Buddha for Mary.

di ValeEchelon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo Venti. ***
Capitolo 21: *** Capitolo Ventuno. ***
Capitolo 22: *** Ventidue. ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno. ***


Le onde cullano il suo corpo come una madre fa con il suo bambino. Si lascia trasportare dalla corrente, pensando a chissà cosa, con gli occhi chiusi e le labbra semiaperte. Il suo corpo ondeggia dolcemente al ritmo di questa dolce danza, la pelle è leggermente raggrinzita a causa del sale. Alza gli occhi cercandomi. Mi trova. Sorride.
Io,  ventiquattro anni passati fra studio e litigi in famiglia.
Ventiquattro anni ed un figlio.
Ventiquattro anni ed una vita davanti.
La brezza marina mi muove i capelli, li porta davanti agli occhi facendomeli chiudere. Mi abbandono al dolce sole della California che accarezza il mio corpo cosparso di protezione fattore 50, ideale per la mia pelle così pallida e bianca.
Lui esce dall’acqua ancora bagnato, mille goccioline gli imperlano il viso, la schiena e l’addome perfetto: sotto il sole sembra ancora più bello.
Ha gli occhi color cielo un po’ arrossati, colpa del sale.
Si avvicina a me, prende l’asciugamano dalla piccola borsa che c’è sulla sabbia. Mi guarda preoccupato.
“ Va tutto bene?”, mi dice inginocchiandosi.
“ Tutto bene.. “, abbasso gli occhi per evitare il suo sguardo.
Troppe volte mi sono piegata al suo volere con un solo sguardo, troppe volte quegli occhi mi hanno salvata.

Tutto iniziò sei anni fa, quando io ero solo una semplice cameriera.
“ Dovresti smetterla di rubarmi tutti i clienti!”, disse Beth sorridente.
“ Ah beh, non è colpa mia se sono buona e gentile!”, risposi, tirando fuori la lingua.
Lavoravo nel suo locale solamente da tre mesi, ma eravamo diventate così amiche che stentavo ancora a credere di aver aperto il mio cuore ad una ragazza così facilmente dopo la batosta di Jess: mi aveva tradita, semplicemente aveva scelto lui invece che me.
Beth era una ragazza tutta “peace and love”, una che se fosse vissuta ai tempi di mio nonno sarebbe stata una Hippie. Non aveva peli sulla lingua, faceva tutto con una calma ed una tenerezza assurda. Non riusciva a dirti di no se le chiedevi un favore, e non esitava ad esporre il suo parere, talvolta prendendo pure in giro, nelle situazioni difficili. Ascoltava musica strana, insomma, era nata nell’era del Punk, del Rock, di tutti quei generi nuovi che parlavano di ribellione e capovolgimento degli ordini sociali. Era cresciuta con sua nonna, una delle prime manifestanti per i diritti dei gay: era stata lei che l’aveva portata al primo pride, era lei che l’aveva convinta del fatto che l’amore non dipende dal sesso, ma dal cuore. Il tipo di musica che ascoltava aveva influenzato persino il suo modo di vestire: era poco femminile, mai tacchi o sandali alti, sempre e solo scarpe di tela, le sue amate Converse All Star rosse, quelle che la nonna le aveva regalato a soli undici anni e che aveva ancora adesso. Amava i tatuaggi, i piercing, credeva fossero una forma di arte, una sorta di libertà. Amava il suo lavoro come nessuno, adorava il suo locale sulla spiaggia, e anche io. Mi piaceva lavorarci, adoravo vedere la gente che si divertiva sulla spiaggia, conoscere gente nuova. L’estate alle porte mi permetteva di lavorare senza perdere giorni di scuola, una delle cose a cui tenevo di più. Ero riuscita a diplomarmi con il voto più alto, e dovevo lavorare se volevo guadagnarmi l’entrata ad una delle università più prestigiose degli Stati Uniti: la School Of Visual Arts di New York. Era il mio sogno, riuscire a diventare una manager, o una regista magari , o una produttrice, chissà. Una sera, fra un drink ed un altro, conobbi un ragazzo della mia stessa età e con i miei stessi interessi. Si chiamava Jared, lui però voleva diventare un attore, e come se non bastasse voleva diventare un produttore, un regista, e ultimo ma non per importanza, una rockstar.
“ Sai com’è, ho 18 anni  e le tasche vuote. Troppi sogni e pochi soldi per realizzarli.”, mi disse sorridendo con una birra in mano.
“ Beh, per me è lo stesso. Lavoro qui solo per mettermi di lato dei soldi per la School of Visual Arts della grande Mela. Non voglio dipendere dai miei.”, risposi, provando una strana ammirazione nei confronti di quel ragazzo.
“ Oh, magari. Non ce la farò mai, a meno che non si rendano conto del talento che c’è in me. Spero solo che tu possa riuscire a realizzare i tuoi sogni.. Sai, sto scrivendo un film, si chiama “Crying Joy”. Forse sono un po’ suberbo, è nella mia indole, ma ti andrebbe di dargli un’occhiata?”
Il suo sguardo così sincero mi fece sorridere.
“ Certo, magari mi lasci il tuo indirizzo e vengo da te venerdì, ho il giorno libero.”
Non volevo che venisse da me, così mi feci avanti io per prima. Non potevo dirgli cosa c’era a casa mia, non potevo mostrargli in che situazione ero, almeno non per il momento. Non sapevo chi era, cosa faceva.
“ Magari prima mi dici il tuo nome..” , disse scoppiando a ridere.
“ Owh, giusto. Io sono Marie, per gli amici Mary. Tu sei..?” , sorrisi allungando la mano verso di lui.
“ Jared, per gli amici Jay..”, strinse la mia mano ed il tocco mi fece quasi sussultare. Prese un bigliettino e mi scrisse il suo indirizzo.
“ Ti aspetto qui, alle 7.”
Mi diede un bacio in guancia e se ne andò. Quello fu il primo di una lunga serie, il primo che mi fece esplodere il cuore. Non pensai ad altro per tutta la settimana, ero ancora rapita da quegli occhioni azzurri e dai suoi sogni. Riuscii a sopravvivere fino a quel venerdì e, quando arrivai davanti a quella porta in anticipo di mezz’ora, non seppi nemmeno suonare il campanello; Mi nascosi sullo scalino di fronte e poi, armandomi di coraggio, riuscii a suonare a quel maledetto campanello.
“ Chi è?”, chiese una voce maschile.
“ Sono Mary.”, risposi incerta.
Hai ancora tempo per scappare, dicevo fra me e me.
Mi aprì la porta un ragazzo che aveva più o meno la mia età.
“ Jared sta scendendo, entra pure..”
Mi accomodai in quel salottino piccolo e accogliente: un camino spento con ancora la cenere di chissà quale fuoco, due divani bianchi immacolati e una piccola credenza piena zeppa di foto di famiglia; Una colpì la mia attenzione: Jared, poteva avere quattro o cinque anni, con una chitarra in mano ed un mezzo sorriso, guardava l’obiettivo pizzicando le corde. Aveva i capelli lunghi e chiari e gli stessi, identici, magnifici occhi blu. Mi persi in quella meraviglia tanto da non sentirlo nemmeno arrivare.
“Mary?”
Mi girai imbarazzata. Non avevo il diritto di guardare quelle foto.
“Sc…scusa.. Io.. ti stavo aspettando.”, dissi in fretta.
“ Oh, non preoccuparti, non è niente. Hai già conosciuto mio fratello Shannon?”, disse indicandolo.
“ Sì, mi ha fatto entrare lui, non sapevo che avessi un fratello.”
“ Si, in effetti non te l’ho detto. Shannon ha un anno più di me, è il mio maestro, la mia ispirazione, la mia forza e tutto ciò che nessuno mai potrebbe darmi. Semplicemente darei la vita per lui.”
La presentazione di Shannon mi fece venire i brividi: non avevo mai sentito parlare nessuno così di un fratello. Purtroppo non avevo nessun fratello o sorella, non potevo provare la stessa sensazione. Mi sarebbe piaciuto avere qualcuno su cui contare, qualcuno che avesse il mio stesso sangue, che mi stesse vicino senza chiedere nulla in cambio. Il fatto che i miei genitori non abbiano avuto altri figli mi fa molto male ancora adesso.
“ Sono contenta che tu abbia qualcuno su cui contare.. Sai, io sono figlia unica.”, risposi mestamente.
“ Oh, capisco. Allora, preferisci qualcosa da bere? Mia madre ha preparato il tè ai mirtilli, è buonissimo.”, disse lui, quasi per cambiare discorso. Parlava di sua madre con una strana luce negli occhi, quasi fosse una figura evanescente. Altra cosa che mi fece diventare triste. Non sarei mai riuscita a parlare così della donna che mi aveva messa al mondo.
“ Certo..”
Abbassai gli occhi, non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Aveva gli occhi di un colore diverso quel giorno, un azzurro che dava sul grigio. Erano grandi e lucidi, lunghe ciglia facevano da contorno. Erano gli occhi più belli e sinceri che io avessi mai visto. Non sapevo che quegli occhi, qualche mese dopo, mi avrebbero salvato la vita.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due. ***


Mi portò in cucina, una stanza piccola colorata d’arancione. Nella parete di fronte si estendevano alcuni mobili, il frigorifero,un lavandino e al centro un tavolo tondo con quattro sedie. A sinistra invece, un poster di una foto con il fratello e una bellissima donna bionda che supposi fosse la madre. Aveva uno sguardo dolce, gli occhi chiari come quelli di Jared. Abbracciava i due bambini come se fossero la cosa più bella che avesse.
“ Bello no?!”, disse indicandolo.
“ E’ bellissima.. Anche la qualità della foto, è meravigliosa.”
“L’ha fatta mia mamma. E’ una fotografa. Non sai quanto c’ho messo ad attaccare alla parete quel poster!”, mi disse sorridendo.
“ Voi ragazzi avete la mania di fare tutto da soli – gli dissi ingenuamente-, potevi farti aiutare da tuo padre.”
Jared si rabbuiò in viso.
“ Mio padre se n’è andato poco dopo la mia nascita.”
Oops. Argomento delicato.
“ Oh, scusami.. Non sapevo..”, dissi sconcertata.
“ Tranquilla, non potevi saperlo. Vivo da solo con Shannon, mia madre ed il suo compagno. Lui ci ha dato il suo cognome.. D’altronde è come se fosse davvero mio padre.”
Guardai ancora un po’ il poster, era molto fortunato ad avere una madre così.
“ Parlami un po’ di te, invece.”, mi disse, cambiando discorso.
Ecco, l’avevo immaginato. Era arrivato il momento di farlo ed io, come sempre, non ero pronta. Avevo problemi a parlare della mia famiglia, dei miei genitori.
“ Beh, sono figlia unica, te l’ho già detto. Vivo qui a Los Angeles, questo penso lo sai.. Cos’altro c’è da dire?”, dissi arrossendo.
“ Ma non so, parlami dei tuoi, di cosa fanno nella vita, di chi ti ha trasmesso la passione per il cinema..”
“ I miei.. Mio padre è proprietario di un’azienda tessile mentre mia madre una ballerina che si imbottisce di psicofarmaci perché da quando sono nata io non può più ballare. Vivo da sola, visto che i miei non ci sono mai,  in una casa di Beverly Hills e sono la persona più triste di questo mondo. Sono sola, sola. Non ho nessuno su cui contare se non Beth, che diciamo è diventata la mia migliore amica. Ho tanti, troppi soldi che non voglio. Lavoro perché non voglio dipendere da mio padre, che non ha mai tempo per me. Ah, e mia madre mi odia.”
“ Nessuna madre odia la propria figlia”, disse lui incerto.
“ Beh, mia madre lo fa. Le ho rovinato la vita, ho distrutto il suo sogno più grande. Penso siano motivi abbastanza validi per odiarmi, no?”, dissi inarcando un sopracciglio.
“Sai, io non credo. La vita molto spesso ci riserba delle sorprese, molto spesso non sono piacevoli. Io non credo in Dio, credo solo nel destino, nel Fato: le cose accadono perché devono accadere, senza un perché preciso. Mettitelo bene in testa.”
La sua voce era diventata quasi fredda, estranea: ma d’altronde non lo era? Cioè, io non lo conoscevo nemmeno e chissà come, ero a casa sua.
“ Stai cercando di difenderla? Tu non sai quello che ho passato!”, dissi ricacciando dentro una lacrima che voleva uscire. Mi bruciava la gola come ogni volta che voglio piangere e non posso, mi faceva male la testa.
“ Si che lo so, Mary. Lo so perché mio padre mi ha abbandonato quando ero appena un bambino, avevo tre anni, forse. Non sai cosa significa vivere in giro per il Mondo senza una casa
fissa, senza sapere cosa mangiare la sera. E se sono qui lo devo solo a mia madre. Mia madre mi ha saputo mantenere, ha saputo far crescere due figli con un sacco di sacrifici ed un misero stipendio da fotografa, sebbene sia la fotografa più brava che abbia mai incontrato. Non lo dico perché è mia madre, lo dico solo perché è una gran donna.”
Le lacrime scesero lentamente dai miei occhi velati, vedevo tutto annebbiato. Jared fece il giro del tavolo e mi abbracciò. Una folata del suo profumo annebbiò ancora di più la mia mente, rendendomi incapace di fare qualsiasi cosa. Non riuscii a ricambiare l’abbraccio, ma nonostante questo lui continuava imperterrito a stringermi forte, mentre io avevo le braccia distese lungo il busto. Mi ero irrigidita, non mi aspettavo un gesto del genere, anche perché io fondamentalmente non lo conoscevo.
Ad irrompere nei miei pensieri fu una voce femminile, che mi fece aprire gli occhi per poi rimanere a bocca aperta.
“ Scusate, vi ho disturbato?”, chiese con un sorriso cortese sulle labbra. Le sorridevano anche gli occhi.
“ No mamma, entra pure.”
La donna entrò in cucina e poggiò la borsa con alcuni sacchettini di plastica sul piano colazione. Si appoggiò con un fianco al mobile e cominciò a fissarmi, dubbiosa.
“  Non mi presenti la tua amica, Jared?”
“ Lei è Mary, mamma. Ci siamo conosciuti qualche giorno fa. Sai, anche lei vuole andare alla School of Visual Arts di NY.”
“ Oh, devi essere molto brava allora..”, disse sorridendomi e porgendomi la mano.
“ Mary..”, dissi dubbiosa.
“Constance.”, disse lei, raggiante.
Era identica alla foto sebbene fossero passati nove o dieci anni, aveva quei lunghi capelli biondo cenere e quel sorrisone mozzafiato che la rendeva ancora più bella. Gli occhi, azzurri come quelli di Jared, erano messi in risalto da un trucco quasi accennato, ed il naso era piccolo e perfetto. Indossava una maglietta viola con la scritta “ Be yourself” ed un paio di jeans scoloriti che le calzavano a pennello. Ai piedi un paio di All Star viola come la maglia. Aveva stile, la mamma.
“ Allora, Mary, resti a cena da noi?”, disse lei, facendo l’occhiolino a Jared.
“Oh, no no, grazie mille. Stasera vengono a trovarci dei parenti da fuori, mi dispiace..”, mentii.
Non era la serata adatta per godermi una felice cenetta di famiglia.
“Come vuoi cara..- disse lei un po’ delusa- Sarà per la prossima volta..”
Jared, che anche vedendomi così in difficoltà rimaneva tranquillamente appoggiato alla parete, mi fece strada con un gesto dicendomi semplicemente “Andiamo di sopra.”.
Nel tragitto fra la cucina e le scale, poggiai lo sguardo su delle foto di famiglia che ritraevano entrambi i fratelli, e talvolta anche la madre, che facevano beatamente il bagno nudi. La cosa sembrava alquanto imbarazzante ma non ne feci parola. Jared, accortosi dell’interesse che prestavo verso i suoi ricordi, mi prese per mano conducendomi in camera sua. Appena entrai la prima cosa che notai furono i poster appesi per tutte le pareti.
“L’avrai capito, questa è camera mia e di Shannon..”, disse, quasi a giustificarsi.
Non c’era un angolo di parete che non fosse occupato dai poster. Nirvana, Metallica, Pink Floyd, Queen e chi più ne ha più ne metta. Il viso di Kurt Cobain troneggiava da sopra i letti dei due fratelli e sembrava messo lì come a dire “ Baby, qua ci stanno veri artisti!”, e difatti sparse per tutta la camera c’erano una mezza dozzina di chitarre ed una batteria con mille bacchette poggiate per terra. Milioni di libri facevano da contorno al disordine di quella camera, chiaramente abitata da ragazzi.
Mi uscì di bocca un sommesso “wow” quando notai che le chitarre erano quasi tutte delle costosissime Gibson.
“ Suoni?”, chiesi sfiorandone una.
“ Suoniamo.”, rispose lui sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.

“ Wow.. Sai suonarli tutti e due? Intendo, anche la batteria?”
Rise di gusto.
“ No, a me non piace la batteria. So suonare la chitarra ed il piano, ma la batteria la suona Shannon.”
“ Capisco.. Me la fai provare?” , dissi con un filo di voce che mi pentii subito d’aver usato.
“Uhmm, dovrei chiedere a Shannon, ma immagino che non sia un problema..”
Doppio sorriso, mi aveva fatto perdere un battito.
“Vieni, siedi qui.”
Mi accompagnò dietro le casse della batteria e mi fece sedere sullo sgabello, un po’ troppo basso per le mie gambe lunghe.
“Ehm, mio fratello non è molto alto.”
Scoppiammo a ridere insieme, come due bambini. Mi piaceva il clima che si era creato fra di noi.
“ Ecco, così dovrebbe andare bene..- disse regolando lo sgabello-, Siediti.”
Mi accomodai sistemando le mie gambe sotto le casse, ora andava decisamente meglio. Jared prese due bacchette da terra e me le porse.
“ Devi sistemare i piedi così,- mi diceva da sotto,- e tenere le bacchette così”, disse afferrandomi le mani.
Il suo tocco caldo mi provocò un brivido che non riuscii a nascondere. Il suo viso era così vicino al mio che percepivo il suo dolce respiro, i suoi occhi posati sulle mie labbra come farfalle meravigliose su di un fiore. Si avvicinò lentamente e, sfiorandomi il naso, mi baciò. Le sue labbra, così morbide e rosa, aderivano perfettamente alle mie come se fossero state fatte su misura. La sua lingua si insinuò nella mia bocca provocandomi una strana voglia, che mi fece credere d’essere su Marte e non in quella stanza; Guizzava nella mia bocca come un pesce, la sentivo scontrarsi con la mia, la sentivo comunicare in un idioma che solo loro potevano comprendere. Per la prima volta in vita mia smisi di pensare e mi abbandonai ai sentimenti, al mio cuore che stava scoppiando, che bruciava di un sentimento nuovo, un sentimento che non aveva mai sentito.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre. ***


Il bacio più bello della mia vita durò pochi minuti che mi sembrarono un’eternità, pochi minuti che fecero da balsamo a 18 anni di sofferenze. In quel momento stavo bene, sembravo rinata, un’altra persona. Per una volta in vita mia ho visto il mondo sorridermi, mi sono accorta che non tutto va male.
Ad interromperci fu un lieve colpo di tosse che ci fece staccare e abbassare gli occhi: era Shannon.
“Ehm, scusate..Io…Non volevo.”, disse lui frettoloso.
“Non..Non è niente.”, balbettai.
Jared aveva stampato in faccia un sorrisino ebete che mi fece innervosire.
“No davvero. Prendo una cosa e scendo di sotto.”
“Tranquillo,- sbottai, mandando uno sguardo truce a Jared- io vado.”
Finalmente si decise a parlare e mormorò un semplice “Ti accompagno”, seguito da un sorriso.
Scendemmo di nuovo le scale che avevamo fatto prima, stavo quasi per cadere e lui mi trattenne per un braccio.
“ Va tutto bene, Mary?”, disse preoccupato.
“ Tranquillo, va bene..-, risposi afferrando la maniglia della porta.- Ci vediamo, sai dove trovarmi..”
“ Aspetta..- disse lui tenendomi la mano- Non puoi salutarmi così.”
Mi prese per il bacino e mi avvicinò a lui. La distanza che ci separava era minima, potevo percepire il calore del suo corpo, il profumo delle sue labbra invitanti che era come se richiamassero le mie. Con un gesto felino prese il mio viso e lo avvicinò al suo, facendo aderire per la seconda volta le nostre labbra. Chiusi gli occhi.
Mi fece inclinare la testa, facendosi spazio fra la mia mandibola ed il collo, per poi andare a posare le sue labbra proprio lì, provocandomi mille spiritelli sulla schiena. Continuò a sfiorare il mio collo con le sue labbra leggere, mentre le sue mani mi tenevano per la vita. Aprii gli occhi e trovai lui che mi guardava con uno sguardo divertito.
“ A domani, Mary.”, mi disse lentamente.
“ A domani, Jared.”
La strada per casa fu una continua successione di pensieri. Io e Jared nemmeno ci conoscevamo e già c’eravamo scambiati due baci, cosa che non era molto solita, almeno per me. Avevo visitato pure casa sua, ancora più strano. La cosa che mi preoccupava di più era quello che avrebbe potuto pensare Jared di me, insomma, gli avevo raccontato la mia vita ed in fondo ora stavo meglio. Non avevo più il senso di pesantezza che mi assaliva ormai da troppo tempo, quel senso di schifo e repulsione per l’intera umanità s’era affievolito con uno sguardo, con un suo sguardo. Ripensando a tutto quello che avevo vissuto quel pomeriggio, un senso di tranquillità e tenerezza pervadeva il mio animo.
Arrivai a casa e, come al solito, non vi trovai nessuno se non un bigliettino.
“ Sono ad una cena di lavoro, tua madre è al cinema con delle amiche. Dì a Sophie di preparti la cena.

Papà.”

Questa storia succedeva almeno sei giorni su sette, non vedevo quasi mai i miei fra lavoro e studio. Eppure io trascorrevo molto tempo a casa, non avendo molti amici rimanevo molto spesso chiusa in camera mia a leggere o imparare il piano da autodidatta. Mi piaceva stare da sola e pensare, riflettere sulla mia vita o semplicemente sognare. Sognare era, ed è ancora, l’unico mondo in cui le cose vanno come vuoi tu, senza imprevisti né sofferenze; Insomma, tutto quello che serve per essere felice.
Mi stiracchiai sul letto e, rimuginando ancora su quanto era successo, mi addormentai.
Aprii gli occhi e mi trovai in un posto sconosciuto.

Ero su una collina, una collina circondata da nuvole. Non c’era nessuno intorno, solo tanta nebbia. Il silenzio assordante mi faceva paura. Feci un passo indietro e sentii un paio di mani infilarsi sotto la mia maglietta leggera.
Mi girai ma non c’era nessuno.
Qualcuno mi stava accarezzando i capelli, ma non riuscivo a vedere nessuno. Un senso di spaesamento si impadronì della mia testa, fin quando mi sentii toccare di nuovo alla schiena. Le mani mi facevano male, mi strappavano la maglietta e gli shorts che avevo.
“C’è qualcuno?”, dissi piano.
Di tutta risposta mi fu tappata la bocca, non potevo parlare. Riuscivo a malapena a respirare, mi girava la testa e fui costretta ad abbandonarmi sull’erba gelida della collina.
“Chi sei?”, chiesi impaurita.
Nessuna risposta. Le mani ancora frugavano, sentivo scorrerle lungo il bordo degli slip, poi entrare dentro.
Gridai, gridai più forte che potei, gridai fino a perdere la voce, fino a lacerarmi le corde vocali.

“Hey Mary, tranquilla! Era solo un brutto sogno, solo un brutto sogno!”
La voce di Sophie mi tranquillizzò, riportandomi sulla Terra.
“Va tutto bene piccola, tutto bene. Non aver paura, ci sono io con te. Hai solo avuto un incubo..”, cercava di farmi calmare, cullandomi.
Ero ancora madida di sudore e avevo gli occhi iniettati di sangue. Tremavo ancora e avevo la maglia veramente strappata.
Cosa mi stava succedendo?
“ Ho paura, Sophie. Aiutami.”, dissi ancora tremando.
“ Non devi averne tesoro, non averne.”
Mi adagiai sul petto di Sophie, cercando di riprendermi dallo shock.
Mi faceva male lo stomaco, respiravo a stento. Sophie mi portò un bicchiere d’acqua che ingollai tutto d’un fiato, sudavo ancora freddo. Mi alzai per togliermi la maglietta, nel togliermi le coperte, mi accorsi di lividi freschi e di graffi sulle braccia e sulle gambe.
Cosa diavolo stava succedendo?

NdA: Allora, allora, allora. Vorrei ringraziare un paio di persone prima di salutarvi. Innanzitutto devo ringraziare la mia Ciccia, che anche se non leggerà questo ringraziamento, è importante citare. Lei è la mia lettrice per eccellenza, ed io la sua scrittrice preferita.. Direi anche l'unica. Grazie per tutti i complimenti e grazie soprattutto per starmi accanto. 
Poi devo ringraziare:
- Fra_Echelon, perchè mi riempi sempre di complimenti e sei la mia sposa. Tanto amore.
- MikyEchelon, la mia Chela. Che risate che mi ci faccio, ti adoro Ikeona mia!
- Angel_echelon, la mia Bell. Sei sempre più importante, sei un tesoro. <3
- Niente, devo ringraziarti ogni giorno della mia vita io. Scusa, sopportami. <3
- Handofblood12, non potevo non ringraziare anche te. Sei il mio aiuto-scrittrice, quella che non è di parte e mi fa notare errori e robe varie. Ti voglio bene. <3
Detto questo, penso d'aver finito.
Cosa sarà successo alla nostra Mary? Dite che è un cattivo presagio? E della situazione con Jared, cosa ne pensate? Aspetto i vostri pareri.
Un bacione, 
Vale.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro. ***


All’alba mi svegliai dalle braccia di Sophie e mi preparai per andare a lavoro. Cosa mi era successo durante quella notte? Avevo il corpo totalmente coperto di graffi e lividi, ed era impossibile che me li fossi fatta da sola durante il sogno. Assolutamente impossibile. Il tutto era molto strano, non mi era mai successa una cosa simile.. O si? Una notte ricordo di aver sentito dei rumori strani provenire dalla mia stanza, ma quando aprii gli occhi per controllare c’era solo il lampadario rosa che si muoveva sopra il letto a causa del vento.
La mattina trascorse tranquilla fra qualche cliente e tanti, troppi pretesti per ricordare.
Ricordare è il mezzo più strano di farsi del male, visto che tutti lo facciamo; Si ricorda quello che non si ha o non si è più.
I lividi continuavano a pulsare sotto la maglia leggera, come se fossero un segnale di pericolo, mi ricordavano che c’era qualcosa che non andava, che qualcosa di oscuro era pronto a portarmi via.. Via da chi?
Oltre a questo c’era il problema Jared: dove era ora? Con chi era? E soprattutto, mi pensava? Pensava a me come lo pensavo io? Pensava ai baci che ci eravamo scambiati? Ai nostri occhi che s’erano incontrati? Alle sue mani sul mio collo?
Stavo delirando e me ne resi conto solo quando Beth irruppe nei miei pensieri.
“ Che hai oggi, Mary?”, mi chiese con uno sguardo preoccupato.
“ Uhm, nulla..”, rispondi evitando il suo sguardo e facendo finta di niente.
“ Sarà mica colpa del biondino dell’altro giorno!”, ammiccò dandomi una gomitata.
Evidentemente non riuscivo a nascondere nulla. Bella storia.
Mi vide arrossire e , stritolandomi in un abbraccio, mi convinse a parlare.
Le raccontai di quel che c’eravamo detti al locale, del suo invito a leggere il copione e dell’arrivo a casa sua. Le raccontai di Constance, quella donna bellissima e gentilissima, e delle foto che Jared mi aveva sorpreso a spiare. Le raccontai dei discorsi che mi fece, della sua storia e della mia storia. Per ultimo, le raccontai della batteria e dei due baci che ci eravamo scambiati.
Beth mi guardava sognante, ma il suo atteggiamento cambiò subito.
“ Perché non me  ne hai parlato?”, disse con un’ombra di delusione nello sguardo.
“Perché avevo paura.”
L’espressione di Beth cambiò ancora, una smorfia ed uno sguardo triste si impadronirono del suo viso.
“Non è per te Beth.. Io ho avuto delusioni in fatto di amicizia. Ho imparato a temerla, a starle lontano e non sottovalutarla. Un’amicizia vera talvolta fa più male dell’amore. E’ un’amica colei che ti sta a fianco sempre senza chiedere nulla in cambio. E’ un’amica colei che anche se manchi, è sempre lì ad aspettarti, è sempre lì ad ascoltarti e non cerca di trasformarti in qualcun altro. E’ un’amica quella che ti dice le cose come stanno, senza nascondere nulla..”
“ Non capisco..”, disse Beth confusa. Gli occhi verdi di Beth ed il suo sguardo sincero mi fecero sorridere.
“Ho avuto solo una migliore amica in tutta la mia vita. Si chiamava Jess. Ci siamo conosciute al liceo, sin dall’inizio c’era qualcosa che ci legava. Condividevamo tutto, lei era la sorella che non avevo mai avuto. Studiavamo insieme, uscivamo insieme, dormivamo insieme, mangiavamo insieme.. Vivevamo in simbiosi.
L’anno scorso però, la trovai a letto insieme a Sam, il mio ragazzo, ora ex. Ricordo ancora ogni singolo dettaglio come se fossi ieri; Ricordo come, vedendoli l’uno sull’altra nudi, sbattei la porta e buttai via lacrime amare per lei, non tanto per lui. Non m’importava di perdere lui, avevo perso lei ed era la cosa più grave. Non si fece sentire, se non il mese dopo: mi disse che era incinta, che lei e Sam andavano a vivere insieme a Seattle e che mi avrebbe inviato la partecipazione al matrimonio. Ricordo ancora come guardai la partecipazione e con sguardo gelido la bruciai nel camino.”

La delusione di Beth si leggeva chiaramente nei suoi occhi. Mi prese una mano e, stringendola, se la portò al viso.
“ Mi dispiace..”, disse sommessamente.
“Anche a me-  risposi alzando lo sguardo,- Ma è acqua passata anche se ancora mi brucia il cuore per la sofferenza che mi ha provocato. Ho ancora difficoltà a legarmi con qualsiasi altra ragazza, ecco perché tu non sapevi nulla della mia vita..”
“ Perché a Jared  hai raccontato la storia della tua famiglia?”, disse piegando la testa.
“ Non lo so, me lo chiedo anche io Beth. Jared mi ispira fiducia, lo vedo molto simile a me e forse è per questo che mi sto facendo coinvolgere così tanto. Però sai una cosa? Spero tanto che io e te avremo tempo per recuperare.”
Mi sorrise come solo lei riusciva a fare, scacciando via qualsiasi altro pensiero.
“ Ne sono più che sicura.”, mi abbracciò dicendolo.
Mi feci stringere da Beth, piena di grandi speranze, mentre il suo dolce profumo riempiva i miei polmoni.
Mi sciolsi dall’abbraccio quando sentii un rumore dietro.
“Jared?”, dissi incredula.
“Ehm, volevo farti una sorpresa..”, disse timidamente.
“ Ma da quanto sei qua dietro?”, chiesi infastidita.
“ Ok, me la squaglio.”, mi sussurrò Beth.
 Beth si fece spazio andando al bancone dove c’erano un paio di clienti. Jared si avvicinò a me sorridendo.
“ Non preoccuparti, non ho sentito nulla. Ho solo sentito che hai fiducia in me e che siamo molto simili..”
“ Ah. Beh, non ho detto che ho fiducia in te.. Ho detto che mi ispiri fiducia.”
“ E’ lo stesso..”, disse abbracciandomi.
Due abbracci in meno di dieci minuti, wow. Le cose andavano bene. Mi posò le mani sui fianchi e le labbra sul collo. Sentivo il suo respiro sulla pelle, il suo profumo su di me.
“ Cosa vuoi fare oggi?”, disse lui.
“ Eh, io dovrei lavorare..”, risposi tristemente.
“ Aspetterò!”, disse lui con un sorrisone.
Non potei fare altro che sorridere. Il mio cuore era ancora in fase “un altro tocco e collasso” quando si avvicinò e mi schioccò un bel bacione sulla guancia. Sentii che stavo per cadere per terra svenuta ma seppi controllare il mio istinto di saltargli addosso e tornai al bancone. Per il resto del pomeriggio mi sentii osservata da quello sguardo di ghiaccio che ogni tanto sorrideva ai miei movimenti goffi, quasi prendendomi in giro. Che sbruffone. Beth si accorse degli sguardi fugaci che ogni tanto ci scambiavamo e sentenziò.
“ Dovresti andare da lui.”
“ Beh Beth, non penso che mi pagheresti ancora se stessi in giro con lui invece che qui al bancone.”
“ Mi credi così taccagna? Un pomeriggio in meno non fa niente, tanto oggi non c’è nemmeno tanta gente.”, disse felice.
“ Davvero? - esclamai sbalordita.- Davvero posso andare?!”
“ Puoi!”, disse abbracciandomi.
Andai da Jared scodinzolando quasi, ero felice. Potevo stare con lui, conoscerlo meglio. Mi prese per mano e mi portò sulla spiaggia.
“Hai il costume?”, disse ad un certo punto.
“No..” risposi timidamente.
“ Fa niente. Faremo il bagno vestiti.”, disse togliendosi la t-shirt.
Sentii che mi mancava un battito. Il suo corpo perfetto sotto i raggi del sole era quasi incredibile.  Il torace abbronzato e definito mi smuoveva lo stomaco, era come se si contorcesse a quella vista. Mi ripresi lentamente dallo shock, cercando di dire qualcosa di sensato.
“Oh, no no no. Non se ne parla. “, balbettai.
“ Dai, non fare così. Ti fidi o no?”, disse con aria di sfida porgendomi la mano.
Ci pensai su per qualche minuto, guardando i suoi occhi sinceri. Poi tolsi anche la mia maglia.
Jared si stampò in viso un sorrisino malizioso, mi vidi riflessa nei suoi occhi. Vidi il mio seno sodo stretto nel reggiseno e il torace con le costole ben evidenti. Vidi anche i lividi sulle braccia e sulla pancia. Cercai di non dargli molto peso. Lentamente anche Jared stava togliendo i suoi jeans per abbandonarli sulla spiaggia, proprio come avevo fatto io con i miei shorts. Mi buttai subito in acqua per non rimanere interdetta alla vista del suo corpo ben definito, mi feci una nuotata e quando alzai la testa lo vidi avvicinarsi in modo sensuale. I capelli lunghi e biondi ricadevano bagnati sulle spalle muscolose e possenti, gli occhi color del mare mi guardavano curiosi. Le labbra piene erano curvate in un sorriso. L’acqua gli arrivava fino alle scapole, lasciandole solo intravedere.
Era bello, bello da morire.
Vide che avevo i brividi e mi cinse i fianchi avvicinandomi a lui per riscaldarmi. Sentivo il suo corpo caldo sotto il mio, i miei seni turgidi contro il suo petto. Rideva, ridevo.
Eravamo felici.

Stesi abbracciata così a lui per non so quanto tempo, ci girammo contemporaneamente solo per vedere il sole nascondersi dietro la superficie liscia dell’oceano. Il cielo era limpido e sfumato di rosa, qualche gabbiano volava lontano, emettendo il suo verso.
Tutto era tranquillo, tutto era perfetto.
Jared decise di uscire dall’acqua visto che faceva sempre più buio e mi suggerì di sederci sulla spiaggia a parlare un po’. Uscimmo tranquilli, mano nella mano, con un sorrisone stampato in volto e la certezza che niente e nessuno sarebbe riuscito a rovinare questo momento.
Ci sbagliavamo.

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque. ***


“ Voglio portarti in un posto..”, mi disse con un sorrisone.
“Dove?”, risposi puntando i miei occhi nei suoi.
“ Più in là, prendi i vestiti..”
Mi prese per mano e camminammo per la spiaggia deserta. La sabbia, sottile e dorata, era fredda e umida. Un filo di vento scuoteva le palme come un sospiro leggero. Il mare era una distesa plumbea, era calmo e le sue acque accarezzavano dolcemente il bagnasciuga coperto di piccoli animaletti. Eravamo entrambi zitti, si sentiva solo in nostro respiro, il vento e l’acqua. Ogni tanto lo guardavo negli occhi e vedevo che anche lui mi guardava, mi sorrideva con lo sguardo. Si girò indicando la grotta che si estendeva davanti a noi dove l’acqua era ancora più blu. Diversi scogli, bagnati dall’acqua del mare, ospitavano piccoli granchietti che cercavano qualche alga da mangiare. La temperatura dentro la grotta era un po’ più bassa, Jared mi strinse a se.
“ E’ bellissimo..”, sussurrai.
Lui mi sorrise di tutta risposta e si addentrò nella grotta, tirandomi con la mano. Passò in mezzo a scogli e sabbia e si appostò su una superficie che l’acqua salata aveva completamente lisciato, facendomi segno di sedermi accanto a lui. Mi rannicchiai accanto a lui cercando di mostrare meno pelle possibile quando mi abbracciò e notò che il mio braccio sinistro era completamente pieno di macchie violacee che avevano forma di tante dita.
“ Che cosa hai fatto al braccio?”, disse sfiorando la mia pelle.
“ Non lo so sinceramente..”, dissi sviando lo sguardo. Mi prese il volto fra le mani e mi costrinse a guardarlo.
“ Dimmi la verità..”, mi disse sfiorandomi le labbra.
Mi sentii morire. Dovevo raccontargli del sogno, rivivere ogni singolo minuto di quel che è stato l’incubo più brutto della mia vita. Di tutto quel che avevo provato, della disperazione e del terrore, del pianto e della sofferenza, del dolore e della solitudine. Dovevo raccontargli del mio risveglio e della consapevolezza che qualcuno era stato in camera mia? Dovevo raccontargli quello che non volevo sapere nemmeno io?
Vomitai la verità con un misto di dolore e gioia, sicura che non sarei stata sola. Jared mi guardava teneramente e mi stringeva la mano..

“ Io ti starò accanto.”, mi disse con voce decisa.
Mi lasciai scappare una risatina sarcastica e lo guardai negli occhi.
“ Non prendiamoci in giro Jared. Sono cose di circostanza che dicono tutti. I problemi rimangono a me. E poi io e te ci conosciamo nemmeno da una settimana, cosa posso pretendere?”
“ Io ti starò accanto, e molto presto lo capirai. Sin da quando ti ho vista ho trovato in te quello che cercavo in me. Davvero. Io ho bisogno di te.”
Lo guardai e sorrisi: era inutile replicare. 
“Sarà meglio che ci rivestiamo..”, dissi cambiando discorso.
Presi i vestiti e mi ricomposi in fretta. Dovevo tornare a casa, s’era fatto tardi.
“ Ti accompagno io in macchina, ti va?”, mi disse Jared mentre si infilava la maglietta.
Rabbrividii al solo pensiero.
“ Ehm.. Jared.. Meglio di no..”
Si girò a guardarmi, curioso e anche un po’ deluso.
“ Perché no?”
“ Perché non voglio che tu ti faccia una strana idea su di me. Non hai mai visto casa mia.. “
“ So qual è casa tua.. Me l’ha detto mio fratello..”
“ Come lo sapeva Shannon?”
“ Non lo so, e sinceramente non m’importa più di tanto. Ti accompagno io e non fare storie.”
“Come vuoi..”
Mi arresi al suo abbraccio per poi sfiorare le sue labbra. La stretta delle sue mani era così dolce che non avrei mai voluto andarmene, volevo restare con lui per tutta la mia vita..
“Andiamo.”
Salimmo nella sua auto, non riuscii a distinguere la macchina ma mi piaceva. Era diversa dalle auto in cui ero costretta a salire, con cui ero costretta ad andare a scuola o in qualsiasi altro posto. Mentre guidava mi sfiorava la coscia, girandosi di tanto in tanto per farmi un sorriso.
Eravamo quasi arrivati a Beverly Hills e già si stagliavano davanti le prime ville. La mia era la penultima.
Eravamo quasi arrivati al cancello di Villa Helius quando vidi l’auto di mio padre entrare dentro. Era appena arrivato a casa.
“Però!”, si lasciò scappare Jared mentre affacciava la testa dal finestrino per guardare meglio.
Davanti a noi si estendeva il perimetro della mia casa, circondato da pini alti come un palazzo da 3 piani e da siepi. Il cancello dorato con gli spuntoni alla fine dava l’idea di impenetrabilità mentre il sentiero che conduceva  nella casa vera e propria era lungo una ventina di metri. Tutto intorno si estendeva il prato, tagliato di fresco, e delle aiuole davano un tocco di colore qua e là. La casa era visibile a malapena da fuori, si vedevano solo i finestroni enormi del terzo piano. Spuck, il mio pastore tedesco, ci osservava da lontano.
“ Già..”, mormorai.
“ C’è anche la piscina lì dentro?”, disse con un sorriso.  Non pensavo la prendesse così, ma è solo un bene.
“ Sì, è dall’altro lato. Ti prometto che qualche giorno che non ci sono i miei ti invito.”
“ Ne sarei onorato.”, disse prendendomi la mano. Se la portò alle labbra e la baciò dolcemente.
Lo osservai di nascosto, osservai i movimenti felini dei suoi occhi, il movimento impercettibile delle sue labbra e l’ondeggiare delle braccia. Alzò il viso e mi guardò negli occhi.
“Sei bellissima.”, sussurrò.
Mi lasciai scappare un gemito e lui mi strinse a se.. Non mi ero mai sentita più sicura in vita mia se non fra quelle braccia.
“ A domani..”, sussurrai scendendo dalla macchina e chiudendo la portiera. Feci per entrare in casa e chiusi il cancello. Percorsi il vialetto ed entrai in casa. Mi sorpresi per il disordine: l’ingresso era seminato da vasi rotti e il cappotto di papà era buttato a terra. Man mano che mi inoltravo in casa cercavo di sistemare qualcosa, con scarsi risultati.
Trovai mio padre steso per terra in preda a degli spasmi. Mi avvicinai e la puzza d’alcool mi investì.
“Papà..”, mormorai.
Non rispondeva. Aveva gli occhi rossi persi nel vuoto e conati di vomito gli facevano inarcare la schiena.
Era ubriaco.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei. ***


Mi chinai su mio padre e cercai di farlo alzare.
“ Come sei arrivato fino a qua?”, dissi preoccupata.
“ Eh..Io..Ah..”, riuscì a biascicare.
Non era capace di mettere tre parole sensate di fila.
“ Sophie.. Sophie!”, gridai.
Sophie, che era al piano di sopra, non s’era accorta di quanto era successo. Scese tutta trafelata e guardò prima me e poi mio padre.
“Cosa diamine sta succedendo?”, chiese preoccupata.
“E’ ubriaco.”, dissi sarcastica.
Si mise a pulire e sistemare tutto quel casino mentre io aiutavo mio padre ad andare in camera sua.
Lo trascinai fino alla camera da letto e lo spogliai.
“Come ti sei ridotto così?”, mi dissi senza aspettare risposta.
Non riusciva a fare altro che mormorare parole senza senso e, in quel mezzo, riuscii a capire solo “Ellen”, il nome di mia madre.
Risi nervosa, chissà dove era lei ora.
Lo adagiai sul letto e gli tolsi prima le scarpe, poi la camicia. Stavo per togliergli i pantaloni quando in un istante mi ritrovai catapultata sull’altro lato del letto con lui sopra di me.
Mi toccava i seni, mi infilava le mani nella t-shirt. Mi teneva ferme le braccia e tentò di baciarmi.
Sentii l’alito forte impregnato di alcool che mi investiva, le sue dita sulla pelle delle braccia lasciavano altri segni neri.

Ancora una volta mi misi a gridare, proprio come avevo fatto quella notte, con tutto il fiato che avevo dentro.
Gridavo ancora, mentre lui cercava di mettermi una mano in bocca per tapparmela mentre l’altra vagava fra il bordo dei miei shorts e la mia maglietta, ridotta quasi a brandelli. Cercavo di ribellarmi, di alzarmi, ma era come se fossi impietrita.
Mio padre non poteva farmi questo, non poteva.

“ Sono tua figlia, cazzo!!”, gridai.
Nessuno mi aiutava, ero da sola.
Chiamavo invano Sophie, ma non poteva sentirmi dal terzo piano.

Eravamo soli, io e lui.
Riuscii a dargli un calcio e ad alzarmi, arrivai al telaio della porta quando me lo ritrovai addosso.
Mi aggrappai con tutte le forze, conficcai le unghie nella porta ma fu impossibile resistere.
La forza delle braccia di mio padre mi tirava verso il letto, mi faceva male.
Le sue unghie erano sulla mia pelle, lasciavano segni scuri, impregnati di sangue.
Mi buttò per la seconda volta sul letto e, fra un pugno ed uno schiaffo, riuscì a strapparmi gli shorts.
Ero terrorizzata, tremavo, dovevo andarmene.

Ancora una volta cercai di alzarmi, gli diedi un calcio nei testicoli e per un momento mollò la presa.
Nemmeno il tempo di alzarmi e mi ritrovai di nuovo a terra: sbattei la testa nell’armadio con un rumore sordo, mi si offuscarono gli occhi;
Sentivo colare qualcosa di caldo e viscido dalla nuca, feci per toccare: sangue.
Vidi la mia maglia ridotta a brandelli, il seno scoperto. Vidi i miei shorts a brandelli, ero solo con gli slip.
Le sue mani si erano infilate dentro gli slip, lo sentivo vagare.
Avevo le ginocchia strette, con uno schiaffo me le fece aprire.
Mi infilò due dita dentro, mi diede un altro schiaffo quando gli morsi la mano che era andata a tapparmi la bocca.
Cercai di alzarmi con tutta la mia forza ma ricevetti una spinta che mi fece sbattere nuovamente la testa nell’armadio.
Dieci minuti e persi conoscenza.
Sentii solo sfilarmi gli slip e poi nulla, il vuoto.

Mi alzai non so quanto tempo dopo da quella pozza di sangue scuro sul pavimento, riuscii a malapena a tenermi in piedi e arrivare al garage. Presi la macchina e il primo posto che mi venne in mente fu casa di Jared.
Lì potevo sentirmi veramente al sicuro.
Feci la strada a tutta velocità, senza nemmeno fermarmi ai semafori, con la testa vuota e l’orgoglio distrutto. Mio padre, quello che mi aveva concepito, che mi aveva cresciuta, aveva abusato di me.
Bella merda!

Arrivai dieci minuti dopo a casa di Jared, lasciai la macchina aperta e mi diressi alla porta. Suonai al campanello e Costance, con un sorrisone, aprì la porta. Appena mi vide ridotta così, con sangue che colava dalla testa e vestiti ridotti a strisce sottili di tessuto, la sua espressione passò da felice a preoccupata.
“ Oh Santo Iddio Mary, cos’hai fatto?”, mi disse abbracciandomi. Il suo abbracciò mi tranquillizzò, facendomi smettere di tremare. Mi portò in cucina e mi diede un bicchiere d’acqua. Fece il giro del tavolo, mi prese la testa fra le mani e controllò al fonte di tanto sangue. Si accorse che la ferita era profonda e si affrettò a trovare una garza con cui coprirla.
“ Devo chiamare Carl, la ferita è grave. Nel frattempo vuoi raccontarmi cos’è successo, tesoro?”
Annuii debolmente mentre lei prendeva una coperta e me la metteva addosso. Continuavo a piangere senza nemmeno rendermene conto e mi ritrovai a singhiozzare e tremare nuovamente non appena finii di raccontarle.
La faccia di Constance era un misto fra compassione e dolore, voleva aiutarmi in qualche modo ma non sapeva come. Suonarono al campanello, sicuramente era quel Carl. Constance corse ad aprire e li sentii parlare nella stanza accanto..
“ Ha una ferita alla testa, ma non è quella che mi preoccupa..  Ti spiego dopo..”, disse debolmente.
Entrò in cucina e mi salutò sorridendo.

“Ciao Mary.”, disse con voce ferma. “Vediamo cosa abbiamo qui.”
Iniziò a toccarmi vari punti della testa che mi facevano male, per poi arrivare alle ferite. Prese qualcosa dalla valigetta ed iniziò a trafficare: lo vidi infilare un filo nell’ago, prendere del cotone con del disinfettante e delle garze bianche. Mi lasciai andare alle dolci mani del medico e quando aprii gli occhi mi trovai Jared davanti che mi guardava sconvolto.
“Co..Co..Cosa è successo?”, disse raggiungendomi e prendendomi la mano.
Non riuscii nemmeno a sorridergli e mi limitai a stringergli la mano. Si chinò ed appoggiò la testa sulle mie gambe, chiuse gli occhi. Il momento dopo Carl aveva già finito di suturarmi la testa, anche se non poteva suturarmi il cuore, ridotto in milioni di piccoli pezzi..
“Come sta, papà?”, disse lui.
Rimasi scioccata da quella parola ma cercai di nascondere il mio sconforto. Lui era suo padre.
“ Sta meglio ora, si è ripresa.. Ma temo che domattina sarà peggio e non per i dolori..”, disse tristemente.
Jared annuì debolmente e mi accompagnò in bagno, dove mi aspettava un cambio di vestiti puliti.
“ Metti questi, ti aspetto qui fuori..”
Tolsi i resti di quelli che erano stati i miei vestiti e mi infilai di fretta, e fra le lacrime, una maglia nera che mi arrivava sino a metà coscia. Sgattaiolai fuori dal bagno e trovai Jared fuori con la testa appoggiata alla porta, mentre una lacrima gli cadeva dai due diamanti azzurri che aveva come occhi.
“ Mi dispiace..”, mi disse senza nemmeno alzare il viso.
Mi prese per mano e mi portò in camera sua. Mi fece adagiare sul suo letto, cingendomi con le sue braccia e rimboccando le coperte. Rilassai i muscoli che mi facevano male, adagiai la testa dolorante sul cuscino morbido che sapeva di lui.
Mi addormentai così, stretta nelle braccia della mia salvezza.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette. ***


Aprii gli occhi non so quanto tempo dopo e sentivo il dolore nelle mie ossa. La luce del sole filtrava dalle tapparelle, potevo vedere i corpuscoli che formavano il fascio, misto a polvere. Un profumo intenso di caffè di insinuava nelle mie narici, svegliandomi la fame.
Mi girai e tastai il cuscino in cerca di Jared.

Delusa, mi ritrovai a toccare il cuscino vuoto.
Annusai la federa, profumava dei suoi capelli, del suo viso. Mi lasciai andare a quel profumo dolcissimo e poi mi feci coraggio per alzarmi.
Non appena fui in piedi un capogiro sì impadronì della mia testa, facendomi girare lo stomaco al contrario: Carl me l’aveva detto, l’effetto del trauma cranico si nota dopo. Con studiata calma mi diressi alla porta e scesi le scale, sicura di trovare Jared in cucina.
Constance doveva essere al lavoro, così supposi che eravamo soli in casa.
Imboccai il corridoio della cucina e sentii parlare.

“ Quindi tu eri là?”, diceva Jared furioso.
“Sì.”, rispose Shannon annuendo.
“ Ma come ti è venuto in mente? Sei un irresponsabile, un coglione. E’ anche colpa tua se è successo questo a Mary!”, disse alzando la voce.
“ Ne parlerò io con Mary, risolverò tutto. Non è stata colpa mia, quando lei è arrivata io stavo uscendo dall’uscita secondaria.”, disse giustificandosi.
Non potei fare a meno di sentire.
Mi sentii profondamente in colpa per aver ascoltato la loro discussione ma avevano fatto il mio nome, quindi era inevitabile che io sapessi.
Irruppi nella stanza mentre Jared stava girato verso la cucina, preparando dei pancake, e Shannon seduto al piano colazione.

“Allora, cosa vuoi dirmi Shan?”, dissi andando da Jared.
Si girò, con un sorriso che mi accese il cuore, e mi abbracciò. Mi diede un bacio sulla guancia e mi sussurrò all’orecchio un “Come stai piccola?” a cui risposi solo con un cenno della testa. 
Andai a sedermi nella sedia di fronte a Shannon mentre lui guardava il fratello in cerca di sostegno. 
Jared alzò le braccia come in segno di resa e si limitò a dire “Io non c’entro nulla.”

Guardai prima Jared, poi Shannon che con nonchalance prese una sigaretta dalla tasca: lo guardai male.
“Fumi?”, chiesi schifata.
Avevo sempre odiato il fumo, mi dava un fastidio tremendo.
“ Lasciamo perdere.”, intervenì Jared.
Per tutta risposta Shannon si accese la sigaretta e, aspirandone il fumo, iniziò a parlare.
“ Io ero a casa tua un momento prima che succedesse quella cosa.”, disse guardandomi negli occhi.
Non potei fare altro che scuotere il capo.
“ Cosa stai dicendo, Shannon?”, chiesi confusa.
“ Ero a casa tua ieri. Quando sei tornata me ne sono andato.”
Mi girai verso Jared ma lui guardava altrove.
“ E, scusami, cosa stavi facendo a casa mia?”, chiesi con voce tremolante.
“Ero con Sophie.”
Mi si annebbiò la vista, ancora una volta come era successo il giorno prima. Mi sentii di nuovo trascinare a terra dalle mani di mio padre, mi sentii schiaffeggiare di nuovo, sentii la botta sulla testa e vidi i miei vestiti ridotti a brandelli.
“ Stai..stai scherzando vero?”, balbettai.
“ No, non sto scherzando. Non posso scherzare su questo, Mary. Io e Sophie abbiamo una relazione da un annetto più o meno.. Vengo a casa tua, nella sua stanza, regolarmente. Non so quanto ti possa importare, ma io Sophie la amo veramente.”
Sophie lavorava a casa mia da quando aveva diciannove anni, ed era qui anche adesso.
Ora ne aveva ventitré, ma era rimasta la diciannovenne che conoscevo. Eravamo abbastanza legate, era l’unica donna che avevo in casa, visto che mia madre non c’era quasi mai, ma non potevo dire di conoscerla bene.
Era molto alta, con un fisico snello e slanciato, merito della madre che sin da piccola l’aveva costretta a fare danza classica, cosa che ormai riusciva a fare molto bene dato che era iscritta in una delle accademie di danza più famose di Los Angeles.
Era una persona amibile quanto simpatica, riusciva a coccolarti e a farti star bene ed a tuo agio sempre.
Aveva due grandi occhi color cioccolato e due labbra troppo chiare, sembrava quasi sempre pallida ma era colpa delle sue origini svizzere che le davano quel colorito chiaro.

La mia mente si dilatò e mi rivenne in mente quel momento sulla spiaggia, quando Jared mi disse che sapeva dove abitavo grazie a Shannon: ora non era difficile capire.
Nemmeno Jared lo sapeva, visto e considerata la sua faccia prima che io entrassi nella stanza.

“Quindi tu e Sophie eravate in casa e per questo lei non sentiva che la chiamavo..”, dissi in un sospiro.
“No, non proprio. Ho sentito la macchina di Jared e Sophie ti ha vista entrare. Sono uscito dalla porta di servizio senza farmi vedere e lasciando Sophie in camera sua mentre si sistemava. Quando tu sei entrata io ero già andato via. Non è colpa mia, credimi Mary. Non vorrei che te la prendessi con me..”, disse abbassando gli occhi color nocciola.
“ Shannon, quel che è successo non è colpa tua.. E’ solo colpa di mio padre, anzi, di mia madre. Lei ci ha lasciati, ha lasciato mio padre, ha lasciato me. Non ci vuole più, è semplice.. Ovviamente questa storia ha fatto impazzire mio padre, facendogli fare gesti assurdi..”, dissi mettendomi le mani in mezzo ai capelli e tirandoli indietro.
“Sei sicura Mary? Non vorrei che Jared me ne volesse male..”, mi sussurrò sporgendosi sul tavolo.
“ Ma certo Shan.”
Provai a fargli un sorriso ma una fitta di dolore allo stomaco lo tramutò in una smorfia di dolore. Shannon si avvicinò e mi abbracciò.
“Avrai fame.”, mi disse accarezzandomi una guancia.
“Sì, può darsi.. Non mangio dall’altro ieri..”, dissi sospirando.
Jared si girò e mi lanciò un’occhiata lancinante.
Mi mise davanti un piatto con dentro una torre di pancake ricoperti di cioccolato. Ad occhio e croce dovevano contenere metà del mio fabbisogno giornaliero di calorie.

Feci una faccia schifata.
Si accorse subito della mia espressione e mi si appostò davanti.
“Devi mangiare. Non ci sono discussioni.”
Gli rivolsi uno sguardo minaccioso e ricambiò tirandomi fuori la lingua.
Feci per prendere un boccone ma un conato di vomito si impadronì della mia trachea.
Corsi disperata al bagno con Jared che mi veniva dietro. 

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto. ***


Vomitai acqua e qualsiasi succo gastrico avessi nello stomaco, ora era completamente vuoto. Ero bianca come un lenzuolo, mi girava la testa e tremavo.
Forse era stato l’odore, forse era stato il dolore di quella maledetta sera, forse era colpa di quel demone che da troppo tempo si era impossessato del mio corpo.
Da un due anni o poco più, questo demone infestava le mie giornate: mi lasciava così, in sospeso, tra il morso della fame e la paura di scomparire.
La colazione, il pranzo, la cena, erano momenti tragici per me: mi toccava prendere il cibo, metterlo in bocca e masticarlo lentamente.
Ero sempre l’ultima a cominciare e l’ultima a finire, non ingoiavo più di tre bocconi ed il resto del cibo rimaneva sul piatto.
Nessuno si preoccupava di quello che mangiavo o non mangiavo, erano troppo presi nei loro fottuti pensieri per vedere che quel poco cibo che mangiavo il minuto dopo finiva giù per lo scarico.
Il mio peso diminuiva di settimana in settimana, di mese in mese, ero arrivata a 39 kili e il grasso sul mio corpo era praticamente inesistente. Il mio viso era scarno, solcato dalle occhiaie che contornavano i miei occhi verdi, con gli zigomi troppo spigolosi, il naso piccolo e le labbra sottili.
Le mie braccia erano ossa ricoperte da un filo di pelle chiara, mentre il mio seno era quasi inesistente. Le gambe, pallidi e sottili, erano lunghe e slanciate, mentre le ginocchia, ricoperte di cicatrici ormai invisibili, erano solo ossa.

Ero anoressica? Ero bulimica? Non è facile spiegarlo, ero me stessa.
Jared mi prese la mano e mi guardò con uno sguardo inquisitorio.
“Che cosa c’è?”, mi disse inginocchiandosi mentre con una mano mi toglieva i capelli appiccicati dalla fronte. “Temo che tu debba dirmi qualcosa.”
Mi girai dall’altro lato, ero in condizioni pessime e non volevo che mi vedesse così. Che stupida, mi aveva vista conciata anche peggio. Mi alzai in piedi con fatica e mi diressi al lavandino, dove vi immersi la testa.
L’acqua fredda era un toccasana per il mio corpo febbrile, la fronte scottava e non capivo quel che mi succedeva. Dovevo raccontare tutto a Jared, non era giusto nascondergli ancora questi pezzi della mia vita, non dopo tutto quello che stava facendo per me. Mi adagiai a terra, strisciando per le mattonelle azzurre del bagno, e mi raggomitolai come un gatto.
Jared mi guardava stranito, non capiva quel che mi stava succedendo e nemmeno io.
Si avvicinò cauto e appoggiò la testa alle mie ginocchia.
“ Da quanto va avanti questa storia?”, sussurrò.
Abbassai lo sguardo verso di lui.
“Da due anni.”, risposi in un soffio.
“ Perché? Non cercare scuse, dimmi la verità. Dimmi perché non vuoi mangiare, dimmi perché vomiti qualsiasi cosa.”
“ Perché il mio stomaco non è abituato. Non mangio mai, e se lo faccio vomito. Non è colpa mia, è questione di abitudine. “
“Questione di abitudine?! -, gridò alzando gli occhi azzurri come il ghiaccio verso di me. – Mary, tu sei malata. Hai un disturbo psichico grave, e tu parli di abitudine?!”
Nessuno si era mai preoccupato così di me. Mi aveva appena dato della malata, eppure provavo un senso di calore nel petto, un senso di pace, e questo solo perché lui si preoccupava per me, si occupava di me. Sin da piccola, avevo fatto tutto da sola: mi svegliavo da sola, mi preparavo da sola, facevo colazione da sola e l’autista di mio padre mi accompagnava; Il pomeriggio tornavo a casa e studiavo da sola.
Non avevo nessuno svago se non l’unica cosa che mi rendeva felice: la musica. Stare in giardino, sola, nell’angolo più buio, con i miei dischi era la cosa più bella del mondo.
La solitudine era sempre stata il mio forte, anche perché quando ero con gli altri non ero molto di compagnia.
Ricordo che una sera fui invitata in spiaggia per la notte di San Lorenzo a vedere le stelle cadenti, a passare il tempo fra qualche spinello e qualche bottiglia di birra, a stare sulla sabbia fredda e fare il bagno a mezzanotte; Accettai ma passai la sera sul mio telo con il naso all’insù, ad ammirare la volta celeste e la via lattea che si confondeva nella distesa plumbea del cielo. Immaginavo cosa ci potesse essere oltre quello spazio infinito di stelle e satelliti, immaginavo come sarebbe potuto essere abitare su altri pianeti.
A scuola la mia materia preferita era Geografia Astronomica, avevo il voto più alto della classe, dicevano che sarei dovuta diventare un’astronauta: non era una cattiva idea.

Abbandonai l’idea dei viaggi nello spazio solo per colpa dei miei sogni: una notte sognai di essere sulla Tour Eiffel, da sola;
Questa si muoveva freneticamente, voleva buttarmi di sotto, ed io ad ogni movimento facevo sempre un passo indietro, fino a quando non caddi di spalle.
Fui talmente tormentata da quel sogno che per un paio di mesi non misi piede nell’attico di casa mia.

“Mary.. a cosa stai pensando? -, disse Jared, intromettendosi nei miei pensieri- Io ti stavo parlando seriamente.”
“ Sì, scusami. Dicevi?!”
“ Ma va..- imprecò aiutandomi ad alzarmi.- Ora mangi. E non fare storie.”
Mi lasciai trascinare in cucina dove c’erano ancora i pancake che aspettavano ancora di essere mangiati.
“ Possiamo metterci lo sciroppo d’acero sopra, o qualsiasi altra cosa tu voglia..”, disse cercando negli sportelli.
“C’è già il cioccolato, basta così.”, dissi sfoggiando un sorriso di sfida.
Non finii di dirlo che mi venne addosso e mi prese la testa fra le mani.
“Tu. Devi. Mangiare.”, disse mentre alternava ogni parola con un bacio.
“ Se mi riprendi così non toccherò più cibo per il resto della mia vita.”, scherzai.
Mi lanciò un’occhiataccia e mi costrinse a mangiare tutto fino all’ultima briciola.
Sorrideva di tanto in tanto e mi guardava con quegli occhi blu. Mi soffermai a guardare il suo viso in ogni dettaglio, in ogni imperfezione che non faceva altro che aumentare la sua bellezza. Aveva gli occhi azzurri, forse un po’ piccolini, ma erano profondi come l’oceano. Il naso, piccolo e aggraziato, era perfettamente in armonia con gli zigomi pieni e le labbra sottili;
A fare da contorno i suoi capelli, lunghi fino alle spalle, biondo chiaro sulle punte e più scuri verso la radice.
La sua bellezza non era calcolata, non era ricercata, era così e basta.

“ Hai finito di analizzare ogni punto del mio viso?”, disse sorridendomi e leggendomi nel pensiero.
“ Ehm, scusami.”, dissi imbarazzata.
Allungò le mani sul tavolo e prese le mie: le strinse forte e mi sorrise di nuovo.
“Devo dirti una cosa..”
“Mmmhh.. Giornata di rivelazioni, oggi?”
“ Più o meno..- disse abbassando gli occhi.- Io ti conosco da un bel po’, Mary.”
Feci per aprire bocca ma posò l’indice sulle mie labbra impedendomi di parlare.
“ Ti conosco esattamente da quando Shannon sta con Sophie.”
Spalancai gli occhi e la bocca, quindi lui sapeva che Shannon stava con Sophie ma non s’era degnato di dirmelo. Sentii montare la rabbia dentro di me.
“ No, non è come pensi. Io non sapevo che lui e Sophie stavano insieme. L’ho saputo stamattina, come te; Due anni fa lo accompagnai lì, a casa tua. Mi disse che aveva un compagno di classe e che dovevano vedersi. Naturalmente mi disse una cazzata, ma lì per lì non gli diedi nemmeno peso perché ti avevo vista in giardino: eri così, piccola e bella come ora, e da quel momento iniziai a fare qualsiasi cosa per poterti vedere. Io ero nella tua scuola, nel tuo stesso corso, solo che tu non te ne sei mai accorta. Hai sempre avuto la testa fra le nuvole, Mary. L’opportunità di incontrarti l’ho avuta solo quest’anno, quando ti ho vista al bancone del locale. Ti ho cercata in mezzo a tante, ho cercato il tuo sguardo in quello degli altri, ma non ho mai trovato la schiettezza e la semplicità che ti caratterizzano. Per me sei unica.”
Una lacrima mi scese dal viso e mi ritrovai a buttarne giù altre cento.  Forse non ero così sola.

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove ***


Le settimane passarono fra qualche lacrima e qualche abbraccio. Era bello passare il tempo con Constance , che mi insegnava i rudimenti della fotografia e qualche volta mi lasciava usare la sua Yashica, con Shannon che voleva a tutti i costi insegnarmi a suonare la batteria e soprattutto era bello stare con Jared, che faceva di tutto per farmi felice.
Aiutavo in casa, facevo quello che potevo, quando Constance era al lavoro preparavo da mangiare e rifacevo i letti, inoltre con il mio stipendio potevo aiutare anche economicamente, sebbene Jared non me lo permettesse.
Per la prima volta in vita mia mi sentivo in famiglia, mi sentivo amata e coccolata, potevo parlare liberamente e soprattutto qualcuno che mi ascoltava quando avevo voglia di parlare.

La sorpresa più bella fu quando Sophie venne a trovarmi, approfittando della cosa per conoscere gli ambienti di Shannon, e mi raccontò di come andavano le cose a casa mia. Mi disse che mia madre se n’era andata di casa, aveva finalmente avuto il coraggio di dire tutta la verità a mio padre, non senza aver dilapidato il suo patrimonio prima, ed era andata a vivere in una casa che lui stesso possedeva nel New Hampshire, posto che a me piaceva un sacco per i numerosi boschi e per le meravigliose cascate che conteneva.
Mio padre, invece, in questo periodo era fuori per lavoro e l’ultima volta che l’aveva visto era a casa sul divano della cucina con una bottiglia di whisky in mano e i vestiti mezzi strappati; Non mi disse che anche lei aveva paura di quell’uomo che aveva visto la sua fortuna dissolversi, di quell’uomo che si era lasciato andare, abbandonandosi a se stesso, di quell’uomo che era invecchiato di vent’anni in poche settimane.
Tutto questo lo lessi nei suoi occhi, dal suo sguardo che si lasciava leggere come un libro aperto.

Mi si strinse il cuore a sentire parlare così di mio padre, quel padre che quando ero piccola mi trattava di principessa, proprio come aveva sempre trattato quella donna che diceva di amarlo, quella donna che era interessata solo ai suoi soldi e per incastrarlo rimase incinta.
La nonna me lo diceva sempre, lei l’aveva capito sin da quando l’aveva conosciuta, lei aveva capito che tipo di persona era, mi diceva sempre: “Quella donna porterà via la ragione a mio figlio”, e così è stato.

Chissà ora dov’è, chissà con chi è.
Chissà se mi ha mai amato, chissà cosa ha provato mettendomi al mondo, chissà se anche solo per un minuto ha visto in me la sua creatura, chissà se anche solo per un secondo è riuscita ad amarmi.
La risposta, purtroppo, mi era arrivata solo tramite mio padre e quello che mi aveva fatto: quella donna non avrebbe mai amato nessuno se non la sua danza.

E’ brutto sapere che la creatura che ti ha messo al mondo in realtà è solo una donna squallida, sebbene sia bellissima, che non pensa ad altro se non ai soldi, ai vestiti, ai parrucchieri, e ai gran galà ai quali amava tanto andare.
Anche io avrei voluto una madre come Constance, anche io avrei voluto mia madre al mio fianco nelle recite a scuola, anche io l’avrei voluta accanto nelle prime cadute in bicicletta, anche io avrei voluto essere medicata e coccolata, anche io avrei voluto sentirmi normale per una volta.
Alla mancanza di una figura materna, come se non bastasse, si aggiungeva anche la mancanza di una figura paterna da, più o meno, quando avevo dieci anni.
Ricordo che un giorno mi portò al planetario, il posto più bello che io avessi  mai visto, e ci passammo un intero giorno. Era bello stare, letteralmente, con la testa fra le nuvole, con tutti quei pianeti ad un palmo dal naso e quelle stelle che brillavano.
Le stelle mi affascinavano sempre, tanto che per il mio nono compleanno mio padre mi aveva comprato un telescopio che mi permetteva di ammirarle quando mi andava. L’avevo posizionato in terrazza, nell’angolo più buio, da dove potevo ammirare la volta celeste puntellata di stelle e immaginare di trovarmi lì in mezzo, come un’astronauta.  Forse questo fu l’ultimo regalo che mi fece.

Qualche giorno dopo la visita di Sophie mi lasciai convincere da Jared ad andare a casa mia  a prendere un po’ di roba, idea che effettivamente non era del tutto  pessima visto che giravo per casa con la roba della madre, ma ovviamente a patto che lui mi accompagnasse.
Entrai nella mia stanza dove sembrava si fosse fermato il tempo: il letto era disfatto, con le lenzuola viola piegate su se stesse, il cuscino stropicciato e la finestra semichiusa. Il silenzio più assoluto vi regnava dentro e la luce soffusa del sole metteva in risalto ombre  e dettagli che non avevo mai notato. Presi in fretta qualche maglietta, qualche paio di jeans e degli short, dei libri e i miei dischi, che amavo così tanto. Stavo per uscire dalla camera quando qualcosa di molto importante attirò la mia attenzione: il mio pianoforte a coda, bianco, aspettava lì sotto lo strato impercettibile della polvere e sembrava mi chiamasse.
A passi lenti mi avvicinai a lui e ne accarezzai i tasti lisci, lasciando una scia più scura sulla polvere trasparente.
Fui immediatamente attratta dall’energia che sprigionava quel pianoforte e non potei fare a meno di sedermi. Iniziai a pigiare i tasti con le dita e la melodia che ne uscì fuori fu meravigliosa. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da quel suono.

Quando li aprii trovai Jared di fronte a me, appoggiato al piano, con gli occhi lucidi. 
Non appena si accorse che lo stavo guardando alzò lo sguardo verso di me e mi sorrise.

“Sei brava.”, mi disse.
“ Me la cavo.”, risposi alzandomi.
“ Potresti insegnarmi.”, disse avvicinandosi.
“ Certo, dipende da cosa avrò in cambio.”
Mi prese la mano e se l’avvicinò alla guancia.
“ T’insegnerò la batteria, io.”
Gli rivolsi uno sguardo torvo.
“ Tu non sai suonare la batteria.”
Sorrise maliziosamente.
“ Lo so.”, disse alzando un sopracciglio.
Si avvicinò alle mie labbra ed iniziò a baciarmi lentamente, delineando il contorno delle mie labbra con la lingua, poi con più foga, mordendomele.
La sua  mano accarezzava la mia schiena, tracciando cerchi invisibili che mi provocavano mille brividi. Con l’altra accarezzava i miei capelli e se li rigirava fra le dita, mentre il suo sguardo ardeva dietro quelle pupille grigie.
Mi lasciai andare a quella stretta ma un rumore, seguito da una voce, interruppe quel momento, catapultandoci sulla Terra.
“ C’è qualcuno? “, gridavano dal piano di sotto.
Scesi le scale lentamente finché  non mi imbattei in un tizio totalmente sconosciuto, vestito di tutto punto, con le mani tagliuzzate che lasciavano colare sangue.
Lo guardai preoccupata.
“Chi è lei?”, dissi sconcertata.
“ Lei è Mary?”, rispose lui.
Annuii senza capire.
“ Tuo padre ha avuto un incidente.”



NdA. Ok, dovrei scusarmi perchè è da tanto che non aggiorno e bla bla bla, però cazzo, la sottoscritta è diventata maggiorenne quindi è giustificata ù_ù A parte le cazzate, questo capitolo l'avevo già scritto ma il motherfucker del mio computer s'è resettato da solo, facendomi perdere tutti gli scritti che avevo, oltre alla musica e alle foto dei Mars (erano più di 3mila), fra i quali c'era anche la storia che avevo iniziato a scrivere per un concorso. Questo è un pò diverso da come l'avevo scritto ed è anche molto, molto breve, ma scusate volevo aggiornare visto che sicuramente in questi giorni sarò al mare e non potrò farlo.
Anyway, spero che vi sia piaciuto nonostante non ci sia nessun colpo di scena, io stessa l'ho definito "liscio" ._.
E' stato partorito grazie a tutto l'album "30 Seconds To Mars", che messo a random, mi ha permesso di scrivere 'sta schifezza.
Vi saluto, un bacio e alla prossima.
Recensite in tanti, mi raccomando, mica vi mangio. Mi piace leggere le vostre recensioni, anzi, ne accetto pure di negative.
Alla prossima,
Vale.
P.s. devo dirvelo: c'ho Jared Leto formato gigante in camera mia nelle vesti di testimonial per Hugo Boss- Just Different! ù_ù
Goodbye <3

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci. ***


Uscimmo di corsa dalla casa mentre una tempesta si stava per scatenare su di noi. Il cielo plumbeo lasciava andare mille goccioline che annebbiavano la vista e che al contatto con la terra emanavano un profumo inebriante.
I lampioni accanto erano già accesi ,sebbene fossero solo le quattro del pomeriggio, ed emanavano luce fioca ed evanescente.
Tutto d’intorno c’era il silenzio più totale, rotto da diverse sirene che sembravano quelle di un’ambulanza. Jared mi teneva per mano ed era all’erta, mentre il signore che ci aveva avvisato prima correva davanti a noi. Io non riuscivo a correre, avevo le gambe pietrificate, volevo urlare ma le mie corde vocali non si decidevano a fare il loro lavoro.  
Girammo l’angolo e una visione apocalittica si presentò davanti ai miei occhi: la Bmw di mio padre aveva le sembianze di una grande lattina di coca cola accartocciata su se stessa e buttata su un falò, come in una notte d’estate.
Il fuoco stava inghiottendo la macchina di mio padre come se fosse una semplice caramella, mentre pompieri e dottori aiutavano l’uomo che c’era dentro, mio padre.

I dottori ci misero un po’ prima di prendere il corpo che sembrava più piccolo e rattrappito di quanto lo fosse veramente, lo caricarono in barella e non mi diedero nemmeno il tempo per avvicinarmi e guardarlo negli occhi.
Il signore mi prese per mano e mi accompagnò in auto per andare in ospedale, ma non volli salire: avevo paura di questo sconosciuto, non sapevo chi era, anche se il suo atteggiamento era molto amorevole e premuroso, quindi preferii comunque andare con Jared.
Arrivammo alla villa e salimmo in auto, dirigendoci in ospedale. Arrivammo in pochi minuti e mio padre era già in sala operatoria.

Chiesi ai dottori quale fosse la situazione in cui versava mio padre, ma a parte sguardi addolorati e tristi non seppero dirmi niente di confortante. Mi accasciai sulla sedia della sala d’aspetto con Jared accanto che mi accarezzava i capelli, mormorandomi parole dolci per farmi tranquillizzare, ed in un attimo mi addormentai profondamente. Fu una delle dormite più belle e rilassanti che potessi fare, stranamente. Mi svegliai tre ore dopo, con Jared con la testa appoggiata al muro e gli occhi chiusi.
Mi mossi un po’ e lui li aprì.
“Stai bene?”, mi disse in un soffio.
“Non sono io che devo star bene.- dissi debolmente- Non sai nulla?”
Scosse la testa.
“Vado io a chiedere allora.”
Mi alzai e mi diressi lentamente verso la sala medici, cercando il dottore. Bussai e nessuno mi rispose. Entrai piano e non c’era nessuno dentro.  Feci per uscire ma un infermiere da un aspetto piuttosto preoccupato entrò.
“Cosa ci fa lei qui?”, mi disse cercando qualcosa dentro l’armadietto.
“ Stavo cercando un dottore.”, dissi guardandolo. Il suo viso era familiare, era come se lo conoscessi, aveva dei lineamenti conosciuti e mi ricordava qualcuno.
“ Beh, è nel posto giusto allora. Siamo in un ospedale.”
Feci una smorfia alla pessima battuta del ragazzo e lo guardai implorante.
“Io devo sapere come sta mio padre.”
Si giro, lasciando incompleta la sua ricerca, e mi guardò.
Lo scrutai ancora per bene e mi accorsi che la forma degli occhi ricordava quella di mio padre, che le stesse labbra erano simili alle sue.
“ Chi è suo padre?”, mi chiese inclinando la testa.
“ Adam, il signor Adam.”
Spalancò gli occhi.
“Stai scherzando?”
Lo guardai interdetta senza capire.
“ No.”
“ Vieni di là con me.”
Mi prese per mano e mi portò fino all’anticamera della sala operatoria. Si sentivano diverse voci e diversi rumori, fra cui i vari beep delle macchine.  Non mi accorsi però che, accanto alla sala operatoria, c’era anche un’altra sala: il cartello appeso in alto recitava “Sala Rianimazione.” La stanza era chiusa da due pareti di vetro e al suo interno un solo letto al centro.
Il corpo di mio padre era collocato su quel letto con attorno milioni di macchine mediche, che a loro volta erano attaccate al corpo di mio padre.
I beep si facevano sempre più insistenti.
Un dottore ci venne dietro.
“ Lei è la signorina Adam, giusto?”
Annuii.
“Mi scusi se non l’abbiamo avvertita prima, ma non sapevamo che lei fosse la figlia. Sarò sincero con lei, è molto giovane e penso che la verità venga prima di tutto. Suo padre ha riportato diverse ustioni di terzo grado sull’ottanta percento della superficie del corpo, come se non bastasse ha diversi tagli sulle gambe e uno molto grave alla caviglia sinistra. Ha le costole rotte, un polmone perforato, e cosa che ci preoccupa di più, un grave trauma cranico. Signorina Adam, suo padre è in coma e nelle condizioni in cui è, temiamo sia difficile che si svegli.”
Il mondo mi crollò addosso e sentii mancarmi. Il cuore prese a battere forte e le tempie a pulsare violentemente. Le gambe mi tremavano e le mani erano fuori controllo.
Mio padre, quello che mi aveva cresciuto, che mi aveva tanto amata, ma che mi aveva anche fatto tanto male, era destinato a morire.

Dov’è Dio? Il Dio in cui tanto la nonna credeva, dov’è ora?
La nonna. Ecco chi manca. Devo chiamare la nonna.
Ancora intontita e con la testa piena di parole vaghe chiesi al dottore se avessi potuto usare il telefono per avvisarla.
Mi accompagnò in una stanza bianca, vuota, asettica, e composi il numero.

Il telefono squillava pigramente.
Picchiettavo con le unghie sulla cornetta.
“Pronto!”, disse la voce squillante della nonna.
“Nonna.”, dissi in mezzo al pianto.
“Bambina mia, cos’è successo? Stai bene?”
“Io si, ma papà no, nonna. Siamo in ospedale, devi venire.”
“ Ehi, ehi piccola. Tranquilla. Arrivo subito.”
La nonna era una persona meravigliosa, non perdeva mai la determinazione e la calma.
Era la persona più forte che io avessi mai conosciuto,  anche se ne aveva passate tante, anche se aveva sofferto tanto. Mio nonno era morto quando lei aveva solo quarantatre anni e aveva cresciuto mio padre da sola, senza l’aiuto di nessuno, facendolo studiare e dandogli un futuro dignitoso.
Non si era mai piegata dinnanzi alle disgrazie, credeva che tutto quello che succede è il frutto delle nostre azioni e le uniche persone con cui possiamo avercela, siamo noi stessi.

Posai la cornetta e  mi diressi verso Jared.
Non appena mi vide si alzò in piedi e mi abbracciò.

“Mio padre sta per morire.”, dissi fra le lacrime.
Mi strinse ancora più forte al suo petto e mi accarezzava i capelli.
“ Andrà tutto bene, andrà tutto bene.”, mormorò.
Il ragazzo con cui avevo parlato prima era di fronte a me e mi guardava con occhi sbarrati.
Cercava qualcosa nel mio sguardo, ma non sapevo ancora cosa.

NdA: Allora, vi piace come sta procedendo la storia? Spero di si.
Chi sarà questo nuovo ragazzo? Avete suggerimenti?
Ci tenevo a dirvi, comunque, che ho intrapreso un nuovo progetto chiamato "Letters for You", lasciatemi un commentino anche lì :)
Alla prossima, un bacione.
La vostra Vale.

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici. ***


Il tempo passò sotto lo sguardo indiscreto dei vari pazienti che abitavano l’ospedale, dimenticandosi del mondo esterno ed affidando la loro vita solo e soltanto ai medici.
La nonna tardava ad arrivare ed io ero caduta in uno sconforto totale.
Jared mi teneva la mano e ogni tanto mi rivolgeva un  sorriso. Non diceva nulla, aveva paura di turbarmi, se ne stava in silenzio a guardarmi; Non che fosse una cosa negativa, anzi, io avevo bisogno di riflettere e cercarmi dentro qualche risposta, lui mi trasmetteva amore e fiducia anche così, standosene zitto, per evitare di farmi male.
Ma Jared non mi avrebbe mai potuto far male, sarei stata io a ferirlo, a farlo soffrire.
Mi alzai pigramente dalla sedia e mi diressi alla macchinetta del caffè, avevo bisogno di un espresso bello forte.
“Che palle.”, mormorai.
La cara macchinetta mi aveva fregato i soldi e non mi aveva dato il mio caffè. Sbuffai infastidita.
Una voce mi distrasse dal mio litigio con quell’affare.
“Tieni.”, disse il ragazzo porgendomi una tazza fumante.
“Grazie- sussurrai avvicinandola alle labbra e prendendone un sorso.- Ahi, mi sono quasi bruciata. E’ molto caldo.. e poi sa di..limone?”
“E’ the al limone.”, disse sorridendomi.
“Owh, giusto. Era da tanto che non ne bevevo uno così buono.”, dissi ricambiando il sorriso.
“ Io sono Josh, comunque.”, disse avvicinandomi la mano.
“Io Mary.”
Annuì silenzioso. Mi guardo negli occhi e mi parve di vedere me stessa.
“Tu mi ricordi qualcuno.”, dissi confusa.
“Può darsi.”, mi sorrise di nuovo.
Quel sorriso, come un fulmine a ciel sereno.
Avevo sei anni, ero piccola ed indifesa, ero in vacanza con papà e mia madre in Italia, in una piccola cittadina nell’estremo sud della Sicilia. Il mare cristallino si distendeva ai nostri piedi, confondendo il suo colore con quello del cielo, tanto da non riuscire a distinguere la linea dell’orizzonte.
La sabbia bianca faceva da contorno a quel meraviglioso paradiso troppo spesso sottovalutato e qualche uccello si posava sugli scogli al largo.
Trotterellando mi dirigevo verso il bagnasciuga, ma qualcosa va storto e finisco con la faccia dritta nella sabbia bagnata che mi impedisce di respirare.
Qualcuno mi prende le mani  e mi aiuta ad alzarmi.
“Ehi, piccolina, stai bene?”, mi dice un ragazzino dagli occhioni verdi e limpidi.
Mio padre si avvicina correndo.
“Mary, Mary. Stai bene?”, mi dice ansimante.
Abbraccio la gamba di mio padre, mi ci nascondo dietro. Faccio capolino e lui mi sorride con la testa chinata.
" Tranquillo, sta bene", dice.
I ricordi non sono molto nitidi ma non è difficile immaginare che quel sorriso che ora ho davanti è lo stesso di tredici anni fa’.
“Tu sei il bambino della spiaggia..”, dico ad occhi sbarrati.
“Si, e anche quello di Disneyland Paris, del Grand Canyon e di mille altri posti.”
“Cosa stai dicendo? Io non ricordo di essere stata in quei posti.”
“ Lo so, eri troppo piccola. Ma io ero accanto a te, anche se tu non lo ricordi. Ho anche delle foto, da qualche parte nel mio appartamento.” , dice con calma.
“Ma.. tu chi sei?”
“ Vieni con me, ne parliamo con calma.”, mi disse prendendomi per mano e trascinandomi nella sala medici in cui l’avevo incontrato per la prima volta, mentre Jared ci osservava curioso da lontano.
Mi lasciai trascinare e mi abbandonai nella sedia vicino ad un tavolo con sopra un vassoio con una teiera.
La osservai.
Su di essa potevo vedere il riflesso del mio viso,  smunto e scarno, con due occhiaie da fare invidia ad un panda.
“ Vuoi?”, disse versandosi una tazza di the.
Scossi la testa.
“E’ ancora pieno.”, dissi indicando la mia.
“ Quindi, dicevo. Io sono Josh e ho ventinove anni, esattamente dieci in più di te. Faccio tirocinio qui, diventerò un chirurgo.”
Quindi non faceva l’infermiere.
Annuii sbattendo le palpebre.
“Ok. Ora voglio sapere perché tu dici di conoscermi.”, dissi scandendo a malapena le parole.
“Perché io e te abbiamo passato l’infanzia quasi assieme. Perché io e te abbiamo passato tutte le estati insieme, fino a che tu non hai compiuto dieci anni. Perché io sono figlio illegittimo di tuo padre.”
Rimasi sconvolta. Era come se una cascata di ghiaccio mi fosse caduta sulla schiena.
“Stai scherzando?!”, stavolta fui io a dirlo.
Si limitò a scuotere la testa.
Manca qualche pezzo in questo puzzle, e sono sicura che questo pezzo sono io.

NdA: buonsalve lettori e lettrici :) Allora, alcune di voi c'hanno azzeccato: Josh è il fratello di Mary. Ma come andrà avanti la storia? Come si svolgerà? Vedremo il prossimo capitolo.
Un bacione e recensite in tanti!
Vale.

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici. ***


Quel pomeriggio fu decisamente il più strano della mia vita: non avevo mai provato così tante sensazioni contemporaneamente,  così tante emozioni. Inoltre, non avevo mai ritrovato un fratello.
“ Scusa la domanda indiscreta.. - gli chiesi abbassando gli occhi- Ma tua madre chi è? Come ha conosciuto papà?”
Mi sorrise cordiale con le labbra piene, il naso perfetto arricciato e gli occhi grandi e verdi come i miei. Mi somigliava molto, visto da vicino.
Era alto, molto alto, ed esile. Ventinove anni portati benissimo, il viso rilassato e tranquillo, le mani grandi e da uomo. Portava un camice bianco che sfilava ancora di più la sua figura e metteva in risalto il corpo asciutto. Se non fosse stato mio fratello avrei detto pure che era un bel ragazzo.
“ Mia madre era la sua segretaria prima che tu nascessi. Hanno avuto una storia per un paio d’anni finchè papà non ha conosciuto tua madre ed ha lasciato la mia, senza sapere che era incinta. Lei non voleva cercarlo, non voleva i suoi soldi e così non gli disse che aveva suo figlio in grembo. Papà lo venne a sapere per caso, solo perché si incontrarono un giorno in banca. Presero un caffè insieme ed alla fine lei gli disse che il bambino era suo. Lui non aveva dubbi, mia madre non ha mai amato altri uomini quanto lui.”, disse abbassando gli occhi.
Mi venne un nodo alla gola, pensando che mio madre aveva passato la sua vita con mio padre senza amore, senza meritarsi nulla, mentre quella donna aveva passato la sua vita da sola pur amando solo mio padre. E’ una cosa alquanto frustrante, sapere che la persona che ami sta con una persona che non lo ama, che ama solo i suoi soldi e il suo successo.
“ Quindi papà l’ha mantenuta in tutti questi anni?”, chiesi versandomi un bicchiere d’acqua.
“ In pratica sì. L’ha sempre portata con lui ovunque, e sono certo che il loro rapporto non si sia limitato a questo: penso piuttosto che abbiano avuto qualcos’altro, che abbiano una specie di relazione, sebbene tuo padre sia ancora innamorato perso di tua madre.”
Feci spallucce. Non avevo mai notato comportamenti strani di papà, ma la cosa mi faceva stare bene, dato che mia madre lo tradiva, almeno lui aveva un po’ di compagnia, se così si poteva chiamare.
Bussarono alla porta, interrompendo la nostra discussione.
“ C’è qualcuno che ti cerca..”, disse Jared facendo capolino dalla porta.
Mi alzai in fretta e uscii dalla stanza. La nonna era là, che parlava con Shannon e Constance.
“Hey, nonna!”, quasi gridai.
“Marie..”, sussurrò.
Andai da lei e la strinsi forte. Il suo profumo di gelsomino mi penetrò fino al cuore,  dandogli la forza di battere più forte. I suoi occhi, verdi che davano sul marrone, erano illuminati da una gioia sincera. Era contenta di vedermi, sebbene in situazioni avverse, e anche io.
“ Come stai nonna?”, dissi staccandomi dall’abbraccio e accarezzandole uno zigomo.
“ Non male.. – disse sorridendo debolmente- Tuo padre?”
Si vedeva che era preoccupata, aveva quella ruga che le solcava la fronte corrugata, proprio in mezzo, che le compariva quando qualcosa non andava. Le mani le tremavano un po’ e il suo sguardo vagava irrequieto da una parte all’altra della stanza.
“ Papà è qui..”
La accompagnai nel corridoio da cui era possibile vedere papà e lei si appoggiò mestamente al vetro. Papà era ancora là, immobile, con la testa fasciata e le flebo che fluivano nelle sue vene. Sembrava che dormisse, chissà cosa stava facendo invece.
“ Mi hanno detto che più tardi possiamo entrare, ma solo io e te..”, le dissi fissando ancora papà.
Annuì.
Non potevo sapere cosa la nonna stava passando, non potevo sapere cosa significasse vedere il proprio figlio costretto a vivere tramite delle macchine. Il dolore, non sapevo come lo stesse provando, e la paura che le stringeva cuore e stomaco, non la conoscevo. Era suo figlio, il sangue del suo sangue, l’unica traccia che restava del suo eterno amore.
“ Hai già conosciuto Jared e la sua famiglia?”, le dissi per cambiare discorso.
“ Si tesoro, che ragazzo è. Mi ha parlato di tutto quel che è successo in queste settimane, mi ha parlato del fatto che sei stata da lui a casa. Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai chiamata? Sai che per te io ci sono sempre.”, rispose stringendomi la mano con tutte e dieci le dita.
“Non volevo darti preoccupazioni nonna, non nella situazione in cui sei. Non volevo darti un dispiacere e un dolore forte come quello che ho provato io. Non volevo che provassi le mie stesse emozioni, le mie stesse sensazioni. E’ stata dura nonna, davvero. Avevo persino paura, la notte. Però è papà..”
Mi abbracciò e soffocai le mie lacrime nel suo golfino rosso di cotone. Mi strinse forte a lei e mi trasmise tanta gioia, tanto amore. Significava tanto per me lei, era tutto quel che mi rimaneva oltre Jared e la sua famiglia, che ormai era diventata la mia.
Un lampo poi attraversò la mia mente: la nonna sapeva di Josh?
“ Nonna, siediti. – dissi staccandomi improvvisamente ed indicandole la sedia.- C’è una cosa che vorrei chiederti..”
Piegò la testa di lato come ad incitarmi e mi sedetti accanto a lei.
“ Tu conosci Josh?”
Nonna si limitò a scuotere la testa e a guardarmi incuriosita. Le raccontai la storia velocemente, parlando di fretta e lasciando andare le parole come un fiume in piena, mentre osservavo le sue emozioni, manifeste nel suo viso e soprattutto nei suoi occhi: erano limpidi e lucidi.
 “ Tu conosci Josh?”
Nonna si limitò a scuotere la testa e a guardarmi incuriosita. Le raccontai la storia velocemente, parlando di fretta e lasciando andare le parole come un fiume in piena, mentre osservavo le sue emozioni, manifeste nel suo viso e soprattutto nei suoi occhi.
“Quindi io ho un altro nipote?”, disse quasi scandendo le parole.
Annuii debolmente e la lasciai sola sulla sedia, scomparendo nel corridoio. Tornai dopo qualche minuto, con Josh per mano che protestava visto che non gli avevo detto nulla.
Non appena lo vide spalanco occhi e bocca per la sorpresa e si alzò, quasi spiritata, dirigendosi verso di lui. Io, sorridendo, tenevo ancora Josh per un braccio.
“Oh. Mio. Dio. – scandì- Tu sei uguale a tuo padre.”
Rimase ancora a guardarlo per un’altra manciata di minuti e poi prese a frugare nella borsa. Scovò il portafogli ed estrasse una foto.
“ Ecco- gli disse porgendogli la foto e guardandolo negli occhi- guarda.”
Josh prese in mano la foto e spalancò gli occhi: l’uomo della foto aveva gli stessi occhi, della stessa grandezza e della stessa brillantezza. Il naso, sottile e all’insù, faceva da contorno a delle labbra un po’ pronunciate. I capelli, di un colore incerto che andava dal bronzo all’oro, erano un po’ scompigliati e le orecchie si notavano a malapena sotto quei ciuffi di capelli.
Più che padre e figlio, potevano sembrare gemelli.
“ Oh..”, sussurrò lui sorpreso.
Rivolse poi uno sguardo alla nonna e lei, avvicinandolo, lo accolse fra le sue braccia, dove lui riuscì ad entrare solo piegandosi.
Ero felice di averle fatto questa sorpresa, ero felice del fatto che per un minuto, uno solo, la nonna avesse lasciato i suoi problemi alle spalle.

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredici. ***


Il pomeriggio passò tranquillo fra qualche chiacchiera con la nonna e con il mio ritrovato fratello. Jared mi guardava da lontano, sorridente, sapevo che avrei dovuto dedicare anche a lui un po’ di tempo non appena la situazione si sarebbe sistemata, sapevo di dovergli tanto.
Eravamo solo noi, avevo al mio fianco solo le persone che veramente volevo, le persone che veramente amavo. Speravo per papà, pregavo per papà, sebbene io abbia sempre deriso le persone che si rivolgevano ad un Dio inesistente, sebbene io le abbia sempre reputate deboli.
Nonna mi teneva la mano, mi sorrideva ma le si vedeva negli occhi che voleva sapere,  poi si decise a parlare.
“Voglio vedere tuo padre.”, mormorò.
Annuii e la presi per mano, dirigendomi verso il medico. Lo guardai e gli sorrisi.
“Ce lo faccia vedere.. Solo noi, ho bisogno di vederlo.”
“Va bene- acconsentì ricambiando il sorriso- ma non fatelo affaticare troppo.. Potrebbe peggiorare.”
La nonna avvicinò il viso un po’ di più a quello del medico.
“ Mi guardi negli occhi e mi dica sinceramente: mio figlio ce la farà?”
Il dottore sospirò e abbassò gli occhi, stringendo con due dita un lembo del suo camice.
“ Se passa questa notte è fuori pericolo, altrimenti credo che ogni speranza sia inutile.”, disse mordendosi un labbro.
Nonna si limitò ad annuire.
Entrammo nella stanza che sapeva di medicinali e disinfettante e ci sedemmo accanto a lui. La nonna prese la mano di papà fra le sue.
“ Tesoro mio, come stai?- sussurrò.- Sai, mi sei mancato. Mi sei mancato tanto. Cosa hai fatto? Cosa hai fatto in tutto questo tempo, sei felice? Vorrei tanto che lo fossi, amore mio, vorrei tanto darti tutto quello di cui ti hanno privato. Vorrei tanto premere rewind in questo film che è la tua vita, vorrei tanto che tutto andasse come vuoi. “
Una lacrima scivolò dai suoi occhi, finendo sulla mano di papà. Abbassò gli occhi e poi posò la sua testa vicino a quella mano, quella mano tanto fredda che sapeva di morte. Pietrificata, non sapevo cosa fare.
“Papà- sussurrai- ne abbiamo passate tante. Ho già dimenticato quel che hai fatto, ho messo di lato il dolore e recuperato l’amore. Non eri tu, quella sera. Non eri tu, a fare quelle cose. Papà, ti hanno rubato la vita.”
“Ti hanno rubato la vita..”, ripeté nonna, sussurrando.
Papà non si muoveva, non si decideva a muoversi, non si decideva a svegliarsi da quello stato di torpore.
“ Cazzo svegliati papà!”, gridai fra le lacrime.
Nonna mi prese fra le braccia, cullandomi. I singhiozzi erano così forti che non sentimmo i beep accelerati della macchina collegata al cuore di papà. I beep iniziarono a ripetersi velocemente, facendoci allarmare.
“Un medico! Abbiamo bisogno di un medico!”, gridava la nonna.
Nella stanza si catapultò Josh seguito dal medico con cui avevo parlato prima, con dietro un  esercito di altri medici.
Il medico dava ordini agli altri gridando, ma non capivo nulla e soprattutto non volevo capire. Mio fratello guardava impietrito e non riusciva a fare niente.
“ Defibrillatore!!”, urlò il medico.
Appoggiarono le piastre al torace di papà che schizzò in un salto, per poi ributtarsi sul letto. Fecero un paio di tentativi, poi un beep fisso.
Il medico abbassò la mascherina, grattandosi la nuca. Si avvicinò a Josh e lo strinse in un abbraccio.
“ Perché non fate niente?!- gridava la nonna- Perché non lo aiutate?”
Il medico scosse la testa, poi avvicinandosi a me, mi poggiò la mano su una spalla.
“ Mi dispiace.”, sussurrò, per poi uscire subito dalla stanza.
La nonna gridava, si smaniava, tremava e piangeva, senza sosta, senza esitazioni, buttava via il dolore come un vulcano fa con la sua lava incandescente, si aggirava per la stanza, moriva anche lei, piano piano, dentro.
Io, dalla mia parte, non riuscivo a fermarla, non riuscivo a dire niente, ma il mio cuore, che ormai aveva ripreso a battere, s’era fermato nello stesso momento in cui quello di papà l’aveva fatto. Fuori dalla stanza c’erano Jared e Shannon, impietriti, che non sapevano cosa fare per cambiare la situazione, il corso delle cose, ma d’altronde era impossibile, chi mai avrebbe potuto cambiare le cose? Papà era morto e niente e nessuno poteva riportarmelo indietro.
Nonostante tutto, nonostante il disinteresse e l’egoismo, nonostante l’indifferenza e la violenza, quello era mio padre, la persona che più amavo al mondo così tanto quanto il mio cervello mi diceva di odiarlo.
Ma in realtà, era tutta colpa sua? Non era affatto colpa sua, era colpa di quella puttana, di quella donna che aveva preso il suo cuore e l’aveva buttato nel cesso, era colpa di quella stronza che si imbottiva di psicofarmaci per restare tranquilla e se ne sbatteva il cazzo della figlia, del marito o di chicchessia.
Uscii dalla stanza, distrutta e con il mondo sulle spalle, e Jared mi abbracciò, piangendo. Per quanto Jared soffrisse a causa del padre, non lo aveva mai fatto veramente grazie alla madre: una donna forte, che gli aveva permesso di essere felice nonostante tutto, nonostante niente andasse bene; Per me, purtroppo, non era la stessa cosa dato che io NON avevo una madre, dato che la mia era morta, almeno così avrei voluto..
Volevo farle provare tutto quello che ha provato papà, vorrei che andasse all’inferno una buona volta e ci rimanesse per il resto della vita.
Non mi accorsi del fatto che le gambe mi stavano cedendo ed io mi stavo lentamente accasciando sul pavimento fino a che non mi ritrovai Josh ad un palmo dal viso con un bicchier d’acqua. Mi prese in braccio e mi portò in una stanza vuota, dove mi fece stirare su di un lettino. Mi raggomitolai dentro le coperte, con la testa sotto il cuscino, standomene lì per non so quanto tempo e addormentandomi distrutta.
Morfeo mi rapì e mi portò in un mondo parallelo, un mondo dove non potevo vedere e parlare, un mondo buio e silenzioso, un mondo che somigliava tanto alla mia personalità, un mondo inaccessibile.
Ad un tratto una luce, un tocco, dei passi.

Mi girai verso la luce.
Mia madre mi venne incontro. Sostenni il suo sguardo pieno d’odio.

Mi sorrise.
E’ sporca di sangue, ha un vestito bianco lungo fino alle caviglie con delle chiazze rossastre, i piedi nudi e pallidi.
“ Ti trascinerò con me.”, disse ridendo sguaiata.
Cacciai fuori un urlo disumano, aprii gli occhi sentendomi scuotere.
“ MARY!”
Josh era qui davanti a me, mi osservava spaventato.
Avevo il viso bagnato e la maglietta appiccicata al corpo.
“Stai bene?”, disse porgendomi dell’acqua.
“ Non credo.”, risposi fra le lacrime.
Mi abbracciò, stringendomi più forte che poteva, tenendomi la testa nell’incavo del suo collo.
Come la sera precendente, mille pensieri attanagliarono la mia mente.
Papà, la nonna, Jared, Josh, il funerale, mia madre.
E questo sogno, questo maledetto sogno che mi aveva stravolta.
Fui costretta a vestirmi bene, controvoglia, per il funerale.
La chiesa, fredda e ostile, raccoglieva più di un centinaio di persone, e faceva quasi paura con tutte quelle statue e quei crocifissi. Un vento violento sbatteva le fronde degli alberi sui vetri, provocando un rumore tetro e degli ululati ad intervalli regolari.
La bara, al centro della chiesa, sembrava tanto un trofeo.
Le panche erano rispettivamente occupate da parenti, amici, familiari e conoscenti, ma pochi erano quelli che conoscevo davvero. Alla mia destra avevo Jared mentre a sinistra la nonna seguita da Josh, che aveva abbandonato il suo camice per far spazio ad una camicia nera e a dei jeans.
Tutto era così strano, tutto era così sconosciuto. Non avevo mai visto un funerale così da vicino, forse perché non avevo rapporti con i miei familiari, e questo era il primo a cui assistivo, sebbene avrei preferito cominciare con qualcun altro che non fosse mio padre.
La messa fu lunga e straziante, anche perché non mi ero ancora resa conto del fatto che papà se n’era andato veramente e soprattutto per sempre, non mi capacitavo del fatto che papà era morto.
Uscendo dalla chiesa, un fragore quasi disumano ruppe il silenzio, scatenando su di noi un funesto temporale che fece scappare quasi tutti i presenti, lasciandoci in pochi mentre andavamo verso il cimitero.
Fradici e bagnati, accompagnammo papà nella sua casa eterna, nella casa in cui sarei andata a vivere molto non molto tempo dopo.

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici. ***


Erano già passate due settimane da quando papà ci aveva lasciati, e tutto scorreva lento, come un fiume in estate che fa fatica ad arrivare alla sua foce. L’inverno buio era arrivato in tutto il suo grigiore e aveva portato con sé pioggia e nuvole, nascondendo la luce del sole per settimane e settimane.
La nonna era di nuovo partita per il Mississippi e Josh invece aveva preso casa insieme alla sua ragazza, che ebbi modo di conoscere qualche giorno dopo il funerale di papà.
Passavo i giorni a casa, con Jared, a studiare per l’università o a dare una mano in casa, visto che non me la sentivo di andare a lavoro; Beth stessa mi aveva promesso che il posto sarebbe tornato mio, nel caso avessi cambiato idea.

Molto spesso in casa io e Jared rimanevamo soli, e allora ci sdraiavamo sul letto e ci guardavamo negli occhi.
Mi piaceva guardarlo, mi piaceva esaminare ogni centimetro della sua pelle, mi piaceva baciare le sue labbra rosa e vederlo sorridere con quei denti bianchissimi.
L’assenza di papà pulsava dentro di me, era un vuoto incolmabile, però volevo essere felice, volevo combinare qualcosa di buono nella mia vita, ed ero sicura che Jared ne doveva far parte.

Un mercoledì pomeriggio, fra i tuoni e i lampi, eravamo accucciati in salotto, davanti al camino, con dei libri in mano. Stavamo leggendo, eravamo tutti e due immersi nei nostri pensieri, quando la voce di Jared interruppe la mia lettura.
“Mary, tu mi ami?”, disse con voce incerta.
Alzai il viso dal libro e mi girai a guardarlo. Lui, di rimando, fissava le fiamme scoppiettare nel camino con occhi vuoti, e giocava con le frange del tappeto su cui eravamo distesi.
“Che domanda è ?”, dissi sorridendo.
“ Una domanda.”, si girò verso di me. Posò il libro e si avvicinò a me, lento, sinuoso, felino.
I suoi occhi brillavano alla luce di quel lampo che aveva appena rotto il cielo.
Si avvicinò al mio collo, tanto da sfiorarlo con la punta del suo naso perfetto, sospirando.
Le sue mani, un po’ ruvide e con qualche callo a causa della sua passione per la chitarra, mi sfiorarono una guancia, per poi percorrere il collo, il braccio, fino ad arrivare alla mia mano;
Intrecciò le mie dita alle sue, con amore e dedizione, e con delicatezza la poggiò sul suo cuore: lo sentivo pulsare, battere forte, sotto la sua pelle calda. Mi guardava negli occhi, sincero.

Mi avvicinai a lui e lo baciai.
Le sue labbra, avide, accolsero le mie e si incastrarono perfettamente, come due metà pronte a diventare un’unica cosa sola. La mia mano libera accarezzava i suoi capelli biondi e lunghi, liberandone il profumo di vaniglia.

Non mi accorsi che ero sotto di lui, non mi accorsi che mi stava accarezzando dolcemente, inesorabilmente ogni centimetro del mio corpo, non mi accorsi che il mio cuore batteva all’impazzata mentre lui mi sfiorava i seni. Chiusi gli occhi, lasciandomi andare, per una volta.
L a MIA prima volta. Si, questa era la mia prima volta.
Volevo mettere da parte tutto quello che era successo con papà, mi convincevo sempre più del fatto che tutto era frutto della mia mente, che tutto era un incubo da cui mi ero svegliata, coraggiosa.
Non era facile non pensare a quello che avevo subito, non era facile far finta di nulla, ma chissà quale forza, chissà quale fenomeno naturale mi aiutò a dimenticare, a convincermi del fatto che questa, e solo questa, era la mia prima volta.
Jared sospirava al mio orecchio, baciandolo, sorridendo.
Lo aiutai a togliere la maglietta: la sua pelle abbronzata era calda sotto il tocco delle mie dita, bruciava. Era tutto così irreale, così perfetto,  che non sembrava vero. Mi stringeva forte a lui, sorrideva guardandomi negli occhi, mi baciava con passione.
“ Io ti amo, Mary.”, mi disse all’orecchio.
Sentii mille brividi spandersi per il mio corpo, sentii il cuore aumentare il suo ritmo e un senso di vuoto allo stomaco. Non riuscii a dire niente, strinsi Jared ancora di più a me e imprigionai il suo profumo per ricordarlo, per ricordare tutto questo.
Jared mi amava, era questo l’importante.

“Anche io, Jared.”, sussurrai in preda all’eccitazione.
Le sue mani intrecciarono le mie e chiusi gli occhi, volevo godermi questo momento senza pensieri. Mi ritrovai qualche ora dopo nel suo letto, totalmente avvinghiata a lui che mi guardava con occhi lucidi e mi accarezzava i capelli.
“ Buongiorno bella addormentata.”, mi disse spostando una ciocca di capelli che era finita davanti all’occhio destro.
“Oh, ho dormito tanto?!”, dissi stiracchiandomi i piedi, pigramente.
“ Sono le undici.” Mi sussurrò baciandomi dietro l’orecchio.
Spalancai gli occhi.
“Le undici?! Cazzo.”
“Avevi qualcosa da fare?”, piegò la testa.
Scossi lentamente il capo.
“ Allora va bene così.”
Mi abbracciò forte, accarezzandomi la schiena con le dita e tracciando cerchi invisibili sulla pelle pallida, mentre io non facevo altro che lasciarmi baciare, lasciarmi amare.
Quel momento era perfetto, niente e nessuno avrebbe potuto turbarlo.
“ Ti amo, Jared. Ti amo seriamente, come non ho mai amato nessuno in vita mia. Sei l’unica persona che io stimi veramente, l’unica in grado di rendermi felice e l’unica che mi stia vicino. Sei veramente importante Jared, io non saprei come avrei fatto se non ci fossi stato tu..”, dissi ad occhi bassi.
Sorrise dolcemente e con un dito raccolse la lacrima che stava cadendo dal mio occhio.
“ Per me è lo stesso, Mary. Mi rendi felice, mi fai stare bene, mi piace starti accanto e farti sorridere. Sei tutto quello che ho cercato da una vita e finalmente ti ho trovata. Non voglio perderti, piccola Mary.”
Avevo trovato il mio Buddha, il Buddha che avevo sempre cercato. Quel Buddha che riusciva a trasmettermi tanta forza, tanta calma e tanta energia. Quel Buddha che mi esortava a combattere, che mi esortava a cercare di più. Jared era il mio Buddha.
“ Tu sei il mio Buddha.”, dissi regalandogli un bacio.
“ Il tuo Buddha? -rispose divertito.- Ma il Buddha è grosso, cioè, ha i rotolini nella pancia. Io no!”, disse toccandosi la pancia liscia scavata dagli addominali.
“ Ma non in quel senso!- risi- Il Buddha è colui che trasmette forza e benessere, e tu per me sei così.”
“Mmh.. Allora tu per me sei come la torta di mia madre: quando sto male mangio quella e tutto passa.”
Lo guardai male.
“ Una torta..Mmh, bel paragone.”, dissi facendo la finta imbronciata.
Scoppiammo a ridere entrambi, giocando nel letto, facendoci il solletico e dimenticando tutti quei fantasmi che ci avevano tormentato in quei mesi. Io e Jared eravamo insieme, stavamo insieme, e questo mi bastava ad essere speranzosa per il mio futuro..
Inutile dire che mi sbagliavo.

NdA_ Salve a tutti :) Ogni tanto mi faccio viva anche io u_u Come stiamo? Allora, come vi pare la storia? Piano piano stiamo arrivando alla fine, come ve l'aspettate? 
Settimana prossima inizia la scuola e credo che non sarò più così puntuale ad aggiornare T-T Volevo anche dirvi che sono stata promossa agli esami di riparazione, quindi Clap Clap per me ù_ù
Vabè, a parte le cazzate, fatemi sapere come la pensate. Un bacione, e grazie a tutti quelli che leggono ma anche, e soprattutto, a chi recensisce. 
E' solo grazie a voi se ho la forza di continuare.
Vi voglio bene, nonostante non vi conosca. 
Un bacio, 
vostra Vale.

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindici. ***


“Domani è il grande giorno.”, dissi a Jared sorridente.
Annuì ricambiando il sorriso.
Era la fine dell’inverno, la primavera era alle porte e Jared aveva finalmente trovato il suo finanziatore per mettere in scena “Crying Joy”,  quel film che aveva scritto con tanta fatica e dedizione. Ero felice per lui, ero felice perché finalmente avrebbe coronato uno dei suoi più grandi sogni ed ero felice perché potevo vivere il suo buonumore standogli accanto, dandogli forza e amore. Mi ero finalmente decisa a tornare a lavoro, ma Jared mi aveva convinta a non andare proprio grazie a questo film: d’altronde, il merito era solo mio.
Qualche settimana prima, infatti, avevo incontrato il Signor Duff, uno degli amici più stretti di mio padre, e gli avevo parlato di questo progetto, dicendogli che la persona in questione aveva un talento incomparabile nel campo e soprattutto dicendogli che anche io ero implicata nel progetto, cosa che lo convinse definitivamente ad investire. Non appena Jared seppe quello che avevo fatto, si mise a piangere: fu abbastanza commovente vederlo piangere così, fra le mie braccia, con quegli occhi un po’ arrossati e i capelli arruffati.
Da quel momento in poi non aveva fatto altro che sistemare e risistemare dialoghi, scenografie e quant’altro prima di reclutare gli attori.

Era abbastanza esigente come persona, voleva persone serie e soprattutto con una seria passione per la recitazione;
Aveva già scartato centro trenta persone ed il finanziatore era abbastanza nervoso, perché oltre ad essere una perdita di tempo era pure una perdita di denaro, visto che si rallentava il ciclo della produzione.

“ Questo sembra che vada bene.”, bisbigliò Duff nell’orecchio a Jared.
Scosse la testa violentemente.
“Guarda come si muove. E’ rigido, nervoso. Non va bene.”, rispose seccamente.
Il signor Duff sbuffò spazientito.
“ Cazzo Jared, non possiamo continuare così! E’ da una settimana che facciamo audizioni!”, gridò nervoso.
Jared rimase pietrificato, non voleva che gli si dicesse cosa fare, tantomeno per il suo film. Si alzò dalla sedia in cui era seduto e, rivolgendosi all’attore:
“ Può andare, basta così. Per oggi abbiamo finito.”
Si girò dall’altra parte e uscì dal teatro, arrabbiato e deluso.
Io ero fuori con Beth a prendere un caffè quando si avvicinò.
“ Andiamo a casa.”, disse semplicemente.
Aveva il viso stanco, le occhiaie evidenti lo facevano somigliare tanto ad un panda e il suo sguardo era spento. Non l’avevo mai visto così, nemmeno nei momenti più difficili.
Dopo aver salutato Beth salimmo in macchina, dirigendoci verso casa mia, che ormai abitavamo insieme da qualche settimana. Per tutto il tragitto non proferì parola, era come se in macchina fosse solo lui, io non esistevo. Sospirai, un po’ infastidita dalla situazione.
La mia casa, ormai vuota, ospitava me e lui. Sophie se n’era andata dopo la morte di papà e aveva preso un piccolo appartamento vicino casa di Jared che si pagava con il suo lavoro da assistente in un centro estetico, quindi la casa era totalmente affidata a noi due.
Da quando papà era morto l’avevamo modificata un po’, avevamo  cambiato qualche mobile, avevamo rifatto la cucina e la camera da letto. Il nostro soggiorno era stato invaso da una miriade di dischi quarantacinque giri e avevamo comprato un grosso stereo di ultima generazione, visto che entrambi andavamo pazzi per la musica.
Entrata a casa mi buttai sul divano rosso di pelle del salotto e chiusi gli occhi, mentre lui girovagava per la stanza.

Mi girava la testa.
“Jared, ti fermi?”, dissi gentilmente.
Si fermò improvvisamente e si girò verso di me.
“Contenta?!”, disse sarcastico.
Annuii.
Non avevo voglia di litigare con lui, non stavo benissimo. Avevo una strana nausea e delle fitte alla pancia, seguite da forti conati di vomito. Mi girava la testa e molto spesso avevo sbalzi di pressione così violenti da costringermi a stare incollata al divano per non cadere.
“ Senti Jared, non mi va che fai così. Dimmi cos’è successo e facciamola finita.”
Uno scatto d’ira gli fece perdere il controllo e cominciò a gridare.
“ Cos’è successo? Mi chiedi cos’è successo? Non ne va una bene, Mary. Non riusciamo a trovare un fottuto attore e Duff si lamenta perché sono troppo esigente, perché tutti quelli che si presentano non sono all’altezza,  ‘ manco dovessi prendere un premio oscar’, ha detto. Sono incazzato, incazzato nero perché non posso gestire il mio lavoro come voglio io e devo accontentarmi di attori mediocri per un film a cui tengo tantissimo e per il quale ho rinunciato tanto. Ecco cos’è successo.”
Stavo per rispondere ma la nausea era più forte di tutto. Corsi al bagno e mi accasciai sul pavimento con la testa ancora appoggiata al coperchio del water. Jared mi era corso dietro ma non era servito a nulla, stava sullo stipite della porta a guardare stranito.
“ Non mi dire che hai mangiato e stai vomitando tutto.”, disse severo.
Scossi la testa.
“ No assolutamente, anzi, in questo periodo mangio molto volentieri e anche tanto, solo che forse qualcuno troppo preso da qualcosa non se n’è accorto. Non so perché, ultimamente ho degli strani malori.”
“Vabè.”, uscì dalla stanza e tornò in cucina.
Rimasi in bagno e un altro conato di vomito mi assalì.
Cazzo, non di nuovo. Mi infilai la testa sott’acqua cercando di capire cosa mi stava succedendo quando un lampo attraversò la mia mente.
“CAZZO!” gridai tra me e me.
Mi misi le mani sul viso ripensando all’ultima volta che avevo avuto il ciclo.
Il vuoto. Non ricordavo nulla, un bel nulla.
Corsi di sotto, in cerca di un calendario. L’ultimo ciclo che avevo avuto risaliva al 26 febbraio.
Ed oggi era il 21 aprile. 
Un velo invisibile sbarrò i miei occhi.
“ Sto uscendo.”, gridai a Jared.
Non ebbi risposta.
Presi le chiavi dell’auto e mi diressi alla farmacia più vicina. Scesi, ancora trafelata, dall’auto e un farmacista basso e tarchiato, dall’aria abbastanza saccente, mi chiese di cosa avevo bisogno.
Ancora incerta sul da farsi, lo guardai per qualche minuto. Lui inclinò la testa.
Alla fine mi decisi.

“Un test di gravidanza, per favore.. Anzi, due.”
Mi diede tutto, pagai, tornai in macchina.
Mi tremavano le mani, avevo fame.
Feci marcia indietro e mi diressi a casa. Rientrai, Jared dormiva sul divano.
Mi avvicinai a lui, gli diedi un bacio.

Mi precipitai su per il bagno e feci il primo test. Mi appoggiai alla parete, aspettando l’esito.
“Linea blu, incinta. Nessuna linea, non incinta.”, mi dissi in mente.
Mi alzai, camminando per la stanza: non ce la facevo ad aspettare. Era passato un minuto?
Guardai fuori dalla finestra: bagliori violacei coprivano il cielo pomeridiano. Le colline di Beverly Hills erano popolate, come al solito, e dalla casa di fianco veniva uno strano odore.
Un altro conato di vomito che cercai di contenere.
Mi diressi verso la mensola dove avevo posato il test, e con gli occhi chiusi per la paura me lo misi in mano.
Aprii gli occhi.
“ Linea blu…”, sussurrai, mettendomi le mani sul viso.

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedici. ***


“Linea blu..linea blu..linea blu..- continuavo a ripetermi- Sono incinta.. Sì.”
Scossi la testa, parlando fra me e me.

“Devo fare l’altro test.”, mi dissi.
Ma il risultato fu uguale al primo. Bene.
Mi diressi in cucina, buttai i test, nascondendoli per bene, e chiamai Josh.
“Pronto?”, la voce allegra di mio fratello mi rallegrò.
“ Josh, sono Mary. Dobbiamo vederci.”,dissi tutto d’un fiato.
“ E’ successo qualcosa?”, intervenne preoccupato.
“ Si.. cioè no.. Vabè, dobbiamo parlare. Vieni qui?”
“ Certo, arrivo.”
Riattaccò. Mio fratello avrebbe saputo dirmi qualcosa di più, visto che studiava medicina. Il mio umore era qualcosa di indecifrabile, avevo fame ma ero nervosa e se mangiavo rischiavo di vomitare di nuovo, più di quanto avevo già fatto. La situazione con Jared era un po’ strana, dovevo dirgli che aspettavo un bambino? Che aspettavo il suo bambino?
Decisi che era meglio non dire nulla a Jared,  volevo esserne sicura prima di parlargliene.
Aprii il frigo e presi una tavoletta di cioccolato. Diedi un morso, la buttai in preda ad un rigurgito violento.
“Al diavolo, mi fa schifo pure la cioccolata.”, sussurrai.
Mi guardai l’addome piatto: mi era sempre sembrato così piatto e sterile, così inospitale, che mi ero convinta del fatto di non essere fertile. Che strano, ora invece ero incinta. Accarezzai con le mani la mia pelle liscia e bianca, immaginai la piccola creaturina dentro.
“ Che stai facendo?”
Jared entrò nella stanza, e anche nei miei pensieri,  sorprendendomi così, con le mani poggiate sulla pancia e lo sguardo sognante.
“Mh, nulla.”, dissi girandomi verso il lavandino.
Poggiai le mani sull’acciaio freddo, feci forza. Se lo avessi guardato negli occhi avrebbe capito che gli nascondevo qualcosa.
Si avvicinò e mi strinse un braccio, costringendomi a guardarlo.
“Cosa diamine sta succedendo?”, disse inquisitorio. I suoi occhi mi congelarono.
“ Non c’è nulla.”, dissi sviando lo sguardo.
“ MARY DEVI DIRMI COSA C’E’!”
Ancora una volta rimasi bloccata. L’unica cosa che riuscivo a vedere era la sua mano stringere forte il mio braccio, lasciandolo arrossato.
Lo guardai negli occhi, sprezzante.
“Sono incinta, Jared! ”
Lasciò di colpo il braccio e mi guardò fisso negli occhi. Abbassò il capo, lo prese tra le mani.
“Scherzi?”
“ NO!”
Rimase nella stessa posizione per non so quanto tempo, poi si appoggiò al tavolo incrociando i piedi.
“ Ne sei sicura?”, disse poi, calmandosi.
Scossi la testa lentamente.
“ Ho chiamato Josh, lui dovrebbe saperne di più.”
Annuì debolmente.
In un attimo il campanello suonò. Mi precipitai alla porta.
“ Mary! - mio fratello mi gettò le braccia al collo- Come stai tesoro?”
Sorrisi.
“ Beh, credo bene. Andiamo di là.”
Andammo in salotto e ci sedemmo nel mio amato divano, mentre un disco dei Nirvana suonava come sottofondo.
“ Allora, che mi racconti?”, chiesi stringendogli la mano.
“ Beh, mancano pochi mesi e finisco il tirocinio finalmente. Avrò un posto tutto mio, sarò un vero medico e avrò uno stipendio dignitoso, almeno questo. Io e Carly abbiamo finito di arredare la nostra casa e siamo molto contenti, finalmente possiamo realizzare il nostro sogno.”
Sorrise dolcemente.
“ Sono contenta, veramente.. - dissi stringendogli la mano ancora di più- Senti.. Devo dirti una cosa. Cioè, più che altro ho bisogno della tua preparazione medica anche se è da imbecilli dubitarne ancora..”
Piegò la testa di lato e mi guardò con curiosità con un mezzo sorriso.
“ Dimmi..”, disse cordialmente.
“ Ho un ritardo di quasi due mesi..”, dissi incerta.
“ Wow..- disse sommessamente- Hai strani malori, tipo capogiri e roba simile?”
Annuii lentamente.
“ Oggi ho vomitato due volte, poco fa sentivo degli odori entrare per la finestra e avevo lo stimolo e..- dissi dispiaciuta- non riesco nemmeno a mangiare la cioccolata.”
“Mmhh.. Hai fatto il test?”
Annuii di nuovo.
“ L’ho fatto due volte..”
Fece una risata.
“ E allora che problema c’è? Sei incinta”, disse tutto contento.
“ Si ma, dico.. E’ proprio sicuro che sono incinta?Cioè, devo fare un’ecografia o roba del genere?”
“ Che sei incinta è sicuro al 99% in quanto calcola un ormone che si ha soltanto quando si è in gravidanza. Se vuoi esserne sicura al 100% domani vieni in ospedale e ti faccio fare un’ecografia.”
Rabbrividii.
“Dai, non c’è nulla di cui spaventarsi- mi disse, tranquillizzandomi- Anzi, è una cosa splendida. Diventerò zio.”
Era contento, lui.
Ed io? Ero contenta?
Si alzò e mi abbracciò.
“Ora devo andare- disse staccandosi dall’abbraccio- Ma ci vediamo domani tanto, no? Vieni intorno alle nove, dovrei essere libero.”
“ Va bene Josh, a domani.”
Lo accompagnai alla porta e, dopo avergli dato un bacio sulla guancia, mi ributtai sul divano. La gravidanza non era poi una cosa tanto negativa, io amavo Jared e il bambino imminente era solo un bene. Immaginavo il bambino come lui, con i suoi stessi occhi e le sue stesse espressioni, escludendo qualsiasi mia somiglianza.
“ Se deve nascere, questo bambino deve essere la sua copia.”, pensai.
Lo squillo del telefono mi spaventò.
“ Pronto?”
“ Hey, Mary! Sono Duff, c’è Jared?”, disse la voce nella cornetta.
“Te lo chiamo subito.”
Lasciai il telefono in attesa sul tavolino del soggiorno e andai a chiamare Jared al piano di sopra.
“ Ti vogliono al telefono. - dissi ancora arrabbiata- Vai di sotto.”

Mi guardò interdetto e scese le scale velocemente. Mi buttai sul letto.
Possibile che non riuscivo a stare nemmeno alzata?
Chiusi gli occhi e abbracciai il cuscino di Jared. Mi lasciai andare al sonno fin quando non lo sentii mettersi a letto, sfiorandomi appena la pancia.
Rimasi con gli occhi chiusi, ma ero sicura che stesse piangendo.
Si girò dall’altro lato e si addormentò.
La mattina dopo, di buon’ora, mi alzai e cercai di preparare la colazione. Non fu facile cucinare uova e pancetta, così mi accontentai di qualche toast e un bicchiere di latte. Jared mi guardava dall’altro lato del tavolo.
“Che ti ha detto poi Josh?”, chiese fingendosi disinteressato.
“ Che al 99% sono incinta.- risposi acida.- E che devo andare all’ospedale per dei controlli. Sicuramente mi faranno un’ecografia.”
Annuì deciso.
“Bene, ovviamente vengo anch’io.”, disse determinato.
Sbuffai.
“Come vuoi.”
Mi vestii in fretta e furia e, quando scesi, Jared era già pronto che mi aspettava in salotto.
Aveva indossato un paio di pantaloni bianchi di lino e una maglietta scura, converse e rayban.

Era bello da morire.
Repressi l’impulso di baciarlo e uscimmo fuori, salendo in macchina.
La strada non fu tanto lunga ma l’impulso di scendere e vomitare mi si fece presente veramente tante volte, tanto che non feci altro che stare col finestrino aperto e l’aria fredda che mi sferzava il viso.
“ Stai bene?”, chiese tutto d’un tratto Jared.
Annuii.
“Sei di poche parole..”, aggiunse dopo.
“Sono solo in ansia.”, risposi semplicemente.
Arrivammo in ospedale e cercai Josh. Dopo un abbraccio e un caffè ci dirigemmo verso una saletta bianca dove una ragazza dell’età più o meno di Josh ci aspettava sorridente. Aveva due occhi castani così radiosi e un sorriso da fare invidia. Rimasi a bocca aperta quando Josh si avvicinò a lei e la baciò.
“ Lei è Carly.”, disse contento.
Le sorrisi, presentandomi, e le diedi la mano, seguita da Jared.
“Josh mi ha parlato di te.”, disse mentre indossava i guanti.
“ Oh- dissi arrossendo- Per me è un onore.”
Mi girai a guardarlo, era accanto a Jared. Se non fossero stati rispettivamente fratello e fidanzato avrei detto che erano alieni, tanto erano belli.
“ Allora Mary, devi stenderti qua e alzare la maglietta fino al seno.”, sorrise dolcemente.
Feci quanto ordinato e poi mi spalmò un liquido verdastro e viscido sulla pancia. Poi prese la sonda e me la poggiò sopra. Iniziò a spostarla lentamente, poi, d’un tratto, sentimmo dei battiti veloci.
“ Ecco, quello che senti è il battito del bambino- disse mentre spostava ancora la sonda, facendo un po’ di pressione- E’ molto veloce perché il bambino è ancora piccolo.. Ecco, visto?” Ed indicò una sagoma indistinta che somigliava più ad una ranocchia che ad un bambino.
“Oddio..- mormorai.- Ma è piccolissimo!”
“ Non la penserai così fra qualche mese.”, rise.
Jared guardava di lato e aveva gli occhi lucidi.
Mi prese la mano e mi baciò.
Carly si rivolse a lui.
“Quello è tuo figlio.”,disse indicando la mia piccola ranocchia.

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciassette. ***


Uscimmo dalla saletta, dirigendoci verso il bar. Avevo fame, dovevo mangiare qualcosa.
Jared era ancora frastornato, aveva lo sguardo sognante e non parlava molto. Arrivammo al bar e ordinai due caffè.
“ Mary, devo scappare.”, disse Jared rimettendosi gli occhiali da sole.
Lo guardai piegando la testa.
“ Dove devi andare?”
“Dal signor Duff, oggi ci sono gli ultimi provini. Spero solo che ci sia gente qualificata, altrimenti siamo nella merda.”
Annuii lentamente, finendo il mio caffè.
“Ti riaccompagno a casa, dai.”
Salimmo in macchina e le strade erano affollatissime. Eravamo quasi a maggio e il cambio di temperatura si faceva sentire, incollandomi i capelli al collo e rendendo l’aria afosa. Passammo per una strada piena di negozi, piena di gente. Era da tanto che non andavo un po’ in giro, che non compravo qualcosa.
“ Quando finisci andiamo un po’ in giro per negozi?”, chiesi a Jared girandomi verso di lui.
“Certo.”, sorrise.
Arrivammo a casa, con un bacio salutai Jared e mi diressi verso il giardino, nel retro della casa. Avevo voglia di un bell’idromassaggio.
Mi misi il costume e, lentamente, entrai nella vasca accanto alla piscina. L’acqua era calda e accogliente ed un piacevole getto proveniva da una bocchetta dietro la mia schiena. Piegai la testa e mi chiusi gli occhi, godendomi il momento di relax. Con una mano accarezzai la mia pancia e pensai a come potesse stare il mio bambino lì dentro. Insomma, era strana come cosa: al momento era piccolo quindi ci entrava senza problemi, ma quando sarebbe cresciuto? Non ci sarebbe entrato più. Insomma, io ero abbastanza magra, ero magrissima e avevo sempre pensato alla mia pancia come un luogo piccolo e ostile, come un luogo inabitabile e sterile. Invece non era così.
Inoltre, avrei messo molti kili nelle prossime settimane, la cosa non è che mi allettasse così tanto. Beh, sarei andata da un dietologo.
Uscii dalla vasca e mi diressi alla doccia. Tolsi il costume e mi abbandonai al getto dell’acqua tiepida, appoggiando le mani alle piastrelle blu.  Sentii un rumore di sotto.
“ Chi è?”, gridai.
Nessuna risposta.
Presi l’accappatoio e mi avvolsi, avviandomi di sotto.
Jared era seduto sul divano, la testa fra le mani.
“ Jared?”
Alzò il viso.
“Tutto ok?”, gli chiesi ancora.
Annuì.
“ Non è vero. Dimmi cosa c’è, Jared. Parlami. Perché mi vuoi tenere sempre all’oscuro di tutto? In questo periodo sei così strano, sembra pure che non ti interessi che aspettiamo un bambino!”,dissi arrabbiata.
“ Perché non voglio farti preoccupare, perché non voglio metterti paure e non voglio allarmarti. Non si trova un fottuto attore, io  e Duff abbiamo litigato e non vuole più finanziare. Mi ha detto che sono un pazzo perfezionista che non sa quello che vuole. – disse mentre i suoi occhi si coprivano a mano a mano di lacrime.- Sai cosa significa questo? Che non avrò nessun ricavato, che non potrò mantenere il nostro bambino. Non avrò un lavoro. Quando mi hai detto che eri incinta il mio cuore è esploso di gioia, perché io ti amo e voglio avere una vita felice con te, con i nostri bambini. Ma, pensandoci, sono arrivato alla conclusione che abbiamo ancora solo vent’anni ed io non posso mantenere me, te e un bambino piccolo. E’ una grossa responsabilità, è un grosso carico per me. Siamo ancora un po’ troppo immaturi..”
Rimasi a bocca aperta quasi per tutto il suo discorso. Cioè, in pratica mi aveva appena detto che non voleva il bambino. Non che io avessi tutto questo bisogno impellente di diventare madre, ma il gioco ormai era fatto: io ero incinta, lui era il padre. Punto, non c’era una via d’uscita. Ero sempre stata contro l’aborto, lo ritenevo il gesto più crudele che una madre avesse mai potuto fare.
“ Vuoi che abortisca?”, dissi con voce tremante.
Non rispose. Si mise di nuovo la testa fra le mani e pianse.
“ Bene.”
Non ebbi nemmeno la forza di rispondere, non sapevo cosa dirgli.
In realtà di cose da dirgli ne avevo tante: c’era il lavoro di mio padre, sarebbe potuto andare lì. Inoltre io non stavo male economicamente, cioè avevamo arredato casa con i soldi di mio padre, e avevo ancora un bel po’ di soldi in banca, senza contare al ricavato delle aziende di papà.
La cosa che mi fece più male e che trovai ingiustificabile fu quando mi disse: “Siamo immaturi.”

Immaturi, immaturi per avere un bambino. Al diavolo i soldi e il lavoro, la verità era una sola ed era chiara: Jared il bambino non lo voleva. Mi buttai sul letto, pensando a cosa fare.
Non mi andava di rimanere qui, non potevo. Il mio bambino non era accettato ed io non volevo far stare Jared male. Ma cosa potevo fare? Andarmene via? Forse quella era l’idea migliore.

Chiamai la nonna.
“ Nonna, come stai?”, chiesi fingendo una voce tranquilla.
“ Tesoro, sto bene. Tu invece?”, rispose dall’altro capo del telefono, contenta di sentirmi.
“ Bene, bene. Senti, non è che potrei venire a farti visita lì, per un po’?”
“ Certo tesoro, mi farebbe veramente tanto piacere!”
“ Okay, allora il tempo di sistemare un po’ di cose e faccio il biglietto!”, riattaccai.
Feci un grosso respiro. Lasciare Jared, era la cosa giusta?
Jared, che mi aveva sempre aiutata e sostenuta.
Jared, che aveva fatto così tanto per me.
Jared, che mi amava.
Jared, che era una delle poche persone che mi stavano vicino.
Abbandonarlo perché non voleva un bambino, era un motivo abbastanza valido?
Presi la valigia dall’armadio e ci buttai dentro i vestiti. Aprii i cassetti, cercando i documenti e dei soldi. Infilai tutto nella borsa, cercando di pensare il meno possibile. Avevo il cuore che batteva forte e mi tremavano di nuovo le gambe.
Scesi in cucina, di nascosto, e presi qualche biscotto dalla credenza, infilandoli nella borsa.
Risalii in camera da letto, presi carta e penna.
“ Caro Jared, non avrei mai voluto lasciarti. Mai. Sai quanto ti amo e quanto di devo, ma non posso sopportare questa situazione. Hai detto che siamo immaturi, hai detto che non siamo pronti per il nostro bambino; Mi sa che hai tirato le somme troppo velocemente.  Io sono pronta per lui, voglio accudirlo e voglio crescerlo con tutto l’amore del mondo, voglio che si senta amato e desiderato. E non importa se tu non ci sarai, ci sarò io a ricordargli di te. Chissà, magari un giorno tornerò.
Credo che per ora sia la cosa migliore da fare. Mi dispiace lasciarti così, in questo momento così difficile per te. Mi dispiace non poterti stare accanto e sostenerti. Mi dispiace non poterti consolare quando sei giù e mi dispiace non poterti essere accanto quando tutti i giornali parleranno di te. Perché lo faranno, vedrai se lo faranno.
Ti auguro buona fortuna amore mio, ti auguro di realizzare i tuoi sogni e soprattutto spero che prima o poi cambierai idea su di me, sul bambino. Io ti aspetterò, qualunque cosa succeda.
Ti amo, Jared.
Non cercarmi, sarebbe solo una perdita di tempo.
Mary.
P.S. ho trovato l’attore ideale per il film: sei tu, scemo!
Ancora un bacio, Mary.”
Cercai di non scrivere una lettera troppo strappalacrime, non sarebbe servita a nulla se non a rendermi ridicola. Posai la lettera sul mio cuscino e scesi le scale, dirigendomi verso l’autorimessa. Tornai indietro.
Jared dormiva, acciambellato sul divano. Mi avvicinai lentamente e gli sfiorai le labbra con un bacio.
Che cosa patetica.
Sembrava quasi la scena di un film idiota alla tv.
Non era così, invece, questa era la realtà.
Presi la macchina e mi diressi verso il LAX.

Arrivederci, Los Angeles.

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciotto. ***


Un gran sole splendeva su LA, il cielo limpido preannunciava un pomeriggio piacevole fuori di casa, magari in spiaggia a prendere il sole..
E invece no.
Feci la fila per comprare il biglietto, la gente distratta nemmeno si accorse delle lacrime che scendevano dai miei occhi. Mi asciugai col dorso della mano e mi feci avanti, era il mio turno.
“Un biglietto solo andata per Jackson.”, dissi fingendo sicurezza.
“ Documenti, grazie.”
Passarono un paio di minuti, poi la signorina mi consegnò documenti e biglietto.
“Faccia il check-in, apre fra dieci minuti. L’imbarco è previsto per le due. Buon viaggio.”, mi disse cortese.
Presi tutto e mi diressi verso il bar più vicino. L’aeroporto era un continuo brulichio di gente: gente che andava, gente che veniva. Gente che lasciava tutto, gente che ritrovava tutto.
Ed io, io cosa stavo facendo?
Stavo lasciando tutto. La mia vita, i miei interessi, la mia casa, Jared.

Perché lo stavo facendo? Perché avevo preso quel maledetto biglietto?
Perché il bambino, il mio bambino, il nostro bambino, doveva nascere.
Perché quel bambino aveva tutto il diritto di vivere, quel bambino doveva vivere.
Che senso aveva continuare a stare con lui se non accettava ciò che ci legava?
Quasi trascinandomi, mi avviai al check-in.
Uno Stuart dall’aria piuttosto gentile mi invitò a mostrargli i documenti.
“Può darmi un posto vicino al finestrino?”, dissi incurante.
Mi guardò negli occhi per un po’, come imbambolato. Annuì.
Poi mi restituì tutto.
“Faccia un buon viaggio, signorina Mary.”
Sorrisi imbarazzata e mi dileguai verso i controlli. Ora mancava veramente poco.
Avrei lasciato LA dopo una vita.
Sospirai al pensiero di quello che mi aspettava.
Dopo i controlli e qualche minuto d’attesa, ci fecero imbarcare sull’aereo. La gente sembrava felice di partire, chissà perché io non lo ero.
Mi accomodai nel mio posto vicino all’oblo e guardai fuori. Milioni, miliardi di luci fuori mi salutavano. Il cielo, che prima era limpido, si era un po’ oscurato.
“ Ciao, Los Angeles. Ci rivedremo.”, sussurrai appoggiando la mano al finestrino e sfiorandolo.
“Ehm, scusi.”
Mi girai interdetta, guardando chi mi aveva parlato.
“ No, no, mi scusi lei.”, dissi togliendo la borsa che distrattamente avevo posato sul sedile accanto al mio.
Mi girai di nuovo verso il finestrino, distratta, ma poi mi rigirai verso la persona che mi aveva parlato.
Rimasi a bocca aperta.
“Carl?!”
Sorrise divertito e annuì.
“Mary. Stai scappando?”, disse squadrandomi dalla testa ai piedi.
Scossi la testa.
“ Stai scappando.”
Mi presi la testa fra le mani e scoppiai a piangere. Non potevo fargli questo, più me lo ripetevo e più mi rendevo conto che stavo sbagliando, che stavo facendo una cavolata e che questo mio comportamento avrebbe avuto delle ripercussioni, chissà quando e come, ma le avrebbe avute.
Mi abbracciò, silenzioso.
“Carl, io sono incinta.”
Rimase un po’ in silenzio, facendo vagare lo sguardo per tutto l’aereo, poi, quando io mi stavo spazientendo, mi guardò negli occhi.
“Lo so.”, disse finalmente.
“Come lo sai?”, chiesi ancora fra le lacrime che mi entravano in bocca lasciandomi uno strano sapore.
“Si vede.”, disse semplicemente.
“Sono ingrassata?”,chiesi lisciandomi la maglietta sulla pancia.
“No, sciocca. Si nota e basta. Dal tuo atteggiamento, dal tuo modo di muoverti. Non dimenticare che sono un medico da più o meno vent’anni.”
Annuii di rimando.
“E così hai lasciato Jared.”. disse poi, dopo qualche minuto.
“ Non l’ho lasciato perché volevo, te lo giuro. L’ho lasciato perché era l’unica alternativa, l’unico modo. Io questo bambino devo tenerlo, e anche se lui non lo vuole non importa.”
Mi prese la mano e me la strinse. Mi appoggiai sulla sua spalla e chiusi gli occhi, affidandomi a Morfeo.
Qualche ora dopo Carl mi svegliò, sussurrandomi all’orecchio:
“Siamo arrivati.”
Slacciammo le cinture e scendemmo dall’aereo.
Il cielo era totalmente diverso da quello di LA, era cupo e violaceo. Un vento freddo soffiava su di noi e mi buttava i capelli in faccia.
“ Dove vai, ora?”, mi chiese Carl.
“Da mia nonna.”, dissi piano.
“Bene, ti accompagno in taxi.”
Il tragitto fu abbastanza lungo e tortuoso, il traffico era intenso anche se non come lo era nella città degli Angeli. Arrivammo a casa della nonna dopo tre quarti d’ora più o meno e, dopo aver salutato Carl, presi i miei bagagli.
“ Non dire a Jared che sono qui, per favore. Mi farò sentire io con lui.”, dissi infine, chiudendo lo sportello.
Si limitò ad annuire.
La casa della nonna distava un bel po’ dall’aeroporto, era un po’ isolata ed era quasi di fronte al Lefleur’s Bluff State Park. L’ambiente era molto tranquillo ed accogliente, mi piacque subito il fatto che c’era un parco così vicino casa.
Suonai alla grande villa della nonna, non c’ero mai stata. Questo era uno dei suoi posti preferiti, ci veniva sempre d’estate anche se da un paio d’anni si ci era trasferita definitivamente.
Il cancello si aprii improvvisamente e quello che vidi davanti a me fu talmente piacevole quanto emozionante: una distesa infinita di alberi da frutto costeggiavano il giardino, coperto da erbetta alta e fiori, mentre alla mia destra un immenso laghetto con delle oche rubò subito la mia attenzione.  La casa al centro dell’immenso giardino e dalle grandi vetrate si potevano vedere ombre e luci sfumate. Attraversai il vialetto che conduceva alla casa e, ad accogliermi, ci furono un paio di gatti persiani seguiti da ben tre dalmata.

Mi chinai ad accarezzarli uno per uno, erano così dolci, poi mi decisi ad entrare.
“Nonna?” , chiamai incerta.
“Entra pure, Mary.”, gridò da qualche stanza. Aspettai qualche minuto poi entrò.
“Nonna!”, dissi abbracciandola.
“Tesoro!”
Mi strinse per un po’, poi si staccò.
“E Jared?”, chiese cercandolo con lo sguardo.
“Jared non c’è, è a LA.”, dissi abbassando gli occhi.
“E perché mai? Pensavo che venisse anche lui, qui.”
Scossi la testa.
“Jared non sa che sono qua, non deve saperlo.”
La nonna strabuzzò gli occhi, non capendo quello che stava succedendo.
“Nonna io sono scappata. Sono incinta.”
La nonna perse un po’ l’equilibrio e si appoggiò alla sedia.
“Sei… Sei incinta?”, balbettò.
Annuii lentamente.
“Jared non vuole il bambino ed io..io non sapevo cosa fare. Tu sei l’unica persona che mi resta nonna, non lasciarmi da sola..”, dissi scuotendo la testa fra le lacrime.
“Ma che dici piccola, io sono qui.”
Mi strinse nella sua dolce morsa e mi lasciai pervadere dal suo amore, dal suo calore.
Ero convinta che almeno stavolta ce l’avrei fatta.

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannove. ***


**************************** Sei mesi dopo*********************************

26 Ottobre 1991.
Passarono sei mesi esatti dal mio arrivo a Jackson fino al mio ricovero in ospedale. Fino a qualche ora prima ero pigramente sdraiata in giardino a leggere, poi, improvvisamente, mi sentii bagnata.
Abbassai gli occhi, incuriosita. La mia pancia enorme non mi permetteva di vedere nemmeno cosa avevo sotto. Mi alzai pigramente e, puff, avevo il vestito completamente bagnato. La sdraio era completamente bagnata ed io, interdetta, non sapevo cosa fare.
“NONNA! NONNA!”, gridai.
La nonna si precipitò fuori a vedere poi, quando vide com’era la situazione, prese le chiavi dell’auto e chiese a Sam, il domestico, di accompagnarci in ospedale.
Le contrazioni arrivarono così, all’improvviso, come un pugno allo stomaco. Il dolore era lacerante, sentivo che non ce l’avrei fatta a sopravvivere.
“Sala parto, subito!”, ordinò il medico quando arrivammo.
Mi misero in una barella che sembrò più scomoda di un letto di spine, forse per colpa dei calci che il mio piccolo Junior mi dava, forse perché le contrazioni mi stavano distruggendo.
“Avanti, dai, stai per nascere!”, disse il medico accennando alla mia pancia.
Come a rispondergli, mi diede un calcio che mi fece venire un bozzo alla pancia. Sorrisi. Nonostante tutto, se metterlo al mondo significava soffrire, beh, non c’era cosa più bella.
Mi sistemarono nella sala parto, una sala grande e luminosa e piena di tanti macchinari e attrezzi vari.
La nonna era accanto a me, mi teneva la mano.
Qualche istante e un dolore atroce attraversò la mia schiena. Sembrava che me la stessero facendo a pezzi, credevo di sentire il “crack” della mia schiena spezzata da un momento all’altro. E invece così, un quarto d’ora e la mia pancia era vuota e molliccia. La creatura che avevo dentro ora era accanto a me, fra le mie braccia.
Lo guardai intensamente, mi soffermai su ogni minimo particolare.

“Dieci, le dita delle mani sono dieci- dissi guardando la nonna- Mh.. Anche quelle dei piedi, si. E’ perfetto, guardalo.”
Sorrisi tenendogli la manina rosa che era appoggiata sul mio seno.
Aveva i capelli sottili sottili come spaghetti e chiari come il grano, gli occhi di un blu intenso e la pelle profumata.
“Secondo te ha gli occhi di Jared?”, chiesi alla nonna.
“E’ troppo presto per dirlo, tesoro- disse la nonna sorridendo- Lo vedrai fra qualche mese se è così. A proposito di Jared, hai intenzione di dirglielo?”
Rimasi in silenzio per un po’. Avrei dovuto dirglielo, era anche suo figlio d’altronde, però decisi di no lo stesso.
“ No. Hai chiamato Josh?”, dissi cambiando discorso.
Annui.
“ E’ appena arrivato in aeroporto con Carly. Saranno qui da un momento all’altro.”
Ero felice, finalmente. Questi ultimi mesi lontana da tutto mi avevano fatto bene, mi avevano fatta riflettere e soprattutto crescere. Avevo vent’anni ma per le esperienze che avevo vissuto era come se ne avessi avuti trenta.
Il mio bimbo era accucciato sul mio braccio, la piccola testa sulla mia mano. Era bello, bellissimo, più di suo padre se possibile.
Sorrisi.
“ Salve bellezze!”
La voce di mio fratello portò una nuova luce dentro quella camera.
Venne a stringermi, seguito a ruota da Carly, poi lasciò perdere me per dedicarsi al piccolo.
“ E così ti chiami Junior, Jared Junior.- diceva annuendo- E sei bellissimo, proprio come tua madre.”
Risi.
“Anche come il padre.”, aggiunsi.
“Giusto, giusto. Quando hai intenzione di dirglielo?”, chiese alzando lo sguardo verso di me.
“ Non lo so, magari fra qualche mese, magari fra qualche anno..”
“Mmh. Comunque, io e Carly ti abbiamo portato un regalo, uno per te e uno per Junior. Aprili.”
Carly mi avvicinò i pacchetti e presi a spacchettarli.
Aprii il primo: carta velina azzurra con dei pesciolini, sarà del bambino.
“ Sembra un orsacchiotto.”, dissi con fare indagatorio mentre tastavo la morbidezza dell’oggetto. Lo aprii definitivamente. Una felpa azzurra, quasi come gli occhi di suo padre, morbida e con una scritta che mi fece fare un sorriso che andava da un orecchio ad un altro: “My mum rocks!”
Abbracciai mio fratello e tentai di mettere la felpa al piccolo Junior, che intanto dormiva profondamente fra le sue braccia, ma il risultato non fu come speravo: la felpa era troppo grande.
Il mio piccolo bambino sembrava un fagottino enorme, sotto tutto quel blu.

Mi misi a piangere quando poi, scartando l’altro regalo, mi accorsi che mio fratello mi aveva regalato una macchina fotografica, ma non una qualunque: era una Nikon F4, una delle migliori reflex messe in circolazione a quei tempi.
I miei occhi si riempirono di lacrime e non riuscii a parlare per dieci minuti buoni.

Mi abbracciò di nuovo, senza dire una parola, ma cogliendo tutta la gratitudine nel mio sguardo.
Gli anni passarono in fretta e senza saperlo il mio bambino aveva già compiuto due anni: mi ero abituata a cambiare pannolini, a svegliarmi nel bel mezzo della notte per controllare se respirava, a sentire i suoi lamenti su quello che dovevamo vedere in tv e a sentirlo chiamare “mamma”.
La maternità non era mai stata una priorità per me, avevo sempre odiato i bambini e nonostante questo li avevo sempre invidiati per la loro tranquillità, per la loro spensieratezza.
Quando sei bambino nulla ti turba, nulla ti spaventa, quando sei bambino ti basta un giocattolo e ti  senti il padrone del mondo.
Cercai di dare a mio figlio tutto quello che potevo, cercai di accontentarlo in qualsiasi suo capriccio anche se sapevo che era sbagliato, cercai di farlo crescere felice, e soprattutto cercai di farmi amare da lui.
Lui era l’unico amore della mia vita, più di Jared, e il pensiero di perderlo mi faceva così male che mi spezzava il cuore.

La lontananza da casa mi aveva fatto riscoprire il valore della famiglia, dell’affetto e dell’amore, e in quel momento più che mai mi accorsi di amare Jared più di come avevo fatto in passato, mi accorsi di quanto mi mancava la sua voce e il suo sostegno, mi accorsi di quanto avevo sofferto in questi anni e di come lui mi aveva aiutata.
Non ero arrabbiata con lui perché aveva rifiutato il bambino, non ero arrabbiata con lui perché dopotutto avevo scelto io di andarmene, di starmene da sola e di allevare da sola Junior..
Però l’attesa era stata snervante ed il momento era arrivato: dovevamo tornare a Los Angeles, sia io che il bimbo.
Jared aveva bisogno di lui, di me, ne ero sicura. 

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Capitolo 20
*** Capitolo Venti. ***


Il volo per Los Angeles con Junior accanto mi sembrò un sogno: era contento di vedere le nuvole così da vicino, gli piaceva guardare fuori e mi costrinse a fare molte foto in volo.
Junior non parlava ancora benissimo, diceva qualcosa, ma quando voleva sapeva farsi capire più di un adulto, con il suo sguardo da furbetto ed il sorriso malizioso.
Crescendo era diventato come il padre, alto e magro, mentre di me aveva solo preso la carnagione chiarissima, per fortuna. Gli occhi azzurri e le labbra piene, i capelli biondi e le piccole orecchie ricordavano perfettamente il gene dei Leto.

Quando fummo arrivati in città rimasi sorpresa: in quei due anni nulla era cambiato, tutto era rimasto uguale. La Los Angeles che conoscevo, quella con i palazzi alti, col Molo di Santa Monica, col Sunset Boulevard e con le sue colline, ora era davanti a me e agli occhi di mio figlio. Misi gli occhiali da sole, contenta di essere finalmente tornata, e scesi le scale tenendo la sua mano. Lui guardava ovunque, qualsiasi cosa attirava la sua attenzione: il sole, le nuvole, gli uccelli, gli alberi che si muovevano. Guardava tutto estasiato e aveva un mezzo sorriso in viso.
Era felice anche lui.

“Dai che oggi vedi il tuo papà.”, gli dissi aggiustandogli la maglietta.
Lui mi guardò un po’ e poi ripeté:
“Papà.”
Chiamai un taxi e in qualche minuto ci mettemmo in viaggio verso casa di Jared: ero sicura che, vedendolo, tutto si sarebbe risolto e non ci sarebbero stati rancori.
Il cielo era striato di rosa e viola e il sole,al tramonto, offriva un paesaggio impareggiabile.  Le strade di LA, come al solito, erano un brulicare continuo di persone e macchine, di gente del posto e turisti che convivevano senza problemi.
Arrivati a casa, scesi e come quasi quattro anni prima, indugiai sul campanello. Lo sfiorai con un un dito, poi mi feci coraggio.
Qualche minuto dopo sentii dei passi venire verso la porta. Non appena si aprì venni investita da un’occhiata sbalordita e da quel che sembrava un “era ora che tornassi”: era Shannon.
“Ma…Mary? !”, quasi gridò.
Annuii sorridendo, poi lo abbracciai. Mi tenne fra le sue braccia per un bel po’ di tempo, mi stava quasi stritolando. Poi però mi lasciò improvvisamente..
“ Lui..è..?”, accennò incerto.
“Junior, Jared Junior.”, dissi spingendolo delicatamente verso di lui.
Lo prese in braccio e iniziò a baciarlo.
“ Sei un Leto, un Leto!”, continuava a ripetere, accarezzandogli i capelli e baciandolo mentre Junior si lasciava torturare. Guardava lo zio, curioso, e gli toccava i capelli.
“Dov’è Jared?”, dissi cercandolo con lo sguardo.
Fece un cenno con la testa come a dire “di sopra”. Sorrisi.
“Posso, vero?”, un po’ di timidezza.. Mi era mancata questa casa.
“E’ casa tua.”, rispose lanciandomi uno sguardo intenso.
Salii le scale cercando di ridurre al minimo i rumori e mi avvicinai alla porta di Jared. Appoggiai l’orecchio: stava suonando.
Aprii la porta senza fare rumore ma lui alzò la testa prima che io potessi entrare, rivolgendomi uno sguardo interdetto.
Rimase seduto così, per due minuti, con la chitarra in mano e le labbra semiaperte.
Una lacrima gli scese dagli occhi color cielo, poi posò la chitarra e senza dire una parola mi strinse fra le sue braccia. Venni invasa improvvisamente dal suo profumo mentre mi baciava e mi toccava la schiena, tracciandomi forme astratte. Gli occhi chiusi, le labbra incollate alle mie. Non riuscivo quasi a respirare. Mi stringeva forte, forte al petto, mi immobilizzava e non mi diede il tempo di spiegare.
“ Non lasciarmi mai più, ti prego, non farlo.”, disse fra un bacio e l’altro con voce rotta e occhi lucidi. 
Mi staccai dal bacio e lo guardai negli occhi.
“Scendi di sotto con me, c’è qualcuno che vuole conoscerti.”, dissi con un mezzo sorriso, lasciando cadere il discorso di prima.
Scendemmo le scale, ancora mano nella mano, e Shannon era a terra seduto sul tappeto del salotto insieme a Junior. Gli stava mostrando delle fotografie e il piccolo sembrava veramente interessato, tanto che ogni tanto col ditino gli indicava qualcuno.
“Si Jj, e questa è la nonna.”, disse indicando Constance.
Jared rimase sospeso sul penultimo scalino, con gli occhi lucidi, le mani tremanti portate alla bocca. Non riusciva a parlare e a dire nulla, non riusciva nemmeno a muoversi.
“ Amore mio: questo è Jared Junior.”
Lo presi per mano e lo condussi da mio figlio, da nostro figlio, che guardava il padre con un mezzo sorriso.
“Papà?”, disse dolcemente.
Jared a quelle parole scoppiò a piangere, nascondendo il suo viso nel mio petto. Sentivo i suoi singhiozzi battere sul mio petto, le sue lacrime scorrere via, sempre più numerose.
“Hey- gli dissi scuotendolo- Basta piangere. Non serve. La nostra vita è qui, ora. Basta rimpianti. Abbraccia tuo figlio.”

Alzò lo sguardo e lo rivolse a lui. Poi si avvicinò dolcemente e gli sfiorò una guancia con un un dito, gli toccò le labbra e le orecchie, gli prese una manina fra le sue e la baciò.
“ E’ proprio uguale a me!- disse sommessamente- E’ la mia copia!”
Sorrisi insieme a Shannon.
“Guarda che è anche mio figlio, eh!”, risposi.
Scoppiò a ridere. Prese Junior in braccio e lo aiutò a sedersi sul divano.
“Allora, la mamma ti ha parlato di me?”, disse con voce ancora rotta.
Il bambino piegò un po’ la testa e si mise a giocare con i capelli lunghi e biondi del papà, rigirandoseli tra le dita e guardandoli incuriosito.
Vedendoli accanto, così da vicino, erano l’uno la copia dell’altro: avevano gli stessi lineamenti, le stesse espressioni, lo stesso modo di muoversi e sorridere. Era strano vederli così, insieme, padre e figlio. Era strano per me sentirmi chiamare “Mamma”, figuriamoci per lui come era strano sentirsi chiamare “papà”.

Passarono tutto il resto del pomeriggio a giocare, insieme, mentre io sistemavo un po’ i bagagli per la notte. Jared mi aveva proposto di rimanere lì, e visto che Constance in quei giorni era fuori, avremmo usufruito della sua camera.
Stavo sistemando i vestiti di Junior quando Shannon entrò in camera e, con occhi dolci, mi chiese di portare Junior fuori.

Sorrisi dolcemente.
“Sei sicuro di quello che mi hai chiesto?-  chiesi avvicinandomi a lui.- E’ una peste. Ti costringerà a comprargli la qualunque cosa..”
“Lo so, è un bambino, ma è mio nipote..Daaai, Mary!”, rispose facendomi il labbruccio.
“ Come vuoi, però prima doccia!”
Mi abbracciò dolcemente e andammo di sotto.
“ Junior deve fare il bagnetto..”, dissi prendendolo in braccio sotto lo sguardo deluso di Jared.

“Posso..posso venire?”, chiese lui, incerto.
Lo guardai di sottecchi.
“Che domande fai? Certo che puoi.”
Raggiungemmo il bagno, sotto lo sguardo curioso di Jared.
Feci scorrere l’acqua calda per un po’, riempiendo la vasca, poi presi Junior e iniziai a spogliarlo. Junior rideva al tocco delle mie mani, mi abbracciava e mi baciava molto spesso, molto più spesso di come facesse con Jared.
Jared ci guardava insieme, un po’ triste, un po’ felice: forse era geloso della complicità che c’era fra me e il piccolo, forse era solo triste per essersi perso gli anni più belli della vita di suo figlio.
Lo infilai dentro la vasca e lentamente iniziai a sfiorare la sua pelle con la spugna e del sapone, Junior stava bene dentro l’acqua e sembrava contento. Aveva sempre adorato fare il bagno, gli piaceva stare in acqua, magari da grande sarebbe diventato un nuotatore mi dicevo, chi lo sa.
Jared si avvicinò a noi e lentamente mi sfiorò una spalla.
“Mi fa male vedervi così legati, mi fa male sapere che in tutto questo tempo tu sei stata il suo unico punto di riferimento, mentre io..Beh.. Lui non sapeva nemmeno della mia esistenza.”
Mi fermai un attimo, guardando il riflesso del suo sguardo nell’acqua: sembrava imbarazzato, come fuori luogo. Era come se tutto questo non gli appartenesse, era come se stesse sognando, un sogno da cui si sarebbe svegliato..E invece no, questa era la realtà e la doveva accettare. Lui aveva scelto di non avere un bambino e le conseguenze erano quelle.
“ Cosa vuoi che ti dica, Jared? E’ mia la colpa? No di certo. Se me ne sono andata è perché tu questo bambino non lo volevi- dissi fissando l’acqua con sguardo assente mentre Junior mi toccava le mani- Se fosse stato per te nemmeno saremmo qui.”
Rimase un po’ a bocca aperta.
Annuì.
“Forse hai ragione- disse alzandosi- però sai, penso di essere cambiato in questi anni in cui sei mancata. Penso di essere maturato, penso di aver trovato quella calma e quella pace che cercavo da tempo. Penso di aver trovato la via che mi porti alla felicità, ed in quella via ci sei tu, Mary. Non andartene un’altra volta, io non lo reggerei. Te lo giuro, le lacrime che ho versato mentre non c’eri non le avevo mai versate in quasi ventitré anni. La consapevolezza della tua mancanza era una coltellata continua, un dolore lancinante al cuore e sapere che nemmeno volevi vedermi mi faceva ancora più male. Io sapevo che eri in Mississippi, credevi davvero che mio padre non me lo dicesse? Ma ho rispettato la tua scelta, ho rispettato i tuoi tempi sebbene mi sia perso l’infanzia di mio figlio, sebbene per lui io sia un estraneo. Mary, io voglio stare con te ora.”
Mi scivolò una lacrima che mi affrettai a raccogliere col dorso della mano, bagnandomi un ciuffo di capelli ribelli.
Alzai lo sguardo verso Jared.
“Allora promettimi che nulla andrà più male Jared. Non ce la faccio più a stare male, non ce la faccio più a soffrire. Troppe lacrime sono state versate e troppe volte il mio cuore s’è spezzato in un milione di piccoli pezzi. Troppe volte tutto è andato diversamente da come ce lo aspettavamo. Ora voglio che tutto cambi. Voglio vivere la mia vita, tranquilla, con te, con Junior. Voglio vivere con  Josh, voglio stare con Shannon, con tua madre. Voglio avere una famiglia felice, una vita felice.. Non pretendo tanto.”
Si chinò di nuovo, accanto a me, stringendomi un braccio.
“Te lo giuro.”, disse solennemente.

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Capitolo 21
*** Capitolo Ventuno. ***


Il tempo passava e ogni giorno, ogni sera in compagnia dei due amori della mia vita era un dono così grande, mi riempiva di tanta felicità e tranquillità che non mi sarei mai aspettata di provare in vita mia.
Tutto era tornato ad una strabiliante normalità, tutto era diventato routine e questo mi stava bene, era questa la vita che avevo sempre cercato.
Il rapporto fra me e Jared si era ristabilito, il nostro amore era una fiamma continua di passione, amore e comprensione, e tutto andava meravigliosamente. Non c’erano fantasmi, finalmente, e la nostra casa sembrava il rifugio più sicuro dove passare il nostro tempo.

Ormai Junior aveva quasi quattro anni e si era quasi fatto un ometto e io adoravo vederlo crescere, sentivo che lui era tutto per me, non avrei potuto mai farne a meno. A volte sentivo strane fitte o avevo improvvisi mancamenti ma continuavo a dirmi che era tutto a causa della mia debole costituzione e della gravidanza, anche se in effetti erano passati già quattro anni.
Un giorno ebbi uno di questi mancamenti davanti a mio fratello Josh e da quel momento si aprì un nuovo capitolo della mia vita. L’ultimo capitolo.
Eravamo tutti riuniti a casa mia per le feste natalizie. Io, Jared, Junior, Shannon, Sophie, Josh e la sua ragazza, Costance e Carl e a grande sorpresa di tutti si era unita a noi anche la nonna. Casa mia era molto grande e non avevamo problemi di spazio, quindi decidemmo di fare una bella cenetta in famiglia. Finalmente mi sentivo parte di qualcosa, parte di una famiglia vera. Avevo sempre guardato con diffidenza quelle pubblicità o quei film in cui le famiglie erano riunite e avevano dei gran sorrisi stampati in faccia. Nella mia adolescenza li chiamavo “ipocriti”, erano questo per me. Non avrei mai creduto che tutto questo potesse capitare anche a me e, invece, eccomi lì; seduta a tavola con loro, le persone che amavo, a ridere e scherzare allegramente, come se tutto il male che avevamo subito e che avremmo dovuto subire non esistesse. Mi sbagliavo, mi sbagliavo maledettamente.
Mi ero ripromessa di preparare il miglior pranzo che i miei commensali avessero mai assaggiato e misi tutta me stessa in quella sfida. La cena procedeva nel migliore dei modi e vedevo come tutti apprezzavano la mia cucina. Ero felicissima e irradiavo gioia da tutti i pori. Andai in cucina a prendere il fantastico dolce che avevo preparato. Avevo trovato la ricetta in uno dei pochi libri di cucina di mia madre, nascosti in casa. Quella era l’ultima cosa che mi restava di mia madre.
Josh fece capolino in cucina e con un sorriso a trentadue denti si offrì di portare il dolce, che in effetti era molto pesante. Subito dopo averglielo dato nelle mani sentii l’aria che mi mancava, le forze che abbandonavano il mio corpo e dovetti appoggiarmi al piano cucina per non crollare. Lo sguardo di josh divenne immediatamente serio e, lasciato andare il dolce, accorse in mio aiuto preoccupatissimo.
“Mary, che hai?Tutto bene?”
“Si, tranquillo Josh. Sono solo un po’ stanca per tutto questo lavoraccio in cucina”dissi, abbozzando un sorriso.
Lui sembrò tranquillizzarsi, fino a che non vide le mie mani nere. Erano come piene di lividi e continuavano a pulsare, facendomi male. Il suo voltò si rabbuiò in un istante.
“Questa non è semplice stanchezza..-disse- Hai qualcosa che non va?”
“Non ho niente, davvero.”risposi. “Ti prego, non dire niente agli altri, non voglio che gli altri di là si preoccupino. Non voglio rovinare questo momento così magico.”
“Ma io..”
“Promettimelo.”lo interruppi.
“Solo se tu mi prometti che domattina verrai in ospedale e ti farai controllare, non farmi stare così in pensiero.”
“Te lo prometto, lo farò. Ora andiamo di là o gli altri si insospettiranno. Ti prego”
Josh si convinse ma prima mi portò in bagno a rinfrescarmi un po’ e poi insieme tornammo nella sala da pranzo. La serata continuò normalmente, se non fosse stato per gli sguardi preoccupati che Josh ogni tanto mi mandava.
La mattina dopo lascia Junior con la nonna e mi diressi in ospedale. “Dannazione, sempre qualche piccolo problema. Vabbè oggi lo risolveremo con Josh e tutto tornerà alla normalità”pensai.
Josh mi accolse premuroso e mi fece fare una miriade di test, controlli e altre robe mediche che io sinceramente odiavo. Mi affidò a un suo collega molto bravo per alcuni test particolari che non riuscì a capire neanche a cosa servissero. Dovemmo aspettare tre giorni per i risultati delle analisi e quando mi recai di nuovo da Josh sembrava tranquillo e sereno.
“Dai miei esami risulta tutto in regola, forse solo una leggera mancanza di vitamine. Per il resto tutto bene, forse era solo davvero stanchezza”il suo volto era illuminato e rilassato, con un sorriso rassicurante. “Ora ci tocca passare solo dal mio collega, ma non credo ci sia da preoccuparsi.” Stranamente io lo ero.
Arrivammo nell’ufficio del dott. Arise e ci accomodammo subito. Avere un fratello chirurgo e candidato come futuro primario del reparto di chirurgia aveva i suoi vantaggi. Arise era serio e cominciò a prendere le cartelle con su scritto il mio nome. Guardò per quasi tutto il tempo Josh, come se non avesse il coraggio di guardarmi in faccia.
“Mi dispiace darvi questa notizia, specialmente a voi due. Io e Josh siamo diventati molto amici e mi piange il cuore dirvi certe cose”. Non era granché come discorso iniziale e del quale non dovevamo preoccuparci.
Josh era confuso e spaesato, cominciò ad agitarsi e chiese subito spiegazioni. Io ero immobile, non so se per la paura di quello che avrei sentito o per un’accettazione che era nata inconsapevolmente in me riguardo a ciò che ne sarebbe stato della mia vita.
“Mary ha una malattia genetica degenerativa. Il suo organismo sta lentamente cedendo, i suoi organi interni a breve cominceranno a collassare..”il dott.Arise continuò a elencare i sintomi e le conseguenze ma sia io che Josh avevamo capito dove sarebbe andato a parare il discorso.
“Le do un anno, al massimo due.” Disse.
Josh era sconvolto e cominciò a chiedere chiarimenti riguardo la malattia, le eventuali cure. Io ero paralizzata. L’aria intorno a me si era fermata, le parole sembravano arrivare da un altro mondo, non riuscivo più a distinguerle bene, i colori persero la loro consistenza e sentii un vuoto nel petto che immaginai mi avrebbe ingoiato. Allora era questa malattia il mostro che mi portavo dentro da anni e a cui non ero riuscita a dare un nome? Mi persi nei miei pensieri e ritornai in me solo quando sentì proferire alcune parole dal dott. Arise:
“Però è strano. Questa malattia viene diagnostica alla nascita e se curata in tempo fin da piccoli, può quasi diventare innocua. I suoi genitori ne sarebbero dovuti essere a conoscenza, o almeno la madre, dato che è una malattia che si trasmette solo in presenza di due cromosomi x, cioè nelle donne della famiglia.”
Allora mia madre sapeva. Sapeva di tutto ciò e non mi aveva mai detto niente, mi aveva tolto quest’ultima possibilità di salvezza quand’ero ancora una bambina. Poteva spingersi fino a tanto l’odio, il menefreghismo di una madre? In fondo ero sempre sua figlia, sangue del suo sangue.
 “Allora diamole queste pillole, facciamo qualcosa!” sbottò Josh.
“Ormai è tardi, quella cura la farà solo stare peggio e non aumenterà le sue aspettative di vita.” ,rispose malinconicamente il dott.Arise.
Non mi accorsi neanche che loro due continuarono a parlare, che ci alzammo e andammo fuori. La mia mente vagava in cerca di un appiglio, qualcosa che avesse un senso. Mi resi conto che a spaventarmi non era la morte, era dover lasciare il mio amato Jared e il mio piccolo Junior. Pensare di non averli più accanto mi angosciò tremendamente. Finalmente avevo trovato un po’ di pace e di felicità in questa vita costellata di disgrazie e tristezza. 
Ora dovevo abbandonare tutto.
Josh era frenetico e non smetteva di camminare avanti e indietro. Riuscivo a intravedere i suoi occhi lucidi. Non doveva essere facile nemmeno per lui; ritrovare una sorella dopo tanti anni e perderla in così poco tempo. Oltre alla nonna, io ero ciò che rimaneva della sua famiglia. Mi nascondeva i suoi occhi, pensava di dover essere forte anche per me in quel momento e non voleva sentirsi un peso per me, un’altra persona da compatire.
Mi si avvicinò e parlò con voce tremante:
“Come ha potuto?come ha potuto quella donna farti questo?! Non merita neanche di essere chiamata ‘madre’ ! Ma ora si pentirà di quello che ha fatto, gliela farò vedere io. Le parlerò e vedremo con quale coraggio ha potuto compiere un gesto simile!”.

Josh era furente, avvertivo la disperazione nella sua voce. A volte cerchiamo di coprire il dolore con la rabbia, l’odio, qualcosa che non ci faccia cadere nel baratro della disperazione.
Ciò, invece, non era così per me. Non avevo motivo di sprecare energie per alimentare la mia ira, dovevo utilizzare il tempo che mi rimaneva per poter vivere serenamente. Per poter vivere dignitosamente. Per poter vivere. Per poter amare. 
“Tu non ci andrai, Josh.”la mia voce era ferma e decisa, abbastanza da non farlo replicare e lasciarlo con uno sguardo dubbioso.
“Riguarda me e lei, è tutta la vita che questa storia riguarda solo me e lei. Le parlerò io.”
Josh aveva insistito per accompagnarmi da lei, ma io avevo chiaramente espresso il desiderio di parlarle da sola.

Mentii a Jared e dissi di dover allontanarmi da casa per due giorni a causa di alcuni problemi riguardanti le aziende di mio padre.
Quella fu l’unica volta che gli mentii in tutta la mia vita.
Mentre ero in aereo pensavo ancora a quello che era successo, a quello che mi era successo: non era possibile che un milione di disgrazie piombassero addosso sempre e solo alla stessa persona, era assurdo come la sua persona riuscisse ad attirare disgrazie di tutti i tipi così, gratis, senza niente in cambio.
Quando arrivai davanti alla casa uno strano brivido mi si insinuò per il corpo.  Non potevo fermarmi ora, dovevo continuare. Mi soffermai a guardare il paesaggio circostante: era incantevole. Mi domandai come fossi stata così stupida da non apprezzare prima tutto quello che mi circondava, ora tutto mi sembrava molto più reale, più bello. Avevo dato per scontato tutto quanto, la stessa aria che mi circondava, e mi sentii così sciocca; ma in fondo, chi non lo è? Ci accorgiamo dell’importanza delle cose solo quando ci sfuggono dalle mani.
Suonai il campanello e la voce di un uomo brontolò qualcosa.
“Sono Mary” risposi sporgendomi per guardare oltre il cancello.
Qualche secondo di silenzio e si aprì.  Mi addentrai nella villa che era stata di mio padre e il custode mi scortò fino all’entrata. In quella casa regnava il silenzio. Attesi qualche minuto nell’ingresso e poi fui accompagnata nella camera di mia madre.
Eccola lì, seduta vicino alla finestra, con musica da sala in sottofondo e foto della sua breve carriera di ballerina sparse in tutta la stanza.
“Come si dice in questi casi? La pecorella smarrita che torna all’ovile?” una risata fredda e sterile uscì dalla sua bocca.
Non ero in vena di litigare, ero lì per rivederla l’ultima volta e capire cosa le passasse per la testa. Volevo sapere la verità, volevo sapere perché ce l’aveva tanto con me.
Andai subito al sodo.
“Sto per morire.” Dissi tutto d’un fiato.
“Le solite tragedie esagerate di voi giovani. Smettila di annoiarmi con i tuoi piccoli problemini, avrai al massimo un raffreddore e vieni qui a lamentarti.”, disse portando alle labbra una tazzina bianca di porcellana.  Non si era neanche girata a guardarmi.
“Sto per morire e tu sai anche il perché. Smettila di fingere e affronta la realtà per una volta nella tua vita. Sapevi che prima o poi sarebbe arrivato questo giorno.”
Le sue mani cominciarono a tremare e un po’ del contenuto le cadde sulla gonna.
“Allora..hai saputo. Pensavo di essere già morta quando sarebbe arrivato questo giorno. Mi dispiace, è una disgrazia che portiamo in famiglia.”
“Una disgrazie che poteva essere evitata quando ero ancora una bambina, ma tu hai preferito farmi soffrire!” cominciai a tremare anche io.
“Guarda che io..”
“No, – la interruppi – non sono venuta qui per sentirti parlare e inventare qualche blanda scusa. Sono qui per dirti che ho trovato un uomo fantastico che sta al mio fianco, che abbiamo un bambino insieme ed è la creatura più dolce che esista su questo pianeta. Sono qui per dirti che ho finalmente trovato una vera famiglia, che sono finalmente felice, nonostante tu non lo abbia mai voluto. Non sei mai stata una madre per me, non mi hai mai trattata come una figlia. Mi hai odiata perché secondo te ero stata io a rovinarti la vita, quando invece eri stata tu a farti mettere incinta per incastrare papà. Sì, morirò. Morirò prima di te, ma morirò contenta perché so di non aver sprecato la mia vita come hai fatto tu, chiusa nel tuo risentimento, nel tuo odio. Morirò contenta perché so che ci saranno persone che mi ricorderanno con affetto, persone con le quali ho condiviso emozioni molto più grandi di tutte quelle che hai vissuto tu. Morirò contenta perché non porto rancore nei tuoi confronti, perché già ti sei fatta del male da sola vivendo tutta la vita allontanando me e papà, le persone che ti avrebbero amata senza limiti. Morirò perché è così che deve andare, ma morirò felice. Tu, al contrario, sarai sola, e questa è l’unica cosa che mi consola.”
Le parole uscirono di botto, senza che io le pensassi.

Mi avvicinai lentamente alla sedia su cui era seduta vicino alla finestra: la luce porpora del tramonto filtrava dalla finestra. Volevo tornarmene a casa, volevo stare tranquilla nella mia casa con i miei amori più grandi, mio figlio e Jared.
Si girò con un’espressione di odio in volto.
“ Tu hai sempre avuto ciò che volevi. Soldi, vestiti, tutto. Di che ti lamenti?”, disse scuotendo la testa lentamente.
“ Di che mi lamento? Spero tanto che tu stia scherzando. Come fai a dire certe cose? Come fai a dire che non mi è mai mancato nulla quando non avevo niente? Niente. Molte persone vengono da famiglie umili che non riescono nemmeno ad arrivare alla fine del mese, eppure crescono bene, crescono nell’affetto dei loro genitori..Ed io? Cos’avevo? Una casa troppo grande e vuota? Troppo silenziosa e triste? Io avevo bisogno di te ma tu non c’eri. Sei sempre stata più interessata a serate mondane e partite di burraco con le tue amiche piuttosto che a tua figlia che non aveva nemmeno un cane con cui stare e a tuo marito che non desiderava altro che il tuo amore. Hai distrutto la sua vita e la mia vita.”
Mi guardava con sguardo vitreo, i lunghi capelli biondi erano raccolti in una stretta crocchia e gli occhi ridotti a piccole fessure minacciose.
Si alzò ed iniziò a vagare per la stanza vuota, poi si avvicinò al mio viso: potevo sentire il suo profumo forte sotto il naso, il suo fiato caldo sul viso.

“ Avresti voluto essere coccolata, vero? Avresti voluto essere accompagnata a scuola la mattina da me, mano nella mano. Avresti voluto che ti facessi i capelli e ti vestissi. Avresti voluto  che io ti stessi accanto, avresti voluto raccontarmi il tuo primo bacio e la tua prima volta. Ma non è stato così.”
“Non è stato così perché non lo hai mai voluto!”, gridai.
“Sì, è vero. Non l’ho mai voluto perché tu non sei mia figlia. Non lo sei mai stata e non lo sarai.. Nonostante io ti abbia messa al mondo, nonostante abbia sofferto per te. Sei stata un’errore. Sei il frutto di un amore costruito e ricostruito. Questa è la verità. Ora puoi anche andartene.”, disse rivoltandosi verso la finestra.
La guardai, schifata,  presi la mia borsa dalla sedia e mi avvicinai a lei.
“Addio.”
Uscii da quella casa con la bocca amara ed un peso enorme sulle spalle. Davvero mia madre mi aveva detto questo? Davvero non le interessava che stavo per morire? Davvero non mi riteneva sua figlia?
Evidentemente sì e questa era la risposta che cercai. Il mio taxi era ancora davanti alla porta della villa, salii in fretta e mi feci portare in aeroporto. Con gli occhi pieni di lacrime e l’orgoglio distrutto, mi promisi che nulla mi avrebbe più fatto male. E’ vero, la mia vita era segnata dalla morte, mi rimaneva poco tempo da vivere e c’erano tante cose che avrei voluto fare, ma purtroppo non mi è stato possibile.

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Capitolo 22
*** Ventidue. ***


Il viaggio di ritorno fu una continua oscillazione a causa del forte vento che tirava, ma fortunatamente mi addormentai e fu più facile sopportare tutta quella situazione.
Quando l’aereo posò a terra Los Angeles dormiva già, coperta da una strana coltre di nebbia, forse causata dalla miriade di luci che conteneva. Presi il mio bagaglio e mi diressi al parcheggio. Presi la macchina e mi diressi verso Beverly Hills, avevo voglia di sdraiarmi e riposare un po’.
Los Angeles sembrava così irreale di notte, così silenziosa..

Posai l’auto in garage e salii le scale, in silenzio: Jared era nel letto ma Junior non c’era.
Mi diressi verso quella che una volta era stata la mia stanza e che ora era di Junior il quale dormiva beatamente abbracciato al suo orsacchiotto preferito nella sua culla azzurra. Respirava piano e il suo faccino imbronciato sembrava ancora più bello così.
Gli accarezzai la guancia e poi gli diedi un bacio. Tornai in camera da letto e Jared era seduto, si guardava intorno.
“Ah, allora sei tu.- disse strofinandosi gli occhi ancora appannati dal sonno- Avevo sentito un rumore e mi sono spaventato. “
Mi avvicinai a lui e lo baciai intensamente. Chiusi gli occhi, lasciandomi andare a quella corrente che mi smuoveva dentro. Mi prese per i fianchi e mi buttò nel letto, appoggiando i gomiti vicino i miei fianchi e poggiando il viso sul mio petto. Puntò i suoi occhi nei miei e mi guardò, interessato.
“ Andato bene l’incontro?”, mi disse accarezzandomi un braccio.
Annuii, sviando lo sguardo. Mi prese il viso fra le mani e si avvicinò, baciandomi ancora.
Le sue mani iniziarono a sfiorare la mia pelle ardente senza alcuna esitazione, come se sapessero i punti giusti. Ci amammo per tutta la notte, corpo sopra corpo, poi ci addormentammo l’uno abbracciato all’altra, tenendoci ancora le mani.
 
“ Mary, stai bene?”
Jared mi scuote, tenendomi per le spalle e facendomi ritornare al presente.
“Scu..scusa.. Io..”, riesco a balbettare.
“ Forse è meglio se torniamo a casa amore, non stai bene. Sei pallida.”, disse scostandomi i capelli dal viso e bagnandoli un po’.
“Dov’è Junior?”, dico cercandolo con lo sguardo
“ E’ con Shannon e Sophie, non preoccuparti. Ora lo chiamo e gli dico che stiamo andando a casa..”
Annuisco.
Il tempo è passato velocemente da quando ho saputo della mia malattia ma tutto ora sembra andare bene. La mia vita sembra finalmente aver preso una bella piega ma sento che non durerà a lungo. Sento i fantasmi divorarmi dall’interno, sento il mio cuore perdere battiti ogni volta che mio figlio dice che vuole un fratellino. Sento che questa malattia mi sta trascinando in un lento e lungo oblio, in un lungo e profondo sonno dal quale non mi sveglierò più.
Mi mancheranno tutte queste cose, mi mancheranno le giornate in spiaggia con Jared ed il piccolo Junior, mi mancheranno le cene in giardino con Shannon e Sophie, mi mancherà andare al cimitero per salutare papà. Ed io? Mancherò a qualcuno?
Il cielo si colora di un azzurro scuro misto a viola e rosso, il sole scompare dietro la superficie piatta del mare. Prendo la mia borsa dalla spiaggia e, insieme a Jared, mi avvio verso la macchina. Mi lascio andare sul sedile, aspettando Shannon e Sophie.
Chiudo gli occhi, svuoto la mente.  Inspiro il profumo del mare, è un’abitudine ormai. Faccio tutto come se fosse l’ultima volta, voglio essere certa di non perdermi nulla.
Sto così per non so quanto tempo, poi mi apro gli occhi.
La mia camera da letto è al buio, non c’è nemmeno un rumore. Mi giro verso Jared, ma non è solo: c’è Junior, accucciato sotto la spalla del padre, che dorme. Sono così belli insieme, sono bellissimi. Sembrano la fotocopia l’uno dell’altro, Junior sembra Jared in miniatura con i capelli un po’ più corti; Hanno gli stessi occhi, dello stesso colore. Hanno lo stesso naso, piccolo e delicato. Hanno le stesse labbra, sottili e rosa.
Li amo, loro sono la mia vita. E non importa che sto per morire, non importa: loro mi porteranno sempre nel cuore. Mi avvicino al corpicino dormiente di mio figlio e lo abbraccio, chiudendo gli occhi.
Inspiro forte il suo profumo, il loro profumo.
Qualcosa sta crescendo dentro me, qualcosa di buono però. Uno dei frutti più belli che esista.
Una nuova vita si muove dentro me, lentamente, sembra cercare una posizione comoda: la trova, si sistema. Ecco, dormi anche tu tesoro. Accarezzo la mia pancia, gonfia come non  mai e mi lascio andare al sonno.
 
28 Agosto 2010.
Cara Mary,
sono passati esattamente sedici anni da quando te ne sei andata via, sono passati sedici anni ma io ti amo come il primo giorno. Sai amore, mi manchi. Mi manchi ogni giorno della mia vita, mi manchi ogni ora, ogni minuto, ogni secondo.
Cerco il tuo sguardo dovunque, in ogni donna, in ogni ragazza, cerco il tuo sguardo ma non l’ho ancora trovato. Cerco il tuo profumo, ma anche quello è impossibile da trovare.
Ti vorrei qui accanto a me, sai.
Quante lettere ho scritto, illudendomi che tu le leggessi. Quante lettere ho strappato, pensandoci.
Ogni giorno guardo le tue foto, ogni giorno guardo gli occhi dei nostri figli e ci vedo te. Junior parla spesso di te, mi dice quanto le manchi e quanto pensi a te in ogni cosa che fa. Ti somiglia molto in realtà, ha il tuo stesso carattere.. La nostra piccola Constance, invece, si specchia ogni giorno con una tua foto accanto sperando di trovare qualcosa di tuo nel suo viso. E’ inutile dire quanto la casa sembri vuota senza di te..
Non ho voglia di uscire, non ho voglia di fare tutto quello che una normale persona fa. Ho milioni di fans che mi seguono ogni giorno, che mi amano alla follia e che mi stanno vicino..Ma è come se fossi solo, è come se non esistesse nessun altro per me. Ad ogni concerto evito di cantare quella canzone, evito di cantare la tua canzone..Evito perché irrimediabilmente scoppierei in un pianto rotto e non posso farmi vedere così debole, non voglio.
La notte, quando mi abbandono alla solitudine del nostro letto, credo di sentire la tua voce, credo di sentire il tuo respiro..Credo di vedere i tuoi occhi brillare al buio.. Credo di essere pazzo.
Quante volte ti ho scritto queste cose? Troppe. Quante lettere ho posato sulla tua lapide? Quante lettere sono state bagnate dalle mie lacrime amare e quante il vento se n’è portate via?
Credo che questa farà la stessa fine, la stessa identica fine.
Chissà dove sei ora, chissà in quale angolo di cielo sei adesso.. Chissà se mi stai guardando.

Vorrei solo poterti abbracciare un’ultima volta, solo questo..Poi forse potrei morire contento.
Continua a vegliare su di noi Mary, continua ad osservarci da lassù.. Noi ti porteremo sempre nel cuore. Insieme alla lettera lascio il testo della tua canzone, quella canzone ti apparterrà per sempre.
Ti amo, Mary, e non amerò mai più nessuno.
Jared.”

 

     A simple fear to wash you away                      Basta una semplice paura per spazzarti via.
    An open mind canceled it today                               Una mente aperta l'ha cancellata oggi.
      A silent song that's in your words                   C'è una canzone silenziosa nelle tue parole.
A different taste that's in your mind                 C'è un sapore differente nella tua mente.

This is the life on mars                                      Questa è la vita su Marte.


Mary was a different girl                                     Mary era una ragazza diversa
   Had a thing for astronauts                                Aveva una fissazione per gli astronauti.

Mary was the type of girl                                    Mary era il tipo di ragazza 
She always liked to play a lot                           A cui piaceva sempre tanto giocare.
Mary was a holy girl                                            Mary era una santa.

Father wet her appetite                                     Il padre le faceva venire appetito.
Mary was the type of girl                                    Mary era il tipo di ragazza
She always liked to fall apart                           A cui piaceva sempre cadere a pezzi.
Tell me did you see her face                          Dimmi, tu hai visto il suo viso?

Tell me did you smell her taste                      Dimmi, tu hai sentito il suo profumo?
Tell me what’s the difference                         Dimmi, qual è la differenza
Don’t they all just look the same inside?            
Non sembrano poi tutte uguali dentro?
Buddha for Mary, Here it comes                     Un Buddha per Mary, arriva.

 
Mary was acrobat                                                       Mary era un'acrobata
 But still she couldn’t seem to breathe                         Ma sembra che non respirasse
 Mary was becoming everything she didn’t want to be.               Mary stava diventando tutto ciò che non voleva                       Mary would hallucinate                                                       Mary aveva le allucinazioni
             And see the sky upon the wall                                         e così vedeva il cielo sul muro.
Mary was the type of girl                                             Mary era il tipo di ragazza
             She always liked to fly.                                                        
A cui era sempre piaciuto volare.
.
Tell me did you see her face                                      Dimmi, tu hai visto il suo viso?
Tell me did you smell her taste                                             Dimmi, tu hai sentito il suo profumo?
Tell me what’s the difference                                  Dimmi, qual è la differenza
Don’t they all just look the same inside?                               Non sembrano tutte uguali dentro? 
Buddha for Mary, Here it comes                                Un Buddha per Mary, arriva.
Buddha for Mary, Here it comes                               Un Buddha per Mary, arriva.
 
This is the life on mars                                    Questa è la vita su Marte 

 
He said, "Can you here me, are you sleeping"                      Lui disse: "Mi senti? Stai dormendo?"
She said, "Will you rape me now?"                            Lei disse: "Mi violenterai adesso?"

He said, "Leave the politics to mad men"                                       Lui disse: " Lascia la politica agli uomini pazzi."
She said, "I believe your lies"                                     Lei disse:" Io credo nelle tue bugie."
He said, "There’s a paradise beneath me"                       Lui disse:" C'er un paradiso proprio sotto di me."
She said, "Am I supposed to bleed?"                     Lei disse:" Dovrò sanguinare?"
He said, "You better pray to Jesus"                          Lui disse:" Faresti meglio a pregare Gesù."
She said, "I don’t believe in god"                              Lei disse:" Io non credo in Dio."
 



NDA: Tesori, eccoci arrivati alla fine.. Che dire? Devo ringraziarvi, ringraziarvi di cuore per essermi stati sempre accanto, a recensire e a leggere.
Purtroppo l'inevitabile fine è arrivata e non c'è altro da dire, se non che io più di voi ci sono stata male per questo finale tragico.
Grazie, grazie ancora di cuore per tutto. Spero di avervi trasmesso le emozioni che ho provato io scrivendo e spero di aver descritto la nostra Mary come il nostro Jared avrebbe saputo fare. 
Alla prossima Fanfiction, la vostra ValeEchelon.

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