Parental Advisory: The static age

di Eryca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Can you hear the sound of the static noise? ***
Capitolo 3: *** He's the Jesus of Suburbia ***
Capitolo 4: *** Born and raised by the hypocrites ***
Capitolo 5: *** Inside your restless soul your heart is dying ***
Capitolo 6: *** So give me novacaine ***
Capitolo 7: *** Ashes to ashes of our youth ***
Capitolo 8: *** There is no place like home, when you got no place to go. ***
Capitolo 9: *** I walk alone the road. ? ***
Capitolo 10: *** I don't care if you don't. ***
Capitolo 11: *** Lost children with dirty faces today. ***
Capitolo 12: *** I wish someone out there will find me ***
Capitolo 13: *** A kiss we'll share ***
Capitolo 14: *** It makes me lose control ***
Capitolo 15: *** The son of rage and love ***
Capitolo 16: *** Run away from the river to the street ***
Capitolo 17: *** I hope you had the Time of your life ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Parental Advisory: The Static Age

 

  PROLOGO
   

 

Il mio unico e vero amico si chiamava Bruto.
Era il mio cane. Un boxer per l’esattezza.
Il nome che gli avevo dato non era per niente azzeccato, poiché il mio cagnolino era dolce e non si lamentava mai. Bastava che gli dessi una bella ciotola di crocchette, un osso e qualche coccola.
Avrei tanto voluto essere come lui.
Invece, ero io.
E le persone pretendevano sempre il meglio da me. Non potevo permettermi di sbagliare.
Ma in fondo che problema c’era? Io facevo sempre la cosa giusta.
Fin da piccola, ero sempre stata una bambina mite e gentile. Dicevo raramente di “No”, e quando lo facevo era solo perché dovevo mantenere il mio equilibrio vitale.
Mio padre, un uomo alto e robusto, era un giudice rinomato.
Era un brav’uomo. Anzi, probabilmente prima di coniare il termine “brav’uomo” avevano conosciuto mio papà, Steven.
Mio padre erano una persona abitudinaria, che non amava i cambiamenti e doveva avere le sue sicurezze.
Tutte le mattine si alzava alle 7:00, si lavava i denti, si faceva la barba e scendeva in cucina, dove mia madre lo aspettava con la sua tipica colazione: caffè con due cucchiaini di zucchero, un tazza di latte e due fette biscottate con marmellata di albicocche. Poi andava in Tribunale.
Steven aveva sempre voluto il meglio per me.
Mi aveva iscritta nella migliore accademia di danza classica della città, all’età di tre anni.
Ancora in quel periodo ballavo, ed ero anche parecchio brava.
Amavo la sensazione di completezza assoluta che avevo mentre mi alzavo sulle punte, per formare una posizione eretta, o per fare una presa con il mio partner.
Ero la ballerina più brava del mio corso, naturalmente.
Frequentavo il più prestigioso Liceo, ed ero anche brava a scuola.
Ero la figlia perfetta, nonché la tipica brava ragazza. Non disobbedivo, facevo i compiti, ballavo, avevo diversi interessi. E facevo ogni cosa i miei genitori mi chiedessero. Non andavo mai loro contro.
Mio padre voleva che diventassi un avvocatessa, mia mamma invece sperava di vedermi in teatro come prima ballerina della Julliard. Io ovviamente mi impegnavo al massimo per realizzare questi sogni..
I loro sogni.
Non mi ero mai chiesta se ciò che volevo fare era veramente quello per cui continuavo a dare il cento per cento di me stessa. Era semplicemente così.
Non avevo termini di paragone.
Anche la mia cerchia di amici era sana, e approvata da mio padre in particolar modo.
Andavamo al cinema a vedere film d’amore, oppure a vedere concerti al teatro, prenderci un caffè nel nostro bar abituale, o ci trovavamo a casa per stare insieme.
Eravamo tutti assolutamente dei bravi ragazzi.
E io ero contenta della mia vita.
Credevo davvero in ciò che facevo. Non mi ero mai posta il problema di chiedermi che cosa veramente avrei voluto fare.
Sapevo che quello che sarebbe stato giusto fare era continuare ad essere così com’ero.
Non avevo altri problemi, non avevo alternative.
Uscivo solo con dei ragazzi per bene, possibilmente di famiglia benestante ed educati.
I miei genitori mi avevano insegnato certi principi: essere educata, accondiscendente, sicura, sobria.
Tutto ciò comprendeva il fare quello che volevano loro.
In teoria non mi proibivano di fare ciò che volevo, perché io trovavo piacere nella mia vita.
Mi avevano sempre fatto credere che la vita fosse giusta così, e che non ci fossero altri modi di viverla.
Quindi per me era giusto, era splendido, era perfetto.
Vivevo chiusa nella mia bolla di sapone eterea, e la amavo alla follia.
Anche esteriormente ero perfetta, come volevano tutti; ero abbastanza alta, avevo capelli lunghi, biondi e lisci, degli splendidi occhi azzurri e un fisico snello.
Mi vestivo in modo sobrio ed elegante, senza troppe pretese.
Insomma, ero la tipica ragazza di alto borgo.
Ma la cosa terrificante era che non sapevo di esserlo.
Per me il mondo era fatto di gente simile a me, che meritava la mia parola, e tutto il resto era qualcosa di lontano e irraggiungibile.
La fame nel mondo, la povertà, le guerre, le rivoluzioni.. erano tutte cose che conoscevo, ma che non mi toccavano particolarmente.
In tutta la vita avevano solo meccanicamente svolto delle attività, e fatto cose che mi erano state consigliate.
Ma non mi ero mai fermata un attimo a pensare.
Non c’è n’era bisogno.
Solo quando guardavo nei grandi occhi nocciola di Bruto, sentivo che qualcosa mi sfuggiva.
Era come se il cane stesse cercando di farmi aprire gli occhi sul mondo.
Si, mi stava dicendo di smetterla di essere inconsapevolmente egoista e superficiale.
Sapevo che mi mancava qualcosa, perché anche se andavo avanti giorno dopo giorno con il sorriso sul viso, sentivo che c’era qualcosa che non afferravo.
Mi sentivo stranamente insoddisfatta.
Ma come poteva essere? Avevo tutto ciò che una persona doveva avere.
Ero Amy Murray, la dolce figlia del grande giudice Murray. Che cosa c’era che non andava?
Solo Bruto capiva, solo lui sapeva.
 
Avevo 17 anni.
Avevo 17 anni quando un ciclone improvviso fece il suo ingresso nella mia vita, e mi stravolse ogni piano e ogni certezza.
Avevo 17 anni quando finalmente capii che c’era un’alternativa.
Avevo 17 anni quando mi resi conto che potevo scegliere.
 
 
 
***************
Angolo Snap:

Grazie alla mia beta reader, che mi sostiene e mi aiuta sempre, Vi, sei speciale.

Qua è Snap95 che vi parla, beniamini.
Allora tanto per iniziare questa è la prima fanfic che scrivo sui Green Day, però ne ho lette parecchie per poter dire qualcosa a riguardo.
Di solito nella storie in cui è inserito un Nuovo Personaggio, si ha una protagonista che vive nella periferia, che non ha speranze, che sfoga il suo malessere nella trasgressione, e che ha una famiglia terribile.
Ne ho lette parecchie, e ne ho anche apprezzate diverse, ma credo che dopo un po’ sia banale.
Quindi ho deciso di aggiungere un personaggio assolutamente perfetto, che ha una vita fantastica e che non ha alcun problema.
Ha tutto, ma in realtà non ha nulla.
Come seconda cosa, in questa storia ho deciso che i Green Day non saranno ancora famosi, ma dei semplici ragazzini con l’amore per la musica.
E nonostante la scelta, il batterista che ho inserito è il mio amatissimo Tré Cool, e non John l’ex batterista ai tempi in cui erano giovani.
Per ora non ho ancora specificato la città ma credo che sarà Rodeo.
Ora, questo solo il prologo –cortissimo- per far capire più o meno l’andamento della ff.
Ditemi cosa ne pensate, siate sinceri.
Se secondo voi è il caso di continuarla, oppure se  non avrà un futuro.
Accolgo senza troppi problemi critiche, quindi non fatevi problemi.
Spero comunque che vi piaccia, e che lo leggiate in tanti.
Per ora direi che è tutto,
Bye,
Snap. :3 

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Capitolo 2
*** Can you hear the sound of the static noise? ***


Parental Advisory: The static age

 

   Capitolo Primo
Can you hear the sound of the static noise?

   



America, Americaa..
Una voce meccanica e stridula che cantava l’inno americano, mi trapanò le orecchie facendomele fischiare in maniera assolutamente esagerata.
Aprì gli occhi cercando di ripararmi dalla luce del sole che filtrava dalle grosse vetrate.
Le palpebre erano pesanti e sembravano non avere alcuna voglia di restare aperte, segno dell’ennesima notte insonne, trascorsa a studiare Letteratura.
Certo, non potevo fare altrimenti vista l’imminente interrogazione in programma. Quella sarebbe stata una lunga mattinata di scuola.
Per quanto fossi una brava studentessa, non amavo alzarmi presto la mattina, eppure era la mia routine.
La mia vita in generale era basata sulla quotidianità.
Come diavolo era successo che io stessi pensando a quelle cose appena svegliata?
Diavolo.
Strattonai le coperte, che mi avevano rinchiuso in una morsa da cobra, e sbuffai infastidita.
Sembrava che quella giornata fosse iniziata con il piede sbagliato.
Mi accertai di essere in orario, per poi alzarmi definitivamente con amarezza.
Non potevo fuggire ai miei doveri. Quella era la mia vita.
Il sole mi accecò, e per qualche minuto, ovunque guardassi, vedevo puntini luminescenti che oscuravano tutto il resto.
La mia stanza era esattamente quella di una ragazza impeccabile: il letto, in quel momento disfatto, era posizionato al fondo dello spazio, e aveva quasi l’aria di essere un trono.
Il soffitto era in pregiato legno di mogano, come l’abbaino e le vetrate, che regalavano un’atmosfera di accogliente calore famigliare.
Il pavimento era in parquet, e mi resi conto che probabilmente il giorno prima, Carmela,l’inserviente, aveva passato la cera, poiché quel mattino era più lucido del solito.
A differenziarla dalle camere delle normali adolescenti della mia età, la mia stanza non aveva poster raffiguranti facce di bell’imbusti attaccati alle pareti.
Sopra il letto, c’era solo un grande manifesto della Royal Ballet, una delle più grandi compagnie di danza classica dell’Inghilterra.
La scrivania stava sul lato sinistro della stanza; sopra di essa erano posizionati, in modo ordinato, libri di scuola, penne e quaderni.
Non avevo altre cose che potevano far intendere qualche mie passione, o anche solo la mia personalità.
Perché?
Perché la mia personalità era stata sfrattata dalla mia mente. Era come se, alla nascita, tutti avessero deciso come doveva essere il mio carattere. Non avevo mai fatto vedere a nessuno chi ero in realtà.
Lo ignoravo io stessa.
Scacciando di mente le fantasticherie sul mio possibile futuro di ballerina, mi infilai le pantofole e mi fiondai in bagno.
Lo specchio mi mostrò il riflesso del mio viso: occhi azzurri, capelli biondi e sorrisino dolce.
Certo, era difficile poter dire che mostrava una qualsiasi emozione, perché sembravo più che altro una bellissima, glaciale bambola di porcellana.
Una bellezza fredda e distante.
Mi guardai e per un attimo solo pensai che forse sarebbe stato carino cambiare il modo di truccarmi, solo per quella giornata... non sarebbe stato una grave trasgressione.
Ma a mio padre non piacevano i cambiamenti, e in fondo il mio mascara nero non era poi così male.
Sei proprio carina, mi dissi sistemandomi i capelli in un elegante chignon.
Tornai in camera per indossare un paio di jeans comunissimi, un pullover verde acido e una polo bianca.
Beh, il classico abbigliamento di una classica brava ragazza.
Che cosa potevo saperne io che quel look era davvero un pugno nell’occhio? Ancora non me ne rendevo conto, e, gioiosa, mi compravo cardigan color canarino.
Soddisfatta del mio aspetto consueto, mi precipitai in cucina, dove trovai, come tutte le mattine, mio madre alle prese con il caffè.
Mio padre se ne stava seduto sulla sedia, a leggere il giornale in modo severo.
Quando assumeva quell’espressione voleva dire che c’era un’importante causa in Tribunale, e che stava già impersonando la parte del Giudice Murray.
-Toh! Sentite qua!- fece scandalizzato, e prese a leggere un articolo di prima pagina.
 
ASSALTO ALLA STATUA IN PIAZZA GRANDE.
Ieri nel tardo pomeriggio, la polizia di Rodeo (ha potuto tristemente accorgersi) si è accorta con tristezza che la statua del nostro ex-presidente Abraham Lincoln, posizionata nella piazza principale, è stata saccheggiata e rovinata.
Questo atto di rude vandalismo non può che essere un segno della degradazione del nostro paese, e anche triste prova del disprezzo che i giovani hanno acquisito, nei confronti della storia.
Per ora non si può attribuire a nessuno questo reato, ma la polizia sta lavorando e cercando i teppisti, artefici del crimine.
Vi assicuro che la polizia di Rodeo non si darà per vinta”, assicura il Capitano Keyman, “Troveremo i colpevoli e faremo scontare loro giusta punizione.”
Ci affidiamo, quindi, completamente alla polizia, sperando calorosamente di poter svelare questo rude mistero.
 
Rimasi senza parole.
Chi diavolo aveva potuto fare un simile oltraggio? Non capivo veramente il senso di quel gesto vandalico, che sembrava non avere un fine. Era sicuramente opera di alcuni teppisti annoiati, senza scopi nella vita.
-I ragazzi di oggi non hanno principi!- esclamò mio padre inorridito.
Una domanda mi ronzava nel cervello come una mosca: Che diavolo aveva fatto loro Abraham Lincoln per meritare un simile trattamento?
-è una cosa terribile- convenne mia madre non troppo interessata –Tesoro, siediti, c’è il caffè caldo- disse poi rivolgendosi a me.
A volte mi chiedevo come faceva mia madre a sorridere sempre.
-No, mamma, sono in ritardo per scuola e l’autobus passa tra cinque minuti. Devo proprio uscire.-
Le scoccai un lieve bacio sulla guancia, in segno di congedo.
-Ciao gioia- mi salutò mio padre, alzando leggermente gli occhi dal quotidiano.
Con un groppo in gola, causato dalla brutta notizia sul giornale, mi avviai per la Rodeo High School.
 
 
 
-“Romeo and Juliet” è una tra le più celebri tragedie di William Shakespeare. Qualcuno di voi ne ha già sentito parlare?-
La voce roca del professor J. rimbombava nelle mie orecchie. Non riuscivo a capire come un uomo piccolo come lui, potesse avere una voce tanto forte.
Il Signor J. non dava fastidio a nessuno. Era una persona mite e tranquilla, ma qualche volta riusciva davvero ad arrabbiarsi. Le sue spiegazioni, però, erano talmente interessanti che tutta la classe ne era partecipe, interagendo e facendo domande.
Wesley Picock, un lentigginoso ragazzo della mi età, alzò la mano in segno di affermazione.
-Bene, Mister Picock. Che cosa sai riguardo questo dramma?-
La voce timida e flebile di Wesley si fece spazio tra i bisbigli del resto della classe. –Romeo e Giulietta erano innamorati, ma muoiono entrambi.-
-Si, è corretto. Ma sai dirci il perché?-
-No, non credo.-
Il Signor J. si massaggiò le mani, segno che stava per iniziare una lunga spiegazione.
-La storia si svolge nella città italiana di Verona. Romeo apparteneva alla casta dei Montecchi, mentre Giulietta era figlia del Signor Capuleti. Le due famiglie, rinomate in tutta la città, provavano un odio reciproco, ed erano sempre state in cattivi rapporti.-
Conoscevo bene la storia di Romeo e Giulietta, e ne ero sempre stata innamorata.
Forse era meglio dire.. Affascinata. Amavo il modo in cui i due protagonisti si infischiavano delle regole e dell’etica, per saziare il loro amore affamato.
Era molto melodrammatico, ma assolutamente di un romanticismo puro come le rose di primavera.
Non c’era tragedia che potesse anche solo essere paragonata a quella.
-Qualcuno di voi sa dirmi come finisce la storia?- disse il professor J. riportandomi alla realtà.
Alzai la mano, annuendo.
-Bene, Miss Murray, illuminaci.-
-Giulietta beve un sedativo che la rende apparentemente morta, in modo da farsi seppellire per poi essere liberata dal suo Romeo. Le cose purtroppo non vanno proprio così, poiché il giovane Montecchi crede davvero che la sua amata sia deceduta, così si uccide. Al suo risveglio, Giulietta, distrutta dal dolore, segue Romeo nell’oltretomba.-
Che tristezza.
Non mi piaceva il finale tragico, eppure, senza di esso non sarebbe stata la stessa storia.
Non avrebbe avuto lo stesso splendido significato.
-Esattamente, Miss Murray. L’atto finale sta con la pace tra i Montecchi e i Capuleti, illuminati dalla scomparsa drammatica dei propri eredi.-
Non sapevo perché, ma mi sentivo stranamente attratta da quella storia. Era sempre stato così.
Probabilmente era solo perché anche io, come il novantanove per cento delle ragazzine del mondo, sognavo il principe azzurro.
Lo sognavo davvero, con tanto di capelli svolazzanti e occhi cristallini. Erano ingenua.
Per tutto il resto dell’ora di lezione, rimasi persa nel mio mondo, fantasticando su un possibile futuro da principessa. Immaginai un dolce uomo che mi aiutasse a cucinare, e mi dicesse che ero bellissima.
Immaginavo un perfetto, classicissimo principe azzurro.
Ma le favole non esistevano.
Presto me ne sarei accorta.
Driiin.
-Ok, ragazzi per domani studiate la vita di Shakespeare a pagina 134. Arrivederci.-
Appuntai velocemente i compiti, per poi essere travolta da uno stormo di ragazzi in preda all’adrenalina di fine lezione.
Il mio prossimo passo sarebbe stato l’armadietto: infilai i libri nello spazio ristretto, e mi precipitai in mensa, dove mi aspettavano i miei cosiddetti amici.
Al solito tavolo stavano un gruppetto di liceali annoiati; tutti in tenuta studentesca.
A tenere banco stava Jake, il capitano della squadra di football scolastica, nonché mio ragazzo.
Certo, io ero la capitana cheerleader, ma non ero particolarmente indisponente.
Mi avvicinai, schioccando un breve bacio sulle labbra a Jake, che mi sorrise dolcemente.
-Ciao Amy!- mi resi conto che la persona che mi aveva appena salutato era Maggie Stuart, una mia compagna di corso. Era decisamente scarsa, ma come cheerleader se la cavava.
-Ciao Maggie!- sorrisi come ero abituata a fare, non perché ne avessi voglia.
Mi girai verso il mio ragazzo, i miei amici, e il resto della mensa.
Sbuffai.
Un’altra noiosissima giornata alla Rodeo High School.
 
 
Fantastico Amy, sei già in ritardo.
Erano le 19:38, e mia madre sicuramente era già preoccupata, così tirai fuori il cellulare per inviarle un messaggio di scuse.
Dopo scuola mi ero fiondata a lezione di danza, e avevo faticato per due ore consecutive, provando il balletto per il saggio di fine anno, un evento mondano di quelli cui mezza Rodeo veniva ad assistere. Era quindi importantissimo che fosse semplicemente perfetto.
E io mi facevo in quattro perché lo fosse.
Ma aspettate, non era tutto.
La cosa peggiore era successa proprio durante le prove del “Lago dei Cigni”..
Io– con il ruolo di protagonista – e il mio partner eravamo in procinto di fare una presa, stavo per fare lo stacco che mi avrebbe permesso di darmi lo slancio per saltare... Sentivo che quella era la mia grande occasione per far vedere all’insegnante che ero in grado di interpretare l'opera in maniera prefetta e invece...
Una storta. Avevo preso una storta, cadendo a terra.
Rovinosamente, per essere puntigliosi.
Dov’ero in quel momento?
Beh, in ospedale. Mi ci avevano portato, per poi abbandonarmi in sala d’attesa come un cane. Non potevano di certo fermare le prove per colpa mia.
Come avevo potuto essere così sbadata?
La caviglia mi faceva un male tremendo, ed era anche parecchio gonfia. Quella sarebbe stata la fine della mia carriera, non avrei mai potuto ballare al saggio, e..
No, calmiamoci, Amy. Non essere sciocca.
Che cosa poteva mai essere una storta? Probabilmente con un po’ di crema e un impacco, entro qualche giorno sarei stata come nuova.
Doveva per forza essere così.
Mi picchiai il palmo della mano sulla fronte, maledicendo l’accaduto con tutta me stessa.
-Dannazione!- esclamai sottovoce.
Presi il cellulare per controllare se mia madre mi aveva risposto al messaggio.
No.
Benissimo, sembrava davvero non importare a nessuno che la mia carriera di ballerina fosse appena crollata come una frana.
Non avrei mai più indossato un tutù, né le mie amatissime punte.
La mia insegnante mi avrebbe odiata per il resto della mia vita, maledicendosi per aver assegnato il ruolo principale ad una completa imbranata.
Come avevo potuto fare un simile errore? Era da principianti.
E io non potevo permettermi di sbagliare.
D’un tratto, nella sala d’attesa si diffuse in gran frastuono. Tutti i presenti iniziarono a bisbigliare, come solo i pettegoli di paese riuscivano a fare.
Entrarono due poliziotti in tenuta: divisa blu, fondina ascellare con tanto di pistola, e berretto indistinguibile.
Oddio, quella giornata era iniziata male e sarebbe finita anche peggio.
Prima quella dannata sveglia, poi il disastroso evento a danza e ora.. La polizia?!
Ok, Amy, mantieni la calma. Sei o non sei la figlia del giudice Murray? Un po’ di contegno!
Mi spolverai il pullover, e rivolsi il più incantevole dei sorrisi ad una signora anziana, seduta accanto a me. Cercai di darmi una sistemata, e tornare ad essere la splendida ragazza impeccabile che ero realmente.
Poi, con ben poco stupore, notai che insieme ai poliziotti era presente un’altra mingherlina figura.
I due agenti lo portavano di peso, il malcapitato era ammanettato.
Beh, allora non doveva poi essere così “malcapitato”.
Era un ragazzo giovane, forse di qualche anno più grande di me; era davvero in uno stato pietoso.
La faccia era completamente tumefatta e livida, con tanto di sangue che gli usciva dalla bocca.
O era stato pestato, oppure si era fracassato in qualche losco modo.
Mi avvicinai ad un giornalista che scattava fotografie al giovane, che sembrava non accorgersi neanche del luogo in cui si trovava.
-Mi scusi signore- dissi con la mia voce di miele.
L’uomo non si girò neanche a guardarmi. –Che vuoi?-
Cafone! –Posso sapere che cosa sta accadendo?-
-Non lo sai ancora? Questo ragazzo è uno dei teppisti che hanno distrutto la statua del presidente Abraham Lincoln!-
Oddio. Quello non era per niente un poveretto.
Era un criminale, che aveva fatto un reato orribile. D’un tratto non compatii più quel ragazzo, anzi, mi fece ribrezzo. Avrei voluto dirgliene quattro.
Come si era permesso di rovinare un opera pubblica in quel modo?
E per cosa, oltretutto? Era solo un banalissimo, stupidissimo vandalo. Uno di quei ragazzi che non avevano etica, futuro e assolutamente menefreghisti nei confronti del mondo.
Uno di quei ragazzi che mio padre detestava con tutto se stesso.
Il criminale tirò su la testa, con uno sforzo che sembrò essere esagerato.
Aveva due folgoranti occhi color verde smeraldo.
 
 
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Angolo Snap:
 
*Vorrei precisare che non so se a Rodeo c’è una piazza in cui è posizionata una statua di Lincoln, è un elemento puramente inventato! E nello stesso modo il nome del Liceo.
 
Ecco qua per voi il Primo Capitolo!
Allora, l’ho cambiato e corretto almeno una decina di volte, senza scherzi! Quindi ho optato per questo inizio.
Tutte le altre ipotesi mi sembravano banali, e forse lo è anche un po’ questa…
Ma io credo di no, almeno non troppo. Insomma, di sicuro Amy non morirà per quella storta, e il “ragazzo dagli occhi verdi” non ha fatto di sicuro una bella impressione su di lei.
È questo che voglio mettere in chiaro: Amy non è rimasta scioccata da lui solo perché ha due begli occhi verdi, anzi, lo detesta con tutta sé stessa.
Lo odia.
Spero che non sia stato noioso, ma vi abbia fatto incuriosire.. Perché la parte della lezione del Signor J. che spiega Romeo e Giulietta non è casuale, ma servirà poi nel corso della storia.
Bene, per ora direi che è tutto.
Spero davvero vi sia piaciuto, fatemi sapere, e datemi consigli se ne avete!
Un grandissimo saluto,
Snap. :3
  

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Capitolo 3
*** He's the Jesus of Suburbia ***


Parental Advisory: The static age

 


Capitolo Secondo

He’s the Jesus of Suburbia
 

 


Esistevano vari tipi di occhi.
Quelli con un colore splendido, altri invece con delle sfumature un po’ opache.
Poi c’erano quelli con un colore accesso ma vuoti, privi di qualsiasi emozione; e quelli spenti di tinta, ma colmi di sentimenti e significati nascosti.
Ma non potevano esistere degli occhi come quelli che stavo guardando.
Di un colore così verde che non sembravano neanche umani, e pieni.
Sembrava quasi che i segreti, nascosti nelle iridi, dovessero traboccare da un momento all’altro.
Erano davvero verdi.
Erano accecanti.
Non avevo mai visto occhi come quelli, così drammaticamente espressivi.
-Signorina Murray, sono lieto di vederla!-
Il Signor Keyman, capo della polizia di Rodeo, mi riportò alla realtà dei fatti con la sua cordialità.
Il proprietario di quei magnifici bulbi oculari era un criminale.
Un vero e proprio delinquente dei bassifondi.
Poteva anche avere gli occhi più belli di tutto l’universo, ma la persona in sé era ridotta in uno stato pietoso, per non parlare dello stato d’animo che sembrava spazzare il pavimento.
Un vero e proprio gentleman, già.
-Buongiorno Signor Keyman!- esclamai sorridente come al solito.
Sembrava che il ragazzo, serrato dalle manette e dalle forti braccia dell’agente, non avesse fatto troppo caso alla mia persona.
Era piuttosto occupato a sputare sangue sul pavimento, sotto lo sguardo inflessibile dell’infermiera.
Indossava dei .. vestiti?
No, erano più che altro classificabile nella categoria degli stracci che mia madre usava per pulire la cucina.
Il colore della maglietta mi era ignoto, poiché coperto dal sangue che continuava a scendere a fiotti dal naso. Uno spettacolo penoso.
Certo, non era stato sconcertante per me scoprire che l’artefice di un atto osceno come quello di demolire la statua di Lincoln, fosse un giovane senza speranze come quello che avevo davanti.
Quanti anni avrà avuto? Non più di venti sicuramente.
E la sua vita sembrava già aver toccato il fondo.
Mi faceva davvero ribrezzo. Come ci si poteva ridurre in quello stato?
Mi sarebbe tanto piaciuto dirgli quattro parole, ma non era il caso. Che cosa avrebbe pensato tutta quella gente se mi avesse vista parlare con un tizio del genere?
Guai a mai.
-Ha letto i giornali? Beh, cosa lo chiedo a fare?! Certamente si, vostro padre è il Giudice Murray!-
-Certo, ho saputo della statua del presidente.. è una così orribile notizia!-
Keyman sorrise soddisfatto. –Ma come può vedere ho acciuffato uno dei furboni che hanno commesso il reato.- poi si avvicinò alla testa ciondolante del ragazzo –Hai capito? Perché questo è un reato!- disse in tono severo, cercando di fargli recepire il messaggio.
Il ragazzo, in tutta risposta, assunse un’aria arrogante che proprio non si addiceva al suo stato.
Ma che razza di persona era? Si permetteva di fare il presuntuoso nonostante fosse in pienotorto!
E come poteva anche solo pensare di contraddire la parola di un pubblico ufficiale?
Non mi avrebbe maineanche lontanamente sfiorato un pensiero simile.
Ciò che la legge diceva era giusto.
Mio padre era la legge.
-Si, Signor Keyman, lo vedo.-
Il teppista si girò verso di me, come se d’un tratto si fosse reso conto che il poliziotto non era schizofrenico e non stava parlando da solo, ma bensì con qualcuno.
I suoi occhi luminescenti si puntarono nei miei.
Aveva una tale intensità che per me era quasi difficile sostenere quello sguardo.
No, ora ne ero certa: non avevo mai visto occhi così.
Di certo non mi stava rivolgendo uno sguardo di cordiale complicità, anzi, sembrava quasi volermi vaporizzare con le pupille.
Per fortuna non aveva strani poteri.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo, nonostante mi sentissi bruciare dall’interno, come se quel verde mi stesse davvero avvelenando, facendomi contorcere dal dolore.
Alla fine cedetti, e vinse lui.
Non potevo continuare a tenere gli occhi puntati nei suoi, erano troppo per me.
-Chi cazzo sei, barbie?-
La voce roca e dura che avevo sentito proveniva proprio dalla bocca del criminale, che sembrava guardarmi con lo stesso disprezzo con cui io osservavo lui.
Amore a prima vista, ironizzai mentalmente.
Come diavolo si permetteva di parlarmi a quel modo?
E poi che cosa voleva insinuare con quello stupido nomignolo che mi aveva affibbiato?  Barbie?
Presi parola,stizzita. –Chi ti ha dato il permesso di parlarmi in questo modo? Oltre che delinquente sei pure maleducato!-
-Non ci faccia caso, Miss Murray, che cosa si aspetta da un tipo come lui?-
Un tipo come lui.
Allora non mi resi conto di quanto quella frase fosse inappropriata. Non avevo mai trovato qualcuno anche solo lontanamente simile a lui.
-Beh, se tu fai domande del cazzo su di me, io ti parlo!- esclamò spuntando sangue.
Ma chi gli aveva insegnato l’educazione a quel tipo?
-Finiscila di dire parolacce!- esclamai sbottando.
-Oddio! Siamo in presenza di Suor Claretta!-
-Non mi chiamo Claretta, imbecille!-
-Taci bisbetica!- ringhiò il delinquente rivolgendosi a me.
-Ma come diavolo ti permet..-
Una voce autoritaria si intromise, frenando il nostro battibecco.
-Basta. Sarà meglio che tu, ragazzo, non faccia tanto il furbo. Non aggravare la tua situazione.- fece Keyman puntando un dito contro il petto del teppista.
Che mi aveva insultata.
Barbie, bisbetica!Ma chi gli aveva dato tanta confidenza?
Ero sconcertata. Non potevo pensare che esistessero persona tanto maleducate! Lo guardai lanciandogli un’occhiataccia. Probabilmente quelle erano state le conseguenze della mia intromissione nella faccenda.
In fondo io non c’entravo nulla, e non erano affari miei..
Ma come potevo resistere all’idea di sapere qualche novità inedita del caso? Mio padre ne sarebbe stato euforico! E in realtà anche io.
-Amy Murray- esclamò un’infermiera che teneva in mano una cartella clinica.
Finalmente era arrivato il mio turno. Mi girai verso Keyman, e mi congedai, senza prima controllare le condizioni del ragazzo dagli occhi verdi.
Ora si era accasciato con la testa ciondolante sul petto; gli agenti sembravano non fare caso alla sua pessima salute: era solo uno dei tanti ragazzi di strada.
Probabilmente dopo averlo condannato lo avrebbero rilasciato e rigettato in periferia.
Non era un gran bel modo di fare giustizia.. Questo mio padre non lo tollerava.
Seguii la bella infermiera tra i lunghi corridoi dell’ospedale; le pareti erano di uno scadente color verde acqua, che dava proprio l’aria di malattia, e non aiutava a sentirti meglio. Le luci erano i soliti lampadari comprati in quantità da una rivendita economica.
Non c’era niente di diverso in quell’ospedale, era un comunissimo edificio sanitario come tutti gli altri.
Eppure, quella sera, sembrava esserci qualcosa di strambo.
Forse era solo tutta quella situazione ad essere assurda: come avevo potuto sbagliare il balletto?
Imprecando mentalmente entrai in un affollatissimo stanzone del pronto soccorso. Era una camerata da quattro letti, tutti rigorosamente occupati da bambini strillanti e madri disperate.
Mi piacevano i pargoletti, ma quando iniziavano a frignare erano assordanti.
Ma non era troppo difficile farli calmare, se si aveva un po’ di mano.
-Come ti sei fatta questa brutta caviglia gonfia?- chiese la donna spalmandomi una soluzione sopra.
-Stavo ballando..- dissi cercando di non far sentire che mi tremava la voce al ricordo.
Mentre la signora mi stava per rispondere, una fastidiosissima voce la interruppe, sovrastandola.
-Ti sei fatta la bua mentre ballavi con il Ken, Barbie?-
Una tenda separatoria si scostò mostrando un ghignante volto tumefatto.
Quel petulante teppista non aveva niente di meglio da fare?
-Taci, imbecille! Guarda come sei ridotto tu, Freddy Kruger in confronto è un adone!- esplosi seccata.
Sentii l’infermiera ridacchiare, mentre mi fasciava la caviglia.
-Ehi! Questa era pesante, Barbie!-
-Finiscila di chiamarmi Barbie, deficiente!-
Lo vidi scoppiare a ridere, tenendosi la pancia.
In quel momento trovai l’aggettivo che gli si addiceva alla perfezione: irritante.
Quel tizio era davvero tanto irritante.
Keyman entrò nella mia visuale. –Finiscila, Armstrong! Non ti bastano i guai che hai già?-
Armstrong.
Doveva essere il suo cognome.
-Certo Signor Keyman, come desidera- disse facendogli vedere il dito medio. Al che il poliziotto gli tirò un pugno in pancia, inducendolo a gemere di dolore.
-Adesso fai ancora lo spiritoso Billie Elliot?- disse ridacchiando.
Ero un po’ contraddettadaquella situazione.
Keyman era sempre stato un brav’uomo, e io lo sapevo; la domenica, talvolta, veniva a mangiare pranzo da noi, mia mamma cucinava il pollo arrosto, e ridevamo insieme.
Ma quell’azione.
Non sapevo come considerarla. In fondo, il ragazzo era un ribelle, e un agente che cosa avrebbe dovuto fare? Era stato giusto da parte sua usare le mani? Non riuscivo davvero a darmi una spiegazionepertutto quello.
Che cos’era successo al mondo? Mi ero persa qualche pezzo.
-No, Signore! Non Billie Elliot..Il mio nome è Billie-Joe Armstrong, il Gesù dei Sobborghi.-
Billie- Joe Armstrong.
Che razza di nome era? Probabilmente solo uno stupido soprannome!
Non poteva esistere qualcuno che si chiamava Billie-Joe?
Magari William Joseph, abbreviato. Era davvero un nome idiota!
-Bene, Gesù dei Sobborghi, taci perché ti devo fare la punturina- disse una squadrata infermiera, avvicinandosi al ragazzo con una siringa.
-Come va, Barbie? Ahi! Cazzo fai attenzione!- disse all’infermiera, per poi tornare a me -Per caso stavi ballando “Lo schiaccianoci” quando ti sei fatta male?-
Era davvero logorroico, e non si dava per vinto nonostante fosse ridotto ad uno straccio.
Come poteva una persona essere irritante a tal punto? E badate che io ero una persona tranquilla e paziente, che non si innervosiva facilmente.
Sembrava non capire che doveva tacere.
Forse non si rendeva conto di quanto fosse in bilico la sua situazione! Giocava con il fuoco.
-E tu per caso stavi cercando di sembrare più duro e fico, quando hai demolito Lincoln?-
Ci fu un silenzio generale.
Oh, oh. Forse non avrei dovuto dirlo, ma mi aveva proprio fatta alterare, e io non ero..
-Quel tipo era noioso, e non mi piace! Non mi è mai piaciuto! Ho pensato che se avessi distrutto quel fottutissimo Abraham Lincoln dei miei coglioni, magari avrebbero eretto una statua in onore di Joey Ramone,cazzo!- esclamò eccitato solo all’idea.
Ma che diavolo andava farneticando?
E chi cavolo era Joey Ramone? Forse ero io che ero stupida, ma capivo meno della metà delle cose che quel tizio diceva.
Billie-Joe aveva uno strambo modo di parlare, soprattutto perché ogni parola era accompagnata da una parolaccia.
Certo, era un bel tipo.
In tutti i sensi: aveva un caratterino non indifferente, e nonostante la faccia tumefatta, non potevo far finta di non essere rimasta accecata da quegli splendidi occhi verdi.
Non era da tutti.
-Che cos’è Joey Ramone?- esclamai confusa
-Eretica! Eretica! La Barbie non conosce Joey Ramone! È come dire.. Beh, che non sai chi è GC!-*
A quel punto ero davvero molto confusa, e non capivo una parola di quello che Billie-Joe diceva.
-Oh Dio! Ma chi è GC?- chiesi esasperata
-GC. Gesù Cristo, barbie. Ma sei tonta o lo fai apposta? Davvero non conosci Gesù?-
Ma che diavolo.. ?
-Oh, si che conosco Gesù! Ma come faccio a capire se tu, idiota, lo rinomini GC?-
Billie stava per ribattere, quando nella stanza entrò un ragazzo trafelato e dai capelli ramati.
Jake.
-Amy, tesoro!- esclamò vedendomi seduta sul lettino –Sono venuto non appena ho potuto..-
-Ok, Jake. Rilassati e datti una calmata, per favore.-
Il mio ragazzo era proprio bello.
Bello nel senso stretto della parola: era perfetto. Non aveva un neo fuori posto, nulla che stonasse con il suo volto da ragazzo dei quartieri alti, il classico giocatore di football.
Nonostante tutto ciò, però, non aveva nulla di particolarmente affascinante.
Non c’era una caratteristica del suo fisico che ti portasse a dire “è unico, è raro, è splendido”.
Era solo bello. Punto e basta.
E allora perché ci stavo insieme? Non lo sapevo.
Perché così doveva essere, presupponevo.
-Oh! Che gioia! Visto, Barbie? È arrivato Ken! Non sei felice?-
-E questo chi cavolo è?- chiese irritato Jake.
-Io sono il Gesù dei Sobborghi, e tu mi devi succhiare il cazzo!-
Ok, Billie-Joe Armstrong, davvero notevole.
 
 
 
 
-Oh,Dio! Non posso credere che abbia detto una cosa simile! Che cafone!-
La voce inorridita di mia madre sovrastò le lamentele di Jake nei confronti del ragazzo della statua.
Quel Billie-Joe.
Eravamo a tavola, e stavamo cenando a base di carne. Il mio ragazzo non aveva smesso neanche per un secondo di parlare di quanto fosse stato maleducato e volgare Billie-Joe (che secondo me si chiamava William Joseph).
Anche a mio avviso era stato davvero senza ritegno, ma non mi sembrava una così grande tragedia.
E poi gli avevo risposto per le rime. O almeno così credevo, anche se alla fine Willie-Josh o come cavolo si chiamava, era scoppiato a ridere.
Non sapevo di essere mai stata divertente, ma evidentemente mi sbagliavo.
Grandioso, adesso avevo una carriera come comica.
Da quando in qua fai dell’ironia Amy Murray?
Certo, parlavo anche con la mia irrazionale coscienza.
-Si, Signor Murray, è assolutamente uno schifo! Spero che questa cosa non passi liscia..-
Certo, Jake era furbo. Indovinate qual era il giudice che si sarebbe occupato del caso “Statua di Lincoln”?
Il Giudice Murray.
Mio padre avrebbe dovuto dare la sentenza per quel cretino dell’ospedale.
D’un tratto mi guardai intorno, confusa. Prima puntai lo sguardo su mio padre, poi su mia madre, e infine su Jake. Scoppiai a ridere.
Letteralmente.
Sputacchiai anche come uno scaricatore di porto, e divenni rossa in viso da quanto ridevo.
Non avevo mai riso tanto in tutta la mia vita.
Perché?
Solo un idiota avrebbe potuto affibbiare un nomignolo come GC a Gesù Cristo.
La stessa persona che mi stava inducendo a ridere come una ragazzetta davanti alla mia famiglia.
 
Billie-Joe Armstrong, il demolitore di statue.
 
 
************
 

Angolo Snap:
 
*La faccenda di “GC = Gesù Cristo” non è inventata da me, ma bensì è una delle battute, a mio parere, più divertenti di Mike Dirnt.
Non so dirvi quando l’abbia detta, né in quale situazione, ma so che è la seguente:
Mike disse : “Non vado d’accordo con GC, ma lui è fico comunque.”
Bene, io l’ho rielaborata con il testo, e l’ho attribuita a BJ. Ho voluto specificarlo solo per dare a Cesare quel che è di Cesare. E poi ho stimato Mike per questa battuta, degna di lui xD
 
Passando al capitolo:
Grazie alla mia beta reader, che crede in me ogni volta, e fa un lavoro di correzione davvero straordinario: Vi <3
Bene, eccolo qua il Secondo Capitoletto!
In pratica è basato solo su una situazione principale: quella dell’ospedale. Ho voluto allungarla così tanto perché secondo me il primo incontro è molto importante, e poi volevo dargli una nota di comicità, anche se non so se ci sono riuscita xD
Comunque sia, ho voluto creare l’idea di un Billie divertente, offensivo e ribelle! In pratica un po’ come il nostro vero BJ!
E quando dice “Io sono Billie-Joe Armstrong, il Gesù dei Sobborghi”, era per citare e dar peso a Jesus of Suburbia, ma credo l’aveste già capito.
Spero vi sia piaciuto! Beh, per quanto riguarda il finale del capitolo..
L’ho cambiato circa centocinquantemilamilioni di volte, perché volevo fosse un po’ d’effetto..
Spero di esserci riuscita, ma a voi i commenti e i pareri!
Mi farebbe piacere se mi commentaste..
Scusate per le chilometriche note, ma mi fa piacere interagire con voi!
Ps. Aspetto la tua benedizione __Misa__, e spero sinceramente che sia positiva!
 
A tutti un gran saluto e un abbraccio,
Let’s Rock!

Snap. :3
 

 

  
 

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Capitolo 4
*** Born and raised by the hypocrites ***


Parental Advisory: The static age

 
 

Capitolo Terzo
Born and raised by the hypocrites

 
 



Quel giorno faceva maledettamente caldo.
Avete presente una di quelle tipiche giornate di fine scuola?
I fiori bianchissimi che cadevano dai rami, ricoprivano le aiuole decorative, dando alla Rodeo High School un’aria molto spettrale.
Eravamo in California, quindi non c’era da stupirsi se il sole era alto e l’afa ti opprimeva.
Era tutto nella normalità dei fatti.
Indossavo un paio di shorts di jeans, e una canotta color rosso amore. Ero appoggiata ad un muretto fuori scuola, mentre aspettavo l’arrivo di Jake; io e lui ci davamo ogni giorno appuntamento in quel punto, in modo da poter entrare a scuola insieme.
Quella mattina, però, non ero molto entusiasta del mio netto anticipo.
Sfilai l’i-Pod dalla tasca, e infilai le cuffiette nelle orecchie. Quando non avevo nulla da fare ascoltavo la musica.
E non un qualsiasi genere musicale, ma bensì musica classica.
Di solito facevo partire la sinfonia che ballavo per il saggio, chiudendo gli occhi e lasciandomi trasportare dall’armonia, immaginandomi nella testa i passi. Era così rilassante che quasi mi irritavo quando qualcuno mi riportava alla realtà.
La sera prima, avevo attirato sguardi sgomenti quando ero scoppiata in una risata fragorosa, a cena.
Beh, certo, non era stata del tutto colpa mia.
Ok, mi ero lasciata trasportare come una bambinetta di dodici anni da un’idiozia che quel William Joseph aveva detto all’ospedale. Però ancora in quel momento, se ci pensavo, non potevo fare a meno di ridacchiare da sola.
Come diavolo si fa a soprannominare Gesù Cristo “GC”?
Sentì picchiettare sulla mia spalla, e alzando lo sguardo da terra, scorsi un bel viso familiare.
-Scusa, non ti avevo sentito- sorrisi dolcemente al mio ragazzo, che mi baciò le labbra.
I baci in pubblico erano sempre, rigorosamente casti.
Era successo qualche volta, quando ci trovavamo a casa di uno o dell’altro, che eravamo finiti su un letto avvinghiati, affannati e .. mezzi nudi.
Ma non avevamo mai fatto sesso, anche se ci eravamo andati molto vicini. Strano, ma vero. Di solito le ragazze della mia età avevano perso la verginità da almeno tre o quattro anni, ma io non ero una comune ragazzina.
In ogni caso mi sentivo rilassata all’idea di possedere ancora la mia verginità. Ne andavo fiera.
-Come stai?- chiese mentre mi stringeva la mano nella sua.
Ci avviammo verso l’entrata dell’edificio, brulicante di ragazzini di quasi tutte le età.
Data la splendida giornata, quasi tutte le persone erano vestite in modo leggero; lo stesso Jake indossava dei pantaloncini e una maglietta.
Alla mia sinistra, un gruppetto di skater sfrecciava tra i marciapiedi e mi tagliava la strada. I soliti incapaci.
-Bene, sto bene. Te?- mi ricordai di rispondere alla domanda di Jake.
In fondo non mi potevo ritenere sfortunata: era un bravo ragazzo.
Proprio ciò che andava a genio a mio padre.
Non lo avrei mai deluso, di quello ne ero sicura. Io facevo sempre le scelte giuste.
-Mh, tutto bene.- liquidò la conversazione.
In realtà io e Jake non facevamo mai grandi chiacchierate o cose del genere. Non avevamo troppe cose da dirci, se non le solite banalissime conversazioni fatte.
Ma andavano bene, giusto?
Non appena misi piede nel liceo, notai che sembrava essere più pieno del solito. Forse era solo una mia stupida illusione.
-Beh, io vado a lezione.- Le labbra di Jake si posarono gentilmente sulla mie, premendo leggermente.
A volte avrei voluto che mi avesse presa e baciata davanti a tutti. Ma era un irrazionale pensiero di un’adolescente con gli ormoni in subbuglio. Quella parte di me che dovevo assolutamente reprimere e nascondere. Ne andava della mia reputazione.
Lisciandomi la maglietta mi incamminai verso l’aula di Laboratorio. Non mi dispiacevano i laboratori, però come prima ora erano un po’ pesanti.
I corridoi erano ormai vuoti, siccome la campanella era già suonata da qualche minuto. Ma io dovevo andare al piano superiore, quindi potevo permettermi un minimo ritardo.
E poi la professoressa mi adorava, non mi avrebbe mai sgridata.
Stump, Domb, pata.. crack!
Un fracasso infernale arrivò alle mie orecchie, allarmandomi.
Che diavolo era stato? Sembrava un rumore di qualcosa che cadeva e si rompeva.
Affrettai il passo cercando di capire da dove veniva quel chiasso. Dovevo controllare che nessuno si fosse fatto male.
Intravidi che la porta dello Sgabuzzino degli inservienti era aperta, e un manico di scopa ne usciva fuori.
Era Bart, il bidello, che si era fatto male?
-Bart? Sei tu? Tutto bene?-
Nessuna risposta.
Non potevo entrare nelle stanze del personale, ergo non potevo vedere se Bart stava bene. Che diavolo! Non avevo mai trasgredito una regola in vita mia, quella non doveva essere la prima..
Ma se davvero il bidello si era ferito?
Sporsi colpevolmente la testa.
Una lampadina di pessima qualità penzolava sul soffitto, illuminando precariamente la stanzetta.
Un ammasso di scope, ramazze, spazzoloni e quant’altro, era rovesciato a terra creando un caos terribile.
Un piede spuntava da sotto quella confusione.
-Bart, oh Cielo! Lascia che ti aiuti! Vieni fuori di lì! Vado a chiamare qualcuno,così..-
Non feci in tempo a finire la frase che una fastidiosissima voce roca mi interruppe.
-Non ci pensare neanche, Barbie!-
Dalla montagna di utensili spuntò fuori una testa di un giallo canarino, con tanto di volgarissima ricrescita.
Due occhi verdi mi fissavano con aria di sfida, mentre un secchiello rosso penzolava sulla sua testa.
Armstrong.
-Mi chiamo Amy Murray, non barbie, idiota!- sbottai seccata.
Che diamine ci faceva lui lì?Guarda un po’ se me lo dovevo beccare pure a scuola.
Non si poteva neanche studiare in santa pace in quel posto.
-E io mi chiamo Billie-Joe Armstrong, non idiota.-
-Bene, allora credo che questo punto sia chiarito.- risposi incrociando le braccia con aria sufficiente. Notai che continuava a fissarmi in modo strano, inarcando un sopracciglio.
Ad un certo punto lo vidi sbuffare.
-Che vuoi?- sbottai.
-Hai intenzione di rimanere lì impalata a guardare il soffitto, oppure mi dai una mano ad uscire da questo cumulo di merda?-
Sempre elegantemente fine, Billie-Joe.
Quel ragazzo non si smentiva mai. E quella tinta era probabilmente uno di quei barattoli scadenti che vendevano nei discount.
Afferrai la sua mano e lo aiutai ad alzarsi, controvoglia.
Appena fu in piedi si spolverò i vestiti. Cosa a mio avviso inutile, dato lo squallore di quei quattro stracci neri. Davvero una pena.
Si scompigliò in capelli, in un gesto del tutto naturale, a differenza di quello di Jake, che lo faceva solo per attirare gli sguardi delle primine innamorate di lui.
Patetico, lo sapevo anche io.
-Allora?- chiesi impaziente.
-Allora, che?-
-Sai, le persone normali mi avrebbero ringraziata per averti fatto uscire da quel bordello.-
Lo vidi sogghignare. –Non ti ringrazierò, quindi potresti anche sgommare.-
Ma come diavolo si permetteva?
Io lo aiutavo ad uscire da una situazione come quella, offrendogli il mio aiuto nonostante mi avesse insultata il giorno prima, e lui..
Non mi ringraziava neanche?
Oh, diavolo! Quello era troppo anche per me!
-Lo sai che sei proprio un cafone arrogante? Spero davvero che mio padre ti dia una punizione adeguata, così magari sarà la volta buona che impari un po’ di disciplina!-
Lo dissi tutto d’un fiato, senza pensarci su due volte. Nessuna persona era mai riuscita a farmi incavolare in quel modo. Io, Amy Murray, non avevo mai alzato la voce in vita mia.
E ora un completo idiota si permetteva di farmi sembrare una  pazza isterica.
Favoloso, Amy. Davvero favoloso.
Poi fece la cosa più irritante che un uomo potrebbe mai fare.
Scoppiò a ridere.
E anche rumorosamente.
Come può una persona ridere di te, povera scema, che lo hai insultato?
Mi sentii pervadere da un senso di odio profondo nei suoi confronti. Era un’umiliazione che io non potevo sopportare, nessuno si era mai permesso di comportarsi in quel modo con me!
Era una cosa che io non riuscivo a concepire!
-Ooh, barbie, sei davvero divertente.-
-Ma vai a quel paese!- sbottai.
-Ehi, guarda che la mammina non vuole che usi certi vocaboli scurrili!-
Mi prendeva pure in giro.
Ok, fantastico. Avevo davvero fatto colpo.
-Già, almeno io non finirò dentro uno sgabuzzino ricoperta di scope!-
I suoi occhi si strinsero in due fessure, e poi, scrollando le spalle sfoderò un sorriso sghembo.
-Beh, tuo padre mi ha spedito qua, quindi discutine con lui, barbie-
Mio padre che.. ?–Ma che diavolo stai farneticando?-
-Il tuo dolce paparino ha deciso che la giusta punizione per un “delinquente di strada” come me, sarebbe stato un volontariato forzato alle scuole superiore. Quindi, Welcome to Rodeo High School, Billie-Joe!-
No, mio padre non aveva potuto fare una cosa del genere.
Davvero lo aveva mandato a lavare i  nostri corridoi? Speravo che lo mandasse a fare volontariato nelle prigioni.. O perché no, in un gulag!
Ovunque ma lontano da me.
Non nella mia stessa scuola.
-Ma tu non vai a scuola?- chiesi con fare stizzito.
-In teoria sono iscritto proprio in questo schifo di liceo.. Ma sarà qualche mese che non vengo..-
-E perché mai?- chiesi attonita.
-Non me ne frega un cazzo di stare qui a scaldare una sedia, ascoltando le stronzate che hanno da dire dei frustrati di cinquant’anni che passano le serate a farsi le seghe davanti ai porno!-
Rimasi assolutamente senza parole.
Come poteva una persona pensare cose simili nei riguardi di professori laureati e intelligenti?
Che cosa ne sapeva quel ragazzino della vita?
Come si permetteva di dare sentenze sul sistema scolastico quando non ne faceva neanche parte?
-Sai cosa ti dico, Billie-Joe Armstrong? Che sei proprio un imbecille! Guardati intorno, ma chi sei tu per sputare giudizi affrettati sugli insegnanti? Chi ti ha dato l’autorità di dire che tutto questo per cui i nostri padri hanno lavorato fa schifo? Ti credi superiore solo perché sei un ribelle, e pensi di non avere bisogno dell’istruzione. Ma ti sbagli.-
Ci fissavamo.
Occhi negli occhi.
E per una volta notai che non avevamo nulla di differente. Anche io provavo odio come lo provava lui.
Quel verde era troppo intenso per i miei gusti, non capivo come una persona poteva avere degli occhi così espressivi. Se guardavi negli occhi di Billie-Joe potevi leggerci la vita.
Solo che dovevi osservarli, non vederli.
-E a te chi te lo dice che è come pensi te? Apri gli occhi, barbie. Il mondo non è fatto solo di quello che tu vuoi vedere. Questa merda di scuola non ti farà diventare più furba di me, solo più ottusa. La vita non è tutta rose e fiori. La vita è dura.-
Bum. Bum.
Bum. Bum.
Sentivo il mio cuore battere all’impazzata. Non tanto per il nervoso, quanto per lo stupore.
Nessuno mi aveva mai detto certe cose, nessuno si era mai permesso di parlarmi così.
Se non mio padre.
E ora quel Billie-Joe arrivava e pretendeva di avere ragione su un argomento che io conoscevo alla perfezione?
Perché era così, vero? Io avevo ragione, giusto?
Come poteva essere altrimenti?
-Scusami William Joseph, ma devo proprio andare in classe io. Buon lavoro.-
Girai sui tacchi, e sull’orlo del cedimento presi a camminare in modo troppo veloce.
Non dovevo piangere.
Non dovevo dare peso a quelle sue insulse parole sboccate. Non avevano un senso.
Come lui d’altronde.
-Il mio nome è Billie-Joe, non William Joseph. Ricordatelo, barbie.-
 
Oh, non lo avrei dimenticato mai più.
 
 
 
 
Ore più tardi..
 
Tempo.
Solo tempo.
Uno, due, tre. Salto. Quatt-ro, e cin-que, se-i.
Solo il mio respiro. Dovevo dar retta solo al mio respiro.
Io e il mio respiro.
Uno, due. Uno, due. Un, due, tre.
Mi lasciai trasportare dallo splendore del Lago dei Cigni *, facendomi accuratamente sollevare dal mio partner.
Io non ero Amy Murray. Ero Odette.
E il mio compagno era Siegfried.
Nulla aveva più un senso. Lo spazio, il tempo, la vita.. Non importavano. Non più.
Perché io danzavo tra le acque del lago, abbracciata a Siegfried il mio amore eterno.
Mi sentivo libera da ogni preoccupazione.
Nulla mi dava un’analoga sensazione. Solo io e la danza. Un amore che non poteva finire.
-Che cazzo di posto è mai questo! Cazzo!-
Una voce scurrile come poche mi destò dal mio sogno irreale, e mi riportò alla realtà.
Ero sul palco che provavo per il saggio, e la mia insegnante guardava verso il fondo del teatro.
Avevano interrotto il balletto.
Tre ragazzi se ne stavano appollaiati sulle sedie, guardando verso di noi.
Uno era alto e magro, sembrava uno stuzzichino. Aveva degli orribili capelli ossigenati.
Un altro era piuttosto grassoccio e buffo, con quei capelli color arancio sbiadito misto a marron schifo.
Una ragazza dai capelli fucsia e l’aria annoiata li accompagnava.
Avevano interrotto il mio ballo.
Quel giorno sembrava non avere fine.
Guardai Tom, il mio partner, e sbuffai sapendo che condivideva il mio stato d’animo.
-Scusate signori, ma queste sono prove a porte chiuse. Non vi è concesso di restare qua dentro.-
La mia insegnante, Natalja Strakowskji, aveva una voce dura e severa, esattamente come la sua persona.
Personalmente mi inquietava con quello chignon impeccabile, e i suoi modi raffinati.
Allora non lo capivo, ma ora so che avevo paura di assomigliarle.
-Mi scusi signora, ma volevo chiederle un’informazione-
Oddio, non ci potevo credere! Il tipo buzzurro con i capelli arancioni e l’aria da ragazzo di strada aveva appena parlato in modo assolutamente educato alla mia insegnante.
Aveva acquistato dei punti.
-Si, mi dica signore.-
Il tizio, allora, si guardò intorno con fare sospetto. Poi parlò.
-Ma qua vendete per caso marijuana?-
Come non detto.
 
 
*************
 
 
*Ci tenevo a precisare che il balleto de “Il Lago dei Cigni” è molto bello, e i nomi di Odette e Siegfried che ho aggiunto nel testo sono quelli della vera trama.
Vi riporto qua un link, in cui potrete trovare le informazioni sul balletto se vi interessa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_lago_dei_cigni#Trama
 

Angolo Snap:
 
Grazie a Virgy <3

Ed ecco per voi il Terzo Capitolo!
Bene, come tutti gli altri capitoli, anche questo è stato corretto e cambiato millemila volte. L’indecisione è una brutta bestia, oh già.
Comunque sia.. Volevo precisare un po’ di cose (giusto per rompervi u.u)
Volevo solo che fosse un capitolo abbastanza di peso, per il fatto dello scambio di battute tra Billie e Amy.
Difatti gli ho donato un capitolo intero, in pratica.
Credo sia stato importante il fatto che Billie la ponesse davanti ad un dilemma davvero importante, e farle capire che forse lei non ha sempre e comunque ragione.
E nello stesso tempo lei gli sputasse in faccia che lui non può fare ciò che vuole in qualsiasi caso.
Credo che sia chiaro a tutti chi sono i ragazzi che interrompono la lezioni di danza di Amy xD
Come al solito vi chiedo di lasciare un commentino se leggete,
e se avete consigli o cose da farmi notare, ben venga! Io sono qua per voi!
 
Ancora tanti saluti,
Snap. :3
  

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Capitolo 5
*** Inside your restless soul your heart is dying ***


Parental Advisory: The static age

 
 
Capitolo Quarto
Inside your restless soul your heart is dying

 
 

Idioti.
Non c’era altro modo per descrivere quei tre tizi che mi stavano dinanzi.
Come diavolo si poteva entrare in una rinomatissima scuola di danza e interrompere la lezione per..
Chiedere se vendevamo marijuana.
Il fatto che Rosso Malpelo lo avesse chiesto con gentilezza non cambiava le cose. E adesso sarebbero stati tutti affari loro.
Natalja Strakowskji era divenuta rossa in viso, e probabilmente era sul punto di scoppiare; potevo vedere le vene del suo collo ingrossare di secondo in secondo.
Dannazione! Adesso ve la dovrete vedere con lei!
Mi girai verso Tom, che era sconcertato quasi quanto me; per un ballerino la droga e il fumo erano un concetto talmente estraneo, che non rientravano neanche nei suoi parametri mentali.
E adesso quei due imbecilli si presentavano come se niente fosse a domandare se spacciavamo.
Se ne stavano in piedi come statuette squilibrate, tra le molteplici file di sedie che il teatro offriva.
Al fondo, il grosso portone in battenti, era chiuso.
-Delinquenti! Andatevene! Fuori di qui!- urlò la mia insegnante sbottando.
Probabilmente non ci avrebbe più fatto continuare la lezione.
Succedeva sempre così: quando qualcosa faceva infuriare Miss Natalja, non era più in grado di portare avanti il corso, così ci faceva andare a casa sconsolati.
Quella volta sarebbe andata bene se ci avesse fatti andare il giorno dopo.
Tutto per colpa di Rosso Malpelo. Davvero geniale.
I tre individui sembravano già in condizioni pessime, con quel sorrisino ebete stampato in viso e il look decisamente lercio. Uno spettacolo per niente invitante, già.
La tizia dai capelli fucsia aveva tutta l’aria di essere ubriaca fradicia, o ancora peggio fatta; lo si poteva notare dagli occhi arrossati e dal fatto che non si reggeva in piedi. Forse Mister Biondo Platino tra i tre era il più normale, anche se con quell’aria da duro mi faceva un po’ paura. Ma di certo meglio della Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Rosso Malpelo si girò verso Mister Platino con aria abbastanza arrabbiata, anche se non era credibile con quella faccia rotonda e buffa come quella di un orsacchiotto.
-Ma che cazzo ci ha detto quel coglione di Billie,allora?-
Bam.
Quel nome mi colpì comeuna porta in faccia, spiazzandomi del tutto.
Non potevano parlare di quel Billie. In fondo era un nome comune, per non parlare del fatto che tutti lo adottavano come soprannome.
A Rodeo potevano esserci altre decina di Billie.
Non poteva essere lui.
Il cuore prese a battermi ai cento allora, non perché fossi emozionata, ma perché ero in ansia.
Dio, Amy! Calmati, non sei un adolescente stupida!
-Non starete mica parlando di quell’idiota di Armstrong?-
Ok, lo avevo detto davvero.
Adesso Rosso Malpelo e Biondo Platino mi fissavano increduli; probabilmente si stavano chiedendo come io potevo conoscere una persona come quel cretino.
E se non fosse stato lui?
-Ehi, Mike! Raperonzolo conosce Billie-Joe!-
Perché l’intero universo sembrava interessato ad appiopparmi del soprannomi da imbecille?
Raperonzolo?
Perché negli ultimi giorni mi erano successe le cose più impensabili di tutta la mia vita? Tutto ciò era capitato soloperché avevo sbagliato a fare il balletto, e per mia disgrazia ero finita all’ospedale, dove un deficiente dai capelli ossigenati mi aveva importunata.
Perché (mi) ritrovavo Armstrong in ogni posto in cui andassi?
Natalja mi fulminò con lo sguardo incalzandomi a fare qualcosa per risolvere la situazione imbarazzante.
-Purtroppo ho avuto l’onore di conoscere Armstrong, ma questo non c’entra. Ve ne dovete andare da qua. Subito.- sfoderai il tono più impettito che sapessi usare.
Sapevo essere più acerba di un limone maturo.
La ragazza dai capelli fucsia si fece strada ancheggiando esageratamente. Non era una donna particolarmente bella, ma non era nemmeno classificabile come brutta. Nonostante portasse un’acconciatura decisamente appariscente, non aveva niente di speciale.
Se non la faccia tosta.
-Abbassa i toni, ragazzina. Non sei nessuno. E Billie è il mio fidanzato.-
Cosa, cosa, cosa, cosa?
Billie-Joe alias Bidello era impegnato in una relazione con la Damigella dai Capelli Fucsia?
Era talmente esilarante che mi ritrovai a ridere come una scema; strana come reazione, ma non si poteva non essere divertiti dal fatto che quella sgualdrina fosse la ragazza diArmstrong.
Mi soffermai a guardarla un po’ di più.
Quell’idiota di William Joseph era decisamente più bello di lei, anche se le assomigliava molto nello stile: anche lui indossava vestiti sudici e aveva dei capelli da film horror.
Però aveva due occhi senza paragoni.
E un viso perfettamente sbagliato; con i suoi lineamenti marcati e la pelle non curata, aveva la tipica da aria da ragazzo cattivo che tanto piaceva alle adolescenti della mia età.
Ma come poteva stare con Strafatta dai Capelli Agghiaccianti?
-Che diavolo ti ridi, stronzetta?!- schizzò allora la ragazza.
Stronzetta a me? –Questa è una lezione a porte chiuse e, a meno che voi non siate iscritti, non avete nessun diritto di stare qua dentro e di insultarmi. Quindi, come ha detto la mia insegnante, siete pregati di uscire.-
Mi sentivo sempre soddisfatta quando riuscivo a sembrare assolutamente distaccata e glaciale, mi sentivo letale ed indistruttibile. Un’arma che mi aveva insegnato mio padre.
Lui la usava spesso nei processi più gravi ed impegnativi.
Vidi Natalja sorridere compiaciuta, e Tom ghignare sotto i baffi.
-Andiamocene ragazzi, Billie ci ha dato un pacco.- sbottò allora Mister Biondo Platino, che sembrava essere il più ragionevole tra i tre, con il suo fare da finto intellettuale.
Rosso Malpelo con i suoi modidivertiti, del tutto inappropriati alla situazione, sembrava essere o molto scemo, o in alternativa molto fatto.
Optai per la seconda opzione.
Miss Capelli Fucsia mi riservò ancora un’occhiata infuocata, prima di girare i tacchi, ancheggiando sulle scarpe esasperatamente alte.
Dio Billie, come fai a stare con una vipera del genere?
Ma che cosa ci si poteva aspettare da un ragazzo che demolisce la statua di Lincoln? Erasolo un teppista, uno sbandato, un Nulla.
Non avrebbe fatto nulla nella sua vita, come quei suoi amici drogati.
Che cosa avrebbe potuto concludere in quella sua amara esistenza?
Forse mio padre aveva pensato al suo futuro quando aveva  stabilito la sua punizione. Il bidello era l’unica cosa che avrebbe potuto fare.
E anche decisamente male.
 
 
 
 
Come previsto Natalja non ci fece continuare la lezione pomeridiana, cosìsmettemmodi provare il balletto per il saggio.
Il panico si stava impadronendo del mio corpo: non potevo non provare, se avessi sbagliato?
Non potevo sbagliare.       
Ero seduta su una delle tante panchine che erano presenti nel camerino, disposte in file orizzontali ai lati delle pareti; non era una stanza eccessivamente spaziosa, ma avevi il giusto spazio per cambiarti, farti la doccia e asciugarti.
Avevo appena finito di spazzolarmi i capelli color oro e , imbronciata come pochi, mi stavo infilandola felpa rossa.
Davvero non riuscivo a credere che tre imbecilli avessero fatto saltare la mia lezione.
Era inconcepibile.
Mi girai a fissare il grande manifesto che era appeso sulla porta dello spogliatoio; raffigurava un uomo e una donna in procinto di fare una presa.
Lei, con il suo tutù bianco e le punte color carne, sembrava uscita dal Paradiso. Quanto mi sarebbe piaciuto poter essere al suo posto, splendida edelegantissima.
L’uomo invece rappresentava l’essenza di un ballerino: l’eleganza e la finezza femminile, ma una maestosità e potenza degna solo di un vero maschio.
La scritta che sorgeva ai piedi dei due ragazzi diceva:
 
Royal Ballet di Londra.
Un sogno che si avvera.
 
Il mio sogno.
Il sogno di mio padre.
E adesso tre idioti arrivavano durante l’orario della mia lezione e pretendevano di mandare a monte tutti i miei piani futuri? Solo perché erano dei drogati senza meta?
Non riuscivo a capire perché me la prendevo così tanto, in fondo era solo una stupida prova; eppure c’era qualcosa nel modo in cui avevano interrotto il corso che mi mandava in bestia.
Quando avevano fatto irruzione nel teatro non si erano preoccupati di poter essere cacciati, o ancor peggio sgridati dalla mia insegnante...
Erano entrati e basta.
Perché non gliene importava di niente e di nessuno.
Perché erano liberi.
Non dovevano sottostare agli ordini impliciti di un padre ossessivo.
Da dove mi era uscito quel pensiero senza ritegno? Non poteva essermi passato per la mente una tale considerazione!
Mio padre era sempre stato un padre buono e giusto; mi aveva allevata come Dio comandava, dandomi una casa, dei vestiti, del cibo. Mi aveva insegnato l’educazione, il rispetto, la moralità profonda che mi portavo dietro. Aveva creduto in me, mi aveva incoraggiata nella danza e nella scuola.
Mi aveva resa quella che ero.
 
Ma chi ero veramente?
 
Una domanda che rimase irrisolta, che soffiò via tra le pieghe della mia mente, nello stesso modo in cui un pezzo di carta si alza in volo con il vento: semplicemente sfuggì, e io non potei farci nulla.
Solo quando sarebbe stata realmente la mia ora lo avrei capito.
Rimasi ferma, seduta su quella maledetta panchina, a fissare il manifesto della Royal Ballet.
Non riuscivo a staccare gli occhi dal poster, che sembrava aver preso realmente vita. Potevo vedere la donna volare in aria e prendere a danzare tra le nuvole notturne, mentre il suo compagno piroettava sullo stesso punto, con gli occhi fissi su di lei.
Che diavolo mi stava accadendo?
Perché tutto d’un tratto  salivano allamiamente pensieri che non riuscivo a domare?
-Amy, tutto bene?-
La voce di Sarah, una mia compagna di corso, mi riportò alla realtà dello spogliatoio. La ragazza, dolce come poche, mi sorrideva gentilmente cercando di capire cosa mi stesse passando per la testa. I capelli ricci e bruni sembravano inappropriati alla sua persona, ma nello stesso tempo le donava un’aria un po’ aggressiva, che compensava con la tanta dolcezza del suo carattere.
-Si, certo.- risposi riprendendomi.
Non avrei dovuto fare certi pensieri mai più.
Non era da me.
Sarah mi sorrise docilmente, per poi ritirarsi nelle vaste docce sulla sinistra.
Me ne dovevo andare da quel maledetto posto, mi sentivo soffocare.
Avevo bisogno di aria.
Mi infilai le scarpe frettolosamente, e senza guardare in faccia nessuno, filai fuori dall’edificio.
Non appena spalancai le porte d’entrata, sentii l’aria invadere i polmoni.
Oh, sì.
La sensazione di purezza che potevi sentirementre inalavi unaboccata d’aria era spesso sottovalutata.
Non c’era niente di meglio.
La strada, di fronte a me, non era particolarmente trafficata, c’erano solo qualche macchina qua e là, e poche persone prese dalle discussioni.
La solita vita mondana.
Certe volte mi sentivo oppressa dalla routine. Avrei voluto mollare tuttoed iniziare una vita nuova, con nuovi amici… Ma per poter diventare una brava persona, dovevo fare certi sacrifici.
-Pensare in quel modo ossessivo non ti farà diventare più brava, Barbie.-
Alzai la testa di scatto non appena udii quella voce, ormai così familiare.
Billie-Joe Armstrong.
Se ne stava appollaiato sul tetto del teatro in cui studiavo ballo.
Con una birra in una mano, e una sigaretta nell’altra.
Ma la cosa più sconcertante era che stava abbracciando una ragazza.
La sua ragazza.
La Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Dannazione!
 
 
 
*************************************
 

Angolo Snap:
 
Hallo meine Liebe!
Allora questo è il Quarto Capitolo, tutto per voi.
Adesso vi spiego le scelte che ho fatto scrivendo questo Kapitel.
Come avrete notato è quasi tutto incentrato sullo stato d’animo interiore di Amy, che si trova davanti a parecchie confusioni e dilemmi: e soprattutto ha fatto il suo primo pensiero negativo nei confronti del padre. Voglio sottolineare questo cosa che è essenziale!
Capite? È stato per colpa di Billie (e poi anche di Tré, Mike e Strafatta) che lei ha formulato quel pensiero.
Quindi è un passo avanti, oppure un passo indietro.. Questo lo vedremo nel corso della storia.
In questo capitolo Amy è in panico totale, non è più sicura di niente della sua vita, nemmeno sul suo futuro! Quindi è molto, molto importante. Per questo gli ho dedicato un intero capitolo.
Spero che non sia stato noioso, ma che vi abbia fatti ragionare, e magari anche un po’ emozionare.
Ma forse chiedo troppo, non sono così brava xD
Comunque sia adesso ci tocca Billie in compagnia di Strafatta (ho fatto apposta a non scrivere ancora il suo nome) xD
 
Fatemi sapere cosa ne pensate, e se avete qualcosa da suggerire .. Sono qui per voi.
Anyway, I love you so much! 
 
  

 

 

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Capitolo 6
*** So give me novacaine ***


Parental Advisory: The static age

 

Capitolo Quinto


So give me novacaine  


 


La mia mente prese a bombardarsi di domande riguardanti la coppia che mi stava dinanzi.

Billie-Joe e la Strafatta.
Non potevano che essere come quei tanti fidanzatini destinati a scoppiare.
E se Billie fosse stato realmente innamorato della Strafatta?
Eh, dai, Amy. Non essere sciocca.
Sicuramente il signor Armstrong aveva bisogno di una ragazza per soddisfare i suoi depravati istinti sessuali. Ma perché certi pensieri mi stavano balenando il cervello? Quelli non erano miei problemi, o comunque non mi sarebbero dovuti interessare.
E poi, era praticamente scontato che Armstrong uscisse con una ragazza così volgare.
Mi strinsi ancora di più nel cappotto, e attesi che la fresca brezza serale mi donasse una sensazione di conforto. La mia testa minacciava di esplodere.
Alzai la testa e trovai un Billie-Joe penzoloni sul tetto, che mi osservava con lo sguardo più strafottente che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Quel ragazzo era davvero inafferrabile.
-Guarda chi c’è, amore mio! È la ballerina!- esclamò Miss Capelli Agghiaccianti quando si accorse della mia presenza.
“Amore mio”?
Quell’ochetta dai capelli tinti aveva chiamato Billie, “amore mio” ? Davvero pensava che Armstrong fosse il suo amore? 
Non riuscivo a capire perché me la prendevo tanto per gente del genere. Non avevo niente a che vedere con loro.
Allora perché mi infastidiva il fatto che la Strafatta fosse la ragazza di Billie?
Lanciai un’occhiataccia nella loro direzione, per poi alzare la mano in cerca di un taxi. Avevo il disperato bisogno di andare a casa e rinchiudermi in camera mia, in compagnia di una buona tazza di cioccolata calda.
Non avevo voglia di sentire la voce stridula di quella sgualdrina a perforarmi le orecchie. 
Indossavo un paio di scarpe con un poco di tacco, che mi slanciavano, rendendomi elegante senza essere volgare come la Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Sentii un tonfo, come se qualcuno fosse appena atterrato da un’altezza.
Fa che non sia…
-Ehi, Barbie! Da quando in qua non si saluta più?-
Appunto.
Mi ritrovai faccia a faccia con due occhi verde smeraldo, che mi osservavano con fare divertito.
Come diavolo faceva ad essere così… intrigante?
Forse erano solo le sensazioni stupide di una ragazzina sognatrice, ma Armstrong aveva qualcosa di profondamente affascinante in lui. Qualcosa che la Strafatta dai Capelli Agghiaccianti sicuramente non riusciva ad afferrare.
Con i suoi jeans sbiaditi e strappati un po’ ovunque, Billie sembrava essere più ribelle del solito. O forse era solo la mia mente ottusa che, notando i suoi capelli arruffati e tinti, elaborava strani pensieri. I miei occhi presero a seguire il contorno del suo viso, memorizzando ogni piccolo particolare nel mio cervello. Ma perché diavolo stavo facendo una cosa simile?
-Ciao, Armstrong.- dissi con un tono seccato.
Lo schivai allungando il braccio alla ricerca di un tassista interessato ad una cliente.
Sembrava che nessuno a Rodeo avesse voglia di venire in mio soccorso.
Grandioso!
-è una mia impressione, oppure oggi sei più acida del solito?-
Mi girai verso di lui con le iridi infiammate.
-è una mia impressione, oppure oggi sei più petulante del solito?-
 Senza stupore, notai che Billie era scoppiato a ridere di buon gusto.
Il fatto che ogni volta che lo insultassi lui si mettesse a ridere era assolutamente irritante, ergo degno di Armstrong. Ormai decisa ad andarmene, gli scoccai un’occhiata infuocata, per poi scansarlo ed incamminarmi per le strade di Rodeo.
Se nessuno aveva voglia di darmi un passaggio a casa, allora me ne sarei andata a piedi.
Tutto pur di fuggire via da quell’idiota.
Tirai fuori dalla tasca il cellulare e notai che nessuno mi aveva cercata.
Fantastico. A nessuno interessava della mia vita.
Oh, Amy! Non fare la melodrammatica!
Sicuramente mio padre era in tribunale e non aveva il tempo di preoccuparsi di me. Era una cosa più che comprensibile, e non gliene potevo fare una colpa.
Ma mia madre?
Oh, quel giorno era alla riunione del Club di Lettura. Come avevo potuto non pensarci prima?
Ma Jake?
Piscina, giusto.
Sembrava esserci stata una coalizione di impegni contro di me. Ma in fondo nessuno si stava preoccupando per me poiché a quell’ora dovevo essere nel bel mezzo della lezione di danza.
Ma per colpa di qualcuno stavo arrancando verso casa.
Maledizione!
Di nuovo Billie-Joe era riuscito a farmi andare su tutte le furie. Non ero mai stata una persona irascibile, e ora quel completo idiota mi faceva impazzire. Sarebbe riuscito a far innervosire anche Gandhi, probabilmente.
Vidi che un Billie saltellante mi stava affiancando, con un fastidiosissimo sorriso stampato in viso.
-Che diavolo stai facendo?- chiesi sbottando.
Lo vidi rovistare nelle tasche dei logori jeans, per poi tirare fuori un pacchetto di sigarette.
Se ne accese una, intossicandosi i polmoni e l’aria che ci circondava.
Oltre che delinquente, idiota e fastidioso, era anche un fumatore.
Hai fatto il pieno, Amrstrong!
-Ti sto accompagnando, non credo sia una buona idea andartene in giro da sola per le strade di una città brulicante di criminali come Rodeo.-
Mi scappò una risata. Quello era davvero il colmo.
-L’unico malvivente che vedo nei paraggi sei tu.-
Si finse stupito e offeso, portandosi il palmo della mano alla bocca: una scena raccapricciante.
-Così mi ferisci nel profondo, Barbie.-
Oh, certo.
Il cielo andava annuvolandosi, e oltretutto si stava anche facendo buio; doveva essere praticamente ora di cena. Non potevo arrivare in ritardo a casa.
D’un tratto mi resi conto che una figura sgambettante ci stava rincorrendo.
Una figura dotata di una folta chioma color fucsia.
Oh, no. Non ancora lei.
-Billieee, amore! Che stai facendo?!-
Soffocai una risata, alla vista di un Billie-Joe sbuffante. Quella ragazza sembrava seccarlo. Si girò verso di me con occhi speranzosi, ma non avevo nessuna intenzione di aiutarlo.
-Celine, vattene.-
Oh, beh. Finalmente si scopriva il nome della Strafatta, che non era per niente scontato.
Ma la cosa non mi interessava più di tanto, perché ero rapita dall’espressione dura di Billie, che sembrava voler mandare via quella ragazza a tutti i costi.
Diavolo! Un comportamento degno di lui. Probabilmente si portava a letto Celine quando non aveva nulla da fare, per poi scaricarla quando non gli serviva più.
In quel momento provai compassione per quella ragazzetta. Chissà che diavolo aveva in testa.
Gli occhi di Celine si riempirono di lacrime.
Se non fosse stata una punk strafottente che mi aveva appena insultata, le avrei anche offerto il mio aiuto. Sembrava così affranta. Come poteva Armstrong essere così insensibile?
Dove diavolo lo teneva il cuore quel ragazzaccio?
-Ma Billie... Tu hai detto... Hai detto che io e te stiamo insieme... Che ci...- vidi la delusione dipingersi sul suo volto, coprendole i lineamenti come una maschera d’ombra. Non riuscivo a distogliere gli occhi dal suo viso dolorante.
-Io non ho mai detto che io e te siamo fidanzati, Celine.-
Il volto di Armstrong era impassibile come quello della mia professoressa di Arte durante le interrogazioni.
Non traspariva alcuna emozione dai suoi occhi, che di solito ne erano colmi.
In quel momento Billie era vuoto; si era nascosto dietro un muro di fortificazione, che gli avrebbe impedito di sentirsi in colpa per Celine, che gli avrebbe evitato i dolori.
Ecco qual era il segreto di Armstrong: una dannatissima maschera.
Solo così riusciva ad andare avanti.
-Me ne devo andare, vero, Billie?- domandò come un cucciolo obbediente.
Come poteva sottomettersi a lui in quel modo?
Come poteva essere così dipendente da un completo idiota che l’aveva appena umiliata davanti a tutti?
Qual era il suo problema?
Mi sentii così arrabbiata con lei, avrei voluto prenderla a schiaffi ed imporle di svegliarsi, di farsi una vita. Come poteva una ragazza della sua età ridursi in quel modo?
Grazie a Dio ho mio padre.
-Si, Celine, torna a casa.-
Questa volta il tono di Billie risultò quasi dolce e apprensivo. Le stava quasi consigliando docilmente di andarsene via, perché sarebbe stato meglio per lei.
Ma a me non piaceva l’idea di rimanere sola con Armstrong.
Celine diede un ultimo sguardo furtivo, per poi girare sui tacchi e allontanarsi barcollando.
Sicuramente aveva dei seri problemi fisici, oltre che psicologici; lo si poteva notare dalla corporatura minuta e troppo esile per una ragazza della sua età. Quando alzava le braccia si potevano notare le ossa.
Di certo non era in salute.
Il marciapiede su cui transitavamo, posto sulla sinistra della strada, era abbastanza largo e in ciottolato, e Celine sembrava trovarsi in difficoltà con gli altissimi tacchi.
-Non dovresti aiutarla? Sembra malata.- osservai dimenticando per qualche secondo dell’astio tra me e Billie.
Quest’ultimo si rigirò tra le dita la sigaretta con fare pensieroso. Billie-Joe sembrava realmente confuso, mentre perso nelle pieghe della sua mente, scrutava il nulla. Certe volte appariva profondamente intoccabile, come se dentro di lui si nascondessero chissà quali segreti e verità.
Era un mistero.
-La sua malattia non è curabile con dei farmaci.-
Che diavolo stava farneticando? Qualsiasi tipo di malanno poteva essere sconfitto con dei medicinali.
-Di che cosa stai parlando?- chiesi sempre più confusa.
Si girò verso di me con uno sguardo carico di dolore, che mi fece tremare le gambe.
Per quanto poco conoscessi Billie-Joe Armstrong, non lo avevo mai visto con un’espressione così addolorata. Sembrava così vecchio in quel momento..
Mi sorrise amaramente cercando di placare i miei timori, eppure mi fece ancora più preoccupare.
-La malattia di Celine si chiama eroina.-
Ci fu un istantaneo blocco totale del mio cervello.
Non poteva essere.
Ok, aveva tutta l’aria di essere una ragazza senza speranze con le sue occhiaie nere e le braccia magre, ma non poteva essere malmessa fino a quel punto.
Avevo pensato che magari si fumava qualche spinello, o magari anche qualcosa di più pesante, ma..
Eroina.
Come poteva davvero essere una tossicodipendente fatta e finita?
Non riuscivo ad elaborare pensieri sensati, o almeno un poco coerenti.
La droga era sempre stato uno degli argomenti più gettonati nel corso di Attualità, e ne sapevo parecchio sull’argomento... Ma ora che avevo visto come un drogato era ridotto mi sembrava di non averne mai sentito parlare.
Era così lontano dal mio mondo, che fu uno sconvolgimento totale per me.
Probabilmente impallidii perché Billie, inarcò un sopracciglio, osservandomi, per poi battermi su una spalla.
-Barbie, ti senti bene?-
Ma vai a quel paese, Armstrong! –Io.. Si, sto bene.-
Cercai di darmi una calmata e di acquisire un portamento degno della mia persona, ma probabilmente i risultati furono scarsi.
E comunque ero troppo sconvolta per preoccuparmene realmente.
-Celine è un eroinomane?- chiesi, speranzosa di una negazione da parte sua. Lo vidi solamente annuire, aspirando un grosso tiro dalla sigaretta. Non era nel mio mondo in quel momento, si stava nascondendo dalla vita.
-Non ci posso credere, è sconvolgente...- farfugliai più rivolta a me stessa.
-Questa è la vita di noi giovani di periferia, Barbie. Il mondo non è tutto rose e fiori. Quello è solo il tuo.-
Altro colpo basso, dritto nello stomaco.
Quel giorno sembrava non dover finire mai. E la colpa era solo esclusivamente di Armstrong.
Sembrava essere entrato nella mia vita per sconvolgerla. Non risposi alla sua provocazione, ormai priva di ogni voglia di controbattere, e mi accasciai al muretto.
Dio Santo, povera Celine..
-Ti va di fare due passi?-
L’invito suonò strambo alle mie orecchie. Billie non chiedeva qualcosa, lui te la imponeva in modo sgarbato. Cercai l’astio nelle sue parole, eppure non lo trovai.
Possibile che volesse solo fare quattro passi in mia compagnia?
Puntai i miei occhi nei suoi, e mi persi nel verde.
Abbozzai un sorriso.
-Andiamo.-
 
 
 
 
Il fiume che stava dinanzi a me era di piccola portata, eppure aveva un qualcosa di veramente affascinante.
La radura circostante era rigogliosa e colorata, quasi come se solo il ruscello avesse il potere di renderla così bella e lussureggiante.
Gli alberi erano alti e colmi di foglie verdi, segno che erano in salute. Il terreno era interamente ricoperto di aghi di pino, che gli donavano un’aria stranamente magica.
Ero seduta su un grosso masso, mentre Billie era in piedi poco distante da me, intento a lanciare sassolini nell’acqua. C’era un’atmosfera di accogliente intimità.
-Quando eravamo piccoli, io e Celine, venivamo spesso qui a lanciare pietre nel fiume. Lei si arrabbiava sempre perché sosteneva che io prendessi massi più grandi solo per schizzarla.-
La voce di Billie era distante di anni, e perso nel suo racconto passato sembrava una persona differente a quella che avevo conosciuto nei giorni precedenti.
Sembrava quasi fragile.
-Beh, sarebbe stato proprio un comportamento degno della tua persona.- cercai di sdrammatizzare.
Sfoderò un sorriso sghembo, che mi fece stare ancora peggio. Cercava di sorridere per non sembrare troppo debole. Ma allora perché si stava aprendo a me?
Nessuno glielo aveva chiesto, era stato lui ad invitarmi per una passeggiata.
Che diavolo aveva nella testa Billie-Joe?
-Touché.- sogghignò tornando il Billie che avevo conosciuto.
-Come mai ho accettato di fare un giro insieme a te?- chiesi con un tono scherzoso.
Avevo voglia di accantonare la rivalità che si era creata tra me e Billie; non sapevo perché, ma sentivo che avrei dovuto ascoltarlo almeno un po’.
C’era qualcosa in lui che mi affascinava più di ogni altra persona.
-Perché non puoi resistere al fascino di Billie-Joe.- ammiccò nella mia direzione.
-Se per fascino intendi jeans sudici e capelli color canarino, allora si.-
Lo vidi scoppiare a ridere, e il suo viso si illuminò trasmettendomi reale felicità.
Non mi sentivo così da... Mai?
Quel ragazzo avevo qualche dote nascosta, davvero.
-Questo era un colpo basso, Barbie.-
Guardai i suoi lineamenti resi più dolci dal sorriso, che aveva la sua sorgente negli occhi.
Riusciva ad ravvivare qualsiasi cosa con il suo splendido riso.
Come avevo potuto non accorgermene prima?
Alzò le mani in segno di resa, e si accomodò sull’erba accendendosi una sigaretta.
Aveva dei seri problemi con il fumo, dannazione! Si accendeva una sigaretta dopo l’altra.
-Fumare fa male, Armstrong.-
Lui si girò nella mia direzione sputando una nuvoletta di fumo dalla bocca, con fare molto strafottente.
Degno di Billie-Joe, certo.
-Anche fare tutto ciò che dice “paparino” fa male.-
Bam.
Ennesimo colpo basso della giornata.
Come cavolo faceva Armstrong a sapere che facevo tutto ciò che voleva mio padre? In fondo non mi conosceva, non avevamo avuto nessun tipo di rapporto. Erano passati solo pochi giorni da quando avevamo avuto l’onore di fare conoscenza.
Come poteva leggermi dentro in quel modo?
-Non faccio tutto quello che vuole mio padre.-
Lui inarcò un sopracciglio con fare scrutatore, poi buttò fuori il fumo dal naso sistemandosi meglio sull’erba, accanto a me.
Trattenni il respiro a quella vicinanza. Non sapevo realmente perché ma mi erano venuti tutti i brividi lungo la schiena, e avevo una strana sensazione in tutto il corpo.
Volevo che Billie si avvicinasse di più.
Finiscila, Amy!
-Conosco le ragazze come te, Barbie.- tirò una boccata dalla sigaretta –Voi siete le studentesse modelle che fanno parte del Comitato Studentesco e sono Rappresentanti di Classe. Frequentate la scuola di danza più prestigiosa della città, e siete fidanzate con il capo della squadra di Football. Fate tutto ciò che è meglio.-
Non riuscivo a dire una parola. Ero assolutamente spiazzata.
Mi guardò dritta negli occhi fulminandomi con le sue iridi verdi.
-Ma vi dimenticate di voi stesse.- concluse portando lo sguardo verso l’orizzonte.
Oh, Dio.
Le aveva azzeccate tutte.
Aveva appena fatto la dettagliata descrizione della mia persona, e dei miei impegni. Eppure nello stesso tempo mi sentivo offesa e minimizzata. Quelle erano state della considerazioni spudorate, aveva generalizzato su una categoria.
Io non era una “ragazza come quelle”.
-Hai dei pregiudizi, Armstrong.- dissi seccata.
Lui rise di gusto. –Senti chi parla.-
Bloccai il mio sguardo con il suo.
Occhi negli occhi.
-Bene, io sono molto più di quello che tu hai appena detto.-
Lo vidi diventare serio in un secondo, senza troppe storie.
-E io sono molto più del classico ragazzaccio di strada.-
Bene, Armstrong.
Con quelle dichiarazioni avevamo, inconsciamente, appena deciso di approfondire la nostra conoscenza.
Quello fu l’inizio vero e proprio del mio rapporto con Billie-Joe.
 

 
***********************
 
Angolo Snap:
 
Hola, chicos! ¿Que tal?
Ecco per voi il Quinto Capitolo ^^
Allora, non devo fare particolari precisazioni o cose varie.
Solo ci tengo a farvi sapere che questo è il capitolo –come scritto alla fine del capitolo- in cui Billie e Amy mettono da parte l’astio reciproco, e anche se continueranno a punzecchiarsi e a detestarsi, in fondo al loro cuore le cose saranno cambiate.
Questo è molto importante.
Celine è un personaggio puramente inventato dalla mia immaginazione, no ha nulla a che fare con il passato di Billie-Joe, ci tenevo a precisarlo.
E comunque è un personaggio molto importante, un po’ distrutto, che apparirà ancora nella storia.
Per chi si aspettava l’arrivo in scena di Tré e Mike, in questo capitolo, sarà rimasto un po’ deluso. Ma arriveranno e saranno potenti come al loro solito, non vi preoccupate.
Non li dimentico, stiamo scherzando? xD
Se avete bisogno di chiarimenti, se avete dubbi o consigli, o cose varie, fatemi sapere.
Mi farebbe piacere se recensiste, per farmi sapere il vostro parere!
Adios!
 
Snap.



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Capitolo 7
*** Ashes to ashes of our youth ***


afg

Parental Advisory: The static age

Capitolo Sesto

 

Ashes to ashes of our youth

 

 

La luce che entrava dalle finestre illuminava tutta la Sala Congressi.

Il sole mi impediva di distinguere bene le figure che stavano sul piccolo palchetto, ma ciò nonostante, sapevo benissimo di chi si trattava.

L’Anfiteatro della scuola, pensato per le assemblee, gli spettacoli e le riunioni studentesche, era abbastanza grande da contenere tutti gli studenti dell’istituto.

Le grandi porte, con le maniglie antipanico, erano aperte e solo le tende di velluto rosso dividevano lo spazio dal resto dell’edificio.

Le poltroncine erano disposte in file ordinate, tutte rivolte verso il palco al fondo della stanza.

Vicino a me sedeva Maggie Stuart, che sembrava essere poco interessata allo spettacolo e più che altro persa nel suo universo personale; certo, era strana come ragazza.

-Di che cosa parla di preciso questa commedia?- mi chiese infine sbadigliando.

Erano circa tre quarti d’ora che la scenetta andava avanti, e lei sembrava non aver capito ancora perché si trovava in Sala Congressi.

Era possibile essere più tonti di Maggie?

-Racconta la storia di alcuni giovani ragazzi di strada che tentano di sfondare nel mondo della musica.-

-Uhm, che noia. Chi è che ha inscenato questa schifezza?-

Maggie, diavolo!

Le scoccai un’occhiata di rimprovero. –La professoressa Collie, con i ragazzi di teatro. Maggie, è dall’inizio dell’anno che lavorano a questo spettacolo!-

Lei sembrò non essere particolarmente colpita dall’informazione appena ricevuta, per tanto si accomodò sulla poltrona e posò la testa di lato, chiudendo gli occhi.

-Bene, allora sono proprio negati. Fa pena. Credo che schiaccerò un pisolino.-

Alzai gli occhi al cielo, trattenendo a stento un sorrisino.

Per quanto Maggie potesse essere disinteressata alla cultura e alla scuola, aveva un che di interessante, sembrava non importarle di ciò che pensava la gente: le piaceva essere nella squadra delle cheerleader e lo aveva fatto senza troppi problemi, ma nello stesso tempo bazzicava con quel branco di idioti hippie che giravano nella nostra scuola.

E nello stesso tempo usciva con noi.

Aveva la dote di riuscire a farsi accettare da tutti, semplicemente perché era se stessa.

Per questo, nonostante la rimproverassi ogni qualvolta lo ritenevo opportuno, mi piaceva.

Era un personaggio affascinante, non si poteva non rimanerne ammaliati.

C’era un’altra cosa che Maggie era in grado di fare: tante volte, quando passeggiavamo insieme, mi faceva dire cose che non mi sarei mai sognata di dire, e poi ne ridevamo insieme; il fatto interessante era che non ne rimaneva scandalizzata o cos’altro, per lei era la normalità.

Tutto ciò mi induceva a tenere una certa distanza da lei, ma nello stesso momento ad avvicinarmi.

Un fatto alquanto strano.

Gli attori, tra cui c’era anche Jake, stavano parlottando tra di loro, inscenando una gang di strada.

Forse Maggie non aveva del tutto torto: non era un granché come spettacolo.

Ma non avrei potuto dirlo, altrimenti Jake si sarebbe offeso, siccome ci aveva lavorato sopra duramente. Contava anche l’impegno che ci avevano messo, ed era notevole.

Non avrebbero sfondato a Broadway, quello era sicuro.

Mi persi per qualche minuto nei miei pensieri, tenendo a mente gli impegni del pomeriggio e i corsi a cui dovevo partecipare dopo la fine dello spettacolo. La mia mente vagò per qualche istante, finché non si imbatté nel ricordo di Celine.

Quella gambe scheletriche e quelle braccia stracolme di piccoli lividi all’altezza delle giunture, erano rimaste impresse nel mio cervello come un tatuaggio indelebile.

Come poteva una ragazza di quell’età ridursi ad avere già un piede nella fossa?
Tutto quel dolore, quell’autodistruzione, per cosa?

Per una sensazione di libertà assoluta? Per il brivido che solo la droga poteva darti?

Non ne valeva la pena.

Neanche un po’.

Subito dopo, con un salto spazio-temporale non indifferente, mi ritrovai a pensare a Billie.

Il giorno prima si era comportato in un modo più strano del solito.

Non ne avevo parlato con nessuno, ovviamente, e non appena tornata a casa mi ero rintanata in camera mia con la scusante dei compiti in arretrato.

Jake era venuto a trovarmi la sera, e non avevo fatto parola dell’accaduto nemmeno con lui, che probabilmente era la persona che mi era più vicina.

Dopo mio padre, certo.

Non avevo una vera e propria ragione per tenere segreto l’incontro tra me e Billie, semplicemente la mia reputazione ne avrebbe risentito. E poi cos’avrebbe pensato Jake?

E mio padre?
Non era consigliabile andarsene in giro con un tizio come Billie, tantomeno se è in compagnia di un’eroinomane. Ma che cosa mi era passato per la testa? Come avevo potuto accettare il suo invito? Non avrei mai più dovuto farmi incastrare nei suoi contorti tranelli.

O forse ero solo paranoica?

Abbandonai l’argomento, dopo aver constato che mi stavo facendo scoppiare il cervello per nulla.

A chi diavolo importava di quel teppista squattrinato?

Notai che lo spettacolo era terminato, e che Jake stava venendo verso di me sorridente come non mai.

Eliminiamo la giornata di ieri dalla mia mente.

Non è mai esistita.

 

 

 

 

Quando arrivai in classe, notai con mio stupore di essere in netto ritardo.

Non era da me, per cui probabilmente avvampai. Gli sguardi di tutti erano puntati verso di me, che continuavo a restare imbambolata sullo stipite della porta.

Ero dovuta andare in Segreteria per chiedere dove fosse l’aula di quel nuovo corso a cui dovevo partecipare e, con libri e foglietti di ogni genere in mano, avevo fatto una corsa contro il tempo per arrivare in orario in classe. Cosa che non era successa.

Avrai sicuramente fatto una splendida impressione, Amy.

L’insegnante del corso di Attualità, aveva i suoi occhietti vispi puntati su di me, un po’ oscurati dalle spesse lenti degli occhiali da vista.

Aveva tutta l’aria di chi ha qualcosa di importante da dire, ma che sta aspettando il momento giusto per farlo.

-Signorina..-

-Murray.-

Si sistemò gli occhialetti sul naso. –Signorina Murray, le sembra questa l’ora di arrivare?-

Fantastico.

Come prima lezione stavo facendo davvero un ottima impressione. Non mi sarei potuta sentire più in imbarazzo di così.

-Mi scusi.- risposi con la testa rivolto verso il pavimento.

Dannazione, come avevo potuto fare un errore del genere?

Puntai lo sguardo sulla classe, in cerca di un banco vuoto, o almeno di un viso amico...

Ma ciò che vidi non fu esattamente amichevole.

Non poteva essere.

Era diventata una coalizione, un complotto contro di me per cercare di rendermi la vita un Inferno!

Non poteva essere vero, come potevo...

-Ehi, Mike! Hai visto? C’è la ballerina!-

Pel di carota.

Quell’imbecille dai capelli arancioni che aveva interrotto la mia lezione di danza, mi stava indicando con un’espressione completamente bacata.

Potevano esistere ebeti peggiori di quell’individuo?

Cercai di evitare commenti sarcastici, e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo, prendendo posto nell’unico banco vuoto, in un’ultima fila.

Non avevo alcuna voglia di attirare ulteriormente l’attenzione su di me, dopo la gaffe del ritardo, così non risposi a Rosso Malpelo e tirai invece fuori dalla borsa carta e penna, per prendere appunti.

Quella giornata, che era iniziata relativamente bene, si era trasformata in un disastro totale.

Possibile che negli ultimi tempi capitassero tutte a me?

Dovevo ritrovare la concentrazione, mi stavo facendo trovare impreparata dagli imprevisti.

-Benvenuti al corso di Attualità. Io sono la vostra professoressa, Mrs. Danfort, e vi accompagnerò per il resto dell’anno…-

Smisi di seguire la solita ennesima presentazione, e presi a disegnare nuvolette sul mio quaderno degli appunti; di solito ero una brava studentessa e seguivo le lezioni, ma quel giorno la mia testa non ne voleva sapere di ascoltare l’insegnante.

Quindi decisi di assecondare la mia pigrizia.

Sentii dei bisbigli provenire dal mio vicino di banco, e dopo fastidiosissimi rumori di sedie spostate, mi ritrovai Rosso Malpelo come compagno di banco.

Oh, Gesù…

-Che diavolo ci fai tu qui? Dov’è finito il tizio che era qui trenta secondi fa?-

-Non mi stava simpatico. Gli ho chiesto se gentilmente poteva lasciarmi il suo posto.-

Inarcai le sopracciglia, in attesa della verità.

-Ok, ok… L’ho minacciato e se l’è svignata al mio banco.-

Grandioso. –Senti, non mi interessa chi tu sia o che cosa diavolo tu voglia dalla mia vita, ma lasciami in pace. Hai già fatto abbastanza danni, ieri.-

Lo vidi trattenere una risata, per non farsi beccare dalla professoressa, che sembrava intenta in un’interessante lezione.

Rosso Malpelo aveva due splendidi occhi azzurri, che non ci azzeccavano niente con il suo viso rotondetto e buffo come quello di un pagliaccio. Nonostante fosse irritante, aveva un qualcosa di divertente, che lo rendeva quasi ingenuo.

Mi ricordai che era amico di Billie-Joe.

-Beh, non è stata colpa nostra. È Billie che è un fottuto cazzone.-

Su quel punto non c’erano dubbi.

-Che cosa c’entra Billie?-

-Quella testa di cazzo di Armstrong ci aveva dato appuntamento a teatro, dicendoci che lì avremmo trovato dell’erba veramente speciale.-

Che brutto pezzo di merda.

Avevo capito il suo gioco, bastardo. L’aveva fatto apposta per farmi un dispetto.

Sapevo che frequentavo una scuola di danza, e a Rodeo c’era un solo teatro in cui si svolgevano le attività sportive. Non doveva averci messo troppo a fare due più due.

E mi aveva mandato quei tre imbecilli ad interrompere la mia lezione.

Come poteva essere così subdolo?

-Bastardo…- sibilai a denti stretti.

-Si, Armstrong è un fottuto stronzo. Ma ormai lo conosco da troppo tempo per stupirmi, ci fa spesso scherzetti del genere. Sembra che lo divertano parecchio.-

Certo, fare cose del genere era tipicamente da Billie-Joe; non dovevo esserne troppo stupita.

Eppure mi sentivo ferita nel profondo.

Ma d’altronde ero io la prima ad avere un senso di ripugnanza nei suoi confronti. Anche se il pomeriggio precedente avevamo dimenticato per un attimo i conflitti non significava che eravamo diventati migliori amici. Eravamo totalmente differenti, e io non provavo che vergogna e rabbia nei confronti di Armstrong.

-Comunque io sono Trè, non come il numero, ma Trè Cool.-

Ma che diavolo andava farneticando?

Strano che un energumeno come lui sapesse anche solo dell’esistenza di una lingua chiamata francese. Davvero notevole.

Di certo non poteva avere un nome più ridicolo di quello, però.

-Trè Coglion, vorresti dire.-

Mi girai verso la voce tagliente che espresse quel rozzo parere, e mi ritrovai faccia a faccia con Testa Biondo Platino.

Ma cos’era? Una coalizione contro di me? Il destino si stava impegnando caldamente (a) per rovinarmi l’esistenza?

Alzai gli occhi al cielo, ormai rassegnata all’evidenza del fatto che non avrei ascoltato una parola della spiegazione della professoressa, che non sembrava accorgersi minimamente del nostro insistente chiacchiericcio.

-Buongiorno, ballerina.- disse sfoderando un sorriso degno del pagliaccio di It.

Armstrong si circondava solamente di persone assolutamente strane?

-Ah, c’è anche il Biondo Platino.. Fantastico.-

Trè, anche conosciuto come Rosso Malpelo, scoppiò a ridere in una maniera decisamente teatrale, inducendo tutta la classe a girarsi verso di noi.

Ergo, anche la professoressa.

Che mi guardava con occhietti decisamente maligni. Non era mai successo, in tutta la mia carriera di studentessa, che una prof mi scoccasse un’occhiataccia.

E adesso per colpa di quei due esserini retrocessi mi stava succedendo.

Me l’avrebbero pagata. Oh, dannazione, se ne sarebbero pentiti.

-Mrs. Murray, Mr. Wright e Mr. Pritchard, sono sicura che troverete l’Aula di Detenzione molto più interessante della mia lezione. Che ne dite, eh? Un’ora, dopo le lezioni pomeridiane. Portatemi i vostri libretti scolastici.-

Oh, Maledizione!

 

 

 

Mi sedetti, esausta, sul muretto fuori da scuola.

Sbuffai, seriamente seccata da quella giornata che non aveva fatto altro che portarmi guai. Com’era stato possibile? Io ero finita in Detenzione.

Io, Amy Murray, prima della classe, migliori voti, cheerleader, amata da ogni professore..

Avevo dovuto subire un trattamento degno di una mezza delinquente.

E tutto per colpa di quei due deficienti che mi stavano intossicando con il fumo delle loro sigarette.

-Eh dai, ballerina, non fare quella faccia triste. E che sarà mai un po’ di detenzione?-

-Taci, Very!-

Rosso Malpelo inarcò un sopracciglio. –Very, che?-

-Ma si, non è quel tuo nome stupido? Very qualcosa... O come diavolo era.-

Vidi Biondo Platino, che avevo scoperto si chiamasse Mike, scoppiare a ridere fragorosamente, quasi strozzandosi con una nuvoletta di fumo.

Pel di Carota gli tirò un calcio negli stinchi, evidentemente offeso.

-Ma che cos’è Very? Ragazzina, impara il mio nome, lo sentirai ancora in futuro. Trè Cool.-

Oh, ma si, certo. Trè Cool.

Beh, non era poi così differente da “Very”… Insomma, il senso era poi sempre quello.

Sinceramente non che mi interessasse in alcun modo, ma ero bloccata ad aspettare Jake, che come al solito si faceva aspettare.

-Si, si. Trè Cool, non me lo dimenticherò.- risposi disinteressata.

Ma dove diavolo si era cacciato Jake?

L’ansia incominciò a prendere il controllo del mio corpo: come avrei fatto a dire a mio padre che doveva firmare il mio libretto scolastico, e non per un bel voto, ma per un’ora di Detenzione?

Oh, Dio.

-Ehi, ballerina, tutto bene? Sei un po’ pallida! Non è che ti sei fumata qualcosa che ti ha fatto male?-

-Taci, Pel di Carota! Finiscila di dire idiozie!- sbottai, aggressiva come una tigre.

Ma, Trè non sembrò stupirsi più di tanto, alzò le spalle e prese a rollarsi una sigaretta.

Dannazione, ma come poteva essere così bruciato?

Mike sembrava perso in un universo parallelo; la sua espressione era così solenne e concentrata che mi sarebbe dispiaciuto svegliarlo da quel sonno ad occhi aperti. Sembrava in trance.

Ovviamente Trè non la pensava come me.

-Ehi, Mike! Che cazzo fai? Guarda che a te la canne ti fanno uno strano effetto!-

In tutta risposta, Biondo Platino lo spinse via, facendolo barcollare.

-Mi spieghi perché ogni cosa che succede, per te deve avere a che fare con la marijuana?-

Trè prese a sbattere le palpebre, quasi incredulo.

-Beh, perché senza di lei non succederebbe nulla di divertente.-

Oh, Signore!

Quel ragazzo aveva dei seri problemi con la droga, e forse non se ne rendeva neanche conto. Il fumo portava dipendenza, e lui era un caso perso. La mia mente mi riportò per un attimo a Celine.

In quello stesso istante vidi arrivare Jake.

Sia lodato!

Non appena arrivò fece una smorfia di contraddizione, rivolta ai due tizi che mi stavano tenendo compagnia dall’ora di Attualità.

Non riuscii bene a capire il perché, ma quel suo modo di fare mi diede sui nervi, avrei voluto che sorridesse a Mike e Trè, come faceva con tutte le persone. Ovviamente sapevo che aveva ragione a comportarsi in quel modo, quei due erano dei mezzi delinquenti…

Ma qualcosa nel mio profondo ne rimase quasi ferito.

-Ciao.- mi disse baciandomi velocemente le labbra.

-Ehy, la ballerina ha il fidanzato!- esclamò Pel di Carota.

Gli tirai un pugno nella pancia, per poi allontanarmi con il mio ragazzo, trattenendo una risata che insisteva per uscire. Come si poteva non ridere di fronte ad un elemento come Trè?

Che strana giornata.

Una voce in lontananza urlò: -Cerca di non fumare troppe canne, ballerina.-

Ecco, appunto.

Mi girai verso Jake, e notai la sua espressione severa.

Mi venne un groppo allo stomaco.

A quel punto avrei dovuto affrontare l’ira del Giudice Murray.

 

 

 

 

***********

 

 

Angolo Snap:

 

Grazie alla mia beta reader.

Grazie a chi legge, a chi recensisce, a chi ha aggiunto la storia tra le Preferite, Seguite o Ricordate.

Mi state veramente dando delle soddisfazioni,

e io non me le merito.

 

Ho voluto dare importanza a Mike e Trè, in questo capitolo.

Il prossimo sarà il capitolo di svolta, quello che darà inizio veramente a tutto.

Preparatevi al peggio.. O al meglio, dipende.

 

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Capitolo 8
*** There is no place like home, when you got no place to go. ***


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Parental Advisory: The static age

 

Capitolo Settimo

There is no place like home, when you got no place to go.

 

 

Il mio cuore palpitava veloce.

Sentivo il cervello scoppiarmi a causa del mal di testa venutomi per lo stress, e le gambe minacciavano di cedermi.

Me ne stavo in piedi davanti al grosso portone in legno di cedro di casa mia, in balia della sorte.

Il cielo del crepuscolo donava all’atmosfera un’immagine non troppo rassicurante, impedendomi di rilassarmi.

Come avrei potuto dire a mio padre che ero rimasta a scuola in Detenzione?

E perlopiù, che vi ero finita perché avevo disturbato la lezione in compagnia di due perfetti delinquenti?

No, non ero in grado di farlo.

Su, Amy, puoi farcela.

Mi resi conto che le mani mi tremavano mentre prendevo le chiavi di casa dalla tasca del cappotto.

Avevo il terrore di mio padre.

Mi immaginavo il suo sguardo severo che mi fulminava, e le sue guance arrossate dalla pressione. Oddio, come avrei potuto affrontare tutto quello?

Finalmente aprii la porta di casa.

Lo stretto e lungo corridoio d’entrata mi accolse, facendomi notare che le luci erano accese; quindi la casa non era vuota, nonostante ovunque il silenzio regnasse.

Appesi il cappotto sull’appendiabiti e posai la borsa sulle scale che portavano al piano superiore.

La mia mente era stracolma di pensieri negativi e lugubri. Ciò mi impediva di assumere un’aria neutra.

Dannazione, Amy!
Ero sempre stata abituata a fare la brava marionetta, la bambola di cera senza un capello fuori posto..

Ma se la cera si fosse sciolta?

Mi fermai davanti alla porta della cucina.

Mio padre e mia madre erano seduti attorno al tavolo rotondo, che fungeva da punto di ritrovo per tutta la famiglia. Il centrino e il vaso di fiori rossi, che decoravano la bella tavola di mogano, avevano d’un tratto assunto un’aria del tutto inquietante.

Non appena notò la mia presenza, mia mamma si sistemò i capelli e prese a giocherellare con alcune ciocche, chiaro sintomo della sua irrequietudine.

Mio padre non mi degnò neanche di uno sguardo, continuò imperterrito a fissare il legno pregiato del mobile.

Era peggio di quanto mi aspettassi.

Una sola volta era successo che avevo disobbedito ad un ordine di mio padre, ero piccola e non avevo alcuna idea di quanto il carattere di Steven fosse duro; era una bella giornata e mia madre mi aveva raccomandato di non sporcare il bel vestito nuovo che mi avevano comprato, ma io, piccola bimba, ero andata a giocare nel fango.

Mi ricordavo ancora alla perfezione l’espressione di pura ira che si era dipinta sul volto di mio padre, e di come la punizione mi aveva fatta star male: mi aveva chiusa in camera per tre giorni, facendomi uscire solo per i pasti e la doccia.

Da quel giorno in poi non avevo osato mai più disobbedire ad un ordine di mio padre.

Fino a quel momento.

-Ci hanno chiamati da scuola, Amy.-

Mia madre non mi chiamava mai con il mio nome; usava appellativi ridicoli o affettuosi. Solo quando le cose si mettevano davvero per il peggio usava il mio nome di battesimo.

Abbassai lo sguardo sul pavimento.

-Non ci sono parole per descrivere la delusione che provo. Sono così amareggiata, Amy.-

Dannazione!
Perché diavolo dovevano fare una scenata del genere? Non era mai successo che disobbedissi, che li deludessi..

Non  avevo forse anche io il fottuto diritto di sbagliare?

La voce di mio padre, forte e decisa come mai prima d’allora, si fece spazio tra il silenzio teso, e prese il comando della situazione: -Ho sempre pensato che mi avresti reso fiero di te. Saresti diventata un’avvocatessa degna di me, e magari avresti anche fatto carriera nel ballo. Sai, ci credevo davvero.

E invece tu cosa vai a fare?-

I suoi occhi si fecero piccoli e cattivi, la rabbia fuoriusciva dall’iride.

Avevo paura.

Quando mio padre si arrabbiava, scatenava tutta la sua furia repressa.

Una volta aveva alzato le mani su mia madre, che si era dimenticata di preparare il latte per colazione.

Avevo sempre avuto una bellissima considerazione di mio padre, lui diceva il vero. Il vero e basta.

Ma quando si arrabbiava dimenticavo quanto fosse semplicemente fantastico, perché riuscivo a vedere solo un uomo iracondo che mi incuteva paura.

Mio padre suscitava in me una serie di sensazioni assolutamente incoerenti: lo amavo incondizionatamente, ma nello stesso tempo lo odiavo con tutta me stessa; mi faceva sentire protetta, ma mi terrorizzava tanto da farmi venire i brividi.

Tutto ciò non aveva un senso logico, per questo avevo sempre represso tali emozioni.

Ma in quel momento, con papà furioso davanti ai miei occhi, non potevo fingere di non avere paura di lui, e di non volergli sputare addosso le mie sensazioni.

Il fatto strano era che mi dispiaceva.

Sapevo che una parte remota della mia mente detestava mio papà e avrebbe voluto ribellarsi a lui, ma l’altro spicchio di cervello mi sussurrava che la colpa era mia, che ero io quella che lo aveva deluso.

Non aveva forse tutte le ragioni per infuriarsi?

-Tu te la fai con due perfetti delinquenti!-

Lo vidi diventare paonazzo in volto e avvicinarsi a grandi passi a me.

Il panico si impadronì del mio corpo, così girai i tacchi e feci per uscire dalla cucina. Purtroppo, però, egli mi prese per i capelli, quasi strappandomeli.

Non riuscivo a respirare, urlai di rabbia e dolore.

È impazzito, aiuto! È pazzo!

La mia mente in piena crisi di panico prese a elaborare centinaia di pensieri in contrapposizione, e nello stesso tempo a cercare una via di fuga.

Stavo provando terrore allo stato puro.

-Steven, ti prego, lasciala!- esclamò mia madre con le mani sulla bocca.

-Taci!- le ringhiò addosso.

Mi sentivo la cute sfaldarsi lentamente, come se qualcuno mi stesse staccando con estrema cura la pelle. Non c’erano parole per descrivere ciò che stavo provando.

Avrei voluto ucciderlo.

Prenderlo a calci, riempirlo di botte. Vedere il suo lurido corpo spegnersi lentamente, come una candela che scioglie sotto il fuoco.

No, il terrore aveva annientato la parte razionale del mio cervello; l’odio per mio padre aveva preso il controllo delle mie considerazioni.

Adesso mi devi ascoltare per bene, Amy. Io ho dato la mia vita per te, ho speso tutto il denaro che avevo in possesso per darti una casa solida, dei sani principi e un futuro. Io non ti lascerò buttare via la tua promettente carriera. Hai capito? –

Il mio cuore batteva all’impazzata.

Sentivo il mio stomaco contorcersi, minacciando di espellere il poco cibo ingerito.

Stavo per vomitare.

La presa di mio padre era salda come il ferro, e sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarmi andare.

Dovevo liberarmi, non potevo sopportare quella situazione ancora per molto.

Sentii le lacrime scorrere lungo la mia guancia, solcando il mio viso come una lama d’acciaio.

Come il sangue.

Non sapevo di preciso per cosa stessi piangendo, se più per la rabbia, la frustrazione o per aver deluso quell’essere abominevole che stentavo a riconoscere come mio padre.

Non avevo mai provato un tale dolore in tutta la mia vita; forse il problema era il fatto che Steven aveva sempre cercato di proteggermi dal mondo, estraniandomi completamente da qualsiasi cosa potesse nuocermi … Senza rendersi conto che l’unico pericolo era lui stesso.

Mi sentivo così contraddetta e amareggiata che non riuscivo a muovermi, a formulare un pensiero che avesse un nesso logico.

Sentivo il dolore impossessarsi del mio corpo, strappandomi dalla perfetta vita che avevo sempre condotto, e catapultandomi in un Universo che non era mio, che non riconoscevo.

Come potevo provare una tale sofferenza?

Mi resi conto che se non mi fossi liberata dalla stretta di mio padre, probabilmente non sarebbe finita bene.

Cercai di scacciare dalla mia mente ogni pensiero e di concentrarmi, per qualche istante, solo alla mia salute fisica, che era a grave rischio.

Vidi mia madre piangere con le mani sulla bocca, e mi ritrovai a disprezzarla come mai avevo fatto prima d’allora: come poteva stare ferma a piangersi addosso, mentre suo marito si comportava in quel modo?

Quella non poteva essere la mia famiglia.

Doveva essere solo un orrendo incubo.

Cercai la forza nascosta dentro di me, e iniziai a prendere dei grossi respiri.

Su, Amy, puoi farcela. Dannazione!

Urlai con tutto il fiato che avevo in gola, sentendomi come un’antica vichinga alle prese con la sua prima grossa battaglia.

Tirai un calcio nello stinco a mio padre, che lasciò la presa per imprecare dolorosamente.

È il momento.

Non mi girai due volte per assicurarmi di non aver fatto troppo male a Steven, e mi fiondai in camera mia.

Avevo il fiato corto, e non sapevo se la scelta di andare nella mia stanza fosse stata giusta, ma dovevo prendere la borsa e qualche altro oggetto personale.

Con il panico in corpo gettai nella borsa a scacchi le prime cose che pensai potessero essermi utili, per poi correre giù dalle scale con il terrore di incontrare papà.

Quando arrivai al piano di sotto vidi mio padre venirmi incontro con l’aria più demoniaca che avessi mai visto in tutta la mia inutile esistenza.

Con mio grande stupore notai che mia madre stava cercando –con scarsi risultati- di trattenerlo per una spalla.

Non potevo perdere altro tempo.

Diedi un ultimo sguardo a quella donna dai capelli scarmigliati e gli occhi colmi di un dolore inafferrabile, e mi resi conto che non aveva nulla che potesse appartenere anche solo lontanamente alla Signora Murray.

Tutto a un tratto ci fu un cambiamento radicale nella situazione: vidi la furia di mio padre placarsi e trasformarsi in un’amarezza assoluta; i suoi occhi si colmarono di lacrime e li vidi inondarsi di sofferenza allo stato puro.

La mia mano era serrata sulla maniglia della porta d’ingresso, e gli occhi di mio padre erano fissi su di essa.

I suoi occhi mi stavano implorando di non andare, di rimanere con lui, che sapeva di aver sbagliato.

Rividi il vecchio, dolce ma autorevole Steven Murray.

Ma come potevo rimanere?

Aprii la porta, ed uscii a grandi passi.

Senza voltarmi indietro.

 

 

 

 

La notte era così buia che sembrava quasi opprimermi; probabilmente era una normalissima nottata, ma il mio umore mi impediva di vederla in quel modo.

Mi aggiravo tra le strade di Rodeo senza una meta precisa, la mia borsa in spalla e il cappotto stretto attorno al mio corpo infreddolito.

Dove sarei potuta andare?

Non avevo un posto in cui dormire, e sicuramente non sarei andata a bussare alla porta di qualche mio compagno di scuola, né tantomeno a Jake, che avrebbe dato sicuramente ragione a mio padre e mi avrebbe rispedita a tempo zero a casa.

E io non volevo tornarci.

Sentii le lacrime bagnarmi il viso, mentre, impaurita come mai lo ero stata prima d’allora, cercavo un posto al riparo in tutto quel deserto d’asfalto.

Tutto il mio focolare di calda sicurezza era stato distrutto dagli eventi. Dovevo essermi persa qualche incastro, non era possibile che d’un tratto tutto fosse cambiato così, semplicemente.

Non poteva essere successo veramente.

Non sapevo dire lucidamente perché me n’ero andata di casa, semplicemente me lo aveva suggerito l’istinto.

Cosa ne sarebbe stato dei miei progetti per il futuro?

Cos’era successo a mio padre?

Avevo vissuto tutti quegli anni nella più totale inconsapevolezza? Che cosa non riuscivo ad afferrare? Sentivo che qualcosa mi stava nettamente sfuggendo, non riuscivo a comprendere.

Mi fermai nel bel mezzo della strada.

Vicino a me, gli edifici sembravano non avere più un’identità; anche gli alberi, ben disposti in file, non aveva più la stessa immagine.

Tutto il mondo sembrava cambiato.

Era successo qualcosa di veramente importante, e io non riuscivo a cogliere del tutto il senso.

Che diavolo stava succedendo?

Un folle pensiero si impadronì del mio cervello, facendomi sussultare.

No, Amy, non puoi farlo.

Repressi quella razionalissima vocina mentale, e mi lasciai sopraffare dall’unico piccolo barlume di speranza.

Mi misi a correre per le strade di Rodeo, diretta nell’unico posto in cui non sarei dovuta andare.

Ma che altro potevo fare?
Nulla aveva più un senso, la confusione si era impadronita del mio cervello, e anche i pensieri razionali sembravano infine privi di ogni logica.

La coerenza era d’un tratto scappata da me, lasciandomi sola e in balia della sorte.

Non appartenevo più a niente, a nessuno. Non avevo più delle certezze, dei sogni.

Dov’era finita la Amy che si era svegliata quella mattina?

Svoltai per un piccolo viottolo, noncurante del fatto che mi stavo addentrando nella zona più malfamata di tutta Rodeo.

Sapevo dove stavo andando, conoscevo la mia destinazione.

Il puzzo di immondizia e pipì invase le mie narici, costringendomi a coprirmi il naso con il cappotto. Tutto ciò che stavo facendo era fuori da ogni limite.

Ma ormai che importanza aveva?
Il vicolo era illuminato da una piccola insegna al neon, bruciata e rovinata dagli anni; tutto il resto aveva l’aria di sporco e maltenuto, compreso un povero cane che gironzolava nei paraggi, in evidente ricerca di cibo.

Dovevo assolutamente trovarlo.

Il pub si presentava decisamente male, ed era tutt’altro che invitante.. Ma era la mia unica scelta.

Presi un grosso respiro, sopprimendo ogni stupida paura. Era la cosa giusta da fare.

Aprii la pesante porta di legno, e l’odore di fumo mi entrò nei polmoni, facendomi tossire come una camionista.

Fantastico.

Mi strinsi di più nel cappotto, cercando di rendermi il meno visibile possibile; nonostante tutto non mi andava che qualcuno mi vedesse in quel postaccio.. Avevo ancora una schifezza di reputazione.

Se mio padre avesse saputo che ero uscita di casa come una furia per nascondermi in un postaccio come quello, probabilmente sarebbe impazzito.

Non potei fare a meno di rabbrividire all’idea di Steven infuriato, ne avevo avuto abbastanza per quella sera, non volevo pensarci più.

Scesi le scale, e non appena arrivai nel piano sottoterra, mi resi conto che quel posto meritava in tutto e per tutto l’appellativo di bettola.

Lo spazio era decisamente piccolo e angusto, le luci erano poche e mal funzionanti, per non parlare della televisione dell’anteguerra appoggiata sul bancone; quest’ultimo era posizionato al fondo della sala, era di legno massiccio e rovinato dagli scalfi, probabilmente fatti con dei coltellini.

I pochi uomini presenti nel locale erano seduti su alti sgabelli, e tenevano in mano delle grosse pinte di birra; non erano di certo i tipici uomini raccomandabili, anzi.

Forse avevo sbagliato posto, forse lì non avrei trovato ciò che stavo cercando.

Dannazione, Amy!
-Vuoi qualcosa?-

La voce scorbutica apparteneva ad uno sdentatissimo cameriere, intento ad asciugare bicchieri. Era tozzo e basso, ma aveva l’aria buona, nonostante fosse burbero.

Perché mi trovavo in quel posto?

Assunsi un’aria abbastanza dignitosa, e cercai di sorridere gentilmente.

-No, grazie. Cercavo un mio amico, ma ho sbagliato posto.-

L’uomo allora rise beffardo, quasi prendendosi gioco di me.

-Lo credo anche io.- concluse squadrandomi da capo a piedi.

Nello stesso istante, una figura magrolina e malconcia uscii da una porticina sul retro del bancone.

I suoi capelli ossigenati e pieni di ricrescita erano decisamente scompigliati.

Non appena mi vide serrò la mascella, assottigliando i suoi penetranti occhi verdi, visibilmente stupiti dalla mia improvvisa apparizione.

-Che diavolo ci fai tu qui, Barbie?-

Grazie, grazie, grazie!

Ero riuscita a trovare l’unica persona che forse mi avrebbe potuta aiutare in quella situazione.

 

Billie-Joe.

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

Angolo Snap:

 

Grazie alla Vi!

 

Sono tornata tutta per voi, miei carissimi lettori ^^

Quindi commenterò un po’ questo Settimo Capitolo, così capirete un po’ la motivazione di alcune mie scelte.

Direi che questo Kapitel è decisamente drastico per la nostra Amy, che vede tutte le sue certezze smontarsi in una sera. Sono stata forse troppo cattiva?

Assolutamente no, questa è la storia, è deve andare così. xD

Steven non è questo stinco di santo, ma noi già lo sapevamo (o almeno lo sospettavamo xD).

Adesso Amy è confusa, e dentro di sé ha un sacco di emozioni nuove e tristi.. Per questo nel testo troverete molto incoerenza: è fatto apposta, perché lo stato d’animo della protagonista è esattamente così; si contraddice da sola.

Detto questo.. Scappa da Billie. xD

 

Spero vi sia piaciuto,

come sempre vi chiedo di lasciare un commento se avete qualcosa da farmi sapere!

Un caloroso abbraccio,


Un ultima cosa: qua sotto vi linko una one-shot che si è classificata seconda ad un contest sul forum di Efp; mi farebbe piacere sentire i vostri pareri. Vi ringrazio.

 

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=869230&i=1

 


La vostra Snap.

 

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Capitolo 9
*** I walk alone the road. ? ***


CAPITOLO 8-PARENTAL ADVISORY

Parental Advisory: The static age

 

# Capitolo Ottavo

 

I walk alone the road.

?

 

 


Mi ritrovai faccia a faccia con un Billie decisamente sconvolto.

I suoi grandi occhi verdi esprimevano il più totale stupore; e come non si poteva dargli torto? Vedere la figlia del giudice Murray in una bettola a quell’ora di notte(,) non era una cosa normale.

Billie indossava i suoi soliti jeans sbiaditi, che avevano tutta l’aria di essere luridi; la sua maglietta nera era coperta da un grembiule verdognolo coperto da macchie.

-Ciao Billie.- riuscii a dire, cercando di reprimere le lacrime.

Il mio stato d’animo era quello di una persona sotto choc e, mentre guardavo i suoi occhi verdi colmi di emozioni nascoste, non potei fare a meno di sentirmi esplodere.

Non riuscivo a capire perché d’un tratto l’unica persona che mi sembrasse essere rimasta immutata sulla faccia della Terra fosse Billie-Joe.

Il cameriere tozzo prese di nuovo a squadrarmi, mentre lanciava ad Armstrong un’occhiata di disappunto, e il ragazzo si passò una mano tra i capelli ossigenati, spettinandoseli ancora più di quanto non lo fossero già.

Alla fine parlò: -Che cazzo ci fai qui a quest’ora di sera, Signorina Io-Non-Frequento-Certi-Posti?-

Aspettarmi gentilezza da parte di Armstrong era troppo anche per me, e poi mi ero quasi abituata alla sua antipatia cronica.

Mi ritrovai incapace di rispondere a quella domanda.

Così semplice ma così difficile.

-Billie..- il suono della mia voce uscì più strozzato del dovuto.

Vidi gli occhi verdi di Armstrong assottigliarsi, e farsi d’un tratto indagatori. Che stesse abbassando le sue barriere difensive? Non poteva essere.

Il cameriere dall’aria lurida smise di passare lo strofinaccio sul bancone, e mi guardò con occhi straniti. I pochi cristiani che erano presenti nel locale non si curavano troppo della mia presenza, ma le occhiate dei due baristi erano rivolte a me.

Non riuscivo a smettere di fissare Billie.

Sembrava l’unica persona sincera, che anche se mi insultava e mi odiava, mi diceva la verità e non si preoccupava di farmi del male.

Era il mio unico appiglio a quella normalità che mi era stata strappata via in pochi istanti.

Armstrong si girò verso il suo collega: -Tra quanto finisce il mio turno, Mac?-

L’uomo, che da quello che avevo capito doveva chiamarsi Mac, diede una veloce sbirciatina al suo orologio da polso, per poi tornare a fissare Billie-Joe.

-Billie, tu non hai un fottutissimo turno da rispettare. Decido io quand’è ora che porti il tuo luridissimo culo fuori da qui. Ricordi?-

Come diavolo si permetteva di usare quel tono con Armstrong? Quel verme viscido doveva essere qualcosa come il suo datore di lavoro, visto come si atteggiava.

Mi sconvolse notare come il ragazzo dagli occhi verdi non si fosse scomposto di un millimetro, doveva essere abituato a quei toni, e a quegli insulti.

Un brivido mi attraversò la schiena mentre mi immaginavo cosa Billie dovesse subire ogni giorno.

Sembrava che quella notte un gesto d’affetto fosse troppo.

Il destino, Dio, Allah, Buddha, o cosa diavolo vi fosse lassù, aveva deciso che per me non doveva esserci una carezza, uno sguardo amichevole, una rassicurazione, non quella notte, no.

Capitano a tutti giorni in cui il mondo sembra accanirsi contro di te, giorni in cui le cose non fanno che andare male, ma io non ero abituata ad averne. Non ero pronta per tutto quello, nessuno mi aveva mai detto che la mia condizione apparentemente perfetta era in realtà precaria.

Quella notte il filo della mia vita, già tirato al massimo, si era spezzato.

Si era spezzato lasciando tutto il resto in sospeso, facendo un frastuono così forte da sovrastare gli anni di risate e gioia.

Ora non c’era più nulla.

Puntai gli occhi su Billie, che rimaneva in piedi con il suo grembiule sgualcito e la pacatezza negli occhi, segno che stava nascondendo delle forti emozioni.

-Allora riformulo la domanda- disse trattenendo l’astio –A che ora devo portare il mio luridissimo culo fuori di qui?- disse sfoderano il suo ghigno di sfida.

Armstrong sapeva affrontare con una strepitosa faccia da culo i problemi, lo aveva appena dimostrato.

Avevo fatto dannatamente bene a correre da lui.

Nonostante tutto.

 

 

 

 

Le stelle, quella sera, erano alte e luminose; brillavano come piccole lucciole una accanto all’altra.

Non era la nottata ideale per soffermarsi sul romanticismo degli astri, anzi, la loro presenza sembravano quasi volermi sfottere.

Me ne stavo seduta su una gradinata di un grosso palazzo, probabilmente non ci sarei neanche potuta stare, ma cosa m’importava?
Mi girai verso l’insegna sbiadita del pub cercando, per l’ennesima volta, gli occhi verdi di Billie.

Nessuna traccia.

Era quasi un’ora che lo stavo aspettando su quelle dannate scalinate, e lui non sembrava avere nessuna voglia di farsi vivo; probabilmente quel lurido di Mac non lo lasciava uscire.

Sbuffai, pensando a quanto la vita fosse strana.

L’immagine di mio padre con le mani nei miei capelli tornò dolorosa, facendomi sussultare dall’ansia: avevo realmente paura che potesse arrivare e riportarmi a casa.

D’altronde ero sua figlia e avrebbe potuto fare ciò che voleva, nei limiti della legge. Era forse illegale il modo in cui si era comportato qualche ora prima?
Di certo non sapevo darmi una risposta.

Se fossi stata una fumatrice, quello sarebbe stato il momento giusto per accendermi una sigaretta, ma per mia fortuna – o sfortuna, a seconda dei punti di vista- il solo odore di fumo mi disgustava.

Nonostante tutto quello che era successo rimanevo pur sempre Amy Murray, ed Amy Murray aveva ancora un piccolo straccio di dignità da portare su un piatto d’argento.

-Dannazione!- esclamai, esausta.

Mi abbandonai alle lacrime, che fremevano da tutta la sera per scendere: non avevo la forza fisica per impormi al loro volere.

Che diavolo ne sarebbe stato di me?

Non avevo un posto in cui poter andare, non avevo più delle certezze, non sapevo più distinguere tra giusto e sbagliato, concetti elementari che si imparano quando si hanno tre o quattro anni. Eppure quella sera sembravano essermi del tutto sconosciuti.

Che cosa stava succedendo alla mia realtà?

-Non serve imprecare, Barbie.-

Mi voltai di soprassalto, con il cuore in gola per lo spavento causato dall’improvvisa apparizione di Billie.

Come ogni volta riusciva a comparire nel momento meno appropriato.

Come diavolo ci riusciva?

Mi asciugai gli occhi con la manica del cappotto, e cercai di ricompormi, nonostante fosse chiaro come il sole che Billie sapesse che stavo piangendo.

-Tu lo fai sempre, Armstrong.- ribattei acida.

Lo vidi mettere la mano nel giubbotto di pelle sgualcito e tirarne fuori un pacchetto di sigarette; la fiamma debole dell’accendino gli illuminò il volto, rendendo visibili i suoi splendidi occhi.

Tirò una boccata dalla sigaretta, e lo vidi acquisire un’espressione di soddisfazione, quasi che la sigaretta fosse la sua aria pulita.

-Touché, Barbie.- rispose, disinteressato al mio aspro commento. Quella notte non aveva voglia di battibeccare, sapevo che voleva arrivare a farmi sputare il rospo.

D’altronde che cosa mi aspettavo? Che mi potessi presentare da lui in quello stato senza che mi chiedesse nulla come spiegazione?

Tutto sommato era comprensibile, glielo dovevo concedere.

-Ti vedo un po’ sconvolta, vuoi una sigaretta? Magari ti farebbe bene.-

Guardai lui, poi la sigaretta abbandonata tra le sue labbra.

-Non fumo, dovresti saperlo.-

Lo vidi sospirare, alzare le spalle e sedersi accanto a me sulle gradinate.

A quel punto sarebbe arrivata la ramanzina, o le solite domande indiscrete per estrapolare informazioni. Dannazione, non avevo nessuna fottutissima voglia di parlare dell’accaduto.

Volevo solo qualcuno che potesse darmi un po’ di comprensione, e Billie era l’unica persona che conoscevo che fosse finito in situazioni peggiori della mia.

Da chi altro sarei potuta andare? Non di certo da Jake, che mi avrebbe rispedita a casa senza contare fino a tre.

-Billie- iniziai, vedendo che non parlava.

Puntò gli occhi verso di me, folgorandomi. Non riuscivo ancora a rendermi conto di come una persona potesse avere degli occhi come i suoi. Dannazione, erano magnifici.

Mi soffermai sui suoi capelli sbiaditi e anche un po’ sporchi, poi girai la testa verso la strada.

-Ho bisogno di un posto in cui dormire.- sputai tutto d’un fiato.

Non ebbi il coraggio di voltarmi per vedere l’espressione del suo volto. Lo sentivo respirare, e qualche volta tirare boccate dalla sigaretta.

Il mio cuore minacciava di esplodere per l’ansia.

-Si, l’avevo intuito, Barbie. E scommetto che riponi in me le tue speranze di un posto in cui passare la notte, giusto?-

Cazzo, cazzo, cazzo. –Hai fatto centro.-

-E cosa ti fa pensare che io abbia un posto letto per te? E, inoltre, se c’è l’avessi, cosa ti fa sperare che io possa essere così gentile da ospitarti?-

Maledizione!

Armstrong non cambiava, stronzo era e stronzo sarebbe rimasto. Cosa diavolo mi era passato per il cervello quando avevo deciso di andare fino a lì per chiedergli di ospitarmi?

Mi alzai dalle scale e mi scrollai la polvere dal cappotto.

-Per una volta hai ragione. Chi cazzo me l’ha fatto fare di venire qui?-

Mi voltai senza dire un’altra parola, e presi a camminare per il vicolo buio.

Certo, c’era da aspettarselo da Billie, ma per una volta avevo sperato che mettesse da parte l’astio nei miei confronti, proprio come aveva fatto quel giorno sulle sponde del fiume.

Invece probabilmente gli avevo chiesto troppo.

-Il mio problema è che non ho un posto che possa godere dell’appellativo “casa”.-

La voce di Billie riecheggiò nel silenzio del vicoletto, e mi colpì come un pugno nello stomaco.

Mi fermai su due piedi, senza osare fare un altro passo.

-Che vuol dire?- urlai, nella sua direzione.

Lo vidi alzarsi dalla scalinata e venirmi incontro con un passo stanco e annoiato. Certo, quella commedia non  lo stava divertendo. E neanche me.

Avrei solo voluto tornare indietro nel tempo e trovarmi a casa mia, con le mie sicurezze, invece che bloccata in un vialetto di periferia, in compagnia di Armstrong.

 -Lo vuoi ancora un posto in cui stare questa notte?- chiese, ormai accanto a me.

Lo vidi gettare la sigaretta, arrivata al filtro, e continuare a fissarmi, sostenendo il mio sguardo senza problemi.

Sospirai, senza altre speranze. –Certo che lo voglio.-

Annuì, con fare risoluto. –Allora scoprirai cosa intendo con l’affermare che la mia non è un posto degno di essere chiamato casa.-

 

 

 

-Casa dolce casa.- introdusse Billie, aprendo la porticina in acciaio sgangherato.

Il posto era situato in una delle tante traverse della periferia di Rodeo, dove anche le case più belle erano fatiscenti e puzzolenti.

Avevamo percorso tutto il tratto di strada rimanendo in silenzio, senza spiccicare neanche una parola, qualche volta con le boccate che Billie prendeva dalle svariate sigarette che aveva acceso, smorzavano un po’ l’atmosfera cupa, ricordandomi che non ero sola per le vie notturne.

Il luogo in cui entrammo si rivelò essere un vero schifo; Billie aveva totalmente ragione riguardo al non poterla chiamare casa.

Una piccola lampadina penzolante dal soffitto illuminava fiocamente lo spazio. I pavimenti erano in cemento armato, privi di qualsiasi tipo di piastrelle e l’unica cosa che gli dava un minimo di copertura erano alcuni tappeti stesi per tutto il perimetro della stanza.

La maggior parte dello spazio disponibile era occupato da una serie di strumenti musicali: era una vera e propria sala prove. La batteria, che aveva tutta l’aria di averne subite più di un veterano di guerra, troneggiava sul resto dell’attrezzatura, al fondo della stanza; un po’ più avanti di essa si trovava un microfono, che probabilmente si teneva in piedi per pura grazia divina. Appoggiate al muro, affianco alla batteria, c’erano due chitarre, una delle quali aveva un manico più lungo e le corde più spesse dell’altra.

L’arredamento era pressoché inesistente, fatta eccezione di un piccolo frigobar firmato Coca Cola, un materasso e delle vecchie coperte.

-Ma fa proprio schifo!- mi ritrovai ad esclamare.

-E io che ti dicevo, Barbie?- rispose Billie aprendo il piccolo frigorifero e estraendo una lattina di birra.

L’ultima cosa che mi stavo aspettando era che mi chiedesse se ne volevo una anche io, non era una cosa da Billie-Joe, non avrebbe mai fatto un simile gesto di gentilezza.

E infatti lui si sedette tranquillamente sul tappeto, accendendosi l’ennesima sigaretta della nottata.

-Se continuerai a fumare così tanto probabilmente ti verrà un cancro.-

Lo vidi sbuffare, tossicchiando nuvolette di fumo dalla bocca. Non riuscivo a capire se stava ridendo o imprecando. Forse entrambe le cose.

Si lasciò andare, sistemandosi meglio sulla finta moquette di tappeti, e appoggiando la schiena al polveroso muro di cemento.

Quel posto doveva essere una sottospecie di garage, o scantinato inusato. Era un vero incubo.

-Cancro o meno, non credo di avere nessuna voglia di smettere.- sentenziò, con il suo fare da duro.

Quella notte non avevo alcuna voglia di portare avanti i nostri soliti battibecchi, così decisi di dargliela vinta.

Ero così stanca che mi sarei potuta addormentare anche lì, in piedi. Consapevole del fatto che Billie non mi avrebbe mai invitata a sedermi, come in teoria i buoni padroni di casa dovrebbero fare, presi da sola l’iniziativa, accoccolandomi su uno dei grossi tappeti.

I miei occhi si posarono nuovamente sulla chitarra nera e bianca; non ne avevo mai vista una simile, era diversa dalle solite chitarre classiche, aveva qualcosa che la faceva emergere.

-Quella chitarra- dissi indicandola –Non è come le altre-

Vidi che gli occhi verdi di Armstrong si fecero attenti e precisi, mentre il fumo usciva teatralmente dalle sue labbra.

-Certo, è una chitarra basso.-

Oh, si, grazie Armstrong. Mi sei molto d’aiuto. –Ovvero?-

Lo vidi inarcare le sopracciglia. –Davvero non sai cos’è un basso?-

-Ti sembro una che sta scherzando?-

Billie si alzò dal pavimento con un movimento fluido, e si avvicinò al basso con passi lenti. La prese in mano con fare da esperto e la indossò senza alcun timore poi, la collegò con un piccolo amplificatore.

Sembrava veramente essere sicuro di ciò che stava facendo.

Tirò una corda, e il suono che ne uscì fuori fu qualcosa di assolutamente nuovo per le mie orecchie.

Non avevo mai sentito nulla di così particolare: era un suono forte, profondo, paragonabile alla voce di un vecchio uomo saggio che racconta delle storie attorno al fuoco.

Iniziò a strimpellare con quella chitarra, accovacciandosi sul pavimento.

Armstrong era totalmente perso in un altro universo. Si era dimenticato della mia presenza, o non gliene importava, perso com'era tra le note dello splendido strumento che continuava a tuonare.

Una ciocca di capelli ossigenati gli ricadde su un occhio, conferendogli un’aria del tutto ambigua e Billie lo era, un personaggio ambiguo, misterioso. Non sapevi mai cosa avresti potuto aspettarti da lui, un vero e proprio enigma.

-Ha un bel suono- mi ritrovai a dire, quando posò di nuovo lo strumento accanto al muro.

Sfoderò un sorriso storto, degno di lui. –Lo so, è una figata.-

-Che posto è questo, Billie?- domandai infine, rendendomi conto che ero in un posto che non comprendevo fino in fondo. C’era qualcosa che mi stava sfuggendo.

Quella notte stavano accadendo troppe cose una sull’altra, e la mia testa minacciava di esplodere.

Avevo bisogno di riposarmi, di dormire. Avrei voluto svegliarmi nel mio letto, scendere in cucina e trovare mia madre a preparare la colazione, e mio padre.

Avrei voluto vedere papà seduto a tavola con un giornale, e non la bestia furiosa che avevo conosciuto quel giorno.

Mi alzai e mi lasciai scivolare accanto a Billie, seduta con il sedere appiccicato al muro.

Se qualcuno fosse entrato in quel momento e ci avesse visti, probabilmente avrebbe pensato che fossimo proprio messi male. E in effetti non avrebbe avuto così torto.

Ero messa davvero male.

-Questa è la sala prove dove io e il mio gruppo musicale proviamo.- esordì infine, passandosi una mano tra i capelli.

Non sapevo perché ma quella notizia non mi arrivò poi così sconvolgente; avevo sempre pensato che Billie fosse un musicista, e non sapevo perché. Mi sembrava solo evidente.

Ce lo aveva stampato in fronte.

Mi resi conto che Armstrong non si era sprecato a farmi domande sul perché non fossi a casa mia, perché volessi un posto per dormire, perché mi fossi precipitata da lui nel cuore della notte.

Non aveva fatto domande e gliene ero grata.

Non sarei stata in grado di rispondere, non avevo voglia di parlare.

-Non so perché ma immagino che in questa faccenda ci siano coinvolti anche Pel di Carota e Spilungone dai Capelli Biondi.- commentai un po’ scherzando, un po’ aspramente.

Mi guardò con un’espressione convinta.

-Puoi dirlo forte, Barbie. Noi siamo i Green Day.-

 

 

 

 

 

*******

 

 

 

Angolo Snap:

 

Come al solito, grazie alla mia beta reader, che con pazienza corregge tutte le mie sgrammaticalizzazioni. xD

 

Sono tornata (Alleluia!)

Spero di non avervi fatto aspettare troppo, faccio quello che posso per trovare il tempo, tra tutti i svariati impegni (quali scuola, lezioni di canto e musica, e beh, anche una vita sociale), per scrivere qualcosa che sia degno di voi cari lettori.

 

Ci sono un paio di cose che ci tengo a precisare:

Non so se nella sua vita reale Billie-Joe all’età che ha nella mia storia (19-20) viva ancora a casa con sua madre, sia già in giro con i Green Day, oppure cosa stia facendo; ovviamente la mia è una fan fiction quindi ho scritto quello che il mio intuito mi diceva: volevo che Billie non avesse una fissa dimora e vivesse un po’ dove lo portava il vento, in questo caso nella sala prove.

Quindi scusatemi se ho scritto delle cavolate, ma l’ho fatto perché volevo fosse così. \

In secondo luogo, non so se a quell’epoca i Green Day fossero ancora Sweet Children o già passati al loro famosissimo nome, però io volevo mantenere quello che tutti conosciamo e amiamo.

Per il resto, Amy è confusa, fuori di casa, non sa più che senso ha la sua vita. Capitolo transitivo? Forse si.

Comunque sia è importante per l’inizio della relazione tra Billie e Amy.

Il prossimo capitolo sarà qualcosa di speciale (buahahah, non vi dico cosa.)

 

Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi,

sono senza parole.

 

~ La vostra Snap.

 

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Capitolo 10
*** I don't care if you don't. ***


Parental Advisory: The static age

 

 

# Capitolo Nono

 

 

I don’t care if you don’t.

 

 

 

 

 

Deun. Deun. Deun, deun, deun.

 

Un rumore nettamente fastidioso prese a torturare il mio sonno agitato. Sembrava quasi il seccante suono che emettono gli altoparlanti delle vecchie stazioni prima di comunicare un annuncio.

Che diavolo poteva essere?

La luce era pressoché inesistente, e il buio regnava nello spazio poco invitante.

Mi accorsi che il mio sedere era dolorante, come tutto il resto dei muscoli e articolazioni del corpo. La motivazione era tutt’altro che anormale: Billie aveva generosamente deciso che non mi avrebbe ceduto la squallida brandina per dormire, così ero stata costretta a poltrire sul pavimento ricoperto di tappeti.

Una mossa alla Armstrong, quindi non ne ero neanche troppo scandalizzata.

Cercai di mettermi in piedi senza far soffrire il mio corpo – missione ardua visto lo stato in cui si trovava – e mi concentrai nuovamente sullo strano rumore.

– Billie, sei tu? – chiamai, cercando di far sentire la mia voce in quel frastuono.

Silenzio.

Ma dove diavolo si era cacciato quell’imbecille cronico?

Senza che potessi formulare due volte il pensiero, la fievole luce dell’unica lampadina presente illuminò lo spazio, inducendomi a coprirmi gli occhi.

-Era quasi ora che ti svegliassi, cazzo! Suonare al buio non è proprio il massimo, sai?-

Buongiorno anche a te, Armstrong.

La sua figura magrolina se ne stava in piedi, guardandomi con un finto astio che nascondeva una sincera risata. I suoi fantastici occhi verdi mi lasciarono senza parole ancora una volta.

Mi resi conto che era domenica mattina, e che la sera prima ero scappata di casa.

Quello non era di certo un bel modo per iniziare la giornata.

-Dovresti chiudere il becco, dato che ho dormito per terra.-

Lo vidi passarsi una mano tra i capelli mentre con l’altra teneva una chitarra elettrica: ecco la fonte di tutto quel frastuono.

La mia pancia produsse un rumore tutt’altro che femminile, cosa che mi fece capire che avevo una fame da lupi. E non avevo cibo.

-Dobbiamo mangiare.- sentenziai

Gli occhi di Billie mi guardarono con stupore, per poi rimanere fissi come se non stesse capendo del tutto quello che gli stavo dicendo. Certe volte sembrava davvero tonto.

-Billie, yuh, uh- dissi passandogli la mano davanti alla faccia –Io volere mangiare. Cibo. Gnam, gnam.-

Da quando avevo sviluppato un simile senso dell’umorismo?

In tutta risposta, Armstrong tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette; mi stupii nel notare come anche mentre faceva un gesto volgare come l’accendersi una sigaretta, riuscisse ad avere quell’aria affascinante che non lo abbandonava mai.

-In quel frigorifero- disse indicando il piccolo apparecchio scarcassato –Non troverai niente di commestibile. A meno che tu non voglia mangiare cacche di topo.-

Fantastico.

Mi trovai a rimpiangere le splendide colazioni che mia madre preparava la domenica: pancake ai frutti di bosco, ciambelle, crêpes e cibarie varie; al solo pensiero il mio stomaco iniziava a crogiolarsi.

Chissà cosa stava succedendo a casa mia.

Casa mia.

Casa non doveva essere il posto in cui fuggivi per rintanarti nel tuo mondo, dove ti sentivi protetto?

Casa non doveva significare amore, gioia e convivenza?

Casa non doveva essere un sinonimo di famiglia?

Come potevo considerare casa un posto in cui ero stata maltrattata e umiliata? Un posto in cui la tolleranza era vietata, e l’amore era un sentimento estraneo?

Come potevo chiamare casa un luogo da cui ero fuggita?

 

 

 

 

 

Le strade della periferie sembravano meno malfamate quel giorno.

Il sole era alto e mi scaldava il viso, donandomi quel poco di serenità che credevo di meritare.

Non era stata una bella nottata e non si prospettava neanche una splendida giornata, viste le mie condizioni; era circa mezz’ora che io e Billie girovagavamo in cerca di un’economica colazione.

Sia io che lui eravamo a corto di soldi; certo, se avessi voluto sarei potuta andare a casa e avrei avuto tutto il denaro che desideravo, ma non avevo alcuna intenzione di tornare in quello squallido luogo.

Per quanto riguardava Billie, non c’era bisogno di chiederglielo, di fare domande stupide e magari anche offensive: i soldi per lui erano un lusso.

Passeggiavamo per un piccolo parco malconcio quando intravidi un chiosco sul bordo strada.

-Ho trovato la colazione!- esultai più che contenta.

Billie inarcò un sopracciglio con il suo fare spavaldo, per poi scrollare le spalle e dirigersi verso il luogo che avevo appena indicato.

Quel ragazzo era davvero un mistero per me, stentavo a capirlo anche quando parlava. Avrei tanto voluto sapere cosa gli passava per la mente, quando i suoi occhi verdi si colmavano di una malinconia distante anni luce da me.

Il chiosco risultò essere un furgoncino bianco sistemato alla bell’è meglio. Il venditore era un uomo di mezza età con tanto di baffi e barba, intento a cucinare qualche strana cibaria.

-Che roba è?- sentii la voce di Billie domandare aspramente al commerciante.

Quella era l’ennesima dimostrazione che per Armstrong usare dei toni gentili ed educati era impossibile, e ancor di più salutare; non avrebbe mai imparato.

L’uomo, però, non si scompose di un centimetro: doveva essere abituato ad elementi come Billie, dopotutto lavorava in periferia.

-Sono frittelle di mele, all’italiana.- rispose senza neanche alzare lo sguardo dalla padella.

Ok, la simpatia non era un ingrediente di quelle parti.

E se mio padre fosse arrivato e mi avesse vista? L’ansia prese a crescere nel mio stomaco togliendomi di colpo tutta la fame che avevo accumulato.

Calma, Amy. Come può arrivare Steven? Lui non bazzica in periferia.

Nonostante cercassi di convincermi che lì ero al sicuro, il mio inconscio continuava a scalpitare per la paura.

Ero stata tranquilla fino ad allora, perché iniziavo ad avere il panico addosso?

-Smettila di guardarti intorno come se dovessero arrivare gli sbirri da un momento all’altro, mi metti l’ansia.-

Di certo Armstrong non mi era d’aiuto con quella sua aria tranquilla e spavalda, come se il mondo non fosse affar suo. Come poteva essere sempre così menefreghista?

Certe volte lo invidiavo, avrei voluto essere noncurante come lui.

-Prendimi una frittella e taci.- risposi in malo modo dandogli in mano una banconota da un dollaro.

Mi guardò con aria un po’ stupita, come se ci fosse qualcosa che gli sfuggiva.

Non lo avevo ancora informato della mia attuale situazione, era uno sbaglio? Avrei dovuto dirglielo?

Dopotutto mi aveva dato un posto in cui dormire –omettendo il fatto che non mi aveva ceduto la brandina- e non mi aveva ancora cacciata via.

Notevole per Armstrong.

Lo vidi pagare e venire via con due tovaglioli zuppi di olio; dannazione, se sporcavo la maglia che indossavo ero fottuta, dovevo tenerla addosso per almeno qualche altro giorno, avevo un cambio ristretto.

Ci sedemmo su una panchina, mentre Billie addentava con foga la sua colazione.

-Mmh- mugolò con fare estasiato –è deliscioscia- biascicò, mentre continuava ad ingurgitare cibo.

Si, non era male. Era una buona frittella.

Mi persi a guardare il cielo azzurro, che sembrava volersi prendere gioco di me. Se fossi stata in un film, in quel momento, sarebbe piovuto e tutto sarebbe sembrato depresso quanto me.

Invece, la realtà era ben diversa: c’era un gran bel sole, e il cielo era limpido come non mai.

La sfiga mi perseguitava e mi sfotteva anche.

-Era fottutamente paradisiaca- sentenziò il mio compagno, dopo essersi pulito il viso con la maglia ed essersi acceso l’ennesima sigaretta della mattinata.

-Era buona.-

Sputò fuori una nuvoletta di fumo, e mi squadrò mentre in viso si formava un sorriso sghembo.

-Non essere sempre così critica, Barbie. Non ti fa bene alla salute.-

Risi aspramente. –Invece scommetto che quelle sigarette ti aiutano molto.-

Probabilmente Armstrong non si rendeva conto dei mille controsensi che alloggiavano nella sua persona.

Ma d’altronde come potevo parlare? Ero la prima che in una notte aveva cambiato opinione di suo padre.

Era davvero reale?

Ero davvero fuggita di casa? Davvero pensavo che mio padre fosse una specie di mostro?

-Ehi, Armstrong, razza di cane bastardo! Ecco dov’eri finito!-

Due sagome traballanti fecero il loro ingresso nel mio campo visivo; camminavano sul piccolo marciapiede del parco, venendo verso di noi.

E subito mi resi conto di chi si trattava.

-Pel di Carota. Smilzo dai Capelli Biondi.- salutai con sarcasmo non appena Mike e Trè furono davanti a noi.

Il Rosso aveva tutta l’aria di essersi appena fumato un camion a rimorchio di erba, mentre il suo amico aveva la solita aria tranquilla e pacata.

Quella giornata sarebbe stata veramente molto lunga.

-Ti stavamo aspettando! A casa di Maggie c’è una festa coi fiocchi!-

Certo, adesso ci saremmo ritrovati a casa di qualche sconosciu..

Cosa? Maggie?

Mi alzai di scatto e presi Trè per il colletto della lurida camicia, scuotendolo come un sacco di patate.

Me lo stava permettendo solo perché era troppo fatto per accorgersi di quello che stava succedendo intorno a lui.

-Hai detto Maggie? Maggie Stuart?- esclamai colma di speranze.

Il Rosso si scrollò dalla mia presa e si lasciò cadere sulla panchina.

Come poteva essere in quella stato già di prima mattina? Di certo Trè aveva un problema con la dipendenza da marijuana.

Billie assunse la sua aria da investigatore, e mi squadrò assottigliando gli occhi come un cacciatore.

Mi chiedevo come riusciva ad avere delle espressioni così buffe ma spontanee.

Quel ragazzo era un mistero in tutto e per tutto.

-Conosci The Strange?-

The Strange? –Che diavolo vuol dire?-

Il ragazzo fece un tiro dalla sigaretta, per poi concentrarsi di nuovo su di me.

-Tutti chiamano Maggie così, in fondo un po’ strana la è.-

Dannazione, anche la mia amica era finita in quel giro di poco di buono; d’altronde Maggie era tutto meno che una ragazza con la testa sulle spalle.

Le piaceva sognare e pensare che la vita fosse facile, che ogni cosa sarebbe andata come doveva andare.

Si era addirittura tatuata sul braccio la scritta “Let it be”, ovvero “Lascia che sia”, in onore di uno dei suoi gruppi preferiti, i Beatles.

Certo non era una ragazza regolare. Era singolare.

-Si, la conosco. Potrei dire che siamo quasi amiche.-

Trè scoppiò a ridere come un deficiente, forse a causa della droga in circolo, o magari per qualcosa che avevo detto.

Billie sfoderò lo sguardo di chi sta per fare qualcosa di fottutamente pericoloso. Avevo la netta sensazione che stavo per ficcarmi in un gran casino.

Ma ormai c’ero dentro fino al collo.

-Barbie cara, quando c’è una casa, una festa e dell’alcol.. Siamo tutti amici.-

Bingo.

 

 

 

 

 

-Oh, mio Dio! Non ci posso credere, Amy, sei qui!-

Davanti a me, sul ciglio della porta, stava una Maggie radiosa come il sole, e carina come sempre.

Certo, io non era allegra, non volevo essere in quel posto e se avessi potuto avrei picchiato Billie.

Avevo cercato in tutti i modi di convincerlo a non andare a quella dannata festa, avevo puntato i piedi a terra, scalpitato e fatto i capricci come una bambina di due anni.

Ovviamente non era servito a nulla, perché Armstrong mi aveva caricata sulle spalle come un sacco della spazzatura.

Ma cosa potevo aspettarmi da lui?

Sarebbe stato troppo carino se mi avesse abbracciata e sussurrato parole dolci e comprensive, dicendomi che avrebbe fatto solo ciò che desideravo io.

E come se non bastasse non si era neanche ancora minimamente interessato ai miei problemi! Forse per lui era normale bussare a casa di un “amico” chiedendo un posto per dormire, ma non per me.

Avevo solo bisogno di qualcuno con cui parlare.

E Billie continuava ad interpretare la parte del muro di ghiaccio, isolandosi da me.

Cercai il suo sguardo ma non lo trovai; come al solito fumava, appoggiato al muro di fianco alla porta, con un’aria del tutto disinteressata.

Come poteva essere così freddo in ogni occasione?

Rivolsi la mia attenzione a Maggie cercando di sfoderare il sorriso più sincero.

Dall’interno della casa proveniva un forte frastuono, una specie di musica martellante e insistente, accompagnata da un vociare ad alto volume.

-Ciao The Strange- la salutò Trè prima di oltrepassarla ed entrare nell’abitazione con passo strascicato.

L’educazione, ovviamente, non faceva parte del curriculum di Pel di Carota.

Ma se Maggie li aveva invitati, probabilmente sapeva chi erano e cosa facevano, quindi non era un problema mio.

Biondo Platino la guardò con aria maliziosa, per poi schioccarle un veloce bacio sulla guancia prima di fare il suo ingresso nell’ormai stracolma residenza.

Non sapevo come comportarmi, aspettavo solo un cenno di Billie, anche se lui continuava a fumare la sua sigaretta con lo sguardo fisso nel vuoto.

Maggie continuava a tenere la porta aperta, cosciente del fatto che la situazione si stava facendo tesa.

Dovevo mantenere la calma.

Io ero la calma fatta a persona.

D’un tratto, senza dire nulla, Armstrong si riscosse dal suo stato di semi-incoscienza e mi passò davanti, quasi tirandomi una spallata.

Oh, diavolo! Quello era troppo anche per me.

-Fermati subito lì, cazzo!- esclamai prima che Billie sparisse all’interno dell’abitazione.

La mia compagna di scuola sussultò, forse stupita nel sentire Amy Murray urlare ed imprecare come una camionista. Ma le cose erano cambiate, era ora che anche Maggie lo sapesse.

E anche Armstrong.

-Beh, io vado a vedere se quei vandali hanno fatto casini- cercò di scusarsi Maggie –Con permesso..-

La vidi sgattaiolare e urlare qualcosa di indistinto a Trè, che si stava scolando una bottiglia di alcolico.

La tensione era diventata palpabile, e non riuscivo più a sopportare tutto quel casino.

Mi stava per scoppiare il cervello, avevo bisogno di dire a qualcuno come stavo.

-Mi sono presentata di notte al pub in cui lavori con in mano solo una borsa, ti ho chiesto un posto in cui dormire, e mi hai vista piangere sulle scalinate di una vecchia casa. E tu non hai detto nulla. All’inizio te ne sono stata grata, perché non avevo voglia di aprire la bocca. Ma ora vorrei solo qualcuno che mi ascoltasse, cazzo! E tu cosa fai? Mi porti in una fottutissima festa di merda e non ti degni neanche di chiedermi se voglio entrare, se mi fa piacere!-

Probabilmente urlai parecchio, perché dopo aver finito il mio monologo mi resi conto di avere la gola secca.

-Mio padre mi ha picchiata come un vero mostro, mi ha umiliata. E mia madre non ha fatto nulla per impedirglielo. Le persone che credevo fossero le uniche che mi avrebbero sempre amata mi hanno tradita, cazzo!-

Armstrong continuava a darmi la schiena, senza dare un cenno di vita, senza smuoversi dal suo posto.

Come poteva essere così insensibile?

Come poteva non rendersi conto di quello che stavo passando?

-Certe volte non c’è bisogno di parlare. Cos’avrei dovuto dire? “Oh, piccola Amy, quanto mi dispiace.” E a cosa sarebbe servito? A niente. Non voglio compatire nessuno, e soprattutto non ti devo niente. Tu non sei nessuno per me, sei solo una delle tante persone di questa feccia di mondo. Non sono la tua balia, e tantomeno il tuo psicologo. Ti ho già fatto un gran favore a non lasciarti per strada di notte. Adesso cosa pretendi da me?-

Gli occhi iniziarono a bruciare, e il cuore a palpitare conscio del fatto che stavo per piangere.

Le parole di Armstrong mi arrivarono come un pugno in faccia, forti e tremendamente dolorose.

Finalmente si girò a guardarmi negli occhi.

-In questa vita puoi contare solo su te stessa. Ricordatelo.-

Così dicendo tornò indietro e mi chiuse la porta in faccia.

Rimasi sola.

Per le strade di Rodeo.

 

 

 

 

 

 

******

 

 

 

Angolo Snap:

 

 

Grazie mille a Vi, come sempre.

 

 

Ben trovati, miei cari lettori!

 

Tanto per iniziare: Auguro a tutti un favolosissimo 2012, sperando che vi riempia di soddisfazioni!

 

Eccomi qua con il Nono Capitolo, fatto e finito, pronto per l’anno nuovo! Sono stata un pochino più veloce?

Tanto per iniziare spero vi sia piaciuto, poi passo alle piccole precisazioni:

Ho voluto che Billie risultasse molto cinico e distaccato, un freddo muro di ghiaccio, perché così dev’essere: in fondo BJ (nel mio racconto) è menefreghista e pensa solo a sé stesso, quindi non può cambiare nel giro di una notte, solo perché Amy si sente sola e ha bisogno di lui. Le cose devono avere il loro tempo, e per ora Billie è un fottuto stronzo.

Se ci sono imprecisioni o correzioni, non esitate a farle!

 

 

Come sempre un grande ringraziamento,

 

 

~ La vostra Snap.

 

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Capitolo 11
*** Lost children with dirty faces today. ***


Parental Advisory: The static age

 

 

# Capitolo Decimo

 

 

Lost children with dirty faces today

 

 

 

 

Ghiaccio.

Mi sentivo composta da mille ghiaccioli, piccoli e appuntiti, che oltre a farmi congelare mi trafiggevano la pelle come mille affilatissime lame.

È così anche io ero arrivata al capolinea, a provare la sensazione del mondo che ti crolla addosso.

Tutte le cose che mi circondavano sembravano aver improvvisamente rallentato i loro movimenti: una bambina e sua madre camminavano così lente che avrei potuto contare ogni secondo che ci mettevano per fare un dannatissimo passo.

Non riuscivo a capire perché non mi fossi mai resa conto di certe cose, ma ora spuntavano alcuni dettagli che non avevo mai ritenuto importanti.

Me ne stavo seduta su quella maledetta panchina a guardare la gente sfilarmi davanti e mi immaginavo fossero dei modelli e io il loro giudice.

Dannazione, come avevo fatto a ridurmi così?

Forse quello era il fondo del vaso, forse adesso non sarei mai più riuscita ad uscirne fuori. La mia vita racchiusa in una notte, gettata in un fiume e lasciata a marcire tra i luridi argini.

Ogni mio singolo battito di ciglia diventava uno sforzo incredibile.

Avevo perso ogni singola speranza, ogni singolo bagliore di luce. Ero sprofondata.

“In questa vita puoi contare solo su te stessa. Ricordatelo.”

Quelle parole mi rimbombavano nella mente come una bomba atomica, come un razzo in fase di sganciamento. Erano dolorose, schiette.

Cos’avrei fatto ora?

Avevo perso tutto. Avevo messo in gioco la mia vita sicura che lui mi avrebbe aiutata.

Ma mi sbagliavo.

Sospirai, rendendomi conto che erano parecchi secondi che non respiravo. Ma non era importante, non era essenziale. A chi sarebbe importato se avessi smesso di vivere, in fondo?
Quella splendida giornata di sole era diventata il mio incubo, il mio limbo.

Non riuscivo a smettere di pensare che la mia vita era finita, che tutto aveva perso il suo senso.

Non avevo un posto in cui andare. Ero sola.

Avevo sentito dire che quando una persona perde tutto non deve lasciarsi andare alla depressione, ma deve tirarsi su le maniche e prendere le redini della sua vita.

Stronzate!

Come puoi darti da fare per riprenderti la dignità quando questa è stata schiacciata, torturata, triturata?

Come puoi cercare di uscire dall’abisso quando esso ti inghiotte sempre di più?

Come puoi farlo quando sei solo?

Dov’erano ora tutto quelle persona che mi avevano sempre acclamata e lodata? Dov’erano finite?

Non c’erano mai state, solo allora me ne resi conto; non avevo mai avuto nessuno: solo riflessi di amicizie e ombre di persone che mi ronzava attorno malvagie, come il gramo.

Ero sempre stata sola.

La differenza era che ora me ne rendevo finalmente conto.

-Hai intenzione di mettere la muffa su quella panchina?-

Non mi sembrò vero di sentire quella voce. Come poteva essere lì?

Mi girai di scatto, con l’anima piena di gioia: non mi aveva lasciata sola.

Il sorriso sincero dipinto sul volto di Maggie mi fece intuire che avevo tutte le intenzioni di consolarmi.

Ero contenta di vederla lì, di sapere che qualcuno mi aveva pensata e non mi aveva semplicemente abbandonata per qualche stupida ragione etica.

Nonostante il mio cuore fosse un po’ deluso -poiché aspettava l’arrivo di Billie e non quello di The Strange- le ricambiai il bel sorriso.

-Stavo valutando se fosse più doloroso morire di freddo oppure di fame.- Ridemmo entrambe.

 Sembrava una cosa sciocca, eppure ridere mi fece sentire, per qualche secondo, meglio, donandomi un barlume di speranza e di normalità.

Non avevo né la voglia, né il coraggio di dirlo a Maggie, ma le ero infinitamente grata per il fatto di essere seduta su quella stramaledetta panchina con me.

Nessuno si era preso la briga di preoccuparsi per una “dell’alto borgo”.

Tranne Maggie.

-Non sapevo conoscessi Armstrong.- disse con fare indifferente, ma era evidente che stesse cercando di indagare, senza mettere troppo il coltello nella piaga.

Non avevo alcuna intenzione di mettermi a parlare di quel pezzo di merda di Billie, così feci spallucce tirando un calcio ad un sassolino.

La vidi imbarazzata, ma non aveva l’espressione di chi si era rassegnata. Sarebbe tornata all’attacco, e prima o poi avrei dovuto rispondere alle sue domande.

-Come mai non sei alla festa? Dopotutto è casa tua, quei delinquenti te la staranno distruggendo.- sottolineai scettica e anche un po’ scorbutica.

Amy, non mi sembra il caso di essere scortese con l’unica persona che ha avuto la decenza di venirti a cercare.

-Me la distruggerebbero con o senza la mia presenza, quindi non cambia un granché. Ti ho vista andare via dalla finestra, così ho pensato di venirti a chiedere se ti va di tornare.. Sai, ci sono le birre, le sigarette, e scommetto che Trè ha portato la marijuana, quindi..-

Non la lasciai finire. –Non ci penso neanche a tornare lì. Mi dispiace, Maggie. Ti ringrazio, ma no.-

La vidi sospirare rassegnata, e spolverarsi i pantaloni rovinati con il tempo.

I suoi capelli ricci e folti mi facevano pensare ad un leone selvaggio ed indomabile, che nessuno avrebbe mai potuto rinchiudere o domare; e Maggie era proprio così: nessuno avrebbe mai potuto imporle qualcosa, lei faceva solo quello che le andava.

La invidiavo infinitamente per quel suo lato del carattere.

-Tu e Billie.. Si, insomma.. Andate a letto insieme?-

Involontariamente saltai sulla panchina; la domanda che Maggie mi aveva appena posto mi sembrava così assurda che scoppiai a ridere istericamente.

Forse, però, una parte inconsapevole di me aveva già iniziato a sviluppare dei profondi sentimenti per Billie, che, nonostante le mie opposizioni, si era intrufolato nella mia vita con una velocità fastidiosa.

D’altronde non potevo negare che quel ragazzo da bassifondi, con i suoi pantaloni stracciati e i suoi capelli sbiaditi, mi aveva insegnato più cose di quante non ne avessi imparate in diciassette anni della mia vita.

Con quel suo fare menefreghista e quell’ultima batosta, mi aveva fatto capire molte cose riguardanti la vita.

-Assolutamente no! Piuttosto che andare a letto con quell’idiota dai capelli canarino, mi farei suora!-

Maggie scrollò le spalle con fare disinvolto, poi si accese una sigaretta.

Dannazione, ma c’è qualcuno che non fumi in questo mondo?
Si, mio padre.

Rimossi il pensiero di quell’uomo dalla testa e mi concentrai sulla mia amica, che ora mi guardava con fare divertito.

-Litigavate come una coppietta di novelli sposi, prima.-

Che diavolo … ? –Billie si è solo assicurato che mi ricordassi quanto è stronzo.-

E, cavolo, se era così.

Armstrong non si era preso la briga di chiedermi se avessi un posto in cui andare, una spalla su cui appoggiarsi. No.

Secondo i suoi standard lui era già stato troppo disponibile con me, e ora quello che la sorte aveva in serbo per me non era un suo problema; semplicemente se ne era lavato le mani, e aveva messo a tacere la sua coscienza, in modo da non avere futuri sensi di colpa.

Comportarsi in quel modo era assolutamente più semplice, invece di aiutare, e Billie lo sapeva.

Oh, se lo sapeva.

-Senti, Amy, io non voglio farmi gli affari tuoi, ma.. Vederti così distrutta mi sembra davvero strano. Insomma, tu sei sempre stata rigorosa, diligente, sicura di te stessa. E ora, vederti senza una meta, e soprattutto vederti in compagnia di Armstrong, beh..- La mia amica non finì la frase, ma ovviamente non c’è n’era il bisogno. Sapevo benissimo cosa voleva dire: “è sconcertante”, “non è normale”.

E, ovviamente, non potevo darle torto. Vedere Amy Murray per le strade di periferia, assieme a Billie e la sua banda non era una cosa da tutti i giorni.

Ma ormai mi sarei dovuta abituare a quello stile di vita, solitario e triste.

Non sapevo in che modo risponderle. Cosa diavolo avrei dovuto dire? Che mio padre mi aveva trattata come una delinquente, solamente perché ero stata mandata in Detenzione, per la prima volta nella mia vita? Che la cara, vecchia Amy Murray non esisteva più, perché ogni suo principio morale era stato calpestato come un foglio di carta straccia?
Cosa potevo dire in una situazione del genere?

Ora iniziavo a capire perché Billie-Joe si era comportato in quel modo con me.

Aveva fatto finta che non fosse successo nulla, che io stessi bene e non avessi alcun tipo di problema. Non mi aveva parlato, né fatto alcun tipo di domanda.

Perché ci saremmo ritrovati in quella situazione imbarazzante, e io non avrei saputo cosa dire, come dirlo, e forse non ne avrei avuto neanche la dannatissima voglia di aprire bocca; e lui si sarebbe comportato come una delle tante persone che mi avevano fottuta per tutta la vita, mi avrebbe consolata donandomi la sua compassione con inutili “Mi dispiace”.

In quel preciso momento capii perché quel fottutissimo Armstrong non mi voleva dare aiuto: perché altrimenti io mi sarei convinta di averne bisogno, e avrei continuato a dipendere da qualcuno, fino a che quel qualcuno mi avrebbe nuovamente tradita.

E saremmo tornati al punto di partenza.

Quel pezzo di merda di Billie mi aveva appena dato una lezione di vita.

E io l’avevo finalmente compresa.

 

 

 

 

 

Tornare a casa di Maggie mi era sembrata l’idea più sensata, in fondo non potevo restare tutta la giornata su quella stramaledetta panchina.

Ma mentre me ne stavo seduta sul divano, al fianco di The Strange, capii che quella non era una festa, ma una gabbia di matti.

Prima di incamminarci verso casa, avevo cercato di spiegare a Maggie la situazione in cui mi trovavo, senza sembrare troppo sconvolta, e soprattutto senza farne una tragedia greca; lei era stata molto comprensiva e non aveva fatto commenti stupidi, si era limitata a dirmi che se avevo bisogno di un posto in cui stare potevo contare su di lei.

E gliene ero grata.

Di fianco a me, un ragazzo e una ragazza stavano pomiciando in maniera molto esplicita, senza farsi alcun tipo di scrupolo. Ma non avevano un po’ di pudore?
Tutto lo spazio era invaso da un odore insopportabile di fumo che mi rendeva quasi impossibile respirare;  al fondo della stanza, inginocchiata sotto al davanzale della finestra, una ragazza stava vomitando in modo assolutamente disgustoso.

La musica era così potente che le mie orecchie presero a fischiare, e in tutte le stanze si potevano vedere persone con sguardi assenti e espressioni distrutte: come si poteva arrivare ad un tale livello di degrado?

Non riuscivo a trovare una sola persona che avesse una vera personalità, sembravano tutte vecchie immagini stampate e scolorite, squarci opachi di un’essenza ormai fuggita.

Fantasmi di se stessi.

Dio, mi sentivo così fuori luogo, e per una volta ero contenta che fosse così: non volevo essere una di loro.

Un ragazzo dai capelli rossi e una cresta degna di un gallo cedrone mi passò davanti, lanciandomi un’occhiata interrogativa, quasi mi stesse domanda “Ma che ci fa una come te in questo posto?”

Quello era il mondo di Billie.

Quello era ciò che era, che faceva.

Eppure non era come loro, no. Billie aveva conservato, sotto tutti gli strati di armatura che si era creato, la sua personalità, la sua energia vitale.

In Armstrong c’era una scintilla, e io riuscivo a vederla splendere come un raggio di luce.

-Fiesta, fiesta, fie-sta!-

La voce di Trè mi arrivò alle orecchie, fastidiosa come ogni volta, per poi essere accompagnata dall’entrata del suo proprietario dai capelli arancio.

Rosso Malpelo stava improvvisando un balletto ridicolo, con tanto di birra che fuoriusciva bagnando ogni cosa fosse vicino ad essa.

Il pavimento era ormai pieno di liquidi non definiti e altre strane sostanze che emanavano un odore orrendo.

Diamine, Amy, ma chi te l’ha fatto di venire qui?
-Mi sembrava di averti fatto capire che non eri la benvenuta qui.-

Gelo.

La voce di Billie suonò così gelida che avrebbe potuto ibernare una fiammella.

Il mio cuore prese a palpitare all’impazzata, consapevole del fatto che non era un comportamento stabile.

Ma come potevo rimanere impassibile a Billie-Joe dopo la sfuriata che avevamo avuto poco tempo prima?
Mi girai incontrando i suoi splendidi occhi verdi, ridotti in uno stato indecente: erano arrossati e le palpebre cadevano in un modo che le rendeva visibilmente pesanti.

Era strafatto.

-Mi ha invitata Maggie, la casa è sua.-

Mi stupii di quanto il mio tono di voce riuscisse ad essere fermo, nonostante dentro di me stesse avendo atto una guerra tra istinto e ragione.

Non riuscivo a capire cosa stava succedendo al mio animo, ma l’unica cosa di cui ero certa era che avevo bisogno della presenza di Billie.

Non potevo pensare di rimanere a dormire da Maggie, la mia amica, perché sentivo solo di avere il bisogno fisico e psicologico di quella testa di cazzo di Armstrong.

Come fosse possibile quella cosa era un quesito, ed era anche una sensazione strettamente irrazionale, che non aveva né un capo né una fine.

Billie si sedette sul divano, accanto a me, lasciandosi scivolare come un peso morto.

-In questo caso puoi restare.-

In questo caso puoi restare?  Ma chi diavolo era lui per dirmi cosa potevo fare?

-Ti ricordo che sei stato tu il primo a dirmi che devo contare solo su me stessa, quindi non accetto ordini da te, ne tantomeno da altri.-

Il silenzio che si era creato tra di noi non si poteva udire, poiché coperto dal suono insistente del Punk che usciva dalle enormi casse, posizionate in un angolo della stanza.

-Questo non è il posto per te, non va bene. Non lo vedi? Sono tutti ubriachi e fatti. Qui non si sentono i discorsi che sei solita fare con i tuoi amici, non si balla la musica classica e non si progetta il futuro. In questo dannato luogo non esiste il futuro.-

Ma che discorso toccante Armstrong, complimenti.

Quello che aveva appena detto era vero, ma non mi aveva fatto un grande effetto: ci ero già arrivata da sola, quindi se voleva sconvolgermi non era riuscito nel suo intento.

-E dove dovrei andare? A casa mia, a farmi mettere le mani addosso da quel pazzo di mio padre? A continuare ad essere un nulla, un’ombra di me stessa? Non sono poi tanto diversa dalla gente che c’è qui, anche io sono sempre stata un fantasma del mio vero essere.-

I suoi occhi ebbero un piccolo guizzo, inafferrabile da chi non conosceva Armstrong.

E io lo conoscevo meglio di tutti.

Ero sicura di questa cosa, ora più che mai. Nonostante fosse poco tempo che sapessi della sua esistenza, avevo capito che dentro di lui si nascondeva un cuore vero, e non di metallo.

La sua espressione si ammorbidì, e le rughe che si erano formate vicino agli occhi si distesero.

Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoseli proprio come mi piaceva vederlo fare.

Lo vidi sospirare pesantemente, per poi voltarsi verso di me.

-Andiamocene a casa, Barbie.-

Andiamocene a casa, Armstrong.

Insieme.

 

 

 

 

 

******

 

 

Angolo Snap:

 

Un grazie alla mia beta-reader.

 

Sono tornata con un nuovo capitolo, miei cari lettori.

Spero che stiate passando delle belle giornate, e che siate soddisfatti di questo mio nuovo parto xD

 

Passando al capitolo: Ho voluto incentrare questo capitolo sui sentimenti di Amy nei confronti di Billie, che stanno crescendo sempre più, e sul loro rapporto travagliato.

La battuta finale che Billie rivolge ad Amy è un segno evidente del fatto che il ragazzo stia comprendendo che Amy è completamente sola e confusa, e, soprattutto, che quella ragazzina per bene sta diventando importante per lui.

Altra cosa molto importante è la degradazione dell’ambiente in cui Billie vive, elemento che da anche il titolo al capitolo.

Come al solito, se avete domande o dubbi non esitate a scrivere.

 

Un abbraccio,

Snap.

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Capitolo 12
*** I wish someone out there will find me ***


Parental Advisory: The static age

 

 

# Capitolo Undicesimo

 

I wish someone out there will find me

 

 

 

 


La musica che mi arrivò alle orecchie mi scosse dallo stato di semi-incoscienza in cui mi ero rintanata.

Era una melodia particolarmente calma e aveva un che di rilassante; sembrava nascondere dentro di sé la giusta quantità di stranezza per portarti a creare mille storie fantastiche nella tua testa.

Era una cosa nuova, che non avevo mai sentito.

Mi misi a sedere sul letto di Billie, e mi tirai su le coperte: si, Armstrong mi aveva ceduto il materasso, e aveva dormito sui tappeti al posto mio.

Probabilmente non lo aveva fatto per qualche strano gesto di galanteria, ma solo perché la mattina presto si sarebbe svegliato e avrebbe iniziato a suonare la chitarra.

Ma non era Billie che stava strimpellando quella musica: era una registrazione, forse un disco. Mi alzai ormai del tutto sveglia e mi resi conto che di Billie-Joe non c’era traccia. Dove diavolo era andato a ficcarsi?

La sera prima, dopo essere tornati dalla festa a casa di Maggie, era calato il silenzio tra noi due, una cosa strana perché di solito avevamo sempre qualcosa da dirci; ma d’altronde era comprensibile, avevamo discusso per tutta la giornata, eravamo stanchi.

Tornare in quel garage logoro, sudicio e schifoso era stata davvero una grazia per me, nonostante fosse scomodo, poco igienico e distante dal centro città.

Strano a dirsi, ma non avrei sopportato di rimanere sola con Maggie; avevo uno strambo e inconcepibile bisogno che Billie fosse al mio fianco. Probabilmente era dovuto dal fatto che fosse l’unico che aveva vissuto una situazione analoga alla mia, o che comunque sapeva cos’era la miseria.

Dio, quali strani pensieri affollavano la mia mente!

La musica rimbombava e si faceva più forte, entrando nelle mie vene come un farmaco forte e stordente. La porta dello scantinato si aprì ed entrò un Billie completamente zuppo di acqua. I suoi capelli colorati erano schiacciati sul viso poiché bagnati, e sulle guance gli era colata un po’ di quella matita nera che insisteva a mettere sugli occhi.

-Fanculo!- imprecò levandosi il giubbotto completamente fradicio.

Buongiorno anche a te, Armstrong.

-Piove?- domandai stropicciandomi gli occhi ancora assonnati.

Il ragazzo si girò verso di me inarcando un sopracciglio. –Da cosa l’hai dedotto?-

Tagliente.

La giornata era iniziata male e il mio coinquilino non era di certo dell’umore adatto per bere un caffè discorrendo di Baudelaire. Beh, non l’avrebbe fatto neanche se fosse stato di buon umore.

Ma d’altronde avevo mai visto un Armstrong felice e sereno?

Guardai il cellulare: erano le 07.12 di mattina.

-Che ci facevi fuori a quest’ora?- domandai scoprendo che la musica proveniva da un piccolo stereo sconquassato, che sembrava essere uscito dalla guerra di trincea.

La tecnologia non era affare per Billie, sicuramente.

I suoi occhi non si girarono per incontrare i miei, semplicemente mi evitarono. C’era qualcosa, quella mattina, nei comportamenti di Billie che non andava; sembrava preoccupato, ansioso e si muoveva a scatti.

Di solito Armstrong era sicuro di sé, lento a fare tutto e relativamente rilassato.

-Nulla, dovevo fare delle commissioni.-

Commissioni? Alle otto di mattina?

Ma poi da quando in qua il ragazzaccio punk si era messo a fare la spesa come le vecchie casalinghe disperate? No, non era decisamente credibile, stava cercando a tutti i costi di tenermi segreto qualcosa.

Lo vidi levarsi la felpa e la t-shirt per poi rimanere a torso nudo: certo, non era il tipico fisico da nuotatore con tanto di addominali, linea d’alba ben definita e pettorali, ma non potei fare a meno di avvampare e sentire il calore salirmi in tutto il corpo.

Possibile che avessi una reazione del genere?

Insomma Amy, non sei un’adolescente vogliosa!

Il suo torace pallido e magrolino mi faceva quasi tenerezza, sembrava quasi avesse bisogno di un abbraccio di consolazione.

Tutti i miei pensieri vennero stroncati da una maglietta pulita, che Armstrong si infilò, ritornando in me non appena sentii la musica interrompersi per mano del mio intrattabile coinquilino.

Avrei voluto fare qualcosa per capire cos’aveva nella testa, ma d’altronde quando io avevo avuto dei problemi lui non aveva fatto alcuna domanda, quindi mi sorgeva il dubbio che non avesse voglia di essere disturbato. Dopotutto era sempre di Armstrong che stavo parlando.

Il fatto era che non l’avevo mai visto così scosso; i suoi occhi erano ridotti a due fessure ed erano molto arrossati, segno che era passato da Trè, e il viso era corrucciato da un’espressione severa e incazzata, che lo rendeva meno bello di quanto fosse.

-Perché hai zittito la radio?-

Billie, senza neanche degnarmi di uno sguardo, prese a massacrarsi le dita con le corde della chitarra elettrica; il fatto era che era troppo incazzato per suonare qualcosa di decente, per cui dallo strumento uscirono solo dei rumori sordi e striduli.

-Te ne fregava forse qualcosa di quella musica?- rispose stizzito.

Più indisponente del solito. Un record.

Non avevo ancora conosciuto una persona più stramba e con un caratteraccio peggiori di quelli di Armstrong, che deteneva ancora il primato.

-Era rilassante e particolare. Non era male.- risposi con una scrollata di spalle.

Il ragazzo puntò gli occhi strafatti su di me, mentre si accendeva una sigaretta con la dimestichezza di un circense; sputò il fumo per poi lasciarsi andare contro il muro.

-E così ti piacciono i Doors-

Doveva essere il nome del gruppo che suonava i brani che fino a qualche minuto prima stavo ascoltando. 

-Non ho detto che mi piacciono. Ho detto che non sono male.-

Lo vidi lasciarsi andare ad una risata amara, che si trasformò ben presto in ghigni aspri e amareggiati.

C’era davvero qualcosa che non andava quella mattina in Armstrong, e io non avevo la minima idea di come aiutarlo. Possibile che fossi così imbranata?
Decisi di girare intorno al discorso. –Possibile che esitano commissioni così importanti da farti uscire la mattina presto?-

Ok, che domanda del cazzo.

Non ero in grado ad affrontare dei problemi, nessuno aveva mai avuto bisogno del mio aiuto, e anche se Billie non l’avrebbe mai ammesso lui adesso aveva bisogno di me, ne ero consapevole.

-Se vuoi sapere dove cazzo ero basta dirlo.-

Sgamata.

In effetti era abbastanza palese la mia curiosità, perché ero troppo rintronata per non farmi beccare da Armstrong, che dei sotterfugi ne era il maestro. L’imbarazzo mi rese impossibile non arrossire, e mi sentii avvampare in tutto il viso, come da copione.

-Allora posso sapere “dove cazzo eri”?-

Mentre si accendeva un’altra sigaretta, si scompigliò i capelli, già spettinati di loro, chiaro segno del suo nervosismo.

Poi, d’un tratto, sospirò rassegnato al dover ammettere qualcosa che lo attanagliava, e la sua espressione cambiò, come se il muro di ghiaccio che si era costruito con tanta cura fosse crollato.

I suoi occhi inaciditi divennero malinconici, e sì, tristi.

Il mio stomaco si chiuse, ormai conscio del fatto che Billie stava per dire qualcosa che non sarebbe stato né bello né semplice da affrontare.

-Sono andato a cercare Celine.-

Sono andato a cercare Celine.

Quelle parole mi arrivarono addosso come il potente schiaffo di mio padre: furono una dichiarazione, un segno esplicito della realtà dei fatti, della condizione di Billie; quei cinque semplici vocaboli mi ricordarono qual era il mondo di Armstrong, quali erano i problemi con cui lui doveva convivere, e soprattutto l’immensità di spazio che divideva i nostri mondi.

Ma qual era il mio posto?

-Era qualche tempo che non la vedevo e nelle condizioni in cui è sarebbe potuta essere già anche morta, in effetti. Ma l’ho trovata vicino alla stazione, nei vicoli lerci in cui si fanno marchette, come ogni volta.-

Il tono piatto e calmo con cui Billie parlò mi fece capire quanto stesse soffrendo: stava visibilmente cercando di non lasciar trapelare alcuna emozione, d’altronde era pur sempre Armstrong l’elemento in questione.

Sapevo che esistevano dei tossicomani a Rodeo, e sapevo anche che “facevano marchette”, ovvero si prostituivano, per aver i soldi per comprare la droga; ma mi era sempre sembrato infinitamente distante da me, come qualcosa che non mi avrebbe mai riguardata né toccata. E invece ora mi trovavo in uno schifoso scantinato, in compagnia di un punk vagabondo che mi stava raccontando la vita quotidiana della sua amica tossicodipendente.

Non era più un fatto sfumato e opaco: era diventato fottutamente reale e vivo.

Come si può fuggire dalla realtà?

-Come .. sta?- furono le uniche parole che riuscii a dire, adesso che mi ero resa conto che tutto il resto non sarebbe servito, almeno non con Billie.

-Oh, era abbastanza felice, si era appena fatta un buco.-

Un altro pugno dritto nello stomaco.

Mi chiedevo come fosse possibile per Armstrong parlarne in quel modo, come se fosse la normalità; Che cosa hai fatto oggi?” “Oh, niente di particolare, mi sono data via a un vecchio lurido e mi sono comprata la dose per poter evitare la crisi d’astinenza.”

No, dannazione!

Non era normale, non era così che sarebbe dovuta andare!

Come poteva Billie stare fermo lì e far nulla? Come poteva andare a trovarla, scoprire che si era appena bucata e tornare a casa come se nulla fosse accaduto?

Come diavolo poteva comportarsi in quel modo?
-E l’hai lasciata là?- chiesi inorridita

Tirò fuori un risolino amareggiato, per poi parlare: -Che altro avrei potuto fare? È troppo tempo che lotto contro la sua debolezza, l’unica cosa che posso fare è assicurarmi che sia ancora viva, così quando morirà almeno lo saprò.-

Dio santissimo.

Aveva perso ogni minimo barlume di speranza.

Si era semplicemente rassegnato alla dipendenza di Celine, appioppandole la colpa di debolezza e, magari, facendola sentire come un parassita della società.

Ma come poteva comportarsi in quel modo, proprio lui, che non era di certo uno stinco di santo? In fondo Billie stesso aveva dei rapporti intimi con le droghe e ne abusava.

-Avresti potuto portarla qui!- esclamai alzando drasticamente il tono di voce.

Si infilò una felpa nera sgualcita con un agile movimento della braccia e con fare visibilmente irritato; non era pronto per uno scontro del genere, ma non potevo stare zitta.

-E poi cos’avrei fatto? Eh? Dimmelo tu, buon samaritana! Avrei aspettato che andasse in rotta completa e tenerle la testa mentre vomitava? E poi?- il suo volto era diventato paonazzo per la rabbia, e nel tono di voce si poteva intuire il rammarico e la sofferenza.

Lo vidi sospirare rassegnato, con un sorriso amaro nascosto sotto i baffi.

-Poi sarebbe tornata alla malavita, avrebbe ritrovato i vecchi tossicomani e si sarebbe rimessa a fare marchette per guadagnarsi la sua tanto amata eroina.-

Cristo.

-No, Amy, non posso più fare nulla per lei.-

Così dicendo aprì la porta del garage e, tirandosi su il cappuccio, scomparve nella pioggia.

 

 

 

I frusti banchi della Rodeo High School erano diventati stretti per me.

Si, ero di nuovo finita in quella dannata scuola; dopo che Billie se n’era andato dalla sala prove mi ero sentita spiazzata e sola, così dopo svariati minuti passati a pensare, mi ero ricordata che era un tiepido Lunedì e che le lezioni sarebbero iniziate puntualmente alle otto del mattino.

Mentre prendevo appunti di Letteratura, il mio animo era un po’ scosso, ma soprattutto ero preoccupata che in qualche modo mio padre avesse avvisato la scuola della mia fuga e, ora, lo avrebbero avvisato della mia presenza a scuola. Non volevo tornare con lui.

Avevo fatto del mio meglio per evitare le sue numerose chiamate telefoniche, i suoi messaggi minatori o anche solo il suo ricordo, quindi non avevo alcuna voglia di essere riportata in quel luogo che avevo sempre osato definire casa.

Come se non bastasse, il ricordo delle rivelazioni che Billie aveva fatto quella mattina affollava i miei pensieri insistentemente.

Vicino a me, Jake, era ignaro della situazione, e mi domandavo come poteva essere così; avevo pensato che mio padre si sarebbe subito rivolto al mio ragazzo per accertarsi che non fossi lì, invece non lo aveva fatto.

Ma perché? Qual era la spiegazione di questo strano fatto?

La risposta mi balenò nella mente come una piccola illuminazione: forse si vergognava.

In fondo sarebbe stato sconveniente far sapere alla gente che la figlia del giudice Murray era scappata di casa, chissà cos’avrebbero pensato. Avrebbero potuto insinuare che la famiglia Murray non era poi così perfetta come sembrava.

Ed era vero.

-Me lo dica lei, Miss Murray!-

D’un tratto la voce del Signor J. mi riportò alla realtà, facendomi rendere conto di essere in aula e che il professore mi aveva appena interpellato su di un discorso di cui io non sapevo assolutamente nulla.

Non sapevo cosa rispondere, così aprii la bocca senza emettere alcun suono.

-Amy, sapresti dirmi di che cosa stavamo parlando?-

Cristo. –Io.. Non lo so, mi dispiace.-

I volti di tutti gli studenti erano rivolti verso di me: com’era possibile che Amy Murray non fosse attenta?

Certo, era scandaloso. Io avevo sempre la risposta giusta per ogni domanda, e non sbagliavo mai.

Ma le cose erano cambiate, anche se ero l’unica a saperlo in quella classe, e mi sentivo così tremendamente frustata e imbarazzata da quella figuraccia che avrei voluto sprofondare.

Era tutto così sbagliato.

E io non sapevo più cosa farci.

Driin.

Il suono della campanella non mi era mai sembrato più splendido! Ero salva!

-Bene, Miss Murray, la prossima lezione ti voglio più attenta. Arrivederci a tutti.-

Mentre sistemavo i libri dentro la zaino, mi resi conto che avrei dovuto prendere una decisione nella mia vita: non potevo continuare a nascondermi da mio padre, dormendo in un luogo provvisorio in compagnia di un ragazzo che non mi voleva tra i piedi. Dove sarei arrivata?

Avrei dovuto tirare fuori, sotto le macerie delle mie sofferenze, quella determinazione e perseveranza che era sempre stata tipica di me. Mi sarei rimessa in carreggiata, ne ero certa. Se avessi continuato a piangermi addosso e a dirmi quanto la mia vita facesse schifo, allora sì che avrei perso del tempo.

Non potevo permettere al giudice Murray di rovinarmi l’esistenza, lo aveva già fatto per diciassette anni.

Era ora di scegliere, di cambiare.

-Ti accompagno a casa? È un po’ che non ci vediamo, ti ho provata a chiamare ma non rispondevi. Dove diavolo ti eri cacciata questo fine settimana? Sono venuto a chiamarti a casa, ma tuo padre mi ha detto che eri a portare a spasso Bruto.-

A portare a spasso Bruto.

Non sapevo che mio padre avesse questo tipo di risorse, ma evidentemente mi sbagliavo: era anche un buon bugiardo. Ma in fondo ero contenta che Jake non fosse venuto a conoscenza di quella tremenda situazione, non sarebbe stato un bene per nessuno.

Ma ora che cosa gli avrei detto? Non potevo rifiutare un’altra sua proposta, oppure gli sarebbero venuti dei sospetti, ma non potevo neanche permettergli di accompagnarmi a casa.

Lampadina! -Che ne dici di andarci a mangiare qualcosa solo io e te?-

Grazie al cielo era ora di pranzo e quel giorno non avevo corsi pomeridiani.

Lo vidi sorridere compiaciuto. –Mi sembra un’ottima idea.-

Ricambiai il sorriso per poi lasciare che mi prendesse la mano e mi scortasse fuori dalla classe. Non fui stupita nel rendermi conto che nel corridoio c’era sempre il solito trambusto: gente che usciva, gente che entrava, ragazzi con zainetti, altri che pomiciavano e altri ancora che chiacchieravano accanto agli armadietti. Un liceo a tutti gli effetti.

Non ero mancata neanche un giorno da scuola, eppure mi sembrava così distante dalla mia attuale condizione che mi pareva di esservi stata lontana per mesi.

Era estremamente difficile fingere che tutto andasse bene.

Uscimmo dall’edificio e, come ogni santo giorno, il piazzale era stracolmo di macchine, motorini, biciclette e skateboard; al solito posto, sostava lo scuolabus.

Sentivo che Jake mi stava parlando della squadra di football e di come gli allenamenti fossero stancanti in vista dei campionati studenteschi, ma non stavo realmente ascoltando ciò che mi diceva.

I miei pensieri erano rivolti a Billie; era strano non avere la puzza del suo fumo addosso, e sentivo l’assenza delle sue frecciatine sarcastiche.

Poi rimasi completamente paralizzata nel vedere il SUV nero della mia famiglia accostato al marciapiede, e mio padre appoggiato ad essa. Era lì, con la sua enorme stazza e una faccia per niente solare, e mi avrebbe riportata a casa.

Mi avrebbe riempita di botte finché non sarei tornata ad essere quel clone di me stessa, quella che ero sempre stata. Il panico si impadronì di me e presi a respirare affannosamente.

Non appena mio padre mi vide assunse un’espressione severa e mi venne incontro con fare spavaldo.

-C’è tuo padre che ci viene incontro.- disse con fare piatto Jake, ignaro della situazione.

Il mio cuore prese a palpitare a mille, ricordandosi del brutto scontro avuto qualche giorno prima.

Dannazione, come potevo dimenticare?

Mio padre si fermò esattamente davanti a me e i suoi occhi puntarono i miei; erano così colmi di rabbia e di odio che mi misero quasi in soggezione.

-Buongiorno Signor Murray!- esclamò sorridente Jake.

-Ciao Jake, ti dispiace se prendo Amy? Avevo in programma un pranzo di famiglia, tutti insieme.- le ultime parole le pronunciò come un’ammonizione, e mi fece venire i brividi lungo la schiena.

Dio, non ci volevo neanche pensare. Avevo perso.

Avevo perso davvero, e non potevo farci niente. Mi aveva fregata.

-No, nessun problema.- poi si rivolse a me –Ci vediamo stasera, ti va?-

Non riuscivo a parlare, così annuii impercettibilmente, come se fosse l’unica cosa che sapessi fare. Il mio ragazzo si allontanò salutandoci con un cordiale gesto della mano.

Avrei voluto urlargli di non lasciarmi sola con quel mostro, di tornare indietro. Ma come potevo?

-Adesso tu vieni con me, sgualdrinella che non sei altro.-

Oh, no.

Avrei voluto dimenarmi, piangere, urlare e dibattermi, non volevo andare via, non volevo tornare da quel lurido schifoso, da quell’essere immondo e odioso.

Mi sentivo sola e persa, senza alcuna speranza. Iniziai a pensare a tutte le botte che mi sarei presa, ai lavaggi del cervello e alle ramanzine che mi sarei subita finché non sarei diventata ciò che voleva lui.

Non potevo combattere contro di lui.

Avevo il terrore puro di mio padre.

-Lei non va da nessuna parte. Almeno non con lei.-

Mi girai di colpo e mi trovai faccia a faccia con un Billie munito di due hot dog e due coca-cola.

I suoi occhi verdi erano incolleriti e fissi sulla persona di mio padre.

Grazie a Dio, ci sei tu, fottutissimo Armstrong.

 

 

 

 

**********

 

Angolo Snap:

Grazie alla mia beta-reader, Vi.

 

Come prima cosa voglio scusarmi con voi lettori per l’enorme ritardo che ho avuto, ma sono stata una settimana in gita scolastica a Madrid, quindi mi ci è voluto più tempo per scrivere un capitolo degno di voi.

 

In secondo luogo, parliamo del capitolo.

Voglio precisare che la scena finale di Billie che spunta dal nulla, non è proprio così, e sarà specificato nel prossimo Kapitel; lo so che fa molto film visto e stravisto il fatto che lui arrivi nella situazione del bisogno ecc, però la spiegazione c’è ed è un puro caso che lui si trovasse lì.

Quindi, vi chiedo scusa se pensate sia poco originale, ma lo scontro tra Billie e Papà-Mostro doveva esserci per forza, perché era in programma così.

Celine: brutta situazione, non finirà qui la questione, perché questo personaggio tornerà più volte nella storia, è importante.

 

Un grande abbraccio,

Snap.

 

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Capitolo 13
*** A kiss we'll share ***


Parental Advisory: The static age

 

 

# Capitolo Dodicesimo

 

A kiss we’ll share

 

 

 

 


Billie. Papà.

Papà. Billie.

 

Incontrai i foschi verdi di Billie, che sembravano del tutto inespressivi, conferma del fatto che il ragazzo era seriamente di umore nero.

Non potevo credere che fosse davvero lì davanti a me, con quel suo fare spavaldo e la voce ferma; non avevo neanche minimamente pensato che avrebbe potuto mai affrontare mio padre, e invece ora se ne stava lì, impalato, guardando in faccia Steven Murray.

Ma che diavolo credeva di fare? Billie non aveva idea di chi avesse di fronte: mio padre, da bravo giudice, non si sarebbe mai arreso e avrebbe calpestato quel ragazzetto punk.

Armstrong non aveva speranza contro di lui, e io non potevo fare nulla per aiutarlo perché ero bloccata dal terrore, che sembrava rendermi impossibile spiccicare parola.

Come potevo essere così codarda? Come potevo non riuscire ad affrontare mio padre?

Avrei voluto prendermi a pugni per indurmi a svegliarmi, ma non sarebbe stato utile in quella situazione; dovevo prendere coraggio, tirare fuori i cosiddetti e far vedere a tutti che anche Amy aveva un po’ di carattere.

-Il demolitore di statue! Ti avevo condannato al volontariato, giusto?- sbottò mio padre, alzando le mani esasperato, come se tutta quella situazione l’avesse portato al culmine della sopportazione.

Armstrong continuò a non muoversi; se ne stava lì impalato sul marciapiede davanti alla mia scuola, tra le occhiate stranite degli alunni per bene della Rodeo High School e le macchine che gli sfrecciavano accanto.

Non sembrava curarsi di nulla, se non della figura di mio padre.

Avrei voluto urlargli di fare qualcosa, di prendere in mano la situazione perché io ero troppo succube del mio genitore per potermi far valere.

Finalmente Billie parlò: -Si, e ho proprio fatto questo: volontariato. Sua figlia aveva bisogno del mio aiuto.-

Mio padre lo guardò con aria minacciosa, come se tentasse di dirgli che era ancora in tempo per andarsene, altrimenti si sarebbe messo contro il giudice Murray.

Ma Billie non  aveva paura di mettersi contro di lui, io lo sapevo; ormai era dentro a quella situazione fino al collo e non se ne sarebbe tirato fuori. Anche se cercava di far credere a tutti che era una carogna, io sapevo che era leale e buono di cuore.

Un po’ mi sentii commossa dalle parole di Armstrong, che aveva finalmente ammesso di avermi aiutata per il mio bene; e soprattutto mi sentii grata del fatto che non mi stesse abbandonando, a differenza del resto del mondo, che mi aveva voltato le spalle.

-Amy non ha bisogno di persone come te, che le traviano la mente e la portano sulla cattiva strada; non le serve il tuo stupido e inutile aiuto.- poi si rivolse a me, penetrandomi con quei gelidi occhi –Vero, cara? Devi tornare a casa e diventare un avvocato.-

Mi sentivo quello sguardo opprimente addosso, come mille spilli infuocati che m attraversavano la pelle.

Non riuscivo a proferire parola e mi sentivo immensamente codarda e inutile; non ero cambiata, ero rimasta quella Amy che si faceva dire cosa doveva fare e non aveva neanche un po’ di fermezza per farsi valere.

Ma non volevo più sottostare alle ferree regole di mio padre, ai suoi sbalzi di umore, al suo essere così ottuso e tradizionalista; non volevo crescere in un ambiente dove la tolleranza e l’amore erano banditi.

Avrei voluto imparare a vivere.

-Ti sbagli, Steven.- intervenni io, spaccando il silenzio come un lampo nel cielo notturno.

-Sono stufa del mondo che ti sei costruito. Sono stanca delle menzogne, del futuro già sicuro e delle scelte che tu fai per me. Sono davvero esausta di avere di fianco a me delle persone che non mi amano, ma cercano solo di farmi divenire una marionetta.-

Le parole uscirono dalle mie labbra con una solennità che avrebbe potuto eguagliare uno di quei film strappalacrime.

L’espressione di mio padre, quando parlai, cambiò del tutto; ora sembrava stupito, come se d’un tratto avessero tirato a lui uno schiaffo e si fosse accorto che la sua piccola bambina si era svegliata e non si faceva più trattare come una bambola di porcellana da sfoggiare quando gli andava.

Mi sentii così piena di emozioni e di orgoglio che mi sarei messa a saltellare, a fare stupidi gridolini di gioia.

Forse avrei anche abbracciato Armstrong.

Forse.

Mi girai verso Billie, che teneva le braccia incrociate e le gambe larghe, come una giovane guardia del corpo; le labbra erano leggermente increspate a formare un sorriso quasi impercettibile, ma che significava moltissimo per me: stava a dire che avevo fatto centro.

Probabilmente quello sarebbe stato il momento giusto per andarmene con Armstrong, ma non avrei risolto la questione. Ci sarebbe stato un altro giorno in cui mio padre mi avrebbe trovata e mi avrebbe riportato a casa, e se non lo avessi seguito avrebbe chiamato la polizia o i servizi sociali: io ero ancora minorenne.

Armstrong mi osservava con sguardo impaziente: probabilmente lui aveva solo pensato al fatto che potevamo squagliarcela.

Mi voltai ancora verso mio padre, che mi osservava con quei suoi occhi vuoti, e gli rivolsi un cenno con la testa. Sembrava sfinito, come se gli avessero momentaneamente levato le batterie.

-Quindi è questa la tua scelta, Amy? Credi davvero che lui si prenderà cura di te o che ti potrà dare un piatto pieno in cui mangiare? Pensi che non ti caccerà mai?-

Steven aveva appena toccato un tasto dolente, ciò che mi aveva sempre preoccupata e che continuava a farlo.

Armstrong avrebbe potuto cacciarmi via anche quello stesso giorno, con il caratterino che si ritrovava, e io lo sapevo. Mi aveva già cacciata una volta, lasciandomi sola e senza speranze, anche se poi si era ricreduto e mi aveva rivoluta con lui.

Forse erano solo mie stupide convinzioni, forse aveva ragione mio padre.

Probabilmente Armstrong mi stava solo facendo un favore e contava sul fatto che mi sarei trovata presto una sistemazione alternativa.

-Probabilmente la caccerò via, come ho già fatto. Ma poi andrei a cercarla e le direi di tornare a casa, perché sono stronzo, ma non fino al punto di lasciarla per strada da sola. E non le posso di certo augurare che si troverà sempre il cibo in tavola e un letto caldo. Ma lei questo già lo sa.-

Non mi rendevo conto di come fosse possibile che ogni volta che Billie parlava e diceva qualcosa di buono nei miei confronti mi sentissi pervasa da un senso di adeguatezza e felicità.

Ma, dentro di me, sentivo che se Armstrong mi voleva con sé allora tutto il resto del mondo andava alla perfezione, e non ci sarebbero stati altri problemi. Ovviamente mi sbagliavo, avrei affrontato altre mille avversità.

Mi trovai addosso gli sguardi di Billie e di mio padre, come se mi stessero chiedendo qual era la mia scelta.

Dovevo decidere cosa avrei fatto della mia vita, era quello il punto di non ritorno.

Rimanere o andare.

Cadere o rinascere.

Galleggiare o cambiare.

Mi avvicinai ad Armstrong, con il passo più lungo che avessi mai fatto e gli presi la mano, guardandolo dritto in quegli immensi occhi verdi.

Il mio cuore sapeva che quella era la decisione più drastica che avessi mai preso in tutta la mia vita.

Ho scelto te, idiota. Vedi di non farmene pentire.

 

 

 

 

Abbandonai rumorosamente la mia borsa sul pavimento.

Quella era stata la giornata più lunga di tutta la mia esistenza, e ora avevo solo voglia di rilassarmi e lasciarmi andare. Avrei voluto, per un solo lungo attimo della mia vita, staccare la mente e non pensare a nulla. Mi sarebbe piaciuto fluttuare in un nulla spumoso e voluttuoso, che mi accarezzasse il cervello con mani dolci e materne.

Mia madre.

Ogni cosa mi riportava alla realtà; semplicemente non ero capace di spegnere le trasmissioni per qualche minuto.

Mi stesi a terra, tra l’odore di polvere e di fumo, chiudendo gli occhi e rendendomi conto che non mi ero mai sentita così stravolta come in quel momento.

Che cos’avrei fatto ora? La scuola l’avrei continuata a frequentare, certo, ma non sarebbe stato semplice con mio padre alle calcagna e dalla parte della legge.

Non sarebbe stato per nulla facile trovare una soluzione legale; avrei dovuto forse contattare i servizi sociali? Probabilmente se avessi spiegato loro la situazione mi avrebbero aiutata.

Ma non volevo finire in una nuova famiglia, volevo solo rimanere lì con Armstrong e mandare a quel paese tutto il resto. Ovviamente mi rendevo conto che quelli erano solo stupidi sogni infantili che non si sarebbe mai potuti avverare, anche perché non mi avrebbero di certo aiutata per un futuro migliore.

Io e Armstrong eravamo ancora completamente differenti, ma ora c’era un qualche strano legame che ci univa e ci rendeva impossibile dividerci; sapevo che era così anche per lui, proprio perché non mi aveva lasciata andare via con Steven.

Dal debole rumore che sentivo, potevo dedurre che Billie era entrato dopo di me e probabilmente aveva chiuso la porta del vecchio scantinato.

Se avesse seguito la solita routine, ora sarebbe stato alle prese con la sua chitarra. Aprii gli occhi e mi tirai su a sedere, notando che le mie previsioni erano corrette.

Il mio coinquilino se ne stava seduto sopra un tappeto, poco distante a me, e teneva in mano la sua amata chitarra blu, che aveva un’aria decisamente vissuta.

Non lo avevo mai visto impugnare un’altra chitarra, probabilmente doveva avere un forte amore nei confronti di quel vecchio strumento musicale pieno di scritte.

-Sembra consumata dagli anni- osservai, sperando di scoprirne di più.

Non alzò la testa, e continuò a suonare a basso volume, concentrato e bellissimo.

-La possiedo da così tanti anni, che ormai è divenuta un’appendice del mio braccio.-

Parlava della sua chitarra come se fosse una persona, e si poteva notare un malinconico sorriso trattenuto sulla sua faccia, come se con quell’oggetto ne avesse passate di cotte e di crude.

Ero un po’ invidiosa di quella sua sensibilità nei confronti della musica, che io come ballerina avrei dovuto percepire ma che invece non sentivo.

-Ne comprerai mai una nuova?- chiesi, prendendomi gioco di lui.

Si mise a ridacchiare, rendendosi conto che lo stavo prendendo in giro, ma non preoccupandosene affatto.

Strano ma vero.

Alzò le spalle. –Chissà. Forse. Non lo so. Non ne sento il bisogno, per ora. Blue funziona alla grande.-

È così il nome che gli aveva appioppato era Blue.

Mi resi conto che quando arrivava sera, ed io e Billie rimanevamo soli in quel garage, calava una strana atmosfera di intimità e confidenza tra di noi, che ci rendeva possibile abbassare i muri di astio che ci eravamo costruiti.

Mi domandai quale fosse la ragione e non trovai una risposta degna di essere chiamata in quel modo.

-Come fai ad essere così legato ad una chitarra?- domandai a bruciapelo.

Probabilmente avevo toccato un tasto dolente, perché il ragazzo non rispose subito e assunse un’espressione un po’ contraddetta. Forse non avevo fatto una grande mossa con quella domanda, ma ormai non potevo tornare indietro.

-Me l’ha regalata mio padre, poco prima di morire.-

Hai ufficialmente vinto il premio per l’idiota dell’anno, Amy. Congratulazioni.

Ora si spiegava il legame tra Armstrong e la sua chitarra e, soprattutto, iniziava ad essere più chiara l’incognita della famiglia e del passato del ragazzo.

Cosa avrei dovuto dire in quel momento?

Se fosse stata una persona normale probabilmente avrei espresso il mio dispiacere, ma siccome si trattava di quel ragazzo strambo e incomprensibile, anche solo un’affermazione poteva fargli cambiare umore tutto d’un tratto. Ormai l’avevo capito bene: bisognava essere cauti con Armstrong.

-Sembra essere una bella chitarra.- decisi alla fine di dire.

Lo vidi scrollare le spalle, chiaro segno del fatto che non intendeva portare avanti quella conversazione e che non gli andava neanche un po’ di raccontarmi della morte di suo padre.

A volte avrei solo voluto che Billie si aprisse un po’ a me, invece di chiudersi a guscio, e che mi parlasse di qualsiasi stupida cosa. E invece non lo faceva.

-Che cosa mangiamo?- mi chiese cambiando ufficialmente argomento.

-Mmh.. Ho voglia di pizza!- esclamai entusiasta.

Mi fulminò con lo sguardo, prima di rivolgere la sua attenzione nuovamente a Blue.

Non capivo dove stava il problema, a quel punto.

-E dove li trovi i soldi per due pizze, Barbie? Meglio il cinese, è meno caro.-

Dannazione, i soldi.

Quello si che era un gran bel problema; avevo ancora un po’ dei miei risparmi da parte, ma non avrei potuto sprecarli per le pizze, così decisi che il cinese andava bene.

Mi sarei dovuta trovare un lavoro dopo scuola, perché non potevamo campare ancora per molto in quel modo. E soprattutto non avevo nessuna intenzione di dipendere da Billie, che stentava a mantenere se stesso.

Ma come li guadagnava i soldi quel ragazzo?

-Si, vada per il cinese.- dissi rassegnata ad alta voce.

I suoi occhi si puntarono sui miei, in un modo in cui non era mai successo e mi metteva in soggezione.

Non riuscivo a sostenere quel verde smeraldo così intenso e pieno, e mi sentivo stupida per tutte quelle sensazioni estranee a me stessa.

Sapevo che Armstrong stava probabilmente pensando che ero una stupida ragazzina ingenua, ma non potevo smettere di sentire qualcosa di profondo mentre mi guardava.

-Vieni qua, voglio farti sentire una cosa.- mi disse con un tono docile che non gli avevo mai sentito.

Mi alzai, con le gambe che non reggevano l’emozione, e mi sedetti accanto a lui.

Così vicina a lui potevo sentire il suo profumo e il suo calore arrivare fino a me, come un profumo.

Non riuscivo a smettere di pensare a quelle stupide cose che non facevano parte della mia persona; che diavolo mi stava succedendo?

Io non avevo mai perso la testa per un ragazzo, ero sempre rimasta con i piedi per terra e la testa sulla spalle, conscia del fatto che dovevo assicurarmi il mio futuro. Ma d’altronde era cambiato tutto dopo l’entrata in scena di Billie nella mia vita, e ovviamente non poteva rimanere immutato quel lato del mio carattere.

-Ascolta-

Le sue dita sfiorarono delicatamente le corde, quasi le volesse accarezzare. Non lo avevo mai visto così premuroso come lo era con i suoi strumenti musicali.

Quando suonava, Billie, sembrava essere catapultato su un altro mondo, e vederlo perso nel suo stesso suono era uno spettacolo vero e proprio.

Pizzicò le corde, e il suono che ne uscì fuori non era stridulo come quello che emetteva di solito la mattina per svegliarmi; era una melodia tranquilla e malinconica, che non aveva nulla a che fare con la musica che gli avevo sentito fare qualche volta.

Era un vero e proprio incanto per le orecchie.

Teneva gli occhi chiusi, segno che conosceva la sua chitarra alla perfezione, e le labbra serrate in un piccola linea orizzontale.

Non era mai stato così bello.

Tese l’ultima corda e potei sentire il suono della nota protrarsi nell’aria per ancora qualche secondo, come un soffio di vento gelido e nello stesso tempo caldo.

Rimase il silenzio in contrasto al dolce suono che c’era stato fino a pochi istanti prima, e mi dovetti sforzare per abituarmi alla quiete.

Finalmente Armstrong alzò la testa, e, con gli occhi ancora pieni di musica, mi guardò dritta nelle pupille.

Tra di noi era calato uno stato di condivisione assoluta, come se la melodia ci avesse reso possibile capire che i falsi muri che avevamo innalzato erano inutili, e tutto ciò che ci impediva ancora di avere un buon rapporto non aveva un senso.

D’un tratto, Billie si spostò con un movimento che neanche riuscii ad identificare, e premette le sue labbra contro le mie.

Rimasi scioccata dall’impetuosità di quel contatto, a tal punto che non risposi subito al bacio, ma solo dopo che prese a muovere le labbra, mi resi conto di ciò che stava succedendo; schiusi la bocca, e sentii la sua lingua entrare dentro di me come una fiammata ardente.

Ora, Billie stava di inginocchiato di fronte a me e mi baciava con una passione che avrebbe potuto travolgere anche la più casta delle donne.

Inarcai la schiena verso di lui, che mi passò una mano attorno ai fianchi, stringendomi con decisione; misi le mie mani nei suoi capelli e presi ad accarezzarglieli con convinzione.

Non riuscivo a formulare un pensiero che fosse razionale, se non che stavo baciando Amrstrong.

Stai baciando quella testa di cazzo di Armstrong.

E il fatto sconvolgente era che mi piaceva in modo particolare, forse anche a causa di tutta la lussuria che Billie riusciva a tirare fuori dalle parti più nascoste della mia anima; ad esempio, in quell’istante, prese a massaggiarmi i fianchi con trasporto.

Non riuscivo a capire se ciò che stavo facendo era giusto o sbagliato, e non avevo neanche alcuna voglia di pormi quella domanda: diavolo, era così piacevole!

Non potevo credere di poter posare finalmente le mani sulle spalle di Billie-Joe, e poter sentire la sua pelle sotto le mie dita; per troppo tempo avevo sognato quel momento, nonostante avessi sempre mentito a me stessa.

Lasciai che Billie mi attirasse a sé, e sentii il mio corpo aderire al suo, rendendo ogni cosa meno chiara.

Quando sentii che Armstrong stava inserendo la sua mano nel davanti dei miei pantaloni, il panico si impadronì della mia mente, impossibilitandomi a continuare ciò che stavamo facendo.

Per lui ero solo una delle tante puttane che si portava a letto?

Non avevo nessuna intenzione di concedermi a lui tanto facilmente, né tantomeno passare per la ragazza sconvolta che si faceva aprire le gambe facilmente.

Diedi uno spintone a Billie, che ricadde all’indietro, con il viso stupito di chi non si aspettava una reazione del genere: probabilmente era convinto che non avrei esitato un istante nel concedermi a lui.

Beh, dannazione, si sbagliava.

Mi alzai e mi allontanai da lui, raggomitolandomi in un piccolo angolo, tra i grossi tappeti che fungevano da moquette per la stanza; mi adagiai sulle gambe la piccola coperta che Armstrong mi aveva ceduto e chiusi gli occhi, immergendomi nei miei pensieri.

Quando tirai su il viso notai che Armstrong si era dato una regolata e si stava sistemando nella squallida brandina, che riteneva letto.

Non avevo alcuna intenzione di pronunciare una di quelle frasi cinematografiche, del tipo “Domattina c’è scuola, devo riposare.”, oppure “Buonanotte, Armstrong.”

Rimasi zitta, al buio, ad ascoltare il mio solo respiro, e qualche volta un fruscio di lenzuola, segno che Billie non stava dormendo.

Che cosa sarebbe successo ora?

Ma non potevo pensare ad un altro problema, non quel giorno.

 

Lo avrei affrontato il giorno dopo.

 

 

 

 

*******

 

Angolo Snap:

 

Sono tornata miei cari lettori e lettrici! ^^

Lo so che sono stata assente per molto tempo, e chiedo scusa a tutti voi, ma tra la scuola, il fatto che tra pochi giorni arriverà una tedesca da me (che si fermerà per tre mesi) e altri impegni vari, non ho avuto un attimo di tempo per respirare!

 

Per quanto riguarda il capitolo posso dire che ci sono state delle svolte assolutamente fatali: la scelta di Amy di abbandonare definitivamente casa, e il bacio tra i due protagonisti.

Voglio sottolineare la parte –importantissima- di Billie che suona, perché ho cercato di descrivere ciò che credo sia il rapporto tra BJ e Blue. Spero di aver reso l’idea.

Se ci sono imprecisioni o critiche da fare, lasciatemi una recensione oppure un messaggio personale.

 

Colgo l’occasione per ringraziare tutti i miei lettori, che seguono la storia, e tutte quelle persone che recensiscono costantemente, o che hanno recensito anche solo per una volta; esprimo la mia gratitudine anche a tutti quelli che hanno inserito la storia tra le Preferite, le Seguite o le Ricordate.

E grazie infinitamente anche a chi legge, semplicemente.

 

Ps. Credo abbiate notato che ogni titolo dei miei capitoli è preso da frasi inserite nelle canzoni dei nostri GD. In questo caso, è tratto da “1000 Hours”, splendida canzone d’amore (album “1039/smoothed out slappy hour”).

Un abbraccio,

Snap-

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Capitolo 14
*** It makes me lose control ***


Parental Advisory: The static age

 

 

 

# Capitolo Tredicesimo

It makes me lose control

 

 

 

Una bolla.

Ero come chiusa in una grande bolla di sapone, allo stesso tempo forte e fragile; avevo paura che potesse scoppiare da un momento all’altro rovinando quegli attimi incantevoli.

Che cosa stava succedendo?

Era La Musica.

La musica che entrava in modo soffice ma solido nella mia mente, invadendo ogni piccolo spazio; era potente e debole, dolce e amara.

Sensazionale.

Non riuscivo bene a farmi un’idea su ciò che stavo ascoltando, ma era un sound che non poteva uscirti dalla testa: ci rimaneva come un tatuaggio indelebile sulla pelle.

Me ne stavo seduta a gambe incrociate sopra uno dei grossi tappeti in lana, che ricoprivano tutto il pavimento della sala prove.

Maggie era di fianco a me che ballava e emetteva gridolini entusiasti, quasi fosse una fan sfegata di quei tre mocciosi che stavano suonando in quel modo divino.

Mike, Trè e Billie-Joe.

I Green Day.

Erano passate due settimane dalla sera in cui io e Billie ci eravamo scambiati quel bacio seducente, e se chiudevo gli occhi sentivo ancora la passione pompare dentro di me. Ancora stentavo a rendermi conto di ciò che era successo, eppure sapevo che non era un sogno.

Io e Armstrong ci eravamo baciati.

Ed era stato immensamente diverso dai baci che mi ero sempre scambiati con Jake, casti e freddi; era stata un’esplosione di sentimenti, quali adrenalina, lussuria e stupore.

Non avevamo più minimante toccato l’argomento ed entrambi avevamo fatto finta che nulla fosse accaduto, continuando a svolgere le nostre quasi-normali vite.

Avevo ripreso ad andare regolarmente a scuola e la sera mi ritrovavo a studiare in quel garage, che era diventato ormai familiare: iniziavo ad ambientarmi.

Billie non aveva più accennato a cacciarmi da “casa” sua, ma sembrava aver accettato il fatto che ormai gli ero tra i piedi. Meglio per me.

Doposcuola mi fiondavo al “Sun of Sunday Café” dove prendevo servizio come cameriera, per mettere da parte qualche spicciolo, in modo da potermi mantenere.

Ad Armstrong era parsa un’idea sensata e mi aveva imitato, trovandosi un lavoro come apprendista idraulico, in una piccola officina del posto.

Insomma, eravamo diventati una vera squadra operativa, che si faceva in quattro per procurarsi del denaro.

Anche la convivenza era un po’ migliorata; i battibecchi erano sempre presenti in modo molto frequente, ma ora sembrava quasi un modo per stuzzicarci o ridere un po’.

Sapevamo entrambi che, nonostante ci ostinassimo a non ammetterlo, avevamo abbandonato l’astio.

In fondo eravamo coinquilini.

Maggie fece per passarmi la birra, ma rifiutai cortesemente alzando il mio bicchiere di Coca-Cola: alcune cose non sarebbero mai cambiate, in fondo.

In settimana ero passata a casa mia per prendere qualche vestito e altri effetti personali; mio padre per fortuna non era in casa, e mia madre si era limitata a chiedermi se stavo bene e se ero felice: le avevo detto di si, ed era la verità.

Mia mamma mi aveva chiesto di portare via Bruto, il mio cane, che ora stava con me e Billie, nonostante il ragazzo avesse tentato in tutti i modi di imporsi; avevo avuto la meglio ed ora il mio cagnone guardava con aria infastidita le chitarre elettriche, che emettevano tutto quel frastuono.

Tornare a casa era stato difficile e doloroso, nonostante avessi tentato in tutti i modi di farmela sembrare una cosa da poco conto.

Avevo provato un po’ di nostalgia nell’entrare in quegli ambienti così familiari, in cui avevo passato gran parte della mia vita; ma non potevo restare e lo sapevo bene.

Guardai Armstrong e notai che mentre cantava faceva delle smorfie davvero buffe: sarebbe stato il pretesto per prenderlo in giro, quando avrebbe finito di suonare.

La mia vita ora si svolgeva con quella routine, che non mi dispiaceva affatto.

Avevo Billie.

E avevo anche Maggie, Trè, Mike e il mio fedele Bruto, che era tornato dalla sua padrona.

Forse non ero più così sola.

 

 

 

 

Tutti applaudirono al breve spettacolino che Trè aveva inscenato per farci ridere; riusciva sempre in qualche strano modo a far alleggerire l’atmosfera e far divenire ogni minima situazione esilarante.

Era una dote che gli invidiavo e molte volte mi domandavo come potesse aver sempre voglia di sorridere.

Pel di Carota gironzolava per la sala prove con un vestito da donna a pois e una parrucca bionda ossigenata, che tutti volevano sapere dove avesse trovato.

Era sera e, nel piccolo spazio dove io e Armstrong dormivano, erano presenti una decina di persone, venute per una piccola festicciola che avevamo deciso di dare.

Anzi, che aveva deciso di dare.

Ovviamente io non avevo avuto voce in capitolo e avevamo avuto una discussione a riguardo, come se fosse una novità. Comunque non mi sembrava un’idea così cattiva avere un po’ di compagnia, anche perché il giorno seguente non ci sarebbero state lezioni a scuola, poiché domenica.

Vicino a me sedeva l’ormai onnipresente Maggie Stuart, con cui avevo instaurato un bel rapporto amichevole; avevo imparato a conoscere le sue stranezze, che qualche volta mi divertivano.

Sicuramente ora riuscivo ad apprezzarla quanto prima non ero riuscita a fare.

L’ambiente era carico di fumo, che come al solito non mancava, e le bottiglie vuote di birra erano sparse un po’ ovunque: il giorno dopo avrei avuto un gran lavoro da fare.

Un tizio dalla cresta rossa stava vomitando accanto alle casse acustiche. Cristo.

Mi voltai per evitare di finire nel suo stesso modo, e subito mi rammaricai di averlo fatto.

Di fronte a me stava Billie-Joe intento a palpare, in ogni piccolo angolo del suo corpo, una lurida ragazzetta dai lunghi capelli bruni.

Subito mi sentii ferita nel profondo, come se Armstrong mi avesse appena tradita, ma poi mi resi conto che era una reazione stupida perché io e lui non stavamo insieme.

Eppure mi aveva baciata, quindi, in un certo senso, la mia gelosia era comprensibile.

Come poteva fare una cosa simile? Come poteva farlo davanti a me?
Avevo sempre avuto ragione: Billie era un fottuto pezzo di merda e sempre lo sarebbe stato.

Non mi ero mai trovata in una situazione simile, quindi non sapevo come diavolo comportarmi: dovevo andarmene? Dovevo restare?

Come potevo uscire di scena a testa alta?

Trovato.

L’idea che mi balenava nella testa non era una gran cosa e non sapevo neanche se avrebbe funzionato; avevo smesso di chiedermi se le azioni che facevo erano giuste o sbagliate, perché avevo capito che quel quesito mi mandava solo fuori di testa.

Il fatto era che non avevo alcuna idea di ciò che stavo per fare.

Oh, dannazione! Smettila di domandarti se fai bene: fallo e basta.

Quella vocina del cervello iniziava a darmi realmente sui nervi.

Mi alzai dal tappeto e adocchiai ciò che stavo cercando: un ragazzo carino e solo, che sembrava seriamente interessato a trovare compagnia, quella sera.

Oh, si. Ciò che volevo era proprio comportarmi nello stesso identico modo di Armstrong.

Senza rimpianti.

Senza rimorsi.

Non ero mai stata una ragazzetta facile, quindi non avevo la più pallida idea di come si rimorchiasse o come potessi attirare l’attenzione di un uomo. Se fossi parsa ridicola?

Mi voltai verso Billie e notai che stava pomiciando amabilmente con quella sgualdrina, che sembrava molto vogliosa: esattamente ciò di cui il mio coinquilino aveva bisogno.

Volevo davvero vendicarmi in quello stupido modo?

Fissai le mani di Armstrong scendere a palpare il sedere della ragazza, e la risposta arrivò senza alcun dubbio: Si.

Non avevo tempo di pensare, dovevo solamente agire, al diavolo tutti i timori di fare una figuraccia.

Il tipo con cui avevo intenzione di provarci se ne stava per i fatti suoi, non troppo lontano da Billie, per cui non sarebbe stato difficile farmi notare da lui.

Diedi un’occhiata a Maggie, che sembrava tutta presa da Mike. Che tra i due ci fosse qualcosa?

Accantonai quel pensiero che non mi riguardava e presi ad ancheggiare, avvicinandomi al ragazzo, che non tardò ad accorgersi della mia presenza. Certo, i miei vestiti non erano esattamente accattivanti quanto quelli della sgualdrina con cui se la faceva Billie, però sapevo di potercela fare comunque.

La mia preda aveva i capelli bruni e alle spalle e due grandi occhi color nocciola: non era un brutto ragazzo, ma aveva un grosso naso che rovinava il suo bel viso. Indossava un maglione sgualcito e un vecchio paio di jeans marroncini; diciamo che la moda non era il suo forte.

Ma andava bene per il mio scopo.

Subito si avvicinò, mettendomi le mani sui fianchi. Aveva abboccato. Ora non sarebbe stato difficile baciarlo, anzi, probabilmente il ragazzo voleva solamente quello.

Mi girai verso Armstrong e notai che non mi stava degnando di uno sguardo. Dovevo spostarmi di fianco a lui, e non mi ci volle tanto: presi per mano il mio compagno, che si lasciò trasportare senza problemi.

-Sei sexy- mi sussurrò all’orecchio, con voce che probabilmente doveva essere seducente.

Cercai di trattenere il voltastomaco, concentrandomi su Billie, che ora mi lanciò un’occhiata contraddetta.

Finalmente si era accorto di me.

Non riuscivo a credere che stavo facendo tutto quello, solo perché ero gelosa.

Ero davvero gelosa di quella sgualdrinella. Com’era possibile? Com’ero arrivata a quel punto?
Misi da parte quegli inutili pensieri e circondai il collo al mio nuovo amico, sorridendogli esageratamente.

Probabilmente doveva pensare di essere davvero un bravo latin lover, ma non sapeva quanto fosse in errore.

Quel tizio senza nome mi baciò con trasporto forzato, come se dovesse dimostrarmi di essere un vero uomo; trattenni l’istinto di scostarmi, spingerlo e scappare, perché sapevo che Armstrong stava assistendo alla scena.

Quando finalmente si staccò dalla mia bocca mi girai per vedere l’espressione sgomento di Billie; assaporavo già il gusto della mia storia.

Ma, quando cercai la piccola figura esile, trovai solo il vuoto. Armstrong e la ragazzetta dalla minigonna corta erano spariti.

D’un tratto mi sentii immensamente stupida ed ingenua.

 

 

 

 

-Questa testa di cazzo di Armstrong ha fatto scintille, questa sera!-

Le parole di Trè risuonarono nella mia mente come potenti pugni che sembravano farmi tremare la testa, causandomi un forte mal di testa; o forse era solo a causa di tutta la musica che avevo ascoltato.

Il punto era che Pel di Carota aveva appena detto ad alta voce ciò che non avrei mai voluto sentire, ovvero che Billie era andato a letto con quella sgualdrina dalla minigonna cortissima.

Applicando un ragionamento logico all’accaduto, il mio comportamento non aveva alcun senso, poiché Armstrong aveva tutti i diritti di fare quel che gli pareva, anche perché ero consapevole che avrebbe sempre fatto ciò che gli andava senza chiedere il consenso a nessuno.

Ma c’era una parte irrazionale dentro di me che stava scalciando e urlando come una forsennata per farsi sentire; non potevo negare a me stessa la realtà dei fatti: ero gelosa.

Il mio stomaco si contorceva e le viscere sembravano annodarsi tra di loro.

Perché lei e non me?

La risposta mi arrivò cristallina: la mia rivale aveva aperto le gambe al mio coinquilino, che non aveva tardato ad accettare. Io lo avevo respinto.

Semplice, conciso, liscio come l’olio. Non c’era null’altro da dire, e tutto ciò mi deprimeva perché avevo sempre sperato che Billie fosse diverso; lui era realmente differente, ma non in quel campo.

La piccola sala prove, ora, era completamente incasinata: bottiglie di birra erano sparse qua e là, alcune avevano addirittura macchiato la moquette di tappeti, carcasse di spinelli e cartine bruciate facevano da cornice al panorama, mentre sul muro erano comparse nuove scritte in pennarello indelebile.

Le amicizie di Armstrong non era di certo delle più rispettose.

Eravamo rimasti solamente io, Maggie, Trè, Mike e Armstrong per pulire, o meglio, io pulivo mentre loro vagabondavano per la stanzetta come delle anime in pena.

Per fortuna gli strumenti musicali, posizionati al fondo della sala, non  erano stati toccati o danneggiati; mi ritrovai a formulare un pensiero realmente cattivo: avrei goduto se avessero rotto Blue.

Subito, però, mi pentii di aver pensato una simile cosa sapendo quanto quell’oggetto fosse importante per Billie; nonostante fossi arrabbiata con lui, non riuscivo a sperare realmente che gli capitasse qualcosa di male. Ero forse troppo buona o credevo solo di esserlo?

D’un tratto Armstrong, che ne stava accucciato vicino alla batteria, si alzò sfoderando la sua espressione più bastarda, ergo stava per succedere qualcosa di non troppo carino.

-Ok, stronzi, è ora di smammare. Andatevene a cazzeggiare da qualche altra parte, voglio un po’ di tranquillità.-

Ma che diavolo..?

Nonostante avessi imparato abbastanza a conoscere Billie, i suoi cambi d’umore improvvisi rimanevano ancora un arcano per me. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona sbottasse così di colpo.

probabilmente c’erano ancora molte cose che dovevo scoprire riguardanti il distruttore di statue.

-Fanculo, cazzo! Dove dovrei andare?- si impose subito Pel di Carota.

Sapevo benissimo che discutere con Billie erano inutile, perché quando si metteva qualcosa in testa era difficile schiodarlo da quel punto. Quindi tutti i tentativi di Trè erano vani.

-Non fare storie Trè, hai capito l’antifona: Billie non ci vuole più tra i coglioni. Muovi il culo.- intervenne Mike, che sembrava avere una crisi di saggezza causata dall’esagerato uso di cannabis.

Maggie si aggregò al gruppo senza fare storie, ma prima di uscire dal garage saltellò verso di me e mi stampò un lieve bacio sulla guancia, sussurrandomi: -Non prendertela troppo per la scopata di Billie con quella là.- così dicendo, girò sui tacchi prendendo sotto braccetto Mike.

Come diavolo faceva sempre ad accorgersi di tutto, quella ragazza?

Ora capivo il nomignolo che nel giro punk le avevano affibbiato: era davvero “strange”; ma in qualche modo riusciva ad essere sempre a suo agio e, come in quel caso, ad avere sempre le parole giuste al momento giusto. Una dote da non sottovalutare.

Rimanemmo soli nel nostro piccolo tugurio, come ogni sera in cui riuscivamo a scambiarci delle parole intime; proteggevo quegli attimi con tutto il coraggio che possedevo in corpo, poiché erano gli unici attimi in cui tra me e Billie si instaurava una sorte di calda confidenza, quasi mistica.

Erano dei momenti magici che amavo con tutta me stessa.

Ma quella sera non ci sarebbero state brevi frasi affettuose ad aspettarmi, solo gelidi monosillabi che avrebbero accompagnato un silenzio tagliente.

Mi sedetti vicino al piccolo rifugio di coperte e cuscini che mi ero creata per le mie notti e cercai di non sembrare troppo a disagio, mentre con la coda dell’occhio osservavo un Armstrong visibilmente nervoso, che passeggiava su e giù per la piccola stanzetta.

Si fermò un momento prima di sbuffare teatralmente e venire ad accucciarsi vicino a me. Il mio cuore aveva smesso di battere per l’ansia. Billie sapeva che mi sentivo tradita a causa della sua scopata con quella sgualdrina. Lo sapeva, glielo potevo leggere in quei grossi occhi verdi. Forse era così evidente che non ero riuscita a tenerlo nascosto neanche al diretto interessato.

Ma sapevo anche che non avrebbe proferito una sola parola a riguardo e si sarebbe rintanato in qualche stupida conversazione senza alcun rilievo.

Si girò verso di me, puntando quei suoi enormi occhi color smeraldo nei miei, quasi accecandomi per l’intensità con cui mi osservava. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse come se si fosse appena accorto che sarebbe stato stupido parlare in quel momento.

Così si sporse verso di me e appoggiò le labbra sulle mie, in modo immensamente diverso dalla volta precedente; ora la sua lingua si muoveva dolcemente segnandomi il profilo delle labbra, quasi volesse sondare ogni minima parte della mia bocca.

Ero sconcertata. Non sapevo se mettermi a piangere per il nervoso - sapevo che mi stava usando, che per lui non valevo nulla, che ero solo uno dei suoi tanti divertimenti-  o ridere di gioia, perché il mio cuore minacciava di esplodere da un momento all’altro per l’emozione.

Come potevo essere così confusa?

Come potevo non saperlo spingere via, anche in quel momento, che mi stava infilando le mani nel retro dei pantaloni con trasporto.

Lo sentivo ansimare forte, si staccava dalla mia bocca per respirare.

Sentivo un desiderio nascere in mezzo alle gambe e salire su fino al cuore, dove sembrava quasi scoppiare in un fuoco incontenibile.

Mi mise le mani sul sedere e con forza mi tirò su, portandomi a cavalcioni sopra di lui, facendomi sentire estremamente sensuale. Come potevo un uomo far scaturire in me reazioni così contrastanti?

Sentii le sue mani insinuarsi sotto la mia maglietta, toccare la mia pelle nuda facendo rabbrividire e afferrare i lembi della t-shirt, sfilandomela dalla testa.

Gli stavo davvero permettendo di fare una cosa simile? Volevo davvero essere etichettata come una delle tante ragazze che Billie-Joe Armstrong si era portato a letto?

Persi di mente quel pensiero quando mi sbottonò i pantaloni sul davanti e prese a sfilarmeli con sensualità, mentre i suoi occhi erano puntati nei miei, quasi a stipulare un patto di fedeltà.

Ma sapevo di non poter contare troppo su di lui.

Ora qualsiasi pensiero razionale mi era estraneo, poiché sostituito dall’eros che sorgeva in me come una cascata impetuosa. Probabilmente stavo ansimando poiché sentivo il respiro pesante e il fiato corto.

Lo vidi sfilarsi la maglietta sgualcita e i jeans strappati, mettendo in mostra il suo corpo perfetto. Non potevo resistere a tutto quello.

Non potevo resistere a Billie.

Mi lasciai togliere anche la biancheria intima e cercai di reprimere il disagio quando rimasi nuda davanti a quello splendido ragazzo, che aveva un’esperienza degna di un gigolò in ambito di ragazze. Se avesse pensato che ero ridicola, brutta o grassa?

Mi fissò avidamente, per poi levarsi sensualmente i boxer neri. Rimasi sdraiata sui tappeti a contemplare il fisico perfetto di Armstrong, vedendolo spoglio da ogni maschera, proprio com’era per davvero.

Avevo la sensazione che oltre ad essersi tolto i vestiti, Billie si fosse tolto anche tutti gli scudi che lo separavano da me.

Si distese sopra di me puntellandosi con le braccia, per poi fermarsi esattamente in quella posizione.

Sentivo il suo respiro sulla mia bocca e le sue labbra erano così vicine che se mi fossi sporta di poco avrei potuto baciarlo.

In quel momento l’unico desiderio che ardeva in me era quello di sentire Billie dentro di me; volevo averlo in me solo per un attimo, così avrei potuto sapere cosa si provava ad avere Armstrong tutto per sé, anche se era solo per qualche istante. Anche se non era ricambiato, non importava.

Chiusi gli occhi, perdendomi nell’estasi, mentre Billie scivolava gentilmente dentro di me.

Avrei voluto che quel momento durasse per l’eternità.

 

 

 

 

 

******

 

 

 

 

Angolo Snap:

 

Scusate per i tempi lunghi, ma ho avuto un bel po’ di imprevisti!

Chiedo venia se ho scritto un sacco di fandonie riguardanti al fatto di Billie e Amy che fanno l’amore, ma non sono brava a scrivere questo genere di cose, quindi ho cercato di fare il meglio di me, anche se so che non è proprio il massimo.

Spero mi possiate perdonare, comunque.

Direi un capitolo pieno di svolte!

Per qualsiasi chiarimento o dubbio lasciate una recensione!

 

Al prossimo capitolo,

Snap.

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** The son of rage and love ***


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# Capitolo Quattordicesimo


The son of rage and love

 

 

 

 

-Aaaaaaaaaaah!-

 

Doveva essere un sogno.

Si, probabilmente stavo proprio sognando, perché non era possibile che una persona umana riuscisse ad emettere un urlo in una tonalità così alta.

E poi chi diavolo si sarebbe messo ad urlare in quella mattinata in cui io e Billie eravamo reduci da…

Oh, Santo Ippolito.

Io e Billie eravamo reduci da una nottata di sesso.

Quello mi sconvolse ancora di più rispetto al grido strozzato che avevo appena sentito; forse stavo solo andando fuori di testa e mi stavo immaginando Billie-Joe con la testa tra le mie gambe, intento a risvegliare in me quel piacere nascosto. Eppure ero quasi certa che quelli fossero vividissimi ricordi.

Ok, ok. Calma Amy. Mente locale.

Come prima cosa dovevo cercare di capire in che situazione mi trovavo, poi il resto sarebbe venuto da sé. Non era così che i protagonisti di una commedia facevano quando si ritrovavano in quelle circostanze?

Certo, ma io non ero la bella Julia Roberts in Pretty Woman e quel malcapitato di Armstrong non assomigliava neanche lontanamente a Richard.

Aprii gli occhi cercando di prendere coscienza dello spazio che mi circondava e, soprattutto, cercando di capire da dove proveniva quell’urlo scioccato.

Mi resi conto di essere stesa sulla squallida brandina del sottoscala, con le coperte raggruppate sul mio corpo a coprirmi quasi per intera, a parte una gamba che era sfuggita alle grinfie di quel serpente di cotone.

La seconda cosa che arrivò limpida alla mia mente era il fatto che non indossavo alcun indumento: ero nuda; ma la cosa non avrebbe dovuta sconvolgermi più di tanto, in fondo avevo appena fatto l’amore con Billie.

Avevo davvero perso la mia verginità con un elemento come Billie-Joe Armstrong?
La risposta me la donò la macchiolina di sangue che si era formata sul copriletto, segno evidente che per me era stata la prima volta e che Billie aveva violato la mia intimità.

Chiusi gli occhi mentre il ricordo delle nostre gambe che si intrecciavano, i corpi che si univano in un unico punto, fondendosi come se fossero stati una sola cosa riaffiorava.

Era stato qualcosa di indescrivibile.

Probabilmente non esisteva un aggettivo umano per poter dire a parole ciò che avevo provato quella notte magica, ma di certo si avvicinava di più al soprannaturale che a quel mondo terreno.

Come potevo cercare di non ripensare a tutti gli sguardi che c’erano stati tra di noi? Le mani che si intrecciavano, la pelle contro la pelle, i suoi capelli sul mio viso, le sue labbra sul mio collo.

Le sue braccia attorno al mio bacino.

Un brivido mi percorse tutta la schiena, terminando proprio al centro del mio petto, dove stava il cuore che batteva all’impazzata, incapace di rilassarsi.

Ma un nuovo suono di voci indistinte mi convinsero una volta per tutte a riaffiorare da quello stato di semi-coscienza e  iniziare quella fatidica giornata.

Dapprima non riuscii a distinguere bene le figure che mi stavano dinanzi, ma dopo alcuni minuti i miei occhi si abituarono alla luce e misero a fuoco le immagini del mondo; mi trovavo, come pensavo, nel piccolo scantinato che era la Sala Prove dei Green Day, che sembrava esattamente uguale all’ultima volta in cui l’avevo vista.

Mi pareva che tutto il mondo fosse cambiato, quando invece ero solo io quella che era stata sottoposta al trattamento?

-Oh, Signore santissimo. È sveglia.-

Finalmente riuscii a capire a chi apparteneva la fastidiosissima voce che mi aveva svegliata dal mio sonno beato con un odioso grido; la donna che avevo dinanzi portava una vecchia gonna nera, un paio di scarpette a punta con un accenno di tacco e una camicetta a fiori blu. Il gusto nel vestire non era di certo il suo punto di forza, si poteva intuire subito.

Aveva un viso che mi ricordava stranamente qualcuno di conosciuto, e i capelli raccolti in una crocchia erano di un castano abbastanza scuro; ma ciò che più colpiva di quella signora erano i suoi occhi stanchi, che sembravano chiedere pietà ai dolori che la vita aveva loro riserbato.

Una fitta mi colpì allo stomaco, facendomi intendere che quella non sarebbe stata una bella giornata.

Da dietro un angolo spuntò finalmente Armstrong, che indossava solo un vecchio paio di jeans, mentre il torace era nudo; non mi ricordavo che si fosse alzato dal letto e infilato i pantaloni, sicuramente non l’avevo sentito.

Il primo impulso fu quello di corrergli incontro e abbracciarlo, per poi riempirlo di baci seducenti e riportarlo lentamente al letto, dove avremmo ripreso il discorso che avevamo lasciato in sospeso la notte appena trascorsa. Poi mi resi conto che non eravamo soli nella stanza, che ero coperta solo da un sottile lenzuolo in cotone– tutti avrebbero potuto vedere la mia intimità se avessi fatto un movimento sbagliato –  e che probabilmente per Billie la nostra era stata solo una delle tante notti prive di significato in compagnia di una donna.

Il mondo sembrò spiattellarmi in faccia tutta la sua realtà, con un sorrisetto canzonatorio.

Buongiorno, Amy.

Gli occhi di Armstrong incontrarono i miei, catturandomi con il loro verde smeraldo: quella mattina sembrava un po’ più opaco del solito, come il cielo quando è coperto da un sottile strato di nubi. Sicuramente c’era qualcosa che non andava, e avevo il presentimento che quell’anziana signora fosse la causa della tempesta negli occhi del mio coinquilino.

-Amy, questa è mia madre.-  Il fiato mi si mozzò in gola in un solo istante e mi ritrovai a sgranare gli occhi come unabambina piccola che ha appena sognato l’uomo nero.

Me ne stavo davvero nuda su quella dannata brandina, di fronte alla madre di Armstrong, la quale aveva sicuramente capito che io e Billie eravamo stati a letto insieme?

Ma come diavolo avevo fatto a ridurmi così tanto in basso? Tutte quelle sensazioni di libertà che avevo provato da quando avevo lasciato casa mi sembravano d’un tratto sciocche sensazioni adolescenziali, che mi avevano portata fino a quello: avevo toccato il fondo.

Non potevo continuare a vivere in quel modo, dovevo davvero fermarmi per qualche secondo e chiedermi che cosa avrei voluto fare dalla mia vita. Di certo vivere come avevo sempre fatto prima di incontrare Billie non era ciò che volevo, ormai ero consapevole di chi ero, ma non avevo neanche alcuna intenzione di trascorrere la mia esistenza in quei sobborghi, facendomi scopare da Armstrong e rendendomi una sgualdrina agli occhi di un adulto.

Quella non ero io e Billie non se n’era reso conto; mi aveva fraintesa  e non mi aveva compresa, non quella volta.

Mi portai il lenzuolo ancora più sopra ai seni, cercando di stringerlo come se fosse il mio unico appiglio alla salvezza, ed ebbi almeno la decenza di arrossire, sentendomi in completo imbarazzo.

La madre di Armstrong mi guardò con un’espressione di disgusto, che mi fece sentire ancora più insignificante e sudicia, per poi rivolgere lo sguardo a suo figlio, che sembrava aver indossato la sua tanto amata maschera di strafottenza.

-Ero rimasta al fatto che nessuna delle tue puttanelle si fermasse a dormire qui. Mi hai sempre detto che non vuoi che nessuna di loro invada il tuo territorio. Hai cambiato regole, bambino mio?-

Non riuscii a stare troppo male per l’implicito insulto che mamma Armstrong mi aveva appena riservato, perché rimasi sconvolta dal tono in cui pronuncio le parole “bambino mio”: sembrava quasi volerglielo sputare in faccia, come se odiasse il fatto che Billie fosse suo figlio.

Si sentiva l'astio che quella donna provava per la vita sregolata del mio coinquilino, concentrato in quelle due parole che avrebbero dovuto essere le più affettuose che una madre potesse rivolgere al proprio figlio. Ma mi stavo rendendo conto che tra i due correva sangue amaro e che probabilmente quella era una delle ragioni per cui Billie si era creato uno scudo di protezione da ogni affetto.

Ecco perché detestava i legami di sangue e qualsiasi cosa che avesse a che fare con loro.

Ecco dove stava uno dei tanti punti deboli che il ragazzo si ostinava a nascondere al mondo, per evitare di rimanere nuovamente ferito.

Armstrong sfoderò un sorriso divertito, che celava un’amarezza indescrivibile, ma che ormai avevo imparato a leggere nei suo grandi occhi verdi.

Tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette e se ne accese una, sputando in faccia a sua madre il fumo, come evidente segno di sfida; sembrava volerle dire “Non mi fai paura, mamma”.

-Lei- disse indicandomi, cosa che mi fece trasalire, conscia del fatto che stavo entrando a far parte della discussione –Si chiama Amy e non è una delle mie puttanelle. È la mia coinquilina.-

Sapevo che non avrei dovuto essere felice di quelle parole, perché non erano nulla di speciale, aveva solo portato a galla i fatti: ero la sua coinquilina. Non aveva di certo fatto una dichiarazione d’amore o detto che ero la sua ragazza, il suo unico amore o chissà cos’altro.

Aveva solo detto che ero la sua coinquilina. Nulla di strano.

Allora perché il mio cuore sembrava fare le capriole  per la gioia?
Stupida ragazzetta. Ecco cos’ero: una stupida ragazzetta con gli ormoni in subbuglio.

Billie sembrò d’un tratto ricordarsi che ero senza vestiti, ed ebbe la decenza di passarmi le mutande e il reggiseno, cosa che mi fece avvampare, rendendomi conto che sua madre stava assistendo a tutta la scena.

Hai fatto proprio centro, Amy. Un grande applauso per la tua furbizia, davvero.

Infilarmi la biancheria intima senza scoprirmi fu un’impresa ardua, ma alla fine ce la feci e passai allo stadio successivo: indossare t-shirt e jeans nello stesso modo. Quando ebbi finito e fui di nuovo vestita, mi sentii decisamente più a mio agio; strano l’effetto che della stoffa è in grado di fare all’animo umano.

-Da quando hai una coinquilina?- sussurrò convoce da serpe la donna.

-Da quando hai la faccia tosta di presentarti qui?- ringhiò finalmente Armstrong, abbandonando la finta calma che aveva cercato di mantenere fino a quel momento. Dio, avevo il brutto presagio che sarebbe scoppiata una grossa lite familiare.

La donna sospirò amaramente, come se si fosse resa conto fin dall’inizio che la situazione sarebbe degenerata e sarebbero arrivati a prendersi per i capelli.

Ora, il viso di Billie non aveva nulla di dolce e calmo, sembrava una maschera di cattiveria, rancore e odio.

C’erano troppe cose che io non sapevo, e sicuramente non potevo capire perché Billie e sua madre erano carichi di tutta quella rabbia, che sembrava non poter più rimanere chiusa dentro di loro.

-Perché sei venuta qui? Per deridermi? Per umiliarmi? Per farmi sentire ancora una volta misero e insignificante? Sei venuta forse per rinfacciarmi per l’ennesima volta la morte di papà? Per farmi di nuovo subire le tue lamentele o per farmi sentire in colpa per avervi abbandonati?- la sua voce era piena di ira e sembrava incline al pianto, ma sapevo che non si sarebbe mai abbandonato alle lacrime –Eh? È per questo che sei venuta? Che cazzo vuoi ancora da me?-

La donna si coprì il viso con le mani e si lasciò andare ai singhiozzi.

Billie aveva appena detto che la donna gli aveva sempre rinfacciato la morte di suo padre, non era di certo una cosa di cui la donna poteva andare fiera.

Non sapevo nulla di quella storia –non sapevo nulla di Armstrong- ma non anche se fosse stato responsabile, in parte, di ciò di cui lei lo accusava, ero certa che non era stato intenzionale; e sua madre non aveva alcun motivo per far star male suo figlio in quell’orrido modo.

C’erano parecchie cose che dovevo ancora scoprire riguardo al ragazzo ma ora, mentre lo vedevo fissare con disprezzo sua madre, mi resi conto che doveva aver sofferto come un disperato nella sua vita, e che per questo era diventato così schivo, così diffidente nei confronti dell’amore.

Ecco perché era diventato Armstrong, seppellendo il Billie che c’era in lui.

-Smettila di piangere!- sbottò il ragazzo togliendole con rabbia le mani dal volto, che le ricaddero lungo i fianchi, accompagnati da singhiozzi di paura.

-Non voglio vedere più le tue lacrime finte, piene di giochi subdoli e inganni. Lasciami stare. Esci dalla mia vita una volta per tutte. Ma non lo capisci che ti odio?-

Billie sembrava sul punto di cedere, lo vedevo dalla sua gambe che non smettevano di tremare, dalle sue labbra che non la smettevano di contorcersi in smorfie di dolore, nei suoi occhi colmi di tanto dolore quanto mai ne avevo visto a nessuno.

In quel momento mi fece così tanta tenerezza che avrei voluto stringerlo e sussurrargli che sarebbe andato tutto bene, che la vita non era così brutta come credeva; ma come potevo dire una cosa del genere ad una persona che aveva sempre e solo sofferto?

Era normale che avesse perso le speranze, che non gliene importasse più niente di condurre un’esistenza degna di quel nome, perché sapeva che gli avrebbe riservato solo dolore e tristezza.

Ora mi resi conto che Billie credeva di non essere degno di una vita felice, credeva di essere una persona sporca e sudicia, che non meritava di ridere ed essere amato.

Come potevo aver sempre e solo pensato al mio dolore, essermi sempre e solo lamentata di mio padre, della mia situazione e non rendermi conto che Armstrong viveva in una disperazione silenziosa?

Come potevo essere stata così egoista da non capire che la persona che mi stava a fianco ogni giorno era sommersa da una montagna di merda?

Mi sentii d’un tratto immensamente stupida, infantile, immatura, come una bambina capricciosa che piange per aver perso il suo pupazzo, ma non vede che ci sono altri ragazzini che di pupazzi non ne hanno mai posseduti, ma hanno solo aspirato ad averne.

-Sei solo un demonio, Billie!- urlò improvvisamente la madre, come fosse posseduta –Sei sempre stato un bambino cattivo, degenere. Sei un verme, non ti vedi? Non ti rendi conto di quanto fai schifo? Hai fatto morire tuo padre!- schiamazzò per poi cominciare a prendere a pugni il petto di Billie, come se volesse cercare di distruggerlo, di ucciderlo.

Rimasi sconvolta dall’odio che fuoriusciva dagli occhi della madre di Billie; quella donna pensava davvero che suo figlio fosse cattivo e che non meritasse di vivere.

D’un tratto mi svegliai da quello stato di coma e mi alzai dal letto, in direzione della madre di Billie, che continuava a tempestarlo di pugni, senza che il ragazzo opponesse alcuna resistenza.

Mi scagliai sulla donna e le presi le mani, per poi trascinarla lontano dal mio coinquilino, lontano dalla debolezza che il ragazzo stava facendo uscire.

Quando fu abbastanza distante da lui, la misi con le spalle alla porta e tirai fuori tutta la determinazione che era racchiusa dentro di me. Dovevo farcela per Billie.

Glielo dovevo.

-Se ne vada.- dissi con la voce ferma. –Se ne vada subito. Esca fuori dalla vita di Billie, lo lasci stare. La smetta di rimproverarlo, di riempirgli la testa con le sue folli idee. Lasci che suo figlio viva una vita serena, come si meriterebbe. Se ne vada e non torni più.-

Mi stupii di quanto fossi riuscita ad apparire forte e decisa, come se fossi del tutto consapevole di ciò che stessi facendo e conoscessi alla perfezione la storia del passato di Armstrong. Non era così, ma l’importante era che quella donna uscisse dal nostro scantinato e dalla vita del mio coinquilino, che sembrava corroso dalle parole della madre.

Gli occhi della signora si posarono sui miei e potei vedere quanto fossero inespressivi, assolutamente vuoti. Quella donna era priva di sentimenti, era semplicemente una persona schifosa e cattiva che aveva sempre e solo fatto del male a Billie e avrebbe continuato a fargliene, se qualcuno non l’avesse fermata.

Ed era ora che qualcuno le facesse capire che doveva andarsene per sempre.

-Ha capito si o no? Cosa ci fa ancora qui dentro? Se ne vada! Nessuno la vuole qui!- urlai ora, piena di rabbia nei confronti di quella persona spregevole.

Mi guardò ancora una volta, come se non capisse come una ragazzina di diciassette anni potesse sbatterla fuori di casa e allontanarla una volta per tutte da suo figlio. Avrei voluto prenderla  a schiaffi e farle subire un po’ del male che aveva sempre dovuto sopportare suo figlio, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla.

Quindi la osservai, mentre apriva con forza il portone uscendo senza guardarsi indietro due volte.

Rimasi un attimo in piedi di fronte alla porta, cercando di assimilare il fatto che quella tremenda donna se n’era davvero andata, e che ora avevo un attimo di pace per riprendermi.

Ma poi mi voltai e trovai Billie in piedi, con gli occhi sbarrati fissi nel vuoto, tipici di chi ha appena subito un trauma difficile da superare. Ma il suo era solo stato riportato a galla, quello shock c’era sempre stato e sarebbe sempre rimasto dentro di lui, come le ferite cicatrizzate.

Solo che ora era ancora aperta.

Mi misi di fronte a lui, senza che sembrasse dare segno di avermi vista o comunque, che gliene importasse qualcosa della mia presenza; così appoggiai delicatamente una mano sulla sua guancia e lo vidi sussultare, come se gli avessi appena tirato uno schiaffo.

Puntò gli occhi su di me, ma non si tolse dal contatto, anzi, posò la sua mano sopra la mia, intrecciandola.

Non dissi nulla perché non c’era nulla da dire, le nostre mani unite stavano già parlando per noi e io non avrei mai potuto eguagliare quel conforto con delle parole, quindi tacqui.

Tacqui proprio come aveva fatto Billie quando ne avevo bisogno io.

Ora era il mio turno, toccava a me stargli accanto e fargli capire che su di me poteva contare.

Non so per quanto tempo rimanemmo così, ma mi ricordo che quello fu uno dei momenti in cui io e Armstrong fummo più vicini e in cui condividemmo tutte le sue nostre sfortune, i nostri guai, i nostri dolori.

Ora, ripensandoci, posso essere sicura che quello fu uno degli istanti in cui Billie abbandonò le sua barriere e mi concesse di vedere un po’ dentro di lui, senza poi pentirsene.

Quello fu uno degli attimi in cui il silenzio parlò ed espresse tutto l’amore che si era creato tra noi due.

 

 

 

 

******

 

 

 

Angolo Snap:

 

Lo splendido banner che vedete ad inizio capitolo è stato creato appositamente per Parental Advisory: The static age, dalla grandiosa Aniasolary, che è anche una qualificatissima scrittrice. Un grazie di cuore.

Mi scuso per il ritardo del capitolo, che è davvero abbastanza, ma ho avuto dei problemi con questa parte di storia, perché non riuscivo a descriverla come avrei voluto; avevo scritto già diverse pagine su Word, ma poi una mattina mi sono alzata e mi sono resa conto che facevano schifo e, con l’ispirazione, ho cancellato tutto il lavoro per scrivere ciò che sentivo dentro.

Questo capitolo è pieno di emozioni e giuro di averlo vissuto mentre lo scrivevo, mi sono emozionata e commossa mentre toccavo i tasti del computer, perché mi sembrava di essere dentro la storia.

È stato uno dei capitoli in cui mi sono sentita più coinvolta, mi sono immedesimata nei personaggi e le mie dita pigiavano i tasti da sole. L’ho scritto in una mattina sola, tutto d’un fiato perché non riuscivo a fermarmi.

È davvero uno step importante per questo racconto, quindi spero che nel testo si riescano a leggere tutte le sensazioni che ho provato e che provano Billie ed Amy.

 

Un abbraccio,

Snap-

 

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Capitolo 16
*** Run away from the river to the street ***


Parental Advisory: The static age

 

 

Capitolo Quindicesimo

 

 
Run away from the river to the street

 

 

La folta siepe verde che mi stava dinanzi mi copriva quasi completamente, in modo da rendermi invisibile alle persone, ma allo stesso tempo lasciandomi vedere ciò che avevo di fronte.

Quella sera non c’era molto vento, solo una leggere brezza che dava una sensazione di benessere, come quando si è al mare e ci si lascia scompigliare i capelli dell’aria.

Ma il mio umore non era esattamente sereno e libero, piuttosto mi sentivo agitata e instabile, mentre con gli occhi osservavo l’edificio in mattoni dall’altro lato della strada.

Quella casa non aveva niente di diverso dalle altre del quartiere: tetto in pietre grigie, un bel giardino curato, una porta d’ingresso in legno e un colore neutro.

Ma, per me, aveva un significato affettivo.

Casa Murray.

Un’innocua villetta a schiera in uno dei quartieri più a modo di Rodeo, nel quale erano avvenute molto strani fatti, nell’ultimo periodo.

Ancora ricordavo alla perfezione quando, ormai quasi più di un mese prima, ero uscita da quell’abitazione a notte fonda dirigendomi verso Billie Joe.

Billie Joe con il quale sembravo avere una relazione quasi stabile, anche se nessuno dei due aveva mai toccato l’argomento o si era comportato come se fosse in una coppia; semplicemente vivevamo insieme, facevamo la spesa insieme, tornavamo a casa e facevamo l’amore tutta la notte.

Ormai andava avanti così dal giorno in cui la madre del ragazzo era arrivata nello scantinato e aveva scombussolato la nostra vita semi-serena. Io e Billie non stavamo insieme nel senso stretto della parola ma, in fatto, i sentimenti che si erano creati tra di noi erano più profondi rispetto a quelli di molte coppie della mia scuola.

C’era un legame strano tra noi che non ero in grado di spiegare a nessuno, tantomeno a me stessa e, inoltre, non sentivo il bisogno di dover essere certa che Billie fosse il mio ragazzo, perché andava alla grande così com’era.

Be’, quella sera ero uscita dicendogli che sarei andata a fare due passi e, invece, mi ero ritrovata proprio di fronte a quella casa e mi ero nascosta dietro a quell’odioso cespuglio.

Che cosa voleva dire tutto ciò?

La mia vita andava bene: lavoravo guadagnandomi da vivere, avevo un coinquilino bizzarro e divertente, la scuola non mi creava problemi e avevo più amici di quanti non ne avessi mai avuti.

E allora perché diavolo ero finita in quello stramaledetto quartiere?

Abbassai lo sguardo e incontrai gli occhi del mio caro Bruto che sembrava morire dalla voglia di essere slegato dal guinzaglio per mettersi alla ricerca di qualche strambo insetto. I suoi occhi luccicanti sembravano pieni di felicità, mentre mi supplicava scodinzolando in maniera esagerata.

Le luci della cucina erano accese, segno che probabilmente mia madre stava sparecchiando la tavola e mettendo a posto le stoviglie; le loro abitudini non erano di certo cambiate, nonostante la loro unica figlia fosse fuggita di casa. Non vedevo mio padre da quel drastico giorno a scuola, quando aveva cercato di riportarmi a casa con la forza, unico modo che aveva di comunicare con me.

Nonostante tutto andasse a meraviglia avevo sentito il bisogno di tornare in quella via per dare uno sguardo a quella che era stata la mia vita tranquilla prima dell’arrivo di Billie Joe.

Che cosa significavano quelle sensazioni?

Appartenenza.

Forse sentivo ancora che quella era casa mia, anche se il termine non si addiceva, anche se mio padre mi aveva mostruosamente maltratto, anche se non ero mai riuscita a far uscire il mio vero essere, anche se non ero mai stata realmente felice.

Non potevo nascondere di sentirmi triste nel pensare a tutto ciò che era successo, al fatto di aver davvero abbandonato mia madre e aver perso le mie radici.

Mi girai verso Bruto, in cerca di un aiuto che sicuramente non sarebbe arrivato.

-Ti va di andare a salutare la mamma, bello?-

Il cane prese a scodinzolare nuovamente guardandomi con aspettativa; doveva essere immensamente semplice essere un cane.

Presi un grosso respiro, dicendomi che stavo per fare la cosa giusta in fondo, che avevano il diritto di vedere come stava la loro figlia, nonostante non si fossero fatti più sentire; cercai di mentire a me stessa, inventandomi mille scuse per non ammettere che avevo il disperato bisogno di vedere i miei genitori.

Come potevo davvero voler incontrare due persone così?

Accantonai quegli inutili pensieri, uscendo dal cespuglio per attraversare la strada e ritrovarmi di fronte alla porta di Casa Murray.

Premetti dolcemente il dito sul campanello: una parte di me sperava con tutto il suo cuore che non avessero sentito il trillo, mentre l’altra metà stava agognando perché le rispondessero.

Ero in lotta con me stessa.

La porta si spalancò e vidi il volto di mia madre impallidire alla mia vista, come se avesse di fronte un fantasma, una persona che non poteva realmente essere lì.

Dannazione, come potevo far scaturire una tale reazione nella donna che mi aveva messa al mondo?

Gli occhi della Signora Murray si riempirono di lacrime, che a stento trattenne, per poi sorridermi in un modo che non le vedevo fare da… be’, da mai.

Non sembrava possibile vedere il volto severo di mia madre addolcirsi fino a quel punto, spogliandosi dalla sua tanto amata maschera di severità e compostezza.

Cos’era successo?

-A-amy…- disse in un sussurro, per poi riprendersi aprendo ancora di più la porta invitandomi ad entrare.

Sembrava una realtà parallela il dover vedere mia madre che mi faceva entrare in casa come era uso fare con gli ospiti di passaggio, che si vedevano una volta all’anno.

Un sogno davvero bizzarro.

Misi piede in casa, lasciandomi inebriare dal familiare odore di detergente alle rose, che mia mamma si ostinava a comprare da quando ero piccola; una volta avevo provato a farle acquistare un deodorante per ambienti all’arancia, ma si era opposta dicendomi che ormai la nostra casa era caratterizzata dal profumo di rosa.

Quanto era vero.

Quell’abitazione non avrebbe mai potuto avere un altro odore.

-Vieni, accomodati. Preparo una tazza di tè! Ho comprato le paste di meliga, quelle che ti piacciono tanto e…- poi si fermò, come se gli fosse venuto un triste dubbio –Cioè, sempre che tu abbia intenzione di fermarti…- mormorò a disagio.

Ero davvero arrivata al punto da mettere quell’orrido distacco tra me e mia mamma?

Mi sforzai di sfoderare un sorriso sincero, che non apparisse troppo formale e vidi il volto della donna rilassarsi, come se le avessi appena pronunciato un discorso strappalacrime.

-Certo. Il tè e i biscotti vanno benissimo, mamma.-

Vidi i suoi occhi diventare lucidi nel sentirsi chiamare con quell’appellativo tanto confidenziale e mi sentii improvvisamente in colpa per tutto quel tempo di silenzio e distacco.

Forse le mie decisioni erano state un po’ troppo drastiche, ma d’altronde cos’altro avrei potuto fare? Mio padre si era comportato come un pazzo maniaco e io non sarei potuta rimanere in una situazione del genere. Lo sapeva anche lei.

Mi fece strada fino alla cucina, dove mi fece sedere attorno al tavolo su cui stava un elegante centrotavola in pizzo e un mazzo di fiori rossi: tipico di mia madre.

I fornelli erano accuratamente lavati e nel lavandino non c’era l’ombra di un piatto sporco; mi ritrovai a fare il confronto con il vecchio scantinato in cui io e Billie alloggiavamo, perennemente stracolmo di cartoni di pizza vuoti e lattina di birra sparse sul pavimento.

Certo, non poteva essere altrimenti con Billie, pensai sorridendo tra me e me.

Mia mamma prese a trafficare per la piccola stanza, aprendo cassetti e armadi, posando sulla tavola una gran quantità di cibarie e bevande; la situazione era strana, perché ero abituata ad aiutare mia madre in quei lavori e stare seduta lì a farmi servire non mi sembrava possibile.

Ma le cose erano cambiate, era inutile ripeterselo ogni volta.

-Papà è in casa?-

A quella domanda vidi mia madre sussultare rovesciandosi l’acqua bollente addosso; subito mi alzai per aiutarla e presto ci ritrovammo in silenzio a pulire la sua camicetta bianca.

Non mi ero mai trovata in una simile situazione in compagnia di mia madre che, nonostante tutto, era sempre stata gentile con me e non mi aveva mai fatta sentire a disagio; sentii piangermi il cuore nel vedere che la donna che mi stava vicino sembrava invecchiata di almeno diversi anni, con la sua crocchia di argento, stranamente non impeccabile come il suo solito.

Come poteva essersi creato un simile varco tra il mio mondo e il suo?

 In quello stesso momento un uomo grosso e severo entrò nel mio campo visivo, oscurando tutto il resto, come se fosse un gigante di un libro fantastico che viene a prendere la bambina cattiva.

Era mio padre.

Mio padre che ora mi guardava con un’espressione indecifrabile e, come al suo solito, non sembrava avere la minima intenzione di far trasparire ciò che stava provando nel suo profondo. Il divario tra noi due era stato anche scaturito dalla sua troppa freddezza, il suo non volermi dimostrare mai il bene che mi voleva, se non con un invito a cena dai Price o un’iscrizione al College più prestigioso degli Stati Uniti.

Eppure, nonostante la mia testardaggine, qualcosa dei suoi sani principi si era conservato in me, perché avevo continuato a frequentare le lezioni di danza classica, che rimaneva indiscutibilmente la mia passione; il sogno di divenire una ballerina non era morto, ma bensì si era rafforzato, consapevole come non mai di ciò che avrei voluto fare della mia vita.

-Siediti, papà.-

La mia voce parve incerta e tremolante persino a me, ma mio padre non si scompose e eseguì il mio ordine senza replicare; per la prima volta nella sua vita non contestava un’imposizione, ma bensì la accoglieva senza troppe discussioni.

Notevole.

Tornai anch’io a prendere posto sulla sedia vicino al termosifone che mia madre aveva tanto insistito per far dipingere di rosa opaco, nonostante il dissenso di mio padre, che lo trovava troppo pacchiano.

Mia mamma smise passarsi la spugna sulla camicia e, senza dire una parola, si sedette al mio fianco, quasi fosse volesse finalmente far capire a mio padre che stava dalla mia parte.

Ma era davvero così oppure erano tutti giochi fantasiosi della mia mente?

-Come va la scuola, Amy?- domandò mio padre con un tono piatto, proprio come se fosse una normale conversazione di una normale famiglia americana; Steven era sempre stato un asso nel fingere che le cose andassero nel migliore dei modi anche quando in realtà erano un vero e proprio disastro.

Bevvi un sorso di tè dalla mia elegantissima tazzina decorata con fiori gialli. –Potrebbe andare meglio, ma non mi lamento. Sono ancora una delle migliori studentesse della scuola.- ammisi con un tono soddisfatto.

Nonostante mi fossi allontanata da quelli che erano gli ideali e le certezze di mio padre, non potevo negare il fatto che l’istruzione e la danza erano punti fondamentali per la mia vita e la mia persona; non aveva rinunciato alla cultura solo perché vivevo con un ragazzo a cui la scuola appariva come una specie di carcere corrotto dallo Stato.

Questo era ciò che Steven doveva ancora capire: sapevo scegliere ciò che era meglio per me senza farmi condizionare da chi mi stava intorno.

Guardai mio padre e mi resi conto che conoscevo l’espressione che era apparsa sul suo volto: fronte tirata, labbra serrate e denti stretti, segno che stava per dire qualcosa di realmente importante.

L’ansia prese a salirmi in corpo, quasi fossi un termometro che d’un tratto inizia a divenire rosso fino ad implodere per il troppo calore.

Sapevo che dovevo aspettarmi delle parole dure e pesanti.

Parole che, forse, mi avrebbero sconvolta.

-Speravo venissi a farci visita prima, ma sono comunque contento tu l’abbia fatto, anche se solo dopo tutto questo tempo. Avevi bisogno di tempo e noi abbiamo deciso di dartene, forse perché ci siamo resi conti che non sei più una bambina, ma una donna.-

Avevo pensato che mi avrebbe smontata con sentenze inappropriate, magari dandomi della poco di buono o della ragazza facile e iettandomi una vita triste e senza soddisfazioni. Avevo pensato che mi avrebbe cacciata fuori di casa, solo dopo essersi assicurato che non sarei più tornata e magari anche diseredandomi.

Avevo pensato tante, tantissime cose.

Ma mai mi sarei immaginata che avrebbe pronunciato le parole che disse, tutto d’un fiato.

-Perdonami, Amy.-

Il mio cuore ebbe un sussulto e dovetti smettere per un secondo di pensare per potermi rendere conto di ciò che Steven Murray aveva appena detto a me, sua figlia.

Stavo forse impazzendo? Delirando? Sognando?

Faceva tutto parte di uno strano piano subdolo per incastrarmi e costringermi a tornare a casa, sotto il suo vigile controllo; non poteva davvero aver implorato il mio perdono, quasi fosse ad una confessione in chiesa e chiedesse l’assoluzione dai peccati.

Era davvero ciò che credevo?

Cercai la voce. –Papà, io…-

Alzò la mano prima di farmi continuare, per prendere la parola e continuare il suo discorso che sembrava non avere una fine.

-Non ti chiedo di tornare a casa e fare finta che nulla di tutto ciò sia successo. Mi sono comportato come un pazzo, me ne rendo conto, ma grazia a tua madre sono andato in terapia da uno psicologo che mi ha aiutato a superare, finalmente, alcuni miei traumi infantili e ora posso dirmi un uomo nuovo. Ciò non toglie il fatto che io ti abbia ferita e che sia stato un mostro con te.-

La voce di mio padre suonava immensamente pentita e spezzata, quasi si stesse trattenendo per non scoppiare il lacrime; non avevo mai sentito, in tutta la mia vita, Steven parlare con un simile tono di voce.

Che cosa significava tutto ciò?

E poi… terapia dallo psicologo?

Superare traumi infantili?

Di che diavolo di eventi stava parlando? Perché io non ero mai venuta a conoscenza che mio padre era rimasto traumatizzato da qualcosa?

Forse era una delle tante muraglie che papà aveva alzato a me, impossibilitandomi a conoscerlo meglio, a capire chi fosse davvero l’uomo che mi aveva sempre cresciuta.

-Ho pensato molto a come risolvere questa situazione e sono giunto ad una conclusione che potrebbe rivelarsi sensata..-

Ormai non riuscivo a smettere di ascoltare ciò che aveva da dirmi, perché ero decisamente catturata da quel discorso ricco di emozioni e razionalità, cosa che mio padre tendeva spesso a perdere nelle situazioni come quella.

In fondo non mi ero dimenticata tutto ciò che mi aveva fatto passare e le scenate a cui avevo dovuto assistere, quella drastica notte in cui ero fuggita e davanti al Liceo.

Steven Murray parlò e, come sempre, ciò che disse fu allo stesso tempo tragico e saggio.

-The Juilliard School of Drama, Dance and Music.-

 

 

 

-The Juilliard School of… che?-

Billie Joe parve quasi ringhiare quella domanda, che non ero neanche sicura potesse considerarsi davvero come tale.

Il sudicio garage nel quale vivevamo, quella sera sembrava ancora più sporco e fatiscente del solito, forse anche a causa dell’atmosfera che non era delle più gioiose; ero tornata da casa dei miei genitori e avevo appena comunicato a Billie la decisione che io, mio padre e mia madre avevamo preso.

Avrei frequentato la Juilliard, la famosa e prestigiosa scuola di danza.

L’anno precedente avevo fatto i provini per tentare di essere ammessa nell’accademia e, solo qualche giorno prima della mia visita a Casa Murray, erano arrivati i risultati; ovviamente sapevo che la lettera avrebbe impiegato tutto quel tempo per arrivare, me lo aveva assicurato la segretaria della scuola, ma non avevo più pensato alla possibilità.

E invece il giudizio era stato decisamente positivo e la giuria mi aveva dato il benvenuto nell’accademia con delle fredde e vuote parole stampate a computer su un foglio bianco.

Sembrava la prospettiva perfetta per il mio futuro, nonché la soluzione ai miei problemi: non avrei dovuto vivere sotto lo stesso tetto di mio padre che, nonostante mi avesse dimostrato di avere tutte le intenzioni di cambiare, ancora non mi convinceva del tutto; avrei potuto studiare per diventare una ballerina, il sogno di tutta la mia vita e, nello stesso tempo, mi sarei potuta dedicare anche ad altre attività e avrei potuto fare nuove, interessanti conoscenza.

Sembrava davvero perfetto.

Sembrava.

Sembrava, perché c’era un particolare che non rientrava in tutti i miei gloriosi progetti per il futuro, un dettaglio che poteva sembrare insignificante ma che, per me, stava alla base di tutto.

Armstrong.

Billie Joe Armstrong non mi avrebbe seguita fino a New York solo per potermi permettere di realizzare il mio sogno e non avrebbe neanche aspettato che fossi tornata trionfante e felice; avrebbe semplicemente fatto come sempre: sarebbe andato al lavoro, avrebbe aspettato la sera per suonare con Trè e Mike, sbronzarsi e fare sesso.

La vita di Billie sarebbe continuata sulla stessa piatta linea d’onda, lo sapevo benissimo, perché non sarebbe mai cambiata.

Lui non sarebbe mai cambiato e io non potevo rimanere bloccata a Rodeo per abitare in uno scantinato e vivere alla giornata, senza pensieri e senza soddisfazioni.

Non potevo farlo, nonostante il mio cuore stesse implorando di non andarmene da lì, perché lui era nelle mani di Billie, ormai.

Lasciai che la lacrime scendessero e mi sedetti sul letto, abbracciandomi le braccia con le mani, conscia del fatto che sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrei potuto sentire lo scomodo materasso sotto il mio corpo.

Sarei dovuta partire una settimana dopo, per la preparazione che ogni matricola doveva fare prima dell’inizio della sua carriera studentesca nel collegio.

Armstrong se ne stava in piedi con le braccia aperte, il viso ancora contorto dalla rabbia e i capelli scompigliati, che probabilmente non pettinava da mesi; erano così che avrei voluto ricordarlo nella mia mente: bello, vizioso, trasgressivo, ribelle.

Il Billie che tutti conoscevano, ma che solo io avevo realmente avuto l’onore di conoscere.

Il ragazzo cambiò espressione, abbandonando quell’aria arrabbiata e acquistando un fare comprensivo, che non avrei mai pensato di poter vedere sul suo volto.

Quante altre cose avrei dovuto scoprire in quel giorno che sembrava non dover finire mai?

Si sedette sul letto proprio vicino a me e potei sentire il rumore del suo respiro, che ascoltavo ogni mattina e ogni notte, prima di addormentarmi, e conoscevo ormai meglio del mio.

Come avrei potuto sopravvivere senza il punto di riferimento che mi aveva salvata dalla mia ignoranza?

Billie mi aveva reso una persona nuova, migliore ed ora io gli stavo dicendo che me ne sarei andata, senza voltarmi due volte indietro; lo stavo abbandonando.

Sentii le sue braccia appoggiarsi sui miei fianchi, stringermi forte e farmi voltare parzialmente, solo per riuscire ad abbracciarmi; appoggiai la testa sul suo petto, lasciando che le lacrime bagnassero la sua maglietta di un qualche gruppo musicale a me ignoto.

Lo sentii accarezzarmi i capelli, proprio come fa un padre con sua figlia quando di notte lo sveglia perché ha paura dell’uomo nero che si nasconde sotto il suo letto.

Mi lasciai inebriare dall’odore di Billie, che per me era come una droga: non potevo più farne a meno, ma nello stesso tempo non potevo viverci insieme.

Catturai i suoi occhi ed essi non cercarono di scappare via, ma rimasero fissi nei miei, quasi a volermi penetrare, a volermi possedere, come faceva tutte le notti, da un po’ di tempo a questa parte.

Sentii due semplici paroline premere per uscire, erano lì, annidiate nella mia gola che scalpitavano perché io le pronunciassi.

-Ti amo, Billie.-

Forse scelsi il momento meno giusto per dire ciò che fremeva per essere detto da troppo tempo ormai; forse sbagliai decisamente a rendere vocale ciò che sentivo così profondamente.

Forse quello fu uno degli sbagli più grossi della mia vita, ma non me lo domandai troppo, non ci pensai su qualche minuto in più, perché sentivo che doveva essere così.

Doveva essere detto, perché l’amore che provavo nei confronti di quello strano ragazzo punk sembrava non avere un inizio e nemmeno una fine; era un qualcosa di inspiegabile, sentivo solamente che non avrei potuto tenermelo dentro per un solo minuto di più.

Il mio coinquilino mi guardò con occhi estremamente tristi, quasi si stesse trattenendo per non urlare o scalpitare di non andarmene, perché sapevo che Billie non mi avrebbe mai trattenuta se non era ciò che volevo fare.

Mi avrebbe lasciata andare.

Sentii la sua voce uscire in un sussurro così debole, che se non fossimo stati in completo silenzio probabilmente neanche avrei sentito ciò che mi disse.

 

̶  Idem.

 

 

 

*****

 

 

Angolo Eryca:

 

Avviso importante a tutti i lettori: Il mio Nickname è cambiato da Snap95 a Eryca.

 

Torno dopo un lungo periodo di assenza e mi sento in dovere di chiedere scusa per la troppa attesa che vi ho imposto.

Ma, come potete vedere, questo è un capitolo decisamente drastico e difficile e non potevo permettermi di scriverlo in modi diversi da come lo avevo impresso nella mia mente.

Si, Amy se ne va, miei cari; era prefissato così fin dall’inizio, sapevo già come avrei terminato la storia e, beh, devo farvi sapere che questo è l’ultimo capitolo effettivo.

Scriverò e pubblicherò un ultimo capitolo, che sarà l’Epilogo della storia, ma non aspettatevi decisioni improvvise o cambiamenti all’ultimo minuto, perché non avverranno.

Questo è ciò che accadrà.

È triste, lo so, spero non mi odierete e sono fiduciosa che voi possiate capire la mia scelta: Amy e Billie non hanno futuro insieme, nonostante tutto.

Spero abbiate apprezzato il capitolo e il suo contenuto, in fondo si sono dichiarati amore.

 

Un grosso abbraccio,

la vostra Eryca, ex Snap95-

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** I hope you had the Time of your life ***


Parental Advisory: The static age

 

Epilogo

I hope you had the Time of your life

 

 

 

Una settimana dopo presi l’aereo che mi avrebbe portata a New York.

 

Mi ricordo ancora la sensazione che mi strinse lo stomaco, impedendomi di respirare, quando feci il check-in e guardai Billie, consapevole del fatto che non avrebbe potuto seguirmi.

Non lo avrei rivisto mai più.

Non dimenticherò mai quei suoi occhi verdi, colmi di dolore, che mi fissavano da distante, le sue mani poggiate sulle transenne, quasi volessero spaccarle per potermi raggiungere; devo ammettere che per un qualche istante sperai disperatamente che saltasse le sbarre e venisse a prendermi, per riportarmi nella nostra piccola tana felice, lo scantinato dei Green Day.

Quando fui sull’aereo scoppiai in lacrime e non smisi di piangere per tutta la tratta; non posso fare a meno di farmi scappare un sorriso al ricordo dell’hostess impacciata che non sapeva come essermi d’aiuto.

Certo, non fu semplice lasciare Billie Joe e tutto ciò che lui aveva rappresentato per me: il cambio della mia vita, la presa di coscienza della mia condizione; mi aveva aperto gli occhi alla realtà, obbligandomi a prendere le redini della mia esistenza.

Grazie a lui avevo capito chi volevo diventare.

La Juillard si era rivelata fin da subito la scelta migliore per la mia vita; avevo iniziato ad impegnarmi con tutta me stessa nella danza, studiando, sudando, combattendo, tenendo a mente tutto ciò che Armstrong mi aveva insegnato.

Ricordo che dopo qualche mese che mi trovavo a New York ricevetti una chiamata: era Billie Joe; non ci sentivamo da settimane e fu traumatico per me udire la sua voce, rendendomi conto che suonava ancora immensamente familiare.

Mi disse che Celine era morta di overdose la sera precedente. L’aveva trovata lui stesso in una delle sue ronde notturne, il corpo accasciato in un bagno pubblico, la siringa ancora piantata nel braccio.

Fu un duro colpo per me e pensai anche di tornare a Rodeo per assistere ai funerali, ma Billie mi disse che non ci sarebbe stata una funzione galante, semplicemente una piccola sepoltura a cui, probabilmente, avrebbero assistito lui, Mike, Trè e Maggie.

Mi informò anche del fatto che, ora, Mike e The Strange formavano una bizzarra coppia, notizia che mi fece sorridere.

La mia vita era ormai distante da Rodeo, da Billie e i Green Day; a volte sentivo la mancanza del calore di Armstrong, delle sue battute taglienti, della sua musica fastidiosa che mi svegliava all’alba, dei suoi penetranti occhi verdi, ma poi rivolgevo l’attenzione alle mie scarpette da ballo appoggiate sul letto della mia stanza e mi rendevo conto che il mio posto era proprio dove mi trovavo in quel momento.

Quel periodo fu triste, difficoltoso e lo passai in completa solitudine, concentrata al massimo su ciò che era il mio obiettivo: diventare una ballerina.

 

 

****

 

 

 

 

Sono passati diversi anni dal giorno in cui lasciai Billie all’aeroporto di Rodeo e, a causa di ciò che mi sta davanti, mi sono ritrovata a fare un salto nel passato, rivivendo tutti quegli eventi che mi hanno cambiato la vita, rendendomi una persona nuova.

Il frastuono al di fuori del mio camerino mi irrita, mi rende impossibile concentrarmi e immergermi nella parte che ho sempre desiderato interpretare: Il Lago dei Cigni.

Sorrido, rendendomi conto che diversi anni prima, nel teatro comunale di Rodeo mi esercitavo per lo stesso spettacolo, anche se a livelli meno professionali.

Ho raggiunto il mio sogno, mi dico mentre ritocco il fondotinta sulle guance pallide.

Sono diventata la Prima Ballerina del Balletto di New York, proprio come ho sempre sognato, fin da quando ero una piccola bimba che danzava sulle note dello Schiaccianoci.

Questa sarà la mia serata, è la Prima e il teatro sarà pieno di persone, sarò davanti ad un pubblico raffinato, abituato a performance perfette.

 

“Tattoos of memories

And dead skin on trial

For what it’s worth? It was worth all the while.

It’s something unpredictable, but in the end it’s right

I hope you had the time of your life”

 

Sento quelle parole toccanti cantate da una voce che conosco bene.

Rivolgo la mia attenzione alla televisione e vedo che stanno facendo un primo piano ad un uomo decisamente basso dai capelli neri che indossa un paio di pantaloni sgualciti, tiene una chitarra in mano e ora si dimena come se fosse del tutto impazzito.

Non lo riconoscerei se non fosse per un particolare che non potrei dimenticare per nessuna ragione: due occhi verdi come lo smeraldo.

Occhi negli occhi.

La voce dello speaker che commenta il concerto suona alta in tutta la piccola stanza che è il mio spogliatoio.

̶ Adesso partono con When I Come Around, gente! Vi ricordiamo che stiamo seguendo in diretta il concerto della band di fama mondiale, i favolosi Green Day!  ̶

Sorrido, pensando che non sono stata l’unica ragazza di Rodeo che ha avuto successo, realizzando tutti i suoi sogni: anche tre squattrinati ragazzi punk di periferia si sono dimostrati degni di fama.

Rido nel vedere la folla di ragazzine innamorate e scatenate che urlano al cantante dichiarazioni di tutti i tipi, rendendosi anche un po’ ridicole.

Buona fortuna per il tuo concerto, Billie Joe Armstrong, penso, mentre esco dal camerino per salire sul mio palco in contemporanea con i Green Day.

 

 

 

Fine.

 

Angolo Eryca:

 

Spero con tutto il mio cuore che questa storia abbia lasciato dentro di voi qualcosa, vi abbia fatti emozionare e vi sia davvero piaciuta.

Io ci ho messo l’anima, realmente.

 

Voglio ringraziare tutti i miei lettori,

tutti colori che mi hanno seguito dall’inizio fino alla fine, chi ha sempre recensito, chi ha inserito la storia tra le Preferite, le Seguite o le Ricordate.

O, anche più semplicemente, chi ha solo letto.

Ma il grazie più sincero di tutti va alla mia mamma, che ha letto tutti i capitoli della storia, dal primo all’ultimo, sostenendomi anche quando ero giù di morale.

 

Grazie a tutti voi, che siete la ragione della mia scrittura,

 

Vostra,

Eryca.

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