Drawing a Song 3 ~ A new story begins di Leslie and Lalla (/viewuser.php?uid=83533)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I hate rugby! ***
Capitolo 2: *** It was a, uhm, pleasure? ***
Capitolo 3: *** A bad adventure. ***
Capitolo 4: *** Long time no see! ***
Capitolo 5: *** Three wishes. ***
Capitolo 6: *** Chemistry. ***
Capitolo 7: *** I'm not alone. ***
Capitolo 1 *** I hate rugby! ***
1.
I hate rugby!
Sabato 28 maggio
Evelyn's Pov.
«Mamma, ti
prego.»
Fisso mia madre dritto negli occhi, senza muovere un muscolo, mentre i
battiti rallentano drasticamente. Capirà, deve capire.
«Te lo chiedo per il mio matrimonio, voglio far avverare
questo sogno prima di sposarmi. Non puoi fare finta di niente ancora,
ora sono grande abbastanza da capire cosa voglio fare. E tu lo
sai» aggiungo dopo una breve pausa.
Lei mi guarda ancora per qualche istante, poi si abbandona alla
poltrona in salotto, con un sospiro. «E va bene,
tesoro. Ti dirò tutto quello che so.»
Sorrido, soddisfatta, poi a mia volta mi siedo sul divano di fronte a
lei, in attesa che inizi a raccontarmi.
«Io e Tom, come ben sai, dopo cinque anni di matrimonio ci
siamo resi conto di non poter aver figli. Allora io ho proposto di
adottarne uno, in modo da poter aver comunque l'affetto che ci
mancava... Diciamo che volevamo consolidare la famiglia una volta per
tutte. Così, un week-end, Tom mi ha portato a Venezia per
una breve vacanza, lontani dal tram tram quotidiano di Milano. Siamo
arrivati sabato, e la domenica mattina mi ha portata all'ospedale
Civile di Venezia dicendomi che gli avevano comunicato che c'era ancora
qualche neonato in fasce in adozione. Io ovviamente ne ero felicissima.
E se lo vuoi sapere, oltre a te c'erano altri due splendidi maschietti,
ma noi volevamo una bella bambina, così abbiamo scelto te.
Abbiamo firmato i documenti in presenza di due testimoni,
dopodiché ti abbiamo portata con noi a casa. Tutto
qui.»
Annuisco un paio di volte, persa con lo sguardo nel vuoto.
«E... sai come si chiama la mia vera madre? E mio padre? Che
tipi erano, li hai conosciuti?»
«No, non direttamente. Di loro so ben poco» mi
risponde, tormentandosi una ciocca di capelli biondi.
«Cosa sai?» le chiedo, senza alcuna esitazione.
Prima di rispondermi, espira fortemente. «Lo vuoi proprio
sapere?»
«Certo!»
«La tua mamma biologica aveva diciassette anni quando ti ha
partorita. E tuo padre qualche anno in più di lei, si erano
appena sposati.»
Chiudo gli occhi e faccio aderire completamente la schiena contro lo
schienale del divano. «Oh mio Dio» mormoro poi,
tirando un forte sospiro.
Mia madre rimane in silenzio, ancora con la ciocca di capelli tra le
dita. Fa sempre così quando è nervosa.
Dopo qualche minuto, ho la forza di domandarle: «Non sai
nient'altro?»
Scuote la testa. «So solo che non abitavano a Venezia, erano
lì in vacanza.»
«Basta?»
«Basta.»
Silenzio. Un silenzio che sembra durare una vita.
«Posso... posso farti una domanda?» balbetto dopo
alcuni minuti.
«Dimmi, tesoro» dice lei, mostrandomi un sorriso
forzato.
«Perché mi avete tenuto nascosto tutto
questo?» sputo fuori tutto d'un fiato.
Non mi risponde subito, probabilmente ha bisogno di qualche istante per
decidere bene che parole usare. «Avevamo paura che tu ti
dimenticassi di noi, e di tutto quello che abbiamo fatto per
te.»
«Ma questo non potrebbe mai accadere, lo sai, vero
mamma?» replico io, seria.
«Lo spero» fa lei, sforzandosi di sorridere.
A questo punto mi alzo e l'abbraccio d'impulso. Mi fa tenerezza e so
che in questo momento ha tanto bisogno di affetto, di essere
rassicurata. La conosco troppo bene.
«Ti voglio bene mamma, e non mi importa un accidente se sei
la mia madre biologica o no. Tu sei e sarai per sempre la mia vera
mamma. Quella che mi ha cresciuto, quella che mi ha saputo
amare» le sussurro all'orecchio, mentre con una mano le
accarezzo la schiena con dolcezza.
«Oh, quanto ti voglio bene, tesoro mio» mormora
lei, scoppiando in forti singhiozzi.
Sorrido un poco, senza smettere un attimo di accarezzarle la schiena.
«Anche io, mamma, anche io.»
Un'ora dopo sono di rientro a casa. Apro la porta d'ingresso con la
chiave e me la richiudo alle spalle dicendo: «Sono
tornata.»
«Oh, eccoti, amore.»
Mi giro e mi ritrovo a pochi metri di distanza Danny, che mi mostra uno
dei suoi sorrisi angelici.
Alzo un angolo della bocca. «Ciao» lo saluto, poi
gli scocco un bacio sulle labbra.
«E' passato poco fa Riki. Voleva congratularsi con noi, solo
che non c'eri, allora mi ha detto di salutarti» mi informa
poi, mentre io inizio a togliermi le scarpe e a riporle al loro posto.
«Oh, grazie» borbotto, mettendomi un paio di
infradito.
«Ho una voglia di essere tuo marito che nemmeno
immagini» inizia, avvicinandosi a me e prendendomi dolcemente
i fianchi.
«Ma è come se lo fossi già, per quanto
mi riguarda» rispondo, con un sorriso.
«Intendevo ufficialmente, ho voglia di essere veramente tuo
marito. Voglio sposarti, dire “sì, lo
voglio” di fronte a cento persone.»
Scoppio in una risata. «Così tante?»
«Potremmo invitarne anche mille, sempre che sia di tuo
gradimento» ribatte, sfregando il suo naso con il mio.
Percepisco il suo profumo di dopobarba che mi piace tanto e non posso
fare a meno di sorridere, anche se non so esattamente
perché. «Si può fare» lo
stuzzico poi.
«Comunque ho apparecchiato la tavola, e pensavo di fare una
pasta veloce, così ho messo sul fornello l'acqua»
dice, «è che vado un po' di fretta... Dopo ho la
partita, ricordi?»
Mi metto una mano sulla fronte, sospirando. «No, onestamente
mi era passato di mente.»
Lui mi lancia una finta occhiata ammonitrice. «Ci vieni
però, vero?»
«Ehm, sì, volentieri» mento io,
sforzandomi di sorridere. In realtà odio con tutto il mio
cuore il rugby, solo che a lui non l'ho mai confessato. Insomma, non
posso mica dirgli che detesto il suo sport preferito, o sbaglio?
Lui a sua volta mi sorride. «Ottimo.»
«Però vedi di non disfarti qualcosa un'altra
volta, okay?» aggiungo io.
«Tranquilla, farò il bravo bambino.»
Io in tutta risposta gli scompiglio i capelli
affettuosamente.
«Noo, avevo appena messo il gel!» protesta lui,
sistemandoseli alla belle-meglio con le mani.
«Bah, secondo me non è cambiato nulla»
affermo, sbattendo le ciglia innocentemente.
Danny sorride un poco. «Oggi è sabato»
annuncia, dopo alcuni istanti.
«Lo so.»
«E domani è domenica.»
«Lo so!»
«Ciò vuol dire che abbiamo tutto il giorno a
disposizione» aggiunge, guardandomi negli occhi.
«Lo so» ripeto per la terza volta, sorridendo
appena.
«Pensavo di portarti in un posto speciale.»
«Altra partita di rugby?» scherzo io.
«No, in un posto ancora più bello.»
Oh, fantastico allora.
«Comunque io avrei fame» dice, dopo una breve pausa.
Annuisco un paio di volte. «Butto la pasta, l'acqua
bollirà sicuramente» affermo, dirigendomi in
cucina con passo stanco.
«Com'è andata da tua madre?» mi domanda
lui cinque minuti dopo, appoggiandosi allo stipite della porta,
facendosi improvvisamente serio.
«Uh, bene» rispondo io, vaga.
«Hai voglia di parlarmene?»
Faccio spalline. «Non è che ci sia molto da
dire» faccio, iniziando a fare il sugo per la pasta.
Danny rimane in silenzio, in attesa che io aggiunga altro.
«Non sapeva molto, a dire la verità»
ammetto poi, «però quello che mi ha detto
è stato abbastanza un colpo al cuore.»
«Cioè?»
«Tipo che mia madre ha solo diciassette anni in
più di me.»
Danny strabuzza gli occhi. «Oddio» borbotta, e solo
dopo una pausa si avvicina a me e mi circonda la vita con le braccia.
«Ma tanto ce li hai già dei genitori che ti
vogliono bene, non hai bisogno di quelli biologici per sentirti amata,
non è così?» chiede, appoggiando il
mento sulla mia spalla.
«Sì» rispondo, con un fil di voce.
E va bene, non sono stata del tutto sincera. Non è vero che
non mi importa nulla dei miei genitori naturali, anzi. Sono
praticamente ossessionata da loro.
«Danny» affermo, dopo alcuni istanti di assoluto
silenzio.
«Dimmi» mi incita lui, baciandomi delicatamente il
collo.
«Cosa faresti se ti dicessi che voglio partire per
Venezia?»
«Beh, ti chiederei innanzitutto quanto staresti via, e poi se
mi vorresti con te.»
«Perché ho intenzione di farlo»
aggiungo, chiudendo un occhio, scongiurando nella mia testa che non si
preoccupi o cose del genere.
«Ah, sì? E per quale motivo, gita in piazza san
Marco?» azzarda, ridendo un poco.
«E' che vorrei conoscere i miei genitori.»
Sento che si stacca da me improvvisamente. Poi, dopo pochi secondi,
mormora: «Non me l'avevi mai detto.»
«E' sempre stato il mio sogno più grande, fin da
quando ho saputo di essere stata adottata, e volevo farlo avverare
prima di sposarmi» gli racconto io,
«capisci?»
«Sì, credo di capire» risponde, a bassa
voce e parlando lentamente. «Ma se poi ne rimani delusa? O
se, corna facendo, sono morti, o malati, o cose del genere?»
«Penso di poterlo affrontare, e poi in fondo è
come se fossero degli perfetti sconosciuti, no?»
«E allora perché ci tieni così tanto a
conoscerli?»
«Sono curiosa, mi conosci! Voglio vedere il volto di mia
madre, il carattere di mio padre, se è più alta
lei di lui, a chi assomiglio di più dei due, se bevono il
caffè o il tè la mattina, se hanno un cane o un
gatto o nessuno dei due, se hanno fatto altri figli, se i miei nonni
sono ancora in vita... cose di questo tipo. Cose elementari, ma a cui
penso sempre.»
Lui mi stringe un poco, poi mi bacia la testa.
«Capito» dice. «Quindi vuoi metterti in
viaggio.»
«Già.»
«E cosa sai ancora di loro?»
«Che non abitano a Venezia, mia madre mi ha partorita a
quell'ospedale perché era lì in vacanza con mio
padre.»
«Capito» ripete per l'ennesima volta. «E
quanto tempo pensi di stare via circa?»
«Non lo so, dipende loro dove abitano, e in quanto riesco a
raccogliere tutte le informazioni che mi servono.»
Annuisce leggermente. «E vuoi andarci da sola, o ti posso
accompagnare?»
«Mmh, francamente preferirei andare da sola. E poi, come
faresti con il lavoro?»
«Beh, come fai tu, lo salto!»
«Per colpa mia» preciso io.
Fa spalline. «Si possono chiamare anche ferie.»
Rimango zitta, non sapendo cos'altro aggiungere.
«Però se vuoi rimanere sola, non preoccuparti,
rimango qui, io.»
Sorrido, poi mi volto fino a ritrovarmi il suo viso a pochi centimetri
dal mio. «Grazie per avermi capita.»
Appena finisco la pasta che ho nel piatto, mi alzo e apro il frigo,
sentendo ancora un leggero brontolio alla pancia a causa della fame.
«Non saprei cosa mangiare» borbotto, più
a me stessa che a Danny.
«Dovresti mangiare più verdura, o frutta, te lo
dico ogni santo giorno!»
Ecco, lo sapevo che non dovevo riflettere ad alta voce.
«Madonna Danny mi sembri mio padre!» esclamo,
alzando gli occhi al cielo e richiudendo il frigo spazientita.
«Basta, mi è passata la poca fame che
avevo.»
Il mio fidanzato scuote la testa, con aria di rimprovero. «Lo
sai che mangiare troppi carboidrati non ti fa bene.»
«E tu lo sai che mi fai solo girare le palle ad elica quando
mi tratti come se fossi tua figlia. So gestirmi da sola!»
ribatto io, dopodiché senza aspettare una sua risposta,
metto nel lavabo le stoviglie e filo al piano di sopra, in camera, dove
mi butto a peso morto sul letto.
Dio, che nervoso quando fa così.
Dopo pochi minuti, sento che bussa un paio di volte alla porta che
avevo sbattuto con forza alle mie spalle. «Posso?»
chiede, con un fil di voce, aprendo piano la porta.
«Tanto sei già entrato» gli faccio
notare.
Lui sorride un poco e poi si avvicina ai piedi del letto, dove inizia a
farmi un massaggio ai piedi. Fa sempre così quando vuole
farsi perdonare e sa di essere nel torto, quasi fosse un cane con la
coda tra le gambe.
«Scusami per prima, ma lo sai che lo faccio solo per il tuo
bene» inizia, in un sussurro.
Io mi metto su un fianco in modo da non guardarlo in faccia. Rimango in
silenzio, forse sperando che continui a parlare lui.
«Mi perdoni?» aggiunge, dieci secondi dopo.
«Okay.»
«Convinta?»
Non gli rispondo subito.
«Credo di sì.»
«Credi?» domanda, senza togliere le mani dai miei
piedi.
«Credo» sussurro, con franchezza.
Silenzio. Lui smette di massaggiarmi, e si siede al bordo del letto.
«Mi impegno a non farlo più» fa poi, con
un fil di voce.
«Me lo prometti?» gli chiedo io, fissando davanti a
me.
«Te lo prometto.»
A queste parole, mi volto e cerco il suo sguardo, lui ricambia
l'occhiata e mi sorride.
«Ti amo» dichiaro, mettendomi a sedere.
«Anche io» afferma avvicinandosi a me, poi mi bacia
con trasporto. Io dischiudo le labbra e rispondo al suo bacio, mentre
con le mani gli accarezzo dolcemente i capelli. Dio, da quanto non ci
baciavamo così...
«Facciamo l'amore» dico improvvisamente.
«Adesso.»
«Adesso?!» ripete lui, ridendo con naturalezza.
«Tra non molto devo andare alla partita.»
«Dai» aggiungo, cercando di assumere il tono di
voce – e la faccia – più dolce e
convincente che posso.
«Va bene» accetta poi, lanciandomi un'occhiata
maliziosa che io ho definito più volte “il leone
affamato in gabbia”.
Io getto la testa all'indietro e scoppio a ridere, poi torno a baciarlo
sulle labbra, mentre con le mani inizio a sfilargli la camicia scozzese
maledettamente sexy. Lui aspetta che io finisca di spogliarlo,
dopodiché mi toglie la maglia e i pantaloni neri che
indossavo pochi secondi fa.
«Aspetta» dice, d'un tratto, staccandosi dalla mia
bocca.
«Cosa?»
«Metto la sveglia tra un'ora, se arrivo in ritardo il coach
mi ammazza.»
Che palle, perché deve avere la partita proprio oggi
pomeriggio?
Al fischio dell'arbitro, la squadra di Danny calcia nel campo della
squadra avversaria – che hanno un nome a dir poco strano,
qualcosa tipo “I Petrarchi.”
Okay Evelyn, puoi farcela. Si tratta solo di resistere un'ora e venti
minuti, più i dieci minuti di pausa a metà
partita. Facile.
Durante i primi due minuti, fisso il campo di gioco cercando di capirci
qualcosa. Lo so che il rugby possiede delle regole tutte sue
– come quella che le porte sono a forma di H, il pallone
è ovale ed è vietato passare la palla in avanti
– però ogni volta che vengo a vedere le partite di
Danny, che detto chiaramente saranno due o tre al massimo –
le volte in cui non sono riuscita a inventare una scusa in tempo
–, mi confondo ancora di più le idee e ci capisco
sempre meno.
«Forza Josh, corri!» urla il tipo accanto a me,
mentre tra le dita stringe un recipiente enorme che strabocca di pop
corn super salati. Ho la sensazione che Josh sia suo figlio, e che ogni
volta che va a vederlo in partita si compri sempre la stessa porzione
maxi di pop corn.
Forza, se continui a distrarti in questo modo il tempo
passerà velocemente.
Facendo i diritti scongiuri, guardo che ore sono sul mio cellulare.
Bene, sono già passati quattro minuti dall'inizio della
partita.
Il minuto seguente lo passo a rimirarmi un'unghia, maledicendomi di non
aver portato la pinzetta per le pellicine.
Chiudo gli occhi e sussurro tra me e me: «Evelyn, guarda
questa cazzo di partita e basta. Danny è il tuo futuro
marito, e dato che passerai il resto della tua esistenza in sua
compagnia dovrai andarlo a vedere a tutte le partite, e non puoi
comportarti in questo modo...»
Quando realizzo veramente ciò che ho appena detto, mi sale
un coniato di vomito. Non ce la posso fare. Passare così
un'ora e mezza alla settimana? Vedendo in campo 30 persone che si
ammazzano per una palla? Cioè, stiamo scherzando.
«Fallo secco, Joshi!» grida la moglie del ciccione
– cicciona anche lei –, alla sua destra, stringendo
in una mano un fazzoletto e serrando forte la mascella.
«Sì, fagli vedere chi sei!» aggiunge
lui, indicando un punto non definito.
Oh mio Dio, questi qua sono assatanati.
Afferro il cellulare disperatamente e compongo in pochi secondi il
numero di Katie, la mia migliore amica che ho conosciuto giusto qualche
annetto fa in prima liceo.
«Pronto?» risponde al terzo squillo.
Oddio, la sua voce dolce e tranquilla mi fa già sentire
meglio.
«Katie, tesoro!» esclamo io.
«Ev! Come stai?»
Mi guardo attorno e socchiudo gli occhi. La famiglia bomba è
troppo intenta a seguire la partita per ascoltare quello che sto
dicendo. «Tutto bene» mento poi, cercando di
assumere un tono di voce normale. «Tu invece?»
«Anche io, grazie» mi risponde lei, e dopo un po'
aggiunge: «Ma dove sei, scusa? Ti sento male.»
«Ehm, sono...» inizio, pensando a cosa potrei
inventare di convincente. Ma poi mi interrompo. Insomma, è
la mia migliore amica, quella a cui potrei confidare tutto di me,
perché mai dovrei raccontarle una balla? «Sono a
una partita di Danny» ammetto poi, con riluttanza.
«Oddio, rugby?» fa lei, seriamente preoccupata.
Ecco perché è la mia migliore amica, in qualunque
situazione mi capisce.
«Esattamente» confermo io, sospirando. «E
credo di non essermi mai annoiata tanto in tutta la mia...»
Ma non faccio in tempo a finire la frase, che un urlo di gioia mi
interrompe: «Evvai, Josh, sei il re del mondo!»
esultano i ciccioni accanto a me, alzandosi in piedi, mentre tutta la
folla li imita.
«Oh mio Dio» mormora Katie, come se non ci volesse
credere. «Ci sei andata davvero?»
«Eh già» rispondo, facendo una smorfia.
«E non sai chi ho accanto, porca miseria.»
«Chi?!»
«Due tipi completamente svitati... sono...» e nel
parlare mi giro verso di loro per controllare che stanno facendo e noto
– con mio grande orrore – che mi stanno guardando.
«Due tipi abbastanza a posto, educati e simpatici.
Sì, insomma, non potrei chiedere di meglio!» e
detto questo, sfodero uno dei sorrisi più angelici che abbia
mai fatto.
«Ev? Che sta succedendo?» domanda la mia amica,
allarmata.
«Ho bisogno di te, di questo passo impazzisco»
sussurro al microfono del telefono, per non farmi sentire da nessuno.
«Dove sei, che ti raggiungo?» domanda, dopo una
breve pausa.
Se non ci fosse Katie credo che sarei morta da un bel pezzo.
Fortunatamente lo stadio non è troppo lontano da casa sua,
così in quindici minuti è qui, trafelata, appena
uscita dalla doccia, con i capelli biondi ancora umidi e il fiato corto.
Questa è la mia Katie, che affronta gelidi venti e torridi
deserti per me.
Io mi alzo in piedi e sventolo le braccia per farmi vedere, con un
sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
«Katie!» la chiamo.
Lei appena mi vede, mi saluta con la mano e corre verso di me.
«Come procede?» chiede poi, sedendosi alla mia
sinistra.
«Oh, bene» faccio io, fissando il campo con finta
aria critica. «Anche se non so nemmeno chi sta
vincendo» aggiungo, abbassando la voce per non farmi sentire
dalla famiglia bomba in parte a me.
Katie scoppia a ridere. «Certo che sposare un marito fanatico
del rugby, cioè lo sport che tu odi di più al
mondo, è proprio il colmo» commenta, divertita.
«Mi ci dovrò abituare» dico, facendo una
smorfia.
«Dai, prima o poi inizierai a capirci qualcosa e ti
piacerà» cerca di consolarmi lei.
«Non credo proprio che potrà mai piacermi uno
sport in cui fanno a botte per una palla. Insomma, è uno
sport decisamente troppo aggressivo» affermo, stringendo le
palpebre. «Ti vorrei ricordare che lo scorso mese Danny aveva
un livido enorme sull'avambraccio.»
«Lo so» sospira Katie. «Comunque, sei
andata stamattina da tua mamma?»
«Sì» rispondo io, evitando il suo
sguardo. «E ho deciso che lunedì vado a
Venezia.»
Con la coda dell'occhio vedo che spalanca la bocca. «Come
mai?!»
«La mia mamma biologica mi ha partorita lì quando
era lì in vacanza» le spiego. «E voglio
scoprire dove abitano per conoscerli.»
«Stai scherzando?» sbotta, incredula.
Io in tutta risposta scuoto la testa.
«E... il lavoro?»
«Dirò di essere andata in ferie all'ultimo
momento.»
«Puoi farlo?!»
«Credo di sì» dico, facendo spalline.
«Sono troppo decisa a conoscerli, e prima del mio matrimonio
voglio assolutamente farlo.»
«Ho capito» afferma lei, annuendo un poco.
Proseguono alcuni minuti di pausa, in cui rimaniamo tutte e due in
silenzio a fissare il campo di fronte a noi.
«Quando finisce?» domanda Katie, con impazienza.
«Tra poco dovrebbe scadere il primo tempo, poi ci sono dieci
minuti di pausa e ricomincia il secondo tempo, che dura quaranta
minuti.»
«Gesù» mormora lei.
«Evelyn!» la voce del mio fidanzato proviene da
dietro le mie spalle, così mi volto raggiante fino a
incontrare i suoi occhi scuri. Gli sorrido, mentre dentro di me penso a
quanto sia bello con i capelli bagnati.
«Eccolo qui, il campione!» lo saluta Katie, ridendo
leggermente.
Lui mostra un sorriso più che orgoglioso.
«Finalmente abbiamo vinto!» esclama, poi mi stampa
un bacio sulle labbra. «Sarà perché
c'eri tu a vedermi.»
«Secondo me è il campo fortunato»
replico io, arrossendo.
Danny sfrega il suo naso con il mio con dolcezza, poi si rivolge a
Katie, corrugando le sopracciglia confusamente: «Non credevo
che venissi anche tu.»
«Veramente lei era già qui» mi
intrometto io, dicendo la prima cosa che mi capita per la mente.
«Un suo amico gioca nella squadra avversaria»
aggiungo, poi mi volto verso di lei e allargo le palpebre, facendole
capire di reggermi il gioco.
«Oh» fa Katie, presa alla sprovvista. Poi
rapidamente improvvisa qualcosa: «Sì, si chiama
Ronald, ed è veramente bravo!»
Io faccio una risata che si avvicina ben poco a qualcosa di naturale.
«Esattamente!»
«Ronald? Non mi sembra di aver sentito il suo nome in
campo» afferma Danny, confuso.
«No, è che era in panchina» si affretta
ad aggiungere lei.
«Ah» annuisce lui. «Riserva?»
«Sì, qualcosa del genere» borbotta
Katie, facendo una risata forzata.
«E ora dov'è?» chiede Danny, guardandosi
attorno. «C'è il rinfresco offerto dalla
casa!»
«Aveva un impegno importante, allora è dovuto
scappare» spiega lei, annuendo con aria di chi la sa lunga.
«Uh, è un vero peccato, questa volta hanno
preparato di tutto!»
«Davvero?» domando io, fingendomi stupita.
«Cosa c'è di buono?» chiedo poi, per
cambiare argomento.
«Venite» propone lui, prendendomi per mano.
«E poi, Ev, devo presentarti a tutti i miei amici, sono
ansiosi di conoscere la mia futura moglie!»
«Uh, certo!» esclamo, tirando un sospiro di
sollievo. Poi mi volto verso Katie. “Grazie!” le
dico appena ho catturato la sua attenzione, in labiale.
Lei mi fa l'occhiolino. «Bene, io vado ora!»
annuncia dopo, ad alta voce. «Divertitevi.»
«Grazie, Katie, e salutami tanto Jared» la saluta
Danny, dandole un bacio sulla guancia.
Jared è il ragazzo di Katie, stanno insieme da cinque anni
ed hanno in programma anche loro di sposarsi. Almeno, lui ha intenzione
di farlo, ma lei non lo sa ancora. Non vedo l'ora che le faccia la
proposta per diventare la sua damigella d'onore. Cioè, non
lo voglio solo per questo, ovviamente: vedere la mia migliore amica che
si sposa sarà una forte emozione, ne sono più che
sicura.
*** Spazio Autrici ***
Ed eccoci qui con Drawing a Song 3, guys! :D
Qui Lalla, gente!
Come avevamo già accennato e come dice il sottotitoletto, la
storia è del tutto nuova! I personaggi sono diversi, le
avventure saranno diverse, e spero che anche il nostro modo di scrivere
sia cambiato in meglio... a me personalmente sembra di essere maturata
molto a scrivere, rileggendo i primi scritti di Ds storco il naso e
penso "ma l'ho scritta io 'sta schifezza?" (anche se se devo dirla
propria tutta spesso e volentieri mi ritrovo a pensarlo tutt'ora! xP)
Non so voi, ma io Ds3 la vedo molto come una "rivoluzione", a parte per
il fatto che ha personaggi molto diversi rispetto Ds2, io sento di
essere cambiata proprio dentro. E' vero, sono passati solo pochi anni
dalla pubblicazione di Ds, eppure a me sembra davvero un'altra era..
Beeene, ora chiudendo quest'argomento, spiegatemi quant'è
bello il logo u.u Cioè, io lo adoro letteralmente! Mi da una
sensazione di freschezza e libertà, e quando lo vedo nella
mia mente compaiono immagini di campi con le balle di fieno, un po'
come nel Mulino Bianco... Ahahahahah lo so, non sono normale :D Anzi,
vi avviso, se pensavate di seguire la fic, dovrete sopportarmi ancora a
luuungo! Tornando al logo, chiederei al pubblico un grande applauso a
Linda che ieri pomeriggio ci ha lavorato con impegno e amore <33
Per quanto riguarda il primo capitolo di Ds3, onestamente non
è che lo trovi troppo carino, anzi, non mi piace molto...
Comunque credo di rifarmi con i prossimi, l'ultimo che ho scritto (il
quinto per l'esattezza) mi piace già di più ;D
Il prossimo invece è scritto dalla mia socia ed è
di gran luuunga più bello! (sssh, zitta tu! ♥)
Come ultima cosa, ci tenevo a farvi vedere come mi immagino i miei
personaggi (e ovviamente non è detto che anche voi li
vediate così ^^):
Evelyn
Danny
Katie
(e anche per le immagini si ringrazia la dolce Linda!)
Non saprei cos'altro dire, se non ringraziarvi per la lettura,
chiedervi gentilmente (quando avete tempo) di lasciarci una recensione
positiva o negativa che sia che non potrebbe farci altro che bene, e
salutarvi! Noi torniamo il prossimo week-end con il secondo capitolo :))
Baciii,
Lalla and Leslie
PS. Vi siete accorti che abbiamo cambiato il nickname? Altro
cambiamento ;D
PPS. Come sono andati i risultati del concorso "Sarete
scrittori" per chi ha deciso di partecipare? ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** It was a, uhm, pleasure? ***
2.
It was a, uhm, pleasure?
Sabato 28 maggio
Viola's Pov.
Mi sveglio con un sapore
orribile in bocca e la sensazione di aver fatto qualcosa di molto
stupido. Cazzo, non mi ricordo praticamente niente di ieri sera. No,
aspetta... mi ricordo un Martini o due di troppo, e una canzone. Non ho
idea di quale sia, lenta, non riesco a togliermela dalla testa. Oh, e
poi un ragazzo... deve avermelo presentato Maria, o forse era Dalila.
Era carino, peccato che non mi ricordi il nome. Stupidi drink, al
lavoro sarò uno straccio.
Okay, meglio muoversi. Con una smorfia allungo le gambe per stirare i
muscoli e il mio piede sfiora qualcosa di caldo. Tiro uno strillo e
cerco di alzarmi dal letto, ma riesco solo a rotolare oltre il bordo e
a cadere sul pavimento, sbattendo la testa contro il comodino. Gemo e
mi rimetto seduta massaggiandomi la nuca. Quando alzo lo sguardo mi
ritrovo davanti il viso di un uomo.
«Tutto a posto?» chiede, perplesso.
Oh. Mio. Dio. È lui! È l'uomo che mi hanno
presentato ieri sera! Ed è nel mio letto, nudo eccetto che
per un paio di boxer. E anche io sono nuda. Oh santissima merda.
In un riflesso spontaneo stringo il lenzuolo al petto, cercando di
trovare qualcosa di sensato da dire.
«Sto bene» gli assicuro infine, ancora frastornata.
Lui si passa una mano sul viso assonnato. «Buongiorno,
comunque... che diavolo di ore sono?»
«Le sei e mezza» rispondo automaticamente,
chiudendo gli occhi un momento.
Grande, e adesso? Dio, non posso lasciare che Maria lo veda,
già me la vedo lanciarmi quel suo sguardo malizioso e
blaterare per giorni su quanto sia contenta che abbia finalmente
trovato un uomo perché sono troppo sola e roba simile.
È da quando abitiamo insieme che cerca di piazzarmi con
qualcuno, anzi, probabilmente è stata proprio lei a
spingermi tra le braccia di questo tizio. Dio, non mi ricordo niente.
«Stai scherzando? Chi al mondo si sveglia alle sei e mezza il
sabato mattina?»
«Senti... ehm» gli lancio un'occhiata vagamente
imbarazzata, ma lui sorride.
«Leo» si presenta, porgendomi la mano.
Cerco di sorridere a mia volta. «Viola, piacere»
dico, frettolosa.
«Viola... bel nome» commenta lui.
«Sì, grazie... devi andartene da qui.»
Lui aggrotta la fronte, poi si fa preoccupato. «Non sta per
arrivare un qualche fidanzato geloso, vero?» chiede,
allarmato.
«No» lo rassicuro, con un sorriso nervoso,
«solo una coinquilina impicciona... beh, la conosci Maria,
no?»
«Ehm... no. Era anche lei alla festa ieri sera?»
chiede, perplesso.
Grande. Un perfetto sconosciuto.
«Sì, ma non importa» borbotto, alzandomi
in piedi.
Leo scende dal letto e raccoglie i jeans abbandonati in mezzo al
pavimento. Io pesco la vestaglia da un mucchio di vestiti sul pavimento
– lo ammetto, non sono la persona più ordinata
dell'universo – e la indosso, poi gli lancio un'occhiata,
approfittando del fatto che sia distratto per poterlo osservare per
bene. Non si può negare che sia maledettamente affascinante.
Capelli castani mossi e spettinati, occhi blu e un accenno di barba sul
mento. Anche come fisico è messo decisamente bene, ha un
torace scolpito, pancia piatta e braccia muscolose ma non troppo. Anche
se probabilmente non dovrei cerco di ricordare qualcosa su ieri notte,
ho il vago ricordo che nemmeno a letto fosse niente male.
«Hai visto l'altra scarpa?» chiede all'improvviso,
facendomi prima sussultare e poi avvampare. Cavolo, si sarà
accorto che lo stavo fissando?
Individuo la scarpa sotto il letto e mi chino per raccoglierla,
approfittando del momento per prendere un respiro profondo e
riacquistare il mio solito colorito. Prendendo la scarpa sorride e mi
ringrazia.
«Quindi tu abiti qui?» chiede guardandosi attorno.
Annuisco e raggiungo lo specchio. Oh Dio, sembra che qualcuno abbia
appena centrifugato i miei capelli. Cosa diavolo ho fatto ieri notte
per conciarli così?
«È carino... spazioso» commenta,
allacciando i bottoni della camicia.
«Era dei miei nonni... si sono trasferiti a Venezia dopo il
matrimonio dei miei genitori» spiego, distratta,
«quando mia nonna è morta mio nonno si
è trasferito a Parigi e ha lasciato l'appartamento a me e a
mia sorella.»
«E a lei non serve?» chiede ancora.
«Ha sedici anni, non se ne fa molto» rispondo, poi
mi volto a guardarlo. «Bene, sei vestito? Grande,
è stato un piacere conoscerti, Leo.»
Lui sorride divertito. «Altrettanto.»
Annuisco, poi, sperando di non sembrare eccessivamente scortese, faccio
un cenno verso la porta.
«Oh, giusto, mi stai cacciando» esclama, battendosi
una mano sulla fronte.
Sono abbastanza sicura che sia una battuta e faccio un sorrisetto
ironico. Sinceramente non trovo nulla di divertente in questa
situazione. Non adesso, magari tra vent'anni.... no, meglio
venticinque. Lo precedo fuori dalla stanza per assicurarmi che Maria
non sia in salotto, poi vado ad aprirgli la porta d'ingresso.
«Che dire, allora?» indugia lui, passandosi una
mano tra i capelli, «grazie per la bella serata.»
Dio, spero davvero che non sia seriamente malizia quella nel suo
sorriso. Lo fulmino con lo sguardo.
«Non c'è di che» sibilo, acida.
«Viola?»
Sussulto e mi volto verso Maria, che esce dalla cucina con in pigiama e
con una tazza fumante in mano. Okay, questo è uno dei tanti
momenti in cui ho solo voglia che un enorme buco si apra sotto i miei
piedi e mi faccia scomparire alla sua vista.
«Buongiorno!» esclamo, con voce acuta e un sorriso
da orecchio a orecchio, «cosa ci fai in piedi a
quest'ora?» Oddio, devo davvero abbassare il tono di voce di
due ottave. Ho l'impressione che tra un po' solo i cani riusciranno a
sentirmi. Magari nemmeno loro.
«Non sono riuscita a chiudere occhio questa notte»
ammette lei, poi beve un sorso dalla sua tazza e sposta lo guardo su
Leo. Gli sorride.
«A quanto pare non sono l'unica» commenta,
leggermente divertita.
Divento immediatamente rossa come un peperone. «Se ne stava
andando» mi affretto a dire, poi lo spingo fuori e gli chiudo
la porta in faccia senza aggiungere altro.
Sollevando le sopracciglia, Maria si porta di nuovo la tazza alle
labbra. Il suo silenzio ha qualcosa di inquietante.
«Beh, allora credo che andrò a farmi una
doccia» annuncio, con un sorriso imbarazzato.
«Oh, non provare a pensare che una doccia basterà
a scampare il mio interrogatorio» ribatte lei, tranquilla.
«Credimi, non l'ho fatto... mi chiedevo piuttosto come mai ci
volesse tanto» ammetto, con un sorriso rassegnato.
«Ho bisogno di schiarirmi le idee... mi sono disabituata alle
conversazioni post sesso selvaggio con uno sconosciuto»
commenta.
Stringo le labbra, vagamente nauseata.
«Sesso selvaggio?» chiedo, seppur riluttante.
«Oh, tu non eri nella stanza accanto.»
A Maria occorrono solo dieci minuti per “schiarirsi le
idee”. Entra in bagno mentre sono sotto la doccia e si
accomoda a gambe incrociate sul water.
«Era alla festa ieri sera?» chiede, con voce
assorta.
«Direi di sì, anche se non ho idea di chi se lo
sia portato dietro» sospiro, cercando di trovare una
bottiglia di shampoo ancora piena.
«Era carino, strano che non l'abbia notato»
commenta, «come hai detto che si chiama?»
«Non l'ho detto. Si chiama Leo» rispondo,
rassegnata.
«Leo e basta?»
«Per quello che ne so io sì» rifletto,
«ero completamente ubriaca» aggiungo, con aria
vagamente colpevole, versando un po' di shampoo sulla mano.
«Oh, questo spiega tutto» fa Maria, con l'aria di
chi la sa lunga.
«Che cosa vorresti dire?» chiedo di rimando,
sospettosa.
«Che quando sei ubriaca sei molto più
“avventurosa” del solito» risponde.
«Che?»
«Okay, non ti offendere, ma da sobria per la maggior parte
delle volte sei un pochino noiosa» ammette, «beh,
non tanto come persona ma come atteggiamento. Cioè, devi
sempre fare tutto secondo le regole, mai uscire dalle righe, mai una
pazzia...»
«Non è vero!» protesto, «ho
fatto un sacco di cose pazze nella mia vita!»
«Tipo?» chiede lei, scettica.
«Accettarti come coinquilina»
«Haha. Molto divertente, ma io parlavo sul serio.»
Lo so, solo che effettivamente non riesco a trovare niente di davvero
“pazzo”. Almeno nulla che abbia fatto da quando mi
sono laureata. Quando ero all'università ero diversa,
più spontanea e probabilmente anche più
divertente. Di certo più “avventurosa”,
come dice Maria. Certo, non come lei, che invece di continuare a
studiare è salita su un camioncino con alcuni amici e ha
girato prima l'Europa e poi l'Asia, facendo ogni genere di cosa,
provando ogni tipo di lavoro. Dice che alla fine non le dispiace
nemmeno tanto di non avere una laurea, visto quello che ci ha
guadagnato. L'ho conosciuta quando è tornata in Italia,
tramite amici, e poi è diventata la mia coinquilina. Da
allora siamo inseparabili. Ma non era questo il punto, giusto? Si
parlava della mia vita incredibilmente noiosa. Sì, come
dicevo, gli ultimi anni di superiori e quelli universitari sono stati
molto più fuori dalla norma di quelli di altre persone, poi
però la specializzazione mi ha succhiato via il tempo e la
voglia di essere stravagante, e tutto quello che mi resta di quegli
anni è un tatuaggio sulla nuca e album interi di foto.
Ogni tanto mi manca, devo ammetterlo, vivere alla giornata, senza
preoccuparmi del lavoro o dello studio, ma mi vengono le vertigini solo
a pensarlo.
Mi sciacquo i capelli senza dire niente, poi allungo la mano fuori
dalla tenda della doccia per prendere l'accappatoio. Maria me lo passa
e la ringrazio con un sorriso.
«Lo sai vero che il fatto che tu non mi abbia risposto non fa
altro che confermare quello che ho detto» osserva con aria
saggia mentre cerco un pettine.
Alzo gli occhi al cielo. «Okay, come vuoi tu, sono
noiosa.»
Lei sorride divertita e si scosta i lunghi capelli scuri dalla spalla
per poi ripartire all'attacco. «Quindi lo rivedrai
ancora?» chiede, maliziosa.
Mi mordo il labbro. Ovvio che no. Non ho nemmeno il suo numero di
telefono... mi chiedo solo come mai una parte di me ne sia delusa. Beh,
era un bell'uomo, questo è certo.
«Non credo» ammetto, dopo una breve pausa,
passandomi le dita tra i capelli – ho rinunciato a trovare il
pettine – e mettendo su un'espressione noncurante.
«Perché scusa? Cioè, a me è
bastato vederlo per mezzo secondo per innamorarmi di lui!»
ribatte, quasi scioccata.
«Mh, non sono così disperata.»
Maria solleva un sopracciglio. «Senza offesa eh, ma per me lo
sei...»
Decido di ignorare questa sua ultima affermazione –
soprattutto perché è dolorosamente vera
– ed esco dal bagno per dirigermi in camera mia. Sono in
ritardo, porca miseria.
Maria mi segue e si siede sul mio letto con l'aria frustrata di chi ha
a che fare con un bambino di prima media che non sa le tabelline, io
cerco di ignorarla e seleziono un paio di jeans slavati e una t-shirt a
tinta unita dal mio armadio. Mentre mi vesto, Maria si liscia i capelli
con le dita, pensierosa.
«Vuoi dirmi che se ti chiamasse e ti chiedesse di uscire non
accetteresti?» domanda dopo un po', scettica.
Attacco la spina del phon e regolo la temperatura. «Non mi
chiamerà» la correggo, sicura.
«Come fai a saperlo?»
«Non gli ho dato il mio numero» rispondo, con un
sorriso angelico.
Lei si batte una mano sulla fronte, esasperata.
«Viola!»
«Cosa? Te l'ho detto, ero ubriaca, è stata una
cosa da ubriachi, sinceramente non mi sembrava nemmeno che fosse tutta
questa simpatia, perciò non gli ho dato il mio
numero.»
«Sei senza speranza» commenta, delusa.
«Come ti pare» sbuffo, asciugandomi i capelli.
«Se fossi in te cercherei di richiamarlo» aggiunge
subito dopo.
«Sì, l'hai reso piuttosto chiaro»
«Sai cosa? Lo cercherò io. Per te. Ti
troverò il suo numero, il suo nome completo, il suo
indirizzo e monate varie e poi potrai prendere una decisione
imparziale» esclama, illuminandosi.
La guardo profondamente scettica. «Spiegami come
farai» la invito, senza essere del tutto sicura di volerlo
sapere.
«Oh, sarà facile. Basterà fare un giro
di telefonate... anche se fosse stato un imbucato dubito che tu sia
stata l'unica persona con la quale abbia parlato tutta la
sera» spiega con semplicità.
«Sai, stai dando davvero troppa importanza a questa
faccenda» le faccio notare, nonostante sappia perfettamente
che cercare di farle cambiare idea è una battaglia persa in
partenza.
«Scherzi vero? Non esci con nessuno da almeno sei mesi! Se
c'è un potenziale perfetto fidanzato bisogna
approfittarne!» esclama, e se ne va prima che possa ribattere.
Dio, ma davvero sono così messa male? O il bisogno che sente
Maria di mettermi con qualcuno è solo una manifestazione
della sua tendenza a vedere le cose peggiori di quello che sono in
realtà? Insomma è vero, non ho un ragazzo, ma
dov'è tutta questa urgenza di averne uno? Sono
già stata in relazioni prima, alcune anche importanti, ma in
questo momento non sento di averne bisogno. O sì? Non lo so,
comunque non è il momento di pensarci: sono in ritardo.
Una volta che i capelli sono più o meno asciutti mi fermo un
momento davanti allo specchio per mettermi un filo di matita e un po'
di mascara e cercare di coprire le occhiaie alla meno peggio con il
fondotinta. Sembro uno zombie comunque, ma è meglio di
niente.
Afferro la borsa e vado in cucina a versarmi una tazza di
caffè che mando giù in un paio di sorsi assieme a
due biscotti.
«Maria io vado!» esclamo, prendendo le chiavi dal
piattino che teniamo apposta su un tavolino in ingresso e aprendo la
porta. «Ci vediamo questa sera!» aggiungo, senza
aspettare una sua risposta.
Esco sul pianerottolo e mi fermo un momento per sospirare. A volte mi
chiedo se Maria si renda conto di come mi faccia sentire il suo
costante “prendersi cura di me”. Non che non lo
apprezzi, so che è uno dei tanti modi in cui mi fa capire di
tenerci a me, ma a volte riesce davvero a farmi dubitare su dove si
stia effettivamente indirizzando la mia vita, se il piano che ho di
posporre cose come il matrimonio e i figli a dopo la fine della
specializzazione sia davvero la cosa giusta da fare. E se perdessi la
mia chance? E se l'avessi già persa? Cerco di pensare a
tutti i momenti in cui ho preso una decisione che mi ha cambiato la
vita in modo radicale e sulla quale non posso tornare indietro, e la
prima persona a venirmi in mente è Max. È stato
il ragazzo con il quale ho capito davvero cosa significa essere
innamorati e con cui ho avuto la mia prima relazione seria, eravamo
schifosamente perfetti assieme, nonostante le nostre
diversità. A far finire la nostra relazione sono stati i
caratteri, i desideri e gli interessi completamente differenti, che se
inizialmente avevamo cercato di ignorare dopo un paio di anni sono
diventati dolorosamente reali. Come anche adesso, tutte le mie energie
erano concentrate nel diventare un medico brillante, mentre lui
è un artista, uno di quelli che dipingono sui marciapiedi,
tutto quello che voleva era vivere la sua vita fino in fondo. Quando ci
siamo resi conto entrambi che la fiamma se n'era andata lui mi ha
chiesto di sposarlo, nella speranza che potessimo tornare quelli di un
tempo. Mi ha detto che si sarebbe cercato un lavoro fisso e avrebbe
fatto funzionare le cose ad ogni costo, che mi avrebbe amata come il
primo giorno per tutti i giorni che sarebbero venuti. Per un momento
sono stata tentata dall'accettare, ma poi l'idea che potesse davvero
cambiare per me mi ha colpita e terrorizzata. Potevo davvero
permettergli di rinunciare ai suoi sogni, a quello che voleva, solo per
poter vivere i miei? Ed era davvero possibile ritornare quelli di un
tempo? Purtroppo no, questa era la verità. Gli ho detto di
no, proponendogli di aspettare ancora un po', ma ormai il nostro
rapporto si era incrinato, e nonostante ci amassimo ancora ci siamo
lasciati da amici. Lo siamo ancora adesso, lui vive nell'appartamento
accanto al nostro assieme a suo cugino e alla sua attuale ragazza. Non
mi sono mai pentita della mia scelta, è stata la scelta
giusta, non avremmo mai funzionato per il resto della vita... ma ora mi
chiedo se sia davvero così. Ho mai davvero provato a pensare
che avremmo potuto avere una famiglia? O ho escluso l'idea a priori
solo perché ero spaventata? Quello che provavo per Max
è svanito da tempo, ma se mi fossi davvero lasciata sfuggire
un'occasione importante?
«Viola! Buongiorno, cara» esclama una voce alla mia
destra, e io sussulto, strappata dai miei pensieri.
Mi volto e mi trovo davanti Allyson, la mia vicina del piano di sopra.
Ha cinquantacinque anni e lei e suo marito sono gli inquilini che
vivono nel nostro condominio da più tempo. Hanno preso me e
Maria in simpatia fin da quando ci siamo trasferite e ormai ci trattano
quasi come se fossimo figlie loro, o comunque delle nipoti affezionate.
Ci invitano a cena almeno una volta alla settimana e si preoccupano
sempre per noi. Sono una coppia piuttosto conosciuta nel quartiere e ci
hanno aiutate parecchio ad ambientarci e a fare le prime conoscenze,
anche grazie al loro unico figlio, Peter, che ha qualche anno
più di noi.
«Buongiorno, Allyson, come mai in piedi così
presto?» chiedo, lanciando un'occhiata all'orologio che ho al
polso.
«Oh, nessuna ragione in particolare, stavo solo andando a
buttare via la spazzatura» risponde lei, sollevando appena il
sacchetto nero che ha in mano. «Stai andando
all'ospedale?» chiede poi, sebbene la risposta non sia
difficile da intuire.
«Sì, a dire il vero sono un po' in
ritardo.»
«Allora cosa te ne stai qui a parlare con me, tesoro?
Sbrigati, prima di finire nei guai!»
Mi dà una pacca leggera sulla spalla e io le sorrido
divertita, per poi salutarla e scendere velocemente le scale. Dio,
spero davvero che non ci sia troppa gente in giro o sono fregata.
Esco dal palazzo mentre mi allaccio il casco, poi monto in sella al mio
scooter e metto in modo. Non faccio in tempo a fare due metri che mi
squilla il cellulare dalla tasca. Gemo, esasperata, e lo tiro fuori
giusto per guardare il nome sul display. È Dalila, dovevo
incontrarla fuori dall'ospedale dieci minuti fa per fare colazione
assieme a me e rivedere le cartelle cliniche di alcune pazienti.
Impreco, mentre rifiuto la chiamata, spero che capisca che è
perché sto arrivando.
Mentre percorro la familiare strada tra casa e ospedale un po'
più veloce del dovuto mi rendo conto di avere ancora la
nausea per la sbronza di ieri sera e torno a pensare a quel Leo. Non ho
molta fiducia nel piano di Maria, ma qualcosa, non so cosa, mi
dà la sensazione che lo rivedrò ancora, e che
ieri notte non porterà a nulla di buono. Dio, spero davvero
che non sia così.
*** Spazio Autrici ***
Ed eccomi qui, io, Leslie, piacere, per chi di voi non mi
conosca già e, o, quante virgole... >.<
Beeenebeeene, eccoci qui, questo era il mio primo capitolo (e non
ascoltate quella scema dillà, quando dice che sono
cooosììì brava, perché
restate delusi u.u) (tanto ho ragione io u.u NdLalla).
Viola è la mia protagonista (mahvaaah?!) e personalmente mi
piace come mi sta venendo. La vedo molto diversa da Cleo e Michelle,
molto più matura della prima e più sicura della
seconda. Viola è una che sa quello che vuole, ma anche lei
ha dei fantasmi nell'armadio. Che fantasmi? Lo scoprirete leggendo *W*
sto seminando in giro degli indizi, però, non molto in
questo capitolo ma abbastanza nei prossimi due... magari poi
è tremendamente ovvio e io mi sto illudendo di
creare un sacco di suspense quando tutti hanno già capito
tutto leggendo la descrizione della fic xP
Okayokay, che altro da dire? Per quanto riguarda la stesura di questa
bella storia Lallus è al capitolo 7 e io sono al capitolo 6
e siamo (immagino di poter parlare al plurale, o?) piuttosto
soddisfatte di come sta venendo (sì, parla pure al
plurale... in linea di massima anche io sono soddisfatta! :))
NdLalla). Anche se io sto praticamente improvvisando perché
non ho ancora un piano degli avvenimenti. Beeeeh, dettagli,
l'importante è che riusciamo ad essere puntuali, no? ;D
Sìì, parlo troppo, passiamo a quello che
interessa davvero, ovvero i volti che ho trovato per i miei
personaggiii!!
Viola
Leo
Maria
Okay, è tutto per questa settimana. Continuate a recensire,
mi raccomando, io e Lalla ci impegneremo a rispondervi personalmente il
prima possibile, in più tutti i vostri consigli ci sono
davvero davvero utili. Davvero, eh!
Adesso è davvero tutto xP
loooove, Leslie and Lalla
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** A bad adventure. ***
note ds3 cap 3
3.
A bad adventure
Domenica 29 maggio
Evelyn's Pov.
«Ciao, sono
Amanda, in questo
momento non posso proprio rispondere. Lascia un messaggio dopo il bip,
ma niente emme-emme-esse, o quello che è! Non sono ancora
capace
di scriverli né di leggerli, anche se ho in programma di
farlo.
A presto... Tommy, come si spegne questo coso?»
«Mamma, quante volte ti ho detto di cambiare il messaggio
della
segreteria?» esclamo, un po' irritata un po' divertita,
appena
sento il segnale acustico che mi permette di registrare il messaggio.
«Comunque, lo so che adesso siete a pranzo da Simona e Greg,
però avrei una cosa importante da dirvi. Richiamatemi appena
tornate a casa, okay?» Detto questo, spengo la chiamata e
tiro un
forte sospiro. Dio, spero che non la prendano troppo male. Ma che poi,
parlando razionalmente, faccio un viaggetto che non si può
ritenere neanche un vero viaggio, perché mai dovrebbero
preoccuparsi o robe simili? Lo so, la risposta è
“perché sono i miei genitori”, ma
insomma,
c'è un limite a tutto, e ingigantire le cose fa male e
basta, lo
sanno tutti.
Dopo pochi minuti in cui sono rimasta sdraiata sul letto a fissare il
soffitto, il cellulare inizia a squillare.
Lo afferro senza nemmeno guardare il display e rispondo:
«Pronto?» convinta al novantanove virgola
novantanove per
cento che sia mia madre.
«Ciao tesoro, ti disturbo?»
Ovviamente però, resta sempre quello zero virgola zero uno
per cento.
«Katie!» esclamo poi, presa alla sprovvista.
«No, non
disturbi affatto! Anzi, non ti ho ancora ringraziato come si deve
per...» ma proprio quando sto per finire la frase, Danny si
affaccia alla porta con un sorriso stampato sul viso e mi saluta con la
mano. «...quella volta in cui mi hai salvata da un
interrogatorio
di mamma, ti ricordi, vero? Ecco, ci stavo proprio pensando
prima» e detto questo, grido: «Ciao
Danny!»
«Ben svegliata, principessa» risponde lui.
«Ti porto il caffè a letto? E' di tuo
gradimento?»
Gli faccio un sorriso a trentadue denti. «Sì,
grazie.»
«Ottimo» approva lui, dopodiché richiude
la porta e sento che scende di corsa le scale.
«Ho capito, Ev» fa la mia migliore amica divertita,
dall'altra parte della cornetta, dopo una breve pausa. «E non
ti
devi preoccupare, è stata una sciocchezza.»
Sorrido un poco, grata. «Mi hai chiamato solo per
questo?» chiedo poi, mettendomi a sedere e accavallando le
gambe.
«No» ammette Katie. «Poco fa stavo
pensando che
dovremmo organizzare un addio al celibato grandioso... E mi sono venute
in mente un paio di idee mozzafiato!»
«Oh, Katie, solo tu puoi!» affermo io, gettando la
testa
all'indietro e scoppiando a ridere. «E che idee
sarebbero?»
«Eh no, lo sapevo che me l'avresti chiesto!»
ribatte, come
se mi avesse scoperto con le mani nel sacco. «Non ho alcuna
intenzione di rivelarti anche il più piccolo dettaglio
insignificante!»
Alzo le sopracciglia, sforzandomi di non ridere per non prenderla in
giro. Sappiamo benissimo tutte e due che Katie è una
chiacchierona e mantiene difficilmente un segreto – sempre
che
non sia una cosa seria riguardante la sua migliore amica, ovviamente: i
miei segreti più intimi e importanti li ha sempre mantenuti.
«E chi è che ti ha aiutata?» domando,
con finta nonchalance.
«Oh, nessuno» borbotta lei.
«Andiamo, è praticamente impossibile fare una
festa di questo tipo senza la mano di nessuno»
insisto io, sorridendo tra me e me.
«E va bene, tua madre e Danny mi hanno dato qualche spunto,
però per il resto ho agito io, e giuro che la cosa di
chiamare
degli spogliarellisti vestiti da pompieri l'ho...» ma a
questo
punto si rende conto di quello che ha appena detto, così si
interrompe bruscamente.
Io spalanco gli occhi e strillo: «Oh mio Dio!»
«Oh, NO! Lo sapevo che mi avresti cacciata in trappola,
dannazione! Conosci troppo bene me e la mia stupida
boccaccia!»
protesta lei, disperata.
«Non preoccuparti, Katie, nel più profondo ho
sempre
saputo che avreste chiamato degli spogliarellisti travestiti da
pompieri» cerco di rassicurarla io, ridacchiando.
«Certo, come no.»
«Sì!» ribatto io, sforzandomi di
apparire convincente.
«E da cosa l'avresti dedotto?»
«Perché una volta mi avevi svelato che hai un
debole per i
pompieri. E hai aggiunto che ogni tanto, quando ti senti sola, speri
che scoppi un incendio per averne venti in casa tua.»
«Cristo, perché conosci tutto di
me?!» piagnucola lei.
«Perché sono la tua migliore amica»
rispondo,
«e le migliore amiche si dicono proprio tutto. Specialmente
quando sono ubriache.»
«E va bene, hai vinto tu» borbotta, dopo un po'.
«Comunque questo non lo deve sapere tua madre, hai capito?
Pensa
se venisse a scoprire che anziché un innocuo pigiama party
in un
hotel a cinque stelle...»
«Non voglio sapere cos'hai intenzione di fare
veramente!» la fermo in tempo io.
«Giusto, scusami, sono proprio sbadata» ammette
lei, imbarazzata.
Sorrido dolcemente. «Non preoccuparti, sei perfetta
così.»
«Oh, che tesoro che sei.»
«Per quanto riguarda il fatto di tenere all'oscuro mia madre
tutta questa faccenda, va bene! E poi, secondo te vado a dirle che ho
fatto sesso con uno spogliarellista travestito da pompiere la notte
prima del mio matrimonio?»
«Hai intenzione di andarci a letto?!» sbotta lei,
urlando.
Scoppio a ridere sonoramente. «Ovvio che no, stavo
scherzando!»
«Mmh.»
«Comunque non si sa mai» aggiungo poi, fingendomi
disinvolta.
«Aspetta. Stai scherzando, vero?» si accerta Katie,
con aria seria.
Questa volta scoppia a ridere senza controllo.
«Certo!» rispondo, asciugandomi le lacrime agli
occhi.
«Si può sapere cosa c'è di tanto
divertente?»
chiede Danny, facendo capolino nella stanza con in mano un vassoio
enorme.
Oddio, oltre il caffè c'è anche una brioche al
cioccolato
che riconosco come quella della pasticceria spettacolare sotto casa e
una spremuta d'arancia fresca come piace a me. Sono praticamente sicura
che gli occhi mi siano diventati due stelline che luccicano.
«Niente» mi affretto a rispondere poi, dandomi un
contegno. «Cose da donne.»
Danny annuisce, ridendo. «Aaah, capisco!»
Io gli mostro un sorriso innocente, poi mi rivolgo alla cornetta del
telefono che tengo con la mano sinistra: «Katie, ora scusami
ma
devo andare, una colazione coi fiocchi mi attende!»
«Okay, Ev, ci sentiamo. Buon appetito e salutami quell'angelo
del tuo quasi-marito!»
«Sarà fatto» le assicuro io, infine
interrompo la
chiamata e lancio un'occhiata di ammirazione al mio fidanzato che mi
sta fissando in piedi di fronte a me, con il paradiso tra le mani.
«Danny, sei un amore!» esclamo. «Ma come
diavolo hai fatto a comprare quella brioche...?»
«L'ho presa ieri, e poco fa te l'ho messa in forno
così
sembra appena sfornata» mi risponde lui, avvicinandosi a me.
«Dio, sei magnifico» mormoro io, guardandolo negli
occhi.
«Grazie, ma per una donna magnifica serve un uomo magnifico,
no?»
Scoppio a ridere, poi mi sporgo verso di lui per riuscire a baciarlo.
Lui prima appoggia il vassoio sul comodino, poi finalmente risponde al
mio bacio.
Bene, direi che la giornata sia iniziata splendidamente.
Forza Evelyn, puoi farcela. Si tratta solo di fare un facilissimo
percorso. E poi Danny mi ha assicurato che l'imbragatura è
sicura al cento per cento.
«Bene, ragazzi, prima di tutto io mi chiamo David e vi
spiegherò le cose base prima di iniziare autonomamente la
vostra
avventura. Prima però venite qua che vi metto
l'imbrago.»
Il ragazzo, aiutante del responsabile di nome Mark, si avvicina a me e
mi mostra il coso che mi devo mettere. Lo guardo senza muovere un
muscolo, anche se dentro di me il cuore batte all'impazzata, quasi come
se volesse uscire dalla gabbia toracica.
Ma che cosa ci faccio io qui?
Intanto David appoggia a terra l'imbracatura e mi dice dove devo
infilare le gambe, poi prosegue stringendomela ben salda alla vita.
Il problema è che ora, anziché sentirmi
rassicurata, sono
ancora più terrorizzata. Cosa vuol dire tutta questa
preparazione? Che il percorso è pericoloso? Che se non
avessi
questo coso addosso e cadessi da un albero morirei?
Dio, quanto mai ho accettato di accompagnare Danny a fare questo
dannato percorso del cazzo.
Quando David finisce di mettermela, mi porge un casco enorme e poi
passa a Danny.
Ma che diavolo è questo coso che devo mettere in testa?
Voglio dire, andrebbe bene a un gigante obeso...!
Mamma mia, quanto mi sento in imbarazzo. Cammino che sembro un pinguino
malato. Devo avere un aspetto orribile.
«Perfetto, ora possiamo iniziare» afferma David
dopo un po'.
Mi volto verso Danny e gli lancio un'occhiata spaurita, mentre lui mi
fissa completamente a suo agio, senza capire il mio senso di
disorientamento.
Okay, ammetto che non gli ho mai confessato quanto io sia
maledettamente inganfita. Ma insomma, mica mi aspettavo che mi portasse
a fare una specie di scalata prima di sposarmi! E' che non sapevo che
il mio futuro marito, oltre che amare il rugby, adora anche il brivido
dell'avventura, cosa che io non sopporto – almeno, lo
sopporterei, se solo avessi un minimo di equilibrio e di coraggio!
«Per prima cosa, aprite i vostri moschettoni»
annuncia
David, appoggiandosi a un albero. «Attenzione
però,
perché hanno la ghiera.»
E che diavolo sarebbe la ghiera?
Con un'alzata di spalle, tento di aprirne uno. Ma presto mi accorgo che
non è un normale moschettone, perché è
come se
fosse bloccato.
«Amore, devi fare così» mi riprende
Danny, come se
fossi una bambina che impara a camminare ma che è appena
caduta
per la centesima volta a terra a gambe per aria.
«Okay, ci siamo?» fa David, spazientito.
Annuisco un paio di volte, con poca convinzione, mentre Danny esaudisce
un sicuro: «Sì.»
A questo punto David inizia a fare qualche passo verso la scaletta
attaccata a un albero non molto alto. «Questi segni rossi
alle
corde legate all'esterno della scala segnano che voi dovete
attaccarvici i moschettoni. Mi raccomando però, attaccatene
uno
alla volta, in modo che se per caso uno non dovesse tenere, o che non
fate in tempo ad attaccare anche l'altro, ce n'è sempre uno
attaccato che vi potrà salvare in casi estremi. Sono stato
abbastanza chiaro fin qui?»
Aspetta un momento, che cavolo vuol dire “se per caso uno non
dovesse tenere”?!
Anche questa volta io annuisco intimorita mentre Danny ha un'aria
perfettamente convinta.
«Bene, una volta che avete attaccato i rispettivi
moschettoni,
iniziate a salire, procedendo sempre nel modo che vi ho spiegato prima,
cioè ne staccate uno, lo riattaccate alla corda successiva,
e
poi fate lo stesso con l'altro.»
C'è un attimo di pausa, dopodiché David inizia a
salire
per farci vedere come si deve fare. Una volta sulla piattaforma
attaccata a metà dell'albero, si gira verso di noi per
riprendere a spiegare: «Qui dovete agganciare i due
moschettoni a
queste due corde esterne, in modo da non cadere. Una volta fatto,
iniziare a camminare sul filo, e se avete paura, potete mettere i piedi
a papera in modo da sentirvi più sicuri.»
Camminare sul filo?! Ma che è, impazzito?
«Quando arrivate alla piattaforma successiva, ripetete il
procedimento dei moschettoni alternati fino ad arrivare dall'altra
parte. Come potete vedere, qui c'è la carrucola.»
La che?!
Cristo, mi sento male.
«La troverete sempre alla fine di ogni percorso,
perché
è l'unica che vi permetterà di arrivare a terra.
Ora vi
insegno come si fissa alla corda.»
Una volta che ci ha mostrato come si fa, si lascia cadere a peso morto
attaccato alla corda della carrucola.
E io dovrei fare un salto del genere per poi lasciarmi praticamente
schiantare all'albero successivo? Dio, ma sono completamente fuori di
testa. E pensare che c'è gente che 'ste cose le fa come
sport.
«Non preoccupatevi, c'è la rete davanti all'albero
ed è impossibile farvi male» aggiunge poi.
Per un momento mi sento un pochino meglio.
«Ottimo, ora potete fare un giro di prova. Ma solo sulla
carrucola.»
Ed è esattamente in questo istante che mi sento crollare.
Quando arrivo sulla piattaforma attacco il gancio di sicurezza e
afferro la corda. Bene, sono pronta per buttarmi.
«Forza!» mi incoraggia David.
Annuisco una volta, sperando di farmi coraggio, subito dopo mi lascio
andare e appena realizzo che sono in perfetta caduta libera faccio un
piccolo gemito. Appena vedo la rete vicina, chiudo gli occhi per la
paura. Non voglio schiantarmi, non voglio proprio.
Una volta che sento di aver toccato la rete senza essermi fatta male,
tiro un sospiro di sollievo mentre torno indietro lentamente.
«Dovevi attaccarti alla rete, sennò come pensi di
scendere?»
Giusto, perché non ci ho pensato prima?
Adesso sto penzolando a metà della corda come un sacco di
patate.
Dio, che figuraccia.
Quando tocco finalmente terra, David si allontana salutandoci e
augurandoci “buona fortuna” - il che mi terrifica
completamente –, mi rivolgo a Danny:
«Tesoro»
mormoro, sperando in un inizio ad effetto. «Quale percorso
facciamo, quello verde per bambini?»
«No, sei matta? Mi annoierei a morte, iniziamo con quello
intermedio» risponde lui, dopodiché si avvia alla
scaletta.
Intermedio? Vuol dire che dovrei aver già fatto quello per
principianti, dico bene?
Fantastico, morirò.
Dieci minuti dopo sono sulla prima piattaforma con le mani che mi
sudano da morire.
«Amore, non credi che sia un tantino difficile?»
domando, mentre fisso il filo davanti a me.
Lui scuote la testa. «E' tutta questione di
determinazione»
ribatte, aldilà del filo che ha appena passato in pochi
secondi.
«Giusto» borbotto io.
Va bene Ev, fissa la piattaforma dove c'è Danny. Guardala
bene,
non è poi così lontana, no? Su, ancora qualche
passo.
Appena arrivo a destinazione, lancio un urlo di gioia. Il filo
maledetto è fatto! Ora mi aspetta... il ponte della morte.
«Danny» grido, ansimando. «Questa rete va
salendo...
Ciò vuol dire che ci alziamo di altezza» gli
faccio notare
poi.
«Sì, e allora?»
“Allora vuol dire che se cado da qui mi spacco la testa, Dio
santo!” vorrei scoppiare a urlare.
«Niente» mormoro con un fil di voce, ma lui
è troppo
lontano per sentirlo. Non mi aspetta neanche, quello stronzo.
«Andiamo, è un normalissimo ponte
tibetano!» sento che aggiunge poi.
Okay, Ev, stai calma. Non tremare, così farai traballare la
rete
e sarai ancora più instabile di prima. Puoi farcela, sta
tutto
nella determinazione, l'ha detto anche Danny prima.
Dopo mezz'oretta, arriviamo alla fine del percorso blu.
Io ho il fiatone, le mani e i piedi nelle scarpe bagnati di sudore e la
matita degli occhi che, so già, mi sarà colata
fino a
metà guancia. Così ora non sembro più
un pinguino,
ma un incrocio tra un pinguino con seri problemi mentali e un panda.
«Su, Evelyn» esordisce il mio fidanzato, che
è ormai
a terra e mi sta fissando con impazienza. «Buttati!»
Dai che ce la fai, sei grande, sei arrivata fin qui senza esserti rotta
niente, è un ottimo traguardo, no?! E poi, l'hai fatta anche
prima la carrucola.
Dio, solo che questa volta sono molto più in alto.
Mi aggrappo alla fune e socchiudo gli occhi. D'accordo Evelyn, il
trucco sta nel non guardare giù.
Prima di lanciarmi, faccio un forte respiro di incoraggiamento. Una
volta buttata, grido a pieni polmoni senza contegno.
Cinque minuti dopo, arrivo a terra e mi sdraio sull'erba stravolta.
«Proprio bello» commento, con affanno.
«Adesso però sono un po' stanca, torniamo a
casa?»
«Di già?!» sbotta Danny, incredulo.
«Pensavo di fare quello rosso, io!»
«Okay» affermo io, sorridendo. «Io
però ti aspetto qui.»
«Noo!» replica lui. «Sei arrivata fin
qui, non puoi tornare indietro, sarebbe tutta fatica
sprecata!»
Ma io ho già
sprecato un sacco di fatica per niente, maledizione.
«No, davvero. Sono proprio stanca, e poi non
riuscirò mai
a fare quello rosso. E' per alpinisti esperti» gli faccio
notare.
«Alpinisti?» ripete lui, con una risata divertita.
«Dai, sarà facilissimo, vedrai!»
aggiunge, tirandomi
per il polso.
Io do uno strattone. «Ti ho detto di no!»
Lui si volta verso di me, dapprima irritato, poi assume un'aria
intenerita. «Tranquilla, Ev, prima ho visto una bambina che
l'ha
fatto tutto, e ho sentito che s'è divertita talmente tanto
che
avrebbe voluto rifarlo almeno altre tre volte.»
Gli lancio un'occhiata sospetta. «Quale bambina?»
«Quella di prima con le treccine, l'hai sentita, no, che
parlava di un percorso bellissimo?!»
Oh, sì, è vero. Non faceva che ripetere quanto
era entusiasmante il percorso che aveva fatto con il padre.
Sì, posso farcela. E poi, ho Danny che mi da una mano.
«Va bene» annuncio poi, annuendo.
Danny mi mostra un sorriso del tutto soddisfatto. «Ottimo,
andiamo.»
Appena salgo la scala mi accorgo di quanto sia lunga. Cristo, questo
percorso sarà alto almeno due volte quello blu.
«Tesoro» sento che urla Danny dalla piattaforma.
«Questo è un po' più difficile
dell'altro,
però.»
«Oh, okay» sussurro, sentendomi il cuore in gola.
Quando arrivo al piedistallo, alzo lo sguardo per cercare Danny. E' a
una ventina di metri di distanza e sta attraversando una specie di
scala flottante.
Dio mio, non ce la farò mai.
Ma insomma Ev, se pensi così è ovvio che non ci
riuscirai.
Annuendo, rivolgo lo sguardo verso il prossimo ostacolo che devo
superare, ed è... una specie di corda a forma di trapezio
flottante, e subito dopo ce n'è uno, poi un altro e un altro
ancora.
E qui che diavolo devo fare?!
«Amore» grido, in preda al panico. «Come
devo dare qui?»
«Devi mettere un piede dentro il primo trapezio, l'altro in
quello successivo e andare avanti così fino alla
fine.»
«Ma non sono attaccati praticamente a niente!»
ribatto, urlando istericamente.
«Non preoccuparti, basta aspettare che smettano di
muoversi.»
«Ma non è sicuro!»
«Certo che sì» replica lui, alzando gli
occhi al
cielo. «Se cadi rimani attaccato alle corde di
sicurezza.»
«E se non reggono?» azzardo io.
«E' impossibile!»
Con un forte sospiro, metto il piede – tremante –
all'interno del trapezio più vicino, subito dopo inizio ad
ondeggiare sempre più velocemente, mentre cerco di rimanere
attaccata con un solo piede.
«Danny, questo coso non smette di dondolare!»
«Stai calma!»
«COME CAZZO FACCIO A STARE CALMA CRISTO SANTO?!»
scoppio improvvisamente.
Okay, forse ho esagerato.
«Dio, Evelyn, che cagasotto che sei!» si lamenta
lui.
«Devi solo aspettare di avvicinarti al prossimo. Cerca di
rimanere in equilibrio.»
«Ma io non ho equilibrio!» e detto questo, il piede
sfila
via dalla fune e cado gridando tutta l'aria che ho nei polmoni,
credendo seriamente di morire, ma per fortuna le corde di sicurezza mi
reggono.
«Oddio, Ev, ti sei fatta male?» esclama Danny
preoccupato, rivolgendomi finalmente un po' di attenzione.
«No» sbotto, freddamente. «Ora
però chiama David, voglio scendere da questo fottuto
coso.»
«Ma» ribatte lui. «Se provi ad attaccarti
con le mani e a tirarti su facendo un po' di forza, forse...»
«VAI A CHIAMARE DAVID PORCO CAZZO!»
«Okay, va bene» fa Danny, alzando le mani in segno
di resa.
«Finisco il percorso velocemente e vado da lui.»
Trascorrono quindici minuti – che a me sono sembrati ore
–
in cui rimango con i piedi penzoloni a dondolare come una perfetta
imbecille.
Non ci credo neanche morta che quella bambina è riuscita a
farlo tutto, 'sto cazzo di percorso.
Poi finalmente arriva David, che mi corre incontro insieme a Mark per
un “recupero”, come lo hanno definito loro.
Quando finalmente ho i piedi a terra, cerco di riprendere a respirare
regolarmente.
Non ho neanche voglia di guardare Danny, talmente sono alterata.
Per fortuna che la giornata era iniziata splendidamente, eh.
Una volta che mi hanno tolto tutta questa dannata imbragatura e il
casco, faccio qualche passo verso la macchina dopo aver sussurrato
“grazie, ci vediamo” a David e Max.
Nel passare, sento una voce familiare che grida eccitata:
«Dai,
mamma, vieni anche tu! E' bellissimo qui!» così mi
volto,
e vedo la bambina con le trecce che salta su una piattaforma del
percorso verde.
«Andiamo, Ev, te l'ho già detto che mi
dispiace»
ripete Danny, forse per la milionesima volta, abbandonandosi
sul
divano a peso morto. «Scusami, non volevo farti passare quel
che
hai passato.»
«Okay» faccio io chiudendo la porta d'ingresso di
casa alle
mie spalle, poi dopo una breve pausa trillo: «Però
mi hai
mentito!»
«Ma non credevo che saresti caduta e avessi fatto un
putiferio del genere!»
«Sì ma se tu non mi avessi detto quella bugia, io
non
sarei venuta. Mi hai praticamente costretta a farlo, quel dannato
percorso rosso di merda!»
«Ma era una piccola
innocua bugia!» ribatte lui. «Pensavo che ce
l'avresti
fatta comunque, pensavo che ti servisse solo una spinta in
più
per incoraggiarti!»
«Incoraggiarmi mentendo?»
«Ma non era una cosa così grave, sei tu che hai
ingigantito tutto, dannazione!»
«Ingigantito?! Potevo morire!»
«Morire? Secondo te ero così irresponsabile da
farti rischiare di morire?! Ma fammi il favore!»
«D'accordo, comunque resta il fatto che mi hai mentito, non
sei
stato sincero con me» ritorno al discorso di prima,
incrociando
le braccia.
Lui alza gli occhi al cielo. «Ripeto che non è una
cosa grave.»
«Ma è tutta una questione di principio! Tu mi hai
mentito,
e se non l'avessi fatto non sarebbe successo niente di tutto
questo!»
Ci sono alcuni secondi di assoluta silenzio, io rimango a guardarlo in
cagnesco mentre lui mi fissa negli occhi, con uno sguardo misto tra il
dispiaciuto e l'irritato.
D'un tratto il mio cellulare inizia a squillare, ed io mi sento subito
sollevata.
Quando però vedo che in chiamata è mia madre,
chiudo un
occhio e schiaccio il pulsante verde. «Ciao, mamma.»
«Ciao tesoro! Che è successo?» esclama
lei, a voce alta.
«Ehm, come stai?» tento di cambiare argomento io.
Lo sapevo che avrebbe reagito così.
«Non crederai di scamparla in questo modo!»
«Volevo solo accertarmi che stessi bene» replico
io, sperando che funzioni.
«D'accordo» fa lei, con un sospiro, come se si
stesse
sforzando di rimanere calma. «Io comunque sto bene, tu
piuttosto?
Che cavolo è successo di così
importante?»
«Non è successo niente» mi affretto a
dire io,
cercando di tranquillizzarla. «E' solo una notizia che vi
volevo
dare.»
«Ah» fa lei, «dimmi.»
«Pensavo di partire per Venezia...» inizio, con un
forte
respiro d'incoraggiamento. «...domani» finisco poi,
con un
sussurro.
«DOMANI?!» gridano all'unisono mia madre e Danny.
Io per un momento mi sento completamente spiazzata. «Ehm,
sì, prima parto prima torno, e non voglio perdermi tutti i
preparativi per il matrimonio» aggiungo poi, con un fil di
voce.
«Sì ma domani è troppo...»
comincia mia madre, parlando freneticamente.
Ma poi anche Danny si aggiunge sovrapponendosi per un attimo alla voce
di mia madre: «Come cavolo pensi di...»
E tutto il resto, sono solo pezzi di conversazione qua e là
che sento a stento.
«...neanche esserti informata su...»
«...e il lavoro...»
«...dopo che ti sei...»
«...per quanto tempo credi...»
«...vagando alla cieca senza...»
«...non sai neanche se...»
«...e poi chi...»
«BASTA!» grido dopo alcuni minuti, con la testa che
mi scoppia.
Improvvisamente le voci cessano, e io mi siedo sulla poltrona,
massaggiandomi con la mano libera la tempia sinistra.
Di questo passo impazzisco sul serio.
Dopo pochi secondi di silenzio, affermo prendendo un bel respiro:
«Lo so, è una decisione presa un po' velocemente,
ma sono
sicura di quello che ho scelto. E non ho intenzione di ritardare la
partenza, più aspetto peggio è.»
Danny mi fissa allibito, mentre mia madre dall'altra parte della
cornetta mormora timidamente: «Quindi parti
domani.» Forse
più a sé stessa che a me.
Annuisco, anche se non mi può vedere.
«Esatto» ho poi la forza di dire.
«Okay, non te lo impedirò, piccola mia»
dice dopo
qualche minuto di silenzio. «Perché lo sai che
rimarrai
sempre la mia piccola, vero?»
Sorrido. «Certo che lo so, mamma. Ti voglio troppo
bene.»
«Anche io, tesoro, anche io.»
Quando chiudo la chiamata, Danny mi lancia un'occhiata preoccupata.
«Ne sei sicura?» sussurra poi.
«Sì, certo» rispondo io, con convinzione.
«Da sola?»
«Da sola.»
A questo punto si alza e si avvicina a me, senza smettere di guardarmi
negli occhi.
«Io sarò sempre al tuo fianco» dice,
accarezzandomi una guancia con dolcezza.
«Lo so» affermo io, facendogli un piccolo sorriso.
Poi gli
prendo la mano e intreccio le mie dita con le sue. «Lo
so.»
*** Spazio Autrici ***
Ed eccoci qui, gente, con il terzo capitolo di questa storia :D
Anche se questo chap l'ho scritto meeesi fa (ancora quando era in corso
Ds2!), ricordo come se fosse ieri quel giorno.
Era sera ed ero appena tornata da una specie di gita con mia cugina,
appunto, appassionata di avventure tra gli alberi, e mi aveva convinta ad
andare con lei (quando maiiii!). Ed io che, come Ev, sono una totale
inganfita e ho tipo zero equilibrio (specialmente quando si tratta di
stare appesa a un filo :/), ho fatto la sua stessa figuraccia. Al
percorso intermedio okay, me la sono cavata, ma quando poi mi ha
costretta a seguirla in quello rosso ho toccato il fondo, cadendo
davvero come un sacco di patate, e poooi sono stata salvata da un uomo
volante in perizoma... (sì, un po' come Tarzan!)
Ahahahhahah,
mamma, credo che me lo ricorderò per tutta la vita :))
Così, per farla breve, non ho esitato a mettere per iscritto
la mia esperienza adattandola a Ds3 :DD
Sì, la maggior parte delle cose successe a Ev sono davvero
capitate a me, a parte il punto in qui Ev cade e non riceve aiuto
subito (se fosse successo a me ciao che "porco cazzo" avrei urlato!
Ahahahahahah)
Bieen, dato che non ci sono nuovi personaggi, posso parlare
dell'andamento che ha preso Ds3. Siamo decisamente a buon punto, la mia
socia Linduz prosegue inarrestabile e a marce forzate xP (ieri sera ha
giusto giusto finito il capitolo 6 e iniziato l'8, e a parer mio ha
fatto e sta continuando a fare un lavoro bellissimo) (che esagerata u.u
ndLeslie), mentre a me manca poco per completare il 7 ;D
Mi piace così tanto scrivere Ds3! Principalmente
perché
mi diverto da morire, e poi perché lo vedo molto come uno
sfogo
quando ne ho bisogno... è proprio bello, sì **
Okay, non ho nient'altro da dire, se non ringraziare immensamente chi
ci sta seguendo e chiedervi in ginocchio di recensire.
Non vogliamo un poema di recensione (come quelli che ci lascia quella
pazza di Maria Paola <3), ci vanno benissimo pochissime parole,
davvero. Grazie con tutto il nostro cuore a chi lo farà,
abbiamo
proprio bisogno di sentire nuovi pareri, sia negativi che positivi! :)
Baciii,
Lalla and Leslie
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Long time no see! ***
4. Long
time no see!
Domenica 29 maggio
Viola's Pov.
«Che ore sono?» sbadiglia Dalila accanto a me,
richiudendo la cartella clinica che ha in mano.
«Uhm, l'ultima volta che ho controllato erano le
sette» rispondo io, cercando di non perdere la concentrazione.
«Dio, è domenica! Domenica, Viola...
come fai ad essere così presa dal lavoro?»
Annoto gli ultimi dati sulla tabella che ho davanti e mi scosto una
ciocca di capelli dalla fronte.
«Finito!» annuncio, soddisfatta, contemplando la
pila di cartelle che ho finito di controllare. «Stavi dicendo
qualcosa?» chiedo poi a Dalila, voltandomi verso di lei con
un sorriso.
Lei solleva le sopracciglia. «Ti odio, lo sai?»
«Che esagerata» sbuffo, poi allungo le braccia
verso l'alto per distendere le spalle.
«Non mi farò mai più convincere da te a
farmi mettere di turno di domenica... Domenica! Una mia amica mi aveva
invitato ad una festa, questa sera, ha detto che vuole presentarmi un
uomo troppo bello per essere vero, e io cosa faccio? Le do buca per
passare sei ore in questo cavolo di posto... ti rendi conto che non
è successo niente in sei ore? Nemmeno un
paziente!» geme e posa la fronte sulla superficie del tavolo.
«Odio essere una specializzanda»
Faccio un sorriso comprensiva. So che è dura, mi sento come
lei si sente adesso cinque giorni su sette, ma amo il mio lavoro. Amo
l'idea di poter diventare un medico a tutti gli effetti un giorno, e
cinquanta ore a settimana sono solo il prezzo da pagare per il successo.
«Hai ancora tempo per la festa, al massimo arrivi tardi, non
sarà mica la fine del mondo, no?» osservo,
pratica, raccogliendo le mie cose.
«Mh, hai ragione... ti unisci a me?»
Mi viene fuori un verso strano, tra una risata e uno sbuffo.
«Credimi, ne ho abbastanza di feste... almeno fino all'anno
prossimo» sbotto, chinandomi per raccogliere la matita che
è scivolata giù dal tavolo.
«Uh-oh... è successo qualcosa che non
so?» chiede Dalila, divertita.
«Niente di che, davvero, sto cercando di
dimenticarmene» sospiro.
«Aah! Non puoi lasciarmi così!» protesta
lei.
Faccio un sorriso maligno. «Mi dispiace, cara, ma ora devo
proprio andare... voglio fare un salto per vedere come se la passa
Fiona prima di tornare a casa» annuncio, caricandomi la borsa
in spalla.
«Ti piace davvero quella ragazzina, uh?» osserva.
Mi stringo nelle spalle, poi la saluto ed esco, dirigendomi verso la
stanza di Fiona Riva. Sì, mi sento particolarmente attaccata
a lei, anche se non saprei dire bene perché. Ha sedici anni
ed è incinta, e a causa di un distaccamento parziale della
placenta la fanno restare qui sotto osservazione, anche
perché ormai manca poco al termine della gravidanza. I suoi
genitori l'hanno cacciata di casa e a prendersi cura di lei
è la zia materna... ogni tanto passa anche il padre del
bambino. Un ragazzo sui diciotto anni, uno stronzo, secondo me. Lei lo
ha mollato ma lui continua a gironzolarle intorno, interessato al
bambino. Si vede che ci tiene a loro, ma probabilmente è
troppo orgoglioso per ammetterlo. I suoi genitori non sanno nemmeno che
ha messo incinta una ragazza, ovviamente. Fiona ha deciso di dare il
bambino in adozione, ma non ho ancora conosciuto la coppia che ha
scelto. Brave persone, è quello che si limita a dire lei
quando glielo chiedo. Forse sono troppo attaccata al caso, è
quello che mi dicono sempre gli altri medici, ma qualcosa mi lega a
questa ragazza.
Busso alla porta leggermente esitante, poi entro senza aspettare una
risposta. Fiona si volta verso di me e mi sorride.
«Viola!» esclama, felice di vedermi.
Ha smesso di darmi del Lei quasi subito e gliene sono grata, ci sono
troppe persone che mi danno dei Lei da quando sono un medico e ancora
sembra strano. Mi fa sentire vecchia.
«Ehi, come stai oggi?»
«Tutto okay, al solito... tu?»
«Sto bene anche io» le assicuro, e per un orribile
momento momento mi ritrovo a chiedermi quanto sia effettivamente vero.
Mentre salgo le scale sento il cellulare vibrare nella mia tasca.
Esausta lo tiro fuori e sgrano gli occhi. Ci sono tipo sei messaggi non
letti, tutti di Maria. Mi passo una mano tra i capelli, chiedendomi
cosa mai possa essere successo adesso.
Infilo la chiave nella serratura e apro la porta. Faccio a malapena in
tempo ad entrare che sento qualcuno afferrarmi per il braccio e
chiudere la porta alle mie spalle.
«Ma che...?» esclamo, leggermente irritata.
Maria posa entrambe le mani sulle mie spalle e mi guarda con aria
drammatica.
«Okay, ho una notizia buona e una cattiva»
annuncia, sussurrando come se sia di cruciale importanza che nessuno
per nulla al mondo senta quello che mi sta per dire.
Dio, cos'è quell'espressione da stratega impazzito? Ammetto
che mi spaventa.
«Quella buona, è che ho trovato il tuo
Leo»
Vorrei ribattere sulla categoria della notizia, ma la voce mi manca un
momento. Oh cielo, e adesso? Cosa gli dico, cosa mi invento? Come
diavolo ha fatto a trovarlo per davvero?
«Quella cattiva...»
Non fa in tempo a finire la frase, qualcuno apre la porta del
soggiorno, rimasta socchiusa alle sue spalle, e ci raggiunge in
corridoio. Senza quasi rendermene conto mi ritrovo a fissare il volto
dell'ultima e allo stesso tempo della prima persona che mi sarei mai
aspettata di trovare in casa mia senza preavviso. Un viso talmente
familiare da farmi quasi male.
«MILES!» urlo, con voce acuta, ancora incredula.
«MOOOSS!» fa lei di rimando.
Strilliamo entrambe, eccitate, e un attimo dopo ho mollato a terra il
casco e la borsa e sono corsa ad abbracciare la mia migliore amica. No,
odio questo termine riferito a lei, lei è molto
più di questo. È mia sorella... sì,
è mia sorella. E non solo per il patto di sangue che abbiamo
fatto in terza media, con lei condivido così tanto, posso
solo definirla una sorella. Siamo cresciute insieme, cavolo, mi sembra
anche giusto!
«Miles» mormoro contro la sua spalla, commossa.
«Cristo, quanto tempo» fa lei, stringendomi un po'
più forte.
«Sei stata tu ad andartene» le ricordo, in finto
tono accusatorio.
«Oh, non lo farò mai più, te lo
giuro» ride lei.
Mi scosto per poterla guardare meglio. È sempre la stessa,
infondo: occhi castani, zigomi alti, pelle chiarissima, capelli rossi,
forse portati leggermente più corti. Indossa una maglietta
rossa semplicissima assieme ad un paio di jeans neri.
Camilla Bianco è la mia più vecchia e cara amica.
Abbiamo fatto tutto insieme, dai buchi alle orecchie ai viaggi
all'estero, dalle elementari all'università. Abbiamo
condiviso trucchi, vestiti, amici, camere dal letto, perfino ragazzi...
quando eravamo all'università ci piaceva definirci l'una
l'anima gemella dell'altra, perché pensavamo in simbiosi, ci
piacevano praticamente le stesse cose e allo stesso tempo eravamo
persone completamente diverse. Una sera, dopo essere stata mollata dal
suo ragazzo, Camilla si era arrampicata sul mio balcone e si era
intrufolata nella mia stanza e nel mio letto. L'avevo abbracciata per
ore, incurante del sonno che perdevo, e all'alba lei aveva finalmente
parlato, e le prime parole che erano uscite dalla sua bocca erano state
“Vì, non avrò mai bisogno di un uomo
finché ci sarai tu. Sei tu la mia anima gemella”.
Subito dopo ci eravamo guardate, per un attimo entrambe avevamo
analizzato il significato di quella frase, poi eravamo scoppiate a
ridere come due sceme, nello stesso preciso istante. Avevamo continuato
a definirci così, però, perché
sapevamo che se davvero esistevano, le anime gemelle, noi lo eravamo
l'una dell'altra. Camilla, da quanto tempo non la vedo? Almeno un anno,
da quando è partita per l'Inghilterra per diventare
un'attrice. Abbiamo continuato a scriverci, sì, ma non era
la stessa cosa... ma ora è qui, è qui davanti a
me. Non ci posso credere.
«Voi due... vi conoscete?» chiede Maria,
leggermente allucinata.
Mi volto verso di lei.
«Stai scherzando? Abbiamo passato ogni giorno della nostra
vita assieme fino a compiere venticinque anni!» esclama
Camilla, poi si volta a guardarmi, divertita. «Cavoli,
pensavo di essermi liberata di te!» scherza.
Scoppio a ridere. «Ti piacerebbe, ammettilo!»
Maria ha una strana espressione, una specie di miscuglio tra sorpresa e
puro terrore. La guardo perplessa, lei si limita a stringere le labbra
e spostare lo sguardo su qualcosa al di là della mia spalla.
Mi volto, confusa, e per poco non tiro un altro strillo. È
qui! Leo dell'altra notte! Se possibile ancora più
maledettamente affascinante, nonostante l'espressione alquanto confusa
sul viso. Mi riconosce e accenna un sorriso, che però si
incrina appena non appena vede il braccio di Camilla ancora attorno
alle mie spalle. Ma aspetta, cosa diavolo ci fa lui qui?
«Oh, Viola, quasi dimenticavo!» esclama questa,
lasciandomi andare e raggiungendolo, «lui è
Leonardo, il mio fidanzato».
In un momento il mio mondo cade a pezzi. Letteralmente, mi sembra
perfino di udire i cocci di ciò che ne rimane frantumarsi
sul pavimento. Il bello è che non sono nemmeno sicura di
aver elaborato completamente il senso della sua frase. Lui, Leo, no,
Leonardo... fidanzato. Il suo fidanzato. Oh merda. Ho voglia di
strillarlo, ma riesco miracolosamente a trattenermi. Mi mordo forte il
labbro inferiore e faccio un sorriso tirato.
«Piacere di conoscerti, Leo» squittisco,
porgendogli la mano destra.
Lui annuisce appena, a sua volta probabilmente cercando di capire
quello che è appena successo.
«Piacere mio, Viola.»
Il modo in cui scandisce il mio nome ha qualcosa di strano,
è come se volesse dirmi qualcosa pronunciandolo. Beh, non
sono troppo brava con queste cose, quindi forse è meglio
ignorarlo e basta.
C'è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo.
Più che sbagliato... si tratta di un enorme errore cosmico.
Sono andata a letto con il fidanzato della mia migliore amica. Ubriaca,
e senza sapere che lo fosse, ma comunque, l'ho fatto. E adesso, in
questo istante, ho fatto finta che non sia successo, perciò
se davvero il fatto di non aver avuto idea di chi fosse quando ci ho
dormito insieme è abbastanza per
“scagionarmi”, me lo sono appena giocata.
«Viola, tutto bene?»
Mi conosce troppo bene. Sono davvero, davvero fregata.
«Sì, sono solo sorpresa» mento,
sforzandomi di continuare a sorridere, «uhm, cosa... cosa ci
fate qui?»
In realtà lo so benissimo, Maria sarà riuscita a
contattare Leo e lo avrà invitato qui nella speranza di
farci rincontrare e innamorare a prima vista... o meglio a seconda
vista. Lui però si è portato dietro anche la sua
ragazza, Camilla, ignara di tutto. E ora eccoci qua, in questa triste e
imbarazzante situazione.
«Li ho invitati io!» si intromette Maria, facendo
qualche passo avanti fino a trovarsi al mio fianco, «Leo
è un amico di Alessandro, hai presente? Il nuovo ragazzo di
Sofia»
Ho un vago ricordo di un uomo alto e dalle spalle larghe. Annuisco,
invitandola a continuare.
«Ho saputo che erano appena arrivati in città e,
sai come sono, ho pensato di offrir loro un caffè... a
quanto pare il mondo è piccolo»
Davvero, davvero piccolo.
«Abbiamo un problema» annuncio, chiudendo la porta
della cucina alle mie spalle.
Leo mi guarda, leggermente divertito, e per un momento ho voglia di
scaraventargli addosso una sedia. Non si rende conto della situazione
in cui mi ha cacciata? Come fa a trovare tutto questo comico? Per me
è un incubo.
«Puoi farmi la cortesia di toglierti quel sorrisetto dalla
faccia?» gli dico, nervosa.
Lui alza le mani in segno di resa. Sembra comunque tranquillo, per
nulla turbato dalla mia profonda disperazione. Mi chiedo come mai lo
sia, perché l'idea di aver tradito la sua ragazza con la sua
migliore amica non lo turbi nemmeno un poco.
«Dicevi?»
Scuoto appena la testa, liberandomi dei pensieri superflui.
«Camilla...» mormoro, appoggiandomi al frigo e
chiudendo gli occhi un momento.
«Vi conoscete da quanto...?»
«Da quando avevamo otto anni... è stata
praticamente cresciuta dalla mia famiglia» mi mordo la
lingua, pentendomi subito di quello che ho appena detto, «no,
scusa... non dirgli che te l'ho detto» borbotto, coprendomi
il viso con entrambe le mani.
«Cam non ha avuto un'infanzia molto felice, non è
così?» chiede lui, facendosi serio improvvisamente.
«Te ne ha parlato?»
Si stringe nelle spalle, «Mi ha accennato qualcosa, ma niente
di dettagliato... non le piace affrontare l'argomento»
Annuisco, mordicchiandomi il labbro inferiore. In questo siamo
terribilmente simili.
«Beh, se lei non ti ha detto niente non vedo
perché dovrei farlo io» decido di far cadere
l'argomento, non voglio pensarci in questo momento.
Lui sembra leggermente deluso. «Eri decisamente
più amichevole ieri sera» commenta, ironico.
Socchiudo gli occhi. «Ero ubriaca» gli ricordo,
sottolineando pesantemente la parola.
«Questo spiega molte cose»
Ecco, seconda volta che sento un commento del genere in due giorni.
Dio, sono davvero così orribile? Storgo le labbra, cercando
inutilmente di dimenticare quello che ha appena detto.
«Tu non lo eri?» ribatto, irritata.
«Sì, lo ero» ammette lui, quasi
noncurante.
Giuro, non lo capisco, non ho assolutamente idea di cosa stia
succedendo nella sua testa. Sinceramente dubito perfino sia al corrente
della gravità della situazione.
«Leo!» lo richiamo, spazientita.
Lui solleva le sopracciglia, perplesso. «Viola?»
«Siamo andati a letto assieme!» probabilmente avrei
fatto molta più scena gridandogli questa frase in faccia, ma
sono terrorizzata all'idea che qualcun altro senta il contenuto di
questa conversazione.
«Lo so» annuisce.
E...? Okay, è ufficiale, lo odio. Come si può
essere così impassibili? Come si può trovare
tutto questo divertente? Non gli passa nemmeno per la testa che potrei
raccontare a Camilla tutto di come si sia approfittato dei miei drink
di troppo per portarmi a letto? Okay, non ho nessuna prova concreta di
quest'ultima affermazione, ma Dio sa quanto spero che sia andata
così, dopotutto, e che non abbia davvero trovato questo
individuo interessante per più di un minuto. Okay, ammetto
che è interessante fisicamente. Più che
interessante, è davvero, davvero carino... ma non
è questo il punto, il punto è: tirargli uno
schiaffo adesso sarebbe esagerato?
«Lo sai, bene, e io che temevo che te ne fossi
dimenticato!» esclamo, profondamente sarcastica,
«hai una ragazza! La tua ragazza è la mia migliore
amica! Come puoi non vedere il problema? Come puoi non sentirti nemmeno
un po' in colpa?!»
«È ovvio, no? Sono un robot senza
sentimenti»
Gemo e chiudo gli occhi, «Ti prego, smettila di
scherzare»
Quando lo guardo di nuovo sta annuendo piano, serio, lo sguardo fisso
su un punto indefinito del pavimento, assorto.
«È molto semplice, Viola» dice, dopo
essersi accorto che la mia attenzione è di nuovo su di lui.
«La scorsa notte, la notte che ho passato con te, non ero
affatto il ragazzo di Cam»
Per un attimo cade il silenzio più assoluto, mentre il lo
guardo con l'espressione di qualcuno che è appena stato
schiaffeggiato e non è ancora passato dallo stato di
sorpresa a quello di rabbia, elaborando la cosa.
«Non stavate insieme?» chiedo finalmente, con un
tono stupidamente scettico.
«Ci eravamo lasciati tre giorni prima...» spiega
lui, annuendo.
«Che?»
«...e siamo tornati assieme ieri sera»
Se non avessi giurato a me stessa di non bere mai più in
tutto il resto della mia vita in questo momento avrei già
preso la bottiglia di vino che c'è in frigo e l'avrei
svuotata. Solo l'alcol può aiutare a rendere queste
situazioni meno assurde.
«Quindi, visto che non stavate assieme la notte in cui noi
due siamo andati a letto insieme, non conta come tradimento?»
chiedo, sempre scettica.
«Così è come la vedo»
Non ci vuole un genio per capire che probabilmente è una
scusa che si è costruito da solo, ieri mattina, quando si
è reso conto di aver passato la notte con una completa
sconosciuta. Qualcosa però mi dice che non lo ammetterebbe
mai, che gli piace questa sua immagine di uomo che ha tutto sotto
controllo, che non si lascia prendere dal panico. Al contrario di me,
insomma.
«Allora è vero, sei uno stronzo»
Vedo la sua espressione cambiare all'improvviso, e godo segretamente di
quell'aria di smarrimento che non riesce a nascondere per qualcosa come
cinque secondi. Sono riuscita a scalfirlo, finalmente.
«Scusa?»
«Se credi davvero che quello che hai fatto sia assolutamente
innocente e sei davvero innamorato di Camilla, perché
diavolo hai fatto finta di non conoscermi quando mi hai vista, mezz'ora
fa?!» chiedo, arrabbiata.
Stringe le labbra, a corto di parole: un altro punto a mio favore.
Trattengo un sorriso trionfante. In fondo non ci vuole tanto per capire
come funziona la sua testa, adesso ce l'ho in pugno.
«Benissimo, dato che ora ti sei reso conto che siamo sulla
stessa barca, dobbiamo decidere cosa fare»
Mi guarda perplesso. «Non è ovvio? Ce ne
dimentichiamo... è stato l'errore di una notte e in ogni
caso non c'è possibilità che si ripeta,
giusto?» osserva.
«Oh, puoi contarci» commento.
Lui sembra leggermente offeso da questa affermazione.
«Cos'è, non ti è piaciuto?
Perché da dove stavo io ti posso assicurare che davi tutta
un'altra impressione» ribatte.
Lo guardo malissimo, come osa?
«Dio, non mi ricordo nemmeno come sia successo, come vuoi che
mi ricordi delle tue prestazioni?»
«Allora fidati della mia parola. Ti è piaciuto.
Entrambe le volte»
«Ti diverti a rigirare il coltello della piaga, eh?»
Sorride, senza rispondere, io scuoto piano la testa, mormorando un
“incredibile” piuttosto seccato.
«Allora? Siamo d'accordo?» chiede lui, impaziente,
dopo una pausa di qualche secondo.
Sospiro. Odio questa situazione, l'ho già detto? Come posso
accettare di nascondere una cosa del genere alla mia migliore amica?
Perché non riesco semplicemente a mandare a quel paese
questo individuo e andare a dirle tutto? Forse si arrabbierà
con me, ma realizzerà che sono innocente, no? E anche se non
lo farà saprà la verità. Si merita la
verità.
«Leo, mi dispiace, non...»
«Oh, ti prego!» si alza in piedi di scatto,
arrabbiato, io lo guardo impotente.
«Non posso farle questo...» mormoro.
Improvvisamente sento le sue mani calde sulle mie spalle e sussulto.
«Amo Camilla, la amo con tutto me stesso» sussurra,
guardandomi intensamente negli occhi, tanto intensamente da farmi
rabbrividire. «Non l'avrei mai, mai tradita se lei non mi
avesse fatto soffrire così tanto, e non hai idea di quanto
sono felice di essere tornato insieme a lei. Non portarmela via. Ti
prego»
Stringo le labbra e abbasso lo sguardo, senza riuscire a sostenere il
suo. Sembra sincero, davvero sincero, ma questo non toglie come tenere
il segreto mi fa sentire. Lui mi scrolla appena, per ritrovare la mia
attenzione.
«Ti giuro, Viola, che non farò mai nulla che
farà soffrire te o Camilla in qualsiasi modo. Ho fatto un
casino, ma ho troppa paura di perderla, e mi dispiace... davvero, mi
dispiace. Credimi, ti chiedo solo questo, fidati di me e ti
dimostrerò di poter essere quello giusto per lei»
Qualcosa nella mia testa mi dice che non è a me che deve
fare questi discorsi, ma a lei, dopo averle confessato tutto. Eppure
conosco Camilla, come a quanto pare la conosce lei, e so che non lo
ascolterebbe mai. È uno dei suoi difetti, il rifiuto di
concederti l'opportunità di spiegare. Righi dritto e sei a
posto, fai un errore e non avrai più la sua fiducia, nessuna
via di mezzo, nessun modo di redimersi.
«Non la tradirai più?» chiedo, con voce
flebile.
«Mai più» conferma lui, deciso.
Sospiro, rendendomi conto di avere le mani legate.
«D'accordo allora...» mi arrendo.
Lui sembra rilassarsi appena, mi lascia andare e mi porge la mano
destra. Esito un attimo, poi la prendo e la stringo.
«Grazie» mormora lui.
Devo mordermi la lingua per non mandarlo a quel paese.
Guardo l'acqua scorrere assorta, mentre mi chiedo per l'ennesima volta
se abbia fatto la cosa giusta. So che non è così,
e so anche che per quanto cerchi di convincermi che sto mentendo alla
mia migliore amica perché davvero credo in Leo, in
realtà lo faccio perché ho paura che si arrabbi
con me. Sospiro e mi passo una mano tra i capelli, ignorando il fatto
che sia bagnata. Ormai ho la sensazione di non poter più
tornare indietro. Il danno è fatto. Maledizione.
«Ehi, ti serve aiuto?»
Mi volto e sorrido automaticamente, vedendo Camilla. «Magari,
grazie»
Annuendo lei mi raggiunge davanti al lavandino. «Dammi
istruzioni, capo» esclama.
Scoppio a ridere. «Uhm, vediamo... finisci di lavare questi
pomodori e poi tagliali a cubetti»
«Uh, sei davvero sicura di volermi affidare un arnese tanto
pericoloso?» scherza, guardando il coltello già
pronto sul ripiano accanto al tagliere.
Scuoto la testa, fingendomi esasperata, poi rido di nuovo.
«Beh, è l'unico lavoro che posso affidarti senza
rischiare che ci avveleni tutti» ribatto.
Lei sogghigna. «Tanto so che adori la mia cucina»
«Ceeerto, come puoi non adorare qualcosa che è
dolce, salato, bruciato e crudo allo stesso tempo?» ricordo,
sarcastica.
«Oh mio Dio, mi ricordo! Dublino, quarta liceo...»
«Ultima sera, i nostri ospiti ci hanno chiesto di cucinare
qualcosa di italiano...»
«E tu continuavi a ripetere che era meglio tenersi sul
semplice e fare degli spaghetti al pomodoro...»
«Ma tu “Noo, è troooppo scontato! Molto
meglio fare...” cos'è che era?»
«Agnello alle olive!»
Siamo entrambe piegate in due dalle risate, tanto che per un momento
nessuna riesce ad aggiungere nulla, e il bello è che
più ci immaginiamo la scena più ci viene da
ridere.
«Non mi scorderò mai la faccia di Mr O'Donnel
quando tutto convinto si è messo in bocca tutta la
fetta!» Riprendo, non appena riesco a trovare abbastanza
fiato per parlare.
«E non voleva sputare perché gli sembrava
scortese, così si è allargato il colletto della
camicia, è diventato tutto rosso e mi ha fatto un mezzo
sorriso troppo impegnato a non far vedere che aveva un sapore
orribile» continua lei.
«E tu ti sei chinata verso di me tutta preoccupata e mi hai
chiesto “Oddio, ho fatto qualcosa di
sbagliato?”»
«Certo che sei stata ben stronza però, eh!
Cioè, non hai nemmeno provato a sconsigliarmi di fare
qualcosa di più semplice, hai fatto la tua pasta e poi sei
andata ad annunciare che avevamo deciso di dividerci i compiti e che tu
ti eri incaricata del primo!» esclama, fingendosi offesa,
«nemmeno dividere l'imbarazzo con la tua amica
d'infanzia!»
«Come non ho provato? Sono stata due ore a dirti che era una
cattiva idea, eri tu che non mi ascoltavi!» ribatto, senza
smettere di ridere.
«Dio, non respiro» ansima lei, mentre io cerco di
asciugare le lacrime senza sbavare troppo il trucco.
«Bei tempi» mormoro, dopo un po'.
Lei sorride e annuisce, poi si passa una mano sugli occhi e si volta
per togliere i pomodori dal lavandino e chiudere l'acqua. So quello che
sta pensando, sto pensando la stessa cosa, accade spesso. Uso uno degli
elastici che ho al polso per legarmi i capelli e accendo il fuoco sotto
la pentola piena d'acqua.
«Allora, per che piatto sto dando il mio prezioso
contributo?» chiede lei dopo qualche minuto di silenzio.
«Visto che è tardi ho deciso di fare una pasta.
Pomodoro e mozzarella» spiego, prendendo una confezione di
quest'ultima dal frigo e spostandomi davanti al lavandino per aprirla.
Tolgo il liquido in eccesso, poi prendo un altro tagliere e un coltello
e la taglio velocemente a cubetti, che poi verso nella terrina che ho
preparato prima. Dopo essermi sciacquata le mani, mi volto verso
Camilla e la osservo per un po'.
«Perché hai tagliato i ponti, Miles?»
chiedo, dopo qualche esitazione.
La vedo irrigidirsi appena, ma so che si aspettava la domanda.
«Non ho tagliato i ponti» ribatte, continuando a
darmi le spalle.
«Hai smesso di richiamarmi, di rispondere alle mie mail...
capisco che fossi impegnata, ma davvero fino a questo punto? E sei in
Italia da quanto?»
«Da un po'...» fa lei, vaga.
«Miles» la prego, spazientita.
«Tre mesi» ammette finalmente.
Tre mesi sono nulla in confronto alla vita che abbiamo passato insieme,
ma sento una piccola fitta al petto comunque. Durante tutto questo
tempo mi sono sempre detta che l'Inghilterra era lontana e le chiamate
costavano e gli impegni erano molti, sapevo che alla fine erano scuse,
scuse che inventavo con me stessa per non dover pensare che una delle
persone alle quali tengo più al mondo sembrava quasi volermi
tagliare fuori dalla sua vita. Ma in Italia? Cosa l'ha trattenuta dal
chiamarmi?
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiedo, esitante.
«Moss, ti prego...»
«Vorrei solo...»
«Non hai fatto niente
di sbagliato, okay? Hai fatto tutto maledettamente giusto!»
esclama, lasciando andare di scatto il coltello e portandosi entrambe
le mani al volto.
Sussulto, colta alla sprovvista. «Cosa vuoi dire?»
«La tua vita... sei... perfetta!» sussurra, come se
stesse dicendo qualcosa di terribilmente ovvio.
«Perfetta?» chiedo io, scettica.
«Sì, cazzo! Ragazzi perfetti, voti perfetti...
tutti ti adorano! Stai diventando quello che hai sempre voluto essere e
ti sta venendo bene!» elenca, nello stesso tono di prima.
«Vuoi sapere perché ho smesso di richiamarti? Per
quello che mi hai detto poco prima che partissi!»
«Sii straordinaria» ricordo, poi mi mordo il labbro
inferiore, la sensazione di cominciare a capire cosa ha intenzione di
dire.
«Già, straordinaria. Credevo davvero di poterlo
essere, ma non è durato nemmeno tre giorni. A quanto pare
faccio schifo come attrice, non ho una voce abbastanza potente o una
personalità abbastanza forte... sono arrivata lì
solo per vedere tutti i miei sogni infrangersi» scoppia a
piangere così, davanti ai miei occhi, e io corro ad
abbracciarla senza nemmeno pensarci.
«Non essere sciocca» le mormoro, mentre lei si
abbandona ai singhiozzi contro la mia spalla. «Lo sai che non
è così... hai un talento immenso, Miles, e Dio,
chiunque dica che non hai una personalità abbastanza forte
semplicemente non ti conosce davvero» le afferro le spalle e
la spingo appena indietro per poterla guardare negli occhi.
«Io so chi sei» dico, seria, scostandole i capelli
dal viso, «e so che se pensi davvero anche solo per un minuto
che io sia meglio di te ti sbagli di grosso»
Lei si fa sfuggire un altro singhiozzo, ma le sue labbra si sono
piegate in un mezzo sorriso.
«Sta' zitta» mugugna.
Sorrido anche io. «Tu sta' zitta»
Lei ride e mi abbraccia di nuovo, e io la stringo forte. Sento di nuovo
una fitta al petto, mentre i sensi di colpa mi assalgono.
«Resta qui» le propongo, dopo un attimo di silenzio.
«C-cosa?» chiede lei, disorientata, la voce ancora
rotta dalle lacrime.
«Non ha senso che restiate in un hotel schifoso, io qui ho
una stanza in più»
«Non posso permettermi di pagarti l'affitto»
protesta.
Le do una pacca scherzosa sulla testa. «Sei mia sorella,
scema, non mi devi pagare l'affitto» le ricordo.
Lei scioglie l'abbraccio e si asciuga gli occhi alla meno peggio con le
mani.
«Non sarà per sempre. Ti giuro che non appena
troverò un lavoro contribuirò alle spese della
casa, e non appena avrò abbastanza soldi mi
cercherò un mio appartamento...»
Sorrido. «Ogni cosa al suo tempo»
I suoi occhi si fanno umidi di nuovo, ma questa volta so che non
è per la tristezza. Ci abbracciamo una terza volta, ridendo.
No, Miles, non sei nemmeno lontanamente meglio di me.
*** Spazio Autrici ***
What up, my peeps? ;D
Dunque, Mr Leo è il fidanzato della BFF di Viola! Alzi la
mano chi lo aveva capito! (Secondo me nessuno asd) Allora? Che ne dite?
Sono cattiva? Forse solo un pochino ;) Mi servono le vostre
opinioniiii, perciò recensite pliiiiis **
Siamo a buon punto con la stesura (annuisce) io al capitolo 8 mentre la
mia socia al 7 (che sarà mooolto lungo :DD) e personalmente
sto già programmando un po' di drama.
Sìsì, non sono cambiata di una virgola u.u
Comunque, nel prossimo capitolo avrete un grosso indizio sul passato di
Viola (per chi di voi non stia già sospettando qualcosa) di
cui però non ho intenzione di rivelare assolutamente niente
almeno fino al capitolo 8, perciò siate pazienti e
recensite, perché senza opinioni mi viene il blocco dello
scrittore e non riesco più a scrivere due righe senza
qualche complesso di inferiorità. Perciò,
perfavore, recensiteci! (A coloro che hanno cliccato su "ultimo
capitolo" e stanno sbirciando di cosa si tratta) non serve aver letto
ds e ds2! Potete anche leggerli dopo, ma dateci un motivo per
continuare a pubblicare! Riempite di gioia le nostre piccole vite *^*
(sono d'accordissimo su tutto quello che ha appena detto la mia socia,
e l'ho già scritto nello scorso capitolo x) NdLalla)
Okay, credo di essere stata abbastanza chiara xD
Altro? Ohsì, le fooooto dei personaggini nuovi!
Dalila
Camilla
Finito! Sono stata breve? Non lo so, ma direi di aver detto tutto
quello che c'era da dire. Tanto se ho dimenticato qualcosa lo
aggiungerà la Lalla (mhm, secondo me no :) NdLalla)
Okayokay, ciao!! ^O^
xo, Leslie and Lalla
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Three wishes. ***
note capitolo 5
5. Three
wishes
Lunedì 30 maggio
Evelyn's Pov.
Quello che mi sveglia
è un
raggio di sole scappato dalla tenda che copre la finestra davanti al
mio letto. Lo maledico mentalmente, domandandomi perché,
anziché lui, non è stato Danny a svegliarmi con
un bacio.
Appena guardo l'ora, capisco il motivo: sono le sei di mattina e lui
per andare al lavoro si sveglia alle sette. Con un sospiro, mi giro
sull'altro fianco chiudendo gli occhi. Magari, con un po' di fortuna,
riesco a riaddormentarmi... Ma ovviamente, chiedo troppo. Ormai il
sonno se n'è andato, e un senso di agitazione ha preso il
suo
posto. Finalmente realizzo quello che sto per fare e quello che mi
aspetta.
Oggi è il grande giorno. Oggi prendo il treno e parto per
Venezia, la città dove mia madre biologica mi ha partorita
quando era in vacanza con mio padre. Chissà ora dove
saranno, in
che tipo di casa abiteranno, se avranno fatto altri figli.
Chissà se condurranno una vita felice, senza troppe
preoccupazioni, e avendo realizzato almeno una parte dei loro sogni.
Espiro fortemente, esasperata da questi miei pensieri. Basta. Non ha
senso continuare a formulare ipotesi campate per aria. Adesso devo solo
aspettare che il tempo agisca, e saprò finalmente la
verità. Tutto qui.
Con un lieve sospiro d'incoraggiamento, mi alzo dal letto senza fare
troppo rumore in modo da non svegliare Danny che sta dormendo
profondamente accanto a me.
Okay Evelyn, resta calma.
Scendo le scale velocemente e appena arrivo in cucina preparo la
colazione per me e per il mio fidanzato. Lui beve una tazza di latte
con i cereali, la mattina, mentre io un po' di caffè con due
biscotti. Non uno di più non uno di meno.
Quando ho finito di bere il mio espresso, trovo Danny in piedi
appoggiato allo stipite alla porta, con una faccia uguale a quella che
aveva al funerale di suo nonno, due anni fa.
«Buongiorno» lo saluto, con un sorriso incerto.
«'Giorno» fa lui, senza neanche guardarmi.
Tiro un forte sospiro. «Andiamo, non parto mica per
sempre.»
Lui finalmente alza il capo e mi lancia in tutta risposta un'occhiata
del tutto priva di felicità.
«Sarò qui ancora prima che tu te ne accorga, te lo
prometto» aggiungo, cercando di rassicurarlo almeno un po'.
Annuisce piano. «Okay» borbotta,
«però promettimi che andrà tutto
bene.»
«Andrà tutto bene, non preoccuparti»
dico, alzandomi
dalla sedia e accarezzandogli rapidamente una guancia. S'è
appena fatto la barba, come tutte le mattine. E' sua abitudine farsela
appena alzato, ancora prima di aver fatto colazione.
«Tornerai appena hai conosciuto i tuoi, vero? Non
è che
allunghi di più la vacanza o che so io, vero?»
domanda,
dopo una breve pausa.
«Ma figurati, che senso avrebbe?!»
Danny abbozza un sorriso a mo' di scuse. «Chiedevo.»
«Ti telefonerò tutti i giorni» soggiungo
poi,
stampandogli un bacio sulle labbra. Il suo profumo del solito dopobarba
che io adoro mi invade le narici senza che io possa farci niente. Dio,
quanto mi mancherà.
«Bene» fa lui, circondandomi la vita con le
braccia. «Ti amo, ricordalo sempre.»
«Certo.»
«Sempre!» ripete, alzando un po' la voce, come per
assicurarsi che io abbia sentito.
«Sempre» lo tranquillizzo io, sorridendo un poco.
Finalmente mi restituisce il sorriso, anche se non è del
tutto convinto.
Danny ha insistito sul fatto di comprare un biglietto in prima classe,
così io avrei viaggiato più comoda e lui avrebbe
potuto
stare più tranquillo.
Il mio treno parte alle otto e cinque e si chiama
“Frecciargento”, in teoria ci mette due ore e mezza
per
arrivare alla stazione di Venezia ed io confido nella
puntualità
di Trenitalia.
«Sai già dove andare una volta arrivata,
vero?» domanda Danny.
Io gli stringo la mano per rassicurarlo. «Sì,
tesoro, te
l'ho già detto. Ho prenotato per quattro notti in un albergo
nel
centro di Venezia.»
«Bene» annuisce lui, cercando di apparire
tranquillo. «Quante stelle ha l'hotel?»
«Quattro» rispondo, con un sospiro.
«Ottimo» acconsente poi.
A questo punto cala un silenzio piuttosto teso. Lui si sta sfregando la
nuca nervosamente mentre io mi guardo attorno fingendo una naturalezza
che non mi appartiene.
Dopo qualche minuto, guardo l'orologio digitale appeso davanti al mio
naso. «Sono le sette e cinquanta» gli faccio
notare, con un
timido sorriso.
«Oh, sì» mormora lui, preso in
contropiede. «Porca miseria, è già
arrivata l'ora?»
«Già.»
Mi domando il motivo per cui debba essere così agitato per
la
mia partenza, quando io sono abbastanza tranquilla e serena. Insomma,
non è che starò via per anni, si tratta di,
approssimativamente parlando, quindici giorni.
«Okay, ehm, bene» borbotta lui. Poi, dopo alcuni
secondi di
tentennamento, tira un forte respiro. «Scusami, non so cosa
mi
prende» afferma, guardandomi negli occhi.
Gli sorrido, intenerita. «Non preoccuparti.»
«Bene» ripete, forse per la milionesima volta.
«Ci sentiamo allora.»
«Ovviamente!»
«Telefonami, appena arrivi.»
«Certo.»
«Io ti chiamerò ogni giorno.»
Sorrido, divertita dal fatto che sta cercando di ritardare il momento
in cui ci saluteremo definitivamente. «Okay.»
«In bocca al lupo per la ricerca!»
«Crepi!»
«E... Ev?»
«Sì?»
«Ti penserò sempre.»
Il sorriso che avevo prima si allarga ancora di più,
illuminandomi il volto. «Anche io» rispondo, poi mi
alzo
sulle punte dei piedi e lo bacio con dolcezza.
Infine, mi stacco e afferro il manico della valigia ai miei piedi, poi
alzo lo sguardo verso il binario sette e mi avvio trascinando il
trolley senza voltarmi neanche una sola volta per paura di non riuscire
a partire.
Piove, quella pioggia
fitta che ti
bagna completamente, quella pioggia che ti fa rimpiangere di essere
uscita senza ombrello, quella pioggia che ti impedisce di camminare a
testa alta.
Ho il cappuccio della
felpa alzato e ora del tutto fradicio.
Stringo con forza il
foglietto che ho
tra le dita. C'è scritta una frase, ormai praticamente tutta
scolorita: via dei Roseti, 22.
Una tristezza soffocante
mi opprime il petto, mentre una lacrima silenziosa mi percorre la
guancia.
Quando arrivo davanti a
una casa
piuttosto grande, apro il cancello ed entro, senza neanche suonare al
campanello. Appena ho di fronte la porta d'ingresso, spingo lentamente
la maniglia e faccio il mio ingresso in salotto. Le mie scarpe lasciano
impronte di fango, ma io non me ne curo.
«E'
qui» Una voce maschile mai sentita prima d'ora proveniente
dal piano di sopra.
La raggiungo senza
sillabare parola.
Spalanco la porta di una
camera e
guardo davanti a me steso per terra il corpo di una donna senza vita,
la mano sinistra appoggiata sul petto, la bocca semichiusa e i capelli
castani sciolti.
Socchiudo le labbra,
sconvolta. «E' mia mamma?» ho poi la forza di
chiedere, con un fil di voce.
L'uomo è
seduto sul letto, con la testa tra le mani. Dopo poco annuisce con aria
grave: «E mia moglie.»
Mi avvicino con lentezza
e quando
sono a pochi centimetri da lei, mi inginocchio per vederla meglio. Era
praticamente identica a me: occhi azzurri, capelli un poco
più
lunghi dei miei, viso di una ragazza cresciuta troppo in fretta ma che
allo stesso tempo vorrebbe tornare bambina, le mie stesse labbra
carnose e il mio stesso, medesimo, tipo di naso che sembra cambiare di
forma a seconda dell'angolazione con cui lo guardi.
Ora scoppio
letteralmente in lacrime,
singhiozzando forte, mentre mio padre mi carezza dolcemente la schiena,
cercando di trasmettermi un po' di calore. Ma io ho freddo, tanto
freddo. E dentro di me c'è solo tristezza e insoddisfazione.
E
rabbia, rabbia per averla trovata solo ora, rabbia perché
non
sono riuscita a conoscerla. Rabbia perché, forse, lei era
identica a me e avrebbe potuto capirmi. Rabbia che mi soffoca, mi
impedisce quasi di respirare.
Mi sveglio di soprassalto, sobbalzando e con il fiato corto. Ho la
fronte bagnata di sudore e un leggero tremore alle mani, come se fossi
ancora in quella stanza piena di tristezza, come se fossi ancora in
ginocchio a pochi centimetri dal cadavere di mia madre...
«Ragazza, si sente bene?» la signora sui
sessant'anni
seduta accanto a me interrompe i miei pensieri, con uno sguardo
preoccupato e allo stesso tempo amichevole sul volto.
«Oh... sì» mormoro io, passandomi una
mano tra i
capelli. «Grazie» aggiungo poi, con un sincero
sorriso.
«Si figuri» fa lei, chiudendo la rivista che stava
leggendo
poco fa. «Se c'è qualcosa di cui ha
bisogno...»
«Oh, non si preoccupi» esclamo, colpita dalle sue
attenzioni. «Ho solo fatto un brutto sogno.»
«Ho capito» annuisce, con gentilezza.
«Sta andando in vacanza?»
«Diciamo» rispondo, «sente l'accento
diverso?»
«Sì, ho un sesto senso in queste cose... con
l'età
che ho e con i posti che ho visto, so riconoscere abbastanza facilmente
da dove viene una persona» mi spiega, con l'aria di chi la sa
lunga. «Mi faccia indovinare, lei dev'essere
milanese.»
«Proprio così» ammetto, e dopo una breve
pausa mi
guardo intorno. «Sa per caso dove siamo in questo
momento?»
«Tempo cinque minuti e arriviamo a Venezia.»
«Okay, grazie mille. Allora sarà meglio che inizi
a prepararmi, non vorrei perdere la fermata...»
«Giusto» dice la signora, poi mi saluta
rivolgendomi un sorriso cordiale.
«Arrivederci» faccio io, mentre mi alzo dal mio
posto e afferro la valigia ai miei piedi.
Un quarto d'ora dopo sono in stazione, al bordo della strada, con il
cellulare in mano e lo sguardo alla ricerca di un taxi. Appena ne
avvisto uno a pochi metri da me, sventolo un braccio per chiamarlo.
“Sono appena arrivata a Venezia, adesso sono su un taxi
diretta
verso l'hotel. Viaggio andato bene, ho dormito praticamente tutto il
tempo. Ti chiamo stasera” scrivo poi a Danny, decidendo di
sorvolare l'incubo che ho fatto, dato che si preoccuperebbe da morire
per niente.
Non sono ancora arrivata in albergo, che mi arriva un suo sms di
risposta:
Okay. Allora aspetto la tua
chiamata, mi manchi già
Abbozzo un sorriso fissando il display, ma che si spegne quasi subito
– senza saperne esattamente il motivo –,
dopodiché
chiudo il cellulare. Dopo poco mi perdo a guardare le case fuori dal
finestrino, chiedendomi se i miei genitori ai tempi che furono siano
passati di qui.
«Signora, siamo arrivati.»
Sposto lo sguardo di scatto e mi ritrovo l'albergo di cui ho visto
qualche foto su internet alla mia destra. Dio, è ancora
più bello dal vivo.
«Bene» borbotto al taxista. «Quanto le
devo?»
«Venti euro e cinquanta.»
Una volta che gli ho dato le banconote, esco dall'auto e mi avvio con
gli occhi sgranati verso l'entrata dell'hotel dove c'è una
specie di maggiordomo che aspetta ogni nuovo arrivato con un sorriso
cordiale e qualche parola di benvenuto.
«Buongiorno bella signora» mi saluta con un sorriso
brillante. «Com'è andato il viaggio?»
«Oh, tutto bene, grazie» rispondo, colpita dalla
deliziosa
accoglienza. «Ho prenotato per una persona e già
pagato su
internet ieri sera...» inizio, ma lui mi interrompe
praticamente
subito.
«Certo, venga, l'accompagno dentro» fa lui,
«le
prendo il bagaglio e la guido al suo alloggio» aggiunge poi,
prendendo il trolley con gesti esperti. «Lì
c'è la
reception, se vuole prima fare vedere alla mia collega la ricevuta di
pagamento per avere le chiavi della sua stanza...»
«Okay» e detto questo, mi avvicino al bancone
dell'ufficio
di informazioni dove una donna della mia età circa mi mostra
un
sorriso gentile.
«Buongiorno» la saluto, sorridente, tirando fuori
il
portafogli. «Sono Evelyn Evans, ho prenotato ieri per una
persona
per quattro giorni...»
«Vediamo» dice lei, muovendo il mouse e fissando lo
schermo
del computer che ha di fronte. Pochi secondi dopo, annuncia:
«Sì, ha la stanza numero ventitré. Come
credo che
sappia, qui facciamo una colazione dalle sette di mattina alle dieci e
ogni sera un drink after dinner verso le ventuno con musica dal vivo,
tutto in una stanza a parte.»
Annuisco. «Okay.»
«E queste sono le sue chiavi. Buona permanenza!»
«Grazie mille.»
«Bene, venga pure che le mostro la sua camera» mi
invita poi il ragazzo, piegando leggermente la testa di lato.
Sono sdraiata nella vasca da bagno della mia stanza, la testa
appoggiata sul bordo, i piedi fuori dall'acqua e i muscoli che
finalmente sono in totale relax. Dio, mi sento così bene...
Perché non vado più spesso in ricerca dei miei
genitori?
Lo squillo improvviso del cellulare mi fa sobbalzare un poco. Allungo
la mano e afferro il telefonino che avevo lasciato sul mobiletto prima
di immergermi nell'acqua tiepida che avevo preparato.
«Pronto?» rispondo.
«Evelyn?»
Sospiro, con uno strano sorriso sulle labbra, misto tra l'intenerito e
l'ironico. «Ti avevo scritto che ti avrei chiamato
io.»
«Lo so, ma questa sera sono stato invitato da Riki a
cena»
inizia Danny, in tono di scuse. «E poi avevo voglia di
sentire la
tua voce...»
«Oh» faccio, non sapendo cosa dire. Non che non mi
dispiaccia sentirlo, però diciamo che in questo momento
avrei
preferito continuare a sentirmi sola e prendermi un po' di tempo per me
stessa, per curare il mio corpo, ma anche per meditare.
«Sei in hotel adesso? Cosa stai facendo?»
«A dir la verità sono nella vasca da
bagno.»
«Oh, ho capito... ti sento distante... sei stanca?»
« Sono distante» scherzo io.
«Ah-ah, simpatica!» esclama, sarcastico.
«Comunque, seriamente, sei stanca?»
«Un po'» borbotto, alzando le spalle. «Tu
cosa fai di bello?»
«Di bello niente. Sono appena arrivato a casa e non so
già
cosa fare... fortuna che sta sera sto con visi amici.»
«C'è qualcun altro a casa di Riki?»
domando, tanto per dire qualcosa, mentre mi osservo le unghie dei piedi.
«Dovrebbero venire anche Matt e Hugh... sarà la
nostra
solita serata pizza, birra e pokerino» dice lui.
«Tu invece
cosa pensavi di fare sta sera?»
«Mah, la ragazza alla reception mi ha detto che ogni sera
organizzano una specie di drink dopo cena, magari più tardi
sgranocchio qualcosa e scendo per vedere com'è.»
«Mi sembra una buona idea» afferma Danny.
«E l'hotel è bello?»
«Altroché! E' s-t-u-p-e-n-d-o»
scandisco, tutta contenta. «E le camere sono
curatissime.»
«Bene! Così passi quattro giorni di vera
vacanza!»
«Già» confermo con un sorriso,
immaginandomi i miei
prossimi giorni, come se solo ora realizzassi il fatto che
alloggerò in questo paradiso per quattro notti.
«E domani vai in ospedale per cercare qualche informazione
utile?» mi chiede dopo una breve pausa, cambiando argomento.
«Sì» dico, «non voglio perdere
tempo,
già ci impiegherò una vita per trovare
qualcosa...»
«Immagino. Il trucco è trovare la segretaria
simpatica, così parti avvantaggiata.»
Faccio una risatina. «Allora confido in questo.»
«Dai, ti lascio al tuo bagno rilassante.»
«Okay. Ci sentiamo presto!»
«Certo» conferma lui. «Buona serata e
buonanotte per dopo... Ti amo.»
«Anche io» sussurro, prima di chiudere la chiamata.
Do un'occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio: indosso un
vestito scuro con scollo a V, lungo fino alle ginocchia, che valorizza
le mie curve ma senza farmi sembrare volgare, mentre ai piedi ho un
paio di scarpe nere tacco cinque con un fiocco chic sulle punte. Mi
sono appena messa il lucidalabbra e passata un leggero strato di
mascara sulle ciglia, e i miei capelli hanno una piega decente. Con un
sorriso di soddisfazione, decido che sono pronta per uscire.
Quando entro nella hall di cui mi parlava la ragazza alla reception
oggi pomeriggio, una strana sensazione mi avvolge piacevolmente,
facendomi sentire praticamente subito a mio agio. E' una stanza
piuttosto grande, con un palchetto situato nell'angolo destro, i tavoli
sparsi un po' dappertutto e qualche divanetto qua e là,
mentre
il bancone dove servono i cocktail è sulla sinistra,
già
abbastanza affollato. Eppure sono solo le nove e mezza.
Con una scrollata di spalle, mi avvio verso il bar-men che sta servendo
una coppia di trentenni e mi siedo sul primo sgabello che trovo libero,
accanto a una ragazza che ha l'aria di chi ha iniziato a bere ancora
prima di cenare. Ha dei bellissimi capelli ricci di colore scuro, un
naso leggermente aquilino e due profondi occhi neri.
«Ancora uno» grida questa, alzando il bicchiere
vuoto.
«Non ti sembra di aver bevuto abbastanza per stasera,
Grace?» fa lui, scuotendo la testa con un sorriso sulle
labbra.
«No» sbotta lei, alzando la voce. «E che
si fottano
tutti, io questa sera voglio bere fino a vomitare, hai
capito?»
Reprimo una risata, voltandomi dall'altra parte per non rischiare di
scoppiare a riderle in faccia e quindi mostrarmi scortese –
anche
se è ubriaca e probabilmente domani si ricorderà
poco o
niente di quello che è successo stasera.
«Quello stronzo del cazzo» borbotta, quando il
ragazzo le
versa l'alcolico. «Che se ne vada a fanculo»
aggiunge, dopo
aver dato una lunga sorsata.
Tipico: la causa della sbronza di una donna centra quasi sempre con un
maschio.
«Buonasera» mi dice il bar-men quando ha messo via
la
bottiglia di Martini, con un sorriso gentile. «Vuoi qualcosa
da
bere?»
«Mmh, sì, grazie» rispondo io,
«un Campari soda, per favore.»
«Arriva subito. Dimmi, intanto, sei qui da poco,
vero?»
«Sì, sono arrivata giusto oggi.»
«Oh, capito. Beh, allora piacere, io sono James.»
«Evelyn» mi presento, con un breve sorriso.
Pochi minuti dopo mi sta già porgendo il bicchiere pieno
fino all'orlo di Campari.
«E a te come va con gli uomini?» mi chiede Grace,
dondolando con la testa. «Secondo me sono tutti dei pezzi di
merda, che ne dici?»
Faccio una risatina divertita. «Non tutti, ma la maggior
parte
sì» rispondo con sincerità, senza
neanche
preoccuparmi del fatto che il mio interlocutore è ubriaco
marcio.
«Hai trovato il principe azzurro?»
Faccio spalline, ancora con il sorriso sulle labbra.
«Il mio ex è un bastardo di prima
categoria»
racconta lei, finendo a goccia il suo Martini. «Dovevamo
venire
qui in vacanza insieme, ma l'altro giorno prima di partire l'ho beccato
con la mia migliore amica a letto... che puttana anche lei!»
Alzo le sopracciglia. «Stronzi tutti e due»
commento, spiazzata.
«Guarda, lasciamo perdere. Ormai non ci si può
più fidare di nessuno.»
Annuisco soltanto, senza sapere cosa dire.
«Ma dimmi, quant'è figo il chitarrista? Come
vorrei scoparmelo!» esclama, dopo una pausa.
Getto la testa all'indietro e scoppio a ridere. Subito dopo, sposto lo
sguardo verso il palco, incuriosita. Porca miseria, non l'avevo proprio
notato prima... E' davvero figo. Con la chitarra in mano, qualche
parola canticchiata al microfono che ha davanti alla bocca e lo sguardo
perso chissà dove, ha un che di terribilmente affascinante...
«Oddio, dove sta andando adesso?» sbotta
improvvisamente James, interrompendo i miei pensieri.
Mi giro immediatamente verso Grace e non la vedo più seduta
accanto a me: si sta dirigendo barcollante verso il palco.
«Cosa fa?!» esclama James, strabuzzando gli occhi.
«Vado a fermarla» faccio io, alzandomi e
seguendola,
borbottando “permesso” tra i tavoli e le persone in
piedi
in mezzo alla stanza.
«Ehi tu!» urla Grace, sventolando le braccia a
pochi metri dal palco.
Il chitarrista continua a suonare, imbarazzato.
Gli ultimi metri li percorro correndo, per riuscire a raggiungerla
prima che faccia qualcosa di irrimediabile.
«Grace!»
«Voglio vederti come mamma ti ha fattooooo!»
Oddio.
«Grace» mormoro, avvampando, «vieni
qua» aggiungo, prendendola per un braccio.
Non ho il coraggio di alzare lo sguardo e vedere la faccia del ragazzo.
So solo che ha smesso di cantare e ora sta solamente suonando. Dopo
poco, la musica cessa con qualche accordo finale e la sua voce
maledettamente sexy si propaga per tutta la stanza: «Magari
quando ho finito di lavorare, okay?»
In risposta dal pubblico, una risata generale e subito dopo un applauso
per la canzone che ha appena finito.
Pochi minuti dopo sto sorseggiando il mio drink al bancone con lo
sguardo basso, mentre rivedo nella mia mente la scena. Dio, mi voglio
sotterrare.
«Che figura che le hai fatto fare, eh, Grace?» fa
James, asciugando un bicchiere.
«Ma cosa!» sento che risponde lei, con la voce
malferma.
«Sarà stato sssicuramente felice di ricevere un
complimento!»
Sorrido un poco, ripetendomi che è del tutto sbronza e non
sta
agendo consapevolmente. Ma poi, mi chiedo perché mi stia
facendo
un sacco di paranoie, tanto quello non lo vedrò
più.
E com'è che tutto un tratto mi gira la testa e vorrei che la
musica si fermasse?
Sembra che abbia espresso il primo desiderio della lampada magica,
perché il familiare suono della chitarra smette quasi
immediatamente di diffondersi. Alzo lo sguardo in direzione del palco e
vedo che il ragazzo sta iniziando a mettere via le sue cose.
«Tra quanto chiudete, qui?» chiedo d'impulso a
James.
«Adesso sono le undici, giusto? Solitamente per le undici e
mezza o mezzanotte, dipende da quanta gente si ferma.»
Okay, spero che questa sera chiudano a mezzanotte.
«Bene, ora io andrei in camera!» annuncia Grace,
appoggiando con un tonfo il suo bicchiere vuoto sul bancone.
«Se
hai voglia di venire, James... e anche tu! Com'è che ti
chiamavi? Evelyn?»
Scoppio a ridere, seguita da James.
«Sì, mi chiamo Evelyn. Comunque non vengo, ma
grazie lo stesso per l'invito.»
«Mi dispiace tesoro, ma anche io non riesco a venire.
Sarà
per la prossima notte, okay?» scherza invece James.
«Va bene piccioncini, allora non sciupatevi a vicenda, domani
notte vi voglio interi nel mio letto!»
Oddio, ho le lacrime agli occhi. Questa ragazza la voglio conoscere
quando non è ubriaca marcia.
«Ma buonasera bellezza!»
«Buonasera anche a te, donna!»
Oh mio Dio, è lui. Qui. Non ho la forza di girarmi.
«Hai qualcosa da fare stanotte, bamboccio?»
In tutta risposta lui fa una risata sexy almeno quanto la sua voce.
Dio, ho gli ormoni a mille, sembro una quattordicenne mestruata!
«Vedi tu, comunque io ho la stanza al numero
centotto...»
«Poco sbronza la nostra Grace» commenta James
quando è uscita dalla hall.
Faccio un sorriso forzato, sentendomi un pochino in imbarazzo. Anzi, a
dirla tutta mi sento... osservata, forse?
«Sì, ho notato» afferma lui, sedendosi
accanto a me.
«Mi potresti dare un bicchiere d'acqua, James?»
«Ma certo!»
«Grazie» fa, poi si volta verso di me e mi saluta
con un sorriso gentile.
«Ciao» mormoro io.
«Non ti avevo mai vista prima d'ora» afferma, dopo
una breve pausa, senza smettere di sorridere.
«Sì, ehm, sono arrivata proprio oggi»
borbotto,
sforzandomi di sorridergli a mia volta e imponendomi nella mente di
rimanere naturale. Dopo poco, aggiungo: «James, mi daresti un
altro Campari, per favore?»
Due minuti dopo ci sta porgendo i nostri relativi ordini.
«Comunque io sono Peter, Peter Walker» si presenta
il ragazzo, porgendomi la mano amichevolmente.
«Evelyn» dico, stringendogliela e guardando per un
po' le sue mani, grandi ma assolutamente ben proporzionate.
«Eri già stata a Venezia?»
«A dir la verità no.»
«Come ti sembra qua?» mi chiede poi, dopo aver
bevuto un sorso d'acqua.
«Oh, è un bell'ambiente» affermo,
annuendo con
convinzione. «Anzi, è un bellissimo ambiente. Non
mi
aspettavo così tanto, sinceramente.»
«Beh, sì, è un albergo a quattro stelle
a tutti gli effetti!»
«Sì, hai ragione» confermo io,
«comunque sei
molto bravo a suonare, anche se in realtà non me ne intendo
molto...»
«Non occorre intendersene, tutti hanno un orecchio per
giudicare
e dire la propria opinione in fatto di musica» spiega lui,
facendomi capire che tiene particolarmente a quest'argomento. Dalle sue
parole, dalla sua espressione e dal modo in cui mi parla, comprendo che
la musica gli appartiene davvero. «O almeno, così
è
come la penso io. Per me la musica è una cosa che tocca il
fondo
del mio cuore, è meglio di una medicina, è quella
melodia
che mi addormenta la sera ed è anche quella che mi sveglia
la
mattina appena apro gli occhi e mi rendo conto di aver in mente per
chissà quale motivo una determinata canzone»
inizia a
raccontarmi, «è un bellissimo modo così
semplice e
diretto per comunicare con le persone e per trasmettere a loro qualcosa
di tuo. Ma è anche un modo per rivivere intimamente dei
ricordi
più o meno belli... E quando invece salgo sul palco mi sento
davvero me stesso, posso esprimermi nel modo che voglio senza che le
persone contestino nulla e senza che possano ferirmi inconsapevolmente
o meno.»
Annuisco soltanto, rapita da come mi sta parlando. Non sento neanche il
bisogno di bere il mio drink, anzi, è come se anche un
piccolo,
minimo movimento potesse rompere il contatto che sto avendo con lui.
«Se la musica fosse una donna, l'amerei con tutto me stesso e
in tutti i modi possibili...»
Sembra essere entrato in un mondo tutto suo.
«Scusa, mi sono messo a parlare a vanvera» esclama
poi, scuotendo la testa con imbarazzo.
«Oh, no, mi è piaciuto molto il tuo
discorso» replico io, sincera.
«Sono proprio un libro aperto quando tocchiamo
quest'argomento» ammette, stringendosi nelle spalle.
«Spero
di non averti turbata.»
«Certo che no» lo rassicuro io, con un sorriso
intenerito.
«Tu invece di cosa ti occupi?»
«Sono psicologa» rispondo io, «mi piace
molto stare
in contatto con le persone e capire la loro psiche... Il mondo
è
davvero vario, lo sai?»
«Immagino» annuisce lui, serio.
«Poi va bé, nel tempo libero adoro
leggere...» e
cantare. Perché non glielo dico ora che si è
formata
quest'atmosfera?
«Uh, sì, quando ho tempo anche io leggo qualcosa,
anche se
non sono un vero appassionato. Diciamo che devo trovare il libro
giusto.»
«Ragazzi, tra poco devo chiudere qui, è quasi
mezzanotte» ci interrompe James, cordialmente.
«Oh, giusto» borbotto io, rattristandomi
– senza
sapere esattamente il perché – dentro di me. E'
passato
così veloce il tempo con Peter.
Cinque minuti dopo ci ritroviamo nella hall dell'albergo rendendoci
conto che siamo gli ultimi ad andare via, mentre James di là
sistema le ultime cose.
«E' stato bello parlare con te» fa lui, guardandomi
negli
occhi senza mettermi però a disagio. «Beh,
è tardi
ora. Domani dovrai fare il tuo primo giro turistico a Venezia, quindi
devi riposare! Ti auguro una buonanotte, Evelyn.»
«Grazie mille, anche a te.»
Fa' che lo riveda ancora,
mi ritrovo a pensare mentre salgo le scale che mi portano alla mia
camera.
*** Spazio Autrici ***
Ehilààà! Come vi stanno
andando le vacanze? ^^
Today is my birthdayyy *ò* Sto diventando vecchia xPP
(AUGURI
LALLAAAAAAAAAAAA *suona trombetta* :DDD ndLeslie) (oh, grazie ancora my
darling! <33)
Ohh, questo è il mio ultimo capitolo che pubblicheremo prima
di
fare la classica pausa estiva, dati i nostri periodi di vacanza che
purtroppo non coincidono x) Infatti il prossimo capitolo
sarà
dal POV di Viola e sarà anche l'ultimo, poi ritorneremo con
il
mio capitolo 7 verso fine agosto ^^'' (ma non vi preoccupate,
c'è ancora il mio la settimana prossima :DD ndLeslie)
Bieeen, detto questo, passiamo ai dettagli. Spero che abbiate capito
perché l'ho chiamato letteralmente "Tre desideri" :DD
Mmmh, che altro potrei dire? Be', come avrete sicuramente notato, in
questo chap ci sono molti personaggi nuovi, alcuni di rilevante
importanza.. ma non parliamo troppo sennò finisco per
spoilerare
^^' Aaaallora, che impressioni avete avuto? Dite, dite, che sono
curiosa **
Uaaa, dimenticavo di dirvi! Io e Leslie abbiamo fondato un club Sosteniamo Grace e Maria
:DDD (dato che sia io che lei le adoriamo :P) (ahahahah! *O* ndLeslie)
Spero che la domanda degli iscritti salga u.u
Uh, prima di passare alle immagini dei psg, volevamo darvi una
comunicazione di servizio *sorriso a trentadue denti* Ci siamo accorte
giusto l'altro giorno che rispondere alle vostre recensioni ci
è
un po' difficile xD (o magari sono solo troppo pignola io
>,<)
Più che altro, facciamo fatica a farvi capire chi sta
scrivendo,
allora abbiamo pensato di risolverla scrivendo prima del commento
specifico Lalla:/Leslie: :D E poi vabe', dato che i saluti e
ringraziamenti sono da parte di tutte e due, per quelli parleremo
logicamente in prima persona plurale ;)
In ordine di comparsa, ecco a voi le foto ^^
Grace (my love
:D)
James
Peter
(ok,
mi sono trattenuta fino ad ora dall'esprimere commenti in suo favore...
ma adesso posso urlare quanto sia figo? :D Uh, giusto, per chi
interessasse: lui sarebbe quelgranpezzodifigodi Tyson Ritter
(se avete tempo, cliccate e fatevi un'utile cultura ♥) cantante degli All-American Rejects... oookay,
dopo questo commento non avrete capito che io sono un tantino di parte,
nooo, vero? *megasmile*)
Per quanto riguarda invece la stesura di Ds3, per la vostra gioia siamo
a buon punto ;) Io sono nel bel mezzo del capitolo 9, mentre la mia
socia del 10 :DD (e durante l'estate scriveremo fino a farci
cadere le dita ;D ndLeslie)
Okay, dovrei aver finito c:
Baciii,
Lalla and Leslie
(auguri (ancora) Lalla *^* ndLeslie) (amorrr ♥)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Chemistry. ***
capitolo 6 pronto
6.
Chemistry
Lunedì 30 maggio
Viola's Pov.
Mmh, devo andare al
lavoro... ma che
ora è? Perché ho l'impressione che sia troppo
tardi?
Batto le palpebre un paio di volte e allungo le braccia verso l'alto
per sgranchirle.
«Buongiorno, splendore» dice una voce calda e
maschile da
qualche parte alla mia sinistra. Mi ci vuole un po' per riconoscerla,
così mi volto verso l'uomo appoggiato allo stipite della
porta.
«Dio, e io che speravo che fossi stato un brutto
sogno» sbotto, per poi rigirarmi dall'altra parte.
Leo scoppia a ridere. «Buono a sapersi»
Sbuffo, poi mi metto di nuovo supina, incapace di riaprire gli occhi
per un qualche strano motivo. Non ho dormito molto questa notte,
continuavo a pensare a Camilla e a quello che ci siamo dette ieri sera.
E a Leo, e l'assurda promessa che chissà perché
gli ho
fatto. Le mie labbra si piegano in una smorfia.
«Cos'è quella cicatrice che hai sulla
pancia?» chiede lui ad un certo punto.
Sussulto, rendendomi conto che mentre dormivo la maglietta del mio
pigiama si è sollevata scoprendomi completamente fin poco
sotto
il seno. Irritata, e improvvisamente sveglissima, la copro e mi metto a
sedere.
«Non sono affari tuoi» metto in chiaro, secca,
alzandomi e
superandolo senza degnarlo di uno sguardo per raggiungere il bagno.
«L'avevo notata anche l'altra sera... è piuttosto
grande» continua, imperturbabile.
Alzo gli occhi al cielo, preferendo continuare a non rispondere.
Arrivata in bagno faccio per sbattergli la porta in faccia, ma lui la
ferma con una mano e solleva appena le sopracciglia.
«Ti hanno pugnalata?» scherza.
Lo guardo malissimo. «Non-sono-affari-tuoi» ripeto,
scandendo ogni parola come se non fosse in grado di capire la mia
lingua.
«Ero solo curioso» si giustifica.
Spingo la porta e riesco finalmente a chiuderla, poi giro due volte la
chiave e mi appoggio contro il muro, chiedendomi come mai
all'improvviso la mia casa sembri così piccola. Quando
riapro
gli occhi vedo il mio riflesso scrutarmi attraverso lo specchio intero
sulla parete opposta. Faccio una piccola smorfia, poi sollevo
lentamente la maglietta fino a scoprire la sottile linea bianca e
orizzontale subito sotto le costole, lunga una decina di centimetri. La
sfioro, assorta, mentre il dolore affiora pian piano, mozzandomi il
respiro. Improvvisamente ho il terrore di chiudere gli occhi,
perché so benissimo cosa prenderà il posto del
mio
riflesso allo specchio. Paura, grida, urla, suppliche... e il male
fisico di ogni pugno, ogni schiaffo. Il desiderio di poter solo mettere
una fine a quell'esistenza orribile.
Mi vedo sbiancare e mi copro la bocca con la mano, per poi chinarmi sul
water e vomitare. Sento il sapore amaro della bile in bocca e scoppio a
piangere, maledicendomi per la mia stupida debolezza, per la mia
incapacità di sopportare quei ricordi nonostante tutto il
tempo
passato. Mi siedo e poi mi sdraio a pancia in su sul pavimento,
singhiozzando sommessamente per qualche secondo senza trovare la forza
di smettere. Non appena il mio respiro si è regolarizzato
abbastanza chiudo gli occhi e mi impongo di ricordare a come la mia
vita sia a posto, ora. Nonostante gli alti e bassi ho una famiglia e
tanti amici che mi sono accanto, il lavoro che voglio fare in una
città che amo. Quella bambina terrorizzata non esiste
più, ora è una donna, una donna forte, che ha
bisogno di
alzarsi dal pavimento del bagno e prepararsi per una nuova giornata.
Annuisco, per darmi un po' più di forza, poi mi tiro su e
tiro
lo sciacquone, per poi raggiungere barcollante il lavandino e
sciacquarmi la faccia e la bocca e lavarmi i denti. Mentre mi pettino
mi accorgo di essere ancora un po' pallida, ma preferisco fare finta di
niente e uscire dal bagno.
Faccio appena due passi per poi rendermi conto di quanto sia tutto
stranamente calmo. Aggrottando la fronte entro in cucina e non
trattengo una smorfia quando vedo Leo seduto che sfoglia il giornale,
una tazza piena di caffè in mano.
Oh, caffè. Sì, ho bisogno di caffè.
«Felice di rivederti» mi saluta lui, mentre io
prendo una
tazza e apro il frigo sperando che sia rimasto un po' di latte.
«Mi odi ancora» realizza qualche secondo dopo,
notando la mia mancanza assoluta di intenzione di rispondergli.
Svuoto il cartone del latte nella mia tazza e ci aggiungo un bel po' di
caffè. «Dove sono Camilla e Maria?»
domando,
esausta, dopo un po'.
«Questa mattina verso le sette hanno scoperto un amore comune
per
la fotografia e sono partire per un tour dei paesi nei dintorni alla
ricerca dello scatto perfetto» risponde, senza distogliere lo
sguardo dal giornale.
«Cosa?!» esclamo, aggrottando la fronte.
«E perché tu non sei andato con loro?»
Lui si stringe nelle spalle e non risponde, io bevo due lunghi sorsi di
caffellatte, nella speranza di recuperare un po' di forze.
«Aspetta un momento...» mormoro ad un certo punto,
mentre
un orribile pensiero si fa strada nella mia mente. «Che ore
sono?»
«Le nove e quarantacinque. Ad essere sincero mi sorprende che
tu
l'abbia chiesto solo ora» mi comunica Leo, tranquillissimo.
«Le... stai scherzando?!» ribatto, con voce
strozzata. «Dovevo essere al lavoro quasi due ore
fa!»
«Ho immaginato, perciò ho chiamato e ho detto che
non ti
sentivi bene e saresti rimasta a casa. La ragazza che ha risposto
sembrava molto sorpresa. Immagino che tu non sia un granché
con
il tempo libero, uh?»
Sollevo piano le sopracciglia, sentendo l'irritazione varcare
lentamente la soglia della rabbia. «E perché
avresti fatto
una cosa simile?» chiedo, scandendo ogni sillaba.
«Non avevo voglia di starmene da solo tutto il
giorno»
Sono troppo scioccata per dire o fare o addirittura pensare qualsiasi
cosa. Come se la mattina non fosse cominciata in modo abbastanza
disgustoso, ora devo passare tutto il giorno con questo.
No, aspetta, io non devo fare proprio niente. Per un momento contemplo
l'idea di mandarlo a quel paese, vestirmi in fretta e correre
all'ospedale con una qualche scusa della serie “mi sono
svegliata
con un orribile mal di testa ma ora sto benissimo”.
Sì,
è quello che farò. È la cosa
più giusta da
fare, non voglio passare la giornata con lui, nemmeno morta!
Sì,
è la cosa giusta... non ci riesco. Merda, non so nemmeno io
il
perché. Mentre guardo quel suo insopportabile sorrisetto
divertito mi rendo conto che, forse a causa della crisi di poco fa,
oggi non sarei in grado di lavorare. Magari è una cazzata,
magari è solo un'altra stupida scusa per spiegare il
comportamento idiota che sto avendo negli ultimi giorni.
Chissà
perché, sembra sempre centrare lui.
«Allora, cosa facciamo?» chiede, senza nemmeno
provare a togliersi dalla faccia quell'espressione compiaciuta.
Lo fulmino con lo sguardo, poi, lentamente, mi volto e me ne torno
nella mia camera sbattendo la porta. E tutto perché ho
bevuto
due drink di troppo. E pensare che ero stata perfino eccitata all'idea
di quella festa, venerdì. Che idiota.
Mi lascio cadere a pancia in giù sul letto, contemplando
l'idea
di rimettermi a dormire e recuperare un po' del sonno perduto la scorsa
settimana. Probabilmente mi farebbe anche bene per schiarirmi la mente
o qualcosa del genere, cancellare l'episodio di poco fa...
Sento la porta aprirsi e gemo.
«È successo qualcosa?» chiede Leo,
serio, azzarderei preoccupato.
Non rispondo, chiedendomi come cazzo abbia fatto ad intuirlo. Sono
talmente facile da leggere? Non mi conosce nemmeno... ma
perché
non si fa gli affari suoi, poi?
«Viola?» mi chiama, dopo un attimo di silenzio.
«Piantala» sbotto io, la voce soffocata dal
materasso.
«Che?» fa lui, disorientato.
«Piantala di pronunciare il mio nome in quel modo»
spiego, seccata.
«Che modo?»
«Viooola» lo imito, «come se mi
conoscessi da una
vita, come se sapessi tutto quello che c'è da sapere su di
me.
Piantala, è irritante. Abbiamo dormito insieme una volta,
per
Dio, ed eravamo pure ubriachi»
Scoppia a ridere come se avessi appena detto la battuta del secolo. Ho
seriamente voglia di fargli del male.
«Come sei melodrammatica» commenta.
Finalmente mi tiro su e mi volto a guardarlo, sollevando le
sopracciglia. «E con questo cosa vorresti dire?»
chiedo,
sospettosa.
Si stringe nelle spalle. «Prendi certe cose troppo
seriamente» dice, con noncuranza.
«Certe cose?»
«Sì, è quello che ho detto»
«Ma che ne sai tu?»
«È tutto quello che hai fatto da ieri sera. Dare
più peso del necessario ad ogni cosa»
Emetto una sorta si sbuffo in espressione della mia indignazione.
«Parli del fatto che tu ti sia approfittato di me mentre ero
ubriaca nonostante avessi già una storia con un'altra, o
aspetta, non un'altra, la mia migliore amica!»
Ride. «Okay, primo, non avevo idea che tu e Camilla vi
conosceste, e sinceramente non sapevo nemmeno che sarei tornato assieme
a lei il giorno dopo. Secondo, chi ti dice che non sia stata tu invece
a sedurmi?»
Incrocio le braccia, storcendo il labbro.
«”Sedurti”. Dio, che razza di
parola» sbotto.
«Beh, è la definizione appropriata per quello che
tu hai fatto l'altra sera» si limita a ribattere.
Stringo le labbra, improvvisamente allarmata. «E
sarebbe?»
Lui fa un sorrisetto malizioso. «Non ti ricordi niente,
eh?» ridacchia.
Socchiudo gli occhi e lo guardo male, senza però dire
niente.
Penso che sia già tremendamente evidente che muoio dal
bisogno
di saperlo, non voglio sottolinearlo in alcun modo.
«Diciamo che per convincermi sei arrivata a mostrarmi il tuo
tatuaggio» aggiunge, con lo stesso identico sorriso.
Aggrotto la fronte e porto istintivamente una mano dietro il collo,
dove a diciotto anni mi sono fatta disegnare la farfalla stilizzata che
Camilla mi schizzava ovunque.
Il suo sorriso si allarga appena. «Oh, non quello,
l'altro»
dice, in un tono che dice tutto, poi ride ed esce dalla stanza.
Io avvampo, il viso immobilizzato dall'imbarazzo, mentre nella mia
testa elaboro la conversazione che abbiamo appena avuto.
“L'altro” tatuaggio è un piccolo
specchio di venere
sull'interno della mia coscia destra, fatto per una scommessa. Gemo e
mi lascio cadere all'indietro, nauseata.
Oh, non è finita. Se pensa di poter avere l'ultima parola
così facilmente si sbaglia di grosso. Mi alzo e gli corro
dietro, raggiungendolo in soggiorno.
«In ogni caso» esordisco, «ero ubriaca.
Tu a quanto pare non tanto, visto che ti ricordi tutto»
Lui si volta verso di me e solleva le sopracciglia.
«Cos'è, queste cose si misurano in base al grado
di
sobrietà, adesso?» ribatte.
«Ovvio. Non avrei mai dormito con te da sobria»
metto in chiaro.
Lui fa un sorrisetto ironico. «No, eh?»
Scuoto la testa, rendendomi conto di quanto assomigli ad una bambina in
questo momento. Una bimbetta saccente, di quelle che fanno tanto ridere
gli adulti per la loro testardaggine e le tesi assurde che riescono
chissà come a tenere in piedi. Beh, la mia tesi non
è
assurda, non sarei mai andata a letto con lui da sobria, è
insopportabile.
«Ne sei davvero sicura?» chiede, e perplessa noto
che si sta avvicinando.
«Non mi credi?» ribatto, scettica.
Fa un altro passo, e io indietreggio automaticamente, pentendomi di
averlo fatto l'istante dopo. Non voglio fargli credere che mi stia
mettendo in soggezione, che sia più forte di me. Nessuno
potrà mai abbattermi, non importa quanto blu siano i suoi
occhi
e quanto maledettamente affascinante sia quel sorriso. Scuoto appena la
testa, cercando di cancellare per sempre quello che ho appena pensato. Hai voglia di tirargli un pugno,
mi ripeto, non di
saltargli addosso.
Fa ancora un passo, e poi altri due. Di nuovo sono tentata
dall'indietreggiare, ma questa volta mi è impossibile. Sono
contro il muro, in trappola. Cosa vuole fare, uccidermi? Eppure non
c'è pazzia nei suoi occhi, solo divertimento e malizia, il
sorriso di uno che ha già vinto. Ora è
così vicino
che sento il calore del suo corpo, rabbrividisco. Lui appoggia una mano
sul muro oltre la mia spalla sinistra e avvicina il volto ancora di
più. Sento il suo respiro sulla pelle e mi rendo conto che
quel
blu è davvero irresistibile, non ha senso negarlo.
Il suo sorriso si allarga appena e con la mano libera mi scosta una
ciocca di capelli dal viso e rabbrividisco di nuovo sentendo il calore
della sua pelle sfiorarmi appena la guancia.
«Affatto» mormora, ad un centimetro dalle mie
labbra.
Mi sembra quasi di sentire il suo sapore in bocca. Un buon sapore, devo
ammetterlo, talmente buono da indurmi a chiedermi cosa si provi
baciandolo, e a farmi quasi dispiacere il non ricordarmi niente
dell'altra notte.
«Calmati, Viola» sussurra, pronunciando il mio nome
come
gli avevo vietato di fare ancora. «Non ti sto nemmeno
toccando»
Non lo sta facendo, in effetti, sebbene sia così
maledettamente
vicino. Vorrei che lo facesse, Dio, tanto da mozzarmi il fiato. Voglio
sentire la sua pelle sulla mia, il suo respiro caldo sul collo, le sue
mani tra i miei capelli. Per un momento non capisco più
niente,
e tutto quello che ho attorno svanisce eccetto che per quegli occhi di
quel blu impossibile. Per un momento, mentre ci fissiamo, mi sembra
quasi che il suo sorriso si incrini appena, i suoi occhi si fanno seri
e vi leggo lo stesso desiderio che c'è nei miei.
È un
momento, poi, improvvisamente, fa un passo indietro e scoppia a ridere,
e io ho voglia di sparire sottoterra.
«Ovviamente» annuncia, «non hai bisogno
di essere ubriaca per trovarmi irresistibile»
Riesco miracolosamente a scrollarmi le sensazioni di poco fa di dosso,
almeno in parte, e incrocio le braccia, la sconfitta che mi brucia in
petto.
«Stronzo» sibilo, senza sapere se dovermi sentire
offesa oltre che arrabbiata.
Lui si stringe nelle spalle. «Che ci posso fare?»
Faccio un sorrisetto sarcastico. «Ovviamente niente. Non
c'è rimedio, sei e sarai sempre un idiota» osservo.
Lui scuote appena la testa. «Hai detto stronzo, non
idiota»
«Stessa cosa» taglio corto, infastidita.
«No, affatto» ribatte, «e comunque, ti
brucia solo aver perso»
«Perso? Non era un gioco, e non hai provato niente riguardo
all'altra notte»
«Non toglie il fatto che tu abbia perso»
Dio, lo odio. Lo odio, lo odio lo odio. «Stronzo»
ripeto.
«Sai, più lo dici e meno fa male... potrei anche
abituarmici» commenta.
« Stronzo»
sorrido io, poi lascio la stanza, se possibile più irritata
di com'ero quando sono entrata.
Torno in camera mia e Mi sfilo la maglia del pigiama, abbandonandola
sul pavimento, per poi prendere un reggiseno dall'armadio e indossarlo
appena prima che Leo mi raggiunga. Non sembra affatto imbarazzato nel
vedermi mezza nuda, ha la sua solita espressione noncurante. Sbuffo,
irritata dalla sua completa mancanza di disagio.
«Ti dispiace?» chiedo, infastidita.
«No no, vestiti pure» risponde lui, per poi
sorridermi.
Alzo gli occhi al cielo, incapace di ribattere, poi mi volto di nuovo
verso l'armadio in cerca di qualcosa da mettere.
«Allora, cosa facciamo oggi?» chiede lui, lo
sguardo fisso sulla mia schiena.
Esamino il mio solito paio di jeans, per poi rendermi conto del sole
che spacca le pietre e dell'avere caldo solo al pensare di indossarli.
«Non lo so. Niente. Lasciami in pace, okay?» sbotto.
«Senza offesa, ma se avessi voluto passare la giornata da
solo ti avrei lasciata andare al lavoro, non trovi?»
Mi volto per guardarlo esasperata. «Ma che cazzo vuoi da
me?»
Non risponde, si stringe nelle spalle e si guarda attorno un momento
prima di tornare a fissarmi. Noto i suoi occhi scrutare nuovamente la
mia pancia e mi volto, infastidita, per poi tirare fuori dall'armadio
un vestito di cotone verde pastello, talmente chiaro da sembrare quasi
bianco, dalla vita alta e piuttosto corto.
«È carino» commenta Leo, alle mie spalle.
Sì, anche a me piace, è molto semplice, nel mio
stile, e
in più sembra essere leggero. Lo libero dalla gruccia e lo
infilo dalla testa, per poi liberare i capelli e sfilare i pantaloncini
del pigiama. Dopo aver controllato velocemente il mio aspetto allo
specchio allungo la mano dietro la schiena nel vano tentativo di
chiudere la lampo.
«Aspetta, ti aiuto»
Non faccio in tempo a dire niente che mi ha raggiunta e mi ha sollevato
i capelli con una mano, mentre con l'altra chiude il vestito in un
unico, fluido gesto. Sussulto, quando sento la sua mano sulla nuca.
«È un bel tatuaggio» commenta, sfiorando
il disegno con due dita, «quando l'hai fatto?»
«A diciotto anni» rispondo, arrossendo appena,
colta alla
sprovvista dalla familiarità con cui improvvisamente mi sta
parlando.
Il suo tocco si fa più leggero, tanto da farmi quasi il
solletico. Sento un brivido scendere lungo la schiena e mi schiarisco
appena la voce, voltandomi in modo che mi lasci andare. Lui mi guarda,
per la prima volta leggermente imbarazzato, poi fa un passo indietro.
«Tu non hai caldo?»
Piazza San Marco è affollata, come immaginavo, e il sole
batte forte e bollente sulle nostre teste.
«Sto morendo» annuisco, sbuffando.
Alla fine, grazie anche ad un messaggio implorante da parte di Miles,
ho deciso di portarlo a fare un giro per Venezia, niente di che, solo
una passeggiata in centro, snocciolando qualche informazione sui
monumenti più famosi – e anche quelli meno famosi,
ad
essere sincera – ricevendo in tutta risposta un commento su
quanto sia “secchiona” per il quale lo sto
guardando male
ancora adesso.
«Granita?» propone, «le vendono proprio
lì» aggiunge subito dopo, per poi avviarsi.
Lo fermo, afferrandogli il braccio, e scuoto la testa.
«Qui ci spennano, fidati, conosco io un bel posto»
Mi guarda sospettoso per un attimo, non so perché, ma poi si
stringe nelle spalle con la sua solita aria noncurante e mi segue fuori
dalla piazza e poi per un reticolo tortuoso di stradine che sembrano
farsi sempre più strette. Cammina al mio fianco, rilassato,
sicuramente molto più di me, e si guarda attorno
incuriosito. Io
ho gli occhi fissi sulla strada, che conosco a memoria, lanciandogli
solo ogni tanto qualche occhiata furtiva che lui sembra non notare.
«Sai» esordisce dopo un po' «se volevi
uccidermi potevi farlo tranquillamente a casa tua»
Mio malgrado, sorrido. «Nah, avrei sporcato il nuovo parquet.
Mi
è costato una fortuna» scherzo, e lui sorride a
sua volta.
«Comunque, siamo arrivati» annuncio, per poi
indicare l'insegna scolorita sopra le nostre teste.
« Belleville
Café» legge ad alta voce,
«Pretenzioso» commenta, subito dopo.
«Non lo è affatto, fidati»
Lo precedo attraverso il portone aperto e per il breve viale che
collega il cortile interno dell'edifico alla strada, fino a trovarci
all'interno di una sorta di peristilio: a destra e a sinistra, dietro
le colonne i muri sono occupati da enormi librerie piene zeppe di libri
da consultare o prendere in prestito, mentre sullo spiazzo centrale
tavolini da caffè e divanetti di vimini, ombreggiati da
ombrelloni di tela bianca, in mezzo una fontana che sgorga acqua
limpida. Sul fondo la parte dietro le colonne è chiusa ai
lati e
bloccata da un bancone di marmo sul davanti, dietro il quale si trova
il proprietario, che non appena mi vede si illumina.
«Viola!» esclama, gioioso, alzando le braccia, e io
sorrido, mentre Leo distoglie lo sguardo dalle piante rampicanti
attorno a gran parte delle colonne e che ricoprono i muri dell'edificio
per guardare l'uomo che è uscito dalla porticina laterale e
ci
sta venendo incontro.
Gli do due baci sulle guance, come al solito, poi mi volto verso Leo.
«Lui è Pierre, è un amico dei miei
genitori da
quando si sono trasferiti a Firenze, nonché colui che
è
incaricato di tenermi d'occhio qui a Venezia» presento,
divertita
« Pierre, il
est Leo, le petit ami de Camilla¹»
aggiungo poi, nel mio francese traballante.
«Di Camilla, eh?» chiede lui, con un sorrisetto che
preferisco ignorare.
« Est-ce que tu
as de la place pour nous?²»
chiedo invece, speranzosa.
« Toujours, ma
puce³»
detto questo mi dà un buffetto sulla guancia e mi indica un
tavolino libero accanto ad una colonna.
Io e Leo ci sediamo e ordiniamo due granite al limone, senza
abbandonare il sorriso.
«Sai il francese» osserva lui, divertito, una volta
che Pierre è tornato dietro il bancone.
Mi stringo nelle spalle. «Mio padre è per
metà
francese, e anche mia madre è cresciuta bilingue. Non lo so
molto bene, però... di certo non bene quanto mia
sorella»
Lui appoggia il mento sulla mano e mi guarda interessato.
«Come mai?»
«Ho cominciato a parlarlo più tardi» mi
limito a dire, senza aver voglia di approfondire.
«Tu e tua sorella siete legate?» chiede.
«Sì» dico solamente, senza sapere
cos'altro poter aggiungere.
«Come si chiama?»
«Celie»
Mi è sempre stato difficile definire quello che
c'è tra
me e mia sorella. I nove anni di differenza non hanno mai aiutato a
legare particolarmente, ma siamo comunque fondamentali l'una per
l'altra. Credo che mi abbia sempre vista come figura di riferimento e
la cosa un po' mi fa piacere e un po' mi spaventa. Celie è
la
persona più dolce che abbia mai conosciuto e mi ha insegnato
molto a sua volta su me stessa e sul mio rapporto con le altre persone,
e anche se non siamo il tipo di sorelle inseparabili che si raccontano
qualsiasi cosa e non hanno mai abbastanza l'una dell'altra, siamo per
entrambe tra le persone senza le quali non potremmo vivere. Sorrido
nostalgica e abbasso lo sguardo sulle mie mani unite sul tavolino.
Pierre ci porta le nostre ordinazioni e lo ringrazio, per poi bere un
sorso della mia granita e trattenermi dal sospirare di sollievo quando
il ghiaccio mi scende lungo la gola.
«Tu hai fratelli?» chiedo dopo un po', per rompere
il silenzio.
«Due, un maschio e una femmina, entrambi più
grandi» risponde lui subito.
Annuisco, distratta. È così strano essere qui
assieme a
lui, da soli, a tentare di parlare del più e del meno senza
prenderci a frecciatine come abbiamo fatto fino a poco fa. In qualche
modo innaturale, eppure non mi sento a disagio, qualcosa in lui me lo
impedisce.
«Non abbiamo chissà che rapporto,
però» aggiunge, dopo poco.
«Perché?» chiedo automaticamente, ma
sinceramente interessata.
«Non lo so... nessuno nella mia famiglia è molto
“espansivo”, siamo tutti un po' chiusi. In
più
abbiamo interessi diversi...»
«Interessi diversi» ripeto, perplessa, cercando di
dare un significato alla sua frase.
«Già» commenta lui, con un'espressione
stile “che ci vuoi fare?”
«Non mi sembra un granché come motivo»
osservo, sincera.
Lui fa una smorfia, poi si stringe nelle spalle. «Non abbiamo
mai avuto niente in comune»
«Beh, fate parte della stessa famiglia»
Mi guarda in modo strano, una via di mezzo tra il diffidente e il
divertito, possibile?
«Com'è che improvvisamente sei tanto interessata
agli affari miei?» chiede, sospettoso.
Faccio spallucce, tentando di imitare la sua aria di noncuranza.
«Tu ti sei interessato ai miei tutta la mattina»
gli faccio
notare.
Lui scuote appena la testa, quasi come si fosse aspettato una risposta
del genere. «Ci ho provato, ma tu non mi hai mai dato
risposte
più lunghe di una frase, e nemmeno a tutte le mie
domande»
mi corregge.
«Nessuno ha detto che sei costretto a rispondere»
ribatto
io, più per avere l'ultima parola che perché lo
pensi
davvero. Ovvio, nessuno lo obbliga a rispondermi, eppure ho davvero
voglia di sentirlo parlare un po' di lui. Ho come l'impressione di non
sapere assolutamente niente sul suo conto, mentre lui sa già
molto di più sul mio.
Ci studiamo per qualche secondo, entrambi in silenzio, io seria, lui
sorridendo. Istintivamente mi chiedo cosa abbia tanto da sorridere
tutto il tempo. Davvero, tutto il tempo, è come se ci fosse
una
qualche sorta di molla o qualcosa del genere che impedisce alle sue
labbra di stare dritte per più di un minuto. In
più,
sembrerà stupido, ma ho la sensazione di essere io a
divertirlo.
Dovrei sentirmi offesa? O forse sono solamente paranoica... aspetta, ma
sta ridendo? Si è davvero messo a ridere?
«Cosa?» chiedo, aggrottando appena le sopracciglia.
Lui scuote la testa, mentre le risate si spengono lentamente.
«Niente, niente» mi assicura, senza però
suonare
completamente serio.
Continuo a guardarlo, insospettita.
«Sei buffa» ammette, un momento dopo.
Inclino leggermente la testa di lato e socchiudo gli occhi.
«Buffa?» chiedo, perplessa.
Lui annuisce, poi scoppia a ridere di nuovo. Fantastico, i miei dubbi
sono stati confermati. Ma cosa avrò di tanto buffo, poi?
«Buffa» ripeto, più rivolta a me stessa
che a lui,
come se dire quella parola ad alta voce possa darmi un nuovo
significato per essa, qualcosa che spieghi perché lo ritenga
un
aggettivo tanto adatto a me.
«Non sembri convinta» osserva.
«Buffa?» ripeto ancora una volta io, questa volta
leggermente scettica.
«Le tue espressioni... la tua faccia è davvero, davvero espressiva,
lo sapevi?»
Sollevo appena le sopracciglia. «Espressiva?»
«Sì... non so come potrei spiegarlo in altre
parole»
si china leggermente sul tavolo, grattandosi il mento con l'aria
appassionata e pensosa di chi sta cercando il modo giusto per
descrivere il suo libro o film preferito. «Sul tuo viso
riesco a
leggere tutto quello che senti... non avevo mai conosciuto nessuna come
te. Non hai paura di dire quello che ti passa per la testa, e nemmeno
di dimostrarlo. Sei pura e naturale, e lo trovo straordinario»
Arrossisco appena, sebbene non abbia colto completamente il senso di
quello che sta dicendo. Pura... non mi sono mai sentita pura in tutta
la mia vita, non con tutte le cicatrici che mi ha lasciato il mio
passato. Cerco di mostrarmi noncurante e bevo un altro sorso di granita.
«Dovremmo diventare amici» osserva lui dopo un po',
e per poco non mi strozzo.
«Amici?» chiedo, leggermente scettica.
Lui annuisce e si appoggia di nuovo contro lo schienale della sedia.
«Noi due? Sul serio?»
«Perché no?»
Mi mordo il labbro inferiore, non è ovvio?
«Perché sei venuto a letto con me nonostante
stessi con la mia migliore amica?»
«Non stavamo...»
«Hai capito»
Incrocia le braccia e mi sorride. «Potremmo essere ottimi
amici»
«Dici?»
«Certo. C'è chimica, non la senti?»
« Chimica»
«Com'è che ripeti ogni parola che dico?»
«Non ripeto ogni parola»
«Ne ripeti molte»
«Ripeto quelle che mi sembrano assurde. Chimica, quanti anni
hai, quindici?»
«Cos'è, non si può più usare
la parola “chimica” adesso?»
«Puoi trovarne di migliori»
«Feeling»
«Dio, meglio chimica»
«Non me ne vengono in mente altre...»
Lo osservo in silenzio per qualche secondo, le labbra strette, poi mi
decido a parlare. «Non credo che potremmo essere
amici»
ammetto.
«Perché no?» chiede lui, incuriosito.
«Per Camilla»
«Camilla non è un motivo. Dammi un vero
motivo»
«Lei è un vero motivo, visto che l'hai tradita con
me»
«Non l'ho tradita!»
«Fidati, l'hai tradita. E qualsiasi ragazza sarebbe d'accordo
con
me... in ogni caso, è comunque squallido andare a letto con
una
donna, che per giunta conosci appena, solo per non pensare alla tua ex
dopo soli tre giorni dalla rottura»
Scuote piano la testa, incredulo, ma preferisce non ribattere. Io
finisco la mia granita e poso il bicchiere vuoto sul tavolo,
osservandolo per qualche secondo assorta.
«Okay, fai finta per un secondo che tra noi due non ci sia
mai
stato niente» riparte lui, proprio quando ho cominciato a
pensare
che si fosse arreso. «Potremmo essere amici?»
Incrocio le braccia, cercando di immaginare la situazione, di trovarmi
nell'ingresso di casa mia, accanto a Camilla, e di vederlo per la prima
volta in vita mia. Di cenare tutti insieme e fargli qualche domanda su
di lui e sul suo lavoro.
«Forse» gli concedo, dopo un po'.
«Beh, forse è meglio di niente» osserva
lui, leggermente sorpreso.
Sorrido. «Ma è pur sempre forse»
¹Pierre, lui è Leo, il fidanzato di
Camilla
²Hai posto per noi?
³Sempre, piccola mia
*** Spazio Autrici ***
Hallo!
Come saprete, qui Leslie, pronta a stordirvi con un sacco di
info&news prima dell'inevitabile pausa estiva ^O^
Prima di tutto, però, parliamo del capitolo... come vi
è
sembrato? Personalmente è stato uno di quelli che mi sono
divertita di più a scrivere fino ad ora =P quei due mi
piacciono
tanto... chissà se ce la faranno mai a stare insieme? Mah,
dipende tutto da me e dall'idea geniale che non mi è ancora
venuta xD Comunque, tenete le dita incrociate (yn).
Oddio, cosa dire per primo? Beh, forse la notizia più
importante! Io e Lalla abbiamo cominciato la collaborazione ad un nuovo progetto! *O*
Ohssì, signori e signore, ci siamo messe a scrivere una
nuova
long-fic (che forse diventerà un'altra serie? chi lo sa xD),
e
quando dico nuova intendo proprio nuova nuova. Niente più a
che
fare con DS (che dopo la fine del numero 3 probabilmente non
vedrà seguiti, ma sulla quale penso continueremo a lavorare
scrivendo forse qualche one-shot o missing moments come vi avevamo
annunciato che avremmo fatto già tempo addietro xD
vabbè,
si vedrà). Il titolo della storia (posso dirlo, vero? :D)
(oh,
sì ** NdLalla) è "The Eternity of Our Moments"...
bello,
eh? Non posso dirvi altro xD Ne saprete sicuramente di più a
fine agosto, quando torneremo con ds3, che, non vi preoccupate, non
abbiamo nessuna intenzione di abbandonare! (non adesso, dopo tutta
l'energia che ci abbiamo impiegato u.u) (direi u.u NdLalla)
Attualmente io ho iniziato (beh, ho scritto due righe di numero xD) il
capitolo 14 di ds3 mentre Lalla è all'11 e personalmente ho
intenzione di scrivere e scrivere e scrivere quest'estate. Basta che mi
vengano le idee... *asd (a chi lo dici! Io ho una paura matta di non
riuscire ad avere tempo per farlo, una volta al mare, ed è
per
questo che mi sto sforzando di scrivere adesso che sono ancora a casa!
NdLalla)
Next, cari lettori, vi annunciamo che abbiamo creato un account su facebook per il
nostro account di efp! Vi consigliamo di tenerlo sott'occhio,
perché lo riempiremo di anticipazioni
stuzzicanti sui capitoli inediti e aggiornamenti sui nostri vari
progetti (ohssì ** E se ci saranno delle richieste
particolari
potremmo anche soddisfarle ;) NdLalla)
Il link è questo: CLICK
HERE (miraccomando, per chi ha FB, non esitate ad
aggiuncerci! ;D NdLalla)
Grazie mille agli angeli che ci recensiscono, come al solito, ma anche
a tutti quelli che seguono e preferiscono e ricordano, siete dei
tesori, è solo e solamente per voi che continuiamo a
scrivere
<3
Oh, credo che sia davvero tutto per questo aggiornamento... spero di
"rivedervi" tutti quanti quando torneremo dalle vacanze, belli riposati
dopo tanto mare e relax, e pronti a rimettere le dita sulla tastiera e
aiutarci ancora a migliorare e a tenerci motivate per continuare ad
aggiornare in tempo e scrivere tanto. Ci mancherete davvero troppo,
credetemi *^*
Tanti, tanti baci,
Leslie and Lalla
PS. Se vi va, passate a vedere la tabella che ho creato l'altro giorno
e inserito nella presentazione del mio account EFP ( QUI)!
Ci terrei a sapere cosa ne pensate! :D (NdLalla)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** I'm not alone. ***
capitolo 7
7.
I'm not alone
Martedì 31 maggio
Evelyn's Pov.
Il risveglio della
mattina seguente
è piuttosto strano e soprattutto pensieroso: ho passato
tutta la
notte a fare un sogno dietro l'altro, di persone e situazioni diverse.
C'era Danny, e, con una fitta allo stomaco, ricordo che in uno c'era
anche Peter.
Accendo il cellulare e sul display compare l'ora: sono le otto e mezza.
Dopo poco, senza pensarci una seconda volta, allungo la mano verso il
comodino e mi metto a leggere qualche capitolo del libro che ho
iniziato ieri, Il
profumo delle foglie di limone.
Mi piace molto principalmente perché quando lo leggo mi
sembra
di entrare in un altro mondo, staccandomi così dalla
realtà. Sono solo a pagina centocinquanta, eppure
è
già successa una serie di eventi che mi hanno abbastanza
turbata. Sarà per questo, ma lo trovo davvero stupendo come
libro: ti lascia senza parole, entra nel più profondo e ti
fa
capire davvero fino a che punto può spingersi il genere
umano.
Secondo me i libri non devono solo farti ridere o sognare, devono anche
farti meditare e farti vivere emozioni forti, di qualunque tipo esse
siano.
Alle nove e quaranta sono seduta nell'ultimo tavolino libero rimasto
della stanza dove c'è la colazione, circondata da persone di
tutte le età: ci sono famiglie composte solamente da marito
e
moglie ma alcune anche da due o tre figli.
C'è un po' di chiacchiericcio generale, vecchietti che si
tengono la mano sul tavolo, adulti che parlano animatamente e qualche
bambino che ride o piagnucola, eppure è un bel sottofondo,
perché è come se volesse ricordarmi la bellezza
della
vita che spesso mi dimentico.
«Buongiorno!» esclama un cameriere in divisa,
interrompendo le mie riflessioni. «Desidera?»
«Oh, sì» rispondo, dando una veloce
occhiata al
menù che ho sotto il naso. «Uhm, un cappuccino,
grazie.»
Una volta che ha scarabocchiato l'ordine sul block-notes e si
è
allontanato, mi alzo e mi dirigo verso i tavoli al di là
della
stanza.
Dio, farò colazione qui per altre tre mattine e sono sicura
che ingrasserò almeno di dieci chili.
C'è di tutto, da brioche ripiene a biscotti stracolmi di
cioccolato, da fette biscottate con il burro e la marmellata a panini
con il salame. Senza contare quanti tipi di bevande calde o fresche ci
sono!
«Che paradiso, eh?»
Mi volto di scatto riconoscendo la voce.
«Ciao Grace!» la saluto, con un sorriso che va da
un orecchio all'altro.
«Ci conosciamo?» sbotta lei, ammutolendo.
Faccio una smorfia divertita. «Sì, ci siamo
conosciute
ieri al drink after dinner dell'albergo, ma mi sembra di aver capito
che non ti ricordi nulla, giusto?»
«Oddio, ehm, ho vaghi ricordi» borbotta lei,
massaggiandosi
le tempie, «e a dirla tutta ho ancora un mal di testa
allucinante...»
Le mostro un timido sorriso. Purtroppo non saprei cosa dirle, visto che
non mi sono mai ubriacata così tanto da non ricordare
assolutamente niente.
«Ti prego, non dirmi che ho fatto qualcosa di
sconvolgente.»
«Dipende cosa intendi per
“sconvolgente”» scherzo io.
«Oh cristo! Cos'ho fatto?» sbotta lei, strabuzzando
le palpebre.
«Ehm, hai chiesto a me e a James di venire a letto con te
ieri notte...»
Arrossisce immediatamente. «Ops, scusami, che
figura!»
«Non importa» la tranquillizzo io, con un sorriso.
Poi
aggiungo, chiudendo un occhio: «E poi diciamo che ci hai
provato
anche con il chitarrista.»
«Oddio, quello figo dell'altra sera? Alto, moro, occhi
blu...?»
«Sì, lui» rispondo io, e due secondi
dopo realizzo quello che ha appena detto.
Quello figo dell'altra sera.
Ciò vuol dire che non viene qui a suonare occasionalmente,
dico bene?
«Oh mio Dio, voglio sotterrarmi!» geme lei.
«Chi ha più il coraggio di guardarlo in faccia
ora?»
«Tranquilla, non è rimasto
traumatizzato» la rassicuro, ridacchiando.
«Mamma mia... E lui cos'ha detto? Non saremo
mica...?»
«No, non credo proprio. Ho visto che se n'è andato
e tu sei salita in camera.»
«Okay, per fortuna» dice lei, tirando un sospiro di
sollievo. «Scusa per averti tartassata di domande, ma non
saprei
a chi chiedere sennò...»
«Oh, non preoccuparti.»
«Comunque, scusa la domanda stupida, ma come ti
chiami?»
«Evelyn.»
«Che bel nome» commenta, sorridendomi.
«Beh, è
un piacere, io sono Grace... anche se è una cosa stupida da
dire
anche questa... Che brutto effetto che fa l'alcol, eh?»
Mi aggiro per i lunghi corridoi dell'ospedale Civile di Venezia di cui
mi parlava a casa la mamma, senza sapere dove andare. Insomma, non
è che posso chiedere a infermiere a caso come potrei trovare
il
nome della mia madre biologica, no?
Quando trovo il reparto ginecologia, decido per istinto di voltare a
destra, trovandomi davanti cinque o sei rampe di scale.
Cosa diavolo posso fare?
Improvvisamente il mio cellulare inizia a vibrare e senza neanche
guardare chi mi sta chiamando, premo il tasto di risposta e lo porto
all'orecchio.
«Amore!» è la voce preoccupata di Danny.
«E'
tutta mattina che cerco di sentirti, o non rispondi o non è
raggiungibile...»
«Ops» borbotto, storcendo la bocca mortificata.
«E'
che mi sono svegliata un po' tardi, sono scesa a fare colazione e
subito dopo mi sono preparata per andare all'ospedale, non ho avuto il
tempo di guardare il telefono, onestamente.»
«Okay» fa lui, «ma non è
successo niente di grave, vero?»
Alzo gli occhi al cielo. «No, Danny» sospiro poi.
«Sei troppo ansioso, te l'ho già detto un milione
di
volte.»
«Scusa» sbotta lui.
Seguono un paio di minuti di silenzio in cui lui rimane zitto ed io mi
tormento su cosa potrei dirgli e soprattutto come. Alla fine decido di
andare su un discorso improvvisato.
«Ascolta Danny, non voglio accusarti o che, a me fa piacere
che
ti preoccupi per me, però dico solo che a volte esageri un
po'... insomma, come credi di passare i prossimi giorni se mi accadono
altri imprevisti? Chiami la polizia?»
«No» risponde lui. «Senti,
cercherò di trattenermi se è questo che vuoi, va
bene?»
«Non voglio litigare» metto in chiaro io, quando
sento il suo tono seccato.
«Ma neanche io, però sembra quasi che ti dia
fastidio il fatto che pensi a te giorno e notte...»
«Non mi da fastidio! A volte però diventi un po'..
opprimente, ecco.»
«Okay, allora scusami se ti opprimo» dice lui, con
evidente sarcasmo.
«Te l'avevo detto che non volevo litigare...»
A questo punto Danny resta in silenzio, mentre io, non sapendo
cos'altro aggiungere, mi guardo attorno cercando invano di orientarmi.
Senza rendermene conto mi ritrovo al terzo piano, piano alquanto
diverso dagli altri. I muri sono tutti colorati con farfalle, fiori e
arcobaleni, alle porte sono attaccati adesivi di Topolino e Minnie e
qua e là sono appesi disegni confusi di bambini piccoli.
D'un tratto una voce familiare interrompe lo strano silenzio che s'era
formato, seguita da risate divertite di bambini.
«Evelyn?»
«Sì» borbotto a Danny.
«Mi impegnerò a non farlo più...
seriamente, non voglio essere un peso.»
«Sì» faccio io, lentamente.
«Scusa se sono stato troppo soffocante, non era nelle mie
intenzioni.»
Finalmente scorgo una specie di piazzale dove sono radunate piccole
sedie di tutti i colori che formano un semicerchio. Appoggiati alle
pareti ci sono decine di adulti a braccia conserte, con un'aria strana,
sembrano rallegrati ma in fondo hanno uno sguardo malinconico. Come se
volessero far vedere che tutto è a posto, ma in
realtà
non lo è assolutamente.
Che cavolo...?
«Eveleyn, mi stai ascoltando?!» esclama Danny
dall'altra parte del telefono.
«Sì» gli rispondo. «Non vuoi
essere un peso, ho capito.»
«Ma poi mi sono anche scusato, e ti ho detto che non l'ho
fatto apposta.»
«Okay...»
«Ma cosa sta succedendo?»
«Sono... sono in ospedale.»
«Ah» mormora lui. «E' un brutto momento?
Vuoi che ti richiami più tardi?»
«Sì, forse è meglio» confermo
io. «Ci sentiamo dopo, ciao!»
Dopo aver rimesso il cellulare in borsa, faccio qualche passo verso i
bambini allungando l'orecchio curiosa.
«Cos'è questo?» annuncia una voce
femminile,
accompagnata dal suono giocoso della chitarra. «Attenzione,
grandi e piccoli, può sembrare un semplice cubo colorato, ma
in
realtà all'interno racchiude tanti segreti!»
«Cosa c'è dentro?» chiedono eccitati
quattro o cinque bambini.
«Eh, troppo facile dirvelo così!»
scherza la
ragazza, con un sorriso amichevole. «Ve lo dico solo quando
avrete ballato e cantato con noi! Chi si offre a cantare per
primo?»
Segue un silenzio imbarazzato, in cui i bambini si guardano attorno per
vedere chi è il più coraggioso. Solo una bambina
sui
cinque anni alza la mano gridando: «Vengo
io!»
«Ma certo, tesoro, però serve anche un adulto con
te... forza, genitori, non abbiate vergogna!»
«Quella ragazza là!» sento gridare con
mio grande orrore.
D'istinto faccio un passo all'indietro, sperando di nascondermi dietro
qualche signore. Andiamo, non si starà riferendo sicuramente
a
me, come potrebbe farmi questo?
«Evelyn!» insiste Peter, «vieni a cantare
“Il coccodrillo come fa”!»
Se prima provavo tanta stima e ammirazione nei suoi confronti, dopo
questa i suoi punti bonus sono decisamente diminuiti.
Ma questa me la paga, giuro.
«Eddai, lo sapevo che eri brava a cantare!» esclama
Peter,
una volta che la clown-terapia è terminata e i bambini si
sono
ritirati nelle proprie stanze ancora sorridenti.
«Certo!» sbotto ironica, alzando le sopracciglia.
«In
ogni caso ho fatto una figura pessima, anziché far ridere i
bambini li ho spaventati a morte.»
«Ma cosa dici» ribatte lui, con un sorriso stampato
sulle labbra. «Ti adoravano!»
«Come no» scuoto la testa io, ridendo.
«Comunque
è stata un'esperienza bellissima» aggiungo dopo
una pausa,
facendomi improvvisamente seria.
«Sì, lo è davvero» conferma
lui, sedendosi su
una sedia all'angolo della stanza, mentre gli altri ragazzi ancora
truccati e travestiti mettono via il palchetto improvvisato e i
giocattoli che hanno usato poco fa.
«E' volontariato, vero?»
«Sì» mi risponde Peter,
«alcuni miei amici lo
fanno nel tempo libero e mi hanno chiesto se mi andava di unirmi a
loro. Io ovviamente faccio già il musicista e sono spesso e
volentieri in giro per lavoro, però appena riesco li seguo e
partecipo come posso, suonando e cantando...»
«Che bello» commento io, colpita.
Lui in tutta risposta annuisce, assorto nei suoi pensieri.
«Ma non dev'essere facile» aggiungo, spostandomi un
ciuffo
di capelli dagli occhi, «cioè, è
davvero un bel
gesto far ridere bambini malati, credo che ci si senta felici e utili,
però... da un lato è triste, no?»
«Sì, se guardi la moneta dall'altra faccia lo
è.»
«Posso chiederti una cosa probabilmente un po' scema ma che
purtroppo non ho mai avuto l'occasione per parlarne?»
«Certo.»
«Com'è stare a contatto con questi bambini? Per
l'amor del
cielo, sono bambini come gli altri, ridono, piangono, mangiano e
dormono... ma io mi chiedo come ci si possa sentire quando si passa un
po' di tempo con loro. Ci si sente in colpa? Ci si chiede
perché
proprio a loro poteva capitare? Ci si rende conto di quanto in
realtà sia importante la vita e di quanto noi siamo stupidi
a
lamentarci per sciocchezze?»
«Beh, questo sicuramente. E' triste sapere che non gli rimane
molto da vivere, che in realtà vivono in ospedale
perché
sono gravemente malati e che quindi non sono dei bambini
normali»
inizia lui, dopo essersi preso una pausa per riflettere.
«Però io quando mi relaziono con loro, quando li
faccio
ridere, quando gli mostro la bellezza della musica, quando li vedo
felici e spensierati per qualche minuto della loro vita, mi sento...
vivo. E sicuramente non vado a pensare che la loro felicità
non
è destinata a durare ancora per molto, altrimenti nulla di
questo avrebbe senso.»
«Chiaro» mormoro io, mentre una morsa mi stringe il
cuore.
Dio, non volevo creare quest'atmosfera. Per colpa mia siamo passati dal
ridere a fare riflessioni su quanto sia strana – e ingiusta
– la vita.
«Scusa, non volevo» borbotto dopo un silenzio teso.
Peter alza lo sguardo. «Perché ti scusi?»
«Non volevo... turbarti.»
«Non mi hai turbato» afferma lui, con un breve
sorriso.
«Mi ha fatto piacere rispondere alle tue domande e alle tue
curiosità.»
Senza sapere cosa dire, gli rispondo con un sorriso sincero.
«Allora» esordisce dopo qualche istante,
«non sei andata in piazza S. Marco oggi?»
Non smetto di sorridere, ora però perché sono
contenta e
sollevata che abbia cambiato argomento con tanta naturalezza.
«A dir la verità sono qui per fare una specie di
ricerca.»
«Ah sì?» fa lui, inarcando le
sopracciglia, curioso.
«Posso sapere di cosa? Sempre se ne vuoi parlare.»
«Sì» rispondo io, senza pensarci due
volte. Non so
perché ma sento che confidarmi con lui e parlargliene sia la
cosa migliore da fare. E poi, a qualcuno dovrò pur dirlo,
no?
«Sto... sto cercando il nome di mia madre» inizio,
non
sapendo bene con che parole cominciare. «Mi ha partorita qui
a
Venezia ventisei anni fa...»
«Oh, ho capito» commenta lui, annuendo interessato.
Mi
guarda con attenzione, come se non volesse perdersi una parola, ma non
è quel tipo di interesse che ti opprime e che ti fa a
sentire a
disagio perché hai paura di dire anche una sola lettera
sbagliata o inadatta, no, tutt'altro.
Mi volto verso un bambino sui cinque anni in braccio al padre che ride
spensierato e per un momento vorrei essere lui, senza pensieri, senza
preoccupazioni, una vita intera davanti e tanta voglia di viverla
appieno, ma poi torno alla realtà: io sono io, con i miei
problemi, la mia infanzia, la mia adolescenza e i miei ventisei anni di
vita. Nessun altro al mondo ha vissuto le mie stesse esperienze, e per
questo, anche solo per il fatto di essere qui dove sono, devo
ringraziare soltanto me stessa.
«Scusa» sbotto, scuotendo la testa come per
scacciare i
pensieri che mi sono ritrovata a fare. «Mi sono persa
via.»
«Figurati.»
«Dicevo, sono a Venezia per cercare i nomi dei miei genitori
biologici» continuo poi, quasi per fare chiarezza nella mia
mente. «Ho sempre desiderato conoscerli, fin da quando ho
scoperto di essere stata adottata.»
«Te l'hanno detto da poco?»
«No e sì» rispondo io, «no
perché
quando i miei me l'hanno detto io avevo quattordici anni, e
sì
perché il fatto che la mia mamma biologica mi ha partorita a
diciassette anni a Venezia me l'hanno detto pochi giorni fa, al che ho
deciso di partire. E' stata una decisione abbastanza immediata a dirla
tutta.»
«Già... E come l'hanno presa? Voglio dire, partire
praticamente da un giorno all'altro per Venezia...» fa, senza
finire la frase in modo da fare parlare me.
«Sì, non se l'aspettavano» confermo io,
«anche
se hanno sempre saputo che avevo intenzione di conoscerli, un
giorno.»
Okay, se devo essere sincera sono piuttosto sollevata per il fatto che
non ha espresso commenti a proposito dell'età di mia madre.
Odio
quando magari inarcano le sopracciglia o spalancano la bocca e sbottano
un “davvero?!”, della serie “oddio, che
scempio!”. Insomma, non credo che lei ne sia rimasta
contenta,
anzi, probabilmente è una delle cose che rimpiange di
più
nella vita. In ogni caso sono convinta che nessuno a questo mondo sia
uno stinco di santo e non è giusto criticare gli altri.
«Posso farti una domanda un po' intima?»
«Dimmi.»
«Come ci sei rimasta quando hai scoperto di essere stata
adottata?»
«Oh, è stato abbastanza strano»
rispondo, ricordando
quel pomeriggio piovoso di settembre. «Ero appena tornata dal
mio
primo giorno di liceo e dal momento in cui ho messo piede dentro casa
ho subito notato che c'era un'atmosfera diversa. Mio papà
era al
solito, mi ha salutata con un sorriso enorme sulle labbra, mentre mia
mamma era un po' taciturna e aveva un'aria terribilmente seria. Io ero
tutta eccitata per la prima giornata in una nuova scuola con professori
e compagni di classe nuovi e vedere mia madre così mi ha un
po'... scossa. Sì, forse “scossa”
è il
termine più adatto.»
«Beh, sì, immagino» annuisce lui, con le
palpebre socchiuse.
«Abbiamo iniziato a pranzare, io ho raccontato come avevo
passato
la giornata e poi, alla fine, mia mamma ha esordito un
“dobbiamo
dirti una cosa”, il che, se devo dirti la verità,
mi ha
fatto preoccupare all'istante» racconto io, rivedendo nella
mia
mente la faccia di mia madre di dodici anni fa come se fosse ieri.
«Ha cominciato il discorso dicendo che hanno voluto aspettare
il
più possibile, e che quando si sono resi conto praticamente
all'improvviso che io ero ormai cresciuta e stavo iniziando a
frequentare la scuola superiore hanno deciso di dirmelo.»
«Non dev'essere stato facile» considera Peter,
«intendo affrontare così la realtà,
quasi come se
fossero stati svegliati da un sogno con uno schiaffo.»
«Sì, infatti, ci penso sempre anche io.»
«Comunque, scusa l'interruzione.»
«Figurati» dico io, sorridendogli fugace.
«In
qualunque modo me lo aspettavo. Nel senso... per farti un esempio
pratico, mio padre è un patito di rugby e sport di contatto,
io
invece credo che uno sport debba essere meno... aggressivo, non so come
spiegare.»
«Sì, dovrei aver capito.»
«Magari non troppo singolo, tipo la ginnastica artistica non
mi
piace troppo. Cioè okay, vederla ancora ancora, ma
praticarla
non ci riuscirei proprio. Dovrei contare solo su me stessa e mi
sentirei troppo... sola?»
«Eppure sei partita per Venezia completamente sola»
mi fa notare Peter, con un sorrisetto.
«Sì» affermo io, «è
stata praticamente
la mia prima volta, di solito sto sempre con...» il mio
pensiero
va a Danny, ma termino la frase in modo vago, con
“qualcuno”. «In ogni caso, a me piacciono
di
più gli sport di squadra, come la pallavolo o il basket, o,
perché no? Anche il calcio non è male!»
Peter mi mostra un sorriso. «Sei la prima ragazza che me lo
dice.
Voglio dire, spesso sento dirlo in giro ma credo che in
realtà
non sia così. Molte dicono di amare il calcio solo per
rimorchiare di più il sabato sera.»
«Oh, sì, ne so qualcosa.»
Okay, non ammetterò mai che Danny è un rugbista
fanatico
e io invece lo odio – e lui non lo sa. Ma poi, non
è che
sia chissà che, dico bene? Non è che mi sia messa
a
raccontare a tutti che adoro il rugby solo per piacere a lui!
«Dicevo» esordisco dopo una breve pausa,
«già
il fatto che io e mio padre abbiamo interessi diversi non mi
è
mai quadrato. Cioè, non è detto che il figlio
debba avere
gli stessi gusti del padre, però insomma, qualcosa deve pur
averlo preso, no? E io non avevo quasi niente in comune con mio padre,
né dal punto di vista del carattere o dell'aspetto fisico.
Stessa cosa vale per mia madre. Ad esempio lei è una
grandissima
cuoca, ed io invece so fare a malapena una pasta.»
Peter intanto non parla, si limita a fare ogni tanto qualche smorfia
divertita o annuire.
«Non dico che una persona non può stare bene con i
suoi
genitori se condivide poco o niente con loro, infatti io mi sono sempre
trovata da dio in loro compagnia, avremo litigato sì e no
due
volte in tutta la nostra vita! Forse è perché
avendo dei
caratteri diversi si va più d'accordo. Voglio dire, io non
sopporterei un'altra persona con il mio stesso carattere...»
«Oh, sì, neanche io!» esclama a questo
punto Peter.
«Già.»
«Quindi, riassumendo il tutto, non è stato un
dramma scoprire di essere stata adottata.»
«No, affatto, era prevedibile.»
«Ho capito» afferma lui, «forse
sembrerà
stupido, ma sono davvero contento che ti sei confidata con me, non
credo che queste cose le dici alla prima persona che capita,
giusto?»
«Giusto.»
Oddio, adesso mi salgono mille dubbi... non avrò mica
esagerato?
«Ed è per questo che voglio ringraziarti come si
deve» aggiunge dopo poco, con un sorriso a trentadue denti.
«Dato che ho un'amica che fa al caso tuo.»
Corrugo una sopracciglia, interrogativa.
«Vieni, te la presento.»
Pochi minuti dopo stiamo camminando uno a fianco all'altro, io mi
guardo intorno cercando di stamparmi nella mente immagini dell'ospedale
che potrebbe sempre essermi utile, mentre Peter prosegue spedito come
se conoscesse il posto meglio delle sue tasche.
«Ci siamo quasi» mi assicura dopo un po', girando a
destra,
«lei sta nel reparto maternità di
solito.»
Pochi minuti dopo siamo al piano superiore, in un nuovo ambiente e tra
altri tipi di persone. Sì, perché qui non
è
più il posto dove dei bambini malati passano le loro
giornate,
ma dove delle donne danno alla luce i loro figli.
«Che bello qui» commento, con un'inspiegabile
sorriso di felicità sul volto.
«Sì, c'è una bella atmosfera.»
Alla mia sinistra c'è il nido, dove i neonati con poche ore
di
vita dormono o urlano nelle loro culle tutte uguali tolto per il fiocco
rosa o azzurro.
«Aspetta un attimo, vado a vedere se
c'è» fa Peter, sfiorandomi leggermente il braccio
con delicatezza.
«Okay» mormoro io, «ti aspetto
qui.»
Intanto che lui si avvia lungo il corridoio, mi metto ad osservare ogni
singolo movimento di questi teneri scriccioli. Sono così
piccoli
e indifesi, lì nel loro lettino, praticamente appena nati,
con
tutta una vita burrascosa davanti.
Dio, c'è n'è uno in prima fila che è
così
dolce, muove appena appena una manina e ha l'aria di chi ha tanta fame.
Chissà quando avrò io un figlio...
«Evelyn» mi chiama Peter, facendomi tornare alla
realtà. «Ti presento Viola.»
Alzo di scatto lo sguardo e mi ritrovo davanti una ragazza dai
lineamenti dolci, capelli color del miele e degli occhi chiari
bellissimi, più o meno della mia stessa età.
«Oh, molto piacere» esclamo, alzando un poco la
voce e porgendole la mano con un sorriso.
«Piacere mio» fa lei di rimando, stringendomi la
mano.
«Vi va di scendere al bar e bere qualcosa con
calma?» propone dopo una breve pausa Peter, amichevolmente.
«Sì, certo» accetto subito io,
sorridendo.
Anche Viola annuisce, indicando il corridoio dietro di lei e
affermando: «Da quella parte.»
«Allora, come posso aiutarti?» chiede Viola, appena
la
cameriera che è venuta a portarci il caffè si
è
allontanata.
Afferro la mia tazzina e la porto alla bocca. «Come ti ha
detto
Peter, pochi giorni dopo la mia nascita sono stata adottata»
racconto, dopo aver dato un lungo sorso alla bevanda. «E, in
parole povere, quando mi hanno detto di essere stata partorita qui sono
partita per cercare i loro nomi.»
«D'accordo» dichiara Viola, «beh,
l'ospedale tiene
archiviati tutti i dati relativi alle nascite nei computer... posso
trovarti il nome di tua madre, ma non è detto che ci sia
anche
quello di tuo padre, non sempre viene espresso... in che anno sei
nata?»
«Oh, ho capito» dico, dopodiché tiro
fuori dalla
borsetta il block-notes che tengo sempre di scorta e scrivo la data
precisa, infine lo passo a Viola.
«Perfetto, posso anche sapere i nomi dei tuoi genitori
adottivi?»
«Certo. Allora, mia madre si chiama Amanda Barry, mentre mio
padre Thomas Evans» rispondo io. «Vuoi che te li
scrivo
sotto la mia data di nascita già che ci sono?»
«Buona idea» aggiudica lei, ridandomi il foglietto.
«Ecco» annuncio appena ho finito di scrivere in
stampatello in modo che sia chiaro da leggere.
«Okay, farò la ricerca il prima
possibile» rassicura
lei dopo averlo messo in tasca. «Di dove sei?»
«Di Monza, in provincia di Milano. Tu invece? Sei di
Venezia?»
«Sono nata a Perugia, poi ho abitato per un brevissimo
periodo a
Bologna e quando ho compiuto otto anni mi sono trasferita a Firenze.
Sono venuta a Venezia per studiare medicina e ci sono rimasta. Abito a
Mestre.»
«Oh, bello. Sicuramente hai visto più posti di me,
io ho
sempre abitato a Monza, tolto qualche piccola vacanza qua e
là,
ma niente di che» dico, stringendomi nelle spalle.
Ora che ci penso sono proprio una donna monotona e noiosa, come posso
aver visitato così poche città alla mia
età? Se
non lo faccio adesso quando avrò intenzione di farlo? Quando
avrò una famiglia e sarò comunque legata in
qualche modo?
Voglio dire, ho quasi ventisei anni e per ora ho visto solo Roma con
Katie quando ci siamo diplomate, il lago di Garda dato che i miei hanno
la casa là e ci andavamo praticamente tutte le estati fino a
quando sono andata ad abitare con Danny e durante le nostre ferie
andavamo sempre in montagna nella sua roulotte.
Dio, devo fare più esperienza. Il mondo è
così grande, come posso avere visto così pochi
posti?
«Davvero?!» sbotta a questo punto Peter,
strabuzzando gli occhi.
Arrossisco all'istante, senza però sapere cosa dire.
«Devi assolutamente fare qualche bel viaggio, vale la pena di
conoscere il mondo in cui viviamo!» esclama poi, facendomi
l'occhiolino. «Io ne so qualcosa.»
«Non ti fermi in un posto per più di un mese da
quanto, otto anni?» commenta ridacchiando Viola.
Mi volto istintivamente verso Peter, lanciandogli un'occhiata un po'
ammirata un po' divertita.
«Nove» la corregge lui, ridendo, «ho
iniziato a viaggiare a vent'anni.»
E così ha tre anni in più di me.
«Che figo!» esclamo a questo punto io,
«una volta mi
descriverai tutti i posti che hai visto e tutte le persone che hai
conosciuto nei dettagli, sono curiosa!»
«Oh, certo» accetta sorridendomi lui.
«Comunque non è colpa nostra, intanto che tu
giravi il
mondo io e Viola stavamo studiando per laurearci, dico bene,
Viola?» aggiungo, alzando il mento ironicamente.
«Giusto» conferma lei, scoppiando a ridere.
«Tu che lavoro fai, Evelyn?»
«Io faccio la psicologa, ho un ufficio privato da un annetto.
Tu invece sei ostetrica?»
«Mi sto specializzando in ginecologia e ostetricia»
puntualizza lei, sorridendo.
«Bello» considero io, «anche se io non
sono portata per la medicina.»
«È uno di quei lavori che puoi fare solo se ami e
hai una
forte motivazione alle spalle. Era quello che mi diceva sempre uno dei
miei professori all'università» racconta lei,
facendo un
gesto d'assenso con il capo.
«Sì, è vero.»
Dopo un breve silenzio, Viola alza lo sguardo verso l'orologio appeso.
«Si sta facendo tardi, è meglio che vada a cercare
quel
file» annuncia, alzandosi e finendo rapidamente il suo
caffè. «Aspettatemi qui.»
Appena vedo Viola entrare con una cartella in mano, le sorrido contenta
che abbia trovato il file di cui parlava prima. «Ecco, qui ci
sono tutte le informazioni che ha l'ospedale» annuncia,
appoggiandola sul tavolino.
«Dio, ti devo un favore enorme» esclamo, prendendo
la
cartelletta gialla tra le dita, «grazie mille
davvero.»
«Figurati, spero che trovi quello che stavi
cercando.»
«Oh, ne sono sicura» affermo subito io, senza
smettere di
sorridere. «Andrò in bagno ad
aprirla...» aggiungo
dopo una breve pausa, alzandomi in piedi.
Lo so che può sembrare stupido e infantile, ma credo di aver
bisogno di un po' di intimità.
Intanto Viola e Peter in tutta risposta annuiscono con un sorriso.
A questo punto, mi avvio alla toilette con un lungo sospiro
d'incoraggiamento. Forza, posso farcela. In fondo è solo un
nome, alla fine non mi cambia molto ora come ora.
Apro la porta del bagno delle donne e mi siedo sulla tavoletta del
water. Solamente adesso mi decido finalmente ad aprirla.
Nella prima pagina ci sono le informazioni che riguardano me.
Nome e cognome:
Anna Cattaneo.
Già alla prima riga il mio cuore perde un battito. In
realtà io mi sarei dovuta chiamare Anna... Mi guardo allo
specchio e penso che sì, assomiglio al nome Anna.
Dopo poco scorro le informazioni seguenti senza soffermarmici troppo.
Data di nascita, luogo
di nascita, gruppo sanguigno, fattore rh, allergie...
Nome del padre,
vuoto.
Nome della madre:
Madelyn Cattaneo.
Madelyn.
Ripeto il suo nome ad alta voce. Madelyn. Mamma Madelyn.
No, non è mia mamma. Non lo è mai stata. Cosa sto
dicendo?
Chiudo di scatto la cartelletta con rabbia. Perché sto
facendo
tutto questo? Ha davvero un senso? Probabilmente non esisto
più
per lei. Sono stata cancellata dalla sua vita. Perché sono
così ossessionata da lei che oramai mi avrà
sicuramente
dimenticata?
Perché sei sua figlia, perché sei stata nel suo
grembo per nove mesi, perché ti ha partorito lei.
Sì, sto facendo la cosa giusta.
Con gesti lenti e ancora un po' esitanti riapro la cartella e torno al
punto in cui ero rimasta poco fa.
Ciò che segue è una tabella delle eventuali
malattie della madre e tumori dei familiari non segnalati.
La seconda pagina invece interessa le notizie sulla gravidanza.
Ordine di genitura,
età della
madre, data dell'ultima mestruazione, eventuali emorragie in
gravidanza, primi movimenti fetali, aumento di peso...
Attività
lavorativa della madre: studentessa.
Corso di preparazione al
parto: sì.
Durata della gravidanza:
39 settimane e 2 giorni.
Gravidanza a rischio:
no.
Alla fine della pagina ci sono le notizie sul parto, ma che mi
interessano relativamente.
Luogo e data del parto,
rottura prematura delle membrane, polidramnios, parto spontaneo...
A seguire la firma dell'ostetrica.
Dopo qualche istante in cui sono rimasta con lo sguardo perso davanti a
me senza muovere un muscolo, mi alzo e mi incammino verso Viola e Peter
a testa bassa.
«Tutto bene?» mi chiede gentilmente Peter.
Annuisco, piano. «Però c'è un
problema»
aggiungo poi. «Come sospettavo, non c'è scritta la
residenza di mia madre.»
Viola si morde un labbro e Peter si gratta la nuca, nervoso.
«Come possiamo fare?» domando, sedendomi davanti a
loro.
«C'è la firma dell'ostetrica? Se lavora ancora qui
puoi
chiederle cosa si ricorda!» esclama immediatamente Viola.
«Anche!» approvo io, rasserenandomi.
C'è ancora una possibilità.
«Sì, direi che vale la pena tentare»
afferma Peter,
convinto. «Ora però scusatemi ma devo
assolutamente
andare. Sono invitato a pranzo dai miei e dato che non succede spesso
mi conviene alzare i tacchi» aggiunge dopo una breve pausa,
con
un sorriso di scuse.
«Uh, okay» faccio io. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Oh, tante cose!» esclamo, «di tutto
quello che hai
fatto oggi per me, dalla chiacchierata di prima all'aiuto che mi hai
dato.»
«Figurati» dice lui, sorridendomi,
«comunque se ti va
domani sera suono in un pub molto carino... se non hai niente da fare a
me farebbe piacere se ci fossi.»
«Oh» borbotto io, presa alla sprovvista,
«sì, va bene... Dov'è il pub?»
«Ti scrivo l'indirizzo esatto se vuoi.»
«Okay» dico, passandogli block-notes e penna.
«Ecco.»
«Perfetto, grazie per l'invito.»
«Figurati, allora ci vediamo domani» mi saluta,
alzandosi in piedi.
«Ehi, salutami i tuoi e ringrazia ancora Allyson per la torta
che
ci ha portato ieri. Era deliziosa» esclama Viola a questo
punto.
«Sarà fatto, bellezza» dice lui,
facendole l'occhiolino, «ciao ragazze!»
Appena è uscito dal bar, Viola dichiara, con la sua voce
chiara e convinta: «Gli piaci.»
Non posso non arrossire dopo questa confidenza.
«Ah sì?» mormoro dopo un po', sperando
di mostrarmi noncurante.
A questo punto lei scoppia a ridere con gusto. «Secondo me
sì» afferma poi, facendo spalline.
Dio, perché sto continuamente tenendomi dentro il fatto che
sono
promessa in sposa a Danny? Voglio dire, non è mica un
dettaglio
insignificante. Specialmente dopo l'invito di Peter.
Devo assolutamente sputare il rospo, prima o poi... sì,
possibilmente più prima che poi.
«Claudia, lei è Evelyn Evans» annuncia
Viola alla sua collega sorridendo.
«Piacere» faccio, stringendo la mano a una signora
sui cinquant'anni.
«Evelyn è nata in questo ospedale»
inizia a spiegare
a questo punto Viola, «e, ecco, tramite delle ricerche ha
scoperto che sei stata tu la sua ostetrica... vorrebbe sapere qualcosa
sui suoi genitori biologici e si chiedeva se tu per caso ti ricordassi
qualcosa.»
Claudia si fa improvvisamente attenta, rendendosi conto di quanto sia
seria la questione.
«È nata qui ventisei anni fa, sua madre aveva solo
diciassette anni... alla nascita si chiamava Anna Cattaneo»
aggiunge Viola.
«Oh, capisco» borbotta l'ostetrica, passandosi una
mano dietro la nuca.
«Non so, magari riesci a ricordarti qualcosa di quel
giorno...» ipotizzo io.
«Qualcosa di che tipo?»
«Tipo che persone erano i miei genitori, se c'era anche mio
padre, e soprattutto in che città abitavano... Ad esempio,
ti
ricordi che erano venuti qui a Venezia in vacanza?»
«Sì» risponde lei lentamente,
socchiudendo gli
occhi, «ricordo che lei era corsa in ospedale con il compagno
colta da spasmi e aveva ammesso di non aspettarsi di partorire qui. Mi
aveva raccontato che era stata una cosa abbastanza improvvisa, ricordo
come se fosse ieri quel giorno perché non avevo mai fatto
nascere un bambino con una mamma così giovane. Sai, a quel
tempo
ero appena diventata ostetrica.»
Annuisco, con un breve sorriso. «Il compagno era il suo
fidanzato? Sai se era mio padre? Ti ricordi qualcosa di lui?»
chiedo poi.
«Sì, credo che fosse il suo fidanzato... era alto,
moro,
occhi scuri... non ne sono sicura, però non mi sembra che ti
somigliasse.»
Annuisco per la seconda volta, questa volta senza saper cosa dire.
«Su questo però ne sono certa: venivano da
Rapallo, in
provincia di Genova. Lo ricordo bene perché io dovevo
andarci in
viaggio di nozze durante l'estate con il mio futuro sposo e avevo
chiesto loro che tipo di posto fosse.»
«Oh» faccio, illuminandomi improvvisamente,
«questo mi sarà di grande aiuto!»
Claudia mi sorride, compiaciuta. «Sono contenta di esserti
stata utile.»
«Grazie mille, Claudia» dice Viola, sorridendo
anche lei.
Lei fa uno scherzoso buffetto sulla guancia di Viola.
«Figurati cara, lo sai che sono sempre felice di
aiutare.»
«Ce l'abbiamo fatta!» esclama felice Viola, una
volta che Claudia ha lasciato la stanza.
«Sì» confermo, sorridendo appena.
Non posso non dire di essere contenta di aver appena scoperto altre
cose su mia madre, però devo ammettere di esserci un po'
rimasta. Chissà chi è il mio vero padre...
sicuramente
non il ragazzo che è andato in vacanza con mia madre durante
la
gravidanza, anche perché il mio padre biologico non mi ha
riconosciuta.
«È tutto a posto?» mi domanda Viola,
sfiorandomi il braccio con dolcezza.
«Credo di sì» rispondo, esitante.
«Sono
sì contenta delle cose che abbiamo appena scoperto, solo che
sono rimasta anche un po' scombussolata... speravo che mio padre mi
avesse riconosciuta.»
«Capisco» mormora Viola, annuendo. «Ma
non vuol dire
che non ti abbia amata, anche se solo per un istante... è
pur
sempre l'uomo che ti ha dato vita, Evelyn, e stai facendo la cosa
giusta nel cercarlo, nel voler sapere almeno chi fosse.»
«Lo spero» affermo, stringendomi nelle spalle.
«Sai,
sono così curiosa di conoscerlo, vedere che uomo
è
diventato, come ha conosciuto mia madre, che tipo di vita sta
conducendo adesso, cose di questo tipo... Probabilmente non lo
saprò neanche mai, però ho aspettato
così tanto
tempo che ora voglio almeno fare un tentativo.»
«Fai bene» mi rassicura lei.
Faccio un vago cenno di assenso con il capo, poi dico con un sorriso:
«Comunque grazie davvero per tutto quello che hai fatto per
me,
non lo dimenticherò mai.»
«Non è niente» esclama, poi aggiunge,
abbassando lo sguardo: «Sai, anche io sono stata
adottata.»
Allargo gli occhi, presa alla sprovvista. Prima di parlare
però
lascio passare qualche istante, ho notato immediatamente che non
è molto a suo agio dopo la sua confessione.
«Oh» borbotto, cercando le parole migliori da
usare. «Dalla nascita anche tu?»
«Quando avevo sette anni gli assistenti sociali mi hanno
tolta
dai miei genitori. Sono stata presa in affidamento per qualche mese da
una famiglia a Bologna, poi mi sono trasferita a Firenze dai Dumas. Mi
hanno adottata un anno dopo» mi racconta lei, con un fil di
voce.
«Oddio... io... mi dispiace davvero» sussurro,
cercando di
guardarla negli occhi per farle capire tramite il mio sguardo quanto
sono rimasta toccata.
«È tutto a posto... voglio bene alla mia famiglia
adottiva, molto più bene di quanto abbia mai voluto ai miei
genitori biologici. Sono stata fortunata.»
«Oh, sì, è questa la cosa che conta
alla fine.
Anche io mi trovo benissimo con i miei genitori adottivi, li amo con
tutta me stessa, e ogni giorno ringrazio il cielo che mi abbiano
trovata loro.»
«Ehi, grazie per aver condiviso la tua storia con me. So
quanto
possono essere delicate queste cose. Credo davvero che tu stia facendo
la cosa giusta cercando i tuoi genitori biologici... è
importante capire da dove veniamo, cosa c'era nel nostro
passato»
annuisce lei, parlando lentamente. «Anche se ci troviamo
meglio
nel presente» aggiunge infine.
La guardo nei suoi occhi verdi e dall'intensità del suo
sguardo
capisco che è l'unica persona in grado di capirmi fino in
fondo.
Non posso fare a meno di abbracciarla, è un gesto
automatico.
Finalmente ho incontrato qualcuno come lei, che ha provato le mie
stesse paure, i miei stessi interrogativi, le mie stesse convinzioni,
anche se in maniera un po' diversa.
«Grazie a te, Viola, non ti dimenticherò
mai» affermo con un sussurro, accarezzandole dolcemente la
schiena.
Dio, la conosco da poche ore eppure provo un enorme affetto e simpatia
nei suoi confronti.
«Ehi, ci rivedremo, no?» si accerta lei dopo un
po',
«prima di tornare a casa devi assolutamente passare qui e
raccontarmi com'è andata» aggiunge, staccandosi
dall'abbraccio per guardarmi in viso.
«Oh, sì, sicuramente» approvo
immediatamente io senza smettere di sorridere.
«Cavoli, ora devo proprio andare» fa dopo poco,
sbuffando.
Prima di salutarmi, mi abbraccia un'ultima volta. «Buona
fortuna.»
«Ne auguro tanta anche a te» rispondo, sincera.
*** Spazio Autrici ***
Ok, dire che siamo in ritardo è ancora troppo poco. Siamo in
un fottuto ritardo.
Scusatemi, mea culpa. Quella tenerona della Linda ha provato di tutto
per farmi sbloccare, ha scritto tanto quest'estate, ha insistito sul
fatto che dovevo ancora scrivere le note eccetera, ma nulla
è bastato xD
Perché è così, mi sento terribilmente
bloccata, sono demotivata, ho passato tanto tempo a chiedermi
perché lo faccio e se ne vale la pena... è
orribile. Specialmente perché di conseguenza ho tenuto ferma
anche la povera Linda che credetemi, se fosse per lei, saremmo
già a pochi capitoli dalla fine. Eppure ci sono io che
blocco tutto xD Ho scritto poco o niente pure quest'estate, fate un po'
voi!
Non so esattamente cosa sia, probabilmente perché
quest'estate ho voluto pensare solo a divertirmi e staccare dalla
scuola – l'anno passato m'ero molto impegnata con lo studio,
e sono arrivata alla fine dell'anno scolastico stanchissima. Quindi non
ho aperto praticamente mai Word, ero sempre in giro con gli amici e a
caccia di ragazzi ahahah – tra l'altro a inizio settembre mi
sono pure messa insieme con uno, quindi adesso ho davvero il tempo
contato x)
Bando alle ciance, basta parlare delle cose noiose. Visto
com'è lungo il capitolo 7? :) Spero basti per farmi
perdonare!
Finalmente si sa qualcosa in più sul passato di Evelyn, eh?
E che mi dite del pezzo condiviso con il personaggio di Viola?
Piaciuto? Mi auguro di sì! ^^
Per quanto riguarda la continuazione di Ds3 come ho già
accennato prima, Linda è andata avanti tantissimo ed
è al capitolo 22, mentre io sono rimasta al... –
non lo voglio vedere ç____ç –
11, e non l'ho ancora finito... quanto è comico? (della
serie ridiamoci su sennò rischio di non aprire mai
più il documento di Ds3 causa depressione xDD)
Uh, invece siamo un po' andate avanti nella nuova storiella, the
Eternity of our Moments (in sigla 'EM' ;D) che speriamo di pubblicare
al più presto ;)
Bien, direi che è tutto per oggi. E dato che abbiamo pensato
di aggiornare un po' più di rado, almeno fino a quando non
mi smuovo un po', ci risentiamo tra un paio di settimane!
Un bacio enorme a tutti quelli che sono rimasti con noi nonostante il
nostro ritardo indecente (e scusate ancora, spero di sbloccarmi al
più presto x.x) e grazie davvero di cuore per tutto quello
che fate per noi!!
Much, much love
Lalla and Leslie
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=720420
|