After Phase

di Atlantislux
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** S21NX ***
Capitolo 2: *** Sfida ***
Capitolo 3: *** S.T.O.R.M. ***
Capitolo 4: *** Black Op ***



Capitolo 1
*** S21NX ***


Note

Come anticipato nell’epilogo di “Nova”, ecco la collezione di one-shot che sviluppano qualche passaggio o espandono il background dei personaggi protagonisti di “Irreparabile” e “Nova”. Per ragioni di coerenza narrativa non sono riuscita ad infilarle nelle storie principali, però mi sembrava un peccato tenerle segregate nel mio hard disk :)
Rispetto alla linea temporale principale –gli eventi di “Irreparabile” e “Nova” coprono gli anni dal ‘71 C.E. all’83- queste storie non seguono una cronologia lineare, per cui fate attenzione alle date che scriverò sopra ogni one-shot.
Ultima cosa sul titolo: di solito disdegno i titoli in inglese, ma “After Phase” è l’episodio conclusivo di Gundam Seed, per cui ho pensato ci stesse bene.
Un grazie infine alla mia fedele beta Shainareth <3

Buona lettura!



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Non aveva mai odiato nessuno nei suoi primi quindici anni di vita. Ma tutto stava per cambiare.


S21NX


Nassau, 15 novembre, C.E. 71


L'ultima cosa che il Coordinator rammentava dell'incidente era la voce del suo migliore amico che urlava il suo nome, un istante prima che il mobile suit che pilotava esplodesse.
Riemergendo dal coma il Coordinator aveva scoperto due cose, entrambe sorprendenti: una, che non era affatto morto; due, che si trovava in un centro di ricerca della Federazione Atlantica, il nemico numero uno del suo paese. I federali gli avevano assegnato un codice: S21NX, e così lo chiamavano tutti là dentro, 'numero Ventuno', perché si era rifiutato di rivelare il suo vero nome e il suo grado. Lo voleva ricordare pronunciato dal suo amico e da sua madre, non dai soldati della Federazione.
I suoi carcerieri gli avevano detto che non avrebbe potuto rifiutare i particolari trattamenti che gli stavano somministrando e che, una volta guarito, sarebbe passato al servizio della Federazione. Anche nella confusione del momento il Coordinator aveva tentato di protestare, pur sapendo non ci sarebbe stato modo per sfuggire al suo destino. Non quando quel centro di ricerca era l'unico luogo al mondo dove ricevere le cure che lo stavano mantenendo in vita.

Non era l'unico soldato di ZAFT prigioniero, e il giovane Coordinator aveva valutato con loro l'idea di suicidarsi; un paio di suoi compagni non avevano esitato, fallendo miseramente, perché non era nei piani dei federali lasciar perire i loro soggetti di ricerca. Lui, invece, aveva velocemente scartato l'idea. Non si considerava un eroe fino a quel punto e, oltretutto, morire una volta era stato abbastanza traumatico da fargli desiderare di posporre il momento più a lungo possibile.
Per indebolire ancora di più la sua già patetica risoluzione, i federali gli avevano mostrato immagini di quello che era rimasto del suo corpo dopo l'esplosione che aveva distrutto il suo mobile suit. Il Coordinator si era sentito male, e aveva realizzato esattamente quanto del suo vecchio corpo non fosse più suo. E che ogni volta che varcava la porta della sala operatoria qualcosa di danneggiato dentro di lui –ma umano- gli veniva tolto per essere rimpiazzato con altro.
Infine, gli avevano messo sotto il naso una foto scattata nel cimitero degli eroi su Aprilius One. Mostrava file di identiche lapidi, e il Coordinator era certo che tra quelle ce ne fosse anche una con il suo nome scritto sopra. Aveva fermamente rifiutato di mettersi a piangere davanti ai nemici della sua patria, anche se aveva distintamente sentito il cuore spezzarsi. Quella lapide era il segno tangibile che era morto agli occhi del mondo, e che tutte le sue speranze di vedere la fine di quella guerra disgraziata erano svanite, insieme al sogno di conquistare un futuro di pace per la sua famiglia. Non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori, e il pensiero di loro, che piangevano davanti alla sua tomba, lo torturava tutti i giorni.
Al Coordinator erano rimasti solo i ricordi di una vita breve ma felice. Reminiscenze di momenti spensierati che stavano diventando incubi, e che lo assalivano tutte le notti, fusi nell'istante della sua brutale morte.
Erano passati mesi ma, nonostante fosse assistito da un team di psicologi, nemmeno con il loro aiuto era riuscito a venire a patti con quello che gli era successo. Anzi, gli avevano detto che l'incidente si era così fissato nei suoi pattern mentali che guarire completamente sarebbe stato impossibile. E quella era la cosa che lo spaventava di più, insieme al non sapere cosa la Federazione Atlantica avrebbe fatto di lui.

"Ti stai annoiando? Ti accendo la televisione, va bene?"

La voce della dottoressa Jesek lo strappò dai sui pensieri, e il Coordinator alzò gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto incollati a terra.

Ci misero un secondo di troppo a mettere a fuoco la giovane donna di fronte a lui, e fu abbastanza per provocargli un capogiro. Quegli impianti ottici avevano ancora bisogno di essere settati, ma lui non riusciva a lamentarsene troppo. Non quando quelli che Madre Natura gli aveva dato erano finiti spappolati sulla visiera del suo casco da pilota.

"Come vuoi" le rispose remissivamente, chiudendo le palpebre prima di spostare la sua attenzione sul televisore che aveva cominciato a trasmettere.

Con meno fretta fissò lo schermo, dove stavano passando le immagini di un notiziario. Sembrava piuttosto noioso, ma andava bene pur di non dover guardare quello che la scienziata davanti a lui stava facendo.

Il suo braccio destro era disteso su un tavolo da lavoro, e la dottoressa Jesek aveva rimosso la pelle sintetica, mettendo a nudo la struttura sottostante. Lei aveva cercato di interessarlo all'operazione, ma il Coordinator aveva declinato la lezione non voluta –e l'entusiasmo della giovane– con il sorriso meno condiscendente che era riuscito a produrre.

Dalla smorfia dispiaciuta che Cecilia Jesek aveva fatto aveva capito di averla delusa, ma non si sentiva particolarmente in colpa. Essendo lui stesso figlio di uno scienziato riconosceva il genio di Cecilia, la sua intelligenza molto al di là dei limiti dei Natural, e le era grato per tutto quello che stava facendo per lui. Tuttavia, non riusciva a considerare affascinanti quelle cose che gli avevano installato addosso. Da un punto di vista scientifico quella serie di circuiti integrati e muscoli artificiali erano miracoli, ma per lui erano anomalie che non avrebbero dovuto trovarsi dove stavano.

Perso nei suoi pensieri chiuse gli occhi, incapace di seguire quello che l'annunciatore stava dicendo quando, improvvisamente, udì una voce che conosceva molto bene. Il Coordinator fissò la televisione con rinnovato interesse.

La ragazza che adesso stava parlando possedeva la rifinita bellezza così comune tra i Coordinator della sua generazione, e portava i capelli, lunghi e rosati, legati in una particolare treccia attorno al capo. Era Lacus, la figlia del precedente Presidente di PLANT, Siegel Clyne.
Il Coordinator la guardò, sopraffatto da un'ondata di nostalgia, studiandone i lineamenti che stavano perdendo le morbide rotondità dell'adolescenza per sbocciare in quelli di un'affascinante donna. Lacus, la diva che aveva posto fine alla guerra comandando personalmente la sua flotta, stava appuntando medaglie sul petto degli ufficiali della nave chiamata Archangel, risolutiva per far cessare le ostilità. Il giornalista stava intanto spiegando che onorarli pubblicamente –anche se la nave apparteneva formalmente all'Alleanza Terrestre- era un altro segno di riappacificazione tra la Terra e PLANT.
Il Coordinator non sapeva che pensare di quello spettacolo. Se da un lato era ovviamente felice che finalmente fossero in pace, quella scena lo inquietava per qualche ragione. Guardava le facce di quegli uomini e di quelle donne e non poteva credere che fossero quelli che lui stesso aveva cercato di uccidere per così tanti mesi. Sembravano tutti così giovani, non molto più grandi di lui e dei suoi compagni.

Il Coordinator sbatté le palpebre. Lacus Clyne adesso stava premiando un ragazzo che doveva avere più o meno la sua età. Aveva i capelli scuri, arruffati, e grandi occhi gonfi di calma gioia. L'annunciatore lo presentò come Kira Yamato, il pilota del mobile suit chiamato Strike, che aveva scortato l'Archangel da Heliopolis fino alla Terra, salvandola da sicura distruzione.

Alla sola menzione di quell'unità maledetta una dolorosissima morsa chiuse lo stomaco del Coordinator, facendolo quasi piegare in due dal dolore. Nemmeno riuscì a chiedersi come fosse possibile una cosa del genere con uno stomaco sintetico, la sua attenzione completamente conquistata dal video.

Lacus Clyne stava ora premiando altre persone. Alcune, con sua somma sorpresa, non gli erano sconosciute. Sul podio c'erano Yzak Joule e Dearka Elthmann, i suoi ex-compagni d'arme, fieramente ritti di fronte alla figlia di Clyne; poi la telecamera allargò il campo per inquadrare, qualche passo dietro Lacus, una ragazza bionda che popolava spesso gli ultimi notiziari: Cagalli Yula Athha, la Principessa di Orb. Insieme alla figlia di Clyne aveva giocato un ampio ruolo per mettere fine alla guerra del San Valentino di Sangue, per cui la sua presenza alla cerimonia era probabilmente dovuta, ma chi il Coordinator non si sarebbe mai aspettato di vedere lì fu Athrun Zala.
Il giovane era ai piedi del palco, confuso tra lo staff ed in abiti civili, ma inconfondibile agli occhi del Coordinator, che focalizzò i suoi impianti ottici su di lui, mentre tutto il resto sembrò svanire.

'Athrun Zala.'

Stranamente, nessuno dei partecipanti all'evento sembrava riconoscerlo. Marciavano giù dal palco senza degnarlo di uno sguardo, compresi Yzak e Dearka.

La telecamera ingrandì nuovamente il campo per mostrare la folla, ma il Coordinator tenne gli occhi su Athrun. Così non gli sfuggì quando Kira Yamato cinse il giovane dai capelli blu in un abbraccio.

'Il pilota dello Strike che getta le braccia al collo al pilota dell'Aegis' notò il Coordinator. Per un momento non successe nulla, e la vertigine che gli annebbiò la vista sembrò irrilevante. Poi una fredda, devastante sensazione di vuoto sbocciò nel suo petto. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi su quello che aveva appena visto.

'Kira Yamato e Athrun Zala. Insieme.'

Sembravano anche conoscersi molto bene. Il gesto mostrava rispetto e affetto, e un senso di assoluta confidenza che era quasi fraterna. Ma il Coordinator sapeva che avevano combattuto sulle opposte barricate per mesi, durante la guerra, quindi quando avevano avuto il tempo di sviluppare una così calda familiarità? L'Athrun Zala che lui conosceva, serio e introverso, non sarebbe potuto diventare così improvvisamente l'amico intimo del suo nemico giurato. Il pilota dello Strike. Il mobile suit che avevano cercato per così tante volte di abbattere.

'Quello che ha ucciso Miguel e…'

Qualcosa di un vivido verde, posato sulla spalla destra di Kira, colse l'attenzione del Coordinator, che finalmente si accorse dell'uccellino meccanico lì appollaiato. Un giocattolo che lui aveva già visto da qualche altra parte… ci mise un attimo a ricordare dove: stagliato contro il cielo azzurro di Orb, mentre volava nelle mani di Athrun.

"Ahi… scusa… attento…"

Un mugolio soffocato attirò la sua attenzione e, stravolto, il ragazzo fissò il volto della dottoressa Jesek. Un'espressione sofferente le torceva le labbra, e la giovane scienziata aveva le lacrime agli occhi. Lui aggrottò le sopracciglia, seguendo il suo sguardo. Non ci poteva credere.
Con i sensori disattivati non si era accorto di avere stretto tra le dita quelle della dottoressa. Con la sinistra lei stava inutilmente cercando di liberarsi, ma senza riuscirci.

Il Coordinator rilasciò la presa immediatamente, guardandola addolorato portarsi la mano al petto. Era solo la sua immaginazione o si stava già coprendo di ematomi?
"Mi spiace" balbettò, ancora sconvolto da quello che aveva visto in televisione.

La scienziata scosse la testa, mentre un sorriso esitante, forzato, le appariva sulle labbra. "Non ti preoccupare, è stato un mio sbaglio. Non imparerò mai ad essere più cauta quando lavoro con te."

Il Coordinator si sentì un idiota. Gli sfuggiva la ragione per cui, tutte le volte che lui commetteva un errore –e succedeva spesso- la giovane insisteva per scusarsi, come se provasse nei suoi confronti qualche malsano senso di colpa. Ma lui era perfettamente consapevole che anche se era Cecilia la creatrice di quegli impianti, lei era una civile, non parte dello staff della Federazione Atlantica che stazionava al centro di ricerca. Oltretutto, l'aveva spesso vista discutere violentemente con i militari, e con i suoi stessi colleghi, per il modo crudele con cui umiliavano lui e i suoi compagni. La scienziata, uno scricciolo di donna apparentemente non molto più vecchia di lui, aveva fegato, doveva ammetterlo, ed era l'unica lì dentro che trattava lui e gli altri Coordinator come esseri umani, non solo come cavie; come poteva riuscire a farle sempre del male?

E perché Cecilia insisteva a dire che era sempre colpa sua, quando non era per niente vero?

"Ti fa molto male?" le chiese.

"No."

"Mi dispiace, sono sempre così maldestro."

"Non è colpa tua. Ti devi ancora abituare agli impianti, che probabilmente necessitano di un aggiornamento. Ma piano piano andrà meglio, te lo detto, non ti devi preoccupare."
Quella Cecilia era incredibile, pensò il Coordinator. Si stava ancora tormentando più per lui che per lei.
"Veramente al momento è la tua mano che mi sembra necessiti di un aiuto. Devi farti vedere da un dottore" la esortò, cercando di dare alla sua voce la durezza necessaria. Ma lei scosse la testa, muovendo con difficoltà le dita.

"Lascia perdere, ti ho detto. Il dolore sta già passando."

Che mentisse, al Coordinator era chiaro guardando la smorfia che le torceva ancora le labbra. Si sentiva estremamente in colpa per quello che era successo, anche se in parte era grato al piccolo incidente per aver distolto la sua attenzione da quello che aveva visto sullo schermo. Genuinamente impensierito per Cecilia, voleva che andasse a farsi medicare; e, tuttavia, temeva il momento in cui sarebbe rimasto solo con i propri pensieri. Respirò profondamente, cercando di non soccombere al panico e alle lacrime, e fissò la scienziata. Tanto per avere qualcos'altro da guardare che non quell'immondo spettacolo in televisione.

Abituato alla bellezza senza difetti dei Coordinator, 'numero Ventuno' non trovava nulla di attrattivo nel volto di quella Natural. E considerato quello che i suoi colleghi le dicevano dietro le spalle, lui sapeva che anche per i loro standard la dottoressa Jesek era considerata piuttosto brutta. Al Coordinator non erano mai piaciute le ragazze troppo formose, ma lei era fin troppo scarna, quasi emaciata, con gambe lunghe e magre e le spalle ossute di un'adolescente. L'unica attrattiva della scienziata erano i capelli folti, ricci e scuri, che sembravano dotati di vita propria, e lo sguardo, che brillava di un'intelligenza acuta.
Anche le labbra carnose, quasi fuori posto in quel viso smunto, non erano male, e adesso Cecilia le stava stirando in un sorriso impacciato.

"Non guardarmi così. Ti stai preoccupando troppo, ti dico."

Il Coordinator scosse la testa, silenziosamente, le parole con cui voleva di nuovo scusarsi soffocate in gola. L'unica consolazione che aveva, era che in quel momento il suo volto e i suoi occhi dovevano essere imperturbabili come quelli di una bambola. Perché anche se l'avevano sottoposto a dolorose operazioni di chirurgia plastica e ricostruttiva, gli avevano detto che era stato impossibile ricostruire interamente la sua struttura nervosa facciale. Apparentemente, con il tempo e grazie all'aiuto di medicinali rigenerativi, la situazione sarebbe migliorata, ma al Coordinator non importava minimamente di apparire distaccato. Non riusciva nemmeno a considerare l'idea di spiegare alla scienziata che l'aveva salvato perché si sentiva come un giocattolo rotto, gettato via perché inutilizzabile.
D'impulso, il Coordinator prese delicatamente la mano dolorante della dottoressa Jesek, avvertendo da parte di lei solo una leggera resistenza.

"Fa vedere" le sussurrò.

Lei lo lasciò fare.

Le passò le dita sulle sue, delicatamente, e non gli sembrò ci fossero fratture, ma dovette ricordare a se stesso di stare più attento con lei. Perché era una crudele ironia che la mente geniale che Cecilia possedeva, brillante come quella di un Coordinator, era pur sempre ospitata in un fragile, inadeguato corpo Natural. Poi, brutalmente se lo ricordò. Il suo corpo perfetto, geneticamente migliorato, non l'aveva salvato dall'essere orribilmente mutilato in battaglia, e tutto per un singolo atto di eroismo. Probabilmente un inutile atto di eroismo, ricordò a se stesso il Coordinator, dopo quello che aveva visto sullo schermo.
Malgrado tutti i suoi sforzi, i pensieri di 'numero Ventuno' franarono di nuovo nel suo incubo personale.

Se c'era qualcosa che l'aveva salvato dalla crudeltà di perdere completamente la sanità mentale, in quelle prime settimane nelle mani dei federali, era stato il pensiero che l'agonia che stava patendo era per una buona ragione: aver salvato la vita della persona che gli era più cara dopo i suoi genitori. Il Coordinator era sicuro che stessero soffrendo, tanto quanto lui, perché lo amavano profondamente. Lui era il loro unico figlio, e non aveva mantenuto la promessa di tornare a casa sano e salvo. Ma era stata consolante l'idea di aver risparmiato la stessa cosa al padre di un compagno che ammirava. Di un amico che considerava il fratello maggiore che non aveva mai avuto. Peccato che adesso non fosse più sicuro che Athrun fosse stato davvero suo amico.

L'abbraccio tra i piloti dello Strike e dell'Aegis, una volta avversari, si ripeté di nuovo davanti agli occhi del Coordinator e, come in un domino, tutto andò a posto mentre cominciava a pensare che magari Athrun aveva sempre conosciuto Kira Yamato. Quello avrebbe spiegato tutto. La riluttanza di Athrun. Le paure di Athrun. Le sue insicurezze nell'abbattere lo Strike.

'Le bugie di Athrun.'

'Numero Ventuno' aveva sempre mostrato affetto verso il riservato figlio di Patrick Zala, al punto da essere al suo fianco sempre e comunque. Aveva giustificato il suo strano comportamento di fronte ai più aggressivi commilitoni, pagando il prezzo del loro biasimo e dei loro insulti. E, adesso, stava crudelmente realizzando che quello che aveva avuto in cambio erano solo bugie, che gli avevano tolto tutto ciò che gli era di più caro al mondo.
Mentre quegli stessi compagni stavano ricevendo medaglie dalle mani immacolate di Lacus Clyne, lui era prigioniero dei nemici di PLANT, condannato a vivere come una bambola meccanica. Dimenticato da tutti.

Improvvisamente gli venne voglia di piangere, ma trattenne le lacrime. Non poteva farlo, anche se si sentiva morire. Perché piangere era da bambini, e quel tempo era finito per sempre.

Realizzando che stava ancora trattenendo la mano della dottoressa Jesek, il Coordinator la lasciò scivolare via dalla sua presa.

"Va tutto bene" ripeté la donna, aggrottando le sopracciglia come se avesse capito che c'era qualcosa che in lui non andava nonostante l'apparenza tranquilla. "Il dolore è scomparso."

Il Coordinator annuì, più a se stesso, grato che quel giorno fosse stato assegnato a lei e non a qualcun altro. Sarebbe stato insopportabile più di quello che già era.

Comunque, adesso il puzzle era completo, e tutto quello che doveva fare era dimenticare di avere mai visto quelle scene. Aveva già troppe cose che turbavano le sue notti insonni. Gli importavano veramente, poi? Gli interessava che Athun fosse amico di quel Kira Yamato? Non sarebbe stato meglio dimenticare tutto?
'Sì, vi dimenticherò' si disse, con un'ombra di determinazione che però sentiva rafforzarsi di secondo in secondo. Dopotutto, chi erano quelli? Solo ricordi di una persona che non esisteva più, che era morta su un triste, anonimo isolotto così lontano da casa.
Lui, S21NX, il 'numero Ventuno', condivideva con quel pilota deceduto solo le memorie.

'Io sono diverso da lui' ripeté il Coordinator a se stesso, trovando il pensiero incredibilmente consolante. Anche se neppure quello poteva interamente cancellare il dolore che sentiva dentro, bruciante come le fiamme dell'esplosione che avevano divorato il suo corpo.

Non resistette alla tentazione, e girò di nuovo la testa verso la televisione; i suoi impianti ottici seguirono Athrun, Kira e i suoi ex-amici mentre sparivano nella folla.

'Numero Ventuno' aveva sempre cercato di essere un bravo figlio per i suoi genitori, un onesto e leale amico per i suoi compagni d'arme, un obbediente soldato per i suoi superiori e, addirittura, un onorevole e misericordioso antagonista per i nemici di PLANT. Aveva voluto così tanto crescere e diventare un uomo degno di stima. Per quello non aveva mai maledetto nessuno durante la sua intera, breve vita.

Ma non poté fermare il pensiero che gli sovvenne, tanto naturale quanto, mesi prima, erano state le note delle melodie che aveva amato suonare al pianoforte.

"Vi odio" mormorò il Coordinator, augurando, a loro e alle persone che amavano, lo stesso dolore che lui stava provando. Lo stesso strazio che stava tormentando i suoi genitori.

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Capitolo 2
*** Sfida ***


Betareading a cura di Shainareth <3

Giocargli un tiro simile. Da lui, Yzak non se lo sarebbe mai aspettato.


Sfida


Nave spaziale Einstein, 20 ottobre 83 C.E.


Apre gli occhi molto prima che il segnale di inizio del suo turno si faccia sentire, oramai allenato a svegliarsi in anticipo, per avere tempo di prepararsi con calma. Malgrado quello che tutti pensano di lui, il Comandante Joule non è affatto una persona a cui piace affrettarsi inutilmente.

Metodicamente si prepara; la doccia lo sveglia completamente e, davanti allo specchio, mentre si pettina i lisci capelli argentei, scarta come al solito l'idea di iniziare la giornata con qualche esercizio di yoga. La moglie gliene ha insegnato qualcuno, sostenendo che siano ottimi per combattere il mal di testa che lo affligge ogni tanto, ma Yzak ha dubbi in proposito, e secondo lui è solo un bieco tentativo di Shiho per rilassarlo. In ogni caso quell'attività lo annoia da morire e, se deve scaricarsi i nervi, preferisce farlo in palestra, sfidando qualche sottoposto a karate. Quello che ha il potere di fargli passare qualunque malanno.

Yzak ci mette tutto il tempo necessario per sistemarsi l'uniforme candida, poi guarda con malcelato disprezzo la valigia già pronta, posata in un angolo della sua cabina; si sta già pentendo di avere preso una licenza per i giorni successivi.

Esce in corridoio nel momento in cui il segnale di inizio turno risuona per la nave e, dopo qualche passo, sente dietro di sé quelli del suo secondo, Ikary Razberger. Lo saluta portandosi la mano tesa alla tempia, e facendogli un cenno con la testa. Yzak non manca mai di far notare a Dearka quanto l'uomo che l'ha sostituito sia molto più efficiente di lui: non arriva mai in ritardo, la sua uniforme è sempre impeccabile, e non si spreca mai in battute quando non dovrebbe. Fatalmente, gli manca però la spumeggiante verve di Dearka, e Razberger non è certo la migliore spalla quando Yzak si sente in vena di cattiverie. Con lui il Comandante si annoia da morire, ma non lo confesserebbe al suo amico dalla pelle scura nemmeno morto.

Finalmente i due arrivano in plancia, dando il cambio alla coppia di militari che li ha sostituiti nel turno appena trascorso. Anche il resto dello staff operativo si sta alternando e, dopo un rapido giro di saluti, Yzak si accomoda nella poltroncina che domina il ponte di comando.
Lì, gli basta un'occhiata alle note lasciate nel diario di bordo per vedere che durante le otto ore precedenti non è successo assolutamente nulla di rilevante. Né un attacco di pirati, né un infinitesimale meteorite in rotta di collisione con la Luna. Neppure un mediocre scontro tra satelliti mal programmati. Nulla di nulla. È quello che Yzak aveva temuto.
Il suo umore sprofonda ancora di più e, per distrarsi, ordina un addestramento a sorpresa. Il suo secondo gli lancia un'occhiata stranita che dura un attimo, ma si riprende subito e, dopo un momento di smarrimento generale, il ponte comincia a fremere di attività. Nessuno ci tiene a far arrabbiare inutilmente il Comandante Joule, quando è palesemente già innervosito.

Le attività lo tengono impegnato per qualche ora, e gli consentono di sfogarsi così tanto che, quando arriva il momento del pranzo, Yzak è talmente affamato che in mensa ufficiali si concede ben due porzioni di dolce. Prendendo la scusa che deve rivedere certi rapporti si rifugia quindi con il suo vassoio colmo nella quieta solitudine del suo ufficio.

È solo quando ha terminato, mentre sorseggia un tè verde che giudica terribile, che Yzak digita il codice che gli permette di mettersi in comunicazione con Dedalus, la base lunare di ZAFT. È l'ora stabilita per la chiacchierata che ha promesso a sua moglie.

Il bel viso di Shiho, incorniciato dalle ciocche scure, gli appare sullo schermo olografico dopo pochi secondi. Sorridente. In una maniera irritante.

"Tutto bene?" gli fa lei. "Pronta la valigia?"

Yzak soffoca una smorfia dietro il bordo della tazza. "Ovviamente. Da ieri sera."

La lapidaria risposta non smonta l'apparente buon umore di Shiho. Anche se lei deve essere perfettamente consapevole di quanto lui sia indispettito. Che continui perciò ad avere quell'espressione soddisfatta lo infastidisce ancora di più.

"Benissimo, ti confermo che lo shuttle attraccherà come da programma alla Einstein alle 19.00. Fatti trovare pronto, partiremo per la Terra dopo il rifornimento di carburante. L'atterraggio ad Orb è previsto alle 21 e 43, ora locale."

Un sospiro lascia le labbra pallide di Yzak. Qualunque cosa faccia, da un'indagine di polizia al cucinare una torta, Shiho Hahnenfuss è precisa fino allo sfinimento.

"Grazie della notifica, ma guarda che comando io qui, so perfettamente quando il tuo shuttle è programmato in arrivo da Dedalus."

"Non si sa mai, ricordo ancora che quando ero con Dearka nel tuo team tentavi sempre di dimenticarti degli appuntamenti che non ti garbavano."

La tazza che Yzak sta stringendo ha un curioso scricchiolio, e lui decide di posarla prima di farle fare un brutta fine. "Tentavo, appunto. Ma mi era impossibile con te che mi ricordavi sempre tutto come una perfetta segretaria."

Shiho, dall'altra parte dello schermo, solleva le spalle. "Già, ma non fare quella faccia offesa, è un appuntamento importante, se non avessi voluto esserci avresti dovuto trovare una scusa plausibile subito."

Su quello, Yzak non può che darle ragione. Annuisce, sapendo di non avere scampo da quello che lo attende nei giorni successivi. Non può nemmeno prendersela troppo con la moglie.

"Lo so! Dovevo prepararmela tempo fa. Ma come facevo a sapere che sarebbe arrivato a tanto?"

Gli occhi di Yzak fissano con astio la fotografia posata sulla scrivania, che lo ritrae il giorno del diploma all'Accademia di ZAFT insieme agli altri migliori studenti del loro anno ed al loro tutor, Miguel Ayman.

"Brutto bastardo…" sibila all'indirizzo di uno dei ragazzi che gli fanno compagnia nella foto. Giocargli un tiro simile. Da lui, Yzak non se lo sarebbe mai aspettato.

Dopo qualche veloce convenevole la conversazione tra lui e Shiho termina con la promessa di essere pronto per la partenza al momento stabilito. Yzak si rende conto che non ha proprio modo di scampare, a meno di non augurarsi un tentativo di dirottamento. Anche se l'ultima volta che è successo ha personalmente guidato il gruppo di commando delle forze speciali a riprendersi la nave, e sbattuto i terroristi fuori da una chiusa d'aria. Tutto in una manciata di ore. Troppo poche per salvarsi dall'improrogabile impegno ad Orb.

Il pomeriggio passa velocemente, e presto Yzak si ritrova sul ponte principale, la valigia posata accanto a lui. Poco prima ha passato i comandi a Razberger, il quale si è ben guardato dall'augurargli buone vacanze. Questa è una cosa che apprezza molto nell'uomo: a differenza di Dearka, non si lascia mai andare a commenti non richiesti che sa che lui detesterebbe.

Yzak attende che lo shuttle abbia correttamente terminato le procedure di attracco, per poi salire a bordo.

Individua subito la moglie tra i pochi passeggeri, e si accomoda nella poltrona di fronte a lei; o meglio vi sprofonda, lasciando che un leggero grugnito gli sfugga dalle labbra.

Shiho, alzando gli occhi dalla rivista che sta sfogliando, gli sorride di sbieco. "Nemmeno un bacio di saluto?"

"Non quando sono ancora in servizio! La mia licenza comincia tra due ore" è l'acida replica. Poi Yzak appoggia il gomito sul bracciolo della poltrona e posa il mento sulla mano chiusa a pugno, fissando il giornale della moglie. "E quello? Da quando in qua leggi riviste di moda?"

Shiho scuote leggermente le spalle. "Sei proprio di pessimo umore! Questa è solo per farmi venire qualche idea, vorrei comprarmi qualcosa di carino stavolta."

"Spero che le tue idee non contemplino anche me. Ho tutto il necessario in valigia."

Con calma, Shiho riprende a sfogliare la rivista. "Lo dici tu. Quella camicia rosa che vuoi mettere avrà almeno dieci anni. Domani ti porto a fare shopping, che tu lo voglia o no. Non vorrai fare brutta figura davanti a tutti i tuoi amici e, soprattutto, ad Athrun Zala?"

Shiho non avrebbe potuto tirargli colpo più basso. Con un pesante sospiro Yzak si appoggia allo schienale, passandosi una mano nei capelli.

"È proprio necessario ricordarmi che ci sarà anche lui?"

"Non ho capito: ce l'hai perché sarà presente o perché sta benissimo in abito di gala?"

"Mi prendi in giro?"

Con in faccia un'espressione esasperata Shiho lo fissa, piantandogli gli occhi addosso. "No. E calmati. Ho capito che sei scocciato, e che non te l'aspettavi, ma dovresti cercare di trovare il lato buono della situazione. Ci prendiamo finalmente una breve vacanza insieme in un posto meraviglioso, passeremo qualche giorno con tutti i nostri amici che non vediamo da un po', soprattutto, avrai l'occasione di rilassarti." La giovane donna incrocia le braccia sotto al seno, mentre riprende a sorridere, quasi maliziosa. "Ti servirà, te l'assicuro. E piantala di fare i capricci, o mi farai venire il dubbio che sei geloso."

"Non dire stupidaggini" sibila il Comandante dai capelli argentati, sentendo le gote imporporarsi leggermente. Quella calunnia lo perseguita dai tempi dell'Accademia, e odia quando la moglie la tira a galla per estorcergli qualcosa.

La osserva riprendere la sua indagine tra le pagine del giornale, e può benissimo vedere come sia compiaciuta di averlo messo in difficoltà. Yzak, che preferisce non rinfocolare quell'inutile battibecco, sprofonda in un silenzio risentito, ancora più innervosito perché sa che Shiho ha perfettamente ragione. È da quando il problema con i Nova è esploso, molti mesi prima, che lui non si concede più una licenza come si deve. E, per quanto lo neghi davanti a tutti, è ansioso di rivedere i suoi amici. Nicol e Miguel, che aveva creduto morti per anni, Athrun. E Dearka. Anche lui, nonostante la situazione in cui l'ha cacciato.

Yzak socchiude gli occhi azzurri, fissando la paratia della Einstein che sfila veloce accanto allo shuttle in partenza per la Terra. È un attimo, poi il campo stellato si staglia nel finestrino.

Guarda di soppiatto Shiho, intenta a piegare l'angolo di una delle pagine della rivista. Imbarazzato, attira la sua attenzione con un colpetto di tosse. Gli manca quasi il coraggio quando gli occhi di lei si posano su di lui.

"Sì?"

"Davvero quella camicia rosa mi sta tanto male?"

La giovane annuisce, quasi solenne, per poi allungargli il giornale. Il modello fotografato nella pubblicità indossa un bell'abito elegante, grigio antracite, abbinato ad una camicia candida e ad una cravatta di un inconsueto color mercurio chiaro.

"Quel colore si abbinerà benissimo con i tuoi capelli" Shiho commenta, e lui deve proprio darle ragione.

Con una punta di vanità, immagina che vestito così sarà il più elegante alla cerimonia e, di certo, surclasserà Athrun il cui gusto nel vestiario non è certo migliorato nel corso degli anni. Yzak sorride per la prima volta da quella mattina. Finalmente, ha trovato almeno un buon motivo per scendere a terra.

Non esiste di essere meno elegante di Athrun Zala. Proprio no! Altro che partecipare all'inaspettato matrimonio di Dearka! Altro che fargli da testimone!

Sotto lo sguardo perplesso di sua moglie, Yzak si mette a sfogliare febbrilmente la rivista in cerca del resto degli accessori, le labbra tese in un ghigno pericoloso.

"Porca puttana, questa è una sfida!"

 

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Capitolo 3
*** S.T.O.R.M. ***


Betareading a cura di Shainareth :)
Con questa storia facciamo un passo indietro nel tempo, visto che si situa prima degli avvenimenti di 'Irreparabile'; prima che la dottoressa Cecilia Jesek incontri le sue bambole.
Questa storia partecipa al concorso Nice to Meet You - Presentaci il tuo personaggio (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9738311&p=1) indetto da Miss Bellis e Miss DataLore.

Che stessero denigrando il suo progetto, il suo sogno, definendolo senza mezzi termini uno sbaglio, non le andava proprio giù. Non lo era: tutti i suoi calcoli le dicevano il contrario.


S.T.O.R.M.


Washington, 30 marzo 71 C.E.


La dottoressa Cecilia Jesek scese cautamente dall'auto, attenta a non scivolare. In quei giorni di fine inverno faceva ancora freddo a Washington, e il suolo era coperto da un leggero strato di nevischio.
Residente alle Bahamas da anni, dove lavorava in un centro ricerche militari della Federazione Atlantica, la scienziata aveva quasi dimenticato cos'era il brutto tempo, e i lunghi e bui inverni della Scandinavia, la penisola euroasiatica dove era nata.

'Mi beccherò un raffreddore!' pensò soffocando uno starnuto. Frugando nella tasca del cappotto alla ricerca di un fazzoletto, si volse verso il gruppo di colleghi. Nessuno nascondeva la preoccupazione per l'audizione al Congresso, davanti alla Commissione incaricata di investigare lo stato di avanzamento del progetto a cui stavano lavorando.
La ragazza sospirò, per poi avviarsi verso l'entrata del Campidoglio riservata ai visitatori mettendosi alla destra di Lenk Granato, il loro capo. Sentendolo borbottare, girò gli occhi nocciola sulla corpulenta figura dell'americano.

"Lascia parlare me, va bene?" le disse lui.

"Ma io potrei..."

Lenk la interruppe scuotendo la testa. "No. Sei troppo coinvolta. Rischi di dire qualche cazzata, per cui difenderò io la nostra posizione. Dopotutto, legalmente sono io il capo progetto e tu la mia prima assistente."

Cecilia alzò un sopracciglio: in realtà era lei l'ideatrice di quella linea di ricerca. Quella che da lì a poco, temeva, sarebbe stata interrotta.

Entrando nel palazzo la scienziata sbirciò il suo riflesso nei vetri delle porte scorrevoli. Il volto lungo, dai lineamenti semitici e dalla pelle olivastra, considerato brutto in un mondo abituato alla raffinata bellezza dei Coordinator, le parve ancora più stanco e sfiduciato di quando avevano lasciato Nassau, e lei sapeva che non era a causa del raffreddore incipiente. Soprappensiero, si passò una mano nei capelli ricci, scuri ed indomabili.

'Il progetto sta fallendo. Ma non per un mio errore.' Tanto era sicura di se stessa e delle sue capacità.



L'udienza si rivelò quello che Cecilia aveva temuto: un'esecuzione. Seduta in platea con i suoi colleghi, davanti ad una cattedra dietro alla quale erano accomodati due politici e qualche militare di alto grado, aveva nervosamente ascoltato le domande rivolte a Lenk, le cui ragionevoli risposte erano state prontamente affossate tra le critiche.

Cecilia era furiosa. Che stessero denigrando il suo progetto, il suo sogno, definendolo senza mezzi termini uno sbaglio, non le andava proprio giù. Non lo era: tutti i suoi calcoli le dicevano il contrario. Quando uno dei commissari mostrò sullo schermo uno dei più penosi risultati del progetto, insultando Lenk per quello che avevano combinato, Cecilia non riuscì più a trattenersi.

"Le faccio notare che quello è solo imputabile al materiale che ci avete fornito" sibilò alzandosi addirittura in piedi.

Dopo un secondo di raggelato silenzio Cecilia sentì tutti gli occhi su di sé, compresi quelli di Lenk, che si rifiutò di incrociare. Chi meglio della sua stessa ideatrice poteva difendere il progetto?

Lo sguardo del commissario, un militare con il grado di Colonnello, era carico di disprezzo. "Dottoressa Jesek. Il finanziamento della vostra linea di ricerca era stato deciso perché ci forniste armi in grado di battere i Coordinator sul loro stesso piano: l'efficienza fisica. Volevamo soldati più veloci e forti di quei mostri geneticamente modificati, per questo il progetto di impiantargli protesi bioniche ci sembrò un ottimo investimento. Vi abbiamo anche trovato volontari per gli esperimenti, valorosi soldati della Federazione che si sono fatti consapevolmente espiantare organi e arti sani per sostituirli con i vostri marchingegni." L'uomo picchiò un pugno sul tavolo, alzando considerevolmente la voce. "Avete prodotto dati e modelli che sembravano ineccepibili. Ci avevate garantito la riuscita del progetto. Invece la sperimentazione umana è fallita. Avete trasformato i nostri uomini in disabili, poveracci i cui corpi oramai rigettano anche le tradizionali tecniche protesiche o di bioprinting. Eticamente come lo giustifica questo, dottoressa?" terminò furente.

Cecilia non abbassò lo sguardo. "Colonnello, le ricadute etiche di questo progetto non turbano i miei sonni, altrimenti non avrei mai acconsentito a svilupparlo per un uso militare." Pensavano che lei avrebbe ammesso pubblicamente che la sconvolgeva il pensiero di impiegare in guerra impianti che lei aveva pensato proprio per curare soldati rimasti mutilati? Si sbagliavano di grosso. "I dati sono ineccepibili" scandì. "E tutti i modelli matematici sviluppati su quelle basi hanno dato una probabilità di successo degli innesti del 97%." Con un gesto blando della mano la scienziata indicò lo schermo, dove ancora campeggiava l'immagine di un uomo costretto su una sedia a rotelle. C'era un punto fondamentale che Lenk, nella sua difesa, non aveva toccato; ma Cecilia non aveva intenzione di lasciare che il sentimento di pietà, che pure provava, verso quel poveretto, la fermasse.

"Vedete" fece rivolta a tutti i membri della Commissione. "Il problema non sono i miei impianti, ma il materiale umano. Il sistema immunitario di queste persone li ha rigettati, e le loro terminazioni neurali non sono riuscite ad interfacciarsi con quelle sintetiche. E non c'è nulla da fare." Cecilia si mise una mano sotto il mento. Lei era la prima a non capire come potesse essere possibile, e anche in quel momento stava cercando di trovare una soluzione. "Per risolvere la situazione, vi posso solo suggerire di continuare gli esperimenti."

Un pesante silenzio cadde tra i presenti e Cecilia poté avvertire i colleghi che si scostavano da lei. Mentre i componenti della Commissione la fissavano sconcertati, una voce si levò dalla platea.

"Lei si rende conto che dovrebbero essere i suoi impianti a doversi adattare ai nostri soldati, e non viceversa?"

Cecilia girò la testa verso l'uomo che aveva parlato. L'aveva notato appena entrata in sala, seduto di lato, come se volesse tenersi in disparte. Dimostrava una trentina d'anni, biondo e di bell'aspetto; aveva l'aria scaltra di un avvocato di successo. La fissava girato di sbieco sulla poltroncina, e a lei sembrò divertito.
La scienziata scosse le spalle. "Se davvero volete qualcosa che riesca a far superare a quegli uomini i limiti imposti dai loro inefficienti corpi Natural, i settaggi dei miei impianti non possono essere modificati. Potrei lavorarci su, ma non garantisco le stesse performance."

"Ma non capisce che non ci servono a nulla se i nostri soldati non riescono a sopportarli?" urlò il Colonnello.

Cecilia non rispose, la sua attenzione completamente attratta dal biondo sconosciuto. Che, a sua volta, non sembrò accorgersi dell'interruzione.

Il suo sorriso diventò un ghigno pericoloso. "Cecilia Jesek, diciannove anni, dottorato di ricerca in biorobotica al MIT. Lei è una Coordinator?" le chiese a bruciapelo.

Neanche troppo sorpresa dalla domanda, Cecilia scosse la testa. Quante volte gliel'avevano posta? Lei era una Natural, nata senza essere stata geneticamente modificata, ma il suo quoziente intellettivo, di molto superiore alla norma, attraeva invidie ed insulti, che lei contraccambiava con indifferenza e arroganza. Odiava la stupidità umana, in un mondo dove chi era migliore degli altri era spesso accusato di essere un Coordinator. Il nemico.

La scienziata indicò il suo corpo, di una magrezza ben poco attraente che il severo tailleur grigio esaltava invece di celare. "Sono troppo brutta per essere una Coordinator, signor…."

"Muruta Azrael" rispose lui prontamente, alzandosi in piedi. "Lei mi piace. Per combattere quei mostri c'è bisogno di qualcuno che ragioni come lei, con il necessario distacco emotivo; l'etica, in questa guerra, ci renderà solo schiavi dei Coordinator." L'uomo lanciò uno sguardo alla Commissione, i cui membri sembravano pendere tutti dalle sue labbra. "Prendete una decisione sulla base del vostro budget" disse. "Quanto a noi, mi è venuta un'idea." Azrael fece a Cecilia un cenno della testa. "Non le prometto nulla, dottoressa, ma forse noi saremo in grado di fornirle quel materiale umano che cerca."

Poi se ne andò, lasciando Cecilia a chiedersi chi fosse, e a chi si riferisse con quel 'noi'.



Lenk la affiancò mentre uscivano. La bloccò lasciando proseguire i colleghi, e mettendole una mano sulla spalla, che Cecilia fissò con curiosità. Pensò che la volesse rimproverare per aver aperto bocca, invece la stupì.

"A volte vorrei che fossi meno presuntuosa, e considerassi di più gli aspetti morali del tuo lavoro. Sei troppo giovane per essere così cinica." Lenk si passò una mano sulla guancia. "Anch'io ho molti dubbi per quanto riguarda questo progetto."

Quel discorso, Cecilia non poteva sopportarlo. "Io no" rispose con sicurezza. "E funzionerà, te lo dico io."

Irritata, riuscì ad infilarsi sola in ascensore.

Non aveva mai avuto fiducia negli esseri umani e, anche se non conosceva nessun Coordinator, poteva immaginare che non fossero poi così diversi dai Natural: entrambi niente altro che scimmie ottuse e cattive, che avevano sprofondato la Terra e le colonie orbitanti in una guerra devastante.
Ma, non poteva confessarlo a nessuno, il progetto S.T.O.R.M. –Synthetic Technology On Regenerating Machines- le avrebbe dato i compagni che aveva sempre desiderato. Come lei, che aveva l'intelligenza di una Coordinator nello sgraziato corpo di una Natural, dissimili dal resto del consesso umano; ibridi uomo-macchina che l'avrebbero fatta sentire meno diversa.
Bellissimi soldatini sintetici, bambole come quelle che da piccola erano le sue uniche compagne di giochi.

Stancamente, Cecilia sorrise.

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Capitolo 4
*** Black Op ***


Betareading a cura della mia carissima Shainareth <3
Questa volta la storia è tutta dedicata al nostro Miguel, e alla sua nuova vita sulla Terra come mercenario di Serpent Tail. Mi sono sempre chiesta se si divertisse mai durante le missioni... forse dipendeva dalla compagnia ;)
Questa storia è anche dedicata a Sippu, per l'ispirazione!
Messaggio di servizio, la precedente oneshot S.T.O.R.M. è arrivata seconda a pari merito al concorso "Nice to Meet You - Presentaci il tuo personaggio" http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9738311&p=12 Woohoo! :)

Dovevo parlare con Cecilia. Bisognava assolutamente aggiornare il software di quei pazzi scellerati.


Black Op


Tijuana, 3 marzo 76 C.E.


Dal rapporto del supervisore della Squadra A, Miguel Ayman


Cinque anni, due mesi e qualche giorno. Da tanto sono in Serpent Tail e le nostre missioni, anche se nessuno le chiama così, sono sempre 'black ops': black operations. Illegali. Clandestine. Roba che garantirebbe ad ogni mercenario trent'anni di galera, se catturato. O una pallottola in testa. Più facile la seconda, in effetti. Ogni tanto capita però di ricevere dall'alto l'incarico di organizzare una vera black op cioè, nel gergo di Serpent Tail, un lavoro così di merda che i boss non hanno trovato nessun altro fesso a cui rifilarla. E indovina? Essendo il sottoscritto il responsabile di una delle migliori squadre di Serpent Tail, queste grane toccano il più delle volte ai miei ragazzi.
Va bene quando tutto quello che devo fare è pianificare l'attacco e rimanere a sorseggiare tequila nell'attesa che i buzzurri di Cecilia Jesek tornino; va invece molto male quando i vertici chiedono a me di accompagnare i commando nella scampagnata. So che non si fidano totalmente degli STORM ―e niente mi toglie dalla testa che qualcuno dei boss abbia ancora in mano i codici di autodistruzione dei buzzurri― quindi, che io li segua nelle missioni meno impegnative è perfettamente logico, dal punto di vista dei capi, e una gran rottura di palle dal mio.


L'email con i dettagli della black op mi arrivò una soleggiata mattina che avevo deciso di spendere a fare surf nelle acque della Baja California, in compagnia di una hostess mozzafiato della Continental Airlines. Addio ombrellone, surf e bionda; nemmeno due ore dopo averla salutata ero in volo su un aereo privato di Serpent Tail diretto in Sudamerica, e già in contatto con i ragazzi che mi avevano ordinato di coinvolgere. Che non fosse una missione come tutte le altre l'avevo capito dalle convocazioni: Lorran Escobar, Nicol Almark, Alpha Trion. Insieme, il più indegno gruppo di pigne in culo che la storia di Serpent Tail ricordi. Bravissimi singolarmente, ma capaci di lavorare in team come una mangusta con un cobra incantatore.


Sfogliai i file che il gruppo di intelligence e sorveglianza mi aveva inviato, maledicendo l'idiozia di certi buffoni, signori della droga tanto ricchi quanto stupidi. Avevano organizzato un gioioso meeting di tutti capi del cartello della loro regione per spartirsi le zone di influenza e, quando uno di loro aveva rifiutato di presenziare, per ritorsione gli avevano rapito moglie e figlio. Avevano sottovalutato la disperazione di un marito privato della bella moglie o di un padre il cui unico rampollo maschio era in pericolo? Probabilmente entrambi, realizzai ridendo, se il bastardo non era strisciato contrito nel covo delle serpi ma aveva contattato il locale agente di Serpent Tail implorandolo di risolvergli il problema in cambio di un sacco di soldi. E non solo voleva indietro i suoi amati beni, ma anche spedire i colleghi all'altro mondo. Proprio due piccioni con una fava.

Mi versai una vodka allungandola con del succo d'ananas fresco, esaminando la situazione. Il meeting avrebbe avuto luogo su uno yacht di lusso, l'Event Horizon. Centoquindici metri di lunghezza, cinque ponti, due piattaforme di atterraggio per elicotteri o flyers, trenta persone di equipaggio. Tutte conosciute dalla cricca; impossibile infiltrarci uno dei nostri. L'imbarcazione era già in acque internazionali, circondata da una rete di sorveglianza sonar e radar che impediva l'incursione con qualunque tipo di mezzo, troppo estesa perché un subacqueo potesse avvicinarsi. I signori della droga sarebbero partiti il giorno dopo, da differenti località, e qualcuno avrebbe portato con sé gli ostaggi. Erano stati pazzi a rapire la famiglia di uno di loro, ma furbi abbastanza da assicurarsi che con i prigionieri a bordo a nessuno sarebbe venuto in mente di far saltare in aria il loro yacht con un missile antinave. Beh, forse la polizia di quel paese sudamericano ci avrebbe fatto un pensierino pur di mandare all'inferno tutti insieme quei bastardi; era per quello che il padre disperato si era rivolto a noi invece che alle legittime autorità?

Lasciai perdere il succo d'ananas e presi un sorso di vodka pura direttamente dalla bottiglia mentre aprivo il file della missione vera e propria, preparata dai nostri strateghi. Non ci fossi stato dentro fino al collo, mi sarei divertito a leggere cosa i cervelloni avevano architettato per risolverci tutti quei problemi logistici.

Infiltrare Lorran, come sempre, era un gioco da ragazzi. I narcotrafficanti non potevano esimersi dall'avere un harem di baldracche al seguito e, nello stesso momento in cui io sorseggiavo il mio drink, la rossa aveva appuntamento con uno dei boss per un 'colloquio' di lavoro. Non avevo dubbi che le sue capacità le avrebbero garantito di salire a bordo senza problemi. Sentii le labbra piegarsi in una smorfia involontaria. In fondo in fondo sono un gentiluomo con le signore e, nonostante lei stessa dica che è divertente, non riesco a non pensare come tutto questo sia oscenamente sbagliato.
Lasciai perdere il suo file e mi concentrai su quello di Nicol e Alpha. Purtroppo nessuno degli ospiti gradiva la compagnia di un bel ragazzo, e nemmeno era stato possibile inserire Alpha tra i gorilla dei signori della droga, per cui i nostri boss avevano dovuto optare per una soluzione alternativa. Mi raggelai nel leggerla, perché riguardava anche me: avremmo tutti e tre raggiunto il panfilo a nuoto.

Anche considerando di avere me attaccato ad uno di loro, i due buzzurri potevano coprire facilmente la distanza richiesta, e senza propulsori a motore non c'era modo di distinguerci da normali branchi di pesci. In quella zona, si specificava nel file, erano piuttosto comuni quelli di squali bianchi.

Chiusi il portatile, mi versai il resto della vodka in gola e decisi che mi meritavo un pisolino. Avevo letto già abbastanza cazzate.


L'arrivo a destinazione, nell'aeroporto della piccola città sudamericana, fu demotivante. Il cielo era coperto da una cappa di nubi biancastre, e l'umidità disgustosa mi appiccicò la camicia alla pelle appena sceso dalla scaletta dell'aereo. Dovevano esserci più di quaranta gradi. Un SUV nero mi aspettava sulla pista; appoggiato alla fiancata un pelato in hawaiana e bermuda, che sapevo essere il locale coordinatore di Serpent Tail, non mi tolse gli occhi di dosso per tutta la passeggiata.
Accanto a lui Lorran si faceva aria svogliatamente con un ventaglio, i capelli rossi raccolti in uno chignon e addosso il minimo indispensabile per non essere arrestata. Anche se sapevo che erano finte non potei non fissarle le tette; lei mi lanciò un sorrisetto allusivo al quale io risposi con un ghigno noncurante. Il solito teatrino. Prima o poi me la sarei fatta, era certo, ma solo quando avessi avuto la certezza di avere io il coltello dalla parte del manico. Miguel Ayman non è la preda di nessuna puttanella, per quanto tecnologicamente avanzata possa essere.

Il pelato si presentò come Sou Rainwalder, mi fece accomodare nell'auto e partimmo insieme verso la città. Nel tragitto verso l'appartamento che ci avrebbe ospitato per un paio di notti mi guardai in giro. Non che il panorama meritasse. La città era ordinata ma assolutamente anonima, costruita probabilmente con i fondi per la ricostruzione che l'Alleanza Atlantica aveva versato ai suoi ex-alleati dopo la guerra. Era anche piuttosto ricca, a giudicare dal numero di macchine di lusso che sfilavano accanto al nostro veicolo.

Indicai i viali ben tenuti. "Perché è stato scelto questo posto come base delle operazioni? Non era meglio una località più malfamata?"

Rainwalder scosse le spalle. "No. I signori della droga controllano tutto, e qui l'arrivo di tre ricchi Coordinator dà meno nell'occhio. Questo posto è turisticamente abbastanza famoso."

Il pensiero che non mi considerava nel gruppo di Coordinator mi strappò una smorfia annoiata, e mi fece sfiorare con la mano la fronte coperta dalla bandana. La cicatrice che mi sfregiava il volto mi confondeva efficacemente con i Natural, anche se avrei voluto che scomparisse all'istante.

Arrivammo al residence piuttosto in fretta: una costruzione nuova circondata da giardinetti ben curati. Mentre entravamo incrociai nell'ingresso un gruppo di ragazze sorridenti, cariche di borsoni da spiaggia; almeno un paio erano Coordinator. Il mondo era proprio cambiato in soli tre anni.

Alpha in persona ci aprì la porta dell'appartamento, riempiendo tutta la soglia. Aveva in faccia l'espressione di chi avrebbe voluto essere ovunque meno che lì. Odiava il caldo e non gli erano simpatici né Lorran né Nicol. Chi dei boss aveva avuto l'idea di farli lavorare insieme per quella missione doveva avere uno stano senso dell'umorismo.

Nicol, seduto sul divano con i piedi appoggiati ad un basso tavolino, alzò gli occhi per farmi giusto un breve cenno di saluto, preso dal videogioco che assorbiva tutta la sua attenzione. Ultimamente era diventato un patito di RPG sparatutto, come se non gli fosse bastato far fuori la gente anche nella realtà. Quel ragazzo era assolutamente fuori di testa, e mi preoccupava non capire ancora esattamente quanto.


Passammo la serata a sbocconcellare pizza e preparare la missione, il tutto intervallato da un paio di docce da parte mia. Rainwalder non sembrava soffrire il caldo, e nemmeno gli altri tre. Io ringraziai il cielo che la missione sarebbe durata solo una manciata di giorni; quel clima mi stava uccidendo.

Quella notte, nonostante avessi messo il condizionatore ad una temperatura polare, non riuscii a dormire molto. È sempre così prima di un lavoro importante; posso sembrare menefreghista, ma ho imparato da tempo a non sottovalutare i miei avversari. A parte la criticità dell'arrivare a bordo non individuati, quella missione non era per sua natura particolarmente difficile ―eravamo pagati per far fuori i narcotrafficanti nel modo più spettacolare possibile― ma il doverne venire fuori con gli ostaggi intatti incasinava tutto. Avevamo le piante del panfilo e sapevamo quanti sarebbero stati a bordo oltre i dieci boss della droga: trenta membri dell'equipaggio, venti guardie del corpo, sei o sette battone; i gorilla erano già dead men walking, come dicono nella Federazione Atlantica, ma il resto era un fottio di gente da tenere sotto controllo. E sapevo già che Nicol avrebbe fatto storie ad affondare la nave con dei marinai innocenti sopra, anche se erano tizi sul libro paga dei narcotrafficanti. Mi girai nell'ampio letto godendomi il contatto con le lenzuola fresche. Pazienza. Non c'era nulla che gli potessi imporre senza rischiare di farmi spaccare un braccio, meno male che in operazioni come quelle i danni collaterali sono inevitabili.


Il giorno successivo trascorse senza eventi di rilievo; Alpha si allenò e dormì, Nicol continuò ad ammazzare zombie, io e Rainwalder passammo ore al poligono. La mia mira era sempre perfetta e l'uomo di Serpent Tail mi fece i complimenti, aggiungendo che mi sarebbe servita. Non c'era nessuna ironia nelle sue parole.

Lorran invece uscì di casa presto per recarsi ad un eliporto fuori mano, da dove l'avrebbero prelevata per trasportarla sulla nave. Non prese nulla con sé, nemmeno uno spazzolino; così le avevano ordinato di fare. Si chiuse la porta alle spalle senza nemmeno la più labile traccia di imbarazzo sul viso, nonostante stesse praticamente andando a prostituirsi. Ma aveva detto e ripetuto, in altre occasioni, che quello per lei era solo lavoro. A volte mi chiedo se a Nassau le abbiano espiantato anche il cuore e la coscienza, insieme a tutto il resto.


Lasciammo passare ancora trentasei ore prima dell'inizio della missione. Volevamo che tutti quelli a bordo si rilassassero e, constatata la sicurezza del rifugio che avevano scelto, allentassero la sorveglianza. Uno yacht di lusso, calde notte tropicali, alcool e donne di facili costumi costituiscono di solito tentazioni troppo forti anche per soldati addestrati; avevo pochi dubbi che i gorilla dei narcotrafficanti sarebbero cascati come pere cotte.
Mezz'ora dopo il tramonto del terzo giorno dal mio arrivo in Sudamerica, raggiungemmo su una comunissima barca di pescatori il punto dove ci saremmo immersi. Durante il tragitto c'eravamo intanto preparati alla discesa: attrezzatura da sub completa di fucile subacqueo ―tanto per scoraggiare qualunque predatore avesse avuto la cattiva idea di scambiarci per la sua cena―, rebreather, armi infilate in contenitori stagni, esplosivo ad alto potenziale per cancellare la nave dei trafficanti dai registri nautici. Provai un attimo di sgomento quando, affacciatomi alla fiancata del barchino, vidi l'orizzonte sgombro. Non c'era traccia della nostra destinazione, nemmeno un puntino luminoso sulle acque nere. Alpha mi mise una mano sulla spalla, delicato quanto un Caterpillar.

"Non ti preoccupare, capo" mi disse toccandosi la tempia con l'indice. "Tu vieni con me. E io so esattamente dove andare. Il segnale GPS che mi sta inviando Lorran è forte e chiaro e, come da programma, l'Event Horizon è all'ancora su un basso fondale e ci rimarrà fino a domani mattina."

Per qualche ragione il buzzurro sembrava avermi preso in simpatia, ma cercai comunque di non mostrarmi debole; con Alpha poteva essere un errore fatale.

"Perfetto. Ma ricordati di variare un po' la rotta, dobbiamo sembrare pesci, non siluri."

"Lascia fare a me, l'unico problema che potremmo avere è che qualcuno non riesca a starci dietro."

Guardai Nicol, ma l'interpellato si limitò a scuotere le spalle. "Fai quello che vuoi, bestione. Tanto le armi serie le ho tutte io. Anche se tu arrivassi prima, che vuoi fare con il solo fucile subacqueo?" Il ragazzo esibì un'aria sarcastica, indicandosi la testa. "Anzi. Perché non cominci a prendere quei balordi a testate? Tanto ce l'hai dura."

Alpha grugnì in disapprovazione, e io non riuscii a non lanciare a Nicol un sorrisetto divertito. Nonostante l'aspetto quieto aveva un bel caratterino, che l'incidente di cinque anni prima non aveva smorzato.

Ripassato per l'ultima volta il piano salutammo Rainwalder e ci gettammo in acqua ―io legato con cinghie al dorso di Alpha― raggiungendo la profondità di tre metri. Non sarebbe stato necessario scendere oltre. Ci muovemmo subito, e l'accelerazione in avanti mi stupii: sembrava esattamente come essere in groppa ad un propulsore a motore.


Perfettamente in orario, dopo due ore di navigazione io e Alpha arrivammo a toccare lo scafo del grosso panfilo, senza uscire dall'acqua. Mi sganciai dal mio improbabile mulo da soma, e nel frattempo Nicol ci raggiunse. Doveva essere stata dura per lui, meno robusto di Alpha, ma era un professionista e non lo diede a vedere; mi fece subito un cenno di assenso, indicandosi e alzando un pollice.

Io feci lo stesso, seguito da Alpha. Eravamo pronti.

Con imbracciati i fucili subacquei ci muovemmo verso il lato sinistro dello yacht. Da quella parte c'era un portello utilizzato per il carico delle merci. Come da programma, Lorran avrebbe dovuto farcelo trovare aperto, e comunicare l'ok via wireless ad Alpha. In caso contrario avevamo sufficiente esplosivo per risolvere il problema, ma sarebbe stato un pessimo inizio visto che volevamo mantenere un basso profilo, almeno fino al recupero degli ostaggi.

Ci fermammo ai lati del portello, ad una trentina di centimetri sottacqua; dopo qualche secondo, Alpha diede il via libera. Era una gran cosa che i buzzurri di Cecilia riuscissero a comunicare tra loro in quel modo.

Nonostante sapessi che Lorran era una compagna fidata, emersi con una vaga apprensione a chiudermi la bocca dello stomaco. Era il momento più delicato della missione: in quel punto eravamo completamente vulnerabili. Forse i miei compagni potevano sopravvivere ad una pallottola in testa, ma io sicuramente no. Fortunatamente non ci fu nessun incontro ravvicinato con del piombo, anzi, fu un piacere scoprire che la rossa ci aveva fatto anche trovare una comoda scaletta per arrampicarci fino all'apertura, il cui bordo si trovava a circa un metro dalla linea di galleggiamento dello yacht.

Però non era nel piano che Lorran si stesse sporgendo a salutarci, vestita con uno stupido quanto discinto costume da odalisca.

Scoprii il perché una volta salito a bordo con gli altri: sul pavimento del ponte giaceva il cadavere seminudo di un uomo legato in modo bizzarro, un cappio di seta rossa stretto così forte attorno al collo che gli aveva tagliato la pelle.

Lorran sventolò leziosamente una mano in direzione del morto, strappando un tintinnio ai bracciali di campanellini che le decoravano il polso. "Il bondage è pericoloso, non finirò mai di dirlo!"

"Lasciamo perdere" le dissi frettolosamente. "Condizioni dello scenario operativo?"

A dispetto dell'aria rilassata, Lorran passò immediatamente ad un tono più professionale. "Immutate dal briefing" affermò, dandoci poi l'esatta posizione di tutti quelli a bordo. Alpha e Nicol avevano ricevuto i dati anche in altro modo, ma io non potevo fare altro che sentirli a voce e memorizzarli.

"Perfetto. Gli ostaggi?"

"Il bambino è in una delle cabine del ponte inferiore. Ho spedito ad Alpha la localizzazione. La madre è stata portata via da Sanchez. In questo momento è nella sua camera, ponte quattro, quello panoramico. Tre guardie davanti alla porta." Lorran si leccò leggermente le labbra. "Ci penso io. È il capo dei capi, un vero maiale."

L'espressione da gatta in calore mi strappò quasi un sospiro di sopportazione, e giurai sulla testa di mia nonna buonanima che avrei fatto di tutto per non accompagnarli mai più in missione. L'allegro sadismo di questa gente mi irritava. E non perché fossi schizzinoso, ma perché avevo imparato sulla mia pelle che l'eccessiva sicurezza in sé stessi porta a tragici errori.

"Non da sola, attieniti al piano." Indicai Nicol. "Tu, con lei. Liberate i ponti dal quattro al cinque, recuperate l'ostaggio e impadronitevi dell'elicottero. Lasciate perdere l'equipaggio." Fissai il ragazzo dai capelli verdi. "Sai cosa fare con gli esplosivi."

Lui annuì in una maniera fin troppo entusiasta, forse ansioso di provare il nuovo composto che l'esperto di Serpent Tail gli aveva dato da testare. Una schifezza gelatinosa da far circolare nelle tubature, con un potere detonante pari a cinque volte l'equivalente di C4.

"Tranquillo" mi rispose alzando un contenitore che sapevo non essere un normale thermos. "Basta che la butto in un lavandino ed apro l'acqua. Dopo un po' si attiva da sola."

Quel 'dopo un po'' mi preoccupava alquanto. "Aspetta che saliamo dai piani inferiori" grugnii. Dalla smorfia offesa che Nicol fece forse non avrei dovuto specificarlo, ma non mi fidavo completamente di lui.

Nel frattempo Alpha aveva estratto le armi dal contenitore stagno. Mi liberai come gli altri della muta, sotto la quale indossavamo leggere tute in tessuto tecnico nere e giubbotti antiproiettile. Sostituii il fucile subacqueo con un mitra dotato di silenziatore, mi presi una pistola ma mi tenni anche il coltello. Per ultimo mi infilai un visore termico in testa e mi agganciai l'auricolare. Era tempo di andare a spaccare qualche testa.


Tutto sommato, se il resto è stato preparato con attenzione, quella dell'attacco diretto è quasi sempre la parte più facile della missione. Allenamenti su allenamenti per mantenere una forma fisica perfetta ed ore passate ad esercitarsi ad abbattere bersagli in stanze buie, tra sagome che nella vita reale sarebbero stati civili che qualcuno pagava per riavere in un pezzo unico, erano il pane della nostra squadra speciale. Il Team A di Serpent Tail.

Il manuale prevedeva l'utilizzo di granate flashbang da gettare in corridoi zeppi di bersagli, ma in quella operazione dovevamo muoverci il più silenziosamente possibile, quindi mi limitai per tutto il tempo a mandare avanti Alpha, che spostava il corpo gigantesco con una grazia quasi felina. Imbracciava due fucili e sparava solo colpi singoli, precisi e letali in mezzo agli occhi degli obiettivi. L'effetto era quasi comico.

"Non è che li paghi tu i proiettili, puoi anche usare una raffica" gli feci dopo aver liberato il primo ponte.

Mi rispose senza neanche girarsi. "Sono un professionista, io. Credi che Nicol o Fall siano gli unici capaci di fare solo buchi in testa a questi balordi?"

Touché. Il gigante aveva voglia di esercitarsi al tirassegno su soggetti vivi, e chi ero io per impedirglielo? Dopotutto, un bel colpo in testa è il modo migliore per mettere qualcuno in grado di non nuocere. Per sempre.
Ci muovemmo silenziosamente e con cautela, in corridoi abbastanza illuminati, e sparavamo a tutto quello che incontravamo. Lo so, qualcuno non era di certo una delle guardie del corpo, né un narcotrafficante, che sapevamo essere tutti sui ponti superiori, intenti a gozzovigliare. Ma non potevamo rischiare qualche strana reazione. E nessuno ci aveva pagato per salvare anche i marinai e il personale; i sopravvissuti avrebbero semmai dovuto ringraziare che non ci avessero ordinato di ammazzarli tutti per cancellare le prove. Comunque, rimaneva il fatto che stavamo compiendo una fottuta strage per recuperare le uniche due persone importanti per qualcuno su quella nave. Così va il mondo.

Fino a quel punto la missione sembrava una passeggiata, e l'unico problema si presentò davanti alla cabina dell'ostaggio, sorvegliata da tre guardie.

Ne abbattei una e Alpha pensò all'altra, ma il terzo balordo ebbe il tempo di buttasi dentro. Quando ci affacciammo, ci si presentò lo scenario peggiore per una squadra di salvataggio. Il gorilla era addossato alla parete di fondo, reggeva il bambino contro di sé e gli puntava la pistola alla tempia. Mentre l'ostaggio aveva gli occhi spalancati dalla sorpresa, l'uomo non sembrava particolarmente spaventato; da quello capii che era un fottuto professionista. Lo vidi aprire la bocca e seppi cosa stava per dire. Da quella posizione poteva uscirne solo negoziando con noi. Ma, da quella posizione, il bambino poteva uscirne solo morto. Se lasciavamo andare il bastardo, una volta al sicuro, si sarebbe liberato dell'ostaggio. Noi lo sapevamo e lo sapeva anche lui.

Visto che era comunque uno spreco di fiato suo e tempo nostro, non gli consentimmo neppure di cominciare il suo edificante discorso.

Sparammo contemporaneamente. Alpha gli piazzò la consueta palla tra gli occhi, mentre la mia pallottola trapassava all'altezza della nocca dell'indice la mano che reggeva la pistola, spaccando in due il calcio. Frammenti volarono ovunque colpendo l'ostaggio in viso. Ci pensai io a recuperarlo tra le braccia del cadavere, rovinato a terra; il bambino non piangeva ancora, probabilmente a causa dello shock, ma del sangue colava da un paio di brutti tagli sulla fronte e sulla guancia. Gli sarebbero rimaste delle belle cicatrici.
Lo sollevai con la mano sinistra, libera dal mitra; fortunatamente non era così pesante che non potessi trasportarlo.
"Hola niño, qué tal?" gli dissi con un sorriso da squalo, sfoggiando le uniche parole in spagnolo che conoscevo. "Da grande queste ti daranno un'aria da vero macho, lo sai?"
Considerato che avrebbe di certo seguito le orme del padre, non sarebbe stato nemmeno tanto male.

Non so se avesse capito o meno, ma si piantò una mano sulle ferite e nascose il volto nell'incavo del mio collo, senza fare un verso. Cominciava a piacermi, il niño.

Dalla porta, Alpha mi fece segno che la via era sgombra; uscii in corridoio e, correndo, ripercorsi con il mio compagno i corridoi a ritroso verso la parte superiore dello yacht.

La voce di Nicol mi arrivò qualche secondo dopo. "Ponti quattro e cinque liberi. Ostaggio al sicuro. Ok per il botto?"
Degli altri tre ponti ci eravamo occupati noi: lo sterminio era completato, era tempo di rientrare.

"Siamo a otto minuti dalla piattaforma di decollo. Botto affermativo."

"Roger. Otto minuti all'elicottero. Nicol, out."

Era fatta, ora non ci potevamo permettere nemmeno un minuto di ritardo.

Eravamo a livello del ponte tre quando sentimmo l'allarme suonare. Io ed Alpha ci scambiammo un'occhiata. Qualcuno del personale aveva scoperto i cadaveri nei corridoi? La supposizione fu smentita dal successivo messaggio diffuso dagli altoparlanti, scandito dalla morbida voce di Lorran.

"Signore e signori, questa nave si autodistruggerà tra dieci minuti. Tutti quelli ancora vivi sono pregati di procedere verso le scialuppe di salvataggio. Il comandante spera che il vostro soggiorno a bordo sia stato piacevole, e augura a tutti una buona navigazione."

"Che cogliona!" ruggì Alpha, ma a me venne da ridere. Sapevo che Nicol avrebbe fatto evacuare il personale prima di far saltare lo yacht, ed era nel carattere di Lorran diffondere un messaggio così idiota. Scommetto che non vedeva l'ora.


Scansammo giusto un paio di cameriere e marinai che si stavano dirigendo nella direzione opposta, prima di sbucare sulla piattaforma che ospitava l'elicottero. Fischiai in approvazione. Era un birotore militare da dieci posti, con tutta l'autonomia necessaria per raggiungere la costa. Le pale erano già in movimento.

Alpha salì a bordo e io feci lo stesso chiudendomi il portellone alle spalle. Poi mi guardai intorno: i sedili erano quasi tutti occupati da odalische.

Dovevo incazzarmi? Dovevo far finta di niente? Dovevo rallegrarmi per l'esotico gusto dei narcotrafficanti per lo spettacolo gratis che mi avevano offerto? Dovevo ringraziare il 'buon cuore' di Nicol e Lorran che avevano spedito sulle scialuppe di salvataggio l'equipaggio ed offerto un passaggio alle mignotte? Una scelta incontestabile.

Decisi di soprassedere, in quel momento avevo altre priorità. Scaricai il bambino in braccio ad una tizia in accappatoio che mi tendeva le braccia, e andai ad accomodarmi al posto di copilota. Alpha si era sistemato in mezzo a due odalische, che si erano prontamente strette a lui. E poi il bastardo mi veniva a dire che le femmine Natural gli facevano schifo. Oh, come avrei voluto avere il mio palmare per immortalare la sua faccia da maiale pervertito!
Lorran era invece seduta sul fondo, le braccia appoggiate sulle spalle di due prestanti tizi vestiti da ufficiali di marina. Dalle espressioni turbate, avrei scommesso che i due avrebbe preferito trovarsi sulle scialuppe, in quel momento.

Lorran intuì la domanda dal mio sguardo perplesso. "Il comandante e il suo vice. Ehi! Sono stati carini con me, e qui c'era ancora un sacco di posto."

Preferii non indagare oltre, lasciando lei ed Alpha a trastullarsi e girandomi verso Nicol, l'unico serio della combriccola. Se non altro perché era ai comandi.

Il ragazzo fece decollare il mezzo, e lo yacht si allontanò sotto di noi.

Mi aspettavo che ci dirigessimo verso la costa, invece l'elicottero prese a girare come un avvoltoio attorno alla nave. Doveva essere passato più o meno un minuto quando un tender si staccò dalla fiancata dello yacht, distanziandosene il più il fretta possibile.

Lo indicai alzando un sopracciglio. "Ehi, volevi accertarti che tutti se ne andassero?"

"Veramente no, aspettavo…"

In quel momento l'Event Horizon decollò. Il boato fu così forte che superò il rombo delle turbine dell'elicottero mentre la nave, sollevata fuori dall'acqua dalla forza della prima deflagrazione, veniva letteralmente disintegrata da successive esplosioni a catena.

Frammenti che non dovevano essere più grandi di un metro ricaddero in acqua tra macchie di carburante incendiato; che ingloriosa fine per uno degli yacht più belli che mi fosse capitato di vedere in giro.

Sospirai indicando il disastro. "È stato divertente?"

Nicol annuì con la sua solita aria compunta, da primo della classe. "Tantissimo! Ha fatto proprio il botto che speravo."

"Ah sì? Ma non mi avevi detto che l'esplosivo che hai usato era cinque volte più potente del C4? A me sembra un bel po' di più."

Il ragazzo abbassò la voce e mi fece un sorrisetto malandrino. Lo conoscevo bene quel ghigno, all'Accademia di ZAFT lo lanciava sempre ad Yzak, prima di annunciargli che lui o Athrun avevano preso un voto più alto del suo. Avrei dovuto capirlo allora che il soggetto era un bel po' più stronzo di quello che sembrava. "Ti ho detto una palla. Era cinquanta volte. Ma, sai, oggi è il primo di marzo. Il mio vero compleanno. Avevo voglia di vedere i fuochi d'artificio."

Un sorriso tirato fu l'unica risposta che riuscii a generare. Per quello che ne sapevo io gli esplosivi gelatinosi erano sensibili per natura, e di quello usato sulla nave l'esperto mi aveva avvertito che la sua potenza era direttamente proporzionale alla sua instabilità. Ergo, Nicol se ne era andato in giro in mezzo ad una sparatoria con attaccato alla cintura qualcosa che ci poteva sparare tutti sulla Luna.

Fissai lo sguardo sulle stelle in cielo, ringraziando tutti gli dei di cui ricordavo il nome per esserne uscito vivo.

"Beh, non sei contento? È andato tutto bene, no?"

"Sì, certo" bofonchiai. "Ma adesso vedi di stare basso o Alpha dà fuori da matto, sai che odia volare."

"Non ti preoccupare, mi pare sia distratto da altro."

Annuii, non volendo indagare cosa stava tenendo impegnato Alpha. E davanti ad un bambino, per PLANT!
L'elicottero si inclinò leggermente e puntò deciso verso la costa, e io mi trovai a fissare con desiderio il tender che filava veloce sotto di noi. Quasi quasi avrei voluto essere lì.

Dovevo parlare con Cecilia. Bisognava assolutamente aggiornare il software di quei pazzi scellerati. Anche se nessuno poteva negare che era stata una missione ben riuscita!


Miguel Ayman

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Miguel si appoggiò allo schienale della poltroncina, finì la sua vodka e rilesse il rapporto che aveva preparato per i boss di Serpent Tail sull'aereo di linea che lo stava riportando a San Diego. Lo trovò appassionante, ed era davvero un peccato che avrebbe dovuto buttare quasi tutto, perché quello stile da romanzo d'azione non era certo quello che i suoi capi volevano da lui.
"Gradisce un altro drink, signore?"

Il biondo supervisore di Serpent Tail si abbassò gli occhiali per fissare l'assistente di volo, una brunetta niente male.

"Perché no? Sa, volare mi innervosisce un po', e l'alcool mi aiuta a rilassarmi e a lavorare in pace" le disse scoccando uno dei suoi sorrisi migliori. Normalmente nessuna si fermava abbastanza per fare due chiacchiere, ma quel volo era mezzo vuoto, forse sarebbe stato fortunato.

La ragazza, in effetti, si raddrizzò dopo averlo servito, e sembrò ben lieta di trattenersi.

"L'ho vista assorta, in effetti, ha scritto per tutto il tempo."

Miguel annuì, la frottola già pronta. "Purtroppo il mio editore è uno schiavista. Devo consegnare il file del mio ultimo romanzo tra un paio di giorni."

Chissà perché le donne adoravano i romanzieri, l'aveva già sperimentato. Anche in quel caso, gli occhi neri della ragazza brillarono di interesse.

"Che genere?"

Prima di rispondere Miguel si portò il bicchiere alle labbra, e non gli sfuggì come l'attenzione della hostess si fissasse platealmente sul suo bicipite abbronzato e scolpito dagli allenamenti, messo in evidenza dal gesto. Per buona misura, abbassò la voce, da cospiratore. "Azione. Storie vere. Sa… ex-commando operazioni speciali."

Non riusciva a capire se la ragazza fosse Natural o Coordinator, gli pareva troppo bella per la prima cosa ma con qualche piccolo difetto che un umano geneticamente modificato non avrebbe dovuto avere, quindi evitò di fornire la sua affiliazione.

Continuò a sorridere affabile, sicuro di conquistare il numero e l'email dell'hostess prima di scendere.
La sua non era nemmeno troppo una palla, si disse rileggendo per l'ennesima volta quello che aveva scritto. Era bravo, forse avrebbe dovuto considerare una carriera letteraria. Perché amava il suo lavoro ma, chissà perché, dopo una missione di quel genere qualunque cosa che lo portasse lontano dai buzzurri di Cecilia Jesek era molto ben accetta!

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