I can't take my eyes off of you.

di mortuaary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Un cuore - ***
Capitolo 2: *** - Distante - ***
Capitolo 3: *** - Let's have a drama party! - ***
Capitolo 4: *** - Non lasciarmi - ***
Capitolo 5: *** - Gli amici servono a questo - (PT.1) ***
Capitolo 6: *** - Gli amici servono a questo - (PT.2) ***
Capitolo 7: *** - Addio - ***
Capitolo 8: *** - Germania - ***
Capitolo 9: *** - Confronti - ***
Capitolo 10: *** - Canta per me - ***
Capitolo 11: *** - Grigio - ***
Capitolo 12: *** - Potere, veleno e fuoco - ***



Capitolo 1
*** - Un cuore - ***



I sogni si avverano.

    Se non esistesse questa possibilità
la natura non ci spingerebbe a sognare.”

–  J.Updike
 

 



Tutto ciò che è stato scritto è frutto della mia immaginazione, pertanto, ogni riferimento a cose e/o persone
    realmenti esistenti -oltre a quelle citate- è puramente casuale e privo di qualsiasi intenzione.

    Tutti i diritti di questo racconto e dei suoi personaggi appartengono a me.

Mortuary Princess © 2010 - 2013





Una lieve brezza s’impossessa delle tende, le quali, leggere, svolazzano non curanti dei primi raggi di sole che l’alba offre agli occhi più curiosi.
 
Rabbrividisco. Detesto quando il mio sonno, seppur non sempre tranquillo, viene rovinato dagli agenti atmosferici o da altre cause inutili.
Schiudo le palpebre e istintivamente la mia attenzione viene attratta dal via vai di auto che sostano, a veloci intervalli, al di sotto della finestra della camera d’albergo dove ho alloggiato nelle ultime due settimane. Per colpa dei vari fusi orari, non ho più la cognizione del tempo.
 
Mi giro sull’altro lato del letto, notando, con mia sorpresa, che è vuoto. Non ci do molta importanza finché guardando l’ora sul display del mio cellulare non noto che sono appena le sette meno un quarto del mattino.
 
Come può essere già uscito, di prima mattina?
 
Nel mentre, mi reco nel lussuoso bagno adiacente alla stanza e apro l’acqua in modo che si scaldi velocemente; dopodiché, una volta scelta la biancheria da indossare, mi dedico ad una rigenerante doccia mattutina, per iniziare bene la giornata.
Assaporo a piene narici il profumo di vaniglia che avvolge ogni centimetro della mia pelle, espandendosi anche negli ambienti.
 
Terminata la doccia, prendo l’accappatoio e lo annodo in vita, pettinando i capelli. Sento un rumore provenire dall’altro vano, ed è senz’altro la porta della camera.
E’ tornato.
Con passi quasi impercettibili – penserà che stia ancora dormendo – varca leggero la soglia, facendosi strada sino al letto. Silenzio.
 
Mi vesto velocemente cercando di evitare anche il minimo rumore. Non gli permetto di avvicinarsi ancora di un centimetro – giusto quella decina che gli sarebbero serviti a capire che era vuoto - ed appaio dalla porta del bagno cogliendolo di sorpresa.
 
-         Volevi spaventarmi? - Finge indifferenza, anche se è sussultato di mezzo metro.
Nasconde entrambe le mani dietro la schiena, sono sicura che ha qualcosa per me.
-         No, so che il profumo del mio bagnoschiuma ha invaso l’intero pianerottolo, perciò sapevi già che ero sveglia sin da quando hai messo piede fuori dall’ascensore. – Rispondo tutto d’un fiato, dalla frenesia di scoprire che cosa mi nasconde.
Riesco a percepire il gusto della mia brioche preferita quasi la stessi mangiando in questo istante.
-         Inutile negare. – Sospira, mentre i suoi occhi bruciano su ogni centimetro rimasto scoperto dalla sottoveste che indosso.
 
Tendo di stuzzicarlo mentre, con la scusa di strappargli un bacio, cerco di afferrare quel che cela. Devo ammetterlo: alla mattina non sono esattamente al top dell’agilità, perciò riesce a divincolarsi senza molti sforzi, senza darmela vinta.
 
-         Mh, quanto sei curiosa. Sai come si dice: la pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce. – Sogghigna, evidenziando quelle fossette che tanto adoro quanto odio. 
-         La pazienza non fa per me.  – Il mio stomaco per tutta risposta reclama, solidale alla mia risposta.
 
Per quanto la mia vita sia spasmodica, dovrei ricordarmi più spesso che resto un essere umano, preoccupandomi dei miei bisogni primari.
 
-         Chiudi gli occhi… - Sussurra a un centimetro dalla mia bocca, mentre il mio olfatto sente sempre più vicina l’adorata brioche - …e anche le narici, che mi hanno già rovinato metà del lavoro! – Esclama, mentre a me scappa un sorriso accusatorio.
 
Mi prende le mani svelando finalmente la sorpresa: oltre alla mio cornetto preferito -rigorosamente con crema di latte e pasta sfoglia di ottima qualità, spolverata di zucchero a velo-  vi è anche un piccolo pacchetto regalo che accompagna una splendida rosa blu.
 
Rimango basita.
 
-         Devi spiegarmi come tenevi tutto e soprattutto come diavolo facevi in modo che da davanti non si vedesse nulla. – Strabuzzo gli occhi, incredula.
 
Non gli do modo di rispondere alla mia domanda e gli stampo un bacio sulle labbra.
 
-         Grazie, davvero. Adoro quando fai così. – Gli sorrido, sincera.
-         Ma io non ho fatto nulla! – Ride, spensierato.
Mi solleva per le cosce facendomi sulle sue, che si sono appoggiate al letto. Lo guardo dritta negli occhi, laddove mi son persa e ritrovata così tante volte.
Nei suoi occhi dalle mille parole, che non si stancano mai. Quelli che quando incrociano il mio sguardo mi fanno sentire completa, esattamente al mio posto nell’universo. Quelli che hanno mentito, che sono rimasti perplessi, quelli che danno peso ai silenzi, quelli che sanno il fatto loro.
 
I suoi occhi, quelli di Nathan. Il mio ragazzo.
 
Gli stessi che ora ricambiano lo sguardo, svelando emozioni che le parole non potranno mai eguagliare.
 
 

-

 
Odio gli orologi. Odio pensare che l’essere umano debba essere schiavo del tempo.
Odio il fatto che debba adattarmi ad esso e rispettarlo, per non rallentare i miei impegni e non astenermi dalle mie responsabilità.
 
Sono le undici e un quarto: fra meno di due ore dovrò esser presente all’ultima sfilata italiana alla quale, però, parteciperò da spettatrice anziché sfilando.
Un piacere che raramente mi capita di avere. Si tratta di un evento che attendo da molto: due stilisti che, con la loro percezione della moda -un po’ anticonformista e fuori da ogni canone, proprio come me- hanno saputo  conquistarmi. Adoro i loro capi, adoro i miei maestri.
 
Non posso assolutamente mancare.
 
Prima che riesca ad uscire dal film mentale in onda nel mio cervello e realizzare che mi stiano cercando, bussano per due volte alla porta. Detto fra noi, l’ultima cosa che sono in grado di fare quando il sonno ha ancora la meglio su di me, è andare a rispondere comunicando orari e/o azionando il cervello.
Sbadiglio, per nulla intenzionata a smuovermi.
 
-         Vado io, pigrona. – Mi tira un cuscino alzandosi dal letto.
Recupera la sua maglietta giacente in qualche angolo sul pavimento e arriva alla porta ancora in preda ad infilarsela. Avendo avuto la mia stessa supposizione, risponde sicuro al cameriere che si trova davanti.
-          Dica al nostro autista che lasceremo l’hotel fra  mezzora, secondo i comodi della signorina. -
Il fattorino, rimasto sull’attenti come un soldato, resta ammutolito e, per un attimo, cerca di riassumere la giusta compostezza.
- Con permesso. – Si congeda timidamente.
 
Nathan chiude la porta e io non trattengo più la mia risata: alcuni camerieri non dovrebbero scegliere questo lavoro, se si spaventano per ogni cosa.
-         Dovevi vedere come mi ha squadrato gli addominali. –
-         Ho immaginato. Mh, opto per questo rosso oppure questo grigio melange? –
Gli propongo due scelte d’abito, come se realmente poi gli interessasse qualcosa. Il rosso è di Dior e l’altro è di Prada. La mia indecisione è dovuta alla meravigliadi entrambi gli outfits, regalatomi in occasione dell’ultima sfilata che avevo fatto per loro. Dopotutto, erano stati fatti su misura per me.
-         Rosso! – Esclama quasi senza dare importanza all’altro capo.
-         Okay. Corro a cambiarmi, tu spegni quella sigaretta e vai a farti una doccia. –
 
Quando termino la frase sono già davanti al maestoso specchio, intenzionata a provare l’abito a tubino -con dettaglio sul decolleté a V- che mette in mostra le mie curve in modo equilibrato. Lo abbino ai nuovi arrivati della mia -ormai celebre- collezione: sandali tacco quindici centimetri a spillo impreziosito da diamanti, con allacciatura di raso alla caviglia. Diciamo una cosina alquanto soft e del tutto inosservata.
 
Finisco di prepararmi e libero il bagno, approfittando della doccia di Nathan come scusa per concedermi un altro mio piccolo vizio.
 
-         Ho voglia di Martini. Un Royale Rosato per favore, con una fetta d’arancia rossa. – Ordino al telefono. Il tempo di portarmelo che è già nel mio stomaco.
 
-         Ehi, ti manca molto? – Appena in tempo.
Appare in accappatoio dalla porta del bagno, ed i suoi occhi lasciano trasparire una certa impazienza, quasi avesse premura di abbandonare l’hotel.
-         No, ho finito. Vai di fretta? –
-         Voglio solo evitare di rimanere intrappolato nel traffico milanese, è uno dei punti a sfavore di questa città: lo sai. – Istantaneamente cambia impressione, è una di quelle cose che non sarò mai in grado di fare così bene.
Ma non me la bevo.
Spengo la sigaretta, afferro la borsa e ritiro il pacchetto di Marlboro Light, dopodiché con un cenno gli chiedo di seguirmi. Lasciamo la stanza e, preferendo le scale -a causa della mia claustrofobia- raggiungiamo la hall.
 
Mi avvicino alla reception munita di carta di credito e attendo che l’inserviente verifichi l’importo da saldare.
Sospiro allo sguardo offeso di Nate, che per una volta avrebbe voluto pagare i miei costosi vizi.
Sbuffa anche lui e mi diverte, grazie al cielo non sono quel tipo di donna che deve dipendere dal suo uomo.
La fattorina sorride –quasi mi stesse leggendo nel pensiero e concordasse- mentre mi restituisce la carta.
 
Con il solito atteggiamento misto a fretta e distacco, ci dirigiamo alla limousine che ci attende davanti all’entrata del Palace Hotel. Prima di entrare, mi volto.
-         E’ il mio hotel preferito, non ci posso far nulla. Ormai sono di casa. –
 

-

 
A mia totale insaputa, la limousine era colma di palloncini rossi e petali di rose sparsi sui sedili e sulla moquette interna: sono quel tipo di cose che non ti aspetti, soprattutto da un uomo che si serve di queste attenzioni solo se ha qualcosa da farsi perdonare. E Nathan ne avrebbe tante, sul serio.
 
Non so bene cosa dire: al contrario di quel che penserete, non amo quelle dimostrazioni d’affetto grandi quanto le menzogne che nascondono, bensì le piccole cose, concrete e sincere. Resto allibita ad ammirare questo straordinario panorama sfarzoso.
 
Mi è inevitabile pensare che da quando abbiamo avuto l’ultimo litigio -non meno pesante dei precedenti- dovuto, come sempre, alla scoperta di una delle sue scappatelle con donne che con soli due drink lo hanno mandato fuori di testa (a suo dire, ma l’unica verità resta la sua solenne infedeltà, oltre alla totale antipatia per l’alcool) e/o in mia mancanza per impegni di lavoro, sembra essersi regolarizzato dopo aver ricevuto “l’ultimatum”.
 
In due anni di “tira e molla” non si è mai mostrato così presente come in quest’ultimo periodo.
Oh, ora che ci penso, sono due anni giusto oggi!
Mentre quest’ultima riflessione mi balena nella mente, davanti ai miei occhi appare l’oggetto più bello che i miei occhi abbiano mai visto nel corso della mia intera vita.
 
-         Felice anniversario, amore. –
 
Apro la bocca per rispondere, ma non emetto alcun suono. Sembro una bambina che, dal tanto che è felice, non sa dove incettare le parole adatte per esprimersi.
 
Non provavo tante emozioni contemporaneamente da troppo tempo, ed era tanto che lui non mi faceva provare tutto questo. Da quando la mia apatia si era attaccata come petrolio alle mie ali, tenendomi legata a uno scoglio per non affondare nel dolore.
 
-         Non so che cosa dire. E’ tutto… bellissimo.  -Sono le uniche parole che, tentennanti, escono dalla mia bocca.
 
Ammiro quel ciondolo di diamante azzurro -tagliato a forma di cuore- incastonato nella scatoletta di velluto.
Della stessa tonalità di azzurro dei suoi occhi.
 
-         Vieni qua. – Mi raccoglie i capelli, un piccolo gesto che mi fa intenerire, mentre aggancia la collana al mio collo.
Gioco nervosamente con il ciondolo.
-         Non so che cosa dire. Nessuna parola avrebbe il giusto valore. –
-         Non devi dire niente. Sono qui, di fronte a te, conoscendoti abbastanza per capire ogni tua reazione, per quanto indiretta essa possa essere. Ti amo Katelynn, e non ho alcuna intenzione di perderti. Né ora né mai più. –
 
Cerco di frenare le mie paranoie e lo bacio, con amore sincero, stringendo quel diamante della grandezza del mio palmo.
 
-         Dovunque andrai, non saremo più divisi. Mi avrai sempre con te. Vicino al cuore. – Mi bacia la fronte, altro piccolo gesto che per una volta mi fa sentire realmente importante, realmente alla sua altezza.
 
Ed è lì, vicino al cuore, che ora giace il prezioso diamante.  
           

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Capitolo 2
*** - Distante - ***





 

Le auto sfrecciano veloci, lasciando dietro di loro scie infinite di pensieri non espressi, parole non dette, verità scoperte e orgoglio.
 
Giungiamo a destinazione: Nate, guardando distrattamente fuori dal finestrino, abbandona la mia mano stretta fino a pochi secondi prima, lasciandomi perplessa.
 
Nascondo i miei dubbi con un falso sorriso e scendo dall’auto, scortata dai miei bodyguard. I flash ci avvolgono, il mio nome è sulla bocca di tutti, ed anche quello di Nathan, che è pochi metri dietro.
 
Non appena entrata respiro sin da subito un clima di completa tensione, per quanto sia abituata a questo mondo, sento che il mio malessere non è dovuto all’agitazione di tutti per la sfilata, quanto a qualcosa di più. Sono sempre stata abbastanza sensitiva, ed il mio intuito difficilmente si è mai sbagliato, escluse rare eccezioni.
 
Mi giro, fingendomi distratta, verso Nate. Non mi degna neanche di uno sguardo, non mi spiego la motivazione. Mezzora fa aveva un sorriso che mi ha riempito il cuore, mentre ora è buio, quasi avesse ricevuto la notizia di una morte improvvisa di un suo caro.
 
-         Signorina Kate, prego, da questa parte. Le sono stati riservati i posti migliori. – Un ragazzo alto, in smoking, mi fa accomodare davanti alla passerella. Gli sorrido molto spontaneamente.
-         La ringrazio, non sa mica dove posso incontrare Den & Dan? – Chiedo.
-         Gli stilisti, ora come ora, sono impegnati nel backstage. Sono già stati avvertiti del suo arrivo e mi è stato riferito che, a fine sfilata, potrà aver accesso al backstage. – Mostra un sorriso smagliante che mi rassicura totalmente. Non ho mai ricevuto tanta educazione.
-         Perfetto, la ringrazio. – Ricambio il sorriso e mi volto, cercando lui.
-         Buona visione, signorina Katelynn. – Si congeda, attraversando le file di sedie in men che non si dica.
 
Nathan non c’è.
Non ho idea di dove sia, fino a poco fa lo udivo alle mie spalle.
Ho paura, stringo il ciondolo nelle mani, ingoiando quel rantolo che da minuti ormai fa un sali-scendi continuo per il mio esofago.
Le luci si spengono, la scritta ‘DSQUARED2’ brilla sullo sfondo come miriadi di lucciole che si rincorrono.
Respiro l’atmosfera di essere dall’altra parte, per una volta, guardando sfilare le meravigliose modelle. I capi che indossano mi lasciano basita poiché sono ancora più incredibili di quanto mi aspettassi.
 
Fra effetti grafici e musica suadente, la sfilata giunge al termine dopo circa una mezzoretta. Quando si riaccendono le luci, Nathan è affianco a me.
 
-         Dove sei stato ? Ti ho cercato ovunque. – Sussurro, inquieta.
-         Lui, con fare molto disinteressato e quasi irritato, mi guarda.
-         Sono sempre stato qui con te. – Risponde, con un filo di voce.
 
Ignoro questi stupidi dettagli ed avvenimenti che mi stanno solamente agitando e raggiungo D&D nel backstage.
 
-         Amore! Oh – mio – dio , sei incantevole. – Mi vengono incontro, abbracciandomi.
 
Li stringo a me quasi fossero dei. Anzi, lo sono.
 
-         Voi lo siete, ed il vostro lavoro. Siete riusciti anche questa volta a lasciarmi senza parole. – Ignoro del tutto Nate, che non si è degnato nemmeno di avvicinarsi a salutare e complimentarsi.
-         Quale capo ti è piaciuto di più ? – Domanda Den, mentre Dan mi offre un bicchiere di buono champagne.
-         Senza alcun dubbio quel tubino rosso fuoco di pelle, con cintura in vita. Per non parlare dei guanti a completare l’opera! – Euforica, ripenso alla meraviglia che avevo visto poco prima.
-         E’ tuo. – Rispondono all’unisono, ordinando di farlo portare immediatamente.
-         No, davvero, non ce n’è bisogno… - Non mi permettono di aggiungere altro, poiché mi passano il vestito incellofanato e mi ordinano di provarlo.
-         Senza dubbio, ti starà d’incanto. – Dan ricorda benissimo le sfilate precedenti, mentre sfilavo in passerella i suoi abiti e gli occhi di critica e fotografi rimanevano ipnotizzati per tutto il tempo.
 
Mi accompagnano rapidi nel loro camerini e, sfilando il mio abito, mi preparo psicologicamente ad indossare uno dei capi più belli che la storia della moda abbia mai conosciuto.
Lo infilo in un attimo. E’ pronto. E’ perfetto.
 
-         Cosa ti avevo detto, mh? – Mi guardano entrambi esterrefatti.
-         Ragazzi, io vi amo, vi amo davvero. – Li abbraccio, ben sapendo che sarebbe trascorso molto tempo prima di rivederli nuovamente.
 
Mollata la stretta, entrambi mi sussurrano di voltarmi.
Senza pensarci due volte ma soprattutto con molta leggerezza, mi giro, ed i miei occhi avvisano il mio istinto che anche stavolta aveva avuto ragione. Ciò che vedo mi sconvolge. Totalmente.
 
Nathan cinge una modella per un fianco, le sorride, sorrisi che raramente illuminavano il suo volto. Nei suoi occhi leggo malizia, una voglia irrefrenabile di mollare il freno e far si che il suo istinto animalesco e rozzo abbia la meglio.
 
Un velo oscura i miei occhi, le gambe si fanno fragili, per poco non ho un malore. Non poteva, insomma, lo aveva promesso.
Lo aveva promesso ed io, come una stupida, ci ero cascata.
 
Den e Dan, prendendomi per un braccio ciascuno, mi accompagnano nel privé, indignati. Non ha avuto il minimo rispetto, né di me né di loro. Lo guardo schifata mentre mi allontano e noto che si è accorto della mia reazione, sta cercando di congedarsi salutando la bionda, Anne, probabilmente per raggiungermi.  
 
Anne. Pft. Avevo avuto il cosiddetto “onore” di sfilare con lei, anni fa. Mi ha sempre guardata con rivalità, quasi mi stesse sfidando.
La sua invidia nei miei confronti era palese, che volesse impossessarsi di ciò che è mio?
 
-         Come mai, fra tutte le modelle che potete avere, proprio lei? – Chiedo titubante, mentre mi appare un flashback della sfilata.
-         Era l’unica taglia “grande” che potevamo avere. Per il capo di perle, dovevamo scegliere un corpo che potesse valorizzarlo. –
-         Non intendevamo però scatenare alcuna sfida fra voi due. – Aggiunge con voce pacata Dan. Li guardo, tranquillizzandoli.
-         Piuttosto, spiegaci un po’ che cos’è questa storia. Che irrispettoso è diventato Nathan? L’ultima volta che ci siamo sentiti mi avevi detto che eravate un po’ in crisi e mi avevi accennato alcune stronzate che aveva combinato, ma non immaginavo fosse arrivato a tanto! –
-         Non lo aveva mai fatto, non davanti ai miei occhi almeno. – E’ tutto ciò che riesco a dire, con un misero filo di voce.
I gemelli non insistono vedendo che non sono ancora lucida per affrontare l’argomento. Per di più, Nate, ci tronca nel bel mezzo della conversazione, irrompendo nel privè.
 
-         Katelynn, dobbiamo andare. – Ordina, guardandomi dritta negli occhi. – Oh, bella sfilata ragazzi. Complimenti. – Con fare molto falso e quasi di superiorità, saluta Den e Dan.
-         Adesso arrivo. – Rispondo a mezza voce, mentre cerco un appiglio negli occhi dei gemelli, quasi potessero salvarmi.
-         Muoviti. – Sussurra fermo al mio orecchio, fingendosi innocente.
 
Non appena si allontana, stringo forte i miei ragazzi salutandoli.
Raggiungo velocemente l’auto trovando Nate già seduto ad aspettarmi, evidentemente irrequieto.
 

 
Senza avere il coraggio di aprir bocca, il viaggio prosegue in totale silenzio e in aria di completa instabilità.
 
Raggiungiamo l’hotel, il tempo di preparare le valigie e farsi una doccia veloce, che l’aereo per Mosca ci aspetta.
Mi chiudo a chiave in bagno, preparando la doccia idromassaggio ed estraggo il cellulare dalla borsa. Chiamo Irina, la mia migliore amica, per confermarle che sarei andata al party al quale mi – anzi, ci – aveva inviato settimane fa. Nathan è nell’altra stanza, sicuramente pronto ad origliare la mia telefonata.
 
-         Irina. – Sussurro, quasi volessi nascondere la telefonata a Nate.
-         Amore, ciao. Come stai? Ho visto degli scatti di poco fa, sono già in rete. Sembravi spenta. E’ successo qualcosa ? – La sua voce, per quanto allarmata, è un tuffo al cuore. Mi manca.
-         Avrò modo di raccontarti stasera alla tua festa, dettagli inclusi. –
-         Devo preoccuparmi ? – Per quanto cerchi di non peggiorare la situazione, un singhiozzo mi è scappato ed è giunto alle sue orecchie.
-         No, no, va tutto bene. Stai tranquilla. – Fingo, almeno per adesso.
-         Non vedo l’ora di averti fra le mie braccia. – Avverto ciò che prova.
-         Non vorrei mai lasciarti andare via, lo sai. A stasera, Amore. – La saluto, preferendo darmi una mossa onde evitare inutili discussioni.
 

 
Mentre la cromoterapia rilassa ogni mia cellula, vengo distratta da un improvviso rumore. E’ la porta, a pochi metri dal box doccia, che sta tentando di aprirsi senza, ovviamente, riuscirci.
Avverto brontolare Nathan dall’altra parte di essa.
 
Silenzio.
Non ho intenzione di parlargli o chiarire, non ho nulla da chiarire ! Quello che ha sbagliato è lui, non io.
Lo sento cadere a terra, mentre le sue spalle sbattono contro la porta.
Scoppia in un pianto soffocato, respirando a fatica.
Non provo pietà, né compassione, dopo tutto ciò che mi ha fatto.
Non provo proprio nulla, è questo il fatto. Non c’è rancore, non c’è odio, non c’è amore. O meglio, non c’è più lo stesso amore di prima.
 
Ripenso a stamattina, alla sorpresa, al ciondolo. Ho il magone, mentre lo fisso brillare riflettendo la poca luce esterna sul soffitto, creando mille sfaccettature da forme curiosi ed interessanti.
 
-         Aprimi, per favore. Ti chiedo scusa. – Lo sento respirare affannosamente, mentre spinge nuovamente la maniglia.
 
Non rispondo. Chiudo l’acqua ed esco dal box doccia, infilandomi l’accappatoio e stendendomi affianco alla vasca da bagno.
 
-         Aprimi. – Ripete, quasi urlando fra le lacrime.
 
Davanti agli occhi mi scorrono scene di momenti lontani e non, trascorsi insieme, fra risate e lacrime. Appaiono anche gli scandali, le litigate, le percosse, le conversazioni scoperte o riferite. Sorgono il mio dolore, il mio pianto sviscerato, la mia agonia, il mio perdono.
 
-         Ti prego. – La sua mano cerca la mia, divisa da quella porta.
Ascolto il suo pianto, ripensando a tutte le volte che lui aveva ignorato il mio. Mi alzo, ed in punta di piedi raggiungo la porta, aprendola.
 
Lo trovo lì, ai miei piedi, con gli occhi rossi e delle lacrime che non hanno ancora terminato il loro percorso. La sua voce è smorzata, ma riesce ugualmente a trovare la forza – ma soprattutto il coraggio – di parlarmi. Lo ascolto, in silenzio, mentre si scusa in mille modi.
I soliti modi.
 
-         So cosa ti affligge, riconosco di aver sbagliato. Non so cosa mi è preso. –
 
Quella frase. E’ ciò che fa scatenare la scintilla.
 
-         L’ho sentito dire fin troppe volte, sai? –
-         Lo so, lo so, scusami. – Un altro singhiozzo sfugge al suo controllo – E’ solo che non so spiegare davvero questo distacco fra noi, così improvviso. A volte penso che non ci amiamo allo stesso modo. –
-         L’amore non si può pesare, ognuno ama diversamente. –
-         Con ciò confermi la mia supposizione, huh ? –
-         Taci. Dopo due anni certe cose non dovresti nemmeno pensarle.
-         Dopo tutto quello che ci è stato, dopo tutto quello che ti ho dato. –
 
Abbasso lo sguardo ed estraggo una sigaretta, ben fregandomene di ciò che avrebbe detto e/o pensato di tale gesto.
 
-         E’ solo che sei strana in questo periodo, sembro non rientrare più fra le tue priorità. Cambi umore ogni secondo e per di più non stai nemmeno bene, ti rifiuti di mangiare e ogni giorno rimetti a causa di tutto l’alcool che bevi, mischiato a quella porcheria che hai in mano. –
 
Non dico nulla. Faccio un ultimo tiro, prima di spegnere la sigaretta e vestirmi.
 
-         Tu sei sempre stato la mia priorità, e questo non è cambiato.
 
Mi vesto velocemente, mentre attendo una sua qualsiasi reazione.
Si alza, mi guarda negli occhi e mi prende per mano. Accarezza le sue labbra con le mie, finendo col baciarmi.
Un bacio che sa delle sue lacrime, del suo dolore, non del mio stavolta.
 
-         Ti prego Amore, scusami. – Sussurra, respirando sulle mie labbra.
Non rispondo ma accenno un sorriso di approvazione, dopodiché ci prepariamo entrambi e velocemente raggiungiamo la nostra auto, dove son presenti già tutte le valigie, pronte ad accompagnarci nel nostro viaggio per Mosca.
 
Mosca, la capitale della mia patria. Quanto mi manca.
Per un attimo fantastico su come andrà la festa di stasera, mancano appena sei ore. Vedrò Irina, lei, l’unica.
 
Con questo pensiero mi addormento sulla spalla di Nathan che, con gli occhi velati di dubbi infondati, osserva il sole tramontare al di fuori dell’oblo.

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Capitolo 3
*** - Let's have a drama party! - ***





 

Stupefacente come l’intelligenza dell’uomo abbia creato un mezzo di trasporto in grado di potersi spostare da un capo all’altro del mondo con estrema facilità – perché questo è volare – e soprattutto rapidamente, impiegando il minor tempo possibile.
 
Il viaggio trascorre sereno, silenzioso; dormo per tutto il tempo staccando definitivamente la spina da ciò che era accaduto poco prima e continuo il mio sonno senza, stranamente, sognare affatto.
 
Quando apro gli occhi, siamo in aeroporto. Probabilmente, devono avermi scortata in braccio giù dall’aereo, perché non ricordo di aver fatto questo tragitto con i miei piedi.
Sono in sala d’attesa e sono stanchissima.
Non ho la lucidità per chiedere informazioni, perciò attendo assonnata di poter raggiungere l’hotel, il prima possibile. A stenti penso di essere tornata in patria.
 
Prendo un ultimo respiro lungo, finché finalmente ci comunicano che la nostra auto è arrivata a prenderci. Non ho il tempo di raggiungerla che immancabilmente crollo tra le braccia di Nathan.
 
L’auto sfreccia veloce, non curante degli occhi dei passanti incuriositi, e raggiunge prontamente l’hotel. Le portiere si aprono e l’unica cosa che i miei sensi avvertono è il profumo di pioggia fresca che c’è nell’aria. Asfalto bagnato, che i miei piedi non toccano.
Nate mi accompagna sino in camera tenendomi stretta tra le sue braccia, posandomi sul maestoso letto della nostra suite, e addormentandosi poco dopo al mio fianco.
 

 
Quando ci svegliamo, mancano esattamente due ore al party.
Con la bocca ancora impastata di sonno, compongo freneticamente il numero di Irina e la chiamo, cercando di mettermi a sedere sul letto. Sono del tutto priva di forze.
 
Le comunico solamente che siamo arrivati a destinazione e che ci saremmo visti di lì a poco, alla sua festa. Nathan mi guarda, perplesso, quasi vedesse qualcosa che i miei occhi erano incapaci di vedere, o udisse qualcosa che le mie orecchie erano inabili a sentire.
 
-         Hai un’aria distrutta, sembri appena uscita da una rissa. – Ecco il motivo delle sue perplessità. In realtà, mi sento anche peggio, ma fingo di non capire cosa intende.
-         Perché dici così? – Rispondo, appoggiando il cellulare al comodino.
-         Guardati allo specchio. Senza offesa, ma uno zombie è più in forma di te.
 
Gli tiro un cuscino in faccia, dopodiché mi dirigo in bagno con una nausea improvvisa.
Mi gira tutto, manco fossi in preda agli allucinogeni. Non vedo più nulla.
 
Per mia fortuna, riprendo i sensi in tempo da non far capire niente di ciò che è appena successo a Nathan. Irrazionalmente, il mio inconscio realizza l’accaduto prima che gli occhi possano verificarne le conseguenze. Mi rimetto in piedi, davanti allo specchio, fissandomi attentamente negli occhi e scrutando ogni minimo dettaglio del mio volto.
 
Quelle occhiaie, così pesanti, sorte dal nulla. Il volto scavato, pallido, quasi fossi ammalata.
Gli occhi spenti. L’unico accenno di colore è sulle gote, che sembrano appena rosee.
Le labbra sono violacee, come se avessi appena ricevuto un pugno a tutta forza.
 
Chiudo la porta scattando con una forza improvvisa.
L’unico modo che ho per cancellare ciò che ho appena visto è il trucco, e un finto sorriso.
Mi lavo più volte viso e collo, alternando getti di acqua fredda a quelli di acqua calda.
Riprendo un po’ di colorito, sufficiente a farmi sembrare più in forma di prima.
 
Riapro la porta e noto con stupore che Nathan è già pronto, lui si volta appena mentre allaccia al polso il suo Rolex.
 
-         Stai un po’ meglio? – Mi chiede, tenendo gli occhi puntati sull’orologio.
-         Sì. E’ lo stress degli ultimi giorni. – Rispondo, fredda, mentre scelgo i capi da indossare. Abito a palloncino blu notte, con autoreggenti a pois nere e copri spalle di finta pelliccia nera da allacciare al seno. Ai piedi altissime decolleté dello stesso colore del vestito, realizzate in pizzo.
 
Torno in bagno e mi vesto velocemente. Dopodiché passo a stendere un bello strato di correttore coprendo le occhiaie e stendo uniformemente il fondotinta nascondendo tutti i segni del mio malessere; procedo tingendo pesantemente gli occhi con un ombretto brillantinato dello stesso colore del vestito, applicandovi eye-liner e ciglia finte. Finisco con un tratto di matita color carne alle labbra e un gloss dello stesso colore a illuminarle.
 
Una volta pronta, esco dal bagno notando che manca appena mezzora. Frettolosamente, getto tutto il necessario nella pochette di pelo nero e – mentre Nate approfitta del bagno libero – nascondo una delle mie boccette tascabili contente vodka liscia.
 
       - Andiamo. – Ordino, evidentemente agitata.
 Non risponde e abbandoniamo direttamente la camera.
 
Arriviamo a metà della terza rampa di scale quando mi accorgo di aver dimenticato il regalo di Irina in stanza. Mi fermo, scalpitando e imprecando contro me stessa.
-         Cazzo! Il regalo! L’ho lasciato nella valigia. – Sbuffo, quasi urlando.
-         In quale valigia? Vado io a prenderlo. – Mi sorride, anche se è evidentemente scocciato.
-         Quella più grande che c’è di fronte al guardaroba. La scatola è argento, con un fiocco blu. Non puoi non riconoscerla. – Rispondo, freneticamente.
-         Okay, torno subito. Aspettami qui. –
 
In men che non si dica raggiunge la stanza e, una volta trovata la valigia, la apre rovistando rapidamente tra il vasto contenuto. Non tarda a trovare il regalo ma insieme, vi trova anche una scatola bianca, rettangolare, con una scritta netta color blu al centro.
 
Il pacchetto gli cade dalle mani, scivolando a terra con un rumore sordo. I suoi occhi si concentrano e deconcentrano dall’etichetta: Clearblue Digital® – Test di gravidanza.
 

 
Esce furiosamente dalla stanza, lo sento sbattere violentemente la porta e scendere frettolosamente le scale, raggiungendomi in un battito di ciglia. Mi porge il pacchetto, guardando la moquette sotto i nostri piedi.
 
Raggiungiamo l’auto che ci scorta rapidamente al Club Rocket, quello dove Irina ed io avevamo festeggiato il nostro diciottesimo compleanno.
 
Per tutto il viaggio Nathan non spiccica una parola e se ne sta sulle sue, mentre io fingo di non accorgermene e mi preparo psicologicamente a rivedere la mia migliore amica.
Mi aprono la portiera – stranamente non Nate, ma l’autista – ed esco, sorridente, dalla limousine. Cerco lo sguardo di Irina, che inevitabilmente trova il mio, ed è pura euforia.
 
Dopo uno scambio infinito di abbracci, entriamo mano nella mano nel pub, ma non vedo né sento la presenza di Nate al mio fianco. Non l’ho nemmeno visto scendere dall’auto.
Do il regalo a Irina che, strabiliata, mi abbraccia con ancora più furore; dopodiché mi abbandona – promettendomi di tornare subito – per accogliere dei nuovi arrivati, francesi.
 
Ne approfitto per concedermi una pausa sigaretta, controllando se Nathan è nei paraggi.
Non lo vedo. Sbuffo appena, ed entro nella sala fumatori, dove ad accogliermi ci sono gli sguardi ardenti di tutti gli individui maschili presenti.
 
Accendo la sigaretta e prendo tutto il fumo che i miei polmoni riescono a contenere.
Mi si avvicinano due ragazzi, con fare molto disinibito.
 
 
-         Com’è bella. Ma non è quella che c’era sulla copertina di Elle, la scorsa uscita? – Sussurra uno, castano e con i capelli più lisci dei miei, dagli occhi verdi come due smeraldi.
-         Non me ne intendo, quella è roba da Bill. Però mi è molto familiare, e me la farei ben volentieri. Smamma bello, ho la precedenza! – Risponde questi, tirando un pugno che non mi sembra molto amichevole sulla spalla del compare.
 
Mi si avvicina, guardandomi con tanta intensità negli occhi da farmi girare la testa.
Il suo viso mi è così familiare, ma con tutto questo fumo e le luci così basse non riesco proprio a identificare di chi si tratti.
 
-         Ciao, io sono Tom. E tu, ragazza più bella del locale, hai un nome? –
 
Tom. Oh, mio, dio. Certo! Ecco chi mi ricordava. E’ proprio lui, ed è qui davanti ai miei occhi, in carne e ossa. Mi sta parlando. Mi sta guardando.
Strabuzzo gli occhi, mentre lui perplesso attende una mia reazione.
 
-         Ehm. – Prendo un lungo, lunghissimo respiro – Mi chiamo Katelynn. – Rispondo, farfugliando qualcosa che sembra insensato.
-         Hai un nome stupendo, del resto non poteva che appartenerti. – Replica, i suoi occhi scorrono su ogni centimetro della mia pelle e percepisco via via le sue intenzioni. – Ti va di andare in un luogo un po’ più appartato? – Chiede, infine.
-         Sì, perché no. – Rispondo secca, fingendomi disinteressata ma soprattutto tentando in ogni modo di frenare quella voglia immensa di urlare a squarciagola il mio stupore misto a felicità.
 
Uscire dall’aula fumatori è un toccasana per i polmoni, ma ancor di più lo è il posto che ci attende. Mi scorta in un piccolo corridoio, dove non ero mai stata, e mi accompagna fin sopra alla scala a chiocciola. Quando arriviamo, trovo Mosca in tutte le sue sfaccettature.
Una galassia di stelle in quel cielo così buio e minaccioso.
Rimango a bocca aperta, mentre Tom si avvicina prendendomi la mano senza distogliermi gli occhi di dosso. Il suo fiato sul mio collo è ciò che mi basta per tornare alla realtà.
Scatto improvvisamente all’indietro, allontanandomi da lui.
 
Spaventato da questa mia reazione, mi fissa, in attesa di qualche mia parola.
-         Io so chi sei. – Rispondo, decisa, cercando di non far trapelare alcuna emozione.
-         Chi sono? – Replica, confuso ma al contempo eccitato dall’andare delle cose.
-         Sei… Sei il chitarrista della mia band preferita. – E a queste parole, un sorriso sghembo sfugge al mio controllo, facendo crollare tutta la freddezza di prima.
 
Mi siedo, mentre lui si affretta a fare lo stesso al mio fianco, estraendo dalla pochette la boccetta tascabile di vodka.
 
-         Ne vuoi un po’? – Do un sorso e gliela porgo e lui l’accetta volentieri.
-         Grazie. E quindi sai chi sono, huh. – Sorride, ma non colgo un accenno d’imbarazzo nel suo volto. Del resto lui è così, ed io lo sapevo bene, per quanto l’avessi visto sempre dai riflettori.
-         Ti stupisce? Non so se ne sei a conoscenza, ma tutto il mondo vi conosce. – Replico.
-         Beh, sì. – Da un altro sorso alla mia vodka per poi restituirmela.
 
I miei sorsi si fanno sempre più lunghi e la conversazione prende una piega notevolmente diversa da quella che mi aspettavo. Tom, infatti, si accorge del mio malumore e tenta in ogni modo di scoprire ciò che mi affligge, riuscendomi a far sputare tutti i rospi.
Senza nemmeno accorgercene, è trascorsa un’ora e mezza.  La notte s’è fatta più buia, il vento più forte e i lampi si avvicinano per il secondo round di temporale.
 
Rabbrividisco.
 
-         Forse è meglio che torniamo di sotto. – Propone.
Io, che non ho nemmeno la forza di reggermi in piedi dal tanto che sono ubriaca, mi affido a lui. Percorriamo lentamente la scala a chiocciola, tornando – con mio incredibile beneficio – all’aria calda del piano inferiore.
 
Ci dirigiamo alla sala del ricevimento, passando davanti a molti miei conoscenti che però non saluto. Tutti si girano, incuriositi dal ragazzo che mi sta scortando metro per metro.
Lui, testa bassa concentrata sui miei piedi – controlla che non inciampi – si muove per il locale come se conoscesse a memoria ogni suo millimetro quadrato.
 
Mi blocco, strattonandolo con suo stupore, facendolo quasi cadere a terra.
Rimango allibita, da ciò che vedo alzando gli occhi.
Le mie narici erano arrivate impulsive al mio cervello, avvertendo il profumo di Nathan nelle vicinanze – come confonderlo? – cosicché i miei occhi lo cercassero.
 
E infatti è qui, a pochi metri da me.
Con lui ci sono cinque ragazze – tutte modelle, casualmente – tra cui Anne.
Anne, con cui sta scambiando effusioni più che inibite proprio di fronte ai miei occhi.
 

 

Vuoto. Sento solo freddo, silenzio, vuoto. L’unico rumore è il sangue che pulsa, come un martello pneumatico, sulle mie tempie. Non respiro.
 
Cado sulle mie ginocchia, catturando l’attenzione di tutti i presenti. La musica si stoppa – ma io non la sento ugualmente – ed è clamore su tutti i volti degli invitanti.
 
Non riesco a distogliere lo sguardo da questa scena.
Non riesco a impedire al cuore di morire.
 
Nate, incuriosito dall’improvviso silenzio, si gira vedendomi a terra e realizzando in un attimo l’accaduto. Lo vedo impallidire, mentre le sue mani cominciano incredibilmente a tremare, in preda a chissà quale reazione nervosa. Fa un passo, nella mia direzione.
 
Non so come, ma riacquisto un briciolo di forza – quel che mi basta per alzarmi e prendere la mano di Tom – incamminandomi a tutta fretta nella direzione opposta. Non ho equilibrio. I tacchi, nella caduta, hanno ceduto. Li levo in corsa, sempre più velocemente, per fuggire da chi a sua volta sta correndo: Nathan, che però non si è accorto di Tom.
 
Lui, mi afferra per un braccio e mi spinge nell’infermeria del locale, alla nostra destra.
Chiude a due mandate, precedendo l’arrivo di Nate di pochissimi secondi.
Quest’ultimo, infuriato, arriva e comincia a imprecare tutti i santi, ordinando di aprire immediatamente la porta, maledicendomi in ogni lingua.
 
Il mio sguardo di terrore misto a indignazione, cerca sicurezza negli occhi del ragazzo che mi è di fronte e che sta tentando in tutti i modi di proteggermi. I suoi occhi caldi, in qualche modo, ristabiliscono un contatto con la realtà, che dura solo per una frazione di secondo.
 
Il tempo di un battito cardiaco.

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Capitolo 4
*** - Non lasciarmi - ***





 

Chiudo gli occhi stringendo con tutta la forza che ho la mano di Tom, mentre bollenti lacrime infiammano il mio viso. Un colpo, seguito da un altro più forte. Tutto si fa confuso.
 
-         Katelynn apri questa cazzo di porta! – Sbraita, prendendola a calci con sempre più violenza. Nella sua voce avverto una ferocia sovrannaturale, come se fosse posseduto da qualcosa che lo sta rendendo a mano a mano un mostro, più di quanto già lo sia.
 
-         Stronza, apri questa porta di merda o la sbatto giù a calci! – Urla, con ancora più tenacia. Fisso gli occhi di Tom un’ultima volta, prima di armarmi di coraggio e prendere una decisione.
 
-         Nasconditi, se ti vede con me impazzirà. – Sussurro, lasciandogli la mano. La mia voce è poco più di un tremore. Nel frattempo, sento imprecare Nathan contro Irina cercando una seconda copia della chiave per aprire la porta.
 
Tom si nasconde dietro un piccolo scrittoio impolverato senza fare troppe storie, ma avverto nei suoi occhi la stessa quantità di terrore presente nei miei, oltre alla rabbia sviscerata. Lo guardo un’ultima volta, prima di sospirare e rigirare le mandate.
 
Non ho il tempo di scostarmi dalla porta che la apre, con una forza demoniaca, facendomi cadere nuovamente a terra e tagliandomi dalla spalla al gomito. La porta, infatti, è antincendio – ben pesante e impossibile da abbattere – ed i suoi profili sono taglienti.
 
Lo zampillare del sangue, ma soprattutto il forte odore, mi nausea in maniera inverosimile.
Nel frattempo, Nathan è irrotto nella stanza e sta urlando qualcosa che mi è impossibile comprendere. Non ho la forza di alzare lo sguardo, perciò fisso le mie mani insanguinate.
 
-         Sei sempre la solita, no? Non potevi risparmiarti neanche questa volta. La solita bambina viziata che va alle feste per fare le sue moine e mettersi in mostra. – Riprendo a sentire con più vigore la conversazione, alternando momenti di lucidità ad altri di completa assenza.
 
Mi prende il viso tra le mani, premendo con forza snaturata le sue dita contro la mia pelle.
Sono immune al dolore – uno dei pochi benefici dell’essere ubriaca in questo momento – ma non tollero essere trattata così.
 
-         Lasciami, bastardo. – Sono le uniche cose che riesco a pronunciare, dal tanto forte è la sua stretta. Mi tira uno schiaffo sulla bocca, così prendono a sanguinare anche le labbra.
-         Il bastardo sarei io? Perché nascondermi un test di gravidanza non è da bastardi, vero? – E’ ubriaco almeno quanto me. Non capisco il senso delle sue accuse, ma ricompongo il puzzle che l’ha fatto infuriare da prima della festa.
-         Lasciami spiegare… - Tento, inutilmente, di iniziare qualcosa che non potrò concludere, poiché perdo – per alcuni minuti – conoscenza. Evidentemente sto perdendo troppo sangue, e l’alcool in circolo è troppo.
 
Tom vorrebbe intervenire per metter fine a questo film horror, ma pensando alle conseguenze decide di starsene al suo posto come gli avevo – esplicitamente – supplicato di fare. Temevo per la sua incolumità tanto quanto lui temeva per la mia.
 
Nathan intanto, non curante del mio stato fisico, comincia a prendermi a schiaffi finché non riapro gli occhi.
 
-         Svegliati, cogliona! Cos’è, hai fumato così tanto da provocarti un collasso? – Prende la mia pochette tirandomela violentemente contro e centra in pieno le mie gambe. Cammina avanti e indietro con fare minaccioso, quando la fialetta – ormai vuota – di vodka rotola dalla borsa ai suoi piedi.
 
E’ la fine, e lo so bene.
 
-         E questa cos’è? – La prende, girandola appena tra le mani, per poi gettarmela addosso. Si rompe in mille pezzi e parte di essi finisce sulle mie gambe. – Ti sei ubriacata alle mie spalle, vero? Non ti bastava il ricovero dello scorso mese, vero? Volevi finire in coma etilico anche questa sera? – Il suo tono di voce ormai ha ormai superato ogni limite.
 
Irina irruppe nell’infermeria, scortata dai bodyguard che immediatamente braccano Nathan senza troppe leziosità.
 
-         Sei un figlio di puttana, non ti rendi conto di come l’hai ridotta, mostro? – Urla, a un centimetro dalla sua faccia, mentre lui tenta di divincolarsi dalla stretta e attanagliarla. – Ti sei mai chiesto perché si facesse questo? Perché fosse finita in coma così tante volte, casualmente sempre quando scopriva che la tradivi? –
-         Non intrometterti, sono cose nostre. –
-         Hai anche la faccia tosta di dirmi queste cazzate? M’intrometto quando e quanto voglio, fallito che non sei altro. Ti conviene andartene, immediatamente, a lei ci penso io. – Mi raggiunge, ordinando ai bodyguard di scortarlo fuori.
 
Una volta uscito, Tom piomba al fianco di Irina spaventato.
-         Dimmi tutto ciò che hai bisogno. Devo chiamare un’ambulanza? – Sussurra, mangiando quasi le parole dall’agitazione. Io, intanto, sono di uno stadio di semi-incoscienza.
-          Prendi delle garze e del disinfettante, è piena di sangue ma la ferita non sembra profonda. Prenditene cura, io faccio riaccompagnare in hotel quell’obbrobrio.
E senza farselo dire due volte, disinfetta ogni ferita, bendandole di volta in volta.
Mi culla fra le sue braccia, chiamando il mio nome di tanto in tanto.
 

 
Riprendo conoscenza dopo una quindicina di minuti. Tutto ora, passata la sbornia, mi è chiaro e nitido. Anche il dolore si è manifestato in tutta la sua intollerabilità.
 
Vedo il suo sguardo illuminarsi, accorgendomi del mio risveglio.
-         Piccola, come ti senti? Vuoi un antidolorifico o preferisci andare in ospedale? – Chiede, premuroso, passandomi una mano sulla fronte. Scosta una ciocca dei miei capelli per liberarmi gli occhi e guardarmi meglio.
-         N. No. Devo tornare in hotel. – Rispondo, tentennante, cercando di minimizzare la gravità della situazione.
-         Non puoi. Non devi. Non puoi tornare da lui. – Risponde, con tono secco ed intimidatorio.
-         Non metterti anche tu a impartirmi ordini. – Sbotto, scocciata.
-         Guarda come ti ha ridotta. Volevo solo intromettermi e… -
-         No. Hai fatto bene così. Hai rispettato ciò che ti avevo chiesto. – Gli passo una mano tra i capelli, facendo scricchiolare tutte le articolazioni.
 
Irina, al suono della mia voce – per quanto lieve sia – entra nella stanza aiutando Tom a rimettermi in piedi.
 
-         Ti ho portato questi, così potrai cambiarti. Puoi dormire da me se vuoi e restarci quanto desideri. Casa mia è casa tua, lo sai benissimo. – Per quanto tenti di mantenere un tono fermo, nella sua voce c’è ancora un’evidente tremore dovuto alla paura di perdermi.
-         Ti ringrazio, Amore. – Appoggio il mio capo al suo dopodiché accetto la borsa che mi offre contenente vestiti puliti ed un paio di scarpe nuove.
-         Tom, prendi le sue cose ed aspettaci fuori. L’aiuto io a cambiarsi. – Gli sorride e lui, afferrata pochette e tacchi ormai distrutti, esce dall’infermeria.
 
In men che non si dica sono di nuovo attiva, per quanto i dolori siano forti e la stanchezza notevole.
 
-         Amore, non posso lasciare le cose così, capisci? Devo chiarire. – Replico, paziente. – Sii ragionevole e cerca di capire perché devo farlo. – La guardo negli occhi.
-         Promettimi solo che sarai prudente e che verrai da me prima di domani sera. –
-         Prometto. –
 

 
La saluto cingendola con un braccio – quello della spalla sana – e fiutando a pieni polmoni il profumo dei suoi capelli. Sarebbe stato l’unico modo per ricordarla vicina, nelle prossime ore.
 
Tom mi aiuta a salire in auto, accompagnandomi sino all’hotel.
 
-         Ti prego, non andare. – Il suo tono supplichevole mi fa tenerezza, per quanto sia dispiaciuta di averlo fatto assistere ad una situazione così spregevole.
-         Non mi accadrà niente. Più di così, cos’altro vuoi che mi faccia? – Gli faccio l’occhiolino, fingendo di non avere il minimo scrupolo.
-         Ti ho già salvato in rubrica il mio numero, per qualsiasi cosa, chiamami. –La sua voce non ammette scuse.
 
Poso le mie labbra sulle sue dandogli un bacio leggero, incamminandomi poi a piccoli passi all’entrata dell’hotel. Prendo l’ascensore – tanto, stordita come sono, alla claustrofobia non ci penso – e raggiungo immediatamente la mia stanza. Esito, per un attimo, a spingere quella maniglia fredda, sapendo cosa – o meglio, chi – mi aspettava all’interno.
 

 
Non accendo luci.
Quel miscuglio di profumi – i nostri profumi – invade le mie narici. Chiudo piano la porta alle mie spalle e m’incammino velocemente in bagno, chiudendomi a chiave.
Respiro.
A patto di dormire sul tappeto di questo bagno non uscirò da qui, penso tra me e me.
 
Mi guardo dritta allo specchio, verificando la gravità dei danni subiti.
Ripenso a ciò che vidi poche ore prima, alle occhiaie, e sorrido del paragone appena fatto.
 
Passi leggeri catturano la mia attenzione, provengono dalla stanza limitrofa.
Il panico mi assale, cerco disperatamente di mantenere un respiro regolare e di trovare una soluzione. Se Nate avesse dormito nella stanza affianco, avrei potuto dormire nella stanza matrimoniale – che ha una porta a sé, munita di chiave – e con questo pensiero riprendo il controllo di me stessa.
 
Un altro respiro, dopodiché apro la porta ed esco, silenziosa più che mai.
So che è sveglio. So che può sentirmi. So che mi sta sentendo.
 
Sento il suo respiro sempre più vicino mentre, cauta, passo affianco al divano dirigendomi alla porta della camera matrimoniale. Più facile di quanto pensassi.
Chiudo la porta alle mie spalle, con un rumore sordo. Sono salva.

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Capitolo 5
*** - Gli amici servono a questo - (PT.1) ***





 

Quando apro gli occhi, mi accorgo di non essere sola.
Un gatto nero, infatti, dagli occhi smeraldo, si ripara dalla pioggia battente sul davanzale del balconcino che affianca la camera. Avrà all’incirca un anno e mezzo e, a giudicare dall’aspetto curato, deve sicuramente appartenere a qualcuno. Mi fissa, con i suoi occhi smeraldo. Ma non entra.
 
Dicono che gli animali avvertono l’instabilità nell’aria e nelle persone, ed evidentemente, deve aver capito che non sono per niente in ottima forma.
 
Mi rilasso, ancora qualche minuto, ascoltando lo scrosciare insistente della pioggia -una cosa cheamo fare- ringraziando di aver dimenticato la finestra aperta.
 
La stanza è semibuia, devono essere passate da poco le otto del mattino ma il sole non è ancora sorto - e probabilmente non sorgerà. Rabbrividisco, accorgendomi di avere la pelle ghiacciata, e mi rintano sotto il piumino. Dimentico che sia inverno e che in Russia faccia così freddo, ma ammetto che è una delle cose che più rimpiangevo quand’ero fuori per impegni lavorativi nelle zone equatoriali.
 
Rimango così, tra i miei pensieri per non so quanto tempo.
Quel che basta per sfuggire dalla realtà e addormentarmi di nuovo, convincendomi che occhi smeraldo mi avrebbe protetto da ogni male.
 

 
Un miagolio, lieve quanto una carezza, mi sveglia annunciandomi un arrivo.
 
Bussano alla porta. Due tocchi distinti ma non troppo vigorosi.
Mi volto dall’altro lato del cuscino - quello opposto alla finestra - cercando di schiarirmi le idee e mettere a fuoco ciò che mi circonda.
Bussano ancora, un solo tocco stavolta.
 
So chi mi aspetta, ma ciò che non so è cosa fare. Come agire.
Girata da questo lato mi appoggio alla spalla ferita e il dolore mi riporta indietro alla discussione avuta stanotte. Respiro, a fondo, tentando di non farmi intimorire.
Mi alzo barcollante e a passi lenti raggiungo la porta. Giro le mandate, sperando che non sarebbe irrotto nuovamente con la stessa prepotenza.
 
Sento il suo respiro, così vicino, avvertendo l’adrenalina scorrermi nelle vene.
Le tempie pulsano, la respirazione si fa più accelerata ma resto in attesa.
 
-         Posso entrare? - La sua voce mi stravolge, per quanto stavolta sia pacata.
-         Sì. - La mia è poco più di un sussurro ma temo che non sia dovuto al sonno.
 
La porta si apre e istintivamente indietreggio di un paio di metri, raggiungendo velocemente il letto alle mie spalle. Lo vedo entrare, esitante, ma non troppo.
Non ho intenzione di rivolgergli la parola, né tantomeno di iniziare alcun discorso.
In questo preciso istante, rivedo gli occhi supplichevoli di Tom davanti ai miei.
 
Nate si schiarisce la voce, pronto ad iniziare a parlare al posto mio.
-         Non saprei da dove cominciare… - Si passa una mano tra i capelli biondi, tenendo lo sguardo sul parquet sotto ai suoi piedi.
-         Ciò che è successo stanotte, per quanto avrei preferito che non accadesse, era nell’aria già da troppo tempo. Non ti nego che, i miei sospetti riguardo al fatto che tu fossi… Che tu fossi in… - Lo guardo, portandomi irrazionalmente una mano sul ventre. Soffoco un singhiozzo e resto in attesa.
-         Insomma, riguardo alle tue nausee, i tuoi continui sbalzi d’umore, i tuoi malesseri e le tue voglie improvvise, li avevo già da un paio di settimane. Nonostante cercassi di nascondere questo pensiero, il mio subconscio sapeva che questa avrebbe potuto essere una possibilità. - Prende un respiro, cercando di formare delle pause mirate tra una frase e l’altra.
-         Ad ogni modo, avrei desiderato che me ne parlassi. Ciò che non sopporto di te è che tendi sempre a tenere i tuoi dubbi con te, condividendo solo ciò che vuoi con me. In una relazione dovrebbe esserci il dialogo, non il silenzio. -
-         In una relazione dovrebbe esserci il rispetto, non l’infamia. - Sbotto, rimanendo basita dalla forza con la quale ho appena detto queste parole.
-         Lo so. - Mi guarda fisso negli occhi, probabilmente attendendo un continuo.
-         Con che… coraggio, riesci ancora a guardarmi negli occhi, con la tua spavalderia? - Sento gli occhi inumidirsi, ma non ho intenzione di dargli questa soddisfazione; non piangerò ancora per lui, né ora né mai.
-         Ti prego, perdonami. - Lo vedo avvicinarsi, per poi chinarsi davanti a me.
 
 Lo vedo inginocchiarsi e supplicarmi, come mai sin ora aveva fatto.
 
-         Perdonami, ciò che è successo ieri è stato un errore. Un errore che non commetterò più, un errore che riusciremo a dimenticare. Insieme. -
-         Io. Non. Dimentico. - La mia voce sprezzante disdegna ogni sua proposta.
 
Due lacrime, di fronte alla mia freddezza, gli scendono lungo le guance. Non gli avevo mai parlato in questo modo, né tantomeno ostentato così tanto a perdonarlo e, di certo, non ho intenzione di farlo dopo tal avvenimento.
 
-         Katelynn, ti supplico, torniamo ad essere quello che eravamo all’inizio. Ti amo con tutto me stesso e te lo dimostrerò, farò di tutto per provartelo.
-         Ho bisogno di tempo. Ora alzati e lasciami sola, avrai una risposta presto. - Il mio tono suona come una promessa, che ho intenzione di mantenere.
 
In una manciata di secondi mi ritrovo qui, nuovamente sola, avvolta nel piumino caldo. L’unica differenza è quella porta, che ora, non chiusa a chiave, sembra poter aprirsi da un momento all’altro. Mi volto verso la finestra, occhi smeraldo è tornato.
 

 
Devo uscire da qui.
 
Prendo il primo paio di jeans che trovo - neri con brillantini, strappati sui lati frontali - ed un maglione a trapezio. Mi vesto, sorprendendomi dalla mia stessa velocità, e dopodiché tirando un sospiro abbandono la stanza.
Giunta in bagno, l’acqua rinfresca ogni angolo del mio viso recandomi sollievo immediato. Mi guardo allo specchio, titubante di come avrei potuto mascherare i pesanti lividi violacei che stavano prendendo forma agli angoli della bocca.
 
Con un pesante strato di correttore e fondotinta puoi fare miracoli.
E così, finito di truccarmi gli occhi, passo un rossetto pesca sulle labbra gonfie.
Un tocco di profumo e sono pronta per la mia libertà.
 
Quando esco dal bagno, Nathan è appoggiato ai profili della porta d’ingresso, che mi fissa speranzoso e nel contempo francamente perplesso. Non lo guardo, mentre infilo il primo paio di Ugg che mi è capitato a tiro, e prendo una borsa dalla valigia.
La stessa valigia contenente quel dannato test di gravidanza.
 
Ignorando questo pensiero, arrivo davanti a Nate che - con mia sorpresa - non oppone resistenza e mi lascia uscire. Chiudo la porta alle mie spalle, prendendo un respiro profondo. Il conforto, dopo tanta inquietudine, è deliziosamente appagante.
 
Raggiungo in men che non si dica la hall - ed un inserviente mi raggiunge subito, chiedendomi cosa avessi bisogno - segregandomi velocemente nel primo taxi a disposizione. L’augurio di “buona giornata” del fattorino suona come un’orazione.
 
-         Lo sarà, senz’altro. La ringrazio, buona giornata anche a lei. -
 
E detto ciò, ordino al taxista di partire e portarmi ove esistesse un posto tranquillo.
 

 
Signorina, desidera che resti qui in caso avesse ancora bisogno? E’ una zona deserta e, anche se non malfamata, non le consiglio di restare sola. –
 
La voce gentile del taxista, un uomo sulla sessantina e dalle sembianze italiane, mi fa tornare alla realtà.
 
-         Non si preoccupi, è la mia città e nessuno oserà farmi del male. Saprebbe solo dirmi dove mi trovo e se c’è una cabina telefonica nei paraggi? -
-         Come desidera, Miss. L’ho scortata dove vengo a schiarirmi le idee, aveva tutta l’aria di essere ciò di cui aveva bisogno, quand’è salita sul mio taxi mezz’ora fa. Spero sia di suo gradimento e la cabina telefonica la trova nell’angolo a destra. - Sorride, stropicciandosi i folti baffi bianchi. - Sa, da bambino abitavo proprio tra questa e l’altra traversa. E’ la zona più remota di Mosca e per questo la più tranquilla. Qui è al sicuro da tutto, signorina, meno che dai suoi dubbi interiori più celati. - Noto una certa malinconia nella sua voce, mentre afferma tali parole e, guardandomi attorno, intuisco il perché.
-         A volte fa bene rimanere soli con se stessi, al di fuori dal mondo. Aiuta a crescere, non trova? Beh, non lo assillerò con le mie preoccupazioni. La ringrazio per tutto e le auguro buona giornata. - Detto questo, porgo una sostanziosa mancia all’uomo dall’esterno del finestrino anteriore e, non appena ricevuta, m’incammino per trovare la cabina.
-         Buona giornata a lei, Miss. - L’ultimo rumore a dividermi da me stessa è il riavvolgersi del finestrino dell’auto ed il suo motore.
 
Sola, finalmente isolata da ogni contatto con il mondo. Esisto solo io ed il battito del mio cuore, l’asfalto bagnato sotto i miei piedi e l’alito che si sparge nell’aria fredda creando leggere nuvole di vapore.
 
Raggiungo la cabina ed estraggo dalla borsa il cellulare ed il portafogli.
Sul display compare il counter degli sms ricevuti che, stavolta, non ignoro.
Tra i nomi di vari contatti lavorativi, compaiono i mittenti più recenti: Irina (3), Tom (1) e Nathan, anche lui un messaggio, inviato probabilmente appena uscita.
 
Partendo da quest’ultimo, che sicuramente sarebbe stato il più uggioso, li leggo uno ad uno. Riesco persino ad associare il tono di voce con cui avrebbe detto tali parole:
“Ovunque tu stia andando, sappi che avrai ciò che hai chiesto; hai tutto il tempo che desideri, a patto che tu ricorda che mi appartieni. Scusami, per tutto. Ti amo.”
 
Che falso.
Ovviamente non rispondo, e passo a quelli di Irina, risalenti al mio rientro in hotel.
Conservo quello di Tom per ultimo, poiché mi avrebbe senz’altro rallegrata, e mentre lo apro estraggo una tessera telefonica che inserisco nel lettore della cabina.
 
Sorrido, leggendo solo il suo nome in cima al messaggio.
“Non avrei voluto disturbarti - solitamente non sono il tipo che manda messaggini - ma non faccio altro che pensarti. Spero vivamente che tu stia bene e spero di rivederti presto. Sento già la mancanza del tuo profumo e dei tuoi occhi nei miei.”
Mi sento completamente rincoglionita, a sorridere in questo modo ad un cellulare.
 
Compongo il numero maledicendo i guanti di pelo che mi avvolgono le dita.
Due squilli, o forse uno squillo e mezzo. Niente conta, oltre alla sua voce.
-         Pronto? -
-         Hei, sono io. Grazie del messaggio, l’ho appena letto. - Non riesco a capire se ho davvero pronunciato la frase ad alta voce o l’ho solo pensata.
-         Come ti senti? Ti ha fatto qualcosa? -
-         No, oltre ad inginocchiarsi per la prima volta davanti a me pregandomi di perdonarlo e versando lacrime da coccodrillo. - Rido, ripensandoci.
-         Non hai risposto alla prima domanda. - Suggerisce, ansioso.
-         Sto bene, non preoccuparti. L’unico dolore che non riesco a nascondere è quello alla spalla, temo che ci vorrà un po’ prima che la ferita guarisca. -
-         Lo sfregio non è profondo… - La sua voce è evidentemente irrequieta. - … Per questo spero che non lasci cicatrici. E’ un bel taglio, ti rovinerebbe davvero il braccio, visto che hai la pelle candida come la neve. -
- Potrei sempre coprirla con un tatuaggio. - Sdrammatizzo, cercando di alleggerire le sue tensioni ed anche le mie.
- Non vorrai mica diventare come Bill, eh? - Ride. Un toccasana per me.
- Se il mio lavoro non me lo impedisse, ne farei ben volentieri alcuni. -
- Sono sicuro che saresti ugualmente bella. - Arrossisco, reazione che difficilmente mi capita di avere.
- Grazie. Ora ti devo lasciare, ho in mente un piano e devo trovare il modo di attuarlo. Ti chiamo io, ok? -
- … Quando ci risentiremo? - Avverto tutta la malinconia nel suo timbro.
- Presto, te lo prometto. -
- Riguardati. -
- Sarà fatto. Ciao, Tom. - Attacco, riappoggiando la cornetta al supporto.
 
Estraggo la tessera ed esco dal loculo, ripensando alla saggia decisione di non utilizzare il cellulare per chiamare Tom.  Nate, infatti, quando partivo per lavoro, controllava ogni settimana i miei tabulati per verificare i miei movimenti.
 
Per chiamare Irina non ho bisogno di tutta questa discrezione.
Trattenendole i particolari delle mie intenzioni, le annuncio solamente che nel tardo pomeriggio l’avrei raggiunta a casa sua e mi sarei fermata da lei finché non mi fosse possibile lasciare la Russia.
 

 
La fiamma dell’accendino brucia l’estremità della sigaretta accendendola. Carta e tabacco che bruciano, insieme, procurando una scia discontinua nell’aria.
Aspiro quanto più fumo possibile, lasciando che questo invada i miei sensi completamente, ed espiro liberando i polmoni. Apro gli occhi, tutto è chiaro.
 
Fisso l’orologio del display del cellulare.
Nathan sarebbe dovuto uscire, di lì a poco, per un’intervista radiofonica alla quale - teoricamente - avrei dovuto accompagnarlo.
Tratta del suo nuovo album e, per questo motivo, non penso che se la sarebbe lasciata sfuggire. Convincendomi che sarebbe stato così, chiamo un taxi.
 

 
Arrivata in hotel, salgo furtivamente le scale, pregando di essere sola.
Giunta al mio pianerottolo, percorro velocemente i pochi metri che mi dividono dalla mia camera e, trattenendo il respiro, apro la porta.
 
Sola. Fortunatamente sola.
E’ ora di entrare in azione ed attuare il piano escogitato poco prima.
 
Preparo tutte le valige, accertandomi di non dimenticare nulla e svuotandole da ciò che appartiene a Nathan. Ogni cosa, ogni vestito, ogni ricordo.
Mi guardo le mani nervosamente e noto di avere ancora al collo il cuore azzurro.
Lo strappo, - liberando non solo il collo dal peso di quell’oggetto - e lo lancio sul letto centrando in pieno il biglietto di carta contenente la risposta per Nate.
 
Una volta pronta, mentalmente e fisicamente, chiamo la reception e ordino che mi si prenoti un’auto e che mi chiami all’istante un fattorino.
Il tempo di riagganciare la cornetta che è qui.
 
Apro la porta e gli permetto di portare via ogni valigia, caricandola in macchina.
Scendo insieme a lui e raggiungo l’auto che mi attende all’uscita dell’hotel.
-         Mi raccomando, nessuno deve sapere dove sto andando. Il conto glielo pagherà Nathan, non appena lascerà l’hotel. -
Lo saluto, fidandomi che avrebbe mantenuto la parola data.

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Capitolo 6
*** - Gli amici servono a questo - (PT.2) ***





 

E’ strano soffermarsi a pensare a come le cose possano evolversi così drasticamente da un momento all’altro; tutti i progetti che avevi in mente lasciano all'improvviso la priorità ad altri nuovi, respiri aria fresca e nelle tue vene scorre adrenalina pura, mista ai frequenti timori di commettere nuovi sbagli.
 
La mia auto sfreccia veloce per queste vie che, ora come ora, mi appaiono confuse e quasi sconosciute, per quanto siano le stesse percorse più e più volte da bambina. Non avere scadenze da rispettare al momento è qualcosa di strano che offre tremendo sollievo, un conforto al quale non ero più abituata, una vera e propria pace interiore.
 
-         Mi porti in via Prechistenka, per favore. -
 
Potrei girare per ore e andare ovunque, ma sento il bisogno di tornare alle origini. Nessun ricordo è più forte di questo, perciò ne trarrò beneficio aggrappandomi.
 
Raggiunta la destinazione desiderata, chiedo al mio chauffeur di restare a disposizione nei paraggi, in modo tale da essere libera di andarmene quando lo desidererò. Scendo dall’auto e inizio ad inoltrarmi tra i monumenti che questa via offre, associandone ognuno ad un momento passato in particolare nella mia infanzia; spesso, infatti, mia nonna materna - che abitava a pochi isolati da qui - mi portava a passeggiare tra queste straordinarie opere, raccontandomi tutto su ognuna di esse, che ai miei occhi apparivano come favole surreali e incantate.
 
Passo davanti al museo Tolstoj - nome di uno degli scrittori preferiti di mia nonna - e mi soffermo ad ammirare quanto sia rimasto immutato, nonostante sia passato almeno un decennio dalla mia ultima visita. Non entro, decidendo di proseguire la mia camminata ancora per un po’.
 
Vengo del tutto disturbata, mio malgrado, dalla suoneria insistente del mio cellulare. Nel frangente che lo estraggo dalla tasca del cappotto, smette di suonare infastidendomi doppiamente. Sblocco i tasti e guardo il display che segna, oltre alla chiamata persa, quattro messaggi di testo tutti a nome di Nate.
Sbuffo, pensando che ho solo dato inizio a una guerra che non avrà fine.
 
Non parendomi opportuno leggere i messaggi in questo momento e luogo, chiamo l’autista e mi faccio venire a prendere all’istante. Quel che mi ci vuole adesso è sicuramente dello shopping!
 

 
-         Magazzini Gum, per favore. -
Nove piani di centro commerciale tutti per me. Sorrido, all’idea di essere, per una volta, sola a fare ciò che desidero senza vincoli e contrarietà.
 
-         Signorina, ma non può entrare da sola. E’ affollatissimo e la riconosceranno sicuramente! Inoltre io non potrei scortarla poiché poco fa alcuni paparazzi mi hanno individuato e già chiesto di lei. Ho risposto che ero solo. -
-         German, non preoccuparti. Che cosa esistono a fare gli occhiali da sole? -
-         Come desidera, Miss Kate. - Ricambia il mio sorriso, poco convinto.
 
Il fare affettuoso e premuroso di German, autista di fiducia della mia famiglia, mi fa molta tenerezza e mi avvicina, ancora una volta, alle mie origini.
Quando torni a casa dopo tanto tempo tutto appare straordinariamente irreale.
 
Raggiungo, in men che non si dica, i miei adorati magazzini. Inforco gli occhiali da sole, indosso il cappuccio del cappotto ed esco dall’auto aprendo l’ombrello.
Il mio cellulare squilla ancora un paio di volte, ma ignoro le chiamate.
Entro, lasciandomi conquistare dalle vetrine più suggestive, ritrovando i miei negozi preferiti e l’adolescenza smarrita sulle passerelle, a differenza delle mie coetanee.
Individuo molti dei dipendenti ma, per non farmi scoprire, continuo indifferente.
Posso giurare di aver visto anche due compagne dell’asilo privato a cui andavo da bambina, ed una di loro deve avermi riconosciuta, ma senza avvicinarsi.
 
Dopo quarantacinque minuti passati ad ignorare telefonate, decido di uscire onde evitare di alterarmi maggiormente. German mi raggiunge in un baleno portandomi, stavolta, a casa di Irina.
 
La mia migliore amica abita in un paesino che confina con Mosca, ma raggiungerlo con questa tempesta richiederà almeno il doppio del tempo consuetudinario. Il mio autista guida sicuro, conoscente la strada e, per non creare silenzi imbarazzanti, mi lascia ascoltare la musica che voglio a tutto volume.
 
Ho del tutto perso la cognizione del tempo tra quelle vetrine e, se non fosse stato per colpa delle continue telefonate di Nathan, ci avrei passato l’intera serata.
Sono ormai le diciotto passate, ho lasciato l’hotel da più di quattro ore.
Deve farsene una ragione.
 

 
Quando arrivo a casa di Irina, la tempesta sembra essersi placata - anche Nate sembra aver smesso di cercarmi - ma dev’essere senz’altro una provvisoria quiete prima del secondo round. Quantomeno, la mia migliore amica allevierà ogni mia preoccupazione con la sua presenza.
 
-         Ci vediamo presto German, grazie per la tua disponibilità. - Lo abbraccio, non nascondendo una nota di malinconia nella mia voce.
 
E’ stato un tuffo al cuore rivederlo, viaggiare sola con lui come quando veniva a prendermi all’uscita dalle scuole private, oppure quando mi accompagnava in gelateria.
 
-         Arrivederci, signorina Kate. Si riguardi, mi raccomando. -
 
Quando mi volto Irina è già alle mie spalle. Le sue braccia calde mi avvolgono, facendomi rabbrividire per il contrasto di temperatura della mia pelle.
 
-         Finalmente sei arrivata. - E’ euforica, ed evidentemente sollevata.
-         Avevo promesso, no? - La abbraccio, cercando di urtare il meno possibile la mia spalla terribilmente dolorante. Un lamento sfugge al mio controllo.
-         Dimenticavo la ferita, scusami! Come ti senti ora? Andiamo subito dentro così puoi disinfettarla, sta già cicatrizzando? - Ci incamminiamo verso l’entrata, portando - a fatica - tutte le valigie.
-         Sto meglio, fa male solo quando tendo il braccio. E’ l’umore che non è dei migliori, come potrai immaginare. - Un sorriso triste mi si stampa sul viso.
-         Beh, a questo ho rimediato io. Gli amici servono a questo, no? - L’improvvisa trepidazione che scaturisce la sua voce mi fa girare la testa, recandomi ansia.
-         Che cosa intendi? - Il mio cuore sussulta, come ho già detto non sono una persona paziente, ed ancor meno a giudicare dal sorriso che le illumina il volto.
 
Conosco questo sguardo, si tratta di qualcosa di speciale.
 
-         Stai a vedere. - Indietreggia di pochi metri, rimanendo voltata a guardarmi.
-         … Ragazzi? - La porta si apre e, in un minuto che mi sembra impercettibile, escono quattro giovani.
 
Il primo, il più alto, è Bill - con i suoi impeccabili capelli neri. Il secondo è Georg, occhi smeraldo della festa. Il terzo è Gustav, mentre, per ultimo - come scena al rallentatore - esce Tom.
 
-         (…) - Non riesco ad immaginare l’espressione sul mio volto in questo momento.
 
Mi sento come se il mondo si fosse fermato, come se ci fosse un eterno silenzio e fossi circondata da pareti bianche e tutto ciò che vedo è il mio sogno realizzato, davanti ai miei occhi.
 
-         Non ancora… - La sento mormorare lontanamente, come se non ci trovassimo a distanza di soli due metri. - Kate, Amore? - La vedo avvicinarsi.
-         Sei impallidita a dismisura, se ho fatto una cosa sgradita, perdonami. - Mi cinge il fianco col braccio destro, invitandomi a voltarmi verso di lei.
 
Ma non riesco.
 
-         Io non, non so… Non so cosa dire. - Balbettando qualcosa che pressappoco assomiglia a queste parole, i miei occhi cominciano a sgorgare lacrime calde.
 
Irina annuisce, guardando i ragazzi. Loro si avvicinano, quasi attendessero solo che avessi questa reazione. Il caldo mi ha invaso, per quanto in realtà sia gelida.
 
-         Piacere, io sono Bill. - Il suo sorriso è un fottuto paradiso. La sua voce mi pare così deliziosa da sembrar irreale. - Suvvia, non piangere. - Porta la sua mano sul mio mento, per alzarlo alla sua altezza e col dorso asciuga un paio delle lacrime che ho ai lati del viso.
 
Un gesto che non sfugge agli occhi di Tom.
 
-         Ciao, Bill. - Mi sento un’idiota, una completa demente.
 
Vorrei dire mille cose contemporaneamente, ma non riesco a ricordarmi neanche come si respira.
I miei occhi si spostano impazziti dall’uno all’altro, incapaci di distogliere lo sguardo.
 
-         Io sono Georg, ci siamo già visti ieri sera al locale ma, ehm, qualcuno mi ha impedito di avvicinarmi. - Con la coda dell’occhio fissa Tom - che, impassibile, non mi leva gli occhi di dosso - e dopodiché mi porge la mano, stringendola.
 
Una presa forte, quasi come me l’ero sempre immaginata, se non più bella.
 
-         Ciao Kate, io sono Gustav. - Anche lui mi porge la mano, scoprendo un incantevole sorriso che raramente si è visto.
 
Provo così tante emozioni da sentirmi esplodere.  I ragazzi indietreggiano, scortando Irina - e le mie valigie - all’interno della casa.
Una volta entrati, Tom si avvicina e rianimandosi e rivolgendomi la parola.
 
-         Beh, noi ci conosciamo già, no? - Mi abbraccia.
 
Essere così stretta a lui mi fa sentire completa e fuori dal mondo. 
 
-         Ora entriamo, sei ghiacciata. - Abbandoniamo l’immenso cortile della casa dirigendoci all’interno.
 

 
Le ore successive passano così velocemente da rimpiangerle.
 
Mi allontano per un istante dall’enorme - lussuosissima - sala da pranzo dove abbiamo finito di consumare la nostra cena a base di pizza, ed Irina mi segue a ruota scusandosi per entrambe con i ragazzi.
 
-         Non metteteci troppo. - Sottolinea, con sguardo malizioso, Tom.
 
Raggiungiamo la sua camera da letto - dove al momento sostano le mie valigie - ed estraggo, da una di esse, una trousse contenente vari farmaci e tamponi.
 
-         Credo proprio che quel test non servirà. - Irina mi abbraccia all'istante, già al corrente delle mie intenzioni. - Lo immaginavo, ma preferivo sentirtelo dire.  Se hai bisogno di qualcosa chiedi e lo avrai. -
 
Mi dirigo in bagno, cambiandomi rapidamente. I miei sospetti erano fondati.
Evidentemente, il ritardo così prolungato dell’ultimo ciclo è stato dovuto alle forti pressioni che ho sopportato, così come la mancanza di appetito che poi soddisfacevo con strane voglie a qualsiasi ora del giorno.
 
Tornando in salotto, dove si sono spostati i ragazzi, Tom torna al mio fianco.
-         Tutto bene? Sei ancora un po’ pallida. - Mi mette una mano sulla fronte.
-         P.T.F. - Sussurra Irina tutta sorridente a mezzo metro da noi.
 
Tom mi guarda esterrefatto, quasi avesse realmente capito che intendesse.
 
-         Problemi Tecnici Femminili. E’ un acronimo che utilizziamo da anni. -
-         Capisco. Aspetta, quei problemi? - Mi guarda fiducioso e chiaramente confuso, pensieroso riguardo la discussione della scorsa notte.
-         Sì. - Gli sorrido, palesemente imbarazzata.
 

 
Altra causa del mio odio verso il tempo? Il fatto che passi così in fretta quando ti diverti, con chi ami, quando sei circondata da persone che ti fanno star bene.
 
-         Credo che sia giunta l’ora di rientrare in hotel, ragazzi. - Gustav sbadiglia, guardando l’orologio al polso. Georg si volta verso di lui annuendo.
-         E’ stato un piacere conoscerti, Kate. - Commenta Bill, salutandomi.
 
Porgo l’altra guancia a Georg, dopodiché abbraccio Gustav. Ho sempre desiderato farlo ed un giorno spero di confessargli che lo vorrei come migliore amico.
 
-         Per quanto riguarda te… - Irina, avvicinandosi, indica Tom al mio fianco - Puoi restare qui, stanotte. Ma scordatelo sin da subito, dormirà con me. –
 
Fingendosi posata e dispotica, accompagna i ragazzi alla porta e li saluta.
Tom sogghigna sotto ai baffi ed io, che non riesco in alcun modo ad abbassare il mio sopracciglio, devo avere sicuramente un’espressione da ottusa.
 
-         Agli ordini capo! - Sorride ed Irina contraccambia il sorriso.
-          
Improvvisamente, sussultiamo tutti per il volume della suoneria di un cellulare.
E’ il mio, per l’ennesima volta.
Prendo la borsa dal divano ed estraggo il telefono, recandomi nell’anticamera di una delle stanze degli ospiti sullo stesso piano.
 
-         Katelynn, tesoro! Mi stavo preoccupando! - La voce di mia madre suona squillante più che mai tramite l’altoparlante.
-         Ciao mamma, è successo qualcosa? - La mia felicità nel risentirla non esclude tuttavia la sorpresa - e lo spavento - per la chiamata in piena notte.
-         Semmai dovrei chiedertelo io! Ma che fine hai fatto? Mi ha chiamata Nathan dicendomi che hai preso tutte le tue cose e te ne sei andata, senza dire niente a nessuno. Inoltre ha detto che ha provato a chiamarti, e ti ha inondata di messaggi al quale non hai risposto. Povero ragazzo, temeva che ti fosse successo qualcosa! Ti sembra il caso di fare queste cose? -
-         Il “povero ragazzo” ti ha detto che mi ha umiliata davanti a tutti e avermi inoltre ferita, da ubriaco, ieri sera? - A queste parole sussegue una breve pausa, determinata da un drastico cambio di tono nella voce di mia madre: da isterica diventa indiscutibilmente indignata e preoccupata.
-         Come, scusa? Cosa ti ha fatto?! -
-         Tu sai quante volte mi ha tradita mamma? No, non lo sai. Solo perché non te l’ho mai voluto dire, sapendo che saresti intervenuta. Lo amavo da riuscire ad assuefarmi al tradimento. Ma arrivare a farlo davanti ai miei occhi… - A stenti trattengo un singhiozzo, e mi rendo conto di aver alzato troppo la voce.
 
Sicura che Tom ed Irina mi stessero ascoltando, mi sposto nel piccolo bagnetto adiacente, cercando di fermare le convulsioni che, per la rabbia, mi stanno alterando.
 
-         Piccola mia, mi dispiace tanto. Dimmi solo dove sei, non ti chiedo altro. -
-         Sono da Irina. Non potevo stare un minuto di più insieme a lui. -
-         Avvisami la prossima volta, per favore. -
-         Non ci sarà una prossima volta, mamma. Ci sentiamo presto. -
 
Decido di restare qui da sola ancora per un po’, sebbene percepisco ancora l’amaro della conversazione in bocca. Non sono pronta a giustificarmi con nessuno né so se vorrò farlo.

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Capitolo 7
*** - Addio - ***





 

La mia immagine riflessa nello specchio mi rapisce e da vita ad una sorta d’inquisitorio interiore: con questi occhi potrei continuare a mentire al mondo intero, ma ogniqualvolta mi ritroverò sola, a faccia a faccia con le verità, la mia fragilità avrà la meglio.
 
Scosto il ciuffo che, per il nervosismo, stavo arrotolando sulle dita durante la conversazione e sciacquo viso e polsi; il contatto con l’acqua gelida riattiva finalmente la circolazione. Per un istante avverto un briciolo di sollievo –una sorta di distacco dalla pesante montagna di pensieri che mi opprime- decidendo così di prendere la situazione in mano ed uscire da quella stanza, rinchiudendoci la voce di mia madre ed il viso perfidamente astuto di Nate che vi conversava assieme.
 
-         Bene, se la padrona di casa me lo permette, io andrei a farmi una doccia. – Annuncia Tom, francamente inquieto per ciò che era riuscito ad udire, e quasi alludendo al fatto che avessi bisogno di rimanere sola con la mia amica.
-         Fai pure, gli asciugamani si trovano nell’armadietto adiacente al box doccia. –
-         Grazie. – Si congeda in fretta, lasciandomi palpare ancora più tensione nell’aria.
 
Resto in allerta, completamente immobile a sostenere lo stipite della porta quasi ne avesse più bisogno di me; la mia amica tiene la testa china, ben sapendo cosa stessimo aspettando.
 
Non appena avverto lo scrosciare dell’acqua al piano di sopra, ci avviamo a salire le maestose scale che porteranno alle camere. Una volta raggiunta la camera di Irina, do un taglio a questo silenzio snervante con una risatina flebile che lei ricambia, pur fissandomi con stupore. Probabilmente era la reazione meno aspettata.
 
-         Che cosa intendi fare ora? – Si preannuncia una conversazione priva di particolari, come consuetamente accade fra noi: comunichiamo a sguardi, o a timbri di voce.
-         Penso di prendermi un periodo di vacanza, ho bisogno di staccare. –
-         Presumibilmente mi sbaglierò, ma credo che ben presto le cose con il ragazzo si faranno serie: lo conosco da anni eppure questo lato di lui non l’ha mai rivelato. –
-         Quale lato? – Immagino già la risposta, dopotutto non sono stupida. A questa considerazione mi sfugge un sorriso, un’altra al mio posto sarebbe arrossita.
-         Ti guarda come se fosse sotto incantesimo, e non dirmi che non te ne sei accorta.- La visione di Tom con gli occhi a spirale è adorabilmente ridicola.
-         Shh, è solo a pochi metri da qua, potrebbe sentirti. – Le tiro uno dei cuscini che stavo spostando dal letto centrandola in pieno viso. Sono l’esatto opposto della timidezza, ma il pensiero che lui ascoltasse i nostri discorsi m’infastidiva. Oltretutto, non udivo nemmeno più lo scroscio dell’acqua.
 
Come neanche averlo detto, qualcuno bussa alla nostra porta.
 
-         A meno che tu non sia uno dei miei fedeli camerieri salito a farmi rifornimento di marshmallows, non entrare. Mi sto cambiando. – In realtà, la mia amica voleva tenermi il più possibile lontana dal ragazzo, in previsione di ciò che aveva detto.
-         Tu gli hai detto di restare, ora non puoi cacciarlo come fosse un cane. – Bisbiglio.
-         In risposta ricevo un erudito invito ad andare a farmi fottere, che ignoro totalmente dirigendomi verso la porta.
 
Apro uno spiffero, quel che basta per guardare negli occhi il mio interlocutore, e sorrido spontaneamente.
 
-         La principessa può permettersi di fumare una sigaretta, prima di dormire? – Mostra un sorriso incoraggiato, formando una fossetta all’angolo del labbro.
 
Annuisco e socchiudo la porta.
 
-         Dammi dieci minuti, okay? Non ho intenzione di precipitarmi a capofitto in qualcosa, anche se il mio lato masochista lo suggerisce, ho ancora un cervello. –
-         Irina alza gli occhi al cielo, dando adito alla mia richiesta.
 
Tra noi c’è sempre stato un impulsivo istinto di protezione l’una dell’altra, un affiatamento che ci ha legate quasi fossimo sorelle di sangue. C’è anche da dire che con Nate aveva instaurato un buon rapporto, questo probabilmente era il motivo per il quale ora stava sulla difensiva con chiunque mi ronzasse attorno e ciò giustifica il suo comportamento.
 
Infilo la sottoveste di raso bianca –cercando di non mostrarmi né troppo né troppo poco interessata ad uscire dalla camera- dopodiché scuoto la borsa alla ricerca delle sigarette. Apro il pacchetto e, a mia sorpresa, è vuoto.
 
-         La fortuna sembra dalla mia parte! – Sghignazza la mia amica, stendendosi le braccia.
 
E’ sdraiata sul suo letto matrimoniale in una posizione alquanto contorta.
 
-         Cerca di dormire, non ci metterò molto. –
 
Prelevo il cellulare ed esco.
 

 
Imposto la modalità “vibrazione” in modo da evitare ulteriori assordanti sorprese e, ignorando tutti i messaggi che sto ricevendo, mi avvio per il lungo corridoio buio.
La mia mente –com’è suo solito fare- associa una canzone a questo momento, in questo caso è “Farewell” di Rihanna.
 
Continuo a passo sicuro sulla moquette carta da zucchero, strisciando una mano sulla parete oro. Conosco a memoria ogni angolo di questa casa, perciò non mi è difficile identificare i dettagli anche nell’oscurità.
 
-         Eccoti. – La sua voce mi fa sussultare, non mi aspettavo che fosse ancora ad aspettarmi in cima alle scale.
 
Prendo un lungo respiro, che alle mie orecchie suona come un passo verso il patibolo. Scendo gli scalini, stavolta con passo più lento, e lo pervengo trovando appoggio al suo possente braccio una volta raggiunto l’ultimo.
 
-         C’è un problema. –
-         Tu dici? – Prendendomi la mano che aveva appena sfiorato il contorno della sua clavicola sinistra, vi ci inserisce un oggetto dalla forma rettangolare e spigolosa. Riconosco immediatamente di cosa si tratta.
-         Ma come? –
-         Non hai fumato tutta la sera, ed anche se ti conosco da quarantotto ore non è difficile immaginarne il motivo. Sei una ragazza abbastanza prevedibile. –
-         Ti sbagli. –
 
Ci dirigiamo sul balcone che dà sulla città, il mio preferito di tutta la casa –nonché il più ricco di ricordi- ed una meravigliosa luna piena sembra sorriderci. La mia mente associa questo particolare con un’altra canzone, “Talking to the Moon” di Bruno Mars.
 
-         Grazie, comunque. – Pentendomi di aver aspettato troppo a dirlo, provo a respingere il mio imbarazzo cercando di farmi perdonare con un sorriso.
 
In risposta ne ricevo uno dei suoi, che alla luce della luna pare ancora più mozzafiato: i suoi denti, così perfettamente bianchi, sembrano diamanti.
 
Percepisco il calore della fiamma che accende le nostre sigarette sulla punta del naso, ciò sottolinea il contrasto del pavimento gelido sotto i miei piedi nudi e degli spifferi d’aria polare che si scontrano sui nostri corpi. Pur senza aver né detto né chiesto nulla, Tom si avvicina a passo felpato arrestando quei pochi centimetri che ci dividevano fino a poco prima. Il calore del suo corpo provoca un’altra serie di brividi, stavolta piacevoli, lungo ogni centimetro della mia pelle, e della sua.
 
-         Se mi stai così vicino, corri il rischio di farmi compagnia a polonord-landia. –
-         Avresti dovuto indossare qualcosa di più pesante, o forse il mio invito ti ha fritto il cervello tanto da farti uscire addirittura a piedi scalzi? – Il suo sussurro caldo stuzzica il mio orecchio.
 
Fingendomi noncurante a quest’ultima reazione, stringo la mano libera in un pugno e la calco -per quanto permesso dall’inesistente distanza tra la mia schiena e il suo corpo- all’altezza dei suoi addominali di marmo. Lo sento ridere delicatamente, tra un tiro e l’altro. Si sporge -poggiando una mano sul mio fianco- dalla balconata e getta il mozzicone tra la ghiaia sottostante.
Quel gesto mi riporta a sgridate inique che Irina ricevette a causa mia, dai suoi genitori che senza il minimo criterio erano convinti che i mozziconi trovati ai piedi dei garage –reduci da notti intere passate a spettegolare, sedute sul quel davanzale calcareo che stavo accarezzando- fossero suoi. Prendo un altro tiro, sorridendoci su.
 
-         A che cosa pensi? – La sua mano sinistra è ancora ferma sul mio fianco, mentre la destra sta scostando quelle ciocche che, spinte dalla brezza notturna, mi ricadono sul viso in continuazione.
 
Getto il mio mozzicone, dopodiché appoggio la mia mano ossuta sulla sua, cercando una fonte di calore che ormai ci ha abbandonato per via della rigidissima temperatura. Formulo una frase, senza riuscire a pronunciarla.
 
-         Okay, ricevuto il messaggio. Me ne sto zitto. – Mi volto, posando genuinamente una mano sul suo viso chino.
 
Vorrei dire mille e mille cose, ma il cervello ha dimenticato come dare l’imput alle corde vocali e alle labbra.
Le stesse che ora stanno catturando il suo respiro.
Così, senza nemmeno rendermene conto, ci baciamo. Due sculture di ghiaccio ferreo che in questo momento lasciano libere le loro debolezze.
 
-         Vieni via con me. – Sussurra, socchiudendo il bacio.
 
Con una sicurezza che non sapevo neanche di possedere, annuisco senza pensarci.

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Capitolo 8
*** - Germania - ***





 

Ore 11:00, stanza da letto di Irina.
Girandomi sull’altro lato del cuscino, involontariamente mi sveglio. Cerco di realizzare dove mi trovo e individuare un’ora ipotetica della giornata.
- Ok, ci sono. – Penso tra me e me, con la testa tutt’altro che in sintonia.
 
I recenti cambiamenti hanno causato un notevole sbalzo all’equilibrio non solo alla mia realtà, ma anche del mio cervello. Mi sento nervosa –non unico sintomo del mio periodo mensile – e costantemente sull’orlo del precipizio. Per una volta nella mia vita non è tutto programmato: non che la ritenga un’alterazione negativa, ma proprio per questo motivo non ho la minima cognizione di come comportarmi. Ho la possibilità di decidere io stessa, scrivere con le mie mani la mia storia, e non ho la minima intenzione di lasciarmi sfuggire l’occasione.
 
Mi tiro su a sedere incrociando le gambe, allungo le braccia verso l’alto stiracchiando le ossa e lascio sfuggire uno sbadiglio; non dormivo così comodamente da troppo tempo. Ora che lo noto, il letto è vuoto.
Concedendomi ancora altri minuti di riflessione prima di scendere, ne approfitto per una rigenerante doccia calda all’interno dell’immenso bagno in camera della mia amica. Una volta vestita, apro la porta chiedendomi dove avesse dormito Tom e –soprattutto- in quale modo avrei dovuto comportarmi con lui dopo il nostro bacio.
 
-         Buongiorno, signorina Kate. La trovo in gran forma e bellissima, come sempre. – L’anziana domestica della villa mi accoglie in fondo alle scale con un sorrisone. Rivederla mi riporta indietro negli anni: era la nostra tata quando eravamo piccole e non è mai cambiata, sembra non invecchiare mai.
-         La ringrazio, miss Inna. – Le poso una mano sulla spalla, dopodiché mi avvio verso la sala da pranzo da cui provengono diverse voci.
 
Con passo incerto –ancora in preda ai pensieri sulla sera precedente- entro nella sala ed occupo il mio posto abituale, salutando i ragazzi ed Irina seduta a capotavola.
 
-         Pensavo non ti svegliassi più. Dimenticavo che sei una dormigliona. –
-         Senti chi parla. – Guardo fugacemente la mia amica, le sarebbe bastato il mio sguardo come risposta.
 
Sposto i miei occhi su Tom e, in contemporanea, ci rivolgiamo un sorriso prima di abbassarli nuovamente sul tavolo. Georg sta intanto discutendo in tedesco con Bill, mentre Gustav sembra fingere che gli interessi il dialogo ma resta muto in disparte.
 
-         Non vi sembra maleducato parlare in una lingua che gli altri non comprendono? – Li riprende dunque Tom, con fare molto disinvolto.
-         Chiedo scusa, madame. – Georg ci scambia un’occhiata rapida, prima di ricomporsi sulla sedia. Qualsiasi fosse l’argomento, lo ha considerevolmente irritato.
-         Ebbene, cosa gradisci per colazione? – Rivolgendomi un sorriso affettuoso, Irina fa cenno al cameriere di avvicinarsi per prendere nota.
-         Non ho molta fame, a dir la verità. – Mi sento un tantino maleducata.
-         Nemmeno se ti proponessi una fetta della tua torta preferita, crema pasticcera e fragole, sfornata stamattina solo per te dalla pasticceria Cinderella? Se dicessi a Kalisa che l’hai rifiutata si offenderà moltissimo. –
-         No, a quella delizia non mi posso negare. – Ammetto, euforica.
 
Proprio questi dettagli han reso il mio “ritorno alle origini” straordinariamente fantastico. Solo ora mi rendo conto di quanto mi sia costato abbandonare tutto per stare accanto a Nate, e a quanti sacrifici abbia dovuto sottostare per il mio lavoro.
 
-         Tanto non ingrasseresti neanche se divorassi l’intera pasticceria. Sei esattamente come mio fratello, huh. – Tom, seduto scomposto su una sedia del tutto non idonea al suo stile, mi fissava mentre portavo una porzione di torta alla bocca.
 
Aver gli occhi puntati addosso mentre mangio mi ha sempre recato imbarazzo, a maggior ragione se quegli occhi ora erano i suoi. Bill, d’altro canto, risponde alla provocazione tirandogli un buffetto in fronte e rendendo così la situazione un po’ più dilettevole.
 
-         Bene, vi conviene affrettarvi se non volete perdere l’aereo. – Annuncia d’un tratto Irina, mentre i miei occhi rimangono saldi sulle fragole della torta.
-         Quale aereo? – Replico, fingendo che il pronome plurale con il quale ha diretto la domanda non mi riguardi. In effetti non so se sia così.
-         Quello con cui verrai in Germania con noi. – Comunica Bill, forse con una punta eccessiva di entusiasmo che, tuttavia, gli concedo. E’ adorabile.
-          State scherzando? – Appoggio la forchetta al piattino, cercando di mantenere la testa salda al collo e non avere reazioni che –agli occhi dei ragazzi- mi avrebbe fatta passare per una psicopatica cronica.
 
La Germaniaè una terra che mi ha sempre affascinato; ricca di storia, cultura e persone che il più delle volte sono sopravvalutate a causa del passato. Rinuncerei a viaggiare nell’intero universo per un solo giorno in essa, ed il pensiero che mi ci recherò in loro compagnia mi fa perdere la ragione. Il mio lavoro mi ha permesso di sfilare ovunque, conoscere molto più di quello che una donna normale scoprirebbe durante l’arco intero della sua vita e di questo vado molto fiera: mai però mi era capitato di poter essere ingaggiata per un lavoro in questo stato.
 
-         Ah, inoltre mi ha chiamato tua madre stamattina, dice di aver trovato il tuo cellulare spento. Voleva avvertirti che il tuo manager l’aveva a sua volta contattata per dirle che avrai una sfilata a Colonia il prossimo mercoledì e di farti viva con lui. – La disinvoltura a queste parole mi lascia ancor più basita.
-         Non ci posso credere. – Sdrammatizzo, non voglio correre il rischio di annebbiare questo momento con le mie paranoie inutili.
-         Non sei felice? – Mi domanda Gustav, leggermente perplesso.
-         Certo che lo sono. Datemi solo del tempo per abituarmi: ho avuto tutto quello che volevo in meno di un giorno. – Scoppio in una risatina nervosa, che tutti e cinque però accolgono caldamente.
-         A proposito, come ti senti oggi? – Interrompe Irina, ora con tono più serio.
-         E me lo chiedi? – Rispondo incredulamente.
 
So esattamente che non si riferiva a questo, bensì a che reazione avrei avuto rispetto tutte queste variazioni nel corso dei giorni: da mia migliore amica quale è, sa bene che mi è difficile distogliermi dalla normalità senza impazzire poco a poco.
 
-         Sto bene, sul serio. La ferita guarirà, così come questa voragine che ho nel petto. Gli eventi delle ultime ore hanno fatto sì che già cicatrizzasse molto. –
 
Con tono alquanto sincero, emetto queste parole che ora, al di fuori della mia mente, assumono più il valore di vera e propria sentenza.
I presenti esalano un sonoro sospiro di sollievo, me inclusa.
 

 
Eccomi a guardare grosse nuvole grigie dal più lussuoso jet su cui sia mai salita.
Sembrano quasi immensi pezzi di cotone che si sfilacciano per poi unirsi nuovamente, dando vita a questo ciclo infinito di forme e speranze.
Mi mancava poter eseguire gesti così semplici, fingendo di essere una ragazza normale con una vita normale, che faceva appunto cose normali come alzare gli occhi al cielo e fissare la nuvola più alta, per costruirci sopra le fondamenta di quel che diventerà il castello in cui vivrà. L’unica lacuna di questo astratto paradiso era il temporale: per quanto lo amassi, desideravo non ammirarlo a chilometri d’altezza.
 
-         Tra poco atterreremo a destinazione. Siete pregati di allacciare le cinture. –
Annuncia la cortesissima hostess del jet privato, mentre svogliatamente obbediamo ai comandi.
 
Al mio fianco, Tom ronfa indisturbatamente: è tenero a tal punto che non ho il coraggio di svegliarlo, così procedo ad allacciargli al suo posto la cintura.
 
Flughafen Hamburg Airport, Germania.
In men che non si dica ci ritroviamo nuovamente a terra. Non appena scesi, accarezzo incurantemente l’asfalto umido dell’aeroporto e spontaneamente le mie labbra disegnano un sorriso smagliante sul mio volto. Sono dannatamente felice.
 
Una mano mi aiuta a sollevarsi, mentre la sua gemella si posa sui miei fianchi attirandomi verso il corpo del proprietario: eravamo così vicini da comporre la stessa nuvola di vapore acqueo. Sussurro qualcosa come “non qui” ma non sono totalmente sicura che questo gesto sia passato inosservato agli occhi altrui.
 
-         Devo ancora capire in quale modo siete riusciti a far recapitare tutte le mie cose dal mio appartamento precedente al vostro. – Affermo, senza nascondere il mio stupore ai gemelli.
-         Devi sapere che ci siamo messi d’impegno tutti e quattro, oltre alla tua amica ed ovviamente ai tuoi genitori. – Risponde fiero Gustav; un gesto così adorabile che, se non fosse per la stretta di Tom, gli salterei in braccio. Ora.
-         Ed Irina ha dato inizio a tutto, ovviamente. L’idea di farti vivere con noi per un po’ è sua, sostiene che ti aiuteremo a guarire. – Replica Bill, mentre ci dirigiamo scortati verso l’enorme Lancia dai vetri oscurati che ci aspetta.
-         Son sicuro che ne escogiteranno di modi.. per farti guarire. – Sussurra maliziosamente Georg, mettendomi inconsciamente in imbarazzo.
 
La risatina altrettanto maliziosa che ne segue non mi aiuta a ricompormi.
Guardo, con occhi rapiti il panorama che si cela dietro quei vetri così scuri: un branco di rondini migra, in fila perfetta, verso un punto fisso. Le luci degli edifici scorrono in base alla velocità del veicolo, suscitando forme dai diversi colori mentre i fari stessi delle automobili si rincorrono, centimetro per centimetro su un asfalto ancora affamato di pioggia. Il cielo, tuttavia, sembra resistere ancora per un po’.
 
Giungiamo a destinazione.
Una casa che, se non conoscessi già per via di alcune foto sparse in internet, oserei definire quasi fiabesca: dallo stile barocco, come molte delle costruzioni nord-europee, ma simultaneamente contemporaneo. Esattamente come piace a me.
 
-         Non fare complimenti e fai come se fossi a casa tua. – Propone Bill, incoraggiandomi ad entrare.
 
La sua voce suona così melodiosa e squillante, un mix del tutto irresistibile che mi fa ringraziare ancor più chiunque ha permesso che tutto questo avvenisse.
 
-         Del resto lo è. – Conclude Tom, mentre i ragazzi lo aiutano a portare le mie valigie all’interno. Non appena terminano, Tom mi si avvicina con fare che non saprei etichettare in altro modo se non “pericoloso”. Indietreggio.
-         Dove scappi? Tanto il giro della casa dovrai pur farlo. E quale vista migliore se non.. – s’interrompe, prendendomi accuratamente in braccio – da un metro da terra? Dovresti ammirare molto i dettagli dei.. – intanto comincia a salire le scale, allontanandoci dai ragazzi – lampadari.. Bill si è impegnato molto affinché.. – mi porta abbastanza lontano da non dover più concludere la frase, se non con un bacio.
 
Ho il sangue al cervello. Sento persino il fracasso delle vene collocate sulle tempie.
 
-         Mi mancavi. – Annuncia, infine, a pochi centimetri dal mio collo, mentre ci ritroviamo sdraiati sul letto della stanza più profumata e luminosa che avessi mai visto in una giornata invernale.
-         Anche tu.  Ma vediamo di non farci scoprire, non ora quantomeno. –
-         Tanto lo sanno già. A Georg e Gustav non ho smesso di parlare di te neanche un attimo e Bill.. beh, come potrai immaginare, non riesco a nascondergli nulla. Non gli ho detto niente eppure ci è arrivato da solo, sostenendo che da quando ti ho vista ho “una luce diversa negli occhi”.- Replica, sorridente.
-         Ed è vero?- Cerco di non farmi incantare dai suoi occhi e rimanere vivente.
-         Beh, con te mi sento bene. E’ come se ti avessi cercato da tutta una vita, pur non sapendo di farlo. E’ come se conoscessi tutto di te, proprio perché eri ciò che sognavo di incontrare. –
-         Se ti dicessi che per me è lo stesso, non mi crederesti.- Abbasso lo sguardo.
-         E perché mai non dovrei farlo?-
-         Tom, ragiona: quante possibilità ci sono che una fan tra milioni riesca ad incontrare il suo idolo, parlarci, trascorrere del tempo con lui e addirittura starci insieme in questo modo?- Le parole mi escono automatiche.
 
Nel frattempo, il mio cervello associa questo momento a tutti quelli passati da ragazzina “fanatica” con la sola differenza che la mia vita è sempre stata incentrata sui riflettori. Non avevo una cameretta piena di poster, due genitori disposti a portarti a un concerto, un computer con cui rimanere aggiornata ed una tv su cui aspettare video musicali. Io avevo i vestiti e le passerelle, avevo le telecamere, avevo i flash ed i set fotografici: quella era la mia vita, quello era il mio lavoro.
 
-         Nel tuo caso la cerchia si restringe. Tu non sei come tutte le altre. –
-         Questo lo so, ma non ti nascondo che avrei voluto esserlo, molte volte.-
-         Non c’è niente di meglio del successo per dimenticare il prezzo che hai pagato per averlo. Questo ricordatelo. – Espone, guardandomi fissa negli occhi.
-         La conosco quella citazione.- Sorrido.
-         Hai una famiglia che ti vuole bene. Hai amici ed ora ne hai anche di nuovi, ammesso che tu riesca a sopportare la loquacità di Bill, la mancanza di tatto di Georg e i discorsi retorici con Gustav, e poi, hai me. Se lo vorrai.-
 
A queste parole sento umidificarsi gli occhi, come se lacrime represse da troppo tempo ora stessero cercando di riaffiorare. Con tutte le forze rimaste in corpo le respingo, non voglio rovinare questo momento mettendomi a piangere.
 
Attiro per il collo il viso di Tom al mio, il più vicino possibile per fare in modo che i suoi occhi riflettessero la sua anima ed i miei la mia. Fuoco nel fuoco, ghiaccio nel ghiaccio, prima di scambiarci l’ultimo bacio e tornare alla realtà.
 
-         Sarà meglio tornare dal loquace Bill, prima che la sua loquacità lo faccia parlare troppo.- Commento, scherzosa.
 
Mano nella mano ci dirigiamo verso la rampa di scale da cui siamo saliti, lasciandocela non appena i ragazzi alzano lo sguardo verso di noi.

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Capitolo 9
*** - Confronti - ***


mortuaryprincess
Confronti

 
Tom, reduce da una nottata insonne in preda all’irrefrenabile voglia di tornare nella stanza dove è rimasto sinché il sonno non ha vinto sul mio corpo, scende in cucina intenzionato a prepararsi una colazione che lo rimetterà in sesto.
 
-         Buongiorno Tom. – Accenna Bill sbadigliando, scomposto sul divano, affianco alla cucina a vista. Sta facendo zapping tra i canali, senza riuscire a trovare qualcosa d’interessante.
-         ‘Giorno. – Replica con voce roca il maggiore mentre estrae dal frigorifero due uova, del burro di arachidi e del pancarré. – Hai già fatto colazione? – Domanda infine.
-         Sì, sono sveglio da circa mezz’ora. Non ho dormito granché stanotte. – Un altro sbadiglio, che stavolta contagia anche il fratello. Si mette a sedere a gambe incrociate, stiracchiando le braccia.
-         Siamo in due. – Lo scoppiettio delle uova disturba il volume già basso del televisore.
 
A un tratto entrambi si bloccano, dirigendo immediatamente lo sguardo all’apparecchio, non appena il mio nome viene pronunciato in un servizio del telegiornale dell’ultima ora.
-         Alza un po’! – Ordina Tom, mentre velocemente si dirige verso l’oggetto.
Bill obbedisce, silenzioso, e attento anch’esso alla giovane giornalista che espone entusiasta il servizio.
 
“Sembra che fra la coppia più adorata dei teenager ci sia qualche contrasto ultimamente! I due sono stati visti insieme l’ultima volta alla sfilata degli stilisti Dean & Dan Caten, tenutasi qualche giorno fa, ma pare che il bad boy concentrasse le sue attenzioni su una delle modelle in gioco: Anne Aleksandrovna.”
 
I due ragazzi ascoltano in silenzio ogni singola parola del servizio, mentre immagini del nostro arrivo alla location milanese alternate a micro video della sfilata e foto di Anne scorrono sullo schermo. Queste ultime confermano le supposizioni della reporter.
 
“In merito a questi ultimi avvenimenti, la nostra Katelynn stavolta non si è lasciata scoraggiare cogliendo al volo l’opportunità di trascorrere del tempo in compagnia dei gemelli Kaulitz - membri della band Tokio Hotel – e, a quanto rivelano scatti dei nostri paparazzi, sembra esserci un affiatamento con uno di loro: il maggiore, Tom.”
 
A queste parole l’interessato impallidisce, mentre uno strano odore si espande per tutta la stanza. – Non ci voleva un altro scandalo. Non è in grado di reggere anche questa. – Pensa, tra sé e sé. Bill rimane a fissare le immagini del nostro arrivo in aeroporto della sera prima.
 
-         Ma com’è possibile? Abbiamo fatto tutto con la massima discrezione. Nessuno era a conoscenza di niente! Quantomeno non sanno dove ci troviamo. – Impreca infine, guardando il fratello e risvegliandosi dal suo stato di semi-trance.
-         E non ci metteranno molto a scoprirlo. Dobbiamo trovare una soluzione. – Con voce bassa ma ferma, gesticola nervosamente con le sue mani nell’attesa di un continuo.
 
“L’ultima chicca che abbiamo in serbo per voi è questa: siamo riusciti a scoprire che la nostra modella preferita tornerà in pista molto presto, esattamente mercoledì prossimo al Fashion Show che si terrà a Colonia! Restate aggiornati per scoprire il seguito.”
 
Bill spegne con un gesto automatico la tv. E’ visibilmente irrequieto, scocciato per l’ennesimo scoop che i paparazzi non si sono lasciati sfuggire. Il fratello maggiore, intanto, è una figura che si aggira per la stanza come una persona che deve commettere un omicidio non premeditato. Sospira rumorosamente e in modo irregolare dal nervoso.
 
-         Cos’è sta puzza? – Sdrammatizza il primo, alzando gli occhi verso i fornelli.
 
Tom vi si reca appresso spegnendo il fuoco, ammirando poi stomachevolmente ciò che resta della sua colazione nella padella. Impreca sottovoce gettando tutto nella spazzatura.
 
-         Addio uova. – Sospira, infine. – Senti io vado a fare colazione fuori, ho bisogno di prendere una boccata d’aria. Escogiterò qualcosa; magari chiamo Irina per vedere se è disposta ad aiutarci. – In men che non si dica ha già indossato cappotto, cappuccio e occhiali da sole, ritirando nelle tasche laterali dei jeans il cellulare.
-         Senz’altro lo sarà. Che cosa diciamo a Kate? – Bill si è alzato ed è andato incontro al fratello, massaggiandosi le tempie per il mal di testa che lo sta torturando da ore.
-         Nulla. Non dirle assolutamente niente, tieni la bocca chiusa e falla svagare. Che so, portala da qualche parte a scattare fotografie ma presta attenzione ai paparazzi. Ci manca solo che pensino che se la faccia con entrambi! – Con un gesto rapido, gli lancia le chiavi della sua auto.
 
Infine, munendosi di quelle di casa, esce con fare furtivo.
 

-

 
Passa all’incirca un’ora prima che, del tutto ignara di ciò che fosse accaduto, scendo al piano inferiore per fare colazione. Cerco di muovermi cautamente per la cucina – Bill stava comodamente dormendo sul divano – alla ricerca di qualsiasi cosa che possa nutrirmi.
Apro alcune ante, trovando solamente pentole e utensili a cui non riesco ad attribuire neanche una funzione specifica. La mia ricerca silenziosa si fa ancora più ardua quando i mobili decidono di non collaborare, o il parquet di scricchiolare sotto ogni mio passo in punta di piedi. Inoltre, mentre rovisto in un’anta posta un po’ troppo in alto rispetto alla mia altezza, urto un ceppo di coltelli in legno massiccio che cade a terra non molto aggraziatamente.
 
-         Buongiorno. – Bill mi ha raggiunta alle spalle con passo assonnato, senza che io me ne sia accorta. Lui sì che sa essere silenzioso. Sussulto. - Posso esserti utile? Che cosa stai cercando? -
-         Ehm. Oddio scusami, non volevo svegliarti. E’ solo che.. – Sorrido imbarazzata, mentre tento di tornare a terra senza calpestare i coltelli sparsi.
-         E’ tutto un po’ troppo più alto rispetto a te. – Conferma lui, ricambiando il sorriso.
 
E’ straordinario quanto possa essere bello nonostante si sia appena svegliato –oltretutto non nel migliore dei modi- e sia così premuroso con me. A dirla tutta non sono sicura che “bello” sia l’aggettivo più adatto a descriverlo.
 
-         Non sono io che sono bassa, siete voi ad essere mastodontici. – Ribadisco, fingendomi leggermente offesa dalla considerazione fatta in precedenza.
-         Quando abbiamo scelto la cucina non abbiamo valutato l’ipotesi di utilizzarla molto, quindi non ci è importato che fosse così alta. Poi diciamo che non abbiamo di questi problemi. – Sogghigna, rispondendo alla mia provocazione.
-         Dov’è Tom? – Chiedo d’un tratto, perplessa che non fosse ancora sveglio.
-         Ehm, è uscito presto stamattina. Ha detto che aveva delle cose da fare, mi ha chiesto inoltre di salutarti e.. – Sembra abbastanza nervoso, ma fingo di non accorgermene.
-         E? – Domando impaziente, mentre lo aiuto a ritirare i coltelli nel ceppo.
-         E ha detto che ci raggiungerà il prima possibile. – Conclude, con un sorriso che ammorbidisce l’intera conversazione. Mi rialzo troppo velocemente, avendo un capogiro.
-         Hai bisogno di mangiare. – ripete Bill, sorreggendomi per il braccio non ferito –Ti porto nella migliore pasticceria che conosco, sta a pochi chilometri da qui. Inoltre, possiamo andare ovunque tu voglia, senza coprifuoco e.. Tom mi ha lasciato la sua macchina. – Sorride ingenuamente, spostando il ciuffo di capelli neri corvini all’indietro.
-         Hai ripreso a guidare? – Domando, schietta. Forse anche troppo, giacché non abbiamo ancora instaurato quella confidenza. Oltretutto venni a conoscenza del suo incidente solo grazie ai media: ricordo precisamente la reazione che ebbi quando lo scoprii. - Scusa, non volevo essere invadente. Se ti ha lasciato le chiavi, significa che si fida di te. –  Il suo amabile sorriso spazza via ogni mio senso di colpa.
 
Pochi minuti dopo riscendo la scala, saltellante e incappucciata dalla testa ai piedi, mentre lui con lo sguardo segue ogni mia azione. Abbracciando la mia macchina fotografica esco per prima dall’abitazione e aspetto che Bill chiuda e installi i vari allarmi – non avevo mai visto una casa più blindata di questa, nonostante probabilmente non fosse l’unica proprietà che avessero – per poi avviarci verso il garage sul retro.
 

-

 
-         Com’è nata questa tua passione? – Chiede, puntando con gli occhi la macchina fotografica che tenevo al collo.
 
Guardandomi attorno e inspirando quanta più aria possibile, focalizzo l’attenzione sul trovare una risposta adeguata alla domanda che mi ha appena posto. Mi prendo un’altra manciata di secondi, sorseggiando l’ottimo milk-shake che mi aveva offerto dalla pasticceria.
 
-         Credo sia sempre stata la voglia di scoprire il mondo che mi circonda, a spingermi nel coltivare questo hobby. Il mio lavoro mi pone sempre davanti all’obiettivo e mai “sullo sfondo” quindi prescrive una sorta di limite. Non sono una di quelle persone che riesce a seguire le regole come un cane al guinzaglio o si fa abbattere dagli ostacoli. –
-         Emani tenacia da ogni poro, nonostante tutto ciò che ti accade. E’ ammirevole e non è da tutti. -
-         Grazie. Vedi, sai meglio di me quale sia aria si respiri in questo mondo. Tutti cercando d’importi cosa fare, cosa dire, come comportarti in ogni situazione: tutto per la tua carriera, il tuo avvenire, la tua fama. – Bill annuisce, con occhi spenti.
-         E’ il prezzo da pagare. Sei il burattino ma non puoi muover da solo i fili. – A quest’affermazione capisco che siamo proprio sulla stessa onda.
-         Esatto. Questo mi ha spinta a ritagliarmi un pezzo di libertà, qualcosa che potessi fare sempre e comunque nonostante gli impegni e gli obblighi lavorativi. –
-         Sì, ma perché tra tante cose proprio la fotografia? – Sorride, ingenuamente.
-         Le persone normali quando si innamorano attuano una specie di legame condizionale con la persona desiderata. Io non ho una persona, ma un’arte. Sono innamorata dell’arte, Bill, qualunque forma essa abbia. –
 
Mi volto, nel mentre che riceve una telefonata, attirata dal passare di un cane randagio. E’ di media taglia, col pelo tutto bagnato per via della brina mattutina. Non curandosi delle sue condizioni, continua per la sua strada senza mai fermarsi o voltarsi un secondo, a passo lento ma sicuro. Decido che sarà lui l’oggetto del mio primo scatto in Germania.
Così, lo immortalo mentre insegue la sua via, lasciando alle sue spalle impronte fresche nella neve candida: la prova del suo percorso, la traccia da seguire per tornare alle sue origini.

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Capitolo 10
*** - Canta per me - ***




-         Pronto? -
-         Audrina, sono Nathan. –
-         Oh ciao caro, come stai? E’ un po’ che non ti sentivo. Come mai questa chiamata? -
 
Mia sorella è più grande di me di quindici anni, i miei genitori si sposarono in fretta appena ventenni poiché mia madre era rimasta incinta e, a distanza di molti anni, decisero alla fine di avere un altro figlio: così nacqui io. Sì può intuire che mia sorella non è stata partecipe alla mia crescita, in quanto, anche lei per impegni lavorativi, ha abbandonato casa appena raggiunta la maggior età – tre anni dopo la mia nascita.
Con ciò, non siamo molto in contatto e non ci vediamo praticamente mai se non per avvenimenti speciali; posso dedurre che non abbia contatti nemmeno con i nostri genitori, o l’avrebbero senz’altro aggiornata sugli ultimi avvenimenti riguardanti me e Nathan.
 
-         Devi aiutarmi. – Afferma sicuro di sé e del piano che sta cercando di attuare.
 
La sua perfidia l’ha spinto inizialmente a tentare di persuadere la mente di mia madre, dopodiché degli amici che avevamo in comune, nonché del mio manager e autista di fiducia –tutti dettagli riferitomi da mia madre, durante l’ultima telefonata- e ora sta cercando di indurre Audrina a favorirgli informazioni alla quale non è nemmeno al corrente.
 
-         Che cosa succede? Mi stai preoccupando. – Risponde, allarmata. Per quanto sia sempre distante dalla sua famiglia sacrificherebbe la sua vita per proteggerla.
-         Katelynn è scappata. Eravamo in hotel, abbiamo avuto una leggera discussione poiché mi ha nascosto di essere incinta ed ora non so né dove né con chi sia. Non si fa sentire da nessuno, non risponde a nessuna delle mie telefonate. Sono disperato. – Condendo l’intera menzogna con tono melodrammatico, mostra le sue manie di vittimismo, facendosi compatire per colui che è stato abbandonato.
-         In che senso è scappata? Ma soprattutto, come è incinta? Non posso credere che..-
-         Che non lo abbia detto a nessuno? Nemmeno io. – La interrompe, freddo.
 
Mia sorella scoppia in un pianto nervoso e quel bastardo infame di Nathan, fingendosi suo amico, cerca di rassicurarla sempre al fine di estrargli informazioni.
 
-         Quindi tu non sai niente? Non hai la minima idea di dove possa essere? - Chiede, d’un tratto svelando tutta la sua reale lucidità. Avvicina carta e penna  punteggiando sul foglio, in attesa.
-         Stamattina in ufficio ho sentito un servizio al telegiornale, sfilerà al Fashion Show di Colonia mercoledì prossimo. E’ tutto ciò che so. Mollerei il lavoro anche adesso per raggiungerla, ma giusto domani dovrò partire per un viaggio d’affari a Singapore. –
-         Non preoccuparti, la troverò. Mi occuperò io di lei. – Appuntando l’indirizzo chiude la telefonata con un ghigno.
 

-

 
Tutto è dannatamente perfetto come me lo aspettavo. Ogni cosa è al suo posto, con il giusto incastro in questa superficie di oltre 357.123.50 chilometri quadrati. Ovunque io mi volti, trovo un dettaglio da aggiungere alla mia immensa collezione di scatti. Una ragnatela diventata ormai di ghiaccio su una ringhiera, la forma dei rami assunta da un determinato albero, una siepe che nonostante le intemperie riesce a resistere a questo freddo inverno. Ogni dettaglio che mi impressiona, naturale o artificiale che sia, diventa il protagonista di un mio scatto.
 
L’unico dettaglio a mancare, per la nostra protezione, sono le persone; siamo soli da ormai due ore nei sobborghi di un paesino altrettanto periferico: Loitsche. Frazione di Loitsche-Heinrichsberg, all’interno del länder Sassonia-Anhalt nonché paese originario dei gemelli dove trascorsero l’adolescenza prima di fondare, assieme a Georg e Gustav, la band.
 
-         Era tanto che non tornavo qui. – Ammette, con voce malinconica, Bill.
 
A dir la verità, mi sento tremendamente in colpa per averlo trattenuto così tanto tempo in un posto che –evidentemente- ha associato a ricordi non piacevoli.
 
-         Sicuramente vorresti essere altrove, piuttosto che farmi da babysitter. -
-         Ma non mi annoio, mi piace stare con te. – Con gli occhi chini sull’asfalto bagnato, questa frase invade ogni millimetro quadrato del mio cranio, rimbalzando come una palla da volleyball in lungo e in largo la sua superficie. Istintivamente sorrido, mentre il dorso delle nostri mani si scontra nella brina fredda.
-         Hai collezionato abbastanza fotografie di questo posto? – Il suo viso è velato da un’inarrestabile mestizia che mi fa solo rimpiangere la richiesta di condurmi qui.
-         Sì, andiamo via da qua adesso. Che ne dici di Magdeburgo? – Propongo con un sorriso incerto, che si apre non appena noto la reazione suscitata. Stavolta è quella desiderata.
 
Restiamo fermi, in totale silenzio, nell’abitacolo del veicolo di Tom finché tutta l’umidità non scompare dai tergicristalli e finestrini. Il caldo emanato dai diffusori dell’aria condizionata fa riprendere ad entrambi una nota di colore in più, per quanto possibile, considerato che ambedue possediamo una carnagione cadaverica.
Mentre ritiro con cura la macchina fotografica, accendo la radio che – a mia sorpresa – Bill spegne immediatamente, lasciandomi accigliata.
 
-         Scusami, non amo molto le trasmissioni radiofoniche. E’ più la pubblicità o le idiozie che dicono i deejay che vera e propria musica. – Avvisa poi, addolcendo il profilo della mascella con un sorriso.
-         Ah, okay. – Acconsento ancora un po’ turbata.
-         Che ne dici di un cd? – Reggendo il volante con la mano sinistra, utilizza quella libera per selezionare uno dei dischi in formato digitale di cui la macchina dispone. – Dimenticavo che Tom ed io abbiamo generi un tantino differenti. – Attesta poi, demoralizzato.
-         E io a cosa servirei, altrimenti? – Con una risatina estraggo dalla mia borsa il primo cd che mi capita a tiro.
 
Lo infilo nel lettore e attendo che parta. Casualmente, è “Zimmer 483”.
Sorridiamo all’unisono e, con occhi sognanti di una bambina attenta al racconto di una fiaba nuova, attendo che Bill abbia una qualsiasi reazione. Spontaneamente inizia a cantare sulla sua stessa voce ed io rimango a fissarlo incantata, senza avere la lucidità di ricordare il mio stesso nome. In un altro momento, se non avessi avuto il mio vocalist preferito affianco che, oltretutto, cantava esplicitamente per me, non avrei saputo frenare il mio desiderio di modulare la voce. Dare sfogo alle parole con un testo musicale è la prima vera e propria forma d’arte che amo, in seguito vi è la fotografia e la scrittura.
 

Ich bin da wenn Du willst, ganz egal wo Du bist.
An Deiner Seite, nur eine Weile.
Du bist nicht alleine.

 

-

 
Appena arriviamo a Magdeburgo, il tempo sembra non essere più così favorevole nei nostri confronti: siamo costretti a chiuderci in un posto sicuro, lontano da intemperie e sguardi curiosi, per quanto l’auto di Tom non sia passata inosservata pur optando per strade secondarie.
 
-         Vieni, non è lunga la strada da qui. – Bill mi apre la portiera, riparandomi dalla pioggia sotto il suo ombrello extra-sizenero.
 
Mi guardo attorno in cerca di qualcosa che possa collegarmi al luogo dove ci troviamo ma, non essendoci mai stata, i miei sforzi finiscono per essere vani.
 
-         Dove mi stai portando? – Chiedo a bassa voce, mentre il suo lungo braccio mi cinge le spalle per ripararmi da ciò esterno al metro quadro che stiamo condividendo.
-         Nel nostro primo studio di registrazione. Lì saremo al sicuro. – Afferma, deciso.
 
Proseguiamo a passo rapido –ammettendolo, mi stavo in realtà facendo trascinare,  arresa alla realtà che non avessimo lo stesso ritmo grazie all’altezza sproporzionata di Bill– allontanandoci via via dal vicolo abitato in cui abbiamo parcheggiato l’auto. Come a far perdere le nostre tracce sebbene non ci stia seguendo nessuno.
 
-         Quando sono a casa passo spesso e volentieri di qui. E’ un luogo che mi aiuta a pensare molto, oltre che a ritrovare l’ispirazione. – Mi porge un plaid, aiutandomi ad avvolgermi in esso, e una volta accesa l’ultima luce si accomoda affianco a me.
-         E’ bellissimo. – Non riesco a trovare altre parole mentre lo guardo riconoscente.
 
Il mio cellulare inizia a squillare non permettendoci di proseguire la nostra chiacchierata. Individuo l’apparecchio tra i vari oggetti nella borsa e rispondo senza neanche guardare chi vi fosse dall’altra parte dell’interfono. Fortunatamente, è mia sorella.
 
-         Katelynn! Ma dove sei finita? Nathan ha mobilitato mezzo emisfero per cercarti. – La sua voce è assordante tanto quanto il trillo della mia suoneria.
-         Inclusa te, immagino. Il piacere di risentirti è anche mio, comunque. – Una smorfia indecifrabile mi si stampa in volto, incupendo anche Bill.
-         Che cosa stai dicendo? Ascolta, non voglio litigare e nella tua situazione non farebbe bene nemmeno a te. Voglio solo che ragioni e torni da Nate, è realmente disperato. –
-         A qualsiasi situazione tu ti stia riferendo sappi solo che sto molto meglio dove sono ora.- Esalo un profondo respiro, cercando di mantenere la calma e chiarire la faccenda.
-         Ti sei rincoglionita? Sei incinta Katelynn. Dove credi di andare?- La sua isteria mi irrita, ma ancor più il fatto che quel balordo l’abbia intromessa in questo casino. – Ah e, per la cronaca, grazie per aver avvisato tua sorella. –
-         Audrina, non sono incinta. – Affermo, alzando la voce e ristabilendo un punto alla situazione. Ammetterlo ad alta voce e con così tanta fermezza aggiunge un pizzico d’orgoglio al mio timbro. - Qualsiasi cazzata ti abbia raccontato Nathan è falsità pura. –
-         Per quale motivo dovrebbe scherzare con cose così serie, scusa? – La sua voce è ora di due toni inferiori rispetto a prima, ma conformemente scossa.
-         Forse perché l’ho lasciato dopo che mi ha svilito in pubblico cornificandomi e quasi mandandomi in ospedale per le percosse. Ed ora non attende che vendicarsi, sai che difficilmente accetta respingimenti, qualsiasi sia la loro natura. –
 
Ne segue un lungo silenzio, fatto di sospiri e parole che, anche se non dette verbalmente, sono comprese in un modo che solo due sorelle recepiscono.
 
-         Scusami. – La sua voce sottomessa mi fa capire ancor più quanto sia dispiaciuta di avermi attaccato in quel modo, accusandomi di non aver avuto considerazione di lei.
-         Non importa, ora sai tutto anche tu. Ti avrei chiamato ugualmente per avvertirti dell’evoluzione della situazione, non appena entrambe avremmo avuto un attimo. – Ammetto, sincera. Bill mi scambia un’occhiata ricca d’intesa, supportandomi.
-         Ti voglio bene. –
-         Te ne voglio anch’io. –
 
Terminare un’altra telefonata in questo modo, con un’altra persona cara, mi lascia nuovamente quella malinconia in bocca. Sicuramente se non vi fossero stati così tanti impedimenti la mia permanenza in Russia sarebbe stata più lunga e avrei potuto riabbracciare la mia famiglia. L’ultima volta risale allo scorso Natale.
 
Un’altra suoneria interrompe il silenzio nel breve lasso di tempo che ha regnato.
Il ragazzo risponde ed io riconosco l’interlocutore per il timbro della voce.
 
-         Dove siete? – Risentire la voce di Tom mi provoca un leggero sussulto, come se un ingranaggio stesse aspettando solo che l’ultimo pezzo venisse collocato per iniziare il suo moto.
-         Al vecchio studio di Magdeburgo. –
-         Vi raggiungo subito. –
 
 
 

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Capitolo 11
*** - Grigio - ***



 

I pneumatici sommessamente scrostati dall’usura, di un taxi altrettanto deteriorato, percorrono il lungo tratto che divide Amburgo dal piccolo studio di registrazione. Tom fissa distratto le goccioline di pioggia che lottano flebili per rimanere aggrappate alla lamina di vetro da cui è composto il finestrino a manovella e, mentre una di esse raggruppa le altre formandone una più massiccia, sbuffa, maledicendo la scelta tra un mezzo indiscreto ma obsoleto rispetto alla sua auto sulla quale erano scrupolosamente accomodate le chiappe di Bill.
 
L’unico lato positivo, se così può esser definito, è che si trova già a metà strada: le ore precedenti trascorse a Celle (raggiunta con i mezzi pubblici che tanto detesta) sembravano interminabili. Stando lontano da occhi curiosi, è riuscito a schiarirsi le idee e attuare un piano di fuga con l’aiuto ed appoggio immediato di Irina.
Dopo due orette giunge finalmente a destinazione. Sgancia al taxista una sostanziosa mancia che il povero vecchietto intasca subito, pettinandosi i lunghi baffi bianchi, ma non facendo in tempo a ringraziare o salutare: il ragazzo è già sfuggito dal suo campo visivo.
 

-

 
Sto guardando distrattamente il panorama locale celato al di fuori della finestra e, con sorriso malinconico, do un ultimo tiro alla mia sigaretta mentre Bill suona note familiari al pianoforte. Ammiro le forme che l’acqua ha assunto sulle varie cancellate, trasformandosi in cristalli tanto incantevoli quanto fragili: un po’ come me, in quest’ultimo periodo.
Ad un tratto, tutta la mia attenzione si focalizza sull’unica auto passata di qui nelle ultime due ore e mezza: un taxi malconcio, imbrattato di neve e dall’aspetto visibilmente datato.
Un ragazzo, a diversi metri di lontananza, percorre a rilento la traversa attigua e, man mano che riduce la distanza, conferma la mia supposizione. Si tratta di Tom.
La sua andatura ha qualcosa di particolarmente inconfondibile, ti rimane impressa sin dalla prima volta che la osservi. Raggiunge l’edificio a testa china, assorto nei suoi pensieri e, senza degnarsi di sbirciare verso l’alto, suona il citofono. Con un balzo sono in piedi, fremente, facendo trasalire nuovamente anche il gemello. Lui tronca l’accordo che stava suonando poco prima e apre al fratello, similmente accigliato dai suoi menti.
 
-         Finalmente! – Gli vado incontro tanto velocemente da quasi inciampare sul plaid color porpora che, fino a poco prima, avevo sulle spalle. Mi fermo sulla soglia in punta di piedi.
-         Buongiorno anche a te. Ciao Bill. – Ricambia il mio abbraccio salutando poi, con fare complice, il gemello che gli lancia qualcosa: dal rumore intuisco essere le chiavi dell’auto. Chiude la porta con un rumore sordo, prima di oltrepassarmi indifferente.
-         Un taxi di quel genere non ti si addice per niente. – Sposto i capelli all’indietro, apparentemente noncurante della sua freddezza nei miei confronti.
-         E tu che ne sai? – Bisbiglia, mentre fruga nel frigobar; estrae dei waffel e della glassa alla vaniglia con fare sospettoso. – Uno di voi è stato da queste parti, ultimamente? –
 
Il gemello appare dalla porta a soffietto che divide la saletta in cui ci troviamo -munita di pianoforte ed alcune chitarre acustiche- dalla cabina, contenente tutto il resto.
 
-         Vengo soventemente qui, non penserai mica che tolleri morir di fame. – Tamburella i polpastrelli sullo stipite della porta e poi inarca un sopracciglio: è evidente che avrebbe preferito tenere per sé quest’ammissione.
-         Ok. Beh ho avuto una mattinata abbastanza rozza -non potete immaginare l’odore stantio che risiede nei bar della metropolitana- perciò ho rinunciato a fare colazione. Spiacente per i tuoi waffel. – Infila ciascuno nel tostapane posto sopra il frigorifero e aziona il macchinario, prima di sedersi sul pouf adiacente al mio.
 
La sua apatia è lampante, ciò non fa che disturbarmi. Tendo la testa da un lato, in ascolto, e dai continui rumori provenienti dalla cabina intuisco che Bill è tornato a fare lui-solo-sa-cosa. Ne approfitto così per tastare un po’ il terreno, indagando sui fatti che hanno angustiato il gemello a tal punto; per un attimo, il pensiero di esserne un’ipotetica responsabile dilaga nella mia mente.
 
-         Va tutto bene? – Intimo, mentre il tostapane avvisa che il pasto è pronto.
Si alza, dandomi le spalle ed annuendo: gesto che conferma esattamente il contrario. E’ straordinario come comunichiamo utilizzando semplici gesti involontari: il linguaggio del corpo, talvolta, è molto più sincero del dialogo.
-         Spero non ti sia annoiata con mio fratello. Avevo delle cose urgenti da fare. – Spreme una quantità sovrabbondante di glassa sui waffel, prima di ricomporsi affianco a me.
-         No, assolutamente. Mi auguro che le “cose urgenti” a cui ti riferisci non ti turbino per il resto della giornata. – Sospiro, infastidita dal fatto che esse possano allontanarci. Non ho mai amato le tensioni, mie o altrui che siano.
-         Nulla di grave, ti spiegherò presto. Rivestiti e chiama l’esploratore Paperino, per favore. – Accenna un sorriso mentre, con un ultimo boccone, finisce il primo waffel.
 

-

 
Per qualche strano motivo ho preferito accomodarmi sul sedile posteriore, in viaggio verso chissà dove, rinunciando così alla libertà acquisita da pochi giorni di poter ammirare il mondo dal sedile anteriore. Avendo sempre avuto autisti che guidavano per me, non ho mai necessitato della patente e per la mia posizione ho sempre lasciato che fossero gli altri a scortarmi. A diciotto anni però ero stanca di guardare gli altri agire per me, che fossi una celebrità o meno ormai non contava più. Volevo la mia libertà e, anche se in minima parte, l’ho infine conquistata.
 
I due ragazzi, ammutoliti da mille discorsi retorici in testa, rendono l’abitacolo ancora più pesante da sopportare e, mentre io alleggerisco il tutto mostrandomi sorridente, i chilometri scorrono sotto i nostri piedi. Il pensiero di essere ancora una volta all’oscuro della realtà mi manda in bestia ma, onde evitare di essere rispedita in Russia o da qualsiasi altra parte del mondo, continuo a fingere di non essermi accorta di niente.
 
Sospiro, ponderando lo strano silenzio di Nathan degli ultimi giorni. Che stia architettando una vendetta -com’è suo solito fare- oppure si sia finalmente rassegnato all’idea che non sono una proprietà, benché meno sua?
 
Non distinguo con precisione quante ore siano passate da quando un turbinio di linee continue, qui tratteggiate e qui parallele ci hanno accompagnati in questo viaggio supersonico, giungendo a una stradina residenziale. La guida di Tom ha reso impossibile sia la conciliazione del sonno (nonostante il silenzio persistente) che la concentrazione sulla musica, o su qualsiasi altra cosa.
 
Scorgo il nome di questo vicoletto tranquillo, dove oltre alle auto parcheggiate con rigoroso ordine non vi è anima viva se non tre paia di occhi vacui. Machabäerstraße, Colonia. La stanchezza del viaggio rende irrazionale anche solo il concetto di essere ancora su territorio tedesco.
 
-         Non vorrei sembrare scortese ma, ora posso sapere dove siamo? – Chiedo, una volta scesa dalla macchina ed aver piroettato su me stessa più e più volte.
-         Saliamo. Tutto ti sembrerà più chiaro dopo un bicchiere d’acqua. – Il sorriso imbarazzato di Bill mi riporta alla normalità, sollevandomi dal fatto che sia a conoscenza di dove ci troviamo. Tutto suona meno come un rapimento, ora.
-         Ci vorrebbe della vodka. – Sussurro indugiante, quasi parlassi tra me e me.
 
Ed in men che non si dica ci ritroviamo nell’attico della via con più costruzioni bianche che io abbia visto in tutta la mia vita. La correità con cui si fondono col grigio pallido del cielo è a dir poco nauseante: rende la situazione ancor più gelida.
 
-         Ci sono delle novità. – Annuncia Tom, soppesando accuratamente le parole. La sua intonazione sicura mi fa pensare che alla guida non fosse realmente in modalità “offline” ma meditasse su come iniziare questo discorso, e alle sue conseguenze.
-         Continua. – Senza troppi entusiasmi mi prometto di rimanere quieta.
Con passo meccanico –sembra quasi stia calcolando le distanze tra un piede e l’altro- il ragazzo si aggira per il soggiorno calpestando più volte gli stessi metri quadri della moquette color caffè che avvolge il pavimento. Tenendo a bada di non fissarlo troppo, attendo che prosegua mentre il fratello mi siede accanto, muto e cauto come un felino.
 
- Temo… – schiarisce la voce- temiamo, che vi saranno problemi alla tua sfilata. –
- Posso sempre rifiutare. – Espongo troppo frettolosa e al contempo allibita: tutto avrei pensato meno che il problema riguardasse il mio lavoro. Respiro, ricordando la promessa erettami poco prima. – Scusa, prosegui. –
- E perché perdere un’occasione che sogni da una vita? – La sua voce infastidita sottolinea ancor più l’illogicità della mia affermazione. Non posso rinunciare, per nessun motivo.
 
L’improvviso scroscio della pioggia s’intromette nella nostra conversazione, avvicinandoci nel volerla concludere il prima possibile. Le nuvole hanno scelto il momento peggiore per scontrarsi: l’inquietudine che già scaturisce dalla discussione in atto è vapore acqueo che intacca le vie respiratorie, appesantendo tutti quanti.
 
-         Arriviamo al sodo, per favore. – Supplico, mentre un tuono irrompe sul mio timbro rendendolo quasi feroce. Se non fossi così tesa, sarei scoppiata a ridere. Mi ritraggo, allungando le maniche del maglione fin sopra le nocche.
-         Sì, beh, abbiamo pensato di triplicare la sicurezza e soprattutto non permetterti di alloggiare in hotel in quanto saresti una preda facile. Ti daresti direttamente in pasto al tuo dolce ragazzino, oltre a quei famelici dei paparazzi. – Dall’ultima affermazione percepisco che ci sia già molto di tutto questo sui giornali. Ripenso alla considerazione fatta poco prima in auto.
-         Era scontato che in tutto questo centrasse Nathan. –
-         Irina dice che la vostra lovestory è diventata d’importanza internazionale, non si parla d’altro né sui giornali né in televisione o radio: è come se tutti stessero aspettando un boom definitivo. – Il pensiero di Bill definisce nella mia testa fotogrammi di un imminente futuro che spero di non dover vivere.
-         Tagliando corto, tutti pensiamo che si verificherà qualcosa e preferiamo prevenire che curare. – A questa frase ripenso ai dialetti che spesso recitava mia nonna quand’ero bambina e questo addolcisce un po’ i miei lineamenti.
 
Ora è tutto chiaro: sarei rimasta prigioniera in quest’attico abbagliante sino alla sfilata. Mi fa piacere che vi sia apprensione nei miei confronti, ma non venir nemmeno interpellata su ciò che riguarda strettamente me e la mia vita m’infastidisce. Vorrei poter salire sulla cima del mondo ed urlare le mie ragioni.
 
-         Okay, beh pensate davvero di fermarlo rinchiudendomi qui? – Dallo sguardo che mi rivolge Tom capisco di aver fatto vacillare, in due secondi, tutte le sue supposizioni al riguardo.
Non mi sento granché consapevole, visto che il mio punto di vista non è stato minimamente richiesto.
-         Ci speriamo. – Sbuffa mantenendo il tono fermo e allontanandosi da me. Bill al mio fianco non ha spiccicato parola, è il ritratto fantasma di una sagoma che riflette senza proferir alcuna idea.
Al confronto, preferisco il suo modo di fare rispetto a quello del gemello.
-         Bene, non mi opporrò. E’ per la mia sicurezza e non ho intenzione di rendere infernale l’attesa alla sfilata a cui sogno di partecipare sin da bambina. Con ciò, sappiate che non temo nulla. Non ho paura di affrontare alcuna situazione, in caso si verificasse, ma se accetto questo compromesso è semplicemente per la motivazione che vi ho appena dato. – Concludo, lasciando che il peso di tutta la tensione cumulata si rilasci, abbandonando le spalle al divano.
-         Mi rendo conto che potevamo almeno interpellarti. – Sussurra Bill al mio fianco con lo sguardo chino. La mia mano finisce meccanicamente sulla sua spalla, accarezzandola come a rassicurarlo.
Rivedo scritte le mie considerazioni mentali fatte sul linguaggio del corpo poco prima ed inconsciamente noto d’aver agito mentre Tom era di spalle. Dallo sguardo sorpreso del gemello intuisco che sta pensando lo stesso e mi allontano, sebbene sorridendogli. La mia aggressività non ha alcun potere, quasi scompare, quando ho a che fare con questo ragazzo-felino.

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Capitolo 12
*** - Potere, veleno e fuoco - ***




 
Flughafen Köln-Bonn, Terminal 1 (Hauptgebäude)
Le vetrate dell’aeroporto spiccano al riflesso del sole invernale che le trafigge. Tanti grandi specchi che ne riflettono il potere. Vengo scortato all’interno della monovolume grigio topo, decocentrandomi dalla piacevole vista.
La mia guardia del corpo, accomodatosi affianco a me, mi avverte che i paparazzi sono inspiegabilmente informati di tutti i miei movimenti: e così sia. Il mondo intero, che da settimane ormai ci ha condotti nell’occhio del ciclone, deve sapere che sto per dare una svolta a tutto questo. Ti prenderò Katelynn, e tutto tornerà come deve essere.
O mia o di nessun altro.
 

-

 
Questa stanza odora di muschio, parquet di noce laccato e cannella.
Odio la cannella. Anche in questo caso deve rovinarmi tutto, per quanto non posandosi su della panna bensì ostacolando la percezione del mio olfatto.
 
-         A cosa pensi? –
La sua voce mi riporta alla realtà. Mi volto di scatto, alzando il viso verso il suo cuscino; solo adesso realizzo di essere realmente sveglia e con gli occhi aperti. Lui ricambia lo sguardo sotto le ciglia lunghissime: è come se mi stesse guardando da un secolo, con l’espressione immutata ma velata di mille pensieri.
-         In realtà a nulla. – Mento.
Credo che se confidassi ciò che inconsciamente o consciamente penso alle prime luci del giorno potrei esser scambiata per una malata mentale, quando il mio è semplicemente grande spirito d’osservazione.
-         Se lo dici tu. Ti va di far colazione? Se ti prepari ti porto in un posto. –
-         Okay. –
Mantengo lo sguardo un’altra manciata di secondi, il tempo necessario per perdermi nella sfumatura cioccolato che le sue iridi hanno assunto questa mattina.
 
Un rumore di zip invade la cabina armadio –desolatamente anch’essa bianca- adiacente al disimpegno, dove sono riposte tutte le nostre valigie, catturando l’attenzione di Bill. Appare sulla porta con fare convinto, aspettandosi evidentemente di trovare il fratello. Alla mia vista indietreggia di un passo.
 
-         Oh, scusa. – Il suo sguardo è un misto tra imbarazzo e malizia.
-         Non fa niente. – Gli sorrido, sistemando l’orlo della sottoveste. – Tom è di là. -
Si congeda sbrigativamente lasciandomi nuovamente alle mie perplessità.
Cosa diavolo mi metto? Trafugo da ogni bagaglio mille e mille capi, abbinandoli cromaticamente e dando vita così a dozzine di possibilità diverse, senza esser però convinta di alcuna. Sbuffo, maledicendo per una volta il freddo e l’inverno.
-         Tutto bene? – Tom, che sostava casualmente fino a poco fa nel disimpegno (sospetto che mi stia tenendo d’occhio, per assicurarsi che non scappi) entra.
-         No. – Rispondo, secca. Tutta questa situazione sta diventando opprimente.
-         Posso aiutarti? – La sua apparente non curanza mi rende ancora più nervosa.
-         No. – Replico nuovamente, stavolta abbassando lo sguardo.
Mi sento prigioniera ed ho bisogno di svagarmi, voglio ritrovare la serenità che fino a qualche giorno fa la sua presenza riusciva a trasmettermi.
-         Okay, ti lascio alle tue cose, così magari ti calmi. –
-         No. Non mi calmo. Chiamami Bill per favore. –
Quasi offeso da quest’ultima richiesta esce dalla stanza esaudendola. So che macinerà molto su queste tensioni ma siamo entrambi così orgogliosi che pur di ammettere qualcosa fingeremo e mentiremo oltre ogni limite. Semplicemente me ne frego.
 
Poco dopo il gemello rientra, sorpreso ed ancora imbarazzato.
-         Posso aiutarti? –
-         Sì Bill. Voglio che mi prometti una cosa. – I suoi occhi mi scrutano e a stenti riesco a mantenere la fermezza che mi serve per far risultare la richiesta seria.
-         Tutto quello che vuoi. – L’eccessiva enfasi che serra la risposta m’imbarazza.
Rimpiango questi mordi e fuggi che non mi hanno permesso il minimo acquisto.
-         Ehm. Portami a fare shopping, ho bisogno di vestiti nuovi. – Roteo gli occhi sull’ammasso di capi che spunta da ogni valigia, gesticolando nervosamente.
Credo che abbandonare per qualche ora i problemi non possa che essermi d’aiuto, specialmente poi se devo rinunciare di pensarvi in una grande boutique.
-         Va bene. – Scoppia a ridere, una risata dolce e leggera, una di quelle che dissolvendosi nell’aria lascia il buon umore. Gli sarò sempre eternamente grata per questo. – Ah, però avvisi tu mio fratello. –
 

-

 
Arriviamo al numero 5 di Alte Wallgasse, una stradina abbastanza frequentata; ad accoglierci vi sono tantissimi cartelloni con cupcakes bianchi su sfondo rosa, che fan tanto “fabbrica di dolci per principesse” di una fiaba per bambine. Sono letteralmente incantata.
L’insegna “Törtchen Törtchen” ci da il benvenuto.
 
-         Entriamo. – Mi esorta, tenendomi per mano.
Questo è uno dei tanti momenti in cui ringrazio di indossare gli occhiali da sole: non oso immaginare la mia espressione al momento, pensando di varcar la soglia della pasticceria più rosa del mondo mano nella mano con la persona che meno è adatta a questo luogo.
 
L’entrata è uno spettacolo: pasticcini, torte, dolci e cupcakes di ogni forma, tipo e colore si adagiano su innumerevoli vassoi collocati in ogni angolo. Il profumo di zucchero basta già da solo a farmi diventar diabetica.
 
-         Qui fanno il miglior cappuccino “originale” (come diresti tu) di tutta la Germania. –
Lo guardo ammaliata, contenta di aver ritrovato lo stesso ragazzo di cui sono innamorata. La serenità che aleggia sui nostri volti mi riporta alla prima serata trascorsa con la band.
 
Ci accomodiamo ad un tavolino angolare dallo stile un po’ barocco veneziano. Una biondina ci raggiunge con un sorriso a tremila denti stampato in volto ed il suo grembiule -di una tonalità leggermente più scura rispetto al rosa che va per la maggiore- ci svolazza attorno. Prende le ordinazioni e torna subito dopo con il servizio.
 
-         Hai ragione, è squisito. – Confermo, dopo aver sorseggiato la bevanda.
 
Tom intanto ha divorato il suo tortino al cioccolato, con zucchero a velo e glassa ai frutti di bosco. La situazione è così comica e leggera da farmi dimenticare tutto il resto, incluse le tensioni tra di noi.
 
-         Volevo proporti una cosa. A patto che non ti offenda. –
-         Solo il fatto che inizi così non mi entusiasma. – Confessa, guardandomi di sottecchi.
-         Nulla di particolarmente rilevante, dico davvero. Apprezzo che tu mi abbia portata qui e amo passare il mio tempo insieme a te. Sono quel tipo di ragazza che si conquista con la semplicità delle cose, per quanto nel nostro mondo sia una priorità offuscata. – Ammetto, preparandomi al finale. – Insomma, non ti scoccia se vado a far shopping con Bill oggi pomeriggio, vero? –
Mi sento quasi ridicola nel dover chiedere al mio “ragazzo” o meno che sia il permesso, specialmente per una cosa così banale. Solitamente avrei fatto di testa mia ma, poiché negli ultimi giorni sono tenuta al guinzaglio, preferisco non essere pressante.
Non voglio rischiare di essere fraintesa: in realtà apprezzo questa protezione, per quanto la ritenga eccessiva. Ho imparato sin da bambina a badare a me stessa e ne sono fiera, perciò so che potrei cavarmela da sola qualsiasi cosa accada.
-         Fate attenzione. – Non so bene che reazione mi aspettassi, fortunatamente lui non ha mai ecceduto in reazioni catastrofiche di gelosia come altri, ma la sua poca convinzione mi lascia l’amaro in bocca.
L’amaro del senso di colpa nel preferire un’altra persona a lui.
 

-

 
Dopo esser fuggiti a gambe levate dal centro commerciale più vicino all’hotel, ho deciso di seguire il consiglio di Bill e affidarmi alle sue conoscenze del settore. Non che mi abbia deluso (difatti sino ad ora ho perso il conto di quante volte ho consegnato la mia carta di credito alle casse) ma questo negozietto in Engelbertstraße non m’ispira affatto: ha un’insegna particolare che non riesco ad evitare di fissare. Dando le spalle alle vetrine non sono intenzionata ad entrare.
 
-         Dai vieni che ti faccio conoscere un’amica. – Tra le innumerevoli borse e l’euforia con la quale mi ha afferrato per il cappotto è stato arduo mantenere l’equilibrio.  Mi volto da un lato all’altro, scrutando la strada deserta.
-         Che? –
 
Senza che me ne renda conto siamo all’interno del negozio. Studio la disposizione dei vestiti e dell’arredamento, trovandolo molto più piacevole dell’insegna e del nome stesso: Madamski. Ci accoglie il sorriso di una donna carina e frizzante.
 
-         Melanie! – Dall’entusiasmo della sua voce deduco che siano amici di gran data. Mi sento nuovamente fuori luogo, è sempre un po’ strano quando ti ritrovi ad essere “l’amica di troppo” così all’improvviso.
-         Oh Bill, sei proprio tu? Ho perso il conto dei secoli che sono trascorsi. – Si salutano e dopodiché lei mi porge la mano, con una stretta equilibrata ma salda. Capisci molto di una persona dalla sua stretta di mano, se non tutto.
 
Contrariamente alle mie aspettative la proprietaria mi mette incredibilmente a mio agio, consigliandomi di provare alcuni capi e continuando a dialogare con il nostro amico in comune. Ne usciamo dopo un’oretta entrambi soddisfatti.
 
Devo assolutamente rifornire le mie scorte industriali, quindi affrontando a gran passi il freddo glaciale, giungiamo al M.A.C. Store di Ehrenstraße, a circa un chilometro dalla precedente fermata. Sono già stata qui e a confermare la mia supposizione ci pensa la vista dell’hotel Meininger, che suscita in me molti ricordi.
Emetto un sospiro soppesato che non passa ugualmente inudito.
 
-         Se sei stanca possiamo rientrare, abbiamo comprato abbastanza. –
Ignoro e mi piazzo avanti, pizzicandogli il naso con fare affettuoso prima di dargli le spalle e aumentare il passo. Ormai sono a pochi metri dal negozio.
Attraversando la strada un dettaglio sulle strisce (che non so ben identificare) mi riporta a una citazione che lessi una sera su un blog, una sera fredda in tutti i sensi.
 
Inghiotto il presente che sa di veleno e fuoco.
Il passato è impigliato da qualche parte.
A me un tempo bastava solo l’olfatto.

Arriviamo dall’altro capo della strada e lottando un po’ con i sacchetti riusciamo finalmente ad entrare, dove ad accoglierci c’è il tipico odore che si respira in profumeria e il colore sgargiante dei cosmetici esposti. Una musica leggera in sottofondo, respiro profondamente ed ecco apparire il seguito della citazione. 

Quando si rompe qualcosa produce rumore,
l’anima quando si lacera lo fa in totale silenzio.
Ti ritrovi ad urlare dentro, ma nessuno ti ode.

 
Ingoio la mentina che stavo masticando e con lei affondo questi pensieri, questi fantasmi rimasti a lungo nell’anticamera del mio cervello ad attendere il momento più giusto, forse per loro, per mostrarsi e colpire quella parte della mia anima vulnerabile che tento sempre di nascondere. Quella parte di me che si è dilaniata e che, se emergesse, basterebbe a incenerirmi definitivamente.

-         Possiamo tornare un’altra volta, se vuoi. –
-         No Bill, sto bene. –
Sbuffo e cerco di recludere nuovamente le ultime emozioni, scacciandole via e concentrandomi sui cosmetici di cui ho bisogno. Ne approfitto per dare un occhio alle novità e ai prodotti di tendenza, sfruttando l’assenza di altre persone oltre al personale. Arrivati alle casse veniamo riconosciuti, dando il via al classico giro di autografi e foto-ricordo.

Rientrando in hotel mi accorgo di come le ore siano realmente passate.

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