Mezze stagioni
Mezze
stagioni
Esistono
notti
che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino alla
morte.
A
occhi inesperti quella che è appena calata potrebbe sembrare solo una
tipica,
comunissima notte di fine maggio, ma Saga – che ha imparato con gli
anni a non
fidarsi dell’apparenza – ne avverte la particolarità persino sulla
pelle.
Punto
primo,
perché le notti di mezza stagione non sono mai le une uguali alle
altre:
lui, che è nato proprio durante una di esse, ne conosce bene la natura
mutevole
– tanto simile alla sua.
Punto
secondo,
perché prima aveva amato e ammirato le mezze misure, per la loro
capacità di essere qualcosa e, insieme, qualcos’altro di diverso;
prima, sì,
giacché solo in seguito aveva scoperto quanto fosse doloroso sentirsi
perennemente spaccati in due metà sempre in conflitto – «Com’era?
Ah, sì:
angelo sul volto, demone nel cuore».
E
infine, ma non per importanza, perché la persona che ai suoi occhi più
di ogni
altra cosa aveva incarnato la bellezza e la sacralità
dell’ambivalenza,
nonostante gli abbia sacrificato tutto – persino suo fratello
–, lo ha
crudelmente pugnalato alle spalle e lui non può perdonarglielo.
Lo
Star
Hill si innalza sopra di lui maestoso come non mai, quasi a volerlo
sfidare.
Saga
getta
ancora uno sguardo al cielo, poi comincia a salire. E, inconsciamente,
a
ricordare.
«Lo
stesso
periodo di allora. Come se la mia vita fosse destinata a essere
sconvolta sempre in questa stagione».
Il
cortile che circondava la misera
abitazione contadina era inondato di sole.
Due
bambini
identici stavano accoccolati ai piedi di un alberello, in attesa
che
qualche preda lasciasse la tana; tempo qualche secondo, ed ecco
affacciarsi da
un buco nel terreno il muso di un piccolo topo di campagna,
intento ad annusare
l'aria.
I
gemelli trattennero il respiro, quando il roditore mosse le
zampette verso
l'esterno; uno dei due – quello con i capelli più scuri – allungò
lentamente
una mano, e...
«Saga!
SAGA!
Vieni subito qui! C'è un tizio che chiede di te!»
Il
richiamo
improvviso e perentorio fece trasalire i due, permettendo così
all'animale di accorgersi del pericolo e rientrare di corsa nel
suo rifugio.
«Maledizione!»
borbottò
Kanon «Un'ora di appostamento andata in fumo».
Saga,
tirandolo
per un braccio, lo costrinse a lasciar perdere la caccia: non era
saggio far spazientire il padre.
«Siamo
nei
guai, Kanon» esclamò mogio, saltellando fra le sterpaglie «Te
l'avevo detto
che non era una buona idea, quella di liberare le galline del
signor
Papacristou! Adesso papà dovrà risarcirlo e, per punizione, ci
darà una scarica
di legnate».
«Secondo
me
il nostro vicino non c'entra nulla; comunque sta’ tranquillo,
tanto il
grosso delle botte toccherebbe a me» gli rispose l'altro,
rassegnato.
Qualunque
marachella
combinassero, la colpa veniva sempre addossata per la maggior
parte
a lui, reo – a detta del genitore – non solo di progettare "loschi
crimini", ma anche di trascinarci in mezzo l'altrimenti innocente
fratello.
«Alla
buon’ora!»
brontolò l'uomo, una volta che l'ebbero raggiunto «Lo sai che non
devi mai farmi aspettare, quando ti chiamo. Stai prendendo tutti i
vizi della
tua brutta copia, a forza di stargli appiccicato».
Kanon
gli
lanciò un'occhiata bieca, senza tuttavia replicare; del resto,
data
l'indole irragionevole e collerica del padre, sarebbe stato del
tutto inutile.
Il
pessimo
carattere e la prepotenza di Cosmas Léandros, a Rodorio e
dintorni, non
erano un mistero per nessuno.
In
passato
essi erano stati compensati da un notevole carisma, nonché dal
fatto
che egli rappresentasse un ottimo partito agli occhi delle
famiglie benestanti
del paese – per il bell'aspetto, ma anche per le discrete risorse
finanziarie
accumulate dai Léandros grazie alle loro proprietà terriere –;
tuttavia, dopo
che ebbe sposato la giovane e dolce Alèxia Karamanlìs, le parti
peggiori della
sua personalità tornarono a prevalere.
A
causa di uno scarsissimo senso degli affari e di una morbosa
tendenza allo
sperpero, in poco tempo dissipò l'intero patrimonio ereditato dai
genitori e,
per pagare i debiti di gioco, dovette vendere agli usurai tutti i
terreni,
compreso quello dove sorgeva la dimora di famiglia; evento,
quest’ultimo, che
lo costrinse ad acquistare un lotto di terra infeconda e un
vecchio edificio
diroccato ai suoi margini.
L'improvvisa
povertà
inasprì ulteriormente la cattiveria e la violenza di Cosmas, che
lui
prese a sfogare prima sulla moglie – tanto da farla morire –, e
poi sui figli,
nati nel frattempo.
I
due ragazzini avevano dunque trascorso i primi anni della loro
vita nella
miseria, senza una figura adulta che si prendesse cura di loro e
costantemente
soggetti ai frequenti scatti d'ira del genitore – scatti d'ira che
Saga aveva
imparato in fretta ad arginare, ma che Kanon, dal carattere già
piuttosto
ribelle a dispetto della tenera età, continuava imperterrito a
sfidare
frontalmente.
«Detesto
dargliela
vinta senza combattere» diceva spesso al fratellino, quando
questi
lo pregava di desistere; peccato che le sue si rivelassero quasi
sempre
battaglie perse in partenza.
«Che
hai
da guardare in quel modo, tu?» disse in tono minaccioso Cosmas, a
cui non
era sfuggito lo sguardo astioso del suo secondogenito «Vorresti
forse dire che
non è vero?»
«Papà,
lui
non c'entra nulla» intervenne precipitosamente Saga, onde evitare
pericolose degenerazioni della discussione «Non è colpa sua se ho
tardato: non
ti avevo sentito».
«Sì,
sì»
liquidò la questione l'adulto, facendo un gesto annoiato con la
mano.
Al
momento
ciò che gli premeva era altro; di norma, invece, Kanon non
l'avrebbe
passata liscia.
«Piuttosto,
ascoltami
bene, Saga,» riprese, con una strana luce cupida ad accendergli
gli
occhi verdi generalmente offuscati dall'alcool «il tizio ha detto
di chiamarsi
Tenzin e qualcos’altro di impronunciabile. A prima vista sembra un
ricco
forestiero orientale – tzè, andare in giro con una tunica lunga
fino ai piedi
con questo caldo! –, dunque, se si è interessato a te, forse è
perché gli serve
uno sguattero o robe simili.
Ha
l'aria
piuttosto eccentrica, quasi... fuori dal mondo. Comunque, tu sta'
zitto
e lascia parlare me: chissà che non riusciremo a spillargli
qualche soldo».
«Ma
come
fa a sapere chi sono? Non ho mai incontrato persone del genere»
chiese
Saga dubbioso, gettando uno sguardo allarmato al fratello.
Per
quanto
si sforzasse, non riusciva proprio a condividere il sinistro
ottimismo
del padre.
A
lui, che nei suoi pochi anni non aveva conosciuto altro, la
propria esistenza
andava bene così com'era.
Tutta
la
sua vita gravitava intorno a pochi punti fermi, così solidi da
essere
diventati parti integranti del suo essere: la casa sgangherata di
cui sapeva a
memoria ogni singolo angolo, il cortile affollato di animali da
allevamento, il
piccolo villaggio dove lui e Kanon si recavano di tanto in tanto,
il mare, il
sole e, soprattutto, il gemello.
Non
aveva
alcuna voglia di lasciare tutto questo e partire alla volta di un
paese
straniero, situato forse dall’altra parte del mondo; figurarsi,
poi, per fare
da servo a uno sconosciuto magari perfino più arrogante di Cosmas!
«Non
saprei»
rispose quest’ultimo, grattandosi pensoso la barba ispida «Forse
ha
chiesto informazioni sul tuo conto dopo averti visto giù in paese.
Poco
importa, comunque: ciò che conta è che sia giunto fino a noi. Ma
adesso basta
parlare! Vieni, su: meglio non farlo aspettare troppo, sia mai che
ci ripensi!»
Così
dicendo,
prese Saga per le spalle e lo spinse dentro casa con fare
frettoloso,
per poi fermarsi dinanzi alla porta di quello che decenni prima
forse era stato
un salotto degno di un’abitazione signorile, ma che adesso cadeva
in pezzi più
o meno come le altre stanze del casolare.
«Allora,
ricapitoliamo:
a meno che non sia lui a farti delle domande, tu non dire nulla.
Sorridi e assumi l’atteggiamento migliore che ti riesce,» disse
l’uomo, mentre
cercava di rassettare l’abbigliamento sdrucito e sporco del figlio
appianandone
le pieghe con le mani «mi raccomando».
«E
tu,»
continuò rivolto a Kanon che, nel frattempo, li aveva seguiti e
ora se ne
stava silenziosamente in disparte «levati dai piedi, e fai in modo
di non
rovinare tutto. Altrimenti, ti assicuro che te ne farò pentire
amaramente».
«Stai
tranquillo,
papà. Non sarò certo io a ostacolare Saga: grazie a
quest’occasione
forse potrà andarsene da qui» replicò Kanon, in tono sarcastico
«almeno lui».
Nel
pronunciare
tali parole, un’ombra scese sul volto del bambino – un’ombra in
cui
Saga lesse la paura che quanto aveva appena affermato accadesse
realmente.
Tuttavia,
subito
dopo sembrò recuperare la sua consueta spavalderia, poiché gli
fece un
occhiolino e sparì dietro l’angolo, senza aspettare risposta.
Una
volta
entrati nella stanza, trovarono l’ospite girato di spalle, intento
a
guardare fuori dalla finestra; la luce che filtrava dal vetro
sporco illuminava
le varie sfumature dorate dei lunghi capelli dello sconosciuto,
rendendoli
simili a una sorta di aureola evanescente.
Come
aveva
detto suo padre, l’uomo indossava una sontuosa tunica color prugna
che
gli abbracciava il fisico prestante con grazia delicata.
«Signor
Tenzin,
perdonate l’attesa. Ecco qui il ragazzo» lo chiamò Cosmas.
Quando
Tenzin
si voltò, due occhi azzurrissimi scesero a incontrare quelli di
Saga:
non avevano rughe agli angoli, eppure davano l’impressione di
essere antichi
come il mondo – quasi che una specie di ponte fra passato e futuro
vi scorresse
attraverso.
Tutto
di
lui appariva giovane e forte, dall’ampia fronte liscia alle spalle
larghe ed
erette, ma a un osservatore più attento non sarebbe potuta
sfuggire la
sacralità di cui l’intera sua figura era ammantata. Come se
vecchio e nuovo,
saggezza e baldanza si fossero uniti in un unico essere.
Sotto
il
suo sguardo, Saga si sentì improvvisamente piccolissimo.
«Mmmh»
mugugnò
l’estraneo, prendendo a girargli attorno come un avvoltoio «ben
proporzionato, bella presenza. Un po’ troppo magro, ma devo
riconoscere che,
complessivamente, non c’è male. Potrebbe essere adatto» decretò
infine, rivolto
a Cosmas.
«Adatto
a
cosa?» chiese l’oggetto dell’analisi, di getto.
Tenzin
gli
lanciò un’occhiata contrariata per quell’intervento non richiesto,
quasi
che la sua domanda fosse stata fastidiosa quanto il ronzio di una
mosca
insistente: «Tuo padre non ti ha forse insegnato a parlare solo se
interpellato, ragazzo? Perché, se così non fosse, sarebbe un
problema».
«Certo,
certo
che gliel’ho insegnato!» si affrettò a rassicurarlo Cosmas,
facendo un
passo avanti per la foga «Anzi, in genere è molto silenzioso ed
educato. Non so
cosa gli sia preso, in effett … chiedi subito scusa per la
scortesia,
figliolo».
Saga
fu
costretto a obbedire dallo sguardo assassino con cui suo padre lo
fulminò –
foriero di una punizione esemplare, in caso non avesse eseguito
l’ordine.
«Vogliate
perdonarmi,
signore. Non succederà più».
«Me
l’auguro».
«Se
posso
permettermi, signor Tenzin,» intervenne timidamente Léandros «come
intendete utilizzare il bambino? Credo di avere il diritto di
saperlo: sono pur
sempre un padre – e, come tale, ho a cuore solo l’interesse di mio
figlio».
A
sentirlo recitare simili fesserie, per poco Saga non sbuffò di
biasimo; alle
sue orecchie appariva infatti di totale evidenza che l’unico scopo
del genitore
fosse quello di fare un po’ di scena, per poi poter
successivamente tirare di
più sul prezzo.
Kanon
avrebbe
trovato la cosa davvero esilarante. Chissà, magari ora era dietro
la
porta a origliare e stava ridendo a crepapelle.
Il
forestiero
accolse la richiesta con un cenno della testa: «Effettivamente non
avete tutti i torti, signor Léandros. Avrei dovuto dire subito il
perché nutro
interesse per il ragazzino.
Urgenti
affari
privati mi hanno di recente condotto in Grecia, costringendomi ad
acquistare su due piedi una residenza nei pressi di Atene; data la
tempestività
degli eventi, non ho fatto in tempo a portare con me da Lhasa la
mia abituale
servitù.
Mi
sono perciò visto obbligato a cercarne qui:
girovagando di paese in paese sono arrivato fino a Rodorio, dove
mi hanno
consigliato di rivolgermi a voi. Vostro figlio potrebbe svolgere
le funzioni di
valletto ai ricevimenti, e lavorare come sguattero nel restante
tempo… »
Saga
smise
di ascoltare, disgustato.
Si
diede
dello stupido per essersi inizialmente lasciato ingannare
dall’aspetto
nobile e sacrale dello straniero: avrebbe dovuto immaginare che,
per una
persona del genere, lui non rappresentava nulla più di un
potenziale servo.
Si
era
ormai abituato a venire trattato senza nessun riguardo dagli
adulti –
Cosmas in testa –, ma, chissà con quale diritto, per un attimo
aveva pensato
che stavolta sarebbe stato diverso.
D’altro
canto,
la durezza delle uniche parole che Tenzin gli aveva rivolto era
stata un
presagio assolutamente chiaro.
Guardando
i
due adulti tutti intenti a parlare, Saga pensò che li odiava. Sì,
li odiava
entrambi.
Odiava
suo
padre, ora divenuto tanto mellifluo quanto era cattivo e
autoritario con loro;
e odiava altresì quell’intruso, che l’aveva illuso coi suoi occhi
cristallini e
la sua maledetta aria da santo.
A
causa dei loro futili interessi, adesso sarebbe stato costretto ad
abbandonare
l’unica cosa che per lui contava davvero – suo fratello.
Se
l’era
aspettato, all’inizio, ma ora che gli avvenimenti avevano preso
una piega
quasi certa non riusciva più ad accettare l’idea.
«Ora,
prima
di accordarci sul prezzo dei servigi di Saga, vorrei scambiare due
parole
in privato con lui. Se siete d’accordo, ovviamente».
Questa
frase
riportò l’attenzione di Saga alla conversazione in atto tra i due
uomini,
dalla quale si era volutamente estraniato.
Cosmas,
che
probabilmente si sentiva i soldi dell’affare già in tasca, non
riuscì del
tutto a nascondere la sua disapprovazione per la proposta;
tuttavia, timoroso
di contrariare il futuro acquirente, alla fine acconsentì e uscì
in fretta
dalla stanza.
Rimasti
soli,
Tenzin non accennò subito a voler parlare; Saga lo osservò girarsi
verso
la porta attraverso la quale suo padre era appena sparito, e stare
immobile a
fissarla concentrato.
Per
una
frazione di secondo gli parve persino di vederlo muovere
impercettibilmente
le labbra, ma forse fu solo un’impressione.
«Spero
che
tu voglia perdonare la mia precedente condotta nei tuoi
confronti,» disse
all’improvviso, voltandosi in un fruscio di vesti «ma temo che, se
non avessi
usato tanta poca grazia, tuo padre si sarebbe insospettito. Era
necessario
fargli credere che fossi arrogante e senza scrupoli come e più di
lui, in modo
che potesse fidarsi delle mie parole».
«C-cosa?»
balbettò
il bambino, confuso.
“Precedente
condotta“?
“Era necessario fargli credere…“? Di che stava parlando, lo
straniero? Era forse
impazzito? Oppure
si trattava di un tentativo di prenderlo in giro?
Tenzin,
nel
vedere il suo stupore, sorrise discretamente: «Comprendo come le
mie parole
possano suonarti strane. Avrei preferito non dover allestire
questa messa in
scena, tuttavia era l’unico modo che avevo per avvicinarti e
parlare con te
senza destare troppa curiosità».
«Potreste
essere
più chiaro, signore? Continuo a non capire».
Prima
di
rispondere, l’uomo si mise finalmente a sedere; sbuffi di polvere
si
alzarono dal consunto velluto rosso del divano, eppure lui non
sembrò farci
caso.
«Vedi,
Saga,
io non sono la persona che ho finto fino a ora di essere: non mi
chiamo
realmente Tenzin. Il mio vero nome è Shion di Aries, e ti sto
parlando in
qualità di Gran Sacerdote del Grande Tempio di Atena, Dèa della
Giustizia».
Grande
Tempio,
Atena: Saga aveva già sentito quelle parole.
Nei
dintorni
di Rodorio da sempre circolavano voci strane: voci che
riguardavano un
luogo nascosto abitato da uomini con poteri straordinari, capaci
di spaccare la
terra con un calcio e brillare di luce propria; eroi ammantati di
armature
bellissime, al servizio di una divinità il cui culto era caduto in
disuso da
almeno un millennio.
Leggende
e
fantasie, in sostanza; storie per bambini che a lui piaceva
ascoltare, ma
alle quali non aveva mai creduto.
«Mi
dispiace
signore, ma non vi credo. Non sono un moccioso qualunque, che si
lascia incantare dalla prima storiella; non si cresce con un padre
come il mio
senza imparare presto a distinguere il vero dal falso. Perciò,
vorrei che mi
diceste chi siete davvero, e cosa volete da me».
Nonostante
la
dichiarata diffidenza dimostratagli, Shion – o Tenzin, o chi per
lui – non
si scompose affatto; ampliò anzi il suo precedente sorriso che, se
non fosse
stato per la solennità del soggetto, si sarebbe detto estremamente
divertito.
«Vedo
che,
a dispetto dell’età, sei già piuttosto altezzoso. Qualità utile la
sicurezza in se stessi, per un cavaliere – a patto che non si
trasformi in
superbia».
«Prima
di
avanzare altre obiezioni,» continuò poi, troncando sul nascere la
replica
che era salita alla bocca del suo giovanissimo interlocutore
«vorrei che tu
rispondessi a questa domanda. Dimmi, Saga: ti sono mai successe
cose che la
gente comune definirebbe anormali? Cose che pensavi potessero
accadere solo
nella fantasia?»
A
quelle parole, Saga sentì il respiro bloccarsi in gola e la voce
venire meno,
ogni protesta dimenticata: benché si fosse prodigato grandemente –
senza però
ottenere successo – a cancellarli dalla memoria, non poteva ora
non pensare
agli assurdi e inspiegabili fatti recentemente capitatigli.
Non
ne
aveva parlato nemmeno con Kanon, per paura che lo credessero pazzo
– lui
stesso si era posto il serio dubbio di esserlo, talvolta.
Tuttavia,
come
poteva adesso negare la verità a quegli occhi straordinariamente
indagatori
che lo fissavano?
Aveva
la
bizzarra sensazione che, se l’avesse fatto, lo straniero si
sarebbe accorto
subito della menzogna.
Così,
facendosi
coraggio, disse: «Sì, da qualche tempo mi capitano cose
straordinarie. Cose che faccio senza quasi rendermene conto. Non
so neppure se
dipendano completamente dalla mia volontà-» si interruppe,
esitante.
Shion
annuì,
come se si fosse aspettato di sentire esattamente quelle frasi:
«Continua».
«All’inizio
succedevano
di rado, sicché mi sforzavo di non farci caso. Davo la colpa alla
stanchezza e alla troppa immaginazione, ma poi… poi hanno iniziato
ad accadere
più di frequente e-» il bambino tacque di nuovo, nervoso.
«Quando
parli
di “cose”, che intendi?» lo spronò l’altro, gentilmente.
«Cose
di
diverso tipo: correre a lungo senza stancarmi per nulla, ad
esempio.
Sbucciarmi le ginocchia e ritrovarle completamente guarite il
mattino dopo. A
volte mi sembra quasi di percepire i pensieri altrui, come se
potessi leggere
nelle menti… ma, soprattutto, mi capita di distruggere gli
oggetti. Non
romperli o spezzarli, no, proprio distruggerli.
Specie
quando
sono molto arrabbiato, mi succede di afferrare qualcosa e
desiderare di
scagliarla a terra, ma non termino di formulare il pensiero che
questa… esplode
fra le mie mani, e finisce in polvere».
«Quando
sei
nato, Saga?» lo interruppe l’uomo, precipitosamente.
«Il
mio
compleanno cadrà fra pochi giorni: sono nato il 30 di maggio»
rispose Saga,
stupito per quella domanda fuori luogo «Ma-»
«Gemini.
Le
stelle non hanno mentito nemmeno stavolta» sussurrò Shion a se
stesso,
rapito; poi, sembrò riscuotersi.
«Inusuale
resistenza
fisica, rapida capacità di rimarginazione delle ferite, facoltà di
tipo psichico, abilità di disgregazione molecolare… c’è altro?»
«No,
signore»
il ragazzino lo guardò con una punta di panico e imbarazzo, prima
di
proseguire «Ma voi mi credete? Non pensate che sia uscito di
senno, vero?»
Poi
si
arrestò di botto, mordendosi forte le labbra – forse aveva parlato
troppo.
Anche
se
l’istinto, nonostante tutto, continuava a suggerirgli che di
quell’uomo
misterioso e bellissimo si poteva fidare, questi rimaneva un
perfetto
sconosciuto, del quale nemmeno il nome era sicuro: chi gli
assicurava che non
lo stesse ingannando?
La
sua
ritrovata reticenza sembrò convincere Shion a essere un po’ più
incisivo.
«No
che
non sei pazzo, Saga» affermò, sporgendosi appena verso di lui «O,
perlomeno, non lo sei più di quanto lo sia io».
Gli
rivolse
ancora un sorriso, prima di continuare: «Il fatto che tu sia
capace di
compiere simili prodigi è il motivo per cui sono giunto fino a te.
Ti sarai
chiesto come facessi a sapere di aspetti tanto personali della tua
vita,
immagino».
«Immaginate
bene».
«Ebbene,
sono
state le stelle in persona a rivelarmelo. La costellazione alla
quale
appartieni – quella dei Gemelli – già da tempo aveva individuato
in te il suo
futuro rappresentante; io ho solo dovuto interpretare il messaggio
da lei
inviatomi».
«A-a
cosa
apparterrei, io?»
«Alla
costellazione
di Gemini, la terza delle dodici Costellazioni Zodiacali. Le
facoltà che prima mi hai indicato non sono altro che le iniziali
manifestazioni
di un potere discendete dalle tue stelle; un potere che, se ben
sviluppato, ti
porterà a divenire uno dei dodici Santi dorati protettori della
Dèa Atena – un
cavaliere d’oro».
«Oh»
commentò
Saga, un po’ stupidamente.
Ecco
svelato
l’arcano, infine: lo straniero altri non era che un invasato,
simile ad
alcuni svitati di Rodorio davvero convinti di ciò che predicavano.
L’esistenza
di Atena, del suo Santuario e di cavalieri atti alla protezione e
alla
salvaguardia dell’umanità per loro non erano leggende, ma
sacrosanta verità.
Triste
constatare
come un uomo così prestante, così pieno di mistico fascino potesse
far parte di quella schiera di folli. Oppure no?
Non
sapeva
più cosa pensare.
«Leggo
il
dubbio nei tuoi occhi, ragazzo: non credi del tutto a quello che
ti sto
dicendo, eppure appari meno pronto di prima a condannare come
false le mie
parole. A questo punto, esiste un solo modo per convincerti»
esclamò Shion,
alzandosi dal divano con un movimento fluido.
Saga
lo
guardò ergersi in tutta la sua statura, a torreggiare per un
attimo su di
lui; subito dopo, si chinò appena e gli tese le mani.
«Dammi
le
mani, Saga».
«Perché?»
«Devo
mostrarti
una cosa. Fidati di me».
Il
bambino
inchiodò i propri occhi a quelli dell’altro, incerto, finché non
acconsentì a posare i suoi piccoli palmi su quelli aperti, grandi
e forti, che
Shion gli stava porgendo.
Nel
momento
in cui le loro mani si toccarono un flusso di energia si insinuò
delicatamente in Saga, dolce come la carezza del vento alla sera e
potente come
la risacca del mare sugli scogli – gli riempì la testa, gli occhi,
le ossa. Il cuore.
Attraverso
esso
vide cavalieri vestiti di armature splendenti, scalinate e templi
di marmo
bianco, esplosioni di stelle, sangue, sudore e fatica; vide l’oro
brillare
attorno a uomini impegnati in combattimento e potere,
misericordia, dedizione e
onore.
Infine,
vide
una ragazza dagli occhi cerulei e i capelli del colore del legno
circondata di luce abbagliante e seppe, in qualche modo, che Lei
era il fine
ultimo di ogni cosa.
Lo
comprese
con una sicurezza assoluta, indicibile, devastante – una sicurezza
che
gli anni e gli eventi avrebbero poi corroso fino a distruggere, ma
che, in quel
momento, gli parve inossidabile.
«Co-cos’era?»
chiese
balbettando, una volta terminato il contatto «Cos’era quello?»
«Questo?»
Shion
lasciò che un globo di luce aurea continuasse a splendere ancora
per un
secondo sulle sue dita, prima di estinguerlo chiudendo la mano a
pugno «Questo
si chiama “Cosmo”, ed è la radice della forza di ogni cavaliere.
Sin
dalla
nascita tu racchiudi dentro di te il potere della costellazione da
cui
sei guidato, potere che si genera attraverso un’esplosione dello
stesso Cosmo
contenuto nel tuo corpo; fino a ora tu l’hai liberato solo in
particolari
occasioni e senza rendertene conto, ma è invece possibile
controllarlo. Ci
vogliono anni di duro allenamento per imparare a dosarlo e
incanalarlo
correttamente; solo allora un saint diviene davvero meritevole di
indossare
l’armatura che ha scelto – o alla quale è naturalmente destinato,
come nel tuo
caso».
Saga
l’aveva
ascoltato rapito, capendo la metà delle parole, troppo scosso e
affascinato per riuscire a concentrarsi. Aveva così tante domande
che non
sapeva da quale cominciare.
«Dunque,
io
sarei un cavaliere. Un futuro cavaliere,» si corresse svelto,
senza
comprendere cosa questo comportasse «che ha dentro di sé un potere
proveniente
dalle stelle. Ma se tutti i cavalieri contengono questo… questo… »
«Cosmo?»
suggerì
l’altro, attento.
«…
questo
Cosmo, sì, e se solo loro sono capaci di svilupparlo, allora vuol
dire
che anche voi lo siete. Un cavaliere, intendo».
«Lo
sono
stato. Adesso ho l’onore di ricoprire il ruolo di Gran Sacerdote,
il quale
rappresenta il portavoce della Dèa sulla Terra, ma prima ero il
cavaliere d’oro
dell’Ariete. Tale carica – e, con essa, l’armatura – continuerà a
spettarmi
fino a che qualcun altro non mi succederà».
«E
la
ragazza che ho visto… chi era?»
«Era
la
Dèa Atena. O, perlomeno, la reincarnazione della Dèa che io ho
servito».
Il
bambino
non si stupì troppo per la rivelazione.
Dentro
di
sé, già aveva intuito la risposta: una figura così splendente non
poteva
appartenere ad altri che a una Dèa.
Ripensandoci,
venne
preso da un desiderio incontenibile di incontrarla.
«La
vedrò
anche io, vero?» chiese quindi, speranzoso – incredibile come ora
ne
sentisse quasi la necessità, visto che solo poco prima non aveva
nemmeno
creduto alla sua esistenza.
A
quelle parole, la morbida curva delle labbra di Shion assunse una
piega appena
più dura: «No, mi spiace. La donna che hai visto non… non è più in
vita. Lei
era solo una delle tante forme umane assunte da Atena nel corso
dei secoli. Si
chiamava Sasha».
Un
velo
di malinconia calò su di lui dopo tale constatazione, un velo
sottile di
nostalgia e tenerezza che egli si affrettò rapidamente a
dissipare.
«Ogni
volta
che la Terra viene minacciata la Dèa Atena rinasce sotto spoglie
umane
per riformare le sue fila di cavalieri e condurle in battaglia
contro le forze
del Male. Le stelle mi hanno rivelato che presto Ella tornerà fra
noi e, quando
accadrà, il Santuario dovrà essere pronto ad accoglierla; per
questo i cosmi
sopiti dei potenziali saints si stanno risvegliando solamente ora.
Una nuova
generazione di guerrieri sorgerà dalle ceneri della vecchia, e tu
sei destinato
a far parte della schiera più alta di questa. Non ti nascondo che
l’addestramento sarà molto duro e che potresti anche non farcela,
e tuttavia è
un rischio che bisogna correre: la morte è la compagna per
eccellenza di un
cavaliere – questo rammentalo sempre».
Il
suo
discorso fu bruscamente interrotto da un bussare non troppo
discreto.
«Signor
Tenzin?
Tutto bene, lì dentro?»
La
voce
di Cosmas era impregnata di un’evidente impazienza, e anche di un
po’ di
timore; nell’udirla, Saga sobbalzò di sorpresa.
«Sì,
signor
Léandros, grazie! Datemi ancora un momento!» fu la pronta replica
di
Shion, mentre il bambino riprendeva coscienza della presenza del
genitore
nell’altra stanza.
«Mio
padre!»
bisbigliò quindi quest’ultimo, spaventato «Mio padre è di là! É
stato
di là tutto il tempo!»
«E
allora?»
ribatté l’uomo, con una calma antitetica al tono agitato
dell’altro.
«Voi
non
lo conoscete, ma-» tentennò Saga, pieno di vergogna per la
condotta
probabilmente tenuta dal padre «ma io sono sicuro che ha origliato
l’intera
nostra conversazione, dall’inizio alla fine. Anche ammesso che
abbia creduto
alle vostre parole, non mi lascerà mai libero di andarmene… non
senza un
sostanzioso corrispettivo in denaro» ammise infine tristemente,
chinando la
testa.
«Se
è
solo questo ciò che ti preoccupa, puoi stare tranquillo: ti posso
assicurare
che Cosmas Léandros non ha udito una sola sillaba della nostra
chiacchierata.
Non perché non ci abbia provato, beninteso: semplicemente, non ne
ha avuto la
possibilità» ammiccò Shion, astenendosi dallo spiegare il
significato della
propria affermazione.
«Come
fate
a esserne così sicuro?»
«Ho
anche
io i miei… trucchi» rispose lui, evasivo «Ora, però, non abbiamo
più
tempo: devo farlo entrare, altrimenti si insospettirà. Prima di
tornare alla
nostra recita, ho bisogno che tu giuri di non rivelare a nessuno
la vera natura
di questo colloquio. Mantenere segreta l’esistenza di Atena e del
Grande Tempio
è della massima importanza».
«Lo
giuro».
Aveva
promesso
senza esitare perché era convinto che quella fosse la cosa giusta
da
fare, nonché l’unica alternativa possibile: non sarebbe riuscito a
spiegarne il
motivo, ma sentiva di dovere obbedienza a Shion come per istinto
naturale.
«Ci
sono
tante cose che ancora non sai, Saga. Quello che ti ho detto è solo
una
minuscola parte di tutto ciò che compone il Mondo Segreto – che
diventerà anche
il tuo
mondo, se lo vorrai».
Si
interruppe
per guardarlo dritto negli occhi, e di nuovo Saga si sentì
schiacciare dal peso di quello sguardo – da perdercisi dentro,
tanto era
profondo e intriso di lontananze.
«Fra
qualche
minuto permetterò a tuo padre di venire e, in base alla risposta
che
adesso mi darai, io fingerò o meno di comprarti, cambiando la tua
esistenza per
sempre. Pensaci bene, è una scelta dalla quale sarebbe poi
impossibile
svincolarsi: una volta che si è diventati servitori di Atena
Glaukopis, lo si
resta per la vita. Il tuo dovere verrà al di sopra di tutto e di
tutti – non
potrai mai avere una famiglia, ad esempio. Mi rendo conto che sei
solo un
bambino e che potresti non capire il peso di certe rinunce… ma io
devo
chiedertelo comunque. Accetti di dedicare la tua vita al servizio
della Dèa
Atena? Accetti di lasciare tutto questo e seguirmi?»
Saga
rimase
in silenzio per quelli che a lui stesso sembrarono anni.
Aveva
l’occasione
di andarsene e buttarsi alle spalle tutto l’odio, tutta la rabbia,
tutto il rancore. Dove prima c’erano derisione, degrado,
umiliazione, ora
avrebbero potuto esserci dignità, rispetto, potere.
Nessuno
avrebbe
più riso di lui; nessuno l’avrebbe più insultato. Nessuno più
l’avrebbe
fatto sentire come l’ultimo dei rifiuti.
Era
la
sua unica chance per dimostrare al mondo che perfino uno come lui,
nato
nella polvere, poteva aspirare a far parte dei primi – anzi, no. A
essere il primo.
Niente
lo
tratteneva ancora lì. Niente, eccetto Kanon.
«Kanon…
»
«Accetto.
Vi
seguirò».
Oh,
sì, Saga ha tenuto fede alla sua promessa.
Ha
seguito
Shion per anni. L’ha imitato e onorato come si fa con un modello, con
un maestro – con un padre.
Si
è
fatto uomo sotto il suo sguardo insondabile lottando e sputando
sangue, senza
lamentarsi mai; è diventato cavaliere fra mille rinunce, traendo forza
e
coraggio dai suoi rari cenni di approvazione, solo per essere, un
giorno, il
successore del grande pontefice a cui deve ogni cosa.
Per
dimostrarsi
degno dei suoi insegnamenti e occupare, dopo di lui, il posto che
gli spetta di diritto – quello alla destra della Dèa.
Ma,
nonostante
tanta devozione, Shion l’ha tradito e Saga di Gemini si è ritrovato
ad essere secondo – ultimo – di nuovo. E questa volta per
sempre.
«Aiolos
di
Sagitter, sarai tu il mio successore».
Ah,
Aiolos:
Aiolos il Luminoso, Aiolos il Santo.
Aiolos,
amico
e amante, ora futuro Gran Sacerdote.
No,
in
questo momento non può concedersi di pensare a lui; più tardi ne avrà
tutto
il tempo.
Adesso
c’è
un’altra cosa che deve fare.
Sulla
cima
della Collina delle Stelle l’aria sembra più pulita, più dolce, più
sacra;
Saga ne inspira una profonda boccata e poi fa un passo avanti.
«Vieni,
Saga.
Ti stavo aspettando».
***
Gli
azzurrissimi
occhi di Shion non hanno rughe agli angoli, eppure danno
l’impressione di essere antichi come il mondo.
Ma
quella
profondità, quella specie di ponte fra passato e futuro che vi
scorreva
attraverso adesso si è spezzato: non c’è più nulla di lontano nel loro
fissare
immoti il manto stellato che li sovrasta.
E
Saga, per la prima volta da quando lo ha conosciuto, al cospetto di
quello
sguardo non si sente più piccolissimo.
Anzi,
rimirare
la figura del fu Shion dell’Ariete accasciata ai suoi piedi gli dà una
strana sensazione – quasi di euforia, di onnipotenza.
«Adesso
sono
io il solo artefice della mia sorte,» sussurra sprezzante al cielo di
velluto blu, con la voce arrochita dall’adrenalina «e mi prenderò
quello che è
mio, costi quel che costi».
Getta
un’ultima
occhiata assorta al vecchio pontefice, prima di chinarsi su di lui;
qualcosa gli punge il petto come uno spillo, mentre lo sveste,
tuttavia Saga si
sforza di ignorarlo.
Non
è
arrivato fin lì per essere sconfitto da banale rimorso e, comunque,
dopo Capo
Suonion ormai ci si è assuefatto.
La
veste
sacerdotale gli va troppo grande ed è sporca di sangue, ma lui,
indossandola, si sente ugualmente un Dio – un Dio unico, indivisibile.
Sì,
esistono
notti che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino
alla morte; Saga questa notte la ricorderà per sempre, perché non si è
mai
sentito tanto intero come adesso.
Quanto
in
realtà si stia sbagliando lo capirà solo fra tredici anni.
Note
dell’autore
Dato che la storia
si chiama "Le
quattro stagioni", perché i capitoli sono cinque?
Non
solo per smentire il detto "Non ci
sono più le mezze stagioni", no; perché l'idea per quest'ultimo racconto
l'ho covata così a lungo – quasi due anni, a dir la verità – che mi sono
sentita in dovere di svilupparla, in un modo o nell'altro. Probabilmente
non ne
è valsa la pena, ma ormai eccomi qui.
Come
certo avrete capito, la vicenda è
ambientata poco dopo gli avvenimenti di Capo Suonion, e subito prima
della
Notte degli Inganni: ossia, nella notte – non ricordo bene, ma immagino
sia
stato di notte – durante la quale Saga uccide Shion.
Il
presente si svolge in tre momenti
diversi, mentre la parte centrale in grassetto corsivo è un flash-back
avente a
oggetto un ricordo risalente al giorno in cui Saga scoprì da Shion di
essere un
eletto di Atena.
A
proposito di questo, ci tengo a precisare
che i fatti narrati e le dinamiche sono assolutamente arbitrarie e
ipotetiche.
Non
ho idea di come i gemelli abbiano
vissuto prima di arrivare al Santuario, né di come venissero reclutati i
cavalieri, perciò ho costruito la scena secondo la mia immaginazione.
«[…]
solo allora un Saint diviene
davvero meritevole di indossare l’armatura che ha scelto – o alla
quale è
naturalmente destinato, come nel tuo caso» : questa frase si
spiega con la
mia convinzione – errata o meno, non lo so – che gli appartenenti alla
casta
dorata non abbiano rivali in lizza per la stessa armatura, né che
possano
scegliere quale corazza conquistare; secondo me, la potenza del loro
cosmo li
rende unici. Uomini nati per vestire quella determinata cloth, e solo
quella,
in sostanza – Kanon sarebbe un'eccezione.
Altri
chiarimenti non me ne vengono.
Passo
e chiudo, quindi, ringraziandovi per
l'attenzione.
Un
abbraccio!
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