Ulysses di Beatrix Bonnie (/viewuser.php?uid=83290)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Inizio
dicembre 1939
Era
una giornata umida, di quelle tipicamente tardo autunnali. Ancora non
pioveva, ma guardando il cielo, Rebecca era convinta che presto le
nuvole grigie avrebbero riversato sui bei prati della brughiera
scozzese tutta la loro furia. «Gerald, caro, è meglio se
rincasiamo.» sussurrò la giovane donna, strattonando la
manica del marito, intento a fissare chissà quale strano
insetto che svolazzava da una foglia all'altra.
L'uomo
si voltò verso la moglie, sistemandosi il borsalino che una
folata di vento aveva scosso. «Rebecca, sei sempre troppo
premurosa.» le rispose sorridente. C'era un che di dolcemente
amoroso negli sguardi che si scambiava la giovane coppia, un qualcosa
di mistico e puro. Non era solo l'amore che li legava, c'era anche un
sentimento di devota e totale dedizione all'altro.
«Che
vuoi che ci faccia un po' di pioggia?» domandò l'uomo,
strizzando l'occhio, un insolito segno di frivolezza che si concedeva
solo con la moglie.
«Non
è per te, è per William: non voglio che prenda la
febbre.» rispose Rebecca, accennando con il capo al bimbetto
che trotterellava allegro al loro fianco, anche lui come il padre
intento ad inseguire gli insetti che svolazzavano nel prato.
Fitzgerald
si avvicinò e prese in braccio il figlio, che si divincolò
nel tentativo di tornare a sgambettare a terra. Il padre gli schioccò
un tenero bacio sulla guancia e rispose: «William è un
bambino forte, un vero McBride. Lui non teme la pioggia.»
Rebecca,
alzò gli occhi al cielo con aria sconsolata, poi allungò
le braccia per prendere il piccolo e si diresse verso casa.
La
villa dove abitava la famiglia McBride era un tipico castello
scozzese, immerso nella brughiera. Le stanze erano immense e sempre
fredde, ornate da arazzi medioevali e austeri camini di marmo. Non si
trovavano tanto distanti da Edimburgo, dove aveva sede la banca per
la quale lavorava Fitzgerald McBride; in realtà, però,
erano più vicini al confine con l'Inghilterra tanto che a poco
più di quindici chilometri si trovava Berwick-upon-Tweed, la
prima città inglese che si incontrasse partendo dalla Scozia.
«Mamma,
voglio giocare!» strepitò il piccolo William, quando
furono entrati in casa.
«Non
ora, sta per piovere.» rispose la donna, appendendo i soprabiti
in ingresso.
«Ma
papà...» protestò William, indicando la porta con
la cocciutaggine tipica dei bambini di due anni.
«Papà
arriva subito.» lo interruppe Rebecca, ponendo fine al
discorso.
Per
fortuna Fitzgerald entrò in casa poco dopo, tra le mani un
vasetto di vetro in cui era imprigionata una farfalla. «Un
esemplare davvero interessante.» commentò, scuotendo la
piccola gabbia trasparente.
Rebecca
lo guardò con amore: era talmente abituata agli stravaganti
gusti del marito che catturare insetti o fare esperimenti di chimica
per lei era assolutamente normale. «Certo, caro.» rispose
con accondiscendenza, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia.
Qualcuno
bussò alla porta proprio in quel momento. Fitzgerald appoggiò
il vasetto sul cassettone in ingresso ed andò ad aprire.
Quattro militari proruppero in casa. «Lei è il signor
McBride?» domandò il più alto in grado con foga.
«Sì,
sono io.»
Rebecca
prese tra le braccia il piccolo William e lo strinse al seno. Non
capiva cosa potesse significare quella messinscena, ma non la piaceva
per niente.
«Nato
il 13 gennaio 1914 a Edimburgo?» continuò il soldato.
«Sì.»
rispose Fitzgerald senza capire dove volessero andare a parare.
«Il
Regio Esercito di Sua Maestà le ha spedito una lettera di
arruolamento una settimana fa, con l'indicazione di recarsi alla
caserma di Edimburgo oggi alle sei del mattino, appuntamento al quale
lei non si è presentato.» esclamò l'uomo,
impettito nella sua uniforme.
Fitzgerald
tentò un mezzo sorriso, per rabbonire il soldato. «Durente
la stagione fredda noi non riceviamo la posta a casa. Devo andare
all'ufficio postale per ritirarla. Sarà per questo che non ho
ricevuto la lettera.» spiegò con voce gioviale, nel
tentativo di mascherare la preoccupazione.
Il
soldato non sembrava contemplare l'ipotesi di una discussione
tranquilla. «Lei deve seguirmi immediatamente in caserma se non
vuole essere sbattuto in cella con l'accusa di diserzione.»
Rebecca
si portò una mano alla bocca, spaventata. «Immediatamente?»
ripeté con aria sciocca Fitzgerald, gli occhi sgranati e il
volto incredulo. «Ma è necessaria tutta questa fretta?»
«Per
Dio, giovanotto! Certo che sì! Siamo in guerra!» rispose
il soldato con foga.
«Guerra?»
gli fece eco Fitzgerald, il sudore freddo che cominciava a colargli
dalla fronte. Rebecca strinse a sé il piccolo William,
intimorita da quello che stava succedendo.
L'uomo
in divisa gonfiò il petto prima di rispondere, come se stesse
tenendo un encomio davanti al tribunale. «La Germania ha invaso
la Polonia e l'Inghilterra scende in campo in difesa dei popoli
liberi d'Europa! E ora muoviamoci!» esclamò il soldato,
strattonando il giovane per la giacca.
Fitzgerald
si voltò a lanciare uno sguardo di sconvolta commozione alla
moglie. Era uno sguardo pieno di amore e di rassegnazione, quello di
una povera bestia trascinata al macello.
«Nooooo!»
strillò Rebecca, correndo incontro al marito. Ma i soldati la
fermarono sull'uscio di casa, mentre Fitzgerald veniva fatto salire
su un camioncino militare. «Noooo!» urlò ancora la
donna, tentando di liberarsi dalla presa ferrea degli uomini.
Un
ultimo grido attraversò la brughiera. «Gerald!»
E
la sua risposta: «Rebecca!»
La
donna si accasciò a terra e cominciò a piangere
disperata. I soldati se ne andarono, lasciandoli lì, una
giovane moglie scossa dai singhiozzi e un bambino senza più un
padre. «Mamma, dove va papà?» domandò il
piccolo William, con i lacrimoni pronti a sgorgare dai teneri occhi
innocenti, verdi come la brughiera che si estendeva fino
all'orizzonte. Cominciò a piovere, come se anche il cielo
partecipasse di tutto quel dolore. Una domanda rimase sospesa
nell'aria umida e nebulosa: «Mamma, dove va papà?»
Buongiorno
a voi!
Dopo
anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio
programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e
allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in
un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia
e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.
Spero
che il racconto possa piacervi! Un paio di capitoli, contengono
alcune scene di violenza... vi avvertirò all'inizio con una
nota, ma spero comunque di non urtare la sensibilità di
nessuno.
A
presto,
Beatrix
Bonnie
ps.
Ho anche scoperto di recente, partecipando ad un contest, che tutte
le volte che parla un personaggio diverso, bisognerebbe andare a
capo. È una regola che mi scoccia parecchio, perché ho
sempre odiato andare a capo in continuazione, e quindi ci ho
impiegato parecchio ad accettarla, ma... è una REGOLA! Non ci
posso fare niente, sono troppo ligia al mio dovere! Ergo, questa è
la prima storia che rispetta tale norma... sistemerò anche
quello che sto scrivendo o è in via di pubblicazione. Un
applauso per me! XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Capitolo
I
Giugno
1940
Il
traballare del camion obbligava i suoi occupanti a sbattere in
continuazione contro gli schienali dei sedili. Uno sbattere abituale
ormai, quasi confortante. Era il segno che il motore andava ancora,
che c'era ancora benzina, ma soprattutto significava che tutte le
membra erano sufficientemente sensibili da avvertire il vibrare
meccanico della panca di legno. Fitzgerald aveva imparato ad amarlo,
perché indicava che per ora si trovava al sicuro sul
camioncino, ma aveva anche imparato ad odiarlo, perché
accompagnava da mesi gli attimi più terribili della sua vita.
Stringeva tra le braccia intirizzite il fucile, come se fosse il suo
amato figlioletto; lo abbracciava quasi, si aggrappava ad esso. Era
rannicchiato su se stesso, gli occhi sgranati dal terrore, un elmetto
verde troppo grande per lui che gli schiacciava i capelli neri sulla
fronte.
Tremava,
ma non a causa dello sconquassamento provocato dal camion.
«Mioddio,
sembri uno scoiattolo spaurito.» disse una voce roca e
profonda. Apparteneva al soldato che era seduto davanti a lui. Una
montagna di uomo. Fitzgerald gli lanciò un'occhiata
terrorizzata e la sua massa enorme lo spaventò ancora di più.
Se l'intento del commilitone era quello di sdrammatizzare l'attesa a
spezzare la tensione, ottenne esattamente l'effetto contrario:
Fitzgerald cominciò a dondolare avanti e indietro, in preda ad
una attacco di panico. «Ehi, scoiattolino, stai tranquillo!
Mioddio, ma sei un ragazzino! Quanti anni hai? Ne dimostri quindici.»
domandò ancora l'uomo.
Fitzgerald
si concesse il lusso di rispondere: «Venticinque.»
«Santo
cielo! Eddai, smettila di tremare. Facciamo fuori un po' di tedeschi
e ce ne andiamo.» continuò quello, battendogli una pacca
amichevole sulla spalla.
Per
poco Fizgerald non cadde dalla scarna panca di legno. Sembrava che
nemmeno capisse le parole che gli venivano rivolte, vista
l'espressione di scioccata innocenza che aveva disegnata sul volto,
gli occhi dilatati per il terrore e la bocca semiaperta. «Fuori...?»
ripeté, senza nemmeno accorgersi. Non era una domanda, ma
nemmeno un'affermazione: era la follia causata dalla paura cieca che
lo invadeva.
Si
sentì il rombo di un aereo che passava sopra la loro testa,
poi un sibilo acuto e infine uno scoppio. Fitzgerald si guardò
intorno, atterrito, ma non trovò altro che volti anonimi,
maschere di uomini che un tempo avevano amato e sperato di vivere in
pace. Una voce urlò qualcosa e tutti cominciarono a saltare
giù dal furgone.
«Veloci,
veloci!»
Fitzgerald
per poco non cadde a terra e fu costretto ad appoggiare una mano sul
terriccio per rimettersi in piedi. C'erano urla, scoppi, lampi
improvvisi di luce. Quello era l'inferno. I pantaloni della sua
divisa si inzupparono, ma lui nemmeno se ne rese conto. Era solo una
reazione fisiologica spontanea del corpo, di fronte alla possibilità
di morire. 'Svuotare la sacca' era il comando automatico che partiva
involontariamente dal cervello quando si accorgeva che non aveva
speranze di sopravvivenza. Un rivolo gli percorse la gamba fino allo
scarpone. Cominciò ad ansimare, le gambe molli e le mani
ancorate al fucile, la sua salvezza e la sua condanna.
«A
destra, avanzare! Attenzione!» strillò il caporale.
Fitzgerald
si mosse come una macchinetta. Non sapeva nemmeno perché stava
eseguendo gli ordini, quando dentro la sua testa una voce gli urlava
di fuggire. Poi ci fu un boato enorme: era scoppiata una bomba lì
vicino. Fitzgerald fu sbalzato lontano e atterrò dolente sul
terriccio fangoso. Si coprì la testa con le braccia e rimase
immobile sdraiato supino. Forse se non guardava quell'orrore di morte
e sangue, prima o poi sarebbe sparito.
«Che
diavolo fai, sei impazzito?» gridò una voce. Qualcuno lo
afferrò per la giacca della divisa e lo sollevò da
terra di peso, per tentare di rimetterlo in piedi. Fitzgerald riuscì
appena in tempo ad afferrare il fucile e stringerlo a sé, come
se potesse in qualche modo salvarlo da quella situazione. I suoi
occhi sgranati riconobbero il soldato grosso che gli aveva rivolto la
parola sul camion.
«Per
Dio, scoiattolino, vuoi restare qui tutto il tempo? Alzati e
combatti!» gli urlò contro l'uomo, afferrandolo per le
spalle e scuotendolo avanti e indietro. «Ci stanno
massacrando!»
Fiztgerald
lo fissò con gli occhi sgranati, poi scoppiò a
piangere. Due lacrime gli attraversarono il volto annerito e
infangato, lasciando dietro di sé una striscia lucida.
L'avevano
addestrato in quegli ultimi sei mesi, gli avevano insegnato ad
eseguire gli ordini, a sparare con il fucile senza chiedere perché,
ad essere pronto a morire per la patria, se necessario. Ma quella era
la prima volta che lo sbattevano in guerra. In mezzo all'inferno.
Avrebbe
voluto lasciarsi morire lì, crollare a terra senza reagire,
permettere alle forze di abbandonarlo lentamente, come se dovesse
dormire. Chissà, magari si sarebbe risvegliato in un prato
così intensamente verde come quelli della sua amata Scozia e
avrebbe scoperto che la guerra era solo un brutto sogno appartenente
al passato.
L'uomo
che l'aveva rialzato da terra, però, non sembrava dello stesso
parere. A lui non importava un gran che di ammazzare i nazisti, ma
l'avrebbe fatto senza farselo ripetere, se fosse stata l'unica cosa
che gli avesse permesso di sopravvivere. E, al momento, sopravvivere
sembrava davvero la cosa più sensata.
Non
sapeva perché si fosse preso la briga di aiutare quel
ranocchietto spaurito. Solo che... gli faceva pena. Sebbene lui fosse
più giovane di ben due anni, l'altro gli arrivava sì e
no alla spalla, smunto e magrino com'era. L'elmetto che portava in
testa gli era troppo grande e finiva sempre per nascondere i suoi
luminosi occhi azzurri, sgranati per la paura. La divisa enorme gli
cadeva addosso in modo scomposto, infagottandolo e rendendo
impacciati i suoi movimenti. Complici i tratti lineari e la totale
assenza di barba, sembrava più che altro un bambino vestito
con gli abiti da guerra del padre.
E
ora se ne stava lì a guardarlo. Piangeva, addirittura! Se lo
avesse abbandonato, sarebbe certamente morto. In barba a tutte le
regole militari che gli avevano inculcato nella testa in quegli
ultimi mesi, il giovanotto afferrò il compagno per la vita e
se lo caricò di peso sulle spalle. Quello scalciò e
probabilmente si lamentò, ma non poteva nulla contro di lui.
Se lo portò via come avrebbe fatto con un sacco di patate.
Nell'altro braccio teneva alto il fucile, pronto a colpire chiunque
gli avesse sbarrato il passaggio, amico o nemico che fosse. Non c'era
tempo per andare per il sottile: l'esercito inglese e francese era in
rotta e i tedeschi sparavano a vista a qualsiasi cosa si muovesse che
non indossasse la divisa nazista.
I
soldati inglesi correvano in modo disordinato per il bosco, lontano
dagli spari e dallo scoppio delle bombe. Nessuno sapeva dove andare,
eppure c'era un istinto primordiale che li spingeva via da quel luogo
di morte, verso una salvezza sperata ma non certa. Quelli feriti si
trascinavano a terra, rantolavano ed arrancavano per riuscire a
scappare, mossi da un impulso folle che moltiplicava le loro ultime
gocce di forza. Il capitano e i caporali cercavano di dare disciplina
a quella fuga disparata, ma nessuno più seguiva gli ordini.
«Il
generale Alexander comanda di ritirarsi al villaggio di Dunkerque!»
gridò uno dei caporali, cercando di avvertire quanti più
uomini possibili. «Lì c'è la flotta che ci
aspetta!»
I
tedeschi li avevano letteralmente sbaragliati. La loro superiorità
non era solo numerica, ma anche tattica: i loro uomini avevano alle
spalle mesi di duro addestramento e soprattutto avevano una fede
cieca nel Terzo Reich. Gli inglesi, invece, preferivano pensare prima
alla propria sopravvivenza che alla difesa della Francia. Manco era
la loro, di patria.
Il
giovane soldato con Fitzgerald sulle spalle, cominciò a
correre in direzione del villaggio. Non era certo che ci sarebbe
arrivato, in realtà, soprattutto non con un fardello da
portarsi dietro. In fin dei conti, nemmeno lo conosceva: avrebbe
potuto abbandonarlo, ma sarebbe stato come condannarlo a morte certa.
E lui non riusciva a farlo.
«Resisti,
scoiattolino, ce la faremo!» lo incitò, con foga. Il
ragazzo mugugnò qualcosa di incomprensibile: probabilmente era
tramortito. Proprio in quel momento, una scarica di proiettili li
raggiunse alle spalle. Il soldato inglese si gettò dietro una
roccia, ma sapeva che quel nascondiglio non li avrebbe protetti a
lungo. «Aspettami qui.» ordinò al compagno,
posandolo a terra. Come se potesse andare da qualche parte, in quelle
condizioni.
Dopodiché
caricò il fucile e si sporse oltre la roccia. Non fu
l'allenamento da soldato che aveva ricevuto ad aiutarlo, quanto la
buona mira sviluppata in anni di caccia. Quando la strada fu
finalmente libera, si caricò nuovamente il compagno sulle
spalle e riprese la sua corsa disperata verso il porto.
«Ci
siamo quasi!» esclamò eccitato, quando riconobbe le luci
delle case in lontananza. La stanchezza cominciava a farsi sentire,
ma non poteva cedere proprio ora che mancava così poco. Non si
sentiva più le gambe, le spalle gli dolevano come non mai e
credeva che le forze lo avrebbero abbandonato da un momento
all'altro. Gli ultimi metri che lo separavano dal villaggio li
percorse quasi strisciando.
Grazie
al cielo, altri soldati li videro arrivare e corsero loro incontro
per aiutarli. «Dove è ferito?» domandò uno,
accennando a Fitzgerald.
«No,
no. È solo svenuto.» rispose il ragazzo scuotendo la
testa. I compagni, scambiandosi occhiate perplesse, li aiutarono a
raggiungere il resto dell'esercito, dove sarebbero stati al sicuro.
Fitzgerald
riprese conoscenza quando erano ormai già saliti a bordo. I
suoi ricordi erano confusi, ma un volto continuava a fare capolino
nella sua mente. «Ehi...» mormorò con un filo di
voce.
Il
soldato che l'aveva salvato, seduto al suo fianco in una squallida
cabina della nave, si voltò verso di lui. «Oh, ti sei
svegliato, scoiattolino.» esclamò, dandogli una pacca
sulle spalle.
Fitzgerald
si mise lentamente a sedere. «Sì.» sussurrò,
massaggiandosi la testa. «Io... mi ricordo. Tu mi hai salvato
la vita.»
Il
ragazzo gli rivolse un sorriso sincero.
«Grazie.»
mormorò Fitzgerald, con vera riconoscenza.
L'altro
scoppiò a ridere. «Avanti, ci sarà tempo per
ringraziare. Ora pensiamo a sopravvivere.» rispose.
«Dimmi
almeno come ti chiami.»
«Josh,
Josh Watson.» si presentò il ragazzo, tendendo la mano
verso di lui.
Il
giovane scozzese gliela strinse con riconoscenza. «Fitzgerald
McBride. Piacere di conoscerti.»
Buongiorno
a voi! (NB. è la stessa nota del prologo...)
Dopo
anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio
programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e
allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in
un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia
e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.
Spero
che il racconto possa piacervi! Un paio di capitoli, contengono
alcune scene di violenza... vi avvertirò all'inizio con una
nota, ma spero comunque di non urtare la sensibilità di
nessuno.
A
presto,
Beatrix
Bonnie
ps.
Ho anche scoperto di recente, partecipando ad un contest, che tutte
le volte che parla un personaggio diverso, bisognerebbe andare a
capo. È una regola che mi scoccia parecchio, perché ho
sempre odiato andare a capo in continuazione, e quindi ci ho
impiegato parecchio ad accettarla, ma... è una REGOLA! Non ci
posso fare niente, sono troppo ligia al mio dovere! Ergo, questa è
la prima storia che rispetta tale norma... sistemerò anche
quello che sto scrivendo o è in via di pubblicazione. Un
applauso per me! XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Capitolo
II
Giugno
1940
Rebecca
aveva preso l'abitudine a passare le ore della sua giornata a
guardare la brughiera fuori dalla finestra. Non che si aspettasse il
ritorno di Gerald, ma osservare il punto esatto in cui l'aveva visto
sparire le dava un minimo conforto. Erano passati sei mesi ormai, ma
non aveva ricevuto alcuna notizia. Era già partito per il
fronte? Era ancora vivo? Pensava a lei ogni tanto?
Quelle
domande la assillavano, ma ciò che la faceva stare peggio era
la certezza che non avrebbero mai avuto risposta. Forse Gerald le
aveva scritto, ma la posta non arrivava al vecchio castello nemmeno
in tempo di pace, figuriamoci con la guerra. Era una tortura per lei
non sapere dove fosse Gerald, come stava, se sarebbe mai tornato a
casa. Avrebbe anche potuto aspettarlo per anni, se solo avesse avuto
la certezza di rivederlo. Invece quel nulla intorno a sé la
faceva morire lentamente, giorno dopo giorno.
Proprio
in quel momento il suo maggiordomo bussò alla porta della
stanza. «Avanti.» sussurrò Rebecca, distogliendo
finalmente lo sguardo dalla brughiera.
Il
volto raggrinzito del vecchio Sean fece capolino dietro la porta. «Mi
scusi, signora, dei soldati chiedono di lei.»
Quella
notizia fu come una doccia fredda per Rebecca. Rimase immobile,
congelata sul posto per una manciata di secondi, mentre una
spiacevole ipotesi si faceva strada nella sua mente. No, non poteva
essere! Non il suo Gerald.
Scese
lentamente le scale, come un condannato che va al patibolo; il suo
cuore venne afferrato da una morsa di gelo e cominciò a
battere tanto debolmente che Rebecca fu certa che presto si sarebbe
fermato. Quasi avrebbe preferito così, piuttosto che
sopravvivere a tutto quel dolore. Solo... non avrebbe potuto
abbandonare i bambini.
C'erano
tre uomini in ingresso con indosso la divisa militare inglese. Uno di
essi, forse quello più alto in grado, aveva un paio di curati
baffetti biondicci che stonavano con le chiazze di carnagione rossa
sulle guance. Aveva gli occhi troppo piccoli, sproporzionati per il
suo viso, che appariva un po' viscido, come una saponetta da bucato
bagnata.
«Signora
McBride?» domandò quando la vide apparire sulle scale
che dall'ingresso portavano ai piani successivi.
«Sì.»
mormorò debolmente Rebecca, afferrando il corrimano con tanta
forza che le nocche divennero bianche.
«Maggiore
Geoffrey Bantry, al suo servizio.» si presentò l'uomo,
con un breve inchino.
Rebecca
scese gli ultimi due gradini della scala con passo tremante. «Siete
qui per darmi notizie di mio marito?» domandò
flebilmente.
Il
maggiore Bantry si scambiò un'occhiata con i suoi uomini. «No,
signora. Noi veniamo dall'Accademia di addestramento di Edimburgo.
Non sappiamo nulla di suo marito.»
Quelle
parole fecero sciogliere tutta la tensione in un istante. Gerald
poteva essere ancora vivo. Disperso chi sa dove, ma vivo. Poteva
continuare a sperare!
Le
gambe le cedettero e Rebecca si afflosciò a terra, priva di
sensi.
Quando
riaprì gli occhi, riconobbe subito di essere distesa sul letto
della sua stanza. Probabilmente erano stati i soldati a portarla
svenuta al piano di sopra, su ordine di Sean, che ora stava in piedi
davanti alla finestra, guardando l'orizzonte.
«Signora
Rebecca, si è svegliata.» esclamò con sollievo
quando si voltò e vide che aveva gli occhi aperti. «Vuole
che faccia chiamare un medico?» le domandò,
avvicinandosi al letto con fare premuroso. Rebecca scosse debolmente
la testa.
«Ma
non è la prima volta che sta male, in questo ultimo periodo.
Forse ha bisogno di una visita. mormorò il vecchio
maggiordomo.
Rebecca
si lasciò sfuggire un sorriso stanco. «No, Sean. Non ho
bisogno di una visita: so benissimo che cos'ho.» gli rispose
con un sussurro. «Aspetto un bambino.»
L'uomo
aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun
suono. In effetti, ora che ci pensava, la signora era parecchio
ingrassata in quegli ultimi mesi, le si era gonfiato il ventre e il
seno, stava spesso male e sembrava ogni giorno più debole. Ma
lui era sempre stato convinto che fosse la lontananza del marito a
ridurla in quello stato. Mai e poi mai avrebbe pensato che...
«Da
quanto tempo lo sa, signora?» le domandò in tono
preoccupato. Rebecca si accarezzò delicatamente la pancia. «Da
gennaio. Ho appena cominciato il settimo mese.» mormorò
in risposta.
Mentre
cercava di mettersi a sedere, gli occhi le si inumidirono e una
lacrima solitaria le attraversò la guancia. Rebecca ne sentì
il sapore salato in bocca e si affrettò ad asciugarla con il
dorso della mano, per non farsi vedere dal vecchio Sean. Che cosa
avrebbe raccontato il maggiordomo al bambino, una volta nato? Che sua
madre singhiozzava quando gli aveva rivelato di essere incinta?
Rebecca
non piangeva per il fatto di aspettare un figlio, ma perché
quel figlio sarebbe cresciuto senza un genitore. Gerald era lontano,
in guerra, e nemmeno sapeva che stava per diventare padre una seconda
volta. Lei avrebbe dovuto crescere due bambini da sola, potendo
contare solo sulle sue forze. Che cosa avrebbe risposto ai bimbi se
le avessero chiesto dove fosse loro padre? Che cosa avrebbe detto al
piccolo che portava in pancia, quando le avrebbe domandato perché
lui non aveva un padre?
Proprio
in quel momento qualcuno bussò alla porta e prima ancora di
aspettare una risposta, il maggiore Bantry entrò nella stanza.
«Oh, si è ripresa, signora McBride. Me ne compiaccio.»
esclamò vedendola sveglia. Rebecca cercò
frettolosamente di ricomporsi per rendersi presentabile, ma l'uomo si
sedette ai piedi del suo letto, facendola raggelare all'istante. Il
vecchio maggiordomo Sean, si irrigidì e trattenne il fiato.
«Signora
McBride, io e i miei compagni avremmo una proposta da farle.»
cominciò a dire il soldato, in un tono che doveva essere
affabile ma che fece rabbrividire Rebecca. «Vede, noi siamo gli
addestratori dell'Accademia di Edimburgo, ma sinceramente è un
vero schifo laggiù. Così, pensavamo... lei ha qui un
grande castello con tante stanze vuote che non utilizza ed è
abbastanza vicino ad Edimburgo, meno di un'ora. Lei ci presta due
stanze e siamo tutti più contenti. Ovviamente, poi ci
accordiamo e lei ci fa sapere quanto dobbiamo pagarle... è un
grande servizio reso all'esercito di Sua Maestà. Così
tutti contribuiamo a questa guerra, anche lei.»
Concluso
quel breve discorso, la bocca del maggiore Bantry si allargò
in un sorriso accattivante.
Rebecca
deglutì. Come avrebbe potuto rinunciare all'offerta? Non aveva
alcuna intenzione di ospitare quei tre soldati a casa sua,
soprattutto non senza la protezione di suo marito, ma il maggiore
Bantry non pareva particolarmente incline ad accettare un rifiuto.
Rebecca
lanciò una disparata occhiata sfuggente a Sean, ma il vecchio
era impietrito. Il maggiore scoppiò a ridere divertito.
«Avanti, signora McBride. Ci sta pure qui a pensare? Non le
pare un'ottima proposta?» le domandò, mentre i suoi
piccoli occhi acquosi le mandavano sguardi di incitamento.
Rebecca
annuì di sfuggita. «Certo.» mormorò
debolmente.
Il
maggiore Bantry batté le mani soddisfatto. «Ottimo,
sapevo che saremmo riusciti a trovare un accordo. Vado ad avvertire i
miei compagni.» esclamò con un sorriso, alzandosi dal
letto. Poco prima di uscire dalla stanza, si voltò nuovamente
verso di lei. «Oh, questa sera ci fermeremo qui a cena, che ne
dice? Così facciamo conoscenza della casa.»
E
con quelle parole sparì, lasciando nella camera un silenzio
glaciale. Per qualche minuto nessuno parlò, perché
entrambi erano troppo scioccati dalla piega che aveano preso gli
eventi. «Signora...» mormorò Sean dopo un po', ma
fu subito interrotto dal grido di un bambino che proruppe nella
stanza in lacrime.
«Mamma!»
esclamò il piccolo William, gettandosi tra le braccia della
donna. «Chi sono quei brutti uomini in ingresso che mi fanno
tanta paura?» domandò tra i singhiozzi.
Rebecca
non seppe cosa rispondere. Che cosa avrebbe dovuto dire?
«Signora.»
ripeté il vecchio maggiordomo, avvicinandosi al letto. «Lei
deve trovare un uomo da tenersi in casa, che protegga lei, suo figlio
William e... il piccolo.» sussurrò, accennando con il
capo al suo ventre. Gli occhi di Rebecca si riempirono nuovamente di
lacrime. Chi avrebbe potuto chiamare? Suo marito era lontano in
guerra, fratelli non ne aveva e suo padre era morto da tempo. Nessuno
l'avrebbe salvata dal maggiore Bantry e i suoi uomini.
Improvvisamente
le venne un idea: forse c'era qualcuno che poteva aiutarla. Era una
scommessa rischiosa, ma era la sua unica chance.
Rebecca
sollevò delicatamente il viso del figlio e gli asciugò
le lacrime con una carezza. Poi gli rivolse un sorriso tenero.
«Su,
William, tesoro, non piangere. Domani andremo a conoscere il tuo
nuovo nonno.»
Buongiorno
a voi!
Dopo
anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio
programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e
allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in
un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia
e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.
Questo
è il primo “nuovo capitolo” del racconto...
l'ambientazione è di nuovo in Scozia, perché le scene
si alterneranno tra la vecchia casa nella brughiera e le imprese
militari di Gerald. Spero che vi sia piaciuto!
A
presto,
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Capitolo
III
Giugno
1940
La
casa di riposo per vecchi facoltosi senza famiglia di Edimburgo
assomigliava più che altro ad un ospedale lussuoso. Le camere erano
giusto quel tantino più confortevoli, ma il servizio non era neanche
lontanamente adeguato alla costosa retta che gli ospiti dell'ospizio
pagavano.
Rebecca
conduceva per mano il piccolo William lungo i corridoi spogli e
deprimenti. Il bambino sgranava i suoi occhioni verdi in ogni
direzione, insieme attratto e spaventato da quel luogo, mentre la
mamma procedeva leggendo le targhettine con il nome, poste sulla
porta di ogni stanza.
Eccolo,
Connor MacCallagan.
Rebecca
bussò delicatamente e attese una risposta che non arrivò. «Signor
MacCallagan?» domandò, socchiudendo la porta per spiare dentro la
stanza: c'era un uomo anziano appisolato sulla poltrona davanti alla
finestra. «Signor MacCallagan?» chiese ancora Rebecca, entrando
insieme al piccolo William.
Il
vecchio si svegliò di soprassalto ed esclamò: «Chi mi ruba i miei
soldi?»
William
si aggrappò alla gonna della madre e si nascose dietro di lei, per
spiare il nonnino senza essere visto. Era magro e raggrinzito, ma
aveva l'aria di essere stato un bell'uomo, alto e imponente, da
giovane. I suoi occhi blu come il mare erano leggermente velati e il
destro, addirittura, era semi offuscato da una patina bianchiccia;
molto probabilmente da quell'occhio non ci vedeva più. Il volto era
una ragnatela di rughe e ognuna di esse sembrava voler raccontare la
propria storia.
Il
suo sguardo indagatore si puntò su Rebecca: rimase a soppesarla per
una manciata di secondi, poi domandò: «Non sei tu che vuoi rubarmi
i soldi, vero?»
«No,
signor MacCallagan. Sono Rebecca McBride, la moglie di Fitzgerald. Si
ricorda?» disse la giovane donna, con un sorriso speranzoso. Connor
MacCallagan era il proprietario della banca dove lavorava suo marito:
era stato lui ad ad assumerlo, intuendo il potenziale del diciottenne
Fitzgerald; l'aveva aiutato a fare una veloce carriera, prendendolo
sotto la propria ala protettiva e insegnandogli tutto ciò che sapeva
dell'arte bancaria. Da tre anni, ormai oggettivamente troppo su di
età per lavorare, il signor MacCallagan si era ritirato all'ospizio,
anche se alcune voci sostenevano che il taccagno vecchiaccio avrebbe
preferito appiccare il fuoco alla sua banca, piuttosto che lasciarla
in mano ad altri.
Da
quando si trovava in casa di riposo, Gerald era andato spesso a
trovare il suo vecchio e burbero mentore, per tentare di ricambiare
con quelle visite l'insegnamento che aveva ricevuto. Lui fingeva di
essere infastidito da tante smancerie, ma quelle occasionali
distrazioni rappresentavano la sua unica salvezza dalla tediosa vita
dell'ospizio. Il signor MacCallagan, infatti, non aveva famiglia e da
quando era stato costretto a lasciare il lavoro, non aveva altro che
occupasse le sue giornate. Non si sapeva perché fosse rimasto
celibe: c'era chi diceva che fosse troppo taccagno per sposarsi e
condividere il suo patrimonio con moglie e figli, ma Gerald aveva
confessato alla moglie che doveva essere un altro il motivo. Non
sapeva spiegarselo, ma ogni tanto leggeva un'immensa e profonda
tristezza in quegli occhi blu come l'oceano.
Alla
domanda posta dalla giovane donna, l'anziano signor MacCallagan
scatarrò rumorosamente. «Certo che mi ricordo di Fitzgerald. Sono
vecchio, non rincoglionito.» rispose in tono scortese, lanciando
occhiate ostili verso i suoi visitatori. Rebecca cercò di mostrarsi
gentile, regalando un sorriso al vecchio scozzese. Gerald diceva
sempre che il signor MacCallagan era burbero solo all'apparenza,
perché, conoscendolo meglio, ci si accorgeva di come fosse in realtà
premuroso e garbato; ma guardando quell'uomo astioso raggrinzito
sulla poltrona, Rebecca poteva pensare di tutto tranne che fosse
garbato.
«Siediti
va, prima di partorirmi qui il marmocchio.» le ordinò il vecchio,
facendo un cenno secco con la testa per indicare la sedia. Rebecca
prese in braccio il piccolo William ed eseguì quanto le era stato
detto. Era maledettamente sveglio il signor MacCallagan, per avere
ottant'anni: a lui era bastata un'occhiata per capire che era
incinta, quando al suo maggiordomo Sean, che la vedeva tutti i
giorni, quell'ipotesi non era nemmeno passata per la testa.
«Dov'è
il mio giovanotto, eh?» chiese l'uomo, raddrizzandosi sulla sedia
come se si aspettasse di vederlo entrare da un momento all'altro.
Rebecca
abbassò gli occhi a terra e prese a fissarsi la punta delle scarpe.
«Gerald è in guerra, signor MacCallagan.» rispose infine, con un
sussurro dolente. Il vecchio la guardò con intensità per parecchi
minuti: non c'era ombra di pensiero nei suoi insondabili occhi blu,
ma Rebecca era certa che la sua mente stava lavorando a ritmo
irrefrenabile. Non si poteva capire quali emozioni lo avessero scosso
perché il suo volto era una maschera di pietra, eppure... la
palpebra destra si contrasse leggermente e calò sull'occhio di
qualche millimetro. Un cedimento; i suoi nervi lo stavano
abbandonando. Da lì, quella palpebra non si sarebbe più
risollevata.
«Che
cosa sei venuta a chiedermi?» domandò infine, dopo quella che era
parsa un'eternità di silenzio. Rebecca arricciò sul dito un ciuffo
di capelli di William. Lo faceva spesso, ultimamente: era quasi
diventato un tic. Prima, accarezzava sempre i capelli di Gerald.
«Signor
MacCallagan.» sospirò alla fine, ricambiando il suo sguardo
intenso. «Le piacerebbe diventare mio padre?»
Rebecca
era certa che il suo vero padre non se la sarebbe presa troppo, se
fosse stato sostituito. Di nuovo.
Aveva
più che altro dei vaghi ricordi di lui: era morto nella Grande
Guerra, quando lei aveva solo due anni, e tutto ciò che riusciva a
ricordare era il suono della sua cornamusa nelle serate invernali.
Sua madre si era risposata con un anziano londinese di classe, che
aveva portato la giovane sposa e la figliastra a vivere nella
capitale. Era stato un patrigno gentile, dopo tutto, e forse aveva
davvero amato la donna che aveva sposato; ma anche lui, più vecchio
della moglie di quasi trent'anni, era morto presto lasciando la
consorte nuovamente vedova, ma questa volta, almeno, sostenuta dalla
sua ricca pensione. La donna non si era più risposata, anche se
avrebbe tanto voluto un figlio maschio che neanche le seconde nozze
le avevano regalato, ed era tornata a vivere a Edimburgo, con la
figlia quattordicenne. Quando Rebecca compì i diciotto anni, la
madre si ammalò al fegato e dopo una breve ma sofferta agonia, morì
anche lei, lasciando la ragazza sola al mondo.
La
sua ancora di salvezza fu Fitzgerald: un bel giovane, ricco e di
buona famiglia, che stava facendo una rapida carriera in banca. Era
così impacciato la prima volta che l'aveva invitata a cena! Ma era
stato così dolce e premuroso con lei che Rebecca se ne era
innamorata profondamente. Lo amava, in modo devoto. Per lei era più
di un marito: era un fratello, un padre; era tutta la sua famiglia.
Ma
ora se n'era andato, lo aveva portato via la guerra, come già le
aveva strappato il padre. E l'aveva lasciata sola, con un bambino in
braccio, uno in grembo e tre maggiori dell'esercito che insidiavano
la sua casa.
Connor
MacCallagan era la sua unica speranza. Rebecca era convinta che
sarebbe stato facile per lei fingere di nuovo che uno sconosciuto
fosse suo padre. Aveva finto con il patrigno, avrebbe potuto farlo
anche con il vecchio signor MacCallagan.
Il
problema era rappresentato dall'anziano e burbero scozzese: avrebbe
accettato di aiutarla, una volta scoperta la situazione in cui si
trovava?
L'uomo
ascoltò con attenzione il racconto di Rebecca: la lasciò parlare
fino alla fine, senza interromperla per chiederle chiarimenti.
Esattamente come quando aveva scoperto che il suo pupillo era partito
per la guerra, anche questa volta nessuna emozione trapelò dal suo
volto di ferro, man mano che procedeva la narrazione. Quando Rebecca
concluse, gli rivolse uno sguardo carico di speranzosa attesa. Il
vecchio MacCallagan sembrò soppesare la proposta per un tempo
infinito.
William,
intanto, aveva cominciato a succhiarsi il pollice e a studiare con
attenzione il vecchietto che aveva di fronte. Era un tipo buffo, con
quel ciuffo di capelli bianchi che gli ballonzolava sulla fronte
tutte le volte che si muoveva e l'occhio destro semichiuso. Sembrava
una maschera di carnevale, di quelle strane e ridicole ma anche un
po' inquietanti. William approfittò del momento di silenzio seguito
al racconto della madre per tirarsi il dito fuori di bocca e
allungare la manina paffuta e un po' bavosa verso il vecchio. Si
sporse in avanti e il suo ditino indice sfiorò il naso adunco nel
vecchietto.
«Sei
tu il mio nuovo nonno?» domandò con aria perplessa. Il signor
MacCallagan lo scrutò a lungo, ma non rispose. Dopo un attimo di
silenzio, il volto di William si allargò in un sorriso. «Spero di
sì, perché mi piaci.» esclamò allegro, rimettendosi in bocca il
pollice con aria soddisfatta.
Il
signor MacCallagan sgranò gli occhi in un'espressione sconcertata e
Rebecca trattenne il fiato, convinta che il vecchio burbero li
avrebbe immediatamente cacciati fuori dalla stanza. Invece l'anziano
scozzese incrinò le labbra sottili in un breve sorriso. Ancora con
gli occhi ridenti puntanti su William, il signor MacCallagan sussurrò
a Rebecca: «Conducimi a casa, figliola.»
Il
signor MacCallagan osservava pensieroso la brughiera che scorreva
sotto i suoi occhi. Erano anni che non usciva da quell'odioso
ospizio, così tanti che nemmeno si ricordava quanto fosse
maledettamente bella la brughiera. Andarsene da quel luogo era stato
come rinascere a nuova vita, finalmente libero dalle pareti
bianchicce, dai pasti mal cotti, dalle infermiere scortesi.
Neanche
ricordava il motivo per cui si era rinchiuso in quel maledetto
carcere. Erano stati i membri del consiglio della sua banca a
suggerirglielo: era vecchio, senza famiglia e malato agli occhi,
quella struttura si sarebbe occupata di lui. Che vecchiaia insulsa!
«Signor
MacCallagan, guardi, siamo quasi arrivati.» mormorò Rebecca,
indicandogli il profilo di un castello in lontananza.
L'uomo
lo ammirò compiaciuto per qualche secondo, attraverso il finestrino
dell'automobile. «Sarebbe il caso che tu cominciassi a chiamarmi
papà.»
«E
io ti chiamo nonno?» intervenne innocentemente William.
Il
signor MacCallagan gli concesse uno dei suoi rari sorrisi. «Certo,
piccolino.» gli rispose, tornando ad ammirare la sagoma del
castello. «Certo.»
Il
vecchio maggiordomo Sean corse ad accoglierli alla porta, quando vide
la macchina attraversare la brughiera in direzione della villa.
«Signora Rebecca, è tornata.» esclamò con sollievo.
«Sean,
aiuta mio padre a prendere la valigia.» ordinò Rebecca, scendendo
dall'automobile e pagando l'autista che li aveva accompagnati.
«Suo
padre?» le fece eco Sean, perplesso.
Il
signor MacCallagan spalancò la portiera con foga, sbattendola contro
il maggiordomo. «Sì, suo padre. Sei sordo oltre che vecchio?»
esclamò con scortesia, scendendo dall'auto.
Rebecca
invitò il signor MacCallagan ad entrare nella villa. Vestito con un
completo elegante e lontano dalla poltrona dell'ospizio, non sembrava
più così raggrinzito. Varcò l'ingresso della sua nuova casa con le
spalle dritte e il mento sollevato, come un vero conquistatore.
«Signora
McBride, ci chiedevamo dove fosse finita.» esclamò il maggiore
Bantry sbucando in ingresso. Evidentemente aveva sentito dei rumori e
aveva supposto che la signora fosse tornata a casa.
«Ah,
maggiore Bantry. Sono stata alla stazione di Edimburgo a prendere mio
padre. Verrà a stare da noi per un po'.» spiegò la giovane donna,
indicando il vecchio che era con lei.
«Connor
MacCallagan, tanto piacere.» si presentò l'uomo. Il maggiore
contorse il volto in un'espressione che doveva sembrare rispettosa,
ma da cui trapelava tutto il suo disgusto.
«Non
fare quella faccia, giovanotto. Sei qui su gentile concessione di mia
figlia quindi leccati le dita.» sbraitò il signor MacCallagan, in
un tono che faceva capire da che parte stava il comando. «E anzi,
fossi in te cercherei di portare rispetto a questa casa. Vedi di
pagare con regolarità quanto stato pattuito per vitto e alloggio,
non farti beccare a bighellonare in giro quando non dovresti e
soprattutto non tentare di insidiare in qualche modo mia figlia. O
giuro che ti spacco il culo.»
Il
maggiore Bantry indietreggiò di un passo. «Come comanda, signor
MacCallagan.» mormorò fingendosi innocente, come se cercasse di
instaurare una tregua.
«Papà,
non essere scortese. Su, vieni di sopra.» intervenne Rebecca, in
tono di rimprovero. Ma un sorriso impercettibile incrinò gli angoli
della sua bocca quando il suo sguardo riconoscente incrociò quello
profondo del suo nuovo padre.
Tra loro si
era stabilita un'alleanza che, presto -loro non potevano saperlo- si
sarebbe trasformata in reciproco affetto.
Ecco
a voi il terzo capitolo! Con la new entry di Connor MacCallagan!
Ammetto
che il suo personaggio è completamente cambiato da come l'avevo
immaginato all'inizio (perfino nel nome, visto che prima si chiamava
Vincent!): in origine era dolce e affettuoso... ma mentre stavo
scrivendo su di lui, mi è venuto un lampo: santo folletto, è uno
scozzese! E allora via, mi sono ispirata al caro Scrooge di “Canto
di Natale”. Ed ho creato dal nulla Connor MacCallagan, vecchio
burbero scozzese, in grado di tenere testa al maggiore Bantry! Spero
che vi piaccia!
Ah,
QUI l'immagine del primo capitolo che rappresenta Gerald e Josh in
battaglia; QUI, invece, il caro MacCallagan, raggrinzito sulla sua
poltrona dell'ospizio.
Nel
prossimo week-end, torniamo su Gerald e la guerra vera a propria.
A
presto,
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Capitolo
IV
Novembre
1941
«Gerald!»
Il
giovane scozzese sapeva benissimo chi l'aveva chiamato, ma non aveva
intenzione di alzarsi dal suo nascondiglio. Lì era al riparo dai
colpi dei nemici, almeno per un po'. Alzò gli occhi verso il cielo
plumbeo: i rombi degli aerei riempivano l'aria, intervallati da
penetranti sibili a cui seguivano scoppi assordanti. Le sagome degli
aeroplani parevano simili a grossi avvoltoi che aleggiano sulle
prede, pronti a cibarsi delle loro carcasse. Ogni fischio
annunciatore di morte incuteva terrore nel cuore di Fitzgerald,
opprimeva la sua mente, schiacciandolo contro il parapetto della
nave. Come se potesse davvero essere al sicuro, lì.
«Gerald!
Vieni via!» lo chiamò nuovamente Josh. Anche lui aveva paura, anche
a lui i rombi del cielo provocavano un'angoscia pressante, che lo
inchiodava a terra, ma Josh sapeva che doveva reagire, se voleva
sopravvivere. E sopravvivere, in quell'ultimo anno, era diventato il
suo unico obiettivo.
Non
sapeva bene che cosa lo avesse legato al giovane e tremante scozzese,
quello che dopo ogni battaglia piangeva come un bambino, che non
riusciva a reggere in mano un fucile, che ogni volta veniva
sopraffatto dal puro terrore. Se era ancora vivo, tutti dicevano che
lo doveva solo al suo amico grosso.
Josh
davvero non sapeva perché si era preso la briga di proteggere quel
ranocchietto. Forse era perché gli ricordava il suo fratellino Bill,
sebbene Gerald fosse più vecchio di lui di due anni, o forse perché
il giovane scozzese ogni sera prendeva in mano la foto di sua moglie
e la osservava per ore intere, la contemplava senza dire una parola;
o forse ancora perché gli raccontava sempre di suo figlio William,
con una tale tenerezza che avrebbe addolcito anche il cuore più
duro.
Josh
non sapeva davvero perché, ma si era affezionato a Gerald e tutto
questo, unito al fatto che la sopravvivenza del giovane scozzese
dipendeva certamente da lui, aveva fatto sì che Josh prendesse
l'amico sotto la sua ala protettiva. Nessuno osava più maltrattare
Gerald, ora, nessuno pensava anche solo di dire qualcosa che potesse
dispiacergli, se non voleva vedersela con Josh Watson.
Anche
in guerra Josh aveva preso a proteggere Gerald: il ragazzo ascoltava
solo lui, eseguiva solo i suoi ordini e si lasciava manovrare solo da
lui, non perché fosse insubordinato ma perché la voce rassicurante
dell'amico era l'unica che riuscisse a scioglierlo dal suo terrore.
Se c'era Josh, tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Erano
riusciti a sopravvivere a quell'inferno per più di un anno, Dio solo
sa come. Soldato che scappa è buono per un'altra battaglia,
dicevano. Be', non ci sarebbe stata massima migliore per Gerald.
Faceva tutto Josh: sparare, uccidere, lanciare missili, decidere dove
andare e cosa fare; Gerald scappava e basta. Dopo la disfatta di
Dunkerque, il loro battaglione era stato assegnato alla marina e
dalla fine del '40 la nave corazzata su cui si trovavano, la HSM
Barham, solcava le acque del Mediterraneo. Avevano partecipato alla
battaglia di Matapan, erano sopravvissuti ad un attacco aereo al
largo di Creta e ora stavano puntando su un convoglio italiano. Ma
erano stati intercettati.
Un
fischio acuto.
E
poi uno scoppio.
Gerald
si decise finalmente a lasciare il suo nascondiglio tra le casse di
proiettili e il parapetto della nave, per raggiungere Josh che stava
armeggiando con i lanciamissili della contraerea. «Stammi vicino,
maledizione!» gli urlò contro Josh, dandogli un pungo sull'elmetto.
Gerald ritirò la testa nelle spalle per attutire il colpo, anche se
era certo che non avrebbe sentito niente.
In
quel momento una scarica di proiettili si abbatté sulla nave,
centrando in pieno alcune postazioni dei lanciamissili. Gerald si
coprì il volto con le braccia, anche se sapeva che non sarebbe
servito, mentre gli aeroplani nemici scaricavano sul ponte i loro
doni di morte. Solo quando il peggio fu passato, Gerald osò aprire
nuovamente gli occhi: gli aerei avevano lasciato dietro di sé una
scia di cadaveri. Un soldato con il volto sfigurato in un'espressione
di dolore si accasciò a terra ai piedi di Gerald, con un rantolo.
Era
vivo per miracolo. Mezzo metro più in là e sarebbe stato lui a
crepare sotto quei proiettili.
«McBride,
qui!» ordinò uno dei caporali, vedendo il soldato nullafacente. Il
giovane sgranò gli occhi e indietreggiò di un passo, ma Josh gli
diede uno spintone tale da farlo arrivare fino alla postazione dove
lo attendeva il caporale. «Qui, mira agli aerei italiani e fanne
fuori quanti più puoi.» gli ordinò l'uomo, piazzandolo davanti al
lanciamissili. Gerald lanciò un'occhiata di puro terrore a Josh, ma
questo rispose con un sorriso incoraggiante. «Dacci dentro,
ranocchio!»
Gerald
non aveva mai sparato con uno di quei cosi: sapeva solo vagamente
come si utilizzava, figuriamoci se riusciva anche solo a centrare un
bersaglio. Nessuno, però, sembrò preoccuparsi della sua incapacità
e quindi fu costretto a concentrarsi di nuovo su quel macchinario
infernale.
Fallo
per Rebecca, fallo per Will: quanti più ne fai fuori, prima torni a
casa. si disse, nel tentativo di trovare il coraggio di sparare.
Cercò di non pensare agli uomini che avrebbe ucciso, ai loro volti
straziati dal dolore, ai loro corpi inceneriti dal fuoco, i loro arti
mutilati, massacrati, trucidati...
Una
nuova formazione di aerei nemici stava venendo incontro alla nave
corazzata: i suoi compagni, Josh compreso, avevano già azionato i
loro lanciamissili. Avrebbe potuto esserci lui su uno di quegli
aerei. Avrebbe potuto morire lui, se qualcun altro gli avesse sparato
contro dei missili.
Fischi
e alcuni botti. Gli italiani avevano bombardato la poppa della nave.
Si
stavano avvicinando alle loro postazioni.
Gerald
chiuse gli occhi e sparò. Il missile partì ma il contraccolpo fu
tale che Gerald venne spinto indietro e ruzzolò a terra con le gambe
all'aria.
«Bel
colpo, McBride!» esclamò il caporale, afferrandolo per il colletto
della camicia e rimettendolo in piedi. Qualcuno dei soldati vicini a
lui esultò soddisfatto e rincarò la dose con altri missili. Solo
allora Gerald si accorse di quello che aveva fatto: il suo proiettile
aveva centrato in pieno il bersaglio. L'aereo che aveva colpito al
motore sbuffava e tossiva fumo, vorticando nel cielo come un uccello
ferito, e infine si tuffò nelle acque del mare, venendo subito
risucchiato in profondità.
Aveva
ucciso. Aveva ammazzato qualcuno, senza nemmeno sapere chi fosse,
senza nemmeno capire il perché di quell'assurda violenza. Ora era un
mostro anche lui, come tutti gli altri. Anche lui aveva spezzato la
vita di un nemico senza nome, aveva insanguinato la giubba di un
altro uomo, solo perché era di un colore diverso dalla sua.
Aveva
ucciso e da quel momento sapeva che non avrebbe più smesso. Ormai
l'incantesimo era rotto: non era più un innocente trascinato dalla
guerra, era un assassino come tutti. Un sicario che uccideva per
sopravvivere, per non essere ucciso a sua volta, per potersi
riservare il lusso di amare ancora... per poter ammazzare un'altra
volta al comando dei superiori. Un soldato, un uomo debole che la
guerra aveva reso un assassino innocente.
Ma
quel suo terribile missile fu inutile, perché le forze militari di
Italiani e Tedeschi erano decisamente superiori. Non c'era via di
scampo, anche ammesso che Gerald fosse riuscito a centrare con ogni
missile che aveva a disposizione un aereo nemico. Che poi, il primo
colpo, era decisamente stata fortuna.
L'acqua
si increspò freneticamente quando fu penetrata da due siluri, subito
seguiti da un'esplosione tremenda che fece ondeggiare pericolosamente
la corazzata. Da qualche parte a poppa scoppiò un incendio
spaventoso che illuminò a giorno il cielo plumbeo.
È
la fine. pensò Gerald, sentendo una stretta al cuore. Il
caporale si guardò intorno in attesa di ordini, ma visto che
nessuno sembrava preoccuparsi di loro, alzò un pugno al cielo e
gridò il motto della corazzata Barham: «Tout bien ou rien!
Quei bastardi non ci avranno vivi!»
E
con quelle parole si posizionò al lanciamissili che aveva usato
Gerald e cominciò a sparare all'impazzata verso i nemici. Molti
soldati lo imitarono, presi dalla foga del momento, pronti a vendere
la pelle a caro prezzo e convinti di portare con sé all'inferno
quanti più avversari potessero.
Tout
bien ou rien.
Tutto
o niente.
Gerald
deglutì.
«Je
preferé un compromis.»
sussurrò a mezza voce. I suoi occhi languidi si posarono prima su
Josh, poi sulle scialuppe di salvataggio poste alle sue spalle. Il
suo amico capì l'intento di quello sguardo e tentennò solo per una
frazione di secondo.
Soldato che
scappa è buono per un'altra battaglia.
I due
ragazzi corsero indisturbati verso le scialuppe appese al parapetto,
proprio mentre la nave inclinava a babordo. Scivolarono lungo il
ponte, fino a raggiungere la loro salvezza. «Presto, aiutami a
calare la lancia!» esclamò Josh, armeggiando con le corde e gli
attrezzi. Guardandosi intorno, Gerald notò che non erano stati gli
unici ad avere quell'idea. Un soldato si gettò sulla loro barca,
all'improvviso. Aveva uno sguardo disperato e il terrore dipinto sul
volto: voleva salvarsi da quell'incubo. C'era qualcosa di oscuro che
spingeva gli uomini a sopravvivere, anche a costo di andare contro
gli ordini e rischiarsi una fucilata per insubordinazione.
La
loro scialuppa aveva appena toccato la superficie dell'acqua, quando
un terzo siluro partito da un sottomarino tedesco centrò in pieno il
magazzino degli esplosivi. Ci fu un boato tremendo, e poi fuoco, fumo
e pezzi di lamiera che volavano nel cielo. Gerald si coprì la tea
con le mani, terrorizzato. La lancia fu sbalzata lontano
dall'esplosione e atterrò miracolosamente indenne parecchi metri più
in là. Il soldato che era salito con loro, aveva lo sguardo fisso
rivolto al cielo: un tubo di metallo, trasformato in involontario
proiettile dallo scoppio, gli attraversava il petto da parte a parte.
Gerald
si lasciò sfuggire un singhiozzo e si raggomitolò sulla prua della
piccola scialuppa, il più lontano possibile dal cadavere. Josh si
ripulì stancamente il volto sudato e sporco di fuliggine con la
manica della giacca, sorpreso di essere ancora vivo. «Mi dispiace,
amico.» mormorò a mezza voce, spingendo il corpo del soldato morto
in acqua.
I
due giovani si scambiarono un'occhiata di conforto: erano vivi
entrambi. Sperduti in mezzo al mare, ma vivi.
La
fortuna girò dalla loro parte anche quella volta: dopo qualche ora
di navigazione alla cieca nel Mediterraneo, vennero rintracciati e
raggiunti da alcune corazzate inglesi. I marinai li trascinarono a
bordo e li sbatterono davanti al sottotenente di vascello come
fossero due disertori.
«Che
diavolo ci facevate in mezzo al mare?» sbraitò il sottotenente,
battendo i pugni sulla scrivania del suo ufficio.
Gerald
tremò. Josh raddrizzò le spalle. «Marinaio Watson e marinaio
McBride. Eravamo sulla Barham, signore, ma è stata affondata da tre
siluri tedeschi.»
«La
Berham affondata? Non diciamo idiozie!» gridò l'uomo, alzandosi in
piedi.
Gerald
trattenne l'impulso di darsela a gambe. Josh invece rimase immobile
come una statua. «Signore, non mi azzarderei a dire una cosa del
genere, se non fosse vera.» rispose semplicemente.
Il
sottotenente si lasciò cadere sulla sedia e prese a fissare un punto
imprecisato alle loro spalle. Se la notizia portata dai due marinai
fosse stata corretta, quello sarebbe stato un grave colpo per
l'esercito e per il morale dell'Inghilterra. Doveva immediatamente
avvertire l'Ammiragliato.
Ma
non prima di aver punito quei due insubordinati che avevano arrecato
una tale sciagurata novità.
«Ho
io un bel posto dove mandarvi. Vi piace il caldo?»
Buongiorno!
Siamo
tornati su Gerald e Josh, nel bel mezzo della battaglia. La corazzata
su cui sono imbarcati i due protagonisti, è storica, così come la
sua colata a picco nel Mediterraneo a causa di tre siluri di un
sottomarino tedesco.
Spero
che vi sia piaciuto anche questo capitolo. Se tutto va bene, prossimo
aggiornamento: giovedì 8 settembre.
Alla
prossima,
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Capitolo
V
Giugno
1942
Gerald
aprì la bocca per respirare, ma una ventata di aria calda gli piombò
in gola, soffocandolo. Sputacchiò a terra, mentre i granelli di
sabbia stridevano sotto i suoi denti. Sentiva come un peso che gli
schiacciava i polmoni, impedendogli di respirare. Ogni volta che
inalava una boccata d'aria calda, gli pareva di non riuscire a
ghermire abbastanza ossigeno. Gli occhi bruciavano per la luce
accecante del sole, l'elmetto troppo grande gli schiacciava sulla
testa i capelli grondanti di sudore, la camicia era incollata al
torace come una seconda pelle. Le labbra screpolate erano alla
disperata ricerca di acqua, che veniva centellinata dai caporali e
non era mai abbastanza.
Fuggivano
da Marsa Matruk. Fuggivano nel deserto verso Alessandria, verso
l'ultima roccaforte inglese rimasta in Egitto.
Rommel
era arrivato con la sua manciata di carri e quel pugno di uomini
della fanteria motorizzata e in poco più di un mese aveva espugnato
tutto l'Egitto. Le postazioni inglesi erano crollate ad una ad una
sotto il suo attacco, messe in ginocchio dalla sua superiorità
militare e strategica. E, sebbene loro fossero numericamente di più,
erano stati costretti a ripiegare: l'avanzata tedesca pareva
inarrestabile.
Il
deserto aveva completato l'opera dei nazisti: chi era sopravvissuto a
Marsa Matruk, ora era stremato dal caldo e dall'arsura. La sabbia si
insinuava dovunque, negli occhi, in bocca, nei motori delle macchine.
Forse quella morte si sarebbe rivelata ben peggiore di una scarica di
proiettili.
La
pausa concessa per mangiare non sembrava mai sufficientemente lunga.
Gerald e Josh erano accucciati all'ombra del carro insieme agli altri
soldati, a mangiare la loro razione di sbobba che strideva sotto i
denti per via dei granelli di sabbia. Una piccola folata di vento
soffiò nella loro direzione, alzando un mulinello proprio davanti ai
piedi di Gerald. Il giovane si sporse oltre il carro per controllare
da che parte tirasse l'aria: lontano, all'orizzonte, una strana
striscia bianca pareva serpeggiare sul profilo delle dune.
«Temo
che stia per arrivare una tempesta di sabbia.» annunciò tetro
Gerald ai suoi compagni.
Un
soldato si voltò verso di lui con aria scettica. «Come fai a
dirlo?» gli domandò.
Gerald
si strinse nelle spalle. «Quando il vento tira da ovest è sempre
pericoloso da queste parti.» rispose con semplicità.
Josh
ingoiò l'ultimo boccone della sua razione di cibo, poi si voltò
verso il suo amico. «Credo che dovresti avvertire il caporale.» gli
consigliò in tono serio, ma Gerlad parve rabbrividire alla sola
ipotesi: sapeva di non essere molto apprezzato dai superiori, vista
la sua evidente inutilità in battaglia.
«Non
ci penso nemmeno a dirlo al caporale.» rispose il giovane scozzese,
scuotendo la testa.
«Che
cosa non vuoi dirmi, soldato McBride?» lo sbeffeggiò il caporale,
comparendo proprio in quel momento da dietro il carro.
«Nulla,
signore.» balbettò Gerald, terrorizzato. «Solo... solo che sta
arrivando una tempesta di sabbia, signore.»
«Una
tempesta di sabbia? Vuoi prendermi in giro, McBride?» gli fece eco
il caporale, gonfiando il petto, come un animale che vuole marcare il
suo territorio.
Gerald
rabbrividì. «No, signore, nessuna presa in giro. È la verità.»
Il
caporale si avvicinò a lui fino a piantargli il suo brutto grugno in
faccia. «Se è la verità, vediamo se hai il coraggio di ripeterla
anche al generale Aunhinleck.» lo provocò con un sorriso maligno.
Gerlad
soppesò l'ipotesi di mentire, di dire che non c'era nessuna tempesta
in arrivo, ma se questa poi si fosse verificata, il caporale avrebbe
scoperto la sua codardia e lo avrebbe duramente punito. Anche la
prospettiva di ritrovarsi faccia a faccia con il generale
dell'esercito in Egitto lo terrorizzava non poco, ma era certamente
il male minore. «Se è quello che vuole, signore.» rispose in un
sussurro. La sua prima vera risposta coraggiosa. Sperava solo che gli
potesse portare fortuna.
Il
generale Claude Auchinleck, il comandante in capo inglese del Medio
Oriente, era un uomo ben piazzato, con la mascella squadrata e uno
sguardo profondo. Un uomo di comando, un vero soldato. Gerald,
infagottato nella divisa troppo grande per lui, smunto e tremante,
sembrava un bambino al suo confronto. Il generale e i suoi
colonnelli, chini su un tavolo a decidere le strategie di guerra,
stavano al riparo di un misero padiglione tenuto in piedi da quattro
pali.
«Che
c'è, caporale Endygreen?» domandò stancamente il generale
Auchinleck, alzando gli occhi su di loro.
Il
caporale indicò con un cenno del capo Gerald. «Questo soldato
sostiene che sta arrivando una tempesta di sabbia.» annunciò in
tono serio.
Il
generale osservò Gerald con interesse, poi gli chiese: «Ne sei
certo?»
«Sissignore.
Il vento tira da ovest e all'orizzonte si vede già il principio di
tempesta.» rispose Gerald, cercando di dare un tono sicuro alla sua
voce.
Il
generale Auchinleck fece qualche passo verso di lui, incuriosito. «E
come le sai queste cose?» gli domandò con la sua voce roca e
profonda.
Gerald
si torse le mani sudaticce dietro la schiena. «Mi interesso di
scienze naturali, signore.» farfugliò a disagio.
«E
dove consiglieresti di riparare?» gli chiese ancora il generale.
Gerald
rispolverò le sue conoscenze geografiche dell'Egitto per qualche
secondo, poi individuò un posto sicuro e difendibile. «El Alamein,
signore. Una strettoia lunga una settantina di chilometri tra il mare
e la depressione di Qattara: buono per posizionare le difese, sulla
linea ferroviaria per Alessandria e comodo per gli
approvvigionamenti.»
Il
generale sembrò soppesare le sue parole per un tempo che a Gerald
parve interminabile. Alla fine gli si posizionò proprio di fronte,
ritto nella posizione militare. «Qual è il tuo nome, giovanotto?»
«Soldato
semplice Fitzgerald McBride, signore.»
Avrebbe
voluto dare un tono sicuro e spavaldo a quella risposta, ma gli uscì
più simile ad uno squittio. Nemmeno il suo nome sapeva dirlo con
coraggio.
Il
generale si concesse un accenno di sorriso. «Da oggi sei il caporale
McBride. Servi bene il tuo esercito.»
***
Rebecca
bussò delicatamente alla porta e entrò solo dopo aver ricevuto il
permesso. Portava in mano un vassoio con una tazza di minestra e un
boccone di pane. Sapeva che Connor si sarebbe lamentato, ma il medico
era stato categorico sulla sua dieta. «Papà, come stai oggi?»
domandò appoggiando il vassoio sul comodino e sedendosi ai piedi del
letto.
L'uomo
brontolò qualcosa di incomprensibile. «Non mi avrai portato di
nuovo quella schifezza, vero?» chiese poco dopo, lanciando qualche
occhiata perplessa al contenuto della ciotola.
Rebecca
gli accarezzò dolcemente una guancia raggrinzita e gli rivolse un
sorriso compassionevole. «Il medico ha detto...»
«Non
mi interessa cosa ha detto il medico!» sbottò il vecchio Connor,
con uno sbuffo. «Una bella bistecca di angus mi farebbe stare subito
meglio.»
«Nonno!»
esclamò la voce di un bambino, che si era precipitato dentro la
stanza, gettando le braccia al collo dell'uomo.
«William,
piano! Così gli fai male.» lo rimproverò la madre, ma Connor
sembrava felice di tutte quelle attenzioni.
Accarezzò
i capelli scuri del nipotino e abbandonò la testa sul cuscino con un
sospiro sereno. «Dov'è Junior?» gli chiese.
Il
bambino ridacchiò divertito, accennando con la testa alle scale.
«Abbiamo fatto a gara per chi arrivava primo e ho vinto io!»
rispose sorridendo. Il nonno soffocò una risata: era
stramaledettamente furbo, William. Trovava sempre il modo di fregare
il fratellino più piccolo, che pendeva sempre dalle sue labbra e si
faceva raggirare come niente.
«Will,
tu hai cinque anni, Junior due. Per forza vinci sempre tu.» lo
rimproverò scherzosamente il nonno.
Un
lampo di furbizia attraversò gli occhi verdi del bambino. «Non è
colpa mia se lui accetta di fare le gare.» ridacchiò divertito.
Il
piccolo Junior trotterellò nella stanza proprio in quel momento.
Sbuffava e ansimava, per aver fatto due piani di scale di corsa, con
le sue gambette paffute troppo corte. «Imbroglione!» sbottò a suo
fratello, agitando il ditino accusatore nella sua direzione. William
ridacchiò di nuovo. Rebecca allora si alzò e prese in braccio il
figlio più piccolo, per poi risedersi sul letto.
Connor
contemplò per qualche tempo il nipotino. A differenza del fratello,
Junior aveva dei morbidi riccioli castani che gli incorniciavano il
viso e un bel paio di occhi azzurri che aveva certamente ereditato
dal padre. Il suo nome, in realtà, era Gerald Connor, ma tutti lo
chiamavano Junior.
Il
vecchio Connor ricordava ancora con quanta apprensione aveva
passeggiato avanti e indietro attraverso il salotto, nella attesa che
qualcuno venisse a portargli la fatidica notizia della nascita del
nipote. Aveva sentito le urla di Rebecca che provenivano dal piano di
sopra e aveva cercato di consolare il piccolo William, anche se in
realtà era preoccupato quanto lui, se non di più. E poi,
finalmente, la nutrice era venuta ad annunciare che era nato un bel
maschietto sano e che la mamma stava bene. Connor aveva preso in
braccio William ed era corso nella stanza di Rebecca. Lei teneva in
braccio un fagottino tutto rosso che strillava a pieni polmoni e
agitava in aria le braccina. Connor era sicuro di non aver mai visto
nulla di più bello. «Ti piace il tuo fratellino, William?» aveva
sussurrato all'orecchio del nipotino.
Il
bambino aveva storto il naso. «Urla che sembra una scimmia ed è
rosso come un pomodoro.»
Connor
aveva ridacchiato. «Anche tu eri così, quando sei nato. Crescerà,
vedrai, e diventerà bello come te.» gli aveva risposto, dandogli un
buffetto sulla guancia.
Dopodiché
entrambi si erano avvicinati al letto per contemplare il neonato. «Si
chiamerà Gerald Connor McBride.» gli aveva rivelato Rebecca, con un
sorriso stanco per la fatica del parto.
Gerald,
come il padre che forse non avrebbe mai conosciuto e Connor, come il
nonno che non era suo nonno. Era stato allora che Connor MacCallagan
si era lasciato sfuggire una lacrima di commozione.
L'ultima
volta che aveva pianto era stato nel 1875.
E
ora si commuoveva per un bambino che non aveva nulla a che fare con
la sua vita, con cui non aveva alcun legame, ma che in realtà,
sapeva che sarebbe stato per lui come un vero nipote.
E
questo solo perché la madre e il figlio più grande avevano già
conquistato il suo cuore, intenerito quella dura scorza che era
costruito intorno per ripararsi da ogni sentimentalismo. Come avrebbe
potuto non affezionarsi alla semplicità di quella giovane donna che
amava il marito con devozione, che avrebbe dato la sua vita per i
figli, che attendeva speranzosa la fine della guerra, convinta
davvero che Gerald sarebbe tornato da lei? Come avrebbe potuto
restare impassibile davanti agli occhioni verdi e così pieni di vita
del piccolo William, sempre gioioso e allegro, nonostante l'epoca in
cui era costretto a crescere? Come avrebbe potuto rifiutarsi di
proteggere la giovane famiglia dalle insidie del viscido maggiore
Bantry, che solo lui sapeva tenere in riga?
E
infine, si era affezionato anche al piccolo Junior, così dolce e
innocente a discapito di tutto ciò che era costretto a sopportare,
il padre assente, la guerra, i soldati in casa.
Quegli
ultimi due anni erano stati i migliori della sua vita, perché
finalmente si sentiva parte di qualcosa. Sapeva di essere utile e
indispensabile a quella famiglia, ma era certo che ci fosse anche un
profondo e sincero affetto che li legava. Il modo in cui i bambini lo
chiamavano nonno, le amorose attenzioni di Rebecca nei suoi
confronti, sebbene lui fosse praticamente un estraneo per lei... si
era creato un legame indissolubile che gli aveva regalato una
serenità non più sperata, da quel lontano 1875.
Se
solo la sua malattia ai nervi non fosse peggiorata, avrebbe venduto
perfino la sua banca per poter vivere per sempre in quel castello
immerso nella brughiera con una donna che non era sua figlia ma che
amava anche di più e con dei bambini che non erano suoi nipoti ma
che li vezzeggiava come se lo fossero.
Come
promesso, ecco a voi il nuovo capitolo!
Il
generale Claude
Auchinleck non è di mia invenzione: qui la pagina di Wikipedia a lui
dedicata, se volete sbirciare (c'è anche una foto!); il caporale
Endygreen, invece, l'ho inventato di sana pianta (e, sì, lo so,
parla un po' sgrammaticato e ha dimenticato a casa un po' di
congiuntivi, ma l'ho fatto apposta!).
Il
perché dell'ultimo pianto proprio nel 1875 da parte di Connor
MacCallagan, lo scoprirete nel prossimo capitolo.
A
presto!
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
ATTENZIONE:
il capitolo contiene alcune scene di violenza; vi avverto prima
perché qualcuno potrebbe non gradire. Beatrix B.
Capitolo
VI
Gennaio
1943
Quegli
ultimi mesi di convalescenza passati a letto erano stati un supplizio
per l'anziano Connor MacCallagan, non tanto per il dolore, quando per
l'impossibilità di muoversi dalla stanza. Aveva passato tre anni
imprigionato in un ospizio e ora che era ritornato a vivere, la
malattia lo aveva costretto a rinchiudersi nuovamente. Bella sfiga.
Rebecca
era sempre piena di attenzioni verso di lui e i nipotini venivano a
trovarlo in camera tre volte al giorno, ma forse proprio perché ora
aveva ricominciato ad assaporare il gusto della vita, quella
prigionia gli era doppiamente insopportabile.
Quel
giorno i suoi nervi gli stavano facendo vedere le stelle: non era
nemmeno riuscito ad alzarsi dal letto. Quando Rebecca entrò in
camera portando il vassoio con il pranzo, Connor storse il naso: di
nuovo minestrone. Lei sorrise comprensiva e si sedette al suo fianco
sul letto. «Come stai, papà?» gli domandò, accarezzando
lievemente il suo viso rugoso. Lui sbuffò ma non rispose: era il
suo modo per dire che stava male.
Rebecca
rimase per qualche minuto a contemplare il suo ostinato e immusonito
silenzio, dopodiché gli baciò la mano raggrinzita e sussurrò:
«Meglio che ti lasci riposare.»
Fece
per alzarsi dal letto, quando Connor la bloccò. «No, ti prego,
resta ancora un po'.» la supplicò, facendo una lieve pressione sul
suo braccio. La donna allora si risedette, prendendo la mano del
vecchio tra le sue.
Connor
era perso ad osservare la brughiera avvolta dalla nebbia che si
intravedeva attraverso la finestra. «Non ho mai avuto una figlia, ma
se dovessi scegliere, vorrei che fosse come te.» mormorò poco dopo,
senza distogliere gli occhi dal paesaggio.
«Oh,
Connor...» sussurrò con dolcezza Rebecca, stringendo la mano di lui
al petto. Gerald aveva avuto ragione nel dire che sotto tutta quella
scorza burbera di durezza si nascondeva una cuore tenero. La presenza
del vecchio signor MacCallagan, in quegli ultimi anni, l'aveva
aiutata non solo ad affrontare le insistenze del maggiore Bantry, ma
anche a sopportare meglio la lontananza di Gerald. Negli occhi blu
profondo, leggermente offuscati, dell'anziano scozzese riusciva a
leggere un affetto di un intensità tale da farle dimenticare ogni
suo cupo pensiero. E ogni giorno si riaccendeva la speranza del
ritorno di Gerald.
«Io...
devo confessarmi con qualcuno, prima che sia troppo tardi.» mormorò
Connor, finalmente distogliendo gli occhi dal paesaggio per guadare
la figlia. Rebecca parve molto stupita, visto che il vecchio
MacCallagan non era mai stato particolarmente religioso, ma si
affrettò a dire che avrebbe chiamato un sacerdote.
«No,
no. Non quel genere di confessione.» la rassicurò Connor, tenendo
strette le mani di lei con la sua. «Io devo parlare con te. È
importante.»
Rebecca
prese un profondo respiro. «Va bene, ti ascolto.»
Connor
distolse lo sguardo da lei e riprese a fissare la brughiera per
qualche tempo in perfetto silenzio. Poi cominciò a raccontare: «Era
la primavera del 1875; io avevo diciassette anni. Ricordo alla
perfezione la prima volta che lo vidi: era seduto sul muretto che
divideva la mia casa da quegli orribili palazzi dove vivevano gli
operai. Ricordo che era un giorno sereno, perché i raggi del sole
illuminavano le ciocche bionde di capelli che gli incorniciavano il
viso, facendolo brillare come fosse d'oro. Aveva delle minuscole
efelidi sulle guance e sul naso e i suoi occhi erano pura luce.»
Connor
si interruppe, perso nei fili intrecciati di quel ricordo. Dopo
qualche secondo di silenzio riprese: «Era orfano di madre, figlio di
un operaio, e anche lui lavorava in fabbrica, con turni massacranti.
Quando sgattaiolava via dal suo misero appartamento per raggiungere
la villetta dove vivevo con mia madre e mio padre, un rinomato
pastore protestante, aveva sempre il volto sporco di fuliggine e, una
volta, ricordo che glielo pulii con il mio fazzoletto di seta. Era...
bello stare con lui, perché era l'unico che mi capisse, che
condividesse i miei sogni e le mie aspirazioni, con cui potessi
parlare liberamente. E poi...»
Il
vecchio Connor deglutì, incerto se fosse il caso di proseguire. Ma
ormai era tardi per tornare indietro. Così continuò: «Lui era
bello come un angelo. Delicato e sensibile, così gentile e amabile.
Non avevo mai incontrato nessuno come lui. Io... me ne innamorai. E
lui mi ricambiava.»
L'uomo
si interruppe di nuovo, sospirando. Aveva confessato il suo delitto,
delitto che non aveva mai rivelato a nessuno. Aveva amato un ragazzo,
lo aveva amato sinceramente e in modo innocente. Lo aveva amato come
non mai e come mai avrebbe più amato nessuno.
«Ricordo
il primo bacio che ci scambiammo. Eravamo accoccolati sul muretto tra
la mia villetta e le case degli operai, entrambi impacciati e
imbarazzati per ciò che stavamo facendo. Ma la dolcezza di quel
bacio...» Connor sospirò al tenero ricordo che lo aveva trascinato
lontano nel tempo.
«Ne
seguirono altri e altri ancora, fino all'estate.» ricominciò a
raccontare. «Poi un caldo giorno di luglio ci ritrovammo nel suo
appartamento. Ricordo che lui aveva la camicia leggermente
sbottonata, perché il sole colpiva la sua pelle candida facendola
brillare. Aveva una manciata di lentiggini anche sul petto. Ci
baciammo. Ma poi... arrivò suo padre. Ci vide. E si infuriò.
«Si
sfilò la cintura e cominciò a picchiare suo figlio con la cinghia.
“Depravato, storto, pervertito” gli urlava. E picchiava,
picchiava sempre più forte. Io mi misi in mezzo per cercare di
fermarlo, ma ero un ragazzino gracile che non poteva competere con un
uomo fatto e finito, abituato a lavorare in fonderia. Mi beccai una
cinghiata in faccia, sull'occhio destro. Urlai per il dolore e mi
rintanai in un angolo a piangere, terrorizzato.»
Connor
rabbrividì al solo ricordo. La mano sinistra cominciò a tremare,
segno che i suoi nervi stavano cedendo definitivamente. Rebecca
strinse più forte la presa, nel tentativo di infondergli coraggio,
anche se immaginava quanto fosse terribile per lui rievocare quella
scena. Vide i suoi profondi occhi blu offuscarsi quasi completamente,
mentre una sola, singola lacrima gli attraversava la guancia. Ma
Connor voleva terminare il racconto, doveva assolutamente farlo.
«Io
piangevo spaventato come un coniglio, lui, raggomitolato a terra in
una pozza di sangue, gridò a suo padre che mi amava. Lo urlò, con
coraggio, al padre che lo stava massacrando di botte. L'uomo non ci
vide più dalla rabbia. Prese una sedia, gliela sbatté addosso con
violenza. E lui...» la voce gli morì in gola, mentre gli occhi si
inumidivano per il dolore del ricordo.
«Non
ho più pianto, da allora, perché credo che versai quel giorno tutte
le lacrime che avevo, tenendo tra le mie braccia il corpo senza vita
del ragazzo dal viso bello come il sole, ora tumefatto e
insanguinato. Non ho nemmeno più amato, né provato gioia, né
speranza, da quel giorno, finché non incontrai Gerald. Nei suoi
luminosi occhi azzurri vedevo lo stesso entusiasmo e la stessa voglia
di vivere del mio Edward e capii che la vita era andata avanti, anche
se io mi ero fermato a quel lontano luglio del 1875.»
Connor
finalmente distolse gli occhi pieni di lacrime dalla finestra e
rivolse un sorriso sincero a Rebecca. «E poi ho incontrato voi, tu e
i bambini, che mi avete realmente ridato la vita. E io vi ringrazio,
vi ringrazio per questo.»
«Siamo
noi che ringraziamo te, Connor.» rispose Rebecca ricambiando il
sorriso e trattenendo a stento il pianto. Ma il vecchio sembrava
ancora preoccupato per qualcosa.
«Finirò
all'inferno per quello che ho fatto? Mi padre diceva che sarei
bruciato nel fuoco eterno.» domandò con un fil di voce.
Rebecca
non riuscì più a trattenere le lacrime, che le attraversarono
copiose le guance. Scosse lentamente la testa, cercando di sembrare
decisa. «No, Connor, un uomo buono come te non può andare
all'inferno. Rivedrai il tuo Edward, te lo prometto.»
Il
vecchio MacCallagan adagiò la testa sul cuscino, finalmente sereno.
Un leggero sorriso di beatitudine gli increspò le labbra sottili,
una piccola carezza sfiorò la mano della figlia. Avrebbe voluto
dirle grazie per un'ultima volta, ma non ne ebbe la forza: gli bastò
lanciarle uno sguardo con i suoi occhi blu come l'oceano.
E
infine, con un ultimo sospiro, si abbandonò alla morte.
Quando
Rebecca sentì che la mano di Connor aveva perso ogni forza, chinò
la testa sul ventre di lui e scoppiò a piangere. Pianse per un
vecchio burbero, pianse per la perdita di un amico, di un difensore e
consigliere, pianse per un uomo che non era suo padre ma che aveva
amato come se lo fosse stato.
Il
funerale aveva raccolto poche adesioni: oltre alla famiglia McBride
con il suo maggiordomo, il maggiore Bantry accompagnato dai suoi due
compagni e pochi vecchi colleghi della banca, non si era presentato
nessun altro. Solo allora Rebecca aveva capito quanto fosse stato
solo, quando era in vita, il signor MacCallagan.
L'uomo
aveva lasciato per testamento tutti i suoi risparmi a Rebecca McBride
e così la giovane donna aveva ereditato un libretto bancario con più
sterline di quante avesse mai sognato. Certo, non che quella grande
quantità di soldi potesse in qualche modo compensare il vuoto che
Connon MacCallagan aveva lasciato nel suo cuore, ma almeno era certa
che lei e i bambini non avrebbero patito la fame. Le difficoltà
della guerra avevano cominciato a farsi sentire anche per la ricca
famiglia scozzese, soprattutto visto che la principale entrata -il
lavoro di Gerald in banca- era venuta a mancare. Inoltre il maggiore
Bantry e i suoi compagni pagavano un affitto che era davvero
irrisorio, se comparato alle enormi spese che Rebecca doveva
sostenere. Invece, ora che aveva ereditato il cospicuo patrimonio di
Connor, almeno su quel fronte, poteva ritenersi tranquilla.
Era
tutto il resto che la preoccupava: ora che Connor era morto, sentiva
ancora di più la mancanza di Gerald. Si chiedeva se fosse ancora
vivo, dopo tre anni passati in guerra. Lui non era il tipo di uomo
abituato a sparare e uccidere e Rebecca temeva che non fosse in grado
di sopravvivere a tutto quell'orrore. L'unica cosa che le permetteva
di andare avanti era la speranza che, se gli fosse successo qualcosa,
l'esercito l'avrebbe già avvertita.
L'altro
suo grande problema bussò alla porta proprio in quel momento.
«Signora McBride?» domandò il maggiore Bantry, facendo capolino
nella stanza con la sua faccetta acquosa. La donna smise di osservare
la brughiera avvolta dalla nebbia e si voltò verso il maggiore con
aria apatica.
«Ci
chiedevamo se il contratto era ancora valido, ora che è morto suo
padre.» spiegò Bantry, facendo qualche passo verso di lei. «Sempre
ammesso che di suo padre si trattasse.»
Connon
si trovava sotto terra da meno di una settimana e quell'uomo viscido
era già passato all'azione? Rebecca si lasciò sfuggire un sospiro
addolorato. Come avrebbe potuto sopravvivere alle insidie del
maggiore Bantry ora che si trovava di nuovo sola?
«Non
le permetto di insultare la memoria di mio padre, maggiore Bantry. Se
non ha altro di sensato da aggiungere, la prego di lasciarmi sola con
il mio dolore.» replicò Rebecca, cercando di assumere un tono
deciso. Ma erano solo parole gettate al vento, con quell'uomo.
Il
maggiore fece ancora qualche passo nella sua direzione. I suoi
occhietti acquosi erano puntanti in modo inequivocabile sul seno di
lei. «Qualcosa di sensato ce l'avrei da dire, eccome.» sibilò con
un ghigno divertito. «Sarebbe anche ora che la smettesse di fare la
mogliettina pudica, signora McBride.»
«Esca
subito dalla mia stanza, maggiore!» gridò Rebecca, indicando la
porta con un gesto perentorio.
Ma
l'uomo si leccò le labbra, sbranandola con gli occhi. «Altrimenti
che fa, signora McBride? A chi chiederà aiuto? Al piccolo e
coraggioso William?»
«Lasci
stare i miei figli!» urlò Rebecca, terrorizzata. Due lacrime
involontarie le attraversarono le guance, mentre si rintanava in un
angolo più lontana possibile da quell'orribile uomo.
Il
maggiore Bantry scoppiò a ridere: persino la sua cupa risata
sembrava viscida. «Oh sì, non si preoccupi.» sghignazzò con un
sorriso provocatorio. «Non mi piacciono i marmocchi. Io preferisco
le donne.»
«Se
ne vada!» strillò Rebecca disperata, ma in un attimo l'uomo le fu
addosso. Lei cadde, si raggomitolò a terra, scalciò, gridò e
pianse. Non riusciva più a capire nulla: sapeva solo che doveva
colpire qualsiasi cosa le venisse a tiro. Lasciò due profondi graffi
nelle braccia del maggiore Bantry, ma questo non lo fermò. Le
strappò di dosso la camicetta nera di pizzo, la picchiò e la sbatté
a terra.
«Mamma!»
Rebecca
si sentì morire: quella era la voce di William. No, il suo bambino
non doveva vedere, non doveva sapere.
«Vai
via, William, vai via!» gli gridò in lacrime. Ma il maggiore Bantry
aveva ragione: William era un bambino coraggioso. Si scagliò contro
l'uomo che stava facendo del male alla sua mamma e gli morse un
polpaccio. Il maggiore urlò per il dolore, ma gli bastò un calcio
per liberarsi del marmocchio molesto.
«William!»
strillò Rebecca, cercando di raggiungere suo figlio, che si era
accasciato contro la parete privo di sensi. «Il mio bambino! Sei un
mostro!»
«Stai
zitta, donna!» le ordinò Bantry, tirandole un ceffone in faccia
tanto forte da farla piombare a terra.
«Maggiore
Geoffry Bantry!» tuonò una voce che sovrastò le grida. L'uomo si
voltò verso la porta, dove era appena apparso un soldato in uniforme
da colonnello.
«Signore?»
domandò, con apparente tranquillità. Come se non fosse stato
beccato a malmenare una donna e un bambino.
«Che
diavolo succede qui dentro?» chiese il colonnello in tono imperioso.
Bantry si allontanò di un passo da Rebecca, che ancora mugugnava a
terra. «Nulla, signore.»
L'uomo
osservò la scena a lungo, con cipiglio severo: doveva aver intuito
cosa stava succedendo prima del suo arrivo. «Ero venuto a cercarla
per una comunicazione urgente di trasferimento, maggiore, ma le
assicuro che provvederò personalmente affinché le venga presentata
una mozione disciplinare di declassamento a soldato semplice.»
spiegò il colonnello. «E ora la prego di seguirmi.»
Il
maggiore Bantry attraversò la stanza a grandi passi, con il mento
sollevato e le spalle dritte, come un eroe incompreso consumato dalle
disgrazie. «Prendo le mie cose, signore.» aggiunse, fermandosi
davanti ad una cassapanca. Rebecca era troppo intontita per
accorgersene, il colonnello non poteva saperlo: ciò che Bantry prese
dalla cassapanca non era in alcun modo suo.
Era
il libretto di risparmio di Connor MacCallagan.
Ecco
a voi il nuovo capitolo!
Temo
che alcune rivelazioni a proposito di Connor necessitino di una
spiegazione... la scelta di farlo innamorare di un ragazzo è stata
meditata a lungo, ma alla fine ho ritenuto che fosse necessaria.
Infatti, se il suo amore giovanile fosse stata una fanciulla, non ci
sarebbe stato alcun motivo per cui il padre la uccidesse; avrebbe
potuto morire di malattia o altre cause naturali, ma allora non
sarebbe stato un trauma così forte per Connor; inoltre, se avesse
avuto un amore giovanile finito male, sarebbe stato un po'
inverosimile che per tutto il resto della sua vita non avesse trovato
un'altra donna di cui innamorarsi. Tutti questi motivi mi hanno
portato a scegliere un amore omosessuale. Spero, comunque, di non
aver urtato la sensibilità di nessuno.
Qui,
se vi interessa, il disegno di Edward, come appare la prima volta a
Connor.
Quanto
al maggiore Bantry, lo sapevamo tutti quale fosse il suo obiettivo...
per fortuna è stato colto sul fatto prima di fare danni; anche se,
in realtà, le difficoltà per Rebecca non sono ancora finite; anzi,
sono appena iniziate.
Scusate
per lo sproloquio nelle note d'autrice... A presto!
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
Capitolo
VII
Marzo
1944
Gerald
si appuntò un paio di nomi sul taccuino, poi tornò a guardare il
suo interlocutore. «Siamo d'accordo, allora.» confermò con un
segno del capo.
L'uomo
che aveva di fronte si alzò in piedi e gli strinse calorosamente la
mano. «Se tutti i generali fossero come te, la guerra sarebbe già
finita da un pezzo.» si complimentò, con una strizzata d'occhio.
Gerald
scoppiò a ridere. «Non sono un generale. Tenente colonnello
Fitzgerald McBride, vice comandante in capo dell'Ottava armata
britannica.» si presentò, battendo i tacchi come un perfetto
militare.
«Qualche
altro titolo onorifico, messere?» lo schernì affettuosamente
l'altro.
Gerald
sbuffò, fingendosi offeso. «Stai attento, Franco. Parli pur sempre
con un alto comando dell'esercito di Sua Maestà.» gli disse, con un
tono che voleva essere pomposo. Nemmeno lui riuscì a restare serio.
In
quel momento qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. «Avanti.»
Il
volto di Josh comparve sull'uscio. «Gerald, è arrivato il nuovo
contingente, se vuoi passarlo in rassegna.» annunciò il ragazzo.
Franco
capì che il suo colloquio era finito e si diresse verso la porta.
«Siamo d'accordo, allora, colonnello McBride. Mi fido di lei.»
furono le sue ultime parole, prima di uscire, con una strizzata
d'occhio.
Josh
lo osservò mentre si allontanava lungo il corridoio: era corpulento,
infagottato in abiti da montanaro, e aveva un viso allegro e onesto.
«Che tipo, eh?» domandò Josh, accennando con il capo all'uomo che
era appena uscito dall'ufficio.
Gerald
si lasciò sfuggire un sorriso, mentre stava riordinando le
scartoffie militari. «Si chiama Franco, o almeno così dice.»
spiegò poi, rivolto all'amico. «È il nostro tramite per
organizzare i lanci con munizioni e rifornimenti alle brigate
partigiane italiane.» Gerald si interruppe, sovrappensiero. «Trovo
che sia un tipo buffo, ma... quanto amore per la libertà della sua
patria in quegli occhi!»
Josh
scoppiò a ridere e gli diede una poderosa manata sulla schiena.
«Andiamo, romanticone. La guerra è quasi finita, dai retta a me.
Anche tu tornerai presto nella tua amata Scozia.» esclamò con una
risata.
Gerald
sorrise. «Già... la Scozia.» mormorò tra sé. Quanto gli
mancavano le brughiere scozzesi, la nebbia, i paesaggi brulli. Quanto
gli mancava sua moglie, i suoi dolci sguardi e le sue carezze. E
William? Lo avrebbe riconosciuto dopo tutti quegli anni?
«Andiamo
a vedere 'sti nuovi contingenti, dai.» sospirò infine, mettendo da
parte i suoi quesiti senza risposta.
I
soldati appena arrivati in Italia parevano di ogni età ed estrazione
sociale; alcuni erano ragazzini freschi di addestramento, altri
militari spostati da varie zone in cui non erano più necessari, ma
tutti avevano quell'aria tonfa di chi sa di essere dalla parte giusta
dello schieramento. Che gli Alleati stessero vincendo la guerra era
ormai chiaro a tutti, ma Gerald aveva provato sulla sua pelle che non
era sempre stato così. Stavano vincendo, era vero, ma quale prezzo
di vite umane era costata quella vittoria!
«Santo
cielo, li fanno sempre più giovani.» commentò in tono scioccato un
uomo biondiccio rivolto al suo vicino, quando Gerald diede l'ordine
di sciogliere le righe. «Questo che c'avrà, vent'anni? Ed è già
tenente!»
«È
tenente colonnello, per te, soldato.» precisò Gerald, parandoglisi
davanti. «E per tua informazione, di anni ne ho trenta. E il mio
grado me lo sono guadagnato con il sangue.» soggiunse poco dopo.
L'uomo,
che aveva due baffetti biondi e gli occhi troppo piccoli per il suo
faccione acquoso, non parve particolarmente colpito da quelle
affermazioni; anzi, riservò a Gerald uno sguardo di sufficienza. «Un
tempo ero maggiore, quando stavo in Scozia. Poi declassamento per
comportamenti amorali e, con la fedina sporca, addio carriera.»
spiegò, nel tentativo di dimostrare che non era l'ultimo arrivato.
Al
sentir nominare la sua patria, Gerald si addolcì. «Anche io vengo
dalla Scozia.» rivelò, con un sorriso nostalgico.
Il
soldato scoppiò a ridere. «Io no, grazie al cielo! Ci sono stato
per tre anni e mi sono bastati. L'umidità e la nebbia mi sono
praticamente penetrati nelle ossa.» sghignazzò, senza sapere che
stava toccando una ferita aperta.
Gerald
trattenne a stento l'impulso di sbatterlo in isolamento: non sarebbe
stato molto onesto sfruttare così il suo grado. «Tre anni, eh?»
domandò invece, tanto per compiacenza. Sarebbe stato più saggio
mostrarsi disponibile con i sottoposti, piuttosto che vendicarsi su
di loro per le sue nostalgie.
Il
soldato biondiccio annuì. «Tre anni. Ero istruttore all'accademia
di Edimburgo. L'unica nota positiva di quel periodo è stato che
alloggiavo in un castello davvero niente male. Mi dilettavo con tutti
i beni della casa e approfittavo della generosa ospitalità. Peccato
che non sia riuscito a godere delle grazie della padrona di casa, se
sa cosa intendo.» raccontò, con un occhiolino d'intesa.
Gerald
era piuttosto disgustato da quell'uomo, ma lo lasciò parlare. C'era
come uno strano campanello d'allarme che destava la sua attenzione.
«Come mai?» gli chiese allora, sicuro che dovesse saperne di più,
su quella storia.
Il
soldato si strinse nelle spalle. «Tutta colpa di quel vecchiaccio di
MacCallagan. Un rabbioso cane da guardia, almeno fintanto che non ha
tirato le cuoia, che il cielo lo benedica.» spiegò, sputando a
terra.
MacCallagan.
Non
era possibile. Quel nome. E se...?
Un
terribile presentimento si fece strada nella mente di Gerald. Doveva
sapere, doveva assolutamente sapere.
«Lei,
la padrona di casa, come si chiamava?» chiese con il cuore in gola.
L'uomo
si grattò il mento. «Mah... McBride qualcosa.»
Gerald
sentì il sangue salirgli alla testa. «Rebecca McBride?» chiese con
foga.
Il
volto del soldato si illuminò. «Esatto, Rebecca, Rebecca McBride.
Quella zoccola.»
Gerald
non riuscì più a trattenersi. «Quella è mia moglie, lurido
bastardo!» gridò e poi gli si scagliò addosso, anche se era più
basso e mingherlino di lui. L'altro, colto alla sprovvista, non
riuscì nemmeno a reagire e ricevette un sonoro pugno in piena
faccia.
Gli
altri soldati si scansarono sorpresi: il colonnello McBride era
sempre così posato, che diavolo gli era saltato in mente? Alcuni
gridavano per chiamare i superiori, altri facevano le loro puntante
su chi avrebbe vinto: molti scommettevano per il colonnello, non
tanto perché fosse effettivamente avvantaggiato, quanto per la furia
folle che sembrava dominarlo.
Per
fortuna, in meno di un batter d'occhio, comparve sulla scena l'amico
grosso del colonnello, quel Josh Watson. Si avvicinò ai due che
facevano a botte, afferrò lo scozzese per le spalle e lo trascinò
via dalla sua vittima.
«Sant'Iddio,
Gerald, che ti è preso?» gli domandò, sempre tenendolo ben fermo.
Gerald
si asciugò un un rivolo di sangue dalla fronte. «Quel bastardo...»
fu l'unica cosa che riuscì a sibilare, con gli occhi furenti che
puntavano sulla sua preda.
«Che
ti ha fatto?» chiese Josh, senza mollarlo.
«Ha
cercato... mia moglie...» balbettò Gerald, con il fiato mozzo per
la scazzottata.
Alcuni
uomini aiutarono il soldato a rimettersi in piedi. «Stai tranquillo,
non l'ho nemmeno toccata...» rispose quello, con una nota di
rimpianto nella voce. I suoi occhi però lampeggiavano di malizia.
«Comunque ha due belle poppe.» continuò, asciugandosi il sangue
che colava dalla bocca con il dorso della mano.
A
quelle parole Gerald fu invaso da una cieca rabbia. Si liberò con
uno strattone dalla presa ferrea di Josh e si scagliò nuovamente
contro il soldato.
«IO
TI AMMAZZO!»
Si
scatenò di nuovo il caos. Piovevano braccia dappertutto, qualcuno
cercava di fermarlo, di strapparlo via dalla sua preda, ma Gerald era
invaso da una furia omicida che guidava con precisione i suoi pugni
verso la faccia di quel porco. Non si risparmiava un colpo, ogni
occasione era buona per fargli del male, ucciderlo se possibile. La
faccia da maiale del soldato si ridusse in un ammasso pietoso di
lividi nel giro di pochi attimi. Il naso, gli occhi, la bocca...
qualsiasi cosa riuscisse a colpire gli andava bene.
«Basta!
Basta!» stillava quello come una bestia che va al macello.
«Gerald,
fermati!» gli gridò Josh, ma non c'era nulla che potesse impedirgli
di massacrare di botte il soldato. Aveva cercato di violentare sua
moglie, si meritava la morte. E lui, Fitzgerald McBride sarebbe stato
il suo giustiziere. Per la prima volta non voleva uccidere per
difendersi, ma per l'atto in sé. Le sue mani erano sporche del
sangue della sua vittima e lui ne voleva ancora, e ancora, e ancora.
Le sue nocche si lacerarono a furia di tirare pugni. Forse ne aveva
anche ricevuti a sua volta, ma non solo non gli importava nulla,
addirittura non provava alcun dolore.
E
poi finalmente l'uomo sotto di lui smise di divincolarsi. Il volto
era una maschera di sangue, ma Gerald poté ugualmente notare, con
gioia selvaggia, che i suoi occhi erano fissi, rivolti verso il
cielo.
Morto.
E
l'aveva ucciso lui.
Si
rialzò da terra, il naso sanguinante, forse rotto, chissà. La furia
cieca sparì, lasciando posto ad una fredda determinazione. Josh lo
spinse di lato e si accucciò a fianco dell'uomo per sentire il
polso. Aveva un'espressione sconvolta quando si volò nuovamente
verso Gerald.
«Mioddio,
l'hai ammazzato!»
Il
tenente colonnello Fitzgerald McBride stava ritto in piedi, con le
mani dietro la schiena in posizione militare, proprio davanti al suo
superiore. Nel suo sguardo apatico non si leggeva nessuna emozione:
il volto era una maschera di pietra.
Il
generale Bernard Montgomery era un uomo asciutto e nervoso, con le
guance incavate e il naso appuntito. Non era un colosso di uomo, ma
tutti i soldati gli portavano naturalmente rispetto, forse per quel
suo sguardo penetrante o forse perché, a dispetto del basco
graduato, poteva sembrare uno di loro. In quel momento, se Gerlad non
avesse perso qualsiasi grado emotivo che andasse oltre l'apatico,
avrebbe seriamente dovuto tremare di fronte allo sguardo perforante
che gli stava riservando il generale.
«Colonnello
McBride, di solito io non mi sbaglio nel giudicare gli uomini. Ho
forse sbagliato con lei?» domandò Montgomery, rigirandosi la penna
stilografica tra le mani.
Gerald
rimase impassibile, con gli occhi fissi sulla cartina dell'Italia
appesa alle spalle del generale. «Non lo so, signore.» rispose in
tono neutro.
Montgomery
batté la penna sulla scrivania un paio di volte, come se fosse
sovrappensiero. «Credevo di aver fatto un ottimo acquisto con te,
giovanotto, quando ti ho promosso mio vice. Brillante e ingegnoso,
con sagaci doti strategiche... che cosa ti è successo?» mormorò,
ma se conosceva bene il suo uomo, sapeva che non avrebbe risposto a
quella domanda. Gerald infatti rimase serrato nel suo silenzio.
Montgomery allora sospirò in tono sconfitto e si alzò dalla
scrivania per guardare il giovane colonnello dritto negli occhi. «Che
diavolo ti aveva fatto quel soldato per massacrarlo in quel modo?»
gli chiese.
Gerald
finalmente distolse lo sguardo dalla cartina per puntarlo sul volto
scavato del generale Montgomery. «Ha vissuto per tre anni come un
parassita nella mia casa, mentre io ero qui a sputare il sangue per
la mia nazione. E ha tentato di violentare mia moglie. Signore.»
rispose con durezza. Nessun segno di rimpianto nella sua voce. Cosa
aveva fatto la guerra a quel giovane mite e innocente?
Il
generale Montgomery annuì gravemente. «Capisco.» sospirò. «Ma
non posso evitare di punirti: per quanto buone fossero le tue
ragioni, hai commesso un grave delitto. Sono costretto a importi un
declassamento per comportamenti amorali. Ritornerai soldato
semplice.»
«Signore.»
replicò apatico lo scozzese, battendo i tacchi e compiendo un rigido
e perfetto saluto militare.
Fece
per andarsene, quando il generale lo richiamò: «Gerald... mi
dispiace.»
E c'era
davvero dispiacere in quella voce, ma a Gerald non fregava più di
niente.
Eccoci
qui... ci stiamo avviando verso la fine della guerra e del racconto.
Ve
l'avevo detto che il maggiore Bantry l'avrebbe pagata cara...
guardate cosa ha fatto al povero Gerald! L'ha trasformato in un
assassino senza coscienza! Forse, con gli anni, ripensando a questo
episodio, Gerald si sentirà in colpa per ciò che ha fatto, ma non
adesso, non ora. Ora c'è solo posto per la vendetta.
Qui,
comunque, il disegno che lo rappresenta davanti al generale.
Quanto
a Montgomery... santo cielo, è il prototipo del comandante perfetto!
Cercate una sua foto su internet e capirete subito che è un uomo che
ispira fiducia e forza!
Tra
domenica e lunedì il penultimo capitolo... A presto, Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo VIII ***
Capitolo
VIII
Dicembre
1944
Rebecca
si stava raccogliendo i capelli dietro la testa, quando Connor entrò
di corsa nella stanza. «Mamma, mamma! Will mi ha rubato il
cavallino.» strillò il piccolo, mettendo il broncio. La donna gli
accarezzò i ricci con un gesto della mano, poi richiamò William
perché restituisse il giocattolo al fratello.
Junior
aveva smesso di chiamarsi così quando aveva compiuto i tre anni: era
stato lui a deciderlo, sostenendo che non era più un bambino piccolo
e che non c'era più motivo di identificarlo con quel nomignolo; il
nonno era morto e lui voleva essere chiamato con il nome che gli
spettava: Connor. Rebecca aveva capito il motivo per cui il bimbo
avesse glissato sul suo primo nome: Gerald, per lui che non aveva mai
visto suo padre, non era altro che un fantasma del passato.
William
entrò nella stanza con il volto imbronciato; restituì il cavallo di
legno al fratello con un gesto scortese, poi si sedette sul letto con
le braccia conserte. «Amore, fai il bravo. Sei l'ometto di casa,
adesso.» cercò di consolarlo Rebecca, con un buffetto sulla
guancia.
William
sbuffò. «Neanche ce l'abbiamo, una casa.» fu il suo aspro
commento. Rebecca gli rivolse un sorriso triste. Era vero, non
vivevano più in quella casa, ma almeno avevano un tetto sopra
la testa. Erano stati costretti ad abbandonare il castello dei
McBride da quasi un anno, ormai, e si erano trasferiti nel piccolo
cottage della servitù: due stanze e niente bagno, ma era tutto
quello che potevano permettersi. Il maggiore Bantry e i suoi compagni
erano stati trasferiti altrove ma l'uomo, prima di scomparire, aveva
rubato il libretto di risparmio che il signor MacCallagan aveva
lasciato loro in eredità. Per la famiglia McBride era stato facile
cadere in disgrazia: nessuna entrata e troppe spese, unite al fatto
che in guerra il prezzo dei generi di prima necessità saliva alle
stelle, avevano costretto Rebecca a licenziare il giardiniere, la
cameriera e infine anche il vecchio e affezionato maggiordomo Sean.
Aveva pianto, il povero Sean, quando era stato costretto ad
abbandonare la casa che aveva servito per quasi trent'anni. Anche a
Rebecca si era spezzato il cuore, ma non poteva farci nulla: i soldi
non crescevano sugli alberi.
Senza
più il personale che la aiutasse a tenere in ordine l'enorme
castello, Rebecca non riusciva più a stare dietro a tutte le
faccende di casa. Così lei e i bambini si erano trasferiti nel
piccolo cottage, serrando definitivamente le porte della grande villa
e chiudendovi dentro i suoi preziosi mobili, gli abiti raffinati e i
cibi gustosi.
Ma
tutto quello non era bastato. Rebecca, che non aveva mai lavorato in
vita sua, era stata costretta a cercarsi un posto e tutto ciò che
aveva trovato era un turno di otto ore in una fabbrica di Edimburgo
che produceva tegami per l'esercito. Le sue mani delicate si erano
ricoperte di calli, i capelli vaporosi si erano afflosciati e
seccati, il volto ricoperto di piccole rughe scavate dalla fatica. Se
Gerald l'avesse vista in quelle condizioni, forse non l'avrebbe
nemmeno riconosciuta.
Ma
che cosa avrebbe dovuto fare? La guerra l'aveva frustata e lei era
stata costretta a piegarsi; le incombenze della vita erano diventate
talmente grandi da rischiare di schiacciarla sotto il loro peso ma
lei non aveva ceduto. Si era fatta forza, aveva faticato ed era
andata avanti, con una determinazione che non credeva di possedere;
l'aveva fatto per William, per il piccolo Connor e anche per Gerald,
se mai fosse ritornato.
La
guerra tirava fuori il peggio o il meglio degli uomini. Stava a loro
decidere quale parte scegliere.
«Forza,
bambini, preparatevi che partiamo.» li incitò Rebecca, coprendo i
capelli con un foulard legato dietro la nuca: preferiva ripararli
dallo sporco della fabbrica, per quanto poteva. Connor si mise in
tasca il cavallino di legno e si allacciò le scarpe con orgoglio
(aveva imparato da poco a farlo da solo); William gli riservò uno
sguardo di superiorità: dall'alto dei suoi sette anni e mezzo si
sentiva decisamente più grande del fratellino. Gli passò il
cappottino, sciarpa e cappello con aria di sufficienza, poi si
preparò anche lui per affrontare il freddo dell'inverno.
I
tre McBride si diressero verso la rimessa dietro il cottage, dove si
trovava la bicicletta con la quale raggiungevano Edimburgo ogni
mattina. Si alzavano all'alba tutti i giorni, perché ci impiegavano
più di un'ora per arrivare in città; dopodiché Rebecca portava i
bambini al seminario, dove padre Julien aveva aperto una piccola
scuola per gli orfani di guerra e i figli degli operai costretti a
lavorare nelle fabbriche militari. Rebecca non era cattolica, ma una
signora della fabbrica le aveva parlato di padre Julien e lei aveva
deciso di provare a chiedere: non aveva altre possibilità se non
lasciare i bambini a casa da soli. Il prete si era impietosito quando
lei gli aveva raccontato la loro storia e aveva accettato di
accogliere i due McBride nella sua scuola: il più grande aveva l'età
per frequentare le classi prime, mentre l'altro era troppo piccolo,
eppure invece di giocare con gli altri bambini, preferiva stare
seduto al banco vicino a suo fratello, per disegnare o ascoltare la
lezione, anche se ovviamente non la capiva.
Padre
Julien li aveva presi in simpatia perché nonostante tutto quello che
avevano passato erano due bambini adorabili: William era brioso e
pieno di vita, con gli occhi verdi che brillavano di furbizia, Connor
era dolce e amorevole, sempre ansioso di imparare cose nuove.
I
momenti della vita scolastica erano scanditi dalle ore di orazione
del seminario, ma i due fratelli McBride non conoscevano le preghiere
cattoliche, così padre Julien aveva insegnato loro le principali,
sotto esplicita richiesta di Connor. Il bambino era entusiasta di
imparare e convinceva anche il fratello a recitare i versi in latino,
anche se William non era convinto che la cosa avesse una qualche
utilità.
Quel
giorno, Rebecca accompagnò i bambini a scuola, poi si recò in
fabbrica. William e Connor seguirono le lezioni con il solito
discreto interesse. Al termine della giornata, trotterellarono
insieme agli altri verso la chiesetta, dove tutti gli scolari si
riunivano per la preghiera serale di ringraziamento. Padre Julien
fece sedere i bambini nei primi banchi. «Dobbiamo ringraziare il
Signore perché tutte le cose belle vengono da lui.» spiegò ai suoi
giovani studenti. William, seduto in seconda fila, sventolò la mano
in alto. «Dimmi pure, caro.» lo incitò il prete.
«E
se c'è una cosa bella che aspettiamo da tempo ma non avviene mai?»
chiese il bambino.
Padre
Julien gli rivolse un sorriso comprensivo. «Devi pregare il Signore:
se è una cosa davvero bella te la concederà.» spiegò.
Gli
occhi verdi di William brillarono di furbizia: allora aver imparato a
memoria tutte quelle parole latine aveva avuto un suo perché!
Concluso
il momento di preghiera, padre Julien permise ai bambini di andare a
giocare nel cortile, finché i genitori non fossero venuti a
prenderli (solo gli orfani si fermavano lì anche a dormire). William
finse di uscire, poi afferrò il fratello per la manica della giacca
e lo trascinò di nuovo in chiesa. «Che cosa dobbiamo fare?» gli
domandò Connor, perplesso.
William
gli rivolse un sorriso furbo. «Mettere a frutto quello che abbiamo
imparato.»
Rebecca
venne a prendere i suoi figli che ormai il sole era tramontato da un
pezzo. Il cielo si stava ricoprendo di una strana coltre di nuvole
biancastre, che a Rebecca non piacevano per niente. Era stanca e
affaticata, ma doveva tenere duro perché la aspettava un'ora
abbondante di pedalata con i bambini, uno sul sellino davanti e uno
su quello dietro.
«Will,
Connie!» chiamò la donna, affacciandosi sul cortile interno del
seminario. Non rispose nessuno. Strano, di solito obbedivano
prontamente ai suoi ordini. Fece qualche passo avanti e provò a
richiamarli, ma i due bambini non si fecero vivi. Scrutò meglio gli
studenti che giocavano nel cortile, ma dei suoi figli non c'era
traccia.
«Padre
Julien, dove sono William e Connor?» domandò Rebecca, fermando il
prete che passava proprio in quel momento per il portico.
L'uomo
lanciò un'occhiata ai ragazzini chiassosi. «Non sono con gli
altri?» chiese in tono perplesso. Rebecca scosse lentamente la
testa, mentre uno strano senso di angoscia si impadroniva di lei. Il
sacerdote si accarezzò il mento con aria pensosa. «Forse sono
dentro con Mrs Pitt.» propose in tono ragionevole, dirigendosi verso
un'aula dove l'anziana donna teneva le lezioni del coro di voci
bianche. «Dove sono i due piccoli McBride?» esclamò padre Julien,
guardando prima la direttrice del coro, poi i suoi piccoli studenti.
Mrs Pitt scosse la testa con aria titubante. «Oh cielo.» sospirò
il prete. Era sempre preoccupato per quei due bambini, visto quello
che aveva passato a casa la madre. Di solito se ne stavano sempre in
disparte da soli, silenziosi, e ora erano addirittura spariti. Padre
Julien corse fuori dalla stanza e cominciò a perlustrare ogni angolo
del chiostro, senza successo. Entrò di getto in chiesa e la vocina
sottile di un bambino giunse subito alle sue orecchie.
«Perché
dobbiamo farlo, Will?» stava dicendo.
«Perché
così papà torna presto. Non vuoi che torni?» rispose un'altra voce
infantile.
«Sì.»
sussurrò la prima.
«Bene,
allora andiamo avanti. Ripeti con me: Salve Regina, mater
misericordiae...»
«William,
Connor!» esclamò il prete, sollevato. I due bambini, inginocchiati
a terra davanti all'altare della Madonna, si voltarono in simultanea
verso il sacerdote. «Vostra madre vi sta cercando.» spiegò l'uomo,
avvicinandosi cauto ai due bambini.
Gli
occhi azzurri di Connor si riempirono di lacrime. «Ma se noi non
preghiamo il Signore, nostro padre non tornerà dalla guerra!»
mugugnò asciugandosi con il dorso della mano il muco che colava dal
naso.
Padre
Julien si impietosì a quella risposta. Accarezzò delicatamente i
capelli riccioli del bambino e gli rivolse un sorriso sincero. «Sono
sicuro che vostro padre tornerà.» disse loro, anche se se ne pentì
subito: era francamente impossibile che il signor McBride fosse
sopravvissuto a cinque anni di guerra; probabilmente era già morto
da un pezzo, o forse era finito nel gruppo dei numerosissimi
dispersi, un sinonimo più gentile per “spacciati”. Alimentare le
false speranze di quei bambini poteva essere pericoloso, tanto più
visto che i due McBride consideravano verità assoluta ogni parola
uscita dalla sua bocca. Ma ormai il danno era fatto.
Connor
ritirò immediatamente le lacrime e sfoggiò un sorriso luminoso. «Lo
sapevo che sarebbe tornato!» esclamò allegro, dando ormai per certo
ciò che il padre gli aveva promesso. I due fratellini si alzarono da
terra e con un saluto al sacerdote si affrettarono a raggiungere la
madre, pieni di nuova speranza.
La
mattina successiva i McBride si svegliarono in un paesaggio
incantato: un'abbondante nevicata aveva ricoperto ogni cosa, rendendo
morbido il profilo delle brulle colline scozzesi. Il castello, che si
intravedeva dalle finestre del cottage, pareva uscito da un racconto
di fiabe per bambini. «Che bello! Andiamo fuori a giocare, Connie!»
esclamò estasiato William, pregustando di rotolarsi nella neve
fresca e di tirare un po' di palle al fratellino. Il piccolo Connor,
che non aveva mai visto la neve, rimase incantato alla finestra ad
osservare quella meraviglia.
«Fermati,
Will.» intimò Rebecca al figlio più grande, frenando i suoi
bollenti spiriti. «È meglio che restiate a casa oggi, se non volete
prendervi una bella influenza.»
«E
tu dove vai?» domandò Connor, distogliendo gli occhi dal paesaggio
incantato per scrutare con sospetto la madre.
Rebecca
prese un profondo respiro. «Al lavoro, tesoro.» rispose con un
sorriso tirato.
William
si piazzò davanti alla porta con aria decisa. Era lui l'uomo di
casa, in fondo. «Non se ne parla, mamma. Ci sarà mezzo metro di
neve, là fuori.» sentenziò, incrociando le braccia al petto.
Rebecca
si sentì morire d'orgoglio per il suo piccolo ometto coraggioso. Si
inginocchiò davanti a lui e gli prese il volto tra le mani. «Will,
tesoro. Ci devo andare, o mi cacceranno dalla fabbrica.» gli
sussurrò con un sorriso che voleva essere comprensivo.
Ci
vollero dieci minuti buoni per convincere un testardissimo William a
lasciar andare la mamma al lavoro e a farsi promettere che lui e
Connor avrebbero fatto i bravi e sarebbero restati in casa. Rebecca
sorrise quando si recò a prendere la bicicletta nella rimessa:
quest'ultima promessa, sapeva che non l'avrebbero mantenuta.
William
aveva ragione: era caduto quasi mezzo metro di neve. Sarebbe stata
una bella impresa raggiungere Edimburgo.
Sì, la
guerra tirava fuori il peggio o il meglio degli uomini. Lei aveva
deciso per il meglio.
Ve
l'avevo detto che i guai a casa McBride non erano che all'inizio!
Povera
Rebecca, gliene ho davvero fatte passare di tutti i colori... ma,
grazie al cielo, lei è una donna forte e riesce a reagire alle
peggiori situazioni. I suoi due figli, poi sono adorabili! Will è
davvero terribile, ma alla fine è un bambino che vuole solo riavere
indietro suo padre. QUI il disegno che li rappresenta nel momento
della preghiera.
Ah,
l'altra volta scherzavo... questo non è il penultimo capitolo! Il
prossimo lo è! Aggiornamento, se tutto va bene venerdì mattina...
a
presto e grazie a tutti quelli che mi seguono!
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo IX ***
Capitolo
IX
Marzo
1945
Qualcosa
di grosso e rumoroso penetrò nel sogno di Gerald. Era un peccato,
perché stava sognando la brughiera con i suoi insetti che ronzavano
allegri da un'erica all'altra; e poi c'era Rebecca, bella e radiosa
come non era mai stata, con in braccio il piccolo William. È un
sogno. gli sussurrò la sua coscienza all'orecchio. Perché
Will non ha più due anni da un pezzo.
E,
prima che Gerald potesse rendersene conto, una macchia nera piombò
nel mezzo della brughiera. Sparava, quella cosa.
«Gerald!»
gridò la cosa che sparava. «Gerald, svegliati!»
Il
giovane si svegliò di soprassalto. Intorno a lui era tutto buio, ma
gli altri sensi si attivarono immediatamente, avvisandolo di una sola
cosa: pericolo. C'erano voci che gridavano concitate, spari e lampi
di bengala. Li stavano attaccando.
«Gerald,
muoviti!» gli urlò Josh, lanciandogli sulla branda il suo elmetto e
il fucile. Lo scozzese si ribaltò giù dalla brandina e inciampò
sui suoi stivali militari. «Che succede?» boccheggiò, rimettendosi
in piedi a stento. Josh gli lanciò un'occhiata esasperata. «Ci
stanno attaccando, zucca vuota!»
Gerald
non era davvero tagliato per fare il soldato semplice: lui era una
mente operativa, geniale quando si trattava di elaborare strategie,
sfruttando le sue conoscenze geografiche e naturalistiche; ma quanto
a sparare o uccidere, era meglio che lasciasse fare agli altri. In
quasi sei anni di guerra, non aveva ancora imparato ad imbracciare un
fucile.
I
due amici si affrettarono ad uscire dalla caserma e a raggrupparsi
con i compagni della sezione agli ordini del maggiore Interim. Le
facce stanche e preoccupate dei soldati venivano illuminate ad
intervalli regolari dalla luce dei bengala: erano trepidante e in
attesa di ordini che non arrivavano. «Josh...» mormorò Gerald,
tremante. Anche dopo aver passato tutti quegli anni tra i fischi dei
razzi e le bombe dei carroarmati, non ci si abituava mai alla paura
di poter davvero morire da un momento all'altro, di sapere che quella
poteva essere l'ultima boccata d'aria prima dell'inferno.
Il
maggiore Interim apparve sulla scena proprio in quel momento.
Cominciò a dare gli ordini, ma il sibilo di un razzo coprì le sue
parole. E poi il razzo esplose. Dritto in mezzo al battaglione.
Il
maggiore e il gruppo di soldati che gli erano attorno morirono sul
colpo, gli altri vennero sbalzati lontano. Gerald fece un breve volo
all'indietro ma atterrò sulle ruote di scorta dei camion che
attutirono la caduta. Al suo fianco, Josh subì la stessa sorte.
La
mente di Gerald, cominciò a macinare velocemente: il loro
battaglione era un piccolo distaccamento a est di Forlì, città
conquistata dagli Alleati il novembre dell'anno precedente. Pochi
soldati in un posto poco interessante. L'unica cosa di un certo
valore era l'armeria, che conteneva i rifornimenti destinati ai
partigiani. Ma attaccare quella base era un suicidio, perché a meno
di un'ora si trovava la sede del generale Alexander con tutta
l'Ottava armata britannica. A meno che, ovviamente, l'obiettivo non
fosse razziare l'armeria e poi ritirarsi.
Gerald
si alzò piano dall'ammasso di cerchioni, tenendo stretto a sé il
fucile. «Sant'Iddio...» mormorò vedendo la devastazione provocata
dal razzo. C'erano cadaveri sparsi un po' ovunque, uomini feriti che
mugugnavano il loro dolore, ammassi di detriti e macerie, polvere e
fuliggine che rendevano densa l'aria. Gerald tossì e sputacchiò un
po' di sangue a terra. Josh bestemmiò qualche lontana divinità e si
alzò a stento: alcune schegge gli erano penetrate nella pancia e
all'altezza della milza si stava allargando sulla camicia una grossa
macchia rossa. «Josh, sei ferito!» esclamò Gerlad, preoccupato.
«Non
è niente, non è niente» mormorò lui, con un gesto veloce della
mano, come se volesse scacciare delle mosche moleste.
I
pochi uomini sopravvissuti si radunarono attorno a loro, con i volti
sciupati e preoccupati. Uno dei soldati più anziani (se anziano di
poteva definire uno poco più che quarantenne), guardò Gerlad negli
occhi. «Colonnello McBride, attendiamo ordini» gli si rivolse con
intensità.
«Io
non porto più quel titolo da un anno, ormai» rispose Gerald,
scuotendo la testa, ma l'uomo si fece avanti e lo afferrò per un
braccio. «Il maggiore Interim è morto, i nazisti ci stanno
attaccando e lei è l'unico che è in grado di prendere il comando
della situazione» gli disse, con una nota disperata nella voce.
Gerald avrebbe voluto fuggire da ogni genere di responsabilità, ma
quegli uomini si stavano aggrappando a lui come ad un'ancora di
salvezza e non poteva abbandonarli. Il potere gli era stato offerto e
lui doveva raccogliere l'invito.
Semplicemente
annuì.
«Molto
bene» sentenziò prendendo in mano la situazione. «Voi cinque,
raggiungete la radio e mandate una richiesta di aiuto al generale
Alexander. Gli altri con me all'ingresso dell'armeria» ordinò in
tono serio. Nessuno mise in dubbio neanche per un attimo i suoi
comandi, sebbene ora non fosse nulla più che un soldato semplice al
pari loro.
Una
trentina di soldati si radunarono davanti al capannone magazzino.
«No!» esclamò Gerlad, quando vide che qualcuno proponeva di
entrare per ripararsi dagli spari. «Non è una buona idea: i
tedeschi potrebbero decidere di farla saltare in aria, se capissero
che non riescono a conquistarla, e per allora noi saremmo grigliata
di eroi» spiegò in tono pratico. Josh, sebbene avesse i senti un
po' annebbiati per la ferita, riuscì a cogliere il sottile sarcasmo
nelle parole del suo amico e si lasciò sfuggire un sorriso.
Fantastico, Gerald: dategli qualcosa da comandare e si sente tanto
in gamba da permettersi pure di scherzare in momenti come questi.
«Prendete
i sacchi di sabbia e costruite una trincea davanti alla porta»
comandò poi il giovane scozzese. I soldati si misero subito al
lavoro e in pochi minuti avevano creato un rifugio dietro cui
posizionarsi. Gerald si accucciò a terra insieme agli altri, con le
spalle appoggiate ai sacchi. Scrutò i suoi compagni uno ad uno, poi
spiò oltre il riparo e prese un profondo respiro: i tedeschi stavano
arrivando.
«Forza,
uomini. Resistiamo solo un'ora poi arriverà il generale Alexander a
salvarci il culo e a portarci una bella medaglia d'oro al valore»
esclamò come incoraggiamento. Lanciò un'ultima occhiata verso i
nemici: due carri da guerra e una buona cinquantina di soldati.
Gerald si lasciò sfuggire un sospiro. «Se saremo ancora vivi».
Quando
cominciarono a piovere proiettili, Gerald chiuse gli occhi per
istinto. Lo faceva sempre prima di ogni battaglia, per sognare di
essere in un altro posto, quasi sempre nella sua amata brughiera
scozzese. Lontano dalla guerra e da tutta quell'aria di morte.
I
colpi si susseguirono senza interruzione da ambo le parti; Gerald in
realtà sparò ben poco, non per codardia ma semplicemente perché
non era davvero in grado di manovrare quell'affare, tanto più se si
trovava sotto pressione. I tedeschi, esattamente come Gerald aveva
ipotizzato, non spararono con i carri contro il loro piccolo
piazzamento, per non rischiare di far saltare per aria tutta
l'armeria. Ma anche solo con fucili e mitra, li stavano decimando. La
loro unica speranza era l'arrivo del generale Alexander e del resto
dell'esercito.
«Signore,
i nostri compagni» esclamò un soldato, indicando a Gerald cinque
uomini che cercavano di raggiungerli dal fianco destro.
Gerald
controllò la situazione, poi ordinò: «Dobbiamo creare un
diversivo, svelti»
«Ci
penso io» rispose Josh, con decisione, caricando il suo
mitragliatore.
Gerald
intuì che cosa volesse fare l'amico, quindi lo afferrò per un
braccio e cominciò a gridare: «Josh, no! No! Te lo impedisco!»
«Tu
non puoi darmi nessun fottutissimo ordine, soldato!» gli urlò Josh
in risposta.
Gerald
sentì che stava per scoppiare a piangere. «Ma ti farai ammazzare,
caprone!» strillò disperato.
Josh
gli rivolse un sorriso impietosito. Spostò la mano che teneva
appoggiata sulla milza, dove era stato colpito dalle schegge e rivelò
una macchia scura di sangue, che non accennava a smettere di
fuoriuscire dalla ferita. «Morirei comunque, Ger. Tanto vale fare
qualcosa di utile.» sussurrò con un sorriso stanco. Ma i suoi occhi
non brillavano quando lo disse. «Fai il bravo, Fitzgerald, e vedi di
tornare a casa anche per me» furono le sue ultime parole. E poi si
lanciò oltre i sacchi di sabbia.
«Halt!
Streck die Waffen!» gli ordinò un nazista.
«Tua
sorella, bastardo di un tedesco!» gridò in risposta Josh e poi
cominciò a sparare.
«Noooo!»
gridò Gerald, cercando di raggiungere l'amico. Per fortuna i suoi
uomini lo agguantarono prima che potesse buttarsi fuori dal rifugio e
lo inchiodarono a terra. Il giovane assistette inerme alla coraggiosa
fine di Josh, trivellato di colpi dalle armi nemiche.
Fu
a sufficienza: i tedeschi, impegnati a preoccuparsi di quel pazzo
suicida, non si accorsero dei soldati che avevano raggiunto
indisturbati il rifugio.
Gerald,
nel frattempo, si liberò con uno strattone dalla presa dei suoi
compagni e afferrò al volo un sacco di sabbia. «Signore, si fermi!»
gridò qualcuno, ma Gerald non diede loro retta.
Doveva
assolutamente recuperare il corpo di Josh: non l'avrebbe lasciato in
pasto a quei cani nazisti. Usando il sacco per proteggersi dal colpi
nemici, raggiunse il cadavere insanguinato del suo amico. «Josh...»
mormorò con una fitta al cuore quando vide lo stato in cui era
ridotto. Il sapore salato delle lacrime gli pizzicò le labbra
screpolate. «Non ti lascio qui» mormorò con determinazione. Josh
era una montagna d'uomo in confronto a lui, ma spinto dalla forza
della disperazione, Gerald riuscì a caricarsi il busto dell'amico
sulle spalle e a trascinarlo verso il rifugio. I suoi uomini, nel
frattempo, cercavano di coprire la sua ritirata. Non appena Gerald
riuscì a raggiungere la prima linea della provvisoria trincea,
qualcosa lo colpì al braccio sinistro. Un dolore lancinante lo
investì in pieno e Gerald si accasciò a terra.
«Presto,
aiutiamolo!» gridò uno dei soldati e una decina di mani li
afferrarono al volo e li trascinarono al riparo. «Signore, è
ferito?» chiese solerte uno dei suoi uomini. Gerald mugugnò
qualcosa di incomprensibile: il dolore al braccio lo stava
tramortendo. I compagni lo adagiarono con le spalle appoggiate al
muro dell'armeria. «Resista colonnello, gli aiuti stanno arrivando!»
lo incoraggiò qualcuno.
Gerald
sbuffò. Restò in uno stato di semi incoscienza finché non vide
apparire nel cielo le familiari sagome degli aerei inglesi. Il
generale Alexander era lì. Erano salvi.
E
poi si abbandonò al rassicurante oblio.
Quando
Gerald riaprì gli occhi un caldo raggio di sole mattutino lo
avvolse. Era sdraiato su un letto dell'infermeria da campo, proprio
di fronte ad una delle finestre che riversava all'interno fiotti di
luce. Sentiva uno strano formicolio al braccio sinistro, dove gli
avevano sparato: forse erano i postumi dell'operazione. Si voltò
lentamente e alzò le coperte per controllare lo stato della ferita.
Gli ci volle una manciata di secondi per capire che qualcosa non
andava: la manica della camicia bianca dell'infermeria era floscia e
vuota. Il suo cervello comandò al braccio di muoversi, ma non
successe nulla.
E
poi realizzò: glielo avevano amputato.
Riemerse
da sotto le coperte con una faccia sconvolta. Gli avevano amputato un
braccio poco sotto la spalla, lasciando null'altro che un moncherino.
Ma,
in realtà, non era quella la perdita peggiore: la consapevolezza
della morte dell'amico, che era stata sapientemente sopita dal suo
inconscio, riemerse con violenza, mozzandogli il fiato. E Gerald
scoppiò a piangere.
«Ah,
McBride, si è svegliato» commentò una voce proprio di fronte a
lui. Gerald riconobbe le guance incavate e lo sguardo penetrante del
feldmaresciallo Bernard Montgomery, comandante
supremo dell'esercito britannico sul fronte occidentale.
Doveva esserci in ballo qualcosa di grosso, se avevano scomodato
Montgomery.
L'uomo
stava placidamente fumando un sigaro, seduto ai piedi del letto di
fronte a lui. «Non c'è stato nulla da fare con quello.» spiegò,
accennando con il capo al moncherino.
Il
cervello di Gerald mandò una serie di impulsi per comandare al
braccio sinistro si asciugare le lacrime, per poi ricordarsi che non
c'era più un braccio sinistro. Gerald si ripulì il volto con un
gesto rabbioso della mano destra. «Josh?» fu l'unica cosa che
riuscì a mormorare.
«Il
soldato Watson?» domandò Montgomery, sbuffando nuvole di fumo.
Gerald annuì stancamente. Montgomery allora indicò vagamente la
finestra. «Il suo corpo è stato composto all'obitorio. Anche se è
malmesso, gli uomini hanno detto che lei avrebbe voluto essere
presente al funerale, così abbiamo aspettato» spiegò poco dopo, in
tono tranquillo.
Gerald
accennò un segno di gratitudine con il capo, poi distolse gli occhi
e prese a vagare lontano con la mente. Josh gli aveva salvato la vita
innumerevoli volte, e lui non era stato in grado di aiutarlo
quell'unica volta che era rimasto ferito. Ma Josh era fatto così:
non gli piaceva rimuginare sui suoi dolori, preferiva spendere le
energie per tentare di aiutare gli altri. Se n'era andato così,
nell'estremo tentativo di essere utile a qualcuno.
Gerald
provò una rabbia immensa per la sua tragica fine. Era ingiusto che
fosse lui ad andarsene, lui sempre così pieno di vita, lui sempre
pronto ad aiutare il prossimo, lui che era uno dei migliori.
Già,
i migliori sono sempre i primi ad andarsene. Mentre lui era ancora
lì, l'inerme soldato scozzese incapace di imbracciare un fucile,
incapace di essere di qualche utilità per qualcuno, più spesso un
intralcio che un aiuto nell'esercito. Perché il destino aveva
inchiodato lui a quel letto d'ospedale senza un braccio e si era
invece portato via Josh? Aveva forse più meriti Fitzgerald McBride?
Era forse più bravo, più utile... migliore?
No,
certo che no. Eppure lui era ancora vivo, Josh era morto.
«Giovanotto»
lo richiamò la voce tranquilla di Montgomery. Aveva finito di fumare
il suo sigaro, le cui ceneri ora si trovavano sparse sul pavimento
dell'infermeria. «Un anno fa ti dissi che io di solito non sbaglio a
giudicare le persone» cominciò a dirgli, guardandolo dritto negli
occhi. «E tu questa notte mi hai dimostrato che avevo ragione. Hai
difeso l'armeria dai nazisti, hai guidato quegli uomini con coraggio,
hai preso il comando in una situazione critica e te la sei cavata.
Hai servito bene il tuo esercito e ti sei riguadagnato la mia
fiducia, colonnello McBride»
«Colonnello?»
gli fece eco Gerald, confuso.
Montgomery
gli regalò uno dei suoi rari sorrisi. «Colonnello. E alle mie
dirette dipendenze» confermò. Poi fece per andarsene, ma si bloccò
a metà strada. «Ah, e tu e i tuoi uomini vi siete meritati una
medaglia d'oro al valore militare» annunciò soddisfatto.
«Anche
i morti?» si informò Gerald, cauto.
Montgomery
capì che si riferiva al suo amico Josh Watson. Annuì. «Anche i
morti».
Magra
consolazione, avere indietro un pezzo di freddo metallo invece del
figlio, ma almeno Gerald avrebbe potuto raccontare ai suoi genitori
che era morto da eroe. Mugugnò qualcosa quando cercò nuovamente di
impartire ordini al suo braccio sinistro che non c'era più.
«Grazie,
signore» sussurrò rivolto a Montgomery. L'uomo annuì ancora una
volta, per far intendere che aveva colto il segnale, e poi lasciò
l'infermeria.
Il
dramma dei sopravvissuti... mi dispiace un sacco di aver fatto morire
Josh, ma era un predestinato. Troppo eroico per essere risparmiato
dai colpi nemici. Spero di aver descritto bene il dramma di Gerald,
che si trova ad aver perso un braccio e soprattutto un amico.
Perdonate
se ho sparso qua e là qualche parolaccia, ma eravamo in una
situazione critica e non credo che i soldati si preoccupassero di
parlare raffinato.
Il
prossimo è l'ultimo capitolo... ragazzi, preparate i fazzoletti
perché ci sarà da piangere! Aggiornamento previsto per martedì
mattina.
A
presto,
Beatrix
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Capitolo X ***
Capitolo
X
Settembre
1945
Quel
giorno, quando Rebecca corse a prendere i bambini, aveva un sorriso
entusiasta. La notizia che aspettava da anni era finalmente giunta:
la guerra era finita, il Giappone aveva firmato l'armistizio, era
tornata la pace. I soldati dispersi per il mondo sarebbero tornati a
casa.
Anche
Gerald.
«Bambini,
papà sta per tornare!» esclamò con il cuore colmo di gioia,
abbracciando i suoi figli. William e Connor si scambiarono
un'occhiata eccitata, pieni di entusiasmo: il loro sogno si stava
finalmente avverando. William abbracciò il fratellino con slancio,
mentre sulle labbra gli si disegnava un sorriso luminoso. Dopo sei
anni avrebbe rivisto suo padre: Gerald certo non l'avrebbe
riconosciuto, visto che era diventato un ometto, ormai. Ma lui
sarebbe stato in grado di riconoscere il padre? Aveva solo ricordi
vaghi e confusi di lui e non avrebbe saputo dire nemmeno quali
fossero i tratti del suo volto, se non li avesse ammirati per ore in
una vecchia fotografia ingiallita, nelle lunghe sere d'inverno.
Connor,
invece, dopo l'euforia iniziale, cominciò ad essere seriamente
preoccupato. Lui stava bene con la mamma e Will... e se suo padre non
gli fosse piaciuto? O, peggio, se lui non fosse piaciuto a suo padre?
«Forza
bambini, dobbiamo andare a preparare il castello per il ritorno del
papà» esclamò Rebecca, caricandoseli sui sellini della bicicletta.
Ancora non ci credeva che Gerald sarebbe ritornato, che avrebbe
potuto abbracciarlo di nuovo, baciare le sue labbra sottili, sentire
la sua voce, perfino cercare con lui strani insetti per la sua
collezione. Non le importava, avrebbe fatto qualunque cosa pur di non
lasciarlo più andare via. Non poteva sopportare di essere
abbandonata di nuovo dall'uomo che amava con devozione.
Quando
arrivarono a casa, Rebecca e i bambini riaprirono il pesante portone
d'ingresso del castello dei McBride dopo più di un anno che restava
sigillato. Tolsero i teli bianchi che avevano utilizzato per coprire
mobilio, tavoli e poltrone, spazzarono per bene in ogni stanza,
tirarono le pesanti tende di velluto rosso delle finestre, perché la
debole luce di settembre invadesse di nuovo il castello. Indossarono
nuovamente vestiti eleganti e raffinati, Rebecca si acconciò i
capelli, truccò gli occhi e legò al collo una fila di perle, uno
dei pochi gioielli che aveva salvato dalla vendita perché era
appartenuto a sua madre. La donna pettinò i riccioli ribelli di
Connor, aggiustò il papillon a William e lucidò le loro scarpette
di vernice. Tutto doveva essere pronto perché Gerald ritrovasse la
casa in perfetto ordine, uguale a quando era partito; come se non
fosse mai accaduto nulla in quei sei anni.
I
soldati scozzesi sarebbero tornati entro pochi giorni e avrebbero
sfilato per le vie di Edimburgo sotto gli occhi di una folla
festante. Rebecca predispose ogni cosa perché fosse perfetta per
quel giorno. Si era licenziata dalla fabbrica, visto che tanto Gerald
sarebbe tornato a lavorare in banca e non c'era più necessità che
lei si ammazzasse davanti alla pressa. Aveva chiamato un autista
perché li venisse a prendere e li portasse in città: niente più
viaggi in bicicletta, sarebbero stati poco adatti ad una signora.
Le
strade di Edimburgo erano un tripudio di gente, un inno alla vita.
Mogli, sorelle e madri festanti salutavano i soldati che sfilavano in
alta uniforme; ogni volta che una donna riconosceva un familiare gli
correva incontro in lacrime e lo abbracciava.
Rebecca
prese i suoi figli per mano e li condusse per le vie del centro,
lungo il corteo di militari. Scrutava ogni faccia sorridente nascosta
sotto l'elmetto, alla ricerca dei luminosi occhi azzurri del marito.
«Mamma,
dov'è papà?» chiese William, provando a spiare i soldati da sotto
le gambe della folla di gente.
Rebecca
gli rivolse un sorriso gentile. «Non lo so, amore. Adesso lo
cerchiamo» gli rispose.
Rebecca
trascorse un'ora buona a passare in rassegna i volti dei militari
scozzesi, senza trovare traccia del marito. Dopo tutti quei vani
tentativi, cominciò ad agitarsi. «Gerald?» chiamò con voce tesa.
Alcuni soldati si voltarono, ma nessuno di quelli era il suo
Gerald.
«Gerald!»
chiamò ancora, in un tono reso acuto dall'ansia. Nessuno, non c'era
nessuno. Sempre tenendo i figli per mano, si mise a correre
attraverso il corteo, alla ricerca disperata del marito. Non era
possibile che non fosse tornato, ora che la guerra era finita.
Dov'era, dov'era suo marito? Perché non era tornato?
«GERALD!»
gridò, accasciandosi a terra distrutta dal dolore.
Connor
scoppiò a piangere, la folla si scansò da quella scena patetica.
«Rebecca,
vieni via» sussurrò la voce rassicurante di padre Julien, portando
al sicuro la famigliola.
***
Il
soldato alla guida si voltò verso il colonnello con aria stranita.
«Signore, è sicuro di non voler partecipare alla parata di
Edimburgo?» gli domandò in tono serio. Insomma, il colonnello era
il soldato scozzese che avesse raggiunto il grado militare più alto,
la sua presenza era stata data per scontata: avrebbe dovuto guidare
il corteo, deporre la corona di fiori per i caduti e tutto quel
genere di cose che erano richieste ad un colonnello.
L'uomo
scosse debolmente la testa. «No, grazie. Ho un'ultima cosa da fare».
«Allora
dove la porto?» chiese educatamente.
L'uomo
osservò il paesaggio fuori dal finestrino, sovrappensiero. «Nello
Yorkshire» rispose infine. «A Middelton On The Wolds».
La
donna che venne ad aprire la porta aveva un passo talmente
strisciante da far pena. Vestita di nero, con gli occhi tonfi per il
pianto e uno scialle a coprire la testa. L'uomo che si ritrovò alla
porta, in alta uniforme da militare, con una medaglia d'oro al valore
appuntata sul petto, la fece quasi rabbrividire: l'ultima volta che
qualcuno del genere si era presentato a casa sua, era stato per
annunciarle la morte del suo unico figlio.
Il
soldato si levò il cappello con fare rispettoso e poi rivolse
all'anziana donna un sorriso timido. «Signora Watson, sono il
colonnello Fitzgerald McBride. Ero un amico di Josh» si presentò il
giovanotto. La donna trattenne un piccolo singulto, poi si spostò di
lato per permettere al colonnello di entrare in casa.
Lo
condusse verso il salotto e lo fece accomodare su una poltrona un po'
consunta, con il velluto liso. Sul divano di fronte a lui era seduto
un uomo sciupato dal dolore.
«Il
mio Josh era un bravo ragazzo?» domandò la signora Watson,
sedendosi a fianco del marito.
Gerald
si limitò ad un sorriso triste. «Il migliore, signora. Mi ha
salvato la vita innumerevoli volte e se sono ancora qui lo devo a
lui» rispose con sincerità. Dopodiché afferrò la borsa che si era
portato dietro ed estrasse non senza una certa difficoltà, dovuta
all'utilizzo di una sola mano, una scatola di velluto rosso. «È una
magra consolazione, ma dovete sapere che vostro figlio è morto da
eroe, salvando la vita di molti suoi compagni, me compreso» spiegò,
porgendo loro la scatola.
Il
signor Watson la aprì con mani tremanti e vide che conteneva una
medaglia d'oro al valore militare. Nel vedere la preziosa
onorificenza, l'anziana donna scoppiò in lacrime. «Un genitore non
dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio» mormorò sconsolata. «Mai».
Quando
Gerald se ne andò da casa Watson, un'ora più tardi, si sentiva
letteralmente a pezzi, ma era sicuro di aver fatto la scelta giusta.
Il
soldato che gli era stato assegnato come autista, si affrettò ad
aprirgli la portiera della macchina per aiutarlo a salire. «Signore,
dove la porto ora?» gli domandò.
Gerald
si lasciò sfuggire un sospiro. E poi disse quell'unica cosa che
attendeva da sei anni: «In Scozia, a casa».
Il
viaggio verso nord passò silenzioso e tranquillo. Gerlad osservava
il cambiare del paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, fremendo
nell'attesa di rivedere la sua amata brughiera. Quanto gli erano
mancati quei paesaggi brulli e un po' grezzi! La nebbiolina sottile,
i cespugli di erica, il soffio delicato del vento...
Non
riuscì a impedire che una singola lacrima gli attraversasse la
guancia quando vide in lontananza il profilo del castello dei
McBride.
Il
rombo dell'automobile che percorreva il vialetto sterrato turbò la
tranquillità di quel tardo pomeriggio di settembre. Il soldato
parcheggiò poco distante dal portone d'ingresso, poi corse ad aprire
la portiera al colonnello. «Le serve una mano con quella, signore?»
domandò, accennando con il capo alla valigia.
Gerald
scese dalla macchina trascinando il baule con la destra. «No,
grazie, ce la faccio» rispose con un cenno di ringraziamento. «È
licenziato, soldato Pride. Può tornare...» cominciò a dire, ma si
interruppe ad ammirare il suo castello, dopo sei anni di forzato
esilio all'inferno.
«...a
casa».
***
Da
quando padre Julien li aveva riaccompagnati al castello, Rebecca non
aveva smesso di osservare la brughiera fuori dalla finestra con aria
apatica.
Gerald
non era venuto, non era tornato a casa da lei e dai bambini. L'aveva
abbandonata, per sempre. Che senso avevano avuto tutte le sue
fatiche, tutte quelle attese speranzose del suo ritorno,
quell'affacciarsi continuamente alla finestra, nella speranza di
vederlo comparire all'orizzonte? Perché se n'era andato, perché
l'aveva lasciata?
E
poi la vide: una macchina militare che si avvicinava lungo la strada
sterrata.
E
se...?
Un
giovane soldato era sceso dal posto di guida e aveva aperto la
portiera al suo superiore: ne era sceso un militare in alta uniforme,
con un cappello che gli copriva il volto. Ma a Rebecca bastò
un'occhiata di sfuggita quando questo alzò gli occhi sulla casa per
riconoscerlo.
Era
tornato!
«Gerald!»
gridò in preda all'emozione, gettandosi a capofitto giù dalle scale
e poi fino in ingresso.
Non
riusciva ancora a credere che fosse vero! Era tornato!
Ancora
prima che potesse entrare in casa, Rebecca gli gettò le braccia al
collo e scoppiò a piangere. L'uomo abbandonò la valigia a terra e
ricambiò la stretta, inebriandosi del profumo della moglie. «Oh,
Gerald!» esclamò Rebecca, accarezzandogli la nuca, stringendolo a
sé, baciando ogni parte del suo volto. Anche Gerald non riuscì a
trattenere le lacrime, nello sfiorare con le dita i morbidi capelli
di Rebecca e nel baciare le sue labbra umide di pianto.
«Oddio,
Gerald ma...» sussurrò la donna, quando si accorse che la manica
sinistra della giacca era stranamente vuota.
Gerald
sorrise bonario. «Non è nulla» rispose scuotendo la testa.
«Non
è nulla» confermò Rebecca, pensando che la perdita di un braccio
era qualcosa di infinitamente minuscolo, rispetto alla possibilità
di perderlo di nuovo. Dopodiché si strinsero in un altro abbraccio
pieno di amore.
«Papà!»
esclamò la voce di un bambino. Gerald si sciolse dall'abbraccio
della moglie e vide che c'era un ragazzetto moro, ritto in piedi
sull'uscio di casa. Era alto per i suoi otto anni, con due
meravigliosi occhi verdi come la brughiera. Era cresciuto il suo
William, rispetto al bimbetto paffutello che popolava i suoi sogni e
ricordi.
«Ciao,
figliolo» mormorò Gerald, con la voce incrinata dall'emozione.
Il
bambino si asciugò velocemente una lacrima, poi corse a gettare le
braccia al collo del padre. «Mi sei mancato, papà»
«Anche
tu, William» mormorò Gerald, sopraffatto dalla nostalgia. «Anche
tu».
«Amore»
lo richiamò Rebecca. L'uomo si voltò verso di lei e vide che la
moglie teneva per le spalle un altro bambino, che poteva avere cinque
o sei anni. Dei morbidi riccioli castani gli incorniciavano il viso
attraversato da una sfumatura ansiosa.
«Questo
è tuo figlio Gerald Connor McBride» lo presentò Rebecca, con un
sorriso incoraggiante.
Gerald
si levò il cappello militare e si inginocchiò davanti al bambino,
visibilmente emozionato. «Ciao, piccolino» mormorò. Era diventato
padre per la seconda volta e nemmeno lo sapeva.
Connor
lo squadrò con curiosità e timore insieme. Per una frazione di
secondo, i loro occhi, entrambi così azzurri, si incontrarono. E
Connor capì che tutte le sue preoccupazioni non avevano avuto senso,
perché quello era suo padre e gli avrebbe voluto bene di sicuro.
Sorrise.
«Bentornato
a casa, papà».
Ebbene
sì, siamo giunti alla fine di questa storia.
Premetto
che, sebbene io stessa abbia scritto questo capitolo, tutte le volte
che lo rileggo mi vengono i brividi e quasi piango. Forse sono un po'
troppo impressionabile, ma trovo che le scene finali siano davvero
toccanti. Spero di essere riuscita ad emozionare anche voi!
William
che chiede “Mamma, dov'è papà” esattamente come aveva fatto a
due anni quando lui è partito per il fronte, Rebecca alla disperata
ricerca del marito, Connor preoccupato di non piacere a suo padre,
Gerald che porta la medaglia d'oro ai genitori di Josh... ma la scena
più straziante è il ritorno a casa dell'uomo, dopo sei anni di
esilio. Insomma, mi commuove! E, ve l'avevo detto che sono per i
lieti fini... non potevo impedire a Gerald di tornare a casa, dopo
tutto quello che ho fatto passare a lui e alla moglie.
Comunque,
basta! QUI l'immagine di Rebecca che attende il ritorno del marito
guardando fuori dalla finestra.
Spero
tanto che questa storia vi abbia regalato qualche emozione. Grazie a
tutti coloro che hanno seguito, letto e commentato le avventure dei
coniugi McBride.
Alla
prossima occasione!
Beatrix
B.
Edit: La storia ha partecipato al concorso "Competition for long-fic pubblished (qui il link), classificandosi prima a parimerito. Tra le recensioni a questo capitolo, il giudizio del giudice NonnaPapera.
Qui sotto il banner:
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=425094
|