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di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Not over at all ***
Capitolo 2: *** Body and Spirit ***
Capitolo 3: *** My part of her ***
Capitolo 4: *** Change of programs ***
Capitolo 5: *** Your happiness is there, with them ***
Capitolo 6: *** Bomb news ***
Capitolo 7: *** Home, nasty home ***
Capitolo 8: *** Impossible ***
Capitolo 9: *** If I could change the currents of our lives ***
Capitolo 10: *** First day, like another ***
Capitolo 11: *** You should shut up, 'cause this is love ***
Capitolo 12: *** Shattered ***
Capitolo 13: *** It's time (Don't forget us) ***
Capitolo 14: *** Save me ***
Capitolo 15: *** Prisoner of pain ***
Capitolo 16: *** Bye, mum ***
Capitolo 17: *** A love like ours ***
Capitolo 18: *** From the dark, into the light ***
Capitolo 19: *** Sunlight ***
Capitolo 20: *** Overdose of you ***
Capitolo 21: *** Archangel of the Sun ***
Capitolo 22: *** Come back ***
Capitolo 23: *** Epilogo - All this time, we were waiting for each other ***



Capitolo 1
*** Not over at all ***


Allora... Io non so bene perché, ma la mia mente mi ha fatto immaginare un terzo sequel per Franky. L'ispirazione è stata così forte che non ho proprio potuto dirmi di no, che ormai questa storia era bella che finita. Forse anche perchè sono molto, molto, molto - e ripeto molto - affezionata a questa storia e a questi personaggi - Franky per primo. Quindi... l'ho scritto. 
Non sapevo se pubblicarlo ed è stato davvero difficile decidere, ma... penso che sia meglio che giudichiate voi. Perchè siete voi che rendete grande e soprattutto possibile una storia, no? Quindi, a voi l'arduo compito di giudicare e nel migliore dei casi di approvare.
Spero davvero che questa storia non rovini tutto ciò che c'è stato prima - Nothing ed Everything - e che sia capace di trasmettervi qualcosa. Ah, come sempre ripeto: i Tokio hotel non mi appartengono e con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo.
Ora vi lascio leggere :) 
Grazie dell'attenzione!

P.S. Dico subito che la canzone che ho usato in questo capitolo è Phantom rider, dei TH *-*

1. Not over at all

 

Stava per tornare al suo appartamento, dove avrebbe passato l’ennesima noiosa serata di fronte alla tv. Magari avrebbe preparato la lezione per il giorno successivo, nella quale avrebbe parlato degli Intrappolati.
Sorrise ripensando a Jole e a tutto quello che avevano passato insieme a quella banda di sciamannati.

Erano anni che non li guardava negli occhi sapendo di essere visto, come erano anni che aveva iniziato a fare il professore nella stessa scuola che aveva dovuto frequentare lui prima di diventare un angelo custode. E non aveva nemmeno dovuto studiare per ottenere quel ruolo! Nel suo corso serale, infatti, oltre a dare informazioni tecniche, raccontava delle proprie esperienze personali e le offriva ai giovani angeli custodi. Non si poteva dire con certezza che lui insegnasse: si metteva seduto sulla cattedra, gambe penzoloni, e rispondeva alle domande dei suoi allievi, dando consigli e pareri personali.
Aveva accettato quell’incarico sotto le pressioni di San Pietro, euforico per questa novità: lui era certo che con questo corso sarebbero aumentati gli angeli custodi e, vista la fiducia che riponeva in Franky, lo aveva spronato fino a farlo cedere. In realtà, a convincerlo era stato ben altro: preparare i nuovi angeli custodi alle eventualità e alle difficoltà che lui si era trovato ad affrontare da solo, l’aveva spinto a compiere quella scelta, ma anche la semplice curiosità di poter sapere il motivo per il quale ognuno di loro aveva deciso di accettare quella missione e la voglia di vedere nei loro occhi lo stesso ardore e lo stesso amore che aveva spinto lui a farlo.

L’aula era deserta, i suoi studenti erano già usciti tutti e lui stava raccogliendo i fogli sui quali si era appuntato le domande, le frasi, o anche solo alcune delle parole più belle che aveva sentito. Lo faceva sempre e ogni tanto, a casa, si divertiva a rileggerle e a sorriderci sopra. Dopotutto, anche lontano dalle persone che amava, aveva trovato la sua felicità.

Un colpetto di tosse gli fece portare lo sguardo all’ingresso dell’aula, dove vide Kim, con il viso arrossato e i capelli neri che lo contornavano. Era una sua alunna, aveva all’incirca la sua età – l’età in cui era morto – ed era una delle migliori secondo lui. Inoltre, gli ricordava moltissimo Zoe.

«Kim, che ci fai ancora qui?», le chiese, sorpreso.

«Professore… ecco…», balbettò, diventando sempre più rossa ed abbassando lo sguardo.

«Possibile che solo tu ti ostini ancora a chiamarmi professore? Sai che lo odio!».

«Scusi».

«Non importa», ridacchiò. Era così dolce. «Dovevi dirmi qualcosa?».

«Sì, io… volevo chiederle se… levadivenirealpubconnoi?», disse tutto d’un fiato, per poi fare un grande respiro profondo.

Franky sorrise, aggrottando le sopracciglia. «Rilassati e ripeti con calma».

«Io e i miei amici ci chiedevamo se voleva venire al pub con noi. Ma se ha altri impegni, o non ne ha voglia fa niente eh, io chiedevo soltanto…».

«Kim?».

La ragazza sollevò lo sguardo e diventò viola guardando gli occhi verdi e ridenti di Franky. «S-Sì?».

«Vengo volentieri».

 

***

 

«Papà, mi sento una deficiente con questo vestito».

«Oh, Evelyn, quanto la fai lunga!», borbottò Bill, al volante della sua Audi bianca.

«Ma, scusa, andiamo solo da zio Tom a cenare!».

«Lo so, ma volevo vedere come ti stava! E poi ha detto che Jole aveva un annuncio da fare…».

«Chissà, magari c’entra Leo», ipotizzò Zoe, seduta al fianco di suo marito.

«Credi che l’abbia messa incinta?», domandò divertito lui. Già immaginava il collasso che avrebbe avuto Tom ad una scoperta del genere.

«Magari le chiederà di sposarla!», gridò entusiasta Evelyn, saltellando sul sedile posteriore.

«Sempre la solita romanticona, proprio come me», le disse Bill. «Però sarebbe bello vedere Tom versione nonno… Franky lo avrebbe preso in giro fino alla nausea!». Voltò il viso verso Zoe e le sorrise, stringendole la mano sulla sua gamba.

 

***

 

La serata si prospettava davvero piacevole.
Normalmente vedeva quei ragazzi solo fra le quattro mura della scuola ed era bellissimo, quasi una scoperta che lo emozionava, osservarli seduti intorno al tavolo di un pub a chiacchierare, ridere e scherzare.
Tra loro gli sembrava di essere tornato di nuovo il Franky sedicenne, nonostante dovrebbe aver avuto ormai la bellezza di quarant’anni. Era quella l’età che sentiva dentro la maggior parte del tempo, ma con loro l’adolescente che era sempre nascosto in lui, da qualche parte, stava tornando a galla.

Era seduto accanto a Kim e ogni tanto la scopriva ad osservarlo. Allora lui le sorrideva e lei evitava subito i suoi occhi, arrossendo sulle guance.
Era ormai sicuro che avesse una cotta per lui, ma era sempre il suo professore e anche se aveva l’aspetto di un ragazzino era molto più grande di lei. Senza contare che il suo cuore apparteneva da sempre ad un’altra ragazza.

Ad un certo punto della serata, mentre ascoltava i ragazzi raccontare delle loro prossime visite ai familiari e ai fidanzati e alle fidanzate che avevano lasciato di sotto, avvertì un brivido fortissimo attraversargli la schiena, come se avesse appena messo le dita nella presa di corrente. I suoi poteri per proteggere la sua protetta col passare del tempo erano migliorati e gli bastò chiudere gli occhi per vedere a spezzettoni ciò che stava per accadere.
Il sangue gli si gelò nelle vene e il suo cuore iniziò a scalpitare nella cassa toracica, preso da un attacco di panico.
Doveva assolutamente raggiungerla, prima che fosse troppo tardi.

Si alzò frettolosamente e corse fuori dal pub senza dire niente a nessuno, lasciando i suoi alunni sbigottiti.

«Professore, dove va!?», gridò Kim alle sue spalle, ma lui non vi badò, continuò a correre verso l’Ufficio di Collegamento.

 

***

 

Zoe alzò lo sguardo verso il cielo scuro e vide una stella cadente.
O forse un angelo che vola alla velocità della luce, pensò sorridendo, un attimo prima che Evelyn gridasse terrorizzata.
Fece in tempo a vedere due fari accecarla, ad udire le gomme stridere sull’asfalto, lo schianto e poi nulla: il nero e il silenzio.

 

***

 

Merda, merda, merda!

Arrivò sul posto troppo tardi: l’incidente era già avvenuto e il bilancio era addirittura peggiore rispetto a ciò che aveva previsto. Oltre alle due auto prettamente interessate erano state coinvolte altre tre vetture: una non aveva fatto in tempo ad evitare l’impatto con l’auto rovesciata di Bill, su cui viaggiavano anche Zoe ed Evelyn; le altre due avevano zigzagato per un po’, fuori controllo, e si erano schiantate sui guardrail che dividevano le corsie dell’autostrada.
C’erano altri cinque feriti, oltre alla famiglia Kaulitz, tra cui due bambini, e proprio il padre dei due piccoli aveva già chiamato la polizia e l’ambulanza, che stavano arrivando, ma che non avrebbero fatto comunque in tempo. Per questo c’era lui.

Atterrò con le punte dei piedi sull’asfalto e corse a perdifiato verso la vettura messa peggio e che a lui interessava di più.
Un forte odore di benzina gli pizzicò il naso e capì che l’auto stava per incendiarsi. Aveva i minuti contati, ma era tutto un accartocciarsi di lamiere e rischiava di compromettere ancora di più la situazione se agiva di fretta.

Sentì Bill mugugnare, chiamando il nome di sua moglie e di sua figlia. Evelyn rispose con dei lamenti e Franky calcolò che se avesse aiutato prima loro due avrebbe avuto tutto il tempo necessario per salvare Zoe.

Andò da Bill e pian piano lo aiutò a disincastrarsi da quel putiferio. Fu inevitabile trascinarlo sui vetri rotti dei finestrini, con i quali si tagliò i palmi delle mani e le braccia.

«Bill. Bill, mi senti?», gli chiese, cercando di fargli tornare un po’ di lucidità.

«Franky?», biascicò.

«Esatto, in ectoplasma ed ali. Dobbiamo aiutarci a vicenda, ok? Dobbiamo collaborare. Ascoltami bene, ascoltami».

Bill annuì piano, con gli occhi socchiusi e una smorfia di dolore sul viso.

«La macchina sta per esplodere», lo informò. «Devi tirare fuori Evelyn e portarla lontano da qui, io penso a Zoe».

Il cantante, capendo che c’erano in gioco le vite delle persone che amava, della sua famiglia, racimolò tutte le forze ancora presenti in lui e gattonò fino al finestrino dal quale riusciva a vedere Evelyn, accasciata sul tettuccio dell’auto con la cintura di sicurezza che le comprimeva l’addome. Aveva una lunga scia di sangue che le scivolava dalla tempia fino al collo e si teneva il braccio, lamentandosi.

«Tesoro, sono qui», le sussurrò.

«Papà… papà, mi fa male tutto», tossicchiò.

«Lo so, lo so amore. Però devi fare uno sforzo, devi uscire da qui. Vengo a prenderti».

Si infilò nel finestrino, accumulando ferite su ferite che in quel momento nemmeno sentì, e le sganciò la cintura, poi la prese delicatamente fra le braccia. La tirò fuori con cautela, facendo attenzione a non farle del male, ma si accorse che Evelyn si mordeva le labbra pur di non gridare di dolore.

In una frazione di secondo, mentre mancava ormai poco per trascinare del tutto Evelyn fuori dall’auto, vide Franky armeggiare con delle lamiere e con un tuffo al cuore capì che Zoe era la più grave fra loro. Lo sentì persino sussurrare: «Resisti piccola, non farmi brutti scherzi».

Calde lacrime gli rigarono il viso e nemmeno se ne accorse. Perché era successo a loro? Quanto era grave Zoe? Ce l’avrebbe fatta? Non era giusto, no…

«Muoviti, Bill!», gridò Franky e lui riuscì finalmente ad estrarre dalla vettura il corpo di sua figlia.

La strinse a sé e con uno sforzo sovraumano la sollevò e si incamminò verso il guardrail opposto, allontanandosi zoppicando e trattenendo fra le labbra il dolore che avrebbe tanto voluto gridare.

 

Franky finì di liberare il passaggio per tirar fuori Zoe dalla carcassa dell’Audi. La prese fra le braccia e lentamente la trascinò verso di sé. Era priva di sensi, le ferite che riportava erano gravissime, in particolare perdeva sangue a fiotti da una gamba e i battiti del suo cuore erano debolissimi.

«Ce la puoi fare, ce la puoi fare piccola», singhiozzò, colto anche lui da un pianto di disperazione, e la prese fra le braccia.

Non fece in tempo ad alzarsi, era troppo tardi, così si accovacciò su di lei e le fece scudo col proprio corpo.

 

Bill udì il boato di una forte esplosione alle sue spalle, che gli fece ronzare le orecchie, e un violentissimo vento ardente lo fece cadere riverso sulla strada, sopra il corpo di Evelyn.

 

«Nemmeno noi angeli siamo infallibili».  

 

***

 

Tom, con solo Linda al seguito (Jole e Leo erano rimasti a casa per badare al piccolo Arthur), corse più veloce che poté lungo i corridoi del pronto soccorso, fino a quando non vide la stanza di Evelyn, nella quale gli avevano detto che avrebbe trovato anche il signor Kaulitz. Entrò spalancando la porta e si immobilizzò sulla soglia, con il fiato corto.
Evelyn, con un braccio ingessato e una bendatura intorno alla testa, era aggrappata al collo di Bill con il braccio sano e singhiozzava violentemente contro la sua spalla, biascicando frasi a lui incomprensibili. Suo fratello gemello era messo meglio, ma fu comunque una sensazione orribile quella che provò vedendolo pieno di cerotti e con i vestiti strappati ed incrostati di sangue.

E pensare che se non fosse stato per un miracolo, a cui forse aveva già dato un nome, sarebbe dovuto andare direttamente all’obitorio.

Evelyn, accortasi dei loro visitatori, si scostò da suo padre, ma non smise di piangere. Chiuse gli occhi, voltando il capo verso la parte opposta, e si morse le labbra per trattenere i singhiozzi. Linda andò subito da lei a consolarla, mentre Tom rimase ancora lì impalato come un imbecille.

Le lacrime gli punsero gli occhi quando incontrò lo sguardo disperato di Bill. Quel dolore non quantificabile lo fece morire dentro a sua volta e allo stesso tempo gli diede la forza per fare i passi che li dividevano e prendergli il viso fra le mani per accertarsi che fosse ancora lì con lui.

«Fratellino», mormorò, accarezzandogli le guance sporche di nero, il fumo dell’esplosione che gli si era appiccicato alla pelle. «Non farmi mai più una cosa del genere, chiaro? Oh, Dio». Lo strinse fra le braccia ed iniziò a piangere pure lui, nascondendo il viso nel maglioncino nero del gemello.

«Dov’è Zoe?», chiese ad un certo punto Linda, mordendosi l’interno della guancia.

«In sala operatoria», soffiò Evelyn, fra i singhiozzi. «Non si sa nulla… Non voglio che muoia».

«Non morirà, tesoro, non morirà», la rassicurò a stento la donna, cingendole il capo con le braccia.

Tom strinse ancora di più Bill. Cercava di aggrapparsi a lui per trattenere la rabbia e per non andare ad uccidere con le sue stesse mani l’uomo ubriaco fradicio che si era messo a guidare contromano in autostrada a velocità folle per poi schiantarsi contro l’auto di Bill, rischiando di farli scomparire per sempre. Era colpa sua se il suo fratellino e la sua nipotina erano ridotti in quello stato, era colpa sua se Zoe stava ancora rischiando la vita sotto i ferri e non era giusto che lui non si fosse fatto un graffio, uno!

Un grido straziante e che gli parve di riconoscere lo fece sollevare dal corpo di Bill. I gemelli si guardarono con gli occhi spalancati e poi velocemente, nei limiti del possibile, uscirono in corridoio.

Steso sul pavimento piastrellato, presso la porta della sala operatoria in cui si trovava Zoe, c’era Franky. Tom e Bill lo riconobbero subito, con un tuffo al cuore, e quest’ultimo si disse che allora non era stato solo un sogno, era stato davvero lui ad aiutarlo, ad avvertirlo del pericolo e a proteggere Zoe nell’esplosione.

Fece un passo in avanti per raggiungerlo, ma Tom lo prese per la spalla e lo fece rimanere accanto a sé. Lo guardarono gridare e piangere disperato, nonostante sembrasse stremato, privo di forze, fino a quando un angelo che loro non avevano mai visto apparve al suo fianco e lo fece sparire con sé.

Poco dopo quella scena che li aveva lasciati con un macigno al posto del cuore, un dottore col camice verde sporco di sangue si avvicinò a loro con una faccia che non prometteva nulla di buono.

«Abbiamo fatto tutto il possibile», disse subito, non dando nemmeno il tempo ad uno dei due di chiedere di Zoe. «Siamo riusciti ad arrestare l’emorragia alla gamba, anche se abbiamo dovuto farle delle trasfusioni. Purtroppo però ha subito un forte trauma cranico…».

«Vada al dunque!», gridò Tom, esasperato e con il fiato corto.

Il dottore sospirò. «È in coma».

Le urla di Franky rimbombarono nelle loro teste.

 

Goodbye, into the light
Like a phantom rider, I’m dying tonight
So dark and cold
I drive alone
Like a phantom rider, can’t make it all on my own



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Capitolo 2
*** Body and Spirit ***


2. Body and Spirit

 

Evelyn dormiva placidamente nel suo letto.
Finalmente, dopo ore di pianto e di agonia alla notizia che Bill era stato costretto a darle, consapevole che avrebbe infranto il cuore a lei proprio come era successo a lui, era riuscita a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi all’abbraccio di Morfeo.

Lui, seduto al suo fianco, non era riuscito ad addormentarsi ed era rimasto tutto il tempo al suo fianco, ad osservarla. Aveva il viso tondo di Zoe e i lineamenti delicati, come i suoi; il suo naso e la bocca della madre; i capelli biondo scuro, proprio come i suoi, e quegli occhi che per fortuna erano chiusi. Ma prima o poi si sarebbero riaperti e la voragine che gli era nata in mezzo al petto gli avrebbe fatto male, vedendo quegli specchi azzurri identici a quelli della donna che amava e che non avrebbe visto per chissà quanto tempo.

Era riuscito a non piangere per tutta la notte, in cui Tom non lo aveva abbandonato un attimo. Ora che l’aveva costretto ad andargli a prendere qualcosa di caldo da bere, diede libero sfogo alle lacrime appoggiando il viso al materasso su cui dormiva sua figlia.

 

Era certo che Bill lo avesse mandato al bar dell’ospedale solo per stare un po’ da solo. Dopotutto, non l’aveva lasciato un attimo e forse – forse – non si era accorto di essere stato un po’ soffocante. Aveva cercato di stargli il più vicino possibile per fargli capire che lui c’era e ci sarebbe sempre stato, ma forse aveva scelto il metodo sbagliato. Per questo aveva accettato di andare a prendergli qualcosa da bere. Aveva capito che Bill voleva un po’ di solitudine e, anche se gli faceva malissimo non essere desiderato proprio in quel momento, gliel’aveva concessa.

Sospirò e si passò le dita sulle palpebre che sentiva pesantissime.

Non aveva chiuso occhio quella notte e aveva continuato a pensare freneticamente, fino a farsi andare in fumo il cervello, a Franky. Si era chiesto se avesse provato a salvarla come quando aveva rischiato la vita cadendo in quel lago e aveva stabilito che doveva essere stato proprio così, visto che era senza forze una volta uscito dalla sala operatoria. Però non si spiegava quelle grida e quel pianto disperato: infondo poteva andare peggio… Forse erano cose da angeli che lui non poteva capire, ecco tutto.

La barista gli diede i due caffè americani che aveva ordinato e si mise seduto ad uno dei tavoli liberi per concedere a Bill ancora un po’ di tempo.

«E ora passiamo ad un fatto di cronaca. Ieri sera, verso le venti, l’auto su cui viaggiavano Bill Kaulitz, cantante e leader dei Tokio Hotel, con la moglie Zoe Wickert e la figlia Evelyn di quattordici anni, è stata completamente travolta da un’altra vettura, provocando inoltre il tamponamento di altre tre auto. Il conducente dell’auto che ha provocato l’incidente era ubriaco, con tasso alcolemico cinque volte superiore alla norma, e viaggiava contromano. I feriti, oltre la famiglia Kaulitz, sono cinque e sono stati tutti trasportati con le ambulanze all’ospedale Albertinen-Krankenhaus di Amburgo. Dalle notizie che sono trapelate la più grave è la moglie di Bill Kaulitz, che –».

Tom si era alzato e aveva spento il televisore appeso in un angolo della stanza, stringendo i denti e ricacciando indietro le lacrime.

Davvero un ottimo servizio, non c’era che dire. (C’era mancato poco che i media lo venissero a sapere prima di lui). 
Aveva cercato in tutti i modi di non vedere le foto dell’incidente, dell’auto sfasciata di Bill, di restare fuori da quell’inferno che d’ora in avanti si sarebbe portato nei sogni per molte notti, ma loro, come sempre, avevano rovinato tutto.

«Va tutto bene?», gli chiese la barista preoccupata, sporgendosi sul bancone per guardarlo meglio.

«Alla grande», grugnì e, dopo aver preso i caffè che aveva lasciato sul tavolo, uscì dal bar.

 

***

 

Franky aprì gli occhi di scatto e schizzò seduto sul letto, gridando il nome di Zoe.
Aveva il respiro accelerato e gli ci vollero alcuni secondi per riprendersi e capire che si trovava in un ospedale.

L’occhio gli cadde sul comodino e vide un mazzo di fiori in un vaso, al quale era allegato un bigliettino. Lo prese fra le dita e lo lesse ad alta voce: «Auguri di pronta guarigione al nostro fantastico professore».

Aveva riconosciuto subito quella calligrafia così particolare, tanto che aveva imparato a distinguerla dalle altre senza alcuna difficoltà anche se aveva fatto scrivere dei brevi temi solo due o tre volte ai suoi alunni. Era di Kim, non poteva sbagliare, e a confermare l’esattezza della sua tesi c’era il fatto che la prima firma del piccolo elenco composto da tutti i nomi dei suoi ragazzi fosse la sua.

A quel pensiero così carino gli si sarebbe riscaldato il cuore se fosse stato per un motivo qualunque, uno stupido, ma non era affatto così: lui si trovava lì perché aveva tentato il tutto per tutto con Zoe e aveva consumato tutte le proprie energie. E non era riuscito comunque nel suo intento. Aveva fallito e la voragine che sentiva dentro lo stava lentamente consumando.

Ricordò il dolore straziante provato dall’unico angelo che aveva visto fallire, che aveva tenuto la propria protetta senza vita fra le braccia, e riuscì finalmente a capirlo perfettamente. Quello era lo stesso dolore che provava lui in quel momento. O forse no, perché anche se lui aveva fallito, aveva anche vinto. Zoe non era morta, era solo caduta in un sonno profondo e si sarebbe risvegliata. Doveva risvegliarsi.

Si strappò la flebo e tutti gli altri cerotti magnetici che aveva appiccicati al corpo per controllare i suoi parametri vitali e saltò giù dal letto, barcollando. Ritrovò l’equilibrio e camminò verso la porta, quando questa si aprì e un’anima infermiera si parò di fronte a lui.

«Dove credi di andare?! Non sei ancora guarito del tutto!».

«Me ne fotto altamente!», scostò l’infermiera, furibondo, ma non se la levò dai piedi facilmente. Alla reception dell’ospedale gli chiesero di firmare dei moduli per la libera uscita e solo allora se la scrollò di dosso.

Corse a scuola per parlare con San Pietro, ma trovò un altro ostacolo a rallentarlo: Kim.

«Professore!», gridò vedendolo da lontano. La vide correre verso di lui, ma Franky grugnì qualcosa ed andò dritto per la sua strada.

«Professore! Professore, si fermi!», urlò ancora e lo raggiunse a metà scalinata. Gli si parò davanti e quando lo guardò negli occhi tutta la sua sicurezza svanì ed arrossì. «All’ospedale mi avevano detto che sarebbe stato dimesso domani…».

«Beh, si sbagliavano», disse frettolosamente.

«Aspetti!». Lo rincorse e faticò un poco per stare al suo passo e allo stesso tempo parlare con lui. «È vero quello che si dice?».

«Che si dice?», domandò distrattamente.

«Che ieri sera è dovuto andare di sotto per salvare la vita alla sua protetta e che ci è mancato un soffio!».

Franky si irrigidì sul posto e la guardò assottigliando gli occhi. «Chi è che ha sparso in giro questa voce?». Non sapeva nemmeno perché fosse così innervosito dalla scoperta che già tutti conoscevano quello che era successo e in quel momento non doveva nemmeno importargli, aveva altro a cui pensare!

«Non lo so… voci che girano», sollevò le spalle Kim.

Franky grugnì, sempre più irritato, e riprese a salire gradino dopo gradino con passo ancora più sostenuto. Stava per esplodere!

«Professore…». Alla sua voce così debole e triste, però, non poté far altro che fermarsi e voltarsi. «Lei se ne dovrà andare per un po’, non è così?». Anche la sua espressione era sinonimo di puro dispiacere e a Franky gli si strinse il cuore.

Scese i gradini che li dividevano e l’abbracciò, poi le diede un buffetto sulla guancia. «Tornerò. Fai finta che il mio sia… un corso di aggiornamento, ecco», le fece un sorriso, strappandone uno anche a lei. «Quando tornerò avrò un mucchio di altre cose da raccontarvi».

«È una promessa?», gli domandò.

«Certo. Ora devo proprio scappare, abbi cura di te».

«Anche lei».

«E smettila di darmi del lei!».

La lasciò con un sorriso sulle labbra e sperò che anche lei, durante il periodo in cui non si sarebbero visti, l’avrebbe ricordato in quel modo. Aveva sbagliato a dimostrarsi così scontroso con una ragazza dolce e sensibile come lei, infondo lei non c’entrava niente e non doveva scaricare la sua frustrazione su nessuno.

Completò la scalinata che lo avrebbe portato al piano in cui era situato l’ufficio di San Pietro e, di fronte alla porta che aveva varcato tantissime volte, fece un respiro profondo. Poi l’aprì.
Lo vide subito. Era rivolto verso le grandi vetrate che davano sul giardino e aveva le mani giunte sulla schiena, come ogni qualvolta si metteva a riflettere.

«Sapevo saresti arrivato», disse il santo, voltandosi e sorridendogli bonariamente.

«Ho bisogno di andare di sotto», spiegò Franky con il fiato corto, gli occhi imploranti. «Devo abbandonare il corso».

«Sapevo anche che avresti detto queste parole».

«E io so che me lo permetterà! Grazie mille!», esclamò prima di correre fuori dall’ufficio lasciando San Pietro con un palmo di naso.

«Franky, ma Zoe è…!», tentò di chiamarlo, sporgendosi in corridoio, ma il suo pupillo si era già fiondato giù per le scale. 
«Anche qui», disse sospirando, scuotendo il capo.

 

***

 

Tom fece apposta il giro lungo, al ritorno, per non passare di fronte alla stanza in cui sapeva riposasse Zoe.

Chiamò l’ascensore e si diede del cretino: come poteva aver paura della sua migliore amica che, oltre tutto, era in un coma profondo? Forse era proprio quello a spaventarlo, il fatto che non avrebbe riaperto gli occhi sentendolo entrare, né avrebbe sorriso e riso alle sue battute stupide, né lo avrebbe preso in giro. Almeno lo avrebbe sentito?

L’ascensore arrivò, ma lui non ci salì, poiché quando si aprirono le porte era già sulle scale.

In prossimità della sua stanza sentì il cuore pulsargli in gola, lo stomaco attorcigliarsi e le gambe tremare. Chiuse gli occhi e fece qualche respiro profondo, giusto per regolarizzare i battiti e dirsi che sarebbe andato tutto bene, poi aprì la porta e vi entrò.
Per i primi istanti non riuscì ad alzare gli occhi dal pavimento. Camminò a tentoni fino a raggiungere il comodino, su cui lasciò il caffè di Bill. Il suo l’aveva già finito da un po’.

Deglutì il nodo che aveva in gola e si costrinse ad essere forte. Così alzò gli occhi e la prima cosa che vide fu il viso placido di Zoe: le palpebre nascondevano i suoi bellissimi occhi azzurri, le ciglia lunghe accarezzavano la sua pelle ora più che mai pallida e le sue labbra rosse sembravano dei petali di rosa; le uniche cose che stonavano, in quella perfezione, erano il tubo che aveva in gola e che le permetteva di respirare meglio e un taglio sulla fronte, coperto da un grosso cerotto.

Fin lì tutto bene, anche se le lacrime gli avevano pizzicato gli occhi.

Percorse il resto di lei con lo sguardo, come se le stesse facendo una dettagliata scansione, e vide le sue braccia fasciate, probabilmente per via delle ustioni provocate dall’esplosione. Si chiese quanto fossero gravi quelle abrasioni e quali fossero gli altri punti fasciati, quelli che erano stati esposti al momento dello scoppio. Dedusse che, se il suo viso non era stato sfregiato, doveva essersi trovata stesa a pancia in giù e se Franky l’aveva davvero protetta… forse non erano poi così gravi come temeva. Forse i medici si erano chiesti com’era stato possibile che si fosse bruciata “così poco” e solo l’idea che non fossero riusciti a darsi una risposta logica lo fece sorridere e commuovere: erano davvero fortunati ad avere un angelo a vegliare su di loro.

Accarezzò il palmo aperto della mano di Zoe, al cui indice aveva una piccola sonda, e si mise seduto accanto a lei, trascinando vicino al letto una sedia di plastica.
«Ehi Zoe, mi spieghi come mai sei sempre tu a finire nei guai?», le sussurrò e pianse.

 

***

 

Zoe, da qualche parte più su, sentì qualcuno piangere accanto a sé e aprì gli occhi. Ma nell’immacolata stanza d’ospedale era sola.

 

***

 

«Tieni, ti ho preso il caffè», biascicò, tirando su col naso. «Forse non è stata la scelta migliore, ora che ci penso… E sarà anche freddo».

«Non importa, Tomi», sussurrò e abbandonò il bicchiere di carta spessa sul comodino, per tornare a contemplare il viso della sua bambina e ad accarezzarle i capelli.

«Sono stato da Zoe», gli confessò il maggiore, ancora in piedi accanto a lui, scaricando nervosamente il peso da una gamba all’altra.

Bill si girò lentamente verso di lui e lo guardò con gli occhi grandi e lucidi. Tom capì che voleva sapere come stava.

«Sembra… sembra in ottima forma, vista così. È come se dormisse. Non è così spaventosa come immaginavo». L’ultima frase la mormorò, abbassando il capo ed infilandosi le mani nelle tasche. «Se vuoi, quando Evelyn si sveglia, vi accompagno».

«Sì», annuì Bill, con voce tremante.

 

Il sole del mattino illuminava il soffitto bianco.

Franky entrò nella stanza di Zoe passando per la finestra e rimase per qualche secondo a guardarla, immobile, poi si mise seduto accanto a lei e si stropicciò il viso, sospirando pesantemente.

 

Evelyn era silenziosa, seduta sulla sedia a rotelle che suo zio Tom spingeva nei corridoi semideserti dell’ospedale. Bill, che camminava accanto a lei, le teneva una mano e con l’altra trasportava il trespolo della flebo che la ragazza aveva ancora infilata nella piega del gomito.

Arrivarono di fronte alla stanza di Zoe e Tom fermò la sedia a rotelle proprio di fronte al vetro che permetteva di vedere all’interno della camera. La mamma di Evelyn dormiva ancora, ma non era più sola: al suo fianco c’era Franky, che le teneva una mano, e sia Bill che Tom sobbalzarono vedendolo.

«Chi è quello che sta tenendo la mano a mamma?», chiese la ragazza, corrucciata.

I gemelli spalancarono gli occhi ed esclamarono all’unisono: «Riesci a vederlo?!».

Evelyn li guardò preoccupata e suo padre e suo zio si scambiarono uno sguardo che gli permise di decidere chi dei due le avrebbe spiegato come stavano le cose. Toccava a Bill. Tom, nel frattempo, sarebbe andato a fare quattro chiacchiere con l’angelo che non vedeva ormai da quattordici anni.

Bill prese i manici della sedia a rotelle e la portò accanto alle poltroncine blu di fronte alla porta della stanza. Si mise seduto su una di esse e prese le mani della figlia fra le sue, poi la guardò negli occhi.

«Ti ricordi di Franky?», le domandò a bassa voce.

«Certo, tu e mamma me ne avete parlato tanto», rispose con un’alzata di sopracciglia.

«Ecco… è lui, quello che sta tenendo la mano a mamma».

Evelyn strabuzzò gli occhi. «Non è possibile, è morto quasi venticinque anni fa!».

Il cantante guardò oltre il vetro e vide Tom posare una mano sulla spalla di Franky. Probabilmente lei, dalla sua posizione, non aveva notato le grandi ali bianche piegate sulla sua schiena.

«È l’angelo custode di tua madre». 

 

Tom entrò nella stanza e si avvicinò alla sedia su cui era seduto l’angelo. Osservò Zoe in un silenzio sia fisico che mentale, per non disturbarlo con pensieri che in quel momento sarebbero sembrati privi di senso, poi posò una mano sulla sua spalla, sentendo un piacevole calore pervadergli il petto.
Gli era mancata quella sensazione, forse più di qualsiasi altra cosa: quella di sentirsi subito più leggero, più sereno, solo al suo contatto. Era un potere che solo gli angeli come lui possedevano e in quel momento avrebbe tanto voluto fiondarsi fra le sue braccia per essere avvolto dalle sue ali ed irradiato da quel calore.

«Sono arrivato tardi», mormorò Franky dopo un po’, con una voce così flebile che a malapena si fece sentire.

«Sono certo che hai fatto tutto il possibile», lo rassicurò in tono pacato.

«Se solo l’avessi avvertito prima…».

«Franky». Pronunciare di nuovo quel nome ad alta voce e a faccia a faccia con lui, gli fece tremare il cuore e venire le lacrime agli occhi. L’angelo lo guardò negli occhi per la prima volta e anche i suoi erano lucidi, colmi di dolore.
Tom gli accarezzò il viso con entrambe le mani, tracciò delle linee invisibili sulle sue guance con le quali arrivò al mento, poi si chinò verso di lui e gli posò un bacio sulla fronte.

Franky sgranò gli occhi e il suo cuore perse un battito, sorpreso da quel gesto fin troppo affettuoso per uno come Tom, ma che aveva sempre sognato. Era un gesto che fu in grado di ricambiare tutto il calore che lui sapeva offrire alle persone che amava e si rese conto che erano passati tanti anni dall’ultima volta che si era sentito così bene. Forse troppi, perché quell’emozione fu così forte e così inaspettata che, insieme a tutti gli altri sentimenti che provava per quello che era successo a Zoe, lo fece piangere come un bambino.
Si alzò in piedi scansando la sedia di lato e si aggrappò alle sue spalle, nascondendo il viso contro il suo collo.

Tom lo lasciò sfogare per un po’, cullandolo fra le sue braccia, e chiuse gli occhi posando la guancia sui suoi capelli a spazzola. Ad un certo punto sorrise e ridacchiò.

«Perché ridi?», gli chiese Franky, biascicando e tirando su col naso.

«Perché più andiamo avanti con l’età, più diventiamo sentimentali».

Lo guardò negli occhi ed accennò un sogghigno. «Parla per te, Kaulitz».

«Oh, sentilo, inizia subito a fare lo sbruffone. Intanto, per ogni volta che vieni a trovarci passa un decennio…».

«Infatti volevo che passassero vent’anni prima di tornare da voi, ma sono stato costretto a scendere prima». Si voltò verso Zoe e le sfiorò una mano con la punta delle dita con aria malinconica.

«Si riprenderà?», gli domandò Tom, mettendosi al suo fianco.

Franky scosse il capo, sospirando. «Non lo so nemmeno io, questo».

 

Bill ed Evelyn entrarono nella stanza di Zoe e Franky si fece da parte per non intralciare, per questo si appoggiò al muro accanto alla finestra. Tom si mise al suo fianco e, col pensiero, gli disse: “Lei riesce a vederti”.

Franky corrugò la fronte e frugò nella sua mente. Fu come se fosse stato nel corpo di Tom e avesse visto con i suoi occhi quello che era successo e si disse che era proprio così, che era riuscita a vederlo.

“Come ci è riuscita?”, gli chiese, ancora mentalmente, Tom.

Franky non rispose subito, posò lo sguardo sulla ragazza che ogni tanto lo guardava di sottecchi e sorrise, ascoltando i suoi pensieri: “Non è possibile che sia l’angelo custode di mamma… non veramente! Lei diceva sempre che era il suo angelo, ma credevo che scherzasse, che alcune cose le inventasse come si inventano e si rendono magici i personaggi delle favole… Possibile che sia tutto vero, ogni singola cosa che mi ha raccontato?”.

“Zoe le ha parlato di me fino alla nausea”, pensò Franky, divertito, ma non rese quel pensiero accessibile solo a Tom, bensì anche a Bill, che accennò un sorriso mentre accarezzava la fronte di sua moglie. “Quindi penso che riesca a vedermi perché infondo crede in me”.

La suoneria di un cellulare ruppe il silenzio pieno di parole che si era creato e tre paia di occhi si puntarono su Franky, che si tastava le tasche alla ricerca del suo Cellulare Celeste. Lo trovò nella tasca posteriore dei pantaloni bianchi ed uscì dalla finestra, si mise seduto a gambe penzoloni sul cornicione del tetto dell’ospedale e rispose alla chiamata di San Pietro.

«Mi dica tutto», disse a mo’ di saluto.

«Franky, ti pare il caso di scappare così?».

«Mi scusi, ma ero di fretta».

«Lo so, posso anche capirti, ma se mi avessi ascoltato due secondi in più ora staresti parlando con Zoe».

Il cuore di Franky sobbalzò. «Che cosa sta dicendo, Zoe è in coma!».

«Oh, Franky», rise genuino. «Ci sono così tante cose che ancora non sai…».

«Per esempio?», domandò innervosito.

«Per esempio…».

 

***

 

Franky corse all’interno dell’ospedale degli angeli – così lo aveva soprannominato col passare del tempo, anche se non venivano curati solo ed esclusivamente gli angeli – e alla reception chiese in quale camera fosse stata trasferita Zoe Wickert. L’anima infermiera che era di turno in quel momento era una delle più lente che avesse mai visto e rischiò seriamente di perdere le staffe, ma per fortuna arrivò San Pietro che, sorridendo, lo prese per le spalle e lo portò con sé lungo i corridoi dell’ospedale.

«Uff, perché non me l’ha detto prima?!», sbottò ad un certo punto Franky, imbronciato.

«Credi che non ci abbia provato?!», rispose il santo allargando le braccia.

«Forse ha ragione lei. Mi perdoni, non volevo scappare così, è che… ero così preoccupato…».

«Non fa niente Franky, capisco benissimo come tu ti stia sentendo in questo momento», gli sorrise affettuosamente.

«Comunque non pensavo che le persone in coma finissero qui. Cioè, il loro spirito…», disse Franky, infilando le mani in tasca. «E che cosa fanno qui, precisamente?».

«Aspettano che il loro corpo si risvegli dal torpore. Solo in quel momento il corpo e lo spirito si ricongiungono e si riesce ad uscire dal coma».

«Sì, ma…».

«Di solito quando il corpo dà segni di ripresa gli spiriti si sentono molto stanchi e sono costretti a stare a letto tutto il giorno per, eventualmente, ricongiungersi al loro corpo. Altrimenti possono, diciamo… avere un assaggio del Paradiso, nel caso…».

«Zoe si risveglierà», disse in maniera decisa, interrompendolo. «E quando gli spiriti si ricongiungono al loro corpo ed escono dal coma non ricordano nulla di quello che hanno vissuto qui?».

«Certo che no. Riescono solo a ricordare, seppure vagamente, ciò che ha sentito il loro corpo, come le voci dei parenti, la loro presenza… cose del genere. Capita molto spesso che gli spiriti sentano ciò che sta sentendo il corpo: è sintomo che comunque le due parti sono ancora collegate».

«Capisco», annuì meditabondo. «Si è già svegliata?».

«Sì. Credeva di essere in un ospedale “normale”», sorrise. «Ha chiesto di Bill e di Evelyn…».

«Le avete già spiegato che si trova in Paradiso?».

Si sentiva nervoso, parecchio nervoso. Pensare che lui e Zoe sarebbero stati vicini anche nella dimensione dei non più vivi gli faceva venire i brividi e forse era anche un po’ imbarazzato perché avrebbe visto il suo mondo, ciò che le aveva solo raccontato in modo molto vago, e, cosa più importante e che lo intimidiva di più, era il fatto che avrebbe passato molto più tempo con lei: non era più abituato e si sentiva come se quella fosse la ragazza per cui si era preso una folla cotta senza nemmeno conoscerla, non come se quella fosse Zoe, la sua Zoe. Erano stati lontani tanto tempo e non era sicuro che il loro rapporto fosse rimasto lo stesso di sempre: lei era cresciuta, lui era cresciuto, erano cambiate molte cose…

«No, aspettavamo giusto te», rispose San Pietro, distraendolo dai suoi pensieri. Franky annuì col capo e deglutì il nodo che gli si era formato in gola.

Arrivarono di fronte alla porta della stanza di Zoe e San Pietro gli disse che lui non l’avrebbe accompagnato, era una cosa di cui dovevano parlare da soli, loro due.

Franky lo salutò con un cenno della mano, tremendamente in ansia, poi prese coraggio ed entrò nella stanza immacolata, illuminata anch’essa dal sole del mattino.

Zoe era stesa sul letto, il lenzuolo bianco le arrivava fino alla vita e aveva il viso rivolto verso la finestra da cui riusciva a vedere il giardino dell’ospedale. Quando si accorse della sua presenza spalancò gli occhi, lucidi dall’emozione, e si rizzò seduta sul letto.

«Franky», mormorò, portandosi le mani sulla bocca. «Franky, sei qui».

Ogni singola paura si dissolse quando si perse in quegli occhi azzurri ed udì la sua voce. Franky si rilassò e si avvicinò al letto.
«Ciao, piccola», le sussurrò e si mise seduto sul bordo del materasso.

Sembrava in ottima forma, non aveva neanche un graffio, e non poteva essere altrimenti, poiché lei, lì ed ora, era soltanto uno spirito; era il suo corpo, di sotto, ad essere ferito.

Le sfiorò il viso con una mano, scostandole i capelli dal viso, e sorrise, anche se aveva un’assurda voglia di piangere. Lei non doveva essere lì, non doveva…

Zoe lo abbracciò di slancio e lo strinse forte a sé, nascondendo il viso contro il suo collo proprio come quando era una ragazzina. Franky ricambiò incerto l’abbraccio e lei se ne accorse, per questo lentamente si scostò e lo guardò con i lucciconi agli occhi.

«Franky, che cosa c’è?», gli domandò con la voce che le tremava. «Almeno tu, dimmi quello che sta succedendo, dimmi perché Bill e Evelyn non ci sono… Non sono…».

«No! No, stai tranquilla Zoe, stanno bene», la rassicurò, asciugando le lacrime che le erano scivolate sulle guance contro il suo volere. «Solo che non sono qui…».

«E dove sono? Io… io voglio vederli».

«Ascolta, Zoe», sospirò e si passò le dita sugli occhi, massaggiandoli. «Io… io non so come spiegartelo… Quali sono le ultime cose che ricordi?», le domandò alla fine, cercando forse di prendere ancora un po’ di tempo.

«Ricordo che stavamo andando da Tom a cena e poi che c’è stato un incidente…».

«Nient’altro?». Zoe scosse il capo, dispiaciuta. Franky le prese le mani fra le sue e ne accarezzò i dorsi con i pollici.

«Vedi…», incominciò a dire a bassa voce, come se non volesse ferirla con le sue parole. «Quando ho avvertito che sarebbe successo quello che è successo sono subito corso per salvarti, ma sono arrivato tardi e me ne vergogno, non sai quanto vorrei tornare indietro e…». Strinse gli occhi e alcune lacrime caddero sul lenzuolo candido. «Ho fatto tutto quello che ho potuto, ma… Zoe, tu… tu sei in coma».

«Che cosa?», balbettò, incredula. «Che stai dicendo, io sono qui, ti sto parlando, sto bene! Non posso essere in coma!».

«Tu… tu in questo momento sei solo uno spirito», le sussurrò, guardandola negli occhi nonostante le lacrime gli tracciassero il viso.

Zoe, con la delicatezza di una mamma, gliele spazzò via con le mani. «Uno spirito?».

«Sei in Paradiso e questo è l’ospedale in cui sia io che Jole siamo stati ricoverati quando ci sentivamo poco bene; tu sei solo il tuo spirito qui, il tuo corpo è di sotto ed è in un coma profondo, come di sotto sono anche Bill, Evelyn, Tom e tutti gli altri, distrutti dal dolore; e la causa di questo dolore sono io, perché io sono arrivato tardi e ho permesso che ti accadesse tutto questo…».

La donna, ancora scioccata, lo prese fra le braccia e gli posò la testa sul suo petto, lasciandolo sfogare su di sé le lacrime e i singhiozzi.

 

___________________________________________

 

Buonasera e buona Pasqua! :D
Insomma, che bel casino, eh? Zoe si è letteralmente divisa in due: una parte di sotto - il suo corpo - e una parte di sopra - il suo spirito.
Abbiamo anche scoperto che la cara piccola Evelyn è riuscita subito a vedere Franky! Zoe le ha fatto una testa tanta.... xD No, ovviamente scherzo :)
Che cosa succederà adesso? Franky dovrà dire a Tom e a Bill, soprattutto, che la parte "funzionante" di Zoe è in Paradiso e... come credete che reagirà il nostro cantante? u.u
Bene, vi o dato fin troppi spunti su cui riflettere - mi raccomando fatelo anche nelle recensioni che mi piace assaiiiiii *w*

Ringrazio di cuore coloro che hanno accettato con entusiasmo questo sequel e in particolare chi ha recensito lo scorso capitolo! *-* (Vi ho ringraziati tutti nelle risposte delle recensioni, penso sia più comodo, visto che qui finisco sempre per scrivere un papiro xD)  
Grazie anche a chi ha semplicemente letto e a chi ha già inserito questa FF fra le seguite, le preferite e le ricordate! :D

Un bacio enorme, alla prossima!! 

Vostra, 

_Pulse_

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Capitolo 3
*** My part of her ***


3. My part of her

 

Tom, seduto sul divano, sbuffò e si portò una mano dietro la nuca, mentre con l’altra accarezzava il pelo morbido e color caffèlatte del piccolo Coco che gli faceva le fusa contro la gamba, chiedendosi dove si fosse andato a cacciare Franky. Quando aveva ricevuto quella chiamata era uscito fuori dalla finestra e da allora non era più rientrato.

Aveva accompagnato Bill a casa per potersi fare una doccia, cambiarsi e dare da mangiare al micio, ma c’era voluta moltissima tenacia per convincerlo a lasciare Evelyn in ospedale. Anzi, c’era voluto Gustav, che era arrivato giusto in tempo e aveva rassicurato Bill: ci sarebbe rimasto lui con la sua piccolina.

Ora si trovava nel suo salotto e non poteva far altro, oltre aspettare, che sperare che Franky tornasse da loro con qualche buona notizia.

 

***

 

«Hai un taglio qui», le posò due dita sulla fronte, sorridendo alla buffa espressione che aveva assunto Zoe.

«Credi mi rimarrà la cicatrice?», gli domandò.

«Molto probabile», annuì grevemente, per poi ridere. «Secondo me potrebbe anche starti bene, sai?».

«Pff, ruffiano!».

«No, sul serio, ti darebbe quell’aria da… donna vissuta».

«La smetti di prendermi in giro?! Non sei fatto divertente!», si imbronciò, incrociando le braccia al petto, ma resistette per poco, infatti nemmeno due minuti dopo sorrideva di nuovo, camminando a braccetto con lui nel giardino dell’ospedale.

Era un po’ più alta di lui ora e nonostante avessero la stessa età lei dimostrava i suoi anni anche esteriormente – non poteva negare di avere un po’ di zampe di gallina agli angoli degli occhi – e al suo fianco, doveva ammetterlo, si sentiva un po’ vecchiotta.

«Oh, ma tu sei vecchia», la derise scherzosamente Franky, per l’ennesima volta.

«Oh no, riesci a leggere nel pensiero pure qui?!».

«Certo!».

«Sei crudele!».

«Potrebbe darsi», ridacchiò.

Si misero seduti su una panchina, al fresco sotto l’ombra di un grande pesco, e Franky chiuse gli occhi respirando il profumo dolce dei fiori. Riuscì persino a sentire una certa fragranza alla fragola che gli fece sobbalzare il cuore: il profumo di Zoe…

«Prima mi è successa una cosa strana», esordì la donna. «Quando mi sono svegliata credevo che qualcuno stesse piangendo al mio fianco – e avrei giurato che fosse Tom – ma ho aperto gli occhi e non c’era nessuno. Tu che cosa ne dici?».

Franky sorrise, sollevato che il collegamento fra il suo spirito e il suo corpo fosse ancora attivo. «Hai sentito ciò che ha sentito il tuo corpo», le spiegò.

Ma lei aggrottò le sopracciglia. «Ossia?».

«Probabilmente Tom ha davvero pianto al tuo fianco, ma era accanto al tuo corpo, non al tuo spirito, cioè a te… hai capito».

«Ed è un buon segno che io riesca a sentire il mio corpo?», domandò incerta.

«Più che buono! Vuol dire che hai più possibilità di… svegliarti».

«Ho capito», mugugnò. «Ah, non hai finito di dirmi com’è messo il mio corpo».

«Ha molte ustioni… sulle braccia, le gambe… Diciamo che non è messo benissimo, in questo momento».

«Così sembra», sorrise. «Ma è lo spirito che conta, no?».

«Assolutamente».

«Non lo trovi strano?». Franky la guardò in viso, corrugando la fronte. «Insomma… a me fa un certo effetto pensare che il mio corpo è con Bill ed Evelyn e il mio spirito è con te…».

«L’amore che provi verso Bill ed Evelyn ha superato di molto quello che nutri per me, in questi anni», le disse risoluto, tornando a chiudere gli occhi. Sperò che non ne parlasse più, quello era ancora un tasto dolente, anche se erano passati anni ed anni.

L’amore non muore mai…

«Come fai ad esserne così sicuro?», gli domandò a bassa voce.
Forse era davvero così, ma vedersi spiattellata davanti la verità l’aveva ferita, perché quando era morto si era promessa di non amare mai nessuno come o più di lui.

«Ne sono sicuro perché l’ho visto coi miei occhi», sospirò, poi sorrise. «Ed è giusto che sia così. Non devi pensare all’amore che provi o provavi per me come parametro per non amare con tutto il cuore chi ti ama».

«Ma anche tu mi ami…».

Il cuore di Franky smise di battere. Perché doveva rendere tutto così difficile? Aveva sognato, molte volte ad essere sinceri, di poter passare ancora un po’ di tempo con lei, ma era un sogno che sotto sotto non avrebbe mai voluto vedere realizzato ed infatti aveva avuto la conferma delle sue motivazioni che all’apparenza potevano sembrare sciocche, ma che non lo erano affatto: stare accanto a lei avrebbe sempre significato soffrire per lui, perché lei non era più sua, ma ciò che sentiva per lei non era cambiato di una virgola. Il suo cuore apparteneva sempre a lei e, avendolo a portata di mano, Zoe non faceva altro che farlo sanguinare, seppur inconsciamente.

Si alzò dalla panchina reggendosi con le mani alle ginocchia e non osò guardarla negli occhi mentre le rispondeva: «Sì, ma il mio amore è molto diverso».

«È sempre amore», ribatté decisa. Aveva proprio deciso di fargli del male.

«Devo andare», le disse e percorse il vialetto in senso contrario.
Preferiva di gran lunga affrontare gli occhi di Bill alla scoperta che la sua Zoe si era letteralmente divisa e che la parte “buona” ce l’aveva il suo “rivale”, piuttosto che discutere ancora con lei su argomenti così delicati e dolorosi, almeno per lui.

«Dove vai?», gli chiese con una punta di preoccupazione negli occhi.

«Di sotto, solo per un po’. Ti saluto Bill ed Evelyn?».

«Sì, ti prego», sussurrò con voce strozzata, gli occhi velati dalle lacrime.

Un’anima infermiera che passava di lì l’aiutò ad alzarsi e la riaccompagnò verso l’entrata della struttura.

«Digli… digli che li amo e che mi mancano», concluse e Franky annuì e la salutò con un cenno della mano ed un sorriso, per poi allontanarsi.

 

***

 

«Oh, siete tornati», esclamò un Gustav sorridente appena vide i gemelli entrare nella stanza di Evelyn.

«Ciao papà, ciao zio», li salutò la ragazzina, anche lei con un grande sorriso sulle labbra morbide. Un sorriso che graffiò e gonfiò il cuore di suo padre contemporaneamente.

«Ciao, tesoro», le sussurrò Bill, prima di posarle un bacio sulla fronte. «Come stai?».

«Meglio. Tu?».

Corrugò la fronte. «Io sto bene».

«Bene!».

«Come mai così di buon umore?», domandò Tom, ridacchiando. «È passato Babbo Natale in anticipo?».

«Non ho più cinque anni, zio!», rise. «Ti ricordi quando ti sei messo il costume e la barba finta e hai portato i regali a me e a Jole? Dopo lei mi ha raccontato che aveva fiutato che fossi tu… Babbo Natale non entra mica dalla porta, per giunta suonando il campanello!».

«Ah-ah Tom, dovevi passare dal camino!», lo ammonì Gustav, puntandogli il dito contro.

«Avete ragione, ammetto di non essere stato il Babbo Natale perfetto… però i regali vi facevano impazzire, no?».

«Oh sì, quelli sì!».

Bill, gli occhi spalancati dall’incredulità, non riusciva a capire da dove provenisse tutto quel buon umore. Certo, gli faceva piacere che sua figlia avesse ricominciato a sorridere e a ridere, ma lui si sentiva un tantino spaesato, fuori posto. Non riusciva a lasciarsi contagiare dalle risate delle persone che amava e per questo preferì dissolversi ed andare a trovare una persona dalla quale si sarebbe sentito capito.

 

Franky accarezzò la mano inerte del corpo di Zoe e posò il viso sul suo ventre, gli occhi chiusi alle lacrime.

 

Pensava di restare un po’ da solo, ma si sbagliava. Accanto a Zoe vide Franky, il volto sul suo ventre, e rimase un po’ ad osservarlo attraverso il vetro.

Senza di lui probabilmente sarebbero morti carbonizzati tutti e tre, gli doveva la vita e anche quella delle sue donne, ma piccolissimi aghi gli pungevano il cuore: era geloso. Non geloso da essere arrabbiato con lui, solo un pochino, perché guardando quella scena dall’esterno si sentiva escluso, come se Franky e Zoe fossero ancora uniti, come lo erano sempre stati, da quel legame fortissimo che nemmeno lui era stato in grado di spezzare del tutto. Non ci aveva nemmeno provato, sapeva che non era giusto e che comunque non ci sarebbe mai riuscito.

Franky sollevò il capo dal ventre di Zoe e trovò subito i suoi occhi ad attenderlo. Gli sorrise tirato e gli disse di entrare, anche se ora che conosceva tutti i pensieri del cantante non si era tranquillizzato. Anzi, si era agitato ulteriormente.

Bill entrò nella stanza e chiuse delicatamente la porta alle sue spalle, poi prese una sedia e si mise seduto accanto all’angelo.

«Ciao», lo salutò a bassa voce, come se avesse paura che Zoe li sentisse.

«Ciao», ricambiò l’angelo. «Come stai?».

Bill scrollò le spalle. «Tu?».

«Così e così anche io», sospirò.

«Dove sei finito, prima? Tom si è arrabbiato perché come al solito non avvisi mai se ti sposti…».

«Sono grande ormai, non c’è bisogno che dica a paparino ogni mossa che faccio», mugugnò. «Comunque sono andato di sopra…».

«Novità?».

«Sì… una…».

Bill aggrottò le sopracciglia, incuriosito. «Me la puoi dire o è un’informazione riservata?».

«No, ecco… Zoe vi saluta e mi ha detto di dirvi che vi ama e che le mancate», mormorò abbassando il viso bordeaux. Era stato così difficile dire quelle parole…

«Che… che cosa? Zoe è…».

«No, non è morta!», gridò terrorizzato, appena lesse i suoi pensieri. «È solo… di passaggio».

«Spiegati meglio, non riesco a capirti! Zoe è in Paradiso?!».

«Il suo spirito lo è…». Bill sgranò gli occhi, già colmi di lacrime. Franky, dopo un respiro profondo, continuò: «La telefonata che ho ricevuto stamattina era di… un mio amico… che mi ha detto che quando si è in coma lo spirito e il corpo si dividono momentaneamente: il primo va in Paradiso e il secondo rimane qui».

«Ma… ma si possono riunire, vero?».

«Assolutamente sì. Devono riuscire a riunirsi per uscire dal coma».

«E se non ci riescono, allora…».

«Zoe ce la farà, stanne certo».

Il cantante si sfregò gli occhi con le mani, tirò su col naso e poi disse: «Com’è?».

«Chi, lei? Sta bene… il suo spirito non ha nemmeno un graffio, è il suo corpo ad essere ferito… Mi ha chiesto di voi e mi ha detto di riferivi quello che ti ho detto…».

Bill, un po’ più lucido, organizzò tutto quel flusso di informazioni e la gelosia iniziale, quella appena accennata che aveva avvertito poco prima, si ripresentò addirittura con più intensità: non era giusto che Franky fosse ancora una volta il privilegiato fra i due, era stufo di essere il secondo della lista. Ora si sarebbe dovuto “accontentare” del corpo di Zoe, quando l’angelo avrebbe avuto il suo spirito, con il quale poteva parlare, ridere e scherzare lontano dai suoi occhi, in un luogo accessibile solo a Franky.
Non capiva perché non si fosse ancora rassegnato: Franky avrebbe sempre avuto qualcosa in più di lui e non poteva farci assolutamente niente.

Alzò lo sguardo freddo e quasi disprezzante su di lui e lo vide rigido come un pezzo di legno e spaventato. A causa della cecità provocata dalla gelosia non si accorse di quanto in realtà fosse anche dispiaciuto per tutto ciò che aveva sentito nella sua mente.

«Cerca di capirmi», bofonchiò Bill, tirando su col naso, prima di alzarsi e di abbandonare in fretta la stanza.

 

Bill entrò nella camera della figlia e non badò alla forza con cui chiuse la porta, che sbattè con un colpo sordo.
Un silenzio glaciale calò su Gustav, Tom e Evelyn nel vederlo così infuriato e allo stesso tempo affranto; un silenzio che solo il gemello riuscì a spezzare, nonostante un po’ di timore.

«Bill, che è successo?».

«Vallo a chiedere a Franky, vaglielo a chiedere!», rispose irritato e squassato dai singhiozzi.

Il fratello non voleva lasciarlo piangere in quel modo, però la curiosità di scoprire cosa avesse provocato quella reazione tanto imprevedibile lo convinse a precipitarsi fuori dalla stanza per andare a cercare l’angelo.
Non ci mise molto, visto che lo trovò dove aveva subito pensato che fosse: nella camera di Zoe. Seduto accanto a lei, si teneva coperto il viso con le mani e sembrava davvero distrutto.

“Lo sono”, gli disse Franky, dopo aver intercettato i suoi pensieri.

“Che cos’è successo con Bill?”, gli chiese allora.

“Gli ho solo detto che lo spirito di Zoe è in Paradiso, con me”.

Scioccato, ci mise un po’ per pensare a qualcos’altro da dire, per poi accontentarsi di un “Che cosa?”. Ora capiva perché Bill avesse reagito in quel modo.

“Non ho voglia di spiegarlo di nuovo, voglio stare solo”, mormorò Franky.

Tom non protestò minimamente e lo lasciò volare fuori dalla finestra.

 

***

 

Era ormai il tramonto. Fasci di luce ambrata attraversavano il pavimento di mattonelle chiare e accarezzavano i petali dei fiori che le avevano portato e che ora posavano immobili in un vaso di vetro sul comodino.

Gustav se n’era andato nel primo pomeriggio, dando il cambio a Georg che era passato a trovare lei, il suo papà e la sua mamma.
Suo zio Tom era andato a casa già da un pezzo, dove avrebbe informato Linda e Jole sulle sue condizioni. Prima di andarsene le aveva promesso che sarebbe tornato la mattina seguente e le avrebbe portato qualcosa di commestibile da mangiare, anche se probabilmente di illecito, visto che le infermiere le avevano tolto la flebo ed era stata costretta a mettere sotto i denti il cibo dell’ospedale.

Si stava riprendendo velocemente e non vedeva l’ora di uscire da lì, di tornare a casa sua, di dormire di nuovo nel suo letto…
Al pensiero che il giorno in cui sarebbe stata dimessa sua madre non sarebbe salita in macchina con suo padre le si spezzò il cuore e dovette sforzarsi per trattenere le lacrime.
Aveva una terribile nostalgia di sua madre, delle sue carezze, dei suoi baci sulla fronte, dei suoi sorrisi…

Decise che voleva andarla a trovare, immediatamente, e siccome suo padre era andato finalmente a mangiare qualcosa al bar e non voleva disturbarlo, chiamò Naomi, un’infermiera con cui aveva una certa familiarità ormai, e si fece aiutare da lei a mettersi l’accappatoio sopra l’orribile tenuta d’ospedale e a raggiungere la camera di Zoe.

La ringraziò e le disse che poteva occuparsi tranquillamente d’altro, poiché ne avrebbe avuto per un bel po’. L’infermiera se ne andò, raccomandandole di chiamarla se avesse avuto bisogno, e Evelyn si avvicinò a passo lento al letto della madre. La guardò con attenzione, amando ogni singolo particolare di lei, ed infilò una mano nella sua tiepida.

«Ciao, mamma», sussurrò con un sorriso impacciato, poi tirò su col naso mentre le prime lacrime le tracciavano le guance. «Mi manchi tanto». E soffocò i singhiozzi contro il suo petto.

 

***

 

Di sopra, lo spirito di Zoe chiuse gli occhi alla luce del sole del tramonto e con un brivido riuscì a sentire una mano infilarsi nella sua. Si guardò il palmo, senza muoverlo, e vedendolo vuoto si disse che stava sentendo ciò che sentiva il suo corpo.

Rimase in attesa di capire chi ci fosse al suo fianco, stringendo le palpebre per concentrarsi ancora di più, ed udì la voce della sua Evelyn. Un sorriso commosso le si dipinse sulle labbra, il suo cuore prese a battere più forte.
Poi sentì i suoi singhiozzi e il suo capo posarsi sul suo petto. Zoe alzò una mano per posarla sulla sua nuca e rassicurarla, ma non c’era niente e mai come allora aveva desiderato di risvegliarsi per poter consolare la figlia.

Ci provò, con tutte le sue forze, ma si affaticò talmente tanto che la connessione che si era creata si dissolse e fu di nuovo sola; dovette abbandonare la testa al cuscino, disfatta dalla stanchezza, e distrutta dal dolore iniziò a piangere.

 

***

 

Sentiva il cuore più leggero, ora che aveva versato tutte le sue lacrime.

Si mise di fronte alla finestra aperta e guardò fuori. Le fronde del grande albero piantato nel giardino arrivavano fino a lì e fra le foglie verdi smeraldo e i piccoli fiori bianchi riuscì a scorgere la schiena di qualcuno.

Quell’albero era altissimo, nessuno sarebbe stato in grado di salirci a mani nude e si domandò se quello non fosse proprio lui, Franky, quello che a detta di suo padre era l’angelo custode di sua madre. Tom, Gustav e Georg non avevano smentito né confermato ciò che Bill le aveva detto, ma ogni tanto li sentiva parlare di lui come se fosse uno di famiglia, uno che c’era sempre stato e che ci sarebbe sempre stato anche in futuro.

Lei non aveva avuto ancora il piacere di parlarci, ma non sapeva esattamente che cosa avrebbe potuto dirgli. Non sapeva nemmeno perché lei riuscisse a vederlo! Suo padre e suo zio erano rimasti di sasso quando aveva chiesto loro chi fosse, quindi non avrebbe dovuto vederlo… ma ci era riuscita. Quello era solo uno degli interrogativi che avrebbe voluto porgli, se solo non fosse stata così imbarazzata da quel suo essere “angelo”. Faceva ancora un po’ fatica ad accettare che non fosse solo frutto della fantasia di sua madre.

Il ragazzo seduto sul ramo si voltò e lei ebbe la sua conferma: era lui.

Franky si alzò in piedi e saltò di ramo in ramo senza alcuna paura, fino ad arrivare a quello più vicino alla finestra. Si acquattò ad un palmo dal suo viso e in quel modo riuscirono a guardarsi negli occhi senza alcuna difficoltà.

Evelyn provò uno strano senso di vuoto nello stomaco fissando quegli ipnotici occhi verdi, nei quali erano specchiati anche i propri azzurri. Sarebbe stata ore a contemplarli, ad imparare a memoria ogni singola pagliuzza d’oro intorno alle pupille nere, con il fiato sospeso e il cuore che le batteva lentissimo nella cassa toracica, come a voler scandire quegli interminabili secondi, ma venne distratta dal piccolo sorriso che aveva incurvato all’insù gli angoli della bocca dell’angelo.

«Io l’avevo detto che avresti avuto i suoi occhi», sussurrò soddisfatto.

Evelyn non disse niente. I suoi neuroni erano tutti andati in vacanza, tranne uno che all’improvviso le fece tornare in mente uno dei tanti racconti di sua madre.

 

«Il giorno del tuo primo mese di vita, Franky è venuto a trovarci. È rimasto con noi molto poco, però l’importate è averlo rivisto… erano dieci anni che non lo vedevo e mi mancava tantissimo.
Tom è arrivato a casa nostra, dove Bill aveva organizzato una specie di festicciola, ed è andato direttamente in camera da letto, dove c’era la tua culla… e lì c’era anche Franky, che ti guardava. Ha detto che eri una bambina fantastica e che era sicuro che avresti avuto i miei occhi. Io mi sono sempre fidata ciecamente di lui ed è per questo che ero certa che li avresti avuti azzurri, anche se quasi tutti dicevano che era improbabile. Ma, come vedi, ho avuto ragione io. Ha avuto ragione Franky».

 

Il cuore ora le batteva a mille, conscia che era tutto vero, e spalancò gli occhi quando Franky avvicinò una mano alla sua guancia e la sfiorò con la punta delle dita.

Evelyn chiuse gli occhi, riscaldata da un calore mai provato prima, e un sorriso fece una breve apparizione sulla sua bocca; bastò che Franky ritraesse la mano perché scomparisse insieme al calore e i suoi occhi si riaprissero per osservare, pieni di stupore e meraviglia, le grandi ali bianche che aveva spiegate sulla schiena.

L’angelo la salutò con un cenno del capo e volò via nel cielo al tramonto che si era pian piano oscurato e aveva dato spazio alle stelle.

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Che cosa tenera, non trovate? *w*
Beh, non dico nulla, perchè voglio che parliate un po' voi nelle recensioni, facendomi sapere in primis se vi è piaciuto ^-^
Questo è uno dei miei - tanti - capitoli preferiti xD
Metto solo in luce i punti fondamentali: Franky e Zoe hanno quasi litigato per questa loro nuova "convivenza forzata" e per ciò che intendono per amore; Bill è impazzito di gelosia per ciò che Franky gli ha detto, ossia della divisione in spirito e corpo di sua moglie, e la sua reazione non è stata tanto bella; Evelyn e Franky hanno avuto il loro primo incontro ravvicinato. Quante cose di cui parlare *-* Spero davvero che lo facciate, mi farebbe tantissimo piacere!!

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha soltanto letto e tutti quelli che conosco xD
Grazie mille davvero, alla prossima!!
Vostra,
_Pulse_
 

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Capitolo 4
*** Change of programs ***


4. Change of programs

 

Tom e Franky, in posti molto diversi fra loro ma in due stanze d’ospedale molto simili, dissero: «Buongiorno» nello stesso istante.

 

«Buongiorno zio», rispose Evelyn, con la voce ancora impastata di sonno, mentre si stropicciava gli occhi. «Oh, ci sei anche tu Arthur!».

«Hai visto?», sorrise Tom, guardando il figlio più piccolo saltellare fra le sue braccia. «Ha insistito tanto stamattina per venirti a trovare e l’ho portato. Vero amore, vero che volevi vedere la tua cuginetta?».

«Sì!», annuì frettolosamente, con le braccia già tese verso Evelyn, che lo imitò.

Tom glielo diede volentieri, facendolo sedere sul letto, e li guardò per qualche secondo, poi si ricordò della busta che aveva sotto alla giacca. La tirò fuori e la mostrò ad Evelyn, che in quel momento si stava spupazzando il cuginetto di quattro anni.

«La fonte della tua sopravvivenza», le disse scherzosamente e le fece l’occhiolino; lei rise sottovoce.

Il chitarrista nascose la busta piena di cibi severamente vietati dall’ospedale nel secondo cassetto del comodino, al sicuro, e quando lo chiuse si pizzicò il dito. Tirò un mezzo urlo e Evelyn lo guardò con gli occhi sgranati, indicandogli di abbassare la voce.

«Papà dorme ancora!». Lo indicò sulla brandina accanto al suo letto, che aveva fatto portare apposta per non lasciarla da sola.

Doveva essere molto scomodo dormire su quella cosa e non avrebbe mai potuto ringraziarlo abbastanza, perché ogni volta che si svegliava nel cuore della notte in preda agli incubi, nei quali riviveva ogni singolo istante del terribile incidente che ormai l’aveva segnata nel profondo, lui c’era. Ma lo avrebbe fatto anche lei, per lui e per sua madre.

Tom, accortosi della sua presenza, sorrise intenerito. «Guardalo, sembra un angioletto». Si mise seduto su una sedia, in mezzo a loro, così da poterli guardare entrambi.

«Sì, è vero», annuì la nipote. «A proposito di angioletti…», tossicchiò, imbarazzata di dover iniziare lei quell’argomento.

Tom la guardò sollevando il sopracciglio. Anche Arthur si era fatto attento, goloso com’era delle favole che ogni tanto suo padre gli raccontava, nelle quali, guarda caso, il protagonista era proprio un angelo…

«Ieri ho incontrato Franky».

… che si chiamava Franky, per l’appunto.

«Papà, è lo stesso angelo delle tue storie!», esclamò entusiasta il bimbo, con le manine sulle guance e gli occhi brillanti per l’emozione.

«Sì, piccolo, è lui…», gli rispose Tom con un sorriso tirato, per poi portare di nuovo la sua attenzione sulla nipote. «Vi siete detti qualcosa?».

«Quasi nulla… Mi ha detto che era sicuro che avrei avuto gli occhi di mamma…».

«Oh sì, non ho mai capito come abbia fatto ad azzeccarci», ridacchiò. «Nient’altro?».

«No, però mi ha toccato la guancia e mi sono sentita benissimo… Poi ha aperto le ali ed è volato via».

«Scioccata?».

Aggrottò le sopracciglia. «Un pochino, sì. Ma quindi… quindi, se è tutto vero, vuol dire che Franky è davvero il ragazzo che mamma ha amato prima di papà e che, quando papà stava uscendo con lei, lui si è impossessato del suo corpo e tutte quelle cose là?».

«Tutto vero», confermò Tom, sospirando per gli anni che erano trascorsi forse troppo velocemente. Ricordava bene ogni singolo episodio, ma pensare che fossero passati vent’anni gli faceva venire i brividi.

«E papà non è mai stato geloso di Franky?».

«No… cioè sì, credo che un po’ lo sia sempre stato…».

«E ieri perché era così arrabbiato con lui?».

Tom si irrigidì a quella domanda. Sapeva la risposta, ma non voleva dargliela, non in quel momento. A dirla tutta, non si sentiva nemmeno la persona adatta. E poi doveva ancora parlarne bene con lo stesso Franky, visto che non aveva voluto discuterne con Bill: era stata una giornata impegnativa e tirare di nuovo fuori quell’argomento l’avrebbe fatta finire nel modo peggiore.

«Zio?», lo richiamò Evelyn, con le sopracciglia inarcate.

«Io… io non lo so, piccola».

Evelyn capì che stava mentendo, che sapeva il motivo per cui suo padre aveva avuto quella reazione ma che non glielo voleva dire, per qualche oscuro motivo. Lasciò correre. Non era un dramma, infondo. Avrebbe chiesto direttamente a Franky.

 

***

 

«Ciao Franky», sussurrò Zoe, sorridendo debolmente.

Quel giorno le lenzuola candide le aveva tirate su fino al seno, le braccia stese lungo i fianchi e la testa appoggiata al cuscino. Non sembrava molto in forma, aveva il colorito spento e i suoi occhi azzurrissimi erano opachi e lucidi.

All’inizio si preoccupò per la sua salute, stava pensando addirittura di andare a strapazzare qualche infermiera incapace, ma poi ricordò le parole di San Pietro e, nonostante non volesse che stesse male, si sentì sollevato: voleva dire che il suo corpo si stava riprendendo e stava cercando di riacchiappare lo spirito che si era dissociato.

«Ti ho portato questi», indicò i fiori che timidamente teneva fra le braccia. «Ti piacciono?».

«Sono i miei preferiti», ridacchiò, mentre Franky sorrideva sghembo.

«Anche tu con l’avanzare dell’età ti rammollisci, eh?». Riempì d’acqua il vaso vuoto che c’era sul comodino e vi mise dentro i fiori. «Da quando hai anche i fiori preferiti?».

«Da quando Bill ha iniziato a regalarmeli».

Franky si adombrò. «Oh, certo».

«C’è qualcosa che non va?». Tossì debolmente, con una mano di fronte alla bocca, e Franky le fece posare di nuovo il capo sul cuscino, mantenendo la propria mano sulla sua fronte tiepida.

Le accarezzò i capelli, scostandoli dal viso, e sulle sue labbra comparve un sorriso amaro. «Credo che Bill mi detesti in questo momento».

«Che cosa? Perché?».

L’angelo scrollò le spalle e si mise seduto sulla sedia accanto al suo letto. «Tu come ti sentiresti se ci fosse Bill al tuo posto, se il suo spirito fosse qui e io potessi vederlo quanto mi pare e piace, mentre tu puoi solo stare accanto al suo corpo inerme?».

Zoe aprì la bocca per rispondere, poi ci ripensò e serrò le labbra.

«Non posso biasimarlo», riprese Franky, abbassando il capo. «Io sarei forse più geloso di lui al suo posto. Si è sentito ancora il secondo della lista, ma nonostante tutto ti sta vicino, perché ti ama veramente tanto. Sei fortunata tu e sono fortunato io per averti lasciato in mani così».

«Franky, per favore, non dire queste cose… sembra che non ci dobbiamo rivedere mai più!».

«Non sarebbe una cattiva idea, sai?».

La donna, a quelle parole quasi sussurrate, sgranò gli occhi e boccheggiò, incredula alle proprie orecchie.

«Ora abbiamo vite troppo diverse e non sarebbe un dramma come lo sarebbe stato all’inizio… Hai constatato tu stessa che puoi farcela tranquillamente anche senza di me, senza vedermi una volta ogni dieci anni…».

Era da un po’ che ci pensava e non a caso aveva fatto passare così tanto tempo prima di rivederli, più dei dieci anni precedenti; il suo intento era quello di allungare il periodo di “astinenza” per cercare di disintossicare Zoe e anche se stesso, lentamente, senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Se non fosse avvenuto quell’incidente che l’aveva costretto a quel ritorno anticipato sarebbero passati vent’anni, li avrebbe salutati e se ne sarebbe andato di nuovo. Poi ne sarebbero passati trenta e alla fine Zoe non avrebbe avuto più tempo per vederlo ancora, se non giusto prima di passare ad un mondo migliore. Allora anche Franky se ne sarebbe andato definitivamente. Ma quell’incidente aveva scombussolato tutti i suoi piani, rendendo tutto estremamente più difficile.

«Che cosa stai dicendo, Franky?!», sbottò improvvisamente Zoe, sbalzandolo fuori dai suoi pensieri. «Vuoi che non ci vediamo più a causa di Bill, per non farlo soffrire, oppure perché sei tu a non voler più vedermi?!».

«Entrambe le cose», sussurrò.

Zoe, sempre più sconvolta, sbattè le palpebre diverse volte. «Ma perché?».

«Lasciamo perdere. Lasciamo perdere, è… è meglio così».

«No, Franky, adesso –!».

«Ho visto anche Evelyn», le disse, interrompendola e sperando che abbandonasse quell’argomento di conversazione.

Non pensare di cavartela così, pensò Zoe e decise di accontentarlo e di mettere un attimo da parte quel discorso. Ci sarebbe tornata su più tardi e sarebbe stata implacabile.

«Come sta la mia bimba?», gli domandò, malinconica. Le mancava tantissimo.

Sorrise malizioso. «Bimba… dai, non è più una bimba!».

«Franklin Weigel, non osare a fare quei pensieri con la mia Evelyn!».

«Ma che pensieri!», rise. «Ti stavo solo facendo notare che non è più una bambina… Ti assomiglia molto, sai?».

«Tutti dicono che è identica a Bill…», rimuginò.

«Tutti si sbagliano. Ieri l’ho guardata negli occhi e, ti giuro, mi è sembrato di guardare i tuoi, tanto che ho sentito lo stomaco aggrovigliarsi».

«Davvero?». L’angelo annuì, facendola sorridere commossa. «Franky…».

«Uhm?».

«Mi chiedevo… cioè, ci ho pensato tanto in realtà…».

Franky recepì i suoi pensieri in anticipo sulle sue parole e il cuore gli si fermò nella cassa toracica. Per un attimo smise anche di respirare ed annullò ogni altro sintomo vitale, per così dire.

«Quando io non ci sarò più, mi farebbe molto piacere che tu diventassi l’angelo custode di Evelyn».

«Zoe, io…», balbettò. Un altro cambiamento di programma… «Io non lo so… Bisogna avere un legame particolare con il proprio protetto, bisogna amarlo incondizionatamente e non è il caso, ecco…».

«E cosa hai intenzione di fare quando io non ci sarò più?», gli chiese allora, sollevando il sopracciglio.

«Beh…». Porre fine alla mia vita, magari. «Manca ancora tantissimo tempo, non vedo perché debba pensarci adesso!».

«Che ne sai, potrei morire domani, dopodomani, fra una settimana! Anche adesso!».

«Non dire cazzate!», gridò, alzandosi dalla sedia di scatto, furibondo. «Tu ti sveglierai dal coma e vivrai una vita ancora lunga, punto!».

«E ora dove credi di andare?!», gli urlò dietro, guardandolo mentre apriva la porta della sua stanza ed usciva in corridoio.

«A fare un giro!». E si sbattè la porta alle spalle.

 

***

 

Linda, Arthur e Jole, sorridenti, salutarono con la mano Tom, Bill e Evelyn nella stanza.

«Mi raccomando Bill, non restare inchiodato qui ventiquattr’ore su ventiquattro: Evelyn è grande!», gli disse la cognata.

«Ciao papà!», salutò Jole, particolarmente felice, prima di chiudere la porta.

Tom scosse il capo, con un sorriso ebete sul viso. Chissà per quale motivo, gli era tornata in mente Jole, l’altra Jole, quella di cui si era innamorato troppo tardi.

«Ma alla fine che cosa aveva da annunciare Jole, te l’ha detto poi?», chiese Evelyn, incuriosita, toccandogli il braccio e distraendolo dai suoi pensieri.

«Uhm… no! No, non ha più detto niente, in effetti!», ricordò il chitarrista, che venne attaccato di nuovo dall’ansia che aveva provato la sera in cui ci sarebbe dovuto essere il tanto atteso annuncio, la stessa in cui era accaduto l’incidente nel quale erano stati coinvolti suo fratello gemello, sua cognata e la sua nipotina.

«Io sono sicura che si tratta di una cosa di coppia… magari Leo le ha chiesto di sposarla!», esclamò felice Evelyn.

Tom, solo ad immaginare la scena, rabbrividì. «Speriamo di no, per l’amor del cielo!».

«Prima o poi dovrà accadere, arrenditi», disse Bill. «Alla fine ti troverai a cedere, come quando Jole ha fatto i bagagli e si è trasferita da lui».

«Ah, quella me la sono legata al dito!».

«Ma se non hai mai detto nulla!».

«Non ho detto nulla perché sto aspettando che torni a casa in lacrime a dire: “Papino avevi ragione tu, perdonami!”», imitò la voce di sua figlia, facendo ridere Evelyn.

«Ma dai, zio! Leo non la farebbe mai soffrire, è innamorato e a me sta anche simpatico».

«Tutte baggianate!», mugugnò burbero.

«Tu sei solo geloso perché la vedi ancora come la tua bimba, hai paura che te la portino via, ma lei ormai ha ventiquattro anni e ha più testa sulle spalle di noi alla sua età!».

«Non è assolutamente vero!».

Evelyn si mise in mezzo alla lite fraterna, dicendo: «Beh, sempre meglio il matrimonio che un nipotino, vero?».

Tom impallidì. «Sono troppo giovane e bello per diventare nonno!».

Bill e Evelyn si guardarono e scoppiarono a ridere, contagiando successivamente anche il chitarrista.

Qualcuno bussò alla porta e qualche secondo più tardi, dopo la risposta di Bill, un dottore in camice bianco, con un paio di occhialetti sul naso e un po’ di barba ispida intorno alla bocca, si sporse all’interno della stanza.

«Signor Kaulitz…».

Sia Bill che Tom si alzarono. Il maggiore lo fece per far sorridere il minore e ci riuscì, anche se poi gli diede un pugnetto sulla spalla, sussurrandogli: «Cretino».

Bill uscì dalla stanza e Tom e Evelyn rimasero da soli. La ragazza ne approfittò per parlare un po’ di Franky con lo zio, visto che il padre non ne voleva proprio sapere. Ci aveva provato, la sera prima, ancora un po’ frastornata dal loro incontro, e l’aveva subito liquidata dicendole che non ne voleva parlare. Doveva essere davvero arrabbiato con lui, anche se il motivo le rimaneva un mistero.

«Zio, hai visto Franky?», gli domandò direttamente.

Tom corrugò la fronte. «No, perché?».

«Così», scrollò le spalle. «Voglio parlare con lui».

«Di cosa, esattamente?». Deglutì, preoccupato. Bill non sarebbe stato d’accordo, sicuramente aveva paura che le potesse rivelare dello spirito di Zoe e per questo farla soffrire; lui, invece, era curioso di sapere se Franky ed Evelyn potessero effettivamente diventare amici. Secondo lui sì.

«Ho un po’ di domande che mi frullano nella testa e poi… solo per il gusto di vederlo».

«Che cosa intendi dire?».

«Boh, ha qualcosa di particolare che mi affascina».

Tom sgranò gli occhi. Qualcosa di particolare che l’affascina?! Spero non ci sia dietro alcuna cotta fulminante, perché se no Bill potrebbe anche decidere di eliminarlo del tutto!

«Voglio conoscerlo meglio, voglio farmi raccontare da lui le storie che mi ha raccontato mamma, voglio sapere tutto della loro storia, di come si sono innamorati l’uno dell’altro e voglio capire che cosa ha fatto innamorare mamma di lui».

Sembrava veramente curiosa e convinta che avrebbe scoperto tutte quelle cose, che avrebbe capito tutto come se fosse stata nel corpo della madre. In più, aveva quella luce negli occhi e quel sorriso sulle labbra…
Tom non poté far altro che dirle: «Appena lo vedo, gli dirò che vuoi parlargli».

Rischiava la lapidazione da parte di suo fratello, se avesse scoperto che lui tifava per quei due – come amici, ovviamente, – ma sentiva che rischiare era la cosa migliore.

 

***

 

Seduto sulla prima panca a sinistra, accanto alla vetrata, si massaggiò il viso e poi rimase a guardare di fronte a sé con lo sguardo spento.
Bill lo odiava, aveva avuto un mezzo litigio con Zoe e non aveva trovato Tom, con cui almeno si sarebbe sfogato un po’.
Quella giornata non era proprio delle migliori.

 

***

 

Evelyn si annoiava terribilmente a stare tutto il giorno a letto e a fare solo una passeggiata in sedia a rotelle per andare a trovare sua madre. Inoltre aveva una maledetta voglia, tanto da essere impaziente, di vedere Franky.

Sbuffò, stufa di leggere il libro che per quanto bello potesse essere secondo Linda, era un mattone che faticava a mandare giù. A volte restava interi quarti d’ora a leggere la stessa frase, intontita.
Poggiò il libro aperto sulle gambe, decisa più che mai a fare una pausa.

«Ah, che cos’ha detto il dottore, prima?», chiese a suo padre, steso sulla brandina al suo fianco, in dormiveglia.

«Mi voleva solo dire che questa notte il corpo di mamma… mamma ha dato dei segnali positivi, ora riesce a respirare da sola, ma non si sa ancora nulla».

«Uhm, capito…».

«Non ti piace?», le chiese allora Bill, riferendosi al libro.

«No, mi annoia». Sbadigliò e si stropicciò gli occhi, stanchi per lo sforzo di leggere, quando le venne un’idea che avrebbe giovato ad entrambi. «Papà, che ne dici se te ne vai un po’ a casa?».

Bill spalancò gli occhi e la guardò attentamente, con quel suo sguardo capace di scavarle l’anima, cercando di capire quali fossero le sue intenzioni. Ma non poteva immaginare che se ne sarebbe andata a fare un giro dell’ospedale per cercare Franky.

«Magari ti fai una doccia, dormi un po’ su un letto decente, vai a trovare Coco… mi prendi qualche cosa da fare perché se no mi ammazzo dalla noia…». Sorrise smagliante, il colpo di grazia che lo fece cedere. Ma per essere ulteriormente sicura che le lasciasse un po’ di tempo per agire indisturbata, lo rassicurò dicendogli che se proprio non voleva che rimanesse da sola poteva chiedere a Naomi o anche ad una qualsiasi altra infermiera – poco le importava in quel momento – se poteva venire a farle compagnia.

«Okay, mi hai convinto», le disse Bill con un debole sorriso sulle labbra. Le posò un bacio sulla fronte, tenendole il viso fra le mani. «Torno fra poco».

«Fai con calma. Ti voglio bene, papà».

«Anche io te ne voglio tanto».

Sulla soglia le soffiò un altro bacio, poi si chiuse delicatamente la porta alle spalle ed Evelyn esultò con le braccia rivolte al cielo.

Quando arrivò l’infermiera, che fortunatamente era Naomi, le sorrise e le disse: «Puoi farmi compagnia mentre mi porti a fare un giro turistico per l’ospedale?».

Naomi non riuscì a dirle di no e, dopo averla aiutata a sedersi sulla sedia a rotelle per non farla stancare troppo, la portò a visitare tutti i reparti dell’ospedale: quello neonatale, quello di neurologia, quello di terapia intensiva, l’ala del pronto soccorso… Ma di Franky nessuna traccia.
Aveva potuto vedere il bar e avevano attraversato tutto l’ampio giardino. Nemmeno lì, dove aveva sperato di trovarlo, Evelyn riuscì a scorgere la sua figura.

Credeva che il giro fosse finito e, demoralizzata, aveva iniziato a pensare che non l’avrebbe più rivisto, che fosse tornato in Paradiso come molte volte le aveva raccontato la sua mamma. Ma Naomi le disse, chinandosi un po’ per guardarla in viso: «E questa è la cappella».
Si trovava al piano terra dell’ospedale, ma quando erano uscite in giardino non l’aveva proprio notata.

Rimase un po’ in silenzio ad osservare il crocefisso appeso sopra la porta in legno massiccio e si chiese se gli angeli si sentissero a casa in quella che era una piccola “casa di Dio”, se fosse un luogo da loro privilegiato oppure no… Franky sicuramente era diverso, glielo aveva letto negli occhi ed era riuscita a recepirlo attraverso quelli della madre, e visto che il giorno prima l’aveva visto a cavalcioni sul ramo di un albero non era certa che fosse tipo da chiesa, però decise di tentare.

«Posso entrare?», chiese.

«Certo. Vuoi che ti lasci un po’ sola?».

«Sì, grazie».

Naomi le tenne la porta mentre lei, con un po’ di fatica, faceva scorrere le mani sulle ruote per avanzare. Quando rimase sola, nel silenzio più assoluto, osservò l’ambiente deserto che la circondava. C’era un’unica navata e un corridoio divideva due gruppi di panche in legno; infondo si trovava l’altare, sopra un piccolo rialzo. Le vetrate si trovavano su un lato solo, a sinistra, ed erano decorate con mosaici di vetro che rappresentavano delle figure prettamente religiose, come l’ostia spezzata e la croce sulla quale era stato crocifisso Gesù.

Non era mai stata particolarmente legata alla religione, non era il modello di fedele da cui prendere esempio, non sapeva nemmeno se credeva in Dio, ed era stata in chiesa sì e no due volte. In quel momento, però, si sentiva stranamente in pace col mondo lì dentro, non a disagio come si era sempre sentita fra tutta quella gente. C’erano lei e Dio, nessun altro.

Percorse il corridoio e raggiunse il porta candele che stava accanto al pulpito. Non aveva niente con sé per fare un’offerta e poter accendere un lume, quindi promise che la prossima volta avrebbe pagato il suo conto.
Osservò le poche fiamme accese tremolare al suo respiro e chiese, a bassa voce e con gli occhi chiusi, che la sua mamma si risvegliasse presto.

«Mi manca», aggiunse e abbassò il capo, trovandosi per un attimo patetica: non aveva mai pregato in vita sua e adesso che aveva bisogno che qualcuno aiutasse la sua mamma se ne andava da Dio?

«Anche tu le manchi tanto».

Sobbalzò all’udire quella voce. Aprì di scatto gli occhi e si voltò: seduto sulla prima panca, all’angolo, c’era Franky, le mani unite sul petto. La luce del sole che filtrava attraverso il vetro colorato lo illuminava e sembrava trapassarlo.

Il cuore di Evelyn saltò un battito, incontrando i suoi occhi verdi e brillanti. «Da… da quanto tempo sei lì?», gli domandò sottovoce.

«Da circa due ore, credo».

La ragazza deglutì, rossa dalla vergogna per non averlo notato prima, e si avvicinò a lui. Si sentiva in imbarazzo e in soggezione con i suoi occhi puntati addosso, ma aveva mille cose da chiedergli e la prima era nuova di zecca nella sua top ten.

«Come fai a sapere che le manco tanto? Mia madre è in coma, non può parlare…».

«Vuoi sapere anche perché tuo padre è arrabbiato con me, no?», le rispose con una domanda.

Evelyn annuì, incredula. Come aveva fatto? Era forse vero che sapeva anche leggere nel pensiero?

«Sì, so leggere nel pensiero», le sorrise. «Comunque, bando alle ciance, credo che tu abbia lo stesso diritto di sapere che ha Bill. Tanto, farmi odiare per farmi odiare…», scrollò le spalle, amareggiato. «Evelyn…».

Lei rabbrividì nel sentir dire il proprio nome da lui, mentre nel suo stomaco si libravano milioni di farfalline e sentiva il sangue scorrerle a velocità pazza nelle vene. Nonostante tutto, si sentiva bene; per quanto forti, erano belle sensazioni.

«Molti scienziati si sono chiesti che cosa succede veramente quando una persona va in coma, ma non sono mai arrivati a darsi una risposta razionale. La verità è che non c’è, una risposta razionale, perché quando una persona va in coma il corpo e lo spirito si dividono».

«S-Stai dicendo che lo spirito di mia madre è da qualche parte, lontano dal suo corpo?», chiese tremando leggermente, come le fiammelle che aveva osservato poco prima.

«Non è da qualche parte, è in Paradiso», sorrise lieve. «E visto che anche io abito da un po’ ai piani alti, riesco a vederla e a parlarci».

«Tu… tu…». Alcune lacrime le segnarono le guance, Franky gliele asciugò passandoci sopra le dita, poi le infilò un braccio intorno alle spalle e posò il capo al suo, confortandola.

Evelyn si sentì immediatamente meglio, senza provare imbarazzo né timore, ma solo all’idea che ciò che era andata a trovare più volte era solo l’involucro di sua madre, che la sua essenza era in Paradiso, aveva voglia di piangere e gridare fino a star male. Ma c’era Franky con lei.

«Mi ha detto di salutarti», le sussurrò all’orecchio. «E di dirti che ti ama e che le manchi».

«Dille che deve tornare, diglielo», lo pregò, singhiozzando.

«Glielo dirò, te lo prometto. Ma tu smettila di piangere». Le passò le mani sulle guance, spazzando via altre lacrime, e i loro occhi si incontrarono.

Sia Franky che Evelyn rabbrividirono, ma non si scostarono l’uno dall’altra. Anzi, lei posò il viso nell’incavo della sua spalla e gli avvolse timidamente le braccia intorno alla schiena.

L’angelo, colpito da tutta quella tenerezza e dallo strano ritmo che i battiti del suo cuore stavano seguendo, ricambiò l’abbraccio posando le labbra sui suoi capelli biondi. 

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Buonciorno xD
Beh, che dire... Questo capitolo somiglia a quello precedente, perchè ci sono sempre le incompresioni con Zoe, che ha addirittura chiesto a Franky di diventare in un futuro l'angelo custode di Evelyn; ci sono le incomprensioni con Bill, che non sono ancora state risolte; c'è l'incontro segreto di Franky ed Evelyn... insomma, i soliti punti, ma sviluppati in maniera diversa :) 
Anche se una cosa nuova c'è: abbiamo scoperto che Tom tifa perchè Franky ed Evelyn diventino amici! *-* Che caro lui xD
Bene, detto tutto anche sta volta... Aspetto con ansia le vostre recensioni!!

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha soltanto letto e blablabla xD Tutti quanti *-*
Grazie mille, alla prossima!
Vostra, 

_Pulse_

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Capitolo 5
*** Your happiness is there, with them ***


5. Your happiness is there, with them

«Sono a casa!», gridò Tom.
Si chiuse la porta alle spalle e si tolse la giacca, che appese all’attaccapanni.

«Ciao papà!», risposero Jole e Arthur, dal salotto. Erano seduti sul tappeto di fronte al divano e stavano giocando con le macchinine telecomandate.

Arthur era un vero patito di macchinine, ne aveva milioni in giro per casa, ma la sua preferita era in assoluto il modello di Ferrari rossa che stava comandando in quel momento, contro la Porche gialla di Jole.

«Oh no!», piagnucolò il bambino. La sua macchina si era schiantata contro il mobile e lui non aveva ancora imparato a fare la retromarcia.

Tom decise di intervenire, anche perché se Linda si fosse accorta dell’ennesimo segno sul legno sarebbero stati guai seri. Così si inginocchiò dietro il figlio e mise le grandi mani sulle sue piccine, gli indicò quale fosse la leva della retromarcia e, guidandolo nei movimenti, lo aiutò a liberare l’automobile, che riprese a schizzare da una parte all’altra del salotto in maniera un po’ confusa: sembrava ci fosse un ubriaco alla guida.

La Ferrari e la Porche gialla si schiantarono per gioco e Tom rabbrividì: quello era solo un gioco, ma quando succedeva davvero, con macchine vere e persone vere, il gioco che faceva così ridere a Jole e ad Arthur si trasformava in una tragedia capace solo di far piangere.

Si voltò verso la cucina, dove era sicuro di trovare Linda, e sulla soglia della porta, appoggiata con una spalla allo stipite, vide proprio lei, che gli sorrideva.

«Sei tornato, finalmente», gli disse.

Attraversò il salotto a grandi falcate e la raggiunse. Le prese i fianchi fra le mani e posò le labbra sorridenti sulle sue. «Ti sono mancato?».

Gli avvolse il collo con le braccia e arricciò le labbra in un sorriso, pensosa. «Uhm… giusto un po’». Poi lo baciò di nuovo.
«Comunque», gli puntò il dito sul petto, «ho visto che c’è una nuovo segno sul mobile».

«Te ne sei accorta?», mugugnò.

«Sì, caro. Te l’avrò detto forse un milione di volte di metterci una protezione, qualcosa… ma non l’hai mai fatto, pigro che non sei altro».

«Io non sono pigro, tutt’altro! Io lo farei, se avessi tempo», annuì saccente, sollevando le sopracciglia. «E poi è solo un mobile, che cosa te ne importa?».

«È una questione di principio, Tom!».

«Discuteremo dei tuoi principi più tardi, in camera da letto», sussurrò suadente, prima di intrappolare le sue labbra fra le proprie in un nuovo bacio, quella volta più passionale.

Linda dovette cedere – dopotutto non gli sapeva proprio resistere – ed arretrò d’un passo in modo tale che Arthur e Jole non vedessero. Era solo una sua stupida fissazione, ma si sentiva sempre in imbarazzo a manifestare effusioni in pubblico, anche quando il pubblico erano i suoi figli.
Ma appena furono in cucina fu Tom a staccarsi da lei, come se avesse visto chissà che cosa alla sua destra. Seguì il suo sguardo e corrugò la fronte: c’era forse qualcosa di sbagliato in come aveva apparecchiato la tavola?

Il chitarrista si era bloccato non appena aveva visto Franky, seduto al tavolo come se stesse aspettando la cena.
“Che cacchio ci fai qui?!”, gli aveva chiesto mentalmente e l’angelo si era voltato verso di lui, sorridendo in un modo che non convinse del tutto Tom. Doveva essergli successo qualcosa.

«Sono passato a salutarti», gli rispose a voce, con naturalezza.

«Certo, credi che me la beva?».

Linda spalancò gli occhi. «Tom, ma con chi stai parlando?».

Lui scosse il capo, resosi conto dell’enorme gaffe che aveva appena fatto, mentre Franky se la rideva sotto i baffi.
«Con nessuno, amore!», le disse nervosamente.

«Ma tu hai detto –!».

«Stavo pensando ad alta voce!». Le passò una mano sugli occhi per farglieli chiudere e la baciò di nuovo sulle labbra, per tenerla impegnata mentre lui agitava il braccio per mandare via Franky.

«E va bene, va bene, me ne vado!», ridacchiò l’angelo, alzandosi. «Almeno puoi raggiungermi in camera tua? È un po’ che non parliamo».

Tom disse di sì col pensiero, molto distrattamente, poiché ci aveva preso gusto a baciare la moglie, e Franky uscì dalla cucina.

In salotto vide Jole e Arthur, che giocavano insieme. Arthur, nato quattro anni prima dall’unione di Tom e Linda, somigliava tantissimo al padre: aveva i suoi stessi occhi e lo stesso sorriso; i capelli biondi erano scompigliati sulla testa e ogni tanto se li spostava dalla fronte, infastidito. Sì, era proprio un Tom junior.
Successivamente si soffermò a guardare la ragazza. Un sorriso gli comparve sulle labbra in ricordo della sua amica e si abbassò per poterla guardare meglio in viso.

«Ciao, Jole», sussurrò spostandole una ciocca di capelli biondi, come quelli della madre, dalla guancia.

Jole avvertì un brivido percorrerle la schiena, ma fu un attimo fugace e non ci diede troppo peso. Aveva altro per la testa in quel momento, o meglio da diversi giorni, e Franky lesse tutto, tanto che si piegò in due dal ridere.

Tom, sentendolo ridere, si scostò dolcemente da Linda, un po’ frastornata, e guardò in salotto.
“E adesso perché ridi così, posso saperlo?!”, gli gridò col pensiero, irritato dal suo comportamento.

«No, sul serio… non è nulla di importante», rispose l’angelo, scosso dai singulti di riso. «Ti aspetto di sopra. Oh mio Dio», sospirò con le lacrime agli occhi e scomparve sulle scale.

«Tom, mi spieghi cosa cavolo ti prende? Sei strano stasera…», disse Linda, prendendogli il viso fra le mani per poterlo guardare negli occhi. «Non è successo niente con Bill, vero? Stanno bene lui, Evelyn e Zoe?».

«No, non ti preoccupare! Stanno bene, anche se Zoe non collabora come vorremmo. E poi non sono strano, è che… ho tante cose per la testa».

«Cioè?».

«Cose di lavoro», la rassicurò. «Che c’è per cena?».

Linda ridacchiò: forse il suo Tom stava tornando. «Sorpresa», gli sussurrò sulle labbra, strappandogli un bacio.

«Mmm la cosa si fa interessante…», sorrise sghembo. «Vado a lavarmi le mani, allora. Ho una fame da lupo!».

«Non credo esistano lupi vegetariani».

«Mica posso dire che ho una fame da pecora! Suona male!».

«Sì, forse hai ragione», rise. «Dai, muoviti».

Tom uscì saltellando dalla cucina, poi corse su per le scale e si chiuse in camera. Franky era spaparanzato sul letto e aveva fra le mani la fotografia che Linda teneva sempre sul comodino. C’era la sorridente famiglia al completo: Tom, che teneva in braccio il piccolo Arthur che allora aveva solo qualche mese, e Linda e Jole abbracciate.

«Qui eravate a Lione, vero?», domandò l’angelo, picchiettando l’indice sulla cornice d’argento.

«Sì. In quel periodo eravamo in tour e mi hanno fatto una sorpresa, raggiungendomi lì», sorrise e si lasciò cadere accanto a lui.

«Mi ricordo, sì. È stata la stessa sera in cui David si è sentito male e l’hanno portato al pronto soccorso».

«Sì, bravo! Avevamo appena finito il concerto quando ce l’hanno detto».

«Dovrò andare a trovarlo, uno di questi giorni».

«Gli farà piacere, vedrai».

Rimasero diversi secondi ad osservare il soffitto bianco, poi Tom si schiarì la voce e disse: «Volevi parlarmi di qualcosa in particolare?».

«No, avevo solo voglia di stare un po’ con te».

«Oh, come sei sdolcinato! Sono sposato ora, mi dispiace per te. Spero che tu non abbia sofferto troppo».

«Da morire», sussurrò portandosi il dorso della mano sulla fronte, chiudendo gli occhi. Poi rise. «Arthur ti somiglia molto».

«Già, trovo anch’io».

«Sì, lo spirito di Zoe è uscito dal suo corpo ed ora è in Paradiso in attesa ti ricongiungersi ad esso. Bill mi odia perché crede che io sia il privilegiato della situazione, è geloso, quando invece non sa che io sto sperando con tutte le mie forze che Zoe si risvegli dal coma», rispose Franky senza che Tom chiedesse niente: l’avevano fatto i suoi pensieri per lui. «Stamattina ho quasi litigato con Zoe per due volte… La verità è che io non voglio che si trovi in Paradiso, mi fa male come suo angelo custode perché non è il suo posto e mi fa male anche perché… perché averla così vicina di nuovo dopo tanto tempo mi fa soffrire, è come all’inizio, come quando non ero ancora abituato a non poterla avere perché ero un angelo… Però, adesso…».

«Cosa?», lo incitò a continuare Tom, che l’aveva ascoltato senza mai interromperlo.

Franky tentennò. Doveva parlargli anche di Evelyn? Era il suo migliore amico, ma non sapeva se fosse ugualmente la cosa migliore… Essendo così vicino a Bill avrebbe potuto confessare facilmente, era meglio non rischiare. E poi anche lui doveva ancora capire che cosa gli succedesse ogni volta che stava vicino a quella ragazzina. Doveva prima inquadrare la situazione, o non ci sarebbe mai venuto a capo.

«No, niente, lascia stare», sorrise debolmente.

«Come vuoi», borbottò. «Ah! Quando ti sei messo a ridere, prima, l’hai fatto perché hai letto qualcosa di divertente nella mente di Jole?», gli chiese con un po’ di preoccupazione.

Franky lo guardò negli occhi, voltando il capo verso il suo, e trattenne a stento le risate. «Non voglio rovinarti la sorpresa».

«Ti prego Franky, dimmelo! Potrei starci veramente male!».

«Hai detto a Linda che ti saresti lavato le mani e che ti saresti sbrigato. Si sta chiedendo se ti sei perso, credo che tu debba andare».

«Non puoi lasciarmi così sulle spine!».

«Lo sto facendo», ridacchiò. «E poi anche io devo andare, devo tornare di sopra».

«Come mai?», inarcò il sopracciglio.

«Ho una lezione stasera».

«Che lezione?».

Lui non sapeva nulla delle novità che aveva introdotto nella sua vita da angelo e si sentì un po’ in colpa per averlo reso così poco partecipe. «Ho… ho iniziato a tenere un corso, a scuola…».

«Fammi capire bene», sogghignò. «Fai il professore?».

«Non mi faccio chiamare così, di solito…».

«Oddio!», gli scoppiò a ridere in faccia. «Professor Franklin è il massimo!».

«Molto divertente…». Nonno Thomas. Pensandoci, ritrovò subito il sorriso. «Mi dispiace non potermi intrattenere di più, ma devo proprio scappare. Ciao!».
Dopo una piccola rincorsa, saltò con un piede sul davanzale della finestra aperta e si gettò fuori, poi aprì le ali e volò nel cielo blu scuro della notte, illuminato solo dalla luna pallida.

Tom, sorridente, andò alla finestra e lo vide scomparire fra le stelle.

Prima di tornare in Paradiso decise di fare una capatina all’ospedale per salutare il corpo di Zoe ed assicurarsi che andasse tutto bene.
Entrò dalla finestra, controllò i parametri vitali sulle apparecchiature elettroniche, poi accarezzò la sua mano con la punta delle dita.

Uscì dalla camera e camminò fra i corridoi deserti, attraversati ogni tanto da qualche infermiera di turno, fino ad arrivare, senza nemmeno rendersene conto, di fronte alla stanza di Evelyn.
Sbirciò dal vetro e la vide ridere quando un lembo della garza bianca che un’infermiera le stava levando dal capo le coprì gli occhi. Si ritrovò a sorridere, senza un perché preciso.

Evelyn si tolse la benda e il suo sguardo incrociò quello di Franky. Ma un attimo dopo lui non c’era più.

Salì due a due la scalinata, spinse la porta a vetro ed accennò una piccola corsa per raggiungere l’aula in cui avrebbe tenuto la lezione. Era leggermente in ritardo.
Quando vi entrò rimase piacevolmente sorpreso: tutti i suoi alunni erano già seduti ai loro posti e lo stavano aspettando.

«Buonasera», lo salutarono in coro, sorridendo.

«Buonasera, ragazzi», rispose, mentre con passo svelto andava alla cattedra.

Si sedette con grazia su di essa, gambe a penzoloni, e osservò dall’alto verso il basso il viso di tutti i suoi studenti. Non ce n’era uno che non fosse sorridente e questo gli riempì il cuore di gioia, perché voleva dire che gli volevano bene e gli piaceva davvero ciò che raccontava loro.
Incontrò lo sguardo di Kim e le fece un ampio sorriso, a cui unì un occhiolino, poi si rivolse a tutta la classe: «Scusate se sono stato via per qualche lezione, ma – probabilmente lo saprete già – sono dovuto andare di sotto per la mia protetta».

«Non si preoccupi!», disse un ragazzo.

«È bello riaverla fra noi».

«Però deve raccontarci tutto!».

Ridacchiò. «Lo farò, promesso».

Qualcuno bussò alla porta e Franky, sorpreso, diede il via libera per entrare, ma non avrebbe mai immaginato che dietro quella porta ci fosse proprio Zoe, che sorrise timidamente.

«Posso assistere alla lezione anch’io, professore?», chiese, ancora sulla soglia.

«C-Certo, perché no?», balbettò Franky, sentendosi subito a disagio. Zoe non avrebbe dovuto essere lì, perché l’avevano fatta uscire dall’ospedale e le avevano detto che lo avrebbe trovato a scuola?
Si schiarì la voce, dicendosi che avrebbe parlato con lei più tardi, e la guardò mentre prendeva posto proprio accanto all’entrata dell’aula. Poi si concentrò sulla sua lezione.

«Allora, cosa volete sapere di preciso?», chiese ai suoi studenti. Una ragazza alzò la mano e lui le diede la parola.

«Io vorrei sapere come ha fatto a capire che stava per succedere qualcosa alla sua protetta e ad intervenire in tempo».

Zoe aggrottò le sopracciglia, un po’ confusa. Quello era il suo modo di insegnare? Lasciare la libera iniziativa ai suoi alunni, rispondere ai loro quesiti con semplicità, parlare con loro come se fossero amici a cui dare consigli… Sorrise, perché se lo sarebbe dovuto aspettare dal suo Franky.

«È molto semplice, in realtà», rispose l’angelo. «Quando si diventa l’angelo custode di qualcuno si entra in completa simbiosi col proprio protetto, c’è un legame fortissimo, sembra quasi di stare nello stesso corpo… L’ho avvertito sulla mia pelle che stava per succederle qualcosa e sono corso da lei, anche se non sono arrivato proprio in tempo», abbassò il capo, gettando un’occhiata alla donna che lo osservava rapita dal suo posto in prima fila.

«In che senso non è arrivato proprio in tempo? L’ha salvata, vero?».

«Sì… sì, l’ho salvata, però… è in coma, ora».

«In coma?», domandò Kim, che insospettita continuava a guardare con la coda dell’occhio Zoe. «Quindi è una specie di… parità? Non ha né vinto né perso».

«Io… io credo di aver perso», le disse Franky, con il capo ancora chino. «La sensazione che ho provato quando ho capito che non potevo più fare niente è stata orribile, come se fossi morto una seconda volta, solo in modo molto più straziante. È come vi dicevo prima, si è legati così tanto alla persona che si deve proteggere che si percepiscono sia le gioie che i dolori e quando tocca ad un dolore è quintuplicato in noi, ci si sente veramente male. Anche per questo dovrete fare sempre di tutto per il vostro protetto».

La lezione durò ancora un po’, fra domande a cui non mancavano mai risposte e mezzi sorrisi fra Franky e Zoe, che aveva ascoltato tutto meravigliata. Non aveva mai conosciuto quelle cose così “da angelo”, non aveva mai visto il suo compito attraverso i suoi occhi e aveva capito molte cose.
Quando Franky si portò le mani al petto e con un sorriso sulle labbra annunciò che la lezione poteva terminare, lei si alzò ed uscì dall’aula. L’avrebbe aspettato in giardino.

Franky, rimasto solo nella classe, si massaggiò le tempie sospirando.

Era stata una lunga lezione e avrebbe solo voluto andare a casa a dormire, ma probabilmente Zoe lo avrebbe trattenuto ancora un po’ con lei per poter parlare, forse per chiarire ciò che non si erano detti, o che si erano detti male, quella mattina. Non voleva litigare con lei, aveva sempre detestato farlo, ma forse erano arrivati al punto in cui non potevano confrontarsi senza scaldarsi: avevano opinioni troppo diverse in alcuni campi ed ognuno era intenzionato a difenderle fino all’ultimo. Era una battaglia persa in partenza.

Chiuse gli occhi e dopo qualche secondo la sua mente gli fece lo strano scherzo di proiettargli davanti gli occhi di Zoe, azzurri come il mare. Pian piano, però, l’inquadratura si allontanò e intorno a quegli occhi scorse altri particolari che gli fecero schizzare il cuore in gola. Quella non era Zoe… ma Evelyn.

Qualcuno si schiarì la voce alla sua destra e sulla soglia dell’aula, come un déjà-vu, vide Kim, che poi avanzò timidamente di qualche passo, senza incrociare i suoi occhi.

«Kim…».

«Era lei, vero?», gli domandò.

«Lei chi?», chiese Franky, anche se aveva capito benissimo a chi si riferisse.

«La donna che ha assistito alla lezione, era la sua protetta?».

L’angelo sospirò, annuendo col capo. Poi accennò un sorriso e le scompigliò i capelli sulla testa. «Mi dispiace», sussurrò.

«Non si preoccupi, ci sono abituata a queste cose», scrollò le spalle, sforzandosi per fare un sorriso che non somigliasse troppo ad una smorfia. «Ci vediamo lunedì». Si diresse verso l’uscita, ma prima che se ne andasse Franky la chiamò.

«Kim?». Lei si voltò e lo guardò negli occhi, forse per la prima volta senza imbarazzo. «Tu sei l’unica che ancora non mi ha detto perché vuoi fare l’angelo custode».

La ragazzina sorrise, alzando gli occhi al cielo. «Chi l’ha detto che voglio diventare un angelo custode? Io voglio solo amare». Detto questo, svoltò l’angolo senza dare il tempo a Franky di chiederle altre spiegazioni. Ma forse non ce n’erano e non ne servivano altre.

L’angelo spense la luce ed abbandonò l’aula.

Zoe si trovava in giardino, seduta sull’ampia scalinata che portava all’interno dell’edificio scolastico. La raggiunse e insieme iniziarono a camminare per ritornare all’ospedale.

«Come mai ti hanno fatta uscire?», le domandò, incuriosito.

«Stavo bene, ho chiesto all’infermiera se potevo andare a fare quattro passi e mi ha detto di sì», sollevò le spalle, sorridente.

«Solo a me mi trattengono sempre?», si imbronciò, facendola ridere.

«È stata molto bella questa lezione, mi piacerebbe assistere anche alle altre», gli disse, sollevando il viso verso l’alto. Il cielo era buio e punteggiato da minuscole stelle che brillavano come non aveva mai visto in vita sua. «C’è stata solo una cosa che non ho trovato giusta».

«Quale?».

«Il fatto che gli angeli custodi si debbano sentire così… responsabili, anche quando hanno fatto del loro meglio. Non dovrebbero soffrire in questo modo».

«È il nostro compito. Non soffriresti anche tu, se tentassi in ogni modo di aiutare una persona, ma ogni tuo sforzo è vano e la vedi star male senza poter far nulla?».

«Sì, ma è diverso… nel nostro caso». Man mano che parlava la sua voce si era abbassata, fino a diventare un sussurro.

Franky serrò le labbra e guardò il suo profilo, ancora rivolto verso il cielo. «Nel nostro caso?», domandò retoricamente, accennando un sorrisino amareggiato. «Noi non siamo diversi da molte delle coppie angelo-umano che ho conosciuto».

«Lo credi davvero? Credi davvero che quello che lega noi due sia uguale a ciò che lega altre “coppie”? Ciò che ci unisce è qualcosa di ben più forte e di ben più profondo e anche se tu sei il mio angelo custode non vuol dire che solo tu possa star male se sto male io; anche io posso soffrire quando soffri tu e non ne usciremo mai, se uno di noi due non smetterà di soffrire».

«Allora esci dal coma, cazzo!», strepitò, fermandosi in mezzo al marciapiede e guardandola severo, con le braccia spalancate.

Zoe ricambiò lo sguardo con altrettanta severità, portandosi le mani sui fianchi. «Sembra che tu non veda l’ora che io me ne vada!».

«Sì, in effetti non vedo l’ora! Io non ti voglio qui, questo non è il tuo posto!».

La donna, ferita da quelle parole, abbassò gli occhi lucidi e fece un passo indietro. Franky ne fece uno avanti, dispiaciuto per averla trattata in quel modo, e le sfiorò il braccio con una mano, cercando di guardarla negli occhi. Alla fine le prese il mento fra le dita e la costrinse a sollevare il viso.

«Il tuo posto è di sotto, con Bill ed Evelyn. Lo sai anche tu», le sussurrò. «E il motivo per cui non ti voglio qui non è perché non ti voglio più bene, come stai pensando… è proprio il contrario. Ti voglio troppo bene e mi fa male starti così vicino, dopo tutto il tempo in cui non ho fatto altro che cercare di accettare il fatto che tra noi le cose sono cambiate, che le nostre vite sono cambiate, che noi siamo cambiati… Io ti amo ancora e non smetterò mai di farlo, ma il nostro momento è finito. Non importa quanto io stia male, quello che conta è che tu sia felice e so che ciò che ti rende felice più di qualsiasi cosa è svegliarti la mattina accanto a Bill, preparare la colazione per Evelyn e dirle di stare attenta quando prende il pullman per andare a scuola; ti rende felice andare al lavoro sapendo che alla sera vi troverete ancora tutti e tre, che cenerete insieme e che la tua bimba ti farà il riassunto dettagliato della sua giornata; ti rende felice quando è ora di andare a dormire e la becchi ancora al computer; ti piace sgridarla per poi fare pace, coccolarla, anche se lei dice che è grande ormai; e poi ti rende felice andare in camera tua, infilarti fra le coperte ed essere baciata da Bill, fare l’amore con lui…». Franky sorrise, asciugandole le lacrime che non era riuscita a trattenere. «Come vedi, io non sono indispensabile per la tua felicità, non più. Forse hai ragione tu, il nostro legame è molto più forte di quanto si possa immaginare, ci saremo sempre l’uno per l’altro, ma non devi dimenticare che la tua felicità è là, con loro».

Zoe tirò su col naso e lo abbracciò, lo strinse forte a sé mentre nascondeva il viso e soffocava i singhiozzi contro il suo collo.
«Mi mancano tantissimo», biascicò.

«Lo so».

***

Il cellulare di Bill iniziò a vibrare sul comodino. Lui l’arraffò prima che potesse disturbare Evelyn, che si era già addormentata. Andò alla finestra e, piantando lo sguardo nel cielo scuro della notte, rispose.

«Ciao Tomi».

«Ehi, come stai?», gli chiese il gemello con tono premuroso. «Non ti ho svegliato, vero?».

«No, ero sveglio, non ti preoccupare. Come mai hai chiamato?».

«Ho parlato con Franky, prima».

«Oh, capisco», borbottò, con una smorfia sul viso.

«Mi ha detto che lo odi. È vero?».

Bill si irrigidì e strinse i pugni. «Non è giusto, non è giusto che lui…».

«Sei infantile», lo interruppe Tom.

«Che cos’hai detto?», soffiò incredulo, sgranando gli occhi.

«Ho detto che sei infantile. Credi davvero che potrebbe fare una cosa del genere? Franky non si permetterebbe nemmeno di sognarselo, sa che ormai lei è tua, non la sfiorerebbe nemmeno. E Zoe? Riponi così poca fiducia in tutto ciò che avete costruito in questi anni? Lei ti ama, ama Evelyn… non devi nemmeno azzardarti a pensare che possa tradirti».

In un attimo ricordò tutti gli anni passati con lei senza la presenza di Franky, ricordò il giorno del loro matrimonio, quando avevano scoperto che la loro famiglia si sarebbe allargata, quando era nata la loro piccola Evelyn… Zoe gli aveva dimostrato in atti e parole quanto tenesse a lui, quanto lo amasse. Anche se Franky sarebbe rimasto sempre nel suo cuore non voleva dire che fosse il primo… Ora il primo era lui, che era stato in grado di starle accanto, di farla felice, di amarla.

«Io… Mi dispiace, Tom. Hai ragione tu…».

«Certo che ho ragione io!», ridacchiò, strappando un sorriso anche al fratello. «Ma capisco perché tu ti sia sentito così: ti sei fatto prendere dallo sconforto, ti sei chiesto perché fosse successo e non trovando una risposta, un colpevole, te la sei presa con Franky…».

«Ma lui… lui è arrabbiato con me?», chiese, preoccupato e pentito come un bambino dopo aver combinato un pasticcio di quelli grossi.

«No», rispose divertito. «Lui ha capito meglio di me… Vedrai che sistemerete tutto».

«Okay», disse con un sospiro che gli alleggerì il petto, passandosi una mano sugli occhi lucidi.

«Ah, se lo vedi prima di me chiedigli come sta Zoe! Chissà come se la passa nel bel vecchio Paradiso», ridacchiò il chitarrista.

«Glielo chiederò», promise. «Grazie, Tomi».

«E di che? Buonanotte fratellino, ti voglio bene».

«Anch’io. Buonanotte».

Pose fine la chiamata e si sdraiò sulla sua brandina. Guardò per qualche minuto il soffitto bianco, poi accennò un sorriso e chiuse gli occhi.

***

Tom scosse il capo, stupito di quanto il suo fratellino a volte dimostrasse il suo lato bambinesco, quello che l’aveva sempre accompagnato in ogni fase della sua crescita e che qualche volta lo portava a ragionare in maniera impulsiva, senza pensare ai pro prima dei contro, tanto da non essersi accorto di quanto in realtà fosse fortunato: grazie a Franky erano venuti a sapere di quella divisione corpo-spirito e, sempre grazie a lui, potevano persino sapere come stava Zoe, magari anche comunicare, con lui da messaggero. Aveva una possibilità che altre persone nella stessa situazione, ma senza un angelo come amico, non avevano.

«Mamma, papà, io vado a casa!», annunciò Jole entrando in cucina, dalla quale si poteva accedere ugualmente alla terrazza che dava sul salotto, dove si trovava Tom.

«No, non andare, resta qui a giocare con me ancora un pochino!», mugugnò Arthur, aggrappandosi alla sua gamba.

«Piccolino, io domani devo andare a lavorare!», gli spiegò la sorella, prendendolo in braccio per guardarlo negli occhi.

«Uffi». Posò il viso sulla sua spalla, spostandole i capelli dietro la schiena, con il broncio sul viso.

«Prometto che domani vengo ancora», gli disse allora, per tirarlo su di morale.

«Porti anche Leo?», le chiese con entusiasmo, gli occhi brillanti.

«Vuoi che porti anche Leo? Porterò anche Leo, che problema c’è!».

«Sì, che bello!», gridò Arthur, saltellando fra le sue braccia.

Jole rise, poi lo rimise coi piedi per terra e lo lasciò correre in salotto, dove riprese a giocare con le sue tanto amate macchinine.

«Ci vediamo domani allora», la salutò Linda, con un sorriso amorevole sulle labbra.

La ragazza annuì e le stampò un grosso bacio sulla guancia, poi andò da suo padre per fare lo stesso, ma lui preferì accompagnarla alla porta.
Sulla soglia, la guardò intensamente negli occhi, ma lei non si ritrasse, anche se come al solito aveva sentito un brivido correrle su per la schiena incontrando quei magnifici occhi castani. Era sempre stato così, fin da quando era piccola. Forse perché li amava infinitamente.

«Devi dirmi qualcosa, papà?», gli domandò.

«No… cioè, sì, io… ecco…», balbettò, arrossendo impercettibilmente sulle guance. «Mi chiedevo… Ricordi l’annuncio che dovevi fare…?».

«Oh, sì! In effetti non ne abbiamo più parlato…».

«Ecco. Io… sì, mi domandavo… c’entra Leo, per caso?». Deglutì, agitato.

Jole sorrise. «Certo che c’entra. Riguarda proprio noi due».

«Lo sapevo, io lo sapevo!», pensò ad alta voce, facendole inarcare il sopracciglio. «Sapevo che c’entrava lui, tutto qui», si corresse subito, ridacchiando nervosamente.

«Uhm», annuì la figlia. «Ora è… è meglio che vada».

«Sì… Jole?».

La ragazza si voltò. «Dimmi».

«Sei felice, con lui?».

«Sì», sorrise in un modo così bello da riuscire a scaldargli il cuore e gli soffiò un bacio, poi trotterellò giù per le scale.

Tom rientrò in casa un po’ più sollevato. Infondo, se sua figlia era felice doveva essere felice per lei, non sperare che tutti i suoi sogni andassero in frantumi. Che padre era, se non sapeva gioire delle gioie della sua bimba?

Entrò in camera e vide Linda stesa sul letto, appoggiata col fianco al materasso. Addosso aveva la camicia da notte di seta rosa che gli piaceva tanto e aveva i capelli sciolti, raccolti su una spalla. Sembrava proprio che lo stesse aspettando.

«Perché quella faccia?», gli domandò con un sorrisetto malizioso sul viso. «Mica dovevamo discutere dei miei principi?».

Tom sorrise sghembo e si tolse la maglietta, la lanciò sul pavimento e poi la raggiunse sul letto. La baciò sulla bocca, infilandole le mani fra i capelli profumati, e si disse che era l’uomo più fortunato del mondo.

Ad un certo punto si scostò un poco per poterla guardare negli occhi. Lei rise e gli avvolse il collo con le braccia, stampandogli tanti baci asciutti sulle labbra.

«Arthur l’ho già messo a letto io», lo rassicurò e lui poté riprendere da dove aveva lasciato.

Sì, era decisamente l’uomo più fortunato del mondo.

***

Franky entrò dalla finestra senza fare alcun rumore, si avvicinò al corpo immobile di Zoe e le accarezzò i capelli, scostandoglieli dalla fronte.
Si mise seduto al suo fianco e posò il viso sul materasso, fra le braccia. Chiuse gli occhi e si addormentò.

________________________________________

Buonasera a tutti :)

L'ennesima discussione fra Franky (professoreeeeee xD) e Zoe, sembra proprio che non riescano a farne a meno ._. Ma poi si sono chiariti alla grande, Franky le ha fatto un bel discorso :'D
Tom, dopo una chiacchierata con l'angelo, ha chiamato Bill e lo ha fatto ragionare; Bill ha capito che non doveva prendersela con lui, quindi... pace in vista xD
Evelyn non si vede in questo capitolo, piuttosto il protagonista quasi assoluto è Tom e la sua famiglia *-* C'è Jole, la bimba di Linda che, per chi non dovesse ricordarsi, ha dentro di sè l'anima dell'altra Jole, il fantasma della ragazza con cui Tom aveva avuto una "storia" in vita e poi della quale si era innamorato una volta morta. C'è anche il piccolo Arthur, che io adoro *-* E poi Linda che, ah, Tom non se la merita per niente u.u ahahah xD No, scherzo :)

Nel complesso, vi è piaciuto? :D Spero proprio di sì, dai. Aspetto un vostro commento ;)

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e tutti quelli che sostengono questa FF!! *o*
Grazie mille, alla prossima!!
Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 6
*** Bomb news ***


6. Bomb news

 

Bill, ancora un po’ addormentato, si stropicciò gli occhi e si disse che doveva proprio andare a casa per farsi una doccia, prima che Evelyn si svegliasse.

Si alzò dalla brandina, sentendo scricchiolare le sue povere ossa, poi con un sospiro uscì dalla stanza: aveva anche bisogno di una grande tazza di caffè.
Così si diresse verso il bar dell’ospedale, ma prima di scendere al piano terra indugiò ancora un po’ al primo piano, indeciso. Alla fine si incamminò fra i corridoi del piano su cui era rimasto.

Da quando Franky gli aveva detto che quello era solo il corpo di Zoe e che il suo spirito si trovava in Paradiso non era più riuscito ad andare a trovarla, ma non era giusto. Infondo lui l’amava interamente, anima e corpo.

Arrivò alla sua destinazione e all’interno della camera vide Franky, addormentato con le braccia e il viso sul letto di Zoe. Entrò senza far rumore e passò delicatamente una mano fra i suoi capelli a spazzola, sorridendo intenerito. Era ancora così Franky… come aveva potuto essere arrabbiato con lui e credere che potesse fargli del male?

L’angelo mugugnò e lentamente sollevò il capo dal materasso. Lo guardò con gli occhi piccoli e sorrise dopo aver percepito i suoi pensieri: Bill ora era sereno, non ce l’aveva più con lui e ciò lo rese immensamente felice.

«Buongiorno», lo salutò il frontman, che prese una sedia e si mise seduto accanto a lui.

«’giorno», rispose l’angelo, passandosi le mani sul viso. «Se vuoi stare un po’ da solo me ne vado, eh».

«No, stai pure».

Rimasero un po’ in silenzio, guardando la loro Zoe che vista così sembrava addormentata. Poi Bill prese coraggio e gli disse ciò che già dalla sera precedente aveva in mente di dirgli:
«Mi dispiace per come ti ho trattato. Tu non c’entravi niente, me la sono presa con te ingiustamente, accecato dalla gelosia. Avevo così paura di perderla che…».

«Non ti preoccupare, Bill», lo rassicurò Franky, sorridendo. «È acqua passata ormai».

Abbassò gli occhi, intimidito da tutta quella comprensione, quando lui non aveva fatto altro che trattarlo male. «E non ti ho nemmeno ringraziato come si deve per averci salvati…».

«Non devi ringraziarmi, è il mio compito. Però non sarebbe stato male se fossi arrivato un po’ prima…».

Bill non lo fece continuare, lo strinse in un abbraccio e si beò della singolare sensazione che solo stando fra le braccia di un angelo poteva provare. Si sentiva al sicuro, intoccabile da ogni sofferenza.
Le sue ali gli avvolsero la schiena e sorrise al ricordo di quando l’aveva fatto per la prima volta. Era passato così tanto tempo… ma loro erano rimasti sempre gli stessi e ora si trovavano di nuovo insieme, ad affrontare altre difficoltà.

Franky sciolse per primo l’abbraccio, gli sorrise e si fece da parte per permettergli di salutare meglio Zoe. Bill si avvicinò al suo corpo inerte e la guardò in viso dall’alto, poi si chinò per darle un lieve bacio sulla fronte, accarezzandole i capelli.

«A volte… a volte riesce a sentivi», si intromise a bassa voce Franky, per non disturbare quel momento che sembrava così intimo.

«Davvero?», gli domandò, senza allontanarsi dal viso di sua moglie.

«Mi ha raccontato di aver sentito Tom e Evelyn».

Bill annuì con un cenno del capo e sorrise lievemente, sfiorando con la punta delle dita la pelle candida del suo volto. Le avrebbe parlato un po’ più tardi, da solo.

Si ricordò della promessa che aveva fatto al fratello la sera prima e disse, sedendosi sulla sedia e guardando l’angelo negli occhi: «A proposito di Tom, mi ha chiesto di domandarti come se la passa Zoe in Paradiso. In realtà sono curioso anche io…».

Franky arricciò le labbra in un sorriso divertito. «Fa amicizia con le infermiere, esce dall’ospedale quando le pare e piace e si imbuca alle mie lezioni… Ma le mancate tantissimo».

«Perché non torna, allora?», gli chiese con gli occhi bassi e tristi, infilando una mano in quella di Zoe.

«È complicato… e non è una sua scelta. È il corpo che domina lo spirito, in questo caso, e solo quando lui sarà pronto riuscirà a riaccettarla dentro di sé. Fino ad allora, però…».

«Resteranno divisi, ho capito».

Franky abbassò il capo, non sapendo più cosa dire. Rimase a leggere il silenzio di Bill per qualche istante, poi un brivido gli corse su per la schiena quando percepì quelli di qualcun altro di sua conoscenza nelle vicinanze. Evelyn stava arrivando, accompagnata da Tom.
Il cuore iniziò a martellargli nel petto, senza più controllo. Non riusciva a capire che cosa gli stesse succedendo, ma era più che sicuro che c’entrasse Evelyn.

«Franky, che ti prende?», gli chiese Bill, notandolo così agitato.

«N-Niente, io… è meglio se vado…».

Ma proprio in quel momento bussarono alla porta e Tom non aspettò alcuna risposta prima di aprirla e sorridere raggiante.

«Ciao Bill, ciao Franky, ciao Zoe. Insieme come ai vecchi tempi, eh?».

L’angelo stiracchiò un sorriso nervoso, cercando di non incrociare gli occhi della ragazza bionda sulla sedia a rotelle, ma per forza di cose capitò e si trovò spaesato, con il respiro mozzato. Quegli occhi erano identici a quelli di Zoe, ma dentro ci leggeva cose completamente diverse, che lo affascinavano.

Evelyn arrossì incontrando lo sguardo di Franky e ricordando il pomeriggio precedente, nella cappella dell’ospedale. Si era sentita così vicina a lui, così bene fra le sue braccia… che già le mancavano. Voleva passare ancora del tempo con lui, per farsi raccontare tutte quelle cose che voleva sapere e che non aveva fatto in tempo a chiedergli, anche se probabilmente lui l’aveva già fatto con il pensiero.

«Sì, io… io devo proprio andare», balbettò Franky, ancora scosso dopo aver letto tutti i pensieri di Evelyn.

«Di già?», domandò Tom, togliendo le parole di bocca alla nipote.

«Sai…», ridacchiò nervoso. «Sono un angelo molto impegnato».

«Oh, Bill, lo sai che adesso Franky fa il professore?», sogghignò.

«Prima ha accennato qualcosa a proposito di alcune lezioni», ricordò il minore, sollevando il sopracciglio. «Di che cosa si tratta?».

«Non è nulla di così esaltante, dopotutto…», si passò una mano sul collo, imbarazzato, e incrociò ancora gli occhi attenti di Evelyn. Il cuore gli guizzò in gola. «Racconto soltanto come sono riuscito a superare certe difficoltà e faccio in modo che i nuovi angeli custodi non siano del tutto impreparati una volta qui».

«È davvero lodevole», disse Tom, con un sorriso così dolce che Evelyn ne rimase quasi incantata. «Ricordo quando sei arrivato da noi la prima volta, come ti abbiamo trattato…».

«Quell’episodio gliel’ho dovuto raccontare tre volte, talmente gli è piaciuto», ridacchiò. «La cosa bella è che, anche se ridevano, hanno capito che dovranno fare un certo sforzo per approcciarsi nella maniera migliore al proprio protetto. Sempre se si vorranno far vedere, chiaramente».

Bill sorrise. «I tuoi alunni hanno un ottimo insegnante, sono fortunati».

«Grazie», sussurrò, arrossendo un po’. «Ora devo proprio scappare, ho da sbrigare alcune commissioni».

«Okay. Ehm…». Bill tentennò, guardando Evelyn. Lui non sapeva che lei era a conoscenza della situazione in cui si trovava sua mamma, quindi preferì parlargli col pensiero, dicendosi che l’avrebbe informata di tutto più tardi. “Salutami Zoe, dille che mi manca e che deve sbrigarsi a tornare”.

“Sarà fatto”, promise Franky, sorridendogli. Poi si avviò verso la porta e disse a Tom: “Vieni fuori con me, ti devo dire una cosa”.

«Vi lascio un attimo da soli», disse il chitarrista al fratello e alla nipote, per poi uscire fuori dalla camera al seguito di Franky.

Tom si mise seduto su una delle poltroncine blu nel corridoio; Franky rimase in piedi, accanto a lui, con lo sguardo che ogni tanto indugiava sulla figura di Evelyn che, nella stanza di Zoe, gli dava le spalle.

Era abbastanza presto, ma vicino a loro si aggiravano alcune infermiere e preferirono entrambi parlarsi col pensiero, per non destare sospetti.

“Dovevi dirmi qualcosa?”, gli domandò Tom.

“Più che altro volevo ringraziarti per aver parlato con Bill…”.

Il chitarrista sorrise. “Ci sarebbe arrivato da solo, prima o poi. Io gli ho fatto solo accelerare un po’ i tempi”.

“Grazie comunque”.

“Non c’è di che”.

Franky guardò con nonchalance oltre il vetro e nello stesso istante Evelyn voltò il capo verso di lui, nonostante fosse fra le braccia di suo padre. Il cuore iniziò di nuovo a fargli quel brutto scherzo quando incontrò i suoi occhi e, soprattutto, quando sentì la sua voce mentale parlargli. Stiracchiò un sorriso alla sua richiesta ed annuì, poi si girò di nuovo verso Tom, che stava osservando i suoi movimenti già da un po’, con lo sguardo affilato.

“Ma, senti… tu ed Evelyn –?”.

Franky non gli permise di concludere la frase, infatti gridò: «Devo scappare, ciao!», poi svanì nel nulla.

Tom chiuse la bocca, sulla quale si formò un sorriso compiaciuto.

 

Evelyn, rimasta sola con suo padre nella stanza della sua mamma, lo osservò per qualche secondo in silenzio, combattendo contro la voglia irrefrenabile di voltarsi e perdersi nuovamente negli occhi verdi dell’angelo custode. A causa della presenza di suo padre e di suo zio non era nemmeno riuscita a chiedergli quando si sarebbero rivisti, da soli.

«Tesoro», disse a bassa voce Bill, prendendole le mani fra le sue e facendo un mezzo sbuffo. «Io non so come dirtelo, ma devi sapere anche tu, quindi ci proverò comunque».

La ragazza corrugò la fronte, chiedendosi che cosa dovesse sapere anche lei di così delicato, tanto che suo padre aveva difficoltà a parlarne. Il suo sguardo cadde sul viso di sua madre e capì che era di lei che dovevano parlare: le stava per dire cose che già sapeva, perché gliel’aveva già dette Franky.

«Vedi… lo spirito di tua madre ora non è più nel suo corpo e fino a quando non uscirà dal coma resterà là dov’è, in Paradiso. Franky riesce a parlare con lei e ha detto che sta bene e che le manchiamo…». Si interruppe di colpo, poiché aveva detto tutto quello che doveva dire e non se n’era nemmeno accorto. Titubante, alzò lo sguardo verso la figlia e la vide incerta, esitante. Non era la reazione che si era aspettato.

Evelyn non sapeva cosa fare: dirgli che tutte quelle cose le sapeva già oppure far finta di essere scioccata dalle sue parole?

Anche se le era sembrato che ora lui e Franky avessero fatto pace, non voleva mettere l’angelo in altri casini, se per caso suo padre avesse reagito in maniera negativa alla notizia. Non sapeva nemmeno se sarebbe stato d’accordo se fossero diventati amici, sinceramente… Preferì non rischiare e mentire.

Si dipinse sul volto una maschera di sconcerto, con una smorfia sulla bocca e gli occhi socchiusi come se stesse trattenendo le lacrime. «D-Davvero?», balbettò forzatamente.

Bill, anche se non era del tutto convinto della sua recita, annuì e l’abbracciò, stringendosela al petto.
«Tornerà presto, vedrai», le sussurrò, accarezzandole i capelli sulla nuca.

A proposito di tornare presto, Evelyn ricordò che Franky aveva detto che doveva andare. Voltò il capo, quel tanto che bastava per guardare fuori dal vetro che dava sul corridoio, e vide l’angelo che a sua volta la stava osservando. Colse al volo l’occasione e, sperando che la stesse ascoltando e che funzionasse davvero, pensò: “Ci vediamo oggi pomeriggio? Sempre nella cappella”.
La voce di Franky, così dolce e melodiosa, invase totalmente la sua mente. “Okay”, le rispose, stiracchiando un sorriso.

Evelyn allora affondò il viso nel petto di suo padre, nascondendo così il sorriso che le incurvava le labbra all’insù.  

 

Franky, una volta uscito dall’ospedale, aveva iniziato a vagare per le vie di Amburgo, senza una meta precisa.
Non voleva tornare in Paradiso, almeno non ancora. Lì avrebbe trovato Zoe e, visto che non sapeva mentirle, avrebbe inevitabilmente confessato quello che provava ogni volta che sua figlia lo guardava negli occhi. Doveva togliersela dalla testa, prima di tornare di sopra.
Decise di sfruttare l’occasione per andare a trovare suo zio, visto che ne aveva il tempo.

La casa di David era una villetta appena fuori città, nella campagna tedesca. La raggiunse volando ed atterrò con le punte dei piedi sulle tegole del tetto.
Nello stesso momento un’auto entrò dal grande cancello e parcheggiò nel vialetto che portava al garage. Ne scese un ragazzo che doveva avere più o meno la stessa età di Jole, dagli occhi verdi e i capelli neri. Somigliava davvero tanto a suo zio e Franky lo riconobbe subito: Mirko, il figlio di David e Susan, nonché suo cugino.

«Ciao papà!», salutò il ragazzo, solare, salendo i primi gradini della veranda.

L’angelo si mise a testa in giù per poter continuare ad osservare e vide il padre e il figlio abbracciarsi, mentre una donna dai lunghi capelli biondi usciva di casa per accogliere anche lei il giovane.

«Che bello vederti, tesoro», gli disse, accarezzandogli amorevolmente i capelli.

«Come stai?».

«Bene, anche se tuo padre è un po’ acciaccato come sempre». La donna ridacchiò e posò una mano sulla spalla del marito, stringendolo un po’ a sé.

«Vorrei vedere te, con il cuore che fa le bizze», borbottò. «Ma prima o poi doveva pure accadere! Quei quattro mi hanno fatto prendere tanti di quegli pseudo infarti che me lo dovevo aspettare!». 

Franky sorrise, pensando che era vero. I Tokio Hotel gliene avevano fatte passare di tutti i colori da quando li aveva presi sotto la sua ala, ma sapeva anche che erano stati l’unico gruppo a cui si era affezionato davvero: li aveva visti crescere sotto i propri occhi, li aveva visti diventare star internazionali, con loro aveva vissuto avventure e disavventure… Gli voleva così bene che erano come dei figli per lui. Non aveva mai voluto rinunciare a loro e mai lo avrebbe fatto. Anche adesso che era in pensione continuava a seguire tutto ciò che facevano, assicurandosi che fosse per il loro bene, perché quello non era solo il suo lavoro, era diventata la sua vita.

«A proposito, come stanno Bill, Evelyn e Zoe?», chiese ancora l’anziano, sinceramente in pensiero. «Ci sono novità?».

«Leo non mi ha detto niente, quindi suppongo che non ce ne siano», sospirò sconsolato. «Secondo me è già tanto che siano riusciti ad uscire vivi tutti e tre da quell’inferno».

«Già, è stato proprio un miracolo», concordò la donna.

David non disse niente, solo sollevò il capo verso il cielo e notò la testa di Franky ciondolare giù dal tetto. Lì per lì gli si bloccò il respiro e volle gridare il suo nome – risaliva a quattordici anni orsono il loro ultimo fugace incontro, – ma ricordò che Susan e Mirko non lo avrebbero visto e lo avrebbero creduto pazzo.
«Ho sete, vado un attimo in cucina», esclamò allora, alzandosi con un po’ di fatica dalla propria sedia ed incamminandosi all’interno della casa.

Entrò in cucina e Franky era già lì che lo aspettava, appoggiato al tavolo con le braccia incrociate al petto e un sorrisino dipinto sul viso.

«Ero certo che fossi intervenuto tu, nell’incidente», gli disse subito l’ex-manager, raggiungendolo. «Perché hai aspettato tanto per venirmi a trovare?».

«Hai ragione zio, mi dispiace». Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e affondò il viso nel suo petto, sentendosi a casa.

«Mi sei mancato tanto», sussurrò David, stringendo i pugni sulle sue ali. «Ti fai vedere sempre più raramente e ho avuto paura di non vederti mai più, quando sono stato male».

«Ero accanto a te, quella sera. Io ci sono sempre stato».

Sciolsero l’abbraccio contemporaneamente e si sorrisero, poco prima che Mirko varcasse la soglia della cucina chiamando il padre.

«Sì, che c’è?», gli domandò quest’ultimo, stando ancora accanto al nipote che il figlio non poteva vedere.

«Devo andare da Gabi ora, se no chi la sente», ridacchiò e baciò David sulla guancia, stringendolo a sé con un braccio. «Ci vediamo nel week-end, promesso».

«Va bene. Salutami Gabi».

«Certamente! Ciao papà!». Lo salutò con un cenno della mano e con una corsetta uscì dalla casa.

«Vado anche io», annunciò Franky, curioso di conoscere questa Gabi. Nella mente di Mirko aveva letto che era la sorella gemella di un certo Leo, il suo migliore amico. Possibile che fosse lo stesso Leo fidanzato di Jole?

«Tornerai?», gli chiese suo zio.

L’angelo sorrise. Quella era una domanda frequente e, come al solito, annuì. Poi si sbrigò per raggiungere Mirko, che era già saltato in macchina. Si mise seduto sui sedili posteriori, dicendosi che non si sarebbe di certo offeso se gli avesse dato un passaggio.
Mirko ritornò in città e fermò l’auto solo di fronte ad un condominio. Salì le scale due a due, seguito a sua insaputa da Franky, e suonò il campanello di fronte alla porta di uno dei tanti appartamenti del terzo piano.

«Alleluia!», gridò quella che doveva essere Gabi, trovandoselo davanti. Poi gli sorrise e Franky riconobbe la sua anima con un tuffo al cuore.

Kenzie…

«Scusa, ma sono passato dai miei genitori», le spiegò, entrando nell’appartamento e rubandole un bacio. «Era da un po’ che non li vedevo».

«Oh. Come stanno?».

«Tutto come al solito», sorrise. «Piuttosto, Leo?».

«È in camera sua, si sta preparando per andare da Jole: cena coi suoi questa sera», gli fece l’occhiolino e ridacchiò coprendosi la bocca.

Franky ebbe la conferma di tutti i suoi sospetti: Leo, fratello gemello di Gabi, cioè quella che lui aveva conosciuto come Kenzie, era il ragazzo di Jole e se tutto quadrava doveva proprio essere stato…

«Ehi, ciao Mirko!», lo salutò il ragazzo appena sceso dalla scale, mentre si abbottonava gli ultimi bottoni della camicia bianca che indossava.
Aveva i capelli scuri e gli occhi castani proprio come il suo amico, ma non somigliava moltissimo a lui. Forse, l’unica cosa che lo faceva somigliare in maniera spaventosa a Norbert era il suo sorriso tenero.

Franky arricciò le labbra per trattenere le risate. Era andato a trovare suo zio e aveva trovato anche i suoi vecchi amici Kenzie e Norbert che ora avevano altre vite, erano fratelli gemelli e, visto che il mondo è piccolo, conoscevano Jole e perciò l’intera combriccola, la sua famiglia.

Lesse nelle loro menti che Mirko e Nor… Leo si erano conosciuti alle superiori ed erano subito diventati amici. Col passare del tempo suo cugino si era preso una colossale cotta per Gabi, sorella gemella di Leo, e si erano messi insieme. Nello stesso periodo avevano conosciuto Jole, ad un concerto, proprio come se fosse stata una ragazza normale e non la figlia di Tom Kaulitz, e avevano iniziato ad uscire insieme, tutti e quattro, fino a quando non era scoccata la scintilla fra i due single del gruppo.
Ormai Leo e Jole stavano insieme da quasi cinque anni e la loro vita stava per cambiare radicalmente. Infatti, Franky lesse che quella sera avevano intenzione di fare il famoso annuncio, almeno alla famiglia della ragazza.

«Ciao Leo», ricambiò il saluto Mirko. «Allora ho sentito che stasera è il momento fatidico, eh?».

«Sì», ridacchiò nervosamente, abbassando lo sguardo. «Sono tremendamente agitato».

«Suvvia, il paparino ti mette così paura?», rise, ma Gabi gli tirò uno schiaffo sul braccio per difendere il gemello.

«Smettila, Mirko! Sono cose serie, dopotutto… è normale avere queste paure». Poi si rivolse direttamente al fratello, posandogli una mano sulla spalla: «Vedrai che andrà tutto per il meglio, ne sono sicura».

Franky trattenne a stento le risate, immaginando ancora la razione di Tom a quelle due notizie bomba. Non poteva assolutamente mancare, sarebbe stato uno spasso.

«Grazie sorellina», le disse e le posò un bacio sulla guancia, poi si affrettò ad uscire di casa e a saltare sulla propria auto per raggiungere Jole a casa dei suoi genitori.

Franky decise che aveva rivisto tutte le persone che doveva rivedere e che era arrivato il momento di tornare in Paradiso.

 

Entrò nella camera di Zoe e rimase sbigottito di fronte alla scena che gli si presentava davanti: San Pietro era seduto al suo fianco e stavano parlando amabilmente, sorridendosi.

«Oh, ciao Franky!», lo salutò il santo.

«Buongiorno…», ricambiò, un po’ confuso.

«Sono passato a salutare Zoe», gli spiegò. «E poi mi è venuta in mente un’idea geniale e volevo discuterne con entrambi. Ne ho già parlato con lei ed è d’accordo».

L’angelo posò lo sguardo sulla donna che gli sorrideva, sdraiata sul letto, e lesse tutto nella sua mente.
Sospirò. «Okay, per me va bene». Era inutile cercare di opporsi, in qualche modo San Pietro e la sua ex-ragazza l’avrebbero convinto comunque.  

«Sì!», esultò il santo e diede il cinque a Zoe, che ridacchiò. «Iniziate domani sera, va bene? Oh, sarà un successone!». Continuò a crogiolarsi nei suoi sogni di gloria ed uscì dalla stanza senza nemmeno salutarli.

Franky chiuse la porta scuotendo il capo e si mise seduto sulla sedia che era stata occupata dal santo fino a poco prima, accanto al letto di Zoe.
«Come ti senti?», le domandò, accarezzandole una mano.

«In ottima forma! E sono molto emozionata per domani, sarà divertente». Il sorriso che aveva regnato sulle sue labbra fino ad allora si spense lentamente, osservando l’espressione assorta di Franky, rivolto con il viso verso la finestra.

«Che cos’hai?», gli chiese allora, con l’intento di attirare la sua attenzione. «Non volevi che accettassi la proposta?».

«No, non è per quello», rispose in tono piatto. «È che… che non dovresti essere in ottima forma».

La donna corrugò la fronte. «Perché?».

«Perché vuol dire che il tuo corpo non ti sta cercando, non sta tentando di farti tornare dentro di sé. E questo non va bene». Si prese il viso fra le mani, appoggiandosi con i gomiti sulle ginocchia. «Stamattina ho parlato con Bill, sai? Mi ha chiesto di salutarti e di dirti che gli manchi e che devi sbrigarti a tornare».

Zoe si passò una mano sugli occhi lucidi: non voleva piangere, non ancora. Per cui si fece forza e tirò su col naso, prima di dire: «Evelyn lo sa che sono qui?».

«Sì…», tentennò. «Bill gliel’ha detto».

La donna si era accorta della sua indecisione nel risponderle e le venne in mente una cosa a cui non aveva mai fatto caso ma che per lei era fondamentale. «Ma lei riesce a vederti?».

Franky sobbalzò a quel quesito. Aveva pregato con tutte le sue forze perché non glielo chiedesse, ma nessuno lo aveva ascoltato e ora le doveva dare una risposta.
Pensò freneticamente che se le avesse detto che, sì, lei riusciva a vederlo, Zoe avrebbe continuato su quella scia e gli avrebbe chiesto che cosa lei ne pensava di lui; inoltre, lo avrebbe spronato tanto da fargli confessare tutto: le avrebbe detto che si sentiva strano al suo fianco, che ogni volta che la guardava negli occhi il cuore gli faceva quei brutti scherzi e lo stomaco gli si attorcigliava. E Zoe… Non sapeva come avrebbe reagito, in realtà. Sicuramente avrebbe analizzato la situazione e gli avrebbe spiattellato davanti una verità che ora come ora non voleva sentire né vedere, qualunque essa sia.
Se le avesse detto di no, invece…

«Franky, allora? Evelyn riesce a vederti?», gli chiese di nuovo, spazientita ed insospettita dal suo silenzio.

«No, non riesce a vedermi», le rispose infine, con un nodo in gola e la cieca speranza che gli credesse.

Per una volta, probabilmente l’unica in tutta la loro esistenza, Zoe decise di credergli anche se le sembrava tanto che le avesse detto una bugia. Perché avrebbe dovuto mentirle, infondo?

Intristita, abbassò il capo. «Quindi, visto che non ti vede, crederà che quello che le ha detto Bill sia solo una storiella per bambini… Se ti avesse visto avrebbe davvero creduto in te al cento per cento e avrebbe creduto anche che il mio spirito è in Paradiso…».

Franky lesse tutto ciò che avrebbe voluto dire ancora: quello che le importava maggiormente non era che Evelyn credesse a quello che le aveva detto Bill, ma che conoscesse Franky, il ragazzo che aveva amato incondizionatamente e che sarebbe sempre rimasto nel suo cuore; voleva che diventassero amici e che si affezionassero l’uno all’altro, così che Franky decidesse di prenderla sotto la sua protezione quando lei non ci sarebbe più stata.

L’angelo, anche se sconcertato dai suoi pensieri, accennò un sorriso e le accarezzò i capelli per scostarglieli dal volto. «È anche per questo che devi tornare al più presto, per continuare a raccontarle che io esisto», le sussurrò e le baciò la fronte.

Sentiva già il peso di quella bugia sul cuore, ma non per forza doveva aver fatto la cosa sbagliata.

 

***

 

Bill uscì dalla stanza di Evelyn, lasciandola sola con suo zio, e si diresse verso quella di Zoe. Si era detto che avrebbe parlato un po’ con lei, con la speranza che riuscisse a sentirlo, ed era giunto il momento.

Sbirciò all’interno della camera e di Franky nessuna traccia: erano soli, loro due. Entrò, si chiuse la porta alle spalle e trascinò una sedia al suo cospetto, sulla quale si sedette.

Le prese una mano fra le sue e la baciò, trattenendo le lacrime che avevano iniziato a pungergli gli occhi.
«Zoe, amore», tremolò. «Perché non torni da me?».

 

***

 

Franky se n’era andato da qualche minuto, senza rivelarle dove sarebbe andato né perché.

Si sentiva bene, anche se secondo il parere dell’angelo non avrebbe dovuto essere così, e decise di alzarsi per fare una passeggiata nel giardino dell’ospedale.
Una volta seduta sul bordo del letto, però, avvertì un brivido e percepì la sua mano destra stretta in quelle che, le avrebbe riconosciute fra un milione, appartenevano a Bill. Sentì anche la sua voce, un po’ incerta, e fu un colpo al cuore.

Chiuse gli occhi, per cercare di capire meglio cosa le stesse dicendo, e capì che doveva trovarsi proprio di fronte a lei, seduto accanto al suo corpo immobile. Sollevò una mano per accarezzargli il viso, mordendosi le labbra per non scoppiare in singhiozzi, ma tutto ciò che riuscì a sfiorare fu l’aria.

Provò ancora a creare una connessione più forte col proprio corpo e si sentì infinitamente debole. Che ci fosse riuscita? Che il suo corpo stesse provando a riaccettare il suo spirito?

Cadde sul letto, priva di forze.

 

***

 

Bill aveva avuto l’impressione che la mano di Zoe si fosse mossa fra le sue e trattenne il respiro in gola.

«Amore», le sussurrò dopo un po’. «Amore, so che ce la puoi fare, forza».

Ma dopo attimi di assoluto silenzio si disse che doveva essere stata solo la sua immaginazione. Si coprì il volto con le mani e si lasciò andare alle lacrime.

 

***

 

Zoe spalancò gli occhi, respirando furiosamente, e vide accanto a sé un’infermiera che le sistemava una specie di flebo nel braccio, scuotendo il capo. Poi la guardò sorridendo compassionevole e le accarezzò la fronte imperlata di sudore con una pezza bagnata.

«C’è mancato poco», le sussurrò.  

 

***

 

Evelyn, indecisa, si torturava le mani, lo sguardo puntato su di esse. Doveva assolutamente andare nella cappella dell’ospedale per il suo “appuntamento” con Franky, ma poteva fidarsi di suo zio?

Beh… mica devo dirgli per forza che devo vedere Franky, no? pensò e prese coraggio, schiarendosi la voce.

Tom, che la stava guardando già da un po’, si accese di curiosità quando la nipote alzò gli occhi su di lui e gli domandò, timidamente: «Io dovrei… Mi porteresti nella cappella, al primo piano?».

«Nella cappella?», le chiese a sua volta, sbigottito. «Che ci vai a fare lì?».

«Ahm… a fare ciò che si fa in una cappella… A pregare?».

«Da quando tu preghi?».

«Da quando mamma è in coma», sussurrò abbassando il viso, conscia che non era del tutto vero. Quella volta non sarebbe andata lì a pregare, forse avrebbe giusto detto due parole al crocefisso appeso sopra l’altare e avrebbe acceso un altro cero, ma ciò che la spingeva verso quel luogo era ben diverso.

«Allora, mi ci porti sì o no?», borbottò.

«Ehm… sì, okay».

Evelyn, dentro di sé, sospirò sollevata. Poi si alzò dal letto e disse che voleva camminare un po’, visto che comunque il giorno dopo sarebbe stata dimessa.

Il dottore che l’aveva presa in cura era passato nel primo pomeriggio per annunciarglielo e avrebbe dovuto essere felice di ritornare a casa, ma aveva pensato alla sua mamma che invece sarebbe rimasta lì e non aveva proprio potuto essere contenta fino in fondo.

Tom l’accompagnò al piano inferiore  avvolgendole il braccio sano col proprio e una volta dentro la cappella decise di rimanere un po’ con lei, siccome non aveva poi così tanta voglia di tornare a casa.
Il motivo era in carne ed ossa e aveva un nome: Leo. Ma forse non era la sua presenza a renderlo così reticente – lo aveva sempre trovato un ragazzo simpatico, leale ed innamorato di sua figlia, – ma il fatto che molto probabilmente avrebbero sfruttato l’occasione che quella cena in famiglia gli offriva per fare quel famoso annuncio che avevano continuato a rimandare fino a quel giorno.
Era davvero agitato e in pensiero per Jole. I suoi occhi, come gli aveva detto Bill qualche tempo prima, la vedevano ancora così piccola e solo all’idea che avesse deciso di prendersi delle responsabilità insieme a quel ragazzo lo faceva sentire in ansia.

Guardò la nipote avvicinarsi al porta candele, inserire delle monetine nell’apposita fessura ed accendere un cero. Pensò che avesse chiuso gli occhi per fare la propria preghiera, ma Evelyn in realtà si stava maledicendo perché non credeva che suo zio l’accompagnasse anche dentro alla piccola chiesa. Per fortuna Franky non era ancora arrivato, o forse non l’aveva visto.

Per verificare la sua presenza, la ragazza si voltò e si guardò intorno facendo finta di scostarsi i capelli dal viso senza l’uso delle mani, scuotendo il capo. Quel metodo risultò efficace, perché vide l’angelo appiattito contro la parete, nascosto dalla penombra fra due finestre.
Evelyn fece finta di niente. Anche se in modo un po’ nervoso, si avvicinò a Tom e gli sorrise, poi si mise seduta sulla prima panca a destra, il più lontano possibile da dove si trovava Franky. Tom si mise seduto accanto a lei e guardò di fronte a sé.

Rimasero in silenzio per diversi istanti che ad Evelyn parvero interminabili. Per questo tossicchiò e gli chiese sottovoce, girando il viso verso di lui: «Ma tu mica dovevi andare a casa per quella cena con Jole e Leo?».

Tom aggrottò le sopracciglia. «Sì, però credevo… Vuoi che ti lasci da sola?».

«Sì, grazie», sfiatò, con un mezzo sorriso.

Suo zio annuì, per nulla insospettito dal suo comportamento, e si alzò. Le baciò la fronte, tenendole il viso fra le mani.
«Ci vediamo domani, sempre se non mi venga un infarto questa sera», sorrise sbarazzino, nonostante fosse davvero preoccupato di star male ad una notizia troppo sconvolgente per il suo povero cuore.

Evelyn ridacchiò. «Nah, al massimo sverrai con la faccia nell’insalata».

«Probabile».

La salutò di nuovo ed uscì dalla cappella. Una volta chiusa la porta alle sue spalle corrugò la fronte: avrebbe giurato di aver visto Franky appiattito contro la parete mentre attraversava il corridoio.
Scosse il capo. Doveva esserselo immaginato.

 

Quando la porta della cappella si chiuse, sia Franky che Evelyn si rilassarono e trassero un lungo sospiro.

«C’è mancato poco», soffiò l’angelo, uscendo allo scoperto e mostrandosi sotto alle ultime luci del giorno. Sorrideva e con quel semplice incurvamento di labbra riuscì quasi a stordirla.

«Perché ti sei nascosto?», gli domandò comunque.

«Perché non gli hai detto che dovevi vederti con me?», le chiese lui in risposta.

Si guardarono negli occhi e non ci fu bisogno di altre parole: era meglio che nessuno sapesse di loro. Forse non c’era nemmeno un motivo vero e proprio per il quale entrambi avevano preso quella decisione, ma sentivano che doveva essere così.

Franky scivolò seduto accanto ad Evelyn e le sorrise in modo tenue, prima di posare un braccio dietro le sue spalle e dirle: «Qual è la prima domanda?».

 

***

 

Arrivato a casa aveva subito visto Jole e Leo giocare con Arthur. Il fidanzato di sua figlia lo teneva seduto sulle sue ginocchia e gli suggeriva ciò che doveva chiedere alla sorella maggiore per scoprire chi fosse il suo personaggio di Indovina chi?.
Alla fine aveva vinto lui e mentre esultava si era girato verso Leo e gli aveva lanciato le braccia al collo, in un tenero abbraccio. Tom non aveva potuto non sorridere.

Linda aveva preparato un sacco di cose buone da mangiare e la cena era trascorsa più che tranquillamente; Arthur non aveva nemmeno fatto i capricci per mangiare un po’ di verdure, di cui non andava di certo ghiotto, e tutto grazie all’aiuto di Leo che gli aveva raccontato che lui da bambino mangiava sempre la frutta e la verdura e per questo era diventato grande. Anche Tom gli aveva fatto quel discorso, tempo addietro, ma non l’aveva preso sul serio come aveva preso sul serio Leo quella sera.

Tom aveva passato buona parte del tempo ad osservare quel ragazzo ed era giunto alla conclusione che era meglio di tanti altri ragazzi che sua figlia si sarebbe potuta andare a scegliere. Dopotutto era stato fortunato, perché lui sembrava perfetto per Jole ed era veramente innamorato di lei. Cosa voleva di più?

«Okay, credo sia arrivato il momento», esordì Jole mentre sua madre tirava fuori dal frigo il dessert che aveva portato proprio la ragazza.

Tom deglutì e sperò davvero di non sentirsi male, mentre guardava la sua bambina scambiare uno sguardo d’intesa con Leo e stringergli la mano sopra al tavolo.

«Io e Leo ci sposiamo», lanciò la notizia bomba e Tom vacillò, ma non si sentì male come aveva immaginato.

Stiracchiò un sorriso, pensando che poteva andare peggio: se gli avesse detto che sarebbe diventato nonno?!

«Oh mio Dio, tesoro, è bellissimo!», gridò Linda tutta eccitata, andando dalla figlia per abbracciarla e baciarla sulle guance, per poi fare lo stesso anche con il futuro genero.

«Cacchio, hanno già dato la prima notizia!», gridò Franky, comparso all’improvviso alle spalle del chitarrista, che sobbalzò udendo la sua voce.

«La… prima… notizia?», mormorò, scioccato, guardando l’angelo coprirsi la bocca per non scoppiare a ridergli in faccia.

«E non è tutto!», continuò Jole, emozionata.

Tom si voltò verso di lei con gli occhi sgranati ed impallidì quando la vide prendere la mano di Leo e posarla sul proprio ventre. «Avremo un bambino!».

A quell’esclamazione calò un silenzio tombale e tutti posarono lo sguardo su Tom. Persino il piccolo Arthur lo osservava con in bocca il cucchiaino, incuriosito dal suo colorito a dir poco paonazzo.

«Ops, nonno Thomas», gli sussurrò all’orecchio Franky, sogghignando.

Tom sbatté i pugni sul tavolo e si alzò di scatto, facendo spaventare tutti.
«Io lo ammazzo! Lo ammazzo!», gridò fuori di sé e corse dietro a Franky che, anticipandolo, era già schizzato verso il salotto.

Peccato che nessuno riuscisse a vedere l’angelo, a parte lui, e tutti classificarono la reazione di Tom un po’ da… folle.

 

___________________________________________

 

Ciao a tutti!!
Beh dai, divertente come finale, no? xD Me lo vedo proprio Tom correre in giro per casa dietro "nessuno" xD
Ma che bello, Leo e Jole si sposeranno e avranno un bambino *-* Rendendo Tom nonno xD - E' l'inizio di un incubo per lui, poveretto xDD
Ah, in questo capitolo finalmente Franky e Zoe non hanno litigato!! *-* Strano ma vero xD Si stanno riabituando l'uno all'altra e le cose vanno decisamente meglio, anche se la donna continua ad insistere sul fatto che vorrebbe che Franky diventasse il futuro angelo custode di Evelyn. Evelyn che causa non pochi problemi! °w° Infatti Franky... boh, non lo so u_u
Bill ha fatto pace con Franky ed è tornato David, avete visto? :D E' un vecchietto adesso, ma ancora tira avanti ;) E, e, e, e che ne dite della ricomparsa di Kenzie e Norbert? *-* Cioè, Gabi e Leo!! Ebbene sì, Jole si è fidanzata con l'ex amico di Franky :D Com'è piccolo il mondo xD

Okay dai, basta, sta a voi ora :) Spero che vi sia piaciuto e che lascerete qualche recensione! *ò*
Ringrazio di cuore le due sante che hanno recensito lo scorso capitolo *-* e chi ha letto soltanto u.u

Un bacio a tutti, alla prossima!! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 7
*** Home, nasty home ***


7. Home, nasty home

 

Bill si guardò intorno ancora una volta per accertarsi di aver preso tutto. Evelyn, invece, che avrebbe dovuto essere più attenta di lui visto che erano le sue cose, stava alla finestra e guardava fuori, alla ricerca anche di un solo particolare che la riconducesse a Franky.

Il pomeriggio prima erano stati molto tempo insieme, fino all’ora di cena, e lei gli aveva fatto domande su domande: gli aveva chiesto di sua madre, di come si erano conosciuti, di come erano diventati migliori amici, di come avevano capito di essersi innamorati l’uno dell’altra… Cose che già sapeva, dopotutto, ma che dette da lui avevano tutta un’altra melodia. Lo aveva ascoltato rapita, continuando ad esigere i particolari, fino a quando lui non aveva riso e le aveva detto che facendo così somigliava terribilmente a sua madre.

Non aveva fatto in tempo a porgli tutti i suoi quesiti perché l’angelo ad un certo punto si era alzato in piedi e aveva detto che doveva scappare o si sarebbe perso uno spettacolo a cui desiderava ardentemente assistere. Evelyn non gli aveva chiesto nulla in proposito, aveva solo voluto sapere quando si sarebbero rivisti. Il giorno seguente sarebbe tornata a casa, come avrebbero fatto a…?
«Non ti preoccupare», aveva interrotto il suo monologo colmo di dubbi e le aveva sorriso apertamente. «Verrò a trovarti anche a casa».
Il suo cuore si era fermato a quelle parole. Franky a casa sua, nella sua camera? Lui aveva riso, probabilmente perché aveva letto i suoi pensieri, e l’aveva fatta vergognare tanto da farle desiderare di scendere con un ascensore nelle viscere della Terra.
«Starò attento a non farmi vedere da Bill», l’aveva rassicurata ancora e poi si era avvicinato, sussurrando che doveva proprio andare.
Si erano guardati con il viso ad un palmo da quello dell’altro, occhi negli occhi, respiro contro respiro. Ma alla fine l’angelo si era spostato e le aveva posato un fugace bacio sulla fronte, prima di sparire.

«Evelyn? Evelyn, ci sei?».

La ragazza rinvenne all’udire la voce del padre e si voltò verso di lui, che la guardava con il sopracciglio alzato.

«C’è qualcosa che non va?», le domandò ancora.

«No, sto bene. Stavo solo… pensando».

«A che cosa?», continuò con la sua serie di domande, sedendosi sul letto e chiudendo la zip della borsa.

«Chissà com’è andata la cena a casa di zio Tom», glissò e Bill non se ne accorse minimamente. Anzi, sorrise divertito e avrebbe anche risposto se proprio Tom non fosse entrato come un tornado nella stanza, con tutta l’aria d’avere un diavolo per capello.

«Oh, ciao Tomi», lo salutò il gemello. «Stavamo giusto parlando di te, sai?».

«Ah sì?», berciò.
Era incazzato col mondo quella mattina e niente e nessuno avrebbe potuto calmarlo, nemmeno il suo caro fratellino.

Aveva passato davvero una brutta serata il giorno prima e dopo non una, ma le due notizie bomba Franky si era volatilizzato lasciandolo da solo ad affrontare tutta la sua famiglia che lo aveva ormai catalogato come un povero futuro nonno con i neuroni esauriti. Linda aveva cercato di calmarlo, una volta da soli nella loro stanza da letto, ma Tom non ne aveva voluto nemmeno sapere e si era girato dall’altra parte. Era stato davvero maleducato e avrebbe dovuto scusarsi con lei al più presto, ma le batoste che aveva ricevuto lo avevano segnato nel profondo.
Sua figlia, la sua bambina, si sarebbe sposata e nel giro di nove mesi sarebbe pure diventata mamma, rendendolo nonno. Nonno lui! Aveva solo quarantaquattro anni, era troppo giovane, accidenti!

«Deduco che non sia andata bene», disse Bill, guardando la figlia che si stringeva le braccia al petto in tono grave.

«Allora, si sposano o Jole è incinta?», gli chiesero in coro e il chitarrista rischiò quasi di impazzire.

«Entrambe le cose!», gridò disperato, per poi ciondolare seduto al fianco di Bill, che gli diede una pacca sulla spalla, anche se ci era rimasto di stucco pure lui.
«Sarò nonno, capisci? È… è una tragedia».

«Perché?», chiese tranquillamente Evelyn, sollevando le spalle. «È bello essere nonni a quest’età, riuscirai a goderti di più il nipotino…».

Forse aveva anche ragione, ma in quel momento Tom vedeva tutto nero. «Che gli costava aspettare ancora un po’? Hanno solo ventiquattro anni! Sono… piccoli per un figlio!».

«Linda ha avuto Jole che era appena maggiorenne e tu avevi vent’anni», gli ricordò Bill.

«Sì, ma è diverso!», sbuffò, intristito. Poi cambiò argomento e chiese: «Avete già visto Franky?».

Evelyn sobbalzò e i suoi occhi si illuminarono. Però si spensero presto, perché se l’aveva chiesto a loro voleva dire che nemmeno lui l’aveva visto…

«No», rispose il padre anche per lei. «Perché?».

«Perché quel ragazzino impertinente ieri mi ha dato del Nonno Thomas e non la passerà liscia!».

Bill ed Evelyn si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere, contagiando anche il povero Tom a cui, dopotutto, non gli dispiacque divertirsi u po’. Fu come ossigeno per i suoi polmoni.

«Voi, che mi dite?», chiese ancora quest’ultimo, una volta smesso di ridere. «Siete pronti per tornare a casa?».

«Sì, più o meno», bofonchiò Bill, a testa bassa.

Il gemello gli avvolse un braccio intorno alle spalle e non ci vollero nemmeno le parole per capire che quello che voleva dirgli era di non preoccuparsi, che Zoe sarebbe tornata presto da loro.

«Preparatevi anche psicologicamente», li avvertì, sospirando. Il fratello e la nipote lo guardarono corrugando la fronte. «Non so come, ma la stampa è venuta a sapere che Evelyn sarebbe stata dimessa oggi e ci sono diversi giornalisti qua fuori che aspettano soltanto di saltarvi addosso. Io gli sono sfuggito per un soffio».

«Oh, perfetto». Evelyn sospirò e si passò una mano fra i capelli biondi che le ricadevano liberi sulla schiena.

Un’infermiera entrò nella camera e li avvertì che avevano appena finito di cambiare le fasciature alle ustioni di Zoe e che ora potevano andare a salutarla. Evelyn, Bill e Tom annuirono, ringraziando, poi si guardarono in viso e si diressero tutti e tre verso la stanza della donna.

Evelyn sbirciò all’interno per prima, guardando attraverso il vetro sopra la porta, e non vide chi aveva sperato di vedere seduto accanto al corpo della madre. Sconfortata, entrò nella camera ed accarezzò la mano inerte della sua mamma, poi si diresse alla finestra per lasciare un po’ di spazio a suo padre.
Guardò fuori ed ispezionò con minuzia ogni singolo ramo del grande albero di fronte a lei, dove per la prima volta aveva avuto un incontro ravvicinato con Franky. Cercò i suoi occhi verdi e luminosi, il suo sorriso stravolgente, le sue ali candide… ma non lo trovò.

Evelyn si girò e guardò suo padre posare un bacio sulle labbra di sua madre. A quella scena le si strinse il cuore perché il suo papà stava soffrendo tantissimo, come stava soffrendo Franky.
Bill e Franky, i due uomini della vita di sua madre. Aveva milioni di domande ancora da porre all’angelo riguardo a quell’argomento.

«Mi raccomando, Zoe», disse poi suo zio, col sorriso sulle labbra, accarezzandole una mano. «Non fare troppo la brava o potrebbe anche darsi che non ti riconosca».

Riuscì a strappare l’accenno di un sorriso al fratello gemello ed Evelyn sorrise a sua volta, prendendo la mano del suo caro papà ed uscendo insieme a lui dalla stanza d’ospedale.

Una volta firmato il modulo delle dimissioni fu di nuovo libera e poté uscire dall’ospedale per tornare a casa. Ma la sua non sarebbe mai stata una totale libertà a causa del cognome che si portava appresso.
Infatti, appena usciti dal grande cancello dell’ospedale diversi flash di macchine fotografiche colpirono lei, suo padre e suo zio mentre una piccola folla di giornalisti si stringeva intorno a loro ponendo domande su domande, alzando continuamente la voce per attirare la loro attenzione.

Evelyn, con il cappuccio della felpa sulla testa, cercò di stare il più possibile dietro suo padre e di non sollevare mai il viso da terra, ma non poteva impedirsi di ascoltare. Volevano sapere come stava sua madre, come stavano loro, se erano ancora scioccati dall’accaduto… Ma, in realtà, perché gli interessava tanto? Erano domande a cui si sarebbero potuti rispondere anche da soli, talmente erano stupide. Era ovvio che non stavano bene e ciò che avevano vissuto li aveva segnati.

«Ehi! Ma che fa?!», gridò una giornalista che era stata appena spintonata via da un ragazzo spuntato all’improvviso.

«Lasciateli respirare, porca miseria!», urlò a sua volta il giovane, creando un varco fra i fotografi e i giornalisti per far passare più facilmente i tre.
Li aiutò a raggiungere l’auto e i gemelli, anche se un po’ sorpresi dal comportamento di quel ragazzo sconosciuto, lo ringraziarono.

«Non c’è di che!», li salutò con un gesto della mano, sorridendo, e chiuse la portiera che aveva aperto da vero cavaliere ad Evelyn, che non aveva mai smesso di fissarlo.

I loro occhi si incontrarono per un istante brevissimo e la ragazza riuscì a scorgere, grazie alla luce del sole che li illuminava, una sfumatura di verde che conosceva bene e che le mozzò il fiato.

L’auto partì e si allontanò, senza darle il tempo di accertarsi di ciò che aveva visto solo di sfuggita. Però, quando si girò e guardò il sedile di fronte a sé, non riuscì proprio a non sorridere.

 

***

 

Franky si passò una mano fra i capelli, sorridendo a trentadue denti, e trotterellò lungo i corridoi dell’ospedale.

Quella mattina era felice. O meglio, già la sera precedente si era sentito contento, ma quella mattina era davvero in pace col mondo e aveva già capito per quale motivo. Non gli dispiacque nemmeno realizzarlo: si sentiva così perché aveva iniziato la giornata incrociando gli occhi di Evelyn. (Anche se aveva messo in mezzo quel povero ragazzo che se fosse stato pienamente in sé non si sarebbe nemmeno sognato di andare in aiuto di Bill, Tom e Evelyn). Si sentiva così bene che persino la consapevolezza che ormai teneva a lei più di quanto avrebbe dovuto non lo preoccupava minimamente.
Forse era sempre stato quello a non farlo sentire pienamente contento: aveva sempre pensato alle conseguenze, aveva rimuginato e rimuginato e alla fine non si era mai goduto dei semplici momenti che erano volati via così, senza che fosse riuscito ad assaporare nemmeno un briciolo della loro felicità.
Con Evelyn invece era diverso, così spontaneo… non riusciva proprio a fermarsi e a riflettere sui pro e i contro: viveva e basta. Forse facendo così si sarebbe trovato inguaiato dopo, ma quella sensazione era troppo bella e non voleva farne a meno.

Incrociò l’infermiera con cui aveva spesso e volentieri battibeccato e che solitamente non poteva nemmeno vedere.

«Buongiorno!», la salutò euforico, donando un sorriso pure a lei. «Come sta, tutto bene?».

«Sì», rispose sbigottita e lo guardò da sopra i suoi occhialetti tondi. «Lei è sicuro di star bene?».

«Io?», rise, mentre camminava e saltellava all’indietro. «Io sto benissimo! Mai stato meglio!».

«Se lo dice lei…», mormorò l’infermiera, sempre più sconvolta: dava l’idea di essersi appena fumato l’impossibile.

«Ora devo proprio scappare! Arrivederci, buona giornata!», la salutò e continuò la sua corsa festosa, portando allegria in mezzo ospedale, fino a quando non arrivò alla sua destinazione.

Entrò nella stanza di Zoe e la vide stesa sul letto, pallida come il lenzuolo che l’avvolgeva fino al seno, che piangeva con le mani a coprirle il viso.
Tutta l’euforia fu come risucchiata dall’interno del suo corpo in modo molto violento, dandogli la sensazione di pesare un quintale. Perché non c’è nulla di peggio che essere felici e non poter dimostrarlo apertamente di fronte a qualcuno che evidentemente non lo è.

In un attimo le fu accanto e le tolse le mani dal viso per guardarla negli occhi – quegli occhi di cui si era innamorato e che ora…

«Zoe, che cos’è successo?», sussurrò, passando le mani sulle sue guance per spazzare via le lacrime.

«Ieri sera… ieri sera ho sentito Bill e ci sono quasi riuscita», disse a fatica, fra i singhiozzi. «Adesso l’ho risentito, ho sentito che mi ha baciata sulle labbra… Io devo tornare, voglio rivederli».

«Oh, piccola…», sorrise lievemente e le accarezzò i capelli, poi le baciò la fronte. «Ti prometto che li rivedrai presto».

 

***

 

«Ecco, siamo arrivati», annunciò Tom parcheggiando proprio di fronte a casa del gemello.

Né Bill né Evelyn, però, si mossero. Rimasero a guardare dall’esterno la loro villetta bianca a due piani a cui si accedeva attraversando il giardino curato.
Nelle giornate assolate Zoe trascorreva ore ad occuparsi dei suoi fiori, mentre Bill se ne stava seduto nella grande veranda a scrivere qualche nuova canzone e Evelyn, soprattutto da piccola, andava sulla sua altalena ridendo e con i capelli al vento.

Quella casa senza di lei sarebbe sembrata imperfetta ad entrambi perché la perfezione riusciva a raggiungerla soltanto quando erano tutti e tre insieme. Tutto, ogni stanza, ogni angolo, ogni minuscolo particolare gliel’avrebbero ricordata e sarebbe stato difficile abitarla senza di lei, ma ce l’avrebbero messa tutta perché sapevano che prima o poi sarebbe tornata. Dovevano continuare a vivere quella casa per Zoe e a prendersi cura dei suoi fiori perché altrimenti li avrebbe sgridati ben bene tutti e due.  

Tom tossicchiò imbarazzato, tirandoli fuori dai loro omologhi pensieri, e stiracchiò un sorriso. «Stasera potete venire a mangiare da noi, se vi va».

«Grazie Tom, ma… forse è meglio di no», rispose Bill.

«Beh, se cambiate idea siete i benvenuti», sorrise ed attirò il gemello in un abbraccio.

Evelyn arrossì senza un motivo preciso e si commosse, ma non lo diede a vedere. Salutò suo zio con un bacio sulla guancia e poi uscì dall’auto, insieme al padre.
Quest’ultimo aprì il cancello e la fece entrare nel giardino, nel quale entrambi rabbrividirono avendo la sensazione che fra il profumo dei fiori ci fosse anche quello di Zoe.
Si diressero verso la veranda e dopo un respiro profondo Bill aprì la porta di casa. Vi entrarono e, una volta chiusa alle loro spalle, Tom diede gas e sgommò via.

 

Si fermò dal primo fioraio che incontrò sulla sua strada e si lasciò consigliare dalla simpatica vecchietta a cui apparteneva il negozio. Pagò e, dopo essere stato paparazzato con quell’enorme mazzo di fiori fra le mani – già si immaginava i titoli: “Anche Tom Kaulitz regala i fiori! Speriamo non per farsi perdonare…”, – corse a casa, anche se era ancora un po’ in pensiero per suo fratello e sua nipote: l’aveva capito subito che si erano sentiti spaesati di fronte alla loro casa senza Zoe e sperava vivamente che venissero a cena da loro quella sera; almeno non sarebbero rimasti da soli e non avrebbero dovuto affrontare subito quella prova così difficile.

Arrivò a casa e suonò il campanello, nonostante avesse benissimo le chiavi nella tasca della giacca.

Linda, come aveva sperato, venne ad aprirgli e gli disse subito, roteando gli occhi al cielo: «Hai dimenticato ancora le chiavi?». Fu allora che tirò fuori dalla schiena il mazzo di fiori e glielo porse con un sorriso caldo, guardandola negli occhi.

«Non ho fatto nulla per meritare al mio fianco una donna fantastica come te. Ti amo», sussurrò e Linda, dopo essersi portata le mani sulla bocca, piena di stupore, ricambiò il sorriso e gli gettò le braccia intorno al collo per baciarlo.

 

***

 

Franky, dimentico dell’euforia di quella mattina, bussò all’ufficio di San Pietro e, col permesso, vi entrò.

Il santo era seduto alla sua scrivania e stava leggendo un libro con degli occhialetti sulla punta del naso. Appena lo vide se li tolse e fece un’orecchia alla pagina a cui era arrivato, poi chiuse il libro per dedicargli tutta la sua attenzione.

«Franky, come mai quel muso lungo?», gli chiese, premuroso.

«Zoe», sfiatò lasciandosi cadere su una poltrona di fronte alla scrivania del santo.

«Ha cambiato idea sulla variazione del tuo corso?», saltò su, preoccupato che la sua idea geniale non solo non fosse un successone, ma non andasse proprio in porto.

«No, non si preoccupi», ridacchiò, seppur lievemente. «Il fatto è che vorrebbe scendere di sotto, solo per un po’, per vedere suo marito e sua figlia…».

«Oh, capisco», annuì San Pietro, massaggiandosi il mento come se stesse prendendo in esame le sue parole. All’improvviso sorrise raggiante e disse, lasciando di stucco l’angelo: «Qual è il problema, portala con te!».

«Che cosa? Sul serio?», chiese Franky, esterrefatto.

«Sì, perché no?», sollevò le spalle. Poi gli puntò il dito contro, assumendo un’espressione severa: «Ma la sua partecipazione al corso non si tocca, okay?».

Franky rise, di nuovo felice.

 

***

 

Appena entrati, alla loro destra si ergeva una scala in vetro e acciaio che portava al piano superiore: una vera e propria struttura scenografica che, di notte, veniva illuminata da piccoli led piazzati sotto ognuna delle lastre di vetro che facevano da gradini.

Di fronte a loro era situato il salotto, dal pavimento in marmo bianco, come il resto della casa. Il divano ad L color caffèlatte e dai cuscini neri abbracciava un tavolino nero e basso e si appoggiava ad una parete bianca su cui però balzavano all’occhio diversi quadri colorati. Accanto a quella zona se ne trovava un’altra nella quale erano situati un altro divano, questa volta a due posti e color crema, un tavolino marrone scuro e di fronte ad esso due poltrone di pelle dello stesso colore. Entrambe le zone, però, davano su una parete completamente ricoperta di pannelli di legno con alcune mensole e la tv a schermo piatto appesa al centro di essa.

Alla sinistra del salotto si trovava la cucina e per raggiungerla bisognava salire tre gradini di marmo e passare sotto l’arco a tutto sesto che arrotondava l’estremità dell’entrata.
Era un locale molto grande e luminoso, grazie alle vetrate che davano sul lato est del giardino. Poco lontano da esse era situato il grande tavolo da pranzo e tra questo e la cucina si trovava un bancone per l’aperitivo o la prima colazione.

Bill, riesaminando ogni particolare che aveva scelto con Zoe quando avevano deciso di trasferirsi, sentì un grande vuoto dentro. Tutto gliela ricordava, tutto.  

Camminò accanto all’isola cucina, ne sfiorò la superficie fredda e lucida con la punta delle dita e raggiunse le vetrate. Si appoggiò ad una di esse con l’avambraccio e guardò fuori con sguardo vacuo, fino a quando Evelyn, che era andata alla ricerca del suo piccolo Coco, non gli fu accanto.

«Io vado di sopra», gli disse in tono pacato. «Chiamami, se…».

Non ci fu bisogno di concludere la frase. Bill annuì e Evelyn uscì dalla cucina con Coco che cercava di infilzare, incuriosito, le unghiette nel gesso del suo braccio fratturato.

Salì le scale quasi di corsa e si rifugiò nella sua camera, che in quei giorni trascorsi in ospedale le era tanto mancata.

Lasciò andare il gattino sul suo letto matrimoniale e si diresse verso le porte finestre, dalle quali si accedeva al grande terrazzo che, se si guardava la facciata della villa dall’esterno, separava in modo nettamente visibile il piano superiore da quello inferiore, tanto da far sembrare che ci fosse una seconda piccola casa sopra quella normale.
Rimase ad osservare il cielo azzurro, spruzzato qua e là da nuvole di zucchero filato, e si chiese cosa stessero facendo in quel momento lo spirito di sua madre e Franky.

 

***

 

«Ehi, piccola», esordì Franky emozionato, entrando nella camera.

Ora Zoe era seduta sul letto, con le spalle sul cuscino, e sembrava star meglio. Non era sicuramente una bella cosa, ma se ci fosse stato San Pietro avrebbe fatto i salti di gioia  perché così avrebbe potuto tranquillamente partecipare al suo corso.

«Che cosa c’è?», gli domandò, incuriosita dal suo comportamento.

«Ho una bellissima notizia per te». Si mise seduto accanto a lei, sul letto, e le prese le mani fra le sue, guardandola negli occhi. «Stasera, dopo il corso, andiamo a trovare Bill e Evelyn».

Zoe in un primo momento spalancò la bocca, incredula, poi sorrise felicissima e attirò l’angelo in un abbraccio stretto.

 

***

 

Quella sera Jole avrebbe ancora cenato con i suoi genitori. Leo aveva insistito perché l’accompagnasse, ma lei gli aveva detto che era meglio se chiariva da sola con suo padre, per non rischiare di peggiorare ulteriormente la situazione.
Così, uscita da lavoro fece un salto all’appartamento che condivideva ormai da due anni con Leo per farsi una doccia e cambiarsi. Aveva trovato il suo fidanzato in cucina, nonostante fosse un imbranato colossale.

«Che cosa stai facendo?», gli chiese, divertita.

«Oh, ciao amore», la salutò lui, tutto felice, mostrandosi con un grembiulino rosa di cui Jole preferì non conoscerne la provenienza. «Sto preparando la cena, non si vede?».

«Non ti sei dimenticato che vado dai miei, vero?».

«Certo che no!», le sorrise, portando nuovamente l’attenzione sui fornelli. «Sfrutto questa occasione per migliorarmi, visto che tra un po’ saremo in tre e non potrai mica fare tutto tu».

«Come sei dolce». Lo abbracciò da dietro e gli diede un bacio sul collo, sentendosi la ragazza più fortunata della Terra ad avere un ragazzo come lui accanto. Era semplicemente perfetto, anche se aveva i suoi difetti e a volte litigavano, come tutte le coppie del mondo. «Non vorrei però che ti sentissi male, sai…».

«Ah-ah, spiritosa. Perché credi che abbia invitato Gabi?».

Jole si portò una mano sulla bocca, reprimendo le risate. «Poverina, non vorrei essere al suo posto! Sei proprio un gemello perfido».

Sapendo che il suo Leo non sarebbe stato da solo, ma con la sua copia femminile, era uscita più tranquilla di casa e si era diretta verso quella dei suoi genitori, appena fuori città.
Si sentiva un po’ nervosa per dover riaffrontare l’argomento con suo padre, ma era una questione che voleva risolvere al più presto perché teneva davvero all’uomo che l’aveva accettata insieme a sua madre, che l’aveva amata come se fosse stata davvero sua figlia e a cui doveva tutto, e voleva che lui fosse partecipe della sua felicità.

Parcheggiò nel vialetto di fronte al garage aperto e per entrare passò proprio da lì, come faceva da ragazzina per non essere scoperta dai suoi genitori quando tornava troppo tardi dalle feste.

«Jole!», gridò Arthur, saltando giù dal divano e correndo incontro alla sorella.

Lei sorrise e lo prese in braccio, spupazzandoselo tutto anche se le aveva mandato in fumo il piano di arrivare in cucina da sua madre senza farsi vedere da suo padre, giusto per venire un attimo incoraggiata per poi affrontarlo.

«Ciao cucciolo, come stai?», gli chiese, gettando una rapida occhiata nel salotto. Vide suo padre, seduto sul divano, con la piccola tastiera che aveva regalato ad Arthur per Natale sulle gambe: probabilmente aveva tentato, per l’ennesima volta e senza successo, di invogliarlo ad imparare qualcosa.

Incrociò il suo sguardo ed entrambi, imbarazzati, rivolsero la loro attenzione a qualcos’altro. Jole la puntò su Arthur, che le rispose: «Bene! Tu come stai?».

«Ahm… bene, sì, bene».

«Sai, mamma mi ha spiegato che la cicogna porterà un bambino a te e a Leo», le disse, giochicchiando con i suoi capelli biondi, sciolti sulle spalle, girandosene una ciocca intorno alle ditina. «Ma non ho capito perché ve lo porta: dovete giocarci?».

Jole si lasciò andare ad una risata leggera, piena di tenerezza. «No, non ci dobbiamo giocare. La cicogna ce lo porta perché abbiamo deciso di prenderci cura di lui, di volergli bene».

«Gli piaceranno le macchinine?», domandò il bambino, con gli occhi brillanti.

«Ah, non lo so proprio questo. Ma, nell’eventualità, perché non vai a prenderne un po’ che gli facciamo un check-up completo?».

«Okay!», le avvolse le braccia intorno al collo, in un frettoloso abbraccio, poi si fece lasciare a terra e corse verso la sua stanza, sotto gli occhi di Jole e di Tom. Anche Linda, però, dalla cucina, aveva assistito a tutta la scena con il cuore pieno di gioia e ora si preparava a sbirciare anche il momento in cui sua figlia e suo marito avrebbero chiarito.

Jole si schiarì la voce e, con lo sguardo rivolto verso il pavimento, si avvicinò a grandi falcate al divano; ci si sedette sopra, accanto al padre, e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Beh…», incominciò a dire, titubante. «Arthur sembra contento di diventare zio».

«Zio», sussurrò Tom, rendendosi conto che non solo lui sarebbe diventato nonno all’età di quarantaquattro anni, ma che anche Arthur, il suo bimbo, sarebbe diventato zio. A soli quattro! E poi Linda… Non aveva affatto l’aspetto di una nonna!

«Jole», sospirò, massaggiandosi gli occhi. «Ma tu sei certa di quello che stai facendo? Insomma, siete ancora giovani… Io sono ancora giovane!».

La ragazza ridacchiò, scuotendo il capo. «Credo di non essere mai stata più sicura in vita mia. Io lo voglio con tutte le mie forze questo bambino, lo sento già mio, e voglio… voglio che anche tu lo voglia».

Tom girò il viso verso quello della figlia e le prese il mento fra le dita per far sì che i loro occhi si incontrassero. «Tesoro, se Leo ti rende felice, se questo bambino ti renderà felice, se distruggermi psicologicamente chiamandomi nonno ti renderà felice, beh… allora sarò felice anche io», sorrise divertito.

Jole, con gli occhi lucidi dalla commozione, gli strinse le braccia intorno al collo. «Grazie. Grazie, papà».

«Di niente, piccola», le accarezzò i capelli e le baciò la tempia. «Però, potresti farmi un piccolo favore?».

«Quale?».

«Non voglio sentire nemmeno una volta la parola nonno, se non detta dal mio nipotino».

«O nipotina», ridacchiò.

«O nipotina, che sia».

«Okay, ci proveremo».

«Ma vedi di sfornare un maschio, eh», la minacciò, puntandole un dito contro la pancia ancora piatta.

Lei sollevò il sopracciglio, scettica. «E per quale motivo? Leo vuole una bimba!».

«Perché almeno posso tentare di insegnare uno strumento a lui, visto che Arthur non ne vuole sapere!».

«Cosa vorresti insinuare, che le femmine non possono diventare brave musiciste?».

Tom e Jole si guardarono negli occhi per diversi istanti, in assoluto silenzio, poi scoppiarono a ridere insieme.

 

***

 

Franky si sentiva parecchio agitato, proprio come se fosse la sua prima lezione. Zoe, al suo fianco, sorrideva serena, per nulla in ansia. Anzi, era felice di poter partecipare in modo così attivo al corso del suo angelo e di essere d’aiuto in qualche modo.

Entrarono nell’aula e tutti gli studenti si misero seduti al loro posto, sorpresi dalla presenza di quella donna: iniziavano seriamente ad essere curiosi e a chiedersi chi fosse, perché solo Kim aveva capito il legame esistente fra loro. La stessa Kim che Franky, con enorme dispiacere, non vide fra i suoi compagni.
Si sentì subito in colpa, anche se non era di certo colpa sua se lei si era presa una cotta per lui, ma non poteva mandare all’aria una lezione solo per andare a cercarla e spiegarle che gli dispiaceva da morire. Era una delle sue alunne migliori e le voleva bene, infondo.

Così, si mise seduto sopra la cattedra ed invitò Zoe a fare lo stesso, picchiettando le dita al suo fianco. La donna si sedette accanto a lui ed accennò un sorriso imbarazzato a tutti quegli occhi curiosi che la guardavano. Per un attimo provò anche un immenso dispiacere, perché quei ragazzi dovevano avere all’incirca l’età in cui se n’era andato il suo Franky e pensare che erano morti e avevano lasciato le persone che amavano le graffiava il cuore come se fosse capitato a lei in prima persona, anche perché anche lei stava facendo soffrire le persone che le volevano bene.

«Ciao a tutti», salutò Franky con un sorriso tenue sulle labbra. «Leggo nei vostri occhi che siete piuttosto curiosi di sapere che cosa ci fa questa bellissima donna al mio fianco», ridacchiò. «Ebbene, lei si chiama Zoe ed è…».

La porta dell’aula si aprì di scatto e una Kim con il fiatone fece un timido inchino con la testa, chiedendo perdono per il ritardo, poi schizzò seduta al suo posto. Una volta seduta fece un respiro profondo e sollevò il viso verso quello del suo professore, che le sorrideva dolcemente. Ricambiò, seppur arrossendo.

«Dicevo», riprese Franky. «Lei si chiama Zoe ed è la mia protetta».

A quella scoperta tutti i cadetti angeli custodi sgranarono gli occhi ed iniziarono a parlare fra loro, creando un brusio che fece sorridere sia il professore che la donna.

«Mi scusi, ma…». La ragazza che aveva iniziato a parlare si interruppe ed alzò la mano educatamente, prima di proseguire col permesso di Franky: «Se lei è qui vuol dire che è…».

«No», la corresse subito il professore, sorridendo. «Non è morta, altrimenti non sarei nemmeno qui. È soltanto in coma».

«Accidenti, è vero», borbottò Kim, attirando involontariamente l’attenzione di Franky. «L’avevo letto da qualche parte, ma non me lo ricordavo».

«Kim?», la chiamò. L’allieva alzò lo sguardo, imbarazzata. «Mi pare di aver capito che tu ne sappia qualcosa in più dei tuoi compagni. Perché non glielo spieghi?».

Kim, onorata e allo stesso tempo rossa dalla vergogna, si alzò in piedi e si schiarì la voce. Raccontò della scissione fra corpo e spirito durante il periodo di coma, spiegando successivamente il perché lei si trovasse in Paradiso e il meccanismo attraverso il quale il corpo e lo spirito si sarebbero ricongiunti, permettendole di uscire dal coma. Poi si risedette e guardò di sottecchi il suo professore, che sorrideva estasiato, con gli occhi pieni di ammirazione ed orgoglio. Era davvero speciale, la sua Kim.

Speciale, ma certo! Finalmente capì il senso delle sue parole e si disse che non avrebbe potuto fare scelta più azzeccata.

Zoe gli toccò il braccio per tirarlo fuori dai propri pensieri e ci riuscì, tanto che Franky scosse il capo e notò che c’erano diverse mani alzate di ragazzi e ragazze che aspettavano di poter prendere la parola e porre le loro domande alla protetta.

«Fate come se io non ci fossi», rispose l’angelo, portando le mani al petto e sorridendo sbarazzino. «Oggi la prof è lei».

Zoe abbandonò l’idea di protestare e sorrise, pronta a rispondere a tutte le domande dei futuri angeli custodi.

 

***

 

Nessuno dei due aveva sentito la necessità di dover cenare, quella sera. Quindi si erano semplicemente rifugiati nelle loro stanze.

Evelyn, stesa a pancia in su sul suo letto, guardava il soffitto con aria malinconica e con una mano accarezzava il pelo di Coco, accucciato sulla sua pancia, che la osservava con i suoi occhietti azzurri.

Pensava alla sua mamma, a quanto mancasse a lei e soprattutto a suo padre, che non aveva mai visto così giù di morale. Poi pensava a Franky e si sentiva in qualche modo ferita perché lui le aveva promesso che sarebbe venuto a trovarla a casa e, anche se era quasi certa di averlo visto nel corpo di quel ragazzo che li aveva aiutati a scampare alla folla dei giornalisti, non era ancora passato.

Si tirò su col braccio sano e guardò il cielo scuro della notte, punteggiato da rare stelle.

Chissà, magari aveva fatto male a fidarsi così tanto di un angelo. Sarebbe mai tornato da lei? Se sì, per quale motivo lo avrebbe fatto? Per essere sottoposto all’ennesimo interrogatorio da una ragazzina come lei? Sicuramente no… Perché, perché allora?

Si mise sdraiata sul fianco, facendo cadere Coco, e spense la luce. Accarezzò la testolina del micio, che nel frattempo si era accoccolato al suo fianco, e con un lieve sorriso sulle labbra e l’immagine dello sguardo di Franky ad ossessionarla, chiuse gli occhi.

 

***

 

«Mi sono divertita tantissimo, grazie Franky», disse Zoe, aggrappandosi al suo braccio.

«Non devi ringraziare me, ma San Pietro che ha avuto questa idea geniale», ridacchiò.

La lezione era finita da qualche minuto ed erano rimasti a chiacchierare, seduti sulla cattedra, aspettando che tutti gli alunni uscissero, per poi abbandonare anche loro la struttura.

Franky distolse per un attimo l’attenzione da ciò che stava dicendo Zoe – raccontava di come le fosse piaciuto spiegare la sua reazione e quella dei suoi amici appena avevano visto Franky versione angelo custode, –  per posarla su Kim, che stava andando via giusto in quel momento.

«Aspetta un attimo», interruppe la sua protetta e si alzò per raggiungere l’allieva. «Kim!».

La ragazza si girò, sorpresa, e guardò Franky correrle incontro. Non era mai successo, era sempre stata lei a correre dietro a lui e questo cambiamento la fece tentennare sul posto.

«Che cosa c’è?», gli domandò, una volta di fronte a lei.

«Tu non vuoi diventare un angelo custode, vero?», le chiese a bruciapelo, convinto della propria idea. «Tu stai studiando per diventare un angelo speciale. Dico bene?».

Il fatto che Kim volesse «solo amare» lo aveva portato su quella via, perché solo gli angeli speciali, mandati sulla Terra per mimetizzarsi fra gli umani e allo stesso tempo aiutare gli altri esseri non vivi, compresi gli angeli custodi in difficoltà, potevano esserne capaci. Proprio come Ariadne e Alexandra, che lo avevano aiutato molte volte e che ricordò con un sorriso carico d’affetto.

«Può darsi», sorrise in modo ambiguo. «Il suo corso mi piace tanto, è il momento forse più bello della giornata perché lei mi insegna molto».

«Io?», Franky, stupito, si indicò. «Ma io non so quasi nulla sugli angeli speciali, non è il mio campo».

Kim scosse il capo. «Lei sa amare veramente, col cuore e non con la testa, e ama tutto ciò che fa e che lo circonda, tanto che riesce a trasmettere il suo amore anche agli altri. Le persone come lei sono davvero rare e sarebbe un angelo speciale eccezionale». Sorrise, divertita dall’espressione stupefatta dell’angelo custode. «Ora devo proprio andare. Buona serata».

Si voltò e solo quando fu infondo al corridoio Franky riuscì a sussurrare: «Anche a te, Kim», con un sorriso tenero sulle labbra. Poco dopo Zoe lo raggiunse e gli chiese che cosa avesse detto a quella ragazza, ma lui scosse il capo e ridacchiò, avvolgendole le spalle con un braccio.

«Pronta per rivedere Bill e Evelyn?», le domandò, cambiando argomento.

Il cuore di Zoe perse un battito all’idea di rivedere le persone che amava di più al mondo. «Sì», sussurrò e strinse forte la mano dell’angelo, che però assunse un’aria dispiaciuta, dicendole: «C’è solo una cosa: tu non potrai essere vista».

«Che cosa?», soffiò, con occhi lucidi. «Perché?».

«Perché sei solo uno spirito e gli spiriti non possono essere visti, a meno che non ci sia al loro fianco un essere capace di trasmettere loro questa facoltà».

«E tu… tu non ne sei capace?».

«Io no, purtroppo». Gli angeli speciali sì, però.

 

***

 

Bill, seduto sul bordo del suo letto, sfogliava il grande album di fotografie rilegato in pelle nera. Era l’album delle loro nozze e rivivere quei momenti bellissimi, immortalati per sempre sulla pellicola, ora gli faceva male perché la persona che rideva e sorrideva al suo fianco in quelle immagini era lontana.
Aveva una voglia assurda di abbracciala, di baciarla, di sentirla sua ancora una volta; voleva vederla sorridere, imbronciarsi in quel modo tanto infantile, arrabbiarsi e diventare rossa dalla vergogna; voleva sentire la sua voce, il suo respiro sulla pelle, la sua risata nei timpani… Voleva la sua Zoe.

Lo squillare insistente del telefono fisso sul suo comodino lo distrasse dal flusso dei suoi pensieri. Si sporse sul letto per prendere il cordless fra le mani e rispose alla chiamata, portandoselo all’orecchio.

«Pronto?». La sua voce era nasale ed interrotta da brevissimi singhiozzi di cui non si era nemmeno accorto, proprio come non si era accorto delle lacrime che avevano iniziato a tracciargli il viso chiaro.

«Ehi, Bill», sussurrò il suo gemello in risposta. «Tutto bene?».

«Ahm… sì, sì è tutto okay», tirò su col naso e si asciugò le lacrime come meglio poté, proprio come se Tom riuscisse a vederlo. «Come mai hai chiamato?».

«Volevo sapere come stavi, tutto qui. Ormai credo che non veniate più a cena…».

«No, infatti… non ce la sentivamo».

«Ho capito. Beh, anche se venivate non c’era più niente», rise e riuscì a strappare un sorriso al fratello. «Ho chiarito con Jole, sai?».

«Sono contento per te, davvero. Sei ancora in crisi per il fatto di diventare nonno giovane?».

«Pff… Evelyn ha ragione, è un vantaggio diventare nonni alla mia età: sarò ancora vigile e scattante e potrò insegnare meglio al mio nipotino a suonare uno strumento».

«Ma non si sa ancora il sesso…».

«Deve nascere maschio, okay?».

Bill rise leggermente. «Okay Tomi».

«Ti devo lasciare. Devo aiutare Linda a sistemare la cucina perché se no dice che sono uno scansafatiche. Ci vediamo domani».

«Va bene, a domani».

«Ti voglio bene, fratellino».

«Anch’io», sussurrò e chiuse la chiamata.

Portò lo sguardo fuori dalla finestra e vide una stella cadente tracciare una scia luminosa nel cielo blu scuro. Chiuse gli occhi ed espresse un desiderio.

 

***

 

«Ecco, siamo arrivati», disse Franky, fermandosi di fronte alla stanza d’ospedale in cui riposava il corpo di Zoe. «Sicura di volerlo fare?».

«Sì», annuì Zoe, stringendo un po’ di più la mano dell’angelo nella sua.

Lui allora attraversò per primo la porta e portò Zoe con sé, ancora un po’ restia a quel genere di cose “da spirito”.
Una volta nella stanza, la donna si bloccò completamente sul posto: non pensava che vedere il proprio corpo l’avrebbe fatta sentire così… nuda, separata da ciò che la completava. Non era una bella sensazione. Si sentiva molto più simile ad una persona morta, che ad una in una via di mezzo, che ancora stava lottando.

«Zoe?», la richiamò Franky, preoccupato. «Zoe, va tutto bene?».

Lei chiuse gli occhi, stringendo i pugni, poi fece un passo in avanti. Non poteva avere paura del suo stesso corpo, però stava tremando dalla testa ai piedi.

L’angelo la osservò mentre si avvicinava alla parte da cui si era dissociata e trattenne il respiro quando alzò una mano e con le dita sfiorò il dorso della mano del suo corpo. Zoe parve rilassarsi a quel contatto, come se si sentisse meglio, completa, e voleva ricongiungersi a lui con tutte le sue forze. Appena ci provò, però, venne sbalzata indietro con una tale potenza da finire contro la parete con la schiena.

«Zoe!». Franky corse subito da lei e le cinse il capo con le braccia, stringendola a sé. «Come va?».

«Come credi che vada? Perché il mio corpo mi… rifiuta?», chiese con voce tremante.

«Si vede che non è ancora il momento», rispose l’angelo con un sorriso mesto. Le accarezzò le guance, guardandola negli occhi, e per un brevissimo attimo vide il viso di Evelyn. Scosse il capo, per riprendersi, e si disse che se la sua mente gli faceva quegli scherzi solo perché non la vedeva da un giorno… beh, era messo male.
«Vedrai che quando sarà il momento riuscirete a ricongiungervi», le promise, fiducioso. «Ora andiamo via da qui, non siamo scesi per questo».

Zoe annuì e gli prese una mano per farsi aiutare ad alzarsi. Franky le sorrise ancora, a mo’ di incoraggiamento, poi si buttò per primo dalla finestra e lei, con gli occhi spalancati dalla paura, non poté fra altro che seguirlo.

«Lasciati andare Zoe, è facile volare», le sussurrò all’orecchio suadente e quando lei aprì gli occhi notò che galleggiava nell’aria, proprio come lui, che però sbatteva le ali.

«Non è affatto giusto, sai?», gli disse, imbronciandosi.

Franky sgranò gli occhi, sorpreso da quel cambiamento repentino d’umore. «Che cosa?».

«Tu hai delle bellissime ali, io no. Me la lego al dito, questa. Anzi, protesterò con San Pietro in persona». E schizzò in direzione di casa, quella che non aveva dimenticato e di cui aveva una tremenda nostalgia. Ma non più di quella che provava pensando a Bill e a sua figlia Evelyn.

Franky, ancora sbigottito, rise e la seguì a razzo. La superò pure e si divertirono come bambini, proprio come se stessero facendo una gara a chi arrivava prima. Nelle vicinanze della villa entrambi rallentarono, senza nemmeno bisogno di parlarsi, e insieme atterrarono dolcemente nel grande giardino.

«Pronta?», le chiese con un fil di voce. Io, sono pronto?

«Solo se tu sei con me».

«Sono con te».

«Allora sono pronta. Andiamo».

Entrarono, ovviamente senza utilizzare le porte, e notarono entrambi che il piano inferiore era deserto. Le luci erano tutte spente, ad eccezione di quelle che illuminavano le scale di vetro e diffondevano una’atmosfera di forte suggestione.

«Scelte io», sussurrò Zoe soddisfatta, portandosi le mani sui fianchi.

«Com’è che non avevo dubbi?», ridacchiò. «Forza, andiamo».

Già dai primi gradini della scala Franky percepì i pensieri di Bill e gli si strinse il cuore: era così triste… Non l’aveva mai visto né sentito così e sperò davvero che ciò che aveva detto Kim fosse vero, perché se non fosse riuscito a mostrare al suo amico la sua Zoe gli avrebbe dato un altro dispiacere immenso.

«Ehi Bill, Zoe è qui accanto a me, solo che non la puoi né vedere né sentire! Sei contento?!». No, decisamente no.

Deglutì e quando ormai contava i passi che li dividevano dal cantante, pensò che se davvero doveva decidere del suo futuro aveva due possibilità: diventare l’angelo custode di Evelyn, come gli aveva detto Zoe, oppure diventare un angelo speciale, come gli aveva consigliato Kim. Che fare? La scelta era ardua, ma se non avesse fatto in tempo a decidere o se non ci fosse proprio riuscito gli sarebbe rimasta sempre la terza opzione, quella che aveva preso subito in considerazione e che non credeva potesse scivolare all’ultimo posto nella sua classifica: quella di ricominciare un’altra vita, in un altro corpo.

Sentì la mano di Zoe stringersi un po’ di più intorno alla sua, in preda al nervosismo, e, perso com’era nei suoi ragionamenti non opportuni in quel momento, non si era accorto che erano arrivati di fronte alla camera di Bill.

«Andiamo», gli sussurrò Zoe.

L’angelo annuì e, preso coraggio, aprì la porta e si mostrò a Bill, che lo guardò sorpreso.

«Franky, che ci fai qui?», gli domandò e Zoe tremò al suo fianco: era così vicino, ma anche così irraggiungibile… Ora capiva come si doveva essere sempre sentito l’angelo nei suoi confronti.

«Ciao, Bill», salutò lui, incerto. «Io, ecco, sono passato per…». Chiuse gli occhi e volle in tutti i modi che lui potesse vederla.

Passarono diversi istanti di religioso silenzio e si chiese come poteva anche solo aver pensato che ci sarebbe riuscito così, senza nemmeno sapere come fare. Lui non ne sapeva nulla dei poteri degli angeli speciali… l’amore sarebbe bastato davvero?

«Zoe», sussurrò Bill ad un certo punto e Franky aprì di scatto gli occhi, con il cuore che gli rimbombava nella cassa toracica. Ci era riuscito davvero?

Guardò lo spirito accanto a sé e il sorriso appena accennato dipinto sulle sue labbra gliene diede la conferma. Poi guardò Bill e vide che il suo sguardo era piantato in quello di Zoe.

«Ciao amore», sussurrò lei, facendo un passo verso di lui. Ma, allontanandosi da Franky, la sua figura sbiadì agli occhi del cantante.

«Zoe, devi stare vicino a me se vuoi essere vista», le disse Franky.

Allora lei collegò le cose e capì che era lui che le stava dando quel potere. «Ma… prima mi hai detto che non ne eri capace», gli disse, dimenticandosi per un attimo di Bill.

«Mi… mi sbagliavo», balbettò. «Comunque non è questo il momento adatto per discuterne», mosse il capo in direzione del frontman dei Tokio Hotel e lei annuì, incamminandosi verso di lui in completa sincronia con Franky, in modo tale da essere sempre ben visibile.

Bill, ancora incredulo per ciò che stava succedendo, non riuscì a dire qualcosa di sensato, quindi l’abbracciò soltanto, sentendola fredda ed inconsistente fra le sue braccia. Ma non se ne curò molto, ciò che contava era sapere che la stava abbracciando, che lei era di nuovo al suo fianco, anche se per poco.

«Mi sei mancato tanto», gli sussurrò lei, ricambiando l’abbraccio e posando il viso nell’incavo della sua spalla, provocandogli scariche di brividi.

«Torna. Ti prego, torna», le disse invece Bill, con il volto nascosto fra i suoi capelli.

«Io… io ce la sto mettendo tutta, davvero», singhiozzò in risposta. «Ma non ci riesco, non ancora».

Bill sollevò il viso e la guardò negli occhi mentre le accarezzava le guance. «Promettimi che tornerai».

«Te lo prometto».

Franky, costretto a stare lì accanto a Zoe per far sì che Bill riuscisse a vederla, si sentiva nel posto sbagliato al momento sbagliato. Assistere a quella scena non gli piaceva molto, ma non gli faceva male come aveva pensato. Più che altro si sentiva in un tremendo imbarazzo e quando Bill si chinò per baciare sua moglie sulle labbra abbassò di scatto il viso arrossato.

«Grazie, Franky», gli disse Bill con un fil di voce e un sorriso se non felice almeno sereno sulle labbra rosee.

«Non c’è di che», balbettò, ancora colto dalla vergogna. Poi posò lo sguardo su Zoe, ancora fra le braccia del marito. «Ora… ora dobbiamo andare».

«Passiamo da Evelyn, prima», gli disse e sembrò più un’affermazione che una domanda. Franky annuì e sorrise.

Tutti e tre si diressero verso la camera della ragazza ed entrarono senza fare il minimo rumore. Le luci erano spente e Evelyn dormiva già, stesa sotto le coperte, con una palla di pelo marroncino accanto.

«Tesoro», sussurrò Zoe, coprendosi la bocca per non fare rumore con i singhiozzi. Si mise seduta sul letto, inevitabilmente accanto a Franky, e la osservò dormire. Non voleva svegliarla, era troppo bella così.
«Sta sognando qualcosa?», domandò al suo angelo.

Franky si strinse nelle spalle e posò una mano sulla testa di Evelyn per vedere quale film stesse proiettando la sua mente. Quando capì di essere il protagonista tolse la mano e stirò un sorriso, anche se un po’ nervoso.

«No, non sta sognando niente», mentì.

Zoe annuì e guardò la sua bambina ancora per un po’, poi si alzò in piedi ed abbracciò ancora Bill. Era il momento di separarsi.

«Mi raccomando», le disse ancora lui. «Torna presto».

«Ci provo», gli sorrise lievemente e dopo un ultimo bacio seguì Franky fuori dalla finestra.

L’angelo sospirò sollevato quando interruppe la connessione che si era creata fra loro per permettere a Zoe di avere il potere di essere vista. Non se n’era accorto subito, ma era stato sfiancante e avrebbe dovuto fare della pratica, se nel caso Zoe avesse voluto tornare a salutarli.

«Aspetta», la fermò all’improvviso, in mezzo alle nuvole del cielo scuro.

«Che cosa c’è?», gli domandò lei, inarcando il sopracciglio.

«Stai qui, faccio in un attimo».

Franky tornò indietro e si intrufolò di nuovo nella stanza di Evelyn. Salì a gattoni sul suo letto e le sfiorò i capelli con un sorriso tenero sulle labbra. Sì, gli era mancata tanto.
«Sogni d’oro, dolce Evelyn», le sussurrò all’orecchio e le posò un bacio sulla tempia.

Poi tornò da Zoe, a cui non disse nulla.

 

La mattina dopo, Evelyn si svegliò e non ne avrebbe mai saputo il motivo, ma aveva un sorriso sulle labbra.

 

__________________________________________

 

Buonasera a tutti :)

Ebbene sì, boys and girls: Bill e Evelyn sono tornati a casa u.u Ma anche Zoe, se vogliamo metterla così ** 
E' stato un momento molto tenero, quello in cui Bill e Zoe si sono incontrati di nuovo, anche se il povero Franky ha dovuto guardarsi la scena proprio dalla primissima fila xD Però ha avuto la sua ricompensa, perchè poi è andato da Evelyn e l'ha vista, anche se lei non ha visto lui :)
Ah, Kim. Che bel mistero questa ragazza, è sempre così ambigua... Chissà quando Franky scoprirà tutta la verità su di lei ;)
E in questo capitolo diventano sempre più pressanti le possibilità che Franky ha per il suo futuro. Se n'è aggiunta addirittura un'altra, quella di diventare un angelo speciale! D: Ah, ma per scoprire il futuro del nostro caro angioletto dovremo aspettare ancora mooolto, mooolto, mooolto tempo. Portate pazienza **
Okay, spero davvero che vi sia piaciuto e che lasciate qualche recensione, anche perchè mi avete abbandonata tutte quante ç__ç tranne _Francesca_ che ringrazio di cuore.
Daiiiiii, tornateeeee T___T Se non volete farlo per me fatelo per Franky!

Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 8
*** Impossible ***


8. Impossible

‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying the rain just starts to fall
‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying here everything goes wrong
‘Cause this is your world

«Buongiorno, papà», disse Evelyn sbucando in cucina con una copertina sulle spalle, dentro la quale si stringeva come se fosse pieno inverno e non andasse il riscaldamento.

Bill ricordò quando era successo davvero, una delle prime notti che avevano dormito nella loro nuova casa. Zoe si era svegliata nel cuore della notte con i denti che sbattevano e a sua volta l’aveva svegliato. Erano rimasti tutta la notte in piedi, cercando di contattare un tecnico che riparasse più in fretta possibile il guasto. Evelyn allora aveva solo cinque anni e dubitava che si ricordasse di quell’episodio.

Sorrise mestamente, cercando di mandare via tutta l’amarezza, e si voltò di nuovo verso la macchinetta del caffè mentre la figlia si metteva seduta ad uno degli sgabelli del bancone.

«Ben svegliata, tesoro», rispose. «Dormito bene?».

«Benissimo», sospirò, sorreggendosi il viso con le mani e guardando con sguardo sognante il cielo azzurro fuori dalle portefinestre.

«Sono contento», disse Bill sorridendo, davvero felice all’idea che, anche dormendo, avesse percepito la presenza dello spirito di sua madre. Non avrebbe mai immaginato che ad averla fatta dormire così bene, invece, fosse stato Franky.

Evelyn si era svegliata con il sorriso sulle labbra e il viso dell’angelo ben impresso nella mente, serena e con il cuore leggero come se lui fosse stato al suo fianco tutta la notte, a far sì che non si svegliasse e non facesse brutti sogni.
Nonostante tutto, però, era a conoscenza del fatto che non l’aveva ancora visto dopo il loro “appuntamento” nella cappella dell’ospedale e sperava con tutte le sue forze che almeno quel giorno si facesse vivo.
Abbassò lo sguardo solo quando vide la mano di suo padre posarle sotto il naso una tazza di latte rigorosamente freddo, come piaceva a lei. Lo ringraziò con un sorriso e poi si allungò per prendere i cereali, quando suonarono alla porta.

«Vado io», disse Bill e si diresse a passo lento verso la porta d’ingresso. Guardò dallo spioncino chi fosse e aprì al fratello che sembrava decisamente più rilassato, ora che aveva accettato l’idea di diventare nonno.

«Ciao Bill», lo salutò pimpante, attirandolo in un frettoloso abbraccio. «Come va?».

«Bene», sfiatò e lo guardò con un sorriso contento e amaro allo stesso tempo. Tom non ne perse nemmeno una sfumatura e capì dai suoi occhi che doveva essere successo qualcosa quella notte. E dedusse anche che Bill voleva parlargliene.

«Ciao piccola!», salutò Evelyn senza entrare in cucina e lei gli rispose con un cenno della mano, visto che aveva la bocca piena.

Poi si mise seduto sul grande divano ad L del salotto ed invitò il gemello a sedersi al suo fianco. Non ci fu nemmeno bisogno di esortarlo a parlare, fece tutto da sé e rivide di nuovo il suo Bill, quello felice e sempre pieno d’allegria, quello che soffriva di logorrea acuta e che gesticolava fino a far venire il mal di mare.

Gli raccontò della stella cadente, della visita inaspettata di Franky che aveva portato con sé anche lo spirito di Zoe e del momento bellissimo in cui aveva potuto di nuovo guardarla negli occhi, abbracciarla e baciarla, anche se si era sentito un po’ imbarazzato dovendo fare tutte quelle cose di fianco all’angelo.
Gli raccontò anche di quando Zoe era andata a salutare Evelyn, che però già dormiva. Era stato molto commovente e sperava di rivederla di nuovo, se sarebbe servito altro tempo prima che il suo corpo e il suo spirito si ricongiungessero ed uscisse dal coma.

Quando finì di parlare, Tom sorrise amorevole e lo abbracciò di nuovo, massaggiandogli la schiena. Ma quando lo guardò negli occhi si imbronciò un pochino.

«Perché quella faccia?», gli chiese Bill, confuso.

«Zoe è passata a trovare solo te. Io chi sono, scusa?!».

Bill rise e per Tom sentire di nuovo quella melodia sconvolgente fu come ossigeno nei polmoni. Non avrebbe potuto chiedere di meglio e doveva ricordarsi di ringraziare Franky appena l’avrebbe visto.

A proposito di lui… «Bill, posso chiederti una cosa?», gli domandò con la fronte aggrottata.

«Certo, dimmi. Di che si tratta?».

«Tu sai se per caso Evelyn e Franky si sono mai parlati?».

Il gemello spalancò la bocca, preso in contropiede da quella domanda. Perché Tom gliel’aveva chiesto e ne sembrava così interessato?

Evelyn finì di fare colazione e decise di andare a farsi una doccia.

Lavò la tazza che aveva utilizzato e uscì dalla cucina, ma appena fu sulla soglia sentì suo zio porre la seguente domanda a suo padre: «Tu sai se per caso Evelyn e Franky si sono mai parlati?».

Il cuore le schizzò in gola e lei smise di respirare, spiattellandosi contro il muro accanto alla porta per continuare ad origliare senza essere vista.

«Io… io non lo so. Perché me lo chiedi?», disse suo padre, con un po’ di nervosismo nella voce.

«Così, per curiosità!».

In realtà, Tom ricordava bene il giorno in cui Evelyn gli aveva parlato per la prima volta dell’angelo: gli aveva raccontato di averlo visto e di averci scambiato qualche parola, gli aveva svelato che ai suoi occhi aveva qualcosa di particolare che l’affascinava e avrebbe voluto parlarci per chiedergli della storia fra lui e la sua mamma. Dopo quegli episodi la ragazza non aveva più accennato nemmeno il suo nome e aveva anche sospettato che si incontrassero segretamente, ma fra le mani non aveva nulla di concreto e non aveva avuto nemmeno il tempo per chiedere al diretto interessato. Per questo si era rivolto al gemello, sperando che gli dicesse qualcosa in più senza che lui si dovesse sbilanciare a dire troppe cose: era quasi sicuro che Evelyn gli avesse confidato quelle cose sapendo che sarebbero rimaste fra loro e non voleva tradire la sua fiducia, anche se si trattava di suo fratello gemello.

Di sfuggita vide un pezzo di stoffa azzurra, proprio il colore della copertina che aveva addosso Evelyn quando l’aveva vista, e si schiarì la voce prima di chiedere ancora al fratello: «Tu… tu saresti contento se lei e Franky fossero amici?».

Evelyn, ancora nascosta, sentì di nuovo il cuore galopparle nella gola. Cercò di ingoiarlo e di levarsi quella stranissima sensazione di ansia addosso, ma non ci riuscì. Aveva paura della risposta del padre, ma la voleva con tutta se stessa.

«Tom, ma che cavolo di domande sono?!», sbottò Bill, prendendosi la testa con una mano. «Io… io non lo so se sarei contento! Probabilmente sì, visto che Zoe ne sarebbe felicissima, ma non vorrei che Evelyn si fissasse troppo con lui, tanto da preferirlo ai suoi amici… vivi, ecco».

Amici vivi, pensò Evelyn, con gli occhi che le pizzicavano fastidiosamente dopo aver percepito quella risposta in modo più negativo che positivo. Io ne ho, di amici vivi?

Fin da quando era piccola era stata protetta dagli occhi del mondo per paura che la fama di suo padre coinvolgesse anche lei, le avevano sempre detto di non fidarsi immediatamente delle persone che incontrava e che non conosceva bene. Credevano di proteggerla dai giornalisti, dai fotografi, da qualunque mass media, ma non era servito poi a molto. Anzi, l’avevano fatta diventare introversa, schiva e molto sensibile, tanto che l’unica vera amica che aveva si chiamava Anja e non la vedeva dai tempi delle medie, siccome avevano scelto istituti diversi alle superiori. Durante i giorni in cui era stata in ospedale si erano sentite via sms, ma nulla di più. Forse avrebbe dovuto riallacciare i rapporti, come l’aveva sempre incoraggiata a fare sua madre.

Decise che si era stufata di ascoltare conversazioni di cui non avrebbe dovuto ascoltare niente. Fece un respiro profondo e poi, come se avesse finito in quel momento di fare colazione, uscì dalla cucina e accennò un sorriso in direzione dei familiari.

«Vado di sopra a farmi una doccia», li informò ed entrambi annuirono.

«Ah!», esordì Tom, facendola sobbalzare sul primo gradino delle scale. «Ero passato per chiedervi se venite a pranzare da noi».

«Tu che ne dici?», chiese Bill ad Evelyn.

«Sì, perché no? Mi faccio la doccia, mi vesto e arrivo», disse, poi salì le scale e si rifugiò in camera sua.

***

Everything is wrong, a fake just unreal
But here your voice is true
I'm coming too, I'm coming too
Please let me in this world with you
I'm coming too or getting mad

Franky uscì dalla doccia e si mise seduto sul bordo della vasca con solo un asciugamano avvolto in vita e uno sopra la testa, con il quale si frizionava i capelli a spazzola.

Chiuse gli occhi e se lo lasciò scivolare dal capo, poi si guardò le mani, quelle mani che avevano accarezzato il viso di Zoe infinite volte, le stesse che avevano osato sfiorare anche quello di Evelyn.

Quella mattina si era svegliato in modo strano. Era arrivato ad essere cosciente lentamente, alla stessa velocità del sole che aveva illuminato la sua camera da letto entrando dalla finestra, e non aveva fatto nemmeno in tempo a realizzarlo del tutto che aveva subito pensato a lei, Evelyn, ai suoi occhi e al suo sorriso, identico a quello un po’ infantile di Bill. Il suo cuore aveva iniziato a battere forte, pensandola. Si era girato e rigirato nel letto, ma non era più riuscito a prendere sonno, né a togliersi dalla testa il suo viso.

L’aveva capito ormai che ciò che provava per lei andava oltre il semplice affetto per la figlia della sua Zoe e di uno dei suoi migliori amici, che senso aveva continuare ad assillarlo in quel modo?

Nemmeno dopo una doccia calda era riuscito a risolvere quell’enigma, però aveva capito che dopotutto, nonostante avesse giurato di amare Zoe e solo Zoe per l’eternità, promesse del genere non potevano essere mantenute fino in fondo. L’avrebbe sempre amata, in un modo tutto speciale ed unico, ma quello che Evelyn gli stava facendo provare ne era la conferma: non si poteva costringere il cuore a battere per una sola persona, soprattutto quando questa aveva un’altra vita, amava un’altra persona ed era pressoché irraggiungibile.
Però… anche Evelyn doveva essere irraggiungibile, almeno per lui. Soprattutto per lui. E forse era stata quella consapevolezza a tormentarlo e a farlo svegliare con addosso quella malinconia. Lui era morto, morto, morto; Evelyn invece viva, viva, viva. Non poteva nascere alcuna storia fra loro! Come aveva solo potuto, il giorno prima, adagiarsi sugli allori e prendere quella faccenda così alla leggera?

Sospirò pesantemente, dicendosi che più ci pensava più si tramortiva sia emotivamente che fisicamente. Stava proprio male e non poteva nemmeno tirarsi indietro: era finito in un vicolo cieco e sapeva che sarebbe sempre e comunque andato da lei, per quanto fosse sbagliato.

Si prese un’ala fra le mani, distendendola in tutta la sua lunghezza, che con il passare degli anni era leggermente aumentata, e iniziò a passarci sopra la salvietta per asciugare le piume candide, quando il campanello trillò e fu costretto ad andare a vedere chi fosse.

Gridò, rivolto alla porta: «Chi è?». Poi, senza aspettare una risposta, guardò dallo spioncino e si sentì soltanto sorpreso quando vide Zoe, la sua migliore amica. Per quanto credeva che fosse impossibile, era tornata solo quello per lui.

«Sono io!», rispose lei sorridente e lui gli aprì così com’era, per nulla in imbarazzo. Lei arrossì appena lo vide, solo con un asciugamano avvolto in vita e uno appoggiato alla spalla.

«Che stavi facendo?», gli domandò, anche se la risposta risultava ovvia, spostandosi un ciuffo di capelli neri dal viso ed entrando nell’appartamento.

«La doccia», ridacchiò e scosse il capo. «Fai come se fossi a casa tua, io vado a vestirmi. Poi mi dai una mano, perché, merda, sto gocciolando dappertutto», disse, riferendosi nell’ultima parte alle sue ali che, ancora bagnate, gocciolavano acqua da tutte le parti.

«Okay», rispose Zoe, divertita.

Quando Franky sparì in bagno, lei rimase nel salotto a curiosare.

Se fosse entrata in quell’appartamento senza sapere che appartenesse a lui l’avrebbe come minimo immaginato, perché anche se erano passati anni lui non era per niente cambiato: disordinato cronico. E menomale che lei si lamentava con Evelyn quando lasciava in disordine la cameretta… in confronto, quello era niente!
Però era bello così, rappresentava appieno il suo amico: il nido sicuro che aveva sempre voluto e che una volta avevano pure progettato insieme, seduti al tavolo di casa sua. Avevano sognato di trasferirsi nello stesso appartamento, quando erano solo migliori amici, ma non era mai successo per svariati motivi.

Notò che non c’era la cucina e si disse che era ovvio: gli angeli, come gli spiriti e tutti gli esseri non vivi, non mangiavano!

Sfiorò con le dita la superficie dell’armadio e vide, oltre alla polvere, una foto che catturò subito la sua attenzione.

«Porca vacca», sussurrò, trattenendo le risate. «Ecco dov’era finita!».

Era la foto che li ritraeva tutti insieme, stretti in un grande abbraccio, immortalati mentre ridevano seduti sul divano del salotto di quella che un tempo era stata la casa dei Tokio Hotel, la casa di Franky, un po’ anche la sua casa. Franky era fra lei e Tom, alle loro spalle c’erano Bill, Georg e Gustav e di lato Susan, stretta fra le braccia di David.
Ricordava come se fosse stato ieri il giorno in cui sua madre l’aveva scattata e altrettanto bene ricordava quando aveva messo a soqquadro tutta la casa per trovarla, quando si era resa conto che nell’album di fotografie in cui la custodiva gelosamente non c’era più. Ci teneva così tanto che aveva persino pianto, credendo di averla persa. E invece non l’aveva persa, Franky gliel’aveva soltanto rubata chissà quando.

«Potevi almeno chiedere, accidenti!», disse, una volta di fronte alla porta socchiusa del bagno, certa che in un modo o nell’altro avrebbe capito a cosa si riferiva.

«Non me l’avresti mai data», le rispose e sorridendo aprì la porta, invitandola ad entrare.

Zoe venne investita da una ventata d’aria calda e profumatissima, che le ricordò con una fitta al cuore l’essenza di Franky. Le era sempre piaciuto quel profumo, era unico nel suo genere.

Franky si posizionò di fronte allo specchio e prese da un cassetto un phon, lo attaccò alla presa della corrente e lo passò alla donna con un asciugamano.

«Scusa», gli disse, prendendo gli oggetti fra le mani, «ma io non leggo nel pensiero come te, quindi mi dici che cosa dovrei fare?».

«Dovresti asciugarmi le ali», le disse e aprì le ali, posando le mani sulla ceramica del lavandino.

Zoe sorrise e si mise dietro di lui, accese il phon e mentre il vento caldo scompigliava le piume bianche, ci passò sopra l’asciugamano con movimenti delicati, per paura di fargli male come quando sua figlia era piccola e le asciugava i capelli con il terrore che la guardasse con espressione sofferente.

«Stai andando benissimo», la rassicurò Franky con un sussurro. Aveva la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi e le labbra socchiuse, godendosi la paradisiaca sensazione delle sue ali calde e le mani fredde di Zoe che le sfioravano.

Lei sorrise, abbassando lo sguardo. «Senza di me, di solito come fai?».

«Gli passo sopra l’asciugamano e aspetto che si asciughino da sole», spiegò. «Ma ci mettono un sacco di tempo, manco fossero delle spugne! Odio averle bagnate».

«Quindi, sono capitata a fagiolo», ridacchiò; Franky sorrise.

«Come mai sei passata?», le chiese quest’ultimo.

«Mi annoio in ospedale e visto che stavo bene sono uscita a fare quattro passi. Volevo, ecco… ringraziarti per ieri sera. Non voglio nemmeno immaginare come ti sia sentito ad assistere a tutta la scena… In quel momento non ci ho minimamente pensato, mi dispiace se…».

«Non ti preoccupare», la interruppe. «Parlando sinceramente, non mi fa più molto effetto».

«Davvero?», corrugò la fronte, sorpresa.

«Sì… ho la testa da un’altra parte, in questo periodo».

«Da un’altra parte o con qualcun’altra?», volle puntualizzare, sporgendosi in avanti per affiancare il suo viso. Franky aprì gli occhi e si guardò nello specchio, poi guardò la figura riflessa di Zoe.

Distratto da quei massaggi delicati sulle sue ali si era lasciato andare e le aveva quasi rivelato di Evelyn! Ora cosa doveva fare? Aveva bisogno di parlarne con qualcuno e Zoe era la persona adatta, però allo stesso tempo non lo era perché lei era la sua mamma. Non sapeva cosa fare, ma ormai era in ballo e in qualche modo doveva ballare. Infondo, non devo per forza dirle che si tratta di lei, no?

«Con qualcun’altra», mormorò, le guance rosso porpora.

Zoe sobbalzò, del tutto incredula alle sue orecchie: lei l’aveva detto per scherzare! Anche se, l’aveva notato già altre volte, in quel periodo Franky soffriva di forti sbalzi d’umore ed era un pochino strano. Che si fosse davvero innamorato di un’altra ragazza? Istintivamente provò un po’ di gelosia, ma appena intervenne la sua razionalità si disse che non poteva essere più contenta per lui, soprattutto se lei ricambiava. Dopo tutto quello che lui aveva sofferto per lei, era giusto che anche lui trovasse qualcuno con cui condividere i suoi giorni in Paradiso.

«Oh mio Dio, Franky!», squittì eccitata. «Devi raccontarmi tutto! Perché non me l’hai mai detto prima?». L’angelo scrollò le spalle, un sorrisino sulle labbra. «È un angelo anche lei?».

Franky pensò al volto di Evelyn e sorrise con naturalezza. «Un qualcosa di simile», annuì.

«Dovrai assolutamente farmela conoscere, prima che ritorni nel mio corpo», lo esortò, riprendendo ad asciugargli le ali. «Vi vedete spesso?».

«No, non molto», tossicchiò. «Lei è in servizio sulla Terra e io, come sai, sono impegnato adesso…».

«Beh, ma quando passi a trovare Bill, Tom, Georg e Gustav puoi passare a salutare anche lei, cafone!», gli tirò un coppino che lo fece sorridere.

«Lo farò», le promise, divertito.

«Dai, raccontami un po’ di lei», lo invitò ancora, curiosa come una bambina. «È bella?».

«Bellissima», sospirò felice, mentre il cuore gli si alleggeriva: almeno con lei non aveva più segreti. O quasi.

«Più di me?», sogghignò e Franky tentennò nel rispondere, tanto che aprì la bocca, come se fosse realmente indignata, e alzò il phon come se volesse tiraglielo in testa.

«Siete belle tutte e due!», gridò l’angelo in sua difesa e poi rise, mentre lei borbottava, ma con il sorriso sulle labbra.

«E caratterialmente, com’è?», gli domandò dopo un po’. Aveva quasi finito un’ala.

«È… infinitamente dolce, introversa, ma curiosissima… Mi piace stare con lei, mi fa sentire bene anche solo guardarla… mi sento giusto al suo fianco».

Zoe lo guardò amorevolmente e spense il phon per girarlo e abbracciarlo. «Sono felicissima per te, te lo meriti».

«Grazie», sussurrò e sospirò sollevato, leggerissimo e felice.

***

Seduta a quel tavolo assieme a suo padre, a suo zio, a sua zia, a sua cugina Jole, Leo e suo cugino Arthur, si sentiva come se fosse in una teca di vetro. Ciò che vedeva non poteva essere toccato da lei, né le persone che la circondavano potevano toccare lei.

La strana serenità che l’aveva colta per un attimo quella mattina era stata solo l’ultimo soffio di polverina magica che il sogno che aveva fatto su Franky doveva averle gettato addosso durante il sonno. L’effetto era svanito presto e avrebbe tanto voluto farsi subito un’altra dose, perché sentiva che solo in un sogno si sarebbe sentita felice in quel momento.
Dopotutto, Franky che cos’era, se non un sogno? Tecnicamente, lui era un angelo, però le piaceva comunque definirlo come un sogno, un miraggio, perché era impossibile che, realmente, esistesse un ragazzo del genere. Ora avrebbe soltanto voluto nascere quando anche lui era vivo, soffiarlo a sua madre e vivere con lui tutta la vita.

«Che stupida», pensò ad alta voce, sorridendo amaramente e portandosi una mano sulla fronte.

Si accorse del silenzio che si era creato intorno a lei e sollevò lo sguardo: tutti la stavano guardando confusi dalla sua affermazione.

«Okay, Leo non è la perfezione, ma…», balbettò Jole, beccandosi un pugnetto sulla spalla da parte del proprio fidanzato.

«Oh», sussultò Evelyn. «Non ho dato della stupida a te».

«E allora a chi?», domandò Tom, sollevando il sopracciglio.

«A me, stavo pensando ad una cosa stupida», rispose con semplicità, sollevando le spalle e tornando con lo sguardo al suo piatto.

Qualche istante dopo, la suoneria di un cellulare ruppe il silenzio e Evelyn tirò fuori il proprio dai pantaloni della tuta che aveva indossato per essere comoda. (Al contrario di suo padre, lei era sempre stata quella che si basava sull’essenziale e sulla comodità).
Notò la piccola icona a forma di busta sul display e con curiosità l’aprì. Un sorriso si allargò lentamente sul suo viso, rendendolo luminoso e più bello. Non se lo aspettava, ma lo sperava.

«Chi è?», domandò Bill, facendo il disinteressato, con pessimi risultati.

«Anja». Si alzò e si scusò, dicendo che non aveva più fame, poi si rifugiò in salotto e seduta sul divano rispose all’amica.

Ciao! Ti ho pensata stamattina, sai? :) Io sto abbastanza bene, sono uscita ieri dall’ospedale. Tu?

La risposta la ricevette qualche minuto dopo, durante i quali si era incantata per l’ennesima volta a guardare il cielo fuori dalla finestra mentre sentiva il chiacchiericcio dei suoi familiari in cucina: aveva sentito tutte le voci, tranne quella di suo padre, proprio lui che di solito era la parlantina del gruppo assieme a zio Tom.

Io bene, grazie! :) Pensavo che uno di questi giorni potremmo vederci…

Passare del tempo in compagnia di Anja le avrebbe fatto sicuramente bene e poi aveva davvero voglia di vederla, di fare qualcosa di normale, come qualsiasi altra ragazza della sua età. Magari sarebbero potute andare al centro commerciale a fare shopping, oppure al cinema. Le mancavano tutte quelle cose, le mancava un’amica con cui farle. Inoltre, suo padre sarebbe stato contento, anche se l’avrebbe rimpinzata come sempre di raccomandazioni, esattamente come ogni padre del mondo. Anche se quella volta non ci sarebbe stata sua madre ad interromperlo e a darle un po’ di respiro con uno dei suoi sorrisi dolci e ad augurarle: «Divertiti, tesoro».

Le rispose che sì, le sarebbe piaciuto molto. Si misero d’accordo per il pomeriggio del giorno seguente e dopo aver inviato l’ultimo messaggio, con la sua piena conferma ai piani dell’amica, vide suo padre sbucare in salotto e rivolgersi a lei.

«Andiamo?», le domandò.

«Dai zio Bill, resta ancora un po’!», piagnucolò Arthur, attaccandosi alla sua gamba. Lo zio gli passò una mano fra i capelli e gli sorrise, ma Evelyn se ne accorse subito che non era uno sorriso vero, uno di quelli che se si soffermava a guardarlo avrebbe voluto che non sparisse mai dalle sue labbra.

«Mi dispiace piccolo, ma dobbiamo andare», gli rispose con tono affettuoso, guardando distrattamente l’orologio che aveva allacciato al polso sinistro.

«Sicuro?», gli chiese ancora una volta il gemello, alle sue spalle. Bill annuì e fece un cenno con la mano ad Evelyn, invitandola ad alzarsi.

Salutarono tutti e fecero ancora gli auguri ai due futuri sposi e genitori, poi uscirono e salirono in macchina nel più perfetto dei silenzi. Evelyn non ce la faceva proprio a vedere suo padre così infelice e silenzioso, così provò a tirarlo su di morale, nonostante anche lei non fosse nella forma migliore.

«Anja mi ha chiesto di uscire», gli annunciò, sorridendo. O almeno ci provò. «Domani andiamo al centro commerciale».

«Oh, che bello», le sorrise, ma anche quella volta lei si accorse che si stava sforzando parecchio.

Sospirò avvilita, guardando fuori dal finestrino, e gli chiese: «Tu te ne starai tutto il giorno in casa?».

«Beh… non ho niente da fare», rispose, un po’ sbigottito.

«Potresti andare da zio Tom, o passare da Gustav, o da Georg, magari. Non serve a niente barricarsi in casa e stare da soli: mamma non lo vorrebbe».

Bill, colpito da quelle parole, strinse maggiormente le mani intorno al volante. Ormai anche sua figlia riusciva a capirlo più di quanto ci riuscisse lui stesso. Lo aveva colpito ed affondato al primo tentativo e decise di buttare giù tutte le altre barriere: con lei non serviva a nulla mentire, proprio come con la sua Zoe. Riuscivano sempre a sgamarlo.

«Lo so», mormorò. «Ma non me la sento di uscire, non ancora. Sono davvero contento per te, tesoro, ma mi ci vuole ancora un po’ di tempo».

«Perché non vieni anche tu?», propose senza nemmeno pensarci e poi ridacchiò, pensando alla faccia di Anja quando si sarebbe presentata a casa sua con suo padre al seguito.

Anche lui ridacchiò e bastò quello per fargli fare un sospiro rasserenato. La sua bambina.
Le passò una mano fra i capelli e le sorrise: «Grazie mille, ma non è il caso».

Evelyn capì il motivo principale per il quale suo padre aveva tanto insistito per andare via così presto da casa di Tom solo quando parcheggiò di fronte all’ospedale: voleva andare a trovare Zoe e, in effetti, l’orario di visita era appena iniziato.

Entrarono nella struttura mano nella mano e prima di varcare la soglia della camera Evelyn sbirciò all’interno, sperando di vedere l’angelo che non vedeva da ormai due giorni. Ma non lo vide ed iniziò davvero a credere che l’avesse presa in giro, che le avesse mentito e che in realtà non sarebbe più venuto a trovarla.

Osservò suo padre parlare a bassa voce con la sua mamma, mentre le accarezzava con infinita tenerezza la fronte, e sentì che avrebbe dovuto farlo anche lei: aveva un enorme peso nel petto, il peso di tutte quelle parole che avrebbe voluto rivolgerle, di tutto quello che nascondeva e che avrebbe voluto confessare almeno a qualcuno, almeno alla sua mamma. Non avevano mai avuto segreti, loro due… perché quella volta doveva essere diverso?

«Vuoi che ti lasci un po’ da sola con lei?», gli chiese sottovoce suo padre, con gli occhi umidi, quegli occhi di solito sempre luminosi e sorridenti.

«Sì, grazie», gracchiò, abbassando i suoi per non soffrire la loro vista.

Bill annuì e uscì dalla stanza, chiudendosi dolcemente la porta alle spalle. Solo allora Evelyn si avvicinò al corpo della madre e si mise seduta sulla sedia al suo fianco. Le prese la mano fra le sue e con gli occhi su di essa incominciò il suo monologo liberatore, con un sorriso appena accennato sul volto.

***

«Non dire stronzate, l’abito che indossavo al matrimonio era fantastico!», gridò Zoe, puntando un dito contro il petto di Franky, che ridacchiò sollevando le mani in segno di resa.

Erano usciti a fare quattro passi, visto che di stare in casa non ne aveva voglia nessuno dei due. Poco prima di uscire, lei aveva visto uno skateboard in un angolo e gli aveva chiesto se ci andava ancora.

«Quasi mai», rispose l’angelo, sollevando le spalle.

«E perché mai?», gli domandò.

«Perché non ho tempo e… sono cresciuto».

«Bah, a me non sembra».

Alla fine era riuscita a convincerlo a prenderlo e a salirci sopra dopo anni ed anni in cui era rimasto intoccato in quel punto dell’appartamento.

Appena Franky ci era salito aveva sentito un brivido corrergli su per la spina dorsale e chiudendo gli occhi aveva rivissuto in un attimo tutti i momenti passati con lo skate sotto i piedi: dalla prima volta, alle cadute, ai pomeriggi passati con Zoe cercando di insegnarle qualcosa, a quando aveva fatto da insegnante persino a Tom. Aveva passato tutta la sua vita con i piedi incollati ad una tavola con quattro ruote e tutto d’un tratto aveva smesso, non sentendosi più in grado di riprovare quei brividi. Ma, forse, aveva smesso perché erano proprio quei brividi a fargli male, a ricordargli che ora le cose erano ben diverse e che non poteva più tornare indietro.
Con accanto Zoe, però, che aveva sorriso come una bambina vedendolo sfrecciare ancora al suo fianco, aveva accettato tutti quei tagli sul cuore con il sorriso sulle labbra, perché non era stato solo ad affrontarli.

«Boh, a me sembrava un po’ troppo sfarzoso», le disse ancora, convinto della propria opinione. «Saresti stata bellissima anche in jeans e maglietta».

«Oh, sono certa che se ci fossimo sposati noi due io mi sarei vestita in quel modo», rise. «Tu ti saresti portato dietro lo skate e l’iPod per saltare tutta la noiosa celebrazione…».

«Cacchio, uno per sposarsi deve sorbirsi tre ore di noia assoluta! Non basta dire “Sì, lo voglio”?».

«Come a Las Vegas».

«Noi ci saremmo sposati a Las Vegas, sicuro», annuì Franky, infilandosi le mani nelle tasche. «E Tom non si sarebbe nemmeno dovuto vestire da pinguino per farmi da testimone».

«Ero sicura che avresti scelto Tom», scosse il capo, sorridendo. «Ma ti ricordi come lo odiavi, all’inizio? Poi siete diventati addirittura migliori amici… Strana la vita, no?».

«Eccome se è strana. Ma vogliamo parlare di te, signorina?», la stuzzicò e lei arrossì, avendo già capito dove sarebbe andato a parare. «Anche tu all’inizio odiavi Bill, lo chiamavi “Principessa” e lo prendevi in giro sulla sua sessualità. Poi siete diventati amici, poi amanti e ora siete marito e moglie, con una figlia».

«Era destino», scrollò le spalle.

«Era destino anche che io morissi», aggiunse lui, dopo averle letto nel pensiero.

Zoe non parlò più, persa nei suoi pensieri con lo sguardo basso. Pensava a come sarebbe stata la sua vita se Franky non fosse morto e non riusciva davvero ad immaginarla. Sapeva solo che sarebbe stata completamente diversa da quella che aveva ora e chissà se le sarebbe piaciuta di più o di meno. Non avrebbe avuto Evelyn e ora come ora non voleva nemmeno immaginare la sua vita senza di lei, senza la sua bambina, ciò che amava di più al mondo.

Con un forte brivido sentì le forze abbandonarla improvvisamente, tanto che dovette aggrapparsi a Franky per non cadere. Poi iniziò a sentire la voce della sua Evelyn, l’unica che fino ad allora riusciva a sentire con così tanta nitidezza, come se fosse proprio al suo fianco.

«Zoe. Zoe, che ti prende?», le chiese l’angelo custode, che la teneva saldamente fra le sue braccia.

«Evelyn», sussurrò lei, stringendo i pugni sulla sua schiena.

Franky la fece sedere su una panchina, per fortuna non molto lontana da dove erano loro, e si mise seduto al suo fianco. Aveva gli occhi chiusi e il viso stanco. Grazie alla loro vicinanza riusciva perfettamente a sentire i suoi pensieri e ciò che le stava dicendo sua figlia, mentre le stingeva forte la mano.

“Ciao mamma, come stai? Io… io sto bene, tutto sommato. Mi manchi tanto…
Oggi siamo andati a mangiare da zio Tom e c’erano anche Jole e Leo. Sai che si sposano e che presto avranno un bambino? Forse te l’avevo già detto… – ridacchiò.
Ho anche sentito Anja, sai? Prima mi ha mandato un messaggio. Usciamo domani pomeriggio, andiamo al centro commerciale.
Io… ecco, volevo dirti una cosa. Credo… credo che mi piaccia un ragazzo”.

A quelle parole sia Zoe che Franky sobbalzarono: la prima perché le faceva tremendamente male saperlo così e non essere al suo fianco per parlarne con lei occhi negli occhi e per incoraggiarla; il secondo perché si era ingelosito, non avendo ancora capito che quel “ragazzo” era lui.

“È bellissimo, con due occhi che riescono a farmi vedere un mondo intero e un sorriso così dolce che mi fa scoppiare il cuore. È semplicemente fantastico: dolce, sensibile, tenero, che lotta per le cose che vuole e per le persone a cui vuole bene e con lui mi sente benissimo, come se non mi servisse nessun altro per poter essere felice. Però è irraggiungibile. Almeno, per me.
Se tu fossi qui con me sarebbe diverso, probabilmente. Sicuramente.”

«Sembra la tua descrizione», sussurrò Zoe, con il viso nascosto nell’incavo della spalla di Franky. Aveva anche iniziato a piangere, dilaniata dal dolore della lontananza.

«Già», mormorò l’angelo, che con un mezzo sorriso sulle labbra continuava ad ascoltare, le massaggiava la schiena e la confortava.
Ormai aveva capito che Evelyn stava parlando di lui e si sentiva al settimo cielo perché i suoi sentimenti erano ricambiati in quel modo. Erano totalmente sbagliati, ma dannatamente giusti e non poteva fare a meno di essere felice.

***

«Sei davvero uno sfigato, sai? Credevi di fare il paladino della giustizia?».

«Quante volte ti ho detto che non voglio che entri qui dentro?!», sbraitò, guardando malissimo sua sorella che nonostante i suoi vari avvertimenti era entrata in camera sua con un giornalino aperto fra le mani, che gli schiaffò sotto il naso con un sorrisetto.
Martin osservò le pagine che gli stava indicando e lesse il titolo con la voce smorzata: «Un nuovo bodyguard per i Kaulitz?».

Pamela soffocò una risata alle sue spalle, mentre leggeva l’intero articolo, scritto in caratteri piccoli e quasi illeggibili sopra le foto che lo ritraevano farsi spazio fra la folla dei giornalisti e aiutare soprattutto la ragazza che doveva essere la figlia del cantante, se non errava, ad entrare in macchina.

«Davvero, che cosa ti è passato per la testa?», gli chiese ancora.

«Io… non ne ho la più pallida idea», sospirò e si prese la testa fra le mani. Perché? Perché doveva capitare a lui una cosa del genere?

Quella mattina stava andando all’università con la sua inseparabile bicicletta, aveva fatto il solito percorso risparmia tempo – era in ritardo – e non aveva in programma nessuna sosta, nemmeno se fosse scoppiata di fronte a lui la Terza Guerra Mondiale. Purtroppo però, quando era passato di fronte all’Albertinen-Krankenhaus aveva sentito un forte brivido corrergli su per la spina dorsale – lo ricordava bene – ed era stato come se da quel momento in poi fosse stato comandato da qualcun altro: era sceso dalla bici, abbandonandola malamente a ridosso del marciapiede, ed era corso in aiuto di quei tizi che conosceva solo grazie alla tv e dei quali non gliene sarebbe fregato un fico secco, se non fosse stato per quella strana coscienza che si era insinuata nel suo corpo e l’aveva comandato a suo piacimento. (Okay, non era una spiegazione logica a ciò che gli era successo, ma non era riuscito a darsene nessun’altra).
La cosa che l’aveva sconvolto di più era stata la sensazione di tremendo smarrimento che aveva provato una volta che la loro macchina si era allontanata, dopo quello stato a dir poco paradisiaco che aveva vissuto aiutando e salutando quella ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare. Si era sentito… completamente in subbuglio incontrando quei due zaffiri, come se… sì, come se fosse innamorato pazzamente di lei!

«Certo che sei proprio scemo», sbottò Pamela, prima di uscire dalla camera di suo fratello sbattendosi la porta alle spalle.

Martin, che non aveva nemmeno risposto all’insulto, si appoggiò allo schienale della sedia girevole e volteggiò più volte su di essa, continuando a pigiare il tastino per aprire e chiudere la penna. Ormai aveva perso anche l’ultimo briciolo di voglia che l’aveva spinto a scrivere quel maledettissimo riassunto. Se quella mattina non si fosse fermato, se fosse andato dritto per la sua strada non sarebbe arrivato tardi all’Università e a quell’ora non avrebbe dovuto perdere tempo a studiare la parte di lezione che aveva perso.
Avrebbe impiegato quel pomeriggio in maniera diversa, ma sicuramente non avrebbe intrecciato irrimediabilmente la sua vita a quella della ragazza dagli occhi azzurri.

***

Nemmeno quella sera aveva molto appetito ed era piuttosto silenziosa, però era scesa comunque in cucina e aveva provato ad instaurare un dialogo con suo padre perché sapeva che se l’avesse lasciato solo non avrebbe mangiato e si sarebbe chiuso ancora nel suo dolore. E non avrebbe potuto sopportarlo, anche se non poteva stargli vicina ventiquattr’ore su ventiquattro.

«Mmm… credi che domani ci sarà il sole?», gli chiese dopo un po’ di silenzio, arrotolando nella forchetta degli spaghetti al sugo. «Non voglio uscire con Anja con la pioggia…».

«Alle previsioni hanno detto che ci sarà il sole», la rassicurò con l’abbozzo di un sorriso. «E poi, anche se piovesse, andate al centro commerciale, siete al chiuso…».

«Sì, ma non mi piace tanto la pioggia».

Abbassò lo sguardo e mormorò: «Proprio come tua madre».

Evelyn abbassò gli occhi e per minuti che sembrarono ore non sentì altro che le forchette che timidamente sfioravano la ceramica dei piatti e i bicchieri alzarsi e riabbassarsi sulla tavola, mentre il conduttore del telegiornale parlava e parlava senza che nessuno dei due lo ascoltasse.

«E…», si schiarì la voce, intenta a rompere quell’odioso silenzio. «Hai intenzione di tornare in studio, uno di questi giorni? Stavate iniziando a registrare il nuovo album, no?».

«Sì, ma non sono in vena», le rispose senza guardarla in faccia.

«E dai, papà», ridacchiò nervosamente. Quella solitudine in cui si stava intrappolando con le sue stesse mani non le piaceva per niente. Avrebbe voluto che uscisse con suo zio, con i suoi amici, che tornasse a cantare, che facesse qualcosa al di fuori di quelle mura! Ma non poteva nemmeno costringerlo a fare cose che non voleva fare… «Tu… tu ami cantare, ti rende felice e… anche mamma sarebbe felice e farebbe più in fretta a tornare».

Forse quello non avrebbe dovuto dirlo. Suo padre si alzò da tavola rigido come un pezzo di legno e mise i suoi piatti nel lavandino, poi andò in salotto senza degnarla nemmeno di uno sguardo.

Evelyn si prese la testa fra le mani, scostandosi i capelli dal viso, e con un sospiro frustrato si chiese a che cosa diamine servissero gli angeli se quando avevi bisogno di loro non c’erano mai.

***

Franky rabbrividì all’improvviso e si voltò verso Zoe che leggeva in tutta tranquillità una rivista. La guardò con cipiglio perplesso fino a quando anche lei posò lo sguardo su di lui, chiedendogli se aveva bisogno.

«No…», mormorò, pensieroso. «Tu ti senti bene?».

«Una meraviglia», biascicò con disappunto. Ormai anche lei aveva iniziato ad irritarsi quando non dava segni di stanchezza, ossia quando aveva più probabilità di ricongiungersi al suo corpo.

L’angelo, ancora accigliato, guardò fuori dalla finestra. A che cosa era dovuto quel brivido, se non era legato alla sua protetta? Perché non era stato un brivido qualunque, ma uno di quelli che percepiva quando Zoe aveva bisogno di aiuto o richiedeva fortemente la sua presenza.
Ricordò che una volta era riuscito a sentire Tom che lo invocava, ma era stato un brivido ben più leggero perché con lui non aveva un legame forte come quello che aveva con Zoe, ma l’aveva comunque sentito. Quello che aveva percepito corrergli su per la schiena qualche minuto prima, però, era stato ben più forte, quasi alla pari di quelli che sentiva con lei.

«È successo qualcosa?», gli domandò ancora la donna, con un tono di voce quasi preoccupato.

Franky chiuse gli occhi e si concentrò per capire chi fosse stato a lanciargli un messaggio così potente, anche se un’idea se l’era già fatta e il cuore gli era schizzato in gola. Gli sfondò la trachea quando riuscì a scorgere il suo viso e a sentire i suoi pensieri non proprio felici. Come aveva immaginato sin dall’inizio, era stata lei e non si sorprese affatto: chi, oltre a Zoe, aveva quell’effetto su di lui?

«Franky!», strillò Zoe e gli fece aprire gli occhi di scatto. «Ti ho fatto una domanda, desidero una risposta!».

«Stai calma!», la rimbeccò, alzandosi in piedi e sistemandosi il colletto della giacca di seta bianca. «Sembra che tu abbia le tue cose, porca miseria», sogghignò. «Comunque non è successo nulla, mi sono solo ricordato che devo fare una cosa molto importante».

«E quale sarebbe?», chiese con il sopracciglio sollevato e le braccia incrociate.

Sposando Bill ha imparato pure a copiare le sue tattiche micidiali pensò l’angelo.

«Devi uscire con la tua… ehm… Posso chiamarla Angela, visto che non mi vuoi dire il suo nome?».

Ma nonostante tutto sei sempre la solita Zoe… pensò ancora e sorrise.

«Sì, in effetti… ho un appuntamento con lei», disse frettolosamente, uscendo dalla porta con la schiena e sporgendosi ancora all’interno per poter concludere il discorso con la donna.

«Ti sei dimenticato un vostro appuntamento! Vergognati!», gridò Zoe e gli tirò un cuscino addosso, ma Franky per fortuna aveva già chiuso la porta.

Ridendo corse fuori dall’ospedale e si diresse verso l’Ufficio di Collegamento.

Essere un angelo aveva i suoi vantaggi, perché non aveva nessun bisogno di permessi per scendere sulla Terra e soprattutto non doveva fare code lunghissime per prendere l’apposito ascensore. Gli era bastato fare un cenno alla guardia – tutti lo conoscevano, non serviva nemmeno che mostrasse la propria Carta dell’Angelo Custode – ed era sceso di sotto.

Aveva raggiunto in un battibaleno la villa di Bill e Zoe e si era affacciato alla finestra che dava sul salotto, ben attento a non farsi vedere.

Vide Evelyn uscire dalla cucina con passo strascicato e raggiungere il padre seduto sul divano ad L, che guardava la tv con il telecomando fra le mani. Gli passò una mano fra le spalle, con infinita tenerezza, e non ci fu bisogno di parole perché lui capisse che la sua bimba ci sarebbe sempre stata per lui.
Bill la fece sedere al suo fianco e la strinse forte al petto, celando le lacrime che mai e poi mai avrebbe voluto far vedere a sua figlia: lui era il suo papà e doveva dimostrarle di essere forte, di sapersi prendere cura di lei e di riuscire a sorridere anche se stava male.

Franky abbozzò un sorriso, commosso, e si disse che dopotutto Evelyn non aveva bisogno di lui per cavarsela con suo padre.
Aveva bisogno di lui solo perché lo voleva al suo fianco, nulla di più e nulla di meno.

Prese coraggio e uscì fuori dalla cucina. Suo padre era seduto sul divano, che guardava la tv con espressione malinconica. Si avvicinò a lui e gli passò una mano fra le spalle prima di guardarlo in viso. Lesse tutta la sofferenza dello stare lontano dalla persona che amava e la comprese, perché anche lei era nella stessa situazione. E cos’altro potevano fare, se non sostenersi a vicenda?

Non si dissero niente, entrambi sapevano ciò che sentivano dentro. Bill la prese per un fianco e la fece sedere accanto a sé, poi la abbracciò fortissimo. Evelyn sentì il respiro di suo padre sul suo collo, leggermente irregolare, e trattenne quelle lacrime che se solo fossero sgorgate dai suoi occhi avrebbero reso vani tutti i suoi sforzi per non piangere di fronte a lei.

Avrebbe tanto voluto sfogarsi con lui, piangere fino a non avere più forze ed addormentarsi svuotata; avrebbe voluto che anche suo padre facesse lo stesso, ma sapeva che lui ci teneva troppo a quel suo ruolo di papà che doveva mostrarsi forte di fronte alla sua bimba. Per questo non gli disse niente e lottò anche lei, nonostante sapesse che nessuno – nessuno – poteva resistere davvero alle ferite del cuore: prima o poi entrambi avrebbero versato quelle lacrime.

‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying the rain just starts to fall
‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying here everything goes wrong
‘Cause this is your world

Evelyn si asciugò il viso e tirò ancora su col naso. Si guardò allo specchio e si disse che era veramente un disastro: lavandosi il volto rigato ed arrossato dalle lacrime si era bagnata anche dei ciuffi di capelli, che le si appiccicavano al collo e alle guance ancora irritate; i suoi occhi erano rossi e gonfi e la smorfia che aveva sulle labbra la rendeva davvero bruttissima. Forse sua madre aveva ragione quando diceva che quando piangeva lo era. E lei che pensava che fosse solo un modo per farla smettere!

Uscì dal bagno e diede la buonanotte a suo padre sporgendosi giù dalle scale, poi si rintanò nella sua camera.

«Coco?», lo chiamò, ma del gattino nessuna traccia.
«Coco, ma dove ti sei cacciato?», chiese più a se stessa che a lui, dopo aver guardato anche sotto al letto.
Si tirò su e si grattò il capo, dicendosi che mentre era di sotto con suo padre lui doveva essere sceso e si trovava ancora da qualche parte nell’immensa casa; non doveva di certo preoccuparsi.

Notò che aveva lasciato aperte le porte finestre che davano sul grande terrazzo e si avvicinò ad esse per chiuderle, quando vide Coco fare le fusa ad una mano evanescente alla luce della luna, che gli accarezzava il pelo con dolcezza.

Il cuore iniziò a batterle furiosamente nella cassa toracica e si morse le labbra senza un motivo preciso. Fece un passo verso lo sdraio dal quale penzolava quella mano e giusto un attimo prima di arrivarci accanto Franky si girò verso di lei e, scacciando via l’indecisione, le fece un sorriso tenero.
Non sapeva nemmeno se era riuscita a ricambiare, il suo cervello era completamente andato in tilt, come il suo cuore, quando lo aveva visto alzarsi e portare ogni briciolo della sua attenzione su di lei.

Era lì ad un passo e per quanto avesse voluto gettarsi fra le sue braccia non riusciva nemmeno a muovere un muscolo. Avrebbe anche voluto prenderlo a cazzotti oppure insultarlo, perché aveva rischiato di perdere tutte le speranze di rivederlo quando aveva realizzato che erano esattamente due giorni che non incrociava i suoi occhi spettacolari. Invece, le sue corde vocali l’avevano abbandonata. Sperò che i suoi pensieri potessero in qualche modo aiutarla e sì, lo fecero, perché l’angelo sorrise e con una grande falcata le arrivò di fronte.

«Scusami», le sussurrò piegando leggermente il capo per guardarla negli occhi.

Fece per scostarle i capelli dal viso e sistemarglieli dietro l’orecchio destro, ma inavvertitamente le sfiorò la guancia e a quel contatto, seppur minimo, entrambi trasalirono. I loro sguardi si intrecciarono e dopo qualche secondo di contemplazione reciproca Franky chiuse gli occhi e arricciò le labbra per trattenere una risata, scuotendo mestamente il capo.

«Sei impossibile», mormorò con la bocca ad un soffio dalla sua tempia.

Evelyn strinse i pugni sulle sue ali e adagiò il capo nell’incavo della sua spalla. «Anche tu».

_______________________________

Buonasera a tutti :D

Partiamo dalla fine, che mi sembra più giusto dare spazio a questi due che io personalmente adoro *-* A voi piacciono? Certo, è ancora presto per dirlo, però, insomma, a pelle? Anche se la loro storia... ah, che lo dico a fare xD
Per quanto riguarda Bill, la situazione è un po' più complicata. Anche se ha visto Zoe, la malinconia e la solitudine sono tornate presto ad assillarlo e ne soffre davvero parecchio. Per fortuna c'è suo fratello Tom e c'è sua figlia... Chissà se in qualche modo riuscirà a superare il periodo :(
Zoe e Franky anche in questo capitolo non hanno litigato, anzi... hanno parlato, anche per esempio delle loro vite se fossero rimasti insieme e anche della "nuova ragazza - Angela" di Franky! XD In qualche modo gliel'ha detto, dai xD E anche Evelyn ha parlato del "ragazzo che le piace" a Zoe! Un po' di quasi-confessioni xD
La canzone che ho usato è Your world, Melody Fall. Le loro canzoni ricompariranno nel corso della storia, all'inizio mi sono stati molto d'ispirazione e d'aiuto! ;)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, che non mi abbandoniate e che quindi lascerete qualche recensione!! *-*
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo ( _Francesca_ e Tokietta86 grazieeeee!! ) e chi ha letto soltanto :D
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 9
*** If I could change the currents of our lives ***


Sorpresaaaaaaaaaa!!
Cliccare qui per vedere una cosuccia che ho fatto per questa FF e di cui sono molto orgogliosa (mi piace davvero tanto!!) *o*
(Indovinate chi è ;D)

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9. If I could change the currents of our lives

 

E così, gabbiani e rondini
Un’orchestra di ali fragili
Io sarò un altro angelo per te
Guarderò dentro i silenzi tuoi,
veglierò per non svegliarti mai
Io saprò donare ali anche a te

 

Evelyn si svegliò accarezzata dalla voce melodiosa di Franky, che le stava anche sfiorando i capelli. Un sorriso le nacque in modo quasi naturale sulle labbra ed inspirò profondamente, felice, ma nel farlo alcune piume le solleticarono il naso e starnutì, schizzando seduta sul materasso.

L’angelo rise di gusto, ancora steso sul letto, con il capo appoggiata alla testata, e la ragazza si sentì tremendamente in imbarazzo. Ma nonostante tutto non poté lasciarsi coinvolgere dalla sua risata argentina, così bella che sarebbe stata ore ad ascoltarla e a guardare lui: era a dir poco magnifico quando rideva, sorrideva… quando era felice.

«Perché sei sveglio?», mugugnò, rigettandosi al suo fianco e nascondendo il viso rosso d’imbarazzo con le mani.

Perché, ho dormito? «Perché devo andare», le sussurrò all’orecchio, facendo sì che mille brividi la attraversassero da capo a piedi.

«Di già?», sollevò la testa di scatto e si trovarono con i volti ad una distanza minima fra loro: le punte dei loro nasi si sfioravano e Evelyn riusciva a sentire il suo respiro contro la sua pelle.

«Beh», sorrise e le sfiorò una ciocca di capelli biondi, «non è poi così presto…».

Gettò uno sguardo alle spalle dell’angelo e la sveglia digitale le mostrò che ciò che diceva non era del tutto esatto: non era tardi, era addirittura tardissimo! Quasi l’ora di pranzo, per la precisione.

«E tu… mi hai guardata dormire per tutto questo tempo?», sfiatò, perdendosi nei suoi occhi verdi.

«Mi piaceva quello che sognavi».

Evelyn corrugò la fronte e si sforzò di ricordare quello che aveva sognato. Le venne in mente e il cuore le rimbalzò nel petto, mentre iniziava ad arrossire.

«Sai che è estremamente improbabile che fra noi accada qualcosa, vero?», lui sorrise mesto. Le prese delicatamente il viso fra le mani e la guardò negli occhi, manco volesse farsi del male, poi posò le labbra sulla sua fronte. «Bill sta arrivando a svegliarti, è meglio che mi dilegui».

Si alzò dal letto senza che Evelyn potesse dire o fare qualcosa e uscì sul terrazzo. La ragazza, dopo un momento di completa trance, rinvenne e lo rincorse.
Alle previsioni del tempo avevano fatto centro: c’era il sole. E Franky sembrava brillare sotto di esso, mentre si dirigeva verso il parapetto per spiccare il volo.

«Aspetta!», lo prese per la manica della giacca e lo fece tornare con i piedi per terra. Lui la guardò con le sopracciglia aggrottate, ma non sembrava essere infastidito dal fatto che non l’avesse lasciato andare.

«Torna presto», gli disse. «E presto non vuol dire fra due giorni!».

Franky ridacchiò e si avvicinò al suo viso, con un sorrisetto malizioso. «E cosa intendi tu per presto?».

«Intendo…», balbettò, nel pallone. Se fosse per me non dovresti nemmeno andartene, pensò un attimo prima di ricordarsi che poteva benissimo leggerle nel pensiero. E l’aveva fatto, visto che si era messo a ridere.

«Ti prometto che verrò presto», le stampò un nuovo bacio sulla fronte. «Sempre se tua madre mi lascerà del tempo per la vita sociale, chiaro».

«Salutamela», sussurrò sfiorandogli la guancia con la punta delle dita.

Franky socchiuse gli occhi a quel tocco leggerissimo e avrebbe voluto restare lì così per sempre, ma la porta della camera di Evelyn che si apriva lo costrinse ad andarsene.
La ragazza lo sentì scomparire sotto le sue dita e si voltò di scatto quando udì suo padre entrare nella stanza.
Lui la guardò un po’ sorpreso e le disse: «Ah, sei sveglia!».

«Non si usa più bussare?!», berciò lei. Aveva interrotto un momento bellissimo con Franky e questo l’aveva inviperita, anche se, poverino…

«Ma io ho bussato!», ribatté suo padre, gli occhi sgranati dalla sorpresa.

«Davvero?», balbettò, arrossendo. Aveva sentito l’angelo così vicino, così reale… Tanto che si era completamente scordata del resto del mondo, se non dell’universo.

«Sì!». Si portò le braccia strette al petto, fingendosi offeso, ma durò poco perché tre secondi dopo le sorrise e la raggiunse sul terrazzo.

«Scusa, mi dispiace», sussurrò lei, abbassando il capo.

«Non fa niente tesoro», la rassicurò e la strinse in un abbraccio. «Che ci facevi qui fuori?».

«Mi assicuravo che… ehm… non avessero sbagliato le previsioni», arrancò.

Bill sollevò lo sguardo verso il cielo e si fece ombra sugli occhi con un braccio. «Visto? Te l’avevo detto che stamattina ci sarebbe stato il sole».

«Già», sorrise, portando anche lei lo sguardo verso l’alto.
Anche se io ho visto il sole anche questa notte…


 

***

 

Avevano parlato quasi per tutta la notte. Evelyn aveva davvero una fonte inesauribile di domande e di curiosità sulla storia fra lui e sua madre e su quella che era nata successivamente fra Zoe e suo padre. Aveva voluto conoscere talmente tante cose in una sera che le era venuto mal di testa, ma non gliel’aveva detto.

Franky le stava ancora raccontando di quando aveva capito che Bill si era preso una cotta per Zoe, quando lei si era addormentata. L’aveva guardata per diversi istanti senza nemmeno respirare, rapito dalla sua bellezza semplice. Poi aveva fatto per alzarsi, ma lei gli aveva preso una mano e l’aveva stretta nella sua, avvicinandola al proprio viso. Aveva mugugnato qualcosa e Franky aveva letto nei suoi pensieri che non voleva che se andasse quella notte. E come avrebbe potuto rifiutare? Si era risistemato al suo fianco e l’aveva accolta fra le sue ali.

Non aveva quasi chiuso occhio quella notte, troppo occupato a sfiorarle i capelli con una mano e ad accarezzarla con lo sguardo.

Però era anche riuscito a pensare, nel frattempo. A dirla tutta aveva pensato tanto, forse troppo. Perché quando iniziava a fare i suoi ragionamenti non riusciva più a fermarsi. Perché riusciva a ragionare solo quando non vedeva Evelyn o, almeno, i suoi occhi, e non sentiva la sua voce né i suoi pensieri. Lei aveva quello strano effetto su di lui, un effetto che avrebbe dovuto preoccuparlo moltissimo: riusciva a fargli staccare la spina, lo rendeva un automa che era solo in grado di fare ciò che gli andava di fare e che lo rendeva felice. Felicissimo.
Beh, nulla di traumatico se fosse stato un ragazzo normale. Anzi, sarebbe stato fortunato. Ma lui era un angelo, non era più vivo! E le cose in questo caso erano un tantino diverse.
Non poteva permettersi di innamorarsi di lei. Soprattutto non poteva permettersi che lei si innamorasse di lui perché sapeva che avrebbe solo sofferto. Lui infondo era abituato alle tragedie, se la sarebbe cavata. Ma Evelyn? Solo immaginare che potesse star male a causa sua gli squarciava il petto.
Però sapeva che ormai era troppo tardi, sapeva che lui aveva già ceduto e che avrebbe ceduto mille e mille volte ancora; sapeva che avrebbe fatto sempre lo stesso errore, anche se avesse lottato con tutte le sue forze, anche se avesse tentato di piazzare dei paletti fra loro, anche se avesse fatto in modo che nessuno dei due si affezionasse ancora di più all’altro. Anche se quella notte si fosse messo addosso la maschera da intelligente e le avesse detto che non poteva restare con lei.

Lei mi rende deficiente.
Avrebbe dovuto dirglielo, era curioso di sapere che cosa gli avrebbe risposto.

«Vuole stare lì davanti ancora per molto?».

Franky scosse il capo per riprendersi e si voltò: l’infermiera con cui aveva sempre i battibecchi era ferma dietro di lui, con i suoi occhialetti sul naso, e spingeva un carrello dei medicinali.

«No», bofonchiò l’angelo. «Comunque, buongiorno anche a lei».

«Non è un buongiorno per entrambi, è inutile dirlo!».

Riprese fra le mani il manico del proprio carrello e si allontanò nel corridoio. Franky scosse ancora il capo e si decise ad aprire la porta, davanti alla quale era rimasto per cinque minuti buoni.

«Franky!», esclamò Zoe appena lo vide, mettendosi seduta meglio sul letto.

L’angelo alzò una mano in segno di saluto e abbozzò un sorriso. Era già pronto psicologicamente per affrontare tutte le domande con cui lo avrebbe tempestato. Ormai ci stava facendo l’abitudine, fra madre e figlia.
Andò alla finestra che dava sul giardino dell’ospedale e ci si appoggiò con una spalla per poter guardare fuori mentre parlava con lei.

«Sei tornato adesso?», fu la prima domanda della sua protetta.

«Sì, qualche minuto fa», rispose.

«Ciò vuol dire che sei stato con Angela per tutta la notte!», squittì e si portò le mani di fronte al viso, con gli occhi lucidi dall’emozione. Non pensava che fosse successo qualcosa, conoscendo Franky sapeva che lui non era uno che correva, ma era anche vero che erano passati tanti anni…

«Sì», si strinse nelle spalle, mordendosi il sorriso che gli nasceva spontaneamente ripensando alla notte appena trascorsa accanto ad Evelyn. «Ma non è successo niente, sia chiaro».

«Infatti non lo pensavo», borbottò. «Che avete fatto? Dove siete andati? Vi siete detti qualcosa di smielato?».

Lui ridacchiò e posò la tempia al vetro freddo, cosicché il sole potesse baciargli il viso. «Abbiamo parlato tanto», rispose a bassa voce, come se raccontare quella notte potesse rovinarne la bellezza. «Siamo stati a casa sua e poi lei si è addormentata… l’ho guardata dormire».

«Oh, Franky…», mormorò. “Sei proprio cotto come una pera…”

Così pare pensò, sospirando, ma non le permise di ascoltare. «A proposito, ti saluta».

«Cosa? Davvero?».

«Sì», sorrise. «Qualche volta le ho parlato di te e niente, mi ha detto di salutarti».

«Ricambia il saluto, ti prego».

Franky sorrise. «Sarà fatto».

 

***

 

«Sicura di non voler mangiare niente?», le domandò suo padre per la decima volta. Evelyn dissentì ancora, sorridendo.

«Mi sono svegliata tardi, non ho molta fame. Ora smettila di preoccuparti e portami da Anja, sono già in ritardo».

Bill la squadrò da capo a piedi, sollevando il sopracciglio. «Ma sei in tuta».

«E allora? Non mi piace essere appariscente, sto comoda così».

«Chissà da chi avrai preso», rimuginò ancora, ma Evelyn lo spinse fuori di casa trattenendo le risate.

Salirono in auto e ascoltarono un paio di canzoni alla radio, il tempo necessario ad arrivare alla villetta della sua amica. Anja, con i capelli castani raccolti sulla nuca, era seduta in veranda e per questo li raggiunse subito, senza nemmeno dargli il tempo di citofonare.

«Ciao!», salutò emozionata, saltellando. «Oddio quanto tempo che è passato!». Aprì il cancello e si gettò letteralmente fra le braccia di Evelyn, che traballò.

Non era stato l’abbraccio in sé a sorprenderla, ma l’affetto che aveva sentito avvolgerla e riscaldarla dall’interno. Si era dimenticata cosa volesse dire essere abbracciata da qualcuno che non fosse suo padre, un componente stretto della sua famiglia o un angelo e si commosse pensando che, anche se non si erano sentite né viste per tantissimo tempo, Anja le volesse ancora così bene.

«Mi sei mancata», le sussurrò e ad Evelyn si strinse il cuore.

«Anche tu mi sei mancata», tremolò e sciolse l’abbraccio per guardarla negli occhi scuri, che le piacevano tantissimo forse perché erano proprio l’opposto dei suoi.

«Salve signor Kaulitz!», Anja si rivolse quella volta al padre di Evelyn, sorridendo. «La trovo in splendida forma!».

«Grazie», rispose passandosi una mano sul collo. «Tu invece sei diventata ancora più alta. Vuoi per caso superarmi?».

«Oh no, non si preoccupi», ridacchiò.

«Come andate al centro commerciale?».

«Ahm…», gettò uno sguardo a Evelyn, qualche centimetro più in basso. «Potremmo fare una passeggiata, tanto non è molto lontano. Sempre se tu sei d’accordo».

«Nessun problema», annuì la bionda.

«Okay, allora io… vi lascio». Bill si voltò e fece il giro dell’auto per rientrarci, ma all’ultimo disse ancora: «Se avete bisogno che vi venga a prendere chiamate, eh».

«Oh, non si disturbi», disse Anja sventolando una mano. «Posso chiamare mia madre, non è necessario che…».

«Giusto, papà», aggiunse Evelyn. «Mica dovevi andare da Gustav?».

«In realtà, io…», cercò di obbiettare, con le sopracciglia aggrottate, ma il sorriso che gli fece sua figlia, uno di quelli a doppia faccia che da una parte rivelavano tutta la gioia e da una parte tutta la tristezza, lo fece ammutolire.

«Ci vediamo dopo, divertitevi», soffiò a testa bassa e si mise seduto al volante.

Evelyn agitò una mano e lo guardò allontanarsi, poi si girò verso Anja, che la fissava, e la abbracciò di nuovo.

 

***

 

«Fratellone!», gridò Pamela e lui sobbalzò, uscendo proprio in quel momento dalla cucina.

«Che cosa vuoi?», sospirò rassegnato. Tanto sapeva che si sarebbe lasciato convincere dalla sua adorabile sorellina, inutile che cercasse di opporsi ad ogni suo volere.

«Mi accompagni al centro commerciale?», sfarfallò le ciglia.

«Che ci devi andare a fare ancora al centro commerciale? Ci sei stata pure l’altro ieri!». Forse Pamela ci viveva. Se avesse potuto l’avrebbe fatto, sicuramente.

«Non ho nulla da mettermi per la festa di stasera! E tu mi aiuterai a scegliere qualcosa di bello, va bene?».

«Perché, posso dirti di no?».

«Assolutamente no!», sogghignò e corse su per le scale due a due.

«Come immaginavo», borbottò.

 

***

 

«Per quanto tempo dovrai tenere il gesso?», le chiese Anja.

Stava guardando diverse magliette su uno scaffale, ma sorrideva. Evelyn era rimasta molte volte incantata a guardare quel sorriso semplice. Perché lei non ci riusciva? A Anja veniva quasi naturale sorridere, lei invece non sorrideva mai per qualcosa che non la facesse sorridere davvero.

«Oh», si riscosse, notando lo sguardo acceso della sua amica addosso. «Per almeno tre settimane ancora».

Sfiorò il gesso sul suo braccio e rabbrividì al ricordo di quell’incidente assurdo, nel quale aveva rischiato di perdere la vita assieme a suo padre e a sua madre. Era stato un miracolo a salvarli tutti e in quel preciso istante realizzò che quel miracolo doveva avere per forza un nome: Franky. In quell’occasione non l’aveva visto, ma doveva essere stato proprio lui ad aiutarli, a proteggere sua madre e a fare di tutto perché non abbandonasse lei e suo padre.

Sentì la mano di Anja posarsi sulla sua spalla e alzò il viso per poterla guardare negli occhi.

«Mi dispiace tanto», le disse, veramente addolorata. «Appena ho saputo dell’incidente ho pensato che avrei potuto perderti per sempre e ho pianto come una cretina…».

«Ma sono ancora qui», mormorò Evelyn e l’abbracciò, posando il viso contro la sua spalla.

Anja tirò su col naso e abbozzò un sorriso, accarezzandole i capelli. «Okay, basta, se no mi metto sul serio a piangere», ridacchiò. «Devo provare un po’ di roba», le mostrò due paia di jeans, tre magliette e una felpa. «Tu non hai visto niente che ti piace?».

«Ahm… no», scosse il capo.

«Meglio così, avrai tutti e due gli occhi per la sottoscritta!», esultò e la trascinò fino ai camerini.

Nello stesso istante, una ragazza dai capelli rossicci entrò nel negozio accompagnata da un ragazzo piuttosto scocciato.

 

***

 

Bill aveva girato metà Amburgo, senza sapere che fare né dove andare. Sua figlia l’aveva spronato più volte ad andare a trovare Gustav o Georg, a non rimanere da solo in casa, e apprezzava molto che si preoccupasse per lui, ma non aveva voglia di vedere nessuno. Aveva anche accarezzato l’idea di andare in studio, ma nemmeno cantare lo avrebbe tirato su di morale. Non quella volta.
Si trovò quindi a parcheggiare di fronte all’ospedale. Quel giorno non c’erano giornalisti né fotografi e pensò che era meglio così.

Entrò nella struttura e salutò l’infermiera che stava dietro il bancone, poi si avviò per i corridoi. Conosceva a memoria quella strada e percorrerla non gli faceva neppure tanto male, stava diventando un’abitudine… anche se avrebbe voluto non dover mettere più piede lì dentro. Voleva che la sua Zoe si risvegliasse e ritornasse a casa.

Entrò nella sua stanza e, ancora appoggiato con la schiena alla porta, rimase ad osservare il suo corpo inerme. Era bellissima, anche in quelle circostanze.
Si mise seduto al suo fianco e le accarezzò il dorso della mano, senza distogliere lo sguardo dal suo viso.

«Ciao amore», le sussurrò e gli occhi iniziarono a pizzicargli. «Spero che tu stia bene, lassù. Perché io qui… sto da schifo».

Posò il capo sul suo ventre e trattenne le lacrime, con immensa fatica. Lo sollevò solo quando sentì il suo cellulare vibrare nella tasca dei jeans. Un messaggio di Gustav, che lo invitava a passare da lui se non aveva nulla da fare.
Oltre che per sua figlia, lo avrebbe fatto anche per se stesso. Forse in compagnia dell’amico avrebbe dimenticato per un po’ il dolore che gli attanagliava il petto.

 

***

 

«Questa è carina, no?», gli domandò Pamela, posandosi addosso una maglietta larga a stampe colorate.

«Sì», annuì distrattamente il fratello.

«Ma non l’hai nemmeno guardata!», si impuntò.

«Deve piacere a te, non a me!».

Pamela sbuffò. «Ancora mi chiedo perché ogni volta spero che portarti con me non sia una perdita di tempo».

«Già, me lo chiedo anche io», borbottò prima di essere trascinato di peso verso i camerini.

Pamela si chiuse la tendina gialla alle spalle e Martin si passò una mano sulla testa: avrebbe preferito passare il suo tempo sul riassunto incompleto, piuttosto!

Si accorse della ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri che lo fissava solo quando si gettò un’occhiata intorno per trovare un posto dove potesse sedersi e aspettare che sua sorella avesse finito. Con sorpresa si rese conto che era la stessa che aveva aiutato qualche giorno prima e rivalutò la scelta di Pamela di averlo portato con sé. Non ne sapeva il motivo esatto, ma era felice di rivederla.

«Ciao», la salutò impacciato, sollevando una mano.

«Ciao», ricambiò la bionda, sorpresa più di lui. «Tu… tu sei quello che ci ha aiutati a scampare dall’assalto dei giornalisti, vero?».

Si sentì infinitamente stupido. «Sì, io in persona. Mi chiamo Martin». Le porse una mano e lei la strinse, anche se un po’ titubante.

«Evelyn».

«Che bel nome», la elogiò con un sorriso e si mise seduto al suo fianco. «Che strano trovarci qui, non trovi?».

«Mmh, sì, in effetti».

Il ragazzo notò che al posto del sorriso aveva una smorfia, come se avesse paura di stargli così vicino, ma nonostante tutto cercava sempre di guardarlo negli occhi per vedere chissà cosa.

«Perché… perché l’hai fatto?», gli chiese dopo un po’ di imbarazzante silenzio, arricciando il naso in un modo che lui trovò adorabile.

«Io, in realtà…», si passò una mano sul collo, arrossendo. «Non ne ho la minima idea. Forse perché era giusto così», scrollò le spalle, ma si affrettò ad aggiungere, con le mani davanti al petto: «Non l’ho fatto per mettermi in mostra o perché volevo avvicinarmi a voi, non me ne importa niente se tuo padre o chi che sia è famoso, io… l’ho fatto e basta».

Evelyn accennò un sorriso. Era sicura che quel giorno fosse stato Franky a spingerlo a comportarsi in quel modo, una volta entrato nel suo corpo, come era sicura che in quel momento l’angelo non fosse nelle vicinanze. Sentiva che Martin era sincero e che non aveva nessun doppio fine, ma il suo carattere riservato e un po’ schivo l’aveva fatta rimanere in allerta, perché non poteva mai sapere se le persone che le stavano accanto erano sincere oppure false. In quel caso, però, credeva di potersi fidare e si rilassò.

«Grazie», gli disse e Martin boccheggiò, poi arrossì facendola sorridere in modo più aperto e naturale.

«Non c’è di che», mormorò lui, abbassando lo sguardo. Si maledisse per la figura che aveva fatto, ma non aveva potuto non comportarsi diversamente di fronte a quel sorriso così bello.

«Evelyn, che ne dici? A me non piacciono molto questi jeans…», disse all’improvviso Anja, uscendo dal camerino e guardando l’amica. Rimase un pochino sorpresa vedendola in compagnia di un ragazzo che non aveva mai visto prima, ma sorrise.

Le avrebbe chiesto chi era, se non fosse stato per una ragazza di qualche anno più piccola di lei che era appena uscita dal camerino e si era rivolta al ragazzo, interrompendola sul nascere: «Martin, come sto? Questa maglietta non mi convince».

La ragazzina si accorse di Evelyn, seduta accanto al fratello, e rimase per un attimo interdetta, poi sorrise e notò anche la ragazza al suo fianco, che in confronto a lei era altissima.

«Oddio quei jeans! Sono strabelli!», squittì, ammirandoli con gli occhi brillanti.

«E quella maglietta è stupenda!», rispose Anja, indicandola.

Entrambe si guardarono e si scambiarono uno sguardo d’intesa. Rientrarono nei camerini e si scambiarono gli indumenti, sotto gli occhi increduli di Evelyn e Martin, che però poi si lasciarono andare alle risate.

Passarono tutto il pomeriggio insieme e mentre Anja e Pamela si fermavano in ogni negozio per provarsi qualsiasi tipo di capi d’abbigliamento, lei e Martin si facevano compagnia. Evelyn si era trovata subito bene con lui, la faceva sentire a suo agio e il fatto che fosse riuscita a parlare così tanto e con tranquillità con un mezzo sconosciuto l’aveva sorpresa piacevolmente. Si erano conosciuti meglio e quando era arrivata l’ora di separarsi aveva fatto un piccolo resoconto della giornata e si era detta che si era divertita tanto. Si erano pure scambiati i numeri di cellulare!

Martin era davvero un ragazzo dolcissimo e gliel’aveva dimostrato quando, nel salutarla, le aveva chiesto se qualche volta le andava di uscire con lui: era arrossito e aveva balbettato per la maggior parte del tempo, tanto che Evelyn non aveva potuto dirgli di no.

Sarebbe uscita ancora anche con Pamela, assieme a Anja, ed era felice che nella sua vita stessero comparendo di nuovo degli amici vivi, come li aveva chiamati suo padre. Nonostante questo, però, quando Anja l’aveva accompagnata a casa e se n’era andata aveva subito pensato a Franky ed era andata in iperventilazione solo all’idea che presto lo avrebbe rivisto.

Chiuse la porta di casa con due mandate di chiave e si incamminò verso il salotto, dove trovò Coco, spaparanzato sul divano.

«Papà! Sono a casa!», gridò, mentre accarezzava il pelo del suo micio. Ma non udì alcuna risposta.

Perlustrò ogni angolo della casa, ma di suo padre nemmeno l’ombra. Si chiese dove si fosse cacciato senza nemmeno avvertirla e cercò di pensare positivo, dicendosi che magari era passato da Gustav o da Georg, come gli aveva detto, oppure era da zio Tom… ma per quanto si sforzasse non riusciva a non essere preoccupata per lui.

Si mise seduta all’isola della cucina e chiamò a casa di suo zio Tom. Rispose Linda, dopo due squilli.

«Ciao zia, sono Evelyn».

«Oh, ciao tesoro! Che piacere sentirti, come stai?».

«Bene, sto bene».

«Sicura? Sembri… preoccupata».

«Sì, in effetti un po’ lo sono. È quasi l’ora di cena e non ho trovato papà a casa, non so dove si sia cacciato… per caso è lì da voi?».

«No, mi dispiace tesoro, oggi non l’ho nemmeno sentito!».

«Ah. Okay, va bene. Allora, magari… provo a chiamare Georg».

«Non ti preoccupare troppo, tuo padre è grande, se la sa cavare!».

«Sì», abbozzò un sorriso nervoso. «Grazie comunque, buona serata».

Chiuse la chiamata e sfogliò l’agendina con tutti i numeri di telefono per trovare quello di casa Listing. Lo digitò frettolosamente, mordicchiandosi le unghie, e infatti lo sbagliò e dovette scusarsi con la vecchietta che le aveva risposto.
Stava per chiamare di nuovo, al numero giusto quella volta, quando udì il rumore delle chiavi che giravano nella toppa. Mollò giù il ricevitore e corse verso l’ingresso.

Bill aprì la porta e se la trovò subito davanti, con gli occhi spalancati e le mani sui fianchi.

«Tesoro, sei già a casa», esclamò sorpreso, tanto che non ebbe il tono di una domanda.

«Sì e tu mi hai fatto prendere un infarto! Potevi avvisarmi che stavi fuori, no?! A proposito, dove sei stato?».

Bill, scioccato, scosse il capo e rise. Evelyn spalancò la bocca, stupita da quella risata, ma si lasciò contagiare facilmente. Si era comportata esattamente come sua madre!

«È normale che una figlia si preoccupi così tanto per il proprio padre?», le domandò scherzosamente, togliendosi la giacca. «Sono andato da Gustav, proprio come mi hai detto tu. Scusa se non ti ho avvisato, ma credevo di tornare prima di te».

«E invece?», chiese curiosa lei, saltellandogli dietro. Improvvisamente tutta la preoccupazione le era scivolata addosso e le era tornato il buonumore. Era felice che suo padre avesse seguito il suo consiglio e che fosse uscito di casa per passare un po’ di tempo con i suoi amici.

«Invece sono stato da lui fino ad adesso». Le prese il viso fra le mani e le baciò la fronte. «Ho fatto bene, ora mi sento meglio. Grazie tesoro».

«Non devi ringraziarmi, io l’ho fatto con piacere. Sono contenta che tu ti senta meglio», sorrise. «Ma ho anche una fame da lupo, quindi vedi di cucinare qualcosa di buono».

«Ai suoi ordini!», rise. «Al centro commerciale non hai mangiato nulla?».

«No, però mi sono divertita tanto!», esclamò sedendosi su uno sgabello alto dell’isola, così da poter guardare suo padre e parlarci mentre preparava la cena. «Sai chi abbiamo incontrato?».

«Chi?».

«Il ragazzo che ci ha aiutati qualche giorno fa, all’ospedale! Si chiama Martin, era con sua sorella».

«Oh», disse sorpreso. «Vi siete conosciuti?».

«Sì! Penso ci rivedremo, qualche volta».

«Evelyn…», sospirò, ma lei lo interruppe subito.

«Non c’è di che temere, papà. È un tipo a posto, veramente. È simpatico ed è davvero carinissimo… sento che posso fidarmi».

«Sei sicura?».

«Sì, sono sicura», sorrise. «E poi credo che con noi ci saranno anche Anja e sua sorella. Quelle due sono diventate amiche per la pelle!».

Evelyn gli raccontò tutto il pomeriggio appena trascorso e lui non smise un attimo di sorridere. Era felice che lei si fosse divertita così tanto e che entrambi avessero passato una bella giornata. Si sentiva sereno forse per la prima vera volta dopo l’incidente, eccetto quando Zoe era venuta a trovarlo con Franky. A proposito di lui avrebbe voluto chiedere direttamente a lei le cose che gli aveva domandato Tom, ma non gli andava di interromperla nel bel mezzo suo racconto, così lasciò correre e guardò sua figlia con il cuore pieno di gioia.

 

***

 

Quella mattina era passato a salutare Zoe in ospedale, poi era andato al supermercato a cercare qualcosa con cui levare quegli odiosi – a detta di Linda – segni sul legno del povero mobile sempre preso di mira da Arthur e le sue macchinine. Aveva trovato una specie di gomma che andava passata sui segni e che sarebbe stata in grado di cancellarli magicamente.
Tutto felice era tornato a casa e l’aveva subito provata, ma non era successo niente, nulla. Si era solo sbriciolata la punta. Ora, nonostante fossero passate ore, si trovava ancora seduto di fronte al mobile.

Si grattò la testa e sbuffò, tornando a guardare le ammaccature sul mobile. Linda era in cucina e non l’aveva perso un attimo di vista, quella volta convinta più che mai a fargli fare quel lavoretto che rimandava da mesi. Era stato incastrato e non poteva proprio tirarsi indietro.

Il telefono squillò e fu sua moglie a rispondere. Origliò un po’ della conversazione, anche perché lei parlava sempre ad alta voce, e una volta conclusa la chiamata urlò: «Chi era?».

«Evelyn!», rispose, raggiungendolo in salotto e sedendosi sul divano.

«Che dice?».

«Che Bill è sparito», ridacchiò. «Era in pensiero».

«Come al solito», rise anche lui, scuotendo il capo. Era sicuro che avesse preso da suo padre, perché anche lui si agitava sempre per un nonnulla, esattamente come lui stesso.

«E tu, come sei messo?», gli domandò Linda. «Credi di rimanere lì impalato fino a stanotte?».

«Sai che non sono portato per queste cose! E tu me le fai fare sempre, non è giusto!», si imbronciò, stringendosi le braccia al petto.

«Povero piccolo», lo prese in girò affettuosamente la moglie, ma Tom sobbalzò perché aveva sentito anche un’altra voce pronunciare quelle parole, una voce che avrebbe riconosciuto fra un milione.
Alla sua sinistra, infatti, si trovava Franky, seduto a gambe incrociate, che sfarfallava le ciglia. Perché arrivava sempre nei momenti meno opportuni?!

“Lo fai apposta, ammettilo”, gli disse col pensiero.

L’angelo rise. «Oh sì, sempre. Godo nel metterti in difficoltà con le persone che non riescono a vedermi».

“Stronzo, sparisci”, berciò.

«È così che si trattano gli amici?!», esclamò offeso. «E io che ero passato a salutarti perché mi mancavi!».

«Torna dopo!», strillò.

Linda, ancora dietro di lui, si spaventò e sgranò leggermente gli occhi. «Che cosa?», gli chiese, sbigottita.

Tom lanciò un’occhiata infuocata nella direzione di Franky, che se la rideva, poi si voltò verso di lei con un sorrisino nervoso. «Ho detto… torna dopo! Così vedrai chi avrà la meglio fra me e questa gomma magica».

Linda annuì poco convinta. «Allora vado a chiamare Arthur, è quasi pronta la cena». Si alzò e si affrettò a raggiungere la camera del figlioletto.

Tom sospirò e si girò verso l’angelo, che aveva gli occhi lucidi dalle risate. «Se finisco in un ospedale psichiatrico per colpa tua, nulla mi impedirà di commettere un angelocidio. E ora dimmi, a che cosa devo la tua visita?».

«Te l’ho detto, era un po’ che non ci vedevamo e volevo salutarti».

«Davvero?», si voltò verso di lui, con il sopracciglio sollevato, anche se profondamente commosso. Franky annuì e scrollò le spalle prima di sorridergli e tirargli un pugnetto sulla spalla.

«Non sei più arrabbiato con me perché ti ho chiamato nonno Thomas, vero?», gli chiese sogghignando.

«Non mi provocare», gli consigliò, con un sorriso sbilenco sulle labbra. «Non ho detto che ho abbandonato l’idea dell’angelocidio».

«Oh, sì, giusto», rise. «Che stai combinando?». Si sporse su di lui e guardò la scatola e la gomma bianca che teneva fra le mani.

«Cerco di cancellare questi segni», gli spiegò affranto. «Ma non ne vogliono sapere!».

Franky gli strappò la scatola dalle mani, tanto Linda e Arthur non erano ancora nei paraggi, e lesse le istruzioni. Sogghignò, perché l’aveva immaginato che il suo amico non lo avesse fatto.

«Credo che alle elementari ti abbiano insegnato a leggere», gli disse, porgendogli nuovamente la scatola. «Allora perché non lo fai mai? Devi bagnarla, se vuoi che funzioni», indicò la gomma.

Tom, scioccato, si alzò in tutta fretta e corse in cucina, la mise sotto l’acqua e stava per tornare in sala con la gomma che perdeva acqua da tutte le parti, quando Franky aggiunse, scuotendo il capo: «E devi strizzarla bene!».

Tom eseguì con un grugnito, poi raggiunse l’angelo e la passò sui segni. Un sorriso si allargò sul suo viso vedendoli scomparire magicamente.

«Franky, sei un genio!», lo elogiò con gli occhi brillanti.

«Bastava leggere le istruzioni», rispose con le sopracciglia aggrottate. «Comunque sono contento di esserti stato d’aiuto».

«Linda sarà a settimo cielo, vedrai! Ah, a proposito di cielo», si fece serio e si mise seduto composto al suo fianco, con le gambe incrociate. «Zoe come sta? Ho sentito che è venuta a trovare Bill, qualche giorno fa».

L’angelo annuì. «Ne aveva proprio bisogno, aveva i nervi a pezzi e vederlo e parlarci è stato curativo per lei, oltre al fatto che ora si sta mettendo d’impegno per tornare di sotto il prima possibile, anche se non è così facile».

«Quanto credi ci metterà ancora?».

«Ti manca?», sorrise.

«Beh, è ovvio che mi manchi…».

Franky gli avvolse le spalle con un braccio. «Tornerà presto, si sta davvero sforzando. Voi continuate a starle vicini qui, spronatela… vi sente da lassù».

«Sono andato a salutarla proprio stamattina», gli raccontò. «Avevo anche intenzione di passare da Bill e Evelyn, ma quando ho chiamato Bill mi ha detto che lei stava ancora dormendo e che il pomeriggio sarebbe uscita… Ah, già che ci siamo! Volevo chiederti una cosa».

Franky lo prevenì, leggendo nei suoi pensieri: voleva chiedergli di Evelyn, se si fossero mai parlati… Deglutì il nodo che gli si era formato in gola. Con lui non riusciva a mentire, ne era consapevole. Doveva raccontare anche a Tom la storia che aveva raccontato a Zoe per non mentirgli del tutto?

«Dimmi», balbettò, incerto.

«Evelyn mi ha raccontato che una volta vi siete incontrati, da soli, ma che non vi siete detti molto… Insomma, volevo sapere se avevate parlato di nuovo, dopo quell’occasione, se magari…».

«No», sbottò e fece un’immensa fatica a pronunciare quella sillaba. Tom se ne accorse e lo guardò intensamente negli occhi. Era nei guai fino al collo.

«Che mi nascondi, Franklin?».

«Nulla, ti ho solamente risposto!».

«E io non ti credo», incrociò le braccia al petto. «Perché non mi dici la verità e basta? È una cosa così losca?».

«Anche se ci avessi parlato ancora, che cosa cambierebbe?», mugugnò.

«Tutto cambierebbe! Dai, dimmelo!».

«Sì, forse ci ho parlato, ma di cose stupide!», arrancò. «Siamo… conoscenti. In questo momento ho tante altre cose per la testa».

«E quali sarebbero?».

«Zoe… Angela», tossicchiò. Se voleva tirarsi fuori da quel pasticcio doveva per forza raccontare di lei anche a lui, almeno lo avrebbe distratto e avrebbe insabbiato l’argomento “Evelyn”.

«Chi è Angela?», strabuzzò gli occhi.

«La mia nuova… fiamma?».

«Non ci credo, ti sei innamorato di un’altra ragazza?!». Era incredulo, ma felice. Aveva sempre voluto il meglio per Franky e da quando non aveva più avuto ciò che era sempre stato il meglio per lui, vale a dire Zoe, aveva sperato che si trovasse un’altra ragazza, alla sua portata.

«Adesso, non sono proprio innamorato», balbettò, rosso di vergogna.

«Oh mamma, sei cotto! Devi dirmi tutto di lei! Lo sa qualcun altro?».

«Zoe».

«Giusto, dovevo immaginarlo», ridacchiò. «E lei che ha detto?».

«Ha detto che… me lo merito, che è contenta per me…».

«Oddio, è così bello Franky! Voglio conoscerla!».

«E ha detto pure questo. Ma perché volete tutti conoscerla?! Non potete vederla! Cioè, Zoe potrebbe, ma che senso ha?!».

«Voglio conoscere la ragazza che ha fatto perdere la testa al mio migliore amico!», gli spiegò, estasiato.

Rimasero diversi istanti a guardarsi negli occhi, poi entrambi sentirono dei rumori provenire dal corridoio e capirono che Linda e Arthur stavano tornando.

«Meglio che vada», disse frettolosamente Franky.

«Okay, ma torna presto che finiamo di parlarne!», sussurrò Tom.

«Va bene», sbuffò con un mezzo sorriso. «Ah, sai che faceva mia mamma per proteggere i mobili quando giocavo con le macchinine? Hai presente quegli antispifferi per le porte, quei serpentelli di pezza? Li metteva contro il bordo del mobile, così anche se ci andavano a sbattere le macchine non si rovinava e non faceva nemmeno rumore», gli fece un occhiolino e alzò una mano in segno di saluto, poi sparì.

Tom, ancora con la bocca aperta, venne assalito alle spalle da un marmocchio di quattro anni, che gli aveva avvolto le braccia intorno al collo gridando: «Ti ho preso!». Il suo Arthur.

Si trovò subito a sorridere. «Peste, te la faccio vedere io ora!».
Si mise a giocare con lui ruggendo, come se fosse una lotta fra domatore e leone, mentre Linda si era avvicinata al mobile e si era piegata per vedere i segni che erano scomparsi.

«Tom, ci sei riuscito!», esclamò sorpresa.

«Certo, io sono un marito eccezionale!», sorrise spavaldo. «E mi è anche venuta un’idea pazzesca per risolvere del tutto il problema!». Grazie, Franky.

 

***

 

E volerai ogni istante, in ogni favola e poi
lentamente mi chiamerai
Tu distante, senza voce urlerai:
ogni istante

 

«Evelyn, mangia piano, o finirai per star male», le disse Bill per la seconda volta, sempre più sorpreso dal suo comportamento frettoloso. Aveva già mangiato un piatto di pasta e sotto il naso aveva il secondo, ma ci aveva messo meno di lui che era a malapena a metà della sua prima porzione.

«Hai qualcosa da fare?», le domandò ironicamente, sollevando il sopracciglio. Quello che non aveva previsto fu che lei prendesse quella domanda sul serio, tanto da rischiare di strozzarsi.

Le versò velocemente un po’ d’acqua nel bicchiere e lei lo svuotò in due secondi netti, poi lo guardò con gli occhi spalancati e respirò a fondo.

«Tutto bene?», le chiese.

«Sì», soffiò. «E no, non ho assolutamente nulla da fare».

«E allora perché mangi con così tanta foga? Il cibo non scappa dal piatto!».

«Scusami, è che… è veramente squisita. L’hai preparata in maniera diversa?».

Mentre suo padre ci rifletteva e mugugnava fra sé: “Forse l’ho salata di meno o forse l’ho fatta cuocere un pochino di più”, si mise in bocca ciò che c’era ancora nel piatto. Stava ancora masticando, quando si alzò e si avviò verso il salotto.

«Comunque era buonissima», disse con un sospiro e si dileguò senza guardarsi indietro.

Corse su per le scale e si chiuse la porta della sua camera alle spalle. Il suo sguardo vagò per la stanza, alla ricerca del suo viso, dei suoi occhi, del suo sorriso, ma non lo scorse in nessun angolo della stanza. Non si diede per vinta e uscì nel grande terrazzo, dicendosi che l’avrebbe sicuramente trovato lì, ma dovette ricredersi: ancora non c’era.
Un fondo di delusione ombreggiò i suoi occhi e si lasciò cadere sullo sdraio su cui di solito si sdraiava a prendere il sole nei pomeriggi d’estate. Una volta si era unita a lei anche sua madre, ma dopo dieci minuti si era stancata e aveva detto: “Io vado a fare qualcosa, mi sto annoiando”, le aveva sorriso e le aveva baciato una guancia.

Alzò lo sguardo verso il cielo. Non si sarebbe arresa, lo avrebbe aspettato. In quel momento più che mai, avrebbe giurato di aver sentito un’eco d’eternità in quel pensiero.
Così chiuse gli occhi e senza nemmeno rendersene conto si appisolò lì, al freddo della sera. Non sapeva se aveva dormito per minuti oppure per ore, seppe solamente che fu qualcuno a svegliarla. Quel qualcuno l’aveva presa fra le braccia e con quel semplice gesto le aveva irradiato un calore intenso a partire dal centro del corpo, come se avesse appena trangugiato un’intera pentola di zuppa bollente. Era stato quello stesso calore a farle aprire gli occhi, con i quali aveva visto un sogno: Franky.

Lo guardò rapita, senza pensare a niente e l’intontimento dovuto al sonno l’aiutò. Aveva un sorriso appena accennato sulle labbra, ma era meglio di moltissimi sorrisi finti che aveva visto sin da quando era una bambina; la sua fronte era liscia, senza nemmeno un’increspatura, il che voleva dire che era sereno e nulla lo preoccupava; i suoi occhi erano ben aperti e luminosi alla luce della luna ed ebbe la possibilità di guardarli da ancora più vicino quando lui la posò sul letto. Fu inevitabile che i loro sguardi si incontrassero ed entrambi rimasero senza fiato, come se si fossero resi conto solo allora della presenza dell’altro.
Franky si affrettò a lasciarla andare, ma lei strinse saldamente le braccia intorno al suo collo e non gli permise di muoversi da quella posizione.

«No», mugugnò Evelyn, la voce ancora impastata di sonno.

«No cosa?», sussurrò l’angelo e la osservò incuriosito. Non riusciva a leggerle nella mente, i suoi pensieri erano ancora troppo offuscati dal sonno per essere chiari a qualcuno al di fuori della sua testa.

«Non voglio stare qui a dormire, non ho sonno», spiegò, ma si tradì sbadigliando.

Franky trattenne a stento una risata, arricciando le labbra. Evelyn si perse per un attimo su di esse, così sottili da sembrare trasparenti grazie anche alla sua evanescenza, e si chiese a cosa avrebbe associato il loro sapore, se le avesse assaggiate. Di sicuro a qualcosa di dolce.

«Visto che non hai assolutamente sonno, che cosa ti andrebbe di fare?», le chiese divertito, cercando di essere il più naturale possibile. Ma la posizione in cui l’aveva praticamente incastrato, con il suo corpo così a portata di mano, per non parlare del suo viso ad un palmo dal suo, non lo rendeva affatto a suo agio e gli faceva pensare cose su cui avrebbe rimuginato e rimuginato fino a farsi male.

«Voglio andare a fare una passeggiata», esclamò, facendogli perdere il filo dei suoi pensieri… illeciti.

«Una passeggiata? Tu sei pazza».

«No, impossibile», lo corresse ed entrambi sorrisero.

 

Franky non era certo che quello che stessero facendo fosse giusto, ma come d’abitudine non si era posto troppi problemi: aveva fatto ciò che il suo cuore gli diceva di fare e ci avrebbe fatto i conti più tardi.

Aveva fatto provare anche a lei l’esperienza del volo – l’unica che aveva avuto questa possibilità dopo Zoe – e l’aveva portata a qualche chilometro da casa, così da non essere troppo vicini ma nemmeno troppo lontani nel caso ci fosse stata l’urgenza di tornare indietro.
Era stato parecchio imbarazzante lasciarla andare dopo averla tenuta stretta al petto per non farla cadere, sentire il suo corpo scostarsi dal suo e le sue mani mollare la presa sulla sua schiena. Ma era bastato uno sguardo per dimenticare tutto.
Erano atterrati nel bel mezzo della campagna tedesca, fra campi coltivati e altri abbandonati temporaneamente.
Avevano camminato un po’, stando vicini quel tanto che bastava per sentire le loro mani sfiorarsi, e stranamente non avevano parlato molto. Non era da Evelyn, ma Franky non riusciva nemmeno a captare un possibile motivo per il quale si stesse comportando in quel modo tanto insolito.

Le accarezzò il viso con lo sguardo e la fermò all’improvviso, prendendole il polso con la mano. Lei lo guardò sorpresa, chiedendosi che cosa gli fosse preso, ma in un attimo tutti i suoi pensieri si offuscarono: non c’era altro che il suo sguardo.

«Qualcosa non va?», le domandò a bassa voce.

«No, perché?».

Sorrise sghembo. «Perché non mi tempesti di domande».

«Oh, per quello…», ridacchiò. «Sai, credo di averle esaurite».

«Non ci credo».

«Beh… non ci credere», si spostò un ciuffo di capelli dal viso con aria offesa e poi con un sorriso birichino si voltò ed iniziò a correre verso un campo di girasoli.

Franky rimase a guardarla per qualche secondo, sbigottito, ma non si tirò indietro nemmeno di fronte a quel gioco e iniziò ad inseguirla.

 

Notte che non vuole arrendersi
Una storia tende a ripetersi
Siamo ormai nascosti dentro due realtà
Corri che io non ti prenderò
Fingerò di farti vincere,
finché stanca il sole non ti sveglierà

 

La raggiunse e ridendo caddero sull’erba, nel corridoio che si era creato fra un campo di girasoli e un altro. I fiori, non trovando la loro fonte di vita, avevano le corolle rivolte verso il basso; sembravano quasi addormentati.

Franky sentiva il corpo caldo di Evelyn sussultare affianco al suo e per un attimo desiderò ardentemente che quel momento durasse per sempre, con la sua risata nei timpani e il suo profumo ad invaderlo, ma non era possibile, non lo sarebbe mai stato. Tutto prima o poi sarebbe finito.
Un velo di malinconia gli ombreggiò gli occhi e smise di ridere, come fece Evelyn poco dopo, con un sospiro. La sentì appoggiarsi con il capo al suo petto e d’istinto le avvolse un’ala intorno alla schiena, a mo’ di coperta. Fu un gesto del tutto naturale e Franky se ne accorse solo diversi minuti dopo di quanto quel contatto fosse intimo.

Rimasero un po’ in silenzio a guardare il cielo punteggiato di stelle, ognuno immerso nei propri pensieri, fino a quando non fu Evelyn a parlare, guardandolo di sottecchi.

«Forse una domanda a cui non ho ancora ricevuto una risposta c’è», esordì, attirando l’attenzione dell’angelo.

«Io la risposta te la stavo dando, ma tu ti sei addormentata», precisò, già a conoscenza di ciò che voleva sapere.

«Non è colpa mia se ero stanca!».

Franky sorrise. «Vuoi che ti risponda, dunque. Beh… In realtà non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che tuo padre si era innamorato di Zoe; ho notato tante piccole cose col passare del tempo… Credo che Bill abbia sempre provato qualcosa per lei, ma che abbia sempre tenuto nascosti i suoi sentimenti perché c’ero io».

«Sul serio?», balbettò con gli occhi lucidi, un po’ per la stanchezza e un po’ per il freddo. «E tu non ti sei… arrabbiato? Intendo… quando hai capito che lui aveva sempre provato qualcosa per mamma alle tue spalle».

«No», ridacchiò. «Non mi sono arrabbiato nel vero senso del termine, forse mi sono sentito un po’ infastidito, ma ho ammirato molto ciò che ha fatto tuo padre: non è facile rinunciare alle persone a cui si tiene e lui l’ha fatto per me. Okay, sapeva che sarei morto e che non avrebbe dovuto aspettare per sempre per provarci con lei, ma ho apprezzato il fatto che mi abbia lasciato vivere gli ultimi attimi con lei senza farmi capire che anche lui provava qualcosa per Zoe».

«E quando ormai era palese e lui ci ha provato, come ti sei sentito?», gli domandò ancora, cambiando posizione fra le sue braccia e le sue ali, in modo tale da poterlo guardare meglio in viso. «Eri geloso?».

Franky sospirò amaramente, annuendo con il capo. «È stato difficile lasciarla andare, dirmi: “Il tuo tempo con lei è finito, devi girare pagina”. Ho fatto tanti sbagli durante il percorso, ma alla fine ce l’ho fatta e sono contento di averlo fatto, perché ora lei è felice e se lei è felice lo sono anche io e…». Si interruppe bruscamente e fissò titubante gli occhi di Evelyn, che con le sopracciglia aggrottate lo incitava a continuare. Deglutì il nodo enorme che gli si era formato in gola e concluse: «E se non l’avessi fatto tu non ci saresti stata».

Il cuore di Evelyn a quelle parole perse un battito. «Che cosa intendi dire?».

«Che sono veramente felice di averti al mio fianco… come amica», incespicò nel pronunciare quelle due ultime parole, perché non era vero che la considerava solo un amica. Poteva mentire a Zoe, a Tom, a lei, ma non a se stesso.

«Oh». Un’ombra di delusione si annidò nei suoi occhi azzurri. Non era la definizione che si aspettava, ma in effetti cos’altro poteva essere per lui, se non un’amica?
Sentiva le guance bollirle, ma adagiò comunque lo sguardo in quello di Franky. Accennò un timidissimo sorriso e cercò di pensare a tutto, tranne al fatto che quelle parole l’avevano in qualche modo ferita. «Anche io sono contenta di averti al mio fianco… come amico».

Gli avvolse il collo con le braccia e nascose il viso nell’incavo della sua spalla per non guardarlo negli occhi e bearsi almeno dell’illusione che lui fosse suo in quel modo, quello in cui non sarebbe mai stato.

 

***

 

Gli capitava raramente di svegliarsi nel cuore della notte, ma da quando Zoe non dormiva più al suo fianco accadeva spesso. Durante il sonno si girava nel letto e sentendo la parte di letto vuota e fredda apriva gli occhi di scatto e rizzava seduto sul letto chiedendosi dove fosse andata. Solo dopo alcuni secondi si ricordava che ora si trovava in un letto d’ospedale, avvolta dalla coltre spessa del coma.

Era successo anche quella notte e, dopo essersi massaggiato il viso stanco, aveva deciso di scendere al piano di sotto per farsi una camomilla, visto che non era più riuscito a prendere sonno.

Uscì dalla sua camera accompagnando dolcemente la porta alle sue spalle ed attraversò il corridoio per arrivare alle scale, ma una volta nei pressi della camera di Evelyn cambiò momentaneamente destinazione: quella sera non l’aveva più vista da quando aveva finito di cenare e aveva trovato il suo comportamento piuttosto strano, insolito, quindi voleva accertarsi che andasse tutto bene.
Forse perché credeva che quella sua piccola paranoia fosse del tutto infondata e per questo avrebbe visto la sua bimba addormentata sotto le coperte, ma quando vide il suo letto intatto rimase sconvolto ed iniziò ad andare nel panico.

Senza nemmeno pensarci fece retro font, corse in camera sua, prese il cellulare e chiamò suo gemello Tom.

«Avanti, rispondi!», gridò stridulo, come se potesse davvero sentirlo, e qualche istante dopo sentì la sua voce impastata di sonno pronunciare il suo nome.
«Evelyn è sparita!».

 

***

 

Franky, sempre collegato con una parte della mente a Bill, percepì un brivido percorrergli la schiena e capì che si era accorto dell’assenza di sua figlia.

«Che cosa c’è?», gli domandò la bionda, stesa ancora sul suo petto, con gli occhi socchiusi e la voce assonnata.

«Tuo padre. Devi tornare subito a casa. Forza, vieni». La prese saldamente fra le braccia, senza alcuna esitazione, e dopo una breve corsa spiccò il volo.

 

***

 

«Che cosa vuol dire che Evelyn è sparita?».

«Io, io mi sono svegliato, no? Stavo per scendere di sotto, poi sono andato in camera di Evelyn e nel suo letto non c’è! È sparita! È sparita, Tomi, e io non so dove possa essersi andata a cacciare! Stasera era strana, faceva tutto di fretta, non so perché, io… Tomi, ti prego aiutami, vieni qui!».

«Bill, calmati», rispose il fratello dall’altra parte del ricevitore, cercando di mostrarsi tranquillo.

«Come faccio a calmarmi!», strillò e Tom fu certo di aver perso l’udito all’orecchio destro.

«Bill, porca miseria!», urlò a bassa voce, per paura di svegliare Linda al suo fianco. «Adesso tranquillizzati e fai quello che ti dico, okay?».

«Okay», sospirò Bill, anche se tremava da capo a piedi e aveva i lucciconi sotto gli occhi.

«Vai di nuovo in camera sua».

«Tu rimani in linea, vero? Non mettere giù».

«Non metto giù, tranquillo. Dai, vai, io sono qui».

Bill, convinto dalle parole del gemello, deglutì ed iniziò a camminare lungo il corridoio. Aveva ancora il cellulare appoggiato all’orecchio e riusciva a sentire il respiro lento di Tom. Cercò di regolarizzare il proprio per farli andare in sincronia, ma era troppo agitato: era come se non riuscisse ad incanalare ossigeno a sufficienza per alimentare tutti gli organi vitali, talmente tanta era la paura che con un nodo gli ostruiva la gola.

«Okay, sono di fronte alla sua stanza», sussurrò.

«Bene», rispose Tom. «Guarda ancora dentro, sono sicuro che lei è lì e che hai visto male».

«Non mi sono sbagliato Tom, è impossibile! Il suo letto era…», lasciò in sospeso la frase perché, oltre a non avere più fiato, si era accorto che la sua bimba c’era: era nel suo letto, sotto le coperte, che dormiva beatamente.

«Bill? Bill, ci sei?», lo chiamò il gemello, ma lui non badò a rispondergli.

Come se la figura addormentata di sua figlia fosse un miraggio si avvicinò con cautela e le sfiorò la tempia con due dita, tracciò una linea leggera fino al mento e poi sorrise, dandosi dello stupido. Tutta la paura si dissolse pian piano e questo gli permise di respirare normalmente.

«Tom?», sussurrò.

«Allora, l’hai trovata?».

«Sì, è… è qui. Scusa se ti ho svegliato, solo che…».

«Non ti preoccupare». Bill fu certo che dall’altro capo del cellulare stesse sorridendo. «Torna a dormire fratellino, ci sentiamo domani».

«Va bene, buonanotte. E grazie».

«Figurati. ’Notte».

«’Notte».

Bill chiuse la chiamata e osservò ancora per qualche istante il viso sereno di Evelyn, poi si chinò su di lei e le baciò la fronte fresca mentre con una mano le accarezzava i lunghi capelli biondi depositati sul cuscino. Respirò il suo profumo ad occhi chiusi e fu quasi naturale scavalcarla per accovacciarsi al suo fianco, sotto le coperte già calde.

Le avvolse un braccio intorno alla vita, come per proteggerla, quando era conscio che quella notte era lui ad aver bisogno della sua protezione. I ruoli si erano invertiti ancora una volta: lui era diventato il bambino, lei l’adulta capace di rassicurarlo.

Nel dormiveglia si promise che dal giorno seguente le cose sarebbero cambiate, che si sarebbe mostrato per ciò che doveva essere, ovvero la figura forte, il padre capace di rassicurare e proteggere la figlia. Ma non fece in tempo a realizzare del tutto quei pensieri che una specie di nebbia, fitta e densa, gli offuscò la mente e fu costretto ad abbassare le palpebre, fattesi via via sempre più pesanti.

 

Franky tirò indietro la mano e guardò in religioso silenzio Bill ed Evelyn, addormentati abbracciati. Sorrise lievemente e poi si diresse di nuovo in terrazza, dove spiccò il volo verso il cielo scuro punteggiato da minuscole stelle. 

 

E volerai ogni istante, in ogni favola e poi
lentamente mi chiamerai
Tu distante, senza voce urlerai:
ogni istante

 

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Hello! :D
Come state, tutto bene? u_u Spero vivamente di sì :)

Allora, allora... ormai è palese che quei due sono cotti l'uno dell'altro xD Anzi, Franky ha persino detto che Evelyn lo rende "deficiente", perchè quando si tratta di lei non capisce più niente e... beh, per un angelo non è poi una cosa così positiva u.u Combinerà qualche guiao, secondo voi? 
L'angelo ha anche raccontato a Tom di "Angela" xD E ha avuto la stessa reazione di Zoe :)
E poi, Evelyn è uscita con Anja e hanno incontrato Martin, con sua sorella Pamela! :D Carini Evelyn e Martin, no? Ma lo sono di più lei e Franky *-*
Che teneri quando sono andati al campo di girasoli. Questo diventerà il loro luogo speciale e faranno ancora fughe di questo tipo ;)

La canzone che ho usato è Ogni istante, ancora dei Melody Fall *-* E ce n'è un'altra che devo citare, ossia One day, dei Trading Yesterday (altro gruppo che adoro e che mi ha dato moltissima ispirazione *o*), dalla quale ho preso il titolo del capitolo! Ah, come farei senza le colonne sonore xD

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo - in particolar modo _Nat_91 che mi ha davvero resa felice. Grazie di cuore <3
E anche chi ha letto soltanto, sperando sempre in una partecipazione più attiva ;)
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 10
*** First day, like another ***


10. First day, like another

 

Le sveglie suonarono e due mani, così diverse e lontane ma che inaspettatamente si erano incontrate in segreto tante volte, si sollevarono e le spensero nello stesso istante.

 

Franky fece l’ennesima X rossa sul calendario e sospirò appoggiando la fronte contro la parete.

Un mese e mezzo. Era passato un mese e mezzo esatto dall’incidente a causa del quale la sua esistenza era stata stravolta e non sapeva dire con certezza se quelle settimane fossero passate lentamente o velocemente.
C’erano stati giorni che erano sembrati infiniti, altri che erano passati senza che nemmeno se ne accorgesse. Se proprio voleva fare il pignolo, poteva dire che il tempo passato al fianco di Zoe, ad aspettare che riuscisse a ricongiungersi con il proprio corpo, ad uscire dal coma, e a monitorare tutti i suoi miglioramenti e peggioramenti, era stato quello trascorso in maniera più lenta; il tempo passato con Evelyn, invece… scappava, era sempre troppo poco e ogni volta che si ritrovava solo nel suo appartamento la sua razionalità gli diceva che era meglio così, il suo cuore che, no, non era stato abbastanza per quella giornata. Era un continuo conflitto ormai e ci stava persino prendendo l’abitudine: non faceva più caso ai suoi terribili sbalzi d’umore e anche Zoe se n’era accorta e aveva imparato a conviverci, solo che lei credeva che fossero dovuti a causa della sua situazione e della nuova “fiamma” che lei continuava a chiamare Angela.

Franky chiuse gli occhi e riuscì a sentire sulla pelle tutto ciò che stava sentendo Evelyn. Con il passare del tempo il loro legame era diventato sempre più forte, in ogni senso.
Erano cascati entrambi in un vortice da cui non riuscivano e non sarebbero mai riusciti ad uscire: più cercavano di stare lontani più si avvicinavano, più tempo stavano insieme più ne volevano. Qualsiasi sforzo di separarsi sarebbe stato inutile e l’angelo ne era terrorizzato.

Percepì che quello sarebbe stato il giorno del suo ritorno a scuola dopo il periodo di convalescenza che si era presa e che era già in ritardo. Interruppe il flusso di quella visione quando capì che stava per infilarsi nella doccia.

Con il viso rosso dall’imbarazzo e le labbra arricciate in un sorriso si scostò dalla parete e si passò una mano fra i capelli ancora leggermente umidi. Lui la doccia se l’era già fatta da un pezzo e al contrario di Evelyn gli si presentava una giornata priva di impegni significativi. Non doveva nemmeno andare a scuola quella sera, quindi avrebbe dovuto trovarsi qualcosa da fare. Anche se come al solito avrebbe deciso di andare da lei.

Ma prima di pensare a quella sera doveva pensare a quella mattina. Optò per fare un salto all’ospedale per salutare Zoe e per il momento quella era l’unica certezza che possedeva.

 

***

 

«Evelyn muoviti, è già pronta la colazione!», gridò Bill sporgendosi fuori dalla cucina.

Raggiunse l’isola di marmo bianco scuotendo il capo e si mise seduto su uno degli sgabelli alti. Si portò la tazza di thè caldo alle labbra e sentì i passi di sua figlia sulle scale.
La ragazza entrò nella stanza con un leggero affanno e con la camicetta rossa che aveva deciso di indossare ancora mezza sbottonata.

«Merda», biascicò fra i denti, accorgendosi che aveva sbagliato ad infilare un bottone e quindi era tutto da rifare. «Per quale motivo mi sono messa in testa di mettermi la camicia?!».

«Tesoro, rilassati», le disse Bill con un sorriso, anche se appena accennato. «Non sei così in ritardo e nel caso posso accompagnarti io a scuola».

«Avevo detto ad Anja che avrei fatto un pezzo di strada con lei!».

«Beh…».

«Porca miseria!», farfugliò ancora, interrompendo suo padre, e lasciò perdere i bottoni: dopo aver fatto colazione sarebbe corsa di sopra e si sarebbe infilata una maglietta.

Si mise seduta al tavolo e bevve tutto d’un fiato la sua tazza di latte, poi prese una brioche confezionata dalla scatola e fece il giro del tavolo per dare un bacio a suo padre.

«Ci vediamo dopo», lo salutò, già in direzione delle scale.

«Okay, buona giornata», le rispose incrociando le braccia sul tavolo. Cercò di stiracchiare un sorriso, ma il tentativo fallì miseramente.

Evelyn, ancora ferma sulla soglia, si chiese perché quelle settimane fossero passate così in fretta, perché proprio quel giorno doveva tornare a scuola, perché sua madre non si fosse ancora svegliata, perché non fosse lì ad augurarle di trascorrere una bella giornata e a porgerle la merenda di metà mattina con quel sorriso che amava sulle labbra.
Capì che suo padre non era riuscito a fare ciò che solitamente faceva sua madre, non era stato in grado di “sostituirla” in quel compito, e non gliene fece una colpa.

«Ciao», soffiò e si scompigliò la frangetta che si era fatta crescere, in modo tale da non fargli notare i suoi occhi lucidi.

 

***

 

«Guarda chi si vede», disse Zoe a mo’ di saluto, senza abbassare la rivista che teneva aperta di fronte al viso.

«Buongiorno anche a te. Tutto bene, grazie, e tu?», rispose l’angelo chiudendosi la porta alle spalle.

La donna lanciò la rivista sulla sedia accanto al letto e lo guardò truce, nonostante stesse piangendo. «Una merda ti va bene come risposta?», gracchiò. «Voglio tornare a casa».

Franky si strinse il collo fra le spalle ed infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. Il suo sguardo si piantò sul pavimento piastrellato e i suoi piedi si mossero a passi incerti verso il bordo del letto.

«Anche io voglio che tu torni a casa», le rispose in tono piatto. «Darei la mia vita se questo servisse a farti tornare a vivere».

«Perché ci mette così tanto? Perché il mio corpo non è ancora pronto ad accettarmi?». Zoe non si aspettava alcuna risposta, poiché erano domande che gli aveva già fatto milioni di volte. «Mi manca Bill, mi manca la mia piccola… Per caso l’hai vista?».

L’angelo si irrigidì un pochino, ma il suo sguardo rimase neutro ed ebbe la forza di guardarla in viso. Allungò una mano e le sfiorò la guancia sinistra, asciugò l’ennesima lacrima che stava scivolando verso il suo mento ed accennò un sorriso.

«Sì, l’ho vista un paio di volte», le sussurrò avvicinandosi al suo viso, come se stesse per rivelarle un segreto. «Ha tolto il gesso al braccio e se non sbaglio oggi dovrebbe tornare a scuola».

«Davvero?». Tirò su col naso e si asciugò l’altra guancia con il dorso della mano, senza schiodare gli occhi azzurri da quelli verdi di Franky. «Io dovrei essere con lei, ora… Spero che Bill le abbia dato la merenda».

Lui trattenne una risata e le posò un bacio sulla fronte tiepida. Poi si alzò e si diresse verso la porta.

«Dove vai?», gli domandò ancora Zoe.

«Vado a fare un giro», le rispose. «E torno all’ora di pranzo», la prevenì con un sopracciglio inarcato.

Lei sorrise. «Franky?».

«Uhm?».

«Spero tu stia pensando alla mia proposta».

Angelo custode di Evelyn… Il cuore di Franky sussultò. «Ci sto pensando, sì», mormorò. Fece per uscire definitivamente dalla camera d’ospedale, ma Zoe lo fermò ancora.

«Un’altra cosa».

Roteò gli occhi al cielo. «Dimmi».

«Ti voglio bene».

Quella volta invece dovette sgranarli, perché si aspettava di sentirsi dire qualcosa su Angela, o almeno quello era ciò che aveva pensato fino ad un secondo prima la sua protetta.
Si voltò verso di lei e vide un sorriso magnifico e un po’ birichino aleggiare sulle sue labbra, uno di quelli che non vedeva dai suoi sedici anni. Aveva capito che l’aveva sorpreso e quella doveva essere stata proprio la sua intenzione.

Franky ricambiò il sorriso. «Anche io ti voglio bene».

 

***

 

Evelyn uscì di casa e fece la strada per raggiungere la villetta di Anja di corsa. Era in un ritardo mostruoso e non si stupì più di tanto quando citofonò e la madre della sua amica le disse che se n’era già andata.
Tutti i pullman che fermavano nei pressi della sua scuola e che sarebbero riusciti a farla arrivare in orario li aveva già persi; il suo motorino… era l’opzione che aveva subito scartato; avrebbe voluto avere un paio di ali come quelle di Franky, ma siccome ne era sprovvista fece ciò che poteva fare: correre.

 

***

 

Franky si intrufolò in casa di Bill e Zoe e si diresse in cucina.

Evelyn era uscita da poco e Bill era in camera sua, che si stava preparando per andare in studio di registrazione, quindi aveva tutto il tempo necessario per riuscire a preparare la merenda da portare ad Evelyn, visto che aveva letto nei pensieri di Zoe cosa le dava solitamente e nei pensieri del cantante che non gliel’aveva preparata.

Si destreggiò fra gli armadietti, tirò fuori tutti gli ingredienti e le preparò un panino con il prosciutto cotto e il formaggio, assicurandosi che la fetta di formaggio fosse fra due di affettato.
Una volta pronto lo incartò in un po’ di stagnola e non fece in tempo a prendere una busta in cui metterlo a causa di Bill che aveva finito prima del previsto. Non riuscì nemmeno a mettere a posto il pane: per non essere scoperto fu costretto a dileguarsi immediatamente.

 

Bill entrò in cucina per bere un bicchiere di succo d’arancia e vide il sacchetto del pane aperto sul piano da lavoro della cucina.
Corrugò la fronte, confuso, ma poi sollevò le spalle incurante e lo rimise al suo posto.

 

***

 

Martin uscì di casa in perfetto orario e di buon umore, nonostante avesse davanti mezza giornata d’università e probabilmente buona parte del pomeriggio da passare sui libri.

Presto avrebbe dovuto affrontare un esame e per quanto gli scocciasse studiare così tanto, voleva superarlo. Non poteva fare altri ritardi, né trascurare lo studio o dedicarsi allo svago, anche se in quel periodo aveva pensato spesso ad Evelyn. Più volte aveva cercato il suo numero nella rubrica del suo cellulare, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiamarla.

Peggio per te, dovevi pensarci prima! Adesso bando alle ciance e vai! lo rimproverò la sua coscienza e Martin annuì con un sospiro. Non poteva fare altro, se voleva davvero superare l’esame.

Si sistemò lo zaino sulle spalle e montò sulla sua fidata bici, pronto ad affrontare la giornata che non aspettava di certo lui per iniziare. Giornata che non gli avrebbe mai anticipato ciò che gli aveva riservato…

 

***

 

Franky sapeva dove si trovasse la scuola di Evelyn e in quel momento sapeva pure dove si trovasse lei. Aveva calcolato il tempo che avrebbe impiegato per arrivare alla struttura e secondo le sue previsioni di quel passo sarebbe arrivata sicuramente in ritardo. Avrebbe voluto raggiungerla per farla arrivare in orario, ma anche se l’avesse fatto non avrebbe potuto prenderla in braccio, farla sparire magicamente dal marciapiede e portarla a scuola in volo. Era certo che lei sarebbe stata più che d’accordo se lo avesse fatto, ma era troppo rischioso: a quell’ora di mattina c’era parecchia gente in giro per le strade e qualcuno avrebbe potuto accorgersi della sua sparizione.

Stava ancora pensando a come fare, quando vide un ragazzo dall’aspetto familiare sfrecciare al suo fianco con la propria bici. Sbirciò nei suoi pensieri e realizzò che era lo stesso ragazzo a cui aveva preso in prestito il corpo per aiutare Bill, Tom ed Evelyn a scampare dall’assalto dei giornalisti. Inoltre lesse che aveva conosciuto Evelyn e che se n’era infatuato. In quel momento però non ci badò e sfruttò l’occasione. D’altronde quel poveretto di nome Martin era capitato proprio nel momento adatto…

 

Sollevò lo sguardo sul semaforo: era ancora arancione. Pedalò più velocemente per non doversi fermare al rosso, ma un brivido gli fece rizzare i peli delle braccia e le sue dita si strinsero sui freni appena in tempo. Un’auto infatti gli passò davanti e fu questione di pochi centimetri che non gli avesse portato via la ruota anteriore. E quello era niente, pensando che se non si fosse fermato in tempo sarebbe stato investito.

“Incosciente”, berciò la sua coscienza, ma la percepì con una voce diversa dal solito, come se… non fosse la sua fino in fondo.

Sentiva ancora il cuore scalpitargli in gola per ciò che aveva appena rischiato e non gli diede molta importanza, ma quando scattò il verde e invece di girare a destra il suo corpo lo fece andare dritto… a questo sì che diede importanza.

Che cavolo mi sta succedendo?! si disse preoccupato, mentre i suoi piedi continuavano a pedalare contro la sua volontà e le sue braccia non eseguivano quasi per nulla i suoi comandi.

Cercò di spiegarsi quello che stava accadendo e con il cuore in gola realizzò che stava provando la stessa sensazione che aveva provato il giorno in cui per la prima volta aveva incontrato Evelyn: il suo corpo era stato preso in possesso da qualcun altro ancora una volta!

Ehi tu, se mi senti… Lasciami stare, io devo andare all’università! gridò nella sua testa, sentendosi fra l’altro parecchio scemo.

“Mi dispiace amico, non ce l’ho con te, ma sei passato proprio nel momento adatto e… vedrai che mi ringrazierai”, gli rispose la strana voce, facendolo sobbalzare.

Oddio, ma allora non era solo una sensazione! Il mio corpo è davvero posseduto! pensò ancora, ma quella volta la voce non gli rispose, anche se avrebbe giurato di sentire l’eco di una leggera risata.

Più tranquillo – in modo molto relativo, – si lasciò guidare dall’essere che aveva preso in prestito il suo corpo e capì le sue parole solo quando vide Evelyn correre dall’altro lato della strada, probabilmente diretta a scuola. Certo, rischiava di arrivare ancora in ritardo all’università, ma non poteva dire che rivederla non gli facesse piacere.

«Ehi!», gridò ma era sicuro di non aver deciso lui di parlare.

Si accostò alla ragazza e la guardò con espressione sconcertata. O almeno credeva di avere quel tipo di espressione in faccia, perché quando per caso gettò l’occhio sulla vetrina del negozio alle sue spalle vide il proprio riflesso e si accorse che stava sorridendo tranquillo.

Evelyn, il viso arrossato e i muscoli che le dolevano per quella corsa fuori allenamento, lo guardò sorpresa. Avrebbe voluto chiedergli che cosa ci faceva da quelle parti, visto che l’università che frequentava era dall’altra parte della città, ma non aveva più fiato.

«Hai bisogno di un passaggio?», le chiese Martin, cioè l’essere che lo possedeva.

Il viso della bionda si illuminò alla comparsa di un sorriso. Annuì e Martin la fece sistemare di traverso sulla canna della bici.

«Non sarà molto comodo, ti avverto», disse, per la prima volta di sua spontanea volontà, imbarazzato.

«Non importa», sfiatò lei, aggrappandosi saldamente al manubrio. «Sempre meglio che correre».

Anche Martin sorrise. Non fu un sorriso all’altezza di quello che si era visto addosso in quel riflesso, ma perlomeno era suo.

Portò le mani sul manubrio ed iniziò a pedalare, rinvigorito da un’energia che non conosceva. Non sapeva se c’entrava l’essere che aveva preso possesso del suo corpo, ma sapeva che proveniva dal cuore.
I capelli di Evelyn gli sfiorarono il viso e sentì il suo profumo dolce invadergli i polmoni. Sorrise incoscientemente e notò solo dopo vari minuti che lei lo stava guardando negli occhi con un’espressione quasi adorante.

«Grazie», gli disse socchiudendo gli occhi e lui fu felice di aver dato ascolto a quella sua seconda coscienza.

Raggiunsero la scuola di Evelyn e lei scese dal suo taxi di fortuna. Si massaggiò il sedere con una mano, ridacchiando.

«Te l’avevo detto che non sarebbe stato comodo!», la rimbeccò lui.

«Infatti non mi sto lamentando!», gli rispose. «Ti devo un favore, Martin». Si rivolse a lui nonostante si fosse accorta quasi subito, grazie al riflesso verde nei suoi occhi, che nel suo corpo c’era anche Franky. Sicuramente era stato lui a portarlo da lei per far sì che non arrivasse in ritardo il primo giorno del suo rientro a scuola. Franky l’avrebbe ringraziato più tardi.

«Uhm… che ne diresti di ricambiarmi il favore uno di questi giorni, magari… uscendo con me?», le domandò balbettando e con il viso rosso dall’imbarazzo. Martin sentì una sgradevole sensazione, come se fosse geloso, e la collegò a colui che si trovava come ospite dentro di sé.

«Ahm… io non lo so…», arrancò Evelyn, passandosi una mano sul collo.

Abbassò lo sguardo, deluso. «Se… se non vuoi fa niente, eh».

«Non è che non voglio, assolutamente!», si affrettò a dire. «Solo è che non lo so davvero».

«Oh, allora… magari ci sentiamo, okay?».

«Certo! Quando vuoi», sorrise. «Grazie mille per lo strappo».

Accennò un saluto con la mano, a cui Martin ricambiò, poi si voltò e si diresse a passo svelto verso l’entrata dell’edificio.
Non si guardò indietro, perché aveva paura che se l’avesse fatto avrebbe provato un’altra fitta allo stomaco vedendo il ragazzo che si era preso una bella cotta per lei e che non sapeva che lei se n’era presa una altrettanto grande, se non di più, per l’angelo che ogni tanto gli faceva visita nel suo corpo.

 

***

 

Era strano pensare che da lì a quasi nove mesi avrebbe dato alla luce una vita. Ancora più strano era immaginare che suo padre l’avrebbe accompagnata all’altare con un completo elegante stirato addosso e che sarebbe diventato nonno.
Ma avrebbe avuto tempo per abituarsi a tutto quanto. Era riuscita ad abituarsi all’idea di essere la protettrice di quel minuscolo essere che stava crescendo dentro la sua pancia, a pensare che sarebbe diventata mamma, che Leo sarebbe diventato suo marito e papà del loro bimbo o bimba.

Era quasi sicura che Leo sarebbe stato comunque, matrimonio o meno, il suo compagno per la vita, ma l’arrivo del bambino lo aveva spinto a proporle di ufficializzare la cosa. Non era un matrimonio riparatore, ma non era stata neppure un’idea nata col passare del tempo.
Un po’ come l’idea di avere un figlio: non era stata ragionata, era successo e avevano vissuto l’attimo con serenità. Probabilmente senza il suo arrivo le loro vite avrebbero preso pieghe diverse, magari sarebbero andati con più tranquillità, ma entrambi erano sicuri e consapevoli di ciò che stavano per fare: se le azioni del loro passato non erano state premeditate, ora il loro futuro aveva già i contorni ben definiti.

Jole conosceva la sua storia, sapeva di essere stato un errore e forse proprio per questo non aveva avuto esitazioni quando si era posta il quesito a proposito di tenere o non tenere il bambino. In più al suo fianco non aveva un uomo come quello che aveva messo incinta sua madre e che poi l’aveva abbandonata. Aveva Leo, quello che amava e che sarebbe rimasto accanto a lei nel bene e nel male, quello che forse ancor prima di lei aveva deciso di creare una famiglia.

Si strinse il collo fra le spalle e si massaggiò le braccia come a volersi riscaldare, nonostante indossasse una tuta pesante e fosse avvolta in una coperta di plaid. Sentì i passi di Leo in lontananza e socchiuse gli occhi quando le sue mani si posarono ai lati del suo collo e le sue labbra le sfiorarono la tempia destra.

«Mi dispiace tantissimo», sussurrò mortificato.

«Non importa amore, te l’ho già detto».

«È la prima ecografia, io dovevo esserci!».

«Non è colpa tua se devi andare al lavoro… Sarà per un’altra volta, tanto ne farò altre cento!», ridacchiò.

Leo le prese il mento fra le dita e la guardò negli occhi con amore, poi le posò un bacio sulle labbra. «Ti amo».

Jole sollevò una mano ed intrecciò le dita fra i suoi capelli neri, attirandolo maggiormente a sé. Mentre si baciavano si inginocchiò sul divano e gli avvolse anche l’altro braccio intorno al collo. Leo invece le strinse le braccia intorno alla schiena e dopo qualche altro tenero bacio affondò il viso nell’incavo della sua spalla, fra i suoi capelli biondi. Ne respirò tutto il profumo e la strinse forte, come forte si stringeva al loro amore quando le paure, tra cui quelle di aver corso troppo e di non essere un bravo padre, prendevano il sopravvento.

Il trillo del campanello spezzò l’atmosfera che si era venuta a creare e Leo si scostò con delicatezza per andare ad aprire. Dietro la porta si ergeva la figura di Tom, con un cappellino di lana nera sulla testa e gli occhiali da sole ad oscurargli buona parte del viso.

«Buongiorno», lo salutò educatamente Leo, per poi scambiare un frettoloso abbraccio con il futuro cognato. «Come sta?».

«’giorno. Tutto bene, grazie. E tu?».

«Non c’è male», scrollò le spalle, richiudendo la porta. «Un po’ deluso di non poter stare accanto a Jole oggi».

La ragazza scosse il capo, con un sorriso divertito sulle labbra, ed intercettò lo sguardo di suo padre. «Glielo dici tu che non è la fine del mondo?».

Tom sorrise. «Non è la fine del mondo, Leo. Sarà per la prossima volta».

«Sì ma io ci tenevo», si imbronciò.

«Sei proprio un bambino quando fai così», lo prese in giro la compagna, a cui cadde accidentalmente lo sguardo sull’orologio appeso alla parete. «E se non ti muovi arriverai in ritardo al lavoro».

Scese dal divano e andò a recuperare la giacca di Leo in camera da letto, mentre lui beveva frettolosamente un caffè. Gliela infilò per le braccia e gli sistemò il colletto, poi la cravatta. Infine gli donò un ultimo bacio a fior di labbra e gli sorrise dandogli una pacca sulla spalla.

«Vai a vendere un po’ di case, su. Buona giornata».

«Grazie», rispose Leo con gli occhi brillanti. «Chiamami appena hai finito, okay? Voglio sapere tutto».

«Sarà fatto, ma ora muoviti!». Lo spinse fuori di casa e lui le strappò un ultimissimo bacio prima di salutare Tom e di chiudersi la porta alle spalle.

Jole si appoggiò al legno di essa con la schiena e guardò suo padre al centro del salotto, un po’ impacciato dopo quella scena di vita quotidiana, così semplice ma che trasmetteva così tanto amore.

«Lo amo da morire», gli disse come se si dovesse giustificare per qualcosa, sorridendo sognante.

 

***

 

Hey, ma che fine hai fatto stamattina? Ti ho aspettata, ma visto che non arrivavi più poi me ne sono dovuta andare…

 

Lo so, scusami Anja. È che ho fatto ritardo, dopo ti spiego.

 

Rispose concisa al sms dell’amica, siccome era in classe e non voleva farsi scoprire ad usare il cellulare il primo giorno, dopo essere quasi arrivata in ritardo alle lezioni e aver avuto una pressoché inesistente accoglienza da parte dei suoi compagni.
Quando era entrata in classe solo il professore si era accorto della sua presenza e le aveva chiesto come stava, ma era stato un dialogo comunque impacciato e pieno di imbarazzo, così lei era andata subito al posto. I suoi compagni probabilmente non si erano nemmeno accorti che aveva saltato la scuola per un mese e mezzo.

Evelyn non aveva mai fatto nulla di male, ma solo il fatto che si chiamasse Kaulitz di cognome aveva fatto sì che più o meno tutti i ragazzi “normali” con cui condivideva sei ore al giorno tenessero un po’ le distanze e la considerassero una smorfiosa privilegiata, cosa che non era mai stata nemmeno lontanamente. Non a caso il banco affianco al suo era vuoto.

Cacciò il cellulare nella tasca dei jeans e puntò di nuovo lo sguardo sulla lavagna nera su cui c’erano scritti segni che somigliavano più a geroglifici che ad altro, un po’ perché la lezione era quella di matematica e un po’ perché il suo professore aveva davvero una brutta calligrafia.

Si mise d’impegno per seguire e stare attenta, ma la sua posizione infondo all’aula le offriva la possibilità di poter pensare ai fatti suoi senza essere notata.
Andò a finire che non ascoltò nemmeno una parola di quello che spiegò il professore, tanto per aggravare maggiormente la sua situazione scolastica pessima, visto che aveva già un mese e mezzo di spiegazioni da recuperare.

Al suono della campanella, proprio a quel proposito il professore la chiamò alla cattedra mentre tutti i suoi compagni uscivano fuori dall’aula per trascorrere il loro intervallo.
Si alzò controvoglia, autoconvincendosi che se avesse fatto quattro passi si sarebbe dimenticata della merenda che non aveva e che quindi i terribili crampi allo stomaco sarebbero svaniti.

Questo però non accadde e fu già tantissimo che non si fosse presa la pancia fra le mani di fronte al professore che le raccomandava di prendere tutti gli appunti delle lezioni che aveva perso e che le diceva, in modo molto impacciato, che era veramente dispiaciuto per ciò che era successo a lei e ai suoi genitori, specialmente a sua madre.
Evelyn se la cavò con un sorrisetto sdentato e dei ringraziamenti, poi si voltò e rigida come un pezzo di legno tornò al proprio banco, con una voglia assurda di piangere e di mettersi le mani nei capelli. Avrebbe voluto che i crampi le fossero venuti anche alle orecchie, in modo tale da otturargliele: non avrebbe sentito quelle parole che ora come ora le stavano solo tagliando il cuore.

Sentiva un’assurda mancanza di sua madre, giorno dopo giorno si diceva che presto si sarebbe svegliata e tutto sarebbe tornato alla normalità, ma quel giorno non arrivava mai. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora prima che le sue braccia la stringessero al suo petto, che i suoi occhi azzurri si fondessero con i suoi, che le pettinasse i capelli chiacchierando e ridendo, che le accarezzasse il viso e le desse un bacio sulla fronte, dicendole che le voleva bene?

Non si accorse nemmeno della lacrima solitaria sfuggita alle sue ciglia, fino a quando non la sentì scivolarle sul mento. Se l’asciugò frettolosamente con il dorso della mano e poi si passò entrambi i palmi sul viso stanco e privo di trucco per riprendersi.

Proprio in quel momento vide una figura avanzare a passo incerto verso di lei e fermarsi accanto al suo banco. Sollevò il capo e incrociò un paio di occhi neri sconosciuti, ma che conosceva abbastanza da poter dire che appartenevano a Samuel, un suo compagno di classe che fino a quel momento se n’era stato sulle sue esattamente come tutti gli altri.
Tirò su col naso e il suo viso prese colore a causa della vergogna. Era una cosa che aveva sempre odiato: mostrare i suoi sentimenti e farsi cogliere nei momenti di debolezza da persone che non conosceva e con cui non aveva nulla da spartire, per lei era peggio che essere beccata a rubare. Forse aveva preso da suo padre, forse perché fin da piccola lo aveva visto mentire e sorridere in modo forzato di fronte alle telecamere e ai flash delle macchine fotografiche.

«Non ho potuto fare a meno di ascoltare…», esordì il ragazzo, con un sorriso che Evelyn non riuscì a definire se falso o sincero. «Se vuoi io posso darti una mano a recuperare: sono bravo in matematica». Altro sorriso indefinibile. «Allora, che ne dici?».

Sembrava davvero intenzionato ad aiutarla, anche se Evelyn aveva uno strano presentimento. Nella sua testa si erano attivati diversi campanelli d’allarme, come non era mai successo prima, e aveva ricordato per filo e per segno uno dei tanti discorsi che le aveva fatto suo padre, in cui le diceva di essere prudente e di non fidarsi troppo delle persone che sembravano carine e gentili come Samuel.
Con tutta la prudenza e la lucidità che poteva avere in quel momento, però, si rese conto che aveva davvero bisogno di aiuto in matematica – non era mai stata un genio con l’aiuto dei professori, figurarsi da sola – e che non le sarebbe più capitata un’occasione del genere.

E perché dovrei pensare male se un mio compagno di classe, che è vero che non mi ha mai cagato di striscio fino ad adesso, mi vuole dare una mano? Pensò e per la prima volta Evelyn decise di fidarsi comunque, nonostante non fosse del tutto sicura di conoscerlo abbastanza. Ma quand’è che si può sapere veramente chi è o chi non è una persona?

«Evelyn?», la chiamò, piegandosi un po’ sulle ginocchia per guardarla negli occhi. «È così che ti chiami, no?», sorrise.

La bionda scosse il capo, estraniandosi dai propri pensieri, ed accennò un sorriso. «Sì, sì okay».

«Cioè… vuoi che ti dia una mano?», ripeté come se non avesse capito, e quella volta al suo sorriso ambiguo si unirono i suoi occhi scuri accesi da una scintilla non proprio rassicurante.

«Sì», rispose ancora Evelyn, sempre più titubante e con la sgradevole sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato. Continuava a venirle in mente suo padre, con le sue raccomandazioni, ma lei le scacciò dicendosi che si stava facendo complessi inutili. Non sarebbe successo niente di niente.

«Okay, fantastico», esultò Samuel, sistemandosi un ciuffo di capelli neri che gli cadeva sull’occhio. «Allora uno di questi pomeriggi ci troviamo e facciamo un bel ripasso… che divertente», ridacchiò.

«Non vedo l’ora», aggiunse lei, ridacchiando a sua volta, solo in maniera un po’ più forzata. Il tono usato dal suo compagno di classe era stato un tantino inquietante, ma si ripeté che erano tutte illusioni della sua testa, solo perché non aveva mai agito d’istinto prima d’allora, era inesperta e si soffermava su particolari che la sua mente ingigantiva a dismisura e in maniera più che negativa.

Samuel la salutò con un cenno della mano e lei appena se ne accorse, per questo quando sollevò la propria per ricambiare lui era già in corridoio. Evelyn si strinse nel suo stesso abbraccio, inquieta, e come se non bastasse i crampi allo stomaco tornarono. Così decise di sgranchirsi ancora le gambe andando in bagno.

Ci rimase per buona parte dell’intervallo, poi tornò in classe e ciò che vide sul banco la lasciò di stucco. Un panino. Un panino si era magicamente realizzato sul suo banco! O forse si trattava solo di un miraggio causato dalla fame.
Si stropicciò gli occhi e si avvicinò, ma il panino avvolto nella carta stagnola non scomparve: era sempre lì, che la aspettava e la invitava a mangiarlo. Lo prese fra le mani come fosse la cosa più preziosa del mondo, ne tolse la stagnola e ne sbirciò il contenuto: prosciutto cotto e formaggio, proprio come glielo faceva sua…
Alzò di scatto gli occhi e guardò fuori dalla finestra, ma non vide nessuno. Chi si era aspettata di vedere? Lo spirito di sua mamma, accompagnato da Franky.

Ancora scombussolata da tutto ciò che era successo in quell’intervallo, si mise a sedere e solo allora si accorse delle parole scritte in penna su una pagina del suo quaderno di matematica. Non conosceva la sua scrittura, ma senza nemmeno leggere fino in fondo capì che era la sua, perché l’unico in grado di fare una cosa del genere era lui.

 

Per non essere il numero uno degli chef,  né all’altezza della tua mamma… direi che me la cavo, no? =) 
Buona giornata!
P.S. Ti voglio bene, tanto.
Franky

 

Evelyn addentò il panino senza staccare gli occhi da quelle parole che pian piano si dissolsero, lasciando il foglio bianco come se non fosse mai stato scritto.

 

***

 

Tom era parecchio nervoso ed era certo che anche Jole se ne fosse accorta, anche se non gli aveva fatto notare nulla.
Si sentiva in ansia come se al posto di sua figlia e di suo nipote ci fossero sua moglie e suo figlio, o forse proprio perché si trattava del primo caso era ancora più teso.

Bussò alla porta con il cuore che gli pulsava nella carotide e all’udire la voce della dottoressa l’aprì. Fece entrare per prima Jole, che gli sorrise rassicurante avanzando, accertando i suoi sospetti.

«Buongiorno», salutò cortesemente la dottoressa, alzandosi dalla poltrona dietro la scrivania per andargli incontro e stringere la mano ad entrambi.

«La prego, si accomodi su quel lettino», disse a Jole, che con un piccolo saltello si mise seduta sul lettino e poi ci si sdraiò.

Tom, un po’ impacciato, dovette seguire il suggerimento della figlia prima di avvicinarsi e di sedersi sulla sedia accanto al lettino.

La dottoressa, aiutata da un’infermiera, iniziò a preparare l’attrezzatura per l’ecografia e Tom la osservò attentamente, preoccupato che potesse fare qualcosa di sbagliato e che facesse quindi del male a sua figlia e al suo nipotino.
Non sapeva perché si sentiva così inquieto e, come se non bastasse, era tutta la mattina, da quando si era svegliato, che non faceva altro che pensare a Jole, l’altra Jole, la sua. Avrebbe tanto voluto sapere dov’era adesso, che cosa faceva, se aveva ripreso a vivere come gli aveva promesso, se era felice.

«Lei è il padre?», gli domandò la dottoressa sorridendo e guardandolo di sottecchi, mentre con una mano muoveva uno strano apparecchio a contatto con la pancia ricoperta di gel di Jole.

«Sì», rispose senza nemmeno pensarci, immerso com’era nei suoi pensieri.

Jole si schiarì la voce, correggendo: «Mio padre, non del bambino».

«Oh», la dottoressa ridacchiò. «Mi scusi, ma al giorno d’oggi ne vedo di cose strane e poi lei sembra ancora così giovane!».

Tom stiracchiò un sorriso, infastidito da quel patetico tentativo di abbordaggio. Lui apparteneva solo a Linda ora, che aveva conosciuto la mattina in cui Franky gli aveva detto che avrebbe potuto fare qualcosa per lui se proprio voleva rivedere Jole.
Realizzato quel pensiero si bloccò. Non ci aveva mai pensato prima, non gli era mai venuto in mente. Che fosse stato un semplice caso incontrare Linda quando avrebbe dovuto incontrare per un’ultima volta Jole?
No, era impossibile che fosse un caso. Per quale motivo Franky avrebbe dovuto portarlo proprio lì, in quell’ospedale, proprio a quell’ora, proprio al reparto neonatale?

Come un lampo a ciel sereno gli balenò alla mente un ricordo ben preciso. Dopo essere stato colpito dalla porta che Linda gli aveva accidentalmente sbattuto in faccia, si era fermato a chiacchierare con lei e Linda gli aveva detto che non sapeva come chiamare la sua bambina; in quel momento Tom aveva pensato ad un unico nome, non aveva nemmeno dovuto rifletterci, e aveva sentito anche quello strano brivido al cervelletto, come se cercasse di ricordare qualcosa che evidentemente aveva cancellato.
L’idea che Franky c’entrasse in tutto quello lo stava convincendo sempre di più, ogni secondo un po’ di più.
Che quella bambina, a cui aveva dato lo stesso nome della sua Jole, fosse direttamente collegata a lei?

«Papà? Ehi, papà, va tutto bene?». Jole lo scosse per il braccio e lui venne sbalzato fuori dai propri pensieri tanto violentemente da sentirsi un po’ disorientato.

Incontrò lo sguardo preoccupato della figlia e fu come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, perché la sua mente aveva sovrapposto l’immagine dell’altra Jole sulla sua. Perché, ora che aveva realizzato quelle cose, la sua bimba gliela ricordava così tanto?

«Sì, sto… sto bene», balbettò e quando vide Jole tirare giù le gambe dal lettino per scendere, lui la imitò alzandosi dalla sedia. Dovevano aver finito e non se n’era nemmeno accorto.

«Sicuro?», gli domandò ancora, prendendolo a braccetto.

«Sì, sì», annuì.

La dottoressa parlò ancora per qualche minuto con Jole, ma Tom, del tutto assente, non capì nemmeno una parola di quello che si dissero. Doveva parlare con Franky, era l’unico modo che gli veniva in mente per togliersi dalla testa quegli interrogativi che lo stavano facendo diventare pazzo.

«Guido io, tu non mi sembri in grado oggi», esclamò Jole porgendo una mano verso di lui.

Tom ci pensò due volte prima di tirare fuori dalla tasca della giacca le chiavi dell’auto, ma alla fine le concesse di guidare. Strano che l’unica donna che avesse mai avuto il permesso di guidare le sue auto (con lui a bordo ovviamente) fosse sua figlia.

Tom salì sul lato del passeggero e cercò di togliersi dalla mente quei pensieri per qualche minuto, ma non ci riuscì proprio. Tutto tornava sempre a galla a tormentarlo, tanto che avrebbe voluto che Franky gli cancellasse la memoria. In proposito gli sarebbe sicuramente venuto in mente qualcos’altro, ma Jole lo distrasse abbastanza da farglielo dimenticare.

«Papà, sai che tutte le volte che ascolto questa canzone mi vengono i brividi?», gli disse, accennando con la testa all’iPod acceso sopra il cruscotto, collegato all’impianto audio.
Non si era nemmeno accorto che aveva messo la musica, tantomeno che la canzone che si era diffusa nell’auto era proprio Phantomrider, alla quale erano collegati tanti dei suoi ricordi.

«No, non me l’avevi mai detto», disse intimidito, con il cuore che iniziava a battere forte.

«Beh, è così», continuò con un lieve sorriso sulle labbra e gli occhi fissi sulla strada. «È una cosa che non mi sono mai spiegata, ma ogni volta che la sento… mi vieni in mente tu».

Il cuore di Tom aumentò ancora i suoi battiti.

«E non è che mi vieni in mente e basta, è proprio come se… avessi vissuto quel momento, come se lo avessi visto con i miei occhi. È come un ricordo, un ricordo molto vivido ma che non mi spiego, perché… insomma, ti immagino ancora con le treccine, mentre suoni questa canzone con gli altri, ma io… quando ti ho visto sul palco per la prima volta avevi già cambiato pettinatura…».

Ancora di più.

«E ti vedo proprio, mentre alzi il capo dalla chitarra acustica, mi guardi e mi sorridi in un modo indicibile, troppo carico di amore… non ti ho mai visto sorridere così, nemmeno con mamma».

A quel punto il suo cuore batteva così forte che credeva di risvegliarsi in ospedale con un by-pass; avrebbe preferito, invece di continuare a sentire il sangue riscaldargli in modo improponibile le orecchie. Aveva capito di quale “ricordo” stesse parlando Jole e quella era stata la prova che non avrebbe voluto mai trovare, quella incriminante: sua figlia aveva un qualche legame, forse uno anche abbastanza forte, con Jole.
Un brivido di freddo lo fece tremare sul sedile e l’unica cosa che riuscì a fare in quel momento fu posare un dito sul touch-screen dell’iPod per cambiare canzone.

«Papà sei sicuro di stare bene? Ti comporti in maniera molto strana e sei anche un po’ pallido…», chiese ancora Jole, sempre più in ansia, mentre accostava l’auto a ridosso del marciapiede, di fronte al portone del suo palazzo.
Si tolse la cintura e si voltò con il busto verso di lui, ma non aveva nemmeno fatto in tempo a guardarlo in faccia che era già sceso e stava facendo il giro dell’auto. Lo guardò aprire la sua portiera e porgerle una mano per invitarla a scendere.

«Papà». Quella volta il suo tono fu severo: voleva una risposta e l’avrebbe avuta. «Mi spieghi che cosa c’è che non va?».

«Niente», mentì Tom. «Sono… sono solo un po’ stanco, ecco».

«Tutto qui?», sollevò il sopracciglio, l’imitazione perfetta dello zio Bill. «Sei solo un po’ stanco?».

«Sì», sospirò alzando gli occhi al cielo.

«Non è per il bambino o per Leo, vero?».

La guardò negli occhi ed accennò un sorriso. «Ormai è passata, piccola. Io sono contento se tu sei contenta e voglio diventare nonno, nonostante la mia giovane età».

Jole ritrovò parte di suo padre e sorrise, rincuorata. Si alzò dal sedile afferrando la sua mano e i loro occhi si incontrarono a pochissimi centimetri di distanza. Rimasero ad osservarsi per qualche secondo, poi Tom fu costretto ad abbassare lo sguardo, imbarazzato.

«Ti voglio bene, papà», mormorò lei prima di stringerlo fra le braccia magre.

Rimase qualche secondo senza sapere che fare, poi si ricordò che nonostante tutto lei era sua figlia e lo sarebbe sempre stata, che c’entrasse con Jole o meno. Quindi l’abbracciò a sua volta e la strinse forte, baciandole i capelli sulla tempia.

«Anche io te ne voglio tanto».

Si separarono e si sorrisero con affetto, poi Jole prese la borsa dai sedili posteriori e si avviò verso il portone.
Tom stava per infilarsi in auto, al posto di guida, quando i loro sguardi si rincontrarono e non ci fu nemmeno bisogno di parole: Jole sorrise e tornò alla macchina con una corsetta, si mise seduta accanto al padre e Tom, sorridendo, posò le mani sul volante e diede gas.

 

***

 

La gelosia l’aveva divorato, ma ora era passata. Però doveva ammetterlo, non si sarebbe mai aspettato di essere geloso di nuovo. Per quanto fosse sbagliato e per quanto quella sensazione fosse da considerare negativa, quando aveva realizzato di esserlo aveva sentito una specie di scarica elettrica su per la schiena, proprio come se fosse ancora… vivo.

Quando Martin aveva chiesto ad Evelyn se potevano uscire aveva sentito il sangue ribollirgli nelle vene, ma quando l’aveva vista felice di fronte al panino tutto dentro di lui si era placato ed era tornato in pace col mondo.
Ma che lui stesse bene con lei, vivendo di lei, non importava, perché lui era morto e prima o poi si sarebbe chiuso il sipario. E allora che cosa avrebbe fatto? Tutto sarebbe tornato alla normalità, la sua vita in Paradiso avrebbe ripreso da dove l’aveva lasciata e i periodi bui, dominati da quel costante segno di insoddisfazione e di infelicità sarebbero tornati. Ma era il suo destino. E il destino non si può combattere.

Franky arrivò di fronte alla porta della camera d’ospedale di Zoe e vi entrò, puntuale come un orologio svizzero: mezzogiorno preciso. Ma tutta la sua puntualità non sarebbe servita a molto, visto che la sua migliore amica dormiva come un angioletto.

Il cuore gli si gonfiò di tenerezza vedendola così docile ed indifesa; per un attimo, uno solo, sentì di nuovo tutto l’amore che aveva sempre nutrito per lei e che col passare del tempo si era depositato nel fondo della sua anima, tornare a galla in un sorriso bello quanto malinconico.
Quel tempo era andato. E non sarebbe più tornato.

 

***

 

Non era cambiato niente di sostanziale, ma ora almeno ci provava a mettere piede in studio di registrazione e a cantare qualche strofa. Ma la conclusione era sempre la stessa, le stesse parole: «Non ce la faccio, scusa» e le stesse uscite di scena.

Seduto nel giardino dell’edificio contemplava il silenzio intorno a sé e fumava l’ennesima sigaretta che non avrebbe nemmeno dovuto avere e che se solo Zoe lo avesse visto non gli avrebbe risparmiato una bella ramanzina.

Pensò ad un po’ di cose, ma a nulla in particolare.

Si chiese come stesse andando il primo giorno di scuola di sua figlia, si disse che sarebbe andato a prenderla all’uscita, e che aveva bisogno di parlare un po’ con lei. Esattamente come lui, lei si mostrava forte, ma sapeva che dentro era fragile e soffriva; non voleva lasciarla soffrire da sola: se doveva farlo, l’avrebbe fatto con lui.

Aveva bisogno anche di parlare un po’ con Tom. E anche con Zoe, perché erano quasi tre giorni che non la vedeva. Aveva bisogno di credere che lei, su in Paradiso, riuscisse a sentirlo, gli rispondesse e provasse a tornare da lui.
Aveva bisogno di parlare con Tom perché lui era l’unico che lo capiva davvero, l’unico con cui non doveva far finta di essere forte, l’unico in grado di tirarlo su di morale, anche se per poco. Lui era una boccata d’ossigeno.

Forse avrebbe dovuto parlare anche con Franky, che però si faceva vedere sempre più raramente. Ma d’altronde perché avrebbe dovuto scendere di sotto, se la “parte buona” di Zoe era di sopra con lui? Doveva parlarci comunque per chiedergli quando sarebbe tornata, quanto cavolo di tempo serviva ancora al suo corpo per riaccettarla dentro di sé.

Gettò lontano da sé la sigaretta, che più che altro l’aveva lasciata fumare al vento, e si passò le mani sul viso stanco. Stanco di aspettare, stanco di non riuscire ad andare avanti senza di lei, stanco di sentirsi dire di essere forte. Lui non era forte, era tutto fuorché forte e più ci provava più andava a fondo, sempre più giù nel buio più assoluto.

Il cellulare che suonava nella tasca dei suoi jeans lo riportò in superficie e anche quella volta si aggrappò alla sua ancora di salvezza: Tom.

«Bill, dove sei?», gli domandò subito.

«Sono in studio, perché?».

«E che stai facendo?».

Bill sospirò: il suo gemello sapeva che ancora non era pronto per tornare a cantare, anche se per lui era sempre stata una medicina, una cura ad ogni male. Ma quello da cui era stato affetto ora era troppo forte, anche per la musica.

«Tra dieci minuti ti voglio da me», disse ed attaccò senza dargli il tempo di ribattere.

Il frontman guardò il display del proprio cellulare: come sfondo aveva una foto di Zoe ed Evelyn abbracciate e sorridenti. Rimase ad osservarle con un sorriso malinconico sulle labbra, fino a quando lo schermo non si annerì. La luce, i loro volti e i loro sorrisi erano stati inghiottiti dal buio, quel buio che gli faceva paura come gliene faceva quando era bambino. Perché Zoe stava lottando contro quel buio e lui non poteva fare niente, assolutamente niente per aiutarla, se non sperare. Ma anche la speranza, quella minuscola luce che ancora combatteva per restare accesa nel suo cuore, era sempre più debole…

Si alzò e tirò su col naso, avviandosi verso la sua auto.

 

***

 

«Amore! Scusa, scusa, scusa! Ero con un cliente… Dimmi tutto! Com’è andata? Il bambino sta bene? È tutto a posto?».

Jole ridacchiò e poggiò il gomito sul bracciolo della poltrona per tenere meglio il cellulare incollato all’orecchio e allo stesso tempo reggersi la testa per osservare con un sorriso intenerito suo padre giocare con Arthur, immaginando quando anche Leo avrebbe fatto lo stesso con il loro bimbo o la loro bimba.

«Da quando i clienti sono più importanti di me e di tuo figlio?». A quell’ultima parola un brivido le corse su per la schiena e, si sarebbe giocata tutto, era certa che fosse successa la stessa cosa a Leo: era ancora incredibile che sarebbero diventati genitori. Ma era un brivido di emozione, di gioia, una quantità minima di volt che stavano a significare una piccola parte d’amore di quello grandissimo che stava nascendo nei loro cuori per quella creatura che doveva ancora nascere.  
«Non sono più importanti, solo che… sai, devo iniziare ad abituarmi a lavorare sul serio, perché il giorno in cui mio padre non mi parerà più il culo mi ritroverò senza nulla fra le mani e te e il bambino da mantenere e… Jole, ti amo».

Il cuore della ragazza perse un battito e subito dopo tentò di recuperare quello perso aumentando la velocità.
Delle lacrime di commozione si impadronirono dei suoi occhi chiari e dovette portarsi una mano sulla bocca per non cedere del tutto a quel pianto di gioia che stava nascendo. Non aveva fatto nulla per meritarsi un ragazzo come Leo accanto, era davvero fortunata.

Incontrò lo sguardo di suo padre, che aveva voltato il viso verso di lei incuriosito, e le chiese che cosa avesse soltanto aggrottando le sopracciglia. Jole scosse il capo, sorridendo.

«Ti amo anche io», mormorò al cellulare e Tom sorrise sbarazzino, roteando gli occhi al cielo e facendo ridere di conseguenza anche la figlia, perché anche sua madre si comportava nello stesso identico modo quando le si dicevano due paroline romantiche.

«Sono tanto patetico?», domandò Leo, contagiato dalla sua risata.

«No… sei tanto tenero e non vedo l’ora di stasera, mi manchi».

«Amore», ridacchiò. «Sono al lavoro da nemmeno tre ore…».

«Credo sia l’istinto materno o qualcosa del genere».

«Oh, capisco… E allora, non mi dici niente del bambino?».

«Il bambino c’è, solo che ancora non si vede agli occhi dei mortali. Ancora non capisco come facciano a vederci qualcosa i dottori, bah. Comunque tutto liscio come l’olio».

«Menomale», sospirò sollevato. «Sai, ora che ci penso… mi manchi anche tu».

«Allora fai presto al lavoro», sussurrò maliziosa.

«Faccio prestissimo. Tu aspettami, okay?».

«Certo. Ti amo».

«Anche io, a stasera. Smack».

«Smack».

Jole, terminata la telefonata, chiuse con uno scatto il cellulare, ma il sorriso che le illuminava il volto non si spense come i led del display. Alzò il capo e quasi per caso incontrò ancora il viso di suo padre, che però quella volta era proprio girato verso di lei e la stava osservando con i gomiti sulle ginocchia e i pugni sotto al mento. Arthur, incuriosito dal suo comportamento insolito, l’aveva imitato e visti così, vicini e nella stessa identica posizione, erano davvero buffi.

«Dimmi una cosa», esordì suo padre. «Ma secondo te anche io e tua madre eravamo così quando avevamo la vostra età?».

«Così come?», chiese sempre più curioso Arthur.

«Così… smielati e piagnucoloni?».

Jole non aveva impedito ad un’espressione allibita mista ad una divertita di comparire sul suo viso, ma appena vide sua madre dietro il divano, ossia dietro le spalle di suo padre, si portò le mani di fronte alla bocca e trattenne, quasi inutilmente, le risate.

«Ah è così che definisci le persone innamorate? Smielate e piagnucolose? Te l’ho mai detto quanto sei antipatico, amore mio?», gli disse con un tono severo e un sorriso splendido sulle labbra, mentre portava le mani sui fianchi.

A quel punto anche Tom si girò, quasi spaventato, e si alzò per correrle dietro, gridando: «Amore mio luce dei miei occhi non intendevo in senso negativo! Ti faccio vedere io adesso quanto posso essere smielato!».

Sparirono entrambi in cucina, dopo un inseguimento intorno al tavolo del salotto, ridendo come due bambini. Il silenzio calò sulla sala e Jole portò automaticamente lo sguardo su Arthur, che a sua volta osservava lei.

«Papà e mamma a volte sono strani», le disse a bassa voce, quasi avesse paura di essere sentito e punito per questo.

Jole lo raggiunse seduta sul tappeto e gli avvolse le spalle con un braccio, stringendolo a sé per un fianco. Gli posò un bacio sulla tempia e gli sorrise pienamente, guardandolo negli occhi.
«No, a volte ritornano due bambini follemente innamorati l’uno dell’altro».

Il campanello trillò all’improvviso e Tom si precipitò fuori dalla cucina con un sorriso gigante stampato in faccia, gridando che andava lui.
Sapeva che dietro la porta si trovava Bill, quindi non esitò oltre e lo accolse a braccia aperte. Purtroppo però, appena lo vide il suo sorriso si volatilizzò e capì che era il caso di stare un po’ da solo con lui, a parlare tranquilli o anche in silenzio, purché insieme.

«Aspetta un attimo», mormorò e tornò in casa, lasciando la porta socchiusa. Si sporse in cucina, dove si trovava ancora Linda, e la informò che sarebbe uscito con Bill.

«È tutto a posto?», gli domandò preoccupata, avvicinandosi a lui.

«Sì», la rassicurò e le stampò un bacio veloce sulle labbra, dandole una carezza sulla guancia. «Torno presto».

In salotto, mentre cercava le chiavi della macchina e prendeva il cappotto, Jole gli disse che sarebbe rimasta ancora un po’ lì e poi al massimo si sarebbe arrangiata. Tom guardò nel palmo della sua mano le chiavi dell’auto che aveva appena trovato e senza nemmeno pensarci due volte – avrebbe cambiato idea – le lanciò a sua figlia.

Jole spalancò la bocca. «Mi lasci la tua?».

Il padre scrollò le spalle. «Sei grande ormai». Le soffiò un bacio con la mano e poi si affrettò ad uscire fuori di casa salutando un po’ tutti.

La ragazza guardò le chiavi dell’auto, ancora senza parole, e poi sollevò gli occhi sulla figura di sua madre che intanto si era avvicinata e si era seduta accanto a lei, però sul divano. Le portò una mano sui capelli biondi e li accarezzò, sorridendo dolcemente.

«Tuo padre», sospirò divertita. «Avrebbe dovuto capire che sei diventata grande già da un po’, non solo ora che stai per sposarti e avrai un bambino».

Jole annuì distrattamente, perché non pensava che sua madre avesse totalmente ragione: suo padre probabilmente aveva già capito che era diventata grande, ma fino a quel momento non l’aveva mai accettato; ora si era messo l’animo in pace e, come si deve fare quando si riconosce che il proprio figlio è diventato un adulto responsabile, gli si concede di usare la propria auto da solo.
Jole non era un maschio, ma come uno di loro andava pazza per le auto e avere quelle chiavi fra le mani era come avere un pezzo di suo padre, la sua fiducia, ed era la cosa più importante di tutte, che le riscaldò il cuore.

«Sì, è proprio mio padre», mormorò.

 

***

 

Era già una mezzoretta che giravano a vuoto per le strade di Amburgo, in silenzio dentro l’auto di Bill; un Bill apatico, stanco, spento, che guidava e non staccava mai lo sguardo dalla strada.

Tom aveva capito subito che quella doveva essere una giornata no per suo fratello, capitava spesso ormai, e sapeva anche la causa di questo suo umore tetro: Zoe. Gli mancava da morire, tanto che se chiudeva gli occhi poteva sentire il suo stesso dolore divorargli il petto pian piano. Forse non necessariamente perché erano gemelli, ma perché era anche un suo dolore, dopotutto.

«Bill…», mormorò Tom, intimorito. Non era la prima volta che si ritrovava a doverlo far sorridere di nuovo, ma all’inizio era sempre un po’ difficile affrontare quel dolore che come un muro si ergeva davanti a lui, impedendogli di vedere tutto chiaro come sempre. Ma doveva farlo, doveva o sarebbe stato peggio.
Suo fratello mugugnò, segno della sua attenzione nella distrazione.

Tom fece un lungo respiro per prendere coraggio e poi disse: «Oggi ho accompagnato Jole a fare l’ecografia…».

«Oh, già… e com’è andata, è tutto a posto?».

Aveva visto una luce illuminare gli occhi di Bill appena aveva pensato al piccolo che doveva nascere e che avrebbe reso nonno suo fratello, e questo lo aveva fatto sorridere sollevato.

«Bene, tutto a posto… credo».

«Credi? In che senso credi?», gli domandò scettico, con una delle sue immancabili alzate di sopracciglio.

«Questa mattina avevo un po’ la testa altrove, mi sono svegliato con un pensiero fisso che mi ha messo un po’ in agitazione…».

«Non ti preoccupare Tomi, ci penso io al tuo completo per il matrimonio».

«Mi dispiace deluderti, ma questi non sono i miei problemi essenziali, quelli con cui mi sveglio la mattina», gli rispose in tono piatto e anche un po’ allibito, ma subito dopo scoppiò a ridere perché il suo fratellino era fatto così e avrebbe dato di tutto per poter vederlo sempre in quello stato, sorridente e scherzoso.
Perché non l’aveva pensato davvero che fosse quella la sua preoccupazione, vero?

«E allora a che cosa pensavi?», gli chiese.

«A… a Jole».

«Jole…», lo guardò negli occhi per una frazione di secondo, giusto il tempo di capire, poi tornò a puntare lo sguardo sulla strada. «Oh, quella Jole».

«Già», sospirò puntando lo sguardo triste fuori dal finestrino, una mano di fronte alla bocca.

«Come mai?».

«Non ne ho idea», scosse il capo, rassegnato. «Devo parlare con Franky».

«Con Franky? E perché? Che cosa c’entra lui se…?».

«C’entra, Bill». Si voltò e lo guardò serio negli occhi, con i suoi vagamente lucidi. «Mi è venuto il sospetto che Jole mia figlia sia collegata all’altra Jole».

«Che cosa, perché?».

«Non lo so. E proprio per questo ne devo parlare con lui, devo… sapere se loro due…».

«Tom, ma», ridacchiò nervosamente, «è impossibile che ci sia qualche legame fra loro: quando hai incontrato tua figlia eri lì perché Franky voleva farti conoscere Linda per non vederti più triste a causa di Jole».

«Così credevo!», urlò, facendo sobbalzare Bill alla guida. «Poi stamattina mi sono ricordato, all’improvviso, che Franky mi aveva portato in quell’ospedale con l’intenzione di farmi rivedere Jole un’ultima volta! E guarda caso, quando Linda mi ha detto che non sapeva come chiamare sua figlia, io ho sparato subito il suo nome, senza nemmeno pensarci. E ti sembra impossibile se mia figlia avesse un ricordo di Jole nella sua testa? Ti sembra ancora impossibile?».

Bill quella volta non rispose, arricciò le labbra e non spostò più gli occhi dalla strada, che aveva iniziato a farsi familiare ad entrambi.
Tom seguì la rotta del fratello, capendo la loro destinazione ancor prima di arrivarci, manco fosse un navigatore satellitare. Quello che non capiva era perché Bill avesse deciso così di punto in bianco di andarci.
Il gemello parcheggiò l’auto proprio di fronte all’entrata dell’ospedale e spense il motore prima di voltarsi verso di lui con un sorriso sbilenco.

«Anche io voglio parlare con Franky e l’unico modo che abbiamo per contattarlo in questo momento è parlare con Zoe e sperare che lei ci senta».

Il chitarrista, sbalordito dalla genialità dell’idea di Bill, era anche un po’ confuso. «Vuoi… vuoi davvero usarla come centralino?».

Bill accennò una risata e scosse il capo, scendendo dalla macchina.

 

***

 

«Che culo! Non è possibile, Zoe! Io non gioco più con te!».

La donna scoppiò a ridere, tirando la testa indietro, e raccolse in un unico mazzo le carte che Franky aveva sbattuto sul letto.

«È solo un gioco, non devi prendertela così», gli disse.

«Sì ma abbiamo fatto dieci partite e dieci le hai vinte tu!», aprì le braccia.

«Beh, sono brava», si vantò Zoe, annuendo.

«Ma per piacere!», urlò l’angelo e si mise a ridere anche lui, insieme alla sua protetta.

Dopo qualche minuto, Zoe sospirò divertita e sorrise, incrociando meglio le gambe sopra le coperte. «Grazie Franky».

«Per che cosa?», le chiese confuso.

«Per questi scorci di quotidianità che mi fanno sentire… a casa».

L’angelo sorrise consapevole ed amareggiato e si mise seduto sul materasso, le alzò il viso con delicatezza ed incatenò il proprio sguardo al suo. «Piccola, tu torn– ».

«No», sussurrò con le lacrime agli occhi, posandogli un dito sulle labbra. «Non dirlo, Franky…».

Ma lui, convinto di ciò che stava dicendo, allontanò la sua mano e si fece un po’ più vicino al suo viso, senza interrompere il contatto visivo. «Tu tornerai a casa, ne sono certo. Non devi pensare nemmeno per un secondo che tu non ti risveglierai dal coma. Ci siamo capiti bene?».

«Sì», biascicò annuendo, poi si lasciò cullare dalle braccia del suo migliore amico di sempre, quello che c’era stato, che c’era tutt’ora e che ci sarebbe sempre stato per lei, il punto fermo della sua vita.
Nascose il viso contro il suo collo e in quel momento sentì la voce di Bill sussurrarle qualcosa all’orecchio, così piano che non riuscì bene a decifrare le parole. Ma era stato Bill, ne era certa, e a confermarglielo furono poi una leggera carezza sulla guancia sinistra e un bacio delicato sulla fronte.

«Bill», piagnucolò, mentre le lacrime tornavano a pungerle gli occhi e il solito nodo le bloccava la gola.

«Che cosa… Stai sentendo Bill?», le chiese Franky facendo per scostarsi da lei per guardarla in viso, ma lei non mollò la presa, anzi lo strinse più forte a sé mordendosi le labbra, in ascolto.

L’angelo provò a non intromettersi, ad estraniarsi dai suoi pensieri, ma essendo così vicini non gli fu proprio possibile e anche lui rimase in silenzio ad ascoltare ciò che il frontman aveva da dire.

 

«Ciao amore», sussurrò Bill, seduto accanto al letto di sua moglie, con le mani avvolte intorno alla sua pallida.

Suo fratello Tom era dietro di lui, appoggiato alla finestra, e sentiva il suo sguardo puntato addosso: era uno sguardo che non gli dava fastidio, né gli metteva ansia; lo faceva sentire bene, più coraggioso e forte.

«Come ti senti oggi? Spero meglio, voglio che tu torni qui da me, mi manchi tantissimo e manchi anche ad Evelyn, solo che lei si tiene tutto il dolore dentro, sai com’è fatta… è come te», accennò un sorriso. «Io sto… non voglio mentirti – perché dovrei? – e la verità è che non sto bene senza di te, è veramente dura andare avanti, fare come se tutto fosse normale; in ogni piccola cosa si sente la tua mancanza ed è una mancanza enorme…».

Bill si interruppe e si passò una mano sugli occhi lucidi, tirando su col naso. Perché ogni volta che le parlava era così frustrante? Era sempre più difficile e ogni volta doveva star male come un cane. Però il fatto che Franky gli avesse detto che lei riusciva a sentirli gli dava tutta la forza necessaria per farsi altro male.
La immaginava nel suo letto d’ospedale in Paradiso, che ascoltava tutto ciò che le stava raccontando e gli rispondeva, nonostante sapesse che non riusciva a sentirla. Chissà se sorrideva, se rideva quando diceva qualcosa di divertente; chissà se piangeva… Il suo amore.

«Okay, basta parlare di cose tristi… Io e Tom –».

«Ciao Sea», salutò il chitarrista alzando una mano e sorridendo al corpo della donna, proprio come potesse vederlo. Si staccò dalla finestra e affiancò il gemello per posare una mano sul braccio con la flebo della sua amica.

«Dicevo», riprese Bill. «Io e Tom volevamo parlare con Franky…».

«Non è che gli diresti di farsi vedere un po’ più spesso, a quel nulla facente che non è altro?».

 

«Nulla facente, io?! Ma guarda un po’ te!», ribatté offeso Franky, ma con il sorriso sulle labbra.

Zoe, ancora fra le sue braccia, accennò una risata e sciolse l’abbraccio per potersi sdraiare sul letto.
Infilò un braccio sotto al cuscino, appoggiò la testa proprio sopra di esso e rannicchiò le gambe al petto. Era stanca, senza sapere bene perché, quasi appesantita, e per questo chiuse gli occhi.

«Chissà che cosa vogliono», sussurrò sull’orlo del dormiveglia.

«Pensi che dovrei andare ora?», le chiese l’angelo, sporgendosi su di lei.

«Sì, perché no? Tanto mi sa che io dormirò un po’, sono stanca».

«Okay», le sorrise e le stampò un bacio sulla guancia, poi saltò giù dal letto e senza guardarsi indietro uscì dalla sua stanza.

Zoe, rimasta sola, chiuse di nuovo gli occhi, le palpebre sempre più pesanti, e si concentrò per sentire ancora parole e tocchi di Tom e soprattutto di Bill.
Aspettò vari minuti, ma non riuscì a sentire più niente. Corrugò la fronte, sforzandosi ancora di più, sicura che quei due, famosi per la loro parlantina, non avrebbero mai lasciato di punto in bianco una conversazione. Fu in quell’istante che percepì in lontananza un «Ti amo» di Bill e poi si sentì precipitare.
Precipitava nel vuoto, come risucchiata, e presa alla sprovvista com’era fece di tutto per non cadere: artigliò le unghie nel lenzuolo candido, si aggrappò a tutto ciò che era alla sua portata, tra cui i macchinari che la monitoravano, e gridò per invocare aiuto.
Quella sensazione straziante, veramente orribile, la avvolse per interi minuti, senza che nulla cambiasse, senza che nessuno la aiutasse, tanto che si chiese se qualcuno riuscisse a sentirla, se quelle urla fossero solo nella sua testa e quel dolore solo dentro di lei. Poi tutto finì, all’improvviso come era iniziato.
Si sentì risucchiare indietro, veloce come se avessero schiacciato il tasto di rewind, e quando capì di essere di nuovo nel letto d’ospedale spalancò gli occhi e respirò con foga, come se fosse stata in apnea per tutto quel tempo.

Era sola e nella stanza tutto era tranquillo, come se nulla fosse successo. Che cosa le era accaduto?

 

***

 

«Noi gliel’abbiamo detto, ora dobbiamo solo aspettare».
Così aveva detto Tom una volta usciti dall’ospedale, dandogli una pacca di conforto sulla spalla.

L’aveva riaccompagnato a casa ringraziando Dio di avergli dato un gemello su cui contare sempre e comunque e sperando con tutto il cuore che Zoe li avesse sentiti, non perché avvisasse Franky, questo era secondario, ma perché voleva dire che c’era ancora qualche collegamento fra lei e il suo corpo, che c’erano più possibilità che si svegliasse presto dal coma.

Il trillo della campanella lo distrasse dal flusso dei suoi pensieri e alzò il capo giusto in tempo per vedere sua figlia schizzare fuori dalla struttura scolastica. Gli ricordò proprio lui e Tom, che non vedevano mai l’ora di scappare da quella specie di prigione in cui dovevano passare buona parte delle loro giornate.
La osservò mentre si guardava intorno alla ricerca di qualcuno a lei familiare, fino a quando non incrociò il suo sguardo all’interno dell’Audi. Con una corsetta raggiunse l’auto e ci si infilò sinuosamente, aprendo la portiera lo stretto necessario.

«Ciao papà», lo salutò con un fugace bacio sulla guancia. «Andiamo?».

Bill ridacchiò e annuì. È proprio come noi.

 

***

 

Seduto sull’altalena nel giardino di casa Kaulitz si guardava i piedi, dondolandosi appena, e attendeva il ritorno di Bill. Sapeva che inevitabilmente avrebbe incrociato Evelyn, di ritorno da scuola, ma non poteva proprio aspettare: voleva sapere che cosa volessero dirgli lui e Tom. E poi non è che non gli facesse piacere vedere Evelyn…

Quando percepì i pensieri del cantante, sentì anche le fusa del motore della sua Audi che si avvicinava. Allora portò lo sguardo sulla strada e non schiodò più gli occhi da essa dal momento in cui era comparsa nel suo campo visivo. Aveva incontrato anche l’oceano degli occhi di Evelyn e aveva sorriso, ma Bill non aveva capito che quel sorriso era per lei, solo ed esclusivamente per lei.

«Franky, allora…», farfugliò il cantante, non ancora sceso del tutto dall’auto. Lasciò in sospeso la frase, forse per la presenza di sua figlia, e lo guardò con la bocca socchiusa e gli occhi lucidi.

«Ebbene sì», ridacchiò l’angelo. «Te l’avevo detto, che riusciva a sentirvi».

Bill si morse il labbro inferiore ed eliminò i pochi metri di distanza che li separavano, lo fece alzare dall’altalena e lo abbracciò senza nemmeno pensarci due volte. Zoe lo aveva sentito e nient’altro era importante.

«Dai, entriamo e parliamo», gli sussurrò l’angelo e lo accompagnò in casa tenendogli saldamente la vita con un braccio.

Evelyn li seguì e una volta entrati chiuse la porta alle sue spalle. 

 

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Ciao a tutti :)

La vita continua. Evelyn è tornata a scuola e non è andata proprio benissimo, anche se grazie a Franky almeno non è morta di fame ;)
Samuel, la new entry, è un po' ambiguo... voi che ne pensate?
Bill è ricaduto nella fase depressiva, ma per fortuna c'è Tom! Anche se anche lui ha alcuni problemi, come per esempio il nuovo sospetto che Jole sia direttamente collegata all'altra Jole. Chissà se il suo sospetto sarà fondato oppure no...
Poi quei due, fortissimi xD, hanno usato Zoe come "centralino" per poter chiamare Franky ahah xD Beh, ha funzionato!
E ora che cosa succederà? *w* Lo scoprirete nella prossima emozionantissima puntata xD

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, sperando che anche questo vi sia piaciuto *-*
Ringrazio anche chi ha letto soltanto! ;)
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 11
*** You should shut up, 'cause this is love ***


La canzone che ho usato in questo capitolo è Push, di Avril Lavigne.
Ringrazio coloro che leggeranno e chi ha letto e recensito lo scorso capitolo *-* Grazie di cuore davvero! <3

AVVISO: Chi non è aperto alle novità sconvolgenti (che però hanno un come e un perchè e ci tengo a sottolinearlo u.u) non legga questo capitolo.
(Secondo me però ne vale la pena, di leggerlo ù.ù) 

Buona lettura :D

 
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11. You should shut up, ‘cause this is love

 

Prese un altro fazzolettino di carta e si soffiò rumorosamente il naso.

Coco era seduto di fronte a lei e la osservava con i suoi occhietti azzurri, il musetto leggermente inclinato verso sinistra. Ad un certo punto si mosse verso di lei, salì con le zampette sulle sue gambe incrociate e si aggrappò alla sua felpa rossa, troppo larga per il suo fisico asciutto, per avvicinare il muso al suo viso. Miagolò e sembrò quasi che volesse confortarla, che le stesse chiedendo di non piangere più perché lui era vicino a lei.

Evelyn lo prese fra le mani e gli baciò il pelo caffèlatte sulla testa, poi lo fece scendere dal letto e si infilò sotto le coperte, la faccia immersa nel cuscino.

Era stanca, voleva sprofondare nel sonno e non pensare più a niente. Voleva dimenticarsi per un po’ che era colpa sua se aveva fatto una cosa così stupida, se non aveva pensato prima di agire, se aveva rovinato tutto, se Franky non si faceva vedere da tre giorni. Era tutta colpa sua e ora doveva pagare, e le lacrime e il dolore che le squarciava il petto erano tutto ciò con cui poteva scontare i propri errori.

 

Evelyn si chiuse la porta di casa alle spalle e guardò Franky accompagnare suo padre verso la zona dove si trovava il divano più piccolo rispetto a quello ad L posto di fronte alla tv, il tavolino marrone scuro e di fronte ad esso le due poltrone di pelle dello stesso colore. Lo fece sedere sul divanetto e l’angelo si accomodò direttamente sul tavolino, a gambe incrociate.

«Tu e Tom volevate parlarmi?», gli domandò subito Franky.

«Sì, ma…». Bill gettò un’occhiata preoccupata verso sua figlia e poco dopo anche l’angelo si voltò e la guardò senza mostrare alcuna variazione nella propria espressione neutrale. Ma quant’era difficile fingere, far finta di non aver alcun tipo di rapporto, lo sapevano solo lui e la diretta interessata.

Evelyn, imbarazzata, si schiarì la voce abbassando il capo, in modo tale che i propri occhi azzurri – rivelatori di verità – venissero nascosti dalla frangetta bionda.

«Vado di sopra», annunciò e zampettò verso le scale dagli scalini di vetro, raccogliendo Coco per strada.
Prima di sparire al piano superiore però, intercettò per una frazione di secondo lo sguardo dell’angelo e gli comunicò telepaticamente: “Quando vai via passa a salutare”.

Franky accennò un sorriso e rimase ancora per qualche istante con il viso rivolto verso la scalinata, poi si voltò verso il cantante con naturalezza, per dirgli, in tono sereno: «Non ti preoccupare, passo dopo da Tom. Ora dimmi di che cosa vuoi parlare tu».

«Beh, io, ecco…», Bill sbuffò e sospirò contemporaneamente, affranto. «Sai che cosa vorrei chiederti, quindi facciamola finita».

«Okay», ridacchiò l’angelo, battendo le mani sulle ginocchia. «Non è cambiato nulla di particolare, Zoe è sempre lei e ha una terribile nostalgia di voi… Ogni giorno è sempre peggio e a volte la scopro a piangere come una bambina… Sta facendo di tutto per tornare nel suo corpo, ma non è ancora il momento, altrimenti ci sarebbe già riuscita».

«E quando sarà il momento? Io… io non ce la faccio più, sono stanco di aspettare!», disse con voce strozzata, sull’orlo del pianto.

«Purtroppo non sono io che decido queste cose, io non posso farci niente ed è così…».

«Frustrante», completò per lui il frontman e tirò su col naso.

«Io sono il suo angelo custode e non posso fare niente per lei», lo dissero insieme, in perfetta sincronia, solo che Bill invece di dire “angelo custode” disse “marito”.

Alzarono contemporaneamente gli occhi e in quel momento si sentirono vicini più che mai: erano così simili le loro situazioni…
Franky non era mai stato un tipo coccolone, ma in quel frangente particolare, con quell’intesa fortissima che si era creata fra loro, fu quasi naturale alzarsi e gettarsi praticamente sulle gambe di Bill per abbracciarlo e trasmettergli tutto il conforto e il senso di protezione che poteva.

Bill, seppur colto di sorpresa da tutto quell’affetto, sorrise rincuorato e si beò della sensazione che Franky gli stava regalando. Era come una droga, una droga angelica: non sentiva più dolore, né paura, né tristezza. Come per tutte le droghe però, quando venne a mancare fu un colpo terribile tornare alla realtà. Ma lo ringraziò comunque, perché anche un solo attimo in quella bolla lo aveva rifornito di un po’ d’ossigeno.

«Se hai bisogno di me io ci sono», lo rassicurò con un sorriso, dandogli una pacca amichevole sulla spalla.

«Come se fosse facile contattarti, no?», roteò gli occhi al cielo, divertito. «Dobbiamo usare Zoe come “centralino”!».

L’angelo scoppiò a ridere. «Questa è carina! Voglio dirla a Zoe, piacerà anche a lei».

«Salutamela», sussurrò di nuovo con la voce impedita dal nodo che gli si era creato in gola.

«Certo. Stammi bene, Bill». Lo salutò con un gesto della mano e uscì in giardino trapassando il vetro delle porte finestre, per poi spiccare il volo. Ma non volò molto lontano, perché atterrò di nuovo sulla grande terrazza che dava sulla camera di Evelyn.
La vide seduta sul letto, con le gambe che proprio non riusciva a tenere ferme, che lo aspettava e nel frattempo si passava la spazzola fra i capelli.

Franky si sentì infinitamente onorato quando capì, frugando fra i suoi pensieri, che per lui si stava pettinando i capelli e si era spruzzata un po’ del suo profumo, quello che lo mandava fuori di testa. Come facesse lei a saperlo poi era un mistero, a meno che anche lei non sapesse leggere nel pensiero. Dall’altra parte, però, avrebbe voluto che lei non lo avesse fatto: la loro situazione era già complicata così, perché doveva renderla ancora più irrisolvibile?

Con un sospiro, che non riuscì nemmeno lui a definire se rassegnato o disperato, si intrufolò nella sua stanza. Stava per farla spaventare, quando sentì un “bip bip”: il cellulare di Evelyn.
Prima che lei si girasse per prenderlo fra i cuscini, si nascose dietro il letto. Però seguì tutta la scena con gli occhi di Evelyn, collegato alla sua mente.

La ragazza prese il cellulare fra le mani e vide che le era appena arrivato un messaggio.
Sarà Anja, le avevo detto che le avrei spiegato di stamattina, pensò, ma quando lo aprì capì che non era affatto della sua amica, ma di Martin.

 
Ciao Evelyn… Lo so, ti sembrerò un ossessionato, ma non faccio altro che pensare a te. Spero che tu prima o poi sia disponibile per uscire con me, mi farebbe davvero molto piacere. Ciao. E scusa.

 
Ma scusa di che, pensò sbuffando, prendendosi la testa fra le mani.

Franky interruppe il legame e ritornò pienamente in sé. Aveva i crampi allo stomaco, come se avesse ingurgitato un cagnolino che glielo stava rosicchiando. Gelosia.

Io non posso essere geloso, no! si gridò e balzò fuori all’improvviso, facendo spaventare Evelyn forse anche più di quanto avesse previsto.

«Cretino!», gli gridò sottovoce lei e subito dopo scoppiò a ridere, attirandolo in un abbraccio a cui Franky non seppe come rispondere: era rigido come un pezzo di legno e il suo cervello era stato messo fuori uso dal suo profumo.

«Tutto bene? Papà che cosa voleva dirti?», gli domandò a raffica, prendendolo per le spalle e guardandolo negli occhi con espressione determinata e anche un po’ ansiosa.

«Impicciona», le rispose con una linguaccia e si gettò sul letto da una piazza e mezza, con il viso e le braccia aperte rivolte verso il soffitto.

Lo raggiunse a quattro zampe sul letto e lo guardò in viso dall’alto, con cipiglio severo: «Io non sono un’impicciona, mi preoccupo soltanto per mio padre», lo corresse.

«Lo so», le rispose tranquillamente lui, prendendo fra due dita una ciocca di capelli biondi che gli solleticava il viso. Si tirò sui gomiti e i loro visi si trovarono a pochissimi centimetri di distanza, respiro contro respiro. «Non hai di che preoccuparti», le sussurrò e le sistemò quella ciocca dietro l’orecchio, poi si rigettò con la schiena sul materasso, gli occhi chiusi.

Evelyn rimase in silenzio e con lo sguardo fisso sul suo volto sereno per un po’, fino a quando non gli chiese: «Ma tu… tu non dovevi andare anche da zio Tom?».

«Sì. Ma ci vado dopo».

«Okay», mormorò. Si accucciò al suo fianco, stringendogli un braccio intorno alla vita, e posò la testa sul suo petto.

     

***

 

Fin dal principio, avevano capito tutti che quella lezione sarebbe stata diversa: Zoe, Kim, i suoi alunni abituali e quelli che frequentavano le sue lezioni solo da qualche sera. Proprio tutti.
Era stato facile capirlo perché Franky, appena entrato in classe, aveva salutato a malapena e non aveva nemmeno accennato uno dei suoi sorrisi tanto amati; si era seduto dietro la cattedra, cosa altrettanto insolita, poiché lui non si sedeva mai sulla sedia, come un professore qualunque, e per tutta la durata della lezione non aveva aperto bocca, né aveva alzato lo sguardo per incrociare quello di qualche suo alunno.

Tutt’ora era nella stessa identica posizione, con gli occhi puntati sul pendolo di Newton appoggiato sulla cattedra, e Zoe non sapeva che cosa fare per tirarlo fuori da quello stato apatico. Ci aveva già provato varie volte, nel corso di quei giorni, ma non aveva ottenuto il benché minimo risultato. Non era nemmeno riuscita a capire perché tutto d’un tratto fosse tornato da lei in quelle condizioni, dopo aver trascorso un giorno intero chiedendosi se fosse tornato di sopra oppure no. Quello di cui era certa era che fosse successo qualcosa di sotto, quando era sceso sulla Terra per sapere che cosa volessero Bill e Tom. Aveva provato a farsi qualche ipotesi, tra cui quella che avesse litigato con i gemelli, ma le aveva scartate tutte, trovandosi di nuovo punto e a capo.

Zoe, immersa nei suoi pensieri, perse il filo di ciò che stava raccontando alla classe. Si portò una mano sulla fronte, scusandosi, e guardò Franky voltando il capo verso di lui.
“Non ce la faccio più così”, gli disse col pensiero. “Mi dici che cosa ti prende?”.

L’angelo la sentì, la guardò con la coda dell’occhio ma non disse niente, la ignorò, come aveva fatto nei giorni precedenti. Non voleva e non poteva parlarne con lei. Il peso di quello che era successo doveva tenerlo tutto sulle sue spalle e rischiare anche di rimanervi schiacciato sotto.

 

Evelyn rientrò in camera e si chiuse velocemente la porta alle spalle.

«Già tornata?», chiese Franky, senza smettere di grattare il piccolo Coco dietro le orecchie. In realtà non era affatto sorpreso che avesse finito di mangiare così in fretta.

«Sì», gli sorrise e lo raggiunse sul letto per rilassarsi ancora un po’ sul suo petto, come aveva fatto fino a quando suo padre non l’aveva chiamata per la cena.
Però non fece in tempo a chiudere gli occhi, abbracciata all’angelo, che il suo cellulare suonò sulla scrivania, costringendola ad alzarsi di nuovo.
«È Anja, ci metto un attimo», gli disse e rispose mentre si sedeva sul tavolo, accanto al pc, a qualche libro e ad una miriade di post-it colorati scarabocchiati.

«Conosciamo gli “attimi” delle donne», sussurrò lui al micio, sorridendo malizioso, gettando un’occhiata a Evelyn che aveva ricambiato il sorriso.

«Ciao Anja!», salutò l’amica con entusiasmo. «Scusa se non mi sono fatta sentire poi, ma per una cosa o per un’altra… mi sono dimenticata».

«Non fa niente», ridacchiò la ragazza. «Che fine hai fatto stamattina?».

«Ero in ritardo! Ma sono riuscita ad arrivare a scuola in orario, eh!».

«Davvero? Come hai fatto?».

«Volando!». Scoppiò a ridere. «No, seriamente… ho incontrato un… degli amici che mi hanno dato uno strappo», si corresse e guardò di sottecchi Franky, che però fece finta di nulla e continuò a coccolare il gattino che faceva le fusa.

«Ah, ho capito… Com’è andato il primo giorno di scuola?».

Evelyn chiuse gli occhi e serrò la mascella, cercando in tutti i modi di non pensare alla giornata che aveva trascorso a scuola. Non voleva che Franky vedesse le sue evidenti difficoltà e, soprattutto, le sue preoccupazioni sul conto di Samuel. Quella volta doveva cavarsela da sola, voleva farlo anche per dimostrare a suo padre che poteva benissimo scegliere da sé le persone con cui interagire e di cui fidarsi. (Ma quei dubbi proprio non volevano andarsene…).

«Bene, tutto okay», rispose con tranquillità, come se mentire fosse il suo mestiere. Sollevò timidamente gli occhi per verificare se Franky avesse captato qualcosa, ma lo trovò nella stessa identica posizione e con lo stesso sorriso sulle labbra. Probabilmente in quel momento non le stava frugando nella testa. Era solo nel cuore ora, perché più lo osservava più i suoi pensieri diventavano aria inconsistente e l’organo che la manteneva in vita impazziva.

«Evelyn? Evelyn, mi stai ascoltando?». Anja la riportò alla realtà e l’angelo quella volta si accorse che c’era qualcosa che non andava e la guardò con un enorme punto interrogativo sul viso, ma mai quanto il sorriso che aveva sulle labbra. Così scosse il capo per riprendersi e si mise a posto una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, le guance infiammate.

«Scusami, mi sono distratta un attimo. Che hai detto?».

«Ti ho chiesto se avevi bisogno di aiuto in qualche materia. Infondo hai perso un mese e mezzo di scuola e…».

«Non ti preoccupare», sorrise, manco potesse vederla. «Me la caverò».

«Se hai bisogno di aiuto però dimmelo eh, io sono disponibile».

«Grazie, grazie davvero Anja».

«Senti, Evelyn, io volevo chiederti…», balbettò incerta e la ragazza capì subito dove volesse andare a parare, per cui si avvicinò al letto e vi si mise seduta sopra, accanto al corpo di Franky.

«Si sa qualcosa di tua madre? Cioè… non è cambiato nulla?».

«No», mormorò con voce flebile.

Franky si girò, lasciando perdere Coco, si tirò su a sedere e prese delicatamente la nuca di Evelyn con una mano per farle appoggiare il viso contro la sua spalla. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni il suo profumo, poi le sfiorò la tempia in un bacio.

«Mi dispiace tanto», disse ancora Anja, mortificata. «Non volevo, io… forse non dovevo chiedertelo…».

«Non importa». Avvolse un braccio intorno al collo di Franky e si strinse un po’ di più a lui, trovando subito conforto. Stava così bene lì con lui, lo sentiva così vicino… Ma la tristezza che ricopriva il suo cuore come uno strato di gelatina non le permetteva di essere totalmente serena.
Forse era giusto così, perché quella gelatina – tremolante, incerta – le ricordava che sua madre stava ancora lottando e così doveva fare anche lei. Però quant’era difficile… Avrebbe voluto che qualcosa cambiasse, avrebbe fatto qualsiasi cosa purché sua madre desse qualche segno di miglioramento, ma ancora non era successo niente: ogni giorno era sempre uguale, sempre ferma nel suo letto, attaccata agli stessi macchinari, con la stessa flebo infilata nel braccio. Le uniche cose che guarivano erano le sue ustioni, ma che senso aveva che il corpo guarisse in quel modo quando c’era la possibilità che la sua mamma non riaprisse più gli occhi?

«Devo andare adesso», sussurrò ancora.

«Okay. Ci vediamo domani allora».

«Sì…».

«Buonanotte Evelyn».

«Anche a te, ciao».

«Evelyn?».

«Uhm?».

«Ti voglio bene».

La bionda accennò un sorriso, mentre una lacrima le filtrava fra le ciglia e scivolava sulla guancia. «Anch’io».
Non era certa che Anja avesse sentito, talmente l’aveva detto piano, ma chiuse la chiamata e abbandonò il cellulare sul letto. Avvolse anche l’altro braccio intorno al collo dell’angelo e rimase lì così, ad ascoltare il silenzio, il nulla, il loro tutto.

«Andiamo a fare una passeggiata, dai».

Evelyn annuì e prese per mano Franky, che la portò sulla terrazza. Si voltò verso di lei all’improvviso e lei rimase ad osservare il suo viso metà illuminato dalla luna e metà no senza fiato: era semplicemente perfetto. L’angelo si chinò su di lei e le posò un bacio sulla fronte, cingendole il viso con le mani. Poi la prese in braccio senza alcuna fatica e spiccò il volo.

Atterrarono non molto lontano dalla villa e proseguirono a piedi, in mezzo ai campi, per raggiungere il loro campo di girasoli.
Erano ancora mano nella mano e solo quel semplice contatto la faceva sentire bene, a casa, protetta da tutto e da tutti: con lui accanto non le sarebbe mai successo niente di male.

Mancava ormai poco alla loro destinazione e non avevano ancora spiccicato una parola. Forse Franky non aveva bisogno di parlare, siccome leggeva nel pensiero, ma Evelyn non ne era in grado e aveva un terribile bisogno di sentire la sua voce. Non sapeva però che cosa dirgli. E poi sembrava così immerso nei propri pensieri… o nei suoi, non poteva saperlo. Ma se stava pensando ai fatti suoi, avrebbe davvero voluto sapere tutto. Ora che ci pensava non sapeva nulla della sua vita, di quella che conduceva da angelo: gli aveva sempre chiesto cose che appartenevano alla sua vita precedente, quella di quando era ancora in vita, e non si era mai preoccupata della sua vita presente. Non conosceva nulla di lui, in questo senso: non sapeva nulla dei suoi problemi, non sapeva che cosa facesse di preciso, non sapeva se…

«Franky, posso chiederti una cosa?».

L’angelo, davvero immerso nei propri pensieri, ne venne quasi sbalzato fuori quando sentì la voce di Evelyn. E si sentì spiazzato, quando lesse nella sua mente uno squarcio di discorso che lì per lì non capì, visto che non aveva seguito tutto sin dal principio. I pensieri… così complicati da comprendere per una mente che non li ha concepiti direttamente.

«Sì, dimmi».

«Tu sei felice?».

Franky si voltò all’improvviso e la guardò negli occhi, tanto in profondità da capire ogni suo pensiero al volo. Il suo cuore, però, tremò quando incontrò quegli spicchi di cielo. Ecco, quella era la differenza fra i suoi occhi e quelli di sua madre: il suo azzurro era il cielo, quello di Zoe il mare. Due colori tanto simili, ma profondamente diversi.

L’angelo rispose con una risata amara fra i denti: «Ti sembrano domande da fare?».

«Perché? È una domanda come un’altra», fece notare, alzando di un poco le spalle.

«Sì, forse per una persona viva. Ricordi, io non lo sono più».

Quelle parole la colpirono profondamente, perché… perché sì, se n’era dimenticata. Era così naturale stare con lui, così semplice e normale, che si era scordata che fosse morto.

«Però non sembri infelice. Io… io ti vedo sempre sorridente», gli rispose, confusa più che mai. «Certo, questo non conta molto, però…».

«Infatti non sono infelice», le disse e aumentò il passo, quasi iniziò a correre per i campi, trascinandola dietro di sé. «Ma non sono nemmeno felice… cioè, è difficile da spiegare, ma sicuramente non avrei voluto andarmene così presto».

«Riesci ad immaginare la tua vita se tu non fossi…».

«Morto?», ridacchiò e si voltò verso di lei con un luccichio negli occhi.

I loro visi erano talmente vicini che Evelyn riusciva a distinguere tutte le sfumature di verde nei suoi occhi e a sentire il suo fiato mescolarsi al proprio.

Erano arrivati al loro campo di girasoli e si erano fermati nel solito corridoio, dove si erano sdraiati la prima volta per parlare e guardare le stelle; oppure solo per stare in silenzio. Era così bello il silenzio, insieme a lui.

«Sì, riesco ad immaginarmela», le rispose e si lasciò cadere seduto sull’erba, le gambe incrociate e gli occhi chiusi rivolti verso la luna che gli illuminava il volto.

Evelyn si mise seduta al suo fianco timidamente e con la massima cautela, quasi con la paura che un movimento brusco lo interrompesse. Si strinse le gambe al petto, il mento fra le ginocchia, e rimase in silenzio ad osservarlo e ad ascoltarlo.

«Avrei finito la scuola, mi sarei diplomato con il minimo dei voti, avrei continuato a fare skate, magari in modo professionistico… e da grande avrei fatto il poliziotto». Sorrise alla luna ed aprì gli occhi per incrociare quelli incuriositi della ragazza. «Alla fine sempre di proteggere le persone si tratta… Anche se mia madre avrebbe voluto che io diventassi avvocato, o medico».

«Ti vedrei bene con il camice bianco», gli disse, arrossendo appena sulle guance.

«Dici? Peccato ci vogliano anni e anni di studi e io non sono proprio portato… Mi sarebbe piaciuto, anche questo è salvare vite».

«E poi?», chiese ancora.

Franky, conscio di ciò che avrebbe dovuto dire, accennò una risata ed abbassò il capo. Parlò piano, perché quella era la parte della sua non-vita che faceva più male. «Sarei rimasto con tua madre e l’avrei sposata. Forse Bill non si sarebbe mai accorto veramente che era innamorato di lei e se l’avesse capito non gli avrei mai permesso di portarmela via. Probabilmente… non so, forse sarei diventato pure padre, prima o poi, ma…». Alzò il capo e la guardò negli occhi. Evelyn inclinò il capo, senza capire, e avrebbe tanto voluto leggergli nel pensiero.
«Insomma», riprese l’angelo, riabbassando la testa. «Sarebbe stato tutto diverso e… se io fossi stato vivo non saresti nata tu, Evelyn Kaulitz. Per… per questo un po’ sono felice, perché… perché ci sei tu».

La ragazza non chiese delucidazioni, preferì la beata ignoranza che le stava riempiendo il cuore d’amore, facendole credere davvero che Franky provasse qualcosa di più del semplice affetto per lei. Un piccolo sorriso, ma infinitamente carico di sentimento, le si dipinse sulle labbra e si fece più vicina a Franky per abbracciarlo. Gli allacciò le braccia intorno al collo e rimasero così, stretti nel freddo della sera, illuminati solo dalla luce lunare, per diversi istanti, in una bolla spazio-temporale.

Quando però Evelyn si scostò, incrociò il suo sguardo liquido e lì per lì il suo cervello si fuse e il suo cuore pompò ancora più velocemente il sangue nelle vene. Le punte dei loro nasi si sfioravano ed erano troppo vicini, troppo, tanto che i suoi occhi si posarono lentamente sulle labbra di un Franky immobile, che la osservava senza battere ciglio, e poco dopo le labbra della ragazza ci si adagiarono sopra, delicate come il battito d’ali di una farfalla.
Franky chiuse gli occhi al contatto con le labbra di Evelyn, ma assaporò solo in minima parte la bellezza di quel bacio che era semplicemente un contatto di labbra, nulla di più e nulla di meno. Durò poco più di due secondi, ma fu e sarebbe stato sconvolgente per entrambi.

Fu l’angelo a scostarsi e a sospirare pesantemente, sempre ad occhi chiusi. Si alzò in piedi e si allontanò di qualche passo da Evelyn, che non aveva osato più guardare.

«Franky», mormorò questa, alzandosi a sua volta e avanzando di un passo nella sua direzione. Ma si bloccò su quell’unico passo, mentre il suo cuore si arrestava per farle capire quanto fosse intenso quel dolore.

«Ti riporto a casa», le disse atono e si voltò, la prese fra le braccia senza farsi troppi problemi e spiccò il volo.

Ci misero pochissimo ad arrivare e probabilmente fu perché Franky non aveva dosato bene la propria velocità: non a caso Evelyn aveva la nausea, come se avesse girato su una giostra che andava troppo veloce.
Le lasciò toccare le travi di legno della terrazza con la punta dei piedi e sciolse l’abbraccio, ma la ragazza barcollò comunque e si dovette aggrappare alle braccia salde dell’angelo per non cadere.

«Scusa, mi dispiace», mormorò Franky e le passò una mano di fronte al viso per farle passare la nausea. E in effetti il fastidio si alleviò notevolmente. «Ora devo andare».
Fece due passi indietro, con gli occhi puntati sul pavimento, poi si voltò e portò un piede sul parapetto per spiccare di nuovo il volo, ma la mano di Evelyn si artigliò alla sua.

«No, Franky, aspetta, io…», gli disse con voce flebile e le lacrime agli occhi. Però la tristezza e la smorfia di puro dolore che l’angelo aveva sul viso le spezzò il cuore e le bloccò le parole in gola, insieme al magone.

Franky si liberò dalla stretta della sua mano, con una lentezza esasperante, e con un solo battito d’ali si ritrovò nel blu più blu del cielo.
Evelyn lo guardò sparire alla sua vista e il dolore in mezzo al petto aumentò, mentre calde lacrime le scivolavano sul viso e la nausea tornava.

 

Zoe, spazientita, fece cadere bruscamente il pendolo di Newton sulla superficie lucida della cattedra e Franky ritornò alla realtà, senza però dare a vedere nessuno dei sentimenti contrastanti che si stavano facendo la guerra dentro di lui: la sua espressione era ancora la stessa, apatica e seriosa.

La guardò negli occhi impassibile e si alzò in piedi facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento. 
«La lezione è finita», annunciò ed abbandonò l’aula lasciando dietro di sé il silenzio più assoluto.

 

***

 

Evelyn scese al piano inferiore e si passò un’ultima volta le mani sul viso, sperando che non si notasse che aveva pianto, prima di sporgersi in salotto e farsi vedere da suo padre.

Lo vide seduto sul tappeto, con le spalle al divano e la testa abbandonata nell’angolo creato dalla forma ad L di esso. Aveva un paio di grandi cuffie sulle orecchie, gli occhi chiusi e sulle gambe teneva l’agenda nera su cui scriveva tutti gli abbozzi per le sue canzoni. Lei sapeva che in quel periodo di sofferenza ne aveva scritte un bel po’, ma che non aveva mai avuto la forza di cantarle.

Lo raggiunse e si mise seduta al suo fianco. Nascose ancora di più le mani nelle maniche della felpa e strinse le gambe al petto, come se volesse riscaldarsi e proteggersi, nonostante non facesse freddo né ci fossero pericoli. Senza Franky accanto e sapendolo arrabbiato, forse ferito per quello che aveva fatto, il freddo lo sentiva eccome, dentro; per non parlare del senso di nudità che si sentiva addosso: lui, andandosene, si era portato via un pezzo di lei e ora era senza difese, completamente scoperta agli attacchi del mondo.

Appoggiò inconsciamente la testa nell’incavo della spalla di suo padre e lui sussultò, colto di sorpresa.

«Tesoro», sfiatò Bill, togliendosi le cuffie e lasciandole sul pavimento. «Scusa, non ti ho sentita arrivare».

«Non fa niente», sussurrò, sfregando il viso contro il suo collo. Tirò su col naso, colta da nuove lacrime, e suo padre sospirò, abbracciandola e tenendola stretta a sé.

«Va tutto bene amore, va tutto bene».

Lo sapevano entrambi che non era affatto così, per un motivo o per un altro, ma continuavano a mentirsi, pensando che convincersi di questo fosse la soluzione migliore per soffrire un po’ di meno. Era così, in effetti, ma era solo un’apparenza.

«Voglio andare da mamma», biascicò la ragazza.

Le accarezzò i capelli per tutta la loro lunghezza, teneramente. «Non è un po’ tardi? Sono quasi le undici… Non è orario di visita».

«Non mi importa, papà. Ho bisogno di lei».

Bill sospirò, socchiudendo gli occhi. «Va bene, andiamo».

 

***

 

«Okay, basta Franky», esordì subito Zoe, appena fu di fronte all’angelo, che sollevò il capo e la guardò: aveva le mani sui fianchi, come faceva spesso sua madre quando si arrabbiava con lui, e la sua espressione infuriata non prometteva nulla di buono. Ma Franky sapeva – telepatia o meno – che era solo preoccupata per lui. «O mi dici che cos’hai, o me lo dici: scegli».

«Non ne voglio parlare», sospirò alzandosi in piedi dalla panchina del parco della scuola su cui si era seduto nel frattempo che aspettava la sua protetta.

«Non me ne frega niente! Tu ne devi parlare!», urlò. Lo prese per il braccio e lo fece voltare verso di lei: lo guardò negli occhi severa, ma allo stesso tempo con la comprensione di una mamma.
«Sono la tua migliore amica, perché non vuoi parlarne con me?», continuò, ammorbidendosi.

Perché non posso, non posso Zoe!

Non poteva dirglielo, non poteva confessarle che le aveva mentito per tutto quel tempo dicendole che si era innamorato di un angelo, quando in realtà si era innamorato di sua figlia, che aveva persino baciato. Cioè, lei aveva baciato lui, ma era come se fosse colpa sua: lui era quello che avrebbe dovuto avere quarant’anni nella testa, lui avrebbe dovuto dimostrare un po’ di intelligenza e di responsabilità, lui avrebbe dovuto fermarla appena aveva letto nei suoi fugaci pensieri che aveva l’intenzione di baciarlo. Ma non l’aveva fatto. E inoltre, come se tutto questo non bastasse, aveva preferito scappare di fronte al problema: dopo quella sera non si era più fatto vedere da Evelyn né da nessun altro, non era più sceso di sotto, il tutto per paura. Lui, il fantastico angelo custode e professore Franky aveva paura, nemmeno come un ragazzino, proprio come un bambino.

Abbassò lo sguardo per l’ennesima volta. «Mi dispiace», scosse il capo.

Zoe non si sarebbe mai aspettata una reazione del genere e scioccata gli lasciò di colpo il braccio. «Allora è così che stanno le cose», mormorò.
Sentì una forte fitta alla testa e strinse gli occhi, credendo che fosse per il nervosismo, nulla di preoccupante. Però la fitta non passò dopo qualche secondo, continuò ad aumentare d’intensità, ma non ci badò: sarebbe passata, prima o poi.

«Così come, Zoe?!», le gridò, fuori di sé. Aveva i nervi a fior di pelle e lei li stava solo punzecchiando, continuando ad insistere. Perché non riusciva a capirlo come quando erano piccoli, perché fra loro non c’era più tutta quella magia?
Perché Zoe è cresciuta, io sono sempre il solito sedicenne…

«Non capisco perché tu non ti voglia confidare con me! Che cosa mi nascondi?! Io sto diventando pazza! Conosci meglio di me tutti i miei pensieri in proposito e mi sto preoccupando da morire!».
Il dolore alla testa continuava a crescere e si portò con nonchalance una mano sulla tempia, la massaggiò per alleviare quella sofferenza, ma nulla.

«Non hai nulla di cui preoccuparti! Sono problemi miei, che non ti riguardano!», le rispose, alzando ancora di più la voce.

«E da quando i tuoi problemi non mi riguardano più, eh?!», provò ancora a ribattere, ma oltre al dolore insopportabile ora vedeva anche annebbiato e tutto intorno a lei girava, mentre avvertiva uno stranissimo senso di vuoto sotto i piedi. Capì che le stava accadendo esattamente quello che le era successo qualche giorno prima troppo tardi per chiedere aiuto a Franky.

«Da quando –!», l’angelo si interruppe bruscamente e fece uno scatto in avanti per prendere al volo Zoe, alla quale avevano ceduto le gambe: stava precipitando nel vuoto.

La sdraiò sulla panchina, tenendole il capo con una mano, e la osservò in lungo e in largo per capire d’istinto che cosa avesse. In un attimo tutta la rabbia che gli era scoppiata dentro durante quel litigio svanì, sostituita dalla preoccupazione e dal panico.

«Zoe! Zoe, che ti prende?», le domandò, ma lei non rispose, anzi iniziò a tremare, talmente forte da sembrare che avesse le convulsioni, e a stringere un lembo della giacca di Franky fra le dita.

«Franky sto male, sto male, aiuto!», gridò ma lui parve non sentirla. Proprio come era successo qualche giorno prima in ospedale, tutto ciò che sentiva e che faceva rimaneva dentro di sé, le era impossibile comunicare e dimostrare in modo evidente la propria sofferenza. Ma riusciva a sentire quello che diceva lui e anche quello che dicevano Bill ed Evelyn, urlando spaventati.

Bill ed Evelyn? pensò in un attimo di lucidità. Quindi sta accadendo qualcosa al mio corpo… L’altro giorno non mi sono lasciata andare, non volevo precipitare, ma se il mio corpo mi stesse chiedendo di entrare dentro di lui? Devo provare a lasciarmi andare, a precipitare? Possibile che faccia così male?

Franky, con il battito cardiaco a tremila, non sapeva minimamente che cosa fare. Non era mai successa una cosa del genere, né ricordava di averne mai sentito parlare da qualcuno: un altro imprevisto del mestiere da raccontare ai propri alunni.

«Aiuto! Che qualcuno mi aiuti!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, guardandosi intorno. Erano anni che non chiedeva aiuto a qualcuno, di solito erano gli altri che chiedevano aiuto a lui…

«Stai tranquilla Zoe», disse alla propria protetta, cercando di essere il più convincente possibile, nonostante non sembrasse capirlo molto in quel momento. «Andrà tutto bene, resisti».

«Franky, che succede?».

Si voltò di scatto all’udire quella voce familiare e la speranza lo rianimò. «Kim! Ti prego Kim, aiutami! Non so che cosa le sia preso!».

L’angelo speciale controllò subito Zoe e scosse il capo, mordendosi il labbro. «Non ho idea di cos’abbia!».

«Merda!», gridò Franky. «Devo… devo andare di sotto, devo vedere se il suo corpo sta bene. È l’unica cosa che posso fare».

«E io… io che devo fare?», gli domandò Kim, mentre il panico assaliva pure lei.

«Tu stai con lei, chiama qualcuno e portala in ospedale!», le gridò, mentre già correva per raggiungere l’Ufficio di Collegamento.

 

***

 

«Non sarebbe possibile andare a far visita adesso alla paziente, non è l’orario adatto», disse l’infermiera.

«Ma…?», la incalzò Bill, con un mezzo e fintissimo sorriso.

«Ma per questa volta…», gli fece l’occhiolino e gli fece segno di seguirla.

Evelyn, che era rimasta seduta in disparte mentre suo padre e l’infermiera si mettevano d’accordo, li raggiunse appena vide che si stavano avviando verso la stanza di sua madre.

«Però quando vi verrò a chiamare dovrete uscire», dettò quella condizione all’ultimo momento, di fronte alla stanza di Zoe. Bill acconsentì per levarsela dalle scatole ed osservò la figlia, timidamente nascosta dietro di lui.

«Ehi…», l’abbracciò, tenendo una mano sulla sua nuca, e le sfregò la schiena per infonderle quel briciolo di coraggio che a stento sopravviveva dentro di lui. «Vuoi andare da sola?».

«Sì, grazie», biascicò e provò a sorridergli, con scarsi risultati.

Entrò nella stanza e si chiuse delicatamente la porta alle spalle, poi si avvicinò al letto dove riposava immobile la sua mamma e guardò con passiva curiosità i macchinari a cui era collegata: era tutto come sempre, non era cambiato nulla.
Si mise seduta sulla sedia affianco al letto e posò il capo sul materasso, prese la mano di sua madre e la mise sopra la propria testa, per avere almeno l’illusione che le stesse accarezzando i capelli.

«Sono una stupida», le confidò, a mezza voce. «Ho fatto la stupidata più grande della mia vita e rischio che una delle persone a cui tengo di più non voglia più vedermi. Non riesco a vedere questa persona, né a parlarci. Vorrei chiederle scusa, ma a che serve? Il danno è fatto ormai…
«Mamma… al cuore non si comanda, ma perché ci si innamora sempre delle persone sbagliate? Tu sei stata così fortunata… Hai papà e hai avuto Franky, che… che ti ha amata con tutto se stesso fino alla fine dei suoi –». Si interruppe a causa degli acuti e frequenti “bip” provenienti dalla macchina che monitorava la pressione e i battiti cardiaci.

Si alzò in piedi di scatto, nel panico più assoluto. «Mamma! Mamma!», gridò ed iniziò a piangere, in una reazione totalmente spontanea.

Suo padre entrò subito nella stanza, allarmato, e poco dopo di lui una squadra di infermiere e un medico fecero capolino nella camera. Iniziarono a parlare fra loro in toni concitati, in termini che né Bill né Evelyn riuscivano a capire: sapevano solo che non stava succedendo nulla di bello.

Evelyn avrebbe voluto che qualcosa cambiasse, ma non intendeva in peggio.
«Mamma ti prego non mi abbandonare», piagnucolò ancora la bionda, aggrappandosi con tutte le sue forze al petto del padre, terrorizzato quanto lei se non di più.

«Che cosa sta succedendo?», ebbe la forza di chiedere lui ad un certo punto, mentre le infermiere si davano da fare per intubarla.

«Li porti fuori da qui», disse il dottore in camice bianco ad un’infermiera, la stessa che gli aveva concesso di far visita a Zoe.

«Forza, venite», disse in tono pacato, invitandoli ad uscire fuori dalla camera, ma Bill oppose resistenza.

«Io voglio sapere che cosa sta succedendo, è mia moglie!», gridò, sull’orlo della disperazione.

Fu allora che vide Franky entrare trafelato dalla finestra, con il petto che si alzava e si abbassava in modo irregolare e fin troppo frequente. L’angelo si precipitò subito dal corpo di Zoe e Bill non vide altro che le lacrime che gli rigavano il viso, perché l’infermiera aveva approfittato del suo momento di distrazione per spingerlo fuori dalla stanza con la forza.

Il cantante abbassò lo sguardo su Evelyn, seduta per terra, con le spalle alla parete e le gambe strette al petto, rigida come un pezzo di legno. Si inginocchiò di fronte a lei e l’abbracciò: tremava.

«C’è Franky con lei, andrà tutto bene», le sussurrò.

Il cuore di Evelyn cedette: due persone che amava erano ad un passo da lei, rischiava di perderle e non poteva fare assolutamente niente.

 

Il dottore che si era occupato di Zoe raggiunse la sala d’aspetto ed individuò subito i familiari della paziente. Si avvicinò a loro per informarli sull’attuale situazione e contemporaneamente Bill lo notò e gli andò incontro, preoccupato fino alla punta dei capelli.

«Mi dica che non è nulla di grave», disse subito, mentre gli si inumidivano gli occhi. Evelyn e Tom, che era subito corso all’ospedale dopo aver ricevuto una telefonata del gemello, li affiancarono.

Il medico gli fece segno di seguirlo nel corridoio, dove avrebbero potuto parlare lontano da orecchie indiscrete, e sospirò stancamente.

«La prego», continuò ancora Bill e strinse inconsciamente il braccio del fratello.

Tutti e tre sobbalzarono alla visione di un Franky stravolto e privo di forze che trapassava la porta della camera e barcollava fino al muro di fronte, per poi scivolare su di esso e sedersi sul pavimento. Gli mancava il fiato, faceva persino fatica a respirare, e aveva la nausea, talmente grande era stato il suo sforzo.

«Mi dispiace davvero molto», parlò finalmente il dottore e tutti e tre puntarono gli occhi su di lui, anche se continuavano a lanciare occhiatine ansiose verso l’angelo. «Purtroppo le condizioni della signora Kaulitz si sono aggravate: abbiamo dovuto intubarla e…».

«Che cosa? Parli!», berciò Tom, spazientito.

Il dottore scosse il capo, sconsolato. «Quello che voglio dire è che iniziano ad “incepparsi” alcune delle più importanti funzioni vitali, come in questo caso la respirazione, per questo abbiamo dovuto intubarla. Il mio collega ha fissato per domani mattina una visita neurologica per verificare che non stia lentamente avvenendo una necrosi del sistema nervoso centrale».

«Ma si riprenderà, vero?», balbettò Evelyn.

Il medico la guardò apprensivo. «Non posso assicurare nulla, dobbiamo almeno avere i risultati della visita neurologica».

No, non poteva succedere davvero… sua madre non si sarebbe più svegliata? Cercò subito lo sguardo di Franky e lo vide portarsi le mani sul viso e scoppiare a piangere.

«Mi dispiace».

Detto questo, il dottore si allontanò lungo il corridoio, lasciandoli soli e nel silenzio più assoluto, spezzato solo dai singhiozzi di Franky. Era disperato, nessuno l’aveva mai visto così: sembrava proprio un bambino, piccolo ed indifeso.

Tom andò da Franky e lo prese per le spalle. «Dimmi che sta scherzando. Dimmi che sta scherzando!», urlò, mandando giù il nodo che gli si era formato in gola, fra le corde vocali, e scuotendolo.

«Io-io non lo so!», gridò, straziato dal dolore, e abbandonò il capo sulla spalla di Tom, che gli accarezzò la nuca.

Evelyn si appoggiò al muro e si lasciò scivolare su di esso, si mise seduta per terra, accanto all’angelo ma nemmeno troppo, e guardò suo zio Tom accudirlo come se fosse suo figlio. Avrebbe voluto esserci lei al suo posto, ma non poteva mandare tutto all’aria proprio in quel momento, in cui già rischiava di perderlo per quel bacio. Stava soffrendo vedendolo così e stava soffrendo per la notizia che il medico le aveva appena dato.

Franky, dal canto suo, voleva che non fosse Tom ad abbracciarlo. Avrebbe voluto appoggiarsi alla spalla di Evelyn, avrebbe voluto essere rassicurato da lei e infondere coraggio a lei; lui soffriva per quel muro di parole non dette che li divideva e soffriva il doppio, perché le donne che gli avevano rubato il cuore stavano male e lui non sapeva minimamente che cosa fare.

Il suono di due cellulari echeggiò nel corridoio e sia Franky che Evelyn si portarono le mani sulle tasche dei pantaloni.

«Che succede?», chiese Tom, guardandoli entrambi.

«È Kim», sussurrò Franky con voce rauca, asciugandosi il viso. Evelyn invece non rispose, il messaggio che aveva ricevuto lei non era importante come poteva essere quello ricevuto da Franky.

«E chi sarebbe Kim?», domandò ancora il chitarrista, che ci stava capendo poco o niente. «Franky, chi cavolo è…?».

«Devo andare», lo interruppe e si alzò.

Tom lo prese per il polso e lo guardò negli occhi. «No, tu non te ne vai proprio da nessuna parte!».

«Invece sì», berciò. «Si tratta di Zoe, devo andare».

«E non puoi nemmeno spiegarci quello che sta succedendo?».

Lo guardò truce e con gli occhi arrossati di pianto sembrava ancora più arrabbiato di quanto non lo fosse. «Non lo so quello che sta succedendo, Tom!».

«Che cosa c’era scritto in quel messaggio?», continuò lui, imperterrito.

«Che… che… hanno capito che cosa le è successo e ne vogliono parlare con me, faccia a faccia». Si passò le mani fra i capelli, facendo un mezzo giro su se stesso, e sospirò sonoramente, afflitto. «Non so niente, proprio come voi».

«Promettimi che quando saprai qualcosa tornerai e ce lo verrai a dire». Lo guardò quasi supplichevole e Franky non poté dire di no, anche se questo voleva dire vedere ancora Evelyn e soffrire.

«Certo», promise.

«Franky!», il chitarrista lo chiamò un’ultima volta e l’angelo si girò, spazientito. «Buon compleanno…».

Franky boccheggiò, sorpreso. Si era completamente dimenticato di che giorno fosse e nemmeno Zoe glielo aveva ricordato, del tutto priva della concezione del tempo che passava. Accennò un sorriso e sventolò una mano in aria, come a voler scacciare una mosca – non era proprio il momento adatto per gli auguri, – poi sparì di fronte ai loro occhi.  

Tom sospirò, socchiudendo le palpebre, e si voltò verso Bill. Non era più accanto ad Evelyn, ma di fronte alla stanza di Zoe, che sbirciava all’interno grazie alla finestrella incastonata nel legno della porta.

«Bill?», lo chiamò preoccupato. Il gemello si irrigidì e strinse le mani in pugni, tanto forte da far diventare le nocche bianche. Si passò le mani sul viso, con rabbia, per spazzare via le lacrime che gli ardevano sulle guance.
«Non è giusto», sibilò, tirando un pugno sul muro. E poi un altro. E un altro ancora. «Non è giusto!».

 

***

 

«Eccomi, di che si tratta?», chiese col fiatone, ancora a metà corridoio.

San Pietro, Kim e la sua infermiera preferita aspettarono che Franky li raggiungesse prima di spiegargli tutto quanto. Lui aveva capito subito che si trattava di qualcosa di serio, visto che era presente anche il santo.

«Vi prego, non fatemi stare sulle spine», disse ancora, mentre con la coda dell’occhio sbirciava all’interno della camera di Zoe: dormiva tranquillamente, proprio come se non fosse successo niente.

«Il corpo della tua amica ha cercato di ricongiungersi al suo spirito», gli spiegò l’infermiera. «Nonostante non fosse pronto».

«Cosa significa?», chiese confuso. Cercò di intercettare lo sguardo di San Pietro, per avere maggiori informazioni al riguardo, ma il santo non lo calcolò nemmeno, anzi voltò il viso, duro come la pietra, verso la porta della camera di Zoe.

«Significa che il corpo si sente pronto, ma in realtà non lo è. Prova e riprova ad attirare lo spirito dentro di sé, ma non ci riesce e provoca solo dolore ad entrambi, li danneggia, si fa male da solo».

Franky era senza fiato e gli occhi gli pizzicavano terribilmente. Non stavano dicendo davvero, era impossibile che andasse a finire così.

«Quando succedono questi episodi vuol dire che ci sono scarsissime possibilità che il corpo e lo spirito si riprendano», continuò l’infermiera, amareggiata. «Mi dispiace, tesoro».

«Ma… ma non è detto, cioè… qualche probabilità c’è…», balbettò l’angelo custode, col cuore infranto.

«Sono rarissimi casi».

«Zoe… Zoe sarà uno di quelli», disse, tentando di convincersi. Sarebbe andata sicuramente così, Zoe non poteva non salvarsi.

L’infermiera accennò un sorriso carico di dispiacere e lo attirò in un abbraccio, poi si avviò lungo il corridoio, facendo echeggiare i propri zoccoli sul pavimento lucido.
Kim fece un passo verso di lui e gli avvolse le braccia intorno alla schiena rigida. Franky non ricambiò l’abbraccio, ma rimasero così per qualche secondo, poi lei gli sussurrò all’orecchio: «Ce la farà, vedrai». Gli diede una pacca sul braccio e gli rivolse un breve sorriso prima di allontanarsi a sua volta, lasciandolo solo con San Pietro.

Franky posò lo sguardo sul santo: era freddo, distaccato… sembrava arrabbiato con lui per qualche motivo a lui sconosciuto. Si morse la lingua perché non poteva leggergli nella mente come avrebbe potuto fare con tutti gli altri: lui, essendo un’autorità più che importante e dagli enormi poteri, aveva una barriera a proteggergli i pensieri.

Finalmente il santo diede qualche segno di vita, tossicchiando. «Salutamela e falle gli auguri da parte mia, appena si riprende», si raccomandò e senza nemmeno sfiorarlo lo aggirò, per andarsene.

L’angelo si voltò di scatto, ma non troppo sicuro di voler sapere che cosa avesse fatto di sbagliato, tanto da provocare quell’allontanamento da quel pezzo di pane che era San Pietro. «C’è qualcosa che non va? Qualcosa che deve dirmi?», gli domandò, titubante.

Il santo si fermò, lo guardò e scosse il capo, quasi sconsolato, poi girò l’angolo. Franky, ancora con un mucchio di pensieri per la testa, guardò all’interno della camera attraverso la finestrella sulla porta e notò che le palpebre di Zoe stavano per sollevarsi, così entrò.
Si chiuse dolcemente la porta alle spalle e si mise seduto sul letto, accanto alla sua protetta, mentre lei ancora faticava per tenere gli occhi aperti.

«Che cos’è successo?», gli domandò con voce rauca e lamentosa: si sentiva a pezzi.

Franky intrecciò una mano con la sua e sospirò. Tanto, prima o poi avrebbe dovuto dirle tutto: meglio togliersi subito il pensiero.

 

***

 

«Piccola».

«Ehi, è tutto a posto?».

Tom lasciò che la tenda tornasse a ricoprire la porta finestra della cucina e si mise seduto al tavolo da pranzo, sospirando.

«No, affatto».

«È… è grave?», gli domandò Linda, preoccupata.

«Da quello che ha detto il dottore, sì: Zoe sta peggiorando, domani le faranno una visita neurologica».

«Oddio, Tomi…», sussurrò mortificata e Tom poteva immaginarsela mentre le si velavano gli occhi di lacrime e si portava una mano di fronte alla bocca. «Bill e Evelyn come stanno?».

«Stanno…», si sporse in salotto e li vide abbracciati sul divano, che cercavano di darsi forza l’un l’altro. «Sono distrutti, come lo siamo tutti. Mi dispiace di avertelo detto per telefono…».

«No… non importa», ma non riuscì a trattenere un singhiozzo. Lei e Zoe, infondo, erano amiche da anni e sapere che quest’ultima stava lottando ora più di prima fra la vita e la morte le aveva infranto il cuore.
«Quando torni?», gli chiese allora, tirando su col naso.

«Tra un po’. Bill…».

«Okay, ho capito», sussurrò, interrompendolo. «Ti amo».

«Ti amo anche io», sospirò in risposta e qualche secondo dopo Linda chiuse la chiamata, lasciandolo con una tonnellata in più ad appesantire il suo cuore.

Tom tornò a guardare fuori dalla porta finestra e, grazie ai piccoli faretti piantati in giardino, notò la figura di Franky venir trapassata dalla luce, dandogli un aspetto un po’ spettrale. Lo osservò andare verso le porte scorrevoli del salotto, poi cambiare idea e tornare indietro, riprovarci e perdere nuovamente il coraggio, fino a quando non si mise seduto sull’altalena che fino a qualche anno prima era il passatempo preferito della sua nipotina.
Gettò un’ultima occhiata verso il salotto: né Bill né Evelyn si erano accorti dell’angelo, quindi decise di raggiungerlo da solo, per capire di cosa avesse paura, tanto da…

Quello che è successo a Zoe. Ha paura di dircelo, dedusse e lo raggiunse più velocemente, accentuando una corsetta.

Appena Franky avvertì la sua presenza chiuse gli occhi e aspettò che Tom gli posasse le mani sulle spalle per scuoterlo per fargli vedere tutto quanto: lui era abbastanza forte da reggere quel colpo e lo avrebbe aiutato con Bill e Evelyn.

 

Zoe provò a tirarsi sui gomiti con immensa fatica, ma dovette rinunciare ed abbandonò il capo al cuscino. «Ti prego Franky, dimmi che cosa mi è successo», tossì.

«Non ti ricordi nulla?», le domandò con poca voce.

«Ricordo solo che è tre giorni che non abbiamo un dialogo decente perché hai sempre per la testa i fatti tuoi».

«Ti ricordi dell’ultima lezione a cui hai partecipato, stasera?».

«Sì…», balbettò. «Ricordo che è stato come se tu non ci fossi e che poi, quando la lezione è finita, sono uscita fuori, ti ho trovato nel parco e abbiamo litigato, poi…».

«Poi?».

«Poi sono precipitata».

Corrugò la fronte: non era quello che si era immaginato di sentire. «In che senso sei precipitata?».

«È la sensazione che ho provato… Ma non è stata la prima volta».

«Che cosa?! Questa non è stata la prima volta che ti è successa una cosa del genere?». Questa poi, era una vera sorpresa. Zoe chiuse gli occhi e deglutì, annuendo.

«E perché non me l’hai mai detto?», le gridò contro, seppur mantenendo un tono di voce moderato. «Avrei potuto prevenire tutto questo, a quest’ora…».

«L’avrei fatto, ma tu non me l’hai permesso!», gli urlò in tutta risposta, spalancando gli occhi col fiato grosso. «Da quando ho capito che ti era successo qualcosa ho provato in tutti i modi a farti aprire, ma non ne hai voluto sapere e così mi sono detta che ti dovevo lasciar stare, che saresti venuto tu a confidarti con me di tua spontanea volontà… E poi non credevo che fosse così importante!».

«Beh, si da il caso che lo sia! Hai avuto quella specie di crisi perché il tuo corpo cercava di riportarti dentro di sé, ma non ne è stato in grado perché non è ancora pronto. E nonostante non sia pronto, ci proverà e riproverà, fino a quando non vi autodistruggerete entrambi!».

Zoe lo guardò intensamente negli occhi e Franky resse lo sguardo. Avevano entrambi il fiato corto, tanto era stato il loro gridarsi contro. Agli occhi di chiunque potevano sembrare arrabbiati, ma erano solo frustrati, distrutti, pieni di dolore.

La solita infermiera entrò nella stanza e li guardò severamente, come una madre guarda i propri bimbi ancora svegli dopo avergli detto di andare a dormire.
«Scusate se questo è un ospedale e non siete gli unici. Devo buttarla fuori a calci, professore?».

«No», mormorò lui. «Ci scusi, abbasseremo i toni».

L’infermiera annuì, soddisfatta del proprio operato, e si chiuse la porta alle spalle.

«Non ho alcuna speranza, vero?», gli domandò Zoe con un fil di voce, mentre le prime calde lacrime le graffiavano le guance.

«No, piccola, no», le sussurrò fra i capelli, stringendola forte a sé. «Tu ce la farai, te lo prometto, costi quel che costi».

 

Tom staccò le mani dalle spalle dell’angelo e venne sbalzato fuori da quel fiume di parole e di immagini. Ogni volta che Franky gli faceva fare quelle full-immersion nella sua mente ne usciva sempre scosso, non gli piaceva affatto rivivere i suoi ricordi con i suoi occhi, si sentiva fuori posto.
Quella volta in particolare ne uscì in malo modo, perché quello che aveva visto e sentito era stato peggio che una pugnalata al cuore. Aveva visto lo spirito di Zoe, la sua sofferenza, il suo sconforto e le sue lacrime, e aveva avuto la spiegazione non medica e scientifica, ma quella spirituale di ciò che le era successo, che gli sembrava addirittura peggiore di quella che potevano offrirgli i dottori.

«Scusami», sussurrò Franky.

«Sei uno stronzo», mugugnò il chitarrista. «Ma non importa, dobbiamo dirlo anche a Bill e ad Evelyn».

Franky si alzò dall’altalena e, fianco a fianco col suo migliore amico, raggiunse le porte vetrate del salotto. Non si sentiva pronto, ma aveva lui accanto, sentiva la sua forza e il suo coraggio passare in lui solo grazie alle loro braccia che si sfioravano, proprio come piccole scosse di energia elettrostatica.
L’angelo trapassò il vetro con una mano e aprì la porta dall’interno, poi la fece scorrere e fece entrare per primo Tom.

«Non c’è bisogno che fai il cavaliere», lo rimbeccò e gli sorrise, poi salutò Bill ed Evelyn, piuttosto sorpresi, con un cenno della mano. «È arrivato», disse, indicando con il pollice Franky.

Bill sospirò sollevato: non ce la faceva più ad aspettare. «Dimmi che hai buone notizie», lo implorò.

A Franky era mancato il respiro sin dall’inizio, quando aveva incrociato gli occhi azzurri ed arrossati di Evelyn. Ora, nel sentire quelle parole, gli si era rivoltato lo stomaco. Come poteva dargli una notizia del genere?
Tom gli diede una spintarella sulla schiena per farlo avanzare e allo stesso tempo infondergli coraggio. L’angelo si avvicinò ai due e con cautela si mise seduto nell’angolo opposto a loro, sul divano ad L. Il chitarrista non smise di restargli vicino.

Franky chiuse gli occhi, respirò a fondo e non seppe neppure come, ma raccontò tutto quello che era successo e che sapeva, senza mai interrompersi, se non per prendere il fiato che in realtà non gli serviva. Era stato come un fiume a cui erano stati spazzati via gli argini: incontenibile, inarrestabile. Però il trucco c’era, ciò che gli aveva permesso di non incepparsi mai: non aveva mai alzato lo sguardo per incrociare gli occhi di Bill o, ancora peggio, di Evelyn. Lo fece solo una volta finito il proprio monologo, quando Tom gli posò una mano sulla schiena, a mo’ di conforto, e fu una vera e propria sofferenza.

«Franky», sussurrò Bill e lo guardò con gli occhi colmi di lacrime e rossi di pianto: «Grazie». Poi si alzò e a passo svelto salì le scale per rifugiarsi in camera sua.
Evelyn fece lo stesso qualche minuto di silenzio dopo, anche se avrebbe tanto voluto gettarsi fra le braccia dell’angelo e piangere lì ogni singola lacrima.

«Che fai, stai qui?», domandò Tom a Franky.

Se fosse stato intelligente, avrebbe detto di no e avrebbe chiesto asilo al suo migliore amico. 
«Sì», rispose annuendo e, resosi conto della sua stupidità, provò a darsi una motivazione nella quale non c’entrasse quella maledetta ragazza che gli aveva fottuto la testa. «Preferisco stare accanto a Bill».

«Okay. Allora io torno a casa». Batté le mani sulle ginocchia e si alzò. «Se hai bisogno di me io ci sono». Gli fece un buffetto sulla guancia, poi raccolse la giacca che aveva abbandonato sullo schienale del divano ed uscì di casa.

Franky chiuse a chiave la porta e spense tutte le luci del piano inferiore con un semplice schiocco delle dita, per poi prendersi la testa fra le mani e prepararsi ad una delle notti più difficili della sua vita.
In quel momento avrebbe preferito addormentarsi sapendo che la mattina dopo si sarebbe svegliato con i famosi e tremendi dolori allo stomaco, invece di essere già a conoscenza che avrebbe combinato qualche enorme cavolata. Ma, nonostante questa fine già scritta e già letta, si rannicchiò sul divano, con un cuscino sotto al capo, e chiuse gli occhi.

 

***

  

Tom entrò in casa senza fare il minimo rumore per non svegliare nessuno, si tolse la giacca e camminò con passo felpato verso la camera di Arthur. Si sporse all’interno per controllare che il proprio bimbo stesse dormendo serenamente e sorrise quando lo vide tutto spettinato e con un lieve sorriso sulle labbra.
Entrò nella cameretta e si inginocchiò al suo fianco, gli accarezzò i capelli con infinita dolcezza e gli sussurrò la buonanotte. Lo baciò sulla tempia, poi uscì chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.

A quel punto camminò verso la camera da letto e trovò la porta socchiusa. Rimase qualche secondo in ascolto e sentì i singhiozzi di Linda. Con una mano sul legno della porta la spalancò e sua moglie si affrettò ad asciugarsi il viso.
Tom accennò un sorriso e andò da lei per avvolgerle le braccia intorno alla schiena e stringerla forte a sé.

«Non può finire così», singhiozzò lei, nascondendo il viso contro il suo collo.

«Non finirà così. Non finirà».

 

***

 

La porta della stanza di Evelyn si aprì e lei sbirciò per controllare chi fosse, con l’assurda speranza che fosse Franky. Assurda perché: punto uno, lui non avrebbe usato la porta; punto due, era già tanto che la guardasse negli occhi. Era solo suo padre, che probabilmente era venuto a controllare che stesse dormendo.

Si mise seduto sul letto, al suo fianco, e le rimboccò meglio le coperte. Rimase qualche secondo a guardarla e ad un certo punto Evelyn sentì le sue dita lunghe e fini sfiorarle i capelli che le ricadevano sulla fronte. Quel gesto le ricordò tremendamente sua madre e dovette fare un’immensa fatica per non scoppiare a piangergli davanti. Ma non voleva nemmeno che smettesse: faceva male, ma era troppo bella quella sensazione.
Suo padre però parve non resistere a lungo e smise, sospirando sonoramente. 

«Buonanotte, tesoro», le sussurrò ed uscì frettolosamente dalla sua stanza, lasciandola di nuovo sola.

Tirò fuori le braccia dalle coperte e rimase a guardare il soffitto e ad ascoltare il silenzio, fino a quando non decise che doveva assolutamente parlare con Franky: dovevano chiarire, perché non ce la faceva già più ad andare avanti così.

Sgusciò fuori dal letto e appoggiò i piedi nudi sul pavimento. Rabbrividì, ma questo non le fece cambiare idea. Uscì dalla sua camera in punta di piedi e scese i gradini di vetro tenendosi al corrimano in acciaio e con la massima cautela, visto che era buio e non voleva finire di nuovo all’ospedale.
Arrivò alla fine della rampa di scale e vide Franky accoccolato sul divano, che le dava le spalle, stretto ad un cuscino sotto la sua testa. Si avvicinò a lui e rimase ad osservarlo dormire: sembrava così piccolo ed indifeso…

Senza nemmeno accorgersene gli sfiorò il profilo del viso, dalla tempia alla guancia, con il dorso delle dita e lui si svegliò all’improvviso, spalancando gli occhi. Incrociò i suoi e sobbalzò spaventato, tanto che anche lei fece un passo indietro, intimorita.

«Vengo in pace», lo rassicurò successivamente, accennando un sorriso.

Franky si tirò su e la guardò profondamente negli occhi. «Non c’è niente da chiarire», le disse a bassa voce, ma convinto.

Quelle parole la lasciarono interdetta, ma ci mise poco per reagire. «Invece sì». Si mise seduta al suo fianco, sul divano. «È successa una cosa che non doveva succedere e mi sembra che tu sia arrabbiato con me».

«Non sono arrabbiato con te, sono arrabbiato con me stesso perché non doveva succedere, perché non…».

«Cosa?», lo incitò a concludere.

«Perché non te l’ho impedito».

Evelyn inarcò le sopracciglia, sorpresa ma non troppo. Poi rise, una risata piena di rammarico. «Io non ti capisco, Franky». L’angelo rimase in silenzio. «Perchè, se anche tu lo vuoi, te lo impedisci?».

«Perché è sbagliato».

«Sbagliato per chi? Per te, per me, per una persona che non sa nulla di noi?».

«Non c’è nessun noi, Evelyn», disse fra i denti, con immensa fatica, stringendo i pugni.

«Non saprò leggere nel pensiero, ma lo capisco quando menti».

«È inutile. Non si può e basta», concluse l’angelo, con tono da non ammettere repliche, e si alzò: doveva andarsene, prima che accadesse l’irreparabile.

Ma Evelyn si alzò a sua volta, lo prese per mano e lo fece voltare. Non gli diede nemmeno il tempo di capire quello che stava per fare: gli rubò un bacio.
Franky la scostò da sé con fare brusco e la guardò negli occhi severamente, ripetendole telepaticamente che non si poteva fare, anche se loro due lo desideravano con tutte le loro forze.

«Franky», sussurrò lei prendendogli la testa fra le mani. Lo guardò negli occhi, si perse in quei prati verdi, e morì immaginandolo da vivo: sarebbe stato tutto più semplice, se si fossero incontrati in un altro mondo, in un altro momento.

«No, Evelyn, no». Parlò a bassa voce, in modo quasi impercettibile, perché in realtà anche lui stava morendo per una seconda volta cercando di cancellare quei pensieri, quei desideri che lentamente si stavano facendo sempre più forti, sempre più pressanti nelle loro teste, nei loro corpi, nei loro cuori.

«Ma io ti sento», mormorò con le labbra ad un soffio dalle sue.

L’angelo posò le mani sulle sue braccia per allontanarla da sé, per cercare di combatterla, ma le sue dita si strinsero attorno ad esse, impedendole di scappare.
Non sapeva più cosa fare, né come: più cercava di respingerla, più l’attirava a sé, in una lotta che non avrebbe avuto né vinti né vincitori.

Evelyn si sporse in avanti per catturare le labbra di Franky con le proprie, ma lui si spostò e l’allontanò per poi riavvicinarla a sé.
I loro visi erano troppo vicini, i loro nasi si sfioravano di continuo e i loro respiri affannati erano un tutt’uno; i loro occhi erano chiusi, ma entrambi conoscevano ciò che si celava dietro le ciglia: l’Inferno e il Paradiso.
I loro corpi continuavano a scontrarsi, a tremare l’uno contro l’altro, a cercarsi, a respingersi, ad andare a fuoco ad ogni più lieve tocco dell’altro.

«È sbagliato, è sbagliato», farfugliò ancora l’angelo, aumentando la stretta intorno alle sue braccia: sentì le proprie mani affondare nella sua carne, trapassarle tanta era stata la forza che aveva impiegato, la misura che lui non poteva superare.

«Come può essere sbagliato l’amore?», gli domandò e Franky si irrigidì, perché un’affermazione del genere era proprio ciò che gli serviva per fargli crollare tutte le certezze, le imposizioni, i divieti.
Ormai era arrivato al punto di non riuscire più a resistere e si lasciò andare, certo che avrebbe fatto i conti con quelle azioni solo successivamente.

Franky fece scorrere le mani sulle sue braccia, verso le spalle; le accarezzò il collo e le guance, infilò le mani fra i suoi capelli biondi, si accostò a lei quasi bruscamente e posò le labbra sulle sue. I loro cuori persero un battito a quel contatto tanto agognato.
Si strinsero più forte, tanto che Franky percepì il calore di Evelyn farsi spazio nel proprio petto: si stavano fondendo. Cercò di allontanarsi un poco, ma il suo corpo non ne voleva sapere, anzi si avvinghiò ancora più saldamente a quello della ragazza, che non fece una piega agli spifferi d’aria fredda che provenivano dall’angelo.

Baciandosi furiosamente non si accorsero nemmeno di aver arretrato, fino a quando Evelyn non inciampò nel bordo del divano e ci cadde sopra trascinandosi dietro l’angelo, che finì inevitabilmente su di lei. Si guardarono negli occhi per un istante, senza fiato, e Franky sfiorò con le dita le labbra di Evelyn.

«È l’errore più grande della nostra vita», mormorò con un velo di arrendevolezza nello sguardo.

«Ma non rimpiangeremo di non averlo commesso», gli rispose con un’altra delle sue affermazioni schiaccianti, per poi prenderlo per la nuca ed attirarlo a sé.

 

That maybe you should shut up, even when it gets tough
Baby ‘cause this is love
And you know when push comes to shove,
it’s gonna take the both of us
Baby this is love, baby this is love, love, love, love

 

L’angelo le baciò ancora le labbra, ne mordicchiò e succhiò il labbro inferiore, poi passò ad accarezzarle il viso mentre lei gli tirava via la giacca di seta bianca. Un brivido lo percosse da capo a piedi quando gli levò anche la maglia e gli posò le mani sul petto, che tastò da cima a fondo, arrivando sempre più pericolosamente al bordo dei pantaloni.

Non voleva che arrivassero anche a quel punto, sarebbe stato davvero troppo da sopportare, allora le prese le mani, intrecciò le dita con le sue e le portò ai lati della sua testa. Con la bocca tracciò segni invisibili sul suo collo ed Evelyn inarcò la schiena facendo scontrare i loro bacini. I muscoli di Franky si contrassero e tremarono sotto il terribile sforzo di reprimere ogni sintomo d’eccitazione.

Sentì le mani di Evelyn liberarsi dalle sue per andare a prendere i bordi della sua maglietta, se la tolse ed entrambi rabbrividirono quando furono pelle contro pelle. La ragazza tirò indietro la testa e strinse fra le dita i capelli di Franky per condurlo oltre il suo collo, sul suo piccolo seno e sul suo addome contratto su cui si riusciva a vedere ogni singolo brivido.
L’angelo non si tirò indietro a quella esplorazione ed imparò a memoria, toccando con mano e sfiorando con le labbra, quel territorio ancora del tutto inesplorato. Dei lievi sensi di colpa si impadronirono di lui, pensando che lui in primis non avrebbe dovuto conquistare quello scorcio di Paradiso, ma bastò una carezza di Evelyn per fargli dimenticare tutto quanto.

Franky si mise seduto e trascinò Evelyn seduta sulle sue gambe, le avvolse la schiena con le ali e nascose il viso contro il suo collo, che baciò con tenerezza un paio di volte, respirando a pieni polmoni il suo profumo. Si rese conto di come il profumo di Zoe, quello alla fragola, che aveva creduto il più buono dell’universo per un sacco di anni, fosse niente in confronto a quello di Evelyn, infinitamente più delicato e dolce.

Sarebbe rimasto in quella posizione per sempre, con lei stretta al petto, così vicina nell’irraggiungibile, ad ascoltare il battito del suo cuore e a respirare il suo profumo. Si sentiva in pace con se stesso e con il mondo – di qualunque mondo stesse parlando, – tanto che nemmeno il pensiero che prima o poi tutto sarebbe finito lo turbava.
Evelyn però desiderava vivere appieno quella notte irripetibile – perché Franky non si sarebbe lasciato andare in quel modo un’altra volta – e non assaporò quel momento a fondo come avrebbe voluto fare l’angelo. Infatti si mise in ginocchio sul divano e gli tirò su il viso per poterlo guardare negli occhi dall’alto. Si guardarono per qualche secondo, poi Franky lesse i suoi pensieri ed abbassò lo sguardo sul bordo dei suoi pantaloni del pigiama e sulla sua pancia piatta, proprio di fronte a lui. Ci si appoggiò con la fronte e chiuse gli occhi, sospirando. Evelyn posò le mani sulla sua testa e gli accarezzò i capelli con fare materno.

«Non si può fare, Evelyn. Non te ne rendi conto anche da sola?», le domandò a bassa voce.

Lei non rispose, si rimise seduta sulle sue gambe e gli prese il volto fra le mani. Si avvicinò alle sue labbra con un po’ di incertezza, senza schiodare lo sguardo dal suo, poi le sfiorò e fu come se mille petardi le fossero scoppiati in mezzo al petto, come se le sue labbra fossero il fuoco, la miccia per accendere il suo cuore.

 

You and me, we can both start over,
just the two of us, we can get a little closer
So follow me, honestly and you will see…

 

Caddero di nuovo sdraiati, solo che quella volta Franky aveva la testa fuori dal divano e si trovava sotto al corpo della ragazza, che aveva iniziato a baciargli il collo. L’angelo chiuse gli occhi a quei tocchi e gli venne naturale posare le mani sui suoi fianchi per attirarla ancora di più verso di lui, come se avesse paura che scomparisse da un momento all’altro.

Sentì le sue labbra bollenti scendere sul suo petto, all’altezza del suo cuore, per poi scendere ancora sui suoi addominali. Una volta arrivate all’ombelico Franky spalancò gli occhi e si affrettò a capovolgere la situazione prima che fosse troppo tardi, ma le cose non cambiarono più di tanto perché lei aveva portato comunque le mani sulla chiusura dei suoi pantaloni.

«Evelyn, Evelyn no», tentò di fermarla con gli occhi sgranati e il fiato grosso, ma fu tutto inutile.

Gli tirò giù la cerniera e glieli sfilò, si tolse anche i propri e se li fece scivolare giù fino ai polpacci, poi se li tolse con i piedi e li lasciò cadere sul pavimento. Con una mano gli prese la nuca e lo attirò a sé per baciarlo, con l’altra afferrò la mano destra di Franky e la portò sulla propria coscia. Arrossì, ma non lo diede a vedere e la giudò fino all’interno, fino alle vicinanze del calore che era divampato in un attimo, senza darle il tempo di capire che cosa stesse succedendo. Infondo era la sua prima volta.

Franky mugugnò, ormai troppo coinvolto per tornare indietro sui propri passi, e si abbandonò totalmente ai propri sentimenti. Ne avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni, ma in quel momento credeva che ne valesse davvero la pena.
Ancora un po’ indeciso, la guardò negli occhi e la baciò con forza, poi entrò in lei. Franky aveva sempre immaginato che essendo inconsistente lei non avrebbe sentito niente, eppure entrambi trattennero il respiro dal dolore.

Non sono più abituato, passerà, si disse l’angelo.

È la mia prima volta, è normale, si disse invece Evelyn.

Così trattennero i gemiti di sofferenza. Ma dopo qualche minuto di dolore continuo, esso si fece sentire più chiaramente e capirono che non c’entravano niente l’abitudine e la prima volta: era un qualcosa fra loro. Per Evelyn ogni penetrazione era una lama tagliente e freddissima, che le dava la sensazione di venire squarciata in due mentre congelava. Franky, invece, ogni volta che rimaneva dentro di lei si ustionava: sentiva il suo calore entrargli dentro e mandarlo a fuoco.

All’apice del dolore entrambi sussurrarono un «basta» strozzato, accasciati l’uno sull’altra senza più forze, ma non si divisero: Franky era ancora dentro di lei, lei lo accoglieva dentro di sé; avviluppati, fusi, erano una cosa sola.

Lentamente le loro temperature corporee si regolarizzarono a vicenda, tanto che il freddo penetrate che Evelyn sentiva dentro di sé diminuì e il calore ustionante che Franky aveva sofferto fino a quel momento svanì. Ebbero come la sensazione di essere finalmente completi e che, una volta separati, dentro di loro un po’ dell’altro sarebbe rimasto per sempre.

Evelyn non riuscì a trattenersi e le lacrime le scivolarono sulle tempie, fra i capelli. Franky sobbalzò quando la scoprì a piangere e provò un’immensa rabbia dentro di sé.

«Te l’avevo detto che non si poteva fare», le disse serio, seppure con tono apprensivo, mentre le asciugava le guance.

«Non piango per quello che credi tu», gli disse, sorprendendolo con un sorriso. «Ma perché sono felice».

Franky la guardò basito: era pazza. O meglio, impossibile.

Si guardarono per non so quanti minuti, nei quali Franky fece un’attenta analisi dei propri sentimenti e si rese conto che, nonostante la rabbia verso se stesso per quelle lacrime, nemmeno lui si sentiva triste, né si pentiva di ciò che avevano appena fatto. Forse… forse anche lui era felice, anche se aveva fatto davvero male.

«A volte», aggiunse Evelyn, accarezzandogli una guancia, «rende più felici condividere il dolore, che la gioia. E ora siamo una cosa sola».

L’angelo si disse che sì, aveva ragione: erano quelli i momenti in cui si riconoscevano davvero le persone a cui si voleva bene, quelle che c’erano e ci sarebbero sempre state. Perché è soprattutto, se non solo, per amore che si è disposti a soffrire, persino a morire.

«Buon compleanno, Franky…», sussurrò poco prima di chiudere gli occhi e di addormentarsi con un mezzo sorriso sulle labbra.

Lui le sorrise dolcemente e le accarezzò i capelli, scostandoglieli dal viso. Poi uscì dal suo corpo accogliente con un gemito. La rivestì, rivestì se stesso e la portò al piano di sopra, nella sua camera. La adagiò sul letto con delicatezza, per non svegliarla, e si stese al suo fianco per vegliare sul suo sonno.

Anche lui ad un certo punto si addormentò, ma nel cuore della notte si svegliò, punto da uno strano pizzicorio all’altezza del cuore. Posò una mano sulla spalla di Evelyn, accucciata contro di lui, e la scosse dolcemente. La ragazza aprì gli occhi a fatica e mugugnò il suo nome, ma l’angelo le posò subito un dito sulle labbra per non farle dire altro e, guardandola negli occhi con i suoi ancora piccoli a causa del sonno, mormorò: «Ti amo».

Evelyn distese un sorriso sereno e chiuse di nuovo gli occhi. «Anche io, anche io». 

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Capitolo 12
*** Shattered ***


12. Shattered

 

Yesterday I died, tomorrow's bleeding
Fall into your sunlight

 

Si trovò in una camera da letto, in mezzo alla quale c’era un letto matrimoniale e accanto ad esso una culla, dalla quale provenivano dei rumori soffici e dei respiri tranquilli e regolari.
Si avvicinò lentamente, ma riuscì soltanto a fare un passo, perché qualcuno si intrufolò nella stanza passando dalla finestra. Lo riconobbe subito e rimase senza fiato, paralizzata sul posto.

Guardò Franky avvicinarsi alla culla col suo stesso passo incerto e fu come ricevere un colpo al cuore quando lui infilò le mani nella culla e sollevò delicatamente una bambina. C’era qualcosa di magnifico sul suo volto, l’amore con cui guardava il visetto della neonata e la tenerezza che usava per accarezzarle una manina. E poi, il suo sorriso…

Franky avvicinò il viso a quello della bambina e le sfiorò la fronte con il naso, chiudendo gli occhi. Evelyn, nello stesso preciso momento, si posò una mano sulla fronte: aveva sentito quel contatto sulla sua pelle… ma com’era possibile?
Lo capì subito quando Franky sussurrò il suo nome, prima di riaprire gli occhi verdi: «Evelyn».

Si svegliò all’improvviso da quello strano sogno, con le farfalle nello stomaco, ed allungò le gambe per cercare quelle di Franky. Le trovò subito e lo abbracciò forte, posando la testa sul suo petto e sospirando rassicurata, ancora ad occhi chiusi.

«Buongiorno», le sussurrò l’angelo all’orecchio.

«’giorno», mugugnò lei in risposta, con il cuore ancora un po’ in tumulto per ciò che aveva visto. Gliene avrebbe parlato e gli avrebbe chiesto se fosse stato lui a farle vedere quel ricordo, ma non ne ebbe il tempo materiale.

«Nevica».

«Uhm?». Aprì a fatica gli occhi e appena voltò il capo verso le porte finestre venne accecata dal bianco più bianco che c’era. «Oddio, è vero…».

Franky sorrise. «Già».

La ragazza però, per quanto potesse essere innamorata della neve, amava ancora di più ciò che aveva accanto. Per questo ritornò subito a guardarlo, a perdersi nei suoi occhi verdi e a desiderare le sue labbra.

«Adesso devo andare», le disse l’angelo.

«Di già?», esclamò Evelyn, stringendosi ancora di più a lui. «No, rimani qui ancora un po’».

«Devo andare a vedere come sta tua madre», specificò allora. Doveva ammetterlo, era stato un po’ scorretto a giocarsi quella carta con così tanta facilità, ma avevano passato davvero troppo tempo insieme e aveva bisogno di stare un po’ da solo.

Evelyn, a quel punto, non poté trattenerlo ancora. «Oh. Okay».

«Ci vediamo presto», le promise e si alzò, andò verso la terrazza, poi tornò indietro con il sorriso sulle labbra e si sporse verso di lei: Evelyn gli portò una mano sul collo e chiuse gli occhi, Franky si avvicinò alle sue labbra.

«Sei stato tu prima, vero?», mormorò la ragazza.

«A fare che cosa?».

Lei aprì gli occhi ed osservò la sua espressione confusa. «Quel ricordo… tu che mi prendevi in braccio, quando ero ancora piccolissima… non me l’hai mostrato tu?».

L’angelo corrugò la fronte. «No… non riesco nemmeno a vederlo ora nella tua testa».

«Ah…». Evelyn scosse leggermente il capo, anche se confusa più di lui, e sorrise donandogli un’altra carezza sul collo.

Franky ricambiò il sorriso, le sfiorò il naso con il proprio e le stampò un bacio sulla guancia. Poi sparì.

 

 

***

 

«Papà, papà, guarda!».

Tom si voltò e rise guardando suo figlio con la bocca aperta verso il cielo, che aspettava che qualche fiocco di neve gli finisse sulla lingua per mangiarlo.

«Tesoro, è buona la neve?», gli chiese sua madre, stretta sotto il braccio del chitarrista.

«Sì!», esclamò il bambino, tutto contento. Corse dai suoi genitori, stando attento a non slittare sulla neve ghiacciata con i propri stivaletti di gomma blu, e li abbracciò avvolgendogli le gambe con le braccia.
«Papà, facciamo un pupazzo di neve?», domandò poi al padre, alzando il viso verso il suo e guardandolo con gli occhi pieni di speranza.

«Certo», gli rispose sorridente e gli posò una mano sulla testa, coperta da un cappellino di lana con un pompon sulla cima. «Però quando torniamo».

«Va bene», annuì e si fece aiutare per salire in auto.

«Ma la zia dorme ancora?», chiese, una volta in viaggio per raggiungere l’ospedale.

«Sì, piccolo», gli rispose sua madre.

«E quando si sveglia?».

Linda guardò Tom e lui sospirò, scuotendo leggermente il capo. «Non lo sappiamo».

 

***

 

Arrivò all’ospedale e alla reception vide la sua infermiera preferita. La salutò con un cenno della mano, senza fermarsi, e raggiunse la camera di Zoe. Non fece in tempo ad entrare, però, che il suo Cellulare Celeste iniziò a suonare facendolo spaventare.
Lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni ed osservò lo schermo per capire chi fosse, ma non gli permetteva di vedere alcun numero. Anche se titubante, rispose: «Pronto?».

«Ciao Franky, sono Betty, la segretaria di San Pietro».

L’angelo, con la fronte corrugata, si appoggiò con la spalla al muro accanto a sé. «Oh, ciao Betty, che sorpresa».

«Ti ho chiamato perché San Pietro vuole parlarti».

«Vuole parlarmi?». Un brivido gli salì lungo la schiena. Non prevedeva nulla di positivo: Betty aveva uno strano tono di voce, rigido, e soprattutto lo spaventava il fatto che San Pietro non lo avesse chiamato di persona.

«Sì. Ha detto che è urgente».

«Devo… devo venire adesso?».

«Ha detto che è urgente, che ne vuole parlare con te al più presto, quindi…».

Franky guardò all’interno della stanza di Zoe e la vide ancora addormentata. «Okay, ehm… riferiscigli che sto arrivando, per favore».

«Sarà fatto».

«Grazie, Betty. Ma è grave?», le domandò, seriamente preoccupato, ma proprio in quel momento la telefonata si concluse e non ricevette alcuna risposta.

 

***

 

Era da un po’ che continuava a guardare sua figlia, seduta al posto del passeggero: aveva lo sguardo perso fuori dal finestrino e con una mano si copriva la bocca, per nascondere quel leggero sorriso che da quella mattina non l’aveva mai abbandonata. Anche i suoi occhi erano luminosi, ridenti, e Bill non riusciva proprio a capire per quale motivo fosse così felice, quando lui si trovava ad avere il morale sotto la suola delle scarpe.
Avrebbe voluto chiederglielo, ma che cosa gli avrebbe risposto? E se fosse stata una risposta alla quale a sua volta non avrebbe saputo come rispondere? Meglio lasciar stare direttamente.

Così guidò l’ultimo pezzo della strada che li avrebbe portati all’ospedale senza schiodare lo sguardo dal parabrezza. Parcheggiò e scese con cautela dal veicolo, poi aspettò che Evelyn lo raggiungesse e, osservandola avvicinarsi a lui, notò ancora meglio le sue labbra leggermente incurvate all’insù, la stessa direzione che guardavano i suoi occhi. E non riuscì più a resistere alla curiosità. Era come avere prurito e costringersi a non grattarsi: dopo un po’ si cede.

«A cos’è dovuto quel sorrisetto?», le domandò schietto, provando anche un po’ d’invidia.

La ragazza scosse il capo, come se fosse tornata allora da un viaggio mentale, e lo guardò negli occhi, infilandosi le mani nelle tasche. «Non ti ricordi più? Io amo la neve».
E quel giorno ancora di più, perché gliel’aveva fatta scoprire Franky, appena sveglia, e le ricordava terribilmente la sua pelle chiara. Poi quel suo essere fredda, che le faceva pensare in continuazione al dolore che aveva provato facendo l’amore con lui, quel dolore che avrebbe sofferto ancora e ancora per sentirsi sua, una parte di lui.

«Sì, è vero», disse Bill, anche se non del tutto convinto.

In quel momento un’altra auto entrò nel parcheggio dell’ospedale e una volta ferma ne scesero Tom, Linda e il piccolo Arthur.

«Ciao Evelyn!», gridò quest’ultimo e le corse incontro per abbracciarla, ma scivolò sulla neve ghiacciata e cadde sul sedere.

«Quante volte ti ho detto di non correre sulla neve?», lo rimproverò Tom, prendendolo in braccio e guardandolo in viso. Ma si sciolse in fretta e, apprensivo, gli chiese: «Ti sei fatto male?».

Il bimbo scosse il capo, passandosi le manine sugli occhi lucidi dallo spavento.

«Che volo che hai fatto», disse il chitarrista, accennando una risata. Arthur lo imitò e a loro si aggiunsero anche Linda e Evelyn.

L’unico che si sforzò per stiracchiare anche un semplice sorriso fu Bill: proprio non ci riusciva a lasciarsi andare, soprattutto dopo le ultime notizie che gli aveva dato Franky.

 

***

 

Franky bussò alla porta dell’ufficio di San Pietro e, dopo aver avuto il permesso, entrò. Era parecchio agitato: non capiva perché San Pietro aveva chiesto a Betty di avvisarlo che voleva parlare con lui e aveva un brutto presentimento.

«Voleva parlarmi?», chiese al santo, ancora accostato alla porta.

«Sì. Siediti», gli ordinò e l’angelo custode si mise timidamente seduto su una delle due poltrone di pelle, poi sollevò gli occhi e guardò la figura imponente di San Pietro rivolta verso le grandi vetrate che davano sul giardino della scuola. Strano come quell’omone grande e grosso che fino ad allora gli aveva solo ispirato simpatia e bontà, ora gli facesse anche un po’ paura.

«Non me lo sarei mai aspettato da te, Franky», esordì. L’angelo non rispose, pietrificato sul posto. «Credevo che tu fossi... uno fra i pochi… uno di quelli che era riuscito a crescere comunque, qui, nonostante la sua età di morte fosse in un periodo così delicato: l’adolescenza. Ci credevo davvero, avevo fiducia in te e invece… mi hai deluso».

Fu un colpo per Franky, un vero colpo, sentire quelle parole uscire dalla bocca di San Pietro. Quando aveva iniziato la sua carriera di angelo custode gli aveva promesso che non l’avrebbe mai e poi mai deluso e invece l’aveva fatto. Ormai aveva capito a che cosa si riferisse e non avrebbe mai immaginato che facesse così male.

«Mi dispiace», mugugnò con un nodo enorme in gola. «Mi dispiace davvero».

«Vorrei che questo bastasse, Franky». San Pietro si voltò e lo guardò per la prima volta negli occhi: tutto il dispiacere e tutta la delusione che il santo provava nei suoi confronti erano lì e per l’angelo fu come una pugnalata incontrarli. «Ho aspettato. Ho sperato che tu ti accorgessi di quello che stavi facendo, ma non è successo: hai continuato e Dio solo sa quanto male hai fatto a quella povera ragazza, quanto ne farai ai tuoi amici e quanto ne farai a Zoe quando lo verrà a sapere».

Franky si ammutolì a quelle parole e cadde in un baratro di vergogna e dolore puri. San Pietro aveva sempre saputo. San Pietro sapeva del bacio che c’era stato fra lui ed Evelyn e per quello quando si erano incontrati in ospedale, il giorno prima, era stato così scostante e freddo. San Pietro aveva avuto ancora fiducia in lui e come uno stupido l’aveva tradita.

«Io…», Franky provò a giustificarsi, ma sapeva che non sarebbe servito a niente. Tanto valeva dire la verità, almeno a lui, come atto di ultima fedeltà. «Io la amo». E lo gridò per esserne davvero certo: «Io la amo!».

«No, Franky. È inutile che continui a pensare cose che non sono vere», lo stroncò e l’angelo scosse il capo, incredulo alle proprie orecchie. «Tu non la ami. Tu pensi di amarla, ma… fidati di me, conosco bene i tuoi pensieri e so che in verità tu sei innamorato della possibilità di poter amare di nuovo, di poter vivere un’altra volta».

Franky non riuscì a far altro che boccheggiare. Quelle parole schiaccianti si insinuarono nella sua mente come un serpente velenoso si infila nei pantaloni di un uomo, velocemente e silenziosamente, per poi morderlo ed ucciderlo in una trentina di secondi. Quelle parole, che sembravano così giuste, così reali, fecero lo stesso: lo colpirono e lo uccisero, perché si era illuso di un sentimento che in realtà non era mai esistito.

 

And I've lost who I am (I'm waiting)
and I can't understand (and fading)
Why my heart is so broken? (and holding)
rejecting your love (love), without (onto these tears)
love gone wrong; lifeless words carry on (I am crying)
But I know, all I know's that the end's beginning (I'm dying tonight)

 

«Mi dispiace», disse San Pietro, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. «Ma sono costretto a sospenderti a tempo indeterminato dal tuo incarico di angelo custode».

La vita, il mondo, l’universo di Franky crollarono. «Cosa?», sussurrò, scioccato. «Lei… lei non può farlo. Che… che ne sarà di Zoe? È un periodo difficile, non posso smettere di essere il suo angelo custode! Chi si prenderà cura di lei?».

«Ci ho già pensato e ho già incaricato Kim per questo: baderà lei a Zoe, fin quando tu non tornerai in servizio».

«Ma… ma Kim non è un angelo custode!».

«Lo era, anni fa. Quando il suo protetto se n’è andato ha deciso di diventare un angelo speciale e sono già parecchi anni che esercita egregiamente il suo dovere. Lei è stata la mia pupilla, prima di te».

Franky fu colto di nuovo di sorpresa e non seppe come ribattere. Era in un vicolo cieco e l’unica cosa che gli rimaneva da fare era accettare la punizione che si meritava, com’era giusto che fosse.
«Okay», sussurrò con le lacrime agli occhi.

«Mi dispiace», ripeté il santo, davvero in pena per lui, e Franky scosse il capo ad impedirgli di continuare.

Si tastò le tasche dei pantaloni e ne tirò fuori la Carta d’Angelo Custode con scritto sopra il nome della sua protetta e il Cellulare Celeste. Li appoggiò sulla scrivania di San Pietro, che li prese e li depositò in uno dei suoi innumerevoli cassetti blindati.

«Altro?», domandò Franky, sentendosi completamente nudo e senza uno scopo. L’unica cosa che gli rimaneva erano il suo nome e i suoi ricordi.

«La divisa», disse un po’ imbarazzato, indicando il completo di seta bianca che l’angelo aveva addosso. «Sono solo a noleggio…».

Franky, allibito, si tolse la giacca e poi i pantaloni. Depositò tutto ancora una volta sulla scrivania e salutò San Pietro piegando la testa in avanti, in una specie di inchino.

Appena l’angelo si chiuse la porta alle spalle, il santo si lasciò andare sulla sua poltrona e sospirò, massaggiandosi le tempie. Qualche secondo dopo bussarono alla porta.

«Avanti», biascicò. «Oh, ciao Kim».

«Salve. Scusi se la disturbo, ma ho appena visto Franky uscire da qui solo in maglietta e boxer».

«L’ho sospeso, alla fine l’ho fatto davvero».

La ragazza fece un sorriso mesto. «Gli ha anche fatto credere che non la ama?».

San Pietro annuì, socchiudendo gli occhi. «Non possono stare insieme, lo sai meglio di me».

«Anche se si amano davvero», mormorò incupendosi.

 

***

 

«La situazione di sua moglie si sta lentamente aggravando: le cellule del sistema nervoso stanno morendo e da oggi iniziamo una cura a base di antibiotici, però non possiamo sapere se funzionerà, a volte, sa…».

«Papà? Papà, siamo arrivati». La voce di sua figlia lo riportò alla realtà e le sorrise brevemente, annuendo.

Scese dall’auto, pensando ancora alle parole che aveva sentito dal neurologo, e vide Arthur fare una piccola pallina di neve con le mani e lanciarla ad Evelyn, che, colpita, iniziò a rincorrerlo per tutto il giardino per contrattaccare.
Suo nipote e sua figlia ridevano e un po’ della loro allegria gli entrò nel cuore e lo fece sorridere. Vide suo fratello Tom e Linda poco distanti dai due, che li osservavano stando abbracciati. Si sarebbe sentito parecchio fuori luogo, ma si fece forza e li raggiunse.

«Entriamo a bere qualcosa di caldo? Non so come facciano loro, ma io sto congelando», disse, sforzandosi per fare un sorriso convincente.

«Va bene», rispose il gemello, avvolgendogli le spalle con un braccio. «Bambini!».

«Ehi, io non sono una bambina!», lo corresse subito Evelyn, pronta a tirargli una palla di neve.

«Okay, mi arrendo!», gridò Tom, alzando le mani. «Noi andiamo dentro, state di fronte alle porte vetrate del salotto, in modo tale che vi possiamo vedere. E non prendete troppo freddo, mi raccomando».

«Sì papà», rispose Arthur, roteando gli occhi al cielo, per poi colpire sua cugina con l’ennesima palla di neve.

Tom sorrise e raggiunse Linda e Bill che si erano già avviati.

«Eccomi, che mi sono perso?», chiese entrando in cucina, dove li trovò entrambi: sua moglie seduta su uno sgabello del bancone e suo fratello intento a preparare un po’ di cioccolata calda.

«Bill mi ha chiesto se ci fermiamo a pranzo qui», lo informò Linda. «Ho già accettato».

«Hai fatto bene». Si mise seduto al suo fianco e gettò uno sguardo alle sue spalle per vedere Arthur e Evelyn che a quanto vedeva si stavano divertendo un sacco a fare un pupazzo di neve.

«È così bello vederli ridere, soprattutto Evelyn», disse Linda, rubandogli le parole di bocca. «Mi viene voglia di raggiungerli e di rotolarmi nella neve insieme a loro».

Tom mugugnò in segno di approvazione e si voltò verso il gemello. Si accorse subito che c’era qualcosa che non andava e ne ebbe la piena conferma quando all’improvviso lasciò perdere tutto e respirò profondamente per trattenere i singhiozzi, posando le mani sul marmo bianco della cucina.

«Non ce la farà. Non ce la farà, Tomi…».

Il chitarrista si precipitò da lui e lo strinse fra le braccia appena in tempo, proprio prima che scoppiasse a piangere. Bill, squassato dai singhiozzi, nascose più che poté il viso contro l’incavo della sua spalla e lo strinse forte, artigliando le dita nella sua felpa.

«Non dirlo neanche per scherzo. Lei ce la farà», cercò di rassicurarlo Tom, con scarsissimi risultati.

Linda, con gli occhi lucidi per ciò che stava vedendo, si voltò verso le porte vetrate e si accorse che anche Evelyn stava guardando impietrita, inginocchiata nella neve.

 

***

 

The reflection of a lie will keep me waiting
With love gone for so long
And this day's ending
Is the proof of time killing all the faith I know,
knowing that faith is all I hold

 

Franky, dopo essere andato a casa ed essersi vestito con i suoi vecchi abiti, che gli calzavano ancora a pennello, era uscito di nuovo e si era rifugiato nel parco proprio dietro casa sua. Gli piaceva andare lì ogni tanto, a riflettere, e quel giorno aveva davvero molto su cui arrovellarsi.

Seduto su una fra le numerose panchine, si prese la testa tra le mani e, sospirando, chiuse gli occhi.

Si era cacciato in un guaio serio, tanto serio da costringere San Pietro ad intervenire e a sospenderlo dal suo incarico di angelo custode.
Era una cosa temporanea e Franky era certo che non avrebbe più commesso lo stesso errore ora che era stato punito, ma non poteva fare a meno di ripetersi che era stato un cretino, uno con la C maiuscola. Non a caso la stessa lettera con cui iniziava il verbo cedere. Aveva ceduto ai propri sentimenti, a ciò che fin dal principio aveva catalogato come sbagliato; aveva ceduto ai suoi occhi; aveva ceduto alla possibilità di vivere ancora una volta, una soltanto, la sensazione di essere amato da una ragazza. Aveva ceduto alla possibilità di amare ancora, di vivere ancora. E per colpa del suo egoismo ci erano finite in mezzo tante persone che non c’entravano nulla, prima di tutte Zoe, rimasta senza un angelo custode.

Si sentiva una merda, un traditore. Aveva tradito i suoi amici, la sua protetta, San Pietro che l’aveva sempre trattato come se fosse suo figlio… Aveva sbagliato, aveva fatto un errore enorme e ora doveva pagare, come era giusto che fosse.

A quell’ora non c’era molta gente in giro, ma anche se il parco fosse stato pieno lui non avrebbe comunque sentito nulla: era avvolto da una bolla che non gli permetteva di udire nulla, né di vedere veramente quello che lo circondava. L’unica cosa che riusciva a focalizzare era nella sua testa ed era la causa di tutti i suoi sbagli: la ragazza che era stata in grado di farlo peccare, Evelyn. Avrebbe dovuto cancellarsela dalla testa dopo quello che era successo, ma era più forte di lui. Vedeva i suoi occhi azzurri, la sua ossessione; vedeva la sua pelle chiara e della quale ricordava ancora chiaramente il sapore e la delicatezza; vedeva i suoi capelli biondi e profumati; vedeva le sue mani che gli accarezzavano il viso e il petto e la schiena tracciando disegni infuocati; vedeva le sue labbra soffici che prendevano il sopravvento su ogni suo pensiero razionale, che conquistavano territori esplorati solo da Zoe, che intrappolavano le sue. Sentiva ancora quel fuoco bruciare dentro di lui, quello che gli aveva fatto tanto male ma che l’aveva unito a lei quella notte.

Avrebbe dovuto gettare nel tritacarte della sua mente quelle immagini, quei sapori, quei profumi, ma non ne avrebbe mai avuto il coraggio: era tutto ciò che gli rimaneva di lei, l’unico momento in cui si era sentito nuovamente vivo ed amato, e per far sì che non riaccadesse doveva almeno poter aggrapparsi a quei ricordi. Perché sì, se fosse tornato indietro nel tempo l’avrebbe rifatto. Era stupido, davvero stupido, ma era la realtà dei fatti.

Sentì una mano posarsi con discrezione sul suo braccio e si scoprì il viso per intravedere chi l’avesse estrapolato dalla tempesta dei suoi pensieri.

«Kim», disse e si accorse di quanto fosse incrinata la sua voce a causa del magone che gli ostruiva la gola.

«Ciao Franky», lo salutò con un minuscolo sorriso sulle labbra. «Posso sedermi?», chiese, accennando al posto accanto all’angelo. Lui annuì e lei si accomodò, accavallando le gambe.

Franky la osservò per qualche secondo e si rese conto di quanto fosse cambiata ai suoi occhi, man mano che scopriva cose sul suo conto. Quando l’aveva conosciuta era una ragazzina che frequentava il suo corso serale e che per di più aveva una cotta per lui; poi aveva capito, in qualche modo, che si celava qualcosa di più della ragazzina dietro quel viso pulito, grazie al suo modo di parlare e ai discorsi che faceva in merito ad essere angeli custodi o angeli speciali; e infine, proprio qualche ora prima, San Pietro gli aveva rivelato che era stata un angelo custode e che poi aveva deciso di diventare un angelo speciale. Una domanda sorgeva spontanea, fra tutti i suoi pensieri: chi era in verità Kim?

«È normale che tu te lo chieda», disse la ragazza, sorridendo divertita e al contempo amareggiata.

«Quante cose nascondi?», le chiese allora, a bassa voce, puntando lo sguardo sull’albero di fronte a loro.

«Non molte, ma posso assicurarti che io e te siamo più simili di quanto credi».

L’angelo rimase in silenzio, a rimuginare su quelle parole e ad ascoltare il delicato suono delle foglie che venivano spostate di qua e di là dal vento. Si agitavano tutte insieme e tutte fuori tempo, ma era un bello spettacolo da guardare.

«San Pietro mi ha spiegato quello che è successo con quella ragazza, Evelyn. Mi dispiace che ti abbia sospeso e che abbia sospeso anche il tuo corso».

Franky chiuse gli occhi lentamente. Quelle parole erano state l’ennesima pugnalata in pieno petto, perché erano l’inconfutabile prova che per colpa sua e del suo egoismo, appunto, ci erano andate di mezzo persone che non c’entravano niente con quella storia: i suoi studenti. Oltre al fatto che solo sentir pronunciare il suo nome aveva fatto male.

Kim rimase qualche secondo in silenzio, in attesa di una qualsiasi risposta, poi si alzò e si infilò le mani in tasca. «Ma è meglio così».

L’angelo aprì gli occhi di scatto e la fissò: aveva il viso basso e si guardava i piedi, che muoveva avanti e indietro sull’erba verde splendente. Cercò di capire a cosa si riferisse, ma appena fece per sbirciare fra i suoi pensieri si eresse un muro imponente, che lo fece tornare sui suoi passi in modo quasi violento, tanto che ne rimase sbigottito.

La ragazza non gli disse nulla in proposito, ma sollevò il viso e accennò un sorriso. «Ora che farai?», gli domandò.

«Non lo so», mormorò. «Non so niente».

 

***

 

Il trillo del campanello la fece sospirare di sollievo: quel pranzo era stato uno dei peggiori della sua vita e non aveva voluto altro che alzarsi dalla sedia sin da quando si era seduta.

«È per me», disse e raggiunse l’ingresso con una corsetta. Sbirciò attraverso una delle due vetrate ai lati della porta e poi aprì.

«Ciao», la salutò Anja con un sorriso impacciato.

«Ciao», soffiò in risposta Evelyn, prima di gettarle le braccia al collo e stringerla forte. «Grazie per essere venuta, davvero».

«Non ti preoccupare», le sussurrò, massaggiandole la schiena con una mano. «Sentivo che avevi bisogno di me». Si sorrisero.

«Dai, vieni, andiamo in camera mia», la prese per mano e insieme iniziarono a salire la scala di vetro, proprio lì accanto.

«Che mano fredda che hai», le disse Anja, rabbrividendo.

«Già, me ne sono accorta anche io. Sarà perché prima ho giocato con la neve insieme ad Arthur».

«Pranzo in famiglia?», le domandò ancora l’amica, accennando al salotto, in cui si trovavano suo padre, suo zio, sua zia e il suo cuginetto.

«Sì, per così dire», biascicò.

Giunsero nella stanza di Evelyn e lei si chiuse la porta alle spalle, alla quale vi rimase appoggiata per qualche secondo, poi sorrise alla sua amica e si mise seduta sul letto, invitandola ad imitarla.

«Ieri ho sentito Pamela», disse Anja, togliendosi le scarpe con la punta dei piedi per potersi sedere completamente sul letto. «Ha detto che Martin non fa altro che pensare a te».

«Già, lo so», mormorò abbassando lo sguardo. Il messaggio che aveva ricevuto la sera precedente, in contemporanea a Franky, era suo.

«Perché non gli dai una possibilità? Infondo carino è carino, è grande, è dolce, sembra davvero preso…».

«Io… io non lo so…».

«Ehi… che cos’è successo?».

Evelyn alzò gli occhi già lucidi dal piumone ed incontrò quelli scuri di Anja. «Stamattina hanno fatto una visita neurologia a mia madre», lanciò la bomba così, con la voce spezzata. «Il risultato: potrebbe anche darsi che gli antibiotici non funzionino e quindi le sue cellule celebrali moriranno tutte, una dopo l’altra, e morirà. Prima di pranzare ho visto mio padre scoppiare a piangere come un bambino e zio Tom che lo teneva stretto a sé come se avesse paura di perderlo per sempre». Il magone in gola e i lucciconi agli occhi la interruppero per un attimo e bastò quello per farla crollare in un pianto che almeno l’avrebbe svuotata un po’.
«Che giornata di merda», singhiozzò e si appoggiò alla spalla dell’amica, sconvolta per tutto ciò che aveva sentito.

Solo dopo qualche secondo riuscì a riprendersi e ad abbracciare Evelyn, che ormai piangeva a dirotto. Non le disse niente – non avrebbe saputo che cosa dire, – la cullò soltanto fra le braccia.
Si accorse del freddo che emanava anche dal petto, ma non le disse nulla in proposito.

 

***

 

Ora che aveva deciso cosa fare non poteva più starsene lì con le mani in mano. Sarebbe andato di sotto e sarebbe rimasto un po’ di tempo da Tom, tanto lì dov’era la sua utilità era pari a zero.

Prese un vecchio borsone dall’armadio e lo riempì gettandoci a casaccio la maggior parte dei suoi abiti e le cose da cui non voleva separarsi, prima di tutte quella fotografia, la fotografia. Sospirò guardando i volti felici della sua Zoe e dei suoi amici, delle persone a lui più care, e se la infilò nella tasca dei jeans, per non perderla né rovinarla troppo fra l’ammasso di vestiti.
Una volta certo di aver preso tutto, compreso il suo caro vecchio skate – ottenuto con Zoe quando aveva accompagnato i Tokio Hotel a Roma, – uscì dall’appartamento, dalla sua tana, senza voltarsi indietro.

Raggiunse l’ospedale delle anime e arrivò di fronte alla camera di Zoe. Sarebbe stata dura dirle che se ne andava per un po’, ma doveva farlo, per il bene di tutti. Si fece forza con un respiro profondo ed entrò.
La donna spense la piccola tv con un tasto del telecomando. «Ehi», lo salutò con un sorriso, che sparì in fretta vedendolo vestito senza divisa, con lo skate e una borsa piena al seguito.

«Che cosa succede?», gli domandò allora, ansiosa. «Devi andare da qualche parte?».

Franky abbandonò la borsa di fianco alla porta e si avvicinò alla sua protetta; si mise seduto sul letto, al suo fianco, e le avvolse le mani con le sue.

«Che mani calde che hai», osservò Zoe, sorpresa. Ma Franky non ci badò più di tanto e disse:

«Vado un po’ di sotto. Starò da Tom».

«Perché?».

«Perché… ecco… Io e Kim ci siamo già messi d’accordo», si salvò in corner all’ultimo momento. No, non era ancora pronto per dirle la verità, tutta la verità. E forse non lo sarebbe mai stato.

«Ci siamo resi conto che la tua situazione è più grave di ciò che pensavamo e abbiamo deciso che io starò di sotto, col tuo corpo, in modo tale che se dovesse succedere qualcosa sarò già lì; invece Kim starà qui e si prenderà cura di te». Zoe fece una smorfia e Franky sorrise leggendo i suoi pensieri. «Non ti preoccupare, ti puoi fidare di lei».

«Quando tornerai?».

«Questo purtroppo non lo so», scosse il capo, abbassando gli occhi.

«Oh, Franky», sussurrò e lo strinse in un forte ed inaspettato abbraccio. «Mi mancherai tanto», mugugnò e gli stampò un bacio sulla guancia.

«Anche tu mi mancherai», ricambiò e le sorrise.

«Anche… anche il tuo petto è caldo, qui… dove c’è il cuore», fece notare ancora la donna, alla quale era scivolata involontariamente una mano sui suo pettorali appena pronunciati.

L’angelo se ne rese conto, ma non riuscì a darsi una spiegazione logica. Aveva fin troppe cose per la testa per domandarsi anche perché alcune parti del suo corpo fossero più calde del solito.

«Ora devo andare», le disse e si alzò dal letto.

«Mi raccomando», lo guardò di sottecchi, «già che sei lì dai un occhio a…».

«Sì», la prevenì, sospirando e chiudendo gli occhi. Per quanto il suo cuore fosse stranamente caldo, soffriva ancora. «Lo farò».

Raggiunse di nuovo la porta, prese la sua borsa e con lo skate sotto i piedi uscì, pronto – o forse no – a ciò che lo aspettava da quel momento in poi. Non sarebbe stato facile e questo lo sapeva, ma non credeva di incontrare la prima difficoltà subito all’Ufficio di Collegamento.
Si stava dirigendo verso il passaggio per gli angeli custodi, quando Miguel, l’agente celeste che conosceva da sempre, lo fermò.

«Non puoi passare da qui», gli disse, lasciandolo di stucco.

«Come? Ma io…».

«Mi dispiace, Franky».

«E dai, Miguel! Non posso tornare da San Pietro per farmi fare un permesso, come quando non ero un angelo custode!».

«Ti ha sospeso, quindi…».

«Le notizia viaggiano velocemente», borbottò irritato. «E adesso che devo fare?».

Miguel scrollò le spalle e si calò ancora un po’ di più la visiera del cappellino blu sugli occhi.

«Franky».

L’angelo, sentendo il suo nome pronunciato da quella voce familiare, si girò e gli venne quasi naturale dire: «Ancora tu?», quando riconobbe Kim.

«Sì», ridacchiò lei. «San Pietro mi ha detto di tenerti d’occhio».

«Wow». Stizzito, incrociò le braccia al petto. Ma forse si meritava pure quello.

«Dove vuoi andare?», gli domandò.

«Vado di sotto, per rendermi più utile, visto che qui ora sei tu che ti occupi di Zoe».

«Non mi pare sia colpa mia», rispose Kim con lo stesso tono arrogante, facendolo ammutolire. Poi riprese con voce pacata: «Comunque la trovo una buona idea: così se dovesse riaccadere quello che le è successo qualche giorno fa tu sarai subito lì col suo corpo». L’angelo annuì. «Non vai di sotto per lei, vero?».

«No!», urlò stridulo. «Non sono così stupido!».

«Okay, era solo per sapere», sorrise e tirò fuori dalla tasca un fogliettino giallo che Franky riconobbe subito, siccome ne aveva avuti tanti prima di diventare un angelo custode: un permesso. Glielo porse e disse: «Ecco, puoi andare».

«Perché lo fai?», le domandò, prendendolo quasi con timore.

«Perché io penso davvero che tu non sia così stupido».

«Grazie», mormorò ed abbassò il capo, avviandosi verso il check-in per l’ascensore “normale” che lentamente si stava riempiendo per scendere sulla Terra.

«Davvero, Franky…», soggiunse Kim, guardandolo negli occhi con serietà. «Non combinare altri casini».

L’angelo accusò il colpo in silenzio ed annuì. Porse il permesso alla guardia celeste e fece per salire sull’ascensore, quando si voltò verso l’altro angelo e gli disse: «Toglimi una curiosità: tra tutte le palle che mi hai fatto credere, fingevi anche quando arrossivi?».

Kim si infilò le mani nelle tasche e abbassò il capo mordendosi un sorriso. Quando lo rialzò, Franky notò le sue guance colorate di rosso. «Tra tutte le palle che ti ho fatto credere, la cotta per te non sono mai riuscita a nasconderla».

Le porte dell’ascensore si chiusero e Franky, ancora a bocca aperta, non poté risponderle. Ma era certo che non ci sarebbe riuscito comunque.

 

***

 

Suo figlio Arthur stava giocando nella vasca da bagno con una macchinina, che però si trasformava anche in sottomarino, e la faceva andare sotto e sopra l’acqua calda, facendo finta che le cunette di schiuma bianca fossero montagne ricoperte di neve che doveva schivare.
Tom era stanco, sentiva tutto il peso di quella giornata sulle spalle, e si lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra mentre, seduto sopra l’asse del cesso, appoggiava il capo contro le piastrelle fredde del bagno. Il bambino si accorse di quel gesto ed interruppe il suo gioco.

«Che cos’hai, papà?», gli chiese innocentemente.

Il chitarrista aprì gli occhi di scatto e gli sorrise, sedendosi sul pavimento, accanto a lui. «Niente di cui tu ti debba preoccupare». Gli passò una mano fra i capelli bagnati e Arthur sorrise, per poi starnutire proprio in faccia a lui.
«Oh, salute», gli disse un po’ schifato, passandosi una mano sul viso. Ma poi si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere insieme.

«Dai, esci da lì, prima che ti becchi un bel raffreddore e poi la mamma chi la sente».
Tom lo fece alzare in piedi e gli levò la schiuma di dosso con il doccino. Scherzosamente gli lavò anche la faccia: «Così siamo pari!». E poi lo avvolse nel piccolo accappatoio bianco.

Lo prese in braccio e si avviò verso la sua cameretta per farlo vestire. Passando per il corridoio sentì il telefono squillare e poi Linda gridare: «Tom! Rispondi tu, per piacere!?».

«Sto portando Arthur a vestirsi!», urlò di rimando.

«Se volete mangiare stasera devi rispondere tu!».

Tom roteò gli occhi al cielo e guardò suo figlio che, con gli occhietti lucidi e un po’ arrossati dal sapone, mugugnò: «Io voglio mangiare».

Il padre ridacchiò e fece retromarcia nel corridoio, entrò in salotto e sporse il figlio verso il cordless: «Dai allora, rispondi tu».

Il bimbo ubbidì. «Pronto, sono Arthur!».

«Piccolo», rise Tom, di nuovo in cammino verso la sua cameretta, «di solito si chiede chi è, non ci si presenta».

Il bambino però non gli badò, impegnato a premersi in modo esagerato l’apparecchio contro l’orecchio per paura di non sentire.

«Ciao tesoro! Sono Jole!».

«Ciao sorellona!», esclamò contento e a voce fin troppo alta, questa volta per paura di non essere sentito.

«Come stai? Perché hai risposto tu?».

«Perché ho appena finito il bagno e mamma non voleva!».

«Perché io avevo le mani occupate a tenerti in braccio e la mamma sta cucinando», lo corresse Tom, avvicinando la bocca al cordless per far sentire anche alla figlia, che rise.

«Che cosa hai fatto oggi di bello?», gli chiese poi.

Tom intanto appoggiò Arthur sul suo letto e gli asciugò i capelli con il cappuccio dell’accappatoio, poi si voltò per prendergli dei vestiti puliti nell’armadio.

«Niente», rispose il bambino e Jole non disse nulla, perché sapeva che dopo quell’abituale risposta iniziava a raccontare per filo e per segno tutto ciò che aveva fatto: un po’ come suo padre. «Stamattina siamo andati dalla zia in ospedale, ma dorme ancora e i dottori hanno detto qualcosa a zio Bill e a papà, io ho provato ad ascoltare di nascosto ma non ho capito niente».

Tom, che gli dava le spalle, ridacchiò sottovoce, scuotendo il capo. Si voltò con i vestiti puliti e gli gettò un’occhiata di rimprovero, ma che si sciolse subito in un sorriso comprensivo.

«I dottori usano un sacco di paroloni complicati che a volte stanno a significare cose molto semplici», gli disse Jole.

«Credi che la zia si sveglierà presto?».

A quella domanda sia la ragazza che il chitarrista reagirono allo stesso modo: silenzio. Tom rinvenne per primo e cercò di distrarre Arthur, dandogli i suoi vestiti e dicendogli, con tono pacato, di vestirsi. Ma non ci fu verso di schiodarlo da quella domanda: non avrebbe mollato il colpo fino a quando qualcuno non gli avesse dato una risposta.

«Non lo so, piccolo», sospirò infine la sorella maggiore, demoralizzata. E per fortuna che Arthur era un bambino e, nonostante la sua curiosità, riusciva ad accontentarsi anche di una risposta del genere. Alla fine, i bambini capiscono tutto.

«Va bene, ti passo papà», troncò di netto la conversazione e passò l’apparecchio al padre.

Tom se lo portò all’orecchio con estrema lentezza e poi salutò la figlia con tono affettuoso, ma che faceva trasparire quella macchia di tristezza che si era estesa sul suo cuore. «Come stai?».

«Tutto bene, anche se inizio ad avere la nausea».

«Di già?».

«Beh… Tu come stai?», cambiò argomento.

«A posto, più o meno», rispose, quando gli cadde l’occhio su Arthur che si stava infilando la maglietta. «L’hai messa al contrario», lo avvisò, indicandola.

«Cosa?», chiese Jole.

«No, stavo parlando con Arthur… Come mai hai chiamato a quest’ora?».

«Così, volevo sentirvi… Mamma sta cucinando ancora o può venire al telefono, adesso?».

«Non lo so, vado a vedere». Si alzò dal letto e contemporaneamente Arthur saltellò sul pavimento e gli chiese, unendo le mani a mo’ di preghiera di fronte al viso: «Posso vedere i cartoni?».

«Sì. Ma poco, perché adesso si mangia».

«Okay!», gridò e corse fuori dalla cameretta per piazzarsi sul divano del salotto fino a quando non fosse stata pronta la cena.

Tom fece il suo stesso tragitto, ma con più tranquillità, parlando del più e del meno con la figlia. Raggiunse la cucina e vide Linda ai fornelli, che mescolava il contenuto di una pentola.

«Vieni qui, dimmi se va bene di sale», gli disse, indicandogli di avvicinarsi con il braccio.

«Sì, ma c’è Jole che vuole salutarti». Linda annuì e prese un cucchiaio di brodo, ci soffiò sopra e glielo avvicinò alla bocca; Tom approvò con un sorriso e le stampò un bacio sulle labbra prima di passarle il telefono.

La tavola era già apparecchiata, quindi non gli venne in mentre altro da fare se non raggiungere Arthur e guardare un po’ di cartoni animati insieme a lui. A furia di vederli avevano iniziato a piacergli di nuovo, dopo anni ed anni.
Uscì dalla cucina con questo intento, ma il suo programma venne sconvolto quando vide Franky seduto sul bracciolo della poltrona, con gli occhi rivolti verso lo schermo della televisione.

Tom non si aspettava di vederlo lì a quell’ora, ma ciò che lo sorprese di più fu il fatto che non indossasse la sua divisa bianca, quella con la quale si era abituato a vederlo, ma vestiti normali, simili – se non identici – a quelli che indossava prima della sua morte; inoltre, al suo fianco aveva un borsone e il suo vecchio skate. Quei particolari lo fecero rabbrividire sul posto perché gli venne in mente il giorno in cui Franky aveva messo per la prima volta piede nella loro casa, con una valigia e uno zainetto al seguito e quell’espressione malinconica…

L’angelo finalmente si voltò verso di lui e stirò un sorriso, poi si alzò e si avvicinò a lui di un passo. «Scusa se sono piombato qui all’improvviso, ma devo chiederti un favore».

«Puoi stare», lo prevenì e, come al solito, si dimenticò di non parlare ad alta voce. Infatti, Arthur si girò e lo guardò corrugando la fronte.

«Che hai detto papà?».

«Niente, solo che… puoi stare ancora cinque minuti, la mamma sta parlando con tua sorella».

«Okay», sorrise e si rigirò contento.

Tom sbuffò guardando l’amico e lo incitò a seguirlo, in modo tale che potessero parlare tranquillamente. Andarono nello studio del chitarrista, dove conservava tutte le sue preziose chitarre e dove si trovava anche un pianoforte.
Tom si chiuse la porta alle spalle e guardò Franky da capo a piedi e viceversa. «Okay, incomincia a spiegare», lo incalzò. «Perché non hai la divisa? Perché vuoi stare qui? Perché –».

«Mi hanno sospeso», disse schietto, interrompendo la sua raffica di domande.

Tom, confuso, sbatté le palpebre più volte. «Sospeso? In che senso?».

«Nel senso che non sono più l’angelo custode di Zoe, temporaneamente».

«P-Perché?», urlò con voce strozzata, sconvolto.

«Perché… Perché…», Franky sospirò ed abbassò il capo. Allora Tom capì che era una cosa seria e si avvicinò a lui, gli posò una mano sulla spalla e gli alzò il viso con l’altra.

«Perché, Franky?», ripeté, questa volta più deciso.

«Ti ho mentito. E mi dispiace», disse col magone in gola e i lucciconi agli occhi, ma nonostante questo non schiodò lo sguardo da quello del chitarrista. «Non è vero che io e Evelyn non ci siamo più visti dopo quella volta».

 

Who I am from the start? (I'm waiting)
Take me home to my heart (and fading)

 

“Vaffanculo. VAFFANCULO FRANKY!” lo gridò nella sua testa, in modo tale che né Linda né Arthur lo prendessero nuovamente per pazzo, e uscendo si sbattè rumorosamente la porta dello studio alle spalle, utilizzando tutta la rabbia che gli circolava come fuoco nelle vene per essere stato così bellamente preso per il culo dal suo migliore amico.

Si fermò all’improvviso nel bel mezzo del corridoio, tornò indietro a passo svelto, rientrò nello studio e trovò Franky proprio come l’aveva lasciato: a testa china, con i pugni stretti lungo i fianchi, avvolto dalla vergogna.
Gli alzò il viso con fare brusco e gli tirò un ceffone, poi si sbatté di nuovo la porta alle spalle ed imprecò un ulteriore, mentale, “vaffanculo”.

 

And losing what was found, a world so hollow
Suspended in a compromise

 

Franky ascoltò impassibile il rumore sordo della porta che sbatteva per la seconda volta, poi i passi di Tom che si allontanavano nel corridoio. Ascoltò anche i suoi pensieri e quelli fecero dieci volte più male dello schiaffo, ma dieci volte meno del suo sguardo: pieno d’ira, di… delusione.
Prima San Pietro, ora lui, ed era sicuro che avrebbe deluso chiunque lo fosse venuto a sapere. Non sarebbe riuscito a sopportarlo, per questo doveva rimanere solo fra loro.
Avrebbe potuto mentire anche a Tom, continuare con il teatrino, ma aveva bisogno di un amico in quel momento difficile, aveva bisogno di un “complice”. Ma forse aveva sbagliato a credere che lui capisse. Aveva sbagliato tutto e stava solo perdendo tutti quelli che gli stavano vicino, il tutto per una ragazza alla quale nemmeno con tutta la forza di volontà sarebbe mai riuscito a dire di no.
Ma non poteva dire di non essersela cercata, per cui ora doveva pagare.

Tirò su il viso, con la guancia che ancora bruciava, e si asciugò le lacrime con i dorsi delle mani, poi aprì la finestra e volò nel cielo scuro. C’era un unico posto in cui voleva andare in quel momento e ci andò, senza pensarci due volte.

Atterrò in modo un po’ rocambolesco di fronte alle cancellate del cimitero e si gettò uno sguardo alle spalle per controllare le sue ali: rimase senza fiato quando vide che si stavano sfoltendo e aveva perso un bel po’ di piume durante il volo; alcune erano persino appiccicate alla sua felpa.
Sospirò frustrato ed entrò nel cimitero silenzioso, illuminato solo dalle fiammelle ancora accese dei ceri posti sopra le tombe.

Camminò con lentezza per tutto il sentiero e raggiunse la collinetta su cui si ergeva la grande quercia. Una volta sotto il maestoso albero, rimase ad osservare la propria immagine fin troppo sorridente sulla lapide e per un attimo solo desiderò essere lì sotto alla terra insieme al suo corpo. Cancellò subito quel pensiero dalla testa perché non aveva mai voluto fare quella fine e poi perché non sarebbero state delle difficoltà ad abbatterlo: avrebbe lottato, sarebbe anche caduto, ma si sarebbe rialzato.

Si mise seduto sul marmo freddo della sua tomba, la schiena appoggiata alla lapide, e voltò il capo verso il motivo della sua visita a quel luogo: la tomba accanto alla sua, quella di sua madre.

«Vorrei che tu fossi qui e mi dicessi che non ti ho deluso», mormorò, con voce flebile. «Mi dispiace tanto, mamma. Io… insomma, ho sempre fatto di tutto per essere onesto, per fare del mio meglio, per fare felici le persone al mio fianco… Perché non posso finalmente essere felice anche io? Non dico… fare felici le persone mi rende felice, però… manca sempre qualcosa. Non lo dirò mai a Zoe, né a Tom, né a nessun altro, non ne avrei il coraggio. Per una volta… Credevo che per una volta in cui ero io quello felice non sarebbe successo nulla di male, e invece… Sta andando tutto a puttane. Che devo fare? Che devo fare, mamma?». Non riuscì più a trattenere in gola i singhiozzi e si lasciò andare anche alle lacrime. «Vorrei che fossi qui».

 

Let me go and I will run, (and holding)
I will not be silent (silent), all this time (onto these tears)
spent in vain; wasted years, wasted gain (I am crying)

 

***

 

Tom sospirò e si alzò da tavola, iniziando a impilare l’uno sull’altro i patti vuoti di Linda e Arthur sul proprio.

«Che stai facendo?», gli domandò allibita la moglie.

«Sparecchio, perché?».

Lei scosse il capo, sorridendo. «È strano. In effetti…».

«Io vado a giocare!», esclamò il bimbo prima di saltare giù dalla sedia e correre in salotto.

Tom posò i piatti nel lavabo e passò a raccogliere anche i bicchieri e le posate. «Stavi dicendo?».

«No, che sei strano stasera: prima sbattevi le porte e a cena non hai spiccicato parola… Va tutto bene?».

«Oh… sì», annuì, senza incontrare il suo sguardo.

Posò tutto accanto ai piatti e si appoggiò al bordo di marmo del lavello con i pugni quando Linda lo abbracciò da dietro e sussurrò: «Sicuro?». Allora chiuse gli occhi e si voltò per ricambiare l’abbraccio.
Posò le labbra sulla sua fronte e la strinse forte, respirando il profumo dei suoi capelli. 

«Un mio amico mi ha fatto arrabbiare», cominciò a spiegare. «Mi ha tenuto nascosto un segreto che avrebbe potuto benissimo rivelarmi fin dall’inizio».

«E rivelandotelo adesso ti ha fatto arrabbiare?», gli chiese.

«Esatto».

«Perché te l’ha tenuto nascosto? Te lo sei chiesto?».

«Io… no, non lo so perché…».

«Sai», si lasciò andare ad una risatina amara, appoggiando l’orecchio contro il suo petto, all’altezza del cuore. «Quando sono rimasta incinta di Jole non volevo dirlo a mia mamma, avevo paura, e non gliel’ho detto fino a quando questo mio segreto si è rivelato da solo, ingrandendosi sempre di più come la mia pancia».

«E lei che cosa ti ha detto?».

«Ha detto che avrei potuto dirglielo tranquillamente, che mi avrebbe aiutata, che mi sarebbe stata vicina sin dall’inizio. Adesso, io non so se il tuo amico abbia avuto paura di dirtelo, ma può essere che sia arrivato al punto di non riuscire più a nascondere questo segreto».

«Sì, credo che tu abbia ragione».

Linda sollevò il viso, puntò il mento sul suo sterno e gli sorrise. «Parlane con lui e sii comprensivo».

«Lo farò, grazie», sorrise di rimando e le stampò un bacio sulle labbra.

 

***

 

Una nuova folata di vento lo destabilizzò e fu questione di un soffio che non si schiantasse a terra.

Era mezz’ora ormai che provava a tornare a casa di Tom volando, ma non ce la faceva proprio. Le sue ali erano troppo deboli e come se non bastasse continuavano a perdere piume. Di quel passo sarebbero diventate, da folte, morbide e forti, delle ali di pollo rinsecchite e spiumate.
Grugnì, pensando al suo skate che aveva lasciato a casa del chitarrista: se se lo fosse portato dietro non avrebbe dovuto farsi tutta la strada a piedi. Comunque, non aveva altra scelta e, con la voglia pari a zero, si mise in marcia.

Non era abituato a camminare così tanto, viziato com’era ad utilizzare le ali per ogni distanza, anche la più breve, ed infatti arrivò a casa di Tom dopo quasi un’ora.
Era ormai notte fonda e credeva che avrebbe trovato tutti a letto, compreso il chitarrista, ma lo trovò sveglio, seduto sul divano in salotto, che guardava la tv con il volume al minimo e con poco interesse. Lo stava aspettando.
I loro sguardi si incontrarono quasi subito e Franky, ripensando alla reazione di quella sera, fece istintivamente un passo indietro. Lo fece prima di scavare nel profondo nei suoi occhi, prima di capire che non c’era più rabbia, né delusione, solo rammarico. Ma non era ancora abbastanza per lui, faceva ancora male.

Tom indicò accanto a sé con un cenno del capo, Franky lo raggiunse e si mise seduto al suo fianco.

«Okay, parliamone», esordì il chitarrista, appoggiandosi meglio con la schiena a dei cuscini. «Perché me l’hai tenuto nascosto?».

L’angelo non pensava che sarebbe stato così diretto e per un attimo ne rimase frastornato. Poi, rispose: «Noi abbiamo deciso così, io ed Evelyn».

«Perché?».

«Perché non credevamo… io sicuramente non credevo che la situazione degenerasse in questo modo. E poi avevamo paura delle vostre reazioni, insomma… che cosa diresti tu se Jole si fosse… se fosse successa questa cosa a Jole?».

«Mi sarei incazzato», rispose con tranquillità. «Insomma, Franky… lo capisci benissimo anche tu che non si può fare, tu sei un angelo».

«Sì, lo so», abbassò il capo. «Solo che… non lo so perché abbia ceduto proprio con lei».

«Voglio sapere che cos’è successo fra voi».

«Ti ho già detto tutto prima», disse, stringendo i pugni sulle ginocchia: ripetere tutta la loro storia sarebbe stata come riviverla e stare ancora male.

«Avete pure fatto…?». Non completò la frase, tanto si capiva dove voleva andare a parare. L’angelo annuì, serrando ancora di più le labbra. «Ma com’è possibile? Hai sempre detto che…».

«Mi sbagliavo», lo interruppe. «Cioè, non mi sbagliavo del tutto…».

«In che senso?».

«Fa male. Malissimo. Era come se mi avessero messo sul rogo: bruciavo, morivo di caldo». Improvvisamente si ricordò di Zoe che gli diceva che aveva le mani e il petto caldi. Che fosse quella la spiegazione? Che un po’ di quel calore gli fosse rimasto dentro?

Avvicinò lentamente una mano a quella di Tom e la sfiorò. Il chitarrista la osservò e poi alzò il viso per incontrare il suo sguardo. «Sei… caldo».

«Già», disse come se ne fosse accorto anche lui per la prima volta. «Mi chiedo se anche lei…».

«A proposito di lei. Che cosa intendi fare, ora? Hai intenzione di dirglielo che sei stato sospeso? Ma, soprattutto… che cosa vuoi fare con lei?».

«Io… Non lo so ancora, Tom. Ho bisogno di un po’ di tempo per pensarci».

«E intanto che ci pensi, io che dovrei fare?», sollevò il sopracciglio, scettico. «Sei uno stronzo, sai? Mi hai coinvolto in questa cosa, mi hai reso complice, e adesso devo mentire pure io a tutti per salvarti il culo».

«Ti voglio bene, Thomas», mormorò.

«Anche io», sorrise e gli passò la mano sulla testa, a mo’ di carezza. «La stanza degli ospiti è tua. Buonanotte».

«’Notte», rispose quando ormai Tom era già nella sua camera da letto, un secondo prima di spegnere il televisore.

 

All is lost, but hope remains and this war's not over (I'm dying tonight)
There's a light, there's a sun (I'm waiting...)
taking all these shattered ones
to the place we belong (I am waiting...)
and his love will conquer all

 

________________________________________


Buongiornooo :)
Allora, devo dire che questo capitolo è un po' pesante e allo stesso tempo, forse anche per questo, è uno dei miei preferiti. I nodi sono arrivati al pettine, la maggior parte, e Franky è stato sospeso D: A causa di quello che è successo con Evelyn sono successi un po' di casini, prima di tutti appunto la sospensione. Ha dovuto cedere il suo posto di angelo custode a Kim, questa Kim che, bah, è sempre più un mistero u.u State attenti a tutto ciò che dice, perchè sono importanti anche i particolari per capirla ;)
Per esempio, che ne pensate dell'affermazione: "Noi due siamo più simili di quanto credi" e, quando San Pietro ha detto a Franky che lui non amava veramente Evelyn, "Anche se si amano davvero"? Spero di avervi messo della curiosità :D
Franky, ovviamente, è andato a chiedere asilo al suo migliore amico, che all'inizio l'ha presa un po' male quando gli ha raccontato tutto; poi l'ha accettato e l'ha fatto rimanere *v*
Intanto le condizioni del corpo di Zoe continuano a peggiorare e Bill ne soffre moltissimo D: Chissà se con Franky forzatamente al suo fianco riuscirà a migliorare...

La canzone che ho usato in questo capitolo è la bellissimissimissimissima
Shattered, dei Trading Yesterday; è la mia canzone preferita di questo gruppo ed è perfetta per questo capitolo. (Consiglio di leggerlo con in sottofondo questa canzone *-*).

Okay, sono arrivata alla fine. Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha soltanto letto <3
Aspetto le vostre recensioni :) Alla prossima e, a proposito, d'ora in poi il giorno d'aggiornamento sarà il venerdì! Un bacio! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 13
*** It's time (Don't forget us) ***


13. It’s time (Don’t forget us)

 

Es ist Zeit um aufzustehen
Es wird Zeit um loszuziehen
Es ist so weit, wir müssen gehen
Wir müssen gehen
Und Abschied nehmen

 

Pioveva a dirotto quella mattina. Le strade erano ricoperte di neve sciolta e marroncina: non era più bella come quando era appena caduta. A dirla tutta, faceva proprio schifo.
Se avesse potuto quel giorno sarebbe stata volentieri a casa, nel suo letto caldo, ma doveva andare a scuola e non poteva più fare assenze, o rischiava la bocciatura.

Aveva fatto un pezzo di strada con Anja, chiacchierando del più e del meno, senza minimamente accennare a ciò che era successo la sera precedente. Evelyn ne era rimasta sollevata, perché solo pensarci era una pugnalata in pieno petto.
Separata dall’amica, era arrivata a scuola in orario ed era entrata in classe ancor prima che suonasse la campanella. Non l’aveva fatto perché aveva freddo, ma perché doveva ripassare storia: sentiva che la professoressa l’avrebbe interrogata senza pietà e non era così certa di essere preparata.

Ci aveva provato a concentrarsi, ma tra una data e l’altra aveva abbandonato il viso in mezzo alle pagine del libro, che ancora puzzavano di inchiostro. Non riusciva a pensare ad altro che a lui, Franky. Era dalla mattina precedente che non lo vedeva, la mattina dopo aver fatto l’amore. Arrossì pensandoci e si chiese se potesse considerarsi non più vergine: infondo lui era pur sempre un angelo…

Sollevò il capo dal libro e si osservò le mani sulle gambe: non si era tolta i guanti. Li levò con movimenti lenti e calcolati, tirando via dito dopo dito, e si posò le mani sul collo, sotto i capelli sciolti. Rabbrividì. Erano gelate, ancora.
Era dalla mattina precedente che avevano quella strana temperatura e le erano sorti dei seri dubbi che fosse perché aveva giocato con la neve insieme ad Arthur. Non era una reazione normale quella e quando si parlava di anormalità le veniva subito in mente Franky.
Chissà dov’era, che cosa stava facendo, se stava pensando a lei. Aveva voglia di rivederlo, di stringerlo fra le braccia e di baciarlo. Le mancava.

Lo sguardo le cadde sull’orologio appeso al muro, sopra la lavagna, e in quel preciso istante la campanella suonò. Guardò le pagine sottolineate del libro di fronte a lei ad ebbe la tentazione di mettersi le mani nei capelli: non sapeva nulla e alla prima ora aveva storia! A quel punto non poteva far altro che sperare che non la chiamasse, o sarebbe stata nella merda.

Sentiva il chiacchiericcio e i passi della massa degli altri studenti che si diramavano nei corridoi per raggiungere le loro aule: sembravano una folla di tori, talmente facevano baccano.
Quei suoni si amplificarono, come se fino ad un momento prima fosse stata in una bolla, isolata da tutto e da tutti, quando i suoi compagni di classe più puntuali aprirono la porta. Ovviamente non si degnarono di salutarla, ma in cambio le gettarono occhiatacce e fecero smorfie.
Entrò anche Samuel, dopo un po’, e lui fu l’unico ad accennare un sorriso mentre si avvicinava a lei.

«Ciao Evelyn», la salutò. «Come stai?».

«Ciao. Uhm, potrebbe andare meglio», sollevò le spalle. «Tu?».

«Tutto a posto». Si chinò leggermente verso di lei per guardarla meglio negli occhi e quel sorriso divenne ancora più ambiguo del solito, tanto che la ragazza ne rimase vagamente intimorita. «Per te va bene se oggi ci vediamo? Per matematica, ti ricordi?».

«Oh, sì, okay», annuì con la testa. «Nessun problema».

«Perfetto. Allora dopo scuola andiamo in biblioteca».

«Va bene».

«Fantastico», mormorò Samuel con gli occhi brillanti e quello che ora somigliava moltissimo ad un sogghigno.

Evelyn non fece in tempo a valutarlo con accuratezza, perché la professoressa entrò in classe ed ordinò a tutti di andare ai propri posti e di fare silenzio, minacciando di interrogare a raffica. Samuel fu così costretto ad affrettarsi a raggiungere il suo banco.
La bionda deglutì preoccupata udendo quelle parole; tentò perfino di nascondersi meglio che poté dietro la compagna che aveva di fronte.

«È inutile nascondersi, signorina Kaulitz», disse la prof, senza nemmeno sollevare gli occhi dal registro, su cui stava segnando gli assenti. «Tanto lei è la prima ad essere interrogata: ho bisogno di voti!».

Evelyn sprofondò nella vergogna e nella disperazione più assolute quando tutti i suoi compagni si girarono a guardarla sogghignando. Avrebbe soltanto voluto avere le ali di Franky per un attimo, giusto il tempo di lanciarsi giù dalla finestra e volare via, fuggire.

 

***

 

Tom venne svegliato da dei leggeri movimenti al suo fianco. Aprì a fatica un occhio per capire chi fosse e vide Arthur seduto nella parte di letto di Linda, che lo osservava con gli occhioni grandi spalancati.

«Ciao papà», gli sussurrò, allargando un sorriso.

«Buongiorno», mugugnò cercando di imitarlo, ma era ancora troppo addormentato. «Che ci fai già in piedi?».

«Devo andare all’asilo adesso».

«Oh sì, è vero… La mamma dov’è?».

«Ha detto che ha visto la camera degli ospiti aperta e c’erano un sacco di piume sul letto».

Tom all’udire quelle parole schizzò seduto sul letto, si levò le coperte di dosso in fretta e furia e corse fuori dalla camera in boxer e maglietta intima, sentendo un freddo terribile alle gambe. Il figlioletto lo seguì, incuriosito.

«Linda!», la chiamò Tom, sporgendosi all’interno della stanza degli ospiti.

«Okay, dimmi che è un tuo scherzo», disse severamente lei, indicando le piume sul letto, che stava raccogliendo in un sacco della spazzatura. «Non è divertente, Tom».

«Non sono –!», si interruppe quando si rese conto che il vero responsabile di quel macello non c’era. Dove cavolo si era andato a cacciare? E, soprattutto, perché aveva perso tutte quelle piume?

«Che cosa c’è, Tom?», gli domandò la moglie, quella volta preoccupata, notandolo così assorto nei propri pensieri.

«Nulla», mormorò lui, guardando un punto indefinito sul muro. «Scusami». Poi si voltò senza darle il tempo di dire altro e andò ad ispezionare la casa alla ricerca dell’angelo.

«Dove sei, Franky?», mormorò fra sé e sé e suo figlio lo sentì, ma non gli disse nulla. Probabilmente Tom non si era nemmeno accorto che Arthur era con lui.

Entrò nel bagno e finalmente lo trovò: era nella vasca da bagno, immerso nell’acqua gelata fino al collo, con addosso ancora i boxer; tremava e sbatteva i denti dal freddo e allo stesso tempo aveva il viso gonfio ed arrossato, come se avesse la febbre a quaranta.

«Franky, che cazzo ci fai lì dentro?», gli domandò a bassa voce e gli prese un braccio per tirarlo su. «Che cos’hai? E perché hai perso tutte quelle piume? Linda si è incazzata e… oh merda».
Notò i profondi tagli sulla schiena di Franky, dai quali usciva del liquido argentato, il suo sangue, ed iniziò a capire un po’ di cose. Aveva perso tutte quelle piume perché le ali gli stavano scomparendo, o meglio, gli stavano rientrando dentro. Forse era per quello che scottava così tanto ed era privo di forze.

«Fa malissimo», soffiò l’angelo con voce strozzata e si appoggiò a lui, faticando persino a stare in piedi.

«Merda, merda, merda. Non so cosa devo fare, Franky!», rispose, nel panico. Non era già di per sé esperto di angeli, figurarsi di medicina celeste!

«Arthur! Arthur, dove sei? Dobbiamo andare o farai tardi!», gridò Linda e solo allora sia Tom che Franky si resero conto della presenza del bambino.

«Lui riesce a vederti?», domandò a bassa voce Tom all’orecchio dell’angelo, che non seppe cosa rispondere: stava diventando sempre più difficile e più faticoso leggere nel pensiero e in quel momento non aveva proprio l’energia necessaria anche solo per capire di essere visto.

«Ehi, Arthur, mi vedi?», gli domandò allora, sforzando la voce per farsi sentire meglio.

«Sì», rispose il bimbo. «Tu sei Franky, l’angelo di cui mi parlava papà».

«Esatto, sono io», accennò un sorriso.

«Stai male?», gli chiese ancora, incuriosito.

«Sì, un po’», tossicchiò.

«Arthur! Ma si può sapere dove ti sei cacciato?! Tom!», urlò ancora Linda, spazientita.

«Adesso vai», disse l’angelo al bimbo. «Prima che la tua mamma si arrabbi sul serio».

«Okay», annuì e sorrise, salutando con la manina. «Ciao papà, ciao Franky». Poi uscì dal bagno e li lasciò soli.

«Oh, eccoti finalmente!», sentirono dire da Linda. «Tom! Noi andiamo, okay? Ci vediamo dopo!».

«Sì! Ciao! Buona giornata!», li salutò il chitarrista, urlando.

Sia lui che Franky udirono il rumore della porta di casa che si chiudeva e poi il silenzio più totale li avvolse, spezzato soltanto dal respiro affaticato e sempre più rauco dell’angelo.

«Sto andando a fuoco», mormorò quest’ultimo. «Non ce la faccio più». Si accasciò ancora di più contro il chitarrista, che fu costretto a reggerlo con più solidità.

«Mi è venuta un’idea», gli disse. «Adesso ti porto di là, ti stendo sul letto e ti rilassi; io intanto vado all’ospedale e cerco di parlare a Zoe, le spiego la situazione e…».

«No», biascicò, aggrappandosi alla maglietta di Tom con i pugni per cercare di guardarlo negli occhi. Il chitarrista notò, oltre al suo viso paonazzo, i suoi occhi lucidi ed arrossati, contornati da profonde ombre violacee: non doveva aver chiuso occhio quella notte a causa di quel dolore insopportabile.

«Non dirle come stanno realmente le cose… lei non sa che mi hanno sospeso… le ho detto che venivo di sotto per monitorare il suo corpo…».

«Oh, perfetto!», gridò esasperato. «E allora che cosa dovrei fare?!».

«Dille semplicemente… che devo parlare con Kim. Chiedile di Kim. Lei saprà sicuramente cosa fare…».

«Kim. Okay, Kim».

«Grazie, Tom». Quelle furono le ultime parole che disse prima di svenire fra le braccia del suo migliore amico.

«Figurati», gli rispose col sorriso sulle labbra, prendendolo fra le braccia e portandolo nella stanza degli ospiti.

Lo posò delicatamente sul letto, ma gli strappò comunque un gemito di dolore; lo osservò dormire con quella smorfia sul viso arrossato, fino a quando l’occhio non gli cadde sul comodino e vide quella foto. La prese fra le dita come se dovesse prendere una farfalla, fragile ed indifesa, e la fissò con gli occhi lucidi d’emozione: quella foto gli riportò alla mente tanti ricordi e allo stesso tempo gli smosse un po’ di quella tristezza che col passare degli anni si era depositata come polvere sul fondo della sua anima. Era passato così tanto da quando era stata scattata quella fotografia, erano cambiate così tante cose… ma sostanzialmente ne erano cambiate pochissime, perché erano sempre stati vicini, loro. Erano e sarebbero sempre stati un gruppo, nessuno ne sarebbe mai uscito, Zoe tantomeno: non poteva lasciarli.

Ancora un po’ indeciso, non la rimetté dove l’aveva trovata: in quel momento il suo posto era un altro, accanto alla persona che aveva bisogno di tutti loro. Probabilmente non avrebbe fatto molto, ma avrebbe di certo ricordato a tutti che erano più forti se stavano insieme, perché loro erano una famiglia.

Tom si vestì velocemente, non fece nemmeno colazione, ed uscì di casa, diretto verso l’ospedale. Lo raggiunse in una decina di minuti ed andò a passo spedito fino alla camera di Zoe, vi entrò e si mise seduto sulla sedia accanto al suo letto.

«Ehi, ciao Sea», la salutò, sfiorandole la mano con la sua.

Il silenzio che ricevette in risposta fu come al solito angosciante. Era impensabile che lei, proprio lei, stesse rischiando la vita. Avevano perso già Franky, non poteva abbandonarli anche lei.
Posò la fotografia sul suo comodino, contro il vaso che conteneva dei fiori un po’ appassiti che se solo qualcuno gliel’avesse detto ne avrebbe portati di nuovi, poi tornò a concentrarsi sulla sua amica, ancora intubata, con una flebo nel braccio destro ed attaccata a tutti quei macchinari che la monitoravano costantemente.

«Quand’è che ti deciderai a tornare, eh? Qui ci manchi, tanto». Sospirò e si passò velocemente un braccio sugli occhi. «Ma a parte queste cose che credo che tu ormai sappia a memoria, sono venuto per usarti ancora come centralino: Franky deve parlare con una certa Kim».

 

***

 

Kim e Zoe si lanciavano occhiatine da più di mezz’ora e non si erano dette più di cinque parole a testa. Si scrutavano cercando di capire che intenzioni avesse l’altra e alla fine Zoe abbandonò l’impresa, sapendo di essere già in svantaggio contro una persona che molto probabilmente sapeva leggerle nel pensiero. Così prese una rivista dal comodino e si mise a leggere.
Certo, ogni tanto le cadeva l’occhio sulla figura quasi immobile di Kim, che intanto aveva iniziato a leggere anche lei un libro, ma non aveva alcuna intenzione di chiederle qualcosa. Dopotutto non era nella sua lista delle persone simpatiche lì in Paradiso e non credeva di poter condividere qualcosa con lei: erano troppo diverse. A dirla tutta non le stava nemmeno bene che fosse stata lei a prendere il posto di Franky, una sua alunna della quale non sapeva praticamente niente. Ma non poteva di certo cacciarla.

Zoe venne distratta dai suoi pensieri da un sospiro appena accennato, che le fece abbassare la rivista. Kim, dal canto suo, aveva chiuso il libro, con un foglietto giallo fra le pagine per tenere il segno, e la stava guardando.

«So che non ci conosciamo nemmeno», esordì l’angelo. «Ma volevo farti una domanda».

«Rispetto a cosa?», le domandò, insospettita e piuttosto scettica.

«Franky».

Zoe arricciò il naso. «E lui che c’entra?».

«Beh, ecco, io… Niente, lascia stare», borbottò e tornò alla sua lettura, avvicinandosi in maniera esagerata alle pagine del libro col viso, come se volesse nascondersi.

Zoe non ci mise molto a fare due più due e il risultato fu ovvio: Kim provava qualcosa per Franky. Saperlo le pizzicò un po’ lo stomaco.
«Mi dispiace», le disse allora, «ma Franky esce già con una ragazza».

Kim alzò il capo e la guardò corrugando la fronte. «Eh?».

«Sì, una ragazza del Paradiso che però non mi ha voluto far conoscere», scrollò le spalle e tornò alla sua rivista con fare indifferente, come se le avesse detto che quel giorno ci sarebbe stato il sole. Con la coda dell’occhio, però, vide Kim accennare un sorrisino amaro che non riuscì a spiegarsi. Un po’ perché non ci sarebbe arrivata, un po’ perché venne distratta dalla sensazione di una mano che accarezzava la sua.

Il suo cuore sobbalzò all’udire la voce di Tom e chiuse gli occhi lucidi per concentrarsi meglio. Era da tanto che non riusciva a sentire i suoi amici e voleva riuscirci, oltre che per il piacere di sentirli, anche per riuscire a credere di avere ancora una speranza di tornare da loro.

“Ma a parte queste cose che credo che tu ormai sappia a memoria, sono venuto per usarti ancora come centralino: Franky deve parlare con una certa Kim”, disse Tom e lei aggrottò le sopracciglia, infastidita: non le piaceva che la usassero da messaggero. “Ha detto che è importante…”, continuò e dal suo tono di voce capì che era davvero importante, tanto che si preoccupò un po’. Che fosse successo qualcosa al suo angelo?

«Kim», richiamò l’attenzione dell’angelo, senza aprire gli occhi per non deconcentrarsi, semmai Tom le avesse detto qualcos’altro. «Franky vuole parlare con te».

«Che cosa? Sul serio?», domandò lei, alzandosi dalla sedia ed avvicinandosi a lei. «Te l’ha detto lui?».

«No, un nostro amico… dice che è importante».

Kim rimase qualche secondo in silenzio, a riflettere, poi capì quello che poteva essergli successo. «Okay, corro», le disse e si precipitò fuori dalla stanza.

Zoe non fece in tempo a dirle nient’altro, ma cosa avrebbe potuto dirle, quando ormai il collegamento fra lei e Tom si era spezzato?

La donna si era promessa di essere sempre positiva, ma tutto quello che stava succedendo in quel periodo le stava sempre più facendo pensare al peggio. Sarebbe davvero riuscita a cavarsela, a tornare dalle persone che amava?
«Tu ce la farai, te lo prometto, costi quel che costi», ricordò le parole di Franky e si aggrappò a quelle, ancora una volta: era l’unica cosa che poteva fare.

 

***

 

Kim arrivò di sotto già con il cuore in gola, stretto in una tenaglia d’acciaio. Erano anni che non andava sulla Terra, fra i vivi, e non pensava che l’avrebbe rifatto così facilmente. Invece, era bastata una richiesta d’aiuto di Franky e non ci aveva pensato due volte prima di precipitarsi lì.

Camminava a passo svelto per le strade d’Amburgo, con il cappuccio della felpa sulla testa e lo sguardo basso, le mani in tasca. Gli umani potevano vederla, come accadeva per tutti gli angeli speciali, ma lei non voleva vedere loro: per ciò che era successo nel suo passato aveva paura di sollevare lo sguardo ed incrociare degli occhi che le avrebbero fatto tornare tutto alla mente. Ci aveva messo tanto tempo per cercare di cicatrizzare quelle ferite e non voleva che si riaprissero: avrebbe fatto troppo male.

Aveva visto nella mente di Zoe tutte le facce dei suoi amici, aveva scoperto dove vivevano e aveva visto anche uno scorcio di conversazione fra lei e Franky, nella quale l’angelo le diceva che sarebbe stato un po’ di tempo da Tom. Per cui Kim sapeva esattamente dove andare.

Raggiunse la villa appena fuori città del chitarrista dei Tokio Hotel e non vedendo la sua auto dedusse che doveva essere ancora all’ospedale, con il corpo di Zoe.
Fece attenzione a non farsi riprendere dalle telecamere di fronte al cancello, diventando invisibile agli occhi umani, e fu costretta ad entrare in casa trapassando la porta, nonostante non le piacesse invadere in quel modo gli spazi altrui. Ma non poteva aspettare, Franky aveva bisogno di lei.

Camminò con cautela nell’ampio salotto, salì le scale che portavano al piano superiore e man mano che avanzava nel corridoio su cui si affacciavano le porte delle varie stanze, sentiva di avvicinarsi sempre di più a Franky, fino a quando non arrivò di fronte alla porta della stanza degli ospiti: l’aprì e steso sul letto vi trovò l’angelo, che dormiva con la sofferenza dipinta sul viso sudato ed arrossato.
Corse da lui, lo voltò con un po’ di fatica a pancia in giù e vide i grandi e profondi tagli provocati dalle ali che gli erano rientrate. Kim chiuse gli occhi e strinse i denti: sapeva cosa voleva dire soffrire in quel modo, ci era passata anche lei.

«Kim», sussurrò con voce strozzata Franky, aprendo a fatica gli occhi. «Sei arrivata».

«Sì», gli rispose accennando un sorriso. «Ho fatto il prima possibile».

«Ti prego fai qualcosa, è insopportabile».

«Faccio del mio meglio».

Si mise seduta al suo fianco, lo fece stendere meglio a pancia in giù e gli disse di rilassarsi, poi posò delicatamente le mani sui tagli e chiuse gli occhi per concentrarsi. Appena la luce biancastra, quella guaritrice, fuoriuscì dai palmi delle sue mani, Franky gridò con tutto il fiato che aveva in gola, straziato dal dolore.
Kim strinse gli occhi, ripetendo mentalmente e continuamente “scusa”: gli stava facendo ancora più male, ma era l’unico modo per farlo star meglio.

«KIM BASTA!», gridò contorcendosi sotto di lei, ma l’angelo speciale aumentò la potenza per finire prima, facendolo soffrire ancora di più.

«Manca poco, te lo giuro», mormorò e dopo un ultimo fascio di luce si accasciò sul letto, accanto a lui, sfinita.

L’angelo aveva gli occhi chiusi, teneva ancora i denti stretti, ma i suoi muscoli si stavano lentamente rilassando, mano a mano che il dolore scompariva, lasciando dietro di sé solo una piccolissima traccia, più che sopportabile.

«Scusami, ma era l’unico modo», disse Kim, con il viso rivolto verso il suo, infiammato e sudato.

Franky aprì gli occhi verdi e fissò intensamente quelli di lei. Poi accennò un sorriso. «Non importa. Ero certo che tu sapessi cosa stessi facendo. Grazie per essere venuta».

«Non mi devi ringraziare», rispose mentre le sue guance prendevano colore. «Stai meglio, ora?».

«Sì, ma sono stanco».

«È normale. Pian piano recupererai le forze e il dolore scomparirà del tutto».

Franky annuì e Kim, ancora sdraiata al suo fianco, si rese conto di quanto i loro visi fossero in realtà vicini. Accarezzò l’idea di sfiorargli la fronte imperlata di sudore con le dita e lo fece, provocando la reazione dell’angelo, che aggrottò le sopracciglia ma che, stranamente, non la scansò. Kim si avvicinò ancora di più a lui, chiudendo gli occhi, ma quando ormai era ad un soffio dalle sue labbra la porta della camera si aprì e la costrinse ad allontanarsi velocemente, sobbalzando.

«Ehm…». Tom, sulla porta, non sapeva se tornare indietro facendo finta di niente o chiedere delle spiegazioni. «Scusate, non volevo interrompere nulla…».

Guardò Franky e gli chiese mentalmente chi fosse quella ragazza, ma l’angelo non parve sentire i suoi pensieri ed infatti gli rispose la diretta interessata: 
«Io sono Kim».

«Oh», esclamò sorpreso. «Hai fatto presto. Ma tu non sei come Franky… Sei un angelo speciale, per caso?».

«Esatto! Tu come…?».

«Ne abbiamo già conosciuti due, tempo fa», le spiegò Franky, schiarendosi la voce. Provò a tirarsi su, ma la schiena gli faceva ancora male e dovette aiutarlo Tom per far sì che si appoggiasse con le spalle alla testata del letto.

«Come stai?», gli domandò quest’ultimo, in pensiero.

«Va già meglio, grazie».

Kim si sentiva fuori luogo, completamente estranea alla situazione, ed inoltre aveva ancora il viso rosso dalla vergogna per aver provato a baciarlo ed essere stata interrotta. Decise così di liquidarsi.

«Okay, allora io… vado», mormorò abbassando il capo.

«Grazie», disse Franky. «Salutami Zoe».

«Certo», accennò un sorriso. «Ciao, a presto. E Tom, scusami se sono entrata senza permesso in casa tua».

«Oh, non c’è problema», le rispose, frastornato da tanta gentilezza. «Grazie anche da parte mia per aver aiutato Franky».

«Non c’è di che», sorrise e poi scomparì nel nulla di fronte a loro.

Tom e Franky, rimasti soli, si guardarono negli occhi e il primo disse: «Okay, credo che tu mi debba spiegare anche perché lei ti stava per baciare».

«Va bene», sospirò il secondo, roteando gli occhi al cielo. «Ma prima non è che potresti fasciarmi i tagli sulla schiena?».

«Pure da crocerossino ti devo fare?», sollevò il sopracciglio, con un sorriso obliquo sul viso.

Franky lo imitò, però maliziosamente. «Uh, eccitante».

 

***

 

L’ultima campanella decretò la fine di quelle giornata scolastica.

Il morale di Evelyn era più che sotto terra. La professoressa di storia l’aveva interrogata per prima, come le aveva annunciato, e nonostante avesse studiato aveva collezionato l’ennesimo voto negativo. Non ce la faceva a stare dietro al programma, non ce la faceva a studiare adeguatamente a casa… non ce la faceva più, semplicemente.

Vide Samuel già pronto per andare, che l’aspettava all’entrata dell’aula, così si affrettò a raggiungerlo. Si sentiva un po’ nervosa e aveva fame, per questo gli propose di andare prima a prendere qualcosa da mangiare al bar della scuola. Samuel acconsentì, ma una volta lì non prese niente. Evelyn invece si comprò un panino e una bottiglietta d’acqua.

«Possiamo andare?», le domandò, con una nota di impazienza nella voce.

Evelyn, confusa, annuì col capo e lo seguì. Non parlarono per tutto il tragitto dalla scuola alla biblioteca e questo non rilassò affatto la ragazza, che ogni minuto che passava si sentiva sempre più in ansia, senza alcun motivo ben preciso. Era così tesa che persino la vibrazione del suo cellulare la fece sobbalzare, quando ormai stavano camminando nel parco – deserto – nel quale si trovava la biblioteca.

Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e rispose velocemente: «Pronto!».

«Tesoro, che cosa vuol dire quello che mi hai scritto nel messaggio? Ossia che non torni a casa perché devi studiare matematica con un tuo compagno di classe?».

«Vuol dire esattamente quello che hai detto», rispose e guardò con la coda dell’occhio Samuel, che intanto si guardava intorno mordendosi le labbra.

«Non mi pare che tu abbia mai avuto degli amici a scuola…».

Quella frase la spiazzò, ma ci mise poco a reagire. «E quindi? Adesso ce li ho».

«Oh, allora… bene, sono contento».

«Anche io. Scusa, adesso devo andare. Ci vediamo dopo, ciao». E chiuse la chiamata tanto in fretta come l’aveva iniziata. Poi si rivolse a Samuel con un timido sorriso: «Scusa, ma mio padre a volte è proprio un rompipalle».

«Sì, immagino…», biascicò, portandosi alle labbra quella che Evelyn riconobbe come essere una canna. «Ti dispiace se fumo?», le domandò, con tono innocente.

«Ahm… no», rispose, anche se incerta.

Samuel annuì e si fermò sotto un albero a fumare; Evelyn, al suo fianco, era tesa come una corda di violino.

«Hai mai fatto uso di droghe?», le chiese fra una boccata e l’altra.

«No», rispose intimidita.

Il ragazzo ridacchiò. «Strano. Sei la figlia di una rockstar e non hai mai provato a farti?». Lei abbassò il capo e non rispose, ma non perché si vergognava, perché non avrebbe saputo che cosa rispondere.

«Comunque sia», riprese Samuel, facendo l’ultimo tiro alla sua canna per poi gettarla a terra, fra l’erba ancora umida di pioggia. «Saprai che non si comprano da sole… sono un costo, alla fine, e per un ragazzo come me non è facile…». Evelyn, ancora a testa bassa, sgranò gli occhi e si pietrificò sul posto. «Te lo dico chiaro e tondo, tanto so che tu sei intelligente e capirai subito: ho bisogno di soldi».

«E io… io che cosa c’entro?», mormorò, più che spaventata.

«Tu di questi problemi non ne hai! Non ti cambiano la vita cinquanta euro in più, cinquanta in meno…».

La bionda alzò di scatto il capo e lo guardò negli occhi con i suoi lucidi ed impauriti. «No», rispose con voce tremula, sull’orlo del pianto. «Non funziona così, io… io non li ho…».

L’espressione di Samuel cambiò radicalmente, faceva davvero paura, ed Evelyn arretrò di un passo, poi di un altro. Se ne sarebbe andata via di corsa se solo lui non l’avesse afferrata per il polso, non l’avesse spinta contro un albero dalla corteccia umida e bloccata con il proprio corpo. 

«Non dire cazzate», sillabò ad un centimetro dal suo viso, con l’alito che puzzava ancora di fumo e gli occhi neri arrossati. «Non sarai davvero così stupida da mentirmi».

«Te lo giuro, io…!».

Samuel non ci pensò due volte prima di tirarle una sberla e toglierle bruscamente lo zaino dalle spalle mentre era ancora frastornata. Lo aprì di fronte a lei, in modo tale da averla sempre sotto tiro, e tirò fuori dalla tasca anteriore il suo portafoglio, dentro al quale vi trovò solo dieci euro in carta e qualche spicciolo in moneta. La guardò truce e le lanciò addosso lo zaino aperto e il portafoglio svuotato, che poi caddero a terra, tra il fango e l’umidità provocati dalla pioggia di quella mattina.

«Faresti meglio a chiedere un prestito al paparino e farti trovare un po’ più fornita la prossima volta», le disse minacciosamente, assottigliando gli occhi. Si intascò ciò che si era “guadagnato” in quella prima tornata e prima di andarsene aggiunse: «Ah, il mio non è un consiglio».

Evelyn lo guardò sparire lungo il sentiero e una volta lontano guardò i suoi libri e i suoi quaderni sparpagliati ai suoi piedi, ormai umidi e sporchi di terra. Si piegò a raccoglierli e senza nemmeno accorgersene iniziò a piangere: le lacrime le scivolarono sul volto, discrete e silenziose, e il bruciore che sentiva dentro per essersi cacciata in quel casino di dimensioni esorbitanti era dieci volte più intenso di quello che sentiva alla guancia per lo schiaffo ricevuto.

Tirò su col naso distrattamente e pulì lo zaino dai residui di terra alla bell’e meglio, poi se lo rimise sulle spalle e si incamminò per ritornare a casa.
Iniziò di nuovo a piovere, quella pioggia infima, finissima, della quale nemmeno ci si rende conto, se non quando si è ormai bagnati fradici.

Il cellulare le vibrò nella tasca: le era arrivato un messaggio, di Martin.

 

Ciao Evelyn, sono io, ancora. Volevo solo sapere come stai…

 

La ragazza tirò su di nuovo col naso e si schiarì la voce, inoltrando la chiamata e portandosi il cellulare all’orecchio. Non sapeva perché lo stava facendo, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.

 

***

 

Martin, seduto sulla sua poltrona, abbandonò il cellulare sul ripiano della scrivania, accanto a dove aveva appoggiato i piedi, e si portò le mani dietro la nuca, chiudendo gli occhi e sospirando.
Ormai le scriveva quasi tutti i giorni e non pensava che gli rispondesse, ma ci sperava sempre.
Avrebbe dovuto studiare a quell’ora, ma non ce la faceva proprio. Era da tanto che non la vedeva e gli mancava, ogni giorno di più. Ma era impossibile che si fosse innamorato… si conoscevano così poco!

Evelyn era sparita dalla sua vita come era sparita quella presenza che ogni tanto prendeva il controllo del suo corpo. Che quei due fossero collegati a quel punto l’aveva capito, ma non riusciva a capire che cosa c’entrasse lui in tutto quello. Che fosse stato pescato a caso?
Beh, che enorme botta di culo, pensò fra sé e un attimo dopo il suo cellulare iniziò a suonare. Rischiò di ruzzolare sul pavimento talmente tanta era stata la foga con cui si era gettato sulla scrivania, ma alla fine, sano e salvo, rispose, senza nemmeno guardare chi fosse.

«Sì, ci sono!», gridò.

Silenzio. Poi qualcuno che tirava su col naso e una voce impastata che sussurrava: «Ciao, Martin».

«E-Evelyn», mormorò, incredulo. «Ciao, non credevo che tu…».

«Sono un’ingrata e mi sto vergognando tantissimo in questo momento, ma mi devi venire a prendere».

«C-Certo! Dove? Dimmi dove».

«Sono al parco della biblioteca».

«Okay, arrivo subito».

Martin chiuse la chiamata e corse fuori dalla stanza infilandosi la felpa, attraversò il salotto, dove si trovava sua sorella che guardava indisturbata la televisione, e andò da sua madre, alla quale rubò le chiavi della macchina.

«Dove vai?», gli chiese Pamela.

«Un pacco di cavoli tuoi mai, eh?», le rispose e si sbattè la porta di casa alle spalle.

Saltò in macchina e sgommò via, verso la sua destinazione, dove arrivò in pochissimo tempo. Parcheggiò nel primo buco libero che trovò e corse all’interno del parco sotto la pioggia fine, fino a quando non intravide la figura di Evelyn sotto un albero, che aveva il viso rivolto verso l’alto ma gli occhi chiusi.

«Evelyn!», la chiamò, pietrificandosi sul posto.

La ragazza aprì gli occhi azzurri e quello sguardo gli fece perdere un battito: era troppo intenso, troppo bello, ma anche così triste. 
Si staccò dal tronco dell’albero e lo raggiunse a passi lenti; una volta di fronte a lui lo abbracciò, nascondendo il viso nel suo petto.
Martin arrossì e ci impiegò qualche secondo per ricambiare, ma una volta datosi l’imput la strinse forte e tutta la timidezza scomparì.

La pioggia continuava a scendere dal cielo con insistenza.

Si scostarono l’uno dall’altra solo dopo minuti interminabili. Martin la guardò negli occhi e le sfiorò la guancia arrossata, delicato come se stesse accarezzando una rosa. «Ti va di spiegarmi cos’è successo? Magari davanti a qualcosa di caldo?».

«L’ultima parte sì, volentieri», tirò di nuovo su col naso e si spostò di lato la frangetta bagnata.

«E va bene», sospirò con un mezzo sorriso e le avvolse le spalle con un braccio, accompagnandola all’auto.

 

***

 

«Mmh, quindi lei ha una cotta per te», ricapitolò Tom, dopo aver bevuto l’ultimo sorso d’acqua nel suo bicchiere. Franky, seduto di fronte a lui, annuì.
«E tu?», continuò allora il chitarrista, mentre si alzava per portare il piatto vuoto nel lavandino e gli dava le spalle.

«Io cosa?», domandò l’angelo con cipiglio perplesso.

«Dai Franky, hai capito benissimo, non fare il finto tonto».

Franky abbassò il capo, mordendosi le labbra e stringendo i pugni sulle gambe.
Il dolore provocato dalle sue ali era fortemente diminuito, ma non era scomparso, esattamente come quello che sentiva in mezzo al petto ogni volta che pensava che, per una volta in cui avrebbe voluto essere felice lui, stava perdendo tutto ciò per cui aveva lottato così duramente, colui che era diventato con tanta fatica.

Tom, insospettito dal silenzio dell’amico, si voltò e lo guardò per qualche secondo senza sapere che dire. Pensò milioni di cose e gli tornò in mente quella mattina, quando gli aveva domandato mentalmente chi fosse quella che poi si era rivelata Kim: lui non era riuscito a rispondergli… Che, oltre a perdere l’utilizzo delle ali, stesse perdendo tutti i suoi poteri da angelo, tra cui anche…

Tom deglutì. “Franky?”, lo chiamò telepaticamente. “Franky, mi senti?”. Ma da lui nessuna risposta: non riusciva a percepire i suoi pensieri.

«Franklin…», lo guardò con gli occhi tristi e lui scostò subito lo sguardo, mordendosi ancora le labbra.

«Sono stanco, vado a dormire un po’», mormorò alla fine e si alzò dalla sedia tenendosi ad essa con una mano, poi abbandonò la cucina e raggiunse la sua camera, dove si rifugiò.
Ma non rimase molto tempo da solo, perché Tom bussò ed entrò senza attendere una sua risposta. Lo aiutò a sdraiarsi sul letto, con due cuscini dietro le spalle, e lo imitò, stendendosi al suo fianco.

«Così sembri più umano», gli confidò, con l’ombra di un sorriso sulle labbra.

«E ti piace?», gli domandò l’angelo, voltando il capo verso il suo per poterlo guardare negli occhi.

«A me piaci sempre e comunque: sei il mio Franky».

Riuscì a strappargli un sorriso ed una risata. «Oh, mi mancavano queste dichiarazioni d’amore! Sai, se non stessi male ti abbraccerei e faremmo l’amore per tutto il pomeriggio».

«Non sai quanto mi piacerebbe, ma sono sposato e ho un figlio piccolo…».

Franky sollevò il sopracciglio ed insieme scoppiarono a ridere.

«Sono a casa!», sentirono urlare da Linda dopo un po’.

«Ecco, appunto», disse Tom, sempre con quel sorriso divertito sulle labbra. «Vado da lei».

Franky chiuse gli occhi per concentrarsi meglio, ma non riuscì ad accedere nemmeno ai pensieri più superficiali e momentanei di Linda. Sconfitto, lasciò andare indietro la testa ed accennò un sorriso amaro. «Va bene».

«Torno subito, non ti preoccupare». Si voltò, ma l’angelo lo fece rimanere tenendogli la mano.

«No, Tom», disse. «Non devi preoccuparti così per me, fai tutto quello che devi fare e poi, se ti avanza del tempo, stai con me».

Il chitarrista lo guardò negli occhi e sorrise, perché il suo amico non era affatto cambiato, nonostante tutti i casini che aveva combinato.
«Il solito altruista», bofonchiò ridacchiando ed uscì dalla stanza dopo aver visto il sorriso comparire anche sulle sue labbra.

Trovò Linda stesa con il busto sul divano, le gambe appoggiate sopra lo schienale, gli occhi chiusi e un braccio sulla fronte. Sembrava davvero stanca.
Tom la raggiunse senza farsi sentire, si sporse su di lei e le posò un delicato bacio sulle labbra. La donna non aprì gli occhi, ma sorrise ed accarezzò i capelli del marito con dolcezza.

«Bentornata», le sussurrò Tom, accarezzandole una guancia.

«Uhm, grazie», mugugnò stiracchiandosi e finalmente aprì gli occhi, quegli occhi castani che lo avevano stregato sin dalla prima volta in cui li aveva visti. Ricordando quell’episodio, gli venne in mente anche della questione di Jole e di sua figlia. Doveva ancora parlarne con Franky e l’avrebbe fatto presto.

«A che pensi?», gli domandò Linda, sfiorando con la punta delle dita le increspature sulla sua fronte alta.

Scosse il capo per riprendersi. «Niente», sorrise. «Piuttosto, com’è andata la giornata?».

«Bene dai… tutto tranquillo».

«Nessuna rivolta coi girelli?», domandò alzando il sopracciglio, divertito.

«No, scemo», gli tirò uno schiaffettino sul braccio e rise anche lei. «I nostri pazienti sono un amore, è solo il generale che a volte da’ di matto… oggi era tranquillo».

«Mi piacerebbe venire un giorno con te alla casa di riposo per vedere che cosa succede».

«Non ci si annoia mai. Un po’ come con te», rise e lo baciò di nuovo sulle labbra. Poi sorrise maliziosa: «Tra un po’ diventerai anche tu un nonno…».

«Ehi, ehi», la fermò subito, portandole un dito sulle labbra. «Che io diventi nonno non vuol dire che io diventi anche vecchio!».

«Giusto, hai ragione», sorrise. «Allora visto che sei ancora un ragazzino perché non ti alzi da qui e vai a prendere Arthur all’asilo?».

Tom socchiuse gli occhi e stirò un sorrisetto furbo mentre si portava una mano sulla schiena. «Improvvisamente mi è venuto un dolore proprio qui…».

Linda lo spinse via ridendo. «Ma per favore!».

Il chitarrista le rubò un ultimo fugace bacio e, portandosi teatralmente una mano sul petto, disse: «Okay, sono l’unico in grado di compiere quest’arduo gesto: vado a prenderla io la bestiola».

«Occhio a come parli!», gli tirò il cuscino in faccia ed inscenarono un inseguimento per tutto il salotto, fino a quando si resero conto, fra baci e carezze, che era tardissimo.

«Corro a prendere Arthur!», gridò Tom, precipitandosi a prendere la giacca e le chiavi dell’auto.

«Vai piano che la neve è tutta sciolta e…».

«Era in senso metaforico!», la interruppe. Sulla porta, aggiunse: «Ah, è probabile che passi un attimo da Bill dopo, quindi non ti preoccupare se ci mettiamo tanto a tornare».

«Va bene», lo prese per il colletto della giacca e gli intrappolò le labbra in un bacio mozzafiato. «Salutami tutti».

«Certo», mormorò ancora intontito.

Si chiuse la porta del garage alle spalle e sorrise come un ebete per tutto il tragitto verso l’auto. Linda gli aveva fatto tornare il buon umore e sentiva di amarla esattamente come il primo giorno, se non di più. Era una bella sensazione.

Arrivò all’asilo di Arthur senza nemmeno rendersene conto, con la testa così persa fra le nuvole. Scese dall’auto stando attento a non bagnarsi con la pozza proprio di fronte a lui ed entrò nella struttura.

«Papà!», gridò stridulo suo figlio, alzandosi dal banchetto su cui stava pitturando, e corse verso di lui con il grembiulino bianco – che non era più definibile tale, visto le enormi chiazze di tempera colorata – che si sollevava sulla schiena come un mantello.

«Ehi piccolo!», lo salutò abbassandosi ed aprendo le braccia per accoglierlo. Il bimbo ci si gettò in mezzo e gli avvolse il collo con le braccia, mentre Tom lo alzava e faceva mezzo giro su se stesso.
«Come stai, tutto a posto?», gli domandò successivamente, guardandolo negli occhi. Arthur annuì e proprio in quel momento arrivò l’educatrice che si occupava di lui e del suo gruppo.

«Salve signor Kaulitz», lo salutò la ragazza. «È venuto a ritirare il pargolo?».

«Sì», sorrise sistemandosi meglio il bambino fra le braccia. «Ha fatto il bravo?».

L’educatrice sorrise dolcemente guardando Arthur, che arrossì e nascose il viso contro il collo di suo padre. «È un amore, davvero».

«Ciao Arthur!», lo salutò con voce squillante una bambina dai capelli rossi, muovendo la manina.

«Saluta», lo incitò Tom e il bimbo obbedì, ma a bassa voce, arrossendo come un peperone. Poi, gli disse, con tono lamentoso:
«Papà andiamo a casa?».

«Sì, adesso andiamo», gli sorrise e gli accarezzò il capo prima di voltarsi verso l’educatrice. «Noi andiamo».

«Certo», sorrise cordialmente. «Ci vediamo domani Arthur!».

«Ciao», salutò questo e tutto contento si lasciò mettere a terra per poter camminare da solo verso l’auto del padre che, fra l’altro, era dovuto andare a prendere il suo zainetto e le sue cose.

Ho un figlio che è un amore, sfaticato e timido con le ragazze. Più che a me somiglia a Bill! rifletté mentre gli allacciava la cintura sul seggiolino. Poi salì in macchina ed avviò il motore, che iniziò a fare le fusa.

«Ah, piccolo, ti scoccia se andiamo un po’ da zio Bill? Gli devo parlare», lo informò Tom.

«No, va bene. C’è anche Evelyn?».

«È quello che vorrei sapere pure io…», mormorò soprappensiero.

Arrivarono a casa di Bill una ventina di minuti più tardi.
Arthur si fece aiutare dal suo papà per raggiungere il campanello e qualche istante dopo suo zio aprì, sorridendo come faceva da quella maledetta sera: in modo superficiale e con quel retrogusto amaro.

«Ciao! Che ci fate da queste parti?», gli chiese, spostandosi per farli entrare.

Tom stirò un sorriso e tossicchiò. Bill capì che doveva parlargli di qualcosa di abbastanza serio.

«Piccolo vuoi vedere i cartoni?», gli domandò suo zio, chinandosi un po’ sulle ginocchia.

«Sì!», squittì Arthur con gli occhi brillanti e si piazzò davanti alla televisione. Tom e Bill, invece, si riunirono in cucina per poter parlare indisturbati.
Si misero seduti al bancone, uno di fronte all’altro, le braccia appoggiate sul ripiano di marmo.

«È successo qualcosa?», domandò subito Bill, in ansia.

«In effetti sì. Franky…», sospirò e si passò una mano sulla fronte: sarebbe stata dura mentire a lui, ma doveva almeno provarci. «Franky non è più l’angelo custode di Zoe».

Bill strabuzzò gli occhi, incredulo. «C-Come? Perché?!», balbettò.

«È una cosa temporanea… l’hanno sospeso».

«Sospeso? Ma… perché voglio sapere!», si impuntò e diventò rosso in viso e sul collo.

«Perché… non me l’ha detto perché!», farfugliò Tom. Il gemello arricciò il naso e dovette fare di tutto perché non gli leggesse nel pensiero.

«Diciamo che ti credo», disse alla fine. «E quindi Zoe adesso… Chi si prende cura di lei lassù?».

«Un altro angelo, si chiama Kim… è un’amica di Franky…».

«Amica?», sottolineo il termine, sollevando il sopracciglio.

«Insomma, lei ha una cotta per lui, ma è un’altra storia!», scosse il capo con insistenza. «Fino a quando non ritornerà ad essere un angelo custode ho la sensazione che resterà a casa mia».

«Uhm, okay… così hai anche tempo per chiedergli di Jole».

«Sì, esatto… ma questo è secondario, perché… non è che lui stia proprio bene…».

Bill aggrottò le sopracciglia, confuso per l’ennesima volta.

 

***

 

Evelyn guardò Martin, seduto al volante, e gli sorrise piena di gratitudine. «Grazie mille, davvero».

«Non devi ringraziarmi… Anche io avevo voglia di vederti». Si portò una mano dietro la nuca ed arrossì, abbassando gli occhi.

Evelyn sorrise intenerita e si sporse per baciargli la guancia. «Ci vediamo presto, promesso».

«Sì», balbettò, ancora scosso da quel bacio innocente.

La ragazza scese dall’auto trascinandosi dietro lo zaino e stava per chiudere la portiera, salutandolo con la mano, quando lui disse, sporgendosi verso di lei: «Se hai bisogno di altre ripetizioni di matematica non farti problemi, chiamami».

«Okay», mormorò mentre il suo sorriso lentamente si spegneva, in ricordo della prima – terribile – parte di quel pomeriggio.

Nella seconda parte, invece, si era trovata più che bene con Martin e fra un cucchiaio di cioccolata calda e un altro gli aveva raccontato che aveva qualche problema a scuola, in particolare con la matematica. Lui si era offerto seduta stante di aiutarla a fare i compiti e doveva ammettere che era stato davvero bravo… sentiva già di aver capito qualcosa in più. Ma era ovvio che questo non poteva cancellare dalla sua mente ciò che era successo prima che arrivasse lui.

Chiuse la portiera e a passo spedito raggiunse la porta di casa, girò un paio di volte la chiave nella serratura e poi entrò. Un piacevole calore la avvolse e capì subito che avevano visite: il televisore in salotto era acceso e se non errava quella che stava sentendo era la sigla di un cartone animato che piaceva moltissimo ad Arthur.
Infatti fu proprio lui che vide in salotto, seduto sul divano di fronte alla tv. Ciò voleva dire che molto probabilmente c’era anche suo zio Tom. Non aveva voglia di parlare con nessuno, voleva solo andare in camera sua e non fare niente fino a cena, ma cambiò radicalmente programmi quando sentì che in cucina suo padre e suo zio stavano parlando di Franky.
Non riuscì a sentire bene che cosa si stavano dicendo perché Coco le era saltato sui piedi facendola spaventare ed attirando l’attenzione dei due, ma aveva afferrato che Franky non stava bene. Il cuore le era subito salito in gola dalla preoccupazione, ma cercò di nasconderla dietro un’espressione di pura sorpresa nel vedere suo zio.

«Oh, ciao», lo salutò sollevando una mano.

«Ciao, Evelyn», le rispose e la guardò intensamente, tanto da farle venire i brividi: sembrava… consapevole di chi stesse guardando. Evelyn avvertì uno strano presentimento, qualcosa che non sarebbe dovuto accadere ma che stava succedendo.
«Tutto bene?», le domandò ancora.

«Sì… tutto a posto».

«Com’è andata col tuo compagno?», chiese invece suo padre, interrompendo così il contatto visivo tra Tom e Evelyn.

«Tutto okay», mormorò, nascondendo pure quella volta i suoi veri stati d’animo. «Sono stanca, vado in camera mia».

«Va bene», mugugnò Bill. Quel giorno sia suo fratello che sua figlia avevano deciso di non fargli capire nulla: erano così criptici! Non riusciva davvero a comprenderli, come se loro sapessero cose di cui lui non era a conoscenza e delle quali non doveva sapere nulla.

«Devo andare in bagno», se ne uscì fuori Tom all’improvviso, alzandosi e dirigendosi fuori dalla cucina senza nemmeno dare il tempo materiale a Bill di dire o fare qualcosa: se n’era semplicemente andato.

Senza farsi vedere salì le scale di vetro e raggiunse il piano superiore, poi con una corsetta raggiunse la stanza di Evelyn: doveva fare presto, o Bill si sarebbe insospettito.
Bussò e non aspettò che la nipote rispondesse, si limitò ad entrare.

«Zio», esclamò confusa Evelyn. «Che cosa…?».

«Shhh!», la zittì lui, portandosi un dito di fronte alle labbra e chiudendosi la porta alle spalle. «Noi due dobbiamo parlare, signorina».

«Ah sì?», rispose nervosamente. «A proposito di che cosa?».

«Di te e di Franky».

Il sangue le si gelò nelle vene. Suo zio sapeva di loro due? Com’era possibile? «Io… io non so di cosa tu stia…».

«No, per favore, no», la interruppe sconfortato e si mise seduto sul letto, con i gomiti puntati sulle ginocchia e le tempie fra le dita. «È inutile che fai la finta tonta, Franky mi ha raccontato tutto. E con tutto intendo tutto tutto».

Non era possibile, c’era qualcosa di sbagliato, di enormemente sbagliato. Perché Franky avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Che c’entrasse con ciò che aveva sentito prima?

«Vieni qui», Tom batté un colpo accanto a sé e la nipote si mise seduta al suo fianco, rigida come un pezzo di legno. «Basta mentire, okay? Non ce n’è più bisogno: io so tutto e d’ora in avanti puoi dirmi tutto quello che vuoi, tanto credo che più sconvolgente di così…». Scrollò le spalle.

«Che cos’è successo a Franky?», furono le prime parole di Evelyn dopo lo shock iniziale per ciò che aveva scoperto, cioè che suo zio sapeva. Sapeva tutto.

Tom sospirò, si massaggiò di nuovo le tempie e si preparò per raccontarle tutta la storia. Ovviamente sapeva che rivelandole tutto quello che era successo avrebbe scatenato l’inferno fra lei e Franky, ma era giusto che lei sapesse.
Le disse tutto ciò che sapeva, ma non approfondì i particolari più tristi, come il fatto che aveva perso le ali e stava perdendo anche i suoi poteri da angelo; rimase più sul generale: che era stato sospeso, che sua madre ora era sotto la custodia di una certa Kim – non le disse che li aveva interrotti mentre lei cercava di baciarlo – e che sarebbe rimasto da lui per un po’, fino a quando le cose non si sarebbero in parte sistemate.

Evelyn, rimasta in silenzio per tutta la durata della spiegazione, non disse una parola ancora per qualche minuto; rimase ad osservare il pavimento con sguardo assente, la testa decisamente da un’altra parte.
Tom, durante quei minuti interminabili, ebbe la sensazione di aver fatto una cazzata enorme, una delle più grandi della sua vita: i suoi sensi di colpa si erano ingranditi a dismisura ad ogni secondo che passava.

Ad un certo punto fu costretto a chiedere alla nipote se andasse tutto bene. Lei si voltò lentamente verso di lui, lo guardò negli occhi con serietà e rispose: «Voglio vederlo».

Il chitarrista si trovò a boccheggiare, nonostante lo sapesse che sarebbe andata a finire così. «Franky non sta molto bene in questo momento, io non so se…».

«Sta male? Franky sta male?», quasi lo assalì, stringendo le maniche del suo maglione con i pugni. Era più che preoccupata. E si era messo più che nella merda usando quella scusa.
«Devi portarmi da lui», continuò lei, con la determinazione negli occhi.

«Ma… ma come faccio?! Che dico a Bill?!».

«Okay, ho un piano». Si alzò dal letto, sotto lo sguardo attonito di suo zio, e andò alla scrivania, dove aveva lanciato il cellulare appena entrata nella camera. Chiamò Anja, che sicuramente avrebbe retto il suo gioco.

«Ciao Anja, scusa se ti disturbo, ma devo chiederti una favore».

«Ciao! Sì, dimmi pure».

«Mmh… se mio padre dovesse chiamare, puoi dirgli che io sono lì da te?».

«Dove devi andare di così segreto?».

«Un giorno ti racconterò tutto, promesso». Non le lasciò il tempo di ribattere, chiuse la chiamata e si voltò di nuovo verso suo zio, che si sbatté le mani sulle gambe con un sorriso sbarazzino sul viso e si alzò.

«Beh, per questo sei spiccicata a tua madre. Vado a prendere la macchina, ti aspetto dietro l’angolo».

«Perfetto», gli fece l’occhiolino ed aspettò che uscisse per appoggiarsi alla scrivania con il fondoschiena e sospirare pesantemente con le mani sul viso. 

Trattenne le lacrime e i singhiozzi e si fece forza, anche se i sensi di colpa che l’avevano assalita erano pesantissimi sulle sue spalle: era solo ed esclusivamente colpa sua se Franky stava passando tutto quello che stava passando. Solo sua.
Si diede un po’ di tempo per rilassarsi, poi scese al piano inferiore e in salotto intravide suo padre, che guardava la tv con espressione assorta: stava pensando ad altro.

Quando la vide, aprì la bocca e con tono confuso, disse: «Sai perché Tom se n’è andato con così tanta fretta?».

«Dovrei saperlo io?», domandò fingendo la stessa confusione.

«Non so…».

«Beh», scrollò le spalle e si diresse verso l’ingresso per prendere il cappotto dall’attaccapanni. «Io devo andare un attimo da Anja».

«A fare?».

«Mi ha chiesto se posso passare un attimo da lei, non so perché. Comunque torno presto, promesso».

«No, non è per quello…», mormorò, ma Evelyn non vi badò.

«Allora ciao!», lo salutò frettolosamente e si chiuse la porta alle spalle.

Camminò a passo controllato sul sentiero che portava al cancello – per non scivolare sul ghiaccio e soprattutto per non destare sospetti – poi, una volta fuori dalla proprietà privata iniziò a correre sul marciapiede per raggiungere l’angolo dove l’aspettava suo zio. L’auto era già in moto e appena salì a bordo venne avvolta dal piacevole calore dell’aria condizionata.

«Tutto bene?», domandò Tom.

«Sì», annuì accennando un sorriso. «Ora muoviti, non abbiamo tanto tempo».

Il chitarrista annuì, sistemò lo specchietto retrovisore, fece l’occhiolino a suo figlio Arthur, seduto nei sedili posteriori, e diede gas.
Arrivarono a casa e l’unica che li accolse fu Linda. Evelyn rispose distrattamente alle domande della zia, mentre con lo sguardo cercava la figura dell’angelo.

«Dovrebbe essere nella stanza degli ospiti», le sussurrò suo zio all’orecchio, senza farsi notare dalla moglie.

«Devo andare un attimo in bagno», disse Evelyn, che si scusò ed andò a passo spedito verso il corridoio. 
Fece finta di chiudersi in bagno, ma alla prima occasione sgattaiolò fuori e corse a passo felpato verso la stanza degli ospiti.
Vi arrivò davanti e con il cuore in gola, che batteva impazzito, cercò di dimenticarsi tutto ciò che non era inerente a Franky: non voleva che venisse a scoprire ciò che le era successo quel pomeriggio. (Lei non sapeva che l’angelo stava perdendo i suoi poteri, tra cui quello di leggere nel pensiero).

Alla fine entrò senza bussare e vide Franky steso sul letto, che dormiva senza maglietta, il petto fasciato da larghe bende. Notò subito che le sue ali erano scomparse e si portò le mani alla bocca per trattenere i singhiozzi, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Barcollò da lui e si mise seduta al suo fianco con la massima delicatezza, per paura di svegliarlo. Respirò a fondo e si tolse una mano da davanti la bocca per accarezzargli il viso un po’ arrossato e i capelli a spazzola. Fu allora che l’angelo mosse impercettibilmente le palpebre e si svegliò.

«Evelyn», sussurrò quando fu in grado di focalizzare ciò che c’era intorno a sé. «Che… Tu non dovresti essere qui». Provò a spostarsi, ad allontanarsi da lei portando le spalle sulla testata del letto, ma si mosse troppo bruscamente e la sua schiena ne risentì.

«Mi dispiace Franky, io non volevo», singhiozzò lei, aiutandolo e mettendogli un cuscino dietro le spalle con premura. «È tutta colpa mia, io…».

«Shhh», la azzittì posandole un dito sulle labbra. I loro visi erano tanto vicini, i loro occhi erano un tutt’uno e, nonostante tutto quello che stava succedendo, i loro cuori scalpitavano ancora. Franky provò a isolare quella raffica di tum-tum fuori dalla sua testa, in modo tale da non mescolarli con i suoi pensieri.
«Non è colpa tua, ma mia». Evelyn provò a rispondere, ma la interruppe sul nascere: «Sapevo che era sbagliato, avrei dovuto insistere di più e dirti di no sin dal principio invece di continuare a starti dietro; non avrei dovuto cedere e questa è la punizione che mi merito».

«Io non voglio che tu soffra, che tu perda tutto per me! Non voglio che mia madre resti senza il suo angelo custode! Non è giusto!».

«Abbassa la voce», sussurrò ancora, posando la fronte sulla sua ed infilando una mano fra i suoi capelli, sulla nuca. Il suo profumo lo invase e la sentì tremare fra le sue braccia, squassata dai singhiozzi e dalle lacrime.

«Hai perso anche le ali… Oh mio Dio, Franky…».

«Non importa… Ricresceranno, prima o poi. E ritornerò ad essere l’angelo custode di tua madre quando tutto questo sarà finito. Ma ho bisogno del tuo aiuto perché questo accada».

«Tutto quello che vuoi».

«Non… non devi più cercarmi, né vedermi, né pensarmi, né sognarmi. Tra noi deve finire qui, adesso».

Il cuore di Evelyn sobbalzò, il suo stomaco si attorcigliò. «No», mormorò sconvolta e distrutta dal dolore. «No, io… io non posso farlo».

«Devi».

«No, Franky, è… è inconcepibile che io ti dimentichi in questo modo! Non posso farlo!».

«Abbassa la voce», ripeté l’angelo, sempre sussurrando. Ma lei continuò a sbraitare, mentre piangeva: «È assurdo! Come pensi che io possa fare una cosa del genere?! Mi chiedi ciò che non posso darti! Tutto, ma non questo!».

«Evelyn ma non ha senso!», gridò allora anche lui, allontanandola da sé e stringendo i pugni sulle gambe, il viso rivolto verso il basso per nascondere gli occhi lucidi.

«Cosa? Cosa non ha senso?», biascicò la ragazza.

«Io… io…». San Pietro non poteva avergli mentito, era assurdo anche solo pensarlo. Ma perché non riusciva a dirle quella che era la verità? Perché il cuore gli batteva così forte e gli faceva già male? Perché si sentiva soffocare?
«Io non ti amo!», urlò all’improvviso, sorprendendo anche se stesso. «Non ti ho mai amata! Mi ero solo innamorato del fatto che potessi vivere di nuovo, perché con te è così che mi sentivo… vivo. Ti ho soltanto usata per sentire un’ultima volta questa sensazione sulla pelle». Il suo tono di voce si era mano a mano abbassato, fino a diventare un sussurro, come le sue convinzioni che mano a mano che le sputava fuori perdevano senso e credibilità.

La ragazza rimase per qualche minuto senza parole, pietrificata sul posto. Lentamente una smorfia di dolore si impadronì del suo volto e le lacrime incominciarono a scorrere più rapide sulle sue guance.
«Non è vero», mormorò. «Non è vero nulla di quello che hai detto, mi stai mentendo».

«No, è davvero così Evelyn!», gridò esasperato, alzandosi in piedi: mancava davvero poco anche a lui prima di scoppiare. «E nemmeno tu mi ami, perché –!».

Tom aprì la porta della camera e li guardò imbarazzato, ma provò ad usare un tono di voce autoritario: «Potete abbassare la voce? Vi si sente fino a di là e se Linda…!».

«Vattene!», gridò Franky, col viso rosso e le vene sul collo gonfie per il nervoso. Tom sospirò infastidito e si richiuse la porta alle spalle; l’angelo tornò a fissare Evelyn di fronte a sé, con sguardo severo.

«Questo non puoi dirlo, tu non puoi sapere se io…», iniziò a dire lei, con voce sottile, ma venne interrotta.

«Io so benissimo quello che ti passa per la testa, conosco alla perfezione ogni tuo singolo pensiero», disse l’angelo e non provò nemmeno a leggere nella sua mente, tanto era certo che non ci sarebbe riuscito. Evelyn si irrigidì, ma non si scompose: c’era qualcosa che non le tornava.
«So che tu non mi ami», continuò lui. «Credi di essere innamorata di me, quando invece sei solo innamorata della… della storia fra me e tua madre: tu ti sei immedesimata in lei».

Evelyn fece come se non avesse sentito nulla, anche se aveva sentito benissimo e quelle parole erano state peggio di una coltellata in pieno petto: facevano malissimo.

«È meglio così», sussurrò l’angelo, abbassando lo sguardo. «Per tutti e due».

 

  Wir hatten eine tolle Zeit
Doch jede Zeit geht mal vorbei

 

«Okay, va bene», rispose alla fine Evelyn, senza incrociare il suo sguardo. «Se le cose stanno così… come vuoi tu».

Si diresse verso la porta ed era sul punto di aprirla ed andarsene, quando Franky la prese per un polso e la trascinò a sé, in un ultimo abbraccio, mormorando un «Aspetta» pieno di significati.

Non c’era nulla per cui aspettare, ormai aveva deciso di chiuderla lì per il bene di entrambi, nonostante fosse troppo tardi per ricucire le ferite che si erano inevitabilmente aperte nei loro cuori. Ma voleva ancora un altro po’ di tempo con lei, tempo che non gli era concesso. Per questo faticava a lasciarla andare e ogni secondo che passava la stringeva sempre più forte a sé. Inoltre si sentiva bene con lei, le scalmane stavano lentamente scemando ed era quasi certo che lei, con il viso contro il suo petto, si stesse riscaldando. Insieme si termoregolavano, erano fatti per stare insieme dopo quella notte, la loro.

«Ora devo andare», biascicò Evelyn, che aveva ricominciato a piangere, e si divincolò dal suo abbraccio senza risultare brusca. Si allontanò silenziosa, proprio come si era insinuata nella sua vita, e non gli diede il tempo di dire nient’altro, anche perché non c’era nient’altro da dire.

Il peso delle bugie che le aveva raccontato per farle credere che davvero non era innamorata di lui lo schiacciarono, gli caddero sul petto e gli impedirono di respirare regolarmente. In gola aveva un nodo grosso come una casa e i suoi occhi pizzicavano terribilmente. Era sul punto di scoppiare in lacrime.

«Aspetta Evelyn, ti prego», mugugnò sull’orlo del pianto. La rincorse, la raggiunse in salotto e la vide parlare con suo zio.

«Portami a casa, per favore», gli aveva detto sottovoce, trattenendo a stento i singhiozzi.

Tom cercò subito lo sguardo di Franky e trovò la stessa espressione stravolta e sofferente di Evelyn sul suo volto. Gli avrebbe parlato col pensiero, ma gli tornò in mente che lui non riusciva a sentirlo e provò a fargli capire con lo sguardo che avrebbero parlato al suo ritorno.

«Andiamo», mormorò alla nipote e le avvolse un braccio intorno alle spalle, accompagnandola all’ingresso ed infine fuori di casa.

L’angelo si guardò intorno spaesato per un attimo, poi fece retrofront e si incamminò a passo lento verso la stanza degli ospiti. Non capiva che cosa gli stava succedendo: si sentiva disorientato, tutto intorno a lui girava, si sentiva debole, privo di forze, tanto da costringerlo ad appoggiarsi al muro del corridoio con una mano mentre camminava.
Arrivò nella sua camera, chiuse distrattamente la porta e si lasciò cadere a peso morto sul letto. Il contraccolpo alla schiena lo fece gemere di dolore a causa di ciò che gli era successo alle ali, ma poi non emise più un suono. Pensò di essersi addormentato, poiché non sentiva più nulla intorno a sé, i suoi pensieri erano labili, sfuggenti, e ad un certo punto sentì il rumore di alcuni passettini che si avvicinavano a lui e una voce piccola e ancora un po’ acuta, da bambino, chiamarlo.
Si sforzò per aprire gli occhi, ma era tutto così sfuocato… Sì, doveva essere proprio un sogno.

Il bambino gli posò una mano sulla spalla e si avvicinò al suo viso con fare curioso. «Hai litigato con Evelyn?», gli domandò innocentemente, senza nemmeno immaginare il dolore che gli aveva rifilato pronunciando il suo nome.
«Perché avete litigato?», gli chiese ancora.

«Perché non è giusto che lei mi ami», farfugliò Franky, stringendo gli occhi a due fessure. Non doveva più mentire, quello era solo un sogno e sentiva che a quel bambino poteva tranquillamente dire la verità. «Perché lei mi ama… io le voglio tantissimo bene, sento di volergliene davvero tanto, ma San Pietro mi ha detto che non la amo… e poi perché non possiamo stare insieme», tossicchiò.

«Perché no?».

«Perché io… io sono…». Non riuscì a terminare la frase, perché udì altri passi in lontananza e poi una voce che conosceva bene farsi sempre più vicina. All’inizio non riuscì a distinguere le parole, poi però iniziò a sentirci meglio e in uno sprazzo di lucidità udì distintamente Tom dire: «Arthur che ci fai lì? Vieni via subito».

«Arthur?», mormorò stordito e strizzando con immensa fatica gli occhi si rese conto che era proprio lui il bimbo con cui aveva parlato fino ad allora, a cui aveva rivelato tutte quelle cose: Arthur, il figlio di Tom e Linda.
«Quindi non è stato un sogno», biascicò in maniera ancora più incomprensibile, mentre Tom incitava il bambino ad uscire fuori dalla stanza spingendolo delicatamente sulla schiena.

Fece giusto in tempo a vedere il viso preoccupato del suo migliore amico, poi la vista gli si annebbiò completamente e le forze lo abbandonarono; sentì le mani di Tom tenergli sollevata la testa e tirargli ogni tanto qualche schiaffetto sulle guance per farlo riprendere.

«Mi sento davvero così… male», esalò le sue ultime parole prima che l’oscurità lo trascinasse giù con sé.

 

Du weißt wer ich bin
Und ich weiß, wie du bist
Und was wir sind, vergiss das nicht
Vergiss mich nicht
Bitte nicht

 

Evelyn, una volta scesa dalla macchina di suo zio, con il quale non aveva aperto bocca, era entrata in casa senza fare il minimo rumore, ma Bill l’aveva vista subito, seduto sul divano del salotto che dava sull’ingresso.

«Che voleva Anja?», le domandò subito, spegnendo la televisione mentre osservava la figlia che badava bene a non farsi guardare negli occhi, o sarebbe stata smascherata.

«Niente, voleva dirmi una cosa sul suo nuovo ragazzo», rispose, cercando in tutti i modi di celare l’incertezza della sua voce.

«Non sapevo avesse un ragazzo».

«Mmh», mugugnò annuendo e si diresse verso le scale che l’avrebbero tratta in salvo: una volta di sopra sarebbe corsa in camera sua e suo padre non avrebbe potuto fare molto se si fosse chiusa dentro a chiave.
Ma non era così facile come sperava. Bill infatti la raggiunse ai piedi delle scale, proprio ad un passo dalla sua salvezza, e la trattenne prendendola per un braccio.

«Evelyn, va tutto bene?», le chiese e provò a guardarla in viso, ma la ragazza si divincolò ed evitò in continuazione di sollevare lo sguardo.

«Sì, tutto okay. Perché non dovrebbe andare tutto bene?».

«Non lo so, sei strana… È successo qualcosa a scuola?».

«No, davvero… è tutto a posto».

«Allora con il tuo compagno…».

«No, sto bene, non è successo niente di male».

«Sicura? Guardami negli occhi».

La ragazza quella volta non poté opporsi e i loro occhi così diversi si incontrarono. Bill vi lesse dentro tanta tristezza, tanto dolore… e di conseguenza si sentì male pure lui.

«Che cos’è successo, tesoro?», mormorò apprensivo, gli occhi tristi.

Evelyn non riuscì più a resistere, né a fingere di stare bene, e si lasciò andare alle lacrime e ai singhiozzi, ai tremori e alle vampate di calore che non sentiva da troppo tempo. Un cerchio le strinse la testa e si sentì infinitamente debole, ma non ne capì il motivo.

«Ti prego papà, lasciami andare», riuscì soltanto a mormorare, distrutta, e Bill non poté fare altro che arrendersi: la lasciò andare.

Evelyn corse su per le scale e non si ammazzò per miracolo, talmente poca era la forza che aveva nelle gambe. Raggiunse la sua camera tenendo una mano appoggiata alla parete del corridoio per sostenersi e giunta a destinazione si gettò sul letto, esausta. Gli occhi umidi, che non avevano ancora smesso di lasciar scivolare quelle lacrime, le si chiusero e, avvolta da quel malessere sia morale che fisico, si lasciò cullare dalle braccia di Morfeo.

 

Es ist Zeit um aufzustehen
Es wird Zeit um loszuziehen
Es ist so weit, wir müssen gehen
Wir müssen gehen
Und Abschied nehmen

 

_____________________________

 

 Buongiorno, gente :)

I capitoli pesantemente depressivi stanno tornando, proprio come ai vecchi tempi! In questo c'è la "separazione" di Franky ed Evelyn e questo non ha fatto granchè bene ai due D:
Il povero Franky che già di per sè stava male, poichè le sue ali e i suoi poteri sono stati spazzati via insieme alla sospensione della sua carica. Poveretto, ha sofferto davvero tanto, anche se ad un certo punto è intervenuta anche Kim ad aiutarlo :)
E la povera Evelyn che si è cacciata proprio in un bel guiaio con Samuel. E' solo l'inizio di una lunga sofferenza, questa... per tutti e due purtroppo. Staremo a vedere.
Una cosa positiva c'è però, il piccolo e carinissimo Arthur (io lo adoro quel bimbo!) *w* E l'amore di Tom e Linda che porta sempre uno sprazzo di felicità :)

La canzone che ho usato è la stupenda Es ist Zeit, dei Panik *o*

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha letto soltanto! ;) Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento!!
Alla prossima, un abbraccio! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 14
*** Save me ***


Questo è un capitolo un po' lunghetto, vi avviso già ora... prendetevi il tempo che vi serve, ma vi consiglio di leggerlo tutto in una volta, perchè se si divide... non ha lo stesso effetto, ecco xD Comunque, il mio è solo un consiglio u.u 

Magari per la lunghezza di questo capitolo ritarderò di qualche giorno a postare il prossimo, così da darvi un po' più di tempo ;)
Okay, basta xD Grazie mille in anticipo! 
Buona lettura *-*

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14. Save me

 

The future haunts with memories that I could never have
And hope is just a stranger wondering how it got so bad

 

Nemmeno quella notte aveva dormito molto. Per un motivo o per un altro da due settimane a quella parte non riusciva a farsi tutta una tirata, dalla sera alla mattina. A volte si svegliava nel cuore della notte, a volte non riusciva proprio ad addormentarsi e a volte apriva gli occhi due ore prima di alzarsi. Quello era il caso peggiore di tutti, perché una volta sveglia non era più in grado di addormentarsi. Perciò si alzava e si metteva seduta di fronte alle porte vetrate che davano sulla sua terrazza, ad aspettare l’arrivo l’alba. Era uno dei momenti peggiori, perché la sua mente aveva l’opportunità di pensare a tutto lo schifo che era entrato a far parte della sua vita da quando sua madre era in coma e lei e Franky...

Quella mattina era successo proprio così: si era svegliata alle cinque e, al buio della sua stanza, aveva aspettato che i primi raggi di luce schiarissero il cielo. Aveva pensato tanto, troppo, e la tristezza e il dolore che di solito teneva ben celati dentro di sé si erano scagliati contro di lei senza alcuna pietà.
Quando finalmente la sua sveglia aveva iniziato a suonare aveva dato l’inizio ufficiale alla sua giornata: si era alzata dalla poltrona girevole, aveva lasciato cadere a terra la coperta che l’aveva tenuta al caldo almeno apparentemente e si era diretta verso il bagno per darsi una lavata e vestirsi.

Da due settimane a quella parte aveva iniziato anche a vestirsi come suo zio ai tempi d’oro. Certo, non sarebbe mai arrivata ai suoi livelli, ma il suo stile prevedeva magliette e felpe larghe il doppio di lei, tute non della sua misura e jeans – le poche volte che li metteva – per niente attillati. Per il suo nuovo guardaroba aveva dovuto comprare poco o niente: erano gli stessi vestiti che usava solitamente per stare in casa e, in più, era dimagrita lei tantissimo, tanto da farli sembrare enormi.

Non dormiva e aveva perso l’appetito.

Entrò in bagno e chiuse la porta a chiave. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, poi si tolse la maglietta del pigiama e senza farlo apposta si sfiorò la pancia nuda con le mani gelate. Rabbrividì all’istante, ma non tanto per il fatto stesso del freddo, perché l’immagine del viso di Franky le ritornò alla mente.
Era da quando avevano avuto quella specie di discussione che non lo vedeva né lo sentiva. Cercava persino di non pensarci, ma era praticamente impossibile. Non poteva davvero impedirselo.

Non dormiva, aveva perso l’appetito e Franky era uscito dalla sua vita.

Lanciò la maglietta del pigiama sopra il mobile alle sue spalle e si tolse anche i pantaloni, poi si girò per prendere i vestiti puliti da indossare e l’occhio le cadde inevitabilmente sui segni violacei che aveva sulla schiena. Chiuse gli occhi e serrò la mascella al ricordo dell’ultimo pestaggio e il dolore tornò vivo, come se stesse avvenendo di nuovo, in quel preciso istante.
Si voltò interamente verso lo specchio che rifletteva la sua immagine e sollevò le palpebre lentamente. Era da tanto che non si guardava più allo specchio e sapeva che farlo avrebbe significato rivivere tutto una seconda volta e avrebbe fatto male, forse anche più male del momento in cui erano nati i lividi, ma lo fece comunque.

Era bravo, Samuel. Sapeva come far male e dove colpire: non c’era livido che potesse essere visto semplicemente camminando per strada, erano tutti nascosti, in punti che sarebbero sempre stati coperti dai vestiti, soprattutto in quel periodo, l’inverno. Conosceva i suoi punti deboli ormai e fin troppo bene i tasti che gli bastava solo sfiorare per farla cedere e farle fare tutto quello che voleva.

Alla visione di tutti quei lividi sul suo corpo forse un po’ troppo asciutto, che andavano dal violaceo al giallognolo – dipendeva da quanto tempo era passato, – un conato di vomito la fece piegare sul lavandino. Non aveva ancora nulla nello stomaco, per questo non vomitò, ma la sensazione di nausea e di oppressione non passò, anzi.

Non dormiva, aveva perso l’appetito, Franky era uscito dalla sua vita e veniva assiduamente picchiata e ricattata.

Un paio di volte, in preda alla disperazione e al dolore fisico più acuto che avesse mai provato, aveva pensato di avvisare suo padre, qualcuno che la potesse aiutare, ma alla fine non aveva fatto più niente. Era sempre stata zitta, si era piegata e aveva subito. Si era aggrappata all’idea che quello fosse un problema suo, da cui doveva riuscire ad uscirne lei sola con le sue uniche forze, ma la verità era – e lo sapeva – che non aveva il coraggio di andare a denunciare quella bestia: aveva paura, una paura fottuta.

Ma quella storia doveva finire, doveva assolutamente uscirne al più presto. Stava scoppiando, si stava spezzando, non ce la faceva più a vivere in quel modo. Quello non era nemmeno possibile definirlo “vivere”.

Samuel fino ad allora aveva sempre voluto soldi da lei e le botte che le dava erano solo un pretesto per essere sicuro che la sua dose di droga – coca, soprattutto – fosse sicura al cento e uno percento. Non aveva mai abusato di lei, anche se aveva avuto più di un’occasione per farlo. Una di queste, per esempio, era stata quando aveva deciso di portarsela dietro, esattamente come un cagnolino, alla festa di un suo amico.

Aveva detto a suo padre che usciva con Anja, Pamela e Martin, quando invece era passato a prenderla Samuel, con l’auto di suo padre. Nonostante fosse terrorizzata dal fatto di dover salire nella macchina di qualcuno di cui non si fidava, era stata costretta a farlo e lui aveva persino commentato il suo abbigliamento: «Potevi metterti anche qualcosa di più carino, invece quei vestiti enormi: manco fossi obesa…».
Erano arrivati a casa di quel suo amico e Evelyn si era subito trovata al centro dell’attenzione. Uno dei ragazzi presenti, già ubriaco e strafatto, l’aveva indicata e aveva gridato: «Oh, guardate chi c’è! La figlia della star, quella coi soldi!». Samuel le aveva detto di non badarci e l’aveva portata in un angolino appartato, l’aveva fatta sedere e le aveva mollato in mano una bottiglia di birra.

«Non mi va di bere», gli aveva detto e lui l’aveva guardata malissimo, tanto che alla fine se l’era bevuta.

Quelle non erano proprio il genere di feste che conosceva e che frequentava lei e a dirla tutta non era mai stata una tipa da feste. Si era sentita davvero a disagio, come un animale in gabbia, e non aveva mai smesso di aver paura che potesse succederle qualcosa.
Ad un certo punto della serata Samuel aveva tirato fuori la propria dose di coca e l’aveva sistemata sul tavolino di vetro di fronte a sé. Evelyn lo aveva guardato con gli occhi spaventati, pietrificata sul posto, sperando che non la coinvolgesse pure in quello, ma purtroppo le sue preghiere non vennero ascoltate ed arrivò anche il suo turno.

«Dai, prova», le aveva detto lui.

«No, io…».

«Oh, che rompi cazzo che sei! Muoviti! L’hai pagata tu, almeno provala! Credi che tuo padre non l’abbia mai fatto? Ci giuro tutto quello che vuoi!».

Evelyn, anche quella volta, fu costretta a provarla e le bastò una tirata per diventare improvvisamente euforica e piena di energia.

Non ricordava molto di quella serata, ma sapeva che durante l’effetto della droga aveva combinato parecchi disastri in quella casa, per questo Samuel l’aveva riportata a casa prima del previsto, incazzato nero. In quel momento, iperattiva e allo stesso tempo rincoglionita com’era, avrebbe potuto farle di tutto e non si sarebbe opposta, ma non l’aveva toccata.
Però Evelyn era sicura che prima o poi sarebbe arrivato pure a quello se non si fosse ribellata sul serio e avesse chiuso quella faccenda.

Finì di lavarsi, si vestì, poi scese al piano inferiore. Si sentiva stranamente calda quel giorno, ma aveva freddo, e sentiva un fastidiosissimo cerchio stringerle la testa. Non che in quel periodo fosse al massimo delle sue condizioni fisiche, ma quel giorno si sentiva davvero uno schifo e, come se non bastasse, c’era anche educazione fisica a scuola. A causa delle botte ricevute e dei lividi che le facevano ancora male era quasi impossibile fare qualsiasi tipo di sport, ma non poteva esonerarsi ancora una volta…

«Buongiorno», la salutò suo padre, seduto al bancone della cucina, intento a prepararsi una fetta biscottata con la marmellata.

«Ciao», ricambiò sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Si mise seduta accanto a lui, come faceva da circa due settimane, in modo tale che avesse più difficoltà a guardarla negli occhi: erano il suo punto debole con lui.
Con la nausea che si ritrovava, si sconsigliò vivamente di bere il latte, quindi iniziò a sbocconcellare una fetta biscottata integrale fregandola dalla scatola di fronte a lei.

«Dormito bene, tesoro?», le domandò Bill, tanto per iniziare un dialogo.

Era da tanto che loro due non parlavano, il loro rapporto era andato via a via peggiorando col passare del tempo ed in particolare in quelle due ultime settimane Evelyn si era allontanata molto da lui, poiché già mentirgli non era facile e se doveva fare il doppio della fatica passando del tempo con lui… no, non era proprio il caso.

«Sì», annuì Evelyn.

«E perché usi tutto quel correttore sotto gli occhi, allora?».

Quella frase la spiazzò e senza nemmeno rendersene conto si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi. La sua espressione, però, era volutamente neutra, in modo tale che non riuscisse a scovare nulla di tutto ciò che gli nascondeva da tempo.

«Vado a letto tardi la sera», ribatté.

Bill non rispose, avvicinò una mano al suo viso e le prese il mento fra le dita. «Cosa ti sta succedendo, tesoro?», sussurrò, gli occhi colmi di tristezza.

«Niente, papà», sospirò. «Se è ancora per i miei vestiti…».

«No, non è per quello. Anche se mi piacerebbe vederti un po’ più femminile ogni tanto».

«Va a finire che ad un certo punto mi dirai che sono troppo femminile e i ragazzi si fanno strane idee».

Il padre sorrise, non colse la provocazione. «Se tu stai bene così allora sto bene anche io. Io voglio solo che tu… stia bene, sì».

«Sì, sto bene».

«Allora è okay». Le accarezzò i capelli con la mano, le spostò la frangetta che le copriva gli occhi e le posò un bacio sulla fronte.

«Evelyn, ma tu scotti», le fece notare. «Hai la febbre?».

La ragazza impallidì. Non poteva saltare la scuola, era fuori discussione.

«Ma va’, no…», balbettò, stirando a fatica un sorriso. «Ho solo un po’ di mal di testa… Adesso prendo un’aspirina e mi passa».

«No, adesso tu ti sdrai sul divano e ti provi la febbre, altroché. Se hai la febbre te lo scordi di andare a scuola, col freddo che c’è fuori, poi…».

«No, papà, davvero…!», provò a fermarlo, ma non ci riuscì: aveva già imboccato le scale per il piano superiore.

Si prese la testa fra le mani e si avviò verso il divano del salotto. Non poteva stare male, non poteva stare a casa: Samuel si sarebbe arrabbiato tantissimo se non l’avesse vista a scuola – era giorno di paga per lui – e questo voleva dire il doppio delle botte.
Si lasciò cadere sul divanetto di pelle più piccolo, con le gambe a penzoloni sul bracciolo, e si portò una mano sulla fronte. Si sentiva bollente, ma – sperava – solo perché la sua mano era congelata.

Con la coda dell’occhio vide che sul tavolino c’era il laptop bianco di suo padre. Tutte le volte che lo vedeva con quello in mano sudava freddo e pregava perché non andasse a controllare l’estratto conto della sua carta di credito, quella che le aveva regalato per il suo compleanno, in modo tale che avesse più autonomia per quanto riguardava gli acquisti. Sua madre non era stata contenta di quella scelta all’inizio, ma poi si era lasciata convincere da Bill ed ora come ora Evelyn ringraziava suo padre, perché senza quella carta di credito non sarebbe mai riuscita a trovare i soldi da dare a Samuel ogni volta che glieli chiedeva.
Purtroppo però, non l’aveva mai usata eccetto un paio di volte e non aveva mai chiesto a suo padre di ricaricargliela: prima o poi i soldi al suo interno sarebbero finiti e quasi sicuramente la banca avrebbe mandato un e-mail a colui a cui era intestata la tessera – suo padre, appunto – per avvertirlo. E a quel punto sì che sarebbe stato un vero casino. Era solo una questione di tempo e avrebbe scoperto tutto. Anche per questo doveva chiudere quella faccenda con Samuel il prima possibile.

«Ecco», esclamò Bill finendo la scalinata e raggiungendola sul divanetto. Le diede il termometro ed Evelyn se lo infilò sotto l’ascella, poi rimase ad aspettare con lo sguardo rivolto verso il soffitto per non incrociare i suoi occhi.

Dopo un po’ di imbarazzante silenzio, il padre disse: «Avevi qualcosa di importante a scuola, oggi?».

«Sì», mugugnò senza nemmeno pensarci, ma se ne pentì subito e precisò: «La lezione di matematica… lunedì prossimo abbiamo la verifica».

«Beh, mi sembri già molto migliorata rispetto a qualche settimana fa…».

«Come fai a dirlo? Tu non ci capisci niente di matematica…», sorrise divertita per la prima volta.

Bill la imitò. «Ma vedo come ti impegni e questo dovrebbe essere già apprezzato».

«Sì, peccato che nelle verifiche non basta l’impegno».

«Sono certo che ce la farai».

«Grazie», mormorò. Era bello, le riscaldava il cuore, e allo stesso tempo la feriva sapere di avere ancora la sua fiducia, nonostante tutto ciò che gli stava nascondendo.

«Magari oggi pomeriggio, se non hai niente da fare, potremmo… ecco… iniziare a fare l’albero di Natale», disse Bill, schiarendosi la voce, titubante. Non sarebbe stato facile, ma voleva davvero passare un po’ di tempo con sua figlia, come non faceva da tanto.

Non dormiva, aveva perso l’appetito, Franky era uscito dalla sua vita, veniva assiduamente picchiata e ricattata e la sua mamma era ancora in coma.

Evelyn socchiuse gli occhi alle lacrime che ricacciò indietro. Avevano sempre fatto l’albero tutti insieme: suo padre, sua madre e lei; sarebbe stato troppo triste farlo senza la sua mamma, proprio come se non ci fosse più… Quello sarebbe stato il Natale più brutto della sua vita.

Il termometro suonò e le tolse l’impaccio di dover rispondere. Se lo levò da sotto l’enorme felpa blu e lo passò direttamente a suo padre: non voleva vedere.

«Quant’è?», gli domandò.

«Trentotto e mezzo. E tu te ne stai a casa». Sorrise smagliante e soggiunse: «Vado a prenderti una coperta».

Evelyn lo guardò salire di nuovo su per le scale e poi sbuffò sonoramente, maledicendosi.

 

***

 

«Okay, è arrivato il momento. Non posso più rimandare, anche se…». Tom sollevò lo sguardo sullo specchio di fronte a sé e si guardò. Anche se ho paura.

Erano passate altre due settimane e non aveva ancora trovato il coraggio per chiedere a Franky se sua figlia Jole avesse qualcosa in comune con l’altra Jole, quella il cui sorriso conservava gelosamente nel cuore. Ma ora non poteva più aspettare. Se Franky avesse potuto leggergli nel pensiero sarebbe stato tutto più semplice, poiché lui avrebbe capito da solo ciò che voleva sapere e gli avrebbe tolto l’imbarazzo di dovergli spiegare tutto quanto.

Uscì dal bagno respirando profondamente e raggiunse il salotto, dove trovò Arthur, ancora mezzo addormentato, che guardava i cartoni animati seduto sul divano, mentre Linda si preparava per accompagnarlo all’asilo e poi andare al lavoro.

«Ehi piccolo», lo salutò scompigliandogli i capelli biondi sulla testa. «Hai visto Franky?».

«Sì, ha detto che usciva», mugugnò stropicciandosi gli occhietti.

Tom aggrottò le sopracciglia. «Per caso ti ha detto dove andava?». Il bimbo scosse il capo. «E nemmeno quando torna?».

«No, ha detto solo che usciva. Aveva quel coso con le ruote».

«Quel coso con le ruote?».

«Sì, quello che si porta sempre in giro!».

Il chitarrista ci rifletté per qualche secondo, poi capì e sorrise amorevole. «Si chiama skateboard».

«Eccomi, sono pronta», esclamò Linda facendo capolino in salotto. «Tu sei a posto, Arthur?».

«Sì, mamma». Saltò giù dal divano e spense lo schermo del televisore direttamente pigiando il tastino su di esso.

«Okay, allora andiamo». Si voltò verso Tom, che la stava osservando con un sorrisetto da ebete stampato sulle labbra, e non poté non ricambiare divertita. «Perché mi guardi così?».

«Perché sei la mamma più bella dell’universo. Vero, Arthur?».

«Sì!», gridò e la raggiunse correndo per avvinghiarsi alle sue gambe. «Ti voglio tanto bene mamma».

«Pensa che io ti amo», le sussurrò Tom, facendole l’occhiolino.

«Grazie infinite a tutti e due», rispose vagamente commossa. «Però adesso dobbiamo proprio andare, o faremo tardi».

«Buona giornata, allora». Tom si sporse verso di lei e le stampò un bacio sulle labbra.

«Grazie», mormorò sorridente. Poi si rivolse al figlio: «Arthur, mettiti il cappotto e il cappello, dai». E mentre questo andava a vestirsi all’ingresso, Linda si concentrò di nuovo su suo marito: «Hai qualcosa da fare oggi?».

«Mmh… no, perché?».

«Perché mi farebbe molto piacere se passassimo la pausa pranzo insieme». Si morse le labbra e gli sistemò il colletto della polo, senza guardarlo negli occhi.

«Oh, piccola trasgressiva… Lo sai che se ci beccano ti licenziano? E poi non mi trovo a farlo su un letto di chissà quale vecchio che è passato all’altro mondo…».

«Ma che hai capito, cretino!», urlò con voce strozzata, con le guance rosso porpora. «Volevo solo mangiare qualcosa con te e… parlare».

«Ah. E di che cosa vorresti parlare?».

«Si è fatto tardi, devo scappare!». Gli strappò un bacio e raggiunse il figlioletto, che aspettava a piedi uniti con la fronte rivolta verso la porta chiusa, tutto imbacuccato: Arthur faceva sempre così quando i suoi genitori si dilungavano troppo nei saluti e si scambiavano quelle smancerie; si sentiva in imbarazzo e si girava per non assistere alla scena.

«Ciao Tom!», lo salutò un’ultima volta, soffiandogli un bacio con la mano.

«Ciao papà», disse invece il bambino, muovendo la manina.

Linda chiuse la porta e il silenzio avvolse la casa, un silenzio che con il trasferimento di Franky udiva raramente. Quando c’era lui nei paraggi c’era sempre un sacco di casino, ma un casino positivo, perché metteva allegria: la sua risata, oppure la tv accesa sui suoi programmi preferiti o la musica del suo iPod. Era come avere un altro figlio in casa, in piena fase adolescenziale.

Una volta aveva persino litigato con lui e aveva dovuto comportarsi da padre, cosa che lo aveva non poco turbato, perché mentre suo figlio Arthur stava guardando i suoi cartoni animati, Franky aveva messo lo stereo a palla nella sua camera. Ovviamente Arthur aveva protestato con lui, facendo tutti i capricci possibili immaginabili, e Tom non aveva potuto fare altro che andare da Franky e chiedergli di abbassare la musica. Se fosse stato per lui l’avrebbe pure lasciato fare, ma non era l’unico in quella casa che poteva sentire lui e le sue cose, quindi era stato costretto.
Franky non ne aveva voluto sapere – era una giornata no e diceva di aver male dappertutto, per questo era già incazzato – e avevano finito per litigare. Per fortuna quel pomeriggio Linda si era dovuta fermare alla casa di riposo, altrimenti sarebbe successo un bel macello. 
Tom avrebbe voluto dirle dell’angelo che abitava con loro da qualche settimana, ma non aveva mai trovato il coraggio neppure per quello: non sapeva come l’avrebbe presa, né se l’avrebbe preso per pazzo. Ora capiva perfettamente tutti i complessi che si era fatto Franky quando non aveva voluto dire a suo zio David della sua presenza.
Se n’erano detti di tutti i colori lui e Franky e Tom si era sentito davvero frustrato quando non era stata riconosciuta la sua autorità, tanto che aveva iniziato a domandarsi se un giorno anche suo figlio si sarebbe comportato come lui. Alla fine gli aveva spento lo stereo con rabbia e se n’era andato in giardino a sbollirsi e a fumarsi una sigaretta. Dopo un po’ Franky l’aveva raggiunto, gli aveva chiesto scusa e avevano fatto pace, come da bravi migliori amici.

Per il resto, la loro convivenza era più che ottima. Andavano quasi sempre d’accordo su tutto e sapevano rispettare ognuno i propri spazi. Inoltre, Franky aveva legato molto con Arthur e a volte lo vedeva passarci insieme interi pomeriggi, nella cameretta del più piccolo, a giocare con le macchinine, ai video games per bambini o a disegnare. Gli faceva piacere che Arthur si fosse affezionato a lui tanto da chiamarlo “fratellone”, ma qualche volta gli tornava in mente che l’angelo prima o poi se ne sarebbe andato e non voleva che suo figlio soffrisse come aveva sofferto lui quando le loro strade si erano dovute separare. Ma suo figlio era felice e non poteva impedirgli di stare con lui, sarebbe stato come togliergli il pane dai denti. Era certo che quando sarebbe arrivato il momento di dividersi, Arthur avrebbe capito. Era un bambino sveglio e su questo non c’erano dubbi, perché era anche capitato che fosse lui a dirgli di non dire o non fare certe cose riguardanti Franky di fronte a Linda, che non riusciva a vederlo.

Era rimasto fermo impalato nel bel mezzo del salotto a pensare e, totalmente immerso nei propri pensieri, si accorse solo dopo qualche squillo del telefono che suonava.

Tirò su la cornetta e se la portò all’orecchio: «Pronto?».

«Ciao papà!».

Sorrise nel sentire la voce squillante di sua figlia: voleva dire che stava bene. «Ciao Jole, come stai?».

«Tutto bene, oggi mi sento iperattiva».

«Vedi di startene tranquilla, altroché», ridacchiò.

«Sì, certo. Tu come stai? Mamma e Arthur sono già usciti?».

«Io sto bene, grazie. Sì, sono già andati. Ah, a proposito di tua madre…».

«Cosa?».

«Non è che ho dimenticato qualcosa, vero? Qualche anniversario, per esempio…».

«Ahm… no, non penso. Perché me lo chiedi?».

«Perché mi ha chiesto se oggi andavo a pranzare insieme a lei; ha detto anche che dobbiamo parlare, ma non ho idea di cosa!».

«Rilassati papà, vedrai che non sarà nulla di preoccupante», lo rassicurò. «Piuttosto, prima della pausa pranzo di mamma hai da fare qualcosa?».

Avrebbe voluto andare a cercare Franky, per chiedergli finalmente ciò che doveva chiedergli; avrebbe voluto andare anche da suo fratello Bill, giusto per stare un po’ con lui, oppure chiamare anche Georg e Gustav e fare una specie di riunione per la band, ma sua figlia aveva la priorità.

«Dimmi tutto», rispose.

«Leo è al lavoro, io sono qui da sola a casa… non è che verresti a farmi un po’ di compagnia?».

Tom sorrise. «Arrivo subito».

 

***

 

Si sentiva impotente, prima e più di ogni altra cosa. Gli dava sui nervi non poter comunicare col luogo a cui di diritto apparteneva, gli dava sui nervi non poter tornare di sopra – a meno che non chiedesse un nuovo permesso per poi riscendere a Kim – e gli dava sui nervi utilizzare Zoe come centralino.

Seduto sul marciapiede, incappucciato, con le mani davanti alla bocca e lo skate sotto i piedi, aspettava. Faceva freddo, probabilmente molto freddo, visto come andavano in giro imbacuccate le persone, ma lui non lo sentiva per niente, anzi: stava andando a fuoco. Si sentiva caldissimo, affaticato e, oltre che innervosito, parecchio teso.
Appena tornato a casa avrebbe dovuto chiedere a Tom se sapeva come stava Evelyn, giusto per accertarsi che avesse la febbre.

Ormai aveva elaborato la sua teoria e fino ad allora si era sempre rivelata corretta: lui ed Evelyn erano strettamente collegati da qualcosa che ancora non aveva identificato, grazie al quale riuscivano a sentire ognuno le sensazioni dell’altro – se stavano male, per esempio – e anche gli stati d’animo. Gli erano bastate quelle due settimane di lontananza forzata per appurarla e far sì che fosse valida al 99,9 percento. 

«Due settimane», mormorò fra sé e sé e si passò le mani sul viso stanco.

Inutile dire che gli mancava da morire e che c’erano state notti in cui, sempre per ferma convinzione che la sua tesi fosse esatta, si era dato al “volontariato”: era andato all’ospedale di Zoe ed era rimasto a vegliare sul sonno di tanti altri pazienti, dai bambini ai vecchi a cui mancavano pochi giorni di vita. Aveva anche provato a leggere nelle loro menti e si era accorto che faceva ancora un’immensa fatica, ma se c’era un contatto fisico riusciva ad intravedere qualcosa. E comunque, passando le nottate in quel modo, era riuscito a distrarsi e a non pensare a lei.
Lui sapeva come ci si sentiva, aveva percepito molte volte gli stati d’animo di Evelyn ed era una vera tortura, quasi un dolore fisico, per questo non voleva che lei riuscisse a sentire il suo umore, a sentire il dolore che provava in mezzo al petto pensando ai momenti trascorsi insieme; non voleva che stesse ancora male per colpa sua e si costringeva a tenere tutto chiuso in un angolo della sua mente, anche a costo di soffrire il doppio.

Nonostante tutto e la sua convinzione, non poteva più vivere di quella teoria, voleva scoprire che cosa fosse successo davvero quella notte in cui avevano fatto l’amore. Perché era iniziato tutto da lì; tutti i guai più grossi erano nati a causa di quella notte. Per questo aspettava. Aspettava Kim.
Quando finalmente la vide arrivare, in lontananza, aveva gli occhi bassi e il cappuccio sulla testa, come se si stesse nascondendo da qualcuno. Non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un istante, fino a quando non lo raggiunse e si mise timidamente seduta al suo fianco.

«Ciao», lo salutò con un fil di voce e tirò subito fuori dalla borsa a tracolla tre grossi libri. «Sono gli unici che ho trovato sull’argomento».

Franky li prese e se li portò sulle gambe, iniziando a sfogliare il primo. «Grazie mille, davvero».

«Prego».

Il silenzio calò fra di loro. Gli unici suoni udibili erano quelli prodotti dalle auto che di tanto in tanto passavano per quella vietta secondaria.

«Zoe come sta?», domandò ad un certo punto Franky.

«Dal lato prettamente medico nella norma».

Sorrise. «Dall’altro lato, invece?».

«È incazzata come una iena», sospirò arricciando le labbra. «Dice che ci stai mettendo un po’ troppo, vuole te come angelo custode».

«Anche io voglio tornare ad essere il suo angelo, credimi. Quanto credi che durerà ancora la sospensione?».

«Non ne ho idea», scosse il capo.

«No?». Franky sollevò il sopracciglio, scettico, ma non la guardò negli occhi. Kim si irrigidì e non rispose. Infatti fu l’altro angelo a riprendere la parola: «Tu sai di che cosa si parla in questi libri, non è così?».

Kim trattenne un gemito fra le labbra, come se stesse cercando di contenere dentro di sé un dolore troppo grande. Poi scosse il capo con insistenza e, per la prima volta, Franky si voltò a guardarla. Il suo sguardo era serio, tanto da far rabbrividire. Erano quelli i momenti in cui dimostrava la sua vera età.

«L’hai detto tu che siamo più simili di quanto io possa credere. Quindi, ho pensato che magari tu sai ciò che sto passando e che anche tu hai vissuto un’esperienza del genere, tanto tempo fa».

A Kim venne la nausea a quelle parole. I ricordi premevano per traboccare, per inondarla e travolgerla di nuovo col loro dolore. Non poteva cedere, non doveva, o sarebbe stata la fine per lei. Tutta la fatica che aveva fatto per dimenticare, per dimenticare la causa di tutti i suoi guai… sarebbe stata inutile.

«Lui chi era?», le chiese ancora, con tono di voce pacato e la massima della tranquillità.

«Non so di cosa tu stia parlando», berciò, anche se col magone, e si alzò. Si infilò le mani nelle tasche e fece qualche passo, allontanandosi da lui, ma Franky la raggiunse e la fermò prendendola per un braccio.

«Kim, a me puoi dire tutto quello che vuoi, sono sicuro che riuscirei a capirti…».

«NO!», urlò con tutto il fiato che aveva in gola, liberandosi dalla sua stretta. «No! Né tu né nessun altro potrà mai… Non insistere, non… Devo andare». Si asciugò repentinamente la lacrima che le era scivolata sulla guancia e corse via da lui voltandogli le spalle.

Franky sbuffò e si rimise seduto sul marciapiede, lo sguardo fisso di fronte a sé.
Perché avevano costruito quei fottuti palazzi sopra quello che una volta era il suo skate park?

 

Wishing I could find a way to wash away the past
Knowing that my heart will break, but at least the pain will last

 

***

 

Stesa sul divano, avvolta nella coperta di plaid, faceva zapping. Peccato che alla mattina il massimo a cui si poteva ambire alla televisione erano quei programmi noiosissimi per vecchi, per esempio quello in cui si davano consigli su come risparmiare facendo la spesa, oppure direttamente i programmi di cucina, oltre ai soliti telegiornali.
Alla fine optò per Mtv, almeno lì era sicura di trovare qualche cosa di interessante o che, almeno, non la facesse addormentare.

«Papà», lo chiamò lagnandosi, accorgendosi che aveva finito la sua tazza di thè caldo.

«Che cosa c’è?», le domandò entrando in casa dalle vetrate del salotto, con un cappellino di lana innevato sulla testa e il naso rosso dal freddo.

Evelyn strabuzzò gli occhi. «Ma che cosa stavi facendo lì fuori?».

«Stavo attaccando le luminarie», rispose con tono innocente.

«Sei proprio intenzionato ad abbellire casa come ogni Natale?», gli domandò allora, a bassa voce, abbassando lo sguardo.

Il padre si avvicinò a lei con un sorriso malinconico sulle labbra e si mise seduto al suo fianco, dopo essersi tolto cappello e cappotto. «Sarebbe ancora più triste se non lo facessi, non credi?».

«Non lo so», scosse il capo, mentre gli occhi iniziavano a pizzicarle. «So solo che sarà orribile, senza mamma».

«Tesoro», le sollevò il mento e la guardò negli occhi, velati da un sottile strato di lacrime.

«Non voglio festeggiare, non c’è niente da festeggiare senza di lei, non è giusto… non è giusto».

Bill l’abbracciò e la strinse forte a sé. Anche lui stava male solo a pensare che quel Natale sarebbe stato infinitamente diverso dagli altri. Già immaginava suo fratello che lo avrebbe invitato a casa sua per la cena e per aprire i regali tutti insieme e sarebbe stato così triste…

Il suono del citofono li fece sobbalzare entrambi ed interruppe quel momento così intimo. Bill si alzò dal divano facendole un buffetto sulla guancia ed andò ad aprire, certo che fosse Tom. Quando però guardò fuori dalle vetrate ai lati della porta si accorse che non era affatto lui, ma il famoso ragazzo che li aveva aiutati quella volta con la folla di giornalisti e che, da quel che sapeva, era diventato amico di sua figlia.
Aprì la porta senza dire niente ad Evelyn e lo aspettò sulla soglia. 

Faccia a faccia, Martin sollevò una mano e, imbarazzato, salutò: «Buongiorno signor Kaulitz».

«Buongiorno», ricambiò lui, con un po’ di diffidenza. «Come mai da queste parti?».

«Anja ha detto a mia sorella che ha detto a me che Evelyn ha la febbre, così… ho pensato di venire a farle un po’ di compagnia, se non è di troppo disturbo».

«Oh, wow», esclamò sorpreso da quel giro di informazioni. «Forza, entra».

Martin sorrise felice come una pasqua ed entrò dopo essersi pulito bene i piedi sullo zerbino. Vide subito Evelyn sul divano, che si passava le mani sul viso come se avesse appena smesso di piangere.

«C’è un tuo amico Evelyn», lo annunciò Bill e la ragazza si voltò. I loro sguardi si incontrarono subito e le loro reazioni furono piuttosto diverse: Martin arrossì, estasiato da quegli occhi azzurri; invece Evelyn, piacevolmente sorpresa, aprì la bocca a mo’ di mezzaluna.

«Martin!», esclamò. «Ciao! Che ci fai qui?».

«Ho saputo che stavi male e ho pensato, ecco… di venirti a trovare. Come ti senti?».

«Uno straccio», ridacchiò. «Ma sei sicuro di voler restare? Non avevi altro da fare? E poi magari ti attacco la febbre!».

Martin scrollò le spalle e, sorridendo, la raggiunse sul divano. «Non ti preoccupare, non avevo nient’altro da fare. E se mi attacchi la febbre… è meglio che tu non lo faccia, sai?».

«Oh, che paura. Guarda, tremo!». Rise. «Magari dopo, se mi sento meglio, potremmo fare un’altra full immersion di matematica…».

«Sì, perché no?». Martin, con la coda dell’occhio, vide il padre di Evelyn scrutarlo con gli occhi ridotti a due fessure: non era affatto tranquillizzante.

«Scusalo», sussurrò Evelyn, abbassando il capo ed unendo le mani sul ventre. «È molto protettivo nei miei confronti». Ma non si accorge che vengo picchiata di continuo.

«L’avevo notato… Mette soggezione», sorrise divertito.

«E ti fa ridere?».

«Beh, un pochino!».

Evelyn scosse la testa, lasciandosi andare ad un sorriso.
Si tenne il viso su una mano e lo guardò piena di gratitudine: grazie a Martin, quel ragazzo che era entrato nella sua vita per pura casualità, era riuscita molte volte a distrarsi da tutti i problemi che le toglievano la linfa vitale e, sempre grazie a lui, aveva iniziato a capire qualcosa di matematica.
Con lui riusciva a studiare e ci si trovava bene, davvero, anche se ancora non era in grado di vedere il ragazzo che era con gli occhi da ragazza. Poteva essere considerato uno dei suoi migliori amici, ecco. Nella sua testa, l’unico ragazzo che volesse nell’altro senso era quello più irraggiungibile, quello, come avrebbe detto lui, sbagliato. Ma era lì e non poteva farci niente.

«A che cosa stai pensando?», la distrasse Martin, assumendo un’espressione incuriosita e allo stesso tempo un po’ titubante.

Scosse il capo e fece scomparire la malinconia dal suo volto, accennando un breve sorriso. «A niente».

Improvvisamente il suo cellulare iniziò a vibrare sul tavolino. Evelyn allungò il collo per vedere chi fosse e appena vide l’iniziale di quel nome rabbrividì e si affrettò a rifiutare la chiamata.
Martin la stava osservando e nonostante non le avesse chiesto spiegazioni, lei si sentì in dovere di giustificarsi: «Un mio compagno di scuola», disse nervosa.

«Oh, capisco», annuì Martin, anche se i conti non gli tornavano: perché non gli aveva risposto, allora? Comunque, non era da lui impicciarsi troppo degli affari altrui, quindi lasciò perdere e cambiò discorso. Era pronto per affrontare quell’argomento, anche se aveva un po’ di timore nel confidargli quella sua strana “esperienza”; aveva paura che lo prendesse per pazzo.
«Evelyn, io…», balbettò, mentre le sue guance diventavano rosse e si passava una mano sul collo, più che imbarazzato. «È da un po’ di tempo che volevo dirtelo, però non ho mai trovato il momento e le parole adatte… A dire la verità nemmeno il coraggio, perché, sai, è una cosa un po’… difficile».

La ragazza lo fissò confusa. «A me puoi dire quello che voi Martin, lo sai».

«Sì, ma…». Si guardò intorno per essere sicuro che nessun altro stesse ascoltando la loro conversazione e si sentì sollevato quando non vide Bill nei paraggi. Tornò a fissare gli occhi azzurri di Evelyn e per l’ennesima volta il coraggio sparì, come tutto il discorso che si portava avanti da tempo: cancellato. Però ormai era in ballo e doveva ballare. «È davvero difficile da spiegare e da… credere».

«Prometto che non riderò, se questo ti fa sentire più tranquillo», ci scherzò su.

«No, è che…», ridacchiò, più per nervosismo che per altro. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, poi attaccò: «Allora, ascoltami bene… Ricordi la prima volta che ci siamo visti?».

«Ah-ah, certo. Quando sei intervenuto per salvarci dai giornalisti cattivi», sorrise.

«Sì, esattamente. Beh… diciamo che in quel momento non ero proprio… io». Evelyn aggrottò le sopracciglia, ma non disse niente. «Nel senso che… che è stato come se qualcosa, qualcuno, fosse entrato dentro di me e mi avesse indotto a fare ciò che ho fatto. Come se fossi… posseduto». Martin non le diede il tempo di aprire bocca che riprese: «Ed è successa la stessa cosa quando eri in ritardo e ti ho dato quello strappo a scuola con la bici… Io non sarei mai passato di lì se fossi stato pienamente in me».

La ragazza, sconvolta, non parlò per diversi istanti. Possibile che avesse capito che, in quelle due occasioni, il suo corpo era stato preso in prestito da un angelo? Il suo angelo. Possibile che ne fosse stato entrambe le volte consapevole?

Martin, non udendo alcuna risposta da parte di Evelyn, scosse il capo e sbuffò, poi continuò con la sua parlantina, sempre più imbarazzato e nervoso: «So che è impossibile da credere. Adesso mi crederai un pazzo furioso e mi dirai che non vorrai più avere niente a che fare con me… Mi dispiace Evelyn, io non avrei dovuto dirtelo, però era una cosa che tenevo dentro da tanto tempo e non so perché questa cosa sia successa proprio a me e perché questa “presenza” sia fissata con te… Non voglio che tu mi creda pazzo, io non lo sono, almeno non credo di esserlo…».

Un dito delicato e freddo si posò sulle sue labbra, facendolo ammutolire, e quando alzò lo sguardo vide gli occhi ridenti di Evelyn, che gli fecero mancare un battito.

«Io ti credo», gli disse, sorridendo dolcemente.

«Mi… mi credi? Sul serio?», balbettò, più che sorpreso.

«Eh già», ridacchiò lei.

Forse un giorno gli avrebbe raccontato di Franky e gli avrebbe svelato ogni suo segreto. Quel giorno, però, era ancora lontano.

Martin si lasciò scappare un sospiro sollevato, mentre si lasciava andare ad una leggera risata. «Oh mio Dio, questo… questo mi rende infinitamente più tranquillo, sai? Non avrei mai creduto che tu mi credessi…».

«Diciamo che tra pazzi ci si capisce», gli fece l’occhiolino ed entrambi scoppiarono a ridere.

 

***

 

Di ritorno da casa di sua figlia, decise di fare il giro largo per dirigersi verso la casa di riposo dove lavorava Linda. Nei pressi del nuovo quartiere, costruito qualche anno prima, vide Franky, seduto sul marciapiede dall’altra parte della strada, che sfogliava le pagine di un libro che teneva sulle gambe.

Parcheggiò proprio di fianco a lui e l’angelo, preso alla sprovvista, imprecò: gli era passato con le ruote sui piedi. «Figlio di…!». Ma appena aveva alzato lo sguardo e aveva visto il sorriso sbarazzino di Tom aveva chiuso la bocca, arrossendo.

Tom, sorridendo, scosse il capo e si infilò l’auricolare del cellulare per inscenare una telefonata che non sarebbe mai iniziata e poter parlare tranquillamente con Franky. «Ero certo che ti avrei trovato qui».

«Peccato non ci sia più», mormorò l’angelo in risposta. «Avevo tanti ricordi legati a quello skate park…».

«Zoe si è incazzata da morire quando ha saputo che ci avrebbero costruito sopra un nuovo quartiere. È persino andata a protestare, ma è stato inutile». Franky sorrise amareggiato e il chitarrista cambiò discorso: «Che leggi?».

«Ahm… informazioni riservate?», ridacchiò, trascinando dietro di sé pure l’amico.

«Dai, sali», lo incitò quest’ultimo, riaccendendo il motore.

«Dove andiamo?». Franky si alzò e sollevò lo skateboard dandogli un colpetto sulla coda.

«Devo andare a mangiare con Linda».

«E io che c’entro?».

«Intanto che andiamo mi fai compagnia e… parliamo un po’».

L’angelo capì subito che Tom doveva parlargli di una questione seria e provò a leggergli nella mente, ma non riuscì a buttar giù il muro che lo divideva dai suoi pensieri. Scoraggiato, fece il giro dell’auto e salì, mettendosi seduto al posto del passeggero.
Tom pigiò sull’acceleratore e si avviarono insieme verso la casa di riposo. Passarono i primi cinque minuti in silenzio e Franky non disse nulla; avrebbe voluto chiedergli di che cosa volesse parlargli, ma sapeva che se gli avesse messo fretta lo avrebbe bloccato ancora di più. Così gli lasciò il suo tempo e ce ne volle davvero tanto, perché quando Tom parve decidersi ad aprire bocca erano arrivati alla loro destinazione.

«Okay», mormorò il chitarrista, fissando di fronte a sé. «Sono un cacasotto».

«Se potessi leggere nel pensiero sarebbe più facile», disse Franky, posando la tempia calda sul vetro freddo. A quello sbalzo di temperatura gli tornò in mente la plausibile febbre di Evelyn. «Sai per caso se Evelyn sta male?», gli domandò allora.

«E questo che cosa c’entra adesso?», chiese infastidito Tom.

«Niente, però… visto che non parli…».

«No, non lo so se sta male e da quello che so non dovrebbe neppure interessarti. E comunque non parlo perché ho una fottuta paura che quello che temo sia la realtà».

«Ossia?», sospirò.

Tom si rimise l’auricolare all’orecchio e strinse i pugni intorno al volante. «Sono stato da Jole, stamattina».

«Leo è un tipo a posto, non le farebbe mai del male».

«Non si tratta di Leo!», gridò. «E poi come fai a saperlo?».

«Prima che perdessi i poteri l’ho analizzato per bene. Ma non si tratta di lui, no? Quindi, di che cosa si tratta?».

«Di Jole!».

Franky voltò il capo verso di lui e lo guardò negli occhi: sembrava terrorizzato, confuso… e ci stava davvero mettendo l’anima per dirgli ciò che lo turbava.

«Un po’ di tempo fa», incominciò a raccontare con la voce che tremava e che tentava inutilmente di nascondere. «I miei ricordi hanno preso una forma diversa, come se ciò che avevo sempre creduto non fosse ciò che era successo davvero. Mi sono ricordato che quando mi hai portato all’ospedale lo hai fatto per farmi vedere un’ultima volta Jole e che poi, senza nemmeno pensarci, ho dato il suo nome a quella bimba, alla bimba di Linda. Io pensavo che tu mi avessi portato là per farmi dimenticare Jole, facendomi conoscere Linda, ma questa convinzione è completamente svanita e adesso non so più cosa pensare, perché… Sempre un po’ di tempo fa Jole mi ha raccontato che ogni volta che sente Phantomrider le viene in mente una scena che non ha mai vissuto e io credo che sia quella in cui tu e Jole avete ballato sul palco, quando io le ho dedicato questa canzone…».

Franky, che aveva ascoltato tutto il suo monologo in silenzio, aspettò che il suo respiro si regolarizzasse prima di portarsi una mano di fronte alla bocca e, fissando il cielo fuori dal finestrino, domandare in un sussurro: «Tu credi che tua figlia sia legata a Jole, non è così?».

Tom annuì e tirò su col naso. «Ti prego dimmi che non è così, perché…».

«Perché?», lo spronò a continuare. «Cosa cambierebbe?».

«Io… io non lo so, ma…».

«Tom, tu l’hai vista crescere, te ne sei preso cura come se fosse stata davvero tua figlia, l’hai amata e la ami incondizionatamente. Credi che se fosse legata, per assurdo, a Jole smetteresti di volerle bene, di considerarla tua figlia?».

«Ho bisogno di saperlo», insistette, scuotendo il capo. «Certo che non smetterei di volerle bene e di considerarla mia figlia, ma sarebbe un po’… diverso».

Franky, più convinto di lui, negò con un leggero movimento della testa. «Ci sono cose, nella vita, che non si sapranno mai. O meglio, tutti conoscono le risposte ma non vi credono abbastanza da farle diventare delle realtà. Tu conosci la risposta a ciò che vuoi sapere, una risposta che né io né nessun altro è in grado di darti».

«Ma Franky, tu –!».

L’angelo lo azzittì solamente alzando una mano e socchiudendo gli occhi. «Vuoi ascoltarmi? Ascolta Franky. Non l’angelo custode, il tuo migliore amico». Tom annuì e lui gli sorrise, posandogli una mano sulla spalla. «Le hai dato tutto l’amore che voleva, è felice. Perché ti devi sempre complicare la vita? Vivi quella che hai, al massimo, dandole tutto quello che puoi».

«Io… io non ho capito qual è il soggetto. Di chi stai parlando?».

«Vedi, questa è una delle risposte che sai ma che non vuoi concretizzare. Il tuo cuore la sa, ascoltalo». Gli diede un pugno amichevole sul braccio, sorridendo smagliante. «Vado, ci vediamo a casa». Raccattò i suoi libri e smontò dall’auto senza usare la portiera, né dandogli il tempo di dire nulla. Saltò sullo skateboard e in poco tempo sparì dalla sua vista.

Tom abbandonò il capo al poggiatesta e chiuse gli occhi alle lacrime, respirando profondamente. Il suo cellulare iniziò a suonare, lo prese fra le mani e lesse il nome sul display, poi rispose.

«Hai dimenticato qui le chiavi di casa, sai? Dopo passa a –».

«Ti amo, piccola mia».

Il silenzio dall’altra parte gli fece tremare piacevolmente il cuore. Era la risposta giusta.

«Anche io, papà».

Tom chiuse la chiamata e tornò alla posizione iniziale, con il capo sul poggiatesta e gli occhi chiusi. Quella volta, però, un sorriso aleggiava sulle sue labbra e quelle lacrime, nascoste dietro le palpebre, erano di commozione.
Qualche minuto dopo scese dall’auto ed entrò nella struttura. Andò a passo sicuro verso quella specie di reception e domandò di Linda.

«Dovrebbe essere in giardino con Herr Heller».

Si avviò verso il giardino esterno alla casa di riposo e, una volta uscito, vide sua moglie chiacchierare animatamente con un signore piuttosto anziano, in sedia a rotelle, che indossava un’insolita divisa da generale, con tanto di stelle e gradi sul braccio.
Si appoggiò ad uno dei pilastri di legno della veranda con la spalla e si accese una sigaretta mentre, sorridendo, guardava i due discutere.

«Ai miei tempi, signorina, non si poteva mica in giro vestiti come i giovani d’oggi! Lei ha figli?».

«Sì, due: una femmina e un maschio».

«La femmina quanti anni ha?».

«Ventiquattro».

«Oh, ma allora mi permetta di dirle che lei si tiene davvero in forma!».

«Grazie, signor generale», ridacchiò. «Ma sa, ho avuto Jole quando ero ancora piccola».

«Vuol dire che i suoi genitori l’hanno data in sposa molto giovane?».

«No, che… che ho avuto un rapporto sessuale con il mio ragazzo di allora».

«Ai miei tempi queste cose non accadevano!», sbraitò, diventando rosso. «Una ragazza non la si poteva nemmeno toccare se prima non si era uniti in matrimonio!».

«Le cose sono parecchio cambiate, da allora».

«E il suo ragazzo poi l’ha sposata?».

«No, lui se n’è andato».

«Che oscenità! Signorina, se ci fossimo conosciuti prima l’avrei protetta e avrei costretto ai lavori forzati quello sconsiderato!».

«La ringrazio molto», sorrise e il sentiero la obbligò a curvare. In quell’istante sollevò lo sguardo ed incontrò quello di Tom, che le sorrise e alzò una mano a mo’ di saluto.

«Ma sa una cosa, generale? Sono contenta che il mio ragazzo mi abbia lasciata».

«Che cosa intende dire, signorina?».

«Se lui non mi avesse messa incinta e non se ne fosse andato, non avrei incontrato l’uomo della mia vita, mio marito, che mi ha resa la donna più felice della Terra».

Herr Heller seguì la traiettoria dello sguardo di Linda ed incontrò quello di Tom, che sorrideva furbescamente mentre faceva gli ultimi tiri alla sigaretta, che poi spense nel posacenere apposito.

«È quel giovanotto laggiù, suo marito?», le domandò.

«Sì, esatto».

Linda spinse la sedia a rotelle del generale fin sotto la veranda e lo guardò mentre si alzava, con un po’ di fatica, e porgeva la propria mano, callosa e allo stesso tempo segnata da mille rughe, a Tom.

Il chitarrista, vedendo la difficoltà che aveva nel tenersi sulle gambe, gli disse di riaccomodarsi, che non ce n'era bisogno, ma Herr Heller ci mise poco a ribattere: «Per chi mi hai preso, ragazzo? Tra uomini bisogna sempre guardarsi dritti negli occhi mentre ci si stringe la mano!».

Tom gli strinse la mano e poi, insieme a Linda, lo costrinse a risedersi. Il generale borbottò un po’, ma alla fine si lasciò riportare all’interno della casa di riposo.

«E così fai il musicista, eh?», gli domandò ad un certo punto.

«Sì, suono la chitarra e il pianoforte in una band».

«Ai miei tempi gli artisti erano solo causa di guai per le donne! Facevano perdere la testa col loro fascino irresistibile, ma non si sapeva mai se si poteva mangiare la sera!».

«Adesso le cose sono cambiate…».

«Sì, e sai che cosa ti dico? Che sono cambiate in peggio! Prima gli artisti vivevano dell’elemosina della gente, adesso sono delle macchine per fare soldi!».

Tom sorrise e cercò lo sguardo di Linda, che con un cenno del capo gli disse di assecondarlo, di dargli corda.

«Comunque sia, sei un ragazzo fortunato ad avere una signorina così al tuo fianco. Vedi di trattarla bene o io e il mio esercito ti circonderemo la casa!».

«Non si preoccupi, è in buone mani», rispose e lo salutò con un cenno della mano.

Linda lo accompagnò in mensa, siccome era ora di pranzo anche per i pazienti, poi tornò da Tom, già sprovvista di camice bianco, e gli gettò le braccia al collo per baciarlo sulle labbra.

«Dove andiamo?», gli domandò, accarezzandogli una ciocca di capelli. «Sono affamata».

«Beh, io avevo in mente di passare al Mc Drive e…».

«Oh, tu sì che sai come conquistarmi!», gli stampò un altro bacio sulle labbra, solo più appassionato del precedente.

Uscirono dalla casa di risposo, entrarono in macchina e Linda si mise seduta dove fino a poco tempo prima c’era stato l’angelo. Tom sorrise inconsciamente e lo ringraziò ancora una volta per tutto ciò che aveva fatto per lui, tra cui donargli le sue due donne.
Si diressero al Mc Drive più vicino, ordinarono due super menù, tanto quello che avrebbe avanzato Linda sarebbe finito senza problemi nello stomaco di Tom, e lui sorprese la sua metà portandola in un parcheggio non molto lontano che lei conosceva bene.

«Il nostro primo appuntamento…», soffiò con i  lucciconi agli occhi, fissando il muro di fronte al parabrezza.

Tom sorrise, perso in quella serata che aveva sempre considerato una delle più belle della sua vita. E la considerava ancora così. 
«Ti ricordi?».

«Certo!». Si girò verso di lui e lo guardò negli occhi con la bocca spalancata, come se avesse detto quale sciocchezza, ma le labbra incurvate all’insù. «Non me lo dimenticherò mai… è stato molto romantico, sai?».

«Sul serio?», chiese spalancando gli occhi.

«Sì», Linda annuì. «Oddio, può non sembrarlo, ma c’era un’atmosfera davvero magica».

«Più che altro ci siamo scompisciati dal ridere», fece notare Tom. «Tu non eri capace a mangiare senza un tavolo! Quando ti è scivolato l’hamburger e ti sono rimaste in mano solo le due fette di pane… è stato bellissimo!».

«Non mi prendere in giro! Parla quello che si è schizzato tutta la maglia di ketchup aprendo la bustina!».

«È successo solo perché guardavo te! Mi avevi distratto…», sorrise malizioso e Linda ricambiò, anche se era arrossita sulle guance.

«E quando abbiamo finito di mangiare, che tu hai iniziato a fare lo sdolcinato… Ma sembravi sbronzo! Chissà cosa ci mettono nella Coca Cola quelli di McDonald’s!».

«Non è vero, ero completamente in me! Mi sono lasciato andare ai sentimenti…».

Linda sollevò il sopracciglio. «Sì, mi sono davvero sciolta… tanto che non capisco perché hai dovuto adottare quello stupido trucco per baciarmi».

«Quale trucco?», chiese Tom, aggrottando le sopracciglia.

«Non far finta di essertelo dimenticato!», gli puntò un dito contro, ridendo. «Ero ammaliata dalle tue parole, avresti potuto baciarmi tranquillamente, invece hai acceso i fari dell’auto all’improvviso e io mi sono girata verso il muro per vedere cosa fosse; quando mi sono rigirata mi sono trovata praticamente contro il tuo viso e le nostre labbra si sono scontrate».

«Oh, quello…», si passò una mano sul collo, imbarazzato. «Sai cosa? Avevo paura che tu mi allontanassi…».

«Eh? Sul serio?». Tom annuì e sollevò gli occhi sull’espressione scioccata di Linda. «Non ci credo».

«Io… l’avrei fatto tranquillamente, ti avrei baciata, se tu fossi stata un’altra, una qualsiasi. Ma eri tu… ero già cotto, irrecuperabile, e per la prima volta ho avuto paura che una ragazza mi allontanasse. Non mi sono mai piaciuti i rifiuti, penso che se l’avessi ricevuto da te mi sarei sentito davvero male».

Linda sorrise intenerita e lo attirò a sé per la nuca per lasciargli tanti bacetti sulle labbra, poi uno più lungo e passionale. Ormai del pranzo se n’erano completamente dimenticati, probabilmente era già diventato freddo.

Restarono abbracciati ancora un po’, in silenzio, fino a quando Tom si ricordò che il motivo per cui Linda gli aveva chiesto di passare la pausa pranzo con lei, oltre per stare un po’ insieme ovviamente, era a lui ancora sconosciuto.
Così le domandò, con tono tranquillo: «Di cosa volevi parlarmi?».

«Oh…». Linda si scostò dall’abbraccio, lentamente, e per qualche istante tenne lo sguardo basso, come se si vergognasse di qualcosa. «Ecco, è da un po’ che volevo dirtelo, ma non ho mai trovato… il modo, né il momento adatto».

«Okay, dimmelo adesso», rispose confuso.

La donna alzò finalmente gli occhi e fissò i suoi con un po’ di preoccupazione. «Tu non hai notato niente di strano in Arthur, in questo ultimo periodo?».

Arthur? Tom cercò di fare mente locale, di capire che cosa avesse potuto mai insospettire e far preoccupare in quel modo sua moglie, ma non riuscì a trovare alcuna spiegazione. Quindi, rispose: «No… Avrei dovuto?».

Lei ci rimase un po’ male, ma lo nascose bene. «Io ho notato che molte volte parla da solo. Gioca da solo e parla come se al suo fianco ci fosse qualcuno… Per la carità, anche io da piccola avevo un’amica immaginaria, ma Arthur lo fa con una convinzione che un po’ mi preoccupa. Ho paura che ci sia qualcosa che non vada… Forse sto esagerando, ma… è quello che sento…».

Tom era impallidito ad ogni parola. Era incredulo, allibito. Linda si era accorta di Franky, seppur non vedendolo, e credeva che fosse Arthur ad avere dei problemi! Era assurdo, ma se provava a ragionare con il suo punto di vista… probabilmente anche lui avrebbe pensato la stessa identica cosa. Come poteva fare a spiegarle che Arthur era a posto, che non c’entrava nulla lui, che parlava con un angelo? Soprattutto, doveva dirle di Franky?
Deglutì e si allargò il colletto del maglione. In quel momento doveva essere l’uomo più indeciso del mondo. Avrebbe voluto che Franky in quel momento fosse al suo fianco, che almeno potesse sentirlo… invece doveva cavarsela da solo.

«Linda, Arthur… Arthur non ha alcun tipo di problema», affermò con un sospiro, socchiudendo gli occhi.

«Tom non dire così a priori. Anche io faccio molta fatica a dire che mio figlio – mio figlio! – possa avere qualcosa che non va, ma dobbiamo prendere questa situazione con la giusta cautela, informarci, magari…».

«No, Linda, non ce n’è bisogno».

«Che… che cosa stai dicendo?».

Avrebbe davvero voluto avere Franky al suo fianco. Non sapeva cosa fare e scelse la soluzione forse più sconsigliata in quel caso: dire la verità. Come Linda l’avrebbe presa era un mistero, ma si gettò comunque.
Aprì gli occhi e la guardò, le prese il viso fra le mani e l’avvicinò al suo per essere il più serio possibile. Fece un respiro profondo prima di incominciare, giusto per darsi l’impressione di avere quel coraggio che in realtà gli mancava.

«Anche io devo dirti una cosa che è da tempo che avrei voluto dirti. Poi non ho mai trovato il coraggio, forse avevo proprio paura di conoscere la tua reazione, però… credo che sia arrivato il momento: ora il coraggio deve venir fuori, perché si tratta di nostro figlio e leggo nei tuoi occhi quanto tu sia in pensiero».

«Tom, tu… tu mi hai tenuta all’oscuro di qualcosa?», mormorò sbalordita, mentre i suoi occhi iniziavano ad inumidirsi.

«Sì», sospirò sconfitto, vergognandosi come poche volte gli era capitato. «Ma lasciarmi parlare, ti prego». Un nuovo respiro profondo. «Ti ricordi di Franky?».

«Sì… me ne hai parlato un sacco di volte: so tutto di lui».

«Tutto, eccetto una cosa. Lui è… un angelo».

Il tempo e lo spazio intorno a lui si fermarono, si cristallizzarono nell’istante in cui aveva pronunciato quelle ultime parole. Persino Linda parve essere diventata una statua di marmo.

«Lo so che sembra assurdo, ma non ti sto prendendo in giro, davvero: è la verità», disse ancora, impacciato.

«Tu mi stai dicendo che mio figlio riesce a vedere gli angeli?», balbettò lei, spezzando quell’atmosfera di immobilità.

«Non tutti gli angeli, solo Franky!», la corresse velocemente, mentre le leggeva in faccia che non stava credendo a nessuna delle sue parole. «E non lo vede solo lui: anche io, Bill, Georg, Gustav, David e Zoe lo vediamo. Franky è l’angelo custode di Zoe, è per questo che lei, Bill ed Evelyn sono vivi: è stato lui ad aiutarli ad uscire dalla macchina prima che esplodesse…».

Linda rimase in silenzio, poi abbassò lo sguardo ed accennò un sorriso amaro, che mostrava tutta la delusione nascosta dai suoi occhi. «Ti rendi conto delle assurdità che stai dicendo?», mormorò.

«Ma Linda! Non ti sto mentendo!», gridò, alzandole il viso per guardarla negli occhi. Fu peggio di una pugnalata al cuore. Da quando stavano insieme avevano litigato tante volte, come tutte le coppie, a volte anche per cose davvero stupide, ma non aveva mai visto nei suoi occhi così tanta delusione, così tanta sfiducia. In qualche modo aveva sempre visto il bagliore dell’amore che nutriva per lui, aveva visto che sarebbe stata comunque dalla sua parte, ma quella volta no: non c’era traccia né dell’uno né dell’altra. Le accarezzò i capelli sull’orecchio, scostando lentamente la mano dal suo viso. Si sentiva a pezzi, ma nonostante tutto riuscì a dire, a bassa voce: «Forse un altro motivo per cui non te ne ho mai parlato subito è stato perché ero quasi del tutto sicuro che non mi avresti creduto».

A quell’affermazione, Linda stropicciò ancora di più il viso, già di per sé  triste e deluso. I suoi occhi si accesero, una scintilla d’ira brillò nella pupilla e, chiudendosi la lampo del giubbotto, sibilò: «Può darsi invece che ti avrei creduto». Poi scese dall’auto senza dare il tempo di dire nulla a Tom, che rimase lì impalato a fissare la portiera aprirsi e chiudersi con un tonfo.

Il gelo che era entrato nei secondi che erano serviti a Linda per scendere non era nulla in confronto a quello che si era lasciata dietro lei con le sue parole e quella lacrima che Tom aveva visto di sfuggita rigarle una guancia.
Quando riuscì a riprendersi, si voltò verso il muro fuori dal parabrezza e rimase a fissarlo con occhi spenti. Ad un certo punto alzò un pugno e lo sbattè con violenza sul volante, attivando il clacson. Lo lasciò suonare per un po’, con il viso appoggiato all’altro braccio, poi si tirò su e posò di nuovo il capo al poggiatesta.

Fuori aveva ripreso a nevicare.

 

***

 

Nel primo pomeriggio li raggiunsero a casa di Evelyn anche Pamela e Anja, quindi non passarono tutto il tempo da soli, anche se a lei non dispiaceva affatto stare con Martin. Grazie a lui, nonostante la febbre, era riuscita pure a fare un po’ di esercizi di matematica.

C’erano stati momenti d’imbarazzo, per esempio quando lei era rimasta a fissare il suo profilo mentre lui aveva lo sguardo rivolto sul quaderno e le spiegava, con l’accenno di un sorriso, un passaggio che non aveva capito. Quando si era accorto che lo stava fissando era subito arrossito e si era allontanato schiarendosi la gola; Evelyn invece aveva sorriso.

Le piaceva davvero passare il tempo con lui, si sentiva serena, tranquilla, in pace con se stessa. Per un po’ era riuscito a farle dimenticare tutto il resto, persino Samuel, che purtroppo non aveva smesso un attimo di tempestarla di chiamate e messaggi, tanto che ad un certo punto era stata costretta a spegnere il cellulare. Impaurita com’era, col ghiaccio al posto delle vene, non si era nemmeno sognata di leggere uno dei tanti sms ricevuti.

Insieme passarono davvero un bel pomeriggio e quando fu l’ora di tornare a casa, Evelyn faticò per tenerli con lei ancora un po’. Non ricordava nemmeno più quante volte gli aveva detto: «Ancora dieci minuti, dai!».
Alla fine dovette cedere e li accompagnò alla porta avvolta nella sua coperta per proteggersi dal freddo.

«Ciao Evelyn, riprenditi, mi raccomando», le sussurrò Pamela abbracciandola.

Poi fu il turno di Anja, che la strinse forte a sé circondandole la schiena con le braccia. La bionda strinse i denti a causa del dolore: la stava stringendo troppo forte e i lividi si facevano sentire.

«Noi ci sentiamo, non ti preoccupare», le disse l’amica e le sorrise calorosamente.

Lei e Pamela si incamminarono sul vialetto, coprendosi la testa coi cappucci per non bagnarsi i capelli con la neve, ed Evelyn e Martin rimasero da soli. Imbarazzati, soprattutto lui, si scrutarono di sottecchi per qualche secondo, poi si sorrisero e si abbracciarono.

«Grazie per essere venuto», mormorò lei, spezzando così il silenzio fra loro.

«Non devi ringraziarmi, l’ho fatto con piacere. Mi raccomando, prenditi cura di te».

«Lo farò».

Si scostarono l’uno dall’altra e, un momento prima che Martin si girasse per raggiungere la sorella e Anja, si alzò sulle punte dei piedi e gli posò un bacio sulla guancia. Lui arrossì immediatamente, lei ridacchiò.

«Evelyn», soffiò Martin, guardando verso il basso.

«Dimmi».

«Io… io ci riprovo. O la va o la spacca: vuoi uscire con me?».

La ragazza si morse il labbro inferiore, come indecisa, ma poi sorrise ed annuì. Martin non riuscì a credere ai propri occhi, ma quando udì anche la sua risposta iniziò a rendersi davvero conto che sarebbero usciti insieme.

«Mi piacerebbe molto, Martin». 

La sua voce era quasi… angelica. Non c’era niente di più bello di lei, della sua voce, del suo sorriso… Era cotto come una pera.

«Okay, allora…», balbettò, ancora stordito. «Ci sentiamo in questi giorni per metterci d’accordo».

«Certamente», sorrise piegando di lato la testa.

Lui ricambiò, solo con espressione persa, quasi disorientata. Era già sulla sua nuvoletta personale a fantasticare. «Ora… ora vado». Si girò e camminò lungo il vialetto senza voltarsi indietro, raggiunse l’auto e lì guardò ancora verso la sua direzione e la salutò alzando la mano.

Evelyn ricambiò il saluto sorridendo e stava per chiudere la porta quando notò un’altra macchina parcheggiata sul ciglio della strada, accanto a quella di Martin. Non ci fu bisogno di aguzzare la vista, conosceva quell’auto e il suo stomaco glielo confermò, rivoltandosi.
Il cuore iniziò a batterle all’impazzata e chiuse in fretta e furia la porta, ci si appoggiò con le spalle e rimase a fissare il cellulare spento fra le sue mani con il fiato che le mancava. Chiuse gli occhi e, strizzandoli forte, lo accese. Una serie infinita di messaggi lo fecero suonare per due minuti buoni. Quando finalmente tornò a regnare il silenzio, aprì la sezione apposita e lesse l’ultimo arrivatole. Lo stomaco le si rivoltò un’altra volta.

«Papà», disse, col tono di voce più naturale che riuscisse a riprodurre nonostante la paura e la tensione. «Anja ha dimenticato la sciarpa qui, gliela riporto un attimo!».

Non ottenne nessuna risposta e nemmeno se ne curò. Lasciò cadere a terra la coperta che l’avvolgeva, prese il cappotto ed uscì dalla porta di casa senza fare il minimo rumore. Inghiottita dalla neve.

 

Bill uscì dal bagno e percepì subito che c’era qualcosa che non andava.

«Evelyn?», la chiamò, dirigendosi verso il salotto.

«Evelyn, dove…?». Vide la sua coperta di fronte all’uscio e notò che il suo cappotto non era più appeso accanto al suo sull’attaccapanni.

Con il cuore che gli palpitava in gola la cercò per tutta la casa, quando fu sicuro al cento per cento che non ci fosse, corse al suo telefono cellulare e provò a chiamarla. Era staccato.

 

***

 

Franky, sdraiato a pancia in giù sul suo letto, aveva già letto metà del primo libro. Ne mancavano ancora due, ma aveva la sensazione che non avrebbe trovato proprio un bel niente che lo potesse aiutare a capire perché a volte sentiva ciò che sentiva Evelyn. Inoltre, erano scritti in maniera complicata, in un una lingua che – essendo antica – a stento si capiva. L’unica cosa che aveva capito la sapeva già: le relazioni sentimentali fra esseri non viventi ed esseri viventi erano vietate e non si poteva influire troppo nella vita dei vivi.

Sbuffò sonoramente girando l’ennesima pagina e, con molta sorpresa, si trovò sotto al naso un foglietto stropicciato ed annacquato, penna blu su carta bianca. Alcune parole erano un po’ sbavate, altre illeggibili… ma conosceva quella calligrafia, la conosceva bene. Kim.

 

Ho cercato in questi libri qualcosa che mi aiutasse a capire, ma niente. Ho studiato queste pagine, ci ho passato intere giornate ed intere nottate, ma il risultato che ho ottenuto è sempre stato pari a zero.
Poi ho incontrato un angelo più anziano di me che mi ha spiegato che cosa mi è successo. Che cosa ci è successo. Da quello che ha detto lui, io e Pete ci siamo rubati un pezzo d’anima a vicenda. Il pezzo che io ho strappato a lui è dentro di me; il pezzo che invece mi è stato strappato, è dentro di lui.
Non so, sinceramente, se questa sia la verità, ma io mi fido di quell’angelo. Per dire una cosa del genere, vuol dire che ci è passato, che ha qualche base su cui sostenere la propria teoria, qualche prova che sia così. No?
Ora che ci penso, inizio a credere che sia l’unica spiegazione logica. È per questo che riesco a sentire ciò che sente lui, per questo riesco a captare ogni sua sensazione ed emozione anche a miglia e miglia di distanza. Certo, non è successo subito, ma adesso che ci ho fatto caso e mi ci sto impegnando, mi rendo conto che è così. Siamo così legati perché abbiamo un pezzo dell’altro dentro di noi…
Questo angelo non mi ha detto se c’è un modo per far ritornare i pezzi di anima al loro posto, mi ha solo detto che pian piano, se si lasciano lì, si uniranno all’anima che li ospita e lentamente spariranno tutti i “sintomi” che in questi giorni avverto sempre meno. Per esempio il calore.
All’inizio era come se avessi una stufa al posto del petto… sentivo il calore di Pete dentro di me… invece adesso…
Ho paura di perdere questo calore. Ho paura di non sentire più il frammento della sua anima dentro di me. Non voglio separarmi anche da lei, è tutto ciò che mi rimane di lui.

 

Franky si interruppe nella lettura: non voleva leggere altro della storia di Kim – non sapeva nemmeno se lei gli avesse lasciato quegli appunti apposta, – e quello che aveva scoperto gli bastava; inoltre era arrivato Tom e aveva la sensazione che non fosse proprio di buon umore.

«Hai intenzione di sfondare la porta?», gli disse ridendo, uscendo dalla camera e raggiungendolo in cucina, dove trafficava con pentole, padelle e mestoli.
«Che… che cosa stai facendo?», gli chiese, con gli occhi sbarrati.

«Cucino», rispose stizzito l’amico.

«Ma chi, tu?».

«Sì, io, perché?».

«Perché non è da te cucinare!».

«Quando sono incazzato e depresso eccome se è da me!».

«Oh, wow, questa non la sapevo. E perché sei incazzato e depresso?».

Tom si fermò nel suo muoversi frenetico: si appoggiò al ripiano della cucina coi pugni chiusi e guardò con sguardo vacuo il marmo sotto le sue nocche; poi sospirò: «Ho litigato con Linda».

«Ne vuoi parlare?». Franky era sinceramente dispiaciuto per lui e avrebbe tanto voluto aiutarlo, ma non sapeva nemmeno come. L’unica cosa che poteva fare era stargli accanto e farlo sfogare un po’.

«Sai qual è la cosa più assurda?», Tom rise nervosamente. «È che abbiamo discusso per te, per una persona che lei nemmeno riesce a vedere!».

L’angelo, sempre più sconvolto, sgranò ancora di più gli occhi. Per me?

Tom si girò e lo guardò con un sorrisino sfrontato. «Credeva che Arthur avesse qualche problema perché l’ha visto molte volte parlare con “nessuno”. Che cosa potevo fare? Le ho detto la verità, che tu esisti, che sei un angelo, e non mi ha creduto. Le ho confessato che non gliel’avevo detto proprio per paura che non mi credesse e sai che mi ha detto? Che magari, se glielo avessi detto subito, mi avrebbe creduto. E se n’è andata. E sai che fine ha fatto tutta la roba che ho comprato da McDonald’s? Nel cestino! E questo mi fa incazzare come una belva».

«Oh», balbettò Franky, una volta che l’amico avesse concluso il suo monologo.

All’improvviso una fortissima sensazione di malessere gli attanagliò lo stomaco, glielo fece rivoltare e dovette portarsi una mano sul petto. Non capiva a cosa fosse dovuta, ma fece in fretta a collegarla ad Evelyn.

«Beh? È tutto quello che sai dire?», disse sarcasticamente Tom, alzando le braccia.

Franky non badò a lui e provò a concentrarsi meglio per risalire dalla causa di tutto, ma l’unico risultato che ottenne fu una serie confusa di emozioni, sempre più violente. Prima il freddo gelido, poi la paura – una paura enorme che nonostante tutto cercava di essere nascosta – e alla fine un senso di solitudine e di abbandono che gli strinse il cuore in una morsa d’acciaio.

«Franky?», mormorò Tom, iniziando a preoccuparsi. «Franky, va tutto bene?».

L’angelo scosse lentamente il capo, da una parte all’altra, mentre i suoi occhi iniziavano ad inumidirsi e il suo respiro accelerava insieme ai battiti del suo cuore. Era la pura rappresentazione di ciò che Evelyn stava soffocando dentro di sé per paura di qualcosa, di qualcuno.

Il chitarrista corse da lui e gli avvolse un braccio intorno alle spalle, per sorreggerlo, e lo condusse verso il divano. Lo fece sedere e provò a calmarlo, invano.
«Cosa cazzo ti prende, Franky?!», gridò ad un certo punto, esasperato.

Sentendo il proprio nome pronunciato così ad alta voce e con una specie di rabbia nell’intonazione, Franky riuscì ad estraniarsi dalle sensazioni di Evelyn e ritrovò parte della sua lucidità. Doveva fare in fretta, lei aveva bisogno di lui.
Fissò gli occhi di Tom e si alzò in piedi di scatto, senza dare alcuna spiegazione. Fece il giro del salotto, tenendosi la testa fra le mani. Non poteva fare niente, se non riceveva qualche informazione in più: per esempio, dove si trovava.

Il cellulare di Tom iniziò a suonare e il chitarrista distolse lo sguardo dall’angelo per posarlo sul display dell’apparecchio. Se lo portò all’orecchio e rispose: «Ciao Bill, dimmi».

Lo sguardo di Franky si accese. Si avvicinò al divano e si rimise seduto accanto a Tom, con le orecchie tese e gli occhi spalancati.

«Tom, Evelyn è scomparsa».

 

Seduta al posto del passeggero in quella macchina che puzzava di fumo, guardava fuori dal finestrino con gli occhi velati dalle lacrime. Si mordeva le labbra per non mostrarle tremanti e contraeva i muscoli di tutto il corpo per lo stesso motivo. Non aveva solo i brividi di freddo, stretta nel cappotto che sembrava non riscaldarla per niente, ma anche di pura paura.

Erano in auto da un po’, ma Samuel non le aveva ancora rivolto la parola. Guardava seriamente di fronte a sé la strada, le mani strette con forza intorno al volante, e non sembrava intenzionato ad interagire con lei in nessun modo.

Evelyn aveva paura anche di respirare, ma trovò la forza per infilare una mano in tasca e tirare fuori un paio di pezzi da cinquanta, che posò sul cruscotto.

Samuel la guardò con la coda dell’occhio e grugnì: «Sai che me ne faccio ora, dei tuoi soldi?».

Il sangue le si gelò nelle vene e un fremito la percosse da capo a piedi: non era riuscita a trattenerlo. Spostò nuovamente lo sguardo fuori dal finestrino e per la prima volta notò che quella strada la conosceva, la conosceva piuttosto bene. Altri brividi le percorsero la schiena e tutto ciò che riuscì a fare fu pregare intensamente che quel luogo, per lei così importante, quasi sacro, non fosse la meta di Samuel. Non le importava più che cosa le avrebbe fatto, l’unica cosa che le premeva era che quel luogo non venisse profanato da una persona tanto ottusa e schiava di se stessa, della droga e della violenza, che non sapeva nemmeno cos’era l’amore.
No, lui non poteva portarla nello stesso luogo dove lei e Franky si erano dati il loro primo bacio ed erano rimasti ore ed ore abbracciati a guardare le stelle.

 

Dove. Dimmi dove sei, Evelyn.

Sbatté i pugni sul muro, ai lati dello specchio, poi si prese la testa fra le mani. Sentiva Tom parlare ancora al cellulare con suo fratello Bill. Cercavano di arrivare a capire dove si trovasse scavando nelle più piccole cose, ma l’angelo aveva la sensazione che non sarebbero giunti ad alcuna conclusione. Quindi smise di ascoltarli per concentrarsi soltanto su ciò che sentiva lui, dentro di sé e sulla sua pelle.

Si appoggiò con la schiena e il capo alla parete piastrellata del bagno e chiuse gli occhi. Le orecchie iniziarono a fischiargli fastidiosamente e alcune immagini sfuocate gli invasero la mente, ma era troppo poco per riuscire a cogliere un particolare che lo riconducesse alla posizione di Evelyn.
La prima sensazione che distinse chiaramente fu olfattiva: puzza di fumo. Sigarette e canne, per la precisione.

«Hai già provato a chiamare le sue amiche?», domandò Tom e Franky serrò le labbra per non bestemmiare: con le sue inutili chiacchiere aveva spezzato il contatto che era riuscito a creare.

Se fosse stato più potente avrebbe subito dedotto dove si trovava, ma con le capacità così limitate… addirittura si sorprendeva che riuscisse a creare quei legami, gli ci voleva tantissima energia e concentrazione.
Ci riprovò e fu ancora più faticoso del precedente tentativo, ma ci riuscì. Si trovava in un’auto, seduta al posto del passeggero.

Fammi vedere fuori dal finestrino. Fammi vedere dove ti stanno portando.

 

«Dove stiamo andando?», gli chiese con voce flebile e il cuore che le scalpitava nel petto.

«Siamo quasi arrivati», le rispose con tono piatto e gli occhi più scuri del solito.

Il cuore dal petto le salì in gola. La paura aumentò ed era assurdo che ne avesse così tanta per timore che quel luogo, che nella sua mente era paragone di serenità, cambiasse e perdesse tutta la sua purezza.

«Non possiamo andare da un’altra parte?».

Samuel si voltò a guardarla e sulla sua bocca prese forma una nota di disappunto. «Non fare i capricci».

Evelyn si morse le labbra e volse il capo verso il finestrino. L’auto si fermò nel luogo che aveva purtroppo previsto, lei chiuse gli occhi e le lacrime scivolarono lente sulle sue guance.
Samuel la voltò con forza verso di sé e appena vide che stava piangendo digrignò i denti e le tirò uno schiaffo.

 

«Franky! Franky, cazzo, aprì la porta!», gridò Tom tempestando la porta di pugni.

L’angelo, seduto con le spalle ancora alla parete piastrellata, strinse ancora di più gli occhi, ma tutta la sua concentrazione era vana con tutto il casino che stava facendo il chitarrista.
«La vuoi finire?!», gridò esasperato, con tutto il fiato che aveva in gola.

Tom parve quietarsi, ma dopo qualche minuto di silenzio disse, con tono fermo e deciso: «Solo se mi apri e mi dici che cos’hai».

Franky si alzò da terra cercando di mantenere i nervi saldi, gli aprì e senza aspettare che entrasse e chiudesse di nuovo la porta ritornò alla sua posizione iniziale, con i gomiti appoggiati alle ginocchia flesse e le mani sulle orecchie, a cingergli il capo.
Tom entrò con cautela nel bagno, guardò l’amico e non facendo altro rumore chiuse la porta. Poi si mise seduto al suo fianco e rimase a fissarlo.

«Senti, siamo tutti preoccupati per Evelyn, ma facendo così non sei utile…».

Franky gli posò una mano sulla bocca e lo guardò truce. Non l’aveva mai guardato con così tanta rabbia negli occhi, nemmeno quando aveva scoperto che aveva indotto Jole a suicidarsi.

«Se non stai zitto giuro che… Io sto facendo più di voi messi insieme, quindi…».

Improvviso quanto inaspettato, un ricordo gli balenò alla mente. Era un ricordo intenso, intriso d’amore e di malinconia perché ormai sembrava solo un sogno, e soprattutto era una ricordo che gli doleva rivivere. Il loro primo bacio, quella notte in mezzo al capo di girasoli. Ma perché gli era venuto in mente proprio in quel momento?

Il chitarrista, immobile, si ammutolì ed osservò lo sguardo vacuo dell’amico. Che cosa gli stava succedendo? Aveva l’espressione di quando si perdeva fra i pensieri delle persone. Non sapeva che fosse riuscito a riacquisire quel potere, ma era certo che non stesse sbirciando fra i suoi.

Franky rivisse quel ricordo, dimentico totalmente di Tom. Rivide tutto nei minimi particolari e solo verso la fine si rese conto di una cosa importantissima ma che al momento non aveva per niente considerato: gli occhi con cui stava vedendo quelle immagini non erano i suoi, bensì quelli di Evelyn. Era un suo ricordo.
«Ovunque, ma non qui». Fu il sussurro che come un venticello fresco gli entrò dentro i vestiti e lo fece rabbrividire. Un altro pensiero di Evelyn.

«Il campo di girasoli», mormorò, con gli occhi ancora vacui: non poteva troncare il collegamento con lei, aveva paura che se l’avesse fatto non sarebbe più riuscito a riconnettersi con la sua mente e aveva un estremo bisogno di sapere tutto ciò che poteva ed in tempo reale.

Tom corrugò la fronte, senza capire. «Che hai detto?».

«Il campo di girasoli che c’è non molto lontano da casa di Bill! Muoviti Tom, è là che si trova Evelyn!».
L’angelo si tirò su da terra e corse fuori dal bagno, con Tom che faticosamente gli stava dietro. Non aveva più l’età per quelle cose.

Mentre Franky si dirigeva verso la porta di casa, essa si aprì e mostrò loro Linda. Tom si fermò nel bel mezzo del salotto, impietrito, ma Franky no: come un treno in corsa con i freni fuori uso la travolse e la trapassò in un millesimo di secondo, nel quale la donna rabbrividì da capo a piedi e guardò Tom con gli occhi sgranati.

«S-Scusa, io… devo andare», balbettò il chitarrista e con lo sguardo basso afferrò il cappotto, la spostò delicatamente dalla porta e corse dietro l’angelo.

 

Samuel la trascinò fuori dall’auto e con uno spintone la fece cadere con la faccia nella neve.

«La vuoi smettere di piangere?!», le gridò, tirandole un calcio nelle costole.

Evelyn gemette di dolore e sollevò il viso gelato: le lacrime le scivolavano sulle guance come diamanti.

 

Franky si portò una mano sulle costole del fianco sinistro. Con gli occhi sbarrati si rese conto che il dolore che aveva provato era stato come quello dovuto da un calcio. Si morse le labbra e corse ancora più veloce per le vie d’Amburgo, trapassando qualsiasi cosa o persona che gli si parasse davanti.

Una Audi che conosceva bene gli schizzò di fianco e lui non perse tempo: si lanciò contro di essa, trapassò la portiera e cadde sdraiato sui sedili posteriori.

«Muoviti Tom!», urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

«Mi sto muovendo!».

Franky si spostò sul sedile del passeggero, affianco a lui, poi, preso dal nervosismo, salì sulle gambe di Tom, gli rubò il volante dalle mani e premette sull’acceleratore.

«Franky non fare pazzie! Non sai nemmeno guidare!», gridò il chitarrista, preso dal panico.

L'angelo sorpassò un’intera fila di automobili ferme a causa di semaforo, arrivò all’incrocio e scattò il verde, poi fece zig-zag fra altre vetture che gli erano soltanto di intralcio e quando furono nel viale di campagna che portava ai campi che dovevano raggiungere, guardò Tom di sfuggita e, in tono sarcastico, disse: «Ah no?».

 

Aveva dolori ovunque. I lividi vecchi pulsavano esattamente come quelli nuovi e l’ultimo calcio ricevuto, dritto nello stomaco, l’aveva fatta rivoltare di nuovo con la faccia nella neve.
Voleva morire, voleva morire in quel preciso istante, perché la sofferenza che stava patendo, ne era certa, era anche peggiore della morte.
Tossì e sollevando di un poco il viso vide che aveva lasciato tracce rosse sulla neve candida. Sangue.
Non era di certo la prima volta che lo vedeva, ma gli dava sempre la nausea.

«E adesso vieni qua», grugnì Samuel, prendendola per il giubbotto e voltandola. Evelyn lo guardò, ma preferì chiudere immediatamente gli occhi: il bianco del cielo faceva troppo male e, inoltre, vedeva doppio.

Sentì un peso schiacciarla e capì che Samuel si era inginocchiato su di lei e stava trafficando con la cerniera dei suoi jeans. Trasalì, capendo le sue intenzioni, e cercò di levarselo di dosso, scalciando e dimenandosi con tutte le poche forze che le erano rimaste in corpo.

«Stai ferma. Stai ferma, ho detto!». Le tirò un forte schiaffo, che la stordì. «Non avrei voluto farlo, credimi. Tu sei così… Ma visto che non ho la coca a disposizione devi offrirmi un’alternativa, no?».

Nuovi rivoli di acqua calda e salata le scivolarono sulle tempie e cercò di trattenere i singhiozzi, ma erano talmente forti che sembravano delle martellate nella gola.
«Ti prego», farfugliò a bassa voce. «Ti prego, non farlo».

«Te la sei cercata», le rispose.

Evelyn chiuse gli occhi e strizzò forte le palpebre, mentre si mordeva le labbra, certa che sarebbe accaduto. Si aggrappò ai ricordi di lei e Franky, i più belli. L’unica persona che riusciva a pensare in quel momento era lui. Non suo padre, non sua madre… Franky.
Cercò di rivivere tutti i bei momenti passati con lui, dal primo all’ultimo: dal giorno in cui per la prima volta si erano guardati negli occhi a quando avevano fatto l’amore.
Ricordò i suoi baci, le sue mani, il suo respiro, la sua pelle. Tutto era così diverso, così delicato e bello, rispetto a quello che le stava facendo Samuel.
Quando sentì le sue mani ruvide e per niente delicate vagare sotto la sua maglietta la nausea la travolse, ma trattenne tutto dentro per paura che le facesse ancora più male. Era orribile.

«Evelyn!».

La ragazza arricciò le labbra in un sorriso amaro: era davvero la fine se riusciva persino a sentire la voce di Franky che la chiamava.

«Levale le mani di dosso, brutto figlio di puttana», ruggì ancora Franky ed improvvisamente il peso che fino ad allora aveva sentito schiacciarla e le mani che l’avevano toccata sparirono.
Sollevò faticosamente le palpebre, incollate dalle lacrime e dal freddo, e vide Franky prendere a calci e pugni Samuel, mentre suo zio Tom correva verso di lei, pallido come un lenzuolo.

 

Franky tirò il freno a mano e schizzò fuori dall’auto trapassando direttamente dal parabrezza. Saltò giù dal cofano e corse a perdifiato verso l’auto parcheggiata nel bel mezzo del corridoio fra due campi di girasoli.

«Evelyn!», gridò a squarciagola, mentre faceva il giro della macchina. Quando vide quel ragazzo inginocchiato sopra Evelyn, che cercava di spogliarla dei jeans, quando i suoi erano già abbassati, andò completamente fuori di testa.

«Levale le mani di dosso, brutto figlio di puttana», ruggì e con la furia di un toro gli andò addosso, lo sollevò prendendolo per le spalle e liberò Evelyn dalla sua stretta.

L’angelo non si accorse neppure dell’arrivo di Tom, che raggiunse subito la nipote e l’aiutò a sollevarsi, del tutto sopraffatto da quella rabbia cieca che non gli permetteva di far altro che colpire il ragazzo che aveva toccato la sua Evelyn, così dolce e fragile.
Pugni, calci, ginocchiate nello stomaco… non aveva pietà. Continuò a colpire il ragazzo anche mentre, con il respiro mozzato, si accasciava a terra e ruotava freneticamente le palle degli occhi, terrorizzato e frastornato, per capire da dove provenissero quei colpi.

Niente e nessuno sarebbe riuscito ad arrestare la sua furia, nessuno eccetto Evelyn che si era rialzata a fatica, sotto lo sguardo attonito di Tom, e gli aveva preso una spalla con la mano, quando con l’altro braccio si avvolgeva lo stomaco.
Franky, grazie a quel semplice contatto, si pietrificò e mollò la presa su Samuel, che cadde del tutto a terra, privo di sensi. Si voltò verso Evelyn con le labbra dischiuse e la guardò inespressivo. Riusciva a leggere benissimo i suoi pensieri: continuava a ripetere, piangendo, “Mi dispiace”.
L’angelo la fulminò con lo sguardo per un attimo, poi con un gesto dalla lentezza calcolata e per questo dolorosissimo per il cuore della ragazza, le prese la mano e la lasciò cadere nel vuoto, ciondolante.

«Franky», sussurrò allora lei, con la gola che andava in fiamme, graffiata dai singhiozzi. Alzò ancora la mano per accarezzargli il volto, ma lui si scostò e guardò di lato. Aveva i pugni stretti, si mordeva le labbra e tremava tutto dalla rabbia. 

«Quanto sei stupida», sibilò.

«Franky, ti supplico…».

«No!», gridò, frustrato. Le lacrime iniziarono a pungere anche i suoi occhi. I suoi sentimenti erano così simili a quelli di Evelyn… «Avresti dovuto dirmelo! Se non a me a Bill, o a Tom! Cosa credevi di fare, credevi davvero che saresti riuscita a cavartela da sola?! Sei stata una stupida!».

Tom raggiunse la nipote e la strinse a sé, avvolgendole la schiena con le braccia. Guardando l’angelo, mormorò: «Adesso basta».

Il suo sguardo si posò involontariamente sul ragazzo incosciente a terra, che poteva essere benissimo collassato a causa di un'overdose, e poi tornò a guardare Franky, che aveva lo sguardo basso e stringeva i pugni lungo i fianchi.
Non l’aveva mai visto così. Nemmeno per Zoe aveva lottato in quel modo, con quella rabbia distruttrice. Era stato una furia, tanto da far venire i brividi.

«Mi dispiace. Mi dispiace», singhiozzò ancora Evelyn, contro la spalla suo zio. Non lo disse due volte a caso.

«Tranquilla», la rassicurò Tom, massaggiandole la schiena. «Ti porto all’ospedale».

La incitò a camminare, accompagnandola verso l’auto, ma si accorse che il suo sguardo non poteva scostarsi dalla figura di Franky, ancora fermo accanto al corpo di Samuel.
Tom sospirò, arrendendosi al fatto che quei due, in ogni caso, sarebbero sempre stati indivisibili, e disse: «Tu vieni con noi?».

«No, io… io mi occupo di lui», rispose con voce flebile l’angelo, indicando il ragazzo privo di sensi.

Il chitarrista annuì e con un leggero strattone riuscì a far camminare anche Evelyn.

 

I die each time you look away
My heart, my life will never be the same
This love will take my everything
One breath, one touch will be the end of me

 

***

 

Linda arrivò di corsa nel corridoio in cui doveva trovarsi la camera di Evelyn ed infondo ad esso vide Tom, seduto su una delle poltroncine attaccate al muro.
Lo raggiunse con passi lenti e calcolati, ma non riuscì a nascondere l’ansia che provava per ciò che era accaduto a sua nipote.

«Ehi», mormorò, sedendosi al suo fianco. Si sentiva nervosa ed infatti era rigida come un pezzo di legno. Non osava nemmeno sfiorarlo.

«Bill è dentro con lei», le disse in risposta, senza guardarla in viso: teneva lo sguardo fisso sul pavimento.

«Sta bene?».

Il chitarrista scrollò le spalle. «È traumatizzata e… niente, lascia stare», sospirò.

Linda non osò più parlare per un po’. Ma alla fine cedette, anche se sapeva che se ne sarebbe pentita. 
«Come facevi a sapere dove si trovava?», domandò schietta.

Tom si passò le mani sul viso e mormorò: «Franky. È lui che mi ha portato da lei».

La donna chiuse gli occhi ed abbassò il viso, colpita dalla sua insistenza. Gli angeli non esistevano, come poteva…?
Improvvisamente Tom si alzò e lei lo guardò camminare a passo spedito verso la fine del corridoio. Entrò nel bagno degli uomini e sparì alla sua vista.
Poco dopo Bill, il viso pallido e sciupato, uscì dalla camera della figlia e la vide. Linda si alzò subito in piedi, preoccupata, ma lui domandò solo di Tom.

«È andato in bagno», gli rispose. «È successo qualcosa?».

«Devono farle dei test per vedere se è stata… violentata», l’ultima parola la sussurrò con la gola che gli bruciava. «Lei ha detto che non è mai successo, ma è la prassi che si deve seguire in questi casi».

«Oh Bill», sussurrò con le lacrime agli occhi e lo abbracciò.

«Io non ce la faccio più, Linda. Non ce la faccio più».

 

«Quanto ci hai messo, si può sapere?!», gridò stridulo Tom, una volta entrato nel bagno degli uomini.

Franky finì di lavarsi il viso e se lo asciugò con un pezzo di carta, che poi gettò nel cestino.
«Samuel si è costituito».

Tom sgranò gli occhi. «Come ci sei riuscito?».

«Non hai idea di quanto gli angeli possano essere persuasivi. Comunque non è servito a molto, ha fatto tutto da solo. Si vede che si è preso paura».

«Anche io ne avrei avuta se fossi stato al suo posto. Sei stato… Non ti avevo mai visto così».

«Lo so», mormorò l’angelo, appoggiandosi al lavandino con le mani e guardandosi il viso nello specchio. «Credo che mi verranno a prendere, prima o poi».

«Che? Venirti a prendere?», balbettò, incredulo.

«Credi che in Paradiso accettino una cosa del genere? Un angelo che quasi ammazza di botte un ragazzo».

«Ma l’hai… l’hai fatto per difendere Evelyn!».

«Non cercare di difendermi, adesso», sorrise amaramente. «Ogni cosa sbagliata che si fa si paga, ricordatelo Tom».

Il chitarrista abbassò lo sguardo. «Andiamo, dai».

Insieme uscirono dal bagno e ora che Franky gli aveva detto quelle cose, Tom sentiva che ogni secondo insieme a lui poteva essere l’ultimo. Avvertiva un vago senso di oppressione, come se il tempo che passava gli pesasse sulle spalle e lo schiacciasse.

Bill schizzò in piedi appena li vide e corse a rifugiarsi fra le braccia del gemello, nascondendo le lacrime contro il suo collo.
Franky invece si avvicinò alla porta della stanza di Evelyn e sbirciò all’interno grazie alla finestrella incasellata nel legno. I loro sguardi si incontrarono e Tom fece in modo che restassero qualche minuto da soli.

«Vieni, andiamo a prendere una boccata d’aria», disse al fratello e lo accompagnò fuori dalla struttura. Come aveva previsto anche Linda li seguì.

Grazie amico, pensò Franky prima di entrare nella camera della ragazza e chiudersi la porta alle spalle.

Alzò lo sguardo ed incrociò subito quello di Evelyn. Nonostante avesse gli occhi arrossati e gonfi di pianto erano sempre bellissimi.
Si mise seduto sulla sedia affianco al letto e le prese una mano fra le sue, se l’avvicinò alle labbra e, senza interrompere il contatto visivo, la baciò.

«Mi dispiace tanto», singhiozzò Evelyn, distorcendo la bocca, quella bocca dai petali di rosa, in una smorfia.

«Shhh». Le posò un dito sulle labbra ed accennò un sorriso, accarezzandogliele delicatamente. «Non avrei dovuto aggredirti in quel modo, prima».

«Hai fatto bene, invece. Me lo meritavo».

Franky scosse il capo, si alzò dalla sedia e si sporse su di lei. Evelyn chiuse gli occhi e non si perse nemmeno un istante della sensazione di serenità e completezza che sentì quando le posò le labbra sulla fronte calda.
Gli prese le mani fra le sue e le loro diverse temperature si fusero in una, creandone una perfetta: né troppo calda né troppo fredda. Insieme, erano perfetti.

 

Rientrarono nella struttura e, appoggiato con la schiena alla parete, accanto alla porta della camera di Evelyn, videro Franky. Bill gli rivolse uno sguardo di profonda gratitudine e se non ci fosse stata Linda lo avrebbe abbracciato. Aveva aiutato lui e la sua famiglia fin troppe volte in quel periodo, gli doveva la vita.

«Signor Kaulitz?».

Bill si voltò verso la voce profonda che l’aveva chiamato e vide il dottore dal camice bianco che si era occupato di sua figlia. 
«Sì, mi dica», disse con voce tremante.

«Abbiamo i risultati degli esami che abbiamo fatto a sua figlia».

«Ebbene?», domandò Tom, siccome il dottore si era interrotto e aveva riletto ancora una volta i referti che aveva sotto gli occhi.

«Sua figlia non è stata stuprata», disse e tutti trassero un respiro di sollievo.

«Grazie dottore, davvero io non so come…», disse Bill, con gli occhi lucidi dall’emozione, ma l’uomo lo interruppe con un sorriso compassionevole sul viso.

«Ma sua figlia è incinta».

Il mondo di Bill crollò sotto i suoi piedi.
Tom trasalì e con la coda dell’occhio guardò Franky, che impietrito e con gli occhi sgranati fissava l’uomo che aveva appena dato loro quella notizia. La sua espressione diceva tutto.

«È impossibile, lei non ha mai…», balbettò Bill, ma finì per farfugliare cose senza senso. Si lasciò cadere su una delle poltroncine e Linda gli avvolse il capo con le braccia, facendoglielo posare sul proprio petto. Sembrava un bambino in quel momento.

Il chitarrista non sapeva che cosa fare: voltarsi verso Franky o raggiungere il gemello. Alla fine fu costretto a scegliere la prima opzione, perché Franky cadde in ginocchio e lo vide portare involontariamente le braccia dietro la schiena ed abbassare il capo, come se… sì, come se lo stessero arrestando.

 

Maybe she will save me in the oceans of her dream
And maybe someday love

 

______________________________________

Eccoci di nuovo qui :) 
Allora, ci sarebbero un sacco di cose da dire, questo capitolo è davvero lungo e non me la sono sentita di dividerlo in due parti perchè è uno dei più importanti e, insomma, la suspance a cui vi avrei costretto sarebbe stata una tortura, anche per la sottoscritta xD
Quindi, ahm... beh, in un modo o nell'altro ciò che stava passando con Samuel è finito, anche grazie a Franky che è intervenuto in tempo grazie al loro speciale collegamento. L'angelo è riuscito anche a capirci di più rispetto a quello che gli è successo quando hanno fatto ehm-ehm u.u xD grazie a Kim a cui, a questo punto l'abbiamo capito tutti, è successa la stessa identica cosa! Era l'angelo custode di un ragazzo, un certo Pete, si è innamorata di lui e... ha sofferto quel che ha sofferto. Sarà anche il destino di Franky e Evelyn? Mah, chissà...
Quello che è certo è che è un vero casino ora... Evelyn è incinta. (Colpo di scena MEGAGALATTICO xD Che ne pensate?)
E Franky è stato, diciamo... "arrestato" per la sua reazione esagerata con Samuel, anche se l'ha fatto per lei...
E poi, ultima cosa tornando nel mondo "dei vivi": Tom e Linda che litigano? D: Poveretta, lei credeva che Arthur avesse qualche problema, invece parla soltanto con Franky, che lei non riesce a vedere... e Tom ha dovuto dirle la verità, ma non ci ha creduto più di tanto... Staremo a vedere ora che succederà :)

Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto *-* (Aspetto le vostre considerazioni! :D) 
La canzone che ho usato è la stupenda 
Love song requiem, dei bravissimi Trading Yesterday!

Ringrazio infinitamente coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e chi ha letto soltanto :)
Un bacio, alla prossima! Con affetto, vostra,

_Pulse_

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Capitolo 15
*** Prisoner of pain ***


15. Prisoner of pain

 

Non aveva mai nemmeno immaginato che anche in Paradiso ci fossero le prigioni. Ovviamente erano prigioni diverse – completamente diverse, probabilmente non erano nemmeno definibili prigioni – e forse anche più utili di quelle che esistevano sulla Terra, ma non l’avrebbe comunque mai creduto possibile.

Gli facevano male le gambe. Avrebbe tanto voluto sedersi, ma non c’era modo di farlo in quella specie di capsula, molto simile a quella per la lampada, solo verticale, in cui si trovava. Era irradiato da una luce bluastra che iniziava a fargli male agli occhi e il calore che sentiva in mezzo al petto era quasi insopportabile. 
Stavano cercando di curargli l’anima, di liberarla da ogni tipo di corruzione, di male, che l’aveva spinto ad aggredire in quel modo quel ragazzo.

Erano stati veloci. Pensava che ci avrebbero messo almeno qualche giorno per rintracciarlo e riportarlo di sopra per dargli la punizione che si meritava, invece gli erano bastate solo poche ore.
Impresso nella mente aveva ancora il viso di Tom che, sconvolto, lo guardava cadere in ginocchio, portare involontariamente le mani dietro la schiena ed abbassare il capo. L’angelo speciale del reparto di polizia celeste – così lui l’aveva soprannominato – non si era fatto vedere dai suoi amici e dopotutto ne era contento: sarebbe stata ancora più dura se Tom avesse detto qualcosa, se avesse cercato di fermarlo.

L’angelo che l’aveva “arrestato” si chiamava Raphael ed era semplicemente divino: occhi chiari, capelli biondi, bocca sensuale. Uno degli angeli più belli che avesse mai visto. Peccato che, per quel poco che aveva potuto notare, aveva un caratteraccio. Non sapeva per quale motivo, ma sembrava avercela particolarmente con lui ed infatti non era stato per niente delicato.
Ora, seduto al tavolo di fronte alla sua capsula, lo guardava con sguardo truce e Franky, per quanto timore potesse incutere, non ne era spaventato e lo sosteneva senza problemi attraverso l’oblò che gli permetteva di vedere ciò che succedeva fuori.

Quello che lo spaventava veramente, più di ogni altra cosa, era che Evelyn fosse incinta. Non poteva davvero essere suo figlio… Com’era possibile? Era contro natura! Lui era morto, non poteva davvero averla messa incinta… Eppure, sapeva che Evelyn non aveva fatto sesso con nessun altro. Lo avrebbe avvertito sicuramente, se fosse stato così! Infondo aveva un pezzo della sua anima dentro di sé.

Si mosse dentro la capsula e questa dondolò un poco. Sbuffò innervosito: iniziava a starci stretto lì dentro. Voleva uscire. Voleva parlare con qualcuno che gli spiegasse la situazione con tutti i dettagli necessari, voleva risolvere tutti i casini che aveva causato, voleva uscire da lì!

«La smetti di dimenarti?», domandò Raphael con la sua bella voce. «O devo aumentare la carica?», sollevò il sopracciglio con un sorrisetto maligno e si alzò, si avvicinò alla capsula di Franky ed armeggiò con una tastiera situata accanto all’oblò.

«Voglio uscire da qui!», gridò l’angelo, ma non fece in tempo a dire altro che il calore aumentò ancora di più e sembrava sempre alzarsi, come se si stesse pian piano avvicinando a della lava incandescente. Strinse i denti e sbatté i pugni contro le pareti: quella cosa non gli stava facendo bene all’anima, gli stava solo facendo del male. A lui non era mai piaciuto fare le lampade!

Qualcuno bussò timidamente alla porta dell’ufficio. Raphael aggrottò le sopracciglia, sorpreso, e borbottò: «Sarà la tua amichetta Kim». Franky gli lesse nel viso, così vicino al suo dopo l’oblò, che solo per questo avrebbe voluto alzare ancora di più la carica, ma non lo fece. Anzi, l’abbassò di un poco, in modo tale che Franky riuscisse a respirare in modo più o meno regolare. Poi gridò: «Avanti!». Raphael si sbagliava, non si trattava di Kim.

«Zoe», balbettò Franky. «Che… che ci fai qui?».

La donna fece finta di non averlo sentito, non lo guardò nemmeno, e si rivolse subito all’angelo poliziotto. «Mi scusi, posso parlare in privato con lui?».

L’espressione di Raphael diceva tutto, tanto che Franky ebbe paura che l’aggredisse verbalmente seduta stante. Invece, dopo qualche secondo, sorrise compiaciuto e fece segno d’uscire all’altro angelo poliziotto, che sicuramente era sotto il suo comando. I due uscirono e si chiusero la porta alle spalle, lasciandoli soli.
L’angelo non osò fiatare. C’era qualcosa, in Zoe, che gli faceva paura, come un brutto presentimento. Aspettò dunque che fosse lei a parlare per prima e questo accadde solo dopo qualche minuto di terribile silenzio.

«San Pietro mi ha detto tutto», esordì a voce bassa, il viso rivolto verso il pavimento.

A Franky mancò il fiato. Nel poco spazio che aveva provò a passarsi una mano sulla fronte, ci riuscì e si accorse che era madida di sudore.
San Pietro aveva davvero detto a Zoe tutta la verità? Stava male solo al pensiero.

«Non capisco…», riprese, facendo qualche passo per la stanza. «Perché non me l’hai detto subito?».

«Io… non sapevo come l’avresti presa!», gridò stridulo, mentre il panico prendeva il sopravvento su di lui. «Era… è così complicato! E non avrei saputo proprio come dirtelo!».

«Franky, ma tu credi davvero che me ne possa importare qualcosa?!». Per la prima volta lo guardò negli occhi e tutto ciò che Franky vi vide fu delusione e rammarico.

Lui invece aveva una maschera di pura confusione sul viso. «Che cosa intendi dire?», le chiese, nervoso.

Lei fece due passi avanti, avvicinandosi alla sua capsula, senza distogliere gli occhi dai suoi. «Non mi importa se ti sei innamorato di una ragazza ancora viva piuttosto che di una… come te! Okay, forse ti avrei chiesto se ne eri davvero sicuro e se lei ti voleva davvero, ma non ti avrei detto nulla di più! Anzi, sarei stata felice per te! Perché mi hai mentito in questo modo?».

L’angelo aveva gli occhi spalancati e si era dimenticato persino di respirare. San Pietro non lo aveva tradito, le aveva detto che si era semplicemente innamorato di una ragazza ancora viva e non di sua figlia! Dentro di sé trasse un enorme respiro di sollievo: lei non sapeva ancora niente di lui ed Evelyn.

«Mi dispiace molto, Zoe», le disse. «È che mi conosci, sai come sono fatto…».

«No, io non lo so più», mormorò abbassando gli occhi ed allontanandosi. «Un tempo mi avresti detto tutto, non mi avresti nascosto niente, per nessun motivo al mondo. Adesso invece… è tutto cambiato, io credo di non conoscerti più bene come ti conoscevo tanti anni fa. Come credo che tu non mi conosca più bene come allora…».

Quelle parole furono peggio di una pugnalata per l’angelo. «Non dire queste cose, Zoe…». Aveva gli occhi lucidi e la voce gli tremava. Litigare con lei, in quel momento, era proprio l’ultima cosa che voleva. «Zoe, ti prego…».

La porta si aprì di colpo, facendoli sobbalzare entrambi, e Kim li guardò con occhi preoccupati.

«Non sono riuscita a trattenerla», si difese Raphael, anche se aveva un’espressione furente.

«Non importa, io me ne stavo andando», disse Zoe.

«Aspetta! Zoe, aspetta!», gridò Franky, ma lei evitò il suo sguardo e raggiunse la porta. Sulla soglia, però, si fermò e voltò il capo verso di lui, permettendogli di vedere i lucciconi che aveva sotto gli occhi. «Grazie per aver aiutato Evelyn, comunque». Poi uscì dalla stanza senza guardarsi più le spalle.

Il silenzio più assoluto cadde su di loro e solo dopo diversi istanti Kim si decise a spezzarlo, veramente dispiaciuta: «Scusami, io non volevo…».

«Non fa niente», mugugnò l’angelo.

Kim si avvicinò alla capsula in cui era rinchiuso e, guardandolo negli occhi attraverso l’oblò, gli sussurrò: «Ho fatto il prima possibile. Sono venuta a tirarti fuori da qui, resisti».

Raphael la sentì e gridò, col viso rosso di rabbia: «E come credi di farlo?!». Sbuffò dal naso e serrò per un momento la mascella. «È sotto la mia custodia! Ha ferito gravemente un ragazzo umano, ha bisogno di una punizione! O non te ne importa perché è esattamente come te?!».

Franky li guardò attentamente e capì che quei due si conoscevano, forse un tempo erano anche stati amici, ed erano usciti fuori tema: non stavano più parlando di quello che aveva fatto lui, ma di quello che aveva fatto Kim in un lontano passato che però a Raphael doveva bruciare ancora.

Kim fulminò con lo sguardo l’angelo poliziotto e, dopo aver tirato fuori dalla tasca del giubbotto una lettera, la sbatté sulla sua scrivania. «La Commissione ha deciso per sei ore di riabilitazione settimanali e, se possiamo definirli così, gli arresti domiciliari».

A quelle parole l’espressione di Raphael divenne ancora più furiosa. I suoi occhi, seppure chiari, erano accecati dall’ira. Strappò il bordo della busta, tirò fuori la lettera e la scorse velocemente, poi la rigettò sul tavolo con gesto sprezzante.
«Alla fine ve la cavate sempre», mormorò, ringhiando i denti.

Era davvero arrabbiato e Franky non ne sapeva il motivo. Avrebbe dovuto chiederlo a Kim, prima o poi. Per il momento era ancora scosso perché, oltre a tutto il resto, aveva anche scoperto che in quel poco tempo c’era già stata una Commissione che, durante un processo, aveva stabilito la sorte che gli spettava. Com’erano rapidi, in Paradiso!

Kim si voltò di nuovo verso di lui e gli rivolse un tenue sorriso, gli occhi velati da un sottile strato di lacrime. Chiamò l’altro angelo poliziotto e gli ordinò di liberare Franky. La guardia cercò il permesso del capo, intimidita. Raphael glielo diede sbuffando ancora dal naso, profondamente irritato.
La porta della capsula si aprì e Franky vi barcollò fuori. Lo sbalzo di temperatura fu fortissimo e per un primo momento si trovò ad avere freddo, tanto da battere i denti, poi lentamente si abituò di nuovo, come le sue gambe si riabituarono a muoversi dopo un così lungo periodo in quella posizione scomoda che non gli aveva permesso nemmeno di sgranchirsele.

«Andiamo», mormorò Kim sorreggendolo per la schiena.

«Non finisce qui», sibilò Raphael, quando ormai erano già usciti dalla stanza.

 

***

 

Evelyn guardava fuori dalla finestra con il capo posato su due cuscini. Aveva smesso di nevicare, nel cielo c’erano poche nuvole e la luce della luna entrava dalla finestra ed illuminava la sua semibuia stanza d’ospedale.

Voleva vedere suo padre, ma lui sembrava non voler vedere lei. Era stato suo zio Tom, infatti, a raccontarle ciò che si era persa: Franky che veniva arrestato da un essere invisibile e che veniva portato via sotto i loro occhi. Appena l’aveva saputo si era sentita male, si era sentita in colpa perché l’angelo avrebbe dovuto subire un’altra punizione a causa del suo ennesimo errore, ma non aveva pianto. Aveva versato tutte le sue lacrime precedentemente, quando, sempre Tom, le aveva detto che dagli esami che le avevano fatto era risultata positiva alla gravidanza. Lei aspettava un bambino. Il figlio di Franky.
Non sapeva bene perché avesse pianto quando lo era venuta a sapere. Non sapeva se era per dolore o per gioia, se l’aveva ferita essere avvisata da suo zio invece che da suo padre, o perché sapeva che sua madre non l’avrebbe aiutata nemmeno in quel frangente.
Comunque, da quando l’aveva scoperto, non riusciva a fare altro che pensare che dentro la sua pancia c’era qualcosa, un piccolo esserino che sarebbe cresciuto e che avrebbe amato. Era un pezzo di Franky e questo sì che le sarebbe rimasto sempre accanto, in qualsiasi caso. Sentiva già di amarlo.

«Allora?», domandò a bassa voce suo zio, seduto in un angolo della stanza, con una rivista sulle gambe.

«Cosa?», mormorò la ragazzina, senza distogliere lo sguardo dalla luna.

«Cosa hai intenzione di fare?». Evelyn si portò istintivamente una mano sulla pancia e suo zio, notando l’amore con cui aveva compiuto quel gesto, continuò: «È una follia. Tu non riesci proprio a capire che così facendo rovini la vita a te e al bambino, se dovesse nascere».

«Io non lo voglio perdere».

«Ma Evelyn, come posso spiegartelo?». Si alzò dalla sedia e gettò la rivista sul mobiletto dal quale l’aveva presa, poi raggiunse la nipote e si mise seduto al suo fianco. «Crescere un figlio è di per sé un compito arduo, pensa se si è da soli e si ha la tua età: come credi di riuscirci? Senza offesa, ma questo bambino ti rovinerebbe la vita».

«Mai, questo mai», sibilò, stringendo gli occhi.

Tom sospirò. «Non vuoi proprio capire, eh? Va bene, guardala da questo punto di vista: crescerà senza un padre e inoltre… insomma, io non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere e nemmeno Franky, suppongo, o non avrebbe mai fatto… Il punto è che non sappiamo nemmeno cosa ti crescerà nella pancia! Un bambino normale, un mezzo angelo, cosa?!».

«Non mi importa che cosa nascerà», mormorò. «So solo che è mio e di Franky. Lui… lui avrà un motivo in più per restare al mio fianco, se lo tenessi».

«No, Evelyn, no! Non lo posso accettare. Tu non puoi servirti di questo bambino per avere ciò che non puoi avere comunque. È quasi spregevole, da parte tua. E Franky non te lo permetterà. Sono sicuro che… che la pensa esattamente come me».

«Tu credi?».

«Sì, io credo».

Un silenzio glaciale li avvolse. Tom guardò la nipote e vide i suoi occhi brillare alla luce della luna: erano colmi di lacrime. In quel momento avrebbe tanto voluto tornare indietro, non aver detto niente, non rimanere nemmeno con lei in quella stanza così a lungo. Sarebbe dovuto tornare a casa da Linda e Arthur. Linda… non gli aveva più rivolto la parola dopo quelle due frasi messe in croce che si erano scambiati qualche ora prima.

Evelyn tirò su col naso. «Lasciami sola, per favore».

«Scusami piccola, mi dispiace…».

«Esci».

Tom abbassò il capo, affranto, ed annuì. Esitò ancora un momento sulla soglia della porta, sperando inutilmente che cambiasse idea e lo pregasse di restare, poi si chiuse la porta alle spalle e si ritrovò di fronte al fratello, seduto su una delle poltroncine del corridoio.

Il suo sguardo si accese appena lo vide. «Ha cambiato idea?».

«No, per niente».

«Secondo te…». Si morse il labbro ed arrossì, guardando il pavimento. «Secondo te è stato Martin a… Cioè loro due…».

«Non lo so, Bill», sospirò. Com’era difficile mentire con lui! Gli toglieva tutta la linfa vitale. «Ma non credo che Martin sia quel tipo di ragazzo».

«E allora chi…?».

«Vado a casa», lo interruppe con un fil di voce, massaggiandosi gli occhi stanchi. «Tu stai qui?».

«Sì», soffiò, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso il basso.

Tom si avvicinò a lui e gli diede una pacca sulla spalla, poi, con un macigno al posto del cuore, si allontanò nel corridoio.

 

***

 

Da quando erano usciti da quella specie di commissariato Kim non gli aveva più rivolto la parola e il suo viso era diventato scuro, serissimo. Ma nemmeno Franky aveva molta voglia di parlare: aveva troppe cose in testa a cui pensare e delle quali preoccuparsi; se si fosse accollato anche i problemi dell’angelo speciale non se la sarebbe più cavata.

Kim lo accompagnò al suo appartamento e solo allora Franky si rese conto di aver lasciato tutto da Tom. Non gli avevano dato il tempo di prendere niente, nemmeno il suo skate.

Si lasciò cadere a peso morto sulla sua poltrona e sospirò profondamente. L’angelo speciale si guardò intorno, ma non era spaesata, sembrava più che altro che stesse prendendo tempo.

Ad un certo punto, infatti, si voltò verso di lui e si trasformò nella Kim anziana e saggia che raramente veniva fuori: «Mi avevi promesso che non avresti combinato altri casini!».

Franky sobbalzò sulla poltrona, spaventato da quello sclero improvviso, e la guardò con gli occhi leggermente spalancati. Poi si tranquillizzò e disse, con tono pacato: «Non ti ho promesso proprio nulla, io».

«Franky!», gridò, il viso arrossato e le mani che tremavano. «Non dovevi incasinarti ancora di più e basta! Ma com’è possibile che quando c’è di mezzo lei tu… tu diventi un’altra persona?!».

Si alzò dalla poltrona, adirato, e la guardò negli occhi avvicinandosi pericolosamente a lei, tanto da sentire il suo respiro addosso. «Perché», respirò profondamente, per mantenere la calma, e in un momento di lucidità assoluta capì molte cose ed arrivò finalmente a dirsi la verità, quella che avevano tentato di nascondergli e che lui stesso si era nascosto. «Perché io la amo. La amo e non permetterò mai, mai a nessuno di farle del male».

Kim parve rimanere turbata dalle sue parole, ed infatti rispose con meno fierezza e convinzione. «Credevo che San Pietro ti avesse detto che…».

«Cazzate. Ciò che provo per Evelyn non si può capire attraverso i pensieri, perché la sede di tutto l’affetto, l’amore che nutro per lei è qui», si portò una mano sul petto, sul cuore.

Kim scosse il capo, addolorata, e si spostò da lui. Fece qualche passo per il piccolo salotto, poi si passò distrattamente una mano fra i capelli e tornò a guardarlo con espressione malinconica. «Tu sei esattamente come lui», esordì indicandolo e sbattendosi la mano sulla coscia.

«Chi?», chiese Franky, anche se aveva già un nome in testa.

«Pete. Anche lui diceva tutte queste cose, eravamo innamoratissimi, ma… io ho dovuto lasciarlo vivere la sua vita e col tempo… lui è riuscito davvero a farsi un’altra vita, si è sposato, ha avuto due bellissimi bambini… e io non ho potuto far altro che guardare, inerme, la sua felicità. Io non ne facevo parte».

Aveva raccontato la sua storia solo ad una persona e si era ripromessa che non l’avrebbe più fatto, ma ora si stava aprendo con lui, quell’angelo dolcissimo e a volte impertinente di cui si era innamorata e che stava vivendo la sua stessa situazione. Ora sapeva come si era sentito Raphael, a suo tempo… Ed era orribile.
Non ebbe la forza di alzare lo sguardo per incontrare quello di Franky, però fece qualche altro passo per il salotto, avvicinandosi inevitabilmente a lui.

«Gli assomigli così tanto…», mormorò ancora, ricordando il grande amore della sua vita.

L’angelo si avvicinò a lei, le alzò il viso prendendole il mento fra le dita ed incatenò al suo sguardo al suo. Kim rabbrividì ed un istante dopo sentì le sue labbra sulle proprie.

 

You know, someday, how much
I wanted you to be with me
how I always waited for your soft,
sweet kiss that I never got

 

***

 

Bill prese un lungo respiro e alla fine si decise ad entrare. Si chiuse delicatamente la porta alle spalle e si avvicinò con passo felpato al letto della figlia, che si era addormentata.
Si mise seduto al suo fianco e rimase per un po’ ad osservarla. Era bellissima quando dormiva, l’aveva sempre pensato, sin dalla prima volta in cui l’aveva vista con gli occhietti chiusi nella sua culla d’ospedale. La sua bambina.

Era arrivata all’improvviso nelle loro vite e per lui, abituato all’organizzazione più maniacale anche nelle più piccole cose, era stato un vero trauma. Si era trastullato per ben nove mesi con tutte le sue paranoie – Zoe ad un certo punto se n’era pure andata di casa perché non lo sopportava più – per poi arrivare al giorno del parto, al momento in cui aveva visto per la prima volta sua figlia e l’aveva tenuta fra le braccia, in cui ogni ansia ed ogni paura erano sparite con un puff, cancellate dalla faccia della Terra. In quel momento aveva visto solo rose e fiori, nulla poteva andare male; era stato inondato da un amore che non aveva mai provato prima ed era stato proprio quell’esserino inaspettato a causare tutto.
Con lei e con Zoe aveva imparato a vivere la vita alla giornata, si era dovuto abituare agli imprevisti, o almeno era riuscito a creare una barriera fra la famiglia e il lavoro. A casa sua non si sapeva mai che cosa poteva succedere.

Evelyn era la cosa più bella e più preziosa della sua vita e pensare che in quel periodo stava soffrendo così tanto per sua madre e che aveva sofferto in silenzio, pur di riuscire a risolvere i propri problemi da sola e dimostrarsi indipendente ed in grado di prendere delle decisioni nonostante il suo cognome, lo faceva stare malissimo. E gli faceva male ancora di più pensare che aspettava un bambino, il quale non aveva ancora un padre: non aveva voluto dirlo a nessuno.
Anche lei non era stata voluta, ma la situazione era leggermente diversa: Bill e Zoe erano già sposati e convivevano quando avevano scoperto che sarebbero diventati genitori; Evelyn aveva solo quindici anni! Come avrebbe fatto con la scuola, gli amici… Come avrebbe fatto a proseguire la sua vita, con un bambino a carico?

Bill non sapeva proprio che cosa fare. Gli imprevisti stavano diventando sempre più insormontabili e gli mancavano le forze anche solo per pensare di affrontarli.
Come genitore avrebbe dovuto proteggerla, ma non si era nemmeno accorto che veniva picchiata da un suo compagno di classe per soldi. Come genitore non valeva niente.

Si passò una mano sul viso stanco e poi la avvicinò a quello di Evelyn. Le accarezzò la guancia ed arricciò le labbra, trattenendo le lacrime.

Non sapeva nemmeno cosa dirle a proposito di tenere o non tenere il bambino. I medici le avevano detto che non era costretta a tenerlo se era stato generato da un’unione non consenziente avvenuta prima che loro potessero accertare lo stupro – che lei aveva sempre e comunque negato, rifiutando ogni proposta di fare una seduta con uno psicologo, – che l’aborto era la soluzione migliore in quel caso e che era del tutto legale se la gravidanza veniva interrotta nelle prime dodici o quattordici settimane, che bastava soltanto una consulenza professionale, ma non aveva voluto sentire ragioni. Lei voleva tenerlo, lo voleva. E Bill non poteva far altro che immaginare che lei fosse innamorata, in qualche modo, del padre, la quale identità era un mistero per tutti.

Sentì un leggero movimento sotto la sua mano, ancora lì sulla sua guancia, ed incrociò gli occhi azzurri di Evelyn. Fu una pugnalata in pieno petto: gli ricordavano così tanto quelli di Zoe…

«Scusa, non volevo svegliarti», sussurrò, stirando un lieve sorriso.

«Allora non mi odi».

«Che cosa? No, certo che no tesoro…».

«Credevo che mi odiassi perché ho deciso di tenere il bambino», tirò su col naso. «Non mi hai parlato per tutta la sera, non mi hai neanche voluto vedere…».

«Scusami, davvero, ma non ce l’ho fatta», mormorò. «Ho avuto bisogno di… metabolizzare le cose. Io non potrò mai odiarti, hai capito? Sei la cosa più importante per me e se potessi scaricherei tutto il tuo dolore su di me, in questo momento. Anzi, dovresti odiarmi tu: non sono riuscito a capire quello che ti stava succedendo, vuol dire che non sono un padre poi così bravo…».

Evelyn gli posò una mano sulla bocca e scosse il capo. «Non dire sciocchezze, non è colpa tua. La colpa è solo mia, avrei dovuto dirtelo subito, avrei dovuto chiederti aiuto, invece di cercare di risolvere le cose a modo mio. Mi dispiace».

Bill le accarezzò i capelli e si chinò su di lei per baciarle la fronte. «Non importa, tesoro. Ti voglio tanto bene».

«Anche io, tantissimo», rispose soffocando le parole nel suo maglione, mentre lo abbracciava forte.

 

***

 

Tom entrò nella casa buia e silenziosa, chiuse la porta a chiave e si levò la giacca. In un primo momento l’abbandonò sul divano, poi ci ripensò e la mise al suo posto, sull’appendiabiti. Linda odiava che lasciasse i suoi vestiti in giro, persino in camera avevano il loro posto e dovevano essere ordinati, puliti o sporchi che fossero.

Mentre si dirigeva verso la camera da letto si lasciò andare ad un sospiro stanco e si grattò la testa, sperando che fosse ancora sveglia: aveva voglia di parlare con lei, di chiarire una volta per tutte. Non gli piaceva che ci fosse quel clima di controversia fra loro.

La porta della camera era socchiusa, perciò gli bastò spingerla un po’ in avanti per riuscire a vedere l’interno: Linda dormiva nella sua parte di letto e rannicchiato accanto a lei c’era Arthur.
Entrò nella stanza e si avvicinò a loro per osservarli meglio con un sorriso tra l’intenerito e il malinconico sulle labbra. Ci sarebbe stato, se avesse voluto, ma erano così belli che aveva paura di stridere mettendosi al loro fianco. Preferì non disturbare.

Accarezzò i capelli di Arthur e gli soffiò un bacio sulla guancia, poi si chinò su Linda e si soffermò ad analizzarle il viso: era davvero bella e mai come allora si sentì un uomo fortunato, perché oltre ad essere bella fuori era anche buona e brava con lui, sempre. Non poteva meritarsi donna migliore.
Alla fine le scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e le baciò l’angolo della bocca. Lei si girò all’improvviso e non fu un semplice caso, come pensò Tom, perché ricambiò con un bacio soffice.

«Sei sveglia?», mormorò, accarezzandole una guancia.

«No», rispose con un fil di voce e l’angolo della bocca sollevato, ad indicare un sorrisino.

Tom sorrise, rincuorato, e le baciò la tempia e i capelli, poi le sussurrò all’orecchio un «Ti amo» che la fece sorridere ancora di più.

«Vai a dormire, stupido», gli disse e con una manata lo allontanò.

Se non fosse stata notte fonda e suo figlio non fosse stato lì accanto a loro avrebbe continuato a stuzzicarla finché non avesse ceduto. Si accontentò del suo sorriso.

Si spogliò ed uscì dalla camera per dirigersi verso quella di Arthur, accanto alla sua. Prima di entrare e di andare a dormire, però, fu attratto da quella degli ospiti, quella che era stata di dominio di Franky. Vi si diresse e, sbirciandovi all’interno, vide il solito caos che caratterizzava l’amico: tutti gli oggetti e i vestiti erano al posto in cui li aveva lasciati. C’era persino il suo skate.

Con un sospiro chiuse la porta e finalmente andò a dormire, sotto le coperte blu con le macchinine del lettino di Arthur.

 

***

 

Le infilò una mano fra i capelli, sulla nuca, e glieli tirò per poterla baciare e mordere sul collo, respirando affannosamente ormai.
La gettò sul letto senza alcun tipo di cortesia e la spogliò, mentre lei spogliava lui. Vide i brividi sulla pelle di Kim quando le sfiorò la pancia nuda con le dita, ma non ci badò e tornò a baciarla impetuosamente sulla bocca.

Senza farlo apposta, non l’aveva proprio voluto a dir la verità, venne travolto dai pensieri di Kim. Dovevano essere molto intensi per manifestarsi così chiaramente anche nella sua testa. Stava pensando a Pete, a quando anche loro avevano trasgredito ogni regola possibile ed immaginabile; in particolare, pensava a quando avevano fatto l’amore e Franky dovette dar ragione all’angelo speciale: si somigliavano parecchio.

Kim, siccome l’angelo si era distratto, fece tutto da sola: finì di spogliarlo e lo fece entrare dentro di sé, mordendosi le labbra.

Franky godeva e in certi momenti l’aveva anche presa per i fianchi e l’aveva penetrata con ancora più forza, ma era un piacere del tutto diverso da quello che aveva provato con Evelyn: con lei aveva provato addirittura dolore, ma era stato un dolore che avrebbe patito mille e mille volte ancora, perché era lei che amava e condividere il dolore con lei era bello quasi come condividere la gioia.

Era sicuro che anche Kim fosse nella sua stessa identica posizione. Entrambi stavano pensando a persone diverse rispetto a quelle che avevano davanti e a nessuno dei due importava che l’altro lo sapesse. Cercavano di rivivere dei momenti che non avrebbero potuto più rivivere e si erano scelti perché Franky per Kim era una specie di copia del suo grande amore e Kim, per Franky, era l’esatto opposto di Evelyn.

 

And I am
I’m lonely, I am
I’m solely alone
I try to show you but,
but I know you

 

***

 

Bill uscì dalla camera della figlia, che si era di nuovo addormentata, e camminò per i corridoi deserti dell’ospedale. Ogni tanto incrociava qualche infermiera, ma ormai lo conoscevano e non gli facevano più tante storie se non era orario di visita.

Anche Zoe dormiva, il suo era un sonno che si prolungava da troppo tempo, attaccata a delle macchine che l’aiutavano a sopravvivere. Bill si mise seduto al suo fianco. Le sollevò delicatamente un braccio e si infilò sotto di esso, con la faccia contro il materasso, in modo tale da avere la sua mano sopra il capo. Iniziò a piangere come un bambino.

«Io non ce la faccio più Zoe», disse a bassa voce, lottando contro i singhiozzi che a malapena lo facevano respirare correttamente. «Devi tornare da me, perché non riesco più a… Io… Mi dispiace così tanto… Non sono all’altezza di prendermi cura di mia figlia come dovrei, senza il tuo aiuto. Ti prego, torna da me. Ti supplico».

 

***

 

Zoe chiuse gli occhi alle lacrime, le ennesime che le sarebbero scivolate sulle guance se non le avesse fermate in tempo.

Aveva appena finito di sentire Bill e al posto del cuore aveva una voragine, che stava risucchiando tutto. Lo stava facendo soffrire come mai prima e come se non bastasse sua figlia stava peggio di lui, non a caso si era messa in molti casini da quando era in coma.
Non poteva più permetterlo, ma non sapeva nemmeno come poter agire. Non aveva alcun controllo di sé e il suo corpo non ne voleva ancora sapere di riaccettarla.
L’unica cosa che poteva fare era chiedere a San Pietro un permesso per scendere di sotto, per andarli a trovare. Era tutto ciò che era in grado di fare.

 

***

 

Sentì un leggero peso sul petto e, aprendo gli occhi, si immerse nello sguardo sorridente ed azzurro come il cielo di un bambino. Si mise seduto sul letto e lo prese fra le braccia ridendo.

 
Il bambino piangeva e non sapeva assolutamente cosa fare. Poi gli venne un’idea. Corse in bagno, afferrò il rossetto che trovò sulla mensolina accanto allo specchio e se lo spalmò in faccia, poi tornò da lui. Il bambino rise e si lasciò asciugare le lacrime.

 
Voltò il capo verso i sedili posteriori e vide il bimbo che spargeva popcorn ovunque. Un’espressione amareggiata gli si dipinse sul volto, ma durò poco, perché bastò vederlo sorridere per esserne contagiato.


Gli aveva raccomandato di non fare disastri mentre lui andava a prendergli dei vestiti puliti, ma una volta tornato si rese conto che non l’aveva ascoltato: il bagno era mezzo allagato e c’era schiuma dappertutto.
Guardò severamente il bambino insaponato, questo gli sorrise sbarazzino e, come al solito, ne rimase ammaliato. Non lo sgridò nemmeno quella volta.

 
Finì il turno in ufficio e senza badare a nessuno, con solo quel sorriso entusiasta sul viso a mo’ di spiegazione, corse verso l’Ufficio di Collegamento. Scese di sotto e tornò a casa, dove lui lo aspettava.
Entrò di soppiatto in salotto, intento a fargli una sorpresa, ma il bimbo lo vide per primo e gli corse incontro. Lui lo abbracciò e lo baciò, stringendoselo forte al petto, poi sollevò lo sguardo verso la poltrona, ma non riuscì a vedere il volto della ragazza che vi era seduta.

 
Si svegliò nel bel mezzo della notte, infreddolito, e si accorse di non avere più nemmeno quell’angolino di coperta che ogni tanto gli concedevano. Si voltò verso il fagottino sdraiato al suo fianco e gli accarezzò i capelli neri. Alzò gli occhi verso il corpo sdraiato dall’altra parte del letto, ma, essendo di schiena, nemmeno quella volta ne poté scorgere il viso.

 
Si coprì gli occhi dalla potente luce del sole e cercò di guardare davanti a sé. Strizzò le palpebre per mettere meglio a fuoco: una ragazza teneva in braccio il suo bambino, lo stesso bambino dagli occhi azzurri e i capelli neri che era sempre stato il protagonista dei suoi pensieri.
Quella ragazza era Evelyn… Che ci faceva con quel bambino? Lo conosceva?
Il bimbo sorrise ed alzò una manina. «Vieni, papà!».

 

Franky trasalì e schizzò seduto sul letto, col fiato grosso e una mano sul petto nudo, all’altezza del suo cuore scalpitante.

«Buongiorno».

Alzò lo sguardo e vide Kim, seduta ai piedi del letto, che si stava rivestendo. Per una frazione di secondo riuscì a scorgere le cicatrici che aveva sulla schiena, che poi furono coperte dalla maglietta verde.

Si ricordò della notte precedente e il suo viso si adombrò. «’Giorno», rispose massaggiandosi gli occhi.

Lei si voltò verso di lui con un sorriso appena accennato. «Hai avuto un incubo?».

L’angelo si morse le labbra. Non sapeva se era stato un incubo oppure un sogno: aveva sognato suo figlio.

«Una cosa del genere», mormorò. «Dove stai andando?».

«Devo tornare al mio lavoro, da Zoe».

«E io cosa posso fare, nel frattempo?».

Kim salì a carponi sul letto e avvicinò il proprio viso al suo, tanto che i loro nasi si sfiorarono. «Non lo so. So solo che è stata una serata indimenticabile». Si sporse per baciarlo sulle labbra, ma lui si scostò e guardò fuori dalla finestra con un velo di malinconia negli occhi: quel giorno anche in Paradiso avrebbe piovuto.

Lei, delusa, si schiarì la voce e si alzò dal letto sistemandosi la felpa sui fianchi. «Devo andare. Ci vediamo stasera».
Andò alla porta, l’aprì e rimase per qualche secondo ancora a guardare Franky e ad aspettare che la salutasse, ma non avvenne. Si voltò e con un sospiro triste se la chiuse alle spalle.

Franky si massaggiò il viso con le mani, incurvando le spalle in avanti, e volle piangere. Si alzò dal letto, nudo com’era aprì le porte finestre che davano su un piccolo balconcino, poi andò in bagno. Passando di fronte allo specchio riuscì a vedere anche le sue di cicatrici sulla schiena, proprio lì dove un tempo c’erano state le sue magnifiche ali. Entrò nel box con una smorfia di dolore sulla bocca e una volta sotto l’acqua calda si appoggiò con la schiena al marmo freddo della parete della doccia e lasciò scivolare le lacrime, assieme ai singhiozzi che lo facevano tremare da capo a piedi.

 

I was thinkin’ about her, thinkin’ about me
Thinkin’ about us, what we gonna be?
Open my eyes, yeah, it was only just a dream
So I travel back, down that road
Who she come back? No one knows
I realize, yeah, it was only just a dream

 

***

 

Evelyn si svegliò con una sgradevole sensazione addosso. Non sapeva che cosa fosse, ma era molto forte.
Fece un respiro profondo e si mise seduta sul letto. Istintivamente si abbracciò l’addome e guardò fuori dalla finestra: stava diluviando.

Quel giorno l’avrebbero dimessa dall’ospedale e non vedeva l’ora. Voleva tornare a casa e passare lì i suoi giorni di vacanza anticipata prima di quella vera e propria per il periodo natalizio. Tanto era certa che a scuola nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. Forse non era una mossa furba perdere altri giorni di lezione, ma non aveva proprio voglia di entrare di nuovo in quell’incubo: voleva solo stare bene e pensare alle sue cose.

«Ti sei svegliata», disse una voce dolce, entrando nella stanza.

«Anja», mormorò stupita Evelyn: non pensava di vederla.

«Tuo padre mi ha mandato un messaggio stamattina», le spiegò, andandosi a sedere sulla sedia accanto al suo letto. «Dicendomi che ti avrebbe fatto piacere vedermi».

«Infatti è così», annuì stendendo le braccia verso di lei; l’amica la strinse forte, posandole una mano sul capo. «Ti ha raccontato anche che cos’è successo?».

«Mi ha accennato qualcosa adesso».

Evelyn si chiese che cosa le avesse raccontato e cosa no, ma Anja interruppe i suoi pensieri soggiungendo: «Avresti dovuto parlarmene, magari avremmo potuto… Ora capisco perché eri sempre strana, nervosa».

«Lo so, ho sbagliato», la interruppe. «Ma è inutile ormai dirmelo, mi fate sentire ancora più in colpa».

Anja piegò la testa di lato con un lieve sorriso sulle labbra. «Hai ragione. Ora come ti senti?».

«Meglio. Voglio tornare a casa».

«Verrò a trovarti tutti i giorni, promesso».

Evelyn sorrise rincuorata. Come avrebbe fatto senza la sua migliore amica?

«Ah, Evelyn…», disse abbassando lo sguardo sulle sue mani unite sulle gambe.

«Dimmi».

«Mi sono permessa di avvisare anche Pamela e Martin. Lui è qui fuori».

«Oh», la bionda sgranò leggermente gli occhi.

«Lo faccio entrare? Da quando tuo padre lo ha visto non ha fatto altro che guardarlo in modo preoccupante».

Evelyn arricciò le labbra, pensierosa. Probabilmente suo padre credeva che fosse stato lui a metterla incinta, per questo si era impuntato così. Povero Martin, era certa che in quel momento stesse morendo dal disagio, timido ed emotivo com’era.

«Sì, fallo entrare per piacere».

«Okay». Le baciò una guancia, abbracciandola ancora una volta, poi uscì dalla camera per lasciare il posto a Martin, che vi entrò incerto e forse un pochino spaventato e con un mazzo di fiori fra le mani.

Arrossì subito quando la vide ed Evelyn sorrise divertita, salutandolo: «Ciao Martin, sono contenta di vederti».

«D-Davvero? Tuo padre mi sa di no…».

«Scusalo, davvero», disse scuotendo il capo. Si risdraiò con la testa sul cuscino e sospirò. «Non è colpa tua, è lui che…».

«No, non importa», balbettò sorridendo. «Io… Ti ho portato questi. Non so se ti piacciono, ma…».

«Sono bellissimi, grazie», lo interruppe. «Mettili pure lì sul comodino, in quel vaso».

Martin eseguì, poi si mise seduto al suo fianco. Sospirò mettendosi le mani sulle gambe e guardandosi intorno. Posò di nuovo lo sguardo in quello di Evelyn e disse, ridacchiando: «Te ne capita sempre una, eh?».

«Eh già». E per la prima volta in quel periodo riuscì a lasciarsi andare ad una risata vera, seppur piccola e leggera.

 

***

 

Zoe picchiò le nocche contro il legno della porta dell’ufficio e una volta avuto il permesso entrò e se la richiuse alle spalle.

«Buongiorno Zoe, a cosa devo la tua visita?», la accolse San Pietro, dando le spalle alle grandi finestre che davano sul giardino della scuola.

«Devo chiederle un favore».

«Vuoi andare dalla tua famiglia, ho capito».

«Esatto. Ho bisogno di vedere Bill ed Evelyn quanto loro hanno bisogno di vedere me».

Il santo sospirò e si sedette dietro la sua scrivania, con le tempie fra le mani. Non era prudente mandare sulla Terra Zoe, almeno non da sola: poteva rischiare di dire qualcosa che avrebbe mandato in fumo tutta la fatica di Franky per celare la sua relazione con Evelyn.
Si rese conto di ciò che aveva appena pensato e ne rimase quasi sconvolto: era arrivato a mentire per proteggere quell’angelo a lui tanto caro.

Alla fine annuì e strappò un foglietto giallo da una matrice, dicendo: «Voglio che ti accompagni Kim, però».

Zoe fece una smorfia, ma acconsentì: avrebbe fatto di tutto pur di vedere la sua famiglia. Prese il permesso dalle mani del santo e lo ringraziò di cuore, poi uscì dall’ufficio.

San Pietro si alzò e tornò a contemplare la pioggia fuori dalle finestre con le mani dietro la schiena.
Ah Franky, perché ti voglio così bene?

 

***

 

Evelyn finì di vestirsi, non risparmiandosi qualche smorfia di dolore quando toccava dei lividi, e raggiunse suo padre fuori dalla camera. Passarono a salutare sua madre, poi uscirono dall’ospedale con i cappucci calati sulla testa e l’unico ombrello che avevano a proteggerli dal pianto del cielo.

La ragazza salì in auto e chiuse gli occhi posando il capo sul poggiatesta.

«Tutto okay?», le domandò Bill, mentre inseriva le chiavi nel cruscotto.

«Sì», mormorò aprendo gli occhi ed osservando le gocce di pioggia scivolare sul finestrino. «Grazie per aver avvisato Anja e Martin, mi ha fatto bene vederli».

«Io ho avvisato solo Anja», borbottò.

«Non ce l’avere con Martin, non è come pensi tu: siamo solo amici».

Bill non rispose, ma quell’affermazione gli fece male, perché se il bambino di Evelyn non era nemmeno di Martin, l’unico ragazzo della vita di sua figlia che conosceva, non sapeva proprio che cosa pensare.

«Vorrei solo sapere se il padre di questo bambino ne è a conoscenza», mormorò, poi mise in moto e si immise nel traffico d’Amburgo, diretto verso casa.

«Sì, mi pare proprio di sì», gli rispose dopo un po’ Evelyn, senza guardarlo.

«E cosa ha detto?», domandò, pallido come un fantasma.

«Ancora niente».

«Oh Dio», sospirò. Dentro di sé aveva voglia di spaccarsi la testa contro il volante. «Lui ti ama?».

Evelyn si strinse nel suo stesso abbraccio. «Dice di no, ma io sono certa che sia il contrario. Forse il fatto è che mi ama più di quanto lo amo io e ne ha paura».

Bill era sconvolto e non sapeva nemmeno cosa dire. Era davvero un pessimo padre se non si era accorto che sua figlia si era innamorata. A volte si era comportata in modo strano, sì, ma non aveva mai dimostrato di essere persa per un ragazzo. Raramente l’aveva vista uscire di casa e quelle poche volte era uscita con Anja, Pamela e Martin. L’unico ragazzo che poteva essere quello che cercava era Martin, ma gli aveva appena detto che non era così… Gli stava andando in fumo il cervello e solo all’idea che un ragazzo stesse rubando così la vita di sua figlia lo faceva stare in pena. E anche se quello che gli aveva detto lei fosse stato vero, ossia che lui la amava, non era così sicuro che se ce l’avesse avuto davanti lo avrebbe accolto a braccia aperte.

«Perché hai deciso di tenere il bambino comunque, senza sapere che cosa ne pensa lui?», le domandò ancora.

«Perché sento già di amarlo, questo bambino».

«E se lui non lo vuole, che farai?».

«Non mi importa. Non può fare nulla per impedirmi di tenerlo».

Bill scosse lentamente il capo, rammaricato, e parcheggiò l’auto di fronte a casa. Scese dall’auto e fece il giro per andare a prendere Evelyn sotto l’ombrello. Insieme raggiunsero l’uscio della porta ed entrarono in casa scrollandosi di dosso la pioggia.
Magari avesse potuto scrollarsi di dosso anche tutti quei pensieri che gli comprimevano il cuore. Se avesse potuto farlo, Bill non avrebbe perso tempo.

 

***

 

Tom, seduto al tavolo della cucina, pucciava un biscotto nella tazza del caffè con lo sguardo perso fuori dalla finestra, pensando a mille e più cose diverse.
Sollevò il biscotto per portarselo alla bocca, ma questo si ruppe – troppo impregnato di caffè – e ricadde nella tazza.

«Merda», bofonchiò. Odiava quando succedeva, perché doveva andarlo a recuperare con il cucchiaino e alla fine, quando doveva bere, rimanevano sempre dei rimasugli di pappetta di biscotto sul fondo della tazza che odiava buttare giù.

«Buongiorno», esclamò Linda con la voce ancora un po’ roca, da appena svegliata. Era il suo giorno libero e aveva dormito un po’ di più.

«Ben svegliata», rispose Tom, mentre controllava che non si fosse macchiato la maglietta bianca con gli schizzi del caffè.

Linda prese il bricco di caffè e se ne versò un po’ in una tazza, con l’aggiunta di un goccio di latte. Rimase in piedi a berlo, appoggiata al ripiano in marmo della cucina.

«Hai dormito nella stanza di Arthur?», gli domandò ad un certo punto.

«Sì. Ho tirato di quelle ginocchiate al muro, tu non puoi nemmeno immaginare che dolore», ridacchiò.

«Ho sentito, infatti».

«Scusa, non volevo svegliarti ancora».

«Non ho dormito molto, a dire la verità».

«Come mai?», inarcò un sopracciglio e si alzò dal tavolo per portare la sua tazza vuota con i rimasugli di biscotto sul fondo nel lavandino.

«Ho pensato ad un po’ di cose: a quello che è successo ad Evelyn, a Zoe… a quello che mi hai detto tu a proposito di Franky».

Tom si piazzò di fronte a lei, con le gambe leggermente divaricate, e le avvolse i fianchi con le braccia. Posò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi, lasciando nascere sulle sue labbra un sorriso tenue.

«Io stesso non ci credevo, quando Zoe me l’ha detto, sei mesi dopo la sua morte. E’ arrivata nel nostro appartamento e ha detto: “Voi non mi crederete pazza se vi dico che Franky è qui ed è il mio angelo custode, vero?”. Non potrò mai dimenticarlo. Ho fatto una scenata incredibile, ero davvero… stravolto. Io l’ho creduta davvero pazza e l’ho aggredita, l’ho fatta piangere. E quando ho visto Franky con i miei occhi mi sono sentito veramente male: lui c’era, era un angelo e non era una fantasia di Zoe».

Linda chiuse la bocca e posò la tazza mezza piena sul ripiano della cucina. Posò la fronte contro la sua spalla e ricambiò l’abbraccio.

«Mi dispiace di non avertelo detto subito, davvero», le disse ancora, baciandole la tempia. «Sei arrabbiata con me?».

«Non lo so», sussurrò. «Ma perché io non riesco a vederlo?».

«È tutta una questione di crederci. Anche David ci ha messo un po’, prima di vederlo».

La donna respirò profondamente il profumo di Tom ed accennò un sorriso, che gli posò sulle labbra.

«Quindi mi credi, adesso?», le chiese ancora, accarezzandole i capelli e guardandola negli occhi.

«Forse», rispose pizzicandogli il naso. Si scostò dal suo abbraccio e finì la sua tazza di caffè, poi gli chiese: «Evelyn viene dimessa oggi?».

«Dovrebbe già essere a casa, a quest’ora».

«Mmh. Credo che andrò a salutare Zoe, dopo aver portato Arthur all’asilo».

«Okay. Io magari faccio un salto a casa di Bill, a vedere come sta».

«È tanto sconvolto?».

«Penso di sì».

Linda annuì ed abbassò lo sguardo, mettendosi a lavare le due tazze nel lavandino. «Spero solo che non lo faccia pesare ad Evelyn. Deve solo starle vicino, darle tutta la forza e l’amore che può».

Tom l’abbracciò da dietro e la strinse forte a sé, affondando il viso fra i suoi capelli profumati. «Sono certo che è solo un momento. Dagli due o tre settimane e lo vedrai girare per casa come una trottola impazzita alla ricerca di tutte le cose che lui e Zoe avevano comprato quando doveva nascere Evelyn».

Linda si girò fra le sue braccia e sorrise. «Tu che cosa ne pensi?».

«Io? Beh… penso che è una situazione delicata e che forse non doveva capitare, ma è successo e se Evelyn ha deciso di tenerlo non si può fare molto…».

«Non sei contento che anche Bill diventerà nonno e ti farà compagnia?», alzò le sopracciglia, divertita.

«Sai che non ci avevo nemmeno pensato? Glielo dirò, caso mai lo farò sorridere un po’», ridacchiò.

Gli posò un bacio sulle labbra, sorridendo. «Vado a svegliare Arthur e a prepararmi».

La guardò uscire dalla cucina con un sorriso innamorato sulle labbra fino a quando un ticchettio sulla finestra non lo distrasse. Subito pensò che la pioggia si fosse trasformata in grandine, ma quando si voltò e vide la testolina di Kim, che lo salutava con una mano, sobbalzò.

Si sporse nel salotto, per assicurarsi che Linda non fosse nei paraggi, e si avvicinò alla finestra, la aprì e disse a bassa voce: «Che ci fai tu qui? E perché non hai usato la porta?!».

«Che avresti detto a tua moglie? Non mi conosce! E da quello che so non vede molto di buon occhio l’esistenza di Franky», rispose con tono stizzito e lo sguardo acceso.

Tom grugnì con disappunto e, imperterrito, le ridomandò: «Che ci fai tu qui?».

«Sto accompagnando qualcuno».

Gli occhi di Tom si illuminarono. «Franky?».

Lei sorrise e scosse il capo. Allora il chitarrista capì e gli mancò il fiato, mentre sussurrava il nome della sua amica: «Zoe».

«Esatto», mormorò con tono dolce, lo sguardo amorevole. «Forza, non farla aspettare troppo».

Tom annuì e corse in camera, dove trovò Linda, intenta a vestirsi.

«Come mai tanta fretta?», gli chiese lei, confusa, guardandolo cambiarsi con la massima velocità.

«Non ho fretta», le rispose distrattamente, infilandosi contemporaneamente maglietta e maglione, uno sopra l’altro, e mettendo i piedi nelle scarpe.

«No, assolutamente…», mormorò sbigottita. «Vale sempre quello che hai detto prima, cioè che vai da Bill?».

«Certo. Ci vediamo dopo, eh». Si avvicinò a lei, la prese per la nuca e le stampò un forte bacio sulle labbra, poi corse fuori dalla stanza.

Linda rimase da sola, in piedi accanto al letto matrimoniale appena rifatto, e sbatté più volte le ciglia per riprendersi. Nemmeno dopo tutti quegli anni si era abituata all’influenza che Tom aveva su di lei: con un semplice bacio riusciva a trasmetterle tutto ciò che provava e persino stare nella stessa stanza le permetteva di sentire ciò che sentiva lui. Lo conosceva così bene che a volte riusciva a captarne i pensieri, ma non poteva di certo prevedere i suoi momenti di folle stranezza.
Sorrise, pensando che erano proprio i momenti che amava di più, perché erano quelli nei quali usciva il vero Tom, l’uomo di cui si era innamorata.

Passò a svegliare Arthur, siccome erano già in ritardo, e mentre lui si vestiva andò a preparargli la colazione. Appena entrata in cucina rabbrividì e si accorse che la finestra era aperta.

 

Zoe alzò lo sguardo dal cemento proprio quando Kim riappoggiò i piedi a terra e si incamminò verso di lei.

«Sta arrivando», le comunicò e la donna, agitata, si dovette alzare in piedi e camminare per non far notare troppo come le tremavano le ginocchia.

Non sapeva perché, ma vedere Tom, come vedere la sua famiglia, era sempre un’emozione. Aveva come la sensazione di essersi persa tanto di loro, si sentiva un tantino esclusa dalla loro vita, e non sapeva mai bene che cosa dire. Ma appena lo vide, bello come il sole, camminare a passo spedito e deciso e guardarsi intorno alla sua ricerca, ogni paura svanì e le vennero solamente le lacrime agli occhi. Volle anche gridargli: «Tom, sono qui!», ma non lo fece. Gli era mancato così tanto…

Lo fissò rivolgersi a Kim con fare serio, quello con il quale voleva nascondere i suoi veri sentimenti e in quel caso la commozione di rivedere la sua amica, dicendole: «Dov’è?».

«Qui», rispose tranquillamente Kim e stese una mano verso di lei. Zoe la guardò titubante, poi la prese e lentamente gli occhi di Tom si posarono su di lei, facendole intuire che riusciva a vederla.

«Zoe», mormorò e quella volta non riuscì proprio a celare le lacrime di gioia. 

Le gettò praticamente le braccia al collo e la strinse fortissimo a sé, tanto che Zoe ebbe la sensazione di sparire dentro di lui. Le baciò la testa una serie di volte, sussurrandole un sacco di cose che la donna non ebbe il tempo di realizzare: il suo cervello era staccato dal resto del corpo in quel momento, c’era solo Tom e il suo abbraccio.
A causa della mano che doveva sempre rimanere unita a quella di Kim per rimanere visibile agli occhi dell’amico, non riuscì a stringerlo come avrebbe voluto, ma gli infilò una mano fra i capelli e la strinse a pugno, affondando il viso nel suo collo e respirando il suo profumo.

«È bello rivederti», fu il massimo che riuscì a mugugnare, colta anche lei da quella maledetta commozione e dal magone che le bloccava la gola. Quanto avrebbe voluto tornare a casa in quell’istante… Voleva tornare a vivere, accanto ai suoi amici, e forse per la prima volta si rese conto di come si dovesse essere sempre sentito Franky.

Tom sciolse per primo l’abbraccio, tirando su col naso, e la guardò negli occhi con un sorriso impacciato. Le prese il viso fra le mani e le accarezzò le guance, poi scosse il capo e disse: «Sei perfetta. Cioè… è come se non ti fosse capitato niente. Franky me l’aveva detto, ma non mi aspettavo che fossi davvero così… sembri anche meglio di prima».

«Lo prendo come un complimento», gli disse, sollevando un sopracciglio. «Adesso però andiamo? Ho davvero molta voglia di vedere Bill ed Evelyn, mi mancano da morire».

«Oh. Okay».

Tom le accompagnò all’auto e vi entrò; Kim e Zoe si misero sedute nei sedili posteriori, sempre tenendosi per mano. Le guardò attraverso lo specchietto retrovisore e accennò un sorriso, ma dentro di sé era già preoccupato da morire: che cosa sapeva Zoe, che cosa le aveva detto Kim? Se Zoe avesse detto ad Evelyn qualcosa di diverso rispetto a quello che le aveva detto Franky avrebbe di sicuro scoperto la verità e Franky sarebbe stato sputtanato definitivamente. Tanto valeva provare e chiedere direttamente a lei.

«Hai incontrato Franky, di sopra?», le domandò mascherando tutta la tensione, guardando fisso di fronte a sé la strada.

«Sì. È stato arrestato e ora è…».

«Ad una specie di arresti domiciliari», completò la frase per lei Kim.

«E tu sai perché è stato arrestato, Zoe?», sottolineò con particolare vigore il nome dell’amica, facendo intendere a Kim che voleva delle risposte da lei. L’angelo speciale lo guardò di sottecchi e gli bastò una veloce occhiata ai suoi pensieri per capire tutto quanto.

«Perché, nel difendere Evelyn, ha ferito in modo grave un ragazzo. Tu invece sai perché si è comportato così? Non ne aveva alcun motivo».

«In questo periodo aveva tanti pensieri per la testa, tante preoccupazioni, e può darsi che abbia reagito così per scaricare un po’ i nervi; non l’ha fatto apposta, non si è reso conto di andare oltre».

«Uhm, sì forse hai ragione».

«E poi, sai qualcos’altro di Evelyn?».

«Mi hanno anche detto che aspetta un bambino, se è quello che vuoi sapere», soffiò abbassando lo sguardo sulle proprie mani. «La mia bambina… è troppo piccola per avere un figlio!».

«Ha deciso di tenerlo».

«Già… Ne voglio parlare con lei, oggi».

«Zoe…».

«Sono sua madre, Tom! Ne ho tutto il diritto!», strepitò, rossa di rabbia.

«Sì, scusami», mormorò.

Zoe sospirò stancamente e si massaggiò gli occhi con la mano libera. «Se solo lei riuscisse a vedere Franky… sono certa che lui riuscirebbe a farla ragionare: è sempre riuscito a portarmi sulla retta via, sin dal giorno in cui ci siamo conosciuti».

Tom sgranò leggermente gli occhi. Franky aveva detto a Zoe che Evelyn non riusciva a vederlo? Per caso incontrò lo sguardo di Kim nello specchietto retrovisore e percepì i suoi pensieri: gli stava comunicando telepaticamente.

“Per Franky è stato molto più facile dirle così, si è tolto subito l’impiccio di doverle mentire tutte le volte”.

Tom concluse che in effetti aveva una sua logica. Peccato solo che Evelyn probabilmente ne era all’oscuro. Doveva avvisarla, in qualche modo. Tirò fuori il cellulare e non fece nemmeno in tempo a selezionare il testo dei messaggi che il display impazzì e fece tutto da solo.

«Ma che cazzo…», borbottò e, sollevando di nuovo lo sguardo, incontrò quello complice di Kim.

“Non si scrivono gli sms mentre si guida”.

«Che cosa?», gli chiese Zoe.

«Niente, avevo visto una cosa per strada, ma non era niente».
“Grazie”, disse invece all’angelo speciale, col pensiero.

“Non ti preoccupare”.

“Posso chiederti una cosa?”

“Dimmi”.

Tom si passò la lingua fra le labbra, come se dovesse effettivamente parlare. “Perché lo fai?”.

Kim accennò un sorriso, abbassando il viso. “Puoi arrivarci anche da solo, se lo vuoi”.

Non ci voleva molto per arrivarci, dopotutto.

 

***

 

Entrò nella camera della sua amica e si mise seduta sulla sedia accanto al suo letto.

«Ciao Zoe», sussurrò accarezzandole il dorso della mano, gli occhi lucidi.

Sul comodino, appoggiata al vaso dei fiori, vide una foto. La prese fra le mani ed accennò un sorriso guardandola: c’erano proprio tutti e al centro si trovava Franky, stretto nell’abbraccio della sua famiglia.

Linda sospirò chiudendo gli occhi. «Dimmi, Zoe… ci devo credere?».

 

***

 

Stiamo arrivando con tua madre. Sappi che lei non sa nulla di te e Franky, addirittura crede che tu non riesca a vederlo. Reggi il gioco, almeno per lui.

 

Aveva letto quel messaggio di suo zio almeno una decina di volte e non sembrava aver l’intenzione di smettere. Chi stava arrivando con sua madre, oltre a suo zio? Franky dov’era, come stava? Ovviamente, il suo pensiero principale era lui e avrebbe fatto di tutto pur di sapere anche la più piccola ed insignificante cosa. Era così in pensiero…

Si voltò con il viso verso suo padre, steso dall’altra parte del divano, col telecomando in mano, e ad un certo punto i loro sguardi si incrociarono.

«Tutto bene?», le chiese, aggrottando le sopracciglia.

«Sì, sì», mormorò annuendo.

Era pur vero che quel nodo che sentiva al posto dello stomaco era dovuto anche a quel “con tua madre”. Avrebbe rivisto la sua mamma, non le sembrava vero, magari ci avrebbe anche parlato… Era tremendamente agitata e allo stesso tempo non vedeva l’ora: voleva abbracciarla, stringerla forte, sentire il suo profumo e le sue mani che le accarezzavano le guance e i capelli.

Dopo un paio di minuti, durati perlomeno ore, il campanello trillò e lei trasalì. Il cuore le era schizzato il gola, lo stomaco subito dopo di lui.

«E adesso chi è?», bofonchiò Bill, alzandosi dal divano e ciabattando verso l’ingresso.

Evelyn ebbe la sensazione di vivere ogni attimo che la divideva da quell’incontro a rallentatore: suo padre che lentamente giungeva alla porta, che posava la mano sul pomello, che lo girava con lentezza e apriva la porta facendo entrare il gelo.
Un attimo prima che vedesse chi ci fosse, voltò il capo verso la tv e si strinse convulsamente un cuscino al petto. Restò però in ascolto.

«Ciao Bill», esclamò suo zio Tom.

«Ciao», rispose esitante il fratello.

«Ahm… lei è Kim, te ne ho parlato qualche volta, se non sbaglio. È un’amica di Franky».

A quell’ultima frase il cuore della bionda si fermò e fu costretta a voltarsi verso l’ingresso. Accanto a suo zio c’era una ragazza incantevole, con i capelli neri e gli occhi chiari, alta quasi quanto lei, che sembrava avere più o meno la stessa età di Franky.
I loro sguardi si incontrarono immediatamente ed Evelyn provò uno strano senso di disagio. O meglio, era come se si sentisse in colpa. Ma non l’aveva mai vista, non era possibile che provasse quelle emozioni spiacevoli. Abbassò di colpo gli occhi.

«Molto piacere», disse la ragazza, con voce soave.

I due entrarono, scortati da Bill, ma di sua madre nemmeno l’ombra.

«Ehm… a cosa devo la vostra visita?», chiese in frontman, un po’ impacciato e un po’ curioso, riferendosi soprattutto alla ragazza.

«Ho accompagnato qui una persona», gli rispose sorridendo e porse di nuovo la mano verso il vuoto.

Evelyn sgranò gli occhi, pensando che era arrivato il momento. Suo zio si appoggiò allo schienale del divano e le fece un sorriso rassicurante, posandole una mano sulla nuca.
Lentamente la figura di sua madre apparve anche ai loro occhi e sia Bill che Evelyn trattennero il respiro e le lacrime. Il primo, però, non perse tempo e la abbracciò avvolgendola con le sue lunghe braccia, stringendola fortissimo al suo petto, col viso nascosto nei suoi capelli mossi.

«Mamma», singhiozzò la ragazza, dando libero sfogo alle lacrime. Si alzò in piedi e raggiunse suo padre, fece per unirsi all’abbraccio ma, sfiorando inavvertitamente Kim, prese la scossa. La guardò con la bocca dischiusa e la ragazza, per nulla sorpresa, si fece un po’ più in là sussurrando un flebile: «Scusa».
Evelyn non capì a che cosa si riferisse veramente: nel suo sguardo c’era tristezza, tanta tristezza. Però in quel momento non ci rimase su a riflettere, aveva sua madre, o almeno il suo spirito, ad un passo e questa era la cosa più importante.

«Fammi abbracciare la mia piccola», mugugnò Zoe contro il collo di Bill, donandogli un soffice bacio, poi si liberò delicatamente dalla sua stretta ed incontrò gli occhi della figlia, colmi di lacrime come i suoi.
«Bambina mia», soffiò e le strinse le braccia intorno al collo, tenendola stretta a sé più forte che poteva. Le posò svariati baci sulla testa e le accarezzò i capelli con una mano. «Quanto mi sei mancata…».

«Anche tu mi sei mancata, mamma. Ti rivoglio a casa».

«Lo so, tesoro, lo so. Sto facendo tutto il possibile, davvero».

Si scostarono l’una dall’altra, senza però interrompere il contatto delle loro mani, e si guardarono in viso a vicenda, fino a quando la madre sussurrò: «Posso parlarti?».

Evelyn, che immaginava già che cosa le volesse dire perché probabilmente l’avevano avvisata, annuì. Quando si mosse Zoe si mosse anche Kim e la ragazza arricciò il naso. «Deve proprio venire anche lei?».

«Mi dispiace, ma senza di me non riusciresti a vederla», disse l’angelo speciale, con tono professionale.

La ragazza sentì il bisogno di provare. Non ne sapeva minimamente il motivo, era impossibile che riuscisse a vedere autonomamente uno spirito, ma qualcosa dentro di lei la spinse a dividere le mani di Zoe e di Kim. All’inizio non riuscì a vedere nulla, ma poi, sforzando la vista, riuscì ad intravederne i contorni. Provò a “mettere a fuoco”, ma il meglio che riuscì a vedere fu una figura sfuocata, che però era la sua mamma.

«Io… io la vedo», disse con tono incerto.

L’angelo speciale reagì con un’espressione sbalordita, ma poi si ricordò che era stata con Franky e fu tutto chiaro. «Okay, allora non hai bisogno di me. Andate, vi aspetteremo qui».

Evelyn annuì e, mano nella mano con la sua mamma fantasma, salì su per le scale. Kim, Bill e Tom rimasero di sotto e il gemello più grande la guardò chiedendole una spiegazione. L’angelo speciale dovette parlargli col pensiero, perché Bill ovviamente non sapeva e non doveva sapere.

“Quando lei e Franky hanno fatto… quando si sono uniti, si sono scambiati un pezzo di anima e quindi, diciamo che Evelyn potrebbe avere qualche potere… angelico”.

«Perfetto, ci mancava solo questa», borbottò, attirando l’attenzione del gemello, che però si limitò a lanciargli un’occhiata: aveva altri pensieri per la testa.

 

***

 

Franky schioccò la lingua contro il palato e si risvegliò dall’abbiocco da cui era stato catturato nella noia più assoluta. Si alzò dalla poltrona sentendosi vagamente disorientato e si guardò intorno, tenendosi appoggiato allo schienale con una mano. Si sentiva la bocca tutta secca, probabilmente perché l’aveva lasciata aperta nel dormiveglia.

Fece un giro per il salotto, le mani dietro la testa e gli occhi socchiusi, e picchiò spesso le dita dei piedi contro le gambe delle sedie. Si stava davvero annoiando da morire.

Non era abituato a stare in casa sin da quando era un ragazzino, aveva vissuto praticamente tutta la sua vita all’aperto, in strada, allo skate park… In quel momento avrebbe dato di tutto per uscire e fare qualche trick col suo skate. Peccato che il suo skate fosse di sotto e, anche se ne avesse trovato un altro, non sarebbe potuto uscire comunque perché era agli arresti domiciliari.

Si fermò all’improvviso nel centro esatto della stanza e guardò la porta d’ingresso. «Ma che cosa vuol dire arresti domiciliari?», si domandò da solo, a bassa voce. «Come fanno ad essere così sicuri che io non uscirò di casa? E poi non mi sembra così grave uscire per fare una passeggiata al parco!».

Spinto da una curiosità quasi morbosa, si piazzò di fronte alla porta, posò la mano sul pomello e l’aprì. Guardò di fronte a sé e vide tutto tranquillo, quindi fece un passo avanti e… non l’avesse mai fatto. Una potente scossa non gli permise di uscire, addirittura lo sbalzò indietro di qualche metro, di nuovo seduto in modo scomposto sulla poltrona.

«Franky?».

L’angelo, all’udire quella voce, alzò di scatto il capo e, fuori dalla porta, vide chi non si sarebbe mai aspettato di vedere, almeno non così presto: San Pietro.

 

***

 

La figura sfuocata di sua madre l’attirò di nuovo a sé e l’abbracciò, facendole appoggiare il viso contro la sua spalla.
Sedute l’una accanto all’altra sul letto di Evelyn, rimasero in silenzio per un po’, riordinando le idee e le parole da pronunciare per affrontare quell’argomento delicato.

«È così strano», esordì Zoe, passandole una mano fra i capelli lisci. «Non avrei mai immaginato che potessero succedere tutte queste cose. Ma andiamo subito al punto… Evelyn, il mio non è un rimprovero, però vorrei davvero che ci pensassi su: un bambino, alla tua età e di cui non sappiamo nulla del padre… è difficile, lo capisci? Riflettici meglio, prima di prendere decisioni delle quali potresti pentirti».

«Mamma, io ci ho già pensato molto, la mia decisione l’ho presa e non me ne pentirò. Che vi piaccia o no, questo bambino nascerà».

«Okay, se non vuoi gettare via una vita puoi sempre pensare di affidarlo ad una famiglia che potrebbe prendersi meglio cura di lui, non è detto che devi per forza tenerlo tu…».

«Voi non capite. Io lo voglio questo bambino, lo terrò con me e lo crescerò da me. È la cosa che voglio di più al mondo, già lo amo».

Zoe sospirò, sconfitta. «Va bene. La decisione è tua, dopotutto… Sei davvero sicura?».

«Al cento per cento. Voi mi starete vicini?».

«Ma certo, tesoro. In ogni caso».

 

***

 

«Sorpreso di vedermi?».

Franky carambolò giù dalla poltrona, si stirò i suoi normali vestiti da umano addosso e lo guardò con un velo di rossore sulle guance. «Sì, parecchio».

«Posso entrare?».

«Certo! Si accomodi, prego. Non faccia caso al disordine».

San Pietro entrò nel rifugio dell’angelo e dopo aver dato una fugace occhiata intorno a sé si mise seduto al tavolo del salotto, a capo tavola, col viso rivolto verso le finestre.

«Siediti, Franky. Ti devo parlare».

L’angelo lo raggiunse e si mise seduto alla sua destra. Era parecchio teso, aveva paura di ciò che doveva dirgli, soprattutto in via degli ultimi avvenimenti. Infatti, provò subito a difendersi dicendo: «Il mio comportamento è imperdonabile, non c’era bisogno che riducessi quel ragazzo in quel modo, ma non ci ho nemmeno pensato… questo non mi giustifica, lo so, ma sono profondamente dispiaciuto».

«Lo so».

«Io…».

«La punizione che ti spettava ti è già stata data, non sono venuto qui per girare il dito nella piaga. Piuttosto, vorrei parlare con te di Evelyn e della vita che porta in grembo».

«Oh», gemette, ferito nel profondo. Abbassò lo sguardo e si coprì il viso con le mani. L’immagine di quel bambino tornò ad ossessionarlo.

«Cosa pensi che debba fare?», gli domandò con voce pacata.

Franky sgranò gli occhi. «Non lo so», soffiò, scuotendo il capo.

«Mi dispiace, ma… no».

«No cosa?», chiese col cuore in gola.

San Pietro lo guardò negli occhi e senza percepire i suoi pensieri Franky capì benissimo ciò che intendeva. Le lacrime gli invasero gli occhi come un fiume in piena.

«Sarai tu ad occupartene», aggiunse, come se non bastasse.

«No», singhiozzò. «La prego, no… Io non posso farlo».

«Vorrei non doverlo fare, ma non c’è altro modo». Si alzò dalla sedia con un sospiro stanco ed uscì dall’appartamento nel massimo silenzio.

Franky ebbe la forza di alzarsi dal tavolo e barcollare fino al letto, dove si gettò a peso morto; con il viso immerso nel cuscino scoppiò a piangere come non faceva dalla morte di sua madre.

 

***

 

«Come procede?», chiese Tom a Kim, continuando a guardare verso le scale di vetro che portavano al piano superiore.

L’angelo speciale sospirò e scrollò le spalle, tenendosi la testa con una mano, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona su cui era seduta. «Evelyn non cambia idea».

«Lo immaginavo», mormorò.

«Tu sai perché è così ostinata?».

Kim si voltò lentamente verso la direzione da cui proveniva quella debole voce ed incontrò lo sguardo spento, quasi sofferente, di Bill. Il suo cuore, seppur sanguinante a causa della risposta che non poteva di certo dargli, incominciò a batterle forte nel petto.
Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì fuori alcun suono. Era come paralizzata, il suo cervello non le dava più impulsi, sapeva soltanto riprodurle nella testa scorci di momenti passati con Pete. Quando lei si era trovata nella stessa situazione nessuno si era preoccupato tanto per loro… Evelyn e Franky avevano, invece, tantissimi amici su cui contare e ai quali appoggiarsi nei momenti di sconforto. Loro due avevano sofferto da soli.

«Rispondi», la incitò Tom, dandole una pacca sulla spalla, gettandole però un’occhiata più che esplicita.

«No, mi dispiace, non ne so il motivo», disse infine, senza incrociare gli occhi del frontman.

Rimasero diversi minuti in silenzio, ad aspettare che Evelyn e Zoe ritornassero da loro. Quando finalmente sentirono dei rumori provenire dal piano superiore, le loro pose da statue di cera mutarono e si sporsero tutti in avanti, istintivamente.

«Scusate l’attesa», disse Zoe con un lieve sorriso sulle labbra, mano nella mano con Evelyn, che aveva gli occhi ancora lucidi e le guance arrossate.

«Non ti preoccupare», rispose Kim, alzandosi in piedi. Tom tossicchiò, facendo intendere che sia lui che Bill non avevano sentito nulla e nemmeno vedevano Zoe. «Oh sì, scusate».

Kim prese la mano della donna e questa tornò visibile anche agli occhi dei gemelli. Bill andò di nuovo da lei e la strinse in un abbraccio.

L’angelo speciale, per non farsi troppo gli affari dei due, voltò il capo ed incrociò lo sguardo di Evelyn. Si squadrarono per un po’, poi la bionda, forse infastidita, nella sua testa sbottò: “Che ha da guardare?”.

Kim la sentì e posò di proposito lo sguardo sulla sua pancia ancora piatta. “Combinate proprio un sacco di guai, tu e Franky”.

Evelyn trasalì nel sentire la sua voce nella testa, ma rispose con tono stizzito: “Non sono affari tuoi i guai che combiniamo”.

“Già, forse hai ragione”, sorrise mestamente. “Sei una ragazza davvero fortunata però, sai?”.

“Che cosa intendi dire?”, corrugò la fronte.

“Ad essere entrata in questo modo nel suo cuore. È un ragazzo fantastico…”.

“Sì, lo so”.

“Peccato che apparteniate a due mondi diversi, che non si incontreranno mai oltre certi limiti”.

Evelyn fece un passo avanti e l’avrebbe sicuramente presa per i capelli, gridandole in faccia che non doveva nemmeno parlare di lei e Franky, ma suo zio l’afferrò per un braccio e le chiese, con tono gentile: «Mi andresti a prendere un bicchiere d’acqua, per favore?».

La bionda serrò la mascella, ricacciando giù le parole più velenose che aveva pensato, ed annuì. Si rifugiò in cucina e prese un bicchiere pulito dalla credenza, lo riempì d’acqua e rimase ad osservarlo sul ripiano di marmo bianco del bancone. Appoggiò le mani sullo schienale di uno degli sgabelli alti e chiuse gli occhi, respirando a fondo.

“Peccato che apparteniate a due mondi diversi, che non si incontreranno mai oltre certi limiti”.

Le parole di Kim le rimbombavano nella testa, sembravano volerle sfondare il cranio, e un singhiozzo le nacque spontaneamente fra le labbra.

Franky…

Provava un’enorme tristezza, un dolore grandissimo in mezzo al petto, ed era certa che non fosse solo per quello che le aveva detto la mora. C’era qualcos’altro, ma cosa?

 

***

 

«Evelyn…», mormorò ancora squassato dai singhiozzi, rannicchiato sul letto.

Era peggio, era addirittura peggio di quando aveva perso sua madre. Quella volta con lui c’era stata Zoe, ora era da solo, non c’era nessuno al suo fianco capace di consolarlo. Inoltre, questa volta, sarebbe stato lui stesso l’assassino.

Il bambino del suo sogno gli ritornò alla mente, vivido come se fosse un ricordo recente, che gli sorrideva solare, con gli occhi azzurri pieni di gioia, e lo salutava con una manina.
«Ciao, papà!».

Affondò di nuovo il viso nel cuscino e soffocò i gemiti di dolore. Avrebbe preferito morire lui e, se gliene avessero dato la possibilità, non ci avrebbe pensato su due volte.

 

***

 

«Dobbiamo andare ora».

Zoe, seduta sul divano, stretta fra le braccia di Bill, si voltò verso Kim con lo sguardo implorante, ma evitò di pregarla di restare appena vide l’affaticamento sul suo viso: quanta energia le serviva per mantenerla visibile? Ormai erano ore che erano lì…

«È tutto a posto, Kim?», le chiese Tom, notando anche lui la sua espressione stanca.

«Sì, solo che non ce la faccio più», stiracchiò un sorriso.

«Okay, allora andiamo», disse la donna, anche se controvoglia. Prese il viso di Bill fra le mani e gli sfiorò le labbra con le sue. Lui la strinse a sé, affondando le mani fra i suoi capelli, e ad un certo punto, mentre ancora si stavano baciando, Zoe avvertì una stranissima sensazione di vuoto sotto ai piedi. La riconobbe subito ed ebbe il tempo di avvisare l’angelo speciale: «Kim mi sta succedendo di nuovo!», gridò. Un attimo dopo precipitò nel vuoto, ma in realtà si accasciò solamente fra le braccia di suo marito, in preda a delle vere e proprie convulsioni.

«Oh merda», disse Kim, ma appena fece per avvicinarsi a lei perse l’equilibrio a causa di un giramento improvviso e cadde sul pavimento.

Tom, sconvolto quasi come Evelyn, seduta al suo fianco, non sapeva che cosa fare: aiutare Kim o aiutare Zoe? In ogni caso, come poteva aiutarle?

Bill continuava a ripetere il nome di Zoe, cercando di farla riprendere, e sua nipote pure, che intanto si era alzata ed era corsa al capezzale della madre. Tom, invece, fu divorato dal panico.

 

***

 

Franky, seduto di fronte alle porte finestre che davano sul balconcino, avrebbe dato qualsiasi cosa per fumarsi una sigaretta. Aveva le guance irritate dal sale delle lacrime e gli occhi erano ancora umidi, tanto che aveva le ciglia tutte attaccate fra loro e gli davano fastidio. Si sentiva troppo nervoso, troppo depresso, troppo stanco. Un po’ di nicotina almeno lo avrebbe calmato.

Ricordò la sua ultima sigaretta e gli tornò in mente la sera del funerale di sua madre, quando Zoe lo aveva baciato per la prima volta ed era scappata lasciandolo con terribili dubbi da affrontare.
La sua ultima sigaretta l’aveva fumata con Tom, il suo migliore amico, sul balconcino dell’appartamento dei Tokio Hotel, sotto la luna. No, non poteva rovinare quel momento fumandone un’altra. E poi non avrebbe potuto comunque: lì in Paradiso le sigarette non esistevano.

Alzò lo sguardo verso il cielo bianco e sospirò stancamente, poi chiuse gli occhi e si concentrò sui battiti del suo cuore. Tum-tum. Tum-tum. Tum-tum. Ad un certo punto aumentarono e da allora non fecero altro. Il suo cuore sembrava un motore in panne e non riusciva a capirne il motivo.
Si concentrò al massimo delle sue facoltà e un brivido gli attraversò la schiena. Zoe, aveva bisogno di lui.

Si alzò in piedi, corse alla porta e, dimentico degli “arresti domiciliari”, si scontrò contro la barriera di corrente elettrica invisibile.

«Cazzo», berciò e dopo qualche attimo di esitazione, ci si rigettò addosso, con tutta la forza che aveva.

Una scarica potente quanto quella di un fulmine lo attraversò da capo a piedi e dolorante strinse i denti, ma alla fine, con un’ultima spinta verso l’esterno, riuscì a barcollarne fuori. A malapena si reggeva in piedi, con tutta quell’elettricità in corpo, ma non si arrese e, reggendosi di qua e di là, riuscì ad uscire dal palazzo.
Per strada si nascose il viso mettendosi il cappuccio della felpa sulla testa. Raggiunse l’Ufficio di Collegamento ed andò a passo spedito verso il passaggio usato per gli angeli custodi, fece finta di non aver visto la guardia celeste e lo sorpassò, poi iniziò a correre verso il suo obbiettivo.

«Ehi tu, fermo!», gridò e Franky si morse le labbra: era Miguel, il suo amico. Avrebbe voluto che fosse un altro.

Non si fermò, continuò a correre e scansò un paio di altri angeli per poi fermarsi di fronte al passaggio per portava sulla Terra: una luce abbagliante lo accecava. Si guardò le spalle per un momento, guardò di nuovo la luce e, deglutendo, si lasciò inghiottire da quest’ultima, cadendo nel vuoto.

 

_________________________________

 

Buonaseraaaa :D

Un altro capitolo, decisamente più breve di quello precedente, ma altrettanto intenso. Franky è stato "arrestato", ma Kim l'ha fatto uscire subito scontrandosi con un certo Raphael, una new entry *-* Chissà che cosa lega - o legava - quei due u.u
Ah... Franky e Kim... eh ._. Le ragioni sono piuttosto ovvie, ma ricordo che Franky ama Evelyn e finalmente l'ha capito che quello che San Pietro gli aveva detto era un "inganno" per farlo allontanare da lei, per il suo bene. Ma ciò non toglie quello che ha fatto... staremo a vedere anche questo...
Zoe è tornato di nuovo sulla Terra a trovare Bill e Evelyn, che ha deciso di tenere il bimbo di Franky, il quale però... Avete capito quello che San Pietro vuole che Franky faccia, no? Lui gli vuole già bene, l'ha sognato, ma... Ah, mi viene da piangere T_T
Adesso Zoe ha avuto una nuova crisi e Kim non ha le forze necessarie ad aiutarla... Franky è riuscito ad avvertirlo e a sfuggire agli "arresti domiciliari", ma riuscirà a fare in tempo per aiutarla? Tutto questo, alla prossima puntata u.u xDD

Le canzoni che ho usato sono, la prima Lonely di Nikolas Metaxas e la seconda Just a dream di Nelly :)

Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento! *o* Aspetto le recensioni ;)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto e tutti gli altri *-*
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 16
*** Bye, mum ***


Uhm... Questa volta non voglio dire nulla, leggete e poi dite quello che volete, a ruota libera :D
Anche perchè voglio avere tante belle sorpresine quando tornerò dalle vacanze! ç-ç
Infatti, come anticipavo già a qualcuno, questo è l'ultimo capitolo che posto con tutte le mie facoltà: lunedì parto per le vacanze e per un mese credo proprio che dovrete fare a meno di me, ma soprattutto dei miei capitoli ç-ç E' molto, molto, molto probabile che non abbia alcun tipo di connessione internet e, non avendo nemmeno una bacchetta magica, non potrò postare! T_T Farò di tutto però per scroccare da qualche mio amico la connessione, lo prometto, ma capite... non avrò di certo la stessa regolarità che ho qui a casuccia mia! ç-ç

Okay, detto questo vi avverto che il capitolo con cui vi lascio è piuttosto triste D:
Spero di ritrovarvi comunque in tanti nelle recensioni al mio ritorno! *-*

La canzone che ho usato in questo capitolo è
Next 2 you, di Justin Bieber ft. Christ Brown. Bellissima e perfetta per il caso! (Consiglio di leggere le parti in cui ho messo i pezzi di canzone proprio con quei pezzi in sottofondo, come ho fatto io mentre scrivevo!!)

Grazie mille in anticipo e buone vacanze a tutti!!! :D
Buona lettura *w*

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16. Bye, mum

 

You’ve got that smile,
that only Heaven can make
I pray to God everyday,
that you keep that smile

 

La mano di Raphael lo afferrò per la felpa un secondo prima che si schiantasse a terra e la sua voce rabbiosa gli gridò nell’orecchio: «Tu sei pazzo!».

 

I bip dei macchinari ospedalieri a cui era attaccato il corpo di Zoe erano angoscianti, le parole dei medici incomprensibili e il dolore che lo infilzò da parte a parte come una spada nel momento in cui si appoggiò a lei lancinante.

 

Lo stesso dolore lentamente scomparì, lasciandolo privo di sensi, steso a terra.

 

Lentamente sollevò le palpebre e gli occhi gli lacrimarono a causa della forte luce che entrava dalla finestra. Sentì il rumore di una sedia che veniva spostata e qualche passo, poi quello delle tende che venivano tirate con uno scatto deciso, facendo sì che la luce dorata del sole illuminassero la stanza in maniera soffusa.

«Va meglio così?», gli domandò una voce ricca di premura.

Voltò il capo ed incrociò lo sguardo dolce e caldo di Kim, seduta al suo fianco, che gli prese una mano fra le sue e se l’avvicinò al viso.

«Ho avuto tanta paura. Promettimi che non farai mai più una cosa del genere».

«Io non…», si schiarì la voce roca, «non ricordo molto di quello che è successo, solo alcuni flash. Zoe sta bene, vero?».

Kim abbassò lo sguardo e quando lo rialzò, sorrideva teneramente.

Gli raccontò tutto quello che era successo, da quando Zoe si era sentita male, lei non era stata in grado di aiutarla e lui si era gettato nel vuoto, essendo a conoscenza di non poter volare, pur di raggiungere la sua protetta, fino a quando era svenuto al suo fianco, sfinito. Gli spiegò anche che ora si trovava nell’ospedale del Paradiso, sotto osservazione.

«Perché, ho qualcosa che non va?», le domandò, aggrottando le sopracciglia.

L’angelo speciale sospirò. «Hai rischiato la tua vita, pur di salvare quella di Zoe».

«E quindi? L’avevo già fatto prima…».

«Appunto per questo. Franky, che tu sia un angelo non vuol dire che tu sia immortale. Se dovessi salvare Zoe dalla morte ancora una volta, probabilmente… la tua anima non reggerebbe».

«E cosa dovrei fare, impedirmi di salvarla? Proteggere Zoe è il mio compito e lo farò, anche a costo della mia stessa vita».

Kim annuì: si sarebbe aspettata una risposta del genere da lui. «Vado ad avvertire San Pietro che ti sei svegliato», mormorò, alzandosi dalla sedia.

Raggiunse la porta e una volta con la maniglia in mano, Franky la chiamò e le chiese: «Tu come stai?».

«Bene», rispose con l’accenno di un sorriso. Aprì la porta e di fronte ad essa, appoggiato al muro del corridoio, entrambi rimasero sorpresi di vedere Raphael.

«Si è svegliato?», domandò schietto. Kim annuì e si fece da parte per farlo entrare.

Franky osservò ogni suo movimento e scambiò un ultimo sguardo con l’angelo speciale prima che l’angelo poliziotto chiudesse la porta e si rivolgesse a lui per ripetergli l’unica frase che ricordava chiaramente e che lo fece sorridere: «Tu sei pazzo».

«Giusto ogni tanto», gli rispose.

«Ma come ti è saltato in mente di usare il passaggio degli angeli custodi per andare di sotto? Volevi sfracellarti al suolo, per caso?», sbraitò, gesticolando in maniera spropositata. Gli ricordava molto Bill.

«Speravo che qualcuno mi venisse a raccogliere».

«Sicuro, però se non ci fossi stato io ti avrebbero raccolto col cucchiaino!».

Franky gli sorrise e sussurrò: «Grazie».

Raphael rimase colpito dalla profonda gratitudine dell’angelo, ma borbottò comunque qualcosa mentre si sedeva accanto al suo letto.

«Tu, se fossi stato al mio posto, non l’avresti fatto?».

L’angelo poliziotto alzò gli occhi e li piantò direttamente in quelli verdi di Franky. «Che domande», sbuffò. «Per la persona che si ama si farebbe di tutto».

«Quindi per Kim, l’avresti fatto», continuò e la reazione di Raphael non si fece attendere: come aveva previsto, aveva toccato un tasto dolente.

«Che cosa c’entra Kim?», berciò, con gli occhi sgranati dallo stupore. Aveva proprio colpito nel segno.

«Voi due stavate insieme un tempo, non è così?».

«No, ma…». Abbassò di scatto il capo, oscurandosi in volto.

«Oh. Tu eri innamorato, però lei…», dedusse a bassa voce.

«Come hai fatto a capirlo?», gli chiese stringendo i pugni sulle gambe.

«Si vede da come la guardi… provi ancora qualcosa per lei. Ed è per questo che mi hai trattato con così poco riguardo, quando mi hai arrestato… Kim è come me nel senso che anche lei si è innamorata di una persona ancora viva, invece che di te. Ecco perché sembrava che mi odiassi tanto».

Raphael si alzò lentamente dalla sedia ed andò alla finestra, scostò le tende e rimase ad osservare il giardino dell’ospedale anche mentre parlava. «Io e Kim eravamo migliori amici, il nostro legame era fuori dal mondo. Io, col passare del tempo, sono finito per innamorarmene, ma lei… aveva già in mente quel Pete, quando le confessai il mio amore per lei. Peccato che non mi avesse mai parlato di lui. Una volta sono sceso sulla Terra per vederlo e l’ho visto così… erano così innamorati l’uno dell’altro… Sono stato davvero male, ma non ho mai detto nulla a nessuno. Quando si è venuto a sapere di questa storia, come ovvio che sia si è dovuti intervenire. Kim aveva capito quello che le sarebbe successo e si è nascosta sulla Terra, non voleva tornare in Paradiso perché sapeva che non avrebbe più rivisto Pete, e allora…».

«Gli agenti poliziotto sono dovuti andarla a prendere?», intervenì Franky, sbalordito. «Tu… tu eri uno di loro?».

Raphael chiuse gli occhi ed annuì. «Ero ancora un pivellino, allora. Avevo appena iniziato, ma sono sceso anche io, con la mia squadra. L’abbiamo cercata in lungo e in largo e alla fine l’abbiamo trovata. Kim appena mi ha visto mi ha supplicato di aiutarla, ma io… mi sono voltato dall’altra parte».
Si allontanò dalla finestra e tornò alla sedia, ci si sedette e si tenne la testa fra le mani. «Se potessi tornare in dietro, non lo rifarei».

«L’aiuteresti?».

«Già. È colpa mia, colpa della mia gelosia, se il nostro rapporto si è distrutto».

«Potreste parlarne. Credo che lei ti perdonerebbe, se le raccontassi ciò che hai raccontato a me adesso».

«Proprio non capisci, eh?». Sorrise in modo amareggiato e lo guardò negli occhi. «Io per lei non posso essere altro che un amico, che per di più l’ha tradita. Non sarà più come prima e, in oltre, ora il suo cuore appartiene ad un’altra persona».

Franky chiuse gli occhi ed artigliò le dita nelle lenzuola.

«Quella persona sei tu, Franky. Non so che motivo ti abbia dato lei, se ti ha dato un motivo, ma posso immaginarlo: tu assomigli così tanto a Pete…».

«Mi dispiace, Raphael».

«Non è certo colpa tua se tu e tuo nonno vi somigliate…».

Franky trasalì e spalancò gli occhi. «Mio… mio nonno?».

«Kim non te l’aveva detto?». Scosse il capo, sconvolto. «Beh… ora lo sai».

«Ma… ma… Raphael, allora perché… perché non hai lasciato che mi sfracellassi al suolo? Se io fossi stato fuori combattimento avresti potuto riprovarci con Kim».

«Con chi credi di avere a che fare?», gli domandò con una punta di riso sulle labbra. «Sono un angelo anche io! E poi non farei mai qualcosa che la farebbe soffrire».

Il cercapersone dell’angelo poliziotto suonò, rompendo il silenzio che si era creato fra loro, ed egli si alzò dalla sedia.

«Devo andare adesso, ma tornerò», gli puntò il dito contro, seppur sorridendo. «D’altronde hai pur sempre evaso gli arresti domiciliari… A proposito, ma come hai fatto?».
Franky lo guardò senza sapere cosa rispondere e sollevò un poco le mani, con i palmi rivolti verso l’alto.
Allora Raphael continuò a rimuginarci su: «È strano, molto strano. Non ci era mai riuscito nessuno, anche perché nessun angelo normale sarebbe riuscito a superare quelle scariche». Si voltò verso di lui e fece un sorrisetto sghembo: «Ora abbiamo la conferma che non sei normale». Anche Franky si lasciò scappare una risata.

«Comunque credo che per come ti sei comportato con la tua protetta verrai largamente ricompensato», gli disse l’angelo poliziotto, facendogli l’occhiolino.
Franky non riuscì nemmeno ad aprire bocca che Raphael era già alla porta e, con una mano alzata, lo salutò: «Arrivederci, riprenditi presto».

L’angelo alzò a sua volta una mano, ma l’angelo poliziotto se n’era già andato.

 

***

 

Con il profumo del caffè sotto il naso riaprì gli occhi e sobbalzò sulla poltroncina, rendendosi conto di aver dormito nella sala d’aspetto dell’ospedale. Sua figlia era stesa al suo fianco, con la testa appoggiata alla sua spalla. Di fronte a sé, invece, c’era suo fratello Tom, che sorridendo lievemente gli porgeva un bicchiere di caffè.

«Non è il massimo. Diciamo che è accettabile».

Bill lo prese fra le mani, stando attento a non svegliare Evelyn, e guardò il gemello mettersi seduto alla sua sinistra.

«Hai dormito?», gli chiese.

Tom scosse il capo. «Non ci sono riuscito».

«Sei preoccupato per Franky?».

«Sì», sospirò passandosi una mano sul viso stanco.

«Vedrai che se la sarà cavata».

«È stato diverso, rispetto alle altre volte… ho davvero avuto paura per lui». Bevve l’ultimo sorso di caffè e poi si alzò per gettare il bicchiere vuoto nel cestino. «Ma quanto ci mettono per dirci come diavolo sta?».

Pochi minuti dopo, nei quali Tom non era riuscito a stare un attimo fermo, tanto che col suo andare avanti e indietro per la sala d’aspetto aveva fatto venire il mal di mare a Bill, arrivò il medico che stavano aspettando con impazienza.

«Buongiorno. Mi dispiace di avervi fatto aspettare così tanto, ma io e il mio collega di neurochirurgia abbiamo voluto fare più esami», spiegò l’uomo col camice bianco e lo stetoscopio al collo.

«Per quale motivo?», chiese Tom, in ansia.

«Eravamo sbalorditi dai risultati».

Bill diede un colpetto ad Evelyn per svegliarla, desideroso di alzarsi e raggiungere il gemello di fronte al medico. La ragazza lo guardò assonnata e quando si ricordò di essere in ospedale, dopo la nottataccia che avevano passato, schizzò i piedi come se avesse bevuto un litro di caffè ed affiancò suo zio.

«Credevamo che ci fosse qualcosa di sbagliato nel primo esame e invece era tutto giusto, non c’erano stati errori, e il secondo esame l’ha dimostrato. La signora Kaulitz, dopo l’ultimo segno di cedimento, non ha fatto altro che migliorare, eppure non le abbiamo cambiato nessun antibiotico… In questi giorni la terremo particolarmente sotto controllo e staremo a vedere».

Bill lo ringraziò una serie infinita di volte e il medico si congedò con un sorriso. Una volta lontano, il frontman si girò verso il fratello e lo travolse in un abbraccio stretto, colmo di gioia.
Tom era contento, sì, ma era un pezzo di legno. Zoe aveva iniziato a migliorare quando Franky l’aveva salvata per l’ennesima volta, il che voleva dire che qualcosa doveva essere successo. Franky stava bene? In quel momento era la sua preoccupazione più grande.

 

***

 

Un pezzo della sua anima da angelo era con Zoe, un altro pezzo con Evelyn e, per finire, un altro ancora, l’ultimo che aveva perso, con Zoe.

Gli angeli sono un po’ come i gatti, dei quali si dice che abbiano sette o nove vite. Quanti pezzi d’anima posso ancora perdere, prima che perda la vita? Tre, due… uno?

Si mise seduto sul bordo letto, con le gambe a penzoloni, e chiuse gli occhi. Si concentrò sul suo respiro, sui battiti del suo cuore. Erano lenti, in un certo senso tranquillizzanti, ma sapevano di fatica; sembravano trascinarsi avanti a stento, uno dopo l’altro.
Si sentiva stanco, privo di energie, ma voleva andare a trovare la sua Zoe. Fece per alzarsi, ma una volta in piedi le sue gambe cedettero e perse l’equilibrio, tanto che dovette ritornare seduto sul letto.

«Merda, mi sento un vecchio», biascicò passandosi una mano sulla testa, fra i capelli a spazzola.

«È normale, hai appena inglobato dentro di te una parte del dolore che affliggeva Zoe e le hai donato una parte della tua anima. È già tanto che tu sia così in forma».

Si voltò verso la porta della sua stanza e sulla soglia vide San Pietro, che gli sorrideva solare. 
«Salve», lo salutò impacciato, sdraiandosi con due cuscini dietro le spalle.

«Come ti senti, Franky? A parte vecchio, chiaramente».

«Bene, alla grande», ridacchiò. «Come al solito non ho potuto fare a meno di mettermi nei guai».

«No, proprio no». Si mise seduto al suo fianco e gli posò, sul palmo aperto della mano, la sua Carta d’Angelo Custode e il suo Cellulare Celeste. «Però, sai… non ti si può nemmeno impedire di fare ciò per cui sei sempre stato destinato».

Franky guardò gli oggetti che gli aveva dovuto dare quando era stato sospeso, poi posò gli occhi in quelli del santo. «Che cosa significa?».

«Da questo momento in avanti sei di nuovo un angelo custode a tutti gli effetti: il tuo periodo di sospensione è finito».

«Dice davvero? Ma è… strepitoso!», esclamò, felice.

«Sì, ma dovrai comunque fare la riabilitazione che ti era stata assegnata».

«E posso riprendere anche il mio corso?».

«Una cosa alla volta, Franky», sorrise amorevole. «Ti renderai conto da solo che d’ora in avanti, con un altro pezzo di anima in meno, non riuscirai più a fare molte cose, ti stancherai più facilmente, proprio come se fossi invecchiato».

L’angelo sbuffò, ma poi sorrise. «Avrò bisogno solo di un po’ allenamento, vedrà».

«Ben tornato, Franky». Gli porse la mano e lui la strinse con forza.

«Grazie mille. Devo subito chiederle un favore».

San Pietro strabuzzò gli occhi. «Dimmi».

«Mi accompagna da Zoe? Da solo non ce la faccio».

Si guardarono in faccia e risero. Insieme si avviarono per i corridoi dell’ospedale, a braccetto come vecchi amici.

 

***

 

Suonarono al campanello e Bill andò ad aprire la porta. Georg e Gustav lo abbracciarono a turno, stringendolo forte.

«Abbiamo saputo di Zoe».

«Siamo contenti».

«Grazie ragazzi, è bello rivedervi. Tutto bene?».

«Sì, tutto okay. Evelyn, dov’è?».

Bill si guardò intorno nel salotto, ma non vide né sua figlia né Tom. «Erano qui, un momento fa…».

 

Raggiunse la nipote nella veranda che dava sul giardino e si mise seduto di fianco a lei sugli scalini di legno. Si levò la felpa che aveva addosso e gliela posò sulle spalle, sorridendole teneramente.

«Se no prendi freddo».

«Grazie zio», mormorò lei, avvicinandosi ancora di più a lui ed appoggiando la guancia al suo petto caldo.

Tom l’avvolse nel suo abbraccio, con le labbra sopra i suoi capelli, e le massaggiò la schiena con le mani, per riscaldarla.

«Sei preoccupata per Franky?», le domandò. Lei annuì. «Anche io, tanto. Darei qualsiasi cosa per sapere come sta».

«Io per averlo al mio fianco in questo momento. Mi manca da morire».

Il chitarrista guardò di fronte a sé, il giardino ricoperto di neve, l’albero spoglio di qualsiasi foglia, con i rami che si allungavano verso il cielo bianco. Un fiocco di neve fresca gli punse il naso.

«Ah, eccovi finalmente! Ma che ci fate qui al freddo?».

Si voltarono verso Bill, alla porta finestra della cucina, che li guardava con la fronte corrugata.

«Non mi guardate con quelle facce da ebeti, entrate!».

Tom si alzò e si fermò nel bel mezzo del giardino, sotto alla neve che iniziava a cadere di nuovo. «Esci tu, Bill».

«Ma tu sei pazzo!».

Si accovacciò a terra, prese un po’ di neve gelata fra le mani e ne fece una palla, poi la lanciò verso il fratello, che per un pelo la schivò.

«Tom, ma ti sei rincoglionito?!».

«E dai, Bill!», rise, rise di gusto con il viso rivolto verso il cielo.

Evelyn accennò una risata a sua volta e lo raggiunse, fece una palla di neve e le mani le divennero subito bordeaux per il freddo, ma non gliene importò e gliela lanciò contro.
Tom la guardò con la bocca aperta, poi si chinò per farne un’altra.

Senza nemmeno sapere come né perché, si ritrovarono tutti contro tutti – compresi Bill, Georg e Gustav – in una battaglia di palle di neve senza precedenti.
Per quel poco di tempo che durò ritornarono bambini e tutti i problemi, le paure e le ansie scomparvero.

Quando rientrarono in casa e si riscaldarono con della cioccolata calda, tutti seduti intorno al bancone della cucina, ritornarono adulti e si parlò delle condizioni di Zoe, poi di come andavano le cose a Georg e Gustav con le loro famiglie ed infine di lavoro. Era da molto tempo che Bill non riusciva a cantare, ma non erano venuti per spronarlo a fare ciò che non si sentiva.

«Si sta avvicinando il Natale e siamo stati invitati, come band, ad alcune feste di beneficenza. Che vogliamo fare?», chiese Georg, guardando soprattutto Bill.

«Io non me la sento molto di partecipare ad una festa… Di farmi fotografare, di sorridere a gente che nemmeno conosco…».

«Lo sappiamo, Bill, ma non puoi nemmeno stare sempre chiuso in casa».

«Sì, Gustav ha ragione», annuì Tom, posandogli una mano sulla spalla. «Magari non andremo a tutte, ma almeno ad una… Penso che ti potrebbe far bene, non pensare a ciò che sta succedendo per una sera».

Bill guardò la figlia con gli occhi grandi e supplicanti. «Tu verrai con me, vero?».

«Se può farti piacere, sì», rispose con un sorriso. Tenue, ma pur sempre un sorriso. Anche se nemmeno lei era entusiasta all’idea di dover andare ad una festa.
Suo padre si sarebbe appoggiato a lei; lei, invece?

 

***

 

«Franky», gracchiò Zoe appena lo vide entrare nella sua stanza. Provò a sistemarsi meglio sul letto, facendo leva sulle braccia, ma era troppo debole persino per spostarsi. Si lasciò andare con la testa sui cuscini e sospirò stancamente.

Lo osservò mentre a fatica raggiungeva la sedia accanto al suo letto, sulla quale potersi sedere, e un sorriso divertito le incurvò le labbra all’insù. «Sembri un vecchietto, sai?».

«Sì, lo so», ridacchiò l’angelo, raggiungendo finalmente la sedia. Si sedette e le sorrise bonario guardandola negli occhi. «E tu, ti senti un po’ più angelica?».

Zoe dischiuse le labbra e sgranò gli occhi dallo stupore. «Franky tu… tu mi hai dato un pezzo di te? È per questo che adesso sembri così debole?».

L’angelo annuì e le portò una mano sulla guancia, le dita fra l’attaccatura dei capelli corvini, che accarezzò con dolcezza.

«Non avresti dovuto, Franky. Lo sai perfettamente. Adesso stai male per colpa mia e sai che cosa ne penso: non è giusto».

«Shhh», le sussurrò chiudendo gli occhi. Appoggiò la fronte alla sua, alzandosi in piedi e piegandosi su di lei, poi aprì gli occhi verdi e sorridenti e li fuse nei suoi. «E tu sai perfettamente che lo farei anche a costo di perdere la vita. Io sono quello che sono per te, per nessun altro, non mi puoi impedire di fare quello per cui sono diventato un angelo. Ti amo, piccola».

«Sei un idiota», borbottò e gli diede una spintarella sul braccio, che però, visto l’equilibrio precario di Franky, lo fece barcollare e cadere seduto sulle gambe della sua protetta.
Zoe tirò un urlo, ma appena i loro sguardi si incontrarono scoppiarono a ridere insieme.

«Sai che cosa mi servirebbe? Un bel bastone come quello di Dottor House!», esclamò l’angelo, facendola ridere ancora di più. Fissando il suo viso diventare rosso ed ascoltando con attenzione ogni singolo singulto di riso, il suo cuore si gonfiò di gioia.

 

***

 

Il giorno della festa a cui avevano deciso di partecipare era arrivato. Quella sera ci sarebbe stato il ritorno ufficiale dei Tokio Hotel e soprattutto di Bill Kaulitz sulle pagine patinate dei giornali, su internet e in tv. Sarebbe rientrato nel giro dal quale si era tenuto tanto lontano in quelle settimane.

Seduto sul suo letto, guardava l’armadio aperto di fronte a sé. Non aveva la più pallida idea di che cosa mettersi per l’occasione e ciò nonostante non era preoccupato. Se fosse stato tutto nella norma si sarebbe messo a correre impazzito per la casa con le mani nei capelli. La cosa che lo spaventava di più era se non fosse riuscito a resistere in quell’ambiente così finto. Non poteva davvero pensare di mascherare così a lungo il suo dolore per mostrare sorrisi palesemente falsi. Era certo che non ce l’avrebbe fatta.

Bussarono alla porta e si allontanò dai propri pensieri. Sua figlia lo guardò con un sorriso appena accennato e gli disse: «È arrivato zio Tom».

«Cos’è venuto a fare?», le domandò confuso. «Non doveva mica venire direttamente stasera, per portarci alla festa?».

Evelyn scrollò le spalle. «Ha detto che si è autoinvitato a cena».

«Oh, perfetto», biascicò e sorrise.

Scesero entrambi al piano inferiore e seduto sul divano, che faceva tranquillamente zapping con Coco sulle gambe, videro Tom.

«Alla buon ora, il principino si è deciso a scendere», ridacchiò il chitarrista, voltandosi verso le scale.

«Tu non saresti dovuto essere qui, quindi non rompere».

Tom si alzò e senza bisogno di altre parole cercarono ognuno le braccia dell’altro. Tre secondi, non di più, durò quella stretta, ma furono abbastanza per condividere il coraggio e la forza che al cantante decisamente mancavano.

«Allora, che si mangia di buono?», chiese Tom, sorridendo sghembo e portandosi le mani unite di fronte al petto.

Bill tirò su la cornetta del telefono e sorrise. «Pizza».

Evelyn e Tom, scambiandosi uno sguardo complice, fecero lo stesso.

 

***

 

Franky si guardò allo specchio e si sistemò con sguardo soddisfatto il bavero della giacca. Poi schioccò la lingua contro il palato.

«E adesso che cosa c’è?», gli domandò Kim, seduta a gambe incrociate sul letto alle sue spalle. «La tua divisa è perfetta, tu sei perfetto».

«Sì, ma non sono più abituato a vedermela addosso». Si spogliò di nuovo e lanciò i vestiti sul letto, rischiando di colpire Kim tra l’altro, poi andò fino all’armadio e prese un paio di jeans, una felpa viola e un cappellino nero con la visiera corta. Tom non si era ancora accorto che svariati anni prima gliel’aveva rubato e non aveva la minima intenzione di restituirglielo: ci era troppo legato.

«Sei sicuro di voler andare?».
Franky si irrigidì sentendo le braccia di Kim avvolgergli il petto e il suo viso nascosto fra le sue scapole.
«Oggi hai fatto anche riabilitazione, sarai stanco… è meglio che tu rimanga qui».

«No, io…». Si voltò e la guardò negli occhi. «Io devo andare».

Kim fronteggiò il suo sguardo per qualche secondo, poi, sconfitta, abbassò gli occhi e tornò a sedersi sul letto.

«Hai intenzione di farlo stasera?».

Franky chiuse gli occhi e strinse i pugni. Vorrei non farlo mai.
«Sì», mormorò con un nodo enorme in gola.

«Buona fortuna, allora. Ti aspetto qui e se avrai bisogno, io ci sarò».

L’angelo annuì a testa bassa e la ringraziò con un sussurro, poi uscì dalla camera.

Ci mise un po’ a raggiungere l’Ufficio di Collegamento, ma rispetto ai giorni precedenti era parecchio migliorato: le forze gli stavano lentamente tornando, anche se non sarebbe più stato come prima. Però si era reso conto che se stava molto tempo con Zoe la sua anima era come se lo ringraziasse, forse perché la faceva stare vicina ad un frammento che aveva perso, e lo faceva sentire meglio. Si chiedeva se sarebbe successa la stessa cosa anche con il frammento che aveva dato involontariamente ad Evelyn, ma ogni volta che la pensava sentiva una fitta al cuore e un altro paio di occhi azzurri si impossessavano della sua mente, assillandolo.

Mostrò la Carta d’Angelo Custode a Miguel, che dopo un mezzo sorriso lo lasciò passare. Fiero di sé raggiunse comunque l’ascensore, insieme a tutti gli altri spiriti, e vi salì. Si guardò le spalle e sorrise nel vedere le piccole alette bianche che gli stavano ricrescendo, pian piano. San Pietro gli aveva detto che sarebbero rispuntate più lentamente rispetto alla prima volta e che avrebbe fatto più male, ma Franky non era spaventato: il dolore non sarebbe mai stato paragonabile a quello che aveva sofferto quando gli erano rientrate.

Raggiunse la chiesetta nel cimitero in cui lui stesso era sepolto ed uscì all’aria gelata della sera, infilandosi mento e bocca dentro al colletto della felpa. Camminò fra le tombe, fra i ceri accesi che al buio sembravano fiammelle sospese nel vuoto. Passò a salutare la sua mamma e continuò a girovagare per il cimitero fino a quando non si trovò di fronte alla tomba di Peter Jost, suo nonno, padre di suo zio David e sua madre. Si trovava anche lui lì e la foto incastonata dietro il vetro della lapide in marmo grigio lo raffigurava da anziano, ma anche così si riusciva a capire che loro due erano imparentati: i tratti del viso, la forma del naso e gli occhi, quegli occhi verdi che neppure nella vecchiaia avevano smesso di brillare, erano gli stessi. Da quello che aveva detto Kim, dovevano somigliarsi pure caratterialmente, ma Franky non aveva nulla da spartire con lui: a malapena lo conosceva.

Si chinò di fronte alla lapide e sfiorò i fiori appassiti che erano posti in un vaso con la punta delle dita. Questi rinacquero e mostrarono ancora una volta tutta la loro bellezza. Franky allora sorrise e si allontanò con le mani nelle tasche.

Camminò per una decina di minuti e appena fuori dalla centro urbano vide una villa che conosceva bene. Entrò nel giardino passando fra e sbarre, attraversò il vialetto ed arrivò di fronte alla porta d’ingresso. Posò l’orecchio contro il legno freddo e in lontananza sentì le voci di Bill, Evelyn e Tom.
Silenziosamente attraversò il salotto, respirando il calore che gli si appiccicava piacevolmente al viso e guardandosi intorno. Inciampò su Coco, che si aggrappò con le unghiette ai suoi jeans, miagolando.

«Shhh, piccolo, shhh», cercò di ammutolirlo, ma non fece altro che istigarlo a miagolare più forte.

«Coco, che ti prende?», chiese Evelyn dalla cucina.

«Vado a vedere io», disse Tom e si alzò da tavola, uscì dalla cucina e una volta sui tre scalini che portavano al salotto lo vide.
«Franky», sillabò incredulo.

«Ciao, Thomas», gli rispose con un sorriso impacciato sulle labbra, un velo di rossore sulle guance. «Volevo farvi una sorpresa, ma questo micino impertinente ha rovinato…».
Franky si interruppe bruscamente, sentendosi mancare il respiro. Il chitarrista era corso da lui e l’aveva stretto in un forte abbraccio, guancia contro guancia. Ci volle un po’ prima che riuscisse a ricambiare e qualche lacrima di commozione gli inumidì gli occhi. Si era preoccupato per lui, come sempre.
Aprì gli occhi, ancora fra le sue braccia, e vide sulla soglia della cucina sia Bill che Evelyn, che lo guardavano uno più sorpreso dell’altro. Subito gli sguardi dei due ragazzi si incrociarono e l’angelo sentì l’ennesima stretta al cuore.

«Che cosa…?». Tom si scostò un poco e guardò oltre le sue spalle. Sulla sua schiena spuntavano due alette bianche, ancora piccole e morbidissime. «E queste?», chiese divertito, guardandolo in viso.

«Qualcosa da dire sulle mie nuove ali? Stanno ricrescendo, dagli tempo!».

«Ma questo vuol dire che… non sei più sospeso!».

«Eh no», ridacchiò.

«Stai bene?».

«Potrebbe andare meglio. Tu? Vedo che la vecchiaia si sente anche per te! Ormai ci commuoviamo con poco…».

«Stupido, mi hai fatto preoccupare!», sbottò unendo le braccia al petto.        

«Non c’è di che preoccuparsi! Posso sedermi?».

«Come no, certo», rispose Bill, indicandogli il divano.

Franky lo ringraziò e fece il giro del divano tenendosi artigliato con una mano alla schienale, poi si lasciò andare e sospirò. Tutta la camminata che si era fatto gli era piombata addosso all’improvviso, stando fermo. Aveva bisogno davvero di un po’ di esercizio.

«Niente di che preoccuparsi, eh?», commentò sarcastico Tom, sedendosi al suo fianco.

«E va bene, sono un po’ affaticato», sbuffò roteando gli occhi al cielo e sorridendo. «Ma non è nulla di cui preoccuparsi. Zoe vi saluta tanto, dice di non preoccuparvi per lei e che ora va tutto bene».

«Menomale», disse Bill facendo uno scatto in avanti e raggiungendo i due. Si mise seduto sul tavolino di vetro di fronte a loro, per poterli guardare entrambi in viso. «Che cos’è successo, precisamente, quando sei entrato nella sua stanza d’ospedale?».

Franky si adombrò e schivò il loro sguardo. Non voleva che anche loro sapessero della sua condizione precaria, sicuramente gli avrebbero detto di non affaticarsi troppo, ma lui non ce la faceva proprio a stare fermo, doveva sempre fare qualcosa.

«Nulla di particolare», bofonchiò e sollevando lo sguardo incrociò ancora una volta quello di Evelyn, nel quale si perse letteralmente. Quanto gli era mancata lo sapeva solo il cielo.

Sia Tom che Bill si accorsero del loro scambio di sguardi e Franky, rendendosene conto in un attimo di lucidità, si voltò verso il cantante come se nulla fosse e gli sorrise.
«Sono contento che si sia ripresa».

«Grazie di cuore Franky, per essere intervenuto. Se non ci fossi stato tu… non so cosa sarebbe successo». Si voltò verso la figlia e le disse di avvicinarsi con un cenno del capo. «Tu l’hai ringraziato come si deve?».

Evelyn si presentò al loro fianco, Franky si alzò in piedi per poterla guardare meglio negli occhi e lei gli allacciò le braccio intorno al collo, dicendo un semplice «Grazie».

Fu un abbraccio innocente, nessuno avrebbe mai sospettato che fra loro ci fosse qualcosa, ma carico di amore, visibile solo al cuore dei due e agli occhi di Tom, che sudava freddo seduto di fronte al gemello.

L’angelo posò incerto le mani sui suoi fianchi e fu come ricevere una scossa elettrica. Si scostò e guardò in basso, verso l’addome di Evelyn, poi tornò a fissare i suoi occhi azzurri.
«Perché hai deciso di tenerlo?», le domandò in un sussurro.

La ragazza sciolse del tutto l’abbraccio e si allontanò di qualche passo. «Non sei mica tu quello che legge nel pensiero?».

Lo lasciò così, con un palmo di naso. Si diresse verso le scale che portavano al piano superiore con le braccia strette intorno al petto e si rivolse al padre: «Vado su a cambiarmi». Poi sparì salendo gli scalini con una corsetta.

Franky si lasciò sprofondare di nuovo nel divano, di fianco a Tom, lo sguardo spiritato. Avrebbe dovuto farlo davvero. Perché lo costringeva a fare qualcosa che non si sarebbe mai perdonato, a causa della quale si sarebbe odiato per il resto della sua vita?

«Non ne vuole parlare con nessuno», esordì Bill, sconfortato. «Tu ne sai qualcosa? Magari hai visto qualcosa fra i suoi pensieri…».

«No, non ne so nulla», rispose meccanicamente, facendo calare il silenzio su di loro.

Tom, imbarazzato, si schiarì la voce. «Franky, stasera andiamo ad una festa di beneficenza. Ti va di venire con noi?».

«Okay», annuì. Il chitarrista strabuzzò gli occhi: aveva immaginato di dover insistere prima di convincerlo, invece…
«Datemi un po’ di tempo per andare a cambiarmi. Sarebbe una festa in maschera, vero?».

«Sì, ma mica è obbligatorio…».

«Va bene, vado».
Si alzò dal divano e se ne andò più in fretta che poté. Al freddo, sotto il cielo scuro, si disse che se non fosse riuscito a convincerla ad abortire si sarebbe arreso e avrebbe fatto ciò che doveva fare, nonostante avesse fatto del male ad entrambi.

«Ciao, papà!».

 

And baby, everything that I have is yours,
you will never go cold or hungry
I’ll be there when you’re insecure,
let you know that you’re always lovely
Girl, ‘cause you are the only thing that I got right now

 

***

 

Scese dall’auto prendendo la mano offertale da suo padre e i flash delle macchine fotografiche la accecarono, ma cercò comunque di fare qualche sorriso. Camminò velocemente al suo fianco, dietro le figure di suo zio Tom e Georg, ed entrarono in quella villa magnifica, vagamente rinascimentale, nella quale si svolgeva quella festa in maschera.

Evelyn non era mai stata abituata alla vita mondana, suo padre e sua madre l’avevano sempre tenuta nascosta al mondo, per così dire, ed infatti non riuscì ad ambientarsi fra tutte quelle celebrità e a quelle persone amiche di qualche pezzo grosso che, pur non conoscendola, la salutavano come se fosse una di famiglia.

Più o meno tutti indossavano abiti eleganti, a volte anche un po’ buffi, ma all’ultima moda. Le donne avevano come maschere delle semplici retine nere, oppure delle maschere eleganti e raffinate come quelle del carnevale di Venezia. Gli uomini invece indossavano semplici smoking con semplici mascherine nere sugli occhi, anche se c’era qualche costume stravagante. Quelli che l’avevano maggiormente colpita, camminando fra la folla, appartenevano ad una coppia, probabilmente: la ragazza, vestita con un abitino di pelle nera, una gonfia pelliccia bianca intorno al collo e stivali al ginocchio, aveva in mano il guinzaglio a cui era agganciato il collare che indossava il ragazzo, che indossava proprio una maschera da cane.  

Quel mondo la confondeva, la faceva sentire letteralmente frastornata, e non ci volle molto perché le venisse mal di testa.

«Tesoro!», esclamò con voce stridula una donna sulla cinquantina, mascherata e vestita in maniera così provocante da sembrare soltanto ridicola alla sua età.

Evelyn fece giusto in tempo a riconoscere la famosa presentatrice tv, che senza darle il tempo di capire la prese per le spalle le baciò le guance, poi la guardò dall’alto verso il basso e viceversa, con un sorriso falso e uno sguardo malizioso.
«Sei una favola vestita così! Questa sì che è la figlia di Bill Kaulitz, non quella che si è vista sui giornali in questo ultimo periodo!».

«Grazie», balbettò incerta, abbassando lo sguardo.

Suo padre le aveva procurato quel vestito di chissà quale prestigiosa firma – lei non sarebbe mai riuscita a ricordarlo – e, nonostante non le piacesse poi così tanto, amante degli abiti anonimi e comodi, se l’era messo. Le spalle erano ricoperte di piume lillà, il corpetto argentato ed ornato da piccole borchie quadrangolari era largo e formava tante pieghe a partire dal piccolo seno, fino ad arrivare al ventre, dove partiva una gonna a balze grigia, di stoffa semitrasparente. Ai piedi aveva un paio di decolté col tacco basso, dello stesso colore delle piume ed impreziosite anch’esse da piccole borchie. Sul viso, invece, aveva optato per una maschera semplice, ma molto d’effetto: fatta di pizzo bianco, come le collant che indossava, focalizzava tutta l’attenzione sui suoi splendidi occhi azzurri, con le ciglia nere e lunghe e sulle palpebre un po’ di ombretto grigio.

«Ho sentito della tua mamma», continuò la signora, passandole una mano fra i capelli sciolti che le arrivavano al seno. Il cuore della ragazza si strinse e gli occhi luminosi si intristirono all’istante.
«Mi dispiace così tanto», aggiunse la presentatrice. «Ed è triste che i media ne parlino con tanta frequenza, ormai non c’è rispetto per nulla…».

«Già», sbottò Bill con tono freddo. «Vieni Evelyn, raggiungiamo gli altri». La prese per il polso e la trascinò verso il piccolo palco su cui si sarebbe svolta l’asta di beneficenza.

«Papà, non l’abbiamo nemmeno salutata», disse Evelyn a mo’ di rimprovero, mentre si lasciava condurre da lui, tra i tavolini illuminati ciascuno da un candelabro d’argento. Gli altri componenti della band erano seduti ad uno dei tavolini laterali, un po’ meno illuminati dalle luci del palco, e proprio in quel momento un cameriere si era avvicinato a loro per versare del vino nei loro bicchieri.

«È comprensibile che tu non te ne sia accorta, ma io ho vissuto quasi tutta la mia vita accanto a queste persone e ti posso giurare che la maggior parte di loro, compresa quella donna, sono schifosamente ipocrite», le rispose, ancora con quel tono fermo, distaccato, quasi finto. In realtà, stava soltanto reprimendo tutta la sua rabbia e ci riusciva egregiamente, grazie ad anni ed anni di esperienza. «Sono certo che ti sarà sembrata dispiaciuta, addolorata… beh, era tutta una finta. Ormai so riconoscere quando una persona del mio stesso ambiente mente o è sincera. Non credere a nulla di ciò che ti ha detto, sono tutte bugie. La prova? Lei è la prima a dare, ogni giorno, notizie sulla nostra famiglia. La verità è che non può fare a meno di noi, facciamo incrementare l’audience».

Evelyn, scioccata da quelle parole, si mise seduta accanto a suo zio con lo sguardo assente, muovendosi a scatti. Ecco perché la sua mamma e il suo papà l’avevano sempre protetta da quel mondo, perché a volte sapeva fare davvero male.

«Tutto okay?», le sussurrò suo zio all’orecchio, avvolgendole le spalle con un braccio, un bicchiere di vino rosso nella mano sinistra.

«Sì», mormorò lei in risposta, ma non era affatto così, se ne sarebbe accorto chiunque. Tom per primo capì cosa c’era che non andava, aveva visto da lontano la scena appena avvenuta, ma non le domandò altro. Almeno, non su quell’argomento.

«L’hai visto?».

Evelyn si riprese e, incuriosita da quella domanda ambigua, guardò il viso di suo zio. «Chi?», gli chiese, ma capì giusto un secondo dopo, come se il suo cervello avesse ritardato ad inviarle le informazioni. Tom le aveva detto, prima di salire sulla limo che li avrebbe portati alla festa, che aveva proposto a Franky di raggiungerli, ma ancora non si era fatto vivo. Quindi scosse il capo, mentre il suo cuore iniziava la sua corsa verso la tachicardia.

«Arriverà», la rassicurò con un piccolo sorriso. «Quando dice di fare qualcosa, la fa».

Ricambiò il sorriso e puntò lo sguardo sul palco: una donna in un abito elegante, con una mascherina d’oro sul viso, vi si mise proprio al centro e, con il microfono alle labbra, annunciò che l’asta stava per iniziare, accompagnata da uno scroscio di applausi.

«Ma voi che cosa dovete fare, precisamente?», chiese Evelyn, dando un colpetto al braccio di suo zio con il dorso della mano.

«Ahm… non ne ho la più pallida idea», le sussurrò, divertito.

Anche Evelyn sorrise, poi tornò a prestare la sua attenzione sul palco, sul quale intanto vi era salito un uomo dai capelli brizzolati che avrebbe mostrato i beni messi all’asta e avrebbe svolto un po’ la funzione del giudice.

Ancora prima di iniziare sembrava una cosa lenta e noiosa e una volta iniziata ne ebbe la piena conferma: le offerte non finivano mai, continuavano a salire, ogni volta di pochissimo, e nessuno sembrava voler cedere. Evelyn si distrasse più volte, come del resto i Tokio Hotel, che parlavano tranquillamente tra loro, e una volta in particolare spaziò con lo sguardo fra i tavoli, facendo lo stupido gioco di riconoscere le facce conosciute, viste sui giornali patinati o in tv, fino a quando non incrociò lo sguardo profondo di un ragazzo seduto da solo ad uno dei tavolini dall’altro lato della sala. Fu uno shock per il suo cuore, che tremò come percosso, e il respiro le si mozzò in gola. Conosceva benissimo quegli occhi verdi, quel mondo in cui avrebbe voluto perdersi per sempre.

«E ora, signori e signore, i Tokio Hotel!».

A quelle parole Evelyn si risvegliò dall’incantesimo in cui era caduta in quell’attimo che era sembrato durare ore e guardò suo padre, poi suo zio e Gustav e Georg. Anche loro si guardarono frastornati, senza sapere bene cosa fare, ma si alzarono e si stamparono i loro sorrisi migliori per i flash delle macchine fotografiche.
La ragazza li guardò salire sul palco e mettersi vicino alla donna con la mascherina dorata, poi tornò a cercare con lo sguardo quegli occhi, ma non li trovò più. Col cuore in gola li cercò freneticamente percorrendo tutta la sala, ma sembravano spariti nel nulla.

«Grazie a voi per averci invitati, è un onore essere qui», sentì dire da suo padre e puntò l’attenzione su di lui. Che fosse stato un miraggio, quello di prima?

«Bene! La prossima offerta riguarda proprio questa fantastica band, conosciutissima in tutto il mondo e che è ormai ad un passo ad entrare nella leggenda della musica! O meglio, diciamo che riguarda il cantante della band, Bill Kaulitz…». Scroscio di applausi, a cui partecipò anche Evelyn, in maniera molto insicura. «Partiamo da 1.000 euro per un ballo con lui, proprio Bill Kaulitz!».

«Cosa?», balbettò lui, senza microfono. Iniziò a gesticolare nervosamente con le mani. «No, io in verità…».

«2.000!».

«Suvvia, signor Kaulitz! È per beneficenza!», lo inculcò ancora meglio la donna, con un sorriso mellifluo. «Chi offre 3.000?!».

«3.000!».

«3.000 la signora! Grazie signora!».

Bill guardò il fratello e non ci fu bisogno di un’espressione di profondo disagio perché Tom capisse ciò che stava provando: lo sentiva sulla sua pelle.

«3.500!».

«3.500! Grazie mille signora! Qualcuno vuole azzardare di più? È Bill Kaulitz, signore! Che cosa volete di più dalla vita? Farete una buona azione e avrete l’onore di ballare con…».

«5.000!», gridò una voce stridula che sia Evelyn che Bill riconobbero subito.

La presentatrice tv che aveva parlato con loro era in piedi e guardava il palco con lo sguardo acceso da una strana luce di perversione, come il suo sorriso. Bill a stento non digrignò i denti, mantenendo il suo sorriso plastico.

«Accidenti, signora, vuole proprio portarsi a casa questo ballo, eh? C’è qualcuno che vuole offrire di più? Nessuno? 5.000 e uno, 5.000 e due…».

«10.000», disse una voce dolce, con tono pacato.

Tutta la sala si voltò sorpresa verso la ragazza che aveva appena parlato, seduta comodamente sulla sua sedia, con solo la mano alzata. Capelli castani raccolti in una coda alta perfetta, pelle chiara e occhi verdi celati dietro una retina nera: solo guardandola si aveva la percezione di essere di fronte ad una ragazza infinitamente raffinata.
La presentatrice tv la guardò con astio e si rimise a sedere borbottando tra sé, mentre la donna sul palco boccheggiava. La ragazza sconosciuta sembrava perfettamente a suo agio e non aveva paura di affrontare lo sguardo di Bill, che non aveva fatto altro che fissarla per capire chi fosse, anzi accennava persino un sorriso soddisfatto.

«Bene», balbettò la donna dell’asta. «Credo che non ci siano altre offerte. Il ballo con Bill Kaulitz dei Tokio Hotel va alla signorina laggiù per la bellezza di 10.000 euro! Grazie signorina».

La ragazza ringraziò con un lieve cenno del capo e il pubblico applaudì, ma non smise di bisbigliare.

 

Una volta terminata l’asta, si diede il via alle danze. Bill, Tom, Georg, Gustav ed Evelyn, però, non si mossero dal loro tavolo. Rimasero a guardare le coppie che si alzavano ed andavano a ballare nell’ampio spazio rimanente tra la zona bar, con i tavolini e il palco, e le maestose scale di marmo bianco che portavano al piano superiore e che ad un certo punto si dividevano ad angolo retto.

«Che strano», borbottò Tom, con l’ennesimo bicchiere di vino in mano. Aveva le gote un po’ rosse, segno che non era lucidissimo. «Chissà chi è quella ragazza e soprattutto, chissà che fine ha fatto».

«Mmh», annuì Bill, soprappensiero. «Non ho molta voglia di ballare, ma due domande gliele farei se si facesse viva».

«Già, anche io», si intromise una voce che fece saltare i nervi ad Evelyn, che non badò a nascondere la propria irritazione e la guardò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Se solo sapessi chi è, scaverei nel suo passato, presente e futuro e al primo scheletro lo sbandiererei come notizia principale nel mio programma!». Nemmeno la presentatrice tv sembrava così lucida e la sua voce stridula era ancora più insopportabile.

«Mi dispiace deluderla, ma se cercasse di me non troverebbe proprio nulla», intervenì una voce quasi angelica rispetto a quella dell’altra donna. Tutti si voltarono verso la ragazza misteriosa e la guardarono pieni di curiosità, oltre che di ammirazione: nelle sue parole, come nei suoi gesti, non c’era nemmeno un filo di scortesia. «Sono come uno specchio, che per giunta non ha nemmeno una macchiolina di unto su di sé».

«È impossibile!», berciò, adirata. «Tutti, nella loro vita, hanno qualcosa di cui vergognarsi!».

La ragazza sgranò leggermente i suoi già grandi occhi chiari, poi sorrise e si lasciò scappare una leggera risata, coprendosi elegantemente la bocca con la mano. «Se lei ne è convinta, ci credo. Ora, permette? Ho pagato per un ballo a cui non voglio proprio rinunciare».

La presentatrice tv se ne andò sbattendo i piedi, imbronciata e con un diavolo per capello, quando la ragazza sconosciuta, invece, sorrideva innocentemente, quasi… angelica.
Si voltò verso i Tokio Hotel, in particolar modo verso Bill, e gli porse una mano. «Andiamo? Hanno appena messo un lento».

«Io non so ballare, specialmente i lenti», rispose il cantante, imbarazzato.

«Basta che non mi calpesti i piedi».

Bill prese la mano della ragazza con ancora un po’ di incertezza, guardando gli amici. Il fratello fece un gesto con la mano, in segno di andare, e poi cascò con la fronte sul braccio, addormentato.

«Mi sa che ha bevuto un po’ troppo», fece notare la ragazza, con un sorriso leggero sulle labbra rosate.

«Già, lo penso anche io», disse il frontman. Poi si avviarono verso la pista da ballo, a braccetto.

Evelyn, seduta accanto a suo zio, gli punzecchiò il braccio, cercando di svegliarlo, ma non ci fu verso: dormiva come un sasso e russava pure, tra i mugugni.

«Lascia perdere, è in catalessi da sbornia», le disse Georg, scuotendo il capo.

La ragazza gettò un occhio sulla pista da ballo, per vedere come andavano le cose fra suo padre e quella ragazza, ma il suo sguardo seguì un’altra rotta, quasi senza obbedire ai suoi comandi: salì le scale e proprio al bivio si fermò sulla figura di un ragazzo girato di schiena, con una mano sul manico dorato. Questo voltò il capo verso di lei ed Evelyn riconobbe immediatamente i suoi occhi. Era lui, non c’erano dubbi.

«Devo… devo andare un attimo in bagno», farfugliò guardando Gustav e Georg, prima di alzarsi in fretta e furia e voltarsi di nuovo verso le scale. Ma del ragazzo con lo smoking e la mascherina nera sugli occhi non c’era più nemmeno l’ombra.

Corse comunque su per la scalinata, stando attenta a non destare comunque troppi sospetti, e quando dovette scegliere scelse di andare a destra. Camminò con attenzione sulla moquette che ricopriva il corridoio dal quale si sporgevano dei piccoli davanzali che permettevano di vedere la sala da ballo sottostante, guardandosi bene intorno. Le parve di vedere l’ombra di qualcuno girare a sinistra verso la fine del corridoio ed aumentò il passo, girò l’angolo appoggiando una mano sulla parete e si trovò di fronte alla porta di una camera: il legno era intagliato finemente e c’erano delle cornici dorate sui bordi. Non avrebbe dovuto entrare, ma la curiosità la spinse a farlo.

Aprì la porta con lentezza, cercando di non fare alcun tipo di rumore. La stanza le si presentò meravigliosa, principesca con il letto a baldacchino, i mobili pregiati e un grande specchio su cui si riflesse immediatamente, appena entrata.

Si guardò intorno e, sul letto dalle coperte di seta, vide un grande fiore rosso. Si avvicinò con cautela, stringendosi nel proprio abbraccio, e una volta ai piedi del letto accarezzò i grandi petali del fiore. Non l’aveva notato prima, ma se faceva attenzione all’immagine del ragazzo che aveva inseguito, aveva proprio quel fiore rosso come ornamento della giacca. Lo prese fra le mani delicatamente, se lo portò al viso e ne respirò tutto il profumo. Era stato lì, l’aveva lasciato lì per lei.
Si avvicinò allo specchio e guardò per qualche secondo il fiore fra le sue mani, poi se lo infilò fra i capelli, sull’orecchio destro. Si contemplò sorridendo, fino a quando la finestra aperta non sbattè contro il battente, facendola spaventare. Si voltò e lo vide, appoggiato con le mani al davanzale, il viso basso e l’espressione assorta.

«Franky…», mormorò e si avvicinò a lui, poi gli aprì le braccia e si rifugiò nel suo abbraccio.

L’angelo la strinse a sé con delicatezza ed infilò una mano fra i suoi capelli sulla nuca, sussurrando: «Continuiamo a farci del male. E ho come la sensazione che non ti importi».

«Perché dici così?».

Franky la prese per le spalle e la guardò negli occhi con espressione addolorata, ma non rispose, lasciò a lei il compito di decifrare i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Evelyn accennò un sorriso, stringendogli le mani nelle sue.

«Non ti piacerebbe? Avere una famiglia, noi due e un piccolo marmocchio. Io già ci penso, sarebbe… magnifico».

«Sarebbe una follia», rispose invece l’angelo, sospirando e posando la fronte contro quella della ragazza. «La follia più bella del mondo».

Evelyn sorrise e portò le sue mani sul suo ventre, sentì l’angelo tremare a quel contatto e quando Franky sollevò lo sguardo trovò quello della bionda ad attenderlo, colmo di tenerezza.

«Maschio o femmina?».

Franky deglutì, ma non spostò le sue mani, né i suoi occhi da quelli di Evelyn. «Maschio».

«Oh cavolo, io preferivo una bambina!», si imbronciò e Franky non poté non lasciarsi andare ad una leggera risata, che contagiò anche lei. Poi l’angelo tornò ad abbracciarle la vita e le posò le labbra sulla fronte.

«Un piccolo me», sussurrò. «Con i tuoi occhi».

Evelyn sospirò felice e chiuse gli occhi.

 

If you had my child,
you would make my life complete
Just to have your eyes on a little me,
that’d be mine forever

 

***

 

Con una mano posata delicatamente sulla sua schiena nuda e l’altra nella sua, la guardava di sottecchi. Era bella, veramente. Le sue labbra chiare e sottili sembravano essere state plasmate per quel sorriso gentile, i suoi occhi leggermente a mandorla per brillare anche nell’oscurità.
Quando li incrociò arrossì e rivolse lo sguardo verso il basso, guardò i piccoli passi incerti che facevano i suoi piedi e pensò a Zoe. Chissà cosa avrebbe detto, se fosse stata lì.

«Non ho più voglia di ballare», disse improvvisamente la ragazza, scostandosi e tenendogli solo la mano. «Andiamo a prendere una boccata d’aria?».

Bill annuì e si lasciò portare fuori, sotto le arcate che circondavano un bellissimo chiostro, con tanto di fontana luminosa al centro. 

La ragazza tirò fuori dalla borsetta un pacchetto di sigarette e se ne portò una alle labbra, poi lo porse al cantante, che ringraziò e ne prese una. Se l’accesero con l’accendino di lei e rimasero per qualche minuto in silenzio, a fumare e a guardare le nuvole scure nel cielo che a tratti lasciavano spazio alla luna.

«Perché l’hai fatto?», le domandò Bill ad un certo punto, non potendo più aspettare di ricevere una risposta.

La ragazza sorrise e si mise seduta sul parapetto in pietra chiara, con le spalle contro una colonna. «Non lo so. Forse perché ho letto nei tuoi occhi il disgusto quando quella stramba signora sembrava averti nelle sue grinfie. Non mi sono mai piaciute le persone che ne strumentalizzano altre e pensano che tutto sia dovuto».

«Solo per questo?».

«Già», ridacchiò, guardando la sua espressione stupita. «Beh, a dire la verità, ero anche un po’ curiosa di conoscere il famoso Bill Kaulitz».

Bill spense la cicca in un posacenere lì vicino e si infilò le mani nelle tasche, annuendo. «Che te ne pare?».

«Non è niente male», rispose con un lieve sorriso. «Anche se credo che preferirei di gran lunga Bill. Ma è assai improbabile che io lo possa conoscere in una sola sera».

«Non si fa vedere spesso in giro, in effetti».

La ragazza si alzò, lo raggiunse e lo guardò negli occhi da vicino. «Salutamelo, se dovessi vederlo», gli sussurrò. Fece un passo indietro, allargando il sorriso sulle sue labbra, e ritornò dentro.

Bill rientrò qualche minuto dopo di lei e quando la cercò con lo sguardo fra i tavolini non la trovò. Non sapeva nemmeno come si chiamava. Con la sensazione che non l’avrebbe mai saputo, si avviò verso il tavolino su cui erano seduti i suoi migliori amici e il suo gemello che si era appena risvegliato dal pisolino post-sbornia.

«Bibi com’è andata con la tua amica?», gli domandò curioso, strascicando qualche parola. Si vedeva che era un po’ fuori e il nomignolo con il quale lo aveva chiamato, quello di quando avevano sei anni, ne era la conferma.

«Bene. Ma ti racconterò meglio domani, quando sarai più lucido».

«Giusto, hai ragione», borbottò, appoggiando la fronte alla spalla di Georg, che non seppe se caccialo via o meno.

«Piuttosto», riprese Bill, guardandosi intorno con un sopracciglio sollevato. «Dov’è Evelyn?».

«Ha detto che andava un attimo in bagno», disse Gustav. «Ah, eccola là!». La indicò che scendeva la scalinata principale, guardandosi i piedi per non cadere e con i capelli che le coprivano il viso.

Evelyn alzò lo sguardo verso il padre e gli sorrise, finì la rampa e lo raggiunse al tavolo. 
«Tutto bene?», gli domandò avvolgendogli un braccio intorno alla schiena e posando il capo sul suo petto.

«Sì, ma voglio andare a casa».

«Credo sia ora», concordò Georg, guardando l’orologio che aveva al polso sinistro. «Ehi Tom, riprenditi, dobbiamo andare a casa».

«Di già?», biascicò tirando su la testa ciondolante.

«Sarebbe meglio. Forza». Georg gli fece avvolgere un braccio intorno alle sue spalle e lo tirò su: riusciva a stare in piedi e a camminare, anche se barcollava un po’. «Ma perché riesci ad ubriacarti persino alle feste di beneficenza?».

«Io non sono ubriaco!», singhiozzò. «E non è colpa mia, continuavano a versarmi vino!».

«Sì, okay Tom, è colpa dei camerieri».

«Bravo Hagen, vedo che le cose le capisci al volo. Ma perché gira tutto?».

Salirono sulla limo e Tom si addormentò di nuovo, quella volta col viso appoggiato alla spalla di Gustav. Dissero all’autista di portare a casa prima lui e lo aiutarono ad entrare in casa, lo fecero sdraiare sul divano, visto che avrebbero fatto troppo casino in camera da letto e avrebbero di sicuro svegliato Linda, e gli diedero la buona notte.

I secondi ad arrivare a casa furono Bill ed Evelyn, visto che la loro villa era per strada. Salutarono Gustav e Georg e scesero dalla limo, poi entrarono nella casa buia e silenziosa.

«Io vado subito a dormire, sono stanca», disse Evelyn, alzandosi in punta di piedi per baciare suo padre sulla guancia. «Buonanotte».

«’Notte, tesoro».

La ragazza lo osservò dirigersi in cucina ed accendere una piccola luce, aprire il frigorifero e sbocconcellare qualcosa mentre prendeva una bottiglia d’acqua, poi salì su per le scale di vetro illuminate dai led.
Nel corridoio provò a slacciarsi la mascherina di pizzo bianco, ma non ci riuscì e lasciò perdere, dicendosi che se la sarebbe tolta in bagno, mentre si metteva il pigiama e si struccava. Ma i suoi piani furono sconvolti totalmente quando aprì la porta della sua camera e una folata d’aria gelida le frustò il viso.

«Chi le ha lasciate aperte?», borbottò infastidita, riferendosi alle porte finestre spalancate.

Stava per chiuderle, quando notò la figura che contro la luce della luna appariva molto più scura di quella che era in realtà. Il cuore le andò in fibrillazione quando la figura in questione si voltò e fece un passo verso di lei. La luna gli illuminò il viso per un attimo ed Evelyn trattenne il respiro. Era lui.

 

We’re made for one another
Me and you
And I have no fear
I know we’ll make it through

 

Franky annullò la distanza fra di loro ed accarezzò il fiore che aveva fra i capelli, poi le sfiorò la mandibola ed arrivò fino al collo candido. «Mi concede questo ballo?».

«Non c’è la musica».

«Immaginala». Le levò la mascherina che aveva sugli occhi con delicatezza ed Evelyn fece lo stesso con la sua, che lasciò cadere a terra.

Si appoggiò con il viso e una mano al suo petto, l’altra mano avvolta dalla sua. Lui la cullò dolcemente fra le sue braccia, al ritmo di una melodia lenta che cantarono piano a bocca chiusa, perfetta per unire i battiti dei loro cuori e fondere insieme le loro temperature corporee. Poi all’improvviso, la strinse a sé con uno scatto brusco ed affondò una mano fra i suoi capelli, il viso premuto contro il suo orecchio. «Cambia idea, per favore», mormorò con tono addolorato.

«No, Franky», rispose ferma e decisa. «Non lo farò mai».

«Perché mi fai questo?».

Evelyn non rispose, si lasciò soltanto stringere sempre più forte, fino a quando sentì le lacrime dell’angelo bagnarle il collo e il suo corpo tremare contro il suo a causa dei singhiozzi.

Quella volta toccò a lei cullarlo. Lo spinse all’interno, lo fece sdraiare accanto a sé sul letto, senza mai lasciarlo, e gli fece posare il capo sul suo seno. Lo ascoltò piangere e gemere per un po’, forse solo per minuti, forse per ore. Quando parve tranquillizzarsi e lasciarsi andare al sonno si accucciò al suo fianco e gli accarezzò i capelli, poi il viso. Lo osservò dormire con le labbra dischiuse e le guance arrossate dalle lacrime, l’espressione neutra, sino a che il sonno non appesantì anche le sue palpebre e fu costretta a chiudere gli occhi.

 

Yeah, you are my dream,
there’s not a thing I won’t do
I’ll give my life up for you,
cuz you are my dream

 

Quando fu sicuro che Evelyn si fosse addormentata, aprì gli occhi stanchi e la guardò. Le accarezzò il viso con la mano che tremava, si avvicinò e le sfiorò il naso con il proprio, il suo respiro gli accarezzò le labbra e avrebbe tanto voluto baciarla, ma si trattenne.

Il suo sguardo si posò sul suo ventre e tremò e gli venne la nausea all’idea di quello che avrebbe fatto di lì a poco. Posò una mano su di esso e lasciò per un attimo che quel calore meraviglioso si diffondesse in tutto il suo corpo.

Chiuse gli occhi per trattenere altre lacrime e a denti stretti sussurrò: «Mi dispiace da morire, Evelyn», poco prima che un fascio di luce biancastra uscisse dal palmo della sua mano.

Quando la luce si spense e Franky si lasciò andare ad un sospiro affaticato, sulla sua mano c’era una piccolissima luce che brillava. L’angelo la guardò con gli occhi colmi di lacrime, poi si girò verso la finestra e la soffiò via, verso la luna.

«Papà…».

 

***

 

Linda, svegliata dal trambusto che avevano fatto Bill, Georg e Gustav con suo marito, non era più riuscita a prendere sonno e si era preparata una tisana.
Appoggiata al ripiano della cucina riusciva a vedere Tom dormire con la bocca aperta sul divano in salotto, tutto vestito e coperto soltanto da una coperta. Ogni tanto russava e gli faceva molta tenerezza, sembrava un bimbo.

Non era più riuscita a riaddormentarsi perché aveva iniziato a pensare di nuovo a Franky. Quella sera, a cena, Arthur aveva pronunciato involontariamente il suo nome, arrossendo violentemente sulle guance perché doveva restare un segreto, e Linda da allora non aveva fatto altro che pensare a lui.
Che fosse la verità ancora stentava a crederci, ma erano tutti così convinti… Tom, suo figlio… Solo lei non riusciva a vederlo e, nonostante fosse assurdo, questa cosa le dava veramente fastidio. Si sentiva esclusa ed incapace.

Sospirò afflitta e bevve ancora un sorso di tisana, con un braccio stretto sotto il seno, quando sentì uno strano rumore provenire dall’ingresso. Mano a mano che passavano i secondi il rumore si faceva più vicino e chiaro: erano indiscutibilmente dei singhiozzi.
Col cuore in gola posò la tazza accanto ai fornelli e si tenne saldamente con una mano al ripiano della cucina. Un’ombra apparve di fronte alla porta della cucina e sobbalzò dallo spavento quando questa iniziò a diventare più nitida, fino a rivelarle il viso stanco di un ragazzo di sedici anni, rigato dalle lacrime; i suoi occhi erano colmi di tristezza e le sue labbra tremavano. Sembrava sconvolto.

«Franky?», balbettò con un fil di voce, riconoscendolo, e più che un’affermazione sembrò una domanda. Era davvero lui? Perché piangeva in quel modo?

Sul viso del ragazzo comparve una lieve traccia di sorpresa, ma venne spazzata via presto da un’altra valanga di lacrime e singhiozzi, ancora più forti di quelli precedenti, che lo fecero appoggiare allo stipite della porta e scivolare a terra con le ginocchia strette al petto.

Linda boccheggiò, senza sapere cosa fare, ma ci volle poco prima che il suo istinto materno le dicesse di avvicinarsi. Si inginocchiò al suo fianco, gli accarezzò una guancia con le dita e il ragazzo la guardò dritto negli occhi, ancora più stupito dietro il dolore.
Lo abbracciò, facendogli posare il capo contro il suo petto, e Franky la strinse forte, versando tutte le sue lacrime e soffocando i singhiozzi e i gemiti di sofferenza nella maglia del suo pigiama.

 

***

 

Evelyn si agitava e sudava nel suo letto, in preda ad un incubo.

 

«Ehi!», gridò da lontano, vedendo due figure che si tenevano per mano camminare nel buio, illuminate soltanto da un cono di luce. «Fermatevi!».

I due si fermarono e si voltarono con il busto verso di lei, che li riconobbe all’istante: il primo era Franky, con lo sguardo malinconico e sulle labbra nemmeno l’ombra di un sorriso; il secondo, invece, era un bambino dai capelli scuri e gli occhi azzurri come i suoi. Pur senza averlo mai visto, lo riconobbe come il suo bambino, suo e di Franky. Era bello come l’angelo.
Iniziò a correre a perdifiato verso di loro, ma sembrava non raggiungerli mai, per quanta forza ci mettesse.

«Franky! Franky aiutami, ti prego!», gridò senza più energie, cadendo in ginocchio per terra.

Il bambino la indicò e guardò l’angelo, che scosse il capo e lo prese fra le braccia. Franky gli indicò di salutarla e il bambino lo fece, poi si girò verso il padre e gli asciugò le lacrime che gli rigavano le guance.

«Franky! Franky!», gridò ancora Evelyn, rialzandosi e cercando di raggiungerli ancora una volta, ma fu tutto inutile: erano irraggiungibili, ormai.

L’angelo la guardò negli occhi e il bambino le disse qualcosa che lei non riuscì a sentire, poi Franky si voltò e con il bambino fra le braccia si allontanò, fino a quando il buio non li inghiottì ed Evelyn cascò nel vuoto.

 

Si svegliò di soprassalto, col fiato corto e i vestiti appiccicati al corpo talmente aveva sudato. Si toccò il viso e si rese conto di aver persino pianto. Franky non c’era più al suo fianco.

Si alzò dal letto e barcollò in bagno senza nemmeno guardare che ore fossero, sapendo soltanto che era ancora buio, con tutta l’intenzione di gettarsi sotto il getto bollente della doccia che l’avrebbe rilassata e avrebbe cacciato via quell’incubo dalla sua testa.

Accese la luce e dopo un momento di fastidio, riuscì a guardarsi allo specchio: il mascara le era colato tutto sotto gli occhi e sulle guance a causa delle lacrime e aveva i capelli in un aspetto pietoso.

Si mise seduta sul water per fare la pipì e trasalì quando vide i suoi slip rossi, anziché bianchi: erano completamente macchiati di sangue e coaguli.

«No, non è possibile», mormorò nel panico più totale. Strappò alla rinfusa un po’ di carta igienica e anche quella si inzuppò immediatamente di sangue quando si pulì.

Iniziò a piangere come una pazza isterica, continuando a ripetere che non era possibile. Ma non molto tempo dopo si sarebbe accorta che anche il suo letto era macchiato di sangue e che, accompagnata da suo padre al pronto soccorso, il suo bambino non c’era più.

Le parole che le aveva detto e non era riuscita a sentire nel sogno, le sentì in quel momento: «Ciao, mamma».

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Capitolo 17
*** A love like ours ***


17. A love like ours

 

You won't find faith or hope down a telescope
You won't find heart and soul in the stars
You can break everything, got the chemicals
But you can't explain a love like ours

 

Tom mugugnò lamentosamente, col viso nascosto fra le braccia.

«Cos’hai, mal di testa?», gli chiese Linda, seduta al suo fianco, che beveva una tazza di caffèlatte caldo.
Fece di sì con la testa, continuando con i suoi versi monocorde.
«Così magari è la volta buona che capisci che non puoi più alzare il gomito come facevi da ragazzino: non hai più l’età».

Tom sollevò il capo e con gli occhi piccoli, infastiditi dalla luce del lampadario, la guardò in viso. Rimase a fissarla senza dire niente, fino a quando lei non sbottò: «Che hai da guardare?».

«Sei acida, stamattina», biascicò passandosi una mano sul viso. «E quando lo sei è perché sei preoccupata».

Linda si alzò per andare a posare la sua tazza vuota nel lavandino.

«Me ne vuoi parlare?», concluse Tom, con tono premuroso.

La donna sospirò e si voltò verso di lui, si avvicinò e si mise seduta di traverso sulle sue gambe. Gli accarezzò una guancia immergendo gli occhi nei suoi.
«Stanotte ho visto Franky», sussurrò, facendo sobbalzare il chitarrista.

«D-Davvero? C-come…?».

«Quando Gustav, Georg e Bill ti hanno scaricato sul divano mi hanno svegliata involontariamente e non sono più riuscita a dormire. Così mi sono preparata una tisana e ad un certo punto lui è entrato in casa, è passato di fronte alla cucina e io… l’ho visto».

«Sei scossa per questo?», le domandò comprensivo, spostandole un ciuffo di capelli dalla guancia.

«No», dissentì con un cenno del capo. «Il fatto è che piangeva. Era… disperato, sconvolto. Io non sapevo cosa fare, ma poi l’ho abbracciato e… Fra le mie braccia l’ho sentito così piccolo e fragile… possibile che il suo dolore fosse così grande? Siamo rimasti fermi così per ore, ma non sono riuscita a consolarlo».

«Devo parlargli», si affrettò a dire, già pronto ad alzarsi mollando giù malamente Linda, ma lei lo trattenne seduto posando le mani sul suo viso.

«Non c’è, se n’è andato», sussurrò appoggiando il volto su di esse e poi su quello di Tom, fronte contro fronte, naso contro naso.

Il silenzio calò inesorabilmente su di loro, si sentivano solo i loro respiri che si fondevano l’uno nell’altro.

Il telefono squillò, Linda si alzò e si portò la cornetta all’orecchio. Non parlò, non ne ebbe il tempo. Bill le spiegò tutto quello che era successo mentre loro ancora dormivano e la pregò di avvisare anche Tom. «Ma non è necessario che venga, sul serio», specificò però e dal suo tono di voce Linda capì che probabilmente non voleva nemmeno vederlo, non per il momento almeno.

«Chi era?», le chiese appena la vide rientrare in cucina, con una mano stretta a pugno sul petto.

«Tuo fratello. Evelyn ha avuto un aborto spontaneo».

Tom trattenne il respiro per qualche secondo, poi liberò tutta l’aria che era rimasta un po’ troppo nei suoi polmoni con un sospiro stanco.

Franky che se ne va e Evelyn che ha un aborto spontaneo. Non ci mise molto per capire che le due cose erano collegate, come la maggior parte degli avvenimenti se c’entravano quei due.

 

***

 

Era stato un vigliacco a lasciarla sola, ma non aveva potuto fare altrimenti.

Camminava con passo stanco e ogni tanto si appoggiava alle pareti bianche degli edifici e alle vetrine pulite che costeggiavano le strade che percorreva senza una meta.
Si sentiva distrutto, aveva voglia di cadere a faccia in giù sul cemento e rimanere lì così, di essere preso come un intralcio sul marciapiede oppure di essere calpestato, ma sapeva che tutto quello non sarebbe mai avvenuto: era pur sempre il Paradiso.
Continuò a camminare e senza quasi rendersene conto arrivò al suo appartamento. Aprì la porta, la chiuse mollemente alle sue spalle e, dopo aver gettato la sua borsa e il suo skate per terra, iniziò a spogliarsi, seminando indumenti lungo la strada per arrivare al suo letto sfatto.

Divorato com’era dal suo dolore non si era nemmeno accorto che seduta sul bordo del letto c’era Kim. Sentì soltanto le sue braccia avvolgergli la schiena e i suoi capelli solleticargli la guancia. E poi la sua voce, quella voce così diversa dalla sua, che non avrebbe voluto sentire. Non voleva sentire la voce di nessuno eccetto proprio la sua, nonostante fosse quella di cui aveva più paura.

«Franky per fortuna sei tornato, non ce la facevo più… Sono così contenta di riaverti qui, che tu stia bene».

«Io non sto bene», ruggì debolmente.

«Lo so che adesso è dura, ma vedrai che ti passerà presto. Non te ne ricorderai nemmeno più».

Cazzate. Cazzate! Franky chiuse gli occhi, prese Kim per le braccia e l’allontanò dal suo petto. Non voleva sentire altre stronzate, era stanco e voleva stare un po’ da solo.

«Vai via, per favore», mormorò.

«No, Franky, io non ti lascio solo proprio in questo momento, te lo puoi anche…».

«Ti ho detto di andartene!», urlò col viso rosso di rabbia, celando dietro le palpebre le ennesime lacrime che premevano per scavare ancora una volta le sue guance.

Kim, intimorita, fece un passo indietro, annullando ogni contatto fra loro, poi uscì dall’appartamento. Ma non sbattè la porta, no, la chiuse con delicatezza, una delicatezza che fece alterare ancora di più l’angelo, che aveva solo voglia di spaccare tutto.

Assieme alle lacrime quella volta scivolò via dal suo corpo anche tutta la rabbia che aveva contenuto dentro di sé per così tanto tempo. Il suo appartamento fu come investito da un tornado e alla fine, quando la tempesta si placò, Franky cadde senza più forze sul letto. Si rannicchiò su un fianco come un bambino e chiuse gli occhi. Cercò di trattenere in gola quei singhiozzi, ma bruciavano maledettamente, come i suoi occhi che continuavano a versare quelle stupide gocce di acqua e sale. Avrebbe potuto piangere per ore, ma il dolore non sarebbe scivolato via con loro, sarebbe sempre rimasto dentro di lui, a solidificarsi come cemento sul suo cuore, rendendolo pesante, un peso troppo grande da portarsi dietro.

 

***

 

Anche Evelyn era rannicchiata sul suo letto, che piangeva ogni lacrima ancora rimasta. Il suo corpo tremava e sobbalzava a causa dei singhiozzi, lo sentiva così… vuoto. Quasi appassito, come il grande fiore rosso che giaceva sul suo comodino.

 

Bill, al piano di sotto, aveva appena terminato la chiamata che aveva fatto a casa di Tom. Aveva parlato con Linda e sperava che suo fratello non lo raggiungesse: avrebbe soltanto peggiorato le cose.

Era a pezzi, a pezzi veramente. Aveva guardato sua figlia iniziare a piangere già in macchina, mentre si mordeva le labbra con forza per trattenere dentro di sé i singhiozzi; aveva ascoltato ogni suo respiro strozzato, ogni volta che aveva tirato su col naso, ogni volta che la sua testa dava quei piccoli colpetti al finestrino freddo. E non era riuscito a fare niente: non l’aveva consolata, non l’aveva stretta fra le sue braccia, aveva avuto vergogna persino di guardarla e di ascoltarla piangere.

Quando aveva scoperto del bambino ci era rimasto davvero male. Aveva sperato che decidesse di abortire e in un certo senso si era anche arrabbiato perché non l’aveva fatto, ma ora era distrutto perché quel bambino che sarebbe dovuto nascere non c’era più e Evelyn stava male. Il dolore di sua figlia lentamente era entrato anche dentro di lui e l’aveva demolito. O meglio, smontato pezzo per pezzo, facendogli ancora più male.

Sospirò pesantemente e si diresse in cucina, preparò il thè e ne versò un po’ in una tazza.
Forse non ne sarebbe stato all’altezza, ma doveva almeno provarci. Sua figlia soffriva, doveva fare qualcosa.

Stava per salire le scale, quando il campanello suonò. Chi poteva essere a quell’ora di mattina? Un solo nome gli lampeggiò come un’insegna al neon nella mente.
Lasciò la tazza sul tavolino del salotto e si diresse alla porta con passo deciso, le labbra serrate in un’espressione infastidita.

«Tom, avevo chiesto a Linda di dirti che non era necessario che venissi, ma a quanto pare tu fai sempre di testa tua!», sputò fuori a raffica, tanto che quando realizzò che di fronte a lui c’era una ragazzina dell’età di Evelyn che lo guardava con le sopracciglia inarcate e gli occhi grandi era troppo tardi.
«Ops», balbettò imbarazzato. «Scusa, io ero convinto…».

«Già», rispose la ragazza con un sorriso altrettanto impacciato. Annuendo, il pom-pom che aveva sulla cima del cappellino nero dondolò di qua e di là.

«Tu sei…?», la incalzò Bill, dopo qualche secondo di silenzio che non aiutò per niente ad alleviare l’imbarazzo d’entrambi.

«Oh sì, giusto. Mi chiamo Margot e sono una compagna di classe di Evelyn».

«Ma non dovresti essere a scuola, adesso?».

«La scuola è chiusa per le vacanze da ieri», spiegò, guardandolo come se fosse scemo.

«Ah, è vero…». Ormai, con tutto quello che era successo, aveva perso il conto dei giorni. «Comunque piacere di conoscerti. Evelyn non mi ha mai parlato di te…».

«Non ci siamo mai rivolte la parola, a dir la verità», rimuginò con gli occhi rivolti al cielo. «Ma questa è un’altra storia».

«È una storia che mi interessa, invece», disse bruscamente. «Vuoi entrare un momento?».

«Ehm… preferirei di no», indicò l’auto col motore acceso dietro di sé, «c’è il mio ragazzo che mi sta aspettando. Sono solo passata a dare i compiti delle vacanze ad Evelyn».

Bill sollevò il sopracciglio. «E perché proprio tu, se non sono indiscreto?».

«Nessuno voleva venire, così il professore di matematica ha preso un nome a caso – il mio, per l’appunto».

Il cantante socchiuse gli occhi e sospirò amareggiato. Sua figlia era un’emarginata, proprio come lui e Tom alla sua età. Loro però avevano sempre potuto contare l’uno sull’altro, lei non aveva nessuno.

«Okay», sfiatò ritornando alla realtà. «Spiegami quali sono, poi glieli dirò». Si sporse per vedere i libri e le schede che reggeva fra le mani, ma Margot se li portò stretti al petto.

«In realtà sarebbe meglio se spiegassi direttamente ad Evelyn ciò che deve fare. Il professore si è raccomandato che capisse e che quindi potesse esercitarsi al meglio, soprattutto in matematica, perché sta rischiando molto quest’anno, con tutte queste assenze…».

«E credi che sia colpa sua, se fa tutte queste assenze?!», gridò trattenendo a stento la rabbia.

La ragazza non rispose, rimase lì impalata con i libri stretti al petto. Il suo ragazzo, intanto, era sceso dall’auto e l’aveva raggiunta.
«Tutto bene?», le chiese, lanciando un’occhiataccia al viso rosso del cantante.

«Sì», rispose lei con tono fiero. «Torna in macchina e aspettami, penso che ci metterò più del previsto». Con un gesto davvero poco educato spostò Bill dall’ingresso ed entrò in casa. Il frontman non poté far altro che seguirla.

Si mise seduta sul divanetto, di fronte al tavolino su cui c’era la tazza di thè ormai freddo, e vi poggiò sopra tutti i compiti delle vacanze di Evelyn.
«Insisto, voglio spiegare a lei cosa deve fare durante le vacanze», disse con un’espressione seria e decisa sul volto, senza guardarlo.

«In questo momento è impossibile, davvero», le spiegò ancora una volta, ma Margot parve non sentire.

Infatti si alzò e si guardò intorno, annuendo ogni tanto. «Scommetto che la sua camera è al piano superiore», esordì ad un certo punto, indicando le scale di vetro. «Vado ad annunciarmi da sola, se le scoccia».

«No, no, no. Ferma», la bloccò un momento prima che raggiungesse la scalinata. «E va bene, hai vinto», si arrese, più che innervosito.

«Io vinco sempre», sorrise raggiante, inclinando la testa di lato e saltellando di nuovo verso il divano, col suo pom-pom nero che ballonzolava sul capo.

Bill salì le scale lentamente, raggiunse la camera della figlia e fece un respiro profondo prima di bussare. Non ricevette alcuna risposta, ma entrò comunque. La vide rannicchiata sul suo letto, così piccola e debole, che piangeva sotto le coperte. Salì a quattro zampe sul materasso e le accarezzò il braccio con una mano, mentre provava a sbirciare il suo viso sotto la coperta.

«Tesoro», sussurrò amorevole. «C’è una tua compagna di classe in salotto, una certa Margot. Ti ha portato i compiti delle vacanze e insiste per volerteli dare a te direttamente. Ho provato a dirle che –».

«Scendo fra un attimo», biascicò tirando su col naso, interrompendolo.

«O-Okay», balbettò incredulo e scese dal letto.

Una volta che fu uscito dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, Evelyn si tirò su a sedere, appoggiò la schiena alla spalliera del letto e si concentrò sul suo respiro, ancora irregolare. Cercò di stabilizzarlo e quando si sentì pronta si levò le coperte di dosso e si alzò.

Il fiore, appassito come lei, rimase lì sul comodino, immobile. Non l’avrebbe buttato, come non avrebbe buttato se stessa: era tutto ciò che le ricordava che qualcosa dentro di lei era vissuto, anche se per poco. 

 

«Sta arrivando», bofonchiò Bill, guardando severamente la ragazzina seduta sul divanetto del suo salotto.

«Bene».

Margot guardò il cantante sporgersi per prendere la tazza di thè che aveva abbandonato sul tavolino e dirigersi in cucina con passo stanco. Non era il Bill Kaulitz che si era immaginata molte volte: era un uomo che soffriva, glielo si leggeva in faccia, in quelle occhiaie che gli scavavano gli occhi sempre luminosi sulle riviste dei giornali, in quei vestiti normalissimi, quasi trasandati.
Vedere Evelyn fu ancora più sconvolgente. Non era la stessa Evelyn sua compagna di classe che aveva sempre visto con sguardo cieco: i capelli arruffati, gli occhi gonfi e rossi di pianto, il viso scavato, la felpa larghissima che le cadeva sulle gambe magre. Era il ritratto della sofferenza.

«Ciao», le disse con la voce roca, avvicinandosi a lei con passo incerto. «Non dovevi disturbarti a venire fino a qui».

«Non ti preoccupare», balbettò Margot, facendosi un po’ più in là per farla sedere al suo fianco. «Ero per strada. E poi da chi saresti andata a chiederli?».

Bastò vedere gli occhi di Evelyn abbassarsi miseramente per vergognarsi e desiderare di non aver detto niente. A volte parlava davvero troppo e a sproposito. E il peggio era che non riusciva a chiedere scusa. Mai.

«Comunque ti ho scritto qui tutto quello che devi fare… Il prof di matematica mi ha chiesto di spiegarti velocemente come fare un esercizio…». La guardò per cercare di capire se poteva spiegarglielo e nonostante si vedesse che non era proprio il momento ci provò comunque e scarabocchiò su un foglio i passaggi da fare. Quando le chiese: «Hai capito?», lei annuì col capo, ma si era accorta subito che non aveva seguito nulla di quello che aveva detto: la sua testa era da un’altra parte, completamente.
Sospirò e scribacchiò sullo stesso foglio il suo numero di cellulare, poi si alzò. «Chiamami uno di questi giorni, te lo spiegherò di nuovo».

«No», balbettò con gli occhi sgranati. «Non c’è bisogno che ti scomodi ancora per me, me la caverò…».

Margot la guardò con un’espressione demoralizzata. Perché era stata lei la sfigata che il prof aveva sorteggiato? Se lo continuava a domandare e di certo stare dietro a quella ragazza disadattata non le faceva chissà che piacere, ma ormai aveva preso un impegno ed era decisa a mantenerlo.

«Non dire stronzate», rispose alla fine e con quel sorrisetto impertinente salutò sia lei che Bill, poi uscì da casa Kaulitz.

«Che ragazzina arrogante», esclamò quest’ultimo, incrociando le braccia al petto.

Evelyn si alzò dal divano senza dire niente, lasciò lì tutti i libri e il foglio che Margot le aveva portato e si diresse di nuovo verso le scale.

«Hai fame? Vuoi qualcosa? È quasi l’ora di pranzo e non hai fatto nemmeno colazione stamattina…», la rincorse Bill, preoccupato.

«No, non ho fame, grazie», soffiò e lentamente sparì al piano superiore, sotto lo sguardo afflitto di suo padre, che poi si piazzò di fronte alla tv, lo sguardo fisso su di essa, seppure fosse spenta.
Se ci fosse stata Zoe… lei avrebbe saputo sicuramente cosa fare.

 

Con calma si risistemò sotto le coperte, si rannicchiò in posizione fetale, le ginocchia in gola, e chiuse gli occhi, come se nulla fosse successo e tutto fosse normale.

«Non hai nulla che non va, gli aborti alle prime settimane sono molto frequenti. Ed è stato meglio così», le aveva detto un medico mentre firmava una cartellina, sorridendo cordiale. «Avendo questa emorragia hai evitato il raschiamento».

«È stato meglio così, piccina», le aveva detto poi un’infermiera accarezzandole i capelli sulla testa, fino ad arrivare alla sua guancia, sul suo viso pallido e ancora segnato dal trucco nero. «Sei ancora troppo piccola per avere un bimbo».

Quelle parole continuavano a rimbombarle nella testa, ad infilzarle il cuore. Tutti le avevano detto che era stato meglio così, nessuno aveva capito che per lei non lo era stato affatto.
Quel bambino che non aveva mai visto – solo in sogno quella notte, – quel bambino che però era nato e cresciuto in lei, quel bambino che in termini medici non era altro che un ovulo cieco, una vita ancora non iniziata, era ciò che più aveva voluto al mondo. E non c’era più. 
Si sentiva inutile, priva di vita, svuotata. Sola, tremendamente sola.

 

***

 

«Devo andare, adesso», sussurrò Linda posandogli da dietro le mani sulle spalle. Gli baciò la guancia destra e guardò per qualche secondo il suo viso pensieroso, il suo sguardo assente.
«Vedrai che tornerà», gli avvolse il collo con le braccia, nascondendo il viso contro la sua nuca. «Ci vediamo dopo, occupati di Arthur».

Tom la salutò con un gesto della mano e un sorriso appena accennato, poi si alzò e sistemò nei mobili della cucina i cereali che mangiavano lui e Linda e la confezione di brioche. Sul tavolo lasciò soltanto il necessario per la colazione del figlio.
Camminò lungo il corridoio buio a causa del cielo livido ed entrò nella cameretta di Arthur, sicuro di trovarlo ancora addormentato. Ma il suo letto sfatto era vuoto.

«Arthur?», lo chiamò con una certa preoccupazione nella voce. «Arthur, dove ti sei cacciato?». Controllò in bagno e nella camera da letto, ma non lo trovò. «Non ho proprio voglia di giocare a nascondino, non è giornata, quindi è meglio se ti fai trovare».

Attraversò di nuovo il corridoio, dalla parte opposta, diretto verso lo studio dove teneva gelosamente custodite le sue chitarre e il pianoforte. Passando di fronte alla camera degli ospiti però, notò che la porta era socchiusa. La spinse in avanti con una mano e seduto sul bordo del letto, col viso rivolto verso la finestra, vide il piccolo Arthur, che muoveva le gambe avanti e indietro.

Tirò subito un respiro di sollievo, poi accennò un sorriso e, ancora appoggiato allo stipite della porta, disse: «Ehi piccolo, che ci fai qui?».

«Aspetto», gli rispose con la sua vocetta ancora un po’ assonnata. «Aspetto che Franky torni a casa».

Tom notò per la prima volta quanto fosse spoglia quella camera. Non era come le altre volte, se n’era andato portandosi dietro tutte le sue cose. Non era rimasto nulla di lui in quelle quattro mura, il che stava a significare che non aveva intenzione di tornare tanto presto. Ma suo figlio, forse un po’ ingenuamente, lo stava aspettando.
Si commosse e si avvicinò al corpicino di Arthur, si mise seduto al suo fianco e guardò anche lui fuori dalla finestra: aveva iniziato a piovere.

«Posso aspettare qui con te?», gli chiese in un sussurro.

Il bimbo annuì e gli prese la mano nella sua piccina.

 

***

 

Zoe aprì gli occhi al cielo plumbeo sopra la sua testa. C’era profumo di pioggia nell’aria.

Quella mattina si era svegliata inquieta, certa che qualcosa fosse successo. Di sotto, di sopra… non lo sapeva. Forse da tutte e due le parti, era quella la sensazione che avvertiva.
Di lì a poco avrebbe piovuto e non aveva alcuna paura di bagnarsi, anzi avrebbe tanto voluto camminare un po’ sotto la pioggia, lasciarsi bagnare e lasciare che l’acqua la purificasse, portandosi via tutti i segni della sua silenziosa sofferenza.

«Zoe», la chiamò una voce potente e allo stesso tempo amorevole. La donna si voltò e sorrise andando incontro a San Pietro.

«Salve, che ci fa da queste parti?», gli domandò.

«Questa domanda dovrei farla io a te… Hai intenzione di fare la doccia con l’acqua piovana?».

Zoe sorrise. «Deve dirmi qualcosa?».

«Ti accompagno dentro».

A braccetto raggiunsero la struttura ospedaliera, vi entrarono e il santo la accompagnò fino alla sua stanza, nella quale finalmente si decise a parlare.
«Si tratta di tua figlia».

Zoe chiuse gli occhi, sentendo il cuore pomparle il sangue nelle vene fin troppo velocemente. «Che le è successo ancora?».

«Ha perso il bambino che aveva in grembo». Lo disse con tranquillità, come se fosse alla regola del giorno dare una notizia del genere. Lui stesso non credeva che potesse dirle una cosa tanto delicata in modo così pacato.

«Mi sta prendendo in giro, vero?».

San Pietro scosse il capo, sconsolato. «Temo di no».

Rimase per un po’ in silenzio, il viso stropicciato e i pugni stretti sulle ginocchia. Pensò alla sua bimba, così piccola e che aveva già dovuto affrontare così tante difficoltà sul suo percorso, tra cui la perdita di un figlio che voleva con tutta se stessa. Il dolore più grande che una donna potesse provare, lei lo stava già provando sulla sua pelle. Ricordò i suoi occhi pieni di determinazione e di amore per quel cucciolo che era ancora un esserino minuscolo nella sua pancia, ricordò come lo aveva difeso da tutto e da tutti… Ed immaginò i suoi occhi odierni: scuri, privi di luce, sconfitti.

«C’è un’altra cosa che volevo dirti», aggiunse San Pietro, infiltrandosi fra i suoi pensieri con timidezza e circospezione, per non turbarli troppo.

«Mi dica», mormorò senza sollevare il viso.

«Franky è tornato di sopra, se vuoi vederlo». Anche se credo che sia lui ad aver bisogno di vedere te.

Zoe lo guardò negli occhi e fece segno di sì con la testa, si alzò e col suo passo veloce, anche se stanco, raggiunse il palazzo in cui si trovava l’appartamento del suo angelo custode. Fuori dalla porta, seduta con la schiena al muro, c’era Kim.

«E tu che ci fai qui?», le domandò l’angelo speciale, appena la vide arrancare verso di lei, col fiato grosso.

«Sono venuta a trovare il mio angelo custode, non posso?». Si voltò verso la porta e bussò, chiamandolo.

«Credi che se volesse vedere qualcuno io me ne starei qui fuori?», le domandò Kim con un tono un po’ arrogante, ostile, con le sopracciglia inarcate.

Zoe si girò lentamente ed inchiodò i suoi occhi infuocati in quelli di Kim. «Stai insinuando che io, io valgo meno di te? Che Franky, solo perché non vuole vedere te, non vuole vedere me?». Mentre parlava la sua voce continuava ad alzarsi, un'ottava alla volta, e le sue mani gesticolavano sempre di più, indicandola ed indicandosi. «Sei proprio fuori strada. Io e lui abbiamo un legame indissolubile, ci conosciamo da quando siamo piccoli così… Come ti permetti di dire queste cose?». Furente, prese di nuovo a pugni la porta, gridando: «Franky, cazzo, vuoi aprirmi?!».

Kim si alzò in piedi e con tono insolente, anche se aveva il viso rosso porpora, esclamò: «Si da il caso che io e Franky in questo periodo siamo diventati piuttosto intimi!».

«Cioè, scopate?». La guardò col sopracciglio sollevato, un sorrisetto beffardo sulle labbra. «Il sesso non conta nulla per avere un legame profondo come il nostro. Con Franky non è mai stato così, perlomeno».

La serratura della porta scattò con rumori lenti, calibrati, e questa si socchiuse, poi si aprì tanto da far vedere la figura di Franky. Sembrava più magro, il viso scavato e pallido, le occhiaie che gli contornavano gli occhi opachi, le labbra sottili involontariamente incurvate all’ingiù. A Zoe le si spezzò il cuore vedendolo così.

«Che cosa ti è successo?», gli domandò con un fil di voce.

«Niente», gracchiò con la voce roca, quella che Zoe conosceva bene: ce l’aveva la mattina, appena sveglio, oppure quando piangeva… 
«È la riabilitazione che è molto dura», si affrettò ad aggiungere, infatti.

Zoe fece finta di crederci ed entrò nell’appartamento accarezzandogli il braccio. Kim allora si avvicinò per fare la stessa cosa, ma si ritrovò con la porta sbattuta in faccia.
Non fu tanto forte da risedersi spalle al muro ad aspettare, se ne andò, arresa. Galoppò giù le scale, uscì in strada, sotto la pioggia che aveva iniziato a cadere, e si coprì la testa col cappuccio della felpa che indossava.

Camminò per un po’, il viso basso e le mani affondate nelle tasche della felpa, guidata soltanto dalle sue gambe. Pensò a Franky e a ciò che le aveva appena detto Zoe, a quelle parole che le avevano fatto così male, proprio perché erano veritiere. Lei non poteva pretendere di essere come lei oppure come Evelyn. Franky non l’amava, non l’avrebbe mai amata.

Una spalla forte si scontrò contro la sua, facendola barcollare di lato ed appoggiare con una mano al muro. Si voltò senza essere realmente interessata a scoprire chi fosse stato ed incrociò un paio di occhi chiari, infossati in un viso delicato come cristallo. Lo riconobbe con un tuffo al cuore. Ai suoi occhi anche Raphael parve sentire il tonfo sordo di quel pezzo di piombo che cadeva nelle acque dei ricordi.

«Scusa», le disse con le labbra dischiuse, incredulo e allo stesso tempo impaurito come un bimbo. C’era di più del perdono per quella spallata. Ce n’era un’altra ben più forte, che l’aveva scagliata ben più lontano, per la quale voleva scusarsi.

Kim rimase lì, in silenzio ad osservarlo. Aveva i capelli biondi appiccicati alla fronte, che gli gocciolavano sul viso.

«Non importa». Lo disse anche se non lo pensava davvero. La spallata che le aveva dato molti anni prima, quella che l’aveva definitivamente divisa dal suo amore, quella che l’aveva uccisa dentro, era ancora lì a farle male. Non una steccatura, non una fasciatura… nessuno si era occupato di curarle quella frattura che col passare del tempo era diventata una spaccatura impossibile da sistemare. Poi era arrivato lui, l’antidolorifico, la dose di morfina che l’aveva fatta sorridere di nuovo, ma che riusciva anche a farla piangere e star male. Lui era riuscito a restituirle l’amore, l’odio, la gioia, la paura… tutti i sentimenti possibili ed immaginabili. Era riuscito a farla rivivere. Il nipote del suo Pete, quello che non aveva mai conosciuto.

Chiuse gli occhi alle lacrime e si voltò, riprese a camminare fra i passanti, stando attenta a non sfiorare nessuno. Sentì i suoi passi rincorrerla e la sua voce chiamarla. Ma non si fermò.
Scappò da Raphael, dai ricordi, fino a quando non sentì più nessuno dei due inseguirla a perdifiato.

 

Franky appoggiò l’orecchio contro il cuore dell’amica. Chiuse gli occhi, rilassato da quel tum-tum regolare e dalla sua mano che gli accarezzava docilmente i capelli, dalla fronte alla nuca e viceversa.

«San Pietro mi ha detto quello che è successo ad Evelyn», esordì Zoe a voce bassa, per non infrangere quel clima di pace che si era creato intorno a loro, su quel letto sfatto ormai da chissà quanto.

Franky, per non far percepire la sua improvvisa rigidità, cambiò posizione e posò il capo contro la sua pancia un po’ molle, che aveva creato la vita.

«Vorrei poter stare con lei in questo momento», continuò. «Vorrei poterla abbracciare, dirle che è tutto a posto, che quando sarà il momento potrà riprovarci e vivere pienamente la gioia di essere mamma».

L’angelo si mise supino. Sul soffitto bianco vide l’immagine di lui ed Evelyn, che correvano per prati infiniti, colmi di fiori, fino ad attraversare un campo di grano e poi uno di girasoli. Quando si fermarono, stanchi e sorridenti, si vide anche il bimbo che tenevano per mano: il loro bimbo, che rideva senza fiato, gli occhi colmi di felicità.

«Ma non posso… mi sento priva di forze da quando il pezzo della tua anima è nel mio corpo. Quindi…».

Franky lesse prima della sua lingua i suoi pensieri e si tirò seduto, con le gambe a farfalla, che agitava con le mani che univano i piedi. 
«Anche io sono molto stanco da quando ti ho dato il pezzo della mia anima e la riabilitazione è molto faticosa, mi sottrae un sacco di energia… E poi non saprei nemmeno come fare, io…».

Zoe gli prese il viso fra le mani e fuse i suoi occhi color del mare in quelli verdi dell’angelo. «Tu te la cavi sempre, in un modo o nell’altro», sussurrò con un sorriso. «Fallo per me, Franky. So che non riesce a vederti, ma... voglio che tu le stia vicino, almeno per un po’».

Quello che gli stava chiedendo inconsapevolmente era una tortura. Era come buttarsi nel fuoco e ridere del proprio corpo che brucia. Era come buttarsi nel mare in tempesta e spalancare la bocca autonomamente e brindare alla propria fine. Era troppo, troppo. La ferita era ancora troppo fresca, ancora troppo giovane ed indifesa nel suo cuore, non poteva davvero affrontare di nuovo la spada del dolore brandita da Evelyn senza nemmeno un misero scudo. Il primo colpo sarebbe stato quello mortale.

Poi pensò alla sua anima a brandelli, ai pezzi mancanti e a quelli che ancora possedeva e che non avrebbe esitato a donare se ce ne fosse stata la necessità. Perché non doveva essere così anche per il suo cuore ferito? Il suo compito non era quello di soffrire ed aver paura di star male, ma di stare vicino ai più soli, di curare i feriti, di dare forza ai più deboli. Era quello il suo compito, soprattutto con i suoi amici e con le persone che amava. Perché sarebbe stato disposto a dare la vita per loro, ad affrontare tutto il male del mondo se richiesto. Tutta quella paura era inutile. Evelyn aveva bisogno di lui e lui doveva esserci per lei, a qualsiasi costo, anche della sua stessa vita, del suo stesso cuore, della sua stessa anima. 

«Lo farò», disse esalando un respiro che non sembrava l’ultimo, ma il primo: non quello di morte, ma di nascita.

Zoe lo abbracciò e lo strinse forte al petto, una mano sulla sua nuca.

 

We're just trying to find some meaning
in the things that we believe in,
but we got some ways to go

 

Nelle ore successive, Franky preparò con cura tutto ciò che avrebbe dovuto portarsi di sotto e sistemò, con l’aiuto di Zoe, il suo appartamento disastrato. Le aveva detto più volte di non affaticarsi inutilmente, che ci avrebbe pensato lui, ma lei aveva sorriso e gli aveva risposto che era da tanto tempo che non faceva un po’ di lavori domestici.

«E ti mancano?».

«Non avrei mai pensato di dirlo… ma mi mancano, sì».

L’aveva stretta in un forte abbraccio, le aveva accarezzato i capelli.

Quando tutto fu sistemato, Franky l’accompagnò in ospedale, dove crollò come un sasso appena sdraiata sul suo letto. L’angelo la guardò con infinita tenerezza: sembrava una bambina. Le sfiorò il viso con il dorso della mano, le baciò la fronte e poi se ne andò.

Camminò col tramonto alle spalle e giunse all’abitazione di Kim. Bussò alla porta, senza nulla in mano, ed attese che gli venisse ad aprire. Sempre se era in casa… Aspettò per qualche minuto e quando ormai si era voltato per andarsene la porta si aprì.

«Franky», soffiò Kim sorpresa, immobile all’ingresso.

«Ciao», rispose imbarazzato, portandosi una mano sulla nuca. «Ti va… di fare due passi?».

Kim lo seguì sorridendo, nonostante sentisse già quello che le avrebbe detto, chiudendo sbadatamente la porta di casa già alle sue spalle.

Il sole di quella sera non sembrava voler calare, non voleva abbandonare la sua battaglia. Aveva sconfitto la pioggia, qualche ora prima, e ora voleva sconfiggere anche la luna, la sua rivale da sempre. Non voleva affogare nel buio, non voleva che tutti i suoi fratellini più piccoli – le stelle – lo prendessero in giro dall’alto. Voleva illuminare ancora per un po’ gli alberi e gli uccellini che cinguettavano sui loro rami, tutta la natura e tutti gli esseri viventi e non viventi del suo mondo, tra cui anche Franky e Kim, seduti su una panchina del parco, proprio di fronte a lui.

«È bellissimo», sussurrò l’angelo speciale, unendo le mani in grembo. Franky notò quel gesto e la prima cosa che pensò fu la maternità, a quel movimento così spontaneo quando il centro della vita è proprio il ventre della donna. Pensò al suo bimbo, alle lacrime sue e di Evelyn, alla sofferenza che aveva portato a molte altre persone inseguendo un sogno irrealizzabile.

«Sì», concordò socchiudendo gli occhi, lasciandosi baciare il viso dal sole e godendosi il suo calore.

«C’è un motivo ben preciso se mi hai chiesto di venire con te, vero?», esordì Kim dopo qualche altro minuto di contemplazione dell’orizzonte. «Non voglio più aspettare, dimmelo».

Franky le prese il mento fra le dita, le voltò il viso verso il suo e la guardò intensamente negli occhi. Poi sorrise. «Io non sono mio nonno».

Kim abbassò le palpebre, ma una lacrima riuscì lo stesso a scivolarle sulla guancia. «Gli assomigli così tanto…».

«Ma non sono lui», ribadì con dolcezza. «Io non potrò mai rimpiazzarlo, Kim. Prima o poi ti saresti accorta che sono un patetico falso, un Pete made in China», le strappò un sorriso. «È giusto che tu ti rifaccia una vita tua, come lui si è rifatto la sua, senza cercare Pete in ogni ragazzo che incontri. Non dico che devi dimenticarlo, sono certo che nemmeno lui l’ha mai fatto, però… è ora che tu ritorni ad amare qualcuno per quello che è, non per quanto somiglia al tuo amore passato».

«Sembra così difficile, anche a parole…».

«Se fosse troppo facile che gusto ci sarebbe? È più bello sorridere e sentirsi bene dopo una grande fatica, no? Si ha il doppio della soddisfazione. Io l’ho sempre pensata così».

Kim lo guardò negli occhi e si lasciò asciugare la lacrima solitaria che ancora indugiava sul suo mento, poi affondò il viso nel suo petto. Franky era davvero un esempio da imitare, non l’avrebbe mai dimenticato. «Grazie», mormorò, davvero grata per ciò che aveva fatto per lei, seppur inconsapevolmente.

L’angelo non rispose, le diede un buffetto sulla testa. «Scusa per come mi sono comportato prima, ero proprio…».

«Non ti preoccupare, ho capito benissimo come ti sentivi». Si perse un’ultima volta in quei prati immensi nei suoi occhi, poi gli accarezzò una guancia e sorrise: «Beh, che cosa stai aspettando ancora? Devi andare, adesso».

Franky annuì, si alzò dalla panchina e con il suo passo ancora affaticato accennò una corsa. Kim lo guardò allontanarsi, finché non divenne un puntino lontano. Allora si girò e guardò l’ultimo spicchio di sole cedere e ritirarsi sconfitto, lasciando il posto alla luna. Una luna che quella notte sembrava un sorriso, aperto e sincero che le ricordò quello di Raphael.

 

Of all of the things that she's ever said,
she goes and says something that just knocks me dead

 

***

 

Era stata un’idea di Linda. Vedendoli così giù di morale aveva deciso di fare qualcosa e quella di addobbare casa per il Natale era stata davvero una bella trovata. Li aveva distratti, li aveva fatti pensare ad altro, li aveva fatti ridere.

Tom guardò la parte dietro dell’abete che Linda gli aveva fatto tirar fuori dal garage e si accorse che avevano riempito tantissimo la parte davanti, lasciando l’altra quasi spoglia.

«Tanto non si vede dietro», gli sussurrò Arthur, facendolo ridacchiare.

«Che confabulate voi due?», chiese la donna, infilando la testa fra le loro e guardandoli con occhi indagatrici.

«Niente amore!», disse prontamente Tom, caricandosela su una spalla e trasportandola fino al divano, dove la lasciò cadere ridendo. Si scambiarono qualche bacio, Arthur si era voltato verso l’albero e si era messo a giochicchiare con una pallina di plastica rossa, su cui riusciva a specchiarsi. Il suo viso sembrava più grosso, era strano, lo faceva ridere.

«Dopo devi andare a mettere le luci fuori, come abbiamo fatto l’anno scorso», disse Linda a Tom, mentre gli passava una mano fra i capelli.

«Come io ho fatto l’anno scorso, altro che balle! Ho rischiato persino di cadere dal tetto!».

«Però hai combattuto un po’ la paura dell’altezza!».

«No, per niente», scosse il capo.

«Beh, allora ci salirò io lassù…», sospirò con un’espressione di finta delusione e di arrendevolezza sul volto.

«Non se ne parla proprio!», squittì il chitarrista, spaventato.

Linda allora sorrise raggiante. «Sapevo che l’avresti fatto, grazie Tomi». Gli stampò un forte bacio sulla bocca, prendendogli il viso fra le mani, poi guardò suo figlio Arthur che giocava con quella pallina rossa.

«Mamma», la chiamò questo, senza girarsi per paura di vederli ancora a scambiarsi quelle smancerie.

«Dimmi tesoro».

«Perché noi abbiamo l’albero finto? Tutti i miei amici ce l’hanno vero e anche all’asilo ce n’è uno grande grande, che profuma tantissimo. Questo… non profuma».

Tom si mise seduto al suo fianco, a gambe incrociate, e guardò l’albero dal basso verso l’alto. «Noi vogliamo bene alla natura». Il bambino lo guardò incuriosito. «Gli alberi veri dopo un po’ muoiono stando al chiuso e vengono buttati. Sappiamo che la tradizione tedesca vuole l’abete vero per fare l’albero di Natale, ma non è giusto che muoiano così tanti alberi per quello che dovrebbe essere solo un simbolo di questa festa. Sei d’accordo con me?».

«Sì». Dondolò il capo avanti ed indietro, sorridendo. «Non voglio che gli alberi muoiano».

Tom gli passò affettuosamente una mano fra i capelli. «Sei proprio un bravo bimbo, sai? Spero che quest’anno Babbo Natale ti premi come si deve». Si voltò verso Linda e le fece l’occhiolino.

«Già», concordò lei, stando al gioco. «Uno di questi giorni dovremo scrivere insieme la letterina, non l’abbiamo ancora fatto…».

«Hai già in mente qualcosa da chiedere?», gli chiese Tom dandogli delle piccole gomitate sul braccio, come se fosse un suo vecchio amico e gli stesse chiedendo di rivelargli un segreto.

Arthur alzò gli occhi al cielo e si portò un dito al mento, meditabondo. All’improvviso il suo sguardo si accese di felicità e urlò: «Franky!».

Gli occhi di Tom si incupirono. «Piccolo, lo so che vorresti che Franky tornasse, ma non penso che Babbo Natale sia in grado di…».
Ma il bimbo parve non ascoltarlo, si alzò in piedi e corse verso l’ingresso dove, appoggiato con una spalla al muro, si trovava l’angelo, con un sorriso docile sul viso.

«Franky, sei qui!», gridò Arthur contento, avvolgendogli le gambe con le braccina corte.

L’angelo ridacchiò e si inginocchiò di fronte a lui per guardarlo meglio in viso. Arthur non somigliava molto al bambino partorito dalla sua mente, ma nei suoi occhi c’era la stessa allegria, la stessa vitalità; sul suo sorriso si attardavano mille sogni, mille amori, proprio come su quello di suo figlio. Suo figlio che non c’era più.
Franky abbassò lo sguardo e si morse le labbra per trattenere le lacrime, ma invece di allontanare Arthur alla sua vista lo avvicinò a sé e lo strinse forte, posando una mano sulla sua nuca e l’altra sulla sua schiena. Sentiva il suo cuore battere contro il suo petto, il suo respiro sul suo collo, i suoi capelli sfiorargli la guancia; il suo profumo gli invadeva i polmoni e il suo calore… un calore di bambino, uno di quelli che entra persino nelle ossa.

Le gambe dell’angelo si intorpidirono presto e per questo fu costretto a cadere col culo a terra, trascinando con sé il bimbo, che rise divertito guardandolo negli occhi.
«Sei caduto», lo prese in giro, indicandolo.

«Anche gli angeli cadono», gli rispose con il sorriso più sincero, un sorriso comandato dal cuore.

«E gli angeli piangono anche?», gli domandò incuriosito, avvicinando le dita ai suoi occhi.

Franky li chiuse e posò le manine di Arthur su di essi, le guidò ad asciugargli le lacrime, poi li riaprì e sorrise. «Qualche volta, sì».

«Adesso non devi più piangere, sei tornato a casa!», gli disse con semplicità, aprendo le braccia come se volesse aprirgli il portone di una magnifica reggia, in cui rifugiarsi e vivere felice.

Franky sorrise commosso. Gli diede un bacio sulla fronte, ringraziandolo, poi si alzò ed incrociò per la prima volta gli occhi di Linda, che gli sorrise apprensiva come una mamma, ed infine quelli di Tom, lucidi per ciò che aveva appena visto: un miracolo.

«Ehi nonno, spero che la stanza degli ospiti sia ancora libera!», esclamò con gli occhi ridenti, indicando i bagagli sistemati accanto alla porta d’ingresso. «Questa volta prevedo un alloggio più lungo e stabile».

Tom si alzò lentamente da terra, qualche osso delle ginocchia scricchiolò. Gli sorrise come si sorride solo ai migliori amici, quelli che ti riempiono il cuore di gioia solo con la loro presenza, poi si portò le mani sui fianchi e il suo sorriso divenne un sogghigno: «Hai visto per caso la scritta “albergo” fuori dalla porta?».

 

Non l’aveva mai fatto prima, forse perché non voleva dare l’impressione che sarebbe stato molto tempo in quella casa, ma quella sera svuotò il borsone che si era portato dietro e sistemò i propri vestiti nell’armadio.
Tom lo osservò stirare con le mani le felpe e metterle una accanto all’altra sugli ometti; lo stesso fece con i jeans. Un paio di cappellini li lasciò su una vecchia scatola che non ricordava più cosa contenesse, sul fondo dell’armadio.

«Ma sei venuto poi, alla festa?», gli domandò corrugando la fronte, sedendosi sul letto matrimoniale al centro della stanza.

«Sì, certo», annuì distrattamente. Andò di fronte allo specchio appeso affianco all’armadio e si guardò il viso, con le mani sulla testa. «Tu ti sei ubriacato e Bill ha dovuto ballare con una ragazza sconosciuta».

«È sconosciuta anche per te?».

«Ho provato a leggerle nei pensieri, spinto dalla curiosità, ma non ci sono riuscito. Non credo che fosse una ragazza normale, comunque».

«Che cosa intendi dire? Che era un angelo?».

«Può darsi. Non lo so». 

Tom bofonchiò e si stravaccò ancora meglio sul letto, le spalle contro la testata e il cuscino sotto al sedere. «E poi, dopo la festa, cos’è successo?».

Franky serrò le labbra e socchiuse gli occhi che di colpo si erano spenti. Osservò l’amico attraverso lo specchio ed accennò un sorriso. «Linda te l’ha raccontato, quindi».

«Certo che me l’ha raccontato», borbottò. «E voglio sapere da te che cos’è successo».

L’angelo non rispose, rimase fermo immobile di fronte allo specchio, come uno scolaretto che non sa la risposta alla domanda che la maestra gli ha appena posto. Il chitarrista allora si alzò e lo spronò ancora a parlare, ma Franky scosse il capo e si portò le mani sul viso.

«Ma che ti prende?», gli chiese un po’ infastidito e prendendolo per le spalle lo fece voltare verso di sé. L’angelo si appoggiò al suo petto con le mani ancora sul volto, tremante, e si lasciò abbracciare in modo incerto da Tom.

«Il mio bambino», sussurrò con la voce che andava e veniva a causa del nodo che aveva in gola. «Il mio piccolo…».

Tom alzò lo sguardo e vide la sua immagine riflessa nello specchio. L’espressione sconvolta sul suo viso gli fece capire che, seppure non l’avesse ancora realizzato, aveva capito quello che probabilmente era successo.

 

***

 

«Prima o poi dovrai rincominciare ad usarlo».

Evelyn si voltò verso il suo motorino color perla e rimase a fissarlo per qualche secondo. Era dal giorno dell’incidente che non ci saliva, che non sentiva l’aria gelata entrarle nel casco e scompigliarle i capelli. Non sapeva bene il perché, però: non per paura, forse non ne aveva soltanto sentito la necessità.

«Ma ora che te l’ho detto non azzardarti ad usarlo: in questo periodo c’è il ghiaccio sulle strade, rischieresti di cadere e non voglio più entrare in ospedale se non per tua madre».

La ragazza guardò il viso serio del padre illuminarsi all’ultimo grazie ad un sorriso. Salì in macchina al suo fianco ed appoggiò le ginocchia contro il portaoggetti, mentre il suo sguardo scrutava il paesaggio fuori dal finestrino.

Erano ancora fuori orario di visita, ma l’infermiera chiuse un occhio per l’ennesima volta. Avrebbero dovuto fare un monumento a quella donna buona.

Evelyn invitò il padre ad entrare nella stanza della madre con il braccio steso, accennando un sorriso mesto. «Vai prima tu». 
Si mise seduta su una di quelle poltroncine blu e rimase in attesa. Istintivamente unì le mani sul ventre e quando se ne accorse si morse le labbra e si portò una mano a reggere la fronte, fra i capelli che le coprivano il volto.

 

***

 

«Non credevo di tornare così presto», mormorò, gli occhi rivolti al soffitto. Tom era steso sul fianco, accanto a lui: lo ascoltava parlare e guardava i movimenti impercettibili sul suo viso chiaro.
«È stata Zoe a convincermi. Cioè, lei mi ha chiesto di scendere e stare vicino ad Evelyn per un po’, visto il momento delicato. Inconsciamente mi ha chiesto di stare vicino alla ragazza che…». Sospirò e si mise anche lui girato sul fianco, dando le spalle all’amico. «Ho paura di vederla», soffiò. «Ho paura del suo dolore, perché è lo stesso che provo anche io».

«E non credi che insieme soffrireste di meno?», gli domandò a bassa voce, osservando le ali sulla schiena dell’angelo: erano cresciute, rispetto a quando l’aveva visto l’ultima volta, ma erano ancora piccole. «Insieme siete più forti».

«Insieme siamo degli imbecilli», mugugnò. «Non sappiamo far altro che metterci nei guai, che complicarci la vita fino all’impossibile».

«Avete bisogno l’uno dell’altro, non potete farci niente ormai».

Franky si girò verso di lui con uno scatto brusco e lo guardò negli occhi con una scintilla nei suoi. «Ma tu da che parte stai, esattamente? Dicendo queste cose non fai altro che convincermi a fare cose che non dovrei fare!».

«Vorrei che tu fossi felice, senza però trasgredire le tue regole. Perché ti voglio bene, Franklin».

L’angelo dischiuse le labbra e lo guardò con occhi colmi di sorpresa. C’era anche l’affetto, ma se ne stava dietro le quinte, anche se premeva tanto per calcare il palcoscenico, esibirsi nella sua danza e ricevere i suoi applausi.

«Stupido», bofonchiò sorridendo, tirandogli un calcio sullo stinco.

Un bussare lieve impedì la bisticciata vecchio stile che ci sarebbe stata sicuramente. Linda entrò nella camera timidamente, per paura di interrompere qualcosa di importante. «È pronta la cena», disse.

«Arrivo!». Tom balzò giù dal letto come un ragazzino ed uscì dalla stanza correndo per raggiungere il suo posto a tavola. Franky rimase steso sul letto, probabilmente avrebbe fatto un pisolino.
Linda però non si mosse dalla soglia, rimase lì, ancora col grembiule legato in vita. Franky la guardò negli occhi e corrugò la fronte, non capendo che cosa stesse aspettando.

«Perché non vieni anche tu?», gli domandò, incerta.

«Io non posso mangiare», le rispose sbigottito. La cosa era talmente ovvia, perché glielo chiedeva?

«Sì, lo immaginavo», sorrise. «Ma potresti stare con noi comunque, invece di startene qui tutto solo».

Era una proposta insolita. Negli ultimi vent’anni non era mai stato seduto a tavola con la compagnia di qualcuno, di una famiglia… Accettò volentieri.

 

***

 

Quando suo padre uscì dalla stanza di sua madre si era accorta subito che non aveva pianto. Da un po’ di tempo ormai non versava lacrime vedendola stesa immobile su quel letto d’ospedale, ma i suoi occhi avevano perso la loro luce, velati dall’arrendevolezza. Ed era forse peggio delle lacrime.

Si alzò dalla sedia con le gambe intorpidite ed entrò nella camera, si chiuse la porta alle spalle e come al solito si mise seduta al suo fianco, con le mani strette intorno alla sua. Si strinse nelle spalle, il suo collo candido quasi sparì.

Quella sera non riuscì a dirle niente. A malapena l’aveva salutata.
Quella sera era una foglia secca appesa al ramo di un albero: in certi momenti aveva la sensazione di staccarsi e volare via verso il cielo, libera; in altri pensava che se si fosse staccata l’unica fine che avrebbe potuto fare era quella di posarsi a terra, insieme a tante altre sue sorelle, ed essere calpestata.

Il suo sguardo cadde sui fiori appassiti che giacevano nel vaso sul comodino. Si alzò e li buttò nel cestino lì accanto, dicendosi che avrebbe dovuto portarne degli altri il giorno seguente.
Rimettendo a posto quel vaso di ceramica bianca si accorse della foto che era caduta sopra il cerchio d’acqua rappresa che segnava il legno marrone. Chissà da quanto tempo era lì, non ci aveva mai fatto caso prima. La prese fra le mani e se l’avvicinò al viso, tanto che sembrava che volesse entrarci dentro.
Guardò i volti sorridenti di Georg, di Gustav, di David e Susan, di suo zio Tom, di suo padre e di sua madre. La sua mamma… era ancora una ragazzina, appena sedicenne; era davvero bellissima. E Franky… Franky stretto a lei sorrideva come se avesse già raggiunto il Paradiso con tutte le persone che amava intorno. Era magnifico, nonostante fosse già malato.

Cadde di nuovo seduta su quella sedia di plastica bianca, quella foto ancora fra le mani. Non poteva far altro che sorridere, le veniva naturale. Ma la verità era che avrebbe dato di tutto pur di poter nascere prima e rubare Franky a sua madre.

Si infilò la fotografia nella tasca della felpa e sorrise baciando la mano della madre: «Sono certa che non sarà un problema per te, se la prendo in prestito».

Uscì dalla stanza e con suo padre raggiunsero di nuovo l’auto per tornare a casa.

Una volta in camera sua tornò a contemplare quella foto, se ne impresse ogni particolare nella testa e probabilmente avrebbe passato tutta la sera a guardarla, con quella specie di pace dentro lo stomaco, se solo suo zio non le avesse mandato quel messaggio.

 
Franky è tornato :)

 
Allora ci mise poco a vestirsi e a sgattaiolare in garage, dove l’aspettava il suo motorino, che nonostante fosse stato fermo per un bel po’ di tempo non fece storie per partire nel buio e nel freddo della sera. Suo padre le avrebbe fatto una bella strigliata, tornata a casa, ma ne valeva davvero la pena.

Il freddo la fece rattrappire, le congelò le mani sul manubrio, le fece lacrimare gli occhi sotto il casco, ma nulla di tutto ciò la spinse a tornare indietro. Anzi, andò ancora più veloce.

 

***

 

Tom aveva un brutto presentimento, come se non avesse fatto bene a mandare alla nipote quel messaggio. Sapeva che avrebbe sicuramente fatto qualcosa di folle e non si sarebbe allarmato se Bill lo avesse chiamato nel giro di qualche minuto per dirgli che era scomparsa.

«Tom, Evelyn è sparita! Ancora!».

«Oh, non ti preoccupare Bill, sta venendo qui».

La scena sarebbe stata più o meno quella.

«Vado a vedere i cartoni!», gridò Arthur alzandosi dalla sua sedia con tanto di cuscino. «Vieni anche tu, Franky?», gli domandò tirandogli la manica della felpa.

«Arrivo fra un attimo, tu intanto inizia ad andare», gli rispose con un sorriso dolce. Il bimbo annuì e zampettò in salotto.

Franky fece scomparire dalle labbra quel sorriso e tornò a guardare apatico il tavolo. Si mise a giocare con le briciole di pane che Arthur era stato in grado di disperdere per tutto il tavolo, spiaccicandole con il dito e sollevandolo per vedere se ne era rimasta attaccata qualcuna al polpastrello.

«Linda mi fai il caffè, per piacere?», domandò Tom alla moglie, seduta al suo fianco, che stava ancora finendo di mangiare il suo kiwi.

Lei sollevò gli occhi e lo guardò con le sopracciglia inarcate. «Non vedi che sto ancora mangiando?».

«Beh smetti un attimo, me lo fai e poi finisci».

«Alza il culo e fattelo, viziato che non sei altro», borbottò.

«Sei stata tu a viziami, se proprio dobbiamo essere sinceri», la prese in giro e si alzò. Le diede un bacio sulla testa. «Stavo scherzando, amore. Tu lo vuoi?».

Il suo viso si illuminò. «Sì, grazie». Tom le posò un bacio sulle labbra ed andò alla macchinetta del caffè. La fece scaldare ed aspettò che preparasse la bevanda. Intanto, si voltò verso il tavolo, in particolare verso l’angelo.

«Da quando bevi anche i caffè dopo cena?», gli chiese questo, la fronte corrugata.

«È un’abitudine che abbiamo preso in Italia, quando ci siamo andati in vacanza… quand’è stato, Linda? Jole avrà avuto sei, sette anni…».

«Sì, più o meno. In albergo ce lo chiedevano sempre alla sera… Coffee?», ricordò ridacchiando.

«Allora abbiamo iniziato a berlo anche alla sera e da allora l’abbiamo sempre bevuto», finì di spiegare.

Franky scosse il capo, divertito. «Già quando avevate vent’anni tu e Bill eravate dei drogati di caffeina, chissà adesso che lo bevi anche alla sera… quanti litri ti fai al giorno?».

«Non molti… Solo quando sono in studio ne bevo tanto, a casa c’è Linda che mi controlla. Dice che se ne bevo troppo sembro un cane eccitato…».

«Non ti arrabbi se le do’ ragione, vero?». L’angelo scambiò uno sguardo con la diretta interessata ed insieme risero. L’espressione imbronciata, un po’ da bambino, di Tom era uno spettacolo per gli occhi.

Franky sospirò, buttò fuori tutta l’aria presente nei suoi polmoni come se volesse buttare fuori dal suo corpo tutte le preoccupazioni che gli gravavano sul cuore.

«C’è qualcosa che non va?», gli domandò Linda, mentre Tom le posava davanti la sua tazza di caffè e metteva la sua di fronte a sé.

«Non dovrei essere qui. Lei ha bisogno di me, eppure… pensavo che ci sarei riuscito, come sempre; che avrei messo da parte il mio dolore… ma non ce la faccio, è più forte di me». Si coprì il viso con le mani, afflitto.

«Oh… vedrai che andrà tutto bene», lo rassicurò Linda, levandogli le mani dagli occhi e sorridendogli.

Proprio in quel momento il citofono iniziò a suonare e non smise fino a quando Linda non tirò su la cornetta e vide Evelyn grazie alla piccola telecamerina. «Quanta insistenza», borbottò aprendole. La posò giù e solo mentre stava aprendo la porta d’ingresso si chiese che cosa ci facesse lì a quell’ora, da sola. Non fece in tempo nemmeno a chiederlo, la nipote la superò senza salutarla, entrò in casa e si guardò intorno in modo frenetico.

«Posso sapere che cosa stai cercando?», le domandò indispettita.

Evelyn non sapeva che sua zia riusciva a vederlo, così continuò la sua caccia da sola e si disse che dove c’era suo zio Tom c’era anche lui. «Dov’è zio?».

«In cucina», rispose Linda, roteando gli occhi al cielo.

La ragazza non perse tempo ed oltrepassò la soglia dell’ampia cucina, dove trovò sia Tom che Franky, entrambi seduti al tavolo che si scrutavano.
L’angelo schizzò in piedi appena la vide. Sembrava disorientato ed intimorito. Lei non ci pensò due volte e si gettò fra le sue braccia, avvolgendo le proprie intorno al suo collo.

«Franky», soffiò stringendolo forte. «Franky…». Ripeté il suo nome fino a quando la voce glielo permise, fino a quando i singhiozzi non la soffocarono infondo alla sua gola.

La lasciò sfogare fra le sue braccia, avendo a malapena la forza di ondeggiare in modo tale da cullarla. Sentiva il suo viso freddo premuto contro il suo collo, le sue mani congelate sulla testa, le dita rosse che stringevano fra loro i suoi capelli neri. Il suo corpo tremante era avvinghiato al suo e il suo ventre era desolatamente vuoto.
Franky non resistette a lungo, non era così forte. Affondò il viso fra i suoi capelli e le lacrime rigarono silenziose anche le sue guance, le sue labbra, il suo mento.

«Sono un’incapace», ruppe lei il silenzio con un soffio di fiato, caldo rispetto a tutto il suo corpo. «Credevo che almeno questo bambino lo avrei protetto da tutto e da tutti, lo avrei amato più della mia stessa vita; credevo che almeno questa volta non avrei sbagliato e invece… l’ho perso, Franky, l’ho perso! Non sono riuscita a tenerlo in vita dentro di me, l’ho fatto morire…».

Franky le tappò la bocca con una mano, gli occhi colmi di lacrime e le labbra tremanti strette dai denti. «Non dire queste cose, ti prego. Non è colpa tua, non pensarlo nemmeno per un istante, hai capito?».

Evelyn annuì con il capo, trattenendo a stento i singulti. L’attirò di nuovo a sé, la strinse più forte che poté, quasi divennero una cosa sola.

«Ti amo, ti amo Evelyn, non dimenticarlo mai», bisbigliò con il viso ancora nascosto fra i suoi capelli biondi e profumati.

Tom, seduto ancora a capo tavola, si voltò verso destra e vide, in piedi accanto a sé, Linda che tirava su col naso. Le passò delicatamente un braccio intorno alla vita e lei stirò un sorriso, scuotendo il capo ed asciugandosi le lacrime che le erano sfuggite dagli occhi.
Il telefono in salotto iniziò a trillare e lei si affrettò ad andare a rispondere. Era Bill.

«Linda ti prego dimmi che Evelyn è lì da voi. Ha preso il motorino e…».

«Sì, è qui da noi».

«Menomale. Quando torna però mi sente! Non mi ha nemmeno avvisato e le avevo detto di non usarlo, col ghiaccio che c’è per strada! Ehi, ma… stai piangendo? Evelyn sta bene, vero?».

«Sì, sta bene». Prese un fazzoletto di carta dalla confezione lì accanto e si soffiò il naso. «Scusami, è che mi sono commossa per una stupida fiction».

 

It’s the way we feel, yeah this is real
It’s the way we feel, yeah this is real

 

Avevano pianto ancora per un po’, stretti l’uno nell’abbraccio dell’altro, e quando avevano smesso erano caduti sul divano, svuotati. Quelle lacrime versate insieme erano state meno dolorose di quelle versate in solitudine, avevano affrontato il dolore insieme e, proprio come aveva detto Tom, erano stati più forti.

Appiccicati su quel divano, faccia a faccia, si guardavano, si accarezzavano e non pensavano a niente. In quel momento non c’erano per il mondo, erano in una loro bolla personale.
Le loro gambe erano intrecciate, come le loro vite. Non l’avevano deciso, non l’avevano voluto… era stato destino, puro e folle.

«Stavo iniziando a pensare che non te ne importasse niente», disse a bassa voce Evelyn ad un certo punto, abbassando lo sguardo.

«Come hai potuto pensare una cosa del genere?». Le accarezzò i capelli, li baciò nelle sue mani.

«Perché te ne sei andato?».

Si accucciò con il viso contro la sua gola, le braccia strette intorno alla sua schiena sinuosa. «Avevo bisogno di stare un po’ da solo, a pensare».

«Avevo davvero bisogno di te… Ne ho ancora».

«Infatti sono qui», mormorò.

Evelyn si beò del suo respiro sulla pelle, delle sue mani che le carezzavano la schiena. Dentro di lei la tempesta era cessata, accanto a lui tutto era diventato quieto, persino il dolore più forte che avesse mai provato in tutta la sua vita – quello della perdita – si era acquattato in un angolo, lontano.

Improvvisamente si ricordò della foto che aveva nella tasca della felpa. La tirò fuori, sotto lo sguardo curioso e attento dell’angelo, e gliela mostrò sorridendo.

«E questa dove l’hai pescata? Credevo di averla persa da qualche parte…».

«Era nella camera d’ospedale di mamma». Gliela diede e sospirò, avvicinando di più la testa alla sua per poterla guardare. «È bellissima».

«Già. Manchi solo tu». Si voltò verso di lei e i loro nasi si sfiorarono. «Ma credo che allora tua madre e tuo padre non immaginavano nemmeno che ci sarebbe stato qualcosa fra loro».

Evelyn sorrise con un po’ d’amarezza. Franky la scavalcò di un poco per gettare la fotografia sul tavolino lì accanto e prima di risistemarsi al suo fianco la guardò dall’alto, con un gomito puntato sul cuscino del divano. Le scostò i capelli dalla guancia e sorrise impacciato.

«Niente più guai». Le porse il mignolo della mano destra.

«Non so per quanto tempo riusciremo a resistere», disse la bionda ridacchiando. E unì il mignolo al suo.

 

Avevano messo Arthur a letto da un po’ e da allora erano piazzati in cucina per spiare ogni tanto le mosse dei due sul divano.

«Che strana coppia», disse Tom, scuotendo il capo con un sorriso sulle labbra. «Credi che se potessero davvero stare insieme Zoe approverebbe?».

Linda scrollò le spalle e si mise seduta con le gambe aperte sulle sue. Tom cercò di sbirciare ancora Franky e Evelyn oltre le sue spalle, ma era un’impresa ardua.

«Linda, non vedo niente!», gridò in un sussurro.

La donna gli prese il mento fra le dita e lo guardò negli occhi. «Sai cosa penso?». Gli mosse la bocca come se fosse stato un pesce, facendolo boccheggiare. «Che l’amore è l’amore e ‘fanculo tutto il resto». Dopodiché lo travolse in un bacio appassionato.

 

You won't find faith or hope down a telescope
You won't find heart and soul in the stars
You can break everything, got the chemicals
But you can't explain a love like ours

 

***

 

Bill si lasciò cadere sul divano e sbuffò facendo strani versi con la bocca. Non capiva per quale motivo sua figlia si fosse catapultata da Tom senza nemmeno avvisarlo, proprio non capiva. Che cosa gli stavano nascondendo?

Improvvisamente venne distratto dalla suoneria del suo cellulare. Si allungò per prenderlo e sul display vide lampeggiare un numero a lui sconosciuto. Con la solita titubanza che aveva quando gli accadevano episodi del genere, se lo portò all’orecchio e rispose: «Pronto?».

«Ciao Bill!».

Quella voce dolce… La conosceva, ne era certo, ed infatti dopo qualche secondo gli si presentò alla mente il viso della ragazza che aveva pagato quella cifra esorbitante per un ballo con lui alla festa di beneficienza.

«Ti ricordi di me?», lo prevenì però lei, ridacchiando.

«Sì, mi ricordo! Come hai avuto il mio numero?».

«Ehi, anche io ho qualche amicizia nel mondo dello spettacolo! Comunque scusami, non mi sono nemmeno presentata, io mi chiamo Lilith». 

 

_________________________________

 

Buonasera!
Come avrete intuito, sono tornata dalla vacanze :( Proprio oggi, dopo una giornata veramente dura... immaginate come sto in questo momento! Col morale tre metri sotto terra! .___. Però trovo sempre la forza per postare un capitolo della mia storia preferita *.* Mi torna persino l'allegria pensando a Franky! <3

Allora... Capitolo triste e allo stesso tempo felice *-* Evelyn e Franky hanno versato un oceano di lacrime, ma alla fine si sono ritrovati e le cose si sono, diciamo, sistemate :)
In questo capitolo ci sono ben due new entry: Margot, la compagna di classe di Evelyn; e Lilith, la ragazza che ha pagato per il ballo con Bill alla festa di beneficenza. Dur figure che avranno un ruolo importante, soprattutto la seconda... Rifletteteci su u.u
Un passaggio molto particolare e che mi preme ricordare è quando Tom trova Arthur nella stanza spoglia di Franky, seduto sul suo letto, ad aspettarlo. E' una scena bellissima, nevvero? *.* Mi fa commuovere sempre ç_ç
Franky sembra aver trovato una famiglia, a casa di Tom, con Linda e Arthur. Che cosa bella :D Ma lui ed Evelyn riusciranno a tenersi lontani dai guai grazie al loro giuramento? Bah, chi lo sa xD
(Stampatevelo nella testa questo giuramento, è very very important! u.u)

La canzone che ho usato è la stupenda Science & Faith dei The Script! ;)

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, spero in qualche recensione :)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e anche chi ha letto soltanto! *.*
Un bacio, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 18
*** From the dark, into the light ***


Sorpresina per voi *o* Vi siete mai domandati ed immaginati la casa di Bill, Zoe ed Evelyn? Ecco qui in esclusiva la casa a cui io mi sono ispirata (e che adoro con tutte le mie forze!) ---> Cliccate qui

Spero di avervi fatto una bella sorpresa ;D
A dopo con il commento del capitolo e i ringraziamenti!! Buona lettura! *-*

18. From the dark, into the light

 

«Certo che solo voi potete ridurvi a comprare i regali di Natale il giorno dell’antivigilia».

Tom fece finta di sistemarsi l’auricolare nell’orecchio per simulare una telefonata che in realtà non sarebbe mai avvenuta. Guardò di sfuggita l’angelo che scivolava a tratti al suo fianco, con i piedi sul suo skateboard, e si soffermò sul suo volto per un istante: era sereno, un sorriso gli incurvava addirittura le labbra all’insù, ma quella tremenda tristezza portata da quel bambino mai nato si era conficcata nei suoi occhi come una scheggia e crepava la loro bellezza, manco fossero di vetro.

«Io e chi altro?», gli domandò.

«Tu ed Evelyn. Ma è meglio che sia così, oggi è una bella giornata, sono contento che sia uscita di casa».

«Per rinchiudersi in un centro commerciale dove l’aria è sempre la stessa».

«Con bella giornata non intendevo nel senso atmosferico. Vedi, non capisci mai nulla», gli tirò un pugnetto sulla testa, sfruttando il fatto che Tom non potesse fare niente per fargliela pagare: c’era troppa gente che avrebbe potuto prenderlo per pazzo mentre colpiva il vuoto.

«Aspettati l’inaspettato», sibilò con gli occhi stretti a due fessure. «Comunque non è colpa mia se la letterina di Arthur è arrivata nelle mie mani solo ieri sera». La tirò fuori dalla tasca della giacca e scorse i diversi punti che il bambino aveva segnato con i pastelli, saltando la parte iniziale che iniziava con “Caro Babbo Natale…”.

«Giusto, dai la colpa ad un bambino adesso».

«La pianti?!», lo riprese ridendo.

Si infilarono in un negozio di giocattoli e riuscirono a trovare più o meno tutto quello che c’era scritto sulla letterina. Franky lo aveva aiutato a scegliere i colori o i modelli precisi delle macchinine – non potevano di certo mancare fra i desideri di Arthur – visti e rivisiti nella sua mente. Una volta pagato, uscirono.

«Peccato che per le cose materiali non sei affatto utile», borbottò il chitarrista, trasportando con fatica le due borse dalle quali uscivano gli angoli delle grandi scatole colorate. L’angelo rise sotto i baffi.

Depositarono tutti i loro acquisti nel bagagliaio dell’auto e vi si appoggiarono con la schiena. Tom tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una tenendola fra le labbra.

«Cosa manca adesso?», domandò a vuoto, tornando ad esaminare la letterina.

Franky lo precedette: «Il cucciolo».

«Oh, il cucciolo, già…».

«Sei riuscito a convincere Linda, ieri?».

Tom si voltò verso di lui e lo guardò con le sopracciglia inarcate, un’espressione che parlava da sé: Credi che non ci sia riuscito?

«Non voglio nemmeno immaginare come tu l’abbia persuasa a cedere… Poveretta, è allergica al pelo dei cani!».

«Lo so», mugugnò come un bambino. «Ma a me piacciono così tanto i cani!».

«Sei uno schifoso egoista…».

«Le ho detto che io e Arthur staremo attenti a tenerlo sempre in giardino, per quanto mi duole… io i miei cani li ho sempre tenuti in casa, ci dormivo pure insieme!».

«Mi ricordo», sorrise. «Non mi dimenticherò mai la tua faccia sconvolta di quando hai scoperto che Linda era allergica e non potevi più tenerli in casa a meno che non la volessi sentire starnutire ad ogni ora del giorno e della notte».

«Al massimo potrei chiedere a Bill di tenerlo quando magari c’è brutto tempo… non credo che a lui dispiacerebbe», rimuginò.

«Quindi vuoi proprio prenderlo».

Tom sfarfallò le ciglia, come se dovesse chiedere il permesso a lui.

«La verità è che non vuoi far contento Arthur, vuoi fare contento te stesso, stronzo che non sei altro». Franky lo guardò serio, con le braccia incrociate al petto. Dopo qualche secondo sorrise raggiante e con un cenno del capo lo invitò a salire in auto. Al canile!

 

***

 

Evelyn, nel centro commerciale, non aveva la più pallida idea di che cosa comprare ad Anja e Pamela per Natale. Si era ridotta a fare le cose all’ultimo minuto, come sempre, e quelli erano i disastrosi risultati.

Nel frattempo che aspettava che qualche idea geniale le venisse in mente, si diresse nel grande supermercato per fare un po’ di spesa.
Suo padre, che doveva ammetterlo, era un po’ strano in quel periodo, era rimasto a casa per iniziare a preparare la cena della vigilia, cercando di rifare i piatti che cucinava sempre sua madre, e le aveva dato un foglietto di carta sul quale c’erano scritte delle cose che a casa mancavano e che gli servivano. Così le toccava pure fare la spesa. Non sapeva nemmeno come sarebbe tornata a casa col suo povero motorino color perla così carico.

Si aggirò per i reparti con il cestello in mano, prendendo tutto ciò che c’era scritto sulla lista. Ogni tanto rimaneva a fissare due stessi prodotti però di marca diversa, indecisa se prendere questo o quell’altro. Alla fine faceva la conta ed incestinava quello della marca che aveva vinto.

Ad un certo punto, entrando nell’ennesima corsia, in fondo ad essa vide una figura familiare. Si avvicinò con cautela, per paura di fare una gaffe, ma era proprio lui.

«Martin!», esclamò, sorridendo.

Il ragazzo sobbalzò dallo spavento e si girò verso di lei. La guardò come se fosse un miraggio, poi si riprese e sul suo viso si allargò un bellissimo sorriso, anche se un po’ imbarazzato, come sempre.
«Ciao Evelyn, che sorpresa incontrarti qui». L’occhio gli cadde sul cestino che teneva appeso al braccio, poi si guardò intorno preoccupato. «Sei qui con tuo padre a fare la spesa?».

«No, non ti preoccupare, lui non è qui», ridacchiò.

Martin inarcò un sopracciglio. «Sei da sola?».

«A quanto pare… E tu?».

«Anche io. Ci facciamo compagnia?».

«Perché no?».

Finirono di fare la spesa insieme, pagarono e girovagarono ancora un po’ per il centro commerciale, poi decisero di infilarsi in un piccolo bar. Era quasi l’ora di pranzo, ma non avevano fame, già sentivano sullo stomaco il peso dei pranzi e delle cene di quei giorni. Quindi presero due cioccolate, giusto per avere qualcosa di caldo nello stomaco per il ritorno al freddo.

«Allora, come va?», le domandò Martin, unendo le mani fra le gambe, il collo nascosto fra le spalle: sembrava un bambino sperduto.

«Va’», annuì lei con gli occhi fissi nella sua cioccolata. «A te? Stai studiando?».

«Sì, studio notte e giorno», rise, ma poi scosse il capo. «La verità è che non sono più così sicuro di voler laurearmi».

Evelyn soffiò nella tazza, creando piccole ondine che sprigionavano calore. «Come mai?».

«Non lo so… è un periodo un po’ di merda, non riesco a capire cosa voglio. Mia madre dice che ho perso l’entusiasmo che avevo all’inizio».

«Sono certa che lo ritroverai presto», lo incoraggiò posando una mano sulla sua, sul tavolino.
Non sapeva bene perché l’aveva fatto, ma non la ritrasse, anzi… gliela girò in modo tale da vederne il palmo e con le dita seguì le linee che vi erano tracciate sopra. Qualche volta l’aveva fatto anche alle mani di Franky, ma quelle di Martin erano così vere, quelle linee sembravano davvero delle strade da percorrere.

«Per quanto riguarda il periodo un po’ di merda, ti capisco benissimo», mormorò ancora.

Martin voleva ritirare la mano, ma la lasciò lì, stretta fra le sue sempre un po’ fredde. Però volle cambiare comunque argomento, non gli piaceva la malinconia che stanziava nel suo sguardo.

«Quando ti hanno dimessa sei andata a scuola, nei giorni successivi?».

«No, sono stata a casa», rispose.

La sua presenza la confortava, era una sensazione che provava soltanto con pochissime persone ormai ed era strano che anche lui avesse quell’effetto su di lei. Ebbe la forte tentazione di raccontargli ogni cosa, dall’inizio, ma non lo fece. Gli raccontò solo una piccola parte, quella più dolorosa e che volle condividere con lui chissà per quale motivo.

«Quella volta, all’ospedale, ho scoperto di essere incinta», gli rivelò e sentì la sua mano irrigidirsi. Non alzò lo sguardo per incrociare i suoi occhi, gli chiese soltanto: «Ti ho sconvolto?».

«Beh, ecco… non esattamente…».

«Puoi dirlo, se l’ho fatto. Comunque è passato, ora».

«Che cosa vuoi dire?», balbettò e si allargò il colletto della maglia, improvvisamente accaldato. Non avrebbe mai immaginato che Evelyn fosse una ragazza del genere e non lo pensava nemmeno adesso che gli aveva detto che era incinta. Che cosa intendeva con quella frase, forse che…?

«L’ho perso», sussurrò. Avvicinò la mano di Martin al suo viso e posò il palmo su di esso: la sentì morbida, non callosa come quella di suo zio Tom; era più simile a quella di suo padre. Respirò il profumo della sua pelle e poi la lasciò andare delicatamente, riponendola sul tavolo. «È passato, ora», ripeté.

«Mi dispiace». Fu tutto quello che Martin fu in grado di dire, scosso com’era. 
Come poteva, quella ragazzina tanto fragile, credere di poter crescere un figlio nel suo ventre, darlo al mondo… Anche solo pensarla con la pancia gonfia, tanto da sembrare sul punto di esplodere, era impossibile. Come poteva, quella ragazza bionda dal corpo piccolo ed esile, essere stata in grado di imprigionare dentro di sé tutto quel dolore? Ora gli aveva mostrato il suo cuore esploso, lacerato, e tutto quello che era stato in grado di dire era un banalissimo e patetico «Mi dispiace».

Evelyn sorrise. «Scusami, non so perché…».

«Non ti preoccupare, mi fa piacere che tu ti sia voluta confidare con me», balbettò e riprese una sua mano con la sua.

«L’unico dei miei amici», mormorò.

Martin strabuzzò gli occhi. «Nemmeno Anja lo sa?».

La bionda scosse il capo. «Sarebbe troppo difficile, con lei».

«Capisco…».

«Okay, è meglio che torni a casa». Sospirò e tirò fuori dalla borsa il portafoglio per pagare.

Martin la fermò: «Non ti azzardare, offro io». Si alzò sorridendo e andò alla cassa a pagare le due cioccolate, poi tornò da lei ed insieme uscirono dal centro commerciale.

Non aveva trovato i regali per Pamela e Anja, ma quella mattinata non era stata totalmente un fiasco. Le era piaciuto passare un po’ di tempo con Martin.

«Vuoi un passaggio?», le domandò, indicando l’auto.

«No, grazie, sono venuta in motorino».

«Non sapevo ne avessi uno», arricciò le labbra in un sorriso. «Ma non congeli?».

«Giusto un pochino. Ma mi piace, mi sento libera».

Martin scosse il capo e aprì l’auto con un tasto del piccolo telecomando. 
«Ah!», esclamò, tirando fuori dal porta oggetti un pacchettino rosso con un nastrino dorato.

«Oh no, Martin!».

Il ragazzo rise. «È una cavolata, davvero». Glielo mise fra le mani e la guardò negli occhi: «Buon Natale».

«Ma io non ti ho preso niente! E non mi hai nemmeno fatto pagare la cioccolata, io…!». Le braccia magre di Martin la strinsero in un goffo abbraccio e lei si ammutolì, ricambiando. Il suo corpo era caldo, consistente, e nonostante non fosse robusto si sentiva al sicuro. Era un po’ come stare fra le braccia di Franky, solo che quelle braccia erano più… salde.

«Grazie davvero», sussurrò Evelyn imbarazzata.

Martin le accarezzò la testa. «Non c’è di che. Quando lo apri promettimi che non riderai».

«Okay», ridacchiò.

«Un mio compagno di facoltà mi ha invitato ad una festa, il 26. Vuoi venire con me?».

«Ahm… sì, perché no?».

«Perfetto! Allora ci sentiamo in questi giorni, ti dirò l’ora precisa, tanto comunque ti verrò a prendere io». Si allontanò senza aggiungere altro, entrò in macchina.

«Grazie Martin».

Il ragazzo non rispose, la salutò dal finestrino ed uscì dal parcheggio.

Evelyn guardò il pacchettino che aveva fra le mani e sorridendo lo infilò in borsa. Raggiunse il suo motorino, si infilò il casco, chiuse la borsa della spesa con un nodo stretto e se la mise fra i piedi, poi diede gas.

 

***

 

Bill si torturava le mani seduto su uno sgabello del bancone in cucina. Sbuffò e se ne portò una sulla fronte, chiedendosi per quale cavolo di motivo aveva fatto quella proposta a Lilith.

Lilith… Dalla sera della sua prima telefonata si erano sentiti quotidianamente, in modo del tutto naturale. Bill si trovava bene a parlare con lei, a volte si sentiva meno solo, ed infatti ad un certo punto aveva iniziato lui a chiamarla. Durante la giornata si trovava a pensarla spesso, per quanto sapesse che non avrebbe dovuto, ma era più forte di lui e quel giorno, appena Evelyn era uscita per andare al centro commerciale, l’aveva chiamata e le aveva chiesto se per caso le andasse di passare da lui per chiacchierare faccia a faccia. In quel momento non si era reso conto dell’enorme cazzata che aveva fatto, ma ormai non poteva tornare indietro: sarebbe arrivata a momenti.

Quando il campanello trillò, trasalì e i battiti del suo cuore aumentarono a dismisura. Si alzò dallo sgabello e con le ginocchia che tremavano raggiunse l’ingresso, sbirciò dalle vetrate e poi aprì la porta accennando un sorriso nervoso al suo radioso. Era bellissima come sempre.

«Ciao Bill!».

«Ciao Lilith, hai fatto presto».

La ragazza entrò in casa sotto invito di Bill e si guardò intorno, poi rispose con le sopracciglia aggrottate. «Sì, ti ho sentito strano al telefono… è successo qualcosa di cui volevi parlarmi?».

«No, nulla. È che… non volevo stare solo». Deglutì, sempre più nervoso, quando Lilith si girò e gli sorrise teneramente, togliendosi il cappotto nero. 
«E avevo voglia di vederti», concluse, percorrendo molto velocemente il corpo snello, perfetto, della ragazza con lo sguardo. Se ne vergognò subito, pensando a Zoe, e rivolse gli occhi verso il pavimento.

«Mi fa molto piacere, Bill, grazie».

Nei minuti di silenzio successivi, il frontman la osservò di sottecchi mentre gironzolava per il salotto, con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, e guardava i quadri e le fotografie appesi alle pareti.

«Lei è tua figlia, vero?», indicò col dito una foto di Evelyn. «C’era anche alla festa di beneficienza, se non mi sbaglio».

«Sì, esatto», rispose Bill, avvicinandosi.

«E questa è tua moglie?». Lilith si voltò e lo guardò negli occhi, indicando la grande fotografia in cui padroneggiava solo il viso di Zoe, sdraiata su un prato, con gli occhiali da sole sulla testa e gli occhi azzurri luminosi che guardavano fissi l’obbiettivo. Era una tortura guardare quegli occhi ogni volta, ma nonostante questo non aveva mai tolto quella foto, era troppo bella.

«Sì, in quella foto aveva vent’anni», le disse con un velo di amarezza negli occhi.

Lilith tornò a contemplare l’immagine. «È davvero bellissima».

«Già…», sospirò e si mise seduto sul divano, con un cuscino stretto al petto.

La ragazza si voltò e lo guardò con quel suo sorriso un po’ ambiguo, si avvicinò e si mise seduta al suo fianco, posandogli una mano sulla sua. «Mi dispiace molto, davvero. So che cosa stai passando».

«Ne dubito, a meno che anche tu non ci sia passata», le rispose schivando il suo sguardo.

«Bill… credo che sia arrivato il momento che tu sappia che il nostro incontro non è stato casuale. Io sapevo che tu saresti andato a quella festa, sapevo che quella tizia avrebbe cercato di comprare quel ballo, sapevo che alla fine lo avrei comprato io». Il cantante sgranò leggermente gli occhi e la guardò stupito. «La verità è che io so tutto di te, perché io… io sono il tuo angelo custode».

 

***

 

«Allora, qual è quello giusto, secondo te?», sussurrò Tom all’angelo, per non farsi scoprire dal guardiano che lo guardava da qualche metro di distanza ed aspettava che avesse scelto il cagnolino.

«Mmh… fammi vedere un po’». Franky camminò affiancando le diverse gabbie e guardò i cani all’interno di esse. Erano tutti troppo grandi, Arthur voleva un cucciolo!
«Chiedi al guardiano se ci sono dei cuccioli più cuccioli».

«Scusi!», Tom chiamò il guardiano, che lasciò la sua tazza di caffè su un tavolino e lo raggiunse. «Non avete per caso dei cuccioli?».

«Cuccioli? No, mi dispiace… Ieri sono andati via gli ultimi due, sa è periodo questo».

«Già. Grazie comunque», sorrise debolmente e fece un cenno a Franky, invitandolo ad uscire da lì. Una volta nei pressi dell’auto, estraniò tutto il suo disappunto: «Cavolo! E adesso che cosa facciamo?».

«Ci sarà qualche altro canile in cui andare, no?».

«Il canile più vicino è dall’altra parte della città», borbottò e salì in macchina. «Beh che fai, non sali?», sbottò guardando Franky, ancora fuori dall’auto.

«No, vai pure».

«Che cos’hai intenzione di fare?».

«Arthur vuole quel cucciolo e lo avrà».

«Franky, non è necessario che…».

«Ho detto che lo avrà», ripeté con determinazione. Aprì le ali, ormai mancava poco perché tornassero grandi come quelle di prima, e spiccò il volo.

Tom sospirò e scosse il capo. Non lo stava facendo per Arthur, bensì per un altro bambino. Era fin troppo chiaro.

 

***

 

«Sono a casa!», gridò Evelyn mentre si chiudeva la porta alle spalle. Si tolse il giubbotto e lo appese all’attaccapanni, poi raggiunse la cucina, dove trovò suo padre, intento a mescolare il contenuto di una pentola.
«Ciao», lo salutò, titubante.

«Ciao», rispose lui, senza nemmeno voltarsi.

Evelyn posò la borsa della spesa sul ripiano di marmo bianco del bancone. «C’è qualcosa che non va?».

«No. No, non ti preoccupare», disse e le accennò un sorriso, cercando di fare del suo meglio per rassicurarla. «Hai trovato tutto?», le domandò.

«Sì, spero di aver scelto bene».

«Avrai fatto sicuramente un ottimo lavoro». Le baciò il capo, stringendosela ad un fianco. «Domani viene Linda, mi aiuterà lei a preparare tutto, anche se non sarò mai all’altezza di tua madre».

«Te la caverai benissimo, invece, ne sono certa», sorrise.

«Grazie, tesoro. Che cos’è che ti esce dalla borsa?», chiese indicando il triangolino di carta rossa che si intravedeva.

«Oh, ho incontrato Martin al centro commerciale, me l’ha dato lui», rispose estraendo il pacchettino e mostrandoglielo.

«Io se fossi stato in te l’avrei già aperto da un pezzo», ridacchiò.

«Lo so, so come sei fatto. Io voglio aspettare fino a domani sera».

«Brava la mia bimba».

Il campanello iniziò a trillare ed entrambi sobbalzarono dallo spavento, per poi scoppiare a ridere.

«Vado io», si offrì Evelyn, dirigendosi verso la porta. Coco le intralciò la strada, rotolando sui suoi piedi, così lo prese in braccio e lo portò con sé fino all’ingresso.
«Chi è?», domandò sbirciando fuori dalle piccole vetrate accanto alla porta.

«Il lupo mangia frutta che si sta congelando», rispose suo zio Tom, ridacchiando.

Evelyn gli aprì e lo fece entrare in casa. «Solo perché stai congelando, eh».

«Brrr, cavolo oggi si gela». Lasciò a terra i suoi acquisti e si tolse il giubbotto, poi passò in cucina a salutare il gemello. «Ti dai ai fornelli, adesso?».

«Faccio quel che posso, ossia poco. Tu come mai sei qui?».

«Ho da incartare un po’ di regali per Arthur e devo anche aspettare quello scemo di Franky». Roteò gli occhi al cielo e si mise seduto su uno degli sgabelli alti dell’isola.

«Perché, dov’è andato?», chiese Evelyn con finta noncuranza, come se fosse soltanto curiosa.

«È andato a cercare in tutti i canili della Germania il cucciolo che vuole Arthur. È convinto di trovarlo e, cocciuto com’è, credo proprio che non tornerà a casa fino a quando non l’avrà trovato».

«Non sapevo che Arthur volesse un cucciolo», esclamò Evelyn. «Ma Linda non è mica allergica al pelo dei cani?».

«Sì, però…», si strinse nelle spalle e sorrise furbescamente. «Franky ha provato a fermarmi, ma alla fine anche lui ha ceduto. Non può dirmi di no, mi adora!», rise.

«Davvero?», domandò Evelyn, divertita. «Eravate davvero amici, voi e Franky…».

«Lo siamo ancora e lo saremo per l’eternità», disse il chitarrista. «Certo, io e lui all’inizio ci odiavamo, però poi siamo diventati migliori amici… E Dio solo sa quanto ci siamo stati tutti male quando ci ha detto di avere il cancro. L’unica cosa che gli importava era che non fossimo tristi. Quel fottutissimo altruista! Ti ricordi Bill?». Tom notò le spalle rigide del fratello e il suo silenzio gli fece provare una sgradevole sensazione al cuore. «Bill, va tutto bene?».

«Andrebbe tutto bene se la smettessi di parlare di Franky», gli rispose stizzito.

«Che cosa? Ma… che ti prende?».

Bill si girò verso di lui e lo guardò adirato, gridando: «Niente! Ti ho solo detto che mi faresti un favore se la smettessi di parlare di Franky!».

Tom spalancò gli occhi, incredulo. Raramente aveva visto così tanta rabbia negli occhi di suo fratello gemello. Che cosa gli era successo, perché ce l’aveva così tanto con l’angelo?
Lo sguardo gli cadde per un breve attimo su Evelyn, spaventata quanto lui se non di più. Che fosse venuto a scoprire ciò che c’era fra lui e sua figlia?

 

***

 

Adorava la sensazione di riavere le sua ali sulla schiena. Adorava volare e se fosse stato per lui, non sarebbe mai sceso a terra. Ma era il suo morale a decidere ed era troppo giù per stare così su.

Aveva girato diversi canili, si era spinto verso Berlino, poi si era arreso, anche perché non ce la faceva più. In quel periodo la sua forma fisica era migliorata, ma non sarebbe più tornata quella di un tempo e lo sentiva sulla sua pelle.
Era stato un fiasco, uno completo. In nessun canile in cui era stato aveva trovato il cucciolo che voleva Arthur. L’aveva visto così bene nella sua mente, sembrava che fosse già suo, e invece l’avrebbe deluso. Magari Arthur non ci avrebbe fatto troppo caso se gli avesse portato un cagnolino diverso da quello che aveva immaginato, perché i bambini sono così, ma lui l’avrebbe saputo e il fatto di non essere riuscito ad accontentarlo sarebbe stato un duro colpo.

Prima che Tom se ne andasse aveva percepito che sarebbe andato da suo fratello Bill per poter incartare senza problemi i regali, quindi sarebbe stata anche la sua meta.
Arrivava dall’altra parte della città, quindi si trovò a fare una strada che non aveva mai fatto, né con Tom né da solo. Ma presto si rese conto che sarebbe arrivato proprio dalla parte dei campi, tra cui spiccava quello di girasoli. Sorrise impercettibilmente pensando ai bei momenti trascorsi in quel luogo con Evelyn.

Prima che vi arrivasse, però, si imbatté nella vecchia carcassa di un auto, abbandonata nel bel mezzo di un campo di grano morto. Il filone dei suoi pensieri venne interrotto da un leggero guaire, che lo fece avvicinare a quella carcassa di metallo. Camminò con cautela verso di essa e provò ad aprire la portiera del passeggero, ma era incastrata. Tirò più forte che poté e questa gli rimase fra le mani, così la lasciò cadere a terra. Si sporse all’interno dell’auto e vide una cagna con tre, quattro, cinque cuccioli che si affannavano tutti per attaccarsi alle mammelle e bere un po’ di latte.

«Oh mio Dio», mormorò estasiato. Quei cuccioli somigliavano terribilmente a quello che desiderava Arthur! Che fortuna sfacciata.

Rimase a guardare quegli scriccioli, avranno avuto non più di due settimane, che lottavano uno contro l’altro per nutrirsi, stesi sulla pelle cotta e rovinata dai loro piccoli artigli dei sedili posteriori.
Guardò la madre leccare la testa ad un paio di cuccioli, poi la vide allontanare con una zampa un cucciolino tutto bianco, che non riusciva ad arrivare alle mammelle e guaiva come un pazzo.

«Perché lo allontana?», si domandò stupito. «Magari non lo vuole…». Rimase a rifletterci per diversi secondi, nei quali il cucciolo bianco continuò ad essere respinto dalla cagna.
«Beh, se proprio non lo vuoi lo prendo io, Arthur se ne prenderà cura sicuramente meglio di te», disse infine ed avvicinò la mano al piccolino. Accarezzò il pelo tiepido e lo afferrò per la collottola: era certo di non fargli male, aveva tanta di quella pelliccia che sembrava avere le rughe. Sembrava un carlino, un mops in tedesco.

La madre non fece nulla per impedire che Franky se lo portasse al petto, era come se lo avesse rifiutato. Gli venne in mente suo padre, che non l’aveva voluto e se n’era andato, ma fu solo un attimo. L’angelo guardò il suo musetto scuro e rugoso e sorrise addolcito: era troppo tenero, oltre ad avere un’espressione davvero simpatica. Arthur ne sarebbe stato entusiasta.

«Piccolo, tu vieni a casa con me. Vedrai, starai bene». Si tolse la sciarpa nera che aveva al collo e gliel’avvolse tutta intorno, tanto che alla fine somigliava tantissimo al fagotto di un neonato. Se lo strinse al petto, facendolo diventare automaticamente invisibile come lui, ed uscì dall’auto. «Andiamo».

Volò piano e a bassa quota, per non fargli prendere né freddo né paura, fino alla casa di Bill. Atterrò in giardino e vide il cantante in cucina, mentre Tom e Evelyn erano in salotto, seduti sul tappeto, che impacchettavano tutti i regali che sarebbero andati ad Arthur. Bussò al vetro con espressione trionfante ed entrambi sobbalzarono quando lo videro, poi Tom corse ad aprirgli.

«Sei tornato finalmente!», gridò. Il suo sguardo si depositò sul fagotto che teneva stretto al petto. «Quello cos’è?».

«Il cagnolino!», esultò tirandolo fuori dalla sciarpa, mentre entrava in casa. «Ciao Bill!», gridò, ma non ottenne alcuna risposta. Tom scosse il capo, dicendogli di non badarci, ma lui ci badò eccome, perché pur mettendocela tutta per leggere i pensieri del cantante non ci riuscì: c’era il muro che aveva incontrato altre volte in altre occasioni, ma era un muro diverso, scuro, che emanava una forte aura maligna. Inoltre, appena il chitarrista chiuse la porta finestra da cui era entrato, l’angelo notò che lì dentro c’era un odore più che sgradevole, che gli fece arricciare il naso. «Tu non senti questa puzza?», domandò all’amico.

«Quale puzza? No, non sento nulla».

«C’è qualcosa che non va», mormorò preoccupato. Qualcuno di non umano era stato in quella casa, ne era certo, ma non sapeva che cos’era né se il muro scuro che aveva trovato nella mente di Bill fosse opera sua.

«Tutto bene?». Il sussurro di Evelyn lo distrasse dai suoi pensieri e lo fece voltare verso di lei, alla quale si avvicinò e posò un bacio fugace sulla testa.

«No, penso di no. Da quanto tempo Bill fa così?».

«Non lo so, anche se è da un po’ di tempo che è strano, oggi particolarmente: sembra arrabbiato con te. Gli hai fatto qualcosa?».

«Assolutamente no!». Cercò l’approvazione di Tom, che annuì guardando la nipote. «Devo capire che cosa sta succedendo, non sono per niente tranquillo».

Il cagnolino che teneva fra le braccia guaì, scostandosi la sciarpa nera dal musetto, e la loro attenzione si monopolizzò per un attimo su di lui.

«È un amore, mio Dio», sospirò Evelyn estasiata, prendendolo dalle mani dell’angelo per guardargli il musetto.

«Ma sei sicuro che piacerà ad Arthur?», gli domandò Tom, incerto.

«Sicuro! Lui ne voleva proprio uno così!».

«Ma quando respira rantola, sembra asmatico…».

«È una caratteristica di questi cani», gli spiegò Evelyn. «Io credo che sia il cane perfetto per Arthur: è giocherellone, anche se un po’ pigro, ed è sensibile ed affettuoso…».

Tom sollevò il sopracciglio. «Com’è che sai tutte queste cose?».

«Tu mi hai regalato quel libro sui cani», ricordò ridacchiando.

«Oh, è vero… Non credevo l’avessi letto sul serio!».

«Io adoro i cani», sospirò.

«Ma tua madre non più tanto», intervenì Franky, con un sorriso divertito sulle labbra. «Mi rovinano il giardino», cantilenarono insieme, per poi scoppiare a ridere.
«Comunque ce ne sono altri», disse l’angelo, accarezzando il pelo bianco del cucciolo. «La madre non voleva questo piccolino, così io l’ho portato qui».

«Dove l’hai trovato, scusa?», chiese Tom, con la fronte corrugata.

«In una vecchia auto abbandonata nei campi, mentre tornavo qui a mani vuote. È stato veramente un colpo di fortuna!», batté le mani felice. «Ah, prima che mi dimentichi. Ci serve un po’ di latte, il cucciolino è affamato».

«Vado io», mormorò Evelyn, alzandosi e dirigendosi in cucina.

Franky la guardò sparire in cucina, poi si voltò ed incrociò gli occhi di Tom, fissi sul cucciolo. «Che c’è, non ti piace?», gli domandò triste.

«No», mormorò Tom, sorridendo e massaggiando il cagnolino. «Stavo solo pensando che alla fine ce l’hai fatta a trovarlo. Te la cavi sempre».

Franky ricambiò il sorriso e nel frattempo Coco si avvicinò ad annusare quella palla bianca, incuriosito. Il cane guardò il gatto con i suoi occhi neri umidi ed inespressivi, poi gli leccò il muso. Coco fece un salto indietro, finendo sulle gambe di Franky. Tom scoppiò a ridere, insieme all’angelo.

«Che avete da ridere voi due?», chiese Evelyn, tornando da loro con in mano un biberon pieno di latte.

«E quello dove l’hai preso?», domandò Franky, deglutendo nervosamente.

«È quello che usavo io da piccola, mamma l’ha sempre voluto tenere sulla mensola in cucina». Lo rassicurò con lo sguardo e gli sorrise.

Franky si rilassò, ma vedere Evelyn prendere quel cucciolo fra le braccia e dargli il biberon come se fosse un bambino, con gli occhi intrisi di amore… gli fece comunque male, tanto da storpiare il suo sorriso già teso in una smorfia.

Il colpo di grazia, però, glielo diede Bill, o meglio, il suo cuore: Franky riusciva a vedere benissimo quella specie di germoglio scuro, che emanava un’aura negativa, che vi aveva messo le radici. Capì in un attimo che quella poteva solo essere opera di un demone, li aveva studiati a scuola anni ed anni prima, ma non ne aveva mai incontrati prima di allora. Sapeva che se non fosse intervenuto subito quel piccolo germoglio si sarebbe ramificato ed avrebbe avvolto tutto il suo cuore, rendendolo ricco di sentimenti negativi, come per esempio l’odio.
Chi era quel demone? Com’era arrivato a Bill? Perché aveva scelto di colpire proprio lui? Doveva assolutamente trovare più informazioni ed agire, in fretta. O sarebbe stata la fine per Bill.

 

***

 

«Sei pronta, tesoro?», urlò Bill dal piano inferiore, mentre si sistemava il polsino della camicia dentro la giacca nera.

«Sì, sto arrivando», rispose la figlia, scendendo le scale. Lei indossava un maglione largo a collo alto, fatto a mo’ di vestitino, che le arrivava fino alle ginocchia, bianco come la neve.

«Okay, andiamo». Il padre spense tutte le luci ed uscirono di casa.

Era strano, di solito non andavano mai alla Messa di Natale, sapevano di attirare l’attenzione, eppure quella volta non c’era nemmeno stato bisogno di dirselo: entrambi erano sicuri che ci sarebbero andati, entrambi sapevano che la loro destinazione non sarebbe stata la chiesa presente nel centro, ma la semplice cappella dell’ospedale; sapevano che avrebbero celebrato quel momento insieme agli ammalati che riuscivano ad alzarsi dal letto e ai parenti delle persone che erano ricoverate e che avrebbero pregato entrambi per Zoe.

Ai piedi dell’altare c’era una piccola corona di rami d’abete intrecciati, che reggeva quattro candele rosse infilate in una ciotolina di rame ciascuna. Erano tutte accese e davano a quell’ambiente ristretto e un po’ scarno un aspetto più accogliente, oltre che un’atmosfera del tutto diversa. Se chiudeva gli occhi, Evelyn riusciva a percepire il loro calore direttamente in mezzo al petto, il calore del Natale.

La Messa fu semplice, umile. Nessuno badò a loro e non avrebbero davvero voluto di meglio.

Ad un certo punto Bill aveva avvolto le spalle della figlia con un braccio e l’aveva attirata a sé, le aveva fatto posare il capo sul suo petto e le aveva baciato i capelli, dolcemente. Evelyn non l’aveva allontanato, si era stretta ancora di più a lui, sentendosi bisognosa del suo affetto come da bambina, quando non lo vedeva per settimane e lo aspettava, impaziente di sentirsi stringere di nuovo al suo petto, proprio lì dove c’era il suo cuore.

Ovviamente, Evelyn non pregò solo per sua madre, ma anche per quel suo bambino che non aveva fatto in tempo a nascere, che non aveva avuto la possibilità di splendere e riscaldarla col suo calore. Forse pianse in quel momento, ma non se ne rese conto.

Quando il prete pronunciò le ultime frasi di conclusione, Evelyn ebbe la sensazione di essere osservata. Si guardò intorno e dall’altra parte della cappella, nella prima panca, seduto di fianco alla vetrata, le parve di vedere Franky che le sorrideva. Fu solo un attimo, tanto che non riuscì a capire se fosse stato frutto della sua immaginazione o meno.

«Andiamo?», le domandò suo padre, alzandosi e guardandola dall’alto. Evelyn annuì e prese la sua mano.

Uscirono dall’ospedale e si resero conto che nevicava. Era da un po’ che non accadeva proprio la notte di Natale e fu una bella sorpresa. Un dono dal cielo.

«Bill!».

Entrambi si girarono e videro una ragazza, quella che poi si rivelò essere Lilith, correre verso di loro nel suo vestitino nero.

«Ciao», la salutò Bill sorpreso e anche un po’ in ansia, preoccupato che sua figlia potesse fraintendere ciò che c’era fra loro. «Che ci fai tu qui?».

«Sono passata a salutare una mia amica», sorrise e il suo sguardo si posò lentamente su Evelyn, che immediatamente rabbrividì. «Ciao», la salutò con tono gentile. «È un piacere conoscerti».

Evelyn le sfiorò la mano per stringergliela, ma prese subito la scossa, che non le permise di finire ciò che aveva iniziato. Lilith la guardò corrugando la fronte, allargando i suoi occhi verdi e in quel preciso momento Evelyn parve di vedere la sua pupilla allungarsi in verticale, come quella dei felini. C’era qualcosa che non le piaceva in quella ragazza e sapeva esattamente con chi parlarne.

«Adesso devo proprio andare», disse frettolosamente Lilith, come se fosse intimorita da qualcosa. «Ci sentiamo Bill. Ciao, Evelyn. Buon Natale».

«Anche a te, ciao», la salutò Bill sbigottito, alzando una mano.

Una volta in auto, il cantante sbuffò ed Evelyn colse l’occasione al volo per potergli chiedere due cose.
«Come mai così tanta confidenza?», la prima.

«Quale confidenza?», le chiese, ridacchiando nervoso, mentre avviava il motore ed ingranava la marcia.

«Beh, mi è sembrato che ci fosse».

«No, ti sbagli», ribatté stizzito.

La seconda, poi: «È a causa sua se sei così strano, in questo periodo, e ce l’hai a morte con Franky?».

«Allora, Evelyn!», la sgridò. «Smettila di fare domande campate per aria!».

Evelyn, offesa, si ammutolì e non parlò più fino a quando non arrivarono a casa e trovarono tutte le luci accese, anche quelle che adornavano la terrazza che dava sulla camera di Evelyn.

«Che cosa…?», balbettò lei, confusa.

«Sarà arrivato Tom», le spiegò Bill.

Attraversarono il vialetto, che si stava ricoprendo lentamente di nevischio, ed entrarono in casa. Vennero subito investiti da un piacevole tepore e dal profumo dei tipici piatti natalizi che si stavano cucinando. Doveva esserci Linda ai fornelli, poco ma sicuro. Solo lei era in grado di pareggiare Zoe.

«Ciao Evelyn!», strillò Arthur, saltando giù dal divano e correndo verso di lei con le braccia aperte.

La ragazza lo guardò correre verso di lei ed abbracciarle le gambe coperte solo dalle calze di nylon. Il suo cuore perse un battito, ripensando al bambino del sogno: Arthur non gli somigliava molto, ma era pur sempre un bimbo, aveva dentro di lui quel calore, quella vitalità…

«Ehi, ciao piccolo», lo salutò Bill, prendendolo in braccio ed arruffandogli i capelli sulla testa.

Evelyn si sentì subito sollevata, come se il suo cuore fosse appena stato liberato dalla tenaglia che l’aveva imprigionato quando le braccia di suo cugino le si erano strette intorno alle gambe. Tenendolo lontano da sé, tutto era passato.

«Che hai fatto?!», gridò a bassa voce Tom, uscendo dalla cucina e correndo incontro al gemello.

«Che ho fatto?», chiese quest’ultimo, confuso.

«Ho impiegato quasi un quarto d’ora per convincere Arthur a lasciarsi pettinare, sotto ordine di Linda… se ti scopre sei fritto!». Tom provò a sistemare i capelli del figlio, ma erano irrimediabilmente compromessi. «Mi serve una spazzola!».

«Te la vado a prendere», disse Bill, salendo su per le scale.

Tom incrociò gli occhi quasi sperduti della nipote e sollevò un sopracciglio. «C’è qualcosa che non va?».

«N-No», balbettò. «Ma dopo ti devo parlare, ho delle novità». Si incamminò verso la cucina, dove si trovava Linda.

«Ciao tesoro», la salutò lei, notandola sulla soglia. «Come stai?».

«Tutto okay», mormorò.

«Pronta per scartare i regali?».

«Sì…».

Vide il lungo tavolo davanti alle porte finestre apparecchiato in modo perfetto e contò velocemente i posti a sedere. Sette. Uno in meno del solito. Un nodo le strinse la gola, tanto forte da farle appannare la vista. Altre lacrime, persino la sera di Natale…

«Evelyn», mormorò Linda, asciugandosi le mani sul grembiule e posandone una sulla spalla tremante della nipote.

«No», farfugliò e si sottrasse con un movimento leggero. «Sto bene». Uscì dalla cucina e senza badare a suo zio e a suo padre in salotto, che tentavano di tener fermo Arthur per pettinargli nuovamente i capelli, si rifugiò in bagno.

Si guardò allo specchio, appoggiandosi con le mani al lavandino: era riuscita a trattenere le lacrime, se n’era andata giusto in tempo, ma l’orribile sensazione che provava in mezzo al petto non era svanita, anzi.
Mancava decisamente qualcosa, quel Natale, e sapeva benissimo che cos’era.

 

Sometimes it's hard to get better or cry

 

***

 

«Chi è?», mugugnò Zoe, rannicchiata sul fianco, dopo aver sentito qualcuno bussare delicatamente alla porta.

«Ehi».

Udendo quella voce, aprì gli occhi a fatica e provò a tirarsi su, ma quella sera era davvero stanca: non si era mai sentita così debole.

«Non ti affaticare per nulla», le disse, sistemandole meglio il cuscino sotto la testa.

«Franky, che ci fai qui? È la Vigilia di Natale».

«Dove dovrei essere?», le domandò con un sorriso tenue, abbandonandosi alla sedia accanto al suo letto.

«Dalla tua famiglia».

«La nostra».

Zoe stiracchiò un sorriso. «Sai, Franky… da quando sono qui in Paradiso ho capito molte cose della tua nuova vita, di quello che adesso è il tuo mondo. Sono certa che molti ti avranno detto che tu sei sempre stato destinato a questo, ad essere un angelo custode, quasi come se la tua vita da vivo fosse stata solo una fase di passaggio…».

«No, l’ultima frase non l’avevo mai sentita», la interruppe e con un sorrisetto aggiunse: «E per di più è una cazzata».

«Lasciami finire. Quello che voglio dire è che, secondo me, tu sei sempre stato destinato ad essere un angelo custode però… non qui, non in Paradiso. Credo che il tuo vero posto sia sulla Terra, accanto alle persone che ti amano».

«È facile dirlo, Zoe», sospirò, abbassando lo sguardo. «Tu non la vedi di certo come la vedo io e anche se qualche volta hai provato a stare in mezzo ai vivi non ci sei ancora abituata. Se tu avessi così tanti anni alle spalle da morta, come ce li ho io, ti renderesti conto di quanto in realtà ti sentiresti esclusa, stando fra loro».

«Ma Franky… che cosa stai dicendo?».

«Possiamo interagire, ma… è difficile da spiegare. È comunque diverso e complicato stare per tanto tempo accanto alle persone che si amano e che ancora sono vive, te lo posso giurare. Ogni tanto, quando sono di sotto, vorrei scappare perché mi rendo conto di tutte le cose che non ho più, non ho mai avuto e non avrò mai nella mia vita. Almeno qui… qui siamo tutti sulla stessa barca, tutti morti, tutti con un compito da portare a termine. Noi… ecco, noi viviamo per voi, ma non possiamo farlo con voi».

Zoe non parlò, né lo guardò in faccia per qualche minuto. Poi gli prese una mano e la strinse forte nella sua, accennando un sorriso. «Che ci fai qui, Franky? Non dovresti essere qui».

Franky scosse il capo, ridacchiando. «Sono venuto a farti gli auguri, no?».

«Beh, ora che me li hai fatti puoi andare».

«Non vuoi che resti qui a farti compagnia?».

«Voglio che tu vada a casa e faccia compagnia agli altri. Io non posso muovermi da qui, fallo tu per me».

L’angelo annuì e le baciò la fronte, poi sorridendo uscì dalla camera.

«Buon Natale, Franky», mormorò Zoe prima di chiudere gli occhi ed addormentarsi, stanca.

 

***

 

«Quindi avete incontrato la ragazza della festa di beneficienza, Lilith. Secondo te è a causa sua che Bill ha iniziato a comportarsi in questo modo?».

«Non ne sono certa, ma… è quello che sento».

Tom sprofondò nel lungo divano ad L, borbottando meditabondo, accanto alla nipote. Non poteva di certo pretendere che sprizzasse gioia da tutti i pori, ma non sopportava di vederla con gli occhi così spenti e tristi. Sapeva che c’era solo una persona in grado di farla sorridere persino la sera del primo Natale senza sua madre e quella persona non si faceva viva da quel pomeriggio. Non sapeva nemmeno dove fosse.

Si sporse ancora verso di lei, per poterle parlare a bassa voce. «Tu sai dove si è cacciato Franky?».

Il cuore iniziò a pomparle il sangue nelle vene ad una velocità notevole, tanto da sentire le orecchie bollirle. Scosse il capo, fissando lo zio. «Perché me lo chiedi?».

«Oggi pomeriggio è andato via, ma non ho avuto tempo di chiedergli dove andasse e da allora non l’ho più visto. Magari tu lo sapevi».

«Ah, no…». Corrugò la fronte. Qualcosa di strano le punzecchiava la nuca, come una di quelle fastidiose etichette, ma era certa che quel maglione non ce l’avesse. Si portò una mano sul punto preciso e se lo massaggiò, quando iniziò a vedere qualcosa nella propria testa. Era tutto un po’ sfuocato, ma riconobbe la città dall’alto: l’aveva vista qualche altra volta, grazie a Franky. Che stesse vedendo con i suoi occhi? Come ci riusciva?

«Forse… forse sta arrivando», disse titubante, guardando Tom con la coda dell’occhio.

Il chitarrista sollevò il sopracciglio. «E questo come…».

«Non ne ho idea», sbuffò e si alzò dal divano, gettando sul bracciolo il cuscino che si era tenuta stretta al petto per tutto il tempo. «Vado a vedere il regalo di Arthur», gli sussurrò.

Salì in camera sua e trovò il cagnolino steso a pancia in giù sulla sua cuccia improvvisata, addormentato. Sorrise addolcita e si chinò di fronte a lui, gli accarezzò il pelo dalla testa alla schiena e poi lo prese in braccio. Questo aprì leggermente gli occhi per vedere chi fosse, ma posò quasi subito il musetto rugoso sul suo braccio per riaddormentarsi.
Coco si avvicinò, incuriosito, ed Evelyn accarezzò anche il suo pelo, facendogli fare le fusa contro la sua mano. Qualche istante dopo, sentì qualcosa di diverso intorno a sé, come un sesto senso, e senza nemmeno girarsi capì che lui era arrivato. Le sue braccia la avvolsero da dietro e la sua fronte si posò contro la sua nuca.

«Sono arrivato in tempo, allora», le sussurrò.

«Tu sei sempre in tempo», mormorò in risposta e si voltò, si perse nei suoi occhi verdi ed osservò come teneva le labbra dischiuse, segno che non aveva ben capito il senso della sua frase. «Non è niente di importante».

Franky non riuscì a rispondere, perché la voce di Bill scavalcò la sua, urlando: «Evelyn, vieni!», e inoltre il frontman stava salendo le scale, diretto proprio lì. Si alzò di scatto e corse fuori in terrazza senza aprire le porte finestre, lasciando da sola la ragazza, che aveva già capito tutto. Qualche istante dopo, infatti, Bill aprì la porta della sua camera e la guardò sorridendo.

«Vieni, ci siamo tutti».

«’kay», mormorò. Lasciò giù il cucciolo, passò in bagno a lavarsi le mani e scese di sotto.

Dalla cucina proveniva un forte vociare. Probabilmente Franky si era fatto vedere da coloro che potevano vederlo, ma non sentiva la sua voce. Doveva esserci anche qualcun altro, perché sua zia parlava di… bambini.

«Allora, come sta il bimbo?».

«Tutto procede liscio come l’olio, sono così felice», rispose Jole posandosi una mano sul ventre ed abbracciando di lato il suo compagno e futuro marito, Leo. Si guardarono sorridendo, coi loro occhi luminosi intrisi d’amore.
Quando si accorsero di Evelyn, sulla soglia, tutta la gioia dei loro volti scomparve per dar spazio ad un’espressione di pura tristezza e calò un religioso silenzio. Il che fece ancora più male al cuore della ragazza, che aveva ricevuto fin troppi colpi. 

Con la coda dell’occhio guardò Franky, appoggiato al muro, poco distante da lei, ma che non faceva niente ed aveva lo sguardo basso e le braccia incrociate al petto.
“Perché non fai qualcosa?”, gli chiese col pensiero, non guardando nella sua direzione. “FAI QUALCOSA!”

Franky si irrigidì ulteriormente ed abbassò ancora di più il capo: sembrava che lentamente si stesse sempre più rinchiudendo su se stesso, come un riccio, per proteggersi. Ma da che cosa, da lei?

Evelyn non seppe più cosa pensare, l’unica cosa che riuscì a fare fu fuggire, per l’ennesima volta. Arretrò di un passo, poi scese gli scalini in fretta e furia e dal salotto uscì fuori, nella veranda che dava sul giardino.

 

Listen, I'll tell you a secret:
if I should ever feel like going home,
I'd jump so I could fly

 

 

«Io… mi dispiace», balbettò Jole, affidandosi totalmente all’abbraccio stretto di Leo.

Franky, senza farsi vedere da Bill, toccò la schiena di Tom e lo utilizzò come microfono per far sentire ciò che diceva anche a chi non era in grado di vederlo. Tom ci mise qualche secondo ad abituarsi alla cosa, ma accettò di buon grado di prestarsi: infondo Franky non poteva dare risposte sbagliate, lui c’era dentro quanto Evelyn.

«Non è colpa tua, Jole», disse. «E nemmeno di Evelyn. Non ti preoccupare, adesso torna e forse, finalmente, mangiamo. Ho una fame da lupi!».
Franky era pure bravo: gli aveva dato la parte giusta, le parole adatte al suo personaggio. Tom infatti lo guardò con la coda dell’occhio e sorrise.

«Devo andarla a chiamare?», disse Bill e risultò più una domanda, che un’affermazione.

Tom prese l’iniziativa, quella volta, e senza farsi vedere da nessuno tranne che da Linda spinse l’angelo verso il salotto. «Non ce ne sarà bisogno Bill, vedrai».

Franky, stordito da quella presa di coraggio di Tom davanti a Bill, il meno indicato con cui fare queste cose, camminò fino al salotto con passo incerto. Si avvicinò alle porte finestre e la vide seduta sui gradini che portavano al giardino, che si stringeva nel suo stesso abbraccio per riscaldarsi da quel freddo che oltre ad entrarle nelle ossa, era già dentro di lei. La raggiunse e si mise seduto al suo fianco, con le mani appoggiate dietro di sé e un ginocchio piegato. Guardò il cielo, i fiocchi di neve cadere delicatamente, la luna illuminare quella notte opaca.
Avrebbe voluto abbracciarla, riscaldarla tenendola stretta a sé, ma… Quella volta il dolore era forte, fortissimo, anche per lui; non poteva cacciarlo in un angolo, non ci riusciva, ed Evelyn non sembrava capirlo fino in fondo.

«Gli altri stanno aspettando solo te», disse ad un certo punto, senza guardarla.

«Franky…», sussurrò lei, con gli occhi spalancati colmi di lacrime. Non era mai stato così freddo con lei… Non si aspettava minimamente che reagisse così, non capiva nemmeno che cosa aveva fatto di male.

«È inutile reagire così ogni volta che ti si presenta qualcosa che ti fa pensare a lui. Non si può scappare dal dolore».

«Io… io non ce la faccio ad affrontarlo di petto come fai tu. Non sono così forte».

«Io non sono forte, cazzo!», sclerò e si alzò di scatto, dandosi lo slancio con le mani. «Anche io soffro come un cane, forse anche più di te, ma almeno ci provo! A volte sembra che tu… che tu non pensi ad altro che a te stessa, quando anche io ci sto male!».

 

Don't tell me I'm wrong
and had it breaks your heart,
because that's just the way I feel

 

Evelyn lo guardò col fiato sospeso, senza sapere cosa fare né cosa dire. Quella confessione l’aveva completamente spiazzata e ora aveva capito, aveva capito quello che aveva fatto inconsciamente. Prima gli aveva chiesto aiuto, anzi aveva quasi preteso che l’aiutasse, quando anche lui in quel momento aveva bisogno che qualcuno lo confortasse.

L’angelo non le diede il tempo materiale per scusarsi, la guardò con gli occhi leggermente velati dalle lacrime, indicò le porte finestre alle sue spalle e disse: «Adesso sbrigati a rientrare, o Bill potrebbe anche insospettirsi». La guardò in viso per qualche altro secondo, serrando le labbra, poi la sorpassò e rientrò in casa sbattendosi la porta vetrata alle spalle.

In cucina tutti erano più o meno nelle stesse posizioni di prima, tranne Jole che si era seduta già a tavola e Leo le stava massaggiando le spalle, soprappensiero. Appena Tom vide l’angelo avvicinarsi al tavolo pensò che sarebbe andato da lei e una strana paura gli salì addosso, ma si rilassò in parte quando l’angelo si gettò seduto sulla sedia di fronte, con i gomiti beatamente sulla tovaglia.

“Franky”, lo chiamò col pensiero, sbalordito. “Ma che è successo?”

“La tua idea è stata grandiosa”, gli rispose e si strofinò il naso con una mano, abbassando gli occhi.

«Sei sicuro che non debba andare a chiamare Evelyn?», chiese Bill con tono sgarbato a suo fratello gemello.

«Sta arrivando», rispose però l’angelo, a voce in modo tale che anche Linda lo sentisse.

Proprio allora, Evelyn fece la sua comparsa in cucina, con lo sguardo basso e gli occhi coperti dalla frangetta. Si scusò e lanciò uno sguardo alla tavola, chiedendo: «Dove mi siedo io? Mi è venuta fame».

Linda le sorrise calorosamente e le indicò il posto accanto a Franky. Una smorfia si dipinse sulle sue labbra, ma obbedì e si mise seduta di fianco all’angelo, che non la degnò nemmeno di uno sguardo. Il suo stomaco si era completamente chiuso, ma suo padre si era impegnato così tanto per quella cena, non poteva rovinare tutto anche quella volta; e stare accanto a lui le mandava in tilt il cervello, soprattutto dopo quella discussione.

Finalmente quella cena iniziò e Franky per un po’ se ne rimase in disparte, senza parlare e senza alzare la testa dal tavolo, ma dopo un po’ parve riprendersi ed iniziò a sorridere e a partecipare per come poteva, visto che c’erano Jole e Leo che non erano in grado di vederlo. Evelyn lo guardò sorridere e ridere senza farsi scoprire da suo padre e solo allora si rese conto di quanto l’angelo soffrisse in realtà, anche dietro quell’espressione che celava il suo dolore. Lui riusciva a nascondere tutto, a tenerlo dentro di sé, ma forse così si faceva ancora più male.

Evelyn si pulì la bocca con il tovagliolo e se lo riportò educatamente sulle gambe, poi con nonchalance avvicinò una mano a quella di Franky, sotto il tavolo. L’angelo non si scompose, ma dentro di sé il suo cuore fece una capriola.

“Mi dispiace tanto, sono stata una stupida”, mormorò col pensiero la ragazza, abbassando lo sguardo sul piatto vuoto che aveva sotto il naso. “Tenevamo entrambi a quel bambino, eppure ho pensato solo a me. Perdonami, Franky”.

L’angelo custode si portò la mano libera di fronte alla bocca per coprire quel sorriso appena accennato che gli era spuntato sulle labbra, anche se si vedeva benissimo nei suoi occhi che era contento. Le accarezzò il dorso della mano col pollice e socchiuse gli occhi, soffiando nella testa di Evelyn due semplici parole: “Ti amo”, alle quali la ragazza arrossì di colpo e dovette mascherarsi coi capelli per far sì che nessuno le chiedesse niente.

Probabilmente Bill se n’era accorto, con una smorfia di disappunto, ma Tom non era stato da meno, in quanto appena lo vide alzare il sopracciglio ed aprire bocca per dire qualcosa, lo fermò urlando: «Caffè? Chi vuole il caffè?».
Tutti si voltarono verso di lui, compresi Franky ed Evelyn, il primo divertito, la seconda sbigottita.

«Oh, tu e questo caffè», borbottò Bill sventolando una mano in aria.

«Io voglio aprire i regali!», piagnucolò Arthur, che era stato buono e bravo per tutta la sera e anche in presenza di Franky non aveva detto niente di strano: quasi si comportava meglio un bimbo di quattro anni che gli uomini che conosceva da quando erano ragazzini e avevano convissuto molto più tempo con lui in versione angelo.

«Non è una cattiva idea!», esclamò Evelyn, guardando il cuginetto. «Zio, potresti abbandonare la tua tradizione del caffè per una sera, no?».

«Oh, e va bene!», sospirò, dandola vinta a loro.

Tutti si alzarono e si spostarono in salotto per scartare i regali e Franky, senza farsi vedere dal piccolo Arthur, egregiamente distratto da Tom che continuava a passargli pacchetti da scartare, sgattaiolò al piano di sopra.
Trovò il cucciolo sdraiato a pancia in giù che sonnecchiava nella sua cuccia improvvisata e si mise seduto di fronte a lui a gambe incrociate. Si guardò la schiena, con una smorfia si strappò una piuma dall’ala destra e con quella sfiorò il nasino del cagnolino e ridacchiò quando lo vide starnutire.

«Forza mops, è ora che ti porti dal tuo padroncino».

Lo prese tra le braccia e cercò la scatola che Evelyn aveva preparato tempo prima. La vide aldilà del letto e pur di non fare il giro vi si stese sopra e la raccolse da terra, quando sotto la sua pancia sentì una strana vibrazione. Si sollevò di un poco e vide che aveva schiacciato involontariamente il cellulare bianco che si mimetizzava perfettamente sul piumone candido.
Lo girò e sfiorò il touch-screen con la punta del dito: le era arrivato un messaggio, di Martin. Si morse le labbra, colpito da un pizzico di gelosia ed indeciso su cosa fare, poi sospirò.

 

«Ma quanto ci mette?», si chiese Tom a bassa voce, muovendo nervosamente una gamba.

«Vuoi che lo raggiunga?», gli domandò sussurrando la nipote, sporgendosi verso di lui.

«No, meglio non lasciarvi troppo da soli a voi due».

«Ti ha detto quello che è successo prima fuori?».

«Non esattamente, ma l’ho capito che non è andata poi così bene…».

Evelyn abbassò il capo, annuendo, e guardò anche lei verso le scale che portavano al piano superiore.

«Questo è l’ultimo!», disse Jole dando il suo regalo al piccolo Arthur, controllando che non ce ne fossero altri sotto l’albero.

Il bambino, vedendo la busta di plastica rossa capì che nemmeno quello era il regalo che desiderava con tutto se stesso ed infatti ringraziò con meno entusiasmo la sorella maggiore. Fino a quel momento aveva sperato che prima o poi sarebbe arrivato, ma quello era l’ultimo…
Il piccolo alzò lo sguardo triste sul padre e Tom ne rimase quasi sconvolto. Non poteva vedere suo figlio così triste il giorno di Natale!

«Adesso lo vado a prendere io, quel deficiente!», borbottò parlando di Franky e marciando verso le scale, ma mentre camminava inciampò all’improvviso in una scatola che si capovolse e che si aprì, permettendo ad un batuffolo bianco di uscire e zampettare verso il centro del salotto.

Arthur si illuminò vedendo quel cucciolo di cane corrergli incontro e lasciò perdere il regalo della sorella per dedicarsi solo a quello. Lo prese fra le braccia, contentissimo, e si lasciò leccare in faccia.

«È bellissimo! Papà, è bellissimo!», gridò al settimo cielo.

«Sono contento amore», gli rispose il chitarrista, anche se la sua espressione spaventata diceva tutto il contrario. Era certo che sarebbe caduto, eppure era rimasto incredibilmente in piedi.

«Suvvia, credevi davvero che ti avrei lasciato cadere?», gli sussurrò ad un orecchio Franky, ridacchiando.

«Cretino mi hai fatto prendere un colpo!», gli rispose. Poi si voltò e gli diede un pugnetto sulla spalla, imbronciandosi come se davvero fosse arrabbiato, ma non resse molto.

«Mi tieni occupati Leo e Jole per un attimo?», gli domandò l’angelo, indicando i due che, abbracciati, guardavano Arthur giocare con il cucciolo.

«Sicuro», gli fece l’occhiolino.

Mentre il chitarrista distraeva i due, facendoli girare per spiegargli la storia di un quadro che Bill e Zoe avevano comprato in Spagna e avevano appeso in salotto, Franky andò da Arthur e lo prese fra le braccia senza che il bambino se lo aspettasse. Lo fece ridere dalla gioia, alzandolo in alto aiutandosi con le ali e facendogli fare una specie di aeroplano. Poi, lentamente, lo fece scivolare sulla sua ala destra e se lo avvicinò al petto come se stesse prendendo un neonato fra le braccia.

«Allora, sei contento?», gli domandò a bassa voce, con gli occhi colmi di amore e un sorriso dolce sul viso.

«Sì, tantissimo», gli sussurrò il bimbo in risposta. «Grazie Franky». Portò le manine sulle sue guance e lo baciò su quella destra, per poi avvolgergli le braccia intorno al collo.

«Così mi fai arrossire», soffiò l’angelo.

Linda era commossa, aveva le lacrime agli occhi; Bill era piuttosto imbronciato, quasi schifato; invece Evelyn era rimasta quasi stordita da quella scena: ripensò a quando, ancora prima di cena, Arthur l’aveva abbracciata e la sua reazione era stata di blocco, si era sentita malissimo; Franky sembrava così… a suo agio, con quel bambino, nonostante sapesse che gli ricordava tantissimo il loro, quello che non era mai nato. Lui era davvero più forte di quello che pensava, lottava in ogni momento pur di non farsi sopraffare dal dolore e avrebbe dovuto farlo anche lei.

Franky lasciò andare Arthur e si allontanò di un passo proprio quando i due si scollarono di dosso Tom e si voltarono. Il chitarrista incrociò lo sguardo dell’angelo, che gli alzò il pollice e gli fece l’occhiolino, al quale lui ricambiò.

«Su Evelyn, adesso tocca a te scartare i regali!», la incitò suo padre, battendo le mani di fronte al petto.

Linda annuì e starnutì: la sua allergia era appena cominciata. Il bambino se ne ricordò e si infilò il cagnolino nella maglia, con il musetto che usciva dal suo colletto.

«Scusa mamma!», gridò dispiaciuto.

Lei ridacchiò, prendendo un fazzoletto dalla borsa poggiata sul divano. «Non ti preoccupare, amore».

Evelyn sentì un fruscio alla sua destra e notò che Franky si era avvicinato a lei con nonchalance. Non la guardava, ma sorrideva, e ad un certo punto le sfiorò la mano con la sua, sfruttando il divano che le nascondeva agli occhi di tutti. La ragazza accennò un sorriso e la strinse.

«Allora Evelyn, ti vuoi muovere o no?», le domandò Tom, indicando i doni sotto l’albero. Probabilmente, se avesse saputo delle loro mani intrecciate, non avrebbe detto nulla. La ragazza fu così costretta ad andare ad aprire i suoi regali, spinta anche da Franky.

Uno dopo l’altro li scartò tutti, con l’aiuto del suo cuginetto, e l’ultimo se lo rigirò fra le mani più e più volte: quello di Martin. Sbirciò con la coda dell’occhio la reazione di Franky e lo vide teso, con la mandibola così rigida che il suo volto sembrava di marmo. Lo vide anche far scivolare il suo cellulare bianco fra i cuscini del divano, poi si voltò accennandole un sorriso e raggiunse il chitarrista che era andato un attimo in cucina con Linda, presa da un attacco acuto di starnuti.

Evelyn sospirò, si alzò da terra con il pacchettino rosso in mano e si spostò sul divano; senza farsi vedere prese il suo cellulare e guardò il display: Martin le aveva mandato un messaggio. Sbirciò in cucina, ma non riuscì ad incrociare lo sguardo di Franky, lo stesso Franky che se solo avesse davvero voluto avrebbe potuto tranquillamente leggerlo. Ma non l’aveva fatto.

«Che cosa stai aspettando ad aprire quello? Di chi è?», le chiese sua cugina Jole, sedendosi al suo fianco.

«Oh, è… è di un mio amico», mormorò abbassando lo sguardo. «Jole, mi… mi dispiace per prima, non volevo reagire in quel modo, ma è stato del tutto…».

Scosse il capo con un sorriso tenero sulle labbra e l’attirò in un abbraccio. «Non ti preoccupare».

Evelyn sobbalzò a quella dimostrazione di affetto e allo stesso tempo si sentì bene. Era da tanto che non riceveva un abbraccio da un soggetto femminile, era un calore diverso da quello che le diffondeva quello di suo padre.

«Sai… ogni tanto potresti venire a casa mia a farmi compagnia, oppure anche a fare shopping… questo bambino non si vestirà di certo da solo».

«Sul serio, posso?», le domandò con i lucciconi agli occhi, stiracchiando un sorriso. Aiutare sua cugina avrebbe in qualche modo lenito la ferita del suo cuore per quella terribile perdita?

«Ma certo!», le scompigliò la frangetta. «E ora lo vuoi aprire o no quel regalo? Sto morendo dalla curiosità!».

Evelyn ridacchiò e lo aprì, estrasse la scatoletta blu al suo interno e ne tolse il coperchio un po’ timorosa: che le avesse fatto un regalo costosissimo, prendendola per la ragazza viziata che non era?

«Wow», disse Jole, ammirando da più vicino il contenuto della scatola.

La ragazza tirò un sospiro di sollievo e sorrise divertita, prendendo il braccialetto dalle perline blu e azzurre e giocandoci con le dita, fino a quando non notò il bigliettino sul fondo della scatoletta. Lo prese e lo lesse mentalmente: “Fa schifo, lo so, ma appena l’ho visto mi sei venuta in mente tu, i tuoi occhi. Spero ti piaccia almeno un pochino”.

Evelyn si infilò il braccialetto al polso. «Mi piace tantissimo».

Jole sorrise. «Si vede che è un regalo fatto col cuore e non col portafoglio. Io ci penserei su, a questo amico». Le fece l’occhiolino e poi si alzò dal divano, lasciandola sola.

Il cellulare che aveva lasciato accanto a sé vibrò e le ricordò del messaggio che non aveva ancora letto. Lo visualizzò e il suo sguardo scivolò su quelle parole, su quel cuoricino alla fine che, ne era certa, doveva aver fatto arrossire lo stesso Martin mentre lo componeva sulla tastiera.

 

Buon Natale anche a te, Martin. Grazie per il regalo, lo adoro! A domani… <3

 

I love it here, but I don't belong here
And it's been clear for a while, it will be clear
End of all the fights

 

***

 

«Noi andiamo!», esclamarono Jole e Leo, tenendosi per mano.

«Sì, sarà il caso di andare via anche noi, Tom», aggiunse Linda, toccando il braccio del marito per attirare la sua attenzione verso Arthur, addormentato sul divano, accanto al suo cagnolino e fra le braccia di Franky.

«Okay». Si alzò da tavola dando un pugnetto alla spalla del gemello, che lo seguì a ruota e li accompagnò all’ingresso, dove si misero i cappotti e raccattarono tutti i vari regali da portare a casa. Tom vestì anche Arthur, senza svegliarlo, e nel farlo si chiese che cosa dovesse fare con Franky: lasciarlo lì a dormire o svegliarlo e portarlo a casa, in modo tale da non rischiare che combinasse qualche altro disastro con Evelyn?

Linda si avvicinò a lui e, chinandosi facendo finta di aiutarlo con Arthur, gli disse: «Lascialo dormire, dai. Se si sveglierà e vorrà venire a casa verrà», come se gli avesse letto nel pensiero. Tom annuì, anche se non del tutto convinto.

«Il cagnolino ve lo porto io», si offrì Jole per evitare che lo dovesse prendere sua madre.

«Abbiamo preso tutto?», domandò il chitarrista, caricandosi il figlio in braccio e guardandosi intorno.

«Salutaci tanto Evelyn, poverina doveva venirle mal di testa proprio stasera?».

«Non ti preoccupare Linda: una bella dormita e domani mattina sarà di nuovo in ottima forma», la rassicurò Bill, mentre la salutava con due baci sulle guance.

Si salutarono e Bill rimase sulla soglia ad osservare la famiglia di suo fratello dividersi e raggiungere le loro auto, sulle quali poi si allontanarono nel freddo e nel buio della notte.

Si chiuse la porta alle spalle e in salotto raccolse un paio di pezzetti di carta che gli erano sfuggiti precedentemente, poi si avvicinò a Franky, addormentato sul divano, con la bocca socchiusa: sembrava un bambino e normalmente avrebbe sorriso intenerito, ma quella sera, con tutto ciò che era successo in quei giorni, non poteva far altro che assumere un’espressione frustrata.

Mentre lo guardava, ricordò quello che Lilith gli aveva detto due giorni prima.

 

«C-Come? Il mio angelo custode? Ma non sei come tutti gli altri angeli custodi…».

«Come Franky, intendi dire?», gli domandò con un sorrisetto.

«Lo conosci?».

«Di fama, sì».

«Che cosa intendi dire?».

Lilith scosse il capo. «Io sono diversa da Franky perché sono un angelo custode temporaneo, diciamo che il mio è un contratto a progetto: starò al tuo fianco fino al compimento della mia missione, poi ti lascerò. Non ho le ali come Franky e sono in forma umana perché sono speciale».

«E quando mi sei stata assegnata? Franky me l’avrebbe detto di sicuro, ma non mi ha mai parlato di te!».

«Franky non sa», rispose con gli occhi grandi spaventati. «Non sa nulla della mia missione, lui… lui non voleva che venissi affidato ad un angelo custode».

«Che… che cosa?», balbettò.

«Non voleva che tu fossi aiutato da un angelo come di solito avviene in questi casi; voleva che tu stessi male, che cadessi nella tentazione di un’altra donna per far sì che Zoe lo scoprisse e non volesse più tornare da te e tornasse con lui».

Bill era sconvolto, incredulo. Non poteva essere così, Franky non gli avrebbe mai fatto una cosa del genere. Eppure… lei era il suo angelo custode, perché avrebbe dovuto mentirgli?

«Franky non deve sapere niente, mi raccomando», gli disse.

«Ma… ma lui mi legge nel pensiero…», soffiò.

Lilith gli posò il pollice sulla fronte e lo tenne lì premuto per qualche secondo, con gli occhi socchiusi. Poi lo guardò e sorrise: «Risolto il problema».

 

Tornò a guardare Franky, prese la coperta in plaid sullo schienale del divano e gliela gettò addosso bruscamente.

Ti odio, ti odio Franky.

Ma l’angelo non si svegliò.

 

***

 

Evelyn si svegliò a causa di quel maledetto mal di testa che le batteva sulle tempie. Si mise seduta sul letto e decise di andare giù a vedere se era il caso di prendere un’altra aspirina.
Per arrivare in cucina dovette attraversare il salotto e nel farlo si accorse di Franky, addormentato sul divano. Si avvicinò a lui, si mise seduta sul bordo del divano e lo scosse delicatamente.

«Franky? Franky, svegliati», bisbigliò.

L’angelo mugugnò qualcosa di incomprensibile ed accartocciò il viso infastidito. Infine aprì gli occhi e portò una mano sulla guancia di Evelyn, gliel’accarezzò e sussurrò, con voce roca: «Che cosa c’è?».

«Vieni su a dormire, il divano è scomodo».

«No, in realtà no…». Ma non si oppose più di tanto, si lasciò tirare su ed aiutare a camminare verso le scale, ancora mezzo addormentato.

«Hai mal di testa?», le domandò nei pressi della sua camera.

«Sì, come fai a saperlo?».

Perché lo sento pure io. «Lo so e basta».

Evelyn si chiuse la porta alle spalle senza fare rumore e accompagnò Franky a letto, lo fece sdraiare sotto le coperte ancora calde del suo calore e lei si accucciò accanto a lui.

«Andiamo a fare una passeggiata al campo di girasoli?», gli chiese dopo qualche istante di silenzio in cui aveva ascoltato il suo respiro lento.

«No», bisbigliò l’angelo, mettendosi sul fianco, rivolto verso di lei. L’abbracciò, se la strinse al petto e le baciò la fronte un paio di volte, per poi affondare con la testa nel cuscino che condividevano.

«Perché no?».

«Sono stanco…».

Evelyn sollevò il sopracciglio. «Come mai?». 

Forse perché tu hai mal di testa e tua madre non è in ottima forma e se i pezzi della mia anima che sono dentro di voi ne risentono, ne risento pure io. «È stata una giornata impegnativa», mentì sospirando. «Ti prometto che ci andremo uno di questi giorni».

La ragazza annuì ed abbassò il capo sotto il suo mento, posò la fronte alla sua gola e sussurrò: «Hai scoperto qualcos’altro per quanto riguarda mio padre?».

«Ah, sì. Oggi sono andato di sopra, ho fatto qualche ricerca ed è proprio come pensavo».

«Che cosa? È grave?».

«Diciamo di sì», sospirò, accarezzandole i capelli sulla tempia. «Bill è stato attirato nella trappola di un demone».

«Un… un demone?», deglutì spaventata e le si presentarono di fronte agli occhi le pupille verticali di Lilith.

«Di chi erano quegli occhi?», le chiese subito Franky, alzandosi su un gomito, improvvisamente sveglio. «Evelyn, di chi erano?».

«Della ragazza con la quale papà ha ballato alla festa di beneficienza. L’abbiamo incontrata oggi dopo la Messa e ho avuto una sgradevolissima sensazione quando l’ho guardata negli occhi e quando le ho toccato la mano per stringergliela ho preso la scossa. Pensi… pensi che sia lei, il demone in cui papà si è imbattuto?».

«Sì, non ci sono dubbi. Tu sei riuscita a vedere e a sentire che c’era qualcosa che non andava in lei perché…», perché hai un pezzo della mia anima dentro di te, «perché noi due abbiamo un legame particolare. E anche lei deve averlo notato».

«Credo di sì, anche perché è andata via in fretta e furia, come se avesse avuto paura di qualcosa».

«Ma certo…», mormorò, meditabondo. Sa che io ed Evelyn siamo così uniti, che ci amiamo, e l’amore è una delle cose che i demoni fuggono di più. Ha attaccato Bill sfruttando i suoi punti deboli, il fatto che ora si sente così solo a causa di Zoe, e deve avergli detto qualcosa su di me che lo ha portato ad odiarmi. E inoltre gli ha bloccato la mente, in modo tale che io non potessi né vederla né capire quello che stava succedendo a Bill. Ma si sbaglia, se crede che riuscirà a fermarmi: Bill può odiarmi quanto vuole, ma io lo salverò.

«Che cosa farai ora?».

L’angelo la guardò negli occhi dolcemente e le posò un bacio sulla fronte. «Non ti preoccupare, tutto si sistemerà per il meglio. Ora dormi, io sono qui».

Evelyn si strinse ancora un po’ di più a lui, per trovare conforto, e con una mano gli tastò il petto per trovare il punto preciso in cui sentire meglio i battiti del suo cuore da angelo.
Vide il braccialetto dalle perline blu e azzurre al suo polso e le venne in mente Martin, con il quale sarebbe dovuta andare ad una festa la sera successiva. Era stato così carino… lo era sempre stato, nei suoi confronti.

«Mi dispiace non averti fatto alcun regalo», sussurrò Franky, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.

«Franky…». Evelyn sollevò il viso e lo guardò negli occhi rapita, mentre lui le prendeva anche l’altra mano e la portava insieme all’altra sul suo cuore, per poi posarci la sua sopra.

«Ma tu hai già tutto di me, hai preso tutto quello che possiedo, non ho nulla di nuovo da poterti donare».

«Mi dispiace…».

L’angelo capì subito il vero significato di quelle parole ed accennò un sorriso, avvicinandosi un po’ di più al suo viso, tanto che i loro nasi si sfiorarono. «Martin è un bravo ragazzo, non devi chiedermi scusa se ti piace. È giusto così… Infondo, per quanto io ami stare qui con te, per quanto ami te… io non appartengo più a questo mondo e ogni giorno che passa ce ne accorgiamo un po’ di più».

Evelyn gli avvolse le braccia intorno al collo e lo attirò sopra di sé col busto. Rimase in silenzio per qualche istante, giusto il tempo di ricacciare indietro le lacrime e bearsi della sensazione del respiro di Franky sul suo collo, fra i suoi capelli, poi mormorò: «Gli ho parlato del nostro bambino… Gli ho detto che è passato, ma la verità è che non lo è affatto, se non fisicamente».

L’angelo la strinse un po’ di più a sé e sollevò il viso per guardare il suo a distanza ravvicinata. «Devi pensare che ora lui sta bene, è in un bel posto e forse vivrà una vita migliore di quella che avrebbe vissuto con noi due… Lascialo andare, lascialo».
Passò le dita sulle lacrime che le avevano bagnato le tempie e posò la fronte contro la sua, ascoltando il suo pianto silenzioso.

 

From the dark, into the light
Goodbye

 

***

 

Bill si girò nel letto per trovare una posizione migliore e trasalì quando scorse la figura di Lilith al suo fianco, sulla parte di letto di Zoe, quella vuota.

«Che ci fai tu qui?!», gridò a bassa voce, sconvolto.

«Calmati, Franky in questo momento non può vedermi, ho preso le mie precauzioni», gli fece l’occhiolino e gli scostò dalla fronte un ciuffo di capelli neri. «Piuttosto, ti va di fare due chiacchiere?».

«In realtà, sono piuttosto stanco…». Lo sguardo mellifluo di Lilith, però, lo fece cedere con un sospiro.
«Volevo parlarti di Tom», incominciò la ragazza, con tono tranquillo, come se Tom, quel Tom, fosse una persona qualunque e non la persona più importante della vita di Bill.

«Tom? Che c’entra Tom?».

«Beh, c’entra eccome. Lui e Franky fanno comunella, mi sembra un motivo più che valido per parlarne! Credi che Tom non sappia nulla del piano dell’angelo?».

Bill sgranò gli occhi. No, tutti, ma non Tom… «Non l’avrebbe mai fatto. Se l’avesse saputo, Tom me l’avrebbe detto. È mio fratello gemello, siamo come un’unica persona!».

Lilith sorrise compassionevole. «Povero, povero Bill. Tu non sai ciò di cui sono capaci gli angeli… Sono bravi e buoni, ma se vogliono posso manipolare le persone come preferiscono, le girano e se le rigirano… Franky ha fatto così con tuo fratello, l’ha fatto diventare un agnellino in modo tale da tenerti all’oscuro del suo piano. Non l’hai notato un po’ strano in questo periodo?».

«Beh, forse un po’, ma…». No, non poteva essere vero.

«Sii coerente. Nemmeno io avrei mai creduto che Franky potesse arrivare a tanto, però è quello che sta facendo. E se continui a non fare niente, attirerà verso di sé anche tua figlia Evelyn».

Il respiro di Bill si spezzò. La sua Evelyn… No, non poteva permetterglielo.

 

___________________________________

 

Ciao a tutti! :D

La situazione si fa intrigante, non trovate? Quella Lilith... è un demone! Chi se lo sarebbe mai aspettato u.u  E ha messo Bill contro Franky e sta provando a metterlo anche contro Tom! Che essere crudele, proprio in questo momento delicato poi... Franky riuscirà davvero a salvare il nostro cantante? *.*
Franky e Evelyn sembrano davvero uniti, ora più che mai, un po' per il loro bambino e un po' perchè il loro amore è grande... ma c'è anche Martin dietro l'angolo, a cui Evelyn non è proprio indifferente...
Cosa farà il povero Franky se quei due...? Staremo a vedere!! :D
Alla fine Arthur ha avuto il suo cucciolo *.* Tutto grazie a Franky, ovviamente ;) Tom è davvero in debito con lui!
Credo di aver detto tutto quello che volevo dire... ah, la canzone che ho usato è
Goodbye di Kerli, piuttosto azzeccata per quanto riguarda i passaggi in cui si parla del bimbo di Franky ed Evelyn ç_ç

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che lascerete qualche recensione ;D
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha letto soltanto! Siete la mia gioia :)
Alla prossima! Con affetto, vostra,

_Pulse_

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Capitolo 19
*** Sunlight ***


Ho deciso di postare stasera, in anticipo, per fare un piacere e ringraziare Nataly per le sue magnifiche recensioni. Torna presto :)

19. Sunlight

 

If all the flowers faded away
and
if all the storm clouds decided to stay
then you would find me each hour the same
She is tomorrow and I am today

 

Kim alzò il viso verso il cielo plumbeo sopra la sua testa e si coprì in fretta la testa col cappuccio della felpa. Camminò per qualche minuto sotto quella leggera pioggerellina che ben presto si trasformò in un diluvio e si fermò di fronte ad una tomba di marmo grigio. Vi si mise seduta sopra e con la punta delle dita accese il lume al suo fianco, chiuse gli occhi e avvolse quella piccola fiamma con il palmo della mano. Quando la liberò essa non si spense al contatto con la pioggia, era come se avesse una barriera intorno a sé a difenderla.

«Ciao Pete», salutò l’uomo della fotografia che la guardava attraverso il vetro che la ricopriva. Ci passò sopra il dito, per levare le gocce di pioggia, ed accennò un sorriso. Abbassò le palpebre ed arricciò le labbra con le dita ancora sofferme sul sorriso che aveva amato tanto tempo prima. 

Gli occhi umani non potevano vederla, ma si alzò e si allontanò comunque quando vide una signora anziana fare il giro delle lapidi per andare a trovare qualche parente scomparso.

La forza che aveva dato alla fiammella per risplendere anche sotto la pioggia lentamente diminuì, fino a spegnersi.

 

***

 

Margot l’aveva chiamata quella mattina, del tutto all’improvviso. Non si aspettava nessuna chiamata, tantomeno una da quella sua compagna di classe che a malapena conosceva.
Le aveva chiesto se le andava di fare un salto a casa sua, giusto il tempo di spiegarle quei rognosi esercizi di matematica. Evelyn non aveva saputo bene cosa rispondere, quei giorni erano ancora quelli di Natale e non voleva disturbare, ma Margot aveva insistito, dicendo che probabilmente sarebbe stato l’unico giorno in cui avrebbero potuto vedersi con un po’ di tranquillità, visto che il suo ragazzo lavorava. Allora aveva accettato.

Guardò il portone del condominio in cui abitava Margot e sospirò.

«C’è qualcosa che non va?», le chiese suo padre, accigliato.

«No, stavo solo pensando… Ti faccio uno squillo quando mi devi venire a prendere, okay?».

«’kay, ci vediamo dopo».

Evelyn annuì, si infilò la borsa a tracolla sulla spalla e aprì la portiera quel tanto che bastava per riuscire ad aprire l’ombrello e non bagnarsi. Diluviava!
Corse sotto il piccolo portico e suonò al citofono. Quando Margot le rispose e le disse il piano, salutò suo padre con la mano e sgusciò all’interno del palazzo. Preferì le scale all’ascensore e sul pianerottolo del secondo piano vide Margot che l’aspettava: indossava una vestaglia leopardata sopra il pigiama rosa, i capelli castani erano acconciati alla bell’e meglio sulla nuca con un mollettone ed era assolutamente senza trucco. Aveva davvero un bel viso, anche così pulito.

«Ciao», la salutò incerta sul da farsi.

«Lo so che faccio spavento, ma non ti mangio». Le strappò un sorriso e la fece entrare, spostandosi di lato.

Evelyn mormorò un «Permesso» e dopo essersi pulita per bene i piedi sullo zerbino entrò in casa. Si gettò un’occhiata intorno e gliene bastò una sola per capire che Margot doveva avere una sorellina piccola. Una terribile fitta al cuore le fece pensare al modo più veloce per andarsene, ma poi l’immagine del viso di Franky la fece irrigidire sul posto, in una lotta interiore contro la parte di lei che voleva solo fuggire.

«Scusa il disordine», disse indicando con un cenno del capo il piccolo salotto messo sotto sopra. «Accomodati pure, io arrivo fra un attimo».

Margot si allontanò e si diresse verso lo stretto corridoio che doveva portare alle camere da letto. Evelyn la osservò per qualche secondo, poi si mise seduta al tavolo ed iniziò a tirare fuori dalla borsa a tracolla il libro e il quaderno di matematica, quando sentì un fruscio alle sue spalle. Si voltò di scatto ed ebbe la sensazione di aver visto un’ombra dirigersi verso il corridoio, ma non ne era affatto sicura, tanto che non vi diede peso e si disse che se l’era soltanto immaginata.

Aprì la pagina del libro di matematica su cui c’erano gli esercizi che doveva fare, ma l’occhio le cadde ancora una volta lungo il corridoio, fino alla porta semiaperta della camera da letto. Vide la schiena di Margot, china su un lettino; poi vide anche due braccina e due manine sollevarsi per raggiungere il suo volto e sentì la sua compagna di classe ridacchiare mentre prendeva in braccio quella che si rivelò una bellissima bambina di non più di cinque o sei mesi, con addosso una tutina rosa.
Un’altra fitta al cuore le fece abbassare gli occhi lucidi sulle X e le Y scritte ovunque sul libro. Sentì i passi di Margot avvicinarsi e cercò di riprendersi, ma fu ancora peggio vedere da vicino quell’esserino così perfetto e bello.

«Evelyn, sono felice di presentarti la mia Cindy», la guardò amorevolmente e le stampò un bacio sulla guancia paffuta.

«È… è un vero piacere conoscerti, Cindy», rispose Evelyn, senza riuscire a guardarla per più di due secondi.

«Ehi, è tutto a posto?», le domandò Margot, sedendosi al suo fianco con Cindy fra le braccia, una mano posata sul suo piccolo capo ricoperto da un po’ di capelli castani.

«Sì, solo che io… non me lo aspettavo…».

«Oh, non se lo aspetta mai nessuno se è per questo», rise in modo amaro. «Lo so benissimo di essere troppo piccola per avere una figlia, ma…».

Evelyn sgranò di colpo gli occhi e strisciò bruscamente la sedia all’indietro, allontanandosi da lei, facendo un rumore infernale che fece piangere la bambina.

«No Cindy, non piangere, non è successo niente», la rassicurò Margot, guardando Evelyn allibita. «Ma che ti è preso, si può sapere?!», si rivolse a lei questa volta.

«Lei è… è tua figlia?», tremava da capo a piedi e sentiva i battiti del suo cuore rimbombarle nei timpani.

«Sì, hai qualche problema?».

«Io… in realtà… sì», annuì. Margot sollevò le sopracciglia e non disse niente, ma il suo sguardo la intimò a continuare. «Io… mi trovo a disagio con i bambini, diciamo così, e il fatto che tu sia sua madre…».

«Ma è assurdo, che cavolo di problemi hai?!».

«Io ho perso il mio bambino», mormorò con la testa abbassata.

Margot si irrigidì ed ammutolì. Stentava a crederci.
Evelyn, sull’orlo delle lacrime, sentì di nuovo quello spostamento d’aria accanto a sé e sollevò il capo. Al suo fianco vide, in maniera molto sfuocata, una figura evanescente e con tanto di ali: un angelo. Era una ragazzina che somigliava molto a Margot nei lineamenti e in quel momento stava guardando proprio lei ed annuiva.

«Oh mio Dio», sfiatò Evelyn, del tutto inconsciamente.

Margot sobbalzò, notando che la ragazza stava guardando verso ciò che non avrebbe dovuto vedere, e cercò di nuovo lo sguardo del suo angelo custode.

L’angelo si voltò verso Evelyn ed accennò un sorriso. «E tu, come fai a vedermi?».

 

Verena aveva tredici anni quando era morta a causa di un incidente stradale. L’unica vittima; suo padre, sua madre e la sua sorellina di dieci anni erano sopravvissuti.
Era andata in Paradiso e lì aveva preso la sua scelta: nonostante la sua tenera età, aveva deciso di diventare l’angelo custode di sua sorella minore. Aveva studiato e nel giro di sei mesi era scesa di nuovo sulla Terra per proteggere e per stare accanto a Margot. Aveva deciso di farsi vedere solo da lei, da nessun altro; nemmeno suo padre e sua madre sapevano della sua esistenza, Margot aveva sempre fatto in modo che restasse un segreto fra loro, che non si erano mai lasciate, che non avrebbero mai voluto farlo e che si erano ritrovate anche dopo la morte di una delle due.
Da quel giorno erano sempre state insieme – senza contare i periodi di relativa serenità di Margot nei quali Verena era tornata in Paradiso per continuare a studiare e a specializzarsi nel suo campo, ma senza mai perdere di vista la sorella.
Quando Margot aveva scoperto di essere incinta, Verena aveva capito subito che sarebbe stato un periodo molto difficile per lei, quindi si era trasferita sulla Terra. E, come aveva previsto, i problemi furono parecchi. Prima arrivò la batosta da parte dei suoi genitori – che nel frattempo avevano divorziato – che non volevano assolutamente che lei tenesse il bambino. Margot e il suo fidanzato avevano deciso di tenerlo e così avrebbero fatto, non erano intenzionati a cedere, e la ragazza si era ritrovata in mezzo alla strada, rifiutata da entrambi i genitori. Per un breve periodo avevano vissuto a casa dei genitori di Klaus, che dopo qualche tempo avevano accettato la situazione e si erano messi il cuore in pace, poi lui aveva iniziato a lavorare e si erano trasferiti in un piccolo appartamento in un condominio, quello in cui abitavano tutt’ora pagando l’affitto.
A causa di tutto ciò e della gravidanza, Margot aveva perso l’anno scolastico e per questo si era ritrovata nella classe di Evelyn, quella ragazza che non aveva mai calcolato e che anzi, aveva sempre catalogato viziata e vanitosa come la maggior parte dei suoi compagni di classe, ma con la quale aveva così tante cose in comune.

«Quindi è tua madre, che ha un angelo custode», ricapitolò Margot, guardandola negli occhi.

Evelyn annuì col capo e gettò un’occhiata a Verena, che la osservava con i suoi occhi vispi e attenti che la mettevano un po’ a disagio. Che le stesse leggendo nella mente tutto ciò che era successo con Franky?

Verena sorrise e spostò lo sguardo sulla sua nipotina, che stuzzicò pizzicandole il nasino.
«Tutto quello che ti è successo mi addolora», esordì, con un sorriso amareggiato sulle labbra. «Essendo un angelo custode, riesco a sentire ciò che provano il tuo cuore e la tua anima e devo dire che sei molto più forte di quanto tu creda. Forse hai un unico difetto», tirò su l’indice, che posò sulle labbra. «Scappi. Scappi dal dolore, piuttosto che affrontarlo. È per questo che hai reagito così, prima, quando hai visto Cindy e hai scoperto che era la bimba di Margot».

La biondina annuì ancora, abbassando il capo. Tutto ciò che aveva detto l’angelo era giusto, ma forse non era abbastanza forte per affrontare a viso aperto il dolore. Forse era troppo anche per lei.

«Ti andrebbe di…». Verena si interruppe per prendere Cindy fra le braccia ed avvicinarsi ad Evelyn. «Vuoi tenerla in braccio?».

Il cuore di Evelyn schizzò nella sua gola. La sua mente le disse immediatamente di rifiutare, ma quello stesso cuore che spaventato aveva tentato di fuggire dal suo stesso corpo, all’improvviso le diffuse uno strano coraggio nel petto e la forza per dire di sì.

Verena porse ad Evelyn la piccola Cindy e lei, in modo un po’ impacciato, se la strinse al petto facendo attenzione a reggerle il capo con la piega del gomito. La bambina aprì gli occhioni e continuando a succhiare il ciuccio la fissò con intensità. Ad Evelyn nacque un sorriso del tutto spontaneo sulle labbra.

«Ciao», soffiò. Le infilò un dito nella manina paffuta e se lo sentì stringere. Il suo cuore sanguinò, ma quel sangue le riscaldò il petto, la fece sentire forte, cacciò via tutto il dolore.

«Beh, direi che matematica potremo farla un altro giorno», disse Margot tutto ad un tratto e sia Verena che Evelyn risero, incontrando lo sguardo dell’altra.

 

***

 

Aprì gli occhi, svegliato dalla suoneria del suo cellulare. Lo prese dal comodino e con l’intenzione di farlo tacere rispose alla chiamata portandoselo all’orecchio e mugugnando: «Pronto?».

«Tom, ti ho svegliato?».

«Sì Bill, lo hai fatto. Spero che almeno sia una cosa importante…». Si passò una mano sugli occhi e si stiracchiò.

«Sì, lo è», rispose con tono serio. «Franky è nei paraggi?».

«Che cosa? No, non so nemmeno dove sia, mi sono appena svegliato! Perché, è successo qualcosa?».

«No. Ascoltami, Tom… io so che cos’ha in mente, non devi più mentirmi. Devi smetterla di stare sotto il suo comando, okay?».

«Ma che cosa ti sei fumato, posso saperlo? Io non sto al comando di nessuno! E poi quale sarebbe il suo piano?».

«Tom, ti ho detto di smetterla di fare il finto tonto! Lilith mi ha detto tutto!».

«Ci sto capendo sempre meno. Di che cazzo stai parlando?».

«Lei è il mio angelo custode. È una storia troppo lunga per spiegartela tutta, ma devi ascoltarmi Tom: devi stare lontano da Franky, è cambiato, non vuole più il nostro bene, lui vuole tornare con Zoe, vuole che io soffra come un cane! Devi cacciarlo!».

Tom, incredulo, si alzò ed iniziò a camminare nervosamente su e giù per la stanza. «Senti Bill, qualsiasi cosa ti abbia detto questa Lilith è una stronzata. Franky non farebbe mai una cosa del genere, lo sai benissimo. O sei così stupido da credere a tutto ciò che ti si dice?».

«Allora è peggio… è ancora peggio di quanto pensassimo! Tu stai dalla sua parte di tua spontanea volontà! Perché vuoi che io soffra, Tom?», gli domandò in un singhiozzo.

«Io non –», provò a ribattere, ma il fratello lo interruppe.

«Non me lo sarei mai aspettato da te, Tom… Adesso devo andare, ciao» e fece terminare la chiamata.

Il chitarrista rimase, in boxer e maglietta intima, a guardare il display del suo cellulare per qualche secondo, poi corse a cercare Franky, sperando che fosse in casa. Controllò dappertutto, ma di lui nemmeno una piuma. L’unico posto che gli mancava da controllare era la stanza insonorizzata che usava da studio, nella quale c’erano tutte le sue chitarre e il pianoforte. Lì trovò l’angelo, seduto sullo sgabello di pelle nera, che sfiorava i tasti bianchi e neri con la punta delle dita. Delle note dolci si diffondevano in tutta la stanza e fecero accapponare la pelle al chitarrista, che rimase ad ascoltare quella melodia paralizzato sul posto.

L’angelo continuò a suonare, a muovere fluidamente le mani sulla tastiera, creando la dolce melodia che Tom aveva sentito più e più volte nei suoi sogni più belli. Aveva provato e riprovato a buttarla giù, a riprodurla e a farla propria, ma ogni volta che si metteva seduto di fronte al pianoforte tutto ciò che aveva creduto di sapere fino ad un secondo prima spariva e non sapeva nemmeno dire se la nota di inizio fosse un FA oppure un LA. Ora capiva, capiva perché non ci era mai riuscito: era una melodia troppo elevata per uno come lui, era la melodia di un angelo, di Franky. Sembrava che fosse il suo cuore a suonare, il suo cuore grande e pieno d’amore.
All’improvviso la melodia si frantumò a causa di un disastro di note stonate: Franky aveva posato entrambi i palmi delle mani sulla tastiera, con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

«Hai capito che cosa sta succedendo?», gli domandò Tom, preoccupato.

L’angelo mormorò: «È passata alla fase due: aumentare ancora il suo odio verso di me e cercare di allontanarti da lui. D’altronde, è amore anche quello fraterno…».

«Quindi è proprio lei, è la ragazza che ha incontrato alla festa che gli sta facendo questo. Ma perché? Perché proprio lui?».

«È un bersaglio facile. Ed è circondato da persone che lo amano e che cercano in tutti i modi di aiutarlo, cose che i demoni non fanno altro che combattere. Beh, sai che cosa fanno gli angeli in questi casi?».

«Cosa?».

Franky si alzò dallo sgabello e senza sollevare lo sguardo né le mani dalla tastiera, disse: «Passano al contrattacco».

Tom rabbrividì e fece un passo avanti. L’angelo alzò di scatto la testa e lo guardò negli occhi per rispondere alla domanda che aveva già letto nei suoi pensieri: «Non c’è altra soluzione. Se vogliamo che se ne vada e che lasci stare Bill, devo affrontarla a viso aperto».

«L’hai mai fatto prima?».

«No. Ma non è questo il problema». È che sono debole. Sono certo che lei ne è a conoscenza e che saprà giocare a suo favore questa carta. Devo stare attento.

«Scusate, non ho potuto fare a meno di sentire».

Tom sobbalzò, preso alla sprovvista, e si girò. «E tu che ci fai qui?», chiese con voce leggermente acuta a Kim, che non faceva altro che guardare Franky, preoccupata per lui. Un demone da combattere era l’ultima cosa che ci voleva.

«Sono passata a salutare un mio amico e già che c’ero sono passata a salutare anche Franky. Ho sentito ciò che vi siete detti».

«Hai qualche alternativa da proporre? Sai, non sono proprio tranquillo sapendo che il mio migliore amico andrà a lottare contro un demone che chissà quale orribile aspetto ha sotto il corpo – un bel corpo, non c’è che dire… tutto al posto giusto…».

«Tom», lo rimproverarono entrambi e lui scosse il capo.

«Scusatemi, è che… questi demoni sono proprio furbi!».

Franky accennò un sorriso divertito, Kim invece rimase impassibile: non era proprio il momento adatto. Infatti, chiese al chitarrista di lasciarli da soli. Tom scambiò uno sguardo con Franky e dopo il suo consenso uscì dalla stanza insonorizzata, chiudendosi la porta alle spalle.

Kim non si sarebbe mai aspettata che Franky l’abbracciasse così, gratuitamente, ed infatti rimase con le braccia ciondolanti lungo i fianchi per un po’, ma alla fine riuscì a ricambiare la stretta. La vicinanza e il contatto col suo corpo le permise di leggere tutto quello che gli passava per la testa senza che lo volesse veramente. In un attimo seppe perfettamente tutto quello che stava passando emotivamente ed aumentò la stretta. Tutto, poteva farle di tutto, ma non sbandierarle in faccia quanto stesse male per colpa di un amore che non avrebbe potuto far fiorire, che gli avrebbe portato solo dolore. Un amore come il suo.

Franky capì di averle involontariamente mostrato tutto, tra cui anche la paura di vedere ancora una volta coi propri occhi un altro ragazzo accarezzare e baciare la ragazza per la quale avrebbe fatto di tutto. Per questo si ritrasse dall’abbraccio con ancora più vergogna in corpo, manifestata anche attraverso il rossore sul viso.

«Mi dispiace, non volevo», mormorò.

Kim gli sorrise rassicurante e scosse il capo, accarezzandogli le guance. «È tutto a posto», bisbigliò e chiuse gli occhi posando una mano sul petto dell’angelo, che la guardò mentre una luce calda usciva dal suo palmo e si insinuava nel suo cuore, calmandolo e dandogli la forza. In quel modo, però, l’angelo speciale riuscì a percepire anche ciò che di più profondo celava dentro di sé, ossia la stanchezza che aveva iniziato ad accompagnarlo in quei giorni, come se la sua anima avesse subìto una ricaduta dopo il periodo in cui sembrava essersi ripresa.

Kim sollevò lo sguardo, in pena per lui, ma Franky le posò le dita sulle labbra e fu lui quella volta a scuotere il capo e a dire: «È tutto a posto».

 

She lives in a daydream where I don't belong
She is the sunlight and the sun is gone

 

Evelyn aveva avvisato suo padre che sarebbe stata a casa di Margot più del previsto, quando invece aveva aspettato sotto la pioggia il primo autobus che portava nelle vicinanze di casa di suo zio per poi farsi un pezzo a piedi.

Abbandonò il suo ombrellino zuppo di pioggia sotto la veranda e suonò il campanello. Chi le venne ad aprire le fece ingoiare un nodo grosso come una casa e il suo sorriso luminoso si affievolì all’istante. Che ci faceva Kim a casa di suo zio?

«Ciao Evelyn», la salutò la ragazza in forma umana, alzando una mano.

«Ciao», biascicò la biondina, entrando in casa guardandosi i piedi.

«Evelyn!», esclamò Franky appena la vide, alzandosi dal divano rapido come una molla. «E tu, che ci fai qui?».

«Disturbo?», domandò guardando prima lui e poi l’angelo speciale che si era tirata in disparte.

«No, certo che no!», gridò stridulo Franky, diventando rosso come un peperone.

Kim, vedendolo in difficoltà, intervenì in suo aiuto: «Sono passata soltanto a salutarlo, visto che mi trovavo per strada. Me ne stavo giusto andando».

Evelyn annuì e l’angelo speciale fece lo stesso, poi salutò Franky con un cenno della testa e se ne andò, diventando invisibile. Un pesante silenzio calò su di loro e Franky sospirò pesantemente, lasciandosi cadere di nuovo sul divano, con le mani sulle gambe e un piede sopra l’altro.

«Franky mi dici come cavolo inizia quella melodia che hai suonato prima, io davvero –!». Tom si bloccò nel bel mezzo della frase e si fermò alla soglia del salotto, dove vide la nipote e l’angelo. Capì subito che non tirava una bella aria, quindi farfugliò: «Okay me lo dici dopo» e girò i tacchi.

Franky si passò le mani sulla faccia e sospirò. «Dovevi dirmi qualcosa?», le chiese con voce incerta, che faticava a non far tremare.

Evelyn avanzò d’un passo e con movimenti quasi meccanici si mise seduta sull’altro lato del divano, lontana da lui. Non lo guardò quando rispose, fissò il tappeto: «Ho scoperto che Margot, una mia compagna di classe, ha un angelo custode. E ho scoperto anche che Margot è una ragazza madre. Ho tenuto la sua bimba in braccio, ero così felice di poterti dire che forse avevo qualche possibilità di farcela… Perché lei era qui?».

L’angelo scosse il capo ed appoggiò gli occhi ai palmi delle mani, coi gomiti puntati sulle ginocchia. «Non è come pensi tu», sospirò.

«Franky», lo chiamò con più fermezza che poté. «Guardami negli occhi». L’angelo sollevò lo sguardo ed incontrò quello di Evelyn ad attenderlo, uno sguardo triste e colmo di lacrime. «C’è stato qualcosa fra voi due, vero?».

Franky socchiuse gli occhi e deglutì. Sentì il suo cuore cadere sul fondo della sua anima con un tonfo sordo.

«Ti prego, rispondimi…», singhiozzò.

«È successo solo una volta», mormorò lugubre. «Ed è stato un errore, un enorme sbaglio che…».

«Quando».

«Eh?».

«Quando», ripeté Evelyn, impassibile.

Franky esitò, ma poi confessò abbassando il viso ed unendo le mani: «Qualche ora dopo averti salvata dalle grinfie di Samuel».

Il respiro di Evelyn tremò tanto da somigliare a più singhiozzi mixati insieme. Ora capiva perché Kim si era comportata in quel modo con lei il pomeriggio in cui aveva accompagnato da loro sua madre. Che anche Kim fosse innamorata di Franky?

Si alzò dal divano e si girò, pronta per andarsene, quando l’angelo le prese una mano e le disse: «Per favore, Evelyn, resta».

«Stasera devo uscire», biascicò mentre le spalle iniziavano a tremarle, squassate dai singhiozzi che stava soffocando in gola. «Devo andare a casa a prepararmi».

La batosta più dolorosa gliela infierirono i suoi pensieri, perché gli fecero capire con chiarezza con chi sarebbe uscita quella sera: con Martin. Era già arrivato il momento di mettersi da parte? Poteva sopportarlo una seconda volta?

«Ma diluvia», disse nell’ultimo tentativo di farla rimanere.

«Ho l’ombrello». Si liberò definitivamente della sua stretta flebile ed andò alla porta infilandosi la borsa a tracolla sulla spalla. Esitò un attimo con la mano sul pomello, ma non tornò sui suoi passi: se ne andò.

Franky rimase a fissare il legno della porta e, oltre di esso, Evelyn ricurva sulle spalle che si asciugava le lacrime dal viso, si infilava il cappuccio sulla testa e correva sotto la pioggia col suo ombrello, allontanandosi in fretta da quella casa, da lui.

 

Evelyn faticava a vedere nitidamente dove andava a causa delle lacrime e della pioggia. Ma vide benissimo la figura che sogghignando le stava venendo incontro col cappotto e l’ombrello neri. La ragazza non le badò, la superò come se nulla fosse, ma Lilith ci mise poco ad affiancarla.

«Siamo nervose?», le domandò con fin troppa ironia nella voce. Sapeva già ciò che era successo.

«Lasciami stare», le rispose stizzita, massaggiandosi il naso con la mano. Ora che ci faceva caso, anche lei riusciva a sentire uno strano odore provenire dalla ragazza/demone.

«Ah, piccola ingenua Evelyn… il fatto che Franky sia un angelo non vuol dire che non sia un uomo. E sai, gli uomini sono tutti uguali, sono capaci solo di far soffrire».

«Ti ho detto di lasciarmi stare», ripeté digrignando i denti.

«Non ci ha pensato due volte prima di andare a letto con Kim, forse perché in realtà non ti ama. Anzi, non gliene importa proprio niente di te, di ciò che avete passato insieme».

«Stai zitta! STAI ZITTA!», strillò con le lacrime che le rigavano il viso, un po’ per ciò che aveva scoperto e un po’ per il nervoso. «Con chi credi di avere a che fare?! Io so benissimo cosa sei, qual è il tuo compito! Non mi incanti, i tuoi trucchetti non funzionano con me!».

Lilith le prese il polso destro e la fece voltare verso di sé con uno scatto brusco, tanto da strapparle un gemito di dolore. I loro ombrelli caddero a terra e i loro capelli iniziarono a bagnarsi sotto al pioggia, ad appiccicarsi ai loro visi. Evelyn la guardò negli occhi e li vide nella loro vera natura: grandi, verdi smeraldo e con le pupille nere verticali.

«Forse sai che cosa sono, ma non sai con chi hai a che fare. Non mi stuzzicare, ragazzina», la minacciò e pure la sua voce, di solito dolce e gentile, si era trasformata come i suoi occhi: era roca e profonda, spettrale.

«Levami le mani di dosso, il tuo fetore mi sta soffocando», le rispose a tono Evelyn, per nulla intimorita, e nel momento in cui Lilith sembrava volerle assestare un ceffone in pieno viso, Franky intervenne.

Le fu addosso in un attimo, tanto che la biondina non capì perché Lilith l’avesse lasciata andare così all’improvviso. Franky la fece cadere a terra e le bloccò i polsi con le mani, ma il demone si liberò in fretta, assestandogli un calcio nello stomaco. Lilith balzò via e li guardò entrambi con astio, poi scoppiò in una risata isterica guardando Evelyn. Franky, che aveva già capito quello che aveva intenzione di fare, gridò: «Non lo fare. Non lo fare, o io ti…!».

Ma nulla impedì al demone di urlare: «Ragazzina, per quale motivo credi che Franky non si sia fatto subito vedere quando hai perso il vostro bambino? Eh?! Non hai pensato che forse, forse, è stato così codardo da non dirti nemmeno il vero motivo?!».

«Perché ti ostini a parlare, io non credo a nessuna parola di quello che dici!», gridò Evelyn.

«Ah no? Nemmeno se ti dicessi che è stato lui, proprio il tuo amato Franky, ad interrompere la tua gravidanza?! Ad ammazzare vostro figlio?!». All’espressione traumatizzata di Evelyn, la ragazza/demone scoppiò di nuovo a ridere. «Oh, poverina…».

«Tu», sibilò Franky, stringendo i pugni lungo i fianchi, col viso rosso di rabbia e le vene sul collo che gli pulsavano. «Io ti distruggo!». Corse verso di lei e sferrò un pugno, ma tagliò soltanto l’aria. Lilith si era spostata e ora si trovava dietro Evelyn, che aveva abbassato il viso e si era stretta nel suo abbraccio.

«Mi dispiace, piccina», le sussurrò all’orecchio, posandole una mano sulla testa. «Non avrei voluto dirtelo, ma mi avete costretto».

Franky gridò ancora di rabbia e corse verso di lei un’altra volta, ma Lilith scomparì ancora prima che la raggiungesse, lasciando dietro di sé l’eco di una risata. Allora l’angelo sospirò frustrato e trattenne i singhiozzi in gola, mentre le lacrime gli rigavano le guance insieme alla pioggia del cielo.

«Mi dispiace», singhiozzò disperato. «Mi dispiace Evelyn, io… Non avevo alternative, capisci? Evelyn…». Si aggrappò alle sue spalle, la strinse più forte che poté, ma non sentì nulla dentro di lei: era come… svuotata. «Non mi perdonerò mai per quello che ho fatto, ma almeno… perdonami tu».

Rimasero per qualche minuto lì abbracciati sotto la pioggia. L’angelo continuò a piangere, la ragazza rimase impassibile fino a quando non si scostò dolcemente e sussurrò, con la poca voce che le era rimasta infondo alla gola: «Adesso devo andare a casa».

Franky non poté fra altro che scostarsi e lasciarla andare, senza aggiungere altro.
Una volta lontana, lui spalancò le sue grandi ali candide e spiccò il volo sotto la pioggia che le appesantiva rendendogli il viaggio ancora più faticoso di quanto non lo fosse già.

Evitò di pensare a quello che era appena successo, ma era come se la sua mente fosse contro di lui in quanto continuava a mostrargli gli occhi sofferenti di Evelyn, la sua smorfia al posto del sorriso, e gli ricordava che la causa della sua sofferenza era lui.

Stanco, dovette scendere a terra. Si rese conto di essere in mezzo ai campi solo quando, barcollando, cadde in un campo senza grano. Si sporcò tutto di terra, ma non se ne accorse nemmeno.
Camminò per un po’, ciondolando di qua e di là, con la vista offuscata dalle lacrime che si mescolavano alla pioggia sul suo viso. Giunse alla carcassa della vecchia auto che conosceva e si accasciò sopra la fiancata, appoggiò le mani al finestrino posteriore e all’interno, sui sedili rovinati, vide ancora la madre e i fratellini del cucciolo che ora abitava con Arthur. Si infilò nell’abitacolo per proteggersi dalla pioggia e rimase ad osservare la cagna – magrissima – e i cagnolini che ogni tanto la leccavano, guaendo. Franky avvicinò la mano e con le ultime energie che gli rimanevano in corpo accarezzò il petto della cagna: la flebile luce che uscì dal suo palmo avvolse il suo cuore debole, dandole un attimo di vita in più, ma non c’era più niente da fare per lei.

L’angelo appoggiò la guancia al poggiatesta del sedile anteriore su cui era seduto e pianse come quei cagnolini che avevano appena perso la mamma.

 

If loving her is a heartache for me
and if holding her means that I have to bleed,
then I am the martyr and love is to blame
She is the healing and I am the pain

 

Evelyn arrivò a casa bagnata fradicia. Bill era in salotto a guardare la tv e la vide subito. La raggiunse preoccupato che potesse esserle accaduto qualcosa, ma la ragazza lo scostò senza energie e disse che era soltanto stanca e che le serviva una doccia.

«E in queste condizioni credi di riuscire ad uscire, stasera?», le domandò quasi come se fosse un rimprovero, tenendo i pugni stretti contro i fianchi.

«Sì, direi di sì», mormorò frizionandosi i capelli mentre saliva i primi gradini delle scale di vetro.

Sentì suo padre sospirare pesantemente e finì la rampa, camminò lungo il corridoio fino a quando le sue gambe non cedettero sotto tutto il peso che si era trovata tra capo e collo. Si lasciò scivolare contro la parete, poi gattonò fino al bagno trascinandosi sulle ginocchia, lasciandosi dietro di sé una scia di gocce d’acqua salata. Si chiuse dentro con una mandata di chiave e allora si lasciò andare senza riserve: si accasciò sul pavimento e pianse fino all’ultima lacrima che i suoi occhi furono in grado di creare.

Con tutto quello che avevano passato insieme… Franky era riuscito ad andare a letto con un’altra, mentre lei scopriva che era incinta di suo figlio. Ricordò il sogno che aveva fatto la notte in cui aveva scoperto che il suo bambino non c’era più: Franky glielo aveva portato via davvero, Franky era la causa della perdita del suo bambino. Del loro bambino. Come aveva potuto fare una cosa del genere? Era inconcepibile. Perché aveva voluto farla soffrire in quel modo, perché aveva voluto far soffrire se stesso in quel modo? Perché era ovvio, glielo aveva letto negli occhi e lo aveva sentito dentro di sé come se quel dolore fosse suo, che anche lui era stato male e stava male tutt’ora. Come poteva sopportare una cosa del genere? Perché aveva lasciato che Lilith glielo dicesse, perché non aveva nemmeno provato a dirle una bugia, a dirle che non era vero niente? Forse perché da solo non ce l’avrebbe mai fatta a superare tutto il male e tutto l’odio che provava verso se stesso.

 

‘Cause if right is leaving I'd rather be wrong
She is the sunlight and the sun is gone

 

***

 

Tom schizzò in piedi quando sentì la porta di casa aprirsi, ma venne trafitto da un filo di delusione: pensava che Franky fosse tornato e invece erano solo Linda e Arthur, di ritorno dal loro pomeriggio passato da Jole.

«Ciao», lo salutò la moglie e le bastò uno sguardo per capire che suo marito era agitato. «Tom, che è successo?».

«No, niente…», scosse il capo, stiracchiando un sorriso. Non voleva farla preoccupare; conoscendola, se le avesse detto ciò che era successo lo avrebbe mandato fuori a cercarlo. E forse era quello che aspettava di sentirsi dire, perché non si fece ripetere la domanda, ma aggiunse direttamente: «Prima è venuta qua Evelyn e ha beccato Franky e Kim. Non stavano facendo nulla di male, per carità, ma hai presente come reagiscono le femmine vedendo una rivale, no? Ecco, credo che abbiano litigato. Franky è uscito di casa in fretta e furia, sotto il diluvio, e non è ancora tornato». Si lasciò andare ad un respiro profondo, come se fosse stato in apnea per tutto quel tempo, ed alzò lo sguardo per incontrare quello di Linda, già in ansia.

«Tom… mi sentirei più tranquilla se tu andassi a cercarlo», gli disse, come per altro aveva previsto.

«Okay, ci vado subito», rispose senza alcuna esitazione, annuendo.

«E lo trovassi», concluse Linda con voce strozzata.

Tom si avvicinò a lei, le prese delicatamente il mento fra le dita e la guardò negli occhi: ormai Franky era diventato parte della loro famiglia, era come un terzo figlio per Linda e con lui si comportava esattamente come una mamma. A Tom faceva piacere, ma era anche preoccupato perché vivendo con lui per così tanto tempo aveva iniziato persino a ragionare come lui: aveva paura che Linda e Arthur si affezionassero troppo, tanto da soffrire al momento del suo ritorno definitivo in Paradiso.

«Lo troverò», le promise. «O mi troverà lui».

Linda accennò un sorriso, tirando su col naso, e gli prese il viso fra le mani per posargli un leggerissimo bacio sulle labbra.

 

Tom lo cercò dappertutto. Era ormai convinto che fosse tornato per un po’ in Paradiso, per stare un po’ da solo, quando gli venne in mente il luogo in cui avevano salvato Evelyn dall’aggressione di quel ragazzo che la maltrattava: i campi non lontani da casa di Bill. Dovevano avere un significato particolare per Evelyn, da quello che aveva capito, quindi era molto probabile che ne avessero anche per Franky.

Tentar non nuoce, si disse e guidò attraverso i corridoi creati fra i diversi campi, senza scorgerlo, complice l’oscurità e la pioggia fitta che non dava pace.

All’improvviso i fari della sua auto illuminarono una vecchia carcassa d’auto e seduto sul sedile del conducente, con la testa appoggiata al vetro del finestrino, vide la figura evanescente di Franky. Si ricordò di quando aveva portato a casa di Bill il cucciolo di Arthur e aveva spiegato che l’aveva trovato in una vecchia auto abbandonata, in mezzo ai campi.

Con il cuore in gola uscì dall’auto, si diresse verso quell’ammasso di lamiere che grazie al cielo stavano ancora insieme e vi si infilò dentro.
Guardò senza fiato l’angelo svenuto, sporco di terra e con i segni delle lacrime ancora sul viso. Si voltò e guardò i cuccioli tremanti che si stringevano al corpo della loro mamma che evidentemente non era in grado di offrire loro calore. Tom provò una sensazione di repulsione, quando si accorse di quanto quella cagna e Franky fossero simili.

Cercò di rianimare l’angelo, scrollandolo per le spalle, ma non ci riuscì. Uscì dall’auto sgangherata, fece il giro ed aprì la portiera a cui era appoggiato l’amico, lo prese fra le braccia proteggendogli la testa e corse verso la sua macchina ancora coi fari accesi. Lo stese sui sedili posteriori e stava per mettersi al posto di guida, quando lo sguardo gli cadde su un cagnolino che era uscito dal veicolo in decadenza di fronte a loro. Si stava inzuppando tutto sotto quella pioggia e faceva fatica a tenere gli occhietti completamente aperti a causa dei fari puntati proprio contro di lui, ma lo guardò comunque con un’intensità tale da farlo scendere di nuovo: prese lui e i suoi fratellini senza madre, li avvolse dentro il suo cappotto e li sistemò sul sedile accanto al suo, intimandogli di fare i bravi e di non sporcargli tutti gli interni, visto che bastava già il cappotto.

Ritornò a casa e prima pensò a Franky, che fu costretto ancora a sollevare poiché non dava segni di ripresa. Si fece aprire la porta e Linda appena lo vide ebbe un tuffo al cuore.

«Che cosa gli è successo?», strepitò a bassa voce, spostandosi per far passare il marito e superandolo per stendere una coperta sul divano del salotto, su cui lo stesero momentaneamente.

«Non lo so», rispose Tom col fiato corto. «So solo che non è normale. Non riesco a svegliarlo».

I due si guardarono negli occhi, preoccupati, poi tornarono a contemplare il viso sporco di Franky, ma che esprimeva comunque la sua tremenda dolcezza.

«Vado a prendere qualcosa con cui pulirlo», disse Linda, dirigendosi verso il bagno.

«Io vado a prendere i suoi amici, saranno più che affamati».

La donna lo guardò in modo interrogativo. «Chi sono i suoi amici?».

«Quelli che erano con lui quando l’ho trovato», rispose prima di uscire dalla porta di casa per tornare alla macchina.

Quando tornò, vide Linda seduta al fianco dell’angelo, che gli puliva il volto con un asciugamano bagnato che ogni tanto inzuppava nella bacinella d’acqua calda ai suoi piedi. La osservò passare la punta dell’asciugamano sulla sua fronte liscia, sulle sopracciglia e sulla linea del suo naso; sulle sue guance rosate a causa del freddo e sul suo mento. Levò ogni impurità dal suo viso e quando finì, sembrava dipinto nel marmo: bello quanto immobile. Vederlo così fece male a Tom: somigliava così tanto al Franky che aveva visto passare all’altro mondo…

I quattro cuccioli che teneva nel cappotto fra le sue braccia guairono affamati ed infreddoliti e sia lui che sua moglie posarono lo sguardo su quel grande fagotto.

«Tom, cosa…?», sussurrò Linda, con gli occhi sbarrati.

«La loro mamma è morta. Non potevo lasciarli lì a morire di fame e di freddo, io…».

Linda starnutì, interrompendolo. Si portò una mano sul naso e la bocca e strizzò gli occhi lucidi. «Accidenti», biascicò.

«Mi dispiace Linda, sul serio…».

«No… non è…». La donna si immobilizzò sul posto quando sentì il tocco leggero di una mano sfiorargli la guancia. Si voltò verso l’angelo steso al suo fianco e vide i suoi occhi verdi fissarla con espressione amorevole, accompagnati da un sorriso altrettanto dolce e delicato. Franky, nell’immobilità di quegli attimi, fece camminare le dita sulla sua pelle, le fece scalare la punta del suo naso e la ripida linea che portava alla sua fronte. Lì le fece riposare e dai suoi polpastrelli fuoriuscirono delle scintille che però non fecero male alla donna, anzi.
L’angelo ritrasse la mano e fissò i suoi occhi ancora una volta, poi si girò lentamente sul fianco e si abbandonò di nuovo alle braccia di Morfeo.

Linda guardò il marito senza capire che cosa fosse successo. Lo realizzò solo dopo qualche minuto, quando si accorse di non avvertire alcun fastidio nello stare a contatto coi cagnolini. Franky le aveva guarito l’allergia che sin da quando era bambina le aveva impedito di avere un cucciolo.

 

***

 

Sentì il campanello trillare al piano di sotto e si affrettò a scendere, ma arrivò troppo tardi: suo padre aveva già aperto la porta e si era trovato faccia a faccia con un Martin più che imbarazzato che teneva un mazzo di fiori fra le mani.

«Buonasera signor Kaulitz», lo salutò cortesemente.

«Ciao», replicò Bill, invitandolo ad entrare.

Martin avanzò a testa bassa e una volta in salotto si guardò intorno. Fu in quel momento che incontrò lo sguardo di Evelyn, che sorrideva impacciata con una mano sul corrimano d’acciaio delle scale di vetro.

«Ciao Martin», lo salutò avanzando di un passo, col collo stretto fra le spalle. «Sei in anticipo».

«Ciao… Sì, io…». Ci rinunciò e le porse il mazzo di fiori. Probabilmente era l'unico ragazzo dell'universo che portava ancora i fiori alle ragazze che gli piacevano.

Evelyn sorrise e li prese, ringraziandolo. «Sarà meglio metterli in un vaso».

«Ci penso io», si intromise suo padre, sorprendendoli entrambi. Se avesse davvero voluto allontanarli, avrebbe potuto lasciar fare ad Evelyn, in modo tale da poter intimidire ulteriormente il povero Martin. Ma non lo fece. Prese i fiori dalle mani di Evelyn e se ne andò in cucina, lasciandoli soli nel bel mezzo del salotto.

«Ehm…», Martin si dondolò sui talloni. «Se ti dico che sei bellissima risulto scontato?».

La bionda accennò una risata leggera. «No, affatto. Non sapevo assolutamente che cosa mettermi fino a dieci minuti fa».
Indossava una camicia larga, a quadretti blu e neri, una maglietta bianca e un paio di jeans a sigaretta; ai piedi le sue amate All Star blu notte. Aveva raccolto i capelli biondi in una coda alta che dondolava al suo seguito e sul suo viso c’era pochissimo trucco, giusto il mascara e un po’ di matita nera intorno agli occhi.

«Sei perfetta», sospirò sorridente.

«Grazie», abbassò lo sguardo, arrossendo.

«Ecco fatto!», esclamò Bill ritornando in salotto e posizionando il vaso coi fiori sul tavolino di fronte al divanetto per poi osservare la sua opera d’arte con le mani sui fianchi. «Stanno bene qui, che ne dite?».

«Ehm… sì, papà», annuì Evelyn, anche se titubante.

Rimasero in silenzio per qualche istante, nel quale tutti e tre si guardarono a vicenda. Poi Martin prese coraggio e si schiarì la voce, dicendo: «Allora… noi andiamo».

«Okay», annuì Bill, avviandosi dopo di loro verso l’ingresso. «Mi raccomando, non tornate troppo tardi. Evelyn, stai attenta e tu prenditi cura di lei».

«Sarà fatto», rispose Martin, mentre aiutava Evelyn ad infilarsi il giubbotto.

Uscirono nel buio e si coprirono le teste con gli ombrelli, entrarono nell’auto della madre di Martin, che gli aveva gentilmente prestato, ed Evelyn salutò Bill con un cenno della mano, poi Martin avviò il motore e partirono.
Durante il tragitto ascoltarono alcune canzoni alla radio e il ragazzo l’aveva soprannominata “la ragazza col dito più veloce del mondo”, perché non faceva ascoltare nemmeno tre secondi di una canzone che aveva già cambiato stazione. Tutte le canzoni che passavano, Evelyn le conosceva e sapeva darne un giudizio. Una domanda, a quel punto, era sorta spontanea a Martin: «Ma tu da grande che cosa vorresti fare?».

«Io?», la bionda si indicò, sorpresa.

«Sì, tu», ridacchiò. «Te ne intendi così tanto di musica, penso che sia anche dovuto al fatto che nella tua famiglia ci siano due musicisti… Vuoi seguire le loro orme?».

«Ecco… io non ne ho la più pallida idea, se devo essere sincera. Non ho mai pensato al mio futuro in questo senso, non so cosa farò da grande».

«Scommetto che tuo padre sarebbe orgoglioso di te se diventassi una cantante, come lui».

«Beh… in realtà lui non me ne hai nemmeno mai parlato. Lui vuole solo che io sia felice, qualsiasi lavoro andrà bene se piacerà a me, credo».

Martin sorrise comprensivo ed annuì. «Sei fortunata, Evelyn». Lei corrugò la fronte. «Io ho iniziato a studiare scienze farmaceutiche perché mio padre aveva sempre voluto questo per me, non l’ho scelto io».

«Oh, mi… mi dispiace…».

«No», ridacchiò, con lo sguardo fisso sulla strada. «Non c’è nulla di cui tu ti debba dispiacere, la verità è che io l’ho fatto con piacere. Io adoravo mio padre, vedevo in lui l’uomo che avrei voluto essere, per questo facevo tutto quello che mi diceva di fare. Non vedevo nemmeno un difetto in lui e quando trattava male mamma… trovavo sempre un modo per difenderlo, fino a quando…». Strinse con più forza le mani intorno al volante ed Evelyn deglutì, notando il suo cambiamento d’espressione: era adirato e allo stesso tempo frustrato. Ancora un po’ incerta, allungò una mano e la posò sulla sua. Fu come se Martin si fosse appena ripreso dopo essere stato ipnotizzato: la guardò confuso ed arrossì. «Scusami, io… non so cosa mi sia preso».

«Non importa», lo rassicurò con un sorriso tenero. «Mi fa piacere che tu ti voglia confidare con me», aggiunse e Martin arricciò le labbra in un sorrisetto, ricordando di averle detto le stesse parole quando gli aveva confessato di aver perso il suo bambino.

Portò la mano sul cambio e strinse la sua, senza schiodare lo sguardo dalla strada. Abbandonò l’argomento, non le parlò più di sua madre e di suo padre. Evelyn non ne capì il motivo e si sentì anche un po’ sottovalutata, come se non potesse comprendere, ma non gli disse niente né ritrasse la mano stretta nella sua. Non parlarono più fino a quando non arrivarono alla casa in cui si stava già svolgendo la festa.

«Oh, eccovi qua!», gridò il ragazzo che li accolse sulla soglia del garage, da dove si poteva accedere ugualmente alla taverna. Aveva l’età di Martin e doveva essere un suo caro amico, visto che si salutarono con un abbraccio, invece che con la solita stretta di mano che si scambiavano di solito i compagni di classe della ragazza.

«Siamo tanto in ritardo?», chiese Martin.

«No, solo che ero particolarmente curioso di conoscere la tua accompagnatrice! Mi hai fatto una testa tanta, da quando l’hai conosciuta!».

Martin tirò una manata all’amico, all’altezza dello stomaco, e sorrise imbarazzato alla bionda: «Non ascoltarlo, è un cretino».

«Certo, come no», lo prese in giro il ragazzo. «Comunque io sono Max, molto piacere di conoscerti», le sorrise in modo solare e le strinse la mano.

«Io sono Evelyn, piacere».

«Okay, ora che abbiamo finito coi convenevoli, entriamo?», propose Martin.

«Va bene!», gridò Max, dandogli una pacca sulla spalla. Si girò verso Evelyn e scosse il capo, cingendole un braccio intorno alle spalle, superandolo e scendendo le scale che portavano alla taverna da cui proveniva della musica e un forte vociare.

«È un po’ nervoso, sei tu a fargli questo effetto; è un bravo ragazzo, dagli una possibilità… se non vuoi farlo per lui, fallo per me, inizio a non sopportarlo più». Era come se Martin fosse suo fratello minore e Max stesse mettendo una buona parola per lui e allo stesso tempo la implorasse di toglierglielo un po’ di torno. Riuscì a farla ridere, Max era un tipo davvero simpatico, una di quelle persone che anche se un po’ sfrontate, non potevi non adorarle e ritenerle divertenti.

«Avete finito di prendermi in giro, voi due?!», strepitò Martin, rosso d’imbarazzo. 

«Oh, su Martin! Non ho detto nulla di male!», si difese Max, ridendo della sua espressione imbronciata. «Va bene, va bene, tolgo il disturbo. Anche perché ho una festa da mandare avanti. Divertitevi, mi raccomando!», gridò e se ne andò, scomparendo fra la folla che iniziava già a scatenarsi a ritmo di musica su una specie di pista da ballo.

«Max mi sta simpatico, mi fa ridere», gli disse Evelyn, sorridente.

Martin la guardò negli occhi per un istante e il broncio sparì, mentre un sorriso gli illuminava il volto. «Allora, per vederti ridere, mi lascerei prendere in giro anche per il resto della mia vita».

Evelyn arrossì di botto ed abbassò il capo, si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e gli rivolse un timido sorriso, senza sapere che cosa dire: Martin era una cosa incredibile, a volte, e lei si sentiva sempre vagamente in colpa, perché dentro di sé sapeva bene che non avrebbe potuto volergli bene come voleva bene a Franky – nonostante tutto.

«Andiamo a prenderci da bere?», le chiese, ma non la fece rispondere, la prese soltanto a braccetto e se la trascinò dietro.

 

***

 

«Attento, attento Tom, così gli fai male…».

«No, Linda, non gli faccio male», ribatté stizzito. Quando era così ansiosa non riusciva a reggerla.

Depositò Franky sul suo letto, nella camera degli ospiti, ed abbassò l’intensità della abat-jour sul comodino, in modo tale da non infastidirlo con una luce troppo forte nel suo dormiveglia.

«Ha le ali umide, non vorrei che si prendesse qualcosa», fece notare Linda, anche se con un po’ di timore.

Però quella volta Tom le diede man forte. «Sì, hai ragione. Forse è meglio asciugargliele un po’».

«Vado a prendere un asciugamano pulito».

«E il phon».

La donna annuì ed uscì dalla stanza. Tornò qualche minuto dopo, nei quali Tom aveva provato a svegliarlo, senza ricevere altro che mugugni in risposta. Che gli stava succedendo? La maschera di sofferenza che aveva dipinta sul viso non gli piaceva per niente.
Linda attaccò la spina del phon accanto al tasto per accendere il lampadario e lo diede a Tom, che azionò la velocità più bassa per non svegliare il piccolo Arthur che dormiva nell’altra stanza. Purtroppo, però, la sua premura risultò vana, perché il bambino si svegliò ed entrò nella camera degli ospiti sfregandosi gli occhietti lucidi con i pugni.      

«Che cos’ha Franky?», chiese con la sua vocina ancora addormentata.

«Niente tesoro, è tutto a posto», intervenì Linda e prima che si avvicinasse troppo al corpo dell’angelo lo raggiunse e lo prese in braccio. «Torniamo a fare la nanna».

Arthur si appoggiò alla spalla della madre con la guancia, ma incrociò comunque lo sguardo vacuo di Franky, che aveva aperto gli occhi proprio in quel momento. L’angelo cercò di stiracchiare un sorriso, ma tutto ciò di cui fu capace fu una misera smorfia.

Linda uscì dalla stanza con suo figlio e si chiuse la porta alle spalle, allora Tom sovrappose il suo viso a quello di Franky e lo guardò intensamente negli occhi. «Che cosa ti prende?», gli domandò più serio che mai.

«Niente», gracchiò l’angelo, socchiudendo gli occhi.

«Non dire cazzate, per piacere. Ti ho trovato svenuto in quell’auto abbandonata, a me sembra proprio che tu abbia qualcosa».

«Come stanno i cuccioli?».

Il chitarrista sbuffò innervosito e smise per un attimo di asciugargli le ali, spense il phon e lo lasciò sul comodino. «Franky, ci metto poco a prendere quella specie di cellulare che hai nella tasca dei pantaloni e a chiamare Kim. Sono certo che lei sa benissimo che cos’hai o almeno mi aiuterebbe a capire».

«Fai pure», mormorò afflitto. «Non sarò io ad impedirtelo, se la metti così».

Tom rimase interdetto a quelle parole e guardò il suo migliore amico con uno squarcio in mezzo al petto. Perché si comportava così? Perché anche in quei casi non pensava mai al suo bene?

Franky sentiva gli occhi tristi di Tom bruciargli addosso, dentro, ovunque. Avrebbe voluto dirgli tutto, confessargli che da un po’ di tempo, invece di dormire in quella stessa camera, passava intere notti in ospedale col corpo di Zoe, accucciato al suo fianco, cercando di rattoppare ciò che c’era da rattoppare e di curare ciò che c’era da curare, consumandosi l’anima, già precaria, fino a quel punto. Il colpo di grazia gliel’aveva dato e glielo stava ancora infliggendo Evelyn: anche dentro di lei c’era un pezzo della sua anima e grazie a quella riusciva a sentire tutto ciò che sentiva la ragazza, ogni singola emozione ed ogni singolo pensiero che, in quel momento più che mai, manco a farlo apposta, sentiva chiaramente e che non l’aiutavano a superare quella crisi. Se almeno quei pensieri fossero stati felici, se fossero stati quelli che un tempo le avrebbe detto di non fare, se avessero avuto lui come protagonista, invece che Martin… tutto sarebbe stato più facile.

«Hai finito?».

Tom si voltò di scatto verso Linda, sulla porta. «Sì, ho finito», mentì e si alzò dal letto. «Andiamo a dormire».

«Che… che cosa? Ma Franky…?».

«Ha bisogno di riposo», insistette posandole una mano sul gomito ed incitandola a seguirlo.

Linda osservò ancora l’angelo, titubante, ma quando lo vide chiudere gli occhi e rannicchiarsi su un fianco si decise a seguire il marito. Con un sospiro spense la luce sul comodino, accarezzò i capelli del suo figlio acquisito, poi uscì con Tom. Lui sapeva quello che faceva, non avrebbe mai lasciato da solo il suo migliore amico se avesse avuto bisogno di lui, ma qualcosa – forse l’istinto materno – le diceva che lasciarlo da solo non era la cosa giusta.

 

***

 

Oltre a Max, aveva conosciuto tanti amici di Martin, tra cui una ragazza che da quello che aveva potuto intuire era follemente innamorata di lui. E nonostante questo, quando l’aveva conosciuta l’aveva trattata come una persona, non come una rivale da calpestare per accaparrarsi ciò che voleva: aveva una gentilezza, un modo così carino di esprimersi, una luminosità senza paragoni. Evelyn più di una volta, guardandola, si era chiesta perché Martin stesse dietro ad una come lei, invece che buttarsi fra le braccia di quella ragazza che era meglio di lei; almeno per lui sicuramente.

Si era divertita tanto, era stata davvero una bella festa e aveva pensato raramente a Franky, a ciò che era successo e a quello che aveva scoperto. Era riuscita a distrarsi abbastanza. Ma sapeva benissimo che una volta a casa, da sola nella sua camera, ci avrebbe pensato e ripensato fino a farsi male.
Quando era arrivato il momento di andare, infatti, aveva supplicato Martin per restare ancora un po’: voleva allontanare assolutamente il momento in cui il suo cuore avrebbe sanguinato mentre la sua mente, spietata, le avrebbe mostrato in sequenza mixata tutti i bei momenti passati con l’angelo.

Tutte le volte in cui l’aveva pensato, tra cui proprio quel momento, sentiva una strana sensazione, una specie di dolore al petto. Non era un dolore metaforico, era come se qualcosa di molto vicino al suo cuore premesse intorno ad esso, si raggomitolasse e contorcesse per trovare pace e calore. Era una brutta sensazione, davvero, ma non aveva avuto il tempo materiale per darsene una spiegazione.

«Tuo padre ha detto di non tornare troppo tardi ed intendo non disubbidirgli: se permetti vorrei uscire ancora con te e se mi bruciassi subito questa chance con…».

«Non sono una bambina, Martin!», gridò, tirandogli un pugno leggero sul braccio. «E poi mio padre non è uno così all’antica… cioè, fa finta di esserlo, ma non lo è». Aveva bevuto un paio di alcolici e in effetti sentiva la testa piacevolmente leggera, che l’aiutava a non pensare.

«Ve ne state andando?!», urlò Max, con una bottiglia di birra in mano, più che ubriaco. Corse da loro, rischiando di ammazzarsi un paio di volte, e si buttò addosso ad Evelyn, che abbracciò. «Oh, bellissima, mi mancherai! Promettimi che mi verrai a trovare!».

«Sì, certo!», gli rispose ridendo.

«Angelo, sei un angelo», vaneggiò ancora, accarezzandole i capelli, ma a quelle parole Evelyn si riprese dal suo stato di non-lucidità e si irrigidì.

Se lo tolse di dosso con fare brusco e si aggrappò al braccio di Martin. «Andiamo», mugugnò.

Il ragazzo annuì e guardò l’amico mezzo sconvolto, lì impalato con un’espressione da cretino sul viso. Lo salutò con un gesto della mano, poi iniziò a salire le scale che portavano al garage dietro la ragazza che l’aveva preceduto. Salutarono chi incontrarono per strada, si infilarono in auto e una volta chiuse le portiere il silenzio li avvolse.

«Mi dispiace, qualsiasi cosa abbia detto Max», esordì Martin dopo qualche minuto di assoluta immobilità.

«Non importa. Sono io che ho reagito in modo un po’ eccessivo. La prossima volta dovrò chiedergli scusa…».

«Dubito che si ricorderà qualcosa», ridacchiò, strappandole un sorriso. Poi girò le chiavi nel cruscotto e diede gas.

 

***

 

Linda si girò e rigirò nel letto, inquieta. Tom dormiva già al suo fianco e da qualche minuto aveva iniziato persino a russare. Aprì bene gli occhi e lo guardò, gli accarezzò il mento e gli chiuse la bocca con delicatezza, poi scosse il capo e si levò le coperte di dosso: non poteva starsene lì sapendo che Franky nell’altra stanza non era nella sua forma migliore; piuttosto che sopportare quel peso sulla coscienza sarebbe rimasta sveglia tutta la notte a guardarlo dormire.

Aprì la porta della stanza degli ospiti e sbirciò all’interno: l’angelo non c’era. Si portò una mano alla bocca, spaventata, chiedendosi dove se ne fosse andato, conciato com’era. Corse di nuovo in camera, fece per svegliare Tom, ma a pochi centimetri dal suo braccio allontanò la mano e si morse il labbro, incerta sul da farsi. Faceva bene ad essere così protettiva nei suoi confronti, dopotutto? Era un angelo, sapeva sicuramente badare a se stesso…

Linda scosse il capo, si infilò sotto le coperte e si accucciò contro il petto di suo marito. Ascoltò i battiti del suo cuore e con quelli si addormentò, anche se non sarebbe stato affatto un sonno tranquillo.

 

***

 

Franky, col fiato grosso e delle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, finì di sigillare le finestre e la porta della stanza di Bill con la sua luce angelica, capace di tenere lontani i demoni. Non voleva che Lilith riuscisse a raggiungerlo e, anche nel sonno, fare del suo meglio per far crescere ulteriormente il germoglio scuro insidiato nel suo cuore, che si era trasformato in una piccola piantina, ancora più intrisa di sentimenti negativi. Era troppo debole quella sera per poterla affrontare, quindi almeno doveva proteggere Bill a tutti i costi.

Scivolò lungo il legno della porta ed appoggiò il capo su di essa, sentendosi stanco come mai. Oltre all’energia che aveva usato per creare quella barriera contro Lilith, la sua vitalità si stava consumando a causa del suo collegamento con Evelyn.

Sospirò frustrato, con le lacrime che premevano per rigargli le guance, e sbatté la nuca contro la porta alle sue spalle un paio di volte. Quando smise, sentì dei passi leggeri che si avvicinavano.

 

***

 

Martin accostò sul ciglio della strada, di fronte al cancello della villa in cui abitava Evelyn. Si voltò verso di lei lasciando il motore acceso e le sorrise. «Puntuali come due orologi svizzeri».

Rimasero per un po’ in silenzio a fissarsi a vicenda, imbarazzati, senza sapere come congedarsi. Ad un certo punto la ragazza abbassò il viso ed unì le mani sulle gambe, che iniziò a torturare.
«Martin… posso chiederti una cosa?», gli domandò con voce incerta.

«Ma certo, dimmi…».

«Quand’è che hai smesso di stravedere per tuo padre? Prima non hai finito il discorso e se non vuoi farlo nemmeno ora fa niente, però io dovevo chiedertelo…», arrancò, a disagio.

Martin la interruppe con una risatina che risultò comunque amara. Le prese una mano e la strinse forte nella sua, socchiudendo gli occhi. «Un pomeriggio sono tornato a casa prima dall’università, senza avvisare, e l’ho visto picchiare a sangue mia madre. Lei era in bagno, accasciata a terra che perdeva sangue dal naso in modo copioso. È stato in quel momento che ho capito davvero che pezzo di merda era mio padre».

Evelyn aveva ascoltato tutto senza fiatare, stringendo sempre di più la sua mano. «E tua sorella?».

«Lei non ne sapeva niente, era ancora piccola e non le dicevo quello che accadeva».

«Adesso tuo padre dov’è?».

«Non ne ho idea». Negli occhi gli brillò una scintilla d’ira. «Ora come ora, se venissi a saperlo andrei ad ammazzarlo con le mie stesse mani, anche a costo di andare dall’altra parte del mondo. Lo odio, lo odio con tutte le mie forze. E pensare che sin da bambino il mio più grande sogno era di diventare come lui, che ho fatto tante cose che se avessi ragionato con la mia testa non avrei mai fatto, compresa questa facoltà all’università».

«È per questo motivo che non sei più così sicuro di volerti laureare, vero?».

Martin annuì ed incrociò i suoi occhi splendidi, posando il capo al poggiatesta. «Poco tempo dopo quel fatto ero già intenzionato a lasciare, ma… mia madre non ha voluto: ha insistito tanto perché io continuassi e ora… eccomi qua, ancora con lo stesso problema».

Evelyn abbassò il capo, dispiaciuta, e si mordicchiò il labbro. «Io… non so, sinceramente, cosa potrei dirti, però… mio padre mi ha sempre insegnato che nella vita bisogna sempre ambire ai propri sogni, non accontentarsi mai e lottare fino a quando non si avverano. Se questa laurea non è ciò che vuoi…».

«Non voglio nemmeno buttare tutti questi anni di studio nel cesso, però».

«Oh… scusa».

Martin le posò un dito sotto al mento e le alzò il viso per guardarla negli occhi. Sorridendo, disse: «Grazie lo stesso».

Evelyn sentì il suo respiro accarezzarle la pelle, talmente i loro visi erano vicini, e si trovò a deglutire, agitata. Non sapeva che cosa fare: se lui si fosse avvicinato per baciarla come avrebbe dovuto comportarsi? Spostarsi oppure lasciarlo fare? Se l’avesse lasciato fare, l’avrebbe fatto perché lo voleva anche lei o solo per fare un torto a Franky per tutto quello che era successo quel pomeriggio?

Come aveva previsto, Martin socchiuse gli occhi e lentamente si fece più vicino…

 

***

 

«Devo farti i miei complimenti, Franky».

L’angelo strinse i pugni sulle ginocchia, i suoi respiri erano rantoli a causa della fatica. Che cosa stava combinando Evelyn? Nulla di sbagliato, anzi, per lei era meglio così, ma per lui… oh, lo stava uccidendo.

«Non pensavo che potessi fare una cosa del genere, conciato come sei. Stai dando proprio tutto te stesso per dare ai tuoi amici ciò che loro ti chiedono senza nemmeno rendersene conto. Continui a proteggerli, a farli tutti felici… Ma perché, perché lo fai? Non ti rendi conto che prima o poi tutti i tuoi sforzi risulteranno vani? Il tuo operato per garantirgli un futuro migliore è come un castello di carte: basta un soffio per buttarlo giù, un minimo errore… e loro lo commetteranno, quel minimo errore, che tu lo voglia o no».

«Stai zitta, Lilith», ringhiò a bassa voce.

Il demone al di là della porta sghignazzò e disse: «La verità fa male, non è così?».

«Sai cosa mi fa veramente male? Mi fa male pensare che il tuo compito è far soffrire la gente, mi fa male che tu godi distruggendo le vite delle persone».

«A ognuno il suo compito», ribatté Lilith senza fare una piega. «E ti assicuro che il mio è dieci volte più vantaggioso del tuo. Insomma… voi angeli provate così tanto dolore per le persone che amate! Noi, invece, meno amiamo meglio stiamo!».

Franky scosse il capo, come se potesse vederla, poi se lo posò sulla spalla destra e sul suo viso si dipinse una maschera di dolore. Strizzò gli occhi per non vedere, ma non riuscì a scacciare via quella proiezione nella sua mente: l’interno di un’auto, il viso di Martin… i pensieri di Evelyn.

«Comunque io ho dato la possibilità a Bill di scegliere se stare dalla mia parte o dalla tua», continuò il demone in corridoio.

«Tu non gli hai dato alcuna possibilità! L’hai portato a scegliere la tua parte con l’inganno!», rantolò rabbioso.

«Se avesse creduto davvero in te non mi avrebbe mai permesso di infiltrarmi in questo modo dentro di lui, io sarei sparita come sono apparsa nella sua vita, lo sai. Il fatto è che Bill non si fida abbastanza di te, basta dirgli le cose giuste e il gioco è fatto… è proprio uno stupido».

«Non è stupido, è solo… spaventato di perdere la persona che ama con tutto se stesso». Soffocò qualche colpo di tosse, coprendosi la bocca con il braccio, e quando lo spostò vide delle goccioline argentate sulla manica della felpa. Stava peggiorando di minuto in minuto.

«Questo conferma la mia teoria: l’amore è una cosa stupida. È un sentimento del tutto irrazionale, che porta l’essere umano a scelte e a comportamenti del tutto…».

Smise di ascoltarla, mentre altre immagini gli invadevano la mente come coltelli nella schiena. Vide il ragazzo avvicinare il viso al suo – stava vedendo tutto con gli occhi di Evelyn – e d’istinto spostò la testa dalla sua traiettoria, ma capì subito che non poteva muoversi. Sentì la voce mentale della ragazza chiedersi che cosa fosse meglio fare, se lasciarsi baciare oppure no, e mentre Martin si avvicinava udì anche un rumore che, aumentando sempre di più, si era fatto notare più chiaramente: quelli che gli rimbombavano nella testa a velocità sostenuta erano i battiti del cuore di Evelyn.

«E ci cascano proprio tutti, non è vero Franky? Anche tu – un angelo! – ci sei cascato come un allocco. Con una ragazza umana, oltretutto! La figlia della tua protetta! Ma dico, più stupidi di così…».

«Smettila di blaterale», berciò senza forze.

«Sai che se passassi dalla mia parte potresti avere quella ragazzina tutta per te? Potresti possederla come più preferisci, potresti renderla dipendente da te, potresti consumarle l’anima…».

«Non l’amerei, se le facessi tutto questo. E non ci penso nemmeno a passare dalla tua parte, non voglio puzzare come te».

«Perché credi che tu al mio olfatto profumi di rose? Sembri appena uscito da un cassonetto dell’immondizia! Comunque non vedo perché tu non voglia diventare un demone. La tua vita sarebbe infinitamente più facile! Avresti tutto ciò che vuoi! Infondo non saresti il primo a disertare… conosco altri angeli che hanno preferito il male al bene».

«Io non sono come loro». Un altro attacco di tosse lo fece accasciare a terra, con il viso contro le braccia per non svegliare Bill, che dormiva – quella notte serenamente grazie alla barriera di Franky – ignaro di tutto quello che stava succedendo.

«Stupido angelo, quanto pensi di riuscire ad andare avanti così? Ti autodistruggerai».

Lo farò, se necessario. «Vattene. Vattene Lilith, non ho più voglia di discutere con te».

«Come vuoi, ma d’ora in avanti sarà guerra aperta. Io ti ho avvertito. Ciao, ciao!».

Franky la sentì allontanarsi e quando non percepì più la sua presenza nel raggio di due kilometri sospirò stancamente e si accorse dei rivoli caldi e densi che gli scivolavano sulle guance, sulla linea del naso e che venivano assorbiti dal tessuto spugnoso della sua manica. Sapeva che cos’era quella sostanza, la conosceva bene, ma si portò comunque una mano sul viso: ne raccolse un po’ sulle dita, la osservò brillare d’argento grazie alla luce della luna ed accennò un sorriso amarissimo. Stava piangendo il suo stesso sangue, quando la tragedia era alla sua conclusione.

Martin finì di avvicinarsi e posò le labbra su quelle di Evelyn, che chiuse gli occhi, oscurando per fortuna la vista anche a lui. Ma non gli oscurò la percezione più che nitida delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti.

Era come aveva detto Lilith: l’amore lo stava distruggendo e non poteva fare nulla per combatterlo, né impedirsi di provare quel forte sentimento per lei. Era un circolo vizioso da cui non poteva sottrarsi, a causa del quale era costretto a soffrire.

 

And it will take this life of regret
for my heart to learn to forget
Tomorrow will be as it always has been
and I will fall to her again
for I know I've come too close

 

_________________________________

 

Ciao a tutti! :)

Accidenti, un capitoletto non proprio facile da buttar giù... Partiamo dalla scoperta che Evelyn ha fatto su Margot, però: ha una bimba *-* e un angelo custode, sua sorella. Grazie a loro è riuscita in parte a superare il dolore della perdita del suo bambino e voleva gioirne con Franky, ma... purtroppo Kim è arrivata nel momento sbagliato. O almeno, sbagliato per Evelyn. Kim infatti si è accorta della precarietà sempre più evidente dell'anima di Franky, che poveretto è sempre sotto pressione in un modo o nell'altro: Lilith non gli lascia tregua D: Prima Bill, adesso ha pure compromesso le cose con Evelyn, rivelandole che è stato lui ad interrompere la sua gravidanza... Faranno mai pace, ora che Evelyn ha anche baciato Martin? Bel dilemma.
Intanto, Lilith ha dichiarato guerra aperta a Franky, che chissà se ce la farà... Bon, se ho dimenticato qualcosa ditemelo nelle recensioni, perchè sapete che le aspetto sempre con immenso piacere *w* Spero di conoscere la vostra opinione su tutti questi avvenimenti piuttosto scioccanti u.u

La canzone che ho usato in questo capitolo è la stupenda She is the sunlight, dei Trading Yesterday. Non rigrazierò mai abbastanza questo gruppo *O*

Un grazie enorme a tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo - ho risposto alle loro recensioni ;) - ma anche a tutti quelli che hanno soltanto letto!
Alla prossima! Con affetto, vostra,

_Pulse_

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Capitolo 20
*** Overdose of you ***


Un'altra sorpresa per voi ;) Si tratta della seconda locandina da me creata per questa FF (cliccate sul link in azzurro). 
In tutto sono 3, alla fine, quando le avrete viste tutte, mi direte qual è la migliore! Ci conto, eh! :3

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20. Overdose of you

 

Franky entrò nell’ospedale delle anime affiancato da Kim e Raphael; davanti a lui camminava San Pietro.
Era molto presto, non c’era quasi nessuno nei corridoi, oltre alle infermiere che passavano di stanza in stanza per controllare i loro pazienti.

Il santo si avvicinò al bancone e parlò a bassa voce con l’infermiera di turno, che annuì ed internò una chiamata. L’angelo incontrò lo sguardo del suo mentore e questo gli sorrise lievemente, dicendogli di sedersi. Franky obbedì e Raphael si mise seduto al suo fianco su una poltroncina della sala d’aspetto semideserta. 
Kim, in piedi di fronte a loro, continuava a rivolgere occhiate preoccupate a San Pietro e all’infermiera, per poi controllare chi passasse nei corridoi. Era inquieta, lo si vedeva lontano un miglio.

Franky la osservò muovere la gamba come se avesse un tic nervoso, poi infilò la mano nella sua e con quel gesto la ragazza si voltò di scatto, sorpresa. 
Lei incrociò gli occhi verdi oscurati da una patina di dolore del nipote del suo grande amore e una smorfia si impadronì del suo viso: perché era così cocciuto? Perché nemmeno quando si trattava della sua vita non pensava a sé?

«Non mi perdonerò mai di averti appoggiato in questa follia», gli disse, voltando il capo verso il bancone: San Pietro e l’infermiera avevano finito di parlare e un dottore in camice bianco li aveva raggiunti, insieme all’infermiera con la quale Franky aveva avuto parecchi disguidi ma anche momenti di pace. Vide una tristezza sempre crescente impadronirsi di quel volto di donna composto, rigido come se non avesse mai conosciuto l’amore, ma che in quel momento era più espressivo di moltissimi altri, così… amorevole, come se avesse appena scoperto che suo figlio stava lentamente morendo.

Franky interruppe il filo dei suoi pensieri stringendo un po’ di più la presa, ma era ancora debolissimo.
«Grazie», le disse a bassa voce, per poi posare la fronte contro il dorso della sua mano.

Kim si morse le labbra, con gli occhi lucidi, e con delicatezza si sottrasse a tutto quello e si allontanò. Non poteva sopportarlo.

Franky abbassò lo sguardo, dispiaciuto: non voleva che Kim stesse male per lui. Raphael, seduto al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla ed accennando un sorriso disse: «Non ti preoccupare, le passerà presto».

L’angelo scosse il capo, trattenendo una risata fra le labbra. «Non cercare di consolarmi, lo so bene che ti fa solo piacere vederci lontani. Secondo me dovresti riprovarci con lei, te l’ho già detto».

Il sorriso di Raphael morì. Franky aveva toccato uno dei suoi tasti dolenti, di cui lui non voleva parlare. O meglio, gli aveva già spiegato come stavano le cose, ma non voleva proprio capire.

«Andiamo», esclamò San Pietro, invitandoli ad alzarsi e a seguire lui, Kim, l’infermiera e il dottore.

L’angelo poliziotto aiutò Franky ad alzarsi e con un braccio intorno alla sua schiena lo sorresse lungo il tragitto che li condusse allo studio del dottore, illuminato da una finestra che dava sul giardino. Il dottore badò bene che la porta fosse chiusa a chiave, poi fece sedere Franky sul lettino e gli fece sollevare la manica della felpa che indossava, mentre l’infermiera estraeva da una specie di cassaforte una valigetta con una dozzina di siringhe già pronte per l’uso.

«Visto che il tuo è un caso più che straordinario, abbiamo deciso di aiutarti», gli spiegò il dottore, guardandolo negli occhi. «Queste siringhe contengono un farmaco in via ancora sperimentale, ma che si è rivelato efficace le poche volte che è stato utilizzato».

«Che cosa fa?», domandò Franky, tenendo lo sguardo fisso sull’ago della siringa che l’infermiera aveva già preparato e teneva fra le dita. In particolare osservava quella minuscola gocciolina color turchese che usciva dalla punta dell’ago.

«È in grado di anestetizzare il dolore dell’anima: tu, avendo donato parte della tua anima alla tua protetta e a quella ragazza, soffri quando soffrono le loro anime oppure, siccome hai questo particolare legame con quella ragazza, anche quando…».

«Sì, ho capito», mugugnò Franky, abbassando lo sguardo.

In sostanza, era come la morfina, solo che agiva sulla sua anima: con quel liquido turchese nelle vene non avrebbe più sofferto come aveva fatto quella notte. Avrebbe potuto finalmente fare la cosa giusta, cioè allontanare una volta per tutte Evelyn da sé, spingendola fra le braccia di Martin. Avrebbe potuto tranquillamente continuare ad aiutare il corpo di Zoe a guarire, senza sentirsi tutte le volte privo di forze, e, cosa più importante di tutte, avrebbe potuto liberare una volta per tutte Bill da quell’impiastro di Lilith.

«Stai attento, però», lo avvertì il dottore, attirando di nuovo la sua attenzione. «Questo farmaco fa solo scomparire il dolore, non impedisce alla tua anima di consumarsi, anzi è probabile che in qualche modo acceleri anche il processo. Sei disposto a rischiare così tanto?».

«Non posso fare nient’altro», sospirò. Parte della sua anima era dentro il corpo di Evelyn e dentro di sé aveva una parte della sua, anche se avesse deciso di non starle più accanto avrebbe sentito comunque sulla sua pelle tutto ciò che sentiva lei, non avrebbe smesso di soffrire.

«Potremmo tentare l’estrazione del pezzo della tua anima dal suo corpo…», ipotizzò l’infermiera.

«No. No, non osate toccarla», sibilò. «Non sappiamo se questo possa avere delle ripercussioni sulla sua, preferisco non rischiare».

«Tipico di te», mormorò San Pietro, incrociando le braccia al petto.

Tutti i presenti si guardarono a vicenda per qualche secondo, nel silenzio più assoluto, poi il dottore sospirò e disse: «Dunque la decisione è stata presa».

Kim fece un passo avanti, posò una mano sul braccio candido di Franky e socchiuse gli occhi, con una smorfia sul viso. Gli mostrò mentalmente ciò che lo aspettava, quella che era stata la sua esperienza, durante la quale aveva rischiato più di una volta l’overdose, sopraffatta dal dolore che l’aveva costretta ad iniettarsi più della dose prescritta. Lo pregò di rifiutare, di non entrare in quel calvario, di pensare per una volta a sé, ma appena aprì gli occhi capì che Franky aveva già preso la sua decisione irrevocabile.

«È deciso», affermò l’angelo custode, annuendo con un movimento del capo. Kim si allontanò ancora una volta, ferita, e preferì uscire dalla stanza piuttosto che stare lì a guardare l’inizio di quella che per lei, per un bel po’ di tempo, era stata una specie di tortura.

Raphael, dopo aver scambiato uno sguardo d’intesa con Franky, la seguì, chiudendosi con cura la porta alle spalle. Se la trovò subito davanti, appoggiata alla parete del corridoio, leggermente piegata in avanti e con le mani sul viso.

«Kim», balbettò. L’angelo speciale si sollevò e lo guardò con gli occhi lucidi colmi di tristezza. Raphael si avvicinò e senza nemmeno riflettere sulle conseguenze che avrebbe portato quel gesto del tutto spontaneo, le avvolse le braccia intorno alla schiena. La ragazza si irrigidì all’istante, ma appena percepì il calore di quell’abbraccio si lasciò andare, mise da parte tutto il rancore che gli aveva serbato per tutti quegli anni e ricambiò, scoppiando a piangere sulla sua spalla.

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto», mormorò l’angelo poliziotto, accarezzandole i capelli sulla nuca e stringendola un po’ di più.

 

Il dottore cercò l’ennesimo segno di approvazione dall’autorità suprema - San Pietro. Quando lo ottenne, si rivolse all’infermiera e le prese dalle mani la siringa già pronta. «Non più di una ogni ventiquattrore», gli raccomandò. «La prima te la faccio io, per farti vedere come si fa».

«Okay», soffiò Franky. Lui aveva sempre odiato le punture, ora era costretto a guardare e poi avrebbe anche dovuto farsele da solo.

Il dottore gli strofinò un po’ di cotone inumidito di alcool sul punto del braccio in cui doveva fare l’iniezione. «Vado?».

Franky fece un respiro profondo, poi si voltò verso il suo braccio e guardò la siringa già pericolosamente vicina alla sua pelle. «Vada».

 

***

 

Tom accarezzò i capelli di Linda, poi si alzò dal letto e ancora col viso intorpidito dal sonno si diresse verso la camera degli ospiti. Sbirciò all’interno e non vide nessuno, perciò spinse la porta in avanti e il suo sospetto risultò fondato: Franky se n’era andato. Ma dove poteva essersi cacciato, dopo tutto quello che aveva passato la notte precedente? Era stato duro con lui, era vero, ma era maledettamente preoccupato.

Sbuffò e si portò le mani sulla testa. «Stupido, stupido Franky».

All’improvviso sentì degli strani rumori in camera di suo figlio e vi andò. Entrò facendo più piano che poté, ma le sue precauzioni per non svegliarlo erano state inutili, perché Arthur era già sveglio e singhiozzava seduto sul letto, ancora avvolto nel piumone. Vederlo così fragile ed indifeso gli spezzò il cuore.

Andò da lui, si mise seduto al suo fianco e lo strinse forte fra le sue braccia, cullandolo al petto come faceva quando aveva pochi mesi, accarezzandogli i capelli sulla testa. «Che cosa c’è, cucciolo?».

«Dov’è Franky?».

«Io… io non lo so. Non ne vuoi parlare con me?», chiese con tono pacato.

Il bambino scosse il capo contro il suo collo e il cuore del chitarrista si squarciò ancora di più. Perché suo figlio preferiva parlare con Franky, invece che con lui?

 

***

 

Evelyn si mise seduta su uno sgabello alto dell’isola della cucina, con una tazza di latte di fronte e il cellulare posato poco lontano.
C’era silenzio, tanto che ne aveva quasi paura. Faceva di tutto pur di sentire qualche rumore: girava il cucchiaino facendolo sbattere insistentemente contro i bordi della ceramica, picchiettava le unghie sul marmo bianco e ogni tanto giochicchiava col ciondolo attaccato al suo telefonino.

Suo padre era uscito presto quella mattina, per andare a trovare sua madre. L’aveva sentito scendere al piano di sotto e fare colazione, ma non era scesa, era rimasta a letto, con una guancia premuta contro il cuscino, a pensare alla notte precedente.

Era stato tutto così… strano, forse anche inaspettato. Martin l’aveva baciata e nell’esatto momento in cui le loro labbra si erano incontrate non aveva pensato più a niente, l’aveva baciato e basta. Aveva accantonato tutte le domande che si era posta nei momenti precedenti a quell’evento, tra cui la più importante – se lo stesse facendo per far soffrire Franky come lui aveva fatto soffrire lei. Si era lasciata baciare, lo aveva baciato e quando era scesa dall’auto, dopo averlo salutato, ed era rientrata nella casa buia, si era sentita stranamente leggera, come se sentisse di aver fatto la cosa giusta, anche se… c’era un lato di lei che le diceva il contrario, nonostante… era una cosa complicata, era come se dentro di sé avesse due opinioni contrastanti, di cui una era di per sé contrastante. Non ci aveva capito molto né allora né quella mattina, ma forse semplicemente non c’era nulla da capire: era successo perché doveva succedere e ora spettava a lei decidere se portare avanti qualcosa con Martin oppure no.

Aveva pensato molto anche a Franky, ovviamente. Si era chiesta se lui fosse già venuto a conoscenza di ciò che era accaduto, se sì come l’avesse presa, ma soprattutto aveva riflettuto su come sarebbe stato il loro primo incontro, quello in cui si sarebbero di nuovo guardati negli occhi dopo tutto quello che era successo: Franky si sarebbe mostrato arrabbiato, ferito, offeso, mortificato? Oppure contento per lei come solo lui sapeva fare, con quello sguardo acceso e allo stesso tempo spento dalla malinconia?

Quando si era decisa a scendere al piano inferiore aveva visto suo padre all’ingresso, che si stava infilando il cappotto.

«Che ci fai già sveglia?», le chiese, sorpreso.

Lei scrollò le spalle, concedendosi uno sbadiglio. «Tu, dove stai andando a quest’ora?».

Abbassò lo sguardo. «Volevo passare a trovare mamma. Credevo che tu volessi dormire un po’, per questo…».

«Sì, ho capito», accennò un sorriso lei. «Grazie per il pensiero».

«Vuoi venire? Ti aspetto».

«No… magari faccio un salto dopo, col motorino».

«Mmh». Dondolò sui talloni, indeciso se parlare o no. Alla fine la curiosità lo sormontò, ma si tenne comunque sul vago: «Com’è andata ieri sera?».

«Bene, è stata una bella festa, mi sono divertita». Guardò suo padre e capì che voleva sapere di più, nonostante si stesse trattenendo dal costringerla a raccontargli tutto per filo e per segno. Ridacchiò e aggiunse: «Siamo andati via ancor prima che la festa finisse, Martin aveva paura che tu potessi sgridarlo». Bill fece un sorrisetto, portandosi le braccia strette al petto: quel ragazzo iniziava a piacergli. «Ha… ha avuto cura di me, forse un po’ troppa. Lui è tanto bravo, papà, e io…».

«Cosa?», le domandò, mentre sul suo viso appariva la copia dell’espressione dispiaciuta di Evelyn.

«Niente», scosse il capo e sorrise per rassicurarlo.

Bill non le pose altre domande, annuì e si voltò verso la porta. «Ci vediamo tra un po’ allora».

«Sì, certo».

«Chiudi la porta a chiave».

«Sì».

«Fai colazione».

«Sì, papà!», ridacchiò e lo aiutò ad uscire di casa, spingendolo per la schiena.

Dopodiché era andata in cucina per fare colazione. Era lì tutt’ora, con lo stomaco chiuso, ma nonostante tutto si sforzava per ingurgitare qualche biscotto inzuppato nel latte.

Aveva portato il cellulare con sé perché appena sveglia aveva visto un messaggio di Martin, ancora della notte precedente che però non aveva letto perché era già andata a dormire. C’era scritto che era stata davvero una bella serata e che il bacio che c’era stato fra loro era stata la conclusione migliore, perfetta. Le aveva detto che l’aveva sognato tante volte, ma la realtà era stata in grado di sorprenderlo. Poi le aveva dato la buona notte. Che cosa poteva rispondergli? Perché sì, non gli aveva ancora risposto, aggrappandosi all’idea che quel giorno non sarebbe dovuto andare a lezione e non voleva svegliarlo, quando in realtà era lei che non sapeva assolutamente cosa dirgli.

Sbloccò il touch-screen del cellulare e, guardando la figura sul display, rifletté su quale fosse la cosa migliore da dire e da fare, ma riuscì soltanto a capire che doveva parlare e chiarire con Franky, anche se avrebbe fatto male tornare sulla questione del bambino.

 

***

 

Salutò San Pietro e l’infermiera ed uscì dalla struttura ospedaliera sentendosi come nuovo, nonostante percepisse di essere assuefatto da qualcosa che normalmente non avrebbe dovuto scorrere nelle sue vene.

Aveva perso Kim e Raphael qualche tempo prima, quando lei era scappata per non vedere l’ago bucargli la pelle ed iniettargli quel liquido turchese nel braccio. Non sapeva dove fossero, ma erano insieme e ne era contento.

Un brivido, seppur debole, lo collegò alla mente di Evelyn che gli fece vedere ciò che stava pensando. Con un sospiro socchiuse gli occhi ed annuì, come se stesse acconsentendo ad una richiesta – la sua.

Ridiscese sulla Terra ed andò direttamente da lei, senza fare soste altrove. Atterrò nel bel mezzo del giardino, sul vialetto che portava alla porta d’ingresso, e proprio in quel momento Bill uscì e si trovarono faccia a faccia, per la prima volta soli dopo la scoperta della presenza del demone di nome Lilith nella vita del cantante. Il suo proposito di andare da Evelyn passò in secondo piano, la sua priorità divenne quella di parlare con Bill, che però non sembrava intenzionato nemmeno a starlo a sentire.

«Che ci fai tu qui?», gli domandò bruscamente, guardandolo truce. Come volevasi dimostrare.

«Sono venuto per te», gli rispose in maniera pacata ed aspettò che il cantante si avvicinasse a lui. Quando fece per superarlo, aprì le ali e gli bloccò la strada.

«Togliti di mezzo», ringhiò infastidito. «Non costringermi a trapassarti».

Ma Franky, per nulla spaventato, ribatté deciso: «No. Ti devo parlare».

«Io non voglio, quindi…». Aveva cercato di trapassargli un’ala, ma non era riuscito ad andare fino in fondo e si era ritrovato avvolto da essa, a contatto con l’angelo, che puntò il mento sulla sua clavicola e gli sussurrò all’orecchio: «Almeno ascoltami».

Bill scosse il capo, con le lacrime agli occhi. «Come posso farlo, Franky? Mi hai raccontato così tante stronzate!».

«Ti sbagli. È Lilith quella che ti ha raccontato un sacco di fesserie per metterti contro di me, contro Tom… non ti rendi conto di quello che ti sta facendo? Lei non è il tuo angelo custode, lei è…».

«Basta! Basta!». Si dimenò e si liberò dal suo abbraccio, lo guardò negli occhi per un attimo, poi distolse subito lo sguardo e quella volta l’angelo lo lasciò passare. Era tutto inutile: il seme nero che Lilith aveva piantato nel cuore di Bill era più potente di ciò che pensava, nemmeno l’energia guaritrice che aveva infuso in lui durante quell’abbraccio era servita a qualcosa, non l’aveva nemmeno raggiunto.

«Io non sono più innamorato di Zoe».

Il cantante si bloccò a pochi passi dal cancello e sgranò gli occhi con il fiato mozzato. Entrambi si davano le spalle: Bill guardava verso la sua auto, Franky guardava l'ingresso, cercando di percepire i pensieri che provenivano dall'interno della casa. Capì che Evelyn si trovava in cucina. 

«So che cosa ti ha detto Lilith, che cosa ti ha fatto credere, ma ti giuro… non è così. Come potrei fare una cosa del genere? Il mio compito è quello di proteggere la mia protetta, non di farla soffrire. Perché è ovvio che soffrirebbe se io la strappassi da te. Lei ti ama, Bill, possibile che ancora ne dubiti?». Franky si voltò lentamente e guardò la schiena del suo amico tremare impercettibilmente. Sospirò e aggiunse: «Sono passati tanti anni, sia io che Zoe siamo cambiati, sono entrate altre persone nei nostri cuori…».

«Non ci riesco, io… Vorrei crederti, vorrei ma… non ce la faccio», singhiozzò.

Lo so. Lo so che è difficile Bill, Lilith ha fatto proprio un bel lavoro. Ma devi provarci. Farò di tutto perché tu mi creda di nuovo, te lo prometto. «Prima che tu vada, devo dirti un’ultima cosa». Il frontman attese, continuando a dargli le spalle. «Gli angeli custodi per loro natura non fanno in modo che i rapporti con le persone che il loro protetto ama si incrinino. Se anche io ti stessi facendo quello che lei ti ha detto, lei te lo avrebbe detto perché sarebbe stato suo compito proteggerti, ma siccome non è un angelo custode ti ha consigliato di tagliare i ponti con me, di allontanarti, e ti ha detto quelle cose su Tom in modo tale che ti allontanassi anche da lui. Sta facendo di tutto perché tu rimanga da solo. Lei non vuole la tua felicità, vuole la tua sofferenza. Pensaci, Bill, e se farai attenzione sono certo che te ne accorgerai anche da solo».

«Ora… ora devo andare», balbettò e raggiunse il cancello, lo aprì e raggiunse l’auto quasi di corsa. Si mise al volante e diede gas, allontanandosi più in fretta che poté.

Franky sospirò e rilassò le spalle, rimaste tese per la durata di tutta la conversazione. Si voltò di nuovo verso la facciata della casa e vide Evelyn prendere il cellulare e rispondere finalmente al messaggio di Martin, al quale lui rispose quasi subito, chiedendole se aveva voglia di vederlo. Evelyn disse di sì.

L’angelo non ce la fece proprio, abbandonò l’idea di raggiungerla per chiarire, dicendosi che sarebbe stato meglio per entrambi posticipare quell’incontro, e spiccò il volo, diretto verso casa. Sentiva che doveva essere successo qualcosa a Tom, percepiva il suo stato d’animo e sembrava davvero molto scosso, oltre che affranto. Quando ne capì il motivo, accelerò e in un batter d’occhio si ritrovò in cucina, dopo aver trapassato la finestra.
Sentì Tom e Linda parlare in salotto e si avvicinò con cautela, stringendo convulsamente il manico della valigetta che gli avevano dato in ospedale, contenente le siringhe con l’anestetico per la sua anima. Si schiarì debolmente la voce, agitato, ed entrambi si voltarono: Tom aveva gli occhi lucidi, aveva pianto. Era più grave di quanto pensava.

«Franky, menomale che sei tornato», disse Linda, alzandosi in fretta dal divano e raggiungendolo per stringerlo forte a sé. «Ma si può sapere dove sei stato? Come ti senti adesso?». Gli prese il viso fra le mani e la prima cosa che vide furono i suoi occhi, che le fecero stropicciare il viso in una smorfia. «Che ti è successo?».

«Cosa?», domandò l’angelo, confuso.

«Hai gli occhi azzurri».

Franky si intrufolò nella mente di Linda, si guardò il viso con i suoi occhi e verificò ciò che gli aveva appena detto: aveva gli occhi di una strana tonalità di azzurro, come se questo si fosse mescolato al loro colore naturale, il verde. Che fosse a causa del farmaco che gli avevano dato? D’altronde, gli occhi sono lo specchio dell’anima e fin quando la sua sarebbe stata protetta da quel medicinale, anche i suoi occhi ne avrebbero subito l’effetto.

«Niente è… è una cosa da angeli», scosse il capo con un leggero sorriso sulle labbra. «Ci capita, a volte, di cambiare colore degli occhi».

«Non ti era mai successo prima».

Franky alzò il capo e guardò il suo migliore amico che si strofinava il naso. Era davvero un colpo al cuore per lui vederlo ridotto in quelle condizioni, con un fratello che si stava allontanando da lui a causa di un demone e un figlio che preferiva parlare con un angelo piuttosto che con suo padre. Era davvero un brutto periodo per lui, avrebbe dovuto fare qualcosa.

«Ci capita in periodi molto particolari», rispose titubante.

«Per esempio?».

«Per esempio… quando si sta molto tempo col proprio migliore amico».

Tom sbuffò e si coprì gli occhi con una mano. «’fanculo, Franky». 

L’angelo continuò a guardarlo, ma il suo sorriso appena accennato svanì e i suoi occhi si velarono di malinconia. Diede una carezza sul braccio della sua mamma adottiva e posò la sua valigetta sul tavolino di vetro di fronte al divano, sul quale si mise seduto accanto al chitarrista. Si appoggiò col capo nell’incavo della sua spalla e gli avvolse la schiena con un’ala.

«Adesso ci penso io ad Arthur, okay?», gli sussurrò.

«Avrei voluto poterci pensare io», gli rispose Tom con la voce che tendeva a spezzarsi nuovamente.

«Lo so, lo so. Appena scopro che cos’ha te lo vengo a dire».

«Non lo sai già?». Lo guardò stupito. L’angelo scosse il capo, con espressione mesta sul viso.

«La sua mente ha creato una barriera intorno ai suoi pensieri».

«Ho la sensazione che non sia una bella cosa», disse Linda, preoccupata.

Franky sospirò e ritornò dritto, posò le mani sulle ginocchia e si alzò dal divano. Evitò di dirgli che casi come quello di Arthur erano dovuti ad una chiusura emotiva piuttosto forte, causata dai più svariati motivi. «Vado a vedere».

Recuperò la sua valigetta sul tavolo e si diresse verso il corridoio, ma venne fermato quasi subito da Tom che gli chiese: «Che cosa c’è in quella valigetta?».

Accennò una risata e rispose: «Solo… il programma e i temi delle lezioni che ho tenuto fin’ora a scuola».

Appena voltato l’angolo corse nella sua camera, cacciò la valigetta sotto al letto, in modo tale da nascondere la sua nuovissima fonte di “benessere” agli occhi di tutti, poi corse verso la cameretta di Arthur. Era preoccupato ed in ansia come se fosse suo figlio.

Lo vide seduto sul bordo del letto, in pigiama, col viso rivolto verso il pavimento, i capelli arruffati che gli coprivano gli occhi, e il suo peluche a forma di automobile stretto al petto.

«Piccino», mormorò e si lasciò la porta alle spalle, si inginocchiò di fronte a lui e gli prese fra le mani i piedini gelati. «Volevi parlare con me?».

Il bambino annuì e tirò su col naso, rivelando le lacrime che gli rigavano le guance. Ci mancò poco che anche Franky non scoppiasse a piangere: vedere un bambino star male era la cosa peggiore per un angelo.

«Vieni, su». Lo fece sdraiare di nuovo sul letto, sotto le coperte, e lui si mise stretto al suo fianco. Lo abbracciò, avvolgendogli le ali intorno al corpicino, gli accarezzò i capelli biondi e gli asciugò le lacrime con alcuni baci sul viso. «Che cosa c’è che non va?».

«Prima ho fatto un incubo», singhiozzò, strofinando il musetto contro la sua clavicola ed accucciandosi in posizione fetale come a volersi proteggere e allo stesso tempo stringersi più che poteva alla presenza rassicurante dell’angelo.

Franky riuscì ad intravedere qualcosa, quella barriera si stava sgretolando solo per lui. «Ed era tanto brutto quell’incubo?», gli domandò in un sussurro.

Il bimbo mugugnò un sì, ma non glielo raccontò. In compenso il muro si dissolse del tutto, permettendogli di spaziare liberamente fra i suoi pensieri, in particolar modo in quel sogno che era ancora vivido nella sua mente, chiarissimo. Aveva sognato che alla festa di compleanno di un suo compagno di classe, alla quale sarebbe dovuto andare quel pomeriggio, tutti lo avrebbero trattato male e lo avrebbero lasciato a piangere da solo in un angolo dicendogli che lui non giocava mai con nessuno, tanto valeva che se ne stesse per conto suo.

«Io non ci voglio andare. Non ci voglio andare! Ma mamma mi ha detto che devo perché sono stato invitato e che devo farmi degli amichetti, che ha già comprato il regalo! Ma io non voglio andare a quella festa!». Il suo viso era diventato paonazzo, le lacrime glielo graffiavano senza pietà, e i suoi strilli gli facevano sanguinare il cuore.

«Shhh, piccolo, calmati. Ti prometto che andrà tutto bene, non ci pensare più». Lo avvolse con la sua aura e in poco tempo si rilassò e si riaddormentò, ma l’angelo non riuscì ad allontanarsi da lui. Gli rimase vicino per un po’, fino a quando non sentì i pensieri di Tom, che si chiedeva perché non fosse ancora tornato da lui per spiegargli cosa stava succedendo. Franky si passò una mano sugli occhi e sospirò stancamente. Poi si alzò e camminò a passo lento fino al salotto, dove trovò sia Tom che Linda, tesi come due corde di violino. Dovevano aver sentito le grida di Arthur.

Il chitarrista si alzò di scatto e lo guardò con l’ansia negli occhi. «Allora, che cos’ha?».

Franky in un primo momento si irrigidì, ma successivamente gli indicò il divano con un gesto stanco quanto il suo respiro. Però non sentiva alcun dolore: il farmaco funzionava. «Siediti, Tom».

«Non farmi stare sulle spine, dimmelo e basta!».

«Ho detto di sederti», ripeté serio. L’amico strinse i pugni e si rimise seduto accanto alla moglie, che si strinse al suo braccio mentre l’angelo si sedeva sul tavolino di vetro a gambe incrociate e con le mani sulle tempie, che si massaggiò per trovare le parole con cui dirglielo.

Alla fine esordì: «Arthur ha fatto un incubo ed è venuto da me per un motivo preciso». Guardò Linda e lei ricambiò con sguardo interrogativo, senza capire. Inoltre, era sempre più preoccupata. «Arthur è terrorizzato della festa a cui deve andare oggi pomeriggio. Credo che lui non vi abbia mai detto nulla a proposito di come lo trattano all’asilo».

Il volto di Linda si pietrificò. «Come?», balbettò. «Franky, ti stai… ti stai sbagliando, Arthur è un bambino normalissimo, ha degli amici, tutti gli vogliono bene! E poi, se ci fosse stato qualche problema le educatrici ce lo avrebbero detto!».

L’angelo scosse il capo e trasse un respiro profondo: quella era la parte più difficile. «Arthur è infinitamente introverso e da quello che ho potuto capire passa le sue giornate all’asilo a giocare da solo, come fa qui a casa quando non ci sono io. Le educatrici non vedono altro che aspetti positivi nella sua pacatezza, dicono che è un amore e che non dà mai problemi. La verità è che lui è sempre solo e sono certo che non abbia fatto i salti di gioia quando tu gli hai detto che sarebbe dovuto andare a questa festa».

Linda si appoggiò allo schienale del divano e guardò il soffitto con gli occhi lucidi. «Dio mio, Dio mio…».

«Che cosa dovremmo fare, adesso?», domandò Tom, attirando la moglie in un abbraccio delicato. «Possiamo fare qualcosa?».

«Certo», annuì l’angelo, posando le mani sulle ginocchia. «Tutto si può ancora recuperare. Non è nulla di cui non possiamo occuparci, io per primo».

 

***

 

Evelyn si fece una rapida coda di cavallo, che sistemò alla bell’e meglio mentre andava ad aprire alla porta.

«Ciao Martin», salutò il ragazzo stringendosi un braccio intorno allo stomaco per il freddo. Si fece da parte per lasciarlo entrare e lui le posò un fugace bacio sulla guancia, che la mise comunque un po’ in imbarazzo.

«Ciao Evelyn. Come stai?».

La ragazza si strinse nelle spalle, chiudendo la porta. Si voltò verso di lui ed accennò un sorriso. «Bene, dai. E tu?».

«Alla grande».

Rimasero per qualche secondo in silenzio, a guardarsi intorno: erano tutti e due così in imbarazzo, non sapevano cosa dirsi!

«Ahm… togliti il giubbotto, io intanto vado a vedere se è pronto il thè. Ne vuoi una tazza?», domandò la bionda, dirigendosi verso la cucina.

«Sì, grazie».

«Okay». Si girò ed immediatamente il sorriso le svanì dalle labbra per lasciare spazio ad un’espressione dubbiosa: aveva fatto bene a voler vedere Martin così presto? Forse sarebbe stato meglio incontrare prima Franky… Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

«Sei da sola?».

Sobbalzò dallo spavento e vide Martin sulla soglia della cucina, che le guardava le spalle. Non l’aveva sentito arrivare.

«Sì, mio padre è andato in ospedale a salutare mamma», gli spiegò, mentre versava un po’ di thè in due tazze.

«Qualche miglioramento?».

Evelyn scosse il capo e gli passò una tazza tenendo lo sguardo basso. Martin le sollevò il mento con una mano e le sorrise teneramente, aprì la bocca per dire qualcosa, forse ciò che si sentiva dire sempre più spesso, ossia “Non smettere di sperare, presto si sveglierà e tornerà tutto come prima”, ma lei non glielo permise. Era stanca di quelle parole, stanca di tutto.
Perciò lo interruppe dicendo: «Mi mancano giusto due o tre esercizi di matematica, poi potresti aiutarmi a fare un po’ di compiti di inglese».

Martin aggrottò le sopracciglia, ma presto si lasciò andare ad una risata leggera. «Se fossi in te, non mi fiderei troppo».

«Perchè? Non sei bravo in inglese?», gli domandò, divertita.

«Sono sempre stato una frana!».

«Ah, allora c’è qualcosa in cui io sono più brava di te!».

Il ragazzo arricciò il naso in segno di disappunto e dopo qualche secondo entrambi scoppiarono a ridere.

Si sedettero al lungo tavolo della cucina, uno di fianco all’altro, e chiacchierando sui più svariati argomenti e bevendo dalle loro tazze, riuscirono a fare qualche altro progresso in matematica.
Poi Evelyn andò a prendere anche gli esercizi di inglese che doveva fare e il libro che la professoressa aveva dato da leggere per le vacanze.

«Romeo e Giulietta di Shakespeare?», domandò incredulo Martin, rigirandosi il libro fra le mani.

«Esatto. L’ho già iniziato».

«E ci capisci?».

«Sì, qualcosa», ridacchiò.

«Come viene descritta Giulietta?».

Evelyn non capì il senso di quella domanda e rispose semplicemente: «Beh, è una ragazza quattordicenne che dovrebbe sposarsi con Paride, ma appena incontra Romeo se ne innamora e…». Ma era un’altra la conclusione a cui Martin aspirava.

«Tu sei la mia Giulietta», le rivelò infatti, facendola arrossire ed abbassare lo sguardo sulle sue mani.

Martin gliele prese e le strinse nelle sue, le fece alzare il viso e le sorrise, poi le si avvicinò. Evelyn quella volta non riuscì a lasciarsi andare, si allontanò da lui e schivò il suo bacio. Il ragazzo non capì il motivo del suo comportamento e, leggermente ferito, le chiese: «C’è qualcosa che non va?».

«No», mormorò lei.

«Sei sicura?».

«Sì. È solo che…».

«Evelyn». Martin sospirò, frustrato, e si scostò. «Ieri sera…».

«Ieri sera era diverso», sputò senza riflettere e solo dopo si rese conto di quanto avesse fatto meglio se si fosse tagliata la lingua.

«Che cosa intendi dire, che dopo quello che ti avevo raccontato ti facevo così pena che volevi darmi la speranza che anche tu provassi qualcosa per me?», le chiese con parecchio sarcasmo nella voce.

«No, Martin, non è così…».

«E allora cosa?!».

Un pesante silenzio li avvolse. Evelyn non alzò più lo sguardo dalle sue mani, non lo fece nemmeno quando lo sentì alzarsi e dirigersi verso l’ingresso per prendere il suo giubbino e sbattersi la porta alle spalle. Quando rimase sola si lasciò andare ad un lungo respiro che le fece tremare il petto.

La tua Giulietta è innamorata di un altro Romeo, che non può essere fatto fuori in nessun modo.

 

***

 

Franky, seduto a gambe incrociate sul letto di Arthur, guardava divertito Linda mentre gli allacciava i bottoni della camicia a quadretti che gli aveva fatto indossare. Anche Tom osservava la scena, appoggiato con una spalla allo stipite della porta, ma non c’era nemmeno l’ombra di un sorriso sul suo viso: era teso, preoccupato, e non sapeva come comportarsi. In quel momento riusciva soltanto a pensare che era stato un pessimo genitore, se non si era interessato abbastanza della vita sociale di suo figlio.

«Mamma…».

«Dimmi, tesoro».

«Ma perché devo andarci?». Le sue labbra si arricciarono di nuovo, stringendo il cuore di Linda in una morsa. La donna guardò l’angelo, che annuì col capo: doveva attenersi al piano, anche se ora come ora avrebbe soltanto voluto lasciarlo a casa e cullarlo fra le sue braccia.

«Tu perché non ci vuoi andare?», gli domandò in risposta, non del tutto sicura di ciò che stava facendo.

«I miei compagni di classe non mi stanno tanto simpatici e so che mi annoierò».

«Ma no, vedrai che sarà una buona occasione per conoscerli meglio e per giocare con loro», gli spiegò comprensiva.

Allora il bambino, non vedendo vie d’uscita, si voltò col capo verso l’angelo, sperando che almeno lui lo aiutasse. Anzi, non capiva nemmeno perché non l’avesse già fatto, dopo quello che gli aveva raccontato.

«Sai Arthur…», incominciò Franky, posando il mento nell’incavo delle mani. «Anche io da piccolino odiavo i miei compagni di classe. Dal primo all’ultimo. Poi però, passando molto tempo con loro, ho imparato a riconoscerne gli aspetti positivi ed ho iniziato a volergli bene. Non so bene come è successo, ma capita, sai? Se non fosse stato grazie alla mia mamma che mi diceva sempre di guardare con attenzione ciò che mi stava vicino, a questo punto non avrei nemmeno un amico».

Il bambino parve rifletterci sopra, un po’ confuso, ma alla fine gli diede fiducia. Questo però non bastò a tranquillizzarlo. «Tu vieni con me, vero?».

L’angelo ridacchiò. «Ma certo, piccino. Anche se, ricordalo bene, non potrò stare sempre con te».

Arthur annuì, sorridendo, ed andò da lui ad abbracciarlo. Franky notò il suo migliore amico abbassare lo sguardo ed uscire del tutto dalla camera, allora avvolse l’orecchio del bambino con le mani e gli sussurrò qualcosa. Arthur non se lo fece ripetere due volte e corse dietro al padre, a cui abbracciò una gamba, sorridendogli smagliante e dicendogli: «Io e te ci assomigliamo, papà!».

Tom lo guardò senza capire e si inginocchiò per poterlo guardare dritto negli occhi. «Che cosa intendi dire?».

«Che anche tu non avevi tanti amici quando eri piccolo e che ti prendevano sempre in giro, a te e a zio Bill».

«Come fai a sapere queste cose?». Arthur indicò Franky, che li guardava di fianco alla porta della cameretta e sorrideva.

“Parlagliene. Si sentirà meno sbagliato”, gli suggerì l’angelo e Tom accennò un sorriso, arruffando i capelli di suo figlio con una mano.

«Forza, andiamo o faremo tardi».

Salutarono Linda e tutti e tre salirono in auto. Durante il viaggio, Tom gli raccontò della sua esperienza, di come da ragazzini lui e Bill avessero dovuto subire di tutto: dalle prese in giro per i loro look stravaganti a ben di peggio. Si perse così tanto nel suo racconto che più parlava, più ricordava cose che credeva di aver dimenticato. Franky ascoltò forse anche più rapito di Arthur: non aveva mai visto quell’aspetto così intimo del suo amico ed era impensabile che da bambino avesse sofferto così tanto. Se solo avesse potuto sarebbe sceso da quell’auto e sarebbe andato a cercare quelli che allora erano stati i suoi compagni di scuola per fargli passare un brutto quarto d’ora.

«Però adesso sei famoso, hai tanti amici, hai anche un amico angelo!», esclamò Arthur dopo qualche secondo di silenzio.

Tom sorrise e lo guardò attraverso lo specchietto retrovisore. Lo sguardo gli cadde inevitabilmente anche su Franky. «Sì, è vero. Ma sarebbe stato meglio avere qualche amico vero in più allora invece che tanti finti adesso».

«Perché, ci sono anche gli amici finti?», domandò confuso il bambino.

«Questa è un’altra storia», gli rispose Franky, ridacchiando ed accarezzandogli i capelli. «Quello che papà tenta di dirti è che da bambini è più bello avere tanti amici perché non c’è altro a cui pensare, si è più liberi e spensierati; ci si diverte di più da piccoli».

«Siamo arrivati», si intromise Tom, parcheggiando di fronte ad una villetta che anche all’esterno era addobbata a festa con qualche palloncino colorato appeso qua e là.

Quando Arthur realizzò che di lì a poco sarebbe stato lasciato in quella casa dal suo papà gli si bloccò il respiro e il muro che proteggeva i suoi pensieri si eresse nuovamente. Franky se ne accorse e lo comunicò a Tom con un sospiro ed un’occhiata più che eloquente.

“Devo proprio?”, gli domandò il chitarrista col pensiero. “Mi sembra che lo stia portando in prigione”.

“È necessario, Tom. Più va avanti così, più si bloccherà e avrà problemi in futuro”.

“Forse non è grave come pensi, forse è solo un momento e quando sarà più grande…”

“No, Tom. Ormai lo conosco e non è normale una reazione come la sua, di chiusura totale. Rischia di diventare davvero un problema serio”.

Tom, combattuto fra il bene momentaneo e quello futuro di suo figlio, scese dall’auto ed aprì la portiera del passeggero. «Dai Arthur, slacciati la cintura e scendi».

Il bambino esitò, ma dopo un colpetto di incoraggiamento da parte di Franky, eseguì e scese tenendo stretta la mano di suo padre. Tutti e tre camminarono nel vialetto che portava alla porta d’ingresso e il chitarrista suonò il campanello. Poco dopo una donna, la madre del festeggiato, gli aprì e li salutò con un sorriso estasiato sulle labbra.

«Credevamo non arrivaste più!», gridò e Tom stiracchiò un sorriso, mentre Franky incrociava le braccia al petto, infastidito dall’ipocrisia di quella donna. «Vuole entrare a prendere qualcosa da bere?».

«Ahm… no grazie, devo scappare», disse Tom.

In quel momento una bambina dai capelli rossi, la stessa che il chitarrista aveva visto qualche volta all’asilo di Arthur, sbirciò dietro le gambe della donna e sorrise felice quando incontrò lo sguardo del bambino. «Ciao Arthur!», lo salutò.

«Che ci fai tu qui fuori, vai dentro, vai», la ammonì la padrona di casa, irritata perché aveva appena interrotto il suo tentativo di abbordaggio.

Ma Tom si inginocchiò a terra, interessato più alla bambina che alla donna, e le domandò: «Scusa, posso sapere come ti chiami?».

«Reja», si presentò orgogliosa, porgendogli una manina candida, che Tom strinse con piacere.

«Era da tanto che volevo conoscerti. Bene, allora Arthur, perché non vai dentro con lei?».

Il figlioletto lo guardò titubante, guardò la bambina che gli sorrideva teneramente e dopo una spintarella del padre annuì, prendendo la mano della bimba e sparendo nella casa, dalla quale provenivano già alcuni schiamazzi di bambini.

«Ora sarà meglio che vada», disse Tom, tirandosi su, contento del suo operato: ora suo figlio era nelle mani di Franky. «A che ora devo tornare a prenderlo?», chiese alla donna che lo guardava rapita.

«Quando vuole…», sospirò.

Tom era scocciato, ma non lo fece notare. Sollevò soltanto il sopracciglio e riformulò la domanda: «A che ora finisce la festa?».

«Oh, verso le sei e mezza, sette».

«Okay, sarò qui per quell’ora», annuì e fece per andarsene, ma la donna riprovò a trattenerlo:

«È sicuro che non vuole fermarsi a bere qualcosa?».

«No, grazie, davvero».

«Beh se vuole…».

«Arrivederci!», la salutò deciso e si diresse verso la propria auto. Prima di allontanarsi gettò un’ultima occhiata alla soglia della porta e vide Franky ancora lì, con lo sguardo vacuo perso nel vuoto, le mani strette in pugni.

“Che ti prende?”, gli domandò col pensiero e l’angelo si riprese, scosse la testa e gli fece segno di andare e non preoccuparsi. Tom lo guardò entrare in casa prima che la donna chiudesse la porta e meditabondo diede gas.

Quando arrivò a casa, c’era Linda ad aspettarlo, che camminava inquieta su e giù per il salotto. Appena lo vide rientrare, gli fu addosso: «Com’è andata? Ha fatto altre storie? Franky è con lui?».

Tom ridacchiò, prendendole i polsi fra le mani, e le posò un bacio sulle labbra. «Tranquilla, c’è Franky con Arthur, non può capitargli nulla di male».

«E sai che ci sono io con te?», gli domandò a bassa voce, accarezzandogli le guance. Il chitarrista schivò il suo sguardo, alla ricerca di qualcosa che potesse distrarlo ed impedire alle lacrime di depositarsi nei suoi occhi.

«Forse… forse non mi basti, in questo momento», mormorò, per quanto gli dispiacesse dirglielo. Aveva bisogno di Bill e lo sentiva così distante… tutto per colpa di uno stupido demone.

Linda sospirò e si accoccolò fra le sue braccia, che lentamente iniziarono a cullarla a destra e a sinistra. Tom le posò un bacio sui capelli: «Scusami».

«Non importa, capisco come ti senti», gli disse, anche se era molto difficile da comprendere; ma almeno ci provava. 
«Fai una cosa», gli posò le mani sul petto e lo guardò negli occhi con il sorriso più incoraggiante che riuscì a fare. «Chiamalo, chiedigli di venire qui. Vedrai che capirà che hai bisogno di lui e…».

Tom scosse il capo. «Non ne sono così sicuro».

«Tentar non nuoce… Vuoi che lo chiami io e che gli faccia una di quelle ramanzine epiche?».

Riuscì a strappargli un sorriso. «No, ci penso io».

«Okay». Quella volta fu lei a baciarlo e gli diede una pacca sul petto, poi lo guardò estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans e sedersi sul divano, incurvato in avanti con i gomiti puntati sulle ginocchia.

Con un braccio stretto intorno allo stomaco si avvicinò, si mise seduta sul bracciolo accanto a lui e gli massaggiò la schiena con una mano. Il telefono squillava a vuoto e dopo un po’ Tom buttò giù e posò il viso sulle gambe della moglie, che gli accarezzò i capelli e gli baciò la guancia rigata da una lacrima solitaria chinandosi su di lui.

 

***

 

Bill trovò finalmente il cellulare che prima di entrare in ospedale aveva lanciato nel portaoggetti dell’auto, ma quando lesse il nome di suo fratello sul display si irrigidì, indeciso se rispondere o no. Immediatamente, pensando a lui, avvertì un forte sentore di malessere. Ciò voleva dire solo una cosa: Tom stava male. Agì d’istinto e fece per rispondere, portandoselo all’orecchio senza nemmeno pensare di mettersi gli auricolari, ma proprio una frazione di secondo prima gli scivolò dalla mano, cadendo nella fessura tra il sedile e il cambio.

«Non si parla al cellulare mentre si guida».

Trasalì dallo spavento; Lilith, seduta al posto del passeggero, invece, aveva un’espressione divertita che tentava a malapena di nascondere.

«Che ci fai qui?», le domandò nervosamente, mentre con una mano reggeva il volante e con l’altra cercava di recuperare il cellulare, senza particolare successo: ma dove era andato a finire?! O forse… dove gliel’aveva fatto finire?

«Mi preoccupo per te!», rispose con aria da finta innocente, portandosi le mani sul petto. «Non sai che è pericoloso guidare ed usare il cellulare contemporaneamente?».

«Era Tom», biascicò, allungando ancora un po’ di più il braccio.

«Tom… Oh, ora mi ricordo!», si schiaffò una mano sulla fronte. «Il tuo caro gemellino succube di Franky?».

La sua mente quella volta rifiutò di dar ascolto a quelle parole e sul suo viso comparve una smorfia. Che c’entrasse qualcosa il discorso che gli aveva fatto l’angelo poco prima?

«Invece di blaterare», le disse, «perché non mi aiuti a prendere il cellulare, così almeno la faccio finita e non rischio ulteriormente di fare un incidente?».

Il demone lo guardò corrugando la fronte. Bastò una sbirciatina nei suoi pensieri per capire esattamente ciò che era successo e non poté fare a meno di alterarsi, tanto che i suoi occhi ne risentirono. «Oh… Ora è tutto chiaro!», strillò. «Hai parlato con Franky!».

«Sì, l’ho fatto, e allora?».

«E allora?! Ma ti rendi conto che stai credendo alle solite bugie? Credi davvero che io possa farti del male?!».

Le gettò un’occhiata e finalmente sentì lo schermo del suo cellulare sotto le dita. Lo afferrò e non fece caso alla sua espressione furente, se lo portò all’orecchio e gridò: «Tom!». Ma dall’altra parte avevano già riattaccato.

«Troppo tardi», sibilò Lilith, con un sorrisino forzato. «Buona giornata, Bill». E sparì come era arrivata.

Il frontman gettò il cellulare sul sedile su cui era stata seduta fino a quel momento, adirato. Senza nemmeno mettere la freccia svoltò a destra, beccandosi qualche clacson, e premette sull’acceleratore.

 

***

 

Con grande sorpresa, Franky si rese presto conto che Reja aveva un angelo custode: sua nonna, una donna dai capelli ancora rossi come quelli della bambina e un viso dolce stravolto dal dolore provocato dalla presa di coscienza che prima o poi avrebbe visto morire la sua piccolina senza che potesse fare nulla.

Mentre Arthur e Reja giocavano in un angolino, lontani dagli altri bambini che non facevano altro che correre dietro al festeggiato e riempirsi i bicchieri di carta di patatine, si avvicinò alla donna, che come lui stava guardando i due bambini da lontano. Si mise seduto al suo fianco, in silenzio, come la maggior parte del tempo che passarono insieme: non c’erano parole abbastanza adatte per descrivere tutto quel dolore, ciò che gli angeli erano in grado di comunicarsi solo stando vicini era già abbastanza straziante.

L’anziana ad un certo punto accennò un sorriso amaro, quando la sua piccola protetta scoppiò a ridere, e disse: «Ho visto la malattia formarsi dentro di lei, crescere e diramarsi in tutto il suo corpo, e non ho potuto fare niente. È una bambina così…». Le lacrime le rigarono il viso e Franky si strinse le braccia intorno alla pancia, come se si sentisse male. E, in effetti, era così. La sofferenza che la donna provava dentro di sé ogni giorno era quasi insopportabile per lui che non aveva quel peso dentro, come faceva a resistere?

«Tutto quello che posso fare», continuò l’anziana, mantenendo un certo controllo nella propria voce, «è sostenere questa bambina, amarla, infonderle più coraggio e forza che posso. E poi, sostenere mia figlia e suo marito».

«Quando l’hanno scoperto loro?», ebbe la forza di domandare l’angelo più piccolo.

«L’ho sussurrato in sogno a mia figlia qualche mese dopo che la malattia aveva preso parte della sua vita. Lei l’ha portata dal medico perché da qualche giorno Reja si affaticava subito, diceva che le faceva male il fianco sinistro e aveva iniziato a mangiare sempre meno. Le hanno fatto alcuni esami e…».

Franky si portò le mani sul viso, profondamente addolorato, e scosse il capo energeticamente. «È inconcepibile. Perché devono accadere queste cose anche ai bambini?».

«Mi dispiace che anche il tuo protetto ne soffrirà», gli disse l’anziana, posandogli una mano sulla spalla.

Franky alzò lo sguardo su Arthur, che sorrideva porgendole un tovagliolo per pulirsi il viso sporco di panna – il festeggiato aveva già spento le candeline sulla torta e non se n’era nemmeno accorto. «Lui non è il mio protetto», rispose.

«Ah no? Hai un legame piuttosto forte con lui, mi sembrava…».

«No, no, lui è solo… Tengo moltissimo a lui, me ne occupo più che volentieri ora che non posso fare molto per la mia protetta».

L’angelo custode di Reja conobbe attraverso i suoi pensieri tutto ciò che decise di farle conoscere ed aumentò la stretta sulla sua spalla, a mo’ di conforto. «Che il Signore sia con te, figliolo».

Franky accennò un sorriso. Poi riprese, sollevando il sopracciglio: «Come fa a sapere che Arthur ne soffrirà?».

L’anziana ridacchiò. «Ne hai passate molte nella tua carriera da angelo, ma non ti è ancora capitato di vedere il futuro delle persone che ti stanno accanto, vero?».

«Io… posso, davvero? Credevo che fosse una qualità degli angeli speciali…».

«Beh… gli angeli custodi bravi ne sanno qualcosina in più persino degli angeli speciali», gli fece l’occhiolino.

Franky puntò lo sguardo su Arthur e Reja, che si apprestavano a tornare al loro gioco, sazi, e strinse gli occhi a due fessure per concentrarsi, ma non riuscì a vedere assolutamente nulla. Sbuffò e scosse il capo, agitando le mani: «Non vedo niente, forse non sono abbastanza bravo».

«Io invece credo che tu lo sia», ribatté la donna. «C’è qualcosa in te… Devi solo… lasciarti andare quando è il momento».

L’angelo la guardò confuso, ma presto venne distratto dall’urlo della padrona di casa, mamma del festeggiato, che arrabbiata sgridava suo figlio per aver iniziato a giocare con il pallone dentro casa ed aver beccato proprio le bevande sulla tavola imbandita, sporcando tutta la tovaglia e chiazzando il pavimento.
«Se vuoi giocare a calcio vai a farlo in giardino!», strillò, rossa come un peperone. Il bambino non se lo fece ripetere due volte e con la schiera dei suoi amichetti corse ad infilarsi il giubbotto per poi uscire in giardino. C’era il sole quel pomeriggio, strano ma vero, e non faceva poi così freddo.

Franky guardò Arthur e Reja rimanere da soli nel salotto, confusi per ciò che era appena successo. La mamma del festeggiato li notò e si portò le mani sui fianchi: «Perché non uscite un po’ anche voi?». Sembrava più un rimprovero che un invito, tanto che i due si alzarono e corsero fuori, tenendosi per mano.
Anche i due angeli custodi uscirono all’aria aperta ed osservarono i bambini guardare incuriositi i loro compagni correre dietro un pallone bianco e nero, calciarlo e cercare di mandarlo nella piccola porta.

Sia Arthur che Reja si avvicinarono ai loro angeli, l’uno a l’insaputa dell’altra, e rimasero accanto a loro per qualche minuto, poi la bambina guardò il suo amichetto e gli sorrise apertamente, esclamando: «Vai a giocare anche tu!».

Arthur ricambiò lo sguardo spaventato. Franky gli posò una mano sul capo e gli accarezzò i capelli, sussurrandogli che non era una cattiva idea. La nonna di Reja fece la stessa cosa, dicendole però di non essere insistente come suo solito. 

«Ma io… io non so giocare», balbettò intimorito.

«E allora? Dai, vai, io sto qui a guardarti!». Si mise seduta sui gradini della veranda, col viso fra le mani.

Arthur deglutì e dopo una spintarella di Franky si avviò verso gli altri bambinetti che stavano giocando. L’angelo ridacchiò, quando vide fra i suoi pensieri la volontà di far bella figura con la bambina dai capelli rossi. Quella risata però si spense presto, quando gli affiorò alla mente che quella stessa bambina presto o tardi l’avrebbe lasciato per sempre, ferendo ulteriormente la sua emotività già instabile.
D’altro canto, Reja non l’aveva invitato ad andare a giocare un po’ senza di lei senza un motivo preciso, che c’era eccome: si sentiva stanca, debole, e l’aveva mandato via per non farglielo notare e per obbedire alla sua mamma, che prima di andare via, con gli occhi lucidi dalle lacrime, le aveva raccomandato di riposarsi tutte le volte che voleva se ne sentiva il bisogno.

Franky si mise seduto al suo fianco, posò una mano sulla sua schiena e sentì i battiti affaticati del suo cuoricino. Poi le accarezzò i capelli rossi che contrastavano così tanto con il pallore della sua pelle e guardò l’anziana, seduta al fianco sinistro di Reja. La sorreggeva col suo corpo e con il semplice contatto le infondeva la forza che pian piano le faceva ritornare le energie ed un po’ di colore sulle guance.

Uno strano pizzicorio alle ali lo distrasse e fece in modo che portasse lo sguardo su Arthur, che era riuscito ad inserirsi in una delle due squadre e che proprio in quel momento stava difendendo il pallone come se in ballo ci fosse la sua automobilina preferita. Franky continuò ad osservarlo e senza che se ne rendesse pienamente conto una visione si sovrappose alla sua vista: c’era un ragazzo dai capelli biondi, con un fisico asciutto e slanciato, che difendeva una palla molto simile a quella con cui stava giocando Arthur e che riuscì, con finte e giochetti, a smarcarsi di tre difensori e a tirare in porta, per fare uno splendido goal ed essere travolto da tutti i suoi compagni di squadra.
All’improvviso la visione terminò e tornò a vedere soltanto il piccolo Arthur, che si destreggiava in modo impacciato con quella palla troppo grande e troppo pesante per i suoi piedini. Ma Franky ebbe la certezza che il ragazzo che aveva visto nella sua visione e il bambino che aveva di fronte erano la stessa persona.

Si voltò verso l’angelo custode di Reja, che già sorrideva dolcemente, ed indicò nella direzione del bambino con la bocca aperta. «Io…», balbettò, incredulo.

«Hai visto il suo futuro, esatto».

Arthur cadde a terra, spinto da un altro bambino, e si sbucciò un ginocchio sotto i jeans, che si sporcarono di erba e terra come del resto le sue mani. Ma non pianse, nemmeno una lacrima. Si alzò da solo, nonostante Franky fosse corso da lui per vedere come stava, e senza il suo aiuto tornò da Reja, che gli guardò la ferita al ginocchio come se fosse una rinomata dottoressa.

«Ti fa tanto male?», gli domandò, non osando nemmeno sfiorarla.

«Brucia un pochino», rispose con un sorriso. Si voltò verso l’angelo, senza farsi notare dall’amica, e gli chiese mentalmente: “Posso tornare a giocare?”.

Franky lo guardò incredulo, con tanto di occhi sgranati, ma poi allargò le braccia e con un ampio sorriso annuì.

 

***

 

Tom sentì il campanello trillare, ma non si interessò a chi potesse essere. Finì di sciacquarsi il viso, poi se lo asciugò osservandosi allo specchio.

Uscì dal bagno, spense la luce e si diresse verso il salotto. Già in corridoio gli parve di sentire la voce di suo fratello, ma era impossibile… eppure il suo cuore aveva iniziato a battere forte. Una volta entrato in salotto, lo vide di fronte alla porta, ancora col giubbotto addosso, che sorrideva impacciato e dispiaciuto.

«Ciao Tomi», mormorò e lui non rispose, solamente annullò lo spazio che li divideva e lo strinse in un forte abbraccio.

 

***

 

Spense la tv, annoiata, e si passò le mani sul viso stanco. Suo padre non era ancora tornato, anche se quando l’aveva sentito, all’incirca un’ora prima, le aveva detto che stava tornando a casa. Dove si era cacciato?

Stava per chiamarlo al cellulare, quando sentì degli strani rumori provenire dal piano superiore. Sicura che si trattasse soltanto di Coco, lasciò il cellulare sul divano e salì di sopra, ma ciò che vide appena si sporse sul corridoio le fece gelare il sangue nelle vene: Lilith stava tastando con le mani gli stipiti della porta della camera da letto di suo padre, lasciandogli appiccicato uno strato di fuliggine nera che a fatica riusciva a scorgere.

«Ehi, che stai facendo?», le gridò prendendo coraggio, nonostante sentisse a pelle di essere nei guai.

Il demone non si voltò nemmeno verso di lei, sogghignò e continuò a fare ciò che stava facendo. Allora Evelyn la raggiunse a passo di marcia ed alzò una mano per afferrarle il braccio, ma Lilith fu più veloce di lei: le prese il polso e la bloccò con una risatina. «Lasciami lavorare, ragazzina».

«Mi dispiace, ma non te lo posso permettere». Con la mano libera le afferrò i capelli e glieli tirò con tutta la forza che aveva, mentre con l’altro braccio la tirava verso di sé per impedirle di continuare.

Il demone, che non si aspettava di certo una reazione del genere, fu presa alla sprovvista e dovette interrompersi. Spintonò la ragazzina per qualche metro, guardandola negli occhi coi suoi felini. «Sei proprio una seccatura!», le gridò e la voltò verso le scale di vetro. Evelyn capì che voleva buttarla giù e si aggrappò al corrimano, ma nello stesso momento una luce bianchissima l’accecò e un urlo agghiacciante l’assordò.

Il tutto durò pochi secondi, ma anche quando ormai era tutto finito rimase ancora artigliata al corrimano, mentre tremava dalla testa ai piedi, incapace di fare qualsiasi cosa.

«È tutto finito», le rassicurò una voce soffice, poco distante da lei. La bionda aprì gli occhi e vide chi non si sarebbe mai aspettata di vedere; soprattutto, non si sarebbe mai aspettata che proprio lei la salvasse da quello che agli occhi umani sarebbe risultato un semplice incidente domestico.

«Kim», balbettò.

L’angelo speciale le sorrise, portandosi le mani sui fianchi. «Certo che tu hai proprio un bel fegato a sfidare un demone. Mi chiedo se a furia di stare con Franky tu abbia preso qualcosa da lui».

Evelyn si staccò dal corrimano, ma in compenso si aggrappò alle spalle dell’angelo che l’aveva appena salvata.

 

***

 

Linda ascoltò suo figlio rapita e nel frattempo non poteva smettere di pensare che era tutto merito di Franky, se ora era così felice. Certo, quei vestiti non sarebbero venuti puliti nemmeno con la candeggina, ma il sorriso magnifico e la luce che risplendeva negli occhi di Arthur erano impagabili.

Gettò un’occhiata all’angelo custode che camminava a qualche passo di distanza dietro di loro, con le mani nelle tasche e lo sguardo perso. Chissà a cosa stava pensando.

«Franky», richiamò la sua attenzione e quando la ottenne gli sorrise teneramente, ringraziandolo di cuore. Lui scosse il capo, rifiutando ogni tipo di merito, e le indicò di aprire la porta di casa.

L’angelo si sorprese parecchio quando, entrando in salotto, vide Bill seduto sul divano accanto a Tom. Arthur non vide nulla di strano ed infatti corse dal padre e si gettò fra le sue braccia, iniziando a raccontargli a raffica tutto quello che aveva fatto alla festa: «Sono stato quasi tutto il tempo con Reja! Siamo diventati proprio amici e le ho detto che può venire qui tutte le volte che vuole e che le farò vedere tutta la mia collezione di macchinine! Poi abbiamo mangiato la torta, era buona, anche se non era la mia preferita…». Tom guardò suo figlio capendo poco o niente di tutto ciò che gli stava dicendo: la sua allegria e quello che vedeva dipinto sul suo viso bastava ed avanzava.

«Digli del regalo», gli ricordò sua madre.

«Oh, sì! Papà il mio è stato il regalo più bello! Gli è piaciuto tanto!».

«Sono contento, piccolo», gli accarezzò i capelli e lo strinse forte a sé, ma nemmeno quell’abbraccio riuscì ad arrestare Arthur.

«Ad un certo punto siamo andati tutti in giardino e abbiamo giocato a calcio! Io non ero capace, ma Franky mi ha detto di provare e quindi sono andato e sai che mi sono divertito tantissimo!? Sono caduto un po’ di volte e mi sono anche sbucciato un ginocchio, ma è stato bello! Mi prometti che uno di questi giorni, quando il tempo è bello, andiamo al parco a giocare a calcio?».

Tom, a bocca aperta, guardò l’angelo, che annuì energicamente col capo. Allora il chitarrista rispose: «Certo, come vuoi tu».

«Grazie papà, grazie!», gridò, gettandogli le braccia al collo.

«Arthur… dai, vieni, devi fare proprio un bel bagno», gli disse la madre, invitandolo a seguirla. Il bambino la raggiunse senza fare storie e rimasero solo loro tre in salotto: Tom, Bill e Franky.

«Beh… è andata bene, no?», domandò il cantante, sorridendo.

«Cacchio, io… non pensavo, tu… tu c’entri sicuramente qualcosa». Tom indicò l’angelo, che negò con la testa.

«Tutto merito di Reja. È una bambina davvero…». Abbassò lo sguardo, stringendosi le braccia al petto.

«Davvero?», lo incalzò il chitarrista.

«Adorabile», mormorò.

Uno strano silenzio calò su di loro e durante quei minuti Franky ebbe l’opportunità di concentrarsi e sbirciare fra le menti dei gemelli: non riusciva ancora a vedere oltre il muro creato da Lilith nella testa di Bill, ma si era accorto che il seme nel suo cuore si era un po’ rimpicciolito e aveva perso un po’ della sua oscurità. Quindi aveva intuito che doveva essere successo qualcosa con il demone – dubitava che le sue parole da sole avessero avuto quell’effetto su quell’energia negativa. Lesse nella mente di Tom ed ebbe le risposte a molte sue domande: Bill aveva avuto un battibecco con Lilith, che aveva cercato di allontanarlo ancora dal suo gemello, ma non ci era riuscita. Da quello che il cantante gli aveva raccontato, la sua reazione alla ribellione della sua preda non era stata molto positiva.

All’improvviso un nodo gli serrò la gola e smise di respirare. Anche Bill e Tom se ne accorsero ed uno più preoccupato dell’altro si sporsero verso di lui, chiedendogli che cosa avesse. Franky non badò a loro, cercò affannosamente di collegarsi alla mente di Evelyn, ma per qualche strano motivo non ci riuscì.

Solo allora si girò verso Bill e gli domandò: «Dov’è Evelyn?».

Il cantante lo guardò sollevando il sopracciglio. «Perché me lo chiedi?».

«Sai, non è proprio una genialata lasciarla da sola dopo aver fatto arrabbiare un demone».

«Un che cosa?!».

«Lilith è un demone. Non lo sapevi?», gli domandò Tom, sorpreso.

«Ho cercato di dirglielo, stamattina, ma non mi ha dato modo di aprire bocca», si difese l’angelo, già in panico. Perché non riesco a collegarmi alla sua mente?! Le è successo qualcosa?! No, è impossibile, l’avrei sicuramente sentito…

«Quindi… Evelyn potrebbe essere in pericolo?», chiese Bill, pallido come un lenzuolo. Se le fosse successo qualcosa per causa sua… non se lo sarebbe mai perdonato.

«Vado a cercarla», decretò con fermezza l’angelo e corse alla porta, ma quando l’aprì si ritrovò di fronte Kim e la stessa Evelyn, ancora un po’ scossa. L’angelo speciale gli posò una mano sul braccio e gli bastò un attimo per venire a conoscenza di tutto quello che era successo.

«Allora esisti», sospirò socchiudendo gli occhi rivolti verso l’alto, riferendosi ad un Dio che aveva fatto sì che Kim passasse di lì proprio in quel momento ed avesse salvato Evelyn da una fine più che spiacevole. Quando li posò di nuovo sulla ragazza bionda vide nei suoi altri mille pensieri che già non c’entravano nulla con lo scontro diretto che aveva appena avuto con Lilith e il suo sollievo alla scoperta che stava bene si ritirò in un angolino della sua mente: avevano parecchi problemi da risolvere, loro due, e dovevano farlo il prima possibile.

«Tesoro!», esclamò Bill, scansandolo ed avvolgendo il corpo della figlia con le lunghe braccia. «Come stai, ti è successo qualcosa?».

Anche mentre rispondeva alle domande a raffica del padre, il suo sguardo non si allontanò di un centimetro da quello di Franky: «No, tranquillo, sto bene».

Tom si alzò dal divano e disse: «Non state lì sulla soglia tutti quanti, entrate no?». Bill, d’accordo col fratello, accompagnò dentro Evelyn e la fece sedere sul divano; Franky e Kim entrarono in casa, ma presto si dissociarono dal resto del gruppo, dicendo che avevano bisogno di un minuto per poter parlare in privato. Così trapassarono il soffitto e si rifugiarono nella soffitta buia ed impolverata, nella quale non entrava anima viva da chissà quanto tempo. 
Kim scostò una tenda pesante da uno dei tanti lucernari e guardò Franky, ancora nella penombra, nella sua posa preferita: gambe leggermente divaricate, equilibrio precario sui lati esterni dei piedi, mani nelle tasche e capo chino.

«Perché non sono riuscito a sentire nulla? Nemmeno prima sono riuscito a collegarmi alla sua mente».

Era la domanda che si aspettava e a cui sapeva rispondere: «È a causa del farmaco. Anche a me capitava di non riuscire a collegarmi alla mente di Pete».

«Ma avviene sempre, a volte…?».

«Più vai avanti ad usare il farmaco, più il collegamento fra le vostre menti e le vostre anime svanirà».

Franky fece qualche passo che scricchiolò sul pavimento in legno e prese a calci uno scatolone, frustrato. «Ha rischiato di… E se tu non ci fossi stata…».

«Non ringraziarmi, è mio dovere, come quello di tutti gli angeli – speciali o meno – combattere contro i demoni. Però è stata davvero una fortuna che io passassi di lì proprio in quel momento. Un minuto più tardi e…».

Franky era entrato nel cono di luce che la illuminava e la guardava con i suoi occhi azzurri, strani, diversi. L’abbracciò delicatamente, con quella dolcezza che aveva riservato solo a Zoe e ad Evelyn in tutta la sua vita, e respirò il profumo dei suoi capelli.

«Grazie», le sussurrò.

Kim sorrise e gli massaggiò la schiena. «Non c’è di che».

 

***

 

Il cielo quella notte era chiaro, si vedevano molte stelle e da quando si era appollaiato sul tetto per pensare aveva già visto due “stelle cadenti” del suo mondo – due angeli. Aveva lasciato correre a ruota libera i pensieri, chiedendosi chi fossero, quale fosse il loro ruolo sulla Terra, se anche loro avevano tanti problemi quanti ne aveva lui.

Kim gli aveva raccontato ciò che era successo fra lei e Raphael quella mattina ed era contento che almeno loro fossero riusciti a saltare uno fra i tanti ostacoli che ancora gravavano sulla loro corsa. Nessuno dei due, da quanto aveva capito, aveva intenzione di correre né credeva che sarebbe potuto nascere qualcosa di più dell’amicizia appena riscoperta sotto le ceneri del passato, ma Franky aveva i suoi dubbi: forse li avrebbe visti insieme prima di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare.

Posò il mento sulle ginocchia strette al petto e socchiuse gli occhi, cullato dal venticello freddo che si era alzato.

Era stata davvero una giornata densa di fatti, di scoperte e di emozioni, come la maggior parte delle sue giornate, e avrebbe tanto voluto chiudere gli occhi ed abbandonarsi al sonno, ma non poteva con un demone arrabbiato in giro, che poteva decidere di attaccare in qualsiasi momento. E anche volendo, non sarebbe riuscito a dormire più di tanto: aveva troppe cose su cui riflettere. 

Sentì dei rumori e si voltò verso il lucernario da cui aveva avuto accesso al tetto e da cui era spuntata la testa di Tom, che lo guardava con gli occhi grandi, sereni, quasi paterni.

«Che ci fai quassù tutto solo?».

«Tu perché sei venuto a cercarmi?».

Il chitarrista sollevò le spalle e posò le braccia sulle tegole. «Non mi è mai interessato più di tanto il calcio».

«Arthur sta guardando una partita di calcio invece che i cartoni animati?», gli chiese incredulo, ma anche un po’ divertito.

«Già. È stato proprio amore a prima vista il suo, eh? Credi che dovrei sostenerlo? Cioè… che lo dovrei iscrivere da qualche parte?».

«Secondo me sarebbe una cosa positiva in tutti sensi». Si sdraiò con le mani dietro la nuca e le ali a fargli da coperta. «Farebbe qualcosa che gli piace e in più imparerebbe a stare insieme agli altri, a sbloccarsi, a diventare un po’ più estroverso. D’altronde è pur sempre un gioco di squadra».

«Giusto, hai ragione». Guardò l’angelo ed accennò un sorriso: «Adesso mi dici che ci fai quassù tutto solo?».

Franky sospirò, respirando l’aria buona. «Pensavo».

«A che cosa?».

«A quanto alle volte il destino o ciò che contrasta le scelte umane sia crudele».

Il chitarrista pensò che il suo amico stesse entrando nella fase filosofica della vita – l’aveva avuta anche lui, qualche anno prima, – ma cambiò opinione quando ricordò il momento in cui l’aveva visto perso, fuori dalla casa in cui c’era la festa. Che c’entrasse qualcosa?

«È successo qualcosa alla festa che Arthur non mi ha raccontato?», gli chiese con premura.

«Sì, qualcosa che non sa e che non credo che gli farà piacere sapere». Fece un respiro profondo. «Appena ho visto Reja… mi sono accorto che qualcosa non andava in lei: aveva un’aura grigia intorno al cuore, era la prima volta che vedevo una cosa simile ma questa è una delle poche cose che so perché le ho studiate… Quell’aurea è sintomo di malattia e sai che malattia ha Reja?». Una risata amara gli sfuggì dalle labbra, mentre le sue ciglia non trattenevano le lacrime nei suoi occhi quasi tornati verdi naturali. «Ha la leucemia. Ti rendi conto, la leucemia! Vorrà dire che tra un po’ entrerà in un ospedale e vi starà fino alla fine del suoi giorni e Arthur… Arthur, hai la minima idea di quanto soffrirà quando lo scoprirà? Dovrete stargli vicini il triplo, e io…».

Tom, riuscito ad uscire dal lucernario, si avvicinò all’angelo stando attento a non scivolare sulle tegole, si mise sdraiato al suo fianco, aprendogli un ala ed avvolgendocisi dentro, e lo abbracciò.

«Quanto ti fa male stare per molto tempo accanto a noi? Vuoi aiutarci sempre e comunque, fare sempre in modo che noi non soffriamo… Non pensi proprio mai a te».

«Mettiti nei miei panni, Tom», singhiozzò. «Io vi ho lasciati prematuramente, vi ho fatti star male e ora che posso fare qualcosa per voi come posso starmene fermo a guardare mentre le persone che amo hanno problemi e soffrono?».

«Ma tu fai troppo, Franky». L’angelo boccheggiò, alla ricerca delle parole giuste con cui ribattere, ma non ne trovò. «Sai cosa mi diceva sempre mamma? Che io ero l’angelo custode di mio fratello, che lui era il mio e che lei e papà a loro volta erano i nostri angeli custodi. Alla fine… è lo stesso principio con cui agisci tu e poi tutti gli altri angeli custodi… solo che noi siamo tutti senza superpoteri e senza ali. Ciò vuol dire che io, volendoti un bene dell’anima e non volendo altro che la tua felicità, sono il tuo angelo custode».

Franky ridacchiò e si asciugò le lacrime. «Sono in buone mani, allora».

«Sfotti?», gli tirò uno schiaffettino sulla guancia e si lasciò andare ad una risata. «Ma torniamo seri… Mi prometti che ogni tanto ti prenderai una vacanza e lascerai che siamo noi a soffrire direttamente sulla nostra pelle? Quello che non uccide fortifica infondo, no?».

L’angelo annuì, anche se non del tutto sicuro di esserne capace. Si tirò su seduto, guardò un’ultima volta il cielo e poi si alzò in piedi.

«Dove vai ora?», gli domandò Tom, guardandolo dal basso.

«Suvvia, non fare la ragazza gelosa», lo ammonì con un sogghigno sulle labbra. «Devo andare a fare da guardia a tuo fratello: non credo che Lilith si faccia vedere, ma… meglio non adagiarsi sugli allori».

«Stai attento».

«Come sempre». Prese una breve rincorsa, ma proprio un secondo prima di spiccare il volo nel cielo blu, il chitarrista lo chiamò. Franky si girò e ed osservò i suoi occhi spaventati con espressione interrogativa.

«Mi aiuti a tornare in soffitta?», lo pregò Tom, con la voce che tremava leggermente, mentre allungava il collo per vedere giù e allo stesso tempo stringeva gli occhi per vietarselo. «Soffro ancora di vertigini».

L’angelo sorrise, scuotendo il capo.

 

***

 

Evelyn dalla sua terrazza vide subito Franky atterrare nel bel mezzo del giardino. Anche lui si accorse di lei, ma entrambi fecero finta di non essersi notati.
La ragazza scese al piano inferiore e vide l’angelo parlare con suo padre, dicendogli che quella notte sarebbe rimasto lì per proteggere lui ed Evelyn semmai Lilith si fosse fatta viva di nuovo, più arrabbiata di prima.

«C’è qualche problema per te?», gli domandò, con le sopracciglia aggrottate.

«No, è che… non so bene come…», Bill si impappinò e, in imbarazzo, si portò una mano alla nuca. «Credo di doverti delle scuse».

«Non ce n’è bisogno, davvero».

«Mi dispiace così tanto di non averti creduto subito, di essermi fatto stregare da lei… Potrai mai perdonarmi?».

Franky vide il seme nero perdere tutta la sua malvagità e una nuova aura dorata avvolse il cuore di Bill, mentre anche il muro creato da Lilith intorno alla sua mente crollava, permettendo a Franky di vedere tutto di nuovo con chiarezza.

«Ma certo, Bill». Lo abbracciò e gli diede qualche pacca sulla spalla. «Adesso dobbiamo solo capire come liberarci definitivamente di quella piaga», rifletté. Poi si rivolse ad Evelyn: «Da quello che ho capito, tu l’hai vista mentre faceva qualcosa alla porta della sua camera, vero?».

«Esatto. Non so cosa stesse facendo, ma non mi sembrava nulla di buono».

«No, infatti. Deve aver lasciato lì una barriera che io non posso distruggere, in modo tale da avere Bill sotto controllo appena dentro la stanza».

«Beh, basta che io non ci entri», disse il frontman.

Franky annuì. «Okay, per questa notte è la soluzione migliore. Domani vedrò di sistemare le cose, adesso sono troppo stanco». Si lasciò cadere sul divano e gettò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi dalle palpebre pesanti.

«Ti scoccia se ti sto vicino?», gli chiese Bill, prendendo la coperta in plaid abbandonata sullo schienale e sistemandosi sullo stesso divano su cui era seduto Franky.

«No, affatto», ridacchiò. «Basta che tieni lontani i piedi, Big Foot».

«Ehi, come ti permetti?!».

Evelyn li guardò bisticciare ancora per un po’, divertita e rasserenata da quel clima allegro nonostante ci fosse un demone infuriato con loro.

Si avvicinò al divano e si sporse in mezzo a loro: «Non ho molto sonno, posso stare qui con voi a guardare un po’ di tv?».

Bill e Franky si guardarono e scrollarono le spalle, sorridendo. 

 

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Salveeee :D
Capitolo un po' lunghetto, lo so xD Spero che non sia stato uno strazio leggerlo tutto in una volta sola, anzi ;) Anche perchè sono successe un sacco di cose interessanti!! Come per esempio il nuovo farmaco che Franky ha deciso di prendere per rendere la sua anima insensibile al dolore, che però ha avuto anche qualche effetto collaterale, in quanto nel momento più opportuno non è riuscito a leggere nella mente di Evelyn. Per fortuna che c'era Kim che l'ha salvata!
Kim e Raphael hanno, come dire, riallacciato i rapporti :) E' presto per dire se tutto tornerà come prima, però si sente già qualcosa nell'aria!
Per quanto riguarda il piccolo Arthur, invece, è stata davvero dura per Tom scoprire il problema del figlio. Ma Franky, o meglio... Reja ha sistemato tutto con la sua allegria e la sua voglia di vivere, anche se malata di leucemia, poverina :'(
Chissà, magari per Arthur è l'inizio di un futuro da calciatore, come ha visto Franky nella sua primissima visione *-*
Poi Bill che torna da Tom e si convince che è Lilith quella che vuole il suo male, beh, è la conclusione migliore, no? :D

Spero che vi sia piaciuto, come è piaciuto a me scriverlo e... boh, basta xD
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e tutti quanti *.*
Alla prossima! Con affetto, vostra,

_Pulse_

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Capitolo 21
*** Archangel of the Sun ***


21. Archangel of the Sun

 

They said we shouldn’t, they said we wouldn’t
Look where we are, we’ve done what they thought we couldn’t

 

Con la testa appoggiata all’indietro sullo schienale del divano, guardava Bill dormire rannicchiato come un bambino, nonostante i suoi anni. La tv accesa di fronte a lui gli illuminava il viso, sul quale regnava una pace apparente. Puntando lo sguardo oltre, vide Evelyn seduta contro il bracciolo. Erano proprio agli antipodi, divisi dal corpo del cantante.

Lei si accorse presto del suo sguardo insistente, voltò il viso verso di lui e sorrise in maniera impacciata, lasciando sospesa la mano con cui si stava portando alla bocca una caramella gommosa.
«Ti do’ fastidio se mangio?», gli domandò in un sussurro, per paura di svegliare suo padre.

«No, figurati… Ti guardavo», rispose altrettanto piano l’angelo.

«Guardavi me o i miei pensieri?».

Franky ridacchiò. «In quel momento ero soltanto focalizzato sul tuo viso, stavo pensando ad altro».

«Cioè?».

L’angelo temporeggiò, guardò il soffitto con gli occhi lucidi ed accennò un sorriso amaro. Allora Evelyn si alzò dal divano, gli andò di fronte e si mise a cavalcioni sulle sue gambe. Franky non seppe cosa fare né dove mettere le mani e il panico si diffuse nei suoi occhi. 

«E se Bill si sveglia e ci vede in questa posizione? Non è prudente!».

«Smettila di agitarti, o si sveglierà davvero!», lo rimproverò prendendogli il viso fra le mani e costringendolo a guardarla negli occhi, con l’unica conseguenza che entrambi si persero nelle iridi dell’altro.

 

Girl in you I find a friend, you make me feel alive again
And I feel like the brightest star, ‘cos you make me shine again

 

Franky si leccò le labbra improvvisamente asciutte, Evelyn le guardò e tutti e due, istintivamente, si avvicinarono al viso dell’altro. Quando i loro nasi si sfiorarono e i loro fiati si fusero in uno, però, si accorsero di quello che stavano facendo e si irrigidirono, mormorando: «Niente più guai», il loro giuramento.
I loro sguardi si incrociarono di nuovo e sorrisero contemporaneamente, sospirando. Perché il loro amore era un amore impossibile? Era una vera e propria ingiustizia.

La ragazza si appoggiò alla sua spalla con la fronte e chiuse gli occhi sentendosi stringere forte dalle sue braccia. Non si era mai sentita sicura così come si sentiva ogniqualvolta stesse fra le braccia dell’angelo.

«Pensavo a lui», sussurrò ad un certo punto Franky, iniziando ad accarezzarle i capelli sulla nuca. «Pensavo a come sarebbe stato se fosse nato… Il piccolo me, solo con i tuoi occhi… Saremmo stati una bella famiglia». Evelyn sollevò il capo e guardò le lacrime scorrere sulle guance di Franky, mentre lui tirava su col naso e se lo massaggiava per smetterla.
«Mi dispiace così tanto», proseguì con la voce roca e spezzata dai singhiozzi. «Avrei dovuto dirtelo, ma… non volevo farti altro male e non ce la facevo proprio. Credevo che mi avresti odiato, faceva troppo male…».

«Shhh», sussurrò, posando la fronte contro la sua ed asciugandogli le lacrime con le dita. «È tutto a posto, va bene così». Lo abbracciò e gli premette il viso contro la sua spalla, riversando su di sé tutte le sue lacrime. «Io non potrei mai odiarti. Ci ho pensato tanto e… era la cosa migliore da fare, dopotutto». Franky la guardò con le labbra socchiuse, stupito. «Non dico che non l’avrei tenuto, ma… adesso vedo tutto da un’altra prospettiva e sento che sarebbe stato sbagliato: per me, per te, ma soprattutto per lui». Accennò un sorriso. «Adesso basta piangere, dai».

«Ti amo», mormorò lui, con gli occhi ancora colmi di lacrime.

Gli posò un bacio fra gli occhi, uno sulla punta del naso ed uno sul mento, poi sussurrò: «Anche io, non sai quanto».

«Però…», la incalzò, passandosi sul viso le maniche della felpa per spazzare via ogni traccia evidente delle lacrime appena versate.

«Non c’è nessun però, è un dato di fatto».

«Intendevo dire… però io sono un angelo, però c’è anche Martin».

«Martin», Evelyn ripeté il suo nome a testa bassa, come se si stesse sforzando per ricordarselo. Ma sapeva bene chi era, sapeva bene – o forse no – quello che provava per lui, ed era un macello.

Franky sospirò stancamente e le prese le mani nelle sue. «Senti, Evelyn…».

La ragazza però non gli diede ascolto, la preoccupazione prese il sopravvento sul suo viso e si spostò dalle sue gambe. Anche l’angelo si voltò a vedere che cosa l’avesse allarmata tanto e vide Lilith oltre le porte finestre, che li salutava con la mano e con un sogghigno piuttosto inquietante.

«Stai indietro», le ordinò Franky, alzandosi ed allontanando Evelyn col braccio.
Si diresse verso il demone, che lo attese senza muovere un muscolo. Una volta faccia a faccia, separati soltanto dalla lastra di vetro, Franky disse: «Non pensavo ti facessi ancora viva oggi, dopo la lezione che ti ha dato Kim».

«Taci, angelo. È ora di finirla», sentenziò con rabbia. «Che ne dici se ci battiamo stasera e chi vince ottiene il controllo dell’essere umano?».

«No, te lo puoi anche scordare».

«La mia era una domanda retorica», sibilò e con un movimento tanto rapido quanto brusco trapassò il vetro con una mano, prese la nuca dell’angelo e con una forza che non si sarebbe mai aspettato lo schiantò a terra, sotto la veranda.

Sentì Evelyn all’interno gridare spaventata, ma Bill non si svegliò.

«Che cosa gli stai facendo, stronza», le ringhiò contro, alzandosi a fatica, con le orecchie che gli fischiavano per la botta ricevuta.

«Oh, niente… l’ho solo messo in standby, giusto per il tempo necessario a farti fuori e rimpossessarmi di lui».

L’angelo gridò pieno di rabbia ed andò alla carica, correndo verso di lei e travolgendola. Caddero stesi sulle assi di legno della veranda, uno sopra l’altra, e se le diedero come meglio poterono: graffi, pugni, calci… fino a quando Lilith non fece cadere Franky giù dalle scalette che portavano al giardino, facendogli sbattere la schiena.

Franky gemette, dolorante. L’effetto della medicina era decisamente finito. Per fortuna tra lui ed Evelyn si erano risolte un paio di questioni che altrimenti gli avrebbero fatto altro male e gli avrebbero sottratto ulteriori energie. Si sentiva sostanzialmente bene, ma non tanto da affrontare un demone. Aveva bisogno di rinforzi. Se solo si fosse ricordato come fare a lanciare un segnale d’aiuto ad altri angeli nei paraggi…

«Beh, tutta qui la tua forza angelica?», lo beffeggiò, guardandolo dall’alto. «Io sono ancora in forma umana, mi sto ancora riscaldando!».

«Sei proprio…», biascicò, ma venne interrotto da un calcio al fianco, che lo fece accartocciare su se stesso.

«Risparmia le parole per le tue ultime preghiere». Lilith si accucciò e sulla schiena iniziarono a spuntarle due ali nere, formate solo da grosse ossa scure: si stava trasformando in demone. Le cose si mettevano sempre più male per lui.

Mentre cercava di alzarsi, stringendo tra i pugni fasci d’erba umida, desiderò con tutte le sue forze che altri angeli lo sentissero ed accorressero in suo aiuto, poiché era consapevole che da solo sarebbe stato fatto fuori in men che non si dica.
Quando alzò lo sguardo però, si accorse che Lilith aveva completato la sua trasformazione ed era proprio un demone agghiacciante, tutto ossa e tenebre, e di altre figure angeliche nemmeno l’ombra. L’avevano lasciato solo?

«Fatto o vuoi che ti conceda altri due secondi?», domandò il demone con la sua voce reale, che non aveva nulla a che fare con una voce di donna, mentre estraeva da una specie di fodero una spada nera, avvolta da un’aura più che negativa. Con la punta gli toccò il mento per sollevargli il viso contratto di una smorfia di puro disgusto, oltre che di dolore.

«Tempo scaduto», gli sussurrò e sollevò la spada per conficcargliela nel petto, quando le porte vetrate del salotto si aprirono alle loro spalle ed Evelyn corse fuori, gridando il nome dell’angelo.

Franky sfruttò il momento di distrazione di Lilith e le balzò addosso, combatté con quell’ammasso di ossa nere e fece di tutto per levarle la spada che teneva in mano, ma non ci riuscì: per il demone fu facile liberarsi di lui e lo stordì colpendolo alla testa con il manico della spada, facendolo ruzzolare di nuovo a terra, quella volta privo di sensi.

«No, Franky, no!», gridò ancora Evelyn, sentendosi impotente, capace soltanto di guardare e piangere.

«È tutto inutile, ragazzina», le disse Lilith, sorridendo maligna. «È la fine per lui».

«No! No, invece!». Corse da lui – Lilith non glielo impedì, anzi sembrò che l’avesse lasciata passare di proposito – si inginocchiò al suo fianco e gli posò la testa sulle sue gambe, accarezzandogli il viso graffiato. «Franky. Franky, mi senti?», gli sussurrò singhiozzando e lui reagì alla sua voce, ma era troppo stanco e debole per aprire gli occhi e risponderle. O meglio, lo fu fino a quando lei non gli posò entrambe le mani sul petto, rannicchiata su di lui: lì le cose cambiarono radicalmente.

 

And every time I nearly hit the ground, you were my cushion
There’s evidence that proves, that you were Heaven sent
‘Cos when I needed rescuin’, you were there at my defence

 

Iniziò a sentire un piacevole calore dentro di sé, che gli fece recuperare le forze. Ricordò di averne provato uno simile, solo per un istante, quando era riuscito ad infrangere gli arresti domiciliari. Quando aprì gli occhi, di nuovo lucido, si rese conto della forte luce che emanava la sua pelle: era incredibile, non gli era mai successa una cosa del genere e non se la sapeva spiegare. Anche Evelyn era scioccata e confusa. Si guardarono negli occhi e l’angelo capì immediatamente, senza nemmeno sapere come, che lei c’entrava, che era lei l’artefice di tutto quello.

Si alzò, pieno di energia positiva, ed affrontò a testa alta il demone che si copriva gli occhi con un braccio, infastidito dalla sua luce. Sentì qualcosa premergli contro la nuca, se la tastò e trovò l’impugnatura di un’arma: lentamente la estrasse dal fodero che solo successivamente avrebbe scoperto in mezzo alle sue grandi ali e se la portò di fronte al viso, sotto lo sguardo incredulo di Evelyn. Era una spada molto simile a quella del demone, ma sprigionava un’energia purificatrice dalla forza spaventosa, tanto da vibrare fra le sue mani, e la sua lama lucente era avvolta da fiamme di un arancione intenso.

Franky alzò lo sguardo verso Lilith e sorrise con una punta di arroganza. «Okay, io sono pronto. Anche tu hai finito di pregare?».

Il demone ringhiò, ferito nell’orgoglio, e si scagliò contro di lui senza alcuna esitazione. L’angelo non aveva mai nemmeno impugnato una spada, solo in quel momento si rese conto che non sapeva minimamente cosa fare, ma fu più facile del previsto: la maggior parte del tempo fu la spada a guidare lui, a dirgli che mosse fare e come colpire – c’era come un legame mentale fra loro, andavano in simbiosi.

Il duello, però, non fu affatto una passeggiata. I loro colpi non andavano mai vuoto: o si colpivano fra loro, procurandosi sfregi o comunque ferite di non grande rilevanza, oppure le lame delle loro spade cozzavano fra loro dando vita ogni volta a scintille che sembravano fuochi d’artificio e facendo un rumore infernale, udibile alle orecchie degli angeli addirittura a chilometri di distanza. Infatti, qualche minuto dopo l’inizio della battaglia, si radunò intorno a loro una schiera di angeli custodi e di angeli speciali, tra cui anche la sorella di Margot e la nonna della piccola Reja. 
Anche una schiera di demoni fu attirata dallo scontro, ma nessuno si intromise: c’era un silenzio quasi surreale, del quale Evelyn aveva un po’ paura, perché si trovava fra due schieramenti che si battevano esattamente per le cose opposte – uno per l’amore, uno per l’odio; uno per la felicità, uno per la sofferenza… – e che non si sopportavano a vicenda; sarebbe potuta scoppiare una seconda battaglia, proprio nel suo giardino, in qualsiasi momento, e lei ne sarebbe stata sicuramente coinvolta. Da quello che poteva osservare, però, tutta l’attenzione dei due partiti sembrava rivolta al combattimento tra Franky e Lilith, come se loro due fossero i due capi degli eserciti rivali e spettasse solo ed esclusivamente a loro decidere l’esito di quella guerra.

Franky avanzò, mettendo alle strette il demone, e quando si accorse di averla in pugno si fermò con la lama infuocata a pochi millimetri dalla sua gola, col proprio corpo premuto contro il suo per non farla muovere.

«Fallo, eliminami», disse Lilith con rabbia.

Franky tentennò. Era la cosa giusta, eliminarla, eppure… non ce la faceva proprio ad uccidere qualcuno, anche se quel qualcuno aveva attentato alla vita di Bill e di Evelyn.

Il demone lo fissò e dopo qualche secondo iniziò a sganasciarsi dal ridere. «Sei ridicolo!».

«Non costringermi a fare ciò che non voglio», disse a denti stretti, combattuto. Quanto avrebbe voluto fargliela pagare per quello che aveva fatto a Bill e quello che aveva tentato di fare Evelyn, ma c’era qualcosa dentro di lui che lo bloccava. Quella volta la furia cieca che l’aveva colto quando aveva pestato Samuel non c’era, nemmeno un briciolo, e tutta la sua bontà ricadeva proprio su un essere che non meritava nulla.

«Cosa vorresti che facessi, che passassi dalla tua parte, che diventassi un angelo?!». L’aveva detto ridendo, come se fosse un’idea talmente ridicola che non andava nemmeno considerata, per questo rimase allibita quando udì quel semplice «Sì» uscire dalle labbra di Franky, che la guardava quasi in pena per lei.
«Credi davvero che potrei fare una cosa del genere? Ti sei completamente fumato il cervello», lo fulminò con lo sguardo. «E ora, se permetti, falla finita. Preferisco morire, piuttosto che diventare una pappamolle come voi».

Franky sbuffò dal naso, incassando il colpo, e con velocità impressionante conficcò la spada di fuoco nel ventre del demone, che si frantumò, si polverizzò e alla fine diventò fumo di fronte a lui. Aspettò che non rimanesse alcuna traccia di lei, poi si voltò e vide la schiera di demoni volare via strillando e dimenandosi come se stessero piangendo quella perdita, mentre gli angeli continuavano a rimanere composti, come un calciatore che ha appena segnato un goal ma che non esulta per rispetto dell’avversario; solo che nel loro caso non c’era rispetto per quel demone, ma solo dispiacere: anche loro, esattamente come lui, erano combattuti fra il senso di giustizia e ciò che imponeva la loro morale, ossia che ogni vita, anche quella del demone più malvagio, era pur sempre una vita che avrebbe potuto salvarsi, se avesse accettato di passare al bene.

Lentamente il bagliore emanato dalla sua pelle scivolò via, come tutte le sue forze. La spada di fuoco si spense e Franky la ripose nel fodero fra le sue ali, che svanì subito dopo, incorporato dal piumaggio candido.
Quando era stato quella specie di angelo cavaliere si era sentito invincibile; adesso, invece, tornato semplice angelo custode, si sentiva svuotato, come se quel bagliore e quella spada, spegnendosi, avessero risucchiato dentro di loro tutta la sua forza.
Per questo barcollò, con la testa che gli girava vorticosamente. Le braccia esili di Evelyn però furono pronte a sorreggerlo. L’angelo si abbandonò totalmente a lei, ma posò le mani sulla sua nuca, mentre le strusciava il naso contro la guancia e il collo per sentire il suo profumo.

«Stai bene?», gli domandò lei, preoccupata.

«Sì, ora sì», sospirò, ma perse i sensi poco dopo.

 

No matter where we are,
no matter just how far are paths may lead
We don’t need no shields, love is the armour that we need
We’re invincible (we are), invincible (you are)
Invincible, love’s our protector
Invincible (we are), invincible (you are)
Invincible, we’re invincible

 

Bill si svegliò all’improvviso, col fiatone. Provò la sgradevolissima sensazione di aver dormito come un sasso, ma solo per un attimo, così fugace da stordirlo. 
Si tirò a sedere grattandosi la testa e grazie alle porte vetrate notò sua figlia nel bel mezzo del giardino, che… Si stropicciò gli occhi, incredulo, ma ciò che aveva visto poco prima non cambiò: stava abbracciando Franky, anzi sembrava che lo stesse sorreggendo. Quello che l’aveva sorpreso, se non scioccato, era la tenerezza, l’intimità di quell’abbraccio, fuori dal comune, troppo intensa per appartenere a due persone che a malapena si conoscevano. Sua figlia gli aveva nascosto qualcosa e ora riusciva a capire il motivo di molti suoi comportamenti strani… tutto parve infinitamente chiaro, anche se non così tanto da allarmarsi: infondo… non era possibile che fosse successo qualcosa di più fra di loro, vero? Ma allora perché Evelyn avrebbe dovuto tenergli nascosta la loro amicizia?

Si mordicchiò le labbra, nervoso, quando vide sua figlia allarmarsi chiamando il nome dell’angelo, che non rispondeva e non reagiva ai suoi strattoni. Bill si mise inginocchiato sul divano per vedere meglio e guardò sua figlia posare delicatamente il corpo di Franky a terra, forse aiutata da qualcuno che lui non riusciva a vedere – forse un altro angelo – e cercare di rianimarlo. Ad un certo punto Evelyn si fermò ad ascoltare la presenza invisibile accanto a lei ed annuì, passandosi una mano sul viso, poi si alzò e guardò Franky venir sollevato di peso e portato via. La osservò guardare il cielo pensierosa ed ansiosa per qualche altro minuto, poi quando la vide girarsi per rientrare in casa si gettò di nuovo sdraiato sul divano, con le coperte addosso, e fece finta di dormire. Intanto ascoltò i rumori intorno a lui: la porta finestra che scorreva aprendosi e chiudendosi, i passi leggeri di Evelyn, il modo in cui tirava su col naso, l’interruttore della luce e lo spostarsi di qualcosa nella credenza, forse delle tazze.

Provò ad aprire un occhio e verificò che sua figlia si trovasse in cucina. La vide mettere sul fuoco un pentolino con un po’ d’acqua per farsi una tazza di thè, poi recuperò il cellulare che aveva lasciato nella parte del salotto più vicina alla cucina ed inoltrò una chiamata, tornando in cucina e portandoselo all’orecchio.
Bill non era certo di poter origliare da quella distanza, così si alzò dal divano, nonostante corresse il rischio di essere scoperto, e si nascose dietro il muro accanto alla porta.

«Zio… ti ho svegliato, vero?». Iniziò così la telefonata di Evelyn, fatta proprio a suo fratello Tom. Allora anche lui sapeva cose delle quali invece lui non era a conoscenza?

«No, non mi è successo niente, sto bene, ma credo che Franky non stia così tanto bene… No, è inutile che vieni, non è più qui. In pratica… Lilith è venuta qui, lei e Franky hanno iniziato a litigare e sono arrivati a picchiarsi… Io non so bene cosa sia successo, però Franky ad un certo punto ha iniziato a brillare tutto, ad essere caldo, e ha tirato fuori una spada che al posto della lama aveva del fuoco. Ha fatto fuori Lilith e dopo è svenuto, esausto… Sono venuti ad assistere al combattimento molti angeli e molti demoni, ma nessun li ha aiutati, diciamo… sono stati soltanto a guardare… Ora l’hanno portato in Paradiso, alcuni degli angeli che erano qui ad osservare. Ho avuto tanta paura zio… No, ma sto bene, sto bene». Minuto di silenzio, nel quale Bill riuscì anche a sentire la voce gracchiante di suo fratello, ma non riuscì a comprendere con precisione le sue parole. Poi Evelyn riprese: «Sì, anche papà sta bene. Non si è nemmeno svegliato, non so perché… Comunque adesso non so, provo ad andare a dormire, ma dubito che ci riuscirò. No, ti ho già detto che sto bene, è solo che ho paura per Franky… Non è giusto che soffra così solo per le nostre debolezze. Se papà non avesse mai dato retta a quella ragazza…».

Un nodo allo stomaco lo fece voltare e in quel modo si fece vedere da sua figlia. Forse si fregò da solo, ma non voleva sentire altro: si sentiva abbastanza in colpa di suo.

«Chi è?», le domandò con la voce ancora roca dal sonno, stringendo gli occhi a causa della luce.

«È… è zio Tom», rispose un po’ spaventata. «Ci vuoi parlare? Tieni», gli mollò il cellulare fra le mani ed uscì in fretta dalla cucina, massaggiandosi il collo.

Bill si appoggiò al bancone di marmo della cucina e si portò l’apparecchio all’orecchio, sbadigliando assonnato. «Tom…».

«Ehi Bill, stai bene?».

«Diciamo di sì. Ho origliato, ho sentito ciò che ha detto Evelyn».

«Qualsiasi cosa tu abbia capito, hai frainteso», si difese subito, come se sapesse da molto tempo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato.

«Non penso di aver frainteso: li ho visti abbracciati».

Tom ridacchiò nervosamente. «Pff, un abbraccio! Cosa sarà mai!».

Ma Bill conosceva bene il suo gemello. «Tom, per favore…».

«Non c’è niente tra di loro». Non più, ormai. Solo amore platonico. «Te lo assicuro».

«Ma…».

«Ora è tardi, ho sonno. Ci vediamo domani, okay? E se vedi Franky prima di me, ringrazialo per averti salvato il culo, invece di fargli l’interrogatorio». Chiuse la chiamata bruscamente e Bill rimase in silenzio ad ascoltare i bip che si susseguivano l’uno dietro l’altro: sembravano quasi i battiti di un cuore automatico, privo di emozioni e sentimenti.

 

***

 

Si girò sul fianco, sospirando, e cercò di aprire gli occhi per quanto il sole che gli batteva sul viso gli permetteva.
Un’ombra lo coprì e riuscì a focalizzare il volto teso, quasi arrabbiato, di Zoe di fronte al suo.

«Quanto sei idiota, da uno a dieci?», gli domandò severamente.

«Undici, solitamente», rispose schiarendosi la gola con qualche colpetto di tosse. «Che ho fatto stavolta?».

«Perché non mi hai detto che mio marito – mio marito! – era stato abbindolato da un demone che quasi ti faceva fuori?!».

Franky si girò sull’altro fianco e disse: «Puoi arrivarci benissimo da sola».

«Okay, forse ti avrei assillato giorno e notte e avrei voluto vederlo molte più volte del previsto, ma…».

«Se tu fossi scesa di sotto, il demone avrebbe cercato di attaccare anche te e sai che cosa succede, se la tua anima viene ferita ulteriormente?».

«Rischierei di non svegliarmi più… Quindi l’hai fatto per il mio bene?».

«Tutto quello che faccio, è per il bene, tuo o di chiunque altro. Ma l’ho fatto soprattutto perché mi avresti assillato giorno e notte», ridacchiò.

«Sei un cretino, Franky», gli diede un pugnetto sulla spalla, con quel suo adorabile broncio sul viso, ma poi si chinò su di lui e lo abbracciò. «Grazie, grazie davvero».

«Dovere, piccola», sorrise e le massaggiò la schiena con una mano.
Quando si sollevò e poté guardarla negli occhi, le chiese: «Per quanto ho dormito?».

«Sei arrivato qui questa notte, era quasi l’una… adesso sono le nove. Il dottore ha detto che avevi bisogno di molto riposo. Come ti senti adesso?».

«Io… bene, sì». Dopo quella dormita, le energie gli erano tornate, si sentiva in forma.

Si tirò seduto sul letto e si guardò intorno: una normalissima stanza di ospedale, come ne aveva viste tante in quel periodo. La sua attenzione fu attirata da un mazzo di fiori che ormai, per specie e colore, sapeva esattamente a chi imputare. 
«Me li ha portati Kim?», domandò alla sua protetta.

«Sì, esatto. Dormivi ancora, ha preferito non svegliarti. Ti ha lasciato lì un biglietto». Allungò il collo per vedere di cosa si trattasse, curiosa; Franky se ne accorse e sorrise birichino:

«Strano che tu non l’abbia già letto».

Zoe divenne tutta rossa ed incrociò le braccia al petto. «Per chi mi hai preso?».

L’angelo ridacchiò, divertito. Man mano che leggeva il sorriso dolce che aveva sulle labbra si allargava sempre di più.

«Che dice?», chiese la donna.

«Nulla, che come al solito mi caccio sempre nei guai e che devo riprendermi presto…».

«C’è scritto qualcosa anche dietro», gli fece notare.

Franky girò il fogliettino e lesse mentalmente quelle ultime parole scarabocchiate malamente:

 

P.S. Sei più di quanto tu possa immaginare.

 

Che vuol dire? si domandò l’angelo, confuso.
La risposta gli venne data qualche minuto dopo, quando San Pietro entrò nella sua stanza per fargli visita e dopo i soliti convenevoli chiese a Zoe di lasciarli soli un attimo.

«È qualcosa che non posso sapere?», domandò con tono sarcastico la donna, offesa.

«No. Semplicemente è una questione delicata di cui preferirei parlare prima con Franky», le rispose il santo.

«Okay, ho capito», sospirò ed uscì dalla stanza, lasciandoli soli.

L’angelo custode guardò il suo mentore, frastornato. Capiva poco o niente di tutto ciò che stava succedendo e in effetti una motivazione c’era.

«Come posso iniziare?», gli chiese San Pietro, sospirando e sedendosi sulla sedia accanto al suo letto. Per Franky guardarlo negli occhi era difficile, in quella posizione la luce del sole lo abbagliava.
«Sicuramente ti sarai accorto che quello che ti è successo ieri sera è anomalo. Non ti era mai successa una cosa del genere, giusto?».

«Esatto. È di questo che dobbiamo parlare, di quello che ho fatto? Se ho fatto qualcosa che non dovevo mi dispiace, non avevo mai affrontato nulla di simile, non sapevo come comportarmi…».

«Non devo rimproverarti, se è questo quello che credi», lo rassicurò con un sorriso. «Devo solo informarti che la tua vera natura si è finalmente mostrata». Franky sgranò gli occhi. Continuava a non capire. «Il bagliore del tuo corpo, il tuo calore, la spada infuocata che ti è nata in mezzo alle ali e con la quale hai sconfitto uno dei demoni più potenti in circolazione – perché era davvero uno dei più potenti, se non te ne eri ancora accorto… Sono tutti segni della tua vera natura, di ciò a cui sei stato sempre destinato e che finalmente, nella tua crescita spirituale, sei diventato».

«Per favore, me lo dica lei, io…», balbettò, portandosi una mano alla fronte, sempre più confuso.

Il santo sorrise compassionevole e allo stesso tempo pieno di orgoglio, gli prese il capo fra le mani e gli disse con tono pacato: «Tu sei un arcangelo, figlio mio».

L’angelo si ritrasse, spaventato, e lo guardò con gli occhi spalancati, quasi lucidi. «Che… che cosa? È impossibile».

«Eppure quello che hai fatto ieri lo dimostra, ti sei comportato esattamente come un arcangelo: grazie ad Evelyn l'arcangelo che dormiva dentro di te si è svegliato ed assieme alla spada di fuoco sei diventato un’arma di Dio contro le forze del male, sconfiggendole. Lo so che adesso ti senti disorientato e anche spaventato, ma presto capirai quanto sia importante questo incarico e quanto tu sia importante per il mondo degli umani».

«Non voglio essere un arcangelo», scosse il capo con decisione.

«Non puoi non volerlo, tu lo sei. Aspettavamo da secoli la venuta di un nuovo arcangelo, cercavamo di capire chi fosse il prescelto fra i nostri migliori angeli, e sei arrivato tu… ora ne manca solo uno, il settimo». San Pietro parlava con aria sognante, quasi fanatica, quando Franky era soltanto terrorizzato.

«Che cosa intende dire?».

«Vedi… gli arcangeli sono i “capi” di tutti gli angeli, sono a livello gerarchico i più importanti insieme ai serafini; hanno una grande importanza nella vita degli umani, in quanto amministratori delle cose laggiù, mandati da Dio. Gli arcangeli sono in grado di aiutare qualunque essere umano in difficoltà, sono come… degli angeli custodi universali».

«Questo io potevo farlo già prima, quando ero un semplice angelo custode», gli disse con durezza, come se volesse dimostrare che tutto ciò che stava dicendo era infondato e lui ne era la prova. Ma si sbagliava di grosso, perché inconsciamente non faceva altro che sostenere le sue parole. 

«Tu riuscivi a farlo perché dentro di te riposava l’anima di uno dei due arcangeli ancora non rivelati, che ora si è risvegliata».

«Che cosa vuol dire, di quale tra i due arcangeli?». Franky sollevò il sopracciglio, ora scettico, quasi arrabbiato. Lui non voleva essere un arcangelo, non voleva avere così tante responsabilità sulle spalle, sembrava fin troppo faticoso e nelle sue condizioni, anche volendo, non sarebbe riuscito a fare nulla di ciò che gli sarebbe stato chiesto.

«Vedi, gli arcangeli sono solo sette», gli spiegò e venne interrotto quasi subito.

«Solo sette?! Com’è possibile che ce ne siano così pochi?! Come fanno sette arcangeli a vegliare su tutto il pianeta?!».

«Calmati, Franky. Gli arcangeli non sono soli, hanno l’aiuto dei serafini, di tutti gli angeli speciali, degli angeli custodi… Diciamo che gli arcangeli intervengono nelle situazioni più critiche».

«Ad esempio?».

«Ad esempio, quando sono previste grandi tragedie che coinvolgono l’umanità: gli arcangeli intervengono per far sì che non accadano. A volte ci riescono, a volte no…».

Franky scosse ancora il capo con la testa posata sul cuscino, chiudendo gli occhi alle lacrime. «E il mio incarico da angelo custode? Che ne sarà di Zoe?».

«Stai tranquillo, avrai tempo per riorganizzare tutta la tua vita. Non dovrai iniziare a lavorare subito come arcangelo, hai la possibilità di ottenere una specie di deroga per poter concludere le ultime tue missioni come angelo custode, poi…».

«Poi sarò costretto a diventare arcangelo».

«No, figlio mio, no. Tu lo sei già», sussurrò, prendendogli le mani fra le sue. «E ancora non ti rendi conto del dono che hai ricevuto. Presto però lo comprenderai e ti sentirai onorato di ricalcare questo ruolo».

L’angelo evitò il suo sguardo, rivolgendo il viso dall’altra parte, mordicchiandosi le labbra. San Pietro si alzò sospirando, un po’ dispiaciuto, ma sapeva che sarebbe stato difficile con lui, così attaccato al suo lavoro attuale e così timoroso di ricominciare tutto da capo.
Si diresse verso la porta e giusto un momento prima di uscire e di lasciarlo solo a riflettere, venne fermato dalla sua voce, che spinta dalla curiosità e dalla sua tipica voglia di sapere, gli chiese: «Come mai sono solo sette, gli arcangeli?».

San Pietro sorrise. «Questo è stato il disegno di Dio. Ogni arcangelo rappresenta un lume tradizionale: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno».

«E io… quale rappresenterei, fra questi?».

Il santo si voltò e lo guardò negli occhi. «Tutti quelli che ti hanno incontrato e che ti hanno più o meno conosciuto si sono accorti che tu avevi qualcosa di speciale. Tu sei unico nel tuo genere, Franky, e lo spirito immortale dell’Arcangelo del Sole ha scelto te per tornare a compiere il volere divino».

«L’Arcangelo del Sole», ripeté a bassa voce, per crederci davvero.

San Pietro gli rivolse l’ennesimo sorriso e lo salutò, ma nemmeno quella volta riuscì ad andarsene, perchè Franky gli pose l'ultima domanda, forse quella che meritava una spiegazione più di tutte le altre: «Perché proprio grazie ad Evelyn? Perchè l'arcangelo che era in me si è risvegliato grazie a lei?». 

Lo sguardo di San Pietro si illuminò, ma la sua risposta fu una breve scrollata di spalle; poi uscì dalla stanza lasciandolo ai suoi ragionamenti. Si chiuse la porta alle spalle e vide Zoe che passeggiava concitata su e giù per il corridoio e che appena lo vide gli chiese: «È successo qualcosa?».

«No, nulla», la rassicurò. «Però ora Franky è stanco, è meglio lasciarlo riposare un po’». La donna annuì, anche se incerta. «Ah, appena lo vedi di nuovo digli soltanto di non preoccuparsi se inizierà a crescere, è una cosa normale», aggiunse lui. Dopodiché guardò il santo allontanarsi fischiettando lungo il corridoio semideserto dell’ospedale.

Zoe si avvicinò alla porta della camera del suo migliore amico e vi sbirciò all’interno attraverso la finestrella incassata nel legno: lo vide stanco, con una smorfia sul viso e gli occhi lucidi.

 

***

 

Evelyn sentì i passi di suo padre e si irrigidì sullo sgabello del bancone della cucina su cui era seduta. Bill, dal canto suo, la salutò con poca convinzione ed evitò il suo sguardo quando si mise seduto proprio di fronte a lei per fare colazione.

Il silenzio fra loro era imbarazzante e ogni secondo che passava rendeva più intense le loro convinzioni: lei pensava che ormai suo padre avesse scoperto tutto; lui invece, credeva che sua figlia fosse arrabbiata perché aveva origliato la sua telefonata.

Alla fine fu Bill a parlare per primo, giusto per spezzare il ghiaccio. «Ti sei svegliata presto stamattina».

«Già. Non avevo molto sonno».

«Ma ieri… Perché Franky se n’è andato?».

Evelyn deglutì rumorosamente, abbassando lo sguardo. Era ancora molto preoccupata per lui. «Ha combattuto contro Lilith, l’ha sconfitta, però alcuni angeli lo hanno portato in Paradiso: pensavano fosse meglio sottoporlo a delle cure».

«Oh… non ho sentito nulla».

«Dormivi come un sasso», disse con un sorriso sulle labbra, a cui Bill ricambiò sollevando le spalle.

«Che programmi hai per oggi?», le chiese.

«Pensavo di andare a trovare mamma… e di fare un salto anche da Martin».

Quella volta fu Bill ad irrigidirsi. «Da Martin?».

«Sì, ecco… abbiamo avuto una discussione che non abbiamo ancora risolto e volevo parlarne con lui, tutto qua».

«Oh, capisco…».

Evelyn annuì, senza sapere più che dire. Si alzò, portò la sua tazza vuota nel lavandino ed unì le mani sul petto. «Vado a vestirmi».

«Okay», rispose Bill. Entrambi erano contenti di allontanarsi l’uno dall’altro, si mettevano a disagio a vicenda.

 

***

 

Una volta uscito dall’ospedale, si era lasciato accompagnare a casa da Zoe, che stranamente non gli aveva chiesto nulla a proposito di ciò che gli aveva detto San Pietro. Per Franky era stato meglio così, aveva deciso che fino a quando non sarebbe diventato ufficialmente un arcangelo non l’avrebbe detto a nessuno. E forse non l’avrebbe detto nemmeno dopo. Non sapeva per quale motivo, ma preferiva che il cambiamento riguardasse solo se stesso e non anche i suoi amici e le persone che amava: per Zoe sarebbe stato sempre il suo angelo custode, per Tom sarebbe stato il suo migliore amico e saggio consigliere, per Arthur avrebbe svolto la sua solita opera di guida e protezione, per Evelyn… Ecco, per Evelyn. Forse a lei l’avrebbe detto, ma non ne era ancora sicuro, anche perché per lei non era mai stato nulla di particolare, se non un po’ di tutto.

La risposta che non aveva ricevuto da San Pietro, il motivo per cui l'arcangelo che era in lui si era risvegliato proprio grazie a lei, non aveva ancora smesso di ossessionarlo.

Aveva lasciato i vestiti sporchi e laceri del combattimento sul letto e se ne era infilati dei puliti, poi aveva detto a Zoe che aveva bisogno di stare un po’ da solo per pensare. La protetta lo aveva accontentato senza fare domande, sperando che quando se la sarebbe sentita gliene avrebbe parlato spontaneamente.
Poco dopo aveva ricevuto la visita di Kim e di Raphael, venuti per congratularsi.

«Le congratulazioni erano l’ultima cosa che volevo», gli aveva risposto burbero, lasciandoli entrare.

Kim aveva riso, dicendogli che stava avendo la stessa reazione dell’ex Arcangelo del Sole. La tradizione diceva che quando aveva scoperto di essere la reincarnazione di uno degli esseri celesti più potenti non l’aveva accettato subito, anzi, ci aveva messo un bel po’ per comprenderne il mistero divino.

«San Pietro puntava molto su di te e a quanto pare faceva bene…», gli aveva detto ancora, sorridendo. «Sai, prima che arrivassi tu credeva che fossi io l’Arcangelo del Sole, che il suo spirito fosse dentro di me. Ho iniziato a fare errori su errori nella mia carriera di angelo custode e questo l’aveva un po’ demoralizzato, ma poi sei arrivato tu e… nonostante tutti i tuoi sbagli e le delusioni che gli hai dato non ha mai smesso di credere in te, nemmeno un attimo. Tu sei il vero destinato ad essere l’Arcangelo del Sole».

In quel momento non capiva davvero il perché fosse stato scelto proprio lui ed era arrabbiato per questo, perché lui aveva già troppi problemi, non voleva quella “promozione”.

Oltre che per congratularsi, Kim e Raphael erano passati per conto di San Pietro, per dirgli che era stata indetta una riunione straordinaria quella sera, a cui doveva partecipare obbligatoriamente. Gli avevano consegnato l’invito, su cui c’erano scritte l’ora della riunione, il luogo – la scuola – e un simbolo – una stella ad otto punte e delle scritte in una lingua a lui sconosciuta racchiuse all’interno di un doppio cerchio.

«Che cosa significa questo simbolo?», aveva chiesto a Kim, ma né lei né Raphael avevano saputo rispondere.

Quando se n’erano andati non aveva perso tempo a cincischiare, era sceso sulla Terra e la sua prima tappa era stata la casa di Bill e Evelyn, principalmente per due motivi: voleva rivedere il campo di battaglia alla luce del sole e voleva rassicurare Evelyn, dicendogli che stava bene; almeno fisicamente.  
Appena era entrato nel raggio di azione dei suoi pensieri, però, aveva avuto la tentazione di scappare: quella volta nulla le avrebbe impedito di parlargli di Martin, anche perché aveva tutte le intenzioni di andarci a parlare quel pomeriggio.

Atterrato nel giardino aveva visto il luogo in cui lui e Lilith avevano combattuto e per un attimo aveva rivissuto tutto quanto, sentendo di nuovo sulla pelle quella forza così buona e pura che l’aveva avvolto. Quella sensazione svanì presto, perché entrarono in gioco anche i pensieri di Bill, che l’aveva notato e lo stava guardando dalle porte finestre della cucina.
Venne così a sapere che aveva visto lui ed Evelyn abbracciati quella notte, che aveva origliato la telefonata che lei aveva fatto a Tom per informarlo di ciò che era accaduto e che si era fatto i suoi bei conticini che non lo tranquillizzarono per niente. Ci mancava solo che Bill scoprisse quello che c’era stato fra lui e sua figlia!

Si fece coraggio ed entrò in casa, percepì che Evelyn si trovava nella sua camera e con tutta calma andò da Bill, sorridendogli.

«Stai bene?», gli domandò subito.

«Sì… Tu?».

«Mi sono ripreso. È stata dura, ma ce l’ho fatta alla fine, hai visto?».

«Già… Grazie, Franky».

«Non ringraziarmi, davvero». Gli diede una pacca sulla spalla, ma il frontman lo attirò in un abbraccio stretto e allo stesso tempo preoccupato. Franky riuscì a sentire ogni singola emozione che attraversava le cellule dell’amico e si sentì piccolo piccolo fra le sue braccia, impreparato di fronte a tutte le sue silenziose domande, a cui non rispose.

«Ora… ora devo andare», balbettò l’angelo, liberandosi dal suo abbraccio. Lo guardò negli occhi, incerto se dire qualcosa o meno; preferì il silenzio ed uscì dalle porte vetrate, per poi spiccare il volo dal centro del giardino.

Atterrò sulla terrazza che dava sulla camera di Evelyn e la vide mentre si toglieva la maglietta del pigiama e rimaneva a schiena nuda. Incapace di schiodare lo sguardo da lei, venne colto in flagrante, ma Evelyn non si fece tanti problemi, anzi accennò un sorriso e continuò a svestirsi sotto i suoi occhi. Si tolse i pantaloni del pigiama, rimanendo in slip, ed afferrò il reggiseno che aveva lasciato sul letto. Se lo infilò e al momento di allacciarlo sentì due mani posarsi sulle sue e guidarle per riuscirci subito. La ragazza sollevò lo sguardo sullo specchio e vide l’angelo dietro di sé, che a sua volta alzò gli occhi ed incrociò i suoi, posando il mento sulla sua spalla nuda. Posò le mani sulle sue spalle, le fece scivolare sulle sue braccia, le portò sui suoi fianchi ed accarezzò pure quelli, fino ad arrivare al suo ventre, dove le fece riposare.

Evelyn si girò verso di lui, fece aderire ogni minima parte del proprio corpo al suo, con le braccia strette intorno al suo collo, e piantò gli occhi nei suoi. «Tu mi vuoi far soffrire».

L’angelo abbassò lo sguardo verso il suo piccolo seno e sorrise furbescamente. «Pensavo il contrario».

«Come stai?».

«Sto bene. E tu?».

Dondolò la testa a destra e sinistra, indicando un “così e così”, sospirando. «Devo chiederti una cosa che probabilmente già sai…». Si strinse di più a lui, posando la guancia contro il suo cuore, e venne avvolta anche dalle sue ali candide.

«Sì, la so già», rispose lui con un sospiro. «Vuoi sapere perché l’hai baciato, non è così? Beh… l’hai fatto semplicemente perché in quel momento il tuo cuore ti diceva di farlo. Non l’hai fatto per farmi soffrire, né perché ti faceva pena».

«Mi dispiace così tanto», mormorò. «Sei sicuro che a te vada bene che frequenti Martin? A me farebbe parecchio male…».

L’angelo socchiuse gli occhi e la strinse un po’ più forte a sé. Non puoi nemmeno immaginare quanto mi faccia male. «Tutto quello che mi importa è la tua felicità, questo affievolisce ogni tipo di sofferenza».

«Ma… ma non è giusto», ribatté, fissando i suoi occhi verdi tanto belli da far tremare il cuore.

«È giusto così, invece», accennò un sorriso e posò le mani sulle sua guance, che accarezzò delicatamente con movimenti circolari del pollice. Fece scorrere le dita dalla sua guancia alle sue labbra e le percorse lentamente, rapito dalla loro bellezza semplice. «Un giorno capirai che ho ragione».

Evelyn non era convinta, come l’angelo d’altronde, ma non rispose: era inutile parlare di cosa fosse giusto o sbagliato con lui, perché lui aveva regole di cui lei non vedeva alcuna utilità e che lui invece doveva rispettare. Avevano pensieri e vite diverse, ma non per questo dovevano restare lontani. Ciò che sperava sempre era che la loro amicizia fosse eterna e sempre lì in bilico fra l’amicizia e l’amore.

«Sappi che potrò provare all’infinito, ma non troverò mai nessuno che amerò più di quanto amo te».

L’angelo posò il mento sul suo capo e con un sorriso amaro sulle labbra guardò il cielo fuori dalle portefinestre. «Anche io dicevo così a tua madre…», sussurrò con un fil di voce.

«Hai detto qualcosa?».

«No, nulla».

Si lasciò cullare ancora un po’ dalle sue braccia e dalle sue ali, in silenzio, ascoltando soltanto il suo respiro e i battiti del suo cuore. Poi mormorò: «E se avrò voglia di volare, tu ci sarai?».

Franky la guardò negli occhi e le posò un bacio sulla tempia, per poi affondare il viso fra i suoi capelli.

 

***

 

«Prova ancora, Arthur!».

Il bambino mise la palla di fronte a sé, la tenne ferma con la manina e una volta immobile prese la ricorsa e la calciò con tutta la forza che aveva verso il suo papà.

«Quasi!», gli disse quest’ultimo e fece un passo avanti per poterla rilanciare al figlioletto.

Linda, che seduta su una panchina del parco poco affollato guardava suo marito e suo figlio giocare a pallone, notò poco distante un uomo con in mano una grande macchina fotografica: un paparazzo. Fece per alzarsi, ma scorse la figura di Franky che diede un colpetto alla macchina fotografica del paparazzo, rovinandogli i piani. L’uomo se andò, incattivito dal malfunzionamento del suo aggeggio, e Franky la raggiunse.

«Ciao tesoro», lo salutò la donna, sorridente, coprendosi gli occhi con la mano a causa del sole. «Tom mi ha detto quello che è successo stanotte, come stai?».

«Bene, bene», mugugnò ed infilò la mano nelle tasche del giubbotto di Tom, indaffarato.

«Che cosa cerchi?», gli domandò Linda, con la fronte aggrottata.

«Trovato», esultò con l’accenno di un sorriso, mostrandole il pacchetto di sigarette. Dopodiché si allontanò e salì sui rami della grande quercia, isolata rispetto al resto degli alberi, dove si mise a fumare. Una sigaretta per smaltire la tensione dovuta dal suo nuovo incarico di arcangelo; una per la paura di non riuscire a portare a termine la sua missione più importante, quella di far uscire Zoe dal coma, prima della fine della deroga; una perché bastava tanto così affinché Bill scoprisse tutto quello che c’era stato fra lui ed Evelyn; una perché entro breve avrebbe iniziato di nuovo a sentirsi male a causa della ragazza che amava…

Dalla sua postazione vide Tom correre da Linda per bere un po’ d’acqua insieme a suo figlio e per riposarsi, poi iniziò a cercare il suo pacchetto di sigarette e, non trovandolo, le chiese dove fosse; Linda indicò col capo nella sua direzione e Franky sollevò una mano in segno di saluto, senza nemmeno l’ombra di un sorriso sul volto. Il chitarrista andò sotto la quercia, si guardò intorno e poi alzò lo sguardo su di lui, con le mani sui fianchi.

«Grazie», disse l’angelo, facendogli cadere il pacchetto di sigarette fra le mani.

Tom lo aprì, sentendolo troppo leggero, ed infatti era proprio vuoto. «Mi devi un pacchetto di sigarette», brontolò sbuffando.

 

***

 

«Vado, ma torno prima di cena», disse a suo padre, che annuì sorridente e con una mano alzata.

Evelyn uscì di casa ed andò in garage per prendere il suo motorino. Si allacciò meglio il giubbotto, si infilò il casco e diede gas. Sentì l’aria fredda entrarle nelle fessure della visiera e le piacque, era come l’aria che le aveva frustato il volto quanto aveva volato fra le braccia di Franky.

Arrivò a casa di Martin in poco tempo, ma temporeggiò di fronte al citofono. Non sapeva ancora se stava facendo la cosa giusta, nonostante Franky le avesse fatto capire che sì, lo era. Eppure, anche le sue parole le erano sembrate false: era davvero possibile che l’angelo le desse un parere così oggettivo, senza essere minimamente influenzato dal suo amore? Non ci credeva. Dentro di sé, in un angolo remoto della sua anima, sapeva che Franky l’aveva spinta verso Martin solo perché era la cosa “giusta” per lui – che lei stesse con un essere umano vivo – benché a lui facesse più che male vederla fra le braccia di un altro. E lo stesso sarebbe successo a lei, anche se non era così certa che avrebbe avuto la forza necessaria a spingerlo nelle braccia di una ragazza della sua stessa “specie”.

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, poi trovò il coraggio per premere il pulsante accanto al cognome della mamma del ragazzo, la cui voce gracchiante rispose: «Sì, chi è?».

«Ehm… sono Evelyn, un’amica di Martin».

Con uno scatto secco il cancelletto si aprì ed Evelyn entrò. Percorse il vialetto tenendo lo sguardo basso e salutò la donna che l’aspettava sull’uscio. Era così tenera e dolce, non poteva nemmeno pensare che un tempo avesse subito delle violenze da suo marito.

«Sicura di non volere niente?», le domandò ancora una volta, premurosa.

«Sicurissima, grazie», rispose sorridendo.

«Allora vado a chiamare Martin, è in camera sua a studiare. Arrivo subito».

Si incamminò su per le scale e la bionda la seguì con lo sguardo, infilandosi le mani nelle tasche e stringendosi il collo fra le spalle. Sentì la voce della donna parlare al figlio, ma non vide la sua figura seguirla per tornare nel piccolo salotto. Evelyn abbassò lo sguardo, sentendosi piccola e stupida.

«Non fa niente, è comprensibile che non mi voglia più vedere», disse più a se stessa che alla madre di Martin.

«Tesoro…», le posò una mano sulla spalla e con l’altra le tirò su il mento per guardarla negli occhi coi suoi scuri. Un sorriso affettuoso le incurvava le labbra. «Ti aspetta di sopra».

La guardò stupita, ma non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a salire le scale. Al piano di sopra, tutto il coraggio che aveva avuto fino a quel momento scemò e si strinse le braccia al petto, come a volersi proteggere. Si avvicinò all’unica porta aperta, vi sbirciò all’interno e vide Martin seduto su una sedia girevole, con gli occhi chiusi rivolti al soffitto e le mani dietro la nuca.

Evelyn si schiarì la voce, imbarazzata. «È permesso?».

Il ragazzo abbassò lo sguardo su di lei ed annuì greve. C’era qualcosa di diverso in lui, di più duro, come se avesse costruito un muro di diffidenza di fronte a lei. Doveva avergli fatto parecchio male.
Entrò nella camera e non osò chiudere la porta; lo fece Martin e gli capitò di sfiorarla, ma non reagì come lei si sarebbe aspettata di vedere, con il rossore sul viso e l’imbarazzo sempre crescente: era un pezzo di ghiaccio.

«A cosa devo la tua visita?», le domandò sedendosi sul suo letto, con le spalle contro la parete.

«Volevo chiederti scusa per quello che è successo l’ultima volta che ci siamo visti. Tu hai frainteso le mie parole, sei arrivato a delle conclusioni che non sono…».

Martin la interruppe, adirato: «Ho frainteso? Non raccontarmi cazzate, per favore».

Evelyn si mise seduta timorosa al suo fianco, sospirando stancamente. Le faceva male vederlo così, le faceva male pensare che era stata lei a renderlo così cattivo. «Quella sera c’era un’atmosfera particolare, lo riconosco, ma non è stato questo ad indurmi a lasciarmi baciare e a baciarti. L’ho fatto perché il mio cuore mi diceva di farlo». Accennò un sorriso, ripetendo le parole di Franky. «Come tu mi hai raccontato che sentivi dentro di te quella voce che ti spingeva a fare cose che non avresti mai fatto, che ti spingeva verso di me… è successa la stessa cosa a me».

«Perché quella sera sì e il giorno dopo no, allora?». La sua voce aveva perso aggressività, c’era solo dispiacere, tanto dispiacere.

«Non lo so perché, non me la sentivo come me l'ero sentita la sera precedente e… mi dispiace così tanto, Martin. Mi dispiace che tu ci sia stato così male, io non volevo farti soffrire. Mi puoi perdonare?».

Il ragazzo la guardò negli occhi e lentamente un sorriso si disegnò sulle sue labbra. «Non aspettavo altro…».

Evelyn, sollevata, sorrise di gioia e lo strinse forte a sé, posando il viso nell’incavo della sua spalla. Era diverso rispetto a quello della spalla di Franky, ma ci si trovava ugualmente bene.

Si scostarono un poco l’uno dall’altro, si guardarono negli occhi e quella volta fu più che naturale far incontrare le loro labbra in un bacio.

 

***

 

«Ah, merda», biascicò Franky, con la fronte imperlata di sudore. Si appoggiò al bordo del letto, si chinò a terra e tirò fuori la valigetta nera, l’aprì e ne estrasse una siringa dal contenuto turchese.

Si lasciò cadere culo a terra, si sollevò la manica della felpa e si iniettò il liquido nel braccio. Ci volle qualche minuto prima che avesse effetto su di lui, ma pian piano il suo respiro si regolarizzò, i battiti del suo cuore diminuirono e la sua mente smise di ricevere qualsiasi informazione proveniente dal corpo e dalla testa di Evelyn. Alla fine era andata da Martin e, da quanto aveva capito e sentito come dolore all’anima, avevano fatto pace.

«Franky, sei andato via all’improvviso, va tutto bene?».

L’angelo cacciò sotto al letto sia la siringa vuota che la valigetta, ma Tom lo vide comunque e rimase paralizzato sulla soglia, sconvolto.

«Che cos’era quella?», domandò con un fil di voce.

«Cosa?», fece finta di niente Franky.

«Quella cosa che avevi in mano, quella… siringa».

«Nulla. Hai le traveggole».

Un’espressione adirata prese possesso del volto di Tom, che marciò verso di lui, lo spostò con poca delicatezza e sollevò bruscamente le coperte del letto per vedere sotto di esso. Tirò fuori la siringa vuota e la valigetta, che posò sul letto ed aprì: vide tante siringhe come quella che ancora teneva in mano, solo piene di un liquido turchese. Ne mancavano due all’appello.

Franky si portò le mani sulla testa china, chiudendo gli occhi e svuotando i polmoni di tutta l’aria che aveva trattenuto dentro di loro fino a quel momento.

«Che cosa cazzo sono queste?!».

«Non sono cose che ti riguardano», rispose debolmente.

«Non sono cose che… Ma stai scherzando?!», gli levò le mani dal viso e si chinò per guardarlo negli occhi da vicino: si accorse dei suoi occhi azzurri, quasi finti, e la delusione si attardò anche sulle sue labbra, oltre che nel suo sguardo. «Sono queste che ti fanno venire gli occhi azzurri, ora è tutto chiaro. Perché le usi? A che ti servono?».

«Ti ho detto che non sono cose che ti riguardano», ripeté con fermezza, evitando di guardarlo negli occhi, ma il chitarrista lo afferrò per i capelli e gli tirò indietro la testa per costringerlo a farlo.

«Dimmelo», gli sussurrò all’orecchio. Franky non si mosse di un centimetro, chiuse gli occhi per celare le lacrime e serrò ancora di più le labbra. Tom allora lo lasciò andare e fece per andarsene, quando lo sentì dire: «A causa di Evelyn».
Si voltò, stupefatto, e dopo qualche secondo di silenzio tornò dal suo migliore amico, si mise seduto al suo fianco e raccolse la sua testa sulla spalla.

«Quando siamo stati insieme, ci siamo scambiati un pezzo d’anima, come già sai. Con la mia lei riesce più o meno a vedere angeli e spiriti che normalmente non potrebbe vedere; io, con la sua dentro di me, sono sempre costantemente collegato al suo corpo e alla sua mente, anche quando, per esempio, bacia Martin. Questo farmaco mi anestetizza l’anima, non mi fa sentire nulla, e non provo più dolore».

«E non… non puoi riprenderti il tuo pezzo di anima e ridare a lei il suo, se ti fa così male?», gli chiese, gesticolando nervosamente.

Franky scosse il capo. «Non ne sa nulla lei. E non avresti dovuto saperne nulla neppure tu».

«Tu non devi nascondermi nulla Franky, nulla. Ci siamo capiti bene?», lo guardò negli occhi e l’angelo rimase in silenzio, colpito dall’intensità del suo sguardo e allo stesso tempo turbato perché c’era un’altra cosa, il suo futuro di arcangelo, che gli teneva nascosto. «Se c’è qualcos’altro che devi dirmi e di cui mi tieni all’oscuro, è l’ora di rendermi parte della tua vita».

Mi dispiace, Tom. «No, non c’è nient’altro che non sai», disse abbassando lo sguardo sulle sue ginocchia.

Il chitarrista lo abbracciò e gli accarezzò i capelli, in un modo così affettuoso e comprensivo che fece capire all’angelo che aveva fiutato la sua ennesima bugia. Poi gli prese il volto fra le mani e con quell’inusuale dolcezza gli posò un bacio sulla fronte, tenendolo ancora stretto a sé.

«Non è ancora arrivato il momento degli addii, riserbati queste smancerie», disse a fatica Franky, a causa del groppo che aveva in gola per la commozione.

«Tu non fai mai sembrare gli addii tali, tanto vale salutarti per bene prima che tu possa andartene», mormorò.

Si lasciò convincere dal suo migliore amico ed abbandonò la testa alla sua spalla, come un bambino colto dal sonno fra le braccia del suo papà.

 

***

 

Sull’uscio di casa salutò Martin con un ultimo bacio a fior di labbra, poi percorse il vialetto ed uscì dalla proprietà privata. Salì in sella al suo motorino color perla, si infilò il casco e diede gas in direzione dell’ospedale.

Aveva passato davvero un bel pomeriggio con lui, si era sentita sicura fra le sue braccia, coi suoi baci e le sue carezze, e per un po’ aveva dimenticato tutto quanto. Ma ora che si trovava di fronte alla struttura in cui sua madre dormiva quel sonno profondo da parecchi mesi, il masso che le pesava sulle spalle era tornato a farsi sentire.

Entrò e come d’abitudine camminò a passo lento ed incerto verso il reparto in cui era ricoverata sua madre. Arrivò di fronte alla porta e all’interno vide Franky, che si apprestava a sdraiarsi affianco al suo corpo immobile. Lo guardò stringersi a lei, con una mano sul suo petto e la fronte che toccava la sua tempia, e ad occhi chiusi avvolgerla in una specie di bolla nella quale soffiava una specie di vento benefico di un verde brillante. Quindi era grazie a lui e alla sua terapia se la sua mamma aveva fatto parecchi miglioramenti in quell’ultimo periodo…

Entrò nella stanza senza fare rumore e con la stessa attenzione chiuse la porta alle sue spalle. Si avvicinò al letto della madre e Franky aprì gli occhi, quegli occhi strani, azzurri, che la osservarono quasi con sospetto.

«Devo andarmene?», gli chiese in un sussurro.

«No… resta». Accennò un sorriso, pensando che erano così poche le volte in cui era lui a fare quella richiesta.

Evelyn rimase, si mise seduta sulla sedia accanto al suo letto e guardò quel flusso di energia scivolare sopra il corpo di sua madre in un moto continuo, sempre in ripetizione. Avvicinò la mano, incuriosita, ed appena sfiorò la superficie della bolla delle scintille le colpirono le dita, come una specie di attrito. La ritrasse immediatamente, spaventata, e rivolse uno sguardo a Franky, che aveva guardato tutta la scena con un certo interesse.

«Rifallo», la incitò. «Non aver paura, non ti succede niente. Lasciati andare».

La ragazza non scostò lo sguardo da quello dell’angelo e riavvicinò la mano al flusso, quella volta la immerse completamente, nonostante sentisse un certo sfrigolio sulla pelle, ma dopo un po’ le risultò piacevole e chiuse gli occhi. Franky le prese la mano e la strinse forte nella sua sul petto di Zoe. Quello che provocò l’unione delle loro mani al flusso di energia fu strabiliante: la bolla cambiò colore, da verde brillante divenne quasi dorata, ed emanò un’energia potentissima che da solo Franky non sarebbe riuscito ad esternare nemmeno con tutta la sua buona volontà.

Meravigliato dalla loro potenza guaritrice sollevò gli occhi su Evelyn ed anche lei li aprì, chiamata dai suoi; si guardarono intensamente e si sorrisero.

Nel cuore Franky iniziò a coltivare una speranza per quell’idea folle – che eppure sembrava maledettamente giusta – che forse avrebbe potuto svegliare dal coma la sua protetta.
Quando la bionda, qualche tempo dopo, gli avrebbe chiesto che cosa era successo, non sarebbe riuscito a rispondere, però era assolutamente certo che la soluzione al problema che stava cercando di risolvere da mesi senza successo era proprio sotto i suoi occhi.

 

***

 

Guardò di fronte a sé l’edificio imponente che conosceva così bene e un sorriso gli incurvò le labbra all’insù, mentre una marea di ricordi gli affollavano la mente: alcuni belli, altri un po’ meno, ma tutti con un significato profondo che serbava gelosamente nel cuore. Lì aveva mosso i primi passi dopo la morte, lì aveva incontrato San Pietro, il suo mentore; lì aveva conosciuto Kenzie e Norbert, i suoi compagni di avventura prima che diventasse un angelo custode; lì era diventato professore, aveva fatto da guida ai futuri angeli custodi… E il destino lo portava ancora lì, nel buio della notte, con quell’invito in mano e la certezza che da quel momento in avanti la sua vita sarebbe cambiata ancora una volta.

Si decise ad entrare, traendo un respiro profondo, e si accorse di quanto sembrasse spettrale la scuola a quell’ora di notte: era tutto buio, quel poco che si vedeva era grazie alla luce della luna che entrava dalle ampie porte vetrate alle sue spalle. Raggiunse il centro esatto della scuola, il punto in cui tutti i corridoi si incontravano e dal quale si vedevano tutte e quattro le uscite, una per punto cardinale. Quello era il punto più illuminato in assoluto, anche grazie alla luce al neon della porta di sicurezza non molto lontana da lì.

Sfruttando la luce lì presente, tornò a guardare l’invito che gli era stato consegnato. Non c’era scritto nulla che gli potesse essere d’aiuto, a parte quello strano simbolo con la stella ad otto punte, a cui però non sapeva dare un significato. Lo guardò più attentamente e si rese conto che non gli era nuovo, solo che… dove l’aveva visto?

Rimase a rifletterci per qualche minuto, poi spazientito appallottolò il foglio e alzò lo sguardo per gridare contro quel Dio che a volte sembrava davvero volersi prendere gioco di lui, quando, proprio sul soffitto, vide sette simboli simili al suo, disposti a cerchio; sopra ognuno di loro c’erano altri simboli, più stilizzati e comprensibili: c’erano il fulmine di Giove, la falce di Saturno; c’erano il simbolo maschile e quello femminile, che se non ricordava male corrispondevano a Marte e a Venere; c’era il simbolo di Mercurio, l’elmetto e il caduceo; e per finire c’erano una luna e un sole.

«I simboli dei sette arcangeli», mormorò rapito, con la testa ancora rivolta verso l’alto, là dove nessuno osava guardare più di tanto. A lui una volta era capitato, si era trovato lì sotto ed era rimasto per un bel po’ di tempo ad osservare quegli strani simboli, senza mai capirne il significato. Adesso lo sapeva ed era tutto chiaro.

Con un colpetto di ali si sollevò da terra e toccò quello che doveva essere il suo simbolo, il sole. Percorse il cerchio contenterete la stella ad otto punte con i polpastrelli e dopo aver fatto un giro completo questo si illuminò, accecandolo, e la parte di soffitto ricoperta da quelle incisioni si aprì, scorrendo di lato. Cercò di guardare oltre quella luce abbagliante e la prima cosa che vide fu un viso amichevole, sul quale erano incastonati due occhi grandi color cioccolato, e una mano fine che gli diceva di farsi aiutare. Franky l’afferrò senza farsi troppe domande ed entrò nella stanza nascosta, il passaggio sotto di sé si richiuse e solo in quel momento ebbe l’opportunità di vedere dove si trovava: non era tutto soffuso di luce bianca come aveva immaginato, era una grande stanza sovrastata da una grande cupola affrescata e che al posto delle pareti aveva grandissime vetrate che davano sul… sul mondo. Di là c’erano l’Europa e la Russia, di là l’Africa, da una parte l’Asia, da un’altra l’Oceania, e poi l’America e l’Antartide. Era del tutto irrazionale, ma da quella stanza si potevano vedere tutti i continenti, tutti gli oceani… si vedeva il mondo intero.

Con l’oscurità della notte era tutto ancora più bello, perché tutte le luci del mondo risplendevano e si potevano notare quegli strani fasci di luce che si spostavano da una parte all’altra… Angeli?

«Bella vista, non trovi?».

Franky, ancora sbigottito, si voltò e vide lo stesso volto tenero e dalle guance un po’ paffute che l’aveva aiutato ad entrare. Apparteneva ad una ragazza dai capelli castani e la pelle pallida come la luna, gli occhi color cioccolato simili a specchi lucenti. Era però un po’ più piccola di quanto si aspettava, visto che al massimo raggiungeva gli ottanta centimetri, e, cosa ancora più sconvolgente, aveva le ali di una farfalla bianca sulla schiena, con le quali si librava a mezz’aria per poterlo guardare negli occhi.

«Io sono Inge, piacere», gli porse la mano sorridente e Franky la strinse incerto e confuso. «Sono sicura che ti starai domandando che cosa sono, quindi ti accontento: sono una chimera parlante. Di solito le chimere non parlano, Zeus mi ha donato l’uso della parola perché sono la segretaria ufficiale degli arcangeli e mi occupo anche dell’accoglienza dei nuovi arrivati. Non che ce ne siano molti, insomma… hai capito, no? Comunque sono contenta che tu sia arrivato, ti aspettavamo. Vuoi presentarti?».

«Io… io mi chiamo Franky».

La ragazza scoppiò a ridere ed insieme a lei anche una ragazza dalla bellezza sorprendente, seduta sul bracciolo di una delle sette poltrone di pelle disposte nel bel mezzo della stanza, a cerchio intorno ad un tavolo di legno bianco rotondo. Quest’ultima aveva lunghissimi capelli biondi che teneva sciolti sulla schiena, un viso dolcissimo e due occhi penetranti ed incantevoli, trasparenti come l’acqua più limpida. La maggior parte dell’attenzione in quella stanza era posata su di lei, anche se il ragazzo seduto sulla stessa poltrona le teneva saldamente la vita con un braccio, ad indicarne il possesso, e si guardava intorno burbero ed infastidito.

«Noi solitamente tendiamo a chiamarci coi nomi dei nostri lumi», gli spiegò la ragazza bionda.

Inge gli prese una mano e lo invitò ad avvicinarsi al centro dell’ampia stanza.
«Lei è Afrodite, come avrai immaginato», gli presentò la ragazza bionda e lei, che rappresentava la dea dell’amore e della bellezza, gli rivolse uno sguardo gentile e gli strinse la mano con un piccolo inchino della testa. Era davvero affascinante.

«Scusa, Inge», disse Franky imbarazzato, toccandole un braccio.

La chimera si voltò verso di lui, sorpresa: non era ancora arrivata il momento delle domande! «Sì, che c’è?».

«Ecco… San Pietro mi aveva anticipato i nomi dei sette lumi, solo… romani. Voi invece vi chiamate con i nomi degli dèi greci?».

«Oh!». Si lasciò andare ad una risatina, coprendosi la bocca con una mano. «Sì, ognuno si è scelto il nome che preferiva tra quello romano e quello greco. Io comunque trovo che quelli greci siano più interessanti. Ora continuiamo le presentazioni.
«Questo simpaticone qui è Ares», indicò il ragazzo dai capelli e gli occhi neri e la carnagione scura che stringeva a sé Afrodite. Era l’esatto opposto della ragazza, persino nella mitologia (lui rappresentava il dio della guerra, conosciuto come Marte fra gli antichi romani), eppure… Con sguardo eloquente, Inge aggiunse: «Lei è la sua amante, quindi cerca di non guardarla troppo, o potrebbe staccarti una gamba a morsi».

«Mi chiedo ancora perché non abbia già sbranato la tua», le rispose stizzito Ares, con un sorriso tiratissimo sulle labbra.

«Perché lo sanno tutti che ti fai vedere tanto cattivo e duro ma alla fine sei un piccolo e delicato fiorellino…».

«Smettila, Inge!», abbaiò, evidentemente in imbarazzo.

Afrodite intervenì per rabbonire il compagno e gli accarezzò il viso: «Su amorino, non prendertela, lo sai com’è fatta».

La segretaria ridacchiò e continuò con le sue presentazioni. Lo trascinò di fronte ad un ragazzetto magro e alto, forse un po’ troppo, che gli sorrise ingenuamente porgendogli una mano. «Lui è Ermes».

Nell’udire quel nome, Franky abbassò subito gli occhi per vedere se ai piedi indossava i famosi sandali d’oro con le ali, tanto noti a tutti. Fu una vera delusione vedergli portare un paio di Nike, anche se verdi fosforescenti.

La chimera, che non si era accorta di nulla, sottovoce aggiunse: «Non farti ingannare dall’apparenza, potresti rimanerne sconvolto quando lo sentirai parlare».

Accanto a lui si trovava un ragazzo dalla corporatura un po’ robusta, dai capelli castani e il volto bonario. Gli ricordava in parte San Pietro e sorrise, stringendogli la mano mentre si presentava come Saturno. Lui era l’unico che avesse preferito il nome del dio romano, gli spiegò, perché il dio greco che gli corrispondeva era profondamente diverso da lui: Crono, il dio del tempo e, pensa un po’, il padre di Zeus, dio degli dèi.

«E per concludere… ecco Zeus», disse Inge, aprendo le braccia ed avvolgendo l’ultimo ragazzo rimasto, una specie di armadio con i riccioli biondi e gli occhi verdi.

«Come preferisci che ti chiamiamo?», gli domandò con voce possente, sorridendogli con pienezza.

«Io… dovrei scegliere fra…?».

«Uhm», la chimera, svolazzando da una parte all’altra intorno a lui, sfogliò un blocchetto di appunti fino a trovare la storia dei suoi predecessori. «Puoi scegliere fra Apollo, dio del Sole; Helios, nome vero e proprio del sole nell’antica Grecia; oppure semplicemente Sole».

«Ahm… tenere il mio nome normale non è proprio possibile?». Nessuno di quei nomi se lo sentiva proprio, anche se non si vedeva male a bordo del cocchio solare di Apollo.

«E Franky sia», decretò Zeus, dandogli una pacca sulla spalla che gli fece schizzare gli occhi fuori dalle orbite, ma nessuno a parte Inge se ne accorse. Tutti si stavano sistemando intorno al tavolo di legno bianco per iniziare quella famosa riunione, poiché, da quello che aveva detto Zeus subito dopo i convenevoli, avevano poco tempo: anche i serafini avevano prenotato l’aula e si sapeva, loro non amavano aspettare, soprattutto non amavano aspettare gli arcangeli.

«Se solo potessi li sistemerei io quei serafini lì! Ma chi si credono di essere?!», strepitò Ares, infervorato.

Inge si sporse verso l’orecchio di Franky e gli sussurrò: «Sai, c’è sempre stata una grande rivalità fra arcangeli e serafini, per il posto che ricoprono: c’è chi dice che gli arcangeli siano quelli più vicini a Dio e i più potenti, chi dice che invece siano i serafini… E poi Ares, scontroso com’è, salta sempre per un nonnulla», ridacchiò. «Dai, andiamo a sederci anche noi». Lo trascinò al tavolo e lo fece sedere sulla poltrona riservata a lui; lei invece si posò con grazia sull’apice del suo schienale.

Guardò Inge e Zeus scambiarsi uno sguardo di intesa prima che lui desse il via libera a Ermes, che si alzò in piedi.
«Ma anche tu e Zeus siete fidanzati?», chiese sottovoce alla sua vicina, nonostante gli sembrasse parecchio improbabile: la chimera era un moscerino in confronto a quella montagna di muscoli e riccioli d’oro!

Lei lo fissò con gli occhi leggermente sgranati: «Ma sei fuori?! Lui è il capo, una specie di fratellone per tutti, anche per me, è per questo che prima l’ho abbracciato! E poi, detto sinceramente, è meglio ricoprirlo di coccole: tu non hai idea di come sia, quando gli girano i cinque minuti».

L’Arcangelo del Sole se lo immaginò con le famose saette in mano, pronto a scagliarle contro di loro, fino a quando Ermes non si schiarì la voce per attirare anche la loro attenzione, poi iniziò ad esporre le problematiche che avevano dovuto affrontare quella settimana, come le avevano risolte e dove potevano ancora migliorarsi.

Franky capì quello che gli aveva detto Inge poco prima appena lo sentì parlare. All’inizio gli era sembrato subito un tipo un po’ allampanato, ma gli era bastato sentire la sua voce calda e rassicurante, che ispirava intelligenza ed arguzia, per cambiare del tutto opinione. E poi, doveva dirlo, come parlava lui non aveva mai sentito parlare nessuno: aveva la capacità di attirare tutta l’attenzione su di sé, aveva il dono della sintesi e della chiarezza, ma non trascurava mai la completezza delle informazioni. Non a caso Ermes, nella mitologia, era il messaggero degli dèi, nonché il dio dell’eloquenza e del commercio. Con un discorso ben ragionato sarebbe riuscito persino a fargli vendere le ali.

Quando Ermes finì di parlare, si risedette al suo posto e lasciò la parola a Zeus, che tornò a condurre la riunione. Fece passare delle fotocopie e anche Franky ne prese una, la esaminò incuriosito e si rese conto che era il programma per la settimana successiva: c’erano scritte, giorno per giorno, tutte le situazioni sulle quali, prudenzialmente, dovevano gettare un occhio. Terremoti, maree, valanghe, scioglimento di ghiacciai, incendi, ma anche potenziali guerre che potevano scoppiare da un momento all’altro, fame, siccità… non mancavano alla lista.

Franky sentì il peso di tutte quelle responsabilità cadergli sulle spalle e bloccargli la gola con un grosso nodo. Inge se ne accorse e gli levò il foglio da sotto gli occhi, dandogli un coppino.

«Ahia», si lamentò lui, guardandola stupefatto.

«Tu sei ancora in deroga, perché l’hai preso?», disse severa, ma un secondo dopo gli sorrise e gli accarezzò il punto in cui l’aveva colpito: «Non ti preoccupare, non è così difficile come sembra».

Peccato che a lui sembrasse tutto il contrario: lottare contro i fenomeni naturali e i mali compiuti dall’uomo stesso era un enorme responsabilità, oltre che un rischio. E se avesse fallito? Quante vite sarebbero andate perse, quante persone avrebbero sofferto a causa del suo insuccesso?

«Davvero, non preoccuparti», insistette lei, tornando ad osservare il programma.

«Franky». L’Arcangelo del Sole alzò il capo ed incontrò lo sguardo paziente e comprensivo di Zeus. «Tu ha la deroga per rimanere ancora per un po’ un semplice angelo custode, ma sarebbe meglio che tu iniziassi a passare un po’ di tempo con noi, giusto per vedere come lavorano gli arcangeli».

«Certo, nessun problema», rispose, anche se un po’ titubante.

«Sei affidato a Inge, in questo periodo. Quando sarai a tutti gli effetti un arcangelo e quando avrai imparato abbastanza, sarai come tutti noi e poi, quando comparirà l’ultimo arcangelo, quello della Luna, sarai tu a dovertene occupare».

Franky guardò la ragazza al suo fianco, che gli sorrideva. «Perché?», chiese ingenuamente.

«Perché il sole e la luna sono complici dalla notte dei tempi, è la tua compagna naturale», rispose allargando le braccia, divertito. «Tutti noi lavoriamo in coppia: Ares e Afrodite, Saturno e Ermes, tu e Selene…».

Franky immaginò che Selene fosse il nome greco della dea della luna e non chiese spiegazioni, anche perché aveva qualcos’altro di più importante da far notare.
«Manchi tu».

«Come?».

Franky lo indicò. «Tu sei da solo».

«Io faccio le veci di tutti voi». Zeus sorrise, ma bastava veramente poco per capire che quel sorriso era segnato dall’amarezza di non poter condividere il proprio lavoro con un compagno o una compagna.

Qualcuno bussò violentemente sulla botola e tutti quanti sentirono le stesse urla rimbombare nelle loro teste: i serafini, che protestavano contro la durata prolungata della loro riunione; era il loro turno ormai, dovevano andarsene.

«Ma perché devono venire anche loro proprio in questa stanza? Non ho visto nessun simbolo che riguardasse il loro ordine…», disse Franky, alzandosi insieme a tutti gli altri.

«La loro sala riunioni ha subìto un guasto, lo scorso mese. Le riparazioni non sono ancora iniziate, c’è crisi», gli spiegò Saturno, con il riso sulla bocca. «Noi siamo buoni e gli lasciamo usare la nostra».

«Troppo buoni», ringhiò Ares. «In più che gliela facciamo usare, si alterano così!?».

Afrodite gli accarezzò il braccio. «Shhh, amore, a cuccia».

«Piantala anche te!».

Franky iniziò a ridere, prima timidamente, poi sempre più forte, contagiando tutti quanti; persino il restio Ares si lasciò contagiare dalla sua… solarità.

Aprirono la botola dall’alto e videro sotto di loro uno stuolo di angeli dalle tuniche bianche, che aspettavano spazientiti.

«Ce ne avete messo di tempo!», esclamò il capo dei serafini, guardando Zeus sprezzante. Quest’ultimo non lo calcolò, però lanciò la frecciatina dicendo ai suoi arcangeli di tenere fermo Ares, prima che balzasse addosso a qualcuno di loro e gli rovinasse la tunica.

L’arcangelo rappresentante il dio della guerra sghignazzò e lo stesso fece Franky, divertito da tutta quella strana situazione, fino a quando non andò a sbattere contro la spalla di un serafino: alzò lo sguardo per vederlo in faccia ed entrambi rimasero senza fiato guardandosi negli occhi. Non si erano mai visti, o almeno Franky non aveva mai visto lui, ma era certo, era sicuro al cento e uno per cento, che quello fosse proprio…

«Sole, andiamo! Non ti dispiace se ti chiamo così, vero?», gridò Inge, ferma in mezzo al corridoio che portava all’uscita sud, rivolta verso di lui. «Ehi, Franky!».

Il serafino, all’udire il nome del ragazzo, spalancò ancora di più gli occhi e mormorò: «Franky… sei proprio tu?».

La piccola chimera si avvicinò, non capendo che cosa stesse succedendo, e li guardò entrambi con le mani sui fianchi: «C’è qualcosa che non va?».

«N-No, nulla», balbettò Franky, prendendo la mano di Inge e trascinandosela dietro, allontanandosi in fretta da quell’uomo, da quel passato e da quel dolore che non credeva di dover riprovare ancora dentro di sé come quando era stato ragazzino.

Sentì la sua voce chiamarlo col suo nome completo ma, già lontano, non si girò. 

 

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Ehiiii, ciao gente :D 

Allora, che dire di questo capitolo? C'è una grande novità, la più importante: Franky ha scoperto di essere l'Arcangelo del Sole! *o* Che bello, sono così orgogliosa di lui!! Ha eliminato dalla faccia della Terra Lilith, uno dei demoni più potenti in circolazione, ha liberato Bill... ha anche già incontrato i suoi nuovi colleghi e anche i serafini, tra cui anche uno strano personaggio di cui non si sa ancora l'identità... secondo voi chi potrebbe essere? u.u
Per quanto riguarda Evelyn, ha chiarito sia con Franky che con Martin. L'unica cosa che mi dispiace è che sia sempre Franky a rimetterci ç_ç 
Ah, prima che mi dimentichi: Evelyn ha fatto due cose un po' "anomale" in questo capitolo o.o La prima: ha fatto svegliare l'arcangelo che era in Franky. La seconda: ha aumentato la potenza della bolla guaritrice di Franky. Certo che quei due insieme sono proprio formidabili... Chissà come mai xD
Mmh, poi c'è da discutere sulla questione: Bill sa o non sa di Franky ed Evelyn? Forse sì, forse no, forse fa finta di non sapere u.u bah xD
E Tom ha scoperto la "medicina" di Franky... quella scena mi piace proprio tanto, come tutte quelle in cui ci sono i miei due prediletti *w* Sono tenerissimi.

Bene, spero che vi sia piaciuto e che lascerete qualche recensione per dirmi che ne pensate degli ultimi fatti e del capitolo in generale! ;D 
La canzone che ho usato è Invincible, di Tinie Tempah ft. Kelly Rowland.
Invece, le fonti da cui ho preso tutte le informazioni riguardanti i sette arcangeli e gli dèi greci e romani (tutte le mie passioni *o*), sono la fantastica Wikipedia e poi un libro davvero bello intitolato "Omicidio in Paradiso" di Bernard Werber (consiglio di leggerlo xD)! 

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e tutti quanti :)
(PS: Ci stiamo avvicinando alla fine. Un'altra voltaaa T_____T)

Alla prossima! Con affetto, vostra

_Pulse_ 

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Capitolo 22
*** Come back ***


Allora, ho due cosucce da dirvi :) (Che questo è il penultimo capitolo non lo dico, tanto lo sapete già. Doh >_<)
1. Se cliccate sul link in blu qui sotto, vedrete la terza ed ultima locandina di questa fanfiction, only for you *.*
==> Locandina n°3
2. Se volete esprimere il vostro parere su quale sia la più bella fra le tre potete farlo, oltre che nelle recensioni, anche nella mia pagina di Facebook chiamata proprio _Pulse_ , sulla quale troverete tutte le altre locandine, le foto che potrebbero riguardare altre fanfiction, gli aggiornamenti dei capitoli (per ora è un po' vuota, ancora working in progress, ma ci riferemo nel tempo!)... Insomma, un modo come un altro per rimanere aggiornati sulle mie cose e magari chissà lasciarmi qualche vostro parere nella bachechina *-* Sarò più che felice di rispondervi! :D 
Il link è questo ==> Pagina facebook di _Pulse_ 
Va bene, ho detto tutto xD Grazie dell'attenzione :)
Buona lettura!! :D

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22. Come back

 

«Buongiorno, tesoro!».

Linda entrò nella stanza di Franky e spalancò le finestre per far entrare un po’ d’aria buona, nonostante fosse solo febbraio e non facesse per niente caldo. Quel giorno però c’era il sole, tanto che se non ci fosse stato quel freddo si sarebbe chiesto se fosse già primavera. 
L’angelo si coprì gli occhi con il cuscino, infastidito dalla luce, ed infreddolito si coprì fin sotto al mento col piumone.

La donna, ai piedi del letto, si portò le mani sui fianchi e lo guardò divertita: «Non pensi sia ora di alzarsi?», gli domandò.

Franky mugugnò, scuotendo senza energie il capo. Probabilmente era davvero l’ora di alzarsi, però Linda non poteva sapere che erano ormai settimane che faceva continuamente le ore piccole, dividendo il suo tempo notturno tra il corpo di Zoe e le missioni affidate agli arcangeli e a cui doveva assistere – e a volte anche dare il proprio contributo – per iniziare ad abituarsi alla loro vita. Anche quella notte non si era risparmiato ed era tornato giusto un paio di ore prima, all’alba, da una supervisione che avevano fatto in Antartide a causa del continuo scioglimento dei ghiacciai.  

«Dai piccolo, alzati», lo incitò, dandogli qualche pacca sulla gamba.

Franky brontolò ancora un po’, ma poi si alzò, solo in boxer, con le gambe irrigidite per il freddo e le braccia strette intorno al petto nudo. Passò di fianco a Linda e lei lo prese per un braccio, sbigottita.

«Che cosa c’è?», chiese l’angelo, con la voce rauca ed i muscoli facciali ancora paralizzati dal sonno.

Linda gli prese un ciuffo di capelli fra le dita e glielo spostò da davanti agli occhi: «Da quanto tempo è che hai questi capelli così lunghi?».

«Lunghi? Ma che cosa dici, sono sempre uguali…». Franky si morse la lingua: come poteva sperare che ci credesse? In quelle settimane gli erano cresciuti così tanto che non potevano più essere definiti a spazzola e gli cadevano continuamente sugli occhi.

Linda, infatti, sollevò il sopracciglio. «Sei anche diventato più alto, mi hai già superato!», confrontò le loro spalle e lo guardò eloquente. «Tra un po’ inizierà a crescerti la barba».

«Ah, speriamo di no!», si allarmò, portandosi le mani sulle guance e notandole ancora lisce.

«Che ti sta succedendo, Franky?», gli chiese con voce cauta, prendendogli le mani fra le sue e guardandolo amorevole. «Stai crescendo rapidamente e da quello che so… non dovresti proprio crescere».

Franky abbassò il capo e i capelli gli caddero di nuovo sugli occhi. «Ecco, io… penso di non potertelo dire. Non l’ho detto a nessuno».

«Ma è qualcosa di negativo, oppure…?».

«No, no… anzi, è bello», accennò un sorriso. Ebbene, anche lui alla fine aveva cambiato opinione a proposito del suo nuovo incarico. La fase iniziale, quella del rifiuto, era stata superata ed era contento di essere diventato un arcangelo, anche se un po’ gli sarebbe mancata la vecchia vita da angelo custode.

«Allora va bene così», ricambiò il sorriso e gli accarezzò una guancia. «Posso ancora abbracciarti, oppure stai diventando troppo grande?».

Franky avvolse il corpo di Linda sia con le braccia che con le ali. Le accarezzò il capo con una mano e sorrise commosso, ringraziandola per tutto ciò che aveva fatto per lui e per essere stata come una mamma in quel periodo in cui aveva vissuto in casa Kaulitz. Ormai la fine era vicina, la sentiva nell’aria, e gli doleva il cuore pensare che una volta che Zoe si fosse svegliata sarebbe dovuto tornare alla sua vita, anzi incominciarne una nuova come Arcangelo del Sole, lasciare lei, Tom, Arthur, Bill, Evelyn… Ma era stato fin troppo tempo con loro, tanto da abituarsi di nuovo a quel modo di vivere, ed era giusto che tornasse al luogo a cui ora apparteneva.

Dopo quel brusco e allo stesso tempo dolcissimo risveglio si era vestito e aveva fatto mente locale di ciò che doveva fare quel giorno. Si era diretto in cucina e lì aveva trovato Arthur, che masticava cereali e ogni tanto gettava un occhio sul giornale aperto sulla pagina sportiva che c’era accanto alla sua tazza di latte.

«Chi ha vinto ieri sera?», domandò al bambino, passandogli una mano fra i capelli e chinandosi per leggere il titolo in grassetto del giornale.

«Lo Schalke 04», rispose mogio.

«Cavolo, ma lo sai che quando ero piccolino come te io tifavo proprio per lo Schalke 04?», ridacchiò, beccandosi uno sguardo minaccioso da parte di Arthur al quale cercò di rimediare aggiungendo: «Ma adesso ovviamente tifo l’Hamburger SV, certo. Dai, vedrai che la prossima volta vincerà!».

«Speriamo», sospirò. Poi si portò i pugni sulle guance, appoggiandosi al tavolo coi gomiti. «Secondo te anche io da grande giocherò in una di queste grandi squadre?».

«Beh, se lo vuoi ci devi provare! Per me qualche possibilità ce l’hai», gli sorrise e gli si riempì il cuore di gioia, vedendo i suoi occhi brillare speranzosi.

Linda entrò in cucina con una pila di vestiti da stirare, li sistemò sulla parte di tavolo ancora libera e sistemò l’asse da stiro in modo tale che stirando lei desse le spalle alla finestra.

«Ma dov’è andato Tom?», chiese l’angelo, incuriosito.

«È uscito presto stamattina, ha detto che voleva passare da Bill».

«Oh, capisco. Esco anche io», disse ed uscì dalla cucina.

«Dove vai?!», gli gridò Linda.

«A trovare zio David!», rispose ed uscì di casa senza aggiungere altro.

La donna guardò il figlioletto intento a guardare le figure dei calciatori sul quotidiano, poi posò gli occhi sulla pila di vestiti da stirare e sospirò, ma con un sorrisino sulle labbra.

 

***

 

La campanella del primo intervallo risvegliò tutti dalla noiosissima lezione di letteratura, Evelyn compresa, che si tirò su dal banco e stiracchiò le braccia in avanti, guardando divertita la sua compagna di banco che aveva una lunga striscia rossa sulla guancia sinistra: il segno che le aveva lasciato la manica della felpa durante il suo riposino.

«Dormito bene?», le domandò.

Margot stirò un sorriso ed annuì. «Adesso pausa stizza».

Si alzarono e si avviarono insieme verso il giardino, dove Margot si mise a fumare una sigaretta ed Evelyn, invece, iniziò a mangiare il suo panino col prosciutto cotto e il formaggio.

«Vuoi un tiro?», le chiese la ragazza madre, porgendole la sigaretta. Evelyn passò e le offrì il panino, che invece lei non rifiutò: ne mangiò un morso, ridacchiando. «Ah, sabato sera hai da fare?».

«Credo che uscirò con Martin. Perché?».

«Così, volevo chiederti se passavi a fare compagnia a me e a Cindy, visto che Klaus è fuori città per lavoro con suo zio».

«Quando mi viene a prendere glielo chiedo subito, così ti faccio sapere», le sorrise. «Non penso se la prenda, per una sera che non passo con lui».

Le cose tra lei e Martin andavano bene, anche se Evelyn ogni tanto soffriva; non glielo mostrava apertamente, ma soffriva pensando a Franky e a ciò che non avrebbe avuto mai: la sua storia d’amore da sogno.
Il rapporto che aveva con l’angelo era leggermente cambiato da quando si era messa insieme a Martin, come in generale era cambiato un po’ tutto da quando era tornata a scuola dopo le vacanze natalizie. Non erano più intimi come una volta, ma questo poteva anche accettarlo, era comprensibile: lei stessa non si sarebbe mai sognata nemmeno di togliersi la maglietta di fronte a lui, ora che c’era Martin al suo fianco; il fatto era che si vedevano raramente, ormai, e non ne aveva capito pienamente il motivo, se esisteva.

Ma a parte questo, i cambiamenti avvenuti nella sua vita erano più che positivi. A scuola, per esempio, non era più sola: lei e Margot avevano legato moltissimo, erano diventate quasi migliori amiche, e passavano più di sei ore assieme tutti i giorni. Inoltre, i suoi voti erano migliorati sorprendentemente, tanto che aveva qualche buona possibilità di superare l’anno, nonostante le innumerevoli assenze. Fuori, invece, aveva ripreso ad uscire regolarmente con Anja e Pamela, come una qualsiasi ragazza della sua età.
Ogni tanto, però, sentiva quello strano vuoto dentro… come se non fosse soddisfatta di tutto ciò che aveva ottenuto e mancasse qualcosa. E più si concentrava su tutto ciò che la circondava. la scuola, gli amici, il ragazzo ora che ce l’aveva, più sentiva quel senso di incompletezza dentro di sé. La causa era sempre la stessa, la sua mèta irraggiungibile: Franky. Le sarebbe passato mai il vuoto dovuto alla sua mancanza che sentiva nel petto?

«A che pensi?».

La bionda alzò lo sguardo sulla sua amica e scosse il capo, accennando un sorriso. «A nulla, mi ero incantata».

«Nah… quando hai quell’espressione assorta vuol dire che pensi a qualcosa, o magari a qualcuno. Posso farti una domanda che mi frulla in testa da un po’?». Lei acconsentì con un semplice sguardo. «Chi era il padre del bambino che hai perso?».

Evelyn arricciò le labbra in una risatina silenziosa e prese la sigaretta quasi finita di Margot, fece un tiro e poi spense il mozzicone sotto al piede. Soffiò il fumo verso il cielo e rispose: «Un ragazzo molto particolare, direi unico nel suo genere».

«Ed è a lui che pensi quando ti estranei da tutto e da tutti, vero?». La bionda annuì con una scrollatina di spalle e la mora aggiunse: «Lo amavi?».

«Lo amo tutt’ora».

Oh, I can go numb, blame everyone
Lie to myself until I believe
That love’s been good to me

***

 

«Mi serve qualsiasi cosa tu abbia di mamma».

David osservò il nipote e si accorse che era cambiato, ma non disse nulla. Piuttosto, avrebbe tanto voluto sapere a che cosa gli servissero in quel momento le cose di sua madre.

«Io, ecco… Vorrei vedere una foto di mio padre», gli confidò, con notevole imbarazzo.

Non aveva mai voluto vedere il volto di suo padre, quello che l’aveva rifiutato, forse anche a causa di Catherine che non aveva mai voluto che suo figlio soffrisse per lui. Da quello che si ricordava, solo quando aveva nove o dieci anni era stato male perché sua madre non gli parlava mai di lui e non voleva che conoscesse nulla in proposito. Durante gli anni dell’adolescenza era passato alla fase della rabbia e della difesa, tanto che non aveva mai voluto nemmeno che si pronunciassero le parole “tuo padre” di fronte a lui. Era stato Franky a rifiutare lui. Ora perché, tutto ad un tratto, voleva vederlo? Perché gli chiedeva di mostrargli l’uomo che l’aveva fatto soffrire immensamente quando era bambino e che sua madre gli aveva nascosto?

Franky, che di certo non era stato lì ad aspettare che rispondesse facendosi i pensieri suoi, si posò le mani sul petto e sospirando disse: «Lo so, non ha molto senso ora come ora, ma… ho bisogno di vederlo, è importante».

Lo sguardo triste che gli rivolse bastò per farlo cedere: «Dovrebbe esserci una foto».

Franky lo ringraziò e lo seguì in taverna. Entrarono in una piccola stanza che veniva usata come sgabuzzino e David si mise a cercare negli scatoloni; l’angelo l’aiutò, perdendosi fra i ricordi, fin quando suo zio non gli disse che l’aveva trovata.
Lo fissò mentre teneva quella fotografia tra le mani un po’ tremanti e sorrideva amaro, pensando a sua sorella. Aveva il cuore che gli batteva furiosamente nel petto, colto dall’ansia: era davvero pronto a far tornare alla luce un fantasma del suo passato?

David gliela passò, strofinandosi gli occhi con un braccio. Franky prese la foto con la punta delle dita, per paura di rovinarla, ed osservò il volto bellissimo e sorridente di sua madre: l’aveva vista poche volte così felice. Trasse un ultimo respiro profondo, poi portò la propria attenzione sull’uomo a cui era abbracciata. Sospirò stancamente, abbassando le palpebre, e posò la fotografia sul pavimento, per poi farla scivolare lontano da sé. Appoggiò le spalle al muro e si raccolse la testa con le mani, sotto lo sguardo di suo zio David.

Suo padre e il serafino che aveva incontrato quella sera erano la stessa persona. Suo padre era ancora lì e l’aveva riconosciuto. Suo padre…

Dentro di lui si scatenò una battaglia di sentimenti contrastanti: una parte di lui era convinta di non aver bisogno di lui – come ce l’aveva fatta fino ad allora poteva andare benissimo avanti senza di lui; l’altra, invece, avrebbe voluto incontrarlo di nuovo, ora che aveva la certezza che fosse proprio suo padre, e sommergerlo di domande, oltre che di rimproveri. E poi, forse, chissà… Ma no, cosa stava pensando, era impossibile che potesse nascere un rapporto tra loro, non dopo tutto quel tempo. La parte di lui che dominava in quel momento era la prima, quella che gli diceva di infischiarsene, di fare come se non avesse scoperto nulla, di ignorarlo completamente come lui aveva ignorato i sentimenti di sua madre quando l’aveva lasciata sola e con un figlio in arrivo. Però quella piccola parte che voleva incontrarlo di nuovo… era piccola, ma lo pungolava in modo piuttosto fastidioso.

«È tutto okay?», gli domandò dopo vari minuti di silenzio l’ex manager, aggrottando la fronte.

Franky lo guardò negli occhi ed annuì. «Sì, grazie. È stato solo un momento… è passato».

Ma David, non contento, gli chiese: «E adesso? E adesso che l’hai visto in faccia, che cos’è cambiato?».

«Forse tutto, forse niente», mormorò con sguardo assorto, poi si alzò e gli diede una pacca alla spalla: «Grazie zio, ora devo andare».

 

***

 

Disse a suo padre, in compagnia di suo zio Tom, che doveva uscire un attimo, inventandosi una scusa. Inforcò il suo motorino e col casco ben allacciato sulla testa si diresse verso i campi. Era da tanto che non ci andava, aveva voglia di rivederli, di respirarne il profumo e di inebriarsi la mente di quei ricordi che sembravano tanto lontani.

Parcheggiò il suo fido scudiero non molto distante dal campo di girasoli, che raggiunse a piedi. Per la prima volta si addentrò proprio tra i fiori che quel giorno seguivano rapiti il sole che brillava nel cielo per catturarne ogni beneficio. I grandi petali gialli le arrivavano al busto e doveva tenere le braccia alzate come se stesse camminando su una corda e si dovesse mantenere in equilibrio.

All’improvviso vide i capolini cambiare direzione e girarsi come se fosse appena sorto un nuovo sole, capace di dargli di più. Anche lei alzò lo sguardo e proprio di fronte a lei, qualche metro più avanti, scorse la figura di Franky.

 

At least I held it for a little while,
long enough to know what falling means
to lose yourself and give everything
Looking back it was worth it all
All the promise and all the pain
I know that there’s nothing that I would change
And now that it’s gone all there is to say:

“Thanks for taking my breath away”

Franky atterrò poco lontano dal campo di girasoli, camminò con le mani nelle tasche e il viso rivolto verso il cielo, meditabondo. Continuava a pensare a suo padre, senza darsi pace, e sperava che almeno lì, in quel luogo calmo ed ospitale, riuscisse a venire a capo della situazione, anche se era stato azzardato: quel luogo era pieno zeppo di ricordi legati ad Evelyn.

Evelyn… era un po’ che non la vedeva; o meglio, aveva deciso di non vederla. Finalmente aveva fatto ciò che avrebbe dovuto fare da tempo: lasciarla vivere la sua vita, senza intromettersi, facendole pensare che fosse solo un caso che non riuscissero più a beccarsi. In verità era lui che ce la metteva tutta per non trovarsi nei luoghi in cui probabilmente sarebbe potuta esserci anche lei, li evitava apposta. Ma nemmeno con questa tattica riusciva a togliersela dalla testa: a volte quando non aveva niente da fare il suo primo pensiero ricadeva su di lei, oppure di notte prima di addormentarsi dopo una giornata sfiancante pensava a lei e, ovviamente, il suo primo pensiero quando si svegliava alla mattina era lei.

Si creò un varco fra i lunghi steli dei girasoli e vi camminò in mezzo, perso ancora nei suoi pensieri. Notò come le corolle dai colori accesi si voltassero verso di lui al suo passaggio, seguissero la sua scia, percepissero che ormai era prossimo a diventare l’Arcangelo del Sole.
Sorrise impercettibilmente e un secondo dopo si irrigidì sul posto. Alzò lentamente gli occhi e a qualche metro di distanza vide Evelyn, che a sua volta lo stava fissando sorpresa, con un fondo di entusiasmo nei suoi occhi azzurri come il cielo, quegli occhi che erano stati la sua condanna, il suo Inferno, ma anche il suo Paradiso.

Rimasero a fissarsi da lontano per qualche minuto, poi si incamminarono l’uno verso l’altro in perfetta sincronia, con lo stesso ritmo in crescendo: prima piano, poi sempre più veloce, impazienti di stringersi ancora fra le braccia dopo tutto quel tempo. Perché, lo volessero o no, quel sentimento che li legava tornava sempre a galla.
Una volta l’uno di fronte all’altra, si accarezzarono con lo sguardo e si sorrisero commossi, si inginocchiarono nei fiori per non farsi vedere da nessuno – anche se non c’era nessuno – e avvolti dagli steli e dalle foglie dei girasoli si abbracciarono. I loro cuori persero diversi battiti, anche loro stretti da quell’amore così forte.

Franky infilò una mano fra i suoi capelli, sulla nuca, e glieli accarezzò dolcemente ma con un certo possesso; Evelyn fece lo stesso, rendendosi conto di quanto fossero cresciuti ed in generale di quanto fosse cambiato. Il motivo non le interessava, in quel momento averlo lì era l’unica cosa che importava, tanto che sarebbe stata stretta tra le sue braccia per ore in silenzio.
Ma di ore a disposizione non ne avevano. Il poco tempo che passarono insieme, lo trascorsero dicendosi sottovoce tutto quello che gli passava per la testa, sdraiati sull’erba petto contro petto, naso contro naso e mani nelle mani, i piedi che si sfioravano.

Ad un certo punto Franky, perso nei suoi occhi celesti, avvertì quel particolare pizzicorio alle ali e di fronte a sé non vide più il volto di Evelyn, ma il suo futuro: la sua età si aggirava sui vent’anni, forse anche qualche anno di più, ma era pur sempre bellissima e i segni del tempo su di lei sembravano avere regole completamente diverse. Nella visione arrivò di fronte a lui in lacrime, un po’ di dolore e un po’ di felicità per averlo incontrato di nuovo, e poi si vide riflesso nei suoi occhi mentre le diceva che lei era la sua compagna per la vita, quella che il destino aveva scelto per lui, o meglio quella in cui l’ultimo arcangelo, quello della Luna, aveva deciso di reincarnarsi.
Franky, Arcangelo del Sole, e Evelyn, Arcangelo della Luna, avrebbero vissuto il resto della loro vita insieme, a proteggere la Terra e le persone che amavano, finalmente nella felicità e nell’amore.

Improvvisamente la visione si interruppe e tornò a vedere soltanto il volto della ragazza che amava, di cui ne aveva appena scoperto il futuro. Doveva avere un’espressione un po’ sconvolta, perché lei si sollevò e gli sfiorò la guancia con la sua, sussurrandogli all’orecchio: «C’è qualcosa che non va?».

Franky le accarezzò le guance coi palmi delle mani e sorrise, ma non riuscì ad impedire ad una lacrima di cadere sulla guancia di Evelyn, che sgranò un poco gli occhi.
«Siamo destinati a stare insieme per sempre, nulla ci dividerà mai», le rispose, con la voce piena d’amore.

Ora capiva molte cose: il motivo per il quale si erano subito sentiti attratti l’uno dall’altra, per cui  avevano sempre avuto un legame così potente, la sua straordinaria capacità di lenire ogni sua ferita e di curare anche sua madre. Anche il fatto che fosse stata lei a risvegliare l'arcangelo che era in lui aveva un senso. Ora anche l’impossibile era possibile; per loro non c’era alcun limite.

«Oh, questo io l’ho sempre saputo», mormorò Evelyn, attirandolo a sé in un abbraccio, ma lui si divincolò quasi subito e si rizzò seduto per guardare il cielo sopra di sé con sguardo assorto.

«E se… Ma sì, certo».

«Che cosa, Franky?».

«Voglio fare un esperimento con te, stasera».

Evelyn lo guardò sollevando un sopracciglio. «Che tipo di esperimento?».

«Ti ricordi quando mi hai visto curare il corpo di tua madre?».

«Sì, certo… io ho messo la mano e la bolla ha cambiato colore!».

«È diventata molto più potente. Io… io credo che noi due, insieme, potremmo farcela a svegliare tua madre». Posò gli occhi nei suoi, mentre sulle sue labbra nasceva un sorriso mesto.

Lei rispose con tono solenne: «Dimmi che cosa devo fare».

 

***

 

«Fratellone, sei tu?».

Franky, appoggiato allo stipite della porta della sua cameretta buia, sorrise rivolgendo il viso verso il pavimento. «Come hai fatto?».

Anche Arthur sorrise e scrollò le spalle. «Ti sento quando sei vicino».

Si avvicinò a lui, gli disse di fargli un po’ di spazio e l’abbracciò infilandosi sotto le coperte del suo letto. Chiuse gli occhi e gli baciò la fronte prima di respirare il profumo dei suoi capelli.
Il bambino si accucciò di più sopra di lui e gli posò un orecchio sul petto per poter sentire il suo cuore battere.

Rimasero per un po’ in silenzio, rasserenati dalla presenza dell’altro, fino a quando una strana malinconia si fece spazio dentro di loro, tanto da far inumidire gli occhi di Franky.

«Franky…», sussurrò il bambino.

«Dimmi», rispose l’angelo, tirando su col naso e mantenendo a stento il tono di voce fermo. Arthur alzò la testa e lo guardò negli occhi così intensamente che Franky si sentì male dentro, come se una scheggia si fosse conficcata nel suo cuore.

«Devi andare via?». Glielo chiese chiaro e tondo e lui non poté far altro che rispondergli con la stessa sincerità, mentre una lacrima gli segnava un solco sulla guancia.
Arthur non rispose subito, rimase ad incamerare ciò che gli aveva detto. Ad un certo punto accennò un sorriso e disse: «Mi verrai a vedere, quando giocherò a calcio in una squadra vera?».

Non gli aveva chiesto se sarebbe tornato, ma se avrebbe tifato per lui e, in qualche modo, se avrebbe continuato a stargli vicino, a sostenerlo e a volergli bene.
Franky sorrise e gli accarezzò i capelli. «Ma certo, Arthur.».

«Ti voglio bene, fratellone», mormorò prima di posare nuovamente il capo sul suo petto.

«Anche io, non sai quanto».

 

Aspettò che si addormentasse fra le sue braccia, poi si alzò e si diresse verso il salotto. Sapeva di trovare lì Tom e forse anche Linda. Infatti erano entrambi sul divano, ma non sembravano molto interessati a guardare la tv.

Si schiarì la voce per attirare la loro attenzione. «Io esco».

«E dove vai?», gli chiese Linda, tirandosi su da Tom e mettendosi a posto un po’ i capelli.

«Devo andare un attimo di sopra».

«Perché?», gli domandò quella volta Tom, con sguardo preoccupato.

Franky schivò la traiettoria dei suoi occhi. «Ho delle cose da fare».

«Che…?».

«E dai, Tom, lascialo stare», lo rimproverò la moglie, dandogli un manrovescio sul petto. Poi si voltò verso di lui e gli sorrise teneramente: «Ci vediamo più tardi, tesoro».

L’angelo chiuse gli occhi al modo affettuoso con cui lo chiamava e si morse l’interno della guancia, incamminandosi verso la porta di casa. 
Quella volta, poco ma sicuro, avrebbe sentito un’assurda mancanza di tutto quello.

 

Rimase seduto sul marciapiede del parcheggio semideserto all’angolo della strada a torturare il cappellino di lana nero con la visiera corta che una volta era stato di Tom fino a quando non sentì il motorino di Evelyn avvicinarsi a lui. Quando gli si fermo di fronte alzò gli occhi umidi e si strofinò il naso col palmo della mano per mandar via quel fastidioso pizzicorio.

«Tutto okay?», gli domandò, ma non si aspettava di ricevere una risposta, la sapeva già e la sua espressione dispiaciuta ne era la conferma.

La ragazza spense il motorino, mise il cavalletto e si tolse il casco mentre si sedeva accanto a lui. Si aggrappò al suo braccio e appoggiò la testa nell’incavo della sua spalla, con gli occhi rivolti un po’ verso il suo viso e un po’ verso il cielo blu slavato, punteggiato da minuscoli puntini luminosi.

«Sto pensando cose assurde», sussurrò con voce roca Franky, stringendo con maggior forza il cappellino fra le mani. «Sono stato così tanto tempo qui… sapevo che non avrei dovuto, ma l’ho fatto. E ora… non voglio andarmene».

Evelyn sospirò e parlò piano. «Non sei costretto…».

L’angelo fece come se non avesse detto nulla e tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette martoriato, ne prese una e se l’accese. Evelyn rimase a guardarlo fumare per qualche istante, poi gliela rubò dalle dita prendendola con i polpastrelli dell’indice e del pollice e gliela allontanò. Lui si girò per chiederle che cosa stesse facendo, ma quando vide che i suoi occhi erano rivolti verso il cielo socchiuse le labbra e alzò anche lui lo sguardo.

«Tu dove abiti, Franky? Com’è il Paradiso?».

Lui scrollò le spalle. «Non è come lo si immagina. Ma non è lassù che abito».

«E dove?». Evelyn arrossì violentemente quando Franky insinuò la testa fra le sue braccia per premere il viso contro il suo piccolo seno, lì all’altezza del cuore. Dopo l’imbarazzo iniziale gli accarezzò i capelli dolcemente, posandovi sopra un bacio ogni tanto.

«Ti amo, Evelyn».

Lei accennò un sorriso e per l’ennesima volta alzò gli occhi al cielo. «Allora esiste davvero, il Paradiso», mormorò.

 

The first time that we’ve kissed
You were looking at the stars
And singing “Heaven must exist”

 

Fece un rapido tiro alla sigaretta, poi la gettò via.
«È ora di andare», gli disse, dandogli un colpetto affettuoso sulla nuca, e si alzò.

Franky saltò in sella, dietro di lei, e le avvolse le braccia intorno alla vita. La ragazza diede gas e si diressero verso l’ospedale. Nel frattempo, le illustrò ancora una volta il suo piano nei minimi particolari.

Erano entrambi molto tesi, concentrati; credevano davvero che quell’intuizione potesse portare almeno a qualche miglioramento, se non al risveglio di Zoe. In più, il loro nervosismo era anche dovuto al fatto che se fosse andata come speravano come conseguenza non si sarebbero visti per un bel po’ di tempo. Di quello non parlarono molto, ma una volta di fronte alla stanza d’ospedale della madre di Evelyn dovettero per forza.

«È tutto chiaro?», le domandò Franky, prendendole il viso fra le mani.

Lei annuì, socchiudendo gli occhi lucidi. L’aria che respirava a fatica a causa del nodo che le ostruiva la gola era impregnata dell’odore dell’addio, per questo se ne infischiò di essere vista e lo abbracciò, lo strinse forte a sé nascondendo il viso nel suo petto.

«Ci rivedremo, te lo prometto», le sussurrò fra i capelli, mentre glieli accarezzava..

«Ti aspetto, allora».

Franky la guardò di nuovo negli occhi e le sorrise teneramente, posando le labbra sulla sua fronte, sempre tenendola fra le sue braccia. Respirò profondamente, per imprimersi ancora meglio il suo profumo nella mente, e mormorò: «Non lo avrei mai immaginato».

«Cosa?».

«Che sarei riuscito ad amare un’altra più di quanto ho amato Zoe. Ti amo, Evelyn». Le soffiò sul viso e quando lei aprì gli occhi si trovò sola nel corridoio d’ospedale, avvolta ancora dalla sensazione di essere fra le sue braccia, immersa nel suo profumo.
Avrebbe voluto scoppiare a piangere in quel momento, ma si trattenne. Frenò il suo cuore, fece violenza al suo stomaco, scacciò le vertigini dalla testa. Aveva una missione da compiere, una per la quale valeva la pena persino di dire addio al ragazzo che amava nel più profondo dell’anima.

 

***

 

Franky si fermò di fronte alla camera della sua migliore amica. Pensò ancora una volta ad Evelyn, ferma lì come lui – solo da un’altra parte – ad aspettare che fosse il momento giusto per incominciare ad agire in sincronia.

Guardò l’orologio appeso infondo al corridoio e per caso, abbassando lo sguardo, vide un uomo camminare verso di lui con le mani nelle tasche dei jeans e un cappellino calato sul viso. Il cuore iniziò a martellargli nel petto, riconoscendolo, e gli diede le spalle. 
No, non era ancora pronto, non voleva parlargli in quel momento, la sua mente non era pronta…

«Franky».

All’udire il suo nome pronunciato dalla voce di quello che sarebbe dovuto essere suo padre, irrigidì i muscoli del collo e il dolore tornò ad impadronirsi del suo cuore. Quando invece sentì la sua mano posarsi sulla sua spalla e stringere, la rabbia lo montò, nonostante le lacrime che gli rigavano il viso.

«Che cosa vuoi da me?!», strepitò, rosso in viso.

L’uomo lo guardò con uno strano sorriso compassionevole: si aspettava quella reazione, era la stessa che avrebbe avuto lui se si fossero invertiti i ruoli…
«Voglio raccontarti quello che è successo», rispose in tono pacato.

«So benissimo che cos’è successo! Hai messo incinta mamma e l’hai lasciata, non hai mai voluto vedermi! Nemmeno una volta!».

Il serafino in borghese chiuse gli occhi ed aggiunse: «Quello che è successo veramente».

Franky lo guardò con espressione frustrata, ma anche confusa. Che cosa voleva dire? Lo sguardo gli cadde sull’orologio alle sue spalle e si asciugò le lacrime, si ricompose e disse: «Adesso ho da fare». Gli diede le spalle ed entrò nella camera della sua protetta; l’uomo non lo fermò.
Era un po’ scosso e nella sua testa vorticavano milioni di pensieri, ma si sforzò per riuscire comunque a concentrarsi sulla sua missione. Sorrise ad una Zoe pallida in volto e debolissima, che non fu in grado nemmeno di ricambiare decentemente.

«Ti ho sentito gridare», gracchiò, chiudendo gli occhi a causa dello sforzo.

«Non ti preoccupare, piccola. Non è a me ora che dobbiamo pensare, ma a te».

 

Evelyn, scattata l’ora X, era entrata nella camera della madre e si era seduta al suo capezzale, prendendole una mano fra le sue e portandosela alle labbra.

«Mamma», le sussurrò, posandole teneri baci sulle nocche. «Mamma cara, non pensi che sia ora di tornare da me e da papà?».

 

Quando Franky vide lo spirito della sua protetta irrigidirsi, compresa la sua mano fra le sue, senza nemmeno leggerle nel pensiero capì che Evelyn aveva iniziato a parlarle. Fino ad allora, tutto stava andando per il verso giusto.

Allora disse, anche se incerto: «È arrivato il momento, Zoe… io lo sento: devi tornare da loro, ora o mai più».

Zoe aprì gli occhi arrossati, nonostante facesse terribilmente fatica, e vide la figura della sua piccola Evelyn – quello che stava sentendo il suo corpo – seduta proprio lì dove c’era Franky: i loro visi si sovrapposero e vide la stessa luce nei loro occhi, persino gli stessi sorrisi appena accennati. Le bastò quello per trovare finalmente un senso a molte cose che fino a quel momento non le erano state chiare.

«Tu la ami?», domandò all’angelo custode, ritrovando parte della sua bella voce e della sua forza.

Franky rimase un poco sconvolto da quella domanda ed ebbe persino paura di rispondere, ma si rese conto che era inutile mentirle ancora: se tutto fosse andato secondo il piano presto non avrebbe ricordato più nulla e lui si sarebbe, in parte, levato un peso dal cuore.
Perciò sorrise candidamente ed annuì, mormorando: «Da morire. E lei ama me».

Zoe sorrise, si lasciò andare ad una risatina fra le lacrime. All’improvviso si bloccò ed esalò l’ultimo respiro della sua vita da passante nel Paradiso; Franky si sporse su di lei, la guardò negli occhi prima che questi si chiudessero e le posò un bacio sulla fronte.
Il suo spirito scomparve, il suo letto rimase vuoto, e Franky chiuse gli occhi soddisfatto, col petto colmo di gioia, ma presto dovette portarsi una mano su quello stesso petto, con gli occhi sgranati e il respiro corto. Come scosso dalle convulsioni, stramazzò sul letto vuoto di fronte a sé.

 

***

 

Zoe iniziò a riprendere conoscenza lentamente. Si sentiva intorpidita, non sapeva dov’era né che giorno fosse. All’inizio sentì solo quel bip fastidioso che le martellava nella testa, poi, pian piano, riuscì a percepire anche tutto il resto, tra cui anche la mano che stringeva forte la sua.

«Franky…», gracchiò d’istinto, non riuscendo ancora a sollevare le palpebre.

«Mamma… Mamma!», esclamò invece un’altra voce, femminile, che riconobbe subito come quella di sua figlia. Sentì la sua fronte posarsi nell’incavo della sua spalla nuda, incastonandosi perfettamente, e sulla sua pelle iniziarono a cadere le lacrime di Evelyn a calde gocce.

Zoe non capiva, davvero non riusciva a capire nulla di ciò che stesse succedendo, ma una cosa era certa: doveva essere accaduto qualcosa a Franky, lo sentiva nelle vene, nel cuore… nell’anima.

Quando arrivarono i medici per controllare i suoi parametri vitali, Evelyn venne mandata un attimo fuori dalla stanza. Probabilmente l’ospedale aveva già chiamato suo padre per avvertirlo, ma voleva farlo anche lei: voleva dirglielo di persona, liberare tutta la sua gioia, urlargli che lei e Franky ce l’avevano fatta, che il suo piano aveva funzionato… Così tirò fuori il cellulare, mentre si asciugava il viso dalle lacrime e tirava su col naso, ma non riuscì a fare quella chiamata, perché una ragazza dai capelli biondi e gli occhi trasparenti l’afferrò per un braccio e se la trascinò dietro lungo il corridoio.

Evelyn la guardò sbigottita, era certa di non averla mai vista prima, ma non aveva paura di lei, né di dove aveva intenzione di portarla e né di cosa volesse farle. Semplicemente si lasciò condurre da lei fino al bagno, sulla cui porta c’era scritto “Guasto”, e all’interno vide altre cinque persone, quattro ragazzi ed una… ragazza-farfalla. Che cosa volevano da lei?

Quello che sembrava proprio il capo del gruppo, un ragazzo grande e grosso con i riccioli biondi, si voltò verso la ragazza-farfalla e le domandò: «Sei sicura che sia lei?».

«Sì! Sì che sono sicura!», strepitò la piccoletta, indicandola con un dito. «Riesco a percepire il pezzo d’anima di Sole dentro di lei!».

Evelyn quella volta non rimase zitta e disse: «L’anima di chi? Scusate, potete spiegarmi quello che volete?».

L’altra ragazza, quella bionda e bellissima che l’aveva portata lì, le sorrise dolcemente. «Tu lo conosci come Franky».

Il cuore di Evelyn fece una capriola sentendo il suo nome. «Che cosa gli è successo?», chiese nervosamente, preoccupata fino all’inverosimile. 
Era così contenta che sua madre si fosse risvegliata dopo così tanti mesi di coma, perché qualcosa doveva rovinare per forza quel momento?

«Franky sta male. Molto male», le spiegò con voce cauta. «Sappiamo che tu hai un pezzo della sua anima dentro di te. Ne abbiamo bisogno. Franky ne ha bisogno. La sua anima non reggerà ancora a lungo».

Evelyn si portò le mani sul cuore, istintivamente, ed abbassò il viso. Lei aveva un pezzo di Franky dentro di sé… Ora capiva molte cose. Quella sarebbe stata l’unica cosa di Franky che non l’avrebbe mai abbandonata, sempre se non l’avesse ceduta… Poteva essere così egoista da tenersi un pezzo di lui dentro di sé, piuttosto che salvargli la vita?

Il ragazzo dalla carnagione scura e gli occhi neri si avvicinò a lei e la prese per le spalle, la scrollò con forza. «Allora, ti muovi o no?! Franky sta rischiando la sua vita!».

La ragazza-farfalla agitò confusamente le ali e lo spinse via, anche se con un po’ di fatica; poi guardò intensamente gli occhi lucidi di Evelyn, che tremava sotto le sue piccole mani. «Non lo faresti mai, tu non sei così», le sussurrò ad un palmo dal suo viso. «L’abbiamo chiesta a te per dei motivi ben precisi: non ce la sentiamo di prendere i pezzi dell’anima che lui ha dato a tua madre, non sappiamo se lei riuscirebbe a sopravvivere senza e poi… il tuo è il più importante, quello che ha donato a te è quello più forte di lui e non a caso si trova qui, dove tu hai appoggiato le mani».

Evelyn si guardò il petto, sentì il suo cuore battere, e capì che era arrivato il momento di dare indietro a Franky tutto ciò che lui le aveva donato. Era arrivato il momento di ringraziarlo, di ricompensarlo, di amarlo ancora di più rinunciando alla cosa a cui teneva di più al mondo.

«Sempre se non è troppo tardi», mugugnò un ragazzo allampanato, rimasto in disparte fino a quel momento.

«Non può essere troppo tardi», negò con la testa la ragazza-farfalla, decisa.

«Inge, lo sai benissimo che l’anima di Evelyn potrebbe aver già inglobato dentro di sé il pezzo di quella di Franky».

Evelyn incontrò lo sguardo disperato della ragazza-farfalla che si chiamava Inge ed annuì, prendendole una mano e posandosela sul petto delicatamente. Inge chiuse gli occhi, Evelyn fece lo stesso e lentamente sentì qualcosa di freddo, quel freddo che non sentiva da un po’ dentro di lei, uscirle dal petto. Fece male, forse anche perché come aveva detto prima quel ragazzo, la sua anima aveva già iniziato ad unirsi a quella di Franky, ma non importava: quanto aveva sofferto Franky per lei? Quanto avevano sofferto insieme? Quello a confronto non era niente.

«Ci siamo quasi», soffiò Inge. «Zeus, preparati».

Il capo dai riccioli biondi la affiancò ed aprì uno speciale contenitore di metallo, raffreddato all’interno. «Io sono pronto».

Evelyn sentì l’anima di Franky staccarsi definitivamente dalla sua con uno strappo e il dolore che provò le fece cedere le ginocchia, tanto che cadde a carponi sul pavimento.

«Evelyn», esclamò la ragazza bionda premurosa, mentre si piegava al suo fianco per controllare che stesse bene. Ma non stava bene, no. Evelyn li sentiva parlare di velocità, di rischi, del filo sottile a cui era legata la vita di Franky.

«Muoviamoci, andiamo!», gridò Inge, scomparendo con i suoi compagni. La ragazza bionda, invece, le prese le spalle fra le mani e dopo averla guardata per qualche secondo negli occhi, l’abbracciò. «Sii forte, piccina».

«Afrodite, sbrigati!», la rimproverò il ragazzo che poco prima l’aveva scossa con quel suo modo di fare brusco.

Afrodite le sorrise ancora e bisbigliò un «Grazie» prima di sparire di fronte a lei col suo compagno.

Evelyn si strinse un pugno sul petto e soffocò un singhiozzo, abbassando il capo. Poi si appoggiò con le spalle al muro e scoppiò definitivamente a piangere, stringendosi le ginocchia con le braccia.

 

___________________________________

 

Buon penultimo capitolo a tutti!
Ebbene sì, questo è il penultimo capitolo ç_ç Il prossimo sarà l'epilogo e dovremo ancora dirci "addio"! (Ma sapete che con me non è mai un addio certo e definitivo xD).
Intanto spero che questo capitolo vi sia piaciuto come piace a me *-* Sono saltate fuori tante cose... spero che si siano capite tutte ;)
La canzone che ho usato è la bellissima Love's been good to me di David Hodges (cantante dei Trading Yesterday)! 

Un grazie enorme a chi ha recensito lo scorso capitolo <3 ma anche a chi ha letto soltanto!!
Un bacio a tutti, alla prossima! Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 23
*** Epilogo - All this time, we were waiting for each other ***


23. Epilogo - All this time, we were waiting for each other

Put the past away, save it for a sunny day
Right now there's nothing I can do, except stare right back at you
Put the future aside, I'll try my best to make it right
Right now it just seems so obscene to picture you without me

La folla si alzò in piedi protestando l’atterraggio di un giocatore della squadra ospitante da parte di un avversario. Tra i tifosi spiccava una figura che faceva di tutto pur di farsi sentire dall’arbitro e far valere la propria opinione.

«È rigore! Arbitro, non scherziamo, è rigore netto!».

La donna al suo fianco guardava preoccupata il ragazzo ancora steso a terra che si stringeva il ginocchio al petto. Lentamente il suo sguardo si posò sul ragazzo biondo con la fascia di capitano stretta intorno al braccio, compagno di squadra di quello steso nell’area di rigore.

«E se capitava ad Arthur?», domandò con un nodo in gola.

«Oh, Linda! Smettila di preoccuparti per così poco! Guarda, guarda, finalmente quell’idiota gli ha dato il rigore!».

L’arbitro lo sentì e gli rivolse uno sguardo fulminante, facendogli segno che al prossimo richiamo lo avrebbe cacciato al bar dell’impianto sportivo. Tom sbuffò sonoramente, roteando gli occhi al cielo, ed affondò le mani nelle tasche.

In campo, intanto, sotto la pioggerella sottile che aveva accompagnato parte del primo tempo e continuava tutt’ora nel secondo, erano intervenuti dei paramedici che stavano portando via in barella il giocatore a cui era stato fatto il fallo. Arthur fece un pezzo di strada con loro, parlando col suo migliore amico: «Vedrai che non è nulla di grave, una settimana al massimo e torni a giocare».

«Non lo so, amico, questa volta mi sa che me ne starò fermo per un bel po’…», disse con una maschera di dolore dipinta in viso. «Quello ci è andato giù proprio pesante».

«Adesso ci penso io a lui», gli promise, dandogli un pugnetto sulla spalla e sorridendo.

L’amico ricambiò: «Segna per me, capitano».

«Ci puoi contare».

Guardò i paramedici trasportare il suo centravanti migliore sull’ambulanza e tornò in campo passando accanto alle tribune, su cui riconobbe i suoi genitori. Sua madre, con entrambe le mani posate sul petto, gli chiese urlando: «Si è fatto tanto male?». Arthur ridacchiò e la rassicurò scuotendo il capo e sventolando una mano.

Vide anche un ragazzo dagli occhi verdi, appoggiato con le braccia alle transenne che circoscrivevano il campo. Il suo sorriso era una curva appena accennata sulle labbra, ma era qualcosa di spettacolare. Arthur si bloccò sul posto e lo guardò incantato, mentre qualcosa gli pungolava il cuore.

Appena si accorse che suo padre stava cercando di capire chi fissasse, si affettò a tornare dai suoi compagni che lo aspettavano nei pressi dell’area avversaria. Gli porsero il pallone e gli sorrisero incoraggianti, negli occhi la luce che solo i compagni di squadra possono avere per il proprio amato capitano. Si fidavano di lui, credevano in lui, non poteva sbagliare. Non poteva farlo anche per il suo migliore amico e per Reja, la bambina che l’aveva spronato a giocare a calcio per la prima volta, quando aveva appena quattro anni, e che aveva continuato ad incoraggiarlo fino a quando non l’aveva lasciato, all’età di nove anni. Dentro di lui, però, aveva continuato a vivere e aveva dedicato a lei ogni suo goal.

Posizionò il pallone sull’erba e si portò le mani sui fianchi guardando di fronte a sé il rettangolo della porta e il portiere della squadra avversaria che avrebbe fatto del suo meglio per non farlo segnare.

Socchiuse gli occhi e respirò profondamente per trovare la concentrazione necessaria per riuscire nel suo intento. Fu allora che sentì la voce che più e più volte lo aveva guidato a fare le scelte migliori sussurrargli nel vento: «Incrocio dei pali alla sinistra del portiere».

L’arbitro fischiò. Arthur sorrise, aprì gli occhi e dopo una breve rincorsa calciò una bomba di sinistro che andò a finire proprio a quell’incrocio dei pali. Il portiere si era gettato dalla parte opposta e quando Arthur fu sommerso dai suoi compagni di squadra urlanti ed esaltati, rimase lì sdraiato a guardarli festeggiare, frustrato.

Anche la folla sulle tribune, che aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, quando realizzò che la loro squadra si era appena portata in vantaggio scoppiò in un boato pieno di gioia.
Tom iniziò a saltare, gridando contro il cielo azzurro che si intravedeva dietro un banco di nuvole bianche che iniziavano a diradarsi per far spazio ai raggi del sole e ad un arcobaleno, e dopo qualche secondò trascinò nei suoi festeggiamenti anche Linda, che baciò impetuosamente.

Arthur, steso sull’erba sotto i suoi compagni che lo abbracciavano e gli gridavano nelle orecchie che era il “miglior capitano del mondo”, guardava quello spicchio di cielo terso rischiarato dalla luce del sole che riusciva a vedere oltre le teste dei suoi amici e sorrideva felice e allo stesso tempo commosso.
Si sollevò, ricordandosi del ragazzo dagli occhi verdi che l’aveva colpito nel profondo, ma non c’era più. In compenso, vide suo padre saltare giù dalle tribune e dirigersi verso l’uscita del campo sportivo.

Tom aveva notato lo sguardo che suo figlio aveva rivolto a quel ragazzo e non ne era rimasto indifferente, a dirla tutta, ma si era subito concentrato sul rigore. Dopo, quando aveva finito di esultare, aveva subito riportato gli occhi su quello sconosciuto, non trovandolo più. Allora era sceso dalle tribune e l’aveva visto uscire dal centro sportivo.

Dopo una breve ricorsa – che però gli procurò ugualmente un po’ di fiatone – lo raggiunse e lo costrinse a fermarsi prendendogli il braccio. Il ragazzo si girò e lo guardò negli occhi senza tirarsi indietro; si lasciò andare persino ad un sorriso, quando gli domandò: «Ci conosciamo?».

Tom, talmente sbigottito dalla somiglianza spaventosa che quel giovane uomo aveva con Franky, aveva persino creduto che fosse lui. Persino la voce era simile, solo un po’ più profonda. Eppure… Non riusciva a capire. Un velo di delusione gli ombreggiò gli occhi e lasciò andare il ragazzo, abbassando il capo e scusandosi. «Mi… mi ricordavi una persona che conosco».

«E non la vede da molto?».

«Sì, sono passati già dodici anni dall’ultima volta».

Il ragazzo sospirò e gli diede una pacca di conforto sul petto. «Persone che stanno via così a lungo alla fine sono sempre quelle più vicine, nel cuore e nella mente».

Tom, colpito da quelle parole così... da Franky, alzò lo sguardo, ma del ragazzo non vi era più traccia.

 

***

 

Zoe si portò davanti alle vetrate del salotto che davano sul giardino, sui suoi fiori appena sbocciati, e soffiò sul contenuto caldo della sua tazza.

«Dodici anni», mormorò. «Mi sono svegliata dal coma da dodici anni e Franky non si è mai fatto vivo una volta. È pazzesco».

«Già».

«A volte mi chiedo se non gli sia successo qualcosa».

«Appena ho visto che stavi bene, me ne sono andato. Non c’era motivo per cui restassi ancora».

«Esatto! Direbbe proprio così, il mio Franky…», sospirò sorridente e all’improvviso si sentì stringere da dietro, dolcemente, in un abbraccio carico di affetto.

«Io sono sempre con te».

«Lo so, lo so… Solo che a volte mi manca così tanto…».

Le soffiò un bacio sulla tempia e rise piano. All’udire quella risata, Zoe sgranò gli occhi e si voltò, ma non vide nessuno in salotto.

Bill uscì dalla cucina e, vedendola così scossa, si avvicinò. «Tutto bene, amore? Ti ho sentita… con chi parlavi?».

La donna si voltò di nuovo verso le vetrate ed alzò lo sguardo verso il cielo che si stava riaprendo dopo la pioggia. «Parlavo tra me e me».

 

***

 

I haven't seen the sun in seven days
I can't remember when I saw your face
But I still believe that you led me through the wilderness
And you have not forgotten me through all of this

Scese dall’aereo dopo tutti i passeggeri ed insieme alla sua amica camminò lungo i corridoi ormai deserti che portavano ai gate e quindi anche all’uscita. Il suono dei loro passi, intensificato dai tacchi che portavano, era l’unico udibile in quella che non era ancora la zona più confusionaria e popolata dell’aeroporto.

L’hostess con cui si era trovata a fare più e più viaggi e con la quale ormai aveva legato particolarmente, disse, nel suo francese perfetto: «Che programmi hai qui ad Amburgo?».

«Starò dai miei genitori, è da tanto che non li vedo».

«Oh, è vero che tu sei di qui! Magari quando hai un momento libero potremmo vederci, ti va?».

«Sì, perché no?», sorrise.

«Mi piacerebbe tanto vedere quel nuovo film… quello degli angeli e dei demoni!».

Evelyn arricciò il naso. «Ah… sì, l’ho sentito nominare».

«Non ti piace il genere?», chiese indispettita l’amica, notando il cambiamento della sua espressione.

«Non molto, sono un sacco di cavolate».

Arrivarono al check-out e mostrarono i loro passaporti, poi trascinarono i loro trolley nella grande sala, affollata da uomini d’affari e da turisti appena sbarcati oppure che aspettavano di partire.

«Pensavo che credessi negli angeli», esclamò la sua amica.

«Ci credo, infatti. Penso soltanto che nei libri e nei film, soprattutto, non vengano rappresentati bene».

«Uhm, sarà!», sollevò le spalle, con un sorriso solare sul viso. «Comunque fammi sapere, okay?».

«Certo! Ciao!». La guardò allontanarsi e non molto tempo dopo fu inghiottita dalla folla.

Come tutte le volte che si ritrovava da sola con i suoi pensieri, il cuore le si strinse in una debole morsa che però lei notava benissimo: lo sentiva teso, schiacciato, separato da ciò che lo avrebbe reso completo.
Evitò di trastullarsi ancora in quei sentimenti e si gettò un’occhiata intorno per scorgere i volti del suo papà e della sua mamma. Da quando aveva iniziato a fare l’hostess li vedeva sempre meno, complice il fatto che aveva deciso di comprarsi un appartamento nella sua amata Ottawa. Se n’era innamorata durante uno dei suoi continui viaggi: a causa della neve erano stati cancellati tutti i voli ed aveva trascorso lì tre giorni, che le erano bastati per capire che quello era il suo posto.

Non li vide, forse non erano ancora arrivati, ma in compenso incrociò lo sguardo di un ragazzo che le fece dimenticare dove fosse, perché e persino come si chiamasse. Quegli occhi, quel sorriso…
Non doveva avere più della sua età, aveva i capelli neri spettinati sulla testa ed un accenno di barba sulle guance; era molto affascinante e il sorriso tenero che le rivolgeva, con quello sguardo intenso, le fece subito capire che, impossibile o meno, lui era il suo Franky, l’angelo che amava perdutamente e che non vedeva da ben dodici anni.

Come quella volta nel campo di girasoli, poco prima del loro addio, si avvicinarono l’uno all’altra senza nemmeno rendersene conto, ma in perfetta sincronia, fino a quando non si trovarono a pochi millimetri di distanza. Evelyn sollevò incerta le mani, trovandole tremanti come le sue labbra e i suoi occhi che a stento trattenevano le lacrime, e gliele posò sulle guance. Lo sentì consistente, fatto di carne ed ossa sotto le sue dita, e chiuse gli occhi, gettandosi fra le sue braccia e lasciandosi stringere forte da lui.

Sognava quel momento da anni, si era preparata tutto un discorso da fargli, ma ora le uniche cose importanti erano il suo cuore che batteva contro il proprio, il suo respiro fra i capelli, il suo profumo, le sue braccia che la tenevano stretta al suo petto. Era tutto così bello che era impossibile che fosse vero, aveva paura di riaprire gli occhi e di vedere la gente intorno a sé che la guardava abbracciare il vuoto come si guarda una pazza. Aveva paura di non vedere più Franky e di non sentire più il suo corpo contro di lei. Per questo ogni secondo che passava lo stringeva più forte, sempre di più.

«Evelyn, sono qui», le sussurrò all’orecchio con la sua voce cresciuta, maturata, ma pur sempre bellissima.

«Ti ho aspettato per così tanto tempo…».

«Ed ora sono qui».

 

Because the pain defining me, is holding me lifeless
So I am waiting patiently for you to change my name

 

Ci volle ancora un po’ prima che lei se ne convincesse del tutto e riuscisse a guardarlo un’altra volta in viso.

«Ogni volta che ti vedo sei sempre più bella», mormorò accarezzandole i capelli con entrambe le mani, posandole poi sui lati della sua mandibola. «E i tuoi occhi continuano a prendere sempre di più il colore del cielo».

«Chissà, a furia di guardarlo…», rispose, abbassandoli come se se ne vergognasse.

Franky scosse docilmente il capo e con un sorriso impacciato le chiese: «Ti va ti andare a bere qualcosa?».

La ragazza allora ridacchiò e rispose affettuosamente, cacciando il dispiacere solo nei suoi occhi: «I miei genitori dovrebbero arrivare da un momento all’altro…».

«Ho già pensato io a loro».

Evelyn lo guardò aggrottando le sopracciglia e lui ammiccò, prendendola per un fianco ed invitandola a camminare stretta a lui.

 

***

 

Guardò Zoe, seduta al suo fianco, e le avvolse le spalle con un braccio. Le massaggiò una spalla e posò la guancia alla sua testa.

Anche lei ricambiò lo sguardo e disse: «Qualcosa non va?».

«Ho come la sensazione che ci siamo dimenticati qualcosa».

La donna ci rifletté su, poi sorrise e gli prese il viso fra le mani per baciarlo sulla bocca. «Forse non era così importante».

Bill sorrise ed annuì, contraccambiando al bacio con una mano sul suo collo candido.

 

***

 

Quando la sua protetta si era finalmente risvegliata dal coma Franky aveva sofferto, o meglio, la sua anima aveva sofferto la lontananza di tutti quei pezzi. Mentre lo spirito di Zoe era in Paradiso ne aveva risentito di meno, ma quando era tornato sulla Terra… si era sentito male, tanto da costringere i suoi amici e colleghi di lavoro a scendere di sotto e a recuperare il pezzo fondamentale della sua anima, quello che aveva donato inconsciamente ad Evelyn quando avevano fatto l’amore.

Erano riusciti a reimpiantare quel pezzo di anima nel suo corpo e da allora aveva smesso di soffrire in tutti i sensi, perché in quel modo era anche riuscito ad allontanarsi ancora di più dalla ragazza che amava e che fino ad un momento ben preciso non avrebbe potuto mai avere.

«Quindi adesso sei un arcangelo», riprese lei, ancora un po’ sorpresa. «Wow, è… fantastico, Franky. Certo, non so con precisione quanto, ma… sei felice?».

«Abbastanza», sorrise annuendo. «Comunque anche tu hai trovato il lavoro perfetto per te».

«È per la divisa, vero?», roteò gli occhi al cielo. «Non pensavo che anche tu potessi dire una cosa del genere, è così frivola!».

L’arcangelo rise, stringendole una mano sul tavolo, di fianco alla tazza di caffè di Evelyn. «Non parlavo della divisa, anche se ammetto che fa un certo effetto su di te», sollevò ancora le sopracciglia, in quel modo ammiccante e un po’ provocatorio, ma poi tornò serio: «Parlavo del fatto che hai scelto di volare».

«Un modo come un altro per sentirti più vicino», abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata, ed accarezzò col pollice il dorso della mano di Franky. Dopo un po’, notando il suo sguardo tenero ancora fisso su di lei, sorrise maliziosa: «E poi pensavo che magari avevo più opportunità di fare un incidente, lavorando sempre sugli aerei, e che tu saresti venuto a salvarmi».

«Dici sul serio?».

Evelyn sollevò lo sguardo, colpita dall’improvvisa serietà nella sua voce, e si accorse della preoccupazione e dello scetticismo che aleggiavano nei suoi occhi. «Ma no! Stavo scherzando!», rise, sinceramente divertita. «Ci hai creduto veramente?».

«Beh, conoscendo tua madre…».

«Perché, che ha fatto mia madre?».

Franky scosse il capo, ridacchiando. «Una volta, da ragazzina, è uscita di casa col proposito di ficcarsi nei guai, in modo tale che io corressi a salvarla, solo per vedermi. Ha rischiato molto e, sai, avevo timore che fosse una cosa genetica».

Evelyn sorrise, anche se colpita nel profondo. «Qualcosa di genetico deve pur esserci».

«Come?», chiese sbigottito.

«Ti sei innamorato sia di mia mamma che di me; qualcosa di genetico deve pur esserci».

Franky sollevò lo sguardo e si portò una mano sul mento, meditabondo. «Può essere… Da piccolo la prima volta che ho visto la madre di Zoe me ne sono innamorato».

Quella volta fu Evelyn, sconvolta, ad esclamare con tanto d’occhi: «Dici sul serio?».

L’arcangelo la guardò per qualche secondo in silenzio, come se non fosse mai stato più serio in vita sua, però non resistette a lungo e scoppiò a ridere, contagiando Evelyn e facendole trarre un sospiro di sollievo: non sapeva come avrebbe reagito, se Franky fosse stato davvero attratto da sua nonna.

«Visto che siamo in tema», incominciò l’arcangelo, «Martin? Nel senso, voi…?».

Non ci fu bisogno che Franky continuasse, Evelyn aveva capito a cosa si riferiva e rispose, con un antico dispiacere nella voce: «No, non stiamo più insieme. E' durata due anni, poi ci siamo lasciati. Abbiamo capito entrambi che non c’erano speranze per noi, non eravamo fatti l’uno per l’altra».

«Ho capito», mormorò. «E ci sono stati altri, dopo di lui?».

«Storie brevi, di poco conto», sventolò la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa – i ricordi delle persone che a volte aveva usato, nelle quali aveva continuato a cercare qualcosa di Franky, non trovandolo. «Tu, invece?».

Franky sgranò gli occhi, indicandosi. Non si aspettava che Evelyn gli rivolgesse la stessa domanda, forse perché non si aspettava che un giorno avrebbe dovuto confessarle che anche lui aveva avuto diverse storielle, prive di significato. A qualche ragazza aveva pure voluto bene, gli era anche dispiaciuto troncare con loro, ma era stato un dispiacere superficiale, creato soltanto dalle lacrime che aveva visto sui loro visi. Le ragazze si innamoravano di lui, lui gli voleva bene, ma non le amava. Non sarebbe mai stato in grado di amarle.

«Anche io come te», rispose, schiarendosi la voce.

Forget everyone else, I've tried to convince myself
That it was only time we lost, but I'm not as strong as I thought
Forget who we've been with, the thought just makes me sick
Forget our year apart, this is where we are

«Da quando ho iniziato a lavorare a tempo pieno come arcangelo non ho molto tempo per le donne, le uniche che vedo regolarmente sono Afrodite e Inge, le mie compagne di lavoro; e poi Kim, ovviamente…».

«Kim», Evelyn ridacchiò. «Poverina, prima che mi salvasse la vita da quel demone la odiavo davvero tanto, ero gelosissima».

«Sì, mi ricordo. Adesso sta con Raphael, un angelo poliziotto, il suo migliore amico. È una storia un po’ lunga da spiegare, ma io ero certo che quei due si sarebbero ritrovati, un giorno».

«Lei è felice?».

«Sì, molto. Ha finalmente trovato la pace, qualcuno che le permettesse di dimenticarsi del suo amore terreno».

Evelyn abbassò lo sguardo, pensando che forse, un giorno, anche Franky avrebbe trovato qualcuno che gli avrebbe fatto dimenticare lei; nel suo caso, invece, una persona del genere non esisteva: l’arcangelo sarebbe sempre stato l’amore della sua vita, quello irraggiungibile; avrebbe potuto amare qualcun altro, ma mai come aveva amato ed amava lui.

«Evelyn…».

Sollevò gli occhi ed incontrò i suoi, bellissimi e traboccanti d’amore. Franky le prese la mano, se l’avvicinò alla bocca e ne baciò le nocche, facendola rabbrividire.

«Non devi aver paura, perché nemmeno io riuscirei ad amare qualcun’altra come amo te. Capiterà sicuramente, che uno di noi due troverà una persona che ci vorrà bene per quello che siamo e noi vorremo bene a quella persona, ma non devi averne paura: ama, ama e basta».

 

***

 

Zoe, accoccolata contro il petto caldo di Bill, fece una smorfia quando il telefono posato sul suo comodino incominciò a trillare. Odiava quando qualcuno, chiunque fosse, rompesse il magico equilibrio dei sensi che si creava dentro di lei dopo aver fatto l’amore con l’uomo che amava.
Lo sentì ridacchiare, mentre si girava e si metteva seduta con la schiena contro la spalliera del letto, il lenzuolo tenuto sul petto nudo, per rispondere alla chiamata.

«Tom, che cosa vuoi?», berciò irritata.

«Ciao Zoe, anche io sono contento di sentirti. Ascolta, è successa una cosa strana prima, alla partita. A proposito, hanno vinto, Arthur ha anche segnato un rigore!».

«Bene, sono contenta».

«Sì infatti, posso percepire la tua gioia da qui. Comunque, ti dicevo, è successa una cosa strana. C’era un ragazzo a vedere la partita e somigliava tremendamente a Franky… Aveva qualche anno in più, ma aveva i suoi stessi occhi…».

Zoe, fattasi improvvisamente più attenta, ripensò a quella mattina, al dialogo che aveva intrattenuto con una persona che aveva scambiato come la voce della sua coscienza. «E poi cos’è successo?», gli chiese.

«Nulla, io sono andato da lui, l’ho fermato, ma sembrava che non mi conoscesse, anche se poi ha sparato una di quelle frasi tanto da Franky. Un minuto dopo non c’era più».

Il cuore ormai le batteva forte nel petto, alla speranza che forse avrebbe rivisto il suo Franky dopo ben dodici anni. Voleva ringraziarlo per averla salvata e per quello che sicuramente aveva fatto durante il suo lungo periodo di coma. Non ricordava quasi nulla, ma le poche cose che ricordava erano direttamente legate a lui; a volte non avevano senso, ma era bello pensare che lui non l’aveva abbandonata un attimo e si era preso cura di lei per tutto quel tempo, fino a quando non si era risvegliata.

«Ma scusa, Zoe…», interruppe i suoi pensieri Tom. «Dove siete?».

«A casa, perché?».

«Oggi non doveva mica arrivare Evelyn? Non dovevate andare a prenderla all’aeroporto?».

Zoe sgranò gli occhi e guardò Bill al suo fianco, che a sua volta la guardò preoccupato. «Evelyn… Ci siamo dimenticati di Evelyn!».

Bill si tolse di dosso le coperte in fretta e furia ed incominciò a rivestirsi. «Menomale che forse non era così importante!».

 

***

 

Tom chiuse la chiamata e scosse il capo, mentre si grattava la nuca. Non poteva smettere di pensare a quello strano ragazzo: possibile che fosse davvero Franky?

Decise di andarsi a fumare una sigaretta per liberarsi un po’ la mente. Si alzò dal divano, prese il suo giubbino e cercò nelle tasche il pacchetto di sigarette e l’accendino. Controllò nelle tasche laterali, dove gettava sempre tutto, ma trovò soltanto l’accendino.

Spazientito ed arrabbiato, biascicò: «Se Arthur l’ha fatto di nuovo giuro che questa volta non la passa liscia», ricordandosi della volta in cui il figlio gli aveva fregato le sigarette per fumarsele fuori con gli amici.

Provò a cercare comunque nelle altre tasche, facendo del suo meglio per mantenere la calma, quando trovò un pacchetto nella tasca interna. Era già pronto ad esultare, ma qualcosa lo fermò: quel pacchetto era nuovo. Era certo di averne fumato quasi metà, quel pomeriggio alla partita, e di non averne comprato un altro, quindi… da dove arrivava?

Nella stessa tasca in cui aveva trovato il pacchetto misterioso, trovò anche un paio di fogli piegati in quattro. Li aprì, col cuore già in tumulto, e sgranò gli occhi di stupore quando vide scarabocchiato uno spartito, con sopra il titolo: “Sogni d’oro, Thomas”. Come un flash, gli venne in mente quando quello strano ragazzo gli aveva dato quella pacca di conforto proprio sul petto, in corrispondenza a dove c’era la tasca in questione. Guardò sia gli spartiti che il pacchetto di sigarette e, soffermandosi su quest’ultimo, si ricordò anche di quando Franky gli aveva rubato e finito un intero pacchetto. Che cosa gli aveva detto quella volta? «Mi devi un pacchetto di sigarette».

Corse nel suo studio, si chiuse dentro e si mise seduto al pianoforte. Sistemò di fronte a sé i fogli con gli spartiti e posò le mani tremanti sulla tastiera. Fece un respiro profondo, poi iniziò a suonare. Era la stessa melodia che aveva sentito nei suoi sogni, la stessa che Franky aveva suonato per lui.
Si interruppe prima della metà, chinò il capo e si portò le mani sul viso senza riuscire a trattenere le lacrime, pensando che ce l’aveva avuto a tanto così.

 

***

 

«E così Tom è diventato nonno, eh?», ridacchiò. Chissà se il suo migliore amico aveva già trovato ciò che gli aveva lasciato.

«Sì, è nata una bambina alla fine. Lui avrebbe voluto il maschietto, lo sapevi, ma appena l’ha vista… è andato in estasi».

«Immagino». Franky annuì. «A proposito di padri… Sai che ho trovato il mio?».

Evelyn lo fissò intensamente, sorpresa. «Davvero?».

«Già. È un serafino, a volte ci capita di lavorare insieme. Da quando io e lui siamo entrati in buoni rapporti, abbiamo fatto sì che anche gli altri arcangeli ed il resto dei serafini collaborassero meglio, senza sbranarsi a vicenda. Ovviamente Ares è un caso perso, gli piace attaccar briga, però…». Incrociò lo sguardo perso di Evelyn e rise, coprendosi metà viso con la mano: «Scusami, non starai capendo nulla».

«No, non importa! Mi fa piacere che tu mi parli della tua vita».

Tra un po' sarà anche la tua. Franky ricambiò il bel sorriso della ragazza e continuò: «Vedi, io e mio padre non ci eravamo mai incontrati prima che io diventassi un arcangelo e in realtà nemmeno quella volta è stata una cosa voluta: ci siamo incrociati per caso e ci siamo riconosciuti, diciamo. Sinceramente, io all’inizio non volevo avere nulla a che fare con lui, perché credevo che avesse lasciato mia madre quando aveva scoperto di essere incinta e che quindi non avesse mai voluto riconoscermi come suo figlio, ma non era così. Mi ha spiegato come sono andate in realtà le cose: poco prima che mia madre scoprisse di avere me, mio padre aveva scoperto di essere un malato terminale. Non mi ha spiegato nei dettagli che cosa aveva, ma sapeva che non sarebbe riuscito a vivere abbastanza a lungo da potermi veder nascere. Per questo ha lasciato mia madre e perciò anche me, ma non le ha detto nulla della sua malattia, non voleva che stesse male per lui, anche se alla fine gliene ha fatto comunque e si è fatto odiare parecchio da me», sorrise e rimase un minuto in silenzio per riordinare le idee. Poi riprese: «Mi ha raccontato che una volta morto, è diventato l’angelo custode di mamma, decidendo di rimanere a lei invisibile. L’ha aiutata tantissimo durante la gravidanza, mi ha visto nascere… le ha dato tanto supporto morale dopo il parto, siccome era sola, e così via, le è stato vicino proprio come ogni angelo custode. Quando è morta, è stato un duro colpo anche per lui e posso capirlo benissimo, ma ha deciso comunque di proseguire la sua carriera e… indovina di chi è diventato angelo custode?».

Evelyn lo indicò, incredula, e Franky annuì portandosi le mani al petto. «Esatto, è diventato il mio angelo custode. Giuro che non me ne sono mai accorto, che la sua è stata una presenza più che silenziosa… io nella vita di Zoe in confronto a lui sono stato un martello pneumatico!».

«Forse… forse perché hai deciso di farti vedere», ipotizzò lei, con la fronte aggrottata.

«Sì, sicuramente è così. Ma credo che in certe occasioni non sarei mai riuscito a starmene in disparte, come invece ha sempre fatto lui».

«Probabile», ridacchiò.

«Riprendendo… Quando sono morto anche io, ecco, è lì che si è mostrata la sua vera natura di serafino. E da allora ha lavorato senza sosta, come se avesse voluto pagare per gli insuccessi che aveva avuto durante la sua carriera di angelo custode. Se non ci fossimo incontrati per caso, quella sera, lui stesso mi ha detto che non mi sarebbe mai venuto a cercare, si sentiva troppo in colpa, sia per me che per mia madre. Però quando mi ha visto, mi ha raccontato che si è sentito come sollevato, come se vedere ciò che ero riuscito a diventare fosse stata la sua liberazione, e ha trovato il coraggio per riavvicinarsi a me».

«È una storia molto commovente».

«Spero non ti metterai a piangere», sorrise beffardo, beccandosi un pugnetto sul braccio.

«Sei sempre il solito», rise. «Per fortuna».

L’arcangelo le sorrise e si passò una mano fra i capelli. «Tu sei cambiata molto, invece».

«Dici davvero?».

«Non esserne dispiaciuta, sei cambiata decisamente in meglio. Sei cresciuta, sei una donna forte adesso».

«Io non oserei troppo», sorrise imbarazzata, puntando gli occhi sulla sua mano stretta in quelle di Franky. «Una donna forte è Susan. Avrai sentito sicuramente di David, no?».

«Sì, il mio caro zio. È stato meglio così, in quel periodo non faceva altro che soffrire in silenzio».

«L’hai incontrato, in Paradiso?». La voce di Evelyn si fece cauta, come i suoi occhi che avevano sbirciato il viso di Franky prima di parlare.

Ma lui rispose sereno, come sempre. «Sì, per un attimo. L’ho abbracciato forte, come non facevo da tanto tempo, e gli ho detto che andava tutto bene».

«E adesso sta bene?».

Franky annuì. «Sì, molto bene». È un bellissimo bambino di cinque anni, con due genitori splendidi.

«Non c’eri al suo funerale…».

«C’ero. Ci sono sempre stato: dal momento in cui il suo cuore ha smesso di battere al momento in cui ci siamo separati in Paradiso. Solo che ero in borghese perché non avrei potuto assentarmi da lavoro. Nemmeno adesso potrei, diciamo che sono scappato…».

«Credevo che fossi in vacanza o che so io!», esclamò Evelyn col viso arrossato, sentendosi in colpa.

L’arcangelo la tranquillizzò accarezzandole i dorsi delle mani. «Quando il mondo andrà in vacanza, allora anche gli arcangeli ci andranno. Fino ad allora, però…», non concluse la frase e le fece l’occhiolino.

Fra loro cadde un profondo silenzio ed Evelyn, soffermandosi a scrutare il suo viso candido e bello come se lo ricordava, sentì come se un ago le trafiggesse il cuore. Il suo pensiero era andato al loro bambino che non c’era più e si rese conto che non ne avevano mai parlato durante la loro lunga chiacchierata sulle loro vite: era una coincidenza che avessero evitato entrambi quell’argomento?

La ragazza sollevò gli occhi, incontrò subito quelli di Franky e si accorse dell’ombra che li rendeva meno luminosi. Era sicuramente dovuta al suo ultimo pensiero, perché era certa che se si fosse guardata allo specchio avrebbe visto la stessa malinconia aleggiare nei propri.

Sospirò brevemente, stringendo un po’ più forte la mano di Franky, ed accennò un sorriso con il quale provò a riportare il sereno fra loro. Inoltre, sussurrò: «Manca tantissimo anche a me, il mio piccolo Junior».

«Junior?», balbettò l’arcangelo, sgranando un po’ gli occhi.

«Sì», mormorò Evelyn, abbassando il capo per celare il rossore sulle sue guance. «Il nome completo sarebbe Franklin Junior, ma in tutti questi anni per comodità l’ho sempre chiamato Junior».

«Gli hai dato un nome…», disse ancora Franky, con un fil di voce.

«Scusami se l’ho deciso da sola… Non ti piace, vero?».

Franky le sollevò le mani dal tavolo per portasele vicine al viso, con più precisione alle labbra per accarezzarle con baci lievi. Evelyn fu costretta ad incontrare di nuovo i sui occhi e questa volta li vide umidi di lacrime, ma luminosi e felici.

«È un nome bellissimo», le sussurrò con voce tremante e colma d’amore. La ragazza si lasciò andare ad una mezza risata di sollievo e se non fosse stato per la suoneria del suo cellulare si sarebbe commossa tanto da scoppiare a piangere. 

Evelyn rispose portandoselo all’orecchio senza nemmeno guardare chi fosse. «Pronto?».

«Tesoro! Perdonaci, ci siamo proprio dimenticati che saresti arrivata oggi! Ieri me lo continuavo a ripetere, non vedevo l’ora, ma si vede che la vecchiaia…».

Franky ridacchiò sotto i baffi, mentre si alzava ed andava a pagare il caffè di Evelyn, e lei riuscì ad intendere perfettamente le parole che le aveva rivolto l’arcangelo qualche tempo prima: «Ho già pensato io a loro».

«Non fa niente mamma, non ti preoccupare», rispose, lanciando un’occhiata eloquente al ragazzo, che continuò a ridersela.

«Dove sei tesoro? Noi stiamo parcheggiando!».

«Sono… di fronte al bar. Ci vediamo lì». Chiuse la chiamata e raggiunse Franky, che l’aspettava col braccio aperto di fronte all’uscita. Si accoccolò contro di lui senza pensarci due volte, ma gli rivolse uno sguardo severo, dicendogli: «Hai fatto dimenticare ai miei genitori di venirmi a prendere!».

«Non dirmi che non ti ha fatto piacere che io l’abbia fatto», la ammonì e le pizzicò il naso, sussurrando malizioso: «Perché non ti crederei».

Evelyn non poté ribattere, perché era più che felice che l’avesse fatto: avevano potuto passare un bel pomeriggio insieme, dopo così tanto tempo. Il suo cuore ora era come sazio, alleggerito, libero da qualsiasi peso, anche se già si preoccupava della loro imminente separazione.

Si girò fra le sue braccia, dando le spalle alla direzione da cui sarebbero arrivati sua madre e suo padre, e lo guardò negli occhi intensamente: «Non andartene».

«Devo, Evelyn».

«Allora… allora promettimi che verrai presto, prestissimo, a trovarmi di nuovo, a casa mia», lo guardò supplichevole. «Sai dove abito, no? Ad Ottawa».

«In Canada? Oh, ora capisco come mai parli così bene il francese! Come mai ti sei trasferita proprio lì?», domandò, non per glissare, ma sinceramente incuriosito.

«Per la neve. Io amo la neve», rispose senza nemmeno pensarci.

Franky ricordò quella mattina in cui l’aveva svegliata e le aveva annunciato che fuori stava nevicando. Sorrise soprappensiero, poi la guardò negli occhi e le accarezzò i capelli prendendole il volto fra le mani. «Verrò, te lo prometto».

Evelyn, col cuore che le batteva forte, si voltò e scorse i visi dei suoi genitori fra la folla, che si guardavano intorno cercando il bar da lei indicatogli. Si girò di nuovo verso di lui e farfugliò: «Il nostro giuramento è ancora valido?».

«Che cosa?», balbettò, ma lei non gli diede il tempo per rifletterci ulteriormente: si sporse verso di lui e lo baciò sulle labbra.

Franky la guardò incredulo, ma presto si lasciò andare, chiuse gli occhi e le avvolse le braccia intorno alla vita, poi la tirò su e se l’appoggiò addosso per poterla baciare sulla gola. Evelyn rispose con un rantolo soffocato, intriso di piacere, e non avrebbe voluto lasciarlo mai, ma l’arcangelo se la fece scivolare addosso ed ebbe soltanto il tempo di baciarla un’ultima volta sulla fronte prima di sparire fra la folla.
Evelyn lo perse di vista e si morse il labbro inferiore, sperando con tutta se stessa che Franky mantenesse la sua promessa.

«Tesoro!», sentì strillare sua madre alle sue spalle e si girò spaventata. La donna le gettò le braccia al collo e la strinse forte a sé, stordendola ancora di più. «Mio Dio, tesoro, quanto ci sei mancata!».

«Anche voi mi siete mancati tanto», ebbe la forza di rispondere, mentre si sistemava la giacca del tallieur blu che indossava e che durante l’abbraccio con Franky si era un po’ gualcita.

«Ma perché non hai chiamato subito!?», le domandò suo padre, quando fu il suo turno per i baci e gli abbracci.

«Ho incontrato un mio amico e mi sono fermata un po’ con lui, il tempo è volato…».

Zoe notò i suoi occhi brillare ed arricciò il naso. «Che amico?».

«Un mio amico, mamma», ripeté scocciata, pensando che aveva sbagliato a parlare. Ma nel contempo sorrise, perché la sua famiglia le era mancata veramente tanto. «Anche lui lavora volando», aggiunse per soddisfare la curiosità della madre.

«Uno steward?», chiese suo padre.

Evelyn ridacchiò, annuendo. «Diciamo di sì».

 

***

 

Si torna a casa.

L’aereo decollò senza problemi, due sue colleghe mostrarono ai passeggeri le solite procedure da tenere in caso di emergenza, poi passarono tutte insieme per distribuire da mangiare, da bere ed alcune riviste.

«Per me un caffè decaffeinato, per favore».

Evelyn diede la bevanda alla signora che gliel’aveva chiesta e le sorrise educatamente. La donna fece per prendere il portafoglio, ma sua figlia, una bambina dai capelli biondi e un paio di occhiali spessi che le cadevano sul naso, le prese il braccio e gridò:
«Mamma, mamma! C’è un angelo seduto sull’ala dell’aereo!».

La madre annuì comprensiva e guardò l’hostess con sguardo di scuse, probabilmente pensando che la sua bambina avesse fin troppa fantasia. Ma Evelyn si abbassò accanto alla bambina e guardò fuori dall’oblò dal quale si vedeva l’ala destra dell’aereo.

«Signorina, tu lo vedi?», le domandò con voce candida.

Evelyn le posò una mano sui capelli e le sorrise amorevole. «Sì, tesoro, lo vedo».

La mamma sorrise allo stesso modo, col cuore sollevato: quell’hostess era davvero carina a stare al gioco di sua figlia, mentre lei non ne sarebbe mai stata capace, troppo occupata ad avere una paura tremenda dell’aereo.
Ma in realtà, quello che non sarebbe mai stata capace di fare sarebbe stato realizzare che Evelyn lo vedeva sul serio, quell’angelo bello come il sole, che sorrideva ad occhi chiusi coi capelli e le piume delle ali spettinate dal vento.

Evelyn si sporse verso l’orecchio della bambina e le sussurrò: «È bellissimo, non è vero?».

La bimba annuì ed insieme salutarono quell’angelo, che aprì i suoi stupendi occhi verdi e ricambiò il saluto, tenendosi ben saldo all’ala su cui era seduto con l’altra mano.

                         

«Evelyn, niña!».

Raquel era la sua vicina di casa di origini cilene, simpaticissima e buona come il pane, che da quando la conosceva non aveva fatto altro che occuparsi di lei come se fosse stata sua figlia. Aveva persino le chiavi del suo appartamento, casomai fosse successo qualcosa durante i suoi lunghi periodi di assenza per il suo lavoro di hostess, ed Evelyn ricambiava tutti i favori occupandosi, quando poteva, del figlio più piccolo della donna, Caesar, un bambino dolcissimo e bellissimo che adorava.

Raquel le andò incontro e l’abbracciò forte di fronte alla porta del suo appartamento. «Sei tornata, finalmente». La guardò negli occhi con i propri lucidi e le prese le mani arrossate e fredde nelle sue. «Caesar mi assilla dal giorno in cui sei partita, chiedendomi quando tornavi – vuole andare assolutamente a pattinare con te sul Canale Rideau – e pensa un po’, adesso che ci sei è da un suo amichetto a giocare!».

Evelyn rise, col cuore invaso da un piacevole calore, quasi simile a quello delle mani di Raquel intorno alle sue congelate. Era quella casa sua, quella la vita che voleva.

«Sono davvero contenta che tu sia tornata», le disse ancora la donna, materna.

«Anche io. Mi siete mancati tanto», rispose ricambiando.

«Oh, niña!», singhiozzò commossa, ma presto la cacciò via, spingendola verso la porta del suo appartamento. «Vai via, prima che tu mi veda piangere!».

La ragazza ridacchiò, ma fu felice di poter finalmente rientrare in casa. Erano mesi che non vi entrava ed era sempre bello, tornare e vedere che tutto era rimasto come l’aveva lasciato, eccetto la posta che aveva ricevuto e che Raquel le aveva sistemato ordinatamente sul tavolino di fronte al divano.

Per prima cosa lasciò il trolley all’ingresso, lo avrebbe sistemato più tardi. Si tolse i tacchi, lanciandone uno da una parte ed uno dall’altra, e solo con le calze di nylon camminò sul pavimento freddo. Si spogliò, disseminando vestiti ovunque nel corridoio e nel bagno, e si infilò sotto la doccia calda. I nervi le si rilassarono magicamente, la testa le si svuotò e sentì tutto il peso della giornata scivolarle addosso. Quando uscì, fu solo perché spinta dalla fame. A causa del fuso orario aveva gli orari tutti sballati, ma era abbastanza abituata ormai.

Andò in cucina e, come aveva previsto, non trovò quasi nulla: il frigorifero era vuoto, ovviamente, e quello che c’era nella piccola dispensa – una scatola di cereali, dei biscotti e un pacco di cracker – non era proprio quello che desiderava per cena. Così prese il cordless, digitò il numero del suo ristorante cinese preferito ed ordinò.
Per ingannare l’attesa si portò due pacchetti di cracker sul divano ed accese la tv. Ne mangiò a malapena uno, perché lentamente le palpebre si erano fatte sempre più pesanti e il sonno aveva minacciato il suo appetito. Combatté con tutte le sue forze per rimanere sveglia, ma alla fine crollò esausta con la testa sul bracciolo e le gambe piegate.

 

Una lieve pressione sull’angolo della bocca la fece svegliare di soprassalto. Si guardò intorno, col cuore che le martellava nel petto, e si accorse della coperta che l’avvolgeva. Non si ricordava di essersela portata…

Non poté soffermarsi a pensarci ulteriormente, perché sentì delle voci sul pianerottolo, tra cui riconobbe quella di Raquel, e il rumore delle chiavi che giravano nella toppa del suo appartamento.

«Mi dispiace molto, il campanello è rotto da tantissimo tempo ormai. E, sa, è appena tornata da un lungo viaggio, fa la hostess, probabilmente starà dormendo…». Raquel alzò lo sguardo e la vide sveglia, ma intontita, stesa sul divano che spegneva la televisione. Sorrise solare, rivolgendosi al ragazzo dai tratti asiatici dietro di lei: «Che le dicevo?». Poi aggiunse, parlando ad Evelyn: «Niña, è arrivata la tua cena!».

«Grazie», gracchiò. «E scusate, è che…».

«Oh, non c’è nulla di cui tu ti debba scusare!», la rassicurò Raquel.

Evelyn fece per alzarsi per andare a prendere il portafoglio, ma la donna la fece ricadere stesa sui cuscini e la ragazza sbuffò col sorriso sulle labbra, borbottando: «Nella borsa…».

Raquel prese il suo portafoglio nella borsa, pagò il ragazzo del take-away, poi rimise tutto al suo posto e posò il sacchetto con ciò che aveva ordinato sul tavolino di fronte a lei. «Ecco fatto».

«Grazie mille, niñera», ridacchiò all’espressione un po’ indispettita dell’amica all’udire quel soprannome che le aveva affibbiato quando ancora il soprannome “niña” (“ragazzina”) non le piaceva; per ripagarla con la stessa moneta, allora, era andata a cercare su internet come si dicesse “baby-sitter”, visto che con lei si comportava proprio come tale. Avevano avuto diversi battibecchi a proposito di quei soprannomi, ma col passare del tempo Evelyn aveva iniziato ad affezionarsi al suo, mentre invece Raquel continuava ad odiarlo. La bionda lo usava ancora solo quando voleva sottolineare le sue premure eccessive, una specie di presa in giro affettuosa.

«Davvero, non dovevi», aggiunse e si mise seduta sul divano, sistemandosi meglio la coperta sulle gambe. La accarezzò e soprappensiero si passò anche due dita sull’angolo su cui aveva sentito quel bacio appena accennato.
«Raquel…», mormorò. «Me l’hai messa tu questa coperta?».

La donna la guardò senza capire dove volesse arrivare e rispose: «No, sono stata di là con Caesar fino a quando il ragazzo del ristorante cinese non ha suonato da me per chiedermi che fine avessi fatto. Ma perché me lo chiedi, scusa? Non te la sei messa tu, quando guardavi la tv?».

Evelyn ne strinse il bordo fra le mani ed annuì. «Sì, è probabile».

Raquel fece un passo indietro, preoccupata dal suo sguardo spiritato che però confutò alla stanchezza, e disse: «Adesso devo proprio andare, ho lasciato Caesar di là da solo…».

«Certo, non ti preoccupare, vai pure. Grazie mille», rispose la solita Evelyn di sempre, con un sorriso leggero sulle labbra. «Ah! Di' a Caesar che questo week-end sono libera, se vuole andare a pattinare».

«Glielo dirò sicuramente. Buona serata, niña. Riposati, mi raccomando».

«Ai suoi ordini», fece il saluto militare e ridacchiò.

Raquel la rimproverò con lo sguardo, tradendosi però con un sorriso, poi la lasciò sola. Evelyn prese la confezione degli spaghetti di soia e le bacchette ed andò alla finestra del salotto, si appoggiò con una spalla al muro e mentre mangiava osservò la collina del Parlamento canadese illuminata e il cielo scuro punteggiato da piccolissime stelle. All’improvviso vide una stella cadente e chiuse gli occhi per esprimere il suo desiderio.

Tornò seduta sul divano e riaccese la tv, finì di mangiare e solo quando si rialzò per gettare tutta la spazzatura nel cestino si accorse di un fogliettino che probabilmente doveva essere caduto quando Raquel aveva messo il sacchetto sul tavolino. Si inginocchiò a raccoglierlo e lo lesse senza rialzarsi in piedi:

 

Dormivi così bene, non potevo svegliarti.
Un giorno voglio venire anche io a pattinare sul canale ghiacciato, posso? =)

 

Non si era firmato, ma Evelyn conosceva bene quella scrittura e solo una persona sarebbe stata in grado di entrare in casa sua senza chiavi e senza svegliarla. Quella persona l’aveva anche baciata.

Tornò alla finestra, appoggiò una mano sul vetro freddo e dall’altra parte una mano si sovrappose alla sua. Sollevò lo sguardo ed incontrò quello di Franky, che si avvicinò al vetro e, chiudendo gli occhi, posò le labbra su di esso. Evelyn fece lo stesso, rimase in quella posizione per qualche secondo, poi sollevò le palpebre e l’arcangelo non c’era più.
Ma l’avrebbe rivisto, ne era certa. Avrebbero pattinato insieme sul canale ghiacciato.

 

The End

 

____________________________________

 

 

Ho scritto "The End", ma dopo aver scritto questo terzo e del tutto inaspettato sequel ho capito che è veramente difficile stabilire quando qualcosa, soprattutto una storia alla quale ci si affeziona in questo modo, deve finire. Quindi è solo una formalità, anche se non credo che... ah, meglio che sto zitta :)

Spero che questo epilogo vi sia piaciuto, credo che sia uno dei più bei finali che io abbia mai scritto (apriti cielo, ho detto che un mio finale è bello!).

Ringrazio davvero di cuore tutti quelli che mi hanno sostenuta, che hanno reso grande questa FF, che si sono affezionati, emozionati e che hanno sempre dato prova della loro vicinanza. In questo caso ringrazio ovviamente chi ha recensito capitolo per capitolo, chi più chi meno, e le persone fisiche che non c'è bisogno nemmeno di nominare, perchè lo sanno. Come dire, questa storia è dedicata a loro <3

Di particolare importanza sono le canzoni usate in questo capitolo: Faith in fate, dei The Coronas e Change my name, dei Trading Yesterday. Non so proprio come avrei fatto senza la mia colonna sonora, come al solito la musica mi ha salvato la vita ;)

Spero di rivedervi tutti presto e... che dire. Boh, non ho più parole. Le migliori che avevo ho cercato di metterle tutte in questa storia, ci ho messo proprio l'anima... sì, è proprio come se in ogni capitolo ci fosse un pezzetto della mia anima. Abbiatene cura.

_Pulse_

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