Dietro ai tuoi occhi di Callie_Stephanides (/viewuser.php?uid=7973)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La voce del vento ***
Capitolo 2: *** Eravamo mille. Eravamo soli ***
Capitolo 3: *** Digitale purpurea ***
Capitolo 4: *** Dietro ai tuoi occhi ***
Capitolo 5: *** Una memoria senza futuro ***
Capitolo 6: *** Anemone ***
Capitolo 7: *** La mano di Dio ***
Capitolo 8: *** Arrivederci ***
Capitolo 1 *** La voce del vento ***
Fictional Dream © 2007 (27 marzo 2007)
Naruto © 1999 by Masashi Kishimoto/SHUEISHA Inc.
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dalla stessa tramite permesso scritto.
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Mentre Konoha si allontanava nell’aria chiara di un mattino
luminoso – di quelli che non importa il clima o la stagione, perché ti fanno
comunque pensare all’estate – spirava un vento epico.
Lo coglievi nel fremito delle foglie, nel sussurro placato e
gentile con cui la voce del villaggio si accomiatava dai suoi figli e li
riconosceva per quel ch’erano diventati: non uomini, ma eroi.
E mentre Shikamaru disponeva sull’ideale scacchiera di una
strategia suicida le sue incredibili pedine, e mentre Kiba fiutava l’aria e
forse già coglieva il segno di una battaglia che non sarebbe stata né facile né
gentile, e mentre Naruto stringeva i denti e asciugava nella rabbia assoluta e
inesauribile di quel momento il dolore profondo di una perdita inaccettabile, e
mentre Neji – palpebre chiuse e sensi affilati come il migliore degli shuriken –
pensava a Hinata e a quel che gli aveva detto il giorno della più bruciante
delle sconfitte – con quel suo sorriso timido, eppure luminosissimo – ‘Bravo,
Neji. Ti sei rialzato’, Rock Lee colse la voce del vento e lesse in quel
sussurro l’incoraggiamento che attendeva da tempo: la chiamata di Konoha alle
armi.
Quella era la prima guerra della nuova era.
Lo sapeva Asuma, che di quella guerra non avrebbe visto la
fine – o forse sì, sulle labbra e nello sguardo di Shikamaru, lo svogliato
geniale che sarebbe divenuto uno dei baluardi di quella sua Konoha di azzurro e
di verde. E rosso, come gli occhi di Kurenai.
Lo sapeva Kakashi, che coltivava in sé il rimpianto di aver
esaurito un nobile compito, perché il non aver placato Sasuke era il fallimento
di un maestro che non aveva più nulla da insegnare – ed era pure l’ultimo colpo
menato al circo impazzito della storia.
Lo sapeva Tsunade, che non aveva mai rinunciato a scommettere
e che a furia di puntare sul coraggio avrebbe vinto.
Lo sapeva Jiraiya, come sapeva che Naruto era proprio come
lui.
O forse no.
Forse avrebbe salvato Sasuke da se stesso, perché non era
Orochimaru il demonio tentatore; già d’allora lo sciacallo che gli bruciava
dentro chiedeva la sua quota di carne e coraggio, vittime e scelleratezza.
Occhi di Uchiha, i suoi. Occhi di un clan che concepiva
l’eccellenza nel più spaventoso dei tradimenti pensabili.
Lo sapeva Sakura, che non aveva pianto solo l’abbandono,
quanto l’umiliazione di un rifiuto e l’inaccettabile debolezza che l’aveva reso
possibile, perché non era giusto domandare sempre a Naruto di combattere le sue
battaglie. Non quella più importante di tutte. Non quella che l’avrebbe
finalmente trasformata in una donna.
E lo sapeva Sasuke, che al vento non aveva voluto dare
ascolto, perché la voce bassa e fredda di Itachi gridava mille volte più acuta.
Sei troppo debole perché possa ammazzarti. Diventa
forte. Diventa forte, ammazza e impara ad ammazzare. Diventa forte
e diventa mio fratello. Diventa forte e aiutami a ricostruire gli Uchiha
che la storia ha sommerso. Gli Uchiha assassini. Gli Uchiha eroi.
Era quella voce a unirsi al vento e a soffiare sulla Konoha
di azzurro e di verde, che aveva salutato la speranza in un ultimo ‘grazie’,
prima che il figlio più dotato e più bello diventasse il nemico.
Come Itachi. Come Itachi che aveva avuto ribrezzo della sua
debolezza sino a uccidere in essa ogni sentimento e chi l’aveva messo al
mondo.
Soffiava un vento epico quel giorno.
Te ne accorgevi dal silenzio improvviso che si era chiuso su
di un sorriso e su una posa da figo – come avrebbe detto Rock Lee – Naruto volto
di fronte, i capelli come fili d’oro nel vento e quel sorriso aperto,
abbagliante. Il sorriso di chi avrebbe riportato indietro Sasuke – o quasi:
perché quel giorno qualcuno si sarebbe smarrito e qualcuno avrebbe conosciuto
finalmente se stesso.
Quel qualcuno era proprio il sigillo di Kyuubi che il destino
voleva Hokage.
Soffiava una brezza dall’odore consolante e quasi estivo, un
vento di nostalgia e di storia.
Se n’era accorto Kabuto, accanto al letto di agonia di
Kimimaru, ammirato dalla puntualità geometrica con cui Orochimaru mandava a
segno ogni pedina della sua strategia mortale.
E lo sapeva quel Serpente, tradito dal suo involucro
nel momento meno opportuno, eppure ebbro di un entusiasmo trionfante e crudele,
da predatore sazio, perché avrebbe ottenuto lo Sharingan e la licenza di
distruggere un intero mondo.
Lo sapevano gli occhi morti di Itachi, intrisi di sangue e di
ambizione: sapevano che il tempo stava per compiersi e che non sarebbe stato
deluso da false speranze. C’era qualcosa in quel vento che puzzava di morte, di
rinuncia e di un odio tanto forte da mangiare tutto l’amore. L’odio che – solo –
gli avrebbe dato un fratello e un rivale, nonché infuso un qualche significato a
quei giorni di infinita, vuota attesa fatta di conquiste facili e crudeltà
inutilmente spese, perché solo un Uchiha dagli occhi maledetti poteva esser
degno della sua testa – se mai l’avrebbe avuta.
Lo sapeva Kimimaru, il più prezioso dei fiori di un
assassino, sfiorito troppo presto e dunque dimenticato. Un’ultima lacrima spesa
nel nome di una storia pronta a cancellarlo. Una storia la cui chiamata era già
scoccata, trascinata dal vento epico del mattino in cui Naruto fu scelto da
Shikamaru per salvare Sasuke.
E non ci riuscì.
Lo colpirò per salvarlo, dovesse pure farmi a pezzi. Se mi
staccherà le braccia, lo calcerò a morte. Se mi staccherà le gambe, lo morderò a
morte. Se mi staccherà la testa, lo fisserò a morte. E se pure dovesse cavarmi
gli occhi, allora lo maledirò a morte, ma non rinuncerò a Sasuke, perché questo
è il segno del nostro legame.
La metamorfosi di Sai cominciò dalle parole di Naruto. Non
l’avrei mai detto, perché in Uzumaki respirava senz’altro uno sconfinato potere,
ma certo non potevi sostenere che fosse quello di un retore.
Il Terzo Hokage coltivava un motto che nessuno a Konoha ha
mai dimenticato, perché era intriso della saggezza di un eroe che non aveva
bisogno di armi.
‘Prima di aprire la bocca, controlla che anche il cervello
sia d’accordo.’
Quello, accanto al suo immancabile: ‘Il miglior oratore è
quello che conosce la virtù del silenzio’ erano moniti che ascoltavamo fin dai
tempi dell’Accademia.
Avevo sempre creduto, perciò, che le parole fossero il segno
di un’intelligenza profonda. Ino per prima potrebbe darmene la conferma, perché
il più brillante e svogliato dei ninja di Konoha è sempre stato un virtuoso del
silenzio – Shikamaru e le sue ombre fedeli.
Verrebbe da dire che ogni ninjutsu rende la misura di chi lo
domina: forse è per questo che un mio pugno potrebbe distruggere una montagna.
Cosa c’entra questa riflessione con la storia che voglio
raccontare? Tutto e nulla: è un modo, piuttosto, per riflettere sull’infinito
inganno delle parole.
Quando ho visto combattere Sasuke e Itachi – se poi è
possibile chiamare combattimento l’espressione più estrema di odio e d’amore che
sia dato concepire – ho capito quanta ragione fosse celata nelle parole
dell’Hokage, ma pure quanta miopia nel nostro riceverle.
Io, per dire, non avevo capito niente.
Per questo mi stupì il fatto che Sai – un bambino senza
faccia. Una radice senza radici – avesse mutato l’intero registro delle proprie
scelte per uno sbruffone come Naruto.
La verità è che i discorsi nascono dal cuore. Sono
un’espressione viscerale e complessa. Quella di Uzumaki, se vogliamo, è sempre
stata la retorica di un ventre ingordo e di un cuore immenso.
Avventato, diretto, umorale, patetico o epico: il tono di
Naruto è come il vento tra le foglie di Konoha. È una canzone sempre nuova, di
pace come di guerra.
Dal giorno in cui rivedemmo Sasuke, sull’erta impervia della
roccia che celava il Serpente, nulla fu più come prima.
Mi ero preparata a quell’evento per oltre due interi,
lunghissimi anni: così era stato anche per Naruto. In quell’attesa – nel suo
significato profondo, soprattutto – riposavano anche le mille ragioni per cui
guardavamo Sai con sospetto e indifferenza. Nel gruppo Sette non c’era mai stato
un posto vacante, solo l’ombra di un rimpianto doloroso.
Sasuke ci era entrato dentro e non era mai stato tanto
presente tra noi come da quando se n’era andato. Anche le parole di Shikamaru ne
erano un segno; nell’accordargli il massimo disprezzo, cioè, ancora lo
considerava un compagno.
Per questo, in quel giorno di sole e di vento, rischiarono la
vita per portarlo indietro senza riuscirci.
Soffiava una brezza innaturale e fredda anche la notte del
suo addio. Scivolava tra i miei capelli, come una carezza: forse mi blandiva per
rendere meno doloroso quel che avrei sentito poi. Un ‘grazie’ che aveva la
durezza di uno schiaffo e, al contempo, una mestizia strana, carica di
consapevolezze che non potevo cogliere.
Avevo poco più di dodici anni; avevo sempre considerato le
parole come un’espressione assoluta di verità. C’è voluto Sai anche per quello:
per ricordarmi come fossero un simbolo non diverso da mille altri.
Il primo dovere di un ninja, piuttosto, era non arrendersi
alle superfici.
Anche Sai approdò nel gruppo Sette come un colpo di vento,
sebbene fosse per me piuttosto un colpo al cuore.
Somigliava a Sasuke, ma, per dirla come Naruto, non era
altrettanto figo. A tradirlo, forse, era la sua espressione senza espressione,
quando quella di Uchiha era parte integrante di una cupa bellezza: una
tetraggine urticante, a dire il vero; la stigmate del destino tremendo che gli
era stato cucito addosso.
È sorprendente come lo ricordassimo alla perfezione, Naruto e
io. Dei contorni del suo volto, del modo particolare di aggrottare le
sopracciglia o stirarsi o curare sarcastico l’inflessione di un’interrogativa
retorica, non avevamo dimenticato proprio nulla.
A volte mi chiedo chi l’amasse di più tra noi due. Credo
Naruto, in ogni caso, perché Naruto voleva bene anche al Sasuke più nascosto; al
Sasuke che Uchiha per primo non voleva riconoscere.
Per un lungo, lunghissimo tempo, invece, non feci altro che
accarezzare la lucida superficie dei miei sogni. Poi, da un giorno all’altro,
alla sua immagine se ne giustappose una più importante: quella del ninja che
volevo diventare.
Quasi tre anni: anni duri, anni importanti. Non ci fu un solo
giorno in cui non abbia guardato la fotografia che ci ritraeva insieme con la
nostalgia di un ricordo prezioso e tristissimo. Gli occhi di Sasuke non erano
come i nostri fin d’allora, eppure sono certa che avesse cominciato a sorridere
e a fidarsi.
Prima che Orochimaru lo avvelenasse, almeno. Prima che Itachi
gli ricordasse il suo destino.
Soffiava un vento leggero anche quel giorno di tre anni dopo,
davanti alla tana del nostro nemico. Me ne accorgevo da come i suoi capelli
oscillavano piano, come seta nera. Credevo di essere preparata a quel momento,
perché era sempre stato con me, nel profondo del mio cuore. Un amore da
ragazzina, una questione di principio, non so: e poi trovarmelo davanti quasi
all’improvviso e sentire il mio nome sulle sue labbra.
Forse fu in quel momento che compresi fino in fondo che non
l’avrei più potuto afferrare. Che non l’avrei più potuto stringere. Che i miei
sogni erano sogni: bastavano un po’ di vento o un raggio di sole a disperderli
nel nulla.
Non c’era calore nella sua voce. Non c’era sorpresa. La sua
bellezza era ora spaventosa quanto quella di Itachi. Era come se quella degli
Uchiha fosse una maledizione latente, incubata in una pupa meravigliosa.
Non riuscivo a muovermi, ma guardavo Naruto: coglievo in lui
la rabbia e l’orgoglio e l’amore e la determinazione e lo sconcerto e la sua
umanità profonda. Lo scrigno di una bestia era più umano di Sasuke.
Eppure, anche solo per sfiorargli una guancia, mi sarei fatta
ammazzare volentieri.
Tutto questo accadeva sotto gli occhi di Sai, un ragazzo cui
la storia aveva mangiato tutti i sentimenti e che pure – forse proprio per quel
motivo – sapeva leggere nei nostri con una chiarezza invidiabile. Tant’è che Sai
mi parlò di Naruto, delle parole che gli aveva detto, dei ricordi che gli aveva
restituito. E mi parlò anche del Sasuke che aveva visto e che restituiva a noi,
spogliato di ogni sentimento: lo fece usando il silenzio, ancorché le parole.
Era evidente che non ce ne fossero, per una paura ch’era anche quella di Kyuubi
davanti ad un’aura troppo sinistra persino per un mostro.
Sai doveva uccidere un rinnegato che un tempo aveva fatto
parte della comunità di Konoha e del glorioso Gruppo Sette: nella sua ottica
asettica, degna di un lupo, non c’era spazio per il ricordo e per le emozioni.
In quelle s’incuneò l’arringa di Naruto e forse il segno di
un destino possibile.
Sasuke ci regalò uno sguardo gelido e beffardo, prima di
svanire ancora. Non provai davvero dolore quella volta, se non, per riflesso,
quello che trasudava dall’orgoglio e dall’affetto ferito di Naruto.
Mi accorsi che non ero ancora pronta. Solo il giorno fatale,
del resto, avrei compreso che non lo sarei mai stata, perché la storia di Sasuke
e di Itachi era troppo crudele per un essere umano. Fu per quello, forse, che
divennero due bestie pronte a scannarsi.
Il giorno dello scontro finale, però, il vento taceva. Tutto
fu avvolto da un silenzio quasi mistico, in cui persino un singhiozzo sarebbe
parso deflagrante.
Quel mattino – era l’alba, almeno, quando li trovammo. E il
sole calò prima che si arrestassero, sostituito da una luna rossa ch’era doppia
e spaventosa come un cuore pulsante – nessuno di noi si lasciò sfuggire un solo
respiro.
Non era neppure rassegnazione, quanto un innaturale sgomento.
A dodici anni pretendevo il lieto fine. Pensavo che una
maldestra dichiarazione d’amore potesse aiutarmi a cambiare la storia. Ne avevo
quasi sedici quando compresi che la vita non è buona e non è giusta. Quando
capii, soprattutto, quanto solo si fosse sempre sentito Itachi, nel suo Olimpo
di perfezione; tanto solo da costringere il fratello a diventare un mostro come
lui, pur di poter di nuovo abbracciare qualcuno.
Prima di quel giorno, Naruto e io fummo ninja di Konoha e
soldati. Combattemmo come disperati, guardammo la terra farsi sempre più scura e
dimenticammo per un po’ il colore del cielo. Senza perdere mai la speranza,
restavamo dentro gli stessi ragazzini che Kakashi aveva trasformato in una
squadra, e desideravamo riempire quel posto vacante con un nome sbagliato.
Il vento ci portava la voce dei troppi ch’erano già morti e
di quelli che li avrebbero seguiti, ma ci rifiutavamo di ascoltare.
‘Io non capisco se siete pazzi o siete eroi’ ci disse una
volta Sai, mentre affilava uno shuriken. E Naruto, che fissava sempre un punto
perduto nello spazio, quasi Sasuke fosse ancora lì, a fissarlo con un ghigno
pieno di disprezzo, trovò ancora le parole più giuste.
‘Siamo i suoi migliori amici. Non è solo ed è quello che deve
capire. La sua guerra non ha alcun senso.’
Non era una guerra, avrebbe detto Uchiha, ma una vendetta.
Eppure Naruto avrebbe trovato ancora una ragione da opporgli, perché la vendetta
era la via più idiota che un guerriero potesse cercare.
La vendetta l’aveva allontanato da noi, l’aveva reso solo più
infelice e forse persino più dipendente da Itachi e da quel che suo fratello
aveva rappresentato in una memoria devastata dagli orrori.
La vendetta l’aveva trascinato lontano dalla ragazzina che
ero e che avrei desiderato restare, perché Sakura Haruno aveva inghiottito tutta
la polvere del mondo per disintegrare l’unico diamante che avrebbe voluto
possedere: il cuore di Sasuke Uchiha, che in quel giorno di vento ci diede le
spalle.
E restò solo.
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Capitolo 2 *** Eravamo mille. Eravamo soli ***
Di tutto quel che segna il passaggio all’età adulta, non
avrei mai detto che un dettaglio apparentemente insignificante fosse pure quello
più importante di tutti. Ma da bambino – o ragazzino, perché quello eravamo
allora – è facile scambiare pagliuzze per montagne e poi schiantarsi contro un
palo.
Non ho mai capito, comunque, cosa trovasse tanto da
commuoversi il Maestro Gai nella fiamma della nostra giovinezza.
Il fuoco brucia e ci travolse tutti. Forse sarebbe stato meglio ardere con più discrezione o non
farlo affatto, perché le nostre ceneri roventi seguitarono a crepitare anche
quando il nostro cuore sembrava morto.
Il simbolo della nostra trasformazione – quella di Naruto e
mia, ma anche quella di Temari. O di Neji. O di Gaara – fu un improvviso,
insignificante mutamento di prospettiva. La scelta di un nuovo soggetto cui
tendere con tutte le nostre forze, se vogliamo.
La Sakura che avevo lasciato alle spalle e a volte
occhieggiava ancora tra le pieghe dei miei ricordi, era una bambina abituata a
pensare al singolare. Persino quando portavo lo sguardo su Sasuke non potevo
fare a meno di dirmi quanto sarebbe stato bello per me essere la sua compagna.
Per me.
Uchiha era una meta o un trofeo: strapparlo a Ino, che pure
non l’aveva mai posseduto, come simbolo della mia clamorosa rivincita. Ero
sbocciata e Sasuke era una specie di sole chiamato a benedire la mia bellezza.
Suona bene, no? Suona poetico, ma è sbagliato.
Me ne accorsi il giorno in cui mi disse ‘grazie’ e se ne andò
lo stesso. Me ne accorsi quando mi respinse con forza in ospedale, dando un nome
a quel che stavo facendo. Non ero una geisha e non ero neppure una fidanzata
premurosa: ero una che provava pietà. Ero una che, nell’esercitare le sue
attenzioni, gli ricordava i suoi fallimenti peggiori.
Dove c’è una ferita suppurante non puoi passare la mano senza
che il malato sussulti come colpito da una scossa: qualunque ninja della squadra
medica lo sa. Quel ch’è meno evidente e intuibile, però, è che lo stesso accade
alle piaghe dell’orgoglio quando posi su di esse la pietà ipocrita del
vincitore.
Senza volerlo, eravamo stati Naruto e io a infliggergli il
danno maggiore. O forse eravamo solo arrivati tardi, in una storia tutta
sbagliata. È vero anche questo, in fin dei conti.
Resta il fatto che Naruto c’è arrivato prima di me ed è stato
proprio lui ad aprirmi gli occhi.
Accadde poco prima dell’ultima missione – quella che doveva
tradursi nell’eliminazione di Itachi, ma che si trasformò nel coro muto di una
tragedia della memoria.
Uzumaki aveva già perso l’uso della mano destra, ma non per
questo si era arreso. Il suo motto, dal giorno in cui era rientrato dalla porta
del villaggio, era divenuto: ‘Sono tornato, Sasuke, per riportarti indietro’ e
non aveva mai mostrato l’intenzione di mutare avviso.
Fu lui a rivelarmi la ragione per cui Uchiha era divenuto nel
tempo tanto importante ai suoi occhi da essere il fratello che non aveva mai
avuto. Mi raccontò del bambino che tornava in una casa deserta, perché non aveva
mai avuto genitori, e di quello che fissava il vuoto, perché aveva perso tutto.
Erano il peggiore e il migliore allievo dell’Accademia: non potevano essere più
diversi, eppure uguali.
Naruto trovò sollievo nella solitudine di Sasuke. Mi disse
che l’aveva aiutato a sentirsi migliore. In un certo senso ‘superiore’.
“Perché io, Sakura, non avevo mai avuto nessuno. Era dura, ma
c’ero abituato. Sasuke, invece, anche se per poco, aveva avuto una famiglia.
Stava peggio di me. Faceva più pena di me.”
Naruto è onesto con se stesso e con gli altri. Già allora
aveva qualità morali che non t’insegna la scuola, ma che nascono con te e
definiscono gli eroi. Eppure anche Naruto, come me, faticava a distinguere l’ego
dal gruppo. In un certo senso ci vollero davvero tre anni per capire appieno la
lezione che il maestro Kakashi voleva darci: quella di un ninja è una vita che
usa sempre il plurale. Una vita corale, in cui si agisce, si muore, si combatte
nel nome di tutti.
Crescemmo davvero, insomma, solo quando ci aprimmo del tutto
agli altri, e ci accorgemmo che non eravamo soli.
Mai.
Il senso di quella battaglia si vide nell’operazione di
salvataggio di Gaara, ad esempio. Forse fu proprio un giovanissimo Kazekage ad
aprirci gli occhi su quello ch’eravamo diventati: non più ragazzini vogliosi di
affermazione, ma uomini e donne che inseguivano sogni e idee per il miraggio di
una felicità comune.
Gaara, che non conosceva la forza e il calore dell’affetto
umano, fu tra noi forse il primo che rinunciò al proprio ego più respingente e
assassino. Lo fece perché colse nelle azioni di Naruto il segno di una forza che
si alimentava delle emozioni, delle frustrazioni e delle utopie di un coro di
voci che non aveva mai ascoltato.
Naruto, che pure era il vaso di un demone, come gli era
toccato in sorte, gli insegnava che l’amore non è mai pretesa, né certezza. Che
l’amore va seminato, corteggiato, insultato e sofferto: solo allora, forse,
potrai coglierne i frutti.
Gaara lo comprese prima di me.
Ero sempre stata una bambina troppo fortunata per avvicinarmi
al mistero e all’incubo della solitudine. Perché questa riflessione è
importante? Perché è quella che traccia il confine discrimine tra noi ch’eravamo
rimasti e Sasuke.
Uchiha, che pure era cresciuto sino ad assumere quell’aria
distaccata e gelida che hanno certe perfette bellezze maschili, era il solo tra
noi a essere rimasto un bambino. Mi procura una strana impressione pensare a
come sia mutato il mio pensiero: un completo stravolgimento d’ogni convinzione
pregressa, se vogliamo.
Ai tempi dell’Accademia, Sasuke era un profilo sfuggente
dalla purezza disarmante. Accanto a Ino, a bassa voce, facevamo scivolare contro
il banco foglietti di fantasie melense e minacce velate, perché non c’era volta
che l’intenzione migliore non diventasse una sfida furiosa per guadagnarci
l’attenzione o l’affetto di Uchiha.
Ci sentivamo donne a sette anni e lui, ch’era un ragnetto
piccolo e carino, con quei suoi capelli arruffati e l’aria sempre assorta, ci
sembrava già un uomo.
Sasuke non parlava, non rideva, non si distraeva. Naruto,
Shikamaru, Kiba erano sguaiati, rumorosi, fastidiosi, divertenti. Facevano
gruppo, giocavano ai ninja e sognavano il giorno in cui avrebbero avuto una
missione di livello S.
Sasuke, solo davanti a un bersaglio – a volte le labbra
ferite dal suo stesso fuoco – invece, sembrava già un guerriero consumato. Non
era la pallida imitazione dei nostri maestri: era qualcuno che anche gli
istruttori fissavano con sgomento.
Ino e io non potevamo fare a meno di stabilire stupidi
confronti e dirci che sì, Sasuke era l’unico uomo vero in mezzo a quella
marmaglia di lattanti.
Forse Neji si salvava appena – ma anche Neji, di quando in
quando, sorrideva.
Ora che ci penso, invece, in cinque anni non vidi mai Uchiha
stirare le labbra neppure per scherzo. Né alzare la voce. Né fare a botte. Né
abbandonarsi a fanfaronate che chiunque avrebbe scusato e imputato all’età.
Era così perfetto da non sembrare vero: infatti era la
maschera di cera di un’infelicità assassina.
Ma a sette anni non lo sai; a dodici neppure, altrimenti mi
sarei accorta prima che Sasuke non era un uomo, ma quel bambino di sette anni
che Itachi aveva terrorizzato sino al punto da farlo – lentamente, ma con
costanza – impazzire senza rimedio.
Mentre i cialtroni dell’Accademia diventavano uomini – ed era
così carino, all’improvviso, il Naruto che guardava dall’alto la sua Konoha, con
il cielo negli occhi e il vento nei capelli –Sasuke restava sempre lo stesso.
Restava solo. Cresceva nell’oscurità della tana di un Serpente, si nutriva del
suo veleno e si indeboliva sempre di più.
Il gelo profondo di una totale atonia morale, ch’era pure il
fondamento della sua forza – e la sua debolezza peggiore – non era che il
precipitato di vecchi incubi, che non era stato abbastanza uomo da sconfiggere e
superare.
Non si era dimostrato all’altezza di Naruto e di Gaara.
Non aveva spezzato il suo silenzio. Non si era fidato, perché
aveva troppa paura per scommettere sull’amore. Non era come me: io, per amore,
avrei tradito Konoha.
Sasuke raccolse attorno a sé un mostruoso esercito. Sento un
gelo sinistro scivolarmi lungo la schiena al solo pensiero, perché le belve che
volle come alleati non dovevano proteggerlo da suo fratello Itachi, ma da noi.
Come mi disse Naruto, mentre liberavo tutto il mio chakra
salvifico, pur sapendo che non sarei mai riuscita a salvargli la mano – Naruto
ch’era una maschera di sangue, polvere e fatica, ma che pure non aveva la minima
intenzione di abbassare lo sguardo – Sasuke era davvero diventato un vigliacco –
uno spaventoso, spregevole vigliacco e un pagliaccio, perché dietro la sua aria
da figo c’era un bambino frignone che aveva paura di farsi vedere per quello che
era.
Gaara, con i suoi occhi glauchi spalancati su un deserto che
aveva dominato e sconfitto, perché poco a poco il niente della sua anima era
diventato un giardino fiorito, sorrise un poco, quasi con imbarazzo. Era un
sorriso triste, ma timido e gentile: un sorriso che non aveva nulla del ghigno
deviato con cui aveva tentato di ammazzarmi.
“Forse ha la testa più dura della mia,” gli disse, ma ci fece
capire che non ci avrebbe abbandonato.
Quel giorno, nella Valle della Fine, davanti a due colossi di
pietra che avevano già visto la sconfitta di Uzumaki e di un valore chiamato
‘amicizia’, per ironia della sorte, arrivammo compatti a gridare il contrario,
perché c’eravamo tutti.
Proprio tutti.
C’erano Gai e il maestro Kakashi, che si sostenevano a
vicenda e scommettevano sino all’ultimo su chi avrebbe compiuto l’azione
risolutiva.
C’erano la Maestra Tsunade e il Sannin Jiraiya, uniti, una
volta tanto, davanti a un tavolo da gioco ch’era intriso di sangue.
C’era Rock-Lee, che mi aveva salvato la vita per l’ennesima
volta da un demonio chiamato Seigutsu, che ai miei occhi non era altro che un
fantasma dalla spada affilata, defilato nella nebbia densa di una missione
indimenticabile.
C’erano Neiji e Hinata, non più rivali, ma compagni di guerra
– occhi preziosi dove cinque sensi non bastavano più a sopravvivere.
C’era Temari, che tratteneva sotto le ciglia le lacrime e
accompagnava la marcia sempre più faticosa di Shikamaru – che aveva ormai solo
un polmone su cui fare affidamento, ma non rinunciava a fumare perché il figlio
di Asuma conoscesse l’odore di un padre morto troppo presto.
C’erano Ino e Choji, che covavano un sentimento troppo
luminoso e troppo caldo per un giorno votato alle lacrime.
C’era Gaara, con la sua sabbia fedele; Gaara che non era più
un jinchuuriki, ma che della sua maledizione aveva fatto una bandiera e una
scelta di campo. Gaara che aveva lottato al mio fianco affinché Naruto non fosse
privato di quel che l’aveva reso speciale non perché più forte, ma perché ne
aveva forgiato lo spirito sino a trarne un eroe.
C’era Kankuro, che un tempo mi aveva terrorizzata con le sue
marionette, ma che ora era solo uno dei tanti volti del passato, metabolizzati,
recuperati, trasformati in un sostegno e in una speranza.
C’era Sai, che doveva uccidere Sasuke, ma che alla fine aveva
scelto di salvarlo insieme a noi.
Perché?
“Perché devo ancora capire in cosa sarebbe più figo di me.”
Era cambiato tanto anche lui; tanto da diventare uno dei
nostri, benché non sapesse come comportarsi e sorridesse sempre a sproposito.
C’ero io e c’era Naruto. Eravamo tanti, ma ci sentivamo soli,
perché il Gruppo Sette parlava di noi tre, ma avevamo dovuto attendere quel
giorno per capire come della nostra amicizia – del nostro legame – non restasse
più niente, se non il fatto che avremmo visto morire Sasuke.
Non so come quella certezza si fosse radicata in noi
gradualmente, passo dopo passo.
La strada alle nostre spalle era tutta un succedersi di polle
di sangue rappreso, sinistro memento di quel che avevamo vissuto per arrivare
sin là, dove tutto era forse cominciato.
Procedevo piano, sostenendo anche il peso di Naruto. Era
furioso, Uzumaki, e si vedeva. Quel briciolo di forza che gli era rimasto, sono
certa, era pronto a regalarlo a Sasuke: per uccidere Itachi o spaccargli quella
sua bellissima faccia poco importava. Sarebbe stato comunque un segno
inequivocabile del suo affetto.
Aveva paura di non arrivare in tempo, di mancare anche
quell’appuntamento con il destino.
“Due volte ci ho provato, Sakura…” mi ripeteva. “E ho sempre
fallito.”
Fu la prima occasione in cui vinsi la mia ritrosia e
tirai fuori la voce per scandire la verità, e la verità era che non aveva
fallito solo; che non era stata sua la mancanza, perché almeno ci aveva provato.
C’era anche chi non aveva fatto niente: era anche il segno
che non lo amassi abbastanza.
Nell’aria il sentore della fine era più intenso che mai. Ti
scivolava addosso e lo respiravi con il soffio caldo dell’estate. Dalle occhiate
che ci lanciavamo, Naruto e io, dividevamo quella stessa impressione. Era quasi
la voce di Sasuke ci accompagnasse, ma non era la stessa che ci aveva
schiaffeggiati con l’indifferente freddezza dell’ultimo incontro: era l’Uchiha
dei giorni felici. Il compagno timido, ma anche premuroso. Quello che,
all’occorrenza, sapeva vivere e morire per te. Ci diceva di procedere con calma,
così quando saremmo arrivati sarebbe tutto finito.
Il vento suonava proprio così, quel giorno. Tutto finito. Tutto finito.
Quando arrivammo alla Valle della Fine, Itachi e Sasuke si
fronteggiavamo sulla cima dei colossi contrapposti. L’acqua della cascata non
produceva un fragore tanto assordante da coprire la tempesta del mio cuore. Tump. Tump. Tump.
Naruto, immobile, fissava lo sguardo là dove anch’io cercavo
un futuro e le mie conferme; là dove c’era quella macchia d’ebano e d’avorio che
avrei voluto stringere tra le mie braccia.
“Avanti… Ancora avanti.”
La voce di Naruto era un ringhio esausto, ma mi teneva
ancorata a terra. La sua voglia di comprendere era più forte della sua
debolezza. Gaara gli allacciò la vita e lo sorresse
con me, mentre il ritmo della marcia si faceva incalzante e il silenzio sempre
più cupo.
Nell’ultimo mese non c’era stato un solo giorno in cui non
avessimo combattuto, non avessimo inferto o ricevuto ferite, non avessimo pianto
o non ci fossimo guardati indietro per capire chi eravamo davvero, in cui non
avessimo pensato che le parole erano come il vomito: nessuno poteva rimangiarle.
Nessuno poteva inghiottirle e imprimere un nuovo corso alla storia.
Naruto non riusciva a staccare gli occhi da Sasuke. Il
sangue, misto alla saliva, schiumava ai lati delle sue labbra, facendolo
somigliare ancora a quella bestia infernale cui pure dovevamo la vita. Era pieno
di emozioni trattenute, che nulla poteva davvero tradurre, perché – l’ho già
detto – esiste un linguaggio segreto che gli ideogrammi non riflettono mai.
Io, invece, fissavo Itachi e cercavo in quel
ragazzo-uomo-assassino un segno che me lo rendesse odioso, colpevole e
respingente come doveva essere chi aveva fatto tanto male al mio Sasuke, ma non
trovai nulla.
I suoi occhi di sangue, come quelli del fratello, erano pozzi
cupi di solitudine e di tristezza.
In quel momento realizzai con sgomento che tutto sarebbe
davvero finito quel giorno, perché anche se fossimo stati in mille a guardarli
scannarsi, a dividerli o a vincerli, loro sarebbero stati sempre soli: stretti
nella morsa di una maledizione che non avevano scelto, ma che pure aveva
scandito le loro ore sino a quel giorno.
Sino alla Valle della Fine in cui, in fondo, tutto era nato.
Persino il mio orgoglio di donna.
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Capitolo 3 *** Digitale purpurea ***
Mi sono spesso chiesta se Itachi se ne fosse accorto subito,
oppure se non sia stata una sorpresa per lui come fu per noi. E, laddove
l’avesse compreso al primo sguardo, cosa avesse mai provato: se gratitudine o
sgomento, o rancore o ammirazione.
La verità è che Itachi non ci somigliava. Non era della
stessa pasta di Orochimaru, ma neppure dei ninja di Konoha. Era nato tra noi,
aveva respirato la nostra stessa aria e ammirato quel cielo di un azzurro terso,
custodito tra volti di pietra: eppure, nel profondo, io credo che abbia sempre
sentito la nostalgia del dio demone da cui discendeva – come Madara. Come Sasuke
– e con quella nostalgia abbia pure covato il rancore che l’avrebbe trasformato
in un assassino.
Ai tempi in cui mi allenava, la maestra Tsunade non si
preoccupò solo di farmi lavorare e soffrire al punto da dimenticare persino
Sasuke, ma non smise mai di nutrire l’orgoglio che stavo forgiando. Rispose a
ogni mia domanda. Lo fece, suppongo, perché sapeva quanto male mi avrebbe fatto
il suo oracolo.
Un giorno – eravamo nella foresta limitrofa al villaggio, là
dove tante avventure avevamo vissuto. O speso lacrime. O coltivato speranze –
mentre raccoglievamo erbe medicinali – meglio: io stavo piegata a raccogliere,
mentre la maestra m’interrogava implacabile su ogni ciuffo verde che spuntava
dal suolo – le chiesi come fosse mai possibile che proprio i ninja migliori
finissero per tradire. Era successo a Orochimaru, poi a Itachi e infine era
stata la volta di Sasuke. La maestra rimase in silenzio per un po’, poi m’invitò
ad ascoltare. Anche s’eravamo lontane dalla radura in cui si allenava la squadra
del maestro Gai, le grida entusiaste di Rock-Lee arrivavano fino a noi. C’era
davvero una forza immensa nella determinazione con cui lottava per migliorare e
imparava a piegare ogni ostacolo. Era qualcosa che me lo rendeva caro, come
tanti altri volti della mia storia. “C’è una differenza fondamentale tra chi
nasce pieno di doni e chi ha dalla sua tutta la buona volontà del mondo. Il
primo potrà perdere molto. Il secondo, invece, solo conquistare.” Rimasi a
fissarla a bocca aperta, mentre sedeva su un piccolo masso, sradicava una
splendida digitale e me la mostrava in tutta la sua velenosa perfezione.
“Se pensi a Konoha come a questa pianta, comprenderai la
bontà di quel che ti dico. Quel che ne rende manifesta la presenza – se
vogliamo, tutta la sua bellezza – sta in un’infiorescenza tossica. Nessuno
potrebbe negare che sia splendida, ma a saggiarla si muore. Il che vuol dire che
anche il bello è insidioso, pericoloso, mortale. Il fusto che la sostiene
contiene ancora parte del veleno, ma non è altrettanto invitante. Se guardiamo
le radici, poi, nessuno potrebbe aver voglia di masticarle.”
“Ma le radici, maestra Tsunade, possono essere usate…”
“… Per decotti medicinali. Esattamente. Sono brutte, ma sono
buone, come capita spesso in natura.”
“Ma cosa c’entra Konoha in tutto questo?”
“Sforzati di ragionare, bambina! La vita non è una formula da
applicare, ma da guardare! Le risorse che servono a mantenere Konoha giungono
copiose dai Daimyo e i signori pretendono sempre il meglio. Vogliono sentirsi
sicuri, protetti, difesi solo dai ninja più celebri e valorosi, perciò quel che
da sempre ha reso evidente il nostro villaggio sono le eccellenze. Né più né
meno di come l’infiorescenza purpurea individua la digitale nel folto del
bosco.”
“Quindi, se i migliori sono il fiore, allora le radici…”
“Rock-Lee è una radice. Per certi versi anche tu e Ino siete
radici. Così Naruto, per il quale Kyuubi è stato più un ostacolo che non un
elemento di forza. Voi siete nati senza altra attitudine che non la vostra
applicazione e una straordinaria volontà. Lavorare sodo vi ha reso meno
corruttibili e meno vulnerabili. Come radici, siete quello che sostiene davvero
il villaggio e ne cura i valori. Siete invisibili, ma siete quel che conta
davvero. Purtroppo la natura ha sempre disposto che il veleno corresse là dove
si addensa il desiderio degli uomini.”
Rimasi incantata ad ascoltarla: per la bellezza delle
immagini, la semplicità solo apparente di una costruzione che custodiva invece
in sé l’essenza di tutto quel che eravamo e dovevamo diventare. Mi piaceva
l’idea di essere una radice. Prima di conoscere quelle dell’ANBU, almeno –
sebbene Sai non sia poi tanto male.
A guardare Itachi, quel giorno, non potei fare a meno di
pensare quanto la mia maestra fosse saggia, accorta e implacabile nel tranciare
giudizi: Uchiha non nutriva il minimo sentimento nei nostri confronti. Non
rabbia, non paura, né ammirazione; eravamo pezzi di carne che avrebbero
assistito a un’esecuzione annunciata. Nulla di più.
Su Sasuke, però, so che la maestra Tsunade ha raccontato solo
una verità parziale, perché l’emulazione del fratello fu quel che lo costrinse a
lavorare più di tutti gli altri. Era un Uchiha, lui, dunque non poteva che
essere perfetto.
Credo che quel giorno il mio mentore cercasse in me il segno
della ragazza che era stata, unico elemento femminile tra due Sannin leggendari
e gloriosi. Forse pensava a Orochimaru, al legame che aveva tentato di
costruire, ma che aveva visto poi cadere in mille, minuti brandelli.
Le ho chiesto anche di lui, perché il Quinto Hokage non si
adonta mai delle domande, piuttosto diffida di chi non ne ha mai una da porne.
Le ho chiesto come fosse quel demonio che mi aveva rovinato la vita, mordendo e
corrompendo chi amavo con tutta me stessa. La sua espressione non cambiò mai,
benché la storia fosse di quelle che ti fanno solo male – persino a distanza di
anni, non puoi viverle e arrenderti a quel che sono state.
Forse è stata proprio la vicinanza della maestra Tsunade a
farmi montare interrogativi che non avevo mai nutrito, per superficialità,
inesperienza e forse persino codardia. Per me Orochimaru fu a lungo il
demone-serpente che quasi uccise Sasuke in una prova ferocissima, o la creatura
perversa e tentatrice che me lo nascose per quasi tre anni: che fosse stato un
ragazzo, un ninja come me e come Naruto; che avesse forse amato, oppure sofferto
tanto da impazzire, fu un sospetto che arrivò molto dopo. Forse quando per prima
avevo compreso il significato di parole abusate come sono sempre le emozioni
della retorica.
Eppure Sasuke, maldestramente e senza volerlo, era stato il
primo a indicarmi la via per comprendere: la nostre radici – il fondamento degli
uomini e delle donne che volevamo diventare – erano il passato. Erano la nostra
stessa memoria. È la consapevolezza il fondamento dell’essere, e quella non la
trovi nei ‘se’ e nei ‘forse’, ma in quel che la storia ha metabolizzato fino a
digerire del tutto. E Sasuke era un rinnegato perché quella notte aveva
assistito al massacro dei suoi, non perché volesse davvero abbandonare il
villaggio. Non perché odiasse Konoha, nei cui boschi fitti aveva visto allenare
un dio-fratello-invincibile.
Così Orochimaru: il più perverso dei fantasmi che affollavano
la mia coscienza non poteva essere figlio di un’ispirazione improvvisa, perché
quello che chiamiamo ‘male’, a volte, non è che l’infinita banalità del nostro
egoismo. Ma Tsunade non possedeva una risposta che potesse davvero placare la
mia curiosità: non ce l’aveva perché Orochimaru non l’aveva coinvolta con
l’intensità con cui Sasuke mi era piuttosto entrato dentro, dunque non poteva
porsi le mille domande con cui io avevo flagellato me stessa.
‘Dove ho sbagliato?’ ‘Cosa avrei potuto fare?’ ‘Cosa avrei
dovuto dire?’
Il Quinto Hokage è una donna pratica e di buonsenso e mi ha
detto che nella vita le domande non finiscono mai, ma le risposte che si possono
dare sono limitate. Anche Sasuke aveva una volontà, un cervello e un destino:
prima o poi avrebbe finito con l’appartenere loro.
Orochimaru era considerato un genio fin da bambino, né più né
meno di quel ch’era capitato a Itachi, eppure le strade che hanno percorso sono
state fin dall’inizio molto diverse e mi chiedo se Sasuke non lo avesse capito e
su tali basi avesse scelto il suo maestro.
Lo sfregio più doloroso che poteva imporre a Itachi, in fin
dei conti, era proprio ammazzarlo secondo una legge diversa da quella che aveva
voluto indicargli.
Orochimaru, ad ascoltare la maestra Tsunade, era un ragazzo
molto più umano di Itachi. Anche se il suo sorriso era simulatorio e celava la
spregevole crudeltà di un demone incapace di guardare all’essere umano come a
qualcosa dotato di una sua dignità, applicava strategie che gli uomini conoscono
da sempre. Cercava il rispetto, l’approvazione, il potere. Era persino in grado
di stirare le labbra e regalarti una smorfia carina.
“Sai, Sakura? Il terzo Hokage fu a lungo convinto che
Orochimaru sarebbe stato un magnifico successore. A quei tempi era Jiraiya il
Naruto della situazione, ma Orochimaru riusciva ad averne ragione con estrema
facilità. Pensavo che fossimo diventati amici, tutti e tre. Buoni amici. E
invece…”
Lasciò cadere il discorso non appena vide le lacrime nei miei
occhi. Il fatto che fossi una piagnona nostalgica la infastidiva come
indispettiva Sasuke. Le ragioni, però, erano
diverse, e senza il Quinto Hokage non l’avrei mai capito.
Un giorno mi trovò a contemplare per la milionesima volta –
nell’arco di una stessa giornata, beninteso – quella fotografia che Naruto e io
ci portammo dietro persino nell’ultima battaglia: il segno della famiglia
ch’eravamo diventati e intendevamo ricostruire. Me la strappò di mano e la gettò
in terra con tutta la cornice. Schegge di vetro esplosero ovunque, assieme alla
mia rabbia cieca.
Perché l’aveva fatto? Perché proprio una cosa così gratuita e
tanto crudele? Eppure sapeva quanto importante per me fosse quel ricordo e
quanto bisogno avessi, di quando in quando, di rispolverarlo per compatirmi. Ma
la maestra Tsunade fu severissima, come un oni dell’Inferno.
“Sakura!” mi urlò con una tale violenza da far accorrere
persino un pubblico che non ero in grado di affrontare. “Le lacrime sono
preziose. Non è giusto buttarle via per niente. È un oltraggio a chi non ne ha
abbastanza!”
Come Sasuke, dunque. O come Naruto, nei giorni in cui era
ancora e solo il vaso di un mostro, non un bambino come noi. Così capii anche
perché Uchiha fosse a volte così duro nei miei confronti: calpestavo la sua
sensibilità senza chiedere permesso e avevo persino il coraggio di lamentarne le
reazioni.
Shizune, per la verità, venne poi a consolarmi, per
raccontarmi che la maestra Tsunade aveva pianto e sofferto sino a dimenticare il
sapore stesso della vita. Era preoccupata per me: che mi seppellissi nel culto
di un ricordo che non aveva mai salvato nessuno. Neppure lei.
Mi raccontò anche di come Naruto fosse riuscito a snidarla,
ponendo l’accento sul patetismo con cui si autocompativa, anziché alzare la
testa e combattere ancora.
“Naruto comprende molto bene il cuore delle persone, perché è
stato tanto saggio da non trasformare il suo dolore in rancore.”
Quello era qualcosa che avevo imparato da sola guardandolo;
che sentivo in me avendolo al fianco, là sul costone roccioso che ci divideva da
due fratelli in lotta da sempre.
Orochimaru aveva abbandonato la Foglia come tutti i
traditori, dando le spalle al mondo che l’aveva cresciuto, senza mostrare il
minimo rimpianto. Jiraiya aveva tentato di trattenerlo, ma quello scontro non
avrebbe mai potuto uguagliare, né sfiorare la drammaticità con cui Naruto aveva
offerto la propria vita a Sasuke perché tornasse indietro. Non era questione di
tempi, quanto di personalità.
Malgrado la sua crudeltà profonda… Malgrado il cinismo
impressionante con cui ha saputo incunearsi nella nostra storia, Orochimaru era
uno che seguiva uno strutturato disegno di devastazione e di imperio. Bramava il
potere, se vogliamo, e in questo obbediva ancora alla logica degli esseri umani.
L’inumanità, quella vera, appartenne nella storia di Konoha
al solo Itachi, perché niente del suo piano somigliava davvero all’ambizione da
sciacallo di troppi altri criminali. Non credo che neppure una S bastasse a
indicare il rango di pericolosità di un simile assassino, perché una volontà di
potenza come la sua non si era mai vista.
Per questo davvero mi chiedo cosa si disse Itachi, quando
Sasuke sollevò le palpebre e mise a nudo il suo trofeo. Naruto e io eravamo
abbastanza visibili da lasciar intendere che no, lo sharingan ipnotico non
proveniva dal sangue di un amico. Aveva tutt’altra origine. Era il dono nefasto
di un altro sacrificio.
Itachi era una maschera di cera dalla bellezza quasi
ignominiosa. Sasuke aveva lineamenti più fini e delicati, ma il fratello era
l’icona dell’eroe. Nelle mie romantiche fantasie di bambina, tuttavia, non avrei
mai creduto che gli eroi potessero essere crudeli; che si era eroi, anzi, quando
si rinunciava a quanto di buono, di fragile, malleabile e puro c’era nel cuore
umano. Eppure la voglia di contestare quell’asserto bruciava in me allora e oggi
più forte che mai, perché non era tutta la verità. Meglio: non era vero solo
quello.
C’era anche chi viveva la sua vita giorno per giorno, senza
troppe ambizioni. Non rinunciava a guardare il sole e nello specchio trovava
sempre qualcuno che gli restituiva il sorriso: anche quelli erano eroi. Forse i
soli autentici.
Il vento taceva, mentre il nostro cammino si interrompeva
lungo il costone. Gaara non riusciva a staccare lo sguardo dai paramenti con cui
era stata officiata anche la sua esecuzione.
“È uno di loro, dunque,” mormorò a denti stretti. Naruto, la
cui volontà stava cedendo assieme all’argine delle sue emozioni più pure e più
ferite, gli replicò in rimando: “No. In questo momento è solo Itachi Uchiha.”
La sua voce squarciò il velo della menzogna con cui avevo
continuato a combattere giorno dopo giorno in quell’infinito mese: era tutto
finito. Non avevo il benché minimo titolo per scendere tra quei due e dividerli,
come pure avevo tentato di fare eoni prima, davanti a un altro campo di
battaglia – o alla promessa che ci sarebbe stata quella sfida, prima o poi.
Alle mie spalle, Ino e Temari insultavano Shikamaru con voce
sempre più malferma. Qualcuno stava morendo, dunque: accadeva ancora e non
avremmo potuto impedirlo.
Eravamo mille ed eravamo ancora soli davanti a quell’acqua
che scorreva derisoria, perché il suo flusso era immortale come non sarebbe
stato il destino di nessuno di noi – neppure dei due fratelli che cercavano di
offrire un punto fermo alla loro maledizione.
“Ha lo sharingan ipnotico,” ringhiò il maestro Kakashi,
cercandoci ancora una volta con lo sguardo, quasi non credesse all’evidenza del
fatto ch’eravamo comunque sopravvissuti. Sasuke non ci aveva uccisi, eppure
poteva finalmente combattere il nemico ad armi pari.
Sai si avvicinò con la consueta, felina indolenza. Assieme a
Gaara e Naruto restammo un quartetto inscindibile per tutta la durata del
combattimento. Era quasi avessimo bisogno l’uno dell’altro per trovare, l’uno
nell’altro, la misura di quel ch’eravamo.
Per oltre due anni, ogni giorno, mi ero guardata dentro,
stupendomi di quanto larga e informe fossi per la nettezza del profilo che
avrebbe fatto di me la compagna ideale di un eroe. Dovetti sfiorare
un’esecuzione annunciata per comprendere invece l’inutilità di un confine che
cingesse l’immensità di quel che portavo dentro.
Mi allontanai un solo istante, per raggiungere il gruppo di
Choji e Ino. Finsi di non vedere il calore con cui Temari violava la regola
venticinque, lacrimando il suo amore, il suo dolore e il suo rimpianto sul corpo
di Shikamaru: mi limitai a imporre le mani sul petto del migliore di noi e a
ricordargli che aveva un bambino da crescere.
Non solo quello di Asuma.
“Come l’hai capito?”
“Me l’ha detto il vento.”
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Capitolo 4 *** Dietro ai tuoi occhi ***
Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo.
Pensandoci bene, fu lei a inculcarmi tutto quel che avrebbe
fatto di me un ninja e una donna.
Non che il maestro Kakashi non mi avesse dato abbastanza, ma
era quasi fosse scritto, da qualche parte, così minuto che a fatica avresti
potuto leggerlo, che solo una donna avrebbe potuto parlare al mio cuore di donna
– una specie di lascito della tradizione e della memoria – perché le donne sono
diverse, malgrado tutto.
Anche se possiamo vivere come uomini e a volte ci piace
fingere di non essere inferiori in nulla, la verità è che c’è sempre quel
qualcosa che ci rende uniche. Che ci rende fragili o fortissime. Per questo avevo bisogno di una maestra come Tsunade.
A volte, quando mi capita di ricordare con Ino quei giorni –
sembrano trascorsi eoni da che eravamo solo due ragazzine in competizione per
tutto – ripenso a quanto fosse più matura e consapevole lei, che pure non era
dotata come me.
Io decisi di scrivermi un destino che non avevo mai
immaginato in vista di un obbiettivo che non avrei probabilmente mai raggiunto.
Ino, per contro, si era guardata intorno e aveva compreso la storia meglio di
me. Non c’era nessuno che valesse più di un altro, solo un gran bisogno di
sopravvivere.
È con una punta di orgoglio, però, che penso a come per
Tsunade, dopo Shizune, ci sia sempre stata io – una specie di allieva
prediletta, diciamo. Oppure, com’è accaduto a Jiraiya con Naruto, uno strano
specchio in cui cercare l’emenda della memoria.
Io potevo essere più felice di come era stata la mia maestra
e il Quinto Hokage fece il possibile perché ciò accadesse. Non mi nascose mai la
crudeltà della lezione più importante che la vita possa dare, ma mi armò perché
potessi sopravvivere.
Tant’è che arrivai alla Valle della Fine assieme a tutti gli
altri.
La maestra Tsunade mi diceva sempre che la felicità è una
condizione soggettiva e volubile; che non potevo credere davvero che dipendesse
dal riprendermi Sasuke, perché Sasuke, per quanto potesse essere un pezzo del
mio cuore, non lo era anatomicamente. Non era mio, cioè. La felicità era una
forza personalissima, egoista e tutta mia. Potevo raggiungerla solo diventando
almeno un grande ninja, perché un grande ninja non ha bisogno di ricordare la
regola numero venticinque. È la regola numero
venticinque.
Per la verità, quando vidi in concreto cosa ciò implicasse,
ho pure capito che non m’importava diventare un ninja perfetto. Forse la mia
felicità poteva essere la disperazione di Temari, com’era quella di Kurenai:
portare nel grembo la creatura di un uomo che non sarebbe vissuto abbastanza da
darle un nome.
Volevo un figlio da Sasuke?
Non è qualcosa di scontato e lineare come appare, perché non
lo è la vita. Forse mi illudevo soprattutto di poter riscattare l’abisso che
viveva dietro ai suoi occhi; abbracciare il bambino ch’era rimasto solo a
soffiare il fuoco delle proprie illusioni.
Ma Sasuke era cresciuto e la sua felicità era diversa dalla
mia. Era vissuto nell’amore per la prima metà di una brevissima vita, poi in un
dolore tanto forte da consumare ogni suo ricordo. Da consumare persino il
futuro.
I due guerrieri che si sfidarono, si massacrarono, si
torturarono e ci torturarono con quella vista aberrante nella Valle della Fine,
erano quanto l’Accademia avrebbe voluto produrre: erano due macchine da guerra.
Senza sentimenti.
Di Itachi, in quegli anni, avevo sentito abbastanza per non
stupirmi davvero di niente. A sorprendermi, forse, fu il fatto di trovarmi
davanti agli occhi qualcuno che non era spaventoso, enorme e orribile come avevo
creduto.
Quel giorno Itachi si disfece dei paramenti dell’Akatsuki,
pur essendone l’ultimo superstite.
Quel giorno non entravano in conto né Alba, né Orochimaru, né
nulla: era un rito degli Uchiha, officiato nel nome di una memoria maledetta dai
giorni di Madara.
Quel giorno Sasuke non era né mio né di Naruto, eppure lo
sentivamo entrambi in noi come qualcosa che avevamo perso. Come qualcosa che
ora, soprattutto, comprendevamo di aver smarrito del tutto.
“Sasuke ha qualcosa di strano,” mormorò all’improvviso
Uzumaki – la sua vista acuta come quella di una volpe, ma animata da colori e
sentimenti che Kyuubi poteva solo immaginare. Anche Gaara, immobile al suo
fianco, strinse le palpebre sottili per fissare un orizzonte in cui tutto pareva
annientato dal chiarore abbacinante del sole e dal venefico splendore di quelle
aure.
“Qualcosa in più del solito?” provò a scherzare Sai, con
quella sua irritante e quasi commovente insensibilità ai climi, ai registri e
all’opportunità stessa. Nessuno ebbe modo di irritarsi, però, perché fu come se
un veleno si fosse diffuso nell’aria che respiravamo, quando gli occhi di Sasuke
si armarono della loro bellezza più segreta e pericolosa.
Lo Sharingan ipnotico.
Se Itachi – la sua voce controllata e freddissima – non gli
avesse domandato per primo come fosse riuscito a ottenerlo – lui ch’era un
coniglio al punto da non osare neppure sfiorare quelli che chiamava ‘amici’ –
forse avrei violentato sino in fondo il mio ego più morbido e vulnerabile e
gliel’avrei chiesto di persona.
Perché sono curiosa. Perché
ormai ero abbastanza consapevole di tutto quel che riguardava gli Uchiha da
sentirmi parte di una storia che non era la mia, eppure mi era entrata dentro
sino ad avvelenarmi.
Sasuke si era allontanato indolente la frangia troppo lunga
dagli occhi, quasi a mettere ulteriormente a nudo la crudele bellezza di quelle
pupille armate. Non eravamo noi il suo pubblico, ma suo fratello. Era l’unico
che desiderasse forse impressionare.
Itachi, però, era il solo che poteva guardare lo sharingan
senza abbassare il capo.
“Non credere, sono il primo che se n’è stupito.”
La sua voce suonava tanto fredda che avrei voluto non fosse
la sua. Come diceva sempre la maestra Tsunade, però, non basta negare la morte
per diventare immortali: così era inutile ingannarmi con il ricordo, se Sasuke
era lì. Era quel che vedevo. Nulla di meglio. Nulla di diverso.
“Sei stato tu a dirmi che avrei potuto ottenerlo. Dimostrarti
che potevo farlo a modo mio era il minimo che potessi fare.”
Un tempo, quando parlava di Itachi, Sasuke palesava sempre
una sfumatura rancorosa e viva nella voce. Considerando che si trattava pur
sempre di suo fratello, non era qualcosa che avresti detto piacevole, ma era
almeno umano.
La maestra Tsunade non mi ha insegnato a negare l’odio, ma a
non farmene sopraffare. Un rancore canalizzato come deve è forza. Un
risentimento senza costrutto, per contro, una trappola mortale. Quella in cui è
caduto Sasuke, in fondo.
Il tono che usava allora, innanzi al proprio fratello, era
depurato da ogni accento. Lo metteva a parte di un segreto che non era neppure
tale, con una leggerezza studiata – una freddezza sepolcrale, direi.
Naruto si mordeva le labbra e restava in ascolto. Non c’era
una sola di quelle parole che non lo pungesse nel vivo e lo ferisse come forse
Sasuke avrebbe preferito colpire la propria preda, ma Itachi era al di là del
bene e del male. Uchiha non aveva capito di averlo perduto eoni prima: si era
spinto troppo avanti persino per rendere pensabile una vendetta.
Avrebbe avuto senso, poi? Io dico di no.
Eppure fremevamo, perché il segreto di quegli occhi ci
apparteneva dal momento in cui avevamo giurato a noi stessi di non perdere un
compagno; di riportarlo indietro, qualunque fosse il costo.
Itachi non si scompose. Non gli disse quel ‘bravo’ che forse
Sasuke supplicava da sempre – lo stesso per cui si era venduto – ma neppure la
sua espressione mutò, come pure avevo sperato, il che stava a dire che ora
Sasuke era come Itachi.
Quello non era un vero dialogo: imbandivano un banchetto
dell’orrore delle loro ideali mercanzie.
E Uchiha svelò infine come aveva ottenuto lo sharingan
ipnotico. No, non aveva dovuto uccidere qualcuno che sentiva quasi parte di sé,
ma chi aveva odiato sino ad amare come il migliore dei maestri.
Era un ossimoro atroce, eppure, al contempo, quello che
l’aveva trasformato sino a quel punto.
Cos’era accaduto in quei quasi tre anni? Che rapporto aveva
costruito con Orochimaru?
Continuamente domandavo alla mia maestra del Sennin che aveva
tradito Konoha, perché mi dicevo che in quel gioco drammatico di rispondenze
forse avrei anche trovato la soluzione. Ma il Quinto Hokage mi ha dissuasa da
certi giochi, ricordandomi una volta in più che crede alla linearità e non alla
circolarità del tempo.
“Orochimaru non era come Sasuke.”
L’ha scoccato subito, impietosa. Non era così fragile e
neppure così emotivo.
Orochimaru aveva una bellezza non umana, degna dei rettili
che amava tanto, e come i rettili si insinuava tra le pieghe della tua
coscienza, ti possedeva e ti strangolava.
Cosa può darti un maestro del genere?
“Una pericolosa illusione, bambina,” mi ha detto Tsunade, e
la storia le ha dato ragione.
Nel covo di Orochimaru, Sasuke cresceva all’ombra e
nell’ombra. Come diceva sempre il Terzo Hokage, non puoi togliere la luce a una
pianta e credere che non crescerà storta, ma Orochimaru fece proprio quello. E
Sasuke, poco a poco, deviò.
Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo: è così che ho esordito
in questa pagina da bruciare assieme a troppi ricordi inutili e dolorosi, ma non
ho detto cosa.
Fu lei a dirmi come la bestia più feroce, quando la domi,
rallenta poco a poco ogni proprio movimento. C’è qualcosa di languido e apatico
nei suoi gesti; qualcosa che sa di rinuncia e di una libertà perduta in modo
inevitabile.
Come tutti i Sennin evocatori, la maestra Tsunade conosce
molto bene gli spiriti della natura e delle forze animali: non avevo ragione di
dubitare di lei. Mi sorprendeva più applicare un simile insegnamento a quel che
stavo vivendo.
Sasuke somigliava a tratti a una belva domata. L’avevo
realizzato per la prima volta proprio quando ci rivedemmo – e la sua espressione
impenetrabile ci irrideva dall’alto.
C’era sempre stata un’imperturbabilità curiosa in lui,
persino quando lo vedevi allenarsi e combattere, ma era la lentezza che nasce
dalla riflessione e dal calcolo. Quella, per dire, che accompagna anche
Shikamaru quando gioca allo shogi o costruisce dal nulla un piano.
È una tranquillità virtuosa, laboriosa e vigile, non
quell’intorpidimento sinistro, quella totale atonia morale che trovammo in lui.
Sasuke era stato corrotto persino nei suoi tempi, che pure
erano un segno delle sue radici e della sua identità. Non mi stupirei nel sapere
che ha pure ucciso così, con quella strana abulia che coglievi dietro ai suoi
occhi, perché dietro ai suoi occhi non c’era la più piccola scintilla d’amore.
Non so quand’è morto Orochimaru e neppure mi interessa.
Senz’altro non avrei pianto per lui come fece Anko, che non è mai riuscita del
tutto a dimenticare l’uomo che coglieva i bambini quasi fossero fiori. Eppure
c’è qualcosa che posso dire, qualcosa che viene dal cuore stesso di Konoha e da
tutto ciò che ho imparato in questi anni.
Qualcosa che le lacrime di Anko raccontavano fin troppo bene.
Per quanto possa essere spregevole; per quanto sia un essere
repellente e crudele, tu non puoi uccidere il tuo maestro. Non puoi macchiare le
tue mani e la tua memoria con un’azione tanto vigliacca. Un maestro è un tuo
secondo padre, perché educa qualcosa che la famiglia non può cogliere.
Un genitore ti mette al mondo e non potrà mai fare a meno di
vederti come una sua proprietà. Il maestro, invece, è l’artista che sgrezza
l’idea contenuta nel granito informe. È il primo adulto che ti riconosce come
tale, che ti plasma, che ti aiuta a essere davvero te stesso, senza compromessi
e ipocrisie.
Per questo, però, tu non potrai mai avere il coraggio di
ferirlo. E se lo fai – Gaara lo sa bene – ti porti dentro quella ferita per
tutta la vita.
Eppure Sasuke aveva ammazzato Orochimaru; non solo per la
propria sopravvivenza, ma perché ormai era arrivato al punto da sentirsi
superiore a tutto, persino all’etica di Konoha.
Mentre eravamo in marcia verso la Valle della Fine, Gaara
raccontò a Naruto un po’ di sé. Lo fece per dargli coraggio, credo, e per fargli
capire che non era stata colpa sua, se Sasuke era deragliato senza rimedio.
Il Kazekage della sabbia narrò di come avesse ammazzato
l’unica creatura che gli avesse dato un po’ d’amore. Di come quello avesse
devastato per sempre la sua capacità di guardare al futuro, perché se realizzi
con orrore che la tua esistenza è uno sbaglio, qualcosa da combattere e svellere
come imperdonabile obbrobrio, allora ti abitui a vivere a dispetto di tutto e
tutti. A farlo, piuttosto, per sfidare tutto e tutti.
È nella reciprocità dell’affetto che impari a riconoscere il
valore della vita: Gaara c’era riuscito ed era diventato un eroe amatissimo.
Sasuke, per contro, aveva rinunciato a quella via per
percorrerne una inversa, una strada scellerata bagnata persino dal sangue di un
delitto orribile.
E quasi me lo vedo, il mio Sasuke, nell’ombra di quel covo
spaventoso, muoversi con la pigra indolenza di una fiera in caccia. Orochimaru
pensa solo al momento in cui ruberà il suo corpo, i suoi occhi maledetti e la
straordinaria invincibilità della sua giovinezza, ma Sasuke ha appreso fino in
fondo la lezione che quel Serpente gli ha inoculato con il suo veleno.
Orochimaru ha ammazzato il Terzo Hokage. L’ha fatto malgrado
sapesse di essere più potente di un vecchio guerriero che aveva sempre amato la
pace; malgrado quelle mani callose avessero accarezzato i suoi capelli e gli
avessero raccontato una storia felice per annichilire la solitudine di un cuore
orfano.
E Sasuke, che pure di quel farmaco orribile si è nutrito,
sino a farne il latte di una nuova crescita, si muove entro il ventre di una
terra sterile, incontro al destino e all’omicidio. Non gli importa quanto
indebolita sia la preda: è il rito di un’iniziazione orribile, perché forse sa
che se il suo polso non tremerà mentre il chidori diventerà la lama che
squarcerà il petto del suo mentore e della sua nemesi peggiore, allora neppure
Itachi sarà più un ostacolo insormontabile.
Lo sharingan brilla nell’oscurità, come un faro crudele.
Passo dopo passo, con lentezza esasperante, l’esecutore scandisce immobile gli
istanti e i metri che lo separano dalla preda.
E gode, dentro.
Gode di quell’attesa e gode al pensiero del teschio stravolto
dalla sorpresa e dal terrore di Orochimaru, quando comprenderà che il gioco si è
spinto troppo oltre ed è finito.
Ora è davvero finito.
Quei pensieri mi percuotevano come raffiche di un vento
invernale, gelato e minaccioso, mentre la brezza estiva faceva ondeggiare le
chiome nerissime di Sasuke e di Itachi.
Fissavo quei suoi occhi rossi per non vedere proprio niente,
perché oltre quelle due polle di sangue rappreso non c’era più nulla di quanto
avevamo diviso.
Dietro ai suoi occhi, forse, io non c’ero mai stata.
Nota: approfitto di questo spazio per ringraziare ancora una volta Erika e la casa editrice UR per aver fatto del mio racconto Pelle Nuda il biglietto da visita della pubblicazione imminente, e così ringrazio quanti lo hanno letto e hanno speso bellissime parole per commentarlo. |
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Capitolo 5 *** Una memoria senza futuro ***
Ricordo molto bene l’impressione profonda che mi fecero le
parole della Maestra Tsunade.
Non ero sola, per fortuna, e specchiarmi nell’incredulità di
Naruto fu ancora una volta il balsamo di cui avevo forse bisogno. Soprattutto,
ascoltando le proteste di Uzumaki, mi fu risparmiato di dover vestire quel
ruolo, perché anch’io, alla notizia che Orochimaru fosse morto, avrei voluto
esultare e gridare al mondo: ‘Perfetto, allora! Vuol dire che Sasuke tornerà a
casa!’ – il che era l’apoteosi della stupidità, perché io sapevo che a Uchiha
non importava niente del Serpente: quello era stato solo il demone che l’aveva
destato.
L’obiettivo di Sasuke era Itachi; una meta che non era mai
cambiata, perché non puoi trascinartela dentro per mezza vita senza che ti
possieda del tutto.
Eppure, con la morte di Orochimaru, il nostro fronte cambiò.
Forse, anzi, fu proprio l’essenziale momento in cui realizzammo di aver letto
sempre le pagine più periferiche e marginali di una storia ch’era invece
complicatissima e troppo articolata perché le dessimo una risposta univoca.
Era quasi la morte di Orochimaru fosse il pegno sacrificale
per un’apoteosi demoniaca persino più spaventosa. Quel che ancora mi ostinavo a
negare, però, era che l’apocalittico avveniente fosse proprio Sasuke.
Naruto rimase di pessimo umore per tutta la giornata. Non
riuscivamo a separarci, malgrado non ci fosse davvero un’autentica ragione per
restare insieme: come sempre, suppongo, ci illudevamo di ricreare il Gruppo
Sette con una mistificazione della memoria. Finché, cioè, Uzumaki e io avessimo
continuato a cercare noi stessi in una vecchia fotografia, Sasuke non sarebbe
mai davvero svanito del tutto dai margini della nostra cornice. Uchiha, però,
non era più un bambino di carta: era un demonio di carne, impegnato in una corsa
furiosa contro il destino.
Contro Itachi. Contro tutto.
La notte in cui il vento incorniciò l’eco stanca delle mie
parole, facendomi cogliere tutto il patetico superfluo delle mie stanche
recriminazioni, ricordo di avergli anticipato quel che la storia gli avrebbe
riservato per certo, e che cioè non sarebbe mai stato felice.
Nessuno trova appagamento nella vendetta – diceva sempre il
Terzo Hokage per difendere Naruto – perché prima o poi si compie e allora ti
accorgi che non ti rimane più niente. A Sasuke, quella notte, lo gridai con
quanto fiato avevo in gola. Gli ricordai la famiglia che aveva conquistato e la
felicità che avrebbe stretto, se solo fosse rimasto, ma lui, con una
tranquillità che mi stupì e mi ferì, mi disse che non gli interessava. Non aveva
la minima intenzione di essere felice, cioè: a lui importava vendicare un
ricordo.
Sotto questo profilo, dunque, aveva ragione: non era come
Naruto, né come la sottoscritta. La sua era una logica che non potevamo capire,
perché ci muovevamo entro un orizzonte dinamico. La nostra vita, le nostre
aspettative erano tutte volte al futuro, a quello che saremmo diventati e a
quello che avremmo fatto. Quella di Sasuke, per contro, era una memoria senza
futuro: un orizzonte statico, compreso entro il tatami intriso del sangue dei
suoi genitori.
“Che idiota… Perché non torna?”
Naruto stringeva i pugni e non ringhiava che quelle parole.
Io fissavo la strada polverosa di Konoha e nell’impronta lieve dei miei passi
rivedevo quelli dell’ultimo giorno, senza capire.
Quel che più ha ferito di questa storia è proprio questo: il
non aver compreso niente. Non perché sia iniziata, non perché sia finita tanto
male. Eppure abbiamo avuto le risposte: peccato che non siano parse convincenti
ad alcuno.
Sai si unì qualche tempo dopo alla nostra marcia senza meta.
“Perché non gli interessa,” fu la semplice risposta che diede
all’interrogativo inquieto di Naruto. Ci arrestammo e lo fissammo attoniti,
costringendolo a schermirsi come faceva sempre, dopo averti gelato con un
asserto dei suoi.
“Scusate. Ho parlato come sempre a sproposito.” Invece aveva
detto la verità, solo che non volevamo starla a sentire. Non potevamo accettare
che un compagno – qualcuno cui tenevamo come parte del nostro stesso sangue – si
fosse dimenticato di noi. Eppure avevamo avuto quella prova. L’aveva avuta persino Kyuubi, là, nelle profondità dell’animo
di Naruto.
Quando lo ritrovammo, sull’erta di quel costone roccioso,
Sasuke non sembrava né commosso, né stupito. Quando scoccò il mio nome, fu il
mio cuore a smettere di battere, non il suo. Quando sguainò la lama, per
puntarla contro Naruto, nei suoi occhi non c’era una sola scintilla d’odio. Non c’era la minima umanità. Non c’era proprio niente.
“Non dire idiozie,” gli sibilò tesissimo Uzumaki, ma non lo
aggredì come al solito. I miei occhi si posero sulle garze che gli avvolgevano
la mano ferita: rosseggiavano come il fuoco che gli bruciava dentro.
‘Non dire idiozie.’
Se non avessi per prima sentito il bisogno d’essere
consolata, forse l’avrei abbracciato. Ci avrebbe fatto bene allora come poi, per
sentirci meno soli.
Dopo la morte di Orochimaru, le troppe vie che si erano
aperte in una storia tragica e complicata, di quelle che fiorivano sulle labbra
del Terzo Hokage per stupire noi bambini, si ricomposero: non per rendere più
chiaro il tracciato, ma per darci a intendere come la fine si appressasse.
Non una fine qualunque, poi, ma la fine, perché allo
scontro tra i fratelli Uchiha si sarebbe infine giunti per chiudere un cerchio
aperto da Madara e dallo Shodaime.
Perché Itachi desiderava tanto resuscitare Sojobo?
C’è chi ha detto inseguisse il mito della superiorità degli
Uchiha, e dunque anelasse a un ripristino della genia originaria, plasmata nella
carne e nel sangue di un demone.
C’è chi ha supposto che si fosse montato la testa al punto da
volersi provare con il più spietato degli avi, e dunque non gli costasse
massacrare la propria famiglia per una scellerata curiosità.
C’è chi ha gridato che fosse semplicemente impazzito, come
capita a volte a chi è troppo dotato, al punto da scegliere l’unica libertà che
l’eccellenza conceda: buttarsi via.
Ma io non credo alla semplicità di un solo asserto. Io voglio
credere alle parole del maestro Kakashi, che davanti ai colossi della Valle
delle Fine non poté fare a meno di pensare a quanto somigliassero a Sasuke e a
Naruto. Quanto pregno fosse il loro odio-amore della storia di Konoha.
Io preferisco credere a quel che ho visto, senza quasi
riuscire a farmene una ragione: due corpi che bruciavano come tizzoni inesausti
del fuoco nero dell’Amaterasu sotto le lune di sangue del Tsukiyom. Due fratelli
e due nemici, eppure due volti di uno stesso destino e di una stessa solitudine,
perché se è vero che Itachi aveva bisogno di Sasuke per il suo piano scellerato,
è anche vero che avrebbe potuto scegliere chiunque altro per quella commessa del
rancore e della memoria.
Un uomo adulto, magari, non un bambino. Un amico, non il
proprio stesso sangue.
Invece scelse Sasuke: lo elesse con l’orgoglio di chi vede
nel pulcino la splendida aquila che espugnerà il cielo.
Lo condannò, eppure gli rese uno splendido regalo. Chiese a
Sasuke di diventare un dio e fece del suo odio un formidabile nutrimento.
E se Itachi, infine, avesse solo scelto di morire, ma avesse
disposto per sé un esecutore?
Non sono che parole, però, e io ho già detto che non nutro
più la minima fiducia nei discorsi.
C’era un gran silenzio quel giorno. Ce n’era così tanto
ch’eravamo costretti ad ascoltare tutto, proprio tutto. Persino l’asettica
freddezza di quello spietato saluto.
“Oggi è l’ultimo giorno del clan Uchiha”: fu così che Itachi
diede inizio allo scontro, dissolvendosi in una tempesta di shuriken. Chiusi
d’istinto gli occhi e mi protessi il viso. Persino Sai si ritrasse di un passo.
Solo Naruto restò a guardare, forse pungolato proprio da Kyuubi, e le sue parole
mi sono rimaste dentro, incollate agli incubi che, di quando in quando, ancora
lasciano sulle mie ciglia i mille aghi della nostalgia.
“Quei due non sono umani.”
No, non lo erano più. Erano troppo disperati per vivere
ancora tra noi.
La Valle della Fine era anche il destino che si erano
costruiti, giorno dopo giorno. Anno dopo anno.
Quando la Maestra Tsunade ci diede quell’annuncio, però,
ancora non credevamo davvero che Sasuke avrebbe tenuto fede al proprio proposito
– non come accadde, almeno – né, soprattutto, immaginavamo di poter restare
tutti coinvolti.
Il Quinto Hokage si consultò con Jiraiya; restò assieme
all’Eremita dei rospi persino dopo averci congedati.
Orochimaru era morto.
Orochimaru, eoni prima, era stato il loro Sasuke.
Chissà se avevano giocato insieme da bambini, o riso delle
stesse storie o esultato delle stesse, piccole gioie? Chissà se l’energia di
Tsunade li aveva affascinati o non era stato piuttosto quello sguardo freddo e
vigile, d’ambra od oro liquido, a vincere su tutto? Chissà s’era poi vero che
non erano mai stati amici, o non fosse esistito anche tra loro quel legame
speciale che li aveva consegnati alla storia come i migliori? Chissà se avevano
evocato i loro protettori totemici per irridersi con le rispondenze o si erano
aiutati nel corso delle missioni più pericolose? Chissà cosa pensavano davvero,
la mia maestra e il mentore di Naruto, chiusi in quella stanza?
Al tempo ch’era passato? A quel che avevano perduto? A
Orochimaru?
Shizune aveva un’espressione tutta sua, sintetica ed
emblematica, per descrivere il Quinto Hokage. Diceva che la mia maestra aveva
dispiaceri alcolici molto eloquenti, quasi versare sake l’aiutasse a risparmiare
le lacrime. Quel giorno, però, non si ubriacò sola.
Penso a quei due Sennin, ormai consumati dall’esperienza,
seduti in terra come vecchi bambini. Il Terzo Hokage li fissa dalla montagna con
il suo viso severo, ma occhieggia anche da un ritratto alle pareti. Erano i suoi
figli. I suoi pulcini. Li ha allevati, amati, svezzati. Sono stati tutto e
niente al contempo, ma soprattutto un pezzetto di storia. Anche della sua. E
ora, mentre il gioco più pericoloso del mondo comincia – quello del “Ti
ricordi?”. Quello che ti fa sentire sempre e comunque sconfitto, perché nel
momento in cui senti il bisogno di ricordare vuol dire che hai già perso – sono
solo due superstiti, due nostalgici, due perdenti, perché il compagno che non
hanno mai recuperato se n’è andato.
Non ha neppure mai dato loro la minima spiegazione.
Non ha neppure salutato come si deve. Forse è quello che fa
più male.
Mentre la mia maestra si ubriacava di infelicità e disfatta,
Naruto e io consumavano un nostro personalissimo esorcismo: seduti davanti a una
ciotola di ramen, a non pensare davvero a niente, perché a farlo sapevamo pure
quel che ci saremmo detti.
Forse anche noi eravamo destinati a restare in due come i
Sennin rimasti.
Credo che Uzumaki provasse più rabbia di me, in ogni caso. La
mia era ansia, era frustrazione, forse persino un po’ di vittimismo, ma quella
di Naruto era l’indignazione profonda di chi ha scommesso persino più di quel
che possiede. Anche se era braccato dall’Akatsuki, anche se aveva visto cosa
avevano osato praticare su Gaara, senza la minima pietà, Naruto era persino
pronto a fronteggiare Alba, se questo poteva implicare riportare Uchiha a casa.
Perché tardava tanto? Non aveva più un maestro, non aveva più
un rifugio, però gli restavamo noi.
Invece niente.
“Non ci pensa proprio.”
“Non ne ha la minima intenzione.”
“Non gli interessate.”
Non era quello che Sai voleva dire, ma in buona sostanza era
un’indicazione altrettanto esplicita, perché Sasuke continuava per una strada
che correva forse parallela alla nostra e che per questo non avrebbe più
intersecato i nostri passi. Così credevamo, almeno;
invece la storia era una sola e ci crollò addosso.
L’ultimo colpo alla ruota si ebbe il giorno in cui a Konoha
arrivò la notizia della vendetta di Shikamaru. Sino ad allora – lo confesso –
non avevo mai davvero pensato alla guerra in corso come a un conflitto che
interessasse tutta la Foglia, anziché il Gruppo Sette. Il sadismo quasi
esasperato con cui Nara aveva vendicato Asuma, però, raccontava qualcosa di
molto diverso.
Un giorno, mentre studiavamo l’anatomia delle terminazioni
nervose, la maestra Tsunade mi invitò a riflettere proprio su quanto stavo
leggendo. Quella del corpo umano era una macchina meravigliosa, fatti di
raccordi degni di un orefice. Ogni cellula, ogni muscolo, trovava una propria
destinazione e, al contempo, una rispondenza. Non c’era azione che interessasse
una parte che non coinvolgesse pure il tutto; non c’era evento che corrompesse
una porzione pure atomica dell’organismo che non trovasse, parimenti, una
reazione altrove.
Sul momento mi limitai ad annuire, senza aver realmente
compreso il cuore autentico della sua lezione. Ora, per contro, posso dire che
mi è tutto chiaro. Persino in modo doloroso.
La maestra Tsunade mi preparava a guardare la vita e a capire
che anche a Konoha esistevano rapporti che non potevano essere letti in
un’ottica egocentrica come la mia.
Avevo perso Sasuke, d’accordo, ma non dovevo dimenticarmi dei
troppi compagni che la guerra in corso avrebbe potuto strapparmi. Una guerra cui
Uchiha aveva dato le spalle, perché a interessargli non era neppure Alba, ma un
solo, indimenticabile membro.
L’Akatsuki, però, aveva altri progetti.
C’è chi l’ha letta come un mezzo di Itachi, chi invece crede
che fosse Uchiha una semplice pedina: restava il fatto che quell’organizzazione
di demoni stesse erodendo la nostra pace felice, mirando al cuore di chi era
stato sacrificato per santificarla – come Naruto. Come Gaara – e i ninja di
Konoha non potevano restare a guardare.
Ricordo bene come Temari commentò l’esecuzione di Hidan,
perché fu una delle rare occasioni in cui la vidi rivolgere a Nara parole che
non suonassero solo provocatorie.
Era già tempo di selezionare nuovi Chunin; la sorella
maggiore del Kazekage era tornata nel nostro villaggio con un’aria ben diversa
dall’algido distacco con cui l’avevo conosciuta. Non credo dipendesse solo dal
fatto ch’eravamo ormai donne consapevoli del nostro ruolo, né dal salvataggio di
Gaara: il suo vento era mutato già il giorno in cui era scesa nell’arena
per combattere un ragazzo che non aveva la minima intenzione di vincerla.
Era stato proprio questo ad aggiudicargli la vittoria. Su
ogni fronte.
“Allora hai le palle anche tu,” gli disse, ma i suoi occhi
erano duri e non ridevano. Non sorrideva neppure lo sguardo di Shikamaru, che
alzò le spalle e disse: ‘Così pare.’ E poi si accese una nuova sigaretta.
Pure Nara aveva dunque affrontato l’Akatsuki: per una
vendetta personale, per proteggere il Re, per fedeltà a Konoha, per affetto nei
confronti di un maestro – e di un amico – perduto. Quell’esecuzione, cui sul
momento non avevo poi dato una clamorosa importanza, mi suggeriva che la
battaglia era ormai in essere e vi saremmo scivolati tutti. Senza esclusioni.
Il Quinto Hokage ci mandò a chiamare per disporre nuove
squadre e indicare gli obbiettivi che avremmo dovuto conseguire. Non era più un
gioco; non c’era più nulla che giacesse sotto una A ottimistica, perché in Alba
si condensava quanto di più feroce il livello S avesse creato. Eppure non
avevamo paura: di questo sono certa.
La maestra Tsunade fu eloquente, spietata, diretta. Ci disse
che Konoha sarebbe stata senz’altro tra gli obbiettivi di quei mostri, come pure
già in passato. Naruto, soprattutto, in qualità di vaso di uno dei cercoteri,
doveva essere protetto a vista.
Uzumaki protestò con una forza insospettata: non voleva
essere protetto, perché aveva qualcosa di più importante ancora da proteggere.
Aveva Sasuke e l’obbligo morale di riannodare quel filo rosso che il tempo non
poteva davvero usurare.
Eppure la maestra Tsunade non gli risparmiò né l’affronto, né
il prevedibile commento: Uchiha era un rinnegato che aveva voltato le spalle
alla Foglia. Quale fosse la sua verità, non era di lui che dovevamo occuparci,
ma di chi sarebbe rimasto. Per quanto essenziale fosse ogni vincolo di amicizia,
cioè, ve n’era uno ancora più importante per un ninja: l’orgoglio di cui il
coprifronte era un memento.
Fu Neji, quando la riunione fu sciolta, a trovare le parole
giuste per quietarlo, verbalizzando una verità cui per prima avevo cominciato ad
avvicinarmi con insospettato ottimismo: se l’Akatsuki aveva bisogno di Kyuubi,
allora avrebbe dovuto accerchiare il villaggio. Poiché però Itachi era un membro
di Alba – e Sasuke era alle costole del fratello – c’erano buone possibilità che
si avvicinasse lo stesso. Abbastanza, almeno, perché la Volpe non si ritraesse
atterrita per la sorpresa.
Naruto parve arrendersi a quella verità e io lo imitai.
Il cielo era trapunto di stelle, mentre rientravamo in casa
senza neppure sfiorarci, ma vicini con il pensiero come mai prima, perché sotto
quelle luci forse un giorno avremmo trovato di nuovo il nostro complemento.
Bastava aspettare e levigare la nostalgia del ricordo con la
lama sfolgorante della nostra giovinezza piena di illusioni.
Poi cominciò l’assedio a Konoha e capimmo che forse non saremmo neppure
vissuti abbastanza da prenderlo a schiaffi o abbracciarlo.
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Capitolo 6 *** Anemone ***
L’assedio di Konoha durò trentacinque giorni.
Tanti ne passarono da che le sentinelle individuarono nella
polvere dell’ora meridiana i paramenti dell’Akatsuki e il momento in cui si
inaugurò la nostra marcia verso la Valle della Fine.
Fu uno stringersi progressivo di nodi, di emozioni, di
violenze, di memoria, perché nel fronteggiare la nostra nemesi eravamo anche
vicini al nucleo più profondo delle nostre paure radicate e fisse. Io, almeno,
sapevo che il mio cuore sarebbe stato messo a dura prova – non solo, però,
perché forse avrei rivisto Sasuke.
Lentamente, ma con una forza che non potevo ignorare, il
nostro ultimo incontro aveva mutato la cifra dei miei sentimenti. La sua
bellezza si era fatta, se possibile, persino dolorosa, perché non aveva più
nulla di morbido e di infantile. Com’ero diventata una donna io, cioè, si
avvicinava a un uomo lui: non guardavamo più ai sentimenti come ad un’ipotesi
futura. Erano lì. Erano pronti a essere colti.
Al contempo, però, con una nettezza ch’era cresciuta con i
miei stessi passi, ero pure consapevole del mio ruolo di ninja. Ero un chunin di
Konoha: il mio compito, cioè, era quello di vestire la prima linea.
Penso sia stato lo scontro con Sasori l’autentico
spartiacque: rappresentava il mio battesimo con l’Akatsuki ed ero sopravvissuta.
Avevo imparato qualcosa sulla crudeltà e sulla forza, ma soprattutto sulle mie
capacità. Non ero più la ragazzina che fissava la schiena di due compagni
eccezionali, ma ero degna di marciare al loro fianco.
Credo che Alba avesse deciso di puntare tutto su un attacco
decisivo perché Konoha si era rivelata più dura e ostinata del previsto. Non
avrebbe potuto essere altrimenti, in fondo, con una donna come la maestra
Tsunade al comando. L’Akatsuki credeva che l’ultimo cercotero sarebbe stato
preda facile. Sino a quel momento, eccetto forse quel ch’era capitato con Gaara,
i jinchuriki erano considerati sacrificabili inopportuni. Chi avrebbe mai
lottato per la vita di un mostro?
Nei miei ricordi di bambina quella parola ricorre con
frequenza eloquente. Prima di conoscerlo e di scoprire quanto generoso fosse il
suo cuore e straordinario il suo talento – e non per Kyuubi, ma per quanto era
ostinato lui – Naruto non era per me nulla di diverso.
C’era senz’altro chi l’aveva accolto senza riserve – il
maestro Iruka o Shikamaru, ad esempio – ma non sbagliava Uzumaki quando si
sentiva un emarginato. Il Terzo Hokage era stato deciso ed eloquente nel dirci
che avremmo piuttosto dovuto considerarlo un eroe, perché quel bambino
impossibile aveva chiuso in sé una nemesi epocale, ma era più facile
accontentarsi di ascoltare la voce comune e quel che tutti gridavano.
Uzumaki non era il vaso della volpe. Naruto era la volpe
stessa.
Oggi nessuno oserebbe più apostrofarlo in quel modo, come
nessuno faceva più in quei giorni, perché proprio Kyuubi, all’improvviso,
sarebbe divenuto l’essenziale alleato della Foglia. Senz’altro non avremmo
abbandonato un compagno per niente al mondo. Non credevamo alla legge
dell’arbitrio e della prevaricazione di Alba. Noi eravamo diversi e volevamo che
i nostri nemici lo sapessero.
Quel giorno non soffiava un solo alito di vento. Il sole era
alto nel cielo e i suoi raggi bruciavano con forza insospettata. Ricordo che
incontrai Ino, lungo la via principale del villaggio. C’era qualcosa di duro e
teso nel suo sguardo, quasi avvertisse una minaccia che non riusciva però a
verbalizzare del tutto.
Mi ci volle un po’ a ricordare ch’era da poco rientrata dalla
missione con Shikamaru e che l’aveva visto perdere il controllo per la prima
volta in tutta la sua vita.
“Mi chiedo se non sia inevitabile,” mi disse. Sceglieva con
estrema cura le parole, scollandole a fatica. In lei potevo leggere quel che
anche lo specchio mi diceva: eravamo proprio cresciute. A tratti, non
somigliavamo neppure più a noi stesse.
“Cosa? Combattere?”
Un tempo non avrei osato essere tanto diretta, persino
aggressiva, nei suoi confronti. Prima di essere la mia migliore amica, Ino era
una rivale insuperabile, ma il tempo che aveva travolto le nostre vite e le
nostre scelte aveva mutato tutto. Soprattutto il nostro rapporto.
Dopo Shizune, ero la prima allieva di Tsunade. Ero più forte
e tecnicamente più dotata. Ero sbocciata del tutto, trasformandomi in un fiore
che forse non aveva previsto: un anemone.
Un piccolo croco fragile solo in apparenza, ma determinato a
sopravvivere a ogni costo.
Ino se n’era forse già accorta il giorno in cui il sigillo di
Sasuke si attivò e io non rinunciai comunque ad abbracciarlo, ma era solo negli
ultimi due anni che il segno della mia determinazione era maturato sino a
trasformarmi in una nuova Sakura.
Proprio perché era anche la mia migliore amica, nondimeno,
Ino non me l’avrebbe mai rinfacciato. Si era come fatta da parte e si fidava di
me.
“No. Essere crudeli.”
Era un problema che non mi ero mai posta, anche perché la
maestra Tsunade non rappresentava un capolavoro etico, se faceva sul serio. Non
che non fosse anche onesta, ma era un tipo pratico, e i tipi pratici pensano a
vivere senza perdere tempo in inutili sofismi.
Per il Quinto Hokage la guerra è guerra: ogni mezzo è buono,
purché ti faccia sopravvivere.
Me l’aveva ripetuto più di una volta, per imprimerlo bene in
quel mio cervello riottoso, romantico e nostalgico: se Sasuke, per una qualunque
ragione, si fosse alleato con Alba, sarebbe stata la prima a chiedere la sua
testa senza il minimo rigurgito di coscienza.
Per mia fortuna Uchiha non era impazzito sino a quel punto –
neppure volle rivedere Konoha: il suo appuntamento con il destino era altrove.
Mosse proprio dalla foresta in cui forse la tragedia era stata inaugurata – ma
sino all’ultimo dovetti tollerare l’alea di un dolore perfetto.
Ino, però, aveva colto sin troppo bene il rovescio di
quell’indigesta medaglia: combattere contro nemici così pericolosi e così privi
di scrupoli, poco alla volta, stava inoculando in noi tutti un nuovo veleno.
L’aveva letto nello sguardo di Nara: la strana ebbrezza di un potere che nasceva
dall’esercitare una violenza consapevole. Dal porre un punto fermo, inciso nella
carne e nel sangue.
“Non ci sarà bisogno di perdere la testa. Solo restare
uniti,” le risposi con una sicurezza arrogante e simulata, perché per prima
ignoravo davvero il senso profondo delle mie parole.
Cosa significava ‘restare uniti’, se quella pagina da
strappare nasceva da un abbandono e da un tradimento? Da un paio di spalle volte
a Konoha e a quel che la Foglia importava?
Non credo di averla convinta, ma il segno profondo della
nostra crescita stava anche in semplici manifestazioni di buonsenso: con una
guerra alle porte, le parole restavano tali. Erano le azioni a fare gli uomini.
A Konoha, Alba giunse già mutilata. Che il Caso avesse uno
spiccato senso dell’umorismo era qualcosa che avevo già sospettato. Suonava
comunque grottesco che fosse stato proprio Sasuke – che pure era un fuoriuscito
– a creare le condizioni perché il nostro villaggio sopravvivesse. Se gli
shinobi maledetti ci avessero aggredito tutti insieme, saremmo stati sterminati
dal primo all’ultimo. Invece Sasuke era giunto
armato di un esercito personale, non diverso, in fondo, da quello che poteva
vantare Itachi: eguali erano anche le premesse, perché entrambi non potevano
arrogarsi alcun controllo fattivo dei mostri che pure li accompagnavano. Era una
specie di alleanza temporanea, in vista di un obbiettivo.
Per Itachi e l’Akatsuki quel fine era Naruto.
Per Sasuke, invece, una vendetta che aspettava da troppo
tempo.
Se tuttavia Uchiha non avesse dato ordine ai suoi – Suigetsu,
Karin e Juugo – di attaccare le truppe di Alba, in modo da isolare il fratello,
il terribile Kisame non sarebbe caduto alle porte del villaggio straziato da una
lama che già una volta si era palesata lungo la nostra strada. O non avrebbero
perso la vita Deidara e Zetsu.
Furono combattimenti dalla violenza respingente, come mai se
n’erano visti a Konoha. La bionda sabbia dei confini più esterni s’intrise di un
sangue tanto nero da somigliare a lastre di ossidiana.
Ancora me lo rivedo, Suigetsu, mentre lecca la sua
Tagliateste e promette a Kisame che non disonorerà il suo maestro Zabusa.
Non taglierà per una seconda volta.
Lo stridio della Samehada contro il filo rugginoso di
un’antica memoria raggiungeva Konoha in ogni suo angolo. La maestra Tsunade,
tuttavia, non tentò mai di proteggersi da quel suono, perché, come mi disse, la
Morte era anche l’unica occasione che avessimo per vivere.
La loro morte. La nostra vita.
Suigetsu, nella trasparente teca della sua cattività, aveva
sognato per anni distruzione e vendetta: distruzione della terra che aveva
concepito un demonio torturatore. Vendetta per il suo fiero maestro Zabusa, che
un ninja di nome Kakashi aveva reso alla terra.
Ero al fianco di colui che per primo mi aveva svezzata,
quando quel demone ci attaccò. Aveva decapitato Kisame e si trascinava dietro il
teschio scarnificato dell’ uomo squalo quasi fosse un portafortuna. Emanava il
fetore insopportabile di una carogna ancora viva. Per la prima volta da che
l’avevo conosciuto, il maestro Kakashi non rise neppure una volta.
Mi spinse indietro, intimandomi di lasciare il campo, mentre
la Tagliateste fendeva il silenzio con il sibilare minaccioso della sua
onnipotenza. Scossi il capo e indossai i miei guanti: Suigetsu non avrebbe
tagliato una seconda volta, perché non ci sarebbe stata neppure una prima.
Ero un chuunin. Ero diversa. Ero viva e volevo restarlo,
perché avevo troppo da proteggere e troppo da perdere. Difendere Sasuke.
Difendere Naruto, soprattutto.
La sua mano destra era a pezzi e Kyuubi ruggiva sempre più
forte in lui. Il sigillo poteva spezzarsi da un momento all’altro, divorandolo:
per questo la maestra Tsunade non voleva che scendesse in campo. Per questo, con
una serietà che non avevo mai visto sul suo volto, fece proprie le parole di
Asuma: Uzumaki, in quel caso, doveva essere il mio Re.
Non avevo nulla in contrario.
In occasione dello scontro tra Zabusa e il maestro Kakashi
non avevo potuto far altro che restare a guardare: tremavo e temevo di restare
sola, perché sembrava proprio che non ci fossero speranze per noi.
Sasuke e Naruto, invece, non si erano risparmiati, con costi
altissimi.
Erano passati tre anni, eppure quella memoria era sempre
viva, perché era stato quel giorno che avevo violato la regola numero
venticinque, aprendomi a un’autentica crescita.
Suigetsu, però, non aveva neppure quel briciolo di umanità
che il suo predecessore possedeva, quasi a convivere con una creatura sfortunata
e gentile come Haku gli fosse capitato di ereditarne la tristezza e il sorriso.
Un colpo della Tagliateste, che pure credevo di aver evitato,
mi spezzò la spalla. Lottai con il dolore per non perdere conoscenza, mentre il
nemico si liquefaceva nei mille rivoli del suo odio. Il maestro Kakashi invocava
il mio nome, mentre inghiottivo lacrime brucianti e improvvise e cadevo a terra.
Non toccai mai il suolo, però, perché Rock-Lee mi sostenne.
“Ehi, pesciolino? Quello è il mio rivale!”
La voce tonante di Gai non mi parve mai tanto piacevole
all’orecchio. Era la carezza di una nuova speranza. Il segno dell’unità che pure
avevamo costruito.
“Non ti preoccupare, Sakura. Ora ci siamo noi.”
Rock-Lee era una delle radici di Konoha. Aveva un aspetto
ridicolo e uno zelo grottesco, ma era da quelli come lui che discendeva il
nostro futuro: quelli che non erano nati né belli né dotati, ma che non avevano
mai smesso di sperare. Quelli che lavoravano duro, senza mai risparmiarsi, e che
se pure non possedevano la minima abilità innata, potevano vincere.
E poi non era neppure vero che Rock-Lee fosse del tutto
spoglio di doni.
Il suo si chiamava ‘volontà’: delle abilità congenite era
senz’altro la più rara e preziosa di tutte.
Chiusi gli occhi, sentendo all’improvviso la forza della vita
che mi entrava dentro: una forza chiamata ‘speranza’, invincibile come il Re di
Konoha. Come aveva predetto Asuma, nei fatti, finché avessimo amato, sofferto,
procreato e assicurato alla Foglia il vagito di un nuovo bambino, nessun nemico
avrebbe mai potuto piegarci davvero.
Mi risvegliai qualche ora più tardi. Il cielo, che ricordavo
di un azzurro intenso, era venato di violetto. La luce filtrava attraverso le
grandi finestre del palazzo dell’Hokage. Era stata Ino a guarire le mie ferite e
a restarmi accanto. Gli scontri, però, erano appena cominciati.
I Jonin erano scesi in campo, l’uno dopo l’altro. Il maestro
Gai e il maestro Kakashi avevano accantonato ogni sfida per affrontare un
demonio dall’enorme spada. Accanto a loro, l’elegante e potentissimo taijutsu di
Rock-Lee non era più il segno di un talento mutilato, ma un’arma indispensabile.
Opporre la forza e la velocità all’essenziale e lucida
spietatezza di una lama?
Come Tenten raccontò, arrossendo sino alla radice dei capelli
Rock Lee non era mai stato così bello. Fu lui a distruggere la Tagliateste,
offrendo dunque al Maestro Gai un’ideale pallina da aggiungere al resoconto
sbilanciato di troppe sfide inutili e ridicole vittorie.
“Perché?”
“Perché è allievo mio.”
Ma poi scese in campo un uomo la cui maschera lasciava
cogliere un solo dettaglio essenziale: l’occhio gemello di uno sharingan donato
e l’ennesimo debito della memoria.
Potrei continuare, scivolare nel dettaglio e raccontare come
Tobi dell’Akatsuki fosse in realtà Obito Uchiha.
Potrei raccontare di come il maestro Kakashi abbia avuto modo
di rivivere la propria giovinezza, la nostalgia del rimorso e il proprio incubo
peggiore all’interno di uno stesso disperato scontro.
Potrei parlare del tremendo potere di Karin e di come Zetsu
l’abbia pure uccisa e divorata.
Potrei narrare di un assedio spietato, perché alle porte di
Konoha si stabilì un mostro chiamato Juugo, affamato solo del nostro sangue e
della nostra carne.
Ma sarebbero dettagli di una storia che andava comunque
avanti, che rigenerava se stessa attraverso l’impetuoso desiderio di
sopravvivere che stringevamo nel petto.
Una voglia vera: com’eravamo vivi e veri noi.
Sospinti dai falchi, i ninja della Sabbia ci vennero in
soccorso. Gaara, Kankuro e Temari, che già si trovavano a Konoha per l’esame dei
Chunin, non esitarono a disporre tutte le loro risorse.
Stagliati, tutti e tre, contro un orizzonte di notte e
fuochi, furono l’ultima scintilla di speranza prima che la ruota scivolasse
verso il suo ultimo vallo, per correre a rotta di collo in braccio alla fine.
Shikamaru sollevò le spalle – come gli era divenuto
congeniale per stornare pensieri che gli parevano forse molesti – e accese una
sigaretta, mentre i più validi dei nostri alleati si univano ai Jonin in campo.
Temari lo fissava sulla distanza, con i suoi occhi chiari e i capelli biondi che
le scintille crepitanti vestivano di riflessi d’oro liquido.
Konoha era piegata, piagata, devastata dagli scontri.
Combattevamo e combattevamo, ma per un capo abbattuto subentrava l’orda dei
mercenari che Alba alimentava con le sue risorse infinite.
Naruto aveva detto a denti stretti: “Non pensavo di valere
così tanto.” Il maestro Iruka, come secoli prima, gli aveva arruffato i capelli
e offerto la verità migliore e più vera. “Vali molto di più. Infinitamente più
di un esercito.”
Ma il fulcro della scena restavano Nara e la sorella di un
giovane, straordinario Kazekage.
Perché?
Perché nei loro sguardi e nei loro movimenti c’era tutto
quello per cui combattevo anch’io. C’era una voglia di futuro sostenuta da
sentimenti autentici e rabbiosi, che esplodeva in battute mordaci, occhiate
oblique e certi improvvisi silenzi che pure gridavano quasi più di una guerra.
Di loro ricordo soprattutto uno scambio, veloce e nervoso,
tuttavia eloquentissimo, perché esiste una voce dei sentimenti la cui eco
deflagra persino oltre l’intenzione.
“Come vedi non sono diventato ancora un Jonin.”
“Io sono contenta di rivederti vivo.”
Nessuno dei due arrossì o abbassò lo sguardo. Solo Shikamaru
tirò una boccata forse troppo profonda, tossendo e ridendoci su.
Ma Temari non stirò neppure le labbra.
Alla fine furono loro a vedersela con Juugo, combinando il
potere di controllo dell’ombra di Nara con le Lame del Vento di una combattente
esperta e decisa.
La loro intesa fu una sincronia geometrica tanto perfetta che
a tutti venne spontaneo domandarsi dove avessero imparato a combattere così,
s’erano piuttosto sempre stati rivali.
Solo la maestra Kurenai abbassò il capo e sorrise. Prima che
ce lo raccontasse il vento, un nuovo Re aveva preso per mano il suo.
Splendido e determinato, come un croco o un anemone.
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Capitolo 7 *** La mano di Dio ***
Checché fosse comodo credere o recriminare il contrario,
Itachi Uchiha non aveva mai odiato il fratello. Non entrava in conto il sangue,
né il suo folle progetto di restaurare un clan decaduto partendo proprio da chi
l’aveva generato, eletto e feroce come solo il sangue di un demone può
garantire.
Non aveva parte neppure una qualche affezione imposta
dall’età o da una primogenitura protettiva.
Se quella notte di sangue e di vendetta Itachi Uchiha aveva
risparmiato Sasuke era stato non solo per la disperata voglia di vivere che il
terrore di un bambino gridava, quanto per la luce che aveva colto troppe volte
in due profondi occhi neri.
Prima ancora di un padre austero e indifferente, e di una
madre mite e generosa, ma troppo debole per sopravvivere alla storia, Itachi
aveva percepito appieno le potenzialità che custodiva un bambino taciturno,
schivo, ma pronto nel cogliere ogni dettaglio.
Sasuke gli somigliava come nessuno degli Uchiha avrebbe mai
potuto: erano uomini senza nerbo, che vivevano di una rispettabilità macchiata
di sangue – eppure negata per quella sua stessa sorgente. La restaurazione del
clan era divenuta un olocausto, prima ancora che per la sua feroce
determinazione, per l’imbecillità di chi aveva osato opporglisi: la via della
giustizia, come quella dell’ambizione, dell’eccellenza e dell’odio non tollerava
fragili canne inclini a piegarsi.
Itachi era divenuto la katana della purificazione.
La falce della morte.
La mano di Dio.
Sasuke, nondimeno, poteva ancora servirgli. Per cosa? Per un
rituale empio, senz’altro. Ma non era abbastanza. Gli serviva a vivere e a
trovare ogni giorno una giustificazione per una persistenza che la continuità
mediocre del tempo rendeva intollerabile.
Nascere provvisto di ogni dono non è che una condanna
differita alla noia.
L’odio di Sasuke era una corrente vitale che sosteneva non
uno, ma due cuori, perché Itachi sapeva – ne era convinto proprio per
quell’ostilità colpevole che aveva sempre colto negli occhi dell’altro – che
Sasuke sarebbe divenuto sempre più forte.
Che Sasuke, in un tempo non ancora compiuto, sarebbe stato
l’avversario che aspettava dal giorno in cui aveva respirato la vita per la
prima volta e scoperto ch’era tutto troppo facile per uno come lui.
Itachi non aveva mai simulato il proprio affetto per Sasuke:
la simulazione, come il sorriso, erano attitudini che appartenevano ai deboli,
costretti a cedere a simili mezzucci per poter sopravvivere. Quelli come Uchiha
potevano permettersi una ruvida e scontata schiettezza – la stessa per cui
Sasuke era stato anche il solo a ricevere i suoi sorrisi.
Ricordava bene quei giorni tersi, illuminati dall’atmosfera
ovattata che crea sempre il ricordo: giorni in cui il peso leggero di un
fratellino stretto al suo collo non gravava quanto l’apatia di un talento
inutilizzato.
Sasuke era il solo che guardasse ai suoi doni come a una
conquista. Era il solo cullasse, assieme all’ammirazione, una vera fame di
eccellenza. Era una delle ragioni per cui lo tollerava con sé. Era una maieutica
dell’ambizione e dell’egoismo. Perfettamente riuscita, per altro.
Per gli Uchiha, Itachi era una bandiera ed era un mezzo. Come
il Quinto Hokage aveva confessato a Jiraiya, nel corso dell’assedio di Konoha,
il suo tradimento era stato il prevedibile corollario di un’ambizione
sconsiderata.
Lo raccontava anche la storia di Gaara: non puoi fare di
un’anima un simbolo senza pensare che possa esserne divorata.
Il cercotero della sabbia si era ribellato contro i suoi
stessi evocatori. Itachi Uchiha aveva divelto nel sangue ogni legame – non
Sasuke, però, perché l’ambizione senza speranza di quel piccolino era comunque
un segno d’appartenenza a un clan che in tal sentimento aveva trovato una cifra
distintiva e un chiaro segno di eccellenza.
Gli Uchiha del Fuoco non potevano essere acque chete: il
parricida, il transfuga, il criminale non aveva fatto altro che ribadire il
concetto intridendo di plasma una scontata evidenza.
Il giorno in cui Juugo gli sbarrò il cammino, senza osare
davvero un solo passo nella sua direzione – per un ordine? Per prudenza? Non era
comunque nulla che gli interessasse davvero – Itachi non manifestò la minima
sorpresa.
Il vento aveva trascinato con sé la memoria di un’altra
esecuzione, svegliando il suo istinto di lupo: un cucciolo tornava al branco più
affamato che mai.
Orochimaru non aveva mai rappresentato una concreta minaccia
per chi dominava lo Sharingan nella sua accezione più nobile e pericolosa, ma
nessuno avrebbe mai osato sostenere che non fosse un eccezionale combattente, né
l’avrebbe fatto ora che conosceva la mano dell’assassino. Una mano che ricordava
piccola e fragile, come il polso che aveva spezzato con straordinaria facilità,
ma nessun guerriero concede alla memoria di falsare le carte al punto da
tradurre la nostalgia in una condanna a morte.
Quel giorno, non a caso, Itachi aveva compreso chi fosse il
padrone e quale messaggio lo attendesse.
Era stato l’ultimo a muoversi dell’Akatsuki, perché a
dispetto di quegli shinobi disperati conosceva abbastanza la Foglia da temerne
le remiganti di fenice. Soprattutto, poi, aveva intuito di Naruto il potere più
segreto e pericoloso: quello che non nasceva da Kyuubi, ma dalla determinazione
di uomo e di amico. Quello che avrebbe potuto portare al rinnovamento di un
antichissimo patto di potere, rinsaldando l’alleanza tra il demone-volpe e un
eletto degli Uchiha: un eletto che gli somigliava, fuorché per gli occhi
tristissimi.
Lo stesso che ora lo chiamava in giudizio oltre Konoha e
senza testimoni.
Juugo – coperto del sangue delle stragi che aveva già
perpetrato – rideva sguaiato indicando i fuochi dell’assedio, oscillando come
una belva impazzita. Era una deviazione imposta e sgradita, la sua: si coglieva
dall’impazienza con cui fissava la devastazione alle proprie spalle, temendo
forse di perdere uno spettacolo di cui voleva pure essere il mattatore.
“Ti aspetta, ti aspetta.”
Era una cantilena folle. Un disco rotto e fisso su note
stridenti.
“Vacci o muori. L’ha detto quel bastardo. Ha detto che ti
aspetta.”
Itachi aveva fissato quella patetica imitazione di un essere
umano con l’interesse che forse un entomologo avrebbe portato a un insetto:
un’attitudine scientifica, priva di sentimenti o di emozioni palpabili. Non
v’era calore, né simpatia, né curiosità; procurava anzi un singolare fastidio
osservare quella pelle ingrigita su cui, lentamente, ma con perniciosa costanza,
fiorivano piaghe brunastre, degne di una fiera tropicale.
“Hai paura? Hai paura?”
Juugo era la chimera di un demiurgo folle, bavosa e
repellente. Per un pugno d’istanti aveva provato quasi simpatia per quel
fratellino apparentemente così fragile, che pure aveva imparato a convivere con
le proprie emozioni al punto da esorcizzare lo schifo, poi si era detto che non
aveva comunque senso donarsi alla tenerezza, se la vita non conosceva quel lemma
e lo negava piuttosto con assoluta pervicacia.
Non era per niente che l’aveva torturato sin quasi alla
follia: l’amore di Itachi poteva esprimersi anche in un lascito come quello.
“Indicami la direzione e poi vattene. Sei fastidioso,” aveva
detto con una violenza che quella creatura primitiva e disgustosa doveva aver
colto nei suo accenti più profondi, perché si era discosta dopo aver lanciato un
ululato raggelante.
Oltre la foresta, in direzione del villaggio, schianti
ripetuti e secchi annunciavano la battaglia in corso. Avrebbe potuto unirsi alle
fila di Alba e concedere ai propri compagni qualche opportunità di vittoria.
Poteva voltare loro le spalle come aveva fatto nei confronti
di tutto quel che gli era riuscito a noia. Non esisteva altro che una scelta
obbligata, dunque, scandita dallo scrosciare delle acque che avrebbero lavato
l’intero destino di un clan.
Itachi aveva rinunciato alle emozioni anni prima, o avrebbe
colto quel fremito leggero che suggeriva al suo cuore l’imminenza dello scontro
e forse persino la felicità corrotta dall’odio di un inevitabile incontro.
Erano passati ancora tre anni: Sasuke non avrebbe più avuto
il diritto di deluderlo. Non avrebbe potuto negargli l’uomo e l’assassino.
La Valle della Fine distava ancora un giorno di marcia dal
punto in cui si era arrestato. Passo dopo passo, era quasi assaporare a ritroso
un antico cammino, segnato da speranze troppe volte deluse.
La stessa Alba, nella smisurata violenza delle proprie
ambizioni, non era che l’espressione di un’umanissima mediocrità. Nessuno dei
singoli membri pareva assaporare, solo, il gusto dell’eccellenza: c’era chi
inseguiva la vendetta, chi il denaro, chi una forma distorta d’arte, chi
l’ambizione di una lama. Eppure il desiderio più bruciante di tutti – quello di
una sfida senza speranza – non pareva sfiorare alcuno.
Itachi ricordava bene l’orgoglio con cui le labbra sprezzanti
di un padre tradito si piegavano sempre quando suo figlio veniva definito per
quello che era: una macchina da guerra senza pietà.
E una machine-gun alimenta se stessa con la persistenza di un
fine che la pace annienta.
Itachi, tuttavia, non disprezzava la pace in quanto tale, ma
la sua ipocrisia. La pace era anche la sotterranea dichiarazione d’amore e di
guerra che Sasuke gli aveva sempre mosso, crescendo e nutrendosi di un
sentimento deviato.
Solo in quell’accezione la quiete poteva dirsi accettabile,
perché rinfocolava le sempiterne braci del fuoco degli Uchiha. Oltre non restava
che la ruggine meschina del rimpianto: la stessa che aveva grattato via,
lubrificando con il plasma la lama del proprio orgoglio.
Tra le fitte fronde di un verde brillante, il sole si
annunciava con pennellate d’oro puro. Forse era stata l’abitudine ad ambienti
chiusi e asfittici, terragni e nascosti, ma quella bellezza imprevista
solleticava corde che credeva di aver resecato eoni prima: le memorie di un
tempo rinnegato, inghiottito e vomitato con ogni scrupolo residuo volteggiavano
come scimmie dispettose e terrificanti tra il rigoglio naturale della
vegetazione.
In giorni come quelli, accanto a Shisui, era solito
avventurarsi nel folto, per provare la propria abilità con qualunque ostacolo
avesse incontrato lungo i propri passi. E Shisui, ombra fedele, lo seguiva con
ammirevole dedizione, senza che mai si spegnesse nei suoi occhi una devozione
che suonava quasi canina e avvilente.
Sì: avvilente, perché non v’era nulla di più umiliante che
non vedere un Uchiha schiavo di un’altra primazia, arreso a quell’eccellenza
sino al punto da rinunciare alla lotta come i veri perdenti.
La notte in cui l’aveva ammazzato il cielo ero di un nero
tanto intenso da somigliare a petrolio; nembi diffusi oscuravano la volta,
inghiottendo persino le stelle e rendendo incerti i passi dei pavidi.
Non i suoi.
Itachi non aveva mai sperimentato sulla propria pelle né la
paura né l’esitazione. Persino in quel momento, mentre muoveva incontro al
destino, si sentiva svuotato da ogni sentimento che non somigliasse a una
placida attesa.
Solo i deboli temono le prove. I forti ne necessitano come
dell’aria che respirano. Anzi, in misura maggiore, perché l’aria è di tutti,
mentre il potere sorride solo a chi sa maneggiarlo.
Shisui gli era stato dietro come faceva sempre: un cagnolino
fedele o una pecora destinata all’abisso della propria stessa stupidità. Aveva
temporeggiato fin troppo, dividendo con lui i suoi sogni pur di concedergli
l’opportunità di salvarsi, ma l’altro non l’aveva voluto intendere.
Seguitava a pronosticargli un avvenire da Hokage, come se una
carica avesse davvero senso.
Itachi non chiedeva gli onori di un seggio, né un vincolo di
protezione eterna verso chi neppure sapeva apprezzare; la sua ambizione muoveva
dalle braci di un antico fuoco, che non tollerava più l’acquerugiola urticante
di una manifesta decadenza.
Dunque Shisui era stato il primo – una preda facile. Una
preda che non gli aveva dato la minima soddisfazione, perché era crollato al
primo jutsu illusorio.
Cosa poi? Si era limitato a usare lo sharingan per
profetizzare quel che sarebbe accaduto: la morte, il sangue e una luna
indifferente, tinta di un porpora così intenso da lasciar pensare alla legittima
vergogna di un’intera stirpe.
Shisui aveva gridato, ponendo troppe domande destinate a
restare senza risposta. Come tutti i perdenti si arroccava sulle cause, senza
cercare piuttosto il movente nel fine: non era degno della sua amicizia. Non era
degno neppure della propria vita.
Shisui era morto nella Valle della Fine. La corrente aveva
trascinato il suo corpo ben oltre la celebre conca, ma era tra i due colossi che
le sue patetiche spoglie erano precipitate.
Nel buio, Itachi aveva avvertito il tonfo sordo con cui
quella fragile conchiglia si era lasciata annullare dall’abbraccio del nulla e
della propria pavidità, donandogli pure l’ultima vista.
Sasuke avrebbe seguito la stessa sorte, se non fosse stato un
vero Uchiha e avesse dunque scelto di odiarlo.
Aveva affrettato il passo, con una risolutezza che la meta
rendeva al contempo feroce e drammatica, perché la memoria non è mai usa
concedere sconti, men che mai a chi neppure conosce la parola pietà.
In un punto ormai non troppo lontano dello spazio, Sasuke lo
stava aspettando: Sasuke che aveva ormai quindici anni e – ne era certo – legava
al volto delicato e tenero di una madre ormai dimenticata gli occhi spietati del
padre che l’aveva rinnegato.
Non avrebbe combattuto un solo avversario, quanto i fantasmi
di un’intera epoca, e quei fantasmi, con la loro indolente marcia, gli tenevano
compagnia nel breve tratto che lo conduceva alla fine – per quanto poi, a ben
vedere, fosse proprio da lì ch’era cominciato tutto.
Da quel bambino e dal desiderio inesausto che covava dietro i
suoi occhi neri.
Continuavamo a combattere, ma di Itachi non apparve neppure
l’ombra. Né, come prevedibile, si fece vedere Sasuke.
Sapevamo che c’era e che non poteva essere troppo lontano,
perché la sua orribile squadra combatteva contro l’Akatsuki e contro la Foglia,
a pochi metri dalle nostre fila.
Mi sembrava impossibile associare la sua bellezza algida e
composta a quegli scherzi della natura, ma Karin, poco prima di essere uccisa,
era stata ben lieta di vomitarmi addosso quell’inaccettabile verità. Solo su di
un punto non le avevo mai creduto: quello in cui sosteneva d’essere la sua
preferita. La compagna di Uchiha.
In giorni non troppo lontani, ero stata la prima a muovere
quell’arrogante pretesa, perché mi dicevo che una come me meritava un eroe e
niente di meno. Io ero fatta per essere la donna di
un eroe, dunque di Sasuke. Ero cresciuta: sotto le mura di Konoha c’era una
donna e c’era un ninja. Per quanto mi pungesse il cuore, non ero disposta a
farmi distrarre da nulla – neppure da Uchiha, se fosse arrivato. Ma non lo
vedemmo.
Le parole di Sai assumevano un significato sempre più corposo
e desolante: era vero che ci aveva cancellati. Non contavamo più nulla ai suoi
occhi.
In compenso quel compagno che non volevamo accettare – e che
piuttosto ci aveva umiliati con i suoi sorrisi senza sorriso – restava al nostro
fianco, quasi fosse davvero parte del Gruppo Sette. Era un’utopia nominalistica
anche quella, nondimeno, poiché eravamo lontani secoli dai giorni incantati. Con
il cuore, soprattutto.
Di un’epoca d’oro non restava che una rabbia bruciante e
un’attesa sconfitta.
Gli shinobi di Alba erano spaventosi. I sicari di Sasuke li
eguagliavano in violenza. Konoha tremava, ma non si arrendeva.
Juugo fu l’ultimo a essere eliminato. Non riuscivo a
guardarlo senza sentirmi bruciare il cuore, perché oltre quelle macchie
grottesche rivedevo il mio Sasuke, non la maldestra imitazione di essere umano.
Fu quella bestia ad aprirmi gli occhi, però; a costringermi a guardare la realtà
per quella che era, senza gli inutili filtri con cui avevo tentato di abbellirla
o, almeno, pennellare colore in un inferno di grigio.
Naruto, che alla fine aveva combattuto malgrado la mano
ferita e si teneva in piedi a stento, si avventò su quel corpo ormai in agonia
con una rabbia cieca, eppure umanissima.
“Dove sono Sasuke e Itachi! Dicci dove sono!”
Le sue urla erano la voce stessa di Konoha, poiché eravamo
tutti consapevoli del significato riposto di un’omissione impietosa.
Juugo ci ferì due volte e poi crepò.
La prima fu quando sibilò compiaciuto che uno dei due Uchiha
era già senz’altro morto, là, in un bacino lontano in cui pure Uzumaki aveva
tentato di trattenere la speranza.
La seconda, invece, germogliò con una crudeltà che solo le
sue ultime parole rendono appieno, per quanto pure faticoso fosse intenderle,
soffocate dal sangue com’erano.
Poco lontano dal punto in cui era caduto, c’era ancora la
vecchia Tagliateste. Ne restava appena un moncone, ma bastò perché lo piantasse
nello sterno del principale artefice della sua disfatta.
Almeno uno di noi doveva seguirlo all’Inferno, latrò, e
scelse Shikamaru.
Lo vedemmo piegarsi senza un lamento, come pure muto fu il
grido di Temari, mentre si precipitava a sostenerlo. Nara chiuse gli occhi,
deglutì a fatica e poi ci ricordò che c’era ancora un compagno da salvare.
Non gli era mai stato simpatico, ma non era quella la legge
di Konoha.
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Capitolo 8 *** Arrivederci ***
Quel che uccide della fine è che non esiste.
Non ci sono punti fermi e neppure risposte univoche.
La realtà è una dialettica di contrasti, un jutsu illusorio,
forse la peggiore delle menzogne.
La vita mi aveva dato una lezione preziosa: il mondo in cui
credevo di vivere – di poterlo fare per sempre, soprattutto – poteva crollare da
un momento all’altro.
L’avevo sperimentato sulla mia pelle per ben due volte ch’ero
poco più di una bambina; per questo, forse, ero riuscita a conservare per me
qualche illusione.
Non era una vera e propria stupidità, credo – Naruto mi ha
insegnato che sono piuttosto i deboli e gli stupidi a non sognare nulla. I forti
si stringono alle loro utopie e a bersagli ambiziosi – quanto un difetto di
consapevolezza. Un’ingenuità scusabile, se vogliamo: un’ingenuità preziosa, che
mi ha permesso di sopravvivere al dolore.
La prima occasione si ebbe proprio nello scontro contro
Zabusa; davanti al corpo ferito ed esanime di Sasuke persi la testa, la nozione
del tempo e persino quella della regola numero venticinque. Un mondo in cui il
mio amore restava senza speranza non era che un universo inutile, capovolto e
crudele.
La seconda fu quando Sasuke mi ringraziò per il mio affetto
da niente, scegliendo quella dolce bugia in luogo di un netto rifiuto. Fu
generoso e fu ipocrita: non avevo bisogno di sentirmi forte. L’unica via che
cercavo era quella del cuore.
Anche in quella circostanza, il senso della perdita spezzò il
mio mondo interiore, ma non si trasformò nell’onda devastante che mi sommerse
quel giorno, quando la carogna di Juugo c’incatenò tutti al punto zero di una
tragica parabola.
Shikamaru vomitava sangue, ma aveva trovato comunque la forza
d’indicarci una direzione, suggerire uno scopo a quella nostra attesa triennale,
ch’era, in fondo, una lunga preparazione all’epifania degli Uchiha. Tanto Sasuke
che Itachi erano ormai due fuoriusciti. Razionalmente non v’era ragione perché
ci ponessimo sulle loro tracce; emotivamente, però, erano entrambi il segno di
un fallimento: erano i colori che Konoha aveva perduto e mai più ritrovato.
Erano la peggiore ferita aperta nell’orgoglio della Foglia.
Fu per questo, suppongo, che la maestra Tsunade avanzò di un
paio di passi, si chinò su Shikamaru e gli disse ch’era davvero un ottimo Jonin:
non provasse neppure a rifiutare, dunque, la mole di lavoro che gli avrebbe
affibbiato, perché quel giorno non ci sarebbero stati morti. Il suo orgoglio di
donna e di Hokage non l’avrebbe permesso.
“Io non sono un Jonin,” provò a lamentare Nara, mentre si
rialzava, ma la maestra Tsunade gli menò un colpetto in testa, come a dire che
non si contestavano le ragionevoli promozioni sul campo.
“Non mi segui, Jiraiya?”
La voce del Quinto Hokage non era un invito e neppure un
amichevole suggerimento; come sempre formulava il suo ordine con secca
determinazione, lasciando intendere ch’eravamo tutti dispensati dalla missione.
Eravamo stanchi, feriti in modo più o meno grave, ancora turbati: era tempo che
il capo della Foglia proteggesse Konoha sola, senza la minima esitazione.
Al punto in cui ci aveva tradotti la storia, però, era
evidente che fossimo un unico cuore.
“Maestra Tsunade… Ci sono anch’io!” dissi con voce chiara.
Naruto mi fu subito dietro e con lui, poco a poco, l’intero villaggio. Anche se
ci diede le spalle e liquidò la nostra iniziativa con un gesto quasi seccato,
sono certa che l’Hokage sia stata fiera della nostra determinazione, perché in
essa leggeva anche il segno delle speranze e dei sogni che i suoi più grandi
affetti avevano coltivato sino all’ultimo respiro. Non solo i vivi, dunque,
seguivano la canzone del vento tra le foglie di Konoha, ma anche i morti che non
avremmo mai dimenticato.
Da un qualche punto lontano e pacifico del cielo, sono certa,
anche il vecchio Sarutobi ci guardava con affetto. E con lui Asuma. E forse
anche Haku, che aveva insegnato a me e a Naruto la forza spropositata e suicida
di un amore senza condizioni.
C’eravamo tutti: chiusi nel nostro silenzio, nella nostra
solitudine, nelle nostre paure e forse nell’inquieta attesa di quel che avremmo
trovato.
Il maestro Kakashi, che lo scontro con Tobi aveva piagato
molto più in profondità di quel che forse desiderava mostrare, spiava teso la
linea di un orizzonte che ci pareva sempre più lontano, perché d’improvviso
distante era anche la tragedia di cui volevamo essere testimoni.
Gai, che lo conosceva sin troppo bene, aveva senz’altro
riconosciuto il lupo che covava dietro l’apparente vacuità di ogni suo
atteggiamento. Come Rock-Lee mi disse, riportando le parole del suo amato
maestro, il gruppo Sette era stato il primo vincolo che Kakashi aveva accettato
di ricreare, dopo la tragedia che aveva distrutto la sua squadra. Per quanto non
ne avesse mai fatta parola né con me, né con Naruto, in quei tre anni non aveva
smesso un solo giorno di chiedersi perché non fosse riuscito a trattenere
Sasuke. Perché, soprattutto, non fosse riuscito in quella missione che aveva
visto sempre trionfare l’eccellenza di Sarutobi: il saper inoculare, cioè, la
sicurezza di un affetto certo e stabile.
Non era colpa del nostro maestro, invece; ormai ero
abbastanza adulta da sapere che non tutte le deviazioni sono imposte dal
terreno: alcune sono spontanee, altre accidentali, altre ancora persino
preordinate, perché l’anima di un uomo non è la corrente di un fiume – anche se
può intorbidarsi con la stessa facilità.
Fu una marcia lenta, faticosa, irreale. I mercenari di Alba,
rimasti ai margini della conquista fallita, ci braccarono e assaltarono
ripetutamente. Non smettemmo di combattere finché anche l’ultimo di loro non fu
sterminato, e a quel punto era già sorta l’alba dell’ultimo giorno.
La Valle della Fine pareva avvolta da una nebbia leggera. Da
come era accelerata la respirazione di Naruto non ebbi neppure bisogno di
cercare davvero Sasuke con lo sguardo, né di chiedermi cosa provasse Uzumaki.
Era tutto già scritto nella smorfia contratta e incredula con
cui spiava nel riverbero accecante di quella bella giornata estiva le linee
nervose ed eleganti di Sasuke. Si coglieva nell’ombra scura che velava i suoi
occhi chiarissimi, dando loro qualcosa di feroce e addolorato al contempo.
Infine si esplicitò nell’urlo prolungato, accorato,
intensissimo con cui scandì quel nome.
Sasuke. Sasuke. Sasuke.
Come tre anni prima, le sillabe rimbalzavano nella conca ora
sorde ora acute, crescendo in intensità per poi stemperarsi nel silenzio.
Uchiha, però, questa volta non sollevò neppure lo sguardo.
I suoi capelli si erano allungati e gli coprivano metà del
viso.
La maestra Tsunade si portò le dita alle labbra e compresi
dal suo gesto che aveva riconosciuto in quel sembiante i lineamenti di qualcuno
che ricordava bene, e che si era egualmente perduto – Orochimaru. Ma lo
spaventoso serpente bianco che aveva avvelenato il mio amore non possedeva
l’aura di un Uchiha: un carisma tanto spettrale da far tremare persino Kyuubi.
I suoi occhi, che non avevo più avuto il coraggio di spiare,
erano di un rosso rugginoso e denso, in cui le tre cuspidi dello Sharingan
spiccavano più nette che mai. Un secolo prima, Naruto e io ci eravamo lasciati
catturare dalla sua eccellenza perché era riuscito a svilupparne uno di primo
livello. Ai tempi in cui aveva sfidato Uzumaki, il terzo era uno stadio
eccezionale, legato più alla rabbia incontrollata di un momento che non alla sua
preordinazione.
Quel giorno pensai invece che forse non avrei più rivisto due
mandorle lucide d’ossidiana che pure non avevo mai smesso di sognare, perché i
veri occhi di Sasuke erano quell’arma impressionante. Rossa e incrudelita da
sentimenti deviati, come crudele pareva davvero tutto in lui.
Quando in luogo delle cuspidi apparve poi il terribile
shuriken dello Sharingan ipnotico, smisi del tutto di respirare e cominciai a
pregare perché non l’usasse. Mai.
Non ero spaventata per me, né per quel che poteva accadere a
noi, semplici spettatori, ma temevo per la sua integrità.
Morale. Fisica. Mentale.
Era quasi già sapessi che se avesse assaggiato il miele di
tutto quel potere imprevisto, straordinario com’era pure tutto straordinario in
lui, non sarebbe più tornato indietro. Non sarebbe più stato uno del Gruppo
Sette. Forse neppure Sasuke.
Naruto voleva scendere in campo ancora una volta; dividerli e
forse persino morire, se fosse stato necessario. Voleva stringere contro il muro
implacabile della verità un vecchio amico e gridargli che se avesse ucciso
Itachi non si sarebbe sentito più libero, più felice, più uomo, ma avrebbe
sofferto come se gli avessero strappato il cuore, perché Naruto conosceva
Sasuke. Forse aveva persino inteso in profondità l’assolutezza con cui aveva
sempre cullato l’indimenticabile affetto per un fratello-maestro.
Ma il Quinto Hokage glielo impedì. Le labbra della mia
maestra tremavano leggermente, per quanto pure ferma suonasse la sua voce: ci
eravamo dovuti spingere sino a quella conca per capire come il nostro posto non
fosse lì. Non fosse da nessuna parte tra quelle pareti scoscese e quelle
solitudini disperate: era un debito della memoria che nessun fideiussore o
garante poteva onorare in luogo delle parti.
“E dovrei restare così… Senza fare niente?”
La rabbia azzannava il cuore di Uzumaki in ripetuti, famelici
morsi. Lo sentivo stringere il mio braccio con la forza di una tenaglia, ma
gliene ero grata. Era quasi riuscissi a sentire ancora più in profondità il
dolore di quegli attimi attraverso il palpitare confuso e rapido del suo cuore:
in caso contrario, l’apatia dell’orrore e dell’incredulità avrebbero ucciso ogni
mio sentimento. Non sarei stata in grado di raccontare questa storia, né di
viverla.
Itachi era ben lontano dalla nostra portata.
L’unico ad averlo incontrato era stato Naruto, ma Uzumaki era
il primo ad avere il buongusto di non usare un termine fuorviante. Al più, cioè,
aveva subito il più dotato e pericoloso degli Uchiha: quanto al resto, era stato
solo un incubo da cui avrebbe voluto svegliarsi quanto prima.
Se avevano già cominciato a combattere, oppure procrastinato
alla ricerca di inutili testimoni, non posso dire: nell’ambiente circostante,
come nelle loro fisionomie, non v’era nulla che lasciasse ipotizzare si fossero
già sfidati o colpiti.
Può anche darsi che abbiano preferito specchiarsi nei
rispettivi ricordi, prima di decidere di cancellarli tutti. Di lasciar vincere
il buio che li aveva già inghiottiti.
Il primo a prendere l’iniziativa – da che almeno ci eravamo
aggiunti anche noi – fu Itachi, spogliandosi proprio dei paramenti
dell’Akatsuki. Era un segno di rispetto nei confronti del fratello, ci suggerì
Jiraiya, perché i membri di Alba usavano quei pesanti mantelli per celare le
proprie strategie più segrete. Naruto, però, non era d’accordo e lo ringhiò a
denti stretti. “Crede ancora di poterlo vincere come se non valesse niente, ma
Sasuke è fortissimo. Questa volta non sarà lui a chinare il capo.”
Sorrise l’Eremita dei Rospi, con una smorfia triste e fiera
al contempo. Sorrisi anch’io, intenerita, perché i sentimenti di Naruto non
erano mai cambiati. Tutto il male che Sasuke gli aveva fatto veniva accantonato
per lasciar vincere l’orgoglio di un amico che credeva in lui. Che credeva in
quella rivincita impossibile e anzi pregava che ci fosse, perché solo allora
Sasuke sarebbe stato libero. Solo allora sarebbe tornato ad appartenerci
davvero.
Come il pesante mantello di Alba scivolò dalle spalle di
Itachi, Sasuke assunse una posizione di guardia. Era quasi tra i due fratelli
serpeggiasse una corrente invincibile di adrenalina, provocazione gratuita e
attenzione rapace. Occhi rossi si cercavano oltre il nero di quei loro capelli
tanto caratteristici, serici e seducenti. Prima che quella danza di morte si
inaugurasse pensai più di una volta che Sasuke fosse davvero bellissimo. Poi lo
scenario mutò e io inghiottii ogni entusiasmo.
Uchiha si levò in alto, con un salto atletico, bilanciato,
felino. Itachi lo seguiva con lo sguardo e un’attenzione crescente. Mentre una
pioggia di kunai e di shuriken si abbatteva contro il maggiore dei due fratelli,
quest’ultimo si dissolveva nel nulla.
I loro movimenti erano tanto rapidi che solo il maestro
Kakashi e i membri del clan Hyuga parevano in grado di registrarli almeno in
parte. Quel che risultò da subito evidente era che non combattevano secondo il
codice di Konoha, ma emulando la danza di morte e vita che gli Uchiha avevano
sempre custodito come il loro più prezioso segreto.
Era un corpo a corpo spietato.
Di quando in quando, uno dei due combattenti veniva scagliato
con forza contro le rocce del costone. Ogni volta chiudevo gli occhi, sperando
che non fosse Sasuke. Naruto no, li teneva ben aperti e gli gridava di
rialzarsi. Senz’altro la superiorità di Itachi non era più così scontata, né
manifesta. Ce ne accorgemmo quando il confronto crebbe d’intensità e si arrivò
al fuoco.
Credo che Sasuke abbia usato nel suo Katon Goukakyuu no Jutsu
tutta la rabbia e la nostalgia accumulata negli anni oscuri della solitudine e
della perdita, perché quello era l’unico colpo che suo padre gli avesse
insegnato. Non so cosa abbia provato Itachi a riceverlo in pieno. Gaara disse
che aveva stirato le labbra in un sorriso indecifrabile, prima di replicare con
eguale forza. L’aria, ionizzata dallo scontro e percorsa da scariche di chakra
sempre più potenti, era rovente e irrespirabile. Nel punto da cui s’irradiava
quell’infernale carica distruttiva doveva essere letale.
Era un inferno in cui Sasuke pareva essere a proprio agio,
però, con i suoi occhi rossi e l’espressione atona di chi non prova proprio
niente: non pietà, non schifo. Forse neppure rimorso.
Era una rappresentazione orribile di quel che i ninja non
avrebbero mai dovuto essere, eppure possedeva qualcosa di catartico, avvincente
e ipnotico al contempo. In Naruto, senz’altro, l’istinto agonale si rinfocolava
al solo ammirare una tale eccellenza. Nessuno dotato davvero di ambizione e
capacità avrebbe saputo resistere a quella danza macabra.
Quando Sasuke invocò i serpenti, però, qualcosa si spezzò
nella strana quiete che mi era scivolata addosso, erodendo la bambinesca e
immotivata convinzione che quella fosse ancora la legittima guerra del buono e
del giusto contro l’assassino.
Anche quella dei Mille Falchi era la tecnica di un cecchino e
ora Sasuke maneggiava gli orribili rettili che un tempo obbedivano solo al
Serpente più pericoloso di tutti.
Jiraiya impallidì, come pure la mia maestra: il gioco di
specchi si delineava con evidenza e crudeltà crescenti, ponendo a nudo quanto di
più vulnerabile c’era in noi, persino in chi aveva visto e vissuto abbastanza da
raccontare storie tristissime. Nessuna, però, a quel punto, sembrava uguagliare
lo sterminio degli Uchiha, giunto al suo ultimo colpo.
Immobilizzato, Itachi sollevò del tutto le palpebre, fissando
Sasuke con un’intensità che non avrei mai compreso, se Naruto non avesse stretto
ancora il mio braccio e sibilato: ‘Merda! Lo sta facendo ancora!’
Ma Sasuke non tentava di sottrarsi a quello sguardo – lo
ricambiava piuttosto con pari intensità. E allora accadde qualcosa che il
maestro Kakashi non riuscì a evitare, intimandoci con violenza di non fissare la
nostra attenzione nella loro direzione, di non lasciarci incatenare dalla più
tremenda delle illusioni. Non resistemmo, invece, e la luna rossa che aveva
tormentato le notti di un bambino tradito fu ben presto anche la nostra.
Prima che riuscissimo a realizzarlo, nei fatti, precipitammo
in quell’incubo tricromatico e bidimensionale che aveva quasi condotto alla
follia Sasuke. Solo Rock-Lee e il maestro Gai, pronti a usare il taijutsu messo
a punto da quest’ultimo, riuscirono a sottrarsi all’inganno. Fu anche per questo
che, unici, seguitarono a guardare lo scontro per quello che era.
Noi no. Noi lo fissammo dal pozzo in cui un vecchio amico era
caduto e annegato eoni prima.
Quanto male può sopportare un uomo, prima di arrendersi alla
pazzia? Non lo so. L’unica certezza che possiedo è di aver sfiorato molto da
presso quell’orrore e di non averlo mai dimenticato.
Annaspavo in un buio bituminoso, privo di reale spessore.
L’unica fonte di luce era quella luna enorme, innaturale, rugginosa e ostile, su
cui i crateri vuoti si aprivano come orbite cave. Non c’era nessuno accanto a
me. Nessuno rispondeva ai miei richiami. Di Konoha non restavano che ombre e i
cadaveri straziati dei miei affetti più cari.
Gridavo gridavo gridavo, priva, però, della speranza d’essere
ascoltata: invece stavamo tutti vivendo gli incubi più atroci della nostra
coscienza senza una sola possibilità d’uscirne sani.
Furono Gaara e Naruto a salvarci, traendoci oltre i margini
del più tremendo jutsu illusorio che avessi mai visto. Uzumaki fu destato
proprio da Kyuubi, che conosceva l’orrore di Madara e non se n’era lasciato
vincere. Il Kazekage, invece, aveva vissuto una vita tanto spietata, desolata e
triste d’aver già sofferto sulla propria pelle quel che una coscienza lesa
tentava di riesumare. Non si lasciò sfiorare dal cadavere putrescente di
Yashamaru, ma gli sorrise e lo soffiò via come la polvere di un vecchio
rimpianto.
Mentre vomitavo fiotti di bava giallastra, succube ancora di
quelle orrende visioni, i due fratelli Uchiha restavano immobili, l’uno innanzi
all’altro, schiavi di una reciproca, sadica tortura. Era impossibile stabilire
chi avrebbe vinto, perché se Itachi aveva dalla sua una ferocia inumana e una
lunga esperienza, ora Sasuke godeva della sapienza di Orochimaru e del sigillo
del Serpente.
Fu proprio quest’ultimo, all’improvviso, che cominciò a
divorare il corpo di Uchiha; a farlo mutare come solo Naruto aveva visto, senza
però raccontarlo a nessuno.
Ora so il perché: esiste uno schifo che nessun amico può
tollerare. Né perdonare. Né niente. Quello era un punto di non ritorno.
Tra le fiamme di un fuoco che all’improvviso si tinse di nero
– ennesima tecnica proibita di un clan nato dall’infernale ambizione di un
demone – comparve una chimera alata e ripugnante. Dalle sue scapole sporgevano
due arti enormi, grotteschi e palmati, che nessuno avrebbe potuto iscrivere
nell’iconografia angelica. Lo spingevano in alto, sempre più in alto rispetto a
quelle lingue bituminose e roventi, ma a me pareva il persistere di una rovinosa
caduta.
Itachi non mostrò sorpresa per quella metamorfosi. La
commentò con un po’ di disprezzo, nondimeno, perché l’intendeva come l’ennesimo
segno dell’inferiorità del fratello.
Come Uchiha, cioè, non sarebbe riuscito a mandare a segno
nessun colpo.
“Io non sono un Uchiha. Io sono un vendicatore.”
La voce di Sasuke, dopo anni – e malgrado quel suo aspetto da
belva infernale – suonava finalmente umana. Non importava se colma di odio,
rancore, disprezzo o rimpianto: filtravano sentimenti che sembrava aver
soppresso del tutto.
Forse non tutto era davvero finito; forse, come diceva
Naruto, era ancora possibile stendere la mano, afferrare stretta la sua e
ricondurlo entro la metà giusta dello specchio.
Ma eravamo troppo lontani e il suo cuore non ascoltava la
nostra voce.
Lo vedemmo sparire tra le fiamme nere, inghiottito dalla lava
che vomitava lo stesso Itachi. Tutto il suo corpo era percorso dal chakra;
fluide scariche correvano lungo le sue braccia, rendendolo riconoscibile e
individuabile persino entro quella polla di odio puro.
“Vuol giocarsi tutto in un unico colpo,” osservò Sai.
Il maestro Kakashi rimase in silenzio. Sapeva che non ci
sarebbe stata la possibilità di sferrarne un secondo, né il desiderio: era una
via priva di pietà, come pure di speranza.
Quando le infernali fiamme nere si diradarono, Sasuke e
Itachi erano stretti l’uno all’altro, in un abbraccio che nessuno avrebbe più
potuto sciogliere, perché si erano trafitti l’un l’altro con un colpo senza
ritorno. Come aveva profetizzato Uzumaki, in una simile tragedia non vi era
spazio per un vincitore: solo per un’infelicità che avrebbe travolto tutti.
Rompemmo le fila. Chi ancora era in grado di muoversi, come
me, discese il costone roccioso con una velocità da rimetterci il collo; anche
Naruto parve ritrovare energie prima sopite, pur di raggiungere e stringere a sé
il corpo di Uchiha.
Io mi sentivo tanto devastata da non riuscire neppure a
piangere.
Ci volle tutta la dolcezza e l’invidiabile pazienza di
Rock-Lee per costringermi a guardare la realtà per quella che era e non per ciò
che avevo temuto fosse: erano entrambi ancora vivi.
In condizioni disperate, ma vivi.
Perché?
Perché forse dietro quegli occhi rossi c’era un amore che
gridava più dell’odio, della morte e della vendetta. Sasuke non era un
vendicatore. Sasuke era solo un fratellino inebriato dal potere di chi gli
sorrideva, lo portava in spalla, gli accarezzava i capelli.
Anche se ero un ninja medico – un’allieva della grande
Tsunade – la mia maestra non mi permise di occuparmi degli Uchiha.
Forse perché intuiva il mio coinvolgimento. Forse perché
sapeva quanto basse fossero le speranze di vita di entrambi, e se avessi fallito
– com’era toccato a lei – non me lo sarei mai perdonato.
Usai le mie energie e le mie conoscenze per Shikamaru, per il
maestro Kakashi, per chiunque avesse avuto bisogno di me. Quel che occorreva
alla sottoscritta, però, riposava oltre palpebre chiuse. Forse per sempre.
A dispetto dell’ingiunzione fin troppo severa che avevo
ricevuto io, Naruto ebbe dal Quinto Hokage il permesso di restare accanto a
Sasuke – non di regalargli un po’ del suo chakra maledetto, però, perché questo
avrebbe spezzato un celebre sigillo proprio com’era nelle intenzioni di Itachi.
Ora che anche Sasuke possedeva uno Sharingan ipnotico,
persino un gesto scontato, affettuoso e premuroso come quello di Uzumaki
presentava corollari luttuosi.
Naruto chinò il capo e non disse nulla. Per giorni rimase
silenzioso e composto accanto al letto di Sasuke. Di quando in quando gli
stringeva una mano o gli sfiorava i capelli, come a lasciargli intendere che
c’era. Era arrivato troppo tardi, forse, ma sarebbe rimasto al suo fianco.
Il corpo di Sasuke era stato devastato dal sigillo. La sua
carne, ustionata dalle fiamme nere di Itachi e aggredita dal marchio di
Orochimaru, si era coperta di immonde croste nere. Anche se nessuno me l’ha
confessato in modo tanto brutale e diretto, so che la maestra Tsunade non voleva
che lo vedessi sudare sangue, perché tutta la speranza che possedevo era
ancorata a ricordi di un tempo che quella giornata aveva esaurito del tutto.
Avevo quindici anni. A quindici anni devi credere di poter
sorridere ogni giorno, non piangere anche le lacrime che non possiedi.
Shikamaru si riprese che la pancia di Temari non si notava
neppure, eppure la fissava con certi sguardi obliqui, imbarazzati e inteneriti
al contempo, che non potevi fare a meno di sentirtene contagiato.
A Konoha si stava avvicinando l’inverno, ma tutto faceva
sperare in una prossima rinascita.
Il giorno in cui Sasuke si svegliò cadeva una pioggerella
fredda e deprimente. Non sembrava davvero una di quelle giornate in cui la vita,
all’improvviso, ti sorprende con la sua bellezza, eppure accadde, quasi a
ricordarmi l’infinita banalità del bene e del bello.
La maestra Tsunade, recatasi a fargli visita, non lo trovò
nel suo letto. Nelle condizioni in cui si trovava era già improbabile che fosse
riuscito ad alzarsi, ma che potesse camminare era fuori discussione.
Eppure lo fece, trascinandosi passo dopo passo lungo la
parete, come aveva fatto anni prima, unico superstite di una strage. Era una
marcia eguale e diversa, quella, perché all’incredulità si univa un infame
rimorso.
Se Itachi fosse morto, cioè, sarebbe davvero rimasto l’ultimo
degli Uchiha.
Fu Naruto a trovarlo e ad abbracciarlo, com’era già scritto
nel loro destino – com’era giusto, perché solo un amico può vederti violare la
regola numero venticinque fingendo di non vedere. Quanto a capire… Be’, sospetto
che Uzumaki avesse compreso davvero prima di tutti. E più di tutti.
Itachi si svegliò qualche giorno più tardi. Non so cosa abbia
provato nel trovarsi accanto il fratello che aveva torturato, umiliato,
sconfitto senza riuscire tuttavia mai a farsi odiare davvero; so solo che lo
salutò con un gesto che valeva più di mille parole. Lo chiamò a sé con un cenno
neutro, che pure profumava di passato, e come Sasuke si piegò nella sua
direzione, gli menò un colpettino contro la fronte. Piccolo piccolo, per com’era
debole lui e sfregiato l’altro, ma c’era dentro una storia infinita. Una storia
di cui non potevamo chiedere i dettagli, perché non ci apparteneva.
Quella era la storia di Sasuke. Tutto quel che potevo
permettermi di fare era un passo indietro e chiudermi la porta alle spalle. Con
discrezione.
Andai a trovarlo sola, come avevo fatto mille altre volte, ma
l’atmosfera tra noi era del tutto mutata. Le parole mi ostruivano la gola, né
riuscivo a guardarlo in faccia. Avevo mille domande da fare, ma le risposte non
mi interessavano, perché l’unica essenziale era di nuovo davanti ai miei occhi.
“Considerando quello che ti ha fatto Orochimaru… E anche tuo
fratello, non penso che saranno troppo severi, Sasuke. Il Quinto Hokage è una
donna molto più generosa di quello che sembra.”
Riuscii a dirgli solo l’ultima cosa che mi sarebbe parsa
opportuna, perché ricordargli un processo imminente non era davvero qualcosa che
avrei detto di buongusto, né incoraggiante.
Sasuke spiegò un po’ le labbra. Era un sorriso molto diverso
da quelli – rari – che avevo già visto. Era dolce. Era caldo. Era triste.
“Grazie.”
Mi disse solo questo, come quella notte.
Aveva già deciso. Da solo, come aveva sempre fatto.
Itachi fu condannato a una pena vitalizia, da scontare nelle
prigioni di Konoha. I capi d’accusa erano tanto atroci che neppure furono letti
per intero. Non abbassò mai lo sguardo, non tentò di difendersi. In un modo o
nell’altro, davanti alla Foglia, spiccava ancora come un leader. Come un eroe.
Come un vincitore.
La condanna di Sasuke, di massima legata alla sola
diserzione, fu leggera, stando almeno ai dettami del villaggio. A Naruto e alla
sottoscritta, per contro, quei due anni parvero una sublime ingiustizia.
Si erano forse dimenticati ch’era stato Sasuke a uccidere
Orochimaru? Che Orochimaru era l’assassino di Sarutobi e un ricercato di grado
S? Che in fondo era stato Sasuke ad assicurare Itachi alla giustizia?
Uchiha, però, a testa bassa, non contestò un solo capo.
Sembrava piuttosto che fosse sollevato dalla fine di quella farsa pietosa,
libero di tornare a una solitudine più riposante.
Prima che lo conducessero via, là dove altre catene
l’avrebbero stretto – eppure, sono certa, non avrebbero pesato quanto quelle
della vendetta – Naruto e io lo raggiungemmo.
Non sarebbe stato un addio, questo, ma un arrivederci, dunque
bisognava salutarsi come buoni amici.
“Noi abbiamo sempre un conto in sospeso, ricordi?” gli disse
Uzumaki, stringendo le palpebre per non lasciar trapelare la propria commozione.
Sasuke annuì senza aggiungere nulla.
Era il mio turno, ma le parole, per l’ennesima volta,
morivano strangolate da troppi sentimenti, sicché, facendo appello alla Sakura
ch’ero diventata nei troppi giorni che ci avevano divisi, lo abbracciai stretto
e, prima che potesse sottrarsi al mio affetto, lo baciai.
Fu un atto maldestro, appena un rapido sfiorarsi delle nostre
labbra, eppure anche la cifra manifesta di una nuova promessa: non mi
accontentavo di un ‘grazie’. Ero un’ingorda che pretendeva tutta la torta.
Forse, soprattutto, l’amore infinito che celavano i suoi occhi d’ossidiana.
“Noi siamo qui e ti aspettiamo, Sasuke,” fu tutto quello che
riuscii a strappare ai singhiozzi. Naruto mi prese la mano. La sua stretta era
calda e consolante. “Sbrigati, però… O te la porto via.”
Sono passati otto mesi da quel giorno. L’estate è il sole
abbacinante che ti cauterizza la retina e imbiondisce la pelle. È il profumo che
sembra avvolgere ogni cosa, come una tiepida carezza. È la canzone che
sussurrano le foglie di Konoha: una melodia dolce, come la nenia che culla il Re
di Shikamaru o il lascito di Asuma.
Ogni giorno, dunque, corro fino alle porte del villaggio per
chiedere al vento di portargli la mia voce. E lui, chissà… Forse, dietro ai suoi
occhi, ora c’è anche il mio sorriso.
Nota finale: e ce l'abbiamo fatta! Grazie di cuore a
chi, con pazienza e indulgenza, ha seguito questa storia, sebbene sia datata e,
stilisticamente, bruttina. Grazie per avermi dedicato il vostro tempo e fatto
compagnia. Non vi ho potuto ripagare con pagine all'altezza, ma spero che quanto
avete sfogliato non vi sia parso solo tempo perso :-P Per chi di voi non
fosse ancora stanco di me, ho pubblicato ora un missing-moment di questa
long-fiction, Oasi: Shikamaru e Temari alla vigilia dell'ultimo giorno. |
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