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ORA FINALMENTE, POSSO CREDERE ANCH’IO A QUEI BEI RACCONTI SEMPRE PIENI
DI POESIA, MAGIA E FANTASIA…
ORA FINALMENTE, POSSO CREDERE ANCH’IO A QUEI BEI RACCONTI
SEMPRE PIENI DI POESIA, MAGIA E FANTASIA…
OMICIDIO ALL’ORFANOTROFIO
POV. GRACE
Lost in the darkness
Hoping for a sign
Instead there’s only
silence
Can’t you hear my screams?
Wherever you are
I won’t stop searching
Whatever it takes me to
know
Erano quasi le undici e l’ufficio era deserto. Kimball
e Wayne erano andati a casa già da un pezzo. Jane era chiuso nell’ufficio di
Lisbon con quest’ultima da ben più di un’ora. ‘Mmh quei due non me la raccontano
giusta!’ E io ero seduta alla mia scrivania, come al solito. Carte
burocratiche, messaggi da parte di federali e della scientifica, aggiornamenti
vari… non ne potevo più. La porta dell’ufficio di Lisbon si aprì e le risate
del mio capo e del nostro consulente mi riportarono alla realtà, non facendomi
sentire più sola, immersa in quell’oscurità tra le luci al neon del bullpenn.
-Van Pelt, perché non vai a casa? È tardi!-
constatò il mio capo.
-Volevo finire il nuovo programma di ricerca che ci
è stato passato dall’FBI nell’ultimo caso.- risposi in modo professionale.
-Piccola Grace, dovresti rilassarti. Non vorrai
diventare stacanovista come Lisbon!- per quella battuta Jane si beccò una
gomitata nello stomaco da parte di Lisbon.
-Taci Jane, lei almeno si rende utile!- lo sgridò la
donna.
-Anche io mi rendo utile.- fece Jane con l’aria da
bambino.
-No, tu combini casini; è diverso!-
-Sì, però concludo i casi!-
Lisbon sbuffò esasperata. Io trattenevo a stento le
risate; i litigi tra Jane e Lisbon erano sempre all’ordine del giorno. Se non
avessero litigato… beh, ci sarebbe stato di sicuro qualcosa di strano. Secondo
me il loro legame amore/odio era speciale.
Lisbon si arrese, mentre Jane rideva trionfante.
-Senti, noi andiamo! Tu vedi di non far tardi!- mi sorrise
Lisbon.
-Okay, buona serata ad entrambi.- li salutai.
-Ciao, piccola Grace!-
‘Oh, Jane quanto sei matto!’
Ma fu in quel momento che accadde qualcosa di
veramente anomalo. Mi si aprì la finestra dei messaggi. All’inizio rimasi
spiazzata, guardando lo schermo non sapendo esattamente cosa fare. Poi vidi le
parole scritte in alto ‘RED JOHN’. Il nuovo programma inserito nel pc per
trovare parole che potevano rinviare a casi irrisolti etc. aveva individuato le
uniche due parole che da tempo non si erano fatte vedere e di cui nessuno
sentiva la mancanza.
-JANE, CAPO VENITE SUBITO!- urlai.
I due entrarono di corsa nell’ufficio preoccupati.
Alzai il mio volto nel panico per incontrare quello allarmato di Lisbon.
-Grace, che succede?- mi chiese, mantenendo però un
tono professionale.
-Credo che dobbiate vedere. Mi si è aperta
automaticamente la pagina dei messaggi.- alzai il volto sui due, soffermandomi
su quello di Jane –E’ un messaggio di John il Rosso.-
Lisbon rimase a bocca aperta e si piazzò subito
dietro di me. Jane sembrava paralizzato sul posto. Con rigidità si spostò
vicino a noi per leggere il messaggio.
‘Salve
agenti,
scommetto che avete sentito tutti quanti la mia mancanza. Anche io ho
sentito la vostra. Specialmente quella del signor Jane. Salve mr. Jane, sa sono
ancora colpito dal suo ultimo tentativo di uccidermi, e l’avrebbe fatto. Oh, sì
che l’avrebbe fatto. Per mia fortuna era solo un mio collaboratore, uno dei più
fidati effettivamente, ed è solo grazie a questo se lei ora è ancora vivo e libero
signor Jane. Deve ammetterlo, se io non avessi ingaggiato un altro assassino
lei a quest’ora avrebbe ucciso un innocente e sarebbe nel braccio della morte.
O più probabilmente, sarebbe già morto. Se lo immagini, lei sdraiato su quel
lettino d’ospedale, con il camice arancione, persone che la guardano dalla
finestra a vetri, specialmente il volto pallido rigato di lacrime della sua
collega; oh sì, lo so che ci tiene è inutile che me lo nasconda. Io so tutto.
L’ago con il liquido mortale, una semplice iniezione e tutto che diventa buio.
Se lo immagina signor Jane? Oh, Patrick ho così tanta voglia di incontrarla. E
le faccio una promessa: ci vedremo molto presto. Oh, non si preoccupi per la
signorina Lisbon, non le farò del male. Il mio obiettivo, come le ripeto, è
sempre e soltanto lei. Questa è la nostra ultima partita signor Jane. O lei o
io questa volta.
A presto.
Red John’
Io e i miei colleghi ci guardammo. Eravamo tutti e
tre stupidi e preoccupati. Almeno una cosa era certa: questa era la nostra ultima
possibilità di catturare John il Rosso. Lisbon cercò di riprendere la sua
consueta calma, mentre il volto di Jane era una maschera di rabbia repressa.
L’evento avvenuto pochi mesi prima era ancora impresso nella mente di tutti. Un
uomo si era spacciato per John il Rosso e Jane era andato ad incontrarlo da
solo. Questo gli aveva fornito dettagli sulla morte della moglie e della figlia
e Jane aveva mantenuto la sua promessa, lo aveva ucciso. Era stato scarcerato
pochi giorni dopo solo grazie alla fedina penale della vittima che era in
realtà un noto assassino sparito un anno prima dalla circolazione, perché
gravemente malato. Adesso però l’incubo si stava ripetendo. John che lanciava
una sfida a Jane e, a quanto pare, l’ultima.
-Capo che cosa facciamo?- domandai.
-Niente. Informeremo i ragazzi domani mattina.-
rispose lei con tono autoritario.
-Cosa? Hai sentito quello che ha detto? Dobbiamo
mettere casa tua sotto sorveglianza e qualcuno deve sempre stare con te.-
ribattè energico il nostro consulente, visibilmente preoccupato.
-Hai visto cosa ha scritto: non mi farà del male.
Lui vuole te. È sempre stato così, lui vuole solo giocare con te.- cercò di
spiegarsi il nostro capo.
-Anche con Kristina è stato così. Ti porterà via.-
-No, invece. Kristina lo ha provocato. Ha parlato
di lui in tv come avevi fatto tu.-
-Lui sa che ci tengo a te. Se vuole davvero fare la
sua ultima mossa con me allora prenderà te di mira.-
-Non è detto.- interruppi io, che nel frattempo
avevo riletto il messaggio -Qui dice che lui sa tutto. E se si riferisse a
qualcos’altro? Qualcosa che ci sfugge?-
Mi guardarono come se fossi impazzita, eppure
sentivo di avere ragione in un qualche modo. Lisbon sospirò.
-Sentite, per stasera non succederà comunque
niente. Quindi perché non torniamo a casa? Domani mattina ci riuniremo e
parleremo dell’accaduto. Adesso siamo tutti stanchi e demoralizzati, non
possiamo fare niente. Grace, mandalo comunque alla scientifica, magari riesce a
stabilire da dove è stato mandato.- mi ordinò.
-Va bene, capo.- e così feci.
Quella sera uscimmo tutti e tre muti e silenziosi
dagli uffici, senza dirci una parola, senza salutarci. Come un messaggio può
rovinare la serata più tranquilla e normale.
POV. LISBON
I’ll find you somewhere
I’ll keep on trying
Until my dying day
I just need to know
Whatever has happened
The truth will free my soul
La sveglia sul comodino suonò incessante,
insistente. Di malavoglia allungai il braccio e la spensi. Come uno zombie mi
trascinai in bagno e mi feci una doccia fredda per svegliarmi del tutto. Il
messaggio della sera precedente mi era turbinato in testa per tutta la notte,
anche nei miei sogni era sbucato fuori. Era una strana sensazione addosso:
viscina e appiccicosa. Avevo un brutto presentimento. Con il fatto che John il
Rosso aveva detto che era la sua ultima mossa temevo che potesse tirare qualche
tranello a Jane e che lui, ancora colmo di rabbia e vendetta contro il serial
killer che aveva ucciso la sua famiglia, potesse lasciarsi trasportare troppo
da mettersi nei guai. La cosa che mi faceva pensare di più era che potesse non
volersi far aiutare da me, non questa volta, non dopo che John il Rosso aveva
chiaramente detto di sapere cosa poteva esserci tra noi e che avrebbe potuto
farmi/farci soffrire. Più velocemente di quanto mi aspettassi entrai in
macchina e sfrecciai sulle calde strade californiane diretta al mio ufficio.
Van Pelt, come prevedibile, era già al lavoro. Probabilmente ancora scossa per
ieri sera. Cho arrivò in quel momento e Wayne ero quasi sicura di averlo visto parcheggiare
mentre io prendevo l’ascensore. L’unico che mancava all’appello era proprio
Jane. ‘Non è che ha intenzione di tirarmi qualche tiro mancino proprio adesso,
vero?’
-Ragazzi, vi devo parlare.- dissi.
Tutti quanti ci radunammo al tavolo dove di solito
discutevamo dei casi. Poco prima che iniziassi entrò Jane.
-Buongiorno.- ci salutò.
Nessun sorriso, nessuna battuta fuori posto, nessun
comportamento da pazzo… questo era decisamente preoccupante. Aspettai che si
sedesse e presi un bel respiro.
-Ieri sera John il Rosso ci ha mandato una mail. A
quanto pare ha intenzione di fare la sua ultima mossa. Come prevedibile ha
provocato Jane e ha fatto capire chiaro e tondo che ci conosce molto bene. Non
ha specificato niente, ma ritengo sia opportuno tenere gli occhi aperti sui
prossimi casi. Sono stata abbastanza chiara?-
-Chiarissimo capo.- mi rispose con tono serio e
sicuro Cho.
-E per quanto riguarda la tua protezione?- domandò
Jane, ancora teso riguardo a quest’argomento. Mi mossi sulla sedia, a disagio.
-Per il momento ritengo si possa procedere come al
solito. In caso ci siano segnali che possano far pensare ad un intervento
attivo di John il Rosso ci riorganizzeremo.- risposi io, cercando di nascondere
il mio animo tormentato.
-Jane, non possiamo proteggere tutti quelli che
John il Rosso ha nominato. Sarebbe impossibile.- lo sgridai, senza essere
severa. Sapevo quanto doveva essere dura per lui, specialmente dopo aver
scoperto che l’uomo ucciso non era John.
-Jane ha ragione capo. Se John il Rosso ti prende
di mira siamo nei guai.- ecco Cho che si metteva dalla parte di Jane. Dovevo
cedere.
-Okay, il punto è che non posso chiedervi di
pattugliare casa mia a tempo indefinito.-
-Perché non vieni a stare da me? È piccolo, ma
almeno saremo in due.- propose Grace. Oh, piccola Grace. ‘Fortuna che esisti
anche tu.’ Sospirai.
-Okay, andrò a stare a casa di Grace. Ma per il
momento concentriamoci sui prossimi casi.-
Fu allora che sentii qualcuno chiamarmi.
-Agente Lisbon.- la Hightower. Tempismo
perfetto. –Avete un caso.-
-Dove capo?- domandai io balzando in piedi.
La nostra nuova direttrice sapeva come farsi
ubbidire, questo era sicuro.
-Al Rosemary Children’s Services, 3244 East Green
Street, Los Angeles.- rispose questa prima di tornare sui suoi passi.
-Un orfanotrofio. Che può c’entrare un orfanotrofio
con John il Rosso?- domandò Rigsby.
-Non ne ho la più pallida idea.- risposi, sincera.
-Perché non andiamo a scoprirlo?- propose il nostro
consulente, mostrandosi un suo sorriso raggiante. Ma io sapevo che in realtà
era solo una copertura. Mentalmente gli sorrisi e lo seguii insieme agli altri.
L’orfanotrofio era una lunga struttura a due piani
in pietra massiccia marrone scuro, il tetto spiovente invece era di un verde
scuro alquanto tetro; l’unica cosa viva in quel posto erano le finestre bianche
e il giardino circostante di un bel verde brillante. L’interno era enorme,
riempito con mobili di legno antichi, divani in pelle e immensi tappeti. Ma
tutto aveva quell’aspetto lugubre che ci si aspetta entrando in posti come
quello. La felicità sembrava essere scappata da un bel po’ di tempo da quel
posto. Mandai Cho ad informarsi sull’accaduto, Van Pelt dalla scientifica e
Rigsby ad indagare sulla scena del crimine; io e Jane andammo a vedere il corpo.
Era una ragazza, probabilmente sui quindici/sedici anni, indossava un paio di
pantaloni di pelle nera, una camicetta bianca e azzurra e delle scarpe rosse.
Supina sul pavimento, il braccio destro leggermente all’infuori, gli occhi
socchiusi lasciavano intravedere le iridi verde smeraldo. I capelli riordinati
erano di un colore blu scuro sopra e violetto scuro verso le punte. Jane iniziò
a girare attorno alla ragazza. In quel momento a distrarmi dai miei pensieri
arrivò Cho.
-La vittima è Sharon Smith, sedici anni. Era qui da
quattordici anni, i genitori sono morti in un incidente anni fa. A quanto pare
non aveva nemici.- freddo e pacato come sempre. Annuii.
-Oh, io invece ritengo che se anche non aveva
nemici questa ragazza non andasse molto a genio agli altri.- ribattè Jane, in
ginocchio di fianco alla vittima.
-Da cosa lo deduci?- gli chiesi in tono non molto
convinto.
-Guardala. Seppur orfana era vestita in modo molto
elegante, questo vuol dire che i suoi genitori dovevano essere molto ricchi.
Sappiamo che in questi posti, le persone molto ricche sanno avere una certa
influenza. Quindi: i suoi genitori sono morti, lei è venuta a stare qui,
l’orfanotrofio ha messo le mani sulla sua fortuna e molto probabilmente questo
ha fatto sì che lei venisse trattata in modo speciale, magari condonandole
alcune cose, sì insomma… cose per cuigli altri sarebbero stati puniti se le avessero fatte. Questo fa di lei
una delle ragazze più ammirate e più seguite, ma anche una delle più odiate se
non si approva il suo stile di vita.-
-Quindi ritieni che l’assassino sia qualcuno che ce
l’avesse con lei perché se la tirava?- domandai io scettica.
-Esattamente. Probabilmente una ragazza, anche se
non possiamo escludere che sia stato un ragazzo. Magari rifiutato dalla stessa
vittima.- rispose.
-Va bene. Per il momento seguiamo la procedura. Van
Pelt, scoperto come è stata uccisa?-
-Un colpo alla nuca e un colpo diritto alla
schiena. Secondo la scientifica il killer le ha rimesso i capelli a posto dopo
averla uccisa.- rispose la rossa.
-Meticoloso. Ma perché?- sentii bisbigliare tra sé
e sé il mio consulente.
Aspettai che gli altri se ne andassero per
fronteggiarlo.
-Jane, adesso piantala! Non voglio nessun ma.- lo
sgridai prima che potesse aprir bocca –Non siamo certi che sia opera di John,
qui il suo marchio non c’è! Perciò smettila di farti paranoie, è un caso come
un altro. Sono stata abbastanza chiara?-
-Agli ordini mon capitan!-
Quanta voglia di tirargli un pugno sul naso.
POV. JANE
Never stop hoping
Need to know where you are
But one thing’s for sure
You’re always in my heart
Mentre tornavamo a casa quella sensazione che avevo
dalla mattina non si era dissolta. Era come se in torno al mio cuore mi si
fosse rappresa una spessa crosta di ghiaccio, ed il mio carattere probabilmente
era altrettanto freddo. Potevo vederlo da come gli altri mi parlavano stando
attenti, al fatto che mi lasciassero più spazio del solito… anche Lisbon non si
era presa gioco delle mie teorie come suo solito. ‘Ah, Lisbon Lisbon, come
potrei mai fare io senza di te?’ Per tutta la durata del viaggio non parlai.
Non una parola uscì dalla mia bocca per il resto della giornata. Quella lettera
mi ronzava intesta come il motivetto che mi aveva recitato Red John un anno
prima ‘Tigre tigre…’. Ripresi possesso di me quella sera a cena insieme agli
altri, in fin dei conti non avevamo ancora festeggiato la chiusura del caso
precedente. Grace e Wayne stavano ballando, Lisbon stava parlando con qualcuno
vicino al bancone e io e Cho eravamo gli unici rimasti al tavolo.
-Ehi Jane, tutto bene?- chiese freddo. Sorrisi al
pensiero di non essere l’unico glaciale lì dentro.
-Sì, tutto bene. Lisbon ha ragione, questo caso non
c’entra niente con Red John, mi sono lasciato trascinare. Come sempre…-
Il coreano mi guardava impassibile, eppure riuscivo
a sentire la sua pena per me trasparire dai suoi occhi e scivolarmi addosso.
-Eccomi!- annunciò la voce cristallina del mio
capo.
La guardai. Conscio di guardarla in modo diverso.
Era stupenda. Anche lei doveva aver notato qualcosa di diverso, perché lo
sguardo e il sorriso che mi rivolse erano più sinceri del solito; era la Lisbon che da anni avevo
cercato di tirar fuori da quel guscio del suo ufficio per trascinarla con me.
-Jane, tutto bene?- mi chiese anche lei.
Sorrisi divertito per il deja vu appena rivissuto.
-Ti va di ballare?- le domandai io di rimando.
Mi alzai in piedi e le porsi la mano. Per una volta
sostituii il mio sorriso da sbruffone in uno più sincero, più autentico. Per un
attimo rimase a guardarmi, stupida dalla richiesta e dalla mai mancata
risposta. Ma quando mi riguardò fu come se una fiammella avesse preso ad ardere
al centro del mio cuore.
-D’accordo Jane.- rispose, quasi fosse una sfida.
E i suoi occhi lo lasciavano intendere chiaramente.
Le sorrisi furbo e, mano nella mano, la condussi sulla pista da ballo. Feci
passare il mio braccio sinistro sulla sua vita, mentre con la mano destra
stringevo delicatamente la sua. Mi posò la mano libera sul braccio, finchè ci
ritrovammo non so esattamente come, talmente vicini da toccarci. La mia dama si
sciolse a quel ritmo lento e si lasciò cullare dal nostro movimento leggero. Le
permisi di appoggiare la testa contro la mia spalla e io potei sentire il
battere leggero e cadenzato del suo cuore sereno e tranquillo. Una pace
improvvisa mi colse, avrei potuto essere in paradiso. Quando la musica terminò
e lei sollevò la testa, fu come se si fosse portata via un pezzo di me; e ne
ero felice.
-Non sei male a ballare.- mi disse sorridendo.
-Ti ringrazio.- la gurdai in quei pozzi verdi, che
adoravo tanto –Rimani per il prossimo?- il suo sguardo sembrava incantato, ma
non ne ero certo.
-Okay.- la sua voce bassa mi fece scorrere un
brivido lungo la schiena. Dovevo stare attento a controllarmi.
-Jane, sei sicuro di voler seguire questo caso?- mi
sentii chiedere di punto in bianco.
-Sì, perché?- feci io.
-Beh, quel posto così tetro. Quei ragazzi avranno
circa l’età che dovrebbe avere tua figlia… sai, non vorrei che stessi male.
Tutto qua.- il suo sguardo preoccupato mi fece sorridere.
-Ti ringrazio Lisbon. Grazie che ti preoccupi
sempre per me. Non è un problema, sta tranquilla. Non mi lascerò condizionare.-
Poi fu il mio turno.
-E tu? Non vorresti avere un figlio?- le domandai a
bruciapelo.
Lei mi guardò allibita e scioccata.
-Non lo so. Non c’ho mai pensato.- fece infine,
riappoggiando la testa contro di me.
-Bugiarda.- le dissi sornione.
-E va bene. C’ho pensato, ma sai prima d’avere un
figlio bisognerebbe avere un uomo ed io non ho tempo per permettermene uno.-
rispose iniziando ad alterarsi.
-Se è quello il problema non credo sia poi così
difficile risolverlo. Ce ne sono di uomini che cadrebbero ai tuoi piedi, ti
basterebbe solo lasciarti un po’ più andare.- feci io tranquillo. Lei mi guardò
sempre più meravigliata.
-E tu che ne sai?-
-Io so tutto.-
-Ma sta zitto!-
-Non posso stare zitto. Tu adori quando ti
provoco.- arrossì violentemente, mi stavo divertendo da morire.
-Piantala Jane. Oppure ti… -
-Non puoi spararmi, non hai la pistola qui con te.
L’hai lasciata al tavolo.- la interruppi io.
-Posso sempre darti un pugno.- concluse lei.
-Ma perché vuoi darmi un pugno? È la verità!-
-Jane, stai oltrepassando il limite.- mi avvisò.
Era già più rossa del suo vestito. Una tentazione a
cui non potevo resistere. Mi avvicinai di più al suo viso, cercò di
indietreggiare ma le mie mani sulla sua vita non glielo permisero.
-E se dovessi oltrepassarlo Lisbon? Cosa faresti?-
La mia voce bassa e suadente, non avevano niente di
scherzoso. Non stavo scherzando. E lei lo sapeva. I suoi occhi si velarono
improvvisamente. Sapevo quello che stava pensando, quello che stava provando…
ma doveva decidere lei. D’impulso mi gettò le braccia al collo, stringendosi
spasmodicamente a me. Io ricambiai quell’abbraccio improvviso e di cui sentivo
d’aver bisogno. Era da tempo che nessuno mi abbracciava così. Inspirai il
profumo del suo shampoo alla fragola.
-Te lo prometto Patrick: io non smetterò di
sperare, ho bisogno di sapere dove sei.-
La strinsi ancora di più.
-Teresa, adesso come adesso sono talmente preso che
non riuscirei a darti quello che cerchi, non sarei l’uomo con cui vorresti
passare il resto delle tue giornate; ma di una cosa sono sicuro: tu sei sempre
nel mio cuore.-
La stretta che mi diede era una conferma, aveva
capito. Avevamo bisogno l’uno dell’altra ma adesso era impossibile. Con John
che minacciava me e lei di morte non potevamo rischiare, non potevo permettere
che mi portasse via l’unica cosa che mi era rimasta. Chi se ne importava se gli
altri ci avevano visti. Eravamo solo noi.
Cuorioso come quella sera fosse iniziata in modo
talmente statico, per poi finire in mezzo al fuoco, in un turbinio di fiamme e
scintille.
E
un’altra giornata inizia, segno che il tempo non si ferma mai. Eppure la serata
di ieri sera, così breve, era sembrata un’eternità. Io e Lisbon camminavamo
verso la sala interrogatori. Era passata da poco l’ora
di pranzo e noi stavamo tornando dopo una sosta per mangiare un panino. Era
tutto il giorno che interrogavamo gli inservienti dell’orfanotrofio. Mancavano
la direttrice e alcune ragazze, poi il lavoro pesante era finito: almeno per
me. Entrammo nella stanza e ci sedemmo uno in parte all’altra. La donna,
un’anziana signora alla Rottermeier del cartone Haidi, stava seduta dall’altra
parte con uno sguardo triste e spaventato. Non riuscivo a capire se era più
preoccupata per la ragazza deceduta o per il fatto di non disporre più
dell’enorme ricchezza del patrimonio di famiglia della
piccola.
-Signora
Jones, che può dirci di Sharon?- domandò il mio capo.
-Sharon
era una ragazza adorabile e per bene. Non si comportava mai male ed i suoi voti erano eccellenti.- rispose questa, mantenendo
il suo fare da direttrice.
‘Antipatica!’
-E
con gli altri ragazzi?- chiese ancora Lisbon.
-Era
una ragazza dolcissima. Aveva un sacco di amiche e andava d’accordo con tutti.-
-Questo
non è vero.- la interruppi io. Non mi piaceva quando le persone si
autoconvincevano di cose evidentemente non vere.
-Prego?-
fece questa, alquanto sorpresa dalla mia brusca
interruzione.
-Sharon
non andava d’accordo con tutti. Le ragazze che le andavano dietro erano amiche
che le andavano a genio. Se le sceglieva, dico bene? E
il fatto che fosse di buona famiglia ha influito sicuramente sui suoi voti e
sul comportamento del personale nei confronti della ragazza, è così?-
La
donna aprì e chiuse la bocca svariate volte prima di rispondere.
-Come
si permette? Noi siamo brave persone.- alzò la voce.
-Non
ne dubito. Non è da tutti prendersi cura di bambini che non sono propri e
crescerli. Ma lo ammetta, quei soldi le facevano
comodo… -
-Jane!-
mi richiamò Lisbon.
La
donna sembrava scandalizzata da tutto quello che avevo detto, eppure non negò
niente.
-Lo
neghi signora. Neghi quello che ho detto e le chiederò scusa.- dissi.
La
donna mi guardò negli occhi per un lungo momento, ma alla fine sospirò.
-E’
vero, i soldi dei genitori di Sharon ci facevano comodo. Come dice lei, non è
facile mandare avanti un orfanotrofio, specialmente se si tratta di molti
ragazzi di caratteri e categorie sociali diverse. Sharon era brillante, sul
serio. Sì, è vero era un po’ arrogante, ma certe volte aveva
davvero delle idee originali. A parte qualche parola di troppo non ci sono mai
stati particolari litigi infervorati, o qualcuno che si facesse male.-
-Signora,
perché non ce lo ha detto subito?- chiese la mia
collega.
-Ammettere
di essere in difficoltà, non è facile agente Lisbon. Abbiamo bisogno di soldi e
all’interno c’è gente che fa le differenze e chi non può permettersi di farle.-
-Non
è una bella situazione.- concordai.
Io
e Lisbon ci guardammo, quella donna non era sicuramente un’assassina. La
rilasciammo pressochè subito. Ci mancavano ancora alcuni ragazzi e poi avevamo
finito. ‘Finalmente!’
2
ORE DOPO
Quasi
mi venne un colpo quando lessi l’ultimo nome della lista: Charlotte.
Ero
tentato di chiedere a Lisbon di saltare quell’interrogatorio, lei avrebbe
capito. Ma non aveva senso. Perché saltare
quell’interrogatorio? È vero, mia figlia si chiamava Charlotte, ma era morta
anni fa. Mi sarei lasciato condizionare dal suo nome per tutta la vita? Non
potevo farlo, dovevo affrontare questa cosa. Per questo entrai nella stanza con
un cuor da leone.
Ma due secondi dopo avevo un cuore d’agnello.
La
ragazza che ci stava seduta davanti aveva sì e no
sedici anni, l’età che avrebbe avuto adesso la mia bambina.
Aveva
lunghi capelli biondi boccolosi portati sulle spalle, come quelli della mia
bambina.
Due
occhi di un azzurro intenso, come quelli che aveva preso da me la mia bambina.
Lo
sguardo dolce, curioso e indagatore allo stesso tempo, che aveva la mia
bambina. Una voglia di urlare mi esplose nel petto. Non parlai. Non dissi
niente. Entrai nella stanza e mi misi a sedere dopo aver lanciato una fugace occhiate a quella figurina magra seduta di fronte
a noi. Sul volto nessun sorriso, nessun segno baldanzoso,
nessuna falsa espressione; solo una perfetta maschera seria, irremovibile.
Il cuore mi batteva furioso contro lo sterno.
Indossava
dei jeans blu a tre quarti, un maglione lungo a
maniche corte marrone scuro e un foulard intorno al collo con varie tonalità di
rosso e rosa. Ci guardava nascondendo abilmente la sua agitazione.
-Qui
c’è scritto che ti chiami Charlotte.- fece Lisbon tranquillamente.
Da
quando avevamo iniziato ad interrogare i ragazzi
cercava sempre di non usare il tono severo e autoritario che usava con i
detenuti o i sospettati.
La
ragazza annuì.
-Quanti
anni hai?-
-Sedici.-
-Ci
puoi dire il tuo cognome?-
La
ragazza si morse il labbro inferiore. Lo stomaco mi si arricciò. Ma perché?
-Non
lo so. Io, non so chi siano i miei genitori.-
Vidi
Lisbon fermarsi a bocca aperta, il respiro bloccato a metà. Non se lo
aspettava. Io mi trattenevo per pura forza di volontà su quella sedia. Ma perché doveva essere tutto così difficile? Era solo una
ragazzina…
-Mi
dispiace.- disse la mia collega. ‘Quanto era dolce quando faceva così…’
-Non
fa niente. Non poteva saperlo.- fece la ragazza in tono tranquillo.
I
suoi occhi erano sinceri e il sorriso d’incoraggiamento che fece alla mia
collega era un chiaro invito a non preoccuparsi e ad andare avanti. Anche
Lisbon, con mia sorpresa, sorrise. La ragazza per una frazione di secondo mi
guardò, intensamente, per poi distogliere lo sguardo.
-Da
quanto tempo sei all’orfanotrofio?-
-Da
sempre.- rispose lei alzando le spalle, quasi fosse ovvio.
-E
da quanto conoscevi Sharon?-
-Sharon
la conoscevo da quando era arrivata all’orfanotrofio due anni dopo di me.-
-Eravate
amiche?-
-Non
proprio. Abbiamo collaborato alcune volte per delle ricerche studio, ma non è
che ci frenquentassimo.-
-A
te non piaceva, vero?- intervenni io con mia grande sorpresa.
Lei
mi guardò. Per un attimo sembrò spiazzata, indecisa se rispondermi o meno.
-No,
non mi piaceva.-
-Perché?-
chiese Lisbon, non capendo.
-Lei
si dava arie e non le piaceva, è così?- risposi io per lei.
-No,
non è affatto così. È vero si dava
delle arie, ma non era quello il punto. Con la scusa che era una ragazza
ricca aveva logicamente alcuni privilegi, tutti noi lo
sapevamo che era così. Si comprava molte volte l’amicizia della gente. Il punto
era che mentiva, era una persona falsa. Lei era la reginetta a
cui tutti dovevano voler bene. Lei poteva fare e dire quello che voleva
quando voleva. E a me non andava a genio. Aveva
tentato più volte di avvicinarsi a me, ma ho rifiutato sempre il suo invito.
Non mi piacciono le persone che giocano con i sentimenti degli altri.-
-Così
l’ha uccisa?- intervenni duro.
Sbarrò
gli occhi, presa di sorpresa. Andò in panico.
-Cosa?
No! Assolutamente! Io non sono un’assassina!-
-Dov’era
l’altra sera?-
-In
camera mia.-
-Era
sola?-
-Certamente.
C’è il coprifuoco alle nove.- mi rispose seria.
Il
suo volto ritraeva un’espressione dura e determinata, i suoi occhi erano
sinceri. Non era stata lei a uccidere Sharon.
-Quindi
non può provare di non essere stata lei?- concluse
Lisbon.
Mi
sentii morire. ‘No, Lisbon ti prego. Non farmi questo.’ Chiusi gli occhi
traendo un respiro profondo. Lo sguardo della ragazza si dilatò dalla paura.
-Cosa?
Pensate che sia stata io? Non sono stata io!-
-Charlotte,
purtroppo non possiamo toglierti dalla lista dei sospettati. Non hai un alibi,
ma hai un movente.- cercò di spiegare Lisbon con tatto.
-Il movente che ha lei ce l’hanno un sacco di
ragazzi lì dentro. Non è stata lei.- proferii perentorio. Lisbon mi guardò allibita,
non si aspettava di certo un mio intervento così pacato
e deciso. Mentre la ragazza mi guardava senza capire; ed effettivamente non
potevo darle torto. Come si può giudicare una persona che ti accusa di omicidio
per poi difenderti del contrario pochi secondi dopo?
Alla
fine la lasciammo andare dicendole di rimanere reperibile. Beh, era ovvio; dove
mai poteva andare se era orfana e confinata in un orfanotrofio?
-Jane,
tu adesso mi spieghi… -
Ma
prima che potesse dirmi altro me ne andai dal CBI, non
potevo stare lì dentro un minuto di più. Sentii lo sguardo di Lisbon sulla
schiena, seguirmi fino all’ascensore, dalle finestre del CBI che davano sul
parcheggio, finchè la mia auto non scomparve dalla vista del distretto… ‘Perdonami Lisbon.’
Il
mattino dopo ero tornato quello di sempre: allegro e
spensierato.
Aprii
la porta dell’ufficio di Lisbon per salutarla come facevo sempre, quando mi
abbassai all’improvviso per schivare un fermacarte che mi stava letteralmente
per colpire in testa. L’espressione rabbiosa e corrucciata del mio capo mi fece
capire che non era contenta che ieri le avessi interrotto l’interrogatorio, me ne
fossi andato a metà frase e non mi fossi fatto sentire per il resto della
giornata. Avevo in memoria ancora tutti i messaggi e le chiamate che in quelle
ore mi aveva mandato. E a cui io disgraziatamente non
avevo risposto. Sembrava decisamente arrabbiata e
questa volta dubitavo mi avrebbe perdonato tanto facilmente…
-Jane,
sei uno stronzo, idiota, egoista, irresponsabile e… -
-Lisbon,
ma ti vuoi calmare?- domandai con la voce stridula. Mi stava trapanando i
timpani. Mi fulminò con lo sguardo. Mi guardò ironicamente scettica.
-Calmarmi?
Calmarmi? Vuoi che mi calmi? Perché non te ne torni da dove sei venuto? Qui non
c’è bisogno di te!- era decisamente arrabbiata.
-Oh,
andiamo Lisbon. Non ti arrabbiare.-
-Arrabbiarmi?
E chi si arrabbia. Non ho alcuna intenzione quest’oggi
di sprecare fiato per uno come te, che a metà lavoro se ne va e non si fa più
sentire.-
Mi
oltrepassò, diretta in cucina. La guardai stralunato.
-Tu
sei arrabbiata perché non mi sono fatto sentire?- le chiesi.
Si
versò una tazza di caffè.
-Non
tentare di cambiare discorso signorino.- mi redarguì.
-Eri
così tanto preoccupata per me?- continuai
imperterrito.
-Io?
E chi si preoccupa! Tranquillo Jane, non mi impiccerò
nella tua vita privata… -
-Lo
sai cosa intendo.-
Continuai
a seguirla.
-Signori,
mi dispiace interrompere la vostra discussione: ma vi devo parlare; ora.- la Hightower
era sbucata fuori dal nulla.
Dal
suo sguardo deducemmo che non avevamo fatto bella impressione, e che non aveva
delle buone notizie da darci.
Quando
la porta si richiuse alle nostre spalle, io e Lisbon ci portammo di fronte alla
sua scrivania. Benchè lei fosse seduta e noi in piedi, il suo sguardo poteva
benissimo dirsi ‘dall’alto in basso’.
-Ho
il risultato delle analisi effettuate dalla scientifica sulla scena del
crimine. Ci sono due tipi di DNA diversi.- iniziò a spiegare.
-Quello
della vittima e quello dell’assassino.- concluse
Lisbon.
Hightower
annuì.
-Sembra
che l’assassino sia una delle ragazze dell’orfanotrofio. Charlotte.-
Mi
sentii come se mi avessero appena sparato: cadere nel vuoto. Vidi Lisbon
guardarmi per una frazione di secondo, preoccupata per la mia reazione. A
quanto pare dovevo essere tornato di ghiaccio.
-Signora,
posso chiederle perché ci ha fatto venire qui? Non
sarà soltanto per dirci che abbiamo l’assassino?- chiese Lisbon.
-Il punto è un altro Lisbon. Abbiamo cercato nel
database per vedere se aveva altri precedenti. E il DNA effettivamente
combacia, ma non nella scheda degli ex detenuti.- ci guardò –Nella scheda degli
agenti del CBI.-
-Cosa?
Il suo DNA combacia con qualcuno che lavora qui?- Lisbon era letteralmente
fuori. Io rimanevo impassibile ad ascoltare, incuriosito. Possibile che mi
fossi sbagliato su quella ragazza?
Il
nostro direttore annuì, prima di puntare i suoi occhi su di me.
-Ha
il tuo stesso DNA Jane.-
Da
troppo tempo non ami
E
girando la chiave ti chiudi
Nei
tuoi sordi silenzi ti assenti
Con il
vuoto negli occhi
Tu non
vuoi far vedere se piangi… se ridi
E così
ti difendi con scudi
Dagli
attacchi violenti degli altri
Non la
vedi l’uscita
Ma c’è una luce laggiù
POV. LISBON
-Ha
il tuo stesso DNA Jane.-
Mi
sentii lo stomaco rovesciarsi. Avvertii un freddo glaciale di fianco a me. Mi
girai lentamente: scioccata, allibita, spaventata,
preoccupata, terrorizzata… a guardare il volto del mio consulente. Non si era
mosso. Fermo come una statua. Il suo volto privo di espressione. Solo i suoi
occhi mi sembravano lucidi. Quanto avrei voluto poter suddividere quel dolore
con lui. Dovevo riprendere le staffe, doveva pur
esserci una spiegazione logica, un qualche errore….
-Ma
signore, questo vuol dire che… -
-Che
è la figlia di Jane, sì.- confermò Hightower.
-Ma
è impossibile. Jane non ha avuto altre relazioni oltre a quella con la moglie.-
-Abbiamo
controllato Lisbon, quello è il DNA di Charlotte. Non ci sono dubbi.-
-Ma
la bambina trovata a casa insieme ad Angela allora?-
insistetti.
-Era
una sosia.-
-Cosa?-
era la prima volta che Jane parlava, mi sorprese molto, e ne fui sollevata.
Almeno non aveva avuto una ricaduta della serie ‘non parlo più’.
-Il test del DNA eseguito sull’autopsia dice che
è tua figlia. Dopo quello che abbiamo scoperto abbiamo
avuto un dubbio. Abbiamo fatto riesaminare il DNA: non è quello di Charlotte.
Probabilmente un collaboratore di John il Rosso ha scambiato le due boccette di
sangue quando abbiamo fatto il test.-
-Un infiltrato.- conclusi.
C’era
un infiltrato nel CBI. Quello stesso uomo che aveva scambiato le fiale delle
due bambine e aveva rapito per tutto questo tempo la figlia di Jane. Era
assurdo e orribile allo stesso tempo. Non potevo crederci. Non capivo come Jane
riuscisse a restare ancora in piedi. Io se fossi stata al posto suo sarei
crollata.
-Ma
perché l’ha rapita? E poi perché ha permesso che la ritrovassimo proprio
adesso? Non ha alcun senso.- non capivo.
-Invece
sì. È tutto collegato Lisbon: il messaggio,
l’omicidio, il DNA… tutto combacia. È questa la sua ultima mossa. L’ultima
mossa per farmi soffrire.-
-Ha
aspettato tutto questo tempo per uccidere la tua famiglia una seconda volta.-
decretò il nostro direttore.
M
Jane negò vigorosamente.
-Quella ragazza non è mia figlia!-
Lo
disse diretto, eppure avvertivo una nota di amarezza. Quel suo abbassamento di
voce, quella rochezza intensa e profonda. Lo sapevo che non era vero, che
sentiva qualcosa. Lo vidi uscire a grandi falcate dalla stanza, sconvolto.
Dovevo andare da lui, dovevo convincerlo.
-Signore,
posso provare a convincerlo?-
-Devi
farlo Lisbon. Non credo veramente che sia stata Charlotte a uccidere Sharon
Smith. E se è come dice Jane, John il Rosso non tarderà a farsi vivo. E
sappiamo entrambe che Jane non permetterà mai a John di fare del male a
un’altra ragazza, specialmente se è davvero sua figlia.-
Lo
sguardo dell’Hightower fu lo slancio finale di cui avevo bisogno. Mi voltai e
andai alla ricerca di Jane.
POV.
CHARLOTTE
Tu per
lei
Avresti
dato tutto ma
No non
si può
Affidarsi
a un altro totalmente no
Allora
fingi di star bene solo
Fino a
quando un giorno poi
Ti
accorgi che
Le
note che uscivano dal piano erano favolose, rilassanti. Mi stupiva ogni volta
come quella leggera pressione di tasti, in un’esatta sequenza di note potesse dar vita ad una fantastica melodia come questa. Le mie dita
volavano su quella tastiera, impercettibili, con movimenti lievi ed aggraziati. Il piano, la musica: questo era tutto quello
che mi era rimasto del mio passato. Della mia famiglia. La musica entrava dentro di me, superando tutte le barriere e i muri che avevo
innalzato contro il mondo esterno. L’unica cosa che avesse libero accesso alla
mia mente. Riusciva sempre a calmare il mio animo tormentato, ad acquietare i
miei pensieri a volte così tormentati, e al contempo mi aiutava ad esternare le mie emozioni. E la cosa piacevole era, che
non solo riuscivo ad esternare quello che provavo, ma
nessuno capiva, nessuno riusciva a concepire la musica come la vedevo io qui
dentro. In questo modo la mia privacy non era violata in alcun modo. Erano le
due del pomeriggio, tutti i ragazzi erano nelle loro camere a parlare o a
studiare. Io mi esercitavo come mio solito, dopo quello
che era successo la mia ansia era cresciuta a dismisura. Come se la morte non
mi avesse tormentata abbastanza nella mia infanzia. In
quel momento la mia salvezza era la sonata op. 28 di
Beethoven “la Pastorale”.
Un pezzo molto bello e molto complicato allo stesso tempo. A mio parere un
pezzo, più era complicato e più aveva fascino. Il fascino della sfida. Come una
persona che è affascinata dal pericolo. Oramai conoscevo la tastiera a memoria,
me la figuravo bianca, con i riflessi del sole sotto le palpebre chiuse.
Suonare a occhi chiusi favoriva la concentrazione e il distacco da tutto quello
che mi circondava. Potevo anche perdermi nei miei pensieri alcune volte, che
non sbagliavo in ogni caso; talmente conoscevo bene quei pezzi e quei tasti. La
musica mi attraversava dolce e leggera la mente, come un velo di seta,
facendomi vibrare le corde del cuore quando passava tra esse; una potenza e una
classe davvero invidiabile. Nessuno era più in grado al
giorno d’oggi di dimostrare quella bellezza a gesti o a parole. ‘Che
peccato!’
-Charlotte!-
sebbene la stanza a pareti di vetro fosse abbastanza isolata per non disturbare
le persone al di fuori, il mio orecchio sensibile sentì subito la voce della
direttrice chiamarmi dall’altra parte. La donna, sempre con il suo fare
apprensivo, ma anche autoritario, entrò nella stanza. Dalla sua espressione e
dal sorriso concitato sul suo volto dedussi che ci
fossero splendide notizie. Forse avevano trovato l’assassino di Sharon, così
adesso potevamo stare tutti più tranquilli. Oppure qualcuno era stato adottato,
possibile che fossi io? Boh.
-Signorina
Jones.- la salutai.
Il
rispetto nella mia voce bastava perché la donna non mi dicesse di alzarmi. Questa mi si avvicinò quel tanto che bastava per appoggiare
le sue mani sulle mie spalle. Aveva gli occhi lucidi di felicità, quasi si
volesse mettere a piangere.
-Charlotte,
ho una grandissima notizia per te.- riuscì a dire in
un soffio.
-Hanno
trovato l’assassino di Sharon?- domandai, speranzosa.
-Abbiamo
scoperto che tuo padre è ancora vivo!- la voce le si smorzò
in gola.
A
me per poco non venne un infarto. Il mio cuore mancò un battito. Una fitta
lancinante. Poi prese a battere furiosamente, gli occhi iniziarono a
pizzicarmi. Il punto era che non sapevo se essere felice perché non ero più
sola o se essere arrabbiata perché in tutti quegli anni ero stata chiusa lì
dentro, senza che provassero a cercarmi. Ma forse mi
avevano cercato. Una confusione pazzesca mi colse, una serie di domande senza
risposta, tutte incerte… mi venne mal di testa.
-Mio
padre? Ma, come è possibile…?- questo era tutto quello
che mi venne in mente da chiedere, dopo tutto quel casino nella mia mente. La
donna si soffiò il naso, commossa.
-Non
hanno voluto spiegarmi i dettagli al telefono, ma mi hanno detto che hanno
trovato un riscontro del tuo DNA nel database del distretto del
CBI.-
Possibile
che fosse più felice lei di me?
-Posso
almeno sapere chi è?- chiesi, un po’ di curiosità in fondo l’avevo.
-Il signor Jane, il consulente della squadra
investigativa che si occupa del caso di Sharon.-
Non
era possibile. Un incubo. Perché mi assillava tanto? Eppure adesso c’era un
senso. Potevo dare senso a quella strana sensazione di
averlo già conosciuto in passato. Ma era così strano,
così… impossibile.
-E’
stato fissato un incontro per voi lunedì, alle tre e mezzo.-
Sollevai
gli occhi sullo sguardo eccitato della direttrice. Sì, era più emozionata lei
di me. Io al contrario ero tesa come una corda di
violino. Solo il pensiero di reincontrarlo, e che lui fosse mio padre, mi
faceva venire la pelle d’oca. Ma che potevo fare se
non dire di sì, e poi forse era il momento di avere un po’ di risposte.
-Va
bene!- risposi a bassa voce.
La
donna se ne andò gongolante, tutta contenta come se fosse arrivata prima ad un concorso di bellezza.
Da
troppo tempo non ami
E
girando la chiave ti chiudi
Nei
tuoi sordi silenzi ti assenti
Con il
vuoto negli occhi
E non
si può capire se sei triste o felice
Forse
da troppo tempo si dice che per tutti è più dura la vita
Lo
cercai ovunque: in cucina, nel mio ufficio, nel bullpenn… pensai persino che
potesse essere andato al cimitero dove erano state sepolte
sua moglie e sua figlia (o almeno quella che pensavano fosse sua
figlia). Ma Tommy, la guardia che controllava chi entrava ed
usciva dal CBI, disse di non averlo visto. Poi un’idea mi illuminò:
la soffitta.
Lo
trovai là, seduto sul bordo dello scheletro di quello che una volta era stato
un letto, rivolto verso la finestra, intento a guardare qualcosa al di là di quei vetri sporchi. Probabilmente al di là di tutto. Aveva un volto così triste ed abbattuto, che non avevo cuore di disturbarlo. Mi faceva
venire da piangere; odiavo vederlo star male e non poter far niente per
aiutarlo. Mi fermai sullo stipite della porta senza far rumore, ad osservarlo. ‘Dio Jane, cosa devo fare con te?’
-Essere
te stessa, Lisbon.-
Non
capii. Poi si voltò verso di me sorridendo. Un sorriso tirato, divertito per
aver letto ignobilmente i miei pensieri sapendo bene che non volevo lo facesse.
Eppure in quel momento non riuscivo ad essere
arrabbiata con lui. sorrisi anche io.
-Ti
dà fastidio se rimango?- gli chiesi entrando nella stanza.
-No,
entra..-
Mi
sedetti sul letto in parte a lui. Il suo volto tornò alla finestra. Per alcuni
istanti rimasi anche io a fissarla, ma chi volevo
ingannare? Al di là di quel vetro vedevo soltanto il
pensiero di sua figlia che mi assillava, probabilmente meno di quello che
tormentava lui, però quella rivelazione mi aveva davvero colpita. L’unica cosa a cui volevo dedicarmi in quel momento era lui. Jane.
-Senti
Jane… -
-No,
Lisbon. Non cambierò idea.- mi bloccò lui, la voce
impastata, il volto basso.
-A
cosa ti riferisci, scusa?-
-Non
cambierò idea su mia figlia. Charlotte è morta. Ero là. L’ho vista. Era lei,
non una sosia.- la sua voce iniziava ad incrinarsi e le
corde del mio cuore vibrarono d’amarezza.
-Jane,
non ti dirò che so come ti senti o che ti capisco. Perché io non so cosa voglia
dire perdere un figlio, e posso solo lontanamente immaginare quanto tu ti senta male. Ma, e se fosse
vero? E se fosse Charlotte? In fin dei conti sappiamo entrambi quanto due sosia
possano essere uguali e che nel dipartimento c’era un infiltrato lo abbiamo
ormai scoperto da tempo. Potrebbe davvero aver
scambiato lui le boccette del DNA.- sapevo che lo
stavo distruggento. Stavo infilando il coltello nella piaga. Faceva respiri
lenti e profondi.
-Lisbon,
John mi ha fatto credere d’aver ucciso tutta la mia famiglia. Venire a sapere
dopo otto anni che tua figli è ancora viva, che è
stato tutto un imbroglio… mi sento come se l’avessi abbandonata. Come se non
avessi fatto mai abbastanza. Io non riesco… non posso credere che sia lei
Lisbon, mi dispiace. E poi come può averla sostituita? Angela se ne sarebbe
accorta.- cercava una spiegazione logica. Si stava appigliando a tutto ciò che
poteva per rimanere aggrappato al passato. Abbassai la testa, c’era una cosa
che non gli avevo mai detto, ma che forse era arrivato il momento di tirar
fuori….
-Jane,
c’è una cosa che devo dirti.-
Quando
lui mi guardò, io evitai il suo sguardo. Non ce l’avrei
fatta altrimenti.
-Secondo
alcune analisi e dati, beh… sembrerebbe che Angela avesse una relazione.- lo
guardai.
Sentivo
i miei occhi inumidirsi, mentre i suoi diventavano sempre più lucidi, il
respiro spezzato frettoloso, la sua era una vera e propria maschera di dolore.
-Mi
dispiace.-
Distolsi
lo sguardo. Lo sentivo tremare. Piccoli singhiozzi trattenuti a stento. Dovevo
andarmene altrimenti sapevo che avrei fatto qualcosa di assolutamente non
professionale.
-Teresa…
- fu la sua voce strozzata a fermarmi.
Quando
mi voltai vidi il suo volto rigato di lacrime. Tre
lacrime gli avevano solcato le guance, lente e irrefrenabili.
-E
se io decidessi di ignorare questa storia?-
-Sarei
dalla tua parte. Come sempre.-
Ed
era vero, non avrei approvato ma sarei stata comunque al suo fianco; a
difenderlo.
-Ma
ti chiedo di pensare ad un cosa: probabilmente anche
lei per tutti questi anni ha desiderato conoscere suo padre ed è rimasta sola.
La domanda Jane è: tu che cosa vuoi fare?-
Lo
guardai negli occhi, sembrava incerto ma io sapevo che aveva già deciso cosa
fare. Che doveva solo convincersi. Sospirò. Annuì a sé
stesso.
-Voglio
incontrarla.-
Gli
sorrisi e mi avvicinai. Mi accucciai quel tanto per
essere alla sua altezza. Gli misi una mano sulla spalla.
-Stai
facendo la cosa giusta.-
-Lo
spero bene.- ridacchiò.
Risi
anche io. E nello stesso istante in cui ci scambiammo
i nostri sguardi languidi, gli diedi un bacio a fior di labbra. Leggero, ma che
racchiudeva tutto.
-Certo
che se in futuro tutte le volte che c’è un caso tu vieni
e mi baci così rallenteremo il ritmo di risoluzione dei casi di un sacco.-
Mi
disse lui dopo, ridendo per avermi tirato in giro.
‘Che
stronzo!’
POV. JANE
Feste,
balli, fantasia
È il
ricordo di sempre
Ed un canto vola via
Quando
viene dicembre
Mi
ricordo quel giorno al luna park, il sabato prima della mia ultima trasmissione
in tv. Eravamo andati tutti e tre al parco giochi. C’eravamo
comprati un gelato gigante e lo zucchero filato. Giochi, persone, musica,
colori, luci, corandioli… si confondevano in un mondo di fantasia e
divertimento. La risata divertita e composta di mia moglie si mescolava a
quella cristallina e allegra di Charlotte. I riccioli biondi
e vaporosi di entrambe, i volti sorridenti e luminosi. Anche io sorridevo ed ero felice. Per una volta non ero io
l’attore, il clown… ero quello che sta dall’altra parte. Quello che vive
veramente. E io stavo vivendo. Ricordo che ad un certo punto la mia bambina strinse la mia giacca e
iniziò a tirare verso il basso per avere la mia attenzione.
-Papà!
Papà! Mi compri quell’orsacchiotto?- mi chiese.
E
come negarglielo? Dopotutto l’avevo portata per un buon motivo al luna park.
Quello che voleva era un orsacchiotto di peluches marrone, di medie dimensioni.
Per averlo dovevo fare uno di quei giochi a tiro a segno. Fu come un segno del
destino che alla pen’ultima pallina feci centro. Diedi
quell’orsacchiotto alla mia bambina e lei saltava di gioia. Mi girava
continuamente attorno, emozionata, senza sapere più dove guardare da tante cose
che voleva fare e vedere. Mia moglie mi prese a braccetto e noi guardammo il
nostro tesoro correre avanti e indietro, sorridendoci come non mai. Quanto
amavo la mia famiglia.
Sembra
come un attimo
Dei
cavalli s’impennano
Torna
quella melodia
Che il
tempo portò via…
Erano
da cinque minuti passate le tre e mezza. Ero venuto da
solo, malgrado all’inizio avessi voluto chiedere a
Lisbon di accompagnarmi. Ma, effettivamente, era una
cosa che dovevo fare da solo. Adesso ero in piedi in mezzo al vialetto che
attraversava il parco e la osservavo. Mi stava aspettando seduta su una
panchina, mentre osservava qualcosa davanti a lei che sinceramente a me non
importava. Mi importava solo di lei. Indossava dei
lunghi pantaloni grigi e un maglioncino a collo alto e maniche
lunghe blu scuro, e un basco blu notte le copriva l’occhio destro. I
capelli biondi le coprivano parte del viso. Il mio cuore prese a battere a
mille. Con un ultimo respiro mi avvicinai. Uno zainetto sostava contro una
gamba della panchina. S’intravedeva un’orecchia marrone all’interno. Mi sentì
arrivare e si voltò verso di me. I suoi occhioni azzurri mi risucchiarono in un
vortice di pensieri, ricordi e emozioni.
-Ciao,
io sono Patrick.- la salutai.
Il
mio tono di voce era piuttosto tranquillo e rilassato, come se niente fosse. Ma dentro ero agitato come non mai. Lei non mi rispose, si
limitava a fissarmi.
-Posso?-
le chiesi indicando la panchina in parte a lei.
Malgrado
ci fosse spazio alla sua destra lasciai che si
spostasse per farmi spazio alla sua sinistra. Per poi tornare a fissarmi. Voltò
lo sguardo verso l’oceano che si vedeva in lontananza.
-Perché
adesso?-
Dritta
al punto: come i suoi genitori. Sorrisi.
-Non
perdi tempo, eh?-
-Otto
anni mi sembrano più che sufficienti.-
Diretta,
ma non per questo scortese. Dalla sua voce traspariva il bisogno di sapere la verità, di non sentire più menzogne.
-Hai
ragione.-
-Non
ha risposto alla mia domanda.-
Mi
fece notare. Sorrisi di nuovo. Annuii: era ora.
-A
dire il vero è stata una sopresa anche per me.-
Mi
voltai a guardarla negli occhi, erano identici ai miei. Come guardarsi allo
specchio. Per un attimo sembraò smarrirsi in quel gioco di sguardi. Corrucciò
le sopracciglia in una muta domanda. Presi fiato.
-Prima
posso farti una domanda? Cosa ti hanno detto all’orfanotrofio?-
Abbassò
lo sguardo sulle sue mani, continuava a rigirarsele, a lisciarsi i pantaloni;
era a disagio, comprensibile.
-Mi
hanno detto che sono arrivata nel cuore della notte. Che un uomo, probabilmente
mio padre, mi lasciò da loro. Almeno io ho sempre pensato fosse lui. Secondo
loro era semplicemente uno che mi aveva trovata e
portata là.-
C’aveva pensato. Aveva pensato alla sua famiglia. A noi.
-Solo
un pazzo lascerebbe il proprio figlio ad un
orfanotrofio.- proclamai.
Mi
guardò allibita e confusa allo stesso tempo. Temeva stesse pensando la cosa
sbagliata, ma io sapevo che non era così. Semplicemente aveva bisogno di
sentirselo dire. –No, non ti ho lasciato io all’orfanotrofio. Non l’avrei mai
fatto.-
-Allora
perché ci sono finita?-
Ruotò
il busto nella mia direzione. Le emozioni racchiuse dentro di lei si
manifestavano in un turbinio nelle sue iridi cerulee.
-Pensavo
fossi morta. Sono tornato a casa una sera e tu e tua
madre eravate morte. Ho scoperto pochi giorni fa che il nostro DNA combaciava:
sei mia figlia. Confesso che è stato un colpo. Era impossibile. Per otto anni
ti ho creduta morta. Fino adesso.- faticavo a tenere a
bada le emozioni che stavano per esplodermi dentro.
-Ma
allora chi era quella bambina?-
-Si
chiamava Emily Williams, era una tua sosia. Non era
mai stata trovata.-
-Fino
ad ora.-
Sembrava
sconvolta. E come non esserlo? Lo ero anche io in fin
dei conti.
-Ma
se non sei stato tu, allora chi mi ha portato al Rosemary?-
Quelle
belle e dolci emozioni vennero improvvisamente
offuscate da una rabbia intensa. Probabilmente anche lei notò il mio
rabbuiamento improvviso.
-L’assassino
di tua madre. John il Rosso. È da quando ho fatto un grosso sbaglio che lui mi perseguita, si diverte a giocare con me. Come ha fatto in
questo caso. È stato lui a far sì che ti ritrovassi.-
-Perché?-
La
sua voce tremava, probabilmente di paura.
-Non
ne sono sicuro. Ma non gli permetterò più di far del
male. Specialmente adesso che ti ho trovata. Ti ha portata via da me una volta, non lo rifarà una seconda.-
La mia era più una promessa a me stesso che a lei.
POV.
CHARLOTTE
Sembra
come un attimo
Dei
cavalli s’impennano
Sento
quella melodia,
nella
memoria mia…
Non
ero sicura di quello che avrei provato, fatto, detto quando l’avrei rivisto. Ma
adesso che ce l’avevo davanti non riuscivo a staccare
gli occhi da lui, dai miei stessi occhi. Non mi perdevo una sua sola parola,
una sua sola espressione… come se volessi memorizzare
tutto di lui. Una marea di emozioni mi si agitava dentro e faticavo a
trattenerle. Come avrei voluto che adesso che mi aveva
trovato non mi lasciasse più. Il suo racconto di come ci
eravamo separate mi aveva terrorizzato: qualcuno aveva cercato di
ucciderci. Aveva ucciso mia mamma e mi aveva nascosta
a mio padre. John il Rosso, così si chiamava. Un mostro. Eppure io lo sapevo,
lo sapevo dal primo momento che aveva messo piede al
Rosemary, da quando lo avevo guardato la prima volta… che tra noi c’era
qualcosa, una sintonia. Io lo avevo già conosciuto. E avevo ragione. Avrei
avuto tanta voglia di toccarlo, ma non ne avevo il coraggio. Ad
un certo punto sorrise, un bel sorriso bello. Grande. Felice.
Quasi,
quasi potevo sentirmi felice anche io.
-Ho
visto un orecchio sbucare fuori dal tuo zaino. È per caso quello di un
orsacchiotto?- era tornato allegro subito.
Arrossii
subito, abbassai lo sguardo in completo imbarazzo.
-Già.
Lo so che sono un po’ cresciuta per i peluches, ma… ecco… -
-Volevi
sapere se me lo ricordavo, giusto?-
‘Ma come aveva fatto?’ lo guardai a bocca aperta. Lui sorrise
di nuovo, solare.
-Come
ho fatto? Ti ho semplicemente guardata in faccia. È
questo che faccio al CBI, guardo le persone e in base ai loro comportamenti
cerco di trovare indizi e così l’assassino. Sì, certo che me lo ricordo. Te
l’ho comprato la settimana prima che ci separassero. Eravamo andati al luna
park e tu volevi a tutti i costi quel peluches. Così te l’ho comprato. Quel
giorno eri felicissima…. Lo eravamo tutti.-
Sembrava
perso, in un posto lontano. Anche io ero persa… ma in
modo diverso.
-Mi
piacerebbe ricordarmelo.-
Dissi
amareggiata. Ed era così: non mi ricordavo niente,
solo sensazioni.
Forse
un giorno tornerò
Il mio
cuore lo sente …
Ed allora capirò
Il
ricordo di sempre…
A
riscuotermi fu la presa salda e calda delle sue mani sulle mei spalle.
-Charlotte,
ascoltami. Andrà tutto bene, te lo prometto.-
Sembrava
così sincero, ma certe cose lo sanno tutti: non si possono promettere. Ad ogni
modo, sentivo che potevo fidarmi di lui.
-Ti
va un gelato?-
Mi
chiese ad un certo punto.
-Okay!-
Il
suo sorriso era contagioso. Ci alzammo insieme e fianco a
fianco mi guidò verso la sua auto. Esitai un
attimo, poi, dopo un suo fugace sguardo tra lo scherzoso e il diverti, salii.
Irresistibile. Guidava velocissimo e in modo impeccabile.
-Ma
tu non guidi mai a piano?-
Gli
chiesi a bruciapelo, mentre l’aria che entrava dal finestrino mi scompigliava i
capelli. Lui mi sorrise, anzi sembrava che il sorriso non lo perdesse mai.
-No.-
-E
se ti fermano?-
-Beh,
se vuoi ripartire dovrai pur fermarti da qualche
parte, giusto?-
Ci
guardammo e ci mettemmo a ridere.
La
gelateria era vicino al molo, una di quelle ambulanti
con il carrettino bianco.
-Due
coni con cioccolato e liquirizia.-
Lo
guardai stupida.
-Ma
come facevi a sapere che avrei scelto quelli.-
-Sono
sempre stati i tuoi preferiti. E ho dedotto che in otto anni le probabilità che
i tuoi gusti di gelato siano cambiati sono inferiori al 18%.-
Lo
guardai e sorrisi.
-Non
te l’ha mai detto nessuno che sei strano?-
-Ne
ho perso il conto.-
Mentre
mangiavamo camminavamo lungo la banchina. Il rumore
delle onde era semplicemente fantastico, rilassante quasi quanto la mia musica.
-Ti
piace suonare il piano?-
Il
suo sguardo sembrò rattristarsi per un singolo secondo, per poi tornare a
sorridere. Chissà se sorrideva ai ricordi o alla mia domanda presente?
-Sì,
mi piace. Anche se devo ammettere che è da anni che non ne tocco più uno.-
-Se
vuoi un giorno possiamo suonare insieme.-
Mi
guardò e mi venne il presentimento che magari non voleva.
-Sempre
se ti fa piacere.-
Lui
sorrise e mi mise la mano sulla testa come si fa con i bambini piccoli.
-Certo
che mi fa piacere, sciocchina! Che vai a pensare!-
Ci
fu una pausa di silenzio, prima che parlassimo di nuovo.
-Sai,
anche a tua madre piaceva suonare. Adoravo stare ad ascoltarvi.-
-Allora
non vedo l’ora di ascoltare te.-
Lui
sorrise, forse questa volta anche io ero riuscita a
metterlo in imbarazzo. Poi, un dubbio.
-Patrick.-
-Sì?-
-Dopo
la nostra morte per così dire. Ti sei mai… ecco, non hai mai… -
-Se
sono sposato o ho una relazione con un’altra donna? No. Dopo voi
due non c’è stato più nessuno. Non ho mai voluto che potesse ricapitare una
cosa del genere. E poi il mio cuore è ancora pazzamente innamorato di voi.-
-Ma
ci sarebbe qualcuna che se non fosse per noi adesso frequenteresti?-
-Forse.
Perché? Ti dispiace?-
-Scusa,
non sono affari miei.-
Mi
sentivo una stupida impicciona ficcanaso. Ma lui mi
prese di nuovo per le spalle.
-Ehi,
hai tutto il diritto di chiedere.-
-E’
che. Ero semplicemente curiosa. È bella?-
Ovviamente
mi riferivo a quella a cui aveva pensato prima. Si
vedeva che qualcosa per la mente gli era passato. Lui sorrise.
-Oh,
sì. Lo sai mantenere un segreto?-
Annuii.
-E’
l’agente Lisbon.-
Risi.
Mai avrei pensato ad una coppia come loro. Eppure
pensando al nostro interrogatorio, quei due così diversi erano una coppia
perfetta.
-Che
hai da ridere?-
-Niente,
solo… vi ci vedo.-
-Sul
serio?-
Non
sembrava convinto.
-Certo.
Certo, che c’è? Non ti fidi di tua figlia?- lo presi in giro.
Ci
mettemmo a ridere e a spingerci spalla contro spalla.
Giocando. Che strano effetto faceva. Ma l’ora di
andare a casa si avvicinava.
Ed un canto volta via …
La
facciata dell’orfanotrofio compare davanti a noi troppo presto. Che strano!
Dopo quella giornata non avevo nessuna voglia di tornare in quel posto. Cercai
di sprofondare ancora di più nei sedili di quella
macchina. L’avrei più rivisto?
-Che
cosa hai intenzione di fare?- gli chiesi a bruciapelo, senza guardarlo.
Lo
sentii fare un respiro profondo. Certo, avere un figlio di sedici anni
dall’oggi al domani non capita di certo tutti i giorni!
-Tu
che dici?-
Lo
guardai senza capire. Il suo sguardo era giocherellone e sereno. Non riuscivo a
decifrarlo.
-Sei
bravo come Mentalista.- gli dissi di rimando io. Lui sorrise.
-Grazie.
Lo so.-
Parcheggiò
nel cortile di fronte all’entrata. Scendemmo entrambi dall’auto, la luce
d’entrata si accese. Probabilmente la signora Jones ci stava aspettando. Aprì
il battente di legno e rimase sulla soglia. Era ora dei saluti.
-Signor
Jane, mi auguro sia andato tutto bene.- disse questa ossequiosa.
-Assolutamente,
la ringrazio.- rispose lui cordiale.
Mi
girai verso di lui, illuminato solo dai lampioni era esattamente il papà che
tutti avrebbero voluto; un po’ come il principe azzurro. Quello sguardo dolce
ed enigmatico allo stesso tempo, il sorriso sulle labbra, i capelli biondi
sbarazzini… era decisamente curioso. Chi sa se gli
assomigliavo.
-Credo
sia ora di salutarci.- dissi, rompendo per prima quel silenzio assordante.
-Già.-
fu la sua semplice risposta, sospirata.
Presi
coraggio e lo guardai dritto negli occhi, seriamente.
-Ti
rivedrò?-
Mi restitìuì lo sguardo, quasi valutando l’autenticità di
quella domanda. O del mio pensiero? Mi si avvicinò
quel tanto che bastava per bisbigliarmi nell’orecchio.
-Te
lo prometto.-
Quando
tornò a guardarmi seppi che non mentiva. I suoi occhi erano sinceri. Forse,
dopotutto, qualcosa in comune ce l’avevamo.
-Allora,
grazie per la giornata.-
Dissi
iniziando ad incamminarmi verso la struttura
nell’oscurità.
-Figurati.
Mi sono divertito anche io.-
Quanto
mi piaceva quel sorriso. Quanta voglia avevo già di rivederlo. Fece per
voltarsi. Quando mi venne in mente una cosa….
-Patrick!-
Lui
si fermò, voltandosi di scatto verso di me.
-Buonanotte.-
Solo
questo. L’avevo fermato per dirgli ‘Buonanotte’, forse mi ero ammattita
veramente. Lui sorrise, mi aveva capita. Sapeva come
mi sentivo? E lui come si sentiva? Sì, lo ammetto. Adesso che lo avevo trovato
avevo paura di perderlo.
-Buonanotte
Charlotte.-
Quando
viene dicembre.
Un
sorriso, lieve, un’ultima volta. Poi il rombo della macchina. Raggiunsi il
portone e la signora Jone mi circondò le spalle con le braccia. Il portone si
richiuse e la macchina partì nella notte, sparendo dalla
vista del Rosemary. Andai in camera e presi il libro di racconti di
‘Poe’ che avevo iniziato il giorno prima. Ma l’unica
cosa che c’era nella mia mente erano le immagini di quella fantastica giornata.
POV. GRACE
Era
da poco passato mezzogiorno, quando vidi Charlotte entrare nel bullpenn.
All’inizio la guardai sorpresa, senza sapere cosa dire; alla fine sorrisi.
-Ciao,
Charlotte.- la salutai.
Lei
mi sorrise, non del tutto certa di quello che stava facendo.
-Salve,
tu sei Grace giusto?-
Non
sapevo come sapeva il mio nome, ma annuii.
-Patrick
mi ha parlato di voi ieri pomeriggio.- si spiegò.
‘Era
così palese la mia espressione?’
-Jane
è di là con Lisbon adesso, se vuoi aspettarlo qui… -
-Non
ho fretta.-
Si
sedette all’unica scrivania vuota, quella davanti a quella di Cho. I miei due
colleghi erano a mangiare… mentre io me ne stavo in ufficio a lavorare; ‘stacanovista’. Solo che in quel momento non stavo
lavorando. Non so come, ma mi ero persa a guardare la figlia di Jane e non
potei fare a meno di notare: che era uguale identica al padre. Vestita
completamente di nero e con quello sguardo così assorto, poteva benissimo
spacciarsi per una segretaria.
-Assomigli
molto a Jane, lo sai?-
Parlai
prima che potessi impedirmelo. La vidi guardarmi stupita, per poi sorridere
imbarazzata e abbassare la testa, in modo che le onde dei capelli le coprissero
le guance arrossate.
-Grazie.-
disse semplicemente.
Dopo
circa mezz’ora ecco rientrare i duri della squadra. Cho davanti e Rigsby
dietro. Io come ovvio mi fermai a guardare Wayne, mentre il coreano notò la
ragazza.
-Tu
devi essere la figlia di Jane?- le chiese. Deciso e serio come sempre.
-Sì.-
Rispose
lei, incerta sul da farsi. Lui le porse la mano.
-Ciao,
io sono Kimball.-
Lei
gliela strinse.
-Piacere
di conoscerti.-
Ecco
fatto, esaurite le parole della giornata. Mi venne da sorridere. Con tempismo
perfetto Jane e Lisbon uscirono da quello stramaledetto ufficio. Sempre
parlando animatamente, ovvio. A quanto pare il nostro affascinante consulente
aveva di nuovo punzecchiato il capo.
-Jane,
sei un bambino.- gli disse, protesa verso di lui,
quasi ad accentuare la frase.
-Oh,
andiamo! Lo sai che ho ragione.- fece lui, finto spazientito.
-Jane,
vedi di stare buono altrimenti giuro che mi vendicherò.-
-Sarei
quasi tentato… -
-Jane…!
–
-Hem
hem, abbiamo visite!- alzai un po’ la voce io, per sovrastare la loro
discussione. I due smisero all’istante, guardando prima me
e poi perlustrando con lo sguardo la stanza in cerca dell’ospite. Quando lo
trovarono Jane divenne più raggiante del sole che
c’era fuori dalla finestra e Lisbon rimase a bocca aperta, quasi avesse visto
la grotta di gioielli di Alì Babà e i quaranta ladroni.
-Ehi,
hai ricevuto il mio messaggio!- esclamò il biondo. –Spero che la signora
Rottermeier non ti abbia fatto problemi.-
-No,
affatto!- sorrise Charlotte.
-Ma
voi due siete due gocce d’acqua!-
Ci
voltammo tutti verso Rigsby. Aveva gli occhi sbarrati dalla meraviglia e la
bocca letteralmente spalancata; piuttosto buffa come scena. Guardava stralunato
padre e figlia e non si poteva nemmeno dargli torto: la somiglianza era
impressionante. I due Jane si guardarono con l’angolo dell’occhio e sorrisero
da mascalzoni.
-Charlotte,
come mai sei qui? C’è qualcosa che non va?-
Domandò
Lisbon, distogliendo lo sguardo di tutti dal pesce lesso ancora a bocca aperta.
Sembrava sinceramente preoccupata e il suo sguardo era più dolce del solito.
-No,
tutto bene. Patrick mi ha mandato un messaggio dicendomi di venire qui.-
Spiegò
lei placida. Lisbon guardò Jane con un punto di domanda in viso.
-Siccome
non potevo assentarmi un altro giorno del CBI, ho chiesto a Charlotte di venire
lei da me. Così possiamo passare un po’ di tempo insieme e conoscerci meglio.-
spiegò Jane, come se fosse la cosa più logica del mondo.
Trattenni
a stento una risata. Lisbon guardò gentilmente Charlotte.
-Puoi
scusarci un momento?-
Poi
come una tigre infuriata, artigliò con una mano il
braccio di Jane, trascinandolo più lontano…
-Tu
vieni con me, subito.-
…ringhiò
tra i denti, mentre si spostavano nel cucinino.
La
ragazza guardava il punto dove erano spariti con
sguardo critico, traendo le sue conlusioni.
-Fa
sempre così con lei?- irruppe ad un certo punto.
-Sempre.
Tutti i giorni.-
‘Oh,
miracolo! Il coreano aveva aumentato il numero di parole giornaliere!’
-Come
sospettavo.-
Si
rimise a sedere, aspettando pazientemente.
Quando
i due tornarono parevano più tranquilli. I due Jane si
misero a parlare del più e del meno, talvolta ridendo e scherzando altre volte
semplicemente parlando. Io ero tornata al lavoro, pultroppo non ero un semplice
consulente mentalista come Jane. Tutto procedette liscio finchè…
2
ORE DOPO
…Jane
era di nuovo nell’ufficio di Lisbon, questa volta a parlare del caso e
Charlotte era seduta al tavolo a leggere un libro che aveva trovato nella
scrivania di Jane: solo lei sa come riuscì ad aprirla. ‘Tale padre tale
figlia’. Tutti noi invece avevamo ripreso a lavorare costantemente, senza
interruzioni. Il caso sembrava un vicolo cieco. A dare la svolta alla giornata
ci pensarono dei nostri colleghi della lontana Virginia.
In cinque entrarono a passo spedito nella stanza. Tutti noi sollevammo lo
sguardo incuriositi dal loro comportamento freddo, austero, distaccato e senza
alcun rispetto per un posto che non era loro. Come se avessero il diritto di
operare lì dentro senza neanche chiedere. La cosa che ci fece reagire fu quando
quello di colore prese per un braccio piuttosto
rudemente la piccola Charlotte.
-Ehi!-
esclamò lei, indignata.
L’uomo
la guardò con sguardo indifferente, mentre lei gli restituiva uno sguardo per nulla
simpatico.
-Ehi,
giù le mani!- s’intromise Cho.
Questa
volta il cioccolatino dovette girarsi e fronteggiare il suo nuovo avversario.
Cho non era alto, ma il suo sguardo glaciale e il suo comportamento da ex
militare lo facevano apparire piuttosto minaccioso. Le ampie spalle e i grossi
muscoli non facevano che accentuare la cosa.
-Togliti
di mezzo cinesino!- lo provocò l’altro.
Cho,
sempre calmissimo, si frappose tra i due quel tanto che bastava
per fargli lasciare la presa su Charlotte.
-Non
sono cinese, sono coreano.-
Lo
straniero parve spiazzato da quel comportamento. Charlotte si nascose dietro a
Cho. Nel frattempo altri tre membri di quella strana squadra si erano fermati
dalla parte opposta del bullpenn, dove c’era l’entrata. Altri due invece, uno più anziano e semicalvo, e quello più alto e con un fare
minaccioso si fecero avanti.
-Stiamo
calmi. Siamo del BAU, Unità di Analisi Comportamentale. Noi siamo gli agenti
speciali supervisori Jason Gideon, Aaron Hotchner e
Derek Morgan; gli altri sono gli agenti speciali: Jennifer Jereau, Spencer Reid
e Emily Prentiss.- disse il primo.
-Chi
è il vostro capo?- domandò il secondo.
Questo
qua mi stava già antipatico. Nessuno di loro a dir la
verità mi piaceva. Attirata dal trambusto Lisbon uscì
dal suo ufficio seguita da un Jane piuttosto teso e preoccupato, visto i due
uomini in parte a sua figlia.
-Cosa
sta succedendo qui dentro?- domandò Lisbon, con un tono piuttosto autoritario.
La cosa non sembrava piacerle affatto. Lei e il moro
si fronteggiarono.
-E’
lei che comanda qui?- ripetè la domanda.
-Sì,
sono l’agente speciale Lisbon e questa è la mia
squadra. Possiamo fare qualcosa per voi?-
-Agente
speciale Hotchner, questo caso passa a noi.- rispose questo.
Non
lasciò nemmeno il tempo a Lisbon di rispondere che i tre in fondo si misero a prendere posto al tavolo per le riunioni, piazzandoci sopra
computer e documenti.
-Aspettate
un attimo. Non avete alcun dirittto. Prima spiegatemi e poi ne parliamo.- il
nostro capo si stava davvero arrabbiando.
-Agente
Lisbon, abbiamo riscontrato che questo caso probabilmente combacia con una
serie di omicidi avvenuti da noi a Quantico. Dobbiamo prendere possesso del caso.- spiegò quello che si chiamava Gideon.
-Col
cavolo. Questo caso è nostro!- sbottò Jane.
La
sua faccia mi spaventò. Era visibilmente arrabbiato e il suo sguardo saettava
dai due uomini di fronte a Lisbon a Charlotte.
-Lei
chi è?- chiese Hotchner. Tatto zero.
-Patrick
Jane, consulente.- rispose freddo Jane.
-Ah,
sì! Il sensitivo. Ho sentito parlare di lei.- che c’è? Adesso anche il più
anziano si metteva a prendere in giro la mia squadra.
-Non
esistono i sensitivi.-
A
parlare era stata Charlotte. Il suo sguardo non era per niente amichevole.
-E
tu chi sei?- domandò.
Charlotte
non rispose, rimase a fissarlo.
-Tu
sei Charlotte vero?- era una domanda ovvia. Lo sguardo
interessato.
-Non
vi cederemo il caso di John il Rosso. Ne sappiamo molto più di voi.- interruppe
Lisbon.
-Sappiamo
quanto sia importante per voi. In particolare per lei signor Jane. E che ci
state lavorando da otto anni. Il problema è che ci è stato ordinato di venire qui e risolvere questo caso. Non dipende da me agente
Lisbon.- disse Hotchner.
-No,
questa è l’ultima mossa di John. E non vi permetterò di lasciargli rovinare di
nuovo la mia famiglia.- Jane alzò la voce, gli occhi mandavano fiamme.
-Che
intende dire?- domandò il moro.
-Abbiamo
ricevuto una mail non molto tempo fa da parte di John. Si prendeva gioco di noi
e di Jane, in particolare con lui. Non è la prima volta che lo fa. Ma a quanto pare questa volta ha intenzione di scoprire
finalmente le sue carte. Charlotte ne è una prova vivente. È la figlia di Jane.-
Le
parole di Lisbon furono come una rivelazione per gli agenti. Tre paia di occhi
si ritrovarono a fissarne altre due paia color cielo. Mistero svelato.
-E’
sua figlia agente Jane? Ne è sicuro?- malgrado la domanda
l’anziano agente sembrava sperare il contrario. Charlotte guardo
Jane, cercando di carpire la risposta nell’espressione del viso.
-Il test del DNA lo conferma. È mia figlia.- quanta
amarezza nella sua voce. Quanto poteva far male certe volte il dubbio.
-Tutte
le ragazze uccise a Quantico si chiamavano Charlotte, tutte sui quindici/sedici
anni. Bionde. E ogni volta era presente uno smile
rosso.- la bionda del BAU si era avvicinata, intromettendosi nella discussione.
Ad un certo punto Charlotte iniziò a tremare. Sembrava
guardare nel vuoto, vedeva cose che solo lei riusciva a vedere.
-Charlotte
cos’hai? Ti senti male?- domandò Lisbon.
La
ragazza piantò i suoi occhi in quelli di Jane.
-Io…
io mi ricordo. Lo smile rosso. Sulla parete bianca.
Quella bambina…io non… Patrick… -
Si
era ricordata. Si era ricordata il giorno del suo
rapimento.
-Charlotte
hai visto John? Hai visto John il Rosso in faccia?-
Lisbon era china verso di lei. Charlotte annuì.
-Puoi
descrivercelo?- chiese Hotchner.
-No,
era vestito di nero. E aveva un maschera… -
-…rossa
a coprirgli il volto.- Jane finì la frase con lei. Padre e figlia si
guardarono.
-Hotch
è lei l’obiettivo.- decretò Gideon. –Va portata al sicuro, immediatamente.- la
sua voce era perentoria.
-Derek,
portala via di qua.- ordinò Hotchner.
Il
cioccolatino riagguantò Charlotte per un braccio. Questa, compresa la gravità
della situazione, iniziò a dimenarsi; senza successo. Io mi ero alzata in
piedi, guardavo la scena… impotente.
-No.
Lasciami, lasciami andare.-
-Ehi,
dove la state portando?- chiese un irato Jane.
Provò
a seguire Derek, ma Hotchner gli mise una mano sul
petto per fermarlo.
-Al
sicuro. John il Rosso non deve sapere dov’è e nemmeno lei.- disse,
la voce sembrava il sibilo di un serpente.
-E’
mia figlia e non vi permetterò di portarmela via.-
-Signor
Jane, non complichi le cose.- lo intimò minaccioso.
-No!
No! Lasciatemi! Lasciami! PATRICK!-
Vidi
Jane guardare con sguardo abbattuto la porta da dove i due erano appena usciti.
Non avevo mai visto un uomo così distrutto. Gli occhi tristi, la mandibola
contratta, il petto che si alzava e si abbassava frenetico. L’urlo di Charlotte
riecheggiava ancora nelle mie orecchie.
Il
viaggio durò parecchie ore. Avevo smesso di provare a liberarmi, tanto era
inutile. Nella macchina insieme a me c’erano il tizio di colore, Derek e quella
che avevo capito chiamarsi Emily. Il primo guidava, mentre l’altra era seduta
dietro con me. Probabilmente avevano paura che scappassi. Subito il pensiero
volò a Patrick. Aveva cercato di impedirgli di portarmi via, mi aveva difesa…
però, quando gli era stato chiesto se ero davvero sua figlia aveva risposto che
il DNA lo confermava; e se in realtà non pensava davvero che fossi sua figlia?
E se non lo fossi stata veramente? O probabilmente ero io che stavo pensando
troppo vedendo tutto nero. La tizia provò a parlarmi per due volte, ma io non
la ascoltavo, non ne avevo voglia. Poteva fare la gentile quanto voleva, ma io
sapevo che in realtà stava solo recitando. Chi sa se anche al CBI sentivano la
mia mancanza quanto io sentivo la loro? Erano le dieci di sera passate quando
ci fermammo. Era un grattacielo enorme, grigio scuro. I vetri neri riflettevano
il cielo cupo e privo di stelle. La grande piazza di fronte all’edificio era
tutta di pietra, uno di quei centri città super affollati. Ovviamente a
quell’ora era vuoto. Con Derek davanti ed Emily in parte salimmo. La stanza era
all’ultimo piano. Dall’alto la vista era mozzafiato, ma tutti quegli edifici e
quelle luci anonime ebbero solo il potere di accrescere la nostalgia e la
malinconia che provavo. L’appartamento era color grigio metallo, la parete
sulla destra era una serie di finestre scorrevoli senza tende che davano sulla
città. Sulla destra c’era lo spazio riservato al salotto con: due divani,
tavolino, tappeto, tv, radio, mensole per libri; mentre sulla sinistra c’era lo
spazio cucina: le pareti ricoperte da ripiano cottura, mensole e ante di legno
marrone, un tavolo rettangolare di legno al centro con sei sedie. Un’anticamera
sul fondo dava accesso ad altre tre stanze dall’altra parte della camera:
quella dell’agente che sarebbe stato con me, il bagno e la mia camera.
-Eccoci
arrivati. Vedrai che ti abituerai presto, non è male come posto!-
Ma
quell’uomo non aveva proprio un briciolo di tatto? Come se quella casa potesse
riempire lo spazio dei miei amici.
-Rimarrò
io con te, Derek tornerà a Sacramento per dare una mano alle nostre squadre.-
spiegò la donna, cercando di essere il più dolce possibile.
-Okay.-
dissi io. Per nulla interessata.
Feci
due passi per raggiungere il centro della casa e poter guardare meglio il
posto. Come previsto, il mio sguardo si fermò sulle finestre, oltre il vetro,
oltre l’orizzonte, tornando in quell’ufficio. Rivedevo ancora quel divano marrone
consumato, le scrivanie di metallo, il battere continuo della tastiera di Van
Pelt, la signorina Lisbon e Jane che discutevano silenziosi oltre il vetro
antisonoro del suo ufficio, Jane ridere soddisfatto e sonnecchiare su quel
divano….
-Hai
fame? Vuoi qualcosa da mangiare?-
…ma
poi arrivavano sempre loro a rovinare tutto.
-No,
non fa niente. Non ho fame.- risposi laconica.
-La
tua stanza è quella sulla sinistra.
-Va
bene. Grazie. Buonanotte.-
La
mai futura camera era una stanza abbastanza grande, più o meno come quella che
avevo al Rosemary, con le pareti di due azzurri diversi: uno chiaro che
ricopriva il soffitto fino a metà pareti laterali, e quello più scuro in basso
che disegnava le onde del mare. Il letto era grande una piazza e mezza, con delle
coperte morbidissime con colori chiari piuttosto anonimi: bianco, verde chiaro,
e delle righe rosse, arancioni e blu. Due comodini di legno con ripiano in
basso. Un puf verde sulla sinistra della stanza. Un armadio e un cassettone
sulla parete opposta al letto. Una lampada alta e stretta nell’angolo in fondo
a destra. Ai piedi del letto un baule con sopra una tavola da surf bianca a
motivi azzurri. Due enormi tappeti color fuxia e il parquet marrone chiaro. Mi
chiusi la porta alle spalle, deposi il mio zaino ai piedi del letto e mi
lasciai cadere sul materasso. Avrei voluto sprofondare, lasciare che quel
tessuto morbidoso mi inghiottisse; ma nemmeno lui sembrava volermi. Quasi per
istinto mi sollevai, aprii lo zaino ed estrassi l’orsacchiotto. Quell’orsacchiotto
che il giorno prima Patrick mi aveva detto d’avermi regalato egli stesso la
settimana prima che mi rapissero. Fu in quel momento che mi resi conto che
quell’animale di stoffa era il mio unico legame con il passato, la mia unica
ancora di salvezza a cui potevo aggrapparmi in quel momento. Lo strinsi e senza
accorgermente, lasciai che la stanchezza prendesse il sopravvento.
E
vorrei, riuscire a crederci anch’io
Vorrei,
quello che un giorno era mio
Vorrei,
vorrei …
… e
prima o poi, io capirò
Che
differenza c’è
Tra il
vero amore e quel timore
Nascosti
dentro me.
I
raggi del sole mi scaldarono a striscie le braccia e le gambe. Il cielo al di
fuori era sereno e luminoso, non rispecchiava esattamente il mio umore. Ero
nella stessa posizione della sera prima, appena mossi il braccio sentii la
piacevole morbidezza della stoffa sulla mia pelle. ‘Buongiorno papà.’
Mi
alzai e con un po’ di fegato andai in soggiorno. Era dal giorno prima che non
mangiavo e avevo un certo languorino. Ad attendermi, parlando sottovoce o
restando completamente in silenzio, c’erano l’agente speciale Hotchner e
l’agente Prentiss. Il primo stava in piedi vicino alla vetrata, le braccia
incrociate al petto, lo sguardo truce, la seconda stava seduta su una poltona,
le mani in grembo, il viso non sembrava avere nulla di contento. Ci guardammo
per un secondo che parve infinito. La prima sembrava anche lei una vittima,
impaurita da chi sa cosa, lui invece sembrava fare la parte del padrone
cattivo. No, non mi stava per nulla simpatico.
-Buongiorno.-
riuscii a sputare fuori quelle parole, peggio del veleno.
-Buongiorno.-
mi risposero all’unisono, anche a loro sembrava faticosa un po’ di cortesia
umana e normale. Mi avvicinai alla cucina.
-Vuoi
che ti prepari qualcosa?- propose Emily.
-No,
grazie. Faccio da sola.- lo so, ero stata scortese. Ma sinceramente la cortesia
sembrava essermi volata fuori dal corpo nell’esatto momento in cui avevo messo
piede in quel posto. Aprii ante e sportelli finchè non trovai quello che stavo
cercando: del latte e dei biscotti. Mangiai in silenzio e non chiesi a nessuno
se ne voleva. Lavai tutto e poi rimanemmo in quella posizione in silenzio per
svariati minuti: Hotchner accanto alla finestra, Emily sulla poltrona e io
sulla sedia a capotavola che dava nella loro direzione.
-Per
quanto tempo dovrò rimanere qui?- riuscii a chiedere amara.
-Finchè
non riusciremo a catturare John il Rosso.- rispose Emily, saggiamente.
-Non
voglio restare qui.- brontolai.
-E’
comprensibile. Ma cerca di capire: stiamo solo cercando di proteggerti.-
rispose brevemente l’uomo. ‘Allora un po’ di cortesia questo qui la conosce!’
-Proteggermi
e da cosa?- mi alzai. La mia voce era salita di tono a causa dell’isteria
repressa.
-Da
John il Rosso.- rispose pacata la donna.
-Tutti
gli indizi lasciano ad intendere che voglia ucciderti.- concluse lui.
Scossi
violentemente la testa.
-Io
voglio tornare a casa.- era l’unica cosa che riuscivo a dire.
Non
potevo dare sfogo ai miei pensieri. Rimanevano bloccati dentro la mia testa
come se ci fosse un lucchetto ad impedirne l’uscita. Prima che uno dei due
potesse rispondermi la porta si aprì ed entrò un’altra agente del BAU, quella
bionda. In mano aveva un dossier pieno di fascicoli.
-Hotch,
abbiamo delle notizie interessanti su Patrick Jane.- disse diretta.
Adesso
sapevo cosa volevo.
-Dov’è
Patrick?- domandai. Il cuore in gola.
-A
Sacramento.- rispose la bionda, degnandomi solo di una sfuggevole occhiata.
-Voglio
andare da lui.- dissi.
-Escluso!-
rispose questa senza neanche guardarmi.
-Voglio
vederlo.- insistetti.
-Cosa
hai trovato?- domandò Hotchner avvicinandosi alla collega.
-Se
fossi in te non so se sarei così in ansia di rivederlo tanto presto. Non dopo
quello che ha cercato di farmi.- disse la bionda, rispondendo a me e
indirettamente anche al suo capo. La guardai senza capire, ma non presagivo
niente di buono.
-Che
vuol dire?- chiesi.
La
bionda inchiodò i suoi occhi nei miei. Azzurro scuro e azzurro cielo.
-Prima
di sposare tua madre Jane viveva col padre in un circo: entrambi truffatori.
Quando sposò Angela si mise in riga. Più tardi usò le sue doti di mentalista in
uno show, fingendo di essere un sensitivo. La moglie cercò più volte di
dissuaderlo dal fare tale lavoro, ma dato che la paga era buona non smise.
Nell’ultima trasmissione che fece si prese gioco, per così dire, del noto
serial killer John il Rosso. Quando tornò a casa quella sera sua moglie e sua
figlia furono trovate morte. Lo smile rosso e la lettera attaccata alla porta
della camera da letto confermano che si tratta di John.- smise di leggere il
file per guardarmi –Se lui avesse dato retta a tua madre e se non avesse
parlato male di John il Rosso non saremmo mai arrivati a questo punto.- era
un’accusa. Stava accusando mio padre.
-No,
lui non poteva saperlo. Lui cercava di dare una speranza a quelle persone.-
-Mi
dispiace Charlotte, ma se lui non avesse detto quelle cose in tv, John non
starebbe ancora cercando di uccidervi.-
-John
è malvagio e perverso. Si diverte con gli altri. Se non fossimo stati noi
sarebbe stato qualcun altro. Altrimenti avrebbe potuto semplicemente uccidermi
quella notte.-
-Patrick
Jane non è un uomo come gli altri. Per una persona come John è un allettante
divertimento. Entrambi hanno una mente molto acuta, non mi sorprenderebbe se
anche lui fosse una specie di mentalista.- s’intromise Hotchner nella
conversazione.
-Sono
desolata Charlotte, ma è stato tuo padre a metterti in pericolo.- concluse la
bionda. Tremavo dalla rabbia e dalla frustrazione. Non doveva essere vero.
-Voglio
andarmene da qui.- dissi tra i denti.
Una
lacrima di rabbia sfuggì dalle mie ciglia, cadendo al suolo. Feci dietro front
e tornai in camera. Chiusi la porta e mi gettai sul materasso. Presi i cuscini
e li lanciai al suolo, mi tirai i capelli. Aprivo la bocca per urlare ma non ne
usciva un singolo suono. Mi fermai solo quando presi in mano il mio
orsacchiotto. Lo guardai, e per un attimo mi calmai… ma quelle parole ‘…è stato
tuo padre a metterti in pericolo.’ Lo scagliai con forza contro il muro della
parete di fondo.
POV. LISBON
Sbuffai.
Mi trovavo nel mio ufficio con l’agente speciale Jason Gideon seduto sul
divano. Attendavamo l’arrivo dell’agente speciale Hotchner, l’uomo a capo della
squadra del BAU che aveva fatto irruzione nel distretto del CBI il giorno
prima. Jane era seduto su un mobiletto dietro di me, in silenzio. Dal giorno
precedente aveva spiccicato sì e no una decina di parole; peggio di Cho. Mi
preoccupava, lo vedevo distante e il suo volto era una maschera di cera,
indecifrabile. Finii di firmare un paio di carte.
-Sembra
stanca, perché non fa una pausa?- chiese l’agente del BAU.
-No,
grazie.- replicai.
-Sta
bene? Ha l’aria turbata?-
-Lo
sono sempre quando si tratta della mia squadra.- il tono della mia voce aveva
assunto una sfumatura alquanto irritata. Mi passai le mani sul viso.
-Mi
scusi.-
-Non
fa niente. È normale.-
La
porta si aprì e si richiuse, lasciando entrare l’agente Hotchner.
-Molto
bene. Possiamo iniziare.- disse.
Lui
e il suo collega presero posto sulle sedie di fronte alla mia scrivania.
-Allora,
cosa vi porta qui a Sacramento?- domandai.
-E’
iniziato tutto quattro settimane fa. Abbiamo trovato il cadavere di una ragazza
di nome Charlotte sui sedici anni. Da allora ne abbiamo trovata una più o meno
a distanza di tre giorni. Età e nome combaciavano. Sul luogo del delitto c’era
sempre uno smile rosso dipinto sulla parete dietro la vittima. Almeno la prima
settimana. La seconda settimana ha iniziato a incidere il suo simbolo sul
cadavere delle sue vittime.- spiegò Gideon.
-Il
suo modus operandi è migliorato. È avanzato di livello. Tuttavia non ha mutato
radicalmente, quindi possiamo dedurre che ha una mente piuttosto controllata,
potrebbe anche lui essere molto abile con il comportamento e il carattere.-
continuò Hotchner.
-Un
altro mentalista.- conclusi.
-Esattamente.-
mi confermò il capo del BAU.
-Jane
lo credi possibile?- mi voltai a guardarlo. Ci ascoltava eppure il suo sguardo
mi parve lontano chilometri. Poi mi inchiodò, gli occhi più scuri del solito.
-Ne
sono sicuro. È molto intelligente. E sono dell’idea di aver sempre avuto
ragione: è una persona che si ritiene inferiore, probabilmente non molto
attraente, per questo gli danno fastidio le donne. Si sa, quando le donne
prendono in giro gli uomini perché non sono capaci, sanno essere molto
spregevoli.- rispose.
-Non
solo le donne, anche lei signor Jane. O sbaglio?- lo stuzzicò Hotchner.
Gli
occhi scuri e severi dell’uno incontrarono quelli cerulei e fissi del secondo.
-Sì,
è così. Quello che c’è tra me e John il Rosso è irripetibile.- si alzò,
muovendosi verso la finestra.
-Da
quando le ha rovinato la vita ha ucciso di meno. Si è fermato per poter creare
un piano solo per lei.- s’inserì Gideon.
-E’
così.- confermò il mio speciale consulente, mascherando l’amarezza.
-Beh,
signor Jane può senz’altro dire d’aver contribuito a diminuire le vittime di
questo serial killer e ad avergli fatto lasciare più indizi di quanti avrebbe
voluto realmente.- lo stava provocandò.
Jane
sorrise. Quel suo sorriso che in altre circostanze sarebbe stato magnifico e
stupendo allo stesso momento. Ma date le circostanze, sapevo che era un sorriso
ironico. Un sorriso pieno di disprezzo per se stesso e verso quell’assursa
situazione. Verso quella frase che lo elogiava per aver distrutto la sua
famiglia.
-Sa
agente Gideon, lei è molto divertente. Mi tolga solo una curiosità, per quale
motivo lei e la sua ex moglie non andate più d’accordo?- gli occhi gli
brillavano di follia e malsano scherzoso divertimento. Era un uomo disperato,
distrutto dal dolore.
-Jane
basta!- gli dissi.
Ma
non ero arrabbiata con lui. Gideon si limitò a restituirgli lo sguardo, senza
rispondergli. Colpito ed affondato. Loro potevano anche essere dell’Unità
Analisi Comportamentale, ma non potevano di certo competere con il nostro
mentalista. Jane si voltò a guardare fuori dalla finestra.
-Voglio
vedere Charlotte.- disse.
-E’
fuori discussione.- disse Gideon.
La
porta s’aprì di scatto, interrompendo quell’amara discussione. Entrò un altro
degli agenti del BAU, Spencer Reid. Anche a lui non piaceva bussare.
-Cos’hai
per noi Reid?- domandò Hotchner.
-Abbiamo
nuove informazioni.-
Tutti
quanti seguimmo il giovane agente nel bullpenn, gli altri erano già in attesa.
Reid si posizionò di fronte alla lavagna dove erano state appese foto e lettere
di John, o meglio del suo smile e dei suoi messaggi.
-Siamo
riusciti a creare una catena. Tutti gli omicidi avvenuti subito dopo la morte
di Angela Jane risalgono a quando il signor Jane faceva già parte del CBI.
Questo ci porta a dire che in ogni caso lui voleva sia sfogare il suo bisogno
di mietere vittime sia attirare l’attenzione della vostra squadra. In seguito
il suo centro focale si è spostato: non vuole più mietere vittime per il gusto
di divertirsi, avendo una mente fuori dalla norma vuole giocare. Si diverte a
giocare con il signor Jane. È lei il suo punto di ossessione. Ha voluto
lasciarla in ultimo. Il posto privilegiato.- iniziò.
-Avendo
poi ritrovato il DNA possiamo anche dedurre che faccia parte del CBI, ma questo
elemento poteva essere ricollegato anche per altri fattori in passato. Come per
l’agente La Roche. Ha
potuto studiare gli sviluppi, i movimenti, i comportamenti di ogni singolo
elemento appartenente a questa squadra.- sentimmo la voce del tecnico del BAU
parlare in vivavoce dal cellulare dell’agente Derek Morgan.
-Precisamente.
Tenendo conto di questi fatti e del fatto che ha detto che questa è la sua
ultima mossa, possiamo dedurre due cose: è alla fine della sua carriera di
serial killer, qualcosa glielo impedisce, dati gli anni ritengo che sia perché
malato; non di certo per vecchiaia. E per secondo, l’obiettivo finale è lei
signor Jane e questo può portarmi a dire, dati i cadaveri trovati a Quantico,
che anche sua figlia ha uno smile impresso nella pelle. Un simbolo per
ricordargli l’inizio della fine.- il giovane puntò i suoi occhi innocenti in
quelli del mio consulente, apparentemente indifferente.
-Si
è lasciato un segnalibro. Per ricordarsi la cosa più importante per lui. Se è
stato tutto questo tempo al CBI saprà anche cosa stiamo dicendo, cosa abbiamo
trovato e cosa abbiamo deciso. Probabilmente sa tutto di noi.- aggiunse
l’agente Gideon, eccolo il punto.
-Voglio
andare da Charlotte.- proferì Jane, continuando a guardare la lavagna.
-E’
fuori discussione.- disse Hotchner, suonava molto come un ordine.
-Quel
bastardo sa già dove si trova. Che io vada o non vada non fa alcuna differenza.
Non gli permetterò di prendersi mia figlia. E lei l’ha lasciata da sola con due
sue agenti.- lo aggredì Jane. Non lo avevo mai visto così adirato.
Sembravano
due lupi pronti a mordersi.
-Jane
calmati… - provai.
-Sono
due agenti preparate ad ogni evenienza.- urlò Hotchner.
-Sono
due donne contro un serial killer che ha di sicuro più intelligenza e più
esperienza di loro.-
-Charlotte
è perfettamente al sicuro. Non di certo grazie a lei che ha avuto
l’intelligenza di mettere in pericolo la sua famiglia.- si inserì Derek, di
fronte alla scrivania di Van Pelt.
Mi
sentii come se mi avessero sparato. Per un secondo mi mancò il respiro. Guardai
Jane terrorizzata per la sua reazione. Deglutì a fatica quel boccone acido.
-Ehi,
prima di parlare perché non rifletti su quello che dici?- Van Pelt si era
alzata arrabbiatissima, le sopracciglia aggrottate.
-E’
vero, se non fosse stato per lui la sua famiglia sarebbe ancora viva!-
protestò.
-Ehi,
cioccolatino!- tutti ci voltammo verso Cho, anche lui si era alzato –Datti una
calmata.- ero stupita.
-Derek,
vedi di controllarti.- ordinò Hotchner, eppure non sembrava adirato con il suo
agente. La cosa mi dette fastidio.
-Agente
Hotchner, il comportamento del suo agente non è per nulla appropriato.- dissi.
Bisognava pur essere professionali, ma non per questo fessi.
-Se
per questo nemmeno quello del signor Jane è consono.- replicò Gideon.
-Lui
non è un agente. È un consulente.-
Ecco
Cho. Silenzioso, ma un vero amico. Dentro di me sorrisi.
-Agente
Hotchner, voglio vedere mia figlia.- il tono di voce basso, rispettoso, ma
lasciava trasparire l’urgenza che aveva in sé quel gesto.
Fu
un lungo attimo di scambio di sguardi. Alla fine, il lupo nero abbassò la coda
da maschio alfa e se ne andò. Aveva preso la sua decisione.
POV. JANE
Ora
finalmente,
posso
credere anch’io
a quei
bei racconti
sempre
pieni di poesia, magia e fantasia.
La
macchina scorreva veloce sulla strada. Le luci erano tutte delle linee
indefinite nel buio della sera. Da quando l’agente Hotchner mi aveva dato il
permesso di andare da mia figlia il cuore aveva iniziato a battermi a mille nel
petto, agitato, frenetico. Avevo un urgente bisogno di vederla. Guidavo
velocemente, avevo preso la tangenziale perché sapevo di poter andare più
veloce rispetto all’autostrada. Avevo una sola cosa in mente, quel benedetto
hotel. Il tempo scorreva veloce, inesorabile, mentre a me sembrava di essere
lento e di non andare mai abbastanza veloce, di non essere mai abbastanza avanti.
Avevo come l’impressione che John mi avesse preceduto anche questa volta.
Premetti ancora di più l’acceleratore, passai in terza corsia e superai un paio
di macchine che avevo davanti, troppo lente. Quando entrai a Nashville mi
sembrò un sogno. Scalai la marcia e lessi velocemente tutte le vie che si
susseguivano sul mio cammino, svoltando all’ultimo minuto non appena vedevo
quella che mi interessava. Inchiodai poco prima di andare a schiantarmi contro
il muretto del parcheggio. Chiusi di fretta l’auto e a rotta di collo mi
precipitai su per le scale. Non avevo tempo di aspettare l’ascensore. Come mia
consuetudine non bussai, e subito mi ritrovai due paia di occhi femminili
scrutarmi. La mora aveva estratto la pistola. Alzai le mani in alto indossando
di nuovo la mia maschera.
-Ehi,
ti spiacerebbe abbassare quell’arma?- domandai col mio solito tono da
ragazzaccio.
Quella
alzò gli occhi al cielo, probabilmente dandomi dello scemo, ma rimise la
pistola nel fodero. Abbassai le mani e chiusi la porta. Mi scrutai attorno,
cercando con lo sguardo la presenza di quell’unica persona che volevo vedere,
ma che non c’era. Poi, mentre si riappoggiava ad un mobile, ma mora girò la
tesa.
-Charlotte,
hai visite!- disse alzando la voce.
Il
mio cuore iniziò ad accellerare nell’aspettativa. Con una lentezza esasperante
sentii dei passi strascicati e una manigli abbassarsi. La porta si aprì
cigolando leggermente. Un’esile figura si materealizzò nell’anticamera. Sollevò
il volto verso di me. In un istante sul suo viso passarono milioni di
sensazioni: paura, ansia, tristezza, felicità, meraviglia, sorpresa, sollievo….
In un lampo mi venne in contro, ebbi il tempo di fare solo un passo nella sua
direzione, prima che il contraccolpo con il suo corpo mi mozzasse il respiro. Le
sue braccia sottili mi cirocndarono il collo, stringendomi per attarccarsi più
che poteva a me. Ricambiai quella stretta vigorosa e che allo stesso tempo
avevo ricercato da un sacco di tempo. Sentivo il suo fiato sul collo, la faccia
premuta contro la giacca all’altezza della spalla.
-Patrick.-
biascicò, come se non parlasse da tempo. Con la voce impastata di pianto.
-Sono
qui. Ho cercato di fare il più presto possibile.- risposi tutto d’un fiato.
Mi
staccai da lei quel tanto che bastava per poterle prendere il viso tra le mani
e guardarla negli occhi. Aveva gli occhi lucidi, cerchiati di rosso. Non
riuscivo a capire se avesse appena finito di piangere o se stava per
incominciare.
-Stai
bene?- le chiesi, visibilmente preoccupato.
Lei
annuì. Le sue mani mi stringevano le spalle, per non lasciarmi andare.
-Ho
avuto paura.- mormorò.
Tornai
a stringerla a me, facendole poggiare la testa contro il mio petto, una mano
sui suoi capelli, l’altra a circondarle le spalle. Non volevo più lasciarla.
-Sta
tranquilla adesso. Sono qui e non ho nessuna intenzione di lasciarti.-
Passarono
alcuni minuti quando feci vagare lo sguardo su tutta la stanza, le due donne
continuavano a guardarci e dal loro modo di fare distaccato ma interessato,
dedussi che non mi avevano molto in simpatia. Poco dopo Charlotte si separò da
me, guardandomi fisso. Temevo che il peggio dovesse ancora arrivare.
-Patrick,
dimmi la verità, sei un truffatore? È colpa tua se siamo in questa situazione?-
mi chiese. Ecco, lo sapevo. Era per quello che quelle due continuavano a
tenerci d’occhio. Una di loro aveva detto qualcosa di troppo e in modo
inappropriato. L’ho sempre detto io che i federali sono una brutta gatta da
pelare. Posai un ginocchio a terra e le presi le spalle con le mani, dovevo
essere sincero.
-Sì,
è colpa mia.- risposi. La sentii tremare. Probabilmente se non avesse avuto le
mie mani appoggiate sarebbe arretrata, allontanandosi da me.
-No…-
iniziò a dire, ma dovevo fermarla….
-Aspetta.
È vero. Prima di conoscere tua madre truffavo la gente, ma dopo che l’ho
conosciuta ho abbandonato quel mondo. Sono una persona diversa.-
-Signor
Jane, lei era ospite in uno show di sensitivi. E dice di non essere un
truffatore? – si intromise invadente l’agente Jereau.
-Io
sono un truffatore, perché non credo in quello che dico. Non credo ci sia un
qualche Dio lassù. Tuttavia, per essere un truffatore, davo speranza a della
gente che credeva. Quando se ne andava da quel posto se ne andava serena, col
cuore in pace, sollevata. Sì, ho mentito ma a fin di bene.- risposi, non mi
stava molto simpatica.
-Eppure
sua moglie le aveva chiesto di smettere.- insistè.
-Ha
ragione.- spostai il mio sguardo su di lei –Angela mi chiese di smettere, ma io
non lo feci. È colpa mia se ci troviamo in questa situazione, sì.-
-Perché
non lo hai fatto?- mi chiese Charlotte. Era davvero distrutta.
-Perché
non volevo essere solo un peso. Avevamo lasciato entrambi il circo, lei aveva
un lavoro, ma io non avevo trovato niente di davvero utile. Al circo non è che
si impari qualcosa di davvero utile. Quel posto da sensitivo era la mia
possibilità. E andava tutto bene. Per quanto mentissi, beh… non facevo del male
a nessuno. Le cose iniziavano ad andarmi bene e smettere mi sembrava una cosa
davvero scioccae stupida. Perché
smettere? Per una volta tanto ero utile a qualcosa.-
-Finchè
non è spuntato fuori John il Rosso.- la bionda sembrava davvero tenace.
-Già.-
ero abbattuto, frustrato, i ricordi pesavano come macigni e le emozioni mi
stavano sommergendo –Quello è stato il mio errore fatale. Sì, agente Jereau.
Vuole che lo ammetta? Lo faccio: io ho ucciso mia moglie e distrutto la nostra
famiglia. Ma non è quello che volevo, non l’ho mai voluto.- tornai a guardare
Charlotte che mi fissava, immobile come una statua senza dire niente.
-Ho
sempre voluto bene ad entrambe, credimi. Non avrei mai fatto niente per
mettervi in pericolo. Avrei dato la vita per voi e sono disposto a farlo
ancora. Mi dispiace tanto. …E ti prego di credermi.- stavo per piangere,
sentivo un groppo in gola assurdo.
-Non
crede che sia un po’ tardi?- parlò per la prima volta l’agente Prentiss.
Mi
alzai guardandola arcigno.
-No,
agente Prentiss. Non è tardi. Ho ancora mia figlia e io la proteggerò. Fosse
l’ultima cosa che faccio.-
-Signor
Jane, sua figlia è… -
-Viva.-
scandii bene le lettere.
Charlotte
di fianco a me mi guardava meravigliata, soppesando al contempo la mia
espressione.
-Mia
figlia a viva e non permetterò a nessuno di farle del male. John il Rosso me
l’ha portata via una volta, ma non lo rifarà una seconda.-
-Sul
serio?- la voce che venne dal mio fianco ebbe il potere di calmarmi e
infondermi calore. Mi voltai verso di lei.
-Sì,
piccola. Certo.- confermai.
-Promesso?-
-Promesso.-
risposi.
Lo
sguardo che mi regalò fu il più bello del mondo. Gli occhi luccicanti era due lapislazzuli.
Il volto una maschera di gioia ben repressa e nascosta, ma che trapelava da
tutti i pori per chi sapeva vederla. Mi sorrise, debolmente, incerta. Ma
felice. Ed io non potei far altro che restituirle il sorriso.
Ora
anch’io,
posso
crederci ormai, anch’io…
…e
volerò prima o poi anch’io,
anch’io,
anch’io
anch’io…
con te.
Poco
dopo le chiesi di scoprirsi la spalla destra e lo vidi, sul retro, rosso fuoco:
lo smile di John il Rosso. Il mio cuore mancò un battito per tornare a pompare
più furioso che mai. La mia mente che lavorava febbrile. Ero arrabbiato, molto.
Quella notte stetti con Charlotte finchè non si addormentò. Sdraiati sul suo
letto, la sua testa appoggiata nell’incavo della mia spalla. Avevamo parlato un
po’ dei vecchi tempi, delle storie che le raccontavo, delle poesie di magia e
delle opere teatratri di Shackespeare. Quando la guardavo tutta la felicità del
mondo si racchiudeva in me. Tutto tornava alla normalità. Ma la notte porta
anche i sogni, e i sogni si sa, sono ricordi mischiati ai nostri desideri e
alle nostre più profonde paure.
Il
giorno dopo lo passai in appartamento con Charlotte e le altre due agenti.
Quella notte ero riuscito a dormire stranamente, ma i miei sogni erano stati un
miscuglio di ricordi e smile rossi. L’acqua fredda sul viso fu un ottimo scaccia
sogni tranquillizzante. Le due donne non mi rivolsero più la parola, eccetto il
buongiorno e qualche sguardo furtivo. In fin dei conti: rimanevo pur sempre un
bell’uomo, e quello che più contava, vedovo. Rimasi a guardare quella pelle di
porcellana illuminata dai raggi dorati del sole, quelle onde bionde che
annegavano il cuscino. Sembrava così rilassata e al sicuro. Come se non fosse
rinchiusa in un questo stupido posto da giorni. Come se non fosse appena venuta
a conoscenza di chi era suo padre e di cosa era accaduto alla sua famiglia.
Come se un serial killer non le stesse dando la caccia per colpa di suo padre.
Sarei potuto rimanere lì per sempre. Quando si stropicciò gli occhi e mi
guardò, ancora leggermente assonnata, le rivolsi uno dei miei più bei sorrisi,
raggiante, forse anche più del sole che albeggiava di fuori. Per una volta
senza nessuna maschera a separarci. Forse lei era stata l’unica oltre ad Angela
con cui non avevo mai avuto maschere. Mentre si preparava uscii per andare a
comprare delle brioches alla crema, ancora calde. Facemmo colazione con quelle
in tutta tranquillità, invitando anche Jennifer ed Emily. Non parlammo molto,
rimanemmo però sempre vicini, sempre a portata di sguardo. Fu verso il
pomeriggio che il mio cellulare vibrò: era Lisbon. Dovevo andare.
Ci
bastò uno scambio di sguardi per capirci.
-Vai
se devi andare. Lo capisco.- mi disse. Eppure dispiaceva ad entrambi.
-Lo
sai che non ho nessuna voglia di farlo.- cercai di farle capire.
-Ma
devi. Hanno bisogno di te.-
-D’accordo.-
Quando
era forte. Più forte di me probabilmente. Non voleva lasciarmi, eppure sapeva
di doverlo fare. Era necessario, per il bene suo e della squadra. Ci
abbracciammo, un po’ più a piano della sera prima. Ma fu comunque intenso.
Sperai che con il tempo quella sensazione di casa che riuscivamo a darci
vicendevolemente non scomparisse. Con un ultimo scambio di sguardi uscii dalla
porta. Subito sentii la serratura scattare. Scesi le scale di tutta fretta,
come se stessi gareggiando contro il tempo.
Non
passarono due ore che il cellulare nella tasca del mio gillet vibrò.
-Pronto?-
risposi, era Lisbon. La mia bella ed affascinante Lisbon.
-Cosa?-
subito impallidii.
La
testa iniziò a rielaborare subito di dati appena ricevuti, lasciai il cuore
libero di scalpitare o sarei impazzito. Chiusi la chiamata e sgommai nel girare
la macchina. Schiacciai l’acceleratore, andavo a tavoletta; tornavo da
Charlotte. O almeno… nell’ultimo posto dove l’avevo vista.
POV. LISBON
Non
era possibile. Non stava succedendo davvero. Mi sentivo come se sopra l’intero
distretto ci fosse un’ombra che incombeva minacciosa. Come tutti i miei
colleghi mi muovevo frettolosa nel mio ufficio, raccattando tutto quello che
poteva essermi utile: portatile, fascicoli, fotografie, messaggi… tutto quello
che poteva riguardare Charlotte, Red John e Jane. Stavo impazzendo. L’unica
cosa a cui riuscivo a pensare in quel momento era Jane, a come si sentiva, a
quanto doveva star male. L’avevo chiamato e lui era tornato indietro, noi lo
avremmo raggiunto il prima possibile. Red John ce l’aveva fatta, aveva rapito
Charlotte. A chiamarci erano state le due agenti del BAU che erano con lei.
Avevano detto di aver sentito un rumore sospetto in camera sua, erano andate a
controllare, la finestra era aperta… quando sono tornate in sala la porta
d’entrata era aperta e lei era sparita. Sul pavimento una macchia di sangue. Di
certo non si era tagliata da sola e non era fuggita. L’agente Hotchner entrò
nell’ufficio.
-Il
jet è arrivato.- mi comunicò.
-Capo.
Siamo pronti.- mi disse Cho, cacciando dentro solo la testa.
-Molto
bene. Andiamo.- dissi al capo del BAU.
Con
un’occhiata d’intesa ci muovemmo in sincronia, seguiti dai nostri agenti. Avremmo
trasferito il quartier generale nell’appartamento a Nashville, la scientifica
aveva confermato che il sangue trovato sul pavimento era di Charlotte. Sul jet
le nostre due squadre stavano nettamente separate, ai lati opposti della
cabina. Quando arrivammo salii in macchina con Hotchner, Gideon, Cho e Van
Pelt. Hotchner guidava molto velocemente, quasi la guida di Jane fosse una
bazzecola. Eppure in quel momento non mi importava, dovevo arrivare da lui,
dovevo risolvere questo caso. Una volta per tutte. Le agenti Jereau e Prentiss
erano sedute sui divani di pelle, la testa tra le mani, ricontrollando
fascicoli in cerca di qualche misterioso indizio.
-Allora,
facciamo il punto della situazione!- disse Gideon mentre entrava.
Tutti
si misero ai loro posti.
-Che
cosa sappiamo?- chiese Hotchner.
-Red
John è un uomo disturbato, dato il periodo di tempo in cui ha iniziato a
commettere omicidi si può ritenere sia sopra i cinquanta.- iniziò Prentiss.
-Il
fatto che abbia specificato che questo è il suo ultimo caso può voler dire che
non è più in grado di portare avanti la sua opera. Quindi o per l’età o perché
malato.- continuò Reid.
-Non
potrebbe semplicemente aver deciso di smettere?- chiese Rigsby.
-Improbabile.
Dato quanto ha lavorato in tutti questi anni e fino a che livello si è spinto è
statisticamente impossibile che si sia ritirato. È troppo preso ormai dal suo
macabro gioco per poter smettere.- rispose Jereau.
-Ha
accesso ai nostri computer e al CBI, quindi deve essere uno che lavorava o che
lavora al suo interno. Che sia un agente o un addetto alle pulizie è
irrilevante.- disse Van Pelt.
-Sono
d’accordo. Ha un particolare senso dell’umorismo. Quindi ha un carattere
instabile. Il suo confidenziale rapporto con il signor Jane fa dedurre che lo
conosca molto bene, probabilmente da vicino. Ha potuto osservarvi, studiarvi,
tenervi d’occhio. Probabilmente ha avuto accesso anche al vostro ufficio. Lo
conoscete sicuramente.- intervenne Hotchner.
-Garcia,
puoi restringere il campo?- domandò Derek al cellulare in vivavoce, dove era in
linea l’ultima agente del BAU rimasta a Quantico.
-Farò
quello che posso tesorino!- rispose una voce vivace.
Si
sentì il battere della tastiera e i minuti passavano. Io ero in ansia, Jane era
in parte alle vetrate che davano sulla città, pensieroso. Mi preoccupava.
-Negativo,
tra quelli ancora al lavoro e quelli non più al lavoro sono ancora troppi.-
brontolò un’afflitta Garcia. Ad un certo punto Jane venne verso di noi, deciso…
conoscevo quello sguardo: aveva avuto un’idea.
-Garcia,
potrebbe cortesemente controllare nello schedario dell’orfanotrofio del
Rosemary chi passò di là quel giorno?- domandò.
-Potrei
farlo, ma prima devo avere un’autorizzazione.- rispose con voce incerta
l’altra. Vidi i due uomini, il biondo e il moro, scambiarsi uno sguardo.
-Garcia,
fallo.- disse Hotchner, gli occhi ancora puntati in quelli ceruleii di Jane.
POV. HOTCHNER
Non
so esattamente perché lo feci. Non mi sarei mai fidato di uno che non
conoscevo, che non era della mia squadra, che probabilmente era la causa di
tutto questo e che si intrometteva nelle squadre degli altri. Ma in quel
momento vidi soltanto gli occhi di uomo, di un padre che cercava di recupare la
propria figlia. Ricordavo gli occhi di lei, erano identici a quelli di
quell’uomo. E in fin dei conti, io non avrei fatto la stessa cosa se si fosse
trattato di Jack? Sì, l’avrei fatto. Attendemmo di avere una risposta dal mio
operatore.
-Ho
trovato!- esclamò ad un certo punto.
-Dicci
tutto.- le ordinai, serio come sempre.
-Quel
giorno andarono là tre uomini, ma solo uno di loro ha avuto a che fare con il
CBI: Cade Evans. Ha un cancro da ormai sette anni, secondo la perizia dei
medici non gli rimane molto da vivere.-
Ecco
perché smetteva.
Il
telefono squillò. Tempismo perfetto. Ci voltammo tutti a guardarlo. Era
riuscito chissà come ad avere il numero dell’appartamento. Sapevo che era lui.
lo sapevamo tutti. Guardai Jane e l’agente Lisbon. I loro volti erano uno
specchio di tutti gli altri. Jane mi lanciò uno sguardo inequivocabile, stava
per rispondere. Appena sollevò il telefono mise il vivavoce della segreteria.
-Salve
signor Jane.- disse una voce strascicata. –Sono felice di risentirla. Glielo
avevo detto che non mi sarei fatto attendere a lungo.- rise.
Era
disgustoso. Leggevo il disprezzo sul volto del consulente.
-Oh,
che maleducato! Ho dimenticato di salutare i nostri ospiti della Virginia.
Buonasera anche a voi, speravo sareste venuti.- rise di nuovo.
-Sapevi
che ho messo il vivavoce?- domandò con un’espressione divertita Jane. Eppure a
me sembrava malvagiamente divertita. In quel momento non faticai ad immaginare
quell’irresponsabile e scortese biondino sparare a sangue freddo ad un uomo che
con tutte le probabilità gli aveva ucciso la moglie e la figlia. John rise.
-Certo
che lo sapevo. Vi sto osservando.- rispose candidamente l’altro.
-Cosa
hai fatto a Charlotte?- domandai, perentorio.
-Via
via agente Hotchner, si rilassi. Non credo che impuntarsi sia la cosa migliore.
Ritengo anzi sia meglio per voi andare al mio ritmo.-
-Non
hai risposto alla domanda.- insistetti.
Guardai
Jane. Cercavo di fargli capire che non volevo mettere in pericolo Charlotte, ma
dovevamo farci dire qualcosa se volevamo ritrovarla.
-Ha
ragione. Eppure mi sembrava così ovvio. Me la sono ripresa.- le ultime quattro
parole furono dette in un tono alquanto malvagio e possessivo. Faceva
rabbrividire.
-Brutto
figlio di… se le torci un solo capello te la vedrai con me.- lo minacciò Jane.
Era ad un punto che faticava a mantenere il controllo. L’altro rise giulivo.
-Oh,
Patrick non vedo l’ora di avere a che fare con te. È da così tanto che aspetto
questo giorno. E ad ogni modo, non è mai stata tua figlia. Tu non la conosci
nemmeno. Io invece la conosco bene.-
-Che
cosa le hai fatto? Abbiamo trovato il suo sangue sul pavimento.- chiese
Prentiss. Risate e ancora risate. Quell’uomo si stava divertendo un mondo, mentre
noi ci rodevamo il fegato.
-Agente
Prentiss, mi delude. Non è ovvio? Non potevo di certo chiedere a Charlotte di
seguirmi docilmente, non l’avrebbe mai fatto. Quindi, ho dovuto provvedere.-
candido e semplice.
-Come
sta adesso?- chiese Jane. Era estremamente preoccupato.
-Sta
bene. Non ti devi preoccupare Patrick, non le farò del male. Non ancora. Voglio
vederti.- il tono di voce scherzoso si era fatto più serio e deciso.
-Dove?-
domandò il consulente.
-A
un paio di isolati da qui, sulla tangenziale. A mezzanotte e mezza. Portati
dietro pure tutti i tuoi amici, non mi interessa. Domani, si celebrerà un
funerale.- e ridendo sguaiatamente chiuse la telefonata.
Il
silenzio che regnò in quei pochi secondi era assordante. Il cuore mi batteva
all’impazzata nel petto, sotto il giubbotto antiproiettile, in concerto con gli
altri dieci cuori in quella stanza. Il mio sguardo era fisso su Jane, allibito.
Mi veniva da piangere a guardarlo. Il nostro Jane. Il nostro imprevedibile,
esuberante, sciocco Jane.
-Hotch,
che cosa facciamo?- l’attenzione si focalizzò sulla bionda.
Anche
lei sembrava sconvolta dalla chiamata. Non c’era più nessuna traccia di disprezzo
sul suo volto, per quanto riguardava il nostro consulente.
-Mi
sembra ovvio: andiamo da quel bastardo.- rispose Jane con tutta calma.
Eppure
nei suoi occhi bruciava un fuoco inestinguibile, mischiato a tanta paura.
-Dobbiamo
trovare una strategia. Non possiamo presentarci tutti là così, impreparati.-
intervenne Hotchner.
-Hotch,
a lui non interessa. Hai sentito cosa ha detto. Probabilmente non gli importa
nemmeno di morire.- intervenne Gideon. Anche lui non sembrava più così sicuro
di sé stesso.
-Non
possiamo lasciare Charlotte da sola. Non possiamo non andare.- s’intromise
Lisbon. Il nostro coraggioso capo.
-La
ucciderà.-
Tornammo
a concentrarci su Jane. Ma quello che vidi mi scioccò. Quella rabbia era
improvvisamente mutata in dolore e sofferenza. Mi ci volle un po’ per capire
che si era tolto finalmente la maschera. Quella maschera che usava sempre al
lavoro. Quella che lo faceva apparire sempre sereno e allegro. Quella che
metteva tutti di buon umore e che usava per prenderci in giro. Ma questa….
Questa era una maschera che riusciva a dividerti il cuore a metà. E solo allora
sentii le sue parole come andavano sentite. Lui era quello che conosceva la
mente di John il Rosso da più tempo, poteva capire, percepire e trarre
conclusioni più esatte di tutte le nostre supposizioni. Diceva la verità, e io
potevo comprenderlo; gli detti ragione. Se quella sera non ci fossimo
presentati, Charlotte sarebbe morta.
-Jane.
Non accadrà, te lo prometto.-
Lisbon,
eccola lì Teresa Lisbon. Quella donna tutta azione e coraggio. Quella che non
mollava mai. La donna che avevo capito dal primo momento che l’avevo vista che
si era innamorata di quel pazzo biondino. E adesso era lì con lui.
-Lisbon,
sai che non devi fare promesse che non puoi mantenere.-la redarguì lui, con
quella poca forza che gli rimaneva in corpo. A grandi falcate lei lo raggiunse,
accigliata e decisa. Fu con grande sorpresa di tutti che lo abbracciò,
apertamente, davanti a tutti. Per un momento anche Jane sbarrò gli occhi dalla
sorpresa. Prima di ricambiare debolmente quell’abbraccio.
-Io
non mi arrendo Patrick. Riporteremo Charlotte a casa.-
Sputò
lei tra i denti, cattiva. Come una leonessa che difende i membri del proprio
branco. Mi sentivo orgogliosa di lei, di quella coppia. Di tutti noi che non ci
saremmo arresi. Quello a riprendersi più alla svelta fu Hotchner.
-Andremo
tutti con il signor Jane. Reid, tu e JJpasserete dietro John il Rosso senza farvi vedere. Se mostra segni di
voler uccidere Charlotte uccidetelo.- ordinò.
I
due non sembravano contenti della decisione, ma sembrava non esserci altro
modo. Il mio capo e il nostro consulente nel frattempo sembravano essersi
ripresi ed aver recuperato un po’ di contegno professionale.
-Patrick,
le chiedo di mantenere la calma quando vedrà John il Rosso. Dobbiamo ricavare
tempo e informazioni per poterlo neutralizzare senza ferire nessuno. Ad ogni
modo le prometto che non torcerà un solo capello a Charlotte.- fece Hotchner.
Ci avviammo tutti alla porta.
-Agente
Hotchner.- lo richiamò Jane.
L’uomo
si voltò, il volto sempre contorto in quell’espressione seria e severa.
-Grazie.-
disse Jane, sincero.
Il
capo del BAU fece un cenno d’assenso con il capo. Poi seguì gli altri. Uscimmo
tutti, Lisbon e Jane per ultimi.
POV. JANE
Mi
sentivo vivo. Può sembrare strano, ma è così. Scesi le scale con tutta la
tenacia che riuscivo ad accumulare; Lisbon dietro di me. Salimmo sul secondo
suv nero, sui sedili posteriori, Hotchner guidava e Gideon era in parte a lui.
guardavo la strada scorrere, le luci che tracciavano scie colorate. Mi sembrava
di andare piano, ma ogni metro fatto era un metro verso Charlotte. I pochi,
meravigliosi, momenti che avevo passato con lei mi tornarono alla mente come
lampi, all’improvviso. Il suo faccino dolce, i suoi occhi lucidi, il suo sorriso
gioioso; non potevo permettere a quell’assassino di uccidere la gioia che c’era
in lei. Mentre pensavo non mi ero accorto di aver serrato i pugni, tanto da far
sbiancare le nocche; Lisbon mi mise una mano sul braccio, delicatamente. Come
in quei film romantici molto vecchi. Non potei fare a meno di sorriderle. Le
coprii la mano con una delle mie. Quando vidi la tangenziale ebbi un tuffo allo
stomaco. La strada era deserta e buia. I lampioni erano molto distanti tra loro
e ai lati della strada c’erano un’infinità di alberi. Sembrava quasi di essere
in montagna. Mi vennero i brividi. Quando sentii la macchina rallentare posai
lo sguardo davanti a noi. A un centinaio di metri da noi si intravedeva l’ombra
scura di un’altra auto con i fanali accesi, in mezzo alla strada. Non mi ci
volle un genio per fare due più due. Scesi dall’auto insieme agli altri, Lisbon
mi prese per un braccio nel tentativo di attirare la mia attenzione.
-Sta
attento.- mi avvertì.
La
guardai negli occhi. Quegli occhi color smeraldo che in quel momento sembravano
due pozze scure luccicanti. Adoravo quando mi guardava così, la adoravo sempre
e comunque. Oh mia cara e dolce Lisbon.
Ma come fai a stare con uno come me?
-Bene.
Ci siamo. Signor Jane si ricordi quello che le ho detto. Cerchi di prendere
tempo in modo da lasciare il tempo ai miei uomini di mettersi in posizione.-
ribadì Hotchner, riscuotendomi dalla mia contemplazione.
-D’accordo.-
confermai.
Mi
voltai fissando la strada di fronte a me come un avversario. Era ora della
guerra.
POV.
CHARLOTTE
Stavo
tremando. Eppure non riuscivo a capire se fosse per il freddo del metallo
dell’auto su cui ero sdraiata, se per la temperatura, o per l’uomo che stava
seduto al posto di guida fischiettando allegramente. Riuscivo solo a pensare a
Jane. La sua immagine rischiarava le tenebre causate da quella stretta fascia
legata intorno agli occhi. Mi faceva male la testa, dove quell’uomo mi aveva
colpita con non so bene quale oggetto. Ricordo che prima che cadessi a terra mi
aveva sostenuta, sollevata e portata via. Non avevo potuto fare niente, c’avevo
provato, ma era stato tutto inutile. Mi aveva parlato e provocato, ma avevo
resistito. Forse dovevo ringraziare anche il mio stato d’incoscienza,
altrimenti sarei crollata sia moralmente che psicologicamente. Avevo le mani e
i piedi legati da delle ruvide e spesse corde. Avevo provato a liberarmi, ma
dovevo dargli atto d’aver fatto davvero un ottimo lavoro. Non riuscivo quasi a
muoverle. Eravamo fermi da un’ora e mezza ormai. Probabilmente eravamo arrivati
al luogo dell’incontro. Oh, sì! Avevo assistito a tutta la telefonata e a tutte
le cose crudeli che aveva aggiunto quando aveva interrotto la linea: che
avrebbe ucciso mio padre, che si sarebbe divertito, che gli avrebbe fatto molto
male e che alla fine saremmo morti entrambi. Forse, a questo punto, non avevo
più lacrime per piangere. Ritentai inutilmente di allentare le corde.
-Non
ti sei ancora stufata di tentare di liberarti?- mi chiese lui con voce annoiata
ma anche divertita. Quel suono mi faceva ribrezzo. Lo sentii muoversi dal suo
posto. La macchina ondeggiò; così però mi girava anche la testa. Avvertii i
suoi piedi posarsi vicino alle mie gambe, tentai di indietreggiare. Una mano mi
afferrò come un artiglio la gamba sinistra, fermandomi. Poi, di colpo, mi tirò
verso di lui come un sacco di patate. Il mio cuore aveva accellerato
improvvisamente.
-Lasciami.-
gli dissi. Tentavo di essere decisa, ma in quel momento il coraggio era l’unica
cosa che si era volatilizzata. In risposta portò la mano sulla spalla e mi
bloccò al fondo dell’auto.
-No.-
cercavo di rimanere di lato o almeno seduta, ma non potevo. Non me lo
permetteva. Lo sentii sorridere e poi ridacchiare.
-Quanto
sei divertente. Lo sei sempre stata, sai. Ssshhh.-
Avrebbe
detto qualcosa d’altro se il rumore di una macchina poco distante non l’avesse
bloccato. Intuii che entrambi ci dovevamo essere messi in ascolto. Poi lo
sentii respirare a fondo e sorridere.
-Ci
siamo.-
Sentii
qualcosa scattare e dopo un paio di secondi i miei piedi erano liberi. Con una
mano mi prese per un braccio e mi tirò in piedi di peso. Diede un forte calcio
al portellone sul retro del furgoncino. Mi aiutò a scendere. E, sempre
tenendomi per la felpa, mi portò con sé. Dal movimento dedussi che stavamo
facendo il giro dell’auto, ma non ne ero certa. Ad un certo punto, ci fermammo.
Eppure non avevamo fatto tanta strada. Sentii il nodo sciogliersi e di colpo
tornai a vedere. Eravamo su una strada dritta, buia, illuminata pochissimo,
davanti a noi un suv nero e delle persone, una più avanti delle altre: Jane.
-Ben
arrivato Jane.- lo salutò John. Rabbrividii di colpo. Perché mi sembrava che
qualcosa non quadrasse? Mi slegò le mani. Nella frazione di un secondo, sempre
con quel suo sorriso velenoso in volto, mi circondo le spalle con un braccio e
con l’altra mano mi puntava un coltello alla gola. Ero stretta a lui e di nuovo
non potevo muovermi. Nei miei occhi si poteva leggere il terrore. Quelli di
Jane erano seri e decisi eppure vi lessi tanta paura.
-Lasciala
andare John.- disse.
-Patrick…-
tentai di chiamarlo, ma istintivamente strinse ancora di più la presa. Quasi
quasi non riuscivo più a respirare. Gli presi il braccio, cercando di
allentarlo ma non potevo.
-Lasciarla
andare? Patrick noi siamo una famiglia. E i poliziotti non dividono le famiglie
giusto?- fece lui di rimando.
-Io
non sono un poliziotto.- ribadì mio padre. Rise.
-Speravo
tanto lo dicessi Patrick.- la lama si portò all’altezza della mia mandibola.
Sentivo la lama fredda e tagliente. –La tua condotta è davvero deplorevole lo
sai. Noi tre siamo una famiglia e tu sei stato un bambino molto cattivo. E,
come sai bene, i bambini cattivi vanno puniti.- un ghigno perfido gli solcò la
faccia.
E
all’improvviso sbiancai, qualcosa di caldo fu sostituito al freddo della lama;
non occorreva un genio per capire che era il mio sangue. Iniziò a bruciare.
-Fermo!-
ulrò Patrick.
Lui
rise sguaiatamente, contenendosi un po’ per il tono.
-Fermo?
Oh, Charlotte te l’avevo detto…te l’avevo detto che ci saremmo divertiti.- era
estasiato. Quegli uomini davanti a me erano la mia salvezza, erano così vicini;
ma allora perché non riuscivo a raggiungerli?
-Guai
a te se le torci un solo capello John! Non azzardarti… -
-Altrimenti
che mi fai Patrick? Eh? Che mi fai?- il suo tono era diventato improvvisametne
cattivo e severo, duro. La sua presa si saldò ulteriormente.
-La
sua vita è nelle mie mani. E tu non puoi fare niente per salvarla. Così come
non hai potuto salvare tua moglie. Te l’ho detto, domani si celebrerà un
funerale!- era tornato a ghignare perverso.
-Cade
Evans sei circondato. Lascia andare la ragazza e metti le mani sopra la testa.-
era stato Hotchner a parlare. C’era anche lui. Sorrise.
-E
così sapete anche chi sono. Complimenti.- era ammirato.
-Glielo
ripeto è circondato. Si arrenda e nessuno si farà del male.-
-Agente
Hotchner, crede davvero che mi interessi? Se sa chi sono io sa anche che sono
malato. Che sto per morire. Crede davvero che se mi doveste uccidere oggi
farebbe la differenza? Il problema è che voi non potete uccidermi senza
rischiare di uccidere anche lei, ed è questo il mio vantaggio. Questa faccenda
non vi riguarda signori. È una cosa tra me e il signor Jane.-
-Lasciami.
Ti prego. Non farlo.- lo supplicai, non potevo fare altro.
-Perché
non dovrei farlo mon cheri?- mi domandò viscido.
Guardai
mio padre negli occhi, sentii qualcosa scorrere, qualcosa che ci univa.
-Perché
gli voglio bene.-
Ecco,
era questo. Era questo che mancava, che avevo avuto sempre l’assoluto bisogno
di dire. Le sue dita si chiusero a pugno sulla mia maglietta e la lama del
coltello iniziò a tremare violentemente.
-Tu
gli vuoi bene?- disse a denti stretti. Sembrava molto arrabbiato e offeso,
quasi indignato. Era come un vulcano che stava per esplodere. Annuii.
-Sì.-
risposi.
Buttò
a terra il coltello ed estrasse la pistola. In quel momento partì un colpo. Era
stata Lisbon, ma aveva colpito la macchina. John alzò lo sguardo in direzione
dei suv neri. Irato. Alzò la pistola e sparò, mentre iniziava a crearsi
l’inferno. Tutti sparavano, gente che correva e urlava. Mi spinse a terra poco
dopo che aveva sparato, avevo visto Jane cadere a terra.
POV. LISBON
Non
ero riuscita a trattenermi. Avrebbe sparato a Jane. Mi lanciai in avanti, piena
di terrore e decisione. Lo vidi sparare, ma il proiettile non mi toccò. Spinse
Charlotte per terra in modo alquanto brusco. Era in collera e non ci voleva un
genio per capirlo. Quando fui non molto lontano da lui gli sparai, colpendolo.
Purtroppo però gli avevo preso la spalla. Mi guardò ostile e puntò la pistola
su di me. Charlotte gli si gettò addosso con tutto il suo peso, facendolo
cadere a terra. Qualcuno nel frattempo buttava a terra me. Un colpo partì.
Derek mi aveva spinto per evitare che il secondo proiettile dell’assassino mi
colpisse. Mi voltai per un attimo indietro e vidi le testa riccioluta di Jane
ancora a terra. Un brutto presentimento, sempre più concreto, mi si fece strada
nella mente.
-Agente
Lisbon!- urlò Hotchner.
Alzai
lo sguardo e sbarrai gli occhi. John stava puntando la pistola contro di me.
Maledizione perché nessuno sparava? Poi un colpo. Io e l’assassino continuammo
a guardarci, occhi negli occhi. Poi, cadde. Spostai lo sguardo di un paio di
metri. Charlotte con in mano la pistola di John il Rosso. Il suo sguardo deciso
ed arrabbiato era identico a quello che avevo visto negli occhi di Jane quando
aveva ucciso il tizio che si era spacciato per John quella notte al bar. Quando
i nostri sguardi si incrociarono quell’espressione venne sostituita da
un’altra, più triste e addolorata. La pistola le scivolò dalle mani e curvò le
spalle, come se stesse portando un enorme fardello. Alzò la testa e si guardò
intorno, per poi fermarsi su un punto. Mi girai anche io. In fin dei conti era
andato tutto bene. Ma quei boccoli d’oro erano ancora nella medesima posizione.
Jane no! Con le poche forse che mi
rimanevano mi alzai in piedi. Vidi Charlotte trascinarsi vicino al suo corpo e
lasciarsi cadere in ginocchio. Gli toccò i capelli, il viso, le spalle. Lo
scosse leggermente.
-Patrick.-
lo chiamò.
Non
rispose.
-Patrick.-
lo chiamò.
Non
si mosse.
-Patrick.-
la voce gli si spezzò.
Niente.
-Patrick.-
era scoppiata a piangere.
Mi
inginocchiai in parte a lei, sfiorando con una mano un braccio di Jane coperto
dalla camicia azzurra che portava quel giorno.
-Papà.-
eccolo, la prima volta.
Per
la prima volta aveva potuto chiamarlo per nome.
-Papà.-
Mi
si stava straziando il cuore. Ogni parola, ogni lacrima… erano un colpo diretto
a me e al cielo. Le misi una mano sulla spalla.
-Charlotte.-
la chiamai.
Ci
guardammo. Rimasi ad ammirare quegli occhi cerulei di cui mi ero innamorata
otto anni addietro. Pochi minuti e ci stringevamo, consolandoci a vicenda. Chi
sa tutti gli altri cosa stavano facendo, pensando, dicendo… non importava. Nel
frattempo sentimmo arrivare le auto della polizia, le sirene spiegate, i
lampeggianti accesi. Ma non importava.
Capitolo 7 *** Ma tu non passerai... perché sei Amore ***
MA TU NON PASSERAI… PERCHE’ SEI AMORE
MA
TU NON PASSERAI… PERCHE’ SEI AMORE
POV.
CHARLOTTE
Parlano
di te,
le
stelle mentre io cammino
parlano
di te
i fiori
ai bordi della strada
come
una poesia
ascolto
le persone,
tutti
parlano di te, che sei nell’aria
vola un
aereoplano e lascia la sua scia
scrive
in mezzo al cielo il tuo nome in mezzo a un cuore
e
sognare…
per te
che sei, per te che sei
l’unica
cosa che vorrei
per te
che sei…. La mia vita
Era
la mattina del quarto giorno quando un tocco leggero sulla spalla mi svegliò.
Era Teresa. Ci sorridemmo. In quei giorni che eravamo state a stretto contatto
ci eravamo conosciute meglio e avevo avuto così modo di capire del perché mio
padre si fosse innamorato così tanto di lei. Il sole entrava dalla finestra
sulla destra della stanza, e le pareti bianche non facevano altro che
accentuare la sua luce. Sbadigliai e mi stropicciai gli occhi. Inarcai la
schiena per potermi sgranchire, in fin dei conti rimanere tutto il giorno e
tutta la notte sulla stessa sedia nella medesima posizione non era il massimo. Ma
d’altronde se si sta in un ospedale non ci si poteva aspettare di meglio. Come
sempre, dopo quel breve scambio di sguardi, ci voltammo a guardare quel volto
che dormiva placido e sereno sui cuscini candidi. I riccioli biondi sempre
scompigliati erano sparsi sul letto, i lienamente finalmente rilassati, non più
turbati da alcuna preoccupazione. Ogni volta che pensavo ai giorni appena
trascorsi mi veniva da sorridere. Com’era buffo che una vicenda tanto triste e
drammatica potesse finire così bene e con tante novità. La sua mano tra le mie
(ovviamente quando non era tra quelle di Teresa quando io ero a prendere un
caffè al bar del piano di sotto). E pensare che avevo avuto così tanta paura di
perderlo. Ricordo quella notte in cui John il Rosso si arrabbiò perché gli
avevo detto che volevo bene a mio padre. Era per questo che aveva tentato di
ucciderlo. Forse in realtà l’unica cosa che gli era sempre mancata era qualcuno
che gli volesse bene. E com’era buffo che io mi fossi affezzionata in così poco
tempo a lui. Quella volta avevo avuto tanta paura di perderlo. Ricordo di
averlo chiamato, più volte, ma lui non aveva mai risposto. Teresa mi aveva
preso tra le sue braccia e mi aveva cullato finchè non avevo smesso, finchè non
mi ero addormentata sopraffatta dalla stanchezza e dal peso di quella giornata.
La bella notizia ce la diedero i paramedici dell’ambulanza che Hotchner aveva
chiamato. Era ancora vivo. Il proiettile lo aveva colpito al torace, aveva
perso molto sangue, ma era ancora vivo. E notizia ancora più bella, ce la diede
il medico dell’ospedale, quando uscì da quelle porte grigie per dirci che se la
sarebbe cavata. Avrebbe soltanto dovuto aspettare alcuni mesi prima di tornare
a saltare e giocare come un ragazzino. A quell’affermazione io e Teresa ci eravamo
guardate pensando la medesima cosa: non sarebbe servito farlo stare in piedi, a
lui per fare il ragazzino bastava la bocca… e anche le mani. Mi alzai per far
sedere Teresa, che occupò subito il mio posto.
-Perché
non vai a fare un giro?- mi domandò seriamente preoccupata Teresa.
La
guardai ed annuii. Effettivamente fare un po’ di movimento mi avrebbe fatto
bene.
-Okay.
Vado al bar se hai bisogno di me.- le dissi.
Ci
impiegai pochi minuti ad andare di sotto e ordinare un caffè. Bevvi il liquido
scuro che mi riempì subito la bocca del suo sapore dolce ed intenso. Appena lo
finii tornai di sopra. Non riuscivo a stare lontana da quel letto per più di
pochi minuti. Quando entrai però mi fermai sulla soglia a bocca aperta, come
una scema. Lisbon era in piedi, il volto rigato di lacrime e un sorriso di
contentezza dipinto in volto, gli occhi luccicanti dalle lacrime e dalla
felicità, china su Jane; sveglio. Jane mi guardò con quelle sue pozze azzurre,
tranquillo e contento, senza problemi. Sentii il cuore scoppiarmi in petto
dalla felicità. Mi catapultai su di lui. Gli gettai le braccia al collo, stando
attenta a non fargli male dove aveva la ferita. Lo abbracciai forte, per quello
che mi consentiva quell’assurda posizione perlomeno. Sentivo le lacrime di tutti
quei giorni venire a galla e inumidirmi gli occhi. Jane mi strinse a sua volta
affetuoso. Respirai a fondo il suo profumo di cannella. Quando lo guardai stava
sorridendo, come me.
-Iniziavo
a temere che non ti saresti più svegliato.- gli dissi. Lui mise il broncio.
-Bugiarda.
Sapevi che mi ci sarebbe voluto ancora poco tempo. Lo sapevi.- mi disse. Aveva
ragione. In un qualche modo sentivo che non sarebbe mancato molto. Era come se
fossimo collegati con un cavo satellitare.
-Il
medico è già stato qui. Ha detto che se tutto va bene domani potrà uscire.- mi
disse –Così saremo sicuri che non romperai le scatole a tutti gli infermieri
del reparto.- reclamò a lui, da mamma sapiente. Lui sbuffò.
-Oh,
andiamo Lisbon! Non sono poi così insopportabile. Altrimenti non saresti qui.-
fece lui birbacchione. Teresa arrossì vistosamente. Colpita a segno.
Patrick
e io ci guardammo e sorridemmo pensando la stessa cosa.
3
GIORNI DOPO:
POV. LISBON
Passa
il giorno, passano le ore
Passa
il tempo, passa anche il dolore
Passa tutto
ma tu non passerai… Amore....
Gira il
mondo, passa la tempesta
Cambia
il vento e ritorna il sole
Passa
tutto ma tu non passerai
Perché
sei amore… sei amore… sei amore
Erano
le quattro del pomeriggio ed eravamo tutti nel bullpenn. Da quando John il Rosso
era morto tutti i nostri casi successivi parevano delle vere e proprie
bazzecole. Jane si era rimesso ed io ero contentissima. Charlotte ormai passava
più tempo al CBI e con lui che non all’orfanotrofio. Alla fine Jane ne avrebbe
richiesto l’affido e avrebbe fatto bene. Noi tutti lo avremmo appoggiato. In
fondo era una bravissima, buonissima e onestissima persona. Stavo mettendo a
posto l’ufficio quando sentii un po’ di trambusto. Gente che si ammassava nel
bullpenn guardando tutti nello stesso punto. Che cosa diavolo stava combinando
Jane questa volta?
Mi
portai nella stanza adiacente, mischiandomi tra la folla e vidi Jane che aveva
spostato le sedie davanti alla sua scrivania e si era issato in piedi su di
essa. Oddio.
-Jane,
posso chiederti che stai facendo?- gli chiesi, cercando di trattenermi
dall’urlargli dietro.
-Oh,
Lisbon. Giusto in tempo.- fece lui.
Vidi
Charlotte non molto lontano, in prima fila sul lato destro. Incrociò il mio
sguardo; la sua aria era soddisfatta. Qualcosa mi diceva che sapeva cosa stava
per combinare il padre. Jane tossicchiò due volte e tutti fecero silenzio.
-Come
tutti sanno è da ben otto anni che faccio parte di questa meravigliosa squadra
al CBI. E ne sono orgoglioso. Ho saputo mettere a frutto il ‘dono’ che mi è
stato concesso e insieme abbiamo risolto moltissimi casi.- Dono? Da quando Jane definiva il suo un dono? Non l’aveva mai fatto! –Abbiamo
affrontato cose di ogni tipo. Momenti belli, brutti, difficili, traumatici,
divertenti, di paura… eppure, siamo ancora qui. Tutti insieme. Ecco ragazzi io
vi voglio bene. Voglio bene a tutti voi. Non sono bravo ad esprimere i miei
sentimenti, ne tanto meno a parole. Lo ammetto. Sono fortunato ad aver trovato
delle persone come voi, perché delle persone normali probabilmente mi avrebbero
già lasciato per conto mio. Me ne rendo conto di essere stato e di essere
tutt’ora, un irresponsabile, codardo, meschino, sadico e contorto consulente.
Ho fatto scherzi, burle e in certi casi imbrogli a tutti. Ho messo nei guai la
mia squadra e il mio capo. Ed è proprio il mio capo a cui voglio rivolgermi
adesso.- tutti gli sguardi si spostarono su di me. In quel momento avrei tanto
voluto sprofondare, far sì che il pavimento si aprisse a metà e mi
inghiottisse. Lo guardai chiedendogli: che
diavolo stai facendo? –Adesso lo vedrai Lisbon.- mi sorrise. Lo aveva fatto
di nuovo: mi aveva letto nella mente. –Teresa Lisbon ha accettato uno come me a
far parte di una squadra di poliziotti. È stato un atto azzardato visto la
persona che sono. Gliene ho combinato di tutti i colori. Ho risolto casi e
trovato prove in modo molto poco professionale, ho messo nei guai o in pericolo
colleghi, altre persone o lei stessa. L’ho fatta anche sospendere una volta. E
me ne vergogno amaramente. La verità è che sono troppo orgoglioso per
ammetterlo. Ed ogni volta Teresa Lisbon era lì, pronta a difendermi, a
giustificarmi, a tirarmi fuori dai guai. Se non fosse stato per lei non sarei
qui adesso. E continua testarda a provare a mettermi in riga, anche se sa bene
che non ce la farà. E io ti ringrazio per questo Lisbon.- lo sguardo che mi
rivolse, era dolce, da cucciolo; mi si intenerì il cuore… -Ti ringrazio davvero
molto. Mi hai accettato con tutti i miei difetti e i miei pochi pregi. Hai
sempre minacciato di spararmi e non l’hai mai fatto sebbene ti abbia dato molti
motivi per farlo. E malgrado tutto, continui a tenermi con te. Mi sostieni. Mi
ascolti. E se sono nei guai, se qualcuno sta per uccidermi tu arrivi sempre.
Teresa io non sto facendo questo discorso perché la pallottola che mi ha
colpito mi ha dato di matto al cervello. E non sono ammattito o insavito di
colpo. Semplicemente sto cercando di dirti che ti voglio bene, che voglio
continuare a volerti bene e che se avrai bisogno di me ci sarò sempre. Che
manterrò la promessa che ti ho fatto.- scese dal tavolo e si mise di fronte a
me –Ti salverò sempre.- stavo per piangere, il cuore batteva talmente forte che
i miei polmoni avevano perso il ritmo; non riuscivo più a respirare –Teresa
quello che in verità sto cercando di dirti è… è che… - sembrava sempre più
vicino - …è che ti amo.- ora potevo morire. Invece, d’un tratto, come d’incanto
ricominciai a respirare. Poi lo vidi inginocchiarsi davanti a me e prendermi la
mano. Oh, no! Non è possibile! Non può
star succedendo proprio a me! –E’ così Lisbon, sta succedendo proprio a te.
E continuerà a succedere, tutte le volte che vorrai.- le sue parole, il suo
sguardo; stavo per andare in iperventilazione –Teresa Lisbon, vuoi sposarmi?-
ero pietrificata, imbambolata, silenzio. La testa completamente vuota, e non
pensavo a niente. Dovevo pensare, me lo stavo imponendo, ma non potevo, non lo
stavo facendo; semplicemente perché non ce ne era bisogno.
-Sì…
- titubante –Sì, Patrick Jane! Voglio sposarti!- e Dio solo lo sa quanto lo
volevo.
Lui
si alzò regalandomi quel sorriso raggiante di felicità che a me piaceva tanto.
Gli sorrisi anche io, come avrei voluto fare da tempo, come non avevo mai
fatto. Gli gettai le braccia al collo, lui mi prese la vita e mi fece fare una
piroetta. Anche Charlotte stava sorridendo, felice e orgogliosa. Il bacio fu
improvviso, ma molto dolce anche se breve. Tutti applaudirono e qualcuno
fischiò. La mia squadra era in prima fila. Alla fine, avevamo battuto sul tempo
Rigsby e Van Pelt. L’ironia della sorte.
Per te
che sei
Per te
che sei … l’unica cosa che vorrei
Per te
che sei ….. sei amore
Passa
il giorno, passano le ore
Passa
il tempo, passa anche il dolore
Passa
tutto ma tu non passerai….Amore
Gira il
mondo quasi inesorabile
Passa
un brivido come una vertigine
Passa
tutto ma tu non passerai……Perché sei amore
Sei
amore…
Sei
amore…
Non
ci credevo, non poteva essere, non stava accadendo proprio a me! Ero nella
stanza dell’albergo dove Jane aveva prenotato per il pranzo e la cena dopo il
matrimonio, in modo che gli invitati che abitavano lontano potessero fermarsi
lì a dormire. Mi stavo guardando allo specchio, il mio solito broncio (che lui
aveva detto che adorava) stampato sul viso mentre osservavo il mio riflesso.
Avevo un abito lungo, bianco a balze leggere… meraviglioso. Le spalle scoperte,
le scarpette bianche e una collana di diamanti che mi avevano regalato Jane e
Charlotte subito dopo la sceneggiata al distretto del CBI. Sorrisi a quel pensiero. Quel momento era stato
proprio bello, magico, fantastico…. Mi sedetti sul letto dietro di me,
continuando a fissarmi. Malgrado tutte quelle cose stupende che erano accadute
non riuscivo a convincermi, a credere che fosse giusto… a dirla tutta, che me
lo meritassi. Qualcuno bussò piano alla porta prima di entrare. Era Charlotte.
Anche lei indossava un abito bianco, tubolare che le arrivava sopra le
ginocchia, gli spallini sottili e sopra un coprispalle dello stesso colore. I
capelli raccolti dietro la nuca in una strana acconciatura: era molto bella.
Chissà se assomigliava ad Angela? Se era così, di certo era molto bella.
-Ehi
Teresa, che ti succede?- mi chiese dopo aver chiuso la porta con aria
seriamente preoccupata. Mi si avvicinò e io la guardai da sotto in su.
In
quel momento mi sentivo davvero una bambina che fa i capricci.
-Secondo
te sto facendo la cosa giusta?- le chiesi.
-Tu
ami Patrick?- mi chiese a bruciapelo.
-Sì.-
risposi. Non avevo nemmeno dovuto pensarci. Era automatico.
-Lo
vuoi sposare?- continuò.
-Sì.-
-Sei
felice all’idea di passare con lui il resto della tua vita?-
-Sì.-
-Allora
qual è il problema?- sembrava sinceramente non capire.
-Il
problema non è Jane, sono io. E se non sono all’altezza?- le chiesi con una
nota di isteria nella voce. Mi si sedette in parte, comprensiva. Incredibile
come in quel momento sapesse essere così adulta; probabilmente tutti quegli
anni da sola in un orfanotrofio avevano contribuito a farla maturare in fretta.
-Perché
pensi questo? Sei una bellissima persona e una bella donna. Sei forte e
coraggiosa, ma sai essere anche sensibile e comprensiva. Se in gamba e credimi
se ti dico che Patrick non ti avrebbe mai chiesto di sposarti se non sapesse
quanto in realtà sei speciale.- mi voltai a guardarla.
-Lo
credi veramente?-
-Tutti
noi siamo speciali Teresa. Basta solo, crederci un po’ di più.-
Ci
guardammo e prima che potessimo pensare ci ritrovammo abbracciate. Quando ci
staccammo la tristezza si era volatilizzata lasciando spazio solo ad
un’impellente agitazione prematrimoniale. Ero in ansia e nel panico; Charlotte
si mise a ridere.
-Sei
identica a tuo padre.- la sgridai scherzosamente.
-Sì,
lo so.- mi rispose alzandosi e andando verso la porta.
-Charlotte.-
si voltò a guardarmi. –
-Grazie.-
Mi
sorrise ed uscì. Calai il velo sul mio volto incipriato, era il momento.
POV. JANE
Passa
il giorno, passano le ore
Passa
il tempo, passa anche il dolore
Passa
tutto, ma tu non passerai…. Amore
Gira il
mondo, passa anche l’estate
Passa
il caldo e passerà il Natale
Passa
tutto, ma tu non passerai
…..perchè
sei Amore
Sei
Amore…
Sei
Amore…
Sei
Amore....
C’erano
tutti. Era tutto perfetto. Le sedie bianche disposte su due file su
quell’immenso prato verde, gli ospiti vestiti dei più svariati colori; tutti
eleganti. C’erano tutti i nostri colleghi, tutti nelle prime file. L’altare
rivolto verso il mare al limitare del giardino che terminava in un diruppo a
picco sull’acqua. Quel rumore era rilassante. Mi era sempre piaciuto, sin da
quando ero bambino fino ad ora. Il pastore era già in posizione dietro il
tavolo dalla tovaglia candida. Le due colonnine che fungevano da decoro erano
state decorate con fiori rosa e bianchi. Era tutto perfetto. Mancava solo lei.
O meglio, loro. Sarebbe stata Charlotte ad accompagnare Teresa all’altare, in
mancanza del padre e dei fratelli. Ero emozionato, terribilmente. Avevo già
vissuto un matrimonio, ma questa volta era diverso. Forse perché si trattava di
un’altra persona. Due cose per quanto possano essere simili non saranno mai
uguali, è la regola. Con Angela era stato tutto molto più tranquillo e disteso,
certo ero stato emozionato anche allora. Ma adesso il mio cuore galoppava come
un cavallo impazzito, non riuscivo a formulare un pensiero coerente abbastanza
lungo da dargli voce. Non avevo ancora spiccicato parola da ben un’ora. E, dal
modo in cui mi guardava Cho, ne dedussi che se ne fosse accorto anche lui. Il
suono dei violini che avevamo ingaggiato per suonare mi riscossero e le vidi,
in fondo a tutti. Erano due angeli nelle loro candide vesti, venute a salvarmi
per farmi diventare una persona nuova. Gli archi intonarono la marcia nuziale.
Mi sentii sollevare oltre le nuvole. A passi lenti e guardando in avanti con
sguardi fieri mi vennero incontro. Non so chi di noi tre avesse gli occhi più
brillanti di felicità e chi il sorriso più dolce. Solo che credetti che per il
resto della mia vita non sarei mai riuscito a togliermi quel sorriso dalla
faccia. Mi sentivo un ebete. Ma a consolarmi, ci penso l’espressione emozionata
della mia futura sposa. Charlotte si posizionò nel primo posto nella prima fila
dietro di me. La celebrazione fu corta, ascoltavo a malapena quello che diceva
il prete. Recepivo le frasi più importanti, le formule da recitare, recitai i
versetti che erano di mia competenza, il mio giuramento (quello cercai di dirlo
in modo tale da far capire a Lisbon quanto effettivamente ci tenevo a lei).
Sapevo che si stava torturando la mente con domande futuristiche senza
risposta, ma io ce l’avevo la risposta; era perfetta. Quel giorno avevo gli
occhi solo per lei, ma probabilmente li avevo sempre avuti.
-Lo
sposo può baciare la sposa.-
Ecco
che iniziavo a sentire le farfalle nello stomaco spiccare il volo. Le sollevai
più delicatamente possibile il velo, mi sorrise e la testa perse completamente
il senso della ragione. Le sorrisi a mia volta e le presi il volto tra le mani,
delicatamente quasi avessi paura di romperla. La vidi trattenere il respiro e
arrossire, andai in defibrillazzione. La baciai. Un bacio lento e lungo,
intenso. Ma che stava per dire tutto. Uno scroscio di applausi ci avvolse, ma
non li sentivo, erano un ronzio lontano. Mi circondò il collo con le braccia e
mi sembrò davvero di volare, solo che questa volta non ero solo. In un raptus
di felicità la presi in braccio e la feci girare. Sentii la sua presa saldarsi
dietro al mio collo e la sua risata insieme alla mia, eravamo una cosa sola.
Quando la posai a terra ci voltammo sistematicamente verso Charlotte, non
sembrava turbata dalla mia totale attenzione nei suoi confronti. Mi sorrise e
noi la abbracciammo, tutti e tre insieme.
POV. CHARLOTTE
There was a boy…
A very strange enchanted boy.
They say he wandered very far, very far
Over land and sea,
A little shy and sad of eye
But very wise was he.
And then one day,
A magic day, he passed my way.
And while we spoke of many things,
Fools and kings,
This he said to me,
“The greatest thing you’ll ever learn
Is just to love and be loved in return.”
-Charlotte
vieni?-
-Arrivo.- urlai.
Presi
su un paio di tovaglioli e corsi fuori di volata. L’aria fresca mi colpì la
faccia, svegliandomi del tutto. Quella mattina i miei genitori avevano deciso
di fare un picnic in giardino. Da quando ci eravamo trasferiti nella villa sul
mare di mio padre tutto era diverso. Eravamo tutti più tranquilli e più sereni,
risolvevamo i problemi civilmente e con calma, senza quasi mai litigare. Poi
beh, siamo umani anche noi. Anche Lisbon non era sempre così nervosa e
stressata del lavoro, adesso aveva un marito del tutto pazzo, più bambino lui
della sua nuova figlia, a cui badare. Patrick non si arrabbiava più a menzionare
John il Rosso; anche perché con la sua morte non fu praticamente più nominato.
E in quanto a me, beh… avevo lasciato il Rosemary e adesso avevo una casa, una
famiglia fantastica e la mia vita da vivere come tutti gli altri ragazzi… come
avevo sempre sognato. Certe volte mi svegliato e credevo di essere ancora
all’orfanotrofio, poi mi voltavo verso la finestra e la luce azzurra del cielo,
illuminando un poco la mia nuova stanza, mi faceva tornare alla realtà. La mia.
Presi un profondo respiro mentre li raggiungevo sotto l’albero dove avevano
steso la tovaglia e appoggiato il cestino.
-Ecco i tovaglioli.- acclamai.
-Perfetto.-
mi disse Patrick –E adesso giù per terra!- mi prese per un braccio e mi tirò
giù così all’improvviso che picchiai malamente contro entrambi. Per fortuna senza conseguenze gravi.
-Patrick
sei il solito bambino.- lo rimproverò Lisbon.
-Mia
dolce Teresa, ma tu adori quando io faccio il bambino.- la provocò lui.
-Questo
non è vero… - tentò lei, ma con un bacio la discussione fu chiusa.
Ridemmo
e scherzammo, mangiando sandwich e tramezzini.
-Fermi
tutti!- esclamò ad un certo punto Teresa mettendosi in silenzio ed ascolto. La imitammo. Poi ci guardò.
-Ha scalciato.-
Subito
ci mettemmo in torno a lei, abbracciandola, con una mano sul suo pancione ormai
gonfio di otto mesi. Non avevano voluto sapere se era maschio o femmina;
sorpresa.
-E’
femmina.- proruppe gentile Patrick.
Un
ultimo sguardo ed un sorriso pieno di gioia. Rimanemmo così, accoccolati in
quell’abbraccio che ci univa tutti e che ci avrebbe sempre accompagnato,
insieme. Tutti e quattro.