I Custodi delle Chiavi del Tempo di Moony3 (/viewuser.php?uid=76496)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno di Cormiac ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo che sussurrava ai serpenti ***
Capitolo 3: *** Il discepolo inesistente ***
Capitolo 4: *** L'Orda del Tempo ***
Capitolo 5: *** L'importanza di chiamarsi Al ***
Capitolo 6: *** La settima Chiave ***
Capitolo 7: *** La capanna dello zio Al ***
Capitolo 8: *** L'Eleganza del Lupo - prima parte ***
Capitolo 9: *** L'Eleganza del Lupo - seconda parte ***
Capitolo 10: *** Il licantropo, la strega e l'armadio ***
Capitolo 11: *** Teddy Lupin e la Chiave del Tempo ***
Capitolo 1 *** Il sogno di Cormiac ***
Per la serie: a volte
ritornano... eccomi qua. Con una nuova storia.
Una
storia che richiede qualche premessa, mi sa.
Perché
è una specie di esperimento ed è un po'
complicata da "presentare".
Per svariati motivi...
-
Questa storia è
un Antefatto
della mia precedente long fiction "La
Chiave del
Tempo" (ed è dedicata a tutti coloro che,
sorprendendomi non poco,
hanno mostrato di gradire il mio precedente "delirio" e mi hanno
chiesto informazioni sull'oggetto
che gli ha dato il titolo) quindi, essendo un Antefatto,
può essere
tranquillamente letta anche da chi non conosce "La Chiave del Tempo".
- Questa storia è nata con il preciso scopo di spiegare come
una
Chiave del Tempo sia potuta arrivare tra le mani di Ted Remus Lupin. Si
conclude infatti nello stesso istante in cui comincia "La Chiave del Tempo".
- Questa storia è composta da dieci capitoli (compreso
questo)
che, pur essendo strettamente collegati l'uno all'altro, potrebbero, in
un certo modo, essere considerati "autosufficienti". Nel senso che ogni
capitolo si svolge in un anno ben preciso, raccontando un episodio
che aiuterà il Caso (o il Fato, o la Fortuna, o
quello che
preferite) a portare una delle Chiavi tra le mani di Ted Remus
Lupin.
- Questa storia non ha, per i motivi spiegati qui sopra, un
protagonista vero e proprio. Ne ha diversi, e
molto variegati, anche: i Custodi
delle Chiavi del Tempo, appunto.
Alcuni sono famosi (ma non troppo, tra i
protagonisti principali non troverete Harry, Ron o Hermione,
per intenderci) altri sono stati soltanto
nominati da J.K. Rowling (un esempio su tutti, il sorprendente zio
Alphard... che ha sorpreso me per prima: mai mi sarei aspettata di
coinvolgerlo in una delle mie storie e invece...) altri ancora
sono stati
totalmente inventati
da me (eh, dove J.K. è stata avara di informazioni ho
dovuto supplire in qualche modo).
-
Questa storia copre un arco di tempo lunghissimo (20 secoli, per
la precisione) e mi sembrava carino caratterizzare in qualche
modo le diverse epoche,
giusto per far percepire lo scorrere del Tempo. Io ci ho provato... se
ci sia riuscita o meno non sta a me dirlo.
-
Questa storia è strettamente legata al Tempo ma, a
differenza del suo "Seguito",
non racconta di un Viaggio nel Tempo: è un
Viaggio nel Tempo.
Quindi preparatevi a
girovagare tra i secoli, guidati da personaggi - a volte
amabili altre meno- che vi permetteranno, cortesi, di sbirciare nelle
loro vite.
Perché, tra le altre cose, questa storia è stata
anche la
scusa ideale per soddisfare la mia capricciosa curiosità e
tentare di ipotizzare quello che potrebbe essere successo (anche molto)
prima degli avvenimenti
raccontati da J. K. Rowling.
Quindi,
se anche voi siete afflitti dalla mia stessa capricciosa
curiosità, liberate la fantasia e godetevi la prima tappa di
questo (non
così) lungo viaggio sulle tracce de "I
Custodi delle Chiavi del Tempo".
Prologo
Il sogno di Cormiac
Britannia,
Ante diem sextum Nonas Maias 811 ab Urbe condita. *
Il ragazzo si
raggomitolò su se stesso, stringendo tra le mani il
medaglione caldo e pulsante che portava al collo.
Nel tentativo di riprendere fiato inalò a pieni polmoni
l'aria
fresca, profumata di resina e di erba, e serrò gli occhi,
desiderando ardentemente che il mondo smettesse di vorticare come una
delle trottole che, quando era piccolo, gli costruiva il nonno.
Un improvviso scalpitare di zoccoli lo riportò al presente.
Letteralmente.
Per qualche astruso motivo la cosa lo fece sorridere: trovava molto
gradevole il concetto di presente, al momento. E molto rassicurante,
anche.
Chiedendosi un po' smarrito che fine avesse fatto il canto dolce e
misterioso che aveva riempito le sue orecchie fino a qualche istante
prima, il ragazzo tentò di aprire gli occhi.
Impresa difficilissima.
Non si era mai sentito tanto stanco in vita sua. Né tanto
confuso.
Stava cercando di ricordare perché una parte di
sé gli
stesse
suggerendo di essere contento di quello che aveva appena fatto - cosa
non semplice tenuto conto che, al momento, aveva qualche problema
persino a ricordarsi il proprio nome - quando
una mano lo afferrò per la tunica di lana grezza
sollevandolo di
peso da terra. E scuotendolo con un'energia quanto meno inopportuna, a
suo parere.
«Aulo, hai l'intelligenza di un Troll di Montagna!»
tuonò una voce roboante risolvendo, se non altro, la
questione
del nome.
Aulo riconobbe subito quella voce, caratterizzata dal buffo
accento tipico della gente che popolava quel desolante luogo privo di
palazzi di marmo e di Terme degne di questo nome.
Apparteneva al suo nuovo maestro, quella voce.
Un gigante strambo - si ostinava a portare i lunghi capelli color
paglia acconciati in trecce, come una donna - che si occupava
di
cose altrettanto strambe.
E parlava di cose strambe, anche.
Solo Minerva sapeva, ad esempio, cosa potesse essere un Troll di Montagna.
Aulo non ne aveva la più pallida idea, ma sospettava non
dovesse essere qualcosa di particolarmente intelligente.
Sospirando, il ragazzo si sforzò di aprire gli occhi,
chiedendosi per l'ennesima volta perché quel grosso
pazzo
si fosse tanto intestardito nel prenderlo con sé.
Forse perché anche a lui capitava di fare, di tanto in
tanto, cose strambe, dovette ammettere con un certo disagio.
Come saltare torrenti o abbattere suo fratello Tiberio semplicemente
desiderandolo. Comodo, certo... ma strambo.
Richiamando ogni oncia dell'energia che gli rimaneva il ragazzo
riuscì finalmente ad aprire gli occhi, pentendosene
all'istante.
Il volto barbuto del maestro era inquietante già di suo.
Aulo faceva davvero fatica ad abituarsi alle lunghe barbe, spesso
decorate da assurde treccine, che nascondevano i menti degli uomini di
quella terra triste e nebbiosa. Per non parlare dei disegni blu che
ornavano, a volte, i loro visi.
Il suo maestro non aveva disegni blu, ma aveva gli occhi di quel colore
e ad Aulo sembravano strani anche quelli. Sbagliati, in un certo senso.
Sbagliati come quella terra in cui suo padre lo aveva portato a forza
un paio di anni prima.
Occhi sbagliati e inquietanti. Se poi lampeggiavano anche di rabbia
come in quel momento...
Aulo non aveva mai visto nulla di più terrorizzante,
nei suoi quattordici anni di vita. Neppure Tiberio che sbaciucchiava
Lucilla poteva competere.
«Si può sapere cosa ti è venuto in
mente? Giocare
con una Chiave del Tempo!
Sciocco marmocchio! Si vede che il caldo sole
di Roma - che tanto rimpiangi - ti ha cotto quello che
dovresti avere, da qualche parte, in quella testa dura!»
Aulo sbatté le palpebre, cercando una motivazione
plausibile.
Era bravo a inventarsi motivazioni plausibili. Ma ci
ripensò, ricordando perché
aveva deciso di giocare
con quel grosso medaglione che il suo Maestro chiamava Chiave del Tempo.
Scosse il capo e, stringendo convulsamente tra le mani l'oggetto in
questione,
sorrise: aveva salvato il padre! Lo aveva fatto davvero! Aveva impedito
a quei quattro barbari dipinti di blu di ucciderlo nell'imboscata
tesagli, in quella stessa radura, mentre tornava da un viaggio a
Lundinium**.
«Dovevo salvare mio padre. Missione compiuta»
proclamò quindi compiaciuto, fissando fiero gli occhi chiari
del
maestro.
«Dovevi...» l'uomo lo guardò allibito.
Una scintilla
di comprensione smorzò per un istante la rabbia che gli
deformava il viso. Poi proseguì, incerto. «Ma tuo
padre
sta benissimo. L'ho visto qualche istante fa. E' venuto a cercarti per
proporti di accompagnarlo a pescare».
Aulo sorrise radioso e si agitò nella stretta dell'uomo.
«Ora
sta benissimo. Te l'ho detto: missione compiuta! Non ho
permesso a quei quattro... er... Troll
di Montagna dipinti di blu di toccarlo!»
«Il puledro dice il vero, Cormiac».
Aulo sobbalzò al suono di quella voce profonda,
piacevolmente sorpreso dal
raffinato accento che ricordava molto quello di Asklipios - il suo
vecchio maestro greco - e un po' irritato dal termine che il
proprietario della voce in questione aveva usato per riferirsi a lui: puledro?
Afferrando i polsi del maestro, che ancora lo teneva per la tunica
impedendogli di toccare terra con i piedi, il ragazzo girò
il
capo, intenzionato a scoccare un'occhiata di dignitosa disapprovazione
allo sconosciuto, ma riuscendo solo a fissarlo con aria probabilmente
un po' ebete: bocca spalancata e occhi sgranati per l'assoluto
stupore non aiutavano a esprimere dignitosa disapprovazione,
purtroppo...
Usare una Chiave del
Tempo non doveva essere salutare.
No davvero. Dava le allucinazioni. Come il succo dei papaveri.
Non era proprio possibile che a parlare fosse stato un...
Aulo lasciò i polsi del maestro e si sfregò gli
occhi con energia.
Per tutti i fulmini di Giove Tonante, sembrava proprio una di quelle
creature di cui gli aveva parlato Asklipios.
Un... centauro, ecco! Era davvero identico a quello che, sempre secondo
Asklipios, aveva istruito il giovane Ercole,
ricordò Aulo - che era un grande estimatore di
Ercole - osservando incredulo il torace umano della creatura,
il
viso glabro e i lunghi capelli neri. Neri come il manto che ne
ricopriva il corpo equino e come la folta coda.
Ecco spiegato il rumore di zoccoli che aveva sentito prima.
Il suo maestro non aveva un cavallo, infatti. Non gli serviva. Aveva
l'irritante abitudine di scomparire e
ricomparire a suo piacimento. Arte della Smaterializzazione, la
chiamava.
Una volta aveva coinvolto anche Aulo in questa sua abitudine: un
istante prima erano nella capanna del maestro... e un istante dopo in
un'assurda bottega dove un assurdo vecchio di nome Olivander gli
aveva venduto una bacchetta magica che Aulo aveva reputato assurda,
all'epoca.
Non era stata un'esperienza particolarmente piacevole, ma Aulo sperava
di
imparare presto a Smaterializzarsi: si sarebbe fatto molte risate alle
spalle di Tiberio.
«Cormiac, lo stai strangolando, credo. Forse faresti meglio a
posarlo a terra» propose il centauro con olimpico distacco.
Cormiac ubbidì, trattenendo però Aulo per una
spalla. E,
guardando intensamente il centauro, chiese: «Dice il vero? Ha
salvato il padre? Ha... cambiato il corso della storia?»
Il centauro annuì solenne. Poi, indicando il medaglione che
il
ragazzo portava al collo, precisò: «La Chiave del
Tempo
è stata probabilmente usata, Cormiac. Sirio risplendeva in
modo
straordinario questa notte. Segno indiscutibile di una prossima
anomalia temporale. E se il puledro sostiene che ha salvato il padre...
noi non possiamo che fidarci della sua parola. Come ben sai».
Cormiac, ancora arrabbiato, costrinse Aulo a guardarlo: «Aulo
è pericoloso interagire con leggerezza con il corso del
Tempo!
Chissà che cambiamenti hanno provocato le tue azioni, o
provocheranno... hai ucciso gli aspiranti assassini di tuo
padre?»
Il ragazzo sgranò gli occhi, raccapricciato: «No!
Che idea, maestro».
Il mago annuì, un po' rinfrancato. «Hai usato la
magia contro di loro?»
Aulo scosse il capo, oltraggiato: possibile che il suo maestro lo
ritenesse davvero così stupido? «Ma certo che no!
Lo so
che è proibito! Me lo hai ripetuto fino alla nausea! Me lo
hai
perfino fatto scrivere su un'ottima pergamena. In caratteri runici! Un
grande spreco di tempo ed energia, se vuoi conoscere il mio
parere» concluse con patrizio sdegno. Poi, notando lo sguardo
non esattamente radioso del maestro, pensò bene di
precisare:
«Li ho solo anticipati. E ho versato del succo di papavero
nella
loro cervogia.***
Tanto è talmente orribile la cervogia che non se ne sono
neppure accorti».
«A parte il fatto che la cervogia è deliziosa, e
quando avrai la barba te ne accorgerai...»
«Neppure morto. A parte il fatto che non mi
lascerò mai
crescere la barba, la cervogia ha lo stesso aspetto della
pipì
di cavallo. Oh, senza offesa, signore» si affrettò
ad
aggiungere il ragazzo, occhieggiando il centauro che liquidò
la cosa con un leggero sbuffo e un vago cenno della mano. Rassicurato,
Aulo affermò convinto: «Il vino con il miele.
Quello sì che è delizioso».
Cormiac si massaggiò la fronte e sospirò.
«Riprenderemo questa fondamentale
discussione in un altro
momento, Aulo. Hai drogato gli aspiranti assassini di tuo padre,
quindi.
Non ti è venuto in mente che lo cercheranno
ancora?»
«Mica sono stupido. Certo che mi è venuto in
mente.
Infatti ho aspettato che si riprendessero, mi sono finto estasiato
dalla loro abilità in battaglia - ho decantato l'eroismo con
cui
hanno combattuto con versi degni di Orazio - e ho lasciato loro la toga
di papà in ricordo dell'impresa. Quella buona, non quella
che
indossa per viaggiare. Ma quei quattro pare non sapessero che non si
usa la toga buona per viaggiare. Certo, ora papà
dovrà
procurarsene una nuova, però quelli se ne sono tornati
soddisfatti da dove son venuti».
Il centauro ridacchiò con una piacevole risata profonda.
Cormiac
lo fulminò con lo sguardo e proseguì:
«Ma come hai
fatto a venire a conoscenza dell'esistenza delle Chiavi del Tempo e
dell'incantesimo per azionarle, Aulo».
Il ragazzo ebbe la buona grazia di arrossire, si grattò un
orecchio e, disegnando distratti semicerchi con la punta un po'
sbucciata del calzare, ammise: «Ti ho visto mentre le
mostravi a
Urien. Per caso!» si affrettò a precisare, notando
che il
maestro, dopo avere esalato un secco sbuffo, aveva alzato gli occhi al
cielo. «E ho sentito mentre gli hai rivelato
l'incantesimo».
«Sì. Urien non l'ha capito molto bene».
«Ho notato. Invece di azionare la Chiave del Tempo ha
trasfigurato il tuo gatto in un calice. Grazioso, non fosse stato per i
baffi. Ma io non sono Urien!» affermò sdegnato
Aulo. Quindi estrasse una bacchetta magica di lucido legno scuro
ed eseguì un perfetto Incantesimo d'Appello. Immediatamente
una
tavoletta cerata, di quelle che Aulo si ostinava a usare per prendere i
suoi appunti, sfrecciò docile nelle mani del ragazzo che la
porse al maestro. «Ho scritto qui tutto quello che hai detto
a
Urien. E ho agito quando tu sei andato a portare alla figlia del fabbro
l'unguento che guarisce le verruche».
Cormiac prese la pergamena e aggrottò la fronte, Aulo rise
divertito. «E' stenografia. Me l'ha insegnata il mio vecchio
maestro - quello che tu definisci Babbano – se vuoi te la
insegno. E' molto più pratica delle tue rune,
sai?».
Cormiac grugnì, sibilando minaccioso: «Hai
rischiato
grosso, Aulo. Avresti potuto cambiare la linea del Tempo in modo
imprevedibile. Avresti potuto incontrare te stesso, e cose terribili
capitano a chi incontra se stesso.
Inoltre, senza contare che hai offeso la cervogia e le rune, hai
distrutto una Chiave del Tempo».
«Distrutto una Chiave del Tempo?»
mormorò il
ragazzo guardando sconcertato il medaglione che ricordava una
versione più grossa e decorata della sua Bulla.****
«Sì. Ogni Chiave del Tempo può essere
usata
un'unica volta. Ne sono state create sette, Aulo. Tre sono
già
andate distrutte. Quattro con questa. Ora dimmi: cosa dovrei fare con
te?» chiese con una punta di rassegnazione Cormiac.
Il ragazzo si rigirò il grosso medaglione tra le mani, poi
mormorò mortificato: «Mi dispiace. Davvero. Sono
molto
utili, queste. Pensavo di usarne una per impedire la proclamazione
dell'attuale Imperatore di Roma».
Cormiac lo interruppe, deciso: «Non ci pensare
neppure».
«A papà non piace questo Nerone. Dice che non
somiglia neppure un po' a
Claudio, ma gli ricorda Caligola. Asklipios mi ha raccontato tutto di
Caligola. Era terribile vivere ai tempi di Caligola».
Cormiac inarcò un sopracciglio. «Quello che ha
eletto senatore la sua capra?»
«No. Quello che ha eletto senatore il suo cavallo. Era un cavallo
non una capra.
Papà dice che era il senatore più
intelligente dell'epoca. Il cavallo, dico».
«Non mi stupisce» intervenne il centauro, scuotendo
compiaciuto la folta coda.
«Comunque, grazie a una di queste possiamo cambiare la
storia...» esclamò euforico Aulo.
«No, che non possiamo! Non hai ascoltato una sola parola di
quello che ho detto, vero? E' pericoloso interagire con il
Tempo».
«Ma...»
«Ma niente, Aulo. Non intendo discutere della cosa»
affermò con decisione Cormiac riappropriandosi della Chiave.
«Maestro, capisco che ne rimangono solo tre, ma possiamo
sempre crearne altre».
«No, Aulo. Il problema non è il numero delle
Chiavi
rimanenti. Sarei ben felice di distruggerle tutte, ad essere sincero. E
non ne saranno create altre, te lo assicuro. Il segreto delle Chiavi
del Tempo morirà con il loro creatore».
«Morirà! Quindi è ancora vivo, il loro
creatore. Lo cercherò e convincerò lui!»
«Puoi provarci, se vuoi. Ma non riuscirai a
trovarlo».
«E cosa me lo impedirebbe?»
«Il fatto che lui non vuole essere trovato»
concluse secco
Cormiac, guardando Aulo con una serietà inusuale per lui.
«E con questo considero concluso il discorso. Ora smettila di
tentare di distrarmi, perché so perfettamente che era questo
il
tuo scopo principale e che dell'attuale Imperatore di Roma non ti
interessa
proprio nulla...» sogghignò notando l'improvviso
rossore
del ragazzo. «E rispondi alla mia domanda: cosa dovrei fare
con
te?»
Aulo lo guardò in tralice e, non scorgendo più
rabbia negli occhi del maestro, sorrise furbo e propose:
«Lasciarmi andare a pescare con papà,
naturalmente, visto
che è venuto a cercarmi. Non si può dire di no a
Publio
Valerio Corvino».
«Forse a Roma. Ma qui si può. Io, per lo meno,
posso, te lo assicuro».
Aulo abbassò il capo, abbacchiato, poi sbadigliò
vistosamente: viaggiare nel Tempo non era uno scherzo.
Era faticoso. E sconcertante. Una parte di lui ricordava la tristezza e
il dolore provato per la morte del padre, ma un'altra no.
Perché
non aveva mai provato quella tristezza. Era strano avere ricordi
diversi che si accavallavano.
Cormiac ridiede al discepolo la tavoletta cerata: «Credo che,
per punizione,
sia equo che tu ricopi questa, in bella grafia, su di una pergamena.
Aggiungendo le notizie che ti ho appena dato sulle Chiavi del Tempo.
Oh, usando i caratteri runici, naturalmente».
Il ragazzo sbuffò oltraggiato.
Non vedeva il padre da più di un anno - una parte di lui
ne era convinta, per lo meno. L'altra non era d'accordo, certa com'era
di averlo visto qualche ora prima, a pranzo – voleva solo
godersi
la sua compagnia e quel gran rompinoci
del suo maestro lo affliggeva con un simile, noioso, lavoro.
Cormiac nascose un sorriso intenerito sotto la folta barba e aggiunse
burbero: «Dopo che avrai procurato qualche bel pesce per
cena,
naturalmente. Ora fila, tuo padre ti aspetta al torrente».
Aulo alzò gli occhi, scrutando incredulo il maestro - che
non era poi così male, bisognava ammetterlo -
si sistemò rapido un calzare e, dopo un'ultima occhiata
ammirata al centauro, se ne
andò saltellando allegro alla ricerca del padre.
Cormiac scosse il capo, divertito suo malgrado, guardò la
Chiave e sussultò.
Era diversa da come se l'aspettava: il serpente che ne decorava il
bordo non aveva cambiato
posizione e il centro era occupato da sfolgoranti fiamme d'argento tra
cui si stava formando una minuscola figura alata.
L'uomo guardò il centauro, allibito, e gli mostrò
la Chiave.
«Non capisco. Non si è danneggiata. Sembra quasi
che si stia rigenerando, Kyros».
Il centauro annuì. «E' così. La fenice
sta
risorgendo dalle proprie ceneri, Cormiac. Il puledro ha usato la Chiave
con molta saggezza. Con molta più saggezza di quella che
usasti tu,
temo».
L'uomo sospirò, amareggiato. «Pensavo di non avere
scelta,
Kyros» mormorò cupo abbassando lo sguardo.
«Perché mi aiutasti a creare le Chiavi del Tempo?
Perché, invece di assecondare questo mio folle Sogno
donandomi il tuo sapere, non mi
hai fermato?»
Il centauro scrutò l'uomo per qualche istante, poi rispose:
«Perché il Destino ha voluto così,
Cormiac. Era
scritto nelle stelle. Perché avrei dovuto ribellarmi a
ciò che era scritto nelle stelle? Voi umani lo fate
continuamente, lo so, ma noi centauri troviamo stupido sfidare il
Destino».
«Il Destino?»
«Il Destino. La forza più potente in
assoluto».
«Uhmf... parli proprio come un centauro».
«Ma pensa...»
«Non diventare impertinente, Kyros. Basta Aulo per
questo».
Il centauro annuì. «Ha
carattere, il puledro».
«Sì. E talento. E' strabiliante come la magia
scorra
potente in un ragazzo nato da Babbani. E scarseggi in Urien, figlio di
maghi Purosangue, che studia con me da molto più tempo di
Aulo e non sa
azionare una Chiave del Tempo senza trasfigurare un gatto in un calice.
Con tanto di baffi, per di più».
Il Centauro scrutò assorto il mago per qualche istante, poi
chiese con la sua voce distaccata: «Perché
strabiliante?
Non sottovalutare quelli che tu chiami Babbani, Cormiac. Hanno immense
potenzialità. Anche questo è scritto nelle
stelle».
Cormiac si strinse nelle spalle, osservando pensoso la Chiave, quindi
chiese: «Perché Aulo è riuscito nel
tentativo di
cambiare la storia, Kyros? Perché lui è tornato,
la
Chiave non è danneggiata e suo padre non cammina
più fra
le ombre? Il mio tentativo è stato fallimentare e ancora non
me
ne spiego il motivo: eravamo riusciti a cambiare le sorti della
battaglia, senza ricorrere alla magia; Plauzio era stato fermato da
Carataco, i romani erano stati respinti. Ma al mio ritorno nel presente
le Chiave era danneggiata. E Plauzio trionfante. Senza contare Rhys e
Caalum dispersi nel Tempo... come le Chiavi usate da loro».
Il centauro si avvicinò all'uomo. «Cormiac... tu
non hai
responsabilità per quello che è successo a Rhys e
Caalum,
lo sai, vero? Non è colpa tua se hanno lasciato chiudere il
Portale».
Cormiac scosse le spalle e, puntando sul centauro i suoi brillanti
occhi blu ridomandò: «Perché il mio
tentativo non è
riuscito, Kyros?»
«Perché, come hai detto ad Aulo, è
pericoloso
interagire con il corso del Tempo. Tu hai cercato di cambiare troppe
cose, Cormiac. Hai salvato chi sarebbe morto, come ha fatto Aulo, ma
così facendo hai ucciso chi sarebbe sopravvissuto. Hai
spezzato
l'Equilibrio. Aulo non l'ha fatto. Gli ha solo dato un colpetto di
trascurabile importanza. Ma nel tuo caso... credo che l'Equilibrio si
sia semplicemente ricostituito».
Cormiac ci pensò un istante e annuì.
«Potrebbe
essere una spiegazione. Quindi Aulo Plauzio ha trionfato ugualmente.
Come Aulo Valerio Corvino, del resto».
«Non ci avevo fatto caso. Il tuo allievo si chiama Aulo come
il generale».
Cormiac sogghignò. «Il mio allievo si chiama Aulo in onore del
generale. Suo padre, Publio Valerio Corvino, è un grande
estimatore di Plauzio. Così io mi ritrovo a insegnare al
secondogenito di un Babbano che ha un'immensa stima del
generale a cui ho tentato, in tutti i modi permessimi dalle leggi
magiche, di impedire di conquistare la mia Terra. E suo figlio mi
ripaga riuscendo dove io, il suo maestro, ho fallito»
affermò Cormiac con amara ironia, sventolando con noncuranza
la
Chiave del Tempo sotto il naso del centauro.
«I discepoli a volte lo fanno. Aulo ha ingannato il
fato con la stessa sapienza con cui ha ingannato gli assassini del
padre».
«Sapienza, Kyros? Io direi astuzia, più che
altro».
«No, sapienza. Il puledro ha fatto scelte sagge.
Più sagge delle tue, pare».
«Sì, lo hai già detto. Non è
necessario che
tu ribadisca ancora il concetto, sai? Aulo ha agito spinto dall'amore
per suo padre. Io spinto dall'odio. Forse, semplicemente, l'Amore
è un consigliere migliore dell'Odio».
«L'Amore?»
«L'Amore. La forza più potente in
assoluto».
«Uhmf... parli proprio come un umano».
«Ma pensa...»
«Non diventare impertinente, Cormiac. Basta Aulo per
questo».
«Già, Aulo che ha l'impertinenza di non
distruggere le Chiavi del Tempo che usa».
«Aulo che scriverà un'informazione non corretta
sulla sua
pergamena. Forse dovresti mostrargli la Chiave del
Tempo e spiegargli che a volte, per motivi imperscrutabili ai
più, non si esaurisce con l'uso».
«O forse no, almeno per il momento. Meno Aulo sa
sull'argomento
più sicuro mi sentirò. Anzi,
nasconderò le Chiavi
superstiti. Le metterò in qualche luogo lontano dai suoi
occhi.
Non sia mai che gli venga voglia di cercare di cambiare il destino di
Roma».
«Il Destino è scritto, Cormiac».
«Il Destino si può cambiare».
«Solo se decide di permetterlo».
Cormiac ci pensò un istante, poi annuì
sorridendo:
«Sì. Questo te lo posso concedere, Kyros. Questo
te lo
posso concedere».
* Mi sono azzardata –
per ovvi motivi – a nominare giorno e anno alla maniera degli
antichi romani:
ab Urbe condita significa, letteralmente, dalla fondazione della
Città, dove per
Città si intende Roma. "Ante diem sextum Nonas Maias,
811 ab Urbe condita" corrisponde al 2 maggio del 58 D.C.
Almeno spero... in caso
contrario chiedo umilmente perdono a tutti gli antichi romani di
passaggio.
** Lundinium è l'antico nome di quella meravigliosa
città che noi conosciamo come Londra.
***
La cervogia, come ben sa chi ha avuto l'indubbio piacere di leggere
qualche avventura di Asterix, è una specie di antenata
dell'odierna birra, molto diffusa tra le popolazioni che vivevano
nell'Europa del Nord di quei tempi.
**** La Bulla - o Bulla Praetexta - era un medaglione contenente un
amuleto protettivo che, ai tempi del giovane
Aulo, tutti i cittadini romani nati liberi portavano fino al
raggiungimento della maggiore età.
E rieccoci qui, oh Temerari che siete sopravvissuti alla prima tappa di
questo periglioso - o solo noioso, magari - viaggio.
Prima di tutto vi ringrazio per la vostra encomiabile pazienza.
Mi rendo conto, infatti, che questo capitolo non ha molto di
"potteriano" ed è praticamente un originale, ma abbiate
fiducia, già dal prossimo le cose cambieranno: le
atmosfere cominceranno pian pianino a "potterizzarsi" e i personaggi
acquisteranno
un barlume di familiarità...
Per quanto riguarda questo capitolo, purtroppo, non ho potuto che
inventarmi di sana pianta tutti i personaggi, visto che J.K. Rowling
non ci ha raccontato nulla di periodi tanto remoti... se non che il
negozio di Olivander esisteva già. E infatti la
bacchetta magica del giovane Aulo viene acquistata proprio
lì.
Quindi non vi preoccupate se nessuno dei personaggi da me citati vi
risulta familiare: Aulo (e famiglia), Cormiac (e sfortunati compagni) e
Kyros sono una mia invenzione, come le Chiavi del Tempo.
J.K. Rowling non ha colpe per la loro deprecabile esistenza.
Il generale Aulo Plauzio, Carataco, Nerone e Caligola con il suo
Onorevole Cavallo sono invece persone (o bestiole) realmente esistite
e, di
conseguenza, appartengono solo a se stesse. Con buona pace di Cormiac.
Per finire un'ultima precisazione: sono una vera frana a trovare i
titoli per le mie
storie ma
adoro i capitoli dotati di titolo.
Così ho adottato il
trucchetto di "ricavare" i miei titoli da quelli di libri
più o
meno famosi, se quindi vi risulteranno familiari non
stupitevi troppo!
Per questo capitolo in particolare, ad esempio, mi sono ispirata a "Il sogno di Merlino",
uno dei volumi - il quarto, se non erro - delle "Cronache di Camelot"
di Jack Whyte.
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Capitolo 2 *** Il ragazzo che sussurrava ai serpenti ***
Capitolo
Primo
Il ragazzo che sussurrava ai
serpenti
Britannia, 26 aprile 423 A.D.
La donna raddrizzò la schiena e osservò
l'immagine della
fenice racchiusa nel cerchio disegnato per terra, ammirandone per
un istante i bagliori di corallo illuminati dalla morbida luce della
luna.
Poi si strinse nel mantello e, guidata dal sommesso ronzio della Chiave
del Tempo, si incamminò sul viottolo di terra
battuta che
portava al villaggio.
Non era molto diverso da quello che aveva percorso una manciata di
minuti prima - o che avrebbe percorso vent'anni più tardi,
a voler essere precisi - constatò un po' meravigliata.
Chissà perché quello sciagurato del suo discepolo
aveva deciso di tornare proprio in quel luogo e in quel tempo.
Camminando a passo spedito - o, per lo meno, il più
spedito possibile per una distinta strega non più giovane -
borbottava tra sé improperi che, ne era ben conscia, una
distinta strega non più giovane non avrebbe neppure dovuto
conoscere.
Ma, per il vino al miele di Aulo, quando ci voleva, ci voleva!
Costringerla a fare una cosa del genere! Lei! Una vecchia, fragile
strega ormai in declino.
Oh, gliela avrebbe fatta pagare a quello scapestrato, decise, roteando
minacciosa la bacchetta magica con un piglio decisamente poco consono a
una vecchia, fragile strega ormai in declino.
Quando scorse una luce di un vivido azzurro filtrare fra i rami
di un salice, la donna si fermò, soddisfatta, la fonte dei
suoi
deprecabili borbottii era stata scovata: gli scintillii dorati
emanati dalla Chiave non lasciavano dubbi in proposito.
Si avvicinò cauta, studiando la figura inginocchiata che, impegnata a
osservare qualcosa, non si accorse della nuova venuta.
Sì, era proprio il suo discepolo: il mantello scuro ricamato
con sinuosi serpenti d'argento era sicuramente il suo
La donna
sbuffò con
una punta di esasperazione: non sarebbe mai diventato un grande mago!
Aveva talento, senza dubbio, ma era arrogante,
mancava del tutto di umiltà. E di cautela.
Avrebbe potuto Schiantarlo prima che lui si rendesse conto di essere
osservato; fu seriamente tentata di farlo, anche... ma
scacciò
l'allettante tentazione: non sarebbe mai riuscita a portarlo dove
doveva,
da Schiantato.
Stava giusto cedendo all'impulso di usare la bacchetta magica in un
modo molto poco ortodosso - la voglia di prenderlo a bacchettate
era davvero troppo forte, e la sua bacchetta era di robusto legno di
quercia - quando il ragazzo si alzò di scatto, scrutando
qualcosa davanti a sé e sussurrando una strana nenia
sibilante.
Il cappuccio del mantello gli scivolò sulle spalle rivelando
il
viso magro e pallido
dell'arrogante giovanotto che aveva costretto la povera, fragile strega
ormai in declino a quella folle e incerta avventura.
La donna si
sforzò
di scrutare lo stesso punto che il ragazzo
fissava ostinato, sobbalzando quando, grazie al chiarore della luminosa
luna piena, scorse un grosso serpente che si stava dirigendo, deciso,
verso un'anonima casetta di legno che lei conosceva fin troppo
bene: aveva trovato il suo tesoro più grande, in
quell'anonima casetta di legno.
Il serpente si fermò all'improvviso, rizzò
l'inquietante
capo squamoso, come se stesse ascoltando il saggio consiglio di un
maestro particolarmente incantatore, poi riprese sicuro la
sua
marcia.
Strano comportamento per un serpente, pensò confusamente la
donna, esasperata dal basso, continuo sibilo che usciva dalle labbra
del suo allievo.
Un momento. Il basso, continuo sibilo che usciva dalle labbra del suo
allievo?
Un Rettilofono!
Realizzò sorpresa; il suo ambizioso allievo era un Rettilofono e lo
aveva sempre tenuto nascosto.
Il serpente, ubbidendo a quel sussurro penetrante si
avvicinò all'uscio, stranamente dischiuso, della casa.
La donna serrò le labbra, ora davvero preoccupata,
agitò
la bacchetta verso il ragazzo sibilante - dopo tutta la fatica
che aveva fatto per rintracciarlo ci mancava solo che le scappasse
un'altra volta - quindi si Trasfigurò in un elegante falco
argentato che volò, con maestosa grazia, oltre la soglia
della
casetta.
Il falco, appollaiandosi su una robusta trave di legno,
scrutò con attenzione la piccola stanza rettangolare.
Le braci rosseggiavano debolmente nel focolare.
Un tavolo, quattro sgabelli zoppicanti, qualche suppellettile ammaccata
e due giacigli erano i soli oggetti contenuti nella stanza.
Il serpente stava strisciando, lento ma metodico, sul pagliericcio
più basso, occupato da quello che sembrava un fagotto
informe.
Non doveva essere agevole strisciare fin lassù,
pensò
confusamente il falco, prima di planare silenzioso sul grosso rettile.
Afferratolo con becco e artigli lo scosse con violenza e, solo dopo
avere percepito il secco schiocco di ossa spezzate, lo gettò
senza tanti complimenti oltre la soglia della casa.
Quindi, in un batter di ciglia, il falco argentato ritornò
ad
essere una donna che, rimirandosi corrucciata le unghie, si
avvicinò al pagliericcio.
Il fagotto informe si rivelò essere un ragazzino di una
decina
d'anni profondamente addormentato, rannicchiato sotto una vecchia
coperta.
La strega si accigliò, riconoscendolo, e sorrise orgogliosa
quando, agitandosi nel sonno, il bambino borbottò qualcosa e
la
trottola di legno abbandonata ai piedi del giaciglio
cominciò a
girare vorticosamente. Eccolo, il suo più grande tesoro: il
suo
allievo più dotato.
Non riuscendo a impedirselo scostò con una lieve carezza i
folti
capelli arruffati che nascondevano il viso del ragazzino e
mormorò suadente: «Va tutto bene, dormi sonni
tranquilli.
E non preoccuparti se, talvolta, fai accadere cose strane come
questa» indicò la trottola vorticante prima di
fermarla
con un pigro colpo di bacchetta. «So che spaventano tua
madre. Ma
presto io incrocerò la tua strada e le spiegherò
tutto.
Sappi che mi aspetto grandi cose da te, Merlino».
Sorrise un po' colpevole, sapeva che una buona maestra non avrebbe
dovuto fare differenze tra gli allievi, ma Merlino era sempre stato
speciale per lei e non poteva farci nulla.
Dopo avere scoccato un'ultima occhiata al bambino addormentato,
uscì silenziosa
dalla casa, ritornando, sospirante, dal suo ultimo allievo.
Dovette cercarlo per un po'.
I suoi occhi non erano più quelli di una volta, purtroppo,
ma alla fine lo scovò.
Se ne stava nascosto sotto un grosso sasso.
Scuotendo irritata la testa, la donna si inginocchiò con
grazia
e afferrò il grasso Vermicolo di un luminoso giallo
zafferano -
sì, sapeva che i Vermicoli non erano di un luminoso
giallo zafferano, ma doveva pur distinguerlo in qualche modo - che la
guardava minaccioso.
O, per lo meno, minaccioso quanto poteva esserlo un Vermicolo.
Non erano particolarmente espressivi, i Vermicoli, constatò
la
strega, reggendo la creaturina tra pollice e indice e osservandola con
attenzione; neppure quelli di un luminoso giallo zafferano.
«Bene, lo sapevo che non saresti andato lontano, Sigebert. Mi
piaci molto in questa forma, sai? Ti dona. Ma temo che mi
toccherà riportarti a quella originale, ahimè. La
legge non consente di Trasfigurare a vita una persona, purtroppo.
Peccato, l'ho sempre detto che le leggi, a volte, sono davvero troppo
restrittive».
Era acida, lo sapeva. Ma non poteva farci nulla. Quel giovanotto
presuntuoso era davvero difficile da sopportare.
Sospirando un po' avvilita appoggiò il Vermicolo sul grosso
sasso, si alzò e agitò la bacchetta
magica, guardando con occhio vagamente dispiaciuto il ragazzo che,
balzando in piedi, si sistemò il mantello, oltraggiato.
«Lo sai che è contro la legge, Cliodna. Non puoi
usare
questi metodi» sibilò furibondo. «Lo
dirò
a...» si fermò, incerto.
«A chi, Sigebert? E, soprattutto, cosa risponderai
all'immancabile domanda: quando? E a proposito di legge, non mi risulta
che sia consentito usare la Magia per aizzare serpenti contro bambini
addormentati. Tornando addirittura vent'anni indietro nel tempo per
farlo».
Il ragazzo le scoccò un'occhiata rabbiosa ma non
commentò, troppo preoccupato dalla bacchetta che Cliodna
sventolava pigramente sotto il suo naso.
La donna sogghignò: no, non si era sbagliata. Sigebert aveva
un
immenso talento magico - la Rettilofonia era un dono molto raro - ma
quanto a coraggio e carattere era messo davvero maluccio.
«Va bene. Pare che questa piccola avventura
resterà tra
pochi intimi, Sigebert. Ora, da bravo, torniamocene a casa che ho
già perso troppo tempo» concluse spazientita,
trascinando
il ragazzo verso il bosco.
«Quel marmocchio» sibilò Sigebert,
indicando la
casetta di legno. «Sarà la nostra rovina! E'
figlio di
Babbani. E farà di tutto per aiutarli!»
«Capisco. Due colpe imperdonabili».
«Sì. E' così. I Babbani ci
detestano».
«Magari i Babbani non impazziscono per noi perché
noi ci
divertiamo ad aizzare loro contro grossi serpenti velenosi. Forse, se
noi usassimo i nostri talenti per tenerli lontani, i serpenti, i
Babbani ci amerebbero di più. Ti ha mai sfiorato il dubbio,
ragazzo?»
«Merlino ci ruberà la Magia!» insistette
Sigebert,
mentre un grosso cerchio contenente una fenice color corallo comparve
improvvisamente ai suoi piedi.
«Ci ruberà la Magia? Sigebert, tu non sai di cosa
stai
parlando. La Magia è un dono. Nessuno può
rubarla.
Nemmeno Merlino» sbuffò la strega esasperata
spingendo il
ragazzo nel cerchio che cominciò a lampeggiare sempre
più
velocemente, mentre il medaglione che Sigebert portava al collo
vibrava, emettendo un sibilo acuto e sinistro che indusse sia la donna
che il ragazzo a serrarsi le orecchie con forza.
Quando il sibilo cessò, la donna annuì
soddisfatta - il
Portale del Tempo era scomparso assieme al ragazzo - e
proseguì il cammino. Quando raggiunse il punto esatto in cui
si era
aperto il suo Portale del Tempo, la Chiave che portava al collo divenne
calda e pulsante e il cerchio con la fenice si illuminò,
richiamando la sua attenzione. Vi entrò proteggendosi le
orecchie in attesa del sinistro sibilo. Sibilo che non ci fu, quando la
Chiave cominciò a vibrare emise infatti una melodia
dolcissima e
ipnotica che ricordava il meraviglioso canto di una fenice.
Britannia, 26 aprile 443
A.D.
Cliodna si concesse qualche istante per riprendersi.
Attraversare un Portale del Tempo era un'esperienza davvero bizzarra. E
stancante. Soprattutto per una distinta strega non più
giovane.
«Tieni le tue sporche mani lontane da me, ibrido!»
strepitò una giovane voce alterata.
Cliodna gemette, afflitta: la voce di Sigebert poteva essere davvero
irritante, a volte.
Come era possibile che un uomo di quasi vent'anni avesse una voce
così stridula. Forse era meno irritante quando si esibiva
nel
suo - Cliodna supponeva - impeccabile Serpentese.
Oh, naturalmente, quello che Sigebert diceva poteva essere anche
più irritante della sua voce stridula.
Quando la strega si decise ad alzarsi fu lieta di trovare una mano
pronta ad aiutarla.
Attraversare un Portale del Tempo era davvero troppo spossante per una
vecchia, fragile strega ormai in declino.
Aprì gli occhi e sorrise riconoscente al suo galante
soccorritore.
«Grazie, Xeno. Sempre gentilissimo».
Il galante soccorritore le dedicò un sorriso - enigmatico
come
solo i sorrisi dei centauri sapevano essere - e chinò con
cortesia
il capo: «Il piacere è tutto mio,
Cliodna».
Poi, spinse avanti il ragazzo furioso che tratteneva con l'altra mano.
«Pare che il tuo giovane amico non abbia gradito troppo il
mio
aiuto, invece».
Cliodna guardò il ragazzo e sospirò.
«Non ne
dubitavo. Grazie per essere rimasto qui ad attendere il nostro ritorno,
Xeno. E per avere aiutato Sigebert, naturalmente».
Il centauro scosse con eleganza la folta coda corvina e
assicurò
con la sua voce calma, ipnotica e curiosamente distaccata:
«Di
niente. Così volevano le stelle».
Cliodna alzò - con estrema discrezione - gli occhi
al cielo, un po' contrariata da quella mania che avevano i centauri di
giustificare sempre le loro azioni con il volere delle stelle, e
Sigebert si agitò rabbioso tentando di liberarsi dalla presa
del
centauro che sbuffò serrando la stretta.
«Lasciami, centauro. Non hai alcun diritto di
trattenermi».
Il centauro guardò la strega e, a un suo cenno affermativo,
lasciò il ragazzo seguendolo però come un'ombra.
«Lui che ci fa, qui?»
«Lui, Sigebert, è Xeno. Appartiene a una stirpe
non meno
nobile di quella dei maghi, ed è stato così
cortese da
attendere il tuo ritorno per evitare che te ne andassi prima del tempo.
Desidero davvero scambiare un paio di parole con te,
giovanotto»
proclamò Cliodna, sedendosi su un tronco e scrutando il
giovane
uomo.
Sigebert la guardò con occhi colmi di fredda indignazione,
strinse con rabbia la Chiave del Tempo che portava al collo ed
esclamò: «Come hai fatto a rintracciarmi? Come hai
fatto a
sapere che avevo azionato una delle Chiavi?»
Il centauro scalpitò, picchiando gli zoccoli sull'erba
soffice, e scuotendo i lunghi capelli neri.
Cliodna gli sorrise comprensiva e spiegò, con il suo
migliore
tono di paziente maestra: «E' ovvio, Sigebert. O lo sarebbe
stato
se tu avessi aspettato di sapere come funziona una Chiave del Tempo,
prima di usarla».
«Tu non ti decidevi mai ad affrontare l'argomento».
«La maggior parte della gente è convinta che io
sia una
strega molto saggia. Un motivo ci sarà pure, non credi?
Comunque, per rispondere alle tue domande, Sigebert, ho saputo che
avevi azionato la Chiave del Tempo perché, aprendo lo
scrigno in
cui le conservo, ho notato una... defezione, diciamo. Sarò
pure
un po' rimbambita, ma non così tanto, sai?».
Sigebert sbuffò irritato e ribatté: «Ma
come hai
fatto a rintracciarmi? Avrei potuto essere andato ovunque. Come hai
fatto a sapere con esattezza dove avevo deciso di andare? E
quando?».
«A rivelarmi tutto questo ci ha pensato la Chiave che ho
azionato
io: le quattro Chiavi sono collegate, Sigebert. Cormiac non era uno
stupido, quindi aveva messo in conto la possibilità di
dovere
rintracciare qualcuno fra le pieghe del Tempo».
Il ragazzo era sinceramente confuso, a Cliodna fece persino un po' di
tenerezza: le distinte streghe non più giovani tendevano a
diventare deprecabilmente sentimentali.
«Ma...» mormorò allibito il giovane.
«Ma niente» lo bloccò la strega con
decisione.
«Ora tocca a te rispondere ad alcune domande, giovanotto:
perché volevi aizzare quel serpente contro
Merlino?»
Il centauro, che aveva assistito in assoluto silenzio al chiarimento
tra maestra e discepolo, sgranò gli occhi, sbigottito.
«Cosa? Merlino?»
Sigebert ignorò il centauro e rispose: «Volevo
fermarlo.
Merlino ha idee troppo pericolose. Vuole fare leggi ancora
più
restrittive a favore dei Babbani. Vuole aiutarli a progredire. Vuole
elevarli al nostro rango!»
«E tu hai pensato bene di eliminare codesto pericoloso
soggetto,
uccidendolo con l'aiuto di un serpente, quando era soltanto un bambino
indifeso».
«Un bambino?» il centauro era ancora più
sbigottito.
Cliodna sorrise divertita: era davvero uno spettacolo buffo un centauro
sbigottito.
«Sì, Xeno, il nostro eroico aspirante grande mago
è tornato indietro nel tempo di vent'anni».
Sigebert guardò la strega con un rancore che celava forse
imbarazzo e dichiarò: «Sì. Vent'anni,
hai ragione.
Sarei andato anche più indietro ma questa stupida cosa non
lo
permette!»
«Naturalmente no, vent'anni sono un periodo ragionevole.
Almeno
Cormiac lo pensava. E Kyros era d'accordo» disse il centauro.
«Kyros?» Sigebert pronunciò il nome come
se stesse
disperatamente cercando nella sua memoria notizie su colui che lo
portava.
Xeno
annuì.
«Kyros, il centauro che aiutò Cormiac a
creare le sette Chiavi del Tempo. Fu necessario unire la sapienza della
tua stirpe a quella della mia per riuscire nell'intento. La storia
tramandata dai maghi non lo dice, vero? Non mi stupisce».
Il ragazzo sbuffò. E Cliodna intervenne. «La cosa
ti
sconvolgerà, me ne rendo conto, Sigebert, ma proprio come
tra
noi maghi lo scrigno delle Chiavi è stato passato da maestro
ad
allievo, cominciando da Cormiac che lo passò ad Aulo,
così tra i centauri la storia della loro creazione viene
tramandata da padre in figlio. Xeno è l'ultimo discendente
di
Kyros. Xeno sa. Xeno mi ha chiesto di aprire lo scrigno per controllare
le Chiavi: non fosse stato per lui non mi sarei accorta di
nulla».
Il ragazzo scrutò torvo il centauro: Cliodna sapeva che
detestava quelle fiere creature, ritenendole solo delle bestie - degli
ibridi, se era di umore più mite - lo aveva sentito
proclamare
con assoluta convinzione che avrebbero dovuto restarsene in Grecia,
invece di infestare la Britannia secoli prima. Questa interferenza di
Xeno non glieli avrebbe certo resi più simpatici.
Il centauro non pareva toccato dalla cosa, però.
Ricambiò
lo sguardo del ragazzo con distaccata curiosità, quindi
scrutò la limpida volta stellata indicandola con un vago
gesto della mano: «Sirio parlava
chiaro ieri notte: un'anomalia temporale era prossima. Non potevo non
avvertire la Custode delle Chiavi del Tempo. Le stelle non mentono
mai».
«Le stelle?» lo dileggiò irriverente
Sigebert. «Tu obbedisci alle stelle?»
Il centauro annuì solenne e Sigebert scoppiò in
una risata di scherno.
«Be', Ognuno ha i suoi vizi, ragazzo»
affermò una
voce profonda proveniente dal limite della radura. «Qualcuno
ha
il vezzo di obbedire alle stelle, qualcun altro quello di usare una
Chiave del Tempo per assassinare un bambino».
Sigebert sussultò e Cliodna si alzò di scatto dal
tronco,
puntando incredula lo sguardo nel punto del bosco da cui proveniva la
voce.
Quanto scorse l'uomo alto e snello che si avvicinava con sicurezza,
sorrise.
La luce della luna faceva sembrare neri i lunghi capelli dell'uomo, ma
Cliodna sapeva che erano invece dello stesso colore ramato del
manto delle volpi.
Sigebert arretrò, stringendo spasmodicamente la Chiave del
Tempo.
«Credo di preferire il vizio di Xeno, sai?»
affermò
il nuovo venuto, dopo un istante di quella che era parsa una profonda
meditazione, quindi si avvicinò al centauro e gli
assestò
una pacca amichevole sulla spalla. «A tal proposito: grazie,
Xeno. Ho apprezzato molto il tuo messaggio. Non avevo mai ricevuto un
gufo da un centauro».
Xeno annuì. «Spero che tu ti sia goduto
l'esperienza,
perché ti assicuro che non si ripeterà mai
più: i
centauri non mandano messaggi mediante gufi... e ho scoperto che
c'è un'ottima ragione per questo»
spiegò, mostrando
un dito funestato da quello che era chiaramente il segno lasciato dal
becco di un gufo bisbetico.
Cliodna osservò sorridendo il nuovo venuto.
Quell'impertinente incantatore era sempre riuscito a renderle il buon
umore.
Fin dalla prima volta che lo aveva incontrato, un ragazzino smilzo e
arruffato intento a spiegare a un contadino furibondo che non le aveva
rubate quelle succose ciliege che stringeva tra le mani. Erano proprio
venute di loro spontanea volontà.
La strega incrociò le braccia e, battendo con decisione un
piede, chiese con la sua
miglior voce di autorevole maestra: «Allora? Non si saluta
più una distinta strega un po' in declino che ha speso i
migliori anni della propria vita tentando di infilare i fondamenti
della Magia in quella tua testaccia dura?»
L'uomo la guardò con aria preoccupata - ma Cliodna sapeva
che fingeva spudoratamente - poi si avvicinò ridendo e le
sfiorò la fronte con un lieve bacio di affettuoso omaggio:
«Perdona la mia scortesia, Maestra Cliodna, ma converrai con
me
che ricevere un gufo da un centauro può sconvolgere
seriamente
un uomo».
La strega sogghignò, assestandogli un lieve scappellotto
sulla
nuca. «Specialmente se quell'uomo è già
normalmente
sconvolto di suo, suppongo. Da quanto sei qui, Merlino?»
«Oh, da un tempo sufficiente per avere sorpreso la mia
maestra
mentre cercava di sedurre un centauro» si abbassò
agile,
nel
tentativo di evitare un secondo, scherzoso, scappellotto. «E
per
avere ascoltato cose molto interessanti riguardo a un Viaggio nel
Tempo» aggiunse con improvvisa serietà squadrando
Sigebert
che, più pallido del solito, si era avvicinato a un grosso
albero e teneva la schiena saldamente appoggiata al tronco; quasi
temesse che Merlino potesse colpirlo alle spalle.
«Così ti sei preso l'immenso disturbo di andare
indietro
nel tempo di vent'anni, dico bene? E solo per eliminare il
sottoscritto? Quanta fatica sprecata, Sigebert. Ti sarebbe bastato
venirmi a trovare, o magari mandarmi un gufo come ha fatto il nostro
Xeno, qui, e io sarei stato più che felice di accettare di
battermi con te. Cliodna non avrebbe apprezzato - non ha mai amato i
ragazzi rissosi, suppongo che tu lo sappia - ma avremmo potuto evitare
di dirglielo» guardò Xeno e aggiunse «e
magari Xeno
non si sarebbe accorto di nulla. Può essere che i duelli tra
maghi non siano contemplati nei variegati interessi delle stelle.
Certo, Cliodna avrebbe sempre potuto sognarlo» concluse
ammiccando alla strega che sogghignò: quella faccenda dei
sogni
era una storia di lunga data. Merlino ironizzava sui suoi sogni dal
giorno in cui gli aveva rivelato di averlo sognato mentre si prendeva
cura di un cucciolo di drago, facendolo diventare il re dei draghi
della Britannia. Anche Xeno era stato messo al corrente della storia.
Ma non aveva dato soddisfazione all'irriverente Merlino, limitandosi a
declamare una delle sue enigmatiche sentenze.
Sigebert osservava torvo Merlino.
Per la prima volta Cliodna si rese conto che il ragazzo non provava
solo invidia verso il mago più anziano - e per questo lei
aveva, probabilmente, grosse responsabilità - ma lo
temeva.
Lo temeva come Cliodna non aveva temuto nessuno in vita sua.
Merlino arretrò di qualche passo per permettere al ragazzo
di muoversi.
Sigebert rizzò la schiena e tentò di mascherare
la paura
con il disprezzo. «Sfidarti a un duello? Sfidare un nato
Babbano?
Non mi abbasserei mai a tanto! Sarebbe come sfidare una di quelle...
cose»
affermò, indicando Xeno che assisteva con blanda
curiosità alla scena. «Non mi abbasserò
mai a
sfidare a duello un Sanguesporco!»
Cliodna sussultò oltraggiata e impugnò la
bacchetta ma Merlino la fermò con un cenno.
«Certo. Sarebbe davvero sconveniente,
sì» convenne
poi, meditabondo. «Molto più nobile - e sicuro -
attaccarli da piccoli, i Sanguesporco. Mentre dormono,
possibilmente».
Sigebert serrò i pugni, rabbioso, e cominciò a
sussurrare nenie
sibilanti, richiamando nella radura un nutrito esercito di serpenti.
Cliodna osservò preoccupata i rettili dirigersi verso
Merlino
che non si scompose, socchiuse gli occhi e lanciò uno strano
grido acuto e modulato.
Sigebert lo guardò allibito, senza smettere di salmodiare la
sua
nenia Serpentese, interrompendosi soltanto quando un plotone di uccelli
rapaci delle specie più diverse si radunò sopra
Merlino
per gettarsi poi sui serpenti che lo circondavano.
Cliodna sospirò sollevata, osservando il suggestivo volo di
una
civetta candida che si allontanava reggendo tra gli artigli un grosso
serpente bruno.
Sigebert guardò raccapricciato quello che restava del suo
esercito di serpenti, quindi strinse spasmodicamente la Chiave che
portava al collo e minacciò il mago più anziano:
«La riuserò. Tornerò indietro nel tempo
un'altra
volta. Lo farò. Non ti permetterò di elevare i
Babbani al
nostro rango. Di dare loro i diritti e i privilegi dei maghi».
Xeno osservò con attenzione la Chiave e scosse il capo:
«Di certo non tornerai nel passato con quella. E'
danneggiata».
Sigebert socchiuse gli occhi, sospettoso, poi guardò la
Chiave per la prima volta dal suo ritorno al presente.
Cliodna si avvicinò con cautela sbirciando l'oggetto.
Xeno aveva ragione.
La Chiave era danneggiata.
Il corpo scuro e sinuoso del serpente che, in origine, aveva decorato
il bordo del medaglione riproducendo il simbolo dell'Uroborus, si era
mosso, guadagnando il centro dell'oggetto. Della fenice color corallo
che l'occupava in precedenza non c'era più traccia.
«Si sta solo ricaricando» affermò con
infantile
ostinazione Sigebert guardando la maestra, inconsciamente in cerca di
rassicurazioni. «Come ha fatto la Chiave del Tempo usata da
Aulo».
Merlino scosse la testa e Xeno spiegò con voce pacata.
«Niente affatto. Quella Chiave è danneggiata. Come
la
Chiave usata da Cormiac. Non potrà essere riutilizzata.
Quella
di Cliodna si sta ricaricando. Se la osservi noterai la
differenza».
Cliodna guardò istintivamente la Chiave, studiando sorpresa
la
figuretta alata che stava comparendo tra le alte fiamme d'argento che
occupavano il centro del medaglione. Il serpente non si era mosso e
continuava indisturbato ad occupare il bordo della Chiave.
Sigebert allungò una mano per prendere l'oggetto dal collo
della
strega, ma Merlino gli imprigionò il polso: «Non
ci
pensare nemmeno, ragazzino. Non osare neppure avvicinarti a
Cliodna».
Sigebert arretrò di un passo, intimorito. Poi, senza
parlare,
strinse la propria Chiave tra le dita, guardò Cliodna con
occhi
colmi di delusione e di rammarico e si Smaterializzò.
Sarebbe tornato. Cliodna non aveva dubbi in proposito.
La protezione che Merlino aveva offerto ai Babbani lo ossessionava
troppo. E per la prima volta Cliodna capì perché.
Sigebert non temeva soltanto quello che Merlino era.
Sigebert temeva soprattutto quello che Merlino rappresentava.
Merlino e il suo talento magico assolutamente fuori dal comune.
Merlino, nato da genitori Babbani, cresciuto tra i Babbani e capace di
sconfiggere con facilità un mago Purosangue, un Rettilofono.
Merlino, che era in grado di richiamare un esercito di rapaci.
Merlino che si era prefisso come scopo principale della vita di
proteggere i Babbani. E di migliorare le loro esistenze.
Merlino che, in sintesi, minacciava di fare crollare con la sua
semplice esistenza tutte le convinzioni a cui si aggrappava Sigebert,
dimostrando che i maghi Purosangue non erano superiori ai Babbani,
anzi: il più talentuoso dei maghi era proprio un nato
Babbano.
Oh, sì. L'orgoglioso, l'ambizioso Sigebert sarebbe tornato.
Cliodna non aveva dubbi. Quelle Chiavi del Tempo rappresentavano una
tentazione troppo grande.
E lei era troppo vecchia per proteggerle, ormai.
Guardò Merlino, apparentemente calmo e rilassato, ma Cliodna
sapeva che non lo era affatto.
Sorrise notando che il mago stava tormentandosi la manica della tunica
- chiaro segno che era a dir poco furioso - e prese la sua decisione.
Era giunto il momento di passare il testimone.
Come aveva fatto Cormiac, prima di lei. E Aulo. E numerosi altri maghi
e streghe. Era giunto il momento di nominare un nuovo Custode delle
Chiavi del Tempo.
Fortunatamente, aveva il candidato ideale.
«Sì, Cliodna. I tempi sono maturi» la
voce profonda
e ipnotica di Xeno le accarezzò le orecchie. «Le
stelle
annunciavano il cambiamento. Lui le custodirà con
saggezza».
Cliodna guardò sorpresa il centauro che le dedicò
uno dei suoi enigmatici sorrisi.
«Credi che abbia affrontato piume, pergamene e, soprattutto,
un
gufo bisbetico solo per farlo giocare alla guerra magica con il piccolo
incantatore di serpenti, Cliodna?» chiese Xeno mostrandole il
dito offeso. «No davvero. Era scritto tra le stelle. E le
stelle
non mentono mai».
Cliodna concordò. «Forse questa volta le tue
stelle hanno visto giusto, Xeno. Se puoi...»
Il centauro chinò il capo e si addentrò nella
foresta, il
suo manto argenteo illuminato dalla luna, si scorgeva con chiarezza tra
gli alberi.
Merlino lo osservò sorpreso. «Dove va
Xeno?»
«A recuperare lo scrigno delle Chiavi, Merlino. Prima di
raggiungere Sigebert gliele ho affidate, per sicurezza».
Merlino la guardò con una tenerezza che la commosse e
mormorò, incerto: «Io non so bene come dirtelo
Cliodna.
Ricordo ancora la volta in cui, per punizione, mi hai Trasfigurato in
uno scarabeo e, in tutta franchezza, preferirei non ripetere
l'esperienza».
Cliodna sorrise. «Lo scarabeo è una nobile
creatura,
Merlino. Per i maghi Egizi è sacro, lo sai. Ora,
però, ho
chiuso con gli scarabei. Mi sto specializzando in Vermicoli di
un'incantevole tinta giallo zafferano».
Merlino inarcò un sopracciglio ma, evidentemente,
preferì non indagare oltre sulla nuova passione della sua
maestra. «Ma essendo fondamentalmente molto coraggioso - o
molto stupido, non c'è una grossa differenza, credo - te
lo dirò lo stesso: sono convinto che Sigebert
tornerà a
cercare le Chiavi. Ora, io so che tu sei una strega formidabile,
Cliodna, ma... ecco, perché non lasci per un po' le Chiavi
nelle
mani di Xeno?»
«Come siamo diventati saggi, Merlino. Evidentemente la
Trasfigurazione in scarabeo ti ha fatto bene».
«Evidentemente».
«Ma non lascerò le Chiavi a Xeno. Ho in mente un
altro
Custode. Xeno fa già la sua parte con le Chiavi».
«Infatti» approvò il centauro che,
giunto silenzioso
dalla foresta, avanzò fino a raggiungere i due maghi e porse
un
piccolo scrigno di legno scuro alla strega.
Cliodna lo prese e lo passò, senza esitare, a Merlino.
Il mago la guardò, stralunato.
«Per le trecce di Cormiac, Merlino! Sono piuttosto sicura che
tua
madre ti abbia insegnato a prendere gli oggetti pesanti che gravano
sulle deboli braccia di una vecchia, fragile signora».
L'uomo si riscosse. «A parte che di vecchie, fragili signore
qui attorno non ce ne sono... ma, le vuoi dare a me?»
«E a chi altri, Merlino? Sei tu il più
adatto».
«Ma...»
«Ragazzino, stai per caso insinuando che non ti fidi della
mia
capacità di giudizio?» esclamò Cliodna
con la sua
voce da severa maestra, inalberando il cipiglio che aveva ridotto alla
più totale obbedienza tutti i discepoli che aveva avuto
nella
sua lunga vita.
Non riuscì a impedirsi di ridacchiare quando vide Merlino
abbassare lo sguardo, mortificato, come se fosse ancora il ragazzino di
dodici anni che aveva fatto diventare giallo a pois viola il maiale
della vicina. Il che avrebbe potuto, forse, passare inosservato... o,
per lo meno, più inosservato delle alucce turchesi e piumate
che
erano spuntate sulla schiena della bestiola.
Intenerita, la donna lo costrinse a sollevare il capo e gli
scostò i capelli dal viso con una carezza: «Be',
ti
assicuro che so quello che faccio».
Merlino accettò lo scrigno e sospirò.
«Non ne
dubito» sorrise, un lampo malandrino negli occhi verdi.
«Dimmi solo che questa idea non ti è venuta in
sogno, ti
prego».
Cliodna si sollevò in punta dei piedi e gli diede un
colpetto
sulla testa. «Impertinente! Guarda, giovanotto, che sei
ancora in
tempo per dedicarti all'allevamento dei draghi, sai?»
«Uhm, no, lo escluderei. Sono troppo impegnato a tentare di,
usando le parole di Sigebert, elevare i Babbani al nostro rango.
Seriamente, Cliodna, ho deciso di fondare una Associazione che protegga
i Babbani dai fanatici come Sigebert. Alcuni maghi hanno già
aderito» sorrise orgoglioso. «Dobbiamo solo trovare
un nome
adatto».
Cliodna non ebbe dubbi: «Dove sta la difficoltà?
Si chiamerà: Ordine
di Merlino, naturalmente!».
Il mago sorrise un po' imbarazzato: «Lo hanno proposto anche
i miei compagni, in effetti...»
«Un gruppo di maghi che proteggerà i Babbani...
quindi ora
avrai più tempo per il tuo altro progetto,
Merlino»
considerò pensoso Xeno, sorprendendo non poco Cliodna. Ma
del
resto il centauro aveva sempre avuto una spiccata simpatia per Merlino.
Quando era ragazzino, il suo discepolo prediletto stava ad ascoltare
per
ore il centauro che gli indicava paziente le costellazioni, rivelando i
loro segreti più nascosti.
«Oh, giusto. Il mio altro progetto» Merlino
scoccò
un'occhiata distratta alla volta celeste. «A tal proposito,
devo
proprio andare. Il mio protetto mi aspetta per l'alba».
«Il tuo protetto, Merlino? Ti sei deciso finalmente a
prendere un
discepolo? Bada che non tutti sono come Sigebert. Che comunque mi ha
dato grosse soddisfazioni».
Merlino scosse la testa, esasperato. «Immagino,
sì,
Cliodna. Ma no, non ho esattamente preso un discepolo. Ho un protetto
Babbano».
«Un re Babbano, per la precisione»
informò il centauro.
«Un re?»
«Sì» ammise Merlino un po' imbarazzato.
«Il
giovane e promettente re di uno degli innumerevoli reami in cui
è divisa questa rissosa terra. Penso che potremmo riuscire,
con
un po' di buona volontà, a convincere qualche re dei
suddetti
reami ad allearsi con noi, in modo di difendere la nostra terra dai
numerosi invasori. Tranquilla, Cliodna, niente Magia. Solo politica:
Uther condivide le mie idee, pare».
Cliodna annuì. Quel nome non le diceva nulla ma, ammise
colpevole, non si era mai interessata particolarmente alle questioni
dei Babbani. «Uther?»
Merlino si avvolse nel mantello e, prima di smaterializzarsi
precisò: «Uther Pendragon».
Cliodna osservò per qualche istante il punto in cui Merlino
era scomparso e ripetè: «Pendragon*?»
Xeno ridacchiò, mormorando: «Già. Forse
non sei
così disastrosa come veggente, Cliodna»
alzò gli
occhi scrutando la volta stellata e disse, con la sua voce ipnotica e
distaccata. «Non sarà Uther a portare all'unione
di reami
che Merlino auspica. Ma colui che lo farà verrà
da Uther.
Merlino, Cliodna, si occuperà davvero di un cucciolo di
Drago. E
ne farà il Re dei Draghi di Britannia!»
«Oh, ne sono felice, Xeno. Così finalmente la
smetterà di prendermi in giro per i miei sogni...»
*
* *
A poche miglia di distanza, un ragazzo pallido e sottile se ne stava
ritto sulla scogliera, sfidando il vento impetuoso che minacciava
costantemente di strappargli il mantello. Reggeva saldamente tra le
mani un grosso medaglione, osservandolo con intensità.
All'improvviso estrasse la bacchetta magica e recitò,
caparbio,
il complesso incantesimo che azionava la Chiave del Tempo.
Non successe nulla. Il serpente non tornò al suo posto; il
suo
corpo scuro non si sollevò, e la fenice non ricomparve.
Con un moto di stizza il ragazzo strinse il medaglione nel pugno,
intenzionato a scagliarlo tra le onde che increspavano il mare.
Ma ci ripensò, aprì la mano e notò che
il pesante medaglione si era aperto.
Somigliava a quei monili in cui le fanciulle romantiche conservavano
ciocche di capelli dell'amato, e quelle più prosaiche veleni
potenzialmente letali...
Era un bell'oggetto, tutto sommato. Il serpente che lo decorava formava
una sinuosa esse proprio al centro. Sembrava vero. E al ragazzo
piacevano i serpenti.
Si guardò attorno e cominciò a intonare una
strana
melodia. Supponeva che a tutti gli altri sembrasse solo un sibilo
sgraziato.
Be', non lo era. Era un linguaggio ricco ed espressivo: il linguaggio
dei serpenti.
Quando alcuni rettili gli si avvicinarono, attratti da quel richiamo
suadente, il ragazzo mise il medaglione al collo e proclamò,
solenne, usando la lingua dei serpenti: «Io
continuerò la
mia battaglia. Farò di tutto perché i miei simili
si
rendano conto della minaccia che i Babbani rappresentano per la stirpe
dei maghi. E farò in modo che, se io dovessi fallire, i miei
eredi proseguano questa missione. Parola di Sigebert
Serpeverde!».
Pendragon * =
il sogno popolato di draghi di Cliodna merita una
spiegazione, credo. Pendragon, il cognome di re Uther e di suo figlio
Arthur (meglio noto come Artù e non ho mai capito
perché) significa, a seconda delle traduzioni (e/o delle
tradizioni): Testa di Drago o Capo dei Draghi o, ancora, Figlio del
Drago. Insomma, la nostra Cliodna non è poi così
male come veggente! Merlino farebbe meglio a fidarsi un po' di
più dei sogni della sua saggia Maestra. ^^
Ed
eccoci alla seconda tappa del viaggio.
Tappa che, con un
notevole balzo, ci trasporta nella Britannia del V secolo Dopo Cristo.
Rivelandoci qualche cosa
in più sulle Chiavi del Tempo e presentandoci il "fondatore"
di una Casata che avrà
un certo peso nella storia di Harry Potter.
Per scrivere questo
capitolo ho potuto, con mia immensa gioia, attingere a informazioni
dateci da J.K. Rowling.
Cliodna, la nostra
fragile strega non più giovane e un po' in
declino (lei per lo meno si vede così. Solo lei, pare... ma
chi
siamo noi per contraddirla? Non sarebbe educato, suvvia... e poi a
qualcuno piacerebbe essere Trasfigurato in uno scarabeo o in un
Vermicolo di un delizioso giallo zafferano? Io ne farei volentieri a
meno, onestamente) ha avuto l'indubbio onore di essere stata
immortalata su una figurina delle Cioccorane. Cliodna la Druida,
è il suo
nome per esteso. Ed è presentata come una strega irlandese
capace di Trasfigurarsi in uccello (non è specificato
quale, così ho scelto un falco, mi pareva appropriato).
Merlino... be', non
ha bisogno di presentazioni, lui. Comunque condivide con Cliodna
l'onore di essere stato immortalato su una figurina delle Cioccorane
(Silente ha ragione: tutti i
migliori compaiono su quelle figurine). Vi confesserò che ho
avuto grossi dubbi circa il coinvolgerlo nella mia storia. Voglio dire:
è Merlino! Avevo il terrore di snaturarlo o maltrattarlo
troppo... poi mi sono imbattuta in una puntata del telefilm... e ho
deciso che snaturarlo di più sarebbe stato impossibile,
quindi... ;) (Non mi fraintendano i fan del telefilm. E' carino, ben
fatto e ben recitato ma... insomma, sarebbe un po' come se un giorno
girassero un telefilm su Harry Potter e facessero Silente suo
coetaneo). Spero quindi che la mia versione di Merlino (ebbene
sì, l'ho immaginato nato Babbano: adoro l'idea che il
più grande mago mai esistito fosse nato da genitori Babbani
^^) non offenda troppo i suoi estimatori e che, eventualmente, mi si
perdoni una libera e disinvolta rilettura del personaggio. Ma, tra le
altre cose, mi piaceva troppo l'idea di mostrare le origini del
famoso "Ordine di Merlino"!
^^
Sigebert Serpeverde
e Xeno il centauro
sono invece personaggi totalmente inventati dalla sottoscritta.
E, a tal proposito: anche
l'inserimento del giovane Serpeverde è frutto di una scelta
tormentata... ma alla fine ho deciso di far cedere anche lui
al fascino delle Chiavi del Tempo.
Mi pareva carino riuscire
in un
colpo solo a mostrare la nascita di un gruppo di maghi decisi a
proteggere i Babbani e l'evoluzione (e le motivazioni) di uno di quelli
da cui devono essere protetti. I due lati della stessa medaglia,
insomma...
In ultimo: Grazie a tutti
coloro che hanno letto il Prologo -
è bellissimo ritornare qui dopo eoni e ritrovare il mio
meraviglioso Esercito dei Silenti - a quelli che lo hanno commentato -
fa sempre piacere quando qualcuno entra nella fila dell'Esercito dei
poco Silenti - e a quelli che hanno già inserito la storia
tra
le seguite e - audaci e fiduciosi come non mai - tra le ricordate o
addirittura tra le
preferite!
|
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Capitolo 3 *** Il discepolo inesistente ***
Capitolo Secondo
Il
discepolo inesistente
Regno di Scozia, 13
settembre 999 A.D.
Il
giovane mago si rassettò nervoso la tunica di un profondo
blu
notte e osservò il pesante medaglione d'oro che stringeva
tra le
mani: era grosso come un uovo di gallina, tondeggiante, decorato da
figure - miniate con colori brillanti - talmente vivide da risultare
inquietanti.
Sfiorò,
suo malgrado affascinato, il corpo scuro del serpente che si snodava,
sinuoso, lungo l'intero bordo dell'oggetto, la testa che mordeva la
coda, nella perfetta riproduzione di un Uroborus. Al centro
del monile,
una fenice color corallo sorgeva maestosa da sfolgoranti fiamme
d'argento.
Un oggetto interessante, indubbiamente. E molto meno innocuo di quanto
potesse sembrare a prima vista.
«Caro, se non te la senti...»
Il ragazzo sollevò lo sguardo. Una strega bionda e
rotondetta lo
guardava con occhi colmi di preoccupazione, tormentandosi le ampie
maniche della lunga veste color ocra.
Augurandosi di mostrare una sicurezza che era ben lungi dal provare, il
giovane abbozzò un sorriso e rispose: «Certo che
me la
sento, Maestra Tassorosso».
La donna annuì, non troppo convinta.
Una strega bruna,
alta e sottile, avvolta in una veste dello stesso colore di quella del
ragazzo, alzò gli occhi dall'antica pergamena che
teneva tra le mani e li posò su di lui, sorridendogli
orgogliosa.
Orgoglio molto mal riposto, pensò amaro il ragazzo.
Era stato davvero un perfetto idiota a fidarsi del cugino.
Lo conosceva, per Merlino! Come gli era venuto in mente di condividere
con lui la sua meravigliosa scoperta!
Si tolse rabbioso i capelli neri dagli occhi - ripetendosi, per
l'ennesima volta, che l'intelligenza di cui andava tanto fiero doveva
essere solo un'illusione - e, tentando disperatamente di non tremare,
sfoderò la bacchetta.
«Ragazzo, se proprio devi farlo datti una mossa».
Una voce indolente e sarcastica infranse la sua già precaria
concentrazione. Ma il giovane non sollevò lo sguardo, questa
volta.
Continuò a fissare ostinato l'oggetto, cercando di
concentrarsi
sulle parole aliene, dalle sonorità per lui inusuali,
dell'antico e complesso incantesimo che si era sforzato di memorizzare.
Il proprietario dell'indolente voce sarcastica non desistette,
però. Si scostò con fluida eleganza dal muro di
pietra a cui era appoggiato e si avvicinò al ragazzo.
«Secondo me non dovresti farlo» sussurrò
suadente,
con quella voce che sapeva essere avvolgente come acqua.
«Sprecare così un oggetto di simile
potere...»
Il giovane mago alzò di scatto la testa, sorpreso.
Non poteva dire sul serio.
Un oggetto, per quanto straordinario, non poteva avere più
valore di quello che, grazie alla sua stupidità, il mondo
rischiava di perdere.
Guardò di sottecchi il mago scarno che si accarezzava
assorto la
corta, curata barba scura e, scorgendo il lampo di assoluta bramosia
che gli attraversò gli occhi neri e freddi come ossidiana,
strinse più saldamente il medaglione tra le mani.
«Per la spada di Merlino!» tuonò un alto
mago dalla
chioma fulva e arruffata - curiosamente simile alla criniera del
leone rampante ricamato in oro sulla sua tunica rosso cupo -
attraversando la stanza con quattro atletiche falcate e afferrando per
la veste verde foresta l'ossuto collega.
«Sprecare, Salazar?» chiese incredulo, posando
minaccioso
la mano libera sull'elsa della splendida spada che, con indubbia
originalità per un mago, si ostinava a portare al fianco.
«Un discepolo - un tuo
discepolo, per la precisione -
ha avuto la brillante idea di azionare il gemello di quell'oggetto che
fissi, con imbarazzante bramosia, da quando Cosetta lo ha mostrato al
ragazzo. E tu sai cos'è quell'oggetto. Mi sembra
più che
opportuno tentare di recuperare questo tuo discepolo! Non fosse altro
che per il piacere di fargli passare la voglia di gingillarsi con cose
che non conosce. Fosse un mio
discepolo io lo...»
«Godric!» lo interruppe la dolce Tassorosso,
sfoggiando
quel particolare tono di voce che sapeva ridurre al silenzio orde di
discepoli indisciplinati. Funzionò anche con l'ardente
Maestro
Grifondoro.
«Tu cosa?»
chiese quindi la strega guardandolo severa.
Godric la scrutò per un istante, pensoso, socchiuse gli
occhi
respirando profondamente e, lanciando uno sguardo torvo a Salazar,
mormorò: «Io avrei già strappato di
mano il
medaglione al ragazzino, qui, e avrei raggiunto quel...»
«Godric!»
esclamò Tassorosso, fissando minacciosa il
mago che la sovrastava di tutta la testa e assestandogli un colpetto
deciso sul braccio. «Non davanti ai discepoli!»
Il mago sbuffò, guardando in tralice il ragazzo che
stringeva
con ancora più energia il monile e concluse:
«Dicevo: e
avrei raggiunto quel poco accorto giovinetto, riportandolo qui.
Perché pensi sempre male di me, Tosca?» concluse,
chinando
cavalleresco il capo e sfiorando, galante, la mano della strega bionda
con le labbra.
«E, così facendo, saresti impazzito
definitivamente,
Godric» constatò la strega bruna - ancora intenta
a
leggere la pergamena - con la tranquillità di chi afferma
una
certezza assoluta e comprovata.
«Definitivamente?»
chiese l'interessato.
«Definitivamente»
ribadì la strega, sollevando gli
occhi dalla pergamena per degnare il mago di uno sguardo distratto.
«Sei già sulla buona strada, secondo me... ma
raggiungere
il cugino di Al...» indicò il ragazzo che ancora
reggeva
il monile. «Ti avrebbe dato il colpo di grazia, mio caro. Ti
ho
spiegato cosa succede a chi, andando nel passato, incontra se
stesso».
Godric si avvicinò al tavolo sbirciando la pergamena che
tanto
assorbiva la strega bruna e, dopo un istante, chiese:
«Cosetta, se
tu avessi la buona grazia di spiegare anche a noi cosa nasconde di
tanto interessante questa vecchia pergamena ammuffita...»
«Sto decifrando. Non è facile. Queste rune
sembrano tracciate da te, Godric».
«Ehi!»
«Ma, proprio grazie all'allenamento fornitomi dai tuoi
scarabocchi, ho capito. Il mio brillante discepolo ha scovato un'antica
pergamena che parla di una Chiave del Tempo, scritta niente meno che da
Aulo Valerio Corvino» affermò indicando la firma
in calce
allo scritto. «Quindi, il tuo brillante discepolo, Salazar,
ha
pensato bene di appropriarsi di una Chiave del Tempo e di provare ad
azionarla» assottigliò gli occhi, sospettosa.
«Resta
da scoprire come abbia fatto ad impossessarsene, però, visto
e
considerato che solo voi tre sapevate che il Custode della Chiavi sono
io...»
Salazar sogghignò. «Il ragazzo è un
discreto
Legilimante. E voi tre siete abbastanza scarsi in Occlumanzia, ve l'ho
sempre detto».
La strega bruna lo fulminò con lo sguardo. «Solo
un folle insegnerebbe la Legilimanzia a un fanciullo».
Salazar si strinse nelle spalle e sorrise. «Ognuno di noi
insegna
cose folli ai suoi discepoli più promettenti, Cosetta. Tu
per
prima».
Non aveva tutti i torti, convenne il ragazzo vestito di blu.
Probabilmente Maestro Serpeverde non era a conoscenza di quante cose
folli la donna avesse insegnato a lui.
Non aveva importanza, comunque. Non era l'abilità di suo
cugino in Legilimanzia il vero problema.
Suo cugino non avrebbe mai pensato di appropriarsi di una Chiave del
Tempo. Suo cugino non sapeva neppure cosa fossero le Chiavi del Tempo!
E non lo avrebbe mai saputo se lui non gli avesse mostrato quell'antica
pergamena.
Maledicendo la propria stupidità, il ragazzo strinse la
Chiave e affermò: «Io sono pronto,
Maestra».
Cosetta Corvonero distolse gli occhi dai colleghi e annuì.
«Sì, abbiamo già perso troppo
tempo».
Il giovane, dopo essersi accertato di avere ben chiuso il fermaglio
della catena a cui era fissata la Chiave, puntò la bacchetta
contro l'oggetto e declamò con chiarezza il complesso
incantesimo insegnatogli da Maestra Corvonero: una versione un poco
diversa da quella che era riportata dalla pergamena di Aulo.
Lui non doveva limitarsi a tornare nel passato.
Lui doveva rintracciare un viaggiatore del Tempo. E impedirgli di fare
qualcosa, probabilmente.
La Chiave vibrò, accendendosi di bagliori dorati, quindi si
librò strattonando energica il ragazzo che, a un cenno di
assenso di Cosetta Corvonero, si lasciò guidare docilmente,
seguito dai quattro maghi adulti.
Sentendosi vagamente idiota, si lasciò trascinare dalla
Chiave
per corridoi e scale, uscì nel parco e s'inoltrò
nella
fitta foresta che circondava il Castello.
I raggi del sole di quella luminosa giornata di fine estate filtravano
appena tra i rami intricati degli alberi.
La Chiave riluceva di bagliori misteriosi nella morbida penombra della
foresta e il giovane mago proseguì cauto, soggiogato dalla
Magia, potente e sconosciuta, emanata da quell'oggetto che aveva sempre
ritenuto leggenda.
All'improvviso, giunti in una piccola radura, la Chiave
cominciò
a lampeggiare velocemente, il corpo sinuoso del serpente si
sollevò e ruotò lento in senso antiorario.
Per undici volte.
Poi si bloccò e la fenice si mise a pulsare.
«Ora, Al!» incitò
Cosetta.
Il ragazzo annuì, prese un profondo respiro e
sfiorò la fenice.
Sbatté le palpebre sorpreso, quando la creatura
svanì dal medaglione, lasciandovi solo alte fiamme d'argento.
Si guardò attorno, teso, osservando affascinato il grosso
cerchio comparso ai suoi piedi, trasalendo quando, tra bagliori di
corallo, l'immagine di una fenice apparve al centro spiegando superba
le ali fiammeggianti.
Un Portale del Tempo.
Il suo
Portale del Tempo, per la precisione.
Chiuse gli occhi e, prima di perdere il coraggio necessario,
entrò con un balzo nel cerchio pulsante, barcollando
visibilmente, ghermito da una forza improvvisa che sembrava
risucchiarlo. Il mondo attorno a lui cominciò a ruotare come
impazzito.
O, forse, era lui che ruotava come impazzito, realizzò,
frastornato da un fastidioso, persistente ronzio.
Aprì istintivamente gli occhi, richiudendoli subito,
abbagliato
da accecanti lampi policromi che accendevano l'aria odorosa
di ozono come prima dello scatenarsi di un temporale.
I Quattro Fondatori osservarono immobili la scena, trasalendo
quando il ragazzo e il cerchio svanirono davanti ai loro occhi.
«Avrei dovuto andarci io!» ruggì
Grifondoro.
Corvonero scosse il capo, coprendogli la mano che stringeva l'elsa
della spada con la sua. «No, nessuno di noi quattro poteva
farlo,
Godric. Sicuramente questa cosa riguarda noi nel passato. E undici anni
fa non ero ancora diventata Custode delle Chiavi, tutti noi pensavamo
fossero solo una leggenda. Saremmo impazziti vedendoci comparire
davanti una versione più vecchia di noi stessi».
«Undici anni» sussurrò Tassorosso,
fissando
meditabonda il punto dove, fino a qualche istante prima, si trovava il
Portale del Tempo. «Cosa è successo di
così
importante per quel ragazzo esattamente undici anni fa?»
«Hogwarts era stato fondato già da qualche
anno»
rammentò Grifondoro, pensoso. «E' stato in quel
periodo
che abbiamo accolto nella foresta il branco di centauri di
Iskander?»
«Sì, Iskander e i suoi amichetti zoccoluti si sono
sistemati nella foresta proprio in quel periodo»
confermò
Serpeverde, una sfumatura indecifrabile nella voce. «Ma,
esattamente undici anni fa abbiamo - o, per meglio dire, avete -
deciso di accogliere un altro branco, ben più numeroso di
quello
di Iskander, e che, purtroppo, non si è stabilito nella
foresta.
Esattamente undici anni fa voi tre avete deciso, a maggioranza, di
aprire il portone di Hogwarts anche ai nati Babbani... sguinzagliando
osservatori in tutte le lande più sperdute per
rintracciarli,
tra l'altro».
Regno di Scozia, 13 Settembre 988 A.D.
Il giovane mago aprì gli occhi e si guardò
attorno, stordito.
I raggi dorati del sole filtravano a fatica dall'intrico di rami che lo
sovrastava, illuminando debolmente l'immagine della fenice su cui era
disteso.
Si alzò in piedi un po' barcollante e uscì dal
cerchio tracciato attorno alla figura.
Sette ore.
Maestra Corvonero era stata chiara, in proposito.
Aveva solo sette ore per rintracciare il cugino e impedirgli di fare
quello che desiderava fare. Qualunque cosa fosse.
Sperava di non essere arrivato troppo tardi: il cugino si trovava in
quel luogo - e in quel tempo - da qualche ora, ormai.
Al aveva dovuto convincere la sua Maestra a controllare lo scrigno
delle Chiavi, prima di poterlo seguire.
Impresa non facile. La strega era stata molto sorpresa dalla sua
richiesta e aveva acconsentito solo dopo avere avuto tra le mani
l'antica pergamena affidata ad Al da un giovane novizio incontrato in
un monastero Babbano.
Al adorava visitare i monasteri Babbani.
Al adorava tutto ciò che profumava di sapere e di arte, e i
monasteri Babbani erano saturi di sapere e di arte.
Quel giovane, amabile novizio grassoccio era parso particolarmente
desideroso di donargli la pergamena; risaliva a un'epoca pagana -
era persino scritta con caratteri runici - e, di conseguenza, i
religiosi erano decisi a distruggerla.
Era strano quel giovane novizio, in effetti. Molto strano, ora che ci
pensava.
Merlino! La pergamena gli era comparsa tra le mani come se l'avesse
Evocata! Al non ci aveva fatto caso al momento, per lui era una cosa
normale ma... i Babbani non potevano Evocare gli oggetti!
L'urlo stridente di un uccello rapace - un falco, probabilmente - lo
riscosse.
Tempo. Aveva poco tempo. Lo stravagante novizio poteva aspettare, la
sua missione no.
Si sincerò che la Chiave fosse ben assicurata al suo collo,
si
guardò attorno per orientarsi e, rassicurato dal sommesso
ronzio
dell'oggetto - segno che il cugino si trovava nei paraggi -
s'incamminò deciso verso il Castello.
Giunto al limitare della foresta si fermò un istante,
studiando
la turrita sagoma di Hogwarts che si stagliava, superba, contro il
cielo limpido: era un po' diversa da come la ricordava. Era...
incompleta.
Al non riuscì a impedirsi di sorridere quando scorse una
versione più giovane, ma altrettanto arruffata, di Godric
Grifondoro che, roteando con abilità sopraffina la sua
rilucente
spada argentata, intratteneva un gruppo di estasiati discepoli vestiti
di rosso cupo.
Poco oltre, una manciata di ragazzini con tuniche color ocra osservava
lo spettacolo, fingendo, nel frattempo, di ascoltare Tosca Tassorosso
che, indicando un lussureggiante Cespuglio Farfallino, parlava
animatamente.
«Ops. Scusa, ragazzo».
Al trasalì quando un ometto panciuto lo colpì con
una grosse otre di pelle altrettanto panciuta.
«Idromele speciale per Dama Tassorosso. Di mia
produzione»
spiegò compiaciuto l'uomo, dopo essersi accertato che l'otre
fosse ben chiusa. «Gran donna, Dama Tassorosso. Ha accettato
di
istruire il mio ragazzo. Fa accadere cose strane, il mio ragazzo.
Nessuno nella mia famiglia ha mai fatto accadere cose strane, solo
lui» abbassò la voce. «La gente
cominciava a
guardarlo storto. Una volta, per esempio, ha fatto spuntare due
orecchie da asino al figlio di quella bisbetica di Lucy. A me
è
parso appropriato, sì. Il resto del villaggio non era
d'accordo,
però. Ma, da quando Dama Tassorosso lo ha accolto tra i suoi
discepoli, il mio ragazzo ha imparato a controllarsi, fa ancora cose
strane, ma solo quando serve. Questa estate ha liberato i granai dai
topi semplicemente agitando quel suo legnetto. I vicini lo adorano,
ora, il mio ragazzo. Persino quella bisbetica di Lucy»
concluse
orgoglioso l'uomo, sorridendogli amabile.
Al ricambiò il sorriso, felice per quell'uomo e per il
figlio.
Era fermamente convinto che insegnare a controllare la Magia ai nati
Babbani non era solo auspicabile, ma indispensabile: un mago adulto
incapace di controllare i propri poteri poteva essere molto pericoloso,
per se stesso e per l'intera comunità. Non era un caso che,
in
genere, i Babbani non impazzissero per i maghi. Al poteva anche
capirlo, insomma, non doveva essere piacevole ritrovarsi un figlio
dotato di orecchie da asino...
Assorto nei propri pensieri, il ragazzo non prestò troppa
attenzione al discepolo vestito di verde che, immerso nella lettura di
una pergamena, si scontrò con l'ometto e la sua otre di
idromele, né all'improvviso ronzio della Chiave del Tempo.
L'uomo rovinò a terra ma l'otre rimase sospesa, fluttuando
sopra
la sua testa grazie a un provvidenziale colpo di bacchetta del giovane
in verde che, arrotolata la pergamena, si scusò cortese
aiutando
l'uomo ad alzarsi. Quindi afferrò l'otre fluttuante e, dopo
avere trafficato un po' con il tappo, la porse all'omino assicurando
che era intatta.
L'uomo ringraziò e, dopo essersi congedato dai due giovani
maghi, si avviò verso Maestra Tassorosso reggendo cauto la
sua
otre panciuta.
Il giovane sconosciuto si abbassò il cappuccio e Al
sospirò
sollevato: il giovane sconosciuto non era affatto sconosciuto.
La prima parte
della sua missione poteva dirsi conclusa.
«Buonasera, cugino» sogghignò il ragazzo
con la
tunica verde, scostandosi i sottili capelli di un biondo chiarissimo
dal viso. «Ti stavo aspettando, sapevo che mi avresti
seguito. Ma
sei arrivato troppo tardi, mi sa».
Al corrugò la fronte, guardandosi attorno allibito: non
c'era nulla di strano, a quanto poteva notare.
Osservò, quindi, con più attenzione il cugino e
notò che teneva nella mano destra una minuscola ampolla
d'argento.
Non poteva avere...
Afferrò l'ampollina e annusò frenetico.
«Tu! Tu hai messo...»
«Belladonna, cugino. So che esistono veleni più
rapidi ed
efficaci, ma questo lo usano anche i Babbani e...» si
azzittì all'improvviso, sbarrando gli occhi incredulo, o
forse
oltraggiato.
Al non si preoccupò di scoprire il perché,
però.
Gettò a terra l'ampollina e - ringraziando Maestra Corvonero
e
la sua propensione a impartire insegnamenti poco ortodossi ai discepoli
più dotati - si Trasfigurò in un grosso gatto
nero,
lanciandosi all'inseguimento dell'omino che caracollava lento sotto il
peso dell'otre panciuta.
Raggiuntolo - proprio mentre era in procinto di porgere il suo dono a
Maestra Tassorosso - emise un basso miagolio di avvertimento e
balzò sull'otre, lacerandola con gli artigli affilati.
L'uomo gridò rabbioso, guardando impotente l'idromele dorato
riversarsi sulle pietre grige che lastricavano il cortile, mentre la
strega, sorridendo divertita, placcò l'indisciplinato felino.
«Dannate bestiacce! Non ho mai sopportato i gatti neri, sono
malvagi. Demoniaci» mugugnò l'amabile ometto,
esternando
coloriti improperi che consistevano, per lo più, in
fantasiosi
metodi di cottura atti a creare squisiti manicaretti a base di tenera
carne di felino.
«Suvvia, mio buon William, è solo un micetto
vivace. Non
vorrete cominciare a credere alle stupide dicerie che vengono messe in
giro da ignoranti superstiziosi, vero?» chiese Tosca,
sollevando
interrogativa un sopracciglio.
L'ometto arrossì, imbarazzato, e farfugliò
qualcosa di incomprensibile.
Godric Grifondoro, attirato dai coloriti improperi dell'uomo,
abbandonò gli esercizi con la spada e si avvicinò
alla
collega, guardando dispiaciuto la pozzanghera d'idromele. Poi
afferrò il gatto per la collottola e lo studiò
attentamente. «Il nostro amico peloso, qui, è
dotato di un
gusto particolarmente raffinato in fatto di bevande»
spostò lo sguardo sull'otre lacerata e fischiò
ammirato.
«E di ottime lame,
direi».
Tosca sorrise, accarezzando con dolcezza il musetto vellutato del gatto
poi, ripulito con un esperto colpo di bacchetta l'idromele versato,
prese a braccetto l'uomo e propose conciliante: «William, se
rinunciate ai vostri ricchi manicaretti a base di gatto, vi
inviterò a condividere la cena con noi. Purtroppo non
potremo
bere il vostro squisito idromele... ma le pietanze saranno deliziose,
fidatevi».
Grifondoro e il micio guardarono i due allontanarsi, quindi il mago
osservò ironico: «William le troverà
deliziose,
sì... ma a Salazar andranno di traverso. Preferirebbe di
sicuro
mangiare te, pelliccia compresa, che condividere il pasto con un
Babbano, vuoi scommettere, gatto?»
Il gatto lo scrutò con i suoi vispi occhi grigi e,
arruffando il pelo, allungò una zampata soffiando minaccioso.
Grifondoro rise, lasciando andare l'animaletto: «Ottime lame
davvero, amico mio. Ottime lame». Poi, osservando il gatto
allontanarsi si strinse nelle spalle e richiamò i suoi
discepoli, tuonando allegro: «Va bene, ragazzi, l'esibizione
è finita. Filate a studiare nella vostra Sala Comune, ci
vediamo
a cena... ci sarà da divertirsi!»
Il gatto raggiunse il limitare della Foresta e, assicuratosi che dal
Castello nessuno potesse vederlo, riprese le sue sembianze abituali.
Quindi, massaggiandosi la nuca messa a dura prova dall'energica stretta
di Grifondoro, cercò con lo sguardo il cugino, sinceramente
sorpreso dal fatto che non lo avesse fermato in qualche modo: era
sempre stato bravissimo con gli Schiantesimi.
Quando lo scorse, capì.
Un superbo centauro dal manto bianco si frapponeva tra il cugino e il
Castello, puntando minaccioso contro il ragazzo un arco con tanto di
letale freccia incoccata.
Il cugino era immobile, la bacchetta magica giaceva ai suoi piedi.
Più pallido del solito fissava la creatura con occhi
sgranati,
colmi di sorpresa. E di rabbia.
Al si avvicinò un po' titubante. Sapeva che la foresta
che circondava Hogwarts era abitata da quelle fiere creature, ma
vederne una in carne e ossa era tutta un'altra storia...
Il centauro lo scrutò con distaccata curiosità,
scuotendo
pigro la folta coda candida. Quando i suoi strani occhi chiarissimi si
posarono sulla Chiave del Tempo di Al, abbassò l'arco e
sorrise
enigmatico.
«Un'anomalia temporale annullata da un'anomalia
temporale»
mormorò apparentemente divertito. «E'
già successo.
Con una modalità molto simile. Non un essere umano ha
sistemato
le cose. Ma un "animale". Anche allora».
Al annuì con compita educazione; non ci aveva capito nulla,
ad
essere sinceri - Maestra Corvonero sosteneva che, a volte, non
era facile comprendere i centauri - ma non gli pareva saggio
contrariare quella fiera creatura. Non che ne avesse paura, anzi: ne
era assolutamente affascinato.
Maestra Tassorosso diceva che i centauri non erano affatto cattivi. O
feroci. Volevano solo essere trattati con rispetto. Al lo trovava
giusto.
Quindi abbozzò un sorriso e chinò il capo.
«Patetico! Ora ti inchini anche a un animale! Sei la
vergogna
della famiglia» sibilò il cugino, fissando con
disprezzo
la tunica blu di Al. «Ma questo già si sapeva:
unico fra
tutti noi a non essere stato scelto da Serpeverde».
Al sospirò. Erano passati già sei anni da quando
era
stato scelto da Corvonero. La sua nobile e orgogliosa famiglia avrebbe
dovuto essersi rassegnata, ormai. «Artie...»
«Non
chiamarmi Artie! E' ridicolo e assolutamente privo di
dignità» sibilò il cugino, alterato.
«Come preferisci, Arcturus - nome che, personalmente, trovo
molto
più ridicolo di Artie, ma tant'è - sei venuto nel
passato
per avvelenare Maestra Tassorosso?»
Arcturus sbirciò il centauro che ancora incombeva su di lui
e,
accertatosi di non essere più sotto tiro dell'arco,
annuì.
Al scosse la testa, sconvolto. «Ma perché?
Perché
lei? Perché ora? Perché tornare indietro nel
tempo di
undici anni? Perché proprio
undici anni?»
Arcturus sogghignò irridente, chinandosi guardingo a
raccogliere
la propria bacchetta magica: «Perché,
Aldebaran...»
«Non
chiamarmi Aldebaran! E' un nome stupidissimo. Anche peggio di
Arcturus».
«E' il tuo nome: Aldebaran Black. Comunque, sono tornato
indietro
di undici anni perché, proprio questa sera, Grifondoro,
Tassorosso e Corvonero decideranno non solo di ammettere sporadicamente
qualche nato Babbano a Hogwarts, cosa che già fanno, ma di
cercarli appositamente e di portarli qui. E lo faranno proprio per
colpa di quel Babbano ciccione, così grato a Tassorosso
perché convinto che imparare a usare la Magia sia stata la
salvezza del figlio».
«E' la verità».
«E chi se ne importa! La conoscenza magica dovrebbe
appartenere solo ai maghi».
«Chiunque possiede poteri magici è un mago,
Arcturus. Non
importa da chi sia nato. Tua sorella è Purosangue, ma non
possiede alcun potere magico».
«Io non ho sorelle, Aldebaran, ti pregherei di
ricordarlo»
ribatté gelido Arcturus, gli occhi neri colmi di puro sdegno.
Al trattenne a stento la rabbia. Non era mai stato tanto tentato di
trasfigurare il cugino in qualcosa di appropriato: un Vermicolo, per
esempio. Spica, la sorella di Arcturus, era una ragazzina adorabile ma,
ovviamente, la fiera casata dei Black non sapeva che farsene di una
Magonò.
Respirò profondamente, cercando di trattenersi: un Vermicolo
non avrebbe potuto rispondere alle sue domande, purtroppo.
«Ma perché Maestra Tassorosso?» chiese
sinceramente
allibito. Davvero, non riusciva neppure a concepire che qualcuno
volesse fare del male alla gentile Tosca Tassorosso.
«Perché è stata, o sarà, a
seconda dei punti
di vista, proprio lei la più accanita sostenitrice della
causa.
Se fosse stata avvelenata da un Babbano - e sono sicuro che la tua
brillante Maestra Corvonero avrebbe scoperto subito che di
avvelenamento si
trattava - Serpeverde non sarebbe stato il solo ad opporsi
all'eventualità di accogliere sistematicamente i nati
Babbani ad
Hogwarts».
Al boccheggiò, disgustato, non sapendo come ribattere al
delirio
del cugino, poi notò che la Chiave del Tempo di Arcturus
lampeggiava freneticamente: al centro dell'oggetto si
cominciava già a scorgere una figura alata color
corallo. Non c'era più tempo.
«Dov'è il tuo Portale, Arcturus? La tua Chiave
lampeggia».
Il ragazzo alzò le spalle disinteressato e, scoccando
un'ultima
occhiata colma di rancore al centauro si incamminò verso il
Castello, urlando: «E allora? Che lampeggi. La mia missione
non
è conclusa! Ho ancora la possibilità di cambiare
la
storia. Il Babbano cenerà al Castello. E io ho altri
piani!»
Al non ne dubitava.
Conosceva il cugino.
«Lo so. E' il tempo che ti manca. Il tuo Portale sta per
richiudersi! I compagni di Cormiac...»
«Sciocchezze! Favole per spaventare i marmocchi creduloni
come
te, cuginetto! Non è mai esistito nessun compagno di
Cormiac.
Non c'è alcuna traccia dei compagni di Cormiac. Solo Cormiac
è esistito, e non poteva certo essere così stolto
da
mettere limiti a un simile oggetto di potere!»
Girandosi verso il cugino, Arcturus agitò il braccio: il
beffardo gesto di saluto di un giovane dio che si crede onnipotente.
Prima che potesse aggiungere altro, la Chiave smise di lampeggiare.
L'aria attorno ad Arcturus cominciò a tremolare, il ragazzo
sembrava rarefatto, avvolto in una coltre di nebbia sempre
più
fitta che aleggiava su di lui. Solo su di lui.
Al si sfregò gli occhi, poi guardò incredulo
Arcturus svanire. Letteralmente.
Si slanciò in avanti, impugnando la bacchetta e cercando un
incantesimo per fare riapparire il cugino. Doveva esserci un modo.
C'era sempre un modo.
Quando qualcosa di tiepido gli strinse una spalla, soffiò
come
aveva fatto in forma di gatto e tentò disperatamente di
liberarsi da quella morsa d'acciaio.
«Non c'è nulla che tu possa fare per lui, ormai.
E' perso. Perso nelle pieghe del Tempo».
Al si riscosse al suono di quella voce profonda e ipnotica.
«Ma...» farfugliò confuso.
«Quando un Portale si chiude, si chiude per sempre. Il tuo
amico
non lo ha attraversato in tempo. E' perso, ormai. Come i compagni di
Cormiac. No, non sono una favola: Caalum e Rhys sono esistiti, come
Arcturus. Ma, come Arcturus, si sono persi nel Tempo».
Al lo guardò frastornato, lanciando di tanto in tanto
sguardi verso il punto in cui era sparito il cugino.
«Ma lui dov'è, ora?»
Il centauro scosse il capo e si strinse nelle spalle. «Lui non
è. Semplicemente. E' come se non fosse mai
stato».
«No! Lui è stato! Io lo so che lui è
stato!»
«Certo. Perché tu c'eri. Eri qui. Sai del suo
Viaggio nel
Tempo. Ma per chi non sa... lui non è mai stato. Anche
Cormiac
ricordava i suoi compagni. Ma solo Cormiac. E Kyros, che sapeva della
loro impresa. Per tutti gli altri Caalum e Rhys non sono mai esistiti.
Sono solo una leggenda, nulla di più. Cormiac non ha potuto
tornare
indietro nel tempo per salvarli perché non li avrebbe
trovati:
Caalum e Rhys non erano, semplicemente».
Il ragazzo abbassò il capo, sconfitto.
Sapeva che il centauro aveva ragione. Lo sentiva. Ma era difficile
convincersene. Era difficile accettare di non essere riuscito a salvare
Arcturus. Di non potere neppure tentare di salvare Arcturus.
«Aldebaran Black» il ragazzo fece involontariamente
una
smorfia sentendo il nome e il centauro sorrise. «Non
disprezzare
il tuo nome. Aldebaran è una stella bellissima, molto
saggia,
puoi imparare molte cose osservandola, e ascoltandola. Fu proprio
Aldebaran a suggerire a Kyros di aiutare Cormiac a creare le Chiavi del
Tempo. Le Sette Chiavi del Tempo. Sette come le Pleiadi».
«Allora non è molto saggia la tua Aldebaran. Non
sono sicuro che le Chiavi siano oggetti buoni».
Il centauro si scostò i lunghi capelli bianchi dal viso e si
strinse nelle spalle. «Sono solo oggetti. Gli oggetti non
sono
né buoni né cattivi, Aldebaran. Tutto dipende da
chi li
usa».
«Arcturus avrebbe ucciso una persona. E probabilmente messo
nei
guai molti nati Babbani, grazie a una Chiave del Tempo».
«Vero. Ma Aulo ha salvato suo padre, grazie a una Chiave del
Tempo».
Al ci pensò un istante. Se davvero una vita umana era stata
salvata grazie a una Chiave del Tempo, allora era un bene che fossero
state create. «Forse Aldebaran non è
così male.
Forse un po' saggia lo è».
Il centauro sorrise. «Aldebaran è molto saggia. E
anche
Cormiac lo era: sapeva che dei limiti vanno sempre posti agli oggetti
di potere. E lo ha fatto. Non più di vent'anni indietro nel
tempo e non più di sette ore di apertura del
Portale».
Il ragazzo scosse il capo e sospirò mesto. «Per
colpa mia
due Chiavi del Tempo sono andate distrutte. Ora ne rimane solo
una».
«Se anche fosse non ci sarebbe nulla di male. Così
era
scritto. E poi non hai distrutto due Chiavi. Il tuo amico ne ha
distrutta una. Tu non è detto».
«Nella sua pergamena Aulo ha scritto...»
«Aulo non sapeva tutto delle Chiavi, non era il Custode
quando ha scritto quella pergamena».
«Sei tu il Custode, ora?»
«No. Noi centauri sappiamo, però. Abbiamo il
compito di
vegliare sul Custode delle Chiavi. Se tu non fossi intervenuto per
evitare azioni che avrebbero potuto sconvolgere il corso della storia,
sarei dovuto intervenire io».
Un rumore di zoccoli furibondo fece trasalire Al che si
guardò allarmato alle spalle.
Quattro centauri avevano raggiunto il limite della foresta e
osservavano fieri la scena.
Uno di loro si fece avanti, salutò il centauro bianco con un
cenno del capo e disse: «Un Portale del Tempo si è
chiuso:
una parte dell'anomalia si è assorbita, Iskander».
Il centauro bianco annuì. «Sì. E presto
si
assorbirà anche l'altra» tornò a
rivolgersi al
ragazzo. «Tu non hai colpe, Aldebaran. Torna al Portale, ora.
E
tramanda la conoscenza, così vogliono le stelle»
quindi
volse le spalle al mago e, dopo un ultimo cenno, s'inoltrò
nella
foresta, subito seguito dagli altri centauri.
Aldebaran si sfregò stancamente gli occhi e si
lasciò cadere a terra, confuso e svuotato.
Le parole pronunciate dal centauro gli vorticavano nella testa ma, per
quanto si sforzasse, non riusciva a comprenderle appieno.
Ci avrebbe pensato più avanti, forse; ora aveva qualcosa di
più urgente da fare.
Era tentato di smarrire anche se stesso nel Tempo: magari avrebbe
scoperto cosa era successo ad Arcturus. Lo studioso che c'era in lui
era affascinato dalla prospettiva.
Ma una frase pronunciata dal centauro rimbombava insistente nella sua
mente: tramanda la conoscenza. Sì. Quella era sicuramente la
cosa più importante. E più utile: se avesse
tramandato la
conoscenza nessuno si sarebbe più perso nel Tempo. Lo
avrebbe
fatto. Lo doveva fare. Lo doveva ad Arcturus.
Si alzò in piedi e lanciò un'occhiata al Castello
incendiato dalla luce aranciata del tramonto. Alcuni ragazzi vestiti
con tuniche blu circondavano Maestra Corvonero, ascoltando rapiti le
parole che uscivano dalle labbra della strega.
Una bambina minuscola giocherellava con la bacchetta magica, mentre
osservava incantata il volo aggraziato di uno sciame di fate.
Improvvisamente scintille colorate fuoriuscirono dalla bacchetta della
bambina, colpendo il ragazzino sedutole accanto che si
ritrovò
dotato di una chioma iridescente come polvere di fata. La bambina
abbassò gli occhi impaurita, proteggendosi istintivamente la
testa
con le mani. Cosetta Corvonero gliele scostò
gentilmente, rassicurandola: «Qui nessuno ti
punirà se ti
scapperà qualche incantesimo, Mary. Qui imparerai a
controllare
la Magia. Tra l'altro a Rufus quel colore sta d'incanto»
affermò seria la strega, scatenando le risate divertite di
tutti
i ragazzini, Rufus compreso.
Aldebaran sorrise: i nati Babbani dovevano
frequentare Hogwarts.
Arcturus aveva tentato di impedirlo e lui lo aveva fermato. Mary
avrebbe imparato a controllare i suoi poteri. Mary non sarebbe
più stata punita dai suoi vicini.
Forse aveva distrutto una Chiave, ma ne era sicuramente valsa la pena.
Un po' sollevato, si inoltrò nella foresta: la sua missione
era
conclusa, non gli restava che riattraversare il Portale del Tempo.
Regno di Scozia, 13
settembre 999 A.D.
Aldebaran
serrò gli occhi, esausto.
Nelle orecchie aveva ancora un canto dolce e misterioso. Un canto che
aveva placato il suo dolore.
Confuso, tentò di ricordare cosa gli avesse fatto provare
quel dolore.
Poi ricordò.
Ricordò l'omino che caracollava sotto il peso della panciuta
otre
di idromele; ricordò Grifondoro che roteava esperto la sua
spada
rilucente; ricordò Tassorosso che spiegava qualcosa a
ragazzini
distratti dallo spettacolo offerto da Grifondoro... e
ricordò
Arcturus.
Arcturus.
Aldebaran si portò un pugno alla bocca e soffocò
un singhiozzo.
Una mano carezzevole gli scostò i capelli dal viso e una
voce
dolce mormorò, materna e consolante: «Va tutto
bene, caro.
Sei stato bravissimo».
Aldebaran aprì gli occhi, ritrovandosi a fissare il viso
preoccupato di Tosca Tassorosso e si lasciò avvolgere dalla
forza calda e rassicurante della strega.
Poi scosse il capo, mormorando: «Ho perso Arcturus».
«Arcturus si è perso da solo, Aldebaran».
Il ragazzo distolse gli occhi dalla strega e cercò con lo
sguardo colui che aveva pronunciato quelle parole.
Aveva riconosciuto quella voce profonda e ipnotica. L'avrebbe
riconosciuta tra mille.
Ai limiti della radura, un maestoso centauro dal manto bianco lo
guardava. Le braccia conserte, i lunghi capelli candidi scompigliati
dal vento.
Aldebaran lo ricordava meno massiccio. Più giovane. Ma era
Iskander, non potevano esserci dubbi...
«Tu gli hai impedito di compiere un grosso errore»
lo
rassicurò pacato il centauro, cominciando poi a narrare ai
Quattro Fondatori le gesta del giovane mago.
Aldebaran ascoltò tutto restandosene raggomitolato su se
stesso,
le mani spasmodicamente serrate attorno alle ginocchia e gli occhi
chiusi.
Arcturus non sarebbe tornato.
Arcturus non lo avrebbe più irritato con i suoi deliri
sull'importanza del sangue puro.
Arcturus non lo avrebbe più tormentato presentandogli orde
di
ragazze più stupide di un Troll di Montagna ma di comprovata
e
antica stirpe magica.
Arcturus non lo avrebbe più esasperato in nessun modo.
Arcturus, insomma, gli sarebbe mancato da morire.
E la cosa peggiore era che sarebbe mancato solo a lui.
Persino i Quattro Fondatori faticavano a ricordare Arcturus!
E loro sapevano.
Quando il centauro ebbe terminato il suo racconto, Aldebaran si
alzò, si tolse la Chiave dal collo e la porse a Corvonero.
«Mi dispiace, Maestra» sussurrò mesto,
gli occhi
grigi colmi di sconfortata amarezza. «Ora rimane una sola
Chiave
funzionante. Spero solo che sarà usata con più
saggezza».
La strega prese l'oggetto che il ragazzo le porgeva e lo
osservò: «Al, non...»
Il ragazzo scrollò le spalle e la precedette. «Non
ha
importanza, Maestra. Vorrei andare, ora. Col vostro permesso vorrei
ricopiare la Pergamena di Aulo. E vorrei aggiungere qualche annotazione
a proposito del funzionamento del Portale del Tempo: nessun altro
dovrà fare la fine di Arcturus».
«Ma...» insistette la strega, allungando una mano
verso il discepolo.
Il centauro le sfiorò una spalla scuotendo la testa e
Corvonero annuì: «Va bene, Al. Vai pure».
Il ragazzo chinò il capo e si allontanò in
direzione del Castello.
Corvonero guardò il centauro: «Non ha distrutto la
Chiave. E' solo scarica. Si ricaricherà».
Il centauro annuì: «Lo so. Ma a lui non interessa
saperlo, al momento. Tutto quello che vuole fare è
tramandare la
conoscenza. Mi pare saggio».
«Davvero?» domandò Tassorosso osservando
addolorata
il punto in cui il ragazzo era scomparso. «Non sono
così
sicura che le Chiavi del Tempo siano conoscenza da tramandare. Creano
solo guai».
Il centauro scosse indolente la folta coda bianca. «Non per
colpa loro. La responsabilità è del mago che le
usa».
«E' quello che tento di fare capire da sempre a questi tre
testoni» esclamò Serpeverde, insofferente.
«Non
esiste una Magia cattiva. Ma solo maghi che la usano male».
«Non ci provare, Salazar» ribatté
immediatamente
Grifondoro. «La Magia che intendi tu non è solo
cattiva.
E' oscura.
E a Hogwarts non verrà mai insegnata».
Serpeverde sbuffò, sfiorando sovrappensiero il ricamo
argentato - un sinuoso intreccio di serpenti - che
impreziosiva la sua tunica verde e osservò: «Anche
tu ti
interessi a quella stessa Magia che definisci oscura, Godric».
«Vero. Ma solo per trovare dei sistemi per neutralizzarla,
Salazar. A te interessano le Arti Oscure. A me la Difesa contro le Arti
Oscure... non è esattamente la stessa cosa».
Il centauro sorrise enigmatico, scrutando il cielo terso in cui
cominciavano a spuntare le prime stelle: «I tempi stanno
maturando. Hogwarts seguirà il suo corso. Sarà
quello che
era scritto dovesse essere. Grazie ad Aldebaran».
Così dicendo si inoltrò silenzioso nella foresta,
lasciando i quattro maghi a fissarlo allibiti.
«Uhmf» bofonchiò Grifondoro.
«Detesto quando i centauri parlano come centauri!»
«Ah, per una volta devo dirmi perfettamente d'accordo con te,
Godric. Che ti assalga una Manticora se ho capito cosa voleva
dire» rincarò Serpeverde.
Grifondoro lo fissò, inarcando un sopracciglio.
«Come
sarebbe a dire che mi
assalga una Manticora? Non dovrebbe assalire te,
la suddetta Manticora, visto che sei stato tu a chiamarla in
causa?»
Salazar ci pensò un istante. «Quisquilie. Resta il
fatto
che sono d'accordo con te: detesto i centauri quando parlano come
centauri».
Corvonero aggrottò la fronte, pensierosa: «Quello
che ha
detto Iskander è molto profondo. Solo che, al momento, mi
sfugge
il senso più recondito».
I due uomini la guardarono con esasperato divertimento, mentre
Tassorosso la prese sottobraccio dirigendosi al Castello.
«Ecco,
Cosetta cara, in attesa che tu trovi il senso più recondito
della frase molto profonda di Iskander, proporrei di radunarci tutti
nel mio studio a meditare sul fatto che Hogwarts sarà quello
che
era scritto dovesse essere. William mi ha appena fatto avere la solita
otre del suo paradisiaco idromele, sapete?»
Regno di Scozia, 14
Settembre 999 AD.
Salazar
Serpeverde se ne stava appoggiato al davanzale della finestra del suo
studio, godendosi il tramonto e osservando Godric Grifondoro che,
roteando con
energia la sua spada scintillante, intratteneva un nutrito gruppo di
ragazzini.
Salazar poteva scorgere discepoli con tuniche rosse, ocra, blu e,
notò con un certo disappunto, verdi attorno a lui.
Doveva ammettere che lo spettacolo aveva un suo fascino, ma
non voleva che i suoi discepoli provassero interesse per una pratica
così irrimediabilmente Babbana.
Con uno sbuffo contrariato volse le spalle alla finestra e si
accostò al tavolo. Cominciava ad essere stanco della piega
che
stava prendendo Hogwarts.
Per un piacevole istante aveva sperato che quel ragazzo... Arcturus...
riuscisse nella sua impresa.
Quando lo aveva aiutato ad appropriarsi di una Chiave del Tempo,
non aveva avuto idea che il ragazzo avesse intenzione di avvelenare
Tosca, o gli avrebbe imposto di cambiare piano.
Non solo la strega gli stava sinceramente simpatica, ma era una
Purosangue, ed era un grosso spreco versare puro sangue magico.
Ma Arcturus non aveva voluto confidarsi, aveva deciso di fare di testa
sua e, dopo tutto, a Salazar andava bene così. Apprezzava i
discepoli astuti e ambiziosi: gli ricordavano un po' se stesso.
Certo, se quello stupido non avesse mostrato la Chiave al cugino, prima
di usarla...
Pazienza, aveva altre strade da seguire. Studiò attentamente
le
piante del Castello tracciate sulle pergamene che ricoprivano il tavolo.
Sì, aveva in mente di apportare una modifica ai sotterranei:
voleva aggiungere una camera.
Una camera irraggiungibile, in cui conservare alcune cose di sua
proprietà; una camera di cui nessuno avrebbe saputo
l'esistenza,
solo lui ed, eventualmente, i suoi eredi: una Camera dei Segreti.
Compiaciuto, Salazar strinse in pugno l'antico medaglione che portava
al collo.
Somigliava a quei monili in cui le sciocche fanciulle romantiche
conservavano ciocche di capelli dell'amato, e quelle più
sagge
veleni potenzialmente letali...
Era un bell'oggetto, tutto sommato. Apparteneva ai Serpeverde da secoli.
Il serpente che, in origine, lo aveva decorato formando una sinuosa
esse proprio al centro si era sbiadito col tempo e Salazar lo aveva
ritracciato, rendendolo più elaborato e ricoprendolo di
smeraldi
purissimi. Forse ora quel decoro sembrava più una esse molto
ricercata, ma il serpente stilizzato si intuiva ancora.
E gli smeraldi non sbiadivano.
Quel monile avrebbe attraversato indenne i secoli, passando da
Serpeverde a Serpeverde.
Sorridendo soddisfatto il mago aprì il medaglione, estraendo
un
pezzetto di fragile, antica pergamena, e lesse ad alta voce, usando la
lingua dei serpenti, le parole che vi erano vergate.
«Io
continuerò la mia battaglia. Farò di tutto
perché i miei simili si rendano conto della minaccia che i
Babbani rappresentano per la stirpe dei maghi. E farò in
modo
che, se io dovessi fallire, i miei eredi proseguano questa missione.
Parola di Sigebert Serpeverde!»
Il mago annuì orgoglioso, prima di ripiegare con cura il
bigliettino, ed esclamò convinto: «E parola di
Salazar
Serpeverde».
Ed
eccoci alla terza tappa del Viaggio.
Altre notizie sulle Chiavi del Tempo vengono rivelate e, finalmente,
cominciano a comparire personaggi potteriani!
Del resto, nella storia delle Chiavi del Tempo, potevano forse mancare
i Quattro Fondatori di Hogwarts? Giammai, naturalmente!
ù.ù
Così eccoli qui, in tutto il loro splendore!
Spero di non aver combinato troppi pasticci presentando Tosca
Tassorosso, Cosetta (o Priscilla... non ho mai capito con esattezza
quale sia il suo nome esatto, ma ho optato per Cosetta per mantenere le
iniziali uguali) Corvonero, Godric Grifondoro e Salazar Serpeverde (che
appartengono rigorosamente a J.K. Rowling. Io li ho solo presi in
prestito per questa tappa del Viaggio) ma è esattamente
così che me li immagino!
Come avrete notato, in un momento di delirante mania di grandezza, ho
ipotizzato che il celeberrimo medaglione di Serpeverde fosse in
realtà la Chiave del Tempo distrutta da Sigebert Serpeverde.
Spero vogliate perdonarmi questo attacco di megalomania compulsiva. ^^
Per finire qualche spiegazione sul protagonista di questo
capitolo: Aldebaran Black.
Prima di tutto due parole sul nome: lo so, avrei potuto scegliere uno
dei fantasiosi nomi "astronomici" che compaiono (e ricompaiono)
nell'Albero Genealogico dei Black, ma ho preferito optare per un nome
"nuovo". Sia per rispetto verso i personaggi inventati da J.K. Rowling,
sia per sottolineare la "particolarità" di Aldebaran, che
non è esattamente un Black di cui la famiglia
andrà particolarmente fiera: il suo nome non sarà
tramandato ai futuri rampolli della Casata, insomma. Del resto quale
Black "regolamentare" avrebbe imposto a un proprio virgulto il nome di
un originale figuro prescelto da Corvonero e convinto della
necessità di accogliere i nati Babbani nella
comunità magica?
Scegliendo il nome ho però deciso di mantenere la tradizione
"astronomica". Aldebaran, che deriva dalla parola araba al-Dabarān
ossia "L'Inseguitore" (e quindi mi pareva molto appropriato al
personaggio in questione), è la stella Alfa della
costellazione del Toro, la stessa costellazione delle Pleiadi.
Inoltre questo nome ha una particolarità che
tornerà utile per il seguito della storia. E, infine, ha un
suono che mi piace molto, quindi...
In secondo luogo un "avviso di servizio": Ad Aldebaran è
toccato il dubbio onore di inaugurare una "tradizione" che ci
accompagnerà per tutta la parte centrale della storia: il
protagonista principale del capitolo (colui - o colei - che
"filtrerà" la storia raccontata) sarà un
membro - più o meno "alternativo" - della nobile e
antichissima Casata dei Black.
Chiudo l'angolo delle "Farneticazioni dell'Autrice" approfittando di
questo ultimo scorcio della giornata per augurare a tutti un Buon
Ferragosto!
Un po' tardivo, lo so... ma meglio tardi che mai, no? ;)
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Capitolo 4 *** L'Orda del Tempo ***
Capitolo Terzo
L'Orda
del Tempo
York, notte tra il 2 e il 3 di
maggio 1382 A.D.
La
luna brillava alta e piena, quella notte, disegnando dense ombre sul
selciato sconnesso dell'angusto vicolo.
La giovane donna, dopo averle scoccato un'occhiata pensosa,
si avvolse meglio nel mantello e affrettò il passo.
Sedici anni, pensò sconcertata, sfiorando il
massiccio medaglione che portava al collo.
Sedici anni, e lei davvero non capiva il perché.
Avrebbe giurato che gli anni sarebbero stati venti. Lo
avrebbe anche capito, in quel caso. Ma così...
Scosse il capo, turbata, schivando con eleganza un ratto
grosso
come Balthazar - il suo adorato gatto - e chiedendosi, per
l'ennesima volta, dove potesse essere andato quell'uomo esasperante.
Costringerla a intraprendere una simile avventura
all'insaputa di Aurelius e dell'intera Orda!
Ma ci avrebbe pensato lei a farlo rinsavire. Si sarebbe
pentito di
quel gesto scriteriato. Lo avrebbe strigliato per benino,
altroché! Gli avrebbe...
Oh, ma chi voleva prendere in giro!
Non gli avrebbe fatto proprio niente, questa era la triste
verità.
Si sarebbe limitata a sorridere con quell'aria ebete che le
si
appiccicava in faccia ogni volta che John incrociava la sua strada.
Cosa inevitabile visto che, dai tempi di Hogwarts, era
innamorata persa dell'irritante soggetto in questione.
Già, lei, Althea Black, innamorata persa di un
nato Babbano. Smistato a Grifondoro, per di più.
E, giusto per rincarare la dose, allevato da un membro dell'Ordine di Merlino.
Non che a lei importasse; ma ai suoi amorevoli parenti
sarebbe venuto un accidente se lo avessero saputo.
O forse no.
I suoi amorevoli parenti si aspettavano cose assolutamente
turpi, da lei.
Erano preparati.
Aveva gli occhi grigi. E ogni Black degno di questo nome
sapeva
bene che non ci si poteva aspettare nulla di buono da un Black con gli
occhi grigi. Erano strani i Black con gli occhi grigi. Propensi a
devianze insensate.
E Althea non faceva eccezione.
Lo aveva dimostrato fin dalla più tenera
età,
raccogliendo tutti i randagi che le capitavano a tiro e portandoli
nell'avita dimora.
La conferma più eclatante l'aveva poi data al suo
arrivo a
Hogwarts, quando era stata smistata niente meno che a Tassorosso.
Tassorosso!
Sua madre era sopravvissuta a stento alla crudele notizia.
Il
padre era parso meno provato: dove altro avrebbe potuto essere
smistata, in fondo, una Black con gli occhi grigi che raccoglieva tutti
i randagi che le capitavano a tiro?
Stringendosi rassegnata nelle spalle, Althea alzò
lo
sguardo: il centauro incontrato nella radura in cui si era aperto il
Portale del Tempo non si era sbagliato.
L'oscurità stava già cominciando ad
ammantare il disco argenteo della luna: un'eclissi.
Un fatto assolutamente naturale, come ogni buon astronomo
sapeva.
Ma i Babbani non erano affatto buoni astronomi. Non
più.
Avendo dimenticato come spiegare fenomeni del genere, si
rifugiavano in tetre e superstiziose leggende "ispirate", per lo
più, da maghi privi di scrupoli e colmi di odio - Aurelius
sosteneva fosse paura - verso i Babbani o, meglio, verso i maghi nati
da Babbani.
Althea saltò con agilità una
pozzanghera
maleodorante e sbuffò esasperata: detestava la situazione
creatasi grazie al comportamento irresponsabile dei succitati maghi
ispiratori di leggende.
I Babbani provavano da sempre un sospetto istintivo per i
maghi e
quelle tetre storie, alimentandolo sapientemente, li spingevano a
comportamenti inconsulti e violenti che si stavano rivelando devastanti
per gli stessi Babbani.
Solo per loro.
Erano i loro bambini che, se si rivelavano dotati di poteri
magici, venivano sistematicamente trucidati - assieme ai genitori se
questi tentavano di difenderli - da vicini di casa inferociti e
terrorizzati.
Erano le loro donne, del tutto prive di ogni potere magico,
a venire arse vive.
Assieme ai loro gatti, naturalmente. Althea era stata
adottata da
Balthazar proprio dopo averlo strappato dalle mani di uno zelante
ciabattino.
L'emaciato omuncolo le aveva urlato stizzito che non sapeva
cosa
stava facendo; che i gatti erano animali pericolosi e demoniaci.
L'emaciato omuncolo aveva seriamente rischiato di vedersi
trasfigurato seduta stante in un vaso da notte, ricordò
Althea,
scalciando rabbiosa un sasso che colpì un ratto ancora
più grosso di quello incontrato in precedenza.
Eccola la conseguenza più diretta del dissennato
sterminio
dei gatti: topi grossi come volpi scorrazzavano indisturbati per la
città, nutrendosi degli abbondanti rifiuti e portando
malattie
aggressive come la Grande
Pestilenza che, decenni prima, aveva decimato
la popolazione di York. E dell'Europa intera.
Ancora una volta, erano stati i Babbani a pagare il prezzo
più alto.
Quasi esclusivamente i Babbani.
E, come era immaginabile, dopo la Grande Pestilenza
la situazione era precipitata.
I roghi venivano innalzati con una frequenza inquietante:
chiunque
veniva sorpreso a fare qualcosa di strano, o di supposto tale, era
tacciato come untore - o come strega - e condannato ad ardere sulla
pubblica piazza.
Ma nessuna vera strega era mai arsa sulla pubblica piazza,
di
conseguenza alla comunità magica interessava molto poco la
questione.
Solo i membri dell'Ordine di Merlino - che avevano giurato
di
proteggere i Babbani - tentavano di limitare i danni. Agendo
nell'ombra, naturalmente.
Molti maghi non avrebbero gradito, no.
E neppure i Babbani sarebbero stati entusiasti della cosa.
Per fortuna, i membri dell'Ordine avevano molta fantasia...
In ogni città d'Inghilterra esisteva ormai un
gruppo di
maghi che si era prefisso il compito di salvare gli innocenti dai roghi
usando tutti i mezzi - magici e non - a disposizione.
Aurelius era a capo del gruppo di York. Anche Althea faceva
parte
di quella manciata di maghi, di quell'Orda, come amava
definirla lei.
I fieri membri della nobile casata dei Black ne erano
all'oscuro, ovviamente.
Ma, del resto, lei era una Black atipica, come il suo
antenato prediletto: Aldebaran Black.
I suoi genitori non parlavano volentieri di Aldebaran. Per
svariati motivi.
Era stato un Black assai poco affidabile: come tutti i Black
dagli occhi grigi.
Ma Althea sapeva molte cose su di lui. Era stata proprio una
pergamena scritta da Aldebaran a condurla da Aurelius. Una pergamena
che parlava delle Chiavi del Tempo.
Aldebaran aveva custodito le Chiavi per decenni, senza
più
utilizzarle dopo la sua prima, fallimentare esperienza e, con l'aiuto
del centauro Iskander, aveva posto le basi per la creazione delle
sorelle minori delle Chiavi: le Giratempo.
Quelle stesse Giratempo che permettevano ai membri dell'Orda
di
addentrarsi nel passato per salvare le vittime innocenti di quella
follia collettiva scatenata dai maghi ossessionati dalla purezza del
sangue.
Althea osservò pensosa il medaglione che portava
al collo:
nessun membro dell'Orda aveva mai viaggiato così lontano nel
tempo, però.
Le Giratempo non lo permettevano.
Le Giratempo concedevano solo qualche ora. Qualche giorno,
nel
caso di quelle più potenti. Ma anni... no, nessuno aveva
più tentato un'impresa del genere dai tempi di Aldebaran
Black.
Un rumore di passi frettolosi distolse Althea dalle sue
elucubrazioni.
Torce. Molte torce.
Un gruppo di persone - uomini, donne e bambini - si era
riversato in strada dirigendosi, a passo sostenuto, verso la Piazza
della Cattedrale.
Althea lo seguì silenziosa, coprendosi
scrupolosamente la testa con il cappuccio del mantello.
La Chiave ronzava sommessa, indicando che anche John doveva
essere
nei paraggi. Althea non ne comprendeva il motivo, però.
Sbucata nella piazza, la strega si guardò attorno.
La folla si accalcava, accerchiando frenetica un palco
improvvisato con qualche asse di legno e scrutando impaurita il cielo:
metà luna era già stata coperta, come inghiottita
dall'immonda bestia che popolava gli incubi superstiziosi di quella
povera gente.
Sul palco, un uomo alto e massiccio arringava la folla
terrorizzata: «Nulla di male potrà accadere ai
buoni
cittadini, figli miei» proclamava stentoreo con la sua
piacevole
voce baritonale. «La luna tornerà ad illuminare le
notti
delle persone virtuose, se queste continueranno a temere il Maligno e a
consegnare alle autorità i suoi adoratori».
Althea sbuffò, tentata dall'idea di colpire con
uno Schiantesimo il loquace oratore.
Fortunatamente per lui venne distratta dalla Chiave del
Tempo che
cominciò a ronzare con maggiore intensità;
sorpresa,
Althea distolse gli occhi dal predicatore e scrutò con
attenzione la piazza.
Un uomo dai capelli chiari se ne stava spavaldo lontano
dalla folla.
Non tremava, non salmodiava nenie lamentose, non si
avvicinava al predicatore in cerca di conforto.
Se ne stava semplicemente lì, in disparte, appena
lambito dal chiarore rassicurante delle torce. Solo.
Althea gli si avvicinò rapida, nascondendo sotto
il
mantello la Chiave del Tempo che, accesasi di bagliori dorati,
proclamava imperiosa di avere finalmente ritrovato la propria gemella.
«John?» mormorò sollevata la
donna, odiandosi per il sorriso ebete che, ne era certa, le stirava le
labbra.
L'uomo si voltò di scatto, sbigottito.
Poi abbassò con decisione il cappuccio che
nascondeva il viso della donna e gemette esasperato:
«Al...»
Althea ridacchiò: Al. Solo lui osava
chiamarla in quel modo
assurdo; l'aveva sempre chiamata in quel modo assurdo, incurante, come
un vero, ardimentoso Grifondoro, delle minacce da lei propinategli per
convincerlo ad abbandonare quella deprecabile abitudine.
L'uomo le scoccò uno sguardo contrariato e
sospirò: «Dovevo immaginarlo. Ma come hai fatto
a...»
«Me lo aspettavo. Da quando so che Aurelius
è il Custode delle Chiavi ti tengo d'occhio».
L'uomo inarcò un sopracciglio, sconcertato. Poi
proseguì: «Non ti permetterò di
fermarmi, Al. Devo
farlo. E questa notte avrò l'occasione perfetta. Devo solo
aspettare il momento giusto».
«Temo tu abbia sbagliato anno, John...»
sussurrò la donna osservando il predicatore che continuava,
imperterrito, ad arringare la folla.
John scosse il capo, fissando nervoso il cielo.
«No. Non ho sbagliato anno».
«Ma...»
Con un gesto secco l'uomo l'azzittì e, proprio
mentre la
luna veniva completamente avvolta dall'oscurità, estrasse
dal
mantello una balestra incoccando, rapido, un piccolo dardo piumato.
Althea trattenne il respiro, disorientata.
La folla attorno a loro gemeva, impaurita, e il predicatore
indicò ieratico il cielo, gridando: «Che io possa
venire
trapassato proprio ora da un dardo di balestra, se vi sto
mentendo!».
Allora Althea capì e, agendo d'impulso, si
scagliò contro il compagno con tutta la forza del suo peso.
Non fu la sola.
Un grosso maiale bianco, sbucato da solo Merlino sapeva
dove, la
anticipò, colpendo deciso John con la massiccia testa irsuta.
L'uomo, sbilanciato, cadde scoccando involontariamente il
dardo
che rimbalzò contro il muro di pietra della Cattedrale. Ben
lontano dall'ispirato predicatore.
Guardandosi attorno preoccupata, Althea notò che
nessuno si
era accorto della comparsa del suino o del dardo scoccato: erano tutti
troppo impegnati a scrutare, con affascinato terrore, la vellutata
oscurità che aveva ammantato la luna.
Sollevata, Althea osservò il maiale che, curioso,
stava
annusando con entusiasmo l'umano borbottante trovatosi sulla sua strada.
Il mantello dell'uomo, soprattutto, sembrava incontrare i
gusti
della bestiola, per lo meno a giudicare dalla bramosia con cui tentava
di addentarlo sedendo, leggiadra, sulla balestra sfuggita dalle mani di
John.
Imprecando, l'uomo si sollevò a sedere,
sottraendosi con
mala grazia alle attenzioni del suino che, vistosamente oltraggiato,
diede un ultimo strattone al mantello e se ne andò a
grufolare
altrove.
«E' opera tua, Al?» chiese l'uomo,
guardando mesto la balestra ammaccata dal ragguardevole peso del suino.
Althea fu un po' sorpresa dalla calma dimostrata dal
compagno. Si
sarebbe aspettata una reazione decisamente più rabbiosa.
«Certo che no! Non ho la capacità di richiamare i
maiali,
mio caro, mi hai preso forse per la maga Circe?»
«La maga Circe non richiamava i maiali. Si
divertiva a
trasformarci gli uomini, in maiali. E tu sei sempre stata bravissima in
Trasfigurazione».
«Grazie per il complimento. Ma tu sei ancora
umano, mi pare,
quindi no, direi che quel maiale non è opera
mia...»
John ridacchiò sommesso.
«Sì, te lo concedo. Deve essere stato mandato da
Atreus, allora».
«Da chi?»
«Un centauro amico di Aurelius. Un tipo
interessante. Convinto di dover vigilare sul Custode delle
Chiavi».
«Oh. Un affascinante centauro biondo che vaga
nella foresta
blaterando di eclissi di luna, di stelle particolarmente loquaci e di
anomalie temporali?»
«Non l'ho mai considerato affascinante, a dire il
vero, ma
è biondo, sì. E vaga nella foresta snocciolando
assurdità astronomiche e temporali. Mi sono imbattuto in lui
nel
futuro, prima di attraversare il Portale del Tempo. E ci sono andato a
sbattere anche qui, nel passato, ahimè. Sono sicuro che quel
dannato coso grufolante è stato mandato da lui».
Althea scrollò le spalle e, visto che John non
pareva intenzionato ad alzarsi, gli si sedette accanto.
«Sai, mi aspettavo una reazione più
rabbiosa da parte tua».
«Davvero?»
«Sì. Sembri quasi sollevato».
L'uomo si strinse le ginocchia contro il petto e vi
appoggiò il mento. «Suppongo di esserlo,
infatti».
«Davvero?»
«Davvero. Non ho mai ucciso un mio simile, Al. Non
è facile come pensavo...»
La strega gli scostò i capelli dal viso con una
carezza. «Volevi davvero uccidere il predicatore?»
L'uomo le afferrò la mano portandosela con
dolcezza alle
labbra, poi sospirò amareggiato. «Dovevo. Ed era
il
momento perfetto».
«Ma perché uccidere un
Babbano?»
«Non è un Babbano, Al».
Althea cercò con lo sguardo la sagoma massiccia
del predicatore.
Era sceso dal palco e stava venendo lentamente verso di
loro; la
folla, adorante, si apriva al suo passaggio mormorando ringraziamenti
sinceri e guardando sollevata la luna che, lentamente, ricompariva nel
limpido cielo color inchiostro.
La torce illuminavano i radi capelli scuri e il volto
pallido
dell'uomo; ad Althea ricordava qualcuno, ma non riusciva a decidere chi.
John parve accorgersene e, quando l'uomo fu a pochi passi da
loro, sussurrò: «Guarda il suo medaglione,
Al».
Althea ubbidì. Un grosso medaglione dorato - che
ricordava
per forma e dimensione una Chiave del Tempo - riluceva sulla tunica
scura dell'uomo; la luce calda delle torce giocava con l'elaborato
arabesco che ne decorava il centro, traendone intensi bagliori di
smeraldo.
La strega sussultò: conosceva quel medaglione.
Tutti i membri dell'Ordine di Merlino lo conoscevano.
Era antico quanto l'Ordine stesso. Apparteneva da sempre ai
Serpeverde e, al momento, era affidato alle cure di Siegmund, un mago
potente, orgoglioso rampollo di quell'antica famiglia Purosangue: il
più fiero e accanito persecutore dei nati Babbani!
«Dovevo tentare, Althea»
proseguì John,
un'ombra di dolorosa rabbia nella voce. «Quell'uomo
sarà
la causa della morte di molti innocenti. Quell'uomo è
già
stato la causa della morte di molti innocenti».
Althea scrutò incuriosita il compagno
stringendogli con
dolcezza la mano che ancora tratteneva la sua. «E' stato lui
che
ha...»
«Sì» la interruppe secco lui,
mostrando chiaramente di non volere affrontare quel discorso.
Non voleva mai affrontare quel discorso. Non con lei, almeno.
«Come facevi a sapere che avrebbe detto proprio
quella cosa del dardo di balestra?»
John sorrise, scorrendo con lo sguardo la folla che
osservava rapita la lenta ricomparsa della luna.
«Non lo immagini, Al? Aspetta, non è
facile con tutta
questa gente ma...» indicò vittorioso uno smilzo
ragazzino
di una decina d'anni che osservava la scena restandosene, imbronciato,
in disparte. «Eccomi lì».
«Ma... razza di incosciente! Sei venuto qui
sapendo che
anche il tuo alter ego passato vi si trovava? E se ti avesse
incontrato? E se...»
«Guardalo, Al. E poi guardami. Lui non mi avrebbe
certo
riconosciuto. E io sapevo esattamente dove non andare, ti
pare?»
tacque per un istante, poi spiegò: «Ricordo questa
notte
come fosse appena trascorsa».
«E' l'anniversario della...»
«Già».
«In effetti pensavo che saresti andato
più indietro nel tempo, John».
L'uomo girò il capo, guardandola sorpreso.
«Davvero?»
«Sì, davvero. Pensavo che avresti
tentato di salvare i tuoi genitori».
John si ritrasse di scatto, come se Althea lo avesse colpito
con
uno schiaffo. Poi balzò in piedi, sconvolto. «Io
non
credevo... loro sono... Aurelius mi ha sempre detto che nessun
incantesimo può riportare indietro i morti» si
azzittì, guardando pensoso la Chiave del Tempo che portava
al
collo.
Althea si alzò a sua volta, spiegando con tutta
la dolcezza
di cui era capace: «E' vero, John. Nessun incantesimo
è
abbastanza potente per quello. Ma pensavo che tu, usando la Chiave,
tentassi di impedire la loro morte come ha fatto Aulo».
«Io... non ci ho proprio pensato...»
sussurrò
John, serrando rabbioso la Chiave tra le dita. «Ma posso
ancora
rimediare!»
«Cosa? John non...»
«Aurelius è appena diventato il Custode
delle Chiavi. Devo solo andare a casa e prenderle».
«No! Potresti incontrarlo».
«Lo escludo. Lui sta venendo qui a recuperarmi. E
poi
sarà impegnato fino all'alba per tentare di impedire catture
di
Babbani innocenti. E' solo, Al. Non esiste ancora quella che tu ami
definire l'Orda e non possiede neppure una Giratempo. Questa
sarà una notte di intenso lavoro, per lui»
indicò
la folla che, ormai rassicurata, si accalcava attorno a un gruppo di
uomini vestiti con lunghe tuniche scure impreziosite da sinuosi ricami
d'argento. «L'eclissi ha terrorizzato questa gente. Molti
nomi
saranno proposti ai Ghermidori».
«Ma...» prima che la strega potesse
finire la frase, John era già corso via, inghiottito da un
vicolo buio.
Althea, scoccando un'ultima occhiata alla folla, lo
rincorse,
arrivando giusto in tempo per assistere alla sua Smaterializzazione.
Sbuffando contrariata e assicurandosi che non ci fosse
nessuno nei paraggi, lo imitò.
***
Althea respirò a pieni polmoni l'aria fresca e
balsamica
del bosco: il vento era benigno quella notte, non trasportava l'odore
pungente del fiume.
La luna, ormai completamente liberatasi
dall'oscurità,
inondava con la sua morbida luce argentata la casetta di legno e pietra
di Aurelius.
I Babbani si chiedevano sconcertati come mai quell'uomo
gentile e
socievole - che per loro era solo un ottimo speziale - preferisse
abitare fuori dalle mura della città, ma Althea lo capiva
benissimo.
Aurelius era dotato di una natura solare, amava la gente e
sapeva integrarsi alla perfezione con i Babbani.
Alcuni dei suoi amici, però, avrebbero avuto seri
problemi a passare inosservati dentro le mura di York.
Il centauro biondo che sostava sulla soglia della casa in
quel momento era sicuramente uno di questi.
Althea non riuscì a trattenere un sorriso quando
notò il grosso maiale bianco che trotterellava allegro tra
gli
zoccoli del centauro. John aveva indovinato, a quanto pareva: era
davvero Atreus colui che si dilettava a imitare le discutibili gesta
della maga Circe.
Il centauro scalpitò, agitando con energia la
folta coda
nel tentativo di allontanare la caparbia bestiola, poi
guardò
Althea, indicando con un lieve cenno del capo l'interno della casa.
Althea si avvicinò, decisa a varcarne la soglia,
ma il
centauro la fermò con un gesto imperioso. «Non con
quella» disse serio, fissando la Chiave del Tempo della
donna.
«Non è saggio. Non so di preciso cosa potrebbe
succedere
se una Chiave del Tempo entrasse in contatto con se stessa. E non
desidero scoprirlo».
«Ma John...»
Il centauro sorrise, mostrandole il medaglione che gli
cingeva il
collo. «Il puledro di Aurelius è testardo e
impulsivo...
ma non è del tutto stolto».
Althea annuì sollevata, affidando anche la sua
Chiave al centauro, quindi attraversò decisa la soglia.
Fu sorpresa da quanto familiare le sembrasse quel posto.
Praticamente nulla era cambiato in quei sedici anni.
John sedeva sul pavimento di terra battuta, davanti al
focolare
spento, una vecchia lanterna un po' ammaccata gli fluttuava sopra la
testa, accendendo di riflessi dorati i suoi capelli color sabbia.
Althea si avvicinò, silenziosa e gli si
accovacciò
accanto, osservando incuriosita il vecchio scrigno di lucido legno
scuro che l'uomo reggeva tra le mani: lo scrigno delle Chiavi del Tempo.
«Sono strane» mormorò confuso
John, senza alzare lo sguardo.
Era vero. Le due Chiavi del Tempo contenute nello scrigno
erano effettivamente molto strane.
Il serpente ne ornava il bordo, come sempre, ma della fenice
scarlatta che sorgeva, maestosa, da fiamme d'argento non vi era traccia.
Il centro dei monili non era neppure vuoto come in una
Chiave attivata, però.
No, al centro di quelle due Chiavi erano rimaste le fiamme
argentate che sfolgoravano più vivide e alte dell'usuale:
come
alimentate dal sacrificio della fenice scomparsa.
«Non potete usarle. Sono già in
funzione».
Spiegò la voce profonda e distaccata di Atreus.
«Voi due le avete azionate».
Althea alzò di scatto il capo, osservando
incredula il
centauro che, ancora fermo oltre la soglia della casa, dava loro le
spalle e osservò: «Sì, ma nel futuro.
Qui nessuno
le sta usando...»
«Non esistono Chiavi del passato e Chiavi del
futuro»
spiegò paziente il centauro, la voce resa ancora
più
distaccata e misteriosa dalla lontananza.
Althea ci pensò un istante. Aveva un suo senso,
doveva ammetterlo.
John si alzò con impeto, serrando i pugni
rabbioso e scalciando lo scrigno delle Chiavi.
Per un istante la donna temette che potesse colpirla. O per
lo meno urlarle qualcosa di assai poco piacevole.
Ma, naturalmente, non lo fece: era pur sempre il suo John,
quello...
L'uomo si avvicinò invece al muro e
sferrò, furente,
un pugno alla parete. Poi si voltò, massaggiandosi le nocche
e,
guardando la donna senza apparentemente vederla, appoggiò le
spalle al muro. Sconfitto.
Althea gli si avvicinò allungando una mano per
una carezza,
ma John si scostò come scottato, rifuggendo il suo tocco.
La strega si sentì morire.
Avrebbe preferito mille volte che John urlasse con lei. Che
sfogasse la sua rabbia. Avrebbe preferito qualsiasi cosa a
quell'ostile, dolorosa apatia.
«John, perdonami...»
John alzò bruscamente la testa, come se solo in
quel
momento si fosse ricordato di non essere solo. «Tu chiedi
perdono? Oh, Althea...» scosse il capo, incredulo,
scostandosi
dalla parete e, raccolto lo scrigno, lo ripose in una massiccia
cassapanca di legno.
«Althea?» chiese la strega, afflitta.
«E' il tuo nome. E' così che hai sempre
voluto essere
chiamata» rispose il mago, tentando un sorriso che non
riuscì però a nascondere il disgusto che
trasudava dalla
sua voce. «Io direi di andare, ora. Non c'è
più
nulla che possiamo fare qui».
«John. Mi dispiace, davvero. Capisco che tu sia
arrabbiato con me, ma...»
«Arrabbiato con te? Merlino, Althea! Se tu non
fossi venuta io avrei ucciso Siegmund Serpeverde!»
«No che non lo avresti fatto, puledrino, fidati.
Ti avrei
fermato io» lo contraddisse il centauro, prima di venire
azzittito da un deciso grugnito di protesta. «Sì,
maiale,
va bene. Lo avresti fermato tu,
tecnicamente. Ma su mio
consiglio,
no?»
John sbuffò, uscendo dalla casa.
«Pensavo che i
centauri fossero creature nobili e discrete, Atreus, incapaci di
origliare le conversazioni altrui».
«Infatti io non stavo origliando. Ma tu urlavi. E
noi centauri siamo dotati di un udito finissimo».
Il mago gemette esasperato, poi, dando ostinatamente le
spalle
alla donna, afferrò la Chiave che gli porgeva il centauro e
si
avviò deciso verso il bosco.
Althea abbassò lo sguardo, addolorata.
Atreus le si avvicinò sussurrando con gentilezza.
«E'
molto cresciuto. E la sua rabbia è cresciuta con
lui».
«Non è rabbia. E' dolore»
constatò lei abbassando gli occhi avvilita. «E
disprezzo...»
Il centauro corrugò le sopracciglia, scrutandola
assorto.
«Dolore e disprezzo sono stati generati dalla rabbia, nel suo
caso».
Althea si strinse nelle spalle. Ormai non le interessava
granché scoprire cosa avesse generato il disprezzo che John
riversava su di lei.
«Mi chiedo solo se riuscirà a
superarlo».
Il centauro la guardò intensamente, poi
indicò vago la volta stellata. «Se è
destino...»
«Il destino si può cambiare!»
«Solo se decide di lasciarlo fare».
Althea gli strappò la Chiave dalle mani:
«Tu non
preoccuparti» additò il maiale che stava
allegramente
degustando le rigogliose piantine di erbe officinali che prosperavano
nel piccolo, curato orto di Aurelius. «Rimanda, piuttosto,
questo
maiale dove lo hai preso, prima che si mangi anche la casa, e lascia
che a John e al suo destino ci pensi io! Il destino non ha mai
spaventato un Black. Tanto meno un Black con gli occhi
grigi!» e,
dopo un ultimo buffetto affettuoso al vorace suino, la donna
s'inoltrò a sua volta nel folto del bosco, alla ricerca del
Portale del Tempo.
York, notte tra il 2 e
il 3 di maggio 1398 A.D.
«Anche
il secondo Portale si è richiuso, Aurelius».
Una voce profonda e distaccata raggiunse Althea,
riportandola alla realtà.
Conosceva quella voce, ne era sicura. Doveva solo associarla
al proprietario. Non sembrava una cosa tanto difficile, in fondo.
Ma si sentiva così strana...
Nelle sue orecchie riecheggiava ancora un canto dolce,
melodioso; un canto che aveva attutito il suo dolore.
Ora erano altri i suoni che la circondavano, però.
Il rumore del vento che frusciava tra i rami, il mormorio
lontano del fiume e il sussurro pacato di voci maschili.
Sospirando, Althea si decise ad aprire gli occhi e
osservò
confusa il medaglione massiccio che stringeva tra le mani, poi
scrutò il centauro biondo che la sovrastava, studiandola con
distaccata curiosità.
«Atreus?» chiese un po' incerta.
Il centauro annuì.
Non era cambiato molto in quei sedici anni, notò
Althea mettendosi a sedere e tentando di riordinare i propri pensieri.
Quando i ricordi del viaggio nel passato divennero
più
nitidi si alzò, barcollando leggermente e ringraziando grata
Atreus che, con perfetto tempismo, l'aveva sorretta con una mano.
«John?» chiese poi, angosciata, tentando
di recuperare l'equilibrio.
Atreus sorrise rassicurante, indicando un punto alla sua
destra.
A pochi metri di distanza, John sedeva su un grosso tronco,
il capo chino, le mani strette in grembo.
Un uomo gli stava inginocchiato accanto, parlandogli con
voce
sommessa e tranquillizzante: «John, non sei certo stato il
primo
a distruggere una Chiave del Tempo. La sola cosa che importa
è
che tu sia tornato».
John scosse il capo, caparbio, avvolgendosi nel mantello
come se volesse isolarsi dal resto del mondo.
Ricordando il disgusto percepito nella voce del compagno,
Althea
esitò un istante, ma alla fine si decise ad avvicinarsi ai
due,
stringendo gentilmente la spalla dell'uomo inginocchiato.
«Oh, Althea» la accolse lui, sorridendo
sollevato e
picchiettandole affettuosamente la mano posata sulla spalla.
«Bentornata. Stai bene?»
La strega annuì. «Sì,
Aurelius».
John sollevò lo sguardo, posandolo brevemente
sulla donna, quindi tornò a fissarsi ostinato gli stivali
infangati.
«John» sussurrò lei.
«Sono spiacente,
davvero. Se non ti avessi inseguito nel passato tu avresti avuto a
disposizione un'altra Chiave e avresti potuto salvare i tuoi
genitori...»
Aurelius la guardò sorpreso, mentre John si
massaggiava la
fronte, svuotato. «Althea, se tu non mi avessi
seguito...»
sbirciò il centauro che si era avvicinato silenzioso.
«Forse non avrei ucciso un uomo perché sarei stato
travolto da un affare grufolante inviato da un centauro impiccione che
si crede la maga Circe ma, ti assicuro, non mi avrebbe neppure sfiorato
l'idea di tentare di salvare i miei genitori».
«Ma...»
«Ma niente» esclamò l'uomo,
alzandosi
lentamente dal tronco e dando la Chiave ad Aurelius. «L'unico
che
deve dispiacersi qui sono io. Mi sono comportato da perfetto idiota.
Accecato dal mio odio infantile mi sono catapultato nel passato con la
riprovevole intenzione di uccidere un essere umano; quando avrei potuto
usare la Chiave per salvarne due. Ho fatto la mia scelta. Ho sbagliato.
E sono stato punito. Come Cormiac. La Chiave è
inutilizzabile,
ormai. E, comunque, anche se non si fosse danneggiata, non potrei
più evitare la morte dei miei genitori. Sono passati
esattamente
vent'anni da quella notte e la Chiave non permette di tornare
più indietro nel tempo».
Aurelius prese la Chiave e posò una mano sulla
spalla del
giovane che si scostò bruscamente, sottraendosi al suo tocco
proprio come si era sottratto a quello di Althea.
«John» mormorò carezzevole
Aurelius. «Non
è la fine del mondo. Hai commesso uno sbaglio. Capita. Sei
umano
ed è molto umano odiare colui che ti ha costretto a crescere
senza il calore di una famiglia».
«Forse. Ma questo non giustifica me. Io l'ho avuto
il calore
di una famiglia. Non della mia famiglia naturale, è vero. Ma
l'ho avuto» si fermò, esitante, poi aggiunse in un
sussurro imbarazzato: «Ho avuto te, Aurelius».
Il mago più anziano si immobilizzò,
sorpreso, e
John, abbozzando un sorriso triste, si avvicinò ad Althea.
Sollevò lento una mano, come volesse accarezzarla, ma
l'abbassò subito, distogliendo lo sguardo. «Sto
bene. Non
ti preoccupare, Althea. Non per qualcuno come me. Non ne vale la pena.
Davvero».
E, con una stretta al cuore, Althea capì che il
disgusto
che aveva percepito in John non era rivolto a lei. No, il disprezzo di
John era tutto per se stesso.
Pensando alacremente, la donna cercò qualcosa di
intelligente da dire, o di sensato, almeno. Qualcosa che impedisse a
John di frantumarsi davanti ai suoi occhi, insomma. Non poteva essere
così difficile...
Il suo ammirevole sforzo creativo venne però
interrotto dall'improvvisa irruzione di Damien nella radura.
«Aurelius!» gridò il ragazzo,
tenendosi il
fianco destro e ansimando in cerca di aria. «Sia benedetta la
tua
mania di lasciare sempre messaggi che dicono dove rintracciarti...
un'emergenza. Tristram e Guen sono a casa tua, ti aspettano per
decidere come intervenire».
Aurelius annuì grave: «Va bene. Questo
ha la
precedenza. Ma dopo dovremo parlare un po' noi due, figliolo»
precisò, scoccando un'occhiata a John prima di
Smaterializzarsi.
John sospirò, incamminandosi mesto lungo il
sentiero che portava alla casa di Aurelius. Alla sua casa.
Althea, dopo aver salutato Atreus, afferrò per un
braccio
Damien - che, ripreso fiato, fissava a bocca spalancata il centauro
– e si incamminò a sua volta sul sentiero, troppo
stanca
per tentare una Smaterializzazione.
«Ma era davvero un centauro? Un centauro vero,
insomma?» chiese Damien con la voce vibrante di meraviglia.
«Sì» rispose la strega, suo
malgrado divertita dall'entusiasmo del più giovane membro
dell'Orda.
«Per la scopa di Merlino! Non ne avevo mai visto
uno vivo.
Cioè, non che ne abbia visti morti... è
solo...» si
azzittì osservando preoccupato l'amica. «Stai
bene,
Althea?»
«Sì. Sono solo un po' stanca».
«Questo lo avevo intuito da solo, pensa un po'.
Stiamo camminando quando potremmo Smaterializzarci...»
«Oh, giusto. Ma se tu preferisci...»
«Fossi matto!» protestò il
ragazzo, sfoggiando
un sorriso smagliante. «Rinunciare a una romantica
passeggiata al
chiaro di luna in compagnia di un'incantevole damigella par
tuo?»
Althea ridacchiò, scompigliandogli i capelli
rossi e
ricciuti. «Questa era carina, Damien, devo ammetterlo, stai
facendo progressi».
«Owen è un ottimo maestro»
ammise il ragazzo con sincera ammirazione.
Althea soffocò una risata e, stringendo con
più
energia il braccio di Damien, affrettò il passo, impaziente
di
scoprire in cosa consistesse l'emergenza.
Quando varcarono la soglia della casa, Tristram, in piedi al
centro della stanza, stava parlando velocemente. Tristram parlava
sempre velocemente quando era arrabbiato.
John se ne stava appoggiato al caminetto, cupo, ascoltandolo
in
silenzio, mentre Aurelius e Guendalina sedevano sulla cassapanca che
custodiva lo scrigno delle Chiavi.
Tristram, accortosi dell'arrivo dei compagni, si
azzittì scoccando un'occhiata interrogativa ad Aurelius.
«Continua pure da dove sei arrivato, Tristram. Non
avranno
difficoltà a seguirti» lo incoraggiò il
mago.
Tristram annuì, scostandosi i capelli neri dagli
occhi.
«E' un Babbano. Ma la figlia è una strega e lui,
per
difenderla, si è addossato la responsabilità
delle
stramberie provocate dalla piccola; i vicini hanno avvisato i
Ghermidori e l'uomo è stato arrestato. Sarà
giustiziato
all'alba».
John imprecò, voltandosi bruscamente verso il
muro.
«Senza processo?» chiese pacato Aurelius.
Tristram si strinse nelle spalle. «I vicini hanno
visto
oggetti volare e il rissoso cane del fabbro è tuttora di un
bel
blu lapislazzulo. Non serve un processo».
«Dov'è ora la bambina?»
chiese John, fissando torvo le fiamme che danzavano nel camino.
«Oh, lei è al sicuro. L'ho portata a
casa mia. Rowena è rimasta con lei».
Aurelius annuì soddisfatto. «Marcus e
Owen?».
«Marcus ha seguito l'uomo spacciandosi per un
frate. Owen
è corso nella piazza a controllare la pira»
spiegò
Tristram, bevendo un sorso dal calice fumante che teneva tra le mani.
«Va bene, Tristram, sai cosa fare. Prendi una
Giratempo e della Pozione Polisucco e porta con te...»
«Io!» implorò Guendalina,
alzandosi dalla
cassapanca con un'agilità ragguardevole per una donna della
sua
età e della sua stazza. «Oh, ti prego Aurelius,
lascia che
sia io a prendere il posto del Babbano che salirà sul rogo!
E'
da tanto che non provo l'ebbrezza di un Incantesimo Freddafiamma! Ti
prego, Aurelius!»
Althea scosse il capo sorridendo e Aurelius
mormorò, cauto:
«Sì, Guendalina, ma si tratta di un uomo
e...»
«E dove sta il problema? Con la Pozione Polisucco
avrò il suo aspetto e la sua voce!»
«Sì, ma... ecco...» disse
incerto Aurelius, sfregandosi la nuca a disagio.
«Sì, Guendalina...»
intervenne Damien,
irriverente e per nulla a disagio. «Ma poi va a finire che ti
comporti come se fossi tu, come l'ultima volta. Ti assicuro che
è stato inquietante vedere un omaccione grande, grosso e
tutto
barbuto e peloso mandare baci al boia e saltellare eccitato attorno
alla pira su cui stava per essere legato!»
«Oh, mi sono solo distratta un pochino, quella
volta».
«Sì, certo. Solo distratta un pochino»
sottolineò il ragazzo dai capelli rossi alzando gli occhi al
cielo. «Abbiamo passato quattro ore - no, dico, quattro ore -
a
modificare memorie perché tu ti eri distratta un pochino!»
Aurelius annuì prudente, ma poi concluse:
«Va bene.
Ti daremo un'altra possibilità, Guendalina. Ma vedi di non
distrarti un pochino,
intesi?»
«Sì!» trillò la
donna entusiasta,
scoccando un bacio sulla testa brizzolata di Aurelius e cominciando a
saltellare allegra attorno al tavolo, trascinando con sé il
povero Tristram, reo di trovarsi sulla sua traiettoria.
«Credo sia meglio prepararsi a una lunga seduta di
manipolazione di memorie» profetizzò Damien,
avvilito.
«No!» si riprese la strega, mollando
Tristram che si
lasciò cadere, ansimante, su uno sgabello. «Non
manderò baci al boia e non saltellerò, davvero!
Al
massimo, se sarò troppo eccitata per trattenermi,
escogiterò qualcosa di più... virile, ecco. Tipo
una
sfida a chi sa fare pipì più lontano».
Un silenzio attonito scese sulla stanza, interrotto solo
dalle risate soffocate di Althea.
«Uh. Ripensandoci sarà meglio
rivalutare i baci al
boia, mi sa» proclamò convinto Damien qualche
istante
più tardi.
«Sa anche a me» approvò
Tristram.
«Quesito difficile e intrigante,
indubbiamente»
convenne Aurelius, sfregandosi il mento, pensoso. «Chiedo
quindi
venia se mi vedo costretto a ritornare a questioni meno filosofiche:
chi distrarrà il carceriere? Preferirei che Althea e John
riposassero questa volta. Ma, se Althea sarà così
gentile
da donarmi un suo capello, sarò oltremodo felice di
provvedere
io stesso».
«No, Aurelius. L'indubbio fascino di Althea non
servirebbe a
molto, temo» informò Tristram, rivolgendo un
sorriso
malizioso a Damien. «Il carceriere di turno è
Fitzwilliam».
«No!» esclamò Damien,
contrariato.
«Eh, temo di sì. E sappiamo tutti che
Fitzwilliam si
lascia distrarre soltanto dall'irresistibile malìa del
nostro
Damien!»
«Suvvia, Damien» intervenne sbrigativa
Guendalina,
afferrando il ragazzo per un braccio. «Smettila di fare i
capricci e sacrificati per il Bene
Superiore. Devi solo convincere il
giovanotto a bere un po' di Sidro corretto, in fondo. E che ci
vorrà mai».
«Che ci vorrà mai, dice lei! Che ci vorrà mai!
Ma perché non esistono carceriere femmine dico io... sia
chiaro
però che, se quell'energumeno si azzarda ad allungare le
mani,
lo sistemo con un bel Diffindo!»
«Bravo. Tanto di mani ne ha due»
convenne la donna con ammirevole senso pratico.
«E chi pensava alle mani»
precisò Damien, prima di venire trascinato all'esterno
dall'energica strega.
Tristram sogghignò, prese la Giratempo e le
ampolline affidategli da Aurelius e raggiunse rapido i compagni
all'esterno.
«Povero Damien» mormorò
Althea reprimendo uno
sbadiglio. «Gli preparò un po' dei dolcetti al
miele che
ama tanto, per consolarlo».
Quindi appoggiò la sua Chiave del Tempo sul
tavolo e, augurando la Buona Notte, uscì anche lei dalla
casa.
Il cielo all'orizzonte stava già schiarendo.
L'alba era vicina.
York, 3 maggio 1398 A.D.
Althea
intinse la piuma d'oca nell'inchiostro e fissò la pagina
inviolata.
Voleva raccontare la sua esperienza con la Chiave del Tempo.
Proprio come aveva fatto Aldebaran secoli prima.
All'improvviso un grosso gatto nero balzò sul
tavolo e si
accomodò, elegante, proprio al centro della pagina
inviolata,
leccandosi signorile una zampina anteriore.
«Balthazar!» esclamò
esasperata la strega,
tentando di spostare il felino che si limitò a guardarla
distratto prima di riprendere la sua scrupolosa pulizia.
Quando qualcuno bussò alla porta, il gatto
abbassò
le orecchie e arruffò il pelo, indispettito, ma mantenne la
sua
evidentemente confortevole postazione.
Althea scoccò un'occhiata al pezzetto di cielo
limpido che
si intravedeva dalla finestra: doveva essere passato da poco
mezzogiorno, a giudicare dalla posizione del sole. Probabilmente Damien
era venuto a mendicare qualcosa da mangiare.
«Entra pure, Damien» lo
invitò la donna,
ingaggiando un'aspra battaglia con Balthazar nel vano tentativo di
convincerlo a spostarsi. «Ho preparato i dolcetti al miele
che ti
piacciono tanto. Ma te li darò solo se mi racconterai tutto
della missione e di Fitzwilliam».
«Non sono Damien, temo» rispose una voce
dolce e
profonda, stranamente incerta. «Ma i tuoi dolcetti al miele
mi
piacciono molto. E sarò ben felice di raccontarti come
è
andata la missione, sempre che l'invito sia valido anche per
me».
Althea si voltò sorpresa verso la porta: John
sostava sulla
soglia, titubante, quasi temesse di vedersi sguinzagliato contro un
branco di lupi affamati.
Aveva anche le sue buone ragioni, a essere sinceri; spesso
si
facevano strani incontri a casa di Althea. Ma in quel periodo l'unico
ospite era Balthazar. Che sapeva anche essere dignitosamente feroce,
talvolta, ma mai con John, come dimostrava la solerzia con cui l'infido
felino si era precipitato a strusciarsi contro le gambe del nuovo
venuto.
«Certo che l'invito è valido anche per
te»
chiarì la donna, agitando la bacchetta magica e osservando
il
piatto colmo di dolcetti che, fluttuando leggiadro attraverso la
stanza, andò a posarsi davanti a lei.
L'uomo annuì, si tolse il mantello e le sedette
accanto.
Immediatamente Balthazar gli saltò in grembo, reclamando
carezze
che non tardarono ad arrivare. Althea sospirò: non era
normale
invidiare un gatto. Ma non poteva impedirsi di pensare che anche lei
avrebbe potuto fare le fusa se si fosse trovata al posto di Balthazar.
«Allora» cominciò l'uomo,
accarezzando con
distratta gentilezza il gatto con una mano e prendendo un dolcetto al
miele con l'altra. «Il Babbano è salvo. Guendalina
non si
è comportata troppo male, questa volta. Abbiamo dovuto
modificare solo un paio di memorie: un vero successo. Ora il Babbano e
la bimba sono in viaggio verso Londra. Tristram e Rowena sono con loro.
L'Orda locale è già stata avvisata, ci
penserà lei
ad aiutarli, in attesa che la piccola raggiunga l'età adatta
per
frequentare Hogwarts. L'uomo è un orafo. Potrà
continuare
a svolgere la sua professione anche a Londra e... avrà due
pezzi
molto speciali da aggiungere alla sua mercanzia».
«Scusa?»
«Le Chiavi del Tempo. Sono state date a lui.
Ovviamente non
sa cosa sono. Pensa siano solo due medaglioni... nel caso di quella
utilizzata da me è anche vero, ormai. Quella che hai usato
tu
è ancora intatta, invece».
Althea lo guardò sorpresa. «Davvero?
Chissà perché a volte si danneggiano e a volte
no...»
John si strinse nelle spalle. «Atreus pensa sia
tutta
questione di equilibrio, infranto o mantenuto. Credo sia una
spiegazione ragionevole».
Althea ci pensò un istante. «Aurelius
ha parlato di amore e di odio, se non sbaglio».
«Aurelius è un inguaribile
sentimentale, temo» fece notare John con tenera ironia.
«Forse. O forse è un uomo molto
saggio».
«Forse».
Althea sospirò. «Ma è
prudente? Voglio dire... affidare un oggetto così potente a
un Babbano?»
«E' la cosa più prudente, Althea. Per
lo meno
Aurelius ne è convinto. E Atreus concorda con lui. E'
rimasta
una sola Chiave. Se qualcuno dovesse azionarla nessuno potrebbe andare
a impedirgli di fare sciocchezze. Ma nessun Babbano potrà
mai
azionarla, ti pare?»
«Perché non distruggerla
allora?»
«Perché né Aurelius
né Atreus sanno
come fare. Senza contare che Atreus è contrario. Dice che se
le
stelle hanno voluto sette Chiavi è perché sette
Chiavi
servivano. E ora...» John guardò il gatto che
dormiva,
beatamente accoccolato sulle sue gambe. «Viene la parte
difficile».
«Che vuoi dire? Damien ha davvero usato il
Diffindo su Fitzwilliam?»
John rise disturbando Balthazar che sussultò,
spaventato.
«No, Fitzwilliam è anatomicamente integro, per
quanto ne
so» tornò serio, districando con delicatezza le
unghie del
felino che gli si erano impigliate nella tunica. «E' solo che
Aurelius mi ha imposto di spiegarti alcune cose che mi riguardano. Dice
che meriti di sapere».
«Aurelius è un inguaribile
sentimentale, temo».
«Forse. O forse è un uomo molto
saggio».
Althea sorrise divertita. «Forse».
John la ricambiò con un sorriso forzato, quindi
tornò serio. «Anch'io penso che tu meriti di
sapere cosa
mi ha spinto a comportarmi come mi sono comportato. Tutto è
cominciato esattamente venti anni fa. Come sai io non sono nato da
maghi, Althea. Entrambi i miei genitori erano Babbani. Ma io ero un
mago e, a volte, come tutti i bambini dotati di poteri magici, facevo
accadere cose strane. I miei vicini, terrorizzati, mi denunciarono ai
Ghermidori e una notte - quella
notte - Siegmund Serpeverde in persona
irruppe nella nostra casetta. I miei genitori tentarono di proteggermi
in tutti i modi. Mia madre arrivò a dire che era lei quella
dotata di poteri magici. Ma Siegmund non le credette e...» si
fermò, serrando la mano che teneva appoggiata al tavolo con
tanta energia che le nocche divennero bianche. «Li uccise.
Entrambi. Davanti ai miei occhi».
Althea allungò una mano coprendogli il pugno.
«Lo immaginavo».
John la guardò sorpreso e la donna
spiegò: «A Hogwarts riuscivi a vedere i
Thestral».
«Sì. E' vero. Come quasi tutti i
bambini nati Babbani
dell'epoca. Naturalmente ero io il vero obiettivo di Serpeverde. Era me
che desiderava uccidere...»
«E' stato Aurelius a impedirlo?»
«No, non esattamente. Lui è arrivato
dopo. Sono stato
io a impedirlo. Serpeverde non riusciva a vedermi. Ero lì,
in
piedi davanti a lui, pietrificato dalla paura e dall'orrore, ma lui non
mi vedeva. Aurelius dice che avevo istintivamente usato la Magia per
nascondermi dallo sguardo di quell'uomo. Sono riuscito a salvare me
stesso... ma non i miei genitori» concluse, fissando ostinato
il
gatto che gli dormiva in grembo.
«Eri solo un bambino, John».
«Allora sì. Ma ora sono un uomo. E con
la Chiave
avrei potuto tentare di salvarli. Come fece Aulo... ma non l'ho fatto.
A differenza di Aulo io ho scelto la vendetta»
sollevò gli
occhi e aggiunse, amaro: «Ho scelto l'odio, non
l'amore».
La donna gli accarezzò gentilmente la mano,
guardandolo addolorata.
Lui scosse il capo, incredulo. «Come puoi
toccarmi, Althea?
Come puoi non provare disgusto per un... essere come
me?»
Althea lo fissò, pensosa, avrebbe potuto
elencargli decine
di motivi. Ma non era quello il momento, John non le avrebbe creduto,
quindi si strinse nelle spalle e affermò: «Oh, ci
sono
molti motivi, John. Per esempio il fatto che sono cresciuta tra i
Black: ci vuole ben altro che un... essere come te per
disgustarmi».
L'ombra di un sorriso distese il volto del mago che
sollevò
la mano con cui stava ancora accarezzando Balthazar per sistemarle una
ciocca di capelli. «Oh, Alt...»
Althea lo azzittì, posandogli un dito sulle
labbra.
«Al. Solo Al, per te. Smettila di chiamarmi Althea se non
vuoi
essere trasfigurato in uno Snaso».
«In uno Snaso?» la donna
annuì e lui sorrise
più convinto. «E' già un miglioramento,
credo. Per
anni hai minacciato di trasfigurarmi in un Vermicolo».
«Vero. Probabilmente mi sto rammollendo.
Sarà l'età».
L'uomo dischiuse il pugno e, girando il palmo verso l'alto,
strinse la mano della donna che ancora copriva la sua.
«Grazie,
Al. Ho temuto davvero di averti persa, questa volta».
«No. Non hai mai corso il rischio».
Un vero sorriso illuminò finalmente gli occhi di
John.
Althea, sollevata, li scrutò assorta. Le erano
sempre
piaciuti gli occhi di John: avevano un colore caldo, che ricordava
quello del miele. Erano dolci. E tristi. Le ricordavano
quelli di tutti i randagi che aveva raccolto nell'avita dimora. Certo,
forse non era il caso di farlo sapere all'interessato, non era proprio
sicura che avrebbe apprezzato il paragone.
Quando l'uomo le lasciò andare la mano Althea si
riscosse.
Si rendeva conto del dono immenso che John le aveva fatto
quel
giorno. Si era aperto con lei come non aveva mai fatto in quasi
quindici
anni di conoscenza. Althea non lo aveva mai sentito tanto vicino e,
temendo che se avesse lasciato passare il momento lui avrebbe rialzato
tutte le sue barriere, decise di tentare il tutto per tutto.
Sorridendo ispirata si sporse oltre il tavolo e, afferrando
con
gentilezza il volto del compagno, gli sfiorò le labbra con
le
proprie.
Balthazar soffiò oltraggiato, ma Althea non ci
badò, piacevolmente sorpresa dalla reazione di John.
Non si era ritratto come aveva temuto, anzi... il suo audace
Grifondoro, dopo un istante di comprensibile sbalordimento,
era
passato a un lodevole contrattacco.
Improvvisamente nella mente della strega prese forma una
fugace
visione di lei che presentava John ai fieri membri della nobile casata
dei Black: non fu una visione edificante.
John era decisamente poco intonato al mobilio dell'avita
dimora; anche in versione attaccapanni...
Si irrigidì un po', preoccupata, ma John, ignaro
del serio
rischio che correva, reclamò nuovamente la sua attenzione
dando
maggiore slancio al suo assalto.
Althea sospirò beata: oh, in fondo c'era qualche
speranza
che i suoi amorevoli genitori non lo trasformassero in un attaccapanni,
dopo tutto. Era anzi probabile che lo ignorassero con la stessa
fatalistica rassegnazione con cui avevano ignorato ogni altro randagio
da lei portato nell'avita dimora.
Del resto, Althea aveva gli occhi grigi e ogni Black degno
di
questo nome sapeva bene che non ci si poteva aspettare nulla di buono
da un Black con gli occhi grigi. Erano strani i Black con gli occhi
grigi.
Propensi a devianze insensate.
E lei non faceva eccezione. Per sua fortuna.
Ed
eccoci alla quarta tappa del nosto Viaggio.
Una
tappa importante, perché conclude la prima parte della
nostra avventura: l'inizio della storia di Althea e John coincide,
infatti, con la fine della parte "antica" della nostra avventura sulle
tracce dei Custodi delle Chiavi del Tempo.
Nel
(e dal) prossimo capitolo le cose saranno un po' diverse, faremo la
conoscenza di un Custode delle Chiavi del Tempo un po' particolare, che
non avrà tanto il compito di custodire la Chiave superstite,
quanto quella di riportarla tra i maghi.
E ci troveremo, finalmente, circondati da personaggi a noi
già familiari. ^^
Detto
questo, permettetemi di aggiungere due parole sulla protagonista di
questo capitolo:
Althea Black.
Mi sono divertita molto a pensarla, sia perché è
stato carino immaginarsi una Black decisamente "alternativa", smistata
niente meno che nella nobile Casa di Tosca Tassorosso, sia
perché è stato interessante farla muovere in
un'epoca particolarmente adatta ad essere intrecciata con il mondo dei
maghi.
Per
lei ho scelto un nome non astronomico (le mie conoscenze in tale campo
si sono esaurite nello sforzo di trovare un nome ad Aldebaran xD) ma
floreale. L'Althea
Officinalis è infatti una graziosa pianta della
famiglia della malvacee, e capita, talvolta, che alle bimbe dell'antica
casata dei Black venga imposto un nome di origine floerale (Narcissa
è un esempio di questa abitudine e nell'albero genealogico
fornitoci dalla Rowling ricordo anche una Lycoris) quindi mi pareva
carino accennare anche a questa usanza. ^^
Così
come mi pareva carino dare unn passato anche alla figura del Ghermidore. Carino
e appropriato, anche.
La
Grande
Pestilenza
di cui si parla in questo capitolo è la tristemente famosa
epidemia di Peste Nera che devastò l'Europa tra il 1347 e il
1352.
E,
per finire, l'entusiasta Guendalina che non vede l'ora di farsi mettere
al rogo per provare la deliziosa sensazione solleticante di un
Incantesimo Freddafiamma è quella Guendalina la Guercia
di cui ci parla J.K. Rowling (nel terzo, libro, mi pare) e che, come
tutte le streghe davvero importanti, ha avuto l'immenso onore di
comparire sulle figurine delle Cioccorane. ^^
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Capitolo 5 *** L'importanza di chiamarsi Al ***
L'importanza di chiamarsi Al
Londra, 7 aprile
1966 A.D.
Alphard
lanciò la bacchetta magica sul tavolino e si
lasciò
cadere sul divano, fissando ancora incredulo il massiccio medaglione
dorato che stringeva tra le mani.
Un oggetto banale,
tutto sommato. Scovato in un anonimo, polveroso negozietto di Ipswich.
Alphard
era sicuro che agli occhi di chiunque altro quell'oggetto sarebbe
sembrato solo un bizzarro incrocio tra un grosso medaglione e un
vecchio orologio da taschino. Antico, sì. Ma non
particolarmente
bello, anzi...
La
sua pretenziosa sorella, ad esempio, non lo avrebbe neppure degnato di
una seconda occhiata: troppo ordinario per i suoi gusti squisiti.
Certo non poteva
competere con un'aggraziata
testa di elfo impagliata o con un leggiadro
portaombrelli ricavato da una zampa di troll, ammise obiettivamente
l'uomo, ma per lui non avrebbe potuto esserci nulla di più
bello
al mondo. O quasi. Del resto, Alphard non era mai stato dotato di gusti
squisiti e
aveva sempre trovato terrificanti gli orpelli che deliziavano Walburga.
E ora era a dir poco
euforico. Sprizzava entusiasmo da tutti i pori, mentre rimirava quel
poco squisito
medaglione.
Si sentiva come
presumeva dovesse essersi sentito Flamel dopo avere creato la Pietra
Filosofale.
Merlino! Stava
stringendo tra le mani un oggetto leggendario!
Danneggiato, certo,
ma pur sempre leggendario.
Non aveva dubbi in
proposito: quella che stava rimirando ammaliato era sicuramente una
delle Chiavi del Tempo.
Oh,
nessuna fenice scarlatta vi era miniata. Solo un diafano alone
serpeggiante occupava il centro del monile; un etereo, sinuoso serpente
consumato dall'implacabile trascorrere dei secoli.
Era la Chiave del
Tempo sbagliata, purtroppo. Quella non più funzionante.
Ma Alphard era
euforico lo stesso: se era riuscito a trovare quella, sarebbe
sicuramente riuscito a trovare anche la gemella.
Sorridendo
risoluto, si chinò sull'antico baule di legno rossiccio che
si
trovava ai suoi piedi, tracciando con un dito le arzigogolate lettere
intagliate sul coperchio: Al Black.
Era incredibile
quanto quel vecchio, banale baule aveva segnato la sua vita.
Il
ricordo di quell'incontro, per certi versi fatale, era tutt'ora
impresso nella sua memoria, vivido come il giorno in cui era avvenuto.
Si
rivedeva adolescente, un po' sperso tra i pittoreschi negozietti di
Portobello Road, circondato, per la prima volta in vita sua, da una
folla di Babbani; poteva ancora assaporare l'eccitante terrore che lo
aveva assalito.
Oh,
Alphard era sempre stato affascinato dai Babbani. Li osservava
interessato, di nascosto, non amando essere costantemente ripreso da
parenti di ogni ordine e grado per quello che veniva, con discrezione,
definito l'Abominevole
Vizio: un vero Black non poteva trovare affascinanti i
Babbani. Davvero. Non era nemmeno pensabile una simile
eventualità.
Di conseguenza, il
giovane Alphard si era tenuto a ragionevole distanza dai Babbani per i
primi diciotto anni della sua vita.
Fino a quel luminoso
mattino di fine estate di ventun anni prima, insomma.
Ma
una sfida era una sfida, che diamine! E una bella ragazza era una bella
ragazza. E Artemisia Greengrass era decisamente una bella ragazza,
valeva qualsiasi sfida. Anche quella di fingersi Babbano per un giorno,
mischiandosi tra i Babbani e facendo le cose che facevano i Babbani.
Alphard non aveva proprio potuto sottrarsi a quella che, tra l'altro,
gli sembrava una nuova, meravigliosa avventura.
E
lui non sapeva resistere alle nuove avventure - meravigliose o meno -
quindi aveva accettato l'insolita sfida; vincendola alla grande.
Artemisia
era rimasta ammirata dal versatile ardimento da lui sfoggiato in
quell'occasione, e Alphard si era goduto con piacere tale incontenibile
ammirazione...
Certo,
non le aveva mai confessato di essersi divertito parecchio a mischiarsi
tra i Babbani. Erano molto interessanti i Babbani di quell'epoca:
vivevano circondati dalle macerie causate da quella terrificante follia
nota come Seconda Guerra Mondiale, ma erano animati da una voglia di
vivere assolutamente irresistibile, quasi fossero inebriati dalla pace
appena ritrovata: facevano cose interessanti; i mezzi con cui si
spostavano erano interessanti; per non parlare dell'interessantissimo Cinema...
Alphard era rimasto ammaliato dal Cinema. Era molto meglio delle
fotografie magiche! In un certo senso poteva essere paragonato a un
Pensatoio. Molto più creativo, però. Non mostrava
ricordi. Mostrava sogni.
E poi c'era stato
l'incontro fatale con quel vecchio baule su cui era inciso il suo nome.
Be', più o meno.
Il
venditore - un allampanato, malinconico Babbano con capelli impomatati
e spessi occhiali dalla buffa montatura - glielo aveva venduto per
pochi spiccioli sostenendo che era bello, sì, e antico
anche. Ma
irrimediabilmente rotto. Non c'era verso di aprirlo. Pareva incollato.
Ma forse con una sega...
Alphard non
possedeva una sega. Possedeva una bacchetta magica, però.
E
un Alhomora ben assestato era stato sufficiente per aprire il vecchio
baule: non era né rotto né incollato. Era solo
magico.
Era
stato destabilizzante scoprire che antichi oggetti magici erano, solo
Merlino sapeva come, finiti in mani Babbane. Ma ancora più
destabilizzanti erano stati i due oggetti contenuti nel baule.
All'apparenza sembravano innocui, ma avevano segnato profondamente la
vita di Alphard: scoprire di essere il terzo Al Black non era stato
privo di conseguenze.
L'antica
pergamena scritta, usando impeccabili caratteri runici, da Aldebaran
Black (o Al Primo, come lo chiamava scherzosamente Alphard) era stata
un'intrigante rivelazione: le leggendarie Chiavi del Tempo - che
Alphard aveva sempre creduto non più reali dei Doni della
Morte
- erano davvero esistite.
Il
vecchio diario di Althea Black (Al seconda) era stato più
ostico
da apprezzare - non essendo Alphard particolarmente interessato alla
preparazione di irresistibili dolcetti al miele o, men che meno, alla
conquista di un riservato Grifondoro dagli occhi dolci e tristi come
quelli di un randagio - ma lo sforzo della faticosa lettura era stato
abbondantemente ripagato dalla parte scritta in caratteri runici, che
rivelava parecchie altre cose interessanti sulle Chiavi del Tempo: come
il fatto che, alla fine del quattordicesimo secolo, erano state
allontanate dalla stirpe dei maghi e affidate a un ignaro orafo
Babbano. Alphard, sapendo che non era una cosa semplice distruggere
oggetti creati con la Magia, si era convinto che esistessero ancora.
E
proprio su quella convinzione aveva basato la scelta della sua
professione: sarebbe diventato un Rintracciatore.
Avrebbe cioè
cercato gli oggetti magici finiti in mani Babbane per riportarli nel
mondo dei maghi.
Era qualificato,
fortunatamente, visto che su espresso ordine del padre - fermamente
intenzionato a guarirlo dall'Abominevole
Vizio
mostrandogli quanto noiosi e inferiori fossero i Babbani - Alphard
aveva, unico tra i Black, seguito con profitto il corso di Babbanologia.
I
parenti avevano persino approvato la sua scelta: lavorare per il
Ministero della Magia era una cosa dignitosa e riportare tra i maghi
degli oggetti magici, salvandoli dalle poco accorte cure di inetti
Babbani, era senza ombra di dubbio una nobile missione.
Il
più felice e soddisfatto, però, era proprio
Alphard:
aveva trovato un lavoro che amava e che gli permetteva di coltivare l'Abominevole Vizio -
che non era affatto stato guarito dallo studio di Babbanologia - con il
compiaciuto benestare dei parenti tutti.
Improvvisamente un
ticchettio martellante distolse Alphard dai suoi ricordi.
Un sinistro gufo
nero batteva con impazienza il becco bruno contro il vetro della
finestra che si trovava alle spalle del mago.
Sospirando,
Alphard ripose il medaglione nel baule e raggiunse la finestra:
conosceva quel gufo luttuoso e impettito. Era Deimos, il degno pennuto
di sua sorella Walburga.
Quando
aprì la finestra, il rapace lo fissò con i suoi
solenni
occhi gialli, lasciò cadere un'inquietante busta scarlatta e
se
ne volò via.
Allibito, Alphard
aprì la missiva che somigliava assurdamente a una
Strillettera.
Forse
perché era
una Strillettera, realizzò incredulo quando
quella gli sfuggì dalle mani e, posizionandosi davanti al
suo
naso, cominciò a urlare con la potente voce della sua
diletta
sorella maggiore, ricoprendolo di improperi e avvisandolo di non osare
dimenticarsi la cena di famiglia in programma per quella sera.
Quando
la lettera prese fuoco, accartocciandosi per poi annegarsi nel grande
acquario posto accanto al divano, Alphard si sfregò
sbigottito
la fronte: era da più di vent'anni che non riceveva una
Strillettera. Era fuori allenamento.
Sospettava,
tra l'altro, che le Strillettere di sua madre non fossero terrificanti
quanto quelle di Walburga. Nemmeno lontanamente.
Sembrava
proprio che, questa volta, non avrebbe potuto inventarsi una
dimenticanza per saltare il supplizio di una cena tra Black. Peccato.
Abbassando
gli occhi guardò desolato i suoi vecchi jeans scoloriti,
chiedendosi se fosse il caso di cambiarsi. Erano comodi quegli abiti e
gli piacevano molto, ma a Walburga sarebbe probabilmente venuta una
crisi isterica se si fosse presentato così.
Combattuto,
Alphard si avvicinò alla credenza in stile coloniale
ereditata
da zio Marius - ufficialmente non era mai esistito uno zio Marius, ma
ad Alphard era sempre piaciuto molto: aveva gli occhi grigi e un gusto
non squisito
in fatto di mobili - e lanciò un'occhiata critica allo
specchio che la sormontava.
Gemette,
scrutando i lunghi capelli neri che gli spiovevano ribelli sulla
fronte. Oh, sì, a Walburga sarebbe decisamente venuta una
crisi
isterica vedendolo arrivare.
Stringendosi
nelle spalle, si scostò le ciocche di capelli che gli
coprivano
gli occhi. Occhi grigi, come quelli di zio Marius. Sarebbero bastati
loro a fare venire a Walburga una delle sue proverbiali crisi
isteriche. Be', visto che a quello non poteva proprio porre rimedio,
tanto valeva rassegnarsi e fare in modo che l'inevitabile crisi
isterica fosse almeno motivata.
Guardando
nervoso l'orologio che portava al polso, ripescò i resti
carbonizzati della Strillettera dall'acquario - altro lascito di zio
Marius - versò un po' di cibo ai pesci rossi che vi
nuotavano
tranquilli e, afferrata la bacchetta, si preparò a
Smaterializzarsi.
Poi
ci ripensò. Indossò sogghignando il giubbetto di
pelle
scura abbandonato sul divano, afferrò il mazzo di chiavi
appoggiato sul mobile basso che si trovava accanto alla porta e
uscì dall'appartamento, dirigendosi deciso nel cortiletto
sul
retro della casa.
Salutando
cortese la sua anziana vicina, si concesse qualche secondo per ammirare
la grossa moto scura e lucente posteggiata all'ombra di un vecchio
ciliegio.
Scrutò
quindi il cielo quasi limpido, osservando scettico le grosse nubi
livide che si stagliavano all'orizzonte e salì sulla moto.
L'accese, godendosi l'inebriante sensazione del motore che ruggiva
potente e partì ridendo felice: oh, sì, il suo
arrivo
avrebbe sicuramente procurato a Walburga una crisi isterica memorabile!
Mentre
si districava con abilità tra il traffico londinese, Alphard
capì di avere sottovalutato le nubi temporalesche che si
stavano
ammassando, rapide e minacciose, sopra la sua testa.
Quando
grosse gocce di acqua cominciarono a centrarlo con irritante frequenza,
decise di aggiungere un'altra motivazione alla crisi isterica di
Walburga e, parcheggiata la moto sotto una tettoia di metallo,
entrò in un piccolo pub caratterizzato da una graziosa
insegna
blu decorata da una miriade di puntini bianchi che formavano una
scritta un po' nebulosa: "The Galaxy".
Era
il suo pub preferito, lo aveva scoperto alcuni anni prima e, trovandolo
indiscutibilmente appropriato per qualcuno che si chiamava Alphard, ne
era diventato un cliente affezionato.
Jordan
O'Sullivan, il gioviale, Babbanissimo proprietario, conquistato dal suo
originale nome astronomico, gli aveva subito offerto un'amicizia
incondizionata e la solenne promessa di chiamare Alphard il primo
figlio. Fortunatamente per tutti, l'unico rampollo maschio di Jordan
aveva avuto il buon senso di nascere il 12 aprile del 1961 ed era stato
chiamato Yuri, in onore di Gagarin, il primo uomo che, proprio quel
giorno, aveva avuto il piacere di farsi un giretto nello Spazio.
E Jordan era
ossessionato dallo Spazio.
Il
"The Galaxy" ne era la prova più lampante,
constatò
Alphard, scrollandosi come un grosso cane e osservando affascinato le
numerose immagini di pianeti, di navicelle spaziali e di astronauti
che, dopo avere colonizzato ogni palmo di parete disponibile, stavano
invadendo, inesorabili, anche il bancone.
«Alphard!»
Lo
accolse allegro Jordan, brandendo un giornale un po' spiegazzato.
«Ti davo per disperso, ormai! E' da un bel po' che non ti si
vede da queste parti! Se cerchi Erin non c'è. Credo sia a
Cambridge, per uno di quei noiosi seminari su quelle diroccate
antichità che tanto ama».
Alphard
sorrise e si avvicinò all'amico. «Lo so
perfettamente.
Tale noioso seminario era in programma da mesi e Erin ed io siamo
soliti comunicare, di tanto in tanto, sai?»
Jordan
lo scrutò in tralice e sbuffò.
«Credimi, Al,
è meglio per tutti se evito di soffermarmi troppo su cosa tu
sia
solito fare con la mia sorellina».
Alphard
sogghignò divertito. «E' troppo presto per
qualcosa di forte?»
Jordan
sbirciò l'orologio da parete semi-sommerso da una
gigantografia
della luna e si strinse nelle spalle. «Direi proprio di no.
Hai
davvero bisogno di qualcosa di forte, amico, pare che tu abbia appena
visto un marziano».
«Peggio,
sono reduce da una... uh... telefonata...
di mia sorella. E sono in procinto di affrontare una cena di
famiglia».
Jordan
annuì comprensivo - era il settimo di otto figli: Alphard
non
riusciva a spiegarsi come potesse essere ancora più o meno
sano
di mente - e gli allungò un bicchiere colmo della celebre
specialità della casa.
Alphard
si arrampicò su uno degli alti sgabelli di metallo che
fronteggiavano il bancone e accettò grato la misteriosa
bevanda
opalescente. Nessuno sapeva cosa contenesse di preciso - Jordan non
avrebbe svelato l'arcano neppure sotto tortura - ma era buona e forte
al punto giusto. Sapeva vagamente di anice, decise Alphard sbirciando
incuriosito il giornale abbandonato davanti ai suoi occhi.
«E'
davvero terribile» esclamò, dopo avere scorso
velocemente
l'articolo che occupava la pagina su cui era aperto.
«Cosa?»
chiese Jordan, guardando preoccupato il bicchiere di Alphard.
«Questo
povero bambino assalito da un lupo in Cornovaglia. Ma non stavi
leggendo questo, Jordy?»
«Ah,
no. In realtà stavo leggendo quello» ammise il
Babbano,
indicando con malcelato entusiasmo il trafiletto vicino. «Non
mi
dire che ti sei perso tutta questa storia di Luna 10!»
Alphard lo
scrutò sbigottito. «Luna... cosa?»
Jordan scosse il
capo alzando gli occhi al cielo. «Luna 10.
Sei senza speranze, Al. Sempre perso alla ricerca dei tuoi decrepiti
gingilli invece di dedicarti alle faccende davvero importanti! Con un
nome come il tuo non puoi non interessarti a questa cosa fantastica che
è la conquista dello Spazio! Da quattro giorni nell'orbita
della
luna c'è un satellite artificiale attrezzato per studiarla: Luna 10,
appunto. Non lo trovi grandioso? Sono sicuro che tra qualche anno
riusciremo a spedirci un uomo, lassù! Non sarebbe
fantastico?»
Alphard
scrutò affascinato il viso lentigginoso di Jordan,
trasfigurato
da un'incontenibile eccitazione, e si strinse nelle spalle, dubbioso.
«Ma che utilità avrebbe spedire un uomo sulla
luna,
Jordan?».
«Che
utilità avrebbe? Be', scopriremmo finalmente cosa
c'è
davvero lassù! Noi...» esitò, in cerca
delle parole
adatte. «Noi impareremmo qualcosa di nuovo, quindi saremmo
tutti
un pochino migliori, non trovi?»
Alphard
scosse il capo, divertito. E ammirato. Sotto alcuni aspetti invidiava
Jordan. Invidiava i Babbani in generale. Invidiava quella loro
inesauribile brama di sapere, di scoprire, di conoscere. Di
migliorarsi. Una brama che aveva loro permesso di elevarsi al livello
dei maghi, ormai. Erano riusciti a ovviare, con quella che chiamavano
tecnologia, alla mancanza di poteri magici. Se non era ammirevole
quello...
Jordan,
sorridendo trasognato, ritagliò l'articolo che lo
interessava,
lo appese al bancone del pub con una puntina e sorrise alla giovane
coppia appena entrata nel locale.
Notando
che l'acquazzone era terminato, Alphard tentò di pagare ma
Jordan affermò offeso che offriva lui, naturalmente, per
festeggiare la buona riuscita della missione Luna 10.
Alphard,
a malincuore, rinunciò a insistere oltre. Conosceva Jordan:
quando si impuntava su qualcosa non c'era proprio verso di fargli
cambiare idea. Somigliava un po' a Walburga in questo.
Merlino, Walburga!
Biascicando
un ringraziamento e un saluto affrettato, scattò in piedi e
uscì dal locale, ignorando ostinatamente il sorrisetto furbo
di
Jordan. Inforcata la moto, puntò quindi diritto a Grimmauld
Place numero 12: con un po' di fortuna sarebbe arrivato in perfetto
orario per la fantomatica cena di famiglia che non poteva azzardarsi a
dimenticare.
Era anche abbastanza
sicuro che avesse un motivo particolare, quella cena. Se solo fosse
riuscito a ricordarsi quale...
Una manciata di
minuti più tardi, Alphard spense la moto: l'Avita Dimora di
Orion Black e famiglia si stagliava in tutto il suo squisito
splendore davanti ai suoi occhi. Era in perfetto orario,
constatò sollevato, osservando i Babbani che camminavano
frettolosi, tentando di evitare le pozzanghere più profonde.
Alcuni
di loro lanciavano occhiate bramose alla moto di Alphard - qualche
esemplare di genere femminile le lanciava direttamente ad Alphard, a
essere sinceri - ma nessuno sembrava notare l'edificio contrassegnato
dal numero 12, malgrado fosse caratterizzato da particolari (il grosso
battiporta d'argento a forma di serpente, ad esempio) piuttosto
appariscenti: gli incantesimi Respingi-Babbani funzionavano alla
perfezione.
Alphard
smontò dalla moto e si avvicinò mesto all'Avita Dimora:
non aveva mai amato quelle riunioni di famiglia. I suoi orgogliosi
parenti riuscivano sempre a farlo sentire in qualche modo inadeguato.
La
sua espressione corrucciata si addolcì un poco quando scorse
il
bambino dai capelli scuri che, standosene rannicchiato sugli scalini di
pietra antistanti il portone laccato di lucida vernice nera, fissava
assorto quattro ragazzini intenti a prendere a calci una malconcia
palla arancione.
Intenerito,
l'uomo si avvicinò al bambino e sussurrò con
gentilezza:
«Uno Zellino per i tuoi pensieri».
Il piccolo
sussultò, balzando in piedi e inciampando nell'elegante
tunica scura.
Alphard
lo afferrò stringendolo in un abbraccio affettuoso e sorrise
deliziato quando il bimbo gli gettò le braccia al collo
urlando
entusiasta: «Zio Al! Ti stavo giusto aspettando! Avevo paura
che
non venissi! Wow, sei venuto con la tua motoclicetta!»
«Mmm, motocicletta,
per la precisione, Sirius, non mi sembravi tanto concentrato sul mio
arrivo, però. Avrei potuto trasfigurarti in un serpente
d'argento e appenderti al portone per fare compagnia al battiporta e tu
non te ne saresti neppure accorto».
«Non
è vero!» protestò il piccolo con
veemenza.
«No?
Va bene, fingerò di crederci. Ma secondo me eri
più
interessato a loro...» disse l'uomo, indicando con un cenno
del
capo i bambini Babbani.
Sirius
corrugò la fronte, giocherellando distratto con la cerniera
del
giubbino di Alphard. «E' solo che mi annoio, zio. Non ho
nulla da
fare e mi tocca starmene tutto il giorno rinchiuso in quella
casa».
«Non puoi
giocare con Regulus?»
«Regulus?
Mff, sta prendendo una brutta piega quello là, sai? Davvero.
Sta
diventando uguale ai nostri genitori. Ma proprio uguale-uguale»
affermò il bimbo, stringendosi affranto nelle spalle.
Alphard
trattenne un sogghigno - non voleva che Sirius pensasse stesse ridendo
di lui - anche lui da bambino si era sentito così. E anche
lui
era rimasto deluso quando si era reso conto che Cygnus stava prendendo
una brutta piega, diventando uguale-uguale
ai loro genitori.
«Capisco»
mormorò con dolcezza, posando il bimbo a terra e
accovacciandosi
davanti a lui per poterlo guardare comodamente negli occhi. Occhi
grigi, come i suoi. Era davvero strana la genetica, a volte.
Capricciosa. Sirius sembrava più figlio suo che di Walburga
e
Orion. Un bambino fortunato, insomma.
«Io
vorrei tanto giocare con loro» affermò il bambino
fortunato dopo un breve, meditabondo silenzio. «Mi sembrano
simpatici. Ma mia madre dice che non posso. Ha fatto anche un
incantesimo e loro non mi vedono neppure. Perché un Black
non
può giocare con i Babbani, secondo lei» tacque un
istante,
fissando imbronciato i ragazzini. «Zio, cosa sono i
Babbani?»
«Oh.
Sono... esseri umani, Sirius. Come noi. Solo che non possono fare
magie».
«Nemmeno
con una bacchetta magica?»
«Nemmeno
con una bacchetta magica».
«Quindi
è questo che li rende... uh... inferi di ori?»
Alphard lo
guardò stranito. «Inferi di ori?»
«Sì,
mio padre non fa che ripetere che i Babbani sono inferi di ori come gli
elfi domestici. Vuole dire che sono poveri, zio? Che non hanno quelle
cose luccicanti di cui si ricopre zia Druella?»
«Ah. No,
non c'entrano gli ori. E neppure gli Inferi, Sirius. Credo che il
termine appropriato sia inferiori,
tutto attaccato. Vuole dire che valgono un po' meno di te,
perché non possono fare qualcosa che tu sai fare».
«Oh.
Mi pareva. Non è una cosa brutta non possedere ori. Anzi...
zia
Druella è un po' ridicola a volte: sembra un albero di
Natale.
Però, zio, io non so fare quello che fa quel bambino con la
palla» osservò Sirius, indicando uno dei quattro
ragazzini
che palleggiava con grande maestria. «Quindi sono inferiore
al
Babbano?»
«Sirius!»
un urlo degno di una Banshee infuriata li distolse dalla spinosa
questione. «Allontanati subito da quel Babbano, come... oh,
sei
tu, Alphard».
Alphard
si alzò di scatto e guardò preoccupato Walburga:
faceva
un certo effetto, tutta impettita, avvolta nella sua funerea tunica
nera, e con la bacchetta minacciosamente puntata verso di lui.
«Ma
come ti sei conciato? Ti pare il modo di presentarti a una cena di
famiglia? Con quegli abominevoli abiti Babbani! E un Incantesimo
Accorciante ai capelli ti avrebbe richiesto troppo sforzo, suppongo. E
a proposito: ma quanto ci hai messo a Materializzarti!»
Alphard
approfittò della provvidenziale pausa - evidentemente anche
Walburga necessitava di respirare, di tanto in tanto - per tentare una
difesa e indicò la moto. «Non mi sono
Materializzato. Sono
venuto con...»
«Con
quell'Abominio? Con un mezzo di trasporto Babbano? Ma sei impazzito? E
proprio in questo momento così delicato per la famiglia!
Spero
che non ti abbiano visto i Lestrange!»
Alphard
la guardò un po' smarrito. Doveva essersi perso qualche
punto
fondamentale. Ma non se ne curò più di tanto,
troppo
divertito dalla scoperta che la voce di Walburga versione carne e ossa
era uguale a quella versione Strillettera. Ma proprio uguale-uguale!
«E
non restartene lì impalato come un elfo impagliato, per
l'albero
genealogico di Merlino! Siamo già in ritardo»
sbraitò la strega, agitando la bacchetta e scostandosi per
lasciare entrare Sirius e Alphard.
«Per
l'albero genealogico di Merlino? Questa non l'avevo mai sentita,
Walburga. Lo sai però che Merlino non aveva questo grande
albero
genealogico, vero? Lui era un nato Bab...»
«Sciocchezze!»
tagliò corto la donna lucidando con uno stizzito colpo di
bacchetta le scarpe un po' impolverate di Sirius. «Merlino
era un
Purosangue, senza ombra di dubbio. Sono stati i Babbanofili a mettere
in giro quelle disdicevoli voci su sue presunte ascendenze Babbane.
Figuriamoci! Un mago di quella potenza non poteva che essere
Purosangue!» concluse, chinandosi su Sirius per allacciargli
i
bottoni della tunica che lui aveva lasciato negligentemente sbottonati.
Alphard scosse il
capo, esasperato. «Il professor Silente è solito
dire che...»
«Silente
è, per l'appunto, un Babbanofilo della peggior specie. E non
solo
quello. Ha avuto il coraggio di dire a Bellatrix che i centauri
meritano rispetto perché sono esseri intelligenti».
«Che
assoluta mancanza di buonsenso, da parte sua»
affermò
ironico Alphard, strizzando l'occhio al nipotino. Il piccolo sorrise e,
approfittando della distrazione dell'augusta genitrice, si
slacciò nuovamente i bottoni.
«Già»
convenne convinta Walburga, che non era mai stata molto brava a
cogliere l'ironia. «La povera piccina ne è rimasta
sconvolta».
Alphard ne dubitava
seriamente, conoscendo bene la povera
piccina,
ma, affascinato da Sirius che, tenendosi cauto alle spalle della madre,
ne imitava irriverente l'andatura marziale, decise di soprassedere.
«Oh,
però potevi anche trovare il tempo di cambiarti, Alphard.
Sei
davvero impresentabile. Ti darei una tunica di Orion... ma sarebbe uno
spettacolo forse ancora più disdicevole, considerato che ti
arriverebbe appena a metà polpaccio. Mi chiedo da chi tu
abbia
preso. Nessuno in famiglia è così
alto!»
sbuffò la strega, indicando con un gesto vago la lunga
teoria di
ritratti di Black trapassati appesi alle pareti del corridoio che
stavano attraversando.
«Zio
Marius lo era».
La
donna lo fulminò con un'occhiata e precisò a
denti
stretti: «Non c'è mai stato nessun Black con quel
nome! Ti
pregherei di ricordarlo, Alphard. No, deve essere un carattere
ancestrale. Anche Sirius sembra avere ereditato la tua altezza oltre
che il tuo singolare colore degli occhi».
«Singolare
colore degli occhi?».
Walburga
annuì ostinata. «Certo. E' una particolarissima
tonalità, sospesa tra il nero chiaro e il blu scuro.
Stranamente
simile al colore delle nubi temporalesche».
«Definizione
molto lirica, lo ammetto. Sono deliziato soprattutto dal nero chiaro,
sì. Surreale ossimoro. Ma esiste una parola molto semplice
per
definire tale colore, sai Walburga? Grigio. Io e Sirius
abbiamo
semplicemente gli occhi grigi. Ci sono sempre stati Black dagli occhi
grigi, seppure tendano ad essere ricordati con reticenza, in
genere».
«Sciocchezze.
I vostri occhi non sono affatto grigi! Il grigio è tutto un
altro colore! Abraxas Malfoy ha gli occhi grigi. Non voi due. Ma ora
sbrighiamoci! Cygnus è già arrivato da molto. E
le
ragazze sono affamate».
«Le
ragazze?»
Walburga lo
gratificò di un'occhiata omicida. «Bellatrix,
Andromeda e Narcissa, naturalmente!»
«Sì,
Walburga, conosco i nomi delle figlie di Cygnus. Ma Bellatrix e
Andromeda non dovrebbero essere a Hogwarts?»
«Non
durante le vacanze Pasquali, Alphard! Non durante queste,
almeno».
Per la gioia di
Alphard, la cena passò senza particolari incidenti.
Del resto, le
persone ben educate non parlavano con la bocca piena. E i Black erano
sicuramente persone ben educate.
Alphard
passò tutto il tempo a escogitare una scusa plausibile per
abbandonare la ben educata compagnia alla fine della cena, quando,
complici le bocche desolatamente vuote, si sarebbe cominciato a parlare.
E
Alphard non aveva nessuna voglia di partecipare a un'entusiasta
incensatura di quell'opportunista dall'ego smisurato di Tom Riddle.
Ultimamente tutte le conversazioni della famiglia Black finivano per
essere entusiaste incensature di Tom Riddle. E Alphard non riusciva a
parteciparvi con la necessaria convinzione. Conosceva Tom Riddle - o
Lord Voldemort, come voleva essere chiamato al momento - meglio di
tutti i suoi familiari, ci aveva condiviso il dormitorio a Hogwarts per
sette anni, e non riusciva proprio ad avere tutta quella ammirazione
per lui. Senza contare che, quella sera, desiderava solo tornarsene a
casa per rimirarsi un po' la Chiave del Tempo ritrovata e dedicarsi
alla ricerca della gemella.
Non ebbe fortuna,
purtroppo.
Nessuna
scusa sembrava abbastanza valida per abbandonare il campo. L'ordine del
giorno non ammetteva defezioni, essendo di vitale importanza per la
nobile e antichissima Casata dei Black al gran completo.
I
Lestrange si erano detti interessati a unire le proprie fortune a
quelle dei Black, proponendo il loro rampollo primogenito - il giovane
Rodolphus - come aspirante fidanzato per la quindicenne Bellatrix.
E Bellatrix,
assetata di potere e di purezza del sangue, pareva oltremodo
compiaciuta.
Dell'opinione del
giovane Rodolphus non era dato sapere. Ad Alphard faceva comunque un
po' pena quel povero ragazzo.
Ma
non osò proferire verbo, forse anche perché
abbagliato
dagli ori sfoggiati dalla bionda Druella che quella sera - bisognava
dare ragione al piccolo Sirius - ricordava davvero un ricco albero di
Natale.
Alphard
reprimette uno sbadiglio molto poco opportuno. Quindi, approfittando
del fatto che erano tutti troppo occupati a commentare le ottime
conseguenze dell'offerta dei Lestrange per badare a lui,
Appellò
silenziosamente la copia della Gazzetta del Profeta abbandonata sullo squisito mobile
scuro alle sue spalle e cominciò a leggerla, cullato dal
brusio indistinto delle voci eccitate dei suoi parenti.
A un certo punto
notò un articolo che lo colpì particolarmente.
Aveva
già letto quella notizia sul giornale Babbano di Jordan: un
bambino attaccato da un lupo in Cornovaglia. Peccato che le cose non
fossero andate esattamente così, constatò,
osservando
raccapricciato la fotografia di un uomo distrutto che stringeva tra le
braccia un bimbo dai capelli chiari quasi totalmente nascosto da spesse
fasciature. Nell'articolo non comparivano nomi, ma Alphard conosceva
quell'uomo.
Inorridito,
balzò in piedi e, dimentico della fondamentale discussione
di
famiglia, esclamò: «Ma è
terribile!»
Gli sguardi dei
presenti si posarono sconcertati su di lui.
«Cosa
ci sarebbe, di grazia, di terribile nell'unione della nostra fortuna
con quella dei Lestrange, Alphard? E' vero, una loro trisavola
è
stata diseredata per quella brutta faccenda del Satiro ma, bisogna
ammetterlo, anche noi abbiamo i nostri scheletri
nell'armadio» lo
riprese Cygnus con un certo pudico imbarazzo.
Alphard
si riscosse. «Cosa? No, io... la brutta faccenda del Satiro?
Ma
non può essere che una leggenda, dai. Un'umana non
può...» sbirciò con discrezione i suoi
nipotini che
ascoltavano affascinati e decise che nessun racconto riguardante un
Satiro poteva essere adatto alle loro orecchie innocenti,
così
agitò il giornale e concluse: «Comunque, io mi
riferivo a
questo!»
«Ah,
quello» rispose Orion con un'alzata di spalle. «Una
brutta
faccenda, sì. Dolohov mi ha raccontato che hanno passato un
intero pomeriggio a modificare memorie di Babbani e a convincerli che
nessun uomo si era trasformato in lupo davanti ai loro occhi per poi
assalire un bambino. Ora sono tutti convinti che il ragazzino sia stato
assalito da un banale lupo».
Cygnus
annuì disgustato. «Già. Non ci si
può proprio fidare di Greyback...»
«Greyback?»
chiese Alphard pensoso. «E' uno degli amici di Riddle,
giusto?»
Walburga
negò oltraggiata: «Non dire assurdità,
Alphard.
Greyback è un licantropo! Un Abominio! Come si
può essere
amici di un Abominio? Diciamo che viene usato per lavori adatti a
lui».
«Usato
per lavori adatti a lui? Tipico di Riddle, sì. Ma che ci
faceva
un licantropo così vicino a una zona abitata da Babbani in
una
notte di plenilunio?» chiese Alphard confuso.
Druella
accarezzò i capelli biondi di Narcissa e
sussurrò, un
lampo indecifrabile negli occhi blu: «Dicono fosse
lì per
il ragazzino».
Alphard
sussultò: «Cosa? Per il ragazzino che ha morso? Lo
ha morso di proposito?»
Il cognato
sbuffò, agitando una mano annoiato. «Sembrerebbe
di sì. Ma se lo era cercato».
«Se
lo era cercato? Stiamo parlando di un bambino dell'età di
Sirius! Come può esserselo cercato? Greyback lo ha morso
volontariamente! Ha volontariamente rovinato la vita di quel bambino,
Orion» urlò Alphard non riuscendo a trattenere lo
sdegno.
«Oh,
magari saranno fortunati e il bambino morirà. Non
è
ancora fuori pericolo» osservò con indifferenza
Walburga.
Alphard la
fissò sconvolto. «Oh, certo. Walburga, tu ti
riterresti fortunata se uno dei tuoi figli morisse?»
«Sì,
se si fosse trasformato in un immondo ibrido!»
Druella
tossicchiò imbarazzata: «Cissy, tesoro, credo che
Regulus
stia crollando dal sonno, perché non lo porti in camera sua
e
gli leggi qualcosa? Sono sicura che gli piacerà. E porta
anche
Sirius con te, così ti mostrerà dove trovare un
bel
libro».
La
ragazzina si alzò sorridendo e annuì, prese per
mano i
due bambini e affermò sognante: «Sì,
così mi
alleno. Anch'io da grande voglio sposare un mago ricco e Purosangue per
perpetrare la stirpe».
Sirius
si divincolò sdegnato. «Io no! Non so cosa
farò da
grande. Ma di sicuro non sposerò un mago ricco e Purosangue
per pre...
per per...
insomma, per fare quella roba là alla stirpe! Proprio
no!»
Narcissa
scoppiò in una deliziosa risata argentina:
«Mannò,
sciocchino. Ovvio che a te non accadrà».
«Ah, ecco,
volevo ben dire io» affermò sollevato il ragazzino.
«Tu
sposerai una strega
ricca e Purosangue per perpetrare la stirpe»
rivelò
paziente la bambina, quindi uscì dalla stanza tenendo per
mano
il piccolo Regulus che, assonnato, non oppose resistenza.
Sirius
sgranò gli occhi e fece una smorfia di assoluto disgusto:
«Cosa? Sposare una femmina?
Ma così è ancora peggio! Almeno con un maschio
avrei
potuto giocare a Gobbiglie. Ma con una femmina... quelle non fanno
altro che piagnucolare e sbaciucchiarti tutte umidicce!».
Malgrado
tutto, Alphard non riuscì a trattenere una risata; Walburga
la
prese decisamente peggio, però, posò le mani sui
fianchi
e guardò il bimbo con un truce cipiglio:
«Sirius!»
Il piccolo
arretrò di un passo, ma sollevò fiero gli occhi
grigi fissando il viso della madre.
Fu
Andromeda a salvare la situazione, arruffando scherzosa i capelli al
cuginetto ed esclamando: «Ehi! Come sarebbe che una femmina
non
può giocare con te a Gobbiglie? Ritieniti sfidato,
nanerottolo,
ho proprio voglia di mostrarti un paio di cose su noi inutili
femmine!»
Il
bambino la guardò un po' scettico, ma poi
accettò,
afferrando la mano della ragazza e trascinandola fuori dalla stanza.
Alphard
aspettò che la porta si richiudesse per poi chiedere
incredulo:
«Preferiresti davvero vedere uno dei tuoi figli morto
piuttosto
che licantropo?"
Walburga
annuì con gelida serietà. «Certamente.
Preferirei
vederli entrambi morti, Alphard, piuttosto che vederli disonorare la
Casata. Sono sicura che Orion, Cygnus e Druella sono d'accordo con
me».
Alphard
scrutò inorridito i presenti. Druella sembrava un po'
incerta,
ma negli occhi dei veri Black c'era solo una terrificante sicurezza.
Evidentemente lui era proprio un Black fallimentare. I suoi parenti non
avevano mai mancato di farglielo notare, del resto. Sospirando mesto si
massaggiò la fronte e chiese: «Come sarebbe a
dire,
comunque, che il figlio di John Lupin se l'è
cercata?»
«Chi?»
chiese Druella confusa.
«Il
bambino aggredito dal licantropo che lavora per
Riddle».
«Non
è stato il bambino a cercarsela. E' stato il padre. Ha
offeso
Greyback» spiegò il cognato con insofferenza.
Alphard
lo squadrò incredulo. «Conosco John, lavora al
Ministero,
nell'ufficio accanto al mio. E' l'uomo più gentile e
disponibile
di questo mondo, Orion. Non saprebbe offendere qualcuno neppure
impegnandosi!»
«Non
ha dato a Greyback quello che gli ha chiesto. Ma perché ti
riscaldi tanto, Alphard. Quell'uomo è solo un Nato
Babbano».
«Non gli
ha dato... cosa voleva Greyback da John?»
Orion si strinse
nelle spalle. «Non lo so. E non mi interessa
particolarmente».
«Lo
so io!» affermò Bellatrix, eccitata.
«Rodolphus mi
ha raccontato tutta la storia! Suo padre era presente quando Greyback
ha fatto rapporto. Era furibondo, il mannaro, perché il
Sanguesporco che lavora al Ministero non gli ha dato la
lista».
Alphard
si sentì fremere per la voglia di prendere a sculaccioni
quella
ragazzina irritante che usava termini tanto volgari e maleducati per
indicare una persona piacevole come John, ma si trattenne -
evidentemente a Cygnus e Druella andava bene così - e
chiese:
«La lista? Quale lista? Un momento... John si occupa di
rintracciare i bambini dotati di poteri magici nati da genitori
Babbani. Greyback voleva che gli consegnasse la lista con i loro
nomi?»
La ragazzina
annuì, entusiasta. «Sì, Rodolphus dice
che Greyback voleva occuparsi
di quei marmocchi. Il Sanguesporco non glielo ha permesso e lui ha
deciso di occuparsi
del marmocchio del Sanguesporco».
Alphard
sgranò gli occhi, orripilato.
Cygnus
sospirò avvicinandosi al fratello. «Alphard,
bisogna pur
fermarla questa invasione incontrollata di Nati Babbani. Sono sempre
più numerosi, al contrario di noi Purosangue che diventiamo
sempre meno. Non possiamo starcene buoni a guardare mentre i Babbani ci
rubano la Magia».
«I
Babbani non ci rubano la Magia! Non solo non possono, Cygnus, ma non ci
pensano neppure. Non ne hanno bisogno. Ci hanno raggiunto. E superato,
forse! Hanno creato un manufatto che ora ruota attorno alla luna
studiandola, per Merlino! Noi, con la nostra Magia, siamo forse stati
in grado di fare qualcosa del genere?»
«E
perché mai avremmo dovuto?»
Alphard
prese il giornale, ancora aperto sull'articolo del bambino aggredito
dal licantropo, e lo piazzò sotto il naso del fratello.
«Perché? Ma per scoprire cosa c'è
davvero
lassù, Cygnus, per diventare tutti un po' migliori. Sarebbe
meraviglioso se la luna fosse il pretesto per miglioraci e non
l'elemento che permette al sicario mannaro di un mago di eliminare
bambini innocenti che hanno la sola colpa di essere nati nella famiglia
sbagliata! Pensavo che quei tempi fossero finiti. Che l'Ordine di
Merlino fosse stato sciolto perché ormai inutile. Ero
convinto
che i Babbani fossero protetti dal Ministero...»
«Ma
lo sono! Sono sicura che Lord Voldemort non voleva affatto eliminare
quei bambini. Probabilmente voleva solo conoscere i loro nomi per
controllare che non ci nuocessero. E' stato di sicuro quell'ibrido
disgustoso a fraintendere...» disse Druella.
Alphard la
osservò scettico. Druella era davvero convinta di quello che
aveva appena detto.
Druella non
conosceva Riddle, però.
Ma
lui sì. Ci aveva convissuto per sette anni. Era ambizioso
Riddle, oh, sì. Un po' megalomane anche e opportunista. Ma
non
poteva essere un simile mostro...
No, doveva essere
stata davvero un'idea di Greyback.
Sospirando
inquieto, Alphard salutò i parenti che accettarono
graziosamente
il suo congedo. Troppo impazienti di ricominciare a elencare gli
innumerevoli benefici di un'unione con i Lestrange per badare a lui,
probabilmente, o solo seccati dalla sua vibrante arringa pro-Babbani.
Ad Alphard
interessava poco il perché, era libero di andarsene e solo
quello importava.
Voleva
tornare a casa e dedicarsi alla ricerca della settima Chiave. Ma,
soprattutto, voleva allontanarsi il più possibile da quei
vuoti
discorsi su potere, superiorità e purezza del sangue che lo
avevano accompagnato fin da quando era bambino.
Un
tempo aveva anche creduto a quei discorsi, forse... ma dopo ventun anni
di quotidiane frequentazioni di Babbani, era sicuro che non avevano
alcun fondamento.
Attraversò
a passo sostenuto il lungo corridoio che portava all'uscita, ignorando
gli austeri ritratti che ne ornavano le pareti e fermandosi solo
davanti al portone d'ingresso tenuto socchiuso da un vecchio mattone
sbrecciato.
Un
po' sorpreso, Alphard uscì dall'edificio lasciando il
mattone al
suo posto, anche se non ne comprendeva l'utilità.
Respirò a
pieni polmoni l'aria fresca della notte, sentendosi improvvisamente
libero e leggero.
L'Avita Dimora
aveva il misterioso potere di fargli mancare l'aria, di farlo sentire
oppresso. Era felice che fosse stata Walburga, ad ereditarla.
Quando
cercò con lo sguardo la moto comprese l'utilità
del
mattone fermaporta: non era il solo a volersi godere la pace della
notte.
Sirius
sembrava avere avuto la stessa idea e, non possedendo ancora una
bacchetta, non avrebbe potuto aprire quell'infida porta priva di
maniglia senza ricorrere al battiporta. E Walburga e Orion non
avrebbero gradito particolarmente.
«Hai
già terminato di giocare a Gobbiglie con Andromeda,
noto»
osservò con noncuranza il mago, avvicinandosi al nipote
intento
ad ammirare la grossa moto illuminata dalla luce giallastra di un
lampione.
Il
ragazzino alzò le spalle, lo sguardo fisso sulla
motocicletta.
«Mi fai fare un giro, zio Al? Mi piace sedermi su questa cosa
mentre ruggisce. Sembra di cavalcare un drago! Se solo sapesse volare!
Credi imparerà?»
Alphard
rise, sorpreso. «Imparare a volare? Oh, no, non credo
proprio.
Non è viva, Sirius. E' solo un oggetto, come una
scopa».
«Ma le
scope sanno volare!».
«Sì,
ma solo se vengono sottoposte a un particolare incantesimo».
«Oh.
Perché allora non lo facciamo anche alla moto
quell'incantesimo?
Sarebbe fantastico volare lassù con questa!»
«Si
potrebbe tentare, immagino».
Sirius
annuì felice. «Allora, mi porti a fare un
giro?»
«Non
questa sera, piccoletto. E' tardi. Dovresti essere già a
letto da un pezzo».
«Andromeda
è convinta che lo sia, infatti».
«Ah, ecco.
Come è andata la vostra partita di Gobbiglie?»
Sirius
chinò il capo, abbattuto, poi sussurrò.
«Mi ha
stracciato. Andromeda non è male per essere una
femmina».
«No,
infatti. Andromeda è carina».
«Mmm. Zio,
posso farti una domanda anche se è tardi?»
Alphard
ridacchiò divertito, gli pareva che Sirius non facesse altro
che
tempestarlo di domande, ultimamente. Ma, ricompostosi, annuì
con
serietà: «Certo, Sirius, coraggio».
«Cos'è
un licantropo?»
Alphard
meditò un istante, poi sollevò il bimbo e lo fece
sedere
sul sedile della moto. «E' un essere umano, Sirius. Come noi.
Solo che nel suo corpo ospita lo spirito di un lupo».
«Un lupo?
Vuoi dire un lupo-lupo?»
«Sì,
un lupo-lupo.
E...»
indicò con un dito la luna appena calante che brillava nel
cielo
terso. «Nelle notti di luna piena, lo spirito del lupo prende
il
sopravvento e l'essere umano, costretto a sottometterglisi, si
trasforma per una manciata di ore in un lupo-lupo».
Sirius
sgranò gli occhi, meravigliato. «Wow! Mi piacciono
i lupi. Sono... eleganti».
Alphard
corrugò la fronte, pensoso. «Eleganti?
Sì, suppongo che lo siano».
«Lo sapevo
che doveva essere una cosa fantastica un licantropo! Mia madre ha detto
che è un Abominio...»
Alphard
lo fissò stranito e il piccolo sbuffò, prima di
spiegare
come se stesse parlando con un bambino poco sveglio: «Per mia
madre un sacco di cose sono un Abominio. Anche i tuoi vestiti lo sono.
E la tua moto. E la tua capanna, anche...»
«La mia...
capanna?»
Il
ragazzino annuì serio. «Sì. E' uno
degli Abomini di
cui parla di più, la tua capanna. Sembra proprio che tu sia
un
po' tutto un Abominio, zio».
Alphard
annuì serio. «Ne sono oltremodo
lusingato».
«Ecco.
Io non so proprio bene cos'è un Abominio, ma sembra che le
cose
che mi piacciono di più lo siano! Tu mi piaci. E anche i
tuoi
vestiti. E la tua moto... quindi anche i licantropi devono essere
proprio belli!».
«Tua madre
non sembra essere d'accordo».
«A mia
madre piace questa stupida tunica. Mica ci si può fidare di
quello che piace a lei...»
«Giusto. I
licantropi devono essere proprio belli».
«Già.
Eleganti come lupi. Mi piacerebbe essere un lupo, ogni tanto. Zio? Quel
bambino... quello del giornale, è un licantropo?»
Alphard
sospirò triste. «Sì, Sirius,
è un licantropo anche lui, ora».
«Bene. Mi
sa che quando andrò a Hogwarts lo cercherò e ci
diventerò amico».
«Non credo
che troverai quel bambino a Hogwarts, sai?»
«Io credo
che sarà facile trovarlo, invece. Dovrò solo
cercare il ragazzino elegante come un lupo».
«No, non
intendevo questo... non credo che a quel bambino sarà
permesso frequentare Hogwarts».
«Ma tutti
i ragazzini frequentano Hogwarts».
«E'
un licantropo, Sirius. La maggior parte della gente pensa che sia un
mostro, non credo che il preside Dippet gli permetterà di
frequentare la scuola».
«Oh, ma mi
sa che a Hogwarts li prendono i mostri, zio! Davvero. Bellatrix l'hanno
presa».
Alphard
ridacchiò, stringendo il piccolo in un abbraccio serrato e,
dopo
avergli sfiorato la testa con un rapido bacio un po' goffo, lo
posò a terra. «Potrebbe essere un precedente,
sì.
Staremo a vedere come si evolverà la cosa, ma ora fila a
letto,
è tardi e temo che tra non molto tua madre verrà
a
controllare se dormi. Non vorrai mettere nei guai Andromeda,
vero?»
Il
piccolo ci pensò un po', combattuto, poi scosse il capo:
«No. Non è male Andromeda. E' la Black che
preferisco.
Dopo di te, è chiaro... lei mica è un Abominio...
e poi
è pure una femmina».
«Giusto»
convenne serio Alphard. «Due grossi svantaggi, senza
dubbio».
Sirius
sorrise malandrino e, dopo un'ultima carezza alla moto, salì
di
corsa le scale di pietra spostando il mattone che teneva la porta
socchiusa. Prima di scivolare all'interno si voltò verso
Alphard
e annunciò: «Ho scoperto cosa voglio fare da
grande, sai
zio Alphard? Voglio diventare uguale-uguale
a te: dunque farò l'Abominio!»
Alphard
fissò allibito il portone richiudersi alle spalle del
nipote,
quindi scoppiò in una risata allegra e irrefrenabile, che lo
riappacificò con se stesso e con quel posto.
Quando si
calmò avviò la moto, dirigendosi verso la sua capanna, pronto a
cominciare la ricerca della settima Chiave del Tempo.
In fondo, non era
affatto male fare l'Abominio.
Ed
eccoci alla quinta tappa del nosto Viaggio.
Una
tappa importante, perché apre una nuova fase di questa
Storia.
La fase alphardiana.
Per
i prossimi capitoli sarà proprio Alphard la nostra "guida
turistica". Con lui attraverseremo gli anni Sessanta e Settanta. Anni
importanti per le Chiavi del Tempo... e anni importanti per la Saga di
J.K. Rowling. Alphard ci mostrerà, infatti, la sua personale
rilettura degli avvenimenti che accompagnarono l'ascesa di Voldemort...
e ci
mostrerà anche alcuni momenti particolari della famiglia
Black a
cui ha avuto la "fortuna" di assistere di persona. XD
In realtà, Alphard avrebbe dovuto fare una fugace
apparizione in questa
storia. Mai nella mia vita avrei pensato di scrivere di lui, infatti.
Sono stata "costretta" a farlo (ne La
Chiave del Tempo
è stato lui a regalare l'oggetto in questione ad Andromeda,
quindi non potevo evitare di farlo comparire in questa storia) e,
invece
di scriverci un capitoletto di sfuggita... mi sono trovata a eleggerlo
mio protagonista di tutta la parte centrale.
Che volete, il giovanotto ha un indubbio fascino... non ho proprio
saputo resistergli! ^^
Scherzi a parte, mi sono divertita tantissimo ad inventare un carattere
e un passato per questo misterioso - ma simpatico - Black di cui J.K.
ci ha detto solo il nome, che ha lasciato un'eredità a
Sirius e
che è stato cancellato dal famoso Arazzo di Famiglia.
Bene, io ho cercato di "costruirlo" tenendo presente questo minimo
Canon (un'operazione che avevo già tentato con Teddy ne "La Chiave del Tempo")
e mi è piaciuto moltissimo farlo (mi era piaciuto moltissimo
fare una cosa del genere anche con Teddy... è un'operazione
molto creativa e
affascinante, se non l'avete mai provata ve la consiglio caldamente ^^)
. Tra l'altro l'avere lui come protagonista mi ha anche
permesso
di tentare di capire certi lati di altri personaggi della Rowling che
mi
hanno sempre incuriosito. Tipo: come mai Sirius, rampollo di
un'antica famiglia fiera sostenitrice della superiorità del
Sangue Puro ha accettato con tanta naturalezza di frequentare
persone che, di sicuro, non avrebbero scatenato l'entusiasmo dei Black
regolamentari?
E il rapporto con lo zio Alphard potrebbe essere una plausibile chiave
di lettura.
Se sono riuscita nell'intento di creare un Alphard interessante e
plausibile starà a voi dirlo, naturalmente. ;)
Per finire le solite "Note
di Servizio":
Zio Marius è un
personaggio presentatoci da J.K. Rowling. Compare nell'Arazzo di
Famiglia (o meglio, non ci compare - in quanto fatto sparire
perché
Magonò - ma dovrebbe
comparirvi).
Bellatrix sposerà davvero il giovane Lestrange, ma
ovviamente la
situazione da me descritta e l'epoca in cui l'ho piazzata, sono solo
mie supposizioni.
Anche la spiegazione del motivo e della tempistica del morso di Remus
sono solo mie congetture... ma del resto sappiamo solo che Remus venne
morso da Grayback quando era un "bambino piccolo" (parole sue) e
perché il
padre aveva in qualche modo "offeso" il licantropo (sempre parole sue,
Remus non parla molto di se stesso nei libri, ma quando lo fa racconta
cose molto interessanti). Quindi la mia versione
non stravolge troppo il Canon, tutto sommato. ;)
Non so con esattezza se il papà di Remus fosse un nato
Babbano... ma so che almeno uno dei suoi genitori lo era (la Rowling ha
detto che Remus è un mezzosangue, quindi...) e, non
comparendo il
nome Lupin da nessuna parte (i maghi son praticamente tutti imparentati
tra loro) ho optato per questa scelta.
Luna10
è una missione
spaziale realmente avvenuta: il 3 aprile 1966, per la precisione, e mi
piaceva molto sia dare un riferimento temporale ben preciso all'episodio,
sia tentare un ardimentoso parallelismo tra mondo magico e mondo
babbano e fare vedere le due... facce della Luna:
ispiratrice di progresso (Babbani alla Conquista dello
Spazio) e
di barbarie (il Sicario Mannaro di Voldemort).
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Capitolo 6 *** La settima Chiave ***
Capitolo
Quinto
La
settima Chiave
Londra, 20 luglio
1969 A.D.
Alphard si
appoggiò al muro scrostato che si trovava alle sue spalle e
chiuse gli occhi, ignorando l'ironica risata che gli riecheggiava nelle
orecchie.
«Per
la barba di
Merlino, Alphard, non avrei mai pensato che una semplice
Smaterializzazione ti potesse ancora fare questo effetto» lo
dileggiò, divertita, una voce femminile. «Tua
sorella
è convinta che tu ricorra troppo spesso a quell'Abominio
Babbano
per spostarti. Be', forse tutti i torti non li ha...»
Alphard si
strinse nelle spalle e aprì gli occhi, fissando ancora
incredulo il grosso medaglione che serrava tra le mani.
No, non era
la Smaterializzazione la causa delle sue vertigini.
Oh, sotto
alcuni aspetti era fallimentare, come mago Purosangue... ma non fino a
quel punto.
«Ehi,
tutto bene?» chiese la voce femminile, non più
divertita ma velata di preoccupazione.
«Mmm»
borbottò il mago.
Poi - resosi
conto che
era molto sgarbato ignorare una signora limitandosi a rivolgerle
grugniti degni di un Troll afflitto da asocialità cronica -
alzò lo sguardo sulla donna che, stringendo tra le mani un
paio
di stivali neri decorati da vistose fibbie d'argento, lo squadrava
sconcertata.
«Può
anche
darsi che io usi troppo spesso mezzi di trasporto Babbani, Morrigan. Ma
non mi sembravi troppo dispiaciuta ieri sera, quando ti ho riportata a
casa con quell'Abominio Babbano...»
«Ne
convengo. Io non sono Walburga, del resto».
Alphard
sogghignò
riabbassando gli occhi sul medaglione. «Vero. Sembra che
neppure
tu sia dotata di gusti particolarmente squisiti».
«Se
con questo
intendi dire che non trovo irresistibile una testa di elfo impagliata,
allora mi vedo costretta a darti ragione. I miei gusti non sono neppure
lontanamente squisiti
quanto quelli di Walburga. Vedrò di
farmene una ragione e di convivere con questa crudele
sventura».
L'uomo
annuì
distratto, continuando a fissare il medaglione che teneva tra le mani e
la donna, sbuffando contrariata, si avvicinò per osservare
con
più attenzione l'oggetto che tanto affascinava il collega.
«Ripensandoci...»
disse poi sarcastica. «Forse tu sei dotato di
gusti più
squisiti di
quanto pensassi. Andiamo, Alphard, seriamente, quel
medaglione è terrificante. Non è esattamente
sobrio,
eh... ci fosse stato solo il serpente nero sul bordo allora
sì,
ma così... quella fenice è un vero e proprio
attentato
alla sanità oculare di qualsivoglia essere umano dotato di
un
apparato visivo nella norma»
«Io
lo trovo
bellissimo, invece. E la fenice è il suo particolare
migliore.
Guarda come è vivida, Morrigan. Sembra viva»
«Vivida
è un
eufemismo, mio caro. Non rende nemmeno lontanamente l'idea. Accecante,
mi sembra un aggettivo più vicino alla
realtà»
affermò la strega, sfiorando cauta il medaglione.
«Sembra
impregnato di Magia. Una Magia strana, però. Non umana.
Sarà qualche diavoleria dei folletti».
Alphard
scosse il capo. «Centauri».
«Cosa?»
«La
Magia che ha creato questo medaglione è dei centauri, non
dei folletti».
«I
centauri non costruiscono gioielli».
«Ma
i maghi sì».
«Centauri
e maghi? Non ho mai sentito di una simile collaborazione».
«Hai
mai sentito parlare di Cormiac, Kyros e delle Chiavi del
Tempo?»
La donna
scoppiò
in una breve risata incredula. «Sì, certo. Ho
sentito
parlare anche di Baba Raba, dello Stregone dal Cuore Peloso e dei Doni
della Morte, se è per questo».
Il mago si
strinse nelle
spalle e continuò a fissare assorto il medaglione. In fondo
era
abituato a non venire preso troppo sul serio. Walburga e Cygnus lo
avevano allenato parecchio in tal senso.
«Merlino,
Alphard... non puoi pensare davvero che quell'aggeggio sia una delle
Chiavi del Tempo! E' solo un vecchio medaglione. Rotto, per di
più, visto che nessun incantesimo sembra in grado di
aprirlo.
Dai, è più probabile che la bacchetta magica del
Professor Silente si riveli essere la Bacchetta di Sambuco!»
Alphard non
rispose,
limitandosi a guardare gli stivali che la donna stringeva ancora tra le
mani. «Anche quelli sono una leggenda, Morrigan»
disse poi,
indicandoli con un cenno del capo. «I bambini Babbani sono
convinti che li abbia indossati un orco per inseguire un ragazzino con
la mania di seminare briciole e sassolini, pensa un po'».
«Appunto.
I bambini
Babbani ne
sono convinti. Perché i maghi
lo hanno fatto loro
credere. Sono secoli che questi stivali sono finiti tra i Babbani.
Dovevamo pure inventarci qualcosa per rimediare al gesto di quello
sciagurato che, non contento di averli sottratti a un mago e di averne
fatto perdere le tracce, li aveva inopportunamente mostrati a qualche
ispirato cantastorie. Per fortuna quel mago francese... quel Pierrot
è riuscito a rimediare».
«Perrault».
«Fa
lo stesso. Lui.
Ma le Chiavi del Tempo sono una favola per bambini e null'altro. Una
storia inventata da qualche antico mago desideroso di mettere in buona
luce i centauri appena immigrati dalla Grecia».
Alphard
scosse il capo, cocciuto.
«Alphard,
se quella
è una Chiave del Tempo potrebbe benissimo esserlo anche
questo» esclamò un po' spazientita Morrigan,
afferrando il
medaglione d'oro che Alphard portava al collo. «Sono
praticamente
identici, vedi? Solo che il tuo non è decorato da fenici
abbaglianti e funziona alla perfezione» concluse, aprendolo e
ammirando sconcertata la fotografia della donna dai capelli ramati che
vi era custodita.
«Oh,
Alphard, lo sapevo! Sei un uomo romantico, in fondo»
sussurrò deliziata la strega.
Alphard
sospirò,
richiudendo il medaglione con un gesto secco e nascondendolo sotto la
camicia, poi borbottò, la voce più roca del
normale:
«Molto in fondo, sì...»
Morrigan
rise indicando
la cabina del telefono rossa che si trovava alla loro destra.
«Allora, uomo romantico, sei pronto ad entrare e a scatenare
il
leggendario entusiasmo di Glover con il ritrovamento degli Stivali
delle Sette Leghe?»
Alphard
sogghignò:
Glover, l'addetto all'Archivio dei Manufatti Magici, era famoso per la
sua capacità di entusiasmarsi di poco inferiore a quella del
Professor Rûf. «Certo. E poi gli daremo il colpo di
grazia
con quello della Chiave...»
«Ah,
io preferirei
evitare, Alphard» lo interruppe la strega, una punta di
esasperazione nella voce. «Non menzionerei le Chiavi del
Tempo.
Davvero. In tutta franchezza, ho un impegno importante, dopo cena... e
preferirei evitare di passare le prossime tre ore cercando di
rassicurare Glover circa la nostra sanità mentale».
«Ma...».
«Ma
niente,
Alphard. Quello è solo un vecchio medaglione rotto, creato
da
qualche folletto dotato di gusti particolarmente squisiti. E al
Ministero non sanno che farsene di un vecchio medaglione rotto. Se
proprio ti affascina tanto, perché non lo tieni tu? A Glover
non
dispiacerà di certo, e pare che tu abbia una vera passione
per i
vecchi medaglioni. Ovunque andiamo studi scrupolosamente ogni esemplare
che ci capita a tiro. Sempre. Qualunque sia l'oggetto della nostra
ricerca».
Alphard
sospirò un
po' imbarazzato - aveva sempre pensato che Morrigan non si fosse
accorta di quella sua abitudine - e ripose con attenzione il
medaglione nella tasca dei pantaloni.
Doveva
ammettere che la
collega non aveva tutti i torti. Conosceva Glover, non avrebbe mai
creduto all'esistenza delle Chiavi del Tempo e si sarebbe limitato,
imprecando in tutte le lingue di sua conoscenza, a sistemare l'oggetto
su qualche polveroso scaffale dell'Archivio dei Manufatti Magici.
Sarebbe
stata una fine
ingloriosa per quel manufatto leggendario. No, lo avrebbe tenuto lui.
Ne sarebbe divenuto il nuovo Custode. E chissà, forse un
giorno
avrebbe persino trovato il coraggio di...
«Siamo
d'accordo,
allora?» domandò Morrigan sfoggiando un cipiglio
vagamente
minaccioso che, ad un cenno d'assenso del mago, si tramutò
in un
sorriso soddisfatto. «Bene. Così
riuscirò ad andare
alla riunione a cui mi ha invitato Abraxas Malfoy».
«Riunione?»
«Sì.
Lord
Voldemort spiegherà dettagliatamente il suo
programma»
spiegò la donna, trascinando il mago nella cabina telefonica
«Sulla
Gazzetta del Profeta non era scritto».
«Certo
che no.
Vuole solo ascoltatori scelti. Tu sei un Purosangue, quindi
naturalmente puoi unirti a noi. Ci saranno anche i Lestrange. Il loro
primogenito sposerà presto tua nipote, giusto?»
«Sì.
Ma temo che dovrò declinare l'invito, Morrigan. Ho
già un altro impegno».
La donna
sbuffò,
sistemandosi una ciocca dei sottili capelli biondi sfuggitale
dall'austero chignon. «Peccato. Sarà per la
prossima
volta, allora».
Alphard
annuì, ma
era piuttosto propenso a credere che ci sarebbe sempre stato un impegno
precedente in concomitanza con le riunioni di Tom Riddle.
Il suo
vecchio compagno
di dormitorio aveva avuto un certo successo in quegli anni, era
innegabile. La maggioranza dei maghi Purosangue lo adorava, sostenendo
che le sue idee erano giustissime.
Alphard non
ne era così sicuro.
«Posso
sempre
raggiungerti dopo la riunione, Alphard» propose
all'improvviso
Morrigan, sfiorandogli con una carezza suadente un avambraccio, il viso
così vicino al suo da permettergli di sentire il vago aroma
di
violetta che le caramelle da lei preferite donavano perennemente al suo
alito. La proposta era intrigante, ma Alphard si vide costretto a
rifiutarla.
«Mi
dispiace,
Morrigan. Il mio impegno potrebbe rivelarsi abbastanza lungo. E
poi...» aggiunse scherzoso inalberando un broncio che, ne era
conscio, le donne sembravano trovare irresistibile. «Non sono
esattamente entusiasta del fatto che tu mi tenga come seconda scelta
dopo Riddle!»
«Ma
non mi dire! Non credevo che il tuo Ego maschile fosse tanto
fragile».
«E
invece te lo dico. Come hai argutamente notato: sono un uomo romantico,
in fondo».
*****
«Ciao,
Zio Al!»
Alphard
sorrise al
ragazzino dagli arruffati capelli ramati che saltellava allegro sulla
soglia del "The Galaxy" e smontò dalla moto guardando
sconcertato la luce azzurrina che filtrava dalla porta socchiusa,
quindi avanzò deciso verso il ragazzino e gli
scompigliò
i capelli.
«Ciao
Yuri, cosa fai qui tutto solo?»
Il bambino
raddrizzò la schiena e rispose spavaldo: «Sono in
missione
per conto di Papà. Mi ha detto che posso stare in piedi fin
quando tutto sarà concluso, questa notte, sai? Non posso
certo
perdermi il Grande Evento! Papà sarà felice che
sei
venuto anche tu».
Alphard non
ne dubitava.
Non aveva
ben chiaro
quale potesse essere il grande evento di cui parlava Yuri... ma era
sicuro che Jordan sarebbe stato contento della sua presenza.
Erano
più di tre
mesi che - occupato a girare il paese come una trottola, seguendo
contemporaneamente le tracce della Chiave del Tempo e degli Stivali
delle Sette Leghe - non metteva piede nel locale dell'amico, e si era
perso un appuntamento a cui non avrebbe proprio voluto mancare. Quella
sera
avrebbe finalmente rimediato: non poteva fare attendere oltre una
giovane donna che non vedeva l'ora di incontrare.
«Sai,
zio Al, credo che il tuo cucciolo non possa entrare, però...
neppure per assistere al Grande Evento...»
Alphard si
guardò attorno e chiese, un po' confuso: «Il mio
cucciolo?»
Yuri
annuì, indicando una specie di Pluffa nera e pelosa che
scodinzolava frenetica ai piedi del mago.
«Non
è mio,
non l'ho mai visto prima d'ora» affermò Alphard
deciso a
varcare la soglia del pub, ma la Pluffa scodinzolante lo
placcò
azzannandogli il bordo un po' sdrucito dei jeans.
«Pare
che lui ti
voglia conoscere, però» disse il ragazzino
divertito.
«O magari è solo che ha fame e ti ha scambiato per
un
Roastbeef gigante...»
Alphard,
borbottando
qualcosa di incomprensibile, si chinò per staccare i dentini
del
cucciolo dai calzoni. Il botololo però non pareva
intenzionato a
mollare la presa, così Alpahrd, dando le spalle a Yuri,
Evocò con discrezione un pezzo del pasticcio di carne
preparatogli per cena dalla sua materna vicina di casa e lo
offrì al cucciolo che, evidentemente soddisfatto dallo
scambio,
lasciò i pantaloni per addentare l'invitate bocconcino.
«Uhm...
viaggi
spesso con del pasticcio di carne nelle tasche, zio Al?»
chiese
Yuri sconcertato. «E pensare che mamma non mi permette
neppure di
metterci delle caramelle».
«Eh...
che ne dici di entrare ora, Yuri?»
Il ragazzino
scosse il
capo e sospirò: «Mi piacerebbe, ma non
posso»
indicò un punto poco lontano, dove due adolescenti
parlottavano
sommessi, le teste accostate e le mani intrecciate. «Devo
fare la
guardia a Caitlin. Quell'idiota di Edward ha intenzioni preoccupanti,
secondo papà» concluse bellicoso, mostrando la
fionda che
teneva stretta nella mano destra.
«Ah,
non mi pare
che Caitlin voglia una guarda del corpo. Mi sembra anzi che apprezzi le
intenzioni preoccupanti del giovane Edward...»
«Mfh...
lei
è una femmina. Mica lo sa cosa passa per la testa di quello
lì. Un fratello deve vegliare sulle sorelle, no? Tu non lo
fai
con la tua?»
Alphard ci
pensò
un istante, richiamando alla mente la visione di una Walburga
adolescente e scosse il capo. «In realtà no.
L'idea non mi
ha mai neppure sfiorato. Mia sorella non ne ha proprio
bisogno».
In effetti
era stata lei
a vegliare su di lui. Assicurandosi che nessuna ragazza non Purosangue
tentasse di insidiarlo. E non le serviva neppure la fionda...
Sogghignando
al ricordo,
il mago augurò buon lavoro al ragazzino ed entrò
nel pub,
stupendosi un po' dell'insolita penombra che lo caratterizzava e
osservando affascinato la fonte della misteriosa luce azzurrina che
aveva notato dall'esterno: una grossa scatola che somigliava vagamente
a un acquario, all'interno della quale un uomo parlava con aria
trasognata, stagliandosi davanti a una suggestiva immagine della luna.
«Ciao,
zio
Al!» lo distrasse una vocetta acuta, mentre piccole dita un
po'
appiccicose gli stringevano la mano. «Visto? Papà
ha
comprato una Tilivisione».
«Uff,
che
sciocchina che sei Gracie. Non è una Tilivisione, ma una
Tulivisione!»
la riprese una seconda vocetta.
«Ma
neppure per
idea, Abigail! Zio Al, perdonale, ma sono ancora piccole, loro due. In
realtà è una Televisione.
Così possiamo vedere il
Grande Evento!» intervenne un'altra voce squillante.
«Ah,
ecco, grazie
per la precisazione, Briana» affermò Alphard,
sorridendo
alle tre bambine brune che gli si erano strette attorno, ma prima che
potesse chiedere ulteriori informazioni in merito, si
ritrovò
stritolato in un abbraccio caloroso.
«Alphard!»
urlò entusiasta Jordan. «Finalmente ti si rivede!
E capiti proprio al momento giusto!»
Alphard
sorrise,
districandosi dall'abbraccio dell'amico. «Veramente non sono
passato per te, Jordy» notando la delusione del Babbano si
affrettò ad aggiungere: «Ho un appuntamento con
una
signorina che ho già fatto attendere troppo a
lungo».
L'espressione
di Jordan
si addolcì all'improvviso e un sorriso un po' ebete gli
stirò le labbra da orecchio a orecchio. «Oh,
certo,
capisco. Una creatura irresistibile. Io sono già innamorato
perso di lei!»
Alphard
sorrise, dandogli
una pacca comprensiva. «Immagino, sì. Come delle
altre
cinque, del resto. E' di sopra?»
Jordan
scosse il capo e
indicò un tavolino occupato da una donna bruna che
canticchiava
sommessa stringendo tra le braccia un fagottino rosa. «Non
può perdersi neppure lei il Grande Evento».
Alphard
annuì
avvicinandosi alla donna e si abbassò per osservare
incuriosito
il fagottino che si rivelò essere una neonata placidamente
addormentata.
«E'
davvero
bellissima, Lucy» affermò sincero, sbirciando di
sottecchi
Jordan per poi riportare lo sguardo sulla bimba. «Tutta la
sua
mamma. Per sua fortuna».
Lucy rise
mentre Jordan
grugnì risentito. «Ehi! E poi non è
affatto vero,
mio caro. Ha i capelli rossi, come me».
Alphard
sfiorò con
gentilezza la testina della bimba e rispose scettico: «Mi
pare
francamente eccessivo parlare di capelli, Jordan. Si potrebbe accennare
a quattro peli, volendo essere generosi...»
«Saranno
anche quattro peli... ma sono rossi. Anche Yuri era
così».
Lucy si
guardò
attorno alla ricerca dell'unico figlio maschio: «E' vero,
Alphard, Jordan ha ragione, questa signorina avrà i capelli
rossi... ma a proposito, dov'è Yuri?»
«Oh...
è... gli ho chiesto di svolgere un compito per me,
tesoro» rispose Jordan cauto.
«Jordan
O'Sullivan, spero per te che tu non gli abbia chiesto ancora di
sistemare la birra nella spina».
«No!
Certo che no. Non sono un padre così
degenere».
La donna
strinse il fagottino e inarcò scettica un sopracciglio.
«Er...
va bene, a volte commetto piccoli errori di valutazione,
forse...»
«Tranquilla
mamma» intervenne la ragazzina che sedeva sullo sgabello
vicino
al bancone leggendo con aria concentrata un grosso volume.
«Yuri
non sta facendo nulla che abbia a che fare con spine o birre».
«Grazie
Ailis. Vedi amore? Imparo dai miei errori, io».
«Yuri»
continuò Ailis con aria distratta. «E' fuori a
fare la guardia a Caitlin».
«Cosa?»
chiese Lucy con sguardo sconvolto. «Sta spiando Caitlin ed
Edward vuoi dire?»
«Sì»
intervenne Alphard senza staccare gli occhi dalla neonata. «E
mi
pare anche portato. Un'ottima guardia, con cipiglio fiero e fionda
pronta».
«Cosa?!
Fionda... Jordan, ma sei ammattito?»
«Ma
Lucy, quel ragazzo... Edmund...»
«Edward».
«Sì,
va bene, quello lì, è molto... espansivo,
ecco».
«E
allora? A Caitlin piace. E' noi ci fidiamo della nostra Caitlin,
no?»
«Di
Caitlin sì. E' di quello che non mi fido neppure un
po'».
«Edward
è un
bravo ragazzo. Oh, su Jordan, ti sarebbe piaciuto avere uno Yuri armato
di fionda a controllare i tuoi primi appuntamenti?» chiese
dolcemente la donna.
Jordan
aggrottò le sopracciglia e ammise. «Uh, non
particolarmente, no».
«Lo
sospettavo» sussurrò Lucy maliziosa. «Ed
Edward, in
questo momento, vuole stare da solo con Caitlin per gli stessi motivi
per cui tu, alla sua età, volevi stare da solo con me...
suvvia,
Jordy, non ti ricordi quelle sensazioni?»
Jordan
corrugò la
fronte e sbottò: «Non avevo pensato a questo,
Lucy! Ma ora
che mi ci hai fatto pensare...» si guardò attorno
e quando
scorse la sua robusta quartogenita ordinò secco:
«Briana!
Esci ad aiutare Yuri, subito!».
La bimba
scattò in
piedi, mostrò la sua fionda al padre ed uscì a
passo
marziale. Per alcuni versi la piccola Briana ricordava un po' Walburga
ad Alphard.
«Jordan
O'Sullivan» sibilò Lucy con voce tagliente come
gli
artigli di un ippogrifo. «Esci subito a recuperare i tuoi due
sicari».
«Uff.
E va bene. Anzi, farò di più. Inviterò
anche coso...
Edwin...»
«Edward!»
lo ripresero in coro Lucy e Ailis.
«Sì,
lui... a seguire il Grande Evento in nostra compagnia».
Lucy sorrise
soddisfatta
e attirò a sé il marito, stampandogli un bacio
affettuoso
sulle labbra. «Vedo che cominci a ragionare».
«Già,
se mi
impegno ci riesco anch'io» borbottò Jordan
dirigendosi
verso la porta, poi, prima di uscire, aggiunse:
«Così
almeno potrò controllare che quello non metta in
atto le
intenzioni che avevo anch'io alla sua età. Non con la mia
bambina, almeno!»
Alphard
sogghignò
allungando affascinato una mano verso la neonata e sfiorandole una
guancia, ritraendosi un po' sorpreso quando la piccola voltò
il
viso cercando il suo dito con la bocca.
Lucy sorrise
e gliela porse. «Prendila pure, Alphard. Non si rompe,
tranquillo».
L'uomo
annuì, un po' impacciato e prese la bimba tra le braccia.
«L'abbiamo
chiamata Erin» sussurrò poi con dolcezza la donna.
Alphard
sussultò e Lucy gli coprì gentilmente la mano che
reggeva la testina della bimba con la sua.
«Spero
non ti dispiaccia. Pensavo che a lei avrebbe fatto piacere».
Alphard
strinse la
piccola al petto e scosse il capo con decisione. «No, Lucy,
certo
che non mi dispiace, anzi. A lei avrebbe sicuramente fatto piacere.
Sarebbe stata al settimo cielo. E fa molto piacere anche a
me».
Era vero.
Erin avrebbe
adorato sapere che quella piccola O'Sullivan portava il suo nome.
Avrebbe adorato anche avere un bambino suo, in effetti. Ma Alphard non
ne aveva mai voluto sapere, e quando stava per capitolare...
serrò gli occhi, tentando di cacciare quello strano bruciore
alla gola. Non stava per piangere, naturalmente. I Black non erano
costituzionalmente capaci di simili debolezze. Che diamine.
«Alphard»
sussurrò con dolcezza Lucy. «Stai bene?»
Alphard
annuì e
sorrise, o almeno, tentò di farlo, sperando che la smorfia
comparsagli sulle labbra potesse essere scambiata per un sorriso.
Lucy fu
abbastanza amabile da prenderla per tale, notò grato
ridandole la bimba e passandosi rapido una mano sugli occhi.
Oh, era
davvero un Black fallimentare, concluse un po' abbacchiato, quando si
rese conto che le dita erano umide...
«Alphard,
non ti senti ancora in colpa per Erin, vero?»
Alphard
cercò di rispondere, i Black erano bravi a mentire... certo,
quelli non fallimentari come lui, magari.
«Oh»
gemette
la donna un po' esasperata. «Ora capisco perché
vai tanto
d'accordo con Jordan. Siete uguali! Irragionevoli e testardi allo
stesso modo! Probabilmente è anche il motivo per cui mi
piaci
tanto... Tu non hai nessuna colpa per quel fulmine che ha colpito il
treno su cui viaggiava Erin! Lo capisci, vero, che non puoi avere il
controllo dei fulmini?»
Alphard
annuì.
Certo che era ben conscio di non avere il controllo dei fulmini. Ma ad
incenerire il treno su cui viaggiava Erin non era stato un fulmine.
Quella era solo la versione data ai Babbani. Ad incenerire quel treno
era stato un Gallese Verde. Quindi lui non aveva colpe personali... ma
i suoi simili - che non si erano accorti in tempo di quel drago
scappato dalla riserva - erano colpevoli eccome per la morte di Erin e
di tutte le persone che viaggiavano con lei.
«Sai,
zio Al»
disse Ailis che, in un momento imprecisato, aveva abbandonato il libro
sul bancone e si era avvicinata al mago. «Tu dovresti proprio
uscire con un'altra donna. Zia Erin lo avrebbe voluto»
affermò decisa, per concludere con un sognante: «E
poi sei
un uomo così romantico...»
Alphard
sorrise sorpreso
e, suo malgrado, divertito. «Ah, Ailis, lo farei sicuramente,
e
ci sono almeno sette donne meravigliose nella mia vita ma, purtroppo,
una è già sposata con il mio migliore amico - un
irlandese dalla testa calda - e le altre sei sono tutte
minorenni» concluse fingendosi avvilito.
La ragazzina
ridacchiò lusingata, prima di venire trascinata via da una
delle
sorelle che indicava eccitata la televisione dove quattro giovanotti
dalle pettinature improbabili cantavano un'orecchiabile canzoncina che
parlava di un sottomarino giallo.
«Davvero
non
c'è neppure una donna adulta e non sposata con un irlandese
dalla testa calda nella tua vita, Alphard?» chiese con
serietà Lucy, dopo avere posato la piccola Erin nella
carrozzina.
Alphard
pensò per
un istante alla sua strana relazione con Morrigan... ma non era sicuro
che quel tipo di coinvolgimento avrebbe soddisfatto Lucy. Anzi. Si
stava giusto chiedendo se fosse il caso di parlare della cosa
all'amica, quando il locale cominciò ad essere invaso da
decine
di persone e Alphard, dimenticando Morrigan e tutto quello che la
riguardava, si trovò ad assistere, incantato e incredulo
come
tutti gli altri avventori del pub, al Grande Evento: il primo
sbarco dell'uomo sulla luna.
Londra, 21 luglio
1969 A.D.
Era
ufficiale,
pensò Alphard qualche ora più tardi, uscendo dal
“The Galaxy” e fissando trasognato la mezzaluna
quasi
perfetta che illuminava il cielo terso di quella notte sorprendente: i
Babbani avevano infine superato i maghi.
Checché
ne dicesse quell'esaltato di Tom Riddle!
Da qualche
parte,
lassù sulla luna, si trovava la minuscola impronta di un
uomo.
Di un Babbano. E questo qualcosa voleva sicuramente dire.
«Oh,
zio Al! Il tuo cane ti ha aspettato!» urlò
eccitato il piccolo Yuri.
Alphard
abbassò lo sguardo e gemette, ritrovando il cagnetto nero
tenacemente attaccato al bordo dei suoi pantaloni.
«Uhm...
un'altra
femmina conquistata dal tuo fascino tenebroso, Al?» chiese
Jordan
che arrivava in quel momento trasportando un grosso sacco di rifiuti.
Alphard
sbuffò, prese in braccio il cagnetto e lo studiò
con attenzione prima di rimetterlo a terra.
«Non
è una
femmina, Jordan» affermò osservando la bestiola
che
annusava curiosa le scarpe di Jordan per poi "innaffiarle" con evidente
soddisfazione.
«Penso
che ti abbia
marcato,
Jordy» osservò il mago cercando di restare serio.
«Evidentemente ti trovi sul suo territorio. Mi piace, il
piccoletto, ha stile».
Jordan lo
fulminò
con uno sguardo truce, scuotendo disgustato un piede e borbottando
frasi colorite che fecero ridere Yuri.
«Sospetto
che Lucy
non approverebbe l'uso di un simile linguaggio in presenza del
ragazzo» fece notare Alphard, guardando divertito il cucciolo
abbaiare minaccioso al sacco dei rifiuti lasciato cadere da Jordan.
«Fa
niente,
papà» lo rassicurò Yuri.
«Mamma non lo
verrà mai a sapere... però, zio Al, visto che il
cucciolo
ha deciso di adottarti, mi sembra il caso di trovargli un nome. Che ne
dici di Apollo 11?»
Il cagnetto,
che si era
allontanato dal sacco di rifiuti per annusare incuriosito la moto di
Alphard, ringhiò con decisione.
«Pare
che non gli
piaccia, no» dedusse il bimbo. «Allora un bel nome
indiano!
Qualcosa come Tuono Rombante! O Puma che Corre...»
«Sì,
l'idea
del nome indiano mi piace. Ma io troverei più appropriato
qualcosa tipo Nube Piovosa...» propose Jordan, indicando il
cucciolo che stava "innaffiando" una ruota della lucente moto di
Alphard.
Il mago
imprecò
afferrando per la collottola il cane che cominciò a
leccargli la
faccia scodinzolando con entusiasmo.
«Penso
che l'abbia
marcata,
Al» affermò Jordan con un ghigno diabolico.
«Evidentemente si trova sul suo territorio. E sappi che non
approvo l'uso di un simile linguaggio davanti al ragazzo».
Quindi,
prima che Alphard
potesse ribattere, sparì all'interno del pub farfugliando
qualcosa a proposito di un trasportino per gatti e trascinando con
sé il piccolo Yuri che, sbadigliando vistosamente, parlava
di
cani, di razzi, di fionde e di sorelle da proteggere da loschi
energumeni.
Accarezzando
il pelo
morbido del cucciolo, Alphard fissò per un istante la porta
del
pub. Poi, scrutando il cagnetto nei vispi occhi scuri,
mormorò:
«E ora come faccio a portarti a casa? Non sai
smaterializzarti,
vero? No, lo sospettavo. E credo che anche l'aggrapparti a qualcuno non
sia il tuo forte...» il cucciolo rizzò le orecchie
e
guaì. «Immaginavo. Abbiamo un problema, mi sa. E
abbiamo
anche poco tempo per risolverlo. Tra una manciata di ore sono infatti
atteso a Casa Black per un dignitoso pranzo di famiglia...».
Si era quasi
rassegnato a
lasciare lì la moto e a servirsi del Nottetempo, quando
Jordan
uscì dal pub portando una specie di gabbia di metallo e
robuste
corde colorate e si mise a trafficare con la moto sotto lo sguardo
preoccupato di Alphard.
«Ecco
fatto»
esclamò qualche istante più tardi, rimirando il
risultato
dei suoi sforzi. «Così dovrebbe reggere. Nube
Piovosa
dovrebbe essere sistemato».
Il cagnetto
ringhiò con decisione e Alphard aggrottò la
fronte.
«Pare che neppure questo nome sia di suo
gradimento».
Jordan si
strinse nelle spalle. «Ha gusti difficili e io ho esaurito la
mia fantasia in fatto di nomi».
Alphard
sorrise,
sistemando il cucciolo nella gabbia, poi si fece serio e chiese cauto:
«Jordan, ma come fate a starci tutti e nove in quel minuscolo
appartamento sopra al pub, i bambini stanno crescendo, in tutti i
sensi... se solo tu mi lasciassi...»
«No,
Al. Ti
ringrazio, ma sai come la penso. Non si devono mai accettare da un
amico prestiti più importanti di un trasportino per gatti
decrepito. A meno che, naturalmente, l'amico in questione sia morto. In
quel caso non sarebbe un prestito ma un'eredità. Quindi
sarebbe
accettabile».
«Stai
dicendo che prima di vederti accettare un qualcosa di mio dovrei
morire?»
«Assolutamente
sì... ma, considerato che non mi sembri in procinto di
compiere
il Grande Salto, non vedo perché parlarne»
concluse
Jordan, assestando una pacca amichevole sulla schiena dell'amico prima
di scoccare un ultimo sguardo sognante alla luna e di rientrare nel pub.
Alphard
scosse la testa e
montò sulla moto. Accertatosi che la via fosse deserta
estrasse
furtivo la bacchetta magica eseguendo un Incantesimo di Disillusione:
guidare una moto volante era davvero una sensazione unica, ma non
sarebbe stato saggio farsi vedere da qualche Babbano. Non gli sarebbe
piaciuto particolarmente comparire su qualche rivista specializzata in
avvistamenti di U.F.O...
Dopo essersi
assicurato della buona riuscita dell'incantesimo, Alphard
avviò la moto e decollò.
Dalla
finestra sopra al
pub, lasciata aperta per combattere il caldo un po' afoso di quella
notte estiva, filtravano una luce dorata e la melodia di una dolce
ninnananna irlandese.
Alphard,
incuriosito,
sbirciò all'interno, scorgendo Jordan che passeggiava avanti
e
indietro per la stanza cullando la piccola Erin, mentre Caitlin, seduta
a gambe incrociate al centro del lettone, parlava animatamente con la
madre che sorrideva complice.
Lasciandosi
avvolgere
dalla calda serenità di quella scena Alphard, guidato dal
corso
sinuoso del Tamigi, si diresse verso casa.
*****
«Ciao,
Zio Al!»
Alphard
sorrise al
ragazzino dai capelli neri che sostava accigliato sulla soglia di Casa
Black e smontò dalla moto guardando inquieto il massiccio
serpente d'argento che decorava la porta socchiusa, quindi
avanzò deciso verso il ragazzino e gli scompigliò
i
capelli.
«Ciao
Sirius, cosa fai qui tutto solo?»
Il bambino
raddrizzò la schiena e rispose spavaldo: «Sto
evitando mia
madre e le sue recriminazioni sul mio comportamento degno di un Troll
particolarmente screanzato. Mi ha ordinato di comportarmi
dignitosamente
fin quando tutto sarà concluso. Perché non
posso certo rovinare il Grande Evento! Sarà sollevata ora
che
sei arrivato anche tu».
Alphard non
ne dubitava.
Non aveva
ben chiaro
quale potesse essere il grande evento di cui parlava Sirius... ma non
aveva dubbi che Walburga sarebbe stata sollevata dalla sua presenza.
Perché
non era dignitoso
mancare a una riunione ufficiale di famiglia. E
perché
avrebbe adorato potere recriminare anche sul suo comportamento degno di
un Troll particolarmente screanzato.
«Si
aspettano che tu partecipi alla pianificazione del Grande
Evento» disse Sirius, scalciando un grosso sasso.
Alphard
corrugò la
fronte, pensoso e, ragionevolmente certo che i suoi familiari non
stessero pianificando uno sbarco sulla luna, chiese: «Quale
grande evento?»
«Il
matrimonio di
Bellatrix» spiegò Sirius. «Zia Druella
ha cominciato
a definirlo così. Che ci sia di grande nello sposare
quell'Augurey*
malriuscito di Lestrange non riesco proprio a capirlo,
però».
Alphard
sogghignò.
Non avrebbe dovuto, lo sapeva, ma la descrizione che Sirius aveva dato
del futuro marito di Bellatrix gli sembrava particolarmente azzeccata.
Tentando di dissimulare quella sua inopportuna approvazione
tornò alla moto per liberare il cucciolo dal suo trasportino
improvvisato.
Era stato
tentato di
lasciare a casa quella Pluffa pelosa più distruttiva di
un'orda
di giganti contrariati ma, dopo che la bestiola aveva spinto al
suicidio un numero non indifferente dei pasciuti pesci rossi che
nuotavano nell'acquario di zio Marius, aveva dovuto rinunciarci. Anche
perché, non soddisfatto della strage ittica, il botolo aveva
anche tentato di mangiarsi la Chiave del Tempo funzionante... no, molto
meglio rischiare di fare venire l'ennesima crisi isterica a Walburga,
tutto sommato.
«Oh,
e lui chi
è?» chiese Sirius, avvicinandosi incuriosito alla
moto e
cominciando ad accarezzare il cucciolo.
«Eh,
non sono
ancora riuscito a stabilirlo...» ammise Alphard.
«Pare che
nessuno dei nomi che mi vengono in mente sia di suo
gradimento».
Sirius rise
prendendo in
braccio il cucciolo e, una volta entrato in casa, indicò ad
Alphard una tunica che fluttuava, linda e perfettamente stirata, tra le
lampade a gas che illuminavano l'ingresso di Casa Black.
«Mia
madre dice che
devi indossarla sopra gli abominevoli abiti Babbani, zio. Te l'ha fatta
confezionare apposta. Su misura. Per evitare che tu mostrassi troppo in
giro i tuoi indecorosi polpacci» annunciò Sirius
prima di
posare il cucciolo per terra e di inseguirlo lungo il corridoio.
Alphard
sospirò
mesto e infilò la luttuosa tunica nera: Walburga doveva
davvero
detestarlo per imporgli quell'indumento... Merlino, ricordava in
maniera inquietante l'abito di un Ghermidore medievale.
Contrariato,
percorse il
corridoio accompagnato dagli irritanti commenti dei ritratti di Black
trapassati, ritrovando il sorriso solo quando scorse il cucciolo
Innominato intento ad "innaffiare", tra le risate di Sirius e gli
strepiti di Walburga, lo squisito
portaombrelli a forma di zampa di
Troll.
Walburga
chiamò a
gran voce un elfo domestico e, appena scorse il fratello,
sbraitò: «Un cane! Nientemeno che un sudicio,
pulcioso
cane di razza indefinita! Ma perché non puoi prenderti un
rispettabile gufo come tutti i maghi dignitosi, dico
io... oh, ma che
ti riprendo a fare! I nostri genitori avevano ragione: sei un Black
davvero fallimentare!» concluse con un sospiro melodrammatico
raddrizzando la schiena ed esibendosi nella perfetta imitazione di un
rispettabile gufo impagliato. Il cagnetto, per nulla impressionato,
l'aggirò in silenzio e abbaiò all'improvviso:
Walburga
sobbalzò in modo assai poco dignitoso.
Alphard si
morse una guancia per non ridere. Sarebbe stato troppo. Anche per un
Black fallimentare.
«Sa
essere molto silenzioso il tuo cane» affermò
Sirius, conquistato.
«Sì,
ha il passo felpato di un vero predatore» rispose l'uomo,
avviandosi verso la Sala da Pranzo.
Essere un
Black fallimentare poteva avere conseguenze molto divertenti, talvolta.
«Non
mi pare
esattamente entusiasta» osservò Alphard, posando
il calice
d'argento colmo di pregiato vino elfico sul tavolo e guardando
meditabondo Andromeda uscire dalla stanza.
Cygnus
scrollò le
spalle, indifferente. «Oh, lo sarà. I Malfoy sono
una
famiglia potente e Purosangue, partito migliore non potrebbe trovare.
Andromeda è solo troppo sognatrice, ma farà il
suo
dovere. Come Bellatrix».
Narcissa
scosse il capo,
incredula. «Lucius è meraviglioso»
affermò
con voce sognante. «Ma quella stupida ha perso la testa per
un
Nato Babbano di Tassorosso... l'ho sempre detto io che non ha un
pizzico di buon gusto».
«Né
di buon
senso» aggiunse Bellatrix, senza degnarsi di sollevare lo
sguardo
dalla rivista che stava sfogliando.
Druella
sospirò, e
Alphard suppose che intendesse riprendere le figlie intervenendo in
difesa della secondogenita, ma la donna si limitò a
mormorare:
«Oh, le passerà. Si renderà presto
conto di quello
che la sua famiglia si aspetta da lei».
Alphard
inarcò un sopracciglio e chiese: «Noi ci
aspettiamo da lei che sia felice, giusto?»
«Ma
certo che
sì» sbuffò Walburga esasperata.
«E noi tutti
sappiamo che la felicità di Andromeda è sposare
Lucius
Malfoy. Perché la felicità di Andromeda non
può
che coincidere con il bene della Casata, ovviamente. Ma ora parliamo di
cose davvero importanti!» concluse Appellando un numero
spropositato di riviste. «Dobbiamo organizzare un matrimonio
degno dei Black».
Mentre i
parenti
dissertavano sui preparativi per il Grande Evento, Alphard - meditando
sulla concreta possibilità di essere stato cambiato in culla
da
qualche folletto dispettoso - sedette composto e, invidiando
segretamente i due nipoti più piccoli esonerati da quella
raffinata tortura, finse grande interesse annuendo di tanto in tanto
con entusiasmo dignitosamente moderato.
Quando da
qualche punto
imprecisato della casa riecheggiò un abbaiare festoso
seguito da
allegre risate infantili, il mago scattò in piedi offrendosi
volontario per andare ad azzittire quella fonte di disdicevole
distrazione e uscì dalla stanza, riuscendo persino a
mostrarsi
dispiaciuto.
Dopo avere
percorso cupi
corridoi e scale buie, controllando ombrosi locali arredati come tetri
mausolei, Alphard socchiuse un po' esitante la massiccia porta di legno
della Stanza dell'Arazzo.
Non era mai
entrato
volentieri in quel luogo; l'enorme albero genealogico che ne occupava
un'intera parete lo aveva sempre messo a disagio.
Quando
fissava quei
tralci intricati che terminavano con nomi stravaganti - sempre uguali,
generazione dopo generazione - Alphard non riusciva a fissare
l'attenzione sugli illustri maghi Purosangue che tanto inorgoglivano i
fratelli. No, lo sguardo grigio del fallimentare rampollo dei Black
veniva irrimediabilmente attratto dalle bruciature che interrompevano
qua e là la perfezione un po' monotona dell'arazzo:
promemoria
tangibili del fuoco usato per estirpare dall'albero genealogico i
frutti indesiderati.
Alphard
aveva sempre
temuto che, un giorno o l'altro, quel fuoco purificatore avrebbe
consumato anche lui. Ultimamente però era giunto alla
conclusione che, non fosse stato tanto ossessionato da quella paura, la
sua vita sarebbe stata migliore. Forse, tutto sommato, trasformarsi in
una di quelle chiazze annerite non era la cosa peggiore del mondo...
Immerso nei
suoi pensieri, il mago entrò nella sala, imbattendosi in
Andromeda che fissava assorta l'arazzo.
«Uhm...
opera
interessante, vero?» chiese con ostentata leggerezza
avvicinandosi alla nipote che, fingendo di scostarsi i capelli castani
dalla fronte, si sfregò furtiva gli occhi.
«Sì».
Alphard si
ritrovò, suo malgrado, a confrontare la nipote con la
gioiosa
Caitlin e ad augurare cordialmente al fratello e alla cognata un
incontro molto ravvicinato con un branco di Manticore.
«Sai,
Andromeda» disse all'improvviso, indicando una delle macchie.
«Penso che la parte più interessante siano le
bruciature».
La ragazza
lo
squadrò sorpresa con i suoi occhi scuri - occhi da Black
regolamentare - colmi di lacrime trattenute e Alphard le sorrise
accarezzandole con gentilezza i capelli: la frequentazione della
famiglia O'Sullivan stava avendo effetti sconvolgenti su di lui.
«Non vuoi fidanzarti con il giovane Malfoy, vero?»
La ragazza
lo
guardò titubante, mordicchiandosi il labbro inferiore. Poi
rizzò la schiena con fierezza e scosse il capo, decisa.
«Mai! Neppure morta».
Alphard
annuì.
«E quel giovane Tassorosso Nato Babbano di cui parlava
Narcissa
ha qualche responsabilità in questo, suppongo».
La ragazza
abbassò il viso diventato improvvisamente rosso, poi
annuì.
«Lo
immaginavo» sospirò Alphard, costringendola ad
alzare lo
sguardo e chiedendosi quando la sua piccola Andromeda fosse cresciuta
tanto da preferire i ragazzi alle Gobbiglie. «Be', se il
giovane
Malfoy somiglia al padre hai tutta la mia comprensione».
La ragazza
lo
scrutò piacevolmente stupita e indicò l'arazzo.
«Bellatrix dice che se non accetterò di fidanzarmi
con
Lucius il mio nome diventerà una macchia
carbonizzata».
«Come
ho già
detto quelle macchie sono le parti più interessanti
dell'arazzo,
Andromeda. Nascondono i nomi dei Black migliori» concluse,
sfiorando con dolcezza la bruciatura che aveva cancellato il nome di
zio Marius.
«Sarà.
Ma se
io mi aggiungessi a loro... la famiglia non vorrà
più
saperne di me» mormorò la ragazza mesta.
Alphard
scrollò le
spalle, stringendo in pugno il medaglione che portava al collo.
«Se ami quel ragazzo - se lo ami davvero - non rinunciare a
lui
solo perché non vuoi che il tuo nome venga cancellato da
questo
arazzo, Andromeda. Non farlo. Non ne vale la pena, credimi».
Andromeda
guardò
lo zio con uno sguardo sorprendentemente adulto. Oh, sì. Era
davvero cresciuta molto la piccola Andromeda. «Tu
hai...»
Alphard
annuì.
«Io ho commesso un grosso errore, Andromeda. Non farlo anche
tu.
Se davvero ami il Tassorosso scegli lui... e avrai la famiglia che
desideri. Oh, avrai anche me, naturalmente. Ho sempre avuto un'insana
predilezione per i Black diseredati, sai?»
Andromeda
sorrise un po'
sollevata, ma prima che potesse rispondere un abbaiare improvviso la
fece sussultare. Zio e nipote si voltarono allarmati, trovandosi a
fissare Sirius che, piegato in due dalle risate, accarezzava una Pluffa
nera, pelosa e scodinzolante.
«Questo
cane
è davvero fantastico, zio Al!» esclamò
Sirius
ricomponendosi. «Ah, per la cronaca, Andromeda, anch'io
continuerei a considerarti della famiglia. Anzi, se il tuo nome venisse
bruciato mi piaceresti ancora di più».
Andromeda
corrugò
la fronte e incrociò le braccia. A volte somigliava davvero
molto a Bellatrix, notò Alphard con un pizzico di
inquietudine.
«Da
quanto stai origliando, Sirius?»
«Da
abbastanza per
sapere che non accetterai di perpetrare la stirpe con quel Vermicolo di
Malfoy. L'ho sempre detto che sei intelligente, per essere una
femmina!»
«Oh,
grazie per la considerazione».
«Prego.
Ma sono
stato spedito qui per dirti che i tuoi genitori ti cercano. Pare che
siate attesi a cena dal Vermicolo».
Andromeda
gemette
passandosi una mano sulla fronte, poi fissò lo zio.
«Grazie per la chiacchierata. Magari sei ancora in tempo
anche tu
per...»
Alphard
sorrise triste e scosse il capo. «No. Io no, ma tu fai quello
che davvero desideri fare, Andromeda».
La ragazza
annuì. «Non pensavo che lo avrei detto a un Black
ma... sei un uomo molto romantico, zio Al».
Quindi, dopo
avere
elargito un sonoro bacio su una guancia al cuginetto, diede un
ultimo sguardo all'arazzo e uscì fiera dalla stanza.
«Bleah...
femmine!» borbottò Sirius stropicciandosi sdegnato
la
guancia. «Sono più appiccicose di un rotolo di
Magiscotch!»
«Uhm...
guarda che tra qualche anno potrebbe anche piacerti,
Sirius...»
«No,
non credo. Io mica sono un uomo romantico».
«Ecco...
io non...»
«Ah,
non
preoccuparti, zio Al. Nessuno è perfetto. Mi piaci lo
stesso. Ma
come mai, se a te le femmine piacciono tanto, non te ne sei mai sposato
una?»
Alphard
fissò
l'arazzo per un istante, poi posò una mano sulla spalla del
nipote e, guardandolo negli occhi, rispose serio:
«Perché
sono un uomo romantico, Sirius. E in quanto uomo romantico avrei potuto
sposare una donna solo per amore. E ti pare che, amandola, avrei potuto
condannarla a diventare la cognata di tua madre?»
Sirius
corrugò la
fronte, meditabondo. «Questo ragionamento mi pare
sensato»
affermò convinto prima di scattare all'inseguimento del cane
che, evidentemente attirato da qualcosa, si era fiondato in corridoio.
Sogghignando
Alphard
lanciò un ultimo sguardo all'arazzo e uscì a sua
volta
dalla stanza. Scese rapidamente le scale e, attirato da un improvviso
abbaiare seguito da un fragore di stoviglie rotte e da urla stizzite,
entrò in cucina, scrutando allibito la scena che lo accolse.
Il cane nero
trotterellava allegro tra minuscoli frammenti di ceramica, mentre
l'elfo di casa borbottava improperi irripetibili, reggendo lo
strofinaccio sfilacciato che usava come vestito.
«Il
cucciolo
è arrivato all'improvviso» spiegò
Sirius tra una
risata e l'altra. «Si è piazzato alle spalle
dell'elfo e
ha abbaiato. Oh, zio Al... avresti dovuto vedere che spettacolo!
Escludendo quando lo straccio di Kreacher è caduto, certo.
Quello è stato abbastanza disgustoso».
Kreacher si
sistemò tremante lo strofinaccio e cominciò a
raccogliere
i frammenti di porcellana borbottando: «Povera padrona, un
figlio
indegno ha. Riempirà la casa di mostri, ibridi e
chissà
che altro. Per fortuna c'è il padroncino Regulus».
Sirius
strinse i pugni e
sibilò: «Già, poverina! Meno male che
ha il piccolo
Regulus a consolarla dalle sofferenze causatele da me. Per non parlare
del suo stupido elfo domestico!» concluse rabbioso, prima di
andarsene seguito dal cucciolo.
Alphard
scoccò un'occhiata assassina all'elfo, pronto a lanciarsi
all'inseguimento del nipote.
«Vuole
stare da
solo quando fa così» affermò una voce
infantile
alle sue spalle. «Poi gli passa. E allora si lascia
avvicinare».
Alphard si
voltò di scatto, guardando il ragazzino bruno seduto al
tavolo della cucina.
Un po'
sorpreso, gli si
avvicinò accovacciandoglisi davanti: «Ciao
Regulus, non ti
avevo visto. Ma che ci fai qui in cucina?»
Il ragazzino
sollevò lo sguardo sullo zio, studiandolo con i suoi occhi
scuri
e seri: «Stavo parlando un po' con Kreacher»
rispose dopo
un attimo di esitazione.
«Ah.
Stavi parlando
un po' con... Kreacher, certo» ripeté Alphard,
piuttosto
meravigliato. «Deve essere un'esperienza... er...
affascinante,
suppongo».
Regulus lo
squadrò
per un istante e poi annuì, solenne come solo un vero Black
non
fallimentare sapeva essere. «Lo è. Ma non dirlo a
mia
madre. Lei non vuole che parli con Kreacher. Ammette solo che io gli
ordini cose. Ma lui mi ascolta anche quando nessun altro ha tempo di
farlo, sai? E se non ho nulla da ordinare, quando mi annoio, lo cerco e
gli... domando...
cose. Sai che a Kreacher piace il verde, zio?»
«Uh,
no Regulus,
non ho mai... domandato...
cose a Kreacher. Gliene ho solo
ordinate» rispose Alphard, scrutando affascinato il nipote.
Il ragazzino
annuì
mesto. «Lo so. Come ogni buon Black che si rispetti. Pensi
che
questo... Abominevole
Vizio... faccia di me un mago indegno, zio
Alphard?»
Alphard
sgranò gli
occhi sbigottito, era abituato a scorgere lati di se stesso in
Sirius... ma mai avrebbe pensato di trovarne anche in Regulus.
«No, Regulus, certo che no. Io penso anzi che ti renda un
mago un
po' migliore».
«Davvero?»
«Assolutamente
sì. E' sempre una cosa positiva conoscere cose su chi ci
circonda».
«Oh.
E se io
volessi... aiutarlo? Insomma se cercassi di impedire che venga punito
per qualcosa di cui non ha colpa, tu credi che questo farebbe di me un
mago indegno?»
Alphard si
sfiorò
la fronte, perplesso. «Be', è vero che
è un elfo,
ma se non ha colpa credo che sia giusto evitargli una punizione,
Regulus».
Il bambino
sorrise
sollevato e si alzò in piedi. Guardò pensoso
l'elfo
indaffarato a pulire i frammenti di ceramica e sospirò.
«Allora dirò a mia madre che sono stato io a
rompere quei
piatti. Ti pregherei di assecondare la mia versione, zio».
Oh, Merlino.
Non bastava
la nipote pronta a farsi estirpare dall'albero genealogico, no. Ci
voleva anche quello deciso a immolarsi al posto dell'elfo domestico!
Un po'
esasperato Alphard
guardò negli occhi il ragazzino e disse:
«Tecnicamente il
colpevole è il mio cane, Regulus. Non serve che tu ti prenda
una
colpa che ha un colpevole ben preciso».
«Credevo
che ti piacesse il tuo cane, zio Alphard».
«Ed
è così, infatti».
«Se
mia madre sapesse che è stato lui lo trasfigurerebbe in un
poggiapiedi, penso».
Sì,
era
un'eventualità da prendere in considerazione, convenne
Alphard
sorpreso dall'inattesa gentilezza del nipote più piccolo.
Aveva
sempre pensato che quello sfuggente ragazzino fosse una specie di
miniatura di Orion Black: non avrebbe potuto sbagliarsi di
più.
«Se
fossi un'anima
nobile e coraggiosa mi prenderei io la colpa... ma non
servirà.
Nessuno dovrà prendersi la colpa di avere devastato il
servizio
buono se non mancheranno piatti all'appello, giusto?» chiese
ammiccando al nipotino.
«Ma
come... non
basterà un Reparo, mi sa, non c'è rimasto nulla
da
riparare» affermò il bimbo indicando i frammenti
radunati
dall'elfo.
«Infatti
non ho
intenzione di ricorrere a quello. Guarda e impara, maghetto! Quanti
piatti mancano all'appello, Kreacher?» chiese Alphard prima
di
avvicinarsi al tavolo su cui erano schierati diversi piatti integri.
«Quattro,
Padrone».
Alphard
annuì,
prese quattro piatti intatti, posandoli con delicatezza accanto ai
cocci
di quelli rotti, estrasse la bacchetta magica e, con un elegante gesto
del polso si esibì in un perfetto Incantesimo Moltiplicatore.
«Et
voilà, il servizio buono è intatto».
«Ma...
pensavo che nulla si potesse creare dal nulla, zio».
«Non
ho creato dal nulla, infatti. Ho usato i frammenti di porcellana dei
piatti rotti».
Il ragazzino
lo
guardò affascinato. Alphard si assicurò che
nessuno
potesse vederlo e si avvicinò al nipote, porgendogli la
bacchetta. «Ti andrebbe di imparare questo
incantesimo?»
Regulus lo
guardò sconcertato. «Ma non posso, sono minorenne.
Ai miei genitori non farebbe piacere».
«Oh,
io credo di
sì. Sarebbero deliziati dal fatto che il loro rampollo
giungesse
ad Hogwarts più preparato dei suoi coetanei. E poi non
glielo
diremo. Sarà un piccolo segreto tra noi due. E
potrà
tornarti utile nel caso in cui Sirius decida di esibirsi in uno dei
suoi creativi scherzi ai danni di Kreacher».
Regulus
meditò un
istante, combattuto. Poi guardò l'elfo che, dopo un fugace
sorriso affermò: «Kreacher non vede niente.
Kreacher
è troppo occupato per notare il Padroncino,
adesso» e,
dopo un profondo inchino, si affrettò a dedicarsi alla
lucidatura dei calici d'argento.
«Va
bene. Insegnami questo incantesimo» esclamò il
ragazzino prendendo la bacchetta dalle mani dello zio.
Alphard
sorrise e chiese: «Cosa ti piacerebbe duplicare,
Regulus?»
Il bambino
corrugò la fronte e indicò la Chiave del Tempo
danneggiata che Alphard portava al collo.
L'uomo
annuì un
po' sorpreso, togliendosi il medaglione. «Una scelta
interessante. Per un istante ho temuto che tu volessi duplicare il
portaombrelli a zampa di Troll!»
«Oh,
no zio. Non ho
gusti così squisiti,
io» mormorò il piccolo con
voce garbata, ma un sorriso malandrino gli incurvava le labbra. Il
sorriso di Sirius. Il suo stesso sorriso, realizzò con
stupore
Alphard.
«Sì,
però ci servirebbe la materia prima... ci servirebbe
dell'oro, Regulus...»
Il ragazzino
sospirò affranto alla ricerca di un altro oggetto da
duplicare,
ma l'elfo si avvicinò titubante, stese una mano e
mostrò
ai maghi un vasto assortimento di spille rotte. «La
Padroncina
Bellatrix le dà a Kreacher, quando Kreacher fa cose per lei.
A
Kreacher fa piacere aiutare la Padroncina Bellatrix. Anche se poi la
Padroncina punge Kreacher con queste. A Kreacher piace la Padroncina
Bellatrix».
Kreacher
sì che
aveva un gusto davvero squisito,
pensò Alphard, mentre Regulus
cercava di rifiutare l'offerta dell'elfo. Ma quando Kreacher
minacciò di farsi mordere ripetutamente da una non meglio
identificata tabacchiera, Regulus cedette e accettò il dono
dell'elfo.
Alphard non
capiva
perché il morso di una tabacchiera potesse essere tanto
convincente - in realtà non capiva neppure perché
una
tabacchiera dovesse mordere qualcuno, in effetti - ma decise di non
indagare: Orion e Walburga avevano un'inspiegabile passione per gli
oggetti più discutibili.
Posò
le spille
rotte di fianco al suo medaglione, si portò alle spalle del
bambino, sussurrandogli le semplici parole dell'incantesimo e gli
spiegò come muovere la bacchetta. Regulus eseguì,
ma le
spille si limitarono a mettersi verticali, come se stessero
sull'attenti.
Alphard
sorrise
incoraggiante e sussurrò: «Non importa. E' il
primo
tentativo. E stai usando una bacchetta che non è
tua».
Il ragazzino
riprovò e riprovò ancora. Dopo il quarto
fallimento si
voltò verso lo zio stringendosi nelle spalle, rassegnato.
Alphard gli
coprì la mano con la sua: «Proviamo insieme? Con
Sirius ha funzionato».
«Hai
insegnato a Sirius a fare questo incantesimo?»
«No,
non esattamente».
A Sirius
aveva insegnato
a incantare le pergamene in modo che nessuno potesse scoprire cosa ci
disegnava sopra. Quel ragazzino era abbastanza negato per il disegno.
Ma aveva
idee decisamente esplosive. La sua rilettura alternativa dello stemma
dei Black, ad esempio, aveva qualcosa di geniale.
Ma non gli
pareva il caso di dare a Regulus questa delicata informazione.
Fortunatamente
il nipote
non sembrava interessato a quale incantesimo avesse imparato il
fratello. Lasciandosi guidare la mano da Alphard, declamò
solenne la formula dell'Incantesimo Duplicatore e finalmente qualcosa
accadde: le spille vibrarono fondendosi assieme e presero la forma di
un medaglione ovale.
Era
più piccolo e
leggero dell'originale, e non aveva segni sulla superficie, ma la forma
era simile: un buon risultato per un primo esperimento.
«Non
è proprio uguale, Zio Alphard...» disse Regulus
scettico.
«No,
ma è molto somigliante, Regulus, guarda... si apre persino.
Un ottimo lavoro davvero!»
Regulus
sorrise
orgoglioso, avvicinandosi all'elfo che sfaccendava indaffarato
lucidando calici d'argento già lucidissimi.
Quando il
ragazzino gli
porse il medaglione, l'elfo si allontanò protestando
vivacemente
e dedicandosi alla sistemazione dei tovaglioli.
Alphard si
accostò
al nipote e disse: «Credo che Kreacher desideri che lo tenga
tu,
Regulus. E mi sembra una buona idea. Sai cosa ha permesso di creare
questo medaglione?»
«La
Magia».
«Anche,
ma non
solo. E' stata la tua gentilezza a permetterlo. Se tu non fossi stato
tanto gentile con Kreacher lui non ti avrebbe donato l'oro. Non
dimenticarlo. Finché saprai essere gentile con chi
è
più debole di te non sarai mai un mago indegno, Regulus.
Indegno
lo diventerai solo quando scorderai la gentilezza e approfitterai di
chi non si può difendere».
Il bambino
annuì
solenne, stringendo in pugno il medaglione e raccogliendo un tovagliolo
caduto a Kreacher che, avvicinandosi ad Alphard si inchinò
chiedendo rispettoso: «Il Padrone desidera che Kreacher
prepari
la cena anche per lui?»
Alphard
sgranò gli
occhi, stupito. Quell'elfo non aveva mai nutrito una particolare
simpatia per lui e gli si era sempre rivolto con malcelata scortesia.
«No,
Kreacher. Anzi, sto proprio per andarmene. Sarà per un'altra
volta».
Scoccò
un sorriso
al nipote e, cominciando a sbottonarsi l'infinita teoria di bottoncini
che chiudeva la tunica datagli dalla sorella, salì le scale
a
due gradini per volta imboccando a passo spedito il lungo corridoio,
tentando di ignorare gli sguardi arcigni e i borbottii degli antenati
che lo scrutavano tetri dai ritratti affissi ai muri.
Quando
raggiunse la porta, tenuta socchiusa da un vecchio mattone sbrecciato,
sospirò di sollievo.
Lanciò
la tunica
sullo squisito
candelabro a forma di serpente che sporgeva sinuoso
dalla parete e uscì, lasciando che l'aria calda gli
togliesse il
senso di gelida oppressione che Casa Black aveva il potere di
appiccicargli addosso. Quando un improvviso latrato lo raggiunse a
tradimento, sobbalzò.
«Zio,
questo cane
ha un talento innato! Oh, sappi che ho trovato il nome adatto a
lui!» esclamò Sirius, scostandosi i capelli
scarmigliati
dalla fronte e guardando Alphard con occhi colmi di gioioso entusiasmo.
«Sì?»
chiese Alphard, tentando di reprimere l'improvviso desiderio di
trasfigurare quel botolo in un cuscino da sofà.
«Sì,
e gli piace. Risponde! Guarda: qui, Felpato!».
Il cucciolo
smise
all'istante di mordicchiare l'orlo dei pantaloni di Alphard e si
lanciò scodinzolante verso il ragazzino che lo
sollevò da
terra stringendolo tra le braccia, ridendo deliziato quando il cane
cominciò a leccargli il viso con encomiabile entusiasmo.
Alphard
non ricordava di avere mai visto Sirius tanto felice. Nemmeno quando lo
portava a fare un giro sulla sua moto che ora aveva imparato a volare.
Sentendosi
inspiegabilmente leggero aprì la gabbia fissata alla moto e
Sirius, un po' a malincuore, vi rinchiuse il cucciolo che
annusò
curioso le sbarre sbadigliando vistosamente per poi acciambellarsi,
esausto, sulla vecchia coperta blu che Alphard aveva sistemato sul
fondo.
«Mi
fai fare un giro, zio Al?»
«Ora
non posso
Sirius. C'è la gabbia di Felpato, dovrei prima trasfigurarti
in
cucciolo e rinchiuderti dentro».
Sirius lo
guardò
interessato, poi spostò gli occhi sul cucciolo e disse
serio:
«Non mi dispiacerebbe essere un cane per un po'. Ma non
voglio
stare rinchiuso in una gabbia. Sono sicuro che quello non mi
piacerebbe!»
«Sarà
per
un'altra volta allora!» concluse Alphard sorridendo a Regulus
che
li aveva raggiunti in silenzio: il nuovo medaglione riluceva in bella
vista sulla tunica impeccabile del bambino. «Naturalmente
l'invito è esteso anche a te, Regulus. Tu non sei mai salito
sulla mia moto, vero?»
Il piccolo
scosse il
capo, serio come un bambino non dovrebbe mai essere: un vero, dignitoso
Black in miniatura. «No, i miei genitori dicono che un mago
Purosangue non dovrebbe mai utilizzare mezzi Babbani. Che sarebbe un
Abominio. Una cosa indegna».
Sirius
alzò gli
occhi al cielo, stringendo il fratellino in una morsa scherzosa:
«Non è insopportabile, zio? Se ne va perennemente
in giro
parlando di Abomini e cose indegne! Ma forse sono ancora in tempo per
fargli apprezzare il piacere di essere un Abominio! In fondo, se sono
riuscito a trovare un nome a Felpato, potrei fare di tutto! Magari
persino riuscire a essere il primo Black da generazioni a non finire a
Serpeverde!»
«Cosa?»
esclamò Regulus scandalizzato, tentando di divincolarsi
dalla stretta del fratello.
«Oh,
sì...
non ne posso più di orridi serpenti argentati! Credo che non
mi
dispiacerebbe avere un altro simbolo sulla mia uniforme di
Hogwarts» affermò Sirius beffardo, scompigliando i
capelli
al fratellino che, dopo un istante di sbigottimento scosse le spalle e
sfiorando un braccio al fratello esclamò: «Sei un
Ghoul!»
per poi scappare, immediatamente seguito da Sirius che,
ululando lugubre, minacciava tremende vendette.
Alphard si
guardò
attorno cauto, Disilludendo se stesso, la moto e Felpato, quindi
partì, godendosi l'ebbrezza del volo e la vista dei due
nipoti
che giocavano a rincorrersi per strada come due ragazzini qualsiasi,
non troppo diversi dai piccoli O'Sullivan.
Anche i
Black potevano
sembrare una famiglia, di tanto in tanto, constatò
compiaciuto,
un po' sorpreso dal piacere che gli dava quella semplice considerazione.
Forse le
donne della sua vita non avevano tutti i torti: era davvero un uomo
romantico. In fondo.
Augurey*=
Newt Scamandro ne "Gli animali fantastici: dove trovarli" ci
assicura che l'Augurey è un uccello tipico della Gran
Bretagna,
magro, lugubre e nero che ricorda in qualche modo un piccolo avvoltoio
denutrito. Questa descrizione è perfetta per descrivere il
giovane Lestrange che ha preso forma nella mia mente leggendo i libri.
Pare che Sirius e Alphard concordino con me...
Ed eccoci alla sesta tappa
del nosto Viaggio.
Una
tappa molto lunga, lo so.
Ho anche preso in considerazione l'idea di dividerla in due parti... ma
poi non me la sono sentita.
In
questo capitolo ho tentato di dare uno spaccato completo della vita di
Alphard confrontando i suoi due mondi: la sua famiglia d'origine e
la sua famiglia "d'adozione". Contrapponendo Yuri a Sirius, Caitlin ad
Andromeda, il Grande Evento che elettrizza i Babbani a quello
che esalta i Black (ebbene sì, in questo capitolo i Babbani
battono i Maghi alla grande, temo...) e se avessi diviso il capitolo in
due parti questo
"gioco" si sarebbe un po' perso, così... dividetelo voi,
secondo
i vostri ritmi e i vostri gusti, interrompendo nel momento esatto in
cui vi addormenterete stremati dalla mia logorrea e riprendendolo in un
secondo tempo. ;)
E
ora le immancabili "Note
di Servizio".
La
scelta della data è stata suggerita da due motivi: prima di
tutto mi serviva un Grande Evento in grado di catalizzare
l'attenzione dei Babbani e, ascoltando i racconti di chi quella
notte l'ha vissuta, direi che lo sbarco del primo uomo sulla luna
possa esserlo... a tal proposito la scenetta che si svolge nel pub di
Jordan è stata scritta attingendo proprio ai ricordi di
persone
che quella diretta l'hanno vissuta e mai più dimenticata.
In
secondo luogo... be', mi piaceva l'idea di coinvolgere ancora la luna e
la passione per la conquista dello spazio di Jordan. ^^
Uh...
a tal paroposito: i quattro giovanotti dalla pettinatura improbabile
(secondo gli standard di Alphard, naturalmente) sono i Beatles (mi
pareva probabile che delle ragazzine inglesi della fine degli anni
sessanta potessero impazzire per loro) e l'orecchiabile canzoncina che
parla di un sottomarino giallo è "yellow submarine" dei
suddetti quattro giovanotti dalla pettinatura improbabile.
Oh,
e per quanto riguarda il promesso fidanzato di Andromeda... ci ho
pensato a lungo, ero quasi giunta al punto di inventarmi qualche
giovane rampollo di una nota famiglia purosangue, ma poi ho deciso che
sarebbe stato divertente affibbiare la parte del pretendente respinto a
quel (per usare le parole del piccolo Sirius) Vermicolo di Malfoy.
Comprendetemi, era già lì, bello e pronto, non
richiedeva
alcuno sforzo inventivo... non ho proprio saputo resistere! ;)
E
per ultimo l'inserimento del piccolo Regulus... ho pensato a lungo
anche a questo, chiedendomi se fosse il caso di inserire quel pezzo in
un capitolo già così lungo di suo. Alla fine ho
deciso di
sì, perché Regulus merita a pieno titolo di
essere
inserito tra i "Black venuti bene"! ^^
E
poi mi è piaciuto molto riversare su Alphard lo stesso
stupore che ho provato io scorgendo il vero Regulus. ;)
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Capitolo 7 *** La capanna dello zio Al ***
Capitolo
Sesto
La
capanna dello zio Al
Londra, 26 luglio 1972 A.D.
Il sole era già alto, quando Alphard aprì gli
occhi e
osservò pigro la luce dorata che filtrava tra le tende mosse
dalla leggera brezza estiva.
Raffinate tende di pizzo.
A Walburga non sarebbero piaciute, probabilmente. Per una volta era
d'accordo con lei.
Girandosi per nascondere il viso nel cuscino, Alphard
rabbrividì leggermente al contatto delle lenzuola sulla
pelle.
Raffinate lenzuola di seta.
Non aveva mai amato la seta: detestava la sensazione un po' scivolosa
che la caratterizzava.
Di conseguenza, non amava dormire avvolto in raffinate lenzuola di
seta. Gli sembrava di essere avviluppato in una ragnatela di
Acromantula e non trovava la cosa particolarmente entusiasmante.
Sospirando inalò, suo malgrado, il profumo che impregnava le
lenzuola.
Raffinato profumo floreale.
Intenso. Troppo intenso, per i suoi gusti poco squisiti. E troppo
dolce.
Poteva scorgervi un sentore di gigli, forse. E di rose. Oh, e
l'immancabile nota di violetta, naturalmente.
Nulla a che vedere con le lenzuola di lino, delicatamente profumate di
lavanda, che usava Erin.
«Alphard? Sei sveglio?»
Odiandosi per quei pensieri assai poco cavallereschi, Alphard si
voltò verso la proprietaria di tutte quelle raffinate
delizie e,
abbozzando un sorriso, indicò le sventolanti tende di pizzo.
«Sì, Morrigan, anche se temo di essere stato
semi-ipnotizzato dalle tue vezzose tendine».
Morrigan sorrise, scostandosi assonnata i capelli biondi dal viso.
«Non le trovi irresistibili?».
«Irresistibili non è esattamente il primo
aggettivo che evocano nella mia mente, temo».
«Uhm... penso proprio che eviterò di chiederti
quale sia questo aggettivo».
Alphard rise sommesso, sollevandosi leggermente e appoggiandosi su un
gomito. «L'ho sempre saputo che sei una donna saggia,
Morrigan».
«Ma non hai mai neppure sospettato che nascondessi gusti
tanto...
vezzosi» affermò Morrigan, giocherellando
distratta con il
medaglione che Alphard portava sempre al collo.
L'uomo, con decisa gentilezza, le imprigionò la mano
allontanandola dal medaglione e portandosela alle labbra.
«Ora mi
stai sottovalutando, però».
«Dici?»
«Dico. Un essere umano che non fa altro che sgranocchiare
caramelle alla violetta deve
essere dotato di gusti estremamente
vezzosi. Glover, che non fa altro che fumare quel disgustoso tabacco da
pipa, deve esserne del tutto privo, invece».
Morrigan ridacchiò, tirando scherzosa una ciocca di capelli
ad Alphard. «Deduzione interessante, Black».
L'uomo annuì, stringendo con delicatezza il polso di
Morrigan e
studiando incuriosito l'elaborato tatuaggio che la donna aveva
sull'avambraccio.
In un primo momento gli sembrò la raffigurazione di un drago
grassoccio intento a sputare fiamme ma, dopo un esame più
approfondito, si rese conto che si trattava di un inquietante teschio
dalla cui bocca fuoriusciva un serpente dall'aria alquanto truce.
«Certo che li nascondi bene i tuoi gusti tanto vezzosi,
Morrigan» esclamò stupito. «Ora non sono
più
tanto sicuro che Glover ne sia del tutto privo. Anzi, sono quasi
convinto che l'utilizzo del pestilenziale tabacco da pipa serva solo a
dissimularli, i gusti vezzosi, e che la sera il nostro Glover ami
indossare vaporose camicie da notte impreziosite da delicati ricami
floreali».
Morrigan rise, districando il polso dalla stretta di Alphard.
«Spero proprio di no! Merlino, che immagine
raccapricciante!»
Alphard si strinse nelle spalle e indicò il tatuaggio.
«Anche quello è piuttosto raccapricciante. Una
scelta
davvero insolita per una signora che ama le tende di pizzo e le
caramelle alla violetta».
Morrigan lo scrutò incerta, mordicchiandosi nervosa il
labbro
inferiore per qualche istante, quindi si mise a sedere appoggiandosi
all'elaborata testiera del letto e, guardando il compagno negli occhi,
disse seria: «Dovrebbe essere un segreto, Alphard. Ma credo
che
tu possa sapere. In fondo, lui spera di farne presto uno anche a
te...»
«Lui?»
«Lord Voldemort. Non ho scelto io il soggetto del tatuaggio.
Lo
ha scelto lui. Lo imprime sull'avambraccio di tutti coloro di cui si
fida. Vorrebbe ne avessi uno anche tu. E' convinto che un mago del tuo
talento - e della tua stirpe - dovrebbe proprio entrare nel novero dei
suoi seguaci più intimi».
Alphard sgranò gli occhi, sconcertato. Morrigan lo aveva
trascinato a un paio delle famose riunioni di Riddle. Ma lui non era
mai riuscito a mostrare entusiasmo per le idee del vecchio compagno di
dormitorio. E non gli era sembrato che Riddle avesse particolarmente
apprezzato la sua presenza. Riddle, del resto, non era solito
apprezzare particolarmente coloro che non gli mostravano una cieca
adorazione. «Tra i seguaci più intimi?
Io?»
«Sì. E' convinto che torneresti molto utile alla
sua Causa».
Ah, ecco. Messa così la cosa aveva più senso. Se
c'era
qualcosa che Riddle apprezzava più della cieca adorazione
dei
suoi simili, era la totale collaborazione di coloro che potevano
tornargli utili. E aveva sempre avuto un certo talento nel corteggiare
coloro che potevano tornargli utili, Alphard doveva ammetterlo. Era
riuscito a irretire anche lui, per qualche tempo. Quando aveva undici
anni. «Non vedo in che modo, onestamente».
«Trovando antichi oggetti magici di cui si sono perse le
tracce».
«Già lo faccio, mi pare».
«Sì. Ma li cerchi solo tra i Babbani. Lui vorrebbe
che tu
li cercassi anche tra i maghi. Per riferire a lui quali sono e chi li
possiede».
«E per quale assurdo motivo?»
«Vuole stilarne un elenco completo. Io ci sto già
lavorando ma in due procederemmo più spediti».
«Sarebbe comunque un lavoro immane».
«Sì. Ma di fondamentale importanza. Lord Voldemort
pensa
che sarebbe utile conoscere l'esatta ubicazione di tutti i manufatti
magici del Paese. Per potervi ricorrere in caso risulti necessario
difenderci dai Babbani desiderosi di appropriarsi della
Magia».
Alphard sospirò. Riddle non era affatto cambiato: era il
solito,
esaltato paranoico che aveva conosciuto ai tempi di Hogwarts.
«I
Babbani non vogliono affatto appropriarsi della Magia. Non solo non
potrebbero utilizzarla, essendo appunto Babbani, ma non ne sentono
neppure il bisogno. Hanno già la Tecnologia. Sono
andati sulla
luna, Morrigan! Non mi risulta che noi, con tutta la nostra Magia,
siamo riusciti in un'impresa del genere».
Morrigan alzò gli occhi al cielo, esasperata.
«Parli proprio come Silente!»
«Ne sono lusingato. Silente è un uomo
saggio».
«Silente è un uomo ingenuo! Accecato dal suo
esasperante idealismo. E dai suoi pregiudizi».
«Pregiudizi?»
«Verso Lord Voldemort».
«Avrà i suoi motivi, suppongo».
«No. Ha solo pregiudizi! Ha sempre avuto pregiudizi verso i
Serpeverde, e tu lo sai benissimo! Hai dimenticato quando ha tolto
cinquanta punti alla nostra Casa e ti ha appioppato non so quante ore
di punizione solo perché avevi tentato un esercizio avanzato
di
Trasfigurazione? Un po' eccessivo, non trovi?».
«Direi di no. Considerato che avevo tentato di Trasfigurare
Walburga in una scopa. Con risultati alquanto discutibili, tra
l'altro».
Morrigan gemette, alzandosi bruscamente dal letto e Alphard si
preparò a un'accesa schermaglia in difesa del professor
Silente:
gli era sempre piaciuto quel vecchio mago un po' strambo. Un'ennesima
dimostrazione del suo essere un Black assai poco regolamentare.
Ma Morrigan lo sorprese, limitandosi a massaggiarsi l'avambraccio
tatuato e a raccattare tutti i suoi indumenti artisticamente sparsi sul
pavimento; come se volesse lasciare la camera il più in
fretta
possibile.
Alphard la guardò stranito: non gli sembrava di essersi
comportato in maniera tanto irritante. Senza contare che quella era la
casa di Morrigan. Al massimo avrebbe dovuto costringere lui ad alzarsi
e a raccattare gli indumenti artisticamente sparsi sul pavimento.
«Morrigan...» mormorò ragionevole,
sedendosi a gambe incrociate sul letto.
«Non ora, Alphard. Non ho tempo. Lui mi ha
convocata»
esclamò la donna, brandendo un vezzoso reggiseno
lillà.
«Non posso certo fare aspettare Lord Voldemort per discutere
con
te di un vecchio mago strampalato. Continua pure a dormire. Ci sentiamo
appena potrò» concluse, uscendo precipitosamente
dalla
stanza.
Alphard, disorientato, si lasciò ricadere sui cuscini:
ancora
una volta veniva messo al secondo posto dopo quell'esaltato di Riddle.
Ma la cosa lo turbava meno di quanto avrebbe dovuto.
Perché avrebbe dovuto essere davvero parecchio infastidito
dal
fatto che la donna con cui aveva una relazione lo mollasse in tutta
fretta per raggiungere un altro. Un altro a cui permetteva persino di
scegliere per lei il tatuaggio da farsi, mentre a lui non permetteva
neppure di esprimere una timida preferenza per le lenzuola del letto.
Ecco, questo sì gli dava fastidio.
Come il fatto che questo altro per cui veniva regolarmente mollato
fosse Tom Riddle.
Continuava a non capire come mai tutti quei maghi adulti e
apparentemente sani di mente, potessero avere un simile terrore dei
Babbani e di un loro improbabilissimo interesse per le Arti Magiche. E
ancor meno riusciva a capire la loro inspiegabile simpatia per
quell'esaltato di Riddle.
Be', lui non sarebbe mai entrato nel novero dei seguaci più
intimi. Nemmeno sotto Imperio. Nessun assurdo teschio che
somigliava a
un drago grassoccio avrebbe mai deturpato il suo avambraccio.
E Walburga poteva protestare quanto voleva, sostenendo profetica e
minacciosa che quell'abominevole comportamento, tanto deprecabile per
un Black, gli avrebbe sicuramente fruttato qualche Apocalittica
Punizione.
*****
Un' Apocalittica Punizione.
Ecco cos'era Felpato, decise Alphard entrando in soggiorno e
guardandosi attorno affranto.
Una grossa, pelosa, Apocalittica Punizione.
Che, al momento, se ne stava beatamente spaparanzata sull'unico angolo
asciutto del tappeto, sgranocchiando con gusto quello che somigliava
sinistramente al cappellino della signora Owen, la materna vicina di
casa esperta nella preparazione di deliziosi pasticci di carne.
Sospirando rassegnato, Alphard chiuse la porta e, estratta la bacchetta
magica, si avvicinò all'acquario ereditato da zio Marius
affrettandosi a rimpinguarne le scarse risorse idriche. Nel tentativo
di dare un po' di conforto ai suoi pochi, provati abitanti ormai al
limite della resistenza.
L'incantesimo che aveva posto per impedire inopportuni esodi di pesci,
spinti al suicidio dagli improvvisi agguati di Felpato, funzionava a
meraviglia, per fortuna. Ora doveva solo inventarsi qualcosa per
evitare massicci trasbordi di acqua...
Circumnavigando cauto le pozzanghere che costellavano il pavimento di
parquet, Alphard si preparò a sistemare il disastro, mentre
la
pelosa, Apocalittica Punizione, perso interesse per quello che un tempo
era stato un vezzoso cappellino con tanto di veletta, gli si
gettò addosso con l'incontenibile entusiasmo di uno Snaso
rinchiuso alla Gringott. Uno Snaso della stazza di un giovane Ippogrifo.
Alphard, presumendo che Schiantare il proprio cucciolo fosse una cosa
poco carina da farsi, si limitò a minacciarlo con la
bacchetta.
Il cane si calmò di colpo, sedendosi davanti alla porta e
scodinzolando allegro. Alphard lo fissò incredulo: la cosa
aveva
del miracoloso! La cieca obbedienza non era esattamente una delle
caratteristiche di Felpato.
«Felpato!» esclamò quindi, approfittando
del momento
insperatamente favorevole e tentando di imitare il cipiglio usuale di
Walburga: «Considerati in punizione! Non te ne uscirai di
casa
finché questa stanza avrà riacquistato una
parvenza di
normalità!»
Fiero di se stesso e dell'assoluta Blackaggine
dimostrata in quel
frangente, il mago si accinse a sistemare le cose: considerata la sua
scarsa attitudine per gli Incantesimi Casalinghi, la punizione di
Felpato avrebbe potuto richiedere tempi preoccupanti persino per Flamel.
Tempi ulteriormente allungati dall'insistente squillo del campanello,
seguito dal festoso e assordante abbaiare del cane.
Ora tutto si spiegava: Felpato non si era calmato perché
impressionato dalle minacce di Alphard, aveva semplicemente sentito
ospiti in avvicinamento...
Borbottando fra sé, il mago aprì la porta,
sorridendo
piacevolmente sorpreso alla ragazza bruna che, reggendo un grosso libro
sotto un braccio, se ne stava impettita sulla soglia.
«Ciao, zio Al. Stavi mangiando cibo cinese?» chiese
la
ragazza, indicando un po' perplessa la bacchetta che Alphard stringeva
ancora nella mano.
«Uh, ecco... sì! Adoro il pollo alle
mandorle»
improvvisò il mago, nascondendo con discrezione l'oggetto
incriminato dietro la schiena. «Ma che bella sorpresa Ailis!
Come
mai da queste parti? Ti serve una mano per i compiti di
latino?»
Ailis scosse il capo, poi spinse avanti il ragazzino dai capelli neri
che le stava alle spalle. «Non questa volta, zio Al. Ho solo
accompagnato Sirius. L'ho incontrato alla fermata della metropolitana.
Stava tentando di comprare un biglietto con assurde monete argentate.
Qualcuno dovrebbe proprio spiegargli che i soldi giocattolo non vanno
bene per comprare cose nel mondo reale. Mi pare abbastanza grande per
capirlo, ormai» concluse divertita arruffando i capelli del
ragazzino.
Alphard studiò meravigliato il nipote. Indossava gli abiti
Babbani che lui stesso gli aveva regalato per i loro viaggi sulla moto.
Viaggi che finivano regolarmente per concludersi nel pub di Jordan.
«Oh, sì, provvederò di persona. Ma
entrate,
ragazzi».
Sirius obbedì immediatamente, ma Ailis sventolò
sotto il
naso di Alphard il grosso libro. «Non posso, zio Al. Devo
andare
in biblioteca a riconsegnare questo e poi a comprare un pallottoliere
per Gracie. Senza pare impossibilitata a fare i compiti di matematica e
quello vecchio si è rotto. Una cosa stranissima. Gracie lo
stava
usando, mentre Erin le saltellava attorno sostenendo che era cattiva
perché preferiva giocare con il pallottoliere
anziché con
la sua sorellina, e all'improvviso le palline sono schizzate da tutte
le parti!» tacque un istante, aggrottando pensierosa la
fronte,
quindi si strinse nelle spalle. «Succedono cose strane quando
Erin vuole attirare l'attenzione di qualcuno, sai? Settimana scorsa i
pastelli a cera di Abigail si sono fusi... Briana dice che è
colpa dei folletti. Papà ha un'altra teoria».
«Quale?» chiese Alphard incuriosito.
«Sono sicura che non vuoi saperlo davvero, zio Al. E' una di
quelle sue noiose teorie che riguardano le tempeste solari e il vento
cosmico...»
Sì, Alpahrd conosceva le noiose teorie siderali di Jordan. E
no,
non aveva nessuna voglia di sentirsene raccontare una. «Hai
ragione. Meglio evitare. Ma probabilmente Erin non c'entra con i
piccoli incidenti delle tue sorelle».
«Ma certo che Erin non c'entra, zio Al! Sono solo
coincidenze!» rispose la ragazza con decisione.
«Solo nonna
Fiona pensa che c'entri Erin. Lei dice che la marmocchietta
è
una strega, immaginati un po'. Settima figlia di un settimo figlio...
ma ti pare una cosa plausibile?»
Alphard scosse il capo, fingendo grande sdegno e sperando ardentemente
di sembrare credibile. «Ma certo che no! Mi pare
più
plausibile la faccenda dei folletti!»
Ailis rise e, dopo avere abbracciato entrambi i maghi, se ne
andò di corsa, lasciando Alphard a riflettere sugli strani
avvenimenti che circondavano la piccola Erin. Non era così
sicuro che Fiona O'Sulllivan si sbagliasse del tutto. Certo, la
faccenda dell'ordine di nascita era solo una superstizione Babbana ma...
«Zio Al! Il tuo tappeto è tutto bagnato!»
Alphard si riscosse, chiuse la porta e guardò il nipote che,
immerso nella pozzanghera più profonda, fissava sognante la
porta chiusa, tentando invano di contenere l'entusiasta assalto di
Felpato.
Un po' preoccupato dallo sguardo catatonico del ragazzo, Alphard gli si
avvicinò sventolandogli con decisione la bacchetta davanti
al
naso. «Tutto bene, Sirius?»
«Sì, zio. Benissimo. Donna interessante Ailis, non
trovi?»
Alphard socchiuse gli occhi, sorpreso. «Pensavo le trovassi
noiose, le femmine».
«Uhm. Quando ero giovane e stupido sì. Ma ora le
sto rivalutando. Soprattutto quelle vissute come Ailis».
Alphard trattenne una risata. «Capisco. L'irresistibile
fascino delle donne mature».
Sirius annuì con dignitosa serietà grattando
Felpato dietro le orecchie.
«Ma non sei venuto fin qui per discutere di donne,
suppongo».
Il ragazzino legò meglio alla borsa che portava a tracolla
quello che sembrava un fazzoletto rosso e scosse il capo.
«No,
zio Al, supponi bene. Senza offesa, ma non mi sembri esattamente un
esperto in materia».
«Appunto. Ma come mai hai deciso di prendere la
metropolitana?»
«Perché il tuo camino non è allacciato
alla Metropolvere».
«Oh, sì. L'ho fatto scollegare qualche tempo fa.
La
signora Owen ha l'irritante abitudine di irrompermi in casa nei momenti
più impensati e non mi pare il caso di farla assistere a
coreografiche uscite di comitive di maghi dal camino. Ma
perché
non hai preso il Nottetempo?»
«Perché mi avrebbero rintracciato
subito».
«Ti avrebbero rintracciato subito?»
«Sì» il ragazzino si lasciò
cadere sul divano
per poi aggiungere serio: «Sono scappato da casa, zio
Alphard. Ho
deciso che ero stufo di convivere con tua sorella. Diventa sempre
più insopportabile. Non fa che ripetere che sono una
delusione
per l'intera stirpe dei Black e che sicuramente prima o poi
verrò raggiunto da qualche Apocalittica Punizione. Ma
fortunatamente c'è Regulus che, di certo, eviterà
di
deludere l'intera stirpe dei Black avendo almeno il buon gusto di farsi
smistare a Serpeverde».
Alphard si sedette accanto al nipote, allarmato dall'insolita amarezza
che gli vibrava nella voce.
Scappato da casa.
Non ne era esattamente sorpreso. Sospettava che sarebbe successo prima
o poi.
Poteva scorgere in Sirius la sua stessa insofferenza verso tutto
ciò che pareva di vitale importanza per i Black
regolamentari. E
Sirius era più impulsivo di lui. E più
coraggioso, anche.
Tutti in famiglia erano rimasti scioccati quando era stato smistato a
Grifondoro. Tutti tranne Alphard. Perché Sirius non poteva
che
finire tra i prescelti dall'ardimentoso, infuocato Godric, a parer suo.
«Scappato da casa» ripeté pacato l'uomo
fissando il
ragazzo. «E hai usato la metropolitana per non farti scoprire
da
Walburga».
Sirius annuì fiero. «Non troveranno mai le mie
tracce. Di certo non interrogheranno dei miserabili Babbani».
«Di certo. E hai deciso di rifugiarti qui».
«Già. Quale rifugio migliore dell'Abominevole
capanna
dello zio Al?» affermò Sirius, imitando
l'altezzoso tono
materno, quindi si azzittì, giocherellando con il fazzoletto
rosso; dopo un istante guardò in tralice lo zio e chiese:
«A te non dispiace, vero?»
Alphard scosse il capo, addolorato dall'incertezza che il nipote
tentava, con scarso successo, di nascondere con l'indifferenza.
«Certo che non mi dispiace, Sirius. Sai che sei sempre il
benvenuto a casa mia, ma non credi che l'Abominevole capanna dello zio
Al sarà proprio il primo posto in cui i tuoi genitori
verranno a
cercarti?»
Il ragazzino corrugò la fronte, pensoso, poi
sbuffò esasperato.
Preoccupato che il brillante cervello del nipote desse prova della
propria indubbia creatività, suggerendo al legittimo
proprietario di trasferirsi direttamente sotto un ponte del Tamigi -
dove di certo Walburga non si sarebbe mai sognata di cercare il
riottoso rampollo scomparso - Alphard decise di proporgli qualche
soluzione alternativa. Doveva solo trovarne una, in fondo. Che ci
voleva. Era persino riuscito a rintracciare le leggendarie Chiavi del
Tempo, che diamine. Era di sicuro in grado di trovare un espediente che
desse sollievo al nipote e impedisse a Walburga di uccidere entrambi
con qualche fantasioso Anatema.
Peccato fosse quasi impossibile pensare con Felpato che, abbaiando
festoso, sguazzava nelle pozze d'acqua che ancora costellavano il
pavimento. Per non parlare del campanello che continuava a suonare.
Merlino. Il campanello!
Alzandosi di scatto, Alphard si precipitò alla porta
squadrando
sorpreso la ragazza che, trascinando con sé un giovanotto
biondo
e un po' spaesato, irruppe in casa.
Chissà cosa avrebbe pensato la signora Owen di tutte quelle
giovani donne che suonavano il suo campanello. Cioè, in
realtà era abbastanza sicuro di sapere cosa avrebbe pensato
la
signora Owen. Era molto romantica la signora Owen. E si era fatta
un'idea piuttosto ottimistica della vita sentimentale di Alphard.
«Ciao, Andromeda» salutò affabile il
mago,
accantonando quelle sinistre elucubrazioni sulla propria reputazione
ormai irrimediabilmente compromessa. «Che sorpresa. Pensavo
fossi
impegnata nella pianificazione del Secondo Grande Evento -
sì,
del tuo matrimonio con il giovane Malfoy, insomma - non dirmi che sei
scappata da casa e hai pensato di trasferirti nell'Abominevole capanna
dello zio Al».
La ragazza inarcò un sopracciglio, si guardò
attorno con
vago disgusto e, dopo un breve cenno di saluto ai presenti,
sfoderò la bacchetta magica esibendosi in una serie di
rapidi e
impeccabili Incantesimi Casalinghi che pulirono alla perfezione ogni
cosa - Felpato compreso - lasciando il soggiorno di Alphard
più
in ordine di quanto il mago avesse mai immaginato nei suoi sogni
più rosei.
«Sì, zio Al» disse infine la ragazza,
rimirando
soddisfatta il pavimento tirato a lucido. «Hai indovinato.
Sono
scappata da casa. Non avevo proprio nessuna voglia di pianificare il
Secondo Grande Evento».
Alphard sospirò. Era sicuro che prima o poi i suoi due
nipoti
prediletti si sarebbero distinti per qualche azione particolarmente
deprecabile. Erano i suoi nipoti prediletti per ragioni ben precise, in
fondo. Certo, avrebbe preferito che le suddette azioni deprecabili non
avvenissero in contemporanea, però.
«Ma non ho intenzione di trasferirmi nell'Abominevole capanna
dello zio Al» assicurò la ragazza, alzando la mano
sinistra per mostrare il semplice cerchietto d'oro che portava
all'anulare e sorridendo radiosa. «Indovinate un po'? Io e
Ted ci
siamo sposati! Alla fine ho ascoltato il tuo consiglio, zio: ho scelto
l'uomo che amo. Sarà lui a darmi la famiglia che
merito!»
Il giovanotto biondo - che Alphard suppose essere Ted - strinse
Andromeda a sé, baciandole con tenerezza una tempia, quindi
sollevò fiero la testa fissando Alphard negli occhi: pronto
ad
affrontare l'ennesima reazione poco dignitosa di un Black oltremodo
contrariato.
Prima che Alphard potesse tranquillizzare il giovane, assicurando che
non sarebbero volate esotiche maledizioni, Sirius si alzò
dal
divano avvicinandosi sorpreso alla cugina. «Ti sei sposata
con il
Nato Babbano Tassorosso? Alla vigilia del Secondo Grande Evento che
tutti i dignitosissimi Black attendono con ansia?».
«Sì, Sirius. I dignitosissimi Black dovranno
proprio fare
a meno del Secondo Grande Evento, temo. E a proposito di dignitosissimi
Black... Ted, loro sono zio Alphard e mio cugino Sirius».
Ted annuì un po' nervoso, mentre Sirius cominciò
a
girargli attorno, scrutandolo con meticolosa attenzione.
«Uhm,
sì, mi sa che hai fatto un buon affare, Andromeda. Mi sembra
un
grosso miglioramento confrontato al tuo precedente promesso
sposo».
Ted sorrise. «Grazie Sirius. Sono lusingato che
tu...»
«Ma, d'altro canto, anche un Troll di Montagna sarebbe stato
un
grosso miglioramento, paragonato a Vermicolo
Malfoy» aggiunse il
ragazzino, scoccando un'occhiata sussiegosa al neo-marito della cugina
prima di spostare la sua attenzione su Felpato che aveva cominciato a
uggiolare e a grattare con insistenza lo stipite della porta.
«Zio Al, credo che Felpato abbia un urgente bisogno di
uscire. E credo sarebbe saggio assecondarlo».
Alphard concordava. Sì, quella specie di Gramo di seconda
scelta
era ufficialmente in castigo ma, se non lo avesse lasciato uscire
subito, avrebbe allagato il soggiorno. Di nuovo. E senza ricorrere
dell'acquario. E lui era una vera frana con gli Incantesimi Casalinghi.
E poi, dopo tutto, ora il soggiorno era più che
presentabile. La
punizione poteva quindi ritenersi estinta.
«Sì, Sirius, l'ho notato. Ti dispiacerebbe
portarlo a fare
una corsa in giardino? Mi raccomando, lontano dalle peonie della
signora Owen, per carità. Già dovrò
raccontarle
della prematura, cruenta dipartita del suo cappellino, vorrei evitare
di darle altre luttuose notizie».
Il ragazzino annuì, abbandonò la borsa sul divano
e
afferrò Felpato per il collare. «Sì,
tranquillo
zio. Mi piace la signora Owen. E mi piace molto anche il suo pasticcio
di carne!» esclamò, sparendo oltre la porta,
seguito dallo
sguardo preoccupato del giovane Ted che chiese cauto: «Ma
è saggio lasciare quel... er... cane di notevole stazza da
solo
con il bambino?»
«No, non è particolarmente saggio. Potrebbe anzi
rivelarsi
pericoloso» rispose serio Alphard. «Per Felpato,
voglio
dire».
Andromeda rise della confusione del marito e accarezzandogli con
gentilezza un braccio spiegò: «Zio Al scherza,
Ted. Ama
scherzare, anche se il suo particolare senso dell'umorismo è
compreso solo da pochi eletti. Ma tutto sommato non ha tutti i torti,
tu non conosci Sirius, ancora».
Alphard guardò piacevolmente sorpreso la nipote. Era da
parecchio che non la sentiva ridere con quella sincerità.
«Non ho tutti i torti no. E non crederle, non è
vero che
il mio senso dell'umorismo è incompreso dai più.
E'
incompreso dalla maggior parte dei Black, questo sì, ma in
genere sono ritenuto abbastanza simpatico».
Ted annuì, più per cortesia che per convinzione,
secondo
Alphard, continuando a fissare la porta come se temesse che, da un
momento all'altro, qualcuno irrompesse in casa annunciando che Felpato,
stanco di tormentare pesci rossi, aveva sbranato Sirius.
Desideroso di scambiare due chiacchiere in privato con Andromeda,
Alphard propose: «Perché non vai con loro, Ted?
Sirius non
corre pericoli, davvero. Ma le povere peonie della Signora Owen
sì».
Il giovane guardò Andromeda e, rassicurato dal cenno
affermativo
di questa, annuì. «Va bene. Non vedo davvero il
motivo di
mettere in pericolo povere peonie innocenti, dopo tutto».
Alphard sogghignò divertito, sì, gli piaceva il
giovane
Ted. Probabilmente Andromeda aveva fatto davvero un ottimo affare
scegliendo lui.
Quando Ted fu uscito, Alphard si avvicinò alla nipote.
«Così lo hai fatto. Hai preso la decisione che io
non ho
mai avuto il coraggio di prendere».
Andromeda annuì. «Non ho avuto scelta, zio Al. E'
molto
doloroso dovere rinunciare a tutta la mia famiglia ma... dover
rinunciare a Ted lo sarebbe stato di più».
«Sì, oh, sì. Lo capisco perfettamente.
Ma non hai
rinunciato a tutta la famiglia. Hai ancora me, lo sai».
«Vuoi dire che, se con Ted dovesse andare male, potrei venire
a stare qui, nella capanna dello zio Al?»
«Naturalmente» rispose Alphard, aggiungendo poi in
tono
leggero. «Anche perché troverei davvero molto
utile il tuo
indubbio talento negli Incantesimi Casalinghi».
Andromeda ridacchiò, abbracciando di slancio lo zio.
«Immaginavo fosse per questo».
Lui la strinse gentilmente, un po' sorpreso dall'energia con cui la
ragazza gli si aggrappava. E abbastanza furioso con il fratello:
avrebbe dovuto essere Cygnus a rassicurarla in quel frangente, non lui.
«Andromeda, ora sono serio. Se qualcosa non dovesse andare
come
desideri... se dovessi in qualche modo pentirti della scelta che hai
fatto... potrai sempre contare su di me».
Lei si sciolse dall'abbraccio, guardandolo un po' imbarazzata.
«Grazie, zio Al. Fa paura non potere tornare indietro, vero?
Ma
prendere una decisione comporta sempre delle conseguenze. E se la
decisione che ho preso si rivelerà sbagliata...
pagherò
le suddette conseguenze. Indietro non potrei tornare comunque. Neppure
se lo volessi».
«Questo non è detto» disse Alphard,
afferrando la nipote per una mano e trascinandola al piano superiore.
Senza darle nessuna spiegazione si fiondò in camera da letto
e,
sotto lo sguardo sconcertato della ragazza, aprì l'antico
baule
di lucido legno intarsiato che si trovava accanto all'armadio. Ne
prelevò un medaglione molto simile a quello che portava
sempre
al collo e lo osservò meditabondo, sfiorando la piccola
fenice
fiammeggiante che ne occupava il centro.
La Chiave del Tempo funzionante.
L'aveva conservata per tre anni, prendendo in seria considerazione la
possibilità di utilizzarla.
Ogni anniversario della morte di Erin era salito in camera, aveva
sfoderato la bacchetta e si era seduto sul pavimento stringendo la
Chiave in una mano. Cercando di trovare il coraggio di pronunciare
l'incantesimo che Aldebaran aveva trascritto sulla pergamena. Ma non
conosceva i particolari della morte di Erin, purtroppo. E il suo
intervento avrebbe potuto comportare conseguenze nefaste sulla linea
del tempo e sulle vite delle decine di persone coinvolte in
quell'incidente. E lui non era mai stato particolarmente temerario.
Anzi. Non era mai neppure riuscito a fare quello che Andromeda aveva
appena fatto. Forse lei avrebbe trovato anche il coraggio di servirsi
della Chiave, in caso di necessità.
Presa la sua decisione, afferrò anche la vecchia pergamena
scritta da Aldebaran quasi nove secoli prima e porse il tutto alla
nipote. «Mi dispiace per la presentazione, Andromeda, ma
questo
è il mio regalo di nozze».
La ragazza guardò la Chiave, Alphard sorrise
dell'espressione
assai poco entusiasta che le si dipinse sul volto: chissà
perché solo lui riusciva a cogliere la profonda bellezza di
quell'oggetto...
«Oh, un medaglione quasi uguale al tuo, zio Al. E' molto...
originale. Ma non dovevi, davvero».
«Sì che dovevo, Andromeda. Se tu mi avessi
avvisato del matrimonio ci sarei venuto, sai?»
La ragazza lo guardò stupita. «Ma... questo ti
avrebbe messo in cattiva luce con la famiglia. Io pensavo...»
«Lo so cosa pensavi. E ti ringrazio per la gentilezza. Ma
almeno
un regalo di nozze devo fartelo. Anche per dimostrarti che ho gradito
la scelta dello sposo».
«Davvero?»
«Oh, sì. Sirius ha ragione: molto meglio di Vermic... ehm... di
Lucius
Malfoy».
Andromeda rise. «Indubbiamente. Non che ci volesse molto:
anche un Troll di Montagna lo sarebbe stato».
Alphard si strinse nelle spalle e, notato l'impaccio con cui la nipote
guardava il medaglione, si premurò di rassicurarla.
«Tranquilla, non devi indossarlo. Devi solo conservarlo. E,
se
entro i prossimi vent'anni dovessi renderti conto che la scelta che hai
fatto è quella sbagliata... be', allora questo ti
permetterà di cambiarla».
«E come?»
Alphard sorrise enigmatico. Non gli pareva il caso di rivelarle nei
dettagli cosa fosse quell'oggetto. Aveva il fondato sospetto che la
nipote avrebbe reagito come Morrigan. Così decise di
rimanere
sul vago. «Lo scoprirai leggendo la pergamena».
«Ah... zio... io sono una frana con le Rune
Antiche».
«Allora vieni da me, nel caso. E la leggeremo
assieme».
La ragazza annuì. Alphard ebbe l'impressione che stesse
cercando
le parole adatte per esprimere qualche complicato concetto, quando
entrambi sobbalzarono per un tonfo proveniente dal piano di sotto.
Efficiente.
Il giovane Ted era decisamente efficiente, decise Alphard ammirando il
neo-marito della nipote prediletta intento ad asciugare l'acqua sparsa
sul pavimento del soggiorno, mentre Sirius tratteneva Felpato per il
collare.
«Oh, signor Black» esclamò, Ted
prosciugando
l'ultima pozzanghera. «Come può vedere le ho
riportato
entrambi sani e salvi. Anche le peonie della signora Owen sono salve...
e quasi sane anche».
«Quasi
sane?» chiese Andromeda squadrando con un'occhiata
molto da Black regolamentare il cuginetto e il grosso cane.
«Come
sarebbe a dire: quasi
sane?»
«Be', Felpato pareva convinto che i poveri fiori fossero in
grave
riserva d'acqua» spiegò Ted divertito.
«Così
ha cercato di rimediare. A modo suo. E, evidentemente poco soddisfatto
del risultato, ha poi tentato di... uhm... spostarle in zona
più
confacente».
Alphard gemette sconsolato all'idea di dovere dare notizie tanto
nefaste alla gentile signore Owen. Prima o poi la deliziosa vicina
avrebbe usato Felpato come ingrediente principale dei suoi pasticci di
carne. E ne avrebbe avuto tutte le ragioni, tra l'altro.
«Tranquillo, zio!» intervenne Sirius.
«Puoi aspettare
a pietrificare Felpato. Le peonie stanno abbastanza bene. Ted le ha
ripiantate con qualche incantesimo».
«Me la cavavo discretamente in Erbologia» si
schermì
il giovane. «E Sirus è stato bravissimo a
distrarre
quell'incantevole signora mentre io sistemavo le peonie».
Sirius sogghignò. «Abbiamo parlato di cose
interessanti.
Oh, zio Al, questa sera non cucinare. Hai un appuntamento con una
succosa fetta di Roastbeef».
Alphard scosse la testa. Poi si guardò attorno, chiedendosi
a
cosa fosse dovuto il sinistro tonfo che aveva distratto lui e la nipote
una manciata di minuti prima. «Pensavo ci fosse qualcosa di
rotto
ma mi sbagliavo a quanto pare» concluse non scorgendo ruderi
di
nessun genere.
«Ah» disse Sirius indicando con un cenno distratto
l'acquario. «Dopo avere salutato la signora Owen siamo
risaliti
in fretta. Sai, Felpato aveva cominciato a nutrire qualche dubbio anche
sull'attuale posizione di quei cespugli cespugliosi, hai presente...
quei...»
«Rododendri» intervenne Ted rinfoderando la
bacchetta.
«Sì. Ecco, quelli. Così lo abbiamo
ritrascinato in
casa. Ma Felpato pare non avere gradito e ha... uhm, deciso di cambiare
posto anche all'acquario».
«Felpato deve essere in una fase particolarmente creativa.
Anche
mia madre viene colta periodicamente da raptus di spostamento
mobili» constatò Andromeda rattristandosi
leggermente.
Ted le si avvicinò, cercandole con incerta tenerezza una
mano e
Andromeda si strinse a lui, dedicandogli un sorriso innamorato. O
ebete, secondo la peculiare visione che Sirius si premurò di
esporre con tempestiva sincerità.
Alphard, assestando uno scappellotto scherzoso al nipote, sorrise alla
coppia, certo che La Chiave del Tempo non sarebbe stata usata in un
immediato futuro. Non da Andromeda, almeno.
Non si sarebbe mai pentita della scelta fatta.
Guardava Ted nello stesso modo in cui Erin aveva guardato lui.
Chissà se lui, quando guardava Erin, aveva la stessa
espressione
persa - o ebete, volendo adottare la cruda definizione di Sirius - che
Ted esibiva con Andromeda...
«Oh, signor Black» esclamò
all'improvviso il
giovane, indicando l'acquario. «Mi sono permesso di sistemare
tutto. L'avrei anche aspettata, ma i pesci non sarebbero stati molto
contenti, mi sa. Così sono intervenuto. Me la cavo benino
con
l'Incantesimo Reparo» corrugò la fronte, assorto.
«La professoressa di Divinazione una volta, leggendo le mie
foglie di tè, ha predetto che mi sarebbe tornata molto utile
questa abilità, nella vita. Forse si riferiva a
oggi».
«Non saprei, Ted. Ma apprezzo la tua abilità con
l'Incantesimo Reparo. Tengo molto a quell'acquario, è un
ricordo
del mio zio preferito. E sono anche abbastanza stanco di comprare pesci
nuovi per popolarlo. Mi sembra di passare più tempo al
negozio
di animali qui all'angolo che a casa. Il proprietario mi ha persino
messo nella lista di coloro a cui fare il regalo di Natale...»
Ted rise divertito. «Allora sono contento di avere salvato i
suoi
pesci, Signor Black» poi sbirciò l'orologio e
mormorò un po' a disagio: «Andromeda, se non
vogliamo
perdere il treno dovremmo proprio andare».
Andromeda annuì. «Sì. Ted mi
porterà in
Normandia in viaggio di Nozze» spiegò, gli occhi
scintillanti di aspettativa. «Il viaggio è un
regalo di
una sua romantica prozia, treno e traghetto compresi, così
abbiamo orari da rispettare».
Ted tossicchiò imbarazzato e spiegò:
«La prozia
Dora è Babbana, come tutti i miei parenti, del resto. E per
di
più è un'artista... vive in un mondo tutto suo,
fatto di
pennelli e di colori... non è mai riuscita a capire che i
maghi
hanno modi più veloci per spostarsi».
«Più veloci forse, ma molto meno
affascinanti»
assicurò Alphard. «Se vuoi sapere la mia opinione,
Ted, la
prozia Dora vi ha fatto uno splendido regalo. Una Passaporta
è
sicuramente meno romantica di una traversata della Manica in
traghetto».
Andromeda, dopo avere intrappolato Sirius in un abbraccio affettuoso -
riuscendo persino a scoccargli un bacio sulla testa - si
avvicinò ad Alphard. «Grazie di tutto, zio Al.
Terrò caro il tuo regalo: credo proprio che non
dovrò
usarlo, ma è un ricordo del mio zio preferito».
Alphard arrossì leggermente, sorpreso e Andromeda sorrise
aggiungendo con sincerità: «E' un vero peccato che
l'unico
Black che sarebbe stato un buon genitore non si sia riprodotto, sai?
Spero solo di somigliare più a te che a tuo
fratello».
«Oh, io ne sono sicuro» intervenne Ted con
dolcezza. «Non ho proprio alcun dubbio in
proposito».
Andromeda sospirò: «Be', di sicuro non
imporrò mai
a una mia eventuale figlia di decidere tra me e l'uomo che ama. Questo
proprio no! Appoggerò comunque le sue scelte!»
Alphard la guardò meditabondo. «Ne sono
certo» poi
ammiccò e aggiunse: «Anche perché in
caso
contrario, verrò a cercarti e ti farò una bella
ramanzina».
Andromeda rise, sfiorandogli una guancia con un bacio.
«Guarda che ci conto!»
«Contaci pure» esclamò Alphard prima di
avvicinarsi
a Ted e di assestargli una pacca amichevole su una spalla.
«Benvenuto in famiglia, allora, Ted».
«Grazie, Signor Black».
«Sappi però che, se non tratterai bene mia nipote,
piomberò a casa tua e ti Trasfigurerò in un una
peonia
per poi abbandonarti alle cure di Felpato».
Ted annuì con solennità. «Mi sembra il
minimo, signor Black. Guardi che ci conto».
«Bravo. Oh, Ted, ci sarebbe un'altra cosa che dovresti fare
per
evitare di farmi venire devastanti voglie di Incantesimi di
Trasfigurazione».
Il giovanotto lo guardò un po' preoccupato. «E
sarebbe?»
«Smetterla di chiamarmi signor Black. Mio padre era il signor
Black. Cygnus e Orion sono i signori Black. Io preferirei essere solo
Alphard, se zio Al ti sembra troppo».
Ted rise, sollevato e, mentre Andromeda lo trascinava senza tanti
complimenti fuori dalla porta, promise solennemente di attendere
all'accorata richiesta.
«E' simpatico Ted, vero zio Al?»
«Sì, molto, Sirius».
Sirius.
Sistemata la pratica Andromeda, c'era ancora da risolvere il problema
di Sirius e della sua fuga da casa.
Alpahrd non dubitava che presto sarebbe stato raggiunto dal tetro gufo
di Walburga, latore di un messaggio altamente minatorio circa la
ricerca del riottoso erede.
E lui era ancora senza lo straccio di un piano.
«Zio Al, credi che il nome di Andromeda sull'arazzo
verrà bruciato?»
Alphard, pensando alacremente a come risolvere la faccenda,
guardò il nipote che lo stava osservando con una
serietà
sconcertante.
«Temo di sì, Sirius. Andromeda ha fatto qualcosa
che,
almeno secondo la maggioranza dei Black, recherà danno al
buon
nome della Casata».
Il ragazzino annuì, prese la sua borsa ancora abbandonata
sul
divano e disse: «Puoi prestarmi qualche soldo Babbano,
zio?»
Alphard lo guardò preoccupato: che Sirius avesse davvero
pensato di rifugiarsi sotto un ponte del Tamigi?
«Naturalmente, Sirius. Ma cosa ne vuoi fare?»
indagò con cautela.
«Prendere la Metropolitana per tornarmene a casa»
affermò il ragazzo. «Anche se, a questo punto,
credo che
potrei prendere il Nottetempo...»
«Vuoi tornare a casa? E la tua fuga?»
«Rimandata. Ora non è il momento. Devo tornare a
casa. Per difendere Andromeda».
«Difendere Andromeda?»
«Sì. Non potrò evitare che il suo nome
venga
cancellato. Ma potrò evitare che il suo ricordo lo sia,
no?»
«E come?»
Il ragazzino si strinse nelle spalle. «Parlando di lei. Il
più possibile».
Alphard annuì ammirato. «Una scelta nobile,
Sirius. Ma che
non sarà priva di conseguenze. E tali conseguenze potrebbero
essere piuttosto sgradevoli per te».
Il ragazzino ci pensò un istante, accarezzando Felpato che
osservava con sonnacchioso interesse il fazzoletto rosso legato alla
tracolla. «Lo so. Il professor Silente dice che ogni scelta
ha
delle conseguenze. Spesso poco piacevoli. Tipo punizioni noiose e punti
decurtati alla Casa di appartenenza».
Alphard trattenne una risata. «Temo che in questo caso le
conseguenze potrebbero essere più pesanti».
«Non importa. Sono disposto a sopportare qualsiasi
conseguenza per difendere chi amo. Tu no, zio?»
Alphard boccheggiò, sorpreso. Per la scopa di Merlino, da
quando
Sirius era diventato così profondo? Da quando aveva
cominciato
ad apprezzare le ragazze, probabilmente...
«Sì, certo Sirius. Anch'io». Almeno gli
piaceva pensarlo, anche se non ne era del tutto sicuro.
Sirius annuì soddisfatto e fece per uscire.
«Aspetta. Ti accompagno io» propose Alphard,
prendendo le
chiavi della moto appoggiate sul tavolino e scoccando un'occhiata
preoccupata a Felpato che sonnecchiava spaparanzato sul divano. Con un
po' di fortuna avrebbe dormito per qualche ora, senza attentare
ulteriormente ai pesci rossi. O alle peonie della signora Owen.
«Vuoi assistere anche tu al falò, zio
Al?»
«Certo. Una scenata di Walburga è più
avvincente in diretta».
Il ragazzino sogghignò, aprendo la porta. Poi si
fermò e,
slacciando il fazzoletto rosso disse: «Mi insegneresti
l'Incantesimo di Adesione Permanente, zio? Voglio appendere questo in
camera mia» mostrò fiero il fazzoletto che si
rivelò essere un gagliardetto di Grifondoro. «Ma
tua
sorella lo stacca sempre, sostituendolo con arredi più
consoni a
un giovane Black. Lascio a te la gioia di immaginare cosa possano
essere».
Alphard prese il gagliardetto dalle mani del nipote e annuì:
«Ti insegnerò l'incantesimo. E questo lo
appenderemo
insieme».
«Pensavo detestassi Grifondoro».
Alphard scosse le testa. «No. Provo per Grifondoro un sano
antagonismo, Sirius, ma non ho mai odiato i membri della Casa. Anzi,
molti di coloro che vi hanno soggiornato mi stanno decisamente
simpatici. Tu ad esempio» concluse sorridendo e ridando il
gagliardetto al nipote.
Sirius lo prese e sospirò. Poi mormorò, come se
ammettere
la cosa gli costasse uno sforzo sovrumano: «E alcuni di
quelli
che hanno soggiornato a Serpeverde stanno simpatici a me».
«Vedi?».
«Molto pochi, eh» si affrettò a
precisare il
ragazzino. «Solo due in effetti. Tu e Andromeda. Punto. E
secondo
me è solo perché il Cappello Parlante deve
essersi
sbagliato con voi. Sì. Deve essere andata proprio
così.
Magari qualcuno ci aveva rovesciato sopra dell'Whisky
Incendiario...»
Alphard rise chiudendo a chiave la porta e facendo un cenno di saluto
alla signora Owen, intenta ad innaffiare le peonie.
«Ma, cambiando discorso» disse Sirius, sorridendo
amabile
alla signora Owen. «Come posso fare per conquistare
Ailis?»
Alphard, che stava per montare sulla moto, si bloccò e
scoccò un'occhiata sorpresa al ragazzo: «Pensavo
avessimo
convenuto che sono poco affidabile in tal senso».
«Lo so. Ma a quanto pare ci siamo sbagliati. La signora Owen
sembra convinta del contrario. Prima ha detto a Ted che, se avesse
avuto una trentina di anni in meno, avrebbe suonato anche lei alla tua
porta. E la signora Owen è una donna, giusto? Quindi deve
intendersene di queste cose. E poi...» concluse pratico
salendo
sulla moto. «A chi posso chiedere di più
affidabile,
scusa, le mie uniche altre alternative sono tuo cognato e tuo
fratello».
Alphard ridacchiò e, montando finalmente sulla moto, si
preparò ad affrontare lo spinoso problema, conscio di essere
la
scelta meno disastrosa.
Insomma, almeno non tentava di fare colpo sulle donzelle invitandole a
guardare la sua collezione di teste di elfi impagliate.
Era già qualcosa.
*****
Era già qualcosa.
Cercò di convincersi Alphard, parcheggiando la moto davanti
al pub di Jordan.
Sirius godeva tuttora di ottima salute, non essendo stato raggiunto da
nessun esotico Anatema scagliato dalla sua fantasiosa genitrice.
E Alphard anche.
Era già qualcosa.
Walburga e Orion non si erano neppure accorti della momentanea
scomparsa del primogenito, occupati com'erano a tentare di arginare le
lacrime di Druella e le imprecazioni - disdicevoli per un Black - di
Cygnus, e a inventarsi un modo dignitoso per informare
Abraxas Malfoy che il Secondo Grande Evento era stato pregiudicato
dall'insensatezza della promessa sposa.
Promessa sposa che, per inciso, non era mai esistita, come dimostrava
l'Arazzo di Famiglia su cui non compariva nessuna Andromeda Black, ma
solo una brutta bruciatura che deturpava la perfezione del ricamo. Lo
sbadato elfo domestico di Casa Black era già stato punito
per la
distrazione con cui accendeva i lussuosi candelabri della Sala
dell'Arazzo, ma fortunatamente il fuoco non aveva lambito i nomi delle
due figlie
di Cygnus e Druella.
Certo, convincere il giovane Malfoy di essere stato fidanzato per tre
anni con una persona mai esistita avrebbe potuto creare qualche piccola
difficoltà, a parere di Alphard... ma nulla di irrisolvibile
secondo l'autorevole opinione di Walburga.
Intenzionato a godersi una buona birra e a scambiare quattro
chiacchiere con Jordan, Alphard smontò dalla moto, fissando
incuriosito l'uomo alto e snello che, standosene appoggiato a un
lampione, osservava accigliato l'ingresso del pub.
Conosceva quell'uomo.
Non lo vedeva da sei anni, ormai, ma se lo ricordava perfettamente.
Erano stati vicini di ufficio al Ministero, e Alphard non dimenticava
mai una faccia. Soprattutto se apparteneva a qualcuno che gli piaceva.
«Lupin!» esclamò quindi, appoggiando una
mano sulla spalla dell'ex collega.
Questi sussultò, voltandosi di scatto, un lampo di puro
panico negli occhi ambrati.
«Ehi, tranquillo» tentò di calmarlo
Alphard.
«Mica sono un Dissennatore. Mi fa piacere rivederti dopo
tutto
questo tempo».
L'uomo annuì, cercando frenetico con lo sguardo
l'avambraccio di
Alphard. Quello che vide parve rassicurarlo, perché
improvvisò un sorriso quasi convinto e mormorò
con il suo
solito tono gentile: «Anche a me, Black.»
«Zio Al!».
Allargando le braccia in segno di scusa, Alphard sorrise alla bimba
dalle treccine ramate che caracollava entusiasta verso di loro.
«Ciao Erin» la salutò con gentilezza,
tentando di
allentare la stretta con cui la bambina gli aveva imprigionato il
ginocchio sinistro.
La piccola Erin aveva una vera passione per il suo ginocchio sinistro.
Lupin ridacchiò offrendo il suo aiuto, e la bimba lo
scrutò scettica.
«Stai dando noia allo zio Al, tu?» chiese
bellicosa,
incrociando le braccia in una perfetta imitazione di Jordan quando
apostrofava qualche ubriaco molesto.
Lupin si affrettò a scuotere vigorosamente il capo e,
alzando le
mani in segno di resa, negò con decisione ogni intento di
disturbare lo zio Al.
«Ah, meno male. Perché se no sarebbe toccato a me
sistemarti» affermò decisa la bimba, facendo cenno
a Lupin
di avvicinarsi.
L'uomo si accovacciò immediatamente, fino a trovarsi
all'altezza
della bambina che spiegò con fare cospiratorio:
«Perché zio Al è proprio una frana
nella lotta,
sai? Quando la facciamo vinco sempre io».
Lupin sgranò gli occhi con ammirato interesse:
«Davvero?»
La piccola annuì, compunta e orgogliosa. «Davvero.
Ma sempre!
E non perché succedono cose strane come quando riesco a
battere Abigail. Ma proprio perché lui non è
capace!»
«Capisco» Lupin guardò pensoso Alphard
per un
istante, poi propose con estrema serietà: «Se vuoi
posso
provare a insegnargli io».
La bimba lo scrutò scettica, studiandone critica la
corporatura
snella. «Non lo so mica se tu sei capace di battermi,
sai?».
Alphard sogghignò, notando il vago imbarazzo di Lupin ma,
prima
di poter intervenire, fu interrotto dall'arrivo di altre tre bambine
che, senza degnare Lupin di uno sguardo, salutarono calorosamente zio
Al.
«Stiamo andando dalla signora Everett»
spiegò la
ragazzina più grande, afferrando Erin per una mano e
indicando
il palazzo al lato opposto della strada. «La sua gatta ha
appena
avuto i micini. Non è che ne vuoi uno, zio Al?»
Alphard scosse il capo, terrorizzato: gli mancava solo quello.
«No, Briana. Ma grazie per avermelo chiesto».
Una seconda bambina, più minuta, sembrò molto
delusa.
«Oh, ma ce n'è uno tutto nero che ti piacerebbe da
morire,
zio Al» insinuò sognante prendendogli la mano.
«Sì, Gracie, ne sono sicuro, ma...»
«Somiglia tutto a Felpato! Anche di carattere!»
assicurò la terza bambina saltellando entusiasta attorno al
lampione.
«Ah, ecco. Una versione felina di Felpato. Come non
adorarla!» esclamò il mago, tentando di apparire
convincente anche se - a onor del vero - avrebbe trovato
più adorabile una Manticora. «Ma, Abigail, poi
forse
Felpato sarebbe geloso».
Le bimbe convennero che probabilmente era vero e, canticchiando la loro
canzoncina preferita - quella che parlava di un sottomarino
giallo - si apprestarono ad attraversare la strada.
«Ehi, signorine!» le richiamò Alphard -
che a
volte si ricordava di essere un Black - indicando Lupin. «Non
si
usa salutare?»
Le tre bambine più grandi si guardarono allibite, poi si
strinsero nelle spalle esclamando in coro: «Ciao, zio
Al!»
Solo la piccola Erin si degnò di guardare Lupin e di
sorridergli agitando una manina.
«Ah, perdonale, Lupin» disse Alphard, distogliendo
lo
sguardo da loro solo dopo essersi accertato che fossero arrivate sane e
salve a destinazione. «In genere sono molto
educate».
Lupin scosse il capo, guardando fisso qualcosa alle spalle di Alphard e
bisbigliò: «Non gesticolare così! Ah,
troppo tardi.
Dì che stai cantando...»
«Cosa?» Alphard fissò stralunato l'ex
collega per
poi voltarsi a guardare cosa gli stesse indicando. Trovandosi di fronte
Caitlin e Yuri che lo osservavano con magnanimo sconcerto.
«Oh no. A papà non piacerà, zio Al. Non
gli
piacerà neppure un po'» esclamò Yuri
con rassegnata
compassione.
«Cosa non piacerà a tuo padre?» chiese
Alphard, sinceramente sbigottito.
Il ragazzino guardò la sorella e scosse il capo.
«Che ti
dicevo, Caitlin? E' completamente andato» quindi si rivolse
ad
Alphard, scandendo bene ogni singola parola. «A
papà, zio
Al, non piacerà affatto che tu sia già sbronzo
prima di
mettere piede nel suo pub. La prenderà come un'offesa
personale».
Alphard si rizzò in tutta la sua altezza, sdegnato.
«Ma io non sono affatto sbronzo!»
«Zio Al» intervenne pacata Caitlin.
«Stavi discutendo animatamente con un lampione...»
«Io non stavo discutendo animatamente con un lampione! Io
stavo...»
«Cantando» suggerì prontamente Lupin con
un sogghigno.
Alphard gli scoccò un'occhiata tanto dissimulata quanto
truce e capitolò: «Stavo cantando».
«Cantando?» chiese Yuri sorpreso. «Non
sapevo cantassi».
Alphard prese un profondo respiro e intonò: «We all live in a Yellow
Submarine, Yellow Submarine, Yellow...*»
«Va bene, va bene» lo azzittì perentorio
Yuri. «Preferivo continuare a non saperlo».
«Hai sicuramente uno stile... interessante, zio
Al»
intervenne Caitlin fulminando il fratello con un'occhiata assassina.
«Ma forse potresti provare a interessarti anche a qualche
altro
hobby... non so, hai mai pensato di collezionare francobolli?»
Poi, prima di attendere risposta esclamò: «Yuri,
se proprio vuoi venire, meglio se ti dai una mossa».
Il ragazzino sbuffò. «Non è che voglio venire. Devo
venire. Che è diverso. Papà non mi ha lasciato
scelta,
visto che Ailis deve fare la baby-sitter ai bambini di zia Joyce.
L'avrei fatto io se avessi saputo che l'alternativa era quella di
venire al cinema con te e l'uomo della tua vita. Preferirei assistere a
un concerto di zio Al».
«Ehi!» protestò l'interessato.
«E poi non ti era simpatico Daniel?»
«Sì. Peccato che Daniel fosse l'uomo della sua
vita
settimana scorsa. Questa è la settimana di Nigel. Che
è
un vero strazio. Non oso pensare che film mi costringeranno a vedere
questi due» spiegò, mentre veniva trascinato via
da
un'impaziente Caitlin impegnata a esaltare estatica il discreto fascino
intellettuale di Nigel.
Alphard li osservò allontanarsi, tentando di riprendersi.
Un'improvvisa risata profonda e divertita gli ricordò che
non era solo.
«Zio Al?» chiese ironico Lupin.
«Non infierire, Lupin. Mi ci sono trovato in mezzo. Erano
pochi,
all'epoca. Pochi, piccoli e carini. Ma com'è che non ti
hanno
visto? Sei sotto l'effetto di un incantesimo Anti-Babbani?»
Lupin annuì, improvvisamente serio. «Sono qui per
lavoro».
«La piccola Erin ti ha visto, però».
«La piccola Erin è il motivo per qui sono
qui».
«E'...»
«Sì. Erin è una strega».
Alphard non ne fu sorpreso. Lo sospettava. Nonna O'Sullivan aveva visto
giusto.
«Ma, un momento!» esclamò dopo un
istante. «Tu
non ti occupi più di rintracciare piccoli Nati-Babbani
dotati di
poteri magici per il Ministero. Da quando tuo figlio è
stato...» tacque, rimproverandosi mentalmente per l'assoluta
mancanza di tatto.
Lupin sorrise triste, sistemandosi il colletto della camicia.
«Da
quando mio figlio è stato morso da Greyback. Dillo pure,
Alphard. Non è certo un segreto. Come non è un
segreto
che, quando è successo, il Ministero ha preteso le mie
dimissioni. Oh, mi hanno fatto un'offerta, sai? Un'offerta molto
vantaggiosa, secondo il Primo Ministro» annunciò
con un
sarcasmo amaro che Alphard non aveva mai scorto in lui. «Se
avessi affidato mio figlio al licantropo che - per una disgraziata
fatalità - lo aveva morso, non ci sarebbero
stati problemi. Io
avrei conservato il mio posto di lavoro e il bambino sarebbe vissuto
con chi sapeva come trattarlo. Ho rifiutato, naturalmente. Mia moglie
è un'esperta di creature magiche. Così, grazie
all'intervento di Silente, ci è stato concesso di tenere il
bambino».
«Lui è... lui sta bene?» lo interruppe
Alphard, ben
sapendo che non era una cosa così scontata. Non sempre le
persone sopravvivevano all'attacco di un lupo mannaro. Soprattutto
quando si trattava di bambini.
«Sta bene, sì. Sta anche meglio di quanto avessi
osato sperare. Qualcuno pensa sia una sfortuna per me».
Sì. Alphard lo immaginava. Lo sapeva, anzi. Walburga e
Cygnus erano un esempio di tali compassionevoli persone.
«Ma tu no» mormorò prima di poterselo
impedire.
«Certo che no. E' mio figlio, Alphard»
replicò Lupin con semplicità.
Alphard annuì, pur non trovando così ovvia quella
constatazione. Anche Gygnus era il padre di Andromeda. E gli era
bastato molto meno per desiderare che fosse morta.
«Così hai rinunciato al tuo prestigioso posto al
Ministero per stare con il bambino».
«Conosci forse qualche padre che avrebbe anteposto il proprio
prestigio sociale al benessere di un figlio?»
Sì. Oh, sì, Alphard conosceva intere Casate
formate da
individui del genere. Ma sospettava che Lupin non frequentasse simili
ambienti. Così preferì non rispondere, e
cambiò
abilmente discorso.
«Ma, se non lavori al Ministero, come mai sei venuto per
Erin?»
Lupin lo guardò pensieroso. «Avevo dei dubbi su di
te,
Alphard. Stupidi pregiudizi legati al tuo cognome di cui ti chiedo
scusa. Ma dopo avere visto l'affetto che ti lega a quei piccoli
Babbani, credo proprio di potermi fidare. Lavoro per Silente.
Rintracciando Nati Babbani dotati di poteri magici e riferendo i loro
nomi a Silente medesimo. Senza passare dal Ministero. Ci sono troppi
seguaci di Tom Riddle, lì».
«E Silente non si fida di Tom Riddle. Ma al Ministero
c'è
un tuo sostituto. Lo so per certo e so anche chi è! Come
fate a
fare in modo che non li rintracci lui i Nati Babbani?»
Lupin sogghignò ironico. «Il mio sostituto
è
Antonin Dolohov. Non è difficile da ingannare. Non
riconoscerebbe un piccolo Nato Babbano dotato di poteri magici neppure
se si Smaterializzasse sotto il suo naso. Non si è mai
interessato ai Babbani. Non sa nulla di loro».
Sì, Alphard non aveva nulla da ribattere su questo punto.
«Non preoccuparti, Alphard. Terremo d'occhio la piccola Erin.
E'
una streghetta fortunata, perché potrà contare
anche
sulla tua protezione» sospirò amareggiato.
«A volte
mi sembra di vivere all'epoca delle Orde del Tempo e dei Ghermidori,
sai? Si prospetta un periodo difficile per i Nati Babbani. Riddle
vorrebbe allontanarli dalla Magia. In ogni modo. Con ogni mezzo. Mio
figlio non è stato morso per una disgraziata fatalità,
Alphard. E' stato morso per rappresaglia. Perché mi ero
rifiutato di consegnare la lista con i nomi dei piccoli Nati Babbani a
Riddle».
Alphard annuì. «Lo sosteneva anche
Duncan».
«Ah, Duncan... neppure quello che è successo a lui
è stato una fatalità».
Alphard sgranò gli occhi, sconcertato. Duncan, il mago che
aveva
preso il posto di Lupin dopo le sue “dimissioni”,
era morto
eroicamente, nel tentativo di catturare il drago che aveva attaccato il
treno su cui viaggiava Erin. Come poteva non essere una
fatalità?
«Duncan è morto tentando di proteggere un treno
colmo di
Babbani da un Gallese Verde, Lupin» fece notare ragionevole.
«Come potrebbe essere opera di Riddle? Neppure lui
è in
grado di farsi obbedire da un drago».
Lupin si sostò i capelli castano chiaro dalla fronte e
scrollò le spalle. «Non ho prove che
quell'incidente sia
stato opera di Riddle, Alphard. Ma so con certezza che Duncan non
è morto per colpa di un drago. E neppure quei poveri Babbani
che
si trovavano sul treno».
«Ma sono stati proprio i sopravvissuti a parlare di un
drago!» insistette Alphard. Lo sapeva perfettamente
perché
ne aveva interrogato lui stesso uno - un adolescente con una
vistosa fasciatura a un braccio - prima che gli venisse
modificata la memoria.
«I sopravvissuti hanno detto di avere visto qualcosa
stagliarsi
contro il cielo plumbeo. Alcuni di loro sostenevano che questo qualcosa
somigliava a un grasso drago di un verde brillante che sputava un
vivido fuoco dello stesso colore. Un fuoco verde brillante,
Alphard».
«E allora?» chiese Alphard allibito.
«E allora, come potrebbe agevolmente spiegarti mia moglie, i
Gallesi Verdi non sputano fuoco verde. Nessun drago di un verde
brillante, lo fa».
«Oh» Alphard doveva ammettere di non essere un
grande esperto di Creature Magiche.
«Già, oh. Di sicuro qualcosa quei Babbani hanno
visto,
quella sera. Qualcosa che somigliava a un grasso drago sputa fuoco...
ma non lo era» concluse Lupin sbirciando malinconico il cielo
terso che, all'orizzonte, cominciava a tingersi di rosso.
«Ora
devo proprio andare. Mi ha fatto molto piacere rivederti, Alphard
Black».
«Aspetta! Voi lo sapete cosa poteva essere quel finto drago,
vero?»
«Silente ha dei sospetti in proposito. Chiedi a lui.
Sarà
felice di condividerli con te. E' alla disperata ricerca di gente
disposta a credergli».
«Ma non protesti cominciare a espormeli tu, questi
sospetti?»
Lupin scosse il capo, sconfitto. «No, è una lunga
storia e
c'è luna piena questa notte. Devo tornare a casa prima che
sorga».
«Oh. Pensavo che tua moglie fosse in grado di...»
«Lo è. E Remus le facilita molto le cose. Si
lascia fare
di tutto senza mai lamentarsi» sorrise un po' imbarazzato.
«Ma mi piace pensare che la mia presenza sia di conforto a
entrambi».
Alphard gli posò con gentilezza una mano sulla spalla.
«Sei un buon padre, John».
Non era un complimento consolatorio o gratuito. Lo pensava davvero.
Ma Lupin non pareva condividere quella convinzione. Guardò
amareggiato l'ex collega e scosse il capo. «No. Oh, no. Ho
costretto mio figlio a pagare le conseguenze di una mia scelta. Questo
non fa di sicuro un buon padre di me».
«Ami tuo figlio per quello che è. E questo fa di
sicuro un buon padre di te» insistette Alphard, caparbio.
Lupin abbozzò un sorriso incredulo. «E' mio
figlio,
Alphard. Potrei mai non amarlo? E poi è così
facile amare
Remus. Pensavo avrebbe odiato il mondo intero, sai? O almeno il
licantropo che lo ha morso. Ma lui ne prova pietà. Ne ha
compassione. E questo mi fa ben sperare».
Alphard lo guardò confuso e Lupin spiegò:
«Spero
che, quando troverò il coraggio di confessargli il ruolo che
ho
avuto io nella sua maledizione, possa riservare anche a me un pizzico
di quella compassione».
Poi, dopo un rapido cenno di saluto, si Smaterializzò,
appena
prima che Antonin Dolohov facesse la sua comparsa, fissando contrariato
Alphard e bofonchiando: «Ah, sei tu, Black. Mi è
stato
riferito che qui sono state rivelate evidenti tracce di Magia. Pensavo
di avere tra le mani un Nato Babbano. Ma se tu sei qui...»
Alphard, sentendo un brivido di terrore percorrergli la spina dorsale,
sbirciò verso il palazzo dove era scomparsa la piccola Erin.
Sperando ardentemente che la bimba non scegliesse proprio quel momento
per uscire e tradirsi salutando amabile Dolohov. O sfidandolo, magari.
Notando che i passanti non degnavano di uno sguardo quell'uomo
intabarrato in una lunga tunica nera e argento, Alphard era quasi certo
che anche lui fosse sotto l'incantesimo utilizzato da Lupin: era pur
sempre un Rintracciatore di Nati Babbani, in fondo.
«Oh, sì» si affrettò quindi a
rispondere.
«Temo di avere appena usato un incantesimo per... allontanare
un
gatto inopportuno. Non è ortodosso, lo so ma...»
Dolohov sbuffò. «Ma figurati! Hai fatto benissimo,
ci
mancherebbe. Infischiatene di quelle stupide restrizioni
pro-Babbani!»
Alphard annuì complice. «Ecco. Tra l'altro sono
spesso da
queste parti. Sai com'è... con il mio lavoro... non
c'è
posto migliore di un pub frequentato da Babbani per trovare
informazioni su manufatti magici finiti nelle loro mani. I Babbani,
quando sono alticci, rivelano cose che, da sobri, terrebbero
gelosamente per sé».
Dolohov annuì comprensivo. «Quindi suppongo sia tu
il
responsabile delle tracce di magia rilevate in questa zona».
Alphard abbassò lo sguardo, fingendo un lieve imbarazzo.
«Temo proprio di sì. Sono molti i gatti fastidiosi
da
queste parti».
Dolohov sistemò un'invisibile piega della tunica e
sbuffò. «Un altro buco nell'acqua. Ogni volta che
vado in
un luogo sospetto mi imbatto in qualche mago intento a fare magie. Pare
che non nascano più Nati Babbani dotati di poteri magici. Io
almeno non ne trovo».
Alphard annuì comprensivo. Aveva anche una vaga idea di
sapere per chi lavorassero i maghi incontrati da Dolohov.
Nel tentativo di allontanarlo dalla piccola Erin, ignorando l'istintiva
antipatia che da sempre gli ispirava quel mago, propose: «Che
ne
dici, allora, di fare un salto al Paiolo Magico per brindare a questa
meravigliosa eventualità?»
«Perché no. Così ne approfitteremo
anche per
brindare al fidanzamento del giovane Malfoy con tua nipote
Narcissa».
Alphard non poté impedirsi di guardare Dolohov ad occhi
sgranati. Quindi Walburga aveva davvero trovato un modo per placare le
giuste ire dei Malfoy, alla fine.
Dolohov si concesse una risata e, in uno slancio assai inusuale per
lui, allungò un braccio per assestare ad Alphard una pacca
amichevole su una spalla. «Non dirmi che non ne eri ancora al
corrente! Abraxas lo ha già fatto sapere a tutti. Ma
certo...» si guardò attorno con vago disgusto.
«Se
tu eri in questo luogo dimenticato da Merlino e da Morgana, non mi
sorprende che non ti abbia raggiunto. Persino il suo gufo si
rifiuterebbe di venire in questo squallido covo di Babbani».
Alphard annuì meccanicamente. L'ampia manica della tunica di
Dolohov era scivolata all'indietro, quando il mago gli aveva colpito la
spalla, scoprendo l'avambraccio. E Alphard non riusciva a non pensare
al tatuaggio che aveva intravisto: un macabro teschio dalla cui bocca
usciva un serpente.
Alphard sapeva per esperienza personale che, a un occhio poco attento,
sarebbe benissimo potuto sembrare un drago grassoccio intento a sputare
fiamme.
*La
canzone che Alphard
tenta di canticchiare è una notissima canzone Babbana
(chissà, forse il nostro Al non è un fan dei
predecessori
delle Sorelle Stravagarie): "Yellow
Submarine" dei Beatles.
(E' la stessa canzone che poco prima canticchiano anche le tre bimbe
Babbane).
Ed eccoci arrivati alla
settima tappa del nosto Viaggio.
Un'altra
tappa decisamente lunghetta, lo so... ma dovevo pure mostrare uno
squarcio
della vita di Alphard! (Il mio Alphard ha una vita abbastanza intensa e
caotica, lo so, ma mi piace pensarlo alle prese con botoli irascibili e
marmocchi disinvolti...)
Dovevo
pur rendere "umano" questo personaggio. Dargli un certo "spessore" e, a
tal proposito, spero di essere riuscita nell'intento di non fare di lui
un perfetto
Gary Stue (si dice così, giusto?).
Spero
altresì che i personaggi da me trattati e appartenenti alla
Rowling risultino ragionevolmente IC, perché son tutti
personaggi che godono della mia stima e della mia simpatia, questa
volta.
E ora le "Note di
Servizio":
Prima di tutto due parole
sulla piccola Erin: mi piaceva l'idea di
inserire in questa storia (che tratta molto il rapporto maghi-Babbani)
la vicenda di un bimbo nato Babbano dotato di poteri magici,
perché mi son sempre chiesta come funzionino le cose in tal
senso. Soprattutto di come potessero funzionare in anni difficili come
quelli descritti in questi capitoli. La scelta è caduta
sulla
piccola Erin. Spero mi possa perdonare! ^^
Mi
piaceva anche l'idea di accennare al "lavoro nascosto" di quei maghi
che già cominciavano a rendersi conto della
pericolosità
di Voldemort e delle sue idee e cominciavano ad agire di conseguenza. E
Lupin Sr. mi sembrava perfetto per lo scopo! (E poi dando questo
compito a lui ho potuto parlare anche di Remus... avrei mai potuto
rinunciare a tale opportunità? ^^)
Infine
due parole sulla faccenda del Marchio Nero scambiato da Alphard per un
drago grassoccio intento a sputare fiamme... a qualcuno
potrà
sembrare assurda e impossibile questa eventualità, lo so, ma
a mia discolpa
posso dire che a me è successo proprio così! ^^
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Capitolo 8 *** L'Eleganza del Lupo - prima parte ***
Capitolo
Settimo
L'Eleganza
del Lupo - (prima parte)
Hogwarts, 26 luglio
1977 A. D.
Il cielo terso di
quella lunga notte, che ad Alphard sembrava molto
più buia di tutte quelle che aveva vissuto, cominciava a
schiarire, mentre le stelle - fuori luogo con la loro
luminosità gentile - si spegnevano lentamente.
Il
centauro dal
manto bruno scrutò assorto Alphard, gli occhi scuri colmi di
una
strana dolcezza. Una dolcezza che somigliava molto alla compassione.
«Mi
dispiace,
umano» disse con la sua voce profonda e malinconica.
«Non
ci sono altri modi. Kyros e Cormiac non ne previdero. Gli astri non lo
avevano richiesto».
«Capisco»
assicurò il mago.
Il
centauro
chinò leggermente il capo e, scrollando con energia la folta
coda fulva, diede le spalle all'uomo e si addentrò nella
Foresta
Proibita.
Alphard
lo
seguì con lo sguardo finché la rigogliosa
vegetazione lo
inghiottì, poi si accasciò, esausto, su una
vecchia panca
di pietra erosa dal tempo e dagli elementi e osservò pensoso
il
lago tingersi dei delicati colori dell'aurora.
Alphard
non aveva mai notato la struggente bellezza dell'aurora. Se ne chiese
il perché.
Inspirando
l'aria fresca e balsamica, si lasciò inebriare dal profumo
intenso delle essenze che lo circondavano.
Non
aveva mai notato
neppure quanto fosse dolce il profumo dei Cespugli Farfallini.
Ricordava quello della lavanda. E Alphard amava il profumo della
lavanda.
Anzi,
no.
Erin
amava il profumo della lavanda.
Alphard
amava Erin.
Continuava
ad amarla, malgrado fosse morta da quasi undici anni.
E
malgrado Morrigan.
Ah,
Morrigan...
Scuotendo
il capo
con mestizia, il mago si sfilò il medaglione che portava al
collo dal giorno in cui Erin era morta. Osservandolo con attenzione
sfiorò la minuscola fenice color corallo che ne occupava il
centro.
Non
era neppure lontanamente bella e vivida come l'originale, ma lui non
aveva saputo fare di meglio.
E
da lontano, forse, avrebbe potuto ingannare chi l'aveva vista una sola
volta e senza prestarle grande attenzione.
Sospirando,
Alphard aprì il medaglione e si concesse il raro lusso di
perdersi nella contemplazione del viso di Erin.
Merlino.
Ma cosa gli
stava succedendo? Da quando era diventato così sentimentale?
Probabilmente era una conseguenza del fatto che stava invecchiando.
«Conan
ha
saputo rispondere alle domande che ti tormentavano, ragazzo
mio?»
chiese con garbato interesse una voce pacata e gentile.
Alphard
sollevò il capo e si guardò attorno, cercandone
la fonte.
Albus
Silente si
stagliava davanti a una cortina di Cespugli Farfallini, sfolgorante
nella sua tunica di un turchese acceso, e lo guardava con
curiosità.
Alphard
non
riuscì a trattenere un sogghigno.
«Ragazzo?» chiese,
scompigliandosi i lunghi capelli neri tra cui si cominciava a scorgere
qualche filo d'argento. «Erano anni che nessuno si riferiva
più a me usando questo termine, Professor Silente».
Il
vecchio si
sistemò, con un buffetto disinvolto, gli occhiali dalle
lenti a
mezzaluna e sorrise. «Oh, questione di punti di vista. Flamel
continua imperterrito a chiamarmi giovanotto...»
Ignorando
lo stupore
di Alphard, Silente gli si avvicinò e si accomodò
sulla
panca, osservando incuriosito la fotografia racchiusa nel medaglione.
«Ah»
disse dopo un momento di silenziosa contemplazione. «Mi sono
sempre piaciute le fotografie Babbane. Sono così riposanti.
Se
ne stanno lì, immobili, lasciandoti tutto il tempo di
ammirarle».
Alphard
annuì, e non richiuse bruscamente il medaglione come era
solito
fare quando qualcuno tentava di guardarlo con troppa attenzione.
Un
comportamento insolito per lui.
Un
po' imbarazzato,
prese un respiro profondo e disse: «Conan ha risposto alle
mie
domande, Professore. E' stato davvero molto gentile, mi ha sorpreso, lo
ammetto».
Sorpreso
era un
eufemismo. Alphard aveva sentito cose inquietanti a riguardo di
centauri iracondi e facili all'imbizzarrimento; non si sarebbe mai
sognato di chiedere una consulenza a uno di loro, se non fosse stato
tanto disperato.
«Conan
è sempre gentile, con chi lo tratta con
gentilezza» fece
notare Silente, scrutando Alphard con quel suo sguardo blu e penetrante
che aveva lo sconcertante potere di fare sentire trasparenti.
«Ma
non mi sembri molto soddisfatto della sua risposta».
Alphard
si
sfregò le tempie e scosse il capo. «Non per colpa
di
Conan. Lui è stato davvero molto esauriente. Ora so cosa
devo
fare, Professore...» abbassò lo sguardo,
improvvisamente
interessato alle incisioni che decoravano la pietra grigia della panca
e mormorò: «Solo che non sono troppo convinto di
esserne
in grado».
Già.
Stava tutto lì, il problema. Non era mai stato
particolarmente nobile e coraggioso, lui.
«Capisco»
osservò Silente. «Se può aiutare, io
penso che tu
sia in grado di fare tutto quello che desideri, Alphard»
tacque
un istante, scrutando il mago più giovane con un lampo di
gentile ironia negli occhi. «Tranne, forse, Trasfigurare
Walburga
in una scopa».
Alphard
sussultò, meravigliato. «Se ne ricorda
ancora?»
«Certo
che
sì. Di raro ho avuto il piacere di trovarmi al cospetto di
una
creatura tanto singolare. Un'acconciatura di indubbia
originalità su un corpo morbidamente legnoso. Resti tra noi,
ma
Walburga non mi è mai parsa tanto affascinante».
Alphard,
suo
malgrado, non poté evitare di ridere. Erano sorprendenti la
pace
e la tranquillità che Albus Silente sapeva infondere in chi
lo
circondava.
Sempre.
Persino
quando,
quasi cinque anni prima, gli aveva confidato che sì, anche
lui
aveva il sospetto che a distruggere il treno su cui viaggiava Erin
fosse stato Tom Riddle - o qualche suo fedele scagnozzo - e che il
drago visto da alcuni dei sopravvissuti doveva essere, in
realtà, una proiezione del marchio che Riddle era solito
imprimere sull'avambraccio sinistro dei suoi fedelissimi.
E
quel sospetto si era poi rivelato fondato.
L'Auror
Alastor
Moody era riuscito a ottenere una confessione - Alphard non sapeva
come, né teneva particolarmente a scoprirlo - a un seguace
di
Riddle implicato in un losco affare, riguardante una partita di sciarpe
impregnate di magia oscura e destinate a negozi Babbani.
Secondo
il reo
confesso, erano stati davvero Riddle e i suoi sgherri a distruggere
quel treno, nel tentativo di convincere Duncan a dare loro la famosa
lista con i nomi dei piccoli Nati Babbani. Lista che il povero Duncan
non avrebbe potuto consegnare neppure volendo, visto che si trovava
già al sicuro, a Hogwarts, tra le mani di Albus Silente.
Così
i baldi
giovanotti avevano sfogato la loro frustrazione uccidendo Duncan con
rari Incantesimi di Fuoco, coinvolgendo anche un treno colmo di Babbani
che passava di lì per caso. E, per festeggiare quella strage
-
involontaria ma gradita - Riddle in persona aveva proiettato,
contro il cielo plumbeo di quel pomeriggio autunnale, il marchio con
cui contrassegnava i suoi seguaci.
Sfortunatamente
nessuno, tranne Silente, aveva creduto a Moody, all'epoca.
Così
ora il Marchio di Voldemort compariva sempre più spesso nei
cieli britannici.
Quella
notte era comparso anche sopra la casa di Alphard.
Annunciato
da un
improvviso sciabordio, un lungo, pallido tentacolo sbucò
fulmineo dalle acque placide del lago, afferrò qualcosa a
mezz'aria e si inabissò nuovamente.
«Sembra
che per il Calamaro Gigante sia ora di colazione»
osservò con tono lieve Silente.
Alphard
annuì, affascinato dalla letale rapidità di
quell'attacco. «Anche per Felpato
sarà...» si
azzittì all'improvviso, serrando con forza le dita attorno
al
freddo sedile di pietra.
Silente
gli posò con gentilezza una mano su una spalla.
«Mi dispiace per il tuo cane, Alphard».
«Quel
Gramo di seconda scelta avrà dato del filo da torcere a
quelli, prima di...»
«Oh,
sì. Si sarà divertito molto più di
loro. E sono
fermamente convinto che colui a cui ha strappato il mantello non se la
stia passando molto bene, al momento. Un cane coraggioso, il tuo
Felpato».
«Già»
Alphard sospirò prima di voltarsi a guardare il suo vecchio
professore di Trasfigurazione. «Anche quello che dovrei fare
io
richiede coraggio, Professore. E io, a differenza di Felpato, non sono
coraggioso. Non lo sono mai stato».
«No?
E cosa te lo fa pensare?»
«Oh,
parecchi indizi, in realtà. Come il fatto che ora sto
tremando per la paura» ammise, un po' umiliato.
Silente
scosse la
testa, sorridendo. «Ma la paura è parte del
coraggio. Solo
i folli non hanno paura. I coraggiosi la vincono. E tu possiedi l'arma
più potente per vincerla, Alphard».
Alphard
lo
guardò confuso, e il vecchio mago indicò con
decisione la
fotografia contenuta nel medaglione. «L'amore».
«L'amore?»
Alphard era sinceramente sconcertato.
«Tu
ami. Non c'è dubbio».
Alphard
guardò la foto di Erin, ripensò ai suoi nipoti -
reali e
acquisiti - ripensò a Felpato. «Sì, io
amo,
Professore... anche se, secondo i miei parenti, non ho mai saputo
scegliere i soggetti su cui riversarlo, il mio amore».
Silente
sorrise. Un
sorriso un po' amaro, insolito per lui. «Come se fosse
possibile
farlo. Certo, renderebbe tutto molto più semplice, ma
purtroppo
non è così che funziona. Non siamo noi a
scegliere il
destinatario del nostro amore, ahi noi. E' l'amore stesso a imporcelo.
L'amore. La forza più potente dell'Universo, Alphard.
Più
potente della paura. Più potente dell'incomprensione e del
tradimento... più potente dell'odio. Più potente
persino
della morte».
«Più
potente della morte?»
«Senza
ombra
di dubbio. Infinitamente più potente. E il fatto stesso che
tu
porti ancora questo medaglione ne è la prova
tangibile».
Alphard
guardò il medaglione e dovette ammettere che Silente non
aveva tutti i torti.
«Fa
paura, però. La morte, intendo».
«Sì.
Fa
paura. Ma solo perché viene molto sopravvalutata, mio caro
ragazzo. E così, a volte, tendiamo a dimenticarci che
esistono
cose di gran lunga peggiori».
Alphard
annuì, cercando di apparire convinto.
Era
bravo a simulare convinzione. Ma non era facile ingannare Albus Silente.
Il
vecchio mago,
infatti, sorrise e, fissandolo negli occhi affermò con
serenità: «La morte è parte della vita,
Alphard.
Non è la morte che deve farci paura».
«Ma
è così... definitiva».
«Definitiva?
Sì, nel senso che è eterna. Ma non nel senso che
è
la fine di tutto. La morte, Alphard, è soltanto l'inizio di
una
nuova avventura».
Alphard
cercò qualcosa di intelligente da ribattere.
Insomma,
era un uomo di cinquant'anni, ormai. Non era possibile che Albus
Silente lo facesse sentire ancora come un ragazzino.
Ma,
prima di trovare
qualcosa di vagamente accettabile, fu distratto da un canto dolcissimo
che placò il dolore e la paura che provava.
Un
grosso uccello,
di un vivido rosso corallo, girò sopra le loro teste per
qualche
secondo, continuando quel canto meraviglioso, quindi planò
dolcemente posandosi sull'avambraccio di Silente.
Alphard
lo
osservò deliziato: una fenice. Non ne aveva mai vista una
così da vicino; era identica a quella miniata sulla Chiave
del
Tempo.
«Ah»
mormorò Silente, accarezzando con gentilezza il capo della
bestiola. «Creature affascinanti le fenici. Tra i loro
innumerevoli pregi hanno anche quello di essere più utili di
una
Ricordella. A proposito di inizio di nuove avventure, ora devo proprio
lasciarti, Alphard. Mi devo recare da una famiglia di Babbani per
avvisarli che il loro stravagante figlioletto è un mago ed
è atteso qui, a Hogwarts, per il primo di settembre. E tu
sai
quanto può essere complicato convincere i Babbani che esiste
la
Magia».
Sì,
Alphard lo sapeva.
Quando
aveva
confessato a Erin di essere un mago ci aveva messo del bello e del
buono a convincerla che lo era davvero e che no, questo non voleva dire
che sapeva togliere conigli bianchi da un cappello.
«Certo,
Professore» rispose quindi comprensivo.
«Bene,
continueremo il nostro interessante discorso quando ci
rivedremo».
«Ah,
Professor Silente... non so se ci rivedremo...»
Silente
sorrise
convinto. «Ma certo che ci rivedremo. Magari non qui e non
domani. Ma in un Altro-dove
e in Qualche-quando
ci rivedremo
sicuramente. E allora, entrambi potremo discutere di Amore e di Morte
con maggior cognizione di causa».
«Certo,
Professore. Ma posso chiederle un favore, in attesa di rincontrarla
in... un Altro-dove
e in Qualche-quando?»
Silente
annuì, con disponibile curiosità.
«Potrebbe
occuparsi della piccola Erin O'Sullivan? Lei è...»
«So
benissimo
chi è. Tranquillo, è in ottime mani.
Incaricherò
John Lupin di aumentare le sue visite a Erin, c'è
già un
certo feeling tra i due. Pare che la piccina si sia messa in testa di
insegnargli i rudimenti della lotta».
Alphard
rise. Sì, lo sapeva e la cosa lo divertiva molto.
Casa Potter, 26
luglio 1977.
Alphard
smontò dalla moto e si guardò attorno, ammirando
la casa
di pietra ingentilita da macchie variopinte di fiori.
I
Potter erano
Purosangue come i Black, ma la loro avita dimora non avrebbe potuto
essere più diversa da Grimmauld Place, constatò
Alphard,
lasciandosi avvolgere dall'atmosfera calda e confortevole che irradiava
Casa Potter.
Non
aveva mai visto un giardino tanto incantevole.
O
forse sì, ma non vi aveva prestato particolare attenzione.
Dal
momento in cui
si era deciso a fare quello che doveva fare, tutto ciò che
lo
circondava gli sembrava più bello e degno di ammirazione.
Be',
quasi tutto.
Era
praticamente
certo che Grimmauld Place, con i suoi tetri corridoi stretti e bui e
con la sua nutrita collezione di teste di elfi impagliate,
rappresentasse la famosa eccezione che confermava la regola.
Sospirando,
Alphard
si concesse una lunga, languida occhiata alla sua moto, e ne
accarezzò amorevolmente la lucida carrozzeria scura.
L'ennesimo
addio.
Ma, in questo caso, la tristezza era mitigata dalla convinzione che
quel gioiellino sarebbe finito in ottime mani.
All'improvviso
il
silenzio rilassato di quel luogo fu infranto da voci allegre, che
esplosero poi in risate trasudanti pura felicità.
Piacevolmente
sorpreso, Alphard costeggiò la bassa siepe di agrifoglio che
circondava il giardino della casa e, seguendo il sinuoso viottolo di
ciottoli bianchi, raggiunse il fiumiciattolo pullulante di creature -
magiche e non - che attraversava il grande prato confinante con la
dimora dei Potter.
Alphard
non era mai
riuscito a comprendere quale potente incantesimo riuscisse a tenere
lontani i Babbani da quel posto delizioso.
E
i Potter si erano sempre rifiutati di rivelarglielo.
Ma
Alphard li perdonava.
Gli
stavano simpatici i Potter e, inoltre, aveva un enorme debito con loro.
Perché
avevano accolto a braccia aperte Sirius quando, un anno prima, il
ragazzo aveva deciso di non potere rimandare oltre la sua fuga da casa
e - memore del fatto che la capanna
della zio Al sarebbe stato il primo
luogo in cui lo avrebbero cercato - aveva accettato
l'ospitalità
offertagli da James Potter.
Al
momento Alphard ci era rimasto un po' male, doveva ammetterlo. Ma
Sirius aveva fatto la scelta migliore.
Senza
contare che,
se avesse scelto di trasferirsi da lui, con tutta
probabilità
quella notte il ragazzo sarebbe stato in casa. Come Felpato. E Alphard
non osava neppure immaginare cosa sarebbe potuto succedergli.
Era
ancora scosso
dai brividi se ripensava a come si era sentito quando, di ritorno dal
viaggio nel Lancashire sulle tracce di una Mano della Gloria, si era
imbattuto in quel macabro simulacro di un Teschio che illuminava di un
verde malato il cielo scuro e terso che sovrastava casa sua.
Fortunatamente,
la
signora Owen era andata per qualche giorno in visita da una sorella che
abitava a Bath, e nessuno degli altri vicini si era fatto male. Le loro
memorie erano state prontamente modificate da una squadra di
Obliviatori che si trovava già sul posto all'arrivo di
Alphard.
Ora c'erano alcuni londinesi in più fermamente convinti di
avere
visto un disco volante. Poco male. Jordan avrebbe offerto loro una
buona birra, in cambio del racconto dell'esperienza.
Anche
Albus Silente
si trovava già sul posto all'arrivo di Alphard. Era entrato
in
casa con lui, occupandosi di Felpato. Alphard si era guardato attorno,
smarrito, notando che non c'era nulla di rotto. Neppure l'acquario di
zio Marius. Era vuoto, certo, e i corpicini dei pesci rossi giacevano
sul pavimento, come se l'acquario fosse stato distrutto e poi riparato.
E
Alphard era sicuro di sapere per merito di chi.
Era
stata Morrigan a
spedirlo alla ricerca della Mano della Gloria. E ad assicurarsi che ci
andasse proprio quella
notte. Morrigan sapeva quanto tenesse a
quell'acquario, ed era bravissima con l'Incantesimo Reparo...
Urla
impazienti si sostituirono alle risate, sovrastando il gentile mormorio
del ruscello.
Alphard
si riscosse, guardandosi attorno un po' confuso.
Un
adolescente
allampanato stava in piedi nel ruscello, scrutandone il fondale in
silenzio assoluto: le risate allegre e le urla non provenivano certo da
lui.
«Ciao!»
esclamò Alphard rivolto al ragazzo, riconoscendo in lui uno
degli amici di Sirius.
Il
nipote parlava spesso di quei tre. Non parlava quasi d'altro, in
effetti.
Il
ragazzo si
voltò di scatto, fissando Alphard, perplesso. Probabilmente
lo
aveva preso per un Babbano e non si capacitava del saluto.
Alphard
gli si
avvicinò sorridendo. «Tranquillo, sono Alphard, lo
zio di
Sirius, non un Babbano che è riuscito a infiltrarsi in un
luogo
magico. Per oggi non sarai costretto a improvvisarti Obliviatore per
modificarmi la memoria».
«Improvvisarmi...
ma la Corretta Prassi consiste nel distrarre il Babbano, mentre si
convoca un Obliviatore Qualificato dal Ministero, signore».
Alphard
sbuffò con noncuranza. «Uh, la Corretta Prassi,
sì. Ma tu non sei uno degli amici di Sirius?»
Il
ragazzo annuì con decisione.
«Ecco,
quindi
conoscendo Sirius e avendo udito da lui vari racconti sui suoi amici,
tenderei ad escludere che la Corretta
Prassi sia in cima alla lista
delle tue priorità».
Il
ragazzo,
vagamente imbarazzato, si sfregò le mani sui jeans
scoloriti che
portava arrotolati fino sopra alle ginocchia, e Alphard
sogghignò. «Appunto. Non è che sapresti
dirmi dove
trovare Sirius? Dovrei parlargli con una certa urgenza».
Il
ragazzo scrutò il cielo e indicò sorridendo un
punto poco lontano.
A
cavallo delle loro
scope, Sirius e il giovane Potter si libravano, con rumorosa allegria,
a pochi metri dal suolo, aprendo e chiudendo alternativamente le
braccia; tra di loro sfrecciava a gran velocità una palla
ovale
di un arancione quasi accecante. Un terzo ragazzo osservava i due
giocatori stando aggrappato, con tenacia disperata, al manico della
scopa; quasi temesse di venire disarcionato da un momento all'altro.
«Peter
non ama
molto il volo» spiegò, con tollerante simpatia,
l'amico di
Sirius ancora immerso nel ruscello additando il ragazzo maldestramente
abbarbicato alla scopa. «Ma James sostiene che nessun gioco
è degno di nota se non lo si può fare su un
manico di
scopa. Neppure un gioco Babbano. Ma, a quanto pare, quello ha superato
la prova...»
Alphard
sorrise.
Conosceva
il gioco Babbano in questione: un'infernale ovale di plastica che
scorreva su due funi provviste di maniglie.
Incomprensibilmente
ai Babbani piaceva o, quanto meno, piaceva al fratello maggiore di
Jordan che, entusiasta, ne aveva regalato uno a Yuri.
Ma
Yuri, trovandolo
altamente noioso, faticoso e privo di qualsivoglia scopo, aveva deciso
di passarlo con discrezione a Sirius. Che pareva averlo gradito, almeno
dopo le varianti aeree apportate dall'estroso James...
Alphard
attirò l'attenzione del nipote con un ampio cenno del
braccio e,
osservandolo divertito mentre piazzava le maniglie del giocattolo fra
le mani del riottoso amico non molto amante del volo, chiese al suo
improvvisato informatore: «E tu non partecipi al
gioco?»
Il
ragazzo si strinse nelle spalle. «Non ora. Non mi dispiace
volare, ma ora devo...»
«Deve
trovare
il modo di rendere innocuo il mostriciattolo di Andromeda! E non mi sto
riferendo a Ted!». Esclamò con voce allegra
Sirius,
smontando con un agile balzo dalla scopa.
Alphard
inarcò un sopracciglio, chiedendo curioso: «E cosa
c'entra
l'adorabile bambina di Andromeda con il motivo che tiene questo
giovanotto a mollo nel ruscello?»
Sirius
scrollò le spalle. «Oggi è
l'anniversario di
matrimonio di Andromeda e i Potter hanno invitato lei e Ted a
festeggiarlo qui. Naturalmente, porteranno anche la loro piccola peste
multicolore. E la sola cosa che riesce a tenerla zitta e buona per un
tempo vagamente ragionevole è una creatura raccapricciante.
Davvero, zio Al, più raccapricciante è la
creatura
più la piccola peste sta zitta e buona».
Alphard
annuì persuaso. Lo aveva notato anche lui.
«Ora»
continuò Sirius con assoluta serietà.
«Non potendo
avere tra noi Bellatrix, siamo costretti a procurarci qualche altro
mostriciattolo raccapricciante. E nessuno è più
bravo di
Remus J. Lupin a catturare mostriciattoli raccapriccianti!»
«Remus
J.
Lupin» ripetè pensoso Alphard, scrutando con
attenzione il
ragazzo. «Sei il figlio di John Lupin?»
Remus
assentì, scostandosi i capelli castano chiaro dal viso
segnato
da due vecchie, sottili cicatrici e fissando Alphard con i suoi occhi
ambrati. Gli occhi di John, che ad Alphard avevano sempre ricordato
l'Whisky Incendiario di miglior qualità.
«Proprio
lui,
zio Al!» esclamò Sirius, dando una pacca
amichevole a
Remus. «L'unico ed inimitabile!»
Alphard
sorrise,
ricordando una surreale conversazione svoltasi più di undici
anni prima. «E così ci sei riuscito davvero. Lo
hai
scovato tra tutti gli studenti di Hogwarts».
Sirius
esclamò, oltraggiato: «Ovviamente sì. E
non
è stato difficile. Mi è bastato cercare il
ragazzino
elegante come un lupo. Mi dispiace solo di non avere mai portato Remus
a Grimmauld Place. Tua sorella e il suo squisito Elfo
Domestico
avrebbero di certo adorato avere come ospite un Lupo Mannaro».
Remus
trasalì, guardando Sirius con addolorata
incredulità,
quindi si scostò con discrezione da Alphard e, chinato il
capo,
ritornò a scrutare l'acqua del torrente.
Alphard
gli
posò con gentilezza una mano su una spalla. «Va
tutto
bene, Remus. Conosco tuo padre, so cosa ti è successo. E non
mi
importa. Come non importa a Sirius. Non vedo perché
dovrebbe, in
effetti».
Remus
sollevò
di scatto lo sguardo, incredulo. «Non vede perché
dovrebbe? Perché sono un mostro, magari. E alla gente non
piacciono i mostri».
Sirius
sbuffò, scuotendo la testa esasperato. «In genere
è
una persona ragionevole e accettabilmente intelligente, zio Al. Ma
quando si tocca questo particolare argomento diventa irrazionale e
cocciuto come un Troll».
Alphard
sorrise e
indagò: «Un mostro? Non mi pare, Remus. Vediamo,
sei un
essere umano per la maggior parte del tempo, o sbaglio?»
Il
ragazzo scrutò Alphard con sospetto. «No, non
sbaglia, evidentemente».
«Evidentemente.
Oh, certo, talvolta, gli esseri umani possono essere mostri,
sì...»
«Vedi
Bellatrix» intervenne con convinzione Sirius.
«Non
era
esattamente l'esempio che avrei scelto io, ma potrebbe chiarire il
concetto, suppongo. Ma tornando a noi Remus... tu, che per la maggior
parte del tempo sei un essere umano, per una manciata di ore al mese ti
trasformi in un lupo, giusto?»
Il
ragazzo
annuì mesto e Alphard proseguì: «Che
non è
affatto un mostro, ma solo un animale. Un nobile animale, tra l'altro.
Il lupo è un animale sociale, sai, Remus? Leale al Branco
fino
alla morte. Cos'ha di mostruoso? Fossi stato, che so... una Manticora
Mannara potremmo discuterne. Ma un lupo...»
Remus
sbarrò
gli occhi e disse: «Ma io sono... non sono... insomma, sono
come
Greyback! Non mi dirà che Greyback non è un
mostro!»
Alphard
guardò con serietà il ragazzo e annuì.
«Sì, oh sì, Greyback è un
mostro. Ma non
è la licantropia a renderlo tale. Non è il lupo
il
problema di Greyback. E' l'uomo. E tu non sei Greyback. Ascolta il tuo
lupo, Remus, non umiliarlo come fa Greyback... ma arricchiscilo con la
tua coscienza di uomo - impedendogli di agire quando, per quella famosa
manciata di ore al mese, tale coscienza è offuscata - e non
sarai un mostro, ma un uomo con qualcosa in più: un uomo con
l'Eleganza del Lupo».
Remus
scosse il
capo, sconvolto, incerto... speranzoso. Ad Alphard ricordò
Regulus, per certi versi: un ragazzo schiacciato da quello che gli
altri si attendevano da lui. Da quello che gli altri avevano
già
deciso per lui.
«Oh»
sbottò Sirius agitando la scopa con impazienza.
«Smettila
di vederti come una copia di Mocciosus, Remus - un mostro,
figuriamoci - e ascolta zio Al! Sfrutta l'Eleganza del Lupo! E
concediti alla folta schiera di ragazze che ti insegue perennemente per
i corridoi di Hogwarts».
«Sirius,
forse
ti sfugge il fatto che le ragazze facenti parte di questa - a tuo
opinabile parere - folta schiera, mi inseguono solo perché
interessate a scoprire i segreti più reconditi delle Rune
Antiche» rispose Remus, con la rassegnazione normalmente
riservata a un argomento tanto ricorrente quanto molesto.
«Questo
lo pensi tu. Ma sicuramente qualcuna di loro sarà attratta
dall'Eleganza del Lupo».
«Non
credo. Le
ragazze, Sirius, tendono a preferire l'uomo che, nelle notti di
Plenilunio, le porta a fare romantiche passeggiate in riva al lago, a
quello che, nella medesima situazione, tenta di sbranarle. Strane
creature le ragazze, vero?»
«Oh
che siano
strane è poco ma sicuro... ma, a parte il fatto che non
capisco
la necessità di informarle del tuo piccolo problema peloso,
sono
certo che qualcuna a cui piaceresti in tutto il tuo lupesco splendore
c'è, fammi solo pensare...»
Scrollando
le spalle, Remus tornò a concentrarsi sul torrente.
All'improvviso
scattò, rapido e silenzioso, immergendo il braccio destro
nell'acqua e afferrando una piccola creatura di un verde grigiastro che
si agitava oltraggiata.
Alphard
lo
guardò a occhi sgranati, sorpreso da quella dimostrazione di
inumana velocità che gli riportò alla mente la
letale
tattica predatoria del Calamaro Gigante.
«Sì,
zio Al» intervenne Sirius, assestandogli qualche colpetto
comprensivo su una spalla. «E' un po' inquietante quando fa
così, me ne rendo conto. Ma ha un suo oscuro fascino,
secondo
me. Vedi cosa intendo per Eleganza del Lupo? A qualche ragazza
sicuramente piacerà, devo solo...»
Remus
alzò
gli occhi al cielo e borbottò. «Sirius, invece di
cercarmi
una ragazza, perché non mi cerchi un recipiente per metterci
questo Avvincino? Alla piccola Ninfadora piacerà di
sicuro».
Sirius
si diede una
leggera pacca sulla fronte ed esclamò trionfante:
«Ecco!
La figlia di Andromeda! A lei piaci!»
Remus
scosse la
testa, esasperato, aumentando la stretta sull'Avvincino che tentava di
scappare. «Be', tralasciando il fatto che non è a
conoscenza del mio piccolo problema peloso, sai che a Ninfadora
piacciono i mostri. Come hai già notato: più sono
raccapriccianti più le piacciono. E poi non fa testo. E' una
bambina! E a me non piacciono le bambine. Sono un Lupo Mannaro, mica un
Orco. Non confondiamo i mostri, per cortesia!»
Sirius
si strinse
nella spalle e sbuffò: «Fa' come vuoi. Ma, per
l'amore di
Circe, smettila di chiamarla Ninfadora! O ti farà vedere lei
chi
è il mostro tra voi due...»
Remus
gemette,
tenendo a bada l'Avvincino che tentava di liberarsi artigliandogli il
polso con le sue lunghe dita sottili. «Possiamo parlarne dopo
avere trovato un recipiente?»
Alphard
decise di
interrompere il vivace scambio di battute: «Se permettete ci
penserei io. Ho il contenitore adatto».
Agitò
la
bacchetta e l'acquario di zio Marius si materializzò in riva
al
torrente, proprio accanto a Remus che, con estremo sollievo, vi ripose
l'agitato mostriciattolo.
«Bene»
esclamò poi soddisfatto. «Ora dobbiamo solo
trovare un coperchio o qualcosa del genere...»
«Non
serve» assicurò Alphard. «Quell'acquario
è
incantato, Remus. Nulla può uscirvi. Né acqua
né
creature».
Sirius
sogghignò spiegando: «Zio Al ha dovuto ingegnarsi
parecchio con quell'acquario. Felpato non gli ha lasciato scelta. O
quello o la dilapidazione dell'intero patrimonio in acquisto di pesci
rossi. Un momento... se hai evocato l'acquario vuol dire che sei
rimasto senza pesci rossi. L'ennesima strage ittica? Felpato
è
entrato di nuovo in una fase particolarmente creativa caratterizzata da
grandi spostamenti di mobili, peonie e simili? Potevi portarlo
però. I miei amici avrebbero fatto volentieri la sua
conoscenza.
Sanno tutto di Felpato».
Alphard
abbozzò un sorriso. «Immagino, ma... no, non l'ho
portato
con me, lui...» si sfregò la fronte, incerto.
Sirius era
così allegro, in quel momento. Le brutte notizie potevano
sicuramente attendere ancora un po', decise e, sbirciando l'orologio
mormorò. «Lui mi sta aspettando, Sirius. Anzi,
è
proprio ora che vada».
«Ma
non ti fermi per festeggiare con Andromeda?»
esclamò il nipote deluso.
«No,
proprio
non posso. Ho un impegno che non può essere rimandato. Ho
già parlato con Andromeda... e Felpato mi aspetta
ma, prima di raggiungerlo, volevo chiederti un favore. Potresti
prenderti cura della mia moto?»
Sirius
annuì
entusiasta. Un lampo di inequivocabile felicità negli occhi
grigi. «Ma certamente! Sarà un vero piacere, Zio
Al! Non
preoccuparti, la tratterò con la stessa attenzione con cui
la
tratteresti tu».
«Non
ne
dubito, Sirius. Sai, non vorrei che finisse in mani sbagliate. Sembra
che parecchi maghi stiano sviluppando un odio irrazionale per tutto
ciò che riguarda i Babbani».
«Uff,
lo so,
zio» sbuffò Sirius con vago disgusto.
«Prima della
fine dell'anno scolastico, a Hogwarts girava voce che fosse prossima
una rivolta di Babbani decisi a rubarci la magia. Gli studenti
più idioti cominciano a guardare i Nati Babbani con lo
stesso
sguardo preoccupato che si dovrebbe riservare a un Ungaro
Spinato».
«Colpa
della
politica insensata di Voldemort» disse Remus, picchiettando
sul
vetro dell'acquario e osservando distratto le reazioni dell'Avvincino.
«Già»
concordò Sirius con decisione. «La politica di
Voldemort
non sta rendendo la vita facile ai Nati Babbani. James è
furioso, per via di Lily... ma...» guardò con
tristezza
l'amico. «I licantropi li tratta meglio Voldemort del
Ministero».
Remus
gemette con
stanca esasperazione. «Per l'ultima volta, Sirius: non mi
importa
di come Voldemort tratta i licantropi. Io la mia scelta l'ho
già
fatta. Sto con voi. Sto con Lily. Sto con Silente».
Una
voce acuta e impaurita richiamò Sirius a gran voce,
implorandolo di tornare a giocare.
Alphard
scoccò una rapida occhiata a Peter e James che, volteggiando
sopra la sua testa, ancora si lanciavano - o meglio, tentavano di
lanciarsi, perché Peter sembrava in enorme
difficoltà - l'ovale arancione.
«Lo
so, Remus.
Ma se tu cambiassi idea io ti capirei. Davvero. E non potrei
biasimarti» affermò Sirius con serietà,
quindi,
dopo avere salutato Alphard assicurandogli che la sua moto sarebbe
stata in buone mani, inforcò la scopa e raggiunse James. Con
gran sollievo del povero Peter.
«Io
non
cambierò idea» sillabò ostinato Remus,
uscendo dal
torrente e srotolandosi i jeans. «Non mi interessa se questa
società non ha simpatia per quelli come me. E non mi
interessa
nemmeno se Voldemort ha promesso diritti e dignità ai
licantropi» guardò Alphard con una
maturità
sorprendente per un ragazzo di quella età. «Non
potrei mai
tradire i miei amici. Non per una cosa... meschina come il mio
benessere personale».
Alphard
annuì. «Ti credo Remus. E' la parte più
nobile
dell'Eleganza del Lupo, questa: pensare prima al Branco che a te
stesso».
Remus
lo
guardò sorpreso, poi scosse il capo. «Pare che a
Sirius
questa parte sfugga. Lo ha sentito: se mi aggregassi a Voldemort mi
capirebbe».
«Sirius
può essere molto comprensivo con chi si ribella a chi lo
mortifica e non lo accetta per quello che è, Remus. E'
inevitabile, credo, visto il suo passato».
Remus
annuì.
«Sì, questo posso capirlo. Ma quello che mi
preoccupa
è che, se per qualsiasi motivo - sotto Imperio, magari - io
dovessi davvero tradirli, Sirius non lo direbbe a nessuno. Ho paura che
cercherebbe comunque di proteggermi...»
«Be',
ora tu
fai parte del suo Branco. Un Branco che lo accetta per quello che
è. Forse non è indispensabile essere un
licantropo per possedere l'Eleganza del Lupo».
Il
ragazzo si
accovacciò accanto all'acquario, studiando l'Avvincino che
agitava furente i pugnetti e disse, soprappensiero: «No,
più che all'Eleganza del Lupo, Sirius è soggetto
alla
Cocciutaggine del Cane».
«Come?»
Remus
si riscosse,
balzò in piedi e, abbassando lo sguardo si strinse nelle
spalle.
«Be'... lui è molto affezionato a Felpato. Ne
parla
spesso... così... pensavo che, magari, c'è una
certa
affinità tra i due».
«Ah,
ecco. Potrebbe essere, sì».
Remus
sorrise e indicò l'acquario. «Signor Black, mi
chiedevo: quando posso riportarle l'acquario?».
«Non
devi riportarmelo. Tienilo pure. Un regalo da parte dello zio
Al».
Preso
da
un'improvvisa ispirazione, Alphard agitò la bacchetta,
evocando
un libricino rilegato in pelle dall'aria molto antica: il diario di
Althea.
Non
voleva
cancellare per sempre la prova dell'esistenza delle Chiavi del Tempo. E
dubitando che Andromeda - sempre più felice e innamorata di
Ted
- decidesse mai di indagare sul suo misterioso regalo di nozze, aveva
pensato di lasciare il diario alla piccola Erin. Nella speranza che,
una volta a Hogwarts, venisse folgorata da una passione incontenibile
per le Rune Antiche. Anche se, conoscendo Erin, non gli sembrava molto
probabile.
Ma
ora, forse, aveva trovato una soluzione molto più sensata.
«Mi
pare di aver capito che tu te la cavi bene in Rune Antiche,
Remus».
«Abbastanza,
sì».
«Allora
vorrei tenessi anche questo».
Il
ragazzo prese il
libricino, sfogliando le prime pagine con estrema attenzione.
«Un
antico diario? Ma cosa c'entrano le Rune?»
«Oh,
la parte
più interessante è scritta con caratteri runici.
Fossi in
te comincerei a leggere proprio da lì. Sempre ammesso che tu
non
sia interessato a preparare deliziosi dolcetti al miele. O a
conquistare un ritroso Grifondoro dagli irresistibili occhi da
randagio».
Remus
inarcò
un sopracciglio. «Non mi dispiacerebbero dei deliziosi
dolcetti
al miele... ma credo proprio che salterò la faccenda del
corteggiamento al randagio Grifondoro».
Alphard
rise, sorprendendosi di esserne ancora capace.
Gli
aveva fatto bene
parlare un po' con quei ragazzi. L'Eleganza del Lupo... e la
Cocciutaggine del Cane erano stati salutari per lui, almeno quanto il
Canto della Fenice.
«Signor
Black» lo richiamò il ragazzo chiudendo il diario.
«C'è qualche cosa che posso fare per sdebitarmi?
Sì, insomma.. per l'acquario e il diario».
«Uhm,
sì, una cosa ci sarebbe: smettila di chiamarmi signor Black.
Mio
padre era il signor Black. Mio fratello e mio cognato lo sono. Io no.
Io sono solo Alphard, se zio Al ti sembra troppo».
Remus
annuì
compunto e indicò i tre ragazzi ancora immersi
nell'entusiasmante gioco Babbano riveduto e corretto. «Vuole
che
li chiami per salutarla? Tanto tra non molto dovranno comunque smettere
di giocare. Sta arrivando una tempesta».
Alphard
scrutò con attenzione i minacciosi nuvoloni neri che si
addensavano all'orizzonte e scosse il capo. «No, Remus,
lasciali
giocare finché possono. Anzi, raggiungili anche tu.
Divertitevi,
prima che arrivi la... Tempesta».
Sorrise
mesto al ragazzo e, dopo avere salutato con un cenno della mano i tre
giocatori, si Smaterializzò.
Ed eccoci arrivati all'ottava
tappa del nosto Viaggio.
Una tappa lunghissima che ho
necessariamente dovuto dividere in due
parti (il sito, sfiancato dalla mia logorrea dirompente, non voleva
saperne di caricarmi il capitolo intero...) fortunatamente la cosa
è fattibile e non è troppo "traumatica". ^^
Sono molto affezionata a
questo capitolo, perché compare Silente e irrompono i
Malandrini.
A tal proposito, tenuto conto
che adoro Silente e reputo la Storia dei
Malandrini la trovata più incantevole di J.K. Rowling, spero
di
essere riuscita a "trattare" questi personaggi in maniera il
più
imparziale possibile senza farli andare troppo OC.
Angolino "Note di Servizio":
Non so se Alphard avesse
frequentato i Potter e/o conosciuto i
Malandrini. Né se i Malandrini avessero avuto rapporti con
Andromeda e famiglia... ma tutto sommato, visto la particolare storia
di Sirius, mi è sembrato plausibile. In fondo Andromeda e
Alphard sembrano essere gli unici parenti che il Sirius adulto
considera accettabili, e i Malandrini... be', sono i Malandrini, quindi
mi sembrava plausibile che il "Branco" di Sirius si fosse incontrato,
in qualche situazione. O quanto meno non impossibile.
Il giocattolo Babbano che
James ha reso più eccitante usandolo a
cavalcioni di una scopa non è una mia invenzione. Esiste
davvero, il suo nome è "Going"
e nella seconda metà degli
anni settanta era parecchio popolare. Mio zio ne conserva tutt'ora un
esemplare - trattato come una reliquia - in cantina e ogni estate
propone a qualche sventurato di giocarci un po'. Personalmente la penso
come Yuri: è noioso, faticoso e privo di
qualsivoglia
scopo. In genere lascio ad altri il dubbio piacere di farsi massacrare
allegramente le nocche da quell'affare. Certo, se si riuscisse a
utilizzarlo stando a cavalcioni di una scopa volante potrei anche
ricredermi... forse. ;-)
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Capitolo 9 *** L'Eleganza del Lupo - seconda parte ***
Capitolo
Settimo
L'Eleganza
del Lupo - (seconda parte)
Ministero della Magia, 26 luglio 1977.
La faceva facile
Silente, con quella faccenda del dominare la paura.
Alphard
ci stava provando. Davvero. Ma non gli sembrava di riuscirci
granché bene.
Non
che avesse importanza, naturalmente.
Sapeva
cosa doveva fare, e - paura o meno - non si sarebbe tirato indietro.
Il
centauro dai
capelli fulvi era stato chiaro: non c'era modo di distruggere una
Chiave del Tempo. Poteva solo essere danneggiata durante l'uso. E non
era nemmeno ben chiaro come o perché accadesse.
Secondo
la teoria di Kyros aveva qualcosa a che fare con l'Equilibrio.
Secondo
quella di Cormiac, sentimentale come tutti gli umani a parere del
centauro, con l'Amore.
E
Alphard non poteva proprio permettersi di gingillarsi con intriganti
quesiti filosofici, al momento.
Riddle
voleva la Chiave del Tempo. E la voleva subito.
La
voleva
dall'istante in cui si era imbattuto - solo Merlino sapeva come - in
una decrepita pergamena, risalente all'epoca romana, vergata da Aulo
Valerio Corvino in persona. E Morrigan, da fedele seguace qual'era,
aveva
pensato bene di rivelargli che il fortunato possessore di tale
leggendario manufatto era Alphard Black.
Non
trovando
particolarmente saggio mettere nelle mani di quell'esaltato di Riddle
un oggetto di simile potere, Alphard, prontamente contattato
dall'esaltato in persona, aveva risposto al cortese invito con un
deciso rifiuto.
Deciso
rifiuto che,
dopo avere provocato la morte di Felpato, avrebbe potuto causare guai
seri anche ad Andromeda, attuale - per quanto inconsapevole -
Custode della Chiave del Tempo.
Quindi
Alphard non
aveva scelta: doveva ignorare la paura che gli strisciava gelida lungo
la spina dorsale e agire. Doveva pensare alla salvezza del Branco prima
che alla propria. Se solo fosse stato dotato dell'Eleganza del Lupo...
Sospirando,
il mago
strinse nella mano destra la Chiave del Tempo danneggiata, guardando
scettico la piccola fenice che vi aveva miniato nel tentativo di
renderla uguale a quella funzionante e, prima di poterci ripensare,
varcò con decisione la porta scura che aveva di fronte.
La
stanza era vuota, ancora. Era il primo a essersi presentato a
quell'irrinunciabile appuntamento.
Ci
aveva sperato
quando aveva proposto di incontrarsi in quel luogo, sostenendo che
nessuno li avrebbe disturbati, lì. Il che era anche vero -
quella particolare sezione del Ministero non era molto frequentata - ma
il motivo che aveva spinto Alphard a scegliere proprio quella stanza
era un altro.
Scese
rapido le
scalinate di pietra situate lungo i quattro lati del locale e si
fermò davanti alla pedana rocciosa che si trovava al centro,
osservando inquieto l'antico portale che la sovrastava.
Sembrava
così
innocuo, constatò fissando la consunta tenda nera che -
sventolando al soffio impetuoso di un vento inesistente - velava
l'antico arco ogivale.
Voci
flebili
provenivano da oltre quel velo spettrale. Mormoravano frasi lamentose
che Alphard non riuscì a decifrare, forse perché
distratto da una voce arrogante che conosceva fin troppo bene.
«Alla
fine sei venuto, dunque, Black».
Alphard
si voltò lentamente, non scostandosi dalla pedana, e
scrutò il nuovo venuto.
Tom
Riddle - o
la parodia di se stesso che era diventato - se ne stava in piedi,
sulla gradinata più alta, circondato da una manciata di
uomini
avvolti in lunghi mantelli neri dotati di cappuccio. In luglio.
Alphard
li
trovò quasi comici: un nugolo di grotteschi pipistrelloni
accaldati che circondava il suo pallido capobranco. Ammesso che i
pipistrelli avessero un capobranco, certo.
«Sono
una persona di parola, io, Riddle» esclamò, la
voce molto più ferma di quanto avesse sperato.
Riddle
abbozzò una smorfia contrariata. «Non chiamarmi
Riddle».
«E'
il tuo nome. Il marchio della stirpe da cui discendi, Riddle, come altro
dovrei chiamarti?»
«Insolente
come sempre, vero Black? Va bene, facciamola finita, consegna la Chiave
e sarai libero di andartene. Detesto sprecare puro sangue magico e lo
sai» disse Riddle, spingendo con energia il pipistrellone
più basso che, evidentemente sorpreso, quasi
ruzzolò
dalle gradinate per poi fermarsi di fronte ad Alphard, avvolgendolo in
un inconfondibile effluvio di violetta.
«Morrigan...»
mormorò Alphard, osservando le lunghe ciocche bionde che il
cappuccio non riusciva a trattenere.
La
sua storia con la
collega era finita da anni ormai, soffocata dalle opposte idee
politiche e - per quanto lo riguardava - dall'amore che continuava a
provare per Erin; ma era affezionato a Morrigan, la considerava
un'amica e il suo tradimento lo feriva più di quanto fosse
disposto ad ammettere.
«Mi
dispiace, Alphard» sussurrò lei, allungando una
mano tremante verso
il medaglione ma fermandosi prima di sfiorarlo. «Mi dispiace
per
Felpato, davvero. E per i tuoi pesci... l'acquario l'ho sistemato,
però. So quanto ci tieni... ma tu non collaboravi, e la
Chiave
serve a Lord Voldemort. Per fermare Silente».
Alphard
guardò incredulo l'ex compagno di scuola. «Vuoi
usare la Chiave del Tempo per fermare Silente?»
«L'astuzia
non è un peccato, Black».
«No,
ma la
stupidità sì! La Chiave del Tempo ti
permetterà di
tornare indietro solo di vent'anni, Riddle. E non potrai portare
nessuno con te. Davvero pensi di essere in grado di eliminare - senza
l'entusiasta aiuto dei tuoi fidi scagnozzi - un Albus Silente di
vent'anni più giovane? Vorrei proprio assistere alla
scena!»
Riddle
scosse il
capo, all'apparenza divertito. «Bel tentativo, Black. Ma con
me
non funziona. La pergamena di Aulo non dice nulla del genere. Non pone
limiti al potere della Chiave del Tempo. Posso tornare indietro di
tutti gli anni che desidero. Posso tornare al tempo in cui Silente era
un neonato, ad esempio. E la mia intenzione è proprio
quella.
Potrei mai non riuscire a sconfiggere un poppante?» concluse
con
un sorrisetto gelido che lo fece somigliare al Basilisco ritratto in
uno dei quadri della Sala Comune dei Serpeverde.
Alphard
si strinse
nelle spalle, esasperato. «Aulo ignorava parecchie cose,
allora.
Che altri, venuti dopo di lui, sapevano. Vent'anni, Riddle. Non uno in
più. Ho studiato per buona parte della mia vita le Chiavi
del
Tempo. E non ho motivo di mentire, visto che, comunque, non ti
consegnerò mai l'ultimo esemplare rimasto».
Riddle
rise. Una
risata terribile, fredda e sgradevole che ricordava vagamente il sibilo
di un grosso serpente. «E pensi di avere una scelta? Ti
facevo
più intelligente, Black. Sei da solo contro sette, come
pensi di
potere evitare di consegnarmi quell'oggetto?»
Alphard
sorrise e
indicò con un gesto vago il portale alle sue spalle.
«Non
sono solo. Ho un notevole alleato. Piuttosto che dare a te la Chiave la
consegnerò a lui».
Riddle
guardò
il Portale, spiazzato, e Alphard sogghignò: sospettava che
l'ex
compagno di scuola non sapesse cosa fosse, in realtà.
Oh,
era stato uno
studente brillante, Riddle. Probabilmente il più brillante
della
sua epoca. E il più talentuoso. Ma non aveva mai ritenuto
importante documentarsi sulle cose che non lo interessavano; o che
riteneva, semplicemente, indegne di lui. E se c'era una cosa che Tom
Orvoloson Riddle riteneva indegna di lui era la Morte.
Era
ossessionato
dalla ricerca di un modo per sconfiggerla - sapeva tutto sulle
proprietà del sangue di unicorno e sulla Pietra Filosofale,
ad
esempio - ma il sondare il mistero della Morte era l'ultimo dei suoi
pensieri. Di conseguenza, era probabile che non si fosse mai
interessato più di tanto a quel Portale.
Alphard
stava giusto
godendosi l'incertezza di Riddle, quando uno dei pipistrelloni
esclamò con tono saccente: «Sta bluffando, mio
Signore. Un
oggetto non può essere dato al Portale. Neppure un oggetto
speciale come una Chiave del Tempo».
Prima
che Riddle
potesse fiatare, il pipistrellone saccente scese le gradinate e, tolta
da sotto il mantello un'ampollina d'argento, la scagliò
oltre il
Portale; indicandola con il gesto solenne di un antico druido quando,
attraversato il velo, atterrò intatta sul pavimento.
Alphard
fischiò sorpreso: «Oh, un mago sapiente. Ma, pare,
troppo
timido per mostrare la faccia agli estranei. O troppo
codardo».
Il
pipistrellone si voltò di scatto verso Alphard e, con un
gesto sdegnato, si calò il cappuccio.
Alphard
trasalì, scorgendo il viso pallido di un adolescente:
Merlino, non doveva essere più vecchio di Sirius.
«Non
sono un
codardo!» esclamò il ragazzo, mentre Alphard
scrutava con
sconcerto quegli occhi neri, freddi e vuoti: gli occhi privi di
speranza di un vecchio disincantato, così sbagliati sul
volto
liscio di un persona tanto giovane.
«No»
concordò Alphard. «Non sei un codardo. E sei un
mago
sapiente. Ma non sei troppo portato a cogliere le sfumature, pare. Lo
so anch'io che nessun oggetto può essere consegnato al
Portale.
Solo esseri viventi possono attraversarlo. Portando con sé
gli
oggetti che indossano».
Il
ragazzo sgranò gli occhi. Unico tra tutti i presenti ad
avere intuito cosa stava per succedere, probabilmente.
«Ma
questo vorrebbe dire...»
«Sì.
Vorrebbe dire proprio quello».
«E
di certo lei non sarà disposto a farlo».
«E
perché no? Tu non lo faresti per qualcosa che ritieni di
vitale
importanza? Non c'è proprio niente al mondo che ti
spingerebbe a
farlo?»
Il
ragazzo ci
pensò un istante. Poi annuì, fiero. Un lampo di
orgoglio
a ravvivare quegli spenti occhi neri. «Lo farei,
sì. Per
la Causa».
Alphard
guardò Riddle, scosse il capo e riportò la sua
attenzione
sul ragazzo. «Nobile intenzione, figliolo. Ma faresti meglio
a
cercarti una Causa migliore. Questa non è
granché,
onestamente».
«Oh,
basta con
queste assurdità! Tu...» sbottò Riddle
indicando
Morrigan. «Prendigli quella Chiave e facciamola
finita!»
La
donna
guardò Alphard, esitante, quindi allungò la mano.
Alphard
gliela bloccò prima che potesse raggiungere il medaglione e,
stringendola gentilmente tra la sua, mormorò: «Il
consiglio vale anche per te, Morrigan. Cercati una Causa migliore.
Riddle non ne vale davvero la pena».
Poi,
prima che
qualche altro pipistrellone potesse raggiungerlo, Alphard
balzò
sulla pedana, sbirciò oltre il velo sventolante e,
voltandosi
verso Riddle e i suoi scagnozzi, sorrise spavaldo; la paura
dimenticata, sconfitta. Ammiccò a Riddle e, dopo essersi
esibito
in un impeccabile inchino - non possedeva l'Eleganza del Lupo ma non
vedeva il motivo di dimenticare quella dei Black - varcò con
fiera decisione il Portale: pronto ad iniziare la sua Nuova Avventura.
Morrigan
sussultò, saltando a sua volta sulla pedana.
Voldemort
la
degnò di un'occhiata distratta, per poi riconcentrarsi sul
Portale, un po' stupito che Black non fosse già ricomparso
al di
là del velo, come aveva fatto l'ampollina d'argento.
Non
riusciva a spiegarsi cosa fosse successo, e detestava le cose che non
riusciva a spiegarsi.
Ma
una spiegazione c'era di sicuro. Una spiegazione c'era sempre.
Probabilmente
Black
si stava solo nascondendo dietro al velo. Era sempre stato bravissimo a
nascondersi. E a fargli perdere le staffe.
Contrariato,
scese
velocemente le gradinate. Con un moto di irritata impazienza,
scostò il ragazzo che osservava la scena standosene immobile
ai
piedi della pedana e, spingendo Morrigan oltre il Portale,
sibilò aspro: «Raggiungilo e prendigli quella
dannata
Chiave».
«No!»
esclamò il ragazzo, allungando istintivamente una mano nel
tentativo di afferrare la donna, ormai svanita oltre il velo.
Voldemort
lo guardò inarcando sorpreso un sopracciglio.
«Lei
non...
quella è una soglia che separa il mondo dei vivi da quello
dei
morti, mio Signore» spiegò il ragazzo.
«Ma sembra
funzionare solo in un senso: se un essere vivente la varca non
può più ritornare».
Voldemort
fissò il Portale. «Quindi è
perduta?» chiese, un'ombra di dispiacere nella voce.
Il
ragazzo
annuì mesto e Voldemort sbuffò:
«Peccato. Un
manufatto così prezioso. L'ultima Chiave del Tempo
funzionante,
perduta per colpa della follia di Alphard Black».
Il
ragazzo
trasalì lievemente, mentre uno dei maghi incappucciati che
erano
rimasti sulle gradinate - bloccando quella che sembrava essere la sola
via d'uscita - chiese: «Intende vendicarsi sulla sua
famiglia,
Signore?»
Voldemort
ci
pensò un istante. Gli sarebbe piaciuto. Oh, sì.
Black gli
aveva scombinato tutti i piani con quelle sue stupide manie suicide.
Aveva sempre avuto una vena melodrammatica, Alphard Black. Fin dai
tempi di Hogwarts. Un ragazzino brillante a suo modo, ma indisponente.
E Voldemort non aveva mai sopportato le persone indisponenti.
Non
gli sembrava però il caso di infierire sulla sua famiglia.
I
Black erano maghi Purosangue, e Voldemort detestava sprecare prezioso
sangue magico.
Non
era colpa dei
Black se si erano ritrovati un parente discutibile, dopo tutto. I
parenti non si potevano scegliere. Voldemort ne sapeva qualcosa.
No,
non avrebbe
alzato un dito contro l'Antica Casata dei Black. Alcuni di loro lo
servivano con entusiasmo e, in fondo, Alphard Black la sua punizione
l'aveva già avuta: era stato sconfitto dalla Morte. Ed era
una
cosa da deboli cedere alla Morte. Una cosa indegna di un mago. Una cosa
che a lui non sarebbe mai successa.
«No,
Dolohov. I Black non pagheranno l'insolenza della pecora nera della
famiglia. Non ne vedo il motivo».
Dolohov
annuì con una certa delusione.
«Anzi»
aggiunse Voldemort poco dopo. «Vai da Cygnus e comunicagli
che il
fratello è morto in un incidente sul lavoro».
Dolohov
si strinse
nel mantello e fece per uscire. Poi si fermò, pensoso.
«Vorranno riavere il corpo, suppongo».
Voldemort
sbuffò contrariato, Dolohov era un buon servitore - sebbene
come
Rintracciatore di piccoli Nati Babbani si fosse rivelato disastroso -
ma la fantasia non era davvero il suo forte. «Non se il
suddetto
incidente sul lavoro fosse stato un Lethifold, ti pare, Dolohov? Black
aveva appena ritrovato un manufatto magico di grande potere e, preso
dall'entusiasmo, non si è reso conto che a fargli la guardia
c'era un Lethifold affamato».
Dolohov
assentì convinto e uscì dalla sala.
«Uhm,
signore...» balbettò un secondo mago, abbassandosi
il cappuccio.
«Sì,
Mulciber?»
«Credo
che
anche Sinister dovrebbe sapere...» il mago
deglutì,
indicando con un certo imbarazzo il Portale. «Be' di sua
figlia...»
Voldemort
gemette.
Quella stupida donna non gli aveva creato che guai, ultimamente! Non
fosse stato per il suo cuore tenero i Mangiamorte sarebbero piombati a
casa di Black mentre lui dormiva e, in un modo o nell'altro, quella
dannata Chiave del Tempo sarebbe stata sua. Ma forse Mulciber aveva
ragione. Era probabile che Sinister si sarebbe accorto della scomparsa
della figlia, prima o poi. E Sinister era un utile alleato...
«Va
bene. Vai
da lui. La donna era con Black. E i Lethifold a guardia del manufatto
erano due. Oh, porta con te anche Tiger e Goyle. Certo, solo se abbiamo
l'assoluta certezza che Sinister non possegga neppure un
chiuahua» concluse, fissando con disprezzo il giovane Tiger
che,
a capo chino, si dirigeva verso l'uscita zoppicando vistosamente.
Voldemort
sospirò abbacchiato: le nuove leve della sua armata non
erano
certo entusiasmanti. Quell'incapace di Tiger era riuscito a farsi quasi
sbranare dal volgare botolo di Black, e neppure l'intervento di Goyle
era stato sufficiente per riportare una vittoria. Era dovuto
intervenire Dolohov per salvare gli inetti. Forse avrebbe fatto meglio
a salvare il cane: si sarebbe sicuramente rivelato più utile
di
quei due.
Per
fortuna il
ragazzo dai capelli neri che, aggirato con cautela il portale, stava
raccogliendo la piccola ampolla scagliata in precedenza sembrava
tutt'altro che deludente.
«Dunque
era della morte che tu e Black stavate parlando prima...»
chiese Voldemort accostandosi al ragazzo.
«Sì,
mio Signore» rispose quello, mettendosi l'ampollina in una
tasca della tunica.
«E
davvero saresti disposto a morire per la Causa?»
Il
ragazzo annuì solenne. «Naturalmente, mio
Signore».
Voldemort
sogghignò tra sé. Quel ragazzo era tanto ingenuo
quanto
brillante. Era incredibile quanto fosse disposto a concedere di se
stesso per qualche misera briciola di attenzione.
Be',
a Voldemort andava benissimo.
«Mi
fa piacere saperlo. Perché ho una missione per te».
Il
ragazzo sollevò di scatto la testa e lo scrutò
con aspettativa.
«Tornerai
a Hogwarts, questo settembre».
«Ma...»
«Nessun
ma» sì, quel ragazzo aveva stoffa. Non solo non
balbettava
in sua presenza, ma osava persino discutere. Salvo poi obbedire,
naturalmente. «Lo so che avresti preferito servirmi a tempo
pieno. Ma uno studente brillante come te ha il dovere di terminare gli
studi. E poi mi servi a Hogwarts. Non solo per reclutare gli studenti
più talentuosi, ma anche perché dobbiamo trovare
il punto
debole di Silente. E, tornando a Hogwarts, tu potrai osservarlo da
vicino. Sarai i miei occhi e le mie orecchie: sarai la mia Spia,
Severus».
Un Altro-dove,
Qualche-quando.
Buio.
Alphard
non riusciva a pensare ad altro.
La
sua Nuova Avventura era decisamente buia.
Ma
piacevole, tutto sommato.
Si
sentiva bene. Strano, questo sì. Ma bene.
Alzò
lo
sguardo verso quello che presumeva essere l'alto (non era facile
stabilirlo, visto che fluttuava in quel buio innaturale e nessuna
superficie solida si trovava sotto i suoi piedi) e scorse un fioco,
plumbeo bagliore. E un velo sdrucito che sventolava.
Così
era quella la Morte.
Non
particolarmente impressionante, a dire il vero.
Piuttosto
noiosa, in effetti.
C'era
solo buio.
Ci
fosse stato
almeno silenzio Alphard l'avrebbe trovata riposante, se non altro. Ma
quei gemiti lamentosi che lo circondavano erano abbastanza irritanti.
Gli
ricordavano le
continue, querule lamentele di Walburga: avrebbe fatto volentieri a
meno di esserne assordato per l'eternità.
Guardandosi
attorno
con attenzione, alla ricerca delle fonti di quei lamenti, Alphard si
accorse che il buio era meno totale di quanto gli fosse parso in un
primo momento.
Si
trovava in una
specie di pozzo, all'apparenza senza fondo, illuminato soltanto dagli
aloni opalescenti di dozzine di fantasmi. Erano loro le fonti dei
gemiti lamentosi. I fantasmi. Vagavano privi di pace, intonando pianti
rabbiosi e sconsolati, mentre tentavano senza successo di raggiungere
il velo sdrucito che sventolava sopra le loro teste.
Quando
una di quelle
sagome argentee gli si avvicinò, Alphard si ritrasse
istintivamente. Non aveva mai sopportato di essere sfiorato da un
fantasma: detestava quell'improvvisa sensazione di gelo che
l'esperienza comportava.
Ma
non sentì nulla questa volta. Ovviamente,
realizzò, visto e considerato che era anche lui un fantasma,
ora.
Alzò
una mano
e la fissò sconcertato: era strano come fantasma. Era
trasparente, sì, ma non incolore come i fantasmi che lo
circondavano. Aveva ancora il suo colorito usuale. Sembrava solo fatto
di... vetro, ecco, somigliava a uno di quei personaggi miniati sulle
vetrate di alcune Cattedrali Babbane.
Un
po' confuso,
notò che tra la folla di fantasmi regolamentari si trovava
un'altra creatura simile a lui. Le si avvicinò -
meravigliandosi di quanto fosse facile muoversi fluttuando senza peso -
e il suo cuore perse un battito (insomma, lo avrebbe perso se
avesse battuto ancora) quando vide che si trattava di Morrigan.
«Morrigan»
la chiamò con dolcezza, sorpreso di non venire avvolto dal
familiare effluvio di violetta.
La
donna lo guardò confusa, spersa. Nuda.
Alphard
aggrottò la fronte, perplesso. Tutti i fantasmi che aveva
conosciuto, compresi quelli che vagavano in quel luogo desolato, erano
vestiti. Perché Morrigan non lo era?
Dandosi
una fugace
occhiata scoprì che neppure lui lo era. Strano, non se ne
era
proprio accorto. Ma, del resto, come avrebbe potuto accorgersene
essendo completamente privo del senso del tatto?
«Come
si fa a uscire da qui? Chi sono tutti questi fantasmi? Noi non siamo
morti, vero?»
Alphard
sospirò: «Eh, temo di sì, Morrigan.
Abbiamo
attraversato il Portale della Morte. Lo sai di cosa si tratta,
vero?»
La
donna non
rispose, fissò titubante il volto del collega e
mormorò,
mesta. «Mi dispiace, Alphard. Io non pensavo... se solo tu
avessi
consegnato quella dannata Chiave...»
«Riddle
avrebbe avuto un asso in più nella manica per realizzare i
suoi
folli piani. Una prospettiva non particolarmente auspicabile, a mio
modesto parere».
Morrigan
strinse i
pugni e affermò, rabbiosa. «Mi ha uccisa! E' stato
lui a
spingermi oltre quel dannato velo! Ma mi
vendicherò!»
«Morrigan...
sei morta. E i morti non possono fare proprio nessun male a un vivo. Al
massimo, quando diventano fantasmi, possono passargli attraverso e
fargli provare un'orribile sensazione di gelo. Non è un
granché come vendetta...»
«Io
mi vendicherò! Non la passerà liscia... vedrai se
non mi vendicherò!»
Alphard
scosse il
capo, fissando assorto il velo che sventolava sopra le loro teste.
Quando scorse il fantasma di una donna - che somigliava curiosamente a
un tricheco sdentato - fissarlo senza ritegno alcuno, tentò
di
coprirsi pudico (non che delle mani trasparenti come vetro fossero di
grande aiuto) le parti del corpo che non era solito mostrare a
chicchessia. Merlino, aveva sempre dato per scontato che i fantasmi
raggiungessero, se non la pace eterna, almeno quella dei sensi.
«Wuff».
Un
latrato
improvviso e familiare lo riscosse, facendogli dimenticare la squisita
creatura che, evidentemente delusa da tanta deprecabile pudicizia,
aveva raggiunto il fantasma di un energumeno dalla testa rasata
intonando con lui, in pregevole duetto, una straziante lamentazione.
Straziante
lamentazione a cui Alphard non
prestò la dovuta attenzione, impegnato com'era a osservare
l'enorme cane dal pelo nero e lucente che si stagliava contro uno
stretto passaggio illuminato da una calda luce dorata.
Dopo
un momento di sconcerto, Alphard sorrise incredulo.
«Felpato?»
Il
cane
abbaiò, scodinzolando allegro e cominciò a girare
forsennatamente in tondo. Faceva sempre così quando voleva
essere seguito.
«Vieni,
Morrigan. C'è Felpato» disse Alphard, allungando
una mano
in cerca di quella della donna, ma trovando solo il nulla.
«Vai
tu,
Alphard. Io rimango qui. Dove potrò vendicarmi di Voldemort!
E
allontana quello stupido gufo, per favore».
Gufo?
Alphard si
guardò attorno, ma non scorse nulla di neppure vagamente
somigliante a un gufo. Un po' stupito si voltò verso
Morrigan e
sussultò.
Non
era più
nuda e colorata. Ora era del lattiginoso color argenteo di tutti i
fantasmi e indossava il lungo mantello che portava quando aveva
attraversato il Portale.
Felpato
abbaiò con la decisione che gli era consona. Si era
avvicinato
un po' e sembrava contrariato. Alphard sapeva che non era un bene fare
contrariare Felpato, così, dopo un'ultima occhiata a
Morrigan,
scosse il capo e, voltatele le spalle raggiunse il suo adorato Gramo di
seconda scelta che lo assalì con entusiasmo. Ridendo,
Alphard
tentò di allontanarlo, ma non ci mise troppa convinzione:
riusciva a sentire la morbidezza del pelo folto del cane, il suo
calore, ed era una sensazione davvero straordinaria. Il suo senso del
tatto sembrava essere tornato a funzionare. Si chiese come mai.
Prima
che potesse
darsi una risposta convincente, il botolo, senza tanti complimenti, lo
spinse oltre il passaggio, accucciandosi poi appena oltre la soglia ed
esibendosi in uno sbadiglio di tutto rispetto.
Alphard,
tentando di
abituare gli occhi alla luce intensa che illuminava quel luogo,
sospirò esasperato: Felpato era sempre Felpato. Anche da
morto.
Stava
spremendosi le
meningi per inventarsi qualche minaccia in grado di convincerlo a
seguirlo oltre il passaggio, quando si ritrovò avvolto in un
abbraccio morbido e caldo, delicatamente profumato di lavanda. Un
abbraccio familiare che lo fece sentire a casa: l'inconfondibile
abbraccio di Erin. La sua Erin.
«Benarrivato,
amore» le alitò in un orecchio quella voce che
aveva
sempre avuto il potere di dissolvere gli incubi più cupi.
«Ti stavamo aspettando».
Alphard
decise di
rispondere all'abbraccio, anche se non era proprio sicuro che un
personaggio dipinto su una vetrata di una Cattedrale potesse, in
realtà. Quando si accorse che la cosa era possibile,
sospirò soddisfatto, abbarbicandosi a Erin con il
caratteristico
stile di un Calamaro Gigante.
«Davvero?»
chiese confuso. Non riusciva mai a ragionare molto lucidamente quando
Erin gli stava così vicino, del resto.
«Sì,
davvero, Alphard Black» borbottò una voce maschile
in tono
burbero. «E se ti decidessi a mollare Erin per un istante, ti
accorgeresti che non siete soli. E magari, recuperando un briciolo di
quella decenza che sicuramente mio fratello ti ha insegnato, ti
degneresti di rivolgere un saluto anche a noi».
Alphard
si sciolse a
malincuore dall'abbraccio, sorridendo perso - o ebete, volendo
proprio essere sinceri - a Erin, e si voltò nella
direzione da cui proveniva la voce burbera.
Un
gentiluomo
brizzolato se ne stava fermo in piedi a pochi passi di distanza,
rassettandosi con vigore l'impeccabile giacca di Tweed.
«Zio
Marius!» esclamò Alphard piacevolmente sorpreso,
poi,
ricordando di essere nudo, tentò, con una rapida mossa
strategica, di farsi scudo con il corpo dell'amata. Insomma, un conto
era mostrarsi in tutto il suo adamitico splendore a Erin... ma farlo
davanti a zio Marius non gli pareva molto indicato.
Nel
bel mezzo della
manovra, però, si accorse di non essere affatto nudo:
indossava
i suoi vecchi jeans scoloriti e il suo maglione preferito. Non era
bellissimo quel maglione, lo sapeva, ma glielo aveva fatto Erin, dopo
un'epica battaglia con ferri e lana, e questo lo rendeva speciale ai
suoi occhi.
Sconcertato,
si
osservò una mano e si rese conto che non era più
trasparente. Era una mano quasi normale, certo, forse non aveva la
medesima consistenza di quella di un vivo, ma era solida, come quella
di Erin, e solida era anche la superficie su cui posavano i suoi
piedi...
«Pare
proprio
che quella specie di canide, specializzato nello sterminio di pregevoli
esemplari di Carassius
Auratus Auratus*, non se la cavi male come
Psicopompo» affermò Marius, sistemandosi gli
occhialetti
rotondi di metallo dorato che incorniciavano i suoi occhi grigi da
Black non regolamentare.
«Psico...
cosa?» domandò Alphard confuso, fissando Felpato
che
sonnecchiava soddisfatto al di là del passaggio.
«Psicopompo**»
disse con tono accademico un adolescente che indossava una lunga tunica
blu e osservava la scena, gli occhi grigi colmi di
curiosità,
tenendosi un po' in disparte. «E' così che i vivi
definiscono i Traghettatori di Anime. Deriva dal greco, precisamente da
Psyche - anima - e Pompos - colui che conduce -
esistono diverse figure...»
«Oh,
per
carità! Ci manca solo una tua lezione di greco antico,
Aldebaran!» esclamò una donna bruna dai vivaci
occhi grigi
avvicinandosi allegra ad Alphard. «E tu non dare corda a
questi
due, e non preoccuparti per lo psico-coso,
lì...»
Alphard
sorrise, scrutando prima l'adolescente e poi la donna. «Se
lui è Aldebaran, tu devi essere Althea».
«Esattamente!»
affermò la donna. «Al primo e Al seconda a
rapporto!
Aggiungiamoci Marius e direi che davanti ai tuoi occhi hai il meglio
dei Black trapassati!»
Alphard
ridacchiò. «Ne sono convinto. Ma pensavo che, sia
tu che
Aldebaran, foste morti ad un'età decisamente più
avanzata».
«Infatti»
ammise Aldebaran avvicinandosi. «Questo non è
l'aspetto
che avevamo al momento della morte. Ma quello che avevamo nel momento
di massima serenità della nostra vita. Che, per quanto mi
riguarda, coincide con il periodo antecedente alla... scomparsa di
Arcturus».
«E'
anche lui qui?» chiese Alphard,
guardandosi attorno con interesse.
«No»
sospirò Aldebaran desolato. «Lui non è
da nessuna
parte. Semplicemente lui non
è. E' come se non fosse mai
esistito e... chi non è mai esistito non può
neppure
morire».
Alphard
annuì, scosso. E grato per non avere neppure preso in
considerazione l'idea di smarrirsi con la Chiave funzionante tra le
pieghe del Tempo.
Silente
non scherzava affatto quando sosteneva che c'erano cose di gran lunga
peggiori della Morte...
«Per
me
invece» esclamò Althea, sfiorando la schiena di
Aldebaran
con una carezza gentile. «Il periodo di maggior
serenità
coincide con l'accalappiamento del mio ritroso consorte».
«Consorte?»
chiese Alphard sorpreso. «Nell'Arazzo di famiglia non risulti
sposata».
«Certo
che no! Ho sposato un Nato Babbano!»
Alphard
socchiuse
gli occhi, sospettoso. «Ma il tuo nome non è stato
cancellato dall'Albero Genealogico. Altri Black...»
indicò
zio Marius con un gesto secco. «Sono stati rinnegati per
molto
meno».
Althea
si strinse
nella spalle. «I miei fieri parenti non hanno ritenuto
necessario
farlo. Forse erano meno fieri dei Black più recenti o,
magari,
aspettandosi cose assolutamente turpi da me - una Black dagli occhi
grigi smistata a Tassorosso, figuriamoci! - erano già
rassegnati
al peggio. Certo, non hanno degnato mio marito di grande attenzione,
limitandosi a considerarlo come l'ennesimo randagio a cui ho offerto
rifugio. E nessun randagio può comparire sull'Arazzo di
famiglia, che diamine. Non vi compare neppure nostro figlio che non se
ne è mai angustiato più di tanto. Come il padre,
del
resto. A proposito, ti andrebbe di conoscere il mio ritroso
consorte?» chiese la donna indicando con entusiasmo una
piccola
folla di persone che, tenendosi a rispettosa distanza, lo osservava
incuriosita.
Appena
Alphard
annuì, Althea si diresse verso la piccola folla e,
avvicinatasi
a un uomo alto e snello, gli afferrò una mano trascinandolo
senza tanti complimenti al cospetto del nuovo venuto.
L'uomo
sorrise un
po' imbarazzato e si presentò: «Piacere, io sono
il...
uhm... randagio
a cui ha offerto rifugio Althea. Conosciuto anche come
John Lupin, se può interessare».
«John
Lupin» ripetè Alphard, scrutandogli un po'
sorpreso gli
occhi della stessa sfumatura ambrata del Whisky Incendiario di miglior
qualità. «Penso di avere conosciuto un paio di
vostri
discendenti. Padre e figlio. Non hanno nulla da invidiare ai Black
regolamentari, anzi».
Althea
e John
sorrisero orgogliosi. «Sì, lo sappiamo»
disse
l'uomo. «Il padre è il primo Lupin dotato di
poteri magici
da generazioni. Qualche tempo fa sembrava che dovessi venire qui ad
accogliere il figlio, ma poi l'allarme è rientrato: il
piccolo
è sopravvissuto».
«Siete
voi a
decidere di venire qui a prendere i... nuovi venuti?» chiese
Alphard, sbirciando la folla di sconosciuti che si trovava alle spalle
di John e Althea.
«No.
In genere
è il... nuovo venuto medesimo a scegliere»
intervenne
Erin, prendendogli una mano. «Sei stato tu a convocare noi,
Al,
ma, nel caso in cui il nuovo venuto sia un bimbo molto piccolo e tutti
quelli che lui conosce siano ancora viventi... be', vengono mandate le
persone che più potrebbero... tranquillizzarlo».
Alphard
annuì. Aveva senso. Prima di saltare oltre il Portale della
Morte si era augurato di ritrovare Erin e zio Marius, e di potere
finalmente fare la conoscenza di Aldebaran e Althea. Ma questo non
spiegava la presenza di John Lupin... o della piccola folla di
sconosciuti.
«Capisco.
Ma loro?» chiese quindi curioso.
«Oh,
giusto,
permettici di presentarci» disse un uomo dai lunghi capelli
brizzolati, abbandonando il gruppetto e avvicinandosi ad Alphard.
«Siamo i Custodi delle Chiavi del Tempo. Ci auto-invitiamo
sempre
per dare il benvenuto a un collega. Be', per me è la prima
volta, a dire il vero... sono Aurelius, il tuo predecessore. Colui che,
per sottrarre l'ultima Chiave funzionante alle brame di qualche folle
mago animato da assurde manie di grandezza, decise di farne perdere le
tracce».
«Oh,
capisco... quindi io sono colui che ha fatto naufragare un piano tanto
brillante, rischiando di consegnare la Chiave al mago animato da
assurde manie di grandezza più folle di tutti i
tempi»
mormorò Alphard contrito.
Aurelius
sorrise.
«No! Tu sei colui che ha rimediato al mio non così
brillante piano, piuttosto. I creatori delle Chiavi ne sono convinti,
per lo meno».
«Oh,
ecco» Alphard non era sicuro di condividere l'opinione dei
creatori delle Chiavi, ma trovando più saggio tenerlo per
sé, evitò di approfondire il discorso e chiese:
«Quindi anche John è stato un Custode delle
Chiavi?»
John
scosse il capo,
avvilito, e Aurelius, cingendogli affettuosamente le spalle,
spiegò: «No, John non è mai stato un
Custode. Non
è venuto per accogliere un collega. E' venuto
per...»
«Per
lei...» concluse John in un sussurro, allungando una mano e
sfiorando con malinconia la Chiave danneggiata che Alphard ancora
portava al collo. «E' quella che ho distrutto io. Ah... sono
stato un tale idiota!»
Althea
alzò
gli occhi al cielo e arruffò scherzosa i folti capelli
chiari
del marito. «John, non vorrai ricominciare con questa storia,
per
il gatto di Merlino!»
«Anche
il
gatto, ora» gemette una profonda voce maschile proveniente
dal
gruppo dei Custodi delle Chiavi. «Questa mi mancava. Non l'ho
neppure mai avuto un gatto, io!»
Alphard
sollevò lo sguardo, incrociando i limpidi occhi verdi di un
uomo
dai capelli ramati che, stringendosi nelle spalle, mormorò:
«Non ho ancora capito perché, ma vengo sempre
tirato in
mezzo da chiunque. E mi si attribuisce di tutto. Dalla scopa alle
mutande. Ho anche dovuto svolgere un'accurata ricerca per sapere cosa
fosse quest'ultimo insolito oggetto a me del tutto
sconosciuto...»
«Merlino!»
lo riprese con decisione una dignitosa signora non più
giovanissima. «Stiamo assistendo a un momento ricco di
Pathos, se
non te ne sei accorto. John ci sta esponendo i suoi personali
tormenti... e tu non trovi di meglio da fare che lamentarti per simili
assurdità? E un gatto avresti anche potuto prenderlo, tra
l'altro».
«No
davvero Cliodna. Dovevo allevare il mio cucciolo di drago... come ben
sai, visto che lo hai persino sognato...»
La
donna gli
scoccò un'occhiata sussiegosa. «Fossi in te sarei
meno
impertinente, ragazzino. Quello era il sogno di una veggente piena di
talento, se permetti. Un cucciolo di drago tu lo hai allevato eccome.
Arthur Pendragon
ti dice nulla?»
«Certo.
Non
volevo essere impertinente questa volta, Cliodna! Artie era allergico
al pelo di gatto. Quindi non avrei potuto tenere entrambi. Ma un paio
di mutande avrei anche potuto prenderle in considerazione... c'erano
certi spifferi a Camelot...»
Alphard
rise. Il
famoso Merlino era piuttosto diverso da come se l'era immaginato. Molto
meno ascetico, indubbiamente. Ma più simpatico. E anche
Cliodna
sembrava notevole, non si sarebbe stupito più di tanto se
avesse
cominciato a sculacciare il grande Mago Merlino lì, davanti
a
tutti.
Sarebbe
anche stato
uno spettacolo interessante, a suo modo. Ma al momento Alphard aveva
altre ispirazioni. Ricevere qualche spiegazione su cose che gli
parevano incomprensibili, per esempio...
«Ma
come
è possibile che questa sia ancora al mio collo?»
chiese
stringendo tra le mani la Chiave danneggiata. «Prima io ero
nudo.
E ora non solo sono vestito - e non con gli abiti che indossavo al
momento della mia... morte - ma ho con me anche la Chiave del
Tempo».
Una
donna alta e
sottile, vestita con una tunica dello stesso colore di quella indossata
da Aldebaran, si avvicinò lentamente e spiegò:
«Prima non avevi ancora fatto la tua Scelta. Eri in bilico
tra
due Mondi. Ora hai scelto che strada seguire. Hai scelto che aspetto
avere, che abiti indossare... da quali persone farti accogliere. E per
quanto riguarda la Chiave... be' l'hai portata con te in questo tuo
viaggio».
Alphard
guardò la donna, stralunato. La riconobbe subito. L'aveva
già vista, sulle figurine delle Cioccorane: Cosetta
Corvonero in
persona.
«Ma
Morrigan...» taque, tentando di sbirciare oltre lo stretto
passaggio che gli aveva fatto attraversare Felpato.
«Anche
lei ha
fatto la sua Scelta» affermò Cosetta.
«Ha deciso di
non proseguire il suo viaggio, di cristallizzarsi nel momento della sua
morte; ha deciso di diventare un fantasma».
Alphard
si
guardò attorno, scorrendo tutti i visi delle persone che
più amava, sbirciando Felpato accucciato oltre la soglia.
«Lei
non ha avuto nessuno Psicopompo» disse amareggiato.
«Certo
che lo
ha avuto» spiegò con gentilezza la donna.
«Ognuno ha
il suo, mandato solo per lui e solo a lui visibile. Ma non tutti lo
seguono. Evidentemente lei aveva qualcosa di più importante
che
l'ha trattenuta di là».
Alphard
ci
pensò un istante. Il gufo! Era il famoso gufo che lui non
era
riuscito a scorgere lo Psicopompo di Morrigan. Sospirò e
annuì, mesto. «La Vendetta. Morrigan ha scelto la
Vendetta».
John
sbuffò.
«Che scelta stupida. E' una pessima consigliera, la Vendetta.
Se
non mi fossi intestardito a seguirla, quella Chiave non sarebbe
danneggiata».
Alphard
annuì, poi aggiunse preoccupato. «C'è
un'altra
Chiave ancora funzionante, di là. Una sola. Forse avrei
fatto
meglio a portare qui anche quella».
«No!»
tuonò una specie di gigante con barba e capelli biondi,
fissando
Alphard con penetranti occhi blu. «Aurelius non ti ha mentito
affermando che i creatori delle Chiavi sono contenti che tu abbia
riportate tra i maghi l'ultima Chiave. Perché è
lì
che deve stare. Sette Chiavi sono state create. Così ha
deciso
Kyros, assecondando il volere degli astri. E gli astri non sbagliano
mai».
«Per
il
cavallo di Caligola, Cormiac» sospirò un
giovanotto bruno,
avviluppato in un'elegante toga romana. «Ora non comincerai a
parlare come un centauro, vero? Ti manca solo questo...»
«Impertinente
come sempre, Aulo. Ma sono convinto che se quella Chiave esiste ancora
c'è un motivo ben preciso. Voluto dal Destino».
Aulo
inarcò
un sopracciglio, scettico. «Tu stesso mi hai ripetuto per una
vita - e parte di una morte – che il Destino si
può
cambiare».
«Appunto,
Aulo. Appunto. Quella Chiave deve restare dov'è proprio
perché il Destino si può cambiare!»
John
sospirò,
guardando mesto la Chiave non più funzionante.
«Spero solo
che colui che la userà sarà meno idiota di me. E
dia la
sua preferenza all'Amore piuttosto che all'Odio. Se lo avessi fatto io,
avrei potuto riavere i miei genitori».
«Ma
si può fare? Davvero si possono riportare in vita i
morti?» chiese Alphard guardando con rimpianto Erin.
«No,
nulla
può riportare in vita i morti» rispose Cormiac con
mestizia. «Ma, con una Chiave funzionante, si può
tornare
al tempo in cui ancora erano vivi e cambiare il loro Destino».
«Io
l'ho
fatto» affermò Aulo con una certa soddisfazione.
«Ho
cambiato il Destino di mio padre. Ma Cormiac non ci è
riuscito,
in effetti...»
Cormiac
scosse il
capo con amarezza. «Io ho esagerato, temo. Avevo cambiato il
Destino di troppi uomini... infrangendo l'Equilibrio che, evidentemente
si è ricostituito. Un conto è cambiare il Destino
di
un'anima o due... un altro è provocare un vero e proprio
massiccio esodo di anime».
Althea
scosse il
capo e batté le mani. «Va bene, discorso
interessante, ma
perché non parliamo di anime fuggitive dopo avere mostrato
ad
Alphard la sua nuova dimora?»
«Ah,
non è questa?» chiese il mago stupito.
«Ma
certo che
no! Questa è solo una specie di stazione di scambio,
Al!»
annunciò allegro zio Marius, dando una pacca affettuosa alla
spalla del nipote. «Noi siamo solo il Comitato di Benvenuto,
ma
molta altra gente aspetta di salutarti di là. Ora ti ci
portiamo, vedrai che ti piacerà... è molto
più
confortevole di qui. Sebbene questo essenziale e luminoso vuoto
assoluto abbia un suo fascino, eh...»
E
così
dicendo si incamminò deciso. Alphard non si mosse
però,
fissando ostinato lo stretto passaggio che aveva attraversato, ed Erin
gli accarezzò gentilmente una guancia. «Cosa
succede, Al?
Ci hai ripensato? Sei ancora in tempo se vuoi raggiungere
Morrigan...»
Alphard
la
guardò sorpreso. «No! Lei... sono solo dispiaciuto
che
abbia scelto la Vendetta, Erin... ma non ho nessuna intenzione di
cambiare la mia Scelta. Solo... Felpato non viene con noi?»
«Felpato
non
ha ancora finito il suo lavoro di Psicopompo, suppongo»
spiegò Aldebaran. «Sta evidentemente aspettando
qualcun
altro che attraverserà il Portale della Morte».
Alphard
lo
guardò stupito. Sapeva che quella stanza, in epoche remote -
prima che i Dissennatori accettassero di presidiare Azkaban
elargendo il loro temibile bacio come massima pena - veniva
probabilmente usata per le esecuzioni dei criminali, ma lui era il
primo ad avere attraversato il Portale da secoli, a quanto ne sapeva.
«Accadrà
a breve?» chiese curioso.
«Oh,
chi
può dirlo» rispose Aldebaran stringendosi nelle
spalle.
«Domani, tra un anno o tra un secolo... non fa differenza per
noi. Qui il Tempo non ha molta importanza».
Alphard
annuì. E, cingendo le spalle di Erin con un braccio, si
incamminò verso la Destinazione Finale.
La
sua Nuova
Avventura era cominciata e sembrava promettente. Ora doveva solo
scovare un luogo confortevole per sedersi, a tempo debito, con Silente
e continuare il loro interessante discorso sull'Amore e sulla Morte.
Questa
volta il
vantaggio sarebbe stato di Alphard. Sarebbe stato lui l'Anziano... ma
dubitava che Silente si sarebbe sentito un ragazzino inesperto.
In
fondo,
pensò inalando il dolce profumo di lavanda di Erin, il suo
vecchio professore di Trasfigurazione sapeva già tutto
quello
che bisognava sapere sull'argomento: la Morte non era affatto la fine
di tutto e l'Amore era indubbiamente la forza più potente
dell'Universo. Più potente della Paura. Più
potente
dell'Incomprensione e del Tradimento... più potente
dell'Odio.
Più potente persino della Morte.
Carassius Auratus Auratus*=
nome scientifico del
pesce rosso.
Psicopompo**=
Come ci ha amabilmente spiegato Aldebaran, prima di venire bruscamente
interrotto da Althea, questo parola, derivante dal greco, significa
letteralmente "colui che conduce le anime" e, nella mitologia, indicava
proprio uno Spirito Guida che traghettava le Anime dal mondo dei Vivi
in quello dei Morti.
Ed ecco la seconda parte dell'ottava tappa del nosto Viaggio.
Una parte un po' strana, lo so.
Un po' "fantasy" se vogliamo...
Ma proprio non ho potuto fare a meno di scriverla così!
Alphard ci doveva lasciare, purtroppo. Lo ha deciso la Rowling (e un
altro personaggio che adoro va ad aggiungersi alla sempre
più
folta schiera dei personaggi della Saga con il deprecabile vizio di
lasciarci anzitempo) ma, siccome in questo periodo mi son molto
affezionata a lui, non ho potuto lasciarlo andare così... ho
dovuto
descrivere l'inizio della sua Nuova Avventura.
Una Nuova Avventura felice, eh... con Felpato, Erin, zio Marius,
Althea, Aldebaran... e tutta l'allegra Ciurma dei Custodi delle Chiavi
del Tempo che lo hanno preceduto!
Spero possiate accettare questa piccola deriva "fantasy"... e spero
possiate accettare anche il tono "irriverente" con cui viene trattato
Voldemort con il suo seguito di pipistrel... ehm... di baldi
Mangiamorte
nella prima parte del capitolo. Sono pensieri di Alphard, per lo
più... questo giustifica l'irriverenza. ;)
Un ultimo accenno per il giovane Piton... l'episodio è
collocato
nelle vacanze estive tra il suo sesto e settimo anno di Hogwarts, non
credo si sappia quando Piton è entrato al servizio di
Voldemort,
ma credo sia plausibile che all'epoca dei fatti narrati in questo
capitolo lo fosse già, tutto sommato. E mi piaceva troppo
l'idea di
mostrare le due faccie della medaglia: i Malandrini da una parte e
Piton dall'altra. E poi, povero Voldemort, vogliamo concedergli una
nuova leva dotata di un (bel) po' di cervello? Che diamine... ;)
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Capitolo 10 *** Il licantropo, la strega e l'armadio ***
Capitolo Ottavo
Il
licantropo, la strega e l'armadio
Casa
Tonks, 5 luglio 1997 A.D.
Uno
Schiopodo stizzito.
Quando
Ninfadora si arrabbiava aveva il potenziale distruttivo di uno
Schiopodo stizzito.
Remus lo
sospettava da tempo, per la verità, ma ora la cosa si era
palesata in tutta la sua devastante concretezza.
Forse
perché anche Andromeda, quando si arrabbiava, aveva il
potenziale distruttivo di uno Schiopodo stizzito...
Sospirando,
l'uomo
osservò mesto i due delicati tavolini travolti dalla vivace
reazione di Ninfadora e, sfoderando la bacchetta magica, si accinse a
sistemare il vaso di una povera aspidistra, incolpevole vittima
dell'altrettanto vivace reazione di Andromeda.
Ted Tonks si alzò dal divano - dal quale aveva assistito
impassibile allo scambio di battute tra le congiunte - e si
guardò
attorno un po' accigliato.
«Lascia» disse, impugnando
la bacchetta magica e lanciando un impeccabile Incantesimo
Reparo verso una panciuta lampada
che, privata del suo fragile cappello di vetro colorato, oscillava
silenziosa in un angolo mostrando, impudica, la nuda lampadina.
«Ci penso io. Non ci crederai... ma ci sono
abituato»
concluse, abbozzando un sorriso rassegnato.
«No,
ti do
volentieri una mano» ribatté Remus, mentre il
padre di
Tonks fissava i cocci di quello che, fino a pochi istanti
prima, era stato un non particolarmente sobrio portaombrelli di
ceramica bianca. «In fondo tutto questo è colpa
mia».
Ted
guardò
meditabondo il mago più giovane poi, scuotendo le spalle,
lasciò perdere il portaombrelli e dedicò la sua
attenzione a un piccolo, grazioso armadio di legno finemente
intarsiato, le cui ante di cristallo erano state infrante dallo scontro
con il non particolarmente sobrio portaombrelli.
Remus decise
di rendersi
utile aggiustando un'eterea brocca di vetro soffiato che non aveva
avuto miglior sorte delle ante dell'armadio.
Lo faceva
davvero volentieri.
La
ricomposizione delle
povere vittime del cataclisma lo distraeva dalle voci alterate che i
pur notevoli muri e la massiccia porta - limitatasi ad emettere un
dignitoso gemito di protesta quando la padrona di casa se la era chiusa
alle spalle con indiscutibile energia - non riuscivano a
contenere del tutto.
E, cosa non
meno
importante, gli forniva una scusa perfetta per evitare di intavolare
con Ted Tonks una chiacchierata che definire spinosa sarebbe stato un
eufemismo.
Oh, gli
stava simpatico
Ted Tonks. Davvero. Da ragazzino lo aveva incontrato diverse volte, e
non aveva avuto problemi ad intavolare piacevoli chiacchierate con lui.
Anzi...
Ma ora le
cose erano un
tantino diverse, purtroppo. E una piacevole chiacchierata con Ted Tonks
era una pia illusione, al momento.
Remus, in
tutta
onestà, poteva anche capirlo: quale padre sarebbe stato
entusiasta di intavolare una piacevole chiacchierata con il vecchio
licantropo spiantato che ne insidiava l'adorata bambina?
Non gli era
sembrata
un'idea così brillante, infatti, la doppia rivelazione che
Tonks, al momento del dessert di una cena che si poteva definire di
lavoro, aveva fatto su di lui.
Fino ad
allora tutto era
stato perfetto: Andromeda e Ted erano dispostissimi a mettere a
disposizione la loro casa per ospitare la Passaporta che avrebbe
riportato Harry alla Tana. Stavano giusto pianificando i particolari e
la tempistica dell'azione, quando Tonks aveva avuto la bella pensata di
spiegare che la data del recupero di Harry non era
ancora
stata stabilita ma che, di sicuro, non sarebbe stata la notte del
plenilunio, per via della licantropia di Remus. Andromeda e Ted erano
rimasti un po' scossi, ma avevano reagito meglio di molti altri, Remus
doveva ammetterlo. Certo, non avevano mostrato l'inquietante entusiasmo
che aveva caratterizzato le reazioni di Sirius e di Ninfadora alla
medesima informazione, ma questo a Remus non era dispiaciuto.
Tutt'altro. I coniugi Tonks avevano avuto una reazione sensata, e Remus
amava le reazioni sensate. Il problema era arrivato con la seconda
rivelazione ad effetto fatta da Ninfadora. Quella sì che
aveva
steso, comprensibilmente a parere di Remus, Andromeda e Ted.
Come era
venuto in mente
a Ninfadora di definirlo il suo ragazzo? Ragazzo?
Già quel
termine avrebbe fatto andare di traverso la cena a chiunque, se
applicato a un trentasettenne precocemente brizzolato. Il modo in cui
Andromeda lo aveva guardato lo aveva fatto sentire un vecchio satiro
libidinoso. Abbastanza appropriato, volendo. Solo la creatura coinvolta
era sbagliata...
Remus non
poteva
biasimare la donna, tutto sommato, ma questo non rendeva minore il suo
imbarazzo e il suo cocente desiderio di trasfigurarsi seduta stante
in... un'aspidistra, magari. Erano carine le aspidistre. E nessuno
guardava con disprezzo - o con orrore - un'aspidistra, che lui
sapesse...
«Uhm...
te la cavi
bene con l'Incantesimo Reparo» notò Ted con una
certa
ammirata sorpresa. «Non è facile riparare una
brocca di
vetro di Murano senza lasciare segno».
Remus si
riscosse,
posando con delicatezza la brocca riparata nell'armadio e si strinse
nelle spalle. «Ci sono sempre stato abbastanza portato. Per
mia
fortuna... è utile per un... per uno come me».
Ted
socchiuse gli occhi e si chinò per raccogliere un'antica
pergamena, guardandosi poi in giro un po' confuso.
«Manca
qualcosa
all'appello?» chiese Remus, riparando con un colpo di
bacchetta
ben assestato il portaombrelli di ceramica.
Ted
osservò
corrucciato il portaombrelli, poi portò la sua attenzione su
Remus e annuì. «Sì, il vecchio
medaglione che zio
Alphard ha regalato ad Andromeda il giorno del nostro matrimonio. Un
oggetto... singolare, a mio parere. Andromeda non lo ha mai indossato,
che io ricordi, ma ci tiene molto... forse perché
è stato
l'unico segno di accettazione da parte della sua famiglia»
concluse, osservando Remus con una strana espressione.
Remus, un
po' imbarazzato
da quello sguardo, affondò le mani nelle tasche e
dondolò
leggermente sui talloni, desiderando sempre più ardentemente
di
sapersi Trasfigurare in un'aspidistra: avrebbe davvero dovuto prestare
più attenzione alle lezioni di Minerva
sull'Autotrasfigurazione,
invece di perdere tempo con le Rune Antiche...
Quando
sentì un
insolito scricchiolio provenire da sotto la scarpa destra si
accovacciò un po' preoccupato a controllare: a volte si
sentiva
praticamente coetaneo di Flamel... ma ancora le sue articolazioni non
scricchiolavano in quel modo allarmante, di solito.
Infatti,
notò
rinfrancato, lo scricchiolio era dovuto a una lunga catenella dorata
che si era insinuata sotto la sua scarpa. Remus la raccolse e sorrise
vittorioso.
«Sai,
Ted, credo di
avere ritrovato l'ultimo disperso» disse, rimirando
sorpreso l'oggetto dorato a cui era attaccata la catenella: un
grosso medaglione che, per forma e dimensione, ricordava vagamente un
antiquato orologio da taschino; una minuscola fenice di un vivace color
corallo ne occupava il centro, sorgendo maestosa da vivide fiamme
d'argento, mentre un serpente scuro si snodava, sinuoso, lungo il
bordo, formando un perfetto Uroborus.
Gli era
familiare quel gingillo.
Lo aveva
ammirato
innumerevoli volte, accuratamente riprodotto su una delle pagine un po'
sgualcite del diario di Althea Black, piacevolmente sorpreso di
apprendere che quella che riteneva una leggenda era invece stata una
realtà. Del resto, Remus sapeva che spesso le
realtà
venivano mascherate da leggende per spiegarle - o per nasconderle
- a coloro che non potevano comprenderle.
Per i suoi
nonni Babbani anche i maghi erano una leggenda. E persino i
licantropi...
Con mani un
po' malferme, Remus provò ad aprire il medaglione, sgranando
gli occhi estasiato quando non ci riuscì.
«No,
non si
apre» lo avvisò Ted. «Non solo
è di un gusto
singolare, ma è anche rotto. Pensa che neppure Dora ha mai
voluto indossarlo».
Remus
sorrise
dell'opinione che Ted sembrava avere del gusto della figlia. Poteva
anche condividerla. Non che si lamentasse, ma bisognava ammettere che
il completino intimo disseminato di draghi - Petardi Cinesi, per la
precisione - che si era regalata qualche giorno prima era molto
originale, anche se non quanto le mutande con Manticora ringhiante,
piazzata in zona tanto strategica quanto delicata, che aveva regalato a
lui. Non si
vergognava di ammettere che tutto il suo coraggio
Grifondoro non era bastato a convincerlo ad indossarle. Aveva sempre
sospettato che tale coraggio fosse parecchio sovrastimato, in effetti.
«Alphard
ne portava
uno simile, sai? Meno appariscente però... non aveva
animaletti
sgargianti disegnati sopra, se ricordo bene... quando diede quello ad
Andromeda lo accompagnò con questa» disse Ted,
sventolando
la pergamena che aveva appena raccolto. «Un regalo di nozze
indubbiamente stravagante. Ma, del resto, zio Alphard era un uomo
stravagante, non mi stupisce che anche i suoi doni lo
fossero».
Oh,
sì. Alphard
Black era sicuramente un uomo stravagante - Remus ricordava ancora il
suo idealistico discorso sull'Eleganza del Lupo - ma di certo era
conscio che quel dono di nozze non era affatto un vecchio medaglione
rotto: era una delle due Chiavi del Tempo ancora esistenti all'epoca di
Althea. Quella funzionante. E Alphard lo sapeva. Remus non aveva dubbi
in proposito. O non gli avrebbe donato quel vecchio diario. I doni di
zio Alphard erano molto ragionati. Sapeva perfettamente cosa donare e a
chi.
Un po'
trasognato, Remus prese la pergamena e cominciò a scorrere
rapidamente i segni runici che la ricoprivano.
No, tutto
sommato aveva fatto bene a dedicarsi a Rune Antiche.
Certo,
sarebbe stato
consolatorio potersi Trasfigurare in un'aspidistra, di tanto in
tanto... ma potere leggere quella pergamena era di sicuro molto
più istruttivo.
L'Incantesimo
per azionare la Chiave del Tempo! Quante possibilità gli si
spalancavano davanti!
Avrebbe
potuto tentare di
salvare James; o Sirius; o i suoi genitori... o Silente. Sì,
quanto gli sarebbe piaciuto mettere le mani su quel traditore di Piton!
Immerso nei
suoi
pensieri, Remus trasalì leggermente quando Ted gli prese il
medaglione dalle mani e, con un sorriso di sollevata gratitudine, lo
ripose nella vetrinetta. «Andromeda si sarebbe arrabbiata
molto
se il medaglione di zio Alphard fosse andato perso. E non è
uno
spettacolo edificante Andromeda, quando si arrabbia. Dev'essere il suo
retaggio Black... oh, non che mi stia lamentando, sia chiaro. Mi piace
così com'è la mia Andromeda, la risposerei
immediatamente, che diamine, un po' di fuoco ci vuole in una
donna».
Remus
annuì,
guardando la porta serrata della cucina - l'accesa discussione delle
due donne non accennava a placarsi - non poteva dare torto a Ted: un
po' di fuoco in una donna piaceva anche a lui.
«Magari
questa
volta vinceremo» esclamò Ted, lasciandosi cadere
sul
divano e afferrando un giornale che stava appoggiato a uno dei delicati
tavolini appena risanati.
Remus lo
guardò
pensieroso, riponendo la pergamena nell'armadio e, dopo avere chiuso
con delicatezza le antine di cristallo, si avvicinò incerto
al
divano.
«Be',
ci proveremo
con tutte le nostre forze» proclamò, cercando di
ignorare
il soffocante senso di disperazione che lo aveva assalito dal momento
in cui Silente era stato ucciso. Si era sentito perso in quel
terrificante momento, smarrito. Sbattuto in prima linea, privato della
calda, rassicurante presenza del suo comandante, del suo mentore. Si
era sentito come quando aveva sei anni e, in una limpida notte di
plenilunio, il suo mondo era crollato. Solo Ninfadora riusciva a fargli
guardare con speranza al futuro. Quando era con lei, la conquista di un
mondo migliore gli sembrava davvero possibile... ma, forse, non era il
caso di rendere edotto Ted Tonks sui metodi usati dalla sua bambina per
riappacificarlo con il mondo.
«Harry
è la
nostra speranza» affermò quindi con decisione. Ed
era
vero. Remus lo sapeva e non solo perché glielo aveva detto
Silente.
Ted lo
osservò
incuriosito prima di aprire il giornale e di fermarsi interessato su
una pagina. «Harry? Un nuovo acquisto? Ma sono sicuro che non
potrà certo tenere testa a Berkamp» disse
convinto.
«Me lo sento. Questo è l'anno di quel
ragazzo!»
Remus lo
scrutò un
po' sconcertato. Anche Ninfadora lo sconcertava, a volte. Probabilmente
era una caratteristica di famiglia.
«E'
un mago di tua
conoscenza questo Berkamp, Ted? Non mi pare di averlo conosciuto,
ancora. Ma se vuole appoggiare l'Ordine della Fenice è
sicuramente il benvenuto».
«L'Ordine...»
Ted abbassò lo sguardo, un po' imbarazzato. «No.
Ecco, io
stavo parlando di...» abbozzò un sorrisetto
contrito e
concluse in un sussurro: «Calcio. Ma probabilmente tu non
saprai
neppure cos'è il calcio».
Remus scosse
il capo,
divertito da quell'uomo biondo e un po' panciuto che, al momento,
somigliava tanto a uno scolaretto sorpreso dalla McGranitt in persona
mentre tentava di incantare un disegno di Madama Rosmerta in tenuta
succinta. «Oh, io so qualcosa sul calcio, invece. Mio padre
era
un Nato Babbano, Ted. Quando è andato a Hogwarts gli altri
ragazzini hanno tentato di convertirlo al Quidditch, naturalmente. E
lui si è appassionato velocemente al nuovo sport, diventando
un
tifoso dei Cannoni di Chudley».
Ted fece una
smorfia. «Uh...»
Remus rise:
«Già. Ma il calcio è rimasto la sua
grande
passione. Passione che ha condiviso con me» sorrise al
ricordo e,
distratto, si sedette accanto a Ted, sbirciando il giornale che questi
teneva aperto. «Uno dei miei ricordi d'infanzia
più
piacevoli riguarda proprio il calcio, sai? Era il 30 di luglio del 1966
- un periodo... complicato,
per la mia famiglia - e, allo stadio di
Wembley, l'Inghilterra vinse i Mondiali di Calcio. Contro la Germania,
4 a...»
«4
a 2!»
concluse Ted, con entusiasmo. «Che partita! Che serata! Chi
non
se la ricorda... ma tu dovevi essere molto piccolo».
«Avevo
sei anni. Ed
è curioso che, sia il ricordo più dolce della mia
infanzia che quello più amaro, risalgano proprio a
quell'anno».
«Quello
più amaro?»
Remus scosse
il capo e
abbozzò un sorriso triste. «Non è
importante,
adesso. Era una bella serata d'estate, quella della finale. Mancavano
un paio di giorni alla luna piena e mio padre sorrideva felice. Erano
mesi che non sorrideva felice. Soprattutto se il plenilunio era
vicino... forse è per questo che il calcio mi piace quanto
il
Quidditch».
Ted lo
fissò intensamente. «Il plenilunio? Il ricordo
più amaro della tua infanzia? Eri
già...»
«Sì»
rispose secco Remus. Gli occhi di Ted si stavano velando di compassione
- succedeva, a volte, quando parlava di quell'argomento con
persone particolarmente sensibili - e Remus non sapeva gestirla la
compassione. Lo metteva in imbarazzo... tutto sommato preferiva il
disprezzo. «Così sei convinto che Berkamp
sarà
fondamentale per la vittoria del campionato?» chiese quindi a
bruciapelo, prima che l'altro uomo potesse approfondire l'argomento.
«Assolutamente
sì! Quest'anno il Manchester ci ha fregato... ma il prossimo
campionato sarà sicuramente dell'Arsenal!»
affermò
Ted con assoluta sicurezza, poi squadrò Remus con sospetto.
«Di' un po'... non sarai mica un tifoso del Tottenham,
tu!».
Remus si
affrettò
a negare - Ted non aveva reagito con tanto sdegno neppure quando
Ninfadora lo aveva informato che quel vecchio, spiantato licantropo era
il suo ragazzo - e precisò: «No! Assolutamente no.
Papà mi avrebbe disconosciuto in un caso simile! Tifo
Arsenal
come te. E come lui».
Ted sorrise
compiaciuto.
«Tuo padre ha dimostrato molto buon senso, nonché
un
innegabile gusto, nella scelta della squadra del cuore».
«Per
quella di
calcio sicuramente. Per quella di Quidditch, insomma... ma è
stata una scelta obbligata. C'è un motivo ben preciso che lo
ha
spinto a scegliere quella particolare squadra...»
Ted gemette
ed esalò: «Il cannone, suppongo... un simbolo che
avvicina i Cannoni e l'Arsenal».
Remus
annuì divertito. «Non mi dire che anche
tu...»
Ted
sospirò
affranto. «Eh...» poi si ricompose e, preso un
profondo
respiro intonò: «And with a cannon on our chest
We
play with heart, mind and zest
And
we are proud to be Arsenal
In Victory through Harmony».
*
Remus rise:
Ted Tonks era
sicuramente il padre di Ninfadora. Cantava con il medesimo,
irresistibile entusiasmo. E con la stessa scarsa intonazione, anche...
«Hai
detto bene.
Una scelta assolutamente obbligata! Purtroppo non vedo una possibile,
prossima vittoria per i Cannoni» affermò Ted mesto
quando
finì la canzoncina, poi, assestando una manata sulla spalla
di
Remus, esclamò allegro: «Ma quest'anno l'Arsenal
mi
darà grandi soddisfazioni. Vedrai se non vinceremo. E, alla
fine
del campionato, festeggeremo assieme, tu ed io! Davanti a una bella
birra di quelle serie... di quelle senza burro, per
intenderci!»
Remus
annuì, ma chiese titubante: «Pensavo di non
piacerti... insomma...»
«Oh,
non è che tu non mi piaccia in generale... diciamo che non
sei esattamente il genero ideale».
«Genero?
Ma io non ho...»
«No,
non ancora. Ma
ci stai pensando. Oh, non negare! Ho visto come la guardi. E poi, sono
sicuro che Dora sia più che decisa ad agire in tal senso.
Sì. Ho visto anche come lei guarda te».
Remus tacque
e Ted
proseguì: «E' identica a sua madre in questo. E io
non
commetterò di certo l'errore che commise il padre di
Andromeda.
Tra l'altro non sei neppure il candidato peggiore che ci ha presentato.
Anzi... l'ultimo che abbiamo conosciuto aveva una meravigliosa cresta
appuntita di un affascinante verde acido, un anello al naso e
più che parlare grugniva... ma con grande
espressività,
eh. Suppongo che i tuoi grugniti non siano particolarmente
espressivi».
Remus scosse
il capo, avvilito. «No, io... non sono molto bravo con i
grugniti, mi dispiace».
«Va
bé,
sopravviveremo. Seriamente, Remus, non ho nessuna intenzione di perdere
la mia bambina... e se questo significa accettare te, lo
farò di
buon grado. Poteva andare peggio, dopo tutto».
«Già.
Potevo avere anche
una cresta verde acido e un anello al naso».
«Più
che altro potevi essere anche
un tifoso del Tottenham...»
«E'
inutile, mamma!»
La porta
della cucina si
spalancò all'improvviso e Ninfadora l'attraversò
come una
furia, travolgendo la povera aspidistra.
Remus
sussultò,
osservando affascinato il rosso brillante che caratterizzava i capelli
della ragazza: avevano la stessa tonalità della fenice
dipinta
sulla Chiave del Tempo.
Ted, con un
gesto furtivo di bacchetta, sistemò il vaso della pianta.
«Sono
robuste le
aspidistre» sussurrò divertito. «Le
uniche piante
che sopravvivono in questa casa. O loro o quelle di plastica».
Remus
annuì
distratto, osservando un po' intimorito Andromeda che stava varcando la
soglia. Sfoggiava la sua solita chioma di un morbido, rassicurante
castano, ma non era meno inquietante della figlia. Doveva essere la
luce un po' folle che le illuminava lo sguardo, decise Remus, la stessa
luce che illuminava, a volte, quello di Sirius...
«Inutile?
Oh, no,
non credo proprio!» esclamò Andromeda evitando per
un
soffio uno dei due delicati tavolini per raggiungere la figlia, giunta
ormai in prossimità del divano su cui ancora sedeva -
ostentando un'invidiabile, olimpica serenità - Ted.
«Be',
faresti
meglio a crederlo, invece!» assicurò Ninfadora.
«Perché questa volta non riuscirai a farmi
cambiare idea!
Sei riuscita a farmi rinunciare a Manfred! Ma non riuscirai a farmi
rinunciare a Remus!»
Remus
gemette, cercando
istintivamente la bacchetta quando Andromeda lo fulminò con
un'occhiata assassina e desiderando più che mai di potersi
Trasfigurare in una resistente aspidistra...
«Manfred?»
sussurrò poi avvertendo un improvviso attacco di quella che
sembrava proprio gelosia. Le aspidistre avevano anche il vantaggio di
non soffrire di tali odiosi sentimenti. «Il ragazzo con la
cresta
verde acida?»
«No»
rispose
Ted a voce bassissima. «La Manticora di peluches che
Ninafadora
aveva da piccola. Era ridotta malissimo, faceva anche un po' senso...
ma non è stato facile fargliela abbandonare».
«Ah.
Una Manticora?».
«Insolito,
lo so.
Fu un regalo di zio Alphard, nemmeno a parlarne. Tutte le altre bambine
impazzivano per creature graziose come gli Unicorni... ma Dora,
no».
«Sì,
ricordo. A Ninfadora sono sempre piaciuti i mostri».
«Già.
Aveva
una predilezione per gli Avvincini, a dire il vero... ma pare che
peluches di Avvincini non ne esistessero... così si
accontentò di Manfred la Manticora».
«Pare
che le
piacciano anche ora, i mostri» mormorò Remus,
sistemando
con un colpo di bacchetta il vaso di cristallo appena urtato da
Ninfadora.
Ted gli
scoccò
un'occhiata pensosa, poi si strinse nelle spalle e affermò
orgoglioso: «Pare, sì. Ma solo certi tipi di
mostri.
Quelli meno mostruosi. Infatti non ha mai neppure preso in
considerazione un tifoso del Tottenham».
«Oh,
no! Ferma lì, signorina!» tuonò
Andromeda. «Non abbiamo ancora finito».
«Questo
lo dici tu.
Io ho finito eccome. Ti ho detto proprio tutto quello che ti dovevo
dire e ora me ne vado. Con Remus».
Andromeda le
si piazzò minacciosa davanti, le mani sui fianchi.
«Se uscirai da quella porta...»
«Cosa?
Se
uscirò da quella porta cosa, mamma? Mi rinnegherei?
Estirperai
il mio nome dall'Albero Genealogico per impedirmi di
rovinarlo?»
Andromeda
vacillò
leggermente, come se la figlia l'avesse schiaffeggiata, quindi disse,
in un tono diverso, sconfitto: «Ninfadora...»
«Ecco,
appunto!
Avresti dovuto pensarci prima a preservare la dignità
dell'Albero Genealogico! Mi basta un nome tanto assurdo per
rovinarlo!»
Così
dicendo,
Ninfadora afferrò una mano di Remus, baciò
fugacemente
una guancia al padre e uscì con decisione dalla casa.
Travolgendo il portaombrelli non particolarmente sobrio - che, cadendo,
finì in mille pezzi - e inciampando nell'antico tappeto
persiano.
Remus la
sostenne con
sicurezza e, ricorrendo a un impeccabile Incantesimo Reparo,
sistemò il sinistrato manufatto lanciando poi un sorrisetto
timido a Ted che, per motivi a lui incomprensibili, guardava accigliato
e triste il portaombrelli riparato.
Prima che
potesse
sincerarsi di non avere fatto danni nella ristrutturazione,
però, Remus venne trascinato bruscamente via da Ninfadora.
*****
Ted
osservò mesto
il portaombrelli di ceramica decorato da una profusione - francamente
eccessiva, a suo parere – di grassocci puttini boccoluti e di
opulente ghirlande di frutta.
Ted aveva
sempre
detestato quel non propriamente sobrio manufatto. Pensava che il posto
più adatto per ospitarlo fosse la cantina, ma ad Andromeda
sembrava piacere... quindi era stato sistemato in soggiorno in modo che
tutti potessero ammirarlo.
Ted aveva
tentato in
tutti i modi di piazzarlo in postazioni strategiche - vale a dire
lungo traiettorie spesso percorse dalla sua distratta bambina - e
infatti era stato infranto più volte. Ma mai in modo
sufficientemente grave da non poter essere ricomposto con un Reparo ben
diretto, purtroppo...
Ma quel
giorno ci era
andato vicino. Per ben due volte. E per ben due volte Remus Lupin aveva
pensato bene di risistemarlo, per Merlino!
Tra tutti i
difetti che
Andromeda gli aveva immediatamente trovato - Ted non sapeva
ancora quali fossero, a dire il vero, ma non dubitava che la moglie ne
avesse già scovati almeno una dozzina e che presto li
avrebbe
minuziosamente illustrati anche a lui - non ci poteva anche essere un
assoluto impedimento per l'Incantesimo Reparo?
Sospirando
avvilito, il mago distolse l'attenzione dal portaombrelli risanato e la
portò sulla moglie.
Aveva un
paio di cosette da discutere con lei.
Se Alphard,
anni prima,
non si fosse imbattuto in un Lethifold affamato, Ted si sarebbe
limitato a chiamarlo. Non aveva dubbi che zio Al avrebbe saputo
ricondurre alla ragione Andromeda Black ma, non potendo richiamarlo
dall'Aldilà, l'ingrato compito sarebbe toccato a lui.
Dopo aver
preso un
profondo respiro ed essersi preparato alla complicata missione
diplomatica che lo attendeva, Ted si alzò dal divano e si
avvicinò alla moglie che se ne stava ancora immobile in
mezzo
alla stanza, scrutando con espressione indecifrabile la porta da cui
erano appena usciti Dora e Lupin.
«Dromeda»
mormorò con gentilezza.
La donna si
riscosse e lo
osservò, in attesa. Ted sapeva per esperienza quello che la
figlia non aveva ancora capito: l'unico modo per discutere
ragionevolmente con Andromeda era quello di mantenere un tono pacato.
Se cominciavi ad alzare la voce, potevi dire addio a ogni speranza di
farle comprendere i tuoi punti di vista.
«Se
n'è andata davvero!» disse la donna, incredula.
«Sì,
se n'è andata davvero. Ne dubitavi, forse?»
«Non
lo aveva mai fatto! Neppure quando le ho intimato di separarsi da
Manfred!»
Ted
trattenne un sorriso
assolutamente fuori luogo e spiegò con calma: «Non
è esattamente la stessa cosa, direi. Oh, non metto in dubbio
che
Dora fosse affezionata a Manfred... ma sono propenso a credere che
quello che la lega a Remus sia di natura un tantino diversa».
«E'...
è un Lupo Mannaro, Ted! E' un ibrido! Un mostro!»
«Evidentemente
per nostra figlia è solo un uomo. L'uomo che ama».
Andromeda lo
guardò incredula. «Ma non può amarlo
davvero! Non
è... non permetterò a mia figlia di rovinarsi la
vita per
un... un...»
«Un
Abominio? Un
essere inferiore? Non vorrei allarmarti, tesoro, ma ti sei resa conto
che stai parlando come tuo padre?»
Andromeda
sussultò. «Non... la situazione è
completamente
diversa, Ted! Tu eri solo nato in una famiglia che mio padre riteneva
sbagliata! Lui...»
«Lui?»
«Lui
è un mostro! La sua semplice vicinanza potrebbe essere
devastante per Ninfadora!»
«Mmm,
tuo padre
pensava la stessa cosa della mia
vicinanza. Andromeda, a te piaceva
Remus da ragazzino. E lui era già un licantropo all'epoca.
Da
alcune cose che ha detto, credo che lo sia da quando aveva sei
anni».
Andromeda lo
guardò allibita. Ted, sicuro di avere scorto un lampo di
pena
attraversarle lo sguardo, continuò con maggiore
serenità
d'animo: «Non mi pare abbia mai sbranato nessuno. Non vedo
perché dovrebbe cominciare proprio da Dora. Che, permettimi
di
ricordarti, è un Auror, quindi perfettamente addestrata a
fronteggiare ogni genere di situazione».
«Ma
lo stare con lui le metterà tutta la società
contro!»
«Tutta
la
società, dici? Non mi pare che i Weasley, o gli altri membri
dell'Ordine, abbiano qualcosa da ridire».
«Tutta
la società... che conta».
«Oh,
ecco. La società
che conta... era il medesimo timore che tuo padre aveva
quando gli hai presentato me».
«Ma
è diverso! Tu... lui...»
Ted
inarcò un
sopracciglio osservando interessato la moglie. Era davvero curioso di
sapere come avrebbe concluso la frase.
Ma la donna
non la concluse. Si limitò a sbuffare e ad abbassare la
testa.
Un po'
dispiaciuto, Ted
le scostò i capelli dal viso e disse con dolcezza:
«Dora
sta facendo esattamente quello che hai fatto tu, tesoro: sta
combattendo per potere stare con l'uomo che ama. Non imporle di
scegliere tra noi e lui. Non farlo, perché sai quale sarebbe
la
sua scelta, vero?»
Andromeda
annuì mesta. «Parli come zio Al, sai?»
«Ci
speravo. Avrebbe dovuto essere lui a farti questo discorsetto, infatti.
Ricordi che te lo aveva promesso?»
La donna
sospirò
avvilita. «Ricordo che aveva detto che se mai mi fossi
comportata
come mio padre ci avrebbe pensato lui a farmi rinsavire»
sollevò lo sguardo, fissando il marito, sconvolta.
«E lo
stavo facendo, vero? Mi stavo comportando come mio padre».
«Ti
stavi
comportando in modo abbastanza simile, sì...»
convenne Ted
con cautela. «Così, ho dovuto pensarci io a farti
rinsavire. Ma pare abbia funzionato ugualmente. Sei rinsavita,
vero?»
«Sì.
Quindi secondo te dovremmo accettare il Mannaro...»
«Remus. Dovremmo
accettare Remus,
Dromeda. Per non perdere anche Dora. Mi sembra un
sacrificio ragionevole. Ovviamente, se il ragazzo...»
«Ragazzo?»
«Be',
ha una decina
di anni meno di me, eh... e, visto che io sono nel fiore degli anni,
lui non può che definirsi un ragazzo».
Andromeda
sorrise
divertita, e Ted si sentì al settimo cielo: era la cosa che
preferiva, riuscire a fare sorridere Andromeda.
«Giusto.
Ma dicevi?»
«Oh,
sì,
dicevo: ovviamente, se il ragazzo oserà fare del male alla
nostra bambina andrò da lui e lo Trasfigurerò
in...
un'aspidistra, lasciandolo poi in balia di Dora!»
Andromeda lo
abbracciò ridendo. «Sì, ti ci vedo
proprio».
Ted
ricambiò l'abbraccio e chiese: «Mi sembri un po'
scettica. Vuoi insinuare che non ne sarei capace?»
Andromeda si
scostò leggermente e, scrutando il marito negli occhi,
spiegò divertita: «Ti conosco, Ted ma potrei anche
concederti il beneficio del dubbio se non ti avessi visto mentre,
invece che scagliare lontano gli gnomi che infestano il giardino,
tentavi di convincerli a trasferirsi altrove».
«Ah...»
l'uomo abbassò lo sguardo, un po' imbarazzato.
«Ma
non ti
preoccupare. In caso ci andrei io da lui a Trasfigurarlo. Ma non in
un'aspidistra, no, sono resistenti le aspidistre. Lo
Trasfigurerei in un delicato portaombrelli di ceramica, per
lasciarlo poi in balia di Ninfadora».
Ted rise,
accarezzando
con tenerezza i capelli della moglie, quindi aggiunse: «A
proposito di portaombrelli... Remus ha il requisito fondamentale per
essere un buon compagno per Dora. Sa eseguire un Incantesimo Reparo
praticamente perfetto!»
Andromeda
annuì, quindi chiese: «Ma tu credi facciano
davvero sul serio?»
«Sì,
oh sì. Dora lo guarda come tu guardi me».
«Già...
e
lui ha per lei lo stesso sguardo ebete - per dirla con Sirius - che tu
sfoggi solo quando guardi me».
«Io
non ho mai uno sguardo ebete!»
«Uhmf...
saresti più credibile se non lo avessi anche adesso, mentre
affermi di non averlo, sai?»
«Va
be', lasciamo
perdere... comunque penso che, visti i peculiari gusti di Dora, ci
sarebbe anche potuta andare peggio».
Andromeda
squadrò
il marito con aria scettica. «Peggio di un Lupo Mannaro? E
come?
Pensi che avrebbe potuto innamorarsi di un Dissennatore?»
«No.
Di un tifoso del Tottenham...»
Casa
Lupin, 7 luglio 1997 A.D.
Remus
inspirò
l'aria profumata di pino e di salmastro, tentando di scacciare il
fastidioso senso di panico che minacciava seriamente di sopraffarlo.
Erano anni
che non si
sentiva così nervoso. Probabilmente dalla volta in cui
Sirius,
James e Peter lo avevano circondato comunicandogli che avevano fatto
un'interessante scoperta su di lui. Aveva da poco compiuto dodici anni,
all'epoca, e avrebbe tanto voluto sapersi Trasfigurare in
un'aspidistra...
Sbirciando
impaziente
l'orologio che portava al polso, entrò nella piccola radura
che
usava per Materializzarsi - non era saggio, in quel periodo, non
dotare le abitazioni di Incantesimi Anti-Materializzazione - e si
preparò ad una snervante attesa: la puntualità
non era
esattamente la caratteristica più spiccata di Ninfadora...
anzi.
Sospirando
alzò
gli occhi, perdendosi nella contemplazione del cielo terso, illuminato
da una minuscola falce di luna crescente.
Sembrava
così
innocua, al momento, la luna. Così bella e delicata... era
quasi
impossibile associarla a tutti i problemi che riusciva a causargli.
Un
improvviso schiocco lo
riscosse dalle sue rimuginazioni e Remus non poté impedirsi
di
sorridere quando Ninfadora comparve all'improvviso, abbattendo l'unico
cespuglio presente nella radura. Aveva un talento innato per abbattere
cose, Ninfadora, Remus doveva proprio ammetterlo.
Divertito,
le si avvicinò, posandole una mano su una spalla.
«Sei riuscita ad arrivare, noto».
Ninfadora
sussultò, impugnando istintivamente la bacchetta magica.
«Fermo... oh, Remus, sei tu?»
Remus si
scostò
appena in tempo per evitare che la bacchetta della ragazza gli finisse
in un occhio: gli mancava solo di sfoggiare un occhio magico come
quello di Malocchio... utile, indubbiamente, ma lui era troppo
rispettoso della privacy altrui per poter convivere con un simile
ammennicolo. C'erano cose del suo prossimo che, decisamente, preferiva
ignorare.
«Certo
che sono io. Mi vedi, no?»
«No
che non ti vedo. E' buio pesto!»
«Oh»
un po' a
disagio, il mago prese la mano della ragazza; lui ci vedeva
perfettamente, al buio, gli bastava un minimo di luce lunare per vedere
come se fosse giorno, e tendeva a dimenticare che per i normali esseri
umani non era così.
Tonks
esplose nella sua
irresistibile, contagiosa risata. «Ora ti riconosco,
però.
Quegli occhi luminescenti non possono essere che i tuoi! O sei tu,
oppure io sto parlando con un grosso gufo. Ma tenderei ad escluderlo.
Non sono molto loquaci, i gufi».
Remus
annuì,
imbarazzato. Non gli piaceva che la gente notasse la stranezza dei suoi
occhi. Occhi che riflettevano la luce lunare come quelli del predatore
notturno che era.
Distolse
rapido lo sguardo, resistendo caparbio quando Tonks gli
afferrò il mento tentando di costringerlo a guardarla.
«Non
stai cercando
di nascondermi i tuoi occhi, vero? Lo sai che mi piacciono. Li trovo
anche molto utili. E' comodo riuscire a rintracciarti anche al
buio».
Remus
sorrise, guardando infine la ragazza.
«Ninfadora...»
«Non
chiamarmi così, Remus! Come te lo devo dire: il mio nome
è Tonks!»
Remus si
strinse nelle spalle e chiese: «Allora, pronta per vedere la
mia... tana?»
«Certo
che
sì» affermò lei, afferrando saldamente
il braccio
dell'uomo. «Sono anni che desidero vedere la tua tana...
Sirius
ne raccontava meraviglie».
«Sirius
era poco
attendibile, temo. Quando è venuto a stare a casa mia era
reduce
da mesi passati in una grotta nei pressi di Hogsmeade e da dodici anni
passati ad Azkaban... mentre quando ti parlava dei giorni passati qui
era rinchiuso a Grimmauld Place, e credo che quasi ogni posto gli
sarebbe sembrato fantastico, confrontato a Grimmauld Place»
disse
Remus, incamminandosi sul viottolo di terra battuta e lasciandosi
guidare dal ritmico rumore della risacca.
Quando
sbucò dal
folto del bosco, costeggiò l'alta scogliera raggiungendo una
casetta a due piani circondata da un minuscolo giardino, trasformatosi,
dopo mesi di totale abbandono, in una specie di giungla in miniatura.
Poco male, a Remus non erano mai piaciuti i curatissimi giardini
all'italiana... era più propenso ad apprezzare boschi
incolti,
lui.
«Ohi!
Buona sera,
giovane Lupin!» urlò una voce allegra, subito
accompagnata
da un sincopato abbaiare. «Speravo proprio di trovarti in
casa!»
Remus
rivolse un
sorrisetto contrito a Ninfadora, quindi dedicò la sua
attenzione
all'uomo basso e rotondetto che, armato di grossa torcia abbagliante,
si stava avvicinando trascinando per il guinzaglio un cagnetto alquanto
riottoso.
«Buona
sera a lei,
signor Peabody. Raspberry...» salutò poi,
allungando una
carezza distratta al cagnetto che, smesso di abbaiare isterico, aveva
cominciato ad annusarlo circospetto. «Posso fare qualcosa per
lei?»
L'ometto
annuì con
convinzione e, frugando in una busta di plastica, estrasse un grosso
tomo porgendolo a Remus. «Sì... questa mattina la
signorina Gordon è venuta in negozio e ha appoggiato questo
sul
bancone per prendere il portafoglio. Raspberry, qui, lo ha visto e, con
una certa maleducazione, lo ammetto, ha...» aprì
il libro
mostrando la rilegatura rovinata da un grosso morso. «Tentato
di
mangiarlo, direi. Visto che tu sei così bravo ad aggiustare
libri, mi chiedevo se...»
Remus
sorrise, prendendo
il libro dalle mani dell'ometto e studiandolo con attenzione.
«Sarà un vero piacere signor Peabody... non sia
mai che la
signorina Gordon non riabbia il suo libro indietro. Sarebbe capace di
tutto».
«Eh»
Peabody
si tolse il berretto scozzese grattandosi pensoso il cranio pelato.
«In effetti ha tentato di mordere Raspberry, sai? Ho dovuto
rabbonirla con una generosa fetta di torta alla cannella!»
Remus
ridacchiò,
poi, scorgendo lo sguardo incuriosito di Ninfadora, spiegò:
«La signorina Gordon è una deliziosa vecchina, in
genere... ma guai a chi osa toccare i suoi libri... mi ricorda un po'
Madama Pince, a volte. Fortunatamente le torte alla cannella del signor
Peabody hanno il magico potere di rabbonirla».
L'ometto si
sfregò
il particolarissimo naso a patata, gongolando orgoglioso. «Le
mie
torte alla cannella rabboniscono un po' tutti, in realtà.
Solo
il giovane Lupin, qui, non impazzisce per loro. Passi a trovarmi,
signorina... sarò ben lieto di fargliene assaggiare una
bella
fetta. Ora vi saluto, però... Raspberry è
stanco... e io
non voglio guastare la vostra serata!»
Si
sistemò con un
gesto enfatico il berretto e ammiccò a Remus, sollevandosi
sulla
punta dei piedi per affermare con un entusiasmo assolutamente fuori
luogo: «E' davvero carina, ragazzo mio, ottima scelta... mi
ero
un po' preoccupato, un paio di anni fa, vendendoti girare con quel
giovanotto bruno e disordinato che litigava sempre con Raspberry,
sai?»
Remus
trasalì
sorpreso - osservando l'ometto che si allontanò
fischiettando
lungo la scogliera preceduto da un saltellante Raspberry - e si
avvicinò al cancelletto di ferro battuto.
«Sirius
litigava con Raspberry?» chiese divertita Tonks.
«Sì,
lui... non andavano molto d'accordo, diciamo».
«E'
un maschio, Raspberry?»
Remus
aggrottò la fronte, pensoso. «Credo di
sì».
«Credi?
Non mi pare così difficile scoprirlo, sai? Basta controllare
se...»
«Sì,
Ninfadora, so cosa basta controllare. Ma non sono così
intimo
con Raspberry, quindi non ho mai controllato. Ma, da come si relaziona
con la cagnetta della sarta, direi che è maschio,
sì».
«Uhm,
potrebbe
essere stata una questione di territorialità,
allora»
stabilì la strega. «E tu non lo fai?»
«Relazionarmi
con la cagnetta della sarta?»
Ninfadora
sbuffò spazientita. «Litigare con
Raspberry!»
«Ah,
no».
«Strano...
evidentemente Raspberry non ti percepisce come un pericolo. O forse ha
solo paura di diventare il piatto forte della tua cena».
Remus
sistemò
sotto un braccio il libro della signorina Gordon, poi, notando il
sorriso malizioso che era apparso sulle labbra di Ninfadora,
sospirò aprendo il cancelletto di ferro battuto.
«Non
sa cosa si
perde però» affermò la ragazza,
avviandosi sul
vialetto di ciottoli che, attraversando la minuscola giungla privata
che circondava la casa di Remus, conduceva alla porta d'ingresso.
«Raspberry?»
chiese Remus confuso.
«No,
la cagnolina
della sarta con cui non ti relazioni, ovviamente!» concluse
seria
Ninfadora, scompigliando con allegria i capelli del compagno.
Remus scosse
il capo un
po' contrariato, sussurrò un Alohomora per aprire il
portoncino
di legno laccato e si scostò, invitando Ninfadora a varcare
per
prima la soglia.
La ragazza
si guardò attorno incuriosita. «E così
questa è la tua tana!»
Remus
annuì, osservando costernato l'ampio locale in cui si
trovavano.
Si era
dedicato agli
Incantesimi Casalinghi quel giorno. E il pavimento di legno era
più lucido di quanto Remus ricordasse fosse mai stato... ma
questo non faceva che far risaltare ancora di più il
desolante
vuoto che caratterizzava la stanza.
Forse non
era stata
un'idea tanto brillante invitare Ninfadora a casa sua per fare quello
che aveva deciso di fare un paio di giorni prima, constatò
lasciando correre lo sguardo sugli scatoloni sparsi per il locale.
No, forse
sarebbe stato
più saggio proporle di incontrarsi altrove,
sospettò,
osservando l'alta libreria che occupava un'intera parete della stanza e
tentava disperatamente di contenere decine di libri che, stipati in
ogni buco disponibile, offrivano una visione abbastanza diversa da
quella data dall'impeccabile libreria di Casa Tonks.
Sì,
concluse,
avrebbe davvero dovuto portarla altrove per fare quello che doveva
fare... e avrebbe anche dovuto chiedere a Minerva di insegnargli
l'Autotrasfigurazione: un'aspidistra ci sarebbe stata d'incanto nella
sua minuscola giungla privata.
Sospirando,
Remus
pensò che sarebbe stato saggio distrarre Ninfadora,
interrompendo così il suo attento esame dei dintorni.
«E'
la casa dei miei genitori, in realtà. Ci siamo trasferiti
qui
dopo... be', mia madre sosteneva che era il posto ideale per i miei
movimentati pleniluni. La casa è dotata di una soffitta
spaziosa
ed è abbastanza lontana dal paese da evitare ai miei
genitori di
doversi inventare macabre leggende di case stregate. E poi non ci sono
maghi nei paraggi... pare che pochissimi di loro apprezzino l'idea di
avermi come vicino».
«L'ho
sempre saputo
che il buon gusto è scarsamente diffuso tra i
maghi»
affermò Ninfadora sorridendo convinta. «Mi piace
molto la
tua casa. Ti assomiglia».
Remus
osservò incredulo la ragazza: non doveva avere questa grande
opinione di lui, dopo tutto...
«Mi...
assomiglia?»
«Assolutamente
sì».
«Uhm...
un modo carino per dirmi che sono vuoto e desolante?»
La ragazza
gli
assestò un colpetto scherzoso sul braccio e
sbuffò:
«Un modo carino per dirti che sei informale e alternativo,
Remus,
e che non dai importanza a tutti quegli inutili orpelli che interessano
a molti».
«A
molti...»
«A
molti, sì. Cominciando da mia madre».
Remus
annuì
pensieroso, appoggiando il libro della signorina Gordon su un grosso
scatolone ed estraendo la bacchetta magica.
«C'è
comunque un motivo preciso per questo arredamento minimale, Remus? Non
che mi dispiaccia, eh... ha un suo indubbio fascino ma, ecco, forse
manca un po' di praticità».
Remus si
bloccò
con la bacchetta a mezz'aria e scrutò un po' esitante la
ragazza. Sirius gli avrebbe sicuramente suggerito di inventarsi una
storia accattivante per giustificare quella bizzarria - tipo
l'ispirazione presa da qualche esotica rivista di arredamento -
ma Remus decise di essere sincero. Non poteva mentire. Non a Ninfadora.
Non mentre stava cercando di trovare il coraggio per chiederle quello
che aveva deciso di chiederle.
«Sì,
c'è un motivo preciso» disse quindi, scrutandola
intensamente. «Legato per lo più alla mia
irritante
abitudine di dovere mangiare, di tanto in tanto. E con una certa
frequenza, anche, ahimè...»
La strega
sussultò
stupita e Remus si strinse nelle spalle. «E, visto che il
Ministero ha deciso di rendermi praticamente impossibile trovare un
lavoro... be', mi sono arrangiato come ho potuto».
«Hai
venduto i mobili dei tuoi genitori?»
«Già.
E ho
fatto qualche lavoretto per la gente del paese. Conoscevano mio padre,
e hanno deciso di estendere la fiducia che avevano in lui anche a me.
E, a tal proposito...» si voltò verso il libro
malandato
colpendolo delicatamente con la bacchetta magica, quindi lo
studiò critico annuendo poi soddisfatto.
«Perfetto. La
signorina Gordon riavrà il suo libro intatto e io mi
godrò uno dei deliziosi dolci del signor Peabody. E' il
pasticcere del paese, sai? Con un po' di fortuna mi pagherà
con
una delle sue deliziose torte al cioccolato».
Ninfadora
scosse il capo
un po' esasperata, avvicinandosi alla libreria riempita
all'inverosimile. «Questa non l'hai venduta però.
E
neppure tutti questi libri».
Remus le si
avvicinò e sorrise malinconico. «No, non ho mai
trovato il
coraggio di farlo. In fondo questi libri non hanno un grande valore
economico, ma hanno un immenso valore affettivo. Erano dei miei
genitori, che amavano i loro libri più di quanto amassero il
loro sofà...»
Ninfadora
gli
accarezzò intenerita un braccio, prima di prendere un grosso
volume rilegato in pelle. «“Incantesimi senza
Bacchetta” di Caius Charmed».
Remus
annuì.
«Ottimo manuale. Spiegazioni molto chiare... potrebbe capirle
anche un bambino... era di mio padre. Era lui quello affascinato dagli
incantesimi più strani. Mamma preferiva documentarsi sulle
creature magiche» affermò, sfiorando con
dolcezza il
dorso di una vecchia copia molto vissuta di “Lupi Mannari: questi
sconosciuti” di Larentia Lupercus.
Ninfadora
gli imprigionò la mano e, dopo avere letto il titolo
sorrise.
«Questo lo conosco! L'ho anch'io! Ed è quasi
altrettanto
vissuto. Negli ultimi due anni l'avrò letto una trentina di
volte...»
Remus la
guardò
allibito e lei si strinse nelle spalle. «Be'? Un argomento
che,
ultimamente, mi ha molto affascinata! Avrei davvero voluto conoscere i
tuoi genitori...»
«Saresti
piaciuta molto a entrambi».
«Davvero?
Peccato non poterti dire lo stesso dei miei
genitori».
Remus
sospirò,
avvolgendo la ragazza in un abbraccio. «E' comprensibile la
loro
reazione... davvero. Mi sarei aspettato anche di peggio».
«Non
è
comprensibile affatto! Ti hanno trattato malissimo senza che tu gliene
dessi motivo! Be', mamma, almeno...» affermò
risentita,
stringendosi con più energia al mago. «Scusami,
non avrei
mai dovuto esporti così alle devastanti intemperanze di mia
madre!»
Remus
sfregò il
naso tra i capelli - al momento di un brillante rosa confetto - della
ragazza e cercò di trattenere una risata: le intemperanze di
Andromeda non erano state le più devastanti di
quell'interessante pomeriggio. Ma qualcosa gli suggeriva che non fosse
il caso di farlo notare a Ninfadora.
«Non
importa»
affermò quindi, sciogliendosi gentilmente dall'abbraccio.
«Anzi... quella visita mi ha... motivato ad affrontare un
certo
discorso».
Era vero.
Probabilmente
non avrebbe mai trovato il coraggio di farle quella sconsiderata
proposta se non si fosse imbattuto nella Chiave del Tempo.
Ninfadora
sollevò
di scatto lo sguardo, i capelli virati a un rosa pallidissimo, e
fissò Remus con occhi allarmati. «Ma non... E' per
questo
che mi hai portato qui, vero? Per dimostrarmi... Ma lo sai che a me non
importa! Sei povero! Va bene. Lo sapevo già anche prima di
vedere la tua casa deliziosamente minimal! Ora non vorrai ricominciare
anche con il troppo vecchio e troppo pericoloso, vero?»
Remus scosse
il capo e
sorrise intenerito. «No, Ninfadora»
ignorò lo
sguardo minaccioso della ragazza e proseguì prima che
potesse
interromperlo. «Ho chiuso con quel ritornello, ormai. Ti ho
portata qui per quello,
in realtà» disse, indicando il
grosso acquario che si trovava al centro della stanza, proprio di
fronte al camino, dove una persona normale avrebbe posizionato un
divano. O un'aspidistra, magari...
Ninfadora lo
scrutò sconcertata e Remus, ridacchiando, la
trascinò
accanto all'acquario, invitandola a sbirciare all'interno: nell'acqua
un po' limacciosa nuotava, placido, un Avvincino solitario che, forse
disturbato dalle voci dei due umani, cominciò a battere le
mani
dalle lunghe dita sottili contro le pareti della sua prigione di vetro.
Ninfadora lo
guardò conquistata. «Un Avvincino! Vedi che sei
informale
e alternativo? Di solito la gente ci tiene creature assolutamente
banali in questi affari!»
«Indubbiamente,
sì. Ma non ti ho portata qui per ammirare
l'Avvincino...»
«No?»
Tonks aggrottò la fronte, pensosa. «E allora per
cosa? Non vorrai mica cucinarlo per me!»
«Cucinarlo...
no! Come ti ho detto siamo qui per parlare».
«Degli
Avvincini?»
«No!
L'Avvincino è solo... un incoraggiamento per me».
«Un
incoraggiamento?»
«Già.
Forse
tu non te lo ricordi, dato che eri molto piccola, ma il giorno in cui
zio Alphard mi regalò questo acquario, io ci misi un
Avvincino e
te lo mostrai. Eravamo a casa di James era...»
«L'anniversario
di
nozze dei miei! Sì che me lo ricordo! Era la prima volta che
vedevo un Avvincino! L'ho adorato! Ti
ho adorato! E' stato proprio in
quell'occasione che ho cominciato a trovarti più bello di
Sirius!»
«Più
bello
di Sirius? Io?»
Remus inarcò scettico un sopracciglio,
quindi scosse il capo, indulgente. «Be', non mi stupisce
più di tanto, visto che da bambina tendevi a preferire
Manfred
la Manticora a un Unicorno... comunque, in quella occasione tu mi
promettesti che avresti fatto qualsiasi cosa ti avessi chiesto se ti
avessi permesso di tenere l'Avvincino».
Ninfadora
rise divertita. «Vero! Mamma non ha gradito molto».
«Infatti.
Mi vidi
costretto a rifiutare l'allettante proposta. Ma tu mi promettesti che
sarebbe stata valida per sempre, così...»
«E
lo confermo. E' ancora valida: se mi lascerai tenere l'Avvincino
farò qualsiasi cosa tu mi chieda!»
Remus
annuì e
prese un bel respiro, pronto a cominciare il discorso che si era
meticolosamente preparato. Peccato che non ricordasse neppure una
parola. Probabilmente, le aspidistre possedevano una memoria migliore
della sua...
«Allora?
Sto
aspettando» lo informò impaziente la strega,
picchiettando
le dita sulle pareti dell'acquario per attirare l'attenzione
dell'Avvincino.
«Sì...
sto solo cercando le parole... è... complicato».
«Complicato?
E che
potrà mai essere? Guarda che se vuoi propormi di addentrarci
nottetempo nella dimora della Umbridge per rapirla e portarla in dono
ai Centauri puoi anche fare a meno dell'Avvincino!»
«Uh...
no... non sarebbe una cattiva idea, ma non è quello che
avevo in mente».
«Peccato».
Remus
abbozzò un
sorriso e si avvicinò nervoso alla finestra, ammirando le
luci
che punteggiavano la parte bassa della scogliera, quindi si
voltò e fissò deciso Ninfadora: in fondo che
aveva da
perdere? Al massimo gli avrebbe risposto di no...
«Ecco...
l'altro
giorno, quando sono tornato dalla missione a casa dei tuoi,
è
venuto Kingsley a trovarmi. E mi ha confidato che le cose stanno
precipitando al Ministero».
Tonks
annuì mesta. «Lo so. Ormai è quasi
totalmente nelle mani dei Mangiamorte».
«Già.
Pare
che molte restrizioni verranno imposte a... be', a tutte le categorie
di persone che non stanno particolarmente simpatiche a Voldemort. E
questo significa che ulteriori restrizioni verranno imposte anche a me.
Quindi, se non ti proponessi ora questa cosa... temo che non potrei
farlo mai più. E, in caso tu accettassi, dovremmo anche fare
tutto velocemente e in modo molto... intimo».
Tonks lo
osservò
incuriosita, poi indicò l'Avvincino che aveva ricominciato a
nuotare nell'acquario. «Lo sai già che
accetterò».
«Lo
dici ora... ma,
ammesso che possa andarti bene il sottoscritto, probabilmente ti
dispiacerà non potere organizzare le cose come si
deve».
«Organizzare
le cose come si deve? Per la batteria di Merlino, Remus! Ma di cosa
stai parlando?»
«Be'...
non so di
preciso: invitati, vestiti, damigelle... quelle cose lì,
insomma. Bill mi ha confessato che Fleur lo sta facendo
ammattire».
La strega
sgranò
gli occhi incredula e, dimenticato l'Avvincino, si slanciò
verso
il mago, inciampando in uno scatolone e finendo lunga distesa ai suoi
piedi.
Prima che
questi potesse
reagire, Tonks si alzò in ginocchio scrutandolo strabiliata,
gli occhi
scuri scintillanti di una felicità assoluta. «Vuoi
sposarmi?»
Remus
sogghignò,
accovacciandosi accanto alla ragazza e scostandole con tenerezza i
capelli dal viso, deliziato dalle sfumatura intensa di rosa che presero
sotto le sua dita. «Sì. Anche se avrei dovuto
essere io a
porgere tale fatidica domanda, suppongo».
«Supponi?»
«Suppongo».
«Sei
una frana nelle supposizioni, Remus».
«Non
è vero! In genere è l'uomo a inginocchiarsi e a
porgere la fatidica domanda».
«Forse.
Ma in genere l'uomo non porta come dono di fidanzamento un
Avvincino...»
«Anche
questo
è vero. Mi sarebbe piaciuto portarti un più
classico
anello, ma...» sospirò, stringendosi nelle spalle
e
abbassando lo sguardo, mortificato.
Ninfadora,
gli
sollevò il viso cercandone lo sguardo e sussurrò
convinta: «Un anello è oltremodo banale, Remus.
Vuoi
mettere un Avvincino? Molto più adatto a un tipo informale e
alternativo come te».
Remus
sorrise,
rinfrancato dalla gioia che illuminava gli occhi della strega.
«Devo prenderlo come un sì, dunque?»
Ninfadora
gli gettò le braccia al collo, esclamando euforica:
«Naturalmente! Mi hai donato un Avvincino!»
Remus, a
malincuore, la
scostò leggermente da sé. «No,
seriamente,
Ninfadora. Lascia perdere l'Avvincino. Sai a cosa vai incontro sposando
me?»
«Sì.
E,
seriamente, Remus, non me ne importa proprio nulla» concluse
convinta la strega, prima di coinvolgere l'assai poco riottoso mago in
un bacio entusiasta.
«Ninfadora...»
«Tonks!»
«Sì,
lo
conosco il tuo cognome. Ninfadora,
dicevo, suppongo non sia il
caso» sussurrò Remus cercando di districarsi
dall'abbraccio e scostando una mano intraprendente che risaliva audace
la sua coscia destra.
«Lo
abbiamo
già stabilito che sei una frana nelle supposizioni. Certo
che
è il caso, visto che ho appena accettato di
sposarti!»
«Tu hai stabilito
che sono una frana nelle supposizioni. Io non ho mai detto
di
concordare con questa tua particolare convinzione!»
esclamò Remus, tentando di placcare un'altra mano
impertinente
che gli percorreva intrepida il torace. Merlino! Ma quante mani
possedeva Ninfadora? Era forse imparentata con il Calamaro Gigante?
«Davvero, sarebbe meglio che ti fermassi. Dobbiamo...
parlare...»
Tonks
sbuffò frustrata ma concesse una tregua al compagno.
«Parlare? Ma non lo abbiamo già fatto?»
«Sì.
Ma dobbiamo approfondire l'argomento».
«E'
quello che
stavo tentando di fare, sai?» fece notare la ragazza
accarezzandogli la spalla sinistra. Remus si irrigidì
immediatamente, afferrandole la mano.
«Avevo
in mente
un... er... diverso genere di conversazione, a dire il vero. Che deve
assolutamente precedere il genere che hai in mente tu, visto che
riguarda proprio le conseguenze a cui potrebbe portare un siffatto
genere di conversazione».
Tonks lo
guardò
sconcertata, poi si illuminò. «Oh, stai cercando
di dirmi
che non hai previsto nessun tipo di protezione! Nemmeno io... ma a
questo punto non ha importanza! Ci sposeremo, no? Ben venga quindi un
piccolo Lupin saccente che gironzola per casa!»
Remus
sorrise mesto e
scosse il capo. «E' proprio di questo che volevo parlare. Se
tu
mi sposerai... non ci sarà nessun piccolo Lupin - saccente
o meno - a gironzolare per casa».
«Pensavo
che tu
volessi dei bambini, Remus. Guardando con quale abilità li
maneggi si direbbe che sei nato per essere padre... ma se non ne
vuoi...»
Remus
sospirò,
sfregandosi la fronte. «Non è che non ne voglia;
solo
Merlino sa quanto mi piacerebbe avere una piccola peste multicolore che
si diverte a devastarmi casa...» sorrise, ignorando
l'occhiataccia scoccatagli da Tonks. «Il fatto è
che non
posso averne, purtroppo. Quelli... come me non si riproducono. Non ho
mai sentito di un licantropo che l'abbia fatto».
La strega
corrugò la fronte. «Forse solo perché
non... esercitano».
Remus
ridacchiò.
«Ho vissuto per un anno tra i miei simili. E posso
assicurarti
che... esercitano
eccome. Ma nessun membro del branco ha mai avuto un
figlio» guardò Tonks con serietà.
«Se questo
particolare ti ha fatto cambiare idea sull'opportunità di
sposarmi non preoccuparti. Lo capisco».
Tonks
sbuffò
esasperata, i capelli virati a un preoccupante ciclamino.
«Non
ricominciare, Remus... no che non mi ha fatto cambiare idea! Non mi
importa! Anzi, in realtà potrebbe rivelarsi una cosa
positiva.
Francamente, mi ci vedi alle prese con un neonato? Hai visto con quale
frequenza riesco a rompere un piatto... ecco, immaginami alle prese con
un neonato tutto scivoloso per via del sapone... e lo so che tu sei
bravissimo con l'Incantesimo Reparo, ma pare che con i neonati non
funzioni granché».
Remus
sgranò gli
occhi, allibito, poi si concesse una risata, stringendo Tonks in un
abbraccio sollevato. «Merlino, Ninfadora! Ma non
c'è
proprio nulla in me che non riusciresti ad accettare?»
La ragazza
si
scostò, scrutandolo pensosa, poi affermò
convinta:
«Continua a chiamarmi con quell'orribile nome e lo
scoprirai!»
Remus scosse
il capo e
sospirò. «Non ti chiamerò mai per
cognome. Detesto
chiamare le persone per cognome. Non lo faccio mai».
«Mmm...
c'è sempre una prima volta. Lo so che è un po'
freddo, ma in casi disperati come il mio...»
«Non
c'è nulla di disperato in Ninfadora».
«Se
tua madre ti avesse chiamato Ninfadora saresti disperato anche
tu».
«Non
ne dubito. Non è un nome molto virile Ninfadora...»
La ragazza
sbuffò, assestandogli un colpetto alla nuca.
Remus
sogghignò.
«Va bene... ho notato che tuo padre ti chiama Dora. Non ha il
fascino di Ninfadora, ma è di sicuro meglio di Tonks. Che ne
dici?»
«Un
accettabile compromesso, direi».
«Uh,
trattieni l'entusiasmo».
«E'
entusiasmo che
vuoi? E entusiasmo sia, allora!» esclamò la
ragazza
gettandosi con slancio al collo del mago che, sbilanciato, cadde
all'indietro.
«Adoro
questa camicia, sai Remus?»
Remus la
guardò
accigliato. Non era granché la camicia che indossava. Una
normale camicia di jeans con quei detestabili bottoncini a strappo. Ma
non poteva indossare vesti da mago quando girava nei dintorni di
casa... e quella era l'unica camicia disponibile, al momento.
Ninfadora
gli
scoccò un'occhiata ammaliatrice, afferrando i lembi della
camicia e dando uno strappo deciso. «O, per essere precisi,
adoro
i suoi bottoni».
Remus
guardò
esterrefatto le mani della strega che riprendevano il loro audace
peregrinare e, pensando confusamente che forse quei bottoncini a
strappo non erano poi tanto detestabili, si affrettò a
coprirsi
la spalla sinistra.
Ninfadora
gli
scostò con gentilezza la mano e Remus, serrando gli occhi,
trattenne il respiro, in attesa dell'inevitabile esclamazione di
raccapriccio. La gente emetteva sempre esclamazioni di raccapriccio
quando gli vedeva la spalla. Persino la materna Molly lo aveva fatto. A
Remus non importava, in genere, ma trattandosi di Ninfadora...
«E'
questo il morso, vero?»
Remus
trasalì
interdetto, sentendo la mano fresca della strega che, con tocco
delicato gli accarezzava la cicatrice.
«Sì.
So che
non è una bella vista» disse, sbirciando il
familiare
segno tondeggiante che gli segnava la spalla.
«E'
solo una cicatrice».
«E'
la cicatrice
lasciata da una maledizione, Ninf... Dora. Ora sembra normale,
perché il plenilunio è lontano, ma se fosse
prossimo...»
«Sarebbe
una cicatrice informale e alternativa di un vivido colore
argento».
Remus la
guardò sorpreso: la gente normale di solito non era molto
informata sull'argomento.
Ninfadora
sorrise.
«Ho letto “Lupi
Mannari: questi sconosciuti”,
ricordi? Non vedo l'ora di osservarla all'acme del suo splendore.
Malocchio morirà d'invidia!»
Remus si
chiese il
perché, ma preferì evitare di indagare,
sussultando
quando le labbra di Ninfadora si sostituirono alle dita, accarezzando
gentilmente la pelle sensibile che circondava la cicatrice.
«Ummm...
Dora» disse con voce malferma e più roca del
solito, lo
sguardo fisso oltre la testa della ragazza. «Non
credo...»
Ninfadora
sbuffò
contrariata e mille piccoli, deliziosi brividi attraversarono la spina
dorsale di Remus. «Cosa c'è ancora? Hai qualche
altro
segreto di cui mettermi al corrente... non so, forse guaisci nel
sonno?»
Remus si
sollevò a
sedere e scosse il capo, un po' imbarazzato. «No. Sono quasi
certo di non farlo. E' solo... l'Avvincino...»
«L'Avvincino?»
Remus
annuì. «Sì. Non possiamo farlo qui.
L'Avvincino ci sta guardando».
Ninfadora
sgranò gli occhi incredula. «L'Avvincino ci sta...
guardando? Stai scherzando, vero?»
Remus
negò con
dignità e Tonks sogghignò divertita.
«Ma sei un
Lupo Mannaro! Secondo l'esperta Larentia Lupercus...»
«Sì,
lo so
cosa sostiene l'esperta Larentia Lupercus, a tal proposito. Ma,
credimi, ci sopravvaluta parecchio. Forse non è poi
così
esperta Larentia Lupercus. O magari ha condotto i suoi studi su un
gruppo di disinvolti licantropi latini. Io sono un Lupo Mannaro
inglese, però: e in quanto tale ho un forte senso della
privacy».
Dora scosse
la testa
esasperata e, alzandosi in piedi, costrinse il compagno a fare
altrettanto. «Ti inviterei a casa mia... ma non sono sicura
di
possedere la lucidità mentale necessaria per una
Smaterializzazione. Senza contare che ho poster delle Sorelle
Stravagarie ovunque. E se ti turba tanto un Avvincino... hai una
soffitta, hai detto?»
Remus
annuì titubante, la strega sorrise raggiante e, presolo per
mano, lo trascinò verso le scale.
«Ci
vado solo nelle
notti di plenilunio, Dora, non è molto in ordine. Ma al
piano di
sopra ci sono delle camere. Ho persino un letto».
La ragazza
ci
pensò un istante, poi scosse il capo con decisione.
«No.
Un letto è banale, Remus. Adatto a una coppia da anello di
fidanzamento. Noi siamo informali e alternativi, ricordi? Siamo una
coppia da Avvincino di
fidanzamento, la soffitta ci è più
congeniale!»
Remus
ricambiò il
sorriso, disarmato dalla caparbia dolcezza di Ninfadora e, salite le
scale, aprì con mano un po' tremante la porta della soffitta.
Ninfadora
osservò
con attenzione l'ampia finestra da cui filtrava la debole luce
argentata della sottile falce di luna, quindi appellò il
morbido
plaid scozzese appoggiato su un vecchio tavolo abbandonato in un angolo
della stanza e lo stese con attenzione sull'assito un po' graffiato e
polveroso.
Sorridendo
radiosa vi si inginocchiò sopra, allungando una mano verso
Remus.
L'uomo la
prese e, ricambiando il sorriso, le si accovacciò accanto.
Sirius non
aveva tutti i
torti, dopo tutto. Non solo aveva trovato una donna che lo apprezzava
in tutto il suo lupesco splendore, ma la donna in questione era davvero
la piccola Ninfadora.
Ridacchiando
tra
sé, Remus non poté fare a meno di pensare che, in
un
Altro-dove
e in Qualche-quando,
Sirius stava di sicuro esultando, al
momento, assillando James e costringendolo ad ammettere che aveva
sempre avuto ragione su tutta la linea: Lunastorta aveva abbassato le
sue difese, alla fine e ne era persino felice.
Ed era vero,
constatò Remus con un certo stupore, lui era davvero felice
in quel momento.
In quella
polverosa
soffitta, dove la felicità non era mai stata di casa, in
mezzo a
una guerra assurda, nell'incertezza del futuro che il Ministero aveva
in serbo per lui, Remus era davvero felice.
Vergognosamente
felice.
Felice come
un'aspidistra non avrebbe mai potuto essere, per quanto ne sapeva...
* Inno cantato dai
tifosi
dell'Arsenal... almeno sul web un sito ne era convinto. Se
così
non fosse chiedo umilmente perdono a tutti i tifosi dell'Arsenal, maghi
o Babbani che siano. Ted e Remus compresi.
Non sono un'esperta di
calcio. Men
che meno di calcio britannico, ma mi pareva carino trovare un terreno
comune tra Ted Tonks e Remus Lupin e, tenuto conto che sono due uomini
di ascendenze in qualche misura Babbane... cosa poteva esserci di
meglio del calcio? ;)
Visto poi che il simbolo
dell'Arsenal
è un cannone mi è venuta spontanea l'associazione
tra
Arsenal e Cannoni di Chudley...
Oh, già che
siamo in tema, Dennis Berkamp è davvero un
giocatore di calcio e nella stagione 1997/98 militò proprio
tra le fila dell'Arsenal.
Ed eccoci alla nona tappa del nosto Viaggio.
Una tappa vista quasi totalmente attraverso gli occhi di Remus,
finalmente! ^^
Senza nulla togliere alla folta schiera di Black poco regolamentari di
cui mi sono trovata a scrivere, un po' mi mancavano Remus e Tonks!
E così eccoli qui, colti in un momento molto "speciale"
della
loro vita... un momento di cui J.K. Rowling non ci ha detto moltissimo,
purtroppo, così ho deciso di dare anche la mia versione
personale.
Versione personale che, mi rendo conto, non è
esattamente
romantica e sognante (niente cene a lume di candela, niente
passeggiate languide né anelli con solitario) ma,
tralasciando il
fatto che io non sono molto portata a descrivere scene romantiche e
sognanti, quel momento topico io lo immagino esattamente
così:
informale, alternativo e tonksianamente "cataclismico". ;)
Spero che i più romantici e sognanti tra di voi non se la
siano
presa a male e mi possano perdonare questa rilettura poco ortodossa del
momento.
Il Signor Peabody con le sue torte alla cannella è una
vecchia conoscenza per quelli che hanno letto "La Chiave del Tempo" che
hanno avuto il piacere di incontrarlo vent'anni più vecchio.
Mi pareva carino inserirlo anche qui, scortato da regolamentare
cagnetto. ^^
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Capitolo 11 *** Teddy Lupin e la Chiave del Tempo ***
Capitolo Decimo
Teddy
Lupin e la Chiave del Tempo
La Tana, 31 luglio 2012 A.D.
Un assordante
gracidare si levò improvviso quando un nutrito
battaglione di ranocchie si tuffò - con ammirevole sincronia
-
nelle acque verdi e melmose dello stagno.
Teddy scosse
il capo, mesto: a quanto pareva non era il solo a non
potersi godere fino in fondo quella calda serata estiva, rischiarata da
una limpida luna quasi piena e ingentilita dal profumo dolce e intenso
dei Cespugli Farfallini. E a pensare che quel mondo, che tutti dicevano
migliore, avrebbe potuto esserlo un po' di più...
Quando il
gracidare si placò, acuti strilli infantili
raggiunsero Teddy che, sospirando, si rannicchiò ai piedi di
uno
dei grossi alberi che circondavano lo stagno.
Un superbo
esemplare di Tortotronco,
constatò, studiando interessato le folte fronde che
frusciarono
frenetiche attorno a lui quando l'albero, disturbato dalla sua
presenza, si contorse con sdegnata energia.
Appoggiandosi
con cautela al massiccio tronco nodoso, Teddy
osservò i ragazzini che, davanti all'ingresso della Tana
illuminato a giorno da nugoli di lanterne variopinte, saltellavano in
preda all’eccitazione più sfrenata: per loro quel
mondo
era sicuramente il migliore possibile. E lo dimostravano con
appropriato entusiasmo.
Le loro grida
assordanti sovrastavano persino le fiere rimostranze che
nonna Andromeda stava propinando a una mortificata Molly Weasley.
Teddy,
provando una certa compassione per la povera Molly - sapeva per
esperienza quanto potessero essere terrificanti le fiere rimostranze di
nonna Andromeda - distolse lo sguardo, concentrandosi sulla lanterna
fluttuante che lo aveva seguito e ora illuminava con la sua calda luce
dorata le acque placide dello stagno.
Un po'
sorpreso, il ragazzo si chiese chi fosse stato a incantarla
perché, in genere, le lanterne non avevano la lodevole
abitudine
di seguire la gente di loro spontanea volontà.
Nemmeno
quelle fluttuanti.
Osservando
con più attenzione la scena che si stava svolgendo
davanti all’ingresso della Tana, Teddy notò che
non tutti
erano occupati a saltellare entusiasti e a prepararsi per assecondare
la brillante idea avuta da Molly.
Harry,
infatti, se ne stava un po’ in disparte, la bacchetta
stretta in pugno e decine di lanterne variopinte che gli fluttuavano
attorno come sciami di fate indispettite. Teddy lo vide fare un passo
esitante verso lo stagno per poi fermarsi, rinfoderare la bacchetta e
permettere a un James più saltellante del solito di
trascinarlo
via. Con tutto il suo luminoso seguito di lanterne.
Teddy sorrise
grato: Harry aveva compreso che, in quel momento, lui
desiderava soltanto stare un po’ in disparte - da solo,
lontano
dalla frenesia che aveva assalito gli altri e dalla brillante idea
avuta da Molly - e si era limitato a fargli sentire la sua presenza
dotandolo, premuroso, di una discreta lanterna fluttuante.
Harry, del
resto, sapeva sempre quello che Teddy provava.
Lo sapeva da
prima che Teddy medesimo si rendesse conto di provarlo, in genere.
Per anni il
ragazzo aveva avuto l’inquietante sospetto che il padrino
sapesse leggergli nella mente.
Quando
però, dopo estenuanti elucubrazioni e arditi esperimenti,
si era deciso ad affrontare apertamente la spinosa questione con
l’interessato, Harry si era limitato ad abbozzare uno di
quegli
strani sorrisi - sospesi tra tenerezza e malinconia - che riservava
solo a lui per poi confidargli, mesto, la molto meno esoterica
verità: sapeva sempre cosa Teddy provava semplicemente
perché lo aveva provato prima lui.
Notando, con
un certo sollievo, che nonna Andromeda aveva finalmente
smesso di riprendere la povera Molly, Teddy si sistemò
più comodamente contro il tronco e - godendosi divertito lo
sdegnato vorticare di fronde che seguì all'operazione -
estrasse
da una tasca un pupazzetto a forma di drago osservandolo con interesse:
un Petardo Cinese, dedusse con sicurezza, ammirandone il corpo snello e
sinuoso ricoperto da minuscole, perfette scaglie scarlatte.
Affascinato,
il ragazzo sfiorò con cautela le punte dorate che
il drago aveva attorno al muso e trasalì, sorpreso, quando
il
modellino, che fino a quel momento se ne era stato comodamente
acciambellato sul palmo della sua mano, emise una specie di basso
ringhio.
Dopo essersi
concesso un languido stiracchiamento, il minuscolo drago
si alzò in piedi sollevando le punte dorate che, assumendo
la
forma di una stravagante criniera, lo fecero assomigliare a un piccolo
leone arruffato.
Teddy sorrise
e soffiò con gentilezza sul giocattolo - come gli
aveva mostrato Charlie - osservandolo poi, deliziato, dispiegare le
ampie ali di un intenso rosso cupo e alzarsi in volo per planare
aggraziato attorno alla lanterna fluttuante.
Quando,
qualche ora prima, Charlie aveva tolto dalla sua vecchia sacca
un po’ bruciacchiata una manciata di piccoli draghi
giocattolo,
gli altri ragazzini gli si erano subito stretti attorno, litigando fra
loro per accaparrarsi i modellini di Ungaro Spinato.
Teddy era
stato l'ultimo ad avvicinarsi - incitato da una soddisfatta
Victoire che brandiva vittoriosa un minuscolo Grugnocorto Svedese - e
aveva preso l'unico modellino rimasto: il Petardo Cinese.
Non aveva
riscosso molto successo, il Petardo Cinese, e Teddy poteva anche capire
il perché: era strano come drago.
Diverso da
tutti gli altri.
Ma a Teddy la
cosa non importava, anzi... a lui piaceva chi era diverso da tutti gli
altri.
Probabilmente
perché anche lui era - per svariati motivi - diverso da
tutti gli altri.
Sospirando,
il ragazzo distolse gli occhi dal drago giocattolo - ancora
intento a svolazzare impavido attorno alla lanterna - e, stringendo le
ginocchia tra le braccia, osservò malinconico i ragazzini
saltellanti che, contenendo a stento l'entusiasmo, assillavano
implacabili i rispettivi genitori.
«Uhm,
stai meditando di continuare la festa in compagnia delle
ranocchie dello stagno, Teddy?» chiese una voce allegra alle
sue
spalle.
Teddy
sollevò di malavoglia lo sguardo sul nuovo arrivato,
conscio che il suo momento di solitudine era terminato: purtroppo
nessun Weasley sembrava essere un estimatore della solitudine. Charlie
non faceva eccezione.
«Non
sono molto interessanti le ranocchie come compagnia»
disse l’uomo accoccolandosi al suo fianco e osservando il
vivace
vorticare di fronde causato dal suo arrivo. «Ma devo
ammettere
che il Tortotronco
un certo
fascino lo esercita. Dovresti vederlo a fine giugno, quando oltre che a
vorticare i rami si diverte a bersagliarti con i suoi frutti
deliziosamente mollicci e appiccicosi».
Teddy
scrutò scettico le folte foglie lanceolate dell'albero e
affermò con pacata convinzione: «Penso proprio che
riuscirò a sopravvivere anche senza questa avvincente
esperienza, Charlie».
«Mmm.
Anche Fleur era intenzionata a provarci, credo. Ma George e
Ginny erano di diverso parere e hanno generosamente rimediato a questa
grossa lacuna del suo personale bagaglio di esperienze»
affermò Charlie, scrutando pensoso la superficie placida
dello
stagno per poi aggiungere complice: «Ma, forse, tu non eri
interessato a improvvisare una festicciola anfibia, e stavi
semplicemente studiando un piano per buttarci mia madre, nello stagno
con le irritabili ranocchie...»
Teddy,
escludendo che Charlie si fosse potuto accorgere che l'idea lo
aveva davvero fugacemente sfiorato, rispose sfoggiando quell'aria
angelica che convinceva tutti ad eccezione di Harry e di nonna
Andromeda: «No, naturalmente! Non sarebbe stato
carino».
Charlie
sogghignò. «No. Non sarebbe stato carino, hai
ragione. Non per le ranocchie, almeno. Ma a me l'idea sarebbe venuta,
sai? E anche Harry deve essere stato sfiorato dalla tentazione. E lui
se lo sarebbe anche potuto permettere. E' il festeggiato, in fondo.
Tutto dovrebbe esserti concesso il giorno del tuo compleanno, non
credi?»
Teddy
sgranò gli occhi, sorpreso, e Charlie gli
scompigliò i capelli, poi sospirò: «Se
solo Harry
non fosse così assurdamente educato... a mia madre non
avrebbe
fatto male rinfrescarsi un po'. Solo un colpo di sole potrebbe spiegare
la sua brillante proposta. O quello o un incantesimo Confundus ben
assestato».
«Voleva
solo animare la festa».
«Oh,
può darsi. Ma anche un suo tuffo nello stagno la
avrebbe animata. Sono sicuro che James lo avrebbe adorato, ad
esempio».
Teddy
riportò lo sguardo sui ragazzini elettrizzati che
incitavano gli adulti a spostare tavoli e sedie e mormorò:
«L’idea di una corsa a tre gambe genitori-figli
è
carina in sé, Charlie. Gli altri ragazzini l'hanno gradita
molto, infatti... è solo che...»
«E'
solo che mia madre ha il tatto di un Ungaro Spinato, a
volte» concluse l’uomo, scrutando triste il
ragazzino.
Teddy si
strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso. «Non
importa. Non è giusto che gli altri non possano fare una
cosa
solo perché non la posso fare io, in fondo. E poi neppure
mia
nonna scherza in quanto a mancanza di tatto, quando ci si mette. Credo
che Molly si sia pentita amaramente di avere esposto la sua brillante
idea».
Charlie
sorrise. «Penso tu abbia ragione: un’Andromeda
Black contrariata è molto peggio di un tuffo in uno stagno
abitato da ranocchie dal pessimo carattere» tacque un
istante,
quindi aggiunse: «Harry sarebbe felice di correre con te, se
tu
glielo chiedessi, sai?»
Teddy
annuì con decisione. «Lo so. Ma non sarebbe
giusto.
James vuole partecipare... e ha tutti i diritti di farlo».
«Ma...»
«Ma
niente, Charlie» tagliò corto Teddy,
accarezzando distratto il dorso del modellino di drago che, perso
interesse per la lanterna, gli si era posato sulle ginocchia.
Charlie
sospirò. «Hai ereditato la cocciutaggine di tua
madre, noto».
«Lo
dice anche nonna. Quindi suppongo sia vero».
Charlie
scosse il capo e, indicando il drago giocattolo, esclamò
soddisfatto: «Vedo che hai già imparato a farlo
volare.
Non è facile come sembra: James ha rischiato di distruggere
la
torta fatta da Fleur, nel tentativo. Credo che gli sfugga il concetto
di soffiare delicatamente».
Teddy si
strinse nelle spalle. «Probabile. O magari la sua
intenzione era proprio quella di distruggere la torta di
Fleur»
guardò titubante l’uomo sedutogli accanto e
aggiunse, un
po’ imbarazzato: «Insomma... le torte di Fleur sono
molto... er... come dire…»
«Ricercate?»
«Mmm.
Sì. Davvero molto ricercate,
ecco. Non tutti riescono ad apprezzarle».
Charlie
ridacchiò e prese con delicatezza tra le mani il modellino
di drago studiandolo con interesse.
«Mi
dispiace che non ci siano stati Ungari Spinati per tutti».
Teddy si
strinse nelle spalle. «A me no. Mi piace il Petardo Cinese.
Davvero. Lo trovo bellissimo».
Charlie
fissò Teddy con quell’aria di pensosa malinconia
che gli adulti avevano, talvolta, quando lo guardavano e a cui il
ragazzo aveva fatto l’abitudine, ormai, poi aggiunse, con
quel
tono di voce un po’ particolare che seguiva sempre gli
sguardi di
pensosa malinconia: «Tua madre pensava la stessa
cosa».
Teddy gli si
avvicinò, interessato. Era sempre curioso di
conoscere aneddoti sui suoi genitori, e Charlie era la fonte a cui
poteva attingere con minor frequenza in assoluto, quindi i suoi
aneddoti avevano ancora il fascino della novità.
«Davvero?»
«Sì,
oh, sì. A tua madre piacevano i draghi...
be’, in realtà le piacevano un po’ tutte
le
creature... uhm, come dire... diversamente
graziose, ecco».
Teddy
sorrise, ripensando a Manfred la Manticora e Charlie
continuò: «Quindi le piacevano anche i draghi. E
il
Petardo Cinese era senza dubbio il suo drago prediletto.
Perché
era strano. Diverso. E perché era colorato, non nero e
ordinario
come un banale Ungaro Spinato. Parole sue, eh...»
Teddy
ridacchiò divertito, poi si fece improvvisamente serio;
c’era una cosa che aveva chiesto a tutti e a cui nessuno
aveva
saputo dare una risposta… ma a Charlie non l’aveva
chiesta, ancora.
«Charlie…»
esitò, non era mai facile porre
quella domanda. Nessuno la prendeva bene. «Come è
successo? Come sono morti mamma e papà?»
Charlie
trasalì e il Tortotronco, disturbato dal brusco
movimento, si contorse con energia. L’uomo, ignorando
l’improvviso agitarsi delle fronde, trasse un aspro respiro e
si
sfregò mesto la fronte. «Io... non lo so,
Teddy».
Il ragazzino
si accigliò, scagliando rabbioso un grosso ciottolo
tondeggiante nello stagno. «Ma com’è
possibile che
non lo sappia nessuno!»
Charlie si
strinse nelle spalle e chiese con dolcezza: «E' davvero
così importante?»
«Sì
che lo è!» esclamò brusco il
ragazzino, poi serrò i pugni, abbassando lo sguardo e
sussurrò: «Perché a volte penso che la
loro morte
sia stata inutile. Che loro avrebbero dovuto starsene a casa, quella
sera. Con me».
«Capisco.
E quando pensi questo provi rabbia nei loro confronti, vero?»
Teddy
fissò corrucciato i cerchi concentrici che il sasso aveva
lasciato sulla superficie della stagno.
«Già»
mormorò Charlie senza attendere
risposta. «E questo ti fa stare male, perché ti fa
sentire
tremendamente fuori luogo e abbastanza colpevole, anche».
Teddy
alzò di scatto il capo, osservando l'uomo ad occhi sgranati.
Charlie
abbozzò un sorriso triste e disse: «Succede anche
a me, a volte, quando penso a Fred. Anch'io vengo assalito dall'idea
che avrebbe potuto starsene a casa, quella sera. E anch'io mi sento
malissimo dopo essermi concesso simili pensieri. Ma è umano
farli, Teddy. E in fondo tu sai che loro non avrebbero potuto starsene
a casa, quella sera. Proprio perché erano le persone che
erano.
E che no, la loro morte non è stata inutile
perché se
loro fossero rimasti a casa, quella sera, la storia avrebbe potuto
seguire un altro corso e a vincere potrebbe essere stato
Voldemort».
Il ragazzo
annuì. «Sì, però vorrei
ugualmente sapere come sono morti. Avrei tanto voluto incontrare
qualcuno in grado di dirmelo. Pensavo che tu...»
«Io?
Oh, io sono l'ultima persona che potrebbe saperlo,
Teddy» confessò Charlie con amarezza.
«Non
c’ero quella notte. Mentre divampava la Battaglia di Hogwarts
io
ero in Romania, a fare da balia a quattro uova di Opaleye. Quando sono
arrivato al Castello era praticamente già tutto finito. Non
ho
potuto neppure tentare di aiutare Fred e i tuoi genitori».
«E
questo ti fa stare male, perché ti fa sentire tremendamente
fuori luogo e abbastanza colpevole, anche».
Charlie
scrutò il ragazzino, allibito e Teddy si strinse nelle
spalle. «Succede anche a me».
«A
te? Ma tu non potevi di certo essere al loro fianco quella notte! Eri
un neonato!»
«E
tu eri in Romania».
«Ma...
non è la stessa cosa! Io avrei potuto esserci!
Avrei dovuto esserci! Avrei dovuto tornare prima in
Inghilterra».
«E
io avrei dovuto nascere qualche anno prima!»
«Ma...
Teddy, ti rendi conto che è un ragionamento del tutto privo
di senso, vero?»
«Certo.
Come il tuo».
Charlie
sbuffò esasperato, poi scosse il capo, sconfitto.
«Sei identico a tua madre, talvolta. Ugualmente
snervante!»
Teddy
sogghignò: «Lo dice anche la Professoressa
O'Sullivan».
«O'Sullivan?
Erin O'Sullivan?»
«Sì.
Si ricorda di mamma ai tempi della scuola... e ha
persino conosciuto il mio nonno paterno, sai? Sostiene di avergli
insegnato i rudimenti della lotta Babbana...»
Charlie
ridacchiò. «Sì, deve essere proprio
lei,
allora. Il Battitore più attaccabrighe della storia di
Tassorosso, credo. Non ho mai conosciuto nessuno in grado di
ammaestrare i Bolidi come lei! E cosa insegna?»
«Difesa
contro le Arti Oscure».
Charlie
annuì soddisfatto. «Appropriato, direi».
«Già»
Teddy scagliò l'ennesimo sasso nello
stagno, studiando pensoso i preparativi che fervevano nel pezzetto di
prato davanti all'ingresso della Tana. «Pare che tutto sia
pronto
per la disputa».
«Pare.
Mi dispiace davvero Teddy, non so che sia preso a mia
madre...»
Teddy si
strinse nelle spalle. «Nulla. Ha solo avuto un'idea
brillante e carina. Sarebbe piaciuta anche a me se… credi
che
mio padre vi avrebbe partecipato?»
Charlie
corrugò la fronte, pensoso. «No, non credo ci
sarebbe riuscito».
Teddy
scrutò la luna quasi piena. «Ma non è
una notte di plenilunio».
Charlie
sogghignò. «Non ci pensavo neppure al plenilunio.
Solo che sarebbe stata sicuramente Tonks a partecipare alla corsa con
te. A costo di Schiantare Remus!»
«Ah,
ecco. Mi sarebbe piaciuto molto, sai Charlie? Non che mamma
Schiantasse papà, sia chiaro, ma partecipare alla gara con
uno
dei due...»
Charlie si
sistemò più comodamente contro il Tortotronco
e sospirò. «Sarebbe piaciuto molto anche a me,
Teddy.
Soprattutto perché questa gara non avrebbe avuto un
vincitore
annunciato. Perché sappiamo tutti come andrà a
finire
questa gara, vero? Bill e Victoire l'hanno già vinta. Sono
anche
abbastanza sicuro che Bill stia già meditando su come
assillare
tutti noi con la sua eclatante vittoria. Come se non sapesse che tutti
gli altri saranno intralciati dai rispettivi nanerottoli - certo, a
Percy e Hermione non serviranno neppure i nanerottoli, visto che sono
già bravissimi a intralciarsi da soli - non c'è
scampo» concluse mesto.
«Già»
convenne Teddy, rassegnato.
«A
meno che...» Charlie si alzò di scatto, facendo
sussultare Teddy e provocando una vivace reazione del Tortotronco.
«Ci sarebbe un modo per rendere meno scontata la vittoria di
Bill, Teddy» esclamò ispirato, ignorando il
minaccioso
vorticare di fronde. «Dipende solo da te».
«No,
ti ho già detto che non chiederò a Harry di
gareggiare con me. Non sarebbe giusto».
Charlie lo
gratificò di uno di quei sorrisi inquietanti che, a
volte, illuminavano anche il viso di George. «Io non pensavo
a
Harry, infatti, ma...» si accovacciò di fronte al
ragazzo,
fissandolo serio negli occhi e, dopo un istante di esitazione
disse: «Io non ho un figlio con cui partecipare alla gara,
Teddy.
Così mi chiedevo: mi faresti l'onore di gareggiare in
squadra
con me? Sono sicuro che i tuoi genitori approverebbero, in
fondo...» indicò con un gesto vago Bill e Victoire
che si
stavano avviando alla linea di partenza sfoggiando la sicurezza tipica
di una compagine sicura della propria innegabile
superiorità.
«E' per una nobile causa: prevenire gli autoincensamenti con
cui
Bill assillerà chiunque gli capiterà a tiro per i
prossimi sei mesi».
Teddy si
alzò con cautela, senza disturbare il Tortotronco.
«E' per il Bene Superiore, insomma. Sì, mamma e
papà approverebbero di sicuro. Anzi...» sorrise
malandrino
afferrando una mano dell'uomo inginocchiato e costringendolo ad
alzarsi. «Mi sa proprio che si arrabbierebbero se non accettassi
questa tua ragionevole e brillante proposta, Charlie!»
«Sa
anche a me!» convenne Charlie alzandosi. «E non
è mai stata una cosa saggia fare arrabbiare Tonks,
sai?»
Teddy rise e,
sotto lo sguardo soddisfatto di un battaglione di
ranocchie gracidanti, trascinò senza tanti complimenti
Charlie
verso la Tana.
Casa Tonks, 31 luglio
2012 A.D.
Teddy, appoggiandosi
al davanzale della finestra, osservò
assorto le stelle che punteggiavano il limpido cielo color inchiostro.
Teddy amava
scrutare la volta stellata. Lo trovava piacevole. E rassicurante.
Probabilmente
perché anni prima, in una tiepida sera di maggio,
al ritorno dalla celebrazione della sconfitta di Voldemort, Luna
Lovegood lo aveva preso da parte e gli aveva raccontato una fantasiosa
- e rassicurante - storia sulle persone che, quando morivano, si
trasferivano sulle stelle.
Gli aveva
persino indicato quella abitata dalla signora Lovegood.
Teddy l'aveva
ascoltata rapito, e aveva subito cominciato a cercare
quella dei suoi genitori - era certo che si fossero trasferiti sulla
stessa stella, una stella molto luminosa e non troppo vicina alla luna,
secondo i suoi calcoli - identificandola con estrema sicurezza nella
più brillante di tutte: Sirio.
Da quella
sera, ogni volta che Teddy si sentiva solo, si trovava
istintivamente a scrutare la volta stellata e, anche se ora sapeva che
i suoi genitori non si erano affatto trasferiti su una stella, questo
semplice gesto bastava a calmarlo.
Sospirando,
il ragazzo distolse lo sguardo dal cielo spostandolo sulla
strada illuminata dalla luce aranciata di un lampione: un uomo lacero e
scarno camminava frettoloso lungo la via, il capo chino, le spalle
curve e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Quando una
grossa civetta lo sorvolò, posandosi silenziosa sul
davanzale della finestra di Teddy, l'uomo si fermò,
sollevò il viso nascosto dai lunghi capelli arruffati, e
riprese
il suo faticoso cammino, come se trovasse normale vedere una civetta
appollaiarsi su un davanzale.
E Teddy
sospettava fosse proprio così.
Conosceva
quell'uomo: era un tipo stravagante che da sempre - per
quanto Teddy riusciva a ricordare - deliziava i ragazzini della zona
con le sue fascinose storie popolate da sdegnose chimere e da lupi
mannari singolarmente gentili. E, spesso, guardava Teddy con lo stesso
sguardo triste e colpevole con cui lo guardavano, a volte, un po' tutti
gli adulti che avevano conosciuto i suoi genitori. Teddy era quasi
certo che fosse un mago... anche se non lo aveva mai visto fare magie e
non era tra le conoscenze di nonna Andromeda.
Non che nonna
Andromeda ne avesse poi molte, di conoscenze...
Quando la
civetta gli beccò sdegnata una mano, il ragazzo si
riscosse e, accarezzandole gentilmente le soffici piume argentate,
prese la pergamena arrotolata sulla zampa destra della bestiola.
Era
indirizzata a nonna Andromeda e il ragazzo riconobbe l'elegante
calligrafia con cui era vergata.
Teddy non
sapeva di preciso chi le mandasse, ma arrivavano spesso lettere scritte
con quella calligrafia.
Sempre
indirizzate alla nonna che si rifiutava regolarmente di aprirle.
Sospirando,
il ragazzo aspettò che la civetta ripartisse,
sollevato dal fatto che nessuno si trovasse nei paraggi per assistere
al suo volo, quindi scese silenzioso le scale, intenzionato a lasciare
la lettera nello studio del nonno e ad approfittare dell'occasione per
saccheggiare la libreria: non aveva sonno, quella notte, e qualcosa di
interessante da leggere era proprio quello che gli serviva.
«Non
riesci a dormire neppure tu, tesoro?»
Teddy
trasalì al suono di quella voce.
Aveva dato
per scontato che la nonna fosse già andata a letto.
Non si
aspettava certo di trovarla ancora lì, seduta sulla sua
poltrona preferita, in penombra, intenta a scrutare assorta una
rigogliosa aspidistra.
«No,
sono troppo eccitato per avere sconfitto Bill e
Victoire» rispose, sperando che la nonna gli credesse. Era
davvero contento del successo riportato, in fondo. Tutti alla Tana lo
erano. Tranne Bill, naturalmente...
«Comprensibile»
mormorò Andromeda, posando sul
tavolino la grossa cornice d'argento che teneva in grembo.
«Sei
stato molto bravo, tesoro. Loro...» indicò con un
lieve
cenno del capo la cornice. «Sarebbero molto fieri di
te».
Teddy
annuì, non aveva bisogno di guardare la fotografia
contenuta nella cornice per sapere di chi stesse parlando la nonna.
«E
anch'io lo sono» affermò la strega, sollevando su
di lui uno sguardo intenso e triste.
Teddy sapeva
cosa cercava la nonna quando lo guardava in quel modo. E sapeva cosa
fare per aiutarla a trovarlo.
Gli bastava
ricorrere ai suoi poteri di Metamorfomagus.
Non amava
farlo, di solito. Oh, era orgoglioso e felice di possederli -
erano qualcosa che gli ricordava sua madre - ma non amava esibirli in
pubblico con disinvoltura. Perché, fondamentalmente, non
amava
essere notato. Preferiva passare inosservato, senza nessuno che lo
indicasse agli altri. E non era facile passare inosservati quando si
sfoggiavano capelli di uno sfolgorante turchese. Era un po' come essere
l'unico, coloratissimo Petardo Cinese in un branco di banali Ungari
Spinati. Teddy non lo trovava particolarmente piacevole.
Ma, quando la
nonna lo guardava in quel modo, non esitava a ricorrere alle sue
capacità.
In fondo era
una piccolo sacrificio, ampiamente ripagato dalla
serenità che addolciva lo sguardo della nonna in quei
momenti.
Quindi
socchiuse gli occhi, virò i suoi capelli castano chiaro a
una brillante tonalità di turchese - la nonna avrebbe
preferito
un bel rosa cicca, lo sapeva, ma che diamine, anche lui aveva una sua
dignità - e, avvicinatosi alla donna, le si
accoccolò
davanti, godendosi l'improvviso, tenero sorriso che le distese il volto.
«Lo
so, nonna» disse con tono allegro, nel tentativo di
dare un ulteriore scossone alla momentanea malinconia della strega.
«Anche Charlie era al settimo cielo... suppongo che un po'
tutti
lo fossero. Bill è un po'... stancante quando si esalta per
qualcosa».
«Sì,
non che Charlie lo sia meno, però».
Teddy
corrugò la fronte, pensieroso. «No, ma Charlie
tornerà presto in Romania... dovremo sopportarlo per meno
tempo,
se non altro!»
Andromeda
rise, scompigliando affettuosa i capelli del nipote poi,
scorto il plico che il ragazzo stringeva in mano, si
accigliò
nuovamente. «Ti ha scritto ancora Simon? Quel ragazzo
è un
vero grafomane! Cos'ha scoperto di fantasticoso,
questa volta?»
Teddy
sogghignò: Simon, il suo migliore amico nonché
compagno di dormitorio, era davvero un grafomane... e un grafomane
pieno di entusiasmo, anche. Era figlio di Babbani, ed era letteralmente
incantato dalle fantasticose
(oltre che grafomane, Simon era anche un fantasioso coniatore di
neologismi) cose da maghi. E Teddy adorava ascoltarlo - o leggerlo -
mentre parlava trasognato delle meraviglie del mondo magico,
perché trovava davvero fantasticoso
guardare cose per lui scontate attraverso gli occhi di Simon!
«Allora,
Teddy, quale messaggio di irrinunciabile importanza si
è sentito in dovere di comunicarti a quest'ora di notte il
nostro Simon?»
Teddy - che
sospettava che la nonna adorasse quanto lui l'entusiasmo di
Simon - scosse il capo. «Oh, no... Simon non c'entra questa
volta. E' per te, nonna».
La strega si
alzò di scatto dalla poltrona, prese la lettera e
la fece Evanescere con un gesto rabbioso. Faceva sempre così
con
le lettere scritte con quella calligrafia.
«Nonna,
ma chi...»
«Nessuno,
Teddy. Nessuno».
Teddy
inarcò un sopracciglio, scettico. E la donna
sospirò, lasciandosi cadere sulla poltrona.
«Nessuno di
cui valga la pena parlare, almeno».
«Ma
sono anni che questo Nessuno
ti manda lettere, forse deve dirti qualcosa di importante».
«Non
credo. Questo Nessuno
non ha mai avuto nulla di importante da dirmi. Non ha reputato
abbastanza importante neppure comunicarmi di avermi fatta diventare
zia...»
«Ti
ha fatta diventare zia?»
Andromeda
fissò il nipote con intensità, quindi
mormorò con amarezza: «Questo Nessuno era mia
sorella... una volta».
Teddy
sgranò gli occhi, sconcertato. «Pensavo non ci
fosse
più nessuno della tua famiglia d'origine, nonna!»
«E'
così. La mia famiglia sei tu, Teddy. E la famiglia di
Harry... non certo la famiglia di Vermicolo Malfoy!»
«Vermicolo
Malfoy?»
«Il
marito di questo Nessuno».
«Ah...
un nome... insolito, non credi?»
Andromeda
rise abbracciando il nipote. «Sì, be', non
è proprio il suo nome... è più una
specie di
soprannome - adattissimo a mio parere - affibbiatogli da mio cugino
Sirius. Harry ti ha parlato di Sirius, vero?»
Teddy
annuì. «Sì. Era il suo padrino! Ed era
uno dei migliori amici di papà…»
«Esatto.
Uno dei pochi parenti che davvero considero tali».
«Uno
dei pochi?»
«Uno
dei due, in effetti. Ti ho mai parlato di zio Alphard?»
Teddy scosse
il capo, incuriosito.
«Ah,
un uomo affascinante. Un po' stravagante, se vogliamo.
L'unico della mia famiglia oltre a Sirius a non avermi allontanata dopo
il mio matrimonio con nonno Ted... anzi, mi fece persino un regalo di
nozze, sai? Un regalo stravagante quanto lui. Neppure tua madre ha mai
voluto indossarlo».
Sorrise
alzandosi dalla poltrona e, circumnavigando la rigogliosa
aspidistra, si avvicinò all'antico armadio di legno
intarsiato
che occupava un angolo della stanza, aprì con delicatezza le
antine di cristallo, estrasse qualcosa e tornò dal nipote.
Teddy
osservò incuriosito lo strambo aggeggio che la nonna
stringeva tra le mani: sembrava una specie di incrocio tra un antiquato
medaglione e un orologio da taschino. Il coperchio era delimitato
dall'immagine di un serpente acciambellato su se stesso, mentre, al
centro dell'oggetto, una piccola fenice color corallo sorgeva maestosa
da vivide fiamme argentate .
Affascinato,
il ragazzo prese l'oggetto dalle mani della nonna e
trattenne il respiro, incredulo, quando ricordò dove aveva
già visto quello stravagante gingillo: durante una punizione
con
la professoressa O'Sullivan - seguita a un ardito esperimento che
coinvolgeva un Molliccio un poco anarchico e Mastro Gazza - Teddy aveva
avuto l'incarico di sistemare la caotica libreria della professoressa
(nessuno gli avrebbe mai tolto il sospetto che la professoressa
O'Sullivan avesse in realtà apprezzato l'ardito esperimento,
visto che sapeva perfettamente che per Teddy trafficare con i vecchi
libri era tutt'altro che una punizione) e si era imbattuto in un
decrepito diario scritto da una tale Althea.
Lo aveva
sfogliato distrattamente, non molto interessato a sfornare
deliziosi dolcetti al miele e, meno che mai, a conquistare un
misterioso Grifondoro dai languidi occhi da randagio, ma era rimasto
affascinato da un disegno schizzato su una pagina fittamente vergata a
caratteri runici. Teddy aveva appena cominciato il corso di Rune
Antiche, quindi aveva compreso solo che l'oggetto ritratto era una
delle leggendarie Chiavi del Tempo.
«Tranquillo,
tesoro» disse Andromeda, una sfumatura
divertita nella voce. «Non ho alcuna intenzione di
costringerti a
indossarlo. Zio Alphard aveva gusti molto particolari... ma nemmeno lui
ha preteso che lo portassi. Mi disse solo che lo avrei trovato utile se
mai mi fossi pentita di avere sposato il nonno. Non ho mai capito come,
ad essere sinceri. E' un oggetto di un gusto discutibile, certo, ma non
abbastanza discutibile da spaventare nonno Ted».
Tacque un
istante, pensierosa, poi si diresse nuovamente all'armadio e
tornò reggendo una vecchia pergamena.
«Assieme
al medaglione mi consegnò anche questa, io non so
decifrare le rune ma tu sei molto bravo in questo, mi dicono. Se ti va
di svelare il mistero di questo aggeggio di gusto particolare dando un
senso ai deliri di zio Alphard, fai pure».
Teddy
afferrò la pergamena con mano un po' tremante, scorse
frenetico le rune, sgranando gli occhi, sempre più
incredulo.
Non poteva essere... forse aveva capito male.
Era
probabile, in fondo.
Era da un bel
po' che non ripassava le rune.
E lo sapevano
tutti che le Chiavi del Tempo esistevano solo in una fiaba per bambini.
Non erano più reali di Baba Raba.
Però
la maggior parte della gente pensava che anche i Doni della
Morte esistessero solo in una fiaba per bambini, e Teddy sapeva che non
era così.
In preda a
una crescente euforia strinse con forza il medaglione e la
pergamena tra le mani e, dopo avere abbracciato con irruenza la nonna,
che ridacchiò mormorando qualcosa a proposito di slanci
tonksiani, tornò di corsa in camera sua, cercando
disperatamente
di ricordare dove avesse abbandonato il libro di Rune Antiche.
Perché,
se quello stravagante dono di zio Alphard era davvero una Chiave del
Tempo lui avrebbe potuto...
*****
Casa Tonks, 2 maggio
2018 A.D.
Dopo avere posato
l'antica pergamena sul comodino, Teddy si sedette sul
letto, fissando il massiccio medaglione dorato che teneva tra le mani e
sfiorò con delicatezza la piccola fenice scarlatta che ne
occupava il centro.
Forse, grazie
a quello stravagante oggetto, avrebbe potuto rendere il mondo ancora un
pochino migliore… almeno per lui.
Forse.
Ma doveva
agire velocemente.
Vent'anni.
Non uno di più.
La pergamena
era molto chiara in proposito: quello che aveva sempre sognato di fare
andava fatto quella notte o mai più.
E quel mai più
suonava malissimo per Teddy.
Ma ora era
pronto. Forse.
E avrebbe
agito quella notte. Forse.
Perché,
prima di potersi buttare in quell'avventura, doveva chiarire una
questione fondamentale con Harry.
E, cosa
probabilmente più complicata, doveva convincere la
propria coscienza che non si stava comportando come un egoista
insensibile.
Doveva
convincerla che salvare due vite era meglio che non salvarne
nessuna e che Molly avrebbe capito. Perché anche Molly amava
Ninfadora Tonks e Remus Lupin.
Victoire, per
lo meno, ne era sicura.
Teddy era
ancora sorpreso dalla facilità con cui Victoire si era
lasciata convincere della bontà di quell'intenzione.
Anzi, forse
era più corretto dire che era stata proprio la
reazione di Victoire a convincere lui che quell'intenzione, forse, non
era poi così deprecabile.
Peccato che
la sua bisbetica coscienza ponesse ancora qualche
resistenza. Oh, era davvero bravissima a porre resistenze, la sua
bisbetica coscienza... e molto meno facile da convincere di Victoire.
Erano quasi
sei anni - dalla notte in cui nonna Andromeda gli aveva
mostrato lo stravagante dono di nozze di zio Alphard, per la precisione
- che Teddy si domandava con una punta di irritazione perché
proprio a lui doveva essere toccata in sorte una coscienza tanto
bisbetica... e tanto talentuosa nel generare ostinati sensi di colpa.
Sospirando,
il giovane si scostò una ciocca di capelli dalla
fronte e sbirciò l'orologio che portava al polso: si stava
facendo tardi.
Ed erano
attesi da Harry per cena, strano che la nonna non lo avesse
ancora convocato con urla che avrebbero fatto impallidire la Banshee
più vocalmente dotata del Vecchio Continente.
Un po'
sconcertato, Teddy si alzò dal letto, afferrò il
giubbetto di jeans abbandonato sul vecchio scrittoio - niente vesti da
mago quella sera, meglio optare per discreti abiti Babbani -
recuperò la vecchia pergamena sistemandola con cautela in
una
tasca e indossò il vecchio medaglione.
Nonna
Andromeda sarebbe stata sorpresa da quella decisione insolita:
finalmente qualcuno avrebbe indossato lo stravagante regalo di zio
Alphard.
Non era
nemmeno così brutto, a parere di Teddy.
Certo, non
era raffinato
come
il vecchio portaombrelli di ceramica bianca, decorato con paffuti
puttini e rigogliose ghirlande di frutta, andato distrutto in un
increscioso incidente provocato da Teddy e da un misterioso incantesimo
letto su un vecchio libro polveroso. Increscioso incidente che nonna
Andromeda non dimenticava di raccontare in ogni occasione possibile,
rimpiangendo la devastante perdita di quel raffinato
portaombrelli.
Teddy non
l’aveva mai considerata tanto devastante, quella perdita.
Ma, del
resto, lui non era dotato di gusti particolarmente raffinati…
Un
po’ preoccupato dalla mancata convocazione della nonna, Teddy
scese in salotto e, aggirandosi tra delicati tavolini di cristallo e
rigogliose aspidistre, intraprese una scrupolosa ricerca della strega.
Non
trovandola da nessuna parte si sedette sul divano, scrutando
pensoso il lucente portaombrelli di indistruttibile acciaio che aveva
sostituito il suo raffinato predecessore. Sperava
ardentemente
che nonna Andromeda non fosse ancora andata a protestare con lo scarno,
lacero cantastorie che spesso e volentieri si accoccolava sul muretto
che delimitava il perimetro di Casa Tonks, intrattenendo
ciurme
di ragazzini incantati dalle sue storie fantastiche.
Era bravo a
raccontare storie e Teddy lo trovava simpatico - da
ragazzino si fermava spesso ad ascoltarlo, coinvolgendo anche Simon
quando veniva a trovarlo - ma la nonna non riusciva a comprendere
perché dovesse sempre posizionarsi davanti all'ingresso di
casa,
quasi si fosse preso la briga di improvvisarsene guardiano. Tra
l'altro, secondo la nonna, era anche poco credibile come guardiano...
Un improvviso
colpo sordo proveniente dalla cantina, seguito da un
grido soffocato, fece sobbalzare il giovane mago che, allarmato,
scattò in piedi e scese di corsa le scale fermandosi
sbigottito
davanti alla scena che lo accolse: Nonna Andromeda, con la schiena
appoggiata alla parete, osservava pietrificata il corpo senza vita di
un giovane uomo dall'aspetto familiare disteso al centro della stanza,
accanto a un vecchio baule socchiuso.
Prima che
Teddy potesse dare un senso alla scena, la nonna agitò
debolmente la bacchetta magica, mormorando con poca convinzione
qualcosa di incomprensibile.
L'unico
effetto ottenuto dall'incantesimo fu che i capelli castano
chiaro del giovane uomo dall'aspetto familiare virarono a un turchese
acceso.
E Teddy,
sempre più sconcertato, si rese conto che quel corpo non gli
era solo familiare... era proprio il suo.
Nonna
Andromeda singhiozzò, lasciando cadere la bacchetta e
Teddy, comprendendo cosa stava succedendo, impugnò la
propria
accostandosi al corpo e scrutandolo scosso: che situazione surreale.
Con un secco Crack il cadavere
si trasformò in un uomo tarchiato, vivo e vegeto, che si
avvicinò minaccioso a Teddy brandendo una bacchetta nodosa.
«Riddikulus»
esclamò Teddy con sicurezza e il sobrio mantello nero che
avvolgeva l’uomo tarchiato si dissolse, sostituito da un
vezzoso
tutù rosa confetto.
L’uomo
cominciò a volteggiare, più o meno
leggiadro, per la stanza per poi dissolversi in uno sbuffo di fumo.
Teddy
rinfoderò la bacchetta e si avvicinò alla nonna
mormorando desolato: «Nonna...»
La donna lo
azzittì con un cenno e, sedendosi su una vecchia
seggiola un po' traballante, disse: «Sto bene, tesoro. Era
solo
un banale Molliccio che ho disturbato aprendo quel baule. Mi ha colto
alla sprovvista, ecco tutto. Non me lo aspettavo e da una ventina
d'anni a questa parte non è più così
semplice
sconfiggere un Molliccio, per me» sollevò sul
nipote uno
sguardo triste. «Non è facile renderlo
divertente».
Teddy
fissò assorto la macchia umida lasciata sul pavimento di
ceramica dal Molliccio e scosse il capo, mesto. «No. Non lo
è».
«Il
tuo era davvero molto divertente, invece. Un po' raccapricciante... ma
molto divertente».
Teddy
sorrise, ricordando come era nata l'idea per sconfiggere il suo
Molliccio.
Si era molto
preoccupato quando, una luminosa mattina di ottobre, la
Professoressa O'Sullivan era entrata nella Sala Grande annunciando
euforica che, durante la lezione di Difesa del giorno successivo,
avrebbero avuto il piacere di esercitasi con un vero Molliccio.
Teddy sapeva
perfettamente cosa era un Molliccio - adorava immergersi
nella lettura dei vecchi libri appartenuti al padre - e sospettava che
il suo sarebbe stato più difficile da sconfiggere del
calabrone
gigante e peloso che popolava gli incubi di Simon.
Perché
la cosa che Teddy temeva di più erano i
Mangiamorte. O meglio, i Mangiamorte che avevano ucciso i suoi
genitori. Figure senza un’identità precisa, senza
un
volto, e questo non faceva che renderli ancora più
inquietanti… come si poteva rendere divertente qualcosa che
ti
terrorizzava e che non conoscevi?
Era stato
Neville a suggerirgli l’idea per sconfiggere il
Molliccio, consigliandogli di immaginarsi il soggetto in questione
strizzato nel vestito più buffo e inadatto che poteva
immaginare.
Teddy aveva
colto con scetticismo quel consiglio, all'inizio, ma
Neville aveva assicurato che con lui quella tattica aveva funzionato
alla perfezione. E che era stato proprio Remus a suggerirgliela.
Teddy si era
quindi fidato e, al momento cruciale, aveva visionato il
vezzoso tutù indossato dalla sorella di Simon nella foto che
campeggiava sopra il letto dell'amico (Neville aveva parlato di vestiti
della nonna… ma i vestiti di nonna Andromeda erano troppo
sobri
per servire allo scopo. Nessun cappello dotato di volatile impagliato
soggiornava nell'armadio di nonna Andromeda). Ma quel vezzoso
tutù… oh, alla sorella di Simon stava d'incanto,
tutti i
ragazzi del dormitorio passavano ore in contemplazione del vezzoso
tutù della sorella di Simon (o della sorella di Simon, per
essere precisi, ma questa cosa era sempre stata accuratamente nascosta
a Simon medesimo) ma sul Mangiamorte… l’effetto
era
davvero molto differente.
«E
anche un Mangiamorte non è facile da rendere
divertente» affermò Andromeda distogliendo Teddy
dai suoi
ricordi.
Il ragazzo le
si avvicinò, socchiudendo gli occhi per virare i capelli
verso un colore tonksiano,
come era solito fare nelle rare occasioni in cui sorprendeva la nonna
in un momento di malinconia, ma la strega lo fermò con una
carezza e sussurrò: «No, Teddy, non farlo.
Lasciali del
loro colore naturale. Sono come quelli del tuo
papà»
sorrise divertita «io e tua madre glielo avevamo detto che
eri
identico a lui... ma lui insisteva nel dire che eri identico a
Ninfadora. E' sempre stato parecchio cocciuto...» tacque un
istante, poi sospirò. «Mi manca anche lui, sai? Mi
piaceva
molto... se solo avessi avuto il tempo di dirglielo...»
Teddy
l'abbracciò stretta, rattristato dall'amara tristezza che
vibrava nella voce della nonna. Sapeva che il rapporto della nonna con
suo padre era stato faticoso, all'inizio. Era, però, sicuro
che
il mago aveva capito i motivi della nonna. Ma non sarebbe mai riuscito
a convincere lei: era cocciuta almeno quanto sosteneva lo fosse Remus
Lupin. E solo Remus Lupin in persona sarebbe riuscito nella disperata
impresa di convincerla di quella cosa.
La fiera
resistenza posta dalla sua bisbetica coscienza stava
vacillando, constatò Teddy un po' sorpreso, indebolita da
una
semplice constatazione: se quella notte lui fosse davvero riuscito
nella sua impresa, il mondo sarebbe stato un pochino migliore anche per
nonna Andromeda.
Casa Potter, 2 maggio
2018 A.D.
Teddy era immerso
nei propri pensieri, non era facile trovare il modo più
adatto per porre a Harry quella
domanda.
Era una
domanda delicata.
Ma Teddy
proprio non poteva evitare di farla. Doveva sapere se
l’eventuale mancanza di Remus tra le quattro Anime che
avevano
accompagnato Harry nella sua difficile camminata nella Foresta
Proibita, proteggendolo dal manipolo di Dissennatori in attesa e
sostenendolo nel momento della resa a Voldemort, avrebbe cambiato la
scelta di Harry.
Teddy,
conoscendo il padrino, pensava di no… ma non poteva non
chiedere.
Harry
rispondeva sempre con sincerità e chiarezza alle domande
che Teddy gli poneva. Da sempre. E Teddy era sicuro che avrebbe
risposto con sincerità e chiarezza anche a quella domanda.
Ma voleva
pensare bene a come porla, perché Harry non amava
parlare di quell’avvenimento e Teddy non amava mettere in
difficoltà Harry.
Ma non era
facile pensare a come affrontare un argomento tanto delicato
mentre due ragazzini esagitati parlavano frenetici tra di loro
coinvolgendolo nelle loro chiacchiere spensierate.
Teddy, non
volendo rattristarli, anche se con la testa era da
tutt'altra parte, fingeva grande interesse e, di tanto in tanto,
annuiva con estrema partecipazione.
Era rischioso
come comportamento, e lo sapeva. L’ultima volta che
aveva finto grande interesse e annuito con estrema partecipazione
mentre era immerso nei propri pensieri, si era ritrovato arruolato in
una spedizione di ricerca spinta dall’ammirevole intento di
trovare una colonia di Nargilli.
Ma ora non
era Natale e non c'era vischio nei paraggi. I Nargilli non
avrebbero dovuto costituire un problema, al momento…
«Teddy?
Tu quanti anni avevi quando lo hai fatto per la prima volta?»
Il giovane
mago si riscosse dai suoi pensieri, scrutando allibito la ragazzina dai
capelli ramati che gli sedeva accanto.
«Io...
temo di essermi perso qualcosa, Lily, di cosa stiamo
parlando, esattamente?» indagò, giocherellando
distratto
con la grossa fetta di crostata al rabarbaro che aveva nel piatto e
sperando ardentemente che la prima volta in questione non riguardasse
in nessun modo Victoire Weasley.
«La
prima volta che hai volato su una vera scopa,
naturalmente» precisò la piccola, scoccando
un’occhiata infuocata alla madre.
Sollevato,
Teddy posò la forchetta e corrugò la fronte.
«Oh... sì... otto anni, credo. Più o
meno»...
... Continua ne
“La Chiave del Tempo”
Ed eccoci arrivati alla decima tappa del nosto Viaggio.
L'ultima tappa.
Ebbene sì, il nostro avventuroso viaggio sulle tracce dei
Custodi delle Chiavi del Tempo è giunto al termine.
L'Ultima Chiave, concluso il suo tortuoso cammino, è giunta
nelle mani
dell'Ultimo Custode - almeno per il momento - Teddy Remus Lupin.
Se volete sapere come Teddy la userà dovete solo leggere "La
Chiave
del Tempo" (comincia esattamente dal punto in cui si conclude questa
storia).
Se lo farete, l'Ultimo Custode ne sarà contento. E io con
lui! ^^
E voi potrete scoprire cosa accomuna un ragazzino romano vissuto nella
Britannia del I secolo D.C. a un giovane mago che vive nell'Inghilterra
di venti secoli dopo.
Ora le ultime "Note di Servizio" di questa storia:
Il Tortotronco
è una
mia invenzione, J.K. Rowling non ce ne ha mai parlato... ma a me
serviva qualcosa del genere.
Spero ardentemente di non aver offeso
troppo i puristi del Mondo della Rowling con la sua opinabile
invenzione... ^^
Il lacero Cantastorie citato di sfuggita in questo capitolo
avrà
un importante ruolo ne "La Chiave del Tempo", quindi mi pareva carino
accennare a lui anche qui.
Infine, so che il "mio" Teddy è piuttosto distante dal Teddy
medio delle fanfiction. Non è una specie di irresistibile
cataclisma dai capelli cangianti, ma un ragazzo normalissimo,
forse un po' più maturo dei suoi coetanei, e soggetto anche
a
(rari, per la verità) momenti di malinconia.
Questo potrà forse sembrare strano a molti, ma io Teddy lo
immagino
così (lo vedo molto più simile a Harry che a Ron
o ai gemelli, per intenderci, vista e considerata la sua storia
personale) e non ci
posso fare nulla. ^^
Per concludere: un ringraziamento a tutti coloro (sono tantissimi e non
me lo aspettavo tenuto conto della particolarità di questa
storia) che hanno letto "I Custodi delle Chiavi del Tempo", a quelli
che l'hanno inserita tra le preferite o le ricordate e, soprattutto, a
coloro che sono stati tanto carini (e pazienti) da farmi conoscere i
loro
pareri.
Sappiate che sto già pensando a una sorta di Epilogo (che
temporalmente si va a posizionare prima dell'Epilogo de "La Chiave del
Tempo").
Prima o poi troverò il tempo di scriverlo... e, magari, il
modo
di pubblicarlo! Fatevene una ragione. ;)
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