Mean di CatchingLightning (/viewuser.php?uid=128653)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piper ***
Capitolo 2: *** Dioniso ***
Capitolo 3: *** Leo ***
Capitolo 1 *** Piper ***
You,
with
your words like knives
And swords
and weapons that you use against me
You, have
knocked me off my feet again
Got me
feeling like nothing
-Ah
ah!
-Smettetela!- strillò
Piper, arrabbiata. -Subito!
Dopotutto, a sette anni è
facile arrabbiarsi con i compagni di classe che ti prendono in giro.
Piper McLean era in
seconda elementare, ma non si trovava per niente bene in quella
scuola. Malgrado avesse cercato di farsi qualche amica, dopo qualche
giorno aveva già lasciato perdere: le bambine di quella
scuola
erano le classiche "figlie di papà", ricchissime e
viziate, e, sebbene avessero la sua età, si mettevano tanto
di quel trucco che sarebbe bastato per tre secoli di feste di Halloween.
Sapeva che non sarebbe riuscita a sopportarle per molto tempo.
In più, Piper non
era come loro. Lei non rispecchiava lo stereotipo della classica
bimba di sette anni, amante dei fronzoli e delle bambole; Piper era
un maschiaccio, che saltava sullo skateboard e faceva surf nel tempo
libero.
Piper sapeva bene che non
l'avrebbero mai accettata tra loro. Non che a lei importasse, per
carità.
Ma non vedeva perché
dovessero avercela tutti con lei.
-Non è vero!-
gridò a squarciagola. L'edificio parve tremare.
-Ah ah, come no!- rise
una bimba dai boccoli mori super cotonati-e-acconciati, scostando i
capelli dalla spallina del vestitino in seta rosa confetto. -Abbiamo
ragione noi, come sempre.
Piper era davvero furiosa.
Non poteva sopportare quelle galline un attimo di più.
-Ridi adesso, finché
puoi!- replicò la castana, stringendo i pugni e digrignando
i
denti. -Voglio vedere come farai quando non avrai più denti
in
bocca!
La mora fece una smorfia
disgustata. -Sei peggio di un animale randagio, Piper Cherokee.
Un paio di altre bimbe
accorsero e si disposero a semicerchio attorno alla mora, ridendo
senza ritegno.
Piper era certa che quella
fosse la peggior ricreazione di sempre.
-Chiamami ancora così
e ti prendo a pugni veramente!- sbraitò Piper.
-Perché?- replicò
sarcastica la moretta, piantandosi le mani ai fianchi con fare di
superiorità. -Non è forse per questo che tuo
padre ti
ha chiamato Piper? Perché è il nome di un aereo!
-Non è vero!-
replicò Piper, inferocita. Era talmente arrabbiata che
avrebbe
potuto far crollare i muri della scuola con un dito.
-E allora perché
ti ha chiamato così?- le chiese una biondina, sprezzante.
-Non lo so, ma non è
di certo per quello!
-Allora sai cosa
facciamo?- propose la biondina. -Quando vai a casa, chiedi a tua
madre perché ti abbiano chiamato così.
-Oh, ma aspetta!-
aggiunse la mora, con un ghigno malefico sul volto. -Tua madre ti ha
abbandonato quando eri piccola, non è vero?
“Ora basta!”
pensò Piper.
-Povera donna, la
capisco!- esclamò la mora. -Chissà che tipo
doveva
essere per aver avuto una figlia del genere!
“Ora basta!”.
-Capisco perché ti
ha abbandonato...
“Ora basta!”.
-... e perché sei diventata
cleptomane...
“Ora
basta!”.
-... caro aereo Piper
Cherokee!- concluse la mora, sghignazzando.
La vista di Piper di
annebbiò completamente, ed in quell'istante perse
completamente il controllo delle proprie azioni.
-Ora basta!- urlò,
con tutto il fiato che aveva in corpo.
Saltò sullo
skateboard e travolse l'allegra combriccola di bambine. Caddero tutte
a terra proprio come birilli, solo che loro erano birilli urlanti e
doloranti.
La bambina dai boccoli
mori iniziò a piangere come un'ossessa, mentre Piper
scendeva
le scale in equilibrio con lo skate sul corrimano.
Le urla della mora fecero
accorrere la maestra, appena in tempo per vedere Piper fuggire su uno
skateboard sul corrimano.
-McLean, fermati subito!-
urlò la maestra, ma Piper non la stette neppure a sentire,
dirigendo lo skate verso l'uscita dell'edificio, saettando sul
pavimento di marmo.
Oh, sarebbe stata espulsa
per quello, lo sapeva benissimo. Ma non gliene fregava più
di
tanto. Ovviamente, Jane le avrebbe trovato un'altra scuola, ma era
certa che non si sarebbe trovata bene neppure in quella, come in
nessun'altra che avesse frequentato prima di allora,
dopotutto.
Scavalcò in cancello con un balzo lesto, con la
sensazione che non l'avrebbe varcato mai più.
Imbracciò lo
skateboard.
Alzò la mano,
chiamando un taxi.
Aprì la portiera,
si sedette sul sedile e borbottò un indirizzo al conducente,
così da poter essere solo a due isolati di distanza da casa
di
suo padre: avrebbe percorso il tratto di strada mancante a piedi,
così da passare quasi inosservata.
L'autista inarcò
un sopracciglio. -Ce li hai i soldi per pagare, piccina?
-Lei vorrebbe far pagare
la corsa ad una bimba di sette anni appena fuggita da scuola?-
replicò prontamente Piper.
Il conducente parve
interdetto. -Io... uh, no, certo che no.
Piper sorrise. -Grazie
mille.
L'autista mise in moto e,
ben presto, la loro auto si confuse con gli altri taxi sulle strade
cittadine.
“Non avevano il
diritto di prendermi in giro!” si consolò Piper.
“Non
possono parlar male di mia madre e di mio padre! Oh, se solo
sapessero...”.
Una lacrima rigò le
guance di Piper, ripensando a sua madre.
Un'altra scese per suo
padre, perché Piper non voleva deluderlo.
Una terza per se
stessa, perché lei non doveva essere presa in giro.
Una quarta lacrima scese
per un altro motivo ancora, così come la quinta, la sesta, e
così via.
Quando giunse a
destinazione, scese dall'auto il più velocemente possibile,
lasciando il tassista mezzo in trance, e si diresse verso la villa di
suo padre.
Era strano come
continuasse a piangere, Piper era una ragazza forte. Ma forse quello
era troppo da reggere anche per lei.
“Vedrete!”
minacciò mentalmente Piper, mentre le immagini di quel
gruppetto di bimbe cattive le balenava in testa. “Quando
sarò
grande e completamente fuori dalla vostra portata, allora vi
pentirete di essere state cattive!
Tentò di farla
suonare come una minaccia, ma persino nella sua testa sembrava poco
più di una misera autocommiserazione.
Aprì la porta di
casa.
Entrò in salotto.
Suo padre era seduto sulla
poltrona di velluto blu, sfogliando un plico di fogli uniti assieme
dalla graffetta. Sempre quello stupido lavoro.
Quando si accorse che la
sua bambina stava piangendo, scattò subito in piedi e le si
avvicinò preoccupato.
-Che succede, Pipes?
Piper singhiozzò.
-Perché mi hai chiamato Piper, papà?
Someday
I’ll be living in a big old city
And all
you’re ever going to be is mean
Someday
I’ll be big enough so you can’t hit me
And all
you’re ever going to be is mean
Why you
gotta be so mean?
My little corner:
Salve a tutti!
Non che pretenda più di tanto da questa raccolta di
song-fic, ma
nonostante tutto ci tengo parecchio... per chi non conoscesse Piper ma
avesse letto lo stesso, sappiate che questa ragazzina (che
personalmente adoro) appare in The
Lost Hero, ed è una dei protagonisti principali.
La scena qui descritta è un missing moments, ispirato al
ventritreesimo capitolo del libro. Beh, tutte le one-shot saranno
missing moments, quindi... ^^
La canzone che ho utilizzato è Mean di Taylor Swift, e la
trovo parecchio azzeccata sia per mezzosangue che non.
Grazie mille per aver letto, e ringrazio in anticipo coloro che saranno
così cortesi da lasciare una traccia del loro passaggio: mi
fa
sempre un piacere infinito ricevere recensioni, mi rendono sempre
felicissima.
Grazie.
Bacioni, Aly.
Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà
di
Rick Riordan. La canzone s'intitola "Mean" ed è cantata da
Taylor Swift. Non ho scritto questa storia a scopo di lucro.
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Capitolo 2 *** Dioniso ***
You,
with your
voice like nails on a chalkboard
Calling me out when I’m wounded
You picking on the weaker man
Well you can take me down with just one single blow
but you don’t know, what you don’t know...
-Che
razza di babbei...
Un
adolescente sui diciotto anni sedeva su una sedia con un'espressione
parecchio incavolata sul volto ed un calice di vino in mano,
brontolando qualche frase poco carina nei confronti di qualcuno.
Posò
il calice sbuffando a si concentrò alla magnifica visione
del
vigneto che cresceva rigoglioso vicino alla sua abitazione. L'autunno
si avvicinava e, presto, avrebbe avuto la possibilità di
preparare dell'altro vino.
Quel
pensiero era l'unica cosa che lo tenesse dalla depressione
dell'essere diverso da tutti gli altri.
Già,
perché Dioniso non era come gli altri.
Non solo non
era come i comuni mortali, ma non era nemmeno come tutti gli altri
figli di Zeus. Ci si sarebbe aspettato che fosse alto, atletico e
muscoloso oltre ogni limite, che vincesse ogni duello e che fosse
considerato un eroe.
Sì,
altro che eroe! Era considerato la barzelletta della città,
più che altro.
Un disonore
per tutti i figli di Zeus.
Un errore.
Sì,
c'era sicuramente qualcosa di sbagliato in lui: non poteva essere un
figlio di Zeus, nemmeno per idea! Invero, c'erano persino delle volte
in cui si trovava a dubitare lui stesso di chi fosse realmente suo
padre.
Dioniso
sbuffò arrabbiato. Quel giorno si era girato con la luna
storta, quindi meno che mai era in vena di ricevere visite sgradite.
Ma,
chiaramente, un gruppetto di voci di ragazzi chiamò il suo
nome ad alta voce.
Dioniso le
riconobbe immediatamente: erano le voci dei suoi fratellastri.
Strinse i
pugni.
Non aveva la
benché minima voglia di vedere quei quattro fenomeni da
baraccone.
-Dionisuccio!-
chiamarono nuovamente i ragazzi.
Dioniso
balzò in piedi, stringendo ancor più i pugni.
Non li
sopportava proprio.
Lui non
aveva mai fatto loro alcun dispetto, non li aveva mai disturbati e
non si era mai intromesso nelle loro perfette esistenze di figli di
Zeus.
Ma allora
perché dovevano prendersela con lui?
No,
decisamente non poteva sopportarli, né loro né le
loro
angherie nei suoi confronti.
-Che
volete?- urlò Dioniso in risposta, mentre i fratelli
facevano
il loro ingresso nell'abitazione, ridendo e scherzando quasi fosse
casa loro.
-Rilassati,
Dionisuccio!- disse un tizio, sfoggiando un sorriso estremamente
tirato. -Siamo venuti a farti una visitina.
Ecco, lui sì
che era il tipico figlio di Zeus! Capelli mori e occhi blu elettrico.
Alto, atletico, tonico e con i muscoli ben definiti: uno di quei tizi
che se ne vanno in giro per la città a petto nudo e a cui
gli
scultori chiedono di posare per le proprie statue.
Uno di quei
tizi che fanno sentire tutti gli altri delle nullità anche
solo essendo presente.
-Non mi
chiamare Dionisuccio!- protestò Dioniso, offeso.
-Come vuoi,
Dionisuccio.- rispose il tizio, scompigliandosi i capelli con
eleganza.
Gli altri
figli di Zeus erano comodamente stravaccati in ogni angolo della
casa, giocherellando con qualsiasi cosa si trovassero attorno.
-Che volete
da me stavolta?- domandò Dioniso al fratello.
Il moro si
accigliò. -Ma come, non possiamo nemmeno fare un saluto a
nostro fratello?
Dioniso alzò
un sopracciglio.
-L'ultima
volta che siete venuti qui avete scagliato un fulmine sulla mia
cantina.- precisò.
-Dettagli
di nessuna rilevanza, Dionisuccio.- replicò prontamente il
moro, facendo spallucce e ridendo alla vista di un altro figlio di
Zeus con un'anfora incastrata in testa.
Dioniso era
veramente irritato: se avessero continuato così, gli
avrebbero
distrutto la casa una seconda volta, e non ne sarebbe stato troppo
contento.
-Beh, se è
solo per questo potete anche togliere il disturbo.-
l'informò
Dioniso, facendo un cenno molto eloquente in direzione dell'uscio.
Il ragazzo
moro rise.
-Non essere
sciocco, Dionisuccio!- lo avvertì. -Siamo venuti fin qui per
te, in fin dei conti.
-Peccato
che io non ve l'abbia chiesto.- puntualizzò Dioniso.
Il moro
divenne improvvisamente duro d'orecchi.
-Abbiamo in
programma una gara di lancio del disco, questo pomeriggio.-
dichiarò
il moro.
Dioniso fece
spallucce. -Per quello che me ne può importare...
-Oh, no,
non hai capito!- rise il moro. In qualche modo, la sua risata era
alquanto inquietante. -Ci manca un giocatore e abbiamo pensato subito
a te. Verrai a giocare con noi, Dionisuccio.
-No, no,
frena!- lo bloccò Dioniso, con voce ferma. -Io non gioco con
voi dopo che mi distruggete la cantina!
Il moro rise
di nuovo.
Fischiò,
e tutti i fratelli, compreso quello con l'anfora in testa, gli
rivolsero subito l'attenzione.
-Ehi, avete
sentito?- annunciò il moro, mentre gli altri mezzosangue si
riunivano a semicerchio attorno a lui, lanciando le più
svariate occhiate a Dioniso. -Dionisuccio non vuole giocare con noi.
I fratelli
risero, come se fosse un'idea ridicola. La risata di quello con la
testa nell'anfora rimbombò per tutta l'abitazione.
-Già,
perciò se è solo per questo che siete venuti
potete
anche andarvene.- disse Dioniso.
-Oh, tu non
hai capito!- ripeté il moro, con un ghigno sadico sul volto.
-Ci manca un giocatore e tu giocherai, che ti vada o no.
-Dammi
almeno un buon motivo per cui dovrei farlo!- protestò
Dioniso,
alterato.
Il moro
ghignò. -Anche solo per perdere qualche chilo, che dici?
Gli altri
ragazzi presero a ridere sguaiatamente, senza nemmeno un briciolo di
ritegno. E dire che erano figli di Zeus, figurarsi se fossero stati
la progenie di Ares...
-O anche
solo per mettere la testa fuori da questo cunicolo!- aggiunse un
altro ragazzo, spavaldo.
-Puzzi
sempre di vino, per le mani di Briareo!- concordò il moro.
Dioniso
strinse i pugni ancora più forte, fino a farsi quasi
sanguinare le mani.
Non avevano
il diritto di prendersela con lui in quel modo.
Nessuno
aveva questo diritto.
Nemmeno suo
padre l'aveva, figurarsi quei poveracci senza un briciolo di cervello
dei suoi fratelli.
“Smettetela...”
pensò Dioniso, trattenendosi a stento dal mollare un
cazzotto
negli addominali scolpiti del fratellastro.
-Non sei un
atleta!- iniziò un ragazzo, contando sulle dita.
“È
meglio per voi se la piantiate, sul serio...”
-Oh, e non
sei un letterato!- aggiunse un altro.
“Nemmeno
tu lo sei, sottorazza di babbuino!”
-Nemmeno un
poeta, se è per questo.
“Smettetela,
vi avverto!”
Come se
qualcuno potesse leggergli nel pensiero...
-Che cosa
sei, allora?- gli chiese il tizio moro, con un ghigno sprezzante.
La rabbia di
Dioniso venne improvvisamente rimpiazzata dalla desolazione. Lui era
un errore, lo sapeva benissimo. E lo sapevano anche i suoi fratelli,
per inciso.
Avevano
appena detto tutto quello che non era: non era un atleta, non era un
letterato, non era un poeta, non era uno scultore, non era un
pittore... l'unica cosa che gli riusciva bene era preparare il vino,
ma non sarebbe mai stato rispettato per questo.
Appunto, lui
era solo un errore.
Un errore di
Zeus, sceso sulla Terra per sbagliare per l'ennesima volta.
-L'unica
cosa che sai fare è preparare vino!- esclamò
l'ennesimo
ragazzo con lo stesso tono sprezzante dei suoi fratelli, come per
dare voce ai pensieri di Dioniso. -Insomma, cosa sei in
realtà?
“Sono
affari tuoi?” gli rispose mentalmente Dioniso, arrabbiato.
-Oh, te lo
dico io!- intervenne il moro, sempre con il solito tono beffardo.
-Lui è un errore, ecco cos'è!
Dioniso era
sul punto di mettersi a prenderli tutti a calci nei semidivini
fondoschiena fino all'uscita.
Sapeva che
era vero, ma non avrebbe permesso agli altri di ricordarglielo.
-È
lo zimbello della città!- aggiunse il moro, lanciatissimo.
-Tutti ridono di lui, eccome se lo fanno!
Provava
divertimento nel far sentire male Dioniso? Era forse la
manifestazione del sadismo allo stato puro?
Probabile,
ma Dioniso non si sarebbe arreso alle loro offese ed ai loro
tentativi di buttarlo giù così facilmente.
Non
un'altra volta.
Non
di nuovo.
-Ora
basta!- urlò Dioniso. Il terreno tremò sotto i
piedi
dei mezzosangue.
Il
moro smise di ridere, accigliato. -Come, scusa?
-Ho
detto basta!- ripeté Dioniso, più arrabbiato che
mai.
-Fuori immediatamente da casa mia, o vi ci mando io con un pestone
sul didietro!
Gli
occhi del moro avvamparono di rabbia e d'oltraggio. Dioniso sapeva
perché: mai nessuno gli aveva portato così poco
rispetto e non avrebbe di certo lasciato che quel qualcuno fosse
proprio il fratello viticoltore.
-Molto
bene, Dionisuccio.- annunciò. -Noi ce ne andiamo, ma ti
lasciamo un piccolo ricordino della nostra visita.
-No!-
urlò Dioniso, intuendo quello che aveva in mente il moro.
-Oh,
sì, invece.
Un
paio di ragazzini immobilizzarono Dioniso per le braccia e le gambe e
lo condussero fuori dalla sua abitazione. Gli avevano anche tappato
la bocca, altrimenti Dioniso avrebbe preso ad urlare come un ossesso
e sarebbe ricorso ai morsi pur di liberarsi: qualcuno dei suoi
fratelli aveva già avuto modo di testare la
qualità dei
denti del fratello qualche giorno prima, e non ci tenevano a ripetere
l'esperienza.
Così,
una volta condotto all'esterno, tutti i figli di Zeus evocarono un
temporale coi fiocchi, di quelli tuoni-fulmini-e-saette. Il cielo
divenne nero e tutto si fece più buio del Tartaro.
Dioniso
era disperato. Sapeva quali erano le loro intenzioni.
La
risata del moro si perse nel vento, mentre un fulmine colpiva la casa
di Dioniso, mandandola a fuoco. Stranamente, malgrado piovesse, il
fuoco sembrava più ardente e vivo che mai.
Tutti
i figli di Zeus ridevano, sghignazzavano e schernivano Dioniso,
mentre le fiamme ardenti continuavano a danzare addosso
all'abitazione, bruciando qualunque cosa si trovasse sulla loro
strada ad una velocità pazzesca.
Quando,
infine, non rimase che lo scheletro della casa, i suoi fratelli lo
liberarono. Il cielo, però, non si schiarì
affatto.
Dioniso
cadde in ginocchio, preda della disperazione: lì dentro
teneva
tutte le otri di vino. Il lavoro di tutta la sua vita era stato
distrutto nell'arco di tre minuti scarsi.
-Chissà
che questo ti serva ad imparare un po' di disciplina e ti faccia
avere un po' di rispetto per i tuoi fratelli.
Dioniso
alzò lo sguardo, digrignando i denti.
-Rispetto...?-
chiese, con voce carica di rabbia. -Dovrei forse rispettare degli
individui tanto spregevoli che hanno bisogno di distruggere tutto ad
una persona pur di farsi ascoltare? Dovrei rispettarvi?
Il
moro lo fissava allibito: non si aspettava certo che il povero,
debole ed indifeso Dionisuccio reagisse.
-Ve
la prendete con me perché sono il più giovane!-
sbraitò
Dioniso, infuriato. -Io non vi perdonerò mai per questo e
non
vi porterò rispetto nemmeno fra duemila anni!
Il
moro, adirato, era sul punto di tirare un pugno in faccia a Dioniso,
quando qualcosa gli afferrò il braccio, bloccandogli il
movimento.
-Ma
che...?-iniziò il ragazzo, impallidendo.
Quando
realizzò cosa stava accadendo, il colore scomparve
completamente dalla sua faccia: un tralcio di vite gli aveva
immobilizzato il braccio.
-Che
cosa significa?- strillò, in preda al panico, cercando di
strappare il ramo. Tuttavia, più si divincolava,
più la
presa aumentava.
Un
altro trancio gli avvolse le gambe, impedendogli la
possibilità
di scappare, ed un altro gli circondò la gola, sollevandolo
da
terra.
Anche
gli altri figli di Zeus non erano messi tanto bene: alcuni erano
sospesi a mezz'aria come salami, legati per i piedi; quello con
l'anfora in testa, invece, stava venendo sbattacchiato qua e
là
come un frappé,
mentre due tralci lo tenevano per i manici del vaso.
-Sparite
dalla mia vista!- esclamò Dioniso, mentre i tralci
lanciavano
lontano i figli di Zeus.
Avrebbero
dovuto partecipare le viti alla gara di lancio del disco,
altroché.
Dioniso
riprese fiato, ansante.
Non
sapeva bene cos'era successo, era conscio solo del fatto che gli
alberi erano corsi in suo aiuto appena intuito che lui avesse bisogno
del loro intervento.
Dioniso
guardò le macerie della casa con amarezza: non si era
salvato
niente.
Avrebbe
dovuto ricominciare tutto dall'inizio.
Si
accasciò all'ombra di una vita del suo giardino,
accarezzandone il tralcio come se fosse un prezioso gioiello.
-Mi
sono sempre preso cura di voi ed ora mi avete ripagato.- disse. -Ma
ora ricominciavo una nuova vita, okay?
Dioniso
ormai ne era certo.
Non
avrebbe più permesso a nessuno di farsi beffe di lui.
Nessuno
gli avrebbe più messo i piedi in testa.
Per
qualche secondo si illuse che Zeus sarebbe stato fiero di lui e del
modo in cui si era opposto ai suoi fratelli, rispondendo loro allo
stesso modo.
S'illuse
che, forse, avrebbe potuto andare a trovare suo padre sull'Olimpo.
Si
illuse che, magari, la sua vita avrebbe potuto solo che migliorare,
da allora in avanti.
Ma
una lacrima gli ricordò l'amara verità.
Lui
era solo un errore.
Someday
I’ll
be living in a big old city
And all
you’re ever going to be is mean
Someday I’ll
be big enough so you can’t hit me
And all
you’re ever going to be is mean
Why
you gotta be so mean?
My
little corner:
E rieccomi qua!
Non avevo la più pallida idea su chi scrivere questo
capitolo
(Jason o Leo, questo è il problema.) e così ho
ripiegato
su di lui, il tanto amati Signor D.
Questa volta, il missing moments è ispirato al quarto libro,
penultimo capitolo o qualcosa del genere.
È proprio il Signor D che tira fuori l'argomento "la mia
infanzia & co.", così ho pensato di ricamarci un po'
sopra.
Tra parentesi, credo che il ritornello della canzone calzi meglio a lui
che a qualunque altro mezzosangue, mortale, oracolo, Minotauro e chi ne
ha più ne metta.
Grazie mille per aver letto, mi rendete veramente contenta! Spero che
vi sia piaciuto e che siate ancora integri! ^^
Alla prossima one-shot!
Bacioni, Aly.
Ringraziamenti:
Ringrazio di cuore le fantastiche Ella_Sella Lella,
Effie Malcontenta
Weasley ed annie97
che hanno recensito il capitolo precedente e le adorabili persone che
hanno inserito questa storia tra le seguite (nearer e Francy97), tra
le ricordate (Francy97)
e tra le preferite (nearer
e Francy97).
Grazie davvero, mi fate davvero felice! *commozione*
Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà
di
Rick Riordan, che ne detiene tutti i diritti. La canzone utilizzata
è Mean ed è cantata da Taylor Swift. Non ho
scritto
questa storia per scopo di lucro alcuno. |
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Capitolo 3 *** Leo ***
You,
with your switching sides
And
your wildfire lied and your humiliation,
You,
had pointed out my flaws again
As
if I don't already see them.
-Ma
non fatemi ridere!
Leo
non sapeva se essere contento o meno della risposta di sua zia.
Lui
detestava sua zia Rosa. Non avrebbe mai voluto andare a vivere con lei.
Ma
era la sua unica parente.
Leo
aveva solamente otto anni quando la tragedia accadde. E la colpa era
tutta sua, sua e della donna vestita di terra.
Il
figlio di Efesto si era finalmente liberato dalla presenza di
Tía Callida, la sua babysitter demoniaca che aveva cercato
più volte di bruciarlo vivo, e, dopo solo tre anni, a causa
dell'apparizione della donna vestita di terra l'unica ad essere stata
bruciata viva era stata sua madre.
E
tutto questo solo perché lui aveva perso il controllo.
-Signora, lei è l'unica parente rimasta di
questo ragazzo...- tentò di convincerla l'assistente
sociale.
-Non ha altri posti in cui andare oltre che da lei.
Zia
Rosa scosse vigorosamente la testa. -Già è tanto
che
vi abbia fatti entrare in casa mia!- esclamò, stizzita. -Non
ho
intenzione di fare la stessa fine di mia sorella!
L'assistente
sociale sospirò.
Leo
si guardò attorno, sconcertato. Doveva ancora realizzare
completamente l'idea che sua madre non ci fosse più: certo,
lo
sapeva, ma non riusciva a convincersene.
Sperava
che la figura di sua madre sbucasse da dietro l'angolo, regalandogli un
sorriso dei suoi. Che lo chiamasse mijo ancora una volta.
Ovviamente,
sapeva anche che quella speranza era del tutto vana.
Era
consapevole di quello che sarebbe successo: lo avrebbero spedito a
vivere con sua zia Rosa, di sicuro. Leo fece una faccia disgustata:
Rosa Valdez non avrebbe potuto essere più diversa da
Esperanza
Valdez, malgrado fossero sorelle.
Sua
madre era una persona buona e gentile, sempre pronta a dire
qualcosa di carino a chiunque ne avesse bisogno. Era l'unica ad essersi
laureata al college di tutta la sua famiglia in ingegneria meccanica,
ma nessuna azienda l'aveva mai presa seriamente. Lavorava il doppio per
riuscire a sfamare anche Leo, malgrado i risultati degli straordinari
all'officina si ripercuotessero fisicamente su di lei: aveva dei
bellissimi riccioli scuri, come quelli di Leo, ed il suo sorriso era
qualcosa di magico, ma le occhiaie erano state solcate permanentemente
sul suo volto, dandole più anni di quanti ne avesse in
realtà. Le dita di Esperanza erano affusolate e con le
unghie
perennemente corte, ma le mani erano piene di calli a furia di
armeggiare con chiavi inglesi e roba del genere. Aveva delle belle
braccia, ma spesso Leo la vedeva tornare a casa con vari cerotti per
coprire le ustioni, le bruciature ed i tagli.
Zia
Rosa era la classica tipa che chiunque sano di mente avrebbe
etichettato come vezzosa ed egocentrica. Casa sua sembrava il cottage
di Barbie, con le pareti di un disgustoso rosa eccessivamente acceso
che facevano a pugni con il tappeto color ocra ed il mobilio smaltato
di rosso vivo. La donna stessa sembrava una Bratz troppo cresciuta:
finta bionda, con tanto di quel trucco sulla faccia da
sembrare un
gufo appena stato investito da un camion di promotori di make-up di
Sephora, seno e labbra chiaramente rifatti. Le unghie erano
perennemente laccate di rosso come il mobilio o di rosa acceso come le
pareti della casa e portava tanti di quegli anelli sulle mani che
pareva avesse appena saccheggiato una gioielleria. Lo stesso valeva per
i bracciali e per le collante, chiaro. Il suo guardaroba straripava di
abiti attillatissimi lunghi sino ai piedi e di minigonne veramente
mini
plissettate, che spesso portava con calze retate: zia Rosa diceva che,
vestendosi così, assomigliava tantissimo a qualche attrice
famosa di cui Leo non si era mai preso la briga d'imparare il nome.
Esperanza
era solare e cordiale, spensierata e sempre allegra; Rosa era cinica e
spietata, cattiva ed egoista.
Era
chiaro che Leo non la sopportasse.
-Signora Valdez, la prego...- disse l'assistente sociale.
Zia
Rosa incrociò le braccia.
Leo
alzò lo sguardo per guardare in faccia il biondo assistente
sociale.
"Che vita dura deve avere, quel tipo." constatò, prima che
gli occhi gli riprendessero a pizzicare.
Era
più forte di lui: anche un oggetto qualunque gli ricordava
sua madre, e non poteva far altro che distogliere lo sguardo in
continuazione, sull'orlo delle lacrime.
-Io detesto i bambini!- strillò zia Rosa.
-Sono sporchi, puzzolenti e rientrano sempre a casa lerci e con i
vestiti infangati. Ma se c'è qualcosa che non avevo mai
capito
di quest'essere...
Zia
Rosa lanciò uno sguardo disgustato a Leo ed il suo viso si
contrasse in una smorfia d'orrore. -... è che fosse un
maniaco
omicida.
Leo
capì sì e no la metà delle parole di
zia Rosa,
ma il biondo venticinquenne parve semplicemente allibito da quella
frase.
-Signora Valdez, ma si rende conto di quello che ha
detto?- domandò, basito. -Come può pensare che
Leo abbia
appiccato quell'incendio volontariamente?
Zia
Rosa fece una faccia scettica. Evidentemente, era l'unica ad aver
intuito, sempre nei limiti di un mortale, che Leo avesse qualcosa di
diverso.
Diverso,
non necessariamente negativo: ma sia zia Rosa che Leo erano convinti
che fosse una nota di biasimo e basta.
"Invece è tutta colpa mia!" si maledì
Leo, alzando gli occhi al soffitto cercando di non piangere. "Mamma...
ti prego, mamma, perdonami...".
L'assistente
sociale parve accorgersi che Leo fosse sull'orlo delle
lacrime, così raccolse la propria borsa di cuoio contenente
i
documenti per l'affidamento che fino a poco prima era stata poggiata
sul pavimento ocra.
-Credo che sia meglio che vi lasci scambiare quattro
parole.- concluse il venticinquenne, risoluto. Ma Leo si accorse delle
occhiate di puro sdegno che il giovane lanciava a zia Rosa. -Da soli.
Calcò
bene su queste ultime due parole, dopodiché
girò i tacchi e si chiuse la porta di vetro alle spalle,
lasciando Leo e zia Rosa soli. Leo sapeva che il biondo ragazzo non era
andato via: si era solo accomodato in una delle poltroncine in pelle di
leopardo dell'ingresso, probabilmente appostandosi nei presi della
porta per intervenire in caso la situazione degenerasse.
"Oh, lo farà." si disse Leo. "Con zia Rosa le cose
degenerano sempre.".
Zia
Rosa continuava a guardarlo di sbieco. -Mi fai proprio schifo.
Leo
non se la prese più di tanto: già quant'era
piccolo veniva definito da zia Rosa una nullità,
quindi aveva sviluppato una sorta di abitudine ai suoi commenti
sprezzanti. Anzi: un giorno passato senza cercare di stracciare
l'autostima del nipote, per zia Rosa era un giorno sprecato.
Leo
non si mosse né disse nulla. Si limitò a fissare
quella sottospecie di zia, impassibile.
-Oh, lo dicevo ad Esperanza che sarebbe finita così!-
esclamò la bionda, roteando gli occhi.
La
mascella di Leo rasentò il suolo a quell'affermazione. Come
poteva zia Rosa sapere che avrebbe ucciso sua madre?
No,
non era possibile! Zia Rosa non era une veggente! Ma l'idea che lei
fosse al corrente di tutto lo terrorizzava.
-Eh?- chiese Leo, stordito.
Zia
Rosa rise. Leo trovò la sua risata particolarmente
spaventosa quella notte.
-Oh, sì, mostriciattolo!- esclamò Rosa
Valdez. -Sapevo che le cose si sarebbero messe male per Esperanza! A
cominciare da quando ha incontrato quel viscido codardo di tuo padre...
l'ho odiato sin dal primo momento!
Qualcosa
simile ad un ingranaggio arrugginito prese a muoversi nello
stomaco di Leo al solo sentire l'onore di suo padre insultato in quel
modo. Anche se, a conti fatti, suo padre era veramente un codardo:
aveva abbandonato lui e la mamma, sparendo senza lasciare traccia.
Forse la codardia era una cosa ereditaria.
Tuttavia,
doveva saperne di più: sua madre si rifiutava
categoricamente di parlare del padre di Leo e, ogni qualvolta il figlio
le faceva qualche domanda in merito, il sorriso di Esperanza si
scioglieva come burro al Sole. Ma se zia Rosa l'aveva conosciuto...
-Hai conosciuto mio papà?
Zia
Rosa era in procinto di sputare per terra. -Oh, come vorrei non
averlo fatto! Ma sì, ho conosciuto quella sotto razza di
uomo, se
così si può chiamare!
L'ingranaggio
arrugginito prese a muoversi più velocemente.
-Esperanza venne qui con quell'essere al seguito.-
raccontò zia Rosa, scettica. -Dovevi ancora nascere, piccola
sciagura,
stanne certo! Si erano conosciuti da poco nella bottega di tua madre...
o quello che lo era fino ad oggi.
L'ingranaggio
arrugginito iniziò a fargli male. Leo non ci badò
più di tanto.
-Si vedeva ontano un miglio che stava solo giocando
con il cuore di quella sciocca di mia sorella, povera donna!-
continuò. -Continuava a dire quanto fosse bellissima e
quanto
lui l'ammirasse... quante bugie!
L'ingranaggio
prese a fargli ancora più male. Leo strinse i pugni.
-Quella è stata l'unica volta in cui vidi
quel tipo.- disse zia Rosa, proseguendo imperterrita nel suo discorso.
-Quando tua madre si accorse di aspettare un bambino, lui se la diede a
gambe levate, veloce come uno struzzo, lasciando mia sorella sola con
te. Che essere ignobile!
L'ingranaggio
gli stava facendo ancora più male. Leo digrignò i
denti, con gli occhi che pizzicavano.
-Ma era ovvio che da una sciagura nascesse una sciagura!- concluse zia
Rosa. -Tale padre, tale figlio!
L'ingranaggio
arrugginito gli provocava un dolore insopportabile allo stomaco. In un
lampo capì anche cos'era.
Rabbia.
Non
poteva permettere che zia Rosa insultasse così suo padre e
la memoria di sua madre. Non sarebbe andato a vivere con zia Rosa, mai
e poi mai!
-Non parlare così di mamma e papà!-
l'ammonì Leo.
Zia
Rosa rise spudoratamente. Per un attimo gli ricordò
Tía Callida, e poi la donna vestita di terra.
-Non osare parlarmi così, niño malcriado.-
sibilò zia Rosa, smettendo improvvisamente di ridere e
fissando
Leo con occhi spiritati. -Qui comando io, tu sei solo una piccola
nullità.
Leo
strinse così tanto i pugni da farsi quasi sanguinare i
palmi. Zia Rosa non aveva del tutto torto, Leo lo sapeva bene.
Ma
non poteva essere zia Rosa a fargli la ramanzina in proposito.
-Non decidi tu quello che devo essere.- rispose il figlio di Efesto.
Zia
Rosa rise. -Oh, certo, non posso!- esclamò, scettica. -Io
dico solo quello che sei in realtà: un piccolo demonio de niño,
altroché! Mi sorprende che Esperanza sia sopravvissuta
così tanto con te accanto.
Leo
stava perdendo la pazienza.
Ma
l'aveva promesso a sua madre: "Per
favore, promettimelo: niente più fuoco sino a che non avrai
incontrato tuo padre.". E, anche se sua
madre non c'era più, Leo era intenzionato a mantenere la
parola data.
-Magari mia sorella t'ha pure detto che avresti incontrato quel
traditore di tuo padre, prima o poi.- azzardò zia Rosa,
piuttosto sicura di quanto stava dicendo. -Figurati, non
tornerà mai qui.
-Non lo decidi tu!- ribatté Leo.
-Non ti ho detto di poter parlare.- lo rimproverò zia Rosa.
-Non ti spetta decidere nemmeno questo!- replicò Leo,
arrabbiato.
Il
volto di zia Rosa si contorse in una smorfia d'odio. Estrasse una
sigaretta dal pacchetto che teneva perennemente in tasca ed
agguantò l'accendino marrone poggiato sopra la cassapanca
rossa. La donna sapeva perfettamente che il fumo di sigaretta era una
delle cose che Leo detestava più al mondo.
Tentò
di accendere la fiammella dell'accendino, ma non vi fu nessuna
scintilla.
Leo
storse il naso, disgustato.
-Tu mi disgusti.- disse zia Rosa, continuando ad armeggiare con
l'accendino. -Sarebbe stato meglio se tu non fossi mai nato!
-Lo stesso vale per te!- esclamò Leo, furioso.
Zia
Rosa lo squadrò, ma evidentemente stava tentando di
contenersi dal prender Leo a calci sul fondo schiena sino all'uscio.
-Non osare mai più dire una cosa del genere.-
sibilò, scandendo le parole con una lentezza esasperante.
-Tuo padre era un essere ignobile e nemmeno Esperanza era proprio a
posto con la testa!
"Taci, vecchia megera!" pensò Leo. Iniziò a
battere freneticamente un codice morse sulla parte metallica della
cintura dei propri pantaloni.
-Ha voluto laurearsi e questo è tutto quello che ha
ottenuto.- continuò, senza smettere di cercare di far
funzionare l'accendino. -Un figlio senza nemmeno essere sposata.
Bisogna essere del tutto stupidi per una cosa del genere!
I
palmi di Leo iniziarono a sanguinare per quanto forte aveva stretto i
pugni. Non avrebbe più permesso a zia Rosa di parlargli
così, né d'infangare in questo modo la memoria
dei suoi genitori.
-Non parlare così di mamma e papà!-
urlò Leo con tutta la voce che aveva in corpo. -L'unica
codarda e stupida qui sei tu!
Zia
Rosa staccò una mano dall'accendino e tirò uno
schiaffo sulla guancia di Leo. Doveva averlo tirato quanto
più forte potesse, perché fece parecchio male.
Leo
non riuscì più a trattenere le lacrime, ma non
erano dovute tanto al dolore fisico come al dolore che provava per aver
perso anche la mamma.
Non
litigare con zia Rosa, gli diceva sempre
la mamma, non
ne vale la pena.
Fu
in quel momento che realizzò di averla persa per sempre:
quando lei non accorse per evitare che suo figlio fosse picchiato.
Zia
Rosa fece per aprire bocca e per urlargli contro qualcosa, quando
l'accendino si accese senza che lei non lo toccasse neppure. La fiamma
che ne scaturì inondò tutta la stanza di calore e
fu talmente alta che arrivò oltre la fronte di zia Rosa,
mandandole a fuoco i capelli tinti di biondo.
Zia
Rosa strillò, in preda al panico, e la sigaretta ancora
spenta le cadde dalla bocca. Prese a tirarsi botte in testa con le
mani, cercando di spegnere le fiamme che le danzavano sul capo.
Evidentemente
attratto dalle urla della donna, il biondo assistente sociale
spalancò la porta, precipitandosi in direzione di Leo.
Quando
vide zia Rosa saltellare come un'ossessa con i capelli in fiamme e Leo
in lacrime, non riuscì a trattenere un moto di sorpresa.
-Leo, cos'hai fatto?- domandò.
Leo
singhiozzò. Ancora una volta, tutti gli addossavano la colpa
di una qualsiasi disgrazia.
Nessuno
avrebbe mai creduto che l'accendino avesse fatto un ritorno di fiamma
senza che nessuno lo toccasse.
Il
biondo prese la caraffa di acqua e ghiaccio che troneggiava sul tavolo
laccato di rosso della stanza e ne versò l'intero contenuto
sulla testa della donna.
La
zia era, se possibile, ancora più spaventosa del solito:
evidentemente, i trucchi che utilizzava non erano water-proof, perché
le colarono lungo il viso fino al mento; i capelli le si appiccicarono
tutti al capo, gocciolando acqua sul tappeto giallo ocra. Sino alla
linea delle orecchie, era completamente calva. Tuttavia, zia Rosa non
smise di strillare.
Stava
per avventarsi su Leo con furia omicida, ma l'assistente sociale
intervenne prontamente, trattenendola per le braccia.
-Argh!- urlò, furiosa come non mai. Leo pensò che
l'ira di Achille non era nulla al confronto di quella di zia Rosa, ma
non capiva come potesse aver formulato un'affermazione tanto bizzarra. -Tu
eres un diablo! Sparisci dalla
mia vista!
-Signora Valdez, si calmi, la prego!- esclamò il biondo,
tenendo a stento la donna che si dimenava.
Zia
Rosa si liberò con uno strattone e spinse via l'assistente
sociale. Afferrò Leo per la maglietta e lo
sollevò da terra.
-Hai poco da piangere, piccolo diablo!- urlò.
-Tu non verrai mai ad abitare qui!
-Non ne ho mai avuto intenzione!- rispose Leo, urlando la frase tra i
singhiozzi.
Zia
Rosa mollò la maglietta e Leo cadde a terra sulle proprie
ginocchia.
-Fuori da casa mia!- urlò zia Rosa, fuori di sé.
L'assistente
sociale prese in Leo per mano e lo aiutò a rialzarsi da
terra, facendosi strada verso l'uscio.
Zia
Rosa, intanto, fisso il proprio riflesso in lacrime. -I miei capelli!-
pianse. -Non si ripareranno mai!
Leo
le lanciò un'occhiata scettica tra le lacrime.
Nulla
è irriparabile, era solita dire
sua madre.
"Eccetto il fatto che te ne sei andata per sempre." pensò
Leo, singhiozzando.
Giunti
dinanzi alla porta principale, il biondi si voltò in
direzione della donna.
-Sicura di non volerci ripensare, signora Valdez?- le chiese.
Zia
Rosa gli rivolse un'occhiata carica d'odio. -Fuori di qui!-
urlò.
L'assistente
sociale non se lo fece ripetere due volte e si richiuse la porta alle
spalle.
Leo
continuava a piangere. Non era un comportamento da lui, per niente. Leo
era forte, era il piccolo eroe di sua madre.
"Ma la mamma non c'è più." si disse, disperato.
-Coraggio, Leo.- gli disse il biondino, indicandogli l'utilitaria
arancione parcheggiata davanti al cancello.
Leo
annuì, senza dire una singola parola.
Il
biondo aveva ragione: doveva farsi coraggio. Era solo, ma non avrebbe
più permesso a nessuno di ridurlo in quello stato, a
piangere come uno stolto. Decise che avrebbe indossato una maschera di
coraggio e che avrebbe dovuto recitare con chiunque, a prescindere di
chi si trattasse.
Leo
montò in macchina e si allacciò la cintura di
sicurezza. Il biondo mise in moto il motore e partì.
-Leo,- gli disse, senza distogliere gli occhi dalla strada. -lo sai che
dovrai stare in un riformatorio ora, vero?
Leo
si concentrò: doveva sembrare sicuro di sé. Non
doveva sembrare debole, o sarebbe stato trattato male. E lui non lo
meritava.
-Riformatorio?- ripeté, fingendo un sorriso. -Forte! Adoro i
riformatori!
Stava
funzionando.
Someday
I’ll be living in a big old
city
And
all you’re ever going to be is
mean
Someday
I’ll be big enough so you
can’t hit me
And
all you’re ever going to be is
mean
Why
you gotta be so mean?
My
little corner:
Salve a tutti!
Non pensavo che avrei scritto questa su Leo, sinceramente... credo mi
toccherà utilizzare più volte una strofa,
considerando che sto cercando d'inserire almeno una shot per ogni
personaggio. ^^
Ad ogni modo... mi devo scusare per il ritardo. Obiettivamente ci ho
messo parecchio per scriverla, considerando anche quanto è
corta (eh già, piccina-picciò),
ma spero che tutto il tempo che ho speso per questa baby-shot sia stato
utilizzato bene. Ergo: è leggibile? Chi lo sa...
Zia Rosa non è mai apparsa fisicamente in The Lost Hero, ma
Leo ne ha parlato più volte nei suoi flashback. Ecco, questo
è uno dei pochi personaggi che detesto della saga.
... cos'è che dovevo dire? Oh, sì: per la
cronaca, io sono una fan sfegatata di Leo. u.u
Grazie per aver letto!
Hasta la vista!
Aly.
Ringraziamenti:
Grazie mille infinite alle mie care Ella_Sella_Lella
ed Effie
Malcontenta Weasley, che hanno commentato il capitolo
precedente: non sapete quanto felice mi facciano le vostre recensioni!
Un grazie speciale anche a tutti i fantastici che hanno inserito questa
storia tra le seguite (nearer,
Francy97
e NymphCalypso),
tra le ricordate (Francy97)
e tra le preferite (nearer
e Francy97).
Grazie, grazie, grazie di cuore.
Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà
di
Rick Riordan, che ne detiene tutti i diritti. La canzone utilizzata
è Mean ed è cantata da Taylor Swift. Non ho
scritto
questa storia per scopo di lucro alcuno.
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