Le quattro stagioni

di _camus_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Primavera ***
Capitolo 2: *** 2. Estate ***
Capitolo 3: *** 3. Autunno ***
Capitolo 4: *** 4. Inverno ***
Capitolo 5: *** Mezze stagioni ***



Capitolo 1
*** 1. Primavera ***


I. Primavera

Le quattro stagioni

 

 

 

 

 

 1. Primavera

   



La tempesta di neve infuriava ancora, fuori dalla finestra: un uragano bianco di fiocchi gelidi, taglienti e monotoni che pareva non volersi arrestare mai.

Era arrivato circa tre settimane addietro e, da allora, il ghiaccio non aveva smesso nemmeno un secondo di scendere giù, come se avesse voluto cancellare via quell'angolo sperduto di mondo fra i monti dello Jamir che lui da sempre chiamava “casa”.

Se durante gli anni di addestramento era valsa la pena sopportare tante ore di viaggio solo al fine di respirarne la pace per una misera manciata di giorni, questa volta non si era potuto dire lo stesso.

Che il motivo della sua visita non sarebbe stato sereno lo sapeva anche prima di partire; scorta la grafia troppo disordinata del monaco Avgan, aveva intuito subito che quel dispaccio consegnatogli in tutta fretta non portava buone notizie.

Aveva continuato a percepire il disastro imminente anche mentre si recava velocemente a informare il Gran Sacerdote, per poi correre fuori dal Santuario sino a raggiungere il punto in cui avrebbe potuto accomiatarsi dall'assolata Grecia con un semplice battito di ciglia; l’aveva palpato nell'aria non appena si era materializzato sulla soglia della sua dimora, satura di un silenzio minaccioso.

Nonostante tutto questo, si era comunque trovato impreparato dinanzi alla verità: sua madre non aveva retto alla fatica del parto e, dopo aver dato alla luce il bambino, era spirata.

Mu non era giunto in tempo.

Per colpa del ritardo della lettera che annunciava complicazioni, forse, o per colpa sua… oppure per colpa di nessuno, dopo tutto. Sempre troppo tardi era stato.

«Grande Mu! Grande Mu!»  l'aveva chiamato con tono contrito la levatrice, una volta accortasi del suo arrivo; sentendo quell’appellativo, la parte irrazionale del suo cervello si era inorgoglita per un millesimo di secondo – aveva ottenuto l'armatura d'oro da poco, e a tali deferenze forse non ci si sarebbe mai abituato davvero.

Ma la soddisfazione era durata giusto un attimo, lasciando subito posto al dolore e alla rabbia; avevano cercato di consolarlo mettendogli in braccio quella creaturina indifesa che, ai suoi occhi, altro non era che un piccolo, crudele assassino.

Quell'essere l'aveva privato della sua venerata madre, tanto semplice quanto saggia, tanto minuta quanto forte: la calma, la pazienza e la costanza che lo contraddistinguevano Mu li aveva appresi da lei – da Karma. La prima stella della sua vita.

Aveva cresciuto il figlio da sola, riuscendo per amor suo a sopravvivere in quelle terre inospitali; tuttavia, quando si era fatto evidente come Mu fosse destinato a qualcosa di grande, aveva saputo mettere da parte l'egoismo materno senza esitare.

Non si era abbandonata al pianto nemmeno dinanzi al delegato di Atene, salito fin lassù per condurre il bambino in Grecia – migliaia di kilometri lontano da lei.

Di tale grande donna ora non rimaneva che quel pupattolo, minuscolo fra le braccia muscolose di Aries.

«Kiki in giapponese significa “terrificante”: senza volerlo, gli si addice perfettamente» aveva pensato lui, nel momento in cui gli avevano comunicato il nome scelto per suo fratello.

Ora, a sette giorni di distanza, comprendeva quanto i sentimenti astiosi che l'avevano animato all'inizio si addicessero più a un bimbo che non a un cavaliere del suo rango; a dispetto di ciò, tuttavia, non riusciva ancora a trovare dentro di sé la forza del perdono – facoltà invece importantissima, per un saint d'Atena.

Si alzò dalla poltrona accanto al fuoco su cui era rimasto seduto per ore con un sospiro, diretto nella stanza dove si trovava il neonato.

«Ciandra, andate a riposarvi un poco: resto io con Kiki» disse gentilmente alla vecchia balia a cui l'infante era stato affidato, la quale si congedò in fretta con un piccolo inchino.

Rimasto solo, fece qualche passo verso la culla, guardando l'occupante che si agitava debolmente al suo interno.

«Cosa dovrei farne di te?» chiese al fratellino, senza aspettarsi risposta «Fra poco il periodo di pausa che mi è stato concesso terminerà, e dovrò rientrare ad Atene: sono l'unico legame parentale rimastoti. Chi si occuperà della tua educazione, quando io non ci sarò? Chi ti darà l'affetto che ti spetta? Non so se sarò capace di adempiere a questo compito».

A dispetto del suo poco tempo, il bambino lo stava fissando concentrato, quasi capisse le sue parole.

Era troppo presto per dire con certezza di quale colore avesse gli occhi, ma Mu aveva l'impressione che sarebbero stati azzurri come i suoi – e come quelli di Karma.

Incapace di rimanere ancora lì fece per richiamare Ciandra, quando qualcosa lo trattenne.

Si voltò lentamente, con cautela; era stata questione di un attimo, ma aveva avuto la netta impressione che da Kiki fosse partito un tenue bagliore di cosmo.

«No, non è possibile!» si disse, sconcertato «Sono notti che non dormo bene: sarà stato un abbaglio dettato dalla stanchezza».

Capitava assai di rado che due persone dello stesso sangue manifestassero il medesimo potere: da quanto ne sapeva, gli unici due fratelli che erano divenuti entrambi cavalieri erano Aiolos ed Aiolia.

Aveva appunto terminato di formulare il pensiero, che di nuovo avvertì la sensazione di qualche attimo prima, stavolta più chiaramente: un debolissimo filo di cosmo – tenue, quasi impercettibile – aveva toccato il suo.

Senza pensarci ritornò velocemente alla culla, prese in braccio il piccolo e istintivamente cominciò a cullarlo, all’improvviso ebbro di gioia.

«Perdonami, Kiki. Non avevo capito nulla, sono stato uno sciocco. Avrei dovuto da subito essere grato alle stelle per il dono che mi hanno fatto permettendoti di nascere. Il sacrificio di nostra madre non andrà sprecato: mi prenderò cura io di te. Ti insegnerò a divenire prima uomo, poi cavaliere. Ti condurrò per mano lungo la strada più nobile che ci sia: la strada della giustizia, della fedeltà alla dèa Atena – quella dèa che, nonostante non me lo meriti, mi ha regalato un motivo in più per lottare».

All’improvviso, il ricordo delle proprie fatiche adombrò i pensieri di Mu: la via della Giustizia era sì la più nobile, ma anche la più difficile da percorrere.

Lui ricordava bene i propri anni di sangue, sudore e rinunce, durati un’infanzia che non era mai stata tale; augurava davvero il medesimo destino a quella creatura, che ora gli sembrava così indifesa?

«Sì» ammise a voce alta.

Perché Mu aveva provato sulla sua stessa pelle cosa implicasse essere cavaliere e, benché ancora giovane, già sapeva che nessun’altra vita più di quella meritava di essere vissuta.

«E poi ci sarò io al tuo fianco» sorrise infine, rincuorato dal pensiero che, con lui accanto, Kiki non sarebbe mai stato solo.

Sempre dondolando il fratello, Aries dette uno sguardo oltre il vetro della finestra: la neve aveva cessato di cadere. Dietro le nubi si intravedevano i primi timidi raggi di sole.

Il vento stava spazzando via la neve più superficiale, permettendo ai pochi fiori sopravvissuti alla tormenta di fare capolino da sotto la coltre bianca.

I ghiacciai eterni, tutto intorno, brillavano di luce nuova – i primi segni della primavera che quell'anno tanto aveva tardato ad arrivare.

«La vita genera morte, così come la morte genera vita... » sussurrò, recitando un antico detto che gli pareva di aver sentito pronunciare a Shaka.

«… nello stesso modo, l'inverno genera la primavera» aggiunse poi, pensando a sua madre e al bambino che gli si era addormentato sul petto.

Non avrebbe mai dimenticato quel giorno.




 

 .

 


Note dell’autore

Salve a tutti!

L'ispirazione per questa piccola raccolta di spaccati di vita mi è venuta una mattina in treno, ascoltando le “Quattro stagioni” di Vivaldi: viste e considerate le idee strampalate che mi vengono di prima mattina, non garantisco nulla!

Come è facilmente intuibile, la Primavera è dedicata al ricordo di Aries; per questo capitolo mi sono rifatta alla serie italiana – l'unica che consideri Kiki quale fratello di Mu.

Karma significa "Stella".

 

 

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Capitolo 2
*** 2. Estate ***


2. Estate

2. Estate

 

 

«C’è la neve, nei miei ricordi, c’è sempre la neve, e mi diventa bianco il cervello se non la smetto di ricordare».

Il frutto migliore della sua fatica lo ha appena colpito con un Aurora Execution troppo freddo persino per il Signore dei ghiacci, eppure Aquarius riesce a dirsi soltanto questo.

A ben guardare, comunque, non c’è nulla di strano. Se è vero che i moribondi rivedono tutta la loro vita nell’arco di pochi istanti, Camus non potrebbe pensare a nient’altro che a quello cui ha consacrato l’intera esistenza: la neve, per l’appunto.

Improvvisamente, però, un’immagine diversa arriva a catturare con forza la sua attenzione sfilacciata.

Non si fa domande, né oppone resistenza; la accoglie anzi con quieta letizia, perché da tempo sapeva che sarebbe arrivata a porgergli l’estremo saluto.

La sua vecchia e sgualcita valigia marrone giaceva aperta sul letto, riempita fino all'orlo.

Tutto quello che possedeva era stato riposto con cura quasi maniacale al suo interno, e ricontrollato almeno una decina di volte.

Perché ancora non sapeva decidersi a chiuderla?

La stanza, senza quei pochi oggetti ad arredarla e a renderla più accogliente, sembrava un guscio vuoto, una storia incompiuta; un corpo senz'anima.

Un po’ come il resto della casa, in effetti.

In sua assenza solo polvere, silenzio e ombre avrebbero abitato il Tempio della Sacra Anfora.

Il Gran Sacerdote gli aveva parlato di molto, molto tempo: chissà se si sarebbe riconosciuto fra quelle mura alte e candide, a distanza di anni.

Si affacciò dalla finestra del soggiorno sovrappensiero, ignorando volutamente l'ondata di caldo torrido di inizio agosto che lo investì in pieno.

Da quella posizione poteva vedere un piccolo, lontano scorcio di Atene, che si stendeva per miglia e miglia sotto il Santuario; magari laggiù in fondo c'erano persone dedite a godersi le vacanze estive, turisti, passanti – uomini sereni e ignari di tante cose.

Lo stesso sole cocente che batteva sulle loro teste inondava di luce gli occhi di Camus, abbagliandolo.

«Il sole di Siberia non è così giallo».

La Siberia orientale non era solo una distesa uniforme di iceberg e nevi perenni, no, lui lo sapeva per esperienza.

Lì la Bora sussurra di leggende arcane a chi la sa ascoltare, e lo scintillio dei cristalli ghiacciati sul terreno ricorda il brillare di una gemma preziosa; di notte il fulgore delle stelle accende la landa di luce propria, tanto che sembra di camminare fra terra e cielo.

Luogo magico, la Siberia, pieno di misteri, capace di plasmarti nel profondo dell'anima: gliel'avevano insegnato gli anni di sudore e sangue che vi aveva trascorso, e il suo maestro – un guerriero altero, algido come le calotte polari, ma al contempo pietoso e giusto, capace di provare sentimenti profondi.

Sarebbe stato alla sua altezza lui, che ancora non riusciva del tutto a controllare le emozioni senza soffocarle?

Sarebbe stato una buona guida per il bambino che doveva addestrare a divenire non solo adulto, ma anche – e soprattutto – cavaliere?

Ce l'avrebbe fatta a trasmettergli la duplice natura di quella terra, all’apparenza così desolata e vuota?

«Giovane Camus,» lo redarguiva spesso il suo mentore, orgoglioso e preoccupato insieme per l’impassibilità dell'allievo di fronte al dolore come alla gioia «non prendere troppo a modello la solennità e la compostezza di questi ghiacci. Non lasciare che essi penetrino così tanto il tuo cuore da impedirti di sentire – senza pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto, come la neve: sa essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche sciogliersi».

«Devo fare come la neve, come la neve, come la neve».

Camus però avrebbe preferito essere sempre duro come lo era in battaglia; confondersi con le emozioni spesso si rivelava più pericoloso di affrontare un nemico.

Tanto per fare un esempio, se in quel momento avesse potuto scegliere sarebbe rimasto estraneo al senso di disagio che lo attanagliava.

Invece l'aveva lasciato entrare e, a causa sua, adesso si stava sciogliendo.

Non sapeva neanche spiegarsi il perché, poi, di tutta quella malinconia.

Non gli era mai piaciuta la Grecia, dove il clima era così umido da entrarti nelle ossa e seccarti la gola; inoltre, abituato com'era alle ampie distese nordiche, gli spazi ristretti di quella terra spesso lo facevano sentire quasi ingabbiato.

Prima avrebbe dato chissà cosa per sfuggire all'afa estiva che dominava sovrana all'esterno – prima di tornare e di ritrovare loro, i suoi compagni d'armi.

Faticava ad ammetterlo persino a se stesso, ma negli anni dell'addestramento gli era mancato qualcuno con cui condividere la fatica, la frustrazione, il peso del suo compito; da quando si trovava di nuovo al Santuario la consapevolezza di non essere più solo gli aveva regalato nuovo vigore, nuove speranze.

E ora doveva lasciare tutto e partire – ancora.

Li aveva salutati uno per uno, senza troppe smancerie: una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un «Arrivederci» a mezza voce erano stati più che sufficienti.

Solamente in una casa non aveva avuto la forza di entrare: l'Ottava.

Congedarsi da Milo l'avrebbe sciolto interamente, mentre Camus si era ripromesso di rimanere integro.

Tuttavia, era certo che Scorpio non avrebbe tardato a scoprire l'inganno: si aspettava la sua comparsa da un momento all'altro.

Non si sorprese, quindi, nel momento in cui questi spalancò la porta delle sue stanze con i capelli scomposti e gli occhi che mandavano lampi.

«Camus» esordì, fintamente calmo «É vero ciò che si dice? Domani te ne vai?»

Camus si scostò dalla finestra e gli fece cenno di entrare: «Sì. Parto per la Siberia».

Milo ignorò l'invito a sedersi: «Ma non puoi farlo! Lo sai quanto dura l'addestramento di un cavaliere di bronzo? Sei anni! Sei, Camus! Un'eternità! E in Siberia, poi! Così... lontano!» continuò, gesticolando frenetico.

«Devo fare come la neve, come la neve, come la neve».

Gelida e letale, quando serve, ma all'occasione capace di sciogliersi – no: non poteva permettersi di crollare.

Non avrebbe seguito il consiglio del suo maestro, per quella volta.

«Duro, duro come il ghiaccio: nessuna comprensione, o di me non resterà che acqua».

«Non fare scenate, Milo, ti prego. Ormai ho deciso. Il Gran Sacerdote mi ha concesso l'onore di mettere le mie conoscenze a disposizione di un nuovo, aspirante difensore della dèa Atena. Non mi tirerò indietro solo perché tu non sei d'accordo» rispose fermo, entrando in camera più per non doverlo guardare in faccia che per reale necessità.

«Non ti chiederei mai di sottrarti a un dovere per me,» gli andò dietro l'altro «non sono in condizioni di avanzare tale pretesa. Ma Camus... avevi intenzione di partire senza dirmi alcunché, senza salutarmi! Perché? Non ti importa davvero nulla di me, allora».

«Sciocchezze. Non è vero che non mi importa nulla di te, e non è vero che sarei partito senza salutarti. In realtà, stavo giusto per venire... mi hai preceduto» negò l'Acquario, con scarsa convinzione «Hai frainteso, come tuo solito».

«Abbi almeno la buona creanza di ammettere che ho ragione: nessuno capisce mai ciò che pensi, ma io sì. Lo vedo da lontano un miglio che stai mentendo: mi dai le spalle, fai finta di avere da fare, ti scosti i capelli di continuo. Ho imparato a conoscerti, Camus, nonostante tu spesso non me l'abbia permesso».

«Finiscila con queste presunte analisi da psicologo: mi hai seccato. Pensala come vuoi, domani partirò comunque. Perciò, ti conviene chiudere qui la discussione, senza sprecare altro fiato» concluse Camus, sentendosi smascherato; per sottolineare ulteriormente le sue parole, poi, chiuse di scatto la valigia che tanto aveva esitato a riempire.

«Perfetto. Ti accontento subito: me ne vado. Ricordati di me, quando sarai in Siberia».

Milo l’aveva detto pianissimo, in un sussurro che ne non tradisse la voce incrinata; ora, dietro la porta sbattuta, probabilmente stava cercando di soffocare la rabbia.

Non sarebbe tornato indietro. Era un addio, quello.

«Milo... » lo richiamò debolmente, sperando – invano – di vederlo spuntare di nuovo.

«... senza pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto, come la neve: sa essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche sciogliersi».

Invece lui aveva preferito fare come il ghiaccio e, al pari di esso, una volta sgretolato era andato in polvere.

Se, al contrario, avesse accettato di sciogliersi come neve al calore di ciò che provava per Milo – al calore che Milo stesso emanava, ancora più caldo di quello estivo fuori dalle mura –, forse sarebbe rimasto acqua.

Dalla polvere non si genera nuovo ghiaccio; dall'acqua, però, può riformarsi neve.

Non poteva lasciarlo andare via in quel modo; se lo avesse fatto, l'avrebbe perso per sempre.

Il loro era un mondo di sguardi, di carezze lievi date per caso, di parole non dette. Troppo fragile per resistere a sei anni di lontananza, dato come si erano lasciati, ma lo stesso troppo importante per morire senza mai nascere davvero.

Come diceva quel proverbio?

«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore... ebbene, non lo permetterò».

Camus uscì di corsa dal proprio Tempio, precipitandosi giù per le scale; all'interno della dimora del Capricorno quasi buttò a terra un incredulo Shura, il quale non ebbe neanche il tempo di dire «Ehi», che già lui era passato oltre.

Non trovò Milo all'Ottava Casa, né in quelle precedenti.

Per scrupolo decise di cercarlo anche all'Arena, e fu proprio lì che, inaspettatamente, lo vide: era da solo, intento a prendere a calci un masso con energia a dir poco eccessiva.

«Milo! MILO!» gridò, raggiungendolo in maniera sorprendentemente celere.

Il diretto interessato, che nel frattempo aveva smesso di tirare pedate, ora lo fissava sorpreso.

«Al diavolo l'orgoglio, al diavolo il mio stramaledetto istinto di autoconservazione!» esclamò Camus in un tono concitato a lui del tutto estraneo «Sì, avevi ragione: me ne sarei andato senza salutarti. Ma non l'avrei fatto perché di te non mi importa nulla. Volevo solo non cadere in frantumi, non sciogliermi, rimanere composto e fermo come sempre. Non riesco a mantenere il mio contegno, quando si tratta di te – insomma, guardami! Sembro un pazzo. Credevo che rivederti mi avrebbe fatto a pezzi.

Poi però sei arrivato, e ho capito che ciò che veramente mi avrebbe distrutto sarebbe stato partire domani senza la certezza di te ad aspettare il mio ritorno. Scusami. Chissà come devo parerti ridicolo, ora».

Aveva parlato con tutta la franchezza possibile, guardandolo negli occhi – e Milo l'aveva lasciato dire, in silenzio, studiandolo con il suo sguardo azzurro come il mare.

Una volta terminato il suo discorso, Aquarius abbassò la testa, oppresso dalla calura del pomeriggio e da quel silenzio che non sapeva interpretare.

«Forse non sono in diritto di chiedere perdono. Forse non siamo fatti per stare insieme».

Lui era come la neve – bianco, lieve, gelido.

Se, invece, avesse dovuto accostare Milo a un elemento naturale, l'avrebbe senz’altro assimilato al sole di Grecia – giallo, forte, cocente.

Due opposti così estremi.

All’improvviso, Milo gli si avvicinò.

«Camus» sussurrò, sollevandogli il viso con l'indice «’Mus, guardami».

Obbedì. Che altro avrebbe potuto fare?

«Non mi pari affatto ridicolo. Anzi, ti dirò: forse non sei mai stato meno ridicolo in vita tua».

E poi fece una cosa ardita – una cosa che Camus non avrebbe mai avuto la faccia tosta di fare –: gli inclinò la testa di lato e lo baciò.

Le labbra di Scorpio, piene e grandi, erano bollenti; andavano piano, guidando le sue in quello che fu il primo incontro delle loro bocche.

Aquarius sentiva caldo, un caldo terribilmente piacevole.

Pensò, un po’ confusamente, che valeva la pena di sciogliersi ai raggi di Milo – il suo astro diurno privato.

«Mi scriverai quando sarai laggiù, in quelle terre che tanto ti somigliano?» gli chiese poi il biondo, avvolgendolo in un abbraccio «Non ti chiedo di farlo per forza, se non vuoi. Solo quando ti va, quando non sarai impegnato con il tuo allievo».

«Certo che ti scriverò. Il luogo di addestramento è nei pressi di un villaggio: la posta arriva sì e no una volta a settimana, ma arriva. Sempre meglio di niente» lo rassicurò Camus «E poi dovrò tornare in Grecia per fare rapporti completi al Gran Sacerdote, di tanto in tanto: non passeranno sei anni, prima di rivederci».

Milo annuì: «Non farti congelare l'anima da quei maledetti ghiacci. Quando sentirai freddo, pensa all'estate, all'estate di Atene. Pensa a me».

Milo non avrebbe mai indovinato con quale frequenza Camus aveva accolto il suo invito, in quegli anni.

Quante volte si era fatto scaldare dal ricordo di quel giorno d'estate – dal ricordo di quel bacio.

Dal ricordo del suo personale sole di Grecia.

E ora che sente tanto freddo – un freddo ancora più intenso di quello della lontana Siberia –, di nuovo si lascia crogiolare dal torpore di quel ricordo.

Muore così, col corpo gelido e l'anima piena di estate.



 

 .

 


Note dell’autore

Con tutti questi discorsi sulla neve, sul sole e sullo sciogliersi il capitolo appare un pochino...  delirante.

Però, per scriverlo, ci ho messo tutto il mio amore. Spero di aver combinato qualcosa di buono, alla fine.

La frase iniziale è tratta dal film "Manuale d'amore 2".

Detto ciò, vi saluto e mi congedo!

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Capitolo 3
*** 3. Autunno ***


3. Autunno

3. Autunno

  


«LIGHTNING BOLT!»

Milo sorrise: se l'aspettava. Aveva avvertito che Aiolia stava raccogliendo il cosmo necessario a lanciare il suo colpo.

Così, non gli fu difficile scansare con uno scarto il pugno intriso di scariche elettriche che andò a fendere prima l'aria, poi la dorata terra dell'Arena – a placare la frustrazione del suo possessore.

«Avanti, caro Leo, impegnati! Puoi fare di meglio!» lo prese in giro bonariamente, guardando soddisfatto il punto bruciacchiato dove si trovava appena un momento addietro; era stato molto veloce nello spostamento, considerando che non indossava l'armatura.

Le guance dell'amico, già arrossate dalla fatica e dal fievole sole del primo pomeriggio, si colorarono ulteriormente di sdegno.

«Ah sì!? Ora ti faccio vedere io, sbruffone!» dichiarò con un ruggito tonante, tendendo i muscoli, pronto a un nuovo assalto come un leone in procinto di spalancare le fauci.

«Una belva che punta la preda».

Alle volte era sorprendente quanto il suo carattere, le sue movenze, la sua stessa indole sfociassero in quelle del segno da lui incarnato – fiero, forte, coraggioso, istintivo e feroce al pari del re della Savana: così appariva e di fatto era Aiolia di Leo.

A detta di molti, comunque, non era il solo a rispecchiare le caratteristiche delle proprie stelle; anche Milo veniva spesso accostato allo scorpione per arguzia e pericolosità.

In realtà, lui non condivideva l'opinione di chi lo rimproverava di essere venefico e infido: a onor del vero, la zazzera bionda e gli occhioni colorati di mare che vedeva nella sua immagine riflessa allo specchio gli parevano tutto, fuorché minacciosi.

«Questo perché non hai mai avuto occasione di osservarti combattere» gli aveva detto poco tempo prima Aldebaran del Toro, ridendo dei suoi dubbi «Dammi retta, Milo, la sicurezza e l'espressione sadica che assumi mentre scagli lo Scarlett Needle non hanno nulla da spartire con l'aria ingenua dietro cui ti nascondi! Nella vita sei effettivamente piuttosto innocuo – nel senso buono del termine, non mi fraintendere –, ma in battaglia lasci uscire il tuo vero volto, quello della costellazione a cui appartieni».

«Giusto» gli aveva dato man forte Mu dell'Ariete «Ognuno di noi ha un fattore preponderante che lo caratterizza; per quel che ti riguarda, non ho dubbi sul fatto che sia meglio averti come amico che come nemico».

«Forse hanno ragione; sarà che, nonostante tutto, ancora mi risulta difficile pensarmi come un cavaliere di Atena».

La manifestazione del cosmo dorato già in tenera età, gli anni di durissimo addestramento e, alla fine, la tanto agognata investitura non erano stati sufficienti a convincere Milo di essere a tutti gli effetti uno dei dodici sacri guerrieri osannati in miti e leggende.

Persino l'armatura gli aveva creato qualche perplessità: la prima volta che l’aveva indossata, pur avvertendo un’istantanea e meravigliosa sensazione di completezza, era rimasto sconvolto da tutto quell'oro su di sé, quasi credesse di non meritarselo.

Per non parlare, poi, dell'appellativo acquisito insieme alle vestigia: “Milo di Scorpio”. Durante il rito di vestizione, quando il Gran Sacerdote l'aveva chiamato al suo cospetto usando tale altisonante titolo, non era riuscito a impedirsi di sobbalzare.

Un simile atteggiamento poteva sicuramente risultare infantile, ma lui non riusciva a farci nulla se, sotto la corazza, si sentiva sempre e solo Milo.

Perso nei suoi pensieri e completamente dimentico dello scontro in atto, si fece cogliere di sorpresa dal secondo attacco di Aiolia che, questa volta, lo centrò in pieno, schiantandolo con violenza qualche metro più in là.

«Ebbene? Ora chi è, quello che può fare di meglio?» chiese trionfante Leo.

«’Lia, accidenti a te! Per forza mi hai colpito, non ti stavo prestando attenzione!» sbottò lui, offeso e un po’ stizzito per aver fatto magra figura.

«Colpa tua: con uno come me, non ci si possono permettere distrazioni» sorrise l'altro, tendendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi.

«Borioso».

«Smidollato».

«Smidollato?!»

Al che, abbandonata ogni convenzione formale e civile da tenere in un duello alla pari, presero a darsele di santa ragione, rotolandosi e ridendo come ragazzini.

«Ma che state facendo voi due? Smettetela subito, recuperate un po’ di dignità!» disse una voce divertita da un punto imprecisato sopra di loro.

«Vuoi partecipare anche tu? C'è posto!» fu il gentile invito di Aiolia, che non alzò neanche la testa per guardare chi avesse parlato.

«Idiota, ma che vai cianciando?! É Aldebaran!»

«Per carità, non dicevo sul serio!» si rimangiò tutto Leo, cessando di tirare gomitate a destra e a manca.

«Oh, non pensavo di essere così spaventoso!» ammiccò Taurus, l'ampio petto scosso da risate trattenute a stento.

«La nostra non è paura, caro mio! Si chiama “istinto di sopravvivenza” e corrisponde all'innato impulso di rifuggire situazioni svantaggiose – tipo un corpo a corpo contro un avversario grosso il doppio di noi!» spiegò Milo, nel tentativo di difendere il loro onore.

«Esatto: non ci tengo proprio a farmi stritolare o schiacciare da un armadio vivente. Senza offesa, Al» aggiunse Leo «E a te, biondino, proporrei una tregua: sento che mi si sta già gonfiando il naso».

«Accordata. Le mie costole chiedono pietà».

Scrollatisi la polvere di dosso, i tre amici si sedettero negli spalti più vicini, continuando a chiacchierare allegramente; si erano ricongiunti da poco tempo e avevano ancora tante cose da raccontarsi.

Scorpio amava parlare, ma non era un grande ascoltatore; dunque, se rimaneva in silenzio troppo a lungo, tendeva a distrarsi.

Così, mentre Aldebaran narrava di foreste tropicali ed enormi serpenti, egli prese a fantasticare osservando il pallido cielo autunnale finalmente sgombro di nuvole.

Ottobre era passato in un turbinio di pioggia e un freddo prematuro aveva già privato gli alberi del loro colorato fogliame – fogliame che ora giaceva a terra, agitato dal vento in tante piroette gialle, rosse e arancioni.

L'arrivo di novembre aveva portato inaspettate schiarite e un nuovo innalzamento della temperatura, tanto che sembrava di essere tornati agli inizi di giugno, quando pare già di sentire la sensazione dell'acqua salata sulla pelle e i vestiti pesanti sono da riporre in un angolo dell'armadio.

Death Mask, che era cresciuto in Italia, la chiamava “l'estate dei morti” e Milo, dal canto suo, la trovava una definizione quanto mai azzeccata: solo un osservatore poco attento sarebbe potuto cadere in quella sorta di beffa stagionale.

Non era necessario essere poi così sensibili per avvertire che il sole, l'aria, la luce e i colori stessi non avevano nulla della sgargiante e rumorosa vitalità estiva; che, anzi, essi andavano sbiadendosi in maniera lenta e inesorabile, fino al momento in cui sarebbero arrivati a fondersi nel niveo e ovattato candore invernale.

Da bravo mediterraneo, lui aveva quasi in odio il freddo e il buio dei mesi che stavano per giungere; gli trasmettevano uno strano senso di vuoto simile a morte e, alla morte, egli non voleva pensare – «Quando tocca, tocca» si era sempre detto, nel corso della sua breve esistenza.

Ma dove collocare l'autunno?

L'autunno, infatti, stava nel mezzo; in mezzo fra il caldo e il freddo, fra il chiarore e le tenebre – fra la vita e la morte.

L'autunno era la stagione dei colori brillanti e degli alberi spogli, delle giornate terse e di quelle fitte di nebbia: tutto stava nel decidere se apprezzare o meno le mezze misure.

A lui piacevano? E agli scorpioni?

Cavolo, non lo sapeva.

«A voi piacciono le vie di mezzo?» intervenne improvvisamente, dando voce alle sue cogitazioni.

«Eh? Che c'entra, adesso?» gli risposero Aldebaran e Aiolia, rivolgendogli uno sguardo vacuo non dissimile a quello che si riserva ai pazzi.

«No, niente, lasciate perdere: devo aver battuto la testa da qualche parte» sdrammatizzò lui, cercando di liquidare in fretta la questione.

«In fondo, che importanza può avere? Una stagione, bella o brutta che sia, è solo testimonianza del tempo che passa, nulla di più».

«Insomma, Scorpio, datti una svegliata! É già la seconda volta che ti incanti, non è da te!» lo rimproverò Aiolia.

«Suvvia, Aiolia, non essere così severo!» lo difese Taurus «Comunque, se ti interessa, stavamo parlando degli ultimi arrivi. Che impressione ti ha fatto il novello cavaliere dei Pesci?»

«Che impressione mi ha fatto, chiedi. Ebbene, penso che sia una donna travestita da maschio. Posso capire tante cose, ma il rossetto è veramente troppo – e non si accontenta del lucidalabbra trasparente, no, lui lo mette rosa

La considerazione indignata fece sghignazzare i suoi compari, che evidentemente condividevano con lui lo stesso sospetto.

«Ahah, oh cielo» esclamò Leo, ripresosi dall'effetto della ridarella collettiva «Basta, su! Non sta bene spettegolare come vecchie comari: se è diventato cavaliere d'oro, di sicuro anche lui avrà le sue qualità – tendenze sessuali a parte».

«A proposito di novità,» disse Aldebaran, a sua volta tornato serio «venendo qui ho notato un po’ di trambusto all'ingresso del Santuario  – presumibilmente dovuto alla comparsa di un ragazzo con una fitta chioma rossa che mi pare di aver già visto. Deve trattarsi del cavaliere mancante… Aquarius, se non erro».

«Come?! Cioè, fammi capire bene: tu sapevi che Camus era qui e non hai detto niente fino a ora?!»

«Da quando in qua ti interessano così tanto i nostri compagni d'arme, Milo?»

«Ma lui non è uno qualsiasi! Lui è Camus

«E allora? Di lui mi sono rimasti impressi solo il colore dei capelli e l'antipatia. Ricordo perfettamente di aver pensato che, al suo confronto, persino il nostro amico illuminato fosse un gran burlone» commentò Aiolia, scettico «Non afferro il perché entusiasmarsi tanto per un soggetto del genere».

Già, perché? Ecco un'altra cosa che ignorava.

Milo era rimasto straordinariamente colpito da quel bambino schivo, giunto dalla – si diceva – bella Parigi, che al suo arrivo non spiccicava una sillaba di greco.

Aveva, nei gesti e nei movimenti, dei modi naturalmente eleganti, talmente sobri e composti rispetto a quelli della maggior parte di loro da sembrare un nobiluomo capitato per sbaglio in una riunione di popolani.

E poi i suoi capelli erano così rossi – tanto rossi da ferire lo sguardo. Tanto brillanti da sembrare vivi.

«Accidenti, ‘Lia, come sei critico! Non si può essere socievoli tutti allo stesso modo!» tentò di mediare il Custode della Seconda Casa.

«Socievoli?! Quello non sapeva nemmeno cosa fosse, la socialità. Parlava giusto con te – e solo per zittirti –, Milò».

“Milò” era il nomignolo affibbiatogli involontariamente da Camus, che poi gli altri avevano adottato a loro volta per sbeffeggiarlo; da piccolo Scorpio aveva adorato quel suo storpiare lievemente le parole per via dell'accento francese – che, secondo lui, rendeva più aggraziata qualsiasi espressione.

Milo l'aveva pensato spesso, durante quegli anni di lontananza: chissà come era diventato. Chissà se si ricordava di lui.

«Beh, ragazzi, io vado a salutarlo. Venite con me?»

«Sì, dai. Ho proprio voglia di scoprire se, in tutto questo tempo, ha finalmente imparato a parlar-»

«Tu avviati, magari ti raggiungiamo più tardi» proruppe invece il Toro, lanciando ad Aiolia un'occhiata che non ammetteva repliche.

«Siete sicuri?» chiese Scorpio, insospettito da quella inaspettata presa di posizione.

«Sì, certo: sicurissimi! Va’ pure» annuì quello, convinto.

«D'accordo. Allora ci vediamo dopo».

Mentre si allontanava, udì chiaramente la voce di Aiolia esclamare infastidita: «Ma che ti è preso? Per quale motivo non sei voluto andare insieme a lui?!»

«Perché sarebbe stato indelicato rovinare un incontro tanto particolare. Hai fatto caso a come gli si è illuminato lo sguardo, quando ho detto di aver visto Camus?»

«Temo di non capire».

«Non fa niente: vedremo poi, se ho avuto ragione».

Nel constatare che Al non era pienamente in torto, le labbra di Milo si tesero in un lieve sorriso imbarazzato.

Lasciatosi alle spalle l'Arena, non si soffermò a pensare dove potesse essere l'Acquario; per come se lo ricordava, era scontato che fosse andato a rintanarsi nelle proprie stanze.

Si diresse dunque a passo spedito verso l’Undicesimo Tempio, scambiando un veloce cenno di saluto con i Custodi delle Case precedenti.

Tuttavia, arrivato all'entrata della Sacra Anfora, si bloccò – l'impazienza scordata tutto d’un colpo.

«E se non mi riconoscesse? Se mi ritenesse un invadente per questa visita non richiesta o, peggio ancora, un ficcanaso?»

Del resto, avevano passato anni senza ricevere notizie l'uno dell'altro, e quelle poche settimane trascorse insieme non autorizzavano Milo a dire di averlo conosciuto bene – o semplicemente di averlo conosciuto e basta.

Erano divenuti adulti in continenti diversi, in modi diversi, con persone diverse, magari soffrendo in diversa maniera; chi gli assicurava che le fatiche e le crude esperienze dell'addestramento non l'avessero cambiato nel profondo?

A lui non era accaduto, ma come poteva conoscere quale sorte fosse toccata a Camus?

Improvvisamente, dietro di lui, si levò una voce – la sua.

«Ciao, Milò».

Milo si voltò lentamente – quasi temesse di spaventarlo – e, nel ritrovarselo dinanzi, il cuore gli mancò di un battito.

Due occhi più grandi di come se li ricordava lo studiarono a loro volta, discreti eppure curiosi.

Il tempo e la crescita avevano lasciato segni evidenti su di lui, mantenendo però intatta quella grazia che emanava già da fanciullo; i tratti del volto gli si erano affinati e il fisico, pur rimanendo esile, appariva tonico e asciutto.

«Un pregiato blocco di marmo che, grazie all'opera di un artista abile e paziente, è divenuto splendida statua».

I capelli, adesso, gli arrivavano alla vita ed erano sempre così rossi.

Le foglie cadute che il vento gli faceva vorticare ai piedi parevano scaturire da quella chioma dal colore sanguigno e i tiepidi raggi di sole, finendogli negli occhi, accrescevano la luminosità delle sue iridi dorate – un essere intessuto di giallo e rosso.

Un essere, bellissimo, intessuto d'autunno.

Valeva la pena di amare le mezze misure, se queste somigliavano tutte a lui.

 «Ciao, Camus».



 

. 



Note dell’autore

Ecco a voi la terza stagione!

Riconosco che la parte significativa del capitolo potrebbe apparire eccessivamente breve, rispetto a quella con funzione di “contorno”.

Ebbene, la cosa è frutto di una scelta ponderata: era mio interesse sottolineare l'importanza dell'attimo, la forza dell'impressione – anche se dubito fortemente di esserci riuscita. Spero gradiate comunque.

Alla prossima! 

 

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Capitolo 4
*** 4. Inverno ***


4. Inverno

 


La nave viaggiava incerta tra le onde scure e arrabbiate del Mar Egeo ormai da giorni.

A causa del maltempo che si era abbattuto sulle coste orientali dell'Europa il transito dal Corno d'oro di Istanbul al Pireo, che sarebbe dovuto durare poco più di ventiquattro ore, si era invece trasformato in un interminabile e monotono sballottamento da destra a sinistra: una dura prova, tanto per lo stomaco quanto per i nervi.

La pioggia veniva giù dal cielo plumbeo incessante e violenta, con un ticchettio martellante che aveva finito per entrargli nel cervello.

Dato che l'imbarcazione era sprovvista di cabine, aveva passato le notti precedenti sdraiato sul pavimento della stiva, pressato tra i corpi degli altri passeggeri e disturbato di continuo da rumori e movimenti improvvisi di questo o di quello.

Durante il dì non andava meglio; infatti, ammesso che riuscisse a ritagliarsi un angolino leggermente più isolato, la confusione prodotta dal sovraffollamento dei locali coperti gli rendeva comunque impossibile trovare la concentrazione sufficiente per meditare.

«Da dove vieni, creatura?» gli chiese un marinaio – l’ennesimo impiccione.

Non era che l'ultimo di una lunga serie di personaggi, tutti egualmente incuriositi dalla sua evidente tenera età e dal suo aspetto assai singolare.

Non capitava spesso di imbattersi in un bambino dalle fattezze così eteree; ai lunghi capelli dorati si accompagnavano degli occhi di un pervinca mirabile – che raramente teneva aperti, quasi fosse cieco – e un'aria tanto trascendente da farlo rassomigliare a un imperscrutabile santo in miniatura.

Pareva essere sceso in terra da chissà quale distanza siderale.

«Dall'India, signore» rispose lui in un greco stentato, al limite della cortesia.

 «Dall'India, hai detto? Strano, pari tutto fuorché asiatico. Dove sei diretto?»

«Non sono affari che vi possano riguardare in alcun modo, signore».

«Moccioso impertinente! Nessuno ti ha insegnato il rispetto per quelli più anziani di te?!»

Che impudenza: parlare di rispetto a lui, uno dei futuri uomini più potenti del mondo!

Anzi, forse il più potente in assoluto – Shaka di Virgo, l'Illuminato.

«Shaka! Ecco dov’eri finito!»

Il giovane attendente incaricato di scortarlo fino al Grande Tempio li raggiunse, affannato.

«Suppongo che tu sia un parente di questo piccolo maleducato» lo squadrò il marinaio con un'occhiata di disapprovazione.

«No, signore, sono il suo tutore. Lo sto accompagnando ad Atene per una gita culturale».

«Ah, così è questa la copertura. Perché non sono stato informato anch’io?»

«Vogliate perdonarlo, se è stato sgarbato. Sapete, veniamo da lontano, è da molto che siamo in viaggio. Il ragazzino non ci è abituato, sarà sicuramente irritato e affaticato».

«D'accordo, d'accordo. Cerca di tenere a freno la lingua, d'ora in poi, marmocchio: è un consiglio da chi ne sa più di te» si accomiatò burbero l'uomo, dirigendosi verso la sala macchine.

L'attendente aspettò che si fosse allontanato a sufficienza, per poi rivolgersi al bambino con tono basso ma severo: «Nobile Shaka, mi fareste la cortesia di non sparire continuamente? Vi ho detto un'infinità di volte che dovete restarmi accanto. Non si sa mai cosa può accadere, ed è di vitale importanza che Voi raggiungiate il Santuario sano e salvo».

La sua inesperienza era palesemente tradita dal nervosismo che ne impregnava i modi di fare, e questo infastidiva oltremodo Shaka: non accettava che gli fossero rivolti rimproveri, specialmente da uno che non poteva permetterselo.

«Sono capace di badare a me stesso» fu l'unica replica, che fece senza nemmeno prendere la briga di girarsi.

«Sì, sì» rispose l'altro, accondiscendente «Comunque, fate come vi ho detto – almeno per il resto del viaggio. Non dovrebbe mancare molto».

«Me l'auguro».

Gli abitanti del piccolo villaggio sulle rive del Gange dove era nato e cresciuto solevano riservargli tutti gli onori che convenivano al suo status; da quando si era messo in viaggio, invece, nessuno l’aveva trattato in maniera diversa da un infante qualunque. Persino l'unico che conosceva la sua condizione non lo prendeva sul serio, nonostante gli desse del “Voi”: era terribilmente frustrante – quasi quanto il perenne chiacchiericcio che risuonava in ogni angolo di quella bagnarola, da cui non era possibile trovare requie.

Che fossero monaci o semplici contadini, le persone con le quali aveva sempre avuto a che fare era persone sagge e composte; non poteva credere che, al di fuori del suo paese natale, esistesse tanta malacreanza.

«Terra in vista! Terra in vista! Prepararsi ad attraccare!»

Le grida dell'equipaggio infusero nuova allegria fra i passeggeri stanchi i quali, dopo aver chiassosamente raccolto i loro averi, si affrettarono ad accalcarsi sul ponte.

Se non altro, aveva smesso di piovere.

Shaka e il suo compagno si fecero largo tra la folla, riuscendo a conquistarsi uno spazio sul parapetto.

Virgo, in punta di piedi, si aggrappò alla ringhiera e osservò il paesaggio circostante; davanti a lui si estendeva un enorme mosaico di cantieri navali, moli, navi in procinto di partire o arrivare e persone indaffarate dedite a camminare su e giù per la via.

Ne rimase affascinato e turbato insieme: non aveva mai assistito a un tale fermento di attività – quando si erano imbarcati al Corno d'oro era notte fonda, e lui era troppo intontito dalla lunga traversata in aereo per notare alcunché.

Oltre, non riusciva a vedere nulla: una strana sostanza densa e lattiginosa pareva aver inghiottito l’intero orizzonte.

«Che cos'è quello spesso strato bianco là in fondo? Sembra fumo d'incenso» chiese all'attendente, incuriosito.

«Intendete quella cosa laggiù? È solo un banco di nebbia» rispose quello distrattamente, troppo occupato a cercare un varco per passare più agevolmente.

«Banco di nebbia... che vorrà mai dire?»

Non ci fu tempo per ulteriori chiarimenti; il giovane lo prese per mano e, fra spintoni e imprecazioni varie, riuscì a trascinarlo fino al molo relativamente in fretta.

Una volta a terra, il senso di nausea che aveva attanagliato Shaka per tutto il tragitto parve paradossalmente aumentare – forse per l'acuirsi dell'odore di mare e di pesce marcio che a tratti gli riempiva le narici.

Mentre la ressa si diradava, rabbrividì: non aveva fatto caso a quanto fosse freddo.

Si strinse dunque nella sua tunica di tela, cercando di ripararsi dall'aria umida e pungente che gli si stava insinuando nelle ossa, ma non ne trasse alcun giovamento.

Gli avevano detto che l'inverno greco era molto più rigido di quello della parte di India da dove veniva, e tuttavia mai si sarebbe aspettato una così grande differenza.

Stava appunto ingegnandosi nel tentare di riscaldarsi, quando notò una figura apparire dalla foschia e camminare nella loro direzione.

«Ben arrivato, nobile Saga» salutò con un inchino leggero l'attendente, rivolgendosi al nuovo venuto «Vi presento Shaka di Virgo, della cui incolumità sono responsabile».

«”Nobile Saga”, ha detto: deve essere un mio parigrado».

Una volta entrata nel suo raggio d’azione, l’aura viva e brillante dello sconosciuto aveva catturato l’attenzione di Shaka in maniera repentina.

«Piacere, Shaka» disse il ragazzo, piegandosi sulle ginocchia per tendergli la mano «Io sono Saga, cavaliere d'oro dei Gemelli».

Lieto di avere finalmente a che fare con qualcuno che ritenesse alla propria altezza, Virgo non sottrasse la sua manina bianca alla presa vigorosa di Gemini; nel momento in cui si toccarono, egli sentì un cosmo dorato incredibilmente solido e forte entrare in contatto col proprio – una sorta di benvenuto privato ed esclusivo, rivolto solamente a lui.

Il bambino ricambiò cautamente la cortesia, prendendo a studiare il suo interlocutore.

Il volto di Saga, incorniciato da una cascata di capelli biondi più scuri dei suoi, era di una virile e statuaria bellezza precoce; poteva avere al massimo dieci anni più di lui, ma non gli era rimasto alcun tratto infantile.

Anzi, i suoi lineamenti erano duri e mascolini come quelli di un uomo già fatto; soltanto gli occhi blu, scuri e vivaci, brillavano di una luce ridente.

«Bene, Erastos, penso che tu abbia terminato il tuo compito. Da qui in avanti, scorterò io Virgo fino alla sua Casa».

«Ne siete sicuro, signore?» chiese quello, dubbioso.

«Certamente».

«Allora, arrivederci a entrambi».

«Speriamo di no».

I tre, dunque, si divisero: Erastos prese la strada parallela al molo, Saga e Shaka una delle tante che si addentravano all'interno del Pireo.

«Non preoccuparti: da qui al Santuario il percorso è breve. Sarai stanco, immagino» disse Gemini, trascorso qualche minuto.

«No, nient'affatto».

Bugia bella e buona: erano giorni che non mangiava e non dormiva come si deve, senza contare che soffriva un freddo tremendo.

Ma non aveva nessuna intenzione di mostrarsi debole dinanzi al suo accompagnatore che, al contrario di lui, pareva il ritratto del vigore.

Nell'attraversare una via dove lo strano fenomeno atmosferico che aveva notato sulla nave era più fitto, Shaka iniziò a tremare visibilmente.

A scapito dei suoi sforzi di non darlo a intendere, il cavaliere se ne rese conto quasi subito.

«Cielo, ma tu stai tremando! In che razza di modo ti sei vestito?! Tieni, prendi questo» esclamò, togliendosi il maglione di lana che indossava «Ti terrà caldo fino a che non arriveremo a destinazione».

«Grazie, ma non ne ho bisogno. Sto benissimo» dichiarò risoluto il ragazzino, rifiutando ostinatamente l'indumento che quello gli porgeva e maledicendo il suo scarso autocontrollo.

Perché tutti si mostravano tanto smaniosi di aiutarlo? Risultava così indifeso agli occhi altrui?

L'uomo più vicino agli Dèi indifeso, che idea assurda.

«Va bene, come vuoi» ripiegò Saga, lanciandogli un'occhiata divertita che lui, però, interpretò come un segno di scherno.

Non senza un certo impegno, ingoiò i commenti pungenti che gli erano saliti alla gola: sarebbe stato disdicevole discutere con un cavaliere suo pari appena arrivato.

In ogni caso, comunque, nessuno gli avrebbe mai dato ragione, poiché era un bambino.

Odiava doverlo ammettere – soprattutto perché non si sentiva assolutamente tale –, ma così stavano le cose.

Continuarono a camminare in silenzio per un po’, finché non si ritrovarono appena fuori dal centro, lungo una via isolata e sgombra da abitazioni.

Shaka non riusciva a vedere al di là del suo naso, tanto quel dannato "fumo" era denso; il gelo ormai gli faceva battere i denti senza ritegno.

All'improvviso, Gemini si arrestò a studiarlo pensoso, come se stesse cercando le parole giuste per dirgli qualcosa.

Poi, sospirando, si piegò quel tanto che bastava per averlo faccia a faccia e disse: «Shaka di Virgo, ascoltami: io so cosa ti trattiene dall'accettare le mie gentilezze – e non solo le mie. É l'orgoglio, vero? Temi che la tua superiorità venga, come dire, sottovalutata a causa dei pochi anni che possiedi.

Ti assicuro che al Grande Tempio ciò non accadrà; anzi, ti verranno riconosciuti tutti i meriti a cui aspiri, e dovrai far fronte a doveri talmente onerosi per la tua giovane età che rimpiangerai di aver desiderato di essere trattato da adulto prima del tempo.

Avrai così pochi pari e così tanti sottoposti che arriverai a sentirti solo, nella tua perfezione e sapienza.

Tuttavia, ecco una delle rare cose che ancora hai da imparare – e sarò io ad insegnartela, anche se, come te, spesso pecco di troppa superbia –: non trascurare il tuo lato umano. Mai. Senza di esso non avremmo scopo alcuno, solo quello di uccidere. Te ne accorgerai ben presto».

Un velo di tristezza incupì i suoi begli occhi, ma solo per un fugace attimo; un momento dopo, infatti, riprese a parlare con fare appena più scherzoso: «Tutti abbiamo bisogno di nutrirci, riposarci, ripararci dal freddo: anche noi cavalieri. Perciò, ti assicuro che non c’è nulla di disonorevole nell’accettare il mio golf» concluse, offrendoglielo di nuovo.

Shaka tentennò, infine lo prese e se lo sistemò sulle spalle – se l’avesse infilato, gli sarebbe andato troppo lungo.

Al contatto con la lana morbida e calda, la pelle intirizzita ricevette immediato sollievo.

«Grazie» bisbigliò allora, intimidito.

«Di nulla, collega».

«Saga, posso… chiederti una cosa?» domandò poi, stranamente grato per quella confidenza schietta che il ragazzo aveva dimostrato nei suoi confronti.

«Dimmi pure».

«Che cos'è questo fumo denso attraverso cui stiamo camminando? L'attendente mi ha detto che si chiama “nebbia”, ma non mi ha spiegato cosa significhi».

Il maggiore scoppiò a ridere: «La nebbia è un fenomeno meteorologico per il quale una nube si forma a contatto con il suolo. In pratica, è costituita da particelle di vapore acqueo cristallizzato ed è per questo che, quando cala, l'aria si fa così umida e fredda. Non dirmi che non l'avevi mai vista!»

Il piccolo scosse la testa.

«Beato te! Ci dovrai fare l'abitudine: trovandoci in prossimità del mare, si manifesta piuttosto di frequente. Temo che accompagnerà gran parte dei tuoi inverni, qui in Grecia».

A quel punto, se fosse stata una giornata tersa, Shaka avrebbe visto dipanarsi innanzi a lui i maestosi contorni del Santuario.

 

*

 

É finita, Saga: lo sappiamo tutti.

Lo sa Atena, che ti sta esortando a colpirla; lo sanno questi giovani di Bronzo, venuti dal Giappone a mostrare la verità proprio a noi – noi, custodi immeritevoli che avremmo dovuto proteggere il luogo più sacro, invece di infangarlo col sangue.

Lo so io, e lo sai anche tu.

Chi l'avrebbe mai detto che, sotto la maschera del crudele Arles, si celasse lo stesso nobile cavaliere da cui tanti anni fa mi feci consigliare per la prima e ultima volta.

Abbiamo peccato di superbia entrambi – ancora.

Arrenditi, Saga: arrenditi e pentiti.

Dirada la nebbia che si è condensata nei tuoi capelli fino a renderli grigi, nei tuoi occhi, nel tuo cosmo – nella tua anima.

Espelli il demone che ti possiede, libera il tuo lato umano.

Grazie all’aiuto della Fenice, io l'ho fatto – e mi sono salvato.

Per te servirà un aiuto più grande, quello più potente; quello che la Dèa ti sta offrendo.

Accettalo, e sarai salvo anche tu.


 

 

.



Note dell’autore

Eccoci arrivati all’Inverno!

Mentre la parte centrale del capitolo è rappresentata dal ricordo dell’arrivo di Shaka al Santuario, il frammento conclusivo ha invece luogo nei momenti immediatamente antecedenti la morte di Saga.

Con riguardo ai dettagli più “tecnici” – come l’ubicazione del Grande Tempio o i mezzi di trasporto utilizzati dai suoi accoliti –, preciso che la mia ricostruzione è puramente ipotetica e arbitraria.

Come di certo avrete capito, infine, il “Corno d'oro” è il principale porto di Istanbul.

PS: perdonate la scarsa serietà dell'immagine, quando l'ho vista non ho saputo resistere!

 

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Capitolo 5
*** Mezze stagioni ***


Mezze stagioni

Mezze stagioni

   


Esistono notti che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino alla morte.

A occhi inesperti quella che è appena calata potrebbe sembrare solo una tipica, comunissima notte di fine maggio, ma Saga – che ha imparato con gli anni a non fidarsi dell’apparenza – ne avverte la particolarità persino sulla pelle.

Punto primo, perché le notti di mezza stagione non sono mai le une uguali alle altre: lui, che è nato proprio durante una di esse, ne conosce bene la natura mutevole – tanto simile alla sua.

Punto secondo, perché prima aveva amato e ammirato le mezze misure, per la loro capacità di essere qualcosa e, insieme, qualcos’altro di diverso; prima, sì, giacché solo in seguito aveva scoperto quanto fosse doloroso sentirsi perennemente spaccati in due metà sempre in conflitto – «Com’era? Ah, sì: angelo sul volto, demone nel cuore».

E infine, ma non per importanza, perché la persona che ai suoi occhi più di ogni altra cosa aveva incarnato la bellezza e la sacralità dell’ambivalenza, nonostante gli abbia sacrificato tutto – persino suo fratello –, lo ha crudelmente pugnalato alle spalle e lui non può perdonarglielo.

Lo Star Hill si innalza sopra di lui maestoso come non mai, quasi a volerlo sfidare.

Saga getta ancora uno sguardo al cielo, poi comincia a salire. E, inconsciamente, a ricordare.

«Lo stesso periodo di allora. Come se la mia vita fosse destinata a essere sconvolta sempre in questa stagione».

 Il cortile che circondava la misera abitazione contadina era inondato di sole.

Due bambini identici stavano accoccolati ai piedi di un alberello, in attesa che qualche preda lasciasse la tana; tempo qualche secondo, ed ecco affacciarsi da un buco nel terreno il muso di un piccolo topo di campagna, intento ad annusare l'aria.

I gemelli trattennero il respiro, quando il roditore mosse le zampette verso l'esterno; uno dei due – quello con i capelli più scuri – allungò lentamente una mano, e...

«Saga! SAGA! Vieni subito qui! C'è un tizio che chiede di te!»

Il richiamo improvviso e perentorio fece trasalire i due, permettendo così all'animale di accorgersi del pericolo e rientrare di corsa nel suo rifugio.

«Maledizione!» borbottò Kanon «Un'ora di appostamento andata in fumo».

Saga, tirandolo per un braccio, lo costrinse a lasciar perdere la caccia: non era saggio far spazientire il padre.

«Siamo nei guai, Kanon» esclamò mogio, saltellando fra le sterpaglie «Te l'avevo detto che non era una buona idea, quella di liberare le galline del signor Papacristou! Adesso papà dovrà risarcirlo e, per punizione, ci darà una scarica di legnate».

«Secondo me il nostro vicino non c'entra nulla; comunque sta’ tranquillo, tanto il grosso delle botte toccherebbe a me» gli rispose l'altro, rassegnato.

Qualunque marachella combinassero, la colpa veniva sempre addossata per la maggior parte a lui, reo – a detta del genitore – non solo di progettare "loschi crimini", ma anche di trascinarci in mezzo l'altrimenti innocente fratello.

«Alla buon’ora!» brontolò l'uomo, una volta che l'ebbero raggiunto «Lo sai che non devi mai farmi aspettare, quando ti chiamo. Stai prendendo tutti i vizi della tua brutta copia, a forza di stargli appiccicato».

Kanon gli lanciò un'occhiata bieca, senza tuttavia replicare; del resto, data l'indole irragionevole e collerica del padre, sarebbe stato del tutto inutile.

Il pessimo carattere e la prepotenza di Cosmas Léandros, a Rodorio e dintorni, non erano un mistero per nessuno.

In passato essi erano stati compensati da un notevole carisma, nonché dal fatto che egli rappresentasse un ottimo partito agli occhi delle famiglie benestanti del paese – per il bell'aspetto, ma anche per le discrete risorse finanziarie accumulate dai Léandros grazie alle loro proprietà terriere –; tuttavia, dopo che ebbe sposato la giovane e dolce Alèxia Karamanlìs, le parti peggiori della sua personalità tornarono a prevalere.

A causa di uno scarsissimo senso degli affari e di una morbosa tendenza allo sperpero, in poco tempo dissipò l'intero patrimonio ereditato dai genitori e, per pagare i debiti di gioco, dovette vendere agli usurai tutti i terreni, compreso quello dove sorgeva la dimora di famiglia; evento, quest’ultimo, che lo costrinse ad acquistare un lotto di terra infeconda e un vecchio edificio diroccato ai suoi margini.

L'improvvisa povertà inasprì ulteriormente la cattiveria e la violenza di Cosmas, che lui prese a sfogare prima sulla moglie – tanto da farla morire –, e poi sui figli, nati nel frattempo.

I due ragazzini avevano dunque trascorso i primi anni della loro vita nella miseria, senza una figura adulta che si prendesse cura di loro e costantemente soggetti ai frequenti scatti d'ira del genitore – scatti d'ira che Saga aveva imparato in fretta ad arginare, ma che Kanon, dal carattere già piuttosto ribelle a dispetto della tenera età, continuava imperterrito a sfidare frontalmente.

«Detesto dargliela vinta senza combattere» diceva spesso al fratellino, quando questi lo pregava di desistere; peccato che le sue si rivelassero quasi sempre battaglie perse in partenza.

«Che hai da guardare in quel modo, tu?» disse in tono minaccioso Cosmas, a cui non era sfuggito lo sguardo astioso del suo secondogenito «Vorresti forse dire che non è vero?»

«Papà, lui non c'entra nulla» intervenne precipitosamente Saga, onde evitare pericolose degenerazioni della discussione «Non è colpa sua se ho tardato: non ti avevo sentito».

«Sì, sì» liquidò la questione l'adulto, facendo un gesto annoiato con la mano.

Al momento ciò che gli premeva era altro; di norma, invece, Kanon non l'avrebbe passata liscia.

«Piuttosto, ascoltami bene, Saga,» riprese, con una strana luce cupida ad accendergli gli occhi verdi generalmente offuscati dall'alcool «il tizio ha detto di chiamarsi Tenzin e qualcos’altro di impronunciabile. A prima vista sembra un ricco forestiero orientale – tzè, andare in giro con una tunica lunga fino ai piedi con questo caldo! –, dunque, se si è interessato a te, forse è perché gli serve uno sguattero o robe simili.

Ha l'aria piuttosto eccentrica, quasi... fuori dal mondo. Comunque, tu sta' zitto e lascia parlare me: chissà che non riusciremo a spillargli qualche soldo».

«Ma come fa a sapere chi sono? Non ho mai incontrato persone del genere» chiese Saga dubbioso, gettando uno sguardo allarmato al fratello.

Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a condividere il sinistro ottimismo del padre.

A lui, che nei suoi pochi anni non aveva conosciuto altro, la propria esistenza andava bene così com'era.

Tutta la sua vita gravitava intorno a pochi punti fermi, così solidi da essere diventati parti integranti del suo essere: la casa sgangherata di cui sapeva a memoria ogni singolo angolo, il cortile affollato di animali da allevamento, il piccolo villaggio dove lui e Kanon si recavano di tanto in tanto, il mare, il sole e, soprattutto, il gemello.

Non aveva alcuna voglia di lasciare tutto questo e partire alla volta di un paese straniero, situato forse dall’altra parte del mondo; figurarsi, poi, per fare da servo a uno sconosciuto magari perfino più arrogante di Cosmas!

«Non saprei» rispose quest’ultimo, grattandosi pensoso la barba ispida «Forse ha chiesto informazioni sul tuo conto dopo averti visto giù in paese. Poco importa, comunque: ciò che conta è che sia giunto fino a noi. Ma adesso basta parlare! Vieni, su: meglio non farlo aspettare troppo, sia mai che ci ripensi!»

Così dicendo, prese Saga per le spalle e lo spinse dentro casa con fare frettoloso, per poi fermarsi dinanzi alla porta di quello che decenni prima forse era stato un salotto degno di un’abitazione signorile, ma che adesso cadeva in pezzi più o meno come le altre stanze del casolare.

«Allora, ricapitoliamo: a meno che non sia lui a farti delle domande, tu non dire nulla. Sorridi e assumi l’atteggiamento migliore che ti riesce,» disse l’uomo, mentre cercava di rassettare l’abbigliamento sdrucito e sporco del figlio appianandone le pieghe con le mani «mi raccomando».

«E tu,» continuò rivolto a Kanon che, nel frattempo, li aveva seguiti e ora se ne stava silenziosamente in disparte «levati dai piedi, e fai in modo di non rovinare tutto. Altrimenti, ti assicuro che te ne farò pentire amaramente».

«Stai tranquillo, papà. Non sarò certo io a ostacolare Saga: grazie a quest’occasione forse potrà andarsene da qui» replicò Kanon, in tono sarcastico «almeno lui».

Nel pronunciare tali parole, un’ombra scese sul volto del bambino – un’ombra in cui Saga lesse la paura che quanto aveva appena affermato accadesse realmente.

Tuttavia, subito dopo sembrò recuperare la sua consueta spavalderia, poiché gli fece un occhiolino e sparì dietro l’angolo, senza aspettare risposta.

Una volta entrati nella stanza, trovarono l’ospite girato di spalle, intento a guardare fuori dalla finestra; la luce che filtrava dal vetro sporco illuminava le varie sfumature dorate dei lunghi capelli dello sconosciuto, rendendoli simili a una sorta di aureola evanescente.

Come aveva detto suo padre, l’uomo indossava una sontuosa tunica color prugna che gli abbracciava il fisico prestante con grazia delicata.

«Signor Tenzin, perdonate l’attesa. Ecco qui il ragazzo» lo chiamò Cosmas.

Quando Tenzin si voltò, due occhi azzurrissimi scesero a incontrare quelli di Saga: non avevano rughe agli angoli, eppure davano l’impressione di essere antichi come il mondo – quasi che una specie di ponte fra passato e futuro vi scorresse attraverso.

Tutto di lui appariva giovane e forte, dall’ampia fronte liscia alle spalle larghe ed erette, ma a un osservatore più attento non sarebbe potuta sfuggire la sacralità di cui l’intera sua figura era ammantata. Come se vecchio e nuovo, saggezza e baldanza si fossero uniti in un unico essere.

Sotto il suo sguardo, Saga si sentì improvvisamente piccolissimo.

«Mmmh» mugugnò l’estraneo, prendendo a girargli attorno come un avvoltoio «ben proporzionato, bella presenza. Un po’ troppo magro, ma devo riconoscere che, complessivamente, non c’è male. Potrebbe essere adatto» decretò infine, rivolto a Cosmas.

«Adatto a cosa?» chiese l’oggetto dell’analisi, di getto.

Tenzin gli lanciò un’occhiata contrariata per quell’intervento non richiesto, quasi che la sua domanda fosse stata fastidiosa quanto il ronzio di una mosca insistente: «Tuo padre non ti ha forse insegnato a parlare solo se interpellato, ragazzo? Perché, se così non fosse, sarebbe un problema».

«Certo, certo che gliel’ho insegnato!» si affrettò a rassicurarlo Cosmas, facendo un passo avanti per la foga «Anzi, in genere è molto silenzioso ed educato. Non so cosa gli sia preso, in effett … chiedi subito scusa per la scortesia, figliolo».

Saga fu costretto a obbedire dallo sguardo assassino con cui suo padre lo fulminò – foriero di una punizione esemplare, in caso non avesse eseguito l’ordine.

«Vogliate perdonarmi, signore. Non succederà più».

«Me l’auguro».

«Se posso permettermi, signor Tenzin,» intervenne timidamente Léandros «come intendete utilizzare il bambino? Credo di avere il diritto di saperlo: sono pur sempre un padre – e, come tale, ho a cuore solo l’interesse di mio figlio».

A sentirlo recitare simili fesserie, per poco Saga non sbuffò di biasimo; alle sue orecchie appariva infatti di totale evidenza che l’unico scopo del genitore fosse quello di fare un po’ di scena, per poi poter successivamente tirare di più sul prezzo.

Kanon avrebbe trovato la cosa davvero esilarante. Chissà, magari ora era dietro la porta a origliare e stava ridendo a crepapelle.

Il forestiero accolse la richiesta con un cenno della testa: «Effettivamente non avete tutti i torti, signor Léandros. Avrei dovuto dire subito il perché nutro interesse per il ragazzino.

Urgenti affari privati mi hanno di recente condotto in Grecia, costringendomi ad acquistare su due piedi una residenza nei pressi di Atene; data la tempestività degli eventi, non ho fatto in tempo a portare con me da Lhasa la mia abituale servitù.

 Mi sono perciò visto obbligato a cercarne qui: girovagando di paese in paese sono arrivato fino a Rodorio, dove mi hanno consigliato di rivolgermi a voi. Vostro figlio potrebbe svolgere le funzioni di valletto ai ricevimenti, e lavorare come sguattero nel restante tempo… »

Saga smise di ascoltare, disgustato.

Si diede dello stupido per essersi inizialmente lasciato ingannare dall’aspetto nobile e sacrale dello straniero: avrebbe dovuto immaginare che, per una persona del genere, lui non rappresentava nulla più di un potenziale servo.

Si era ormai abituato a venire trattato senza nessun riguardo dagli adulti – Cosmas in testa –, ma, chissà con quale diritto, per un attimo aveva pensato che stavolta sarebbe stato diverso.

D’altro canto, la durezza delle uniche parole che Tenzin gli aveva rivolto era stata un presagio assolutamente chiaro.

Guardando i due adulti tutti intenti a parlare, Saga pensò che li odiava. Sì, li odiava entrambi.

Odiava suo padre, ora divenuto tanto mellifluo quanto era cattivo e autoritario con loro; e odiava altresì quell’intruso, che l’aveva illuso coi suoi occhi cristallini e la sua maledetta aria da santo.

A causa dei loro futili interessi, adesso sarebbe stato costretto ad abbandonare l’unica cosa che per lui contava davvero – suo fratello.

Se l’era aspettato, all’inizio, ma ora che gli avvenimenti avevano preso una piega quasi certa non riusciva più ad accettare l’idea.

«Ora, prima di accordarci sul prezzo dei servigi di Saga, vorrei scambiare due parole in privato con lui. Se siete d’accordo, ovviamente».

Questa frase riportò l’attenzione di Saga alla conversazione in atto tra i due uomini, dalla quale si era volutamente estraniato.

Cosmas, che probabilmente si sentiva i soldi dell’affare già in tasca, non riuscì del tutto a nascondere la sua disapprovazione per la proposta; tuttavia, timoroso di contrariare il futuro acquirente, alla fine acconsentì e uscì in fretta dalla stanza.

Rimasti soli, Tenzin non accennò subito a voler parlare; Saga lo osservò girarsi verso la porta attraverso la quale suo padre era appena sparito, e stare immobile a fissarla concentrato.

Per una frazione di secondo gli parve persino di vederlo muovere impercettibilmente le labbra, ma forse fu solo un’impressione.

«Spero che tu voglia perdonare la mia precedente condotta nei tuoi confronti,» disse all’improvviso, voltandosi in un fruscio di vesti «ma temo che, se non avessi usato tanta poca grazia, tuo padre si sarebbe insospettito. Era necessario fargli credere che fossi arrogante e senza scrupoli come e più di lui, in modo che potesse fidarsi delle mie parole».

«C-cosa?» balbettò il bambino, confuso.

“Precedente condotta“? “Era necessario fargli credere…“? Di che stava parlando, lo straniero?  Era forse impazzito? Oppure si trattava di un tentativo di prenderlo in giro?

Tenzin, nel vedere il suo stupore, sorrise discretamente: «Comprendo come le mie parole possano suonarti strane. Avrei preferito non dover allestire questa messa in scena, tuttavia era l’unico modo che avevo per avvicinarti e parlare con te senza destare troppa curiosità».

«Potreste essere più chiaro, signore? Continuo a non capire».

Prima di rispondere, l’uomo si mise finalmente a sedere; sbuffi di polvere si alzarono dal consunto velluto rosso del divano, eppure lui non sembrò farci caso.

«Vedi, Saga, io non sono la persona che ho finto fino a ora di essere: non mi chiamo realmente Tenzin. Il mio vero nome è Shion di Aries, e ti sto parlando in qualità di Gran Sacerdote del Grande Tempio di Atena, Dèa della Giustizia».

Grande Tempio, Atena: Saga aveva già sentito quelle parole.

Nei dintorni di Rodorio da sempre circolavano voci strane: voci che riguardavano un luogo nascosto abitato da uomini con poteri straordinari, capaci di spaccare la terra con un calcio e brillare di luce propria; eroi ammantati di armature bellissime, al servizio di una divinità il cui culto era caduto in disuso da almeno un millennio.

Leggende e fantasie, in sostanza; storie per bambini che a lui piaceva ascoltare, ma alle quali non aveva mai creduto.

«Mi dispiace signore, ma non vi credo. Non sono un moccioso qualunque, che si lascia incantare dalla prima storiella; non si cresce con un padre come il mio senza imparare presto a distinguere il vero dal falso. Perciò, vorrei che mi diceste chi siete davvero, e cosa volete da me».

Nonostante la dichiarata diffidenza dimostratagli, Shion – o Tenzin, o chi per lui – non si scompose affatto; ampliò anzi il suo precedente sorriso che, se non fosse stato per la solennità del soggetto, si sarebbe detto estremamente divertito.

«Vedo che, a dispetto dell’età, sei già piuttosto altezzoso. Qualità utile la sicurezza in se stessi, per un cavaliere – a patto che non si trasformi in superbia».

«Prima di avanzare altre obiezioni,» continuò poi, troncando sul nascere la replica che era salita alla bocca del suo giovanissimo interlocutore «vorrei che tu rispondessi a questa domanda. Dimmi, Saga: ti sono mai successe cose che la gente comune definirebbe anormali? Cose che pensavi potessero accadere solo nella fantasia?»

A quelle parole, Saga sentì il respiro bloccarsi in gola e la voce venire meno, ogni protesta dimenticata: benché si fosse prodigato grandemente – senza però ottenere successo – a cancellarli dalla memoria, non poteva ora non pensare agli assurdi e inspiegabili fatti recentemente capitatigli.

Non ne aveva parlato nemmeno con Kanon, per paura che lo credessero pazzo – lui stesso si era posto il serio dubbio di esserlo, talvolta.

Tuttavia, come poteva adesso negare la verità a quegli occhi straordinariamente indagatori che lo fissavano?

Aveva la bizzarra sensazione che, se l’avesse fatto, lo straniero si sarebbe accorto subito della menzogna.

Così, facendosi coraggio, disse: «Sì, da qualche tempo mi capitano cose straordinarie. Cose che faccio senza quasi rendermene conto. Non so neppure se dipendano completamente dalla mia volontà-» si interruppe, esitante.

Shion annuì, come se si fosse aspettato di sentire esattamente quelle frasi: «Continua».

«All’inizio succedevano di rado, sicché mi sforzavo di non farci caso. Davo la colpa alla stanchezza e alla troppa immaginazione, ma poi… poi hanno iniziato ad accadere più di frequente e-» il bambino tacque di nuovo, nervoso.

«Quando parli di “cose”, che intendi?» lo spronò l’altro, gentilmente.

«Cose di diverso tipo: correre a lungo senza stancarmi per nulla, ad esempio. Sbucciarmi le ginocchia e ritrovarle completamente guarite il mattino dopo. A volte mi sembra quasi di percepire i pensieri altrui, come se potessi leggere nelle menti… ma, soprattutto, mi capita di distruggere gli oggetti. Non romperli o spezzarli, no, proprio distruggerli.

Specie quando sono molto arrabbiato, mi succede di afferrare qualcosa e desiderare di scagliarla a terra, ma non termino di formulare il pensiero che questa… esplode fra le mie mani, e finisce in polvere».

«Quando sei nato, Saga?» lo interruppe l’uomo, precipitosamente.

«Il mio compleanno cadrà fra pochi giorni: sono nato il 30 di maggio» rispose Saga, stupito per quella domanda fuori luogo «Ma-»

«Gemini. Le stelle non hanno mentito nemmeno stavolta» sussurrò Shion a se stesso, rapito; poi, sembrò riscuotersi.

«Inusuale resistenza fisica, rapida capacità di rimarginazione delle ferite, facoltà di tipo psichico, abilità di disgregazione molecolare… c’è altro?»

«No, signore» il ragazzino lo guardò con una punta di panico e imbarazzo, prima di proseguire «Ma voi mi credete? Non pensate che sia uscito di senno, vero?»

Poi si arrestò di botto, mordendosi forte le labbra – forse aveva parlato troppo.

Anche se l’istinto, nonostante tutto, continuava a suggerirgli che di quell’uomo misterioso e bellissimo si poteva fidare, questi rimaneva un perfetto sconosciuto, del quale nemmeno il nome era sicuro: chi gli assicurava che non lo stesse ingannando?

La sua ritrovata reticenza sembrò convincere Shion a essere un po’ più incisivo.

«No che non sei pazzo, Saga» affermò, sporgendosi appena verso di lui «O, perlomeno, non lo sei più di quanto lo sia io».

Gli rivolse ancora un sorriso, prima di continuare: «Il fatto che tu sia capace di compiere simili prodigi è il motivo per cui sono giunto fino a te. Ti sarai chiesto come facessi a sapere di aspetti tanto personali della tua vita, immagino».

«Immaginate bene».

«Ebbene, sono state le stelle in persona a rivelarmelo. La costellazione alla quale appartieni – quella dei Gemelli – già da tempo aveva individuato in te il suo futuro rappresentante; io ho solo dovuto interpretare il messaggio da lei inviatomi».

«A-a cosa apparterrei, io?»

«Alla costellazione di Gemini, la terza delle dodici Costellazioni Zodiacali. Le facoltà che prima mi hai indicato non sono altro che le iniziali manifestazioni di un potere discendete dalle tue stelle; un potere che, se ben sviluppato, ti porterà a divenire uno dei dodici Santi dorati protettori della Dèa Atena – un cavaliere d’oro».

«Oh» commentò Saga, un po’ stupidamente.

Ecco svelato l’arcano, infine: lo straniero altri non era che un invasato, simile ad alcuni svitati di Rodorio davvero convinti di ciò che predicavano. L’esistenza di Atena, del suo Santuario e di cavalieri atti alla protezione e alla salvaguardia dell’umanità per loro non erano leggende, ma sacrosanta verità.

Triste constatare come un uomo così prestante, così pieno di mistico fascino potesse far parte di quella schiera di folli. Oppure no?

Non sapeva più cosa pensare.

«Leggo il dubbio nei tuoi occhi, ragazzo: non credi del tutto a quello che ti sto dicendo, eppure appari meno pronto di prima a condannare come false le mie parole. A questo punto, esiste un solo modo per convincerti» esclamò Shion, alzandosi dal divano con un movimento fluido.

Saga lo guardò ergersi in tutta la sua statura, a torreggiare per un attimo su di lui; subito dopo, si chinò appena e gli tese le mani.

«Dammi le mani, Saga».

«Perché?»

«Devo mostrarti una cosa. Fidati di me».

Il bambino inchiodò i propri occhi a quelli dell’altro, incerto, finché non acconsentì a posare i suoi piccoli palmi su quelli aperti, grandi e forti, che Shion gli stava porgendo.

Nel momento in cui le loro mani si toccarono un flusso di energia si insinuò delicatamente in Saga, dolce come la carezza del vento alla sera e potente come la risacca del mare sugli scogli – gli riempì la testa, gli occhi, le ossa. Il cuore.

Attraverso esso vide cavalieri vestiti di armature splendenti, scalinate e templi di marmo bianco, esplosioni di stelle, sangue, sudore e fatica; vide l’oro brillare attorno a uomini impegnati in combattimento e potere, misericordia, dedizione e onore.

Infine, vide una ragazza dagli occhi cerulei e i capelli del colore del legno circondata di luce abbagliante e seppe, in qualche modo, che Lei era il fine ultimo di ogni cosa.

Lo comprese con una sicurezza assoluta, indicibile, devastante – una sicurezza che gli anni e gli eventi avrebbero poi corroso fino a distruggere, ma che, in quel momento, gli parve inossidabile.

«Co-cos’era?» chiese balbettando, una volta terminato il contatto «Cos’era quello

«Questo?» Shion lasciò che un globo di luce aurea continuasse a splendere ancora per un secondo sulle sue dita, prima di estinguerlo chiudendo la mano a pugno «Questo si chiama “Cosmo”, ed è la radice della forza di ogni cavaliere.

Sin dalla nascita tu racchiudi dentro di te il potere della costellazione da cui sei guidato, potere che si genera attraverso un’esplosione dello stesso Cosmo contenuto nel tuo corpo; fino a ora tu l’hai liberato solo in particolari occasioni e senza rendertene conto, ma è invece possibile controllarlo. Ci vogliono anni di duro allenamento per imparare a dosarlo e incanalarlo correttamente; solo allora un saint diviene davvero meritevole di indossare l’armatura che ha scelto – o alla quale è naturalmente destinato, come nel tuo caso».

Saga l’aveva ascoltato rapito, capendo la metà delle parole, troppo scosso e affascinato per riuscire a concentrarsi. Aveva così tante domande che non sapeva da quale cominciare.

«Dunque, io sarei un cavaliere. Un futuro cavaliere,» si corresse svelto, senza comprendere cosa questo comportasse «che ha dentro di sé un potere proveniente dalle stelle. Ma se tutti i cavalieri contengono questo… questo… »

«Cosmo?» suggerì l’altro, attento.

«… questo Cosmo, sì, e se solo loro sono capaci di svilupparlo, allora vuol dire che anche voi lo siete. Un cavaliere, intendo».

«Lo sono stato. Adesso ho l’onore di ricoprire il ruolo di Gran Sacerdote, il quale rappresenta il portavoce della Dèa sulla Terra, ma prima ero il cavaliere d’oro dell’Ariete. Tale carica – e, con essa, l’armatura – continuerà a spettarmi fino a che qualcun altro non mi succederà».

«E la ragazza che ho visto… chi era?»

«Era la Dèa Atena. O, perlomeno, la reincarnazione della Dèa che io ho servito».

Il bambino non si stupì troppo per la rivelazione.

Dentro di sé, già aveva intuito la risposta: una figura così splendente non poteva appartenere ad altri che a una Dèa.

Ripensandoci, venne preso da un desiderio incontenibile di incontrarla.

«La vedrò anche io, vero?» chiese quindi, speranzoso – incredibile come ora ne sentisse quasi la necessità, visto che solo poco prima non aveva nemmeno creduto alla sua esistenza.

A quelle parole, la morbida curva delle labbra di Shion assunse una piega appena più dura: «No, mi spiace. La donna che hai visto non… non è più in vita. Lei era solo una delle tante forme umane assunte da Atena nel corso dei secoli. Si chiamava Sasha».

Un velo di malinconia calò su di lui dopo tale constatazione, un velo sottile di nostalgia e tenerezza che egli si affrettò rapidamente a dissipare.

«Ogni volta che la Terra viene minacciata la Dèa Atena rinasce sotto spoglie umane per riformare le sue fila di cavalieri e condurle in battaglia contro le forze del Male. Le stelle mi hanno rivelato che presto Ella tornerà fra noi e, quando accadrà, il Santuario dovrà essere pronto ad accoglierla; per questo i cosmi sopiti dei potenziali saints si stanno risvegliando solamente ora. Una nuova generazione di guerrieri sorgerà dalle ceneri della vecchia, e tu sei destinato a far parte della schiera più alta di questa. Non ti nascondo che l’addestramento sarà molto duro e che potresti anche non farcela, e tuttavia è un rischio che bisogna correre: la morte è la compagna per eccellenza di un cavaliere – questo rammentalo sempre».

Il suo discorso fu bruscamente interrotto da un bussare non troppo discreto.

«Signor Tenzin? Tutto bene, lì dentro?»

La voce di Cosmas era impregnata di un’evidente impazienza, e anche di un po’ di timore; nell’udirla, Saga sobbalzò di sorpresa.

«Sì, signor Léandros, grazie! Datemi ancora un momento!» fu la pronta replica di Shion, mentre il bambino riprendeva coscienza della presenza del genitore nell’altra stanza.

«Mio padre!» bisbigliò quindi quest’ultimo, spaventato «Mio padre è di là! É stato di là tutto il tempo!»

«E allora?» ribatté l’uomo, con una calma antitetica al tono agitato dell’altro.

«Voi non lo conoscete, ma-» tentennò Saga, pieno di vergogna per la condotta probabilmente tenuta dal padre «ma io sono sicuro che ha origliato l’intera nostra conversazione, dall’inizio alla fine. Anche ammesso che abbia creduto alle vostre parole, non mi lascerà mai libero di andarmene… non senza un sostanzioso corrispettivo in denaro» ammise infine tristemente, chinando la testa.

«Se è solo questo ciò che ti preoccupa, puoi stare tranquillo: ti posso assicurare che Cosmas Léandros non ha udito una sola sillaba della nostra chiacchierata. Non perché non ci abbia provato, beninteso: semplicemente, non ne ha avuto la possibilità» ammiccò Shion, astenendosi dallo spiegare il significato della propria affermazione.

«Come fate a esserne così sicuro?»

«Ho anche io i miei… trucchi» rispose lui, evasivo «Ora, però, non abbiamo più tempo: devo farlo entrare, altrimenti si insospettirà. Prima di tornare alla nostra recita, ho bisogno che tu giuri di non rivelare a nessuno la vera natura di questo colloquio. Mantenere segreta l’esistenza di Atena e del Grande Tempio è della massima importanza».

«Lo giuro».

Aveva promesso senza esitare perché era convinto che quella fosse la cosa giusta da fare, nonché l’unica alternativa possibile: non sarebbe riuscito a spiegarne il motivo, ma sentiva di dovere obbedienza a Shion come per istinto naturale.

«Ci sono tante cose che ancora non sai, Saga. Quello che ti ho detto è solo una minuscola parte di tutto ciò che compone il Mondo Segreto – che diventerà anche il tuo mondo, se lo vorrai».

Si interruppe per guardarlo dritto negli occhi, e di nuovo Saga si sentì schiacciare dal peso di quello sguardo – da perdercisi dentro, tanto era profondo e intriso di lontananze.

«Fra qualche minuto permetterò a tuo padre di venire e, in base alla risposta che adesso mi darai, io fingerò o meno di comprarti, cambiando la tua esistenza per sempre. Pensaci bene, è una scelta dalla quale sarebbe poi impossibile svincolarsi: una volta che si è diventati servitori di Atena Glaukopis, lo si resta per la vita. Il tuo dovere verrà al di sopra di tutto e di tutti – non potrai mai avere una famiglia, ad esempio. Mi rendo conto che sei solo un bambino e che potresti non capire il peso di certe rinunce… ma io devo chiedertelo comunque. Accetti di dedicare la tua vita al servizio della Dèa Atena? Accetti di lasciare tutto questo e seguirmi?»

Saga rimase in silenzio per quelli che a lui stesso sembrarono anni.

Aveva l’occasione di andarsene e buttarsi alle spalle tutto l’odio, tutta la rabbia, tutto il rancore. Dove prima c’erano derisione, degrado, umiliazione, ora avrebbero potuto esserci dignità, rispetto, potere.

Nessuno avrebbe più riso di lui; nessuno l’avrebbe più insultato. Nessuno più l’avrebbe fatto sentire come l’ultimo dei rifiuti.

Era la sua unica chance per dimostrare al mondo che perfino uno come lui, nato nella polvere, poteva aspirare a far parte dei primi – anzi, no. A essere il primo.

Niente lo tratteneva ancora lì. Niente, eccetto Kanon.

«Kanon… »

«Accetto. Vi seguirò».

 Oh, sì, Saga ha tenuto fede alla sua promessa.

Ha seguito Shion per anni. L’ha imitato e onorato come si fa con un modello, con un maestro – con un padre.

Si è fatto uomo sotto il suo sguardo insondabile lottando e sputando sangue, senza lamentarsi mai; è diventato cavaliere fra mille rinunce, traendo forza e coraggio dai suoi rari cenni di approvazione, solo per essere, un giorno, il successore del grande pontefice a cui deve ogni cosa.

Per dimostrarsi degno dei suoi insegnamenti e occupare, dopo di lui, il posto che gli spetta di diritto – quello alla destra della Dèa.

Ma, nonostante tanta devozione, Shion l’ha tradito e Saga di Gemini si è ritrovato ad essere secondo – ultimo – di nuovo. E questa volta per sempre.

«Aiolos di Sagitter, sarai tu il mio successore».

Ah, Aiolos: Aiolos il Luminoso, Aiolos il Santo.

Aiolos, amico e amante, ora futuro Gran Sacerdote.

No, in questo momento non può concedersi di pensare a lui; più tardi ne avrà tutto il tempo.

Adesso c’è un’altra cosa che deve fare.

Sulla cima della Collina delle Stelle l’aria sembra più pulita, più dolce, più sacra; Saga ne inspira una profonda boccata e poi fa un passo avanti.

«Vieni, Saga. Ti stavo aspettando».

 

***


Gli azzurrissimi occhi di Shion non hanno rughe agli angoli, eppure danno l’impressione di essere antichi come il mondo.

Ma quella profondità, quella specie di ponte fra passato e futuro che vi scorreva attraverso adesso si è spezzato: non c’è più nulla di lontano nel loro fissare immoti il manto stellato che li sovrasta.

E Saga, per la prima volta da quando lo ha conosciuto, al cospetto di quello sguardo non si sente più piccolissimo.

Anzi, rimirare la figura del fu Shion dell’Ariete accasciata ai suoi piedi gli dà una strana sensazione – quasi di euforia, di onnipotenza.

«Adesso sono io il solo artefice della mia sorte,» sussurra sprezzante al cielo di velluto blu, con la voce arrochita dall’adrenalina «e mi prenderò quello che è mio, costi quel che costi».

Getta un’ultima occhiata assorta al vecchio pontefice, prima di chinarsi su di lui; qualcosa gli punge il petto come uno spillo, mentre lo sveste, tuttavia Saga si sforza di ignorarlo.

Non è arrivato fin lì per essere sconfitto da banale rimorso e, comunque, dopo Capo Suonion ormai ci si è assuefatto.

La veste sacerdotale gli va troppo grande ed è sporca di sangue, ma lui, indossandola, si sente ugualmente un Dio – un Dio unico, indivisibile.

Sì, esistono notti che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino alla morte; Saga questa notte la ricorderà per sempre, perché non si è mai sentito tanto intero come adesso.

Quanto in realtà si stia sbagliando lo capirà solo fra tredici anni.



. 

 

 

Note dell’autore

 

Dato che la storia si chiama "Le quattro stagioni", perché i capitoli sono cinque?

Non solo per smentire il detto "Non ci sono più le mezze stagioni", no; perché l'idea per quest'ultimo racconto l'ho covata così a lungo – quasi due anni, a dir la verità – che mi sono sentita in dovere di svilupparla, in un modo o nell'altro. Probabilmente non ne è valsa la pena, ma ormai eccomi qui.

Come certo avrete capito, la vicenda è ambientata poco dopo gli avvenimenti di Capo Suonion, e subito prima della Notte degli Inganni: ossia, nella notte – non ricordo bene, ma immagino sia stato di notte – durante la quale Saga uccide Shion.

Il presente si svolge in tre momenti diversi, mentre la parte centrale in grassetto corsivo è un flash-back avente a oggetto un ricordo risalente al giorno in cui Saga scoprì da Shion di essere un eletto di Atena.

A proposito di questo, ci tengo a precisare che i fatti narrati e le dinamiche sono assolutamente arbitrarie e ipotetiche.

Non ho idea di come i gemelli abbiano vissuto prima di arrivare al Santuario, né di come venissero reclutati i cavalieri, perciò ho costruito la scena secondo la mia immaginazione.

«[…] solo allora un Saint diviene davvero meritevole di indossare l’armatura che ha scelto – o alla quale è naturalmente destinato, come nel tuo caso» : questa frase si spiega con la mia convinzione – errata o meno, non lo so – che gli appartenenti alla casta dorata non abbiano rivali in lizza per la stessa armatura, né che possano scegliere quale corazza conquistare; secondo me, la potenza del loro cosmo li rende unici. Uomini nati per vestire quella determinata cloth, e solo quella, in sostanza – Kanon sarebbe un'eccezione.

Altri chiarimenti non me ne vengono.

Passo e chiudo, quindi, ringraziandovi per l'attenzione.

Un abbraccio!

 

 

 

 

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