oggi.», mormorò.

«Eri stressata e stanca, non è colpa tua.», disse subito Reid.

«Il fatto è che... Capisci, sono morte già tante donne, e sapere che quel bastardo forse ne sta uccidendo un'altra in questo stesso momento...», continuò lei, alternando i suoi sguardi tra gli occhi da cerbiatto del giovane uomo e il pavimento in moquette.

«Sono sicuro che questa notte non ucciderà nessuno. Puoi stare tranquilla.», la tranquillizzò lui, con voce pacata.

«Come fai a saperlo?».

«Me lo sento.».

Samantha provò a ridacchiare a quell'affermazione, il Dottor Reid che per una volta non usava statistiche e percentuali per descrivere un caso ma semplicemente il proprio sesto senso sembrava poco credibile.

«Beh, spero che tu abbia ragione.», disse.

Si sedettero intorno al piccolo tavolo a disposizione nella camera, Samantha si torturava le mani mentre Reid la guardava e osservava le mille emozioni che sembravano dipinte sul suo volto, le sfumature dei suoi occhi di zaffiro, i capelli che le accarezzavano le guance per poi scendere lungo la schiena quasi sino alle scapole.

«Posso chiederti una cosa?», domandò lei dopo quelle che sembrarono ora di silenzio scandite solamente dal ticchettio dell'orologio a muro.

«Certo.».

La ventisettenne sospirò.

«Credi che il mio lavoro sia simile a quello di una... puttana?», domandò infine, sostenendo lo sguardo di puro stupore del giovane.

«Che cosa? No, certo che no!», esclamò lui.

«Davvero? È solo che... Oggi, quando stavo per andare da Jackson Utah e mi sono slacciata la camicetta, ho osservato la reazione di Morgan, e mi sembrava scandalizzato.».

«Sparks...».

«Seriamente, lo posso capire, dopotutto...».

«Sparks...».

«...non è facile capire ciò che faccio.»

«Samantha!», allungò le mani e le mise un dito sulle labbra, rimanendone lui stesso più sorpreso dallo slancio che aveva avuto.

La ragazza lo fissò prima incuriosita, poi sorrise e annuì.

«Il mio lavoro è, in un certo senso, simile a quello di una prostituta. Cerco di ammaliare gli uomini con il mio corpo, con la mia voce, con le mie parole. So che ci sono voci di corridoio che dicono che vado a letto con ogni uomo con cui ho a che fare durante le indagini», fece una risata senza gioia. «mi chiamano la Cacciatrice di Uomini, sai? Ma io non ho mai fatto sesso con nessuno di loro. Mai. È una cosa troppo disgustosa, addirittura per me. Io sono una Cacciatrice, ma una Cacciatrice e basta.».

Reid la osservò.

«Perché mi dici queste cose?», domandò poi.

«Non lo so. Forse perché non voglio che tu pensi certe cose di me, quando la mia fama arriverà sino ai vostri uffici. Non volevo che tu mi giudicassi.», disse, scrollando le spalle.

«Non ti avrei giudicata comunque.».

«Grazie.».

Fu esattamente come la sera prima, ma questa volta con più intimità, con più dolcezza, e allo stesso tempo entrambi erano sempre più aperti l'uno con l'altra.

Man mano che parlavano Samantha si diceva che stava raccontando a Reid certe cose – questioni che, addirittura, non aveva mai rivelato a nessuno – solo perché quel ragazzo sapeva ascoltare ed era interessato a quello che gli veniva raccontato, piuttosto che ammettere che le parole le veniva via dalla bocca prima che potesse decidere il contrario.

Si sentiva affascinata da lui, dal suo modo di fare ed essere. Dal suo lato da genio incompreso chiuso nel suo mondo, dalla sua capacità di non restare mai a corto di argomenti, dal fatto che nonostante tutto anche lui amava i silenzi ma non erano mai imbarazzanti in sua presenza. E poi la faceva ridere.

«Come mai quella catenina?», chiese Reid, notando che la ragazza stava giocando con la targhetta che teneva al collo.

Samantha abbassò il capo e sospirò.

«Apparteneva a mio padre», iniziò a spiegare con voce improvvisamente roca.

«Oh, mi spiace, io non dovevo...», iniziò Reid, arrossendo impacciato per la brutta figura.

«No, non fa niente, io voglio raccontartelo». Ed era così dannatamente vero.

Fece un respiro profondo.

«Come sai, mio padre è morto quando ero ragazzina. Io sono nata a Londra, ho vissuto lì sino ai sedici anni. Mio padre, Kyle, era un generale dell'esercito, mia madre, Adison, era socia di un'associazione umanitaria. Sin da bambina recitavo...», i suoi occhi si illuminarono. «Forse è soprattutto grazie alla recitazione che faccio questo lavoro. A quattordici anni iniziai a recitare al Queen Theatre, un teatro londinese piuttosto importante. I miei erano... così orgogliosi di me. Della loro bambina.», abbassò il capo.

«A sedici anni, durante la prima di una nuova rappresentazione teatrale, un uomo, un cecchino nascosto tra il pubblico, sparò un colpo e uccise mio padre.», continuò i pugni chiusi talmente forte da far diventare le nocche bianche. «Un terrorista.».

Reid trattenne leggermente il fiato.

«Mio padre aveva tanti nemici, essendo un generale, ma mai nessuno aveva provato a...», la voce di Samantha si arrochì. «Comunque, mia madre era nata a Washington e dopo il funerale, appena due settimane dopo l'omicidio di mio padre, ci siamo trasferite qui. Io ho ripreso a recitare, a studiare con più impegno, mi allenavo quasi quotidianamente al poligono e in difesa personale... Sapevo cosa volevo fare della mia vita. Sono andata a studiare a Berkley e sono tornata a D.C. per continuare la specializzazione a Quantico e anche per mia madre, che ormai si era ammalata. Ed ora eccomi qui.».

«Questa targhetta», riprese, una volta resasi conto che si era aperta sulla propria vita ma non aveva risposto alla domanda di Spencer. «Mi ricorda ogni giorno perché faccio questo lavoro, perché sopporto quello che vedo e faccio: è il mio portafortuna.».

Il ragazzo la guardò.

«Crederai che sono una stupida.», quasi ridacchiava.

«Non è assolutamente vero, lo sai.».

Samantha allungò istintivamente una mano e prese la destra di Reid che era appoggiata sopra al tavolo.

«Grazie, Spencer.».

Si alzò pochi istanti dopo e si avvicinò alla porta, Reid si affrettò a raggiungerla.

«Buonanotte, Reid.», disse lei, velocemente, stampandogli un bacio a fior di labbra su una guancia per poi uscire di corsa dalla stanza.

Poco dopo, si udì una porta chiudersi. La sua.

Spencer si toccò la guancia, stupito e incredulo.

Il suo cervello, per la prima volta in vita sua, non sapeva dargli una risposta logica a ciò che provava.


Continua...


Non so perché non ho postato per secoli questa storia, essendo già finita e archiviata. o.o Non chiedetemelo, quindi.

Somewhere in my mind prometto che arriverà presto. Almeno lo spero.

Scusatemi. D:

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. ***


Capitolo 8.


«Fa attenzione, Sparks.», le raccomandò Rossi, porgendogli una piccola radiolina che la ragazza infilò subito nella borsa.

«Lo faccio sempre, signore.», replicò Samantha con un piccolo sorriso rassicurante.

«Noi saremo pronti ad intervenire qualora ci fossero problemi.», assicurò Hotch.

La ragazza annuì, mentre si scostava una ciocca di capelli dal viso.

Reid, dall'altra parte della stanza, lo osservava preoccupato, le braccia incrociate e una strana sensazione di occlusione allo stomaco. L'idea che si esponesse, disarmata, ad un possibile S.I lo metteva a disagio. Avvertiva nei suoi confronti un senso di protezione: lui doveva proteggerla.

E una vocina nella sua mente gli diceva che non doveva lasciarla andare da Jackson Utah.

Scosse il capo, conscio che qualunque cosa potesse dire lei non sarebbe mai rimasta in centrale, facendo fare il suo lavoro a qualcun altro. Non dopo ciò che gli aveva detto i giorni prima, in quegli attimi di intimità strappati alla routine dei serial killer.

Samantha voltò lo sguardo verso di lui e gli fece un piccolo sorriso, che poteva valere più di mille parole.

Reid annuì sconsolato. Non riusciva a capire come, in una settimana, quella ragazza riuscisse a fargli un simile effetto. Lui, il logico e razionale Dr Reid, per la terza volta da quando era nato era attratto da qualcuno.

Non si capacitava di come potesse essere accaduto, cosa esattamente di lei gli facesse quell'effetto: forse il fatto che era una ragazza complicata, misteriosa, tutta da scoprire, il fatto che avessero due storie simili – padre assente, anche se per ragioni differenti, e madri malate – o forse quel sorriso magnetico e contagioso. O quel suo carattere, prima freddo e deciso, poi improvvisamente quella dolcezza e affettuosità che si permetteva solamente negli attimi di intimità che il lavoro le permetteva.

La osservò uscire dalla stanza del commissariato in cui erano riuniti, i capelli sciolti sulla schiena, la forma del corpo perfetto.

«Tutto bene, Reid?», domandò Morgan, comparendogli alle spalle strappandolo ai suoi pensieri.

«Sì.», rispose il giovane, senza ascoltarlo veramente.

«Hai un'aria strana.».

«Voglio solo prendere quest'uomo e tornare a casa.», disse Reid.

Morgan inarcò un sopracciglio.

«Reid.».

«Sarà meglio prepararci per andare nel parcheggio sotto lo studio di Utah.», disse questo.

Morgan scosse il capo mentre lo guardava avvicinarsi ad Hotch e Mars; l'aveva osservato negli ultimi giorni e si era reso conto che era diverso del solito e più di tutto aveva notato la complicità con Samantha. Inizialmente aveva creduto fosse per la vicinanza d'età, d'altronde a separarli c'era solo un anno di differenza, ma aveva capito che c'era qualcosa di più quando aveva visto Reid spiegare a Samantha di chi stessero parlando durante la conversazione della sera prima e lo sguardo di lei, e soprattutto quando la notte precedente aveva visto Samantha uscire dalla camera di Reid trafelata ma con un sorriso che le partiva da un orecchio all'altro.

Sorrise, felice, assistere a Spencer Reid alle prese con i flirt e le avance nei confronti del gentil sesso era un evento assai raro, e uno spettacolo che non voleva perdersi. Sperava solo che non ci stesse male nel caso non andasse a finire bene.

«Morgan, stiamo andando.», lo chiamò Emily, il giubbotto antiproiettile già legato intorno al busto, porgendogliene un altro.

«Grazie. Arrivo subito.», disse con un piccolo sorriso.

Lanciò un'occhiata a Reid, che parlava con JJ, e si ritrovò a pensare che per lui quel ragazzino era davvero quasi un fratello.

**

«Signorina? È il suo turno.», disse una giovanissima segretaria bionda, con un sorriso cordiale, facendo segno a Samantha.

Samantha si alzò dalla sedia di plastica su cui era seduta e ricambiò il sorriso.

«Può per favore lasciarmi per favore un suo documento?», domandò ancora la segretaria. L'agente annuì, sempre senza calare il sorriso cordiale, e consegnandole il documento falso che le era stato consegnato quella mattina, poco prima di lasciare l'albergo.

La bionda segnò il nome falso di Samantha su un registro: Madeline Pay.

«Prima porta a destra, signorina Pay.».

«Grazie.», ricambiò la mora, seguendo le sue indicazioni.

Non appena le diede le spalle il sorriso le si sciolse dalle labbra, si sciolse i capelli vaporosi che sin ora aveva tenuti legati in una treccia. Poi si riprese tra le mani la targhetta militare che era appartenuta a suo padre e vi stampò sopra un bacio, accarezzando poi l'incisione. «Ti voglio bene, papà.», mormorò, prese un respiro profondo e bussò alla porta dello studio fotografico di Jackson Utah.

«Avanti.», disse una voce sottile dall'altra parte della porta.

Samantha entrò.

«Buongiorno, signore.», disse, mostrando un sorriso felice.

«Buongiorno», ricambiò. «Signora...?».

«Pay, Madeline Pay. E signorina, per favore.», disse subito la giovane donna.

Jackson Utah annuì. Era un uomo piuttosto robusto, anche se la voce poteva far presumere il contrario, doveva essere sui quarant'anni, i capelli erano corti e scuri, gli occhi due pozzi neri. Un uomo a suo modo affascinante.

«Bene, signorina Pay. Mi dica, che genere di servizio fotografico vorrebbe?», domandò, lanciandole un'occhiata circospetta. «Per quale occasione?».

«Sto cercando un lavoro come attrice o modella.», mentì spudoratamente quanto perfettamente la giovane. «Devo mostrare delle foto ai giudici e sceneggiatori, quindi... Non lo so, mi consigli lei.».

Utah meditò a lungo, sfogliando un catalogo.

«Escluderei un nudo», disse. «Magari qualche foto con lei vestita così com'è e qualcun'altra con un abito da sera...».

«Non ho abiti da sera.», disse Samantha, con tono dispiaciuto, abbassando lievemente il capo e mordendosi il labbro inferiore.

«Che taglia indossa?», domandò Utah.

«Trentotto», disse lei.

Jackson le fece cenno di aspettare e sparì dietro a una porta che doveva portare a un magazzino, Samantha lo osservò, pronta a difendersi in caso l'uomo si fosse presentato con qualcosa di pericoloso.

Pochi minuti dopo il sospetto S.I. tornò con un abito grigio accuratamente protetto da una carta trasparente tra le mani.

«Si può cambiare dopo», disse. «Ora, cominciamo con le foto di lei vestita ora come ora.»

Samantha annuì e si sedette su uno sgabello posto accuratamente in un set per la fotografia, sorridendo raggiante e mettendosi in varie pose, da alzata e seduta.

Utah ogni tanto le consigliava come spostare un braccio, una mano, lo sguardo, sembrava un fanatico dei dettagli, particolare che Samantha registrò subito.

«Da quanto tempo fa questo lavoro?», domandò interessata, iniziando a fare domande.

«Quasi sette anni», rispose meccanicamente Jackson.

«Deve essere un lavoro molto interessante!», riprese lei. «Mi ha sempre affascinato la fotografia, mi sarebbe piaciuto fare qualche corso per intraprendere una carriera in questo campo.».

«Se vuole, perché non lo fa?», domandò l'uomo, più per gentilezza che vero interessamento.

«Beh, sono una donna single con un figlio a carico e un lavoro a tempo pieno, non ho proprio il tempo», rispose lei, con finta disinvoltura, scostando lo sguardo ma guardando Jackson Utah con la coda dell'occhio. Lo vide esitare e irrigidirsi a quelle parole.

«Davvero?», domandò. «Quanti anni ha suo figlio?».

«Cinque.», disse Samantha, sorridendo all'obbiettivo mentre si metteva una mano dietro la testa e l'altra la mise su un fianco, in posa per la prossima foto.

Utah scattò un altro paio di istantanee e poi le fece cenno di prendere l'abito e di andare a cambiarsi nel camerino.

La ragazza annuì, afferrò l'abito e si allontanò con aria circospetta, senza lanciarsi occhiate alle spalle solo grazie al suo fermo autocontrollo. Aveva uno strano presentimento che non riusciva a spiegarsi, ma si disse che era solo paranoia.

Si infilò l'abito quasi in trans, mettendosi a posto i capelli e poi tornando da Utah, il quale stava camminando avanti e indietro per la stanza, borbottando tra sé e sé.

«Eccomi!», disse la ragazza.

Utah annuì e Samantha si risedette sullo sgabello, accavallando le gambe; notò che Jackson aveva modificato lo sfondo dietro di lei, da azzurrino ora mostrava una stradina tipica di New York.

«Mi dica, lei invece ha famiglia?», domandò.

L'uomo si irrigidì ancora di più.

«Sì.» disse seccamente.

«Figli?».

Jackson Utah iniziò a toccarsi un orecchio con nervosismo.

«No.».

«Quindi è sposato.», disse la mora, pressandolo, conscia che se avesse continuato a metterlo sotto pressione sarebbe scoppiato.

Il fotografo annuì, sembrava non volesse parlare.

«Avete intenzione di avere figli?», continuò.

«No.».

«No? Sua moglie non vuole dei figli? Non lo sa che i figli sono la gioia della vita? Credo che ogni donna vorrebbe dei figli e impazzirebbe nel caso non li avesse. Avere dei figli è un privilegio a cui non si può rinunciare. Strano che sua moglie non ne voglia. Lo sapeva che...», disse, parlando a manetta, mentre una mano di Utah iniziava a tremare.

«Basta!», urlò l'uomo, sbattendo un piede a terra. Samantha montò un'espressione innocente sul volto.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?», chiese dolcemente.

«Se ne vada di qui.», disse Utah, serrando i pugni. «Subito!».

«Va bene, okay», fece la mora, alzando le mani in segno di resa. «Mi rivesto e vado via. Mi dia qualche minuto, mi scusi.».

L'uomo la guardò sfilargli accanto e chiudersi nel camerino.

Velocemente la ragazza si infilò la maglietta, i jeans e le scarpe, mandando un avvertimento a Hotch di iniziare a intervenire con cautela. Sapeva che la squadra si tornava nel parcheggio in cui era stata trovata Barbra insieme ad alcuni poliziotti di Tucson.

Uscì dal camerino ma non fece nemmeno un passo che sentì improvvisamente un dolore lanciante dietro la testa e cadde a terra, portando le mani in avanti per impedire di farsi male al viso. Si voltò indietro, la vista era sfocata, ma riuscì comunque a scorgere la figura di Jackson Utah con in mano un piede di porco.

«L'ho capito subito che eri della polizia.», disse seccamente, guardandola dall'altro verso il basso ed osservandola mentre si portava una mano alla testa e gemeva. «Solo voi poliziotti avete una simile puzza sotto il naso».

Samantha lo guardò negli occhi: non aveva paura.

«Non ho paura di te, lo sai questo, sì?», chiese con tono sprezzante, trattenendosi appena dallo sputargli in faccia.

Jackson Utah si chinò leggermente verso di lei mentre si portava una mano alla vita e iniziava a slacciare la cintura.

«Vedremo sino a che punto.», mormorò, brandendo l'oggetto e un sorriso malizioso che gli incrinava le labbra.

**

Hotch estrasse la propria pistola dalla fondina e fece cenno ai membri della sua squadra di seguirlo insieme allo sceriffo Mars e ai suoi agenti lungo il corridoio che portava allo studio di Utah. Il piano iniziale era quello di aspettare un esplicito segno di Samantha ad intervenire, ma da quando aveva detto loro di intervenire con cautela non l'avevano più sentita e non aveva risposto per due volte al telefono.

Reid era davanti insieme a Morgan e camminavano velocemente, con passi corti ma svelti.

«Oh mio Dio!», esclamò una giovane ragazza bionda, vedendoli e sbiancando velocemente. «Cosa succede?».

«Via, via di qui!», le ordinò JJ, avvicinandosi a lei e facendole segno di andarsene. La segretaria si allontanò, lanciandosi delle occhiate alle spalle con aria spaventata, e fu prontamente fermata ad un certo punto da un altro poliziotto per interrogarla a proposito del suo capo.

«Jackson Utah, FBI!», urlò Morgan, provando ad aprire la porta ma trovandola chiusa a chiave.

Si scambiò un'occhiata con Rossi alle sue spalle e dopo qualche istante alzò una gamba, dando un possente calcio alla porta, la quale si aprì con un rumore secco. Derek entrò nello studio, subito seguito da Reid e il resto della squadra.

«Qui!», disse loro la voce di Samantha e subito la seguirono, allarmati e insieme sollevati dal sentirla parlare.

Davanti a loro, quando la raggiunsero, si parò una scena tutta nuova: Samantha era in piedi, una mano che si reggeva la testa, una lieve smorfia sul viso misto a un sorriso vittorioso e a terra c'era Jackson Utah, le mani legate con la sua stessa cintura, gli occhi chiusi e l'ombra violacea di un livido che iniziava a disegnarsi sulla tempia destra.

«Eccovi.», disse la ragazza. «Portate questo bastardo lontano dalla mia vista, ve ne prego.».

Non appena finì di parlare tre agenti della polizia di Tucson lo presero per le spalle, trascinandolo fuori mentre un quarto si premurava di chiamare un'ambulanza.

«Stai bene?», le domandò gentilmente JJ, vedendo la smorfia che le percorreva il viso.

«Mi ha colpito alla testa», disse lei. «Ma sto bene, davvero, mi serve soltanto un po' di ghiaccio.».

«Sicura?», domandò Hotch, penetrandola.

«Assolutamente.», annuì la ragazza, sorridendo appena e mostrandosi completamente serena.

«Andiamo via di qui.», disse poi Reid, avvicinandosi a lei e Samantha annuì sollevata.

Per un'altra volta era finita.

**

Quella sera il jet era silenzioso. La stanchezza che aveva accompagnato i membri del BAU per quella settimana e mezzo si stava facendo sentire e ognuno di loro approfittava del viaggio di ritorno per riposare, ascoltare la musica o dormire.

Samantha era seduta vicino a un finestrino, da sola, in silenzio, le cuffie dell'iPod infilate nelle orecchie e la melodia di When I get home che risuonava nella sua testa.

Pensava a Jackson Utah. Sapeva già che gli avrebbero dato l'ergastolo senza possibilità di uscire sulla parola, ma non era tanto quello ad interessarla, più che il pensiero di tutte le donne che aveva ucciso, le vite rubate non solo a loro, ma anche i figli, la maggior parte dei quali non avevano un padre su cui contare e che sarebbero finiti in affidamento. Pensava agli amici delle vittime, con i quali magari avevano pensato di organizzare una vacanza che non sarebbe mai avvenuta.

Sospirò e fece una smorfia quando appoggio la nuca al sedile dell'aereo: nonostante avesse insistito di stare bene, Rossi l'aveva atta visitare da un medico, il quale aveva accertato che non si trattava altro che di una brutta botta.

Pochi istanti dopo vide una mano affusolata che le porgeva un panno rigonfio.

Reid le sorrise incoraggiante.

«Ti ho portato del ghiaccio.», spiegò, arrossendo appena.

Samantha lo afferrò e lo ringrazio con un sorriso, mettendosi poi il ghiaccio sulla nuca e fece subito un sospiro di sollievo.

«Meglio?».

«Decisamente. Grazie, Reid.», sorrise Samantha, facendolo arrossire ancora di più.

La ragazza spostò di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino. Le parole che gli aveva detto Utah continuavano a rimbombarle in testa «L'ho capito subito che eri della polizia», ed ogni volta era una continua sconfitta.

«Che cos'hai?», domandò il giovane genio, scrutandola con aria preoccupata.

Samantha scrollò le spalle.

«Utah sapeva che ero della polizia non appena sono entrata in quello studio.», borbottò. «Non sono riuscita ad ingannarlo.».

Reid le fece un piccolo sorriso di comprensione, capendo immediatamente ciò che la ragazza stava cercando di dirgli.

«Capita a tutti.».

«Ma a me no, faccio questo lavoro da anni e sono sempre riuscita ad ingannare qualsiasi S.I. o sospettato quale fosse, se mi scoprivano avveniva solo dopo tanto tempo che ero con loro, Jackson Utah ha capito che ero un federale non appena sono entrata lì dentro.».

«Samantha», fece Spencer, sporgendosi in avanti e guardandola fissa negli occhi. «lui ora è in prigione e ci rimarrà per il resto della vita, tu invece sei qui fuori. È questo l'importante.».

La ragazza annuì, abbassando lievemente il capo.

«Grazie Spencer.».

«Di cosa?».

«Di essere te».

«Oh, grazie, non so essere nessun altro*».

Samantha ridacchiò. «Già, è proprio questo che mi piace di te*.».

A quell'affermazione Reid si fece color porpora e abbassò il capo, passandosi una mano tra i capelli.

Rimasero in silenzio a lungo, scambiandosi delle occhiate ogni volta che pensavano che l'altro non lo vedesse.

«Ehm...», iniziò Reid, rendendosi conto di avere la voce improvvisamente roca. Se la schiarì. «Samantha, io... volevo chiederti una... una cosa.».

La mora si voltò a guardarlo.

«Dimmi.», gli sorrise incoraggiante.

«Ecco, io mi chiedevo se... sì, se uno di questi giorni... Sai, ti andrebbe di andare a prendere un caffè insieme.».

Il sorriso che si era dipinto sul volto di Samantha si sciolse man mano che il ragazzo parlava, fino a scomparire del tutto.

Già da quel gesto, Reid avrebbe voluto non aver aperto bocca.

«Reid... Io... Non posso, mi dispiace.», balbettò, seriamente dispiaciuta.

«Oh, capisco. Non... non importa, davvero.».

«No, ti prego, lasciami spiegare. Tu sei una persona meravigliosa, e mi piacerebbe poter uscire con te per quel caffè, ma... Non possiamo permetterci che quell'uscita diventino tre, quattro, dodici sino a diventare quasi quotidiane, mi capisci? Noi...», abbassò il tono sino a sussurrare in modo tale che non la sentissero. «siamo colleghi, capisci? Il protocollo dell'FBI dice che...».

«Lo so», la interruppe il ragazzo, «lo so. Non importa, era solo un caffè». Nonostante la finta indifferenza, Samantha percepì il dispiacere nella voce di Spencer.

Tornò a guardare fuori dal finestrino. Se Reid non fosse stato un suo collega, avrebbe accettato quell'invito senza quasi pensarci, ma non se lo poteva permettere. Sapeva che quel caffè si sarebbe trasformato ben presto in una prima colazione, e poi in un pranzo, e poi in una cena e dopo ancora tutte e tre le cose. Sarebbero arrivati i week-end da passare insieme, le uscite, l'invito al cinema, gli spettacoli a teatro, i concerti. E sarebbero probabilmente divenuti una coppia. Se lo sentiva, non sapeva come, ma si sentiva che se avesse accettato quell'invito lei e Reid avrebbero avuto una relazione; era strano pensare una cosa simile dopo solo una settimana e mezzo passati insieme, praticamente impossibile, ma era come se tra loro fosse scoccato quel qualcosa che se non si troncava sul nascere sarebbe divenuto qualcosa di importante. Di estremamente importante. Ed ecco cosa doveva fare, troncare sul nascere. C'era un motivo per cui l'FBI vietava le relazioni tra colleghi, per quanto potessero lavorare sporadicamente insieme: non ci si poteva permettere distrazioni sul campo, non potevano mettere a rischio la propria persona e quella dei proprio colleghi nel tentativo di salvare o aiutare il proprio compagno o compagna. E lei osservava il protocollo, da sempre, perché lei era fatta così: previdente, devota alla legge e alle più piccole regole, per quanto le potessero far dispiacere.

Chiuse gli occhi, lasciandosi cogliere dalle braccia di Morfeo mentre si cercava di convincere che era la decisione giusta.

**

Reid salutò il resto della sua squadra con la mano, augurando a tutti la buonanotte e dicendo che si sarebbero visti tutti da lì a due giorni poiché il giorno dopo era stato concesso a tutti un giorno di riposo dalla Strauss tra il sollievo generale. Samantha era andata via, tornata nel suo ufficio non appena il jet aveva toccato terra.

Sospirò amareggiato mentre entrava in ascensore e premeva il bottone che l'avrebbe portato sino al parcheggio sotterraneo; quando l'aveva invitata ad uscire per quel caffè non sperava molto in una risposta positiva, anzi ad essere sincero non l'aveva nemmeno premeditato, erano state le sue labbra a muoversi quasi senza il suo consenso. Non era sorpreso del fatto che gli avesse detto di no, d'altronde lei era bellissima, probabilmente poteva avere qualsiasi uomo desiderasse, e lui era... Beh, era solo lui.

Si incamminò lungo il parcheggio vuoto verso la propria macchina, tenendo il capo chino verso la propria borsa a tracolla mentre cercava le chiavi dell'auto.

Quando le trovò alzò di nuovo il capo, conscio di essere arrivato davanti alla macchina e la sua bocca disegnò una 'O' dalla sorpresa.

Seduta sul cofano dell'auto, a gambe incrociate, i capelli sciolti e un sorriso sereno sul volto, c'era Samantha.

«Mi chiedevo se l'invito per quel caffè fosse ancora valido.», disse, senza accennare di smettere di sorridere.

Spencer Reid la guardò stupito, poi le sue labbra si curvarono all'insù. E sorrise.


The End.


Finita! Ho postato gli ultimi due capitoli insieme altrimenti mi sarei dimenticata di postare, di nuovo.

Tecnicamente ci sarebbe un seguito, di cui ho già scritto un paio di capitoli. Ma non sono sicura se postarlo o meno. Vedremo.

Grazie mille a tutti voi per le recensioni, i preferiti, i seguiti e le ricordate. Vi adoro. GRAZIE. <3

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