Mean

di CatchingLightning
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piper ***
Capitolo 2: *** Dioniso ***
Capitolo 3: *** Leo ***



Capitolo 1
*** Piper ***


Mean
You, with your words like knives
And swords and weapons that you use against me
You, have knocked me off my feet again
Got me feeling like nothing

    -Ah ah!
    -Smettetela!- strillò Piper, arrabbiata. -Subito!
Dopotutto, a sette anni è facile arrabbiarsi con i compagni di classe che ti prendono in giro.
Piper McLean era in seconda elementare, ma non si trovava per niente bene in quella scuola. Malgrado avesse cercato di farsi qualche amica, dopo qualche giorno aveva già lasciato perdere: le bambine di quella scuola erano le classiche "figlie di papà", ricchissime e viziate, e, sebbene avessero la sua età, si mettevano tanto di quel trucco che sarebbe bastato per tre secoli di feste di Halloween.

Sapeva che non sarebbe riuscita a sopportarle per molto tempo.

In più, Piper non era come loro. Lei non rispecchiava lo stereotipo della classica bimba di sette anni, amante dei fronzoli e delle bambole; Piper era un maschiaccio, che saltava sullo skateboard e faceva surf nel tempo libero.
Piper sapeva bene che non l'avrebbero mai accettata tra loro. Non che a lei importasse, per carità.
Ma non vedeva perché dovessero avercela tutti con lei.
    -Non è vero!- gridò a squarciagola. L'edificio parve tremare.
    -Ah ah, come no!- rise una bimba dai boccoli mori super cotonati-e-acconciati, scostando i capelli dalla spallina del vestitino in seta rosa confetto. -Abbiamo ragione noi, come sempre.
Piper era davvero furiosa. Non poteva sopportare quelle galline un attimo di più.
    -Ridi adesso, finché puoi!- replicò la castana, stringendo i pugni e digrignando i denti. -Voglio vedere come farai quando non avrai più denti in bocca!
La mora fece una smorfia disgustata. -Sei peggio di un animale randagio, Piper Cherokee.
Un paio di altre bimbe accorsero e si disposero a semicerchio attorno alla mora, ridendo senza ritegno.
Piper era certa che quella fosse la peggior ricreazione di sempre.
    -Chiamami ancora così e ti prendo a pugni veramente!- sbraitò Piper.
    -Perché?- replicò sarcastica la moretta, piantandosi le mani ai fianchi con fare di superiorità. -Non è forse per questo che tuo padre ti ha chiamato Piper? Perché è il nome di un aereo!
    -Non è vero!- replicò Piper, inferocita. Era talmente arrabbiata che avrebbe potuto far crollare i muri della scuola con un dito.
    -E allora perché ti ha chiamato così?- le chiese una biondina, sprezzante.
    -Non lo so, ma non è di certo per quello!
    -Allora sai cosa facciamo?- propose la biondina. -Quando vai a casa, chiedi a tua madre perché ti abbiano chiamato così.
    -Oh, ma aspetta!- aggiunse la mora, con un ghigno malefico sul volto. -Tua madre ti ha abbandonato quando eri piccola, non è vero?
    “Ora basta!” pensò Piper.
    -Povera donna, la capisco!- esclamò la mora. -Chissà che tipo doveva essere per aver avuto una figlia del genere!
    “Ora basta!”.
    -Capisco perché ti ha abbandonato...
    “Ora basta!”.
    -... e perché sei diventata cleptomane...
    “Ora basta!”.
    -... caro aereo Piper Cherokee!- concluse la mora, sghignazzando.
La vista di Piper di annebbiò completamente, ed in quell'istante perse completamente il controllo delle proprie azioni.
    -Ora basta!- urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo.
Saltò sullo skateboard e travolse l'allegra combriccola di bambine. Caddero tutte a terra proprio come birilli, solo che loro erano birilli urlanti e doloranti.
La bambina dai boccoli mori iniziò a piangere come un'ossessa, mentre Piper scendeva le scale in equilibrio con lo skate sul corrimano.
Le urla della mora fecero accorrere la maestra, appena in tempo per vedere Piper fuggire su uno skateboard sul corrimano.
    -McLean, fermati subito!- urlò la maestra, ma Piper non la stette neppure a sentire, dirigendo lo skate verso l'uscita dell'edificio, saettando sul pavimento di marmo.
Oh, sarebbe stata espulsa per quello, lo sapeva benissimo. Ma non gliene fregava più di tanto. Ovviamente, Jane le avrebbe trovato un'altra scuola, ma era certa che non si sarebbe trovata bene neppure in quella, come in nessun'altra che avesse frequentato prima di allora, dopotutto.
Scavalcò in cancello con un balzo lesto, con la sensazione che non l'avrebbe varcato mai più.
Imbracciò lo skateboard.
Alzò la mano, chiamando un taxi.
Aprì la portiera, si sedette sul sedile e borbottò un indirizzo al conducente, così da poter essere solo a due isolati di distanza da casa di suo padre: avrebbe percorso il tratto di strada mancante a piedi, così da passare quasi inosservata.
L'autista inarcò un sopracciglio. -Ce li hai i soldi per pagare, piccina?
    -Lei vorrebbe far pagare la corsa ad una bimba di sette anni appena fuggita da scuola?- replicò prontamente Piper.
Il conducente parve interdetto. -Io... uh, no, certo che no.
Piper sorrise. -Grazie mille.
L'autista mise in moto e, ben presto, la loro auto si confuse con gli altri taxi sulle strade cittadine.
    “Non avevano il diritto di prendermi in giro!” si consolò Piper. “Non possono parlar male di mia madre e di mio padre! Oh, se solo sapessero...”.
Una lacrima rigò le guance di Piper, ripensando a sua madre.
Un'altra scese per suo padre, perché Piper non voleva deluderlo.
Una terza per se stessa, perché lei non doveva essere presa in giro.
Una quarta lacrima scese per un altro motivo ancora, così come la quinta, la sesta, e così via.
Quando giunse a destinazione, scese dall'auto il più velocemente possibile, lasciando il tassista mezzo in trance, e si diresse verso la villa di suo padre.
Era strano come continuasse a piangere, Piper era una ragazza forte. Ma forse quello era troppo da reggere anche per lei.
    “Vedrete!” minacciò mentalmente Piper, mentre le immagini di quel gruppetto di bimbe cattive le balenava in testa. “Quando sarò grande e completamente fuori dalla vostra portata, allora vi pentirete di essere state cattive!
Tentò di farla suonare come una minaccia, ma persino nella sua testa sembrava poco più di una misera autocommiserazione.
Aprì la porta di casa.
Entrò in salotto.
Suo padre era seduto sulla poltrona di velluto blu, sfogliando un plico di fogli uniti assieme dalla graffetta. Sempre quello stupido lavoro.
Quando si accorse che la sua bambina stava piangendo, scattò subito in piedi e le si avvicinò preoccupato.
    -Che succede, Pipes?
Piper singhiozzò. -Perché mi hai chiamato Piper, papà?

Someday I’ll be living in a big old city
And all you’re ever going to be is mean
Someday I’ll be big enough so you can’t hit me
And all you’re ever going to be is mean
Why you gotta be so mean?


Mean


My little corner
:
Salve a tutti!
Non che pretenda più di tanto da questa raccolta di song-fic, ma nonostante tutto ci tengo parecchio... per chi non conoscesse Piper ma avesse letto lo stesso, sappiate che questa ragazzina (che personalmente adoro) appare in The Lost Hero, ed è una dei protagonisti principali.
La scena qui descritta è un missing moments, ispirato al ventritreesimo capitolo del libro. Beh, tutte le one-shot saranno missing moments, quindi... ^^
La canzone che ho utilizzato è Mean di Taylor Swift, e la trovo parecchio azzeccata sia per mezzosangue che non.
Grazie mille per aver letto, e ringrazio in anticipo coloro che saranno così cortesi da lasciare una traccia del loro passaggio: mi fa sempre un piacere infinito ricevere recensioni, mi rendono sempre felicissima.
Grazie.
Bacioni, Aly.

Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic

Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di Rick Riordan. La canzone s'intitola "Mean" ed è cantata da Taylor Swift. Non ho scritto questa storia a scopo di lucro.

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Capitolo 2
*** Dioniso ***


Mean

You, with your voice like nails on a chalkboard
Calling me out when I’m wounded
You picking on the weaker man
Well you can take me down with just one single blow
but you don’t know, what you don’t know...


    -Che razza di babbei...
Un adolescente sui diciotto anni sedeva su una sedia con un'espressione parecchio incavolata sul volto ed un calice di vino in mano, brontolando qualche frase poco carina nei confronti di qualcuno.
Posò il calice sbuffando a si concentrò alla magnifica visione del vigneto che cresceva rigoglioso vicino alla sua abitazione. L'autunno si avvicinava e, presto, avrebbe avuto la possibilità di preparare dell'altro vino.
Quel pensiero era l'unica cosa che lo tenesse dalla depressione dell'essere diverso da tutti gli altri.
Già, perché Dioniso non era come gli altri.
Non solo non era come i comuni mortali, ma non era nemmeno come tutti gli altri figli di Zeus. Ci si sarebbe aspettato che fosse alto, atletico e muscoloso oltre ogni limite, che vincesse ogni duello e che fosse considerato un eroe.
Sì, altro che eroe! Era considerato la barzelletta della città, più che altro.
Un disonore per tutti i figli di Zeus.
Un errore.
Sì, c'era sicuramente qualcosa di sbagliato in lui: non poteva essere un figlio di Zeus, nemmeno per idea! Invero, c'erano persino delle volte in cui si trovava a dubitare lui stesso di chi fosse realmente suo padre.
Dioniso sbuffò arrabbiato. Quel giorno si era girato con la luna storta, quindi meno che mai era in vena di ricevere visite sgradite.
Ma, chiaramente, un gruppetto di voci di ragazzi chiamò il suo nome ad alta voce.
Dioniso le riconobbe immediatamente: erano le voci dei suoi fratellastri.
Strinse i pugni.
Non aveva la benché minima voglia di vedere quei quattro fenomeni da baraccone.
    -Dionisuccio!- chiamarono nuovamente i ragazzi.
Dioniso balzò in piedi, stringendo ancor più i pugni.
Non li sopportava proprio.
Lui non aveva mai fatto loro alcun dispetto, non li aveva mai disturbati e non si era mai intromesso nelle loro perfette esistenze di figli di Zeus.
Ma allora perché dovevano prendersela con lui?
No, decisamente non poteva sopportarli, né loro né le loro angherie nei suoi confronti.
    -Che volete?- urlò Dioniso in risposta, mentre i fratelli facevano il loro ingresso nell'abitazione, ridendo e scherzando quasi fosse casa loro.
    -Rilassati, Dionisuccio!- disse un tizio, sfoggiando un sorriso estremamente tirato. -Siamo venuti a farti una visitina.
Ecco, lui sì che era il tipico figlio di Zeus! Capelli mori e occhi blu elettrico. Alto, atletico, tonico e con i muscoli ben definiti: uno di quei tizi che se ne vanno in giro per la città a petto nudo e a cui gli scultori chiedono di posare per le proprie statue.
Uno di quei tizi che fanno sentire tutti gli altri delle nullità anche solo essendo presente.
    -Non mi chiamare Dionisuccio!- protestò Dioniso, offeso.
    -Come vuoi, Dionisuccio.- rispose il tizio, scompigliandosi i capelli con eleganza.
Gli altri figli di Zeus erano comodamente stravaccati in ogni angolo della casa, giocherellando con qualsiasi cosa si trovassero attorno.
    -Che volete da me stavolta?- domandò Dioniso al fratello.
Il moro si accigliò. -Ma come, non possiamo nemmeno fare un saluto a nostro fratello?
Dioniso alzò un sopracciglio.
    -L'ultima volta che siete venuti qui avete scagliato un fulmine sulla mia cantina.- precisò.
    -Dettagli di nessuna rilevanza, Dionisuccio.- replicò prontamente il moro, facendo spallucce e ridendo alla vista di un altro figlio di Zeus con un'anfora incastrata in testa.
Dioniso era veramente irritato: se avessero continuato così, gli avrebbero distrutto la casa una seconda volta, e non ne sarebbe stato troppo contento.
    -Beh, se è solo per questo potete anche togliere il disturbo.- l'informò Dioniso, facendo un cenno molto eloquente in direzione dell'uscio.
Il ragazzo moro rise.
    -Non essere sciocco, Dionisuccio!- lo avvertì. -Siamo venuti fin qui per te, in fin dei conti.
    -Peccato che io non ve l'abbia chiesto.- puntualizzò Dioniso.
Il moro divenne improvvisamente duro d'orecchi.
    -Abbiamo in programma una gara di lancio del disco, questo pomeriggio.- dichiarò il moro.
Dioniso fece spallucce. -Per quello che me ne può importare...
    -Oh, no, non hai capito!- rise il moro. In qualche modo, la sua risata era alquanto inquietante. -Ci manca un giocatore e abbiamo pensato subito a te. Verrai a giocare con noi, Dionisuccio.
    -No, no, frena!- lo bloccò Dioniso, con voce ferma. -Io non gioco con voi dopo che mi distruggete la cantina!
Il moro rise di nuovo.
Fischiò, e tutti i fratelli, compreso quello con l'anfora in testa, gli rivolsero subito l'attenzione.
    -Ehi, avete sentito?- annunciò il moro, mentre gli altri mezzosangue si riunivano a semicerchio attorno a lui, lanciando le più svariate occhiate a Dioniso. -Dionisuccio non vuole giocare con noi.
I fratelli risero, come se fosse un'idea ridicola. La risata di quello con la testa nell'anfora rimbombò per tutta l'abitazione.
    -Già, perciò se è solo per questo che siete venuti potete anche andarvene.- disse Dioniso.
    -Oh, tu non hai capito!- ripeté il moro, con un ghigno sadico sul volto. -Ci manca un giocatore e tu giocherai, che ti vada o no.
    -Dammi almeno un buon motivo per cui dovrei farlo!- protestò Dioniso, alterato.
Il moro ghignò. -Anche solo per perdere qualche chilo, che dici?
Gli altri ragazzi presero a ridere sguaiatamente, senza nemmeno un briciolo di ritegno. E dire che erano figli di Zeus, figurarsi se fossero stati la progenie di Ares...
    -O anche solo per mettere la testa fuori da questo cunicolo!- aggiunse un altro ragazzo, spavaldo.
    -Puzzi sempre di vino, per le mani di Briareo!- concordò il moro.
Dioniso strinse i pugni ancora più forte, fino a farsi quasi sanguinare le mani.
Non avevano il diritto di prendersela con lui in quel modo.
Nessuno aveva questo diritto.
Nemmeno suo padre l'aveva, figurarsi quei poveracci senza un briciolo di cervello dei suoi fratelli.
    “Smettetela...” pensò Dioniso, trattenendosi a stento dal mollare un cazzotto negli addominali scolpiti del fratellastro.
    -Non sei un atleta!- iniziò un ragazzo, contando sulle dita.
    “È meglio per voi se la piantiate, sul serio...”
    -Oh, e non sei un letterato!- aggiunse un altro.
    “Nemmeno tu lo sei, sottorazza di babbuino!”
    -Nemmeno un poeta, se è per questo.
    “Smettetela, vi avverto!”
Come se qualcuno potesse leggergli nel pensiero...
    -Che cosa sei, allora?- gli chiese il tizio moro, con un ghigno sprezzante.
La rabbia di Dioniso venne improvvisamente rimpiazzata dalla desolazione. Lui era un errore, lo sapeva benissimo. E lo sapevano anche i suoi fratelli, per inciso.
Avevano appena detto tutto quello che non era: non era un atleta, non era un letterato, non era un poeta, non era uno scultore, non era un pittore... l'unica cosa che gli riusciva bene era preparare il vino, ma non sarebbe mai stato rispettato per questo.
Appunto, lui era solo un errore.
Un errore di Zeus, sceso sulla Terra per sbagliare per l'ennesima volta.
    -L'unica cosa che sai fare è preparare vino!- esclamò l'ennesimo ragazzo con lo stesso tono sprezzante dei suoi fratelli, come per dare voce ai pensieri di Dioniso. -Insomma, cosa sei in realtà?
    “Sono affari tuoi?” gli rispose mentalmente Dioniso, arrabbiato.
    -Oh, te lo dico io!- intervenne il moro, sempre con il solito tono beffardo. -Lui è un errore, ecco cos'è!
Dioniso era sul punto di mettersi a prenderli tutti a calci nei semidivini fondoschiena fino all'uscita.
Sapeva che era vero, ma non avrebbe permesso agli altri di ricordarglielo.
    -È lo zimbello della città!- aggiunse il moro, lanciatissimo. -Tutti ridono di lui, eccome se lo fanno!
Provava divertimento nel far sentire male Dioniso? Era forse la manifestazione del sadismo allo stato puro?
Probabile, ma Dioniso non si sarebbe arreso alle loro offese ed ai loro tentativi di buttarlo giù così facilmente.
Non un'altra volta.
Non di nuovo.
    -Ora basta!- urlò Dioniso. Il terreno tremò sotto i piedi dei mezzosangue.
Il moro smise di ridere, accigliato. -Come, scusa?
    -Ho detto basta!- ripeté Dioniso, più arrabbiato che mai. -Fuori immediatamente da casa mia, o vi ci mando io con un pestone sul didietro!
Gli occhi del moro avvamparono di rabbia e d'oltraggio. Dioniso sapeva perché: mai nessuno gli aveva portato così poco rispetto e non avrebbe di certo lasciato che quel qualcuno fosse proprio il fratello viticoltore.
    -Molto bene, Dionisuccio.- annunciò. -Noi ce ne andiamo, ma ti lasciamo un piccolo ricordino della nostra visita.
    -No!- urlò Dioniso, intuendo quello che aveva in mente il moro.
    -Oh, sì, invece.
Un paio di ragazzini immobilizzarono Dioniso per le braccia e le gambe e lo condussero fuori dalla sua abitazione. Gli avevano anche tappato la bocca, altrimenti Dioniso avrebbe preso ad urlare come un ossesso e sarebbe ricorso ai morsi pur di liberarsi: qualcuno dei suoi fratelli aveva già avuto modo di testare la qualità dei denti del fratello qualche giorno prima, e non ci tenevano a ripetere l'esperienza.
Così, una volta condotto all'esterno, tutti i figli di Zeus evocarono un temporale coi fiocchi, di quelli tuoni-fulmini-e-saette. Il cielo divenne nero e tutto si fece più buio del Tartaro.
Dioniso era disperato. Sapeva quali erano le loro intenzioni.
La risata del moro si perse nel vento, mentre un fulmine colpiva la casa di Dioniso, mandandola a fuoco. Stranamente, malgrado piovesse, il fuoco sembrava più ardente e vivo che mai.
Tutti i figli di Zeus ridevano, sghignazzavano e schernivano Dioniso, mentre le fiamme ardenti continuavano a danzare addosso all'abitazione, bruciando qualunque cosa si trovasse sulla loro strada ad una velocità pazzesca.
Quando, infine, non rimase che lo scheletro della casa, i suoi fratelli lo liberarono. Il cielo, però, non si schiarì affatto.
Dioniso cadde in ginocchio, preda della disperazione: lì dentro teneva tutte le otri di vino. Il lavoro di tutta la sua vita era stato distrutto nell'arco di tre minuti scarsi.
    -Chissà che questo ti serva ad imparare un po' di disciplina e ti faccia avere un po' di rispetto per i tuoi fratelli.
Dioniso alzò lo sguardo, digrignando i denti.
    -Rispetto...?- chiese, con voce carica di rabbia. -Dovrei forse rispettare degli individui tanto spregevoli che hanno bisogno di distruggere tutto ad una persona pur di farsi ascoltare? Dovrei rispettarvi?
Il moro lo fissava allibito: non si aspettava certo che il povero, debole ed indifeso Dionisuccio reagisse.
    -Ve la prendete con me perché sono il più giovane!- sbraitò Dioniso, infuriato. -Io non vi perdonerò mai per questo e non vi porterò rispetto nemmeno fra duemila anni!
Il moro, adirato, era sul punto di tirare un pugno in faccia a Dioniso, quando qualcosa gli afferrò il braccio, bloccandogli il movimento.
    -Ma che...?-iniziò il ragazzo, impallidendo.
Quando realizzò cosa stava accadendo, il colore scomparve completamente dalla sua faccia: un tralcio di vite gli aveva immobilizzato il braccio.
    -Che cosa significa?- strillò, in preda al panico, cercando di strappare il ramo. Tuttavia, più si divincolava, più la presa aumentava.
Un altro trancio gli avvolse le gambe, impedendogli la possibilità di scappare, ed un altro gli circondò la gola, sollevandolo da terra.
Anche gli altri figli di Zeus non erano messi tanto bene: alcuni erano sospesi a mezz'aria come salami, legati per i piedi; quello con l'anfora in testa, invece, stava venendo sbattacchiato qua e là come un frappé, mentre due tralci lo tenevano per i manici del vaso.
    -Sparite dalla mia vista!- esclamò Dioniso, mentre i tralci lanciavano lontano i figli di Zeus.
Avrebbero dovuto partecipare le viti alla gara di lancio del disco, altroché.
Dioniso riprese fiato, ansante.
Non sapeva bene cos'era successo, era conscio solo del fatto che gli alberi erano corsi in suo aiuto appena intuito che lui avesse bisogno del loro intervento.
Dioniso guardò le macerie della casa con amarezza: non si era salvato niente.
Avrebbe dovuto ricominciare tutto dall'inizio.
Si accasciò all'ombra di una vita del suo giardino, accarezzandone il tralcio come se fosse un prezioso gioiello.
    -Mi sono sempre preso cura di voi ed ora mi avete ripagato.- disse. -Ma ora ricominciavo una nuova vita, okay?
Dioniso ormai ne era certo.
Non avrebbe più permesso a nessuno di farsi beffe di lui.
Nessuno gli avrebbe più messo i piedi in testa.
Per qualche secondo si illuse che Zeus sarebbe stato fiero di lui e del modo in cui si era opposto ai suoi fratelli, rispondendo loro allo stesso modo.
S'illuse che, forse, avrebbe potuto andare a trovare suo padre sull'Olimpo.
Si illuse che, magari, la sua vita avrebbe potuto solo che migliorare, da allora in avanti.
Ma una lacrima gli ricordò l'amara verità.
Lui era solo un errore.


S
omeday I’ll be living in a big old city
And all you’re ever going to be is mean
Someday I’ll be big enough so you can’t hit me
And all you’re ever going to be is mean
Why you gotta be so mean?

Mean

My little corner:
E rieccomi qua!
Non avevo la più pallida idea su chi scrivere questo capitolo (Jason o Leo, questo è il problema.) e così ho ripiegato su di lui, il tanto amati Signor D.
Questa volta, il missing moments è ispirato al quarto libro, penultimo capitolo o qualcosa del genere.
È proprio il Signor D che tira fuori l'argomento "la mia infanzia & co.", così ho pensato di ricamarci un po' sopra.
Tra parentesi, credo che il ritornello della canzone calzi meglio a lui che a qualunque altro mezzosangue, mortale, oracolo, Minotauro e chi ne ha più ne metta.
Grazie mille per aver letto, mi rendete veramente contenta! Spero che vi sia piaciuto e che siate ancora integri! ^^
Alla prossima one-shot!
Bacioni, Aly.

Ringraziamenti:
Ringrazio di cuore le fantastiche Ella_Sella Lella, Effie Malcontenta Weasley ed annie97 che hanno recensito il capitolo precedente e le adorabili persone che hanno inserito questa storia tra le seguite (nearer e Francy97), tra le ricordate (Francy97) e tra le preferite (nearer e Francy97). Grazie davvero, mi fate davvero felice! *commozione*

Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic

Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di Rick Riordan, che ne detiene tutti i diritti. La canzone utilizzata è Mean ed è cantata da Taylor Swift. Non ho scritto questa storia per scopo di lucro alcuno.

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Capitolo 3
*** Leo ***


Mean
You, with your switching sides
And your wildfire lied and your humiliation,
You, had pointed out my flaws again
As if I don't already see them.


    -Ma non fatemi ridere!
Leo non sapeva se essere contento o meno della risposta di sua zia.
Lui detestava sua zia Rosa. Non avrebbe mai voluto andare a vivere con lei.
Ma era la sua unica parente.
Leo aveva solamente otto anni quando la tragedia accadde. E la colpa era tutta sua, sua e della donna vestita di terra.
Il figlio di Efesto si era finalmente liberato dalla presenza di Tía Callida, la sua babysitter demoniaca che aveva cercato più volte di bruciarlo vivo, e, dopo solo tre anni, a causa dell'apparizione della donna vestita di terra l'unica ad essere stata bruciata viva era stata sua madre.
E tutto questo solo perché lui aveva perso il controllo.
    -Signora, lei è l'unica parente rimasta di questo ragazzo...- tentò di convincerla l'assistente sociale. -Non ha altri posti in cui andare oltre che da lei.
Zia Rosa scosse vigorosamente la testa. -Già è tanto che vi abbia fatti entrare in casa mia!- esclamò, stizzita. -Non ho intenzione di fare la stessa fine di mia sorella!
L'assistente sociale sospirò.
Leo si guardò attorno, sconcertato. Doveva ancora realizzare completamente l'idea che sua madre non ci fosse più: certo, lo sapeva, ma non riusciva a convincersene.
Sperava che la figura di sua madre sbucasse da dietro l'angolo, regalandogli un sorriso dei suoi. Che lo chiamasse mijo ancora una volta.
Ovviamente, sapeva anche che quella speranza era del tutto vana.
Era consapevole di quello che sarebbe successo: lo avrebbero spedito a vivere con sua zia Rosa, di sicuro. Leo fece una faccia disgustata: Rosa Valdez non avrebbe potuto essere più diversa da Esperanza Valdez, malgrado fossero sorelle.
Sua madre era una persona buona e gentile, sempre pronta a dire qualcosa di carino a chiunque ne avesse bisogno. Era l'unica ad essersi laureata al college di tutta la sua famiglia in ingegneria meccanica, ma nessuna azienda l'aveva mai presa seriamente. Lavorava il doppio per riuscire a sfamare anche Leo, malgrado i risultati degli straordinari all'officina si ripercuotessero fisicamente su di lei: aveva dei bellissimi riccioli scuri, come quelli di Leo, ed il suo sorriso era qualcosa di magico, ma le occhiaie erano state solcate permanentemente sul suo volto, dandole più anni di quanti ne avesse in realtà. Le dita di Esperanza erano affusolate e con le unghie perennemente corte, ma le mani erano piene di calli a furia di armeggiare con chiavi inglesi e roba del genere. Aveva delle belle braccia, ma spesso Leo la vedeva tornare a casa con vari cerotti per coprire le ustioni, le bruciature ed i tagli.
Zia Rosa era la classica tipa che chiunque sano di mente avrebbe etichettato come vezzosa ed egocentrica. Casa sua sembrava il cottage di Barbie, con le pareti di un disgustoso rosa eccessivamente acceso che facevano a pugni con il tappeto color ocra ed il mobilio smaltato di rosso vivo. La donna stessa sembrava una Bratz troppo cresciuta: finta bionda, con tanto di quel trucco sulla faccia da sembrare un gufo appena stato investito da un camion di promotori di make-up di Sephora, seno e labbra chiaramente rifatti. Le unghie erano perennemente laccate di rosso come il mobilio o di rosa acceso come le pareti della casa e portava tanti di quegli anelli sulle mani che pareva avesse appena saccheggiato una gioielleria. Lo stesso valeva per i bracciali e per le collante, chiaro. Il suo guardaroba straripava di abiti attillatissimi lunghi sino ai piedi e di minigonne veramente mini plissettate, che spesso portava con calze retate: zia Rosa diceva che, vestendosi così, assomigliava tantissimo a qualche attrice famosa di cui Leo non si era mai preso la briga d'imparare il nome.
Esperanza era solare e cordiale, spensierata e sempre allegra; Rosa era cinica e spietata, cattiva ed egoista.
Era chiaro che Leo non la sopportasse.
    -Signora Valdez, la prego...- disse l'assistente sociale.
Zia Rosa incrociò le braccia.
Leo alzò lo sguardo per guardare in faccia il biondo assistente sociale.
    "Che vita dura deve avere, quel tipo." constatò, prima che gli occhi gli riprendessero a pizzicare.
Era più forte di lui: anche un oggetto qualunque gli ricordava sua madre, e non poteva far altro che distogliere lo sguardo in continuazione, sull'orlo delle lacrime.
    -Io detesto i bambini!- strillò zia Rosa. -Sono sporchi, puzzolenti e rientrano sempre a casa lerci e con i vestiti infangati. Ma se c'è qualcosa che non avevo mai capito di quest'essere...
Zia Rosa lanciò uno sguardo disgustato a Leo ed il suo viso si contrasse in una smorfia d'orrore. -... è che fosse un maniaco omicida.
Leo capì sì e no la metà delle parole di zia Rosa, ma il biondo venticinquenne parve semplicemente allibito da quella frase.
    -Signora Valdez, ma si rende conto di quello che ha detto?- domandò, basito. -Come può pensare che Leo abbia appiccato quell'incendio volontariamente?
Zia Rosa fece una faccia scettica. Evidentemente, era l'unica ad aver intuito, sempre nei limiti di un mortale, che Leo avesse qualcosa di diverso.
Diverso, non necessariamente negativo: ma sia zia Rosa che Leo erano convinti che fosse una nota di biasimo e basta.
    "Invece è tutta colpa mia!" si maledì Leo, alzando gli occhi al soffitto cercando di non piangere. "Mamma... ti prego, mamma, perdonami...".
L'assistente sociale parve accorgersi che Leo fosse sull'orlo delle lacrime, così raccolse la propria borsa di cuoio contenente i documenti per l'affidamento che fino a poco prima era stata poggiata sul pavimento ocra.
    -Credo che sia meglio che vi lasci scambiare quattro parole.- concluse il venticinquenne, risoluto. Ma Leo si accorse delle occhiate di puro sdegno che il giovane lanciava a zia Rosa. -Da soli.
Calcò bene su queste ultime due parole, dopodiché girò i tacchi e si chiuse la porta di vetro alle spalle, lasciando Leo e zia Rosa soli. Leo sapeva che il biondo ragazzo non era andato via: si era solo accomodato in una delle poltroncine in pelle di leopardo dell'ingresso, probabilmente appostandosi nei presi della porta per intervenire in caso la situazione degenerasse.
    "Oh, lo farà." si disse Leo. "Con zia Rosa le cose degenerano sempre.".
Zia Rosa continuava a guardarlo di sbieco. -Mi fai proprio schifo.
Leo non se la prese più di tanto: già quant'era piccolo veniva definito da zia Rosa una nullità, quindi aveva sviluppato una sorta di abitudine ai suoi commenti sprezzanti. Anzi: un giorno passato senza cercare di stracciare l'autostima del nipote, per zia Rosa era un giorno sprecato.
Leo non si mosse né disse nulla. Si limitò a fissare quella sottospecie di zia, impassibile.
    -Oh, lo dicevo ad Esperanza che sarebbe finita così!- esclamò la bionda, roteando gli occhi.
La mascella di Leo rasentò il suolo a quell'affermazione. Come poteva zia Rosa sapere che avrebbe ucciso sua madre?
No, non era possibile! Zia Rosa non era une veggente! Ma l'idea che lei fosse al corrente di tutto lo terrorizzava.
    -Eh?- chiese Leo, stordito.
Zia Rosa rise. Leo trovò la sua risata particolarmente spaventosa quella notte.
    -Oh, sì, mostriciattolo!- esclamò Rosa Valdez. -Sapevo che le cose si sarebbero messe male per Esperanza! A cominciare da quando ha incontrato quel viscido codardo di tuo padre... l'ho odiato sin dal primo momento!
Qualcosa simile ad un ingranaggio arrugginito prese a muoversi nello stomaco di Leo al solo sentire l'onore di suo padre insultato in quel modo. Anche se, a conti fatti, suo padre era veramente un codardo: aveva abbandonato lui e la mamma, sparendo senza lasciare traccia. Forse la codardia era una cosa ereditaria.
Tuttavia, doveva saperne di più: sua madre si rifiutava categoricamente di parlare del padre di Leo e, ogni qualvolta il figlio le faceva qualche domanda in merito, il sorriso di Esperanza si scioglieva come burro al Sole. Ma se zia Rosa l'aveva conosciuto...
    -Hai conosciuto mio papà?
Zia Rosa era in procinto di sputare per terra. -Oh, come vorrei non averlo fatto! Ma sì, ho conosciuto quella sotto razza di uomo, se così si può chiamare!
L'ingranaggio arrugginito prese a muoversi più velocemente.
    -Esperanza venne qui con quell'essere al seguito.- raccontò zia Rosa, scettica. -Dovevi ancora nascere, piccola sciagura, stanne certo! Si erano conosciuti da poco nella bottega di tua madre... o quello che lo era fino ad oggi.
L'ingranaggio arrugginito iniziò a fargli male. Leo non ci badò più di tanto.
    -Si vedeva ontano un miglio che stava solo giocando con il cuore di quella sciocca di mia sorella, povera donna!- continuò. -Continuava a dire quanto fosse bellissima e quanto lui l'ammirasse... quante bugie!
L'ingranaggio prese a fargli ancora più male. Leo strinse i pugni.
    -Quella è stata l'unica volta in cui vidi quel tipo.- disse zia Rosa, proseguendo imperterrita nel suo discorso. -Quando tua madre si accorse di aspettare un bambino, lui se la diede a gambe levate, veloce come uno struzzo, lasciando mia sorella sola con te. Che essere ignobile!
L'ingranaggio gli stava facendo ancora più male. Leo digrignò i denti, con gli occhi che pizzicavano.
    -Ma era ovvio che da una sciagura nascesse una sciagura!- concluse zia Rosa. -Tale padre, tale figlio!
L'ingranaggio arrugginito gli provocava un dolore insopportabile allo stomaco. In un lampo capì anche cos'era.
Rabbia.
Non poteva permettere che zia Rosa insultasse così suo padre e la memoria di sua madre. Non sarebbe andato a vivere con zia Rosa, mai e poi mai!
    -Non parlare così di mamma e papà!- l'ammonì Leo.
Zia Rosa rise spudoratamente. Per un attimo gli ricordò Tía Callida, e poi la donna vestita di terra.
    -Non osare parlarmi così, niño malcriado.- sibilò zia Rosa, smettendo improvvisamente di ridere e fissando Leo con occhi spiritati. -Qui comando io, tu sei solo una piccola nullità.
Leo strinse così tanto i pugni da farsi quasi sanguinare i palmi. Zia Rosa non aveva del tutto torto, Leo lo sapeva bene.
Ma non poteva essere zia Rosa a fargli la ramanzina in proposito.
    -Non decidi tu quello che devo essere.- rispose il figlio di Efesto.
Zia Rosa rise. -Oh, certo, non posso!- esclamò, scettica. -Io dico solo quello che sei in realtà: un piccolo demonio de niño, altroché! Mi sorprende che Esperanza sia sopravvissuta così tanto con te accanto.
Leo stava perdendo la pazienza.
Ma l'aveva promesso a sua madre: "Per favore, promettimelo: niente più fuoco sino a che non avrai incontrato tuo padre.". E, anche se sua madre non c'era più, Leo era intenzionato a mantenere la parola data.
    -Magari mia sorella t'ha pure detto che avresti incontrato quel traditore di tuo padre, prima o poi.- azzardò zia Rosa, piuttosto sicura di quanto stava dicendo. -Figurati, non tornerà mai qui.
    -Non lo decidi tu!- ribatté Leo.
    -Non ti ho detto di poter parlare.- lo rimproverò zia Rosa.
    -Non ti spetta decidere nemmeno questo!- replicò Leo, arrabbiato.
Il volto di zia Rosa si contorse in una smorfia d'odio. Estrasse una sigaretta dal pacchetto che teneva perennemente in tasca ed agguantò l'accendino marrone poggiato sopra la cassapanca rossa. La donna sapeva perfettamente che il fumo di sigaretta era una delle cose che Leo detestava più al mondo.
Tentò di accendere la fiammella dell'accendino, ma non vi fu nessuna scintilla.
Leo storse il naso, disgustato.
    -Tu mi disgusti.- disse zia Rosa, continuando ad armeggiare con l'accendino. -Sarebbe stato meglio se tu non fossi mai nato!
    -Lo stesso vale per te!- esclamò Leo, furioso.
Zia Rosa lo squadrò, ma evidentemente stava tentando di contenersi dal prender Leo a calci sul fondo schiena sino all'uscio. -Non osare mai più dire una cosa del genere.- sibilò, scandendo le parole con una lentezza esasperante. -Tuo padre era un essere ignobile e nemmeno Esperanza era proprio a posto con la testa!
    "Taci, vecchia megera!" pensò Leo. Iniziò a battere freneticamente un codice morse sulla parte metallica della cintura dei propri pantaloni.
    -Ha voluto laurearsi e questo è tutto quello che ha ottenuto.- continuò, senza smettere di cercare di far funzionare l'accendino. -Un figlio senza nemmeno essere sposata. Bisogna essere del tutto stupidi per una cosa del genere!
I palmi di Leo iniziarono a sanguinare per quanto forte aveva stretto i pugni. Non avrebbe più permesso a zia Rosa di parlargli così, né d'infangare in questo modo la memoria dei suoi genitori.
    -Non parlare così di mamma e papà!- urlò Leo con tutta la voce che aveva in corpo. -L'unica codarda e stupida qui sei tu!
Zia Rosa staccò una mano dall'accendino e tirò uno schiaffo sulla guancia di Leo. Doveva averlo tirato quanto più forte potesse, perché fece parecchio male.
Leo non riuscì più a trattenere le lacrime, ma non erano dovute tanto al dolore fisico come al dolore che provava per aver perso anche la mamma.
Non litigare con zia Rosa, gli diceva sempre la mamma, non ne vale la pena.
Fu in quel momento che realizzò di averla persa per sempre: quando lei non accorse per evitare che suo figlio fosse picchiato.
Zia Rosa fece per aprire bocca e per urlargli contro qualcosa, quando l'accendino si accese senza che lei non lo toccasse neppure. La fiamma che ne scaturì inondò tutta la stanza di calore e fu talmente alta che arrivò oltre la fronte di zia Rosa, mandandole a fuoco i capelli tinti di biondo.
Zia Rosa strillò, in preda al panico, e la sigaretta ancora spenta le cadde dalla bocca. Prese a tirarsi botte in testa con le mani, cercando di spegnere le fiamme che le danzavano sul capo.
Evidentemente attratto dalle urla della donna, il biondo assistente sociale spalancò la porta, precipitandosi in direzione di Leo.
Quando vide zia Rosa saltellare come un'ossessa con i capelli in fiamme e Leo in lacrime, non riuscì a trattenere un moto di sorpresa.
    -Leo, cos'hai fatto?- domandò.
Leo singhiozzò. Ancora una volta, tutti gli addossavano la colpa di una qualsiasi disgrazia.
Nessuno avrebbe mai creduto che l'accendino avesse fatto un ritorno di fiamma senza che nessuno lo toccasse.
Il biondo prese la caraffa di acqua e ghiaccio che troneggiava sul tavolo laccato di rosso della stanza e ne versò l'intero contenuto sulla testa della donna.
La zia era, se possibile, ancora più spaventosa del solito: evidentemente, i trucchi che utilizzava non erano water-proof, perché le colarono lungo il viso fino al mento; i capelli le si appiccicarono tutti al capo, gocciolando acqua sul tappeto giallo ocra. Sino alla linea delle orecchie, era completamente calva. Tuttavia, zia Rosa non smise di strillare.
Stava per avventarsi su Leo con furia omicida, ma l'assistente sociale intervenne prontamente, trattenendola per le braccia.
    -Argh!- urlò, furiosa come non mai. Leo pensò che l'ira di Achille non era nulla al confronto di quella di zia Rosa, ma non capiva come potesse aver formulato un'affermazione tanto bizzarra. -Tu eres un diablo! Sparisci dalla mia vista!
    -Signora Valdez, si calmi, la prego!- esclamò il biondo, tenendo a stento la donna che si dimenava.
Zia Rosa si liberò con uno strattone e spinse via l'assistente sociale. Afferrò Leo per la maglietta e lo sollevò da terra.
    -Hai poco da piangere, piccolo diablo!- urlò. -Tu non verrai mai ad abitare qui!
    -Non ne ho mai avuto intenzione!- rispose Leo, urlando la frase tra i singhiozzi.
Zia Rosa mollò la maglietta e Leo cadde a terra sulle proprie ginocchia.
    -Fuori da casa mia!- urlò zia Rosa, fuori di sé.
L'assistente sociale prese in Leo per mano e lo aiutò a rialzarsi da terra, facendosi strada verso l'uscio.
Zia Rosa, intanto, fisso il proprio riflesso in lacrime. -I miei capelli!- pianse. -Non si ripareranno mai!
Leo le lanciò un'occhiata scettica tra le lacrime.
Nulla è irriparabile, era solita dire sua madre.
    "Eccetto il fatto che te ne sei andata per sempre." pensò Leo, singhiozzando.
Giunti dinanzi alla porta principale, il biondi si voltò in direzione della donna.
    -Sicura di non volerci ripensare, signora Valdez?- le chiese.
Zia Rosa gli rivolse un'occhiata carica d'odio. -Fuori di qui!- urlò.
L'assistente sociale non se lo fece ripetere due volte e si richiuse la porta alle spalle.
Leo continuava a piangere. Non era un comportamento da lui, per niente. Leo era forte, era il piccolo eroe di sua madre.
    "Ma la mamma non c'è più." si disse, disperato.
    -Coraggio, Leo.- gli disse il biondino, indicandogli l'utilitaria arancione parcheggiata davanti al cancello.
Leo annuì, senza dire una singola parola.
Il biondo aveva ragione: doveva farsi coraggio. Era solo, ma non avrebbe più permesso a nessuno di ridurlo in quello stato, a piangere come uno stolto. Decise che avrebbe indossato una maschera di coraggio e che avrebbe dovuto recitare con chiunque, a prescindere di chi si trattasse.
Leo montò in macchina e si allacciò la cintura di sicurezza. Il biondo mise in moto il motore e partì.
    -Leo,- gli disse, senza distogliere gli occhi dalla strada. -lo sai che dovrai stare in un riformatorio ora, vero?
Leo si concentrò: doveva sembrare sicuro di sé. Non doveva sembrare debole, o sarebbe stato trattato male. E lui non lo meritava.
    -Riformatorio?- ripeté, fingendo un sorriso. -Forte! Adoro i riformatori!
Stava funzionando.


Someday I’ll be living in a big old city
And all you’re ever going to be is mean
Someday I’ll be big enough so you can’t hit me
And all you’re ever going to be is mean
Why you gotta be so mean?

Mean


My little corner:
Salve a tutti!
Non pensavo che avrei scritto questa su Leo, sinceramente... credo mi toccherà utilizzare più volte una strofa, considerando che sto cercando d'inserire almeno una shot per ogni personaggio. ^^
Ad ogni modo... mi devo scusare per il ritardo. Obiettivamente ci ho messo parecchio per scriverla, considerando anche quanto è corta (eh già, piccina-picciò), ma spero che tutto il tempo che ho speso per questa baby-shot sia stato utilizzato bene. Ergo: è leggibile? Chi lo sa...
Zia Rosa non è mai apparsa fisicamente in The Lost Hero, ma Leo ne ha parlato più volte nei suoi flashback. Ecco, questo è uno dei pochi personaggi che detesto della saga.
... cos'è che dovevo dire? Oh, sì: per la cronaca, io sono una fan sfegatata di Leo. u.u
Grazie per aver letto!
Hasta la vista!
Aly.

Ringraziamenti:
Grazie mille infinite alle mie care Ella_Sella_Lella ed Effie Malcontenta Weasley, che hanno commentato il capitolo precedente: non sapete quanto felice mi facciano le vostre recensioni! Un grazie speciale anche a tutti i fantastici che hanno inserito questa storia tra le seguite (nearer, Francy97 e NymphCalypso), tra le ricordate (Francy97) e tra le preferite (nearer e Francy97). Grazie, grazie, grazie di cuore.

Credits:
Characters © Rick Riordan
Song © Taylor Swift, "Mean"
Title Font = Made With B
Text Font = Traditional Arabic

Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di Rick Riordan, che ne detiene tutti i diritti. La canzone utilizzata è Mean ed è cantata da Taylor Swift. Non ho scritto questa storia per scopo di lucro alcuno.

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