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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Not over at all ***
Capitolo 2: *** Body and Spirit ***
Capitolo 3: *** My part of her ***
Capitolo 4: *** Change of programs ***
Capitolo 5: *** Your happiness is there, with them ***
Capitolo 6: *** Bomb news ***
Capitolo 7: *** Home, nasty home ***
Capitolo 8: *** Impossible ***
Capitolo 9: *** If I could change the currents of our lives ***
Capitolo 10: *** First day, like another ***
Capitolo 11: *** You should shut up, 'cause this is love ***
Capitolo 12: *** Shattered ***
Capitolo 13: *** It's time (Don't forget us) ***
Capitolo 14: *** Save me ***
Capitolo 15: *** Prisoner of pain ***
Capitolo 16: *** Bye, mum ***
Capitolo 17: *** A love like ours ***
Capitolo 18: *** From the dark, into the light ***
Capitolo 19: *** Sunlight ***
Capitolo 20: *** Overdose of you ***
Capitolo 21: *** Archangel of the Sun ***
Capitolo 22: *** Come back ***
Capitolo 23: *** Epilogo - All this time, we were waiting for each other ***
Capitolo 1 *** Not over at all ***
Allora... Io non so bene
perché, ma la mia mente mi ha fatto immaginare un terzo
sequel per Franky. L'ispirazione è stata così
forte che non ho proprio potuto dirmi di no, che ormai questa storia
era bella che finita. Forse anche perchè sono molto, molto,
molto - e ripeto molto
- affezionata a questa storia e a questi personaggi - Franky per primo.
Quindi... l'ho scritto.
Non sapevo se pubblicarlo ed è stato davvero difficile
decidere, ma... penso che sia meglio che giudichiate voi.
Perchè siete voi che rendete grande e soprattutto possibile
una storia, no? Quindi, a voi l'arduo compito di giudicare e nel
migliore dei casi di approvare.
Spero davvero che questa storia non rovini tutto ciò che
c'è stato prima - Nothing
ed Everything
- e che sia capace di trasmettervi qualcosa.
Ah, come sempre ripeto: i Tokio hotel non mi appartengono e con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo.
Ora vi lascio leggere :)
Grazie dell'attenzione!
P.S. Dico subito che la
canzone che ho usato in questo capitolo è Phantom rider,
dei TH *-*
1.
Not over
at all
Stava per tornare al suo
appartamento, dove avrebbe passato l’ennesima noiosa serata
di fronte alla tv.
Magari avrebbe preparato la lezione per il giorno successivo, nella
quale
avrebbe parlato degli Intrappolati.
Sorrise ripensando a Jole e a
tutto quello che avevano passato insieme a quella banda di sciamannati.
Erano anni che non li
guardava
negli occhi sapendo di essere visto, come erano anni che aveva iniziato
a fare
il professore nella stessa scuola che aveva dovuto frequentare lui
prima di
diventare un angelo custode. E non aveva nemmeno dovuto studiare per
ottenere
quel ruolo! Nel suo corso serale, infatti, oltre a dare informazioni
tecniche,
raccontava delle proprie esperienze personali e le offriva ai giovani
angeli
custodi. Non si poteva dire con certezza che lui insegnasse:
si metteva seduto sulla cattedra, gambe penzoloni, e
rispondeva alle domande dei suoi allievi, dando consigli e pareri
personali.
Aveva accettato quell’incarico
sotto le pressioni di San Pietro, euforico per questa
novità: lui era certo che
con questo corso sarebbero aumentati gli angeli custodi e, vista la
fiducia che
riponeva in Franky, lo aveva spronato fino a farlo cedere. In
realtà, a
convincerlo era stato ben altro: preparare i nuovi angeli custodi alle
eventualità e alle difficoltà che lui si era
trovato ad affrontare da solo, l’aveva
spinto a compiere quella scelta, ma anche la semplice
curiosità di poter sapere
il motivo per il quale ognuno di loro aveva deciso di accettare quella
missione
e la voglia di vedere nei loro occhi lo stesso ardore e lo stesso amore
che
aveva spinto lui a farlo.
L’aula era
deserta, i suoi
studenti erano già usciti tutti e lui stava raccogliendo i
fogli sui quali si
era appuntato le domande, le frasi, o anche solo alcune delle parole
più belle
che aveva sentito. Lo faceva sempre e ogni tanto, a casa, si divertiva
a
rileggerle e a sorriderci sopra. Dopotutto, anche lontano dalle persone
che
amava, aveva trovato la sua felicità.
Un colpetto di tosse gli
fece
portare lo sguardo all’ingresso dell’aula, dove
vide Kim, con il viso arrossato
e i capelli neri che lo contornavano. Era una sua alunna, aveva
all’incirca la
sua età – l’età in cui era
morto – ed era una delle migliori secondo lui.
Inoltre, gli ricordava moltissimo Zoe.
«Kim, che ci
fai ancora qui?», le
chiese, sorpreso.
«Professore…
ecco…», balbettò,
diventando sempre più rossa ed abbassando lo sguardo.
«Possibile che
solo tu ti ostini
ancora a chiamarmi professore?
Sai
che lo odio!».
«Scusi».
«Non
importa», ridacchiò. Era
così dolce. «Dovevi dirmi qualcosa?».
«Sì,
io… volevo chiederle se…
levadivenirealpubconnoi?», disse tutto d’un fiato,
per poi fare un grande
respiro profondo.
Franky sorrise,
aggrottando le
sopracciglia. «Rilassati e ripeti con calma».
«Io e i miei
amici ci chiedevamo
se voleva venire al pub con noi. Ma se ha altri impegni, o non ne ha
voglia fa
niente eh, io chiedevo soltanto…».
«Kim?».
La ragazza
sollevò lo sguardo e
diventò viola guardando gli occhi verdi e ridenti di Franky.
«S-Sì?».
«Vengo
volentieri».
***
«Papà,
mi sento una deficiente
con questo vestito».
«Oh, Evelyn,
quanto la fai lunga!»,
borbottò Bill, al volante della sua Audi bianca.
«Ma, scusa,
andiamo solo da zio
Tom a cenare!».
«Lo so, ma
volevo vedere come ti stava!
E poi ha detto che Jole aveva un annuncio da
fare…».
«Chissà,
magari c’entra Leo»,
ipotizzò Zoe, seduta al fianco di suo marito.
«Credi che
l’abbia messa incinta?»,
domandò divertito lui. Già immaginava il collasso
che avrebbe avuto Tom ad una
scoperta del genere.
«Magari le
chiederà di sposarla!»,
gridò entusiasta Evelyn, saltellando sul sedile posteriore.
«Sempre la
solita romanticona,
proprio come me», le disse Bill. «Però
sarebbe bello vedere Tom versione nonno…
Franky lo avrebbe preso in giro fino alla nausea!».
Voltò il viso verso Zoe e
le sorrise, stringendole la mano sulla sua gamba.
***
La serata si prospettava
davvero
piacevole.
Normalmente vedeva quei ragazzi
solo fra le quattro mura della scuola ed era bellissimo, quasi una
scoperta che
lo emozionava, osservarli seduti intorno al tavolo di un pub a
chiacchierare,
ridere e scherzare.
Tra loro gli sembrava di essere
tornato di nuovo il Franky sedicenne, nonostante dovrebbe aver avuto
ormai la
bellezza di quarant’anni. Era quella
l’età che sentiva dentro la maggior parte
del tempo, ma con loro l’adolescente che era sempre nascosto
in lui, da qualche
parte, stava tornando a galla.
Era seduto accanto a Kim
e ogni
tanto la scopriva ad osservarlo. Allora lui le sorrideva e lei evitava
subito i
suoi occhi, arrossendo sulle guance.
Era ormai sicuro che avesse una
cotta per lui, ma era sempre il suo professore e anche se aveva
l’aspetto di un
ragazzino era molto più grande di lei. Senza contare che il
suo cuore
apparteneva da sempre ad un’altra ragazza.
Ad un certo punto della
serata,
mentre ascoltava i ragazzi raccontare delle loro prossime visite ai
familiari e
ai fidanzati e alle fidanzate che avevano lasciato di sotto,
avvertì un brivido
fortissimo attraversargli la schiena, come se avesse appena messo le
dita nella
presa di corrente. I suoi poteri per proteggere la sua protetta col
passare del
tempo erano migliorati e gli bastò chiudere gli occhi per
vedere a spezzettoni
ciò che stava per accadere.
Il sangue gli si gelò nelle vene
e il suo cuore iniziò a scalpitare nella cassa toracica,
preso da un attacco di
panico.
Doveva assolutamente
raggiungerla, prima che fosse troppo tardi.
Si alzò
frettolosamente e corse
fuori dal pub senza dire niente a nessuno, lasciando i suoi alunni
sbigottiti.
«Professore,
dove va!?», gridò
Kim alle sue spalle, ma lui non vi badò, continuò
a correre verso l’Ufficio di
Collegamento.
***
Zoe alzò lo
sguardo verso il
cielo scuro e vide una stella cadente.
O forse un
angelo che vola alla velocità della luce,
pensò
sorridendo, un attimo prima che Evelyn gridasse terrorizzata.
Fece in tempo a vedere due fari
accecarla, ad udire le gomme stridere sull’asfalto, lo
schianto e poi nulla: il
nero e il silenzio.
***
Merda, merda, merda!
Arrivò sul
posto troppo tardi: l’incidente
era già avvenuto e il bilancio era addirittura peggiore
rispetto a ciò che
aveva previsto. Oltre alle due auto prettamente interessate erano state
coinvolte
altre tre vetture: una non aveva fatto in tempo ad evitare
l’impatto con l’auto
rovesciata di Bill, su cui viaggiavano anche Zoe ed Evelyn; le altre
due
avevano zigzagato per un po’, fuori controllo, e si erano
schiantate sui
guardrail che dividevano le corsie dell’autostrada.
C’erano altri cinque feriti,
oltre alla famiglia Kaulitz, tra cui due bambini, e proprio il padre
dei due
piccoli aveva già chiamato la polizia e
l’ambulanza, che stavano arrivando, ma
che non avrebbero fatto comunque in tempo. Per questo c’era
lui.
Atterrò con
le punte dei piedi
sull’asfalto e corse a perdifiato verso la vettura messa
peggio e che a lui
interessava di più.
Un forte odore di benzina gli
pizzicò il naso e capì che l’auto stava
per incendiarsi. Aveva i minuti
contati, ma era tutto un accartocciarsi di lamiere e rischiava di
compromettere
ancora di più la situazione se agiva di fretta.
Sentì Bill
mugugnare, chiamando
il nome di sua moglie e di sua figlia. Evelyn rispose con dei lamenti e
Franky
calcolò che se avesse aiutato prima loro due avrebbe avuto
tutto il tempo
necessario per salvare Zoe.
Andò da Bill
e pian piano lo
aiutò a disincastrarsi da quel putiferio. Fu inevitabile
trascinarlo sui vetri
rotti dei finestrini, con i quali si tagliò i palmi delle
mani e le braccia.
«Bill. Bill,
mi senti?», gli
chiese, cercando di fargli tornare un po’ di
lucidità.
«Franky?»,
biascicò.
«Esatto, in
ectoplasma ed ali.
Dobbiamo aiutarci a vicenda, ok? Dobbiamo collaborare. Ascoltami bene,
ascoltami».
Bill annuì
piano, con gli occhi
socchiusi e una smorfia di dolore sul viso.
«La macchina
sta per esplodere»,
lo informò. «Devi tirare fuori Evelyn e portarla
lontano da qui, io penso a Zoe».
Il cantante, capendo che
c’erano
in gioco le vite delle persone che amava, della sua famiglia,
racimolò tutte le
forze ancora presenti in lui e gattonò fino al finestrino
dal quale riusciva a
vedere Evelyn, accasciata sul tettuccio dell’auto con la
cintura di sicurezza
che le comprimeva l’addome. Aveva una lunga scia di sangue
che le scivolava
dalla tempia fino al collo e si teneva il braccio, lamentandosi.
«Tesoro, sono
qui», le sussurrò.
«Papà…
papà, mi fa male tutto»,
tossicchiò.
«Lo so, lo so
amore. Però devi
fare uno sforzo, devi uscire da qui. Vengo a prenderti».
Si infilò nel
finestrino,
accumulando ferite su ferite che in quel momento nemmeno
sentì, e le sganciò la
cintura, poi la prese delicatamente fra le braccia. La tirò
fuori con cautela,
facendo attenzione a non farle del male, ma si accorse che Evelyn si
mordeva le
labbra pur di non gridare di dolore.
In una frazione di
secondo,
mentre mancava ormai poco per trascinare del tutto Evelyn fuori
dall’auto, vide
Franky armeggiare con delle lamiere e con un tuffo al cuore
capì che Zoe era la
più grave fra loro. Lo sentì persino sussurrare:
«Resisti piccola, non farmi
brutti scherzi».
Calde lacrime gli
rigarono il
viso e nemmeno se ne accorse. Perché era successo a loro?
Quanto era grave Zoe?
Ce l’avrebbe fatta? Non era giusto, no…
«Muoviti,
Bill!», gridò Franky e
lui riuscì finalmente ad estrarre dalla vettura il corpo di
sua figlia.
La strinse a
sé e con uno sforzo
sovraumano la sollevò e si incamminò verso il
guardrail opposto, allontanandosi
zoppicando e trattenendo fra le labbra il dolore che avrebbe tanto
voluto
gridare.
Franky finì
di liberare il
passaggio per tirar fuori Zoe dalla carcassa dell’Audi. La
prese fra le braccia
e lentamente la trascinò verso di sé. Era priva
di sensi, le ferite che
riportava erano gravissime, in particolare perdeva sangue a fiotti da
una gamba
e i battiti del suo cuore erano debolissimi.
«Ce la puoi
fare, ce la puoi fare
piccola», singhiozzò, colto anche lui da un pianto
di disperazione, e la prese
fra le braccia.
Non fece in tempo ad
alzarsi, era
troppo tardi, così si accovacciò su di lei e le
fece scudo col proprio corpo.
Bill udì il
boato di una forte
esplosione alle sue spalle, che gli fece ronzare le orecchie, e un
violentissimo
vento ardente lo fece cadere riverso sulla strada, sopra il corpo di
Evelyn.
«Nemmeno noi angeli siamo
infallibili».
***
Tom, con solo Linda al
seguito
(Jole e Leo erano rimasti a casa per badare al piccolo Arthur), corse
più
veloce che poté lungo i corridoi del pronto soccorso, fino a
quando non vide la
stanza di Evelyn, nella quale gli avevano detto che avrebbe trovato
anche il
signor Kaulitz. Entrò spalancando la porta e si
immobilizzò sulla soglia, con
il fiato corto.
Evelyn, con un braccio ingessato
e una bendatura intorno alla testa, era aggrappata al collo di Bill con
il
braccio sano e singhiozzava violentemente contro la sua spalla,
biascicando
frasi a lui incomprensibili. Suo fratello gemello era messo meglio, ma
fu
comunque una sensazione orribile quella che provò vedendolo
pieno di cerotti e
con i vestiti strappati ed incrostati di sangue.
E pensare che se non
fosse stato
per un miracolo, a cui forse aveva già dato un nome, sarebbe
dovuto andare direttamente
all’obitorio.
Evelyn, accortasi dei
loro
visitatori, si scostò da suo padre, ma non smise di
piangere. Chiuse gli occhi,
voltando il capo verso la parte opposta, e si morse le labbra per
trattenere i
singhiozzi. Linda andò subito da lei a consolarla, mentre
Tom rimase ancora lì
impalato come un imbecille.
Le lacrime gli punsero
gli occhi
quando incontrò lo sguardo disperato di Bill. Quel dolore
non quantificabile lo
fece morire dentro a sua volta e allo stesso tempo gli diede la forza
per fare
i passi che li dividevano e prendergli il viso fra le mani per
accertarsi che
fosse ancora lì con lui.
«Fratellino»,
mormorò,
accarezzandogli le guance sporche di nero, il fumo
dell’esplosione che gli si
era appiccicato alla pelle. «Non farmi mai più una
cosa del genere, chiaro? Oh,
Dio». Lo strinse fra le braccia ed iniziò a
piangere pure lui, nascondendo il
viso nel maglioncino nero del gemello.
«Dov’è
Zoe?», chiese ad un certo
punto Linda, mordendosi l’interno della guancia.
«In sala
operatoria», soffiò Evelyn,
fra i singhiozzi. «Non si sa nulla… Non voglio che
muoia».
«Non
morirà, tesoro, non morirà»,
la rassicurò a stento la donna, cingendole il capo con le
braccia.
Tom strinse ancora di
più Bill.
Cercava di aggrapparsi a lui per trattenere la rabbia e per non andare
ad
uccidere con le sue stesse mani l’uomo ubriaco fradicio che
si era messo a
guidare contromano in autostrada a velocità folle per poi
schiantarsi contro
l’auto di Bill, rischiando di farli scomparire per sempre.
Era colpa sua se il
suo fratellino e la sua nipotina erano ridotti in quello stato, era
colpa sua
se Zoe stava ancora rischiando la vita sotto i ferri e non era giusto
che lui
non si fosse fatto un graffio, uno!
Un grido straziante e
che gli parve
di riconoscere lo fece sollevare dal corpo di Bill. I gemelli si
guardarono con
gli occhi spalancati e poi velocemente, nei limiti del possibile,
uscirono in
corridoio.
Steso sul pavimento
piastrellato,
presso la porta della sala operatoria in cui si trovava Zoe,
c’era Franky. Tom
e Bill lo riconobbero subito, con un tuffo al cuore, e
quest’ultimo si disse
che allora non era stato solo un sogno, era stato davvero lui ad
aiutarlo, ad
avvertirlo del pericolo e a proteggere Zoe nell’esplosione.
Fece un passo in avanti
per
raggiungerlo, ma Tom lo prese per la spalla e lo fece rimanere accanto
a sé. Lo
guardarono gridare e piangere disperato, nonostante sembrasse stremato,
privo
di forze, fino a quando un angelo che loro non avevano mai visto
apparve al suo
fianco e lo fece sparire con sé.
Poco dopo quella scena
che li
aveva lasciati con un macigno al posto del cuore, un dottore col camice
verde
sporco di sangue si avvicinò a loro con una faccia che non
prometteva nulla di
buono.
«Abbiamo fatto
tutto il possibile»,
disse subito, non dando nemmeno il tempo ad uno dei due di chiedere di
Zoe. «Siamo
riusciti ad arrestare l’emorragia alla gamba, anche se
abbiamo dovuto farle
delle trasfusioni. Purtroppo però ha subito un forte trauma
cranico…».
«Vada al
dunque!», gridò Tom,
esasperato e con il fiato corto.
Il dottore
sospirò. «È in coma».
Le urla di Franky
rimbombarono
nelle loro teste.
Goodbye, into the
light
Like a phantom rider,
I’m dying tonight
So dark and cold
I drive alone
Like a phantom rider,
can’t make it all on my own
|
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Capitolo 2 *** Body and Spirit ***
2. Body and Spirit
Evelyn dormiva placidamente nel suo
letto.
Finalmente, dopo ore di pianto e di agonia alla notizia che Bill era
stato costretto a darle, consapevole che avrebbe infranto il cuore a
lei proprio come era successo a lui, era riuscita a chiudere gli occhi
e ad abbandonarsi all’abbraccio di Morfeo.
Lui, seduto al suo fianco, non era
riuscito ad addormentarsi ed era rimasto tutto il tempo al suo fianco,
ad osservarla. Aveva il viso tondo di Zoe e i lineamenti delicati, come
i suoi; il suo naso e la bocca della madre; i capelli biondo scuro,
proprio come i suoi, e quegli occhi che per fortuna erano chiusi. Ma
prima o poi si sarebbero riaperti e la voragine che gli era nata in
mezzo al petto gli avrebbe fatto male, vedendo quegli specchi azzurri
identici a quelli della donna che amava e che non avrebbe visto per
chissà quanto tempo.
Era riuscito a non piangere per
tutta la notte, in cui Tom non lo aveva abbandonato un attimo. Ora che
l’aveva costretto ad andargli a prendere qualcosa di caldo da
bere, diede libero sfogo alle lacrime appoggiando il viso al materasso
su cui dormiva sua figlia.
Era certo che Bill lo avesse
mandato al bar dell’ospedale solo per stare un po’
da solo. Dopotutto, non l’aveva lasciato un attimo e forse
– forse
– non si era accorto di essere stato un po’
soffocante. Aveva cercato di stargli il più vicino possibile
per fargli capire che lui c’era e ci sarebbe sempre stato, ma
forse aveva scelto il metodo sbagliato. Per questo aveva accettato di
andare a prendergli qualcosa da bere. Aveva capito che Bill voleva un
po’ di solitudine e, anche se gli faceva malissimo non essere
desiderato proprio in quel momento, gliel’aveva concessa.
Sospirò e si
passò le dita sulle palpebre che sentiva pesantissime.
Non aveva chiuso occhio quella
notte e aveva continuato a pensare freneticamente, fino a farsi andare
in fumo il cervello, a Franky. Si era chiesto se avesse provato a
salvarla come quando aveva rischiato la vita cadendo in quel lago e
aveva stabilito che doveva essere stato proprio così, visto
che era senza forze una volta uscito dalla sala operatoria.
Però non si spiegava quelle grida e quel pianto disperato:
infondo poteva andare peggio… Forse erano cose da angeli che
lui non poteva capire, ecco tutto.
La barista gli diede i due
caffè americani che aveva ordinato e si mise seduto ad uno
dei tavoli liberi per concedere a Bill ancora un po’ di tempo.
«E ora passiamo ad un
fatto di cronaca. Ieri sera, verso le venti, l’auto su cui
viaggiavano Bill Kaulitz, cantante e leader dei Tokio Hotel, con la
moglie Zoe Wickert e la figlia Evelyn di quattordici anni, è
stata completamente travolta da un’altra vettura, provocando
inoltre il tamponamento di altre tre auto. Il conducente
dell’auto che ha provocato l’incidente era ubriaco,
con tasso alcolemico cinque volte superiore alla norma, e viaggiava
contromano. I feriti, oltre la famiglia Kaulitz, sono cinque e sono
stati tutti trasportati con le ambulanze all’ospedale
Albertinen-Krankenhaus di Amburgo. Dalle notizie che sono trapelate la
più grave è la moglie di Bill Kaulitz, che
–».
Tom si era alzato e aveva spento il
televisore appeso in un angolo della stanza, stringendo i denti e
ricacciando indietro le lacrime.
Davvero un ottimo servizio, non
c’era che dire. (C’era mancato poco che i media lo
venissero a sapere prima di lui).
Aveva cercato in tutti i modi di non vedere le foto
dell’incidente, dell’auto sfasciata di Bill, di
restare fuori da quell’inferno che d’ora in avanti
si sarebbe portato nei sogni per molte notti, ma loro, come sempre,
avevano rovinato tutto.
«Va tutto
bene?», gli chiese la barista preoccupata, sporgendosi sul
bancone per guardarlo meglio.
«Alla grande»,
grugnì e, dopo aver preso i caffè che aveva
lasciato sul tavolo, uscì dal bar.
***
Franky aprì gli occhi di
scatto e schizzò seduto sul letto, gridando il nome di Zoe.
Aveva il respiro accelerato e gli ci vollero alcuni secondi per
riprendersi e capire che si trovava in un ospedale.
L’occhio gli cadde sul
comodino e vide un mazzo di fiori in un vaso, al quale era allegato un
bigliettino. Lo prese fra le dita e lo lesse ad alta voce:
«Auguri di pronta guarigione al nostro fantastico
professore».
Aveva riconosciuto subito quella
calligrafia così particolare, tanto che aveva imparato a
distinguerla dalle altre senza alcuna difficoltà anche se
aveva fatto scrivere dei brevi temi solo due o tre volte ai suoi
alunni. Era di Kim, non poteva sbagliare, e a confermare
l’esattezza della sua tesi c’era il fatto che la
prima firma del piccolo elenco composto da tutti i nomi dei suoi
ragazzi fosse la sua.
A quel pensiero così
carino gli si sarebbe riscaldato il cuore se fosse stato per un motivo
qualunque, uno stupido, ma non era affatto così: lui si
trovava lì perché aveva tentato il tutto per
tutto con Zoe e aveva consumato tutte le proprie energie. E non era
riuscito comunque nel suo intento. Aveva fallito e la voragine che
sentiva dentro lo stava lentamente consumando.
Ricordò il dolore
straziante provato dall’unico angelo che aveva visto fallire,
che aveva tenuto la propria protetta senza vita fra le braccia, e
riuscì finalmente a capirlo perfettamente. Quello era lo
stesso dolore che provava lui in quel momento. O forse no,
perché anche se lui aveva fallito, aveva anche vinto. Zoe
non era morta, era solo caduta in un sonno profondo e si sarebbe
risvegliata. Doveva
risvegliarsi.
Si strappò la flebo e
tutti gli altri cerotti magnetici che aveva appiccicati al corpo per
controllare i suoi parametri vitali e saltò giù
dal letto, barcollando. Ritrovò l’equilibrio e
camminò verso la porta, quando questa si aprì e
un’anima infermiera si parò di fronte a lui.
«Dove credi di andare?!
Non sei ancora guarito del tutto!».
«Me ne fotto
altamente!», scostò l’infermiera,
furibondo, ma non se la levò dai piedi facilmente. Alla
reception dell’ospedale gli chiesero di firmare dei moduli
per la libera uscita e solo allora se la scrollò di dosso.
Corse a scuola per parlare con San
Pietro, ma trovò un altro ostacolo a rallentarlo: Kim.
«Professore!»,
gridò vedendolo da lontano. La vide correre verso di lui, ma
Franky grugnì qualcosa ed andò dritto per la sua
strada.
«Professore! Professore,
si fermi!», urlò ancora e lo raggiunse a
metà scalinata. Gli si parò davanti e quando lo
guardò negli occhi tutta la sua sicurezza svanì
ed arrossì. «All’ospedale mi avevano
detto che sarebbe stato dimesso domani…».
«Beh, si
sbagliavano», disse frettolosamente.
«Aspetti!». Lo
rincorse e faticò un poco per stare al suo passo e allo
stesso tempo parlare con lui. «È vero quello che
si dice?».
«Che si dice?»,
domandò distrattamente.
«Che ieri sera
è dovuto andare di sotto per salvare la vita alla sua
protetta e che ci è mancato un soffio!».
Franky si irrigidì sul
posto e la guardò assottigliando gli occhi. «Chi
è che ha sparso in giro questa voce?». Non sapeva
nemmeno perché fosse così innervosito dalla
scoperta che già tutti conoscevano quello che era successo e
in quel momento non doveva nemmeno importargli, aveva altro a cui
pensare!
«Non lo so…
voci che girano», sollevò le spalle Kim.
Franky grugnì, sempre
più irritato, e riprese a salire gradino dopo gradino con
passo ancora più sostenuto. Stava per esplodere!
«Professore…».
Alla sua voce così debole e triste, però, non
poté far altro che fermarsi e voltarsi. «Lei se ne
dovrà andare per un po’, non è
così?». Anche la sua espressione era sinonimo di
puro dispiacere e a Franky gli si strinse il cuore.
Scese i gradini che li dividevano e
l’abbracciò, poi le diede un buffetto sulla
guancia. «Tornerò. Fai finta che il mio
sia… un corso di aggiornamento, ecco», le fece un
sorriso, strappandone uno anche a lei. «Quando
tornerò avrò un mucchio di altre cose da
raccontarvi».
«È una
promessa?», gli domandò.
«Certo. Ora devo proprio
scappare, abbi cura di te».
«Anche lei».
«E smettila di darmi del
lei!».
La lasciò con un sorriso
sulle labbra e sperò che anche lei, durante il periodo in
cui non si sarebbero visti, l’avrebbe ricordato in quel modo.
Aveva sbagliato a dimostrarsi così scontroso con una ragazza
dolce e sensibile come lei, infondo lei non c’entrava niente
e non doveva scaricare la sua frustrazione su nessuno.
Completò la scalinata
che lo avrebbe portato al piano in cui era situato l’ufficio
di San Pietro e, di fronte alla porta che aveva varcato tantissime
volte, fece un respiro profondo. Poi l’aprì.
Lo vide subito. Era rivolto verso le grandi vetrate che davano sul
giardino e aveva le mani giunte sulla schiena, come ogni qualvolta si
metteva a riflettere.
«Sapevo saresti
arrivato», disse il santo, voltandosi e sorridendogli
bonariamente.
«Ho bisogno di andare di
sotto», spiegò Franky con il fiato corto, gli
occhi imploranti. «Devo abbandonare il corso».
«Sapevo anche che avresti
detto queste parole».
«E io so che me lo
permetterà! Grazie mille!», esclamò
prima di correre fuori dall’ufficio lasciando San Pietro con
un palmo di naso.
«Franky, ma Zoe
è…!», tentò di chiamarlo,
sporgendosi in corridoio, ma il suo pupillo si era già
fiondato giù per le scale.
«Anche qui», disse sospirando, scuotendo il capo.
***
Tom fece apposta il giro lungo, al
ritorno, per non passare di fronte alla stanza in cui sapeva riposasse
Zoe.
Chiamò
l’ascensore e si diede del cretino: come poteva aver paura
della sua migliore amica che, oltre tutto, era in un coma profondo?
Forse era proprio quello a spaventarlo, il fatto che non avrebbe
riaperto gli occhi sentendolo entrare, né avrebbe sorriso e
riso alle sue battute stupide, né lo avrebbe preso in giro.
Almeno lo avrebbe sentito?
L’ascensore
arrivò, ma lui non ci salì, poiché
quando si aprirono le porte era già sulle scale.
In prossimità della sua
stanza sentì il cuore pulsargli in gola, lo stomaco
attorcigliarsi e le gambe tremare. Chiuse gli occhi e fece qualche
respiro profondo, giusto per regolarizzare i battiti e dirsi che
sarebbe andato tutto bene, poi aprì la porta e vi
entrò.
Per i primi istanti non riuscì ad alzare gli occhi dal
pavimento. Camminò a tentoni fino a raggiungere il comodino,
su cui lasciò il caffè di Bill. Il suo
l’aveva già finito da un po’.
Deglutì il nodo che
aveva in gola e si costrinse ad essere forte. Così
alzò gli occhi e la prima cosa che vide fu il viso placido
di Zoe: le palpebre nascondevano i suoi bellissimi occhi azzurri, le
ciglia lunghe accarezzavano la sua pelle ora più che mai
pallida e le sue labbra rosse sembravano dei petali di rosa; le uniche
cose che stonavano, in quella perfezione, erano il tubo che aveva in
gola e che le permetteva di respirare meglio e un taglio sulla fronte,
coperto da un grosso cerotto.
Fin lì tutto bene, anche
se le lacrime gli avevano pizzicato gli occhi.
Percorse il resto di lei con lo
sguardo, come se le stesse facendo una dettagliata scansione, e vide le
sue braccia fasciate, probabilmente per via delle ustioni provocate
dall’esplosione. Si chiese quanto fossero gravi quelle
abrasioni e quali fossero gli altri punti fasciati, quelli che erano
stati esposti al momento dello scoppio. Dedusse che, se il suo viso non
era stato sfregiato, doveva essersi trovata stesa a pancia in
giù e se Franky l’aveva davvero
protetta… forse non erano poi così gravi come
temeva. Forse i medici si erano chiesti com’era stato
possibile che si fosse bruciata “così
poco” e solo l’idea che non fossero riusciti a
darsi una risposta logica lo fece sorridere e commuovere: erano davvero
fortunati ad avere un angelo a vegliare su di loro.
Accarezzò il palmo
aperto della mano di Zoe, al cui indice aveva una piccola sonda, e si
mise seduto accanto a lei, trascinando vicino al letto una sedia di
plastica.
«Ehi Zoe, mi spieghi come mai sei sempre tu a finire nei
guai?», le sussurrò e pianse.
***
Zoe, da qualche parte
più su, sentì qualcuno piangere accanto a
sé e aprì gli occhi. Ma nell’immacolata
stanza d’ospedale era sola.
***
«Tieni, ti ho preso il
caffè», biascicò, tirando su col naso.
«Forse non è stata la scelta migliore, ora che ci
penso… E sarà anche freddo».
«Non importa,
Tomi», sussurrò e abbandonò il
bicchiere di carta spessa sul comodino, per tornare a contemplare il
viso della sua bambina e ad accarezzarle i capelli.
«Sono stato da
Zoe», gli confessò il maggiore, ancora in piedi
accanto a lui, scaricando nervosamente il peso da una gamba
all’altra.
Bill si girò lentamente
verso di lui e lo guardò con gli occhi grandi e lucidi. Tom
capì che voleva sapere come stava.
«Sembra…
sembra in ottima forma, vista così. È come se
dormisse. Non è così spaventosa come
immaginavo». L’ultima frase la mormorò,
abbassando il capo ed infilandosi le mani nelle tasche. «Se
vuoi, quando Evelyn si sveglia, vi accompagno».
«Sì»,
annuì Bill, con voce tremante.
Il sole del mattino illuminava il
soffitto bianco.
Franky entrò nella
stanza di Zoe passando per la finestra e rimase per qualche secondo a
guardarla, immobile, poi si mise seduto accanto a lei e si
stropicciò il viso, sospirando pesantemente.
Evelyn era silenziosa, seduta sulla
sedia a rotelle che suo zio Tom spingeva nei corridoi semideserti
dell’ospedale. Bill, che camminava accanto a lei, le teneva
una mano e con l’altra trasportava il trespolo della flebo
che la ragazza aveva ancora infilata nella piega del gomito.
Arrivarono di fronte alla stanza di
Zoe e Tom fermò la sedia a rotelle proprio di fronte al
vetro che permetteva di vedere all’interno della camera. La
mamma di Evelyn dormiva ancora, ma non era più sola: al suo
fianco c’era Franky, che le teneva una mano, e sia Bill che
Tom sobbalzarono vedendolo.
«Chi è quello
che sta tenendo la mano a mamma?», chiese la ragazza,
corrucciata.
I gemelli spalancarono gli occhi ed
esclamarono all’unisono: «Riesci a
vederlo?!».
Evelyn li guardò
preoccupata e suo padre e suo zio si scambiarono uno sguardo che gli
permise di decidere chi dei due le avrebbe spiegato come stavano le
cose. Toccava a Bill. Tom, nel frattempo, sarebbe andato a fare quattro
chiacchiere con l’angelo che non vedeva ormai da quattordici
anni.
Bill prese i manici della sedia a
rotelle e la portò accanto alle poltroncine blu di fronte
alla porta della stanza. Si mise seduto su una di esse e prese le mani
della figlia fra le sue, poi la guardò negli occhi.
«Ti ricordi di
Franky?», le domandò a bassa voce.
«Certo, tu e mamma me ne
avete parlato tanto», rispose con un’alzata di
sopracciglia.
«Ecco…
è lui, quello che sta tenendo la mano a mamma».
Evelyn strabuzzò gli
occhi. «Non è possibile, è morto quasi
venticinque anni fa!».
Il cantante guardò oltre
il vetro e vide Tom posare una mano sulla spalla di Franky.
Probabilmente lei, dalla sua posizione, non aveva notato le grandi ali
bianche piegate sulla sua schiena.
«È
l’angelo custode di tua madre».
Tom entrò nella stanza e
si avvicinò alla sedia su cui era seduto l’angelo.
Osservò Zoe in un silenzio sia fisico che mentale, per non
disturbarlo con pensieri che in quel momento sarebbero sembrati privi
di senso, poi posò una mano sulla sua spalla, sentendo un
piacevole calore pervadergli il petto.
Gli era mancata quella sensazione, forse più di qualsiasi
altra cosa: quella di sentirsi subito più leggero,
più sereno, solo al suo contatto. Era un potere che solo gli
angeli come lui possedevano e in quel momento avrebbe tanto voluto
fiondarsi fra le sue braccia per essere avvolto dalle sue ali ed
irradiato da quel calore.
«Sono arrivato
tardi», mormorò Franky dopo un po’, con
una voce così flebile che a malapena si fece sentire.
«Sono certo che hai fatto
tutto il possibile», lo rassicurò in tono pacato.
«Se solo
l’avessi avvertito prima…».
«Franky».
Pronunciare di nuovo quel nome ad alta voce e a faccia a faccia con
lui, gli fece tremare il cuore e venire le lacrime agli occhi.
L’angelo lo guardò negli occhi per la prima volta
e anche i suoi erano lucidi, colmi di dolore.
Tom gli accarezzò il viso con entrambe le mani,
tracciò delle linee invisibili sulle sue guance con le quali
arrivò al mento, poi si chinò verso di lui e gli
posò un bacio sulla fronte.
Franky sgranò gli occhi
e il suo cuore perse un battito, sorpreso da quel gesto fin troppo
affettuoso per uno come Tom, ma che aveva sempre sognato. Era un gesto
che fu in grado di ricambiare tutto il calore che lui sapeva offrire
alle persone che amava e si rese conto che erano passati tanti anni
dall’ultima volta che si era sentito così bene.
Forse troppi, perché quell’emozione fu
così forte e così inaspettata che, insieme a
tutti gli altri sentimenti che provava per quello che era successo a
Zoe, lo fece piangere come un bambino.
Si alzò in piedi scansando la sedia di lato e si
aggrappò alle sue spalle, nascondendo il viso contro il suo
collo.
Tom lo lasciò sfogare
per un po’, cullandolo fra le sue braccia, e chiuse gli occhi
posando la guancia sui suoi capelli a spazzola. Ad un certo punto
sorrise e ridacchiò.
«Perché
ridi?», gli chiese Franky, biascicando e tirando su col naso.
«Perché
più andiamo avanti con l’età,
più diventiamo sentimentali».
Lo guardò negli occhi ed
accennò un sogghigno. «Parla per te,
Kaulitz».
«Oh, sentilo, inizia
subito a fare lo sbruffone. Intanto, per ogni volta che vieni a
trovarci passa un decennio…».
«Infatti volevo che
passassero vent’anni prima di tornare da voi, ma sono stato
costretto a scendere prima». Si voltò verso Zoe e
le sfiorò una mano con la punta delle dita con aria
malinconica.
«Si
riprenderà?», gli domandò Tom,
mettendosi al suo fianco.
Franky scosse il capo, sospirando.
«Non lo so nemmeno io, questo».
Bill ed Evelyn entrarono nella
stanza di Zoe e Franky si fece da parte per non intralciare, per questo
si appoggiò al muro accanto alla finestra. Tom si mise al
suo fianco e, col pensiero, gli disse: “Lei riesce a
vederti”.
Franky corrugò la fronte
e frugò nella sua mente. Fu come se fosse stato nel corpo di
Tom e avesse visto con i suoi occhi quello che era successo e si disse
che era proprio così, che era riuscita a vederlo.
“Come ci è
riuscita?”, gli chiese, ancora mentalmente, Tom.
Franky non rispose subito,
posò lo sguardo sulla ragazza che ogni tanto lo guardava di
sottecchi e sorrise, ascoltando i suoi pensieri: “Non
è possibile che sia l’angelo custode di
mamma… non veramente! Lei diceva sempre che era il suo
angelo, ma credevo che scherzasse, che alcune cose le inventasse come
si inventano e si rendono magici i personaggi delle favole…
Possibile che sia tutto vero, ogni singola cosa che mi ha
raccontato?”.
“Zoe le ha parlato di me
fino alla nausea”, pensò Franky, divertito, ma non
rese quel pensiero accessibile solo a Tom, bensì anche a
Bill, che accennò un sorriso mentre accarezzava la fronte di
sua moglie. “Quindi penso che riesca a vedermi
perché infondo crede in me”.
La suoneria di un cellulare ruppe
il silenzio pieno di parole che si era creato e tre paia di occhi si
puntarono su Franky, che si tastava le tasche alla ricerca del suo
Cellulare Celeste. Lo trovò nella tasca posteriore dei
pantaloni bianchi ed uscì dalla finestra, si mise seduto a
gambe penzoloni sul cornicione del tetto dell’ospedale e
rispose alla chiamata di San Pietro.
«Mi dica
tutto», disse a mo’ di saluto.
«Franky, ti pare il caso
di scappare così?».
«Mi scusi, ma ero di
fretta».
«Lo so, posso anche
capirti, ma se mi avessi ascoltato due secondi in più ora
staresti parlando con Zoe».
Il cuore di Franky
sobbalzò. «Che cosa sta dicendo, Zoe è
in coma!».
«Oh, Franky»,
rise genuino. «Ci sono così tante cose che ancora
non sai…».
«Per esempio?»,
domandò innervosito.
«Per
esempio…».
***
Franky corse all’interno
dell’ospedale degli angeli – così lo
aveva soprannominato col passare del tempo, anche se non venivano
curati solo ed esclusivamente gli angeli – e alla reception
chiese in quale camera fosse stata trasferita Zoe Wickert.
L’anima infermiera che era di turno in quel momento era una
delle più lente che avesse mai visto e rischiò
seriamente di perdere le staffe, ma per fortuna arrivò San
Pietro che, sorridendo, lo prese per le spalle e lo portò
con sé lungo i corridoi dell’ospedale.
«Uff, perché
non me l’ha detto prima?!», sbottò ad un
certo punto Franky, imbronciato.
«Credi che non ci abbia
provato?!», rispose il santo allargando le braccia.
«Forse ha ragione lei. Mi
perdoni, non volevo scappare così, è
che… ero così preoccupato…».
«Non fa niente Franky,
capisco benissimo come tu ti stia sentendo in questo
momento», gli sorrise affettuosamente.
«Comunque non pensavo che
le persone in coma finissero qui. Cioè, il loro
spirito…», disse Franky, infilando le mani in
tasca. «E che cosa fanno qui, precisamente?».
«Aspettano che il loro
corpo si risvegli dal torpore. Solo in quel momento il corpo e lo
spirito si ricongiungono e si riesce ad uscire dal coma».
«Sì,
ma…».
«Di solito quando il
corpo dà segni di ripresa gli spiriti si sentono molto
stanchi e sono costretti a stare a letto tutto il giorno per,
eventualmente, ricongiungersi al loro corpo. Altrimenti possono,
diciamo… avere un assaggio del Paradiso, nel
caso…».
«Zoe si
risveglierà», disse in maniera decisa,
interrompendolo. «E quando gli spiriti si ricongiungono al
loro corpo ed escono dal coma non ricordano nulla di quello che hanno
vissuto qui?».
«Certo che no. Riescono
solo a ricordare, seppure vagamente, ciò che ha sentito il
loro corpo, come le voci dei parenti, la loro presenza… cose
del genere. Capita molto spesso che gli spiriti sentano ciò
che sta sentendo il corpo: è sintomo che comunque le due
parti sono ancora collegate».
«Capisco»,
annuì meditabondo. «Si è già
svegliata?».
«Sì. Credeva
di essere in un ospedale “normale”»,
sorrise. «Ha chiesto di Bill e di
Evelyn…».
«Le avete già
spiegato che si trova in Paradiso?».
Si sentiva nervoso, parecchio
nervoso. Pensare che lui e Zoe sarebbero stati vicini anche nella
dimensione dei non più vivi gli faceva venire i brividi e
forse era anche un po’ imbarazzato perché avrebbe
visto il suo mondo, ciò che le aveva solo raccontato in modo
molto vago, e, cosa più importante e che lo intimidiva di
più, era il fatto che avrebbe passato molto più
tempo con lei: non era più abituato e si sentiva come se
quella fosse la ragazza per cui si era preso una folla cotta senza
nemmeno conoscerla, non come se quella fosse Zoe, la sua
Zoe. Erano stati lontani tanto tempo e non era sicuro che il loro
rapporto fosse rimasto lo stesso di sempre: lei era cresciuta, lui era
cresciuto, erano cambiate molte cose…
«No, aspettavamo giusto
te», rispose San Pietro, distraendolo dai suoi pensieri.
Franky annuì col capo e deglutì il nodo che gli
si era formato in gola.
Arrivarono di fronte alla porta
della stanza di Zoe e San Pietro gli disse che lui non
l’avrebbe accompagnato, era una cosa di cui dovevano parlare
da soli, loro due.
Franky lo salutò con un
cenno della mano, tremendamente in ansia, poi prese coraggio ed
entrò nella stanza immacolata, illuminata
anch’essa dal sole del mattino.
Zoe era stesa sul letto, il
lenzuolo bianco le arrivava fino alla vita e aveva il viso rivolto
verso la finestra da cui riusciva a vedere il giardino
dell’ospedale. Quando si accorse della sua presenza
spalancò gli occhi, lucidi dall’emozione, e si
rizzò seduta sul letto.
«Franky»,
mormorò, portandosi le mani sulla bocca. «Franky,
sei qui».
Ogni singola paura si dissolse
quando si perse in quegli occhi azzurri ed udì la sua voce.
Franky si rilassò e si avvicinò al letto.
«Ciao, piccola», le sussurrò e si mise
seduto sul bordo del materasso.
Sembrava in ottima forma, non aveva
neanche un graffio, e non poteva essere altrimenti, poiché
lei, lì ed ora, era soltanto uno spirito; era il suo corpo,
di sotto, ad essere ferito.
Le sfiorò il viso con
una mano, scostandole i capelli dal viso, e sorrise, anche se aveva
un’assurda voglia di piangere. Lei non doveva essere
lì, non doveva…
Zoe lo abbracciò di
slancio e lo strinse forte a sé, nascondendo il viso contro
il suo collo proprio come quando era una ragazzina. Franky
ricambiò incerto l’abbraccio e lei se ne accorse,
per questo lentamente si scostò e lo guardò con i
lucciconi agli occhi.
«Franky, che cosa
c’è?», gli domandò con la
voce che le tremava. «Almeno tu, dimmi quello che sta
succedendo, dimmi perché Bill e Evelyn non ci
sono… Non sono…».
«No! No, stai tranquilla
Zoe, stanno bene», la rassicurò, asciugando le
lacrime che le erano scivolate sulle guance contro il suo volere.
«Solo che non sono qui…».
«E dove sono?
Io… io voglio vederli».
«Ascolta, Zoe»,
sospirò e si passò le dita sugli occhi,
massaggiandoli. «Io… io non so come
spiegartelo… Quali sono le ultime cose che
ricordi?», le domandò alla fine, cercando forse di
prendere ancora un po’ di tempo.
«Ricordo che stavamo
andando da Tom a cena e poi che c’è stato un
incidente…».
«Nient’altro?».
Zoe scosse il capo, dispiaciuta. Franky le prese le mani fra le sue e
ne accarezzò i dorsi con i pollici.
«Vedi…»,
incominciò a dire a bassa voce, come se non volesse ferirla
con le sue parole. «Quando ho avvertito che sarebbe successo
quello che è successo sono subito corso per salvarti, ma
sono arrivato tardi e me ne vergogno, non sai quanto vorrei tornare
indietro e…». Strinse gli occhi e alcune lacrime
caddero sul lenzuolo candido. «Ho fatto tutto quello che ho
potuto, ma… Zoe, tu… tu sei in coma».
«Che cosa?»,
balbettò, incredula. «Che stai dicendo, io sono
qui, ti sto parlando, sto bene! Non posso essere in coma!».
«Tu… tu in
questo momento sei solo uno spirito», le sussurrò,
guardandola negli occhi nonostante le lacrime gli tracciassero il viso.
Zoe, con la delicatezza di una
mamma, gliele spazzò via con le mani. «Uno
spirito?».
«Sei in Paradiso e questo
è l’ospedale in cui sia io che Jole siamo stati
ricoverati quando ci sentivamo poco bene; tu sei solo il tuo spirito
qui, il tuo corpo è di sotto ed è in un coma
profondo, come di sotto sono anche Bill, Evelyn, Tom e tutti gli altri,
distrutti dal dolore; e la causa di questo dolore sono io,
perché io sono arrivato tardi e ho permesso che ti accadesse
tutto questo…».
La donna, ancora scioccata, lo
prese fra le braccia e gli posò la testa sul suo petto,
lasciandolo sfogare su di sé le lacrime e i singhiozzi.
___________________________________________
Buonasera e buona Pasqua! :D
Insomma, che bel casino,
eh? Zoe si è letteralmente divisa in due: una parte di sotto
- il suo corpo - e una parte di sopra - il suo spirito.
Abbiamo anche scoperto che la cara piccola Evelyn è riuscita
subito a vedere Franky! Zoe le ha fatto una testa tanta.... xD No,
ovviamente scherzo :)
Che cosa succederà adesso? Franky dovrà dire a
Tom e a Bill, soprattutto, che la parte "funzionante" di Zoe
è in Paradiso e... come credete che reagirà il
nostro cantante? u.u
Bene, vi o dato fin troppi spunti su cui riflettere - mi raccomando
fatelo anche nelle recensioni che mi piace assaiiiiii *w*
Ringrazio di cuore coloro che hanno
accettato con entusiasmo questo sequel e in particolare chi ha
recensito lo scorso capitolo! *-* (Vi ho ringraziati tutti nelle
risposte delle recensioni, penso sia più comodo, visto che
qui finisco sempre per scrivere un papiro xD)
Grazie anche a chi ha semplicemente letto e a chi ha già
inserito questa FF fra le seguite, le preferite e le ricordate! :D
Un bacio enorme, alla
prossima!!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 3 *** My part of her ***
3. My part of her
Tom, seduto sul divano,
sbuffò e si portò una mano dietro la nuca, mentre
con l’altra accarezzava il pelo morbido e color
caffèlatte del piccolo Coco che gli faceva le fusa contro la
gamba, chiedendosi dove si fosse andato a cacciare Franky. Quando aveva
ricevuto quella chiamata era uscito fuori dalla finestra e da allora
non era più rientrato.
Aveva accompagnato Bill a casa per
potersi fare una doccia, cambiarsi e dare da mangiare al micio, ma
c’era voluta moltissima tenacia per convincerlo a lasciare
Evelyn in ospedale. Anzi, c’era voluto Gustav, che era
arrivato giusto in tempo e aveva rassicurato Bill: ci sarebbe rimasto
lui con la sua piccolina.
Ora si trovava nel suo salotto e
non poteva far altro, oltre aspettare, che sperare che Franky tornasse
da loro con qualche buona notizia.
***
«Hai un taglio
qui», le posò due dita sulla fronte, sorridendo
alla buffa espressione che aveva assunto Zoe.
«Credi mi
rimarrà la cicatrice?», gli domandò.
«Molto
probabile», annuì grevemente, per poi ridere.
«Secondo me potrebbe anche starti bene, sai?».
«Pff,
ruffiano!».
«No, sul serio, ti
darebbe quell’aria da… donna vissuta».
«La smetti di prendermi
in giro?! Non sei fatto divertente!», si
imbronciò, incrociando le braccia al petto, ma resistette
per poco, infatti nemmeno due minuti dopo sorrideva di nuovo,
camminando a braccetto con lui nel giardino dell’ospedale.
Era un po’ più
alta di lui ora e nonostante avessero la stessa età lei
dimostrava i suoi anni anche esteriormente – non poteva
negare di avere un po’ di zampe di gallina agli angoli degli
occhi – e al suo fianco, doveva ammetterlo, si sentiva un
po’ vecchiotta.
«Oh, ma tu sei
vecchia», la derise scherzosamente Franky, per
l’ennesima volta.
«Oh no, riesci a leggere
nel pensiero pure qui?!».
«Certo!».
«Sei crudele!».
«Potrebbe
darsi», ridacchiò.
Si misero seduti su una panchina,
al fresco sotto l’ombra di un grande pesco, e Franky chiuse
gli occhi respirando il profumo dolce dei fiori. Riuscì
persino a sentire una certa fragranza alla fragola che gli fece
sobbalzare il cuore: il profumo di Zoe…
«Prima mi è
successa una cosa strana», esordì la donna.
«Quando mi sono svegliata credevo che qualcuno stesse
piangendo al mio fianco – e avrei giurato che fosse Tom
– ma ho aperto gli occhi e non c’era nessuno. Tu
che cosa ne dici?».
Franky sorrise, sollevato che il
collegamento fra il suo spirito e il suo corpo fosse ancora attivo.
«Hai sentito ciò che ha sentito il tuo
corpo», le spiegò.
Ma lei aggrottò le
sopracciglia. «Ossia?».
«Probabilmente Tom ha
davvero pianto al tuo fianco, ma era accanto al tuo corpo, non al tuo
spirito, cioè a te… hai capito».
«Ed è un buon
segno che io riesca a sentire il mio corpo?»,
domandò incerta.
«Più che
buono! Vuol dire che hai più possibilità
di… svegliarti».
«Ho capito»,
mugugnò. «Ah, non hai finito di dirmi
com’è messo il mio corpo».
«Ha molte
ustioni… sulle braccia, le gambe… Diciamo che non
è messo benissimo, in questo momento».
«Così
sembra», sorrise. «Ma è lo spirito che
conta, no?».
«Assolutamente».
«Non lo trovi
strano?». Franky la guardò in viso, corrugando la
fronte. «Insomma… a me fa un certo effetto pensare
che il mio corpo è con Bill ed Evelyn e il mio spirito
è con te…».
«L’amore che
provi verso Bill ed Evelyn ha superato di molto quello che nutri per
me, in questi anni», le disse risoluto, tornando a chiudere
gli occhi. Sperò che non ne parlasse più, quello
era ancora un tasto dolente, anche se erano passati anni ed anni.
L’amore
non muore mai…
«Come fai ad esserne
così sicuro?», gli domandò a bassa voce.
Forse era davvero così, ma vedersi spiattellata davanti la
verità l’aveva ferita, perché quando
era morto si era promessa di non amare mai nessuno come o
più di lui.
«Ne sono sicuro
perché l’ho visto coi miei occhi»,
sospirò, poi sorrise. «Ed è giusto che
sia così. Non devi pensare all’amore che provi o
provavi per me come parametro per non amare con tutto il cuore chi ti
ama».
«Ma anche tu mi
ami…».
Il cuore di Franky smise di
battere. Perché doveva rendere tutto così
difficile? Aveva sognato, molte volte ad essere sinceri, di poter
passare ancora un po’ di tempo con lei, ma era un sogno che
sotto sotto non avrebbe mai voluto vedere realizzato ed infatti aveva
avuto la conferma delle sue motivazioni che all’apparenza
potevano sembrare sciocche, ma che non lo erano affatto: stare accanto
a lei avrebbe sempre significato soffrire per lui, perché
lei non era più sua, ma ciò che sentiva per lei
non era cambiato di una virgola. Il suo cuore apparteneva sempre a lei
e, avendolo a portata di mano, Zoe non faceva altro che farlo
sanguinare, seppur inconsciamente.
Si alzò dalla panchina
reggendosi con le mani alle ginocchia e non osò guardarla
negli occhi mentre le rispondeva: «Sì, ma il mio
amore è molto diverso».
«È sempre
amore», ribatté decisa. Aveva proprio deciso di
fargli del male.
«Devo andare»,
le disse e percorse il vialetto in senso contrario.
Preferiva di gran lunga affrontare gli occhi di Bill alla scoperta che
la sua Zoe si era letteralmente divisa e che la parte
“buona” ce l’aveva il suo
“rivale”, piuttosto che discutere ancora con lei su
argomenti così delicati e dolorosi, almeno per lui.
«Dove vai?»,
gli chiese con una punta di preoccupazione negli occhi.
«Di sotto, solo per un
po’. Ti saluto Bill ed Evelyn?».
«Sì, ti
prego», sussurrò con voce strozzata, gli occhi
velati dalle lacrime.
Un’anima infermiera che
passava di lì l’aiutò ad alzarsi e la
riaccompagnò verso l’entrata della struttura.
«Digli… digli
che li amo e che mi mancano», concluse e Franky
annuì e la salutò con un cenno della mano ed un
sorriso, per poi allontanarsi.
***
«Oh, siete
tornati», esclamò un Gustav sorridente appena vide
i gemelli entrare nella stanza di Evelyn.
«Ciao papà,
ciao zio», li salutò la ragazzina, anche lei con
un grande sorriso sulle labbra morbide. Un sorriso che
graffiò e gonfiò il cuore di suo padre
contemporaneamente.
«Ciao, tesoro»,
le sussurrò Bill, prima di posarle un bacio sulla fronte.
«Come stai?».
«Meglio. Tu?».
Corrugò la fronte.
«Io sto bene».
«Bene!».
«Come mai così
di buon umore?», domandò Tom, ridacchiando.
«È passato Babbo Natale in anticipo?».
«Non ho più
cinque anni, zio!», rise. «Ti ricordi quando ti sei
messo il costume e la barba finta e hai portato i regali a me e a Jole?
Dopo lei mi ha raccontato che aveva fiutato che fossi tu…
Babbo Natale non entra mica dalla porta, per giunta suonando il
campanello!».
«Ah-ah Tom, dovevi
passare dal camino!», lo ammonì Gustav,
puntandogli il dito contro.
«Avete ragione, ammetto
di non essere stato il Babbo Natale perfetto…
però i regali vi facevano impazzire, no?».
«Oh sì, quelli
sì!».
Bill, gli occhi spalancati
dall’incredulità, non riusciva a capire da dove
provenisse tutto quel buon umore. Certo, gli faceva piacere che sua
figlia avesse ricominciato a sorridere e a ridere, ma lui si sentiva un
tantino spaesato, fuori posto. Non riusciva a lasciarsi contagiare
dalle risate delle persone che amava e per questo preferì
dissolversi ed andare a trovare una persona dalla quale si sarebbe
sentito capito.
Franky accarezzò la mano
inerte del corpo di Zoe e posò il viso sul suo ventre, gli
occhi chiusi alle lacrime.
Pensava di restare un po’
da solo, ma si sbagliava. Accanto a Zoe vide Franky, il volto sul suo
ventre, e rimase un po’ ad osservarlo attraverso il vetro.
Senza di lui probabilmente
sarebbero morti carbonizzati tutti e tre, gli doveva la vita e anche
quella delle sue donne, ma piccolissimi aghi gli pungevano il cuore:
era geloso. Non geloso da essere arrabbiato con lui, solo un pochino,
perché guardando quella scena dall’esterno si
sentiva escluso, come se Franky e Zoe fossero ancora uniti, come lo
erano sempre stati, da quel legame fortissimo che nemmeno lui era stato
in grado di spezzare del tutto. Non ci aveva nemmeno provato, sapeva
che non era giusto e che comunque non ci sarebbe mai riuscito.
Franky sollevò il capo
dal ventre di Zoe e trovò subito i suoi occhi ad attenderlo.
Gli sorrise tirato e gli disse di entrare, anche se ora che conosceva
tutti i pensieri del cantante non si era tranquillizzato. Anzi, si era
agitato ulteriormente.
Bill entrò nella stanza
e chiuse delicatamente la porta alle sue spalle, poi prese una sedia e
si mise seduto accanto all’angelo.
«Ciao», lo
salutò a bassa voce, come se avesse paura che Zoe li
sentisse.
«Ciao»,
ricambiò l’angelo. «Come
stai?».
Bill scrollò le spalle.
«Tu?».
«Così e
così anche io», sospirò.
«Dove sei finito, prima?
Tom si è arrabbiato perché come al solito non
avvisi mai se ti sposti…».
«Sono grande ormai, non
c’è bisogno che dica a paparino ogni mossa che
faccio», mugugnò. «Comunque sono andato
di sopra…».
«Novità?».
«Sì…
una…».
Bill aggrottò le
sopracciglia, incuriosito. «Me la puoi dire o è
un’informazione
riservata?».
«No, ecco… Zoe
vi saluta e mi ha detto di dirvi che vi ama e che le
mancate», mormorò abbassando il viso bordeaux. Era
stato così difficile dire quelle parole…
«Che… che
cosa? Zoe è…».
«No, non è
morta!», gridò terrorizzato, appena lesse i suoi
pensieri. «È solo… di
passaggio».
«Spiegati meglio, non
riesco a capirti! Zoe è in Paradiso?!».
«Il suo spirito lo
è…». Bill sgranò gli occhi,
già colmi di lacrime. Franky, dopo un respiro profondo,
continuò: «La telefonata che ho ricevuto
stamattina era di… un mio amico… che mi ha detto
che quando si è in coma lo spirito e il corpo si dividono
momentaneamente: il primo va in Paradiso e il secondo rimane
qui».
«Ma… ma si
possono riunire, vero?».
«Assolutamente
sì. Devono riuscire a riunirsi per uscire dal
coma».
«E se non ci riescono,
allora…».
«Zoe ce la
farà, stanne certo».
Il cantante si sfregò
gli occhi con le mani, tirò su col naso e poi disse:
«Com’è?».
«Chi, lei? Sta
bene… il suo spirito non ha nemmeno un graffio, è
il suo corpo ad essere ferito… Mi ha chiesto di voi e mi ha
detto di riferivi quello che ti ho detto…».
Bill, un po’
più lucido, organizzò tutto quel flusso di
informazioni e la gelosia iniziale, quella appena accennata che aveva
avvertito poco prima, si ripresentò addirittura con
più intensità: non era giusto che Franky fosse
ancora una volta il privilegiato fra i due, era stufo di essere il
secondo della lista. Ora si sarebbe dovuto
“accontentare” del corpo di Zoe, quando
l’angelo avrebbe avuto il suo spirito, con il quale poteva
parlare, ridere e scherzare lontano dai suoi occhi, in un luogo
accessibile solo a Franky.
Non capiva perché non si fosse ancora rassegnato: Franky
avrebbe sempre avuto qualcosa in più di lui e non poteva
farci assolutamente niente.
Alzò lo sguardo freddo e
quasi disprezzante su di lui e lo vide rigido come un pezzo di legno e
spaventato. A causa della cecità provocata dalla gelosia non
si accorse di quanto in realtà fosse anche dispiaciuto per
tutto ciò che aveva sentito nella sua mente.
«Cerca di
capirmi», bofonchiò Bill, tirando su col naso,
prima di alzarsi e di abbandonare in fretta la stanza.
Bill entrò nella camera
della figlia e non badò alla forza con cui chiuse la porta,
che sbattè con un colpo sordo.
Un silenzio glaciale calò su Gustav, Tom e Evelyn nel
vederlo così infuriato e allo stesso tempo affranto; un
silenzio che solo il gemello riuscì a spezzare, nonostante
un po’ di timore.
«Bill, che è
successo?».
«Vallo a chiedere a
Franky, vaglielo a chiedere!», rispose irritato e squassato
dai singhiozzi.
Il fratello non voleva lasciarlo
piangere in quel modo, però la curiosità di
scoprire cosa avesse provocato quella reazione tanto imprevedibile lo
convinse a precipitarsi fuori dalla stanza per andare a cercare
l’angelo.
Non ci mise molto, visto che lo trovò dove aveva subito
pensato che fosse: nella camera di Zoe. Seduto accanto a lei, si teneva
coperto il viso con le mani e sembrava davvero distrutto.
“Lo sono”, gli
disse Franky, dopo aver intercettato i suoi pensieri.
“Che
cos’è successo con Bill?”, gli chiese
allora.
“Gli ho solo detto che lo
spirito di Zoe è in Paradiso, con me”.
Scioccato, ci mise un po’
per pensare a qualcos’altro da dire, per poi accontentarsi di
un “Che cosa?”. Ora capiva perché Bill
avesse reagito in quel modo.
“Non ho voglia di
spiegarlo di nuovo, voglio stare solo”, mormorò
Franky.
Tom non protestò
minimamente e lo lasciò volare fuori dalla finestra.
***
Era ormai il tramonto. Fasci di
luce ambrata attraversavano il pavimento di mattonelle chiare e
accarezzavano i petali dei fiori che le avevano portato e che ora
posavano immobili in un vaso di vetro sul comodino.
Gustav se n’era andato
nel primo pomeriggio, dando il cambio a Georg che era passato a trovare
lei, il suo papà e la sua mamma.
Suo zio Tom era andato a casa già da un pezzo, dove avrebbe
informato Linda e Jole sulle sue condizioni. Prima di andarsene le
aveva promesso che sarebbe tornato la mattina seguente e le avrebbe
portato qualcosa di commestibile da mangiare, anche se probabilmente di
illecito, visto che le infermiere le avevano tolto la flebo ed era
stata costretta a mettere sotto i denti il cibo
dell’ospedale.
Si stava riprendendo velocemente e
non vedeva l’ora di uscire da lì, di tornare a
casa sua, di dormire di nuovo nel suo letto…
Al pensiero che il giorno in cui sarebbe stata dimessa sua madre non
sarebbe salita in macchina con suo padre le si spezzò il
cuore e dovette sforzarsi per trattenere le lacrime.
Aveva una terribile nostalgia di sua madre, delle sue carezze, dei suoi
baci sulla fronte, dei suoi sorrisi…
Decise che voleva andarla a
trovare, immediatamente, e siccome suo padre era andato finalmente a
mangiare qualcosa al bar e non voleva disturbarlo, chiamò
Naomi, un’infermiera con cui aveva una certa
familiarità ormai, e si fece aiutare da lei a mettersi
l’accappatoio sopra l’orribile tenuta
d’ospedale e a raggiungere la camera di Zoe.
La ringraziò e le disse
che poteva occuparsi tranquillamente d’altro,
poiché ne avrebbe avuto per un bel po’.
L’infermiera se ne andò, raccomandandole di
chiamarla se avesse avuto bisogno, e Evelyn si avvicinò a
passo lento al letto della madre. La guardò con attenzione,
amando ogni singolo particolare di lei, ed infilò una mano
nella sua tiepida.
«Ciao, mamma»,
sussurrò con un sorriso impacciato, poi tirò su
col naso mentre le prime lacrime le tracciavano le guance.
«Mi manchi tanto». E soffocò i
singhiozzi contro il suo petto.
***
Di sopra, lo spirito di Zoe chiuse
gli occhi alla luce del sole del tramonto e con un brivido
riuscì a sentire una mano infilarsi nella sua. Si
guardò il palmo, senza muoverlo, e vedendolo vuoto si disse
che stava sentendo ciò che sentiva il suo corpo.
Rimase in attesa di capire chi ci
fosse al suo fianco, stringendo le palpebre per concentrarsi ancora di
più, ed udì la voce della sua Evelyn. Un sorriso
commosso le si dipinse sulle labbra, il suo cuore prese a battere
più forte.
Poi sentì i suoi singhiozzi e il suo capo posarsi sul suo
petto. Zoe alzò una mano per posarla sulla sua nuca e
rassicurarla, ma non c’era niente e mai come allora aveva
desiderato di risvegliarsi per poter consolare la figlia.
Ci provò, con tutte le
sue forze, ma si affaticò talmente tanto che la connessione
che si era creata si dissolse e fu di nuovo sola; dovette abbandonare
la testa al cuscino, disfatta dalla stanchezza, e distrutta dal dolore
iniziò a piangere.
***
Sentiva il cuore più
leggero, ora che aveva versato tutte le sue lacrime.
Si mise di fronte alla finestra
aperta e guardò fuori. Le fronde del grande albero piantato
nel giardino arrivavano fino a lì e fra le foglie verdi
smeraldo e i piccoli fiori bianchi riuscì a scorgere la
schiena di qualcuno.
Quell’albero era
altissimo, nessuno sarebbe stato in grado di salirci a mani nude e si
domandò se quello non fosse proprio lui, Franky, quello che
a detta di suo padre era l’angelo custode di sua madre. Tom,
Gustav e Georg non avevano smentito né confermato
ciò che Bill le aveva detto, ma ogni tanto li sentiva
parlare di lui come se fosse uno di famiglia, uno che c’era
sempre stato e che ci sarebbe sempre stato anche in futuro.
Lei non aveva avuto ancora il
piacere di parlarci, ma non sapeva esattamente che cosa avrebbe potuto
dirgli. Non sapeva nemmeno perché lei riuscisse a vederlo!
Suo padre e suo zio erano rimasti di sasso quando aveva chiesto loro
chi fosse, quindi non avrebbe dovuto vederlo… ma ci era
riuscita. Quello era solo uno degli interrogativi che avrebbe voluto
porgli, se solo non fosse stata così imbarazzata da quel suo
essere “angelo”. Faceva ancora un po’
fatica ad accettare che non fosse solo frutto della fantasia di sua
madre.
Il ragazzo seduto sul ramo si
voltò e lei ebbe la sua conferma: era lui.
Franky si alzò in piedi
e saltò di ramo in ramo senza alcuna paura, fino ad arrivare
a quello più vicino alla finestra. Si acquattò ad
un palmo dal suo viso e in quel modo riuscirono a guardarsi negli occhi
senza alcuna difficoltà.
Evelyn provò uno strano
senso di vuoto nello stomaco fissando quegli ipnotici occhi verdi, nei
quali erano specchiati anche i propri azzurri. Sarebbe stata ore a
contemplarli, ad imparare a memoria ogni singola pagliuzza
d’oro intorno alle pupille nere, con il fiato sospeso e il
cuore che le batteva lentissimo nella cassa toracica, come a voler
scandire quegli interminabili secondi, ma venne distratta dal piccolo
sorriso che aveva incurvato all’insù gli angoli
della bocca dell’angelo.
«Io l’avevo
detto che avresti avuto i suoi occhi», sussurrò
soddisfatto.
Evelyn non disse niente. I suoi
neuroni erano tutti andati in vacanza, tranne uno che
all’improvviso le fece tornare in mente uno dei tanti
racconti di sua madre.
«Il
giorno del tuo primo mese di vita, Franky è venuto a
trovarci. È rimasto con noi molto poco, però
l’importate è averlo rivisto… erano
dieci anni che non lo vedevo e mi mancava tantissimo.
Tom è arrivato a casa nostra, dove Bill aveva organizzato
una specie di festicciola, ed è andato direttamente in
camera da letto, dove c’era la tua culla… e
lì c’era anche Franky, che ti guardava. Ha detto
che eri una bambina fantastica e che era sicuro che avresti avuto i
miei occhi. Io mi sono sempre fidata ciecamente di lui ed è
per questo che ero certa che li avresti avuti azzurri, anche se quasi
tutti dicevano che era improbabile. Ma, come vedi, ho avuto ragione io.
Ha avuto ragione Franky».
Il cuore ora le batteva a mille,
conscia che era tutto vero, e spalancò gli occhi quando
Franky avvicinò una mano alla sua guancia e la
sfiorò con la punta delle dita.
Evelyn chiuse gli occhi, riscaldata
da un calore mai provato prima, e un sorriso fece una breve apparizione
sulla sua bocca; bastò che Franky ritraesse la mano
perché scomparisse insieme al calore e i suoi occhi si
riaprissero per osservare, pieni di stupore e meraviglia, le grandi ali
bianche che aveva spiegate sulla schiena.
L’angelo
la salutò con un cenno del capo e volò via nel
cielo al tramonto che si era pian piano oscurato e aveva dato spazio
alle stelle.
___________________________________________________
Che cosa tenera, non trovate? *w*
Beh, non dico nulla, perchè voglio che parliate un po' voi
nelle recensioni, facendomi sapere in primis se vi è
piaciuto ^-^
Questo è uno dei miei - tanti - capitoli preferiti xD
Metto solo in luce i punti fondamentali: Franky e Zoe hanno quasi
litigato per questa loro nuova "convivenza forzata" e per
ciò che intendono per amore; Bill è impazzito di
gelosia per ciò che Franky gli ha detto, ossia della
divisione in spirito e corpo di sua moglie, e la sua reazione non
è stata tanto bella; Evelyn e Franky hanno avuto
il loro primo incontro ravvicinato. Quante cose di cui parlare *-*
Spero davvero che lo facciate, mi farebbe tantissimo piacere!!
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha soltanto
letto e tutti quelli che conosco xD
Grazie mille davvero, alla prossima!!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 4 *** Change of programs ***
4. Change of programs
Tom
e Franky, in posti molto diversi fra loro ma in due stanze
d’ospedale molto simili, dissero:
«Buongiorno» nello stesso istante.
«Buongiorno
zio», rispose Evelyn, con la voce ancora impastata di sonno,
mentre si stropicciava gli occhi. «Oh, ci sei anche tu
Arthur!».
«Hai visto?»,
sorrise Tom, guardando il figlio più piccolo saltellare fra
le sue braccia. «Ha insistito tanto stamattina per venirti a
trovare e l’ho portato. Vero amore, vero che volevi vedere la
tua cuginetta?».
«Sì!»,
annuì frettolosamente, con le braccia già tese
verso Evelyn, che lo imitò.
Tom glielo diede volentieri,
facendolo sedere sul letto, e li guardò per qualche secondo,
poi si ricordò della busta che aveva sotto alla giacca. La
tirò fuori e la mostrò ad Evelyn, che in quel
momento si stava spupazzando il cuginetto di quattro anni.
«La fonte della tua
sopravvivenza», le disse scherzosamente e le fece
l’occhiolino; lei rise sottovoce.
Il chitarrista nascose la busta
piena di cibi severamente vietati dall’ospedale nel secondo
cassetto del comodino, al sicuro, e quando lo chiuse si
pizzicò il dito. Tirò un mezzo urlo e Evelyn lo
guardò con gli occhi sgranati, indicandogli di abbassare la
voce.
«Papà dorme
ancora!». Lo indicò sulla brandina accanto al suo
letto, che aveva fatto portare apposta per non lasciarla da sola.
Doveva essere molto scomodo dormire
su quella cosa e non avrebbe mai potuto ringraziarlo abbastanza,
perché ogni volta che si svegliava nel cuore della notte in
preda agli incubi, nei quali riviveva ogni singolo istante del
terribile incidente che ormai l’aveva segnata nel profondo,
lui c’era. Ma lo avrebbe fatto anche lei, per lui e per sua
madre.
Tom, accortosi della sua presenza,
sorrise intenerito. «Guardalo, sembra un
angioletto». Si mise seduto su una sedia, in mezzo a loro,
così da poterli guardare entrambi.
«Sì,
è vero», annuì la nipote. «A
proposito di angioletti…», tossicchiò,
imbarazzata di dover iniziare lei quell’argomento.
Tom la guardò sollevando
il sopracciglio. Anche Arthur si era fatto attento, goloso
com’era delle favole che ogni tanto suo padre gli raccontava,
nelle quali, guarda caso, il protagonista era proprio un
angelo…
«Ieri ho incontrato
Franky».
… che si chiamava
Franky, per l’appunto.
«Papà,
è lo stesso angelo delle tue storie!»,
esclamò entusiasta il bimbo, con le manine sulle guance e
gli occhi brillanti per l’emozione.
«Sì, piccolo,
è lui…», gli rispose Tom con un sorriso
tirato, per poi portare di nuovo la sua attenzione sulla nipote.
«Vi siete detti qualcosa?».
«Quasi nulla…
Mi ha detto che era sicuro che avrei avuto gli occhi di
mamma…».
«Oh sì, non ho
mai capito come abbia fatto ad azzeccarci»,
ridacchiò. «Nient’altro?».
«No, però mi
ha toccato la guancia e mi sono sentita benissimo… Poi ha
aperto le ali ed è volato via».
«Scioccata?».
Aggrottò le
sopracciglia. «Un pochino, sì. Ma
quindi… quindi, se è tutto vero, vuol dire che
Franky è davvero il ragazzo che mamma ha amato prima di
papà e che, quando papà stava uscendo con lei,
lui si è impossessato del suo corpo e tutte quelle cose
là?».
«Tutto vero»,
confermò Tom, sospirando per gli anni che erano trascorsi
forse troppo velocemente. Ricordava bene ogni singolo episodio, ma
pensare che fossero passati vent’anni gli faceva venire i
brividi.
«E papà non
è mai stato geloso di Franky?».
«No…
cioè sì, credo che un po’ lo sia sempre
stato…».
«E ieri perché
era così arrabbiato con lui?».
Tom si irrigidì a quella
domanda. Sapeva la risposta, ma non voleva dargliela, non in quel
momento. A dirla tutta, non si sentiva nemmeno la persona adatta. E poi
doveva ancora parlarne bene con lo stesso Franky, visto che non aveva
voluto discuterne con Bill: era stata una giornata impegnativa e tirare
di nuovo fuori quell’argomento l’avrebbe fatta
finire nel modo peggiore.
«Zio?», lo
richiamò Evelyn, con le sopracciglia inarcate.
«Io… io non lo
so, piccola».
Evelyn capì che stava
mentendo, che sapeva il motivo per cui suo padre aveva avuto quella
reazione ma che non glielo voleva dire, per qualche oscuro motivo.
Lasciò correre. Non era un dramma, infondo. Avrebbe chiesto
direttamente a Franky.
***
«Ciao Franky»,
sussurrò Zoe, sorridendo debolmente.
Quel giorno le lenzuola candide le
aveva tirate su fino al seno, le braccia stese lungo i fianchi e la
testa appoggiata al cuscino. Non sembrava molto in forma, aveva il
colorito spento e i suoi occhi azzurrissimi erano opachi e lucidi.
All’inizio si
preoccupò per la sua salute, stava pensando addirittura di
andare a strapazzare qualche infermiera incapace, ma poi
ricordò le parole di San Pietro e, nonostante non volesse
che stesse male, si sentì sollevato: voleva dire che il suo
corpo si stava riprendendo e stava cercando di riacchiappare lo spirito
che si era dissociato.
«Ti ho portato
questi», indicò i fiori che timidamente teneva fra
le braccia. «Ti piacciono?».
«Sono i miei
preferiti», ridacchiò, mentre Franky sorrideva
sghembo.
«Anche tu con
l’avanzare dell’età ti rammollisci,
eh?». Riempì d’acqua il vaso vuoto che
c’era sul comodino e vi mise dentro i fiori. «Da
quando hai anche i fiori preferiti?».
«Da quando Bill ha
iniziato a regalarmeli».
Franky si adombrò.
«Oh, certo».
«C’è
qualcosa che non va?». Tossì debolmente, con una
mano di fronte alla bocca, e Franky le fece posare di nuovo il capo sul
cuscino, mantenendo la propria mano sulla sua fronte tiepida.
Le accarezzò i capelli,
scostandoli dal viso, e sulle sue labbra comparve un sorriso amaro.
«Credo che Bill mi detesti in questo momento».
«Che cosa?
Perché?».
L’angelo
scrollò le spalle e si mise seduto sulla sedia accanto al
suo letto. «Tu come ti sentiresti se ci fosse Bill al tuo
posto, se il suo spirito fosse qui e io potessi vederlo quanto mi pare
e piace, mentre tu puoi solo stare accanto al suo corpo
inerme?».
Zoe aprì la bocca per
rispondere, poi ci ripensò e serrò le labbra.
«Non posso
biasimarlo», riprese Franky, abbassando il capo.
«Io sarei forse più geloso di lui al suo posto. Si
è sentito ancora il secondo della lista, ma nonostante tutto
ti sta vicino, perché ti ama veramente tanto. Sei fortunata
tu e sono fortunato io per averti lasciato in mani
così».
«Franky, per favore, non
dire queste cose… sembra che non ci dobbiamo rivedere mai
più!».
«Non sarebbe una cattiva
idea, sai?».
La donna, a quelle parole quasi
sussurrate, sgranò gli occhi e boccheggiò,
incredula alle proprie orecchie.
«Ora abbiamo vite troppo
diverse e non sarebbe un dramma come lo sarebbe stato
all’inizio… Hai constatato tu stessa che puoi
farcela tranquillamente anche senza di me, senza vedermi una volta ogni
dieci anni…».
Era da un po’ che ci
pensava e non a caso aveva fatto passare così tanto tempo
prima di rivederli, più dei dieci anni precedenti; il suo
intento era quello di allungare il periodo di
“astinenza” per cercare di disintossicare Zoe e
anche se stesso, lentamente, senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Se
non fosse avvenuto quell’incidente che l’aveva
costretto a quel ritorno anticipato sarebbero passati
vent’anni, li avrebbe salutati e se ne sarebbe andato di
nuovo. Poi ne sarebbero passati trenta e alla fine Zoe non avrebbe
avuto più tempo per vederlo ancora, se non giusto prima di
passare ad un mondo migliore. Allora anche Franky se ne sarebbe andato
definitivamente. Ma quell’incidente aveva scombussolato tutti
i suoi piani, rendendo tutto estremamente più difficile.
«Che cosa stai dicendo,
Franky?!», sbottò improvvisamente Zoe, sbalzandolo
fuori dai suoi pensieri. «Vuoi che non ci vediamo
più a causa di Bill, per non farlo soffrire, oppure
perché sei tu a non voler più
vedermi?!».
«Entrambe le
cose», sussurrò.
Zoe, sempre più
sconvolta, sbattè le palpebre diverse volte. «Ma
perché?».
«Lasciamo perdere.
Lasciamo perdere, è… è meglio
così».
«No, Franky, adesso
–!».
«Ho visto anche
Evelyn», le disse, interrompendola e sperando che
abbandonasse quell’argomento di conversazione.
Non
pensare di cavartela così,
pensò Zoe e decise di accontentarlo e di mettere un attimo
da parte quel discorso. Ci sarebbe tornata su più tardi e
sarebbe stata implacabile.
«Come sta la mia
bimba?», gli domandò, malinconica. Le mancava
tantissimo.
Sorrise malizioso.
«Bimba… dai, non è più una
bimba!».
«Franklin Weigel, non
osare a fare quei pensieri con la mia Evelyn!».
«Ma che
pensieri!», rise. «Ti stavo solo facendo notare che
non è più una bambina… Ti assomiglia
molto, sai?».
«Tutti dicono che
è identica a Bill…»,
rimuginò.
«Tutti si sbagliano. Ieri
l’ho guardata negli occhi e, ti giuro, mi è
sembrato di guardare i tuoi, tanto che ho sentito lo stomaco
aggrovigliarsi».
«Davvero?».
L’angelo annuì, facendola sorridere commossa.
«Franky…».
«Uhm?».
«Mi chiedevo…
cioè, ci ho pensato tanto in
realtà…».
Franky recepì i suoi
pensieri in anticipo sulle sue parole e il cuore gli si
fermò nella cassa toracica. Per un attimo smise anche di
respirare ed annullò ogni altro sintomo vitale, per
così dire.
«Quando io non ci
sarò più, mi farebbe molto piacere che tu
diventassi l’angelo custode di Evelyn».
«Zoe,
io…», balbettò. Un
altro cambiamento di programma…
«Io non lo so… Bisogna avere un legame particolare
con il proprio protetto, bisogna amarlo incondizionatamente e non
è il caso, ecco…».
«E cosa hai intenzione di
fare quando io non ci sarò più?», gli
chiese allora, sollevando il sopracciglio.
«Beh…».
Porre fine alla mia vita,
magari. «Manca ancora
tantissimo tempo, non vedo perché debba pensarci
adesso!».
«Che ne sai, potrei
morire domani, dopodomani, fra una settimana! Anche adesso!».
«Non dire
cazzate!», gridò, alzandosi dalla sedia di scatto,
furibondo. «Tu ti sveglierai dal coma e vivrai una vita
ancora lunga, punto!».
«E ora dove credi di
andare?!», gli urlò dietro, guardandolo mentre
apriva la porta della sua stanza ed usciva in corridoio.
«A fare un
giro!». E si sbattè la porta alle spalle.
***
Linda, Arthur e Jole, sorridenti,
salutarono con la mano Tom, Bill e Evelyn nella stanza.
«Mi raccomando Bill, non
restare inchiodato qui ventiquattr’ore su ventiquattro:
Evelyn è grande!», gli disse la cognata.
«Ciao
papà!», salutò Jole, particolarmente
felice, prima di chiudere la porta.
Tom scosse il capo, con un sorriso
ebete sul viso. Chissà per quale motivo, gli era tornata in
mente Jole, l’altra Jole, quella di cui si era innamorato
troppo tardi.
«Ma alla fine che cosa
aveva da annunciare Jole, te l’ha detto poi?»,
chiese Evelyn, incuriosita, toccandogli il braccio e distraendolo dai
suoi pensieri.
«Uhm… no! No,
non ha più detto niente, in effetti!»,
ricordò il chitarrista, che venne attaccato di nuovo
dall’ansia che aveva provato la sera in cui ci sarebbe dovuto
essere il tanto atteso annuncio, la stessa in cui era accaduto
l’incidente nel quale erano stati coinvolti suo fratello
gemello, sua cognata e la sua nipotina.
«Io sono sicura che si
tratta di una cosa di coppia… magari Leo le ha chiesto di
sposarla!», esclamò felice Evelyn.
Tom, solo ad immaginare la scena,
rabbrividì. «Speriamo di no, per l’amor
del cielo!».
«Prima o poi
dovrà accadere, arrenditi», disse Bill.
«Alla fine ti troverai a cedere, come quando Jole ha fatto i
bagagli e si è trasferita da lui».
«Ah, quella me la sono
legata al dito!».
«Ma se non hai mai detto
nulla!».
«Non ho detto nulla
perché sto aspettando che torni a casa in lacrime a dire:
“Papino avevi ragione tu, perdonami!”»,
imitò la voce di sua figlia, facendo ridere Evelyn.
«Ma dai, zio! Leo non la
farebbe mai soffrire, è innamorato e a me sta anche
simpatico».
«Tutte
baggianate!», mugugnò burbero.
«Tu sei solo geloso
perché la vedi ancora come la tua bimba, hai paura che te la
portino via, ma lei ormai ha ventiquattro anni e ha più
testa sulle spalle di noi alla sua età!».
«Non è
assolutamente vero!».
Evelyn si mise in mezzo alla lite
fraterna, dicendo: «Beh, sempre meglio il matrimonio che un
nipotino, vero?».
Tom impallidì.
«Sono troppo giovane e bello per diventare nonno!».
Bill e Evelyn si guardarono e
scoppiarono a ridere, contagiando successivamente anche il chitarrista.
Qualcuno bussò alla
porta e qualche secondo più tardi, dopo la risposta di Bill,
un dottore in camice bianco, con un paio di occhialetti sul naso e un
po’ di barba ispida intorno alla bocca, si sporse
all’interno della stanza.
«Signor
Kaulitz…».
Sia Bill che Tom si alzarono. Il
maggiore lo fece per far sorridere il minore e ci riuscì,
anche se poi gli diede un pugnetto sulla spalla, sussurrandogli:
«Cretino».
Bill uscì dalla stanza e
Tom e Evelyn rimasero da soli. La ragazza ne approfittò per
parlare un po’ di Franky con lo zio, visto che il padre non
ne voleva proprio sapere. Ci aveva provato, la sera prima, ancora un
po’ frastornata dal loro incontro, e l’aveva subito
liquidata dicendole che non ne voleva parlare. Doveva essere davvero
arrabbiato con lui, anche se il motivo le rimaneva un mistero.
«Zio, hai visto
Franky?», gli domandò direttamente.
Tom corrugò la fronte.
«No, perché?».
«Così»,
scrollò le spalle. «Voglio parlare con
lui».
«Di cosa,
esattamente?». Deglutì, preoccupato. Bill non
sarebbe stato d’accordo, sicuramente aveva paura che le
potesse rivelare dello spirito di Zoe e per questo farla soffrire; lui,
invece, era curioso di sapere se Franky ed Evelyn potessero
effettivamente diventare amici. Secondo lui sì.
«Ho un po’ di
domande che mi frullano nella testa e poi… solo per il gusto
di vederlo».
«Che cosa intendi
dire?».
«Boh, ha qualcosa di
particolare che mi affascina».
Tom sgranò gli occhi. Qualcosa
di particolare che l’affascina?! Spero non ci sia dietro
alcuna cotta fulminante, perché se no Bill potrebbe anche
decidere di eliminarlo del tutto!
«Voglio conoscerlo
meglio, voglio farmi raccontare da lui le storie che mi ha raccontato
mamma, voglio sapere tutto della loro storia, di come si sono
innamorati l’uno dell’altro e voglio capire che
cosa ha fatto innamorare mamma di lui».
Sembrava veramente curiosa e
convinta che avrebbe scoperto tutte quelle cose, che avrebbe capito
tutto come se fosse stata nel corpo della madre. In più,
aveva quella luce negli occhi e quel sorriso sulle labbra…
Tom non poté far altro che dirle: «Appena lo vedo,
gli dirò che vuoi parlargli».
Rischiava la lapidazione da parte
di suo fratello, se avesse scoperto che lui tifava per quei due
– come amici, ovviamente, – ma sentiva che
rischiare era la cosa migliore.
***
Seduto sulla prima panca a
sinistra, accanto alla vetrata, si massaggiò il viso e poi
rimase a guardare di fronte a sé con lo sguardo spento.
Bill lo odiava, aveva avuto un mezzo litigio con Zoe e non aveva
trovato Tom, con cui almeno si sarebbe sfogato un po’.
Quella giornata non era proprio delle migliori.
***
Evelyn si annoiava terribilmente a
stare tutto il giorno a letto e a fare solo una passeggiata in sedia a
rotelle per andare a trovare sua madre. Inoltre aveva una maledetta
voglia, tanto da essere impaziente, di vedere Franky.
Sbuffò, stufa di leggere
il libro che per quanto bello potesse essere secondo Linda, era un
mattone che faticava a mandare giù. A volte restava interi
quarti d’ora a leggere la stessa frase, intontita.
Poggiò il libro aperto sulle gambe, decisa più
che mai a fare una pausa.
«Ah, che cos’ha
detto il dottore, prima?», chiese a suo padre, steso sulla
brandina al suo fianco, in dormiveglia.
«Mi voleva solo dire che
questa notte il corpo di mamma… mamma ha dato dei segnali
positivi, ora riesce a respirare da sola, ma non si sa ancora
nulla».
«Uhm,
capito…».
«Non ti
piace?», le chiese allora Bill, riferendosi al libro.
«No, mi
annoia». Sbadigliò e si stropicciò gli
occhi, stanchi per lo sforzo di leggere, quando le venne
un’idea che avrebbe giovato ad entrambi.
«Papà, che ne dici se te ne vai un po’ a
casa?».
Bill spalancò gli occhi
e la guardò attentamente, con quel suo sguardo capace di
scavarle l’anima, cercando di capire quali fossero le sue
intenzioni. Ma non poteva immaginare che se ne sarebbe andata a fare un
giro dell’ospedale per cercare Franky.
«Magari ti fai una
doccia, dormi un po’ su un letto decente, vai a trovare
Coco… mi prendi qualche cosa da fare perché se no
mi ammazzo dalla noia…». Sorrise smagliante, il
colpo di grazia che lo fece cedere. Ma per essere ulteriormente sicura
che le lasciasse un po’ di tempo per agire indisturbata, lo
rassicurò dicendogli che se proprio non voleva che rimanesse
da sola poteva chiedere a Naomi o anche ad una qualsiasi altra
infermiera – poco le importava in quel momento – se
poteva venire a farle compagnia.
«Okay, mi hai
convinto», le disse Bill con un debole sorriso sulle labbra.
Le posò un bacio sulla fronte, tenendole il viso fra le
mani. «Torno fra poco».
«Fai con calma. Ti voglio
bene, papà».
«Anche io te ne voglio
tanto».
Sulla soglia le soffiò
un altro bacio, poi si chiuse delicatamente la porta alle spalle ed
Evelyn esultò con le braccia rivolte al cielo.
Quando arrivò
l’infermiera, che fortunatamente era Naomi, le sorrise e le
disse: «Puoi farmi compagnia mentre mi porti a fare un giro
turistico per l’ospedale?».
Naomi non riuscì a dirle
di no e, dopo averla aiutata a sedersi sulla sedia a rotelle per non
farla stancare troppo, la portò a visitare tutti i reparti
dell’ospedale: quello neonatale, quello di neurologia, quello
di terapia intensiva, l’ala del pronto soccorso…
Ma di Franky nessuna traccia.
Aveva potuto vedere il bar e avevano attraversato tutto
l’ampio giardino. Nemmeno lì, dove aveva sperato
di trovarlo, Evelyn riuscì a scorgere la sua figura.
Credeva che il giro fosse finito e,
demoralizzata, aveva iniziato a pensare che non l’avrebbe
più rivisto, che fosse tornato in Paradiso come molte volte
le aveva raccontato la sua mamma. Ma Naomi le disse, chinandosi un
po’ per guardarla in viso: «E questa è
la cappella».
Si trovava al piano terra dell’ospedale, ma quando erano
uscite in giardino non l’aveva proprio notata.
Rimase un po’ in silenzio
ad osservare il crocefisso appeso sopra la porta in legno massiccio e
si chiese se gli angeli si sentissero a casa in quella che era una
piccola “casa di Dio”, se fosse un luogo da loro
privilegiato oppure no… Franky sicuramente era diverso,
glielo aveva letto negli occhi ed era riuscita a recepirlo attraverso
quelli della madre, e visto che il giorno prima l’aveva visto
a cavalcioni sul ramo di un albero non era certa che fosse tipo da
chiesa, però decise di tentare.
«Posso
entrare?», chiese.
«Certo. Vuoi che ti lasci
un po’ sola?».
«Sì,
grazie».
Naomi le tenne la porta mentre lei,
con un po’ di fatica, faceva scorrere le mani sulle ruote per
avanzare. Quando rimase sola, nel silenzio più assoluto,
osservò l’ambiente deserto che la circondava.
C’era un’unica navata e un corridoio divideva due
gruppi di panche in legno; infondo si trovava l’altare, sopra
un piccolo rialzo. Le vetrate si trovavano su un lato solo, a sinistra,
ed erano decorate con mosaici di vetro che rappresentavano delle figure
prettamente religiose, come l’ostia spezzata e la croce sulla
quale era stato crocifisso Gesù.
Non era mai stata particolarmente
legata alla religione, non era il modello di fedele da cui prendere
esempio, non sapeva nemmeno se credeva in Dio, ed era stata in chiesa
sì e no due volte. In quel momento, però, si
sentiva stranamente in pace col mondo lì dentro, non a
disagio come si era sempre sentita fra tutta quella gente.
C’erano lei e Dio, nessun altro.
Percorse il corridoio e raggiunse
il porta candele che stava accanto al pulpito. Non aveva niente con
sé per fare un’offerta e poter accendere un lume,
quindi promise che la prossima volta avrebbe pagato il suo conto.
Osservò le poche fiamme accese tremolare al suo respiro e
chiese, a bassa voce e con gli occhi chiusi, che la sua mamma si
risvegliasse presto.
«Mi manca»,
aggiunse e abbassò il capo, trovandosi per un attimo
patetica: non aveva mai pregato in vita sua e adesso che aveva bisogno
che qualcuno aiutasse la sua mamma se ne andava da Dio?
«Anche tu le manchi
tanto».
Sobbalzò
all’udire quella voce. Aprì di scatto gli occhi e
si voltò: seduto sulla prima panca, all’angolo,
c’era Franky, le mani unite sul petto. La luce del sole che
filtrava attraverso il vetro colorato lo illuminava e sembrava
trapassarlo.
Il cuore di Evelyn saltò
un battito, incontrando i suoi occhi verdi e brillanti.
«Da… da quanto tempo sei
lì?», gli domandò sottovoce.
«Da circa due ore,
credo».
La ragazza deglutì,
rossa dalla vergogna per non averlo notato prima, e si
avvicinò a lui. Si sentiva in imbarazzo e in soggezione con
i suoi occhi puntati addosso, ma aveva mille cose da chiedergli e la
prima era nuova di zecca nella sua top ten.
«Come fai a sapere che le
manco tanto? Mia madre è in coma, non può
parlare…».
«Vuoi sapere anche
perché tuo padre è arrabbiato con me,
no?», le rispose con una domanda.
Evelyn annuì, incredula.
Come aveva fatto? Era forse vero che sapeva anche leggere nel pensiero?
«Sì, so
leggere nel pensiero», le sorrise. «Comunque, bando
alle ciance, credo che tu abbia lo stesso diritto di sapere che ha
Bill. Tanto, farmi odiare per farmi odiare…»,
scrollò le spalle, amareggiato.
«Evelyn…».
Lei rabbrividì nel
sentir dire il proprio nome da lui, mentre nel suo stomaco si libravano
milioni di farfalline e sentiva il sangue scorrerle a
velocità pazza nelle vene. Nonostante tutto, si sentiva
bene; per quanto forti, erano belle sensazioni.
«Molti scienziati si sono
chiesti che cosa succede veramente quando una persona va in coma, ma
non sono mai arrivati a darsi una risposta razionale. La
verità è che non c’è, una
risposta razionale, perché quando una persona va in coma il
corpo e lo spirito si dividono».
«S-Stai dicendo che lo
spirito di mia madre è da qualche parte, lontano dal suo
corpo?», chiese tremando leggermente, come le fiammelle che
aveva osservato poco prima.
«Non è da
qualche parte, è in
Paradiso», sorrise lieve. «E visto che anche io
abito da un po’ ai piani alti, riesco a vederla e a
parlarci».
«Tu…
tu…». Alcune lacrime le segnarono le guance,
Franky gliele asciugò passandoci sopra le dita, poi le
infilò un braccio intorno alle spalle e posò il
capo al suo, confortandola.
Evelyn si sentì
immediatamente meglio, senza provare imbarazzo né timore, ma
solo all’idea che ciò che era andata a trovare
più volte era solo l’involucro di sua madre, che
la sua essenza era in Paradiso, aveva voglia di piangere e gridare fino
a star male. Ma c’era Franky con lei.
«Mi ha detto di
salutarti», le sussurrò all’orecchio.
«E di dirti che ti ama e che le manchi».
«Dille che deve tornare,
diglielo», lo pregò, singhiozzando.
«Glielo dirò,
te lo prometto. Ma tu smettila di piangere». Le
passò le mani sulle guance, spazzando via altre lacrime, e i
loro occhi si incontrarono.
Sia Franky che Evelyn
rabbrividirono, ma non si scostarono l’uno
dall’altra. Anzi, lei posò il viso
nell’incavo della sua spalla e gli avvolse timidamente le
braccia intorno alla schiena.
L’angelo, colpito da
tutta quella tenerezza e dallo strano ritmo che i battiti del suo cuore
stavano seguendo, ricambiò l’abbraccio posando le
labbra sui suoi capelli biondi.
_____________________________________
Buonciorno xD
Beh, che dire... Questo capitolo somiglia a quello precedente,
perchè ci sono sempre le incompresioni con Zoe, che ha
addirittura chiesto a Franky di diventare in un futuro l'angelo custode
di Evelyn; ci sono le incomprensioni con Bill, che non sono ancora
state risolte; c'è l'incontro segreto di Franky ed Evelyn...
insomma, i soliti punti, ma sviluppati in maniera diversa :)
Anche se una cosa nuova c'è: abbiamo scoperto che Tom tifa
perchè Franky ed Evelyn diventino amici! *-* Che caro lui xD
Bene, detto tutto anche sta volta... Aspetto con ansia le vostre
recensioni!!
Ringrazio di cuore chi ha recensito
lo scorso capitolo, chi ha soltanto letto e blablabla xD Tutti quanti
*-*
Grazie mille, alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 5 *** Your happiness is there, with them ***
5.
Your happiness
is there, with them
«Sono
a casa!», gridò Tom.
Si chiuse la porta alle spalle e si tolse la giacca, che appese
all’attaccapanni.
«Ciao
papà!», risposero Jole e Arthur, dal salotto.
Erano seduti sul tappeto di fronte al divano e stavano giocando con le
macchinine telecomandate.
Arthur
era un vero patito di macchinine, ne aveva milioni in giro per casa, ma
la sua preferita era in assoluto il modello di Ferrari rossa che stava
comandando in quel momento, contro la Porche gialla di Jole.
«Oh
no!», piagnucolò il bambino. La sua macchina si
era schiantata contro il mobile e lui non aveva ancora imparato a fare
la retromarcia.
Tom
decise di intervenire, anche perché se Linda si fosse
accorta dell’ennesimo segno sul legno sarebbero stati guai
seri. Così si inginocchiò dietro il figlio e mise
le grandi mani sulle sue piccine, gli indicò quale fosse la
leva della retromarcia e, guidandolo nei movimenti, lo aiutò
a liberare l’automobile, che riprese a schizzare da una parte
all’altra del salotto in maniera un po’ confusa:
sembrava ci fosse un ubriaco alla guida.
La
Ferrari e la Porche gialla si schiantarono per gioco e Tom
rabbrividì: quello era solo un gioco, ma quando succedeva
davvero, con macchine vere e persone vere, il gioco che faceva
così ridere a Jole e ad Arthur si trasformava in una
tragedia capace solo di far piangere.
Si
voltò verso la cucina, dove era sicuro di trovare Linda, e
sulla soglia della porta, appoggiata con una spalla allo stipite, vide
proprio lei, che gli sorrideva.
«Sei
tornato, finalmente», gli disse.
Attraversò
il salotto a grandi falcate e la raggiunse. Le prese i fianchi fra le
mani e posò le labbra sorridenti sulle sue. «Ti
sono mancato?».
Gli
avvolse il collo con le braccia e arricciò le labbra in un
sorriso, pensosa. «Uhm… giusto un
po’». Poi lo baciò di nuovo.
«Comunque», gli puntò il dito sul petto,
«ho visto che c’è una nuovo segno sul
mobile».
«Te
ne sei accorta?», mugugnò.
«Sì,
caro. Te l’avrò detto forse un milione di volte di
metterci una protezione, qualcosa… ma non l’hai
mai fatto, pigro che non sei altro».
«Io
non sono pigro, tutt’altro! Io lo farei, se avessi
tempo», annuì saccente, sollevando le
sopracciglia. «E poi è solo un mobile, che cosa te
ne importa?».
«È
una questione di principio, Tom!».
«Discuteremo
dei tuoi principi più tardi, in camera da letto»,
sussurrò suadente, prima di intrappolare le sue labbra fra
le proprie in un nuovo bacio, quella volta più passionale.
Linda
dovette cedere – dopotutto non gli sapeva proprio resistere
– ed arretrò d’un passo in modo tale che
Arthur e Jole non vedessero. Era solo una sua stupida fissazione, ma si
sentiva sempre in imbarazzo a manifestare effusioni in pubblico, anche
quando il pubblico erano i suoi figli.
Ma appena furono in cucina fu Tom a staccarsi da lei, come se avesse
visto chissà che cosa alla sua destra. Seguì il
suo sguardo e corrugò la fronte: c’era forse
qualcosa di sbagliato in come aveva apparecchiato la tavola?
Il
chitarrista si era bloccato non appena aveva visto Franky, seduto al
tavolo come se stesse aspettando la cena.
“Che cacchio ci fai qui?!”, gli aveva chiesto
mentalmente e l’angelo si era voltato verso di lui,
sorridendo in un modo che non convinse del tutto Tom. Doveva essergli
successo qualcosa.
«Sono
passato a salutarti», gli rispose a voce, con naturalezza.
«Certo,
credi che me la beva?».
Linda
spalancò gli occhi. «Tom, ma con chi stai
parlando?».
Lui
scosse il capo, resosi conto dell’enorme gaffe che aveva
appena fatto, mentre Franky se la rideva sotto i baffi.
«Con nessuno, amore!», le disse nervosamente.
«Ma
tu hai detto –!».
«Stavo
pensando ad alta voce!». Le passò una mano sugli
occhi per farglieli chiudere e la baciò di nuovo sulle
labbra, per tenerla impegnata mentre lui agitava il braccio per mandare
via Franky.
«E
va bene, va bene, me ne vado!», ridacchiò
l’angelo, alzandosi. «Almeno puoi raggiungermi in
camera tua? È un po’ che non parliamo».
Tom
disse di sì col pensiero, molto distrattamente,
poiché ci aveva preso gusto a baciare la moglie, e Franky
uscì dalla cucina.
In
salotto vide Jole e Arthur, che giocavano insieme. Arthur, nato quattro
anni prima dall’unione di Tom e Linda, somigliava tantissimo
al padre: aveva i suoi stessi occhi e lo stesso sorriso; i capelli
biondi erano scompigliati sulla testa e ogni tanto se li spostava dalla
fronte, infastidito. Sì, era proprio un Tom junior.
Successivamente si soffermò a guardare la ragazza. Un
sorriso gli comparve sulle labbra in ricordo della sua amica e si
abbassò per poterla guardare meglio in viso.
«Ciao,
Jole», sussurrò spostandole una ciocca di capelli
biondi, come quelli della madre, dalla guancia.
Jole
avvertì un brivido percorrerle la schiena, ma fu un attimo
fugace e non ci diede troppo peso. Aveva altro per la testa in quel
momento, o meglio da diversi giorni, e Franky lesse tutto, tanto che si
piegò in due dal ridere.
Tom,
sentendolo ridere, si scostò dolcemente da Linda, un
po’ frastornata, e guardò in salotto.
“E adesso perché ridi così, posso
saperlo?!”, gli gridò col pensiero, irritato dal
suo comportamento.
«No,
sul serio… non è nulla di importante»,
rispose l’angelo, scosso dai singulti di riso. «Ti
aspetto di sopra. Oh mio Dio», sospirò con le
lacrime agli occhi e scomparve sulle scale.
«Tom,
mi spieghi cosa cavolo ti prende? Sei strano
stasera…», disse Linda, prendendogli il viso fra
le mani per poterlo guardare negli occhi. «Non è
successo niente con Bill, vero? Stanno bene lui, Evelyn e
Zoe?».
«No,
non ti preoccupare! Stanno bene, anche se Zoe non collabora come
vorremmo. E poi non sono strano, è che… ho tante
cose per la testa».
«Cioè?».
«Cose
di lavoro», la rassicurò. «Che
c’è per cena?».
Linda
ridacchiò: forse il suo Tom stava tornando.
«Sorpresa», gli sussurrò sulle labbra,
strappandogli un bacio.
«Mmm
la cosa si fa interessante…», sorrise sghembo.
«Vado a lavarmi le mani, allora. Ho una fame da
lupo!».
«Non
credo esistano lupi vegetariani».
«Mica
posso dire che ho una fame da pecora! Suona male!».
«Sì,
forse hai ragione», rise. «Dai, muoviti».
Tom
uscì saltellando dalla cucina, poi corse su per le scale e
si chiuse in camera. Franky era spaparanzato sul letto e aveva fra le
mani la fotografia che Linda teneva sempre sul comodino.
C’era la sorridente famiglia al completo: Tom, che teneva in
braccio il piccolo Arthur che allora aveva solo qualche mese, e Linda e
Jole abbracciate.
«Qui
eravate a Lione, vero?», domandò
l’angelo, picchiettando l’indice sulla cornice
d’argento.
«Sì.
In quel periodo eravamo in tour e mi hanno fatto una sorpresa,
raggiungendomi lì», sorrise e si lasciò
cadere accanto a lui.
«Mi
ricordo, sì. È stata la stessa sera in cui David
si è sentito male e l’hanno portato al pronto
soccorso».
«Sì,
bravo! Avevamo appena finito il concerto quando ce l’hanno
detto».
«Dovrò
andare a trovarlo, uno di questi giorni».
«Gli
farà piacere, vedrai».
Rimasero
diversi secondi ad osservare il soffitto bianco, poi Tom si
schiarì la voce e disse: «Volevi parlarmi di
qualcosa in particolare?».
«No,
avevo solo voglia di stare un po’ con te».
«Oh,
come sei sdolcinato! Sono sposato ora, mi dispiace per te. Spero che tu
non abbia sofferto troppo».
«Da
morire», sussurrò portandosi il dorso della mano
sulla fronte, chiudendo gli occhi. Poi rise. «Arthur ti
somiglia molto».
«Già,
trovo anch’io».
«Sì,
lo spirito di Zoe è uscito dal suo corpo ed ora è
in Paradiso in attesa ti ricongiungersi ad esso. Bill mi odia
perché crede che io sia il privilegiato della situazione,
è geloso, quando invece non sa che io sto sperando con tutte
le mie forze che Zoe si risvegli dal coma», rispose Franky
senza che Tom chiedesse niente: l’avevano fatto i suoi
pensieri per lui. «Stamattina ho quasi litigato con Zoe per
due volte… La verità è che io non
voglio che si trovi in Paradiso, mi fa male come suo angelo custode
perché non è il suo posto e mi fa male anche
perché… perché averla così
vicina di nuovo dopo tanto tempo mi fa soffrire, è come
all’inizio, come quando non ero ancora abituato a non poterla
avere perché ero un angelo… Però,
adesso…».
«Cosa?»,
lo incitò a continuare Tom, che l’aveva ascoltato
senza mai interromperlo.
Franky
tentennò. Doveva parlargli anche di Evelyn? Era il suo
migliore amico, ma non sapeva se fosse ugualmente la cosa
migliore… Essendo così vicino a Bill avrebbe
potuto confessare facilmente, era meglio non rischiare. E poi anche lui
doveva ancora capire che cosa gli succedesse ogni volta che stava
vicino a quella ragazzina. Doveva prima inquadrare la situazione, o non
ci sarebbe mai venuto a capo.
«No,
niente, lascia stare», sorrise debolmente.
«Come
vuoi», borbottò. «Ah! Quando ti sei
messo a ridere, prima, l’hai fatto perché hai
letto qualcosa di divertente nella mente di Jole?», gli
chiese con un po’ di preoccupazione.
Franky
lo guardò negli occhi, voltando il capo verso il suo, e
trattenne a stento le risate. «Non voglio rovinarti la
sorpresa».
«Ti
prego Franky, dimmelo! Potrei starci veramente male!».
«Hai
detto a Linda che ti saresti lavato le mani e che ti saresti sbrigato.
Si sta chiedendo se ti sei perso, credo che tu debba andare».
«Non
puoi lasciarmi così sulle spine!».
«Lo
sto facendo», ridacchiò. «E poi anche io
devo andare, devo tornare di sopra».
«Come
mai?», inarcò il sopracciglio.
«Ho
una lezione stasera».
«Che
lezione?».
Lui
non sapeva nulla delle novità che aveva introdotto nella sua
vita da angelo e si sentì un po’ in colpa per
averlo reso così poco partecipe. «Ho…
ho iniziato a tenere un corso, a scuola…».
«Fammi
capire bene», sogghignò. «Fai il
professore?».
«Non
mi faccio chiamare così, di solito…».
«Oddio!»,
gli scoppiò a ridere in faccia. «Professor
Franklin è il massimo!».
«Molto
divertente…». Nonno
Thomas. Pensandoci,
ritrovò subito il sorriso. «Mi dispiace non
potermi intrattenere di più, ma devo proprio scappare.
Ciao!».
Dopo una piccola rincorsa, saltò con un piede sul davanzale
della finestra aperta e si gettò fuori, poi aprì
le ali e volò nel cielo blu scuro della notte, illuminato
solo dalla luna pallida.
Tom,
sorridente, andò alla finestra e lo vide scomparire fra le
stelle.
Prima
di tornare in Paradiso decise di fare una capatina
all’ospedale per salutare il corpo di Zoe ed assicurarsi che
andasse tutto bene.
Entrò dalla finestra, controllò i parametri
vitali sulle apparecchiature elettroniche, poi accarezzò la
sua mano con la punta delle dita.
Uscì
dalla camera e camminò fra i corridoi deserti, attraversati
ogni tanto da qualche infermiera di turno, fino ad arrivare, senza
nemmeno rendersene conto, di fronte alla stanza di Evelyn.
Sbirciò dal vetro e la vide ridere quando un lembo della
garza bianca che un’infermiera le stava levando dal capo le
coprì gli occhi. Si ritrovò a sorridere, senza un
perché preciso.
Evelyn
si tolse la benda e il suo sguardo incrociò quello di
Franky. Ma un attimo dopo lui non c’era più.
Salì
due a due la scalinata, spinse la porta a vetro ed accennò
una piccola corsa per raggiungere l’aula in cui avrebbe
tenuto la lezione. Era leggermente in ritardo.
Quando vi entrò rimase piacevolmente sorpreso: tutti i suoi
alunni erano già seduti ai loro posti e lo stavano
aspettando.
«Buonasera»,
lo salutarono in coro, sorridendo.
«Buonasera,
ragazzi», rispose, mentre con passo svelto andava alla
cattedra.
Si
sedette con grazia su di essa, gambe a penzoloni, e osservò
dall’alto verso il basso il viso di tutti i suoi studenti.
Non ce n’era uno che non fosse sorridente e questo gli
riempì il cuore di gioia, perché voleva dire che
gli volevano bene e gli piaceva davvero ciò che raccontava
loro.
Incontrò lo sguardo di Kim e le fece un ampio sorriso, a cui
unì un occhiolino, poi si rivolse a tutta la classe:
«Scusate se sono stato via per qualche lezione, ma
– probabilmente lo saprete già – sono
dovuto andare di sotto per la mia protetta».
«Non
si preoccupi!», disse un ragazzo.
«È
bello riaverla fra noi».
«Però
deve raccontarci tutto!».
Ridacchiò.
«Lo farò, promesso».
Qualcuno
bussò alla porta e Franky, sorpreso, diede il via libera per
entrare, ma non avrebbe mai immaginato che dietro quella porta ci fosse
proprio Zoe, che sorrise timidamente.
«Posso
assistere alla lezione anch’io, professore?»,
chiese, ancora sulla soglia.
«C-Certo,
perché no?», balbettò Franky,
sentendosi subito a disagio. Zoe non avrebbe dovuto essere
lì, perché l’avevano fatta uscire
dall’ospedale e le avevano detto che lo avrebbe trovato a
scuola?
Si schiarì la voce, dicendosi che avrebbe parlato con lei
più tardi, e la guardò mentre prendeva posto
proprio accanto all’entrata dell’aula. Poi si
concentrò sulla sua lezione.
«Allora,
cosa volete sapere di preciso?», chiese ai suoi studenti. Una
ragazza alzò la mano e lui le diede la parola.
«Io
vorrei sapere come ha fatto a capire che stava per succedere qualcosa
alla sua protetta e ad intervenire in tempo».
Zoe
aggrottò le sopracciglia, un po’ confusa. Quello
era il suo modo di insegnare? Lasciare la libera iniziativa ai suoi
alunni, rispondere ai loro quesiti con semplicità, parlare
con loro come se fossero amici a cui dare consigli… Sorrise,
perché se lo sarebbe dovuto aspettare dal suo Franky.
«È
molto semplice, in realtà», rispose
l’angelo. «Quando si diventa l’angelo
custode di qualcuno si entra in completa simbiosi col proprio protetto,
c’è un legame fortissimo, sembra quasi di stare
nello stesso corpo… L’ho avvertito sulla mia pelle
che stava per succederle qualcosa e sono corso da lei, anche se non
sono arrivato proprio in tempo», abbassò il capo,
gettando un’occhiata alla donna che lo osservava rapita dal
suo posto in prima fila.
«In
che senso non è arrivato proprio in tempo? L’ha
salvata, vero?».
«Sì…
sì, l’ho salvata, però…
è in coma, ora».
«In
coma?», domandò Kim, che insospettita continuava a
guardare con la coda dell’occhio Zoe. «Quindi
è una specie di… parità? Non ha
né vinto né perso».
«Io…
io credo di aver perso», le disse Franky, con il capo ancora
chino. «La sensazione che ho provato quando ho capito che non
potevo più fare niente è stata orribile, come se
fossi morto una seconda volta, solo in modo molto più
straziante. È come vi dicevo prima, si è legati
così tanto alla persona che si deve proteggere che si
percepiscono sia le gioie che i dolori e quando tocca ad un dolore
è quintuplicato in noi, ci si sente veramente male. Anche
per questo dovrete fare sempre di tutto per il vostro
protetto».
La
lezione durò ancora un po’, fra domande a cui non
mancavano mai risposte e mezzi sorrisi fra Franky e Zoe, che aveva
ascoltato tutto meravigliata. Non aveva mai conosciuto quelle cose
così “da angelo”, non aveva mai visto il
suo compito attraverso i suoi occhi e aveva capito molte cose.
Quando Franky si portò le mani al petto e con un sorriso
sulle labbra annunciò che la lezione poteva terminare, lei
si alzò ed uscì dall’aula.
L’avrebbe aspettato in giardino.
Franky,
rimasto solo nella classe, si massaggiò le tempie
sospirando.
Era
stata una lunga lezione e avrebbe solo voluto andare a casa a dormire,
ma probabilmente Zoe lo avrebbe trattenuto ancora un po’ con
lei per poter parlare, forse per chiarire ciò che non si
erano detti, o che si erano detti male, quella mattina. Non voleva
litigare con lei, aveva sempre detestato farlo, ma forse erano arrivati
al punto in cui non potevano confrontarsi senza scaldarsi: avevano
opinioni troppo diverse in alcuni campi ed ognuno era intenzionato a
difenderle fino all’ultimo. Era una battaglia persa in
partenza.
Chiuse
gli occhi e dopo qualche secondo la sua mente gli fece lo strano
scherzo di proiettargli davanti gli occhi di Zoe, azzurri come il mare.
Pian piano, però, l’inquadratura si
allontanò e intorno a quegli occhi scorse altri particolari
che gli fecero schizzare il cuore in gola. Quella non era
Zoe… ma Evelyn.
Qualcuno
si schiarì la voce alla sua destra e sulla soglia
dell’aula, come un déjà-vu, vide Kim,
che poi avanzò timidamente di qualche passo, senza
incrociare i suoi occhi.
«Kim…».
«Era
lei, vero?», gli domandò.
«Lei
chi?», chiese Franky, anche se aveva capito benissimo a chi
si riferisse.
«La
donna che ha assistito alla lezione, era la sua protetta?».
L’angelo
sospirò, annuendo col capo. Poi accennò un
sorriso e le scompigliò i capelli sulla testa. «Mi
dispiace», sussurrò.
«Non
si preoccupi, ci sono abituata a queste cose»,
scrollò le spalle, sforzandosi per fare un sorriso che non
somigliasse troppo ad una smorfia. «Ci vediamo
lunedì». Si diresse verso l’uscita, ma
prima che se ne andasse Franky la chiamò.
«Kim?».
Lei si voltò e lo guardò negli occhi, forse per
la prima volta senza imbarazzo. «Tu sei l’unica che
ancora non mi ha detto perché vuoi fare l’angelo
custode».
La
ragazzina sorrise, alzando gli occhi al cielo. «Chi
l’ha detto che voglio diventare un angelo custode? Io voglio
solo amare». Detto questo, svoltò
l’angolo senza dare il tempo a Franky di chiederle altre
spiegazioni. Ma forse non ce n’erano e non ne servivano altre.
L’angelo
spense la luce ed abbandonò l’aula.
Zoe
si trovava in giardino, seduta sull’ampia scalinata che
portava all’interno dell’edificio scolastico. La
raggiunse e insieme iniziarono a camminare per ritornare
all’ospedale.
«Come
mai ti hanno fatta uscire?», le domandò,
incuriosito.
«Stavo
bene, ho chiesto all’infermiera se potevo andare a fare
quattro passi e mi ha detto di sì»,
sollevò le spalle, sorridente.
«Solo
a me mi trattengono sempre?», si imbronciò,
facendola ridere.
«È
stata molto bella questa lezione, mi piacerebbe assistere anche alle
altre», gli disse, sollevando il viso verso l’alto.
Il cielo era buio e punteggiato da minuscole stelle che brillavano come
non aveva mai visto in vita sua. «C’è
stata solo una cosa che non ho trovato giusta».
«Quale?».
«Il
fatto che gli angeli custodi si debbano sentire
così… responsabili, anche quando hanno fatto del
loro meglio. Non dovrebbero soffrire in questo modo».
«È
il nostro compito. Non soffriresti anche tu, se tentassi in ogni modo
di aiutare una persona, ma ogni tuo sforzo è vano e la vedi
star male senza poter far nulla?».
«Sì,
ma è diverso… nel nostro caso». Man
mano che parlava la sua voce si era abbassata, fino a diventare un
sussurro.
Franky
serrò le labbra e guardò il suo profilo, ancora
rivolto verso il cielo. «Nel nostro caso?»,
domandò retoricamente, accennando un sorrisino amareggiato.
«Noi non siamo diversi da molte delle coppie angelo-umano che
ho conosciuto».
«Lo
credi davvero? Credi davvero che quello che lega noi due sia uguale a
ciò che lega altre “coppie”?
Ciò che ci unisce è qualcosa di ben
più forte e di ben più profondo e anche se tu sei
il mio angelo custode non vuol dire che solo tu possa star male se sto
male io; anche io posso soffrire quando soffri tu e non ne usciremo
mai, se uno di noi due non smetterà di soffrire».
«Allora
esci dal coma, cazzo!», strepitò, fermandosi in
mezzo al marciapiede e guardandola severo, con le braccia spalancate.
Zoe
ricambiò lo sguardo con altrettanta severità,
portandosi le mani sui fianchi. «Sembra che tu non veda
l’ora che io me ne vada!».
«Sì,
in effetti non vedo l’ora! Io non ti voglio qui, questo non
è il tuo posto!».
La
donna, ferita da quelle parole, abbassò gli occhi lucidi e
fece un passo indietro. Franky ne fece uno avanti, dispiaciuto per
averla trattata in quel modo, e le sfiorò il braccio con una
mano, cercando di guardarla negli occhi. Alla fine le prese il mento
fra le dita e la costrinse a sollevare il viso.
«Il
tuo posto è di sotto, con Bill ed Evelyn. Lo sai anche
tu», le sussurrò. «E il motivo per cui
non ti voglio qui non è perché non ti voglio
più bene, come stai pensando… è
proprio il contrario. Ti voglio troppo bene e mi fa male starti
così vicino, dopo tutto il tempo in cui non ho fatto altro
che cercare di accettare il fatto che tra noi le cose sono cambiate,
che le nostre vite sono cambiate, che noi siamo cambiati… Io
ti amo ancora e non smetterò mai di farlo, ma il nostro
momento è finito. Non importa quanto io stia male, quello
che conta è che tu sia felice e so che ciò che ti
rende felice più di qualsiasi cosa è svegliarti
la mattina accanto a Bill, preparare la colazione per Evelyn e dirle di
stare attenta quando prende il pullman per andare a scuola; ti rende
felice andare al lavoro sapendo che alla sera vi troverete ancora tutti
e tre, che cenerete insieme e che la tua bimba ti farà il
riassunto dettagliato della sua giornata; ti rende felice quando
è ora di andare a dormire e la becchi ancora al computer; ti
piace sgridarla per poi fare pace, coccolarla, anche se lei dice che
è grande ormai; e poi ti rende felice andare in camera tua,
infilarti fra le coperte ed essere baciata da Bill, fare
l’amore con lui…». Franky sorrise,
asciugandole le lacrime che non era riuscita a trattenere.
«Come vedi, io non sono indispensabile per la tua
felicità, non più. Forse hai ragione tu, il
nostro legame è molto più forte di quanto si
possa immaginare, ci saremo sempre l’uno per
l’altro, ma non devi dimenticare che la tua
felicità è là, con loro».
Zoe
tirò su col naso e lo abbracciò, lo strinse forte
a sé mentre nascondeva il viso e soffocava i singhiozzi
contro il suo collo.
«Mi mancano tantissimo», biascicò.
«Lo
so».
***
Il
cellulare di Bill iniziò a vibrare sul comodino. Lui
l’arraffò prima che potesse disturbare Evelyn, che
si era già addormentata. Andò alla finestra e,
piantando lo sguardo nel cielo scuro della notte, rispose.
«Ciao
Tomi».
«Ehi,
come stai?», gli chiese il gemello con tono premuroso.
«Non ti ho svegliato, vero?».
«No,
ero sveglio, non ti preoccupare. Come mai hai chiamato?».
«Ho
parlato con Franky, prima».
«Oh,
capisco», borbottò, con una smorfia sul viso.
«Mi
ha detto che lo odi. È vero?».
Bill
si irrigidì e strinse i pugni. «Non è
giusto, non è giusto che lui…».
«Sei
infantile», lo interruppe Tom.
«Che
cos’hai detto?», soffiò incredulo,
sgranando gli occhi.
«Ho
detto che sei infantile. Credi davvero che potrebbe fare una cosa del
genere? Franky non si permetterebbe nemmeno di sognarselo, sa che ormai
lei è tua, non la sfiorerebbe nemmeno. E Zoe? Riponi
così poca fiducia in tutto ciò che avete
costruito in questi anni? Lei ti ama, ama Evelyn… non devi
nemmeno azzardarti a pensare che possa tradirti».
In
un attimo ricordò tutti gli anni passati con lei senza la
presenza di Franky, ricordò il giorno del loro matrimonio,
quando avevano scoperto che la loro famiglia si sarebbe allargata,
quando era nata la loro piccola Evelyn… Zoe gli aveva
dimostrato in atti e parole quanto tenesse a lui, quanto lo amasse.
Anche se Franky sarebbe rimasto sempre nel suo cuore non voleva dire
che fosse il primo… Ora il primo era lui, che era stato in
grado di starle accanto, di farla felice, di amarla.
«Io…
Mi dispiace, Tom. Hai ragione tu…».
«Certo
che ho ragione io!», ridacchiò, strappando un
sorriso anche al fratello. «Ma capisco perché tu
ti sia sentito così: ti sei fatto prendere dallo sconforto,
ti sei chiesto perché fosse successo e non trovando una
risposta, un colpevole, te la sei presa con
Franky…».
«Ma
lui… lui è arrabbiato con me?», chiese,
preoccupato e pentito come un bambino dopo aver combinato un pasticcio
di quelli grossi.
«No»,
rispose divertito. «Lui ha capito meglio di me…
Vedrai che sistemerete tutto».
«Okay»,
disse con un sospiro che gli alleggerì il petto, passandosi
una mano sugli occhi lucidi.
«Ah,
se lo vedi prima di me chiedigli come sta Zoe! Chissà come
se la passa nel bel vecchio Paradiso», ridacchiò
il chitarrista.
«Glielo
chiederò», promise. «Grazie,
Tomi».
«E
di che? Buonanotte fratellino, ti voglio bene».
«Anch’io.
Buonanotte».
Pose
fine la chiamata e si sdraiò sulla sua brandina.
Guardò per qualche minuto il soffitto bianco, poi
accennò un sorriso e chiuse gli occhi.
***
Tom
scosse il capo, stupito di quanto il suo fratellino a volte dimostrasse
il suo lato bambinesco, quello che l’aveva sempre
accompagnato in ogni fase della sua crescita e che qualche volta lo
portava a ragionare in maniera impulsiva, senza pensare ai pro prima
dei contro, tanto da non essersi accorto di quanto in realtà
fosse fortunato: grazie a Franky erano venuti a sapere di quella
divisione corpo-spirito e, sempre grazie a lui, potevano persino sapere
come stava Zoe, magari anche comunicare, con lui da messaggero. Aveva
una possibilità che altre persone nella stessa situazione,
ma senza un angelo come amico, non avevano.
«Mamma,
papà, io vado a casa!», annunciò Jole
entrando in cucina, dalla quale si poteva accedere ugualmente alla
terrazza che dava sul salotto, dove si trovava Tom.
«No,
non andare, resta qui a giocare con me ancora un pochino!»,
mugugnò Arthur, aggrappandosi alla sua gamba.
«Piccolino,
io domani devo andare a lavorare!», gli spiegò la
sorella, prendendolo in braccio per guardarlo negli occhi.
«Uffi».
Posò il viso sulla sua spalla, spostandole i capelli dietro
la schiena, con il broncio sul viso.
«Prometto
che domani vengo ancora», gli disse allora, per tirarlo su di
morale.
«Porti
anche Leo?», le chiese con entusiasmo, gli occhi brillanti.
«Vuoi
che porti anche Leo? Porterò anche Leo, che problema
c’è!».
«Sì,
che bello!», gridò Arthur, saltellando fra le sue
braccia.
Jole
rise, poi lo rimise coi piedi per terra e lo lasciò correre
in salotto, dove riprese a giocare con le sue tanto amate macchinine.
«Ci
vediamo domani allora», la salutò Linda, con un
sorriso amorevole sulle labbra.
La
ragazza annuì e le stampò un grosso bacio sulla
guancia, poi andò da suo padre per fare lo stesso, ma lui
preferì accompagnarla alla porta.
Sulla soglia, la guardò intensamente negli occhi, ma lei non
si ritrasse, anche se come al solito aveva sentito un brivido correrle
su per la schiena incontrando quei magnifici occhi castani. Era sempre
stato così, fin da quando era piccola. Forse
perché li amava infinitamente.
«Devi
dirmi qualcosa, papà?», gli domandò.
«No…
cioè, sì, io…
ecco…», balbettò, arrossendo
impercettibilmente sulle guance. «Mi chiedevo…
Ricordi l’annuncio che dovevi fare…?».
«Oh,
sì! In effetti non ne abbiamo più
parlato…».
«Ecco.
Io… sì, mi domandavo…
c’entra Leo, per caso?». Deglutì,
agitato.
Jole
sorrise. «Certo che c’entra. Riguarda proprio noi
due».
«Lo
sapevo, io lo sapevo!», pensò ad alta voce,
facendole inarcare il sopracciglio. «Sapevo che
c’entrava lui, tutto qui», si corresse subito,
ridacchiando nervosamente.
«Uhm»,
annuì la figlia. «Ora è…
è meglio che vada».
«Sì…
Jole?».
La
ragazza si voltò. «Dimmi».
«Sei
felice, con lui?».
«Sì»,
sorrise in un modo così bello da riuscire a scaldargli il
cuore e gli soffiò un bacio, poi trotterellò
giù per le scale.
Tom
rientrò in casa un po’ più sollevato.
Infondo, se sua figlia era felice doveva essere felice per lei, non
sperare che tutti i suoi sogni andassero in frantumi. Che padre era, se
non sapeva gioire delle gioie della sua bimba?
Entrò
in camera e vide Linda stesa sul letto, appoggiata col fianco al
materasso. Addosso aveva la camicia da notte di seta rosa che gli
piaceva tanto e aveva i capelli sciolti, raccolti su una spalla.
Sembrava proprio che lo stesse aspettando.
«Perché
quella faccia?», gli domandò con un sorrisetto
malizioso sul viso. «Mica dovevamo discutere dei miei
principi?».
Tom
sorrise sghembo e si tolse la maglietta, la lanciò sul
pavimento e poi la raggiunse sul letto. La baciò sulla
bocca, infilandole le mani fra i capelli profumati, e si disse che era
l’uomo più fortunato del mondo.
Ad
un certo punto si scostò un poco per poterla guardare negli
occhi. Lei rise e gli avvolse il collo con le braccia, stampandogli
tanti baci asciutti sulle labbra.
«Arthur
l’ho già messo a letto io», lo
rassicurò e lui poté riprendere da dove aveva
lasciato.
Sì,
era decisamente l’uomo più fortunato del mondo.
***
Franky
entrò dalla finestra senza fare alcun rumore, si
avvicinò al corpo immobile di Zoe e le accarezzò
i capelli, scostandoglieli dalla fronte.
Si mise seduto al suo fianco e posò il viso sul materasso,
fra le braccia. Chiuse gli occhi e si addormentò.
________________________________________
Buonasera
a tutti :)
L'ennesima
discussione fra Franky (professoreeeeee xD)
e Zoe, sembra proprio che non riescano a farne a meno ._. Ma poi si
sono
chiariti alla grande, Franky le ha fatto un bel discorso :'D
Tom, dopo una chiacchierata con l'angelo, ha chiamato Bill e lo ha
fatto ragionare; Bill ha capito che non doveva prendersela con lui,
quindi... pace in vista xD
Evelyn non si vede in questo capitolo, piuttosto il protagonista quasi
assoluto è Tom e la sua famiglia *-* C'è Jole, la
bimba di Linda che, per chi non dovesse ricordarsi, ha dentro di
sè l'anima dell'altra Jole, il fantasma della ragazza con
cui Tom aveva avuto una "storia" in vita e poi della quale si era
innamorato una volta morta. C'è anche il piccolo Arthur, che
io adoro *-* E poi Linda che, ah, Tom non se la merita per niente u.u
ahahah xD No, scherzo :)
Nel
complesso, vi è piaciuto? :D Spero proprio di sì,
dai. Aspetto un vostro commento ;)
Ringrazio
di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e
tutti quelli che sostengono questa FF!! *o*
Grazie mille, alla prossima!!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 6 *** Bomb news ***
6. Bomb news
Bill, ancora un po’
addormentato, si stropicciò gli occhi e si disse che doveva
proprio andare a casa per farsi una doccia, prima che Evelyn si
svegliasse.
Si alzò dalla brandina,
sentendo scricchiolare le sue povere ossa, poi con un sospiro
uscì dalla stanza: aveva anche bisogno di una grande tazza
di caffè.
Così si diresse verso il bar dell’ospedale, ma
prima di scendere al piano terra indugiò ancora un
po’ al primo piano, indeciso. Alla fine si
incamminò fra i corridoi del piano su cui era rimasto.
Da quando Franky gli aveva detto
che quello era solo il corpo di Zoe e che il suo spirito si trovava in
Paradiso non era più riuscito ad andare a trovarla, ma non
era giusto. Infondo lui l’amava interamente, anima e corpo.
Arrivò alla sua
destinazione e all’interno della camera vide Franky,
addormentato con le braccia e il viso sul letto di Zoe.
Entrò senza far rumore e passò delicatamente una
mano fra i suoi capelli a spazzola, sorridendo intenerito. Era ancora
così Franky… come aveva potuto essere arrabbiato
con lui e credere che potesse fargli del male?
L’angelo
mugugnò e lentamente sollevò il capo dal
materasso. Lo guardò con gli occhi piccoli e sorrise dopo
aver percepito i suoi pensieri: Bill ora era sereno, non ce
l’aveva più con lui e ciò lo rese
immensamente felice.
«Buongiorno»,
lo salutò il frontman, che prese una sedia e si mise seduto
accanto a lui.
«’giorno»,
rispose l’angelo, passandosi le mani sul viso. «Se
vuoi stare un po’ da solo me ne vado, eh».
«No, stai pure».
Rimasero un po’ in
silenzio, guardando la loro Zoe che vista così sembrava
addormentata. Poi Bill prese coraggio e gli disse ciò che
già dalla sera precedente aveva in mente di dirgli:
«Mi dispiace per come ti ho trattato. Tu non
c’entravi niente, me la sono presa con te ingiustamente,
accecato dalla gelosia. Avevo così paura di perderla
che…».
«Non ti preoccupare,
Bill», lo rassicurò Franky, sorridendo.
«È acqua passata ormai».
Abbassò gli occhi,
intimidito da tutta quella comprensione, quando lui non aveva fatto
altro che trattarlo male. «E non ti ho nemmeno ringraziato
come si deve per averci salvati…».
«Non devi ringraziarmi,
è il mio compito. Però non sarebbe stato male se
fossi arrivato un po’ prima…».
Bill non lo fece continuare, lo
strinse in un abbraccio e si beò della singolare sensazione
che solo stando fra le braccia di un angelo poteva provare. Si sentiva
al sicuro, intoccabile da ogni sofferenza.
Le sue ali gli avvolsero la schiena e sorrise al ricordo di quando
l’aveva fatto per la prima volta. Era passato così
tanto tempo… ma loro erano rimasti sempre gli stessi e ora
si trovavano di nuovo insieme, ad affrontare altre
difficoltà.
Franky sciolse per primo
l’abbraccio, gli sorrise e si fece da parte per permettergli
di salutare meglio Zoe. Bill si avvicinò al suo corpo inerte
e la guardò in viso dall’alto, poi si
chinò per darle un lieve bacio sulla fronte, accarezzandole
i capelli.
«A volte… a
volte riesce a sentivi», si intromise a bassa voce Franky,
per non disturbare quel momento che sembrava così intimo.
«Davvero?», gli
domandò, senza allontanarsi dal viso di sua moglie.
«Mi ha raccontato di aver
sentito Tom e Evelyn».
Bill annuì con un cenno
del capo e sorrise lievemente, sfiorando con la punta delle dita la
pelle candida del suo volto. Le avrebbe parlato un po’
più tardi, da solo.
Si ricordò della
promessa che aveva fatto al fratello la sera prima e disse, sedendosi
sulla sedia e guardando l’angelo negli occhi: «A
proposito di Tom, mi ha chiesto di domandarti come se la passa Zoe in
Paradiso. In realtà sono curioso anche
io…».
Franky arricciò le
labbra in un sorriso divertito. «Fa amicizia con le
infermiere, esce dall’ospedale quando le pare e piace e si
imbuca alle mie lezioni… Ma le mancate tantissimo».
«Perché non
torna, allora?», gli chiese con gli occhi bassi e tristi,
infilando una mano in quella di Zoe.
«È
complicato… e non è una sua scelta. È
il corpo che domina lo spirito, in questo caso, e solo quando lui
sarà pronto riuscirà a riaccettarla dentro di
sé. Fino ad allora, però…».
«Resteranno divisi, ho
capito».
Franky abbassò il capo,
non sapendo più cosa dire. Rimase a leggere il silenzio di
Bill per qualche istante, poi un brivido gli corse su per la schiena
quando percepì quelli di qualcun altro di sua conoscenza
nelle vicinanze. Evelyn stava arrivando, accompagnata da Tom.
Il cuore iniziò a martellargli nel petto, senza
più controllo. Non riusciva a capire che cosa gli stesse
succedendo, ma era più che sicuro che c’entrasse
Evelyn.
«Franky, che ti
prende?», gli chiese Bill, notandolo così agitato.
«N-Niente, io…
è meglio se vado…».
Ma proprio in quel momento
bussarono alla porta e Tom non aspettò alcuna risposta prima
di aprirla e sorridere raggiante.
«Ciao Bill, ciao Franky, ciao
Zoe. Insieme come ai vecchi
tempi, eh?».
L’angelo
stiracchiò un sorriso nervoso, cercando di non incrociare
gli occhi della ragazza bionda sulla sedia a rotelle, ma per forza di
cose capitò e si trovò spaesato, con il respiro
mozzato. Quegli occhi erano identici a quelli di Zoe, ma dentro ci
leggeva cose completamente diverse, che lo affascinavano.
Evelyn arrossì
incontrando lo sguardo di Franky e ricordando il pomeriggio precedente,
nella cappella dell’ospedale. Si era sentita così
vicina a lui, così bene fra le sue braccia… che
già le mancavano. Voleva passare ancora del tempo con lui,
per farsi raccontare tutte quelle cose che voleva sapere e che non
aveva fatto in tempo a chiedergli, anche se probabilmente lui
l’aveva già fatto con il pensiero.
«Sì,
io… io devo proprio andare», balbettò
Franky, ancora scosso dopo aver letto tutti i pensieri di Evelyn.
«Di
già?», domandò Tom, togliendo le parole
di bocca alla nipote.
«Sai…»,
ridacchiò nervoso. «Sono un angelo molto
impegnato».
«Oh, Bill, lo sai che
adesso Franky fa il professore?», sogghignò.
«Prima ha accennato
qualcosa a proposito di alcune lezioni», ricordò
il minore, sollevando il sopracciglio. «Di che cosa si
tratta?».
«Non è nulla
di così esaltante, dopotutto…», si
passò una mano sul collo, imbarazzato, e incrociò
ancora gli occhi attenti di Evelyn. Il cuore gli guizzò in
gola. «Racconto soltanto come sono riuscito a superare certe
difficoltà e faccio in modo che i nuovi angeli custodi non
siano del tutto impreparati una volta qui».
«È davvero
lodevole», disse Tom, con un sorriso così dolce
che Evelyn ne rimase quasi incantata. «Ricordo quando sei
arrivato da noi la prima volta, come ti abbiamo
trattato…».
«Quell’episodio
gliel’ho dovuto raccontare tre volte, talmente gli
è piaciuto», ridacchiò. «La
cosa bella è che, anche se ridevano, hanno capito che
dovranno fare un certo sforzo per approcciarsi nella maniera migliore
al proprio protetto. Sempre se si vorranno far vedere,
chiaramente».
Bill sorrise. «I tuoi
alunni hanno un ottimo insegnante, sono fortunati».
«Grazie»,
sussurrò, arrossendo un po’. «Ora devo
proprio scappare, ho da sbrigare alcune commissioni».
«Okay.
Ehm…». Bill tentennò, guardando Evelyn.
Lui non sapeva che lei era a conoscenza della situazione in cui si
trovava sua mamma, quindi preferì parlargli col pensiero,
dicendosi che l’avrebbe informata di tutto più
tardi. “Salutami Zoe, dille che mi manca e che deve sbrigarsi
a tornare”.
“Sarà
fatto”, promise Franky, sorridendogli. Poi si
avviò verso la porta e disse a Tom: “Vieni fuori
con me, ti devo dire una cosa”.
«Vi lascio un attimo da
soli», disse il chitarrista al fratello e alla nipote, per
poi uscire fuori dalla camera al seguito di Franky.
Tom si mise seduto su una delle
poltroncine blu nel corridoio; Franky rimase in piedi, accanto a lui,
con lo sguardo che ogni tanto indugiava sulla figura di Evelyn che,
nella stanza di Zoe, gli dava le spalle.
Era abbastanza presto, ma vicino a
loro si aggiravano alcune infermiere e preferirono entrambi parlarsi
col pensiero, per non destare sospetti.
“Dovevi dirmi
qualcosa?”, gli domandò Tom.
“Più che altro
volevo ringraziarti per aver parlato con Bill…”.
Il chitarrista sorrise.
“Ci sarebbe arrivato da solo, prima o poi. Io gli ho fatto
solo accelerare un po’ i tempi”.
“Grazie
comunque”.
“Non
c’è di che”.
Franky guardò con
nonchalance oltre il vetro e nello stesso istante Evelyn
voltò il capo verso di lui, nonostante fosse fra le braccia
di suo padre. Il cuore iniziò di nuovo a fargli quel brutto
scherzo quando incontrò i suoi occhi e, soprattutto, quando
sentì la sua voce mentale parlargli. Stiracchiò
un sorriso alla sua richiesta ed annuì, poi si
girò di nuovo verso Tom, che stava osservando i suoi
movimenti già da un po’, con lo sguardo affilato.
“Ma, senti… tu
ed Evelyn –?”.
Franky non gli permise di
concludere la frase, infatti gridò: «Devo
scappare, ciao!», poi svanì nel nulla.
Tom chiuse la bocca, sulla quale si
formò un sorriso compiaciuto.
Evelyn, rimasta sola con suo padre
nella stanza della sua mamma, lo osservò per qualche secondo
in silenzio, combattendo contro la voglia irrefrenabile di voltarsi e
perdersi nuovamente negli occhi verdi dell’angelo custode. A
causa della presenza di suo padre e di suo zio non era nemmeno riuscita
a chiedergli quando si sarebbero rivisti, da soli.
«Tesoro», disse
a bassa voce Bill, prendendole le mani fra le sue e facendo un mezzo
sbuffo. «Io non so come dirtelo, ma devi sapere anche tu,
quindi ci proverò comunque».
La ragazza corrugò la
fronte, chiedendosi che cosa dovesse sapere anche lei di
così delicato, tanto che suo padre aveva
difficoltà a parlarne. Il suo sguardo cadde sul viso di sua
madre e capì che era di lei che dovevano parlare: le stava
per dire cose che già sapeva, perché
gliel’aveva già dette Franky.
«Vedi… lo
spirito di tua madre ora non è più nel suo corpo
e fino a quando non uscirà dal coma resterà
là dov’è, in Paradiso. Franky riesce a
parlare con lei e ha detto che sta bene e che le
manchiamo…». Si interruppe di colpo,
poiché aveva detto tutto quello che doveva dire e non se
n’era nemmeno accorto. Titubante, alzò lo sguardo
verso la figlia e la vide incerta, esitante. Non era la reazione che si
era aspettato.
Evelyn non sapeva cosa fare: dirgli
che tutte quelle cose le sapeva già oppure far finta di
essere scioccata dalle sue parole?
Anche se le era sembrato che ora
lui e Franky avessero fatto pace, non voleva mettere l’angelo
in altri casini, se per caso suo padre avesse reagito in maniera
negativa alla notizia. Non sapeva nemmeno se sarebbe stato
d’accordo se fossero diventati amici,
sinceramente… Preferì non rischiare e mentire.
Si dipinse sul volto una maschera
di sconcerto, con una smorfia sulla bocca e gli occhi socchiusi come se
stesse trattenendo le lacrime. «D-Davvero?»,
balbettò forzatamente.
Bill, anche se non era del tutto
convinto della sua recita, annuì e
l’abbracciò, stringendosela al petto.
«Tornerà presto, vedrai», le
sussurrò, accarezzandole i capelli sulla nuca.
A proposito di tornare
presto, Evelyn
ricordò che Franky aveva detto che doveva andare.
Voltò il capo, quel tanto che bastava per guardare fuori dal
vetro che dava sul corridoio, e vide l’angelo che a sua volta
la stava osservando. Colse al volo l’occasione e, sperando
che la stesse ascoltando e che funzionasse davvero, pensò:
“Ci vediamo oggi pomeriggio? Sempre nella cappella”.
La voce di Franky, così dolce e melodiosa, invase totalmente
la sua mente. “Okay”, le rispose, stiracchiando un
sorriso.
Evelyn allora affondò il
viso nel petto di suo padre, nascondendo così il sorriso che
le incurvava le labbra all’insù.
Franky, una volta uscito
dall’ospedale, aveva iniziato a vagare per le vie di Amburgo,
senza una meta precisa.
Non voleva tornare in Paradiso, almeno non ancora. Lì
avrebbe trovato Zoe e, visto che non sapeva mentirle, avrebbe
inevitabilmente confessato quello che provava ogni volta che sua figlia
lo guardava negli occhi. Doveva togliersela dalla testa, prima di
tornare di sopra.
Decise di sfruttare l’occasione per andare a trovare suo zio,
visto che ne aveva il tempo.
La casa di David era una villetta
appena fuori città, nella campagna tedesca. La raggiunse
volando ed atterrò con le punte dei piedi sulle tegole del
tetto.
Nello stesso momento un’auto entrò dal grande
cancello e parcheggiò nel vialetto che portava al garage. Ne
scese un ragazzo che doveva avere più o meno la stessa
età di Jole, dagli occhi verdi e i capelli neri. Somigliava
davvero tanto a suo zio e Franky lo riconobbe subito: Mirko, il figlio
di David e Susan, nonché suo cugino.
«Ciao
papà!», salutò il ragazzo, solare,
salendo i primi gradini della veranda.
L’angelo si mise a testa
in giù per poter continuare ad osservare e vide il padre e
il figlio abbracciarsi, mentre una donna dai lunghi capelli biondi
usciva di casa per accogliere anche lei il giovane.
«Che bello vederti,
tesoro», gli disse, accarezzandogli amorevolmente i capelli.
«Come stai?».
«Bene, anche se tuo padre
è un po’ acciaccato come sempre». La
donna ridacchiò e posò una mano sulla spalla del
marito, stringendolo un po’ a sé.
«Vorrei vedere te, con il
cuore che fa le bizze», borbottò. «Ma
prima o poi doveva pure accadere! Quei quattro mi hanno fatto prendere
tanti di quegli pseudo infarti che me lo dovevo aspettare!».
Franky sorrise, pensando che era
vero. I Tokio Hotel gliene avevano fatte passare di tutti i colori da
quando li aveva presi sotto la sua ala, ma sapeva anche che erano stati
l’unico gruppo a cui si era affezionato davvero: li aveva
visti crescere sotto i propri occhi, li aveva visti diventare star
internazionali, con loro aveva vissuto avventure e
disavventure… Gli voleva così bene che erano come
dei figli per lui. Non aveva mai voluto rinunciare a loro e mai lo
avrebbe fatto. Anche adesso che era in pensione continuava a seguire
tutto ciò che facevano, assicurandosi che fosse per il loro
bene, perché quello non era solo il suo lavoro, era
diventata la sua vita.
«A proposito, come stanno
Bill, Evelyn e Zoe?», chiese ancora l’anziano,
sinceramente in pensiero. «Ci sono
novità?».
«Leo non mi ha detto
niente, quindi suppongo che non ce ne siano»,
sospirò sconsolato. «Secondo me è
già tanto che siano riusciti ad uscire vivi tutti e tre da
quell’inferno».
«Già,
è stato proprio un miracolo», concordò
la donna.
David non disse niente, solo
sollevò il capo verso il cielo e notò la testa di
Franky ciondolare giù dal tetto. Lì per
lì gli si bloccò il respiro e volle gridare il
suo nome – risaliva a quattordici anni orsono il loro ultimo
fugace incontro, – ma ricordò che Susan e Mirko
non lo avrebbero visto e lo avrebbero creduto pazzo.
«Ho sete, vado un attimo in cucina»,
esclamò allora, alzandosi con un po’ di fatica
dalla propria sedia ed incamminandosi all’interno della casa.
Entrò in cucina e Franky
era già lì che lo aspettava, appoggiato al tavolo
con le braccia incrociate al petto e un sorrisino dipinto sul viso.
«Ero certo che fossi
intervenuto tu, nell’incidente», gli disse subito
l’ex-manager, raggiungendolo. «Perché
hai aspettato tanto per venirmi a trovare?».
«Hai ragione zio, mi
dispiace». Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e
affondò il viso nel suo petto, sentendosi a casa.
«Mi sei mancato
tanto», sussurrò David, stringendo i pugni sulle
sue ali. «Ti fai vedere sempre più raramente e ho
avuto paura di non vederti mai più, quando sono stato
male».
«Ero accanto a te, quella
sera. Io ci sono sempre stato».
Sciolsero l’abbraccio
contemporaneamente e si sorrisero, poco prima che Mirko varcasse la
soglia della cucina chiamando il padre.
«Sì, che
c’è?», gli domandò
quest’ultimo, stando ancora accanto al nipote che il figlio
non poteva vedere.
«Devo andare da Gabi ora,
se no chi la sente», ridacchiò e baciò
David sulla guancia, stringendolo a sé con un braccio.
«Ci vediamo nel week-end, promesso».
«Va bene. Salutami
Gabi».
«Certamente! Ciao
papà!». Lo salutò con un cenno della
mano e con una corsetta uscì dalla casa.
«Vado anche
io», annunciò Franky, curioso di conoscere questa
Gabi. Nella mente di Mirko aveva letto che era la sorella gemella di un
certo Leo, il suo migliore amico. Possibile che fosse lo stesso Leo
fidanzato di Jole?
«Tornerai?»,
gli chiese suo zio.
L’angelo sorrise. Quella
era una domanda frequente e, come al solito, annuì. Poi si
sbrigò per raggiungere Mirko, che era già saltato
in macchina. Si mise seduto sui sedili posteriori, dicendosi che non si
sarebbe di certo offeso se gli avesse dato un passaggio.
Mirko ritornò in città e fermò
l’auto solo di fronte ad un condominio. Salì le
scale due a due, seguito a sua insaputa da Franky, e suonò
il campanello di fronte alla porta di uno dei tanti appartamenti del
terzo piano.
«Alleluia!»,
gridò quella che doveva essere Gabi, trovandoselo davanti.
Poi gli sorrise e Franky riconobbe la sua anima con un tuffo al cuore.
Kenzie…
«Scusa, ma sono passato
dai miei genitori», le spiegò, entrando
nell’appartamento e rubandole un bacio. «Era da un
po’ che non li vedevo».
«Oh. Come
stanno?».
«Tutto come al
solito», sorrise. «Piuttosto, Leo?».
«È in camera
sua, si sta preparando per andare da Jole: cena coi suoi questa
sera», gli fece l’occhiolino e ridacchiò
coprendosi la bocca.
Franky ebbe la conferma di tutti i
suoi sospetti: Leo, fratello gemello di Gabi, cioè quella
che lui aveva conosciuto come Kenzie, era il ragazzo di Jole e se tutto
quadrava doveva proprio essere stato…
«Ehi, ciao
Mirko!», lo salutò il ragazzo appena sceso dalla
scale, mentre si abbottonava gli ultimi bottoni della camicia bianca
che indossava.
Aveva i capelli scuri e gli occhi castani proprio come il suo amico, ma
non somigliava moltissimo a lui. Forse, l’unica cosa che lo
faceva somigliare in maniera spaventosa a Norbert era il suo sorriso
tenero.
Franky arricciò le
labbra per trattenere le risate. Era andato a trovare suo zio e aveva
trovato anche i suoi vecchi amici Kenzie e Norbert che ora avevano
altre vite, erano fratelli gemelli e, visto che il mondo è
piccolo, conoscevano Jole e perciò l’intera
combriccola, la sua famiglia.
Lesse nelle loro menti che Mirko e
Nor… Leo si erano conosciuti alle superiori ed erano subito
diventati amici. Col passare del tempo suo cugino si era preso una
colossale cotta per Gabi, sorella gemella di Leo, e si erano messi
insieme. Nello stesso periodo avevano conosciuto Jole, ad un concerto,
proprio come se fosse stata una ragazza normale e non la figlia di Tom
Kaulitz, e avevano iniziato ad uscire insieme, tutti e quattro, fino a
quando non era scoccata la scintilla fra i due single del gruppo.
Ormai Leo e Jole stavano insieme da quasi cinque anni e la loro vita
stava per cambiare radicalmente. Infatti, Franky lesse che quella sera
avevano intenzione di fare il famoso annuncio, almeno alla famiglia
della ragazza.
«Ciao Leo»,
ricambiò il saluto Mirko. «Allora ho sentito che
stasera è il momento fatidico, eh?».
«Sì»,
ridacchiò nervosamente, abbassando lo sguardo.
«Sono tremendamente agitato».
«Suvvia, il paparino ti
mette così paura?», rise, ma Gabi gli
tirò uno schiaffo sul braccio per difendere il gemello.
«Smettila, Mirko! Sono
cose serie, dopotutto… è normale avere queste
paure». Poi si rivolse direttamente al fratello, posandogli
una mano sulla spalla: «Vedrai che andrà tutto per
il meglio, ne sono sicura».
Franky trattenne a stento le
risate, immaginando ancora la razione di Tom a quelle due notizie
bomba. Non poteva assolutamente mancare, sarebbe stato uno spasso.
«Grazie
sorellina», le disse e le posò un bacio sulla
guancia, poi si affrettò ad uscire di casa e a saltare sulla
propria auto per raggiungere Jole a casa dei suoi genitori.
Franky decise che aveva rivisto
tutte le persone che doveva rivedere e che era arrivato il momento di
tornare in Paradiso.
Entrò nella camera di
Zoe e rimase sbigottito di fronte alla scena che gli si presentava
davanti: San Pietro era seduto al suo fianco e stavano parlando
amabilmente, sorridendosi.
«Oh, ciao
Franky!», lo salutò il santo.
«Buongiorno…»,
ricambiò, un po’ confuso.
«Sono passato a salutare
Zoe», gli spiegò. «E poi mi è
venuta in mente un’idea geniale e volevo discuterne con
entrambi. Ne ho già parlato con lei ed è
d’accordo».
L’angelo posò
lo sguardo sulla donna che gli sorrideva, sdraiata sul letto, e lesse
tutto nella sua mente.
Sospirò. «Okay, per me va bene». Era
inutile cercare di opporsi, in qualche modo San Pietro e la sua
ex-ragazza l’avrebbero convinto comunque.
«Sì!»,
esultò il santo e diede il cinque a Zoe, che
ridacchiò. «Iniziate domani sera, va bene? Oh,
sarà un successone!». Continuò a
crogiolarsi nei suoi sogni di gloria ed uscì dalla stanza
senza nemmeno salutarli.
Franky chiuse la porta scuotendo il
capo e si mise seduto sulla sedia che era stata occupata dal santo fino
a poco prima, accanto al letto di Zoe.
«Come ti senti?», le domandò,
accarezzandole una mano.
«In ottima forma! E sono
molto emozionata per domani, sarà divertente». Il
sorriso che aveva regnato sulle sue labbra fino ad allora si spense
lentamente, osservando l’espressione assorta di Franky,
rivolto con il viso verso la finestra.
«Che
cos’hai?», gli chiese allora, con
l’intento di attirare la sua attenzione. «Non
volevi che accettassi la proposta?».
«No, non è per
quello», rispose in tono piatto. «È
che… che non dovresti essere in
ottima forma».
La donna corrugò la
fronte. «Perché?».
«Perché vuol
dire che il tuo corpo non ti sta cercando, non sta tentando di farti
tornare dentro di sé. E questo non va bene». Si
prese il viso fra le mani, appoggiandosi con i gomiti sulle ginocchia.
«Stamattina ho parlato con Bill, sai? Mi ha chiesto di
salutarti e di dirti che gli manchi e che devi sbrigarti a
tornare».
Zoe si passò una mano
sugli occhi lucidi: non voleva piangere, non ancora. Per cui si fece
forza e tirò su col naso, prima di dire: «Evelyn
lo sa che sono qui?».
«Sì…»,
tentennò. «Bill gliel’ha
detto».
La donna si era accorta della sua
indecisione nel risponderle e le venne in mente una cosa a cui non
aveva mai fatto caso ma che per lei era fondamentale. «Ma lei
riesce a vederti?».
Franky sobbalzò a quel
quesito. Aveva pregato con tutte le sue forze perché non
glielo chiedesse, ma nessuno lo aveva ascoltato e ora le doveva dare
una risposta.
Pensò freneticamente che se le avesse detto che,
sì, lei riusciva a vederlo, Zoe avrebbe continuato su quella
scia e gli avrebbe chiesto che cosa lei ne pensava di lui; inoltre, lo
avrebbe spronato tanto da fargli confessare tutto: le avrebbe detto che
si sentiva strano al suo fianco, che ogni volta che la guardava negli
occhi il cuore gli faceva quei brutti scherzi e lo stomaco gli si
attorcigliava. E Zoe… Non sapeva come avrebbe reagito, in
realtà. Sicuramente avrebbe analizzato la situazione e gli
avrebbe spiattellato davanti una verità che ora come ora non
voleva sentire né vedere, qualunque essa sia.
Se le avesse detto di no, invece…
«Franky, allora? Evelyn
riesce a vederti?», gli chiese di nuovo, spazientita ed
insospettita dal suo silenzio.
«No, non riesce a
vedermi», le rispose infine, con un nodo in gola e la cieca
speranza che gli credesse.
Per una volta, probabilmente
l’unica in tutta la loro esistenza, Zoe decise di credergli
anche se le sembrava tanto che le avesse detto una bugia.
Perché avrebbe dovuto mentirle, infondo?
Intristita, abbassò il
capo. «Quindi, visto che non ti vede, crederà che
quello che le ha detto Bill sia solo una storiella per
bambini… Se ti avesse visto avrebbe davvero creduto in te al
cento per cento e avrebbe creduto anche che il mio spirito è
in Paradiso…».
Franky lesse tutto ciò
che avrebbe voluto dire ancora: quello che le importava maggiormente
non era che Evelyn credesse a quello che le aveva detto Bill, ma che
conoscesse Franky, il ragazzo che aveva amato incondizionatamente e che
sarebbe sempre rimasto nel suo cuore; voleva che diventassero amici e
che si affezionassero l’uno all’altro,
così che Franky decidesse di prenderla sotto la sua
protezione quando lei non ci sarebbe più stata.
L’angelo, anche se
sconcertato dai suoi pensieri, accennò un sorriso e le
accarezzò i capelli per scostarglieli dal volto.
«È anche per questo che devi tornare al
più presto, per continuare a raccontarle che io
esisto», le sussurrò e le baciò la
fronte.
Sentiva già il peso di
quella bugia sul cuore, ma non per forza doveva aver fatto la cosa
sbagliata.
***
Bill uscì dalla stanza
di Evelyn, lasciandola sola con suo zio, e si diresse verso quella di
Zoe. Si era detto che avrebbe parlato un po’ con lei, con la
speranza che riuscisse a sentirlo, ed era giunto il momento.
Sbirciò
all’interno della camera e di Franky nessuna traccia: erano
soli, loro due. Entrò, si chiuse la porta alle spalle e
trascinò una sedia al suo cospetto, sulla quale si sedette.
Le prese una mano fra le sue e la
baciò, trattenendo le lacrime che avevano iniziato a
pungergli gli occhi.
«Zoe, amore», tremolò.
«Perché non torni da me?».
***
Franky se n’era andato da
qualche minuto, senza rivelarle dove sarebbe andato né
perché.
Si sentiva bene, anche se secondo
il parere dell’angelo non avrebbe dovuto essere
così, e decise di alzarsi per fare una passeggiata nel
giardino dell’ospedale.
Una volta seduta sul bordo del letto, però,
avvertì un brivido e percepì la sua mano destra
stretta in quelle che, le avrebbe riconosciute fra un milione,
appartenevano a Bill. Sentì anche la sua voce, un
po’ incerta, e fu un colpo al cuore.
Chiuse gli occhi, per cercare di
capire meglio cosa le stesse dicendo, e capì che doveva
trovarsi proprio di fronte a lei, seduto accanto al suo corpo immobile.
Sollevò una mano per accarezzargli il viso, mordendosi le
labbra per non scoppiare in singhiozzi, ma tutto ciò che
riuscì a sfiorare fu l’aria.
Provò ancora a creare
una connessione più forte col proprio corpo e si
sentì infinitamente debole. Che ci fosse riuscita? Che il
suo corpo stesse provando a riaccettare il suo spirito?
Cadde sul letto, priva di forze.
***
Bill aveva avuto
l’impressione che la mano di Zoe si fosse mossa fra le sue e
trattenne il respiro in gola.
«Amore», le
sussurrò dopo un po’. «Amore, so che ce
la puoi fare, forza».
Ma dopo attimi di assoluto silenzio
si disse che doveva essere stata solo la sua immaginazione. Si
coprì il volto con le mani e si lasciò andare
alle lacrime.
***
Zoe spalancò gli occhi,
respirando furiosamente, e vide accanto a sé
un’infermiera che le sistemava una specie di flebo nel
braccio, scuotendo il capo. Poi la guardò sorridendo
compassionevole e le accarezzò la fronte imperlata di sudore
con una pezza bagnata.
«C’è
mancato poco», le sussurrò.
***
Evelyn, indecisa, si torturava le
mani, lo sguardo puntato su di esse. Doveva assolutamente andare nella
cappella dell’ospedale per il suo
“appuntamento” con Franky, ma poteva fidarsi di suo
zio?
Beh…
mica devo dirgli per forza che devo vedere Franky, no? pensò
e prese coraggio, schiarendosi la voce.
Tom, che la stava guardando
già da un po’, si accese di curiosità
quando la nipote alzò gli occhi su di lui e gli
domandò, timidamente: «Io dovrei… Mi
porteresti nella cappella, al primo piano?».
«Nella
cappella?», le chiese a sua volta, sbigottito. «Che
ci vai a fare lì?».
«Ahm… a fare
ciò che si fa in una cappella… A
pregare?».
«Da quando tu
preghi?».
«Da quando mamma
è in coma», sussurrò abbassando il
viso, conscia che non era del tutto vero. Quella volta non sarebbe
andata lì a pregare, forse avrebbe giusto detto due parole
al crocefisso appeso sopra l’altare e avrebbe acceso un altro
cero, ma ciò che la spingeva verso quel luogo era ben
diverso.
«Allora, mi ci porti
sì o no?», borbottò.
«Ehm…
sì, okay».
Evelyn, dentro di sé,
sospirò sollevata. Poi si alzò dal letto e disse
che voleva camminare un po’, visto che comunque il giorno
dopo sarebbe stata dimessa.
Il dottore che l’aveva
presa in cura era passato nel primo pomeriggio per annunciarglielo e
avrebbe dovuto essere felice di ritornare a casa, ma aveva pensato alla
sua mamma che invece sarebbe rimasta lì e non aveva proprio
potuto essere contenta fino in fondo.
Tom
l’accompagnò al piano inferiore avvolgendole
il braccio sano col proprio e una volta dentro la cappella decise di
rimanere un po’ con lei, siccome non aveva poi
così tanta voglia di tornare a casa.
Il motivo era in carne ed ossa e aveva un nome: Leo. Ma forse non era
la sua presenza a renderlo così reticente – lo
aveva sempre trovato un ragazzo simpatico, leale ed innamorato di sua
figlia, – ma il fatto che molto probabilmente avrebbero
sfruttato l’occasione che quella cena in famiglia gli offriva
per fare quel famoso annuncio che avevano continuato a rimandare fino a
quel giorno.
Era davvero agitato e in pensiero per Jole. I suoi occhi, come gli
aveva detto Bill qualche tempo prima, la vedevano ancora
così piccola e solo all’idea che avesse deciso di
prendersi delle responsabilità insieme a quel ragazzo lo
faceva sentire in ansia.
Guardò la nipote
avvicinarsi al porta candele, inserire delle monetine
nell’apposita fessura ed accendere un cero. Pensò
che avesse chiuso gli occhi per fare la propria preghiera, ma Evelyn in
realtà si stava maledicendo perché non credeva
che suo zio l’accompagnasse anche dentro
alla piccola chiesa. Per fortuna Franky non era ancora arrivato, o
forse non l’aveva visto.
Per verificare la sua presenza, la
ragazza si voltò e si guardò intorno facendo
finta di scostarsi i capelli dal viso senza l’uso delle mani,
scuotendo il capo. Quel metodo risultò efficace,
perché vide l’angelo appiattito contro la parete,
nascosto dalla penombra fra due finestre.
Evelyn fece finta di niente. Anche se in modo un po’ nervoso,
si avvicinò a Tom e gli sorrise, poi si mise seduta sulla
prima panca a destra, il più lontano possibile da dove si
trovava Franky. Tom si mise seduto accanto a lei e guardò di
fronte a sé.
Rimasero in silenzio per diversi
istanti che ad Evelyn parvero interminabili. Per questo
tossicchiò e gli chiese sottovoce, girando il viso verso di
lui: «Ma tu mica dovevi andare a casa per quella cena con
Jole e Leo?».
Tom aggrottò le
sopracciglia. «Sì, però
credevo… Vuoi che ti lasci da sola?».
«Sì,
grazie», sfiatò, con un mezzo sorriso.
Suo zio annuì, per nulla
insospettito dal suo comportamento, e si alzò. Le
baciò la fronte, tenendole il viso fra le mani.
«Ci vediamo domani, sempre se non mi venga un infarto questa
sera», sorrise sbarazzino, nonostante fosse davvero
preoccupato di star male ad una notizia troppo sconvolgente per il suo
povero cuore.
Evelyn ridacchiò.
«Nah, al massimo sverrai con la faccia
nell’insalata».
«Probabile».
La salutò di nuovo ed
uscì dalla cappella. Una volta chiusa la porta alle sue
spalle corrugò la fronte: avrebbe giurato di aver visto
Franky appiattito contro la parete mentre attraversava il corridoio.
Scosse il capo. Doveva esserselo immaginato.
Quando la porta della cappella si
chiuse, sia Franky che Evelyn si rilassarono e trassero un lungo
sospiro.
«C’è
mancato poco», soffiò l’angelo, uscendo
allo scoperto e mostrandosi sotto alle ultime luci del giorno.
Sorrideva e con quel semplice incurvamento di labbra riuscì
quasi a stordirla.
«Perché ti sei
nascosto?», gli domandò comunque.
«Perché non
gli hai detto che dovevi vederti con me?», le chiese lui in
risposta.
Si guardarono negli occhi e non ci
fu bisogno di altre parole: era meglio che nessuno sapesse di loro.
Forse non c’era nemmeno un motivo vero e proprio per il quale
entrambi avevano preso quella decisione, ma sentivano che doveva essere
così.
Franky scivolò seduto
accanto ad Evelyn e le sorrise in modo tenue, prima di posare un
braccio dietro le sue spalle e dirle: «Qual è la
prima domanda?».
***
Arrivato a casa aveva subito visto
Jole e Leo giocare con Arthur. Il fidanzato di sua figlia lo teneva
seduto sulle sue ginocchia e gli suggeriva ciò che doveva
chiedere alla sorella maggiore per scoprire chi fosse il suo
personaggio di Indovina chi?.
Alla fine aveva vinto lui e mentre esultava si era girato verso Leo e
gli aveva lanciato le braccia al collo, in un tenero abbraccio. Tom non
aveva potuto non sorridere.
Linda aveva preparato un sacco di
cose buone da mangiare e la cena era trascorsa più che
tranquillamente; Arthur non aveva nemmeno fatto i capricci per mangiare
un po’ di verdure, di cui non andava di certo ghiotto, e
tutto grazie all’aiuto di Leo che gli aveva raccontato che
lui da bambino mangiava sempre la frutta e la verdura e per questo era
diventato grande. Anche Tom gli aveva fatto quel discorso, tempo
addietro, ma non l’aveva preso sul serio come aveva preso sul
serio Leo quella sera.
Tom aveva passato buona parte del
tempo ad osservare quel ragazzo ed era giunto alla conclusione che era
meglio di tanti altri ragazzi che sua figlia si sarebbe potuta andare a
scegliere. Dopotutto era stato fortunato, perché lui
sembrava perfetto per Jole ed era veramente innamorato di lei. Cosa
voleva di più?
«Okay, credo sia arrivato
il momento», esordì Jole mentre sua madre tirava
fuori dal frigo il dessert che aveva portato proprio la ragazza.
Tom deglutì e
sperò davvero di non sentirsi male, mentre guardava la sua
bambina scambiare uno sguardo d’intesa con Leo e stringergli
la mano sopra al tavolo.
«Io e Leo ci
sposiamo», lanciò la notizia bomba e Tom
vacillò, ma non si sentì male come aveva
immaginato.
Stiracchiò un sorriso,
pensando che poteva andare peggio: se gli avesse detto che sarebbe
diventato nonno?!
«Oh mio Dio, tesoro,
è bellissimo!», gridò Linda tutta
eccitata, andando dalla figlia per abbracciarla e baciarla sulle
guance, per poi fare lo stesso anche con il futuro genero.
«Cacchio, hanno
già dato la prima notizia!», gridò
Franky, comparso all’improvviso alle spalle del chitarrista,
che sobbalzò udendo la sua voce.
«La…
prima… notizia?», mormorò, scioccato,
guardando l’angelo coprirsi la bocca per non scoppiare a
ridergli in faccia.
«E non è
tutto!», continuò Jole, emozionata.
Tom si voltò verso di
lei con gli occhi sgranati ed impallidì quando la vide
prendere la mano di Leo e posarla sul proprio ventre. «Avremo
un bambino!».
A quell’esclamazione
calò un silenzio tombale e tutti posarono lo sguardo su Tom.
Persino il piccolo Arthur lo osservava con in bocca il cucchiaino,
incuriosito dal suo colorito a dir poco paonazzo.
«Ops, nonno
Thomas», gli sussurrò all’orecchio
Franky, sogghignando.
Tom sbatté i pugni sul
tavolo e si alzò di scatto, facendo spaventare tutti.
«Io lo ammazzo! Lo ammazzo!», gridò
fuori di sé e corse dietro a Franky che, anticipandolo, era
già schizzato verso il salotto.
Peccato che nessuno riuscisse a
vedere l’angelo, a parte lui, e tutti classificarono la
reazione di Tom un po’ da… folle.
___________________________________________
Ciao a tutti!!
Beh dai, divertente come finale, no? xD Me lo vedo proprio Tom correre
in giro per casa dietro "nessuno" xD
Ma che bello, Leo e Jole si sposeranno e avranno un bambino *-*
Rendendo Tom nonno xD - E' l'inizio di un incubo per lui, poveretto xDD
Ah, in questo capitolo finalmente Franky e Zoe non hanno litigato!! *-*
Strano ma vero xD Si stanno riabituando l'uno all'altra e le cose vanno
decisamente meglio, anche se la donna continua ad insistere sul fatto
che vorrebbe che Franky diventasse il futuro angelo custode di Evelyn.
Evelyn che causa non pochi problemi! °w° Infatti
Franky... boh, non lo so u_u
Bill ha fatto pace con Franky ed è tornato David, avete
visto? :D E' un vecchietto adesso, ma ancora tira avanti ;) E, e, e, e
che ne dite della ricomparsa di Kenzie e Norbert? *-* Cioè,
Gabi e Leo!! Ebbene sì, Jole si è fidanzata con
l'ex amico di Franky :D Com'è piccolo il mondo xD
Okay dai, basta, sta a voi ora :)
Spero che vi sia piaciuto e che lascerete qualche recensione!
*ò*
Ringrazio di cuore le due sante che hanno recensito lo scorso capitolo
*-* e chi ha letto soltanto u.u
Un bacio a tutti, alla prossima!!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 7 *** Home, nasty home ***
7. Home, nasty home
Bill si guardò intorno
ancora una volta per accertarsi di aver preso tutto. Evelyn, invece,
che avrebbe dovuto essere più attenta di lui visto che erano
le sue cose, stava alla finestra e guardava fuori, alla ricerca anche
di un solo particolare che la riconducesse a Franky.
Il pomeriggio prima erano stati
molto tempo insieme, fino all’ora di cena, e lei gli aveva
fatto domande su domande: gli aveva chiesto di sua madre, di come si
erano conosciuti, di come erano diventati migliori amici, di come
avevano capito di essersi innamorati l’uno
dell’altra… Cose che già sapeva,
dopotutto, ma che dette da lui avevano tutta un’altra
melodia. Lo aveva ascoltato rapita, continuando ad esigere i
particolari, fino a quando lui non aveva riso e le aveva detto che
facendo così somigliava terribilmente a sua madre.
Non aveva fatto in tempo a porgli
tutti i suoi quesiti perché l’angelo ad un certo
punto si era alzato in piedi e aveva detto che doveva scappare o si
sarebbe perso uno spettacolo a cui desiderava ardentemente assistere.
Evelyn non gli aveva chiesto nulla in proposito, aveva solo voluto
sapere quando si sarebbero rivisti. Il giorno seguente sarebbe tornata
a casa, come avrebbero fatto a…?
«Non ti preoccupare», aveva interrotto il suo
monologo colmo di dubbi e le aveva sorriso apertamente.
«Verrò a trovarti anche a casa».
Il suo cuore si era fermato a quelle parole. Franky a casa sua, nella
sua camera? Lui aveva riso, probabilmente perché aveva letto
i suoi pensieri, e l’aveva fatta vergognare tanto da farle
desiderare di scendere con un ascensore nelle viscere della Terra.
«Starò attento a non farmi vedere da
Bill», l’aveva rassicurata ancora e poi si era
avvicinato, sussurrando che doveva proprio andare.
Si erano guardati con il viso ad un palmo da quello
dell’altro, occhi negli occhi, respiro contro respiro. Ma
alla fine l’angelo si era spostato e le aveva posato un
fugace bacio sulla fronte, prima di sparire.
«Evelyn? Evelyn, ci
sei?».
La ragazza rinvenne
all’udire la voce del padre e si voltò verso di
lui, che la guardava con il sopracciglio alzato.
«C’è
qualcosa che non va?», le domandò ancora.
«No, sto bene. Stavo
solo… pensando».
«A che cosa?»,
continuò con la sua serie di domande, sedendosi sul letto e
chiudendo la zip della borsa.
«Chissà
com’è andata la cena a casa di zio Tom»,
glissò e Bill non se ne accorse minimamente. Anzi, sorrise
divertito e avrebbe anche risposto se proprio Tom non fosse entrato
come un tornado nella stanza, con tutta l’aria
d’avere un diavolo per capello.
«Oh, ciao
Tomi», lo salutò il gemello. «Stavamo
giusto parlando di te, sai?».
«Ah
sì?», berciò.
Era incazzato col mondo quella mattina e niente e nessuno avrebbe
potuto calmarlo, nemmeno il suo caro fratellino.
Aveva passato davvero una brutta
serata il giorno prima e dopo non una, ma le due notizie bomba Franky
si era volatilizzato lasciandolo da solo ad affrontare tutta la sua
famiglia che lo aveva ormai catalogato come un povero futuro nonno con
i neuroni esauriti. Linda aveva cercato di calmarlo, una volta da soli
nella loro stanza da letto, ma Tom non ne aveva voluto nemmeno sapere e
si era girato dall’altra parte. Era stato davvero maleducato
e avrebbe dovuto scusarsi con lei al più presto, ma le
batoste che aveva ricevuto lo avevano segnato nel profondo.
Sua figlia, la sua bambina, si sarebbe sposata e nel giro di nove mesi
sarebbe pure diventata mamma, rendendolo nonno. Nonno
lui! Aveva solo quarantaquattro anni, era troppo giovane, accidenti!
«Deduco che non sia
andata bene», disse Bill, guardando la figlia che si
stringeva le braccia al petto in tono grave.
«Allora, si sposano o
Jole è incinta?», gli chiesero in coro e il
chitarrista rischiò quasi di impazzire.
«Entrambe le
cose!», gridò disperato, per poi ciondolare seduto
al fianco di Bill, che gli diede una pacca sulla spalla, anche se ci
era rimasto di stucco pure lui.
«Sarò nonno, capisci? È…
è una tragedia».
«Perché?»,
chiese tranquillamente Evelyn, sollevando le spalle.
«È bello essere nonni a
quest’età, riuscirai a goderti di più
il nipotino…».
Forse aveva anche ragione, ma in
quel momento Tom vedeva tutto nero. «Che gli costava
aspettare ancora un po’? Hanno solo ventiquattro anni!
Sono… piccoli per un figlio!».
«Linda ha avuto Jole che
era appena maggiorenne e tu avevi vent’anni», gli
ricordò Bill.
«Sì, ma
è diverso!», sbuffò, intristito. Poi
cambiò argomento e chiese: «Avete già
visto Franky?».
Evelyn sobbalzò e i suoi
occhi si illuminarono. Però si spensero presto,
perché se l’aveva chiesto a loro voleva dire che
nemmeno lui l’aveva visto…
«No», rispose
il padre anche per lei. «Perché?».
«Perché quel
ragazzino impertinente ieri mi ha dato del Nonno
Thomas e non la
passerà liscia!».
Bill ed Evelyn si guardarono negli
occhi e scoppiarono a ridere, contagiando anche il povero Tom a cui,
dopotutto, non gli dispiacque divertirsi u po’. Fu come
ossigeno per i suoi polmoni.
«Voi, che mi
dite?», chiese ancora quest’ultimo, una volta
smesso di ridere. «Siete pronti per tornare a
casa?».
«Sì,
più o meno», bofonchiò Bill, a testa
bassa.
Il gemello gli avvolse un braccio
intorno alle spalle e non ci vollero nemmeno le parole per capire che
quello che voleva dirgli era di non preoccuparsi, che Zoe sarebbe
tornata presto da loro.
«Preparatevi anche
psicologicamente», li avvertì, sospirando. Il
fratello e la nipote lo guardarono corrugando la fronte. «Non
so come, ma la stampa è venuta a sapere che Evelyn sarebbe
stata dimessa oggi e ci sono diversi giornalisti qua fuori che
aspettano soltanto di saltarvi addosso. Io gli sono sfuggito per un
soffio».
«Oh, perfetto». Evelyn
sospirò e si passò una mano fra i capelli biondi
che le ricadevano liberi sulla schiena.
Un’infermiera
entrò nella camera e li avvertì che avevano
appena finito di cambiare le fasciature alle ustioni di Zoe e che ora
potevano andare a salutarla. Evelyn, Bill e Tom annuirono,
ringraziando, poi si guardarono in viso e si diressero tutti e tre
verso la stanza della donna.
Evelyn sbirciò
all’interno per prima, guardando attraverso il vetro sopra la
porta, e non vide chi aveva sperato di vedere seduto accanto al corpo
della madre. Sconfortata, entrò nella camera ed
accarezzò la mano inerte della sua mamma, poi si diresse
alla finestra per lasciare un po’ di spazio a suo padre.
Guardò fuori ed ispezionò con minuzia ogni
singolo ramo del grande albero di fronte a lei, dove per la prima volta
aveva avuto un incontro ravvicinato con Franky. Cercò i suoi
occhi verdi e luminosi, il suo sorriso stravolgente, le sue ali
candide… ma non lo trovò.
Evelyn si girò e
guardò suo padre posare un bacio sulle labbra di sua madre.
A quella scena le si strinse il cuore perché il suo
papà stava soffrendo tantissimo, come stava soffrendo Franky.
Bill e Franky, i due uomini della vita di sua madre. Aveva milioni di
domande ancora da porre all’angelo riguardo a
quell’argomento.
«Mi raccomando,
Zoe», disse poi suo zio, col sorriso sulle labbra,
accarezzandole una mano. «Non fare troppo la brava o potrebbe
anche darsi che non ti riconosca».
Riuscì a strappare
l’accenno di un sorriso al fratello gemello ed Evelyn sorrise
a sua volta, prendendo la mano del suo caro papà ed uscendo
insieme a lui dalla stanza d’ospedale.
Una volta firmato il modulo delle
dimissioni fu di nuovo libera e poté uscire
dall’ospedale per tornare a casa. Ma la sua non sarebbe mai
stata una totale libertà a causa del cognome che si portava
appresso.
Infatti, appena usciti dal grande cancello dell’ospedale
diversi flash di macchine fotografiche colpirono lei, suo padre e suo
zio mentre una piccola folla di giornalisti si stringeva intorno a loro
ponendo domande su domande, alzando continuamente la voce per attirare
la loro attenzione.
Evelyn, con il cappuccio della
felpa sulla testa, cercò di stare il più
possibile dietro suo padre e di non sollevare mai il viso da terra, ma
non poteva impedirsi di ascoltare. Volevano sapere
come stava sua madre, come
stavano loro, se erano ancora scioccati
dall’accaduto… Ma, in realtà,
perché gli interessava tanto? Erano domande a cui si
sarebbero potuti rispondere anche da soli, talmente erano stupide. Era
ovvio che non stavano bene e ciò che avevano vissuto li
aveva segnati.
«Ehi! Ma che
fa?!», gridò una giornalista che era stata appena
spintonata via da un ragazzo spuntato all’improvviso.
«Lasciateli respirare,
porca miseria!», urlò a sua volta il giovane,
creando un varco fra i fotografi e i giornalisti per far passare
più facilmente i tre.
Li aiutò a raggiungere l’auto e i gemelli, anche
se un po’ sorpresi dal comportamento di quel ragazzo
sconosciuto, lo ringraziarono.
«Non
c’è di che!», li salutò con
un gesto della mano, sorridendo, e chiuse la portiera che aveva aperto
da vero cavaliere ad Evelyn, che non aveva mai smesso di fissarlo.
I loro occhi si incontrarono per un
istante brevissimo e la ragazza riuscì a scorgere, grazie
alla luce del sole che li illuminava, una sfumatura di verde che
conosceva bene e che le mozzò il fiato.
L’auto partì e
si allontanò, senza darle il tempo di accertarsi di
ciò che aveva visto solo di sfuggita. Però,
quando si girò e guardò il sedile di fronte a
sé, non riuscì proprio a non sorridere.
***
Franky si passò una mano
fra i capelli, sorridendo a trentadue denti, e trotterellò
lungo i corridoi dell’ospedale.
Quella mattina era felice. O
meglio, già la sera precedente si era sentito contento, ma
quella mattina era davvero in pace col mondo e aveva già
capito per quale motivo. Non gli dispiacque nemmeno realizzarlo: si
sentiva così perché aveva iniziato la giornata
incrociando gli occhi di Evelyn. (Anche se aveva messo in mezzo quel
povero ragazzo che se fosse stato pienamente in sé non si
sarebbe nemmeno sognato di andare in aiuto di Bill, Tom e Evelyn). Si
sentiva così bene che persino la consapevolezza che ormai
teneva a lei più di quanto avrebbe dovuto non lo preoccupava
minimamente.
Forse era sempre stato quello a non farlo sentire pienamente contento:
aveva sempre pensato alle conseguenze, aveva rimuginato e rimuginato e
alla fine non si era mai goduto dei semplici momenti che erano volati
via così, senza che fosse riuscito ad assaporare nemmeno un
briciolo della loro felicità.
Con Evelyn invece era diverso, così spontaneo…
non riusciva proprio a fermarsi e a riflettere sui pro e i contro:
viveva e basta. Forse facendo così si sarebbe trovato
inguaiato dopo, ma quella sensazione era troppo bella e non voleva
farne a meno.
Incrociò
l’infermiera con cui aveva spesso e volentieri battibeccato e
che solitamente non poteva nemmeno vedere.
«Buongiorno!»,
la salutò euforico, donando un sorriso pure a lei.
«Come sta, tutto bene?».
«Sì»,
rispose sbigottita e lo guardò da sopra i suoi occhialetti
tondi. «Lei è sicuro di star bene?».
«Io?», rise,
mentre camminava e saltellava all’indietro. «Io sto
benissimo! Mai stato meglio!».
«Se lo dice
lei…», mormorò l’infermiera,
sempre più sconvolta: dava l’idea di essersi
appena fumato l’impossibile.
«Ora devo proprio
scappare! Arrivederci, buona giornata!», la salutò
e continuò la sua corsa festosa, portando allegria in mezzo
ospedale, fino a quando non arrivò alla sua destinazione.
Entrò nella stanza di
Zoe e la vide stesa sul letto, pallida come il lenzuolo che
l’avvolgeva fino al seno, che piangeva con le mani a coprirle
il viso.
Tutta l’euforia fu come risucchiata dall’interno
del suo corpo in modo molto violento, dandogli la sensazione di pesare
un quintale. Perché non c’è nulla di
peggio che essere felici e non poter dimostrarlo apertamente di fronte
a qualcuno che evidentemente non lo è.
In un attimo le fu accanto e le
tolse le mani dal viso per guardarla negli occhi – quegli
occhi di cui si era innamorato e che ora…
«Zoe, che
cos’è successo?», sussurrò,
passando le mani sulle sue guance per spazzare via le lacrime.
«Ieri sera…
ieri sera ho sentito Bill e ci sono quasi riuscita», disse a
fatica, fra i singhiozzi. «Adesso l’ho risentito,
ho sentito che mi ha baciata sulle labbra… Io devo tornare,
voglio rivederli».
«Oh,
piccola…», sorrise lievemente e le
accarezzò i capelli, poi le baciò la fronte.
«Ti prometto che li rivedrai presto».
***
«Ecco, siamo
arrivati», annunciò Tom parcheggiando proprio di
fronte a casa del gemello.
Né Bill né
Evelyn, però, si mossero. Rimasero a guardare
dall’esterno la loro villetta bianca a due piani a cui si
accedeva attraversando il giardino curato.
Nelle giornate assolate Zoe trascorreva ore ad occuparsi dei suoi
fiori, mentre Bill se ne stava seduto nella grande veranda a scrivere
qualche nuova canzone e Evelyn, soprattutto da piccola, andava sulla
sua altalena ridendo e con i capelli al vento.
Quella casa senza di lei sarebbe
sembrata imperfetta ad entrambi perché la perfezione
riusciva a raggiungerla soltanto quando erano tutti e tre insieme.
Tutto, ogni stanza, ogni angolo, ogni minuscolo particolare
gliel’avrebbero ricordata e sarebbe stato difficile abitarla
senza di lei, ma ce l’avrebbero messa tutta perché
sapevano che prima o poi sarebbe tornata. Dovevano continuare a vivere
quella casa per Zoe e a prendersi cura dei suoi fiori perché
altrimenti li avrebbe sgridati ben bene tutti e due.
Tom tossicchiò
imbarazzato, tirandoli fuori dai loro omologhi pensieri, e
stiracchiò un sorriso. «Stasera potete venire a
mangiare da noi, se vi va».
«Grazie Tom,
ma… forse è meglio di no», rispose Bill.
«Beh, se cambiate idea
siete i benvenuti», sorrise ed attirò il gemello
in un abbraccio.
Evelyn arrossì senza un
motivo preciso e si commosse, ma non lo diede a vedere.
Salutò suo zio con un bacio sulla guancia e poi
uscì dall’auto, insieme al padre.
Quest’ultimo aprì il cancello e la fece entrare
nel giardino, nel quale entrambi rabbrividirono avendo la sensazione
che fra il profumo dei fiori ci fosse anche quello di Zoe.
Si diressero verso la veranda e dopo un respiro profondo Bill
aprì la porta di casa. Vi entrarono e, una volta chiusa alle
loro spalle, Tom diede gas e sgommò via.
Si fermò dal primo
fioraio che incontrò sulla sua strada e si lasciò
consigliare dalla simpatica vecchietta a cui apparteneva il negozio.
Pagò e, dopo essere stato paparazzato con
quell’enorme mazzo di fiori fra le mani –
già si immaginava i titoli: “Anche Tom Kaulitz
regala i fiori! Speriamo non per farsi
perdonare…”, – corse a casa, anche se
era ancora un po’ in pensiero per suo fratello e sua nipote:
l’aveva capito subito che si erano sentiti spaesati di fronte
alla loro casa senza Zoe e sperava vivamente che venissero a cena da
loro quella sera; almeno non sarebbero rimasti da soli e non avrebbero
dovuto affrontare subito quella prova così difficile.
Arrivò a casa e
suonò il campanello, nonostante avesse benissimo le chiavi
nella tasca della giacca.
Linda, come aveva sperato, venne ad
aprirgli e gli disse subito, roteando gli occhi al cielo:
«Hai dimenticato ancora le chiavi?». Fu allora che
tirò fuori dalla schiena il mazzo di fiori e glielo porse
con un sorriso caldo, guardandola negli occhi.
«Non ho fatto nulla per
meritare al mio fianco una donna fantastica come te. Ti amo»,
sussurrò e Linda, dopo essersi portata le mani sulla bocca,
piena di stupore, ricambiò il sorriso e gli gettò
le braccia intorno al collo per baciarlo.
***
Franky, dimentico
dell’euforia di quella mattina, bussò
all’ufficio di San Pietro e, col permesso, vi
entrò.
Il santo era seduto alla sua
scrivania e stava leggendo un libro con degli occhialetti sulla punta
del naso. Appena lo vide se li tolse e fece un’orecchia alla
pagina a cui era arrivato, poi chiuse il libro per dedicargli tutta la
sua attenzione.
«Franky, come mai quel
muso lungo?», gli chiese, premuroso.
«Zoe»,
sfiatò lasciandosi cadere su una poltrona di fronte alla
scrivania del santo.
«Ha cambiato idea sulla
variazione del tuo corso?», saltò su, preoccupato
che la sua idea geniale non solo non fosse un successone, ma non
andasse proprio in porto.
«No, non si
preoccupi», ridacchiò, seppur lievemente.
«Il fatto è che vorrebbe scendere di sotto, solo
per un po’, per vedere suo marito e sua
figlia…».
«Oh, capisco»,
annuì San Pietro, massaggiandosi il mento come se stesse
prendendo in esame le sue parole. All’improvviso sorrise
raggiante e disse, lasciando di stucco l’angelo:
«Qual è il problema, portala con te!».
«Che cosa? Sul
serio?», chiese Franky, esterrefatto.
«Sì,
perché no?», sollevò le spalle. Poi gli
puntò il dito contro, assumendo un’espressione
severa: «Ma la sua partecipazione al corso non si tocca,
okay?».
Franky rise, di nuovo felice.
***
Appena entrati, alla loro destra si
ergeva una scala in vetro e acciaio che portava al piano superiore: una
vera e propria struttura scenografica che, di notte, veniva illuminata
da piccoli led piazzati sotto ognuna delle lastre di vetro che facevano
da gradini.
Di fronte a loro era situato il
salotto, dal pavimento in marmo bianco, come il resto della casa. Il
divano ad L color caffèlatte e dai cuscini neri abbracciava
un tavolino nero e basso e si appoggiava ad una parete bianca su cui
però balzavano all’occhio diversi quadri colorati.
Accanto a quella zona se ne trovava un’altra nella quale
erano situati un altro divano, questa volta a due posti e color crema,
un tavolino marrone scuro e di fronte ad esso due poltrone di pelle
dello stesso colore. Entrambe le zone, però, davano su una
parete completamente ricoperta di pannelli di legno con alcune mensole
e la tv a schermo piatto appesa al centro di essa.
Alla sinistra del salotto si
trovava la cucina e per raggiungerla bisognava salire tre gradini di
marmo e passare sotto l’arco a tutto sesto che arrotondava
l’estremità dell’entrata.
Era un locale molto grande e luminoso, grazie alle vetrate che davano
sul lato est del giardino. Poco lontano da esse era situato il grande
tavolo da pranzo e tra questo e la cucina si trovava un bancone per
l’aperitivo o la prima colazione.
Bill, riesaminando ogni particolare
che aveva scelto con Zoe quando avevano deciso di trasferirsi,
sentì un grande vuoto dentro. Tutto gliela ricordava, tutto.
Camminò accanto
all’isola cucina, ne sfiorò la superficie fredda e
lucida con la punta delle dita e raggiunse le vetrate. Si
appoggiò ad una di esse con l’avambraccio e
guardò fuori con sguardo vacuo, fino a quando Evelyn, che
era andata alla ricerca del suo piccolo Coco, non gli fu accanto.
«Io vado di
sopra», gli disse in tono pacato. «Chiamami,
se…».
Non ci fu bisogno di concludere la
frase. Bill annuì e Evelyn uscì dalla cucina con
Coco che cercava di infilzare, incuriosito, le unghiette nel gesso del
suo braccio fratturato.
Salì le scale quasi di
corsa e si rifugiò nella sua camera, che in quei giorni
trascorsi in ospedale le era tanto mancata.
Lasciò andare il gattino
sul suo letto matrimoniale e si diresse verso le porte finestre, dalle
quali si accedeva al grande terrazzo che, se si guardava la facciata
della villa dall’esterno, separava in modo nettamente
visibile il piano superiore da quello inferiore, tanto da far sembrare
che ci fosse una seconda piccola casa sopra quella normale.
Rimase ad osservare il cielo azzurro, spruzzato qua e là da
nuvole di zucchero filato, e si chiese cosa stessero facendo in quel
momento lo spirito di sua madre e Franky.
***
«Ehi, piccola»,
esordì Franky emozionato, entrando nella camera.
Ora Zoe era seduta sul letto, con
le spalle sul cuscino, e sembrava star meglio. Non era sicuramente una
bella cosa, ma se ci fosse stato San Pietro avrebbe fatto i salti di
gioia perché
così avrebbe potuto tranquillamente partecipare al suo corso.
«Che cosa
c’è?», gli domandò,
incuriosita dal suo comportamento.
«Ho una bellissima
notizia per te». Si mise seduto accanto a lei, sul letto, e
le prese le mani fra le sue, guardandola negli occhi.
«Stasera, dopo il corso, andiamo a trovare Bill e
Evelyn».
Zoe in un primo momento
spalancò la bocca, incredula, poi sorrise felicissima e
attirò l’angelo in un abbraccio stretto.
***
Quella sera Jole avrebbe ancora
cenato con i suoi genitori. Leo aveva insistito perché
l’accompagnasse, ma lei gli aveva detto che era meglio se
chiariva da sola con suo padre, per non rischiare di peggiorare
ulteriormente la situazione.
Così, uscita da lavoro fece un salto
all’appartamento che condivideva ormai da due anni con Leo
per farsi una doccia e cambiarsi. Aveva trovato il suo fidanzato in
cucina, nonostante fosse un imbranato colossale.
«Che cosa stai
facendo?», gli chiese, divertita.
«Oh, ciao
amore», la salutò lui, tutto felice, mostrandosi
con un grembiulino rosa di cui Jole preferì non conoscerne
la provenienza. «Sto preparando la cena, non si
vede?».
«Non ti sei dimenticato
che vado dai miei, vero?».
«Certo che
no!», le sorrise, portando nuovamente l’attenzione
sui fornelli. «Sfrutto questa occasione per migliorarmi,
visto che tra un po’ saremo in tre e non potrai mica fare
tutto tu».
«Come sei
dolce». Lo abbracciò da dietro e gli diede un
bacio sul collo, sentendosi la ragazza più fortunata della
Terra ad avere un ragazzo come lui accanto. Era semplicemente perfetto,
anche se aveva i suoi difetti e a volte litigavano, come tutte le
coppie del mondo. «Non vorrei però che ti sentissi
male, sai…».
«Ah-ah, spiritosa.
Perché credi che abbia invitato Gabi?».
Jole si portò una mano
sulla bocca, reprimendo le risate. «Poverina, non vorrei
essere al suo posto! Sei proprio un gemello perfido».
Sapendo che il suo Leo non sarebbe
stato da solo, ma con la sua copia femminile, era uscita più
tranquilla di casa e si era diretta verso quella dei suoi genitori,
appena fuori città.
Si sentiva un po’ nervosa per dover riaffrontare
l’argomento con suo padre, ma era una questione che voleva
risolvere al più presto perché teneva davvero
all’uomo che l’aveva accettata insieme a sua madre,
che l’aveva amata come se fosse stata davvero sua figlia e a
cui doveva tutto, e voleva che lui fosse partecipe della sua
felicità.
Parcheggiò nel vialetto
di fronte al garage aperto e per entrare passò proprio da
lì, come faceva da ragazzina per non essere scoperta dai
suoi genitori quando tornava troppo tardi dalle feste.
«Jole!»,
gridò Arthur, saltando giù dal divano e correndo
incontro alla sorella.
Lei sorrise e lo prese in braccio,
spupazzandoselo tutto anche se le aveva mandato in fumo il piano di
arrivare in cucina da sua madre senza farsi vedere da suo padre, giusto
per venire un attimo incoraggiata per poi affrontarlo.
«Ciao cucciolo, come
stai?», gli chiese, gettando una rapida occhiata nel salotto.
Vide suo padre, seduto sul divano, con la piccola tastiera che aveva
regalato ad Arthur per Natale sulle gambe: probabilmente aveva tentato,
per l’ennesima volta e senza successo, di invogliarlo ad
imparare qualcosa.
Incrociò il suo sguardo
ed entrambi, imbarazzati, rivolsero la loro attenzione a
qualcos’altro. Jole la puntò su Arthur, che le
rispose: «Bene! Tu come stai?».
«Ahm… bene,
sì, bene».
«Sai, mamma mi ha
spiegato che la cicogna porterà un bambino a te e a
Leo», le disse, giochicchiando con i suoi capelli biondi,
sciolti sulle spalle, girandosene una ciocca intorno alle ditina.
«Ma non ho capito perché ve lo porta: dovete
giocarci?».
Jole si lasciò andare ad
una risata leggera, piena di tenerezza. «No, non ci dobbiamo
giocare. La cicogna ce lo porta perché abbiamo deciso di
prenderci cura di lui, di volergli bene».
«Gli piaceranno le
macchinine?», domandò il bambino, con gli occhi
brillanti.
«Ah, non lo so proprio
questo. Ma, nell’eventualità, perché
non vai a prenderne un po’ che gli facciamo un check-up
completo?».
«Okay!», le
avvolse le braccia intorno al collo, in un frettoloso abbraccio, poi si
fece lasciare a terra e corse verso la sua stanza, sotto gli occhi di
Jole e di Tom. Anche Linda, però, dalla cucina, aveva
assistito a tutta la scena con il cuore pieno di gioia e ora si
preparava a sbirciare anche il momento in cui sua figlia e suo marito
avrebbero chiarito.
Jole si schiarì la voce
e, con lo sguardo rivolto verso il pavimento, si avvicinò a
grandi falcate al divano; ci si sedette sopra, accanto al padre, e si
sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Beh…»,
incominciò a dire, titubante. «Arthur sembra
contento di diventare zio».
«Zio»,
sussurrò Tom, rendendosi conto che non solo lui sarebbe
diventato nonno all’età di quarantaquattro anni,
ma che anche Arthur, il suo bimbo, sarebbe diventato zio. A soli
quattro! E poi Linda… Non aveva affatto l’aspetto
di una nonna!
«Jole»,
sospirò, massaggiandosi gli occhi. «Ma tu sei
certa di quello che stai facendo? Insomma, siete ancora
giovani… Io
sono ancora giovane!».
La ragazza ridacchiò,
scuotendo il capo. «Credo di non essere mai stata
più sicura in vita mia. Io lo voglio con tutte le mie forze
questo bambino, lo sento già mio, e voglio…
voglio che anche tu lo voglia».
Tom girò il viso verso
quello della figlia e le prese il mento fra le dita per far
sì che i loro occhi si incontrassero. «Tesoro, se
Leo ti rende felice, se questo bambino ti renderà felice, se
distruggermi psicologicamente chiamandomi nonno
ti renderà felice, beh… allora sarò
felice anche io», sorrise divertito.
Jole, con gli occhi lucidi dalla
commozione, gli strinse le braccia intorno al collo. «Grazie.
Grazie, papà».
«Di niente,
piccola», le accarezzò i capelli e le
baciò la tempia. «Però, potresti farmi
un piccolo favore?».
«Quale?».
«Non voglio sentire
nemmeno una volta la parola nonno,
se non detta dal mio nipotino».
«O nipotina»,
ridacchiò.
«O nipotina, che
sia».
«Okay, ci
proveremo».
«Ma vedi di sfornare un
maschio, eh», la minacciò, puntandole un dito
contro la pancia ancora piatta.
Lei sollevò il
sopracciglio, scettica. «E per quale motivo? Leo vuole una
bimba!».
«Perché almeno
posso tentare di insegnare uno strumento a lui, visto che Arthur non ne
vuole sapere!».
«Cosa vorresti insinuare,
che le femmine non possono diventare brave musiciste?».
Tom e Jole si guardarono negli
occhi per diversi istanti, in assoluto silenzio, poi scoppiarono a
ridere insieme.
***
Franky si sentiva parecchio
agitato, proprio come se fosse la sua prima lezione. Zoe, al suo
fianco, sorrideva serena, per nulla in ansia. Anzi, era felice di poter
partecipare in modo così attivo al corso del suo angelo e di
essere d’aiuto in qualche modo.
Entrarono nell’aula e
tutti gli studenti si misero seduti al loro posto, sorpresi dalla
presenza di quella donna: iniziavano seriamente ad essere curiosi e a
chiedersi chi fosse, perché solo Kim aveva capito il legame
esistente fra loro. La stessa Kim che Franky, con enorme dispiacere,
non vide fra i suoi compagni.
Si sentì subito in colpa, anche se non era di certo colpa
sua se lei si era presa una cotta per lui, ma non poteva mandare
all’aria una lezione solo per andare a cercarla e spiegarle
che gli dispiaceva da morire. Era una delle sue alunne migliori e le
voleva bene, infondo.
Così, si mise seduto
sopra la cattedra ed invitò Zoe a fare lo stesso,
picchiettando le dita al suo fianco. La donna si sedette accanto a lui
ed accennò un sorriso imbarazzato a tutti quegli occhi
curiosi che la guardavano. Per un attimo provò anche un
immenso dispiacere, perché quei ragazzi dovevano avere
all’incirca l’età in cui se
n’era andato il suo Franky e pensare che erano morti e
avevano lasciato le persone che amavano le graffiava il cuore come se
fosse capitato a lei in prima persona, anche perché anche
lei stava facendo soffrire le persone che le volevano bene.
«Ciao a tutti»,
salutò Franky con un sorriso tenue sulle labbra.
«Leggo nei vostri occhi che siete piuttosto curiosi di sapere
che cosa ci fa questa bellissima donna al mio fianco»,
ridacchiò. «Ebbene, lei si chiama Zoe ed
è…».
La porta dell’aula si
aprì di scatto e una Kim con il fiatone fece un timido
inchino con la testa, chiedendo perdono per il ritardo, poi
schizzò seduta al suo posto. Una volta seduta fece un
respiro profondo e sollevò il viso verso quello del suo
professore, che le sorrideva dolcemente. Ricambiò, seppur
arrossendo.
«Dicevo»,
riprese Franky. «Lei si chiama Zoe ed è la mia
protetta».
A quella scoperta tutti i cadetti
angeli custodi sgranarono gli occhi ed iniziarono a parlare fra loro,
creando un brusio che fece sorridere sia il professore che la donna.
«Mi scusi,
ma…». La ragazza che aveva iniziato a parlare si
interruppe ed alzò la mano educatamente, prima di proseguire
col permesso di Franky: «Se lei è qui vuol dire
che è…».
«No», la
corresse subito il professore, sorridendo. «Non è
morta, altrimenti non sarei nemmeno qui. È soltanto in
coma».
«Accidenti, è
vero», borbottò Kim, attirando involontariamente
l’attenzione di Franky. «L’avevo letto da
qualche parte, ma non me lo ricordavo».
«Kim?», la
chiamò. L’allieva alzò lo sguardo,
imbarazzata. «Mi pare di aver capito che tu ne sappia
qualcosa in più dei tuoi compagni. Perché non
glielo spieghi?».
Kim, onorata e allo stesso tempo
rossa dalla vergogna, si alzò in piedi e si
schiarì la voce. Raccontò della scissione fra
corpo e spirito durante il periodo di coma, spiegando successivamente
il perché lei si trovasse in Paradiso e il meccanismo
attraverso il quale il corpo e lo spirito si sarebbero ricongiunti,
permettendole di uscire dal coma. Poi si risedette e guardò
di sottecchi il suo professore, che sorrideva estasiato, con gli occhi
pieni di ammirazione ed orgoglio. Era davvero speciale, la sua Kim.
Speciale,
ma certo! Finalmente
capì il senso delle sue parole e si disse che non avrebbe
potuto fare scelta più azzeccata.
Zoe gli toccò il braccio
per tirarlo fuori dai propri pensieri e ci riuscì, tanto che
Franky scosse il capo e notò che c’erano diverse
mani alzate di ragazzi e ragazze che aspettavano di poter prendere la
parola e porre le loro domande alla protetta.
«Fate come se io non ci
fossi», rispose l’angelo, portando le mani al petto
e sorridendo sbarazzino. «Oggi la prof è
lei».
Zoe abbandonò
l’idea di protestare e sorrise, pronta a rispondere a tutte
le domande dei futuri angeli custodi.
***
Nessuno dei due aveva sentito la
necessità di dover cenare, quella sera. Quindi si erano
semplicemente rifugiati nelle loro stanze.
Evelyn, stesa a pancia in su sul
suo letto, guardava il soffitto con aria malinconica e con una mano
accarezzava il pelo di Coco, accucciato sulla sua pancia, che la
osservava con i suoi occhietti azzurri.
Pensava alla sua mamma, a quanto
mancasse a lei e soprattutto a suo padre, che non aveva mai visto
così giù di morale. Poi pensava a Franky e si
sentiva in qualche modo ferita perché lui le aveva promesso
che sarebbe venuto a trovarla a casa e, anche se era quasi certa di
averlo visto nel corpo di quel ragazzo che li aveva aiutati a scampare
alla folla dei giornalisti, non era ancora passato.
Si tirò su col braccio
sano e guardò il cielo scuro della notte, punteggiato da
rare stelle.
Chissà, magari aveva
fatto male a fidarsi così tanto di un angelo. Sarebbe mai
tornato da lei? Se sì, per quale motivo lo avrebbe fatto?
Per essere sottoposto all’ennesimo interrogatorio da una
ragazzina come lei? Sicuramente no… Perché,
perché allora?
Si mise sdraiata sul fianco,
facendo cadere Coco, e spense la luce. Accarezzò la
testolina del micio, che nel frattempo si era accoccolato al suo
fianco, e con un lieve sorriso sulle labbra e l’immagine
dello sguardo di Franky ad ossessionarla, chiuse gli occhi.
***
«Mi sono divertita
tantissimo, grazie Franky», disse Zoe, aggrappandosi al suo
braccio.
«Non devi ringraziare me,
ma San Pietro che ha avuto questa idea
geniale»,
ridacchiò.
La lezione era finita da qualche
minuto ed erano rimasti a chiacchierare, seduti sulla cattedra,
aspettando che tutti gli alunni uscissero, per poi abbandonare anche
loro la struttura.
Franky distolse per un attimo
l’attenzione da ciò che stava dicendo Zoe
– raccontava di come le fosse piaciuto spiegare la sua
reazione e quella dei suoi amici appena avevano visto Franky versione
angelo custode, – per
posarla su Kim, che stava andando via giusto in quel momento.
«Aspetta un
attimo», interruppe la sua protetta e si alzò per
raggiungere l’allieva. «Kim!».
La ragazza si girò,
sorpresa, e guardò Franky correrle incontro. Non era mai
successo, era sempre stata lei a correre dietro a lui e questo
cambiamento la fece tentennare sul posto.
«Che cosa
c’è?», gli domandò, una volta
di fronte a lei.
«Tu non vuoi diventare un
angelo custode, vero?», le chiese a bruciapelo, convinto
della propria idea. «Tu stai studiando per diventare un
angelo speciale. Dico bene?».
Il fatto che Kim volesse «solo
amare» lo aveva
portato su quella via, perché solo gli angeli speciali,
mandati sulla Terra per mimetizzarsi fra gli umani e allo stesso tempo
aiutare gli altri esseri non vivi, compresi gli angeli custodi in
difficoltà, potevano esserne capaci. Proprio come Ariadne e
Alexandra, che lo avevano aiutato molte volte e che ricordò
con un sorriso carico d’affetto.
«Può
darsi», sorrise in modo ambiguo. «Il suo corso mi
piace tanto, è il momento forse più bello della
giornata perché lei mi insegna molto».
«Io?», Franky,
stupito, si indicò. «Ma io non so quasi nulla
sugli angeli speciali, non è il mio campo».
Kim scosse il capo. «Lei
sa amare veramente, col cuore e non con la testa, e ama tutto
ciò che fa e che lo circonda, tanto che riesce a trasmettere
il suo amore anche agli altri. Le persone come lei sono davvero rare e
sarebbe un angelo speciale eccezionale». Sorrise, divertita
dall’espressione stupefatta dell’angelo custode.
«Ora devo proprio andare. Buona serata».
Si voltò e solo quando
fu infondo al corridoio Franky riuscì a sussurrare:
«Anche a te, Kim», con un sorriso tenero sulle
labbra. Poco dopo Zoe lo raggiunse e gli chiese che cosa avesse detto a
quella ragazza, ma lui scosse il capo e ridacchiò,
avvolgendole le spalle con un braccio.
«Pronta per rivedere Bill
e Evelyn?», le domandò, cambiando argomento.
Il cuore di Zoe perse un battito
all’idea di rivedere le persone che amava di più
al mondo. «Sì», sussurrò e
strinse forte la mano dell’angelo, che però
assunse un’aria dispiaciuta, dicendole:
«C’è solo una cosa: tu non potrai essere
vista».
«Che cosa?»,
soffiò, con occhi lucidi.
«Perché?».
«Perché sei
solo uno spirito e gli spiriti non possono essere visti, a meno che non
ci sia al loro fianco un essere capace di trasmettere loro questa
facoltà».
«E tu… tu non
ne sei capace?».
«Io no,
purtroppo». Gli
angeli speciali sì, però.
***
Bill, seduto sul bordo del suo
letto, sfogliava il grande album di fotografie rilegato in pelle nera.
Era l’album delle loro nozze e rivivere quei momenti
bellissimi, immortalati per sempre sulla pellicola, ora gli faceva male
perché la persona che rideva e sorrideva al suo fianco in
quelle immagini era lontana.
Aveva una voglia assurda di abbracciala, di baciarla, di sentirla sua
ancora una volta; voleva vederla sorridere, imbronciarsi in quel modo
tanto infantile, arrabbiarsi e diventare rossa dalla vergogna; voleva
sentire la sua voce, il suo respiro sulla pelle, la sua risata nei
timpani… Voleva la sua Zoe.
Lo squillare insistente del
telefono fisso sul suo comodino lo distrasse dal flusso dei suoi
pensieri. Si sporse sul letto per prendere il cordless fra le mani e
rispose alla chiamata, portandoselo all’orecchio.
«Pronto?». La
sua voce era nasale ed interrotta da brevissimi singhiozzi di cui non
si era nemmeno accorto, proprio come non si era accorto delle lacrime
che avevano iniziato a tracciargli il viso chiaro.
«Ehi, Bill»,
sussurrò il suo gemello in risposta. «Tutto
bene?».
«Ahm…
sì, sì è tutto okay»,
tirò su col naso e si asciugò le lacrime come
meglio poté, proprio come se Tom riuscisse a vederlo.
«Come mai hai chiamato?».
«Volevo sapere come
stavi, tutto qui. Ormai credo che non veniate più a
cena…».
«No, infatti…
non ce la sentivamo».
«Ho capito. Beh, anche se
venivate non c’era più niente», rise e
riuscì a strappare un sorriso al fratello. «Ho
chiarito con Jole, sai?».
«Sono contento per te,
davvero. Sei ancora in crisi per il fatto di diventare nonno
giovane?».
«Pff… Evelyn
ha ragione, è un vantaggio diventare nonni alla mia
età: sarò ancora vigile e scattante e
potrò insegnare meglio al mio nipotino a suonare uno
strumento».
«Ma non si sa ancora il
sesso…».
«Deve nascere maschio,
okay?».
Bill rise leggermente. «Okay Tomi».
«Ti devo lasciare. Devo
aiutare Linda a sistemare la cucina perché se no dice che
sono uno scansafatiche. Ci vediamo domani».
«Va bene, a
domani».
«Ti voglio bene,
fratellino».
«Anch’io»,
sussurrò e chiuse la chiamata.
Portò lo sguardo fuori
dalla finestra e vide una stella cadente tracciare una scia luminosa
nel cielo blu scuro. Chiuse gli occhi ed espresse un desiderio.
***
«Ecco, siamo
arrivati», disse Franky, fermandosi di fronte alla stanza
d’ospedale in cui riposava il corpo di Zoe. «Sicura
di volerlo fare?».
«Sì»,
annuì Zoe, stringendo un po’ di più la
mano dell’angelo nella sua.
Lui allora attraversò
per primo la porta e portò Zoe con sé, ancora un
po’ restia a quel genere di cose “da
spirito”.
Una volta nella stanza, la donna si bloccò completamente sul
posto: non pensava che vedere il proprio corpo l’avrebbe
fatta sentire così… nuda, separata da
ciò che la completava. Non era una bella sensazione. Si
sentiva molto più simile ad una persona morta, che ad una in
una via di mezzo, che ancora stava lottando.
«Zoe?», la
richiamò Franky, preoccupato. «Zoe, va tutto
bene?».
Lei chiuse gli occhi, stringendo i
pugni, poi fece un passo in avanti. Non poteva avere paura del suo
stesso corpo, però stava tremando dalla testa ai piedi.
L’angelo la
osservò mentre si avvicinava alla parte da cui si era
dissociata e trattenne il respiro quando alzò una mano e con
le dita sfiorò il dorso della mano del suo corpo. Zoe parve
rilassarsi a quel contatto, come se si sentisse meglio, completa, e
voleva ricongiungersi a lui con tutte le sue forze. Appena ci
provò, però, venne sbalzata indietro con una tale
potenza da finire contro la parete con la schiena.
«Zoe!». Franky
corse subito da lei e le cinse il capo con le braccia, stringendola a
sé. «Come va?».
«Come credi che vada?
Perché il mio corpo mi… rifiuta?»,
chiese con voce tremante.
«Si vede che non
è ancora il momento», rispose l’angelo
con un sorriso mesto. Le accarezzò le guance, guardandola
negli occhi, e per un brevissimo attimo vide il viso di Evelyn. Scosse
il capo, per riprendersi, e si disse che se la sua mente gli faceva
quegli scherzi solo perché non la vedeva da un
giorno… beh, era messo male.
«Vedrai che quando sarà il momento riuscirete a
ricongiungervi», le promise, fiducioso. «Ora
andiamo via da qui, non siamo scesi per questo».
Zoe annuì e gli prese
una mano per farsi aiutare ad alzarsi. Franky le sorrise ancora, a
mo’ di incoraggiamento, poi si buttò per primo
dalla finestra e lei, con gli occhi spalancati dalla paura, non
poté fra altro che seguirlo.
«Lasciati andare Zoe,
è facile volare», le sussurrò
all’orecchio suadente e quando lei aprì gli occhi
notò che galleggiava nell’aria, proprio come lui,
che però sbatteva le ali.
«Non è affatto
giusto, sai?», gli disse, imbronciandosi.
Franky sgranò gli occhi,
sorpreso da quel cambiamento repentino d’umore.
«Che cosa?».
«Tu hai delle bellissime
ali, io no. Me la lego al dito, questa. Anzi, protesterò con
San Pietro in persona». E schizzò in direzione di
casa, quella che non aveva dimenticato e di cui aveva una tremenda
nostalgia. Ma non più di quella che provava pensando a Bill
e a sua figlia Evelyn.
Franky, ancora sbigottito, rise e
la seguì a razzo. La superò pure e si divertirono
come bambini, proprio come se stessero facendo una gara a chi arrivava
prima. Nelle vicinanze della villa entrambi rallentarono, senza nemmeno
bisogno di parlarsi, e insieme atterrarono dolcemente nel grande
giardino.
«Pronta?», le
chiese con un fil di voce. Io,
sono pronto?
«Solo se tu sei con
me».
«Sono con te».
«Allora sono pronta.
Andiamo».
Entrarono, ovviamente senza
utilizzare le porte, e notarono entrambi che il piano inferiore era
deserto. Le luci erano tutte spente, ad eccezione di quelle che
illuminavano le scale di vetro e diffondevano una’atmosfera
di forte suggestione.
«Scelte io»,
sussurrò Zoe soddisfatta, portandosi le mani sui fianchi.
«Com’è
che non avevo dubbi?», ridacchiò.
«Forza, andiamo».
Già dai primi gradini
della scala Franky percepì i pensieri di Bill e gli si
strinse il cuore: era così triste… Non
l’aveva mai visto né sentito così e
sperò davvero che ciò che aveva detto Kim fosse
vero, perché se non fosse riuscito a mostrare al suo amico
la sua Zoe gli avrebbe dato un altro dispiacere immenso.
«Ehi
Bill, Zoe è qui accanto a me, solo che non la puoi
né vedere né sentire! Sei contento?!». No,
decisamente no.
Deglutì e quando ormai
contava i passi che li dividevano dal cantante, pensò che se
davvero doveva decidere del suo futuro aveva due
possibilità: diventare l’angelo custode di Evelyn,
come gli aveva detto Zoe, oppure diventare un angelo speciale, come gli
aveva consigliato Kim. Che fare? La scelta era ardua, ma se non avesse
fatto in tempo a decidere o se non ci fosse proprio riuscito gli
sarebbe rimasta sempre la terza opzione, quella che aveva preso subito
in considerazione e che non credeva potesse scivolare
all’ultimo posto nella sua classifica: quella di ricominciare
un’altra vita, in un altro corpo.
Sentì la mano di Zoe
stringersi un po’ di più intorno alla sua, in
preda al nervosismo, e, perso com’era nei suoi ragionamenti
non opportuni in quel momento, non si era accorto che erano arrivati di
fronte alla camera di Bill.
«Andiamo», gli
sussurrò Zoe.
L’angelo annuì
e, preso coraggio, aprì la porta e si mostrò a
Bill, che lo guardò sorpreso.
«Franky, che ci fai
qui?», gli domandò e Zoe tremò al suo
fianco: era così vicino, ma anche così
irraggiungibile… Ora capiva come si doveva essere sempre
sentito l’angelo nei suoi confronti.
«Ciao, Bill»,
salutò lui, incerto. «Io, ecco, sono passato
per…». Chiuse gli occhi e volle in tutti i modi
che lui potesse vederla.
Passarono diversi istanti di
religioso silenzio e si chiese come poteva anche solo aver pensato che
ci sarebbe riuscito così, senza nemmeno sapere come fare.
Lui non ne sapeva nulla dei poteri degli angeli speciali…
l’amore sarebbe bastato davvero?
«Zoe»,
sussurrò Bill ad un certo punto e Franky aprì di
scatto gli occhi, con il cuore che gli rimbombava nella cassa toracica.
Ci era riuscito davvero?
Guardò lo spirito
accanto a sé e il sorriso appena accennato dipinto sulle sue
labbra gliene diede la conferma. Poi guardò Bill e vide che
il suo sguardo era piantato in quello di Zoe.
«Ciao amore»,
sussurrò lei, facendo un passo verso di lui. Ma,
allontanandosi da Franky, la sua figura sbiadì agli occhi
del cantante.
«Zoe, devi stare vicino a
me se vuoi essere vista», le disse Franky.
Allora lei collegò le
cose e capì che era lui che le stava dando quel potere.
«Ma… prima mi hai detto che non ne eri
capace», gli disse, dimenticandosi per un attimo di Bill.
«Mi… mi
sbagliavo», balbettò. «Comunque non
è questo il momento adatto per discuterne», mosse
il capo in direzione del frontman dei Tokio Hotel e lei
annuì, incamminandosi verso di lui in completa sincronia con
Franky, in modo tale da essere sempre ben visibile.
Bill, ancora incredulo per
ciò che stava succedendo, non riuscì a dire
qualcosa di sensato, quindi l’abbracciò soltanto,
sentendola fredda ed inconsistente fra le sue braccia. Ma non se ne
curò molto, ciò che contava era sapere che la
stava abbracciando, che lei era di nuovo al suo fianco, anche se per
poco.
«Mi sei mancato
tanto», gli sussurrò lei, ricambiando
l’abbraccio e posando il viso nell’incavo della sua
spalla, provocandogli scariche di brividi.
«Torna. Ti prego,
torna», le disse invece Bill, con il volto nascosto fra i
suoi capelli.
«Io… io ce la
sto mettendo tutta, davvero», singhiozzò in
risposta. «Ma non ci riesco, non ancora».
Bill sollevò il viso e
la guardò negli occhi mentre le accarezzava le guance.
«Promettimi che tornerai».
«Te lo
prometto».
Franky, costretto a stare
lì accanto a Zoe per far sì che Bill riuscisse a
vederla, si sentiva nel posto sbagliato al momento sbagliato. Assistere
a quella scena non gli piaceva molto, ma non gli faceva male come aveva
pensato. Più che altro si sentiva in un tremendo imbarazzo e
quando Bill si chinò per baciare sua moglie sulle labbra
abbassò di scatto il viso arrossato.
«Grazie,
Franky», gli disse Bill con un fil di voce e un sorriso se
non felice almeno sereno sulle labbra rosee.
«Non
c’è di che», balbettò, ancora
colto dalla vergogna. Poi posò lo sguardo su Zoe, ancora fra
le braccia del marito. «Ora… ora dobbiamo
andare».
«Passiamo da Evelyn,
prima», gli disse e sembrò più
un’affermazione che una domanda. Franky annuì e
sorrise.
Tutti e tre si diressero verso la
camera della ragazza ed entrarono senza fare il minimo rumore. Le luci
erano spente e Evelyn dormiva già, stesa sotto le coperte,
con una palla di pelo marroncino accanto.
«Tesoro»,
sussurrò Zoe, coprendosi la bocca per non fare rumore con i
singhiozzi. Si mise seduta sul letto, inevitabilmente accanto a Franky,
e la osservò dormire. Non voleva svegliarla, era troppo
bella così.
«Sta sognando qualcosa?», domandò al suo
angelo.
Franky si strinse nelle spalle e
posò una mano sulla testa di Evelyn per vedere quale film
stesse proiettando la sua mente. Quando capì di essere il
protagonista tolse la mano e stirò un sorriso, anche se un
po’ nervoso.
«No, non sta sognando
niente», mentì.
Zoe annuì e
guardò la sua bambina ancora per un po’, poi si
alzò in piedi ed abbracciò ancora Bill. Era il
momento di separarsi.
«Mi
raccomando», le disse ancora lui. «Torna
presto».
«Ci provo», gli
sorrise lievemente e dopo un ultimo bacio seguì Franky fuori
dalla finestra.
L’angelo
sospirò sollevato quando interruppe la connessione che si
era creata fra loro per permettere a Zoe di avere il potere di essere
vista. Non se n’era accorto subito, ma era stato sfiancante e
avrebbe dovuto fare della pratica, se nel caso Zoe avesse voluto
tornare a salutarli.
«Aspetta», la
fermò all’improvviso, in mezzo alle nuvole del
cielo scuro.
«Che cosa
c’è?», gli domandò lei,
inarcando il sopracciglio.
«Stai qui, faccio in un
attimo».
Franky tornò indietro e
si intrufolò di nuovo nella stanza di Evelyn.
Salì a gattoni sul suo letto e le sfiorò i
capelli con un sorriso tenero sulle labbra. Sì, gli era
mancata tanto.
«Sogni d’oro, dolce Evelyn», le
sussurrò all’orecchio e le posò un
bacio sulla tempia.
Poi tornò da Zoe, a cui
non disse nulla.
La mattina dopo, Evelyn si
svegliò e non ne avrebbe mai saputo il motivo, ma aveva un
sorriso sulle labbra.
__________________________________________
Buonasera a tutti :)
Ebbene sì, boys and
girls: Bill e Evelyn sono tornati a casa u.u Ma anche Zoe, se vogliamo
metterla così **
E' stato un momento molto tenero, quello in cui Bill e Zoe si sono
incontrati di nuovo, anche se il povero Franky ha dovuto guardarsi la
scena proprio dalla primissima fila xD Però ha avuto la sua
ricompensa, perchè poi è andato da Evelyn e l'ha
vista, anche se lei non ha visto lui :)
Ah, Kim. Che bel mistero questa ragazza, è sempre
così ambigua... Chissà quando Franky
scoprirà tutta la verità su di lei ;)
E in questo capitolo diventano sempre più pressanti le
possibilità che Franky ha per il suo futuro. Se
n'è aggiunta addirittura un'altra, quella di diventare un
angelo speciale! D: Ah, ma per scoprire il futuro del nostro caro
angioletto dovremo aspettare ancora mooolto, mooolto, mooolto tempo.
Portate pazienza **
Okay, spero davvero che vi sia piaciuto e che lasciate qualche
recensione, anche perchè mi avete abbandonata tutte quante
ç__ç tranne _Francesca_ che
ringrazio di cuore.
Daiiiiii, tornateeeee T___T Se non volete farlo per me fatelo per
Franky!
Un
bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 8 *** Impossible ***
8.
Impossible
‘Cause everytime you're
smiling here the sun rises
And everytime you're crying the rain just starts to fall
‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying here everything goes wrong
‘Cause this is your world
«Buongiorno,
papà», disse Evelyn sbucando in cucina con una
copertina sulle spalle, dentro la quale si stringeva come se fosse
pieno inverno e non andasse il riscaldamento.
Bill ricordò quando era
successo davvero, una delle prime notti che avevano dormito nella loro
nuova casa. Zoe si era svegliata nel cuore della notte con i denti che
sbattevano e a sua volta l’aveva svegliato. Erano rimasti
tutta la notte in piedi, cercando di contattare un tecnico che
riparasse più in fretta possibile il guasto. Evelyn allora
aveva solo cinque anni e dubitava che si ricordasse di
quell’episodio.
Sorrise mestamente, cercando di
mandare via tutta l’amarezza, e si voltò di nuovo
verso la macchinetta del caffè mentre la figlia si metteva
seduta ad uno degli sgabelli del bancone.
«Ben svegliata,
tesoro», rispose. «Dormito bene?».
«Benissimo»,
sospirò, sorreggendosi il viso con le mani e guardando con
sguardo sognante il cielo azzurro fuori dalle portefinestre.
«Sono
contento», disse Bill sorridendo, davvero felice
all’idea che, anche dormendo, avesse percepito la presenza
dello spirito di sua madre. Non avrebbe mai immaginato che ad averla
fatta dormire così bene, invece, fosse stato Franky.
Evelyn si era svegliata con il
sorriso sulle labbra e il viso dell’angelo ben impresso nella
mente, serena e con il cuore leggero come se lui fosse stato al suo
fianco tutta la notte, a far sì che non si svegliasse e non
facesse brutti sogni.
Nonostante tutto, però, era a conoscenza del fatto che non
l’aveva ancora visto dopo il loro
“appuntamento” nella cappella
dell’ospedale e sperava con tutte le sue forze che almeno
quel giorno si facesse vivo.
Abbassò lo sguardo solo quando vide la mano di suo padre
posarle sotto il naso una tazza di latte rigorosamente freddo, come
piaceva a lei. Lo ringraziò con un sorriso e poi si
allungò per prendere i cereali, quando suonarono alla porta.
«Vado io»,
disse Bill e si diresse a passo lento verso la porta
d’ingresso. Guardò dallo spioncino chi fosse e
aprì al fratello che sembrava decisamente più
rilassato, ora che aveva accettato l’idea di diventare nonno.
«Ciao Bill», lo
salutò pimpante, attirandolo in un frettoloso abbraccio.
«Come va?».
«Bene»,
sfiatò e lo guardò con un sorriso contento e
amaro allo stesso tempo. Tom non ne perse nemmeno una sfumatura e
capì dai suoi occhi che doveva essere successo qualcosa
quella notte. E dedusse anche che Bill voleva parlargliene.
«Ciao
piccola!», salutò Evelyn senza entrare in cucina e
lei gli rispose con un cenno della mano, visto che aveva la bocca piena.
Poi si mise seduto sul grande
divano ad L del salotto ed invitò il gemello a sedersi al
suo fianco. Non ci fu nemmeno bisogno di esortarlo a parlare, fece
tutto da sé e rivide di nuovo il suo Bill, quello felice e
sempre pieno d’allegria, quello che soffriva di logorrea
acuta e che gesticolava fino a far venire il mal di mare.
Gli raccontò della
stella cadente, della visita inaspettata di Franky che aveva portato
con sé anche lo spirito di Zoe e del momento bellissimo in
cui aveva potuto di nuovo guardarla negli occhi, abbracciarla e
baciarla, anche se si era sentito un po’ imbarazzato dovendo
fare tutte quelle cose di fianco all’angelo.
Gli raccontò anche di quando Zoe era andata a salutare
Evelyn, che però già dormiva. Era stato molto
commovente e sperava di rivederla di nuovo, se sarebbe servito altro
tempo prima che il suo corpo e il suo spirito si ricongiungessero ed
uscisse dal coma.
Quando finì di parlare,
Tom sorrise amorevole e lo abbracciò di nuovo,
massaggiandogli la schiena. Ma quando lo guardò negli occhi
si imbronciò un pochino.
«Perché quella
faccia?», gli chiese Bill, confuso.
«Zoe è passata
a trovare solo te. Io chi sono, scusa?!».
Bill rise e per Tom sentire di
nuovo quella melodia sconvolgente fu come ossigeno nei polmoni. Non
avrebbe potuto chiedere di meglio e doveva ricordarsi di ringraziare
Franky appena l’avrebbe visto.
A
proposito di lui…
«Bill, posso chiederti una cosa?», gli
domandò con la fronte aggrottata.
«Certo, dimmi. Di che si
tratta?».
«Tu sai se per caso
Evelyn e Franky si sono mai parlati?».
Il gemello spalancò la
bocca, preso in contropiede da quella domanda. Perché Tom
gliel’aveva chiesto e ne sembrava così interessato?
Evelyn finì di fare
colazione e decise di andare a farsi una doccia.
Lavò la tazza che aveva
utilizzato e uscì dalla cucina, ma appena fu sulla soglia
sentì suo zio porre la seguente domanda a suo padre:
«Tu sai se per caso Evelyn e Franky si sono mai
parlati?».
Il cuore le schizzò in
gola e lei smise di respirare, spiattellandosi contro il muro accanto
alla porta per continuare ad origliare senza essere vista.
«Io… io non lo
so. Perché me lo chiedi?», disse suo padre, con un
po’ di nervosismo nella voce.
«Così, per
curiosità!».
In realtà, Tom ricordava
bene il giorno in cui Evelyn gli aveva parlato per la prima volta
dell’angelo: gli aveva raccontato di averlo visto e di averci
scambiato qualche parola, gli aveva svelato che ai suoi occhi aveva
qualcosa di particolare che l’affascinava e avrebbe voluto
parlarci per chiedergli della storia fra lui e la sua mamma. Dopo
quegli episodi la ragazza non aveva più accennato nemmeno il
suo nome e aveva anche sospettato che si incontrassero segretamente, ma
fra le mani non aveva nulla di concreto e non aveva avuto nemmeno il
tempo per chiedere al diretto interessato. Per questo si era rivolto al
gemello, sperando che gli dicesse qualcosa in più senza che
lui si dovesse sbilanciare a dire troppe cose: era quasi sicuro che
Evelyn gli avesse confidato quelle cose sapendo che sarebbero rimaste
fra loro e non voleva tradire la sua fiducia, anche se si trattava di
suo fratello gemello.
Di sfuggita vide un pezzo di stoffa
azzurra, proprio il colore della copertina che aveva addosso Evelyn
quando l’aveva vista, e si schiarì la voce prima
di chiedere ancora al fratello: «Tu… tu saresti
contento se lei e Franky fossero amici?».
Evelyn, ancora nascosta,
sentì di nuovo il cuore galopparle nella gola.
Cercò di ingoiarlo e di levarsi quella stranissima
sensazione di ansia addosso, ma non ci riuscì. Aveva paura
della risposta del padre, ma la voleva con tutta se stessa.
«Tom, ma che cavolo di
domande sono?!», sbottò Bill, prendendosi la testa
con una mano. «Io… io non lo so se sarei contento!
Probabilmente sì, visto che Zoe ne sarebbe felicissima, ma
non vorrei che Evelyn si fissasse troppo con lui, tanto da preferirlo
ai suoi amici… vivi, ecco».
Amici
vivi, pensò Evelyn,
con gli occhi che le pizzicavano fastidiosamente dopo aver percepito
quella risposta in modo più negativo che positivo. Io
ne ho, di amici vivi?
Fin da quando era piccola era stata
protetta dagli occhi del mondo per paura che la fama di suo padre
coinvolgesse anche lei, le avevano sempre detto di non fidarsi
immediatamente delle persone che incontrava e che non conosceva bene.
Credevano di proteggerla dai giornalisti, dai fotografi, da qualunque
mass media, ma non era servito poi a molto. Anzi, l’avevano
fatta diventare introversa, schiva e molto sensibile, tanto che
l’unica vera amica che aveva si chiamava Anja e non la vedeva
dai tempi delle medie, siccome avevano scelto istituti diversi alle
superiori. Durante i giorni in cui era stata in ospedale si erano
sentite via sms, ma nulla di più. Forse avrebbe dovuto
riallacciare i rapporti, come l’aveva sempre incoraggiata a
fare sua madre.
Decise che si era stufata di
ascoltare conversazioni di cui non avrebbe dovuto ascoltare niente.
Fece un respiro profondo e poi, come se avesse finito in quel momento
di fare colazione, uscì dalla cucina e accennò un
sorriso in direzione dei familiari.
«Vado di sopra a farmi
una doccia», li informò ed entrambi annuirono.
«Ah!»,
esordì Tom, facendola sobbalzare sul primo gradino delle
scale. «Ero passato per chiedervi se venite a pranzare da
noi».
«Tu che ne
dici?», chiese Bill ad Evelyn.
«Sì,
perché no? Mi faccio la doccia, mi vesto e
arrivo», disse, poi salì le scale e si
rifugiò in camera sua.
***
Everything is wrong, a fake just unreal
But here your voice is true
I'm coming too, I'm coming too
Please let me in this world with you
I'm coming too or getting mad
Franky uscì dalla doccia
e si mise seduto sul bordo della vasca con solo un asciugamano avvolto
in vita e uno sopra la testa, con il quale si frizionava i capelli a
spazzola.
Chiuse gli occhi e se lo
lasciò scivolare dal capo, poi si guardò le mani,
quelle mani che avevano accarezzato il viso di Zoe infinite volte, le
stesse che avevano osato sfiorare anche quello di Evelyn.
Quella mattina si era svegliato in
modo strano. Era arrivato ad essere cosciente lentamente, alla stessa
velocità del sole che aveva illuminato la sua camera da
letto entrando dalla finestra, e non aveva fatto nemmeno in tempo a
realizzarlo del tutto che aveva subito pensato a lei, Evelyn, ai suoi
occhi e al suo sorriso, identico a quello un po’ infantile di
Bill. Il suo cuore aveva iniziato a battere forte, pensandola. Si era
girato e rigirato nel letto, ma non era più riuscito a
prendere sonno, né a togliersi dalla testa il suo viso.
L’aveva capito ormai che
ciò che provava per lei andava oltre il semplice affetto per
la figlia della sua Zoe e di uno dei suoi migliori amici, che senso
aveva continuare ad assillarlo in quel modo?
Nemmeno dopo una doccia calda era
riuscito a risolvere quell’enigma, però aveva
capito che dopotutto, nonostante avesse giurato di amare Zoe e solo Zoe
per l’eternità, promesse del genere non potevano
essere mantenute fino in fondo. L’avrebbe sempre amata, in un
modo tutto speciale ed unico, ma quello che Evelyn gli stava facendo
provare ne era la conferma: non si poteva costringere il cuore a
battere per una sola persona, soprattutto quando questa aveva
un’altra vita, amava un’altra persona ed era
pressoché irraggiungibile.
Però… anche Evelyn doveva essere irraggiungibile,
almeno per lui. Soprattutto per lui. E forse era stata quella
consapevolezza a tormentarlo e a farlo svegliare con addosso quella
malinconia. Lui era morto, morto, morto; Evelyn invece viva, viva,
viva. Non poteva nascere alcuna storia fra loro! Come aveva solo
potuto, il giorno prima, adagiarsi sugli allori e prendere quella
faccenda così alla leggera?
Sospirò pesantemente,
dicendosi che più ci pensava più si tramortiva
sia emotivamente che fisicamente. Stava proprio male e non poteva
nemmeno tirarsi indietro: era finito in un vicolo cieco e sapeva che
sarebbe sempre e comunque andato da lei, per quanto fosse sbagliato.
Si prese un’ala fra le
mani, distendendola in tutta la sua lunghezza, che con il passare degli
anni era leggermente aumentata, e iniziò a passarci sopra la
salvietta per asciugare le piume candide, quando il campanello
trillò e fu costretto ad andare a vedere chi fosse.
Gridò, rivolto alla
porta: «Chi è?». Poi, senza aspettare
una risposta, guardò dallo spioncino e si sentì
soltanto sorpreso quando vide Zoe, la sua migliore amica. Per quanto
credeva che fosse impossibile, era tornata solo quello per lui.
«Sono io!»,
rispose lei sorridente e lui gli aprì così
com’era, per nulla in imbarazzo. Lei arrossì
appena lo vide, solo con un asciugamano avvolto in vita e uno
appoggiato alla spalla.
«Che stavi
facendo?», gli domandò, anche se la risposta
risultava ovvia, spostandosi un ciuffo di capelli neri dal viso ed
entrando nell’appartamento.
«La doccia»,
ridacchiò e scosse il capo. «Fai come se fossi a
casa tua, io vado a vestirmi. Poi mi dai una mano, perché,
merda, sto gocciolando dappertutto», disse, riferendosi
nell’ultima parte alle sue ali che, ancora bagnate,
gocciolavano acqua da tutte le parti.
«Okay», rispose
Zoe, divertita.
Quando Franky sparì in
bagno, lei rimase nel salotto a curiosare.
Se fosse entrata in
quell’appartamento senza sapere che appartenesse a lui
l’avrebbe come minimo immaginato, perché anche se
erano passati anni lui non era per niente cambiato: disordinato
cronico. E menomale che lei si lamentava con Evelyn quando lasciava in
disordine la cameretta… in confronto, quello era niente!
Però era bello così, rappresentava appieno il suo
amico: il nido sicuro che aveva sempre voluto e che una volta avevano
pure progettato insieme, seduti al tavolo di casa sua. Avevano sognato
di trasferirsi nello stesso appartamento, quando erano solo migliori
amici, ma non era mai successo per svariati motivi.
Notò che non
c’era la cucina e si disse che era ovvio: gli angeli, come
gli spiriti e tutti gli esseri non vivi, non mangiavano!
Sfiorò con le dita la
superficie dell’armadio e vide, oltre alla polvere, una foto
che catturò subito la sua attenzione.
«Porca vacca»,
sussurrò, trattenendo le risate. «Ecco
dov’era finita!».
Era la foto che li ritraeva tutti
insieme, stretti in un grande abbraccio, immortalati mentre ridevano
seduti sul divano del salotto di quella che un tempo era stata la casa
dei Tokio Hotel, la casa di Franky, un po’ anche la sua casa.
Franky era fra lei e Tom, alle loro spalle c’erano Bill,
Georg e Gustav e di lato Susan, stretta fra le braccia di David.
Ricordava come se fosse stato ieri il giorno in cui sua madre
l’aveva scattata e altrettanto bene ricordava quando aveva
messo a soqquadro tutta la casa per trovarla, quando si era resa conto
che nell’album di fotografie in cui la custodiva gelosamente
non c’era più. Ci teneva così tanto che
aveva persino pianto, credendo di averla persa. E invece non
l’aveva persa, Franky gliel’aveva soltanto rubata
chissà quando.
«Potevi almeno chiedere,
accidenti!», disse, una volta di fronte alla porta socchiusa
del bagno, certa che in un modo o nell’altro avrebbe capito a
cosa si riferiva.
«Non me
l’avresti mai data», le rispose e sorridendo
aprì la porta, invitandola ad entrare.
Zoe venne investita da una ventata
d’aria calda e profumatissima, che le ricordò con
una fitta al cuore l’essenza di Franky. Le era sempre
piaciuto quel profumo, era unico nel suo genere.
Franky si posizionò di
fronte allo specchio e prese da un cassetto un phon, lo
attaccò alla presa della corrente e lo passò alla
donna con un asciugamano.
«Scusa», gli
disse, prendendo gli oggetti fra le mani, «ma io non leggo
nel pensiero come te, quindi mi dici che cosa dovrei fare?».
«Dovresti asciugarmi le
ali», le disse e aprì le ali, posando le mani
sulla ceramica del lavandino.
Zoe sorrise e si mise dietro di
lui, accese il phon e mentre il vento caldo scompigliava le piume
bianche, ci passò sopra l’asciugamano con
movimenti delicati, per paura di fargli male come quando sua figlia era
piccola e le asciugava i capelli con il terrore che la guardasse con
espressione sofferente.
«Stai andando
benissimo», la rassicurò Franky con un sussurro.
Aveva la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi e le
labbra socchiuse, godendosi la paradisiaca sensazione delle sue ali
calde e le mani fredde di Zoe che le sfioravano.
Lei sorrise, abbassando lo sguardo.
«Senza di me, di solito come fai?».
«Gli passo sopra
l’asciugamano e aspetto che si asciughino da sole»,
spiegò. «Ma ci mettono un sacco di tempo, manco
fossero delle spugne! Odio averle bagnate».
«Quindi, sono capitata a
fagiolo», ridacchiò; Franky sorrise.
«Come mai sei
passata?», le chiese quest’ultimo.
«Mi annoio in ospedale e
visto che stavo bene sono uscita a fare quattro passi. Volevo,
ecco… ringraziarti per ieri sera. Non voglio nemmeno
immaginare come ti sia sentito ad assistere a tutta la
scena… In quel momento non ci ho minimamente pensato, mi
dispiace se…».
«Non ti
preoccupare», la interruppe. «Parlando
sinceramente, non mi fa più molto effetto».
«Davvero?»,
corrugò la fronte, sorpresa.
«Sì…
ho la testa da un’altra parte, in questo periodo».
«Da
un’altra parte o con
qualcun’altra?»,
volle puntualizzare, sporgendosi in avanti per affiancare il suo viso.
Franky aprì gli occhi e si guardò nello specchio,
poi guardò la figura riflessa di Zoe.
Distratto da quei massaggi delicati
sulle sue ali si era lasciato andare e le aveva quasi rivelato di
Evelyn! Ora cosa doveva fare? Aveva bisogno di parlarne con qualcuno e
Zoe era la persona adatta, però allo stesso tempo non lo era
perché lei era la sua mamma. Non sapeva cosa fare, ma ormai
era in ballo e in qualche modo doveva ballare. Infondo,
non devo per forza dirle che si tratta di lei, no?
«Con
qualcun’altra», mormorò, le guance rosso
porpora.
Zoe sobbalzò, del tutto
incredula alle sue orecchie: lei l’aveva detto per scherzare!
Anche se, l’aveva notato già altre volte, in quel
periodo Franky soffriva di forti sbalzi d’umore ed era un
pochino strano. Che si fosse davvero innamorato di un’altra
ragazza? Istintivamente provò un po’ di gelosia,
ma appena intervenne la sua razionalità si disse che non
poteva essere più contenta per lui, soprattutto se lei
ricambiava. Dopo tutto quello che lui aveva sofferto per lei, era
giusto che anche lui trovasse qualcuno con cui condividere i suoi
giorni in Paradiso.
«Oh mio Dio,
Franky!», squittì eccitata. «Devi
raccontarmi tutto! Perché non me l’hai mai detto
prima?». L’angelo scrollò le spalle, un
sorrisino sulle labbra. «È un angelo anche
lei?».
Franky pensò al volto di
Evelyn e sorrise con naturalezza. «Un qualcosa di
simile», annuì.
«Dovrai assolutamente
farmela conoscere, prima che ritorni nel mio corpo», lo
esortò, riprendendo ad asciugargli le ali. «Vi
vedete spesso?».
«No, non
molto», tossicchiò. «Lei è in
servizio sulla Terra e io, come sai, sono impegnato
adesso…».
«Beh, ma quando passi a
trovare Bill, Tom, Georg e Gustav puoi passare a salutare anche lei,
cafone!», gli tirò un coppino che lo fece
sorridere.
«Lo
farò», le promise, divertito.
«Dai, raccontami un
po’ di lei», lo invitò ancora, curiosa
come una bambina. «È bella?».
«Bellissima»,
sospirò felice, mentre il cuore gli si alleggeriva: almeno
con lei non aveva più segreti. O quasi.
«Più di
me?», sogghignò e Franky tentennò nel
rispondere, tanto che aprì la bocca, come se fosse realmente
indignata, e alzò il phon come se volesse tiraglielo in
testa.
«Siete belle tutte e
due!», gridò l’angelo in sua difesa e
poi rise, mentre lei borbottava, ma con il sorriso sulle labbra.
«E caratterialmente,
com’è?», gli domandò dopo un
po’. Aveva quasi finito un’ala.
«È…
infinitamente dolce, introversa, ma curiosissima… Mi piace
stare con lei, mi fa sentire bene anche solo guardarla… mi
sento giusto al suo fianco».
Zoe lo guardò
amorevolmente e spense il phon per girarlo e abbracciarlo.
«Sono felicissima per te, te lo meriti».
«Grazie»,
sussurrò e sospirò sollevato, leggerissimo e
felice.
***
Seduta a quel tavolo assieme a suo
padre, a suo zio, a sua zia, a sua cugina Jole, Leo e suo cugino
Arthur, si sentiva come se fosse in una teca di vetro. Ciò
che vedeva non poteva essere toccato da lei, né le persone
che la circondavano potevano toccare lei.
La strana serenità che
l’aveva colta per un attimo quella mattina era stata solo
l’ultimo soffio di polverina magica che il sogno che aveva
fatto su Franky doveva averle gettato addosso durante il sonno.
L’effetto era svanito presto e avrebbe tanto voluto farsi
subito un’altra dose, perché sentiva che solo in
un sogno si sarebbe sentita felice in quel momento.
Dopotutto, Franky che cos’era, se non un sogno? Tecnicamente,
lui era un angelo, però le piaceva comunque definirlo come
un sogno, un miraggio, perché era impossibile che,
realmente, esistesse un ragazzo del genere. Ora avrebbe soltanto voluto
nascere quando anche lui era vivo, soffiarlo a sua madre e vivere con
lui tutta la vita.
«Che stupida»,
pensò ad alta voce, sorridendo amaramente e portandosi una
mano sulla fronte.
Si accorse del silenzio che si era
creato intorno a lei e sollevò lo sguardo: tutti la stavano
guardando confusi dalla sua affermazione.
«Okay, Leo non
è la perfezione, ma…»,
balbettò Jole, beccandosi un pugnetto sulla spalla da parte
del proprio fidanzato.
«Oh»,
sussultò Evelyn. «Non ho dato della stupida a
te».
«E allora a
chi?», domandò Tom, sollevando il sopracciglio.
«A me, stavo pensando ad
una cosa stupida», rispose con semplicità,
sollevando le spalle e tornando con lo sguardo al suo piatto.
Qualche istante dopo, la suoneria
di un cellulare ruppe il silenzio e Evelyn tirò fuori il
proprio dai pantaloni della tuta che aveva indossato per essere comoda.
(Al contrario di suo padre, lei era sempre stata quella che si basava
sull’essenziale e sulla comodità).
Notò la piccola icona a forma di busta sul display e con
curiosità l’aprì. Un sorriso si
allargò lentamente sul suo viso, rendendolo luminoso e
più bello. Non se lo aspettava, ma lo sperava.
«Chi
è?», domandò Bill, facendo il
disinteressato, con pessimi risultati.
«Anja». Si
alzò e si scusò, dicendo che non aveva
più fame, poi si rifugiò in salotto e seduta sul
divano rispose all’amica.
Ciao! Ti ho pensata
stamattina, sai? :) Io sto abbastanza bene, sono uscita ieri
dall’ospedale. Tu?
La risposta la ricevette qualche
minuto dopo, durante i quali si era incantata per l’ennesima
volta a guardare il cielo fuori dalla finestra mentre sentiva il
chiacchiericcio dei suoi familiari in cucina: aveva sentito tutte le
voci, tranne quella di suo padre, proprio lui che di solito era la
parlantina del gruppo assieme a zio Tom.
Io bene, grazie! :)
Pensavo che uno di questi giorni potremmo vederci…
Passare del tempo in compagnia di
Anja le avrebbe fatto sicuramente bene e poi aveva davvero voglia di
vederla, di fare qualcosa di normale, come qualsiasi altra ragazza
della sua età. Magari sarebbero potute andare al centro
commerciale a fare shopping, oppure al cinema. Le mancavano tutte
quelle cose, le mancava un’amica con cui farle. Inoltre, suo
padre sarebbe stato contento, anche se l’avrebbe rimpinzata
come sempre di raccomandazioni, esattamente come ogni padre del mondo.
Anche se quella volta non ci sarebbe stata sua madre ad interromperlo e
a darle un po’ di respiro con uno dei suoi sorrisi dolci e ad
augurarle: «Divertiti, tesoro».
Le rispose che sì, le
sarebbe piaciuto molto. Si misero d’accordo per il pomeriggio
del giorno seguente e dopo aver inviato l’ultimo messaggio,
con la sua piena conferma ai piani dell’amica, vide suo padre
sbucare in salotto e rivolgersi a lei.
«Andiamo?», le
domandò.
«Dai zio Bill, resta
ancora un po’!», piagnucolò Arthur,
attaccandosi alla sua gamba. Lo zio gli passò una mano fra i
capelli e gli sorrise, ma Evelyn se ne accorse subito che non era uno
sorriso vero, uno di quelli che se si soffermava a guardarlo avrebbe
voluto che non sparisse mai dalle sue labbra.
«Mi dispiace piccolo, ma
dobbiamo andare», gli rispose con tono affettuoso, guardando
distrattamente l’orologio che aveva allacciato al polso
sinistro.
«Sicuro?», gli
chiese ancora una volta il gemello, alle sue spalle. Bill
annuì e fece un cenno con la mano ad Evelyn, invitandola ad
alzarsi.
Salutarono tutti e fecero ancora
gli auguri ai due futuri sposi e genitori, poi uscirono e salirono in
macchina nel più perfetto dei silenzi. Evelyn non ce la
faceva proprio a vedere suo padre così infelice e
silenzioso, così provò a tirarlo su di morale,
nonostante anche lei non fosse nella forma migliore.
«Anja mi ha chiesto di
uscire», gli annunciò, sorridendo. O almeno ci
provò. «Domani andiamo al centro
commerciale».
«Oh, che
bello», le sorrise, ma anche quella volta lei si accorse che
si stava sforzando parecchio.
Sospirò avvilita,
guardando fuori dal finestrino, e gli chiese: «Tu te ne
starai tutto il giorno in casa?».
«Beh… non ho
niente da fare», rispose, un po’ sbigottito.
«Potresti andare da zio
Tom, o passare da Gustav, o da Georg, magari. Non serve a niente
barricarsi in casa e stare da soli: mamma non lo vorrebbe».
Bill, colpito da quelle parole,
strinse maggiormente le mani intorno al volante. Ormai anche sua figlia
riusciva a capirlo più di quanto ci riuscisse lui stesso. Lo
aveva colpito ed affondato al primo tentativo e decise di buttare
giù tutte le altre barriere: con lei non serviva a nulla
mentire, proprio come con la sua Zoe. Riuscivano sempre a sgamarlo.
«Lo so»,
mormorò. «Ma non me la sento di uscire, non
ancora. Sono davvero contento per te, tesoro, ma mi ci vuole ancora un
po’ di tempo».
«Perché non
vieni anche tu?», propose senza nemmeno pensarci e poi
ridacchiò, pensando alla faccia di Anja quando si sarebbe
presentata a casa sua con suo padre al seguito.
Anche lui ridacchiò e
bastò quello per fargli fare un sospiro rasserenato. La sua
bambina.
Le passò una mano fra i capelli e le sorrise:
«Grazie mille, ma non è il caso».
Evelyn capì il motivo
principale per il quale suo padre aveva tanto insistito per andare via
così presto da casa di Tom solo quando parcheggiò
di fronte all’ospedale: voleva andare a trovare Zoe e, in
effetti, l’orario di visita era appena iniziato.
Entrarono nella struttura mano
nella mano e prima di varcare la soglia della camera Evelyn
sbirciò all’interno, sperando di vedere
l’angelo che non vedeva da ormai due giorni. Ma non lo vide
ed iniziò davvero a credere che l’avesse presa in
giro, che le avesse mentito e che in realtà non sarebbe
più venuto a trovarla.
Osservò suo padre
parlare a bassa voce con la sua mamma, mentre le accarezzava con
infinita tenerezza la fronte, e sentì che avrebbe dovuto
farlo anche lei: aveva un enorme peso nel petto, il peso di tutte
quelle parole che avrebbe voluto rivolgerle, di tutto quello che
nascondeva e che avrebbe voluto confessare almeno a qualcuno, almeno
alla sua mamma. Non avevano mai avuto segreti, loro due…
perché quella volta doveva essere diverso?
«Vuoi che ti lasci un
po’ da sola con lei?», gli chiese sottovoce suo
padre, con gli occhi umidi, quegli occhi di solito sempre luminosi e
sorridenti.
«Sì,
grazie», gracchiò, abbassando i suoi per non
soffrire la loro vista.
Bill annuì e
uscì dalla stanza, chiudendosi dolcemente la porta alle
spalle. Solo allora Evelyn si avvicinò al corpo della madre
e si mise seduta sulla sedia al suo fianco. Le prese la mano fra le sue
e con gli occhi su di essa incominciò il suo monologo
liberatore, con un sorriso appena accennato sul volto.
***
«Non dire stronzate,
l’abito che indossavo al matrimonio era
fantastico!», gridò Zoe, puntando un dito contro
il petto di Franky, che ridacchiò sollevando le mani in
segno di resa.
Erano usciti a fare quattro passi,
visto che di stare in casa non ne aveva voglia nessuno dei due. Poco
prima di uscire, lei aveva visto uno skateboard in un angolo e gli
aveva chiesto se ci andava ancora.
«Quasi mai»,
rispose l’angelo, sollevando le spalle.
«E perché
mai?», gli domandò.
«Perché non ho
tempo e… sono cresciuto».
«Bah, a me non
sembra».
Alla fine era riuscita a
convincerlo a prenderlo e a salirci sopra dopo anni ed anni in cui era
rimasto intoccato in quel punto dell’appartamento.
Appena Franky ci era salito aveva
sentito un brivido corrergli su per la spina dorsale e chiudendo gli
occhi aveva rivissuto in un attimo tutti i momenti passati con lo skate
sotto i piedi: dalla prima volta, alle cadute, ai pomeriggi passati con
Zoe cercando di insegnarle qualcosa, a quando aveva fatto da insegnante
persino a Tom. Aveva passato tutta la sua vita con i piedi incollati ad
una tavola con quattro ruote e tutto d’un tratto aveva
smesso, non sentendosi più in grado di riprovare quei
brividi. Ma, forse, aveva smesso perché erano proprio quei
brividi a fargli male, a ricordargli che ora le cose erano ben diverse
e che non poteva più tornare indietro.
Con accanto Zoe, però, che aveva sorriso come una bambina
vedendolo sfrecciare ancora al suo fianco, aveva accettato tutti quei
tagli sul cuore con il sorriso sulle labbra, perché non era
stato solo ad affrontarli.
«Boh, a me sembrava un
po’ troppo sfarzoso», le disse ancora, convinto
della propria opinione. «Saresti stata bellissima anche in
jeans e maglietta».
«Oh, sono certa che se ci
fossimo sposati noi due io mi sarei vestita in quel modo»,
rise. «Tu ti saresti portato dietro lo skate e
l’iPod per saltare tutta la noiosa
celebrazione…».
«Cacchio, uno per
sposarsi deve sorbirsi tre ore di noia assoluta! Non basta dire
“Sì, lo voglio”?».
«Come a Las
Vegas».
«Noi ci saremmo sposati a
Las Vegas, sicuro», annuì Franky, infilandosi le
mani nelle tasche. «E Tom non si sarebbe nemmeno dovuto
vestire da pinguino per farmi da testimone».
«Ero sicura che avresti
scelto Tom», scosse il capo, sorridendo. «Ma ti
ricordi come lo odiavi, all’inizio? Poi siete diventati
addirittura migliori amici… Strana la vita, no?».
«Eccome se è
strana. Ma vogliamo parlare di te, signorina?», la
stuzzicò e lei arrossì, avendo già
capito dove sarebbe andato a parare. «Anche tu
all’inizio odiavi Bill, lo chiamavi
“Principessa” e lo prendevi in giro sulla sua
sessualità. Poi siete diventati amici, poi amanti e ora
siete marito e moglie, con una figlia».
«Era destino»,
scrollò le spalle.
«Era destino anche che io
morissi», aggiunse lui, dopo averle letto nel pensiero.
Zoe non parlò
più, persa nei suoi pensieri con lo sguardo basso. Pensava a
come sarebbe stata la sua vita se Franky non fosse morto e non riusciva
davvero ad immaginarla. Sapeva solo che sarebbe stata completamente
diversa da quella che aveva ora e chissà se le sarebbe
piaciuta di più o di meno. Non avrebbe avuto Evelyn e ora
come ora non voleva nemmeno immaginare la sua vita senza di lei, senza
la sua bambina, ciò che amava di più al mondo.
Con un forte brivido
sentì le forze abbandonarla improvvisamente, tanto che
dovette aggrapparsi a Franky per non cadere. Poi iniziò a
sentire la voce della sua Evelyn, l’unica che fino ad allora
riusciva a sentire con così tanta nitidezza, come se fosse
proprio al suo fianco.
«Zoe. Zoe, che ti
prende?», le chiese l’angelo custode, che la teneva
saldamente fra le sue braccia.
«Evelyn»,
sussurrò lei, stringendo i pugni sulla sua schiena.
Franky la fece sedere su una
panchina, per fortuna non molto lontana da dove erano loro, e si mise
seduto al suo fianco. Aveva gli occhi chiusi e il viso stanco. Grazie
alla loro vicinanza riusciva perfettamente a sentire i suoi pensieri e
ciò che le stava dicendo sua figlia, mentre le stingeva
forte la mano.
“Ciao mamma, come stai?
Io… io sto bene, tutto sommato. Mi manchi tanto…
Oggi siamo andati a mangiare da zio Tom e c’erano anche Jole
e Leo. Sai che si sposano e che presto avranno un bambino? Forse te
l’avevo già detto… –
ridacchiò.
Ho anche sentito Anja, sai? Prima mi ha mandato un messaggio. Usciamo
domani pomeriggio, andiamo al centro commerciale.
Io… ecco, volevo dirti una cosa. Credo… credo che
mi piaccia un ragazzo”.
A quelle parole sia Zoe che Franky
sobbalzarono: la prima perché le faceva tremendamente male
saperlo così e non essere al suo fianco per parlarne con lei
occhi negli occhi e per incoraggiarla; il secondo perché si
era ingelosito, non avendo ancora capito che quel
“ragazzo” era lui.
“È bellissimo,
con due occhi che riescono a farmi vedere un mondo intero e un sorriso
così dolce che mi fa scoppiare il cuore. È
semplicemente fantastico: dolce, sensibile, tenero, che lotta per le
cose che vuole e per le persone a cui vuole bene e con lui mi sente
benissimo, come se non mi servisse nessun altro per poter essere
felice. Però è irraggiungibile. Almeno, per me.
Se tu fossi qui con me sarebbe diverso, probabilmente.
Sicuramente.”
«Sembra la tua
descrizione», sussurrò Zoe, con il viso nascosto
nell’incavo della spalla di Franky. Aveva anche iniziato a
piangere, dilaniata dal dolore della lontananza.
«Già»,
mormorò l’angelo, che con un mezzo sorriso sulle
labbra continuava ad ascoltare, le massaggiava la schiena e la
confortava.
Ormai aveva capito che Evelyn stava parlando di lui e si sentiva al
settimo cielo perché i suoi sentimenti erano ricambiati in
quel modo. Erano totalmente sbagliati, ma dannatamente giusti e non
poteva fare a meno di essere felice.
***
«Sei davvero uno sfigato,
sai? Credevi di fare il paladino della giustizia?».
«Quante volte ti ho detto
che non voglio che entri qui dentro?!», sbraitò,
guardando malissimo sua sorella che nonostante i suoi vari avvertimenti
era entrata in camera sua con un giornalino aperto fra le mani, che gli
schiaffò sotto il naso con un sorrisetto.
Martin osservò le pagine che gli stava indicando e lesse il
titolo con la voce smorzata: «Un nuovo bodyguard per i
Kaulitz?».
Pamela soffocò una
risata alle sue spalle, mentre leggeva l’intero articolo,
scritto in caratteri piccoli e quasi illeggibili sopra le foto che lo
ritraevano farsi spazio fra la folla dei giornalisti e aiutare
soprattutto la ragazza che doveva essere la figlia del cantante, se non
errava, ad entrare in macchina.
«Davvero, che cosa ti
è passato per la testa?», gli chiese ancora.
«Io… non ne ho
la più pallida idea», sospirò e si
prese la testa fra le mani. Perché? Perché doveva
capitare a lui una cosa del genere?
Quella mattina stava andando
all’università con la sua inseparabile bicicletta,
aveva fatto il solito percorso risparmia tempo – era in
ritardo – e non aveva in programma nessuna sosta, nemmeno se
fosse scoppiata di fronte a lui la Terza Guerra Mondiale. Purtroppo
però, quando era passato di fronte
all’Albertinen-Krankenhaus aveva sentito un forte brivido
corrergli su per la spina dorsale – lo ricordava bene
– ed era stato come se da quel momento in poi fosse stato
comandato da qualcun altro: era sceso dalla bici, abbandonandola
malamente a ridosso del marciapiede, ed era corso in aiuto di quei tizi
che conosceva solo grazie alla tv e dei quali non gliene sarebbe
fregato un fico secco, se non fosse stato per quella strana coscienza
che si era insinuata nel suo corpo e l’aveva comandato a suo
piacimento. (Okay, non era una spiegazione logica a ciò che
gli era successo, ma non era riuscito a darsene nessun’altra).
La cosa che l’aveva sconvolto di più era stata la
sensazione di tremendo smarrimento che aveva provato una volta che la
loro macchina si era allontanata, dopo quello stato a dir poco
paradisiaco che aveva vissuto aiutando e salutando quella ragazza dai
capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare. Si era
sentito… completamente in subbuglio incontrando quei due
zaffiri, come se… sì, come se fosse innamorato
pazzamente di lei!
«Certo che sei proprio
scemo», sbottò Pamela, prima di uscire dalla
camera di suo fratello sbattendosi la porta alle spalle.
Martin, che non aveva nemmeno
risposto all’insulto, si appoggiò allo schienale
della sedia girevole e volteggiò più volte su di
essa, continuando a pigiare il tastino per aprire e chiudere la penna.
Ormai aveva perso anche l’ultimo briciolo di voglia che
l’aveva spinto a scrivere quel maledettissimo riassunto. Se
quella mattina non si fosse fermato, se fosse andato dritto per la sua
strada non sarebbe arrivato tardi all’Università e
a quell’ora non avrebbe dovuto perdere tempo a studiare la
parte di lezione che aveva perso.
Avrebbe impiegato quel pomeriggio in maniera diversa, ma sicuramente
non avrebbe intrecciato irrimediabilmente la sua vita a quella della
ragazza dagli occhi azzurri.
***
Nemmeno quella sera aveva molto
appetito ed era piuttosto silenziosa, però era scesa
comunque in cucina e aveva provato ad instaurare un dialogo con suo
padre perché sapeva che se l’avesse lasciato solo
non avrebbe mangiato e si sarebbe chiuso ancora nel suo dolore. E non
avrebbe potuto sopportarlo, anche se non poteva stargli vicina
ventiquattr’ore su ventiquattro.
«Mmm… credi
che domani ci sarà il sole?», gli chiese dopo un
po’ di silenzio, arrotolando nella forchetta degli spaghetti
al sugo. «Non voglio uscire con Anja con la
pioggia…».
«Alle previsioni hanno
detto che ci sarà il sole», la
rassicurò con l’abbozzo di un sorriso.
«E poi, anche se piovesse, andate al centro commerciale,
siete al chiuso…».
«Sì, ma non mi
piace tanto la pioggia».
Abbassò lo sguardo e
mormorò: «Proprio come tua madre».
Evelyn abbassò gli occhi
e per minuti che sembrarono ore non sentì altro che le
forchette che timidamente sfioravano la ceramica dei piatti e i
bicchieri alzarsi e riabbassarsi sulla tavola, mentre il conduttore del
telegiornale parlava e parlava senza che nessuno dei due lo ascoltasse.
«E…»,
si schiarì la voce, intenta a rompere quell’odioso
silenzio. «Hai intenzione di tornare in studio, uno di questi
giorni? Stavate iniziando a registrare il nuovo album, no?».
«Sì, ma non
sono in vena», le rispose senza guardarla in faccia.
«E dai,
papà», ridacchiò nervosamente. Quella
solitudine in cui si stava intrappolando con le sue stesse mani non le
piaceva per niente. Avrebbe voluto che uscisse con suo zio, con i suoi
amici, che tornasse a cantare, che facesse qualcosa al di fuori di
quelle mura! Ma non poteva nemmeno costringerlo a fare cose che non
voleva fare… «Tu… tu ami cantare, ti
rende felice e… anche mamma sarebbe felice e farebbe
più in fretta a tornare».
Forse quello non avrebbe dovuto
dirlo. Suo padre si alzò da tavola rigido come un pezzo di
legno e mise i suoi piatti nel lavandino, poi andò in
salotto senza degnarla nemmeno di uno sguardo.
Evelyn si prese la testa fra le
mani, scostandosi i capelli dal viso, e con un sospiro frustrato si
chiese a che cosa diamine servissero gli angeli se quando avevi bisogno
di loro non c’erano mai.
***
Franky rabbrividì
all’improvviso e si voltò verso Zoe che leggeva in
tutta tranquillità una rivista. La guardò con
cipiglio perplesso fino a quando anche lei posò lo sguardo
su di lui, chiedendogli se aveva bisogno.
«No…»,
mormorò, pensieroso. «Tu ti senti bene?».
«Una
meraviglia», biascicò con disappunto. Ormai anche
lei aveva iniziato ad irritarsi quando non dava segni di stanchezza,
ossia quando aveva più probabilità di
ricongiungersi al suo corpo.
L’angelo, ancora
accigliato, guardò fuori dalla finestra. A che cosa era
dovuto quel brivido, se non era legato alla sua protetta?
Perché non era stato un brivido qualunque, ma uno di quelli
che percepiva quando Zoe aveva bisogno di aiuto o richiedeva fortemente
la sua presenza.
Ricordò che una volta era riuscito a sentire Tom che lo
invocava, ma era stato un brivido ben più leggero
perché con lui non aveva un legame forte come quello che
aveva con Zoe, ma l’aveva comunque sentito. Quello che aveva
percepito corrergli su per la schiena qualche minuto prima,
però, era stato ben più forte, quasi alla pari di
quelli che sentiva con lei.
«È successo
qualcosa?», gli domandò ancora la donna, con un
tono di voce quasi preoccupato.
Franky chiuse gli occhi e si
concentrò per capire chi fosse stato a lanciargli un
messaggio così potente, anche se un’idea se
l’era già fatta e il cuore gli era schizzato in
gola. Gli sfondò la trachea quando riuscì a
scorgere il suo viso e a sentire i suoi pensieri non proprio felici.
Come aveva immaginato sin dall’inizio, era stata lei e non si
sorprese affatto: chi, oltre a Zoe, aveva quell’effetto su di
lui?
«Franky!»,
strillò Zoe e gli fece aprire gli occhi di scatto.
«Ti ho fatto una domanda, desidero una risposta!».
«Stai calma!»,
la rimbeccò, alzandosi in piedi e sistemandosi il colletto
della giacca di seta bianca. «Sembra che tu abbia le tue
cose, porca miseria», sogghignò.
«Comunque non è successo nulla, mi sono solo
ricordato che devo fare una cosa molto importante».
«E quale
sarebbe?», chiese con il sopracciglio sollevato e le braccia
incrociate.
Sposando
Bill ha imparato pure a copiare le sue tattiche micidiali
pensò l’angelo.
«Devi uscire con la
tua… ehm… Posso chiamarla Angela, visto che non
mi vuoi dire il suo nome?».
Ma
nonostante tutto sei sempre la solita Zoe…
pensò ancora e sorrise.
«Sì, in
effetti… ho un appuntamento con lei», disse
frettolosamente, uscendo dalla porta con la schiena e sporgendosi
ancora all’interno per poter concludere il discorso con la
donna.
«Ti sei dimenticato un
vostro appuntamento! Vergognati!», gridò Zoe e gli
tirò un cuscino addosso, ma Franky per fortuna aveva
già chiuso la porta.
Ridendo corse fuori
dall’ospedale e si diresse verso l’Ufficio di
Collegamento.
Essere un angelo aveva i suoi
vantaggi, perché non aveva nessun bisogno di permessi per
scendere sulla Terra e soprattutto non doveva fare code lunghissime per
prendere l’apposito ascensore. Gli era bastato fare un cenno
alla guardia – tutti lo conoscevano, non serviva nemmeno che
mostrasse la propria Carta dell’Angelo Custode – ed
era sceso di sotto.
Aveva raggiunto in un battibaleno
la villa di Bill e Zoe e si era affacciato alla finestra che dava sul
salotto, ben attento a non farsi vedere.
Vide Evelyn uscire dalla cucina con
passo strascicato e raggiungere il padre seduto sul divano ad L, che
guardava la tv con il telecomando fra le mani. Gli passò una
mano fra le spalle, con infinita tenerezza, e non ci fu bisogno di
parole perché lui capisse che la sua bimba ci sarebbe sempre
stata per lui.
Bill la fece sedere al suo fianco e la strinse forte al petto, celando
le lacrime che mai e poi mai avrebbe voluto far vedere a sua figlia:
lui era il suo papà e doveva dimostrarle di essere forte, di
sapersi prendere cura di lei e di riuscire a sorridere anche se stava
male.
Franky abbozzò un
sorriso, commosso, e si disse che dopotutto Evelyn non aveva bisogno di
lui per cavarsela con suo padre.
Aveva bisogno di lui solo perché lo voleva al suo fianco,
nulla di più e nulla di meno.
Prese coraggio e uscì
fuori dalla cucina. Suo padre era seduto sul divano, che guardava la tv
con espressione malinconica. Si avvicinò a lui e gli
passò una mano fra le spalle prima di guardarlo in viso.
Lesse tutta la sofferenza dello stare lontano dalla persona che amava e
la comprese, perché anche lei era nella stessa situazione. E
cos’altro potevano fare, se non sostenersi a vicenda?
Non si dissero niente, entrambi
sapevano ciò che sentivano dentro. Bill la prese per un
fianco e la fece sedere accanto a sé, poi la
abbracciò fortissimo. Evelyn sentì il respiro di
suo padre sul suo collo, leggermente irregolare, e trattenne quelle
lacrime che se solo fossero sgorgate dai suoi occhi avrebbero reso vani
tutti i suoi sforzi per non piangere di fronte a lei.
Avrebbe tanto voluto sfogarsi con
lui, piangere fino a non avere più forze ed addormentarsi
svuotata; avrebbe voluto che anche suo padre facesse lo stesso, ma
sapeva che lui ci teneva troppo a quel suo ruolo di papà che
doveva mostrarsi forte di fronte alla sua bimba. Per questo non gli
disse niente e lottò anche lei, nonostante sapesse che
nessuno – nessuno
– poteva resistere davvero alle ferite del cuore: prima o poi
entrambi avrebbero versato quelle lacrime.
‘Cause everytime you're
smiling here the sun rises
And everytime you're crying the rain just starts to fall
‘Cause everytime you're smiling here the sun rises
And everytime you're crying here everything goes wrong
‘Cause this is your world
Evelyn si asciugò il
viso e tirò ancora su col naso. Si guardò allo
specchio e si disse che era veramente un disastro: lavandosi il volto
rigato ed arrossato dalle lacrime si era bagnata anche dei ciuffi di
capelli, che le si appiccicavano al collo e alle guance ancora
irritate; i suoi occhi erano rossi e gonfi e la smorfia che aveva sulle
labbra la rendeva davvero bruttissima. Forse sua madre aveva ragione
quando diceva che quando piangeva lo era. E lei che pensava che fosse
solo un modo per farla smettere!
Uscì dal bagno e diede
la buonanotte a suo padre sporgendosi giù dalle scale, poi
si rintanò nella sua camera.
«Coco?», lo
chiamò, ma del gattino nessuna traccia.
«Coco, ma dove ti sei cacciato?», chiese
più a se stessa che a lui, dopo aver guardato anche sotto al
letto.
Si tirò su e si
grattò il capo, dicendosi che mentre era di sotto con suo
padre lui doveva essere sceso e si trovava ancora da qualche parte
nell’immensa casa; non doveva di certo preoccuparsi.
Notò che aveva lasciato
aperte le porte finestre che davano sul grande terrazzo e si
avvicinò ad esse per chiuderle, quando vide Coco fare le
fusa ad una mano evanescente alla luce della luna, che gli accarezzava
il pelo con dolcezza.
Il cuore iniziò a
batterle furiosamente nella cassa toracica e si morse le labbra senza
un motivo preciso. Fece un passo verso lo sdraio dal quale penzolava
quella mano e giusto un attimo prima di arrivarci accanto Franky si
girò verso di lei e, scacciando via l’indecisione,
le fece un sorriso tenero.
Non sapeva nemmeno se era riuscita a ricambiare, il suo cervello era
completamente andato in tilt, come il suo cuore, quando lo aveva visto
alzarsi e portare ogni briciolo della sua attenzione su di lei.
Era lì ad un passo e per
quanto avesse voluto gettarsi fra le sue braccia non riusciva nemmeno a
muovere un muscolo. Avrebbe anche voluto prenderlo a cazzotti oppure
insultarlo, perché aveva rischiato di perdere tutte le
speranze di rivederlo quando aveva realizzato che erano esattamente due
giorni che non incrociava i suoi occhi spettacolari. Invece, le sue
corde vocali l’avevano abbandonata. Sperò che i
suoi pensieri potessero in qualche modo aiutarla e sì, lo
fecero, perché l’angelo sorrise e con una grande
falcata le arrivò di fronte.
«Scusami», le
sussurrò piegando leggermente il capo per guardarla negli
occhi.
Fece per scostarle i capelli dal
viso e sistemarglieli dietro l’orecchio destro, ma
inavvertitamente le sfiorò la guancia e a quel contatto,
seppur minimo, entrambi trasalirono. I loro sguardi si intrecciarono e
dopo qualche secondo di contemplazione reciproca Franky chiuse gli
occhi e arricciò le labbra per trattenere una risata,
scuotendo mestamente il capo.
«Sei
impossibile», mormorò con la bocca ad un soffio
dalla sua tempia.
Evelyn strinse i pugni sulle sue
ali e adagiò il capo nell’incavo della sua spalla.
«Anche tu».
_______________________________
Buonasera a tutti :D
Partiamo dalla fine, che mi sembra
più giusto dare spazio a questi due che io personalmente
adoro *-* A voi piacciono? Certo, è ancora presto per dirlo,
però, insomma, a pelle? Anche se la loro storia... ah, che
lo dico a fare xD
Per quanto riguarda Bill, la situazione è un po'
più complicata. Anche se ha visto Zoe, la malinconia e la
solitudine sono tornate presto ad assillarlo e ne soffre davvero
parecchio. Per fortuna c'è suo fratello Tom e c'è
sua figlia... Chissà se in qualche modo riuscirà
a superare il periodo :(
Zoe e Franky anche in questo capitolo non hanno litigato, anzi... hanno
parlato, anche per esempio delle loro vite se fossero rimasti insieme e
anche della "nuova ragazza - Angela" di Franky! XD In qualche modo
gliel'ha detto, dai xD E anche Evelyn ha parlato del "ragazzo che le
piace" a Zoe! Un po' di quasi-confessioni xD
La canzone che ho usato è Your
world, Melody Fall. Le loro
canzoni ricompariranno nel corso della storia, all'inizio mi sono stati
molto d'ispirazione e d'aiuto! ;)
Spero che il capitolo vi sia
piaciuto, che non mi abbandoniate e che quindi lascerete qualche
recensione!! *-*
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo ( _Francesca_ e
Tokietta86
grazieeeee!! ) e chi ha letto soltanto :D
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 9 *** If I could change the currents of our lives ***
Sorpresaaaaaaaaaa!!
Cliccare
qui per
vedere una cosuccia che ho fatto per questa FF e di cui sono molto
orgogliosa (mi piace davvero tanto!!) *o*
(Indovinate chi è ;D)
_________________________________
9.
If I could change the currents of our lives
E
così, gabbiani e rondini
Un’orchestra di ali fragili
Io sarò un altro angelo per te
Guarderò dentro i silenzi tuoi,
veglierò per non svegliarti mai
Io saprò donare ali anche a te
Evelyn si svegliò
accarezzata dalla voce melodiosa di Franky, che le stava anche
sfiorando i capelli. Un sorriso le nacque in modo quasi naturale sulle
labbra ed inspirò profondamente, felice, ma nel farlo alcune
piume le solleticarono il naso e starnutì, schizzando seduta
sul materasso.
L’angelo rise di gusto,
ancora steso sul letto, con il capo appoggiata alla testata, e la
ragazza si sentì tremendamente in imbarazzo. Ma nonostante
tutto non poté lasciarsi coinvolgere dalla sua risata
argentina, così bella che sarebbe stata ore ad ascoltarla e
a guardare lui: era a dir poco magnifico quando rideva,
sorrideva… quando era felice.
«Perché sei
sveglio?», mugugnò, rigettandosi al suo fianco e
nascondendo il viso rosso d’imbarazzo con le mani.
Perché,
ho dormito?
«Perché devo andare», le
sussurrò all’orecchio, facendo sì che
mille brividi la attraversassero da capo a piedi.
«Di
già?», sollevò la testa di scatto e si
trovarono con i volti ad una distanza minima fra loro: le punte dei
loro nasi si sfioravano e Evelyn riusciva a sentire il suo respiro
contro la sua pelle.
«Beh», sorrise
e le sfiorò una ciocca di capelli biondi, «non
è poi così presto…».
Gettò uno sguardo alle
spalle dell’angelo e la sveglia digitale le mostrò
che ciò che diceva non era del tutto esatto: non era tardi,
era addirittura tardissimo! Quasi l’ora di pranzo, per la
precisione.
«E tu… mi hai
guardata dormire per tutto questo tempo?», sfiatò,
perdendosi nei suoi occhi verdi.
«Mi piaceva quello che
sognavi».
Evelyn corrugò la fronte
e si sforzò di ricordare quello che aveva sognato. Le venne
in mente e il cuore le rimbalzò nel petto, mentre iniziava
ad arrossire.
«Sai che è
estremamente improbabile che fra noi accada qualcosa, vero?»,
lui sorrise mesto. Le prese delicatamente il viso fra le mani e la
guardò negli occhi, manco volesse farsi del male, poi
posò le labbra sulla sua fronte. «Bill sta
arrivando a svegliarti, è meglio che mi dilegui».
Si alzò dal letto senza
che Evelyn potesse dire o fare qualcosa e uscì sul terrazzo.
La ragazza, dopo un momento di completa trance, rinvenne e lo rincorse.
Alle previsioni del tempo avevano fatto centro: c’era il
sole. E Franky sembrava brillare sotto di esso, mentre si dirigeva
verso il parapetto per spiccare il volo.
«Aspetta!», lo
prese per la manica della giacca e lo fece tornare con i piedi per
terra. Lui la guardò con le sopracciglia aggrottate, ma non
sembrava essere infastidito dal fatto che non l’avesse
lasciato andare.
«Torna presto»,
gli disse. «E presto
non vuol dire fra due giorni!».
Franky ridacchiò e si
avvicinò al suo viso, con un sorrisetto malizioso.
«E cosa intendi tu per presto?».
«Intendo…»,
balbettò, nel pallone. Se
fosse per me non dovresti nemmeno andartene,
pensò un attimo prima di ricordarsi che poteva benissimo
leggerle nel pensiero. E l’aveva fatto, visto che si era
messo a ridere.
«Ti prometto che
verrò presto», le stampò un nuovo bacio
sulla fronte. «Sempre se tua madre mi lascerà del
tempo per la vita sociale, chiaro».
«Salutamela»,
sussurrò sfiorandogli la guancia con la punta delle dita.
Franky socchiuse gli occhi a quel
tocco leggerissimo e avrebbe voluto restare lì
così per sempre, ma la porta della camera di Evelyn che si
apriva lo costrinse ad andarsene.
La ragazza lo sentì scomparire sotto le sue dita e si
voltò di scatto quando udì suo padre entrare
nella stanza.
Lui la guardò un po’ sorpreso e le disse:
«Ah, sei sveglia!».
«Non si usa
più bussare?!», berciò lei. Aveva
interrotto un momento bellissimo con Franky e questo l’aveva
inviperita, anche se, poverino…
«Ma io ho
bussato!», ribatté suo padre, gli occhi sgranati
dalla sorpresa.
«Davvero?»,
balbettò, arrossendo. Aveva sentito l’angelo
così vicino, così reale… Tanto che si
era completamente scordata del resto del mondo, se non
dell’universo.
«Sì!».
Si portò le braccia strette al petto, fingendosi offeso, ma
durò poco perché tre secondi dopo le sorrise e la
raggiunse sul terrazzo.
«Scusa, mi
dispiace», sussurrò lei, abbassando il capo.
«Non fa niente
tesoro», la rassicurò e la strinse in un
abbraccio. «Che ci facevi qui fuori?».
«Mi assicuravo
che… ehm… non avessero sbagliato le
previsioni», arrancò.
Bill sollevò lo sguardo
verso il cielo e si fece ombra sugli occhi con un braccio.
«Visto? Te l’avevo detto che stamattina ci sarebbe
stato il sole».
«Già»,
sorrise, portando anche lei lo sguardo verso l’alto.
Anche se io ho visto il sole
anche questa notte…
***
Avevano parlato quasi per tutta la
notte. Evelyn aveva davvero una fonte inesauribile di domande e di
curiosità sulla storia fra lui e sua madre e su quella che
era nata successivamente fra Zoe e suo padre. Aveva voluto conoscere
talmente tante cose in una sera che le era venuto mal di testa, ma non
gliel’aveva detto.
Franky le stava ancora raccontando
di quando aveva capito che Bill si era preso una cotta per Zoe, quando
lei si era addormentata. L’aveva guardata per diversi istanti
senza nemmeno respirare, rapito dalla sua bellezza semplice. Poi aveva
fatto per alzarsi, ma lei gli aveva preso una mano e l’aveva
stretta nella sua, avvicinandola al proprio viso. Aveva mugugnato
qualcosa e Franky aveva letto nei suoi pensieri che non voleva che se
andasse quella notte. E come avrebbe potuto rifiutare? Si era
risistemato al suo fianco e l’aveva accolta fra le sue ali.
Non aveva quasi chiuso occhio
quella notte, troppo occupato a sfiorarle i capelli con una mano e ad
accarezzarla con lo sguardo.
Però era anche riuscito
a pensare, nel frattempo. A dirla tutta aveva pensato tanto, forse
troppo. Perché quando iniziava a fare i suoi ragionamenti
non riusciva più a fermarsi. Perché riusciva a
ragionare solo quando non vedeva Evelyn o, almeno, i suoi occhi, e non
sentiva la sua voce né i suoi pensieri. Lei aveva quello
strano effetto su di lui, un effetto che avrebbe dovuto preoccuparlo
moltissimo: riusciva a fargli staccare la spina, lo rendeva un automa
che era solo in grado di fare ciò che gli andava di fare e
che lo rendeva felice. Felicissimo.
Beh, nulla di traumatico se fosse stato un ragazzo normale. Anzi,
sarebbe stato fortunato. Ma lui era un angelo, non era più
vivo! E le cose in questo caso erano un tantino diverse.
Non poteva permettersi di innamorarsi di lei. Soprattutto non poteva
permettersi che lei
si innamorasse di lui
perché sapeva che avrebbe solo sofferto. Lui infondo era
abituato alle tragedie, se la sarebbe cavata. Ma Evelyn? Solo
immaginare che potesse star male a causa sua gli squarciava il petto.
Però sapeva che ormai era troppo tardi, sapeva che lui aveva
già ceduto e che avrebbe ceduto mille e mille volte ancora;
sapeva che avrebbe fatto sempre lo stesso errore, anche se avesse
lottato con tutte le sue forze, anche se avesse tentato di piazzare dei
paletti fra loro, anche se avesse fatto in modo che nessuno dei due si
affezionasse ancora di più all’altro. Anche se
quella notte si fosse messo addosso la maschera da intelligente e le
avesse detto che non poteva restare con lei.
Lei
mi rende deficiente.
Avrebbe dovuto dirglielo, era curioso di sapere che cosa gli avrebbe
risposto.
«Vuole stare
lì davanti ancora per molto?».
Franky scosse il capo per
riprendersi e si voltò: l’infermiera con cui aveva
sempre i battibecchi era ferma dietro di lui, con i suoi occhialetti
sul naso, e spingeva un carrello dei medicinali.
«No»,
bofonchiò l’angelo. «Comunque,
buongiorno anche a lei».
«Non è un
buongiorno per entrambi, è inutile dirlo!».
Riprese fra le mani il manico del
proprio carrello e si allontanò nel corridoio. Franky scosse
ancora il capo e si decise ad aprire la porta, davanti alla quale era
rimasto per cinque minuti buoni.
«Franky!»,
esclamò Zoe appena lo vide, mettendosi seduta meglio sul
letto.
L’angelo alzò
una mano in segno di saluto e abbozzò un sorriso. Era
già pronto psicologicamente per affrontare tutte le domande
con cui lo avrebbe tempestato. Ormai ci stava facendo
l’abitudine, fra madre e figlia.
Andò alla finestra che dava sul giardino
dell’ospedale e ci si appoggiò con una spalla per
poter guardare fuori mentre parlava con lei.
«Sei tornato
adesso?», fu la prima domanda della sua protetta.
«Sì, qualche
minuto fa», rispose.
«Ciò vuol dire
che sei stato con Angela per tutta la notte!»,
squittì e si portò le mani di fronte al viso, con
gli occhi lucidi dall’emozione. Non pensava che fosse
successo qualcosa, conoscendo Franky sapeva che lui non era uno che
correva, ma era anche vero che erano passati tanti anni…
«Sì»,
si strinse nelle spalle, mordendosi il sorriso che gli nasceva
spontaneamente ripensando alla notte appena trascorsa accanto ad
Evelyn. «Ma non è successo niente, sia
chiaro».
«Infatti non lo
pensavo», borbottò. «Che avete fatto?
Dove siete andati? Vi siete detti qualcosa di smielato?».
Lui ridacchiò e
posò la tempia al vetro freddo, cosicché il sole
potesse baciargli il viso. «Abbiamo parlato tanto»,
rispose a bassa voce, come se raccontare quella notte potesse rovinarne
la bellezza. «Siamo stati a casa sua e poi lei si
è addormentata… l’ho guardata
dormire».
«Oh,
Franky…», mormorò. “Sei
proprio cotto come una pera…”
Così
pare pensò,
sospirando, ma non le permise di ascoltare. «A proposito, ti
saluta».
«Cosa?
Davvero?».
«Sì»,
sorrise. «Qualche volta le ho parlato di te e niente, mi ha
detto di salutarti».
«Ricambia il saluto, ti
prego».
Franky sorrise.
«Sarà fatto».
***
«Sicura di non voler
mangiare niente?», le domandò suo padre per la
decima volta. Evelyn dissentì ancora, sorridendo.
«Mi sono svegliata tardi,
non ho molta fame. Ora smettila di preoccuparti e portami da Anja, sono
già in ritardo».
Bill la squadrò da capo
a piedi, sollevando il sopracciglio. «Ma sei in
tuta».
«E allora? Non mi piace
essere appariscente, sto comoda così».
«Chissà da chi
avrai preso», rimuginò ancora, ma Evelyn lo spinse
fuori di casa trattenendo le risate.
Salirono in auto e ascoltarono un
paio di canzoni alla radio, il tempo necessario ad arrivare alla
villetta della sua amica. Anja, con i capelli castani raccolti sulla
nuca, era seduta in veranda e per questo li raggiunse subito, senza
nemmeno dargli il tempo di citofonare.
«Ciao!»,
salutò emozionata, saltellando. «Oddio quanto
tempo che è passato!». Aprì il cancello
e si gettò letteralmente fra le braccia di Evelyn, che
traballò.
Non era stato l’abbraccio
in sé a sorprenderla, ma l’affetto che aveva
sentito avvolgerla e riscaldarla dall’interno. Si era
dimenticata cosa volesse dire essere abbracciata da qualcuno che non
fosse suo padre, un componente stretto della sua famiglia o un angelo e
si commosse pensando che, anche se non si erano sentite né
viste per tantissimo tempo, Anja le volesse ancora così bene.
«Mi sei
mancata», le sussurrò e ad Evelyn si strinse il
cuore.
«Anche tu mi sei
mancata», tremolò e sciolse l’abbraccio
per guardarla negli occhi scuri, che le piacevano tantissimo forse
perché erano proprio l’opposto dei suoi.
«Salve signor
Kaulitz!», Anja si rivolse quella volta al padre di Evelyn,
sorridendo. «La trovo in splendida forma!».
«Grazie»,
rispose passandosi una mano sul collo. «Tu invece sei
diventata ancora più alta. Vuoi per caso
superarmi?».
«Oh no, non si
preoccupi», ridacchiò.
«Come andate al centro
commerciale?».
«Ahm…»,
gettò uno sguardo a Evelyn, qualche centimetro
più in basso. «Potremmo fare una passeggiata,
tanto non è molto lontano. Sempre se tu sei
d’accordo».
«Nessun
problema», annuì la bionda.
«Okay, allora
io… vi lascio». Bill si voltò e fece il
giro dell’auto per rientrarci, ma all’ultimo disse
ancora: «Se avete bisogno che vi venga a prendere chiamate,
eh».
«Oh, non si
disturbi», disse Anja sventolando una mano. «Posso
chiamare mia madre, non è necessario
che…».
«Giusto,
papà», aggiunse Evelyn. «Mica dovevi
andare da Gustav?».
«In realtà,
io…», cercò di obbiettare, con le
sopracciglia aggrottate, ma il sorriso che gli fece sua figlia, uno di
quelli a doppia faccia che da una parte rivelavano tutta la gioia e da
una parte tutta la tristezza, lo fece ammutolire.
«Ci vediamo dopo,
divertitevi», soffiò a testa bassa e si mise
seduto al volante.
Evelyn agitò una mano e
lo guardò allontanarsi, poi si girò verso Anja,
che la fissava, e la abbracciò di nuovo.
***
«Fratellone!»,
gridò Pamela e lui sobbalzò, uscendo proprio in
quel momento dalla cucina.
«Che cosa
vuoi?», sospirò rassegnato. Tanto sapeva che si
sarebbe lasciato convincere dalla sua adorabile
sorellina, inutile che cercasse di opporsi ad ogni suo volere.
«Mi accompagni al centro
commerciale?», sfarfallò le ciglia.
«Che ci devi andare a
fare ancora
al centro commerciale? Ci sei stata pure l’altro
ieri!». Forse Pamela ci viveva. Se avesse potuto
l’avrebbe fatto, sicuramente.
«Non ho nulla da mettermi
per la festa di stasera! E tu mi aiuterai a scegliere qualcosa di
bello, va bene?».
«Perché, posso
dirti di no?».
«Assolutamente
no!», sogghignò e corse su per le scale due a due.
«Come
immaginavo», borbottò.
***
«Per quanto tempo dovrai
tenere il gesso?», le chiese Anja.
Stava guardando diverse magliette
su uno scaffale, ma sorrideva. Evelyn era rimasta molte volte incantata
a guardare quel sorriso semplice. Perché lei non ci
riusciva? A Anja veniva quasi naturale sorridere, lei invece non
sorrideva mai per qualcosa che non la facesse sorridere davvero.
«Oh», si
riscosse, notando lo sguardo acceso della sua amica addosso.
«Per almeno tre settimane ancora».
Sfiorò il gesso sul suo
braccio e rabbrividì al ricordo di quell’incidente
assurdo, nel quale aveva rischiato di perdere la vita assieme a suo
padre e a sua madre. Era stato un miracolo a salvarli tutti e in quel
preciso istante realizzò che quel miracolo doveva avere per
forza un nome: Franky. In quell’occasione non
l’aveva visto, ma doveva essere stato proprio lui ad
aiutarli, a proteggere sua madre e a fare di tutto perché
non abbandonasse lei e suo padre.
Sentì la mano di Anja
posarsi sulla sua spalla e alzò il viso per poterla guardare
negli occhi.
«Mi dispiace
tanto», le disse, veramente addolorata. «Appena ho
saputo dell’incidente ho pensato che avrei potuto perderti
per sempre e ho pianto come una cretina…».
«Ma sono ancora
qui», mormorò Evelyn e
l’abbracciò, posando il viso contro la sua spalla.
Anja tirò su col naso e
abbozzò un sorriso, accarezzandole i capelli.
«Okay, basta, se no mi metto sul serio a piangere»,
ridacchiò. «Devo provare un po’ di
roba», le mostrò due paia di jeans, tre magliette
e una felpa. «Tu non hai visto niente che ti
piace?».
«Ahm…
no», scosse il capo.
«Meglio così,
avrai tutti e due gli occhi per la sottoscritta!»,
esultò e la trascinò fino ai camerini.
Nello stesso istante, una ragazza
dai capelli rossicci entrò nel negozio accompagnata da un
ragazzo piuttosto scocciato.
***
Bill aveva girato metà
Amburgo, senza sapere che fare né dove andare. Sua figlia
l’aveva spronato più volte ad andare a trovare
Gustav o Georg, a non rimanere da solo in casa, e apprezzava molto che
si preoccupasse per lui, ma non aveva voglia di vedere nessuno. Aveva
anche accarezzato l’idea di andare in studio, ma nemmeno
cantare lo avrebbe tirato su di morale. Non quella volta.
Si trovò quindi a parcheggiare di fronte
all’ospedale. Quel giorno non c’erano giornalisti
né fotografi e pensò che era meglio
così.
Entrò nella struttura e
salutò l’infermiera che stava dietro il bancone,
poi si avviò per i corridoi. Conosceva a memoria quella
strada e percorrerla non gli faceva neppure tanto male, stava
diventando un’abitudine… anche se avrebbe voluto
non dover mettere più piede lì dentro. Voleva che
la sua Zoe si risvegliasse e ritornasse a casa.
Entrò nella sua stanza
e, ancora appoggiato con la schiena alla porta, rimase ad osservare il
suo corpo inerme. Era bellissima, anche in quelle circostanze.
Si mise seduto al suo fianco e le accarezzò il dorso della
mano, senza distogliere lo sguardo dal suo viso.
«Ciao amore»,
le sussurrò e gli occhi iniziarono a pizzicargli.
«Spero che tu stia bene, lassù. Perché
io qui… sto da schifo».
Posò il capo sul suo
ventre e trattenne le lacrime, con immensa fatica. Lo
sollevò solo quando sentì il suo cellulare
vibrare nella tasca dei jeans. Un messaggio di Gustav, che lo invitava
a passare da lui se non aveva nulla da fare.
Oltre che per sua figlia, lo avrebbe fatto anche per se stesso. Forse
in compagnia dell’amico avrebbe dimenticato per un
po’ il dolore che gli attanagliava il petto.
***
«Questa è
carina, no?», gli domandò Pamela, posandosi
addosso una maglietta larga a stampe colorate.
«Sì»,
annuì distrattamente il fratello.
«Ma non l’hai
nemmeno guardata!», si impuntò.
«Deve piacere a te, non a
me!».
Pamela sbuffò.
«Ancora mi chiedo perché ogni volta spero che
portarti con me non sia una perdita di tempo».
«Già, me lo
chiedo anche io», borbottò prima di essere
trascinato di peso verso i camerini.
Pamela si chiuse la tendina gialla
alle spalle e Martin si passò una mano sulla testa: avrebbe
preferito passare il suo tempo sul riassunto incompleto, piuttosto!
Si accorse della ragazza dai
capelli biondi e gli occhi azzurri che lo fissava solo quando si
gettò un’occhiata intorno per trovare un posto
dove potesse sedersi e aspettare che sua sorella avesse finito. Con
sorpresa si rese conto che era la stessa che aveva aiutato qualche
giorno prima e rivalutò la scelta di Pamela di averlo
portato con sé. Non ne sapeva il motivo esatto, ma era
felice di rivederla.
«Ciao», la
salutò impacciato, sollevando una mano.
«Ciao»,
ricambiò la bionda, sorpresa più di lui.
«Tu… tu sei quello che ci ha aiutati a scampare
dall’assalto dei giornalisti, vero?».
Si sentì infinitamente
stupido. «Sì, io in persona. Mi chiamo
Martin». Le porse una mano e lei la strinse, anche se un
po’ titubante.
«Evelyn».
«Che bel nome»,
la elogiò con un sorriso e si mise seduto al suo fianco.
«Che strano trovarci qui, non trovi?».
«Mmh, sì, in
effetti».
Il ragazzo notò che al
posto del sorriso aveva una smorfia, come se avesse paura di stargli
così vicino, ma nonostante tutto cercava sempre di guardarlo
negli occhi per vedere chissà cosa.
«Perché…
perché l’hai fatto?», gli chiese dopo un
po’ di imbarazzante silenzio, arricciando il naso in un modo
che lui trovò adorabile.
«Io, in
realtà…», si passò una mano
sul collo, arrossendo. «Non ne ho la minima idea. Forse
perché era giusto così»,
scrollò le spalle, ma si affrettò ad aggiungere,
con le mani davanti al petto: «Non l’ho fatto per
mettermi in mostra o perché volevo avvicinarmi a voi, non me
ne importa niente se tuo padre o chi che sia è famoso,
io… l’ho fatto e basta».
Evelyn accennò un
sorriso. Era sicura che quel giorno fosse stato Franky a spingerlo a
comportarsi in quel modo, una volta entrato nel suo corpo, come era
sicura che in quel momento l’angelo non fosse nelle
vicinanze. Sentiva che Martin era sincero e che non aveva nessun doppio
fine, ma il suo carattere riservato e un po’ schivo
l’aveva fatta rimanere in allerta, perché non
poteva mai sapere se le persone che le stavano accanto erano sincere
oppure false. In quel caso, però, credeva di potersi fidare
e si rilassò.
«Grazie», gli
disse e Martin boccheggiò, poi arrossì facendola
sorridere in modo più aperto e naturale.
«Non
c’è di che», mormorò lui,
abbassando lo sguardo. Si maledisse per la figura che aveva fatto, ma
non aveva potuto non comportarsi diversamente di fronte a quel sorriso
così bello.
«Evelyn, che ne dici? A
me non piacciono molto questi jeans…», disse
all’improvviso Anja, uscendo dal camerino e guardando
l’amica. Rimase un pochino sorpresa vedendola in compagnia di
un ragazzo che non aveva mai visto prima, ma sorrise.
Le avrebbe chiesto chi era, se non
fosse stato per una ragazza di qualche anno più piccola di
lei che era appena uscita dal camerino e si era rivolta al ragazzo,
interrompendola sul nascere: «Martin, come sto? Questa
maglietta non mi convince».
La ragazzina si accorse di Evelyn,
seduta accanto al fratello, e rimase per un attimo interdetta, poi
sorrise e notò anche la ragazza al suo fianco, che in
confronto a lei era altissima.
«Oddio quei jeans! Sono
strabelli!», squittì, ammirandoli con gli occhi
brillanti.
«E quella maglietta
è stupenda!», rispose Anja, indicandola.
Entrambe si guardarono e si
scambiarono uno sguardo d’intesa. Rientrarono nei camerini e
si scambiarono gli indumenti, sotto gli occhi increduli di Evelyn e
Martin, che però poi si lasciarono andare alle risate.
Passarono tutto il pomeriggio
insieme e mentre Anja e Pamela si fermavano in ogni negozio per
provarsi qualsiasi tipo di capi d’abbigliamento, lei e Martin
si facevano compagnia. Evelyn si era trovata subito bene con lui, la
faceva sentire a suo agio e il fatto che fosse riuscita a parlare
così tanto e con tranquillità con un mezzo
sconosciuto l’aveva sorpresa piacevolmente. Si erano
conosciuti meglio e quando era arrivata l’ora di separarsi
aveva fatto un piccolo resoconto della giornata e si era detta che si
era divertita tanto. Si erano pure scambiati i numeri di cellulare!
Martin era davvero un ragazzo
dolcissimo e gliel’aveva dimostrato quando, nel salutarla, le
aveva chiesto se qualche volta le andava di uscire con lui: era
arrossito e aveva balbettato per la maggior parte del tempo, tanto che
Evelyn non aveva potuto dirgli di no.
Sarebbe uscita ancora anche con
Pamela, assieme a Anja, ed era felice che nella sua vita stessero
comparendo di nuovo degli amici
vivi, come li aveva chiamati suo
padre. Nonostante questo, però, quando Anja
l’aveva accompagnata a casa e se n’era andata aveva
subito pensato a Franky ed era andata in iperventilazione solo
all’idea che presto lo avrebbe rivisto.
Chiuse la porta di casa con due
mandate di chiave e si incamminò verso il salotto, dove
trovò Coco, spaparanzato sul divano.
«Papà! Sono a
casa!», gridò, mentre accarezzava il pelo del suo
micio. Ma non udì alcuna risposta.
Perlustrò ogni angolo
della casa, ma di suo padre nemmeno l’ombra. Si chiese dove
si fosse cacciato senza nemmeno avvertirla e cercò di
pensare positivo, dicendosi che magari era passato da Gustav o da
Georg, come gli aveva detto, oppure era da zio Tom… ma per
quanto si sforzasse non riusciva a non essere preoccupata per lui.
Si mise seduta all’isola
della cucina e chiamò a casa di suo zio Tom. Rispose Linda,
dopo due squilli.
«Ciao zia, sono
Evelyn».
«Oh, ciao tesoro! Che
piacere sentirti, come stai?».
«Bene, sto
bene».
«Sicura?
Sembri… preoccupata».
«Sì, in
effetti un po’ lo sono. È quasi l’ora di
cena e non ho trovato papà a casa, non so dove si sia
cacciato… per caso è lì da
voi?».
«No, mi dispiace tesoro,
oggi non l’ho nemmeno sentito!».
«Ah. Okay, va bene.
Allora, magari… provo a chiamare Georg».
«Non ti preoccupare
troppo, tuo padre è grande, se la sa cavare!».
«Sì»,
abbozzò un sorriso nervoso. «Grazie comunque,
buona serata».
Chiuse la chiamata e
sfogliò l’agendina con tutti i numeri di telefono
per trovare quello di casa Listing. Lo digitò
frettolosamente, mordicchiandosi le unghie, e infatti lo
sbagliò e dovette scusarsi con la vecchietta che le aveva
risposto.
Stava per chiamare di nuovo, al numero giusto quella volta, quando
udì il rumore delle chiavi che giravano nella toppa.
Mollò giù il ricevitore e corse verso
l’ingresso.
Bill aprì la porta e se
la trovò subito davanti, con gli occhi spalancati e le mani
sui fianchi.
«Tesoro, sei
già a casa», esclamò sorpreso, tanto
che non ebbe il tono di una domanda.
«Sì e tu mi
hai fatto prendere un infarto! Potevi avvisarmi che stavi fuori, no?! A
proposito, dove sei stato?».
Bill, scioccato, scosse il capo e
rise. Evelyn spalancò la bocca, stupita da quella risata, ma
si lasciò contagiare facilmente. Si era comportata
esattamente come sua madre!
«È normale che
una figlia si preoccupi così tanto per il proprio
padre?», le domandò scherzosamente, togliendosi la
giacca. «Sono andato da Gustav, proprio come mi hai detto tu.
Scusa se non ti ho avvisato, ma credevo di tornare prima di
te».
«E invece?»,
chiese curiosa lei, saltellandogli dietro. Improvvisamente tutta la
preoccupazione le era scivolata addosso e le era tornato il buonumore.
Era felice che suo padre avesse seguito il suo consiglio e che fosse
uscito di casa per passare un po’ di tempo con i suoi amici.
«Invece sono stato da lui
fino ad adesso». Le prese il viso fra le mani e le
baciò la fronte. «Ho fatto bene, ora mi sento
meglio. Grazie tesoro».
«Non devi ringraziarmi,
io l’ho fatto con piacere. Sono contenta che tu ti senta
meglio», sorrise. «Ma ho anche una fame da lupo,
quindi vedi di cucinare qualcosa di buono».
«Ai suoi
ordini!», rise. «Al centro commerciale non hai
mangiato nulla?».
«No, però mi
sono divertita tanto!», esclamò sedendosi su uno
sgabello alto dell’isola, così da poter guardare
suo padre e parlarci mentre preparava la cena. «Sai chi
abbiamo incontrato?».
«Chi?».
«Il ragazzo che ci ha
aiutati qualche giorno fa, all’ospedale! Si chiama Martin,
era con sua sorella».
«Oh», disse
sorpreso. «Vi siete conosciuti?».
«Sì! Penso ci
rivedremo, qualche volta».
«Evelyn…»,
sospirò, ma lei lo interruppe subito.
«Non
c’è di che temere, papà. È
un tipo a posto, veramente. È simpatico ed è
davvero carinissimo… sento che posso fidarmi».
«Sei sicura?».
«Sì, sono
sicura», sorrise. «E poi credo che con noi ci
saranno anche Anja e sua sorella. Quelle due sono diventate amiche per
la pelle!».
Evelyn gli raccontò
tutto il pomeriggio appena trascorso e lui non smise un attimo di
sorridere. Era felice che lei si fosse divertita così tanto
e che entrambi avessero passato una bella giornata. Si sentiva sereno
forse per la prima vera volta dopo l’incidente, eccetto
quando Zoe era venuta a trovarlo con Franky. A proposito di lui avrebbe
voluto chiedere direttamente a lei le cose che gli aveva domandato Tom,
ma non gli andava di interromperla nel bel mezzo suo racconto,
così lasciò correre e guardò sua
figlia con il cuore pieno di gioia.
***
Quella mattina era passato a
salutare Zoe in ospedale, poi era andato al supermercato a cercare
qualcosa con cui levare quegli odiosi – a detta di Linda
– segni sul legno del povero mobile sempre preso di mira da
Arthur e le sue macchinine. Aveva trovato una specie di gomma che
andava passata sui segni e che sarebbe stata in grado di cancellarli
magicamente.
Tutto felice era tornato a casa e l’aveva subito provata, ma
non era successo niente, nulla. Si era solo sbriciolata la punta. Ora,
nonostante fossero passate ore, si trovava ancora seduto di fronte al
mobile.
Si grattò la testa e
sbuffò, tornando a guardare le ammaccature sul mobile. Linda
era in cucina e non l’aveva perso un attimo di vista, quella
volta convinta più che mai a fargli fare quel lavoretto che
rimandava da mesi. Era stato incastrato e non poteva proprio tirarsi
indietro.
Il telefono squillò e fu
sua moglie a rispondere. Origliò un po’ della
conversazione, anche perché lei parlava sempre ad alta voce,
e una volta conclusa la chiamata urlò: «Chi
era?».
«Evelyn!»,
rispose, raggiungendolo in salotto e sedendosi sul divano.
«Che dice?».
«Che Bill è
sparito», ridacchiò. «Era in
pensiero».
«Come al
solito», rise anche lui, scuotendo il capo. Era sicuro che
avesse preso da suo padre, perché anche lui si agitava
sempre per un nonnulla, esattamente come lui stesso.
«E tu, come sei
messo?», gli domandò Linda. «Credi di
rimanere lì impalato fino a stanotte?».
«Sai che non sono portato
per queste cose! E tu me le fai fare sempre, non è
giusto!», si imbronciò, stringendosi le braccia al
petto.
«Povero
piccolo», lo prese in girò affettuosamente la
moglie, ma Tom sobbalzò perché aveva sentito
anche un’altra voce pronunciare quelle parole, una voce che
avrebbe riconosciuto fra un milione.
Alla sua sinistra, infatti, si trovava Franky, seduto a gambe
incrociate, che sfarfallava le ciglia. Perché arrivava
sempre nei momenti meno opportuni?!
“Lo fai apposta,
ammettilo”, gli disse col pensiero.
L’angelo rise.
«Oh sì, sempre. Godo nel metterti in
difficoltà con le persone che non riescono a
vedermi».
“Stronzo,
sparisci”, berciò.
«È
così che si trattano gli amici?!»,
esclamò offeso. «E io che ero passato a salutarti
perché mi mancavi!».
«Torna dopo!»,
strillò.
Linda, ancora dietro di lui, si
spaventò e sgranò leggermente gli occhi.
«Che cosa?», gli chiese, sbigottita.
Tom lanciò
un’occhiata infuocata nella direzione di Franky, che se la
rideva, poi si voltò verso di lei con un sorrisino nervoso.
«Ho detto… torna dopo! Così vedrai chi
avrà la meglio fra me e questa gomma magica».
Linda annuì poco
convinta. «Allora vado a chiamare Arthur, è quasi
pronta la cena». Si alzò e si affrettò
a raggiungere la camera del figlioletto.
Tom sospirò e si
girò verso l’angelo, che aveva gli occhi lucidi
dalle risate. «Se finisco in un ospedale psichiatrico per
colpa tua, nulla mi impedirà di commettere un angelocidio.
E ora dimmi, a che cosa devo la tua visita?».
«Te l’ho detto,
era un po’ che non ci vedevamo e volevo salutarti».
«Davvero?», si
voltò verso di lui, con il sopracciglio sollevato, anche se
profondamente commosso. Franky annuì e scrollò le
spalle prima di sorridergli e tirargli un pugnetto sulla spalla.
«Non sei più
arrabbiato con me perché ti ho chiamato nonno
Thomas, vero?», gli
chiese sogghignando.
«Non mi
provocare», gli consigliò, con un sorriso sbilenco
sulle labbra. «Non ho detto che ho abbandonato
l’idea dell’angelocidio».
«Oh, sì,
giusto», rise. «Che stai combinando?». Si
sporse su di lui e guardò la scatola e la gomma bianca che
teneva fra le mani.
«Cerco di cancellare
questi segni», gli spiegò affranto. «Ma
non ne vogliono sapere!».
Franky gli strappò la
scatola dalle mani, tanto Linda e Arthur non erano ancora nei paraggi,
e lesse le istruzioni. Sogghignò, perché
l’aveva immaginato che il suo amico non lo avesse fatto.
«Credo che alle
elementari ti abbiano insegnato a leggere», gli disse,
porgendogli nuovamente la scatola. «Allora perché
non lo fai mai? Devi bagnarla, se vuoi che funzioni»,
indicò la gomma.
Tom, scioccato, si alzò
in tutta fretta e corse in cucina, la mise sotto l’acqua e
stava per tornare in sala con la gomma che perdeva acqua da tutte le
parti, quando Franky aggiunse, scuotendo il capo: «E devi
strizzarla bene!».
Tom eseguì con un
grugnito, poi raggiunse l’angelo e la passò sui
segni. Un sorriso si allargò sul suo viso vedendoli
scomparire magicamente.
«Franky, sei un
genio!», lo elogiò con gli occhi brillanti.
«Bastava leggere le
istruzioni», rispose con le sopracciglia aggrottate.
«Comunque sono contento di esserti stato
d’aiuto».
«Linda sarà a
settimo cielo, vedrai! Ah, a proposito di cielo», si fece
serio e si mise seduto composto al suo fianco, con le gambe incrociate.
«Zoe come sta? Ho sentito che è venuta a trovare
Bill, qualche giorno fa».
L’angelo
annuì. «Ne aveva proprio bisogno, aveva i nervi a
pezzi e vederlo e parlarci è stato curativo per lei, oltre
al fatto che ora si sta mettendo d’impegno per tornare di
sotto il prima possibile, anche se non è così
facile».
«Quanto credi ci
metterà ancora?».
«Ti manca?»,
sorrise.
«Beh, è ovvio
che mi manchi…».
Franky gli avvolse le spalle con un
braccio. «Tornerà presto, si sta davvero
sforzando. Voi continuate a starle vicini qui, spronatela…
vi sente da lassù».
«Sono andato a salutarla
proprio stamattina», gli raccontò.
«Avevo anche intenzione di passare da Bill e Evelyn, ma
quando ho chiamato Bill mi ha detto che lei stava ancora dormendo e che
il pomeriggio sarebbe uscita… Ah, già che ci
siamo! Volevo chiederti una cosa».
Franky lo prevenì,
leggendo nei suoi pensieri: voleva chiedergli di Evelyn, se si fossero
mai parlati… Deglutì il nodo che gli si era
formato in gola. Con lui non riusciva a mentire, ne era consapevole.
Doveva raccontare anche a Tom la storia che aveva raccontato a Zoe per
non mentirgli del tutto?
«Dimmi»,
balbettò, incerto.
«Evelyn mi ha raccontato
che una volta vi siete incontrati, da soli, ma che non vi siete detti
molto… Insomma, volevo sapere se avevate parlato di nuovo,
dopo quell’occasione, se magari…».
«No»,
sbottò e fece un’immensa fatica a pronunciare
quella sillaba. Tom se ne accorse e lo guardò intensamente
negli occhi. Era nei guai fino al collo.
«Che mi nascondi,
Franklin?».
«Nulla, ti ho solamente
risposto!».
«E io non ti
credo», incrociò le braccia al petto.
«Perché non mi dici la verità e basta?
È una cosa così losca?».
«Anche se ci avessi
parlato ancora, che cosa cambierebbe?», mugugnò.
«Tutto cambierebbe! Dai,
dimmelo!».
«Sì, forse ci
ho parlato, ma di cose stupide!», arrancò.
«Siamo… conoscenti. In questo momento ho tante
altre cose per la testa».
«E quali
sarebbero?».
«Zoe…
Angela», tossicchiò. Se voleva tirarsi fuori da
quel pasticcio doveva per forza raccontare di lei anche a lui, almeno
lo avrebbe distratto e avrebbe insabbiato l’argomento
“Evelyn”.
«Chi è Angela?»,
strabuzzò gli occhi.
«La mia nuova…
fiamma?».
«Non ci credo, ti sei
innamorato di un’altra ragazza?!». Era incredulo,
ma felice. Aveva sempre voluto il meglio per Franky e da quando non
aveva più avuto ciò che era sempre stato il
meglio per lui, vale a dire Zoe, aveva sperato che si trovasse
un’altra ragazza, alla sua portata.
«Adesso, non sono proprio
innamorato»,
balbettò, rosso di vergogna.
«Oh mamma, sei cotto!
Devi dirmi tutto di lei! Lo sa qualcun altro?».
«Zoe».
«Giusto, dovevo
immaginarlo», ridacchiò. «E lei che ha
detto?».
«Ha detto che…
me lo merito, che è contenta per me…».
«Oddio, è
così bello Franky! Voglio conoscerla!».
«E ha detto pure questo.
Ma perché volete tutti conoscerla?! Non potete vederla!
Cioè, Zoe potrebbe, ma che senso ha?!».
«Voglio conoscere la
ragazza che ha fatto perdere la testa al mio migliore
amico!», gli spiegò, estasiato.
Rimasero diversi istanti a
guardarsi negli occhi, poi entrambi sentirono dei rumori provenire dal
corridoio e capirono che Linda e Arthur stavano tornando.
«Meglio che
vada», disse frettolosamente Franky.
«Okay, ma torna presto
che finiamo di parlarne!», sussurrò Tom.
«Va bene»,
sbuffò con un mezzo sorriso. «Ah, sai che faceva
mia mamma per proteggere i mobili quando giocavo con le macchinine? Hai
presente quegli antispifferi per le porte, quei serpentelli di pezza?
Li metteva contro il bordo del mobile, così anche se ci
andavano a sbattere le macchine non si rovinava e non faceva nemmeno
rumore», gli fece un occhiolino e alzò una mano in
segno di saluto, poi sparì.
Tom, ancora con la bocca aperta,
venne assalito alle spalle da un marmocchio di quattro anni, che gli
aveva avvolto le braccia intorno al collo gridando:
«Ti ho preso!». Il suo Arthur.
Si trovò subito a
sorridere. «Peste, te la faccio vedere io ora!».
Si mise a giocare con lui ruggendo, come se fosse una lotta fra
domatore e leone, mentre Linda si era avvicinata al mobile e si era
piegata per vedere i segni che erano scomparsi.
«Tom, ci sei
riuscito!», esclamò sorpresa.
«Certo, io sono un marito
eccezionale!», sorrise spavaldo. «E mi è
anche venuta un’idea pazzesca per risolvere del tutto il
problema!». Grazie,
Franky.
***
E
volerai ogni istante, in ogni favola e poi
lentamente mi chiamerai
Tu distante, senza voce urlerai:
ogni istante
«Evelyn, mangia piano, o
finirai per star male», le disse Bill per la seconda volta,
sempre più sorpreso dal suo comportamento frettoloso. Aveva
già mangiato un piatto di pasta e sotto il naso aveva il
secondo, ma ci aveva messo meno di lui che era a malapena a
metà della sua prima porzione.
«Hai qualcosa da
fare?», le domandò ironicamente, sollevando il
sopracciglio. Quello che non aveva previsto fu che lei prendesse quella
domanda sul serio, tanto da rischiare di strozzarsi.
Le versò velocemente un
po’ d’acqua nel bicchiere e lei lo
svuotò in due secondi netti, poi lo guardò con
gli occhi spalancati e respirò a fondo.
«Tutto bene?»,
le chiese.
«Sì»,
soffiò. «E no, non ho assolutamente nulla da
fare».
«E allora
perché mangi con così tanta foga? Il cibo non
scappa dal piatto!».
«Scusami, è
che… è veramente squisita. L’hai
preparata in maniera diversa?».
Mentre suo padre ci rifletteva e
mugugnava fra sé: “Forse l’ho salata di
meno o forse l’ho fatta cuocere un pochino di
più”, si mise in bocca ciò che
c’era ancora nel piatto. Stava ancora masticando, quando si
alzò e si avviò verso il salotto.
«Comunque era
buonissima», disse con un sospiro e si dileguò
senza guardarsi indietro.
Corse su per le scale e si chiuse
la porta della sua camera alle spalle. Il suo sguardo vagò
per la stanza, alla ricerca del suo viso, dei suoi occhi, del suo
sorriso, ma non lo scorse in nessun angolo della stanza. Non si diede
per vinta e uscì nel grande terrazzo, dicendosi che
l’avrebbe sicuramente trovato lì, ma dovette
ricredersi: ancora non c’era.
Un fondo di delusione ombreggiò i suoi occhi e si
lasciò cadere sullo sdraio su cui di solito si sdraiava a
prendere il sole nei pomeriggi d’estate. Una volta si era
unita a lei anche sua madre, ma dopo dieci minuti si era stancata e
aveva detto: “Io vado a fare qualcosa, mi sto
annoiando”, le aveva sorriso e le aveva baciato una guancia.
Alzò lo sguardo verso il
cielo. Non si sarebbe arresa, lo avrebbe aspettato. In quel momento
più che mai, avrebbe giurato di aver sentito
un’eco d’eternità in quel pensiero.
Così chiuse gli occhi e senza nemmeno rendersene conto si
appisolò lì, al freddo della sera. Non sapeva se
aveva dormito per minuti oppure per ore, seppe solamente che fu
qualcuno a svegliarla. Quel qualcuno l’aveva presa fra le
braccia e con quel semplice gesto le aveva irradiato un calore intenso
a partire dal centro del corpo, come se avesse appena trangugiato
un’intera pentola di zuppa bollente. Era stato quello stesso
calore a farle aprire gli occhi, con i quali aveva visto un sogno:
Franky.
Lo guardò rapita, senza
pensare a niente e l’intontimento dovuto al sonno
l’aiutò. Aveva un sorriso appena accennato sulle
labbra, ma era meglio di moltissimi sorrisi finti che aveva visto sin
da quando era una bambina; la sua fronte era liscia, senza nemmeno
un’increspatura, il che voleva dire che era sereno e nulla lo
preoccupava; i suoi occhi erano ben aperti e luminosi alla luce della
luna ed ebbe la possibilità di guardarli da ancora
più vicino quando lui la posò sul letto. Fu
inevitabile che i loro sguardi si incontrassero ed entrambi rimasero
senza fiato, come se si fossero resi conto solo allora della presenza
dell’altro.
Franky si affrettò a lasciarla andare, ma lei strinse
saldamente le braccia intorno al suo collo e non gli permise di
muoversi da quella posizione.
«No»,
mugugnò Evelyn, la voce ancora impastata di sonno.
«No cosa?»,
sussurrò l’angelo e la osservò
incuriosito. Non riusciva a leggerle nella mente, i suoi pensieri erano
ancora troppo offuscati dal sonno per essere chiari a qualcuno al di
fuori della sua testa.
«Non voglio stare qui a
dormire, non ho sonno», spiegò, ma si
tradì sbadigliando.
Franky trattenne a stento una
risata, arricciando le labbra. Evelyn si perse per un attimo su di
esse, così sottili da sembrare trasparenti grazie anche alla
sua evanescenza, e si chiese a cosa avrebbe associato il loro sapore,
se le avesse assaggiate. Di sicuro a qualcosa di dolce.
«Visto che non hai assolutamente
sonno, che cosa ti andrebbe di fare?», le chiese divertito,
cercando di essere il più naturale possibile. Ma la
posizione in cui l’aveva praticamente incastrato, con il suo
corpo così a portata di mano, per non parlare del suo viso
ad un palmo dal suo, non lo rendeva affatto a suo agio e gli faceva
pensare cose su cui avrebbe rimuginato e rimuginato fino a farsi male.
«Voglio andare a fare una
passeggiata», esclamò, facendogli perdere il filo
dei suoi pensieri… illeciti.
«Una passeggiata? Tu sei
pazza».
«No, impossibile»,
lo corresse ed entrambi sorrisero.
Franky non era certo che quello che
stessero facendo fosse giusto, ma come d’abitudine non si era
posto troppi problemi: aveva fatto ciò che il suo cuore gli
diceva di fare e ci avrebbe fatto i conti più tardi.
Aveva fatto provare anche a lei
l’esperienza del volo – l’unica che aveva
avuto questa possibilità dopo Zoe – e
l’aveva portata a qualche chilometro da casa, così
da non essere troppo vicini ma nemmeno troppo lontani nel caso ci fosse
stata l’urgenza di tornare indietro.
Era stato parecchio imbarazzante lasciarla andare dopo averla tenuta
stretta al petto per non farla cadere, sentire il suo corpo scostarsi
dal suo e le sue mani mollare la presa sulla sua schiena. Ma era
bastato uno sguardo per dimenticare tutto.
Erano atterrati nel bel mezzo della campagna tedesca, fra campi
coltivati e altri abbandonati temporaneamente.
Avevano camminato un po’, stando vicini quel tanto che
bastava per sentire le loro mani sfiorarsi, e stranamente non avevano
parlato molto. Non era da Evelyn, ma Franky non riusciva nemmeno a
captare un possibile motivo per il quale si stesse comportando in quel
modo tanto insolito.
Le accarezzò il viso con
lo sguardo e la fermò all’improvviso, prendendole
il polso con la mano. Lei lo guardò sorpresa, chiedendosi
che cosa gli fosse preso, ma in un attimo tutti i suoi pensieri si
offuscarono: non c’era altro che il suo sguardo.
«Qualcosa non
va?», le domandò a bassa voce.
«No,
perché?».
Sorrise sghembo.
«Perché non mi tempesti di domande».
«Oh, per
quello…», ridacchiò. «Sai,
credo di averle esaurite».
«Non ci credo».
«Beh… non ci
credere», si spostò un ciuffo di capelli dal viso
con aria offesa e poi con un sorriso birichino si voltò ed
iniziò a correre verso un campo di girasoli.
Franky rimase a guardarla per
qualche secondo, sbigottito, ma non si tirò indietro nemmeno
di fronte a quel gioco e iniziò ad inseguirla.
Notte
che non vuole arrendersi
Una storia tende a ripetersi
Siamo ormai nascosti dentro due realtà
Corri che io non ti prenderò
Fingerò di farti vincere,
finché stanca il sole non ti sveglierà
La raggiunse e ridendo caddero
sull’erba, nel corridoio che si era creato fra un campo di
girasoli e un altro. I fiori, non trovando la loro fonte di vita,
avevano le corolle rivolte verso il basso; sembravano quasi
addormentati.
Franky sentiva il corpo caldo di
Evelyn sussultare affianco al suo e per un attimo desiderò
ardentemente che quel momento durasse per sempre, con la sua risata nei
timpani e il suo profumo ad invaderlo, ma non era possibile, non lo
sarebbe mai stato. Tutto prima o poi sarebbe finito.
Un velo di malinconia gli ombreggiò gli occhi e smise di
ridere, come fece Evelyn poco dopo, con un sospiro. La sentì
appoggiarsi con il capo al suo petto e d’istinto le avvolse
un’ala intorno alla schiena, a mo’ di coperta. Fu
un gesto del tutto naturale e Franky se ne accorse solo diversi minuti
dopo di quanto quel contatto fosse intimo.
Rimasero un po’ in
silenzio a guardare il cielo punteggiato di stelle, ognuno immerso nei
propri pensieri, fino a quando non fu Evelyn a parlare, guardandolo di
sottecchi.
«Forse una domanda a cui
non ho ancora ricevuto una risposta
c’è», esordì, attirando
l’attenzione dell’angelo.
«Io la risposta te la
stavo dando, ma tu ti sei addormentata», precisò,
già a conoscenza di ciò che voleva sapere.
«Non è colpa
mia se ero stanca!».
Franky sorrise. «Vuoi che
ti risponda, dunque. Beh… In realtà non
c’è stato un momento preciso in cui ho capito che
tuo padre si era innamorato di Zoe; ho notato tante piccole cose col
passare del tempo… Credo che Bill abbia sempre provato
qualcosa per lei, ma che abbia sempre tenuto nascosti i suoi sentimenti
perché c’ero io».
«Sul serio?»,
balbettò con gli occhi lucidi, un po’ per la
stanchezza e un po’ per il freddo. «E tu non ti
sei… arrabbiato? Intendo… quando hai capito che
lui aveva sempre provato qualcosa per mamma alle tue spalle».
«No»,
ridacchiò. «Non mi sono arrabbiato nel vero senso
del termine, forse mi sono sentito un po’ infastidito, ma ho
ammirato molto ciò che ha fatto tuo padre: non è
facile rinunciare alle persone a cui si tiene e lui l’ha
fatto per me. Okay, sapeva che sarei morto e che non avrebbe dovuto
aspettare per sempre per provarci con lei, ma ho apprezzato il fatto
che mi abbia lasciato vivere gli ultimi attimi con lei senza farmi
capire che anche lui provava qualcosa per Zoe».
«E quando ormai era
palese e lui ci ha provato, come ti sei sentito?», gli
domandò ancora, cambiando posizione fra le sue braccia e le
sue ali, in modo tale da poterlo guardare meglio in viso.
«Eri geloso?».
Franky sospirò
amaramente, annuendo con il capo. «È stato
difficile lasciarla andare, dirmi: “Il tuo tempo con lei
è finito, devi girare pagina”. Ho fatto tanti
sbagli durante il percorso, ma alla fine ce l’ho fatta e sono
contento di averlo fatto, perché ora lei è felice
e se lei è felice lo sono anche io e…».
Si interruppe bruscamente e fissò titubante gli occhi di
Evelyn, che con le sopracciglia aggrottate lo incitava a continuare.
Deglutì il nodo enorme che gli si era formato in gola e
concluse: «E se non l’avessi fatto tu non ci
saresti stata».
Il cuore di Evelyn a quelle parole
perse un battito. «Che cosa intendi dire?».
«Che sono veramente
felice di averti al mio fianco… come
amica»,
incespicò nel pronunciare quelle due ultime parole,
perché non era vero che la considerava solo un amica. Poteva
mentire a Zoe, a Tom, a lei, ma non a se stesso.
«Oh».
Un’ombra di delusione si annidò nei suoi occhi
azzurri. Non era la definizione che si aspettava, ma in effetti
cos’altro poteva essere per lui, se non un’amica?
Sentiva le guance bollirle, ma adagiò comunque lo sguardo in
quello di Franky. Accennò un timidissimo sorriso e
cercò di pensare a tutto, tranne al fatto che quelle parole
l’avevano in qualche modo ferita. «Anche io sono
contenta di averti al mio fianco… come
amico».
Gli avvolse il collo con le braccia
e nascose il viso nell’incavo della sua spalla per non
guardarlo negli occhi e bearsi almeno dell’illusione che lui
fosse suo in quel
modo, quello in cui non sarebbe mai stato.
***
Gli capitava raramente di
svegliarsi nel cuore della notte, ma da quando Zoe non dormiva
più al suo fianco accadeva spesso. Durante il sonno si
girava nel letto e sentendo la parte di letto vuota e fredda apriva gli
occhi di scatto e rizzava seduto sul letto chiedendosi dove fosse
andata. Solo dopo alcuni secondi si ricordava che ora si trovava in un
letto d’ospedale, avvolta dalla coltre spessa del coma.
Era successo anche quella notte e,
dopo essersi massaggiato il viso stanco, aveva deciso di scendere al
piano di sotto per farsi una camomilla, visto che non era
più riuscito a prendere sonno.
Uscì dalla sua camera
accompagnando dolcemente la porta alle sue spalle ed
attraversò il corridoio per arrivare alle scale, ma una
volta nei pressi della camera di Evelyn cambiò
momentaneamente destinazione: quella sera non l’aveva
più vista da quando aveva finito di cenare e aveva trovato
il suo comportamento piuttosto strano, insolito, quindi voleva
accertarsi che andasse tutto bene.
Forse perché credeva che quella sua piccola paranoia fosse
del tutto infondata e per questo avrebbe visto la sua bimba
addormentata sotto le coperte, ma quando vide il suo letto intatto
rimase sconvolto ed iniziò ad andare nel panico.
Senza nemmeno pensarci fece retro
font, corse in camera sua, prese il cellulare e chiamò suo
gemello Tom.
«Avanti,
rispondi!», gridò stridulo, come se potesse
davvero sentirlo, e qualche istante dopo sentì la sua voce
impastata di sonno pronunciare il suo nome.
«Evelyn è sparita!».
***
Franky, sempre collegato con una
parte della mente a Bill, percepì un brivido percorrergli la
schiena e capì che si era accorto dell’assenza di
sua figlia.
«Che cosa
c’è?», gli domandò la bionda,
stesa ancora sul suo petto, con gli occhi socchiusi e la voce assonnata.
«Tuo padre. Devi tornare
subito a casa. Forza, vieni». La prese saldamente fra le
braccia, senza alcuna esitazione, e dopo una breve corsa
spiccò il volo.
***
«Che cosa vuol dire che
Evelyn è sparita?».
«Io, io mi sono
svegliato, no? Stavo per scendere di sotto, poi sono andato in camera
di Evelyn e nel suo letto non c’è! È
sparita! È sparita, Tomi, e io non so dove possa essersi
andata a cacciare! Stasera era strana, faceva tutto di fretta, non so
perché, io… Tomi, ti prego aiutami, vieni
qui!».
«Bill,
calmati», rispose il fratello dall’altra parte del
ricevitore, cercando di mostrarsi tranquillo.
«Come faccio a
calmarmi!», strillò e Tom fu certo di aver perso
l’udito all’orecchio destro.
«Bill, porca
miseria!», urlò a bassa voce, per paura di
svegliare Linda al suo fianco. «Adesso tranquillizzati e fai
quello che ti dico, okay?».
«Okay»,
sospirò Bill, anche se tremava da capo a piedi e aveva i
lucciconi sotto gli occhi.
«Vai di nuovo in camera
sua».
«Tu rimani in linea,
vero? Non mettere giù».
«Non metto
giù, tranquillo. Dai, vai, io sono qui».
Bill, convinto dalle parole del
gemello, deglutì ed iniziò a camminare lungo il
corridoio. Aveva ancora il cellulare appoggiato all’orecchio
e riusciva a sentire il respiro lento di Tom. Cercò di
regolarizzare il proprio per farli andare in sincronia, ma era troppo
agitato: era come se non riuscisse ad incanalare ossigeno a sufficienza
per alimentare tutti gli organi vitali, talmente tanta era la paura che
con un nodo gli ostruiva la gola.
«Okay, sono di fronte
alla sua stanza», sussurrò.
«Bene», rispose
Tom. «Guarda ancora dentro, sono sicuro che lei è
lì e che hai visto male».
«Non mi sono sbagliato
Tom, è impossibile! Il suo letto era…»,
lasciò in sospeso la frase perché, oltre a non
avere più fiato, si era accorto che la sua bimba
c’era: era nel suo letto, sotto le coperte, che dormiva
beatamente.
«Bill? Bill, ci
sei?», lo chiamò il gemello, ma lui non
badò a rispondergli.
Come se la figura addormentata di
sua figlia fosse un miraggio si avvicinò con cautela e le
sfiorò la tempia con due dita, tracciò una linea
leggera fino al mento e poi sorrise, dandosi dello stupido. Tutta la
paura si dissolse pian piano e questo gli permise di respirare
normalmente.
«Tom?»,
sussurrò.
«Allora, l’hai
trovata?».
«Sì,
è… è qui. Scusa se ti ho svegliato,
solo che…».
«Non ti
preoccupare». Bill fu certo che dall’altro capo del
cellulare stesse sorridendo. «Torna a dormire fratellino, ci
sentiamo domani».
«Va bene, buonanotte. E
grazie».
«Figurati.
’Notte».
«’Notte».
Bill chiuse la chiamata e
osservò ancora per qualche istante il viso sereno di Evelyn,
poi si chinò su di lei e le baciò la fronte
fresca mentre con una mano le accarezzava i lunghi capelli biondi
depositati sul cuscino. Respirò il suo profumo ad occhi
chiusi e fu quasi naturale scavalcarla per accovacciarsi al suo fianco,
sotto le coperte già calde.
Le avvolse un braccio intorno alla
vita, come per proteggerla, quando era conscio che quella notte era lui
ad aver bisogno della sua protezione. I ruoli si erano invertiti ancora
una volta: lui era diventato il bambino, lei l’adulta capace
di rassicurarlo.
Nel dormiveglia si promise che dal
giorno seguente le cose sarebbero cambiate, che si sarebbe mostrato per
ciò che doveva essere, ovvero la figura forte, il padre
capace di rassicurare e proteggere la figlia. Ma non fece in tempo a
realizzare del tutto quei pensieri che una specie di nebbia, fitta e
densa, gli offuscò la mente e fu costretto ad abbassare le
palpebre, fattesi via via sempre più pesanti.
Franky tirò indietro la
mano e guardò in religioso silenzio Bill ed Evelyn,
addormentati abbracciati. Sorrise lievemente e poi si diresse di nuovo
in terrazza, dove spiccò il volo verso il cielo scuro
punteggiato da minuscole stelle.
E
volerai ogni istante, in ogni favola e poi
lentamente mi chiamerai
Tu distante, senza voce urlerai:
ogni istante
_________________________________
Hello! :D
Come state, tutto bene? u_u Spero vivamente di sì :)
Allora, allora... ormai
è palese che quei due sono cotti l'uno dell'altro xD Anzi,
Franky ha persino detto che Evelyn lo rende "deficiente",
perchè quando si tratta di lei non capisce più
niente e... beh, per un angelo non è poi una cosa
così positiva u.u Combinerà qualche guiao,
secondo voi?
L'angelo ha anche raccontato a Tom di "Angela" xD E ha avuto la stessa
reazione di Zoe :)
E poi, Evelyn è uscita con Anja e hanno incontrato Martin,
con sua sorella Pamela! :D Carini Evelyn e Martin, no? Ma lo sono di
più lei e Franky *-*
Che teneri quando sono andati al campo di girasoli. Questo
diventerà il loro luogo speciale e faranno ancora fughe di
questo tipo ;)
La canzone che ho usato
è Ogni istante,
ancora dei Melody Fall *-* E ce n'è un'altra che devo
citare, ossia One day,
dei Trading Yesterday (altro gruppo che adoro e che mi ha dato
moltissima ispirazione *o*), dalla quale ho preso il titolo del
capitolo! Ah, come farei senza le colonne sonore xD
Ringrazio di cuore chi ha recensito
lo scorso capitolo - in particolar modo _Nat_91 che
mi ha davvero resa felice. Grazie di cuore <3
E anche chi ha letto soltanto, sperando sempre in una partecipazione
più attiva ;)
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 10 *** First day, like another ***
10. First day, like
another
Le
sveglie suonarono e due mani, così diverse e lontane ma che
inaspettatamente si erano incontrate in segreto tante volte, si
sollevarono e le spensero nello stesso istante.
Franky fece l’ennesima X
rossa sul calendario e sospirò appoggiando la fronte contro
la parete.
Un mese e mezzo. Era passato un
mese e mezzo esatto dall’incidente a causa del quale la sua
esistenza era stata stravolta e non sapeva dire con certezza se quelle
settimane fossero passate lentamente o velocemente.
C’erano stati giorni che erano sembrati infiniti, altri che
erano passati senza che nemmeno se ne accorgesse. Se proprio voleva
fare il pignolo, poteva dire che il tempo passato al fianco di Zoe, ad
aspettare che riuscisse a ricongiungersi con il proprio corpo, ad
uscire dal coma, e a monitorare tutti i suoi miglioramenti e
peggioramenti, era stato quello trascorso in maniera più
lenta; il tempo passato con Evelyn, invece… scappava, era
sempre troppo poco e ogni volta che si ritrovava solo nel suo
appartamento la sua razionalità gli diceva che era meglio
così, il suo cuore che, no, non era stato abbastanza per
quella giornata. Era un continuo conflitto ormai e ci stava persino
prendendo l’abitudine: non faceva più caso ai suoi
terribili sbalzi d’umore e anche Zoe se n’era
accorta e aveva imparato a conviverci, solo che lei credeva che fossero
dovuti a causa della sua situazione e della nuova
“fiamma” che lei continuava a chiamare Angela.
Franky chiuse gli occhi e
riuscì a sentire sulla pelle tutto ciò che stava
sentendo Evelyn. Con il passare del tempo il loro legame era diventato
sempre più forte, in ogni senso.
Erano cascati entrambi in un vortice da cui non riuscivano e non
sarebbero mai riusciti ad uscire: più cercavano di stare
lontani più si avvicinavano, più tempo stavano
insieme più ne volevano. Qualsiasi sforzo di separarsi
sarebbe stato inutile e l’angelo ne era terrorizzato.
Percepì che quello
sarebbe stato il giorno del suo ritorno a scuola dopo il periodo di
convalescenza che si era presa e che era già in ritardo.
Interruppe il flusso di quella visione quando capì che stava
per infilarsi nella doccia.
Con il viso rosso
dall’imbarazzo e le labbra arricciate in un sorriso si
scostò dalla parete e si passò una mano fra i
capelli ancora leggermente umidi. Lui la doccia se l’era
già fatta da un pezzo e al contrario di Evelyn gli si
presentava una giornata priva di impegni significativi. Non doveva
nemmeno andare a scuola quella sera, quindi avrebbe dovuto trovarsi
qualcosa da fare. Anche se come al solito avrebbe deciso di andare da
lei.
Ma prima di pensare a quella sera
doveva pensare a quella mattina. Optò per fare un salto
all’ospedale per salutare Zoe e per il momento quella era
l’unica certezza che possedeva.
***
«Evelyn muoviti,
è già pronta la colazione!»,
gridò Bill sporgendosi fuori dalla cucina.
Raggiunse l’isola di
marmo bianco scuotendo il capo e si mise seduto su uno degli sgabelli
alti. Si portò la tazza di thè caldo alle labbra
e sentì i passi di sua figlia sulle scale.
La ragazza entrò nella stanza con un leggero affanno e con
la camicetta rossa che aveva deciso di indossare ancora mezza
sbottonata.
«Merda»,
biascicò fra i denti, accorgendosi che aveva sbagliato ad
infilare un bottone e quindi era tutto da rifare. «Per quale
motivo mi sono messa in testa di mettermi la camicia?!».
«Tesoro,
rilassati», le disse Bill con un sorriso, anche se appena
accennato. «Non sei così in ritardo e nel caso
posso accompagnarti io a scuola».
«Avevo detto ad Anja che
avrei fatto un pezzo di strada con lei!».
«Beh…».
«Porca
miseria!», farfugliò ancora, interrompendo suo
padre, e lasciò perdere i bottoni: dopo aver fatto colazione
sarebbe corsa di sopra e si sarebbe infilata una maglietta.
Si mise seduta al tavolo e bevve
tutto d’un fiato la sua tazza di latte, poi prese una brioche
confezionata dalla scatola e fece il giro del tavolo per dare un bacio
a suo padre.
«Ci vediamo
dopo», lo salutò, già in direzione
delle scale.
«Okay, buona
giornata», le rispose incrociando le braccia sul tavolo.
Cercò di stiracchiare un sorriso, ma il tentativo
fallì miseramente.
Evelyn, ancora ferma sulla soglia,
si chiese perché quelle settimane fossero passate
così in fretta, perché proprio quel giorno doveva
tornare a scuola, perché sua madre non si fosse ancora
svegliata, perché non fosse lì ad augurarle di
trascorrere una bella giornata e a porgerle la merenda di
metà mattina con quel sorriso che amava sulle labbra.
Capì che suo padre non era riuscito a fare ciò
che solitamente faceva sua madre, non era stato in grado di
“sostituirla” in quel compito, e non gliene fece
una colpa.
«Ciao»,
soffiò e si scompigliò la frangetta che si era
fatta crescere, in modo tale da non fargli notare i suoi occhi lucidi.
***
«Guarda chi si
vede», disse Zoe a mo’ di saluto, senza abbassare
la rivista che teneva aperta di fronte al viso.
«Buongiorno anche a te.
Tutto bene, grazie, e tu?», rispose l’angelo
chiudendosi la porta alle spalle.
La donna lanciò la
rivista sulla sedia accanto al letto e lo guardò truce,
nonostante stesse piangendo. «Una merda ti va bene come
risposta?», gracchiò. «Voglio tornare a
casa».
Franky si strinse il collo fra le
spalle ed infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. Il suo
sguardo si piantò sul pavimento piastrellato e i suoi piedi
si mossero a passi incerti verso il bordo del letto.
«Anche io voglio che tu
torni a casa», le rispose in tono piatto. «Darei la
mia vita se questo servisse a farti tornare a vivere».
«Perché ci
mette così tanto? Perché il mio corpo non
è ancora pronto ad accettarmi?». Zoe non si
aspettava alcuna risposta, poiché erano domande che gli
aveva già fatto milioni di volte. «Mi manca Bill,
mi manca la mia piccola… Per caso l’hai
vista?».
L’angelo si
irrigidì un pochino, ma il suo sguardo rimase neutro ed ebbe
la forza di guardarla in viso. Allungò una mano e le
sfiorò la guancia sinistra, asciugò
l’ennesima lacrima che stava scivolando verso il suo mento ed
accennò un sorriso.
«Sì,
l’ho vista un paio di volte», le
sussurrò avvicinandosi al suo viso, come se stesse per
rivelarle un segreto. «Ha tolto il gesso al braccio e se non
sbaglio oggi dovrebbe tornare a scuola».
«Davvero?».
Tirò su col naso e si asciugò l’altra
guancia con il dorso della mano, senza schiodare gli occhi azzurri da
quelli verdi di Franky. «Io dovrei essere con lei,
ora… Spero che Bill le abbia dato la merenda».
Lui trattenne una risata e le
posò un bacio sulla fronte tiepida. Poi si alzò e
si diresse verso la porta.
«Dove vai?»,
gli domandò ancora Zoe.
«Vado a fare un
giro», le rispose. «E torno all’ora di
pranzo», la prevenì con un sopracciglio inarcato.
Lei sorrise.
«Franky?».
«Uhm?».
«Spero tu stia pensando
alla mia proposta».
Angelo
custode di Evelyn… Il
cuore di Franky sussultò. «Ci sto pensando,
sì», mormorò. Fece per uscire
definitivamente dalla camera d’ospedale, ma Zoe lo
fermò ancora.
«Un’altra
cosa».
Roteò gli occhi al
cielo. «Dimmi».
«Ti voglio
bene».
Quella volta invece dovette
sgranarli, perché si aspettava di sentirsi dire qualcosa su
Angela, o almeno quello era ciò che aveva pensato fino ad un
secondo prima la sua protetta.
Si voltò verso di lei e vide un sorriso magnifico e un
po’ birichino aleggiare sulle sue labbra, uno di quelli che
non vedeva dai suoi sedici anni. Aveva capito che l’aveva
sorpreso e quella doveva essere stata proprio la sua intenzione.
Franky ricambiò il
sorriso. «Anche io ti voglio bene».
***
Evelyn uscì di casa e
fece la strada per raggiungere la villetta di Anja di corsa. Era in un
ritardo mostruoso e non si stupì più di tanto
quando citofonò e la madre della sua amica le disse che se
n’era già andata.
Tutti i pullman che fermavano nei pressi della sua scuola e che
sarebbero riusciti a farla arrivare in orario li aveva già
persi; il suo motorino… era l’opzione che aveva
subito scartato; avrebbe voluto avere un paio di ali come quelle di
Franky, ma siccome ne era sprovvista fece ciò che poteva
fare: correre.
***
Franky si intrufolò in
casa di Bill e Zoe e si diresse in cucina.
Evelyn era uscita da poco e Bill
era in camera sua, che si stava preparando per andare in studio di
registrazione, quindi aveva tutto il tempo necessario per riuscire a
preparare la merenda da portare ad Evelyn, visto che aveva letto nei
pensieri di Zoe cosa le dava solitamente e nei pensieri del cantante
che non gliel’aveva preparata.
Si destreggiò fra gli
armadietti, tirò fuori tutti gli ingredienti e le
preparò un panino con il prosciutto cotto e il formaggio,
assicurandosi che la fetta di formaggio fosse fra due di affettato.
Una volta pronto lo incartò in un po’ di stagnola
e non fece in tempo a prendere una busta in cui metterlo a causa di
Bill che aveva finito prima del previsto. Non riuscì nemmeno
a mettere a posto il pane: per non essere scoperto fu costretto a
dileguarsi immediatamente.
Bill entrò in cucina per
bere un bicchiere di succo d’arancia e vide il sacchetto del
pane aperto sul piano da lavoro della cucina.
Corrugò la fronte, confuso, ma poi sollevò le
spalle incurante e lo rimise al suo posto.
***
Martin uscì di casa in
perfetto orario e di buon umore, nonostante avesse davanti mezza
giornata d’università e probabilmente buona parte
del pomeriggio da passare sui libri.
Presto avrebbe dovuto affrontare un
esame e per quanto gli scocciasse studiare così tanto,
voleva superarlo. Non poteva fare altri ritardi, né
trascurare lo studio o dedicarsi allo svago, anche se in quel periodo
aveva pensato spesso ad Evelyn. Più volte aveva cercato il
suo numero nella rubrica del suo cellulare, ma non aveva mai avuto il
coraggio di chiamarla.
Peggio
per te, dovevi pensarci prima! Adesso bando alle ciance e vai!
lo rimproverò la sua coscienza e Martin annuì con
un sospiro. Non poteva fare altro, se voleva davvero superare
l’esame.
Si sistemò lo zaino
sulle spalle e montò sulla sua fidata bici, pronto ad
affrontare la giornata che non aspettava di certo lui per iniziare.
Giornata che non gli avrebbe mai anticipato ciò che gli
aveva riservato…
***
Franky sapeva dove si trovasse la
scuola di Evelyn e in quel momento sapeva pure dove si trovasse lei.
Aveva calcolato il tempo che avrebbe impiegato per arrivare alla
struttura e secondo le sue previsioni di quel passo sarebbe arrivata
sicuramente in ritardo. Avrebbe voluto raggiungerla per farla arrivare
in orario, ma anche se l’avesse fatto non avrebbe potuto
prenderla in braccio, farla sparire magicamente dal marciapiede e
portarla a scuola in volo. Era certo che lei sarebbe stata
più che d’accordo se lo avesse fatto, ma era
troppo rischioso: a quell’ora di mattina c’era
parecchia gente in giro per le strade e qualcuno avrebbe potuto
accorgersi della sua sparizione.
Stava ancora pensando a come fare,
quando vide un ragazzo dall’aspetto familiare sfrecciare al
suo fianco con la propria bici. Sbirciò nei suoi pensieri e
realizzò che era lo stesso ragazzo a cui aveva preso in
prestito il corpo per aiutare Bill, Tom ed Evelyn a scampare
dall’assalto dei giornalisti. Inoltre lesse che aveva
conosciuto Evelyn e che se n’era infatuato. In quel momento
però non ci badò e sfruttò
l’occasione. D’altronde quel poveretto di nome
Martin era capitato proprio nel momento adatto…
Sollevò lo sguardo sul
semaforo: era ancora arancione. Pedalò più
velocemente per non doversi fermare al rosso, ma un brivido gli fece
rizzare i peli delle braccia e le sue dita si strinsero sui freni
appena in tempo. Un’auto infatti gli passò davanti
e fu questione di pochi centimetri che non gli avesse portato via la
ruota anteriore. E quello era niente, pensando che se non si fosse
fermato in tempo sarebbe stato investito.
“Incosciente”,
berciò la sua coscienza, ma la percepì con una
voce diversa dal solito, come se… non fosse la sua fino in
fondo.
Sentiva ancora il cuore
scalpitargli in gola per ciò che aveva appena rischiato e
non gli diede molta importanza, ma quando scattò il verde e
invece di girare a destra il suo corpo lo fece andare
dritto… a questo sì che diede importanza.
Che
cavolo mi sta succedendo?! si
disse preoccupato, mentre i suoi piedi continuavano a pedalare contro
la sua volontà e le sue braccia non eseguivano quasi per
nulla i suoi comandi.
Cercò di spiegarsi
quello che stava accadendo e con il cuore in gola realizzò
che stava provando la stessa sensazione che aveva provato il giorno in
cui per la prima volta aveva incontrato Evelyn: il suo corpo era stato
preso in possesso da qualcun altro ancora una volta!
Ehi
tu, se mi senti… Lasciami stare, io devo andare
all’università!
gridò nella sua testa, sentendosi fra l’altro
parecchio scemo.
“Mi
dispiace amico, non ce l’ho con te, ma sei passato proprio
nel momento adatto e… vedrai che mi ringrazierai”,
gli rispose la strana voce, facendolo sobbalzare.
Oddio,
ma allora non era solo una sensazione! Il mio corpo è
davvero posseduto!
pensò ancora, ma quella volta la voce non gli rispose, anche
se avrebbe giurato di sentire l’eco di una leggera risata.
Più tranquillo
– in modo molto relativo, – si lasciò
guidare dall’essere che aveva preso in prestito il suo corpo
e capì le sue parole solo quando vide Evelyn correre
dall’altro lato della strada, probabilmente diretta a scuola.
Certo, rischiava di arrivare ancora in ritardo
all’università, ma non poteva dire che rivederla
non gli facesse piacere.
«Ehi!»,
gridò ma era sicuro di non aver deciso lui di parlare.
Si accostò alla ragazza
e la guardò con espressione sconcertata. O almeno credeva di
avere quel tipo di espressione in faccia, perché quando per
caso gettò l’occhio sulla vetrina del negozio alle
sue spalle vide il proprio riflesso e si accorse che stava sorridendo
tranquillo.
Evelyn, il viso arrossato e i
muscoli che le dolevano per quella corsa fuori allenamento, lo
guardò sorpresa. Avrebbe voluto chiedergli che cosa ci
faceva da quelle parti, visto che l’università che
frequentava era dall’altra parte della città, ma
non aveva più fiato.
«Hai bisogno di un
passaggio?», le chiese Martin, cioè
l’essere che lo possedeva.
Il viso della bionda si
illuminò alla comparsa di un sorriso. Annuì e
Martin la fece sistemare di traverso sulla canna della bici.
«Non sarà
molto comodo, ti avverto», disse, per la prima volta di sua
spontanea volontà, imbarazzato.
«Non importa»,
sfiatò lei, aggrappandosi saldamente al manubrio.
«Sempre meglio che correre».
Anche Martin sorrise. Non fu un
sorriso all’altezza di quello che si era visto addosso in
quel riflesso, ma perlomeno era suo.
Portò le mani sul
manubrio ed iniziò a pedalare, rinvigorito da
un’energia che non conosceva. Non sapeva se
c’entrava l’essere che aveva preso possesso del suo
corpo, ma sapeva che proveniva dal cuore.
I capelli di Evelyn gli sfiorarono il viso e sentì il suo
profumo dolce invadergli i polmoni. Sorrise incoscientemente e
notò solo dopo vari minuti che lei lo stava guardando negli
occhi con un’espressione quasi adorante.
«Grazie», gli
disse socchiudendo gli occhi e lui fu felice di aver dato ascolto a
quella sua seconda coscienza.
Raggiunsero la scuola di Evelyn e
lei scese dal suo taxi di fortuna. Si massaggiò il sedere
con una mano, ridacchiando.
«Te l’avevo
detto che non sarebbe stato comodo!», la rimbeccò
lui.
«Infatti non mi sto
lamentando!», gli rispose. «Ti devo un favore,
Martin». Si rivolse a lui nonostante si fosse accorta quasi
subito, grazie al riflesso verde nei suoi occhi, che nel suo corpo
c’era anche Franky. Sicuramente era stato lui a portarlo da
lei per far sì che non arrivasse in ritardo il primo giorno
del suo rientro a scuola. Franky l’avrebbe ringraziato
più tardi.
«Uhm… che ne
diresti di ricambiarmi il favore uno di questi giorni,
magari… uscendo con me?», le domandò
balbettando e con il viso rosso dall’imbarazzo. Martin
sentì una sgradevole sensazione, come se fosse geloso, e la
collegò a colui che si trovava come ospite dentro di
sé.
«Ahm… io non
lo so…», arrancò Evelyn, passandosi una
mano sul collo.
Abbassò lo sguardo,
deluso. «Se… se non vuoi fa niente, eh».
«Non è che non
voglio, assolutamente!», si affrettò a dire.
«Solo è che non lo so davvero».
«Oh, allora…
magari ci sentiamo, okay?».
«Certo! Quando
vuoi», sorrise. «Grazie mille per lo
strappo».
Accennò un saluto con la
mano, a cui Martin ricambiò, poi si voltò e si
diresse a passo svelto verso l’entrata
dell’edificio.
Non si guardò indietro, perché aveva paura che se
l’avesse fatto avrebbe provato un’altra fitta allo
stomaco vedendo il ragazzo che si era preso una bella cotta per lei e
che non sapeva che lei se n’era presa una altrettanto grande,
se non di più, per l’angelo che ogni tanto gli
faceva visita nel suo corpo.
***
Era strano pensare che da
lì a quasi nove mesi avrebbe dato alla luce una vita. Ancora
più strano era immaginare che suo padre l’avrebbe
accompagnata all’altare con un completo elegante stirato
addosso e che sarebbe diventato nonno.
Ma avrebbe avuto tempo per abituarsi a tutto quanto. Era riuscita ad
abituarsi all’idea di essere la protettrice di quel minuscolo
essere che stava crescendo dentro la sua pancia, a pensare che sarebbe
diventata mamma, che Leo sarebbe diventato suo marito e papà
del loro bimbo o bimba.
Era quasi sicura che Leo sarebbe
stato comunque, matrimonio o meno, il suo compagno per la vita, ma
l’arrivo del bambino lo aveva spinto a proporle di
ufficializzare la cosa. Non era un matrimonio riparatore, ma non era
stata neppure un’idea nata col passare del tempo.
Un po’ come l’idea di avere un figlio: non era
stata ragionata, era successo e avevano vissuto l’attimo con
serenità. Probabilmente senza il suo arrivo le loro vite
avrebbero preso pieghe diverse, magari sarebbero andati con
più tranquillità, ma entrambi erano sicuri e
consapevoli di ciò che stavano per fare: se le azioni del
loro passato non erano state premeditate, ora il loro futuro aveva
già i contorni ben definiti.
Jole conosceva la sua storia,
sapeva di essere stato un errore e forse proprio per questo non aveva
avuto esitazioni quando si era posta il quesito a proposito di tenere o
non tenere il bambino. In più al suo fianco non aveva un
uomo come quello che aveva messo incinta sua madre e che poi
l’aveva abbandonata. Aveva Leo, quello che amava e che
sarebbe rimasto accanto a lei nel bene e nel male, quello che forse
ancor prima di lei aveva deciso di creare una famiglia.
Si strinse il collo fra le spalle e
si massaggiò le braccia come a volersi riscaldare,
nonostante indossasse una tuta pesante e fosse avvolta in una coperta
di plaid. Sentì i passi di Leo in lontananza e socchiuse gli
occhi quando le sue mani si posarono ai lati del suo collo e le sue
labbra le sfiorarono la tempia destra.
«Mi dispiace
tantissimo», sussurrò mortificato.
«Non importa amore, te
l’ho già detto».
«È la prima
ecografia, io dovevo esserci!».
«Non è colpa
tua se devi andare al lavoro… Sarà per
un’altra volta, tanto ne farò altre
cento!», ridacchiò.
Leo le prese il mento fra le dita e
la guardò negli occhi con amore, poi le posò un
bacio sulle labbra. «Ti amo».
Jole sollevò una mano ed
intrecciò le dita fra i suoi capelli neri, attirandolo
maggiormente a sé. Mentre si baciavano si
inginocchiò sul divano e gli avvolse anche l’altro
braccio intorno al collo. Leo invece le strinse le braccia intorno alla
schiena e dopo qualche altro tenero bacio affondò il viso
nell’incavo della sua spalla, fra i suoi capelli biondi. Ne
respirò tutto il profumo e la strinse forte, come forte si
stringeva al loro amore quando le paure, tra cui quelle di aver corso
troppo e di non essere un bravo padre, prendevano il sopravvento.
Il trillo del campanello
spezzò l’atmosfera che si era venuta a creare e
Leo si scostò con delicatezza per andare ad aprire. Dietro
la porta si ergeva la figura di Tom, con un cappellino di lana nera
sulla testa e gli occhiali da sole ad oscurargli buona parte del viso.
«Buongiorno»,
lo salutò educatamente Leo, per poi scambiare un frettoloso
abbraccio con il futuro cognato. «Come sta?».
«’giorno. Tutto
bene, grazie. E tu?».
«Non
c’è male», scrollò le spalle,
richiudendo la porta. «Un po’ deluso di non poter
stare accanto a Jole oggi».
La ragazza scosse il capo, con un
sorriso divertito sulle labbra, ed intercettò lo sguardo di
suo padre. «Glielo dici tu che non è la fine del
mondo?».
Tom sorrise. «Non
è la fine del mondo, Leo. Sarà per la prossima
volta».
«Sì ma io ci
tenevo», si imbronciò.
«Sei proprio un bambino
quando fai così», lo prese in giro la compagna, a
cui cadde accidentalmente lo sguardo sull’orologio appeso
alla parete. «E se non ti muovi arriverai in ritardo al
lavoro».
Scese dal divano e andò
a recuperare la giacca di Leo in camera da letto, mentre lui beveva
frettolosamente un caffè. Gliela infilò per le
braccia e gli sistemò il colletto, poi la cravatta. Infine
gli donò un ultimo bacio a fior di labbra e gli sorrise
dandogli una pacca sulla spalla.
«Vai a vendere un
po’ di case, su. Buona giornata».
«Grazie»,
rispose Leo con gli occhi brillanti. «Chiamami appena hai
finito, okay? Voglio sapere tutto».
«Sarà fatto,
ma ora muoviti!». Lo spinse fuori di casa e lui le
strappò un ultimissimo bacio prima di salutare Tom e di
chiudersi la porta alle spalle.
Jole si appoggiò al
legno di essa con la schiena e guardò suo padre al centro
del salotto, un po’ impacciato dopo quella scena di vita
quotidiana, così semplice ma che trasmetteva così
tanto amore.
«Lo amo da
morire», gli disse come se si dovesse giustificare per
qualcosa, sorridendo sognante.
***
Hey, ma che fine hai
fatto stamattina? Ti ho aspettata, ma visto che non arrivavi
più poi me ne sono dovuta andare…
Lo so, scusami Anja. È che ho
fatto ritardo, dopo ti spiego.
Rispose concisa al sms
dell’amica, siccome era in classe e non voleva farsi scoprire
ad usare il cellulare il primo giorno, dopo essere quasi arrivata in
ritardo alle lezioni e aver avuto una pressoché inesistente
accoglienza da parte dei suoi compagni.
Quando era entrata in classe solo il professore si era accorto della
sua presenza e le aveva chiesto come stava, ma era stato un dialogo
comunque impacciato e pieno di imbarazzo, così lei era
andata subito al posto. I suoi compagni probabilmente non si erano
nemmeno accorti che aveva saltato la scuola per un mese e mezzo.
Evelyn non aveva mai fatto nulla di
male, ma solo il fatto che si chiamasse Kaulitz di cognome aveva fatto
sì che più o meno tutti i ragazzi
“normali” con cui condivideva sei ore al giorno
tenessero un po’ le distanze e la considerassero una
smorfiosa privilegiata, cosa che non era mai stata nemmeno
lontanamente. Non a caso il banco affianco al suo era vuoto.
Cacciò il cellulare
nella tasca dei jeans e puntò di nuovo lo sguardo sulla
lavagna nera su cui c’erano scritti segni che somigliavano
più a geroglifici che ad altro, un po’
perché la lezione era quella di matematica e un
po’ perché il suo professore aveva davvero una
brutta calligrafia.
Si mise d’impegno per
seguire e stare attenta, ma la sua posizione infondo all’aula
le offriva la possibilità di poter pensare ai fatti suoi
senza essere notata.
Andò a finire che non ascoltò nemmeno una parola
di quello che spiegò il professore, tanto per aggravare
maggiormente la sua situazione scolastica pessima, visto che aveva
già un mese e mezzo di spiegazioni da recuperare.
Al suono della campanella, proprio
a quel proposito il professore la chiamò alla cattedra
mentre tutti i suoi compagni uscivano fuori dall’aula per
trascorrere il loro intervallo.
Si alzò controvoglia, autoconvincendosi che se avesse fatto
quattro passi si sarebbe dimenticata della merenda che non aveva e che
quindi i terribili crampi allo stomaco sarebbero svaniti.
Questo però non accadde
e fu già tantissimo che non si fosse presa la pancia fra le
mani di fronte al professore che le raccomandava di prendere tutti gli
appunti delle lezioni che aveva perso e che le diceva, in modo molto
impacciato, che era veramente dispiaciuto per ciò che era
successo a lei e ai suoi genitori, specialmente a sua madre.
Evelyn se la cavò con un sorrisetto sdentato e dei
ringraziamenti, poi si voltò e rigida come un pezzo di legno
tornò al proprio banco, con una voglia assurda di piangere e
di mettersi le mani nei capelli. Avrebbe voluto che i crampi le fossero
venuti anche alle orecchie, in modo tale da otturargliele: non avrebbe
sentito quelle parole che ora come ora le stavano solo tagliando il
cuore.
Sentiva un’assurda
mancanza di sua madre, giorno dopo giorno si diceva che presto si
sarebbe svegliata e tutto sarebbe tornato alla normalità, ma
quel giorno non arrivava mai. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora
prima che le sue braccia la stringessero al suo petto, che i suoi occhi
azzurri si fondessero con i suoi, che le pettinasse i capelli
chiacchierando e ridendo, che le accarezzasse il viso e le desse un
bacio sulla fronte, dicendole che le voleva bene?
Non si accorse nemmeno della
lacrima solitaria sfuggita alle sue ciglia, fino a quando non la
sentì scivolarle sul mento. Se
l’asciugò frettolosamente con il dorso della mano
e poi si passò entrambi i palmi sul viso stanco e privo di
trucco per riprendersi.
Proprio in quel momento vide una
figura avanzare a passo incerto verso di lei e fermarsi accanto al suo
banco. Sollevò il capo e incrociò un paio di
occhi neri sconosciuti, ma che conosceva abbastanza da poter dire che
appartenevano a Samuel, un suo compagno di classe che fino a quel
momento se n’era stato sulle sue esattamente come tutti gli
altri.
Tirò su col naso e il suo viso prese colore a causa della
vergogna. Era una cosa che aveva sempre odiato: mostrare i suoi
sentimenti e farsi cogliere nei momenti di debolezza da persone che non
conosceva e con cui non aveva nulla da spartire, per lei era peggio che
essere beccata a rubare. Forse aveva preso da suo padre, forse
perché fin da piccola lo aveva visto mentire e sorridere in
modo forzato di fronte alle telecamere e ai flash delle macchine
fotografiche.
«Non ho potuto fare a
meno di ascoltare…», esordì il ragazzo,
con un sorriso che Evelyn non riuscì a definire se falso o
sincero. «Se vuoi io posso darti una mano a recuperare: sono
bravo in matematica». Altro sorriso indefinibile.
«Allora, che ne dici?».
Sembrava davvero intenzionato ad
aiutarla, anche se Evelyn aveva uno strano presentimento. Nella sua
testa si erano attivati diversi campanelli d’allarme, come
non era mai successo prima, e aveva ricordato per filo e per segno uno
dei tanti discorsi che le aveva fatto suo padre, in cui le diceva di
essere prudente e di non fidarsi troppo delle persone che sembravano
carine e gentili come Samuel.
Con tutta la prudenza e la lucidità che poteva avere in quel
momento, però, si rese conto che aveva davvero bisogno di
aiuto in matematica – non era mai stata un genio con
l’aiuto dei professori, figurarsi da sola – e che
non le sarebbe più capitata un’occasione del
genere.
E
perché dovrei pensare male se un mio compagno di classe, che
è vero che non mi ha mai cagato di striscio fino ad adesso,
mi vuole dare una mano?
Pensò e per la prima volta Evelyn decise di fidarsi
comunque, nonostante non fosse del tutto sicura di conoscerlo
abbastanza. Ma
quand’è che si può sapere veramente chi
è o chi non è una persona?
«Evelyn?», la
chiamò, piegandosi un po’ sulle ginocchia per
guardarla negli occhi. «È così che ti
chiami, no?», sorrise.
La bionda scosse il capo,
estraniandosi dai propri pensieri, ed accennò un sorriso.
«Sì, sì okay».
«Cioè…
vuoi che ti dia una mano?», ripeté come se non
avesse capito, e quella volta al suo sorriso ambiguo si unirono i suoi
occhi scuri accesi da una scintilla non proprio rassicurante.
«Sì»,
rispose ancora Evelyn, sempre più titubante e con la
sgradevole sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato. Continuava
a venirle in mente suo padre, con le sue raccomandazioni, ma lei le
scacciò dicendosi che si stava facendo complessi inutili.
Non sarebbe successo niente di niente.
«Okay,
fantastico», esultò Samuel, sistemandosi un ciuffo
di capelli neri che gli cadeva sull’occhio. «Allora
uno di questi pomeriggi ci troviamo e facciamo un bel
ripasso… che divertente», ridacchiò.
«Non vedo
l’ora», aggiunse lei, ridacchiando a sua volta,
solo in maniera un po’ più forzata. Il tono usato
dal suo compagno di classe era stato un tantino inquietante, ma si
ripeté che erano tutte illusioni della sua testa, solo
perché non aveva mai agito d’istinto prima
d’allora, era inesperta e si soffermava su particolari che la
sua mente ingigantiva a dismisura e in maniera più che
negativa.
Samuel la salutò con un
cenno della mano e lei appena se ne accorse, per questo quando
sollevò la propria per ricambiare lui era già in
corridoio. Evelyn si strinse nel suo stesso abbraccio, inquieta, e come
se non bastasse i crampi allo stomaco tornarono. Così decise
di sgranchirsi ancora le gambe andando in bagno.
Ci rimase per buona parte
dell’intervallo, poi tornò in classe e
ciò che vide sul banco la lasciò di stucco. Un
panino. Un panino si era magicamente realizzato sul suo banco! O forse
si trattava solo di un miraggio causato dalla fame.
Si stropicciò gli occhi e si avvicinò, ma il
panino avvolto nella carta stagnola non scomparve: era sempre
lì, che la aspettava e la invitava a mangiarlo. Lo prese fra
le mani come fosse la cosa più preziosa del mondo, ne tolse
la stagnola e ne sbirciò il contenuto: prosciutto cotto e
formaggio, proprio come glielo faceva sua…
Alzò di scatto gli occhi e guardò fuori dalla
finestra, ma non vide nessuno. Chi si era aspettata di vedere? Lo
spirito di sua mamma, accompagnato da Franky.
Ancora scombussolata da tutto
ciò che era successo in quell’intervallo, si mise
a sedere e solo allora si accorse delle parole scritte in penna su una
pagina del suo quaderno di matematica. Non conosceva la sua scrittura,
ma senza nemmeno leggere fino in fondo capì che era la sua,
perché l’unico in grado di fare una cosa del
genere era lui.
Per non essere il
numero uno degli chef, né all’altezza
della tua mamma… direi che me la cavo, no? =)
Buona
giornata!
P.S.
Ti voglio bene, tanto.
Franky
Evelyn addentò il panino
senza staccare gli occhi da quelle parole che pian piano si dissolsero,
lasciando il foglio bianco come se non fosse mai stato scritto.
***
Tom era parecchio nervoso ed era
certo che anche Jole se ne fosse accorta, anche se non gli aveva fatto
notare nulla.
Si sentiva in ansia come se al posto di sua figlia e di suo nipote ci
fossero sua moglie e suo figlio, o forse proprio perché si
trattava del primo caso era ancora più teso.
Bussò alla porta con il
cuore che gli pulsava nella carotide e all’udire la voce
della dottoressa l’aprì. Fece entrare per prima
Jole, che gli sorrise rassicurante avanzando, accertando i suoi
sospetti.
«Buongiorno»,
salutò cortesemente la dottoressa, alzandosi dalla poltrona
dietro la scrivania per andargli incontro e stringere la mano ad
entrambi.
«La prego, si accomodi su
quel lettino», disse a Jole, che con un piccolo saltello si
mise seduta sul lettino e poi ci si sdraiò.
Tom, un po’ impacciato,
dovette seguire il suggerimento della figlia prima di avvicinarsi e di
sedersi sulla sedia accanto al lettino.
La dottoressa, aiutata da
un’infermiera, iniziò a preparare
l’attrezzatura per l’ecografia e Tom la
osservò attentamente, preoccupato che potesse fare qualcosa
di sbagliato e che facesse quindi del male a sua figlia e al suo
nipotino.
Non sapeva perché si sentiva così inquieto e,
come se non bastasse, era tutta la mattina, da quando si era svegliato,
che non faceva altro che pensare a Jole, l’altra Jole, la sua.
Avrebbe tanto voluto sapere dov’era adesso, che cosa faceva,
se aveva ripreso a vivere come gli aveva promesso, se era felice.
«Lei è il
padre?», gli domandò la dottoressa sorridendo e
guardandolo di sottecchi, mentre con una mano muoveva uno strano
apparecchio a contatto con la pancia ricoperta di gel di Jole.
«Sì»,
rispose senza nemmeno pensarci, immerso com’era nei suoi
pensieri.
Jole si schiarì la voce,
correggendo: «Mio
padre, non del bambino».
«Oh», la
dottoressa ridacchiò. «Mi scusi, ma al giorno
d’oggi ne vedo di cose strane e poi lei sembra ancora
così giovane!».
Tom stiracchiò un
sorriso, infastidito da quel patetico tentativo di abbordaggio. Lui
apparteneva solo a Linda ora, che aveva conosciuto la mattina in cui
Franky gli aveva detto che avrebbe potuto fare qualcosa per lui se
proprio voleva rivedere Jole.
Realizzato quel pensiero si bloccò. Non ci aveva mai pensato
prima, non gli era mai venuto in mente. Che fosse stato un semplice
caso incontrare Linda quando avrebbe dovuto incontrare per
un’ultima volta Jole?
No, era impossibile che fosse un caso. Per quale motivo Franky avrebbe
dovuto portarlo proprio lì, in quell’ospedale,
proprio a quell’ora, proprio al reparto neonatale?
Come un lampo a ciel sereno gli
balenò alla mente un ricordo ben preciso. Dopo essere stato
colpito dalla porta che Linda gli aveva accidentalmente sbattuto in
faccia, si era fermato a chiacchierare con lei e Linda gli aveva detto
che non sapeva come chiamare la sua bambina; in quel momento Tom aveva
pensato ad un unico nome, non aveva nemmeno dovuto rifletterci, e aveva
sentito anche quello strano brivido al cervelletto, come se cercasse di
ricordare qualcosa che evidentemente aveva cancellato.
L’idea che Franky c’entrasse in tutto quello lo
stava convincendo sempre di più, ogni secondo un
po’ di più.
Che quella bambina, a cui aveva dato lo stesso nome della sua Jole,
fosse direttamente collegata a lei?
«Papà? Ehi,
papà, va tutto bene?». Jole lo scosse per il
braccio e lui venne sbalzato fuori dai propri pensieri tanto
violentemente da sentirsi un po’ disorientato.
Incontrò lo sguardo
preoccupato della figlia e fu come se avesse ricevuto un calcio nello
stomaco, perché la sua mente aveva sovrapposto
l’immagine dell’altra Jole sulla sua.
Perché, ora che aveva realizzato quelle cose, la sua bimba
gliela ricordava così tanto?
«Sì,
sto… sto bene», balbettò e quando vide
Jole tirare giù le gambe dal lettino per scendere, lui la
imitò alzandosi dalla sedia. Dovevano aver finito e non se
n’era nemmeno accorto.
«Sicuro?», gli
domandò ancora, prendendolo a braccetto.
«Sì,
sì», annuì.
La dottoressa parlò
ancora per qualche minuto con Jole, ma Tom, del tutto assente, non
capì nemmeno una parola di quello che si dissero. Doveva
parlare con Franky, era l’unico modo che gli veniva in mente
per togliersi dalla testa quegli interrogativi che lo stavano facendo
diventare pazzo.
«Guido io, tu non mi
sembri in grado oggi», esclamò Jole porgendo una
mano verso di lui.
Tom ci pensò due volte
prima di tirare fuori dalla tasca della giacca le chiavi
dell’auto, ma alla fine le concesse di guidare. Strano che
l’unica donna che avesse mai avuto il permesso di guidare le
sue auto (con lui a bordo ovviamente) fosse sua figlia.
Tom salì sul lato del
passeggero e cercò di togliersi dalla mente quei pensieri
per qualche minuto, ma non ci riuscì proprio. Tutto tornava
sempre a galla a tormentarlo, tanto che avrebbe voluto che Franky gli
cancellasse la memoria. In proposito gli sarebbe sicuramente venuto in
mente qualcos’altro, ma Jole lo distrasse abbastanza da
farglielo dimenticare.
«Papà, sai che
tutte le volte che ascolto questa canzone mi vengono i
brividi?», gli disse, accennando con la testa
all’iPod acceso sopra il cruscotto, collegato
all’impianto audio.
Non si era nemmeno accorto che aveva messo la musica, tantomeno che la
canzone che si era diffusa nell’auto era proprio Phantomrider,
alla quale erano collegati tanti dei suoi ricordi.
«No, non me
l’avevi mai detto», disse intimidito, con il cuore
che iniziava a battere forte.
«Beh, è
così», continuò con un lieve sorriso
sulle labbra e gli occhi fissi sulla strada. «È
una cosa che non mi sono mai spiegata, ma ogni volta che la
sento… mi vieni in mente tu».
Il cuore di Tom aumentò
ancora i suoi battiti.
«E non è che
mi vieni in mente e basta, è proprio come se…
avessi vissuto quel momento, come se lo avessi visto con i miei occhi.
È come un ricordo, un ricordo molto vivido ma che non mi
spiego, perché… insomma, ti immagino ancora con
le treccine, mentre suoni questa canzone con gli altri, ma
io… quando ti ho visto sul palco per la prima volta avevi
già cambiato pettinatura…».
Ancora di più.
«E ti vedo proprio,
mentre alzi il capo dalla chitarra acustica, mi guardi e mi sorridi in
un modo indicibile, troppo carico di amore… non ti ho mai
visto sorridere così, nemmeno con mamma».
A quel punto il suo cuore batteva
così forte che credeva di risvegliarsi in ospedale con un
by-pass; avrebbe preferito, invece di continuare a sentire il sangue
riscaldargli in modo improponibile le orecchie. Aveva capito di quale
“ricordo” stesse parlando Jole e quella era stata
la prova che non avrebbe voluto mai trovare, quella incriminante: sua
figlia aveva un qualche legame, forse uno anche abbastanza forte, con
Jole.
Un brivido di freddo lo fece tremare sul sedile e l’unica
cosa che riuscì a fare in quel momento fu posare un dito sul
touch-screen dell’iPod per cambiare canzone.
«Papà sei
sicuro di stare bene? Ti comporti in maniera molto strana e sei anche
un po’ pallido…», chiese ancora Jole,
sempre più in ansia, mentre accostava l’auto a
ridosso del marciapiede, di fronte al portone del suo palazzo.
Si tolse la cintura e si voltò con il busto verso di lui, ma
non aveva nemmeno fatto in tempo a guardarlo in faccia che era
già sceso e stava facendo il giro dell’auto. Lo
guardò aprire la sua portiera e porgerle una mano per
invitarla a scendere.
«Papà».
Quella volta il suo tono fu severo: voleva una risposta e
l’avrebbe avuta. «Mi spieghi che cosa
c’è che non va?».
«Niente»,
mentì Tom. «Sono… sono solo un
po’ stanco, ecco».
«Tutto qui?»,
sollevò il sopracciglio, l’imitazione perfetta
dello zio Bill. «Sei solo un po’
stanco?».
«Sì»,
sospirò alzando gli occhi al cielo.
«Non è per il
bambino o per Leo, vero?».
La guardò negli occhi ed
accennò un sorriso. «Ormai è passata,
piccola. Io sono contento se tu sei contenta e voglio diventare nonno,
nonostante la mia giovane età».
Jole ritrovò parte di
suo padre e sorrise, rincuorata. Si alzò dal sedile
afferrando la sua mano e i loro occhi si incontrarono a pochissimi
centimetri di distanza. Rimasero ad osservarsi per qualche secondo, poi
Tom fu costretto ad abbassare lo sguardo, imbarazzato.
«Ti voglio bene,
papà», mormorò lei prima di stringerlo
fra le braccia magre.
Rimase qualche secondo senza sapere
che fare, poi si ricordò che nonostante tutto lei era sua
figlia e lo sarebbe sempre stata, che c’entrasse con Jole o
meno. Quindi l’abbracciò a sua volta e la strinse
forte, baciandole i capelli sulla tempia.
«Anche io te ne voglio
tanto».
Si separarono e si sorrisero con
affetto, poi Jole prese la borsa dai sedili posteriori e si
avviò verso il portone.
Tom stava per infilarsi in auto, al posto di guida, quando i loro
sguardi si rincontrarono e non ci fu nemmeno bisogno di parole: Jole
sorrise e tornò alla macchina con una corsetta, si mise
seduta accanto al padre e Tom, sorridendo, posò le mani sul
volante e diede gas.
***
La gelosia l’aveva
divorato, ma ora era passata. Però doveva ammetterlo, non si
sarebbe mai aspettato di essere geloso di nuovo. Per quanto fosse
sbagliato e per quanto quella sensazione fosse da considerare negativa,
quando aveva realizzato di esserlo aveva sentito una specie di scarica
elettrica su per la schiena, proprio come se fosse ancora…
vivo.
Quando Martin aveva chiesto ad
Evelyn se potevano uscire aveva sentito il sangue ribollirgli nelle
vene, ma quando l’aveva vista felice di fronte al panino
tutto dentro di lui si era placato ed era tornato in pace col mondo.
Ma che lui stesse bene con lei, vivendo di lei, non importava,
perché lui era morto e prima o poi si sarebbe chiuso il
sipario. E allora che cosa avrebbe fatto? Tutto sarebbe tornato alla
normalità, la sua vita in Paradiso avrebbe ripreso da dove
l’aveva lasciata e i periodi bui, dominati da quel costante
segno di insoddisfazione e di infelicità sarebbero tornati.
Ma era il suo destino. E il destino non si può combattere.
Franky arrivò di fronte
alla porta della camera d’ospedale di Zoe e vi
entrò, puntuale come un orologio svizzero: mezzogiorno
preciso. Ma tutta la sua puntualità non sarebbe servita a
molto, visto che la sua migliore amica dormiva come un angioletto.
Il cuore gli si gonfiò
di tenerezza vedendola così docile ed indifesa; per un
attimo, uno solo, sentì di nuovo tutto l’amore che
aveva sempre nutrito per lei e che col passare del tempo si era
depositato nel fondo della sua anima, tornare a galla in un sorriso
bello quanto malinconico.
Quel tempo era andato. E non sarebbe più tornato.
***
Non era cambiato niente di
sostanziale, ma ora almeno ci provava a mettere piede in studio di
registrazione e a cantare qualche strofa. Ma la conclusione era sempre
la stessa, le stesse parole: «Non ce la faccio,
scusa» e le stesse uscite di scena.
Seduto nel giardino
dell’edificio contemplava il silenzio intorno a sé
e fumava l’ennesima sigaretta che non avrebbe nemmeno dovuto
avere e che se solo Zoe lo avesse visto non gli avrebbe risparmiato una
bella ramanzina.
Pensò ad un
po’ di cose, ma a nulla in particolare.
Si chiese come stesse andando il
primo giorno di scuola di sua figlia, si disse che sarebbe andato a
prenderla all’uscita, e che aveva bisogno di parlare un
po’ con lei. Esattamente come lui, lei si mostrava forte, ma
sapeva che dentro era fragile e soffriva; non voleva lasciarla soffrire
da sola: se doveva farlo, l’avrebbe fatto con lui.
Aveva bisogno anche di parlare un
po’ con Tom. E anche con Zoe, perché erano quasi
tre giorni che non la vedeva. Aveva bisogno di credere che lei, su in
Paradiso, riuscisse a sentirlo, gli rispondesse e provasse a tornare da
lui.
Aveva bisogno di parlare con Tom perché lui era
l’unico che lo capiva davvero, l’unico con cui non
doveva far finta di essere forte, l’unico in grado di tirarlo
su di morale, anche se per poco. Lui era una boccata
d’ossigeno.
Forse avrebbe dovuto parlare anche
con Franky, che però si faceva vedere sempre più
raramente. Ma d’altronde perché avrebbe dovuto
scendere di sotto, se la “parte buona” di Zoe era
di sopra con lui? Doveva parlarci comunque per chiedergli quando
sarebbe tornata, quanto cavolo di tempo serviva ancora al suo corpo per
riaccettarla dentro di sé.
Gettò lontano da
sé la sigaretta, che più che altro
l’aveva lasciata fumare al vento, e si passò le
mani sul viso stanco. Stanco di aspettare, stanco di non riuscire ad
andare avanti senza di lei, stanco di sentirsi dire di essere forte.
Lui non era forte, era tutto fuorché forte e più
ci provava più andava a fondo, sempre più
giù nel buio più assoluto.
Il cellulare che suonava nella
tasca dei suoi jeans lo riportò in superficie e anche quella
volta si aggrappò alla sua ancora di salvezza: Tom.
«Bill, dove
sei?», gli domandò subito.
«Sono in studio,
perché?».
«E che stai
facendo?».
Bill sospirò: il suo
gemello sapeva che ancora non era pronto per tornare a cantare, anche
se per lui era sempre stata una medicina, una cura ad ogni male. Ma
quello da cui era stato affetto ora era troppo forte, anche per la
musica.
«Tra dieci minuti ti
voglio da me», disse ed attaccò senza dargli il
tempo di ribattere.
Il frontman guardò il
display del proprio cellulare: come sfondo aveva una foto di Zoe ed
Evelyn abbracciate e sorridenti. Rimase ad osservarle con un sorriso
malinconico sulle labbra, fino a quando lo schermo non si
annerì. La luce, i loro volti e i loro sorrisi erano stati
inghiottiti dal buio, quel buio che gli faceva paura come gliene faceva
quando era bambino. Perché Zoe stava lottando contro quel
buio e lui non poteva fare niente, assolutamente niente per aiutarla,
se non sperare. Ma anche la speranza, quella minuscola luce che ancora
combatteva per restare accesa nel suo cuore, era sempre più
debole…
Si alzò e
tirò su col naso, avviandosi verso la sua auto.
***
«Amore! Scusa, scusa,
scusa! Ero con un cliente… Dimmi tutto!
Com’è andata? Il bambino sta bene? È
tutto a posto?».
Jole ridacchiò e
poggiò il gomito sul bracciolo della poltrona per tenere
meglio il cellulare incollato all’orecchio e allo stesso
tempo reggersi la testa per osservare con un sorriso intenerito suo
padre giocare con Arthur, immaginando quando anche Leo avrebbe fatto lo
stesso con il loro bimbo o la loro bimba.
«Da quando i clienti sono
più importanti di me e di tuo figlio?». A
quell’ultima parola un brivido le corse su per la schiena e,
si sarebbe giocata tutto, era certa che fosse successa la stessa cosa a
Leo: era ancora incredibile che sarebbero diventati genitori. Ma era un
brivido di emozione, di gioia, una quantità minima di volt
che stavano a significare una piccola parte d’amore di quello
grandissimo che stava nascendo nei loro cuori per quella creatura che
doveva ancora nascere.
«Non sono più importanti, solo che…
sai, devo iniziare ad abituarmi a lavorare sul serio, perché
il giorno in cui mio padre non mi parerà più il
culo mi ritroverò senza nulla fra le mani e te e il bambino
da mantenere e… Jole, ti amo».
Il cuore della ragazza perse un
battito e subito dopo tentò di recuperare quello perso
aumentando la velocità.
Delle lacrime di commozione si impadronirono dei suoi occhi chiari e
dovette portarsi una mano sulla bocca per non cedere del tutto a quel
pianto di gioia che stava nascendo. Non aveva fatto nulla per meritarsi
un ragazzo come Leo accanto, era davvero fortunata.
Incontrò lo sguardo di
suo padre, che aveva voltato il viso verso di lei incuriosito, e le
chiese che cosa avesse soltanto aggrottando le sopracciglia. Jole
scosse il capo, sorridendo.
«Ti amo anche
io», mormorò al cellulare e Tom sorrise
sbarazzino, roteando gli occhi al cielo e facendo ridere di conseguenza
anche la figlia, perché anche sua madre si comportava nello
stesso identico modo quando le si dicevano due paroline romantiche.
«Sono tanto
patetico?», domandò Leo, contagiato dalla sua
risata.
«No… sei tanto
tenero e non vedo l’ora di stasera, mi manchi».
«Amore»,
ridacchiò. «Sono al lavoro da nemmeno tre
ore…».
«Credo sia
l’istinto materno o qualcosa del genere».
«Oh, capisco…
E allora, non mi dici niente del bambino?».
«Il bambino
c’è, solo che ancora non si vede agli occhi dei
mortali. Ancora non capisco come facciano a vederci qualcosa i dottori,
bah. Comunque tutto liscio come l’olio».
«Menomale»,
sospirò sollevato. «Sai, ora che ci
penso… mi manchi anche tu».
«Allora fai presto al
lavoro», sussurrò maliziosa.
«Faccio prestissimo. Tu
aspettami, okay?».
«Certo. Ti amo».
«Anche io, a stasera.
Smack».
«Smack».
Jole, terminata la telefonata,
chiuse con uno scatto il cellulare, ma il sorriso che le illuminava il
volto non si spense come i led del display. Alzò il capo e
quasi per caso incontrò ancora il viso di suo padre, che
però quella volta era proprio girato verso di lei e la stava
osservando con i gomiti sulle ginocchia e i pugni sotto al mento.
Arthur, incuriosito dal suo comportamento insolito, l’aveva
imitato e visti così, vicini e nella stessa identica
posizione, erano davvero buffi.
«Dimmi una
cosa», esordì suo padre. «Ma secondo te
anche io e tua madre eravamo così quando avevamo la vostra
età?».
«Così
come?», chiese sempre più curioso Arthur.
«Così…
smielati e piagnucoloni?».
Jole non aveva impedito ad
un’espressione allibita mista ad una divertita di comparire
sul suo viso, ma appena vide sua madre dietro il divano, ossia dietro
le spalle di suo padre, si portò le mani di fronte alla
bocca e trattenne, quasi inutilmente, le risate.
«Ah è
così che definisci le persone innamorate? Smielate
e piagnucolose? Te
l’ho mai detto quanto sei antipatico, amore mio?»,
gli disse con un tono severo e un sorriso splendido sulle labbra,
mentre portava le mani sui fianchi.
A quel punto anche Tom si
girò, quasi spaventato, e si alzò per correrle
dietro, gridando: «Amore mio luce dei miei occhi non
intendevo in senso negativo! Ti faccio vedere io adesso quanto posso
essere smielato!».
Sparirono entrambi in cucina, dopo
un inseguimento intorno al tavolo del salotto, ridendo come due
bambini. Il silenzio calò sulla sala e Jole portò
automaticamente lo sguardo su Arthur, che a sua volta osservava lei.
«Papà e mamma
a volte sono strani», le disse a bassa voce, quasi avesse
paura di essere sentito e punito per questo.
Jole lo raggiunse seduta sul
tappeto e gli avvolse le spalle con un braccio, stringendolo a
sé per un fianco. Gli posò un bacio sulla tempia
e gli sorrise pienamente, guardandolo negli occhi.
«No, a volte ritornano due bambini follemente innamorati
l’uno dell’altro».
Il campanello trillò
all’improvviso e Tom si precipitò fuori dalla
cucina con un sorriso gigante stampato in faccia, gridando che andava
lui.
Sapeva che dietro la porta si trovava Bill, quindi non esitò
oltre e lo accolse a braccia aperte. Purtroppo però, appena
lo vide il suo sorriso si volatilizzò e capì che
era il caso di stare un po’ da solo con lui, a parlare
tranquilli o anche in silenzio, purché insieme.
«Aspetta un
attimo», mormorò e tornò in casa,
lasciando la porta socchiusa. Si sporse in cucina, dove si trovava
ancora Linda, e la informò che sarebbe uscito con Bill.
«È tutto a
posto?», gli domandò preoccupata, avvicinandosi a
lui.
«Sì»,
la rassicurò e le stampò un bacio veloce sulle
labbra, dandole una carezza sulla guancia. «Torno
presto».
In salotto, mentre cercava le
chiavi della macchina e prendeva il cappotto, Jole gli disse che
sarebbe rimasta ancora un po’ lì e poi al massimo
si sarebbe arrangiata. Tom guardò nel palmo della sua mano
le chiavi dell’auto che aveva appena trovato e senza nemmeno
pensarci due volte – avrebbe cambiato idea – le
lanciò a sua figlia.
Jole spalancò la bocca.
«Mi lasci la tua?».
Il padre scrollò le
spalle. «Sei grande ormai». Le soffiò un
bacio con la mano e poi si affrettò ad uscire fuori di casa
salutando un po’ tutti.
La ragazza guardò le
chiavi dell’auto, ancora senza parole, e poi
sollevò gli occhi sulla figura di sua madre che intanto si
era avvicinata e si era seduta accanto a lei, però sul
divano. Le portò una mano sui capelli biondi e li
accarezzò, sorridendo dolcemente.
«Tuo padre»,
sospirò divertita. «Avrebbe dovuto capire che sei
diventata grande già da un po’, non solo ora che
stai per sposarti e avrai un bambino».
Jole annuì
distrattamente, perché non pensava che sua madre avesse
totalmente ragione: suo padre probabilmente aveva già capito
che era diventata grande, ma fino a quel momento non l’aveva
mai accettato; ora si era messo l’animo in pace e, come si
deve fare quando si riconosce che il proprio figlio è
diventato un adulto responsabile, gli si concede di usare la propria
auto da solo.
Jole non era un maschio, ma come uno di loro andava pazza per le auto e
avere quelle chiavi fra le mani era come avere un pezzo di suo padre,
la sua fiducia, ed era la cosa più importante di tutte, che
le riscaldò il cuore.
«Sì,
è proprio mio padre», mormorò.
***
Era già una mezzoretta
che giravano a vuoto per le strade di Amburgo, in silenzio dentro
l’auto di Bill; un Bill apatico, stanco, spento, che guidava
e non staccava mai lo sguardo dalla strada.
Tom aveva capito subito che quella
doveva essere una giornata no per suo fratello, capitava spesso ormai,
e sapeva anche la causa di questo suo umore tetro: Zoe. Gli mancava da
morire, tanto che se chiudeva gli occhi poteva sentire il suo stesso
dolore divorargli il petto pian piano. Forse non necessariamente
perché erano gemelli, ma perché era anche un suo
dolore, dopotutto.
«Bill…»,
mormorò Tom, intimorito. Non era la prima volta che si
ritrovava a doverlo far sorridere di nuovo, ma all’inizio era
sempre un po’ difficile affrontare quel dolore che come un
muro si ergeva davanti a lui, impedendogli di vedere tutto chiaro come
sempre. Ma doveva farlo, doveva o sarebbe stato peggio.
Suo fratello mugugnò, segno della sua attenzione nella
distrazione.
Tom fece un lungo respiro per
prendere coraggio e poi disse: «Oggi ho accompagnato Jole a
fare l’ecografia…».
«Oh,
già… e com’è andata,
è tutto a posto?».
Aveva visto una luce illuminare gli
occhi di Bill appena aveva pensato al piccolo che doveva nascere e che
avrebbe reso nonno suo fratello, e questo lo aveva fatto sorridere
sollevato.
«Bene, tutto a
posto… credo».
«Credi? In che senso credi?»,
gli domandò scettico, con una delle sue immancabili alzate
di sopracciglio.
«Questa mattina avevo un
po’ la testa altrove, mi sono svegliato con un pensiero fisso
che mi ha messo un po’ in agitazione…».
«Non ti preoccupare Tomi,
ci penso io al tuo completo per il matrimonio».
«Mi dispiace deluderti,
ma questi non sono i miei problemi essenziali, quelli con cui mi
sveglio la mattina», gli rispose in tono piatto e anche un
po’ allibito, ma subito dopo scoppiò a ridere
perché il suo fratellino era fatto così e avrebbe
dato di tutto per poter vederlo sempre in quello stato, sorridente e
scherzoso.
Perché non l’aveva pensato davvero che fosse
quella la sua preoccupazione, vero?
«E allora a che cosa
pensavi?», gli chiese.
«A… a
Jole».
«Jole…»,
lo guardò negli occhi per una frazione di secondo, giusto il
tempo di capire, poi tornò a puntare lo sguardo sulla
strada. «Oh, quella
Jole».
«Già»,
sospirò puntando lo sguardo triste fuori dal finestrino, una
mano di fronte alla bocca.
«Come mai?».
«Non ne ho
idea», scosse il capo, rassegnato. «Devo parlare
con Franky».
«Con Franky? E
perché? Che cosa c’entra lui
se…?».
«C’entra,
Bill». Si voltò e lo guardò serio negli
occhi, con i suoi vagamente lucidi. «Mi è venuto
il sospetto che Jole mia figlia sia collegata all’altra
Jole».
«Che cosa,
perché?».
«Non lo so. E proprio per
questo ne devo parlare con lui, devo… sapere se loro
due…».
«Tom, ma»,
ridacchiò nervosamente, «è impossibile
che ci sia qualche legame fra loro: quando hai incontrato tua figlia
eri lì perché Franky voleva farti conoscere Linda
per non vederti più triste a causa di Jole».
«Così
credevo!», urlò, facendo sobbalzare Bill alla
guida. «Poi stamattina mi sono ricordato,
all’improvviso, che Franky mi aveva portato in
quell’ospedale con l’intenzione di farmi rivedere
Jole un’ultima volta! E guarda caso, quando Linda mi ha detto
che non sapeva come chiamare sua figlia, io ho sparato subito il suo
nome, senza nemmeno pensarci. E ti sembra impossibile se mia figlia
avesse un ricordo di Jole nella sua testa? Ti sembra ancora
impossibile?».
Bill quella volta non rispose,
arricciò le labbra e non spostò più
gli occhi dalla strada, che aveva iniziato a farsi familiare ad
entrambi.
Tom seguì la rotta del fratello, capendo la loro
destinazione ancor prima di arrivarci, manco fosse un navigatore
satellitare. Quello che non capiva era perché Bill avesse
deciso così di punto in bianco di andarci.
Il gemello parcheggiò l’auto proprio di fronte
all’entrata dell’ospedale e spense il motore prima
di voltarsi verso di lui con un sorriso sbilenco.
«Anche io voglio parlare
con Franky e l’unico modo che abbiamo per contattarlo in
questo momento è parlare con Zoe e sperare che lei ci
senta».
Il chitarrista, sbalordito dalla
genialità dell’idea di Bill, era anche un
po’ confuso. «Vuoi… vuoi davvero usarla
come centralino?».
Bill accennò una risata
e scosse il capo, scendendo dalla macchina.
***
«Che culo! Non
è possibile, Zoe! Io non gioco più con
te!».
La donna scoppiò a
ridere, tirando la testa indietro, e raccolse in un unico mazzo le
carte che Franky aveva sbattuto sul letto.
«È solo un
gioco, non devi prendertela così», gli disse.
«Sì ma abbiamo
fatto dieci partite e dieci le hai vinte tu!»,
aprì le braccia.
«Beh, sono
brava», si vantò Zoe, annuendo.
«Ma per
piacere!», urlò l’angelo e si mise a
ridere anche lui, insieme alla sua protetta.
Dopo qualche minuto, Zoe
sospirò divertita e sorrise, incrociando meglio le gambe
sopra le coperte. «Grazie Franky».
«Per che
cosa?», le chiese confuso.
«Per questi scorci di
quotidianità che mi fanno sentire… a
casa».
L’angelo sorrise
consapevole ed amareggiato e si mise seduto sul materasso, le
alzò il viso con delicatezza ed incatenò il
proprio sguardo al suo. «Piccola, tu torn–
».
«No»,
sussurrò con le lacrime agli occhi, posandogli un dito sulle
labbra. «Non dirlo, Franky…».
Ma lui, convinto di ciò
che stava dicendo, allontanò la sua mano e si fece un
po’ più vicino al suo viso, senza interrompere il
contatto visivo. «Tu tornerai
a casa, ne sono certo. Non devi
pensare nemmeno per un secondo che tu non ti risveglierai dal coma. Ci
siamo capiti bene?».
«Sì»,
biascicò annuendo, poi si lasciò cullare dalle
braccia del suo migliore amico di sempre, quello che c’era
stato, che c’era tutt’ora e che ci sarebbe sempre
stato per lei, il punto fermo della sua vita.
Nascose il viso contro il suo collo e in quel momento sentì
la voce di Bill sussurrarle qualcosa all’orecchio,
così piano che non riuscì bene a decifrare le
parole. Ma era stato Bill, ne era certa, e a confermarglielo furono poi
una leggera carezza sulla guancia sinistra e un bacio delicato sulla
fronte.
«Bill»,
piagnucolò, mentre le lacrime tornavano a pungerle gli occhi
e il solito nodo le bloccava la gola.
«Che cosa…
Stai sentendo Bill?», le chiese Franky facendo per scostarsi
da lei per guardarla in viso, ma lei non mollò la presa,
anzi lo strinse più forte a sé mordendosi le
labbra, in ascolto.
L’angelo provò
a non intromettersi, ad estraniarsi dai suoi pensieri, ma essendo
così vicini non gli fu proprio possibile e anche lui rimase
in silenzio ad ascoltare ciò che il frontman aveva da dire.
«Ciao amore»,
sussurrò Bill, seduto accanto al letto di sua moglie, con le
mani avvolte intorno alla sua pallida.
Suo fratello Tom era dietro di lui,
appoggiato alla finestra, e sentiva il suo sguardo puntato addosso: era
uno sguardo che non gli dava fastidio, né gli metteva ansia;
lo faceva sentire bene, più coraggioso e forte.
«Come ti senti oggi?
Spero meglio, voglio che tu torni qui da me, mi manchi tantissimo e
manchi anche ad Evelyn, solo che lei si tiene tutto il dolore dentro,
sai com’è fatta… è come
te», accennò un sorriso. «Io
sto… non voglio mentirti – perché
dovrei? – e la verità è che non sto
bene senza di te, è veramente dura andare avanti, fare come
se tutto fosse normale; in ogni piccola cosa si sente la tua mancanza
ed è una mancanza enorme…».
Bill si interruppe e si
passò una mano sugli occhi lucidi, tirando su col naso.
Perché ogni volta che le parlava era così
frustrante? Era sempre più difficile e ogni volta doveva
star male come un cane. Però il fatto che Franky gli avesse
detto che lei riusciva a sentirli gli dava tutta la forza necessaria
per farsi altro male.
La immaginava nel suo letto d’ospedale in Paradiso, che
ascoltava tutto ciò che le stava raccontando e gli
rispondeva, nonostante sapesse che non riusciva a sentirla.
Chissà se sorrideva, se rideva quando diceva qualcosa di
divertente; chissà se piangeva… Il suo amore.
«Okay, basta parlare di
cose tristi… Io e Tom –».
«Ciao Sea»,
salutò il chitarrista alzando una mano e sorridendo al corpo
della donna, proprio come potesse vederlo. Si staccò dalla
finestra e affiancò il gemello per posare una mano sul
braccio con la flebo della sua amica.
«Dicevo»,
riprese Bill. «Io e Tom volevamo parlare con
Franky…».
«Non è che gli
diresti di farsi vedere un po’ più spesso, a quel
nulla facente che non è altro?».
«Nulla facente, io?!
Ma guarda un po’ te!», ribatté offeso
Franky, ma con il sorriso sulle labbra.
Zoe, ancora fra le sue braccia,
accennò una risata e sciolse l’abbraccio per
potersi sdraiare sul letto.
Infilò un braccio sotto al cuscino, appoggiò la
testa proprio sopra di esso e rannicchiò le gambe al petto.
Era stanca, senza sapere bene perché, quasi appesantita, e
per questo chiuse gli occhi.
«Chissà che
cosa vogliono», sussurrò sull’orlo del
dormiveglia.
«Pensi che dovrei andare
ora?», le chiese l’angelo, sporgendosi su di lei.
«Sì,
perché no? Tanto mi sa che io dormirò un
po’, sono stanca».
«Okay», le
sorrise e le stampò un bacio sulla guancia, poi
saltò giù dal letto e senza guardarsi indietro
uscì dalla sua stanza.
Zoe, rimasta sola, chiuse di nuovo
gli occhi, le palpebre sempre più pesanti, e si
concentrò per sentire ancora parole e tocchi di Tom e
soprattutto di Bill.
Aspettò vari minuti, ma non riuscì a sentire
più niente. Corrugò la fronte, sforzandosi ancora
di più, sicura che quei due, famosi per la loro parlantina,
non avrebbero mai lasciato di punto in bianco una conversazione. Fu in
quell’istante che percepì in lontananza un
«Ti amo» di Bill e poi si sentì
precipitare.
Precipitava nel vuoto, come risucchiata, e presa alla sprovvista
com’era fece di tutto per non cadere: artigliò le
unghie nel lenzuolo candido, si aggrappò a tutto
ciò che era alla sua portata, tra cui i macchinari che la
monitoravano, e gridò per invocare aiuto.
Quella sensazione straziante, veramente orribile, la avvolse per interi
minuti, senza che nulla cambiasse, senza che nessuno la aiutasse, tanto
che si chiese se qualcuno riuscisse a sentirla, se quelle urla fossero
solo nella sua testa e quel dolore solo dentro di lei. Poi tutto
finì, all’improvviso come era iniziato.
Si sentì risucchiare indietro, veloce come se avessero
schiacciato il tasto di rewind, e quando capì di essere di
nuovo nel letto d’ospedale spalancò gli occhi e
respirò con foga, come se fosse stata in apnea per tutto
quel tempo.
Era sola e nella stanza tutto era
tranquillo, come se nulla fosse successo. Che cosa le era accaduto?
***
«Noi
gliel’abbiamo detto, ora dobbiamo solo aspettare».
Così aveva detto Tom una volta usciti
dall’ospedale, dandogli una pacca di conforto sulla spalla.
L’aveva riaccompagnato a
casa ringraziando Dio di avergli dato un gemello su cui contare sempre
e comunque e sperando con tutto il cuore che Zoe li avesse sentiti, non
perché avvisasse Franky, questo era secondario, ma
perché voleva dire che c’era ancora qualche
collegamento fra lei e il suo corpo, che c’erano
più possibilità che si svegliasse presto dal
coma.
Il trillo della campanella lo
distrasse dal flusso dei suoi pensieri e alzò il capo giusto
in tempo per vedere sua figlia schizzare fuori dalla struttura
scolastica. Gli ricordò proprio lui e Tom, che non vedevano
mai l’ora di scappare da quella specie di prigione in cui
dovevano passare buona parte delle loro giornate.
La osservò mentre si guardava intorno alla ricerca di
qualcuno a lei familiare, fino a quando non incrociò il suo
sguardo all’interno dell’Audi. Con una corsetta
raggiunse l’auto e ci si infilò sinuosamente,
aprendo la portiera lo stretto necessario.
«Ciao
papà», lo salutò con un fugace bacio
sulla guancia. «Andiamo?».
Bill ridacchiò e
annuì. È
proprio come noi.
***
Seduto sull’altalena nel
giardino di casa Kaulitz si guardava i piedi, dondolandosi appena, e
attendeva il ritorno di Bill. Sapeva che inevitabilmente avrebbe
incrociato Evelyn, di ritorno da scuola, ma non poteva proprio
aspettare: voleva sapere che cosa volessero dirgli lui e Tom. E poi non
è che non gli facesse piacere vedere Evelyn…
Quando percepì i
pensieri del cantante, sentì anche le fusa del motore della
sua Audi che si avvicinava. Allora portò lo sguardo sulla
strada e non schiodò più gli occhi da essa dal
momento in cui era comparsa nel suo campo visivo. Aveva incontrato
anche l’oceano degli occhi di Evelyn e aveva sorriso, ma Bill
non aveva capito che quel sorriso era per lei, solo ed esclusivamente
per lei.
«Franky,
allora…», farfugliò il cantante, non
ancora sceso del tutto dall’auto. Lasciò in
sospeso la frase, forse per la presenza di sua figlia, e lo
guardò con la bocca socchiusa e gli occhi lucidi.
«Ebbene
sì», ridacchiò l’angelo.
«Te l’avevo detto, che riusciva a
sentirvi».
Bill si morse il labbro inferiore
ed eliminò i pochi metri di distanza che li separavano, lo
fece alzare dall’altalena e lo abbracciò senza
nemmeno pensarci due volte. Zoe lo aveva sentito e
nient’altro era importante.
«Dai, entriamo e
parliamo», gli sussurrò l’angelo e lo
accompagnò in casa tenendogli saldamente la vita con un
braccio.
Evelyn li seguì e una
volta entrati chiuse la porta alle sue spalle.
_________________________________________
Ciao a tutti :)
La vita continua. Evelyn
è tornata a scuola e non è andata proprio
benissimo, anche se grazie a Franky almeno non è morta di
fame ;)
Samuel, la new entry, è un po' ambiguo... voi che ne pensate?
Bill è ricaduto nella fase depressiva, ma per fortuna
c'è Tom! Anche se anche lui ha alcuni problemi, come per
esempio il nuovo sospetto che Jole sia direttamente collegata all'altra
Jole. Chissà se il suo sospetto sarà fondato
oppure no...
Poi quei due, fortissimi xD, hanno usato Zoe come "centralino" per
poter chiamare Franky ahah xD Beh, ha funzionato!
E ora che cosa succederà? *w* Lo scoprirete nella prossima
emozionantissima puntata xD
Ringrazio di cuore chi ha recensito
lo scorso capitolo, sperando che anche questo vi sia piaciuto *-*
Ringrazio anche chi ha letto soltanto! ;)
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 11 *** You should shut up, 'cause this is love ***
La
canzone che ho usato in questo capitolo è Push, di Avril Lavigne.
Ringrazio coloro che leggeranno e chi ha letto e recensito lo scorso
capitolo *-* Grazie di cuore davvero! <3
AVVISO:
Chi non è aperto alle novità sconvolgenti (che però
hanno un
come e un perchè
e ci tengo a sottolinearlo u.u) non legga questo capitolo.
(Secondo me però ne vale la pena, di leggerlo
ù.ù)
Buona lettura :D
________________________________________
11.
You should shut up, ‘cause this is love
Prese un altro fazzolettino di
carta e si soffiò rumorosamente il naso.
Coco era seduto di fronte a lei e
la osservava con i suoi occhietti azzurri, il musetto leggermente
inclinato verso sinistra. Ad un certo punto si mosse verso di lei,
salì con le zampette sulle sue gambe incrociate e si
aggrappò alla sua felpa rossa, troppo larga per il suo
fisico asciutto, per avvicinare il muso al suo viso. Miagolò
e sembrò quasi che volesse confortarla, che le stesse
chiedendo di non piangere più perché lui era
vicino a lei.
Evelyn lo prese fra le mani e gli
baciò il pelo caffèlatte sulla testa, poi lo fece
scendere dal letto e si infilò sotto le coperte, la faccia
immersa nel cuscino.
Era stanca, voleva sprofondare nel
sonno e non pensare più a niente. Voleva dimenticarsi per un
po’ che era colpa sua se aveva fatto una cosa così
stupida, se non aveva pensato prima di agire, se aveva rovinato tutto,
se Franky non si faceva vedere da tre giorni. Era tutta colpa sua e ora
doveva pagare, e le lacrime e il dolore che le squarciava il petto
erano tutto ciò con cui poteva scontare i propri errori.
Evelyn
si chiuse la porta di casa alle spalle e guardò Franky
accompagnare suo padre verso la zona dove si trovava il divano
più piccolo rispetto a quello ad L posto di fronte alla tv,
il tavolino marrone scuro e di fronte ad esso le due poltrone di pelle
dello stesso colore. Lo fece sedere sul divanetto e l’angelo
si accomodò direttamente sul tavolino, a gambe incrociate.
«Tu
e Tom volevate parlarmi?», gli domandò subito
Franky.
«Sì,
ma…». Bill gettò un’occhiata
preoccupata verso sua figlia e poco dopo anche l’angelo si
voltò e la guardò senza mostrare alcuna
variazione nella propria espressione neutrale. Ma quant’era
difficile fingere, far finta di non aver alcun tipo di rapporto, lo
sapevano solo lui e la diretta interessata.
Evelyn,
imbarazzata, si schiarì la voce abbassando il capo, in modo
tale che i propri occhi azzurri – rivelatori di
verità – venissero nascosti dalla frangetta bionda.
«Vado
di sopra», annunciò e zampettò verso le
scale dagli scalini di vetro, raccogliendo Coco per strada.
Prima di sparire al piano superiore però,
intercettò per una frazione di secondo lo sguardo
dell’angelo e gli comunicò telepaticamente:
“Quando vai via passa a salutare”.
Franky
accennò un sorriso e rimase ancora per qualche istante con
il viso rivolto verso la scalinata, poi si voltò verso il
cantante con naturalezza, per dirgli, in tono sereno: «Non ti
preoccupare, passo dopo da Tom. Ora dimmi di che cosa vuoi parlare tu».
«Beh,
io, ecco…», Bill sbuffò e
sospirò contemporaneamente, affranto. «Sai che
cosa vorrei chiederti, quindi facciamola finita».
«Okay»,
ridacchiò l’angelo, battendo le mani sulle
ginocchia. «Non è cambiato nulla di particolare,
Zoe è sempre lei e ha una terribile nostalgia di
voi… Ogni giorno è sempre peggio e a volte la
scopro a piangere come una bambina… Sta facendo di tutto per
tornare nel suo corpo, ma non è ancora il momento,
altrimenti ci sarebbe già riuscita».
«E
quando sarà il momento? Io… io non ce la faccio
più, sono stanco di aspettare!», disse con voce
strozzata, sull’orlo del pianto.
«Purtroppo
non sono io che decido queste cose, io non posso farci niente ed
è così…».
«Frustrante»,
completò per lui il frontman e tirò su col naso.
«Io
sono il suo angelo custode e non posso fare niente per lei»,
lo dissero insieme, in perfetta sincronia, solo che Bill invece di dire
“angelo custode” disse “marito”.
Alzarono
contemporaneamente gli occhi e in quel momento si sentirono vicini
più che mai: erano così simili le loro
situazioni…
Franky non era mai stato un tipo coccolone, ma in quel frangente
particolare, con quell’intesa fortissima che si era creata
fra loro, fu quasi naturale alzarsi e gettarsi praticamente sulle gambe
di Bill per abbracciarlo e trasmettergli tutto il conforto e il senso
di protezione che poteva.
Bill,
seppur colto di sorpresa da tutto quell’affetto, sorrise
rincuorato e si beò della sensazione che Franky gli stava
regalando. Era come una droga, una droga angelica: non sentiva
più dolore, né paura, né tristezza.
Come per tutte le droghe però, quando venne a mancare fu un
colpo terribile tornare alla realtà. Ma lo
ringraziò comunque, perché anche un solo attimo
in quella bolla lo aveva rifornito di un po’
d’ossigeno.
«Se
hai bisogno di me io ci sono», lo rassicurò con un
sorriso, dandogli una pacca amichevole sulla spalla.
«Come
se fosse facile contattarti, no?», roteò gli occhi
al cielo, divertito. «Dobbiamo usare Zoe come
“centralino”!».
L’angelo
scoppiò a ridere. «Questa è carina!
Voglio dirla a Zoe, piacerà anche a lei».
«Salutamela»,
sussurrò di nuovo con la voce impedita dal nodo che gli si
era creato in gola.
«Certo.
Stammi bene, Bill». Lo salutò con un gesto della
mano e uscì in giardino trapassando il vetro delle porte
finestre, per poi spiccare il volo. Ma non volò molto
lontano, perché atterrò di nuovo sulla grande
terrazza che dava sulla camera di Evelyn.
La vide seduta sul letto, con le gambe che proprio non riusciva a
tenere ferme, che lo aspettava e nel frattempo si passava la spazzola
fra i capelli.
Franky
si sentì infinitamente onorato quando capì,
frugando fra i suoi pensieri, che per lui si stava pettinando i capelli
e si era spruzzata un po’ del suo profumo, quello che lo
mandava fuori di testa. Come facesse lei a saperlo poi era un mistero,
a meno che anche lei non sapesse leggere nel pensiero.
Dall’altra parte, però, avrebbe voluto che lei non
lo avesse fatto: la loro situazione era già complicata
così, perché doveva renderla ancora
più irrisolvibile?
Con
un sospiro, che non riuscì nemmeno lui a definire se
rassegnato o disperato, si intrufolò nella sua stanza. Stava
per farla spaventare, quando sentì un “bip
bip”: il cellulare di Evelyn.
Prima che lei si girasse per prenderlo fra i cuscini, si nascose dietro
il letto. Però seguì tutta la scena con gli occhi
di Evelyn, collegato alla sua mente.
La
ragazza prese il cellulare fra le mani e vide che le era appena
arrivato un messaggio.
Sarà Anja, le avevo detto che le avrei spiegato di stamattina,
pensò, ma quando lo aprì capì che non
era affatto della sua amica, ma di Martin.
Ciao Evelyn… Lo so, ti
sembrerò un ossessionato, ma non faccio altro che pensare a
te. Spero che tu prima o poi sia disponibile per uscire con me, mi
farebbe davvero molto piacere. Ciao. E scusa.
Ma scusa di che,
pensò sbuffando, prendendosi la testa fra le mani.
Franky
interruppe il legame e ritornò pienamente in sé.
Aveva i crampi allo stomaco, come se avesse ingurgitato un cagnolino
che glielo stava rosicchiando. Gelosia.
Io non posso essere geloso, no!
si gridò e balzò fuori all’improvviso,
facendo spaventare Evelyn forse anche più di quanto avesse
previsto.
«Cretino!»,
gli gridò sottovoce lei e subito dopo scoppiò a
ridere, attirandolo in un abbraccio a cui Franky non seppe come
rispondere: era rigido come un pezzo di legno e il suo cervello era
stato messo fuori uso dal suo profumo.
«Tutto
bene? Papà che cosa voleva dirti?», gli
domandò a raffica, prendendolo per le spalle e guardandolo
negli occhi con espressione determinata e anche un po’
ansiosa.
«Impicciona»,
le rispose con una linguaccia e si gettò sul letto da una
piazza e mezza, con il viso e le braccia aperte rivolte verso il
soffitto.
Lo
raggiunse a quattro zampe sul letto e lo guardò in viso
dall’alto, con cipiglio severo: «Io non sono
un’impicciona,
mi preoccupo soltanto per mio padre», lo corresse.
«Lo
so», le rispose tranquillamente lui, prendendo fra due dita
una ciocca di capelli biondi che gli solleticava il viso. Si
tirò sui gomiti e i loro visi si trovarono a pochissimi
centimetri di distanza, respiro contro respiro. «Non hai di
che preoccuparti», le sussurrò e le
sistemò quella ciocca dietro l’orecchio, poi si
rigettò con la schiena sul materasso, gli occhi chiusi.
Evelyn
rimase in silenzio e con lo sguardo fisso sul suo volto sereno per un
po’, fino a quando non gli chiese: «Ma
tu… tu non dovevi andare anche da zio Tom?».
«Sì.
Ma ci vado dopo».
«Okay»,
mormorò. Si accucciò al suo fianco, stringendogli
un braccio intorno alla vita, e posò la testa sul suo petto.
***
Fin dal principio, avevano capito
tutti che quella lezione sarebbe stata diversa: Zoe, Kim, i suoi alunni
abituali e quelli che frequentavano le sue lezioni solo da qualche
sera. Proprio tutti.
Era stato facile capirlo perché Franky, appena entrato in
classe, aveva salutato a malapena e non aveva nemmeno accennato uno dei
suoi sorrisi tanto amati; si era seduto dietro la cattedra, cosa
altrettanto insolita, poiché lui non si sedeva mai
sulla sedia, come un professore qualunque, e per tutta la durata della
lezione non aveva aperto bocca, né aveva alzato lo sguardo
per incrociare quello di qualche suo alunno.
Tutt’ora era nella stessa
identica posizione, con gli occhi puntati sul pendolo di Newton
appoggiato sulla cattedra, e Zoe non sapeva che cosa fare per tirarlo
fuori da quello stato apatico. Ci aveva già provato varie
volte, nel corso di quei giorni, ma non aveva ottenuto il
benché minimo risultato. Non era nemmeno riuscita a capire
perché tutto d’un tratto fosse tornato da lei in
quelle condizioni, dopo aver trascorso un giorno intero chiedendosi se
fosse tornato di sopra oppure no. Quello di cui era certa era che fosse
successo qualcosa di sotto, quando era sceso sulla Terra per sapere che
cosa volessero Bill e Tom. Aveva provato a farsi qualche ipotesi, tra
cui quella che avesse litigato con i gemelli, ma le aveva scartate
tutte, trovandosi di nuovo punto e a capo.
Zoe, immersa nei suoi pensieri,
perse il filo di ciò che stava raccontando alla classe. Si
portò una mano sulla fronte, scusandosi, e guardò
Franky voltando il capo verso di lui.
“Non ce la faccio più così”,
gli disse col pensiero. “Mi dici che cosa ti
prende?”.
L’angelo la
sentì, la guardò con la coda
dell’occhio ma non disse niente, la ignorò, come
aveva fatto nei giorni precedenti. Non voleva e non poteva parlarne con
lei. Il peso di quello che era successo doveva tenerlo tutto sulle sue
spalle e rischiare anche di rimanervi schiacciato sotto.
Evelyn
rientrò in camera e si chiuse velocemente la porta alle
spalle.
«Già
tornata?», chiese Franky, senza smettere di grattare il
piccolo Coco dietro le orecchie. In realtà non era affatto
sorpreso che avesse finito di mangiare così in fretta.
«Sì»,
gli sorrise e lo raggiunse sul letto per rilassarsi ancora un
po’ sul suo petto, come aveva fatto fino a quando suo padre
non l’aveva chiamata per la cena.
Però non fece in tempo a chiudere gli occhi, abbracciata
all’angelo, che il suo cellulare suonò sulla
scrivania, costringendola ad alzarsi di nuovo.
«È Anja, ci metto un attimo», gli disse
e rispose mentre si sedeva sul tavolo, accanto al pc, a qualche libro e
ad una miriade di post-it colorati scarabocchiati.
«Conosciamo
gli “attimi” delle donne»,
sussurrò lui al micio, sorridendo malizioso, gettando
un’occhiata a Evelyn che aveva ricambiato il sorriso.
«Ciao
Anja!», salutò l’amica con entusiasmo.
«Scusa se non mi sono fatta sentire poi, ma per una cosa o
per un’altra… mi sono dimenticata».
«Non
fa niente», ridacchiò la ragazza. «Che
fine hai fatto stamattina?».
«Ero
in ritardo! Ma sono riuscita ad arrivare a scuola in orario,
eh!».
«Davvero?
Come hai fatto?».
«Volando!».
Scoppiò a ridere. «No, seriamente… ho
incontrato un… degli
amici che mi hanno dato uno strappo», si corresse e
guardò di sottecchi Franky, che però fece finta
di nulla e continuò a coccolare il gattino che faceva le
fusa.
«Ah,
ho capito… Com’è andato il primo giorno
di scuola?».
Evelyn
chiuse gli occhi e serrò la mascella, cercando in tutti i
modi di non pensare alla giornata che aveva trascorso a scuola. Non
voleva che Franky vedesse le sue evidenti difficoltà e,
soprattutto, le sue preoccupazioni sul conto di Samuel. Quella volta
doveva cavarsela da sola, voleva farlo anche per dimostrare a suo padre
che poteva benissimo scegliere da sé le persone con cui
interagire e di cui fidarsi. (Ma quei dubbi proprio non volevano
andarsene…).
«Bene,
tutto okay», rispose con tranquillità, come se
mentire fosse il suo mestiere. Sollevò timidamente gli occhi
per verificare se Franky avesse captato qualcosa, ma lo
trovò nella stessa identica posizione e con lo stesso
sorriso sulle labbra. Probabilmente in quel momento non le stava
frugando nella testa. Era solo nel cuore ora, perché
più lo osservava più i suoi pensieri diventavano
aria inconsistente e l’organo che la manteneva in vita
impazziva.
«Evelyn?
Evelyn, mi stai ascoltando?». Anja la riportò alla
realtà e l’angelo quella volta si accorse che
c’era qualcosa che non andava e la guardò con un
enorme punto interrogativo sul viso, ma mai quanto il sorriso che aveva
sulle labbra. Così scosse il capo per riprendersi e si mise
a posto una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, le
guance infiammate.
«Scusami,
mi sono distratta un attimo. Che hai detto?».
«Ti
ho chiesto se avevi bisogno di aiuto in qualche materia. Infondo hai
perso un mese e mezzo di scuola e…».
«Non
ti preoccupare», sorrise, manco potesse vederla.
«Me la caverò».
«Se
hai bisogno di aiuto però dimmelo eh, io sono
disponibile».
«Grazie,
grazie davvero Anja».
«Senti,
Evelyn, io volevo chiederti…», balbettò
incerta e la ragazza capì subito dove volesse andare a
parare, per cui si avvicinò al letto e vi si mise seduta
sopra, accanto al corpo di Franky.
«Si
sa qualcosa di tua madre? Cioè… non è
cambiato nulla?».
«No»,
mormorò con voce flebile.
Franky
si girò, lasciando perdere Coco, si tirò su a
sedere e prese delicatamente la nuca di Evelyn con una mano per farle
appoggiare il viso contro la sua spalla. Chiuse gli occhi e
respirò a pieni polmoni il suo profumo, poi le
sfiorò la tempia in un bacio.
«Mi
dispiace tanto», disse ancora Anja, mortificata.
«Non volevo, io… forse non dovevo
chiedertelo…».
«Non
importa». Avvolse un braccio intorno al collo di Franky e si
strinse un po’ di più a lui, trovando subito
conforto. Stava così bene lì con lui, lo sentiva
così vicino… Ma la tristezza che ricopriva il suo
cuore come uno strato di gelatina non le permetteva di essere
totalmente serena.
Forse era giusto così, perché quella gelatina
– tremolante, incerta – le ricordava che sua madre
stava ancora lottando e così doveva fare anche lei.
Però quant’era difficile… Avrebbe
voluto che qualcosa cambiasse, avrebbe fatto qualsiasi cosa
purché sua madre desse qualche segno di miglioramento, ma
ancora non era successo niente: ogni giorno era sempre uguale, sempre
ferma nel suo letto, attaccata agli stessi macchinari, con la stessa
flebo infilata nel braccio. Le uniche cose che guarivano erano le sue
ustioni, ma che senso aveva che il corpo guarisse in quel modo quando
c’era la possibilità che la sua mamma non
riaprisse più gli occhi?
«Devo
andare adesso», sussurrò ancora.
«Okay.
Ci vediamo domani allora».
«Sì…».
«Buonanotte
Evelyn».
«Anche
a te, ciao».
«Evelyn?».
«Uhm?».
«Ti
voglio bene».
La
bionda accennò un sorriso, mentre una lacrima le filtrava
fra le ciglia e scivolava sulla guancia.
«Anch’io».
Non era certa che Anja avesse sentito, talmente l’aveva detto
piano, ma chiuse la chiamata e abbandonò il cellulare sul
letto. Avvolse anche l’altro braccio intorno al collo
dell’angelo e rimase lì così, ad
ascoltare il silenzio, il nulla, il loro tutto.
«Andiamo
a fare una passeggiata, dai».
Evelyn
annuì e prese per mano Franky, che la portò sulla
terrazza. Si voltò verso di lei all’improvviso e
lei rimase ad osservare il suo viso metà illuminato dalla
luna e metà no senza fiato: era semplicemente perfetto.
L’angelo si chinò su di lei e le posò
un bacio sulla fronte, cingendole il viso con le mani. Poi la prese in
braccio senza alcuna fatica e spiccò il volo.
Atterrarono
non molto lontano dalla villa e proseguirono a piedi, in mezzo ai
campi, per raggiungere il loro campo di girasoli.
Erano ancora mano nella mano e solo quel semplice contatto la faceva
sentire bene, a casa, protetta da tutto e da tutti: con lui accanto non
le sarebbe mai successo niente di male.
Mancava
ormai poco alla loro destinazione e non avevano ancora spiccicato una
parola. Forse Franky non aveva bisogno di parlare, siccome leggeva nel
pensiero, ma Evelyn non ne era in grado e aveva un terribile bisogno di
sentire la sua voce. Non sapeva però che cosa dirgli. E poi
sembrava così immerso nei propri pensieri… o nei
suoi, non poteva saperlo. Ma se stava pensando ai fatti suoi, avrebbe
davvero voluto sapere tutto. Ora
che ci pensava non sapeva nulla della sua vita, di quella che conduceva
da angelo: gli aveva sempre chiesto cose che appartenevano alla sua
vita precedente, quella di quando era ancora in vita, e non si era mai
preoccupata della sua vita presente. Non conosceva nulla di lui, in
questo senso: non sapeva nulla dei suoi problemi, non sapeva che cosa
facesse di preciso, non sapeva se…
«Franky,
posso chiederti una cosa?».
L’angelo,
davvero immerso nei propri pensieri, ne venne quasi sbalzato fuori
quando sentì la voce di Evelyn. E si sentì
spiazzato, quando lesse nella sua mente uno squarcio di discorso che
lì per lì non capì, visto che non
aveva seguito tutto sin dal principio. I pensieri…
così complicati da comprendere per una mente che non li ha
concepiti direttamente.
«Sì,
dimmi».
«Tu
sei felice?».
Franky
si voltò all’improvviso e la guardò
negli occhi, tanto in profondità da capire ogni suo pensiero
al volo. Il suo cuore, però, tremò quando
incontrò quegli spicchi di cielo. Ecco, quella era la
differenza fra i suoi occhi e quelli di sua madre: il suo azzurro era
il cielo, quello di Zoe il mare. Due colori tanto simili, ma
profondamente diversi.
L’angelo
rispose con una risata amara fra i denti: «Ti sembrano
domande da fare?».
«Perché?
È una domanda come un’altra», fece
notare, alzando di un poco le spalle.
«Sì,
forse per una persona viva. Ricordi, io non lo sono
più».
Quelle
parole la colpirono profondamente, perché…
perché sì, se n’era dimenticata. Era
così naturale stare con lui, così semplice e
normale, che si era scordata che fosse morto.
«Però
non sembri infelice. Io… io ti vedo sempre
sorridente», gli rispose, confusa più che mai.
«Certo, questo non conta molto,
però…».
«Infatti
non sono infelice», le disse e aumentò il passo,
quasi iniziò a correre per i campi, trascinandola dietro di
sé. «Ma non sono nemmeno felice…
cioè, è difficile da spiegare, ma sicuramente non
avrei voluto andarmene così presto».
«Riesci
ad immaginare la tua vita se tu non fossi…».
«Morto?»,
ridacchiò e si voltò verso di lei con un
luccichio negli occhi.
I
loro visi erano talmente vicini che Evelyn riusciva a distinguere tutte
le sfumature di verde nei suoi occhi e a sentire il suo fiato
mescolarsi al proprio.
Erano
arrivati al loro campo di girasoli e si erano fermati nel solito
corridoio, dove si erano sdraiati la prima volta per parlare e guardare
le stelle; oppure solo per stare in silenzio. Era così bello
il silenzio, insieme a lui.
«Sì,
riesco ad immaginarmela», le rispose e si lasciò
cadere seduto sull’erba, le gambe incrociate e gli occhi
chiusi rivolti verso la luna che gli illuminava il volto.
Evelyn
si mise seduta al suo fianco timidamente e con la massima cautela,
quasi con la paura che un movimento brusco lo interrompesse. Si strinse
le gambe al petto, il mento fra le ginocchia, e rimase in silenzio ad
osservarlo e ad ascoltarlo.
«Avrei
finito la scuola, mi sarei diplomato con il minimo dei voti, avrei
continuato a fare skate, magari in modo professionistico… e
da grande avrei fatto il poliziotto». Sorrise alla luna ed
aprì gli occhi per incrociare quelli incuriositi della
ragazza. «Alla fine sempre di proteggere le persone si
tratta… Anche se mia madre avrebbe voluto che io diventassi
avvocato, o medico».
«Ti
vedrei bene con il camice bianco», gli disse, arrossendo
appena sulle guance.
«Dici?
Peccato ci vogliano anni e anni di studi e io non sono proprio
portato… Mi sarebbe piaciuto, anche questo è
salvare vite».
«E
poi?», chiese ancora.
Franky,
conscio di ciò che avrebbe dovuto dire, accennò
una risata ed abbassò il capo. Parlò piano,
perché quella era la parte della sua non-vita che faceva
più male. «Sarei rimasto con tua madre e
l’avrei sposata. Forse Bill non si sarebbe mai accorto
veramente che era innamorato di lei e se l’avesse capito non
gli avrei mai permesso di portarmela via. Probabilmente… non
so, forse sarei diventato pure padre, prima o poi,
ma…». Alzò il capo e la
guardò negli occhi. Evelyn inclinò il capo, senza
capire, e avrebbe tanto voluto leggergli nel pensiero.
«Insomma», riprese l’angelo, riabbassando
la testa. «Sarebbe stato tutto diverso e… se io
fossi stato vivo non saresti nata tu, Evelyn Kaulitz. Per…
per questo un po’ sono felice, perché…
perché ci sei tu».
La
ragazza non chiese delucidazioni, preferì la beata ignoranza
che le stava riempiendo il cuore d’amore, facendole credere
davvero che Franky provasse qualcosa di più del semplice
affetto per lei. Un piccolo sorriso, ma infinitamente carico di
sentimento, le si dipinse sulle labbra e si fece più vicina
a Franky per abbracciarlo. Gli allacciò le braccia intorno
al collo e rimasero così, stretti nel freddo della sera,
illuminati solo dalla luce lunare, per diversi istanti, in una bolla
spazio-temporale.
Quando
però Evelyn si scostò, incrociò il suo
sguardo liquido e lì per lì il suo cervello si
fuse e il suo cuore pompò ancora più velocemente
il sangue nelle vene. Le punte dei loro nasi si sfioravano ed erano
troppo vicini, troppo, tanto che i suoi occhi si posarono lentamente
sulle labbra di un Franky immobile, che la osservava senza battere
ciglio, e poco dopo le labbra della ragazza ci si adagiarono sopra,
delicate come il battito d’ali di una farfalla.
Franky chiuse gli occhi al contatto con le labbra di Evelyn, ma
assaporò solo in minima parte la bellezza di quel bacio che
era semplicemente un contatto di labbra, nulla di più e
nulla di meno. Durò poco più di due secondi, ma
fu e sarebbe stato sconvolgente per entrambi.
Fu
l’angelo a scostarsi e a sospirare pesantemente, sempre ad
occhi chiusi. Si alzò in piedi e si allontanò di
qualche passo da Evelyn, che non aveva osato più guardare.
«Franky»,
mormorò questa, alzandosi a sua volta e avanzando di un
passo nella sua direzione. Ma si bloccò su
quell’unico passo, mentre il suo cuore si arrestava per farle
capire quanto fosse intenso quel dolore.
«Ti
riporto a casa», le disse atono e si voltò, la
prese fra le braccia senza farsi troppi problemi e spiccò il
volo.
Ci
misero pochissimo ad arrivare e probabilmente fu perché
Franky non aveva dosato bene la propria velocità: non a caso
Evelyn aveva la nausea, come se avesse girato su una giostra che andava
troppo veloce.
Le lasciò toccare le travi di legno della terrazza con la
punta dei piedi e sciolse l’abbraccio, ma la ragazza
barcollò comunque e si dovette aggrappare alle braccia salde
dell’angelo per non cadere.
«Scusa,
mi dispiace», mormorò Franky e le passò
una mano di fronte al viso per farle passare la nausea. E in effetti il
fastidio si alleviò notevolmente. «Ora devo
andare».
Fece due passi indietro, con gli occhi puntati sul pavimento, poi si
voltò e portò un piede sul parapetto per spiccare
di nuovo il volo, ma la mano di Evelyn si artigliò alla sua.
«No,
Franky, aspetta, io…», gli disse con voce flebile
e le lacrime agli occhi. Però la tristezza e la smorfia di
puro dolore che l’angelo aveva sul viso le spezzò
il cuore e le bloccò le parole in gola, insieme al magone.
Franky
si liberò dalla stretta della sua mano, con una lentezza
esasperante, e con un solo battito d’ali si
ritrovò nel blu più blu del cielo.
Evelyn lo guardò sparire alla sua vista e il dolore in mezzo
al petto aumentò, mentre calde lacrime le scivolavano sul
viso e la nausea tornava.
Zoe, spazientita, fece cadere
bruscamente il pendolo di Newton sulla superficie lucida della cattedra
e Franky ritornò alla realtà, senza
però dare a vedere nessuno dei sentimenti contrastanti che
si stavano facendo la guerra dentro di lui: la sua espressione era
ancora la stessa, apatica e seriosa.
La guardò negli occhi
impassibile e si alzò in piedi facendo strisciare
rumorosamente la sedia sul pavimento.
«La lezione è finita»,
annunciò ed abbandonò l’aula lasciando
dietro di sé il silenzio più assoluto.
***
Evelyn scese al piano inferiore e
si passò un’ultima volta le mani sul viso,
sperando che non si notasse che aveva pianto, prima di sporgersi in
salotto e farsi vedere da suo padre.
Lo vide seduto sul tappeto, con le
spalle al divano e la testa abbandonata nell’angolo creato
dalla forma ad L di esso. Aveva un paio di grandi cuffie sulle
orecchie, gli occhi chiusi e sulle gambe teneva l’agenda nera
su cui scriveva tutti gli abbozzi per le sue canzoni. Lei sapeva che in
quel periodo di sofferenza ne aveva scritte un bel po’, ma
che non aveva mai avuto la forza di cantarle.
Lo raggiunse e si mise seduta al
suo fianco. Nascose ancora di più le mani nelle maniche
della felpa e strinse le gambe al petto, come se volesse riscaldarsi e
proteggersi, nonostante non facesse freddo né ci fossero
pericoli. Senza Franky accanto e sapendolo arrabbiato, forse ferito per
quello che aveva fatto, il freddo lo sentiva eccome, dentro; per non
parlare del senso di nudità che si sentiva addosso: lui,
andandosene, si era portato via un pezzo di lei e ora era senza difese,
completamente scoperta agli attacchi del mondo.
Appoggiò inconsciamente
la testa nell’incavo della spalla di suo padre e lui
sussultò, colto di sorpresa.
«Tesoro»,
sfiatò Bill, togliendosi le cuffie e lasciandole sul
pavimento. «Scusa, non ti ho sentita arrivare».
«Non fa
niente», sussurrò, sfregando il viso contro il suo
collo. Tirò su col naso, colta da nuove lacrime, e suo padre
sospirò, abbracciandola e tenendola stretta a sé.
«Va tutto bene amore, va
tutto bene».
Lo sapevano entrambi che non era
affatto così, per un motivo o per un altro, ma continuavano
a mentirsi, pensando che convincersi di questo fosse la soluzione
migliore per soffrire un po’ di meno. Era così, in
effetti, ma era solo un’apparenza.
«Voglio andare da
mamma», biascicò la ragazza.
Le accarezzò i capelli
per tutta la loro lunghezza, teneramente. «Non è
un po’ tardi? Sono quasi le undici… Non
è orario di visita».
«Non mi importa,
papà. Ho bisogno di lei».
Bill sospirò,
socchiudendo gli occhi. «Va bene, andiamo».
***
«Okay, basta
Franky», esordì subito Zoe, appena fu di fronte
all’angelo, che sollevò il capo e la
guardò: aveva le mani sui fianchi, come faceva spesso sua
madre quando si arrabbiava con lui, e la sua espressione infuriata non
prometteva nulla di buono. Ma Franky sapeva – telepatia o
meno – che era solo preoccupata per lui. «O mi dici
che cos’hai, o me lo dici: scegli».
«Non ne voglio
parlare», sospirò alzandosi in piedi dalla
panchina del parco della scuola su cui si era seduto nel frattempo che
aspettava la sua protetta.
«Non me ne frega niente!
Tu ne devi
parlare!», urlò. Lo prese per il braccio e lo fece
voltare verso di lei: lo guardò negli occhi severa, ma allo
stesso tempo con la comprensione di una mamma.
«Sono la tua migliore amica, perché non vuoi
parlarne con me?», continuò, ammorbidendosi.
Perché
non posso, non posso Zoe!
Non poteva dirglielo, non poteva
confessarle che le aveva mentito per tutto quel tempo dicendole che si
era innamorato di un angelo, quando in realtà si era
innamorato di sua figlia, che aveva persino baciato. Cioè,
lei aveva baciato lui, ma era come se fosse colpa sua: lui era quello
che avrebbe dovuto avere quarant’anni nella testa, lui
avrebbe dovuto dimostrare un po’ di intelligenza e di
responsabilità, lui avrebbe dovuto fermarla appena aveva
letto nei suoi fugaci pensieri che aveva l’intenzione di
baciarlo. Ma non l’aveva fatto. E inoltre, come se tutto
questo non bastasse, aveva preferito scappare di fronte al problema:
dopo quella sera non si era più fatto vedere da Evelyn
né da nessun altro, non era più sceso di sotto,
il tutto per paura.
Lui, il fantastico angelo custode e professore Franky aveva paura,
nemmeno come un ragazzino, proprio come un bambino.
Abbassò lo sguardo per
l’ennesima volta. «Mi dispiace», scosse
il capo.
Zoe non si sarebbe mai aspettata
una reazione del genere e scioccata gli lasciò di colpo il
braccio. «Allora è così che stanno le
cose», mormorò.
Sentì una forte fitta alla testa e strinse gli occhi,
credendo che fosse per il nervosismo, nulla di preoccupante.
Però la fitta non passò dopo qualche secondo,
continuò ad aumentare d’intensità, ma
non ci badò: sarebbe passata, prima o poi.
«Così come,
Zoe?!», le gridò, fuori di sé. Aveva i
nervi a fior di pelle e lei li stava solo punzecchiando, continuando ad
insistere. Perché non riusciva a capirlo come quando erano
piccoli, perché fra loro non c’era più
tutta quella magia?
Perché Zoe
è cresciuta, io sono sempre il solito sedicenne…
«Non capisco
perché tu non ti voglia confidare con me! Che cosa mi
nascondi?! Io sto diventando pazza! Conosci meglio di me tutti i miei
pensieri in proposito e mi sto preoccupando da morire!».
Il dolore alla testa continuava a crescere e si portò con
nonchalance una mano sulla tempia, la massaggiò per
alleviare quella sofferenza, ma nulla.
«Non hai nulla di cui
preoccuparti! Sono problemi miei, che non ti riguardano!», le
rispose, alzando ancora di più la voce.
«E da quando i tuoi
problemi non mi riguardano più, eh?!»,
provò ancora a ribattere, ma oltre al dolore insopportabile
ora vedeva anche annebbiato e tutto intorno a lei girava, mentre
avvertiva uno stranissimo senso di vuoto sotto i piedi. Capì
che le stava accadendo esattamente quello che le era successo qualche
giorno prima troppo tardi per chiedere aiuto a Franky.
«Da quando
–!», l’angelo si interruppe bruscamente e
fece uno scatto in avanti per prendere al volo Zoe, alla quale avevano
ceduto le gambe: stava precipitando nel vuoto.
La sdraiò sulla
panchina, tenendole il capo con una mano, e la osservò in
lungo e in largo per capire d’istinto che cosa avesse. In un
attimo tutta la rabbia che gli era scoppiata dentro durante quel
litigio svanì, sostituita dalla preoccupazione e dal panico.
«Zoe! Zoe, che ti
prende?», le domandò, ma lei non rispose, anzi
iniziò a tremare, talmente forte da sembrare che avesse le
convulsioni, e a stringere un lembo della giacca di Franky fra le dita.
«Franky sto male, sto
male, aiuto!», gridò ma lui parve non sentirla.
Proprio come era successo qualche giorno prima in ospedale, tutto
ciò che sentiva e che faceva rimaneva dentro di
sé, le era impossibile comunicare e dimostrare in modo
evidente la propria sofferenza. Ma riusciva a sentire quello che diceva
lui e anche quello che dicevano Bill ed Evelyn, urlando spaventati.
Bill
ed Evelyn? pensò in
un attimo di lucidità. Quindi
sta accadendo qualcosa al mio corpo… L’altro
giorno non mi sono lasciata andare, non volevo precipitare, ma se il
mio corpo mi stesse chiedendo di entrare dentro di lui? Devo provare a
lasciarmi andare, a precipitare? Possibile che faccia così
male?
Franky, con il battito cardiaco a
tremila, non sapeva minimamente che cosa fare. Non era mai successa una
cosa del genere, né ricordava di averne mai sentito parlare
da qualcuno: un altro imprevisto del mestiere da raccontare ai propri
alunni.
«Aiuto! Che qualcuno mi
aiuti!», gridò con tutto il fiato che aveva in
gola, guardandosi intorno. Erano anni che non chiedeva aiuto a
qualcuno, di solito erano gli altri che chiedevano aiuto a
lui…
«Stai tranquilla
Zoe», disse alla propria protetta, cercando di essere il
più convincente possibile, nonostante non sembrasse capirlo
molto in quel momento. «Andrà tutto bene,
resisti».
«Franky, che
succede?».
Si voltò di scatto
all’udire quella voce familiare e la speranza lo
rianimò. «Kim! Ti prego Kim, aiutami! Non so che
cosa le sia preso!».
L’angelo speciale
controllò subito Zoe e scosse il capo, mordendosi il labbro.
«Non ho idea di cos’abbia!».
«Merda!»,
gridò Franky. «Devo… devo andare di
sotto, devo vedere se il suo corpo sta bene. È
l’unica cosa che posso fare».
«E io… io che
devo fare?», gli domandò Kim, mentre il panico
assaliva pure lei.
«Tu stai con lei, chiama
qualcuno e portala in ospedale!», le gridò, mentre
già correva per raggiungere l’Ufficio di
Collegamento.
***
«Non sarebbe possibile
andare a far visita adesso alla paziente, non è
l’orario adatto», disse l’infermiera.
«Ma…?»,
la incalzò Bill, con un mezzo e fintissimo sorriso.
«Ma per questa
volta…», gli fece l’occhiolino e gli
fece segno di seguirla.
Evelyn, che era rimasta seduta in
disparte mentre suo padre e l’infermiera si mettevano
d’accordo, li raggiunse appena vide che si stavano avviando
verso la stanza di sua madre.
«Però quando
vi verrò a chiamare dovrete uscire»,
dettò quella condizione all’ultimo momento, di
fronte alla stanza di Zoe. Bill acconsentì per levarsela
dalle scatole ed osservò la figlia, timidamente nascosta
dietro di lui.
«Ehi…»,
l’abbracciò, tenendo una mano sulla sua nuca, e le
sfregò la schiena per infonderle quel briciolo di coraggio
che a stento sopravviveva dentro di lui. «Vuoi andare da
sola?».
«Sì,
grazie», biascicò e provò a
sorridergli, con scarsi risultati.
Entrò nella stanza e si
chiuse delicatamente la porta alle spalle, poi si avvicinò
al letto dove riposava immobile la sua mamma e guardò con
passiva curiosità i macchinari a cui era collegata: era
tutto come sempre, non era cambiato nulla.
Si mise seduta sulla sedia affianco al letto e posò il capo
sul materasso, prese la mano di sua madre e la mise sopra la propria
testa, per avere almeno l’illusione che le stesse
accarezzando i capelli.
«Sono una
stupida», le confidò, a mezza voce. «Ho
fatto la stupidata più grande della mia vita e rischio che
una delle persone a cui tengo di più non voglia
più vedermi. Non riesco a vedere questa persona,
né a parlarci. Vorrei chiederle scusa, ma a che serve? Il
danno è fatto ormai…
«Mamma… al cuore non si comanda, ma
perché ci si innamora sempre delle persone sbagliate? Tu sei
stata così fortunata… Hai papà e hai
avuto Franky, che… che ti ha amata con tutto se stesso fino
alla fine dei suoi –». Si interruppe a causa degli
acuti e frequenti “bip” provenienti dalla macchina
che monitorava la pressione e i battiti cardiaci.
Si alzò in piedi di
scatto, nel panico più assoluto. «Mamma!
Mamma!», gridò ed iniziò a piangere, in
una reazione totalmente spontanea.
Suo padre entrò subito
nella stanza, allarmato, e poco dopo di lui una squadra di infermiere e
un medico fecero capolino nella camera. Iniziarono a parlare fra loro
in toni concitati, in termini che né Bill né
Evelyn riuscivano a capire: sapevano solo che non stava succedendo
nulla di bello.
Evelyn avrebbe voluto che qualcosa
cambiasse, ma non intendeva in peggio.
«Mamma ti prego non mi abbandonare»,
piagnucolò ancora la bionda, aggrappandosi con tutte le sue
forze al petto del padre, terrorizzato quanto lei se non di
più.
«Che cosa sta
succedendo?», ebbe la forza di chiedere lui ad un certo
punto, mentre le infermiere si davano da fare per intubarla.
«Li porti fuori da
qui», disse il dottore in camice bianco ad
un’infermiera, la stessa che gli aveva concesso di far visita
a Zoe.
«Forza,
venite», disse in tono pacato, invitandoli ad uscire fuori
dalla camera, ma Bill oppose resistenza.
«Io voglio sapere che
cosa sta succedendo, è mia moglie!»,
gridò, sull’orlo della disperazione.
Fu allora che vide Franky entrare
trafelato dalla finestra, con il petto che si alzava e si abbassava in
modo irregolare e fin troppo frequente. L’angelo si
precipitò subito dal corpo di Zoe e Bill non vide altro che
le lacrime che gli rigavano il viso, perché
l’infermiera aveva approfittato del suo momento di
distrazione per spingerlo fuori dalla stanza con la forza.
Il cantante abbassò lo
sguardo su Evelyn, seduta per terra, con le spalle alla parete e le
gambe strette al petto, rigida come un pezzo di legno. Si
inginocchiò di fronte a lei e
l’abbracciò: tremava.
«C’è
Franky con lei, andrà tutto bene», le
sussurrò.
Il cuore di Evelyn cedette: due
persone che amava erano ad un passo da lei, rischiava di perderle e non
poteva fare assolutamente niente.
Il dottore che si era occupato di
Zoe raggiunse la sala d’aspetto ed individuò
subito i familiari della paziente. Si avvicinò a loro per
informarli sull’attuale situazione e contemporaneamente Bill
lo notò e gli andò incontro, preoccupato fino
alla punta dei capelli.
«Mi dica che non
è nulla di grave», disse subito, mentre gli si
inumidivano gli occhi. Evelyn e Tom, che era subito corso
all’ospedale dopo aver ricevuto una telefonata del gemello,
li affiancarono.
Il medico gli fece segno di
seguirlo nel corridoio, dove avrebbero potuto parlare lontano da
orecchie indiscrete, e sospirò stancamente.
«La prego»,
continuò ancora Bill e strinse inconsciamente il braccio del
fratello.
Tutti e tre sobbalzarono alla
visione di un Franky stravolto e privo di forze che trapassava la porta
della camera e barcollava fino al muro di fronte, per poi scivolare su
di esso e sedersi sul pavimento. Gli mancava il fiato, faceva persino
fatica a respirare, e aveva la nausea, talmente grande era stato il suo
sforzo.
«Mi dispiace davvero
molto», parlò finalmente il dottore e tutti e tre
puntarono gli occhi su di lui, anche se continuavano a lanciare
occhiatine ansiose verso l’angelo. «Purtroppo le
condizioni della signora Kaulitz si sono aggravate: abbiamo dovuto
intubarla e…».
«Che cosa?
Parli!», berciò Tom, spazientito.
Il dottore scosse il capo,
sconsolato. «Quello che voglio dire è che iniziano
ad “incepparsi” alcune delle più
importanti funzioni vitali, come in questo caso la respirazione, per
questo abbiamo dovuto intubarla. Il mio collega ha fissato per domani
mattina una visita neurologica per verificare che non stia lentamente
avvenendo una necrosi del sistema nervoso centrale».
«Ma si
riprenderà, vero?», balbettò Evelyn.
Il medico la guardò
apprensivo. «Non posso assicurare nulla, dobbiamo almeno
avere i risultati della visita neurologica».
No, non poteva succedere
davvero… sua madre non si sarebbe più svegliata?
Cercò subito lo sguardo di Franky e lo vide portarsi le mani
sul viso e scoppiare a piangere.
«Mi dispiace».
Detto questo, il dottore si
allontanò lungo il corridoio, lasciandoli soli e nel
silenzio più assoluto, spezzato solo dai singhiozzi di
Franky. Era disperato, nessuno l’aveva mai visto
così: sembrava proprio un bambino, piccolo ed indifeso.
Tom andò da Franky e lo
prese per le spalle. «Dimmi che sta scherzando. Dimmi che sta
scherzando!», urlò, mandando giù il
nodo che gli si era formato in gola, fra le corde vocali, e
scuotendolo.
«Io-io non lo
so!», gridò, straziato dal dolore, e
abbandonò il capo sulla spalla di Tom, che gli
accarezzò la nuca.
Evelyn si appoggiò al
muro e si lasciò scivolare su di esso, si mise seduta per
terra, accanto all’angelo ma nemmeno troppo, e
guardò suo zio Tom accudirlo come se fosse suo figlio.
Avrebbe voluto esserci lei al suo posto, ma non poteva mandare tutto
all’aria proprio in quel momento, in cui già
rischiava di perderlo per quel bacio. Stava soffrendo vedendolo
così e stava soffrendo per la notizia che il medico le aveva
appena dato.
Franky, dal canto suo, voleva che
non fosse Tom ad abbracciarlo. Avrebbe voluto appoggiarsi alla spalla
di Evelyn, avrebbe voluto essere rassicurato da lei e infondere
coraggio a lei; lui soffriva per quel muro di parole non dette che li
divideva e soffriva il doppio, perché le donne che gli
avevano rubato il cuore stavano male e lui non sapeva minimamente che
cosa fare.
Il suono di due cellulari
echeggiò nel corridoio e sia Franky che Evelyn si portarono
le mani sulle tasche dei pantaloni.
«Che succede?»,
chiese Tom, guardandoli entrambi.
«È
Kim», sussurrò Franky con voce rauca, asciugandosi
il viso. Evelyn invece non rispose, il messaggio che aveva ricevuto lei
non era importante come poteva essere quello ricevuto da Franky.
«E chi sarebbe
Kim?», domandò ancora il chitarrista, che ci stava
capendo poco o niente. «Franky, chi cavolo
è…?».
«Devo andare»,
lo interruppe e si alzò.
Tom lo prese per il polso e lo
guardò negli occhi. «No, tu non te ne vai proprio
da nessuna parte!».
«Invece
sì», berciò. «Si tratta di
Zoe, devo andare».
«E non puoi nemmeno
spiegarci quello che sta succedendo?».
Lo guardò truce e con
gli occhi arrossati di pianto sembrava ancora più arrabbiato
di quanto non lo fosse. «Non lo so quello che sta succedendo,
Tom!».
«Che cosa c’era
scritto in quel messaggio?», continuò lui,
imperterrito.
«Che…
che… hanno capito che cosa le è successo e ne
vogliono parlare con me, faccia a faccia». Si
passò le mani fra i capelli, facendo un mezzo giro su se
stesso, e sospirò sonoramente, afflitto. «Non so
niente, proprio come voi».
«Promettimi che quando
saprai qualcosa tornerai e ce lo verrai a dire». Lo
guardò quasi supplichevole e Franky non poté dire
di no, anche se questo voleva dire vedere ancora Evelyn e soffrire.
«Certo»,
promise.
«Franky!», il
chitarrista lo chiamò un’ultima volta e
l’angelo si girò, spazientito. «Buon
compleanno…».
Franky boccheggiò,
sorpreso. Si era completamente dimenticato di che giorno fosse e
nemmeno Zoe glielo aveva ricordato, del tutto priva della concezione
del tempo che passava. Accennò un sorriso e
sventolò una mano in aria, come a voler scacciare una mosca
– non era proprio il momento adatto per gli auguri,
– poi sparì di fronte ai loro occhi.
Tom sospirò,
socchiudendo le palpebre, e si voltò verso Bill. Non era
più accanto ad Evelyn, ma di fronte alla stanza di Zoe, che
sbirciava all’interno grazie alla finestrella incastonata nel
legno della porta.
«Bill?», lo
chiamò preoccupato. Il gemello si irrigidì e
strinse le mani in pugni, tanto forte da far diventare le nocche
bianche. Si passò le mani sul viso, con rabbia, per spazzare
via le lacrime che gli ardevano sulle guance.
«Non è giusto», sibilò,
tirando un pugno sul muro. E poi un altro. E un altro ancora.
«Non è giusto!».
***
«Eccomi, di che si
tratta?», chiese col fiatone, ancora a metà
corridoio.
San Pietro, Kim e la sua infermiera
preferita aspettarono che Franky li raggiungesse prima di spiegargli
tutto quanto. Lui aveva capito subito che si trattava di qualcosa di
serio, visto che era presente anche il santo.
«Vi prego, non fatemi
stare sulle spine», disse ancora, mentre con la coda
dell’occhio sbirciava all’interno della camera di
Zoe: dormiva tranquillamente, proprio come se non fosse successo niente.
«Il corpo della tua amica
ha cercato di ricongiungersi al suo spirito», gli
spiegò l’infermiera. «Nonostante non
fosse pronto».
«Cosa
significa?», chiese confuso. Cercò di intercettare
lo sguardo di San Pietro, per avere maggiori informazioni al riguardo,
ma il santo non lo calcolò nemmeno, anzi voltò il
viso, duro come la pietra, verso la porta della camera di Zoe.
«Significa che il corpo
si sente pronto, ma in realtà non lo è. Prova e
riprova ad attirare lo spirito dentro di sé, ma non ci
riesce e provoca solo dolore ad entrambi, li danneggia, si fa male da
solo».
Franky era senza fiato e gli occhi
gli pizzicavano terribilmente. Non stavano dicendo davvero, era
impossibile che andasse a finire così.
«Quando succedono questi
episodi vuol dire che ci sono scarsissime possibilità che il
corpo e lo spirito si riprendano», continuò
l’infermiera, amareggiata. «Mi dispiace,
tesoro».
«Ma… ma non
è detto, cioè… qualche
probabilità c’è…»,
balbettò l’angelo custode, col cuore infranto.
«Sono rarissimi
casi».
«Zoe… Zoe
sarà uno di quelli», disse, tentando di
convincersi. Sarebbe andata sicuramente così, Zoe non poteva
non salvarsi.
L’infermiera
accennò un sorriso carico di dispiacere e lo
attirò in un abbraccio, poi si avviò lungo il
corridoio, facendo echeggiare i propri zoccoli sul pavimento lucido.
Kim fece un passo verso di lui e gli avvolse le braccia intorno alla
schiena rigida. Franky non ricambiò l’abbraccio,
ma rimasero così per qualche secondo, poi lei gli
sussurrò all’orecchio: «Ce la
farà, vedrai». Gli diede una pacca sul braccio e
gli rivolse un breve sorriso prima di allontanarsi a sua volta,
lasciandolo solo con San Pietro.
Franky posò lo sguardo
sul santo: era freddo, distaccato… sembrava arrabbiato con
lui per qualche motivo a lui sconosciuto. Si morse la lingua
perché non poteva leggergli nella mente come avrebbe potuto
fare con tutti gli altri: lui, essendo un’autorità
più che importante e dagli enormi poteri, aveva una barriera
a proteggergli i pensieri.
Finalmente il santo diede qualche
segno di vita, tossicchiando. «Salutamela e falle gli auguri
da parte mia, appena si riprende», si raccomandò e
senza nemmeno sfiorarlo lo aggirò, per andarsene.
L’angelo si
voltò di scatto, ma non troppo sicuro di voler sapere che
cosa avesse fatto di sbagliato, tanto da provocare
quell’allontanamento da quel pezzo di pane che era San
Pietro. «C’è qualcosa che non va?
Qualcosa che deve dirmi?», gli domandò, titubante.
Il santo si fermò, lo
guardò e scosse il capo, quasi sconsolato, poi
girò l’angolo. Franky, ancora con un mucchio di
pensieri per la testa, guardò all’interno della
camera attraverso la finestrella sulla porta e notò che le
palpebre di Zoe stavano per sollevarsi, così
entrò.
Si chiuse dolcemente la porta alle spalle e si mise seduto sul letto,
accanto alla sua protetta, mentre lei ancora faticava per tenere gli
occhi aperti.
«Che
cos’è successo?», gli domandò
con voce rauca e lamentosa: si sentiva a pezzi.
Franky intrecciò una
mano con la sua e sospirò. Tanto, prima o poi avrebbe dovuto
dirle tutto: meglio togliersi subito il pensiero.
***
«Piccola».
«Ehi, è tutto
a posto?».
Tom lasciò che la tenda
tornasse a ricoprire la porta finestra della cucina e si mise seduto al
tavolo da pranzo, sospirando.
«No, affatto».
«È…
è grave?», gli domandò Linda,
preoccupata.
«Da quello che ha detto
il dottore, sì: Zoe sta peggiorando, domani le faranno una
visita neurologica».
«Oddio,
Tomi…», sussurrò mortificata e Tom
poteva immaginarsela mentre le si velavano gli occhi di lacrime e si
portava una mano di fronte alla bocca. «Bill e Evelyn come
stanno?».
«Stanno…»,
si sporse in salotto e li vide abbracciati sul divano, che cercavano di
darsi forza l’un l’altro. «Sono
distrutti, come lo siamo tutti. Mi dispiace di avertelo detto per
telefono…».
«No… non
importa», ma non riuscì a trattenere un
singhiozzo. Lei e Zoe, infondo, erano amiche da anni e sapere che
quest’ultima stava lottando ora più di prima fra
la vita e la morte le aveva infranto il cuore.
«Quando torni?», gli chiese allora, tirando su col
naso.
«Tra un po’.
Bill…».
«Okay, ho
capito», sussurrò, interrompendolo. «Ti
amo».
«Ti amo anche
io», sospirò in risposta e qualche secondo dopo
Linda chiuse la chiamata, lasciandolo con una tonnellata in
più ad appesantire il suo cuore.
Tom tornò a guardare
fuori dalla porta finestra e, grazie ai piccoli faretti piantati in
giardino, notò la figura di Franky venir trapassata dalla
luce, dandogli un aspetto un po’ spettrale. Lo
osservò andare verso le porte scorrevoli del salotto, poi
cambiare idea e tornare indietro, riprovarci e perdere nuovamente il
coraggio, fino a quando non si mise seduto sull’altalena che
fino a qualche anno prima era il passatempo preferito della sua
nipotina.
Gettò un’ultima occhiata verso il salotto:
né Bill né Evelyn si erano accorti
dell’angelo, quindi decise di raggiungerlo da solo, per
capire di cosa avesse paura, tanto da…
Quello
che è successo a Zoe. Ha paura di dircelo,
dedusse e lo raggiunse più velocemente, accentuando una
corsetta.
Appena Franky avvertì la
sua presenza chiuse gli occhi e aspettò che Tom gli posasse
le mani sulle spalle per scuoterlo per fargli vedere tutto quanto: lui
era abbastanza forte da reggere quel colpo e lo avrebbe aiutato con
Bill e Evelyn.
Zoe
provò a tirarsi sui gomiti con immensa fatica, ma dovette
rinunciare ed abbandonò il capo al cuscino. «Ti
prego Franky, dimmi che cosa mi è successo»,
tossì.
«Non
ti ricordi nulla?», le domandò con poca voce.
«Ricordo
solo che è tre giorni che non abbiamo un dialogo decente
perché hai sempre per la testa i fatti tuoi».
«Ti
ricordi dell’ultima lezione a cui hai partecipato,
stasera?».
«Sì…»,
balbettò. «Ricordo che è stato come se
tu non ci fossi e che poi, quando la lezione è finita, sono
uscita fuori, ti ho trovato nel parco e abbiamo litigato,
poi…».
«Poi?».
«Poi
sono precipitata».
Corrugò
la fronte: non era quello che si era immaginato di sentire.
«In che senso sei precipitata?».
«È
la sensazione che ho provato… Ma non è stata la
prima volta».
«Che
cosa?! Questa non è stata la prima volta che ti è
successa una cosa del genere?». Questa poi, era una vera
sorpresa. Zoe chiuse gli occhi e deglutì, annuendo.
«E
perché non me l’hai mai detto?», le
gridò contro, seppur mantenendo un tono di voce moderato.
«Avrei potuto prevenire tutto questo, a
quest’ora…».
«L’avrei
fatto, ma tu non me l’hai permesso!», gli
urlò in tutta risposta, spalancando gli occhi col fiato
grosso. «Da quando ho capito che ti era successo qualcosa ho
provato in tutti i modi a farti aprire, ma non ne hai voluto sapere e
così mi sono detta che ti dovevo lasciar stare, che saresti
venuto tu a confidarti con me di tua spontanea
volontà… E poi non credevo che fosse
così importante!».
«Beh,
si da il caso che lo sia! Hai avuto quella specie di crisi
perché il tuo corpo cercava di riportarti dentro di
sé, ma non ne è stato in grado perché
non è ancora pronto. E nonostante non sia pronto, ci
proverà e riproverà, fino a quando non vi
autodistruggerete entrambi!».
Zoe
lo guardò intensamente negli occhi e Franky resse lo
sguardo. Avevano entrambi il fiato corto, tanto era stato il loro
gridarsi contro. Agli occhi di chiunque potevano sembrare arrabbiati,
ma erano solo frustrati, distrutti, pieni di dolore.
La
solita infermiera entrò nella stanza e li guardò
severamente, come una madre guarda i propri bimbi ancora svegli dopo
avergli detto di andare a dormire.
«Scusate se questo è un ospedale e non siete gli
unici. Devo buttarla fuori a calci, professore?».
«No»,
mormorò lui. «Ci scusi, abbasseremo i
toni».
L’infermiera
annuì, soddisfatta del proprio operato, e si chiuse la porta
alle spalle.
«Non
ho alcuna speranza, vero?», gli domandò Zoe con un
fil di voce, mentre le prime calde lacrime le graffiavano le guance.
«No,
piccola, no», le sussurrò fra i capelli,
stringendola forte a sé. «Tu ce la farai, te lo
prometto, costi quel che costi».
Tom staccò le mani dalle
spalle dell’angelo e venne sbalzato fuori da quel fiume di
parole e di immagini. Ogni volta che Franky gli faceva fare quelle
full-immersion nella sua mente ne usciva sempre scosso, non gli piaceva
affatto rivivere i suoi ricordi con i suoi occhi, si sentiva fuori
posto.
Quella volta in particolare ne uscì in malo modo,
perché quello che aveva visto e sentito era stato peggio che
una pugnalata al cuore. Aveva visto lo spirito di Zoe, la sua
sofferenza, il suo sconforto e le sue lacrime, e aveva avuto la
spiegazione non medica e scientifica, ma quella spirituale di
ciò che le era successo, che gli sembrava addirittura
peggiore di quella che potevano offrirgli i dottori.
«Scusami»,
sussurrò Franky.
«Sei uno
stronzo», mugugnò il chitarrista. «Ma
non importa, dobbiamo dirlo anche a Bill e ad Evelyn».
Franky si alzò
dall’altalena e, fianco a fianco col suo migliore amico,
raggiunse le porte vetrate del salotto. Non si sentiva pronto, ma aveva
lui accanto, sentiva la sua forza e il suo coraggio passare in lui solo
grazie alle loro braccia che si sfioravano, proprio come piccole scosse
di energia elettrostatica.
L’angelo trapassò il vetro con una mano e
aprì la porta dall’interno, poi la fece scorrere e
fece entrare per primo Tom.
«Non
c’è bisogno che fai il cavaliere», lo
rimbeccò e gli sorrise, poi salutò Bill ed
Evelyn, piuttosto sorpresi, con un cenno della mano.
«È arrivato», disse, indicando con il
pollice Franky.
Bill sospirò sollevato:
non ce la faceva più ad aspettare. «Dimmi che hai
buone notizie», lo implorò.
A Franky era mancato il respiro sin
dall’inizio, quando aveva incrociato gli occhi azzurri ed
arrossati di Evelyn. Ora, nel sentire quelle parole, gli si era
rivoltato lo stomaco. Come poteva dargli una notizia del genere?
Tom gli diede una spintarella sulla schiena per farlo avanzare e allo
stesso tempo infondergli coraggio. L’angelo si
avvicinò ai due e con cautela si mise seduto
nell’angolo opposto a loro, sul divano ad L. Il chitarrista
non smise di restargli vicino.
Franky chiuse gli occhi,
respirò a fondo e non seppe neppure come, ma
raccontò tutto quello che era successo e che sapeva, senza
mai interrompersi, se non per prendere il fiato che in
realtà non gli serviva. Era stato come un fiume a cui erano
stati spazzati via gli argini: incontenibile, inarrestabile.
Però il trucco c’era, ciò che gli aveva
permesso di non incepparsi mai: non aveva mai alzato lo sguardo per
incrociare gli occhi di Bill o, ancora peggio, di Evelyn. Lo fece solo
una volta finito il proprio monologo, quando Tom gli posò
una mano sulla schiena, a mo’ di conforto, e fu una vera e
propria sofferenza.
«Franky»,
sussurrò Bill e lo guardò con gli occhi colmi di
lacrime e rossi di pianto: «Grazie». Poi si
alzò e a passo svelto salì le scale per
rifugiarsi in camera sua.
Evelyn fece lo stesso qualche minuto di silenzio dopo, anche se avrebbe
tanto voluto gettarsi fra le braccia dell’angelo e piangere
lì ogni singola lacrima.
«Che fai, stai
qui?», domandò Tom a Franky.
Se fosse stato intelligente,
avrebbe detto di no e avrebbe chiesto asilo al suo migliore
amico.
«Sì», rispose annuendo e, resosi conto
della sua stupidità, provò a darsi una
motivazione nella quale non c’entrasse quella maledetta
ragazza che gli aveva fottuto la testa. «Preferisco stare
accanto a Bill».
«Okay. Allora io torno a
casa». Batté le mani sulle ginocchia e si
alzò. «Se hai bisogno di me io ci sono».
Gli fece un buffetto sulla guancia, poi raccolse la giacca che aveva
abbandonato sullo schienale del divano ed uscì di casa.
Franky chiuse a chiave la porta e
spense tutte le luci del piano inferiore con un semplice schiocco delle
dita, per poi prendersi la testa fra le mani e prepararsi ad una delle
notti più difficili della sua vita.
In quel momento avrebbe preferito addormentarsi sapendo che la mattina
dopo si sarebbe svegliato con i famosi e tremendi dolori allo stomaco,
invece di essere già a conoscenza che avrebbe combinato
qualche enorme cavolata. Ma, nonostante questa fine già
scritta e già letta, si rannicchiò sul divano,
con un cuscino sotto al capo, e chiuse gli occhi.
***
Tom entrò in casa senza
fare il minimo rumore per non svegliare nessuno, si tolse la giacca e
camminò con passo felpato verso la camera di Arthur. Si
sporse all’interno per controllare che il proprio bimbo
stesse dormendo serenamente e sorrise quando lo vide tutto spettinato e
con un lieve sorriso sulle labbra.
Entrò nella cameretta e si inginocchiò al suo
fianco, gli accarezzò i capelli con infinita dolcezza e gli
sussurrò la buonanotte. Lo baciò sulla tempia,
poi uscì chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
A quel punto camminò
verso la camera da letto e trovò la porta socchiusa. Rimase
qualche secondo in ascolto e sentì i singhiozzi di Linda.
Con una mano sul legno della porta la spalancò e sua moglie
si affrettò ad asciugarsi il viso.
Tom accennò un sorriso e andò da lei per
avvolgerle le braccia intorno alla schiena e stringerla forte a
sé.
«Non può
finire così», singhiozzò lei,
nascondendo il viso contro il suo collo.
«Non finirà
così. Non finirà».
***
La porta della stanza di Evelyn si
aprì e lei sbirciò per controllare chi fosse, con
l’assurda speranza che fosse Franky. Assurda
perché: punto uno, lui non avrebbe usato la porta; punto
due, era già tanto che la guardasse negli occhi. Era solo
suo padre, che probabilmente era venuto a controllare che stesse
dormendo.
Si mise seduto sul letto, al suo
fianco, e le rimboccò meglio le coperte. Rimase qualche
secondo a guardarla e ad un certo punto Evelyn sentì le sue
dita lunghe e fini sfiorarle i capelli che le ricadevano sulla fronte.
Quel gesto le ricordò tremendamente sua madre e dovette fare
un’immensa fatica per non scoppiare a piangergli davanti. Ma
non voleva nemmeno che smettesse: faceva male, ma era troppo bella
quella sensazione.
Suo padre però parve non resistere a lungo e smise,
sospirando sonoramente.
«Buonanotte,
tesoro», le sussurrò ed uscì
frettolosamente dalla sua stanza, lasciandola di nuovo sola.
Tirò fuori le braccia
dalle coperte e rimase a guardare il soffitto e ad ascoltare il
silenzio, fino a quando non decise che doveva assolutamente parlare con
Franky: dovevano chiarire, perché non ce la faceva
già più ad andare avanti così.
Sgusciò fuori dal letto
e appoggiò i piedi nudi sul pavimento.
Rabbrividì, ma questo non le fece cambiare idea.
Uscì dalla sua camera in punta di piedi e scese i gradini di
vetro tenendosi al corrimano in acciaio e con la massima cautela, visto
che era buio e non voleva finire di nuovo all’ospedale.
Arrivò alla fine della rampa di scale e vide Franky
accoccolato sul divano, che le dava le spalle, stretto ad un cuscino
sotto la sua testa. Si avvicinò a lui e rimase ad osservarlo
dormire: sembrava così piccolo ed indifeso…
Senza nemmeno accorgersene gli
sfiorò il profilo del viso, dalla tempia alla guancia, con
il dorso delle dita e lui si svegliò
all’improvviso, spalancando gli occhi. Incrociò i
suoi e sobbalzò spaventato, tanto che anche lei fece un
passo indietro, intimorita.
«Vengo in
pace», lo rassicurò successivamente, accennando un
sorriso.
Franky si tirò su e la
guardò profondamente negli occhi. «Non
c’è niente da chiarire», le disse a
bassa voce, ma convinto.
Quelle parole la lasciarono
interdetta, ma ci mise poco per reagire. «Invece
sì». Si mise seduta al suo fianco, sul divano.
«È successa una cosa che non doveva succedere e mi
sembra che tu sia arrabbiato con me».
«Non sono arrabbiato con
te, sono arrabbiato con me stesso perché non doveva
succedere, perché non…».
«Cosa?», lo
incitò a concludere.
«Perché non te
l’ho impedito».
Evelyn inarcò le
sopracciglia, sorpresa ma non troppo. Poi rise, una risata piena di
rammarico. «Io
non ti
capisco, Franky». L’angelo
rimase in silenzio. «Perchè, se anche
tu lo vuoi, te lo impedisci?».
«Perché
è sbagliato».
«Sbagliato per chi? Per
te, per me, per una persona che non sa nulla di noi?».
«Non
c’è nessun noi,
Evelyn», disse fra i denti, con immensa fatica, stringendo i
pugni.
«Non saprò
leggere nel pensiero, ma lo capisco quando menti».
«È inutile.
Non si può e basta», concluse l’angelo,
con tono da non ammettere repliche, e si alzò: doveva
andarsene, prima che accadesse l’irreparabile.
Ma Evelyn si alzò a sua
volta, lo prese per mano e lo fece voltare. Non gli diede nemmeno il
tempo di capire quello che stava per fare: gli rubò un bacio.
Franky la scostò da sé con fare brusco e la
guardò negli occhi severamente, ripetendole telepaticamente
che non si poteva fare, anche se loro due lo desideravano con tutte le
loro forze.
«Franky»,
sussurrò lei prendendogli la testa fra le mani. Lo
guardò negli occhi, si perse in quei prati verdi, e
morì immaginandolo da vivo: sarebbe stato tutto
più semplice, se si fossero incontrati in un altro mondo, in
un altro momento.
«No, Evelyn,
no». Parlò a bassa voce, in modo quasi
impercettibile, perché in realtà anche lui stava
morendo per una seconda volta cercando di cancellare quei pensieri,
quei desideri che lentamente si stavano facendo sempre più
forti, sempre più pressanti nelle loro teste, nei loro
corpi, nei loro cuori.
«Ma io ti
sento», mormorò con le labbra ad un soffio dalle
sue.
L’angelo posò
le mani sulle sue braccia per allontanarla da sé, per
cercare di combatterla, ma le sue dita si strinsero attorno ad esse,
impedendole di scappare.
Non sapeva più cosa fare, né come: più
cercava di respingerla, più l’attirava a
sé, in una lotta che non avrebbe avuto né vinti
né vincitori.
Evelyn si sporse in avanti per
catturare le labbra di Franky con le proprie, ma lui si
spostò e l’allontanò per poi
riavvicinarla a sé.
I loro visi erano troppo vicini, i loro nasi si sfioravano di continuo
e i loro respiri affannati erano un tutt’uno; i loro occhi
erano chiusi, ma entrambi conoscevano ciò che si celava
dietro le ciglia: l’Inferno e il Paradiso.
I loro corpi continuavano a scontrarsi, a tremare l’uno
contro l’altro, a cercarsi, a respingersi, ad andare a fuoco
ad ogni più lieve tocco dell’altro.
«È sbagliato,
è sbagliato», farfugliò ancora
l’angelo, aumentando la stretta intorno alle sue braccia:
sentì le proprie mani affondare nella sua carne, trapassarle
tanta era stata la forza che aveva impiegato, la misura che lui non
poteva superare.
«Come può
essere sbagliato l’amore?», gli domandò
e Franky si irrigidì, perché
un’affermazione del genere era proprio ciò che gli
serviva per fargli crollare tutte le certezze, le imposizioni, i
divieti.
Ormai era arrivato al punto di non riuscire più a resistere
e si lasciò andare, certo che avrebbe fatto i conti con
quelle azioni solo successivamente.
Franky fece scorrere le mani sulle
sue braccia, verso le spalle; le accarezzò il collo e le
guance, infilò le mani fra i suoi capelli biondi, si
accostò a lei quasi bruscamente e posò le labbra
sulle sue. I loro cuori persero un battito a quel contatto tanto
agognato.
Si strinsero più forte, tanto che Franky percepì
il calore di Evelyn farsi spazio nel proprio petto: si stavano
fondendo. Cercò di allontanarsi un poco, ma il suo corpo non
ne voleva sapere, anzi si avvinghiò ancora più
saldamente a quello della ragazza, che non fece una piega agli spifferi
d’aria fredda che provenivano dall’angelo.
Baciandosi furiosamente non si
accorsero nemmeno di aver arretrato, fino a quando Evelyn non
inciampò nel bordo del divano e ci cadde sopra trascinandosi
dietro l’angelo, che finì inevitabilmente su di
lei. Si guardarono negli occhi per un istante, senza fiato, e Franky
sfiorò con le dita le labbra di Evelyn.
«È
l’errore più grande della nostra vita»,
mormorò con un velo di arrendevolezza nello sguardo.
«Ma non rimpiangeremo di
non averlo commesso», gli rispose con un’altra
delle sue affermazioni schiaccianti, per poi prenderlo per la nuca ed
attirarlo a sé.
That maybe you should shut up, even when
it gets tough
Baby ‘cause this is love
And you know when push comes to shove,
it’s gonna take the both of us
Baby this is love, baby this is love, love, love, love
L’angelo le
baciò ancora le labbra, ne mordicchiò e
succhiò il labbro inferiore, poi passò ad
accarezzarle il viso mentre lei gli tirava via la giacca di seta
bianca. Un brivido lo percosse da capo a piedi quando gli
levò anche la maglia e gli posò le mani sul
petto, che tastò da cima a fondo, arrivando sempre
più pericolosamente al bordo dei pantaloni.
Non voleva che arrivassero anche a
quel punto, sarebbe stato davvero troppo da sopportare, allora le prese
le mani, intrecciò le dita con le sue e le portò
ai lati della sua testa. Con la bocca tracciò segni
invisibili sul suo collo ed Evelyn inarcò la schiena facendo
scontrare i loro bacini. I muscoli di Franky si contrassero e tremarono
sotto il terribile sforzo di reprimere ogni sintomo
d’eccitazione.
Sentì le mani di Evelyn
liberarsi dalle sue per andare a prendere i bordi della sua maglietta,
se la tolse ed entrambi rabbrividirono quando furono pelle contro
pelle. La ragazza tirò indietro la testa e strinse fra le
dita i capelli di Franky per condurlo oltre il suo collo, sul suo
piccolo seno e sul suo addome contratto su cui si riusciva a vedere
ogni singolo brivido.
L’angelo non si tirò indietro a quella
esplorazione ed imparò a memoria, toccando con mano e
sfiorando con le labbra, quel territorio ancora del tutto inesplorato.
Dei lievi sensi di colpa si impadronirono di lui, pensando che lui in
primis non avrebbe dovuto conquistare quello scorcio di Paradiso, ma
bastò una carezza di Evelyn per fargli dimenticare tutto
quanto.
Franky si mise seduto e
trascinò Evelyn seduta sulle sue gambe, le avvolse la
schiena con le ali e nascose il viso contro il suo collo, che
baciò con tenerezza un paio di volte, respirando a pieni
polmoni il suo profumo. Si rese conto di come il profumo di Zoe, quello
alla fragola, che aveva creduto il più buono
dell’universo per un sacco di anni, fosse niente in confronto
a quello di Evelyn, infinitamente più delicato e dolce.
Sarebbe rimasto in quella posizione
per sempre, con lei stretta al petto, così vicina
nell’irraggiungibile, ad ascoltare il battito del suo cuore e
a respirare il suo profumo. Si sentiva in pace con se stesso e con il
mondo – di qualunque mondo stesse parlando, – tanto
che nemmeno il pensiero che prima o poi tutto sarebbe finito lo turbava.
Evelyn però desiderava vivere appieno quella notte
irripetibile – perché Franky non si sarebbe
lasciato andare in quel modo un’altra volta – e non
assaporò quel momento a fondo come avrebbe voluto fare
l’angelo. Infatti si mise in ginocchio sul divano e gli
tirò su il viso per poterlo guardare negli occhi
dall’alto. Si guardarono per qualche secondo, poi Franky
lesse i suoi pensieri ed abbassò lo sguardo sul bordo dei
suoi pantaloni del pigiama e sulla sua pancia piatta, proprio di fronte
a lui. Ci si appoggiò con la fronte e chiuse gli occhi,
sospirando. Evelyn posò le mani sulla sua testa e gli
accarezzò i capelli con fare materno.
«Non si può
fare, Evelyn. Non te ne rendi conto anche da sola?», le
domandò a bassa voce.
Lei non rispose, si rimise seduta
sulle sue gambe e gli prese il volto fra le mani. Si
avvicinò alle sue labbra con un po’ di incertezza,
senza schiodare lo sguardo dal suo, poi le sfiorò e fu come
se mille petardi le fossero scoppiati in mezzo al petto, come se le sue
labbra fossero il fuoco, la miccia per accendere il suo cuore.
You and me, we can both start over,
just the two of us, we can get a little closer
So follow me, honestly and you will see…
Caddero di nuovo sdraiati, solo che
quella volta Franky aveva la testa fuori dal divano e si trovava sotto
al corpo della ragazza, che aveva iniziato a baciargli il collo.
L’angelo chiuse gli occhi a quei tocchi e gli venne naturale
posare le mani sui suoi fianchi per attirarla ancora di più
verso di lui, come se avesse paura che scomparisse da un momento
all’altro.
Sentì le sue labbra
bollenti scendere sul suo petto, all’altezza del suo cuore,
per poi scendere ancora sui suoi addominali. Una volta arrivate
all’ombelico Franky spalancò gli occhi e si
affrettò a capovolgere la situazione prima che fosse troppo
tardi, ma le cose non cambiarono più di tanto
perché lei aveva portato comunque le mani sulla chiusura dei
suoi pantaloni.
«Evelyn, Evelyn
no», tentò di fermarla con gli occhi sgranati e il
fiato grosso, ma fu tutto inutile.
Gli tirò giù
la cerniera e glieli sfilò, si tolse anche i propri e se li
fece scivolare giù fino ai polpacci, poi se li tolse con i
piedi e li lasciò cadere sul pavimento. Con una mano gli
prese la nuca e lo attirò a sé per baciarlo, con
l’altra afferrò la mano destra di Franky e la
portò sulla propria coscia. Arrossì, ma non lo
diede a vedere e la giudò fino all’interno, fino
alle vicinanze del calore che era divampato in un attimo, senza darle
il tempo di capire che cosa stesse succedendo. Infondo era la sua prima
volta.
Franky mugugnò, ormai
troppo coinvolto per tornare indietro sui propri passi, e si
abbandonò totalmente ai propri sentimenti. Ne avrebbe
sofferto fino alla fine dei suoi giorni, ma in quel momento credeva che
ne valesse davvero la pena.
Ancora un po’ indeciso, la guardò negli occhi e la
baciò con forza, poi entrò in lei. Franky aveva
sempre immaginato che essendo inconsistente lei non avrebbe sentito
niente, eppure entrambi trattennero il respiro dal dolore.
Non
sono più abituato, passerà,
si disse l’angelo.
È
la mia prima volta, è normale,
si disse invece Evelyn.
Così trattennero i
gemiti di sofferenza. Ma dopo qualche minuto di dolore continuo, esso
si fece sentire più chiaramente e capirono che non
c’entravano niente l’abitudine e la prima volta:
era un qualcosa fra loro.
Per Evelyn ogni penetrazione era una lama tagliente e freddissima, che
le dava la sensazione di venire squarciata in due mentre congelava.
Franky, invece, ogni volta che rimaneva dentro di lei si ustionava:
sentiva il suo calore entrargli dentro e mandarlo a fuoco.
All’apice del dolore
entrambi sussurrarono un «basta» strozzato,
accasciati l’uno sull’altra senza più
forze, ma non si divisero: Franky era ancora dentro di lei, lei lo
accoglieva dentro di sé; avviluppati, fusi, erano una cosa
sola.
Lentamente le loro temperature
corporee si regolarizzarono a vicenda, tanto che il freddo penetrate
che Evelyn sentiva dentro di sé diminuì e il
calore ustionante che Franky aveva sofferto fino a quel momento
svanì. Ebbero come la sensazione di essere finalmente
completi e che, una volta separati, dentro di loro un po’
dell’altro sarebbe rimasto per sempre.
Evelyn non riuscì a
trattenersi e le lacrime le scivolarono sulle tempie, fra i capelli.
Franky sobbalzò quando la scoprì a piangere e
provò un’immensa rabbia dentro di sé.
«Te l’avevo
detto che non si poteva fare», le disse serio, seppure con
tono apprensivo, mentre le asciugava le guance.
«Non piango per quello
che credi tu», gli disse, sorprendendolo con un sorriso.
«Ma perché sono felice».
Franky la guardò basito:
era pazza. O meglio, impossibile.
Si guardarono per non so quanti
minuti, nei quali Franky fece un’attenta analisi dei propri
sentimenti e si rese conto che, nonostante la rabbia verso se stesso
per quelle lacrime, nemmeno lui si sentiva triste, né si
pentiva di ciò che avevano appena fatto. Forse…
forse anche lui era felice, anche se aveva fatto davvero male.
«A volte»,
aggiunse Evelyn, accarezzandogli una guancia, «rende
più felici condividere il dolore, che la gioia. E ora siamo
una cosa sola».
L’angelo si disse che
sì, aveva ragione: erano quelli i momenti in cui si
riconoscevano davvero le persone a cui si voleva bene, quelle che
c’erano e ci sarebbero sempre state. Perché
è soprattutto, se non solo, per amore che si è
disposti a soffrire, persino a morire.
«Buon compleanno,
Franky…», sussurrò poco prima di
chiudere gli occhi e di addormentarsi con un mezzo sorriso sulle labbra.
Lui le sorrise dolcemente e le
accarezzò i capelli, scostandoglieli dal viso. Poi
uscì dal suo corpo accogliente con un gemito. La
rivestì, rivestì se stesso e la portò
al piano di sopra, nella sua camera. La adagiò sul letto con
delicatezza, per non svegliarla, e si stese al suo fianco per vegliare
sul suo sonno.
Anche lui ad un certo punto si
addormentò, ma nel cuore della notte si svegliò,
punto da uno strano pizzicorio all’altezza del cuore.
Posò una mano sulla spalla di Evelyn, accucciata contro di
lui, e la scosse dolcemente. La ragazza aprì gli occhi a
fatica e mugugnò il suo nome, ma l’angelo le
posò subito un dito sulle labbra per non farle dire altro e,
guardandola negli occhi con i suoi ancora piccoli a causa del sonno,
mormorò: «Ti amo».
Evelyn distese un sorriso sereno e
chiuse di nuovo gli occhi. «Anche io, anche
io».
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Capitolo 12 *** Shattered ***
12.
Shattered
Yesterday I died, tomorrow's bleeding
Fall into your sunlight
Si trovò in una camera
da letto, in mezzo alla quale c’era un letto matrimoniale e
accanto ad esso una culla, dalla quale provenivano dei rumori soffici e
dei respiri tranquilli e regolari.
Si avvicinò lentamente, ma riuscì soltanto a fare
un passo, perché qualcuno si intrufolò nella
stanza passando dalla finestra. Lo riconobbe subito e rimase senza
fiato, paralizzata sul posto.
Guardò Franky
avvicinarsi alla culla col suo stesso passo incerto e fu come ricevere
un colpo al cuore quando lui infilò le mani nella culla e
sollevò delicatamente una bambina. C’era qualcosa
di magnifico sul suo volto, l’amore con cui guardava il
visetto della neonata e la tenerezza che usava per accarezzarle una
manina. E poi, il suo sorriso…
Franky avvicinò il viso
a quello della bambina e le sfiorò la fronte con il naso,
chiudendo gli occhi. Evelyn, nello stesso preciso momento, si
posò una mano sulla fronte: aveva sentito quel contatto
sulla sua pelle… ma com’era possibile?
Lo capì subito quando Franky sussurrò il suo
nome, prima di riaprire gli occhi verdi: «Evelyn».
Si svegliò
all’improvviso da quello strano sogno, con le farfalle nello
stomaco, ed allungò le gambe per cercare quelle di Franky.
Le trovò subito e lo abbracciò forte, posando la
testa sul suo petto e sospirando rassicurata, ancora ad occhi chiusi.
«Buongiorno»,
le sussurrò l’angelo all’orecchio.
«’giorno»,
mugugnò lei in risposta, con il cuore ancora un
po’ in tumulto per ciò che aveva visto. Gliene
avrebbe parlato e gli avrebbe chiesto se fosse stato lui a farle vedere
quel ricordo, ma non ne ebbe il tempo materiale.
«Nevica».
«Uhm?».
Aprì a fatica gli occhi e appena voltò il capo
verso le porte finestre venne accecata dal bianco più bianco
che c’era. «Oddio, è
vero…».
Franky sorrise.
«Già».
La ragazza però, per
quanto potesse essere innamorata della neve, amava ancora di
più ciò che aveva accanto. Per questo
ritornò subito a guardarlo, a perdersi nei suoi occhi verdi
e a desiderare le sue labbra.
«Adesso devo
andare», le disse l’angelo.
«Di
già?», esclamò Evelyn, stringendosi
ancora di più a lui. «No, rimani qui ancora un
po’».
«Devo andare a vedere
come sta tua madre», specificò allora. Doveva
ammetterlo, era stato un po’ scorretto a giocarsi quella
carta con così tanta facilità, ma avevano passato
davvero troppo tempo insieme e aveva bisogno di stare un po’
da solo.
Evelyn, a quel punto, non
poté trattenerlo ancora. «Oh. Okay».
«Ci vediamo
presto», le promise e si alzò, andò
verso la terrazza, poi tornò indietro con il sorriso sulle
labbra e si sporse verso di lei: Evelyn gli portò una mano
sul collo e chiuse gli occhi, Franky si avvicinò alle sue
labbra.
«Sei stato tu prima,
vero?», mormorò la ragazza.
«A fare che
cosa?».
Lei aprì gli occhi ed
osservò la sua espressione confusa. «Quel
ricordo… tu che mi prendevi in braccio, quando ero ancora
piccolissima… non me l’hai mostrato tu?».
L’angelo
corrugò la fronte. «No… non riesco
nemmeno a vederlo ora nella tua testa».
«Ah…».
Evelyn scosse leggermente il capo, anche se confusa più di
lui, e sorrise donandogli un’altra carezza sul collo.
Franky ricambiò il
sorriso, le sfiorò il naso con il proprio e le
stampò un bacio sulla guancia. Poi sparì.
***
«Papà,
papà, guarda!».
Tom si voltò e rise
guardando suo figlio con la bocca aperta verso il cielo, che aspettava
che qualche fiocco di neve gli finisse sulla lingua per mangiarlo.
«Tesoro, è
buona la neve?», gli chiese sua madre, stretta sotto il
braccio del chitarrista.
«Sì!»,
esclamò il bambino, tutto contento. Corse dai suoi genitori,
stando attento a non slittare sulla neve ghiacciata con i propri
stivaletti di gomma blu, e li abbracciò avvolgendogli le
gambe con le braccia.
«Papà, facciamo un pupazzo di neve?»,
domandò poi al padre, alzando il viso verso il suo e
guardandolo con gli occhi pieni di speranza.
«Certo», gli
rispose sorridente e gli posò una mano sulla testa, coperta
da un cappellino di lana con un pompon sulla cima.
«Però quando torniamo».
«Va bene»,
annuì e si fece aiutare per salire in auto.
«Ma la zia dorme
ancora?», chiese, una volta in viaggio per raggiungere
l’ospedale.
«Sì,
piccolo», gli rispose sua madre.
«E quando si
sveglia?».
Linda guardò Tom e lui
sospirò, scuotendo leggermente il capo. «Non lo
sappiamo».
***
Arrivò
all’ospedale e alla reception vide la sua infermiera
preferita. La salutò con un cenno della mano, senza
fermarsi, e raggiunse la camera di Zoe. Non fece in tempo ad entrare,
però, che il suo Cellulare Celeste iniziò a
suonare facendolo spaventare.
Lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni ed
osservò lo schermo per capire chi fosse, ma non gli
permetteva di vedere alcun numero. Anche se titubante, rispose:
«Pronto?».
«Ciao Franky, sono Betty,
la segretaria di San Pietro».
L’angelo, con la fronte
corrugata, si appoggiò con la spalla al muro accanto a
sé. «Oh, ciao Betty, che sorpresa».
«Ti ho chiamato
perché San Pietro vuole parlarti».
«Vuole
parlarmi?». Un brivido gli salì lungo la schiena.
Non prevedeva nulla di positivo: Betty aveva uno strano tono di voce,
rigido, e soprattutto lo spaventava il fatto che San Pietro non lo
avesse chiamato di persona.
«Sì. Ha detto
che è urgente».
«Devo… devo
venire adesso?».
«Ha detto che
è urgente, che ne vuole parlare con te al più
presto, quindi…».
Franky guardò
all’interno della stanza di Zoe e la vide ancora
addormentata. «Okay, ehm… riferiscigli che sto
arrivando, per favore».
«Sarà
fatto».
«Grazie, Betty. Ma
è grave?», le domandò, seriamente
preoccupato, ma proprio in quel momento la telefonata si concluse e non
ricevette alcuna risposta.
***
Era da un po’ che
continuava a guardare sua figlia, seduta al posto del passeggero: aveva
lo sguardo perso fuori dal finestrino e con una mano si copriva la
bocca, per nascondere quel leggero sorriso che da quella mattina non
l’aveva mai abbandonata. Anche i suoi occhi erano luminosi,
ridenti, e Bill non riusciva proprio a capire per quale motivo fosse
così felice, quando lui si trovava ad avere il morale sotto
la suola delle scarpe.
Avrebbe voluto chiederglielo, ma che cosa gli avrebbe risposto? E se
fosse stata una risposta alla quale a sua volta non avrebbe saputo come
rispondere? Meglio lasciar stare direttamente.
Così guidò
l’ultimo pezzo della strada che li avrebbe portati
all’ospedale senza schiodare lo sguardo dal parabrezza.
Parcheggiò e scese con cautela dal veicolo, poi
aspettò che Evelyn lo raggiungesse e, osservandola
avvicinarsi a lui, notò ancora meglio le sue labbra
leggermente incurvate all’insù, la stessa
direzione che guardavano i suoi occhi. E non riuscì
più a resistere alla curiosità. Era come avere
prurito e costringersi a non grattarsi: dopo un po’ si cede.
«A
cos’è dovuto quel sorrisetto?», le
domandò schietto, provando anche un po’
d’invidia.
La ragazza scosse il capo, come se
fosse tornata allora da un viaggio mentale, e lo guardò
negli occhi, infilandosi le mani nelle tasche. «Non ti
ricordi più? Io amo la neve».
E quel giorno ancora di più, perché
gliel’aveva fatta scoprire Franky, appena sveglia, e le
ricordava terribilmente la sua pelle chiara. Poi quel suo essere
fredda, che le faceva pensare in continuazione al dolore che aveva
provato facendo l’amore con lui, quel dolore che avrebbe
sofferto ancora e ancora per sentirsi sua, una parte di lui.
«Sì,
è vero», disse Bill, anche se non del tutto
convinto.
In quel momento un’altra
auto entrò nel parcheggio dell’ospedale e una
volta ferma ne scesero Tom, Linda e il piccolo Arthur.
«Ciao Evelyn!»,
gridò quest’ultimo e le corse incontro per
abbracciarla, ma scivolò sulla neve ghiacciata e cadde sul
sedere.
«Quante volte ti ho detto
di non correre sulla neve?», lo rimproverò Tom,
prendendolo in braccio e guardandolo in viso. Ma si sciolse in fretta
e, apprensivo, gli chiese: «Ti sei fatto male?».
Il bimbo scosse il capo, passandosi
le manine sugli occhi lucidi dallo spavento.
«Che volo che hai
fatto», disse il chitarrista, accennando una risata. Arthur
lo imitò e a loro si aggiunsero anche Linda e Evelyn.
L’unico che si
sforzò per stiracchiare anche un semplice sorriso fu Bill:
proprio non ci riusciva a lasciarsi andare, soprattutto dopo le ultime
notizie che gli aveva dato Franky.
***
Franky bussò alla porta
dell’ufficio di San Pietro e, dopo aver avuto il permesso,
entrò. Era parecchio agitato: non capiva perché
San Pietro aveva chiesto a Betty di avvisarlo che voleva parlare con
lui e aveva un brutto presentimento.
«Voleva
parlarmi?», chiese al santo, ancora accostato alla porta.
«Sì.
Siediti», gli ordinò e l’angelo custode
si mise timidamente seduto su una delle due poltrone di pelle, poi
sollevò gli occhi e guardò la figura imponente di
San Pietro rivolta verso le grandi vetrate che davano sul giardino
della scuola. Strano come quell’omone grande e grosso che
fino ad allora gli aveva solo ispirato simpatia e bontà, ora
gli facesse anche un po’ paura.
«Non me lo sarei mai
aspettato da te, Franky», esordì.
L’angelo non rispose, pietrificato sul posto.
«Credevo che tu fossi... uno fra i pochi… uno di
quelli che era riuscito a crescere comunque, qui, nonostante la sua
età di morte fosse in un periodo così delicato:
l’adolescenza. Ci credevo davvero, avevo fiducia in te e
invece… mi hai deluso».
Fu un colpo per Franky, un vero
colpo, sentire quelle parole uscire dalla bocca di San Pietro. Quando
aveva iniziato la sua carriera di angelo custode gli aveva promesso che
non l’avrebbe mai e poi mai deluso e invece l’aveva
fatto. Ormai aveva capito a che cosa si riferisse e non avrebbe mai
immaginato che facesse così male.
«Mi dispiace»,
mugugnò con un nodo enorme in gola. «Mi dispiace
davvero».
«Vorrei che questo
bastasse, Franky». San Pietro si voltò e lo
guardò per la prima volta negli occhi: tutto il dispiacere e
tutta la delusione che il santo provava nei suoi confronti erano
lì e per l’angelo fu come una pugnalata
incontrarli. «Ho aspettato. Ho sperato che tu ti accorgessi
di quello che stavi facendo, ma non è successo: hai
continuato e Dio solo sa quanto male hai fatto a quella povera ragazza,
quanto ne farai ai tuoi amici e quanto ne farai a Zoe quando lo
verrà a sapere».
Franky si ammutolì a
quelle parole e cadde in un baratro di vergogna e dolore puri. San
Pietro aveva sempre saputo. San Pietro sapeva del bacio che
c’era stato fra lui ed Evelyn e per quello quando si erano
incontrati in ospedale, il giorno prima, era stato così
scostante e freddo. San Pietro aveva avuto ancora fiducia in lui e come
uno stupido l’aveva tradita.
«Io…»,
Franky provò a giustificarsi, ma sapeva che non sarebbe
servito a niente. Tanto valeva dire la verità, almeno a lui,
come atto di ultima fedeltà. «Io la
amo». E lo gridò per esserne davvero certo:
«Io la amo!».
«No, Franky. È
inutile che continui a pensare cose che non sono vere», lo
stroncò e l’angelo scosse il capo, incredulo alle
proprie orecchie. «Tu non la ami. Tu pensi di amarla,
ma… fidati di me, conosco bene i tuoi pensieri e so che in
verità tu sei innamorato della possibilità di
poter amare di nuovo, di poter vivere un’altra
volta».
Franky non riuscì a far
altro che boccheggiare. Quelle parole schiaccianti si insinuarono nella
sua mente come un serpente velenoso si infila nei pantaloni di un uomo,
velocemente e silenziosamente, per poi morderlo ed ucciderlo in una
trentina di secondi. Quelle parole, che sembravano così
giuste, così reali, fecero lo stesso: lo colpirono e lo
uccisero, perché si era illuso di un sentimento che in
realtà non era mai esistito.
And I've lost who I am (I'm waiting)
and I can't understand (and fading)
Why my heart is so broken? (and holding)
rejecting your love (love), without (onto these tears)
love gone wrong; lifeless words carry on (I am crying)
But I know, all I know's that the end's beginning (I'm dying tonight)
«Mi dispiace»,
disse San Pietro, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
«Ma sono costretto a sospenderti a tempo indeterminato dal
tuo incarico di angelo custode».
La vita, il mondo,
l’universo di Franky crollarono. «Cosa?»,
sussurrò, scioccato. «Lei… lei non
può farlo. Che… che ne sarà di Zoe?
È un periodo difficile, non posso smettere di essere il suo
angelo custode! Chi si prenderà cura di lei?».
«Ci ho già
pensato e ho già incaricato Kim per questo:
baderà lei a Zoe, fin quando tu non tornerai in
servizio».
«Ma… ma Kim
non è un angelo custode!».
«Lo era, anni fa. Quando
il suo protetto se n’è andato ha deciso di
diventare un angelo speciale e sono già parecchi anni che
esercita egregiamente il suo dovere. Lei è stata la mia
pupilla, prima di te».
Franky fu colto di nuovo di
sorpresa e non seppe come ribattere. Era in un vicolo cieco e
l’unica cosa che gli rimaneva da fare era accettare la
punizione che si meritava, com’era giusto che fosse.
«Okay», sussurrò con le lacrime agli
occhi.
«Mi dispiace»,
ripeté il santo, davvero in pena per lui, e Franky scosse il
capo ad impedirgli di continuare.
Si tastò le tasche dei
pantaloni e ne tirò fuori la Carta d’Angelo
Custode con scritto sopra il nome della sua protetta e il Cellulare
Celeste. Li appoggiò sulla scrivania di San Pietro, che li
prese e li depositò in uno dei suoi innumerevoli cassetti
blindati.
«Altro?»,
domandò Franky, sentendosi completamente nudo e senza uno
scopo. L’unica cosa che gli rimaneva erano il suo nome e i
suoi ricordi.
«La divisa»,
disse un po’ imbarazzato, indicando il completo di seta
bianca che l’angelo aveva addosso. «Sono solo a
noleggio…».
Franky, allibito, si tolse la
giacca e poi i pantaloni. Depositò tutto ancora una volta
sulla scrivania e salutò San Pietro piegando la testa in
avanti, in una specie di inchino.
Appena l’angelo si chiuse
la porta alle spalle, il santo si lasciò andare sulla sua
poltrona e sospirò, massaggiandosi le tempie. Qualche
secondo dopo bussarono alla porta.
«Avanti»,
biascicò. «Oh, ciao Kim».
«Salve. Scusi se la
disturbo, ma ho appena visto Franky uscire da qui solo in maglietta e
boxer».
«L’ho sospeso,
alla fine l’ho fatto davvero».
La ragazza fece un sorriso mesto.
«Gli ha anche fatto credere che non la ama?».
San Pietro annuì,
socchiudendo gli occhi. «Non possono stare insieme, lo sai
meglio di me».
«Anche se si amano
davvero», mormorò incupendosi.
***
«La
situazione di sua moglie si sta lentamente aggravando: le cellule del
sistema nervoso stanno morendo e da oggi iniziamo una cura a base di
antibiotici, però non possiamo sapere se
funzionerà, a volte, sa…».
«Papà?
Papà, siamo arrivati». La voce di sua figlia lo
riportò alla realtà e le sorrise brevemente,
annuendo.
Scese dall’auto, pensando
ancora alle parole che aveva sentito dal neurologo, e vide Arthur fare
una piccola pallina di neve con le mani e lanciarla ad Evelyn, che,
colpita, iniziò a rincorrerlo per tutto il giardino per
contrattaccare.
Suo nipote e sua figlia ridevano e un po’ della loro allegria
gli entrò nel cuore e lo fece sorridere. Vide suo fratello
Tom e Linda poco distanti dai due, che li osservavano stando
abbracciati. Si sarebbe sentito parecchio fuori luogo, ma si fece forza
e li raggiunse.
«Entriamo a bere qualcosa
di caldo? Non so come facciano loro, ma io sto congelando»,
disse, sforzandosi per fare un sorriso convincente.
«Va bene»,
rispose il gemello, avvolgendogli le spalle con un braccio.
«Bambini!».
«Ehi, io non sono una
bambina!», lo corresse subito Evelyn, pronta a tirargli una
palla di neve.
«Okay, mi
arrendo!», gridò Tom, alzando le mani.
«Noi andiamo dentro, state di fronte alle porte vetrate del
salotto, in modo tale che vi possiamo vedere. E non prendete troppo
freddo, mi raccomando».
«Sì
papà», rispose Arthur, roteando gli occhi al
cielo, per poi colpire sua cugina con l’ennesima palla di
neve.
Tom sorrise e raggiunse Linda e
Bill che si erano già avviati.
«Eccomi, che mi sono
perso?», chiese entrando in cucina, dove li trovò
entrambi: sua moglie seduta su uno sgabello del bancone e suo fratello
intento a preparare un po’ di cioccolata calda.
«Bill mi ha chiesto se ci
fermiamo a pranzo qui», lo informò Linda.
«Ho già accettato».
«Hai fatto
bene». Si mise seduto al suo fianco e gettò uno
sguardo alle sue spalle per vedere Arthur e Evelyn che a quanto vedeva
si stavano divertendo un sacco a fare un pupazzo di neve.
«È
così bello vederli ridere, soprattutto Evelyn»,
disse Linda, rubandogli le parole di bocca. «Mi viene voglia
di raggiungerli e di rotolarmi nella neve insieme a loro».
Tom mugugnò in segno di
approvazione e si voltò verso il gemello. Si accorse subito
che c’era qualcosa che non andava e ne ebbe la piena conferma
quando all’improvviso lasciò perdere tutto e
respirò profondamente per trattenere i singhiozzi, posando
le mani sul marmo bianco della cucina.
«Non ce la
farà. Non ce la farà, Tomi…».
Il chitarrista si
precipitò da lui e lo strinse fra le braccia appena in
tempo, proprio prima che scoppiasse a piangere. Bill, squassato dai
singhiozzi, nascose più che poté il viso contro
l’incavo della sua spalla e lo strinse forte, artigliando le
dita nella sua felpa.
«Non dirlo neanche per
scherzo. Lei ce la farà», cercò di
rassicurarlo Tom, con scarsissimi risultati.
Linda, con gli occhi lucidi per
ciò che stava vedendo, si voltò verso le porte
vetrate e si accorse che anche Evelyn stava guardando impietrita,
inginocchiata nella neve.
***
The reflection of a lie will keep me
waiting
With love gone for so long
And this day's ending
Is the proof of time killing all the faith I know,
knowing that faith is all I hold
Franky, dopo essere andato a casa
ed essersi vestito con i suoi vecchi abiti, che gli calzavano ancora a
pennello, era uscito di nuovo e si era rifugiato nel parco proprio
dietro casa sua. Gli piaceva andare lì ogni tanto, a
riflettere, e quel giorno aveva davvero molto su cui arrovellarsi.
Seduto su una fra le numerose
panchine, si prese la testa tra le mani e, sospirando, chiuse gli
occhi.
Si era cacciato in un guaio serio,
tanto serio da costringere San Pietro ad intervenire e a sospenderlo
dal suo incarico di angelo custode.
Era una cosa temporanea e Franky era certo che non avrebbe
più commesso lo stesso errore ora che era stato punito, ma
non poteva fare a meno di ripetersi che era stato un cretino, uno con
la C maiuscola. Non a caso la stessa lettera con cui iniziava il verbo
cedere. Aveva ceduto ai propri sentimenti, a ciò che fin dal
principio aveva catalogato come sbagliato; aveva ceduto ai suoi occhi;
aveva ceduto alla possibilità di vivere ancora una volta,
una soltanto, la sensazione di essere amato da una ragazza. Aveva
ceduto alla possibilità di amare
ancora, di vivere
ancora. E per colpa del suo egoismo ci erano finite in mezzo tante
persone che non c’entravano nulla, prima di tutte Zoe,
rimasta senza un angelo custode.
Si sentiva una merda, un traditore.
Aveva tradito i suoi amici, la sua protetta, San Pietro che
l’aveva sempre trattato come se fosse suo figlio…
Aveva sbagliato, aveva fatto un errore enorme e ora doveva pagare, come
era giusto che fosse.
A quell’ora non
c’era molta gente in giro, ma anche se il parco fosse stato
pieno lui non avrebbe comunque sentito nulla: era avvolto da una bolla
che non gli permetteva di udire nulla, né di vedere
veramente quello che lo circondava. L’unica cosa che riusciva
a focalizzare era nella sua testa ed era la causa di tutti i suoi
sbagli: la ragazza che era stata in grado di farlo peccare, Evelyn.
Avrebbe dovuto cancellarsela dalla testa dopo quello che era successo,
ma era più forte di lui. Vedeva i suoi occhi azzurri, la sua
ossessione; vedeva la sua pelle chiara e della quale ricordava ancora
chiaramente il sapore e la delicatezza; vedeva i suoi capelli biondi e
profumati; vedeva le sue mani che gli accarezzavano il viso e il petto
e la schiena tracciando disegni infuocati; vedeva le sue labbra soffici
che prendevano il sopravvento su ogni suo pensiero razionale, che
conquistavano territori esplorati solo da Zoe, che intrappolavano le
sue. Sentiva ancora quel fuoco bruciare dentro di lui, quello che gli
aveva fatto tanto male ma che l’aveva unito a lei quella
notte.
Avrebbe dovuto gettare nel
tritacarte della sua mente quelle immagini, quei sapori, quei profumi,
ma non ne avrebbe mai avuto il coraggio: era tutto ciò che
gli rimaneva di lei, l’unico momento in cui si era sentito
nuovamente vivo ed amato, e per far sì che non riaccadesse
doveva almeno poter aggrapparsi a quei ricordi. Perché
sì, se fosse tornato indietro nel tempo l’avrebbe
rifatto. Era stupido, davvero stupido, ma era la realtà dei
fatti.
Sentì una mano posarsi
con discrezione sul suo braccio e si scoprì il viso per
intravedere chi l’avesse estrapolato dalla tempesta dei suoi
pensieri.
«Kim», disse e
si accorse di quanto fosse incrinata la sua voce a causa del magone che
gli ostruiva la gola.
«Ciao Franky»,
lo salutò con un minuscolo sorriso sulle labbra.
«Posso sedermi?», chiese, accennando al posto
accanto all’angelo. Lui annuì e lei si
accomodò, accavallando le gambe.
Franky la osservò per
qualche secondo e si rese conto di quanto fosse cambiata ai suoi occhi,
man mano che scopriva cose sul suo conto. Quando l’aveva
conosciuta era una ragazzina che frequentava il suo corso serale e che
per di più aveva una cotta per lui; poi aveva capito, in
qualche modo, che si celava qualcosa di più della ragazzina
dietro quel viso pulito, grazie al suo modo di parlare e ai discorsi
che faceva in merito ad essere angeli custodi o angeli speciali; e
infine, proprio qualche ora prima, San Pietro gli aveva rivelato che
era stata un angelo custode e che poi aveva deciso di diventare un
angelo speciale. Una domanda sorgeva spontanea, fra tutti i suoi
pensieri: chi era in verità Kim?
«È normale che
tu te lo chieda», disse la ragazza, sorridendo divertita e al
contempo amareggiata.
«Quante cose
nascondi?», le chiese allora, a bassa voce, puntando lo
sguardo sull’albero di fronte a loro.
«Non molte, ma posso
assicurarti che io e te siamo più simili di quanto
credi».
L’angelo rimase in
silenzio, a rimuginare su quelle parole e ad ascoltare il delicato
suono delle foglie che venivano spostate di qua e di là dal
vento. Si agitavano tutte insieme e tutte fuori tempo, ma era un bello
spettacolo da guardare.
«San Pietro mi ha
spiegato quello che è successo con quella ragazza, Evelyn.
Mi dispiace che ti abbia sospeso e che abbia sospeso anche il tuo
corso».
Franky chiuse gli occhi lentamente.
Quelle parole erano state l’ennesima pugnalata in pieno
petto, perché erano l’inconfutabile prova che per
colpa sua e del suo egoismo, appunto, ci erano andate di mezzo persone
che non c’entravano niente con quella storia: i suoi
studenti. Oltre al fatto che solo sentir pronunciare il suo nome aveva
fatto male.
Kim rimase qualche secondo in
silenzio, in attesa di una qualsiasi risposta, poi si alzò e
si infilò le mani in tasca. «Ma è
meglio così».
L’angelo aprì
gli occhi di scatto e la fissò: aveva il viso basso e si
guardava i piedi, che muoveva avanti e indietro sull’erba
verde splendente. Cercò di capire a cosa si riferisse, ma
appena fece per sbirciare fra i suoi pensieri si eresse un muro
imponente, che lo fece tornare sui suoi passi in modo quasi violento,
tanto che ne rimase sbigottito.
La ragazza non gli disse nulla in
proposito, ma sollevò il viso e accennò un
sorriso. «Ora che farai?», gli domandò.
«Non lo so»,
mormorò. «Non so niente».
***
Il trillo del campanello la fece
sospirare di sollievo: quel pranzo era stato uno dei peggiori della sua
vita e non aveva voluto altro che alzarsi dalla sedia sin da quando si
era seduta.
«È per
me», disse e raggiunse l’ingresso con una corsetta.
Sbirciò attraverso una delle due vetrate ai lati della porta
e poi aprì.
«Ciao», la
salutò Anja con un sorriso impacciato.
«Ciao»,
soffiò in risposta Evelyn, prima di gettarle le braccia al
collo e stringerla forte. «Grazie per essere venuta,
davvero».
«Non ti
preoccupare», le sussurrò, massaggiandole la
schiena con una mano. «Sentivo che avevi bisogno di
me». Si sorrisero.
«Dai, vieni, andiamo in
camera mia», la prese per mano e insieme iniziarono a salire
la scala di vetro, proprio lì accanto.
«Che mano fredda che
hai», le disse Anja, rabbrividendo.
«Già, me ne
sono accorta anche io. Sarà perché prima ho
giocato con la neve insieme ad Arthur».
«Pranzo in
famiglia?», le domandò ancora l’amica,
accennando al salotto, in cui si trovavano suo padre, suo zio, sua zia
e il suo cuginetto.
«Sì, per
così dire», biascicò.
Giunsero nella stanza di Evelyn e
lei si chiuse la porta alle spalle, alla quale vi rimase appoggiata per
qualche secondo, poi sorrise alla sua amica e si mise seduta sul letto,
invitandola ad imitarla.
«Ieri ho sentito
Pamela», disse Anja, togliendosi le scarpe con la punta dei
piedi per potersi sedere completamente sul letto. «Ha detto
che Martin non fa altro che pensare a te».
«Già, lo
so», mormorò abbassando lo sguardo. Il messaggio
che aveva ricevuto la sera precedente, in contemporanea a Franky, era
suo.
«Perché non
gli dai una possibilità? Infondo carino è carino,
è grande, è dolce, sembra davvero
preso…».
«Io… io non lo
so…».
«Ehi… che
cos’è successo?».
Evelyn alzò gli occhi
già lucidi dal piumone ed incontrò quelli scuri
di Anja. «Stamattina hanno fatto una visita neurologia a mia
madre», lanciò la bomba così, con la
voce spezzata. «Il risultato: potrebbe anche darsi che gli
antibiotici non funzionino e quindi le sue cellule celebrali moriranno
tutte, una dopo l’altra, e morirà. Prima di
pranzare ho visto mio padre scoppiare a piangere come un bambino e zio
Tom che lo teneva stretto a sé come se avesse paura di
perderlo per sempre». Il magone in gola e i lucciconi agli
occhi la interruppero per un attimo e bastò quello per farla
crollare in un pianto che almeno l’avrebbe svuotata un
po’.
«Che giornata di merda», singhiozzò e si
appoggiò alla spalla dell’amica, sconvolta per
tutto ciò che aveva sentito.
Solo dopo qualche secondo
riuscì a riprendersi e ad abbracciare Evelyn, che ormai
piangeva a dirotto. Non le disse niente – non avrebbe saputo
che cosa dire, – la cullò soltanto fra le braccia.
Si accorse del freddo che emanava anche dal petto, ma non le disse
nulla in proposito.
***
Ora che aveva deciso cosa fare non
poteva più starsene lì con le mani in mano.
Sarebbe andato di sotto e sarebbe rimasto un po’ di tempo da
Tom, tanto lì dov’era la sua utilità
era pari a zero.
Prese un vecchio borsone
dall’armadio e lo riempì gettandoci a casaccio la
maggior parte dei suoi abiti e le cose da cui non voleva separarsi,
prima di tutte quella fotografia, la
fotografia. Sospirò guardando i volti felici della sua Zoe e
dei suoi amici, delle persone a lui più care, e se la
infilò nella tasca dei jeans, per non perderla né
rovinarla troppo fra l’ammasso di vestiti.
Una volta certo di aver preso tutto, compreso il suo caro vecchio skate
– ottenuto con Zoe quando aveva accompagnato i Tokio Hotel a
Roma, – uscì dall’appartamento, dalla
sua tana, senza voltarsi indietro.
Raggiunse l’ospedale
delle anime e arrivò di fronte alla camera di Zoe. Sarebbe
stata dura dirle che se ne andava per un po’, ma doveva
farlo, per il bene di tutti. Si fece forza con un respiro profondo ed
entrò.
La donna spense la piccola tv con un tasto del telecomando.
«Ehi», lo salutò con un sorriso, che
sparì in fretta vedendolo vestito senza divisa, con lo skate
e una borsa piena al seguito.
«Che cosa
succede?», gli domandò allora, ansiosa.
«Devi andare da qualche parte?».
Franky abbandonò la
borsa di fianco alla porta e si avvicinò alla sua protetta;
si mise seduto sul letto, al suo fianco, e le avvolse le mani con le
sue.
«Che mani calde che
hai», osservò Zoe, sorpresa. Ma Franky non ci
badò più di tanto e disse:
«Vado un po’ di
sotto. Starò da Tom».
«Perché?».
«Perché…
ecco… Io e Kim ci siamo già messi
d’accordo», si salvò in corner
all’ultimo momento. No, non era ancora pronto per dirle la
verità, tutta la verità. E forse non lo sarebbe
mai stato.
«Ci siamo resi conto che
la tua situazione è più grave di ciò
che pensavamo e abbiamo deciso che io starò di sotto, col
tuo corpo, in modo tale che se dovesse succedere qualcosa
sarò già lì; invece Kim
starà qui e si prenderà cura di te».
Zoe fece una smorfia e Franky sorrise leggendo i suoi pensieri.
«Non ti preoccupare, ti puoi fidare di lei».
«Quando
tornerai?».
«Questo purtroppo non lo
so», scosse il capo, abbassando gli occhi.
«Oh, Franky»,
sussurrò e lo strinse in un forte ed inaspettato abbraccio.
«Mi mancherai tanto», mugugnò e gli
stampò un bacio sulla guancia.
«Anche tu mi
mancherai», ricambiò e le sorrise.
«Anche… anche
il tuo petto è caldo, qui… dove
c’è il cuore», fece notare ancora la
donna, alla quale era scivolata involontariamente una mano sui suo
pettorali appena pronunciati.
L’angelo se ne rese
conto, ma non riuscì a darsi una spiegazione logica. Aveva
fin troppe cose per la testa per domandarsi anche perché
alcune parti del suo corpo fossero più calde del solito.
«Ora devo
andare», le disse e si alzò dal letto.
«Mi
raccomando», lo guardò di sottecchi,
«già che sei lì dai un occhio
a…».
«Sì»,
la prevenì, sospirando e chiudendo gli occhi. Per quanto il
suo cuore fosse stranamente caldo, soffriva ancora. «Lo
farò».
Raggiunse di nuovo la porta, prese
la sua borsa e con lo skate sotto i piedi uscì, pronto
– o forse no – a ciò che lo aspettava da
quel momento in poi. Non sarebbe stato facile e questo lo sapeva, ma
non credeva di incontrare la prima difficoltà subito
all’Ufficio di Collegamento.
Si stava dirigendo verso il passaggio per gli angeli custodi, quando
Miguel, l’agente celeste che conosceva da sempre, lo
fermò.
«Non puoi passare da
qui», gli disse, lasciandolo di stucco.
«Come? Ma
io…».
«Mi dispiace,
Franky».
«E dai, Miguel! Non posso
tornare da San Pietro per farmi fare un permesso, come quando non ero
un angelo custode!».
«Ti ha sospeso,
quindi…».
«Le notizia viaggiano
velocemente», borbottò irritato. «E
adesso che devo fare?».
Miguel scrollò le spalle
e si calò ancora un po’ di più la
visiera del cappellino blu sugli occhi.
«Franky».
L’angelo, sentendo il suo
nome pronunciato da quella voce familiare, si girò e gli
venne quasi naturale dire: «Ancora tu?», quando
riconobbe Kim.
«Sì»,
ridacchiò lei. «San Pietro mi ha detto di tenerti
d’occhio».
«Wow».
Stizzito, incrociò le braccia al petto. Ma forse si meritava
pure quello.
«Dove vuoi
andare?», gli domandò.
«Vado di sotto, per
rendermi più utile, visto che qui ora sei tu che ti occupi
di Zoe».
«Non mi pare sia colpa
mia», rispose Kim con lo stesso tono arrogante, facendolo
ammutolire. Poi riprese con voce pacata: «Comunque la trovo
una buona idea: così se dovesse riaccadere quello che le
è successo qualche giorno fa tu sarai subito lì
col suo corpo». L’angelo annuì.
«Non vai di sotto per lei,
vero?».
«No!»,
urlò stridulo. «Non sono così
stupido!».
«Okay, era solo per
sapere», sorrise e tirò fuori dalla tasca un
fogliettino giallo che Franky riconobbe subito, siccome ne aveva avuti
tanti prima di diventare un angelo custode: un permesso. Glielo porse e
disse: «Ecco, puoi andare».
«Perché lo
fai?», le domandò, prendendolo quasi con timore.
«Perché io
penso davvero che tu non sia così stupido».
«Grazie»,
mormorò ed abbassò il capo, avviandosi verso il
check-in per l’ascensore “normale” che
lentamente si stava riempiendo per scendere sulla Terra.
«Davvero,
Franky…», soggiunse Kim, guardandolo negli occhi
con serietà. «Non combinare altri
casini».
L’angelo
accusò il colpo in silenzio ed annuì. Porse il
permesso alla guardia celeste e fece per salire
sull’ascensore, quando si voltò verso
l’altro angelo e gli disse: «Toglimi una
curiosità: tra tutte le palle che mi hai fatto credere,
fingevi anche quando arrossivi?».
Kim si infilò le mani
nelle tasche e abbassò il capo mordendosi un sorriso. Quando
lo rialzò, Franky notò le sue guance colorate di
rosso. «Tra tutte le palle che ti ho fatto credere, la cotta
per te non sono mai riuscita a nasconderla».
Le porte dell’ascensore
si chiusero e Franky, ancora a bocca aperta, non poté
risponderle. Ma era certo che non ci sarebbe riuscito comunque.
***
Suo figlio Arthur stava giocando
nella vasca da bagno con una macchinina, che però si
trasformava anche in sottomarino, e la faceva andare sotto e sopra
l’acqua calda, facendo finta che le cunette di schiuma bianca
fossero montagne ricoperte di neve che doveva schivare.
Tom era stanco, sentiva tutto il peso di quella giornata sulle spalle,
e si lasciò sfuggire un sospiro dalle labbra mentre, seduto
sopra l’asse del cesso, appoggiava il capo contro le
piastrelle fredde del bagno. Il bambino si accorse di quel gesto ed
interruppe il suo gioco.
«Che cos’hai,
papà?», gli chiese innocentemente.
Il chitarrista aprì gli
occhi di scatto e gli sorrise, sedendosi sul pavimento, accanto a lui.
«Niente di cui tu ti debba preoccupare». Gli
passò una mano fra i capelli bagnati e Arthur sorrise, per
poi starnutire proprio in faccia a lui.
«Oh, salute», gli disse un po’ schifato,
passandosi una mano sul viso. Ma poi si guardarono negli occhi e
scoppiarono a ridere insieme.
«Dai, esci da
lì, prima che ti becchi un bel raffreddore e poi la mamma
chi la sente».
Tom lo fece alzare in piedi e gli levò la schiuma di dosso
con il doccino. Scherzosamente gli lavò anche la faccia:
«Così siamo pari!». E poi lo avvolse nel
piccolo accappatoio bianco.
Lo prese in braccio e si
avviò verso la sua cameretta per farlo vestire. Passando per
il corridoio sentì il telefono squillare e poi Linda
gridare: «Tom! Rispondi tu, per piacere!?».
«Sto portando Arthur a
vestirsi!», urlò di rimando.
«Se volete mangiare
stasera devi rispondere tu!».
Tom roteò gli occhi al
cielo e guardò suo figlio che, con gli occhietti lucidi e un
po’ arrossati dal sapone, mugugnò: «Io
voglio mangiare».
Il padre ridacchiò e
fece retromarcia nel corridoio, entrò in salotto e sporse il
figlio verso il cordless: «Dai allora, rispondi
tu».
Il bimbo ubbidì.
«Pronto, sono Arthur!».
«Piccolo», rise
Tom, di nuovo in cammino verso la sua cameretta, «di solito
si chiede chi è, non ci si presenta».
Il bambino però non gli
badò, impegnato a premersi in modo esagerato
l’apparecchio contro l’orecchio per paura di non
sentire.
«Ciao tesoro! Sono
Jole!».
«Ciao
sorellona!», esclamò contento e a voce fin troppo
alta, questa volta per paura di non essere sentito.
«Come stai?
Perché hai risposto tu?».
«Perché ho
appena finito il bagno e mamma non voleva!».
«Perché io
avevo le mani occupate a tenerti in braccio e la mamma sta
cucinando», lo corresse Tom, avvicinando la bocca al cordless
per far sentire anche alla figlia, che rise.
«Che cosa hai fatto oggi
di bello?», gli chiese poi.
Tom intanto appoggiò
Arthur sul suo letto e gli asciugò i capelli con il
cappuccio dell’accappatoio, poi si voltò per
prendergli dei vestiti puliti nell’armadio.
«Niente»,
rispose il bambino e Jole non disse nulla, perché sapeva che
dopo quell’abituale risposta iniziava a raccontare per filo e
per segno tutto ciò che aveva fatto: un po’ come
suo padre. «Stamattina siamo andati dalla zia in ospedale, ma
dorme ancora e i dottori hanno detto qualcosa a zio Bill e a
papà, io ho provato ad ascoltare di nascosto ma non ho
capito niente».
Tom, che gli dava le spalle,
ridacchiò sottovoce, scuotendo il capo. Si voltò
con i vestiti puliti e gli gettò un’occhiata di
rimprovero, ma che si sciolse subito in un sorriso comprensivo.
«I dottori usano un sacco
di paroloni complicati che a volte stanno a significare cose molto
semplici», gli disse Jole.
«Credi che la zia si
sveglierà presto?».
A quella domanda sia la ragazza che
il chitarrista reagirono allo stesso modo: silenzio. Tom rinvenne per
primo e cercò di distrarre Arthur, dandogli i suoi vestiti e
dicendogli, con tono pacato, di vestirsi. Ma non ci fu verso di
schiodarlo da quella domanda: non avrebbe mollato il colpo fino a
quando qualcuno non gli avesse dato una risposta.
«Non lo so,
piccolo», sospirò infine la sorella maggiore,
demoralizzata. E per fortuna che Arthur era un bambino e, nonostante la
sua curiosità, riusciva ad accontentarsi anche di una
risposta del genere. Alla fine, i bambini capiscono tutto.
«Va bene, ti passo
papà», troncò di netto la conversazione
e passò l’apparecchio al padre.
Tom se lo portò
all’orecchio con estrema lentezza e poi salutò la
figlia con tono affettuoso, ma che faceva trasparire quella macchia di
tristezza che si era estesa sul suo cuore. «Come
stai?».
«Tutto bene, anche se
inizio ad avere la nausea».
«Di
già?».
«Beh… Tu come
stai?», cambiò argomento.
«A posto, più
o meno», rispose, quando gli cadde l’occhio su
Arthur che si stava infilando la maglietta. «L’hai
messa al contrario», lo avvisò, indicandola.
«Cosa?», chiese
Jole.
«No, stavo parlando con
Arthur… Come mai hai chiamato a
quest’ora?».
«Così, volevo
sentirvi… Mamma sta cucinando ancora o può venire
al telefono, adesso?».
«Non lo so, vado a
vedere». Si alzò dal letto e contemporaneamente
Arthur saltellò sul pavimento e gli chiese, unendo le mani a
mo’ di preghiera di fronte al viso: «Posso vedere i
cartoni?».
«Sì. Ma poco,
perché adesso si mangia».
«Okay!»,
gridò e corse fuori dalla cameretta per piazzarsi sul divano
del salotto fino a quando non fosse stata pronta la cena.
Tom fece il suo stesso tragitto, ma
con più tranquillità, parlando del più
e del meno con la figlia. Raggiunse la cucina e vide Linda ai fornelli,
che mescolava il contenuto di una pentola.
«Vieni qui, dimmi se va
bene di sale», gli disse, indicandogli di avvicinarsi con il
braccio.
«Sì, ma
c’è Jole che vuole salutarti». Linda
annuì e prese un cucchiaio di brodo, ci soffiò
sopra e glielo avvicinò alla bocca; Tom approvò
con un sorriso e le stampò un bacio sulle labbra prima di
passarle il telefono.
La tavola era già
apparecchiata, quindi non gli venne in mentre altro da fare se non
raggiungere Arthur e guardare un po’ di cartoni animati
insieme a lui. A furia di vederli avevano iniziato a piacergli di
nuovo, dopo anni ed anni.
Uscì dalla cucina con questo intento, ma il suo programma
venne sconvolto quando vide Franky seduto sul bracciolo della poltrona,
con gli occhi rivolti verso lo schermo della televisione.
Tom non si aspettava di vederlo
lì a quell’ora, ma ciò che lo sorprese
di più fu il fatto che non indossasse la sua divisa bianca,
quella con la quale si era abituato a vederlo, ma vestiti normali,
simili – se non identici – a quelli che indossava
prima della sua morte; inoltre, al suo fianco aveva un borsone e il suo
vecchio skate. Quei particolari lo fecero rabbrividire sul posto
perché gli venne in mente il giorno in cui Franky aveva
messo per la prima volta piede nella loro casa, con una valigia e uno
zainetto al seguito e quell’espressione
malinconica…
L’angelo finalmente si
voltò verso di lui e stirò un sorriso, poi si
alzò e si avvicinò a lui di un passo.
«Scusa se sono piombato qui all’improvviso, ma devo
chiederti un favore».
«Puoi stare»,
lo prevenì e, come al solito, si dimenticò di non
parlare ad alta voce. Infatti, Arthur si girò e lo
guardò corrugando la fronte.
«Che hai detto
papà?».
«Niente, solo
che… puoi stare ancora cinque minuti, la mamma sta parlando
con tua sorella».
«Okay», sorrise
e si rigirò contento.
Tom sbuffò guardando
l’amico e lo incitò a seguirlo, in modo tale che
potessero parlare tranquillamente. Andarono nello studio del
chitarrista, dove conservava tutte le sue preziose chitarre e dove si
trovava anche un pianoforte.
Tom si chiuse la porta alle spalle e guardò Franky da capo a
piedi e viceversa. «Okay, incomincia a spiegare»,
lo incalzò. «Perché non hai la divisa?
Perché vuoi stare qui? Perché
–».
«Mi hanno
sospeso», disse schietto, interrompendo la sua raffica di
domande.
Tom, confuso, sbatté le
palpebre più volte. «Sospeso?
In che senso?».
«Nel senso che non sono
più l’angelo custode di Zoe,
temporaneamente».
«P-Perché?»,
urlò con voce strozzata, sconvolto.
«Perché…
Perché…», Franky sospirò ed
abbassò il capo. Allora Tom capì che era una cosa
seria e si avvicinò a lui, gli posò una mano
sulla spalla e gli alzò il viso con l’altra.
«Perché,
Franky?», ripeté, questa volta più
deciso.
«Ti ho mentito. E mi
dispiace», disse col magone in gola e i lucciconi agli occhi,
ma nonostante questo non schiodò lo sguardo da quello del
chitarrista. «Non è vero che io e Evelyn non ci
siamo più visti dopo quella volta».
Who I am from the start? (I'm waiting)
Take me home to my heart (and fading)
“Vaffanculo. VAFFANCULO
FRANKY!” lo gridò nella sua testa, in modo tale
che né Linda né Arthur lo prendessero nuovamente
per pazzo, e uscendo si sbattè rumorosamente la porta dello
studio alle spalle, utilizzando tutta la rabbia che gli circolava come
fuoco nelle vene per essere stato così bellamente preso per
il culo dal suo migliore amico.
Si fermò
all’improvviso nel bel mezzo del corridoio, tornò
indietro a passo svelto, rientrò nello studio e
trovò Franky proprio come l’aveva lasciato: a
testa china, con i pugni stretti lungo i fianchi, avvolto dalla
vergogna.
Gli alzò il viso con fare brusco e gli tirò un
ceffone, poi si sbatté di nuovo la porta alle spalle ed
imprecò un ulteriore, mentale,
“vaffanculo”.
And losing what was found, a world so
hollow
Suspended in a compromise
Franky ascoltò
impassibile il rumore sordo della porta che sbatteva per la seconda
volta, poi i passi di Tom che si allontanavano nel corridoio.
Ascoltò anche i suoi pensieri e quelli fecero dieci volte
più male dello schiaffo, ma dieci volte meno del suo
sguardo: pieno d’ira, di… delusione.
Prima San Pietro, ora lui, ed era sicuro che avrebbe deluso chiunque lo
fosse venuto a sapere. Non sarebbe riuscito a sopportarlo, per questo
doveva rimanere solo fra loro.
Avrebbe potuto mentire anche a Tom, continuare con il teatrino, ma
aveva bisogno di un amico in quel momento difficile, aveva bisogno di
un “complice”. Ma forse aveva sbagliato a credere
che lui capisse. Aveva sbagliato tutto e stava solo perdendo tutti
quelli che gli stavano vicino, il tutto per una ragazza alla quale
nemmeno con tutta la forza di volontà sarebbe mai riuscito a
dire di no.
Ma non poteva dire di non essersela cercata, per cui ora doveva pagare.
Tirò su il viso, con la
guancia che ancora bruciava, e si asciugò le lacrime con i
dorsi delle mani, poi aprì la finestra e volò nel
cielo scuro. C’era un unico posto in cui voleva andare in
quel momento e ci andò, senza pensarci due volte.
Atterrò in modo un
po’ rocambolesco di fronte alle cancellate del cimitero e si
gettò uno sguardo alle spalle per controllare le sue ali:
rimase senza fiato quando vide che si stavano sfoltendo e aveva perso
un bel po’ di piume durante il volo; alcune erano persino
appiccicate alla sua felpa.
Sospirò frustrato ed entrò nel cimitero
silenzioso, illuminato solo dalle fiammelle ancora accese dei ceri
posti sopra le tombe.
Camminò con lentezza per
tutto il sentiero e raggiunse la collinetta su cui si ergeva la grande
quercia. Una volta sotto il maestoso albero, rimase ad osservare la
propria immagine fin troppo sorridente sulla lapide e per un attimo
solo desiderò essere lì sotto alla terra insieme
al suo corpo. Cancellò subito quel pensiero dalla testa
perché non aveva mai voluto fare quella fine e poi
perché non sarebbero state delle difficoltà ad
abbatterlo: avrebbe lottato, sarebbe anche caduto, ma si sarebbe
rialzato.
Si mise seduto sul marmo freddo
della sua tomba, la schiena appoggiata alla lapide, e voltò
il capo verso il motivo della sua visita a quel luogo: la tomba accanto
alla sua, quella di sua madre.
«Vorrei che tu fossi qui
e mi dicessi che non ti ho deluso», mormorò, con
voce flebile. «Mi dispiace tanto, mamma. Io…
insomma, ho sempre fatto di tutto per essere onesto, per fare del mio
meglio, per fare felici le persone al mio fianco…
Perché non posso finalmente essere felice anche io? Non
dico… fare felici le persone mi rende felice,
però… manca sempre qualcosa. Non lo
dirò mai a Zoe, né a Tom, né a nessun
altro, non ne avrei il coraggio. Per una volta… Credevo che
per una volta in cui ero io
quello felice non sarebbe successo nulla di male, e invece…
Sta andando tutto a puttane. Che devo fare? Che devo fare,
mamma?». Non riuscì più a trattenere in
gola i singhiozzi e si lasciò andare anche alle lacrime.
«Vorrei che fossi qui».
Let me go and I will run, (and holding)
I will not be silent (silent), all this time (onto these tears)
spent in vain; wasted years, wasted gain (I am crying)
***
Tom sospirò e si
alzò da tavola, iniziando a impilare l’uno
sull’altro i patti vuoti di Linda e Arthur sul proprio.
«Che stai
facendo?», gli domandò allibita la moglie.
«Sparecchio,
perché?».
Lei scosse il capo, sorridendo.
«È strano. In effetti…».
«Io vado a
giocare!», esclamò il bimbo prima di saltare
giù dalla sedia e correre in salotto.
Tom posò i piatti nel
lavabo e passò a raccogliere anche i bicchieri e le posate.
«Stavi dicendo?».
«No, che sei strano
stasera: prima sbattevi le porte e a cena non hai spiccicato
parola… Va tutto bene?».
«Oh…
sì», annuì, senza incontrare il suo
sguardo.
Posò tutto accanto ai
piatti e si appoggiò al bordo di marmo del lavello con i
pugni quando Linda lo abbracciò da dietro e
sussurrò: «Sicuro?». Allora chiuse gli
occhi e si voltò per ricambiare l’abbraccio.
Posò le labbra sulla sua fronte e la strinse forte,
respirando il profumo dei suoi capelli.
«Un mio amico mi ha fatto
arrabbiare», cominciò a spiegare. «Mi ha
tenuto nascosto un segreto che avrebbe potuto benissimo rivelarmi fin
dall’inizio».
«E rivelandotelo adesso
ti ha fatto arrabbiare?», gli chiese.
«Esatto».
«Perché te
l’ha tenuto nascosto? Te lo sei chiesto?».
«Io… no, non
lo so perché…».
«Sai», si
lasciò andare ad una risatina amara, appoggiando
l’orecchio contro il suo petto, all’altezza del
cuore. «Quando sono rimasta incinta di Jole non volevo dirlo
a mia mamma, avevo paura, e non gliel’ho detto fino a quando
questo mio segreto si è rivelato da solo, ingrandendosi
sempre di più come la mia pancia».
«E lei che cosa ti ha
detto?».
«Ha detto che avrei
potuto dirglielo tranquillamente, che mi avrebbe aiutata, che mi
sarebbe stata vicina sin dall’inizio. Adesso, io non so se il
tuo amico abbia avuto paura di dirtelo, ma può essere che
sia arrivato al punto di non riuscire più a nascondere
questo segreto».
«Sì, credo che
tu abbia ragione».
Linda sollevò il viso,
puntò il mento sul suo sterno e gli sorrise.
«Parlane con lui e sii comprensivo».
«Lo farò,
grazie», sorrise di rimando e le stampò un bacio
sulle labbra.
***
Una nuova folata di vento lo
destabilizzò e fu questione di un soffio che non si
schiantasse a terra.
Era mezz’ora ormai che
provava a tornare a casa di Tom volando, ma non ce la faceva proprio.
Le sue ali erano troppo deboli e come se non bastasse continuavano a
perdere piume. Di quel passo sarebbero diventate, da folte, morbide e
forti, delle ali di pollo rinsecchite e spiumate.
Grugnì, pensando al suo skate che aveva lasciato a casa del
chitarrista: se se lo fosse portato dietro non avrebbe dovuto farsi
tutta la strada a piedi. Comunque, non aveva altra scelta e, con la
voglia pari a zero, si mise in marcia.
Non era abituato a camminare
così tanto, viziato com’era ad utilizzare le ali
per ogni distanza, anche la più breve, ed infatti
arrivò a casa di Tom dopo quasi un’ora.
Era ormai notte fonda e credeva che avrebbe trovato tutti a letto,
compreso il chitarrista, ma lo trovò sveglio, seduto sul
divano in salotto, che guardava la tv con il volume al minimo e con
poco interesse. Lo stava aspettando.
I loro sguardi si incontrarono quasi subito e Franky, ripensando alla
reazione di quella sera, fece istintivamente un passo indietro. Lo fece
prima di scavare nel profondo nei suoi occhi, prima di capire che non
c’era più rabbia, né delusione, solo
rammarico. Ma non era ancora abbastanza per lui, faceva ancora male.
Tom indicò accanto a
sé con un cenno del capo, Franky lo raggiunse e si mise
seduto al suo fianco.
«Okay,
parliamone», esordì il chitarrista, appoggiandosi
meglio con la schiena a dei cuscini. «Perché me
l’hai tenuto nascosto?».
L’angelo non pensava che
sarebbe stato così diretto e per un attimo ne rimase
frastornato. Poi, rispose: «Noi abbiamo deciso
così, io ed Evelyn».
«Perché?».
«Perché non
credevamo… io sicuramente non credevo che la situazione
degenerasse in questo modo. E poi avevamo paura delle vostre reazioni,
insomma… che cosa diresti tu se Jole si fosse… se
fosse successa questa cosa a Jole?».
«Mi sarei
incazzato», rispose con tranquillità.
«Insomma, Franky… lo capisci benissimo anche tu
che non si può fare, tu sei un angelo».
«Sì, lo
so», abbassò il capo. «Solo
che… non lo so perché abbia ceduto proprio con
lei».
«Voglio sapere che
cos’è successo fra voi».
«Ti ho già
detto tutto prima», disse, stringendo i pugni sulle
ginocchia: ripetere tutta la loro storia sarebbe stata come riviverla e
stare ancora male.
«Avete pure
fatto…?». Non completò la frase, tanto
si capiva dove voleva andare a parare. L’angelo
annuì, serrando ancora di più le labbra.
«Ma com’è possibile? Hai sempre detto
che…».
«Mi sbagliavo»,
lo interruppe. «Cioè, non mi sbagliavo del
tutto…».
«In che senso?».
«Fa male. Malissimo. Era
come se mi avessero messo sul rogo: bruciavo, morivo di
caldo». Improvvisamente si ricordò di Zoe che gli
diceva che aveva le mani e il petto caldi. Che fosse quella la
spiegazione? Che un po’ di quel calore gli fosse rimasto
dentro?
Avvicinò lentamente una
mano a quella di Tom e la sfiorò. Il chitarrista la
osservò e poi alzò il viso per incontrare il suo
sguardo. «Sei… caldo».
«Già»,
disse come se ne fosse accorto anche lui per la prima volta.
«Mi chiedo se anche lei…».
«A proposito di lei. Che
cosa intendi fare, ora? Hai intenzione di dirglielo che sei stato
sospeso? Ma, soprattutto… che cosa vuoi fare con
lei?».
«Io… Non lo so
ancora, Tom. Ho bisogno di un po’ di tempo per
pensarci».
«E intanto che ci pensi,
io che dovrei fare?», sollevò il sopracciglio,
scettico. «Sei uno stronzo, sai? Mi hai coinvolto in questa
cosa, mi hai reso complice, e adesso devo mentire pure io a tutti per
salvarti il culo».
«Ti voglio bene,
Thomas», mormorò.
«Anche io»,
sorrise e gli passò la mano sulla testa, a mo’ di
carezza. «La stanza degli ospiti è tua.
Buonanotte».
«’Notte»,
rispose quando ormai Tom era già nella sua camera da letto,
un secondo prima di spegnere il televisore.
All is lost, but hope remains and this
war's not over (I'm dying tonight)
There's a light, there's a sun (I'm waiting...)
taking all these shattered ones
to the place we belong (I am waiting...)
and his love will conquer all
________________________________________
Buongiornooo :)
Allora, devo dire che questo capitolo è un po' pesante e
allo stesso tempo, forse anche per questo, è uno dei miei
preferiti. I nodi sono arrivati al pettine, la maggior parte, e Franky
è stato sospeso D: A causa di quello che è
successo con Evelyn sono successi un po' di casini, prima di tutti
appunto la sospensione. Ha dovuto cedere il suo posto di angelo custode
a Kim, questa Kim che, bah, è sempre più un
mistero u.u State attenti a tutto ciò che dice,
perchè sono importanti anche i particolari per capirla ;)
Per esempio, che ne pensate dell'affermazione: "Noi due siamo
più simili di quanto credi" e, quando San Pietro ha
detto a Franky che lui non amava veramente Evelyn, "Anche se
si amano davvero"? Spero di avervi messo della
curiosità :D
Franky, ovviamente, è andato a chiedere asilo al suo
migliore amico, che all'inizio l'ha presa un po' male quando gli ha
raccontato tutto; poi l'ha accettato e l'ha fatto rimanere *v*
Intanto le condizioni del corpo di Zoe continuano a peggiorare e Bill
ne soffre moltissimo D: Chissà se con Franky forzatamente al
suo fianco riuscirà a migliorare...
La canzone che ho usato in questo capitolo è la
bellissimissimissimissima Shattered, dei Trading Yesterday; è la
mia canzone preferita di questo gruppo ed è perfetta per
questo capitolo. (Consiglio di leggerlo con in sottofondo questa
canzone *-*).
Okay, sono arrivata alla fine. Ringrazio di cuore chi ha recensito lo
scorso capitolo e chi ha soltanto letto <3
Aspetto le vostre recensioni :) Alla prossima e, a proposito, d'ora
in poi il giorno d'aggiornamento sarà il venerdì!
Un bacio! Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 13 *** It's time (Don't forget us) ***
13.
It’s time (Don’t forget us)
Es ist Zeit um aufzustehen
Es wird Zeit um loszuziehen
Es ist so weit, wir müssen gehen
Wir müssen gehen
Und Abschied nehmen
Pioveva a dirotto quella mattina.
Le strade erano ricoperte di neve sciolta e marroncina: non era
più bella come quando era appena caduta. A dirla tutta,
faceva proprio schifo.
Se avesse potuto quel giorno sarebbe stata volentieri a casa, nel suo
letto caldo, ma doveva andare a scuola e non poteva più fare
assenze, o rischiava la bocciatura.
Aveva fatto un pezzo di strada con
Anja, chiacchierando del più e del meno, senza minimamente
accennare a ciò che era successo la sera precedente. Evelyn
ne era rimasta sollevata, perché solo pensarci era una
pugnalata in pieno petto.
Separata dall’amica, era arrivata a scuola in orario ed era
entrata in classe ancor prima che suonasse la campanella. Non
l’aveva fatto perché aveva freddo, ma
perché doveva ripassare storia: sentiva che la professoressa
l’avrebbe interrogata senza pietà e non era
così certa di essere preparata.
Ci aveva provato a concentrarsi, ma
tra una data e l’altra aveva abbandonato il viso in mezzo
alle pagine del libro, che ancora puzzavano di inchiostro. Non riusciva
a pensare ad altro che a lui, Franky. Era dalla mattina precedente che
non lo vedeva, la mattina dopo aver fatto l’amore.
Arrossì pensandoci e si chiese se potesse considerarsi non
più vergine: infondo lui era pur sempre un angelo…
Sollevò il capo dal
libro e si osservò le mani sulle gambe: non si era tolta i
guanti. Li levò con movimenti lenti e calcolati, tirando via
dito dopo dito, e si posò le mani sul collo, sotto i capelli
sciolti. Rabbrividì. Erano gelate, ancora.
Era dalla mattina precedente che avevano quella strana temperatura e le
erano sorti dei seri dubbi che fosse perché aveva giocato
con la neve insieme ad Arthur. Non era una reazione normale quella e
quando si parlava di anormalità le veniva subito in mente
Franky.
Chissà dov’era, che cosa stava facendo, se stava
pensando a lei. Aveva voglia di rivederlo, di stringerlo fra le braccia
e di baciarlo. Le mancava.
Lo sguardo le cadde
sull’orologio appeso al muro, sopra la lavagna, e in quel
preciso istante la campanella suonò. Guardò le
pagine sottolineate del libro di fronte a lei ad ebbe la tentazione di
mettersi le mani nei capelli: non sapeva nulla e alla prima ora aveva
storia! A quel punto non poteva far altro che sperare che non la
chiamasse, o sarebbe stata nella merda.
Sentiva il chiacchiericcio e i
passi della massa degli altri studenti che si diramavano nei corridoi
per raggiungere le loro aule: sembravano una folla di tori, talmente
facevano baccano.
Quei suoni si amplificarono, come se fino ad un momento prima fosse
stata in una bolla, isolata da tutto e da tutti, quando i suoi compagni
di classe più puntuali aprirono la porta. Ovviamente non si
degnarono di salutarla, ma in cambio le gettarono occhiatacce e fecero
smorfie.
Entrò anche Samuel, dopo un po’, e lui fu
l’unico ad accennare un sorriso mentre si avvicinava a lei.
«Ciao Evelyn»,
la salutò. «Come stai?».
«Ciao. Uhm, potrebbe
andare meglio», sollevò le spalle.
«Tu?».
«Tutto a
posto». Si chinò leggermente verso di lei per
guardarla meglio negli occhi e quel sorriso divenne ancora
più ambiguo del solito, tanto che la ragazza ne rimase
vagamente intimorita. «Per te va bene se oggi ci vediamo? Per
matematica, ti ricordi?».
«Oh, sì,
okay», annuì con la testa. «Nessun
problema».
«Perfetto. Allora dopo
scuola andiamo in biblioteca».
«Va bene».
«Fantastico»,
mormorò Samuel con gli occhi brillanti e quello che ora
somigliava moltissimo ad un sogghigno.
Evelyn non fece in tempo a
valutarlo con accuratezza, perché la professoressa
entrò in classe ed ordinò a tutti di andare ai
propri posti e di fare silenzio, minacciando di interrogare a raffica.
Samuel fu così costretto ad affrettarsi a raggiungere il suo
banco.
La bionda deglutì preoccupata udendo quelle parole;
tentò perfino di nascondersi meglio che poté
dietro la compagna che aveva di fronte.
«È inutile
nascondersi, signorina Kaulitz», disse la prof, senza nemmeno
sollevare gli occhi dal registro, su cui stava segnando gli assenti.
«Tanto lei è la prima ad essere interrogata: ho
bisogno di voti!».
Evelyn sprofondò nella
vergogna e nella disperazione più assolute quando tutti i
suoi compagni si girarono a guardarla sogghignando. Avrebbe soltanto
voluto avere le ali di Franky per un attimo, giusto il tempo di
lanciarsi giù dalla finestra e volare via, fuggire.
***
Tom venne svegliato da dei leggeri
movimenti al suo fianco. Aprì a fatica un occhio per capire
chi fosse e vide Arthur seduto nella parte di letto di Linda, che lo
osservava con gli occhioni grandi spalancati.
«Ciao
papà», gli sussurrò, allargando un
sorriso.
«Buongiorno»,
mugugnò cercando di imitarlo, ma era ancora troppo
addormentato. «Che ci fai già in piedi?».
«Devo andare
all’asilo adesso».
«Oh sì,
è vero… La mamma
dov’è?».
«Ha detto che ha visto la
camera degli ospiti aperta e c’erano un sacco di piume sul
letto».
Tom all’udire quelle
parole schizzò seduto sul letto, si levò le
coperte di dosso in fretta e furia e corse fuori dalla camera in boxer
e maglietta intima, sentendo un freddo terribile alle gambe. Il
figlioletto lo seguì, incuriosito.
«Linda!», la
chiamò Tom, sporgendosi all’interno della stanza
degli ospiti.
«Okay, dimmi che
è un tuo scherzo», disse severamente lei,
indicando le piume sul letto, che stava raccogliendo in un sacco della
spazzatura. «Non è divertente, Tom».
«Non sono
–!», si interruppe quando si rese conto che il vero
responsabile di quel macello non c’era. Dove cavolo si era
andato a cacciare? E, soprattutto, perché aveva perso tutte
quelle piume?
«Che cosa
c’è, Tom?», gli domandò la
moglie, quella volta preoccupata, notandolo così assorto nei
propri pensieri.
«Nulla»,
mormorò lui, guardando un punto indefinito sul muro.
«Scusami». Poi si voltò senza darle il
tempo di dire altro e andò ad ispezionare la casa alla
ricerca dell’angelo.
«Dove sei,
Franky?», mormorò fra sé e
sé e suo figlio lo sentì, ma non gli disse nulla.
Probabilmente Tom non si era nemmeno accorto che Arthur era con lui.
Entrò nel bagno e
finalmente lo trovò: era nella vasca da bagno, immerso
nell’acqua gelata fino al collo, con addosso ancora i boxer;
tremava e sbatteva i denti dal freddo e allo stesso tempo aveva il viso
gonfio ed arrossato, come se avesse la febbre a quaranta.
«Franky, che cazzo ci fai
lì dentro?», gli domandò a bassa voce e
gli prese un braccio per tirarlo su. «Che cos’hai?
E perché hai perso tutte quelle piume? Linda si è
incazzata e… oh merda».
Notò i profondi tagli sulla schiena di Franky, dai quali
usciva del liquido argentato, il suo sangue, ed iniziò a
capire un po’ di cose. Aveva perso tutte quelle piume
perché le ali gli stavano scomparendo, o meglio, gli stavano
rientrando
dentro. Forse era per quello che scottava così tanto ed era
privo di forze.
«Fa malissimo»,
soffiò l’angelo con voce strozzata e si
appoggiò a lui, faticando persino a stare in piedi.
«Merda, merda, merda. Non
so cosa devo fare, Franky!», rispose, nel panico. Non era
già di per sé esperto di angeli, figurarsi di
medicina celeste!
«Arthur! Arthur, dove
sei? Dobbiamo andare o farai tardi!», gridò Linda
e solo allora sia Tom che Franky si resero conto della presenza del
bambino.
«Lui riesce a
vederti?», domandò a bassa voce Tom
all’orecchio dell’angelo, che non seppe cosa
rispondere: stava diventando sempre più difficile e
più faticoso leggere nel pensiero e in quel momento non
aveva proprio l’energia necessaria anche solo per capire di
essere visto.
«Ehi, Arthur, mi
vedi?», gli domandò allora, sforzando la voce per
farsi sentire meglio.
«Sì»,
rispose il bimbo. «Tu sei Franky, l’angelo di cui
mi parlava papà».
«Esatto, sono
io», accennò un sorriso.
«Stai male?»,
gli chiese ancora, incuriosito.
«Sì, un
po’», tossicchiò.
«Arthur! Ma si
può sapere dove ti sei cacciato?! Tom!»,
urlò ancora Linda, spazientita.
«Adesso vai»,
disse l’angelo al bimbo. «Prima che la tua mamma si
arrabbi sul serio».
«Okay»,
annuì e sorrise, salutando con la manina. «Ciao
papà, ciao Franky». Poi uscì dal bagno
e li lasciò soli.
«Oh, eccoti
finalmente!», sentirono dire da Linda. «Tom! Noi
andiamo, okay? Ci vediamo dopo!».
«Sì! Ciao!
Buona giornata!», li salutò il chitarrista,
urlando.
Sia lui che Franky udirono il
rumore della porta di casa che si chiudeva e poi il silenzio
più totale li avvolse, spezzato soltanto dal respiro
affaticato e sempre più rauco dell’angelo.
«Sto andando a
fuoco», mormorò quest’ultimo.
«Non ce la faccio più». Si
accasciò ancora di più contro il chitarrista, che
fu costretto a reggerlo con più solidità.
«Mi è venuta
un’idea», gli disse. «Adesso ti porto di
là, ti stendo sul letto e ti rilassi; io intanto vado
all’ospedale e cerco di parlare a Zoe, le spiego la
situazione e…».
«No»,
biascicò, aggrappandosi alla maglietta di Tom con i pugni
per cercare di guardarlo negli occhi. Il chitarrista notò,
oltre al suo viso paonazzo, i suoi occhi lucidi ed arrossati,
contornati da profonde ombre violacee: non doveva aver chiuso occhio
quella notte a causa di quel dolore insopportabile.
«Non dirle come stanno
realmente le cose… lei non sa che mi hanno
sospeso… le ho detto che venivo di sotto per monitorare il
suo corpo…».
«Oh,
perfetto!», gridò esasperato. «E allora
che cosa dovrei fare?!».
«Dille
semplicemente… che devo parlare con Kim. Chiedile di Kim.
Lei saprà sicuramente cosa fare…».
«Kim. Okay,
Kim».
«Grazie, Tom».
Quelle furono le ultime parole che disse prima di svenire fra le
braccia del suo migliore amico.
«Figurati», gli
rispose col sorriso sulle labbra, prendendolo fra le braccia e
portandolo nella stanza degli ospiti.
Lo posò delicatamente
sul letto, ma gli strappò comunque un gemito di dolore; lo
osservò dormire con quella smorfia sul viso arrossato, fino
a quando l’occhio non gli cadde sul comodino e vide quella
foto. La prese fra le dita come se dovesse prendere una farfalla,
fragile ed indifesa, e la fissò con gli occhi lucidi
d’emozione: quella foto gli riportò alla mente
tanti ricordi e allo stesso tempo gli smosse un po’ di quella
tristezza che col passare degli anni si era depositata come polvere sul
fondo della sua anima. Era passato così tanto da quando era
stata scattata quella fotografia, erano cambiate così tante
cose… ma sostanzialmente ne erano cambiate pochissime,
perché erano sempre stati vicini, loro. Erano e sarebbero
sempre stati un gruppo, nessuno ne sarebbe mai uscito, Zoe tantomeno:
non poteva lasciarli.
Ancora un po’ indeciso,
non la rimetté dove l’aveva trovata: in quel
momento il suo posto era un altro, accanto alla persona che aveva
bisogno di tutti loro. Probabilmente non avrebbe fatto molto, ma
avrebbe di certo ricordato a tutti che erano più forti se
stavano insieme, perché loro erano una famiglia.
Tom si vestì
velocemente, non fece nemmeno colazione, ed uscì di casa,
diretto verso l’ospedale. Lo raggiunse in una decina di
minuti ed andò a passo spedito fino alla camera di Zoe, vi
entrò e si mise seduto sulla sedia accanto al suo letto.
«Ehi, ciao
Sea», la salutò, sfiorandole la mano con la sua.
Il silenzio che ricevette in
risposta fu come al solito angosciante. Era impensabile che lei,
proprio lei, stesse rischiando la vita. Avevano perso già
Franky, non poteva abbandonarli anche lei.
Posò la fotografia sul suo comodino, contro il vaso che
conteneva dei fiori un po’ appassiti che se solo qualcuno
gliel’avesse detto ne avrebbe portati di nuovi, poi
tornò a concentrarsi sulla sua amica, ancora intubata, con
una flebo nel braccio destro ed attaccata a tutti quei macchinari che
la monitoravano costantemente.
«Quand’è
che ti deciderai a tornare, eh? Qui ci manchi, tanto».
Sospirò e si passò velocemente un braccio sugli
occhi. «Ma a parte queste cose che credo che tu ormai sappia
a memoria, sono venuto per usarti ancora come centralino: Franky deve
parlare con una certa Kim».
***
Kim e Zoe si lanciavano occhiatine
da più di mezz’ora e non si erano dette
più di cinque parole a testa. Si scrutavano cercando di
capire che intenzioni avesse l’altra e alla fine Zoe
abbandonò l’impresa, sapendo di essere
già in svantaggio contro una persona che molto probabilmente
sapeva leggerle nel pensiero. Così prese una rivista dal
comodino e si mise a leggere.
Certo, ogni tanto le cadeva l’occhio sulla figura quasi
immobile di Kim, che intanto aveva iniziato a leggere anche lei un
libro, ma non aveva alcuna intenzione di chiederle qualcosa. Dopotutto
non era nella sua lista delle persone simpatiche lì in
Paradiso e non credeva di poter condividere qualcosa con lei: erano
troppo diverse. A dirla tutta non le stava nemmeno bene che fosse stata
lei a prendere il posto di Franky, una sua alunna della quale non
sapeva praticamente niente. Ma non poteva di certo cacciarla.
Zoe venne distratta dai suoi
pensieri da un sospiro appena accennato, che le fece abbassare la
rivista. Kim, dal canto suo, aveva chiuso il libro, con un foglietto
giallo fra le pagine per tenere il segno, e la stava guardando.
«So che non ci conosciamo
nemmeno», esordì l’angelo. «Ma
volevo farti una domanda».
«Rispetto a
cosa?», le domandò, insospettita e piuttosto
scettica.
«Franky».
Zoe arricciò il naso.
«E lui che c’entra?».
«Beh, ecco,
io… Niente, lascia stare», borbottò e
tornò alla sua lettura, avvicinandosi in maniera esagerata
alle pagine del libro col viso, come se volesse nascondersi.
Zoe non ci mise molto a fare due
più due e il risultato fu ovvio: Kim provava qualcosa per
Franky. Saperlo le pizzicò un po’ lo stomaco.
«Mi dispiace», le disse allora, «ma
Franky esce già con una ragazza».
Kim alzò il capo e la
guardò corrugando la fronte. «Eh?».
«Sì, una
ragazza del Paradiso che però non mi ha voluto far
conoscere», scrollò le spalle e tornò
alla sua rivista con fare indifferente, come se le avesse detto che
quel giorno ci sarebbe stato il sole. Con la coda
dell’occhio, però, vide Kim accennare un sorrisino
amaro che non riuscì a spiegarsi. Un po’
perché non ci sarebbe arrivata, un po’
perché venne distratta dalla sensazione di una mano che
accarezzava la sua.
Il suo cuore sobbalzò
all’udire la voce di Tom e chiuse gli occhi lucidi per
concentrarsi meglio. Era da tanto che non riusciva a sentire i suoi
amici e voleva riuscirci, oltre che per il piacere di sentirli, anche
per riuscire a credere di avere ancora una speranza di tornare da loro.
“Ma a parte queste cose
che credo che tu ormai sappia a memoria, sono venuto per usarti ancora
come centralino: Franky deve parlare con una certa Kim”,
disse Tom e lei aggrottò le sopracciglia, infastidita: non
le piaceva che la usassero da messaggero. “Ha detto che
è importante…”, continuò e
dal suo tono di voce capì che era davvero
importante, tanto che si preoccupò un po’. Che
fosse successo qualcosa al suo angelo?
«Kim»,
richiamò l’attenzione dell’angelo, senza
aprire gli occhi per non deconcentrarsi, semmai Tom le avesse detto
qualcos’altro. «Franky vuole parlare con
te».
«Che cosa? Sul
serio?», domandò lei, alzandosi dalla sedia ed
avvicinandosi a lei. «Te l’ha detto lui?».
«No, un nostro
amico… dice che è importante».
Kim rimase qualche secondo in
silenzio, a riflettere, poi capì quello che poteva essergli
successo. «Okay, corro», le disse e si
precipitò fuori dalla stanza.
Zoe non fece in tempo a dirle
nient’altro, ma cosa avrebbe potuto dirle, quando ormai il
collegamento fra lei e Tom si era spezzato?
La donna si era promessa di essere
sempre positiva, ma tutto quello che stava succedendo in quel periodo
le stava sempre più facendo pensare al peggio. Sarebbe
davvero riuscita a cavarsela, a tornare dalle persone che amava?
«Tu ce la farai, te
lo prometto, costi quel che costi»,
ricordò le parole di Franky e si aggrappò a
quelle, ancora una volta: era l’unica cosa che poteva fare.
***
Kim arrivò di sotto
già con il cuore in gola, stretto in una tenaglia
d’acciaio. Erano anni che non andava sulla Terra, fra i vivi,
e non pensava che l’avrebbe rifatto così
facilmente. Invece, era bastata una richiesta d’aiuto di
Franky e non ci aveva pensato due volte prima di precipitarsi
lì.
Camminava a passo svelto per le
strade d’Amburgo, con il cappuccio della felpa sulla testa e
lo sguardo basso, le mani in tasca. Gli umani potevano vederla, come
accadeva per tutti gli angeli speciali, ma lei non voleva vedere loro:
per ciò che era successo nel suo passato aveva paura di
sollevare lo sguardo ed incrociare degli occhi che le avrebbero fatto
tornare tutto alla mente. Ci aveva messo tanto tempo per cercare di
cicatrizzare quelle ferite e non voleva che si riaprissero: avrebbe
fatto troppo male.
Aveva visto nella mente di Zoe
tutte le facce dei suoi amici, aveva scoperto dove vivevano e aveva
visto anche uno scorcio di conversazione fra lei e Franky, nella quale
l’angelo le diceva che sarebbe stato un po’ di
tempo da Tom. Per cui Kim sapeva esattamente dove andare.
Raggiunse la villa appena fuori
città del chitarrista dei Tokio Hotel e non vedendo la sua
auto dedusse che doveva essere ancora all’ospedale, con il
corpo di Zoe.
Fece attenzione a non farsi riprendere dalle telecamere di fronte al
cancello, diventando invisibile agli occhi umani, e fu costretta ad
entrare in casa trapassando la porta, nonostante non le piacesse
invadere in quel modo gli spazi altrui. Ma non poteva aspettare, Franky
aveva bisogno di lei.
Camminò con cautela
nell’ampio salotto, salì le scale che portavano al
piano superiore e man mano che avanzava nel corridoio su cui si
affacciavano le porte delle varie stanze, sentiva di avvicinarsi sempre
di più a Franky, fino a quando non arrivò di
fronte alla porta della stanza degli ospiti:
l’aprì e steso sul letto vi trovò
l’angelo, che dormiva con la sofferenza dipinta sul viso
sudato ed arrossato.
Corse da lui, lo voltò con un po’ di fatica a
pancia in giù e vide i grandi e profondi tagli provocati
dalle ali che gli erano rientrate. Kim chiuse gli occhi e strinse i
denti: sapeva cosa voleva dire soffrire in quel modo, ci era passata
anche lei.
«Kim»,
sussurrò con voce strozzata Franky, aprendo a fatica gli
occhi. «Sei arrivata».
«Sì»,
gli rispose accennando un sorriso. «Ho fatto il prima
possibile».
«Ti prego fai qualcosa,
è insopportabile».
«Faccio del mio
meglio».
Si mise seduta al suo fianco, lo
fece stendere meglio a pancia in giù e gli disse di
rilassarsi, poi posò delicatamente le mani sui tagli e
chiuse gli occhi per concentrarsi. Appena la luce biancastra, quella
guaritrice, fuoriuscì dai palmi delle sue mani, Franky
gridò con tutto il fiato che aveva in gola, straziato dal
dolore.
Kim strinse gli occhi, ripetendo mentalmente e continuamente
“scusa”: gli stava facendo ancora più
male, ma era l’unico modo per farlo star meglio.
«KIM BASTA!»,
gridò contorcendosi sotto di lei, ma l’angelo
speciale aumentò la potenza per finire prima, facendolo
soffrire ancora di più.
«Manca poco, te lo
giuro», mormorò e dopo un ultimo fascio di luce si
accasciò sul letto, accanto a lui, sfinita.
L’angelo aveva gli occhi
chiusi, teneva ancora i denti stretti, ma i suoi muscoli si stavano
lentamente rilassando, mano a mano che il dolore scompariva, lasciando
dietro di sé solo una piccolissima traccia, più
che sopportabile.
«Scusami, ma era
l’unico modo», disse Kim, con il viso rivolto verso
il suo, infiammato e sudato.
Franky aprì gli occhi
verdi e fissò intensamente quelli di lei. Poi
accennò un sorriso. «Non importa. Ero certo che tu
sapessi cosa stessi facendo. Grazie per essere venuta».
«Non mi devi
ringraziare», rispose mentre le sue guance prendevano colore.
«Stai meglio, ora?».
«Sì, ma sono
stanco».
«È normale.
Pian piano recupererai le forze e il dolore scomparirà del
tutto».
Franky annuì e Kim,
ancora sdraiata al suo fianco, si rese conto di quanto i loro visi
fossero in realtà vicini. Accarezzò
l’idea di sfiorargli la fronte imperlata di sudore con le
dita e lo fece, provocando la reazione dell’angelo, che
aggrottò le sopracciglia ma che, stranamente, non la
scansò. Kim si avvicinò ancora di più
a lui, chiudendo gli occhi, ma quando ormai era ad un soffio dalle sue
labbra la porta della camera si aprì e la costrinse ad
allontanarsi velocemente, sobbalzando.
«Ehm…».
Tom, sulla porta, non sapeva se tornare indietro facendo finta di
niente o chiedere delle spiegazioni. «Scusate, non volevo
interrompere nulla…».
Guardò Franky e gli
chiese mentalmente chi fosse quella ragazza, ma l’angelo non
parve sentire i suoi pensieri ed infatti gli rispose la diretta
interessata:
«Io sono Kim».
«Oh»,
esclamò sorpreso. «Hai fatto presto. Ma tu non sei
come Franky… Sei un angelo speciale, per caso?».
«Esatto! Tu
come…?».
«Ne abbiamo
già conosciuti due, tempo fa», le
spiegò Franky, schiarendosi la voce. Provò a
tirarsi su, ma la schiena gli faceva ancora male e dovette aiutarlo Tom
per far sì che si appoggiasse con le spalle alla testata del
letto.
«Come stai?»,
gli domandò quest’ultimo, in pensiero.
«Va già
meglio, grazie».
Kim si sentiva fuori luogo,
completamente estranea alla situazione, ed inoltre aveva ancora il viso
rosso dalla vergogna per aver provato a baciarlo ed essere stata
interrotta. Decise così di liquidarsi.
«Okay, allora
io… vado», mormorò abbassando il capo.
«Grazie», disse
Franky. «Salutami Zoe».
«Certo»,
accennò un sorriso. «Ciao, a presto. E Tom,
scusami se sono entrata senza permesso in casa tua».
«Oh, non
c’è problema», le rispose, frastornato
da tanta gentilezza. «Grazie anche da parte mia per aver
aiutato Franky».
«Non
c’è di che», sorrise e poi
scomparì nel nulla di fronte a loro.
Tom e Franky, rimasti soli, si
guardarono negli occhi e il primo disse: «Okay, credo che tu
mi debba spiegare anche perché lei ti stava per
baciare».
«Va bene»,
sospirò il secondo, roteando gli occhi al cielo.
«Ma prima non è che potresti fasciarmi i tagli
sulla schiena?».
«Pure da crocerossino ti
devo fare?», sollevò il sopracciglio, con un
sorriso obliquo sul viso.
Franky lo imitò,
però maliziosamente. «Uh, eccitante».
***
L’ultima campanella
decretò la fine di quelle giornata scolastica.
Il morale di Evelyn era
più che sotto terra. La professoressa di storia
l’aveva interrogata per prima, come le aveva annunciato, e
nonostante avesse studiato aveva collezionato l’ennesimo voto
negativo. Non ce la faceva a stare dietro al programma, non ce la
faceva a studiare adeguatamente a casa… non ce la faceva
più, semplicemente.
Vide Samuel già pronto
per andare, che l’aspettava all’entrata
dell’aula, così si affrettò a
raggiungerlo. Si sentiva un po’ nervosa e aveva fame, per
questo gli propose di andare prima a prendere qualcosa da mangiare al
bar della scuola. Samuel acconsentì, ma una volta
lì non prese niente. Evelyn invece si comprò un
panino e una bottiglietta d’acqua.
«Possiamo
andare?», le domandò, con una nota di impazienza
nella voce.
Evelyn, confusa, annuì
col capo e lo seguì. Non parlarono per tutto il tragitto
dalla scuola alla biblioteca e questo non rilassò affatto la
ragazza, che ogni minuto che passava si sentiva sempre più
in ansia, senza alcun motivo ben preciso. Era così tesa che
persino la vibrazione del suo cellulare la fece sobbalzare, quando
ormai stavano camminando nel parco – deserto – nel
quale si trovava la biblioteca.
Lo tirò fuori dalla
tasca dei jeans e rispose velocemente: «Pronto!».
«Tesoro, che cosa vuol
dire quello che mi hai scritto nel messaggio? Ossia che non torni a
casa perché devi studiare matematica con un tuo compagno di
classe?».
«Vuol dire esattamente
quello che hai detto», rispose e guardò con la
coda dell’occhio Samuel, che intanto si guardava intorno
mordendosi le labbra.
«Non mi pare che tu abbia
mai avuto degli amici a scuola…».
Quella frase la spiazzò,
ma ci mise poco a reagire. «E quindi? Adesso ce li
ho».
«Oh, allora…
bene, sono contento».
«Anche io. Scusa, adesso
devo andare. Ci vediamo dopo, ciao». E chiuse la chiamata
tanto in fretta come l’aveva iniziata. Poi si rivolse a
Samuel con un timido sorriso: «Scusa, ma mio padre a volte
è proprio un rompipalle».
«Sì,
immagino…», biascicò, portandosi alle
labbra quella che Evelyn riconobbe come essere una canna. «Ti
dispiace se fumo?», le domandò, con tono innocente.
«Ahm…
no», rispose, anche se incerta.
Samuel annuì e si
fermò sotto un albero a fumare; Evelyn, al suo fianco, era
tesa come una corda di violino.
«Hai mai fatto uso di
droghe?», le chiese fra una boccata e l’altra.
«No», rispose
intimidita.
Il ragazzo ridacchiò.
«Strano. Sei la figlia di una rockstar e non hai mai provato
a farti?». Lei abbassò il capo e non rispose, ma
non perché si vergognava, perché non avrebbe
saputo che cosa rispondere.
«Comunque sia»,
riprese Samuel, facendo l’ultimo tiro alla sua canna per poi
gettarla a terra, fra l’erba ancora umida di pioggia.
«Saprai che non si comprano da sole… sono un
costo, alla fine, e per un ragazzo come me non è
facile…». Evelyn, ancora a testa bassa,
sgranò gli occhi e si pietrificò sul posto.
«Te lo dico chiaro e tondo, tanto so che tu sei intelligente
e capirai subito: ho bisogno di soldi».
«E io… io che
cosa c’entro?», mormorò, più
che spaventata.
«Tu di questi problemi
non ne hai! Non ti cambiano la vita cinquanta euro in più,
cinquanta in meno…».
La bionda alzò di scatto
il capo e lo guardò negli occhi con i suoi lucidi ed
impauriti. «No», rispose con voce tremula,
sull’orlo del pianto. «Non funziona
così, io… io non li ho…».
L’espressione di Samuel
cambiò radicalmente, faceva davvero paura, ed Evelyn
arretrò di un passo, poi di un altro. Se ne sarebbe andata
via di corsa se solo lui non l’avesse afferrata per il polso,
non l’avesse spinta contro un albero dalla corteccia umida e
bloccata con il proprio corpo.
«Non dire
cazzate», sillabò ad un centimetro dal suo viso,
con l’alito che puzzava ancora di fumo e gli occhi neri
arrossati. «Non sarai davvero così stupida da
mentirmi».
«Te lo giuro,
io…!».
Samuel non ci pensò due
volte prima di tirarle una sberla e toglierle bruscamente lo zaino
dalle spalle mentre era ancora frastornata. Lo aprì di
fronte a lei, in modo tale da averla sempre sotto tiro, e
tirò fuori dalla tasca anteriore il suo portafoglio, dentro
al quale vi trovò solo dieci euro in carta e qualche
spicciolo in moneta. La guardò truce e le lanciò
addosso lo zaino aperto e il portafoglio svuotato, che poi caddero a
terra, tra il fango e l’umidità provocati dalla
pioggia di quella mattina.
«Faresti meglio a
chiedere un prestito al paparino e farti trovare un po’
più fornita la prossima volta», le disse
minacciosamente, assottigliando gli occhi. Si intascò
ciò che si era “guadagnato” in quella
prima tornata e prima di andarsene aggiunse: «Ah, il mio non
è un consiglio».
Evelyn lo guardò sparire
lungo il sentiero e una volta lontano guardò i suoi libri e
i suoi quaderni sparpagliati ai suoi piedi, ormai umidi e sporchi di
terra. Si piegò a raccoglierli e senza nemmeno accorgersene
iniziò a piangere: le lacrime le scivolarono sul volto,
discrete e silenziose, e il bruciore che sentiva dentro per essersi
cacciata in quel casino di dimensioni esorbitanti era dieci volte
più intenso di quello che sentiva alla guancia per lo
schiaffo ricevuto.
Tirò su col naso
distrattamente e pulì lo zaino dai residui di terra alla
bell’e meglio, poi se lo rimise sulle spalle e si
incamminò per ritornare a casa.
Iniziò di nuovo a piovere, quella pioggia infima, finissima,
della quale nemmeno ci si rende conto, se non quando si è
ormai bagnati fradici.
Il cellulare le vibrò
nella tasca: le era arrivato un messaggio, di Martin.
Ciao Evelyn, sono io, ancora. Volevo solo
sapere come stai…
La ragazza tirò su di
nuovo col naso e si schiarì la voce, inoltrando la chiamata
e portandosi il cellulare all’orecchio. Non sapeva
perché lo stava facendo, ma sentiva che era la cosa giusta
da fare.
***
Martin, seduto sulla sua poltrona,
abbandonò il cellulare sul ripiano della scrivania, accanto
a dove aveva appoggiato i piedi, e si portò le mani dietro
la nuca, chiudendo gli occhi e sospirando.
Ormai le scriveva quasi tutti i giorni e non pensava che gli
rispondesse, ma ci sperava sempre.
Avrebbe dovuto studiare a quell’ora, ma non ce la faceva
proprio. Era da tanto che non la vedeva e gli mancava, ogni giorno di
più. Ma era impossibile che si fosse innamorato…
si conoscevano così poco!
Evelyn era sparita dalla sua vita
come era sparita quella presenza che ogni tanto prendeva il controllo
del suo corpo. Che quei due fossero collegati a quel punto
l’aveva capito, ma non riusciva a capire che cosa
c’entrasse lui in tutto quello. Che fosse stato pescato a
caso?
Beh, che enorme botta di culo,
pensò fra sé e un attimo dopo il suo cellulare
iniziò a suonare. Rischiò di ruzzolare sul
pavimento talmente tanta era stata la foga con cui si era gettato sulla
scrivania, ma alla fine, sano e salvo, rispose, senza nemmeno guardare
chi fosse.
«Sì, ci
sono!», gridò.
Silenzio. Poi qualcuno che tirava
su col naso e una voce impastata che sussurrava: «Ciao,
Martin».
«E-Evelyn»,
mormorò, incredulo. «Ciao, non credevo che
tu…».
«Sono
un’ingrata e mi sto vergognando tantissimo in questo momento,
ma mi devi venire a prendere».
«C-Certo! Dove? Dimmi
dove».
«Sono al parco della
biblioteca».
«Okay, arrivo
subito».
Martin chiuse la chiamata e corse
fuori dalla stanza infilandosi la felpa, attraversò il
salotto, dove si trovava sua sorella che guardava indisturbata la
televisione, e andò da sua madre, alla quale rubò
le chiavi della macchina.
«Dove vai?»,
gli chiese Pamela.
«Un pacco di cavoli tuoi
mai, eh?», le rispose e si sbattè la porta di casa
alle spalle.
Saltò in macchina e
sgommò via, verso la sua destinazione, dove
arrivò in pochissimo tempo. Parcheggiò nel primo
buco libero che trovò e corse all’interno del
parco sotto la pioggia fine, fino a quando non intravide la figura di
Evelyn sotto un albero, che aveva il viso rivolto verso
l’alto ma gli occhi chiusi.
«Evelyn!», la
chiamò, pietrificandosi sul posto.
La ragazza aprì gli
occhi azzurri e quello sguardo gli fece perdere un battito: era troppo
intenso, troppo bello, ma anche così triste.
Si staccò dal tronco dell’albero e lo raggiunse a
passi lenti; una volta di fronte a lui lo abbracciò,
nascondendo il viso nel suo petto.
Martin arrossì e ci impiegò qualche secondo per
ricambiare, ma una volta datosi l’imput la strinse forte e
tutta la timidezza scomparì.
La pioggia continuava a scendere
dal cielo con insistenza.
Si scostarono l’uno
dall’altra solo dopo minuti interminabili. Martin la
guardò negli occhi e le sfiorò la guancia
arrossata, delicato come se stesse accarezzando una rosa. «Ti
va di spiegarmi cos’è successo? Magari davanti a
qualcosa di caldo?».
«L’ultima parte
sì, volentieri», tirò di nuovo su col
naso e si spostò di lato la frangetta bagnata.
«E va bene»,
sospirò con un mezzo sorriso e le avvolse le spalle con un
braccio, accompagnandola all’auto.
***
«Mmh, quindi lei ha una
cotta per te», ricapitolò Tom, dopo aver bevuto
l’ultimo sorso d’acqua nel suo bicchiere. Franky,
seduto di fronte a lui, annuì.
«E tu?», continuò allora il chitarrista,
mentre si alzava per portare il piatto vuoto nel lavandino e gli dava
le spalle.
«Io cosa?»,
domandò l’angelo con cipiglio perplesso.
«Dai Franky, hai capito
benissimo, non fare il finto tonto».
Franky abbassò il capo,
mordendosi le labbra e stringendo i pugni sulle gambe.
Il dolore provocato dalle sue ali era fortemente diminuito, ma non era
scomparso, esattamente come quello che sentiva in mezzo al petto ogni
volta che pensava che, per una volta in cui avrebbe voluto essere
felice lui, stava perdendo tutto ciò per cui aveva lottato
così duramente, colui che era diventato con tanta fatica.
Tom, insospettito dal silenzio
dell’amico, si voltò e lo guardò per
qualche secondo senza sapere che dire. Pensò milioni di cose
e gli tornò in mente quella mattina, quando gli aveva
domandato mentalmente chi fosse quella che poi si era rivelata Kim: lui
non era riuscito a rispondergli… Che, oltre a perdere
l’utilizzo delle ali, stesse perdendo tutti i suoi poteri da
angelo, tra cui anche…
Tom deglutì.
“Franky?”, lo chiamò telepaticamente.
“Franky, mi senti?”. Ma da lui nessuna risposta:
non riusciva a percepire i suoi pensieri.
«Franklin…»,
lo guardò con gli occhi tristi e lui scostò
subito lo sguardo, mordendosi ancora le labbra.
«Sono stanco, vado a
dormire un po’», mormorò alla fine e si
alzò dalla sedia tenendosi ad essa con una mano, poi
abbandonò la cucina e raggiunse la sua camera, dove si
rifugiò.
Ma non rimase molto tempo da solo, perché Tom
bussò ed entrò senza attendere una sua risposta.
Lo aiutò a sdraiarsi sul letto, con due cuscini dietro le
spalle, e lo imitò, stendendosi al suo fianco.
«Così sembri
più umano», gli confidò, con
l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«E ti piace?»,
gli domandò l’angelo, voltando il capo verso il
suo per poterlo guardare negli occhi.
«A me piaci sempre e
comunque: sei il mio Franky».
Riuscì a strappargli un
sorriso ed una risata. «Oh, mi mancavano queste dichiarazioni
d’amore! Sai, se non stessi male ti abbraccerei e faremmo
l’amore per tutto il pomeriggio».
«Non sai quanto mi
piacerebbe, ma sono sposato e ho un figlio
piccolo…».
Franky sollevò il
sopracciglio ed insieme scoppiarono a ridere.
«Sono a casa!»,
sentirono urlare da Linda dopo un po’.
«Ecco,
appunto», disse Tom, sempre con quel sorriso divertito sulle
labbra. «Vado da lei».
Franky chiuse gli occhi per
concentrarsi meglio, ma non riuscì ad accedere nemmeno ai
pensieri più superficiali e momentanei di Linda. Sconfitto,
lasciò andare indietro la testa ed accennò un
sorriso amaro. «Va bene».
«Torno subito, non ti
preoccupare». Si voltò, ma l’angelo lo
fece rimanere tenendogli la mano.
«No, Tom»,
disse. «Non devi preoccuparti così per me, fai
tutto quello che devi fare e poi, se ti avanza del tempo, stai con
me».
Il chitarrista lo guardò
negli occhi e sorrise, perché il suo amico non era affatto
cambiato, nonostante tutti i casini che aveva combinato.
«Il solito altruista», bofonchiò
ridacchiando ed uscì dalla stanza dopo aver visto il sorriso
comparire anche sulle sue labbra.
Trovò Linda stesa con il
busto sul divano, le gambe appoggiate sopra lo schienale, gli occhi
chiusi e un braccio sulla fronte. Sembrava davvero stanca.
Tom la raggiunse senza farsi sentire, si sporse su di lei e le
posò un delicato bacio sulle labbra. La donna non
aprì gli occhi, ma sorrise ed accarezzò i capelli
del marito con dolcezza.
«Bentornata»,
le sussurrò Tom, accarezzandole una guancia.
«Uhm, grazie»,
mugugnò stiracchiandosi e finalmente aprì gli
occhi, quegli occhi castani che lo avevano stregato sin dalla prima
volta in cui li aveva visti. Ricordando quell’episodio, gli
venne in mente anche della questione di Jole e di sua figlia. Doveva
ancora parlarne con Franky e l’avrebbe fatto presto.
«A che pensi?»,
gli domandò Linda, sfiorando con la punta delle dita le
increspature sulla sua fronte alta.
Scosse il capo per riprendersi.
«Niente», sorrise. «Piuttosto,
com’è andata la giornata?».
«Bene dai…
tutto tranquillo».
«Nessuna rivolta coi
girelli?», domandò alzando il sopracciglio,
divertito.
«No, scemo»,
gli tirò uno schiaffettino sul braccio e rise anche lei.
«I nostri pazienti sono un amore, è solo il
generale che a volte da’ di matto… oggi era
tranquillo».
«Mi piacerebbe venire un
giorno con te alla casa di riposo per vedere che cosa
succede».
«Non ci si annoia mai. Un
po’ come con te», rise e lo baciò di
nuovo sulle labbra. Poi sorrise maliziosa: «Tra un
po’ diventerai anche tu un nonno…».
«Ehi, ehi», la
fermò subito, portandole un dito sulle labbra.
«Che io diventi nonno non vuol dire che io diventi anche
vecchio!».
«Giusto, hai
ragione», sorrise. «Allora visto che sei ancora un
ragazzino perché non ti alzi da qui e vai a prendere Arthur
all’asilo?».
Tom socchiuse gli occhi e
stirò un sorrisetto furbo mentre si portava una mano sulla
schiena. «Improvvisamente mi è venuto un dolore
proprio qui…».
Linda lo spinse via ridendo.
«Ma per favore!».
Il chitarrista le rubò
un ultimo fugace bacio e, portandosi teatralmente una mano sul petto,
disse: «Okay, sono l’unico in grado di compiere
quest’arduo gesto: vado a prenderla io la bestiola».
«Occhio a come
parli!», gli tirò il cuscino in faccia ed
inscenarono un inseguimento per tutto il salotto, fino a quando si
resero conto, fra baci e carezze, che era tardissimo.
«Corro a prendere
Arthur!», gridò Tom, precipitandosi a prendere la
giacca e le chiavi dell’auto.
«Vai piano che la neve
è tutta sciolta e…».
«Era in senso
metaforico!», la interruppe. Sulla porta, aggiunse:
«Ah, è probabile che passi un attimo da Bill dopo,
quindi non ti preoccupare se ci mettiamo tanto a tornare».
«Va bene», lo
prese per il colletto della giacca e gli intrappolò le
labbra in un bacio mozzafiato. «Salutami tutti».
«Certo»,
mormorò ancora intontito.
Si chiuse la porta del garage alle
spalle e sorrise come un ebete per tutto il tragitto verso
l’auto. Linda gli aveva fatto tornare il buon umore e sentiva
di amarla esattamente come il primo giorno, se non di più.
Era una bella sensazione.
Arrivò
all’asilo di Arthur senza nemmeno rendersene conto, con la
testa così persa fra le nuvole. Scese dall’auto
stando attento a non bagnarsi con la pozza proprio di fronte a lui ed
entrò nella struttura.
«Papà!»,
gridò stridulo suo figlio, alzandosi dal banchetto su cui
stava pitturando, e corse verso di lui con il grembiulino bianco
– che non era più definibile tale, visto le enormi
chiazze di tempera colorata – che si sollevava sulla schiena
come un mantello.
«Ehi piccolo!»,
lo salutò abbassandosi ed aprendo le braccia per
accoglierlo. Il bimbo ci si gettò in mezzo e gli avvolse il
collo con le braccia, mentre Tom lo alzava e faceva mezzo giro su se
stesso.
«Come stai, tutto a posto?», gli domandò
successivamente, guardandolo negli occhi. Arthur annuì e
proprio in quel momento arrivò l’educatrice che si
occupava di lui e del suo gruppo.
«Salve signor
Kaulitz», lo salutò la ragazza.
«È venuto a ritirare il pargolo?».
«Sì»,
sorrise sistemandosi meglio il bambino fra le braccia. «Ha
fatto il bravo?».
L’educatrice sorrise
dolcemente guardando Arthur, che arrossì e nascose il viso
contro il collo di suo padre. «È un amore,
davvero».
«Ciao Arthur!»,
lo salutò con voce squillante una bambina dai capelli rossi,
muovendo la manina.
«Saluta», lo
incitò Tom e il bimbo obbedì, ma a bassa voce,
arrossendo come un peperone. Poi, gli disse, con tono lamentoso:
«Papà andiamo a casa?».
«Sì, adesso
andiamo», gli sorrise e gli accarezzò il capo
prima di voltarsi verso l’educatrice. «Noi
andiamo».
«Certo»,
sorrise cordialmente. «Ci vediamo domani Arthur!».
«Ciao»,
salutò questo e tutto contento si lasciò mettere
a terra per poter camminare da solo verso l’auto del padre
che, fra l’altro, era dovuto andare a prendere il suo
zainetto e le sue cose.
Ho
un figlio che è un amore, sfaticato e timido con le ragazze.
Più che a me somiglia a Bill!
rifletté mentre gli allacciava la cintura sul seggiolino.
Poi salì in macchina ed avviò il motore, che
iniziò a fare le fusa.
«Ah, piccolo, ti scoccia
se andiamo un po’ da zio Bill? Gli devo parlare»,
lo informò Tom.
«No, va bene.
C’è anche Evelyn?».
«È quello che
vorrei sapere pure io…», mormorò
soprappensiero.
Arrivarono a casa di Bill una
ventina di minuti più tardi.
Arthur si fece aiutare dal suo papà per raggiungere il
campanello e qualche istante dopo suo zio aprì, sorridendo
come faceva da quella maledetta sera: in modo superficiale e con quel
retrogusto amaro.
«Ciao! Che ci fate da
queste parti?», gli chiese, spostandosi per farli entrare.
Tom stirò un sorriso e
tossicchiò. Bill capì che doveva parlargli di
qualcosa di abbastanza serio.
«Piccolo vuoi vedere i
cartoni?», gli domandò suo zio, chinandosi un
po’ sulle ginocchia.
«Sì!»,
squittì Arthur con gli occhi brillanti e si
piazzò davanti alla televisione. Tom e Bill, invece, si
riunirono in cucina per poter parlare indisturbati.
Si misero seduti al bancone, uno di fronte all’altro, le
braccia appoggiate sul ripiano di marmo.
«È successo
qualcosa?», domandò subito Bill, in ansia.
«In effetti
sì. Franky…», sospirò e si
passò una mano sulla fronte: sarebbe stata dura mentire a
lui, ma doveva almeno provarci. «Franky non è
più l’angelo custode di Zoe».
Bill strabuzzò gli
occhi, incredulo. «C-Come? Perché?!»,
balbettò.
«È una cosa
temporanea… l’hanno sospeso».
«Sospeso? Ma…
perché voglio sapere!», si impuntò e
diventò rosso in viso e sul collo.
«Perché…
non me l’ha detto perché!»,
farfugliò Tom. Il gemello arricciò il naso e
dovette fare di tutto perché non gli leggesse nel pensiero.
«Diciamo che ti
credo», disse alla fine. «E quindi Zoe
adesso… Chi si prende cura di lei
lassù?».
«Un altro angelo, si
chiama Kim… è un’amica di
Franky…».
«Amica?»,
sottolineo il termine, sollevando il sopracciglio.
«Insomma, lei ha una
cotta per lui, ma è un’altra storia!»,
scosse il capo con insistenza. «Fino a quando non
ritornerà ad essere un angelo custode ho la sensazione che
resterà a casa mia».
«Uhm, okay…
così hai anche tempo per chiedergli di Jole».
«Sì,
esatto… ma questo è secondario,
perché… non è che lui stia proprio
bene…».
Bill aggrottò le
sopracciglia, confuso per l’ennesima volta.
***
Evelyn guardò Martin,
seduto al volante, e gli sorrise piena di gratitudine.
«Grazie mille, davvero».
«Non devi
ringraziarmi… Anche io avevo voglia di vederti».
Si portò una mano dietro la nuca ed arrossì,
abbassando gli occhi.
Evelyn sorrise intenerita e si
sporse per baciargli la guancia. «Ci vediamo presto,
promesso».
«Sì»,
balbettò, ancora scosso da quel bacio innocente.
La ragazza scese
dall’auto trascinandosi dietro lo zaino e stava per chiudere
la portiera, salutandolo con la mano, quando lui disse, sporgendosi
verso di lei: «Se hai bisogno di altre ripetizioni di
matematica non farti problemi, chiamami».
«Okay»,
mormorò mentre il suo sorriso lentamente si spegneva, in
ricordo della prima – terribile – parte di quel
pomeriggio.
Nella seconda parte, invece, si era
trovata più che bene con Martin e fra un cucchiaio di
cioccolata calda e un altro gli aveva raccontato che aveva qualche
problema a scuola, in particolare con la matematica. Lui si era offerto
seduta stante di aiutarla a fare i compiti e doveva ammettere che era
stato davvero bravo… sentiva già di aver capito
qualcosa in più. Ma era ovvio che questo non poteva
cancellare dalla sua mente ciò che era successo prima che
arrivasse lui.
Chiuse la portiera e a passo
spedito raggiunse la porta di casa, girò un paio di volte la
chiave nella serratura e poi entrò. Un piacevole calore la
avvolse e capì subito che avevano visite: il televisore in
salotto era acceso e se non errava quella che stava sentendo era la
sigla di un cartone animato che piaceva moltissimo ad Arthur.
Infatti fu proprio lui che vide in salotto, seduto sul divano di fronte
alla tv. Ciò voleva dire che molto probabilmente
c’era anche suo zio Tom. Non aveva voglia di parlare con
nessuno, voleva solo andare in camera sua e non fare niente fino a
cena, ma cambiò radicalmente programmi quando
sentì che in cucina suo padre e suo zio stavano parlando di
Franky.
Non riuscì a sentire bene che cosa si stavano dicendo
perché Coco le era saltato sui piedi facendola spaventare ed
attirando l’attenzione dei due, ma aveva afferrato che Franky
non stava bene. Il cuore le era subito salito in gola dalla
preoccupazione, ma cercò di nasconderla dietro
un’espressione di pura sorpresa nel vedere suo zio.
«Oh, ciao», lo
salutò sollevando una mano.
«Ciao, Evelyn»,
le rispose e la guardò intensamente, tanto da farle venire i
brividi: sembrava… consapevole di chi stesse guardando.
Evelyn avvertì uno strano presentimento, qualcosa che non
sarebbe dovuto accadere ma che stava succedendo.
«Tutto bene?», le domandò ancora.
«Sì…
tutto a posto».
«Com’è
andata col tuo compagno?», chiese invece suo padre,
interrompendo così il contatto visivo tra Tom e Evelyn.
«Tutto okay»,
mormorò, nascondendo pure quella volta i suoi veri stati
d’animo. «Sono stanca, vado in camera
mia».
«Va bene»,
mugugnò Bill. Quel giorno sia suo fratello che sua figlia
avevano deciso di non fargli capire nulla: erano così
criptici! Non riusciva davvero a comprenderli, come se loro sapessero
cose di cui lui non era a conoscenza e delle quali non doveva sapere
nulla.
«Devo andare in
bagno», se ne uscì fuori Tom
all’improvviso, alzandosi e dirigendosi fuori dalla cucina
senza nemmeno dare il tempo materiale a Bill di dire o fare qualcosa:
se n’era semplicemente andato.
Senza farsi vedere salì
le scale di vetro e raggiunse il piano superiore, poi con una corsetta
raggiunse la stanza di Evelyn: doveva fare presto, o Bill si sarebbe
insospettito.
Bussò e non aspettò che la nipote rispondesse, si
limitò ad entrare.
«Zio»,
esclamò confusa Evelyn. «Che
cosa…?».
«Shhh!», la
zittì lui, portandosi un dito di fronte alle labbra e
chiudendosi la porta alle spalle. «Noi due dobbiamo parlare,
signorina».
«Ah
sì?», rispose nervosamente. «A proposito
di che cosa?».
«Di te e di
Franky».
Il sangue le si gelò
nelle vene. Suo zio sapeva di loro due? Com’era possibile?
«Io… io non so di cosa tu
stia…».
«No, per favore,
no», la interruppe sconfortato e si mise seduto sul letto,
con i gomiti puntati sulle ginocchia e le tempie fra le dita.
«È inutile che fai la finta tonta, Franky mi ha
raccontato tutto. E con tutto intendo tutto tutto».
Non era possibile, c’era
qualcosa di sbagliato, di enormemente sbagliato. Perché
Franky avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Che
c’entrasse con ciò che aveva sentito prima?
«Vieni qui»,
Tom batté un colpo accanto a sé e la nipote si
mise seduta al suo fianco, rigida come un pezzo di legno.
«Basta mentire, okay? Non ce n’è
più bisogno: io so tutto e d’ora in avanti puoi
dirmi tutto quello che vuoi, tanto credo che più
sconvolgente di così…».
Scrollò le spalle.
«Che
cos’è successo a Franky?», furono le
prime parole di Evelyn dopo lo shock iniziale per ciò che
aveva scoperto, cioè che suo zio sapeva. Sapeva tutto.
Tom sospirò, si
massaggiò di nuovo le tempie e si preparò per
raccontarle tutta la storia. Ovviamente sapeva che rivelandole tutto
quello che era successo avrebbe scatenato l’inferno fra lei e
Franky, ma era giusto che lei sapesse.
Le disse tutto ciò che sapeva, ma non approfondì
i particolari più tristi, come il fatto che aveva perso le
ali e stava perdendo anche i suoi poteri da angelo; rimase
più sul generale: che era stato sospeso, che sua madre ora
era sotto la custodia di una certa Kim – non le disse che li
aveva interrotti mentre lei cercava di baciarlo – e che
sarebbe rimasto da lui per un po’, fino a quando le cose non
si sarebbero in parte sistemate.
Evelyn, rimasta in silenzio per
tutta la durata della spiegazione, non disse una parola ancora per
qualche minuto; rimase ad osservare il pavimento con sguardo assente,
la testa decisamente da un’altra parte.
Tom, durante quei minuti interminabili, ebbe la sensazione di aver
fatto una cazzata enorme, una delle più grandi della sua
vita: i suoi sensi di colpa si erano ingranditi a dismisura ad ogni
secondo che passava.
Ad un certo punto fu costretto a
chiedere alla nipote se andasse tutto bene. Lei si voltò
lentamente verso di lui, lo guardò negli occhi con
serietà e rispose: «Voglio vederlo».
Il chitarrista si trovò
a boccheggiare, nonostante lo sapesse che sarebbe andata a finire
così. «Franky non sta molto bene in questo
momento, io non so se…».
«Sta male? Franky sta
male?», quasi lo assalì, stringendo le maniche del
suo maglione con i pugni. Era più che preoccupata. E si era
messo più che nella merda usando quella scusa.
«Devi portarmi da lui», continuò lei,
con la determinazione negli occhi.
«Ma… ma come
faccio?! Che dico a Bill?!».
«Okay, ho un
piano». Si alzò dal letto, sotto lo sguardo
attonito di suo zio, e andò alla scrivania, dove aveva
lanciato il cellulare appena entrata nella camera. Chiamò
Anja, che sicuramente avrebbe retto il suo gioco.
«Ciao Anja, scusa se ti
disturbo, ma devo chiederti una favore».
«Ciao! Sì,
dimmi pure».
«Mmh… se mio
padre dovesse chiamare, puoi dirgli che io sono lì da
te?».
«Dove devi andare di
così segreto?».
«Un giorno ti
racconterò tutto, promesso». Non le
lasciò il tempo di ribattere, chiuse la chiamata e si
voltò di nuovo verso suo zio, che si sbatté le
mani sulle gambe con un sorriso sbarazzino sul viso e si
alzò.
«Beh, per questo sei
spiccicata a tua madre. Vado a prendere la macchina, ti aspetto dietro
l’angolo».
«Perfetto», gli
fece l’occhiolino ed aspettò che uscisse per
appoggiarsi alla scrivania con il fondoschiena e sospirare pesantemente
con le mani sul viso.
Trattenne le lacrime e i singhiozzi
e si fece forza, anche se i sensi di colpa che l’avevano
assalita erano pesantissimi sulle sue spalle: era solo ed
esclusivamente colpa sua se Franky stava passando tutto quello che
stava passando. Solo sua.
Si diede un po’ di tempo per rilassarsi, poi scese al piano
inferiore e in salotto intravide suo padre, che guardava la tv con
espressione assorta: stava pensando ad altro.
Quando la vide, aprì la
bocca e con tono confuso, disse: «Sai perché Tom
se n’è andato con così tanta
fretta?».
«Dovrei saperlo
io?», domandò fingendo la stessa confusione.
«Non
so…».
«Beh»,
scrollò le spalle e si diresse verso l’ingresso
per prendere il cappotto dall’attaccapanni. «Io
devo andare un attimo da Anja».
«A fare?».
«Mi ha chiesto se posso
passare un attimo da lei, non so perché. Comunque torno
presto, promesso».
«No, non è per
quello…», mormorò, ma Evelyn non vi
badò.
«Allora ciao!»,
lo salutò frettolosamente e si chiuse la porta alle spalle.
Camminò a passo
controllato sul sentiero che portava al cancello – per non
scivolare sul ghiaccio e soprattutto per non destare sospetti
– poi, una volta fuori dalla proprietà privata
iniziò a correre sul marciapiede per raggiungere
l’angolo dove l’aspettava suo zio. L’auto
era già in moto e appena salì a bordo venne
avvolta dal piacevole calore dell’aria condizionata.
«Tutto bene?»,
domandò Tom.
«Sì»,
annuì accennando un sorriso. «Ora muoviti, non
abbiamo tanto tempo».
Il chitarrista annuì,
sistemò lo specchietto retrovisore, fece
l’occhiolino a suo figlio Arthur, seduto nei sedili
posteriori, e diede gas.
Arrivarono a casa e l’unica che li accolse fu Linda. Evelyn
rispose distrattamente alle domande della zia, mentre con lo sguardo
cercava la figura dell’angelo.
«Dovrebbe essere nella
stanza degli ospiti», le sussurrò suo zio
all’orecchio, senza farsi notare dalla moglie.
«Devo andare un attimo in
bagno», disse Evelyn, che si scusò ed
andò a passo spedito verso il corridoio.
Fece finta di chiudersi in bagno, ma alla prima occasione
sgattaiolò fuori e corse a passo felpato verso la stanza
degli ospiti.
Vi arrivò davanti e con il cuore in gola, che batteva
impazzito, cercò di dimenticarsi tutto ciò che
non era inerente a Franky: non voleva che venisse a scoprire
ciò che le era successo quel pomeriggio. (Lei non sapeva che
l’angelo stava perdendo i suoi poteri, tra cui quello di
leggere nel pensiero).
Alla fine entrò senza
bussare e vide Franky steso sul letto, che dormiva senza maglietta, il
petto fasciato da larghe bende. Notò subito che le sue ali
erano scomparse e si portò le mani alla bocca per trattenere
i singhiozzi, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
Barcollò da lui e si mise seduta al suo fianco con la
massima delicatezza, per paura di svegliarlo. Respirò a
fondo e si tolse una mano da davanti la bocca per accarezzargli il viso
un po’ arrossato e i capelli a spazzola. Fu allora che
l’angelo mosse impercettibilmente le palpebre e si
svegliò.
«Evelyn»,
sussurrò quando fu in grado di focalizzare ciò
che c’era intorno a sé. «Che…
Tu non dovresti essere qui». Provò a spostarsi, ad
allontanarsi da lei portando le spalle sulla testata del letto, ma si
mosse troppo bruscamente e la sua schiena ne risentì.
«Mi dispiace Franky, io
non volevo», singhiozzò lei, aiutandolo e
mettendogli un cuscino dietro le spalle con premura.
«È tutta colpa mia, io…».
«Shhh», la
azzittì posandole un dito sulle labbra. I loro visi erano
tanto vicini, i loro occhi erano un tutt’uno e, nonostante
tutto quello che stava succedendo, i loro cuori scalpitavano ancora.
Franky provò a isolare quella raffica di tum-tum fuori dalla
sua testa, in modo tale da non mescolarli con i suoi pensieri.
«Non è colpa tua, ma mia». Evelyn
provò a rispondere, ma la interruppe sul nascere:
«Sapevo che era sbagliato, avrei dovuto insistere di
più e dirti di no sin dal principio invece di continuare a
starti dietro; non avrei dovuto cedere e questa è la
punizione che mi merito».
«Io non voglio che tu
soffra, che tu perda tutto per me! Non voglio che mia madre resti senza
il suo angelo custode! Non è giusto!».
«Abbassa la
voce», sussurrò ancora, posando la fronte sulla
sua ed infilando una mano fra i suoi capelli, sulla nuca. Il suo
profumo lo invase e la sentì tremare fra le sue braccia,
squassata dai singhiozzi e dalle lacrime.
«Hai perso anche le
ali… Oh mio Dio, Franky…».
«Non importa…
Ricresceranno, prima o poi. E ritornerò ad essere
l’angelo custode di tua madre quando tutto questo
sarà finito. Ma ho bisogno del tuo aiuto perché
questo accada».
«Tutto quello che
vuoi».
«Non… non devi
più cercarmi, né vedermi, né pensarmi,
né sognarmi. Tra noi deve finire qui, adesso».
Il cuore di Evelyn
sobbalzò, il suo stomaco si attorcigliò.
«No», mormorò sconvolta e distrutta dal
dolore. «No, io… io non posso farlo».
«Devi».
«No, Franky,
è… è inconcepibile che io ti
dimentichi in questo modo! Non posso farlo!».
«Abbassa la
voce», ripeté l’angelo, sempre
sussurrando. Ma lei continuò a sbraitare, mentre piangeva:
«È assurdo! Come pensi che io possa fare una cosa
del genere?! Mi chiedi ciò che non posso darti! Tutto, ma
non questo!».
«Evelyn ma non ha
senso!», gridò allora anche lui, allontanandola da
sé e stringendo i pugni sulle gambe, il viso rivolto verso
il basso per nascondere gli occhi lucidi.
«Cosa? Cosa non ha
senso?», biascicò la ragazza.
«Io…
io…». San Pietro non poteva avergli mentito, era
assurdo anche solo pensarlo. Ma perché non riusciva a dirle
quella che era la verità? Perché il cuore gli
batteva così forte e gli faceva già male?
Perché si sentiva soffocare?
«Io non ti amo!», urlò
all’improvviso, sorprendendo anche se stesso. «Non
ti ho mai amata! Mi ero solo innamorato del fatto che potessi vivere di
nuovo, perché con te è così che mi
sentivo… vivo.
Ti ho soltanto usata per sentire un’ultima volta questa
sensazione sulla pelle». Il suo tono di voce si era mano a
mano abbassato, fino a diventare un sussurro, come le sue convinzioni
che mano a mano che le sputava fuori perdevano senso e
credibilità.
La ragazza rimase per qualche
minuto senza parole, pietrificata sul posto. Lentamente una smorfia di
dolore si impadronì del suo volto e le lacrime
incominciarono a scorrere più rapide sulle sue guance.
«Non è vero», mormorò.
«Non è vero nulla di quello che hai detto, mi stai
mentendo».
«No, è davvero
così Evelyn!», gridò esasperato,
alzandosi in piedi: mancava davvero poco anche a lui prima di
scoppiare. «E nemmeno tu mi ami, perché
–!».
Tom aprì la porta della
camera e li guardò imbarazzato, ma provò ad usare
un tono di voce autoritario: «Potete abbassare la voce? Vi si
sente fino a di là e se Linda…!».
«Vattene!»,
gridò Franky, col viso rosso e le vene sul collo gonfie per
il nervoso. Tom sospirò infastidito e si richiuse la porta
alle spalle; l’angelo tornò a fissare Evelyn di
fronte a sé, con sguardo severo.
«Questo non puoi dirlo,
tu non puoi sapere se io…», iniziò a
dire lei, con voce sottile, ma venne interrotta.
«Io so benissimo quello
che ti passa per la testa, conosco alla perfezione ogni tuo singolo
pensiero», disse l’angelo e non provò
nemmeno a leggere nella sua mente, tanto era certo che non ci sarebbe
riuscito. Evelyn si irrigidì, ma non si scompose:
c’era qualcosa che non le tornava.
«So che tu non mi ami», continuò lui.
«Credi di essere innamorata di me, quando invece sei solo
innamorata della… della storia fra me e tua madre: tu ti sei
immedesimata in lei».
Evelyn fece come se non avesse
sentito nulla, anche se aveva sentito benissimo e quelle parole erano
state peggio di una coltellata in pieno petto: facevano malissimo.
«È meglio
così», sussurrò l’angelo,
abbassando lo sguardo. «Per tutti e due».
Wir hatten eine tolle Zeit
Doch jede Zeit geht mal vorbei
«Okay, va
bene», rispose alla fine Evelyn, senza incrociare il suo
sguardo. «Se le cose stanno così… come
vuoi tu».
Si diresse verso la porta ed era
sul punto di aprirla ed andarsene, quando Franky la prese per un polso
e la trascinò a sé, in un ultimo abbraccio,
mormorando un «Aspetta» pieno di significati.
Non c’era nulla per cui
aspettare, ormai aveva deciso di chiuderla lì per il bene di
entrambi, nonostante fosse troppo tardi per ricucire le ferite che si
erano inevitabilmente aperte nei loro cuori. Ma voleva ancora un altro
po’ di tempo con lei, tempo che non gli era concesso. Per
questo faticava a lasciarla andare e ogni secondo che passava la
stringeva sempre più forte a sé. Inoltre si
sentiva bene con lei, le scalmane stavano lentamente scemando ed era
quasi certo che lei, con il viso contro il suo petto, si stesse
riscaldando. Insieme si termoregolavano, erano fatti per stare insieme
dopo quella notte, la loro.
«Ora devo
andare», biascicò Evelyn, che aveva ricominciato a
piangere, e si divincolò dal suo abbraccio senza risultare
brusca. Si allontanò silenziosa, proprio come si era
insinuata nella sua vita, e non gli diede il tempo di dire
nient’altro, anche perché non c’era
nient’altro da dire.
Il peso delle bugie che le aveva
raccontato per farle credere che davvero non era innamorata di lui lo
schiacciarono, gli caddero sul petto e gli impedirono di respirare
regolarmente. In gola aveva un nodo grosso come una casa e i suoi occhi
pizzicavano terribilmente. Era sul punto di scoppiare in lacrime.
«Aspetta Evelyn, ti
prego», mugugnò sull’orlo del pianto. La
rincorse, la raggiunse in salotto e la vide parlare con suo zio.
«Portami a casa, per
favore», gli aveva detto sottovoce, trattenendo a stento i
singhiozzi.
Tom cercò subito lo
sguardo di Franky e trovò la stessa espressione stravolta e
sofferente di Evelyn sul suo volto. Gli avrebbe parlato col pensiero,
ma gli tornò in mente che lui non riusciva a sentirlo e
provò a fargli capire con lo sguardo che avrebbero parlato
al suo ritorno.
«Andiamo»,
mormorò alla nipote e le avvolse un braccio intorno alle
spalle, accompagnandola all’ingresso ed infine fuori di casa.
L’angelo si
guardò intorno spaesato per un attimo, poi fece retrofront e
si incamminò a passo lento verso la stanza degli ospiti. Non
capiva che cosa gli stava succedendo: si sentiva disorientato, tutto
intorno a lui girava, si sentiva debole, privo di forze, tanto da
costringerlo ad appoggiarsi al muro del corridoio con una mano mentre
camminava.
Arrivò nella sua camera, chiuse distrattamente la porta e si
lasciò cadere a peso morto sul letto. Il contraccolpo alla
schiena lo fece gemere di dolore a causa di ciò che gli era
successo alle ali, ma poi non emise più un suono.
Pensò di essersi addormentato, poiché non sentiva
più nulla intorno a sé, i suoi pensieri erano
labili, sfuggenti, e ad un certo punto sentì il rumore di
alcuni passettini che si avvicinavano a lui e una voce piccola e ancora
un po’ acuta, da bambino, chiamarlo.
Si sforzò per aprire gli occhi, ma era tutto così
sfuocato… Sì, doveva essere proprio un sogno.
Il bambino gli posò una
mano sulla spalla e si avvicinò al suo viso con fare
curioso. «Hai litigato con Evelyn?», gli
domandò innocentemente, senza nemmeno immaginare il dolore
che gli aveva rifilato pronunciando il suo nome.
«Perché avete litigato?», gli chiese
ancora.
«Perché non
è giusto che lei mi ami», farfugliò
Franky, stringendo gli occhi a due fessure. Non doveva più
mentire, quello era solo un sogno e sentiva che a quel bambino poteva
tranquillamente dire la verità. «Perché
lei mi ama… io le voglio tantissimo bene, sento di
volergliene davvero tanto, ma San Pietro mi ha detto che non la
amo… e poi perché non possiamo stare
insieme», tossicchiò.
«Perché
no?».
«Perché
io… io sono…». Non riuscì a
terminare la frase, perché udì altri passi in
lontananza e poi una voce che conosceva bene farsi sempre
più vicina. All’inizio non riuscì a
distinguere le parole, poi però iniziò a sentirci
meglio e in uno sprazzo di lucidità udì
distintamente Tom dire: «Arthur che ci fai lì?
Vieni via subito».
«Arthur?»,
mormorò stordito e strizzando con immensa fatica gli occhi
si rese conto che era proprio lui il bimbo con cui aveva parlato fino
ad allora, a cui aveva rivelato tutte quelle cose: Arthur, il figlio di
Tom e Linda.
«Quindi non è stato un sogno»,
biascicò in maniera ancora più incomprensibile,
mentre Tom incitava il bambino ad uscire fuori dalla stanza spingendolo
delicatamente sulla schiena.
Fece giusto in tempo a vedere il
viso preoccupato del suo migliore amico, poi la vista gli si
annebbiò completamente e le forze lo abbandonarono;
sentì le mani di Tom tenergli sollevata la testa e tirargli
ogni tanto qualche schiaffetto sulle guance per farlo riprendere.
«Mi sento davvero
così… male», esalò le sue
ultime parole prima che l’oscurità lo trascinasse
giù con sé.
Du weißt wer ich bin
Und ich weiß, wie du bist
Und was wir sind, vergiss das nicht
Vergiss mich nicht
Bitte nicht
Evelyn, una volta scesa dalla
macchina di suo zio, con il quale non aveva aperto bocca, era entrata
in casa senza fare il minimo rumore, ma Bill l’aveva vista
subito, seduto sul divano del salotto che dava sull’ingresso.
«Che voleva
Anja?», le domandò subito, spegnendo la
televisione mentre osservava la figlia che badava bene a non farsi
guardare negli occhi, o sarebbe stata smascherata.
«Niente, voleva dirmi una
cosa sul suo nuovo ragazzo», rispose, cercando in tutti i
modi di celare l’incertezza della sua voce.
«Non sapevo avesse un
ragazzo».
«Mmh»,
mugugnò annuendo e si diresse verso le scale che
l’avrebbero tratta in salvo: una volta di sopra sarebbe corsa
in camera sua e suo padre non avrebbe potuto fare molto se si fosse
chiusa dentro a chiave.
Ma non era così facile come sperava. Bill infatti la
raggiunse ai piedi delle scale, proprio ad un passo dalla sua salvezza,
e la trattenne prendendola per un braccio.
«Evelyn, va tutto
bene?», le chiese e provò a guardarla in viso, ma
la ragazza si divincolò ed evitò in continuazione
di sollevare lo sguardo.
«Sì, tutto
okay. Perché non dovrebbe andare tutto bene?».
«Non lo so, sei
strana… È successo qualcosa a scuola?».
«No, davvero…
è tutto a posto».
«Allora con il tuo
compagno…».
«No, sto bene, non
è successo niente di male».
«Sicura? Guardami negli
occhi».
La ragazza quella volta non
poté opporsi e i loro occhi così diversi si
incontrarono. Bill vi lesse dentro tanta tristezza, tanto
dolore… e di conseguenza si sentì male pure lui.
«Che
cos’è successo, tesoro?»,
mormorò apprensivo, gli occhi tristi.
Evelyn non riuscì
più a resistere, né a fingere di stare bene, e si
lasciò andare alle lacrime e ai singhiozzi, ai tremori e
alle vampate di calore che non sentiva da troppo tempo. Un cerchio le
strinse la testa e si sentì infinitamente debole, ma non ne
capì il motivo.
«Ti prego
papà, lasciami andare», riuscì soltanto
a mormorare, distrutta, e Bill non poté fare altro che
arrendersi: la lasciò andare.
Evelyn corse su per le scale e non
si ammazzò per miracolo, talmente poca era la forza che
aveva nelle gambe. Raggiunse la sua camera tenendo una mano appoggiata
alla parete del corridoio per sostenersi e giunta a destinazione si
gettò sul letto, esausta. Gli occhi umidi, che non avevano
ancora smesso di lasciar scivolare quelle lacrime, le si chiusero e,
avvolta da quel malessere sia morale che fisico, si lasciò
cullare dalle braccia di Morfeo.
Es ist Zeit um aufzustehen
Es wird Zeit um loszuziehen
Es ist so weit, wir müssen gehen
Wir müssen gehen
Und Abschied nehmen
_____________________________
Buongiorno,
gente :)
I
capitoli pesantemente depressivi stanno tornando, proprio come ai
vecchi tempi! In questo c'è la "separazione" di Franky ed
Evelyn e questo non ha fatto granchè bene ai due D:
Il povero Franky che già di per sè stava male,
poichè le sue ali e i suoi poteri sono stati spazzati via
insieme alla sospensione della sua carica. Poveretto, ha sofferto
davvero tanto, anche se ad un certo punto è intervenuta
anche Kim ad aiutarlo :)
E la povera Evelyn che si è cacciata proprio in un bel
guiaio con Samuel. E' solo l'inizio di una lunga sofferenza, questa...
per tutti e due purtroppo. Staremo a vedere.
Una cosa positiva c'è però, il piccolo e
carinissimo Arthur (io lo adoro quel bimbo!) *w* E l'amore di Tom e
Linda che porta sempre uno sprazzo di felicità :)
La
canzone che ho usato è la stupenda Es ist Zeit, dei Panik *o*
Ringrazio di cuore chi ha recensito
lo scorso capitolo e chi ha letto soltanto! ;) Spero che anche questo
capitolo sia di vostro gradimento!!
Alla prossima, un abbraccio! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 14 *** Save me ***
Questo
è un capitolo un po' lunghetto, vi avviso già
ora... prendetevi il tempo che vi serve, ma vi consiglio di leggerlo
tutto in una volta, perchè se si divide... non ha lo stesso
effetto, ecco xD Comunque, il mio è solo un consiglio
u.u
Magari
per la lunghezza di questo capitolo ritarderò di qualche
giorno a postare il prossimo, così da darvi un po'
più di tempo ;)
Okay, basta xD Grazie mille in anticipo!
Buona lettura *-*
________________________________________
14.
Save me
The future haunts with memories that I
could never have
And hope is just a stranger wondering how it got so bad
Nemmeno quella notte aveva dormito
molto. Per un motivo o per un altro da due settimane a quella parte non
riusciva a farsi tutta una tirata, dalla sera alla mattina. A volte si
svegliava nel cuore della notte, a volte non riusciva proprio ad
addormentarsi e a volte apriva gli occhi due ore prima di alzarsi.
Quello era il caso peggiore di tutti, perché una volta
sveglia non era più in grado di addormentarsi.
Perciò si alzava e si metteva seduta di fronte alle porte
vetrate che davano sulla sua terrazza, ad aspettare l’arrivo
l’alba. Era uno dei momenti peggiori, perché la
sua mente aveva l’opportunità di pensare a tutto
lo schifo che era entrato a far parte della sua vita da quando sua
madre era in coma e lei e Franky...
Quella mattina era successo proprio
così: si era svegliata alle cinque e, al buio della sua
stanza, aveva aspettato che i primi raggi di luce schiarissero il
cielo. Aveva pensato tanto, troppo, e la tristezza e il dolore che di
solito teneva ben celati dentro di sé si erano scagliati
contro di lei senza alcuna pietà.
Quando finalmente la sua sveglia aveva iniziato a suonare aveva dato
l’inizio ufficiale alla sua giornata: si era alzata dalla
poltrona girevole, aveva lasciato cadere a terra la coperta che
l’aveva tenuta al caldo almeno apparentemente e si era
diretta verso il bagno per darsi una lavata e vestirsi.
Da due settimane a quella parte
aveva iniziato anche a vestirsi come suo zio ai tempi d’oro.
Certo, non sarebbe mai arrivata ai suoi livelli, ma il suo stile
prevedeva magliette e felpe larghe il doppio di lei, tute non della sua
misura e jeans – le poche volte che li metteva –
per niente attillati. Per il suo nuovo guardaroba aveva dovuto comprare
poco o niente: erano gli stessi vestiti che usava solitamente per stare
in casa e, in più, era dimagrita lei tantissimo, tanto da
farli sembrare enormi.
Non dormiva e aveva perso
l’appetito.
Entrò in bagno e chiuse
la porta a chiave. Si sciacquò il viso con l’acqua
fredda, poi si tolse la maglietta del pigiama e senza farlo apposta si
sfiorò la pancia nuda con le mani gelate.
Rabbrividì all’istante, ma non tanto per il fatto
stesso del freddo, perché l’immagine del viso di
Franky le ritornò alla mente.
Era da quando avevano avuto quella specie di discussione che non lo
vedeva né lo sentiva. Cercava persino di non pensarci, ma
era praticamente impossibile. Non poteva davvero impedirselo.
Non dormiva, aveva perso
l’appetito e Franky era uscito dalla sua vita.
Lanciò la maglietta del
pigiama sopra il mobile alle sue spalle e si tolse anche i pantaloni,
poi si girò per prendere i vestiti puliti da indossare e
l’occhio le cadde inevitabilmente sui segni violacei che
aveva sulla schiena. Chiuse gli occhi e serrò la mascella al
ricordo dell’ultimo pestaggio e il dolore tornò
vivo, come se stesse avvenendo di nuovo, in quel preciso istante.
Si voltò interamente verso lo specchio che rifletteva la sua
immagine e sollevò le palpebre lentamente. Era da tanto che
non si guardava più allo specchio e sapeva che farlo avrebbe
significato rivivere tutto una seconda volta e avrebbe fatto male,
forse anche più male del momento in cui erano nati i lividi,
ma lo fece comunque.
Era bravo, Samuel. Sapeva come far
male e dove colpire: non c’era livido che potesse essere
visto semplicemente camminando per strada, erano tutti nascosti, in
punti che sarebbero sempre stati coperti dai vestiti, soprattutto in
quel periodo, l’inverno. Conosceva i suoi punti deboli ormai
e fin troppo bene i tasti che gli bastava solo sfiorare per farla
cedere e farle fare tutto quello che voleva.
Alla visione di tutti quei lividi
sul suo corpo forse un po’ troppo asciutto, che andavano dal
violaceo al giallognolo – dipendeva da quanto tempo era
passato, – un conato di vomito la fece piegare sul lavandino.
Non aveva ancora nulla nello stomaco, per questo non vomitò,
ma la sensazione di nausea e di oppressione non passò, anzi.
Non dormiva, aveva perso
l’appetito, Franky era uscito dalla sua vita e veniva
assiduamente picchiata e ricattata.
Un paio di volte, in preda alla
disperazione e al dolore fisico più acuto che avesse mai
provato, aveva pensato di avvisare suo padre, qualcuno che la potesse
aiutare, ma alla fine non aveva fatto più niente. Era sempre
stata zitta, si era piegata e aveva subito. Si era aggrappata
all’idea che quello fosse un problema suo, da cui doveva
riuscire ad uscirne lei sola con le sue uniche forze, ma la
verità era – e lo sapeva – che non aveva
il coraggio di andare a denunciare quella bestia: aveva paura, una
paura fottuta.
Ma quella storia doveva finire,
doveva assolutamente uscirne al più presto. Stava
scoppiando, si stava spezzando, non ce la faceva più a
vivere in quel modo. Quello non era nemmeno possibile definirlo
“vivere”.
Samuel fino ad allora aveva sempre
voluto soldi da lei e le botte che le dava erano solo un pretesto per
essere sicuro che la sua dose di droga – coca, soprattutto
– fosse sicura al cento e uno percento. Non aveva mai abusato
di lei, anche se aveva avuto più di un’occasione
per farlo. Una di queste, per esempio, era stata quando aveva deciso di
portarsela dietro, esattamente come un cagnolino, alla festa di un suo
amico.
Aveva detto a suo padre che usciva
con Anja, Pamela e Martin, quando invece era passato a prenderla
Samuel, con l’auto di suo padre. Nonostante fosse
terrorizzata dal fatto di dover salire nella macchina di qualcuno di
cui non si fidava, era stata costretta a farlo e lui aveva persino
commentato il suo abbigliamento: «Potevi metterti anche
qualcosa di più carino, invece quei vestiti enormi: manco
fossi obesa…».
Erano arrivati a casa di quel suo amico e Evelyn si era subito trovata
al centro dell’attenzione. Uno dei ragazzi presenti,
già ubriaco e strafatto, l’aveva indicata e aveva
gridato: «Oh, guardate chi c’è! La
figlia della star, quella coi soldi!». Samuel le aveva detto
di non badarci e l’aveva portata in un angolino appartato,
l’aveva fatta sedere e le aveva mollato in mano una bottiglia
di birra.
«Non mi va di
bere», gli aveva detto e lui l’aveva guardata
malissimo, tanto che alla fine se l’era bevuta.
Quelle non erano proprio il genere
di feste che conosceva e che frequentava lei e a dirla tutta non era
mai stata una tipa da feste. Si era sentita davvero a disagio, come un
animale in gabbia, e non aveva mai smesso di aver paura che potesse
succederle qualcosa.
Ad un certo punto della serata Samuel aveva tirato fuori la propria
dose di coca e l’aveva sistemata sul tavolino di vetro di
fronte a sé. Evelyn lo aveva guardato con gli occhi
spaventati, pietrificata sul posto, sperando che non la coinvolgesse
pure in quello, ma purtroppo le sue preghiere non vennero ascoltate ed
arrivò anche il suo turno.
«Dai, prova»,
le aveva detto lui.
«No,
io…».
«Oh, che rompi cazzo che
sei! Muoviti! L’hai pagata tu, almeno provala! Credi che tuo
padre non l’abbia mai fatto? Ci giuro tutto quello che
vuoi!».
Evelyn, anche quella volta, fu
costretta a provarla e le bastò una tirata per diventare
improvvisamente euforica e piena di energia.
Non ricordava molto di quella
serata, ma sapeva che durante l’effetto della droga aveva
combinato parecchi disastri in quella casa, per questo Samuel
l’aveva riportata a casa prima del previsto, incazzato nero.
In quel momento, iperattiva e allo stesso tempo rincoglionita
com’era, avrebbe potuto farle di tutto e non si sarebbe
opposta, ma non l’aveva toccata.
Però Evelyn era sicura che prima o poi sarebbe arrivato pure
a quello se non si fosse ribellata sul serio e avesse chiuso quella
faccenda.
Finì di lavarsi, si
vestì, poi scese al piano inferiore. Si sentiva stranamente
calda quel giorno, ma aveva freddo, e sentiva un fastidiosissimo
cerchio stringerle la testa. Non che in quel periodo fosse al massimo
delle sue condizioni fisiche, ma quel giorno si sentiva davvero uno
schifo e, come se non bastasse, c’era anche educazione fisica
a scuola. A causa delle botte ricevute e dei lividi che le facevano
ancora male era quasi impossibile fare qualsiasi tipo di sport, ma non
poteva esonerarsi ancora una volta…
«Buongiorno»,
la salutò suo padre, seduto al bancone della cucina, intento
a prepararsi una fetta biscottata con la marmellata.
«Ciao»,
ricambiò sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
Si mise seduta accanto a lui, come
faceva da circa due settimane, in modo tale che avesse più
difficoltà a guardarla negli occhi: erano il suo punto
debole con lui.
Con la nausea che si ritrovava, si sconsigliò vivamente di
bere il latte, quindi iniziò a sbocconcellare una fetta
biscottata integrale fregandola dalla scatola di fronte a lei.
«Dormito bene,
tesoro?», le domandò Bill, tanto per iniziare un
dialogo.
Era da tanto che loro due non
parlavano, il loro rapporto era andato via a via peggiorando col
passare del tempo ed in particolare in quelle due ultime settimane
Evelyn si era allontanata molto da lui, poiché
già mentirgli non era facile e se doveva fare il doppio
della fatica passando del tempo con lui… no, non era proprio
il caso.
«Sì»,
annuì Evelyn.
«E perché usi
tutto quel correttore sotto gli occhi, allora?».
Quella frase la spiazzò
e senza nemmeno rendersene conto si voltò verso di lui e lo
guardò negli occhi. La sua espressione, però, era
volutamente neutra, in modo tale che non riuscisse a scovare nulla di
tutto ciò che gli nascondeva da tempo.
«Vado a letto tardi la
sera», ribatté.
Bill non rispose,
avvicinò una mano al suo viso e le prese il mento fra le
dita. «Cosa ti sta succedendo, tesoro?»,
sussurrò, gli occhi colmi di tristezza.
«Niente,
papà», sospirò. «Se
è ancora per i miei vestiti…».
«No, non è per
quello. Anche se mi piacerebbe vederti un po’ più
femminile ogni tanto».
«Va a finire che ad un
certo punto mi dirai che sono troppo femminile e i ragazzi si fanno
strane idee».
Il padre sorrise, non colse la
provocazione. «Se tu stai bene così allora sto
bene anche io. Io voglio solo che tu… stia bene,
sì».
«Sì, sto
bene».
«Allora è
okay». Le accarezzò i capelli con la mano, le
spostò la frangetta che le copriva gli occhi e le
posò un bacio sulla fronte.
«Evelyn, ma tu
scotti», le fece notare. «Hai la febbre?».
La ragazza impallidì.
Non poteva saltare la scuola, era fuori discussione.
«Ma va’,
no…», balbettò, stirando a fatica un
sorriso. «Ho solo un po’ di mal di
testa… Adesso prendo un’aspirina e mi
passa».
«No, adesso tu ti sdrai
sul divano e ti provi la febbre, altroché. Se hai la febbre
te lo scordi di andare a scuola, col freddo che
c’è fuori, poi…».
«No, papà,
davvero…!», provò a fermarlo, ma non ci
riuscì: aveva già imboccato le scale per il piano
superiore.
Si prese la testa fra le mani e si
avviò verso il divano del salotto. Non poteva stare male,
non poteva stare a casa: Samuel si sarebbe arrabbiato tantissimo se non
l’avesse vista a scuola – era giorno di paga per
lui – e questo voleva dire il doppio delle botte.
Si lasciò cadere sul divanetto di pelle più
piccolo, con le gambe a penzoloni sul bracciolo, e si portò
una mano sulla fronte. Si sentiva bollente, ma – sperava
– solo perché la sua mano era congelata.
Con la coda dell’occhio
vide che sul tavolino c’era il laptop bianco di suo padre.
Tutte le volte che lo vedeva con quello in mano sudava freddo e pregava
perché non andasse a controllare l’estratto conto
della sua carta di credito, quella che le aveva regalato per il suo
compleanno, in modo tale che avesse più autonomia per quanto
riguardava gli acquisti. Sua madre non era stata contenta di quella
scelta all’inizio, ma poi si era lasciata convincere da Bill
ed ora come ora Evelyn ringraziava suo padre, perché senza
quella carta di credito non sarebbe mai riuscita a trovare i soldi da
dare a Samuel ogni volta che glieli chiedeva.
Purtroppo però, non l’aveva mai usata eccetto un
paio di volte e non aveva mai chiesto a suo padre di ricaricargliela:
prima o poi i soldi al suo interno sarebbero finiti e quasi sicuramente
la banca avrebbe mandato un e-mail a colui a cui era intestata la
tessera – suo padre, appunto – per avvertirlo. E a
quel punto sì che sarebbe stato un vero casino. Era solo una
questione di tempo e avrebbe scoperto tutto. Anche per questo doveva
chiudere quella faccenda con Samuel il prima possibile.
«Ecco»,
esclamò Bill finendo la scalinata e raggiungendola sul
divanetto. Le diede il termometro ed Evelyn se lo infilò
sotto l’ascella, poi rimase ad aspettare con lo sguardo
rivolto verso il soffitto per non incrociare i suoi occhi.
Dopo un po’ di
imbarazzante silenzio, il padre disse: «Avevi qualcosa di
importante a scuola, oggi?».
«Sì»,
mugugnò senza nemmeno pensarci, ma se ne pentì
subito e precisò: «La lezione di
matematica… lunedì prossimo abbiamo la
verifica».
«Beh, mi sembri
già molto migliorata rispetto a qualche settimana
fa…».
«Come fai a dirlo? Tu non
ci capisci niente di matematica…», sorrise
divertita per la prima volta.
Bill la imitò.
«Ma vedo come ti impegni e questo dovrebbe essere
già apprezzato».
«Sì, peccato
che nelle verifiche non basta l’impegno».
«Sono certo che ce la
farai».
«Grazie»,
mormorò. Era bello, le riscaldava il cuore, e allo stesso
tempo la feriva sapere di avere ancora la sua fiducia, nonostante tutto
ciò che gli stava nascondendo.
«Magari oggi pomeriggio,
se non hai niente da fare, potremmo… ecco…
iniziare a fare l’albero di Natale», disse Bill,
schiarendosi la voce, titubante. Non sarebbe stato facile, ma voleva
davvero passare un po’ di tempo con sua figlia, come non
faceva da tanto.
Non dormiva, aveva perso
l’appetito, Franky era uscito dalla sua vita, veniva
assiduamente picchiata e ricattata e la sua mamma era ancora in coma.
Evelyn socchiuse gli occhi alle
lacrime che ricacciò indietro. Avevano sempre fatto
l’albero tutti insieme: suo padre, sua madre e lei; sarebbe
stato troppo triste farlo senza la sua mamma, proprio come se non ci
fosse più… Quello sarebbe stato il Natale
più brutto della sua vita.
Il termometro suonò e le
tolse l’impaccio di dover rispondere. Se lo levò
da sotto l’enorme felpa blu e lo passò
direttamente a suo padre: non voleva vedere.
«Quant’è?»,
gli domandò.
«Trentotto e mezzo. E tu
te ne stai a casa». Sorrise smagliante e soggiunse:
«Vado a prenderti una coperta».
Evelyn lo guardò salire
di nuovo su per le scale e poi sbuffò sonoramente,
maledicendosi.
***
«Okay, è
arrivato il momento. Non posso più rimandare, anche
se…». Tom sollevò lo sguardo sullo
specchio di fronte a sé e si guardò. Anche
se ho paura.
Erano passate altre due settimane e
non aveva ancora trovato il coraggio per chiedere a Franky se sua
figlia Jole avesse qualcosa in comune con l’altra Jole,
quella il cui sorriso conservava gelosamente nel cuore. Ma ora non
poteva più aspettare. Se Franky avesse potuto leggergli nel
pensiero sarebbe stato tutto più semplice, poiché
lui avrebbe capito da solo ciò che voleva sapere e gli
avrebbe tolto l’imbarazzo di dovergli spiegare tutto quanto.
Uscì dal bagno
respirando profondamente e raggiunse il salotto, dove trovò
Arthur, ancora mezzo addormentato, che guardava i cartoni animati
seduto sul divano, mentre Linda si preparava per accompagnarlo
all’asilo e poi andare al lavoro.
«Ehi piccolo»,
lo salutò scompigliandogli i capelli biondi sulla testa.
«Hai visto Franky?».
«Sì, ha detto
che usciva», mugugnò stropicciandosi gli occhietti.
Tom aggrottò le
sopracciglia. «Per caso ti ha detto dove andava?».
Il bimbo scosse il capo. «E nemmeno quando torna?».
«No, ha detto solo che
usciva. Aveva quel coso con le ruote».
«Quel coso con le
ruote?».
«Sì, quello
che si porta sempre in giro!».
Il chitarrista ci
rifletté per qualche secondo, poi capì e sorrise
amorevole. «Si chiama skateboard».
«Eccomi, sono
pronta», esclamò Linda facendo capolino in
salotto. «Tu sei a posto, Arthur?».
«Sì,
mamma». Saltò giù dal divano e spense
lo schermo del televisore direttamente pigiando il tastino su di esso.
«Okay, allora
andiamo». Si voltò verso Tom, che la stava
osservando con un sorrisetto da ebete stampato sulle labbra, e non
poté non ricambiare divertita. «Perché
mi guardi così?».
«Perché sei la
mamma più bella dell’universo. Vero,
Arthur?».
«Sì!»,
gridò e la raggiunse correndo per avvinghiarsi alle sue
gambe. «Ti voglio tanto bene mamma».
«Pensa che io ti
amo», le sussurrò Tom, facendole
l’occhiolino.
«Grazie infinite a tutti
e due», rispose vagamente commossa.
«Però adesso dobbiamo proprio andare, o faremo
tardi».
«Buona giornata,
allora». Tom si sporse verso di lei e le stampò un
bacio sulle labbra.
«Grazie»,
mormorò sorridente. Poi si rivolse al figlio:
«Arthur, mettiti il cappotto e il cappello, dai». E
mentre questo andava a vestirsi all’ingresso, Linda si
concentrò di nuovo su suo marito: «Hai qualcosa da
fare oggi?».
«Mmh… no,
perché?».
«Perché mi
farebbe molto piacere se passassimo la pausa pranzo insieme».
Si morse le labbra e gli sistemò il colletto della polo,
senza guardarlo negli occhi.
«Oh, piccola
trasgressiva… Lo sai che se ci beccano ti licenziano? E poi
non mi trovo a farlo su un letto di chissà quale vecchio che
è passato all’altro mondo…».
«Ma che hai capito,
cretino!», urlò con voce strozzata, con le guance
rosso porpora. «Volevo solo mangiare qualcosa con te
e… parlare».
«Ah. E di che cosa
vorresti parlare?».
«Si è fatto
tardi, devo scappare!». Gli strappò un bacio e
raggiunse il figlioletto, che aspettava a piedi uniti con la fronte
rivolta verso la porta chiusa, tutto imbacuccato: Arthur faceva sempre
così quando i suoi genitori si dilungavano troppo nei saluti
e si scambiavano quelle smancerie; si sentiva in imbarazzo e si girava
per non assistere alla scena.
«Ciao Tom!», lo
salutò un’ultima volta, soffiandogli un bacio con
la mano.
«Ciao
papà», disse invece il bambino, muovendo la manina.
Linda chiuse la porta e il silenzio
avvolse la casa, un silenzio che con il trasferimento di Franky udiva
raramente. Quando c’era lui nei paraggi c’era
sempre un sacco di casino, ma un casino positivo, perché
metteva allegria: la sua risata, oppure la tv accesa sui suoi programmi
preferiti o la musica del suo iPod. Era come avere un altro figlio in
casa, in piena fase adolescenziale.
Una volta aveva persino litigato
con lui e aveva dovuto comportarsi da padre, cosa che lo aveva non poco
turbato, perché mentre suo figlio Arthur stava guardando i
suoi cartoni animati, Franky aveva messo lo stereo a palla nella sua
camera. Ovviamente Arthur aveva protestato con lui, facendo tutti i
capricci possibili immaginabili, e Tom non aveva potuto fare altro che
andare da Franky e chiedergli di abbassare la musica. Se fosse stato
per lui l’avrebbe pure lasciato fare, ma non era
l’unico in quella casa che poteva sentire lui e le sue cose,
quindi era stato costretto.
Franky non ne aveva voluto sapere – era una giornata no e
diceva di aver male dappertutto, per questo era già
incazzato – e avevano finito per litigare. Per fortuna quel
pomeriggio Linda si era dovuta fermare alla casa di riposo, altrimenti
sarebbe successo un bel macello.
Tom avrebbe voluto dirle dell’angelo che abitava con loro da
qualche settimana, ma non aveva mai trovato il coraggio neppure per
quello: non sapeva come l’avrebbe presa, né se
l’avrebbe preso per pazzo. Ora capiva perfettamente tutti i
complessi che si era fatto Franky quando non aveva voluto dire a suo
zio David della sua presenza.
Se n’erano detti di tutti i colori lui e Franky e Tom si era
sentito davvero frustrato quando non era stata riconosciuta la sua
autorità, tanto che aveva iniziato a domandarsi se un giorno
anche suo figlio si sarebbe comportato come lui. Alla fine gli aveva
spento lo stereo con rabbia e se n’era andato in giardino a
sbollirsi e a fumarsi una sigaretta. Dopo un po’ Franky
l’aveva raggiunto, gli aveva chiesto scusa e avevano fatto
pace, come da bravi migliori amici.
Per il resto, la loro convivenza
era più che ottima. Andavano quasi sempre
d’accordo su tutto e sapevano rispettare ognuno i propri
spazi. Inoltre, Franky aveva legato molto con Arthur e a volte lo
vedeva passarci insieme interi pomeriggi, nella cameretta del
più piccolo, a giocare con le macchinine, ai video games per
bambini o a disegnare. Gli faceva piacere che Arthur si fosse
affezionato a lui tanto da chiamarlo “fratellone”,
ma qualche volta gli tornava in mente che l’angelo prima o
poi se ne sarebbe andato e non voleva che suo figlio soffrisse come
aveva sofferto lui quando le loro strade si erano dovute separare. Ma
suo figlio era felice e non poteva impedirgli di stare con lui, sarebbe
stato come togliergli il pane dai denti. Era certo che quando sarebbe
arrivato il momento di dividersi, Arthur avrebbe capito. Era un bambino
sveglio e su questo non c’erano dubbi, perché era
anche capitato che fosse lui a dirgli di non dire o non fare certe cose
riguardanti Franky di fronte a Linda, che non riusciva a vederlo.
Era rimasto fermo impalato nel bel
mezzo del salotto a pensare e, totalmente immerso nei propri pensieri,
si accorse solo dopo qualche squillo del telefono che suonava.
Tirò su la cornetta e se
la portò all’orecchio:
«Pronto?».
«Ciao
papà!».
Sorrise nel sentire la voce
squillante di sua figlia: voleva dire che stava bene. «Ciao
Jole, come stai?».
«Tutto bene, oggi mi
sento iperattiva».
«Vedi di startene
tranquilla, altroché», ridacchiò.
«Sì, certo. Tu
come stai? Mamma e Arthur sono già usciti?».
«Io sto bene, grazie.
Sì, sono già andati. Ah, a proposito di tua
madre…».
«Cosa?».
«Non è che ho
dimenticato qualcosa, vero? Qualche anniversario, per
esempio…».
«Ahm… no, non
penso. Perché me lo chiedi?».
«Perché mi ha
chiesto se oggi andavo a pranzare insieme a lei; ha detto anche che
dobbiamo parlare, ma non ho idea di cosa!».
«Rilassati
papà, vedrai che non sarà nulla di
preoccupante», lo rassicurò. «Piuttosto,
prima della pausa pranzo di mamma hai da fare qualcosa?».
Avrebbe voluto andare a cercare
Franky, per chiedergli finalmente ciò che doveva chiedergli;
avrebbe voluto andare anche da suo fratello Bill, giusto per stare un
po’ con lui, oppure chiamare anche Georg e Gustav e fare una
specie di riunione per la band, ma sua figlia aveva la
priorità.
«Dimmi tutto»,
rispose.
«Leo è al
lavoro, io sono qui da sola a casa… non è che
verresti a farmi un po’ di compagnia?».
Tom sorrise. «Arrivo
subito».
***
Si sentiva impotente, prima e
più di ogni altra cosa. Gli dava sui nervi non poter
comunicare col luogo a cui di diritto apparteneva, gli dava sui nervi
non poter tornare di sopra – a meno che non chiedesse un
nuovo permesso per poi riscendere a Kim – e gli dava sui
nervi utilizzare Zoe come centralino.
Seduto sul marciapiede,
incappucciato, con le mani davanti alla bocca e lo skate sotto i piedi,
aspettava. Faceva freddo, probabilmente molto freddo, visto come
andavano in giro imbacuccate le persone, ma lui non lo sentiva per
niente, anzi: stava andando a fuoco. Si sentiva caldissimo, affaticato
e, oltre che innervosito, parecchio teso.
Appena tornato a casa avrebbe dovuto chiedere a Tom se sapeva come
stava Evelyn, giusto per accertarsi che avesse la febbre.
Ormai aveva elaborato la sua teoria
e fino ad allora si era sempre rivelata corretta: lui ed Evelyn erano
strettamente collegati da qualcosa che ancora non aveva identificato,
grazie al quale riuscivano a sentire ognuno le sensazioni
dell’altro – se stavano male, per esempio
– e anche gli stati d’animo. Gli erano bastate
quelle due settimane di lontananza forzata per appurarla e far
sì che fosse valida al 99,9 percento.
«Due
settimane», mormorò fra sé e
sé e si passò le mani sul viso stanco.
Inutile dire che gli mancava da
morire e che c’erano state notti in cui, sempre per ferma
convinzione che la sua tesi fosse esatta, si era dato al
“volontariato”: era andato all’ospedale
di Zoe ed era rimasto a vegliare sul sonno di tanti altri pazienti, dai
bambini ai vecchi a cui mancavano pochi giorni di vita. Aveva anche
provato a leggere nelle loro menti e si era accorto che faceva ancora
un’immensa fatica, ma se c’era un contatto fisico
riusciva ad intravedere qualcosa. E comunque, passando le nottate in
quel modo, era riuscito a distrarsi e a non pensare a lei.
Lui sapeva come ci si sentiva, aveva percepito molte volte gli stati
d’animo di Evelyn ed era una vera tortura, quasi un dolore
fisico, per questo non voleva che lei riuscisse a sentire il suo umore,
a sentire il dolore che provava in mezzo al petto pensando ai momenti
trascorsi insieme; non voleva che stesse ancora male per colpa sua e si
costringeva a tenere tutto chiuso in un angolo della sua mente, anche a
costo di soffrire il doppio.
Nonostante tutto e la sua
convinzione, non poteva più vivere di quella teoria, voleva
scoprire che cosa fosse successo davvero quella notte in cui avevano
fatto l’amore. Perché era iniziato tutto da
lì; tutti i guai più grossi erano nati a causa di
quella notte. Per questo aspettava. Aspettava Kim.
Quando finalmente la vide arrivare, in lontananza, aveva gli occhi
bassi e il cappuccio sulla testa, come se si stesse nascondendo da
qualcuno. Non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un
istante, fino a quando non lo raggiunse e si mise timidamente seduta al
suo fianco.
«Ciao», lo
salutò con un fil di voce e tirò subito fuori
dalla borsa a tracolla tre grossi libri. «Sono gli unici che
ho trovato sull’argomento».
Franky li prese e se li
portò sulle gambe, iniziando a sfogliare il primo.
«Grazie mille, davvero».
«Prego».
Il silenzio calò fra di
loro. Gli unici suoni udibili erano quelli prodotti dalle auto che di
tanto in tanto passavano per quella vietta secondaria.
«Zoe come
sta?», domandò ad un certo punto Franky.
«Dal lato prettamente
medico nella norma».
Sorrise.
«Dall’altro lato, invece?».
«È incazzata
come una iena», sospirò arricciando le labbra.
«Dice che ci stai mettendo un po’ troppo, vuole te
come angelo custode».
«Anche io voglio tornare
ad essere il suo angelo, credimi. Quanto credi che durerà
ancora la sospensione?».
«Non ne ho
idea», scosse il capo.
«No?». Franky
sollevò il sopracciglio, scettico, ma non la
guardò negli occhi. Kim si irrigidì e non
rispose. Infatti fu l’altro angelo a riprendere la parola:
«Tu sai di che cosa si parla in questi libri, non
è così?».
Kim trattenne un gemito fra le
labbra, come se stesse cercando di contenere dentro di sé un
dolore troppo grande. Poi scosse il capo con insistenza e, per la prima
volta, Franky si voltò a guardarla. Il suo sguardo era
serio, tanto da far rabbrividire. Erano quelli i momenti in cui
dimostrava la sua vera età.
«L’hai detto tu
che siamo più simili di quanto io possa credere. Quindi, ho
pensato che magari tu sai ciò che sto passando e che anche
tu hai vissuto un’esperienza del genere, tanto tempo
fa».
A Kim venne la nausea a quelle
parole. I ricordi premevano per traboccare, per inondarla e travolgerla
di nuovo col loro dolore. Non poteva cedere, non doveva, o sarebbe
stata la fine per lei. Tutta la fatica che aveva fatto per dimenticare,
per dimenticare la causa di tutti i suoi guai… sarebbe stata
inutile.
«Lui chi era?»,
le chiese ancora, con tono di voce pacato e la massima della
tranquillità.
«Non so di cosa tu stia
parlando», berciò, anche se col magone, e si
alzò. Si infilò le mani nelle tasche e fece
qualche passo, allontanandosi da lui, ma Franky la raggiunse e la
fermò prendendola per un braccio.
«Kim, a me puoi dire
tutto quello che vuoi, sono sicuro che riuscirei a
capirti…».
«NO!»,
urlò con tutto il fiato che aveva in gola, liberandosi dalla
sua stretta. «No! Né tu né nessun altro
potrà mai… Non insistere, non… Devo
andare». Si asciugò repentinamente la lacrima che
le era scivolata sulla guancia e corse via da lui voltandogli le
spalle.
Franky sbuffò e si
rimise seduto sul marciapiede, lo sguardo fisso di fronte a
sé.
Perché avevano costruito quei fottuti palazzi sopra quello
che una volta era il suo
skate park?
Wishing I could find a way to wash away
the past
Knowing that my heart will break, but at least the pain will last
***
Stesa sul divano, avvolta nella
coperta di plaid, faceva zapping. Peccato che alla mattina il massimo a
cui si poteva ambire alla televisione erano quei programmi noiosissimi
per vecchi, per esempio quello in cui si davano consigli su come
risparmiare facendo la spesa, oppure direttamente i programmi di
cucina, oltre ai soliti telegiornali.
Alla fine optò per Mtv, almeno lì era sicura di
trovare qualche cosa di interessante o che, almeno, non la facesse
addormentare.
«Papà»,
lo chiamò lagnandosi, accorgendosi che aveva finito la sua
tazza di thè caldo.
«Che cosa
c’è?», le domandò entrando in
casa dalle vetrate del salotto, con un cappellino di lana innevato
sulla testa e il naso rosso dal freddo.
Evelyn strabuzzò gli
occhi. «Ma che cosa stavi facendo lì
fuori?».
«Stavo attaccando le
luminarie», rispose con tono innocente.
«Sei proprio intenzionato
ad abbellire casa come ogni Natale?», gli domandò
allora, a bassa voce, abbassando lo sguardo.
Il padre si avvicinò a
lei con un sorriso malinconico sulle labbra e si mise seduto al suo
fianco, dopo essersi tolto cappello e cappotto. «Sarebbe
ancora più triste se non lo facessi, non credi?».
«Non lo so»,
scosse il capo, mentre gli occhi iniziavano a pizzicarle. «So
solo che sarà orribile, senza mamma».
«Tesoro», le
sollevò il mento e la guardò negli occhi, velati
da un sottile strato di lacrime.
«Non voglio festeggiare,
non c’è niente da festeggiare senza di lei, non
è giusto… non è giusto».
Bill
l’abbracciò e la strinse forte a sé.
Anche lui stava male solo a pensare che quel Natale sarebbe stato
infinitamente diverso dagli altri. Già immaginava suo
fratello che lo avrebbe invitato a casa sua per la cena e per aprire i
regali tutti insieme e sarebbe stato così triste…
Il suono del citofono li fece
sobbalzare entrambi ed interruppe quel momento così intimo.
Bill si alzò dal divano facendole un buffetto sulla guancia
ed andò ad aprire, certo che fosse Tom. Quando
però guardò fuori dalle vetrate ai lati della
porta si accorse che non era affatto lui, ma il famoso ragazzo che li
aveva aiutati quella volta con la folla di giornalisti e che, da quel
che sapeva, era diventato amico di sua figlia.
Aprì la porta senza dire niente ad Evelyn e lo
aspettò sulla soglia.
Faccia a faccia, Martin
sollevò una mano e, imbarazzato, salutò:
«Buongiorno signor Kaulitz».
«Buongiorno»,
ricambiò lui, con un po’ di diffidenza.
«Come mai da queste parti?».
«Anja ha detto a mia
sorella che ha detto a me che Evelyn ha la febbre,
così… ho pensato di venire a farle un
po’ di compagnia, se non è di troppo
disturbo».
«Oh, wow»,
esclamò sorpreso da quel giro di informazioni.
«Forza, entra».
Martin sorrise felice come una
pasqua ed entrò dopo essersi pulito bene i piedi sullo
zerbino. Vide subito Evelyn sul divano, che si passava le mani sul viso
come se avesse appena smesso di piangere.
«C’è
un tuo amico Evelyn», lo annunciò Bill e la
ragazza si voltò. I loro sguardi si incontrarono subito e le
loro reazioni furono piuttosto diverse: Martin arrossì,
estasiato da quegli occhi azzurri; invece Evelyn, piacevolmente
sorpresa, aprì la bocca a mo’ di mezzaluna.
«Martin!»,
esclamò. «Ciao! Che ci fai qui?».
«Ho saputo che stavi male
e ho pensato, ecco… di venirti a trovare. Come ti
senti?».
«Uno straccio»,
ridacchiò. «Ma sei sicuro di voler restare? Non
avevi altro da fare? E poi magari ti attacco la febbre!».
Martin scrollò le spalle
e, sorridendo, la raggiunse sul divano. «Non ti preoccupare,
non avevo nient’altro da fare. E se mi attacchi la
febbre… è meglio che tu non lo faccia,
sai?».
«Oh, che paura. Guarda,
tremo!». Rise. «Magari dopo, se mi sento meglio,
potremmo fare un’altra full immersion di
matematica…».
«Sì,
perché no?». Martin, con la coda
dell’occhio, vide il padre di Evelyn scrutarlo con gli occhi
ridotti a due fessure: non era affatto tranquillizzante.
«Scusalo»,
sussurrò Evelyn, abbassando il capo ed unendo le mani sul
ventre. «È molto protettivo nei miei
confronti». Ma non
si accorge che vengo picchiata di continuo.
«L’avevo
notato… Mette soggezione», sorrise divertito.
«E ti fa
ridere?».
«Beh, un
pochino!».
Evelyn scosse la testa, lasciandosi
andare ad un sorriso.
Si tenne il viso su una mano e lo guardò piena di
gratitudine: grazie a Martin, quel ragazzo che era entrato nella sua
vita per pura casualità, era riuscita molte volte a
distrarsi da tutti i problemi che le toglievano la linfa vitale e,
sempre grazie a lui, aveva iniziato a capire qualcosa di matematica.
Con lui riusciva a studiare e ci si trovava bene, davvero, anche se
ancora non era in grado di vedere il ragazzo che era con gli occhi da
ragazza. Poteva essere considerato uno dei suoi migliori amici, ecco.
Nella sua testa, l’unico ragazzo che volesse
nell’altro senso era quello più irraggiungibile,
quello, come avrebbe detto lui, sbagliato.
Ma era lì e non poteva farci niente.
«A che cosa stai
pensando?», la distrasse Martin, assumendo
un’espressione incuriosita e allo stesso tempo un
po’ titubante.
Scosse il capo e fece scomparire la
malinconia dal suo volto, accennando un breve sorriso. «A
niente».
Improvvisamente il suo cellulare
iniziò a vibrare sul tavolino. Evelyn allungò il
collo per vedere chi fosse e appena vide l’iniziale di quel
nome rabbrividì e si affrettò a rifiutare la
chiamata.
Martin la stava osservando e nonostante non le avesse chiesto
spiegazioni, lei si sentì in dovere di giustificarsi:
«Un mio compagno di scuola», disse nervosa.
«Oh, capisco»,
annuì Martin, anche se i conti non gli tornavano:
perché non gli aveva risposto, allora? Comunque, non era da
lui impicciarsi troppo degli affari altrui, quindi lasciò
perdere e cambiò discorso. Era pronto per affrontare
quell’argomento, anche se aveva un po’ di timore
nel confidargli quella sua strana “esperienza”;
aveva paura che lo prendesse per pazzo.
«Evelyn, io…», balbettò,
mentre le sue guance diventavano rosse e si passava una mano sul collo,
più che imbarazzato. «È da un
po’ di tempo che volevo dirtelo, però non ho mai
trovato il momento e le parole adatte… A dire la
verità nemmeno il coraggio, perché, sai,
è una cosa un po’… difficile».
La ragazza lo fissò
confusa. «A me puoi dire quello che voi Martin, lo
sai».
«Sì,
ma…». Si guardò intorno per essere
sicuro che nessun altro stesse ascoltando la loro conversazione e si
sentì sollevato quando non vide Bill nei paraggi.
Tornò a fissare gli occhi azzurri di Evelyn e per
l’ennesima volta il coraggio sparì, come tutto il
discorso che si portava avanti da tempo: cancellato. Però
ormai era in ballo e doveva ballare. «È davvero
difficile da spiegare e da… credere».
«Prometto che non
riderò, se questo ti fa sentire più
tranquillo», ci scherzò su.
«No, è
che…», ridacchiò, più per
nervosismo che per altro. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo,
poi attaccò: «Allora, ascoltami bene…
Ricordi la prima volta che ci siamo visti?».
«Ah-ah, certo. Quando sei
intervenuto per salvarci dai giornalisti cattivi», sorrise.
«Sì,
esattamente. Beh… diciamo che in quel momento non ero
proprio… io». Evelyn aggrottò le
sopracciglia, ma non disse niente. «Nel senso che…
che è stato come se qualcosa, qualcuno, fosse entrato dentro
di me e mi avesse indotto a fare ciò che ho fatto. Come se
fossi… posseduto».
Martin non le diede il tempo di aprire bocca che riprese: «Ed
è successa la stessa cosa quando eri in ritardo e ti ho dato
quello strappo a scuola con la bici… Io non sarei mai
passato di lì se fossi stato pienamente in me».
La ragazza, sconvolta, non
parlò per diversi istanti. Possibile che avesse capito che,
in quelle due occasioni, il suo corpo era stato preso in prestito da un
angelo? Il suo
angelo. Possibile che ne fosse stato entrambe le volte consapevole?
Martin, non udendo alcuna risposta
da parte di Evelyn, scosse il capo e sbuffò, poi
continuò con la sua parlantina, sempre più
imbarazzato e nervoso: «So che è impossibile da
credere. Adesso mi crederai un pazzo furioso e mi dirai che non vorrai
più avere niente a che fare con me… Mi dispiace
Evelyn, io non avrei dovuto dirtelo, però era una cosa che
tenevo dentro da tanto tempo e non so perché questa cosa sia
successa proprio a me e perché questa
“presenza” sia fissata con te… Non
voglio che tu mi creda pazzo, io non lo sono, almeno non credo di
esserlo…».
Un dito delicato e freddo si
posò sulle sue labbra, facendolo ammutolire, e quando
alzò lo sguardo vide gli occhi ridenti di Evelyn, che gli
fecero mancare un battito.
«Io ti credo»,
gli disse, sorridendo dolcemente.
«Mi… mi credi?
Sul serio?», balbettò, più che sorpreso.
«Eh
già», ridacchiò lei.
Forse un giorno gli avrebbe
raccontato di Franky e gli avrebbe svelato ogni suo segreto. Quel
giorno, però, era ancora lontano.
Martin si lasciò
scappare un sospiro sollevato, mentre si lasciava andare ad una leggera
risata. «Oh mio Dio, questo… questo mi rende
infinitamente più tranquillo, sai? Non avrei mai creduto che
tu mi credessi…».
«Diciamo che tra pazzi ci
si capisce», gli fece l’occhiolino ed entrambi
scoppiarono a ridere.
***
Di ritorno da casa di sua figlia,
decise di fare il giro largo per dirigersi verso la casa di riposo dove
lavorava Linda. Nei pressi del nuovo quartiere, costruito qualche anno
prima, vide Franky, seduto sul marciapiede dall’altra parte
della strada, che sfogliava le pagine di un libro che teneva sulle
gambe.
Parcheggiò proprio di
fianco a lui e l’angelo, preso alla sprovvista,
imprecò: gli era passato con le ruote sui piedi.
«Figlio di…!». Ma appena aveva alzato lo
sguardo e aveva visto il sorriso sbarazzino di Tom aveva chiuso la
bocca, arrossendo.
Tom, sorridendo, scosse il capo e
si infilò l’auricolare del cellulare per inscenare
una telefonata che non sarebbe mai iniziata e poter parlare
tranquillamente con Franky. «Ero certo che ti avrei trovato
qui».
«Peccato non ci sia
più», mormorò l’angelo in
risposta. «Avevo tanti ricordi legati a quello skate
park…».
«Zoe si è
incazzata da morire quando ha saputo che ci avrebbero costruito sopra
un nuovo quartiere. È persino andata a protestare, ma
è stato inutile». Franky sorrise amareggiato e il
chitarrista cambiò discorso: «Che
leggi?».
«Ahm…
informazioni riservate?», ridacchiò, trascinando
dietro di sé pure l’amico.
«Dai, sali», lo
incitò quest’ultimo, riaccendendo il motore.
«Dove
andiamo?». Franky si alzò e sollevò lo
skateboard dandogli un colpetto sulla coda.
«Devo andare a mangiare
con Linda».
«E io che
c’entro?».
«Intanto che andiamo mi
fai compagnia e… parliamo un po’».
L’angelo capì
subito che Tom doveva parlargli di una questione seria e
provò a leggergli nella mente, ma non riuscì a
buttar giù il muro che lo divideva dai suoi pensieri.
Scoraggiato, fece il giro dell’auto e salì,
mettendosi seduto al posto del passeggero.
Tom pigiò sull’acceleratore e si avviarono insieme
verso la casa di riposo. Passarono i primi cinque minuti in silenzio e
Franky non disse nulla; avrebbe voluto chiedergli di che cosa volesse
parlargli, ma sapeva che se gli avesse messo fretta lo avrebbe bloccato
ancora di più. Così gli lasciò il suo
tempo e ce ne volle davvero tanto, perché quando Tom parve
decidersi ad aprire bocca erano arrivati alla loro destinazione.
«Okay»,
mormorò il chitarrista, fissando di fronte a sé.
«Sono un cacasotto».
«Se potessi leggere nel
pensiero sarebbe più facile», disse Franky,
posando la tempia calda sul vetro freddo. A quello sbalzo di
temperatura gli tornò in mente la plausibile febbre di
Evelyn. «Sai per caso se Evelyn sta male?», gli
domandò allora.
«E questo che cosa
c’entra adesso?», chiese infastidito Tom.
«Niente,
però… visto che non parli…».
«No, non lo so se sta
male e da quello che so non dovrebbe neppure interessarti. E comunque
non parlo perché ho una fottuta paura che quello che temo
sia la realtà».
«Ossia?»,
sospirò.
Tom si rimise
l’auricolare all’orecchio e strinse i pugni intorno
al volante. «Sono stato da Jole, stamattina».
«Leo è un tipo
a posto, non le farebbe mai del male».
«Non si tratta di
Leo!», gridò. «E poi come fai a
saperlo?».
«Prima che perdessi i
poteri l’ho analizzato per bene. Ma non si tratta di lui, no?
Quindi, di che cosa si tratta?».
«Di Jole!».
Franky voltò il capo
verso di lui e lo guardò negli occhi: sembrava terrorizzato,
confuso… e ci stava davvero mettendo l’anima per
dirgli ciò che lo turbava.
«Un po’ di
tempo fa», incominciò a raccontare con la voce che
tremava e che tentava inutilmente di nascondere. «I miei
ricordi hanno preso una forma diversa, come se ciò che avevo
sempre creduto non fosse ciò che era successo davvero. Mi
sono ricordato che quando mi hai portato all’ospedale lo hai
fatto per farmi vedere un’ultima volta Jole e che poi, senza
nemmeno pensarci, ho dato il suo nome a quella bimba, alla bimba di
Linda. Io pensavo che tu mi avessi portato là per farmi
dimenticare Jole, facendomi conoscere Linda, ma questa convinzione
è completamente svanita e adesso non so più cosa
pensare, perché… Sempre un po’ di tempo
fa Jole mi ha raccontato che ogni volta che sente Phantomrider
le viene in mente una scena che non ha mai vissuto e io credo che sia
quella in cui tu e Jole avete ballato sul palco, quando io le ho
dedicato questa canzone…».
Franky, che aveva ascoltato tutto
il suo monologo in silenzio, aspettò che il suo respiro si
regolarizzasse prima di portarsi una mano di fronte alla bocca e,
fissando il cielo fuori dal finestrino, domandare in un sussurro:
«Tu credi che tua figlia sia legata a Jole, non è
così?».
Tom annuì e
tirò su col naso. «Ti prego dimmi che non
è così, perché…».
«Perché?»,
lo spronò a continuare. «Cosa
cambierebbe?».
«Io… io non lo
so, ma…».
«Tom, tu l’hai
vista crescere, te ne sei preso cura come se fosse stata davvero tua
figlia, l’hai amata e la ami incondizionatamente. Credi che
se fosse legata, per assurdo, a Jole smetteresti di volerle bene, di
considerarla tua figlia?».
«Ho bisogno di
saperlo», insistette, scuotendo il capo. «Certo che
non smetterei di volerle bene e di considerarla mia figlia, ma sarebbe
un po’… diverso».
Franky, più convinto di
lui, negò con un leggero movimento della testa.
«Ci sono cose, nella vita, che non si sapranno mai. O meglio,
tutti conoscono le risposte ma non vi credono abbastanza da farle
diventare delle realtà. Tu conosci la risposta a
ciò che vuoi sapere, una risposta che né io
né nessun altro è in grado di darti».
«Ma Franky, tu
–!».
L’angelo lo
azzittì solamente alzando una mano e socchiudendo gli occhi.
«Vuoi ascoltarmi? Ascolta Franky. Non l’angelo
custode, il tuo migliore amico». Tom annuì e lui
gli sorrise, posandogli una mano sulla spalla. «Le hai dato
tutto l’amore che voleva, è felice.
Perché ti devi sempre complicare la vita? Vivi quella che
hai, al massimo, dandole tutto quello che puoi».
«Io… io non ho
capito qual è il soggetto. Di chi stai parlando?».
«Vedi, questa
è una delle risposte che sai ma che non vuoi concretizzare.
Il tuo cuore la sa, ascoltalo». Gli diede un pugno amichevole
sul braccio, sorridendo smagliante. «Vado, ci vediamo a
casa». Raccattò i suoi libri e smontò
dall’auto senza usare la portiera, né dandogli il
tempo di dire nulla. Saltò sullo skateboard e in poco tempo
sparì dalla sua vista.
Tom abbandonò il capo al
poggiatesta e chiuse gli occhi alle lacrime, respirando profondamente.
Il suo cellulare iniziò a suonare, lo prese fra le mani e
lesse il nome sul display, poi rispose.
«Hai dimenticato qui le
chiavi di casa, sai? Dopo passa a –».
«Ti amo, piccola
mia».
Il silenzio dall’altra
parte gli fece tremare piacevolmente il cuore. Era la risposta giusta.
«Anche io,
papà».
Tom chiuse la chiamata e
tornò alla posizione iniziale, con il capo sul poggiatesta e
gli occhi chiusi. Quella volta, però, un sorriso aleggiava
sulle sue labbra e quelle lacrime, nascoste dietro le palpebre, erano
di commozione.
Qualche minuto dopo scese dall’auto ed entrò nella
struttura. Andò a passo sicuro verso quella specie di
reception e domandò di Linda.
«Dovrebbe essere in
giardino con Herr Heller».
Si avviò verso il
giardino esterno alla casa di riposo e, una volta uscito, vide sua
moglie chiacchierare animatamente con un signore piuttosto anziano, in
sedia a rotelle, che indossava un’insolita divisa da
generale, con tanto di stelle e gradi sul braccio.
Si appoggiò ad uno dei pilastri di legno della veranda con
la spalla e si accese una sigaretta mentre, sorridendo, guardava i due
discutere.
«Ai miei tempi,
signorina, non si poteva mica in giro vestiti come i giovani
d’oggi! Lei ha figli?».
«Sì, due: una
femmina e un maschio».
«La femmina quanti anni
ha?».
«Ventiquattro».
«Oh, ma allora mi
permetta di dirle che lei si tiene davvero in forma!».
«Grazie, signor
generale», ridacchiò. «Ma sa, ho avuto
Jole quando ero ancora piccola».
«Vuol dire che i suoi
genitori l’hanno data in sposa molto giovane?».
«No, che… che
ho avuto un rapporto sessuale con il mio ragazzo di allora».
«Ai miei tempi queste
cose non accadevano!», sbraitò, diventando rosso.
«Una ragazza non la si poteva nemmeno toccare se prima non si
era uniti in matrimonio!».
«Le cose sono parecchio
cambiate, da allora».
«E il suo ragazzo poi
l’ha sposata?».
«No, lui se
n’è andato».
«Che oscenità!
Signorina, se ci fossimo conosciuti prima l’avrei protetta e
avrei costretto ai lavori forzati quello sconsiderato!».
«La ringrazio
molto», sorrise e il sentiero la obbligò a
curvare. In quell’istante sollevò lo sguardo ed
incontrò quello di Tom, che le sorrise e alzò una
mano a mo’ di saluto.
«Ma sa una cosa,
generale? Sono contenta che il mio ragazzo mi abbia lasciata».
«Che cosa intende dire,
signorina?».
«Se lui non mi avesse
messa incinta e non se ne fosse andato, non avrei incontrato
l’uomo della mia vita, mio marito, che mi ha resa la donna
più felice della Terra».
Herr Heller seguì la
traiettoria dello sguardo di Linda ed incontrò quello di
Tom, che sorrideva furbescamente mentre faceva gli ultimi tiri alla
sigaretta, che poi spense nel posacenere apposito.
«È quel
giovanotto laggiù, suo marito?», le
domandò.
«Sì,
esatto».
Linda spinse la sedia a rotelle del
generale fin sotto la veranda e lo guardò mentre si alzava,
con un po’ di fatica, e porgeva la propria mano, callosa e
allo stesso tempo segnata da mille rughe, a Tom.
Il chitarrista, vedendo la
difficoltà che aveva nel tenersi sulle gambe, gli disse di
riaccomodarsi, che non ce n'era bisogno, ma Herr Heller ci mise poco a
ribattere: «Per chi mi hai preso, ragazzo? Tra uomini bisogna
sempre guardarsi dritti negli occhi mentre ci si stringe la
mano!».
Tom gli strinse la mano e poi,
insieme a Linda, lo costrinse a risedersi. Il generale
borbottò un po’, ma alla fine si lasciò
riportare all’interno della casa di riposo.
«E così fai il
musicista, eh?», gli domandò ad un certo punto.
«Sì, suono la
chitarra e il pianoforte in una band».
«Ai miei tempi gli
artisti erano solo causa di guai per le donne! Facevano perdere la
testa col loro fascino irresistibile, ma non si sapeva mai se si poteva
mangiare la sera!».
«Adesso le cose sono
cambiate…».
«Sì, e sai che
cosa ti dico? Che sono cambiate in peggio! Prima gli artisti vivevano
dell’elemosina della gente, adesso sono delle macchine per
fare soldi!».
Tom sorrise e cercò lo
sguardo di Linda, che con un cenno del capo gli disse di assecondarlo,
di dargli corda.
«Comunque sia, sei un
ragazzo fortunato ad avere una signorina così al tuo fianco.
Vedi di trattarla bene o io e il mio esercito ti circonderemo la
casa!».
«Non si preoccupi,
è in buone mani», rispose e lo salutò
con un cenno della mano.
Linda lo accompagnò in
mensa, siccome era ora di pranzo anche per i pazienti, poi
tornò da Tom, già sprovvista di camice bianco, e
gli gettò le braccia al collo per baciarlo sulle labbra.
«Dove
andiamo?», gli domandò, accarezzandogli una ciocca
di capelli. «Sono affamata».
«Beh, io avevo in mente
di passare al Mc Drive e…».
«Oh, tu sì che
sai come conquistarmi!», gli stampò un altro bacio
sulle labbra, solo più appassionato del precedente.
Uscirono dalla casa di risposo,
entrarono in macchina e Linda si mise seduta dove fino a poco tempo
prima c’era stato l’angelo. Tom sorrise
inconsciamente e lo ringraziò ancora una volta per tutto
ciò che aveva fatto per lui, tra cui donargli le sue due
donne.
Si diressero al Mc Drive più vicino, ordinarono due super
menù, tanto quello che avrebbe avanzato Linda sarebbe finito
senza problemi nello stomaco di Tom, e lui sorprese la sua
metà portandola in un parcheggio non molto lontano che lei
conosceva bene.
«Il nostro primo
appuntamento…», soffiò con i
lucciconi agli occhi,
fissando il muro di fronte al parabrezza.
Tom sorrise, perso in quella serata
che aveva sempre considerato una delle più belle della sua
vita. E la considerava ancora così.
«Ti ricordi?».
«Certo!». Si
girò verso di lui e lo guardò negli occhi con la
bocca spalancata, come se avesse detto quale sciocchezza, ma le labbra
incurvate all’insù. «Non me lo
dimenticherò mai… è stato molto
romantico, sai?».
«Sul serio?»,
chiese spalancando gli occhi.
«Sì»,
Linda annuì. «Oddio, può non sembrarlo,
ma c’era un’atmosfera davvero magica».
«Più che altro
ci siamo scompisciati dal ridere», fece notare Tom.
«Tu non eri capace a mangiare senza un tavolo! Quando ti
è scivolato l’hamburger e ti sono rimaste in mano
solo le due fette di pane… è stato
bellissimo!».
«Non mi prendere in giro!
Parla quello che si è schizzato tutta la maglia di ketchup
aprendo la bustina!».
«È successo
solo perché guardavo te! Mi avevi
distratto…», sorrise malizioso e Linda
ricambiò, anche se era arrossita sulle guance.
«E quando abbiamo finito
di mangiare, che tu hai iniziato a fare lo sdolcinato… Ma
sembravi sbronzo! Chissà cosa ci mettono nella Coca Cola
quelli di McDonald’s!».
«Non è vero,
ero completamente in me! Mi sono lasciato andare ai
sentimenti…».
Linda sollevò il
sopracciglio. «Sì, mi sono davvero
sciolta… tanto che non capisco perché hai dovuto
adottare quello stupido trucco per baciarmi».
«Quale
trucco?», chiese Tom, aggrottando le sopracciglia.
«Non far finta di
essertelo dimenticato!», gli puntò un dito contro,
ridendo. «Ero ammaliata dalle tue parole, avresti potuto
baciarmi tranquillamente, invece hai acceso i fari dell’auto
all’improvviso e io mi sono girata verso il muro per vedere
cosa fosse; quando mi sono rigirata mi sono trovata praticamente contro
il tuo viso e le nostre labbra si sono scontrate».
«Oh,
quello…», si passò una mano sul collo,
imbarazzato. «Sai cosa? Avevo paura che tu mi
allontanassi…».
«Eh? Sul
serio?». Tom annuì e sollevò gli occhi
sull’espressione scioccata di Linda. «Non ci
credo».
«Io…
l’avrei fatto tranquillamente, ti avrei baciata, se tu fossi
stata un’altra, una qualsiasi. Ma eri tu… ero
già cotto, irrecuperabile, e per la prima volta ho avuto
paura che una ragazza mi allontanasse. Non mi sono mai piaciuti i
rifiuti, penso che se l’avessi ricevuto da te mi sarei
sentito davvero male».
Linda sorrise intenerita e lo
attirò a sé per la nuca per lasciargli tanti
bacetti sulle labbra, poi uno più lungo e passionale. Ormai
del pranzo se n’erano completamente dimenticati,
probabilmente era già diventato freddo.
Restarono abbracciati ancora un
po’, in silenzio, fino a quando Tom si ricordò che
il motivo per cui Linda gli aveva chiesto di passare la pausa pranzo
con lei, oltre per stare un po’ insieme ovviamente, era a lui
ancora sconosciuto.
Così le domandò, con tono tranquillo:
«Di cosa volevi parlarmi?».
«Oh…».
Linda si scostò dall’abbraccio, lentamente, e per
qualche istante tenne lo sguardo basso, come se si vergognasse di
qualcosa. «Ecco, è da un po’ che volevo
dirtelo, ma non ho mai trovato… il modo, né il
momento adatto».
«Okay, dimmelo
adesso», rispose confuso.
La donna alzò finalmente
gli occhi e fissò i suoi con un po’ di
preoccupazione. «Tu non hai notato niente di strano in
Arthur, in questo ultimo periodo?».
Arthur?
Tom cercò di fare
mente locale, di capire che cosa avesse potuto mai insospettire e far
preoccupare in quel modo sua moglie, ma non riuscì a trovare
alcuna spiegazione. Quindi, rispose: «No… Avrei
dovuto?».
Lei ci rimase un po’
male, ma lo nascose bene. «Io ho notato che molte volte parla
da solo. Gioca da solo e parla come se al suo fianco ci fosse
qualcuno… Per la carità, anche io da piccola
avevo un’amica immaginaria, ma Arthur lo fa con una
convinzione che un po’ mi preoccupa. Ho paura che ci sia
qualcosa che non vada… Forse sto esagerando, ma…
è quello che sento…».
Tom era impallidito ad ogni parola.
Era incredulo, allibito. Linda si era accorta di Franky, seppur non
vedendolo, e credeva che fosse Arthur ad avere dei problemi! Era
assurdo, ma se provava a ragionare con il suo punto di
vista… probabilmente anche lui avrebbe pensato la stessa
identica cosa. Come poteva fare a spiegarle che Arthur era a posto, che
non c’entrava nulla lui, che parlava con un angelo?
Soprattutto, doveva dirle di Franky?
Deglutì e si allargò il colletto del maglione. In
quel momento doveva essere l’uomo più indeciso del
mondo. Avrebbe voluto che Franky in quel momento fosse al suo fianco,
che almeno potesse sentirlo… invece doveva cavarsela da
solo.
«Linda,
Arthur… Arthur non ha alcun tipo di problema»,
affermò con un sospiro, socchiudendo gli occhi.
«Tom non dire
così a priori. Anche io faccio molta fatica a dire che mio
figlio – mio figlio! – possa avere qualcosa che non
va, ma dobbiamo prendere questa situazione con la giusta cautela,
informarci, magari…».
«No, Linda, non ce
n’è bisogno».
«Che… che cosa
stai dicendo?».
Avrebbe davvero voluto avere Franky
al suo fianco. Non sapeva cosa fare e scelse la soluzione forse
più sconsigliata in quel caso: dire la verità.
Come Linda l’avrebbe presa era un mistero, ma si
gettò comunque.
Aprì gli occhi e la guardò, le prese il viso fra
le mani e l’avvicinò al suo per essere il
più serio possibile. Fece un respiro profondo prima di
incominciare, giusto per darsi l’impressione di avere quel
coraggio che in realtà gli mancava.
«Anche io devo dirti una
cosa che è da tempo che avrei voluto dirti. Poi non ho mai
trovato il coraggio, forse avevo proprio paura di conoscere la tua
reazione, però… credo che sia arrivato il
momento: ora il coraggio deve venir fuori, perché si tratta
di nostro figlio e leggo nei tuoi occhi quanto tu sia in
pensiero».
«Tom, tu… tu
mi hai tenuta all’oscuro di qualcosa?»,
mormorò sbalordita, mentre i suoi occhi iniziavano ad
inumidirsi.
«Sì»,
sospirò sconfitto, vergognandosi come poche volte gli era
capitato. «Ma lasciarmi parlare, ti prego». Un
nuovo respiro profondo. «Ti ricordi di Franky?».
«Sì…
me ne hai parlato un sacco di volte: so tutto di lui».
«Tutto, eccetto una cosa.
Lui è… un angelo».
Il tempo e lo spazio intorno a lui
si fermarono, si cristallizzarono nell’istante in cui aveva
pronunciato quelle ultime parole. Persino Linda parve essere diventata
una statua di marmo.
«Lo so che sembra
assurdo, ma non ti sto prendendo in giro, davvero: è la
verità», disse ancora, impacciato.
«Tu mi stai dicendo che
mio figlio riesce a vedere gli angeli?», balbettò
lei, spezzando quell’atmosfera di immobilità.
«Non tutti gli angeli,
solo Franky!», la corresse velocemente, mentre le leggeva in
faccia che non stava credendo a nessuna delle sue parole. «E
non lo vede solo lui: anche io, Bill, Georg, Gustav, David e Zoe lo
vediamo. Franky è l’angelo custode di Zoe,
è per questo che lei, Bill ed Evelyn sono vivi: è
stato lui ad aiutarli ad uscire dalla macchina prima che
esplodesse…».
Linda rimase in silenzio, poi
abbassò lo sguardo ed accennò un sorriso amaro,
che mostrava tutta la delusione nascosta dai suoi occhi. «Ti
rendi conto delle assurdità che stai dicendo?»,
mormorò.
«Ma Linda! Non ti sto
mentendo!», gridò, alzandole il viso per guardarla
negli occhi. Fu peggio di una pugnalata al cuore. Da quando stavano
insieme avevano litigato tante volte, come tutte le coppie, a volte
anche per cose davvero stupide, ma non aveva mai visto nei suoi occhi
così tanta delusione, così tanta sfiducia. In
qualche modo aveva sempre visto il bagliore dell’amore che
nutriva per lui, aveva visto che sarebbe stata comunque dalla sua
parte, ma quella volta no: non c’era traccia né
dell’uno né dell’altra. Le
accarezzò i capelli sull’orecchio, scostando
lentamente la mano dal suo viso. Si sentiva a pezzi, ma nonostante
tutto riuscì a dire, a bassa voce: «Forse un altro
motivo per cui non te ne ho mai parlato subito è stato
perché ero quasi del tutto sicuro che non mi avresti
creduto».
A quell’affermazione,
Linda stropicciò ancora di più il viso,
già di per sé
triste e deluso. I suoi occhi
si accesero, una scintilla d’ira brillò nella
pupilla e, chiudendosi la lampo del giubbotto, sibilò:
«Può darsi invece che ti avrei creduto».
Poi scese dall’auto senza dare il tempo di dire nulla a Tom,
che rimase lì impalato a fissare la portiera aprirsi e
chiudersi con un tonfo.
Il gelo che era entrato nei secondi
che erano serviti a Linda per scendere non era nulla in confronto a
quello che si era lasciata dietro lei con le sue parole e quella
lacrima che Tom aveva visto di sfuggita rigarle una guancia.
Quando riuscì a riprendersi, si voltò verso il
muro fuori dal parabrezza e rimase a fissarlo con occhi spenti. Ad un
certo punto alzò un pugno e lo sbattè con
violenza sul volante, attivando il clacson. Lo lasciò
suonare per un po’, con il viso appoggiato
all’altro braccio, poi si tirò su e
posò di nuovo il capo al poggiatesta.
Fuori aveva ripreso a nevicare.
***
Nel primo pomeriggio li raggiunsero
a casa di Evelyn anche Pamela e Anja, quindi non passarono tutto il
tempo da soli, anche se a lei non dispiaceva affatto stare con Martin.
Grazie a lui, nonostante la febbre, era riuscita pure a fare un
po’ di esercizi di matematica.
C’erano stati momenti
d’imbarazzo, per esempio quando lei era rimasta a fissare il
suo profilo mentre lui aveva lo sguardo rivolto sul quaderno e le
spiegava, con l’accenno di un sorriso, un passaggio che non
aveva capito. Quando si era accorto che lo stava fissando era subito
arrossito e si era allontanato schiarendosi la gola; Evelyn invece
aveva sorriso.
Le piaceva davvero passare il tempo
con lui, si sentiva serena, tranquilla, in pace con se stessa. Per un
po’ era riuscito a farle dimenticare tutto il resto, persino
Samuel, che purtroppo non aveva smesso un attimo di tempestarla di
chiamate e messaggi, tanto che ad un certo punto era stata costretta a
spegnere il cellulare. Impaurita com’era, col ghiaccio al
posto delle vene, non si era nemmeno sognata di leggere uno dei tanti
sms ricevuti.
Insieme passarono davvero un bel
pomeriggio e quando fu l’ora di tornare a casa, Evelyn
faticò per tenerli con lei ancora un po’. Non
ricordava nemmeno più quante volte gli aveva detto:
«Ancora dieci minuti, dai!».
Alla fine dovette cedere e li accompagnò alla porta avvolta
nella sua coperta per proteggersi dal freddo.
«Ciao Evelyn, riprenditi,
mi raccomando», le sussurrò Pamela abbracciandola.
Poi fu il turno di Anja, che la
strinse forte a sé circondandole la schiena con le braccia.
La bionda strinse i denti a causa del dolore: la stava stringendo troppo
forte e i lividi si facevano sentire.
«Noi ci sentiamo, non ti
preoccupare», le disse l’amica e le sorrise
calorosamente.
Lei e Pamela si incamminarono sul
vialetto, coprendosi la testa coi cappucci per non bagnarsi i capelli
con la neve, ed Evelyn e Martin rimasero da soli. Imbarazzati,
soprattutto lui, si scrutarono di sottecchi per qualche secondo, poi si
sorrisero e si abbracciarono.
«Grazie per essere
venuto», mormorò lei, spezzando così il
silenzio fra loro.
«Non devi ringraziarmi,
l’ho fatto con piacere. Mi raccomando, prenditi cura di
te».
«Lo
farò».
Si scostarono l’uno
dall’altra e, un momento prima che Martin si girasse per
raggiungere la sorella e Anja, si alzò sulle punte dei piedi
e gli posò un bacio sulla guancia. Lui arrossì
immediatamente, lei ridacchiò.
«Evelyn»,
soffiò Martin, guardando verso il basso.
«Dimmi».
«Io… io ci
riprovo. O la va o la spacca: vuoi uscire con me?».
La ragazza si morse il labbro
inferiore, come indecisa, ma poi sorrise ed annuì. Martin
non riuscì a credere ai propri occhi, ma quando
udì anche la sua risposta iniziò a rendersi
davvero conto che sarebbero usciti insieme.
«Mi piacerebbe molto,
Martin».
La sua voce era quasi…
angelica. Non c’era niente di più bello di lei,
della sua voce, del suo sorriso… Era cotto come una pera.
«Okay,
allora…», balbettò, ancora stordito.
«Ci sentiamo in questi giorni per metterci
d’accordo».
«Certamente»,
sorrise piegando di lato la testa.
Lui ricambiò, solo con
espressione persa, quasi disorientata. Era già sulla sua
nuvoletta personale a fantasticare. «Ora… ora
vado». Si girò e camminò lungo il
vialetto senza voltarsi indietro, raggiunse l’auto e
lì guardò ancora verso la sua direzione e la
salutò alzando la mano.
Evelyn ricambiò il
saluto sorridendo e stava per chiudere la porta quando notò
un’altra macchina parcheggiata sul ciglio della strada,
accanto a quella di Martin. Non ci fu bisogno di aguzzare la vista,
conosceva quell’auto e il suo stomaco glielo
confermò, rivoltandosi.
Il cuore iniziò a batterle all’impazzata e chiuse
in fretta e furia la porta, ci si appoggiò con le spalle e
rimase a fissare il cellulare spento fra le sue mani con il fiato che
le mancava. Chiuse gli occhi e, strizzandoli forte, lo accese. Una
serie infinita di messaggi lo fecero suonare per due minuti buoni.
Quando finalmente tornò a regnare il silenzio,
aprì la sezione apposita e lesse l’ultimo
arrivatole. Lo stomaco le si rivoltò un’altra
volta.
«Papà»,
disse, col tono di voce più naturale che riuscisse a
riprodurre nonostante la paura e la tensione. «Anja ha
dimenticato la sciarpa qui, gliela riporto un attimo!».
Non ottenne nessuna risposta e
nemmeno se ne curò. Lasciò cadere a terra la
coperta che l’avvolgeva, prese il cappotto ed uscì
dalla porta di casa senza fare il minimo rumore. Inghiottita dalla
neve.
Bill uscì dal bagno e
percepì subito che c’era qualcosa che non andava.
«Evelyn?», la
chiamò, dirigendosi verso il salotto.
«Evelyn,
dove…?». Vide la sua coperta di fronte
all’uscio e notò che il suo cappotto non era
più appeso accanto al suo sull’attaccapanni.
Con il cuore che gli palpitava in
gola la cercò per tutta la casa, quando fu sicuro al cento
per cento che non ci fosse, corse al suo telefono cellulare e
provò a chiamarla. Era staccato.
***
Franky, sdraiato a pancia in
giù sul suo letto, aveva già letto
metà del primo libro. Ne mancavano ancora due, ma aveva la
sensazione che non avrebbe trovato proprio un bel niente che lo potesse
aiutare a capire perché a volte sentiva ciò che
sentiva Evelyn. Inoltre, erano scritti in maniera complicata, in un una
lingua che – essendo antica – a stento si capiva.
L’unica cosa che aveva capito la sapeva già: le
relazioni sentimentali fra esseri non viventi ed esseri viventi erano
vietate e non si poteva influire troppo nella vita dei vivi.
Sbuffò sonoramente
girando l’ennesima pagina e, con molta sorpresa, si
trovò sotto al naso un foglietto stropicciato ed annacquato,
penna blu su carta bianca. Alcune parole erano un po’
sbavate, altre illeggibili… ma conosceva quella calligrafia,
la conosceva bene. Kim.
Ho cercato in
questi libri qualcosa che mi aiutasse a capire, ma niente. Ho studiato
queste pagine, ci ho passato intere giornate ed intere nottate, ma il
risultato che ho ottenuto è sempre stato pari a zero.
Poi
ho incontrato un angelo più anziano di me che mi ha spiegato
che cosa mi è successo. Che cosa ci è successo.
Da quello che ha detto lui, io e Pete ci siamo rubati un pezzo
d’anima a vicenda. Il pezzo che io ho strappato a lui
è dentro di me; il pezzo che invece mi è stato
strappato, è dentro di lui.
Non
so, sinceramente, se questa sia la verità, ma io mi fido di
quell’angelo. Per dire una cosa del genere, vuol dire che ci
è passato, che ha qualche base su cui sostenere la propria
teoria, qualche prova che sia così. No?
Ora
che ci penso, inizio a credere che sia l’unica spiegazione
logica. È per questo che riesco a sentire ciò che
sente lui, per questo riesco a captare ogni sua sensazione ed emozione
anche a miglia e miglia di distanza. Certo, non è successo
subito, ma adesso che ci ho fatto caso e mi ci sto impegnando, mi rendo
conto che è così. Siamo così
legati perché abbiamo un pezzo dell’altro dentro
di noi…
Questo
angelo non mi ha detto se c’è un modo per far
ritornare i pezzi di anima al loro posto, mi ha solo detto che pian
piano, se si lasciano lì, si uniranno all’anima
che li ospita e lentamente spariranno tutti i
“sintomi” che in questi giorni avverto sempre meno.
Per esempio il calore.
All’inizio
era come se avessi una stufa al posto del petto… sentivo il
calore di Pete dentro di me… invece adesso…
Ho
paura di perdere questo calore. Ho paura di non sentire più
il frammento della sua anima dentro di me. Non voglio separarmi anche
da lei, è tutto ciò che mi rimane di lui.
Franky si interruppe nella lettura:
non voleva leggere altro della storia di Kim – non sapeva
nemmeno se lei gli avesse lasciato quegli appunti apposta, –
e quello che aveva scoperto gli bastava; inoltre era arrivato Tom e
aveva la sensazione che non fosse proprio di buon umore.
«Hai intenzione di
sfondare la porta?», gli disse ridendo, uscendo dalla camera
e raggiungendolo in cucina, dove trafficava con pentole, padelle e
mestoli.
«Che… che cosa stai facendo?», gli
chiese, con gli occhi sbarrati.
«Cucino»,
rispose stizzito l’amico.
«Ma chi, tu?».
«Sì, io,
perché?».
«Perché non
è da te cucinare!».
«Quando sono incazzato e
depresso eccome se è da me!».
«Oh, wow, questa non la
sapevo. E perché sei incazzato
e depresso?».
Tom si fermò nel suo
muoversi frenetico: si appoggiò al ripiano della cucina coi
pugni chiusi e guardò con sguardo vacuo il marmo sotto le
sue nocche; poi sospirò: «Ho litigato con
Linda».
«Ne vuoi
parlare?». Franky era sinceramente dispiaciuto per lui e
avrebbe tanto voluto aiutarlo, ma non sapeva nemmeno come.
L’unica cosa che poteva fare era stargli accanto e farlo
sfogare un po’.
«Sai qual è la
cosa più assurda?», Tom rise nervosamente.
«È che abbiamo discusso per te, per una persona
che lei nemmeno riesce a vedere!».
L’angelo, sempre
più sconvolto, sgranò ancora di più
gli occhi. Per me?
Tom si girò e lo
guardò con un sorrisino sfrontato. «Credeva che
Arthur avesse qualche problema perché l’ha visto
molte volte parlare con “nessuno”. Che cosa potevo
fare? Le ho detto la verità, che tu esisti, che sei un
angelo, e non mi ha creduto. Le ho confessato che non
gliel’avevo detto proprio per paura che non mi credesse e sai
che mi ha detto? Che magari, se glielo avessi detto subito, mi avrebbe
creduto. E se n’è andata. E sai che fine ha fatto
tutta la roba che ho comprato da McDonald’s? Nel cestino! E
questo mi fa incazzare come una belva».
«Oh»,
balbettò Franky, una volta che l’amico avesse
concluso il suo monologo.
All’improvviso una
fortissima sensazione di malessere gli attanagliò lo
stomaco, glielo fece rivoltare e dovette portarsi una mano sul petto.
Non capiva a cosa fosse dovuta, ma fece in fretta a collegarla ad
Evelyn.
«Beh? È tutto
quello che sai dire?», disse sarcasticamente Tom, alzando le
braccia.
Franky non badò a lui e
provò a concentrarsi meglio per risalire dalla causa di
tutto, ma l’unico risultato che ottenne fu una serie confusa
di emozioni, sempre più violente. Prima il freddo gelido,
poi la paura – una paura enorme che nonostante tutto cercava
di essere nascosta – e alla fine un senso di solitudine e di
abbandono che gli strinse il cuore in una morsa d’acciaio.
«Franky?»,
mormorò Tom, iniziando a preoccuparsi. «Franky, va
tutto bene?».
L’angelo scosse
lentamente il capo, da una parte all’altra, mentre i suoi
occhi iniziavano ad inumidirsi e il suo respiro accelerava insieme ai
battiti del suo cuore. Era la pura rappresentazione di ciò
che Evelyn stava soffocando dentro di sé per paura di
qualcosa, di qualcuno.
Il chitarrista corse da lui e gli
avvolse un braccio intorno alle spalle, per sorreggerlo, e lo condusse
verso il divano. Lo fece sedere e provò a calmarlo, invano.
«Cosa cazzo ti prende, Franky?!», gridò
ad un certo punto, esasperato.
Sentendo il proprio nome
pronunciato così ad alta voce e con una specie di rabbia
nell’intonazione, Franky riuscì ad estraniarsi
dalle sensazioni di Evelyn e ritrovò parte della sua
lucidità. Doveva fare in fretta, lei aveva bisogno di lui.
Fissò gli occhi di Tom e si alzò in piedi di
scatto, senza dare alcuna spiegazione. Fece il giro del salotto,
tenendosi la testa fra le mani. Non poteva fare niente, se non riceveva
qualche informazione in più: per esempio, dove si trovava.
Il cellulare di Tom
iniziò a suonare e il chitarrista distolse lo sguardo
dall’angelo per posarlo sul display
dell’apparecchio. Se lo portò
all’orecchio e rispose: «Ciao Bill,
dimmi».
Lo sguardo di Franky si accese. Si
avvicinò al divano e si rimise seduto accanto a Tom, con le
orecchie tese e gli occhi spalancati.
«Tom, Evelyn è
scomparsa».
Seduta al posto del passeggero in
quella macchina che puzzava di fumo, guardava fuori dal finestrino con
gli occhi velati dalle lacrime. Si mordeva le labbra per non mostrarle
tremanti e contraeva i muscoli di tutto il corpo per lo stesso motivo.
Non aveva solo i brividi di freddo, stretta nel cappotto che sembrava
non riscaldarla per niente, ma anche di pura paura.
Erano in auto da un po’,
ma Samuel non le aveva ancora rivolto la parola. Guardava seriamente di
fronte a sé la strada, le mani strette con forza intorno al
volante, e non sembrava intenzionato ad interagire con lei in nessun
modo.
Evelyn aveva paura anche di
respirare, ma trovò la forza per infilare una mano in tasca
e tirare fuori un paio di pezzi da cinquanta, che posò sul
cruscotto.
Samuel la guardò con la
coda dell’occhio e grugnì: «Sai che me
ne faccio ora, dei tuoi soldi?».
Il sangue le si gelò
nelle vene e un fremito la percosse da capo a piedi: non era riuscita a
trattenerlo. Spostò nuovamente lo sguardo fuori dal
finestrino e per la prima volta notò che quella strada la
conosceva, la conosceva piuttosto bene. Altri brividi le percorsero la
schiena e tutto ciò che riuscì a fare fu pregare
intensamente che quel luogo, per lei così importante, quasi
sacro, non fosse la meta di Samuel. Non le importava più che
cosa le avrebbe fatto, l’unica cosa che le premeva era che
quel luogo non venisse profanato da una persona tanto ottusa e schiava
di se stessa, della droga e della violenza, che non sapeva nemmeno
cos’era l’amore.
No, lui non poteva portarla nello stesso luogo dove lei e Franky si
erano dati il loro primo bacio ed erano rimasti ore ed ore abbracciati
a guardare le stelle.
Dove.
Dimmi dove sei, Evelyn.
Sbatté i pugni sul muro,
ai lati dello specchio, poi si prese la testa fra le mani. Sentiva Tom
parlare ancora al cellulare con suo fratello Bill. Cercavano di
arrivare a capire dove si trovasse scavando nelle più
piccole cose, ma l’angelo aveva la sensazione che non
sarebbero giunti ad alcuna conclusione. Quindi smise di ascoltarli per
concentrarsi soltanto su ciò che sentiva lui, dentro di
sé e sulla sua pelle.
Si appoggiò con la
schiena e il capo alla parete piastrellata del bagno e chiuse gli
occhi. Le orecchie iniziarono a fischiargli fastidiosamente e alcune
immagini sfuocate gli invasero la mente, ma era troppo poco per
riuscire a cogliere un particolare che lo riconducesse alla posizione
di Evelyn.
La prima sensazione che distinse chiaramente fu olfattiva: puzza di
fumo. Sigarette e canne, per la precisione.
«Hai già
provato a chiamare le sue amiche?», domandò Tom e
Franky serrò le labbra per non bestemmiare: con le sue
inutili chiacchiere aveva spezzato il contatto che era riuscito a
creare.
Se fosse stato più
potente avrebbe subito dedotto dove si trovava, ma con le
capacità così limitate… addirittura si
sorprendeva che riuscisse a creare quei legami, gli ci voleva
tantissima energia e concentrazione.
Ci riprovò e fu ancora più faticoso del
precedente tentativo, ma ci riuscì. Si trovava in
un’auto, seduta al posto del passeggero.
Fammi
vedere fuori dal finestrino. Fammi vedere dove ti stanno portando.
«Dove stiamo
andando?», gli chiese con voce flebile e il cuore che le
scalpitava nel petto.
«Siamo quasi
arrivati», le rispose con tono piatto e gli occhi
più scuri del solito.
Il cuore dal petto le
salì in gola. La paura aumentò ed era assurdo che
ne avesse così tanta per timore che quel luogo, che nella
sua mente era paragone di serenità, cambiasse e perdesse
tutta la sua purezza.
«Non possiamo andare da
un’altra parte?».
Samuel si voltò a
guardarla e sulla sua bocca prese forma una nota di disappunto.
«Non fare i capricci».
Evelyn si morse le labbra e volse
il capo verso il finestrino. L’auto si fermò nel
luogo che aveva purtroppo previsto, lei chiuse gli occhi e le lacrime
scivolarono lente sulle sue guance.
Samuel la voltò con forza verso di sé e appena
vide che stava piangendo digrignò i denti e le
tirò uno schiaffo.
«Franky! Franky, cazzo,
aprì la porta!», gridò Tom tempestando
la porta di pugni.
L’angelo, seduto con le
spalle ancora alla parete piastrellata, strinse ancora di
più gli occhi, ma tutta la sua concentrazione era vana con
tutto il casino che stava facendo il chitarrista.
«La vuoi finire?!», gridò esasperato,
con tutto il fiato che aveva in gola.
Tom parve quietarsi, ma dopo
qualche minuto di silenzio disse, con tono fermo e deciso:
«Solo se mi apri e mi dici che cos’hai».
Franky si alzò da terra
cercando di mantenere i nervi saldi, gli aprì e senza
aspettare che entrasse e chiudesse di nuovo la porta ritornò
alla sua posizione iniziale, con i gomiti appoggiati alle ginocchia
flesse e le mani sulle orecchie, a cingergli il capo.
Tom entrò con cautela nel bagno, guardò
l’amico e non facendo altro rumore chiuse la porta. Poi si
mise seduto al suo fianco e rimase a fissarlo.
«Senti, siamo tutti
preoccupati per Evelyn, ma facendo così non sei
utile…».
Franky gli posò una mano
sulla bocca e lo guardò truce. Non l’aveva mai
guardato con così tanta rabbia negli occhi, nemmeno quando
aveva scoperto che aveva indotto Jole a suicidarsi.
«Se non stai zitto giuro
che… Io sto facendo più di voi messi insieme,
quindi…».
Improvviso quanto inaspettato, un
ricordo gli balenò alla mente. Era un ricordo intenso,
intriso d’amore e di malinconia perché ormai
sembrava solo un sogno, e soprattutto era una ricordo che gli doleva
rivivere. Il loro primo bacio, quella notte in mezzo al capo di
girasoli. Ma perché gli era venuto in mente proprio in quel
momento?
Il chitarrista, immobile, si
ammutolì ed osservò lo sguardo vacuo
dell’amico. Che cosa gli stava succedendo? Aveva
l’espressione di quando si perdeva fra i pensieri delle
persone. Non sapeva che fosse riuscito a riacquisire quel potere, ma
era certo che non stesse sbirciando fra i suoi.
Franky rivisse quel ricordo,
dimentico totalmente di Tom. Rivide tutto nei minimi particolari e solo
verso la fine si rese conto di una cosa importantissima ma che al
momento non aveva per niente considerato: gli occhi con cui stava
vedendo quelle immagini non erano i suoi, bensì quelli di
Evelyn. Era un suo
ricordo.
«Ovunque, ma non
qui». Fu il sussurro
che come un venticello fresco gli entrò dentro i vestiti e
lo fece rabbrividire. Un altro pensiero di Evelyn.
«Il campo di
girasoli», mormorò, con gli occhi ancora vacui:
non poteva troncare il collegamento con lei, aveva paura che se
l’avesse fatto non sarebbe più riuscito a
riconnettersi con la sua mente e aveva un estremo bisogno di sapere
tutto ciò che poteva ed in tempo reale.
Tom corrugò la fronte,
senza capire. «Che hai detto?».
«Il campo di girasoli che
c’è non molto lontano da casa di Bill! Muoviti
Tom, è là che si trova Evelyn!».
L’angelo si tirò su da terra e corse fuori dal
bagno, con Tom che faticosamente gli stava dietro. Non aveva
più l’età per quelle cose.
Mentre Franky si dirigeva verso la
porta di casa, essa si aprì e mostrò loro Linda.
Tom si fermò nel bel mezzo del salotto, impietrito, ma
Franky no: come un treno in corsa con i freni fuori uso la travolse e
la trapassò in un millesimo di secondo, nel quale la donna
rabbrividì da capo a piedi e guardò Tom con gli
occhi sgranati.
«S-Scusa, io…
devo andare», balbettò il chitarrista e con lo
sguardo basso afferrò il cappotto, la spostò
delicatamente dalla porta e corse dietro l’angelo.
Samuel la trascinò fuori
dall’auto e con uno spintone la fece cadere con la faccia
nella neve.
«La vuoi smettere di
piangere?!», le gridò, tirandole un calcio nelle
costole.
Evelyn gemette di dolore e
sollevò il viso gelato: le lacrime le scivolavano sulle
guance come diamanti.
Franky si portò una mano
sulle costole del fianco sinistro. Con gli occhi sbarrati si rese conto
che il dolore che aveva provato era stato come quello dovuto da un
calcio. Si morse le labbra e corse ancora più veloce per le
vie d’Amburgo, trapassando qualsiasi cosa o persona che gli
si parasse davanti.
Una Audi che conosceva bene gli
schizzò di fianco e lui non perse tempo: si
lanciò contro di essa, trapassò la portiera e
cadde sdraiato sui sedili posteriori.
«Muoviti Tom!»,
urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
«Mi sto
muovendo!».
Franky si spostò sul
sedile del passeggero, affianco a lui, poi, preso dal nervosismo,
salì sulle gambe di Tom, gli rubò il volante
dalle mani e premette sull’acceleratore.
«Franky non fare pazzie!
Non sai nemmeno guidare!», gridò il chitarrista,
preso dal panico.
L'angelo sorpassò
un’intera fila di automobili ferme a causa di semaforo,
arrivò all’incrocio e scattò il verde,
poi fece zig-zag fra altre vetture che gli erano soltanto di intralcio
e quando furono nel viale di campagna che portava ai campi che dovevano
raggiungere, guardò Tom di sfuggita e, in tono sarcastico,
disse: «Ah no?».
Aveva dolori ovunque. I lividi
vecchi pulsavano esattamente come quelli nuovi e l’ultimo
calcio ricevuto, dritto nello stomaco, l’aveva fatta
rivoltare di nuovo con la faccia nella neve.
Voleva morire, voleva morire in quel preciso istante, perché
la sofferenza che stava patendo, ne era certa, era anche peggiore della
morte.
Tossì e sollevando di un poco il viso vide che aveva
lasciato tracce rosse sulla neve candida. Sangue.
Non era di certo la prima volta che lo vedeva, ma gli dava sempre la
nausea.
«E adesso vieni
qua», grugnì Samuel, prendendola per il giubbotto
e voltandola. Evelyn lo guardò, ma preferì
chiudere immediatamente gli occhi: il bianco del cielo faceva troppo
male e, inoltre, vedeva doppio.
Sentì un peso
schiacciarla e capì che Samuel si era inginocchiato su di
lei e stava trafficando con la cerniera dei suoi jeans.
Trasalì, capendo le sue intenzioni, e cercò di
levarselo di dosso, scalciando e dimenandosi con tutte le poche forze
che le erano rimaste in corpo.
«Stai ferma. Stai ferma,
ho detto!». Le tirò un forte schiaffo, che la
stordì. «Non avrei voluto farlo, credimi. Tu sei
così… Ma visto che non ho la coca a disposizione
devi offrirmi un’alternativa, no?».
Nuovi rivoli di acqua calda e
salata le scivolarono sulle tempie e cercò di trattenere i
singhiozzi, ma erano talmente forti che sembravano delle martellate
nella gola.
«Ti prego», farfugliò a bassa voce.
«Ti prego, non farlo».
«Te la sei
cercata», le rispose.
Evelyn chiuse gli occhi e
strizzò forte le palpebre, mentre si mordeva le labbra,
certa che sarebbe accaduto. Si aggrappò ai ricordi di lei e
Franky, i più belli. L’unica persona che riusciva
a pensare in quel momento era lui. Non suo padre, non sua
madre… Franky.
Cercò di rivivere tutti i bei momenti passati con lui, dal
primo all’ultimo: dal giorno in cui per la prima volta si
erano guardati negli occhi a quando avevano fatto l’amore.
Ricordò i suoi baci, le sue mani, il suo respiro, la sua
pelle. Tutto era così diverso, così delicato e
bello, rispetto a quello che le stava facendo Samuel.
Quando sentì le sue mani ruvide e per niente delicate vagare
sotto la sua maglietta la nausea la travolse, ma trattenne tutto dentro
per paura che le facesse ancora più male. Era orribile.
«Evelyn!».
La ragazza arricciò le
labbra in un sorriso amaro: era davvero la fine se riusciva persino a
sentire la voce di Franky che la chiamava.
«Levale le mani di dosso,
brutto figlio di puttana», ruggì ancora Franky ed
improvvisamente il peso che fino ad allora aveva sentito schiacciarla e
le mani che l’avevano toccata sparirono.
Sollevò faticosamente le palpebre, incollate dalle lacrime e
dal freddo, e vide Franky prendere a calci e pugni Samuel, mentre suo
zio Tom correva verso di lei, pallido come un lenzuolo.
Franky tirò il freno a
mano e schizzò fuori dall’auto trapassando
direttamente dal parabrezza. Saltò giù dal cofano
e corse a perdifiato verso l’auto parcheggiata nel bel mezzo
del corridoio fra due campi di girasoli.
«Evelyn!»,
gridò a squarciagola, mentre faceva il giro della macchina.
Quando vide quel ragazzo inginocchiato sopra Evelyn, che cercava di
spogliarla dei jeans, quando i suoi erano già abbassati,
andò completamente fuori di testa.
«Levale le mani di dosso,
brutto figlio di puttana», ruggì e con la furia di
un toro gli andò addosso, lo sollevò prendendolo
per le spalle e liberò Evelyn dalla sua stretta.
L’angelo non si accorse
neppure dell’arrivo di Tom, che raggiunse subito la nipote e
l’aiutò a sollevarsi, del tutto sopraffatto da
quella rabbia cieca che non gli permetteva di far altro che colpire il
ragazzo che aveva toccato la sua Evelyn, così dolce e
fragile.
Pugni, calci, ginocchiate nello stomaco… non aveva
pietà. Continuò a colpire il ragazzo anche
mentre, con il respiro mozzato, si accasciava a terra e ruotava
freneticamente le palle degli occhi, terrorizzato e frastornato, per
capire da dove provenissero quei colpi.
Niente e nessuno sarebbe riuscito
ad arrestare la sua furia, nessuno eccetto Evelyn che si era rialzata a
fatica, sotto lo sguardo attonito di Tom, e gli aveva preso una spalla
con la mano, quando con l’altro braccio si avvolgeva lo
stomaco.
Franky, grazie a quel semplice contatto, si pietrificò e
mollò la presa su Samuel, che cadde del tutto a terra, privo
di sensi. Si voltò verso Evelyn con le labbra dischiuse e la
guardò inespressivo. Riusciva a leggere benissimo i suoi
pensieri: continuava a ripetere, piangendo, “Mi
dispiace”.
L’angelo la fulminò con lo sguardo per un attimo,
poi con un gesto dalla lentezza calcolata e per questo dolorosissimo
per il cuore della ragazza, le prese la mano e la lasciò
cadere nel vuoto, ciondolante.
«Franky»,
sussurrò allora lei, con la gola che andava in fiamme,
graffiata dai singhiozzi. Alzò ancora la mano per
accarezzargli il volto, ma lui si scostò e guardò
di lato. Aveva i pugni stretti, si mordeva le labbra e tremava tutto
dalla rabbia.
«Quanto sei
stupida», sibilò.
«Franky, ti
supplico…».
«No!»,
gridò, frustrato. Le lacrime iniziarono a pungere anche i
suoi occhi. I suoi sentimenti erano così simili a quelli di
Evelyn… «Avresti dovuto dirmelo! Se non a me a
Bill, o a Tom! Cosa credevi di fare, credevi davvero che saresti
riuscita a cavartela da sola?! Sei stata una stupida!».
Tom raggiunse la nipote e la
strinse a sé, avvolgendole la schiena con le braccia.
Guardando l’angelo, mormorò: «Adesso
basta».
Il suo sguardo si posò
involontariamente sul ragazzo incosciente a terra, che poteva essere
benissimo collassato a causa di un'overdose, e poi tornò a
guardare Franky, che aveva lo sguardo basso e stringeva i pugni lungo i
fianchi.
Non l’aveva mai visto così. Nemmeno per Zoe aveva
lottato in quel modo, con quella rabbia distruttrice. Era stato una
furia, tanto da far venire i brividi.
«Mi dispiace. Mi
dispiace», singhiozzò ancora Evelyn, contro la
spalla suo zio. Non lo disse due volte a caso.
«Tranquilla»,
la rassicurò Tom, massaggiandole la schiena. «Ti
porto all’ospedale».
La incitò a camminare,
accompagnandola verso l’auto, ma si accorse che il suo
sguardo non poteva scostarsi dalla figura di Franky, ancora fermo
accanto al corpo di Samuel.
Tom sospirò, arrendendosi al fatto che quei due, in ogni
caso, sarebbero sempre stati indivisibili, e disse: «Tu vieni
con noi?».
«No, io… io mi
occupo di lui», rispose con voce flebile l’angelo,
indicando il ragazzo privo di sensi.
Il chitarrista annuì e
con un leggero strattone riuscì a far camminare anche
Evelyn.
I die each time you look away
My heart, my life will never be the same
This love will take my everything
One breath, one touch will be the end of me
***
Linda arrivò di corsa
nel corridoio in cui doveva trovarsi la camera di Evelyn ed infondo ad
esso vide Tom, seduto su una delle poltroncine attaccate al muro.
Lo raggiunse con passi lenti e calcolati, ma non riuscì a
nascondere l’ansia che provava per ciò che era
accaduto a sua nipote.
«Ehi»,
mormorò, sedendosi al suo fianco. Si sentiva nervosa ed
infatti era rigida come un pezzo di legno. Non osava nemmeno sfiorarlo.
«Bill è dentro
con lei», le disse in risposta, senza guardarla in viso:
teneva lo sguardo fisso sul pavimento.
«Sta bene?».
Il chitarrista scrollò
le spalle. «È traumatizzata e… niente,
lascia stare», sospirò.
Linda non osò
più parlare per un po’. Ma alla fine cedette,
anche se sapeva che se ne sarebbe pentita.
«Come facevi a sapere dove si trovava?»,
domandò schietta.
Tom si passò le mani sul
viso e mormorò: «Franky. È lui che mi
ha portato da lei».
La donna chiuse gli occhi ed
abbassò il viso, colpita dalla sua insistenza. Gli angeli
non esistevano, come poteva…?
Improvvisamente Tom si alzò e lei lo guardò
camminare a passo spedito verso la fine del corridoio. Entrò
nel bagno degli uomini e sparì alla sua vista.
Poco dopo Bill, il viso pallido e sciupato, uscì dalla
camera della figlia e la vide. Linda si alzò subito in
piedi, preoccupata, ma lui domandò solo di Tom.
«È andato in
bagno», gli rispose. «È successo
qualcosa?».
«Devono farle dei test
per vedere se è stata… violentata»,
l’ultima parola la sussurrò con la gola che gli
bruciava. «Lei ha detto che non è mai successo, ma
è la prassi che si deve seguire in questi casi».
«Oh Bill»,
sussurrò con le lacrime agli occhi e lo
abbracciò.
«Io non ce la faccio
più, Linda. Non ce la faccio più».
«Quanto ci hai messo, si
può sapere?!», gridò stridulo Tom, una
volta entrato nel bagno degli uomini.
Franky finì di lavarsi
il viso e se lo asciugò con un pezzo di carta, che poi
gettò nel cestino.
«Samuel si è costituito».
Tom sgranò gli occhi.
«Come ci sei riuscito?».
«Non hai idea di quanto
gli angeli possano essere persuasivi. Comunque non è servito
a molto, ha fatto tutto da solo. Si vede che si è preso
paura».
«Anche io ne avrei avuta
se fossi stato al suo posto. Sei stato… Non ti avevo mai
visto così».
«Lo so»,
mormorò l’angelo, appoggiandosi al lavandino con
le mani e guardandosi il viso nello specchio. «Credo che mi
verranno a prendere, prima o poi».
«Che? Venirti a
prendere?», balbettò, incredulo.
«Credi che in Paradiso
accettino una cosa del genere? Un angelo che quasi ammazza di botte un
ragazzo».
«Ma
l’hai… l’hai fatto per difendere
Evelyn!».
«Non cercare di
difendermi, adesso», sorrise amaramente. «Ogni cosa
sbagliata che si fa si paga, ricordatelo Tom».
Il chitarrista abbassò
lo sguardo. «Andiamo, dai».
Insieme uscirono dal bagno e ora
che Franky gli aveva detto quelle cose, Tom sentiva che ogni secondo
insieme a lui poteva essere l’ultimo. Avvertiva un vago senso
di oppressione, come se il tempo che passava gli pesasse sulle spalle e
lo schiacciasse.
Bill schizzò in piedi
appena li vide e corse a rifugiarsi fra le braccia del gemello,
nascondendo le lacrime contro il suo collo.
Franky invece si avvicinò alla porta della stanza di Evelyn
e sbirciò all’interno grazie alla finestrella
incasellata nel legno. I loro sguardi si incontrarono e Tom fece in
modo che restassero qualche minuto da soli.
«Vieni, andiamo a
prendere una boccata d’aria», disse al fratello e
lo accompagnò fuori dalla struttura. Come aveva previsto
anche Linda li seguì.
Grazie
amico, pensò Franky
prima di entrare nella camera della ragazza e chiudersi la porta alle
spalle.
Alzò lo sguardo ed
incrociò subito quello di Evelyn. Nonostante avesse gli
occhi arrossati e gonfi di pianto erano sempre bellissimi.
Si mise seduto sulla sedia affianco al letto e le prese una mano fra le
sue, se l’avvicinò alle labbra e, senza
interrompere il contatto visivo, la baciò.
«Mi dispiace
tanto», singhiozzò Evelyn, distorcendo la bocca,
quella bocca dai petali di rosa, in una smorfia.
«Shhh». Le
posò un dito sulle labbra ed accennò un sorriso,
accarezzandogliele delicatamente. «Non avrei dovuto
aggredirti in quel modo, prima».
«Hai fatto bene, invece.
Me lo meritavo».
Franky scosse il capo, si
alzò dalla sedia e si sporse su di lei. Evelyn chiuse gli
occhi e non si perse nemmeno un istante della sensazione di
serenità e completezza che sentì quando le
posò le labbra sulla fronte calda.
Gli prese le mani fra le sue e le loro diverse temperature si fusero in
una, creandone una perfetta: né troppo calda né
troppo fredda. Insieme,
erano perfetti.
Rientrarono nella struttura e,
appoggiato con la schiena alla parete, accanto alla porta della camera
di Evelyn, videro Franky. Bill gli rivolse uno sguardo di profonda
gratitudine e se non ci fosse stata Linda lo avrebbe abbracciato. Aveva
aiutato lui e la sua famiglia fin troppe volte in quel periodo, gli
doveva la vita.
«Signor
Kaulitz?».
Bill si voltò verso la
voce profonda che l’aveva chiamato e vide il dottore dal
camice bianco che si era occupato di sua figlia.
«Sì, mi dica», disse con voce tremante.
«Abbiamo i risultati
degli esami che abbiamo fatto a sua figlia».
«Ebbene?»,
domandò Tom, siccome il dottore si era interrotto e aveva
riletto ancora una volta i referti che aveva sotto gli occhi.
«Sua figlia non
è stata stuprata», disse e tutti trassero un
respiro di sollievo.
«Grazie dottore, davvero
io non so come…», disse Bill, con gli occhi lucidi
dall’emozione, ma l’uomo lo interruppe con un
sorriso compassionevole sul viso.
«Ma sua figlia
è incinta».
Il mondo di Bill crollò
sotto i suoi piedi.
Tom trasalì e con la coda dell’occhio
guardò Franky, che impietrito e con gli occhi sgranati
fissava l’uomo che aveva appena dato loro quella notizia. La
sua espressione diceva tutto.
«È
impossibile, lei non ha mai…», balbettò
Bill, ma finì per farfugliare cose senza senso. Si
lasciò cadere su una delle poltroncine e Linda gli avvolse
il capo con le braccia, facendoglielo posare sul proprio petto.
Sembrava un bambino in quel momento.
Il chitarrista non sapeva che cosa
fare: voltarsi verso Franky o raggiungere il gemello. Alla fine fu
costretto a scegliere la prima opzione, perché Franky cadde
in ginocchio e lo vide portare involontariamente le braccia dietro la
schiena ed abbassare il capo, come se… sì, come
se lo stessero arrestando.
Maybe she will save me in the oceans of
her dream
And maybe someday love
______________________________________
Eccoci
di nuovo qui :)
Allora, ci sarebbero un sacco di cose da dire, questo capitolo
è davvero lungo e non me la sono sentita di dividerlo in due
parti perchè è uno dei più importanti
e, insomma, la suspance a cui vi avrei costretto sarebbe stata una
tortura, anche per la sottoscritta xD
Quindi, ahm... beh, in un modo o nell'altro ciò che stava
passando con Samuel è finito, anche grazie a Franky che
è intervenuto in tempo grazie al loro speciale collegamento.
L'angelo è riuscito anche a capirci di più
rispetto a quello che gli è successo quando hanno fatto
ehm-ehm u.u xD grazie a Kim a cui, a questo punto l'abbiamo capito
tutti, è successa la stessa identica cosa! Era l'angelo
custode di un ragazzo, un certo Pete, si è innamorata di lui
e... ha sofferto quel che ha sofferto. Sarà anche il destino
di Franky e Evelyn? Mah, chissà...
Quello che è certo è che è un vero
casino ora... Evelyn è incinta. (Colpo di scena
MEGAGALATTICO xD Che ne pensate?)
E Franky è stato, diciamo... "arrestato" per la sua reazione
esagerata con Samuel, anche se l'ha fatto per lei...
E poi, ultima cosa tornando nel mondo "dei vivi": Tom e Linda che
litigano? D: Poveretta, lei credeva che Arthur avesse qualche problema,
invece parla soltanto con Franky, che lei non riesce a vedere... e Tom
ha dovuto dirle la verità, ma non ci ha creduto
più di tanto... Staremo a vedere ora che
succederà :)
Spero
con tutto il cuore che vi sia piaciuto *-* (Aspetto le vostre
considerazioni! :D)
La canzone che ho usato è la stupenda Love song requiem, dei bravissimi Trading Yesterday!
Ringrazio infinitamente coloro che
hanno recensito lo scorso capitolo e chi ha letto soltanto :)
Un bacio, alla prossima! Con affetto, vostra,
_Pulse_
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Capitolo 15 *** Prisoner of pain ***
15.
Prisoner of pain
Non aveva mai nemmeno immaginato
che anche in Paradiso ci fossero le prigioni. Ovviamente erano prigioni
diverse – completamente diverse, probabilmente non erano
nemmeno definibili prigioni
– e forse anche più utili di quelle che esistevano
sulla Terra, ma non l’avrebbe comunque mai creduto possibile.
Gli facevano male le gambe. Avrebbe
tanto voluto sedersi, ma non c’era modo di farlo in quella
specie di capsula, molto simile a quella per la lampada, solo
verticale, in cui si trovava. Era irradiato da una luce bluastra che
iniziava a fargli male agli occhi e il calore che sentiva in mezzo al
petto era quasi insopportabile.
Stavano cercando di curargli l’anima, di liberarla da ogni
tipo di corruzione, di male, che l’aveva spinto ad aggredire
in quel modo quel ragazzo.
Erano stati veloci. Pensava che ci
avrebbero messo almeno qualche giorno per rintracciarlo e riportarlo di
sopra per dargli la punizione che si meritava, invece gli erano bastate
solo poche ore.
Impresso nella mente aveva ancora il viso di Tom che, sconvolto, lo
guardava cadere in ginocchio, portare involontariamente le mani dietro
la schiena ed abbassare il capo. L’angelo speciale del
reparto di polizia celeste – così lui
l’aveva soprannominato – non si era fatto vedere
dai suoi amici e dopotutto ne era contento: sarebbe stata ancora
più dura se Tom avesse detto qualcosa, se avesse cercato di
fermarlo.
L’angelo che
l’aveva “arrestato” si chiamava Raphael
ed era semplicemente divino: occhi chiari, capelli biondi, bocca
sensuale. Uno degli angeli più belli che avesse mai visto.
Peccato che, per quel poco che aveva potuto notare, aveva un
caratteraccio. Non sapeva per quale motivo, ma sembrava avercela
particolarmente con lui ed infatti non era stato per niente delicato.
Ora, seduto al tavolo di fronte alla sua capsula, lo guardava con
sguardo truce e Franky, per quanto timore potesse incutere, non ne era
spaventato e lo sosteneva senza problemi attraverso
l’oblò che gli permetteva di vedere ciò
che succedeva fuori.
Quello che lo spaventava veramente,
più di ogni altra cosa, era che Evelyn fosse incinta. Non
poteva davvero essere suo figlio… Com’era
possibile? Era contro natura! Lui era morto, non poteva davvero averla
messa incinta… Eppure, sapeva che Evelyn non aveva fatto
sesso con nessun altro. Lo avrebbe avvertito sicuramente, se fosse
stato così! Infondo aveva un pezzo della sua anima dentro di
sé.
Si mosse dentro la capsula e questa
dondolò un poco. Sbuffò innervosito: iniziava a
starci stretto lì dentro. Voleva uscire. Voleva parlare con
qualcuno che gli spiegasse la situazione con tutti i dettagli
necessari, voleva risolvere tutti i casini che aveva causato, voleva
uscire da lì!
«La smetti di
dimenarti?», domandò Raphael con la sua bella
voce. «O devo aumentare la carica?»,
sollevò il sopracciglio con un sorrisetto maligno e si
alzò, si avvicinò alla capsula di Franky ed
armeggiò con una tastiera situata accanto
all’oblò.
«Voglio uscire da
qui!», gridò l’angelo, ma non fece in
tempo a dire altro che il calore aumentò ancora di
più e sembrava sempre alzarsi, come se si stesse pian piano
avvicinando a della lava incandescente. Strinse i denti e
sbatté i pugni contro le pareti: quella cosa non gli stava
facendo bene all’anima, gli stava solo facendo del male. A
lui non era mai piaciuto fare le lampade!
Qualcuno bussò
timidamente alla porta dell’ufficio. Raphael
aggrottò le sopracciglia, sorpreso, e borbottò:
«Sarà la tua amichetta Kim». Franky gli
lesse nel viso, così vicino al suo dopo
l’oblò, che solo per questo avrebbe voluto alzare
ancora di più la carica, ma non lo fece. Anzi,
l’abbassò di un poco, in modo tale che Franky
riuscisse a respirare in modo più o meno regolare. Poi
gridò: «Avanti!». Raphael si sbagliava,
non si trattava di Kim.
«Zoe»,
balbettò Franky. «Che… che ci fai
qui?».
La donna fece finta di non averlo
sentito, non lo guardò nemmeno, e si rivolse subito
all’angelo poliziotto. «Mi scusi, posso parlare in
privato con lui?».
L’espressione di Raphael
diceva tutto, tanto che Franky ebbe paura che l’aggredisse
verbalmente seduta stante. Invece, dopo qualche secondo, sorrise
compiaciuto e fece segno d’uscire all’altro angelo
poliziotto, che sicuramente era sotto il suo comando. I due uscirono e
si chiusero la porta alle spalle, lasciandoli soli.
L’angelo non osò fiatare. C’era
qualcosa, in Zoe, che gli faceva paura, come un brutto presentimento.
Aspettò dunque che fosse lei a parlare per prima e questo
accadde solo dopo qualche minuto di terribile silenzio.
«San Pietro mi ha detto
tutto», esordì a voce bassa, il viso rivolto verso
il pavimento.
A Franky mancò il fiato.
Nel poco spazio che aveva provò a passarsi una mano sulla
fronte, ci riuscì e si accorse che era madida di sudore.
San Pietro aveva davvero detto a Zoe tutta la verità? Stava
male solo al pensiero.
«Non
capisco…», riprese, facendo qualche passo per la
stanza. «Perché non me l’hai detto
subito?».
«Io… non
sapevo come l’avresti presa!», gridò
stridulo, mentre il panico prendeva il sopravvento su di lui.
«Era… è così complicato! E
non avrei saputo proprio come dirtelo!».
«Franky, ma tu credi
davvero che me ne possa importare qualcosa?!». Per la prima
volta lo guardò negli occhi e tutto ciò che
Franky vi vide fu delusione e rammarico.
Lui invece aveva una maschera di
pura confusione sul viso. «Che cosa intendi dire?»,
le chiese, nervoso.
Lei fece due passi avanti,
avvicinandosi alla sua capsula, senza distogliere gli occhi dai suoi.
«Non mi importa se ti sei innamorato di una ragazza ancora
viva piuttosto che di una… come te! Okay, forse ti avrei
chiesto se ne eri davvero sicuro e se lei ti voleva davvero, ma non ti
avrei detto nulla di più! Anzi, sarei stata felice per te!
Perché mi hai mentito in questo modo?».
L’angelo aveva gli occhi
spalancati e si era dimenticato persino di respirare. San Pietro non lo
aveva tradito, le aveva detto che si era semplicemente innamorato di
una ragazza ancora viva e non di sua figlia! Dentro di sé
trasse un enorme respiro di sollievo: lei non sapeva ancora niente di
lui ed Evelyn.
«Mi dispiace molto,
Zoe», le disse. «È che mi conosci, sai
come sono fatto…».
«No, io non lo so
più», mormorò abbassando gli occhi ed
allontanandosi. «Un tempo mi avresti detto tutto, non mi
avresti nascosto niente, per nessun motivo al mondo. Adesso
invece… è tutto cambiato, io credo di non
conoscerti più bene come ti conoscevo tanti anni fa. Come
credo che tu non mi conosca più bene come
allora…».
Quelle parole furono peggio di una
pugnalata per l’angelo. «Non dire queste cose,
Zoe…». Aveva gli occhi lucidi e la voce gli
tremava. Litigare con lei, in quel momento, era proprio
l’ultima cosa che voleva. «Zoe, ti
prego…».
La porta si aprì di
colpo, facendoli sobbalzare entrambi, e Kim li guardò con
occhi preoccupati.
«Non sono riuscita a
trattenerla», si difese Raphael, anche se aveva
un’espressione furente.
«Non importa, io me ne
stavo andando», disse Zoe.
«Aspetta! Zoe,
aspetta!», gridò Franky, ma lei evitò
il suo sguardo e raggiunse la porta. Sulla soglia, però, si
fermò e voltò il capo verso di lui,
permettendogli di vedere i lucciconi che aveva sotto gli occhi.
«Grazie per aver aiutato Evelyn, comunque». Poi
uscì dalla stanza senza guardarsi più le spalle.
Il silenzio più assoluto
cadde su di loro e solo dopo diversi istanti Kim si decise a spezzarlo,
veramente dispiaciuta: «Scusami, io non
volevo…».
«Non fa
niente», mugugnò l’angelo.
Kim si avvicinò alla
capsula in cui era rinchiuso e, guardandolo negli occhi attraverso
l’oblò, gli sussurrò: «Ho
fatto il prima possibile. Sono venuta a tirarti fuori da qui,
resisti».
Raphael la sentì e
gridò, col viso rosso di rabbia: «E come credi di
farlo?!». Sbuffò dal naso e serrò per
un momento la mascella. «È sotto la mia custodia!
Ha ferito gravemente un ragazzo umano, ha bisogno di una punizione! O
non te ne importa perché è esattamente come
te?!».
Franky li guardò
attentamente e capì che quei due si conoscevano, forse un
tempo erano anche stati amici, ed erano usciti fuori tema: non stavano
più parlando di quello che aveva fatto lui, ma di quello che
aveva fatto Kim in un lontano passato che però a Raphael
doveva bruciare ancora.
Kim fulminò con lo
sguardo l’angelo poliziotto e, dopo aver tirato fuori dalla
tasca del giubbotto una lettera, la sbatté sulla sua
scrivania. «La Commissione ha deciso per sei ore di
riabilitazione settimanali e, se possiamo definirli così,
gli arresti domiciliari».
A quelle parole
l’espressione di Raphael divenne ancora più
furiosa. I suoi occhi, seppure chiari, erano accecati
dall’ira. Strappò il bordo della busta,
tirò fuori la lettera e la scorse velocemente, poi la
rigettò sul tavolo con gesto sprezzante.
«Alla fine ve la cavate sempre»,
mormorò, ringhiando i denti.
Era davvero arrabbiato e Franky non
ne sapeva il motivo. Avrebbe dovuto chiederlo a Kim, prima o poi. Per
il momento era ancora scosso perché, oltre a tutto il resto,
aveva anche scoperto che in quel poco tempo c’era
già stata una Commissione che, durante un processo, aveva
stabilito la sorte che gli spettava. Com’erano rapidi, in
Paradiso!
Kim si voltò di nuovo
verso di lui e gli rivolse un tenue sorriso, gli occhi velati da un
sottile strato di lacrime. Chiamò l’altro angelo
poliziotto e gli ordinò di liberare Franky. La guardia
cercò il permesso del capo, intimidita. Raphael glielo diede
sbuffando ancora dal naso, profondamente irritato.
La porta della capsula si aprì e Franky vi
barcollò fuori. Lo sbalzo di temperatura fu fortissimo e per
un primo momento si trovò ad avere freddo, tanto da battere
i denti, poi lentamente si abituò di nuovo, come le sue
gambe si riabituarono a muoversi dopo un così lungo periodo
in quella posizione scomoda che non gli aveva permesso nemmeno di
sgranchirsele.
«Andiamo»,
mormorò Kim sorreggendolo per la schiena.
«Non finisce
qui», sibilò Raphael, quando ormai erano
già usciti dalla stanza.
***
Evelyn guardava fuori dalla
finestra con il capo posato su due cuscini. Aveva smesso di nevicare,
nel cielo c’erano poche nuvole e la luce della luna entrava
dalla finestra ed illuminava la sua semibuia stanza
d’ospedale.
Voleva vedere suo padre, ma lui
sembrava non voler vedere lei. Era stato suo zio Tom, infatti, a
raccontarle ciò che si era persa: Franky che veniva
arrestato da un essere invisibile e che veniva portato via sotto i loro
occhi. Appena l’aveva saputo si era sentita male, si era
sentita in colpa perché l’angelo avrebbe dovuto
subire un’altra punizione a causa del suo ennesimo errore, ma
non aveva pianto. Aveva versato tutte le sue lacrime precedentemente,
quando, sempre Tom, le aveva detto che dagli esami che le avevano fatto
era risultata positiva alla gravidanza. Lei aspettava un bambino. Il
figlio di Franky.
Non sapeva bene perché avesse pianto quando lo era venuta a
sapere. Non sapeva se era per dolore o per gioia, se l’aveva
ferita essere avvisata da suo zio invece che da suo padre, o
perché sapeva che sua madre non l’avrebbe aiutata
nemmeno in quel frangente.
Comunque, da quando l’aveva scoperto, non riusciva a fare
altro che pensare che dentro la sua pancia c’era qualcosa, un
piccolo esserino che sarebbe cresciuto e che avrebbe amato. Era un
pezzo di Franky e questo sì che le sarebbe rimasto sempre
accanto, in qualsiasi caso. Sentiva già di amarlo.
«Allora?»,
domandò a bassa voce suo zio, seduto in un angolo della
stanza, con una rivista sulle gambe.
«Cosa?»,
mormorò la ragazzina, senza distogliere lo sguardo dalla
luna.
«Cosa hai intenzione di
fare?». Evelyn si portò istintivamente una mano
sulla pancia e suo zio, notando l’amore con cui aveva
compiuto quel gesto, continuò: «È una
follia. Tu non riesci proprio a capire che così facendo
rovini la vita a te e al bambino, se dovesse nascere».
«Io non lo voglio
perdere».
«Ma Evelyn, come posso
spiegartelo?». Si alzò dalla sedia e
gettò la rivista sul mobiletto dal quale l’aveva
presa, poi raggiunse la nipote e si mise seduto al suo fianco.
«Crescere un figlio è di per sé un
compito arduo, pensa se si è da soli e si ha la tua
età: come credi di riuscirci? Senza offesa, ma questo
bambino ti rovinerebbe la vita».
«Mai, questo
mai», sibilò, stringendo gli occhi.
Tom sospirò.
«Non vuoi proprio capire, eh? Va bene, guardala da questo
punto di vista: crescerà senza un padre e
inoltre… insomma, io non avrei mai immaginato che potesse
accadere una cosa del genere e nemmeno Franky, suppongo, o non avrebbe
mai fatto… Il punto è che non sappiamo nemmeno
cosa ti crescerà nella pancia! Un bambino normale, un mezzo
angelo, cosa?!».
«Non mi importa che cosa
nascerà», mormorò. «So solo
che è mio e di Franky. Lui… lui avrà
un motivo in più per restare al mio fianco, se lo
tenessi».
«No, Evelyn, no! Non lo
posso accettare. Tu non puoi servirti di questo bambino per avere
ciò che non puoi avere comunque. È quasi
spregevole, da parte tua. E Franky non te lo permetterà.
Sono sicuro che… che la pensa esattamente come me».
«Tu credi?».
«Sì, io
credo».
Un silenzio glaciale li avvolse.
Tom guardò la nipote e vide i suoi occhi brillare alla luce
della luna: erano colmi di lacrime. In quel momento avrebbe tanto
voluto tornare indietro, non aver detto niente, non rimanere nemmeno
con lei in quella stanza così a lungo. Sarebbe dovuto
tornare a casa da Linda e Arthur. Linda… non gli aveva
più rivolto la parola dopo quelle due frasi messe in croce
che si erano scambiati qualche ora prima.
Evelyn tirò su col naso.
«Lasciami sola, per favore».
«Scusami piccola, mi
dispiace…».
«Esci».
Tom abbassò il capo,
affranto, ed annuì. Esitò ancora un momento sulla
soglia della porta, sperando inutilmente che cambiasse idea e lo
pregasse di restare, poi si chiuse la porta alle spalle e si
ritrovò di fronte al fratello, seduto su una delle
poltroncine del corridoio.
Il suo sguardo si accese appena lo
vide. «Ha cambiato idea?».
«No, per
niente».
«Secondo
te…». Si morse il labbro ed arrossì,
guardando il pavimento. «Secondo te è stato Martin
a… Cioè loro due…».
«Non lo so,
Bill», sospirò. Com’era difficile
mentire con lui! Gli toglieva tutta la linfa vitale. «Ma non
credo che Martin sia quel tipo di ragazzo».
«E allora
chi…?».
«Vado a casa»,
lo interruppe con un fil di voce, massaggiandosi gli occhi stanchi.
«Tu stai qui?».
«Sì»,
soffiò, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso il basso.
Tom si avvicinò a lui e
gli diede una pacca sulla spalla, poi, con un macigno al posto del
cuore, si allontanò nel corridoio.
***
Da quando erano usciti da quella
specie di commissariato Kim non gli aveva più rivolto la
parola e il suo viso era diventato scuro, serissimo. Ma nemmeno Franky
aveva molta voglia di parlare: aveva troppe cose in testa a cui pensare
e delle quali preoccuparsi; se si fosse accollato anche i problemi
dell’angelo speciale non se la sarebbe più cavata.
Kim lo accompagnò al suo
appartamento e solo allora Franky si rese conto di aver lasciato tutto
da Tom. Non gli avevano dato il tempo di prendere niente, nemmeno il
suo skate.
Si lasciò cadere a peso
morto sulla sua poltrona e sospirò profondamente.
L’angelo speciale si guardò intorno, ma non era
spaesata, sembrava più che altro che stesse prendendo tempo.
Ad un certo punto, infatti, si
voltò verso di lui e si trasformò nella Kim
anziana e saggia che raramente veniva fuori: «Mi avevi
promesso che non avresti combinato altri casini!».
Franky sobbalzò sulla
poltrona, spaventato da quello sclero improvviso, e la
guardò con gli occhi leggermente spalancati. Poi si
tranquillizzò e disse, con tono pacato: «Non ti ho
promesso proprio nulla, io».
«Franky!»,
gridò, il viso arrossato e le mani che tremavano.
«Non dovevi incasinarti ancora di più e basta! Ma
com’è possibile che quando
c’è di mezzo lei tu… tu diventi
un’altra persona?!».
Si alzò dalla poltrona,
adirato, e la guardò negli occhi avvicinandosi
pericolosamente a lei, tanto da sentire il suo respiro addosso.
«Perché», respirò
profondamente, per mantenere la calma, e in un momento di
lucidità assoluta capì molte cose ed
arrivò finalmente a dirsi la verità, quella che
avevano tentato di nascondergli e che lui stesso si era nascosto.
«Perché io la amo. La amo e non
permetterò mai, mai a nessuno di farle del male».
Kim parve rimanere turbata dalle
sue parole, ed infatti rispose con meno fierezza e convinzione.
«Credevo che San Pietro ti avesse detto
che…».
«Cazzate. Ciò
che provo per Evelyn non si può capire attraverso i
pensieri, perché la sede di tutto l’affetto,
l’amore che nutro per lei è qui», si
portò una mano sul petto, sul cuore.
Kim scosse il capo, addolorata, e
si spostò da lui. Fece qualche passo per il piccolo salotto,
poi si passò distrattamente una mano fra i capelli e
tornò a guardarlo con espressione malinconica. «Tu
sei esattamente come lui», esordì indicandolo e
sbattendosi la mano sulla coscia.
«Chi?», chiese
Franky, anche se aveva già un nome in testa.
«Pete. Anche lui diceva
tutte queste cose, eravamo innamoratissimi, ma… io ho dovuto
lasciarlo vivere la sua vita e col tempo… lui è
riuscito davvero a farsi un’altra vita, si è
sposato, ha avuto due bellissimi bambini… e io non ho potuto
far altro che guardare, inerme, la sua felicità. Io non ne
facevo parte».
Aveva raccontato la sua storia solo
ad una persona e si era ripromessa che non l’avrebbe
più fatto, ma ora si stava aprendo con lui,
quell’angelo dolcissimo e a volte impertinente di cui si era
innamorata e che stava vivendo la sua stessa situazione. Ora sapeva
come si era sentito Raphael, a suo tempo… Ed era orribile.
Non ebbe la forza di alzare lo sguardo per incontrare quello di Franky,
però fece qualche altro passo per il salotto, avvicinandosi
inevitabilmente a lui.
«Gli assomigli
così tanto…», mormorò
ancora, ricordando il grande amore della sua vita.
L’angelo si
avvicinò a lei, le alzò il viso prendendole il
mento fra le dita ed incatenò al suo sguardo al suo. Kim
rabbrividì ed un istante dopo sentì le sue labbra
sulle proprie.
You know,
someday, how much
I wanted you to be with me
how I always waited for your soft,
sweet kiss that I never got
***
Bill prese un lungo respiro e alla
fine si decise ad entrare. Si chiuse delicatamente la porta alle spalle
e si avvicinò con passo felpato al letto della figlia, che
si era addormentata.
Si mise seduto al suo fianco e rimase per un po’ ad
osservarla. Era bellissima quando dormiva, l’aveva sempre
pensato, sin dalla prima volta in cui l’aveva vista con gli
occhietti chiusi nella sua culla d’ospedale. La sua bambina.
Era arrivata
all’improvviso nelle loro vite e per lui, abituato
all’organizzazione più maniacale anche nelle
più piccole cose, era stato un vero trauma. Si era
trastullato per ben nove mesi con tutte le sue paranoie – Zoe
ad un certo punto se n’era pure andata di casa
perché non lo sopportava più – per poi
arrivare al giorno del parto, al momento in cui aveva visto per la
prima volta sua figlia e l’aveva tenuta fra le braccia, in
cui ogni ansia ed ogni paura erano sparite con un puff, cancellate
dalla faccia della Terra. In quel momento aveva visto solo rose e
fiori, nulla poteva andare male; era stato inondato da un amore che non
aveva mai provato prima ed era stato proprio quell’esserino
inaspettato a causare tutto.
Con lei e con Zoe aveva imparato a vivere la vita alla giornata, si era
dovuto abituare agli imprevisti, o almeno era riuscito a creare una
barriera fra la famiglia e il lavoro. A casa sua non si sapeva mai che
cosa poteva succedere.
Evelyn era la cosa più
bella e più preziosa della sua vita e pensare che in quel
periodo stava soffrendo così tanto per sua madre e che aveva
sofferto in silenzio, pur di riuscire a risolvere i propri problemi da
sola e dimostrarsi indipendente ed in grado di prendere delle decisioni
nonostante il suo cognome, lo faceva stare malissimo. E gli faceva male
ancora di più pensare che aspettava un bambino, il quale non
aveva ancora un padre: non aveva voluto dirlo a nessuno.
Anche lei non era stata voluta, ma la situazione era leggermente
diversa: Bill e Zoe erano già sposati e convivevano quando
avevano scoperto che sarebbero diventati genitori; Evelyn aveva solo
quindici anni! Come avrebbe fatto con la scuola, gli amici…
Come avrebbe fatto a proseguire la sua vita, con un bambino a carico?
Bill non sapeva proprio che cosa
fare. Gli imprevisti stavano diventando sempre più
insormontabili e gli mancavano le forze anche solo per pensare di
affrontarli.
Come genitore avrebbe dovuto proteggerla, ma non si era nemmeno accorto
che veniva picchiata da un suo compagno di classe per soldi. Come
genitore non valeva niente.
Si passò una mano sul
viso stanco e poi la avvicinò a quello di Evelyn. Le
accarezzò la guancia ed arricciò le labbra,
trattenendo le lacrime.
Non sapeva nemmeno cosa dirle a
proposito di tenere o non tenere il bambino. I medici le avevano detto
che non era costretta a tenerlo se era stato generato da
un’unione non consenziente avvenuta prima che loro potessero
accertare lo stupro – che lei aveva sempre e comunque negato,
rifiutando ogni proposta di fare una seduta con uno psicologo,
– che l’aborto era la soluzione migliore in quel
caso e che era del tutto legale se la gravidanza veniva interrotta
nelle prime dodici o quattordici settimane, che bastava soltanto una
consulenza professionale, ma non aveva voluto sentire ragioni. Lei
voleva tenerlo, lo voleva. E Bill non poteva far altro che immaginare
che lei fosse innamorata, in qualche modo, del padre, la quale
identità era un mistero per tutti.
Sentì un leggero
movimento sotto la sua mano, ancora lì sulla sua guancia, ed
incrociò gli occhi azzurri di Evelyn. Fu una pugnalata in
pieno petto: gli ricordavano così tanto quelli di
Zoe…
«Scusa, non volevo
svegliarti», sussurrò, stirando un lieve sorriso.
«Allora non mi
odi».
«Che cosa? No, certo che
no tesoro…».
«Credevo che mi odiassi
perché ho deciso di tenere il bambino»,
tirò su col naso. «Non mi hai parlato per tutta la
sera, non mi hai neanche voluto vedere…».
«Scusami, davvero, ma non
ce l’ho fatta», mormorò. «Ho
avuto bisogno di… metabolizzare le cose. Io non
potrò mai odiarti, hai capito? Sei la cosa più
importante per me e se potessi scaricherei tutto il tuo dolore su di
me, in questo momento. Anzi, dovresti odiarmi tu: non sono riuscito a
capire quello che ti stava succedendo, vuol dire che non sono un padre
poi così bravo…».
Evelyn gli posò una mano
sulla bocca e scosse il capo. «Non dire sciocchezze, non
è colpa tua. La colpa è solo mia, avrei dovuto
dirtelo subito, avrei dovuto chiederti aiuto, invece di cercare di
risolvere le cose a modo mio. Mi dispiace».
Bill le accarezzò i
capelli e si chinò su di lei per baciarle la fronte.
«Non importa, tesoro. Ti voglio tanto bene».
«Anche io,
tantissimo», rispose soffocando le parole nel suo maglione,
mentre lo abbracciava forte.
***
Tom entrò nella casa
buia e silenziosa, chiuse la porta a chiave e si levò la
giacca. In un primo momento l’abbandonò sul
divano, poi ci ripensò e la mise al suo posto,
sull’appendiabiti. Linda odiava che lasciasse i suoi vestiti
in giro, persino in camera avevano il loro posto e dovevano essere
ordinati, puliti o sporchi che fossero.
Mentre si dirigeva verso la camera
da letto si lasciò andare ad un sospiro stanco e si
grattò la testa, sperando che fosse ancora sveglia: aveva
voglia di parlare con lei, di chiarire una volta per tutte. Non gli
piaceva che ci fosse quel clima di controversia fra loro.
La porta della camera era
socchiusa, perciò gli bastò spingerla un
po’ in avanti per riuscire a vedere l’interno:
Linda dormiva nella sua parte di letto e rannicchiato accanto a lei
c’era Arthur.
Entrò nella stanza e si avvicinò a loro per
osservarli meglio con un sorriso tra l’intenerito e il
malinconico sulle labbra. Ci sarebbe stato, se avesse voluto, ma erano
così belli che aveva paura di stridere mettendosi al loro
fianco. Preferì non disturbare.
Accarezzò i capelli di
Arthur e gli soffiò un bacio sulla guancia, poi si
chinò su Linda e si soffermò ad analizzarle il
viso: era davvero bella e mai come allora si sentì un uomo
fortunato, perché oltre ad essere bella fuori era anche
buona e brava con lui, sempre. Non poteva meritarsi donna migliore.
Alla fine le scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e le
baciò l’angolo della bocca. Lei si girò
all’improvviso e non fu un semplice caso, come
pensò Tom, perché ricambiò con un
bacio soffice.
«Sei sveglia?»,
mormorò, accarezzandole una guancia.
«No», rispose
con un fil di voce e l’angolo della bocca sollevato, ad
indicare un sorrisino.
Tom sorrise, rincuorato, e le
baciò la tempia e i capelli, poi le sussurrò
all’orecchio un «Ti amo» che la fece
sorridere ancora di più.
«Vai a dormire,
stupido», gli disse e con una manata lo allontanò.
Se non fosse stata notte fonda e
suo figlio non fosse stato lì accanto a loro avrebbe
continuato a stuzzicarla finché non avesse ceduto. Si
accontentò del suo sorriso.
Si spogliò ed
uscì dalla camera per dirigersi verso quella di Arthur,
accanto alla sua. Prima di entrare e di andare a dormire,
però, fu attratto da quella degli ospiti, quella che era
stata di dominio di Franky. Vi si diresse e, sbirciandovi
all’interno, vide il solito caos che caratterizzava
l’amico: tutti gli oggetti e i vestiti erano al posto in cui
li aveva lasciati. C’era persino il suo skate.
Con un sospiro chiuse la porta e
finalmente andò a dormire, sotto le coperte blu con le
macchinine del lettino di Arthur.
***
Le infilò una mano fra i
capelli, sulla nuca, e glieli tirò per poterla baciare e
mordere sul collo, respirando affannosamente ormai.
La gettò sul letto senza alcun tipo di cortesia e la
spogliò, mentre lei spogliava lui. Vide i brividi sulla
pelle di Kim quando le sfiorò la pancia nuda con le dita, ma
non ci badò e tornò a baciarla impetuosamente
sulla bocca.
Senza farlo apposta, non
l’aveva proprio voluto a dir la verità, venne
travolto dai pensieri di Kim. Dovevano essere molto intensi per
manifestarsi così chiaramente anche nella sua testa. Stava
pensando a Pete, a quando anche loro avevano trasgredito ogni regola
possibile ed immaginabile; in particolare, pensava a quando avevano
fatto l’amore e Franky dovette dar ragione
all’angelo speciale: si somigliavano parecchio.
Kim, siccome l’angelo si
era distratto, fece tutto da sola: finì di spogliarlo e lo
fece entrare dentro di sé, mordendosi le labbra.
Franky godeva e in certi momenti
l’aveva anche presa per i fianchi e l’aveva
penetrata con ancora più forza, ma era un piacere del tutto
diverso da quello che aveva provato con Evelyn: con lei aveva provato
addirittura dolore, ma era stato un dolore che avrebbe patito mille e
mille volte ancora, perché era lei che amava e condividere
il dolore con lei era bello quasi come condividere la gioia.
Era sicuro che anche Kim fosse
nella sua stessa identica posizione. Entrambi stavano pensando a
persone diverse rispetto a quelle che avevano davanti e a nessuno dei
due importava che l’altro lo sapesse. Cercavano di rivivere
dei momenti che non avrebbero potuto più rivivere e si erano
scelti perché Franky per Kim era una specie di copia del suo
grande amore e Kim, per Franky, era l’esatto opposto di
Evelyn.
And I am
I’m lonely, I am
I’m solely alone
I try to show you but,
but I know you
***
Bill uscì dalla camera
della figlia, che si era di nuovo addormentata, e camminò
per i corridoi deserti dell’ospedale. Ogni tanto incrociava
qualche infermiera, ma ormai lo conoscevano e non gli facevano
più tante storie se non era orario di visita.
Anche Zoe dormiva, il suo era un
sonno che si prolungava da troppo tempo, attaccata a delle macchine che
l’aiutavano a sopravvivere. Bill si mise seduto al suo
fianco. Le sollevò delicatamente un braccio e si
infilò sotto di esso, con la faccia contro il materasso, in
modo tale da avere la sua mano sopra il capo. Iniziò a
piangere come un bambino.
«Io non ce la faccio
più Zoe», disse a bassa voce, lottando contro i
singhiozzi che a malapena lo facevano respirare correttamente.
«Devi tornare da me, perché non riesco
più a… Io… Mi dispiace così
tanto… Non sono all’altezza di prendermi cura di
mia figlia come dovrei, senza il tuo aiuto. Ti prego, torna da me. Ti
supplico».
***
Zoe chiuse gli occhi alle lacrime,
le ennesime che le sarebbero scivolate sulle guance se non le avesse
fermate in tempo.
Aveva appena finito di sentire Bill
e al posto del cuore aveva una voragine, che stava risucchiando tutto.
Lo stava facendo soffrire come mai prima e come se non bastasse sua
figlia stava peggio di lui, non a caso si era messa in molti casini da
quando era in coma.
Non poteva più permetterlo, ma non sapeva nemmeno come poter
agire. Non aveva alcun controllo di sé e il suo corpo non ne
voleva ancora sapere di riaccettarla.
L’unica cosa che poteva fare era chiedere a San Pietro un
permesso per scendere di sotto, per andarli a trovare. Era tutto
ciò che era in grado di fare.
***
Sentì
un leggero peso sul petto e, aprendo gli occhi, si immerse nello
sguardo sorridente ed azzurro come il cielo di un bambino. Si mise
seduto sul letto e lo prese fra le braccia ridendo.
Il bambino piangeva e non sapeva assolutamente cosa fare. Poi gli venne
un’idea. Corse in bagno, afferrò il rossetto che
trovò sulla mensolina accanto allo specchio e se lo
spalmò in faccia, poi tornò da lui. Il bambino
rise e si lasciò asciugare le lacrime.
Voltò il capo verso i sedili posteriori e vide il bimbo che
spargeva popcorn ovunque. Un’espressione amareggiata gli si
dipinse sul volto, ma durò poco, perché
bastò vederlo sorridere per esserne contagiato.
Gli aveva raccomandato di non fare disastri mentre lui andava a
prendergli dei vestiti puliti, ma una volta tornato si rese conto che
non l’aveva ascoltato: il bagno era mezzo allagato e
c’era schiuma dappertutto.
Guardò severamente il bambino insaponato, questo gli sorrise
sbarazzino e, come al solito, ne rimase ammaliato. Non lo
sgridò nemmeno quella volta.
Finì il turno in ufficio e senza badare a nessuno, con solo
quel sorriso entusiasta sul viso a mo’ di spiegazione, corse
verso l’Ufficio di Collegamento. Scese di sotto e
tornò a casa, dove lui lo aspettava.
Entrò di soppiatto in salotto, intento a fargli una
sorpresa, ma il bimbo lo vide per primo e gli corse incontro. Lui lo
abbracciò e lo baciò, stringendoselo forte al
petto, poi sollevò lo sguardo verso la poltrona, ma non
riuscì a vedere il volto della ragazza che vi era seduta.
Si svegliò nel bel mezzo della notte, infreddolito, e si
accorse di non avere più nemmeno quell’angolino di
coperta che ogni tanto gli concedevano. Si voltò verso il
fagottino sdraiato al suo fianco e gli accarezzò i capelli
neri. Alzò gli occhi verso il corpo sdraiato
dall’altra parte del letto, ma, essendo di schiena, nemmeno
quella volta ne poté scorgere il viso.
Si coprì gli occhi dalla potente luce del sole e
cercò di guardare davanti a sé.
Strizzò le palpebre per mettere meglio a fuoco: una ragazza
teneva in braccio il suo bambino, lo stesso bambino dagli occhi azzurri
e i capelli neri che era sempre stato il protagonista dei suoi pensieri.
Quella ragazza era Evelyn… Che ci faceva con quel bambino?
Lo conosceva?
Il bimbo sorrise ed alzò una manina. «Vieni,
papà!».
Franky trasalì e
schizzò seduto sul letto, col fiato grosso e una mano sul
petto nudo, all’altezza del suo cuore scalpitante.
«Buongiorno».
Alzò lo sguardo e vide
Kim, seduta ai piedi del letto, che si stava rivestendo. Per una
frazione di secondo riuscì a scorgere le cicatrici che aveva
sulla schiena, che poi furono coperte dalla maglietta verde.
Si ricordò della notte
precedente e il suo viso si adombrò.
«’Giorno», rispose massaggiandosi gli
occhi.
Lei si voltò verso di
lui con un sorriso appena accennato. «Hai avuto un
incubo?».
L’angelo si morse le
labbra. Non sapeva se era stato un incubo oppure un sogno: aveva
sognato suo figlio.
«Una cosa del
genere», mormorò. «Dove stai
andando?».
«Devo tornare al mio
lavoro, da Zoe».
«E io cosa posso fare,
nel frattempo?».
Kim salì a carponi sul
letto e avvicinò il proprio viso al suo, tanto che i loro
nasi si sfiorarono. «Non lo so. So solo che è
stata una serata indimenticabile». Si sporse per baciarlo
sulle labbra, ma lui si scostò e guardò fuori
dalla finestra con un velo di malinconia negli occhi: quel giorno anche
in Paradiso avrebbe piovuto.
Lei, delusa, si schiarì
la voce e si alzò dal letto sistemandosi la felpa sui
fianchi. «Devo andare. Ci vediamo stasera».
Andò alla porta, l’aprì e rimase per
qualche secondo ancora a guardare Franky e ad aspettare che la
salutasse, ma non avvenne. Si voltò e con un sospiro triste
se la chiuse alle spalle.
Franky si massaggiò il
viso con le mani, incurvando le spalle in avanti, e volle piangere. Si
alzò dal letto, nudo com’era aprì le
porte finestre che davano su un piccolo balconcino, poi andò
in bagno. Passando di fronte allo specchio riuscì a vedere
anche le sue di cicatrici sulla schiena, proprio lì dove un
tempo c’erano state le sue magnifiche ali. Entrò
nel box con una smorfia di dolore sulla bocca e una volta sotto
l’acqua calda si appoggiò con la schiena al marmo
freddo della parete della doccia e lasciò scivolare le
lacrime, assieme ai singhiozzi che lo facevano tremare da capo a piedi.
I was thinkin’ about her,
thinkin’ about me
Thinkin’ about us, what we gonna be?
Open my eyes, yeah, it was only just a dream
So I travel back, down that road
Who she come back? No one knows
I realize, yeah, it was only just a dream
***
Evelyn si svegliò con
una sgradevole sensazione addosso. Non sapeva che cosa fosse, ma era
molto forte.
Fece un respiro profondo e si mise seduta sul letto. Istintivamente si
abbracciò l’addome e guardò fuori dalla
finestra: stava diluviando.
Quel giorno l’avrebbero
dimessa dall’ospedale e non vedeva l’ora. Voleva
tornare a casa e passare lì i suoi giorni di vacanza
anticipata prima di quella vera e propria per il periodo natalizio.
Tanto era certa che a scuola nessuno avrebbe sentito la sua mancanza.
Forse non era una mossa furba perdere altri giorni di lezione, ma non
aveva proprio voglia di entrare di nuovo in quell’incubo:
voleva solo stare bene e pensare alle sue cose.
«Ti sei
svegliata», disse una voce dolce, entrando nella stanza.
«Anja»,
mormorò stupita Evelyn: non pensava di vederla.
«Tuo padre mi ha mandato
un messaggio stamattina», le spiegò, andandosi a
sedere sulla sedia accanto al suo letto. «Dicendomi che ti
avrebbe fatto piacere vedermi».
«Infatti è
così», annuì stendendo le braccia verso
di lei; l’amica la strinse forte, posandole una mano sul
capo. «Ti ha raccontato anche che cos’è
successo?».
«Mi ha accennato qualcosa
adesso».
Evelyn si chiese che cosa le avesse
raccontato e cosa no, ma Anja interruppe i suoi pensieri soggiungendo:
«Avresti dovuto parlarmene, magari avremmo potuto…
Ora capisco perché eri sempre strana, nervosa».
«Lo so, ho
sbagliato», la interruppe. «Ma è inutile
ormai dirmelo, mi fate sentire ancora più in
colpa».
Anja piegò la testa di
lato con un lieve sorriso sulle labbra. «Hai ragione. Ora
come ti senti?».
«Meglio. Voglio tornare a
casa».
«Verrò a
trovarti tutti i giorni, promesso».
Evelyn sorrise rincuorata. Come
avrebbe fatto senza la sua migliore amica?
«Ah,
Evelyn…», disse abbassando lo sguardo sulle sue
mani unite sulle gambe.
«Dimmi».
«Mi sono permessa di
avvisare anche Pamela e Martin. Lui è qui fuori».
«Oh», la bionda
sgranò leggermente gli occhi.
«Lo faccio entrare? Da
quando tuo padre lo ha visto non ha fatto altro che guardarlo in modo
preoccupante».
Evelyn arricciò le
labbra, pensierosa. Probabilmente suo padre credeva che fosse stato lui
a metterla incinta, per questo si era impuntato così. Povero
Martin, era certa che in quel momento stesse morendo dal disagio,
timido ed emotivo com’era.
«Sì, fallo
entrare per piacere».
«Okay». Le
baciò una guancia, abbracciandola ancora una volta, poi
uscì dalla camera per lasciare il posto a Martin, che vi
entrò incerto e forse un pochino spaventato e con un mazzo
di fiori fra le mani.
Arrossì subito quando la
vide ed Evelyn sorrise divertita, salutandolo: «Ciao Martin,
sono contenta di vederti».
«D-Davvero? Tuo padre mi
sa di no…».
«Scusalo,
davvero», disse scuotendo il capo. Si risdraiò con
la testa sul cuscino e sospirò. «Non è
colpa tua, è lui che…».
«No, non
importa», balbettò sorridendo.
«Io… Ti ho portato questi. Non so se ti piacciono,
ma…».
«Sono bellissimi,
grazie», lo interruppe. «Mettili pure lì
sul comodino, in quel vaso».
Martin eseguì, poi si
mise seduto al suo fianco. Sospirò mettendosi le mani sulle
gambe e guardandosi intorno. Posò di nuovo lo sguardo in
quello di Evelyn e disse, ridacchiando: «Te ne capita sempre
una, eh?».
«Eh
già». E per la prima volta in quel periodo
riuscì a lasciarsi andare ad una risata vera, seppur piccola
e leggera.
***
Zoe picchiò le nocche
contro il legno della porta dell’ufficio e una volta avuto il
permesso entrò e se la richiuse alle spalle.
«Buongiorno Zoe, a cosa
devo la tua visita?», la accolse San Pietro, dando le spalle
alle grandi finestre che davano sul giardino della scuola.
«Devo chiederle un
favore».
«Vuoi andare dalla tua
famiglia, ho capito».
«Esatto. Ho bisogno di
vedere Bill ed Evelyn quanto loro hanno bisogno di vedere me».
Il santo sospirò e si
sedette dietro la sua scrivania, con le tempie fra le mani. Non era
prudente mandare sulla Terra Zoe, almeno non da sola: poteva rischiare
di dire qualcosa che avrebbe mandato in fumo tutta la fatica di Franky
per celare la sua relazione con Evelyn.
Si rese conto di ciò che aveva appena pensato e ne rimase
quasi sconvolto: era arrivato a mentire per proteggere
quell’angelo a lui tanto caro.
Alla fine annuì e
strappò un foglietto giallo da una matrice, dicendo:
«Voglio che ti accompagni Kim, però».
Zoe fece una smorfia, ma
acconsentì: avrebbe fatto di tutto pur di vedere la sua
famiglia. Prese il permesso dalle mani del santo e lo
ringraziò di cuore, poi uscì
dall’ufficio.
San Pietro si alzò e
tornò a contemplare la pioggia fuori dalle finestre con le
mani dietro la schiena.
Ah Franky, perché ti
voglio così bene?
***
Evelyn finì di vestirsi,
non risparmiandosi qualche smorfia di dolore quando toccava dei lividi,
e raggiunse suo padre fuori dalla camera. Passarono a salutare sua
madre, poi uscirono dall’ospedale con i cappucci calati sulla
testa e l’unico ombrello che avevano a proteggerli dal pianto
del cielo.
La ragazza salì in auto
e chiuse gli occhi posando il capo sul poggiatesta.
«Tutto okay?»,
le domandò Bill, mentre inseriva le chiavi nel cruscotto.
«Sì»,
mormorò aprendo gli occhi ed osservando le gocce di pioggia
scivolare sul finestrino. «Grazie per aver avvisato Anja e
Martin, mi ha fatto bene vederli».
«Io ho avvisato solo
Anja», borbottò.
«Non ce l’avere
con Martin, non è come pensi tu: siamo solo amici».
Bill non rispose, ma
quell’affermazione gli fece male, perché se il
bambino di Evelyn non era nemmeno di Martin, l’unico ragazzo
della vita di sua figlia che conosceva, non sapeva proprio che cosa
pensare.
«Vorrei solo sapere se il
padre di questo bambino ne è a conoscenza»,
mormorò, poi mise in moto e si immise nel traffico
d’Amburgo, diretto verso casa.
«Sì, mi pare
proprio di sì», gli rispose dopo un po’
Evelyn, senza guardarlo.
«E cosa ha
detto?», domandò, pallido come un fantasma.
«Ancora niente».
«Oh Dio»,
sospirò. Dentro di sé aveva voglia di spaccarsi
la testa contro il volante. «Lui ti ama?».
Evelyn si strinse nel suo stesso
abbraccio. «Dice di no, ma io sono certa che sia il
contrario. Forse il fatto è che mi ama più di
quanto lo amo io e ne ha paura».
Bill era sconvolto e non sapeva
nemmeno cosa dire. Era davvero un pessimo padre se non si era accorto
che sua figlia si era innamorata. A volte si era comportata in modo
strano, sì, ma non aveva mai dimostrato di essere persa per
un ragazzo. Raramente l’aveva vista uscire di casa e quelle
poche volte era uscita con Anja, Pamela e Martin. L’unico
ragazzo che poteva essere quello che cercava era Martin, ma gli aveva
appena detto che non era così… Gli stava andando
in fumo il cervello e solo all’idea che un ragazzo stesse
rubando così la vita di sua figlia lo faceva stare in pena.
E anche se quello che gli aveva detto lei fosse stato vero, ossia che
lui la amava, non era così sicuro che se ce
l’avesse avuto davanti lo avrebbe accolto a braccia aperte.
«Perché hai
deciso di tenere il bambino comunque, senza sapere che cosa ne pensa
lui?», le domandò ancora.
«Perché sento
già di amarlo, questo bambino».
«E se lui non lo vuole,
che farai?».
«Non mi importa. Non
può fare nulla per impedirmi di tenerlo».
Bill scosse lentamente il capo,
rammaricato, e parcheggiò l’auto di fronte a casa.
Scese dall’auto e fece il giro per andare a prendere Evelyn
sotto l’ombrello. Insieme raggiunsero l’uscio della
porta ed entrarono in casa scrollandosi di dosso la pioggia.
Magari avesse potuto scrollarsi di dosso anche tutti quei pensieri che
gli comprimevano il cuore. Se avesse potuto farlo, Bill non avrebbe
perso tempo.
***
Tom, seduto al tavolo della cucina,
pucciava un biscotto nella tazza del caffè con lo sguardo
perso fuori dalla finestra, pensando a mille e più cose
diverse.
Sollevò il biscotto per portarselo alla bocca, ma questo si
ruppe – troppo impregnato di caffè – e
ricadde nella tazza.
«Merda»,
bofonchiò. Odiava quando succedeva, perché doveva
andarlo a recuperare con il cucchiaino e alla fine, quando doveva bere,
rimanevano sempre dei rimasugli di pappetta di biscotto sul fondo della
tazza che odiava buttare giù.
«Buongiorno»,
esclamò Linda con la voce ancora un po’ roca, da
appena svegliata. Era il suo giorno libero e aveva dormito un
po’ di più.
«Ben
svegliata», rispose Tom, mentre controllava che non si fosse
macchiato la maglietta bianca con gli schizzi del caffè.
Linda prese il bricco di
caffè e se ne versò un po’ in una
tazza, con l’aggiunta di un goccio di latte. Rimase in piedi
a berlo, appoggiata al ripiano in marmo della cucina.
«Hai dormito nella stanza
di Arthur?», gli domandò ad un certo punto.
«Sì. Ho tirato
di quelle ginocchiate al muro, tu non puoi nemmeno immaginare che
dolore», ridacchiò.
«Ho sentito,
infatti».
«Scusa, non volevo
svegliarti ancora».
«Non ho dormito molto, a
dire la verità».
«Come mai?»,
inarcò un sopracciglio e si alzò dal tavolo per
portare la sua tazza vuota con i rimasugli di biscotto sul fondo nel
lavandino.
«Ho pensato ad un
po’ di cose: a quello che è successo ad Evelyn, a
Zoe… a quello che mi hai detto tu a proposito di
Franky».
Tom si piazzò di fronte
a lei, con le gambe leggermente divaricate, e le avvolse i fianchi con
le braccia. Posò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi,
lasciando nascere sulle sue labbra un sorriso tenue.
«Io stesso non ci
credevo, quando Zoe me l’ha detto, sei mesi dopo la sua
morte. E’ arrivata nel nostro appartamento e ha detto:
“Voi non mi crederete pazza se vi dico che Franky
è qui ed è il mio angelo custode,
vero?”. Non potrò mai dimenticarlo. Ho fatto una
scenata incredibile, ero davvero… stravolto. Io
l’ho creduta davvero pazza e l’ho aggredita,
l’ho fatta piangere. E quando ho visto Franky con i miei
occhi mi sono sentito veramente male: lui c’era, era un
angelo e non era una fantasia di Zoe».
Linda chiuse la bocca e
posò la tazza mezza piena sul ripiano della cucina.
Posò la fronte contro la sua spalla e ricambiò
l’abbraccio.
«Mi dispiace di non
avertelo detto subito, davvero», le disse ancora, baciandole
la tempia. «Sei arrabbiata con me?».
«Non lo so»,
sussurrò. «Ma perché io non riesco a
vederlo?».
«È tutta una
questione di crederci. Anche David ci ha messo un po’, prima
di vederlo».
La donna respirò
profondamente il profumo di Tom ed accennò un sorriso, che
gli posò sulle labbra.
«Quindi mi credi,
adesso?», le chiese ancora, accarezzandole i capelli e
guardandola negli occhi.
«Forse»,
rispose pizzicandogli il naso. Si scostò dal suo abbraccio e
finì la sua tazza di caffè, poi gli chiese:
«Evelyn viene dimessa oggi?».
«Dovrebbe già
essere a casa, a quest’ora».
«Mmh. Credo che
andrò a salutare Zoe, dopo aver portato Arthur
all’asilo».
«Okay. Io magari faccio
un salto a casa di Bill, a vedere come sta».
«È tanto
sconvolto?».
«Penso di
sì».
Linda annuì ed
abbassò lo sguardo, mettendosi a lavare le due tazze nel
lavandino. «Spero solo che non lo faccia pesare ad Evelyn.
Deve solo starle vicino, darle tutta la forza e l’amore che
può».
Tom
l’abbracciò da dietro e la strinse forte a
sé, affondando il viso fra i suoi capelli profumati.
«Sono certo che è solo un momento. Dagli due o tre
settimane e lo vedrai girare per casa come una trottola impazzita alla
ricerca di tutte le cose che lui e Zoe avevano comprato quando doveva
nascere Evelyn».
Linda si girò fra le sue
braccia e sorrise. «Tu che cosa ne pensi?».
«Io? Beh…
penso che è una situazione delicata e che forse non doveva
capitare, ma è successo e se Evelyn ha deciso di tenerlo non
si può fare molto…».
«Non sei contento che
anche Bill diventerà nonno e ti farà
compagnia?», alzò le sopracciglia, divertita.
«Sai che non ci avevo
nemmeno pensato? Glielo dirò, caso mai lo farò
sorridere un po’», ridacchiò.
Gli posò un bacio sulle
labbra, sorridendo. «Vado a svegliare Arthur e a
prepararmi».
La guardò uscire dalla
cucina con un sorriso innamorato sulle labbra fino a quando un
ticchettio sulla finestra non lo distrasse. Subito pensò che
la pioggia si fosse trasformata in grandine, ma quando si
voltò e vide la testolina di Kim, che lo salutava con una
mano, sobbalzò.
Si sporse nel salotto, per
assicurarsi che Linda non fosse nei paraggi, e si avvicinò
alla finestra, la aprì e disse a bassa voce: «Che
ci fai tu qui? E perché non hai usato la porta?!».
«Che avresti detto a tua
moglie? Non mi conosce! E da quello che so non vede molto di buon
occhio l’esistenza di Franky», rispose con tono
stizzito e lo sguardo acceso.
Tom grugnì con
disappunto e, imperterrito, le ridomandò: «Che ci
fai tu qui?».
«Sto accompagnando
qualcuno».
Gli occhi di Tom si illuminarono.
«Franky?».
Lei sorrise e scosse il capo.
Allora il chitarrista capì e gli mancò il fiato,
mentre sussurrava il nome della sua amica: «Zoe».
«Esatto»,
mormorò con tono dolce, lo sguardo amorevole.
«Forza, non farla aspettare troppo».
Tom annuì e corse in
camera, dove trovò Linda, intenta a vestirsi.
«Come mai tanta
fretta?», gli chiese lei, confusa, guardandolo cambiarsi con
la massima velocità.
«Non ho
fretta», le rispose distrattamente, infilandosi
contemporaneamente maglietta e maglione, uno sopra l’altro, e
mettendo i piedi nelle scarpe.
«No,
assolutamente…», mormorò sbigottita.
«Vale sempre quello che hai detto prima, cioè che
vai da Bill?».
«Certo. Ci vediamo dopo,
eh». Si avvicinò a lei, la prese per la nuca e le
stampò un forte bacio sulle labbra, poi corse fuori dalla
stanza.
Linda rimase da sola, in piedi
accanto al letto matrimoniale appena rifatto, e sbatté
più volte le ciglia per riprendersi. Nemmeno dopo tutti
quegli anni si era abituata all’influenza che Tom aveva su di
lei: con un semplice bacio riusciva a trasmetterle tutto ciò
che provava e persino stare nella stessa stanza le permetteva di
sentire ciò che sentiva lui. Lo conosceva così
bene che a volte riusciva a captarne i pensieri, ma non poteva di certo
prevedere i suoi momenti di folle stranezza.
Sorrise, pensando che erano proprio i momenti che amava di
più, perché erano quelli nei quali usciva il vero
Tom, l’uomo di cui si era innamorata.
Passò a svegliare
Arthur, siccome erano già in ritardo, e mentre lui si
vestiva andò a preparargli la colazione. Appena entrata in
cucina rabbrividì e si accorse che la finestra era aperta.
Zoe alzò lo sguardo dal
cemento proprio quando Kim riappoggiò i piedi a terra e si
incamminò verso di lei.
«Sta
arrivando», le comunicò e la donna, agitata, si
dovette alzare in piedi e camminare per non far notare troppo come le
tremavano le ginocchia.
Non sapeva perché, ma
vedere Tom, come vedere la sua famiglia, era sempre
un’emozione. Aveva come la sensazione di essersi persa tanto
di loro, si sentiva un tantino esclusa dalla loro vita, e non sapeva
mai bene che cosa dire. Ma appena lo vide, bello come il sole,
camminare a passo spedito e deciso e guardarsi intorno alla sua
ricerca, ogni paura svanì e le vennero solamente le lacrime
agli occhi. Volle anche gridargli: «Tom, sono
qui!», ma non lo fece. Gli era mancato così
tanto…
Lo fissò rivolgersi a
Kim con fare serio, quello con il quale voleva nascondere i suoi veri
sentimenti e in quel caso la commozione di rivedere la sua amica,
dicendole: «Dov’è?».
«Qui», rispose
tranquillamente Kim e stese una mano verso di lei. Zoe la
guardò titubante, poi la prese e lentamente gli occhi di Tom
si posarono su di lei, facendole intuire che riusciva a vederla.
«Zoe»,
mormorò e quella volta non riuscì proprio a
celare le lacrime di gioia.
Le gettò praticamente le
braccia al collo e la strinse fortissimo a sé, tanto che Zoe
ebbe la sensazione di sparire dentro di lui. Le baciò la
testa una serie di volte, sussurrandole un sacco di cose che la donna
non ebbe il tempo di realizzare: il suo cervello era staccato dal resto
del corpo in quel momento, c’era solo Tom e il suo abbraccio.
A causa della mano che doveva sempre rimanere unita a quella di Kim per
rimanere visibile agli occhi dell’amico, non
riuscì a stringerlo come avrebbe voluto, ma gli
infilò una mano fra i capelli e la strinse a pugno,
affondando il viso nel suo collo e respirando il suo profumo.
«È bello
rivederti», fu il massimo che riuscì a mugugnare,
colta anche lei da quella maledetta commozione e dal magone che le
bloccava la gola. Quanto avrebbe voluto tornare a casa in
quell’istante… Voleva tornare a vivere, accanto ai
suoi amici, e forse per la prima volta si rese conto di come si dovesse
essere sempre sentito Franky.
Tom sciolse per primo
l’abbraccio, tirando su col naso, e la guardò
negli occhi con un sorriso impacciato. Le prese il viso fra le mani e
le accarezzò le guance, poi scosse il capo e disse:
«Sei perfetta. Cioè… è come
se non ti fosse capitato niente. Franky me l’aveva detto, ma
non mi aspettavo che fossi davvero così… sembri
anche meglio di prima».
«Lo prendo come un
complimento», gli disse, sollevando un sopracciglio.
«Adesso però andiamo? Ho davvero molta voglia di
vedere Bill ed Evelyn, mi mancano da morire».
«Oh. Okay».
Tom le accompagnò
all’auto e vi entrò; Kim e Zoe si misero sedute
nei sedili posteriori, sempre tenendosi per mano. Le guardò
attraverso lo specchietto retrovisore e accennò un sorriso,
ma dentro di sé era già preoccupato da morire:
che cosa sapeva Zoe, che cosa le aveva detto Kim? Se Zoe avesse detto
ad Evelyn qualcosa di diverso rispetto a quello che le aveva detto
Franky avrebbe di sicuro scoperto la verità e Franky sarebbe
stato sputtanato definitivamente. Tanto valeva provare e chiedere
direttamente a lei.
«Hai incontrato Franky,
di sopra?», le domandò mascherando tutta la
tensione, guardando fisso di fronte a sé la strada.
«Sì.
È stato arrestato e ora è…».
«Ad una specie di arresti
domiciliari», completò la frase per lei Kim.
«E tu sai
perché è stato arrestato, Zoe?»,
sottolineò con particolare vigore il nome
dell’amica, facendo intendere a Kim che voleva delle risposte
da lei. L’angelo speciale lo guardò di sottecchi e
gli bastò una veloce occhiata ai suoi pensieri per capire
tutto quanto.
«Perché, nel
difendere Evelyn, ha ferito in modo grave un ragazzo. Tu invece sai
perché si è comportato così? Non ne
aveva alcun motivo».
«In questo periodo aveva
tanti pensieri per la testa, tante preoccupazioni, e può
darsi che abbia reagito così per scaricare un po’
i nervi; non l’ha fatto apposta, non si è reso
conto di andare oltre».
«Uhm, sì forse
hai ragione».
«E poi, sai
qualcos’altro di Evelyn?».
«Mi hanno anche detto che
aspetta un bambino, se è quello che vuoi sapere»,
soffiò abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
«La mia bambina… è troppo piccola per
avere un figlio!».
«Ha deciso di
tenerlo».
«Già…
Ne voglio parlare con lei, oggi».
«Zoe…».
«Sono sua madre, Tom! Ne
ho tutto il diritto!», strepitò, rossa di rabbia.
«Sì,
scusami», mormorò.
Zoe sospirò stancamente
e si massaggiò gli occhi con la mano libera. «Se
solo lei riuscisse a vedere Franky… sono certa che lui
riuscirebbe a farla ragionare: è sempre riuscito a portarmi
sulla retta via, sin dal giorno in cui ci siamo conosciuti».
Tom sgranò leggermente
gli occhi. Franky aveva detto a Zoe che Evelyn non riusciva a vederlo?
Per caso incontrò lo sguardo di Kim nello specchietto
retrovisore e percepì i suoi pensieri: gli stava comunicando
telepaticamente.
“Per Franky è
stato molto più facile dirle così, si
è tolto subito l’impiccio di doverle mentire tutte
le volte”.
Tom concluse che in effetti aveva
una sua logica. Peccato solo che Evelyn probabilmente ne era
all’oscuro. Doveva avvisarla, in qualche modo.
Tirò fuori il cellulare e non fece nemmeno in tempo a
selezionare il testo dei messaggi che il display impazzì e
fece tutto da solo.
«Ma che
cazzo…», borbottò e, sollevando di
nuovo lo sguardo, incontrò quello complice di Kim.
“Non si scrivono gli sms
mentre si guida”.
«Che cosa?»,
gli chiese Zoe.
«Niente, avevo visto una
cosa per strada, ma non era niente».
“Grazie”, disse invece all’angelo
speciale, col pensiero.
“Non ti
preoccupare”.
“Posso chiederti una
cosa?”
“Dimmi”.
Tom si passò la lingua
fra le labbra, come se dovesse effettivamente parlare.
“Perché lo fai?”.
Kim accennò un sorriso,
abbassando il viso. “Puoi arrivarci anche da solo, se lo
vuoi”.
Non ci voleva molto per arrivarci,
dopotutto.
***
Entrò nella camera della
sua amica e si mise seduta sulla sedia accanto al suo letto.
«Ciao Zoe»,
sussurrò accarezzandole il dorso della mano, gli occhi
lucidi.
Sul comodino, appoggiata al vaso
dei fiori, vide una foto. La prese fra le mani ed accennò un
sorriso guardandola: c’erano proprio tutti e al centro si
trovava Franky, stretto nell’abbraccio della sua famiglia.
Linda sospirò chiudendo
gli occhi. «Dimmi, Zoe… ci devo
credere?».
***
Stiamo
arrivando con tua madre. Sappi che lei non sa nulla di te e Franky,
addirittura crede che tu non riesca a vederlo. Reggi il gioco, almeno
per lui.
Aveva letto quel messaggio di suo
zio almeno una decina di volte e non sembrava aver
l’intenzione di smettere. Chi stava arrivando con sua madre,
oltre a suo zio? Franky dov’era, come stava? Ovviamente, il
suo pensiero principale era lui e avrebbe fatto di tutto pur di sapere
anche la più piccola ed insignificante cosa. Era
così in pensiero…
Si voltò con il viso
verso suo padre, steso dall’altra parte del divano, col
telecomando in mano, e ad un certo punto i loro sguardi si
incrociarono.
«Tutto bene?»,
le chiese, aggrottando le sopracciglia.
«Sì,
sì», mormorò annuendo.
Era pur vero che quel nodo che
sentiva al posto dello stomaco era dovuto anche a quel “con
tua madre”. Avrebbe rivisto la sua mamma, non le sembrava
vero, magari ci avrebbe anche parlato… Era tremendamente
agitata e allo stesso tempo non vedeva l’ora: voleva
abbracciarla, stringerla forte, sentire il suo profumo e le sue mani
che le accarezzavano le guance e i capelli.
Dopo un paio di minuti, durati
perlomeno ore, il campanello trillò e lei
trasalì. Il cuore le era schizzato il gola, lo stomaco
subito dopo di lui.
«E adesso chi
è?», bofonchiò Bill, alzandosi dal
divano e ciabattando verso l’ingresso.
Evelyn ebbe la sensazione di vivere
ogni attimo che la divideva da quell’incontro a rallentatore:
suo padre che lentamente giungeva alla porta, che posava la mano sul
pomello, che lo girava con lentezza e apriva la porta facendo entrare
il gelo.
Un attimo prima che vedesse chi ci fosse, voltò il capo
verso la tv e si strinse convulsamente un cuscino al petto.
Restò però in ascolto.
«Ciao Bill»,
esclamò suo zio Tom.
«Ciao», rispose
esitante il fratello.
«Ahm… lei
è Kim, te ne ho parlato qualche volta, se non sbaglio.
È un’amica di Franky».
A quell’ultima frase il
cuore della bionda si fermò e fu costretta a voltarsi verso
l’ingresso. Accanto a suo zio c’era una ragazza
incantevole, con i capelli neri e gli occhi chiari, alta quasi quanto
lei, che sembrava avere più o meno la stessa età
di Franky.
I loro sguardi si incontrarono immediatamente ed Evelyn
provò uno strano senso di disagio. O meglio, era come se si
sentisse in colpa. Ma non l’aveva mai vista, non era
possibile che provasse quelle emozioni spiacevoli. Abbassò
di colpo gli occhi.
«Molto
piacere», disse la ragazza, con voce soave.
I due entrarono, scortati da Bill,
ma di sua madre nemmeno l’ombra.
«Ehm… a cosa
devo la vostra visita?», chiese in frontman, un po’
impacciato e un po’ curioso, riferendosi soprattutto alla
ragazza.
«Ho accompagnato qui una
persona», gli rispose sorridendo e porse di nuovo la mano
verso il vuoto.
Evelyn sgranò gli occhi,
pensando che era arrivato il momento. Suo zio si appoggiò
allo schienale del divano e le fece un sorriso rassicurante, posandole
una mano sulla nuca.
Lentamente la figura di sua madre apparve anche ai loro occhi e sia
Bill che Evelyn trattennero il respiro e le lacrime. Il primo,
però, non perse tempo e la abbracciò avvolgendola
con le sue lunghe braccia, stringendola fortissimo al suo petto, col
viso nascosto nei suoi capelli mossi.
«Mamma»,
singhiozzò la ragazza, dando libero sfogo alle lacrime. Si
alzò in piedi e raggiunse suo padre, fece per unirsi
all’abbraccio ma, sfiorando inavvertitamente Kim, prese la
scossa. La guardò con la bocca dischiusa e la ragazza, per
nulla sorpresa, si fece un po’ più in
là sussurrando un flebile: «Scusa».
Evelyn non capì a che cosa si riferisse veramente: nel suo
sguardo c’era tristezza, tanta tristezza. Però in
quel momento non ci rimase su a riflettere, aveva sua madre, o almeno
il suo spirito, ad un passo e questa era la cosa più
importante.
«Fammi abbracciare la mia
piccola», mugugnò Zoe contro il collo di Bill,
donandogli un soffice bacio, poi si liberò delicatamente
dalla sua stretta ed incontrò gli occhi della figlia, colmi
di lacrime come i suoi.
«Bambina mia», soffiò e le strinse le
braccia intorno al collo, tenendola stretta a sé
più forte che poteva. Le posò svariati baci sulla
testa e le accarezzò i capelli con una mano.
«Quanto mi sei mancata…».
«Anche tu mi sei mancata,
mamma. Ti rivoglio a casa».
«Lo so, tesoro, lo so.
Sto facendo tutto il possibile, davvero».
Si scostarono l’una
dall’altra, senza però interrompere il contatto
delle loro mani, e si guardarono in viso a vicenda, fino a quando la
madre sussurrò: «Posso parlarti?».
Evelyn, che immaginava
già che cosa le volesse dire perché probabilmente
l’avevano avvisata, annuì. Quando si mosse Zoe si
mosse anche Kim e la ragazza arricciò il naso.
«Deve proprio venire anche lei?».
«Mi dispiace, ma senza di
me non riusciresti a vederla», disse l’angelo
speciale, con tono professionale.
La ragazza sentì il
bisogno di provare. Non ne sapeva minimamente il motivo, era
impossibile che riuscisse a vedere autonomamente uno spirito, ma
qualcosa dentro di lei la spinse a dividere le mani di Zoe e di Kim.
All’inizio non riuscì a vedere nulla, ma poi,
sforzando la vista, riuscì ad intravederne i contorni.
Provò a “mettere a fuoco”, ma il meglio
che riuscì a vedere fu una figura sfuocata, che
però era la sua mamma.
«Io… io la
vedo», disse con tono incerto.
L’angelo speciale
reagì con un’espressione sbalordita, ma poi si
ricordò che era stata con Franky e fu tutto
chiaro. «Okay, allora non hai bisogno di me. Andate,
vi aspetteremo qui».
Evelyn annuì e, mano
nella mano con la sua mamma fantasma, salì su per le scale.
Kim, Bill e Tom rimasero di sotto e il gemello più grande la
guardò chiedendole una spiegazione. L’angelo
speciale dovette parlargli col pensiero, perché Bill
ovviamente non sapeva e non doveva sapere.
“Quando lei e Franky
hanno fatto… quando si sono uniti, si sono scambiati un
pezzo di anima e quindi, diciamo che Evelyn potrebbe avere qualche
potere… angelico”.
«Perfetto, ci mancava
solo questa», borbottò, attirando
l’attenzione del gemello, che però si
limitò a lanciargli un’occhiata: aveva altri
pensieri per la testa.
***
Franky schioccò la
lingua contro il palato e si risvegliò
dall’abbiocco da cui era stato catturato nella noia
più assoluta. Si alzò dalla poltrona sentendosi
vagamente disorientato e si guardò intorno, tenendosi
appoggiato allo schienale con una mano. Si sentiva la bocca tutta
secca, probabilmente perché l’aveva lasciata
aperta nel dormiveglia.
Fece un giro per il salotto, le
mani dietro la testa e gli occhi socchiusi, e picchiò spesso
le dita dei piedi contro le gambe delle sedie. Si stava davvero
annoiando da morire.
Non era abituato a stare in casa
sin da quando era un ragazzino, aveva vissuto praticamente tutta la sua
vita all’aperto, in strada, allo skate park… In
quel momento avrebbe dato di tutto per uscire e fare qualche trick col
suo skate. Peccato che il suo skate fosse di sotto e, anche se ne
avesse trovato un altro, non sarebbe potuto uscire comunque
perché era agli arresti domiciliari.
Si fermò
all’improvviso nel centro esatto della stanza e
guardò la porta d’ingresso. «Ma che cosa
vuol dire arresti domiciliari?», si domandò da
solo, a bassa voce. «Come fanno ad essere così
sicuri che io non uscirò di casa? E poi non mi sembra
così grave uscire per fare una passeggiata al
parco!».
Spinto da una curiosità
quasi morbosa, si piazzò di fronte alla porta,
posò la mano sul pomello e l’aprì.
Guardò di fronte a sé e vide tutto tranquillo,
quindi fece un passo avanti e… non l’avesse mai
fatto. Una potente scossa non gli permise di uscire, addirittura lo
sbalzò indietro di qualche metro, di nuovo seduto in modo
scomposto sulla poltrona.
«Franky?».
L’angelo,
all’udire quella voce, alzò di scatto il capo e,
fuori dalla porta, vide chi non si sarebbe mai aspettato di vedere,
almeno non così presto: San Pietro.
***
La figura sfuocata di sua madre
l’attirò di nuovo a sé e
l’abbracciò, facendole appoggiare il viso contro
la sua spalla.
Sedute l’una accanto all’altra sul letto di Evelyn,
rimasero in silenzio per un po’, riordinando le idee e le
parole da pronunciare per affrontare quell’argomento
delicato.
«È
così strano», esordì Zoe, passandole
una mano fra i capelli lisci. «Non avrei mai immaginato che
potessero succedere tutte queste cose. Ma andiamo subito al
punto… Evelyn, il mio non è un rimprovero,
però vorrei davvero che ci pensassi su: un bambino, alla tua
età e di cui non sappiamo nulla del padre…
è difficile, lo capisci? Riflettici meglio, prima di
prendere decisioni delle quali potresti pentirti».
«Mamma, io ci ho
già pensato molto, la mia decisione l’ho presa e
non me ne pentirò. Che vi piaccia o no, questo bambino
nascerà».
«Okay, se non vuoi
gettare via una vita puoi sempre pensare di affidarlo ad una famiglia
che potrebbe prendersi meglio cura di lui, non è detto che
devi per forza tenerlo tu…».
«Voi non capite. Io lo
voglio questo bambino, lo
terrò con me e lo crescerò da me. È la
cosa che voglio di più al mondo, già lo
amo».
Zoe sospirò, sconfitta.
«Va bene. La decisione è tua,
dopotutto… Sei davvero sicura?».
«Al cento per cento. Voi
mi starete vicini?».
«Ma certo, tesoro. In
ogni caso».
***
«Sorpreso di
vedermi?».
Franky carambolò
giù dalla poltrona, si stirò i suoi normali
vestiti da umano addosso e lo guardò con un velo di rossore
sulle guance. «Sì, parecchio».
«Posso
entrare?».
«Certo! Si accomodi,
prego. Non faccia caso al disordine».
San Pietro entrò nel
rifugio dell’angelo e dopo aver dato una fugace occhiata
intorno a sé si mise seduto al tavolo del salotto, a capo
tavola, col viso rivolto verso le finestre.
«Siediti, Franky. Ti devo
parlare».
L’angelo lo raggiunse e
si mise seduto alla sua destra. Era parecchio teso, aveva paura di
ciò che doveva dirgli, soprattutto in via degli ultimi
avvenimenti. Infatti, provò subito a difendersi dicendo:
«Il mio comportamento è imperdonabile, non
c’era bisogno che riducessi quel ragazzo in quel modo, ma non
ci ho nemmeno pensato… questo non mi giustifica, lo so, ma
sono profondamente dispiaciuto».
«Lo so».
«Io…».
«La punizione che ti
spettava ti è già stata data, non sono venuto qui
per girare il dito nella piaga. Piuttosto, vorrei parlare con te di
Evelyn e della vita che porta in grembo».
«Oh», gemette,
ferito nel profondo. Abbassò lo sguardo e si
coprì il viso con le mani. L’immagine di quel
bambino tornò ad ossessionarlo.
«Cosa pensi che debba
fare?», gli domandò con voce pacata.
Franky sgranò gli occhi.
«Non lo so», soffiò, scuotendo il capo.
«Mi dispiace,
ma… no».
«No cosa?»,
chiese col cuore in gola.
San Pietro lo guardò
negli occhi e senza percepire i suoi pensieri Franky capì
benissimo ciò che intendeva. Le lacrime gli invasero gli
occhi come un fiume in piena.
«Sarai tu ad
occupartene», aggiunse, come se non bastasse.
«No»,
singhiozzò. «La prego, no… Io non posso
farlo».
«Vorrei non doverlo fare,
ma non c’è altro modo». Si
alzò dalla sedia con un sospiro stanco ed uscì
dall’appartamento nel massimo silenzio.
Franky ebbe la forza di alzarsi dal
tavolo e barcollare fino al letto, dove si gettò a peso
morto; con il viso immerso nel cuscino scoppiò a piangere
come non faceva dalla morte di sua madre.
***
«Come
procede?», chiese Tom a Kim, continuando a guardare verso le
scale di vetro che portavano al piano superiore.
L’angelo speciale
sospirò e scrollò le spalle, tenendosi la testa
con una mano, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona su cui
era seduta. «Evelyn non cambia idea».
«Lo
immaginavo», mormorò.
«Tu sai perché
è così ostinata?».
Kim si voltò lentamente
verso la direzione da cui proveniva quella debole voce ed
incontrò lo sguardo spento, quasi sofferente, di Bill. Il
suo cuore, seppur sanguinante a causa della risposta che non poteva di
certo dargli, incominciò a batterle forte nel petto.
Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì fuori
alcun suono. Era come paralizzata, il suo cervello non le dava
più impulsi, sapeva soltanto riprodurle nella testa scorci
di momenti passati con Pete. Quando lei si era trovata nella stessa
situazione nessuno si era preoccupato tanto per loro… Evelyn
e Franky avevano, invece, tantissimi amici su cui contare e ai quali
appoggiarsi nei momenti di sconforto. Loro due avevano sofferto da
soli.
«Rispondi», la
incitò Tom, dandole una pacca sulla spalla, gettandole
però un’occhiata più che esplicita.
«No, mi dispiace, non ne
so il motivo», disse infine, senza incrociare gli occhi del
frontman.
Rimasero diversi minuti in
silenzio, ad aspettare che Evelyn e Zoe ritornassero da loro. Quando
finalmente sentirono dei rumori provenire dal piano superiore, le loro
pose da statue di cera mutarono e si sporsero tutti in avanti,
istintivamente.
«Scusate
l’attesa», disse Zoe con un lieve sorriso sulle
labbra, mano nella mano con Evelyn, che aveva gli occhi ancora lucidi e
le guance arrossate.
«Non ti
preoccupare», rispose Kim, alzandosi in piedi. Tom
tossicchiò, facendo intendere che sia lui che Bill non
avevano sentito nulla e nemmeno vedevano Zoe. «Oh
sì, scusate».
Kim prese la mano della donna e
questa tornò visibile anche agli occhi dei gemelli. Bill
andò di nuovo da lei e la strinse in un abbraccio.
L’angelo speciale, per
non farsi troppo gli affari dei due, voltò il capo ed
incrociò lo sguardo di Evelyn. Si squadrarono per un
po’, poi la bionda, forse infastidita, nella sua testa
sbottò: “Che ha da guardare?”.
Kim la sentì e
posò di proposito lo sguardo sulla sua pancia ancora piatta.
“Combinate proprio un sacco di guai, tu e Franky”.
Evelyn trasalì nel
sentire la sua voce nella testa, ma rispose con tono stizzito:
“Non sono affari tuoi i guai che combiniamo”.
“Già, forse
hai ragione”, sorrise mestamente. “Sei una ragazza
davvero fortunata però, sai?”.
“Che cosa intendi
dire?”, corrugò la fronte.
“Ad essere entrata in
questo modo nel suo cuore. È un ragazzo
fantastico…”.
“Sì, lo
so”.
“Peccato che apparteniate
a due mondi diversi, che non si incontreranno mai oltre certi
limiti”.
Evelyn fece un passo avanti e
l’avrebbe sicuramente presa per i capelli, gridandole in
faccia che non doveva nemmeno parlare di lei e Franky, ma suo zio
l’afferrò per un braccio e le chiese, con tono
gentile: «Mi andresti a prendere un bicchiere
d’acqua, per favore?».
La bionda serrò la
mascella, ricacciando giù le parole più velenose
che aveva pensato, ed annuì. Si rifugiò in cucina
e prese un bicchiere pulito dalla credenza, lo riempì
d’acqua e rimase ad osservarlo sul ripiano di marmo bianco
del bancone. Appoggiò le mani sullo schienale di uno degli
sgabelli alti e chiuse gli occhi, respirando a fondo.
“Peccato
che apparteniate a due mondi diversi, che non si incontreranno mai
oltre certi limiti”.
Le parole di Kim le rimbombavano
nella testa, sembravano volerle sfondare il cranio, e un singhiozzo le
nacque spontaneamente fra le labbra.
Franky…
Provava un’enorme
tristezza, un dolore grandissimo in mezzo al petto, ed era certa che
non fosse solo per quello che le aveva detto la mora. C’era
qualcos’altro, ma cosa?
***
«Evelyn…»,
mormorò ancora squassato dai singhiozzi, rannicchiato sul
letto.
Era peggio, era addirittura peggio
di quando aveva perso sua madre. Quella volta con lui c’era
stata Zoe, ora era da solo, non c’era nessuno al suo fianco
capace di consolarlo. Inoltre, questa volta, sarebbe stato lui stesso
l’assassino.
Il bambino del suo sogno gli
ritornò alla mente, vivido come se fosse un ricordo recente,
che gli sorrideva solare, con gli occhi azzurri pieni di gioia, e lo
salutava con una manina.
«Ciao,
papà!».
Affondò di nuovo il viso
nel cuscino e soffocò i gemiti di dolore. Avrebbe preferito
morire lui e, se gliene avessero dato la possibilità, non ci
avrebbe pensato su due volte.
***
«Dobbiamo andare
ora».
Zoe, seduta sul divano, stretta fra
le braccia di Bill, si voltò verso Kim con lo sguardo
implorante, ma evitò di pregarla di restare appena vide
l’affaticamento sul suo viso: quanta energia le serviva per
mantenerla visibile? Ormai erano ore che erano
lì…
«È tutto a
posto, Kim?», le chiese Tom, notando anche lui la sua
espressione stanca.
«Sì, solo che
non ce la faccio più», stiracchiò un
sorriso.
«Okay, allora
andiamo», disse la donna, anche se controvoglia. Prese il
viso di Bill fra le mani e gli sfiorò le labbra con le sue.
Lui la strinse a sé, affondando le mani fra i suoi capelli,
e ad un certo punto, mentre ancora si stavano baciando, Zoe
avvertì una stranissima sensazione di vuoto sotto ai piedi.
La riconobbe subito ed ebbe il tempo di avvisare l’angelo
speciale: «Kim mi sta succedendo di nuovo!»,
gridò. Un attimo dopo precipitò nel vuoto, ma in
realtà si accasciò solamente fra le braccia di
suo marito, in preda a delle vere e proprie convulsioni.
«Oh merda»,
disse Kim, ma appena fece per avvicinarsi a lei perse
l’equilibrio a causa di un giramento improvviso e cadde sul
pavimento.
Tom, sconvolto quasi come Evelyn,
seduta al suo fianco, non sapeva che cosa fare: aiutare Kim o aiutare
Zoe? In ogni caso, come poteva aiutarle?
Bill continuava a ripetere il nome
di Zoe, cercando di farla riprendere, e sua nipote pure, che intanto si
era alzata ed era corsa al capezzale della madre. Tom, invece, fu
divorato dal panico.
***
Franky, seduto di fronte alle porte
finestre che davano sul balconcino, avrebbe dato qualsiasi cosa per
fumarsi una sigaretta. Aveva le guance irritate dal sale delle lacrime
e gli occhi erano ancora umidi, tanto che aveva le ciglia tutte
attaccate fra loro e gli davano fastidio. Si sentiva troppo nervoso,
troppo depresso, troppo stanco. Un po’ di nicotina almeno lo
avrebbe calmato.
Ricordò la sua ultima
sigaretta e gli tornò in mente la sera del funerale di sua
madre, quando Zoe lo aveva baciato per la prima volta ed era scappata
lasciandolo con terribili dubbi da affrontare.
La sua ultima sigaretta l’aveva fumata con Tom, il suo
migliore amico, sul balconcino dell’appartamento dei Tokio
Hotel, sotto la luna. No, non poteva rovinare quel momento fumandone
un’altra. E poi non avrebbe potuto comunque: lì in
Paradiso le sigarette non esistevano.
Alzò lo sguardo verso il
cielo bianco e sospirò stancamente, poi chiuse gli occhi e
si concentrò sui battiti del suo cuore. Tum-tum. Tum-tum. Tum-tum.
Ad un certo punto aumentarono e da allora non fecero altro. Il suo
cuore sembrava un motore in panne e non riusciva a capirne il motivo.
Si concentrò al massimo delle sue facoltà e un
brivido gli attraversò la schiena. Zoe, aveva bisogno di lui.
Si alzò in piedi, corse
alla porta e, dimentico degli “arresti
domiciliari”, si scontrò contro la barriera di
corrente elettrica invisibile.
«Cazzo»,
berciò e dopo qualche attimo di esitazione, ci si
rigettò addosso, con tutta la forza che aveva.
Una scarica potente quanto quella
di un fulmine lo attraversò da capo a piedi e dolorante
strinse i denti, ma alla fine, con un’ultima spinta verso
l’esterno, riuscì a barcollarne fuori. A malapena
si reggeva in piedi, con tutta quell’elettricità
in corpo, ma non si arrese e, reggendosi di qua e di là,
riuscì ad uscire dal palazzo.
Per strada si nascose il viso mettendosi il cappuccio della felpa sulla
testa. Raggiunse l’Ufficio di Collegamento ed andò
a passo spedito verso il passaggio usato per gli angeli custodi, fece
finta di non aver visto la guardia celeste e lo sorpassò,
poi iniziò a correre verso il suo obbiettivo.
«Ehi tu,
fermo!», gridò e Franky si morse le labbra: era
Miguel, il suo amico. Avrebbe voluto che fosse un altro.
Non si fermò,
continuò a correre e scansò un paio di altri
angeli per poi fermarsi di fronte al passaggio per portava sulla Terra:
una luce abbagliante lo accecava. Si guardò le spalle per un
momento, guardò di nuovo la luce e, deglutendo, si
lasciò inghiottire da quest’ultima, cadendo nel
vuoto.
_________________________________
Buonaseraaaa :D
Un altro capitolo, decisamente
più breve di quello precedente, ma altrettanto intenso.
Franky è stato "arrestato", ma Kim l'ha fatto uscire subito
scontrandosi con un certo Raphael, una new entry *-* Chissà
che cosa lega - o legava - quei due u.u
Ah... Franky e Kim... eh ._. Le ragioni sono piuttosto ovvie, ma
ricordo che Franky ama Evelyn e finalmente l'ha capito che quello che
San Pietro gli aveva detto era un "inganno" per farlo allontanare da
lei, per il suo bene. Ma ciò non toglie quello che ha
fatto... staremo a vedere anche questo...
Zoe è tornato di nuovo sulla Terra a trovare Bill e Evelyn,
che ha deciso di tenere il bimbo di Franky, il quale però...
Avete
capito quello che San Pietro vuole che Franky faccia, no? Lui
gli vuole già bene, l'ha sognato, ma... Ah, mi viene da
piangere T_T
Adesso Zoe ha avuto una nuova crisi e Kim non ha le forze necessarie ad
aiutarla... Franky è riuscito ad avvertirlo e a sfuggire
agli "arresti domiciliari", ma riuscirà a fare in tempo per
aiutarla? Tutto questo, alla prossima puntata u.u xDD
Le canzoni che ho usato sono, la prima Lonely di Nikolas Metaxas e la seconda Just
a dream di Nelly :)
Spero che il capitolo sia stato di
vostro gradimento! *o* Aspetto le recensioni ;)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto e
tutti gli altri *-*
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 16 *** Bye, mum ***
Uhm... Questa volta non voglio dire
nulla, leggete e poi dite quello che volete, a ruota libera :D
Anche perchè voglio avere tante belle sorpresine quando
tornerò dalle vacanze! ç-ç
Infatti, come anticipavo già a qualcuno, questo è
l'ultimo capitolo che posto con tutte le mie facoltà:
lunedì parto per le vacanze e per un mese credo proprio che
dovrete fare a meno di me, ma soprattutto dei miei capitoli
ç-ç E' molto, molto, molto
probabile che non abbia alcun tipo di connessione internet e, non
avendo nemmeno una bacchetta magica, non potrò postare! T_T
Farò di tutto però per scroccare da qualche mio
amico la connessione, lo prometto, ma capite... non avrò di
certo la stessa regolarità che ho qui a casuccia mia!
ç-ç
Okay, detto questo vi avverto che il
capitolo con cui vi lascio è piuttosto triste D:
Spero di ritrovarvi comunque in tanti nelle recensioni al mio ritorno!
*-*
La canzone che ho usato in questo capitolo è Next 2 you, di Justin Bieber ft. Christ Brown.
Bellissima e perfetta per il caso! (Consiglio di leggere le parti in
cui ho messo i pezzi di canzone proprio con quei pezzi in sottofondo,
come ho fatto io mentre scrivevo!!)
Grazie mille in anticipo e buone
vacanze a tutti!!! :D
Buona lettura *w*
__________________________________________
16. Bye, mum
You’ve got that smile,
that only Heaven can make
I pray to God everyday,
that you keep that smile
La
mano di Raphael lo afferrò per la felpa un secondo prima che
si schiantasse a terra e la sua voce rabbiosa gli gridò
nell’orecchio: «Tu sei pazzo!».
I
bip dei macchinari ospedalieri a cui era attaccato il corpo di Zoe
erano angoscianti, le parole dei medici incomprensibili e il dolore che
lo infilzò da parte a parte come una spada nel momento in
cui si appoggiò a lei lancinante.
Lo
stesso dolore lentamente scomparì, lasciandolo privo di
sensi, steso a terra.
Lentamente sollevò le
palpebre e gli occhi gli lacrimarono a causa della forte luce che
entrava dalla finestra. Sentì il rumore di una sedia che
veniva spostata e qualche passo, poi quello delle tende che venivano
tirate con uno scatto deciso, facendo sì che la luce dorata
del sole illuminassero la stanza in maniera soffusa.
«Va meglio
così?», gli domandò una voce ricca di
premura.
Voltò il capo ed
incrociò lo sguardo dolce e caldo di Kim, seduta al suo
fianco, che gli prese una mano fra le sue e se
l’avvicinò al viso.
«Ho avuto tanta paura.
Promettimi che non farai mai più una cosa del
genere».
«Io
non…», si schiarì la voce roca,
«non ricordo molto di quello che è successo, solo
alcuni flash. Zoe sta bene, vero?».
Kim abbassò lo sguardo e
quando lo rialzò, sorrideva teneramente.
Gli raccontò tutto
quello che era successo, da quando Zoe si era sentita male, lei non era
stata in grado di aiutarla e lui si era gettato nel vuoto, essendo a
conoscenza di non poter volare, pur di raggiungere la sua protetta,
fino a quando era svenuto al suo fianco, sfinito. Gli spiegò
anche che ora si trovava nell’ospedale del Paradiso, sotto
osservazione.
«Perché, ho
qualcosa che non va?», le domandò, aggrottando le
sopracciglia.
L’angelo speciale
sospirò. «Hai rischiato la tua vita, pur di
salvare quella di Zoe».
«E quindi?
L’avevo già fatto prima…».
«Appunto per questo.
Franky, che tu sia un angelo non vuol dire che tu sia immortale. Se
dovessi salvare Zoe dalla morte ancora una volta,
probabilmente… la tua anima non reggerebbe».
«E cosa dovrei fare,
impedirmi di salvarla? Proteggere Zoe è il mio compito e lo
farò, anche a costo della mia stessa vita».
Kim annuì: si sarebbe
aspettata una risposta del genere da lui. «Vado ad avvertire
San Pietro che ti sei svegliato», mormorò,
alzandosi dalla sedia.
Raggiunse la porta e una volta con
la maniglia in mano, Franky la chiamò e le chiese:
«Tu come stai?».
«Bene», rispose
con l’accenno di un sorriso. Aprì la porta e di
fronte ad essa, appoggiato al muro del corridoio, entrambi rimasero
sorpresi di vedere Raphael.
«Si è
svegliato?», domandò schietto. Kim
annuì e si fece da parte per farlo entrare.
Franky osservò ogni suo
movimento e scambiò un ultimo sguardo con l’angelo
speciale prima che l’angelo poliziotto chiudesse la porta e
si rivolgesse a lui per ripetergli l’unica frase che
ricordava chiaramente e che lo fece sorridere: «Tu sei
pazzo».
«Giusto ogni
tanto», gli rispose.
«Ma come ti è
saltato in mente di usare il passaggio degli angeli custodi per andare
di sotto? Volevi sfracellarti al suolo, per caso?»,
sbraitò, gesticolando in maniera spropositata. Gli ricordava
molto Bill.
«Speravo che qualcuno mi
venisse a raccogliere».
«Sicuro, però
se non ci fossi stato io ti avrebbero raccolto col
cucchiaino!».
Franky gli sorrise e
sussurrò: «Grazie».
Raphael rimase colpito dalla
profonda gratitudine dell’angelo, ma borbottò
comunque qualcosa mentre si sedeva accanto al suo letto.
«Tu, se fossi stato al
mio posto, non l’avresti fatto?».
L’angelo poliziotto
alzò gli occhi e li piantò direttamente in quelli
verdi di Franky. «Che domande», sbuffò.
«Per la persona che si ama si farebbe di tutto».
«Quindi per Kim,
l’avresti fatto», continuò e la reazione
di Raphael non si fece attendere: come aveva previsto, aveva toccato un
tasto dolente.
«Che cosa
c’entra Kim?», berciò, con gli occhi
sgranati dallo stupore. Aveva proprio colpito nel segno.
«Voi due stavate insieme
un tempo, non è così?».
«No,
ma…». Abbassò di scatto il capo,
oscurandosi in volto.
«Oh. Tu eri innamorato,
però lei…», dedusse a bassa voce.
«Come hai fatto a
capirlo?», gli chiese stringendo i pugni sulle gambe.
«Si vede da come la
guardi… provi ancora qualcosa per lei. Ed è per
questo che mi hai trattato con così poco riguardo, quando mi
hai arrestato… Kim è come me nel senso che anche
lei si è innamorata di una persona ancora viva, invece che
di te. Ecco perché sembrava che mi odiassi tanto».
Raphael si alzò
lentamente dalla sedia ed andò alla finestra,
scostò le tende e rimase ad osservare il giardino
dell’ospedale anche mentre parlava. «Io e Kim
eravamo migliori amici, il nostro legame era fuori dal mondo. Io, col
passare del tempo, sono finito per innamorarmene, ma lei…
aveva già in mente quel Pete, quando le confessai il mio
amore per lei. Peccato che non mi avesse mai parlato di lui. Una volta
sono sceso sulla Terra per vederlo e l’ho visto
così… erano così innamorati
l’uno dell’altro… Sono stato davvero
male, ma non ho mai detto nulla a nessuno. Quando si è
venuto a sapere di questa storia, come ovvio che sia si è
dovuti intervenire. Kim aveva capito quello che le sarebbe successo e
si è nascosta sulla Terra, non voleva tornare in Paradiso
perché sapeva che non avrebbe più rivisto Pete, e
allora…».
«Gli agenti poliziotto
sono dovuti andarla a prendere?», intervenì
Franky, sbalordito. «Tu… tu eri uno di
loro?».
Raphael chiuse gli occhi ed
annuì. «Ero ancora un pivellino, allora. Avevo
appena iniziato, ma sono sceso anche io, con la mia squadra.
L’abbiamo cercata in lungo e in largo e alla fine
l’abbiamo trovata. Kim appena mi ha visto mi ha supplicato di
aiutarla, ma io… mi sono voltato dall’altra
parte».
Si allontanò dalla finestra e tornò alla sedia,
ci si sedette e si tenne la testa fra le mani. «Se potessi
tornare in dietro, non lo rifarei».
«L’aiuteresti?».
«Già.
È colpa mia, colpa della mia gelosia, se il nostro rapporto
si è distrutto».
«Potreste parlarne. Credo
che lei ti perdonerebbe, se le raccontassi ciò che hai
raccontato a me adesso».
«Proprio non capisci,
eh?». Sorrise in modo amareggiato e lo guardò
negli occhi. «Io per lei non posso essere altro che un amico,
che per di più l’ha tradita. Non sarà
più come prima e, in oltre, ora il suo cuore appartiene ad
un’altra persona».
Franky chiuse gli occhi ed
artigliò le dita nelle lenzuola.
«Quella persona sei tu,
Franky. Non so che motivo ti abbia dato lei, se ti ha dato un motivo,
ma posso immaginarlo: tu assomigli così tanto a
Pete…».
«Mi dispiace,
Raphael».
«Non è certo
colpa tua se tu e tuo nonno vi somigliate…».
Franky trasalì e
spalancò gli occhi. «Mio… mio
nonno?».
«Kim non te
l’aveva detto?». Scosse il capo, sconvolto.
«Beh… ora lo sai».
«Ma…
ma… Raphael, allora perché…
perché non hai lasciato che mi sfracellassi al suolo? Se io
fossi stato fuori combattimento avresti potuto riprovarci con
Kim».
«Con chi credi di avere a
che fare?», gli domandò con una punta di riso
sulle labbra. «Sono un angelo anche io! E poi non farei mai
qualcosa che la farebbe soffrire».
Il cercapersone
dell’angelo poliziotto suonò, rompendo il silenzio
che si era creato fra loro, ed egli si alzò dalla sedia.
«Devo andare adesso, ma
tornerò», gli puntò il dito contro,
seppur sorridendo. «D’altronde hai pur sempre evaso
gli arresti domiciliari… A proposito, ma come hai
fatto?».
Franky lo guardò senza sapere cosa rispondere e
sollevò un poco le mani, con i palmi rivolti verso
l’alto.
Allora Raphael continuò a rimuginarci su:
«È strano, molto strano. Non ci era mai riuscito
nessuno, anche perché nessun angelo normale sarebbe riuscito
a superare quelle scariche». Si voltò verso di lui
e fece un sorrisetto sghembo: «Ora abbiamo la conferma che
non sei normale». Anche Franky si lasciò scappare
una risata.
«Comunque credo che per
come ti sei comportato con la tua protetta verrai largamente
ricompensato», gli disse l’angelo poliziotto,
facendogli l’occhiolino.
Franky non riuscì nemmeno ad aprire bocca che Raphael era
già alla porta e, con una mano alzata, lo salutò:
«Arrivederci, riprenditi presto».
L’angelo alzò
a sua volta una mano, ma l’angelo poliziotto se
n’era già andato.
***
Con il profumo del caffè
sotto il naso riaprì gli occhi e sobbalzò sulla
poltroncina, rendendosi conto di aver dormito nella sala
d’aspetto dell’ospedale. Sua figlia era stesa al
suo fianco, con la testa appoggiata alla sua spalla. Di fronte a
sé, invece, c’era suo fratello Tom, che sorridendo
lievemente gli porgeva un bicchiere di caffè.
«Non è il
massimo. Diciamo che è accettabile».
Bill lo prese fra le mani, stando
attento a non svegliare Evelyn, e guardò il gemello mettersi
seduto alla sua sinistra.
«Hai dormito?»,
gli chiese.
Tom scosse il capo. «Non
ci sono riuscito».
«Sei preoccupato per
Franky?».
«Sì»,
sospirò passandosi una mano sul viso stanco.
«Vedrai che se la
sarà cavata».
«È stato
diverso, rispetto alle altre volte… ho davvero avuto paura
per lui». Bevve l’ultimo sorso di caffè
e poi si alzò per gettare il bicchiere vuoto nel cestino.
«Ma quanto ci mettono per dirci come diavolo sta?».
Pochi minuti dopo, nei quali Tom
non era riuscito a stare un attimo fermo, tanto che col suo andare
avanti e indietro per la sala d’aspetto aveva fatto venire il
mal di mare a Bill, arrivò il medico che stavano aspettando
con impazienza.
«Buongiorno. Mi dispiace
di avervi fatto aspettare così tanto, ma io e il mio collega
di neurochirurgia abbiamo voluto fare più esami»,
spiegò l’uomo col camice bianco e lo stetoscopio
al collo.
«Per quale
motivo?», chiese Tom, in ansia.
«Eravamo sbalorditi dai
risultati».
Bill diede un colpetto ad Evelyn
per svegliarla, desideroso di alzarsi e raggiungere il gemello di
fronte al medico. La ragazza lo guardò assonnata e quando si
ricordò di essere in ospedale, dopo la nottataccia che
avevano passato, schizzò i piedi come se avesse bevuto un
litro di caffè ed affiancò suo zio.
«Credevamo che ci fosse
qualcosa di sbagliato nel primo esame e invece era tutto giusto, non
c’erano stati errori, e il secondo esame l’ha
dimostrato. La signora Kaulitz, dopo l’ultimo segno di
cedimento, non ha fatto altro che migliorare, eppure non le abbiamo
cambiato nessun antibiotico… In questi giorni la terremo
particolarmente sotto controllo e staremo a vedere».
Bill lo ringraziò una
serie infinita di volte e il medico si congedò con un
sorriso. Una volta lontano, il frontman si girò verso il
fratello e lo travolse in un abbraccio stretto, colmo di gioia.
Tom era contento, sì, ma era un pezzo di legno. Zoe aveva
iniziato a migliorare quando Franky l’aveva salvata per
l’ennesima volta, il che voleva dire che qualcosa doveva
essere successo. Franky stava bene? In quel momento era la sua
preoccupazione più grande.
***
Un pezzo della sua anima da angelo
era con Zoe, un altro pezzo con Evelyn e, per finire, un altro ancora,
l’ultimo che aveva perso, con Zoe.
Gli
angeli sono un po’ come i gatti, dei quali si dice che
abbiano sette o nove vite. Quanti pezzi d’anima posso ancora
perdere, prima che perda la vita? Tre, due… uno?
Si mise seduto sul bordo letto, con
le gambe a penzoloni, e chiuse gli occhi. Si concentrò sul
suo respiro, sui battiti del suo cuore. Erano lenti, in un certo senso
tranquillizzanti, ma sapevano di fatica; sembravano trascinarsi avanti
a stento, uno dopo l’altro.
Si sentiva stanco, privo di energie, ma voleva andare a trovare la sua
Zoe. Fece per alzarsi, ma una volta in piedi le sue gambe cedettero e
perse l’equilibrio, tanto che dovette ritornare seduto sul
letto.
«Merda, mi sento un
vecchio», biascicò passandosi una mano sulla
testa, fra i capelli a spazzola.
«È normale,
hai appena inglobato dentro di te una parte del dolore che affliggeva
Zoe e le hai donato una parte della tua anima. È
già tanto che tu sia così in forma».
Si voltò verso la porta
della sua stanza e sulla soglia vide San Pietro, che gli sorrideva
solare.
«Salve», lo salutò impacciato,
sdraiandosi con due cuscini dietro le spalle.
«Come ti senti, Franky? A
parte vecchio, chiaramente».
«Bene, alla
grande», ridacchiò. «Come al solito non
ho potuto fare a meno di mettermi nei guai».
«No, proprio
no». Si mise seduto al suo fianco e gli posò, sul
palmo aperto della mano, la sua Carta d’Angelo Custode e il
suo Cellulare Celeste. «Però, sai… non
ti si può nemmeno impedire di fare ciò per cui
sei sempre stato destinato».
Franky guardò gli
oggetti che gli aveva dovuto dare quando era stato sospeso, poi
posò gli occhi in quelli del santo. «Che cosa
significa?».
«Da questo momento in
avanti sei di nuovo un angelo custode a tutti gli effetti: il tuo
periodo di sospensione è finito».
«Dice davvero? Ma
è… strepitoso!», esclamò,
felice.
«Sì, ma dovrai
comunque fare la riabilitazione che ti era stata assegnata».
«E posso riprendere anche
il mio corso?».
«Una cosa alla volta,
Franky», sorrise amorevole. «Ti renderai conto da
solo che d’ora in avanti, con un altro pezzo di anima in
meno, non riuscirai più a fare molte cose, ti stancherai
più facilmente, proprio come se fossi
invecchiato».
L’angelo
sbuffò, ma poi sorrise. «Avrò bisogno
solo di un po’ allenamento, vedrà».
«Ben tornato,
Franky». Gli porse la mano e lui la strinse con forza.
«Grazie mille. Devo
subito chiederle un favore».
San Pietro strabuzzò gli
occhi. «Dimmi».
«Mi accompagna da Zoe? Da
solo non ce la faccio».
Si guardarono in faccia e risero.
Insieme si avviarono per i corridoi dell’ospedale, a
braccetto come vecchi amici.
***
Suonarono al campanello e Bill
andò ad aprire la porta. Georg e Gustav lo abbracciarono a
turno, stringendolo forte.
«Abbiamo saputo di
Zoe».
«Siamo
contenti».
«Grazie ragazzi,
è bello rivedervi. Tutto bene?».
«Sì, tutto
okay. Evelyn, dov’è?».
Bill si guardò intorno
nel salotto, ma non vide né sua figlia né Tom.
«Erano qui, un momento fa…».
Raggiunse la nipote nella veranda
che dava sul giardino e si mise seduto di fianco a lei sugli scalini di
legno. Si levò la felpa che aveva addosso e gliela
posò sulle spalle, sorridendole teneramente.
«Se no prendi
freddo».
«Grazie zio»,
mormorò lei, avvicinandosi ancora di più a lui ed
appoggiando la guancia al suo petto caldo.
Tom l’avvolse nel suo
abbraccio, con le labbra sopra i suoi capelli, e le
massaggiò la schiena con le mani, per riscaldarla.
«Sei preoccupata per
Franky?», le domandò. Lei annuì.
«Anche io, tanto. Darei qualsiasi cosa per sapere come
sta».
«Io per averlo al mio
fianco in questo momento. Mi manca da morire».
Il chitarrista guardò di
fronte a sé, il giardino ricoperto di neve,
l’albero spoglio di qualsiasi foglia, con i rami che si
allungavano verso il cielo bianco. Un fiocco di neve fresca gli punse
il naso.
«Ah, eccovi finalmente!
Ma che ci fate qui al freddo?».
Si voltarono verso Bill, alla porta
finestra della cucina, che li guardava con la fronte corrugata.
«Non mi guardate con
quelle facce da ebeti, entrate!».
Tom si alzò e si
fermò nel bel mezzo del giardino, sotto alla neve che
iniziava a cadere di nuovo. «Esci tu, Bill».
«Ma tu sei
pazzo!».
Si accovacciò a terra,
prese un po’ di neve gelata fra le mani e ne fece una palla,
poi la lanciò verso il fratello, che per un pelo la
schivò.
«Tom, ma ti sei
rincoglionito?!».
«E dai, Bill!»,
rise, rise di gusto con il viso rivolto verso il cielo.
Evelyn accennò una
risata a sua volta e lo raggiunse, fece una palla di neve e le mani le
divennero subito bordeaux per il freddo, ma non gliene
importò e gliela lanciò contro.
Tom la guardò con la bocca aperta, poi si chinò
per farne un’altra.
Senza nemmeno sapere come
né perché, si ritrovarono tutti contro tutti
– compresi Bill, Georg e Gustav – in una battaglia
di palle di neve senza precedenti.
Per quel poco di tempo che durò ritornarono bambini e tutti
i problemi, le paure e le ansie scomparvero.
Quando rientrarono in casa e si
riscaldarono con della cioccolata calda, tutti seduti intorno al
bancone della cucina, ritornarono adulti e si parlò delle
condizioni di Zoe, poi di come andavano le cose a Georg e Gustav con le
loro famiglie ed infine di lavoro. Era da molto tempo che Bill non
riusciva a cantare, ma non erano venuti per spronarlo a fare
ciò che non si sentiva.
«Si sta avvicinando il
Natale e siamo stati invitati, come band, ad alcune feste di
beneficenza. Che vogliamo fare?», chiese Georg, guardando
soprattutto Bill.
«Io non me la sento molto
di partecipare ad una festa… Di farmi fotografare, di
sorridere a gente che nemmeno conosco…».
«Lo sappiamo, Bill, ma
non puoi nemmeno stare sempre chiuso in casa».
«Sì, Gustav ha
ragione», annuì Tom, posandogli una mano sulla
spalla. «Magari non andremo a tutte, ma almeno ad
una… Penso che ti potrebbe far bene, non pensare a
ciò che sta succedendo per una sera».
Bill guardò la figlia
con gli occhi grandi e supplicanti. «Tu verrai con me,
vero?».
«Se può farti
piacere, sì», rispose con un sorriso. Tenue, ma
pur sempre un sorriso. Anche se nemmeno lei era entusiasta
all’idea di dover andare ad una festa.
Suo padre si sarebbe appoggiato a lei; lei, invece?
***
«Franky»,
gracchiò Zoe appena lo vide entrare nella sua stanza.
Provò a sistemarsi meglio sul letto, facendo leva sulle
braccia, ma era troppo debole persino per spostarsi. Si
lasciò andare con la testa sui cuscini e sospirò
stancamente.
Lo osservò mentre a
fatica raggiungeva la sedia accanto al suo letto, sulla quale potersi
sedere, e un sorriso divertito le incurvò le labbra
all’insù. «Sembri un vecchietto,
sai?».
«Sì, lo
so», ridacchiò l’angelo, raggiungendo
finalmente la sedia. Si sedette e le sorrise bonario guardandola negli
occhi. «E tu, ti senti un po’ più
angelica?».
Zoe dischiuse le labbra e
sgranò gli occhi dallo stupore. «Franky
tu… tu mi hai dato un pezzo di te? È per questo
che adesso sembri così debole?».
L’angelo annuì
e le portò una mano sulla guancia, le dita fra
l’attaccatura dei capelli corvini, che accarezzò
con dolcezza.
«Non avresti dovuto,
Franky. Lo sai perfettamente. Adesso stai male per colpa mia e sai che
cosa ne penso: non è giusto».
«Shhh», le
sussurrò chiudendo gli occhi. Appoggiò la fronte
alla sua, alzandosi in piedi e piegandosi su di lei, poi
aprì gli occhi verdi e sorridenti e li fuse nei suoi.
«E tu sai perfettamente che lo farei anche a costo di perdere
la vita. Io sono quello che sono per te, per nessun altro, non mi puoi
impedire di fare quello per cui sono diventato un angelo. Ti amo,
piccola».
«Sei un
idiota», borbottò e gli diede una spintarella sul
braccio, che però, visto l’equilibrio precario di
Franky, lo fece barcollare e cadere seduto sulle gambe della sua
protetta.
Zoe tirò un urlo, ma appena i loro sguardi si incontrarono
scoppiarono a ridere insieme.
«Sai che cosa mi
servirebbe? Un bel bastone come quello di Dottor House!»,
esclamò l’angelo, facendola ridere ancora di
più. Fissando il suo viso diventare rosso ed ascoltando con
attenzione ogni singolo singulto di riso, il suo cuore si
gonfiò di gioia.
***
Il giorno della festa a cui avevano
deciso di partecipare era arrivato. Quella sera ci sarebbe stato il
ritorno ufficiale dei Tokio Hotel e soprattutto di Bill Kaulitz sulle
pagine patinate dei giornali, su internet e in tv. Sarebbe rientrato
nel giro dal quale si era tenuto tanto lontano in quelle settimane.
Seduto sul suo letto, guardava
l’armadio aperto di fronte a sé. Non aveva la
più pallida idea di che cosa mettersi per
l’occasione e ciò nonostante non era preoccupato.
Se fosse stato tutto nella norma si sarebbe messo a correre impazzito
per la casa con le mani nei capelli. La cosa che lo spaventava di
più era se non fosse riuscito a resistere in
quell’ambiente così finto. Non poteva davvero
pensare di mascherare così a lungo il suo dolore per
mostrare sorrisi palesemente falsi. Era certo che non ce
l’avrebbe fatta.
Bussarono alla porta e si
allontanò dai propri pensieri. Sua figlia lo
guardò con un sorriso appena accennato e gli disse:
«È arrivato zio Tom».
«Cos’è
venuto a fare?», le domandò confuso.
«Non doveva mica venire direttamente stasera, per portarci
alla festa?».
Evelyn scrollò le
spalle. «Ha detto che si è autoinvitato a
cena».
«Oh, perfetto»,
biascicò e sorrise.
Scesero entrambi al piano inferiore
e seduto sul divano, che faceva tranquillamente zapping con Coco sulle
gambe, videro Tom.
«Alla buon ora, il
principino si è deciso a scendere»,
ridacchiò il chitarrista, voltandosi verso le scale.
«Tu non saresti dovuto
essere qui, quindi non rompere».
Tom si alzò e senza
bisogno di altre parole cercarono ognuno le braccia
dell’altro. Tre secondi, non di più,
durò quella stretta, ma furono abbastanza per condividere il
coraggio e la forza che al cantante decisamente mancavano.
«Allora, che si mangia di
buono?», chiese Tom, sorridendo sghembo e portandosi le mani
unite di fronte al petto.
Bill tirò su la cornetta
del telefono e sorrise. «Pizza».
Evelyn e Tom, scambiandosi uno
sguardo complice, fecero lo stesso.
***
Franky si guardò allo
specchio e si sistemò con sguardo soddisfatto il bavero
della giacca. Poi schioccò la lingua contro il palato.
«E adesso che cosa
c’è?», gli domandò Kim,
seduta a gambe incrociate sul letto alle sue spalle. «La tua
divisa è perfetta, tu
sei perfetto».
«Sì, ma non
sono più abituato a vedermela addosso». Si
spogliò di nuovo e lanciò i vestiti sul letto,
rischiando di colpire Kim tra l’altro, poi andò
fino all’armadio e prese un paio di jeans, una felpa viola e
un cappellino nero con la visiera corta. Tom non si era ancora accorto
che svariati anni prima gliel’aveva rubato e non aveva la
minima intenzione di restituirglielo: ci era troppo legato.
«Sei sicuro di voler
andare?».
Franky si irrigidì sentendo le braccia di Kim avvolgergli il
petto e il suo viso nascosto fra le sue scapole.
«Oggi hai fatto anche riabilitazione, sarai
stanco… è meglio che tu rimanga qui».
«No,
io…». Si voltò e la guardò
negli occhi. «Io devo andare».
Kim fronteggiò il suo
sguardo per qualche secondo, poi, sconfitta, abbassò gli
occhi e tornò a sedersi sul letto.
«Hai intenzione di farlo
stasera?».
Franky chiuse gli occhi e strinse i
pugni. Vorrei non farlo mai.
«Sì», mormorò con un nodo
enorme in gola.
«Buona fortuna, allora.
Ti aspetto qui e se avrai bisogno, io ci sarò».
L’angelo annuì
a testa bassa e la ringraziò con un sussurro, poi
uscì dalla camera.
Ci mise un po’ a
raggiungere l’Ufficio di Collegamento, ma rispetto ai giorni
precedenti era parecchio migliorato: le forze gli stavano lentamente
tornando, anche se non sarebbe più stato come prima.
Però si era reso conto che se stava molto tempo con Zoe la
sua anima era come se lo ringraziasse, forse perché la
faceva stare vicina ad un frammento che aveva perso, e lo faceva
sentire meglio. Si chiedeva se sarebbe successa la stessa cosa anche
con il frammento che aveva dato involontariamente ad Evelyn, ma ogni
volta che la pensava sentiva una fitta al cuore e un altro paio di
occhi azzurri si impossessavano della sua mente, assillandolo.
Mostrò la Carta
d’Angelo Custode a Miguel, che dopo un mezzo sorriso lo
lasciò passare. Fiero di sé raggiunse comunque
l’ascensore, insieme a tutti gli altri spiriti, e vi
salì. Si guardò le spalle e sorrise nel vedere le
piccole alette bianche che gli stavano ricrescendo, pian piano. San
Pietro gli aveva detto che sarebbero rispuntate più
lentamente rispetto alla prima volta e che avrebbe fatto più
male, ma Franky non era spaventato: il dolore non sarebbe mai stato
paragonabile a quello che aveva sofferto quando gli erano rientrate.
Raggiunse la chiesetta nel cimitero
in cui lui stesso era sepolto ed uscì all’aria
gelata della sera, infilandosi mento e bocca dentro al colletto della
felpa. Camminò fra le tombe, fra i ceri accesi che al buio
sembravano fiammelle sospese nel vuoto. Passò a salutare la
sua mamma e continuò a girovagare per il cimitero fino a
quando non si trovò di fronte alla tomba di Peter Jost, suo
nonno, padre di suo zio David e sua madre. Si trovava anche lui
lì e la foto incastonata dietro il vetro della lapide in
marmo grigio lo raffigurava da anziano, ma anche così si
riusciva a capire che loro due erano imparentati: i tratti del viso, la
forma del naso e gli occhi, quegli occhi verdi che neppure nella
vecchiaia avevano smesso di brillare, erano gli stessi. Da quello che
aveva detto Kim, dovevano somigliarsi pure caratterialmente, ma Franky
non aveva nulla da spartire con lui: a malapena lo conosceva.
Si chinò di fronte alla
lapide e sfiorò i fiori appassiti che erano posti in un vaso
con la punta delle dita. Questi rinacquero e mostrarono ancora una
volta tutta la loro bellezza. Franky allora sorrise e si
allontanò con le mani nelle tasche.
Camminò per una decina
di minuti e appena fuori dalla centro urbano vide una villa che
conosceva bene. Entrò nel giardino passando fra e sbarre,
attraversò il vialetto ed arrivò di fronte alla
porta d’ingresso. Posò l’orecchio contro
il legno freddo e in lontananza sentì le voci di Bill,
Evelyn e Tom.
Silenziosamente attraversò il salotto, respirando il calore
che gli si appiccicava piacevolmente al viso e guardandosi intorno.
Inciampò su Coco, che si aggrappò con le
unghiette ai suoi jeans, miagolando.
«Shhh, piccolo,
shhh», cercò di ammutolirlo, ma non fece altro che
istigarlo a miagolare più forte.
«Coco, che ti
prende?», chiese Evelyn dalla cucina.
«Vado a vedere
io», disse Tom e si alzò da tavola,
uscì dalla cucina e una volta sui tre scalini che portavano
al salotto lo vide.
«Franky», sillabò incredulo.
«Ciao, Thomas»,
gli rispose con un sorriso impacciato sulle labbra, un velo di rossore
sulle guance. «Volevo farvi una sorpresa, ma questo micino
impertinente ha rovinato…».
Franky si interruppe bruscamente, sentendosi mancare il respiro. Il
chitarrista era corso da lui e l’aveva stretto in un forte
abbraccio, guancia contro guancia. Ci volle un po’ prima che
riuscisse a ricambiare e qualche lacrima di commozione gli
inumidì gli occhi. Si era preoccupato per lui, come sempre.
Aprì gli occhi, ancora fra le sue braccia, e vide sulla
soglia della cucina sia Bill che Evelyn, che lo guardavano uno
più sorpreso dell’altro. Subito gli sguardi dei
due ragazzi si incrociarono e l’angelo sentì
l’ennesima stretta al cuore.
«Che
cosa…?». Tom si scostò un poco e
guardò oltre le sue spalle. Sulla sua schiena spuntavano due
alette bianche, ancora piccole e morbidissime. «E
queste?», chiese divertito, guardandolo in viso.
«Qualcosa da dire sulle
mie nuove ali? Stanno ricrescendo, dagli tempo!».
«Ma questo vuol dire
che… non sei più sospeso!».
«Eh no»,
ridacchiò.
«Stai bene?».
«Potrebbe andare meglio.
Tu? Vedo che la vecchiaia si sente anche per te! Ormai ci commuoviamo
con poco…».
«Stupido, mi hai fatto
preoccupare!», sbottò unendo le braccia al petto.
«Non
c’è di che preoccuparsi! Posso sedermi?».
«Come no,
certo», rispose Bill, indicandogli il divano.
Franky lo ringraziò e
fece il giro del divano tenendosi artigliato con una mano alla
schienale, poi si lasciò andare e sospirò. Tutta
la camminata che si era fatto gli era piombata addosso
all’improvviso, stando fermo. Aveva bisogno davvero di un
po’ di esercizio.
«Niente di che
preoccuparsi, eh?», commentò sarcastico Tom,
sedendosi al suo fianco.
«E va bene, sono un
po’ affaticato», sbuffò roteando gli
occhi al cielo e sorridendo. «Ma non è nulla di
cui preoccuparsi. Zoe vi saluta tanto, dice di non preoccuparvi per lei
e che ora va tutto bene».
«Menomale»,
disse Bill facendo uno scatto in avanti e raggiungendo i due. Si mise
seduto sul tavolino di vetro di fronte a loro, per poterli guardare
entrambi in viso. «Che cos’è successo,
precisamente, quando sei entrato nella sua stanza
d’ospedale?».
Franky si adombrò e
schivò il loro sguardo. Non voleva che anche loro sapessero
della sua condizione precaria, sicuramente gli avrebbero detto di non
affaticarsi troppo, ma lui non ce la faceva proprio a stare fermo,
doveva sempre fare qualcosa.
«Nulla di
particolare», bofonchiò e sollevando lo sguardo
incrociò ancora una volta quello di Evelyn, nel
quale si perse letteralmente. Quanto gli era mancata lo sapeva
solo il cielo.
Sia Tom che Bill si accorsero del
loro scambio di sguardi e Franky, rendendosene conto in un attimo di
lucidità, si voltò verso il cantante come se
nulla fosse e gli sorrise.
«Sono contento che si sia ripresa».
«Grazie di cuore Franky,
per essere intervenuto. Se non ci fossi stato tu… non so
cosa sarebbe successo». Si voltò verso la figlia e
le disse di avvicinarsi con un cenno del capo. «Tu
l’hai ringraziato come si deve?».
Evelyn si presentò al
loro fianco, Franky si alzò in piedi per poterla guardare
meglio negli occhi e lei gli allacciò le braccio intorno al
collo, dicendo un semplice «Grazie».
Fu un abbraccio innocente, nessuno
avrebbe mai sospettato che fra loro ci fosse qualcosa, ma carico di
amore, visibile solo al cuore dei due e agli occhi di Tom, che sudava
freddo seduto di fronte al gemello.
L’angelo posò
incerto le mani sui suoi fianchi e fu come ricevere una scossa
elettrica. Si scostò e guardò in basso, verso
l’addome di Evelyn, poi tornò a fissare i suoi
occhi azzurri.
«Perché hai deciso di tenerlo?», le
domandò in un sussurro.
La ragazza sciolse del tutto
l’abbraccio e si allontanò di qualche passo.
«Non sei mica tu quello che legge nel pensiero?».
Lo lasciò
così, con un palmo di naso. Si diresse verso le scale che
portavano al piano superiore con le braccia strette intorno al petto e
si rivolse al padre: «Vado su a cambiarmi». Poi
sparì salendo gli scalini con una corsetta.
Franky si lasciò
sprofondare di nuovo nel divano, di fianco a Tom, lo sguardo spiritato.
Avrebbe dovuto farlo davvero. Perché lo costringeva a fare
qualcosa che non si sarebbe mai perdonato, a causa della quale si
sarebbe odiato per il resto della sua vita?
«Non ne vuole parlare con
nessuno», esordì Bill, sconfortato. «Tu
ne sai qualcosa? Magari hai visto qualcosa fra i suoi
pensieri…».
«No, non ne so
nulla», rispose meccanicamente, facendo calare il silenzio su
di loro.
Tom, imbarazzato, si
schiarì la voce. «Franky, stasera andiamo ad una
festa di beneficenza. Ti va di venire con noi?».
«Okay»,
annuì. Il chitarrista strabuzzò gli occhi: aveva
immaginato di dover insistere prima di convincerlo, invece…
«Datemi un po’ di tempo per andare a cambiarmi.
Sarebbe una festa in maschera, vero?».
«Sì, ma mica
è obbligatorio…».
«Va bene, vado».
Si alzò dal divano e se ne andò più in
fretta che poté. Al freddo, sotto il cielo scuro, si disse
che se non fosse riuscito a convincerla ad abortire si sarebbe arreso e
avrebbe fatto ciò che doveva fare, nonostante avesse fatto
del male ad entrambi.
«Ciao,
papà!».
And baby, everything that I have is
yours,
you will never go cold or hungry
I’ll be there when you’re insecure,
let you know that you’re always lovely
Girl, ‘cause you are the only thing that I got right now
***
Scese dall’auto prendendo
la mano offertale da suo padre e i flash delle macchine fotografiche la
accecarono, ma cercò comunque di fare qualche sorriso.
Camminò velocemente al suo fianco, dietro le figure di suo
zio Tom e Georg, ed entrarono in quella villa magnifica, vagamente
rinascimentale, nella quale si svolgeva quella festa in maschera.
Evelyn non era mai stata abituata
alla vita mondana, suo padre e sua madre l’avevano sempre
tenuta nascosta al mondo, per così dire, ed infatti non
riuscì ad ambientarsi fra tutte quelle celebrità
e a quelle persone amiche di qualche pezzo grosso che, pur non
conoscendola, la salutavano come se fosse una di famiglia.
Più o meno tutti
indossavano abiti eleganti, a volte anche un po’ buffi, ma
all’ultima moda. Le donne avevano come maschere delle
semplici retine nere, oppure delle maschere eleganti e raffinate come
quelle del carnevale di Venezia. Gli uomini invece indossavano semplici
smoking con semplici mascherine nere sugli occhi, anche se
c’era qualche costume stravagante. Quelli che
l’avevano maggiormente colpita, camminando fra la folla,
appartenevano ad una coppia, probabilmente: la ragazza, vestita con un
abitino di pelle nera, una gonfia pelliccia bianca intorno al collo e
stivali al ginocchio, aveva in mano il guinzaglio a cui era agganciato
il collare che indossava il ragazzo, che indossava proprio una maschera
da cane.
Quel mondo la confondeva, la faceva
sentire letteralmente frastornata, e non ci volle molto
perché le venisse mal di testa.
«Tesoro!»,
esclamò con voce stridula una donna sulla cinquantina,
mascherata e vestita in maniera così provocante da sembrare
soltanto ridicola alla sua età.
Evelyn fece giusto in tempo a
riconoscere la famosa presentatrice tv, che senza darle il tempo di
capire la prese per le spalle le baciò le guance, poi la
guardò dall’alto verso il basso e viceversa, con
un sorriso falso e uno sguardo malizioso.
«Sei una favola vestita così! Questa sì
che è la figlia di Bill Kaulitz, non quella che si
è vista sui giornali in questo ultimo periodo!».
«Grazie»,
balbettò incerta, abbassando lo sguardo.
Suo padre le aveva procurato quel
vestito di chissà quale prestigiosa firma – lei
non sarebbe mai riuscita a ricordarlo – e, nonostante non le
piacesse poi così tanto, amante degli abiti anonimi e
comodi, se l’era messo. Le spalle erano ricoperte di piume
lillà, il corpetto argentato ed ornato da piccole borchie
quadrangolari era largo e formava tante pieghe a partire dal piccolo
seno, fino ad arrivare al ventre, dove partiva una gonna a balze
grigia, di stoffa semitrasparente. Ai piedi aveva un paio di
decolté col tacco basso, dello stesso colore delle piume ed
impreziosite anch’esse da piccole borchie. Sul viso, invece,
aveva optato per una maschera semplice, ma molto d’effetto:
fatta di pizzo bianco, come le collant che indossava, focalizzava tutta
l’attenzione sui suoi splendidi occhi azzurri, con le ciglia
nere e lunghe e sulle palpebre un po’ di ombretto grigio.
«Ho sentito della tua
mamma», continuò la signora, passandole una mano
fra i capelli sciolti che le arrivavano al seno. Il cuore della ragazza
si strinse e gli occhi luminosi si intristirono all’istante.
«Mi dispiace così tanto», aggiunse la
presentatrice. «Ed è triste che i media ne parlino
con tanta frequenza, ormai non c’è rispetto per
nulla…».
«Già»,
sbottò Bill con tono freddo. «Vieni Evelyn,
raggiungiamo gli altri». La prese per il polso e la
trascinò verso il piccolo palco su cui si sarebbe svolta
l’asta di beneficenza.
«Papà, non
l’abbiamo nemmeno salutata», disse Evelyn a
mo’ di rimprovero, mentre si lasciava condurre da lui, tra i
tavolini illuminati ciascuno da un candelabro d’argento. Gli
altri componenti della band erano seduti ad uno dei tavolini laterali,
un po’ meno illuminati dalle luci del palco, e proprio in
quel momento un cameriere si era avvicinato a loro per versare del vino
nei loro bicchieri.
«È
comprensibile che tu non te ne sia accorta, ma io ho vissuto quasi
tutta la mia vita accanto a queste persone e ti posso giurare che la
maggior parte di loro, compresa quella donna, sono schifosamente
ipocrite», le rispose, ancora con quel tono fermo,
distaccato, quasi finto. In realtà, stava soltanto
reprimendo tutta la sua rabbia e ci riusciva egregiamente, grazie ad
anni ed anni di esperienza. «Sono certo che ti
sarà sembrata dispiaciuta, addolorata… beh, era
tutta una finta. Ormai so riconoscere quando una persona del mio stesso
ambiente mente o è sincera. Non credere a nulla di
ciò che ti ha detto, sono tutte bugie. La prova? Lei
è la prima a dare, ogni giorno, notizie sulla nostra
famiglia. La verità è che non può fare
a meno di noi, facciamo incrementare l’audience».
Evelyn, scioccata da quelle parole,
si mise seduta accanto a suo zio con lo sguardo assente, muovendosi a
scatti. Ecco perché la sua mamma e il suo papà
l’avevano sempre protetta da quel mondo, perché a
volte sapeva fare davvero male.
«Tutto okay?»,
le sussurrò suo zio all’orecchio, avvolgendole le
spalle con un braccio, un bicchiere di vino rosso nella mano sinistra.
«Sì»,
mormorò lei in risposta, ma non era affatto così,
se ne sarebbe accorto chiunque. Tom per primo capì cosa
c’era che non andava, aveva visto da lontano la scena appena
avvenuta, ma non le domandò altro. Almeno, non su
quell’argomento.
«L’hai
visto?».
Evelyn si riprese e, incuriosita da
quella domanda ambigua, guardò il viso di suo zio.
«Chi?», gli chiese, ma capì giusto un
secondo dopo, come se il suo cervello avesse ritardato ad inviarle le
informazioni. Tom le aveva detto, prima di salire sulla limo che li
avrebbe portati alla festa, che aveva proposto a Franky di
raggiungerli, ma ancora non si era fatto vivo. Quindi scosse il capo,
mentre il suo cuore iniziava la sua corsa verso la tachicardia.
«Arriverà»,
la rassicurò con un piccolo sorriso. «Quando dice
di fare qualcosa, la fa».
Ricambiò il sorriso e
puntò lo sguardo sul palco: una donna in un abito elegante,
con una mascherina d’oro sul viso, vi si mise proprio al
centro e, con il microfono alle labbra, annunciò che
l’asta stava per iniziare, accompagnata da uno scroscio di
applausi.
«Ma voi che cosa dovete
fare, precisamente?», chiese Evelyn, dando un colpetto al
braccio di suo zio con il dorso della mano.
«Ahm… non ne
ho la più pallida idea», le sussurrò,
divertito.
Anche Evelyn sorrise, poi
tornò a prestare la sua attenzione sul palco, sul quale
intanto vi era salito un uomo dai capelli brizzolati che avrebbe
mostrato i beni messi all’asta e avrebbe svolto un
po’ la funzione del giudice.
Ancora prima di iniziare sembrava
una cosa lenta e noiosa e una volta iniziata ne ebbe la piena conferma:
le offerte non finivano mai, continuavano a salire, ogni volta di
pochissimo, e nessuno sembrava voler cedere. Evelyn si distrasse
più volte, come del resto i Tokio Hotel, che parlavano
tranquillamente tra loro, e una volta in particolare spaziò
con lo sguardo fra i tavoli, facendo lo stupido gioco di riconoscere le
facce conosciute, viste sui giornali patinati o in tv, fino a quando
non incrociò lo sguardo profondo di un ragazzo seduto da
solo ad uno dei tavolini dall’altro lato della sala. Fu uno
shock per il suo cuore, che tremò come percosso, e il
respiro le si mozzò in gola. Conosceva benissimo quegli
occhi verdi, quel mondo in cui avrebbe voluto perdersi per sempre.
«E ora, signori e
signore, i Tokio Hotel!».
A quelle parole Evelyn si
risvegliò dall’incantesimo in cui era caduta in
quell’attimo che era sembrato durare ore e guardò
suo padre, poi suo zio e Gustav e Georg. Anche loro si guardarono
frastornati, senza sapere bene cosa fare, ma si alzarono e si
stamparono i loro sorrisi migliori per i flash delle macchine
fotografiche.
La ragazza li guardò salire sul palco e mettersi vicino alla
donna con la mascherina dorata, poi tornò a cercare con lo
sguardo quegli occhi, ma non li trovò più. Col
cuore in gola li cercò freneticamente percorrendo tutta la
sala, ma sembravano spariti nel nulla.
«Grazie a voi per averci
invitati, è un onore essere qui», sentì
dire da suo padre e puntò l’attenzione su di lui.
Che fosse stato un miraggio, quello di prima?
«Bene! La prossima
offerta riguarda proprio questa fantastica band, conosciutissima in
tutto il mondo e che è ormai ad un passo ad entrare nella
leggenda della musica! O meglio, diciamo che riguarda il cantante della
band, Bill Kaulitz…». Scroscio di applausi, a cui
partecipò anche Evelyn, in maniera molto insicura.
«Partiamo da 1.000 euro per un ballo con lui, proprio Bill
Kaulitz!».
«Cosa?»,
balbettò lui, senza microfono. Iniziò a
gesticolare nervosamente con le mani. «No, io in
verità…».
«2.000!».
«Suvvia, signor Kaulitz!
È per beneficenza!», lo inculcò ancora
meglio la donna, con un sorriso mellifluo. «Chi offre
3.000?!».
«3.000!».
«3.000 la signora! Grazie
signora!».
Bill guardò il fratello
e non ci fu bisogno di un’espressione di profondo disagio
perché Tom capisse ciò che stava provando: lo
sentiva sulla sua pelle.
«3.500!».
«3.500! Grazie mille
signora! Qualcuno vuole azzardare di più? È Bill
Kaulitz, signore! Che cosa volete di più dalla vita? Farete
una buona azione e avrete l’onore di ballare
con…».
«5.000!»,
gridò una voce stridula che sia Evelyn che Bill riconobbero
subito.
La presentatrice tv che aveva
parlato con loro era in piedi e guardava il palco con lo sguardo acceso
da una strana luce di perversione, come il suo sorriso. Bill a stento
non digrignò i denti, mantenendo il suo sorriso plastico.
«Accidenti, signora,
vuole proprio portarsi a casa questo ballo, eh?
C’è qualcuno che vuole offrire di più?
Nessuno? 5.000 e uno, 5.000 e due…».
«10.000», disse
una voce dolce, con tono pacato.
Tutta la sala si voltò
sorpresa verso la ragazza che aveva appena parlato, seduta comodamente
sulla sua sedia, con solo la mano alzata. Capelli castani raccolti in
una coda alta perfetta, pelle chiara e occhi verdi celati dietro una
retina nera: solo guardandola si aveva la percezione di essere di
fronte ad una ragazza infinitamente raffinata.
La presentatrice tv la guardò con astio e si rimise a sedere
borbottando tra sé, mentre la donna sul palco boccheggiava.
La ragazza sconosciuta sembrava perfettamente a suo agio e non aveva
paura di affrontare lo sguardo di Bill, che non aveva fatto altro che
fissarla per capire chi fosse, anzi accennava persino un sorriso
soddisfatto.
«Bene»,
balbettò la donna dell’asta. «Credo che
non ci siano altre offerte. Il ballo con Bill Kaulitz dei Tokio Hotel
va alla signorina laggiù per la bellezza di 10.000 euro!
Grazie signorina».
La ragazza ringraziò con
un lieve cenno del capo e il pubblico applaudì, ma non smise
di bisbigliare.
Una volta terminata
l’asta, si diede il via alle danze. Bill, Tom, Georg, Gustav
ed Evelyn, però, non si mossero dal loro tavolo. Rimasero a
guardare le coppie che si alzavano ed andavano a ballare
nell’ampio spazio rimanente tra la zona bar, con i tavolini e
il palco, e le maestose scale di marmo bianco che portavano al piano
superiore e che ad un certo punto si dividevano ad angolo retto.
«Che strano»,
borbottò Tom, con l’ennesimo bicchiere di vino in
mano. Aveva le gote un po’ rosse, segno che non era
lucidissimo. «Chissà chi è quella
ragazza e soprattutto, chissà che fine ha fatto».
«Mmh»,
annuì Bill, soprappensiero. «Non ho molta voglia
di ballare, ma due domande gliele farei se si facesse viva».
«Già, anche
io», si intromise una voce che fece saltare i nervi ad
Evelyn, che non badò a nascondere la propria irritazione e
la guardò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Se solo sapessi chi è, scaverei nel suo passato,
presente e futuro e al primo scheletro lo sbandiererei come notizia
principale nel mio programma!». Nemmeno la presentatrice tv
sembrava così lucida e la sua voce stridula era ancora
più insopportabile.
«Mi dispiace deluderla,
ma se cercasse di me non troverebbe proprio nulla»,
intervenì una voce quasi angelica rispetto a quella
dell’altra donna. Tutti si voltarono verso la ragazza
misteriosa e la guardarono pieni di curiosità, oltre che di
ammirazione: nelle sue parole, come nei suoi gesti, non c’era
nemmeno un filo di scortesia. «Sono come uno specchio, che
per giunta non ha nemmeno una macchiolina di unto su di
sé».
«È
impossibile!», berciò, adirata. «Tutti,
nella loro vita, hanno qualcosa di cui vergognarsi!».
La ragazza sgranò
leggermente i suoi già grandi occhi chiari, poi sorrise e si
lasciò scappare una leggera risata, coprendosi elegantemente
la bocca con la mano. «Se lei ne è convinta, ci
credo. Ora, permette? Ho pagato per un ballo a cui non voglio proprio
rinunciare».
La presentatrice tv se ne
andò sbattendo i piedi, imbronciata e con un diavolo per
capello, quando la ragazza sconosciuta, invece, sorrideva
innocentemente, quasi… angelica.
Si voltò verso i Tokio Hotel, in particolar modo verso Bill,
e gli porse una mano. «Andiamo? Hanno appena messo un
lento».
«Io non so ballare,
specialmente i lenti», rispose il cantante, imbarazzato.
«Basta che non mi
calpesti i piedi».
Bill prese la mano della ragazza
con ancora un po’ di incertezza, guardando gli amici. Il
fratello fece un gesto con la mano, in segno di andare, e poi
cascò con la fronte sul braccio, addormentato.
«Mi sa che ha bevuto un
po’ troppo», fece notare la ragazza, con un sorriso
leggero sulle labbra rosate.
«Già, lo penso
anche io», disse il frontman. Poi si avviarono verso la pista
da ballo, a braccetto.
Evelyn, seduta accanto a suo zio,
gli punzecchiò il braccio, cercando di svegliarlo, ma non ci
fu verso: dormiva come un sasso e russava pure, tra i mugugni.
«Lascia perdere,
è in catalessi da sbornia», le disse Georg,
scuotendo il capo.
La ragazza gettò un
occhio sulla pista da ballo, per vedere come andavano le cose fra suo
padre e quella ragazza, ma il suo sguardo seguì
un’altra rotta, quasi senza obbedire ai suoi comandi:
salì le scale e proprio al bivio si fermò sulla
figura di un ragazzo girato di schiena, con una mano sul manico dorato.
Questo voltò il capo verso di lei ed Evelyn riconobbe
immediatamente i suoi occhi. Era lui, non c’erano dubbi.
«Devo… devo
andare un attimo in bagno», farfugliò guardando
Gustav e Georg, prima di alzarsi in fretta e furia e voltarsi di nuovo
verso le scale. Ma del ragazzo con lo smoking e la mascherina nera
sugli occhi non c’era più nemmeno
l’ombra.
Corse comunque su per la scalinata,
stando attenta a non destare comunque troppi sospetti, e quando dovette
scegliere scelse di andare a destra. Camminò con attenzione
sulla moquette che ricopriva il corridoio dal quale si sporgevano dei
piccoli davanzali che permettevano di vedere la sala da ballo
sottostante, guardandosi bene intorno. Le parve di vedere
l’ombra di qualcuno girare a sinistra verso la fine del
corridoio ed aumentò il passo, girò
l’angolo appoggiando una mano sulla parete e si
trovò di fronte alla porta di una camera: il legno era
intagliato finemente e c’erano delle cornici dorate sui
bordi. Non avrebbe dovuto entrare, ma la curiosità la spinse
a farlo.
Aprì la porta con
lentezza, cercando di non fare alcun tipo di rumore. La stanza le si
presentò meravigliosa, principesca con il letto a
baldacchino, i mobili pregiati e un grande specchio su cui si riflesse
immediatamente, appena entrata.
Si guardò intorno e, sul
letto dalle coperte di seta, vide un grande fiore rosso. Si
avvicinò con cautela, stringendosi nel proprio abbraccio, e
una volta ai piedi del letto accarezzò i grandi petali del
fiore. Non l’aveva notato prima, ma se faceva attenzione
all’immagine del ragazzo che aveva inseguito, aveva proprio
quel fiore rosso come ornamento della giacca. Lo prese fra le mani
delicatamente, se lo portò al viso e ne respirò
tutto il profumo. Era stato lì, l’aveva lasciato
lì per lei.
Si avvicinò allo specchio e guardò per qualche
secondo il fiore fra le sue mani, poi se lo infilò fra i
capelli, sull’orecchio destro. Si contemplò
sorridendo, fino a quando la finestra aperta non sbattè
contro il battente, facendola spaventare. Si voltò e lo
vide, appoggiato con le mani al davanzale, il viso basso e
l’espressione assorta.
«Franky…»,
mormorò e si avvicinò a lui, poi gli
aprì le braccia e si rifugiò nel suo abbraccio.
L’angelo la strinse a
sé con delicatezza ed infilò una mano fra i suoi
capelli sulla nuca, sussurrando: «Continuiamo a farci del
male. E ho come la sensazione che non ti importi».
«Perché dici
così?».
Franky la prese per le spalle e la
guardò negli occhi con espressione addolorata, ma non
rispose, lasciò a lei il compito di decifrare i suoi
sentimenti e i suoi pensieri. Evelyn accennò un sorriso,
stringendogli le mani nelle sue.
«Non ti piacerebbe? Avere
una famiglia, noi due e un piccolo marmocchio. Io già ci
penso, sarebbe… magnifico».
«Sarebbe una
follia», rispose invece l’angelo, sospirando e
posando la fronte contro quella della ragazza. «La follia
più bella del mondo».
Evelyn sorrise e portò
le sue mani sul suo ventre, sentì l’angelo tremare
a quel contatto e quando Franky sollevò lo sguardo
trovò quello della bionda ad attenderlo, colmo di tenerezza.
«Maschio o
femmina?».
Franky deglutì, ma non
spostò le sue mani, né i suoi occhi da quelli di
Evelyn. «Maschio».
«Oh cavolo, io preferivo
una bambina!», si imbronciò e Franky non
poté non lasciarsi andare ad una leggera risata, che
contagiò anche lei. Poi l’angelo tornò
ad abbracciarle la vita e le posò le labbra sulla fronte.
«Un piccolo
me», sussurrò. «Con i tuoi
occhi».
Evelyn sospirò felice e
chiuse gli occhi.
If you had my child,
you would make my life complete
Just to have your eyes on a little me,
that’d be mine forever
***
Con una mano
posata delicatamente sulla sua schiena nuda e l’altra nella
sua, la guardava di sottecchi. Era bella, veramente. Le sue labbra
chiare e sottili sembravano essere state plasmate per quel sorriso
gentile, i suoi occhi leggermente a mandorla per brillare anche
nell’oscurità.
Quando li incrociò arrossì e rivolse lo sguardo
verso il basso, guardò i piccoli passi incerti che facevano
i suoi piedi e pensò a Zoe. Chissà cosa avrebbe
detto, se fosse stata lì.
«Non ho più
voglia di ballare», disse improvvisamente la ragazza,
scostandosi e tenendogli solo la mano. «Andiamo a prendere
una boccata d’aria?».
Bill annuì e si
lasciò portare fuori, sotto le arcate che circondavano un
bellissimo chiostro, con tanto di fontana luminosa al centro.
La ragazza tirò fuori
dalla borsetta un pacchetto di sigarette e se ne portò una
alle labbra, poi lo porse al cantante, che ringraziò e ne
prese una. Se l’accesero con l’accendino di lei e
rimasero per qualche minuto in silenzio, a fumare e a guardare le
nuvole scure nel cielo che a tratti lasciavano spazio alla luna.
«Perché
l’hai fatto?», le domandò Bill ad un
certo punto, non potendo più aspettare di ricevere una
risposta.
La ragazza sorrise e si mise seduta
sul parapetto in pietra chiara, con le spalle contro una colonna.
«Non lo so. Forse perché ho letto nei tuoi occhi
il disgusto quando quella stramba signora sembrava averti nelle sue
grinfie. Non mi sono mai piaciute le persone che ne strumentalizzano
altre e pensano che tutto sia dovuto».
«Solo per
questo?».
«Già»,
ridacchiò, guardando la sua espressione stupita.
«Beh, a dire la verità, ero anche un po’
curiosa di conoscere il famoso Bill Kaulitz».
Bill spense la cicca in un
posacenere lì vicino e si infilò le mani nelle
tasche, annuendo. «Che te ne pare?».
«Non è niente
male», rispose con un lieve sorriso. «Anche se
credo che preferirei di gran lunga Bill. Ma è assai
improbabile che io lo possa conoscere in una sola sera».
«Non si fa vedere spesso
in giro, in effetti».
La ragazza si alzò, lo
raggiunse e lo guardò negli occhi da vicino.
«Salutamelo, se dovessi vederlo», gli
sussurrò. Fece un passo indietro, allargando il sorriso
sulle sue labbra, e ritornò dentro.
Bill rientrò qualche
minuto dopo di lei e quando la cercò con lo sguardo fra i
tavolini non la trovò. Non sapeva nemmeno come si chiamava.
Con la sensazione che non l’avrebbe mai saputo, si
avviò verso il tavolino su cui erano seduti i suoi migliori
amici e il suo gemello che si era appena risvegliato dal pisolino
post-sbornia.
«Bibi
com’è andata con la tua amica?», gli
domandò curioso, strascicando qualche parola. Si vedeva che
era un po’ fuori e il nomignolo con il quale lo aveva
chiamato, quello di quando avevano sei anni, ne era la conferma.
«Bene. Ma ti
racconterò meglio domani, quando sarai più
lucido».
«Giusto, hai
ragione», borbottò, appoggiando la fronte alla
spalla di Georg, che non seppe se caccialo via o meno.
«Piuttosto»,
riprese Bill, guardandosi intorno con un sopracciglio sollevato.
«Dov’è Evelyn?».
«Ha detto che andava un
attimo in bagno», disse Gustav. «Ah, eccola
là!». La indicò che scendeva la
scalinata principale, guardandosi i piedi per non cadere e con i
capelli che le coprivano il viso.
Evelyn alzò lo sguardo
verso il padre e gli sorrise, finì la rampa e lo raggiunse
al tavolo.
«Tutto bene?», gli domandò avvolgendogli
un braccio intorno alla schiena e posando il capo sul suo petto.
«Sì, ma voglio
andare a casa».
«Credo sia
ora», concordò Georg, guardando
l’orologio che aveva al polso sinistro. «Ehi Tom,
riprenditi, dobbiamo andare a casa».
«Di
già?», biascicò tirando su la testa
ciondolante.
«Sarebbe meglio.
Forza». Georg gli fece avvolgere un braccio intorno alle sue
spalle e lo tirò su: riusciva a stare in piedi e a
camminare, anche se barcollava un po’. «Ma
perché riesci ad ubriacarti persino alle feste di
beneficenza?».
«Io non sono
ubriaco!», singhiozzò. «E non
è colpa mia, continuavano a versarmi vino!».
«Sì, okay Tom,
è colpa dei camerieri».
«Bravo Hagen, vedo che le
cose le capisci al volo. Ma perché gira tutto?».
Salirono sulla limo e Tom si
addormentò di nuovo, quella volta col viso appoggiato alla
spalla di Gustav. Dissero all’autista di portare a casa prima
lui e lo aiutarono ad entrare in casa, lo fecero sdraiare sul divano,
visto che avrebbero fatto troppo casino in camera da letto e avrebbero
di sicuro svegliato Linda, e gli diedero la buona notte.
I secondi ad arrivare a casa furono
Bill ed Evelyn, visto che la loro villa era per strada. Salutarono
Gustav e Georg e scesero dalla limo, poi entrarono nella casa buia e
silenziosa.
«Io vado subito a
dormire, sono stanca», disse Evelyn, alzandosi in punta di
piedi per baciare suo padre sulla guancia.
«Buonanotte».
«’Notte,
tesoro».
La ragazza lo osservò
dirigersi in cucina ed accendere una piccola luce, aprire il
frigorifero e sbocconcellare qualcosa mentre prendeva una bottiglia
d’acqua, poi salì su per le scale di vetro
illuminate dai led.
Nel corridoio provò a slacciarsi la mascherina di pizzo
bianco, ma non ci riuscì e lasciò perdere,
dicendosi che se la sarebbe tolta in bagno, mentre si metteva il
pigiama e si struccava. Ma i suoi piani furono sconvolti totalmente
quando aprì la porta della sua camera e una folata
d’aria gelida le frustò il viso.
«Chi le ha lasciate
aperte?», borbottò infastidita, riferendosi alle
porte finestre spalancate.
Stava per chiuderle, quando
notò la figura che contro la luce della luna appariva molto
più scura di quella che era in realtà. Il cuore
le andò in fibrillazione quando la figura in questione si
voltò e fece un passo verso di lei. La luna gli
illuminò il viso per un attimo ed Evelyn trattenne il
respiro. Era lui.
We’re made for one another
Me and you
And I have no fear
I know we’ll make it through
Franky annullò la
distanza fra di loro ed accarezzò il fiore che aveva fra i
capelli, poi le sfiorò la mandibola ed arrivò
fino al collo candido. «Mi concede questo ballo?».
«Non
c’è la musica».
«Immaginala».
Le levò la mascherina che aveva sugli occhi con delicatezza
ed Evelyn fece lo stesso con la sua, che lasciò cadere a
terra.
Si appoggiò con il viso
e una mano al suo petto, l’altra mano avvolta dalla sua. Lui
la cullò dolcemente fra le sue braccia, al ritmo di una
melodia lenta che cantarono piano a bocca chiusa, perfetta per unire i
battiti dei loro cuori e fondere insieme le loro temperature corporee.
Poi all’improvviso, la strinse a sé con uno scatto
brusco ed affondò una mano fra i suoi capelli, il viso
premuto contro il suo orecchio. «Cambia idea, per
favore», mormorò con tono addolorato.
«No, Franky»,
rispose ferma e decisa. «Non lo farò
mai».
«Perché mi fai
questo?».
Evelyn non rispose, si
lasciò soltanto stringere sempre più forte, fino
a quando sentì le lacrime dell’angelo bagnarle il
collo e il suo corpo tremare contro il suo a causa dei singhiozzi.
Quella volta toccò a lei
cullarlo. Lo spinse all’interno, lo fece sdraiare accanto a
sé sul letto, senza mai lasciarlo, e gli fece posare il capo
sul suo seno. Lo ascoltò piangere e gemere per un
po’, forse solo per minuti, forse per ore. Quando parve
tranquillizzarsi e lasciarsi andare al sonno si accucciò al
suo fianco e gli accarezzò i capelli, poi il viso. Lo
osservò dormire con le labbra dischiuse e le guance
arrossate dalle lacrime, l’espressione neutra, sino a che il
sonno non appesantì anche le sue palpebre e fu costretta a
chiudere gli occhi.
Yeah, you are my dream,
there’s not a thing I won’t do
I’ll give my life up for you,
cuz you are my dream
Quando fu sicuro che Evelyn si
fosse addormentata, aprì gli occhi stanchi e la
guardò. Le accarezzò il viso con la mano che
tremava, si avvicinò e le sfiorò il naso con il
proprio, il suo respiro gli accarezzò le labbra e avrebbe
tanto voluto baciarla, ma si trattenne.
Il suo sguardo si posò
sul suo ventre e tremò e gli venne la nausea
all’idea di quello che avrebbe fatto di lì a poco.
Posò una mano su di esso e lasciò per un attimo
che quel calore meraviglioso si diffondesse in tutto il suo corpo.
Chiuse gli occhi per trattenere
altre lacrime e a denti stretti sussurrò: «Mi
dispiace da morire, Evelyn», poco prima che un fascio di luce
biancastra uscisse dal palmo della sua mano.
Quando la luce si spense e Franky
si lasciò andare ad un sospiro affaticato, sulla sua mano
c’era una piccolissima luce che brillava. L’angelo
la guardò con gli occhi colmi di lacrime, poi si
girò verso la finestra e la soffiò via, verso la
luna.
«Papà…».
***
Linda, svegliata dal trambusto che
avevano fatto Bill, Georg e Gustav con suo marito, non era
più riuscita a prendere sonno e si era preparata una tisana.
Appoggiata al ripiano della cucina riusciva a vedere Tom dormire con la
bocca aperta sul divano in salotto, tutto vestito e coperto soltanto da
una coperta. Ogni tanto russava e gli faceva molta tenerezza, sembrava
un bimbo.
Non era più riuscita a
riaddormentarsi perché aveva iniziato a pensare di nuovo a
Franky. Quella sera, a cena, Arthur aveva pronunciato involontariamente
il suo nome, arrossendo violentemente sulle guance perché
doveva restare un segreto, e Linda da allora non aveva fatto altro che
pensare a lui.
Che fosse la verità ancora stentava a crederci, ma erano
tutti così convinti… Tom, suo figlio…
Solo lei non riusciva a vederlo e, nonostante fosse assurdo, questa
cosa le dava veramente fastidio. Si sentiva esclusa ed incapace.
Sospirò afflitta e bevve
ancora un sorso di tisana, con un braccio stretto sotto il seno, quando
sentì uno strano rumore provenire dall’ingresso.
Mano a mano che passavano i secondi il rumore si faceva più
vicino e chiaro: erano indiscutibilmente dei singhiozzi.
Col cuore in gola posò la tazza accanto ai fornelli e si
tenne saldamente con una mano al ripiano della cucina.
Un’ombra apparve di fronte alla porta della cucina e
sobbalzò dallo spavento quando questa iniziò a
diventare più nitida, fino a rivelarle il viso stanco di un
ragazzo di sedici anni, rigato dalle lacrime; i suoi occhi erano colmi
di tristezza e le sue labbra tremavano. Sembrava sconvolto.
«Franky?»,
balbettò con un fil di voce, riconoscendolo, e
più che un’affermazione sembrò una
domanda. Era davvero lui? Perché piangeva in quel modo?
Sul viso del ragazzo comparve una
lieve traccia di sorpresa, ma venne spazzata via presto da
un’altra valanga di lacrime e singhiozzi, ancora
più forti di quelli precedenti, che lo fecero appoggiare
allo stipite della porta e scivolare a terra con le ginocchia strette
al petto.
Linda boccheggiò, senza
sapere cosa fare, ma ci volle poco prima che il suo istinto materno le
dicesse di avvicinarsi. Si inginocchiò al suo fianco, gli
accarezzò una guancia con le dita e il ragazzo la
guardò dritto negli occhi, ancora più stupito
dietro il dolore.
Lo abbracciò, facendogli posare il capo contro il suo petto,
e Franky la strinse forte, versando tutte le sue lacrime e soffocando i
singhiozzi e i gemiti di sofferenza nella maglia del suo pigiama.
***
Evelyn si agitava e sudava nel suo
letto, in preda ad un incubo.
«Ehi!»,
gridò da lontano, vedendo due figure che si tenevano per
mano camminare nel buio, illuminate soltanto da un cono di luce.
«Fermatevi!».
I
due si fermarono e si voltarono con il busto verso di lei, che li
riconobbe all’istante: il primo era Franky, con lo sguardo
malinconico e sulle labbra nemmeno l’ombra di un sorriso; il
secondo, invece, era un bambino dai capelli scuri e gli occhi azzurri
come i suoi. Pur senza averlo mai visto, lo riconobbe come il suo
bambino, suo e di Franky. Era bello come l’angelo.
Iniziò a correre a perdifiato verso di loro, ma sembrava non
raggiungerli mai, per quanta forza ci mettesse.
«Franky!
Franky aiutami, ti prego!», gridò senza
più energie, cadendo in ginocchio per terra.
Il
bambino la indicò e guardò l’angelo,
che scosse il capo e lo prese fra le braccia. Franky gli
indicò di salutarla e il bambino lo fece, poi si
girò verso il padre e gli asciugò le lacrime che
gli rigavano le guance.
«Franky!
Franky!», gridò ancora Evelyn, rialzandosi e
cercando di raggiungerli ancora una volta, ma fu tutto inutile: erano
irraggiungibili, ormai.
L’angelo
la guardò negli occhi e il bambino le disse qualcosa che lei
non riuscì a sentire, poi Franky si voltò e con
il bambino fra le braccia si allontanò, fino a quando il
buio non li inghiottì ed Evelyn cascò nel vuoto.
Si svegliò di
soprassalto, col fiato corto e i vestiti appiccicati al corpo talmente
aveva sudato. Si toccò il viso e si rese conto di aver
persino pianto. Franky non c’era più al suo
fianco.
Si alzò dal letto e
barcollò in bagno senza nemmeno guardare che ore fossero,
sapendo soltanto che era ancora buio, con tutta l’intenzione
di gettarsi sotto il getto bollente della doccia che
l’avrebbe rilassata e avrebbe cacciato via
quell’incubo dalla sua testa.
Accese la luce e dopo un momento di
fastidio, riuscì a guardarsi allo specchio: il mascara le
era colato tutto sotto gli occhi e sulle guance a causa delle lacrime e
aveva i capelli in un aspetto pietoso.
Si mise seduta sul water per fare
la pipì e trasalì quando vide i suoi slip rossi,
anziché bianchi: erano completamente macchiati di sangue e
coaguli.
«No, non è
possibile», mormorò nel panico più
totale. Strappò alla rinfusa un po’ di carta
igienica e anche quella si inzuppò immediatamente di sangue
quando si pulì.
Iniziò a piangere come
una pazza isterica, continuando a ripetere che non era possibile. Ma
non molto tempo dopo si sarebbe accorta che anche il suo letto era
macchiato di sangue e che, accompagnata da suo padre al pronto
soccorso, il suo bambino non c’era più.
Le parole che le aveva detto e non
era riuscita a sentire nel sogno, le sentì in quel momento: «Ciao,
mamma».
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Capitolo 17 *** A love like ours ***
17.
A
love like ours
You won't find faith or hope down a
telescope
You won't find heart and soul in the stars
You can break everything, got the chemicals
But you can't explain a love like ours
Tom mugugnò
lamentosamente, col viso nascosto fra le braccia.
«Cos’hai, mal
di testa?», gli chiese Linda, seduta al suo fianco, che
beveva una tazza di caffèlatte caldo.
Fece di sì con la testa, continuando con i suoi versi
monocorde.
«Così magari è la volta buona che
capisci che non puoi più alzare il gomito come facevi da
ragazzino: non hai più
l’età».
Tom sollevò il capo e
con gli occhi piccoli, infastiditi dalla luce del lampadario, la
guardò in viso. Rimase a fissarla senza dire niente, fino a
quando lei non sbottò: «Che hai da
guardare?».
«Sei acida,
stamattina», biascicò passandosi una mano sul
viso. «E quando lo sei è perché sei
preoccupata».
Linda si alzò per andare
a posare la sua tazza vuota nel lavandino.
«Me ne vuoi
parlare?», concluse Tom, con tono premuroso.
La donna sospirò e si
voltò verso di lui, si avvicinò e si mise seduta
di traverso sulle sue gambe. Gli accarezzò una guancia
immergendo gli occhi nei suoi.
«Stanotte ho visto Franky», sussurrò,
facendo sobbalzare il chitarrista.
«D-Davvero?
C-come…?».
«Quando Gustav, Georg e
Bill ti hanno scaricato sul divano mi hanno svegliata involontariamente
e non sono più riuscita a dormire. Così mi sono
preparata una tisana e ad un certo punto lui è entrato in
casa, è passato di fronte alla cucina e io…
l’ho visto».
«Sei scossa per
questo?», le domandò comprensivo, spostandole un
ciuffo di capelli dalla guancia.
«No»,
dissentì con un cenno del capo. «Il fatto
è che piangeva. Era… disperato, sconvolto. Io non
sapevo cosa fare, ma poi l’ho abbracciato e… Fra
le mie braccia l’ho sentito così piccolo e
fragile… possibile che il suo dolore fosse così
grande? Siamo rimasti fermi così per ore, ma non sono
riuscita a consolarlo».
«Devo
parlargli», si affrettò a dire, già
pronto ad alzarsi mollando giù malamente Linda, ma lei lo
trattenne seduto posando le mani sul suo viso.
«Non
c’è, se n’è
andato», sussurrò appoggiando il volto su di esse
e poi su quello di Tom, fronte contro fronte, naso contro naso.
Il silenzio calò
inesorabilmente su di loro, si sentivano solo i loro respiri che si
fondevano l’uno nell’altro.
Il telefono squillò,
Linda si alzò e si portò la cornetta
all’orecchio. Non parlò, non ne ebbe il tempo.
Bill le spiegò tutto quello che era successo mentre loro
ancora dormivano e la pregò di avvisare anche Tom.
«Ma non è necessario che venga, sul
serio», specificò però e dal suo tono
di voce Linda capì che probabilmente non voleva nemmeno
vederlo, non per il momento almeno.
«Chi era?», le
chiese appena la vide rientrare in cucina, con una mano stretta a pugno
sul petto.
«Tuo fratello. Evelyn ha
avuto un aborto spontaneo».
Tom trattenne il respiro per
qualche secondo, poi liberò tutta l’aria che era
rimasta un po’ troppo nei suoi polmoni con un sospiro stanco.
Franky
che se ne va e Evelyn che ha un aborto spontaneo.
Non ci mise molto per capire che le due cose erano collegate, come la
maggior parte degli avvenimenti se c’entravano quei due.
***
Era stato un vigliacco a lasciarla
sola, ma non aveva potuto fare altrimenti.
Camminava con passo stanco e ogni
tanto si appoggiava alle pareti bianche degli edifici e alle vetrine
pulite che costeggiavano le strade che percorreva senza una meta.
Si sentiva distrutto, aveva voglia di cadere a faccia in giù
sul cemento e rimanere lì così, di essere preso
come un intralcio sul marciapiede oppure di essere calpestato, ma
sapeva che tutto quello non sarebbe mai avvenuto: era pur sempre il
Paradiso.
Continuò a camminare e senza quasi rendersene conto
arrivò al suo appartamento. Aprì la porta, la
chiuse mollemente alle sue spalle e, dopo aver gettato la sua borsa e
il suo skate per terra, iniziò a spogliarsi, seminando
indumenti lungo la strada per arrivare al suo letto sfatto.
Divorato com’era dal suo
dolore non si era nemmeno accorto che seduta sul bordo del letto
c’era Kim. Sentì soltanto le sue braccia
avvolgergli la schiena e i suoi capelli solleticargli la guancia. E poi
la sua voce, quella voce così diversa dalla sua, che non
avrebbe voluto sentire. Non voleva sentire la voce di nessuno eccetto
proprio la sua,
nonostante fosse quella di cui aveva più paura.
«Franky per fortuna sei
tornato, non ce la facevo più… Sono
così contenta di riaverti qui, che tu stia bene».
«Io non sto
bene», ruggì debolmente.
«Lo so che adesso
è dura, ma vedrai che ti passerà presto. Non te
ne ricorderai nemmeno più».
Cazzate. Cazzate!
Franky chiuse gli occhi, prese Kim per le braccia e
l’allontanò dal suo petto. Non voleva sentire
altre stronzate, era stanco e voleva stare un po’ da solo.
«Vai via, per
favore», mormorò.
«No, Franky, io non ti
lascio solo proprio in questo momento, te lo puoi
anche…».
«Ti ho detto di
andartene!», urlò col viso rosso di rabbia,
celando dietro le palpebre le ennesime lacrime che premevano per
scavare ancora una volta le sue guance.
Kim, intimorita, fece un passo
indietro, annullando ogni contatto fra loro, poi uscì
dall’appartamento. Ma non sbattè la porta, no, la
chiuse con delicatezza, una delicatezza che fece alterare ancora di
più l’angelo, che aveva solo voglia di spaccare
tutto.
Assieme alle lacrime quella volta
scivolò via dal suo corpo anche tutta la rabbia che aveva
contenuto dentro di sé per così tanto tempo. Il
suo appartamento fu come investito da un tornado e alla fine, quando la
tempesta si placò, Franky cadde senza più forze
sul letto. Si rannicchiò su un fianco come un bambino e
chiuse gli occhi. Cercò di trattenere in gola quei
singhiozzi, ma bruciavano maledettamente, come i suoi occhi che
continuavano a versare quelle stupide gocce di acqua e sale. Avrebbe
potuto piangere per ore, ma il dolore non sarebbe scivolato via con
loro, sarebbe sempre rimasto dentro di lui, a solidificarsi come
cemento sul suo cuore, rendendolo pesante, un peso troppo grande da
portarsi dietro.
***
Anche Evelyn era rannicchiata sul
suo letto, che piangeva ogni lacrima ancora rimasta. Il suo corpo
tremava e sobbalzava a causa dei singhiozzi, lo sentiva
così… vuoto. Quasi appassito, come il grande
fiore rosso che giaceva sul suo comodino.
Bill, al piano di sotto, aveva
appena terminato la chiamata che aveva fatto a casa di Tom. Aveva
parlato con Linda e sperava che suo fratello non lo raggiungesse:
avrebbe soltanto peggiorato le cose.
Era a pezzi, a pezzi veramente.
Aveva guardato sua figlia iniziare a piangere già in
macchina, mentre si mordeva le labbra con forza per trattenere dentro
di sé i singhiozzi; aveva ascoltato ogni suo respiro
strozzato, ogni volta che aveva tirato su col naso, ogni volta che la
sua testa dava quei piccoli colpetti al finestrino freddo. E non era
riuscito a fare niente: non l’aveva consolata, non
l’aveva stretta fra le sue braccia, aveva avuto vergogna
persino di guardarla e di ascoltarla piangere.
Quando aveva scoperto del bambino
ci era rimasto davvero male. Aveva sperato che decidesse di abortire e
in un certo senso si era anche arrabbiato perché non
l’aveva fatto, ma ora era distrutto perché quel
bambino che sarebbe dovuto nascere non c’era più e
Evelyn stava male. Il dolore di sua figlia lentamente era entrato anche
dentro di lui e l’aveva demolito. O meglio, smontato pezzo
per pezzo, facendogli ancora più male.
Sospirò pesantemente e
si diresse in cucina, preparò il thè e ne
versò un po’ in una tazza.
Forse non ne sarebbe stato all’altezza, ma doveva almeno
provarci. Sua figlia soffriva, doveva fare qualcosa.
Stava per salire le scale, quando
il campanello suonò. Chi poteva essere a quell’ora
di mattina? Un solo nome gli lampeggiò come
un’insegna al neon nella mente.
Lasciò la tazza sul tavolino del salotto e si diresse alla
porta con passo deciso, le labbra serrate in un’espressione
infastidita.
«Tom, avevo chiesto a
Linda di dirti che non era necessario che venissi, ma a quanto pare tu
fai sempre di testa tua!», sputò fuori a raffica,
tanto che quando realizzò che di fronte a lui
c’era una ragazzina dell’età di Evelyn
che lo guardava con le sopracciglia inarcate e gli occhi grandi era
troppo tardi.
«Ops», balbettò imbarazzato.
«Scusa, io ero convinto…».
«Già»,
rispose la ragazza con un sorriso altrettanto impacciato. Annuendo, il
pom-pom che aveva sulla cima del cappellino nero dondolò di
qua e di là.
«Tu
sei…?», la incalzò Bill, dopo qualche
secondo di silenzio che non aiutò per niente ad alleviare
l’imbarazzo d’entrambi.
«Oh sì,
giusto. Mi chiamo Margot e sono una compagna di classe di
Evelyn».
«Ma non dovresti essere a
scuola, adesso?».
«La scuola è
chiusa per le vacanze da ieri», spiegò,
guardandolo come se fosse scemo.
«Ah, è
vero…». Ormai, con tutto quello che era successo,
aveva perso il conto dei giorni. «Comunque piacere di
conoscerti. Evelyn non mi ha mai parlato di te…».
«Non ci siamo mai rivolte
la parola, a dir la verità», rimuginò
con gli occhi rivolti al cielo. «Ma questa è
un’altra storia».
«È una storia
che mi interessa, invece», disse bruscamente. «Vuoi
entrare un momento?».
«Ehm…
preferirei di no», indicò l’auto col
motore acceso dietro di sé,
«c’è il mio ragazzo che mi sta
aspettando. Sono solo passata a dare i compiti delle vacanze ad
Evelyn».
Bill sollevò il
sopracciglio. «E perché proprio tu, se non sono
indiscreto?».
«Nessuno voleva venire,
così il professore di matematica ha preso un nome a caso
– il mio, per l’appunto».
Il cantante socchiuse gli occhi e
sospirò amareggiato. Sua figlia era un’emarginata,
proprio come lui e Tom alla sua età. Loro però
avevano sempre potuto contare l’uno sull’altro, lei
non aveva nessuno.
«Okay»,
sfiatò ritornando alla realtà.
«Spiegami quali sono, poi glieli dirò».
Si sporse per vedere i libri e le schede che reggeva fra le mani, ma
Margot se li portò stretti al petto.
«In realtà
sarebbe meglio se spiegassi direttamente ad Evelyn ciò che
deve fare. Il professore si è raccomandato che capisse e che
quindi potesse esercitarsi al meglio, soprattutto in matematica,
perché sta rischiando molto quest’anno, con tutte
queste assenze…».
«E credi che sia colpa
sua, se fa tutte queste assenze?!», gridò
trattenendo a stento la rabbia.
La ragazza non rispose, rimase
lì impalata con i libri stretti al petto. Il suo ragazzo,
intanto, era sceso dall’auto e l’aveva raggiunta.
«Tutto bene?», le chiese, lanciando
un’occhiataccia al viso rosso del cantante.
«Sì»,
rispose lei con tono fiero. «Torna in macchina e aspettami,
penso che ci metterò più del previsto».
Con un gesto davvero poco educato spostò Bill
dall’ingresso ed entrò in casa. Il frontman non
poté far altro che seguirla.
Si mise seduta sul divanetto, di
fronte al tavolino su cui c’era la tazza di thè
ormai freddo, e vi poggiò sopra tutti i compiti delle
vacanze di Evelyn.
«Insisto, voglio spiegare a lei cosa deve fare durante le
vacanze», disse con un’espressione seria e decisa
sul volto, senza guardarlo.
«In questo momento
è impossibile, davvero», le spiegò
ancora una volta, ma Margot parve non sentire.
Infatti si alzò e si
guardò intorno, annuendo ogni tanto. «Scommetto
che la sua camera è al piano superiore»,
esordì ad un certo punto, indicando le scale di vetro.
«Vado ad annunciarmi da sola, se le scoccia».
«No, no, no.
Ferma», la bloccò un momento prima che
raggiungesse la scalinata. «E va bene, hai vinto»,
si arrese, più che innervosito.
«Io vinco
sempre», sorrise raggiante, inclinando la testa di lato e
saltellando di nuovo verso il divano, col suo pom-pom nero che
ballonzolava sul capo.
Bill salì le scale
lentamente, raggiunse la camera della figlia e fece un respiro profondo
prima di bussare. Non ricevette alcuna risposta, ma entrò
comunque. La vide rannicchiata sul suo letto, così piccola e
debole, che piangeva sotto le coperte. Salì a quattro zampe
sul materasso e le accarezzò il braccio con una mano, mentre
provava a sbirciare il suo viso sotto la coperta.
«Tesoro»,
sussurrò amorevole. «C’è una
tua compagna di classe in salotto, una certa Margot. Ti ha portato i
compiti delle vacanze e insiste per volerteli dare a te direttamente.
Ho provato a dirle che –».
«Scendo fra un
attimo», biascicò tirando su col naso,
interrompendolo.
«O-Okay»,
balbettò incredulo e scese dal letto.
Una volta che fu uscito dalla
stanza chiudendosi la porta alle spalle, Evelyn si tirò su a
sedere, appoggiò la schiena alla spalliera del letto e si
concentrò sul suo respiro, ancora irregolare.
Cercò di stabilizzarlo e quando si sentì pronta
si levò le coperte di dosso e si alzò.
Il fiore, appassito come lei,
rimase lì sul comodino, immobile. Non l’avrebbe
buttato, come non avrebbe buttato se stessa: era tutto ciò
che le ricordava che qualcosa dentro di lei era vissuto, anche se per
poco.
«Sta
arrivando», bofonchiò Bill, guardando severamente
la ragazzina seduta sul divanetto del suo salotto.
«Bene».
Margot guardò il
cantante sporgersi per prendere la tazza di thè che aveva
abbandonato sul tavolino e dirigersi in cucina con passo stanco. Non
era il Bill Kaulitz che si era immaginata molte volte: era un uomo che
soffriva, glielo si leggeva in faccia, in quelle occhiaie che gli
scavavano gli occhi sempre luminosi sulle riviste dei giornali, in quei
vestiti normalissimi, quasi trasandati.
Vedere Evelyn fu ancora più sconvolgente. Non era la stessa
Evelyn sua compagna di classe che aveva sempre visto con sguardo cieco:
i capelli arruffati, gli occhi gonfi e rossi di pianto, il viso
scavato, la felpa larghissima che le cadeva sulle gambe magre. Era il
ritratto della sofferenza.
«Ciao», le
disse con la voce roca, avvicinandosi a lei con passo incerto.
«Non dovevi disturbarti a venire fino a qui».
«Non ti
preoccupare», balbettò Margot, facendosi un
po’ più in là per farla sedere al suo
fianco. «Ero per strada. E poi da chi saresti andata a
chiederli?».
Bastò vedere gli occhi
di Evelyn abbassarsi miseramente per vergognarsi e desiderare di non
aver detto niente. A volte parlava davvero troppo e a sproposito. E il
peggio era che non riusciva a chiedere scusa. Mai.
«Comunque ti ho scritto
qui tutto quello che devi fare… Il prof di matematica mi ha
chiesto di spiegarti velocemente come fare un
esercizio…». La guardò per cercare di
capire se poteva spiegarglielo e nonostante si vedesse che non era
proprio il momento ci provò comunque e
scarabocchiò su un foglio i passaggi da fare. Quando le
chiese: «Hai capito?», lei annuì col
capo, ma si era accorta subito che non aveva seguito nulla di quello
che aveva detto: la sua testa era da un’altra parte,
completamente.
Sospirò e scribacchiò sullo stesso foglio il suo
numero di cellulare, poi si alzò. «Chiamami uno di
questi giorni, te lo spiegherò di nuovo».
«No»,
balbettò con gli occhi sgranati. «Non
c’è bisogno che ti scomodi ancora per me, me la
caverò…».
Margot la guardò con
un’espressione demoralizzata. Perché era stata lei
la sfigata che il prof aveva sorteggiato? Se lo continuava a domandare
e di certo stare dietro a quella ragazza disadattata non le faceva
chissà che piacere, ma ormai aveva preso un impegno ed era
decisa a mantenerlo.
«Non dire
stronzate», rispose alla fine e con quel sorrisetto
impertinente salutò sia lei che Bill, poi uscì da
casa Kaulitz.
«Che ragazzina
arrogante», esclamò quest’ultimo,
incrociando le braccia al petto.
Evelyn si alzò dal
divano senza dire niente, lasciò lì tutti i libri
e il foglio che Margot le aveva portato e si diresse di nuovo verso le
scale.
«Hai fame? Vuoi qualcosa?
È quasi l’ora di pranzo e non hai fatto nemmeno
colazione stamattina…», la rincorse Bill,
preoccupato.
«No, non ho fame,
grazie», soffiò e lentamente sparì al
piano superiore, sotto lo sguardo afflitto di suo padre, che poi si
piazzò di fronte alla tv, lo sguardo fisso su di essa,
seppure fosse spenta.
Se ci fosse stata Zoe… lei avrebbe saputo sicuramente cosa
fare.
Con calma si risistemò
sotto le coperte, si rannicchiò in posizione fetale, le
ginocchia in gola, e chiuse gli occhi, come se nulla fosse successo e
tutto fosse normale.
«Non
hai nulla che non va, gli aborti alle prime settimane sono molto
frequenti. Ed è stato meglio così»,
le aveva detto un medico mentre firmava una cartellina, sorridendo
cordiale. «Avendo
questa emorragia hai evitato il raschiamento».
«È
stato meglio così, piccina»,
le aveva detto poi un’infermiera accarezzandole i capelli
sulla testa, fino ad arrivare alla sua guancia, sul suo viso pallido e
ancora segnato dal trucco nero. «Sei
ancora troppo piccola per avere un bimbo».
Quelle parole continuavano a
rimbombarle nella testa, ad infilzarle il cuore. Tutti le avevano detto
che era stato meglio così, nessuno aveva capito che per lei
non lo era stato affatto.
Quel bambino che non aveva mai visto – solo in sogno quella
notte, – quel bambino che però era nato e
cresciuto in lei, quel bambino che in termini medici non era altro che
un ovulo cieco, una vita ancora non iniziata, era ciò che
più aveva voluto al mondo. E non c’era
più.
Si sentiva inutile, priva di vita, svuotata. Sola, tremendamente sola.
***
«Devo andare,
adesso», sussurrò Linda posandogli da dietro le
mani sulle spalle. Gli baciò la guancia destra e
guardò per qualche secondo il suo viso pensieroso, il suo
sguardo assente.
«Vedrai che tornerà», gli avvolse il
collo con le braccia, nascondendo il viso contro la sua nuca.
«Ci vediamo dopo, occupati di Arthur».
Tom la salutò con un
gesto della mano e un sorriso appena accennato, poi si alzò
e sistemò nei mobili della cucina i cereali che mangiavano
lui e Linda e la confezione di brioche. Sul tavolo lasciò
soltanto il necessario per la colazione del figlio.
Camminò lungo il corridoio buio a causa del cielo livido ed
entrò nella cameretta di Arthur, sicuro di trovarlo ancora
addormentato. Ma il suo letto sfatto era vuoto.
«Arthur?», lo
chiamò con una certa preoccupazione nella voce.
«Arthur, dove ti sei cacciato?».
Controllò in bagno e nella camera da letto, ma non lo
trovò. «Non ho proprio voglia di giocare a
nascondino, non è giornata, quindi è meglio se ti
fai trovare».
Attraversò di nuovo il
corridoio, dalla parte opposta, diretto verso lo studio dove teneva
gelosamente custodite le sue chitarre e il pianoforte. Passando di
fronte alla camera degli ospiti però, notò che la
porta era socchiusa. La spinse in avanti con una mano e seduto sul
bordo del letto, col viso rivolto verso la finestra, vide il piccolo
Arthur, che muoveva le gambe avanti e indietro.
Tirò subito un respiro
di sollievo, poi accennò un sorriso e, ancora appoggiato
allo stipite della porta, disse: «Ehi piccolo, che ci fai
qui?».
«Aspetto», gli
rispose con la sua vocetta ancora un po’ assonnata. «Aspetto
che Franky torni a casa».
Tom notò per la prima
volta quanto fosse spoglia quella camera. Non era come le altre volte,
se n’era andato portandosi dietro tutte le sue cose. Non era
rimasto nulla di lui in quelle quattro mura, il che stava a significare
che non aveva intenzione di tornare tanto presto. Ma suo figlio, forse
un po’ ingenuamente, lo stava aspettando.
Si commosse e si avvicinò al corpicino di Arthur, si mise
seduto al suo fianco e guardò anche lui fuori dalla
finestra: aveva iniziato a piovere.
«Posso aspettare qui con
te?», gli chiese in un sussurro.
Il bimbo annuì e gli
prese la mano nella sua piccina.
***
Zoe aprì gli occhi al
cielo plumbeo sopra la sua testa. C’era profumo di pioggia
nell’aria.
Quella mattina si era svegliata
inquieta, certa che qualcosa fosse successo. Di sotto, di
sopra… non lo sapeva. Forse da tutte e due le parti, era
quella la sensazione che avvertiva.
Di lì a poco avrebbe piovuto e non aveva alcuna paura di
bagnarsi, anzi avrebbe tanto voluto camminare un po’ sotto la
pioggia, lasciarsi bagnare e lasciare che l’acqua la
purificasse, portandosi via tutti i segni della sua silenziosa
sofferenza.
«Zoe», la
chiamò una voce potente e allo stesso tempo amorevole. La
donna si voltò e sorrise andando incontro a San Pietro.
«Salve, che ci fa da
queste parti?», gli domandò.
«Questa domanda dovrei
farla io a te… Hai intenzione di fare la doccia con
l’acqua piovana?».
Zoe sorrise. «Deve dirmi
qualcosa?».
«Ti accompagno
dentro».
A braccetto raggiunsero la
struttura ospedaliera, vi entrarono e il santo la accompagnò
fino alla sua stanza, nella quale finalmente si decise a parlare.
«Si tratta di tua figlia».
Zoe chiuse gli occhi, sentendo il
cuore pomparle il sangue nelle vene fin troppo velocemente.
«Che le è successo ancora?».
«Ha perso il bambino che
aveva in grembo». Lo disse con tranquillità, come
se fosse alla regola del giorno dare una notizia del genere. Lui stesso
non credeva che potesse dirle una cosa tanto delicata in modo
così pacato.
«Mi sta prendendo in
giro, vero?».
San Pietro scosse il capo,
sconsolato. «Temo di no».
Rimase per un po’ in
silenzio, il viso stropicciato e i pugni stretti sulle ginocchia.
Pensò alla sua bimba, così piccola e che aveva
già dovuto affrontare così tante
difficoltà sul suo percorso, tra cui la perdita di un figlio
che voleva con tutta se stessa. Il dolore più grande che una
donna potesse provare, lei lo stava già provando sulla sua
pelle. Ricordò i suoi occhi pieni di determinazione e di
amore per quel cucciolo che era ancora un esserino minuscolo nella sua
pancia, ricordò come lo aveva difeso da tutto e da
tutti… Ed immaginò i suoi occhi odierni: scuri,
privi di luce, sconfitti.
«C’è
un’altra cosa che volevo dirti», aggiunse San
Pietro, infiltrandosi fra i suoi pensieri con timidezza e
circospezione, per non turbarli troppo.
«Mi dica»,
mormorò senza sollevare il viso.
«Franky è
tornato di sopra, se vuoi vederlo». Anche
se credo che sia lui ad aver bisogno di vedere te.
Zoe lo guardò negli
occhi e fece segno di sì con la testa, si alzò e
col suo passo veloce, anche se stanco, raggiunse il palazzo in cui si
trovava l’appartamento del suo angelo custode. Fuori dalla
porta, seduta con la schiena al muro, c’era Kim.
«E tu che ci fai
qui?», le domandò l’angelo speciale,
appena la vide arrancare verso di lei, col fiato grosso.
«Sono venuta a trovare il
mio angelo custode, non posso?». Si voltò verso la
porta e bussò, chiamandolo.
«Credi che se volesse
vedere qualcuno io me ne starei qui fuori?», le
domandò Kim con un tono un po’ arrogante, ostile,
con le sopracciglia inarcate.
Zoe si girò lentamente
ed inchiodò i suoi occhi infuocati in quelli di Kim.
«Stai insinuando che io, io
valgo meno di te? Che Franky, solo perché non vuole vedere
te, non vuole vedere me?».
Mentre parlava la sua voce continuava ad alzarsi, un'ottava alla volta,
e le sue mani gesticolavano sempre di più, indicandola ed
indicandosi. «Sei proprio fuori strada. Io e lui abbiamo un
legame indissolubile, ci conosciamo da quando siamo piccoli
così… Come ti permetti di dire queste
cose?». Furente, prese di nuovo a pugni la porta, gridando:
«Franky, cazzo, vuoi aprirmi?!».
Kim si alzò in piedi e
con tono insolente, anche se aveva il viso rosso porpora,
esclamò: «Si da il caso che io e Franky in questo
periodo siamo diventati piuttosto intimi!».
«Cioè,
scopate?». La guardò col sopracciglio sollevato,
un sorrisetto beffardo sulle labbra. «Il sesso non conta
nulla per avere un legame profondo come il nostro. Con Franky non
è mai stato così, perlomeno».
La serratura della porta
scattò con rumori lenti, calibrati, e questa si socchiuse,
poi si aprì tanto da far vedere la figura di Franky.
Sembrava più magro, il viso scavato e pallido, le occhiaie
che gli contornavano gli occhi opachi, le labbra sottili
involontariamente incurvate all’ingiù. A Zoe le si
spezzò il cuore vedendolo così.
«Che cosa ti è
successo?», gli domandò con un fil di voce.
«Niente»,
gracchiò con la voce roca, quella che Zoe conosceva bene: ce
l’aveva la mattina, appena sveglio, oppure quando
piangeva…
«È la riabilitazione che è molto
dura», si affrettò ad aggiungere, infatti.
Zoe fece finta di crederci ed
entrò nell’appartamento accarezzandogli il
braccio. Kim allora si avvicinò per fare la stessa cosa, ma
si ritrovò con la porta sbattuta in faccia.
Non fu tanto forte da risedersi spalle al muro ad aspettare, se ne
andò, arresa. Galoppò giù le scale,
uscì in strada, sotto la pioggia che aveva iniziato a
cadere, e si coprì la testa col cappuccio della felpa che
indossava.
Camminò per un
po’, il viso basso e le mani affondate nelle tasche della
felpa, guidata soltanto dalle sue gambe. Pensò a Franky e a
ciò che le aveva appena detto Zoe, a quelle parole che le
avevano fatto così male, proprio perché erano
veritiere. Lei non poteva pretendere di essere come lei oppure come
Evelyn. Franky non l’amava, non l’avrebbe mai
amata.
Una spalla forte si
scontrò contro la sua, facendola barcollare di lato ed
appoggiare con una mano al muro. Si voltò senza essere
realmente interessata a scoprire chi fosse stato ed incrociò
un paio di occhi chiari, infossati in un viso delicato come cristallo.
Lo riconobbe con un tuffo al cuore. Ai suoi occhi anche Raphael parve
sentire il tonfo sordo di quel pezzo di piombo che cadeva nelle acque
dei ricordi.
«Scusa», le
disse con le labbra dischiuse, incredulo e allo stesso tempo impaurito
come un bimbo. C’era di più del perdono per quella
spallata. Ce n’era un’altra ben più
forte, che l’aveva scagliata ben più lontano, per
la quale voleva scusarsi.
Kim rimase lì, in
silenzio ad osservarlo. Aveva i capelli biondi appiccicati alla fronte,
che gli gocciolavano sul viso.
«Non importa».
Lo disse anche se non lo pensava davvero. La spallata che le aveva dato
molti anni prima, quella che l’aveva definitivamente divisa
dal suo amore, quella che l’aveva uccisa dentro, era ancora
lì a farle male. Non una steccatura, non una
fasciatura… nessuno si era occupato di curarle quella
frattura che col passare del tempo era diventata una spaccatura
impossibile da sistemare. Poi era arrivato lui,
l’antidolorifico, la dose di morfina che l’aveva
fatta sorridere di nuovo, ma che riusciva anche a farla piangere e star
male. Lui era riuscito a restituirle l’amore,
l’odio, la gioia, la paura… tutti i sentimenti
possibili ed immaginabili. Era riuscito a farla rivivere. Il nipote del
suo Pete, quello che non aveva mai conosciuto.
Chiuse gli occhi alle lacrime e si
voltò, riprese a camminare fra i passanti, stando attenta a
non sfiorare nessuno. Sentì i suoi passi rincorrerla e la
sua voce chiamarla. Ma non si fermò.
Scappò da Raphael, dai ricordi, fino a quando non
sentì più nessuno dei due inseguirla a
perdifiato.
Franky appoggiò
l’orecchio contro il cuore dell’amica. Chiuse gli
occhi, rilassato da quel tum-tum regolare e dalla sua mano che gli
accarezzava docilmente i capelli, dalla fronte alla nuca e viceversa.
«San Pietro mi ha detto
quello che è successo ad Evelyn»,
esordì Zoe a voce bassa, per non infrangere quel clima di
pace che si era creato intorno a loro, su quel letto sfatto ormai da
chissà quanto.
Franky, per non far percepire la
sua improvvisa rigidità, cambiò posizione e
posò il capo contro la sua pancia un po’ molle,
che aveva creato la vita.
«Vorrei poter stare con
lei in questo momento», continuò.
«Vorrei poterla abbracciare, dirle che è tutto a
posto, che quando sarà il momento potrà
riprovarci e vivere pienamente la gioia di essere mamma».
L’angelo si mise supino.
Sul soffitto bianco vide l’immagine di lui ed Evelyn, che
correvano per prati infiniti, colmi di fiori, fino ad attraversare un
campo di grano e poi uno di girasoli. Quando si fermarono, stanchi e
sorridenti, si vide anche il bimbo che tenevano per mano: il loro
bimbo, che rideva senza fiato, gli occhi colmi di felicità.
«Ma non posso…
mi sento priva di forze da quando il pezzo della tua anima è
nel mio corpo. Quindi…».
Franky lesse prima della sua lingua
i suoi pensieri e si tirò seduto, con le gambe a farfalla,
che agitava con le mani che univano i piedi.
«Anche io sono molto stanco da quando ti ho dato il pezzo
della mia anima e la riabilitazione è molto faticosa, mi
sottrae un sacco di energia… E poi non saprei nemmeno come
fare, io…».
Zoe gli prese il viso fra le mani e
fuse i suoi occhi color del mare in quelli verdi dell’angelo.
«Tu te la cavi sempre, in un modo o
nell’altro», sussurrò con un sorriso.
«Fallo per me, Franky. So che non riesce a vederti, ma...
voglio che tu le stia vicino, almeno per un po’».
Quello che gli stava chiedendo
inconsapevolmente era una tortura. Era come buttarsi nel fuoco e ridere
del proprio corpo che brucia. Era come buttarsi nel mare in tempesta e
spalancare la bocca autonomamente e brindare alla propria fine. Era
troppo, troppo. La ferita era ancora troppo fresca, ancora troppo
giovane ed indifesa nel suo cuore, non poteva davvero affrontare di
nuovo la spada del dolore brandita da Evelyn senza nemmeno un misero
scudo. Il primo colpo sarebbe stato quello mortale.
Poi pensò alla sua anima
a brandelli, ai pezzi mancanti e a quelli che ancora possedeva e che
non avrebbe esitato a donare se ce ne fosse stata la
necessità. Perché non doveva essere
così anche per il suo cuore ferito? Il suo compito non era
quello di soffrire ed aver paura di star male, ma di stare vicino ai
più soli, di curare i feriti, di dare forza ai
più deboli. Era quello il suo compito, soprattutto con i
suoi amici e con le persone che amava. Perché sarebbe stato
disposto a dare la vita per loro, ad affrontare tutto il male del mondo
se richiesto. Tutta quella paura era inutile. Evelyn aveva bisogno di
lui e lui doveva esserci per lei, a qualsiasi costo, anche della sua
stessa vita, del suo stesso cuore, della sua stessa anima.
«Lo
farò», disse esalando un respiro che non sembrava
l’ultimo, ma il primo: non quello di morte, ma di nascita.
Zoe lo abbracciò e lo
strinse forte al petto, una mano sulla sua nuca.
We're just trying to find some meaning
in the things that we believe in,
but we got some ways to go
Nelle ore successive, Franky
preparò con cura tutto ciò che avrebbe dovuto
portarsi di sotto e sistemò, con l’aiuto di Zoe,
il suo appartamento disastrato. Le aveva detto più volte di
non affaticarsi inutilmente, che ci avrebbe pensato lui, ma lei aveva
sorriso e gli aveva risposto che era da tanto tempo che non faceva un
po’ di lavori domestici.
«E ti mancano?».
«Non avrei mai pensato di
dirlo… ma mi mancano, sì».
L’aveva stretta in un
forte abbraccio, le aveva accarezzato i capelli.
Quando tutto fu sistemato, Franky
l’accompagnò in ospedale, dove crollò
come un sasso appena sdraiata sul suo letto. L’angelo la
guardò con infinita tenerezza: sembrava una bambina. Le
sfiorò il viso con il dorso della mano, le baciò
la fronte e poi se ne andò.
Camminò col tramonto
alle spalle e giunse all’abitazione di Kim. Bussò
alla porta, senza nulla in mano, ed attese che gli venisse ad aprire.
Sempre se era in casa… Aspettò per qualche minuto
e quando ormai si era voltato per andarsene la porta si aprì.
«Franky»,
soffiò Kim sorpresa, immobile all’ingresso.
«Ciao», rispose
imbarazzato, portandosi una mano sulla nuca. «Ti
va… di fare due passi?».
Kim lo seguì sorridendo,
nonostante sentisse già quello che le avrebbe detto,
chiudendo sbadatamente la porta di casa già alle sue spalle.
Il sole di quella sera non sembrava
voler calare, non voleva abbandonare la sua battaglia. Aveva sconfitto
la pioggia, qualche ora prima, e ora voleva sconfiggere anche la luna,
la sua rivale da sempre. Non voleva affogare nel buio, non voleva che
tutti i suoi fratellini più piccoli – le stelle
– lo prendessero in giro dall’alto. Voleva
illuminare ancora per un po’ gli alberi e gli uccellini che
cinguettavano sui loro rami, tutta la natura e tutti gli esseri viventi
e non viventi del suo mondo, tra cui anche Franky e Kim, seduti su una
panchina del parco, proprio di fronte a lui.
«È
bellissimo», sussurrò l’angelo speciale,
unendo le mani in grembo. Franky notò quel gesto e la prima
cosa che pensò fu la maternità, a quel movimento
così spontaneo quando il centro della vita è
proprio il ventre della donna. Pensò al suo bimbo, alle
lacrime sue e di Evelyn, alla sofferenza che aveva portato a molte
altre persone inseguendo un sogno irrealizzabile.
«Sì»,
concordò socchiudendo gli occhi, lasciandosi baciare il viso
dal sole e godendosi il suo calore.
«C’è
un motivo ben preciso se mi hai chiesto di venire con te,
vero?», esordì Kim dopo qualche altro minuto di
contemplazione dell’orizzonte. «Non voglio
più aspettare, dimmelo».
Franky le prese il mento fra le
dita, le voltò il viso verso il suo e la guardò
intensamente negli occhi. Poi sorrise. «Io non sono mio
nonno».
Kim abbassò le palpebre,
ma una lacrima riuscì lo stesso a scivolarle sulla guancia.
«Gli assomigli così tanto…».
«Ma non sono
lui», ribadì con dolcezza. «Io non
potrò mai rimpiazzarlo, Kim. Prima o poi ti saresti accorta
che sono un patetico falso, un Pete made in China», le
strappò un sorriso. «È giusto che tu
ti rifaccia una vita tua, come lui si è rifatto la sua,
senza cercare Pete in ogni ragazzo che incontri. Non dico che devi
dimenticarlo, sono certo che nemmeno lui l’ha mai fatto,
però… è ora che tu ritorni ad amare
qualcuno per quello che è, non per quanto somiglia al tuo
amore passato».
«Sembra così
difficile, anche a parole…».
«Se fosse troppo facile
che gusto ci sarebbe? È più bello sorridere e
sentirsi bene dopo una grande fatica, no? Si ha il doppio della
soddisfazione. Io l’ho sempre pensata
così».
Kim lo guardò negli
occhi e si lasciò asciugare la lacrima solitaria che ancora
indugiava sul suo mento, poi affondò il viso nel suo petto.
Franky era davvero un esempio da imitare, non l’avrebbe mai
dimenticato. «Grazie», mormorò, davvero
grata per ciò che aveva fatto per lei, seppur
inconsapevolmente.
L’angelo non rispose, le
diede un buffetto sulla testa. «Scusa per come mi sono
comportato prima, ero proprio…».
«Non ti preoccupare, ho
capito benissimo come ti sentivi». Si perse
un’ultima volta in quei prati immensi nei suoi occhi, poi gli
accarezzò una guancia e sorrise: «Beh, che cosa
stai aspettando ancora? Devi andare, adesso».
Franky annuì, si
alzò dalla panchina e con il suo passo ancora affaticato
accennò una corsa. Kim lo guardò allontanarsi,
finché non divenne un puntino lontano. Allora si
girò e guardò l’ultimo spicchio di sole
cedere e ritirarsi sconfitto, lasciando il posto alla luna. Una luna
che quella notte sembrava un sorriso, aperto e sincero che le
ricordò quello di Raphael.
Of all of the things that she's ever
said,
she goes and says something that just knocks me dead
***
Era stata un’idea di
Linda. Vedendoli così giù di morale aveva deciso
di fare qualcosa e quella di addobbare casa per il Natale era stata
davvero una bella trovata. Li aveva distratti, li aveva fatti pensare
ad altro, li aveva fatti ridere.
Tom guardò la parte
dietro dell’abete che Linda gli aveva fatto tirar fuori dal
garage e si accorse che avevano riempito tantissimo la parte davanti,
lasciando l’altra quasi spoglia.
«Tanto non si vede
dietro», gli sussurrò Arthur, facendolo
ridacchiare.
«Che confabulate voi
due?», chiese la donna, infilando la testa fra le loro e
guardandoli con occhi indagatrici.
«Niente
amore!», disse prontamente Tom, caricandosela su una spalla e
trasportandola fino al divano, dove la lasciò cadere
ridendo. Si scambiarono qualche bacio, Arthur si era voltato verso
l’albero e si era messo a giochicchiare con una pallina di
plastica rossa, su cui riusciva a specchiarsi. Il suo viso sembrava
più grosso, era strano, lo faceva ridere.
«Dopo devi andare a
mettere le luci fuori, come abbiamo fatto l’anno
scorso», disse Linda a Tom, mentre gli passava una mano fra i
capelli.
«Come io
ho fatto l’anno scorso, altro che balle! Ho rischiato persino
di cadere dal tetto!».
«Però hai
combattuto un po’ la paura dell’altezza!».
«No, per
niente», scosse il capo.
«Beh, allora ci
salirò io lassù…»,
sospirò con un’espressione di finta delusione e di
arrendevolezza sul volto.
«Non se ne parla
proprio!», squittì il chitarrista, spaventato.
Linda allora sorrise raggiante.
«Sapevo che l’avresti fatto, grazie
Tomi». Gli stampò un forte bacio sulla bocca,
prendendogli il viso fra le mani, poi guardò suo figlio
Arthur che giocava con quella pallina rossa.
«Mamma», la
chiamò questo, senza girarsi per paura di vederli ancora a
scambiarsi quelle smancerie.
«Dimmi tesoro».
«Perché noi
abbiamo l’albero finto? Tutti i miei amici ce
l’hanno vero e anche all’asilo ce
n’è uno grande grande, che profuma tantissimo.
Questo… non profuma».
Tom si mise seduto al suo fianco, a
gambe incrociate, e guardò l’albero dal basso
verso l’alto. «Noi vogliamo bene alla
natura». Il bambino lo guardò incuriosito.
«Gli alberi veri dopo un po’ muoiono stando al
chiuso e vengono buttati. Sappiamo che la tradizione tedesca vuole
l’abete vero per fare l’albero di Natale, ma non
è giusto che muoiano così tanti alberi per quello
che dovrebbe essere solo un simbolo di questa festa. Sei
d’accordo con me?».
«Sì».
Dondolò il capo avanti ed indietro, sorridendo.
«Non voglio che gli alberi muoiano».
Tom gli passò
affettuosamente una mano fra i capelli. «Sei proprio un bravo
bimbo, sai? Spero che quest’anno Babbo Natale ti premi come
si deve». Si voltò verso Linda e le fece
l’occhiolino.
«Già»,
concordò lei, stando al gioco. «Uno di questi
giorni dovremo scrivere insieme la letterina, non l’abbiamo
ancora fatto…».
«Hai già in
mente qualcosa da chiedere?», gli chiese Tom dandogli delle
piccole gomitate sul braccio, come se fosse un suo vecchio amico e gli
stesse chiedendo di rivelargli un segreto.
Arthur alzò gli occhi al
cielo e si portò un dito al mento, meditabondo.
All’improvviso il suo sguardo si accese di
felicità e urlò: «Franky!».
Gli occhi di Tom si incupirono.
«Piccolo, lo so che vorresti che Franky tornasse, ma non
penso che Babbo Natale sia in grado di…».
Ma il bimbo parve non ascoltarlo, si alzò in piedi e corse
verso l’ingresso dove, appoggiato con una spalla al muro, si
trovava l’angelo, con un sorriso docile sul viso.
«Franky, sei
qui!», gridò Arthur contento, avvolgendogli le
gambe con le braccina corte.
L’angelo
ridacchiò e si inginocchiò di fronte a lui per
guardarlo meglio in viso. Arthur non somigliava molto al bambino
partorito dalla sua mente, ma nei suoi occhi c’era la stessa
allegria, la stessa vitalità; sul suo sorriso si attardavano
mille sogni, mille amori, proprio come su quello di suo figlio. Suo
figlio che non c’era più.
Franky abbassò lo sguardo e si morse le labbra per
trattenere le lacrime, ma invece di allontanare Arthur alla sua vista
lo avvicinò a sé e lo strinse forte, posando una
mano sulla sua nuca e l’altra sulla sua schiena. Sentiva il
suo cuore battere contro il suo petto, il suo respiro sul suo collo, i
suoi capelli sfiorargli la guancia; il suo profumo gli invadeva i
polmoni e il suo calore… un calore di bambino, uno di quelli
che entra persino nelle ossa.
Le gambe dell’angelo si
intorpidirono presto e per questo fu costretto a cadere col culo a
terra, trascinando con sé il bimbo, che rise divertito
guardandolo negli occhi.
«Sei caduto», lo prese in giro, indicandolo.
«Anche gli angeli
cadono», gli rispose con il sorriso più sincero,
un sorriso comandato dal cuore.
«E gli angeli piangono
anche?», gli domandò incuriosito, avvicinando le
dita ai suoi occhi.
Franky li chiuse e posò
le manine di Arthur su di essi, le guidò ad asciugargli le
lacrime, poi li riaprì e sorrise. «Qualche volta,
sì».
«Adesso non devi
più piangere, sei tornato a casa!», gli disse con
semplicità, aprendo le braccia come se volesse aprirgli il
portone di una magnifica reggia, in cui rifugiarsi e vivere felice.
Franky sorrise commosso. Gli diede
un bacio sulla fronte, ringraziandolo, poi si alzò ed
incrociò per la prima volta gli occhi di Linda, che gli
sorrise apprensiva come una mamma, ed infine quelli di Tom, lucidi per
ciò che aveva appena visto: un miracolo.
«Ehi nonno, spero che la
stanza degli ospiti sia ancora libera!», esclamò
con gli occhi ridenti, indicando i bagagli sistemati accanto alla porta
d’ingresso. «Questa volta prevedo un alloggio
più lungo e stabile».
Tom si alzò lentamente
da terra, qualche osso delle ginocchia scricchiolò. Gli
sorrise come si sorride solo ai migliori amici, quelli che ti riempiono
il cuore di gioia solo con la loro presenza, poi si portò le
mani sui fianchi e il suo sorriso divenne un sogghigno: «Hai
visto per caso la scritta “albergo” fuori dalla
porta?».
Non l’aveva mai fatto
prima, forse perché non voleva dare l’impressione
che sarebbe stato molto tempo in quella casa, ma quella sera
svuotò il borsone che si era portato dietro e
sistemò i propri vestiti nell’armadio.
Tom lo osservò stirare con le mani le felpe e metterle una
accanto all’altra sugli ometti; lo stesso fece con i jeans.
Un paio di cappellini li lasciò su una vecchia scatola che
non ricordava più cosa contenesse, sul fondo
dell’armadio.
«Ma sei venuto poi, alla
festa?», gli domandò corrugando la fronte,
sedendosi sul letto matrimoniale al centro della stanza.
«Sì,
certo», annuì distrattamente. Andò di
fronte allo specchio appeso affianco all’armadio e si
guardò il viso, con le mani sulla testa. «Tu ti
sei ubriacato e Bill ha dovuto ballare con una ragazza
sconosciuta».
«È sconosciuta
anche per te?».
«Ho provato a leggerle
nei pensieri, spinto dalla curiosità, ma non ci sono
riuscito. Non credo che fosse una ragazza normale, comunque».
«Che cosa intendi dire?
Che era un angelo?».
«Può darsi.
Non lo so».
Tom bofonchiò e si
stravaccò ancora meglio sul letto, le spalle contro la
testata e il cuscino sotto al sedere. «E poi, dopo la festa,
cos’è successo?».
Franky serrò le labbra e
socchiuse gli occhi che di colpo si erano spenti. Osservò
l’amico attraverso lo specchio ed accennò un
sorriso. «Linda te l’ha raccontato,
quindi».
«Certo che me
l’ha raccontato», borbottò. «E
voglio sapere da te che cos’è successo».
L’angelo non rispose,
rimase fermo immobile di fronte allo specchio, come uno scolaretto che
non sa la risposta alla domanda che la maestra gli ha appena posto. Il
chitarrista allora si alzò e lo spronò ancora a
parlare, ma Franky scosse il capo e si portò le mani sul
viso.
«Ma che ti
prende?», gli chiese un po’ infastidito e
prendendolo per le spalle lo fece voltare verso di sé.
L’angelo si appoggiò al suo petto con le mani
ancora sul volto, tremante, e si lasciò abbracciare in modo
incerto da Tom.
«Il mio
bambino», sussurrò con la voce che andava e veniva
a causa del nodo che aveva in gola. «Il mio
piccolo…».
Tom alzò lo sguardo e
vide la sua immagine riflessa nello specchio. L’espressione
sconvolta sul suo viso gli fece capire che, seppure non
l’avesse ancora realizzato, aveva capito quello che
probabilmente era successo.
***
«Prima o poi dovrai
rincominciare ad usarlo».
Evelyn si voltò verso il
suo motorino color perla e rimase a fissarlo per qualche secondo. Era
dal giorno dell’incidente che non ci saliva, che non sentiva
l’aria gelata entrarle nel casco e scompigliarle i capelli.
Non sapeva bene il perché, però: non per paura,
forse non ne aveva soltanto sentito la necessità.
«Ma ora che te
l’ho detto non azzardarti ad usarlo: in questo periodo
c’è il ghiaccio sulle strade, rischieresti di
cadere e non voglio più entrare in ospedale se non per tua
madre».
La ragazza guardò il
viso serio del padre illuminarsi all’ultimo grazie ad un
sorriso. Salì in macchina al suo fianco ed
appoggiò le ginocchia contro il portaoggetti, mentre il suo
sguardo scrutava il paesaggio fuori dal finestrino.
Erano ancora fuori orario di
visita, ma l’infermiera chiuse un occhio per
l’ennesima volta. Avrebbero dovuto fare un monumento a quella
donna buona.
Evelyn invitò il padre
ad entrare nella stanza della madre con il braccio steso, accennando un
sorriso mesto. «Vai prima tu».
Si mise seduta su una di quelle poltroncine blu e rimase in attesa.
Istintivamente unì le mani sul ventre e quando se ne accorse
si morse le labbra e si portò una mano a reggere la fronte,
fra i capelli che le coprivano il volto.
***
«Non credevo di tornare
così presto», mormorò, gli occhi
rivolti al soffitto. Tom era steso sul fianco, accanto a lui: lo
ascoltava parlare e guardava i movimenti impercettibili sul suo viso
chiaro.
«È stata Zoe a convincermi. Cioè, lei
mi ha chiesto di scendere e stare vicino ad Evelyn per un
po’, visto il momento delicato. Inconsciamente mi ha chiesto
di stare vicino alla ragazza che…».
Sospirò e si mise anche lui girato sul fianco, dando le
spalle all’amico. «Ho paura di vederla»,
soffiò. «Ho paura del suo dolore,
perché è lo stesso che provo anche io».
«E non credi che insieme
soffrireste di meno?», gli domandò a bassa voce,
osservando le ali sulla schiena dell’angelo: erano cresciute,
rispetto a quando l’aveva visto l’ultima volta, ma
erano ancora piccole. «Insieme siete più
forti».
«Insieme siamo degli
imbecilli», mugugnò. «Non sappiamo far
altro che metterci nei guai, che complicarci la vita fino
all’impossibile».
«Avete bisogno
l’uno dell’altro, non potete farci niente
ormai».
Franky si girò verso di
lui con uno scatto brusco e lo guardò negli occhi con una
scintilla nei suoi. «Ma tu da che parte stai, esattamente?
Dicendo queste cose non fai altro che convincermi a fare cose che non
dovrei fare!».
«Vorrei che tu fossi
felice, senza però trasgredire le tue regole.
Perché ti voglio bene, Franklin».
L’angelo dischiuse le
labbra e lo guardò con occhi colmi di sorpresa.
C’era anche l’affetto, ma se ne stava dietro le
quinte, anche se premeva tanto per calcare il palcoscenico, esibirsi
nella sua danza e ricevere i suoi applausi.
«Stupido»,
bofonchiò sorridendo, tirandogli un calcio sullo stinco.
Un bussare lieve impedì
la bisticciata vecchio stile che ci sarebbe stata sicuramente. Linda
entrò nella camera timidamente, per paura di interrompere
qualcosa di importante. «È pronta la
cena», disse.
«Arrivo!». Tom
balzò giù dal letto come un ragazzino ed
uscì dalla stanza correndo per raggiungere il suo posto a
tavola. Franky rimase steso sul letto, probabilmente avrebbe fatto un
pisolino.
Linda però non si mosse dalla soglia, rimase lì,
ancora col grembiule legato in vita. Franky la guardò negli
occhi e corrugò la fronte, non capendo che cosa stesse
aspettando.
«Perché non
vieni anche tu?», gli domandò, incerta.
«Io non posso
mangiare», le rispose sbigottito. La cosa era talmente ovvia,
perché glielo chiedeva?
«Sì, lo
immaginavo», sorrise. «Ma potresti stare con noi
comunque, invece di startene qui tutto solo».
Era una proposta insolita. Negli
ultimi vent’anni non era mai stato seduto a tavola con la
compagnia di qualcuno, di una famiglia… Accettò
volentieri.
***
Quando suo padre uscì
dalla stanza di sua madre si era accorta subito che non aveva pianto.
Da un po’ di tempo ormai non versava lacrime vedendola stesa
immobile su quel letto d’ospedale, ma i suoi occhi avevano
perso la loro luce, velati dall’arrendevolezza. Ed era forse
peggio delle lacrime.
Si alzò dalla sedia con
le gambe intorpidite ed entrò nella camera, si chiuse la
porta alle spalle e come al solito si mise seduta al suo fianco, con le
mani strette intorno alla sua. Si strinse nelle spalle, il suo collo
candido quasi sparì.
Quella sera non riuscì a
dirle niente. A malapena l’aveva salutata.
Quella sera era una foglia secca appesa al ramo di un albero: in certi
momenti aveva la sensazione di staccarsi e volare via verso il cielo,
libera; in altri pensava che se si fosse staccata l’unica
fine che avrebbe potuto fare era quella di posarsi a terra, insieme a
tante altre sue sorelle, ed essere calpestata.
Il suo sguardo cadde sui fiori
appassiti che giacevano nel vaso sul comodino. Si alzò e li
buttò nel cestino lì accanto, dicendosi che
avrebbe dovuto portarne degli altri il giorno seguente.
Rimettendo a posto quel vaso di ceramica bianca si accorse della foto
che era caduta sopra il cerchio d’acqua rappresa che segnava
il legno marrone. Chissà da quanto tempo era lì,
non ci aveva mai fatto caso prima. La prese fra le mani e se
l’avvicinò al viso, tanto che sembrava che volesse
entrarci dentro.
Guardò i volti sorridenti di Georg, di Gustav, di David e
Susan, di suo zio Tom, di suo padre e di sua madre. La sua
mamma… era ancora una ragazzina, appena sedicenne; era
davvero bellissima. E Franky… Franky stretto a lei sorrideva
come se avesse già raggiunto il Paradiso con tutte le
persone che amava intorno. Era magnifico, nonostante fosse
già malato.
Cadde di nuovo seduta su quella
sedia di plastica bianca, quella foto ancora fra le mani. Non poteva
far altro che sorridere, le veniva naturale. Ma la verità
era che avrebbe dato di tutto pur di poter nascere prima e rubare
Franky a sua madre.
Si infilò la fotografia
nella tasca della felpa e sorrise baciando la mano della madre:
«Sono certa che non sarà un problema per te, se la
prendo in prestito».
Uscì dalla stanza e con
suo padre raggiunsero di nuovo l’auto per tornare a casa.
Una volta in camera sua
tornò a contemplare quella foto, se ne impresse ogni
particolare nella testa e probabilmente avrebbe passato tutta la sera a
guardarla, con quella specie di pace dentro lo stomaco, se solo suo zio
non le avesse mandato quel messaggio.
Franky è
tornato :)
Allora ci mise poco a vestirsi e a sgattaiolare in garage, dove
l’aspettava il suo motorino, che nonostante fosse stato fermo
per un bel po’ di tempo non fece storie per partire nel buio
e nel freddo della sera. Suo padre le avrebbe fatto una bella
strigliata, tornata a casa, ma ne valeva davvero la pena.
Il freddo la fece rattrappire, le
congelò le mani sul manubrio, le fece lacrimare gli occhi
sotto il casco, ma nulla di tutto ciò la spinse a tornare
indietro. Anzi, andò ancora più veloce.
***
Tom aveva un brutto presentimento,
come se non avesse fatto bene a mandare alla nipote quel messaggio.
Sapeva che avrebbe sicuramente fatto qualcosa di folle e non si sarebbe
allarmato se Bill lo avesse chiamato nel giro di qualche minuto per
dirgli che era scomparsa.
«Tom,
Evelyn è sparita! Ancora!».
«Oh,
non ti preoccupare Bill, sta venendo qui».
La scena sarebbe stata
più o meno quella.
«Vado a vedere i
cartoni!», gridò Arthur alzandosi dalla sua sedia
con tanto di cuscino. «Vieni anche tu, Franky?»,
gli domandò tirandogli la manica della felpa.
«Arrivo fra un attimo, tu
intanto inizia ad andare», gli rispose con un sorriso dolce.
Il bimbo annuì e zampettò in salotto.
Franky fece scomparire dalle labbra
quel sorriso e tornò a guardare apatico il tavolo. Si mise a
giocare con le briciole di pane che Arthur era stato in grado di
disperdere per tutto il tavolo, spiaccicandole con il dito e
sollevandolo per vedere se ne era rimasta attaccata qualcuna al
polpastrello.
«Linda mi fai il
caffè, per piacere?», domandò Tom alla
moglie, seduta al suo fianco, che stava ancora finendo di mangiare il
suo kiwi.
Lei sollevò gli occhi e
lo guardò con le sopracciglia inarcate. «Non vedi
che sto ancora mangiando?».
«Beh smetti un attimo, me
lo fai e poi finisci».
«Alza il culo e fattelo,
viziato che non sei altro», borbottò.
«Sei stata tu a viziami,
se proprio dobbiamo essere sinceri», la prese in giro e si
alzò. Le diede un bacio sulla testa. «Stavo
scherzando, amore. Tu lo vuoi?».
Il suo viso si illuminò.
«Sì, grazie». Tom le posò un
bacio sulle labbra ed andò alla macchinetta del
caffè. La fece scaldare ed aspettò che preparasse
la bevanda. Intanto, si voltò verso il tavolo, in
particolare verso l’angelo.
«Da quando bevi anche i
caffè dopo cena?», gli chiese questo, la fronte
corrugata.
«È
un’abitudine che abbiamo preso in Italia, quando ci siamo
andati in vacanza… quand’è stato,
Linda? Jole avrà avuto sei, sette
anni…».
«Sì,
più o meno. In albergo ce lo chiedevano sempre alla
sera… Coffee?»,
ricordò ridacchiando.
«Allora abbiamo iniziato
a berlo anche alla sera e da allora l’abbiamo sempre
bevuto», finì di spiegare.
Franky scosse il capo, divertito.
«Già quando avevate vent’anni tu e Bill
eravate dei drogati di caffeina, chissà adesso che lo bevi
anche alla sera… quanti litri ti fai al giorno?».
«Non molti…
Solo quando sono in studio ne bevo tanto, a casa
c’è Linda che mi controlla. Dice che se ne bevo
troppo sembro un cane eccitato…».
«Non ti arrabbi se le
do’ ragione, vero?». L’angelo
scambiò uno sguardo con la diretta interessata ed insieme
risero. L’espressione imbronciata, un po’ da
bambino, di Tom era uno spettacolo per gli occhi.
Franky sospirò,
buttò fuori tutta l’aria presente nei suoi polmoni
come se volesse buttare fuori dal suo corpo tutte le preoccupazioni che
gli gravavano sul cuore.
«C’è
qualcosa che non va?», gli domandò Linda, mentre
Tom le posava davanti la sua tazza di caffè e metteva la sua
di fronte a sé.
«Non dovrei essere qui.
Lei ha bisogno di me, eppure… pensavo che ci sarei riuscito,
come sempre; che avrei messo da parte il mio dolore… ma non
ce la faccio, è più forte di me». Si
coprì il viso con le mani, afflitto.
«Oh… vedrai
che andrà tutto bene», lo rassicurò
Linda, levandogli le mani dagli occhi e sorridendogli.
Proprio in quel momento il citofono
iniziò a suonare e non smise fino a quando Linda non
tirò su la cornetta e vide Evelyn grazie alla piccola
telecamerina. «Quanta insistenza»,
borbottò aprendole. La posò giù e solo
mentre stava aprendo la porta d’ingresso si chiese che cosa
ci facesse lì a quell’ora, da sola. Non fece in
tempo nemmeno a chiederlo, la nipote la superò senza
salutarla, entrò in casa e si guardò intorno in
modo frenetico.
«Posso sapere che cosa
stai cercando?», le domandò indispettita.
Evelyn non sapeva che sua zia
riusciva a vederlo, così continuò la sua caccia
da sola e si disse che dove c’era suo zio Tom c’era
anche lui. «Dov’è zio?».
«In cucina»,
rispose Linda, roteando gli occhi al cielo.
La ragazza non perse tempo ed
oltrepassò la soglia dell’ampia cucina, dove
trovò sia Tom che Franky, entrambi seduti al tavolo che si
scrutavano.
L’angelo schizzò in piedi appena la vide. Sembrava
disorientato ed intimorito. Lei non ci pensò due volte e si
gettò fra le sue braccia, avvolgendo le proprie intorno al
suo collo.
«Franky»,
soffiò stringendolo forte.
«Franky…». Ripeté il suo nome
fino a quando la voce glielo permise, fino a quando i singhiozzi non la
soffocarono infondo alla sua gola.
La lasciò sfogare fra le
sue braccia, avendo a malapena la forza di ondeggiare in modo tale da
cullarla. Sentiva il suo viso freddo premuto contro il suo collo, le
sue mani congelate sulla testa, le dita rosse che stringevano fra loro
i suoi capelli neri. Il suo corpo tremante era avvinghiato al suo e il
suo ventre era desolatamente vuoto.
Franky non resistette a lungo, non era così forte.
Affondò il viso fra i suoi capelli e le lacrime rigarono
silenziose anche le sue guance, le sue labbra, il suo mento.
«Sono
un’incapace», ruppe lei il silenzio con un soffio
di fiato, caldo rispetto a tutto il suo corpo. «Credevo che
almeno questo bambino lo avrei protetto da tutto e da tutti, lo avrei
amato più della mia stessa vita; credevo che almeno questa
volta non avrei sbagliato e invece… l’ho perso,
Franky, l’ho perso! Non sono riuscita a tenerlo in vita
dentro di me, l’ho fatto morire…».
Franky le tappò la bocca
con una mano, gli occhi colmi di lacrime e le labbra tremanti strette
dai denti. «Non dire queste cose, ti prego. Non è
colpa tua, non pensarlo nemmeno per un istante, hai capito?».
Evelyn annuì con il
capo, trattenendo a stento i singulti. L’attirò di
nuovo a sé, la strinse più forte che
poté, quasi divennero una cosa sola.
«Ti amo, ti amo Evelyn,
non dimenticarlo mai», bisbigliò con il viso
ancora nascosto fra i suoi capelli biondi e profumati.
Tom, seduto ancora a capo tavola,
si voltò verso destra e vide, in piedi accanto a
sé, Linda che tirava su col naso. Le passò
delicatamente un braccio intorno alla vita e lei stirò un
sorriso, scuotendo il capo ed asciugandosi le lacrime che le erano
sfuggite dagli occhi.
Il telefono in salotto iniziò a trillare e lei si
affrettò ad andare a rispondere. Era Bill.
«Linda ti prego dimmi che
Evelyn è lì da voi. Ha preso il motorino
e…».
«Sì,
è qui da noi».
«Menomale. Quando torna
però mi sente! Non mi ha nemmeno avvisato e le avevo detto
di non usarlo, col ghiaccio che c’è per strada!
Ehi, ma… stai piangendo? Evelyn sta bene, vero?».
«Sì, sta
bene». Prese un fazzoletto di carta dalla confezione
lì accanto e si soffiò il naso.
«Scusami, è che mi sono commossa per una stupida
fiction».
It’s the way we feel, yeah
this is real
It’s the way we feel, yeah this is real
Avevano pianto ancora per un
po’, stretti l’uno nell’abbraccio
dell’altro, e quando avevano smesso erano caduti sul divano,
svuotati. Quelle lacrime versate insieme erano state meno dolorose di
quelle versate in solitudine, avevano affrontato il dolore insieme e,
proprio come aveva detto Tom, erano stati più forti.
Appiccicati su quel divano, faccia
a faccia, si guardavano, si accarezzavano e non pensavano a niente. In
quel momento non c’erano per il mondo, erano in una loro
bolla personale.
Le loro gambe erano intrecciate, come le loro vite. Non
l’avevano deciso, non l’avevano voluto…
era stato destino, puro e folle.
«Stavo iniziando a
pensare che non te ne importasse niente», disse a bassa voce
Evelyn ad un certo punto, abbassando lo sguardo.
«Come hai potuto pensare
una cosa del genere?». Le accarezzò i capelli, li
baciò nelle sue mani.
«Perché te ne
sei andato?».
Si accucciò con il viso
contro la sua gola, le braccia strette intorno alla sua schiena
sinuosa. «Avevo bisogno di stare un po’ da solo, a
pensare».
«Avevo davvero bisogno di
te… Ne ho ancora».
«Infatti sono
qui», mormorò.
Evelyn si beò del suo
respiro sulla pelle, delle sue mani che le carezzavano la schiena.
Dentro di lei la tempesta era cessata, accanto a lui tutto era
diventato quieto, persino il dolore più forte che avesse mai
provato in tutta la sua vita – quello della perdita
– si era acquattato in un angolo, lontano.
Improvvisamente si
ricordò della foto che aveva nella tasca della felpa. La
tirò fuori, sotto lo sguardo curioso e attento
dell’angelo, e gliela mostrò sorridendo.
«E questa dove
l’hai pescata? Credevo di averla persa da qualche
parte…».
«Era nella camera
d’ospedale di mamma». Gliela diede e
sospirò, avvicinando di più la testa alla sua per
poterla guardare. «È bellissima».
«Già. Manchi
solo tu». Si voltò verso di lei e i loro nasi si
sfiorarono. «Ma credo che allora tua madre e tuo padre non
immaginavano nemmeno che ci sarebbe stato qualcosa fra loro».
Evelyn sorrise con un po’
d’amarezza. Franky la scavalcò di un poco per
gettare la fotografia sul tavolino lì accanto e prima di
risistemarsi al suo fianco la guardò dall’alto,
con un gomito puntato sul cuscino del divano. Le scostò i
capelli dalla guancia e sorrise impacciato.
«Niente più
guai». Le porse il mignolo della mano destra.
«Non so per quanto tempo
riusciremo a resistere», disse la bionda ridacchiando. E
unì il mignolo al suo.
Avevano messo Arthur a letto da un
po’ e da allora erano piazzati in cucina per spiare ogni
tanto le mosse dei due sul divano.
«Che strana
coppia», disse Tom, scuotendo il capo con un sorriso sulle
labbra. «Credi che se potessero davvero stare insieme Zoe
approverebbe?».
Linda scrollò le spalle
e si mise seduta con le gambe aperte sulle sue. Tom cercò di
sbirciare ancora Franky e Evelyn oltre le sue spalle, ma era
un’impresa ardua.
«Linda, non vedo
niente!», gridò in un sussurro.
La donna gli prese il mento fra le
dita e lo guardò negli occhi. «Sai cosa
penso?». Gli mosse la bocca come se fosse stato un pesce,
facendolo boccheggiare. «Che l’amore è
l’amore e ‘fanculo tutto il resto».
Dopodiché lo travolse in un bacio appassionato.
You won't find faith or hope down a
telescope
You won't find heart and soul in the stars
You can break everything, got the chemicals
But you can't explain a love like ours
***
Bill si lasciò cadere
sul divano e sbuffò facendo strani versi con la bocca. Non
capiva per quale motivo sua figlia si fosse catapultata da Tom senza
nemmeno avvisarlo, proprio non capiva. Che cosa gli stavano nascondendo?
Improvvisamente venne distratto
dalla suoneria del suo cellulare. Si allungò per prenderlo e
sul display vide lampeggiare un numero a lui sconosciuto. Con la solita
titubanza che aveva quando gli accadevano episodi del genere, se lo
portò all’orecchio e rispose:
«Pronto?».
«Ciao Bill!».
Quella voce dolce… La
conosceva, ne era certo, ed infatti dopo qualche secondo gli si
presentò alla mente il viso della ragazza che aveva pagato
quella cifra esorbitante per un ballo con lui alla festa di
beneficienza.
«Ti ricordi di
me?», lo prevenì però lei, ridacchiando.
«Sì, mi
ricordo! Come hai avuto il mio numero?».
«Ehi, anche io ho qualche
amicizia nel mondo dello spettacolo! Comunque scusami, non mi sono
nemmeno presentata, io mi chiamo Lilith».
_________________________________
Buonasera!
Come avrete intuito, sono tornata dalla vacanze :( Proprio oggi, dopo
una giornata veramente dura... immaginate come sto in questo momento!
Col morale tre metri sotto terra! .___. Però trovo sempre la
forza per postare un capitolo della mia storia preferita *.* Mi torna
persino l'allegria pensando a Franky! <3
Allora...
Capitolo triste e allo stesso tempo felice *-* Evelyn e Franky hanno
versato un oceano di lacrime, ma alla fine si sono ritrovati e le cose
si sono, diciamo, sistemate :)
In questo capitolo ci sono ben due new entry: Margot, la compagna di
classe di Evelyn; e Lilith, la ragazza che ha pagato per il ballo con
Bill alla festa di beneficenza. Dur figure che avranno un ruolo
importante, soprattutto la seconda... Rifletteteci su u.u
Un passaggio molto particolare e che mi preme ricordare è
quando Tom trova Arthur nella stanza spoglia di Franky, seduto sul suo
letto, ad aspettarlo. E' una scena bellissima, nevvero? *.* Mi fa
commuovere sempre ç_ç
Franky sembra aver trovato una famiglia, a casa di Tom, con Linda e
Arthur. Che cosa bella :D Ma lui ed Evelyn riusciranno a tenersi
lontani dai guai grazie al loro giuramento? Bah, chi lo sa xD (Stampatevelo
nella testa questo giuramento, è very very important!
u.u)
La
canzone che ho usato è la stupenda Science
& Faith dei The Script!
;)
Spero che questo capitolo vi sia
piaciuto, spero in qualche recensione :)
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e anche chi ha
letto soltanto! *.*
Un bacio, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 18 *** From the dark, into the light ***
Sorpresina
per voi *o* Vi siete mai
domandati ed immaginati la casa di Bill, Zoe ed Evelyn? Ecco qui in
esclusiva la casa a cui io mi sono ispirata (e che adoro con tutte le
mie forze!) ---> Cliccate qui
Spero di avervi fatto una bella
sorpresa ;D
A dopo con il commento del capitolo e i ringraziamenti!! Buona lettura!
*-*
18.
From the dark, into the light
«Certo che solo voi
potete ridurvi a comprare i regali di Natale il giorno
dell’antivigilia».
Tom fece finta di sistemarsi
l’auricolare nell’orecchio per simulare una
telefonata che in realtà non sarebbe mai avvenuta.
Guardò di sfuggita l’angelo che scivolava a tratti
al suo fianco, con i piedi sul suo skateboard, e si soffermò
sul suo volto per un istante: era sereno, un sorriso gli incurvava
addirittura le labbra all’insù, ma quella tremenda
tristezza portata da quel bambino mai nato si era conficcata nei suoi
occhi come una scheggia e crepava la loro bellezza, manco fossero di
vetro.
«Io e chi
altro?», gli domandò.
«Tu ed Evelyn. Ma
è meglio che sia così, oggi è una
bella giornata, sono contento che sia uscita di casa».
«Per rinchiudersi in un
centro commerciale dove l’aria è sempre la
stessa».
«Con bella
giornata non intendevo nel senso
atmosferico. Vedi, non capisci mai nulla», gli
tirò un pugnetto sulla testa, sfruttando il fatto che Tom
non potesse fare niente per fargliela pagare: c’era troppa
gente che avrebbe potuto prenderlo per pazzo mentre colpiva il vuoto.
«Aspettati
l’inaspettato», sibilò con gli occhi
stretti a due fessure. «Comunque non è colpa mia
se la letterina di Arthur è arrivata nelle mie mani solo
ieri sera». La tirò fuori dalla tasca della giacca
e scorse i diversi punti che il bambino aveva segnato con i pastelli,
saltando la parte iniziale che iniziava con “Caro Babbo
Natale…”.
«Giusto, dai la colpa ad
un bambino adesso».
«La pianti?!»,
lo riprese ridendo.
Si infilarono in un negozio di
giocattoli e riuscirono a trovare più o meno tutto quello
che c’era scritto sulla letterina. Franky lo aveva aiutato a
scegliere i colori o i modelli precisi delle macchinine – non
potevano di certo mancare fra i desideri di Arthur – visti e
rivisiti nella sua mente. Una volta pagato, uscirono.
«Peccato che per le cose
materiali non sei affatto utile», borbottò il
chitarrista, trasportando con fatica le due borse dalle quali uscivano
gli angoli delle grandi scatole colorate. L’angelo rise sotto
i baffi.
Depositarono tutti i loro acquisti
nel bagagliaio dell’auto e vi si appoggiarono con la schiena.
Tom tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una
tenendola fra le labbra.
«Cosa manca
adesso?», domandò a vuoto, tornando ad esaminare
la letterina.
Franky lo precedette: «Il
cucciolo».
«Oh, il cucciolo,
già…».
«Sei riuscito a
convincere Linda, ieri?».
Tom si voltò verso di
lui e lo guardò con le sopracciglia inarcate,
un’espressione che parlava da sé: Credi
che non ci sia riuscito?
«Non voglio nemmeno
immaginare come tu l’abbia persuasa a cedere…
Poveretta, è allergica al pelo dei cani!».
«Lo so»,
mugugnò come un bambino. «Ma a me piacciono
così tanto i cani!».
«Sei uno schifoso
egoista…».
«Le ho detto che io e
Arthur staremo attenti a tenerlo sempre in giardino, per quanto mi
duole… io i miei cani li ho sempre tenuti in casa, ci
dormivo pure insieme!».
«Mi ricordo»,
sorrise. «Non mi dimenticherò mai la tua faccia
sconvolta di quando hai scoperto che Linda era allergica e non potevi
più tenerli in casa a meno che non la volessi sentire
starnutire ad ogni ora del giorno e della notte».
«Al massimo potrei
chiedere a Bill di tenerlo quando magari c’è
brutto tempo… non credo che a lui dispiacerebbe»,
rimuginò.
«Quindi vuoi proprio
prenderlo».
Tom sfarfallò le ciglia,
come se dovesse chiedere il permesso a lui.
«La verità
è che non vuoi far contento Arthur, vuoi fare contento te
stesso, stronzo che non sei altro». Franky lo
guardò serio, con le braccia incrociate al petto. Dopo
qualche secondo sorrise raggiante e con un cenno del capo lo
invitò a salire in auto. Al canile!
***
Evelyn, nel centro commerciale, non
aveva la più pallida idea di che cosa comprare ad Anja e
Pamela per Natale. Si era ridotta a fare le cose all’ultimo
minuto, come sempre, e quelli erano i disastrosi risultati.
Nel frattempo che aspettava che
qualche idea geniale le venisse in mente, si diresse nel grande
supermercato per fare un po’ di spesa.
Suo padre, che doveva ammetterlo, era un po’ strano in quel
periodo, era rimasto a casa per iniziare a preparare la cena della
vigilia, cercando di rifare i piatti che cucinava sempre sua madre, e
le aveva dato un foglietto di carta sul quale c’erano scritte
delle cose che a casa mancavano e che gli servivano. Così le
toccava pure fare la spesa. Non sapeva nemmeno come sarebbe tornata a
casa col suo povero motorino color perla così carico.
Si aggirò per i reparti
con il cestello in mano, prendendo tutto ciò che
c’era scritto sulla lista. Ogni tanto rimaneva a fissare due
stessi prodotti però di marca diversa, indecisa se prendere
questo o quell’altro. Alla fine faceva la conta ed
incestinava quello della marca che aveva vinto.
Ad un certo punto, entrando
nell’ennesima corsia, in fondo ad essa vide una figura
familiare. Si avvicinò con cautela, per paura di fare una
gaffe, ma era proprio lui.
«Martin!»,
esclamò, sorridendo.
Il ragazzo sobbalzò
dallo spavento e si girò verso di lei. La guardò
come se fosse un miraggio, poi si riprese e sul suo viso si
allargò un bellissimo sorriso, anche se un po’
imbarazzato, come sempre.
«Ciao Evelyn, che sorpresa incontrarti qui».
L’occhio gli cadde sul cestino che teneva appeso al braccio,
poi si guardò intorno preoccupato. «Sei qui con
tuo padre a fare la spesa?».
«No, non ti preoccupare,
lui non è qui», ridacchiò.
Martin inarcò un
sopracciglio. «Sei da sola?».
«A quanto
pare… E tu?».
«Anche io. Ci facciamo
compagnia?».
«Perché
no?».
Finirono di fare la spesa insieme,
pagarono e girovagarono ancora un po’ per il centro
commerciale, poi decisero di infilarsi in un piccolo bar. Era quasi
l’ora di pranzo, ma non avevano fame, già
sentivano sullo stomaco il peso dei pranzi e delle cene di quei giorni.
Quindi presero due cioccolate, giusto per avere qualcosa di caldo nello
stomaco per il ritorno al freddo.
«Allora, come
va?», le domandò Martin, unendo le mani fra le
gambe, il collo nascosto fra le spalle: sembrava un bambino sperduto.
«Va’»,
annuì lei con gli occhi fissi nella sua cioccolata.
«A te? Stai studiando?».
«Sì, studio
notte e giorno», rise, ma poi scosse il capo. «La
verità è che non sono più
così sicuro di voler laurearmi».
Evelyn soffiò nella
tazza, creando piccole ondine che sprigionavano calore. «Come
mai?».
«Non lo so…
è un periodo un po’ di merda, non riesco a capire
cosa voglio. Mia madre dice che ho perso l’entusiasmo che
avevo all’inizio».
«Sono certa che lo
ritroverai presto», lo incoraggiò posando una mano
sulla sua, sul tavolino.
Non sapeva bene perché l’aveva fatto, ma non la
ritrasse, anzi… gliela girò in modo tale da
vederne il palmo e con le dita seguì le linee che vi erano
tracciate sopra. Qualche volta l’aveva fatto anche alle mani
di Franky, ma quelle di Martin erano così vere, quelle linee
sembravano davvero delle strade da percorrere.
«Per quanto riguarda il
periodo un po’ di merda, ti capisco benissimo»,
mormorò ancora.
Martin voleva ritirare la mano, ma
la lasciò lì, stretta fra le sue sempre un
po’ fredde. Però volle cambiare comunque
argomento, non gli piaceva la malinconia che stanziava nel suo sguardo.
«Quando ti hanno dimessa
sei andata a scuola, nei giorni successivi?».
«No, sono stata a
casa», rispose.
La sua presenza la confortava, era
una sensazione che provava soltanto con pochissime persone ormai ed era
strano che anche lui avesse quell’effetto su di lei. Ebbe la
forte tentazione di raccontargli ogni cosa, dall’inizio, ma
non lo fece. Gli raccontò solo una piccola parte, quella
più dolorosa e che volle condividere con lui
chissà per quale motivo.
«Quella volta,
all’ospedale, ho scoperto di essere incinta», gli
rivelò e sentì la sua mano irrigidirsi. Non
alzò lo sguardo per incrociare i suoi occhi, gli chiese
soltanto: «Ti ho sconvolto?».
«Beh, ecco…
non esattamente…».
«Puoi dirlo, se
l’ho fatto. Comunque è passato, ora».
«Che cosa vuoi
dire?», balbettò e si allargò il
colletto della maglia, improvvisamente accaldato. Non avrebbe mai
immaginato che Evelyn fosse una ragazza del genere e non lo pensava
nemmeno adesso che gli aveva detto che era incinta. Che cosa intendeva
con quella frase, forse che…?
«L’ho
perso», sussurrò. Avvicinò la mano di
Martin al suo viso e posò il palmo su di esso: la
sentì morbida, non callosa come quella di suo zio Tom; era
più simile a quella di suo padre. Respirò il
profumo della sua pelle e poi la lasciò andare
delicatamente, riponendola sul tavolo. «È passato,
ora», ripeté.
«Mi dispiace».
Fu tutto quello che Martin fu in grado di dire, scosso
com’era.
Come poteva, quella ragazzina tanto fragile, credere di poter crescere
un figlio nel suo ventre, darlo al mondo… Anche solo
pensarla con la pancia gonfia, tanto da sembrare sul punto di
esplodere, era impossibile. Come poteva, quella ragazza bionda dal
corpo piccolo ed esile, essere stata in grado di imprigionare dentro di
sé tutto quel dolore? Ora gli aveva mostrato il suo cuore
esploso, lacerato, e tutto quello che era stato in grado di dire era un
banalissimo e patetico «Mi
dispiace».
Evelyn sorrise. «Scusami,
non so perché…».
«Non ti preoccupare, mi
fa piacere che tu ti sia voluta confidare con me»,
balbettò e riprese una sua mano con la sua.
«L’unico dei
miei amici», mormorò.
Martin strabuzzò gli
occhi. «Nemmeno Anja lo sa?».
La bionda scosse il capo.
«Sarebbe troppo difficile, con lei».
«Capisco…».
«Okay, è
meglio che torni a casa». Sospirò e
tirò fuori dalla borsa il portafoglio per pagare.
Martin la fermò:
«Non ti azzardare, offro io». Si alzò
sorridendo e andò alla cassa a pagare le due cioccolate, poi
tornò da lei ed insieme uscirono dal centro commerciale.
Non aveva trovato i regali per
Pamela e Anja, ma quella mattinata non era stata totalmente un fiasco.
Le era piaciuto passare un po’ di tempo con Martin.
«Vuoi un
passaggio?», le domandò, indicando
l’auto.
«No, grazie, sono venuta
in motorino».
«Non sapevo ne avessi
uno», arricciò le labbra in un sorriso.
«Ma non congeli?».
«Giusto un pochino. Ma mi
piace, mi sento libera».
Martin scosse il capo e
aprì l’auto con un tasto del piccolo
telecomando.
«Ah!», esclamò, tirando fuori dal porta
oggetti un pacchettino rosso con un nastrino dorato.
«Oh no,
Martin!».
Il ragazzo rise.
«È una cavolata, davvero». Glielo mise
fra le mani e la guardò negli occhi: «Buon
Natale».
«Ma io non ti ho preso
niente! E non mi hai nemmeno fatto pagare la cioccolata,
io…!». Le braccia magre di Martin la strinsero in
un goffo abbraccio e lei si ammutolì, ricambiando. Il suo
corpo era caldo, consistente, e nonostante non fosse robusto si sentiva
al sicuro. Era un po’ come stare fra le braccia di Franky,
solo che quelle braccia erano più… salde.
«Grazie
davvero», sussurrò Evelyn imbarazzata.
Martin le accarezzò la
testa. «Non c’è di che. Quando lo apri
promettimi che non riderai».
«Okay»,
ridacchiò.
«Un mio compagno di
facoltà mi ha invitato ad una festa, il 26. Vuoi venire con
me?».
«Ahm…
sì, perché no?».
«Perfetto! Allora ci
sentiamo in questi giorni, ti dirò l’ora precisa,
tanto comunque ti verrò a prendere io». Si
allontanò senza aggiungere altro, entrò in
macchina.
«Grazie Martin».
Il ragazzo non rispose, la
salutò dal finestrino ed uscì dal parcheggio.
Evelyn guardò il
pacchettino che aveva fra le mani e sorridendo lo infilò in
borsa. Raggiunse il suo motorino, si infilò il casco, chiuse
la borsa della spesa con un nodo stretto e se la mise fra i piedi, poi
diede gas.
***
Bill si torturava le mani seduto su
uno sgabello del bancone in cucina. Sbuffò e se ne
portò una sulla fronte, chiedendosi per quale cavolo di
motivo aveva fatto quella proposta a Lilith.
Lilith… Dalla sera della
sua prima telefonata si erano sentiti quotidianamente, in modo del
tutto naturale. Bill si trovava bene a parlare con lei, a volte si
sentiva meno solo, ed infatti ad un certo punto aveva iniziato lui a
chiamarla. Durante la giornata si trovava a pensarla spesso, per quanto
sapesse che non avrebbe dovuto, ma era più forte di lui e
quel giorno, appena Evelyn era uscita per andare al centro commerciale,
l’aveva chiamata e le aveva chiesto se per caso le andasse di
passare da lui per chiacchierare faccia a faccia. In quel momento non
si era reso conto dell’enorme cazzata che aveva fatto, ma
ormai non poteva tornare indietro: sarebbe arrivata a momenti.
Quando il campanello
trillò, trasalì e i battiti del suo cuore
aumentarono a dismisura. Si alzò dallo sgabello e con le
ginocchia che tremavano raggiunse l’ingresso,
sbirciò dalle vetrate e poi aprì la porta
accennando un sorriso nervoso al suo radioso. Era bellissima come
sempre.
«Ciao Bill!».
«Ciao Lilith, hai fatto
presto».
La ragazza entrò in casa
sotto invito di Bill e si guardò intorno, poi rispose con le
sopracciglia aggrottate. «Sì, ti ho sentito strano
al telefono… è successo qualcosa di cui volevi
parlarmi?».
«No, nulla. È
che… non volevo stare solo». Deglutì,
sempre più nervoso, quando Lilith si girò e gli
sorrise teneramente, togliendosi il cappotto nero.
«E avevo voglia di vederti», concluse, percorrendo
molto velocemente il corpo snello, perfetto, della ragazza con lo
sguardo. Se ne vergognò subito, pensando a Zoe, e rivolse
gli occhi verso il pavimento.
«Mi fa molto piacere,
Bill, grazie».
Nei minuti di silenzio successivi,
il frontman la osservò di sottecchi mentre gironzolava per
il salotto, con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, e guardava i
quadri e le fotografie appesi alle pareti.
«Lei è tua
figlia, vero?», indicò col dito una foto di
Evelyn. «C’era anche alla festa di beneficienza, se
non mi sbaglio».
«Sì,
esatto», rispose Bill, avvicinandosi.
«E questa è
tua moglie?». Lilith si voltò e lo
guardò negli occhi, indicando la grande fotografia in cui
padroneggiava solo il viso di Zoe, sdraiata su un prato, con gli
occhiali da sole sulla testa e gli occhi azzurri luminosi che
guardavano fissi l’obbiettivo. Era una tortura guardare
quegli occhi ogni volta, ma nonostante questo non aveva mai tolto
quella foto, era troppo bella.
«Sì, in quella
foto aveva vent’anni», le disse con un velo di
amarezza negli occhi.
Lilith tornò a
contemplare l’immagine. «È davvero
bellissima».
«Già…»,
sospirò e si mise seduto sul divano, con un cuscino stretto
al petto.
La ragazza si voltò e lo
guardò con quel suo sorriso un po’ ambiguo, si
avvicinò e si mise seduta al suo fianco, posandogli una mano
sulla sua. «Mi dispiace molto, davvero. So che cosa stai
passando».
«Ne dubito, a meno che
anche tu non ci sia passata», le rispose schivando il suo
sguardo.
«Bill… credo
che sia arrivato il momento che tu sappia che il nostro incontro non
è stato casuale. Io sapevo che tu saresti andato a quella
festa, sapevo che quella tizia avrebbe cercato di comprare quel ballo,
sapevo che alla fine lo avrei comprato io». Il cantante
sgranò leggermente gli occhi e la guardò stupito.
«La verità è che io so tutto di te,
perché io… io sono il tuo angelo
custode».
***
«Allora, qual
è quello giusto, secondo te?», sussurrò
Tom all’angelo, per non farsi scoprire dal guardiano che lo
guardava da qualche metro di distanza ed aspettava che avesse scelto il
cagnolino.
«Mmh… fammi
vedere un po’». Franky camminò
affiancando le diverse gabbie e guardò i cani
all’interno di esse. Erano tutti troppo grandi, Arthur voleva
un cucciolo!
«Chiedi al guardiano se ci sono dei cuccioli più
cuccioli».
«Scusi!», Tom
chiamò il guardiano, che lasciò la sua tazza di
caffè su un tavolino e lo raggiunse. «Non avete
per caso dei cuccioli?».
«Cuccioli? No, mi
dispiace… Ieri sono andati via gli ultimi due, sa
è periodo questo».
«Già. Grazie
comunque», sorrise debolmente e fece un cenno a Franky,
invitandolo ad uscire da lì. Una volta nei pressi
dell’auto, estraniò tutto il suo disappunto:
«Cavolo! E adesso che cosa facciamo?».
«Ci sarà
qualche altro canile in cui andare, no?».
«Il canile più
vicino è dall’altra parte della
città», borbottò e salì in
macchina. «Beh che fai, non sali?»,
sbottò guardando Franky, ancora fuori dall’auto.
«No, vai pure».
«Che cos’hai
intenzione di fare?».
«Arthur vuole quel
cucciolo e lo avrà».
«Franky, non è
necessario che…».
«Ho detto che lo
avrà», ripeté con determinazione.
Aprì le ali, ormai mancava poco perché tornassero
grandi come quelle di prima, e spiccò il volo.
Tom sospirò e scosse il
capo. Non lo stava facendo per Arthur, bensì per un altro
bambino. Era fin troppo chiaro.
***
«Sono a casa!»,
gridò Evelyn mentre si chiudeva la porta alle spalle. Si
tolse il giubbotto e lo appese all’attaccapanni, poi
raggiunse la cucina, dove trovò suo padre, intento a
mescolare il contenuto di una pentola.
«Ciao», lo salutò, titubante.
«Ciao», rispose
lui, senza nemmeno voltarsi.
Evelyn posò la borsa
della spesa sul ripiano di marmo bianco del bancone.
«C’è qualcosa che non va?».
«No. No, non ti
preoccupare», disse e le accennò un sorriso,
cercando di fare del suo meglio per rassicurarla. «Hai
trovato tutto?», le domandò.
«Sì, spero di
aver scelto bene».
«Avrai fatto sicuramente
un ottimo lavoro». Le baciò il capo,
stringendosela ad un fianco. «Domani viene Linda, mi
aiuterà lei a preparare tutto, anche se non sarò
mai all’altezza di tua madre».
«Te la caverai benissimo,
invece, ne sono certa», sorrise.
«Grazie, tesoro. Che
cos’è che ti esce dalla borsa?», chiese
indicando il triangolino di carta rossa che si intravedeva.
«Oh, ho incontrato Martin
al centro commerciale, me l’ha dato lui», rispose
estraendo il pacchettino e mostrandoglielo.
«Io se fossi stato in te
l’avrei già aperto da un pezzo»,
ridacchiò.
«Lo so, so come sei
fatto. Io voglio aspettare fino a domani sera».
«Brava la mia
bimba».
Il campanello iniziò a
trillare ed entrambi sobbalzarono dallo spavento, per poi scoppiare a
ridere.
«Vado io», si
offrì Evelyn, dirigendosi verso la porta. Coco le
intralciò la strada, rotolando sui suoi piedi,
così lo prese in braccio e lo portò con
sé fino all’ingresso.
«Chi è?», domandò sbirciando
fuori dalle piccole vetrate accanto alla porta.
«Il lupo mangia frutta
che si sta congelando», rispose suo zio Tom, ridacchiando.
Evelyn gli aprì e lo
fece entrare in casa. «Solo perché stai
congelando, eh».
«Brrr, cavolo oggi si
gela». Lasciò a terra i suoi acquisti e si tolse
il giubbotto, poi passò in cucina a salutare il gemello.
«Ti dai ai fornelli, adesso?».
«Faccio quel che posso,
ossia poco. Tu come mai sei qui?».
«Ho da incartare un
po’ di regali per Arthur e devo anche aspettare quello scemo
di Franky». Roteò gli occhi al cielo e si mise
seduto su uno degli sgabelli alti dell’isola.
«Perché,
dov’è andato?», chiese Evelyn con finta
noncuranza, come se fosse soltanto curiosa.
«È andato a
cercare in tutti i canili della Germania il cucciolo che vuole Arthur.
È convinto di trovarlo e, cocciuto
com’è, credo proprio che non tornerà a
casa fino a quando non l’avrà trovato».
«Non sapevo che Arthur
volesse un cucciolo», esclamò Evelyn.
«Ma Linda non è mica allergica al pelo dei
cani?».
«Sì,
però…», si strinse nelle spalle e
sorrise furbescamente. «Franky ha provato a fermarmi, ma alla
fine anche lui ha ceduto. Non può dirmi di no, mi
adora!», rise.
«Davvero?»,
domandò Evelyn, divertita. «Eravate davvero amici,
voi e Franky…».
«Lo siamo ancora e lo
saremo per l’eternità», disse il
chitarrista. «Certo, io e lui all’inizio ci
odiavamo, però poi siamo diventati migliori
amici… E Dio solo sa quanto ci siamo stati tutti male quando
ci ha detto di avere il cancro. L’unica cosa che gli
importava era che non fossimo tristi. Quel fottutissimo altruista! Ti
ricordi Bill?». Tom notò le spalle rigide del
fratello e il suo silenzio gli fece provare una sgradevole sensazione
al cuore. «Bill, va tutto bene?».
«Andrebbe tutto bene se
la smettessi di parlare di Franky», gli rispose stizzito.
«Che cosa? Ma…
che ti prende?».
Bill si girò verso di
lui e lo guardò adirato, gridando: «Niente! Ti ho
solo detto che mi faresti un favore se la smettessi di parlare di
Franky!».
Tom spalancò gli occhi,
incredulo. Raramente aveva visto così tanta rabbia negli
occhi di suo fratello gemello. Che cosa gli era successo,
perché ce l’aveva così tanto con
l’angelo?
Lo sguardo gli cadde per un breve attimo su Evelyn, spaventata quanto
lui se non di più. Che fosse venuto a scoprire
ciò che c’era fra lui e sua figlia?
***
Adorava la sensazione di riavere le
sua ali sulla schiena. Adorava volare e se fosse stato per lui, non
sarebbe mai sceso a terra. Ma era il suo morale a decidere ed era
troppo giù per stare così su.
Aveva girato diversi canili, si era
spinto verso Berlino, poi si era arreso, anche perché non ce
la faceva più. In quel periodo la sua forma fisica era
migliorata, ma non sarebbe più tornata quella di un tempo e
lo sentiva sulla sua pelle.
Era stato un fiasco, uno completo. In nessun canile in cui era stato
aveva trovato il cucciolo che voleva Arthur. L’aveva visto
così bene nella sua mente, sembrava che fosse già
suo, e invece l’avrebbe deluso. Magari Arthur non ci avrebbe
fatto troppo caso se gli avesse portato un cagnolino diverso da quello
che aveva immaginato, perché i bambini sono così,
ma lui l’avrebbe saputo e il fatto di non essere riuscito ad
accontentarlo sarebbe stato un duro colpo.
Prima che Tom se ne andasse aveva
percepito che sarebbe andato da suo fratello Bill per poter incartare
senza problemi i regali, quindi sarebbe stata anche la sua meta.
Arrivava dall’altra parte della città, quindi si
trovò a fare una strada che non aveva mai fatto,
né con Tom né da solo. Ma presto si rese conto
che sarebbe arrivato proprio dalla parte dei campi, tra cui spiccava
quello di girasoli. Sorrise impercettibilmente pensando ai bei momenti
trascorsi in quel luogo con Evelyn.
Prima che vi arrivasse,
però, si imbatté nella vecchia carcassa di un
auto, abbandonata nel bel mezzo di un campo di grano morto. Il filone
dei suoi pensieri venne interrotto da un leggero guaire, che lo fece
avvicinare a quella carcassa di metallo. Camminò con cautela
verso di essa e provò ad aprire la portiera del passeggero,
ma era incastrata. Tirò più forte che
poté e questa gli rimase fra le mani, così la
lasciò cadere a terra. Si sporse all’interno
dell’auto e vide una cagna con tre, quattro, cinque cuccioli
che si affannavano tutti per attaccarsi alle mammelle e bere un
po’ di latte.
«Oh mio Dio»,
mormorò estasiato. Quei cuccioli somigliavano terribilmente
a quello che desiderava Arthur! Che fortuna sfacciata.
Rimase a guardare quegli
scriccioli, avranno avuto non più di due settimane, che
lottavano uno contro l’altro per nutrirsi, stesi sulla pelle
cotta e rovinata dai loro piccoli artigli dei sedili posteriori.
Guardò la madre leccare la testa ad un paio di cuccioli, poi
la vide allontanare con una zampa un cucciolino tutto bianco, che non
riusciva ad arrivare alle mammelle e guaiva come un pazzo.
«Perché lo
allontana?», si domandò stupito. «Magari
non lo vuole…». Rimase a rifletterci per diversi
secondi, nei quali il cucciolo bianco continuò ad essere
respinto dalla cagna.
«Beh, se proprio non lo vuoi lo prendo io, Arthur se ne
prenderà cura sicuramente meglio di te», disse
infine ed avvicinò la mano al piccolino.
Accarezzò il pelo tiepido e lo afferrò per la
collottola: era certo di non fargli male, aveva tanta di quella
pelliccia che sembrava avere le rughe. Sembrava un carlino, un mops
in tedesco.
La madre non fece nulla per
impedire che Franky se lo portasse al petto, era come se lo avesse
rifiutato. Gli venne in mente suo padre, che non l’aveva
voluto e se n’era andato, ma fu solo un attimo.
L’angelo guardò il suo musetto scuro e rugoso e
sorrise addolcito: era troppo tenero, oltre ad avere
un’espressione davvero simpatica. Arthur ne sarebbe stato
entusiasta.
«Piccolo, tu vieni a casa
con me. Vedrai, starai bene». Si tolse la sciarpa nera che
aveva al collo e gliel’avvolse tutta intorno, tanto che alla
fine somigliava tantissimo al fagotto di un neonato. Se lo strinse al
petto, facendolo diventare automaticamente invisibile come lui, ed
uscì dall’auto. «Andiamo».
Volò piano e a bassa
quota, per non fargli prendere né freddo né
paura, fino alla casa di Bill. Atterrò in giardino e vide il
cantante in cucina, mentre Tom e Evelyn erano in salotto, seduti sul
tappeto, che impacchettavano tutti i regali che sarebbero andati ad
Arthur. Bussò al vetro con espressione trionfante ed
entrambi sobbalzarono quando lo videro, poi Tom corse ad aprirgli.
«Sei tornato
finalmente!», gridò. Il suo sguardo si
depositò sul fagotto che teneva stretto al petto.
«Quello cos’è?».
«Il
cagnolino!», esultò tirandolo fuori dalla sciarpa,
mentre entrava in casa. «Ciao Bill!»,
gridò, ma non ottenne alcuna risposta. Tom scosse il capo,
dicendogli di non badarci, ma lui ci badò eccome,
perché pur mettendocela tutta per leggere i pensieri del
cantante non ci riuscì: c’era il muro che aveva
incontrato altre volte in altre occasioni, ma era un muro diverso,
scuro, che emanava una forte aura maligna. Inoltre, appena il
chitarrista chiuse la porta finestra da cui era entrato,
l’angelo notò che lì dentro
c’era un odore più che sgradevole, che gli fece
arricciare il naso. «Tu non senti questa puzza?»,
domandò all’amico.
«Quale puzza? No, non
sento nulla».
«C’è
qualcosa che non va», mormorò preoccupato.
Qualcuno di non umano era stato in quella casa, ne era certo, ma non
sapeva che cos’era né se il muro scuro che aveva
trovato nella mente di Bill fosse opera sua.
«Tutto bene?».
Il sussurro di Evelyn lo distrasse dai suoi pensieri e lo fece voltare
verso di lei, alla quale si avvicinò e posò un
bacio fugace sulla testa.
«No, penso di no. Da
quanto tempo Bill fa così?».
«Non lo so, anche se
è da un po’ di tempo che è strano, oggi
particolarmente: sembra arrabbiato con te. Gli hai fatto
qualcosa?».
«Assolutamente
no!». Cercò l’approvazione di Tom, che
annuì guardando la nipote. «Devo capire che cosa
sta succedendo, non sono per niente tranquillo».
Il cagnolino che teneva fra le
braccia guaì, scostandosi la sciarpa nera dal musetto, e la
loro attenzione si monopolizzò per un attimo su di lui.
«È un amore,
mio Dio», sospirò Evelyn estasiata, prendendolo
dalle mani dell’angelo per guardargli il musetto.
«Ma sei sicuro che
piacerà ad Arthur?», gli domandò Tom,
incerto.
«Sicuro! Lui ne voleva
proprio uno così!».
«Ma quando respira
rantola, sembra asmatico…».
«È una
caratteristica di questi cani», gli spiegò Evelyn.
«Io credo che sia il cane perfetto per Arthur: è
giocherellone, anche se un po’ pigro, ed è
sensibile ed affettuoso…».
Tom sollevò il
sopracciglio. «Com’è che sai tutte
queste cose?».
«Tu mi hai regalato quel
libro sui cani», ricordò ridacchiando.
«Oh, è
vero… Non credevo l’avessi letto sul
serio!».
«Io adoro i
cani», sospirò.
«Ma tua madre non
più tanto», intervenì Franky, con un
sorriso divertito sulle labbra. «Mi
rovinano il giardino»,
cantilenarono insieme, per poi scoppiare a ridere.
«Comunque ce ne sono altri», disse
l’angelo, accarezzando il pelo bianco del cucciolo.
«La madre non voleva questo piccolino, così io
l’ho portato qui».
«Dove l’hai
trovato, scusa?», chiese Tom, con la fronte corrugata.
«In una vecchia auto
abbandonata nei campi, mentre tornavo qui a mani vuote. È
stato veramente un colpo di fortuna!», batté le
mani felice. «Ah, prima che mi dimentichi. Ci serve un
po’ di latte, il cucciolino è affamato».
«Vado io»,
mormorò Evelyn, alzandosi e dirigendosi in cucina.
Franky la guardò sparire
in cucina, poi si voltò ed incrociò gli occhi di
Tom, fissi sul cucciolo. «Che c’è, non
ti piace?», gli domandò triste.
«No»,
mormorò Tom, sorridendo e massaggiando il cagnolino.
«Stavo solo pensando che alla fine ce l’hai fatta a
trovarlo. Te la cavi sempre».
Franky ricambiò il
sorriso e nel frattempo Coco si avvicinò ad annusare quella
palla bianca, incuriosito. Il cane guardò il gatto con i
suoi occhi neri umidi ed inespressivi, poi gli leccò il
muso. Coco fece un salto indietro, finendo sulle gambe di Franky. Tom
scoppiò a ridere, insieme all’angelo.
«Che avete da ridere voi
due?», chiese Evelyn, tornando da loro con in mano un biberon
pieno di latte.
«E quello dove
l’hai preso?», domandò Franky,
deglutendo nervosamente.
«È quello che
usavo io da piccola, mamma l’ha sempre voluto tenere sulla
mensola in cucina». Lo rassicurò con lo sguardo e
gli sorrise.
Franky si rilassò, ma
vedere Evelyn prendere quel cucciolo fra le braccia e dargli il biberon
come se fosse un bambino, con gli occhi intrisi di amore…
gli fece comunque male, tanto da storpiare il suo sorriso
già teso in una smorfia.
Il colpo di grazia,
però, glielo diede Bill, o meglio, il suo cuore: Franky
riusciva a vedere benissimo quella specie di germoglio scuro, che
emanava un’aura negativa, che vi aveva messo le radici.
Capì in un attimo che quella poteva solo essere opera di un
demone, li aveva studiati a scuola anni ed anni prima, ma non ne aveva
mai incontrati prima di allora. Sapeva che se non fosse intervenuto
subito quel piccolo germoglio si sarebbe ramificato ed avrebbe avvolto
tutto il suo cuore, rendendolo ricco di sentimenti negativi, come per
esempio l’odio.
Chi era quel demone? Com’era arrivato a Bill?
Perché aveva scelto di colpire proprio lui? Doveva
assolutamente trovare più informazioni ed agire, in fretta.
O sarebbe stata la fine per Bill.
***
«Sei pronta,
tesoro?», urlò Bill dal piano inferiore, mentre si
sistemava il polsino della camicia dentro la giacca nera.
«Sì, sto
arrivando», rispose la figlia, scendendo le scale. Lei
indossava un maglione largo a collo alto, fatto a mo’ di
vestitino, che le arrivava fino alle ginocchia, bianco come la neve.
«Okay,
andiamo». Il padre spense tutte le luci ed uscirono di casa.
Era strano, di solito non andavano
mai alla Messa di Natale, sapevano di attirare l’attenzione,
eppure quella volta non c’era nemmeno stato bisogno di
dirselo: entrambi erano sicuri che ci sarebbero andati, entrambi
sapevano che la loro destinazione non sarebbe stata la chiesa presente
nel centro, ma la semplice cappella dell’ospedale; sapevano
che avrebbero celebrato quel momento insieme agli ammalati che
riuscivano ad alzarsi dal letto e ai parenti delle persone che erano
ricoverate e che avrebbero pregato entrambi per Zoe.
Ai piedi dell’altare
c’era una piccola corona di rami d’abete
intrecciati, che reggeva quattro candele rosse infilate in una
ciotolina di rame ciascuna. Erano tutte accese e davano a
quell’ambiente ristretto e un po’ scarno un aspetto
più accogliente, oltre che un’atmosfera del tutto
diversa. Se chiudeva gli occhi, Evelyn riusciva a percepire il loro
calore direttamente in mezzo al petto, il calore del Natale.
La Messa fu semplice, umile.
Nessuno badò a loro e non avrebbero davvero voluto di
meglio.
Ad un certo punto Bill aveva
avvolto le spalle della figlia con un braccio e l’aveva
attirata a sé, le aveva fatto posare il capo sul suo petto e
le aveva baciato i capelli, dolcemente. Evelyn non l’aveva
allontanato, si era stretta ancora di più a lui, sentendosi
bisognosa del suo affetto come da bambina, quando non lo vedeva per
settimane e lo aspettava, impaziente di sentirsi stringere di nuovo al
suo petto, proprio lì dove c’era il suo cuore.
Ovviamente, Evelyn non
pregò solo per sua madre, ma anche per quel suo bambino che
non aveva fatto in tempo a nascere, che non aveva avuto la
possibilità di splendere e riscaldarla col suo calore. Forse
pianse in quel momento, ma non se ne rese conto.
Quando il prete
pronunciò le ultime frasi di conclusione, Evelyn ebbe la
sensazione di essere osservata. Si guardò intorno e
dall’altra parte della cappella, nella prima panca, seduto di
fianco alla vetrata, le parve di vedere Franky che le sorrideva. Fu
solo un attimo, tanto che non riuscì a capire se fosse stato
frutto della sua immaginazione o meno.
«Andiamo?», le
domandò suo padre, alzandosi e guardandola
dall’alto. Evelyn annuì e prese la sua mano.
Uscirono dall’ospedale e
si resero conto che nevicava. Era da un po’ che non accadeva
proprio la notte di Natale e fu una bella sorpresa. Un dono dal cielo.
«Bill!».
Entrambi si girarono e videro una
ragazza, quella che poi si rivelò essere Lilith, correre
verso di loro nel suo vestitino nero.
«Ciao», la
salutò Bill sorpreso e anche un po’ in ansia,
preoccupato che sua figlia potesse fraintendere ciò che
c’era fra loro. «Che ci fai tu qui?».
«Sono passata a salutare
una mia amica», sorrise e il suo sguardo si posò
lentamente su Evelyn, che immediatamente rabbrividì.
«Ciao», la salutò con tono gentile.
«È un piacere conoscerti».
Evelyn le sfiorò la mano
per stringergliela, ma prese subito la scossa, che non le permise di
finire ciò che aveva iniziato. Lilith la guardò
corrugando la fronte, allargando i suoi occhi verdi e in quel preciso
momento Evelyn parve di vedere la sua pupilla allungarsi in verticale,
come quella dei felini. C’era qualcosa che non le piaceva in
quella ragazza e sapeva esattamente con chi parlarne.
«Adesso devo proprio
andare», disse frettolosamente Lilith, come se fosse
intimorita da qualcosa. «Ci sentiamo Bill. Ciao, Evelyn. Buon
Natale».
«Anche a te,
ciao», la salutò Bill sbigottito, alzando una mano.
Una volta in auto, il cantante
sbuffò ed Evelyn colse l’occasione al volo per
potergli chiedere due cose.
«Come mai così tanta confidenza?», la
prima.
«Quale
confidenza?», le chiese, ridacchiando nervoso, mentre avviava
il motore ed ingranava la marcia.
«Beh, mi è
sembrato che ci fosse».
«No, ti
sbagli», ribatté stizzito.
La seconda, poi:
«È a causa sua se sei così strano, in
questo periodo, e ce l’hai a morte con Franky?».
«Allora,
Evelyn!», la sgridò. «Smettila di fare
domande campate per aria!».
Evelyn, offesa, si
ammutolì e non parlò più fino a quando
non arrivarono a casa e trovarono tutte le luci accese, anche quelle
che adornavano la terrazza che dava sulla camera di Evelyn.
«Che
cosa…?», balbettò lei, confusa.
«Sarà arrivato
Tom», le spiegò Bill.
Attraversarono il vialetto, che si
stava ricoprendo lentamente di nevischio, ed entrarono in casa. Vennero
subito investiti da un piacevole tepore e dal profumo dei tipici piatti
natalizi che si stavano cucinando. Doveva esserci Linda ai fornelli,
poco ma sicuro. Solo lei era in grado di pareggiare Zoe.
«Ciao Evelyn!»,
strillò Arthur, saltando giù dal divano e
correndo verso di lei con le braccia aperte.
La ragazza lo guardò
correre verso di lei ed abbracciarle le gambe coperte solo dalle calze
di nylon. Il suo cuore perse un battito, ripensando al bambino del
sogno: Arthur non gli somigliava molto, ma era pur sempre un bimbo,
aveva dentro di lui quel calore, quella vitalità…
«Ehi, ciao
piccolo», lo salutò Bill, prendendolo in braccio
ed arruffandogli i capelli sulla testa.
Evelyn si sentì subito
sollevata, come se il suo cuore fosse appena stato liberato dalla
tenaglia che l’aveva imprigionato quando le braccia di suo
cugino le si erano strette intorno alle gambe. Tenendolo lontano da
sé, tutto era passato.
«Che hai
fatto?!», gridò a bassa voce Tom, uscendo dalla
cucina e correndo incontro al gemello.
«Che ho
fatto?», chiese quest’ultimo, confuso.
«Ho impiegato quasi un
quarto d’ora per convincere Arthur a lasciarsi pettinare,
sotto ordine di Linda… se ti scopre sei fritto!».
Tom provò a sistemare i capelli del figlio, ma erano
irrimediabilmente compromessi. «Mi serve una
spazzola!».
«Te la vado a
prendere», disse Bill, salendo su per le scale.
Tom incrociò gli occhi
quasi sperduti della nipote e sollevò un sopracciglio.
«C’è qualcosa che non va?».
«N-No»,
balbettò. «Ma dopo ti devo parlare, ho delle
novità». Si incamminò verso la cucina,
dove si trovava Linda.
«Ciao tesoro»,
la salutò lei, notandola sulla soglia. «Come
stai?».
«Tutto okay»,
mormorò.
«Pronta per scartare i
regali?».
«Sì…».
Vide il lungo tavolo davanti alle
porte finestre apparecchiato in modo perfetto e contò
velocemente i posti a sedere. Sette. Uno in meno del solito. Un nodo le
strinse la gola, tanto forte da farle appannare la vista. Altre
lacrime, persino la sera di Natale…
«Evelyn»,
mormorò Linda, asciugandosi le mani sul grembiule e
posandone una sulla spalla tremante della nipote.
«No»,
farfugliò e si sottrasse con un movimento leggero.
«Sto bene». Uscì dalla cucina e senza
badare a suo zio e a suo padre in salotto, che tentavano di tener fermo
Arthur per pettinargli nuovamente i capelli, si rifugiò in
bagno.
Si guardò allo specchio,
appoggiandosi con le mani al lavandino: era riuscita a trattenere le
lacrime, se n’era andata giusto in tempo, ma
l’orribile sensazione che provava in mezzo al petto non era
svanita, anzi.
Mancava decisamente qualcosa, quel Natale, e sapeva benissimo che
cos’era.
Sometimes
it's hard to get better or cry
***
«Chi
è?», mugugnò Zoe, rannicchiata sul
fianco, dopo aver sentito qualcuno bussare delicatamente alla porta.
«Ehi».
Udendo quella voce, aprì
gli occhi a fatica e provò a tirarsi su, ma quella sera era
davvero stanca: non si era mai sentita così debole.
«Non ti affaticare per
nulla», le disse, sistemandole meglio il cuscino sotto la
testa.
«Franky, che ci fai qui?
È la Vigilia di Natale».
«Dove dovrei
essere?», le domandò con un sorriso tenue,
abbandonandosi alla sedia accanto al suo letto.
«Dalla tua
famiglia».
«La nostra».
Zoe stiracchiò un
sorriso. «Sai, Franky… da quando sono qui in
Paradiso ho capito molte cose della tua nuova vita, di quello
che adesso è il tuo mondo. Sono certa che molti ti
avranno detto che tu sei sempre stato destinato a questo, ad essere un
angelo custode, quasi come se la tua vita da vivo fosse stata solo una
fase di passaggio…».
«No, l’ultima
frase non l’avevo mai sentita», la interruppe e con
un sorrisetto aggiunse: «E per di più è
una cazzata».
«Lasciami finire. Quello
che voglio dire è che, secondo me, tu sei sempre stato
destinato ad essere un angelo custode però… non
qui, non in Paradiso. Credo che il tuo vero posto sia sulla Terra,
accanto alle persone che ti amano».
«È facile
dirlo, Zoe», sospirò, abbassando lo sguardo.
«Tu non la vedi di certo come la vedo io e anche se qualche
volta hai provato a stare in mezzo ai vivi non ci sei ancora abituata.
Se tu avessi così tanti anni alle spalle da morta, come ce
li ho io, ti renderesti conto di quanto in realtà ti
sentiresti esclusa, stando fra loro».
«Ma Franky…
che cosa stai dicendo?».
«Possiamo interagire,
ma… è difficile da spiegare. È
comunque diverso e complicato stare per tanto tempo accanto alle
persone che si amano e che ancora sono vive, te lo posso giurare. Ogni
tanto, quando sono di sotto, vorrei scappare perché mi rendo
conto di tutte le cose che non ho più, non ho mai avuto e
non avrò mai nella mia vita. Almeno qui… qui
siamo tutti sulla stessa barca, tutti morti, tutti con un compito da
portare a termine. Noi… ecco, noi viviamo per voi, ma non
possiamo farlo con
voi».
Zoe non parlò,
né lo guardò in faccia per qualche minuto. Poi
gli prese una mano e la strinse forte nella sua, accennando un sorriso.
«Che ci fai qui, Franky? Non dovresti essere qui».
Franky scosse il capo,
ridacchiando. «Sono venuto a farti gli auguri, no?».
«Beh, ora che me li hai
fatti puoi andare».
«Non vuoi che resti qui a
farti compagnia?».
«Voglio che tu vada a
casa e faccia compagnia agli altri. Io non posso muovermi da qui, fallo
tu per me».
L’angelo annuì
e le baciò la fronte, poi sorridendo uscì dalla
camera.
«Buon Natale,
Franky», mormorò Zoe prima di chiudere gli occhi
ed addormentarsi, stanca.
***
«Quindi avete incontrato
la ragazza della festa di beneficienza, Lilith. Secondo te è
a causa sua che Bill ha iniziato a comportarsi in questo
modo?».
«Non ne sono certa,
ma… è quello che sento».
Tom sprofondò nel lungo
divano ad L, borbottando meditabondo, accanto alla nipote. Non poteva
di certo pretendere che sprizzasse gioia da tutti i pori, ma non
sopportava di vederla con gli occhi così spenti e tristi.
Sapeva che c’era solo una persona in grado di farla sorridere
persino la sera del primo Natale senza sua madre e quella persona non
si faceva viva da quel pomeriggio. Non sapeva nemmeno dove fosse.
Si sporse ancora verso di lei, per
poterle parlare a bassa voce. «Tu sai dove si è
cacciato Franky?».
Il cuore iniziò a
pomparle il sangue nelle vene ad una velocità notevole,
tanto da sentire le orecchie bollirle. Scosse il capo, fissando lo zio.
«Perché me lo chiedi?».
«Oggi pomeriggio
è andato via, ma non ho avuto tempo di chiedergli dove
andasse e da allora non l’ho più visto. Magari tu
lo sapevi».
«Ah,
no…». Corrugò la fronte. Qualcosa di
strano le punzecchiava la nuca, come una di quelle fastidiose
etichette, ma era certa che quel maglione non ce l’avesse. Si
portò una mano sul punto preciso e se lo
massaggiò, quando iniziò a vedere qualcosa nella
propria testa. Era tutto un po’ sfuocato, ma riconobbe la
città dall’alto: l’aveva vista qualche
altra volta, grazie a Franky. Che stesse vedendo con i suoi occhi? Come
ci riusciva?
«Forse… forse
sta arrivando», disse titubante, guardando Tom con la coda
dell’occhio.
Il chitarrista sollevò
il sopracciglio. «E questo come…».
«Non ne ho
idea», sbuffò e si alzò dal divano,
gettando sul bracciolo il cuscino che si era tenuta stretta al petto
per tutto il tempo. «Vado a vedere il regalo di
Arthur», gli sussurrò.
Salì in camera sua e
trovò il cagnolino steso a pancia in giù sulla
sua cuccia improvvisata, addormentato. Sorrise addolcita e si
chinò di fronte a lui, gli accarezzò il pelo
dalla testa alla schiena e poi lo prese in braccio. Questo
aprì leggermente gli occhi per vedere chi fosse, ma
posò quasi subito il musetto rugoso sul suo braccio per
riaddormentarsi.
Coco si avvicinò, incuriosito, ed Evelyn
accarezzò anche il suo pelo, facendogli fare le fusa contro
la sua mano. Qualche istante dopo, sentì qualcosa di diverso
intorno a sé, come un sesto senso, e senza nemmeno girarsi
capì che lui era arrivato. Le sue braccia la avvolsero da
dietro e la sua fronte si posò contro la sua nuca.
«Sono arrivato in tempo,
allora», le sussurrò.
«Tu sei sempre in
tempo», mormorò in risposta e si voltò,
si perse nei suoi occhi verdi ed osservò come teneva le
labbra dischiuse, segno che non aveva ben capito il senso della sua
frase. «Non è niente di importante».
Franky non riuscì a
rispondere, perché la voce di Bill scavalcò la
sua, urlando: «Evelyn, vieni!», e inoltre il
frontman stava salendo le scale, diretto proprio lì. Si
alzò di scatto e corse fuori in terrazza senza aprire le
porte finestre, lasciando da sola la ragazza, che aveva già
capito tutto. Qualche istante dopo, infatti, Bill aprì la
porta della sua camera e la guardò sorridendo.
«Vieni, ci siamo
tutti».
«’kay»,
mormorò. Lasciò giù il cucciolo,
passò in bagno a lavarsi le mani e scese di sotto.
Dalla cucina proveniva un forte
vociare. Probabilmente Franky si era fatto vedere da coloro che
potevano vederlo, ma non sentiva la sua voce. Doveva esserci anche
qualcun altro, perché sua zia parlava di…
bambini.
«Allora, come sta il
bimbo?».
«Tutto procede liscio
come l’olio, sono così felice», rispose
Jole posandosi una mano sul ventre ed abbracciando di lato il suo
compagno e futuro marito, Leo. Si guardarono sorridendo, coi loro occhi
luminosi intrisi d’amore.
Quando si accorsero di Evelyn, sulla soglia, tutta la gioia dei loro
volti scomparve per dar spazio ad un’espressione di pura
tristezza e calò un religioso silenzio. Il che fece ancora
più male al cuore della ragazza, che aveva ricevuto fin
troppi colpi.
Con la coda dell’occhio
guardò Franky, appoggiato al muro, poco distante da lei, ma
che non faceva niente ed aveva lo sguardo basso e le braccia incrociate
al petto.
“Perché non fai qualcosa?”, gli chiese
col pensiero, non guardando nella sua direzione. “FAI
QUALCOSA!”
Franky si irrigidì
ulteriormente ed abbassò ancora di più il capo:
sembrava che lentamente si stesse sempre più rinchiudendo su
se stesso, come un riccio, per proteggersi. Ma da che cosa, da lei?
Evelyn non seppe più
cosa pensare, l’unica cosa che riuscì a fare fu
fuggire, per l’ennesima volta. Arretrò di un
passo, poi scese gli scalini in fretta e furia e dal salotto
uscì fuori, nella veranda che dava sul giardino.
Listen,
I'll tell you a secret:
if I should ever feel like going home,
I'd jump so I could fly
«Io… mi
dispiace», balbettò Jole, affidandosi totalmente
all’abbraccio stretto di Leo.
Franky, senza farsi vedere da Bill,
toccò la schiena di Tom e lo utilizzò come
microfono per far sentire ciò che diceva anche a chi non era
in grado di vederlo. Tom ci mise qualche secondo ad abituarsi alla
cosa, ma accettò di buon grado di prestarsi: infondo Franky
non poteva dare risposte sbagliate, lui c’era dentro quanto
Evelyn.
«Non è colpa
tua, Jole», disse. «E nemmeno di Evelyn. Non ti
preoccupare, adesso torna e forse, finalmente, mangiamo. Ho una fame da
lupi!».
Franky era pure bravo: gli aveva dato la parte giusta, le parole adatte
al suo personaggio. Tom infatti lo guardò con la coda
dell’occhio e sorrise.
«Devo andarla a
chiamare?», disse Bill e risultò più
una domanda, che un’affermazione.
Tom prese l’iniziativa,
quella volta, e senza farsi vedere da nessuno tranne che da Linda
spinse l’angelo verso il salotto. «Non ce ne
sarà bisogno Bill, vedrai».
Franky, stordito da quella presa di
coraggio di Tom davanti a Bill, il meno indicato con cui fare queste
cose, camminò fino al salotto con passo incerto. Si
avvicinò alle porte finestre e la vide seduta sui gradini
che portavano al giardino, che si stringeva nel suo stesso abbraccio
per riscaldarsi da quel freddo che oltre ad entrarle nelle ossa, era
già dentro di lei. La raggiunse e si mise seduto al suo
fianco, con le mani appoggiate dietro di sé e un ginocchio
piegato. Guardò il cielo, i fiocchi di neve cadere
delicatamente, la luna illuminare quella notte opaca.
Avrebbe voluto abbracciarla, riscaldarla tenendola stretta a
sé, ma… Quella volta il dolore era forte,
fortissimo, anche per lui; non poteva cacciarlo in un angolo, non ci
riusciva, ed Evelyn non sembrava capirlo fino in fondo.
«Gli altri stanno
aspettando solo te», disse ad un certo punto, senza guardarla.
«Franky…»,
sussurrò lei, con gli occhi spalancati colmi di lacrime. Non
era mai stato così freddo con lei… Non si
aspettava minimamente che reagisse così, non capiva nemmeno
che cosa aveva fatto di male.
«È inutile
reagire così ogni volta che ti si presenta qualcosa che ti
fa pensare a lui. Non si può scappare dal dolore».
«Io… io non ce
la faccio ad affrontarlo di petto come fai tu. Non sono così
forte».
«Io non sono forte,
cazzo!», sclerò e si alzò di scatto,
dandosi lo slancio con le mani. «Anche io soffro come un
cane, forse anche più di te, ma almeno ci provo! A volte
sembra che tu… che tu non pensi ad altro che a te stessa,
quando anche io ci sto male!».
Don't tell
me I'm wrong
and had it breaks your heart,
because that's just the way I feel
Evelyn lo guardò col
fiato sospeso, senza sapere cosa fare né cosa dire. Quella
confessione l’aveva completamente spiazzata e ora aveva
capito, aveva capito quello che aveva fatto inconsciamente. Prima gli
aveva chiesto aiuto, anzi aveva quasi preteso che l’aiutasse,
quando anche lui in quel momento aveva bisogno che qualcuno lo
confortasse.
L’angelo non le diede il
tempo materiale per scusarsi, la guardò con gli occhi
leggermente velati dalle lacrime, indicò le porte finestre
alle sue spalle e disse: «Adesso sbrigati a rientrare, o Bill
potrebbe anche insospettirsi». La guardò in viso
per qualche altro secondo, serrando le labbra, poi la
sorpassò e rientrò in casa sbattendosi la porta
vetrata alle spalle.
In cucina tutti erano
più o meno nelle stesse posizioni di prima, tranne Jole che
si era seduta già a tavola e Leo le stava massaggiando le
spalle, soprappensiero. Appena Tom vide l’angelo avvicinarsi
al tavolo pensò che sarebbe andato da lei e una strana paura
gli salì addosso, ma si rilassò in parte quando
l’angelo si gettò seduto sulla sedia di fronte,
con i gomiti beatamente sulla tovaglia.
“Franky”, lo
chiamò col pensiero, sbalordito. “Ma che
è successo?”
“La tua idea è
stata grandiosa”, gli rispose e si strofinò il
naso con una mano, abbassando gli occhi.
«Sei sicuro che non debba
andare a chiamare Evelyn?», chiese Bill con tono sgarbato a
suo fratello gemello.
«Sta
arrivando», rispose però l’angelo, a
voce in modo tale che anche Linda lo sentisse.
Proprio allora, Evelyn fece la sua
comparsa in cucina, con lo sguardo basso e gli occhi coperti dalla
frangetta. Si scusò e lanciò uno sguardo alla
tavola, chiedendo: «Dove mi siedo io? Mi è venuta
fame».
Linda le sorrise calorosamente e le
indicò il posto accanto a Franky. Una smorfia si dipinse
sulle sue labbra, ma obbedì e si mise seduta di fianco
all’angelo, che non la degnò nemmeno di uno
sguardo. Il suo stomaco si era completamente chiuso, ma suo padre si
era impegnato così tanto per quella cena, non poteva
rovinare tutto anche quella volta; e stare accanto a lui le mandava in
tilt il cervello, soprattutto dopo quella discussione.
Finalmente quella cena
iniziò e Franky per un po’ se ne rimase in
disparte, senza parlare e senza alzare la testa dal tavolo, ma dopo un
po’ parve riprendersi ed iniziò a sorridere e a
partecipare per come poteva, visto che c’erano Jole e Leo che
non erano in grado di vederlo. Evelyn lo guardò sorridere e
ridere senza farsi scoprire da suo padre e solo allora si rese conto di
quanto l’angelo soffrisse in realtà, anche dietro
quell’espressione che celava il suo dolore. Lui riusciva a
nascondere tutto, a tenerlo dentro di sé, ma forse
così si faceva ancora più male.
Evelyn si pulì la bocca
con il tovagliolo e se lo riportò educatamente sulle gambe,
poi con nonchalance avvicinò una mano a quella di Franky,
sotto il tavolo. L’angelo non si scompose, ma dentro di
sé il suo cuore fece una capriola.
“Mi dispiace tanto, sono
stata una stupida”, mormorò col pensiero la
ragazza, abbassando lo sguardo sul piatto vuoto che aveva sotto il
naso. “Tenevamo entrambi a quel bambino, eppure ho pensato
solo a me. Perdonami, Franky”.
L’angelo custode si
portò la mano libera di fronte alla bocca per coprire quel
sorriso appena accennato che gli era spuntato sulle labbra, anche se si
vedeva benissimo nei suoi occhi che era contento. Le
accarezzò il dorso della mano col pollice e socchiuse gli
occhi, soffiando nella testa di Evelyn due semplici parole:
“Ti amo”, alle quali la ragazza arrossì
di colpo e dovette mascherarsi coi capelli per far sì che
nessuno le chiedesse niente.
Probabilmente Bill se
n’era accorto, con una smorfia di disappunto, ma Tom non era
stato da meno, in quanto appena lo vide alzare il sopracciglio ed
aprire bocca per dire qualcosa, lo fermò urlando:
«Caffè? Chi vuole il caffè?».
Tutti si voltarono verso di lui, compresi Franky ed Evelyn, il primo
divertito, la seconda sbigottita.
«Oh, tu e questo
caffè», borbottò Bill sventolando una
mano in aria.
«Io voglio aprire i
regali!», piagnucolò Arthur, che era stato buono e
bravo per tutta la sera e anche in presenza di Franky non aveva detto
niente di strano: quasi si comportava meglio un bimbo di quattro anni
che gli uomini che conosceva da quando erano ragazzini e avevano
convissuto molto più tempo con lui in versione angelo.
«Non è una
cattiva idea!», esclamò Evelyn, guardando il
cuginetto. «Zio, potresti abbandonare la tua tradizione del
caffè per una sera, no?».
«Oh, e va
bene!», sospirò, dandola vinta a loro.
Tutti si alzarono e si spostarono
in salotto per scartare i regali e Franky, senza farsi vedere dal
piccolo Arthur, egregiamente distratto da Tom che continuava a
passargli pacchetti da scartare, sgattaiolò al piano di
sopra.
Trovò il cucciolo sdraiato a pancia in giù che
sonnecchiava nella sua cuccia improvvisata e si mise seduto di fronte a
lui a gambe incrociate. Si guardò la schiena, con una
smorfia si strappò una piuma dall’ala destra e con
quella sfiorò il nasino del cagnolino e ridacchiò
quando lo vide starnutire.
«Forza mops, è
ora che ti porti dal tuo padroncino».
Lo prese tra le braccia e
cercò la scatola che Evelyn aveva preparato tempo prima. La
vide aldilà del letto e pur di non fare il giro vi si stese
sopra e la raccolse da terra, quando sotto la sua pancia
sentì una strana vibrazione. Si sollevò di un
poco e vide che aveva schiacciato involontariamente il cellulare bianco
che si mimetizzava perfettamente sul piumone candido.
Lo girò e sfiorò il touch-screen con la punta del
dito: le era arrivato un messaggio, di Martin. Si morse le labbra,
colpito da un pizzico di gelosia ed indeciso su cosa fare, poi
sospirò.
«Ma quanto ci
mette?», si chiese Tom a bassa voce, muovendo nervosamente
una gamba.
«Vuoi che lo
raggiunga?», gli domandò sussurrando la nipote,
sporgendosi verso di lui.
«No, meglio non lasciarvi
troppo da soli a voi due».
«Ti ha detto quello che
è successo prima fuori?».
«Non esattamente, ma
l’ho capito che non è andata poi così
bene…».
Evelyn abbassò il capo,
annuendo, e guardò anche lei verso le scale che portavano al
piano superiore.
«Questo è
l’ultimo!», disse Jole dando il suo regalo al
piccolo Arthur, controllando che non ce ne fossero altri sotto
l’albero.
Il bambino, vedendo la busta di
plastica rossa capì che nemmeno quello era il regalo che
desiderava con tutto se stesso ed infatti ringraziò con meno
entusiasmo la sorella maggiore. Fino a quel momento aveva sperato che
prima o poi sarebbe arrivato, ma quello era
l’ultimo…
Il piccolo alzò lo sguardo triste sul padre e Tom ne rimase
quasi sconvolto. Non poteva vedere suo figlio così triste il
giorno di Natale!
«Adesso lo vado a
prendere io, quel deficiente!», borbottò parlando
di Franky e marciando verso le scale, ma mentre camminava
inciampò all’improvviso in una scatola che si
capovolse e che si aprì, permettendo ad un batuffolo bianco
di uscire e zampettare verso il centro del salotto.
Arthur si illuminò
vedendo quel cucciolo di cane corrergli incontro e lasciò
perdere il regalo della sorella per dedicarsi solo a quello. Lo prese
fra le braccia, contentissimo, e si lasciò leccare in faccia.
«È bellissimo!
Papà, è bellissimo!», gridò
al settimo cielo.
«Sono contento
amore», gli rispose il chitarrista, anche se la sua
espressione spaventata diceva tutto il contrario. Era certo che sarebbe
caduto, eppure era rimasto incredibilmente in piedi.
«Suvvia, credevi davvero
che ti avrei lasciato cadere?», gli sussurrò ad un
orecchio Franky, ridacchiando.
«Cretino mi hai fatto
prendere un colpo!», gli rispose. Poi si voltò e
gli diede un pugnetto sulla spalla, imbronciandosi come se davvero
fosse arrabbiato, ma non resse molto.
«Mi tieni occupati Leo e
Jole per un attimo?», gli domandò
l’angelo, indicando i due che, abbracciati, guardavano Arthur
giocare con il cucciolo.
«Sicuro», gli
fece l’occhiolino.
Mentre il chitarrista distraeva i
due, facendoli girare per spiegargli la storia di un quadro che Bill e
Zoe avevano comprato in Spagna e avevano appeso in salotto, Franky
andò da Arthur e lo prese fra le braccia senza che il
bambino se lo aspettasse. Lo fece ridere dalla gioia, alzandolo in alto
aiutandosi con le ali e facendogli fare una specie di aeroplano. Poi,
lentamente, lo fece scivolare sulla sua ala destra e se lo
avvicinò al petto come se stesse prendendo un neonato fra le
braccia.
«Allora, sei
contento?», gli domandò a bassa voce, con gli
occhi colmi di amore e un sorriso dolce sul viso.
«Sì,
tantissimo», gli sussurrò il bimbo in risposta.
«Grazie Franky». Portò le manine sulle
sue guance e lo baciò su quella destra, per poi avvolgergli
le braccia intorno al collo.
«Così mi fai
arrossire», soffiò l’angelo.
Linda era commossa, aveva le
lacrime agli occhi; Bill era piuttosto imbronciato, quasi schifato;
invece Evelyn era rimasta quasi stordita da quella scena:
ripensò a quando, ancora prima di cena, Arthur
l’aveva abbracciata e la sua reazione era stata di blocco, si
era sentita malissimo; Franky sembrava così… a
suo agio, con quel bambino, nonostante sapesse che gli ricordava
tantissimo il loro, quello che non era mai nato. Lui era davvero
più forte di quello che pensava, lottava in ogni momento pur
di non farsi sopraffare dal dolore e avrebbe dovuto farlo anche lei.
Franky lasciò andare
Arthur e si allontanò di un passo proprio quando i due si
scollarono di dosso Tom e si voltarono. Il chitarrista
incrociò lo sguardo dell’angelo, che gli
alzò il pollice e gli fece l’occhiolino, al quale
lui ricambiò.
«Su Evelyn, adesso tocca
a te scartare i regali!», la incitò suo padre,
battendo le mani di fronte al petto.
Linda annuì e
starnutì: la sua allergia era appena cominciata. Il bambino
se ne ricordò e si infilò il cagnolino nella
maglia, con il musetto che usciva dal suo colletto.
«Scusa mamma!»,
gridò dispiaciuto.
Lei ridacchiò, prendendo
un fazzoletto dalla borsa poggiata sul divano. «Non ti
preoccupare, amore».
Evelyn sentì un fruscio
alla sua destra e notò che Franky si era avvicinato a lei
con nonchalance. Non la guardava, ma sorrideva, e ad un certo punto le
sfiorò la mano con la sua, sfruttando il divano che le
nascondeva agli occhi di tutti. La ragazza accennò un
sorriso e la strinse.
«Allora Evelyn, ti vuoi
muovere o no?», le domandò Tom, indicando i doni
sotto l’albero. Probabilmente, se avesse saputo delle loro
mani intrecciate, non avrebbe detto nulla. La ragazza fu
così costretta ad andare ad aprire i suoi regali, spinta
anche da Franky.
Uno dopo l’altro li
scartò tutti, con l’aiuto del suo cuginetto, e
l’ultimo se lo rigirò fra le mani più e
più volte: quello di Martin. Sbirciò con la coda
dell’occhio la reazione di Franky e lo vide teso, con la
mandibola così rigida che il suo volto sembrava di marmo. Lo
vide anche far scivolare il suo cellulare bianco fra i cuscini del
divano, poi si voltò accennandole un sorriso e raggiunse il
chitarrista che era andato un attimo in cucina con Linda, presa da un
attacco acuto di starnuti.
Evelyn sospirò, si
alzò da terra con il pacchettino rosso in mano e si
spostò sul divano; senza farsi vedere prese il suo cellulare
e guardò il display: Martin le aveva mandato un messaggio.
Sbirciò in cucina, ma non riuscì ad incrociare lo
sguardo di Franky, lo stesso Franky che se solo avesse davvero voluto
avrebbe potuto tranquillamente leggerlo. Ma non l’aveva
fatto.
«Che cosa stai aspettando
ad aprire quello? Di chi è?», le chiese sua cugina
Jole, sedendosi al suo fianco.
«Oh,
è… è di un mio amico»,
mormorò abbassando lo sguardo. «Jole,
mi… mi dispiace per prima, non volevo reagire in quel modo,
ma è stato del tutto…».
Scosse il capo con un sorriso
tenero sulle labbra e l’attirò in un abbraccio.
«Non ti preoccupare».
Evelyn sobbalzò a quella
dimostrazione di affetto e allo stesso tempo si sentì bene.
Era da tanto che non riceveva un abbraccio da un soggetto femminile,
era un calore diverso da quello che le diffondeva quello di suo padre.
«Sai… ogni
tanto potresti venire a casa mia a farmi compagnia, oppure anche a fare
shopping… questo bambino non si vestirà di certo
da solo».
«Sul serio,
posso?», le domandò con i lucciconi agli occhi,
stiracchiando un sorriso. Aiutare sua cugina avrebbe in qualche modo
lenito la ferita del suo cuore per quella terribile perdita?
«Ma certo!», le
scompigliò la frangetta. «E ora lo vuoi aprire o
no quel regalo? Sto morendo dalla curiosità!».
Evelyn ridacchiò e lo
aprì, estrasse la scatoletta blu al suo interno e ne tolse
il coperchio un po’ timorosa: che le avesse fatto un regalo
costosissimo, prendendola per la ragazza viziata che non era?
«Wow», disse
Jole, ammirando da più vicino il contenuto della scatola.
La ragazza tirò un
sospiro di sollievo e sorrise divertita, prendendo il braccialetto
dalle perline blu e azzurre e giocandoci con le dita, fino a quando non
notò il bigliettino sul fondo della scatoletta. Lo prese e
lo lesse mentalmente: “Fa schifo, lo so, ma appena
l’ho visto mi sei venuta in mente tu, i tuoi occhi. Spero ti
piaccia almeno un pochino”.
Evelyn si infilò il
braccialetto al polso. «Mi piace tantissimo».
Jole sorrise. «Si vede
che è un regalo fatto col cuore e non col portafoglio. Io ci
penserei su, a questo amico».
Le fece l’occhiolino e poi si alzò dal divano,
lasciandola sola.
Il cellulare che aveva lasciato
accanto a sé vibrò e le ricordò del
messaggio che non aveva ancora letto. Lo visualizzò e il suo
sguardo scivolò su quelle parole, su quel cuoricino alla
fine che, ne era certa, doveva aver fatto arrossire lo stesso Martin
mentre lo componeva sulla tastiera.
Buon Natale anche
a te, Martin. Grazie per il regalo, lo adoro! A domani…
<3
I love it
here, but I don't belong here
And it's been clear for a while, it will be clear
End of all the fights
***
«Noi andiamo!»,
esclamarono Jole e Leo, tenendosi per mano.
«Sì,
sarà il caso di andare via anche noi, Tom»,
aggiunse Linda, toccando il braccio del marito per attirare la sua
attenzione verso Arthur, addormentato sul divano, accanto al suo
cagnolino e fra le braccia di Franky.
«Okay». Si
alzò da tavola dando un pugnetto alla spalla del gemello,
che lo seguì a ruota e li accompagnò
all’ingresso, dove si misero i cappotti e raccattarono tutti
i vari regali da portare a casa. Tom vestì anche Arthur,
senza svegliarlo, e nel farlo si chiese che cosa dovesse fare con
Franky: lasciarlo lì a dormire o svegliarlo e portarlo a
casa, in modo tale da non rischiare che combinasse qualche altro
disastro con Evelyn?
Linda si avvicinò a lui
e, chinandosi facendo finta di aiutarlo con Arthur, gli disse:
«Lascialo dormire, dai. Se si sveglierà e
vorrà venire a casa verrà», come se gli
avesse letto nel pensiero. Tom annuì, anche se non del tutto
convinto.
«Il cagnolino ve lo porto
io», si offrì Jole per evitare che lo dovesse
prendere sua madre.
«Abbiamo preso
tutto?», domandò il chitarrista, caricandosi il
figlio in braccio e guardandosi intorno.
«Salutaci tanto Evelyn,
poverina doveva venirle mal di testa proprio stasera?».
«Non ti preoccupare
Linda: una bella dormita e domani mattina sarà di nuovo in
ottima forma», la rassicurò Bill, mentre la
salutava con due baci sulle guance.
Si salutarono e Bill rimase sulla
soglia ad osservare la famiglia di suo fratello dividersi e raggiungere
le loro auto, sulle quali poi si allontanarono nel freddo e nel buio
della notte.
Si chiuse la porta alle spalle e in
salotto raccolse un paio di pezzetti di carta che gli erano sfuggiti
precedentemente, poi si avvicinò a Franky, addormentato sul
divano, con la bocca socchiusa: sembrava un bambino e normalmente
avrebbe sorriso intenerito, ma quella sera, con tutto ciò
che era successo in quei giorni, non poteva far altro che assumere
un’espressione frustrata.
Mentre lo guardava,
ricordò quello che Lilith gli aveva detto due giorni prima.
«C-Come?
Il mio angelo custode? Ma non sei come tutti gli altri angeli
custodi…».
«Come
Franky, intendi dire?», gli domandò con un
sorrisetto.
«Lo
conosci?».
«Di
fama, sì».
«Che
cosa intendi dire?».
Lilith
scosse il capo. «Io sono diversa da Franky perché
sono un angelo custode temporaneo, diciamo che il mio è un
contratto a progetto: starò al tuo fianco fino al compimento
della mia missione, poi ti lascerò. Non ho le ali come
Franky e sono in forma umana perché sono speciale».
«E
quando mi sei stata assegnata? Franky me l’avrebbe detto di
sicuro, ma non mi ha mai parlato di te!».
«Franky
non sa», rispose con gli occhi grandi spaventati.
«Non sa nulla della mia missione, lui… lui non
voleva che venissi affidato ad un angelo custode».
«Che…
che cosa?», balbettò.
«Non
voleva che tu fossi aiutato da un angelo come di solito avviene in
questi casi; voleva che tu stessi male, che cadessi nella tentazione di
un’altra donna per far sì che Zoe lo scoprisse e
non volesse più tornare da te e tornasse con lui».
Bill
era sconvolto, incredulo. Non poteva essere così, Franky non
gli avrebbe mai fatto una cosa del genere. Eppure… lei era
il suo angelo custode, perché avrebbe dovuto mentirgli?
«Franky
non deve sapere niente, mi raccomando», gli disse.
«Ma…
ma lui mi legge nel pensiero…», soffiò.
Lilith
gli posò il pollice sulla fronte e lo tenne lì
premuto per qualche secondo, con gli occhi socchiusi. Poi lo
guardò e sorrise: «Risolto il problema».
Tornò a guardare Franky,
prese la coperta in plaid sullo schienale del divano e gliela
gettò addosso bruscamente.
Ti
odio, ti odio Franky.
Ma l’angelo non si
svegliò.
***
Evelyn si svegliò a
causa di quel maledetto mal di testa che le batteva sulle tempie. Si
mise seduta sul letto e decise di andare giù a vedere se era
il caso di prendere un’altra aspirina.
Per arrivare in cucina dovette attraversare il salotto e nel farlo si
accorse di Franky, addormentato sul divano. Si avvicinò a
lui, si mise seduta sul bordo del divano e lo scosse delicatamente.
«Franky? Franky,
svegliati», bisbigliò.
L’angelo
mugugnò qualcosa di incomprensibile ed
accartocciò il viso infastidito. Infine aprì gli
occhi e portò una mano sulla guancia di Evelyn,
gliel’accarezzò e sussurrò, con voce
roca: «Che cosa c’è?».
«Vieni su a dormire, il
divano è scomodo».
«No, in realtà
no…». Ma non si oppose più di tanto, si
lasciò tirare su ed aiutare a camminare verso le scale,
ancora mezzo addormentato.
«Hai mal di
testa?», le domandò nei pressi della sua camera.
«Sì, come fai
a saperlo?».
Perché
lo sento pure io. «Lo
so e basta».
Evelyn si chiuse la porta alle
spalle senza fare rumore e accompagnò Franky a letto, lo
fece sdraiare sotto le coperte ancora calde del suo calore e lei si
accucciò accanto a lui.
«Andiamo a fare una
passeggiata al campo di girasoli?», gli chiese dopo qualche
istante di silenzio in cui aveva ascoltato il suo respiro lento.
«No»,
bisbigliò l’angelo, mettendosi sul fianco, rivolto
verso di lei. L’abbracciò, se la strinse al petto
e le baciò la fronte un paio di volte, per poi affondare con
la testa nel cuscino che condividevano.
«Perché
no?».
«Sono
stanco…».
Evelyn sollevò il
sopracciglio. «Come mai?».
Forse
perché tu hai mal di testa e tua madre non è in
ottima forma e se i pezzi della mia anima che sono dentro di voi ne
risentono, ne risento pure io.
«È stata una giornata impegnativa»,
mentì sospirando. «Ti prometto che ci andremo uno
di questi giorni».
La ragazza annuì ed
abbassò il capo sotto il suo mento, posò la
fronte alla sua gola e sussurrò: «Hai scoperto
qualcos’altro per quanto riguarda mio padre?».
«Ah, sì. Oggi
sono andato di sopra, ho fatto qualche ricerca ed è proprio
come pensavo».
«Che cosa? È
grave?».
«Diciamo di
sì», sospirò, accarezzandole i capelli
sulla tempia. «Bill è stato attirato nella
trappola di un demone».
«Un… un
demone?», deglutì spaventata e le si presentarono
di fronte agli occhi le pupille verticali di Lilith.
«Di chi erano quegli
occhi?», le chiese subito Franky, alzandosi su un gomito,
improvvisamente sveglio. «Evelyn, di chi erano?».
«Della ragazza con la
quale papà ha ballato alla festa di beneficienza.
L’abbiamo incontrata oggi dopo la Messa e ho avuto una
sgradevolissima sensazione quando l’ho guardata negli occhi e
quando le ho toccato la mano per stringergliela ho preso la scossa.
Pensi… pensi che sia lei, il demone in cui papà
si è imbattuto?».
«Sì, non ci
sono dubbi. Tu sei riuscita a vedere e a sentire che c’era
qualcosa che non andava in lei
perché…», perché
hai un pezzo della mia anima dentro di te,
«perché noi due abbiamo un legame particolare. E
anche lei deve averlo notato».
«Credo di sì,
anche perché è andata via in fretta e furia, come
se avesse avuto paura di qualcosa».
«Ma
certo…», mormorò, meditabondo. Sa
che io ed Evelyn siamo così uniti, che ci amiamo, e
l’amore è una delle cose che i demoni fuggono di
più. Ha attaccato Bill sfruttando i suoi punti deboli, il
fatto che ora si sente così solo a causa di Zoe, e deve
avergli detto qualcosa su di me che lo ha portato ad odiarmi. E inoltre
gli ha bloccato la mente, in modo tale che io non potessi né
vederla né capire quello che stava succedendo a Bill. Ma si
sbaglia, se crede che riuscirà a fermarmi: Bill
può odiarmi quanto vuole, ma io lo salverò.
«Che cosa farai
ora?».
L’angelo la
guardò negli occhi dolcemente e le posò un bacio
sulla fronte. «Non ti preoccupare, tutto si
sistemerà per il meglio. Ora dormi, io sono qui».
Evelyn si strinse ancora un
po’ di più a lui, per trovare conforto, e con una
mano gli tastò il petto per trovare il punto preciso in cui
sentire meglio i battiti del suo cuore da angelo.
Vide il braccialetto dalle perline blu e azzurre al suo polso e le
venne in mente Martin, con il quale sarebbe dovuta andare ad una festa
la sera successiva. Era stato così carino… lo era
sempre stato, nei suoi confronti.
«Mi dispiace non averti
fatto alcun regalo», sussurrò Franky,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
«Franky…».
Evelyn sollevò il viso e lo guardò negli occhi
rapita, mentre lui le prendeva anche l’altra mano e la
portava insieme all’altra sul suo cuore, per poi posarci la
sua sopra.
«Ma tu hai già
tutto di me, hai preso tutto quello che possiedo, non ho nulla di nuovo
da poterti donare».
«Mi
dispiace…».
L’angelo capì
subito il vero significato di quelle parole ed accennò un
sorriso, avvicinandosi un po’ di più al suo viso,
tanto che i loro nasi si sfiorarono. «Martin è un
bravo ragazzo, non devi chiedermi scusa se ti piace. È
giusto così… Infondo, per quanto io ami stare qui
con te, per quanto ami te… io non appartengo più
a questo mondo e ogni giorno che passa ce ne accorgiamo un
po’ di più».
Evelyn gli avvolse le braccia
intorno al collo e lo attirò sopra di sé col
busto. Rimase in silenzio per qualche istante, giusto il tempo di
ricacciare indietro le lacrime e bearsi della sensazione del respiro di
Franky sul suo collo, fra i suoi capelli, poi mormorò:
«Gli ho parlato del nostro bambino… Gli ho detto
che è passato,
ma la verità è che non lo è affatto,
se non fisicamente».
L’angelo la strinse un
po’ di più a sé e sollevò il
viso per guardare il suo a distanza ravvicinata. «Devi
pensare che ora lui sta bene, è in un bel posto e forse
vivrà una vita migliore di quella che avrebbe vissuto con
noi due… Lascialo andare, lascialo».
Passò le dita sulle lacrime che le avevano bagnato le tempie
e posò la fronte contro la sua, ascoltando il suo pianto
silenzioso.
From the
dark, into the light
Goodbye
***
Bill si girò nel letto
per trovare una posizione migliore e trasalì quando scorse
la figura di Lilith al suo fianco, sulla parte di letto di Zoe, quella
vuota.
«Che ci fai tu
qui?!», gridò a bassa voce, sconvolto.
«Calmati, Franky in
questo momento non può vedermi, ho preso le mie
precauzioni», gli fece l’occhiolino e gli
scostò dalla fronte un ciuffo di capelli neri.
«Piuttosto, ti va di fare due chiacchiere?».
«In realtà,
sono piuttosto stanco…». Lo sguardo mellifluo di
Lilith, però, lo fece cedere con un sospiro.
«Volevo parlarti di Tom», incominciò la
ragazza, con tono tranquillo, come se Tom, quel
Tom, fosse una persona qualunque e non la persona più
importante della vita di Bill.
«Tom? Che c’entra Tom?».
«Beh, c’entra
eccome. Lui
e Franky fanno comunella, mi sembra un motivo più che valido
per parlarne! Credi che Tom non sappia nulla del piano
dell’angelo?».
Bill sgranò gli occhi. No,
tutti, ma non Tom…
«Non l’avrebbe mai fatto. Se l’avesse
saputo, Tom me l’avrebbe detto. È mio fratello
gemello, siamo come un’unica persona!».
Lilith sorrise
compassionevole. «Povero,
povero Bill. Tu non sai ciò di cui sono capaci gli
angeli… Sono bravi e buoni, ma se vogliono posso manipolare
le persone come preferiscono, le girano e se le rigirano…
Franky ha fatto così con tuo fratello, l’ha fatto
diventare un agnellino in modo tale da tenerti all’oscuro del
suo piano. Non l’hai notato un po’ strano in questo
periodo?».
«Beh, forse un
po’, ma…». No, non poteva essere vero.
«Sii
coerente. Nemmeno
io avrei mai creduto che Franky potesse arrivare a tanto,
però è quello che sta facendo. E se continui a
non fare niente, attirerà verso di sé anche tua
figlia Evelyn».
Il respiro di Bill si
spezzò. La sua Evelyn… No, non poteva
permetterglielo.
___________________________________
Ciao a tutti! :D
La situazione si fa intrigante, non
trovate? Quella Lilith... è un demone! Chi se lo sarebbe mai
aspettato u.u E ha messo Bill contro Franky e sta provando a
metterlo anche contro Tom! Che essere crudele, proprio in questo
momento delicato poi... Franky riuscirà davvero a salvare il
nostro cantante? *.*
Franky e Evelyn sembrano davvero uniti, ora più che mai, un
po' per il loro bambino e un po' perchè il loro amore
è grande... ma c'è anche Martin dietro l'angolo,
a cui Evelyn non è proprio indifferente...
Cosa farà il povero Franky se quei due...? Staremo a
vedere!! :D
Alla fine Arthur ha avuto il suo cucciolo *.* Tutto grazie a Franky,
ovviamente ;) Tom è davvero in debito con lui!
Credo di aver detto tutto quello che volevo dire... ah, la canzone che
ho usato è Goodbye di Kerli, piuttosto azzeccata per
quanto riguarda i passaggi in cui si parla del bimbo di Franky ed
Evelyn ç_ç
Spero che il capitolo vi sia
piaciuto e che lascerete qualche recensione ;D
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha letto
soltanto! Siete la mia gioia :)
Alla prossima! Con affetto, vostra,
_Pulse_ |
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Capitolo 19 *** Sunlight ***
Ho deciso di postare
stasera, in anticipo, per fare un piacere e ringraziare Nataly per le
sue magnifiche recensioni. Torna presto :)
19.
Sunlight
If all the flowers faded away
and if all the storm clouds decided to stay
then you would find me each hour the same
She is tomorrow and I am today
Kim alzò il viso verso
il cielo plumbeo sopra la sua testa e si coprì in fretta la
testa col cappuccio della felpa. Camminò per qualche minuto
sotto quella leggera pioggerellina che ben presto si
trasformò in un diluvio e si fermò di fronte ad
una tomba di marmo grigio. Vi si mise seduta sopra e con la punta delle
dita accese il lume al suo fianco, chiuse gli occhi e avvolse quella
piccola fiamma con il palmo della mano. Quando la liberò
essa non si spense al contatto con la pioggia, era come se avesse una
barriera intorno a sé a difenderla.
«Ciao Pete»,
salutò l’uomo della fotografia che la guardava
attraverso il vetro che la ricopriva. Ci passò sopra il
dito, per levare le gocce di pioggia, ed accennò un sorriso.
Abbassò le palpebre ed arricciò le labbra con le
dita ancora sofferme sul sorriso che aveva amato tanto tempo prima.
Gli occhi umani non potevano
vederla, ma si alzò e si allontanò comunque
quando vide una signora anziana fare il giro delle lapidi per andare a
trovare qualche parente scomparso.
La forza che aveva dato alla
fiammella per risplendere anche sotto la pioggia lentamente
diminuì, fino a spegnersi.
***
Margot l’aveva chiamata
quella mattina, del tutto all’improvviso. Non si aspettava
nessuna chiamata, tantomeno una da quella sua compagna di classe che a
malapena conosceva.
Le aveva chiesto se le andava di fare un salto a casa sua, giusto il
tempo di spiegarle quei rognosi esercizi di matematica. Evelyn non
aveva saputo bene cosa rispondere, quei giorni erano ancora quelli di
Natale e non voleva disturbare, ma Margot aveva insistito, dicendo che
probabilmente sarebbe stato l’unico giorno in cui avrebbero
potuto vedersi con un po’ di tranquillità, visto
che il suo ragazzo lavorava. Allora aveva accettato.
Guardò il portone del
condominio in cui abitava Margot e sospirò.
«C’è
qualcosa che non va?», le chiese suo padre, accigliato.
«No, stavo solo
pensando… Ti faccio uno squillo quando mi devi venire a
prendere, okay?».
«’kay, ci
vediamo dopo».
Evelyn annuì, si
infilò la borsa a tracolla sulla spalla e aprì la
portiera quel tanto che bastava per riuscire ad aprire
l’ombrello e non bagnarsi. Diluviava!
Corse sotto il piccolo portico e suonò al citofono. Quando
Margot le rispose e le disse il piano, salutò suo padre con
la mano e sgusciò all’interno del palazzo.
Preferì le scale all’ascensore e sul pianerottolo
del secondo piano vide Margot che l’aspettava: indossava una
vestaglia leopardata sopra il pigiama rosa, i capelli castani erano
acconciati alla bell’e meglio sulla nuca con un mollettone ed
era assolutamente senza trucco. Aveva davvero un bel viso, anche
così pulito.
«Ciao», la
salutò incerta sul da farsi.
«Lo so che faccio
spavento, ma non ti mangio». Le strappò un sorriso
e la fece entrare, spostandosi di lato.
Evelyn mormorò un
«Permesso» e dopo essersi pulita per bene i piedi
sullo zerbino entrò in casa. Si gettò
un’occhiata intorno e gliene bastò una sola per
capire che Margot doveva avere una sorellina piccola. Una terribile
fitta al cuore le fece pensare al modo più veloce per
andarsene, ma poi l’immagine del viso di Franky la fece
irrigidire sul posto, in una lotta interiore contro la parte di lei che
voleva solo fuggire.
«Scusa il
disordine», disse indicando con un cenno del capo il piccolo
salotto messo sotto sopra. «Accomodati pure, io arrivo fra un
attimo».
Margot si allontanò e si
diresse verso lo stretto corridoio che doveva portare alle camere da
letto. Evelyn la osservò per qualche secondo, poi si mise
seduta al tavolo ed iniziò a tirare fuori dalla borsa a
tracolla il libro e il quaderno di matematica, quando sentì
un fruscio alle sue spalle. Si voltò di scatto ed ebbe la
sensazione di aver visto un’ombra dirigersi verso il
corridoio, ma non ne era affatto sicura, tanto che non vi diede peso e
si disse che se l’era soltanto immaginata.
Aprì la pagina del libro
di matematica su cui c’erano gli esercizi che doveva fare, ma
l’occhio le cadde ancora una volta lungo il corridoio, fino
alla porta semiaperta della camera da letto. Vide la schiena di Margot,
china su un lettino; poi vide anche due braccina e due manine
sollevarsi per raggiungere il suo volto e sentì la sua
compagna di classe ridacchiare mentre prendeva in braccio quella che si
rivelò una bellissima bambina di non più di
cinque o sei mesi, con addosso una tutina rosa.
Un’altra fitta al cuore le fece abbassare gli occhi lucidi
sulle X e le Y scritte ovunque sul libro. Sentì i passi di
Margot avvicinarsi e cercò di riprendersi, ma fu ancora
peggio vedere da vicino quell’esserino così
perfetto e bello.
«Evelyn, sono felice di
presentarti la mia Cindy», la guardò amorevolmente
e le stampò un bacio sulla guancia paffuta.
«È…
è un vero piacere conoscerti, Cindy», rispose
Evelyn, senza riuscire a guardarla per più di due secondi.
«Ehi, è tutto
a posto?», le domandò Margot, sedendosi al suo
fianco con Cindy fra le braccia, una mano posata sul suo piccolo capo
ricoperto da un po’ di capelli castani.
«Sì, solo che
io… non me lo aspettavo…».
«Oh, non se lo aspetta
mai nessuno se è per questo», rise in modo amaro.
«Lo so benissimo di essere troppo piccola per avere una
figlia, ma…».
Evelyn sgranò di colpo
gli occhi e strisciò bruscamente la sedia
all’indietro, allontanandosi da lei, facendo un rumore
infernale che fece piangere la bambina.
«No Cindy, non piangere,
non è successo niente», la rassicurò
Margot, guardando Evelyn allibita. «Ma che ti è
preso, si può sapere?!», si rivolse a lei questa
volta.
«Lei
è… è tua figlia?», tremava
da capo a piedi e sentiva i battiti del suo cuore rimbombarle nei
timpani.
«Sì, hai
qualche problema?».
«Io… in
realtà… sì»,
annuì. Margot sollevò le sopracciglia e non disse
niente, ma il suo sguardo la intimò a continuare.
«Io… mi trovo a disagio con i bambini, diciamo
così, e il fatto che tu sia sua madre…».
«Ma è assurdo,
che cavolo di problemi hai?!».
«Io ho perso il mio
bambino», mormorò con la testa abbassata.
Margot si irrigidì ed
ammutolì. Stentava a crederci.
Evelyn, sull’orlo delle lacrime, sentì di nuovo
quello spostamento d’aria accanto a sé e
sollevò il capo. Al suo fianco vide, in maniera molto
sfuocata, una figura evanescente e con tanto di ali: un angelo. Era una
ragazzina che somigliava molto a Margot nei lineamenti e in quel
momento stava guardando proprio lei ed annuiva.
«Oh mio Dio»,
sfiatò Evelyn, del tutto inconsciamente.
Margot sobbalzò, notando
che la ragazza stava guardando verso ciò che non avrebbe
dovuto vedere, e cercò di nuovo lo sguardo del suo angelo
custode.
L’angelo si
voltò verso Evelyn ed accennò un sorriso.
«E tu, come fai a vedermi?».
Verena aveva tredici anni quando
era morta a causa di un incidente stradale. L’unica vittima;
suo padre, sua madre e la sua sorellina di dieci anni erano
sopravvissuti.
Era andata in Paradiso e lì aveva preso la sua scelta:
nonostante la sua tenera età, aveva deciso di diventare
l’angelo custode di sua sorella minore. Aveva studiato e nel
giro di sei mesi era scesa di nuovo sulla Terra per proteggere e per
stare accanto a Margot. Aveva deciso di farsi vedere solo da lei, da
nessun altro; nemmeno suo padre e sua madre sapevano della sua
esistenza, Margot aveva sempre fatto in modo che restasse un segreto
fra loro, che non si erano mai lasciate, che non avrebbero mai voluto
farlo e che si erano ritrovate anche dopo la morte di una delle due.
Da quel giorno erano sempre state insieme – senza contare i
periodi di relativa serenità di Margot nei quali Verena era
tornata in Paradiso per continuare a studiare e a specializzarsi nel
suo campo, ma senza mai perdere di vista la sorella.
Quando Margot aveva scoperto di essere incinta, Verena aveva capito
subito che sarebbe stato un periodo molto difficile per lei, quindi si
era trasferita sulla Terra. E, come aveva previsto, i problemi furono
parecchi. Prima arrivò la batosta da parte dei suoi genitori
– che nel frattempo avevano divorziato – che non
volevano assolutamente che lei tenesse il bambino. Margot e il suo
fidanzato avevano deciso di tenerlo e così avrebbero fatto,
non erano intenzionati a cedere, e la ragazza si era ritrovata in mezzo
alla strada, rifiutata da entrambi i genitori. Per un breve periodo
avevano vissuto a casa dei genitori di Klaus, che dopo qualche tempo
avevano accettato la situazione e si erano messi il cuore in pace, poi
lui aveva iniziato a lavorare e si erano trasferiti in un piccolo
appartamento in un condominio, quello in cui abitavano
tutt’ora pagando l’affitto.
A causa di tutto ciò e della gravidanza, Margot aveva perso
l’anno scolastico e per questo si era ritrovata nella classe
di Evelyn, quella ragazza che non aveva mai calcolato e che anzi, aveva
sempre catalogato viziata e vanitosa come la maggior parte dei suoi
compagni di classe, ma con la quale aveva così tante cose in
comune.
«Quindi è tua
madre, che ha un angelo custode», ricapitolò
Margot, guardandola negli occhi.
Evelyn annuì col capo e
gettò un’occhiata a Verena, che la osservava con i
suoi occhi vispi e attenti che la mettevano un po’ a disagio.
Che le stesse leggendo nella mente tutto ciò che era
successo con Franky?
Verena sorrise e spostò
lo sguardo sulla sua nipotina, che stuzzicò pizzicandole il
nasino.
«Tutto quello che ti è successo mi
addolora», esordì, con un sorriso amareggiato
sulle labbra. «Essendo un angelo custode, riesco a sentire
ciò che provano il tuo cuore e la tua anima e devo dire che
sei molto più forte di quanto tu creda. Forse hai un unico
difetto», tirò su l’indice, che
posò sulle labbra. «Scappi. Scappi dal dolore,
piuttosto che affrontarlo. È per questo che hai reagito
così, prima, quando hai visto Cindy e hai scoperto che era
la bimba di Margot».
La biondina annuì
ancora, abbassando il capo. Tutto ciò che aveva detto
l’angelo era giusto, ma forse non era abbastanza forte per
affrontare a viso aperto il dolore. Forse era troppo anche per lei.
«Ti andrebbe
di…». Verena si interruppe per prendere Cindy fra
le braccia ed avvicinarsi ad Evelyn. «Vuoi tenerla in
braccio?».
Il cuore di Evelyn
schizzò nella sua gola. La sua mente le disse immediatamente
di rifiutare, ma quello stesso cuore che spaventato aveva tentato di
fuggire dal suo stesso corpo, all’improvviso le diffuse uno
strano coraggio nel petto e la forza per dire di sì.
Verena porse ad Evelyn la piccola
Cindy e lei, in modo un po’ impacciato, se la strinse al
petto facendo attenzione a reggerle il capo con la piega del gomito. La
bambina aprì gli occhioni e continuando a succhiare il
ciuccio la fissò con intensità. Ad Evelyn nacque
un sorriso del tutto spontaneo sulle labbra.
«Ciao»,
soffiò. Le infilò un dito nella manina paffuta e
se lo sentì stringere. Il suo cuore sanguinò, ma
quel sangue le riscaldò il petto, la fece sentire forte,
cacciò via tutto il dolore.
«Beh, direi che
matematica potremo farla un altro giorno», disse Margot tutto
ad un tratto e sia Verena che Evelyn risero, incontrando lo sguardo
dell’altra.
***
Aprì gli occhi,
svegliato dalla suoneria del suo cellulare. Lo prese dal comodino e con
l’intenzione di farlo tacere rispose alla chiamata
portandoselo all’orecchio e mugugnando:
«Pronto?».
«Tom, ti ho
svegliato?».
«Sì Bill, lo
hai fatto. Spero che almeno sia una cosa
importante…». Si passò una mano sugli
occhi e si stiracchiò.
«Sì, lo
è», rispose con tono serio. «Franky
è nei paraggi?».
«Che cosa? No, non so
nemmeno dove sia, mi sono appena svegliato! Perché,
è successo qualcosa?».
«No. Ascoltami,
Tom… io so che cos’ha in mente, non devi
più mentirmi. Devi smetterla di stare sotto il suo comando,
okay?».
«Ma che cosa ti sei
fumato, posso saperlo? Io non sto al comando di nessuno! E poi quale
sarebbe il suo piano?».
«Tom, ti ho detto di
smetterla di fare il finto tonto! Lilith mi ha detto tutto!».
«Ci sto capendo sempre
meno. Di che cazzo stai parlando?».
«Lei è il mio
angelo custode. È una storia troppo lunga per spiegartela
tutta, ma devi ascoltarmi Tom: devi stare lontano da Franky,
è cambiato, non vuole più il nostro bene, lui
vuole tornare con Zoe, vuole che io soffra come un cane! Devi
cacciarlo!».
Tom, incredulo, si alzò
ed iniziò a camminare nervosamente su e giù per
la stanza. «Senti Bill, qualsiasi cosa ti abbia detto questa
Lilith è una stronzata. Franky non farebbe mai una cosa del
genere, lo sai benissimo. O sei così stupido da credere a
tutto ciò che ti si dice?».
«Allora è
peggio… è ancora peggio di quanto pensassimo! Tu
stai dalla sua parte di tua spontanea volontà!
Perché vuoi che io soffra, Tom?», gli
domandò in un singhiozzo.
«Io non
–», provò a ribattere, ma il fratello lo
interruppe.
«Non me lo sarei mai
aspettato da te, Tom… Adesso devo andare, ciao» e
fece terminare la chiamata.
Il chitarrista rimase, in boxer e
maglietta intima, a guardare il display del suo cellulare per qualche
secondo, poi corse a cercare Franky, sperando che fosse in casa.
Controllò dappertutto, ma di lui nemmeno una piuma.
L’unico posto che gli mancava da controllare era la stanza
insonorizzata che usava da studio, nella quale c’erano tutte
le sue chitarre e il pianoforte. Lì trovò
l’angelo, seduto sullo sgabello di pelle nera, che sfiorava i
tasti bianchi e neri con la punta delle dita. Delle note dolci si
diffondevano in tutta la stanza e fecero accapponare la pelle al
chitarrista, che rimase ad ascoltare quella melodia paralizzato sul
posto.
L’angelo
continuò a suonare, a muovere fluidamente le mani sulla
tastiera, creando la dolce melodia che Tom aveva sentito più
e più volte nei suoi sogni più belli. Aveva
provato e riprovato a buttarla giù, a riprodurla e a farla
propria, ma ogni volta che si metteva seduto di fronte al pianoforte
tutto ciò che aveva creduto di sapere fino ad un secondo
prima spariva e non sapeva nemmeno dire se la nota di inizio fosse un
FA oppure un LA. Ora capiva, capiva perché non ci era mai
riuscito: era una melodia troppo elevata per uno come lui, era la
melodia di un angelo, di Franky. Sembrava che fosse il suo cuore a
suonare, il suo cuore grande e pieno d’amore.
All’improvviso la melodia si frantumò a causa di
un disastro di note stonate: Franky aveva posato entrambi i palmi delle
mani sulla tastiera, con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
«Hai capito che cosa sta
succedendo?», gli domandò Tom, preoccupato.
L’angelo
mormorò: «È passata alla fase due:
aumentare ancora il suo odio verso di me e cercare di allontanarti da
lui. D’altronde, è amore anche quello
fraterno…».
«Quindi è
proprio lei, è la ragazza che ha incontrato alla festa che
gli sta facendo questo. Ma perché? Perché proprio
lui?».
«È un
bersaglio facile. Ed è circondato da persone che lo amano e
che cercano in tutti i modi di aiutarlo, cose che i demoni non fanno
altro che combattere. Beh, sai che cosa fanno gli angeli in questi
casi?».
«Cosa?».
Franky si alzò dallo
sgabello e senza sollevare lo sguardo né le mani dalla
tastiera, disse: «Passano al contrattacco».
Tom rabbrividì e fece un
passo avanti. L’angelo alzò di scatto la testa e
lo guardò negli occhi per rispondere alla domanda che aveva
già letto nei suoi pensieri: «Non
c’è altra soluzione. Se vogliamo che se ne vada e
che lasci stare Bill, devo affrontarla a viso aperto».
«L’hai mai
fatto prima?».
«No. Ma non è
questo il problema». È
che sono debole. Sono certo che lei ne è a conoscenza e che
saprà giocare a suo favore questa carta. Devo stare attento.
«Scusate, non ho potuto
fare a meno di sentire».
Tom sobbalzò, preso alla
sprovvista, e si girò. «E tu che ci fai
qui?», chiese con voce leggermente acuta a Kim, che non
faceva altro che guardare Franky, preoccupata per lui. Un demone da
combattere era l’ultima cosa che ci voleva.
«Sono passata a salutare
un mio amico e già che c’ero sono passata a
salutare anche Franky. Ho sentito ciò che vi siete
detti».
«Hai qualche alternativa
da proporre? Sai, non sono proprio tranquillo sapendo che il mio
migliore amico andrà a lottare contro un demone che
chissà quale orribile aspetto ha sotto il corpo –
un bel corpo, non c’è che dire… tutto
al posto giusto…».
«Tom», lo
rimproverarono entrambi e lui scosse il capo.
«Scusatemi, è
che… questi demoni sono proprio furbi!».
Franky accennò un
sorriso divertito, Kim invece rimase impassibile: non era proprio il
momento adatto. Infatti, chiese al chitarrista di lasciarli da soli.
Tom scambiò uno sguardo con Franky e dopo il suo consenso
uscì dalla stanza insonorizzata, chiudendosi la porta alle
spalle.
Kim non si sarebbe mai aspettata
che Franky l’abbracciasse così, gratuitamente, ed
infatti rimase con le braccia ciondolanti lungo i fianchi per un
po’, ma alla fine riuscì a ricambiare la stretta.
La vicinanza e il contatto col suo corpo le permise di leggere tutto
quello che gli passava per la testa senza che lo volesse veramente. In
un attimo seppe perfettamente tutto quello che stava passando
emotivamente ed aumentò la stretta. Tutto, poteva farle di
tutto, ma non sbandierarle in faccia quanto stesse male per colpa di un
amore che non avrebbe potuto far fiorire, che gli avrebbe portato solo
dolore. Un amore come il suo.
Franky capì di averle
involontariamente mostrato tutto, tra cui anche la paura di vedere
ancora una volta coi propri occhi un altro ragazzo accarezzare e
baciare la ragazza per la quale avrebbe fatto di tutto. Per questo si
ritrasse dall’abbraccio con ancora più vergogna in
corpo, manifestata anche attraverso il rossore sul viso.
«Mi dispiace, non
volevo», mormorò.
Kim gli sorrise rassicurante e
scosse il capo, accarezzandogli le guance. «È
tutto a posto», bisbigliò e chiuse gli occhi
posando una mano sul petto dell’angelo, che la
guardò mentre una luce calda usciva dal suo palmo e si
insinuava nel suo cuore, calmandolo e dandogli la forza. In quel modo,
però, l’angelo speciale riuscì a
percepire anche ciò che di più profondo celava
dentro di sé, ossia la stanchezza che aveva iniziato ad
accompagnarlo in quei giorni, come se la sua anima avesse
subìto una ricaduta dopo il periodo in cui sembrava essersi
ripresa.
Kim sollevò lo sguardo,
in pena per lui, ma Franky le posò le dita sulle labbra e fu
lui quella volta a scuotere il capo e a dire: «È
tutto a posto».
She lives in a daydream where I don't
belong
She is the sunlight and the sun is gone
Evelyn aveva avvisato suo padre che
sarebbe stata a casa di Margot più del previsto, quando
invece aveva aspettato sotto la pioggia il primo autobus che portava
nelle vicinanze di casa di suo zio per poi farsi un pezzo a piedi.
Abbandonò il suo
ombrellino zuppo di pioggia sotto la veranda e suonò il
campanello. Chi le venne ad aprire le fece ingoiare un nodo grosso come
una casa e il suo sorriso luminoso si affievolì
all’istante. Che ci faceva Kim a casa di suo zio?
«Ciao Evelyn»,
la salutò la ragazza in forma umana, alzando una mano.
«Ciao»,
biascicò la biondina, entrando in casa guardandosi i piedi.
«Evelyn!»,
esclamò Franky appena la vide, alzandosi dal divano rapido
come una molla. «E tu, che ci fai qui?».
«Disturbo?»,
domandò guardando prima lui e poi l’angelo
speciale che si era tirata in disparte.
«No, certo che
no!», gridò stridulo Franky, diventando rosso come
un peperone.
Kim, vedendolo in
difficoltà, intervenì in suo aiuto:
«Sono passata soltanto a salutarlo, visto che mi trovavo per
strada. Me ne stavo giusto andando».
Evelyn annuì e
l’angelo speciale fece lo stesso, poi salutò
Franky con un cenno della testa e se ne andò, diventando
invisibile. Un pesante silenzio calò su di loro e Franky
sospirò pesantemente, lasciandosi cadere di nuovo sul
divano, con le mani sulle gambe e un piede sopra l’altro.
«Franky mi dici come
cavolo inizia quella melodia che hai suonato prima, io davvero
–!». Tom si bloccò nel bel mezzo della
frase e si fermò alla soglia del salotto, dove vide la
nipote e l’angelo. Capì subito che non tirava una
bella aria, quindi farfugliò: «Okay me lo dici
dopo» e girò i tacchi.
Franky si passò le mani
sulla faccia e sospirò. «Dovevi dirmi
qualcosa?», le chiese con voce incerta, che faticava a non
far tremare.
Evelyn avanzò
d’un passo e con movimenti quasi meccanici si mise seduta
sull’altro lato del divano, lontana da lui. Non lo
guardò quando rispose, fissò il tappeto:
«Ho scoperto che Margot, una mia compagna di classe, ha un
angelo custode. E ho scoperto anche che Margot è una ragazza
madre. Ho tenuto la sua bimba in braccio, ero così felice di
poterti dire che forse avevo qualche possibilità di
farcela… Perché lei era qui?».
L’angelo scosse il capo
ed appoggiò gli occhi ai palmi delle mani, coi gomiti
puntati sulle ginocchia. «Non è come pensi
tu», sospirò.
«Franky», lo
chiamò con più fermezza che poté.
«Guardami negli occhi». L’angelo
sollevò lo sguardo ed incontrò quello di Evelyn
ad attenderlo, uno sguardo triste e colmo di lacrime.
«C’è stato qualcosa fra voi due,
vero?».
Franky socchiuse gli occhi e
deglutì. Sentì il suo cuore cadere sul fondo
della sua anima con un tonfo sordo.
«Ti prego,
rispondimi…», singhiozzò.
«È successo
solo una volta», mormorò lugubre. «Ed
è stato un errore, un enorme sbaglio
che…».
«Quando».
«Eh?».
«Quando»,
ripeté Evelyn, impassibile.
Franky esitò, ma poi
confessò abbassando il viso ed unendo le mani:
«Qualche ora dopo averti salvata dalle grinfie di
Samuel».
Il respiro di Evelyn
tremò tanto da somigliare a più singhiozzi mixati
insieme. Ora capiva perché Kim si era comportata in quel
modo con lei il pomeriggio in cui aveva accompagnato da loro sua madre.
Che anche Kim fosse innamorata di Franky?
Si alzò dal divano e si
girò, pronta per andarsene, quando l’angelo le
prese una mano e le disse: «Per favore, Evelyn,
resta».
«Stasera devo
uscire», biascicò mentre le spalle iniziavano a
tremarle, squassate dai singhiozzi che stava soffocando in gola.
«Devo andare a casa a prepararmi».
La batosta più dolorosa
gliela infierirono i suoi pensieri, perché gli fecero capire
con chiarezza con chi sarebbe uscita quella sera: con Martin. Era
già arrivato il momento di mettersi da parte? Poteva
sopportarlo una seconda volta?
«Ma diluvia»,
disse nell’ultimo tentativo di farla rimanere.
«Ho
l’ombrello». Si liberò definitivamente
della sua stretta flebile ed andò alla porta infilandosi la
borsa a tracolla sulla spalla. Esitò un attimo con la mano
sul pomello, ma non tornò sui suoi passi: se ne
andò.
Franky rimase a fissare il legno
della porta e, oltre di esso, Evelyn ricurva sulle spalle che si
asciugava le lacrime dal viso, si infilava il cappuccio sulla testa e
correva sotto la pioggia col suo ombrello, allontanandosi in fretta da
quella casa, da lui.
Evelyn faticava a vedere
nitidamente dove andava a causa delle lacrime e della pioggia. Ma vide
benissimo la figura che sogghignando le stava venendo incontro col
cappotto e l’ombrello neri. La ragazza non le
badò, la superò come se nulla fosse, ma Lilith ci
mise poco ad affiancarla.
«Siamo
nervose?», le domandò con fin troppa ironia nella
voce. Sapeva già ciò che era successo.
«Lasciami
stare», le rispose stizzita, massaggiandosi il naso con la
mano. Ora che ci faceva caso, anche lei riusciva a sentire uno strano
odore provenire dalla ragazza/demone.
«Ah, piccola ingenua
Evelyn… il fatto che Franky sia un angelo non vuol dire che
non sia un uomo. E sai, gli uomini sono tutti uguali, sono capaci solo
di far soffrire».
«Ti ho detto di lasciarmi
stare», ripeté digrignando i denti.
«Non ci ha pensato due
volte prima di andare a letto con Kim, forse perché in
realtà non ti ama. Anzi, non gliene importa proprio niente
di te, di ciò che avete passato insieme».
«Stai zitta! STAI
ZITTA!», strillò con le lacrime che le rigavano il
viso, un po’ per ciò che aveva scoperto e un
po’ per il nervoso. «Con chi credi di avere a che
fare?! Io so benissimo cosa sei, qual è il tuo compito! Non
mi incanti, i tuoi trucchetti non funzionano con me!».
Lilith le prese il polso destro e
la fece voltare verso di sé con uno scatto brusco, tanto da
strapparle un gemito di dolore. I loro ombrelli caddero a terra e i
loro capelli iniziarono a bagnarsi sotto al pioggia, ad appiccicarsi ai
loro visi. Evelyn la guardò negli occhi e li vide nella loro
vera natura: grandi, verdi smeraldo e con le pupille nere verticali.
«Forse sai che cosa sono,
ma non sai con chi hai a che fare. Non mi stuzzicare,
ragazzina», la minacciò e pure la sua voce, di
solito dolce e gentile, si era trasformata come i suoi occhi: era roca
e profonda, spettrale.
«Levami le mani di dosso,
il tuo fetore mi sta soffocando», le rispose a tono Evelyn,
per nulla intimorita, e nel momento in cui Lilith sembrava volerle
assestare un ceffone in pieno viso, Franky intervenne.
Le fu addosso in un attimo, tanto
che la biondina non capì perché Lilith
l’avesse lasciata andare così
all’improvviso. Franky la fece cadere a terra e le
bloccò i polsi con le mani, ma il demone si
liberò in fretta, assestandogli un calcio nello stomaco.
Lilith balzò via e li guardò entrambi con astio,
poi scoppiò in una risata isterica guardando Evelyn. Franky,
che aveva già capito quello che aveva intenzione di fare,
gridò: «Non lo fare. Non lo fare, o io
ti…!».
Ma nulla impedì al
demone di urlare: «Ragazzina, per quale motivo credi che
Franky non si sia fatto subito vedere quando hai perso il vostro
bambino? Eh?! Non hai pensato che forse, forse, è stato
così codardo da non dirti nemmeno il vero
motivo?!».
«Perché
ti
ostini a parlare, io non credo a nessuna
parola di quello che dici!», gridò Evelyn.
«Ah no? Nemmeno se ti
dicessi che è stato lui, proprio il tuo amato Franky, ad
interrompere la tua gravidanza?! Ad ammazzare
vostro figlio?!». All’espressione traumatizzata di
Evelyn, la ragazza/demone scoppiò di nuovo a ridere.
«Oh, poverina…».
«Tu»,
sibilò Franky, stringendo i pugni lungo i fianchi, col viso
rosso di rabbia e le vene sul collo che gli pulsavano. «Io ti
distruggo!». Corse
verso di lei e sferrò un pugno, ma tagliò
soltanto l’aria. Lilith si era spostata e ora si trovava
dietro Evelyn, che aveva abbassato il viso e si era stretta nel suo
abbraccio.
«Mi dispiace,
piccina», le sussurrò all’orecchio,
posandole una mano sulla testa. «Non avrei
voluto
dirtelo, ma mi avete
costretto».
Franky gridò ancora di
rabbia e corse verso di lei un’altra volta, ma Lilith
scomparì ancora prima che la raggiungesse, lasciando dietro
di sé l’eco di una risata. Allora
l’angelo sospirò frustrato e trattenne i
singhiozzi in gola, mentre le lacrime gli rigavano le guance insieme
alla pioggia del cielo.
«Mi dispiace»,
singhiozzò disperato. «Mi dispiace Evelyn,
io… Non avevo alternative, capisci? Evelyn…». Si
aggrappò alle sue spalle, la strinse più forte
che poté, ma non sentì nulla dentro di lei: era
come… svuotata. «Non mi perdonerò mai
per quello che ho fatto, ma almeno… perdonami tu».
Rimasero per qualche minuto
lì abbracciati sotto la pioggia. L’angelo
continuò a piangere, la ragazza rimase impassibile fino a
quando non si scostò dolcemente e sussurrò, con
la poca voce che le era rimasta infondo alla gola: «Adesso
devo andare a casa».
Franky non poté fra
altro che scostarsi e lasciarla andare, senza aggiungere altro.
Una volta lontana, lui spalancò le sue grandi ali candide e
spiccò il volo sotto la pioggia che le appesantiva
rendendogli il viaggio ancora più faticoso di quanto non lo
fosse già.
Evitò di pensare a
quello che era appena successo, ma era come se la sua mente fosse
contro di lui in quanto continuava a mostrargli gli occhi sofferenti di
Evelyn, la sua smorfia al posto del sorriso, e gli ricordava che la
causa della sua sofferenza era lui.
Stanco, dovette scendere a terra.
Si rese conto di essere in mezzo ai campi solo quando, barcollando,
cadde in un campo senza grano. Si sporcò tutto di terra, ma
non se ne accorse nemmeno.
Camminò per un po’, ciondolando di qua e di
là, con la vista offuscata dalle lacrime che si mescolavano
alla pioggia sul suo viso. Giunse alla carcassa della vecchia auto che
conosceva e si accasciò sopra la fiancata,
appoggiò le mani al finestrino posteriore e
all’interno, sui sedili rovinati, vide ancora la madre e i
fratellini del cucciolo che ora abitava con Arthur. Si
infilò nell’abitacolo per proteggersi dalla
pioggia e rimase ad osservare la cagna – magrissima
– e i cagnolini che ogni tanto la leccavano, guaendo. Franky
avvicinò la mano e con le ultime energie che gli rimanevano
in corpo accarezzò il petto della cagna: la flebile luce che
uscì dal suo palmo avvolse il suo cuore debole, dandole un
attimo di vita in più, ma non c’era più
niente da fare per lei.
L’angelo
appoggiò la guancia al poggiatesta del sedile anteriore su
cui era seduto e pianse come quei cagnolini che avevano appena perso la
mamma.
If loving her is a heartache for me
and if holding her means that I have to bleed,
then I am the martyr and love is to blame
She is the healing and I am the pain
Evelyn arrivò a casa
bagnata fradicia. Bill era in salotto a guardare la tv e la vide
subito. La raggiunse preoccupato che potesse esserle accaduto qualcosa,
ma la ragazza lo scostò senza energie e disse che era
soltanto stanca e che le serviva una doccia.
«E in queste condizioni
credi di riuscire ad uscire, stasera?», le domandò
quasi come se fosse un rimprovero, tenendo i pugni stretti contro i
fianchi.
«Sì, direi di
sì», mormorò frizionandosi i capelli
mentre saliva i primi gradini delle scale di vetro.
Sentì suo padre
sospirare pesantemente e finì la rampa, camminò
lungo il corridoio fino a quando le sue gambe non cedettero sotto tutto
il peso che si era trovata tra capo e collo. Si lasciò
scivolare contro la parete, poi gattonò fino al bagno
trascinandosi sulle ginocchia, lasciandosi dietro di sé una
scia di gocce d’acqua salata. Si chiuse dentro con una
mandata di chiave e allora si lasciò andare senza riserve:
si accasciò sul pavimento e pianse fino all’ultima
lacrima che i suoi occhi furono in grado di creare.
Con tutto quello che avevano
passato insieme… Franky era riuscito ad andare a letto con
un’altra, mentre lei scopriva che era incinta di suo
figlio. Ricordò
il sogno che aveva fatto la notte in cui aveva scoperto che il suo
bambino non c’era più: Franky glielo aveva portato
via davvero, Franky era la
causa della perdita del suo bambino. Del loro
bambino. Come aveva potuto fare una cosa del genere? Era inconcepibile.
Perché aveva voluto farla soffrire in quel modo,
perché aveva voluto far soffrire se stesso in quel modo?
Perché era ovvio, glielo aveva letto negli occhi e lo aveva
sentito dentro di sé come se quel dolore fosse suo, che
anche lui era stato male e stava male tutt’ora. Come poteva
sopportare una cosa del genere? Perché aveva lasciato che
Lilith glielo dicesse, perché non aveva nemmeno provato a
dirle una bugia, a dirle che non era vero niente? Forse
perché da solo non ce l’avrebbe mai fatta a
superare tutto il male e tutto l’odio che provava verso se
stesso.
‘Cause if right is leaving I'd
rather be wrong
She is the sunlight and the sun is gone
***
Tom schizzò in piedi
quando sentì la porta di casa aprirsi, ma venne trafitto da
un filo di delusione: pensava che Franky fosse tornato e invece erano
solo Linda e Arthur, di ritorno dal loro pomeriggio passato da Jole.
«Ciao», lo
salutò la moglie e le bastò uno sguardo per
capire che suo marito era agitato. «Tom, che è
successo?».
«No,
niente…», scosse il capo, stiracchiando un
sorriso. Non voleva farla preoccupare; conoscendola, se le avesse detto
ciò che era successo lo avrebbe mandato fuori a cercarlo. E
forse era quello che aspettava di sentirsi dire, perché non
si fece ripetere la domanda, ma aggiunse direttamente: «Prima
è venuta qua Evelyn e ha beccato Franky e Kim. Non stavano
facendo nulla di male, per carità, ma hai presente come
reagiscono le femmine vedendo una rivale, no? Ecco, credo che abbiano
litigato. Franky è uscito di casa in fretta e furia, sotto
il diluvio, e non è ancora tornato». Si
lasciò andare ad un respiro profondo, come se fosse stato in
apnea per tutto quel tempo, ed alzò lo sguardo per
incontrare quello di Linda, già in ansia.
«Tom… mi
sentirei più tranquilla se tu andassi a cercarlo»,
gli disse, come per altro aveva previsto.
«Okay, ci vado
subito», rispose senza alcuna esitazione, annuendo.
«E lo
trovassi», concluse Linda con voce strozzata.
Tom si avvicinò a lei,
le prese delicatamente il mento fra le dita e la guardò
negli occhi: ormai Franky era diventato parte della loro famiglia, era
come un terzo figlio per Linda e con lui si comportava esattamente come
una mamma. A Tom faceva piacere, ma era anche preoccupato
perché vivendo con lui per così tanto tempo aveva
iniziato persino a ragionare come lui: aveva paura che Linda e Arthur
si affezionassero troppo, tanto da soffrire al momento del suo ritorno
definitivo in Paradiso.
«Lo
troverò», le promise. «O mi
troverà lui».
Linda accennò un
sorriso, tirando su col naso, e gli prese il viso fra le mani per
posargli un leggerissimo bacio sulle labbra.
Tom lo cercò
dappertutto. Era ormai convinto che fosse tornato per un po’
in Paradiso, per stare un po’ da solo, quando gli venne in
mente il luogo in cui avevano salvato Evelyn dall’aggressione
di quel ragazzo che la maltrattava: i campi non lontani da casa di
Bill. Dovevano avere un significato particolare per Evelyn, da quello
che aveva capito, quindi era molto probabile che ne avessero anche per
Franky.
Tentar
non nuoce, si disse e
guidò attraverso i corridoi creati fra i diversi campi,
senza scorgerlo, complice l’oscurità e la pioggia
fitta che non dava pace.
All’improvviso i fari
della sua auto illuminarono una vecchia carcassa d’auto e
seduto sul sedile del conducente, con la testa appoggiata al vetro del
finestrino, vide la figura evanescente di Franky. Si ricordò
di quando aveva portato a casa di Bill il cucciolo di Arthur e aveva
spiegato che l’aveva trovato in una vecchia auto abbandonata,
in mezzo ai campi.
Con il cuore in gola
uscì dall’auto, si diresse verso
quell’ammasso di lamiere che grazie al cielo stavano ancora
insieme e vi si infilò dentro.
Guardò senza fiato l’angelo svenuto, sporco di
terra e con i segni delle lacrime ancora sul viso. Si voltò
e guardò i cuccioli tremanti che si stringevano al corpo
della loro mamma che evidentemente non era in grado di offrire loro
calore. Tom provò una sensazione di repulsione, quando si
accorse di quanto quella cagna e Franky fossero simili.
Cercò di rianimare
l’angelo, scrollandolo per le spalle, ma non ci
riuscì. Uscì dall’auto sgangherata,
fece il giro ed aprì la portiera a cui era appoggiato
l’amico, lo prese fra le braccia proteggendogli la testa e
corse verso la sua macchina ancora coi fari accesi. Lo stese sui sedili
posteriori e stava per mettersi al posto di guida, quando lo sguardo
gli cadde su un cagnolino che era uscito dal veicolo in decadenza di
fronte a loro. Si stava inzuppando tutto sotto quella pioggia e faceva
fatica a tenere gli occhietti completamente aperti a causa dei fari
puntati proprio contro di lui, ma lo guardò comunque con
un’intensità tale da farlo scendere di nuovo:
prese lui e i suoi fratellini senza madre, li avvolse dentro il suo
cappotto e li sistemò sul sedile accanto al suo,
intimandogli di fare i bravi e di non sporcargli tutti gli interni,
visto che bastava già il cappotto.
Ritornò a casa e prima
pensò a Franky, che fu costretto ancora a sollevare
poiché non dava segni di ripresa. Si fece aprire la porta e
Linda appena lo vide ebbe un tuffo al cuore.
«Che cosa gli
è successo?», strepitò a bassa voce,
spostandosi per far passare il marito e superandolo per stendere una
coperta sul divano del salotto, su cui lo stesero momentaneamente.
«Non lo so»,
rispose Tom col fiato corto. «So solo che non è
normale. Non riesco a svegliarlo».
I due si guardarono negli occhi,
preoccupati, poi tornarono a contemplare il viso sporco di Franky, ma
che esprimeva comunque la sua tremenda dolcezza.
«Vado a prendere qualcosa
con cui pulirlo», disse Linda, dirigendosi verso il bagno.
«Io vado a prendere i
suoi amici, saranno più che affamati».
La donna lo guardò in
modo interrogativo. «Chi sono i
suoi amici?».
«Quelli che erano con lui
quando l’ho trovato», rispose prima di uscire dalla
porta di casa per tornare alla macchina.
Quando tornò, vide Linda
seduta al fianco dell’angelo, che gli puliva il volto con un
asciugamano bagnato che ogni tanto inzuppava nella bacinella
d’acqua calda ai suoi piedi. La osservò passare la
punta dell’asciugamano sulla sua fronte liscia, sulle
sopracciglia e sulla linea del suo naso; sulle sue guance rosate a
causa del freddo e sul suo mento. Levò ogni
impurità dal suo viso e quando finì, sembrava
dipinto nel marmo: bello quanto immobile. Vederlo così fece
male a Tom: somigliava così tanto al Franky che aveva visto
passare all’altro mondo…
I quattro cuccioli che teneva nel
cappotto fra le sue braccia guairono affamati ed infreddoliti e sia lui
che sua moglie posarono lo sguardo su quel grande fagotto.
«Tom,
cosa…?», sussurrò Linda, con gli occhi
sbarrati.
«La loro mamma
è morta. Non potevo lasciarli lì a morire di fame
e di freddo, io…».
Linda starnutì,
interrompendolo. Si portò una mano sul naso e la bocca e
strizzò gli occhi lucidi. «Accidenti»,
biascicò.
«Mi dispiace Linda, sul
serio…».
«No… non
è…». La donna si immobilizzò
sul posto quando sentì il tocco leggero di una mano
sfiorargli la guancia. Si voltò verso l’angelo
steso al suo fianco e vide i suoi occhi verdi fissarla con espressione
amorevole, accompagnati da un sorriso altrettanto dolce e delicato.
Franky, nell’immobilità di quegli attimi, fece
camminare le dita sulla sua pelle, le fece scalare la punta del suo
naso e la ripida linea che portava alla sua fronte. Lì le
fece riposare e dai suoi polpastrelli fuoriuscirono delle scintille che
però non fecero male alla donna, anzi.
L’angelo ritrasse la mano e fissò i suoi occhi
ancora una volta, poi si girò lentamente sul fianco e si
abbandonò di nuovo alle braccia di Morfeo.
Linda guardò il marito
senza capire che cosa fosse successo. Lo realizzò solo dopo
qualche minuto, quando si accorse di non avvertire alcun fastidio nello
stare a contatto coi cagnolini. Franky le aveva guarito
l’allergia che sin da quando era bambina le aveva impedito di
avere un cucciolo.
***
Sentì il campanello
trillare al piano di sotto e si affrettò a scendere, ma
arrivò troppo tardi: suo padre aveva già aperto
la porta e si era trovato faccia a faccia con un Martin più
che imbarazzato che teneva un mazzo di fiori fra le mani.
«Buonasera signor
Kaulitz», lo salutò cortesemente.
«Ciao»,
replicò Bill, invitandolo ad entrare.
Martin avanzò a testa
bassa e una volta in salotto si guardò intorno. Fu in quel
momento che incontrò lo sguardo di Evelyn, che sorrideva
impacciata con una mano sul corrimano d’acciaio delle scale
di vetro.
«Ciao Martin»,
lo salutò avanzando di un passo, col collo stretto fra le
spalle. «Sei in anticipo».
«Ciao…
Sì, io…». Ci rinunciò e le
porse il mazzo di fiori. Probabilmente era l'unico ragazzo
dell'universo che portava ancora i fiori alle ragazze che gli piacevano.
Evelyn sorrise e li prese,
ringraziandolo. «Sarà meglio metterli in un
vaso».
«Ci penso io»,
si intromise suo padre, sorprendendoli entrambi. Se avesse davvero
voluto allontanarli, avrebbe potuto lasciar fare ad Evelyn, in modo
tale da poter intimidire ulteriormente il povero Martin. Ma non lo
fece. Prese i fiori dalle mani di Evelyn e se ne andò in
cucina, lasciandoli soli nel bel mezzo del salotto.
«Ehm…»,
Martin si dondolò sui talloni. «Se ti dico che sei
bellissima risulto scontato?».
La bionda accennò una
risata leggera. «No, affatto. Non sapevo assolutamente che
cosa mettermi fino a dieci minuti fa».
Indossava una camicia larga, a quadretti blu e neri, una maglietta
bianca e un paio di jeans a sigaretta; ai piedi le sue amate All Star
blu notte. Aveva raccolto i capelli biondi in una coda alta che
dondolava al suo seguito e sul suo viso c’era pochissimo
trucco, giusto il mascara e un po’ di matita nera intorno
agli occhi.
«Sei perfetta»,
sospirò sorridente.
«Grazie»,
abbassò lo sguardo, arrossendo.
«Ecco fatto!»,
esclamò Bill ritornando in salotto e posizionando il vaso
coi fiori sul tavolino di fronte al divanetto per poi osservare la sua
opera d’arte con le mani sui fianchi. «Stanno bene
qui, che ne dite?».
«Ehm…
sì, papà», annuì Evelyn,
anche se titubante.
Rimasero in silenzio per qualche
istante, nel quale tutti e tre si guardarono a vicenda. Poi Martin
prese coraggio e si schiarì la voce, dicendo:
«Allora… noi andiamo».
«Okay»,
annuì Bill, avviandosi dopo di loro verso
l’ingresso. «Mi raccomando, non tornate troppo
tardi. Evelyn, stai attenta e tu prenditi cura di lei».
«Sarà
fatto», rispose Martin, mentre aiutava Evelyn ad infilarsi il
giubbotto.
Uscirono nel buio e si coprirono le
teste con gli ombrelli, entrarono nell’auto della madre di
Martin, che gli aveva gentilmente prestato, ed Evelyn salutò
Bill con un cenno della mano, poi Martin avviò il motore e
partirono.
Durante il tragitto ascoltarono alcune canzoni alla radio e il ragazzo
l’aveva soprannominata “la ragazza col dito
più veloce del mondo”, perché non
faceva ascoltare nemmeno tre secondi di una canzone che aveva
già cambiato stazione. Tutte le canzoni che passavano,
Evelyn le conosceva e sapeva darne un giudizio. Una domanda, a quel
punto, era sorta spontanea a Martin: «Ma tu da grande che
cosa vorresti fare?».
«Io?», la
bionda si indicò, sorpresa.
«Sì,
tu», ridacchiò. «Te ne intendi
così tanto di musica, penso che sia anche dovuto al fatto
che nella tua famiglia ci siano due musicisti… Vuoi seguire
le loro orme?».
«Ecco… io non
ne ho la più pallida idea, se devo essere sincera. Non ho
mai pensato al mio futuro in questo senso, non so cosa farò
da grande».
«Scommetto che tuo padre
sarebbe orgoglioso di te se diventassi una cantante, come
lui».
«Beh… in
realtà lui non me ne hai nemmeno mai parlato. Lui vuole solo
che io sia felice, qualsiasi lavoro andrà bene se
piacerà a me, credo».
Martin sorrise comprensivo ed
annuì. «Sei fortunata, Evelyn». Lei
corrugò la fronte. «Io ho iniziato a studiare
scienze farmaceutiche perché mio padre aveva sempre voluto
questo per me, non l’ho scelto io».
«Oh, mi… mi
dispiace…».
«No»,
ridacchiò, con lo sguardo fisso sulla strada. «Non
c’è nulla di cui tu ti debba dispiacere, la
verità è che io l’ho fatto con piacere.
Io adoravo mio padre, vedevo in lui l’uomo che avrei voluto
essere, per questo facevo tutto quello che mi diceva di fare. Non
vedevo nemmeno un difetto in lui e quando trattava male
mamma… trovavo sempre un modo per difenderlo, fino a
quando…». Strinse con più forza le mani
intorno al volante ed Evelyn deglutì, notando il suo
cambiamento d’espressione: era adirato e allo stesso tempo
frustrato. Ancora un po’ incerta, allungò una mano
e la posò sulla sua. Fu come se Martin si fosse appena
ripreso dopo essere stato ipnotizzato: la guardò confuso ed
arrossì. «Scusami, io… non so cosa mi
sia preso».
«Non importa»,
lo rassicurò con un sorriso tenero. «Mi fa piacere
che tu ti voglia confidare con me», aggiunse e Martin
arricciò le labbra in un sorrisetto, ricordando di averle
detto le stesse parole quando gli aveva confessato di aver perso il suo
bambino.
Portò la mano sul cambio
e strinse la sua, senza schiodare lo sguardo dalla strada.
Abbandonò l’argomento, non le parlò
più di sua madre e di suo padre. Evelyn non ne
capì il motivo e si sentì anche un po’
sottovalutata, come se non potesse comprendere, ma non gli disse niente
né ritrasse la mano stretta nella sua. Non parlarono
più fino a quando non arrivarono alla casa in cui si stava
già svolgendo la festa.
«Oh, eccovi
qua!», gridò il ragazzo che li accolse sulla
soglia del garage, da dove si poteva accedere ugualmente alla taverna.
Aveva l’età di Martin e doveva essere un suo caro
amico, visto che si salutarono con un abbraccio, invece che con la
solita stretta di mano che si scambiavano di solito i compagni di
classe della ragazza.
«Siamo tanto in
ritardo?», chiese Martin.
«No, solo che ero
particolarmente curioso di conoscere la tua accompagnatrice! Mi hai
fatto una testa tanta, da quando l’hai conosciuta!».
Martin tirò una manata
all’amico, all’altezza dello stomaco, e sorrise
imbarazzato alla bionda: «Non ascoltarlo, è un
cretino».
«Certo, come
no», lo prese in giro il ragazzo. «Comunque io sono
Max, molto piacere di conoscerti», le sorrise in modo solare
e le strinse la mano.
«Io sono Evelyn,
piacere».
«Okay, ora che abbiamo
finito coi convenevoli, entriamo?», propose Martin.
«Va bene!»,
gridò Max, dandogli una pacca sulla spalla. Si
girò verso Evelyn e scosse il capo, cingendole un braccio
intorno alle spalle, superandolo e scendendo le scale che portavano
alla taverna da cui proveniva della musica e un forte vociare.
«È un
po’ nervoso, sei tu a fargli questo effetto; è un
bravo ragazzo, dagli una possibilità… se non vuoi
farlo per lui, fallo per me, inizio a non sopportarlo
più». Era come se Martin fosse suo fratello minore
e Max stesse mettendo una buona parola per lui e allo stesso tempo la
implorasse di toglierglielo un po’ di torno.
Riuscì a farla ridere, Max era un tipo davvero simpatico,
una di quelle persone che anche se un po’ sfrontate, non
potevi non adorarle e ritenerle divertenti.
«Avete finito di
prendermi in giro, voi due?!», strepitò Martin,
rosso d’imbarazzo.
«Oh, su Martin! Non ho
detto nulla di male!», si difese Max, ridendo della sua
espressione imbronciata. «Va bene, va bene, tolgo il
disturbo. Anche perché ho una festa da mandare avanti.
Divertitevi, mi raccomando!», gridò e se ne
andò, scomparendo fra la folla che iniziava già a
scatenarsi a ritmo di musica su una specie di pista da ballo.
«Max mi sta simpatico, mi
fa ridere», gli disse Evelyn, sorridente.
Martin la guardò negli
occhi per un istante e il broncio sparì, mentre un sorriso
gli illuminava il volto. «Allora, per vederti ridere, mi
lascerei prendere in giro anche per il resto della mia vita».
Evelyn arrossì di botto
ed abbassò il capo, si sistemò una ciocca di
capelli dietro l’orecchio e gli rivolse un timido sorriso,
senza sapere che cosa dire: Martin era una cosa incredibile, a volte, e
lei si sentiva sempre vagamente in colpa, perché dentro di
sé sapeva bene che non avrebbe potuto volergli bene come
voleva bene a Franky – nonostante tutto.
«Andiamo a prenderci da
bere?», le chiese, ma non la fece rispondere, la prese
soltanto a braccetto e se la trascinò dietro.
***
«Attento, attento Tom,
così gli fai male…».
«No, Linda, non gli
faccio male», ribatté stizzito. Quando era
così ansiosa non riusciva a reggerla.
Depositò Franky sul suo
letto, nella camera degli ospiti, ed abbassò
l’intensità della abat-jour sul comodino, in modo
tale da non infastidirlo con una luce troppo forte nel suo dormiveglia.
«Ha le ali umide, non
vorrei che si prendesse qualcosa», fece notare Linda, anche
se con un po’ di timore.
Però quella volta Tom le
diede man forte. «Sì, hai ragione. Forse
è meglio asciugargliele un po’».
«Vado a prendere un
asciugamano pulito».
«E il phon».
La donna annuì ed
uscì dalla stanza. Tornò qualche minuto dopo, nei
quali Tom aveva provato a svegliarlo, senza ricevere altro che mugugni
in risposta. Che gli stava succedendo? La maschera di sofferenza che
aveva dipinta sul viso non gli piaceva per niente.
Linda attaccò la spina del phon accanto al tasto per
accendere il lampadario e lo diede a Tom, che azionò la
velocità più bassa per non svegliare il piccolo
Arthur che dormiva nell’altra stanza. Purtroppo,
però, la sua premura risultò vana,
perché il bambino si svegliò ed entrò
nella camera degli ospiti sfregandosi gli occhietti lucidi con i pugni.
«Che cos’ha
Franky?», chiese con la sua vocina ancora addormentata.
«Niente tesoro,
è tutto a posto», intervenì Linda e
prima che si avvicinasse troppo al corpo dell’angelo lo
raggiunse e lo prese in braccio. «Torniamo a fare la
nanna».
Arthur si appoggiò alla
spalla della madre con la guancia, ma incrociò comunque lo
sguardo vacuo di Franky, che aveva aperto gli occhi proprio in quel
momento. L’angelo cercò di stiracchiare un
sorriso, ma tutto ciò di cui fu capace fu una misera smorfia.
Linda uscì dalla stanza
con suo figlio e si chiuse la porta alle spalle, allora Tom sovrappose
il suo viso a quello di Franky e lo guardò intensamente
negli occhi. «Che cosa ti prende?», gli
domandò più serio che mai.
«Niente»,
gracchiò l’angelo, socchiudendo gli occhi.
«Non dire cazzate, per
piacere. Ti ho trovato svenuto in quell’auto abbandonata, a
me sembra proprio che tu abbia qualcosa».
«Come stanno i
cuccioli?».
Il chitarrista sbuffò
innervosito e smise per un attimo di asciugargli le ali, spense il phon
e lo lasciò sul comodino. «Franky, ci metto poco a
prendere quella specie di cellulare che hai nella tasca dei pantaloni e
a chiamare Kim. Sono certo che lei sa benissimo che cos’hai o
almeno mi aiuterebbe a capire».
«Fai pure»,
mormorò afflitto. «Non sarò io ad
impedirtelo, se la metti così».
Tom rimase interdetto a quelle
parole e guardò il suo migliore amico con uno squarcio in
mezzo al petto. Perché si comportava così?
Perché anche in quei casi non pensava mai al suo bene?
Franky sentiva gli occhi tristi di
Tom bruciargli addosso, dentro, ovunque. Avrebbe voluto dirgli tutto,
confessargli che da un po’ di tempo, invece di dormire in
quella stessa camera, passava intere notti in ospedale col corpo di
Zoe, accucciato al suo fianco, cercando di rattoppare ciò
che c’era da rattoppare e di curare ciò che
c’era da curare, consumandosi l’anima,
già precaria, fino a quel punto. Il colpo di grazia
gliel’aveva dato e glielo stava ancora infliggendo Evelyn:
anche dentro di lei c’era un pezzo della sua anima e grazie a
quella riusciva a sentire tutto ciò che sentiva la ragazza,
ogni singola emozione ed ogni singolo pensiero che, in quel momento
più che mai, manco a farlo apposta, sentiva chiaramente e
che non l’aiutavano a superare quella crisi. Se almeno quei
pensieri fossero stati felici, se fossero stati quelli che un tempo le
avrebbe detto di non fare, se avessero avuto lui come protagonista,
invece che Martin… tutto sarebbe stato più
facile.
«Hai finito?».
Tom si voltò di scatto
verso Linda, sulla porta. «Sì, ho
finito», mentì e si alzò dal letto.
«Andiamo a dormire».
«Che… che
cosa? Ma Franky…?».
«Ha bisogno di
riposo», insistette posandole una mano sul gomito ed
incitandola a seguirlo.
Linda osservò ancora
l’angelo, titubante, ma quando lo vide chiudere gli occhi e
rannicchiarsi su un fianco si decise a seguire il marito. Con un
sospiro spense la luce sul comodino, accarezzò i capelli del
suo figlio acquisito, poi uscì con Tom. Lui sapeva quello
che faceva, non avrebbe mai lasciato da solo il suo migliore amico se
avesse avuto bisogno di lui, ma qualcosa – forse
l’istinto materno – le diceva che lasciarlo da solo
non era la cosa giusta.
***
Oltre a Max, aveva conosciuto tanti
amici di Martin, tra cui una ragazza che da quello che aveva potuto
intuire era follemente innamorata di lui. E nonostante questo, quando
l’aveva conosciuta l’aveva trattata come una
persona, non come una rivale da calpestare per accaparrarsi
ciò che voleva: aveva una gentilezza, un modo
così carino di esprimersi, una luminosità senza
paragoni. Evelyn più di una volta, guardandola, si era
chiesta perché Martin stesse dietro ad una come lei, invece
che buttarsi fra le braccia di quella ragazza che era meglio di lei;
almeno per lui sicuramente.
Si era divertita tanto, era stata
davvero una bella festa e aveva pensato raramente a Franky, a
ciò che era successo e a quello che aveva scoperto. Era
riuscita a distrarsi abbastanza. Ma sapeva benissimo che una volta a
casa, da sola nella sua camera, ci avrebbe pensato e ripensato fino a
farsi male.
Quando era arrivato il momento di andare, infatti, aveva supplicato
Martin per restare ancora un po’: voleva allontanare
assolutamente il momento in cui il suo cuore avrebbe sanguinato mentre
la sua mente, spietata, le avrebbe mostrato in sequenza mixata tutti i
bei momenti passati con l’angelo.
Tutte le volte in cui
l’aveva pensato, tra cui proprio quel momento, sentiva una
strana sensazione, una specie di dolore al petto. Non era un dolore
metaforico, era come se qualcosa di molto vicino al suo cuore premesse
intorno ad esso, si raggomitolasse e contorcesse per trovare pace e
calore. Era una brutta sensazione, davvero, ma non aveva avuto il tempo
materiale per darsene una spiegazione.
«Tuo padre ha detto di
non tornare troppo tardi ed intendo non disubbidirgli: se permetti
vorrei uscire ancora con te e se mi bruciassi subito questa chance
con…».
«Non sono una bambina,
Martin!», gridò, tirandogli un pugno leggero sul
braccio. «E poi mio padre non è uno
così all’antica… cioè, fa
finta di esserlo, ma non lo è». Aveva bevuto un
paio di alcolici e in effetti sentiva la testa piacevolmente leggera,
che l’aiutava a non pensare.
«Ve ne state
andando?!», urlò Max, con una bottiglia di birra
in mano, più che ubriaco. Corse da loro, rischiando di
ammazzarsi un paio di volte, e si buttò addosso ad Evelyn,
che abbracciò. «Oh, bellissima, mi mancherai!
Promettimi che mi verrai a trovare!».
«Sì,
certo!», gli rispose ridendo.
«Angelo, sei un
angelo», vaneggiò ancora, accarezzandole i
capelli, ma a quelle parole Evelyn si riprese dal suo stato di
non-lucidità e si irrigidì.
Se lo tolse di dosso con fare
brusco e si aggrappò al braccio di Martin.
«Andiamo», mugugnò.
Il ragazzo annuì e
guardò l’amico mezzo sconvolto, lì
impalato con un’espressione da cretino sul viso. Lo
salutò con un gesto della mano, poi iniziò a
salire le scale che portavano al garage dietro la ragazza che
l’aveva preceduto. Salutarono chi incontrarono per strada, si
infilarono in auto e una volta chiuse le portiere il silenzio li
avvolse.
«Mi dispiace, qualsiasi
cosa abbia detto Max», esordì Martin dopo qualche
minuto di assoluta immobilità.
«Non importa. Sono io che
ho reagito in modo un po’ eccessivo. La prossima volta
dovrò chiedergli scusa…».
«Dubito che si
ricorderà qualcosa», ridacchiò,
strappandole un sorriso. Poi girò le chiavi nel cruscotto e
diede gas.
***
Linda si girò e
rigirò nel letto, inquieta. Tom dormiva già al
suo fianco e da qualche minuto aveva iniziato persino a russare.
Aprì bene gli occhi e lo guardò, gli
accarezzò il mento e gli chiuse la bocca con delicatezza,
poi scosse il capo e si levò le coperte di dosso: non poteva
starsene lì sapendo che Franky nell’altra stanza
non era nella sua forma migliore; piuttosto che sopportare quel peso
sulla coscienza sarebbe rimasta sveglia tutta la notte a guardarlo
dormire.
Aprì la porta della
stanza degli ospiti e sbirciò all’interno:
l’angelo non c’era. Si portò una mano
alla bocca, spaventata, chiedendosi dove se ne fosse andato, conciato
com’era. Corse di nuovo in camera, fece per svegliare Tom, ma
a pochi centimetri dal suo braccio allontanò la mano e si
morse il labbro, incerta sul da farsi. Faceva bene ad essere
così protettiva nei suoi confronti, dopotutto? Era un
angelo, sapeva sicuramente badare a se stesso…
Linda scosse il capo, si
infilò sotto le coperte e si accucciò contro il
petto di suo marito. Ascoltò i battiti del suo cuore e con
quelli si addormentò, anche se non sarebbe stato affatto un
sonno tranquillo.
***
Franky, col fiato grosso e delle
gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, finì di
sigillare le finestre e la porta della stanza di Bill con la sua luce
angelica, capace di tenere lontani i demoni. Non voleva che Lilith
riuscisse a raggiungerlo e, anche nel sonno, fare del suo meglio per
far crescere ulteriormente il germoglio scuro insidiato nel suo cuore,
che si era trasformato in una piccola piantina, ancora più
intrisa di sentimenti negativi. Era troppo debole quella sera per
poterla affrontare, quindi almeno doveva proteggere Bill a tutti i
costi.
Scivolò lungo il legno
della porta ed appoggiò il capo su di essa, sentendosi
stanco come mai. Oltre all’energia che aveva usato per creare
quella barriera contro Lilith, la sua vitalità si stava
consumando a causa del suo collegamento con Evelyn.
Sospirò frustrato, con
le lacrime che premevano per rigargli le guance, e sbatté la
nuca contro la porta alle sue spalle un paio di volte. Quando smise,
sentì dei passi leggeri che si avvicinavano.
***
Martin accostò sul
ciglio della strada, di fronte al cancello della villa in cui abitava
Evelyn. Si voltò verso di lei lasciando il motore acceso e
le sorrise. «Puntuali come due orologi svizzeri».
Rimasero per un po’ in
silenzio a fissarsi a vicenda, imbarazzati, senza sapere come
congedarsi. Ad un certo punto la ragazza abbassò il viso ed
unì le mani sulle gambe, che iniziò a torturare.
«Martin… posso chiederti una cosa?», gli
domandò con voce incerta.
«Ma certo,
dimmi…».
«Quand’è
che hai smesso di stravedere per tuo padre? Prima non hai finito il
discorso e se non vuoi farlo nemmeno ora fa niente, però io
dovevo chiedertelo…», arrancò, a
disagio.
Martin la interruppe con una
risatina che risultò comunque amara. Le prese una mano e la
strinse forte nella sua, socchiudendo gli occhi. «Un
pomeriggio sono tornato a casa prima
dall’università, senza avvisare, e l’ho
visto picchiare a sangue mia madre. Lei era in bagno, accasciata a
terra che perdeva sangue dal naso in modo copioso. È stato
in quel momento che ho capito davvero che pezzo di merda era mio
padre».
Evelyn aveva ascoltato tutto senza
fiatare, stringendo sempre di più la sua mano. «E
tua sorella?».
«Lei non ne sapeva
niente, era ancora piccola e non le dicevo quello che
accadeva».
«Adesso tuo padre
dov’è?».
«Non ne ho
idea». Negli occhi gli brillò una scintilla
d’ira. «Ora come ora, se venissi a saperlo andrei
ad ammazzarlo con le mie stesse mani, anche a costo di andare
dall’altra parte del mondo. Lo odio, lo odio con tutte le mie
forze. E pensare che sin da bambino il mio più grande sogno
era di diventare come lui, che ho fatto tante cose che se avessi
ragionato con la mia testa non avrei mai fatto, compresa questa
facoltà all’università».
«È per questo
motivo che non sei più così sicuro di volerti
laureare, vero?».
Martin annuì ed
incrociò i suoi occhi splendidi, posando il capo al
poggiatesta. «Poco tempo dopo quel fatto ero già
intenzionato a lasciare, ma… mia madre non ha voluto: ha
insistito tanto perché io continuassi e ora…
eccomi qua, ancora con lo stesso problema».
Evelyn abbassò il capo,
dispiaciuta, e si mordicchiò il labbro.
«Io… non so, sinceramente, cosa potrei dirti,
però… mio padre mi ha sempre insegnato che nella
vita bisogna sempre ambire ai propri sogni, non accontentarsi mai e
lottare fino a quando non si avverano. Se questa laurea non
è ciò che vuoi…».
«Non voglio nemmeno
buttare tutti questi anni di studio nel cesso,
però».
«Oh…
scusa».
Martin le posò un dito
sotto al mento e le alzò il viso per guardarla negli occhi.
Sorridendo, disse: «Grazie lo stesso».
Evelyn sentì il suo
respiro accarezzarle la pelle, talmente i loro visi erano vicini, e si
trovò a deglutire, agitata. Non sapeva che cosa fare: se lui
si fosse avvicinato per baciarla come avrebbe dovuto comportarsi?
Spostarsi oppure lasciarlo fare? Se l’avesse lasciato fare,
l’avrebbe fatto perché lo voleva anche lei o solo
per fare un torto a Franky per tutto quello che era successo quel
pomeriggio?
Come aveva previsto, Martin
socchiuse gli occhi e lentamente si fece più
vicino…
***
«Devo farti i miei
complimenti, Franky».
L’angelo strinse i pugni
sulle ginocchia, i suoi respiri erano rantoli a causa della fatica. Che
cosa stava combinando Evelyn? Nulla di sbagliato, anzi, per lei era
meglio così, ma per lui… oh, lo stava uccidendo.
«Non pensavo che potessi
fare una cosa del genere, conciato come sei. Stai dando proprio tutto
te stesso per dare ai tuoi amici ciò che loro ti chiedono
senza nemmeno rendersene conto. Continui a proteggerli, a farli tutti
felici… Ma perché, perché lo fai? Non
ti rendi conto che prima o poi tutti i tuoi sforzi risulteranno vani?
Il tuo operato per garantirgli un futuro migliore è come un
castello di carte: basta un soffio per buttarlo giù, un
minimo errore… e loro lo commetteranno, quel minimo errore,
che tu lo voglia o no».
«Stai zitta,
Lilith», ringhiò a bassa voce.
Il demone al di là della
porta sghignazzò e disse: «La verità fa
male, non è così?».
«Sai cosa mi fa veramente
male? Mi fa male pensare che il tuo compito è far soffrire
la gente, mi fa male che tu godi distruggendo le vite delle
persone».
«A ognuno il suo
compito», ribatté Lilith senza fare una piega.
«E ti assicuro che il mio è dieci volte
più vantaggioso del tuo. Insomma… voi angeli
provate così tanto dolore per le persone che amate! Noi,
invece, meno amiamo meglio stiamo!».
Franky scosse il capo, come se
potesse vederla, poi se lo posò sulla spalla destra e sul
suo viso si dipinse una maschera di dolore. Strizzò gli
occhi per non vedere, ma non riuscì a scacciare via quella
proiezione nella sua mente: l’interno di un’auto,
il viso di Martin… i pensieri di Evelyn.
«Comunque io ho dato la
possibilità a Bill di scegliere se stare dalla mia parte o
dalla tua», continuò il demone in corridoio.
«Tu non gli hai dato
alcuna possibilità! L’hai portato a scegliere la
tua parte con l’inganno!», rantolò
rabbioso.
«Se avesse creduto
davvero in te non mi avrebbe mai permesso di infiltrarmi in questo modo
dentro di lui, io sarei sparita come sono apparsa nella sua vita, lo
sai. Il fatto è che Bill non si fida abbastanza di te, basta
dirgli le cose giuste e il gioco è fatto…
è proprio uno stupido».
«Non è
stupido, è solo… spaventato di perdere la persona
che ama con tutto se stesso». Soffocò qualche
colpo di tosse, coprendosi la bocca con il braccio, e quando lo
spostò vide delle goccioline argentate sulla manica della
felpa. Stava peggiorando di minuto in minuto.
«Questo conferma la mia
teoria: l’amore è una cosa stupida. È
un sentimento del tutto irrazionale, che porta l’essere umano
a scelte e a comportamenti del tutto…».
Smise di ascoltarla, mentre altre
immagini gli invadevano la mente come coltelli nella schiena. Vide il
ragazzo avvicinare il viso al suo – stava vedendo tutto con
gli occhi di Evelyn – e d’istinto spostò
la testa dalla sua traiettoria, ma capì subito che non
poteva muoversi. Sentì la voce mentale della ragazza
chiedersi che cosa fosse meglio fare, se lasciarsi baciare oppure no, e
mentre Martin si avvicinava udì anche un rumore che,
aumentando sempre di più, si era fatto notare più
chiaramente: quelli che gli rimbombavano nella testa a
velocità sostenuta erano i battiti del cuore di Evelyn.
«E ci cascano proprio
tutti, non è vero Franky? Anche tu – un angelo!
– ci sei cascato come un allocco. Con una ragazza umana,
oltretutto! La figlia della tua protetta! Ma dico, più
stupidi di così…».
«Smettila di
blaterale», berciò senza forze.
«Sai che se passassi
dalla mia parte potresti avere quella ragazzina tutta per te? Potresti
possederla come più preferisci, potresti renderla dipendente
da te, potresti consumarle l’anima…».
«Non l’amerei,
se le facessi tutto questo. E non ci penso nemmeno a passare dalla tua
parte, non voglio puzzare come te».
«Perché credi
che tu al mio olfatto profumi di rose? Sembri appena uscito da un
cassonetto dell’immondizia! Comunque non vedo
perché tu non voglia diventare un demone. La tua vita
sarebbe infinitamente più facile! Avresti tutto
ciò che vuoi! Infondo non saresti il primo a
disertare… conosco altri angeli che hanno preferito il male
al bene».
«Io non sono come
loro». Un altro attacco di tosse lo fece accasciare a terra,
con il viso contro le braccia per non svegliare Bill, che dormiva
– quella notte serenamente grazie alla barriera di Franky
– ignaro di tutto quello che stava succedendo.
«Stupido angelo, quanto
pensi di riuscire ad andare avanti così? Ti
autodistruggerai».
Lo
farò, se necessario.
«Vattene. Vattene Lilith, non ho più voglia di
discutere con te».
«Come vuoi, ma
d’ora in avanti sarà guerra aperta. Io ti ho
avvertito. Ciao, ciao!».
Franky la sentì
allontanarsi e quando non percepì più la sua
presenza nel raggio di due kilometri sospirò stancamente e
si accorse dei rivoli caldi e densi che gli scivolavano sulle guance,
sulla linea del naso e che venivano assorbiti dal tessuto spugnoso
della sua manica. Sapeva che cos’era quella sostanza, la
conosceva bene, ma si portò comunque una mano sul viso: ne
raccolse un po’ sulle dita, la osservò brillare
d’argento grazie alla luce della luna ed accennò
un sorriso amarissimo. Stava piangendo il suo stesso sangue, quando la
tragedia era alla sua conclusione.
Martin finì di
avvicinarsi e posò le labbra su quelle di Evelyn, che chiuse
gli occhi, oscurando per fortuna la vista anche a lui. Ma non gli
oscurò la percezione più che nitida delle sue
sensazioni e dei suoi sentimenti.
Era come aveva detto Lilith:
l’amore lo stava distruggendo e non poteva fare nulla per
combatterlo, né impedirsi di provare quel forte sentimento
per lei. Era un circolo vizioso da cui non poteva sottrarsi, a causa
del quale era costretto a soffrire.
And it will take this life of regret
for my heart to learn to forget
Tomorrow will be as it always has been
and I will fall to her again
for I know I've come too close
_________________________________
Ciao a tutti! :)
Accidenti, un capitoletto non
proprio facile da buttar giù... Partiamo dalla scoperta che
Evelyn ha fatto su Margot, però: ha una bimba *-* e un
angelo custode, sua sorella. Grazie a loro è riuscita in
parte a superare il dolore della perdita del suo bambino e voleva
gioirne con Franky, ma... purtroppo Kim è arrivata nel
momento sbagliato. O almeno, sbagliato per Evelyn. Kim infatti si
è accorta della precarietà sempre più
evidente dell'anima di Franky, che poveretto è sempre sotto
pressione in un modo o nell'altro: Lilith non gli lascia tregua D:
Prima Bill, adesso ha pure compromesso le cose con Evelyn, rivelandole
che è stato lui ad interrompere la sua gravidanza... Faranno
mai pace, ora che Evelyn ha anche baciato Martin? Bel dilemma.
Intanto, Lilith ha dichiarato guerra aperta a Franky, che
chissà se ce la farà... Bon, se ho dimenticato
qualcosa ditemelo nelle recensioni, perchè sapete che le
aspetto sempre con immenso piacere *w* Spero di conoscere la vostra
opinione su tutti questi avvenimenti piuttosto scioccanti u.u
La canzone che ho usato in questo
capitolo è la stupenda
She is the sunlight, dei Trading
Yesterday. Non rigrazierò mai abbastanza questo gruppo *O*
Un grazie enorme a tutte le persone
che hanno recensito lo scorso capitolo - ho risposto alle loro
recensioni ;) - ma anche a tutti quelli che hanno soltanto letto!
Alla prossima! Con affetto, vostra,
_Pulse_ |
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Capitolo 20 *** Overdose of you ***
Un'altra sorpresa per
voi ;) Si tratta della seconda
locandina da me creata per
questa FF (cliccate sul link in azzurro).
In tutto sono 3, alla fine, quando le avrete viste tutte, mi direte
qual è la migliore! Ci conto, eh! :3
______________________________________________________
20. Overdose of you
Franky entrò
nell’ospedale delle anime affiancato da Kim e Raphael;
davanti a lui camminava San Pietro.
Era molto presto, non c’era quasi nessuno nei corridoi, oltre
alle infermiere che passavano di stanza in stanza per controllare i
loro pazienti.
Il santo si avvicinò al
bancone e parlò a bassa voce con l’infermiera di
turno, che annuì ed internò una chiamata.
L’angelo incontrò lo sguardo del suo mentore e
questo gli sorrise lievemente, dicendogli di sedersi. Franky
obbedì e Raphael si mise seduto al suo fianco su una
poltroncina della sala d’aspetto semideserta.
Kim, in piedi di fronte a loro, continuava a rivolgere occhiate
preoccupate a San Pietro e all’infermiera, per poi
controllare chi passasse nei corridoi. Era inquieta, lo si vedeva
lontano un miglio.
Franky la osservò
muovere la gamba come se avesse un tic nervoso, poi infilò
la mano nella sua e con quel gesto la ragazza si voltò di
scatto, sorpresa.
Lei incrociò gli occhi verdi oscurati da una patina di
dolore del nipote del suo grande amore e una smorfia si
impadronì del suo viso: perché era
così cocciuto? Perché nemmeno quando si trattava
della sua vita non pensava a sé?
«Non mi
perdonerò mai di averti appoggiato in questa
follia», gli disse, voltando il capo verso il bancone: San
Pietro e l’infermiera avevano finito di parlare e un dottore
in camice bianco li aveva raggiunti, insieme all’infermiera
con la quale Franky aveva avuto parecchi disguidi ma anche momenti di
pace. Vide una tristezza sempre crescente impadronirsi di quel volto di
donna composto, rigido come se non avesse mai conosciuto
l’amore, ma che in quel momento era più espressivo
di moltissimi altri, così… amorevole, come se
avesse appena scoperto che suo figlio stava lentamente morendo.
Franky interruppe il filo dei suoi
pensieri stringendo un po’ di più la presa, ma era
ancora debolissimo.
«Grazie», le disse a bassa voce, per poi posare la
fronte contro il dorso della sua mano.
Kim si morse le labbra, con gli
occhi lucidi, e con delicatezza si sottrasse a tutto quello e si
allontanò. Non poteva sopportarlo.
Franky abbassò lo
sguardo, dispiaciuto: non voleva che Kim stesse male per lui. Raphael,
seduto al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla ed accennando
un sorriso disse: «Non ti preoccupare, le passerà
presto».
L’angelo scosse il capo,
trattenendo una risata fra le labbra. «Non cercare di
consolarmi, lo so bene che ti fa solo piacere vederci lontani. Secondo
me dovresti riprovarci con lei, te l’ho già
detto».
Il sorriso di Raphael
morì. Franky aveva toccato uno dei suoi tasti dolenti, di
cui lui non voleva parlare. O meglio, gli aveva già spiegato
come stavano le cose, ma non voleva proprio capire.
«Andiamo»,
esclamò San Pietro, invitandoli ad alzarsi e a seguire lui,
Kim, l’infermiera e il dottore.
L’angelo poliziotto
aiutò Franky ad alzarsi e con un braccio intorno alla sua
schiena lo sorresse lungo il tragitto che li condusse allo studio del
dottore, illuminato da una finestra che dava sul giardino. Il dottore
badò bene che la porta fosse chiusa a chiave, poi fece
sedere Franky sul lettino e gli fece sollevare la manica della felpa
che indossava, mentre l’infermiera estraeva da una specie di
cassaforte una valigetta con una dozzina di siringhe già
pronte per l’uso.
«Visto che il tuo
è un caso più che straordinario, abbiamo deciso
di aiutarti», gli spiegò il dottore, guardandolo
negli occhi. «Queste siringhe contengono un farmaco in via
ancora sperimentale, ma che si è rivelato efficace le poche
volte che è stato utilizzato».
«Che cosa fa?»,
domandò Franky, tenendo lo sguardo fisso sull’ago
della siringa che l’infermiera aveva già preparato
e teneva fra le dita. In particolare osservava quella minuscola
gocciolina color turchese che usciva dalla punta dell’ago.
«È in grado di
anestetizzare il dolore dell’anima: tu, avendo donato parte
della tua anima alla tua protetta e a quella ragazza, soffri quando
soffrono le loro anime oppure, siccome hai questo particolare legame
con quella ragazza, anche quando…».
«Sì, ho
capito», mugugnò Franky, abbassando lo sguardo.
In sostanza, era come la morfina,
solo che agiva sulla sua anima: con quel liquido turchese nelle vene
non avrebbe più sofferto come aveva fatto quella notte.
Avrebbe potuto finalmente fare la cosa giusta, cioè
allontanare una volta per tutte Evelyn da sé, spingendola
fra le braccia di Martin. Avrebbe potuto tranquillamente continuare ad
aiutare il corpo di Zoe a guarire, senza sentirsi tutte le volte privo
di forze, e, cosa più importante di tutte, avrebbe potuto
liberare una volta per tutte Bill da quell’impiastro di
Lilith.
«Stai attento,
però», lo avvertì il dottore, attirando
di nuovo la sua attenzione. «Questo farmaco fa solo
scomparire il dolore, non impedisce alla tua anima di consumarsi, anzi
è probabile che in qualche modo acceleri anche il processo.
Sei disposto a rischiare così tanto?».
«Non posso fare
nient’altro», sospirò. Parte della sua
anima era dentro il corpo di Evelyn e dentro di sé aveva una
parte della sua, anche se avesse deciso di non starle più
accanto avrebbe sentito comunque sulla sua pelle tutto ciò
che sentiva lei, non avrebbe smesso di soffrire.
«Potremmo tentare
l’estrazione del pezzo della tua anima dal suo
corpo…», ipotizzò
l’infermiera.
«No. No, non osate
toccarla», sibilò. «Non sappiamo se
questo possa avere delle ripercussioni sulla sua, preferisco non
rischiare».
«Tipico di te»,
mormorò San Pietro, incrociando le braccia al petto.
Tutti i presenti si guardarono a
vicenda per qualche secondo, nel silenzio più assoluto, poi
il dottore sospirò e disse: «Dunque la decisione
è stata presa».
Kim fece un passo avanti,
posò una mano sul braccio candido di Franky e socchiuse gli
occhi, con una smorfia sul viso. Gli mostrò mentalmente
ciò che lo aspettava, quella che era stata la sua
esperienza, durante la quale aveva rischiato più di una
volta l’overdose, sopraffatta dal dolore che
l’aveva costretta ad iniettarsi più della dose
prescritta. Lo pregò di rifiutare, di non entrare in quel
calvario, di pensare per una volta a sé, ma appena
aprì gli occhi capì che Franky aveva
già preso la sua decisione irrevocabile.
«È
deciso», affermò l’angelo custode,
annuendo con un movimento del capo. Kim si allontanò ancora
una volta, ferita, e preferì uscire dalla stanza piuttosto
che stare lì a guardare l’inizio di quella che per
lei, per un bel po’ di tempo, era stata una specie di tortura.
Raphael, dopo aver scambiato uno
sguardo d’intesa con Franky, la seguì, chiudendosi
con cura la porta alle spalle. Se la trovò subito davanti,
appoggiata alla parete del corridoio, leggermente piegata in avanti e
con le mani sul viso.
«Kim»,
balbettò. L’angelo speciale si sollevò
e lo guardò con gli occhi lucidi colmi di tristezza. Raphael
si avvicinò e senza nemmeno riflettere sulle conseguenze che
avrebbe portato quel gesto del tutto spontaneo, le avvolse le braccia
intorno alla schiena. La ragazza si irrigidì
all’istante, ma appena percepì il calore di
quell’abbraccio si lasciò andare, mise da parte
tutto il rancore che gli aveva serbato per tutti quegli anni e
ricambiò, scoppiando a piangere sulla sua spalla.
«Mi dispiace. Mi dispiace
tanto», mormorò l’angelo poliziotto,
accarezzandole i capelli sulla nuca e stringendola un po’ di
più.
Il dottore cercò
l’ennesimo segno di approvazione
dall’autorità suprema - San Pietro. Quando lo
ottenne, si rivolse all’infermiera e le prese dalle mani la
siringa già pronta. «Non più di una
ogni ventiquattrore», gli raccomandò.
«La prima te la faccio io, per farti vedere come si
fa».
«Okay»,
soffiò Franky. Lui aveva sempre odiato le punture, ora era
costretto a guardare e poi avrebbe anche dovuto farsele da solo.
Il dottore gli strofinò
un po’ di cotone inumidito di alcool sul punto del braccio in
cui doveva fare l’iniezione. «Vado?».
Franky fece un respiro profondo,
poi si voltò verso il suo braccio e guardò la
siringa già pericolosamente vicina alla sua pelle.
«Vada».
***
Tom accarezzò i capelli
di Linda, poi si alzò dal letto e ancora col viso
intorpidito dal sonno si diresse verso la camera degli ospiti.
Sbirciò all’interno e non vide nessuno,
perciò spinse la porta in avanti e il suo sospetto
risultò fondato: Franky se n’era andato. Ma dove
poteva essersi cacciato, dopo tutto quello che aveva passato la notte
precedente? Era stato duro con lui, era vero, ma era maledettamente
preoccupato.
Sbuffò e si
portò le mani sulla testa. «Stupido, stupido
Franky».
All’improvviso
sentì degli strani rumori in camera di suo figlio e vi
andò. Entrò facendo più piano che
poté, ma le sue precauzioni per non svegliarlo erano state
inutili, perché Arthur era già sveglio e
singhiozzava seduto sul letto, ancora avvolto nel piumone. Vederlo
così fragile ed indifeso gli spezzò il cuore.
Andò da lui, si mise
seduto al suo fianco e lo strinse forte fra le sue braccia, cullandolo
al petto come faceva quando aveva pochi mesi, accarezzandogli i capelli
sulla testa. «Che cosa c’è,
cucciolo?».
«Dov’è
Franky?».
«Io… io non lo
so. Non ne vuoi parlare con me?», chiese con tono pacato.
Il bambino scosse il capo contro il
suo collo e il cuore del chitarrista si squarciò ancora di
più. Perché suo figlio preferiva parlare con
Franky, invece che con lui?
***
Evelyn si mise seduta su uno
sgabello alto dell’isola della cucina, con una tazza di latte
di fronte e il cellulare posato poco lontano.
C’era silenzio, tanto che ne aveva quasi paura. Faceva di
tutto pur di sentire qualche rumore: girava il cucchiaino facendolo
sbattere insistentemente contro i bordi della ceramica, picchiettava le
unghie sul marmo bianco e ogni tanto giochicchiava col ciondolo
attaccato al suo telefonino.
Suo padre era uscito presto quella
mattina, per andare a trovare sua madre. L’aveva sentito
scendere al piano di sotto e fare colazione, ma non era scesa, era
rimasta a letto, con una guancia premuta contro il cuscino, a pensare
alla notte precedente.
Era stato tutto
così… strano, forse anche inaspettato. Martin
l’aveva baciata e nell’esatto momento in cui le
loro labbra si erano incontrate non aveva pensato più a
niente, l’aveva baciato e basta. Aveva accantonato tutte le
domande che si era posta nei momenti precedenti a
quell’evento, tra cui la più importante
– se lo stesse facendo per far soffrire Franky come lui aveva
fatto soffrire lei. Si era lasciata baciare, lo aveva baciato e quando
era scesa dall’auto, dopo averlo salutato, ed era rientrata
nella casa buia, si era sentita stranamente leggera, come se sentisse
di aver fatto la cosa giusta, anche se… c’era un
lato di lei che le diceva il contrario, nonostante… era una
cosa complicata, era come se dentro di sé avesse due
opinioni contrastanti, di cui una era di per sé
contrastante. Non ci aveva capito molto né allora
né quella mattina, ma forse semplicemente non
c’era nulla da capire: era successo perché doveva
succedere e ora spettava a lei decidere se portare avanti qualcosa con
Martin oppure no.
Aveva pensato molto anche a Franky,
ovviamente. Si era chiesta se lui fosse già venuto a
conoscenza di ciò che era accaduto, se sì come
l’avesse presa, ma soprattutto aveva riflettuto su come
sarebbe stato il loro primo incontro, quello in cui si sarebbero di
nuovo guardati negli occhi dopo tutto quello che era successo: Franky
si sarebbe mostrato arrabbiato, ferito, offeso, mortificato? Oppure
contento per lei come solo lui sapeva fare, con quello sguardo acceso e
allo stesso tempo spento dalla malinconia?
Quando si era decisa a scendere al
piano inferiore aveva visto suo padre all’ingresso, che si
stava infilando il cappotto.
«Che ci fai
già sveglia?», le chiese, sorpreso.
Lei scrollò le spalle,
concedendosi uno sbadiglio. «Tu, dove stai andando a
quest’ora?».
Abbassò lo sguardo.
«Volevo passare a trovare mamma. Credevo che tu volessi
dormire un po’, per questo…».
«Sì, ho
capito», accennò un sorriso lei. «Grazie
per il pensiero».
«Vuoi venire? Ti
aspetto».
«No… magari
faccio un salto dopo, col motorino».
«Mmh».
Dondolò sui talloni, indeciso se parlare o no. Alla fine la
curiosità lo sormontò, ma si tenne comunque sul
vago: «Com’è andata ieri
sera?».
«Bene, è stata
una bella festa, mi sono divertita». Guardò suo
padre e capì che voleva sapere di più, nonostante
si stesse trattenendo dal costringerla a raccontargli tutto per filo e
per segno. Ridacchiò e aggiunse: «Siamo andati via
ancor prima che la festa finisse, Martin aveva paura che tu potessi
sgridarlo». Bill fece un sorrisetto, portandosi le braccia
strette al petto: quel ragazzo iniziava a piacergli.
«Ha… ha avuto cura di me, forse un po’
troppa. Lui è tanto bravo, papà, e
io…».
«Cosa?», le
domandò, mentre sul suo viso appariva la copia
dell’espressione dispiaciuta di Evelyn.
«Niente»,
scosse il capo e sorrise per rassicurarlo.
Bill non le pose altre domande,
annuì e si voltò verso la porta. «Ci
vediamo tra un po’ allora».
«Sì,
certo».
«Chiudi la porta a
chiave».
«Sì».
«Fai colazione».
«Sì,
papà!», ridacchiò e lo aiutò
ad uscire di casa, spingendolo per la schiena.
Dopodiché era andata in
cucina per fare colazione. Era lì tutt’ora, con lo
stomaco chiuso, ma nonostante tutto si sforzava per ingurgitare qualche
biscotto inzuppato nel latte.
Aveva portato il cellulare con
sé perché appena sveglia aveva visto un messaggio
di Martin, ancora della notte precedente che però non aveva
letto perché era già andata a dormire.
C’era scritto che era stata davvero una bella serata e che il
bacio che c’era stato fra loro era stata la conclusione
migliore, perfetta. Le aveva detto che l’aveva sognato tante
volte, ma la realtà era stata in grado di sorprenderlo. Poi
le aveva dato la buona notte. Che cosa poteva rispondergli?
Perché sì, non gli aveva ancora risposto,
aggrappandosi all’idea che quel giorno non sarebbe dovuto
andare a lezione e non voleva svegliarlo, quando in realtà
era lei che non sapeva assolutamente cosa dirgli.
Sbloccò il touch-screen
del cellulare e, guardando la figura sul display, rifletté
su quale fosse la cosa migliore da dire e da fare, ma riuscì
soltanto a capire che doveva parlare e chiarire con Franky, anche se
avrebbe fatto male tornare sulla questione del bambino.
***
Salutò San Pietro e
l’infermiera ed uscì dalla struttura ospedaliera
sentendosi come nuovo, nonostante percepisse di essere assuefatto da
qualcosa che normalmente non avrebbe dovuto scorrere nelle sue vene.
Aveva perso Kim e Raphael qualche
tempo prima, quando lei era scappata per non vedere l’ago
bucargli la pelle ed iniettargli quel liquido turchese nel braccio. Non
sapeva dove fossero, ma erano insieme e ne era contento.
Un brivido, seppur debole, lo
collegò alla mente di Evelyn che gli fece vedere
ciò che stava pensando. Con un sospiro socchiuse gli occhi
ed annuì, come se stesse acconsentendo ad una richiesta
– la sua.
Ridiscese sulla Terra ed
andò direttamente da lei, senza fare soste altrove.
Atterrò nel bel mezzo del giardino, sul vialetto che portava
alla porta d’ingresso, e proprio in quel momento Bill
uscì e si trovarono faccia a faccia, per la prima volta soli
dopo la scoperta della presenza del demone di nome Lilith nella vita
del cantante. Il suo proposito di andare da Evelyn passò in
secondo piano, la sua priorità divenne quella di parlare con
Bill, che però non sembrava intenzionato nemmeno a starlo a
sentire.
«Che ci fai tu
qui?», gli domandò bruscamente, guardandolo truce.
Come volevasi dimostrare.
«Sono venuto per
te», gli rispose in maniera pacata ed aspettò che
il cantante si avvicinasse a lui. Quando fece per superarlo,
aprì le ali e gli bloccò la strada.
«Togliti di
mezzo», ringhiò infastidito. «Non
costringermi a trapassarti».
Ma Franky, per nulla spaventato,
ribatté deciso: «No. Ti devo parlare».
«Io non voglio,
quindi…». Aveva cercato di trapassargli
un’ala, ma non era riuscito ad andare fino in fondo e si era
ritrovato avvolto da essa, a contatto con l’angelo, che
puntò il mento sulla sua clavicola e gli sussurrò
all’orecchio: «Almeno ascoltami».
Bill scosse il capo, con le lacrime
agli occhi. «Come posso farlo, Franky? Mi hai raccontato
così tante stronzate!».
«Ti sbagli. È
Lilith quella che ti ha raccontato un sacco di fesserie per metterti
contro di me, contro Tom… non ti rendi conto di quello che
ti sta facendo? Lei non è il tuo angelo custode, lei
è…».
«Basta!
Basta!». Si dimenò e si liberò dal suo
abbraccio, lo guardò negli occhi per un attimo, poi distolse
subito lo sguardo e quella volta l’angelo lo
lasciò passare. Era tutto inutile: il seme nero che Lilith
aveva piantato nel cuore di Bill era più potente di
ciò che pensava, nemmeno l’energia guaritrice che
aveva infuso in lui durante quell’abbraccio era servita a
qualcosa, non l’aveva nemmeno raggiunto.
«Io non sono
più innamorato di Zoe».
Il cantante si bloccò a
pochi passi dal cancello e sgranò gli occhi con il fiato
mozzato. Entrambi si davano le spalle: Bill guardava verso la sua auto,
Franky guardava l'ingresso, cercando di percepire i pensieri che
provenivano dall'interno della casa. Capì che Evelyn si
trovava in cucina.
«So che cosa ti ha detto
Lilith, che cosa ti ha fatto credere, ma ti giuro… non
è così. Come potrei fare una cosa del genere? Il
mio compito è quello di proteggere la mia protetta, non di
farla soffrire. Perché è ovvio che soffrirebbe se
io la strappassi da te. Lei ti ama, Bill, possibile che ancora ne
dubiti?». Franky si voltò lentamente e
guardò la schiena del suo amico tremare impercettibilmente.
Sospirò e aggiunse: «Sono passati tanti anni, sia
io che Zoe siamo cambiati, sono entrate altre persone nei nostri
cuori…».
«Non ci riesco,
io… Vorrei crederti, vorrei ma… non ce la
faccio», singhiozzò.
Lo
so. Lo so che è difficile Bill, Lilith ha fatto proprio un
bel lavoro. Ma devi provarci. Farò di tutto
perché tu mi creda di nuovo, te lo prometto.
«Prima che tu vada, devo dirti un’ultima
cosa». Il frontman attese, continuando a dargli le spalle.
«Gli angeli custodi per loro natura non fanno in modo che i
rapporti con le persone che il loro protetto ama si incrinino. Se anche
io ti stessi facendo quello che lei ti ha detto, lei te lo avrebbe
detto perché sarebbe stato suo compito proteggerti, ma
siccome non è un angelo custode ti ha consigliato di
tagliare i ponti con me, di allontanarti, e ti ha detto quelle cose su
Tom in modo tale che ti allontanassi anche da lui. Sta facendo di tutto
perché tu rimanga da solo. Lei non vuole la tua
felicità, vuole la tua sofferenza. Pensaci, Bill, e se farai
attenzione sono certo che te ne accorgerai anche da solo».
«Ora… ora devo
andare», balbettò e raggiunse il cancello, lo
aprì e raggiunse l’auto quasi di corsa. Si mise al
volante e diede gas, allontanandosi più in fretta che
poté.
Franky sospirò e
rilassò le spalle, rimaste tese per la durata di tutta la
conversazione. Si voltò di nuovo verso la facciata della
casa e vide Evelyn prendere il cellulare e rispondere finalmente al
messaggio di Martin, al quale lui rispose quasi subito, chiedendole se
aveva voglia di vederlo. Evelyn disse di sì.
L’angelo non ce la fece
proprio, abbandonò l’idea di raggiungerla per
chiarire, dicendosi che sarebbe stato meglio per entrambi posticipare
quell’incontro, e spiccò il volo, diretto verso
casa. Sentiva che doveva essere successo qualcosa a Tom, percepiva il
suo stato d’animo e sembrava davvero molto scosso, oltre che
affranto. Quando ne capì il motivo, accelerò e in
un batter d’occhio si ritrovò in cucina, dopo aver
trapassato la finestra.
Sentì Tom e Linda parlare in salotto e si
avvicinò con cautela, stringendo convulsamente il manico
della valigetta che gli avevano dato in ospedale, contenente le
siringhe con l’anestetico per la sua anima. Si
schiarì debolmente la voce, agitato, ed entrambi si
voltarono: Tom aveva gli occhi lucidi, aveva pianto. Era più
grave di quanto pensava.
«Franky, menomale che sei
tornato», disse Linda, alzandosi in fretta dal divano e
raggiungendolo per stringerlo forte a sé. «Ma si
può sapere dove sei stato? Come ti senti adesso?».
Gli prese il viso fra le mani e la prima cosa che vide furono i suoi
occhi, che le fecero stropicciare il viso in una smorfia.
«Che ti è successo?».
«Cosa?»,
domandò l’angelo, confuso.
«Hai gli occhi
azzurri».
Franky si intrufolò
nella mente di Linda, si guardò il viso con i suoi occhi e
verificò ciò che gli aveva appena detto: aveva
gli occhi di una strana tonalità di azzurro, come se questo
si fosse mescolato al loro colore naturale, il verde. Che fosse a causa
del farmaco che gli avevano dato? D’altronde, gli occhi sono
lo specchio dell’anima e fin quando la sua sarebbe stata
protetta da quel medicinale, anche i suoi occhi ne avrebbero subito
l’effetto.
«Niente
è… è una cosa da angeli»,
scosse il capo con un leggero sorriso sulle labbra. «Ci
capita, a volte, di cambiare colore degli occhi».
«Non ti era mai successo
prima».
Franky alzò il capo e
guardò il suo migliore amico che si strofinava il naso. Era
davvero un colpo al cuore per lui vederlo ridotto in quelle condizioni,
con un fratello che si stava allontanando da lui a causa di un demone e
un figlio che preferiva parlare con un angelo piuttosto che con suo
padre. Era davvero un brutto periodo per lui, avrebbe dovuto fare
qualcosa.
«Ci capita in periodi
molto particolari», rispose titubante.
«Per esempio?».
«Per esempio…
quando si sta molto tempo col proprio migliore amico».
Tom sbuffò e si
coprì gli occhi con una mano. «’fanculo,
Franky».
L’angelo
continuò a guardarlo, ma il suo sorriso appena accennato
svanì e i suoi occhi si velarono di malinconia. Diede una
carezza sul braccio della sua mamma adottiva e posò la sua
valigetta sul tavolino di vetro di fronte al divano, sul quale si mise
seduto accanto al chitarrista. Si appoggiò col capo
nell’incavo della sua spalla e gli avvolse la schiena con
un’ala.
«Adesso ci penso io ad
Arthur, okay?», gli sussurrò.
«Avrei voluto poterci
pensare io», gli rispose Tom con la voce che tendeva a
spezzarsi nuovamente.
«Lo so, lo so. Appena
scopro che cos’ha te lo vengo a dire».
«Non lo sai
già?». Lo guardò stupito.
L’angelo scosse il capo, con espressione mesta sul viso.
«La sua mente ha creato
una barriera intorno ai suoi pensieri».
«Ho la sensazione che non
sia una bella cosa», disse Linda, preoccupata.
Franky sospirò e
ritornò dritto, posò le mani sulle ginocchia e si
alzò dal divano. Evitò di dirgli che casi come
quello di Arthur erano dovuti ad una chiusura emotiva piuttosto forte,
causata dai più svariati motivi. «Vado a
vedere».
Recuperò la sua
valigetta sul tavolo e si diresse verso il corridoio, ma venne fermato
quasi subito da Tom che gli chiese: «Che cosa
c’è in quella valigetta?».
Accennò una risata e
rispose: «Solo… il programma e i temi delle
lezioni che ho tenuto fin’ora a scuola».
Appena voltato l’angolo
corse nella sua camera, cacciò la valigetta sotto al letto,
in modo tale da nascondere la sua nuovissima fonte di
“benessere” agli occhi di tutti, poi corse verso la
cameretta di Arthur. Era preoccupato ed in ansia come se fosse suo
figlio.
Lo vide seduto sul bordo del letto,
in pigiama, col viso rivolto verso il pavimento, i capelli arruffati
che gli coprivano gli occhi, e il suo peluche a forma di automobile
stretto al petto.
«Piccino»,
mormorò e si lasciò la porta alle spalle, si
inginocchiò di fronte a lui e gli prese fra le mani i
piedini gelati. «Volevi parlare con me?».
Il bambino annuì e
tirò su col naso, rivelando le lacrime che gli rigavano le
guance. Ci mancò poco che anche Franky non scoppiasse a
piangere: vedere un bambino star male era la cosa peggiore per un
angelo.
«Vieni, su». Lo
fece sdraiare di nuovo sul letto, sotto le coperte, e lui si mise
stretto al suo fianco. Lo abbracciò, avvolgendogli le ali
intorno al corpicino, gli accarezzò i capelli biondi e gli
asciugò le lacrime con alcuni baci sul viso. «Che
cosa c’è che non va?».
«Prima ho fatto un
incubo», singhiozzò, strofinando il musetto contro
la sua clavicola ed accucciandosi in posizione fetale come a volersi
proteggere e allo stesso tempo stringersi più che poteva
alla presenza rassicurante dell’angelo.
Franky riuscì ad
intravedere qualcosa, quella barriera si stava sgretolando solo per
lui. «Ed era tanto brutto quell’incubo?»,
gli domandò in un sussurro.
Il bimbo mugugnò un
sì, ma non glielo raccontò. In compenso il muro
si dissolse del tutto, permettendogli di spaziare liberamente fra i
suoi pensieri, in particolar modo in quel sogno che era ancora vivido
nella sua mente, chiarissimo. Aveva sognato che alla festa di
compleanno di un suo compagno di classe, alla quale sarebbe dovuto
andare quel pomeriggio, tutti lo avrebbero trattato male e lo avrebbero
lasciato a piangere da solo in un angolo dicendogli che lui non giocava
mai con nessuno, tanto valeva che se ne stesse per conto suo.
«Io non ci voglio andare.
Non ci voglio andare! Ma mamma mi ha detto che devo perché
sono stato invitato e che devo farmi degli amichetti, che ha
già comprato il regalo! Ma io non voglio andare a quella
festa!». Il suo viso era diventato paonazzo, le lacrime
glielo graffiavano senza pietà, e i suoi strilli gli
facevano sanguinare il cuore.
«Shhh, piccolo, calmati.
Ti prometto che andrà tutto bene, non ci pensare
più». Lo avvolse con la sua aura e in poco tempo
si rilassò e si riaddormentò, ma
l’angelo non riuscì ad allontanarsi da lui. Gli
rimase vicino per un po’, fino a quando non sentì
i pensieri di Tom, che si chiedeva perché non fosse ancora
tornato da lui per spiegargli cosa stava succedendo. Franky si
passò una mano sugli occhi e sospirò stancamente.
Poi si alzò e camminò a passo lento fino al
salotto, dove trovò sia Tom che Linda, tesi come due corde
di violino. Dovevano aver sentito le grida di Arthur.
Il chitarrista si alzò
di scatto e lo guardò con l’ansia negli occhi.
«Allora, che cos’ha?».
Franky in un primo momento si
irrigidì, ma successivamente gli indicò il divano
con un gesto stanco quanto il suo respiro. Però non sentiva
alcun dolore: il farmaco funzionava. «Siediti, Tom».
«Non farmi stare sulle
spine, dimmelo e basta!».
«Ho detto di
sederti», ripeté serio. L’amico strinse
i pugni e si rimise seduto accanto alla moglie, che si strinse al suo
braccio mentre l’angelo si sedeva sul tavolino di vetro a
gambe incrociate e con le mani sulle tempie, che si
massaggiò per trovare le parole con cui dirglielo.
Alla fine esordì:
«Arthur ha fatto un incubo ed è venuto da me per
un motivo preciso». Guardò Linda e lei
ricambiò con sguardo interrogativo, senza capire. Inoltre,
era sempre più preoccupata. «Arthur è
terrorizzato della festa a cui deve andare oggi pomeriggio. Credo che
lui non vi abbia mai detto nulla a proposito di come lo trattano
all’asilo».
Il volto di Linda si
pietrificò. «Come?»,
balbettò. «Franky, ti stai… ti stai
sbagliando, Arthur è un bambino normalissimo, ha degli
amici, tutti gli vogliono bene! E poi, se ci fosse stato qualche
problema le educatrici ce lo avrebbero detto!».
L’angelo scosse il capo e
trasse un respiro profondo: quella era la parte più
difficile. «Arthur è infinitamente introverso e da
quello che ho potuto capire passa le sue giornate all’asilo a
giocare da solo, come fa qui a casa quando non ci sono io. Le
educatrici non vedono altro che aspetti positivi nella sua pacatezza,
dicono che è un amore e che non dà mai problemi.
La verità è che lui è sempre solo e
sono certo che non abbia fatto i salti di gioia quando tu gli hai detto
che sarebbe dovuto andare a questa festa».
Linda si appoggiò allo
schienale del divano e guardò il soffitto con gli occhi
lucidi. «Dio mio, Dio mio…».
«Che cosa dovremmo fare,
adesso?», domandò Tom, attirando la moglie in un
abbraccio delicato. «Possiamo fare qualcosa?».
«Certo»,
annuì l’angelo, posando le mani sulle ginocchia.
«Tutto si può ancora recuperare. Non è
nulla di cui non possiamo occuparci, io per primo».
***
Evelyn si fece una rapida coda di
cavallo, che sistemò alla bell’e meglio mentre
andava ad aprire alla porta.
«Ciao Martin»,
salutò il ragazzo stringendosi un braccio intorno allo
stomaco per il freddo. Si fece da parte per lasciarlo entrare e lui le
posò un fugace bacio sulla guancia, che la mise comunque un
po’ in imbarazzo.
«Ciao Evelyn. Come
stai?».
La ragazza si strinse nelle spalle,
chiudendo la porta. Si voltò verso di lui ed
accennò un sorriso. «Bene, dai. E tu?».
«Alla grande».
Rimasero per qualche secondo in
silenzio, a guardarsi intorno: erano tutti e due così in
imbarazzo, non sapevano cosa dirsi!
«Ahm… togliti
il giubbotto, io intanto vado a vedere se è pronto il
thè. Ne vuoi una tazza?», domandò la
bionda, dirigendosi verso la cucina.
«Sì,
grazie».
«Okay». Si
girò ed immediatamente il sorriso le svanì dalle
labbra per lasciare spazio ad un’espressione dubbiosa: aveva
fatto bene a voler vedere Martin così presto? Forse sarebbe
stato meglio incontrare prima Franky… Ma ormai era troppo
tardi per tornare indietro.
«Sei da sola?».
Sobbalzò dallo spavento
e vide Martin sulla soglia della cucina, che le guardava le spalle. Non
l’aveva sentito arrivare.
«Sì, mio padre
è andato in ospedale a salutare mamma», gli
spiegò, mentre versava un po’ di thè in
due tazze.
«Qualche
miglioramento?».
Evelyn scosse il capo e gli
passò una tazza tenendo lo sguardo basso. Martin le
sollevò il mento con una mano e le sorrise teneramente,
aprì la bocca per dire qualcosa, forse ciò che si
sentiva dire sempre più spesso, ossia “Non
smettere di sperare, presto si sveglierà e
tornerà tutto come prima”, ma lei non glielo
permise. Era stanca di quelle parole, stanca di tutto.
Perciò lo interruppe dicendo: «Mi mancano giusto
due o tre esercizi di matematica, poi potresti aiutarmi a fare un
po’ di compiti di inglese».
Martin aggrottò le
sopracciglia, ma presto si lasciò andare ad una risata
leggera. «Se fossi in te, non mi fiderei troppo».
«Perchè? Non
sei bravo in inglese?», gli domandò, divertita.
«Sono sempre stato una
frana!».
«Ah, allora
c’è qualcosa in cui io sono più brava
di te!».
Il ragazzo arricciò il
naso in segno di disappunto e dopo qualche secondo entrambi scoppiarono
a ridere.
Si sedettero al lungo tavolo della
cucina, uno di fianco all’altro, e chiacchierando sui
più svariati argomenti e bevendo dalle loro tazze,
riuscirono a fare qualche altro progresso in matematica.
Poi Evelyn andò a prendere anche gli esercizi di inglese che
doveva fare e il libro che la professoressa aveva dato da leggere per
le vacanze.
«Romeo e Giulietta di
Shakespeare?», domandò incredulo Martin,
rigirandosi il libro fra le mani.
«Esatto. L’ho
già iniziato».
«E ci capisci?».
«Sì,
qualcosa», ridacchiò.
«Come viene descritta
Giulietta?».
Evelyn non capì il senso
di quella domanda e rispose semplicemente: «Beh, è
una ragazza quattordicenne che dovrebbe sposarsi con Paride, ma appena
incontra Romeo se ne innamora e…». Ma era
un’altra la conclusione a cui Martin aspirava.
«Tu sei la mia
Giulietta», le rivelò infatti, facendola arrossire
ed abbassare lo sguardo sulle sue mani.
Martin gliele prese e le strinse
nelle sue, le fece alzare il viso e le sorrise, poi le si
avvicinò. Evelyn quella volta non riuscì a
lasciarsi andare, si allontanò da lui e schivò il
suo bacio. Il ragazzo non capì il motivo del suo
comportamento e, leggermente ferito, le chiese:
«C’è qualcosa che non va?».
«No»,
mormorò lei.
«Sei sicura?».
«Sì.
È solo che…».
«Evelyn».
Martin sospirò, frustrato, e si scostò.
«Ieri sera…».
«Ieri sera era
diverso», sputò senza riflettere e solo dopo si
rese conto di quanto avesse fatto meglio se si fosse tagliata la lingua.
«Che cosa intendi dire,
che dopo quello che ti avevo raccontato ti facevo così pena
che volevi darmi la speranza che anche tu provassi qualcosa per
me?», le chiese con parecchio sarcasmo nella voce.
«No, Martin, non
è così…».
«E allora
cosa?!».
Un pesante silenzio li avvolse.
Evelyn non alzò più lo sguardo dalle sue mani,
non lo fece nemmeno quando lo sentì alzarsi e dirigersi
verso l’ingresso per prendere il suo giubbino e sbattersi la
porta alle spalle. Quando rimase sola si lasciò andare ad un
lungo respiro che le fece tremare il petto.
La
tua Giulietta è innamorata di un altro Romeo, che non
può essere fatto fuori in nessun modo.
***
Franky, seduto a gambe incrociate
sul letto di Arthur, guardava divertito Linda mentre gli allacciava i
bottoni della camicia a quadretti che gli aveva fatto indossare. Anche
Tom osservava la scena, appoggiato con una spalla allo stipite della
porta, ma non c’era nemmeno l’ombra di un sorriso
sul suo viso: era teso, preoccupato, e non sapeva come comportarsi. In
quel momento riusciva soltanto a pensare che era stato un pessimo
genitore, se non si era interessato abbastanza della vita sociale di
suo figlio.
«Mamma…».
«Dimmi, tesoro».
«Ma perché
devo andarci?». Le sue labbra si arricciarono di nuovo,
stringendo il cuore di Linda in una morsa. La donna guardò
l’angelo, che annuì col capo: doveva attenersi al
piano, anche se ora come ora avrebbe soltanto voluto lasciarlo a casa e
cullarlo fra le sue braccia.
«Tu perché non
ci vuoi andare?», gli domandò in risposta, non del
tutto sicura di ciò che stava facendo.
«I miei compagni di
classe non mi stanno tanto simpatici e so che mi
annoierò».
«Ma no, vedrai che
sarà una buona occasione per conoscerli meglio e per giocare
con loro», gli spiegò comprensiva.
Allora il bambino, non vedendo vie
d’uscita, si voltò col capo verso
l’angelo, sperando che almeno lui lo aiutasse. Anzi, non
capiva nemmeno perché non l’avesse già
fatto, dopo quello che gli aveva raccontato.
«Sai
Arthur…», incominciò Franky, posando il
mento nell’incavo delle mani. «Anche io da
piccolino odiavo i miei compagni di classe. Dal primo
all’ultimo. Poi però, passando molto tempo con
loro, ho imparato a riconoscerne gli aspetti positivi ed ho iniziato a
volergli bene. Non so bene come è successo, ma capita, sai?
Se non fosse stato grazie alla mia mamma che mi diceva sempre di
guardare con attenzione ciò che mi stava vicino, a questo
punto non avrei nemmeno un amico».
Il bambino parve rifletterci sopra,
un po’ confuso, ma alla fine gli diede fiducia. Questo
però non bastò a tranquillizzarlo. «Tu
vieni con me, vero?».
L’angelo
ridacchiò. «Ma certo, piccino. Anche se, ricordalo
bene, non potrò stare sempre con te».
Arthur annuì,
sorridendo, ed andò da lui ad abbracciarlo. Franky
notò il suo migliore amico abbassare lo sguardo ed uscire
del tutto dalla camera, allora avvolse l’orecchio del bambino
con le mani e gli sussurrò qualcosa. Arthur non se lo fece
ripetere due volte e corse dietro al padre, a cui abbracciò
una gamba, sorridendogli smagliante e dicendogli: «Io e te ci
assomigliamo, papà!».
Tom lo guardò senza
capire e si inginocchiò per poterlo guardare dritto negli
occhi. «Che cosa intendi dire?».
«Che anche tu non avevi
tanti amici quando eri piccolo e che ti prendevano sempre in giro, a te
e a zio Bill».
«Come fai a sapere queste
cose?». Arthur indicò Franky, che li guardava di
fianco alla porta della cameretta e sorrideva.
“Parlagliene. Si
sentirà meno sbagliato”,
gli suggerì l’angelo e Tom accennò un
sorriso, arruffando i capelli di suo figlio con una mano.
«Forza, andiamo o faremo
tardi».
Salutarono Linda e tutti e tre
salirono in auto. Durante il viaggio, Tom gli raccontò della
sua esperienza, di come da ragazzini lui e Bill avessero dovuto subire
di tutto: dalle prese in giro per i loro look stravaganti a ben di
peggio. Si perse così tanto nel suo racconto che
più parlava, più ricordava cose che credeva di
aver dimenticato. Franky ascoltò forse anche più
rapito di Arthur: non aveva mai visto quell’aspetto
così intimo del suo amico ed era impensabile che da bambino
avesse sofferto così tanto. Se solo avesse potuto sarebbe
sceso da quell’auto e sarebbe andato a cercare quelli che
allora erano stati i suoi compagni di scuola per fargli passare un
brutto quarto d’ora.
«Però adesso
sei famoso, hai tanti amici, hai anche un amico angelo!»,
esclamò Arthur dopo qualche secondo di silenzio.
Tom sorrise e lo guardò
attraverso lo specchietto retrovisore. Lo sguardo gli cadde
inevitabilmente anche su Franky. «Sì, è
vero. Ma sarebbe stato meglio avere qualche amico vero in
più allora invece che tanti finti adesso».
«Perché, ci
sono anche gli amici finti?», domandò confuso il
bambino.
«Questa è
un’altra storia», gli rispose Franky, ridacchiando
ed accarezzandogli i capelli. «Quello che papà
tenta di dirti è che da bambini è più
bello avere tanti amici perché non c’è
altro a cui pensare, si è più liberi e
spensierati; ci si diverte di più da piccoli».
«Siamo
arrivati», si intromise Tom, parcheggiando di fronte ad una
villetta che anche all’esterno era addobbata a festa con
qualche palloncino colorato appeso qua e là.
Quando Arthur realizzò
che di lì a poco sarebbe stato lasciato in quella casa dal
suo papà gli si bloccò il respiro e il muro che
proteggeva i suoi pensieri si eresse nuovamente. Franky se ne accorse e
lo comunicò a Tom con un sospiro ed un’occhiata
più che eloquente.
“Devo
proprio?”, gli domandò il chitarrista col
pensiero. “Mi sembra che lo stia portando in
prigione”.
“È necessario,
Tom. Più va avanti così, più si
bloccherà e avrà problemi in futuro”.
“Forse non è
grave come pensi, forse è solo un momento e quando
sarà più grande…”
“No, Tom. Ormai lo
conosco e non è normale una reazione come la sua, di
chiusura totale. Rischia di diventare davvero un problema
serio”.
Tom, combattuto fra il bene
momentaneo e quello futuro di suo figlio, scese dall’auto ed
aprì la portiera del passeggero. «Dai Arthur,
slacciati la cintura e scendi».
Il bambino esitò, ma
dopo un colpetto di incoraggiamento da parte di Franky,
eseguì e scese tenendo stretta la mano di suo padre. Tutti e
tre camminarono nel vialetto che portava alla porta
d’ingresso e il chitarrista suonò il campanello.
Poco dopo una donna, la madre del festeggiato, gli aprì e li
salutò con un sorriso estasiato sulle labbra.
«Credevamo non arrivaste
più!», gridò e Tom
stiracchiò un sorriso, mentre Franky incrociava le braccia
al petto, infastidito dall’ipocrisia di quella donna.
«Vuole entrare a prendere qualcosa da bere?».
«Ahm… no
grazie, devo scappare», disse Tom.
In quel momento una bambina dai
capelli rossi, la stessa che il chitarrista aveva visto qualche volta
all’asilo di Arthur, sbirciò dietro le gambe della
donna e sorrise felice quando incontrò lo sguardo del
bambino. «Ciao Arthur!», lo salutò.
«Che ci fai tu qui fuori,
vai dentro, vai», la ammonì la padrona di casa,
irritata perché aveva appena interrotto il suo tentativo di
abbordaggio.
Ma Tom si inginocchiò a
terra, interessato più alla bambina che alla donna, e le
domandò: «Scusa, posso sapere come ti
chiami?».
«Reja», si
presentò orgogliosa, porgendogli una manina candida, che Tom
strinse con piacere.
«Era da tanto che volevo
conoscerti. Bene, allora Arthur, perché non vai dentro con
lei?».
Il figlioletto lo guardò
titubante, guardò la bambina che gli sorrideva teneramente e
dopo una spintarella del padre annuì, prendendo la mano
della bimba e sparendo nella casa, dalla quale provenivano
già alcuni schiamazzi di bambini.
«Ora sarà
meglio che vada», disse Tom, tirandosi su, contento del suo
operato: ora suo figlio era nelle mani di Franky. «A che ora
devo tornare a prenderlo?», chiese alla donna che lo guardava
rapita.
«Quando
vuole…», sospirò.
Tom era scocciato, ma non lo fece
notare. Sollevò soltanto il sopracciglio e
riformulò la domanda: «A che ora finisce la
festa?».
«Oh, verso le sei e
mezza, sette».
«Okay, sarò
qui per quell’ora», annuì e fece per
andarsene, ma la donna riprovò a trattenerlo:
«È sicuro che
non vuole fermarsi a bere qualcosa?».
«No, grazie,
davvero».
«Beh se
vuole…».
«Arrivederci!»,
la salutò deciso e si diresse verso la propria auto. Prima
di allontanarsi gettò un’ultima occhiata alla
soglia della porta e vide Franky ancora lì, con lo sguardo
vacuo perso nel vuoto, le mani strette in pugni.
“Che ti
prende?”, gli domandò col pensiero e
l’angelo si riprese, scosse la testa e gli fece segno di
andare e non preoccuparsi. Tom lo guardò entrare in casa
prima che la donna chiudesse la porta e meditabondo diede gas.
Quando arrivò a casa,
c’era Linda ad aspettarlo, che camminava inquieta su e
giù per il salotto. Appena lo vide rientrare, gli fu
addosso: «Com’è andata? Ha fatto altre
storie? Franky è con lui?».
Tom ridacchiò,
prendendole i polsi fra le mani, e le posò un bacio sulle
labbra. «Tranquilla, c’è Franky con
Arthur, non può capitargli nulla di male».
«E sai che ci sono io con
te?», gli domandò a bassa voce, accarezzandogli le
guance. Il chitarrista schivò il suo sguardo, alla ricerca
di qualcosa che potesse distrarlo ed impedire alle lacrime di
depositarsi nei suoi occhi.
«Forse… forse
non mi basti, in questo momento», mormorò, per
quanto gli dispiacesse dirglielo. Aveva bisogno di Bill e lo sentiva
così distante… tutto per colpa di uno stupido
demone.
Linda sospirò e si
accoccolò fra le sue braccia, che lentamente iniziarono a
cullarla a destra e a sinistra. Tom le posò un bacio sui
capelli: «Scusami».
«Non importa, capisco
come ti senti», gli disse, anche se era molto difficile da
comprendere; ma almeno ci provava.
«Fai una cosa», gli posò le mani sul
petto e lo guardò negli occhi con il sorriso più
incoraggiante che riuscì a fare. «Chiamalo,
chiedigli di venire qui. Vedrai che capirà che hai bisogno
di lui e…».
Tom scosse il capo. «Non
ne sono così sicuro».
«Tentar non
nuoce… Vuoi che lo chiami io e che gli faccia una di quelle
ramanzine epiche?».
Riuscì a strappargli un
sorriso. «No, ci penso io».
«Okay». Quella
volta fu lei a baciarlo e gli diede una pacca sul petto, poi lo
guardò estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans e sedersi
sul divano, incurvato in avanti con i gomiti puntati sulle ginocchia.
Con un braccio stretto intorno allo
stomaco si avvicinò, si mise seduta sul bracciolo accanto a
lui e gli massaggiò la schiena con una mano. Il telefono
squillava a vuoto e dopo un po’ Tom buttò
giù e posò il viso sulle gambe della moglie, che
gli accarezzò i capelli e gli baciò la guancia
rigata da una lacrima solitaria chinandosi su di lui.
***
Bill trovò finalmente il
cellulare che prima di entrare in ospedale aveva lanciato nel
portaoggetti dell’auto, ma quando lesse il nome di suo
fratello sul display si irrigidì, indeciso se rispondere o
no. Immediatamente, pensando a lui, avvertì un forte sentore
di malessere. Ciò voleva dire solo una cosa: Tom stava male.
Agì d’istinto e fece per rispondere, portandoselo
all’orecchio senza nemmeno pensare di mettersi gli
auricolari, ma proprio una frazione di secondo prima gli
scivolò dalla mano, cadendo nella fessura tra il sedile e il
cambio.
«Non si parla al
cellulare mentre si guida».
Trasalì dallo spavento;
Lilith, seduta al posto del passeggero, invece, aveva
un’espressione divertita che tentava a malapena di nascondere.
«Che ci fai
qui?», le domandò nervosamente, mentre con una
mano reggeva il volante e con l’altra cercava di recuperare
il cellulare, senza particolare successo: ma dove era andato a finire?!
O forse… dove
gliel’aveva fatto finire?
«Mi preoccupo per
te!», rispose con aria da finta innocente, portandosi le mani
sul petto. «Non sai che è pericoloso guidare ed
usare il cellulare contemporaneamente?».
«Era Tom»,
biascicò, allungando ancora un po’ di
più il braccio.
«Tom… Oh, ora
mi ricordo!», si schiaffò una mano sulla fronte.
«Il tuo caro gemellino succube di Franky?».
La sua mente quella volta
rifiutò di dar ascolto a quelle parole e sul suo viso
comparve una smorfia. Che c’entrasse qualcosa il discorso che
gli aveva fatto l’angelo poco prima?
«Invece di
blaterare», le disse, «perché non mi
aiuti a prendere il cellulare, così almeno la faccio finita
e non rischio ulteriormente di fare un incidente?».
Il demone lo guardò
corrugando la fronte. Bastò una sbirciatina nei suoi
pensieri per capire esattamente ciò che era successo e non
poté fare a meno di alterarsi, tanto che i suoi occhi ne
risentirono. «Oh… Ora è tutto
chiaro!», strillò. «Hai parlato con
Franky!».
«Sì,
l’ho fatto, e allora?».
«E allora?! Ma ti rendi
conto che stai credendo alle solite bugie? Credi davvero che io possa
farti del male?!».
Le gettò
un’occhiata e finalmente sentì lo schermo del suo
cellulare sotto le dita. Lo afferrò e non fece caso alla sua
espressione furente, se lo portò all’orecchio e
gridò: «Tom!». Ma dall’altra
parte avevano già riattaccato.
«Troppo tardi»,
sibilò Lilith, con un sorrisino forzato. «Buona
giornata, Bill». E sparì come era arrivata.
Il frontman gettò il
cellulare sul sedile su cui era stata seduta fino a quel momento,
adirato. Senza nemmeno mettere la freccia svoltò a destra,
beccandosi qualche clacson, e premette sull’acceleratore.
***
Con grande sorpresa, Franky si rese
presto conto che Reja aveva un angelo custode: sua nonna, una donna dai
capelli ancora rossi come quelli della bambina e un viso dolce
stravolto dal dolore provocato dalla presa di coscienza che prima o poi
avrebbe visto morire la sua piccolina senza che potesse fare nulla.
Mentre Arthur e Reja giocavano in
un angolino, lontani dagli altri bambini che non facevano altro che
correre dietro al festeggiato e riempirsi i bicchieri di carta di
patatine, si avvicinò alla donna, che come lui stava
guardando i due bambini da lontano. Si mise seduto al suo fianco, in
silenzio, come la maggior parte del tempo che passarono insieme: non
c’erano parole abbastanza adatte per descrivere tutto quel
dolore, ciò che gli angeli erano in grado di comunicarsi
solo stando vicini era già abbastanza straziante.
L’anziana ad un certo
punto accennò un sorriso amaro, quando la sua piccola
protetta scoppiò a ridere, e disse: «Ho visto la
malattia formarsi dentro di lei, crescere e diramarsi in tutto il suo
corpo, e non ho potuto fare niente. È una bambina
così…». Le lacrime le rigarono il viso
e Franky si strinse le braccia intorno alla pancia, come se si sentisse
male. E, in effetti, era così. La sofferenza che la donna
provava dentro di sé ogni giorno era quasi insopportabile
per lui che non aveva quel peso dentro, come faceva a resistere?
«Tutto quello che posso
fare», continuò l’anziana, mantenendo un
certo controllo nella propria voce, «è sostenere
questa bambina, amarla, infonderle più coraggio e forza che
posso. E poi, sostenere mia figlia e suo marito».
«Quando l’hanno
scoperto loro?», ebbe la forza di domandare
l’angelo più piccolo.
«L’ho
sussurrato in sogno a mia figlia qualche mese dopo che la malattia
aveva preso parte della sua vita. Lei l’ha portata dal medico
perché da qualche giorno Reja si affaticava subito, diceva
che le faceva male il fianco sinistro e aveva iniziato a mangiare
sempre meno. Le hanno fatto alcuni esami e…».
Franky si portò le mani
sul viso, profondamente addolorato, e scosse il capo energeticamente.
«È inconcepibile. Perché devono
accadere queste cose anche ai bambini?».
«Mi dispiace che anche il
tuo protetto ne soffrirà», gli disse
l’anziana, posandogli una mano sulla spalla.
Franky alzò lo sguardo
su Arthur, che sorrideva porgendole un tovagliolo per pulirsi il viso
sporco di panna – il festeggiato aveva già spento
le candeline sulla torta e non se n’era nemmeno accorto.
«Lui non è il mio protetto», rispose.
«Ah no? Hai un legame
piuttosto forte con lui, mi sembrava…».
«No, no, lui è
solo… Tengo moltissimo a lui, me ne occupo più
che volentieri ora che non posso fare molto per la mia
protetta».
L’angelo custode di Reja
conobbe attraverso i suoi pensieri tutto ciò che decise di
farle conoscere ed aumentò la stretta sulla sua spalla, a
mo’ di conforto. «Che il Signore sia con te,
figliolo».
Franky accennò un
sorriso. Poi riprese, sollevando il sopracciglio: «Come fa a
sapere che Arthur ne soffrirà?».
L’anziana
ridacchiò. «Ne hai passate molte nella tua
carriera da angelo, ma non ti è ancora capitato di vedere il
futuro delle persone che ti stanno accanto, vero?».
«Io… posso,
davvero? Credevo che fosse una qualità degli angeli
speciali…».
«Beh… gli
angeli custodi bravi ne sanno qualcosina in più persino
degli angeli speciali», gli fece l’occhiolino.
Franky puntò lo sguardo
su Arthur e Reja, che si apprestavano a tornare al loro gioco, sazi, e
strinse gli occhi a due fessure per concentrarsi, ma non
riuscì a vedere assolutamente nulla. Sbuffò e
scosse il capo, agitando le mani: «Non vedo niente, forse non
sono abbastanza bravo».
«Io invece credo che tu
lo sia», ribatté la donna.
«C’è qualcosa in te… Devi
solo… lasciarti andare quando è il
momento».
L’angelo la
guardò confuso, ma presto venne distratto
dall’urlo della padrona di casa, mamma del festeggiato, che
arrabbiata sgridava suo figlio per aver iniziato a giocare con il
pallone dentro casa ed aver beccato proprio le bevande sulla tavola
imbandita, sporcando tutta la tovaglia e chiazzando il pavimento.
«Se vuoi giocare a calcio vai a farlo in
giardino!», strillò, rossa come un peperone. Il
bambino non se lo fece ripetere due volte e con la schiera dei suoi
amichetti corse ad infilarsi il giubbotto per poi uscire in giardino.
C’era il sole quel pomeriggio, strano ma vero, e non faceva
poi così freddo.
Franky guardò Arthur e
Reja rimanere da soli nel salotto, confusi per ciò che era
appena successo. La mamma del festeggiato li notò e si
portò le mani sui fianchi: «Perché non
uscite un po’ anche voi?». Sembrava più
un rimprovero che un invito, tanto che i due si alzarono e corsero
fuori, tenendosi per mano.
Anche i due angeli custodi uscirono all’aria aperta ed
osservarono i bambini guardare incuriositi i loro compagni correre
dietro un pallone bianco e nero, calciarlo e cercare di mandarlo nella
piccola porta.
Sia Arthur che Reja si avvicinarono
ai loro angeli, l’uno a l’insaputa
dell’altra, e rimasero accanto a loro per qualche minuto, poi
la bambina guardò il suo amichetto e gli sorrise
apertamente, esclamando: «Vai a giocare anche tu!».
Arthur ricambiò lo
sguardo spaventato. Franky gli posò una mano sul capo e gli
accarezzò i capelli, sussurrandogli che non era una cattiva
idea. La nonna di Reja fece la stessa cosa, dicendole però
di non essere insistente come suo solito.
«Ma io… io non
so giocare», balbettò intimorito.
«E allora? Dai, vai, io
sto qui a guardarti!». Si mise seduta sui gradini della
veranda, col viso fra le mani.
Arthur deglutì e dopo
una spintarella di Franky si avviò verso gli altri
bambinetti che stavano giocando. L’angelo
ridacchiò, quando vide fra i suoi pensieri la
volontà di far bella figura con la bambina dai capelli
rossi. Quella risata però si spense presto, quando gli
affiorò alla mente che quella stessa bambina presto o tardi
l’avrebbe lasciato per sempre, ferendo ulteriormente la sua
emotività già instabile.
D’altro canto, Reja non l’aveva invitato ad andare
a giocare un po’ senza di lei senza un motivo preciso, che
c’era eccome: si sentiva stanca, debole, e l’aveva
mandato via per non farglielo notare e per obbedire alla sua mamma, che
prima di andare via, con gli occhi lucidi dalle lacrime, le aveva
raccomandato di riposarsi tutte le volte che voleva se ne sentiva il
bisogno.
Franky si mise seduto al suo
fianco, posò una mano sulla sua schiena e sentì i
battiti affaticati del suo cuoricino. Poi le accarezzò i
capelli rossi che contrastavano così tanto con il pallore
della sua pelle e guardò l’anziana, seduta al
fianco sinistro di Reja. La sorreggeva col suo corpo e con il semplice
contatto le infondeva la forza che pian piano le faceva ritornare le
energie ed un po’ di colore sulle guance.
Uno strano pizzicorio alle ali lo
distrasse e fece in modo che portasse lo sguardo su Arthur, che era
riuscito ad inserirsi in una delle due squadre e che proprio in quel
momento stava difendendo il pallone come se in ballo ci fosse la sua
automobilina preferita. Franky continuò ad osservarlo e
senza che se ne rendesse pienamente conto una visione si sovrappose
alla sua vista: c’era un ragazzo dai capelli biondi, con un
fisico asciutto e slanciato, che difendeva una palla molto simile a
quella con cui stava giocando Arthur e che riuscì, con finte
e giochetti, a smarcarsi di tre difensori e a tirare in porta, per fare
uno splendido goal ed essere travolto da tutti i suoi compagni di
squadra.
All’improvviso la visione terminò e
tornò a vedere soltanto il piccolo Arthur, che si
destreggiava in modo impacciato con quella palla troppo grande e troppo
pesante per i suoi piedini. Ma Franky ebbe la certezza che il ragazzo
che aveva visto nella sua visione e il bambino che aveva di fronte
erano la stessa persona.
Si voltò verso
l’angelo custode di Reja, che già sorrideva
dolcemente, ed indicò nella direzione del bambino con la
bocca aperta. «Io…»,
balbettò, incredulo.
«Hai visto il suo futuro,
esatto».
Arthur cadde a terra, spinto da un
altro bambino, e si sbucciò un ginocchio sotto i jeans, che
si sporcarono di erba e terra come del resto le sue mani. Ma non
pianse, nemmeno una lacrima. Si alzò da solo, nonostante
Franky fosse corso da lui per vedere come stava, e senza il suo aiuto
tornò da Reja, che gli guardò la ferita al
ginocchio come se fosse una rinomata dottoressa.
«Ti fa tanto
male?», gli domandò, non osando nemmeno sfiorarla.
«Brucia un
pochino», rispose con un sorriso. Si voltò verso
l’angelo, senza farsi notare dall’amica, e gli
chiese mentalmente: “Posso tornare a giocare?”.
Franky lo guardò
incredulo, con tanto di occhi sgranati, ma poi allargò le
braccia e con un ampio sorriso annuì.
***
Tom sentì il campanello
trillare, ma non si interessò a chi potesse essere.
Finì di sciacquarsi il viso, poi se lo asciugò
osservandosi allo specchio.
Uscì dal bagno, spense
la luce e si diresse verso il salotto. Già in corridoio gli
parve di sentire la voce di suo fratello, ma era
impossibile… eppure il suo cuore aveva iniziato a battere
forte. Una volta entrato in salotto, lo vide di fronte alla porta,
ancora col giubbotto addosso, che sorrideva impacciato e dispiaciuto.
«Ciao Tomi»,
mormorò e lui non rispose, solamente annullò lo
spazio che li divideva e lo strinse in un forte abbraccio.
***
Spense la tv, annoiata, e si
passò le mani sul viso stanco. Suo padre non era ancora
tornato, anche se quando l’aveva sentito,
all’incirca un’ora prima, le aveva detto che stava
tornando a casa. Dove si era cacciato?
Stava per chiamarlo al cellulare,
quando sentì degli strani rumori provenire dal piano
superiore. Sicura che si trattasse soltanto di Coco, lasciò
il cellulare sul divano e salì di sopra, ma ciò
che vide appena si sporse sul corridoio le fece gelare il sangue nelle
vene: Lilith stava tastando con le mani gli stipiti della porta della
camera da letto di suo padre, lasciandogli appiccicato uno strato di
fuliggine nera che a fatica riusciva a scorgere.
«Ehi, che stai
facendo?», le gridò prendendo coraggio, nonostante
sentisse a pelle di essere nei guai.
Il demone non si voltò
nemmeno verso di lei, sogghignò e continuò a fare
ciò che stava facendo. Allora Evelyn la raggiunse a passo di
marcia ed alzò una mano per afferrarle il braccio, ma Lilith
fu più veloce di lei: le prese il polso e la
bloccò con una risatina. «Lasciami lavorare,
ragazzina».
«Mi dispiace, ma non te
lo posso permettere». Con la mano libera le
afferrò i capelli e glieli tirò con tutta la
forza che aveva, mentre con l’altro braccio la tirava verso
di sé per impedirle di continuare.
Il demone, che non si aspettava di
certo una reazione del genere, fu presa alla sprovvista e dovette
interrompersi. Spintonò la ragazzina per qualche metro,
guardandola negli occhi coi suoi felini. «Sei proprio una
seccatura!», le gridò e la voltò verso
le scale di vetro. Evelyn capì che voleva buttarla
giù e si aggrappò al corrimano, ma nello stesso
momento una luce bianchissima l’accecò e un urlo
agghiacciante l’assordò.
Il tutto durò pochi
secondi, ma anche quando ormai era tutto finito rimase ancora
artigliata al corrimano, mentre tremava dalla testa ai piedi, incapace
di fare qualsiasi cosa.
«È tutto
finito», le rassicurò una voce soffice, poco
distante da lei. La bionda aprì gli occhi e vide chi non si
sarebbe mai aspettata di vedere; soprattutto, non si sarebbe mai
aspettata che proprio lei la salvasse da quello che agli occhi umani
sarebbe risultato un semplice incidente domestico.
«Kim»,
balbettò.
L’angelo speciale le
sorrise, portandosi le mani sui fianchi. «Certo che tu hai
proprio un bel fegato a sfidare un demone. Mi chiedo se a furia di
stare con Franky tu abbia preso qualcosa da lui».
Evelyn si staccò dal
corrimano, ma in compenso si aggrappò alle spalle
dell’angelo che l’aveva appena salvata.
***
Linda ascoltò suo figlio
rapita e nel frattempo non poteva smettere di pensare che era tutto
merito di Franky, se ora era così felice. Certo, quei
vestiti non sarebbero venuti puliti nemmeno con la candeggina, ma il
sorriso magnifico e la luce che risplendeva negli occhi di Arthur erano
impagabili.
Gettò
un’occhiata all’angelo custode che camminava a
qualche passo di distanza dietro di loro, con le mani nelle tasche e lo
sguardo perso. Chissà a cosa stava pensando.
«Franky»,
richiamò la sua attenzione e quando la ottenne gli sorrise
teneramente, ringraziandolo di cuore. Lui scosse il capo, rifiutando
ogni tipo di merito, e le indicò di aprire la porta di casa.
L’angelo si sorprese
parecchio quando, entrando in salotto, vide Bill seduto sul divano
accanto a Tom. Arthur non vide nulla di strano ed infatti corse dal
padre e si gettò fra le sue braccia, iniziando a
raccontargli a raffica tutto quello che aveva fatto alla festa:
«Sono stato quasi tutto il tempo con Reja! Siamo diventati
proprio amici e le ho detto che può venire qui tutte le
volte che vuole e che le farò vedere tutta la mia collezione
di macchinine! Poi abbiamo mangiato la torta, era buona, anche se non
era la mia preferita…». Tom guardò suo
figlio capendo poco o niente di tutto ciò che gli stava
dicendo: la sua allegria e quello che vedeva dipinto sul suo viso
bastava ed avanzava.
«Digli del
regalo», gli ricordò sua madre.
«Oh, sì!
Papà il mio è stato il regalo più
bello! Gli è piaciuto tanto!».
«Sono contento,
piccolo», gli accarezzò i capelli e lo strinse
forte a sé, ma nemmeno quell’abbraccio
riuscì ad arrestare Arthur.
«Ad un certo punto siamo
andati tutti in giardino e abbiamo giocato a calcio! Io non ero capace,
ma Franky mi ha detto di provare e quindi sono andato e sai che mi sono
divertito tantissimo!? Sono caduto un po’ di volte e mi sono
anche sbucciato un ginocchio, ma è stato bello! Mi prometti
che uno di questi giorni, quando il tempo è bello, andiamo
al parco a giocare a calcio?».
Tom, a bocca aperta,
guardò l’angelo, che annuì
energicamente col capo. Allora il chitarrista rispose:
«Certo, come vuoi tu».
«Grazie papà,
grazie!», gridò, gettandogli le braccia al collo.
«Arthur… dai,
vieni, devi fare proprio un bel bagno», gli disse la madre,
invitandolo a seguirla. Il bambino la raggiunse senza fare storie e
rimasero solo loro tre in salotto: Tom, Bill e Franky.
«Beh…
è andata bene, no?», domandò il
cantante, sorridendo.
«Cacchio, io…
non pensavo, tu… tu c’entri sicuramente
qualcosa». Tom indicò l’angelo, che
negò con la testa.
«Tutto merito di Reja.
È una bambina davvero…».
Abbassò lo sguardo, stringendosi le braccia al petto.
«Davvero?», lo
incalzò il chitarrista.
«Adorabile»,
mormorò.
Uno strano silenzio calò
su di loro e durante quei minuti Franky ebbe
l’opportunità di concentrarsi e sbirciare fra le
menti dei gemelli: non riusciva ancora a vedere oltre il muro creato da
Lilith nella testa di Bill, ma si era accorto che il seme nel suo cuore
si era un po’ rimpicciolito e aveva perso un po’
della sua oscurità. Quindi aveva intuito che doveva essere
successo qualcosa con il demone – dubitava che le sue parole
da sole avessero avuto quell’effetto su
quell’energia negativa. Lesse nella mente di Tom ed ebbe le
risposte a molte sue domande: Bill aveva avuto un battibecco con
Lilith, che aveva cercato di allontanarlo ancora dal suo gemello, ma
non ci era riuscita. Da quello che il cantante gli aveva raccontato, la
sua reazione alla ribellione della sua preda non era stata molto
positiva.
All’improvviso un nodo
gli serrò la gola e smise di respirare. Anche Bill e Tom se
ne accorsero ed uno più preoccupato dell’altro si
sporsero verso di lui, chiedendogli che cosa avesse. Franky non
badò a loro, cercò affannosamente di collegarsi
alla mente di Evelyn, ma per qualche strano motivo non ci
riuscì.
Solo allora si girò
verso Bill e gli domandò:
«Dov’è Evelyn?».
Il cantante lo guardò
sollevando il sopracciglio. «Perché me lo
chiedi?».
«Sai, non è
proprio una genialata lasciarla da sola dopo aver fatto arrabbiare un
demone».
«Un che
cosa?!».
«Lilith è un
demone. Non lo sapevi?», gli domandò Tom, sorpreso.
«Ho cercato di dirglielo,
stamattina, ma non mi ha dato modo di aprire bocca», si
difese l’angelo, già in panico. Perché
non riesco a collegarmi alla sua mente?! Le è successo
qualcosa?! No, è impossibile, l’avrei sicuramente
sentito…
«Quindi…
Evelyn potrebbe essere in pericolo?», chiese Bill, pallido
come un lenzuolo. Se le fosse successo qualcosa per causa
sua… non se lo sarebbe mai perdonato.
«Vado a
cercarla», decretò con fermezza l’angelo
e corse alla porta, ma quando l’aprì si
ritrovò di fronte Kim e la stessa Evelyn, ancora un
po’ scossa. L’angelo speciale gli posò
una mano sul braccio e gli bastò un attimo per venire a
conoscenza di tutto quello che era successo.
«Allora
esisti», sospirò socchiudendo gli occhi rivolti
verso l’alto, riferendosi ad un Dio che aveva fatto
sì che Kim passasse di lì proprio in quel momento
ed avesse salvato Evelyn da una fine più che spiacevole.
Quando li posò di nuovo sulla ragazza bionda vide nei suoi
altri mille pensieri che già non c’entravano nulla
con lo scontro diretto che aveva appena avuto con Lilith e il suo
sollievo alla scoperta che stava bene si ritirò in un
angolino della sua mente: avevano parecchi problemi da risolvere, loro
due, e dovevano farlo il prima possibile.
«Tesoro!»,
esclamò Bill, scansandolo ed avvolgendo il corpo della
figlia con le lunghe braccia. «Come stai, ti è
successo qualcosa?».
Anche mentre rispondeva alle
domande a raffica del padre, il suo sguardo non si allontanò
di un centimetro da quello di Franky: «No, tranquillo, sto
bene».
Tom si alzò dal divano e
disse: «Non state lì sulla soglia tutti quanti,
entrate no?». Bill, d’accordo col fratello,
accompagnò dentro Evelyn e la fece sedere sul divano; Franky
e Kim entrarono in casa, ma presto si dissociarono dal resto del
gruppo, dicendo che avevano bisogno di un minuto per poter parlare in
privato. Così trapassarono il soffitto e si rifugiarono
nella soffitta buia ed impolverata, nella quale non entrava anima viva
da chissà quanto tempo.
Kim scostò una tenda pesante da uno dei tanti lucernari e
guardò Franky, ancora nella penombra, nella sua posa
preferita: gambe leggermente divaricate, equilibrio precario sui lati
esterni dei piedi, mani nelle tasche e capo chino.
«Perché non
sono riuscito a sentire nulla? Nemmeno prima sono riuscito a collegarmi
alla sua mente».
Era la domanda che si aspettava e a
cui sapeva rispondere: «È a causa del farmaco.
Anche a me capitava di non riuscire a collegarmi alla mente di
Pete».
«Ma avviene sempre, a
volte…?».
«Più vai
avanti ad usare il farmaco, più il collegamento fra le
vostre menti e le vostre anime svanirà».
Franky fece qualche passo che
scricchiolò sul pavimento in legno e prese a calci uno
scatolone, frustrato. «Ha rischiato di… E se tu
non ci fossi stata…».
«Non ringraziarmi,
è mio dovere, come quello di tutti gli angeli –
speciali o meno – combattere contro i demoni. Però
è stata davvero una fortuna che io passassi di lì
proprio in quel momento. Un minuto più tardi
e…».
Franky era entrato nel cono di luce
che la illuminava e la guardava con i suoi occhi azzurri, strani,
diversi. L’abbracciò delicatamente, con quella
dolcezza che aveva riservato solo a Zoe e ad Evelyn in tutta la sua
vita, e respirò il profumo dei suoi capelli.
«Grazie», le
sussurrò.
Kim sorrise e gli
massaggiò la schiena. «Non
c’è di che».
***
Il cielo quella notte era chiaro,
si vedevano molte stelle e da quando si era appollaiato sul tetto per
pensare aveva già visto due “stelle
cadenti” del suo mondo – due angeli. Aveva lasciato
correre a ruota libera i pensieri, chiedendosi chi fossero, quale fosse
il loro ruolo sulla Terra, se anche loro avevano tanti problemi quanti
ne aveva lui.
Kim gli aveva raccontato
ciò che era successo fra lei e Raphael quella mattina ed era
contento che almeno loro fossero riusciti a saltare uno fra i tanti
ostacoli che ancora gravavano sulla loro corsa. Nessuno dei due, da
quanto aveva capito, aveva intenzione di correre né credeva
che sarebbe potuto nascere qualcosa di più
dell’amicizia appena riscoperta sotto le ceneri del passato,
ma Franky aveva i suoi dubbi: forse li avrebbe visti insieme prima di
quanto loro avrebbero mai potuto immaginare.
Posò il mento sulle
ginocchia strette al petto e socchiuse gli occhi, cullato dal
venticello freddo che si era alzato.
Era stata davvero una giornata
densa di fatti, di scoperte e di emozioni, come la maggior parte delle
sue giornate, e avrebbe tanto voluto chiudere gli occhi ed abbandonarsi
al sonno, ma non poteva con un demone arrabbiato in giro, che poteva
decidere di attaccare in qualsiasi momento. E anche volendo, non
sarebbe riuscito a dormire più di tanto: aveva troppe cose
su cui riflettere.
Sentì dei rumori e si
voltò verso il lucernario da cui aveva avuto accesso al
tetto e da cui era spuntata la testa di Tom, che lo guardava con gli
occhi grandi, sereni, quasi paterni.
«Che ci fai
quassù tutto solo?».
«Tu perché sei
venuto a cercarmi?».
Il chitarrista sollevò
le spalle e posò le braccia sulle tegole. «Non mi
è mai interessato più di tanto il
calcio».
«Arthur sta guardando una
partita di calcio invece che i cartoni animati?», gli chiese
incredulo, ma anche un po’ divertito.
«Già.
È stato proprio amore a prima vista il suo, eh? Credi che
dovrei sostenerlo? Cioè… che lo dovrei iscrivere
da qualche parte?».
«Secondo me sarebbe una
cosa positiva in tutti sensi». Si sdraiò con le
mani dietro la nuca e le ali a fargli da coperta. «Farebbe
qualcosa che gli piace e in più imparerebbe a stare insieme
agli altri, a sbloccarsi, a diventare un po’ più
estroverso. D’altronde è pur sempre un gioco di
squadra».
«Giusto, hai
ragione». Guardò l’angelo ed
accennò un sorriso: «Adesso mi dici che ci fai
quassù tutto solo?».
Franky sospirò,
respirando l’aria buona. «Pensavo».
«A che cosa?».
«A quanto alle volte il
destino o ciò che contrasta le scelte umane sia
crudele».
Il chitarrista pensò che
il suo amico stesse entrando nella fase filosofica della vita
– l’aveva avuta anche lui, qualche anno prima,
– ma cambiò opinione quando ricordò il
momento in cui l’aveva visto perso, fuori dalla casa in cui
c’era la festa. Che c’entrasse qualcosa?
«È successo
qualcosa alla festa che Arthur non mi ha raccontato?», gli
chiese con premura.
«Sì, qualcosa
che non sa e che non credo che gli farà piacere
sapere». Fece un respiro profondo. «Appena ho visto
Reja… mi sono accorto che qualcosa non andava in lei: aveva
un’aura grigia intorno al cuore, era la prima volta che
vedevo una cosa simile ma questa è una delle poche cose che
so perché le ho studiate… Quell’aurea
è sintomo di malattia e sai che malattia ha
Reja?». Una risata amara gli sfuggì dalle labbra,
mentre le sue ciglia non trattenevano le lacrime nei suoi occhi quasi
tornati verdi naturali. «Ha la leucemia. Ti rendi conto, la
leucemia! Vorrà dire che tra un po’
entrerà in un ospedale e vi starà fino alla fine
del suoi giorni e Arthur… Arthur, hai la minima idea di
quanto soffrirà quando lo scoprirà? Dovrete
stargli vicini il triplo, e io…».
Tom, riuscito ad uscire dal
lucernario, si avvicinò all’angelo stando attento
a non scivolare sulle tegole, si mise sdraiato al suo fianco,
aprendogli un ala ed avvolgendocisi dentro, e lo abbracciò.
«Quanto ti fa male stare
per molto tempo accanto a noi? Vuoi aiutarci sempre e comunque, fare
sempre in modo che noi non soffriamo… Non pensi proprio mai
a te».
«Mettiti nei miei panni,
Tom», singhiozzò. «Io vi ho lasciati
prematuramente, vi ho fatti star male e ora che posso fare qualcosa per
voi come posso starmene fermo a guardare mentre le persone che amo
hanno problemi e soffrono?».
«Ma tu fai troppo,
Franky». L’angelo boccheggiò, alla
ricerca delle parole giuste con cui ribattere, ma non ne
trovò. «Sai cosa mi diceva sempre mamma? Che io
ero l’angelo custode di mio fratello, che lui era il mio e
che lei e papà a loro volta erano i nostri angeli custodi.
Alla fine… è lo stesso principio con cui agisci
tu e poi tutti gli altri angeli custodi… solo che noi siamo
tutti senza superpoteri e senza ali. Ciò vuol dire che io,
volendoti un bene dell’anima e non volendo altro che la tua
felicità, sono il tuo angelo custode».
Franky ridacchiò e si
asciugò le lacrime. «Sono in buone mani,
allora».
«Sfotti?», gli
tirò uno schiaffettino sulla guancia e si lasciò
andare ad una risata. «Ma torniamo seri… Mi
prometti che ogni tanto ti prenderai una vacanza e lascerai che siamo
noi a soffrire direttamente sulla nostra pelle? Quello che non uccide
fortifica infondo, no?».
L’angelo
annuì, anche se non del tutto sicuro di esserne capace. Si
tirò su seduto, guardò un’ultima volta
il cielo e poi si alzò in piedi.
«Dove vai
ora?», gli domandò Tom, guardandolo dal basso.
«Suvvia, non fare la
ragazza gelosa», lo ammonì con un sogghigno sulle
labbra. «Devo andare a fare da guardia a tuo fratello: non
credo che Lilith si faccia vedere, ma… meglio non adagiarsi
sugli allori».
«Stai attento».
«Come sempre».
Prese una breve rincorsa, ma proprio un secondo prima di spiccare il
volo nel cielo blu, il chitarrista lo chiamò. Franky si
girò e ed osservò i suoi occhi spaventati con
espressione interrogativa.
«Mi aiuti a tornare in
soffitta?», lo pregò Tom, con la voce che tremava
leggermente, mentre allungava il collo per vedere giù e allo
stesso tempo stringeva gli occhi per vietarselo. «Soffro
ancora di vertigini».
L’angelo sorrise,
scuotendo il capo.
***
Evelyn dalla sua terrazza vide
subito Franky atterrare nel bel mezzo del giardino. Anche lui si
accorse di lei, ma entrambi fecero finta di non essersi notati.
La ragazza scese al piano inferiore e vide l’angelo parlare
con suo padre, dicendogli che quella notte sarebbe rimasto
lì per proteggere lui ed Evelyn semmai Lilith si fosse fatta
viva di nuovo, più arrabbiata di prima.
«C’è
qualche problema per te?», gli domandò, con le
sopracciglia aggrottate.
«No, è
che… non so bene come…», Bill si
impappinò e, in imbarazzo, si portò una mano alla
nuca. «Credo di doverti delle scuse».
«Non ce
n’è bisogno, davvero».
«Mi dispiace
così tanto di non averti creduto subito, di essermi fatto
stregare da lei… Potrai mai perdonarmi?».
Franky vide il seme nero perdere
tutta la sua malvagità e una nuova aura dorata avvolse il
cuore di Bill, mentre anche il muro creato da Lilith intorno alla sua
mente crollava, permettendo a Franky di vedere tutto di nuovo con
chiarezza.
«Ma certo,
Bill». Lo abbracciò e gli diede qualche pacca
sulla spalla. «Adesso dobbiamo solo capire come liberarci
definitivamente di quella piaga», rifletté. Poi si
rivolse ad Evelyn: «Da quello che ho capito, tu
l’hai vista mentre faceva qualcosa alla porta della sua
camera, vero?».
«Esatto. Non so cosa
stesse facendo, ma non mi sembrava nulla di buono».
«No, infatti. Deve aver
lasciato lì una barriera che io non posso distruggere, in
modo tale da avere Bill sotto controllo appena dentro la
stanza».
«Beh, basta che io non ci
entri», disse il frontman.
Franky annuì.
«Okay, per questa notte è la soluzione migliore.
Domani vedrò di sistemare le cose, adesso sono troppo
stanco». Si lasciò cadere sul divano e
gettò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi
dalle palpebre pesanti.
«Ti scoccia se ti sto
vicino?», gli chiese Bill, prendendo la coperta in plaid
abbandonata sullo schienale e sistemandosi sullo stesso divano su cui
era seduto Franky.
«No, affatto»,
ridacchiò. «Basta che tieni lontani i piedi, Big
Foot».
«Ehi, come ti
permetti?!».
Evelyn li guardò
bisticciare ancora per un po’, divertita e rasserenata da
quel clima allegro nonostante ci fosse un demone infuriato con loro.
Si avvicinò al divano e
si sporse in mezzo a loro: «Non ho molto sonno, posso stare
qui con voi a guardare un po’ di tv?».
Bill e Franky si guardarono e
scrollarono le spalle, sorridendo.
_____________________________________
Salveeee :D
Capitolo un po' lunghetto, lo so xD Spero che non sia stato uno strazio
leggerlo tutto in una volta sola, anzi ;) Anche perchè sono
successe un sacco di cose interessanti!! Come per esempio il nuovo
farmaco che Franky ha deciso di prendere per rendere la sua anima
insensibile al dolore, che però ha avuto anche qualche
effetto collaterale, in quanto nel momento più opportuno non
è riuscito a leggere nella mente di Evelyn. Per fortuna che
c'era Kim che l'ha salvata!
Kim e Raphael hanno, come dire, riallacciato i rapporti :) E' presto
per dire se tutto tornerà come prima, però si
sente già qualcosa nell'aria!
Per quanto riguarda il piccolo Arthur, invece, è stata
davvero dura per Tom scoprire il problema del figlio. Ma Franky, o
meglio... Reja ha sistemato tutto con la sua allegria e la sua voglia
di vivere, anche se malata di leucemia, poverina :'(
Chissà, magari per Arthur è l'inizio di un futuro
da calciatore, come ha visto Franky nella sua primissima visione *-*
Poi Bill che torna da Tom e si convince che è Lilith quella
che vuole il suo male, beh, è la conclusione migliore, no? :D
Spero che vi sia piaciuto, come
è piaciuto a me scriverlo e... boh, basta xD
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto
soltanto e tutti quanti *.*
Alla prossima! Con affetto, vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 21 *** Archangel of the Sun ***
21.
Archangel of the Sun
They said we shouldn’t, they
said we wouldn’t
Look where we are, we’ve done what they thought we
couldn’t
Con la testa appoggiata
all’indietro sullo schienale del divano, guardava Bill
dormire rannicchiato come un bambino, nonostante i suoi anni. La tv
accesa di fronte a lui gli illuminava il viso, sul quale regnava una
pace apparente. Puntando lo sguardo oltre, vide Evelyn seduta contro il
bracciolo. Erano proprio agli antipodi, divisi dal corpo del cantante.
Lei si accorse presto del suo
sguardo insistente, voltò il viso verso di lui e sorrise in
maniera impacciata, lasciando sospesa la mano con cui si stava portando
alla bocca una caramella gommosa.
«Ti do’ fastidio se mangio?», gli
domandò in un sussurro, per paura di svegliare suo padre.
«No, figurati…
Ti guardavo», rispose altrettanto piano l’angelo.
«Guardavi me
o i miei pensieri?».
Franky ridacchiò.
«In quel momento ero soltanto focalizzato sul tuo viso, stavo
pensando ad altro».
«Cioè?».
L’angelo
temporeggiò, guardò il soffitto con gli occhi
lucidi ed accennò un sorriso amaro. Allora Evelyn si
alzò dal divano, gli andò di fronte e si mise a
cavalcioni sulle sue gambe. Franky non seppe cosa fare né
dove mettere le mani e il panico si diffuse nei suoi occhi.
«E se Bill si sveglia e
ci vede in questa posizione? Non è prudente!».
«Smettila di agitarti, o
si sveglierà davvero!», lo rimproverò
prendendogli il viso fra le mani e costringendolo a guardarla negli
occhi, con l’unica conseguenza che entrambi si persero nelle
iridi dell’altro.
Girl in you I find a friend, you make me
feel alive again
And I feel like the brightest star, ‘cos you make me shine
again
Franky si leccò le
labbra improvvisamente asciutte, Evelyn le guardò e tutti e
due, istintivamente, si avvicinarono al viso dell’altro.
Quando i loro nasi si sfiorarono e i loro fiati si fusero in uno,
però, si accorsero di quello che stavano facendo e si
irrigidirono, mormorando: «Niente più
guai», il loro giuramento.
I loro sguardi si incrociarono di nuovo e sorrisero contemporaneamente,
sospirando. Perché il loro amore era un amore impossibile?
Era una vera e propria ingiustizia.
La ragazza si appoggiò
alla sua spalla con la fronte e chiuse gli occhi sentendosi stringere
forte dalle sue braccia. Non si era mai sentita sicura così
come si sentiva ogniqualvolta stesse fra le braccia
dell’angelo.
«Pensavo a lui»,
sussurrò ad un certo punto Franky, iniziando ad accarezzarle
i capelli sulla nuca. «Pensavo a come sarebbe stato se fosse
nato… Il piccolo me, solo con i tuoi occhi…
Saremmo stati una bella famiglia». Evelyn sollevò
il capo e guardò le lacrime scorrere sulle guance di Franky,
mentre lui tirava su col naso e se lo massaggiava per smetterla.
«Mi dispiace così tanto»,
proseguì con la voce roca e spezzata dai singhiozzi.
«Avrei dovuto dirtelo, ma… non volevo farti altro
male e non ce la facevo proprio. Credevo che mi avresti odiato, faceva
troppo male…».
«Shhh»,
sussurrò, posando la fronte contro la sua ed asciugandogli
le lacrime con le dita. «È tutto a posto, va bene
così». Lo abbracciò e gli premette il
viso contro la sua spalla, riversando su di sé tutte le sue
lacrime. «Io non potrei mai odiarti. Ci ho pensato tanto
e… era la cosa migliore da fare, dopotutto».
Franky la guardò con le labbra socchiuse, stupito.
«Non dico che non l’avrei tenuto, ma…
adesso vedo tutto da un’altra prospettiva e sento che sarebbe
stato sbagliato: per me, per te, ma soprattutto per lui».
Accennò un sorriso. «Adesso basta piangere,
dai».
«Ti amo»,
mormorò lui, con gli occhi ancora colmi di lacrime.
Gli posò un bacio fra
gli occhi, uno sulla punta del naso ed uno sul mento, poi
sussurrò: «Anche io, non sai quanto».
«Però…»,
la incalzò, passandosi sul viso le maniche della felpa per
spazzare via ogni traccia evidente delle lacrime appena versate.
«Non
c’è nessun però, è un dato
di fatto».
«Intendevo
dire… però
io sono un angelo, però
c’è anche Martin».
«Martin»,
Evelyn ripeté il suo nome a testa bassa, come se si stesse
sforzando per ricordarselo. Ma sapeva bene chi era, sapeva bene
– o forse no – quello che provava per lui, ed era
un macello.
Franky sospirò
stancamente e le prese le mani nelle sue. «Senti,
Evelyn…».
La ragazza però non gli
diede ascolto, la preoccupazione prese il sopravvento sul suo viso e si
spostò dalle sue gambe. Anche l’angelo si
voltò a vedere che cosa l’avesse allarmata tanto e
vide Lilith oltre le porte finestre, che li salutava con la mano e con
un sogghigno piuttosto inquietante.
«Stai
indietro», le ordinò Franky, alzandosi ed
allontanando Evelyn col braccio.
Si diresse verso il demone, che lo attese senza muovere un muscolo. Una
volta faccia a faccia, separati soltanto dalla lastra di vetro, Franky
disse: «Non pensavo ti facessi ancora viva oggi, dopo la
lezione che ti ha dato Kim».
«Taci, angelo.
È ora di finirla», sentenziò con
rabbia. «Che ne dici se ci battiamo stasera e chi vince
ottiene il controllo dell’essere umano?».
«No, te lo puoi anche
scordare».
«La mia era una domanda
retorica», sibilò e con un movimento tanto rapido
quanto brusco trapassò il vetro con una mano, prese la nuca
dell’angelo e con una forza che non si sarebbe mai aspettato
lo schiantò a terra, sotto la veranda.
Sentì Evelyn
all’interno gridare spaventata, ma Bill non si
svegliò.
«Che cosa gli stai
facendo, stronza», le ringhiò contro, alzandosi a
fatica, con
le orecchie che gli fischiavano per la botta ricevuta.
«Oh, niente…
l’ho solo messo in standby, giusto per il tempo necessario a
farti fuori e rimpossessarmi di lui».
L’angelo gridò
pieno di rabbia ed andò alla carica, correndo verso di lei e
travolgendola. Caddero stesi sulle assi di legno della veranda, uno
sopra l’altra, e se le diedero come meglio poterono: graffi,
pugni, calci… fino a quando Lilith non fece cadere Franky
giù dalle scalette che portavano al giardino, facendogli
sbattere la schiena.
Franky gemette, dolorante.
L’effetto della medicina era decisamente finito. Per fortuna
tra lui ed Evelyn si erano risolte un paio di questioni che altrimenti
gli avrebbero fatto altro male e gli avrebbero sottratto ulteriori
energie. Si sentiva sostanzialmente bene, ma non tanto da affrontare un
demone. Aveva bisogno di rinforzi. Se solo si fosse ricordato come fare
a lanciare un segnale d’aiuto ad altri angeli nei
paraggi…
«Beh, tutta qui la tua
forza angelica?», lo beffeggiò, guardandolo
dall’alto. «Io sono ancora in forma umana, mi sto
ancora riscaldando!».
«Sei
proprio…», biascicò, ma venne
interrotto da un calcio al fianco, che lo fece accartocciare su se
stesso.
«Risparmia le parole per
le tue ultime preghiere». Lilith si accucciò e
sulla schiena iniziarono a spuntarle due ali nere, formate solo da
grosse ossa scure: si stava trasformando in demone. Le cose si
mettevano sempre più male per lui.
Mentre cercava di alzarsi,
stringendo tra i pugni fasci d’erba umida,
desiderò con tutte le sue forze che altri angeli lo
sentissero ed accorressero in suo aiuto, poiché era
consapevole che da solo sarebbe stato fatto fuori in men che non si
dica.
Quando alzò lo sguardo però, si accorse che
Lilith aveva completato la sua trasformazione ed era proprio un demone
agghiacciante, tutto ossa e tenebre, e di altre figure angeliche
nemmeno l’ombra. L’avevano lasciato solo?
«Fatto o vuoi che ti
conceda altri due secondi?», domandò il demone con
la sua voce reale, che non aveva nulla a che fare con una voce di
donna, mentre estraeva da una specie di fodero una spada nera, avvolta
da un’aura più che negativa. Con la punta gli
toccò il mento per sollevargli il viso contratto di una
smorfia di puro disgusto, oltre che di dolore.
«Tempo
scaduto», gli sussurrò e sollevò la
spada per conficcargliela nel petto, quando le porte vetrate del
salotto si aprirono alle loro spalle ed Evelyn corse fuori, gridando il
nome dell’angelo.
Franky sfruttò il
momento di distrazione di Lilith e le balzò addosso,
combatté con quell’ammasso di ossa nere e fece di
tutto per levarle la spada che teneva in mano, ma non ci
riuscì: per il demone fu facile liberarsi di lui e lo
stordì colpendolo alla testa con il manico della spada,
facendolo ruzzolare di nuovo a terra, quella volta privo di sensi.
«No, Franky,
no!», gridò ancora Evelyn, sentendosi impotente,
capace soltanto di guardare e piangere.
«È tutto
inutile, ragazzina», le disse Lilith, sorridendo maligna.
«È la fine per lui».
«No! No,
invece!». Corse da lui – Lilith non glielo
impedì, anzi sembrò che l’avesse
lasciata passare di proposito – si inginocchiò al
suo fianco e gli posò la testa sulle sue gambe,
accarezzandogli il viso graffiato. «Franky. Franky, mi
senti?», gli sussurrò singhiozzando e lui
reagì alla sua voce, ma era troppo stanco e debole per
aprire gli occhi e risponderle. O meglio, lo fu fino a quando lei non
gli posò entrambe le mani sul petto, rannicchiata su di lui:
lì le cose cambiarono radicalmente.
And every time I nearly hit the ground,
you were my cushion
There’s evidence that proves, that you were Heaven sent
‘Cos when I needed rescuin’, you were there at my
defence
Iniziò a sentire un
piacevole calore dentro di sé, che gli fece recuperare le
forze. Ricordò
di averne provato uno simile, solo per un istante, quando era riuscito
ad infrangere gli arresti domiciliari. Quando
aprì gli occhi, di nuovo lucido, si rese conto della forte
luce che emanava la sua pelle: era incredibile, non gli era mai
successa una cosa del genere e non se la sapeva spiegare. Anche Evelyn
era scioccata e confusa. Si guardarono negli occhi e l’angelo
capì immediatamente, senza nemmeno sapere come, che lei
c’entrava, che era lei l’artefice di tutto quello.
Si alzò, pieno di
energia positiva, ed affrontò a testa alta il demone che si
copriva gli occhi con un braccio, infastidito dalla sua luce.
Sentì qualcosa premergli contro la nuca, se la
tastò e trovò l’impugnatura di
un’arma: lentamente la estrasse dal fodero che solo
successivamente avrebbe scoperto in mezzo alle sue grandi ali e se la
portò di fronte al viso, sotto lo sguardo incredulo di
Evelyn. Era una spada molto simile a quella del demone, ma sprigionava
un’energia purificatrice dalla forza spaventosa, tanto da
vibrare fra le sue mani, e la sua lama lucente era avvolta da fiamme di
un arancione intenso.
Franky alzò lo sguardo
verso Lilith e sorrise con una punta di arroganza. «Okay, io
sono pronto. Anche tu hai finito di pregare?».
Il demone ringhiò,
ferito nell’orgoglio, e si scagliò contro di lui
senza alcuna esitazione. L’angelo non aveva mai nemmeno
impugnato una spada, solo in quel momento si rese conto che non sapeva
minimamente cosa fare, ma fu più facile del previsto: la
maggior parte del tempo fu la spada a guidare lui, a dirgli che mosse
fare e come colpire – c’era come un legame mentale
fra loro, andavano in simbiosi.
Il duello, però, non fu
affatto una passeggiata. I loro colpi non andavano mai vuoto: o si
colpivano fra loro, procurandosi sfregi o comunque ferite di non grande
rilevanza, oppure le lame delle loro spade cozzavano fra loro dando
vita ogni volta a scintille che sembravano fuochi d’artificio
e facendo un rumore infernale, udibile alle orecchie degli angeli
addirittura a chilometri di distanza. Infatti, qualche minuto
dopo l’inizio della battaglia, si radunò intorno a
loro una schiera di angeli custodi e di angeli speciali, tra cui anche
la sorella di Margot e la nonna della piccola Reja.
Anche una schiera di demoni fu attirata dallo scontro, ma nessuno si
intromise: c’era un silenzio quasi surreale, del quale Evelyn
aveva un po’ paura, perché si trovava fra due
schieramenti che si battevano esattamente per le cose opposte
– uno per l’amore, uno per l’odio; uno
per la felicità, uno per la sofferenza…
– e che non si sopportavano a vicenda; sarebbe potuta
scoppiare una seconda battaglia, proprio nel suo giardino, in qualsiasi
momento, e lei ne sarebbe stata sicuramente coinvolta. Da quello che
poteva osservare, però, tutta l’attenzione dei due
partiti sembrava rivolta al combattimento tra Franky e Lilith, come se
loro due fossero i due capi degli eserciti rivali e spettasse solo ed
esclusivamente a loro decidere l’esito di quella guerra.
Franky avanzò, mettendo
alle strette il demone, e quando si accorse di averla in pugno si
fermò con la lama infuocata a pochi millimetri dalla sua
gola, col proprio corpo premuto contro il suo per non farla muovere.
«Fallo,
eliminami», disse Lilith con rabbia.
Franky tentennò. Era la
cosa giusta, eliminarla, eppure… non ce la faceva proprio ad
uccidere qualcuno, anche se quel qualcuno aveva attentato alla vita di
Bill e di Evelyn.
Il demone lo fissò e
dopo qualche secondo iniziò a sganasciarsi dal ridere.
«Sei ridicolo!».
«Non costringermi a fare
ciò che non voglio», disse a denti stretti,
combattuto. Quanto avrebbe voluto fargliela pagare per quello che aveva
fatto a Bill e quello che aveva tentato di fare Evelyn, ma
c’era qualcosa dentro di lui che lo bloccava. Quella volta la
furia cieca che l’aveva colto quando aveva pestato Samuel non
c’era, nemmeno un briciolo, e tutta la sua bontà
ricadeva proprio su un essere che non meritava nulla.
«Cosa vorresti che
facessi, che passassi dalla tua parte, che diventassi un
angelo?!». L’aveva detto ridendo, come se fosse
un’idea talmente ridicola che non andava nemmeno considerata,
per questo rimase allibita quando udì quel semplice
«Sì» uscire dalle labbra di Franky, che
la guardava quasi in pena per lei.
«Credi davvero che potrei fare una cosa del genere? Ti sei
completamente fumato il cervello», lo fulminò con
lo sguardo. «E ora, se permetti, falla finita. Preferisco
morire, piuttosto che diventare una pappamolle come voi».
Franky sbuffò dal naso,
incassando il colpo, e con velocità impressionante
conficcò la spada di fuoco nel ventre del demone, che si
frantumò, si polverizzò e alla fine
diventò fumo di fronte a lui. Aspettò che non
rimanesse alcuna traccia di lei, poi si voltò e vide la
schiera di demoni volare via strillando e dimenandosi come se stessero
piangendo quella perdita, mentre gli angeli continuavano a rimanere
composti, come un calciatore che ha appena segnato un goal ma che non
esulta per rispetto dell’avversario; solo che nel loro caso
non c’era rispetto per quel demone, ma solo dispiacere: anche
loro, esattamente come lui, erano combattuti fra il senso di giustizia
e ciò che imponeva la loro morale, ossia che ogni vita,
anche quella del demone più malvagio, era pur sempre una
vita che avrebbe potuto salvarsi, se avesse accettato di passare al
bene.
Lentamente il bagliore emanato
dalla sua pelle scivolò via, come tutte le sue forze. La
spada di fuoco si spense e Franky la ripose nel fodero fra le sue ali,
che svanì subito dopo, incorporato dal piumaggio candido.
Quando era stato quella specie di angelo cavaliere si era sentito
invincibile; adesso, invece, tornato semplice angelo custode, si
sentiva svuotato, come se quel bagliore e quella spada, spegnendosi,
avessero risucchiato dentro di loro tutta la sua forza.
Per questo barcollò, con la testa che gli girava
vorticosamente. Le braccia esili di Evelyn però furono
pronte a sorreggerlo. L’angelo si abbandonò
totalmente a lei, ma posò le mani sulla sua nuca, mentre le
strusciava il naso contro la guancia e il collo per sentire il suo
profumo.
«Stai bene?»,
gli domandò lei, preoccupata.
«Sì, ora
sì», sospirò, ma perse i sensi poco
dopo.
No matter where we are,
no matter just how far are paths may lead
We don’t need no shields, love is the armour that we need
We’re invincible (we are), invincible (you are)
Invincible, love’s our protector
Invincible (we are), invincible (you are)
Invincible, we’re invincible
Bill si svegliò
all’improvviso, col fiatone. Provò la
sgradevolissima sensazione di aver dormito come un sasso, ma solo per
un attimo, così fugace da stordirlo.
Si tirò a sedere grattandosi la testa e grazie alle porte
vetrate notò sua figlia nel bel mezzo del giardino,
che… Si stropicciò gli occhi, incredulo, ma
ciò che aveva visto poco prima non cambiò: stava
abbracciando Franky, anzi sembrava che lo stesse sorreggendo. Quello
che l’aveva sorpreso, se non scioccato, era la tenerezza,
l’intimità di quell’abbraccio, fuori dal
comune, troppo intensa per appartenere a due persone che a malapena si
conoscevano. Sua figlia gli aveva nascosto qualcosa e ora riusciva a
capire il motivo di molti suoi comportamenti strani… tutto
parve infinitamente chiaro, anche se non così tanto da
allarmarsi: infondo… non era possibile che fosse successo
qualcosa di più fra di loro, vero? Ma allora
perché Evelyn avrebbe dovuto tenergli nascosta la loro
amicizia?
Si mordicchiò le labbra,
nervoso, quando vide sua figlia allarmarsi chiamando il nome
dell’angelo, che non rispondeva e non reagiva ai suoi
strattoni. Bill si mise inginocchiato sul divano per vedere meglio e
guardò sua figlia posare delicatamente il corpo di Franky a
terra, forse aiutata da qualcuno che lui non riusciva a vedere
– forse un altro angelo – e cercare di rianimarlo.
Ad un certo punto Evelyn si fermò ad ascoltare la presenza
invisibile accanto a lei ed annuì, passandosi una mano sul
viso, poi si alzò e guardò Franky venir sollevato
di peso e portato via. La osservò guardare il cielo
pensierosa ed ansiosa per qualche altro minuto, poi quando la vide
girarsi per rientrare in casa si gettò di nuovo sdraiato sul
divano, con le coperte addosso, e fece finta di dormire. Intanto
ascoltò i rumori intorno a lui: la porta finestra che
scorreva aprendosi e chiudendosi, i passi leggeri di Evelyn, il modo in
cui tirava su col naso, l’interruttore della luce e lo
spostarsi di qualcosa nella credenza, forse delle tazze.
Provò ad aprire un
occhio e verificò che sua figlia si trovasse in cucina. La
vide mettere sul fuoco un pentolino con un po’
d’acqua per farsi una tazza di thè, poi
recuperò il cellulare che aveva lasciato nella parte del
salotto più vicina alla cucina ed inoltrò una
chiamata, tornando in cucina e portandoselo all’orecchio.
Bill non era certo di poter origliare da quella distanza,
così si alzò dal divano, nonostante corresse il
rischio di essere scoperto, e si nascose dietro il muro accanto alla
porta.
«Zio… ti ho
svegliato, vero?». Iniziò così la
telefonata di Evelyn, fatta proprio a suo fratello Tom. Allora anche
lui sapeva cose delle quali invece lui non era a conoscenza?
«No, non mi è
successo niente, sto bene, ma credo che Franky non stia così
tanto bene… No, è inutile che vieni, non
è più qui. In pratica… Lilith
è venuta qui, lei e Franky hanno iniziato a litigare e sono
arrivati a picchiarsi… Io non so bene cosa sia successo,
però Franky ad un certo punto ha iniziato a brillare tutto,
ad essere caldo, e ha tirato fuori una spada che al posto della lama
aveva del fuoco. Ha fatto fuori Lilith e dopo è svenuto,
esausto… Sono venuti ad assistere al combattimento molti
angeli e molti demoni, ma nessun li ha aiutati, diciamo…
sono stati soltanto a guardare… Ora l’hanno
portato in Paradiso, alcuni degli angeli che erano qui ad osservare. Ho
avuto tanta paura zio… No, ma sto bene, sto bene».
Minuto di silenzio, nel quale Bill riuscì anche a sentire la
voce gracchiante di suo fratello, ma non riuscì a
comprendere con precisione le sue parole. Poi Evelyn riprese:
«Sì, anche papà sta bene. Non si
è nemmeno svegliato, non so perché…
Comunque adesso non so, provo ad andare a dormire, ma dubito che ci
riuscirò. No, ti ho già detto che sto bene,
è solo che ho paura per Franky… Non è
giusto che soffra così solo per le nostre debolezze. Se
papà non avesse mai dato retta a quella
ragazza…».
Un nodo allo stomaco lo fece
voltare e in quel modo si fece vedere da sua figlia. Forse si
fregò da solo, ma non voleva sentire altro: si sentiva
abbastanza in colpa di suo.
«Chi
è?», le domandò con la voce ancora roca
dal sonno, stringendo gli occhi a causa della luce.
«È…
è zio Tom», rispose un po’ spaventata.
«Ci vuoi parlare? Tieni», gli mollò il
cellulare fra le mani ed uscì in fretta dalla cucina,
massaggiandosi il collo.
Bill si appoggiò al
bancone di marmo della cucina e si portò
l’apparecchio all’orecchio, sbadigliando assonnato.
«Tom…».
«Ehi Bill, stai
bene?».
«Diciamo di
sì. Ho origliato, ho sentito ciò che ha detto
Evelyn».
«Qualsiasi cosa tu abbia
capito, hai frainteso», si difese subito, come se sapesse da
molto tempo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato.
«Non penso di aver
frainteso: li ho visti abbracciati».
Tom ridacchiò
nervosamente. «Pff, un abbraccio! Cosa sarà
mai!».
Ma Bill conosceva bene il suo
gemello. «Tom, per favore…».
«Non
c’è niente tra di loro». Non
più, ormai. Solo amore platonico.
«Te lo assicuro».
«Ma…».
«Ora è tardi,
ho sonno. Ci vediamo domani, okay? E se vedi Franky prima di me,
ringrazialo per averti salvato il culo, invece di fargli
l’interrogatorio». Chiuse la chiamata bruscamente e
Bill rimase in silenzio ad ascoltare i bip
che si susseguivano l’uno dietro l’altro:
sembravano quasi i battiti di un cuore automatico, privo di emozioni e
sentimenti.
***
Si girò sul fianco,
sospirando, e cercò di aprire gli occhi per quanto il sole
che gli batteva sul viso gli permetteva.
Un’ombra lo coprì e riuscì a
focalizzare il volto teso, quasi arrabbiato, di Zoe di fronte al suo.
«Quanto sei idiota, da
uno a dieci?», gli domandò severamente.
«Undici,
solitamente», rispose schiarendosi la gola con qualche
colpetto di tosse. «Che ho fatto stavolta?».
«Perché non mi
hai detto che mio marito – mio
marito! – era stato
abbindolato da un demone che quasi ti faceva fuori?!».
Franky si girò
sull’altro fianco e disse: «Puoi arrivarci
benissimo da sola».
«Okay, forse ti avrei
assillato giorno e notte e avrei voluto vederlo molte più
volte del previsto, ma…».
«Se tu fossi scesa di
sotto, il demone avrebbe cercato di attaccare anche te e sai che cosa
succede, se la tua anima viene ferita ulteriormente?».
«Rischierei di non
svegliarmi più… Quindi l’hai fatto per
il mio bene?».
«Tutto quello che faccio,
è per il bene, tuo o di chiunque altro. Ma l’ho
fatto soprattutto perché mi avresti assillato giorno e
notte», ridacchiò.
«Sei un cretino,
Franky», gli diede un pugnetto sulla spalla, con quel suo
adorabile broncio sul viso, ma poi si chinò su di lui e lo
abbracciò. «Grazie, grazie davvero».
«Dovere,
piccola», sorrise e le massaggiò la schiena con
una mano.
Quando si sollevò e poté guardarla negli occhi,
le chiese: «Per quanto ho dormito?».
«Sei arrivato qui questa
notte, era quasi l’una… adesso sono le nove. Il
dottore ha detto che avevi bisogno di molto riposo. Come ti senti
adesso?».
«Io… bene,
sì». Dopo quella dormita, le energie gli erano
tornate, si sentiva in forma.
Si tirò seduto sul letto
e si guardò intorno: una normalissima stanza di ospedale,
come ne aveva viste tante in quel periodo. La sua attenzione fu
attirata da un mazzo di fiori che ormai, per specie e colore, sapeva
esattamente a chi imputare.
«Me li ha portati Kim?», domandò alla
sua protetta.
«Sì, esatto.
Dormivi ancora, ha preferito non svegliarti. Ti ha lasciato
lì un biglietto». Allungò il collo per
vedere di cosa si trattasse, curiosa; Franky se ne accorse e sorrise
birichino:
«Strano che tu non
l’abbia già letto».
Zoe divenne tutta rossa ed
incrociò le braccia al petto. «Per chi mi hai
preso?».
L’angelo
ridacchiò, divertito. Man mano che leggeva il sorriso dolce
che aveva sulle labbra si allargava sempre di più.
«Che dice?»,
chiese la donna.
«Nulla, che come al
solito mi caccio sempre nei guai e che devo riprendermi
presto…».
«C’è
scritto qualcosa anche dietro», gli fece notare.
Franky girò il
fogliettino e lesse mentalmente quelle ultime parole scarabocchiate
malamente:
P.S. Sei più di quanto tu
possa immaginare.
Che
vuol dire? si domandò
l’angelo, confuso.
La risposta gli venne data qualche minuto dopo, quando San Pietro
entrò nella sua stanza per fargli visita e dopo i soliti
convenevoli chiese a Zoe di lasciarli soli un attimo.
«È qualcosa
che non posso sapere?», domandò con tono
sarcastico la donna, offesa.
«No. Semplicemente
è una questione delicata di cui preferirei parlare prima con
Franky», le rispose il santo.
«Okay, ho
capito», sospirò ed uscì dalla stanza,
lasciandoli soli.
L’angelo custode
guardò il suo mentore, frastornato. Capiva poco o niente di
tutto ciò che stava succedendo e in effetti una motivazione
c’era.
«Come posso
iniziare?», gli chiese San Pietro, sospirando e sedendosi
sulla sedia accanto al suo letto. Per Franky guardarlo negli occhi era
difficile, in quella posizione la luce del sole lo abbagliava.
«Sicuramente ti sarai accorto che quello che ti è
successo ieri sera è anomalo. Non ti era mai successa una
cosa del genere, giusto?».
«Esatto. È di
questo che dobbiamo parlare, di quello che ho fatto? Se ho fatto
qualcosa che non dovevo mi dispiace, non avevo mai affrontato nulla di
simile, non sapevo come comportarmi…».
«Non devo rimproverarti,
se è questo quello che credi», lo
rassicurò con un sorriso. «Devo solo informarti
che la tua vera natura si è finalmente mostrata».
Franky sgranò gli occhi. Continuava a non capire.
«Il bagliore del tuo corpo, il tuo calore, la spada infuocata
che ti è nata in mezzo alle ali e con la quale hai sconfitto
uno dei demoni più potenti in circolazione –
perché era davvero uno dei più potenti, se non te
ne eri ancora accorto… Sono tutti segni della tua vera
natura, di ciò a cui sei stato sempre destinato e che
finalmente, nella tua crescita spirituale, sei diventato».
«Per favore, me lo dica
lei, io…», balbettò, portandosi una
mano alla fronte, sempre più confuso.
Il santo sorrise compassionevole e
allo stesso tempo pieno di orgoglio, gli prese il capo fra le mani e
gli disse con tono pacato: «Tu sei un arcangelo, figlio
mio».
L’angelo si ritrasse,
spaventato, e lo guardò con gli occhi spalancati, quasi
lucidi. «Che… che cosa? È
impossibile».
«Eppure quello che hai
fatto ieri lo dimostra, ti sei comportato esattamente come un
arcangelo: grazie ad Evelyn l'arcangelo che dormiva dentro di te si
è svegliato ed assieme alla spada di fuoco sei diventato
un’arma di Dio contro le forze del male, sconfiggendole. Lo
so che adesso ti senti disorientato e anche spaventato, ma presto
capirai quanto sia importante questo incarico e quanto tu
sia importante per il mondo degli umani».
«Non voglio essere un
arcangelo», scosse il capo con decisione.
«Non puoi non volerlo, tu
lo sei. Aspettavamo da secoli la
venuta di un nuovo arcangelo, cercavamo di capire chi fosse il
prescelto fra i nostri migliori angeli, e sei arrivato tu…
ora ne manca solo uno, il settimo». San Pietro parlava con
aria sognante, quasi fanatica, quando Franky era soltanto terrorizzato.
«Che cosa intende
dire?».
«Vedi… gli
arcangeli sono i “capi” di tutti gli angeli, sono a
livello gerarchico i più importanti insieme ai serafini;
hanno una grande importanza nella vita degli umani, in quanto
amministratori delle cose laggiù, mandati da Dio. Gli
arcangeli sono in grado di aiutare qualunque essere umano in
difficoltà, sono come… degli angeli custodi
universali».
«Questo io potevo farlo
già prima, quando ero un semplice angelo custode»,
gli disse con durezza, come se volesse dimostrare che tutto
ciò che stava dicendo era infondato e lui ne era la prova.
Ma si sbagliava di grosso, perché inconsciamente non faceva
altro che sostenere le sue parole.
«Tu riuscivi a farlo
perché dentro di te riposava l’anima di uno dei
due arcangeli ancora non rivelati, che ora si è
risvegliata».
«Che cosa vuol dire, di
quale tra i due arcangeli?». Franky sollevò il
sopracciglio, ora scettico, quasi arrabbiato. Lui non voleva essere un
arcangelo, non voleva avere così tante
responsabilità sulle spalle, sembrava fin troppo faticoso e
nelle sue condizioni, anche volendo, non sarebbe riuscito a fare nulla
di ciò che gli sarebbe stato chiesto.
«Vedi, gli arcangeli sono
solo sette», gli spiegò e venne interrotto quasi
subito.
«Solo sette?!
Com’è possibile che ce ne siano così
pochi?! Come fanno sette arcangeli a vegliare su tutto il
pianeta?!».
«Calmati, Franky. Gli
arcangeli non sono soli, hanno l’aiuto dei serafini, di tutti
gli angeli speciali, degli angeli custodi… Diciamo che gli
arcangeli intervengono nelle situazioni più
critiche».
«Ad esempio?».
«Ad esempio, quando sono
previste grandi tragedie che coinvolgono
l’umanità: gli arcangeli intervengono per far
sì che non accadano. A volte ci riescono, a volte
no…».
Franky scosse ancora il capo con la
testa posata sul cuscino, chiudendo gli occhi alle lacrime.
«E il mio incarico da angelo custode? Che ne sarà
di Zoe?».
«Stai tranquillo, avrai
tempo per riorganizzare tutta la tua vita. Non dovrai iniziare a
lavorare subito come arcangelo, hai la possibilità di
ottenere una specie di deroga per poter concludere le ultime tue
missioni come angelo custode, poi…».
«Poi sarò
costretto a diventare arcangelo».
«No, figlio mio, no. Tu
lo sei già», sussurrò, prendendogli le
mani fra le sue. «E ancora non ti rendi conto del dono che
hai ricevuto. Presto però lo comprenderai e ti sentirai
onorato di ricalcare questo ruolo».
L’angelo evitò
il suo sguardo, rivolgendo il viso dall’altra parte,
mordicchiandosi le labbra. San Pietro si alzò sospirando, un
po’ dispiaciuto, ma sapeva che sarebbe stato difficile con
lui, così attaccato al suo lavoro attuale e così
timoroso di ricominciare tutto da capo.
Si diresse verso la porta e giusto un momento prima di uscire e di
lasciarlo solo a riflettere, venne fermato dalla sua voce, che spinta
dalla curiosità e dalla sua tipica voglia di sapere, gli
chiese: «Come mai sono solo sette, gli arcangeli?».
San Pietro sorrise.
«Questo è stato il disegno di Dio. Ogni arcangelo
rappresenta un lume tradizionale: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte,
Giove e Saturno».
«E io… quale
rappresenterei, fra questi?».
Il santo si voltò e lo
guardò negli occhi. «Tutti quelli che ti hanno
incontrato e che ti hanno più o meno conosciuto si sono
accorti che tu avevi qualcosa di speciale. Tu sei unico nel tuo genere,
Franky, e lo spirito immortale dell’Arcangelo del Sole ha
scelto te per tornare a compiere il volere divino».
«L’Arcangelo
del Sole», ripeté a bassa voce, per crederci
davvero.
San Pietro gli rivolse
l’ennesimo sorriso e lo salutò, ma nemmeno quella
volta riuscì ad andarsene, perchè Franky gli pose
l'ultima domanda, forse quella che meritava una spiegazione
più di tutte le altre:
«Perché proprio grazie ad Evelyn?
Perchè l'arcangelo che era in me si è risvegliato
grazie
a lei?».
Lo
sguardo di San Pietro si illuminò, ma la sua risposta fu una
breve scrollata di spalle; poi
uscì dalla stanza lasciandolo ai suoi ragionamenti. Si
chiuse la porta alle spalle e vide Zoe che passeggiava concitata su e
giù per il corridoio e che appena lo vide gli chiese:
«È successo qualcosa?».
«No, nulla», la
rassicurò. «Però ora Franky
è stanco, è meglio lasciarlo riposare un
po’». La donna annuì, anche se incerta.
«Ah, appena lo vedi di nuovo digli soltanto di non
preoccuparsi se inizierà a crescere, è una cosa
normale», aggiunse lui. Dopodiché
guardò il santo allontanarsi fischiettando lungo il
corridoio semideserto dell’ospedale.
Zoe si avvicinò alla
porta della camera del suo migliore amico e vi sbirciò
all’interno attraverso la finestrella incassata nel legno: lo
vide stanco, con una smorfia sul viso e gli occhi lucidi.
***
Evelyn sentì i passi di
suo padre e si irrigidì sullo sgabello del bancone della
cucina su cui era seduta. Bill, dal canto suo, la salutò con
poca convinzione ed evitò il suo sguardo quando si mise
seduto proprio di fronte a lei per fare colazione.
Il silenzio fra loro era
imbarazzante e ogni secondo che passava rendeva più intense
le loro convinzioni: lei pensava che ormai suo padre avesse scoperto
tutto; lui invece, credeva che sua figlia fosse arrabbiata
perché aveva origliato la sua telefonata.
Alla fine fu Bill a parlare per
primo, giusto per spezzare il ghiaccio. «Ti sei svegliata
presto stamattina».
«Già. Non
avevo molto sonno».
«Ma ieri…
Perché Franky se n’è andato?».
Evelyn deglutì
rumorosamente, abbassando lo sguardo. Era ancora molto preoccupata per
lui. «Ha combattuto contro Lilith, l’ha sconfitta,
però alcuni angeli lo hanno portato in Paradiso: pensavano
fosse meglio sottoporlo a delle cure».
«Oh… non ho
sentito nulla».
«Dormivi come un
sasso», disse con un sorriso sulle labbra, a cui Bill
ricambiò sollevando le spalle.
«Che programmi hai per
oggi?», le chiese.
«Pensavo di andare a
trovare mamma… e di fare un salto anche da Martin».
Quella volta fu Bill ad
irrigidirsi. «Da Martin?».
«Sì,
ecco… abbiamo avuto una discussione che non abbiamo ancora
risolto e volevo parlarne con lui, tutto qua».
«Oh,
capisco…».
Evelyn annuì, senza
sapere più che dire. Si alzò, portò la
sua tazza vuota nel lavandino ed unì le mani sul petto.
«Vado a vestirmi».
«Okay», rispose
Bill. Entrambi erano contenti di allontanarsi l’uno
dall’altro, si mettevano a disagio a vicenda.
***
Una volta uscito
dall’ospedale, si era lasciato accompagnare a casa da Zoe,
che stranamente non gli aveva chiesto nulla a proposito di
ciò che gli aveva detto San Pietro. Per Franky era stato
meglio così, aveva deciso che fino a quando non sarebbe
diventato ufficialmente un arcangelo non l’avrebbe detto a
nessuno. E forse non l’avrebbe detto nemmeno dopo. Non sapeva
per quale motivo, ma preferiva che il cambiamento riguardasse solo se
stesso e non anche i suoi amici e le persone che amava: per Zoe sarebbe
stato sempre il suo angelo custode, per Tom sarebbe stato il suo
migliore amico e saggio consigliere, per Arthur avrebbe svolto la sua
solita opera di guida e protezione, per Evelyn… Ecco, per
Evelyn. Forse a lei l’avrebbe detto, ma non ne era ancora
sicuro, anche perché per lei non era mai stato nulla di
particolare, se non un po’ di tutto.
La risposta che non aveva ricevuto
da San Pietro, il motivo per cui l'arcangelo che era in lui si era
risvegliato proprio grazie a lei, non aveva ancora smesso di
ossessionarlo.
Aveva lasciato i vestiti sporchi e
laceri del combattimento sul letto e se ne era infilati dei puliti, poi
aveva detto a Zoe che aveva bisogno di stare un po’ da solo
per pensare. La protetta lo aveva accontentato senza fare domande,
sperando che quando se la sarebbe sentita gliene avrebbe parlato
spontaneamente.
Poco dopo aveva ricevuto la visita di Kim e di Raphael, venuti per
congratularsi.
«Le congratulazioni erano
l’ultima cosa che volevo», gli aveva risposto
burbero, lasciandoli entrare.
Kim aveva riso, dicendogli che
stava avendo la stessa reazione dell’ex Arcangelo del Sole.
La tradizione diceva che quando aveva scoperto di essere la
reincarnazione di uno degli esseri celesti più potenti non
l’aveva accettato subito, anzi, ci aveva messo un bel
po’ per comprenderne il mistero divino.
«San Pietro puntava molto
su di te e a quanto pare faceva bene…», gli aveva
detto ancora, sorridendo. «Sai, prima che arrivassi tu
credeva che fossi io l’Arcangelo del Sole, che il suo spirito
fosse dentro di me. Ho iniziato a fare errori su errori nella mia
carriera di angelo custode e questo l’aveva un po’
demoralizzato, ma poi sei arrivato tu e… nonostante tutti i
tuoi sbagli e le delusioni che gli hai dato non ha mai smesso di
credere in te, nemmeno un attimo. Tu sei il vero destinato ad essere
l’Arcangelo del Sole».
In quel momento non capiva davvero
il perché fosse stato scelto proprio lui ed era arrabbiato
per questo, perché lui aveva già troppi problemi,
non voleva quella “promozione”.
Oltre che per congratularsi, Kim e
Raphael erano passati per conto di San Pietro, per dirgli che era stata
indetta una riunione straordinaria quella sera, a cui doveva
partecipare obbligatoriamente. Gli avevano consegnato
l’invito, su cui c’erano scritte l’ora
della riunione, il luogo – la scuola – e un simbolo
– una stella ad otto punte e delle scritte in una lingua a
lui sconosciuta racchiuse all’interno di un doppio cerchio.
«Che cosa significa
questo simbolo?», aveva chiesto a Kim, ma né lei
né Raphael avevano saputo rispondere.
Quando se n’erano andati
non aveva perso tempo a cincischiare, era sceso sulla Terra e la sua
prima tappa era stata la casa di Bill e Evelyn, principalmente per due
motivi: voleva rivedere il campo di battaglia alla luce del sole e
voleva rassicurare Evelyn, dicendogli che stava bene; almeno
fisicamente.
Appena era entrato nel raggio di azione dei suoi pensieri,
però, aveva avuto la tentazione di scappare: quella volta
nulla le avrebbe impedito di parlargli di Martin, anche
perché aveva tutte le intenzioni di andarci a parlare quel
pomeriggio.
Atterrato nel giardino aveva visto
il luogo in cui lui e Lilith avevano combattuto e per un attimo aveva
rivissuto tutto quanto, sentendo di nuovo sulla pelle quella forza
così buona e pura che l’aveva avvolto. Quella
sensazione svanì presto, perché entrarono in
gioco anche i pensieri di Bill, che l’aveva notato e lo stava
guardando dalle porte finestre della cucina.
Venne così a sapere che aveva visto lui ed Evelyn
abbracciati quella notte, che aveva origliato la telefonata che lei
aveva fatto a Tom per informarlo di ciò che era accaduto e
che si era fatto i suoi bei conticini che non lo tranquillizzarono per
niente. Ci mancava solo che Bill scoprisse quello che c’era
stato fra lui e sua figlia!
Si fece coraggio ed
entrò in casa, percepì che Evelyn si trovava
nella sua camera e con tutta calma andò da Bill,
sorridendogli.
«Stai bene?»,
gli domandò subito.
«Sì…
Tu?».
«Mi sono ripreso.
È stata dura, ma ce l’ho fatta alla fine, hai
visto?».
«Già…
Grazie, Franky».
«Non ringraziarmi,
davvero». Gli diede una pacca sulla spalla, ma il frontman lo
attirò in un abbraccio stretto e allo stesso tempo
preoccupato. Franky riuscì a sentire ogni singola emozione
che attraversava le cellule dell’amico e si sentì
piccolo piccolo fra le sue braccia, impreparato di fronte a tutte le
sue silenziose domande, a cui non rispose.
«Ora… ora devo
andare», balbettò l’angelo, liberandosi
dal suo abbraccio. Lo guardò negli occhi, incerto se dire
qualcosa o meno; preferì il silenzio ed uscì
dalle porte vetrate, per poi spiccare il volo dal centro del giardino.
Atterrò sulla terrazza
che dava sulla camera di Evelyn e la vide mentre si toglieva la
maglietta del pigiama e rimaneva a schiena nuda. Incapace di schiodare
lo sguardo da lei, venne colto in flagrante, ma Evelyn non si fece
tanti problemi, anzi accennò un sorriso e
continuò a svestirsi sotto i suoi occhi. Si tolse i
pantaloni del pigiama, rimanendo in slip, ed afferrò il
reggiseno che aveva lasciato sul letto. Se lo infilò e al
momento di allacciarlo sentì due mani posarsi sulle sue e
guidarle per riuscirci subito. La ragazza sollevò lo sguardo
sullo specchio e vide l’angelo dietro di sé, che a
sua volta alzò gli occhi ed incrociò i suoi,
posando il mento sulla sua spalla nuda. Posò le mani sulle
sue spalle, le fece scivolare sulle sue braccia, le portò
sui suoi fianchi ed accarezzò pure quelli, fino ad arrivare
al suo ventre, dove le fece riposare.
Evelyn si girò verso di
lui, fece aderire ogni minima parte del proprio corpo al suo, con le
braccia strette intorno al suo collo, e piantò gli occhi nei
suoi. «Tu mi vuoi far soffrire».
L’angelo
abbassò lo sguardo verso il suo piccolo seno e sorrise
furbescamente. «Pensavo il contrario».
«Come stai?».
«Sto bene. E
tu?».
Dondolò la testa a
destra e sinistra, indicando un “così e
così”, sospirando. «Devo chiederti una
cosa che probabilmente già sai…». Si
strinse di più a lui, posando la guancia contro il suo
cuore, e venne avvolta anche dalle sue ali candide.
«Sì, la so
già», rispose lui con un sospiro. «Vuoi
sapere perché l’hai baciato, non è
così? Beh… l’hai fatto semplicemente
perché in quel momento il tuo cuore ti diceva di farlo. Non
l’hai fatto per farmi soffrire, né
perché ti faceva pena».
«Mi dispiace
così tanto», mormorò. «Sei
sicuro che a te vada bene che frequenti Martin? A me farebbe parecchio
male…».
L’angelo socchiuse gli
occhi e la strinse un po’ più forte a
sé. Non puoi
nemmeno immaginare quanto mi faccia male. «Tutto
quello che mi importa è la tua felicità, questo
affievolisce ogni tipo di sofferenza».
«Ma… ma non
è giusto», ribatté, fissando i suoi
occhi verdi tanto belli da far tremare il cuore.
«È giusto
così, invece», accennò un sorriso e
posò le mani sulle sua guance, che accarezzò
delicatamente con movimenti circolari del pollice. Fece scorrere le
dita dalla sua guancia alle sue labbra e le percorse lentamente, rapito
dalla loro bellezza semplice. «Un giorno capirai che ho
ragione».
Evelyn non era convinta, come
l’angelo d’altronde, ma non rispose: era inutile
parlare di cosa fosse giusto o sbagliato con lui, perché lui
aveva regole di cui lei non vedeva alcuna utilità e che lui
invece doveva rispettare. Avevano pensieri e vite diverse, ma non per
questo dovevano restare lontani. Ciò che sperava sempre era
che la loro amicizia fosse eterna e sempre lì in bilico fra
l’amicizia e l’amore.
«Sappi che
potrò provare all’infinito, ma non
troverò mai nessuno che amerò più di
quanto amo te».
L’angelo posò
il mento sul suo capo e con un sorriso amaro sulle labbra
guardò il cielo fuori dalle portefinestre. «Anche
io dicevo così a tua madre…»,
sussurrò con un fil di voce.
«Hai detto
qualcosa?».
«No, nulla».
Si lasciò cullare ancora
un po’ dalle sue braccia e dalle sue ali, in silenzio,
ascoltando soltanto il suo respiro e i battiti del suo cuore. Poi
mormorò: «E se avrò voglia di volare,
tu ci sarai?».
Franky la guardò negli
occhi e le posò un bacio sulla tempia, per poi affondare il
viso fra i suoi capelli.
***
«Prova ancora,
Arthur!».
Il bambino mise la palla di fronte
a sé, la tenne ferma con la manina e una volta immobile
prese la ricorsa e la calciò con tutta la forza che aveva
verso il suo papà.
«Quasi!», gli
disse quest’ultimo e fece un passo avanti per poterla
rilanciare al figlioletto.
Linda, che seduta su una panchina
del parco poco affollato guardava suo marito e suo figlio giocare a
pallone, notò poco distante un uomo con in mano una grande
macchina fotografica: un paparazzo. Fece per alzarsi, ma scorse la
figura di Franky che diede un colpetto alla macchina fotografica del
paparazzo, rovinandogli i piani. L’uomo se andò,
incattivito dal malfunzionamento del suo aggeggio, e Franky la
raggiunse.
«Ciao tesoro»,
lo salutò la donna, sorridente, coprendosi gli occhi con la
mano a causa del sole. «Tom mi ha detto quello che
è successo stanotte, come stai?».
«Bene, bene»,
mugugnò ed infilò la mano nelle tasche del
giubbotto di Tom, indaffarato.
«Che cosa
cerchi?», gli domandò Linda, con la fronte
aggrottata.
«Trovato»,
esultò con l’accenno di un sorriso, mostrandole il
pacchetto di sigarette. Dopodiché si allontanò e
salì sui rami della grande quercia, isolata rispetto al
resto degli alberi, dove si mise a fumare. Una sigaretta per smaltire
la tensione dovuta dal suo nuovo incarico di arcangelo; una per la
paura di non riuscire a portare a termine la sua missione
più importante, quella di far uscire Zoe dal coma, prima
della fine della deroga; una perché bastava tanto
così affinché Bill scoprisse tutto quello che
c’era stato fra lui ed Evelyn; una perché entro
breve avrebbe iniziato di nuovo a sentirsi male a causa della ragazza
che amava…
Dalla sua postazione vide Tom
correre da Linda per bere un po’ d’acqua insieme a
suo figlio e per riposarsi, poi iniziò a cercare il suo
pacchetto di sigarette e, non trovandolo, le chiese dove fosse; Linda
indicò col capo nella sua direzione e Franky
sollevò una mano in segno di saluto, senza nemmeno
l’ombra di un sorriso sul volto. Il chitarrista
andò sotto la quercia, si guardò intorno e poi
alzò lo sguardo su di lui, con le mani sui fianchi.
«Grazie», disse
l’angelo, facendogli cadere il pacchetto di sigarette fra le
mani.
Tom lo aprì, sentendolo
troppo leggero, ed infatti era proprio vuoto. «Mi devi un
pacchetto di sigarette», brontolò sbuffando.
***
«Vado, ma torno prima di
cena», disse a suo padre, che annuì sorridente e
con una mano alzata.
Evelyn uscì di casa ed
andò in garage per prendere il suo motorino. Si
allacciò meglio il giubbotto, si infilò il casco
e diede gas. Sentì l’aria fredda entrarle nelle
fessure della visiera e le piacque, era come l’aria che le
aveva frustato il volto quanto aveva volato fra le braccia di Franky.
Arrivò a casa di Martin
in poco tempo, ma temporeggiò di fronte al citofono. Non
sapeva ancora se stava facendo la cosa giusta, nonostante Franky le
avesse fatto capire che sì, lo era. Eppure, anche le sue
parole le erano sembrate false: era davvero possibile che
l’angelo le desse un parere così oggettivo, senza
essere minimamente influenzato dal suo amore? Non ci credeva. Dentro di
sé, in un angolo remoto della sua anima, sapeva che Franky
l’aveva spinta verso Martin solo perché era la
cosa “giusta” per lui – che lei stesse
con un essere umano vivo – benché a lui facesse
più che male vederla fra le braccia di un altro. E lo stesso
sarebbe successo a lei, anche se non era così certa che
avrebbe avuto la forza necessaria a spingerlo nelle braccia di una
ragazza della sua stessa “specie”.
Chiuse gli occhi e fece un respiro
profondo, poi trovò il coraggio per premere il pulsante
accanto al cognome della mamma del ragazzo, la cui voce gracchiante
rispose: «Sì, chi è?».
«Ehm… sono
Evelyn, un’amica di Martin».
Con uno scatto secco il cancelletto
si aprì ed Evelyn entrò. Percorse il vialetto
tenendo lo sguardo basso e salutò la donna che
l’aspettava sull’uscio. Era così tenera
e dolce, non poteva nemmeno pensare che un tempo avesse subito delle
violenze da suo marito.
«Sicura di non volere
niente?», le domandò ancora una volta, premurosa.
«Sicurissima,
grazie», rispose sorridendo.
«Allora vado a chiamare
Martin, è in camera sua a studiare. Arrivo subito».
Si incamminò su per le
scale e la bionda la seguì con lo sguardo, infilandosi le
mani nelle tasche e stringendosi il collo fra le spalle.
Sentì la voce della donna parlare al figlio, ma non vide la
sua figura seguirla per tornare nel piccolo salotto. Evelyn
abbassò lo sguardo, sentendosi piccola e stupida.
«Non fa niente,
è comprensibile che non mi voglia più
vedere», disse più a se stessa che alla madre di
Martin.
«Tesoro…»,
le posò una mano sulla spalla e con l’altra le
tirò su il mento per guardarla negli occhi coi suoi scuri.
Un sorriso affettuoso le incurvava le labbra. «Ti aspetta di
sopra».
La guardò stupita, ma
non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a salire le
scale. Al piano di sopra, tutto il coraggio che aveva avuto fino a quel
momento scemò e si strinse le braccia al petto, come a
volersi proteggere. Si avvicinò all’unica porta
aperta, vi sbirciò all’interno e vide Martin
seduto su una sedia girevole, con gli occhi chiusi rivolti al soffitto
e le mani dietro la nuca.
Evelyn si schiarì la
voce, imbarazzata. «È permesso?».
Il ragazzo abbassò lo
sguardo su di lei ed annuì greve. C’era qualcosa
di diverso in lui, di più duro, come se avesse costruito un
muro di diffidenza di fronte a lei. Doveva avergli fatto parecchio male.
Entrò nella camera e non osò chiudere la porta;
lo fece Martin e gli capitò di sfiorarla, ma non
reagì come lei si sarebbe aspettata di vedere, con il
rossore sul viso e l’imbarazzo sempre crescente: era un pezzo
di ghiaccio.
«A cosa devo la tua
visita?», le domandò sedendosi sul suo letto, con
le spalle contro la parete.
«Volevo chiederti scusa
per quello che è successo l’ultima volta che ci
siamo visti. Tu hai frainteso le mie parole, sei arrivato a delle
conclusioni che non sono…».
Martin la interruppe, adirato:
«Ho frainteso?
Non raccontarmi cazzate, per favore».
Evelyn si mise seduta timorosa al
suo fianco, sospirando stancamente. Le faceva male vederlo
così, le faceva male pensare che era stata lei a renderlo
così cattivo. «Quella sera c’era
un’atmosfera particolare, lo riconosco, ma non è
stato questo ad indurmi a lasciarmi baciare e a baciarti.
L’ho fatto perché il mio cuore mi diceva di
farlo». Accennò un sorriso, ripetendo le parole di
Franky. «Come tu mi hai raccontato che sentivi dentro di te
quella voce che ti spingeva a fare cose che non avresti mai fatto, che
ti spingeva verso di me… è successa la stessa
cosa a me».
«Perché quella
sera sì e il giorno dopo no, allora?». La sua voce
aveva perso aggressività, c’era solo dispiacere,
tanto dispiacere.
«Non lo so
perché, non me la sentivo come me l'ero sentita la sera
precedente e… mi dispiace così tanto, Martin. Mi
dispiace che tu ci sia stato così male, io non volevo farti
soffrire. Mi puoi perdonare?».
Il ragazzo la guardò
negli occhi e lentamente un sorriso si disegnò sulle sue
labbra. «Non aspettavo altro…».
Evelyn, sollevata, sorrise di gioia
e lo strinse forte a sé, posando il viso
nell’incavo della sua spalla. Era diverso rispetto a quello
della spalla di Franky, ma ci si trovava ugualmente bene.
Si scostarono un poco
l’uno dall’altro, si guardarono negli occhi e
quella volta fu più che naturale far incontrare le loro
labbra in un bacio.
***
«Ah, merda»,
biascicò Franky, con la fronte imperlata di sudore. Si
appoggiò al bordo del letto, si chinò a terra e
tirò fuori la valigetta nera, l’aprì e
ne estrasse una siringa dal contenuto turchese.
Si lasciò cadere culo a
terra, si sollevò la manica della felpa e si
iniettò il liquido nel braccio. Ci volle qualche minuto
prima che avesse effetto su di lui, ma pian piano il suo respiro si
regolarizzò, i battiti del suo cuore diminuirono e la sua
mente smise di ricevere qualsiasi informazione proveniente dal corpo e
dalla testa di Evelyn. Alla fine era andata da Martin e, da quanto
aveva capito e sentito come dolore all’anima, avevano fatto
pace.
«Franky, sei andato via
all’improvviso, va tutto bene?».
L’angelo
cacciò sotto al letto sia la siringa vuota che la valigetta,
ma Tom lo vide comunque e rimase paralizzato sulla soglia, sconvolto.
«Che cos’era
quella?», domandò con un fil di voce.
«Cosa?», fece
finta di niente Franky.
«Quella cosa che avevi in
mano, quella… siringa».
«Nulla. Hai le
traveggole».
Un’espressione adirata
prese possesso del volto di Tom, che marciò verso di lui, lo
spostò con poca delicatezza e sollevò bruscamente
le coperte del letto per vedere sotto di esso. Tirò fuori la
siringa vuota e la valigetta, che posò sul letto ed
aprì: vide tante siringhe come quella che ancora teneva in
mano, solo piene di un liquido turchese. Ne mancavano due
all’appello.
Franky si portò le mani
sulla testa china, chiudendo gli occhi e svuotando i polmoni di tutta
l’aria che aveva trattenuto dentro di loro fino a quel
momento.
«Che cosa cazzo sono queste?!».
«Non sono cose che ti
riguardano», rispose debolmente.
«Non sono cose
che… Ma stai scherzando?!», gli levò le
mani dal viso e si chinò per guardarlo negli occhi da
vicino: si accorse dei suoi occhi azzurri, quasi finti, e la delusione
si attardò anche sulle sue labbra, oltre che nel suo
sguardo. «Sono queste che ti fanno venire gli occhi azzurri,
ora è tutto chiaro. Perché le usi? A che ti
servono?».
«Ti ho detto che non sono
cose che ti riguardano», ripeté con fermezza,
evitando di guardarlo negli occhi, ma il chitarrista lo
afferrò per i capelli e gli tirò indietro la
testa per costringerlo a farlo.
«Dimmelo», gli
sussurrò all’orecchio. Franky non si mosse di un
centimetro, chiuse gli occhi per celare le lacrime e serrò
ancora di più le labbra. Tom allora lo lasciò
andare e fece per andarsene, quando lo sentì dire:
«A causa di Evelyn».
Si voltò, stupefatto, e dopo qualche secondo di silenzio
tornò dal suo migliore amico, si mise seduto al suo fianco e
raccolse la sua testa sulla spalla.
«Quando siamo stati
insieme, ci siamo scambiati un pezzo d’anima, come
già sai. Con la mia lei riesce più o meno a
vedere angeli e spiriti che normalmente non potrebbe vedere; io, con la
sua dentro di me, sono sempre costantemente collegato al suo corpo e
alla sua mente, anche quando, per esempio, bacia Martin. Questo farmaco
mi anestetizza l’anima, non mi fa sentire nulla, e non provo
più dolore».
«E non… non
puoi riprenderti il tuo pezzo di anima e ridare a lei il suo, se ti fa
così male?», gli chiese, gesticolando nervosamente.
Franky scosse il capo.
«Non ne sa nulla lei. E non avresti dovuto saperne nulla
neppure tu».
«Tu non devi nascondermi
nulla Franky, nulla. Ci siamo capiti bene?», lo
guardò negli occhi e l’angelo rimase in silenzio,
colpito dall’intensità del suo sguardo e allo
stesso tempo turbato perché c’era
un’altra cosa, il suo futuro di arcangelo, che gli teneva
nascosto. «Se c’è
qualcos’altro che devi dirmi e di cui mi tieni
all’oscuro, è l’ora di rendermi parte
della tua vita».
Mi
dispiace, Tom. «No,
non c’è nient’altro che non
sai», disse abbassando lo sguardo sulle sue ginocchia.
Il chitarrista lo
abbracciò e gli accarezzò i capelli, in un modo
così affettuoso e comprensivo che fece capire
all’angelo che aveva fiutato la sua ennesima bugia. Poi gli
prese il volto fra le mani e con quell’inusuale dolcezza gli
posò un bacio sulla fronte, tenendolo ancora stretto a
sé.
«Non è ancora
arrivato il momento degli addii, riserbati queste smancerie»,
disse a fatica Franky, a causa del groppo che aveva in gola per la
commozione.
«Tu non fai mai sembrare
gli addii tali, tanto vale salutarti per bene prima che tu possa
andartene», mormorò.
Si lasciò convincere dal
suo migliore amico ed abbandonò la testa alla sua spalla,
come un bambino colto dal sonno fra le braccia del suo papà.
***
Sull’uscio di casa
salutò Martin con un ultimo bacio a fior di labbra, poi
percorse il vialetto ed uscì dalla proprietà
privata. Salì in sella al suo motorino color perla, si
infilò il casco e diede gas in direzione
dell’ospedale.
Aveva passato davvero un bel
pomeriggio con lui, si era sentita sicura fra le sue braccia, coi suoi
baci e le sue carezze, e per un po’ aveva dimenticato tutto
quanto. Ma ora che si trovava di fronte alla struttura in cui sua madre
dormiva quel sonno profondo da parecchi mesi, il masso che le pesava
sulle spalle era tornato a farsi sentire.
Entrò e come
d’abitudine camminò a passo lento ed incerto verso
il reparto in cui era ricoverata sua madre. Arrivò di fronte
alla porta e all’interno vide Franky, che si apprestava a
sdraiarsi affianco al suo corpo immobile. Lo guardò
stringersi a lei, con una mano sul suo petto e la fronte che toccava la
sua tempia, e ad occhi chiusi avvolgerla in una specie di bolla nella
quale soffiava una specie di vento benefico di un verde brillante.
Quindi era grazie a lui e alla sua terapia se la sua mamma aveva fatto
parecchi miglioramenti in quell’ultimo periodo…
Entrò nella stanza senza
fare rumore e con la stessa attenzione chiuse la porta alle sue spalle.
Si avvicinò al letto della madre e Franky aprì
gli occhi, quegli occhi strani, azzurri, che la osservarono quasi con
sospetto.
«Devo
andarmene?», gli chiese in un sussurro.
«No…
resta». Accennò un sorriso, pensando che erano
così poche le volte in cui era lui a fare quella richiesta.
Evelyn rimase, si mise seduta sulla
sedia accanto al suo letto e guardò quel flusso di energia
scivolare sopra il corpo di sua madre in un moto continuo, sempre in
ripetizione. Avvicinò la mano, incuriosita, ed appena
sfiorò la superficie della bolla delle scintille le
colpirono le dita, come una specie di attrito. La ritrasse
immediatamente, spaventata, e rivolse uno sguardo a Franky, che aveva
guardato tutta la scena con un certo interesse.
«Rifallo», la
incitò. «Non aver paura, non ti succede niente.
Lasciati andare».
La ragazza non scostò lo
sguardo da quello dell’angelo e riavvicinò la mano
al flusso, quella volta la immerse completamente, nonostante sentisse
un certo sfrigolio sulla pelle, ma dopo un po’ le
risultò piacevole e chiuse gli occhi. Franky le prese la
mano e la strinse forte nella sua sul petto di Zoe. Quello che
provocò l’unione delle loro mani al flusso di
energia fu strabiliante: la bolla cambiò colore, da verde
brillante divenne quasi dorata, ed emanò
un’energia potentissima che da solo Franky non sarebbe
riuscito ad esternare nemmeno con tutta la sua buona
volontà.
Meravigliato dalla loro potenza
guaritrice sollevò gli occhi su Evelyn ed anche lei li
aprì, chiamata dai suoi; si guardarono intensamente e si
sorrisero.
Nel cuore Franky iniziò
a coltivare una speranza per quell’idea folle – che
eppure sembrava maledettamente giusta – che forse avrebbe
potuto svegliare dal coma la sua protetta.
Quando la bionda, qualche tempo dopo, gli avrebbe chiesto che cosa era
successo, non sarebbe riuscito a rispondere, però era
assolutamente certo che la soluzione al problema che stava cercando di
risolvere da mesi senza successo era proprio sotto i suoi occhi.
***
Guardò di fronte a
sé l’edificio imponente che conosceva
così bene e un sorriso gli incurvò le labbra
all’insù, mentre una marea di ricordi gli
affollavano la mente: alcuni belli, altri un po’ meno, ma
tutti con un significato profondo che serbava gelosamente nel cuore.
Lì aveva mosso i primi passi dopo la morte, lì
aveva incontrato San Pietro, il suo mentore; lì aveva
conosciuto Kenzie e Norbert, i suoi compagni di avventura prima che
diventasse un angelo custode; lì era diventato professore,
aveva fatto da guida ai futuri angeli custodi… E il destino
lo portava ancora lì, nel buio della notte, con
quell’invito in mano e la certezza che da quel momento in
avanti la sua vita sarebbe cambiata ancora una volta.
Si decise ad entrare, traendo un
respiro profondo, e si accorse di quanto sembrasse spettrale la scuola
a quell’ora di notte: era tutto buio, quel poco che si vedeva
era grazie alla luce della luna che entrava dalle ampie porte vetrate
alle sue spalle. Raggiunse il centro esatto della scuola, il punto in
cui tutti i corridoi si incontravano e dal quale si vedevano tutte e
quattro le uscite, una per punto cardinale. Quello era il punto
più illuminato in assoluto, anche grazie alla luce al neon
della porta di sicurezza non molto lontana da lì.
Sfruttando la luce lì
presente, tornò a guardare l’invito che gli era
stato consegnato. Non c’era scritto nulla che gli potesse
essere d’aiuto, a parte quello strano simbolo con la stella
ad otto punte, a cui però non sapeva dare un significato. Lo
guardò più attentamente e si rese conto che non
gli era nuovo, solo che… dove l’aveva visto?
Rimase a rifletterci per qualche
minuto, poi spazientito appallottolò il foglio e
alzò lo sguardo per gridare contro quel Dio che a volte
sembrava davvero volersi prendere gioco di lui, quando, proprio sul
soffitto, vide sette simboli simili al suo, disposti a cerchio; sopra
ognuno di loro c’erano altri simboli, più
stilizzati e comprensibili: c’erano il fulmine di Giove, la
falce di Saturno; c’erano il simbolo maschile e quello
femminile, che se non ricordava male corrispondevano a Marte e a
Venere; c’era il simbolo di Mercurio, l’elmetto e
il caduceo; e per finire c’erano una luna e un sole.
«I simboli dei sette
arcangeli», mormorò rapito, con la testa ancora
rivolta verso l’alto, là dove nessuno osava
guardare più di tanto. A lui una volta era capitato, si era
trovato lì sotto ed era rimasto per un bel po’ di
tempo ad osservare quegli strani simboli, senza mai capirne il
significato. Adesso lo sapeva ed era tutto chiaro.
Con un colpetto di ali si
sollevò da terra e toccò quello che doveva essere
il suo simbolo, il sole. Percorse il cerchio contenterete la stella ad
otto punte con i polpastrelli e dopo aver fatto un giro completo questo
si illuminò, accecandolo, e la parte di soffitto ricoperta
da quelle incisioni si aprì, scorrendo di lato.
Cercò di guardare oltre quella luce abbagliante e la prima
cosa che vide fu un viso amichevole, sul quale erano incastonati due
occhi grandi color cioccolato, e una mano fine che gli diceva di farsi
aiutare. Franky l’afferrò senza farsi troppe
domande ed entrò nella stanza nascosta, il passaggio sotto
di sé si richiuse e solo in quel momento ebbe
l’opportunità di vedere dove si trovava: non era
tutto soffuso di luce bianca come aveva immaginato, era una grande
stanza sovrastata da una grande cupola affrescata e che al posto delle
pareti aveva grandissime vetrate che davano sul… sul mondo.
Di là c’erano l’Europa e la Russia, di
là l’Africa, da una parte l’Asia, da
un’altra l’Oceania, e poi l’America e
l’Antartide. Era del tutto irrazionale, ma da quella stanza
si potevano vedere tutti i continenti, tutti gli oceani… si
vedeva il mondo intero.
Con l’oscurità
della notte era tutto ancora più bello, perché
tutte le luci del mondo risplendevano e si potevano notare quegli
strani fasci di luce che si spostavano da una parte
all’altra… Angeli?
«Bella vista, non
trovi?».
Franky, ancora sbigottito, si
voltò e vide lo stesso volto tenero e dalle guance un
po’ paffute che l’aveva aiutato ad entrare.
Apparteneva ad una ragazza dai capelli castani e la pelle pallida come
la luna, gli occhi color cioccolato simili a specchi lucenti. Era
però un po’ più piccola di quanto si
aspettava, visto che al massimo raggiungeva gli ottanta centimetri, e,
cosa ancora più sconvolgente, aveva le ali di una farfalla
bianca sulla schiena, con le quali si librava a mezz’aria per
poterlo guardare negli occhi.
«Io sono Inge,
piacere», gli porse la mano sorridente e Franky la strinse
incerto e confuso. «Sono sicura che ti starai domandando che
cosa sono, quindi ti accontento: sono una chimera parlante. Di solito
le chimere non parlano, Zeus mi ha donato l’uso della parola
perché sono la segretaria ufficiale degli arcangeli e mi
occupo anche dell’accoglienza dei nuovi arrivati. Non che ce
ne siano molti, insomma… hai capito, no? Comunque sono
contenta che tu sia arrivato, ti aspettavamo. Vuoi
presentarti?».
«Io… io mi
chiamo Franky».
La ragazza scoppiò a
ridere ed insieme a lei anche una ragazza dalla bellezza sorprendente,
seduta sul bracciolo di una delle sette poltrone di pelle disposte nel
bel mezzo della stanza, a cerchio intorno ad un tavolo di legno bianco
rotondo. Quest’ultima aveva lunghissimi capelli biondi che
teneva sciolti sulla schiena, un viso dolcissimo e due occhi penetranti
ed incantevoli, trasparenti come l’acqua più
limpida. La maggior parte dell’attenzione in quella stanza
era posata su di lei, anche se il ragazzo seduto sulla stessa poltrona
le teneva saldamente la vita con un braccio, ad indicarne il possesso,
e si guardava intorno burbero ed infastidito.
«Noi solitamente tendiamo
a chiamarci coi nomi dei nostri lumi», gli spiegò
la ragazza bionda.
Inge gli prese una mano e lo
invitò ad avvicinarsi al centro dell’ampia stanza.
«Lei è Afrodite, come avrai immaginato»,
gli presentò la ragazza bionda e lei, che rappresentava la
dea dell’amore e della bellezza, gli rivolse uno sguardo
gentile e gli strinse la mano con un piccolo inchino della testa. Era
davvero affascinante.
«Scusa, Inge»,
disse Franky imbarazzato, toccandole un braccio.
La chimera si voltò
verso di lui, sorpresa: non era ancora arrivata il momento delle
domande! «Sì, che
c’è?».
«Ecco… San
Pietro mi aveva anticipato i nomi dei sette lumi, solo… romani.
Voi invece vi chiamate con i nomi degli dèi
greci?».
«Oh!». Si
lasciò andare ad una risatina, coprendosi la bocca con una
mano. «Sì, ognuno si è scelto il nome
che preferiva tra quello romano e quello greco. Io comunque trovo che
quelli greci siano più interessanti. Ora continuiamo le
presentazioni.
«Questo simpaticone qui è Ares»,
indicò il ragazzo dai capelli e gli occhi neri e la
carnagione scura che stringeva a sé Afrodite. Era
l’esatto opposto della ragazza, persino nella mitologia (lui
rappresentava il dio della guerra, conosciuto come Marte fra gli
antichi romani), eppure… Con sguardo eloquente, Inge
aggiunse: «Lei è la sua amante, quindi cerca di
non guardarla troppo, o potrebbe staccarti una gamba a
morsi».
«Mi chiedo ancora
perché non abbia già sbranato la tua»,
le rispose stizzito Ares, con un sorriso tiratissimo sulle labbra.
«Perché lo
sanno tutti che ti fai vedere tanto cattivo e duro ma alla fine sei un
piccolo e delicato fiorellino…».
«Smettila,
Inge!», abbaiò, evidentemente in imbarazzo.
Afrodite intervenì per
rabbonire il compagno e gli accarezzò il viso: «Su
amorino, non prendertela, lo sai com’è
fatta».
La segretaria ridacchiò
e continuò con le sue presentazioni. Lo trascinò
di fronte ad un ragazzetto magro e alto, forse un po’ troppo,
che gli sorrise ingenuamente porgendogli una mano. «Lui
è Ermes».
Nell’udire quel nome,
Franky abbassò subito gli occhi per vedere se ai piedi
indossava i famosi sandali d’oro con le ali, tanto noti a
tutti. Fu una vera delusione vedergli portare un paio di Nike, anche se
verdi fosforescenti.
La chimera, che non si era accorta
di nulla, sottovoce aggiunse: «Non farti ingannare
dall’apparenza, potresti rimanerne sconvolto quando lo
sentirai parlare».
Accanto a lui si trovava un ragazzo
dalla corporatura un po’ robusta, dai capelli castani e il
volto bonario. Gli ricordava in parte San Pietro e sorrise,
stringendogli la mano mentre si presentava come Saturno. Lui era
l’unico che avesse preferito il nome del dio romano, gli
spiegò, perché il dio greco che gli corrispondeva
era profondamente diverso da lui: Crono, il dio del tempo e, pensa un
po’, il padre di Zeus, dio degli dèi.
«E per
concludere… ecco Zeus», disse Inge, aprendo le
braccia ed avvolgendo l’ultimo ragazzo rimasto, una specie di
armadio con i riccioli biondi e gli occhi verdi.
«Come preferisci che ti
chiamiamo?», gli domandò con voce possente,
sorridendogli con pienezza.
«Io… dovrei
scegliere fra…?».
«Uhm», la
chimera, svolazzando da una parte all’altra intorno a lui,
sfogliò un blocchetto di appunti fino a trovare la storia
dei suoi predecessori. «Puoi scegliere fra Apollo, dio del
Sole; Helios, nome vero e proprio del sole nell’antica
Grecia; oppure semplicemente Sole».
«Ahm… tenere
il mio nome normale non è proprio possibile?».
Nessuno di quei nomi se lo sentiva proprio, anche se non si vedeva male
a bordo del cocchio solare di Apollo.
«E Franky sia»,
decretò Zeus, dandogli una pacca sulla spalla che gli fece
schizzare gli occhi fuori dalle orbite, ma nessuno a parte Inge se ne
accorse. Tutti si stavano sistemando intorno al tavolo di legno bianco
per iniziare quella famosa riunione, poiché, da quello che
aveva detto Zeus subito dopo i convenevoli, avevano poco tempo: anche i
serafini avevano prenotato l’aula e si sapeva, loro non
amavano aspettare, soprattutto non amavano aspettare gli arcangeli.
«Se solo potessi li
sistemerei io quei serafini lì! Ma chi si credono di
essere?!», strepitò Ares, infervorato.
Inge si sporse verso
l’orecchio di Franky e gli sussurrò:
«Sai, c’è sempre stata una grande
rivalità fra arcangeli e serafini, per il posto che
ricoprono: c’è chi dice che gli arcangeli siano
quelli più vicini a Dio e i più potenti, chi dice
che invece siano i serafini… E poi Ares, scontroso
com’è, salta sempre per un nonnulla»,
ridacchiò. «Dai, andiamo a sederci anche
noi». Lo trascinò al tavolo e lo fece sedere sulla
poltrona riservata a lui; lei invece si posò con grazia
sull’apice del suo schienale.
Guardò Inge e Zeus
scambiarsi uno sguardo di intesa prima che lui desse il via libera a
Ermes, che si alzò in piedi.
«Ma anche tu e Zeus siete fidanzati?», chiese
sottovoce alla sua vicina, nonostante gli sembrasse parecchio
improbabile: la chimera era un moscerino in confronto a quella montagna
di muscoli e riccioli d’oro!
Lei lo fissò con gli
occhi leggermente sgranati: «Ma sei fuori?! Lui è
il capo, una specie di fratellone per tutti, anche per me, è
per questo che prima l’ho abbracciato! E poi, detto
sinceramente, è meglio ricoprirlo di coccole: tu non hai
idea di come sia, quando gli girano i cinque minuti».
L’Arcangelo del Sole se
lo immaginò con le famose saette in mano, pronto a
scagliarle contro di loro, fino a quando Ermes non si
schiarì la voce per attirare anche la loro attenzione, poi
iniziò ad esporre le problematiche che avevano dovuto
affrontare quella settimana, come le avevano risolte e dove potevano
ancora migliorarsi.
Franky capì quello che
gli aveva detto Inge poco prima appena lo sentì parlare.
All’inizio gli era sembrato subito un tipo un po’
allampanato, ma gli era bastato sentire la sua voce calda e
rassicurante, che ispirava intelligenza ed arguzia, per cambiare del
tutto opinione. E poi, doveva dirlo, come parlava lui non aveva mai
sentito parlare nessuno: aveva la capacità di attirare tutta
l’attenzione su di sé, aveva il dono della sintesi
e della chiarezza, ma non trascurava mai la completezza delle
informazioni. Non a caso Ermes, nella mitologia, era il messaggero
degli dèi, nonché il dio dell’eloquenza
e del commercio. Con un discorso ben ragionato sarebbe riuscito persino
a fargli vendere le ali.
Quando Ermes finì di
parlare, si risedette al suo posto e lasciò la parola a
Zeus, che tornò a condurre la riunione. Fece passare delle
fotocopie e anche Franky ne prese una, la esaminò
incuriosito e si rese conto che era il programma per la settimana
successiva: c’erano scritte, giorno per giorno, tutte le
situazioni sulle quali, prudenzialmente, dovevano gettare un occhio.
Terremoti, maree, valanghe, scioglimento di ghiacciai, incendi, ma
anche potenziali guerre che potevano scoppiare da un momento
all’altro, fame, siccità… non mancavano
alla lista.
Franky sentì il peso di
tutte quelle responsabilità cadergli sulle spalle e
bloccargli la gola con un grosso nodo. Inge se ne accorse e gli
levò il foglio da sotto gli occhi, dandogli un coppino.
«Ahia», si
lamentò lui, guardandola stupefatto.
«Tu sei ancora in deroga,
perché l’hai preso?», disse severa, ma
un secondo dopo gli sorrise e gli accarezzò il punto in cui
l’aveva colpito: «Non ti preoccupare, non
è così difficile come sembra».
Peccato che a lui sembrasse tutto
il contrario: lottare contro i fenomeni naturali e i mali compiuti
dall’uomo stesso era un enorme responsabilità,
oltre che un rischio. E se avesse fallito? Quante vite sarebbero andate
perse, quante persone avrebbero sofferto a causa del suo insuccesso?
«Davvero, non
preoccuparti», insistette lei, tornando ad osservare il
programma.
«Franky».
L’Arcangelo del Sole alzò il capo ed
incontrò lo sguardo paziente e comprensivo di Zeus.
«Tu ha la deroga per rimanere ancora per un po’ un
semplice angelo custode, ma sarebbe meglio che tu iniziassi a passare
un po’ di tempo con noi, giusto per vedere come lavorano gli
arcangeli».
«Certo, nessun
problema», rispose, anche se un po’ titubante.
«Sei affidato a Inge, in
questo periodo. Quando sarai a tutti gli effetti un arcangelo e quando
avrai imparato abbastanza, sarai come tutti noi e poi, quando
comparirà l’ultimo arcangelo, quello della Luna,
sarai tu a dovertene occupare».
Franky guardò la ragazza
al suo fianco, che gli sorrideva.
«Perché?», chiese ingenuamente.
«Perché il
sole e la luna sono complici dalla notte dei tempi, è la tua
compagna naturale», rispose allargando le braccia, divertito.
«Tutti noi lavoriamo in coppia: Ares e Afrodite, Saturno e
Ermes, tu e Selene…».
Franky immaginò che
Selene fosse il nome greco della dea della luna e non chiese
spiegazioni, anche perché aveva qualcos’altro di
più importante da far notare.
«Manchi tu».
«Come?».
Franky lo indicò.
«Tu sei da solo».
«Io faccio le veci di
tutti voi». Zeus sorrise, ma bastava veramente poco per
capire che quel sorriso era segnato dall’amarezza di non
poter condividere il proprio lavoro con un compagno o una compagna.
Qualcuno bussò
violentemente sulla botola e tutti quanti sentirono le stesse urla
rimbombare nelle loro teste: i serafini, che protestavano contro la
durata prolungata della loro riunione; era il loro turno ormai,
dovevano andarsene.
«Ma perché
devono venire anche loro proprio in questa stanza? Non ho visto nessun
simbolo che riguardasse il loro ordine…», disse
Franky, alzandosi insieme a tutti gli altri.
«La loro sala riunioni ha
subìto un guasto, lo scorso mese. Le riparazioni non sono
ancora iniziate, c’è crisi», gli
spiegò Saturno, con il riso sulla bocca. «Noi
siamo buoni e gli lasciamo usare la nostra».
«Troppo
buoni», ringhiò Ares. «In più
che gliela facciamo usare, si alterano così!?».
Afrodite gli accarezzò
il braccio. «Shhh, amore, a cuccia».
«Piantala anche
te!».
Franky iniziò a ridere,
prima timidamente, poi sempre più forte, contagiando tutti
quanti; persino il restio Ares si lasciò contagiare dalla
sua… solarità.
Aprirono la botola
dall’alto e videro sotto di loro uno stuolo di angeli dalle
tuniche bianche, che aspettavano spazientiti.
«Ce ne avete messo di
tempo!», esclamò il capo dei serafini, guardando
Zeus sprezzante. Quest’ultimo non lo calcolò,
però lanciò la frecciatina dicendo ai suoi
arcangeli di tenere fermo Ares, prima che balzasse addosso a qualcuno
di loro e gli rovinasse la tunica.
L’arcangelo
rappresentante il dio della guerra sghignazzò e lo stesso
fece Franky, divertito da tutta quella strana situazione, fino a quando
non andò a sbattere contro la spalla di un serafino:
alzò lo sguardo per vederlo in faccia ed entrambi rimasero
senza fiato guardandosi negli occhi. Non si erano mai visti, o almeno
Franky non aveva mai visto lui, ma era certo, era sicuro al cento e uno
per cento, che quello fosse proprio…
«Sole, andiamo! Non ti
dispiace se ti chiamo così, vero?»,
gridò Inge, ferma in mezzo al corridoio che portava
all’uscita sud, rivolta verso di lui. «Ehi,
Franky!».
Il serafino, all’udire il
nome del ragazzo, spalancò ancora di più gli
occhi e mormorò: «Franky… sei proprio
tu?».
La piccola chimera si
avvicinò, non capendo che cosa stesse succedendo, e li
guardò entrambi con le mani sui fianchi:
«C’è qualcosa che non va?».
«N-No, nulla»,
balbettò Franky, prendendo la mano di Inge e trascinandosela
dietro, allontanandosi in fretta da quell’uomo, da quel
passato e da quel dolore che non credeva di dover riprovare ancora
dentro di sé come quando era stato ragazzino.
Sentì la sua voce
chiamarlo col suo nome completo ma, già lontano, non si
girò.
_____________________________________________
Ehiiii,
ciao gente :D
Allora,
che dire di questo capitolo? C'è una grande
novità, la più importante: Franky ha scoperto di
essere l'Arcangelo del Sole! *o* Che bello, sono così
orgogliosa di lui!! Ha eliminato dalla faccia della Terra Lilith, uno
dei demoni più potenti in circolazione, ha liberato Bill...
ha anche già incontrato i suoi nuovi colleghi e anche i
serafini, tra cui anche uno strano personaggio di cui non si sa ancora
l'identità... secondo voi chi potrebbe essere? u.u
Per quanto riguarda Evelyn, ha chiarito sia con Franky che con Martin.
L'unica cosa che mi dispiace è che sia sempre Franky a
rimetterci ç_ç
Ah, prima che mi dimentichi: Evelyn ha fatto due cose un po' "anomale"
in questo capitolo o.o La prima: ha fatto svegliare l'arcangelo che era
in Franky. La seconda: ha aumentato la potenza della bolla guaritrice
di Franky. Certo che quei due insieme sono proprio formidabili...
Chissà come mai xD
Mmh, poi c'è da discutere sulla questione: Bill sa o non sa
di Franky ed Evelyn? Forse sì, forse no, forse fa finta di
non sapere u.u bah xD
E Tom ha scoperto la "medicina" di Franky... quella scena mi piace
proprio tanto, come tutte quelle in cui ci sono i miei due prediletti
*w* Sono tenerissimi.
Bene,
spero che vi sia piaciuto e che lascerete qualche recensione per dirmi
che ne pensate degli ultimi fatti e del capitolo in generale!
;D
La canzone che ho usato è Invincible,
di Tinie Tempah ft. Kelly Rowland.
Invece, le
fonti da cui ho preso tutte
le informazioni riguardanti i sette arcangeli e gli dèi
greci e romani (tutte le mie passioni *o*), sono la fantastica
Wikipedia e poi un libro davvero bello intitolato "Omicidio in
Paradiso" di Bernard Werber (consiglio di leggerlo xD)!
Ringrazio
di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e
tutti quanti :)
(PS: Ci stiamo avvicinando alla fine.
Un'altra voltaaa T_____T)
Alla
prossima! Con affetto, vostra
_Pulse_
|
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Capitolo 22 *** Come back ***
Allora,
ho due cosucce da dirvi :) (Che questo è il penultimo
capitolo non lo dico, tanto lo sapete già. Doh
>_<)
1. Se cliccate sul link in blu qui sotto, vedrete la terza ed ultima
locandina di questa fanfiction, only for you *.*
==> Locandina
n°3
2. Se volete esprimere il vostro parere su quale sia la più
bella fra le tre potete farlo, oltre che nelle recensioni, anche nella mia pagina di Facebook chiamata
proprio _Pulse_
, sulla quale troverete tutte le altre locandine, le foto che
potrebbero riguardare altre fanfiction, gli aggiornamenti dei capitoli
(per ora è un po' vuota, ancora working in progress, ma ci
riferemo nel tempo!)... Insomma, un modo come un altro per rimanere
aggiornati sulle mie cose e magari chissà lasciarmi qualche
vostro parere nella bachechina *-* Sarò più che
felice di rispondervi! :D
Il link è questo ==> Pagina
facebook di _Pulse_
Va bene, ho detto tutto xD Grazie dell'attenzione :)
Buona lettura!! :D
_____________________________________________________
22. Come back
«Buongiorno,
tesoro!».
Linda entrò nella stanza
di Franky e spalancò le finestre per far entrare un
po’ d’aria buona, nonostante fosse solo febbraio e
non facesse per niente caldo. Quel giorno però
c’era il sole, tanto che se non ci fosse stato quel freddo si
sarebbe chiesto se fosse già primavera.
L’angelo si coprì gli occhi con il cuscino,
infastidito dalla luce, ed infreddolito si coprì fin sotto
al mento col piumone.
La donna, ai piedi del letto, si
portò le mani sui fianchi e lo guardò divertita:
«Non pensi sia ora di alzarsi?», gli
domandò.
Franky mugugnò,
scuotendo senza energie il capo. Probabilmente era davvero
l’ora di alzarsi, però Linda non poteva sapere che
erano ormai settimane che faceva continuamente le ore piccole,
dividendo il suo tempo notturno tra il corpo di Zoe e le missioni
affidate agli arcangeli e a cui doveva assistere – e a volte
anche dare il proprio contributo – per iniziare ad abituarsi
alla loro vita. Anche quella notte non si era risparmiato ed era
tornato giusto un paio di ore prima, all’alba, da una
supervisione che avevano fatto in Antartide a causa del continuo
scioglimento dei ghiacciai.
«Dai piccolo,
alzati», lo incitò, dandogli qualche pacca sulla
gamba.
Franky brontolò ancora
un po’, ma poi si alzò, solo in boxer, con le
gambe irrigidite per il freddo e le braccia strette intorno al petto
nudo. Passò di fianco a Linda e lei lo prese per un braccio,
sbigottita.
«Che cosa
c’è?», chiese l’angelo, con la
voce rauca ed i muscoli facciali ancora paralizzati dal sonno.
Linda gli prese un ciuffo di
capelli fra le dita e glielo spostò da davanti agli occhi:
«Da quanto tempo è che hai questi capelli
così lunghi?».
«Lunghi? Ma che cosa
dici, sono sempre uguali…». Franky si morse la
lingua: come poteva sperare che ci credesse? In quelle settimane gli
erano cresciuti così tanto che non potevano più
essere definiti a spazzola e gli cadevano continuamente sugli occhi.
Linda, infatti, sollevò
il sopracciglio. «Sei anche diventato più alto, mi
hai già superato!», confrontò le loro
spalle e lo guardò eloquente. «Tra un
po’ inizierà a crescerti la barba».
«Ah, speriamo di
no!», si allarmò, portandosi le mani sulle guance
e notandole ancora lisce.
«Che ti sta succedendo,
Franky?», gli chiese con voce cauta, prendendogli le mani fra
le sue e guardandolo amorevole. «Stai crescendo rapidamente e
da quello che so… non dovresti proprio crescere».
Franky abbassò il capo e
i capelli gli caddero di nuovo sugli occhi. «Ecco,
io… penso di non potertelo dire. Non l’ho detto a
nessuno».
«Ma è qualcosa
di negativo, oppure…?».
«No, no… anzi,
è bello», accennò un sorriso. Ebbene,
anche lui alla fine aveva cambiato opinione a proposito del suo nuovo
incarico. La fase iniziale, quella del rifiuto, era stata superata ed
era contento di essere diventato un arcangelo, anche se un
po’ gli sarebbe mancata la vecchia vita da angelo custode.
«Allora va bene
così», ricambiò il sorriso e gli
accarezzò una guancia. «Posso ancora abbracciarti,
oppure stai diventando troppo grande?».
Franky avvolse il corpo di Linda
sia con le braccia che con le ali. Le accarezzò il
capo con una mano e sorrise commosso, ringraziandola per tutto
ciò che aveva fatto per lui e per essere stata come una
mamma in quel periodo in cui aveva vissuto in casa Kaulitz. Ormai la
fine era vicina, la sentiva nell’aria, e gli doleva il cuore
pensare che una volta che Zoe si fosse svegliata sarebbe dovuto tornare
alla sua vita, anzi incominciarne una nuova come Arcangelo del Sole,
lasciare lei, Tom, Arthur, Bill, Evelyn… Ma era stato fin
troppo tempo con loro, tanto da abituarsi di nuovo a quel modo di
vivere, ed era giusto che tornasse al luogo a cui ora apparteneva.
Dopo quel brusco e allo stesso
tempo dolcissimo risveglio si era vestito e aveva fatto mente locale di
ciò che doveva fare quel giorno. Si era diretto in cucina e
lì aveva trovato Arthur, che masticava cereali e ogni tanto
gettava un occhio sul giornale aperto sulla pagina sportiva che
c’era accanto alla sua tazza di latte.
«Chi ha vinto ieri
sera?», domandò al bambino, passandogli una mano
fra i capelli e chinandosi per leggere il titolo in grassetto del
giornale.
«Lo Schalke
04», rispose mogio.
«Cavolo, ma lo sai che
quando ero piccolino come te io tifavo proprio per lo Schalke
04?», ridacchiò, beccandosi uno sguardo minaccioso
da parte di Arthur al quale cercò di rimediare aggiungendo:
«Ma adesso ovviamente tifo l’Hamburger SV, certo.
Dai, vedrai che la prossima volta vincerà!».
«Speriamo»,
sospirò. Poi si portò i pugni sulle guance,
appoggiandosi al tavolo coi gomiti. «Secondo te anche io da
grande giocherò in una di queste grandi squadre?».
«Beh, se lo vuoi ci devi
provare! Per me qualche possibilità ce
l’hai», gli sorrise e gli si riempì il
cuore di gioia, vedendo i suoi occhi brillare speranzosi.
Linda entrò in cucina
con una pila di vestiti da stirare, li sistemò sulla parte
di tavolo ancora libera e sistemò l’asse da stiro
in modo tale che stirando lei desse le spalle alla finestra.
«Ma
dov’è andato Tom?», chiese
l’angelo, incuriosito.
«È uscito
presto stamattina, ha detto che voleva passare da Bill».
«Oh, capisco. Esco anche
io», disse ed uscì dalla cucina.
«Dove vai?!»,
gli gridò Linda.
«A trovare zio
David!», rispose ed uscì di casa senza aggiungere
altro.
La donna guardò il
figlioletto intento a guardare le figure dei calciatori sul quotidiano,
poi posò gli occhi sulla pila di vestiti da stirare e
sospirò, ma con un sorrisino sulle labbra.
***
La campanella del primo intervallo
risvegliò tutti dalla noiosissima lezione di letteratura,
Evelyn compresa, che si tirò su dal banco e
stiracchiò le braccia in avanti, guardando divertita la sua
compagna di banco che aveva una lunga striscia rossa sulla guancia
sinistra: il segno che le aveva lasciato la manica della felpa durante
il suo riposino.
«Dormito
bene?», le domandò.
Margot stirò un sorriso
ed annuì. «Adesso pausa stizza».
Si alzarono e si avviarono insieme
verso il giardino, dove Margot si mise a fumare una sigaretta ed
Evelyn, invece, iniziò a mangiare il suo panino col
prosciutto cotto e il formaggio.
«Vuoi un
tiro?», le chiese la ragazza madre, porgendole la sigaretta.
Evelyn passò e le offrì il panino, che invece lei
non rifiutò: ne mangiò un morso, ridacchiando.
«Ah, sabato sera hai da fare?».
«Credo che
uscirò con Martin. Perché?».
«Così, volevo
chiederti se passavi a fare compagnia a me e a Cindy, visto che Klaus
è fuori città per lavoro con suo zio».
«Quando mi viene a
prendere glielo chiedo subito, così ti faccio
sapere», le sorrise. «Non penso se la prenda, per
una sera che non passo con lui».
Le cose tra lei e Martin andavano
bene, anche se Evelyn ogni tanto soffriva; non glielo mostrava
apertamente, ma soffriva pensando a Franky e a ciò che non
avrebbe avuto mai: la sua storia d’amore da sogno.
Il rapporto che aveva con l’angelo era leggermente cambiato
da quando si era messa insieme a Martin, come in generale era cambiato
un po’ tutto da quando era tornata a scuola dopo le vacanze
natalizie. Non erano più intimi come una volta, ma questo
poteva anche accettarlo, era comprensibile: lei stessa non si sarebbe
mai sognata nemmeno di togliersi la maglietta di fronte a lui, ora che
c’era Martin al suo fianco; il fatto era che si vedevano
raramente, ormai, e non ne aveva capito pienamente il motivo, se
esisteva.
Ma a parte questo, i cambiamenti
avvenuti nella sua vita erano più che positivi. A scuola,
per esempio, non era più sola: lei e Margot avevano legato
moltissimo, erano diventate quasi migliori amiche, e passavano
più di sei ore assieme tutti i giorni. Inoltre, i suoi voti
erano migliorati sorprendentemente, tanto che aveva qualche buona
possibilità di superare l’anno, nonostante le
innumerevoli assenze. Fuori, invece, aveva ripreso ad uscire
regolarmente con Anja e Pamela, come una qualsiasi ragazza della sua
età.
Ogni tanto, però, sentiva quello strano vuoto
dentro… come se non fosse soddisfatta di tutto
ciò che aveva ottenuto e mancasse qualcosa. E più
si concentrava su tutto ciò che la circondava. la scuola,
gli amici, il ragazzo ora che ce l’aveva, più
sentiva quel senso di incompletezza dentro di sé. La causa
era sempre la stessa, la sua mèta irraggiungibile: Franky.
Le sarebbe passato mai il vuoto dovuto alla sua mancanza che sentiva
nel petto?
«A che pensi?».
La bionda alzò lo
sguardo sulla sua amica e scosse il capo, accennando un sorriso.
«A nulla, mi ero incantata».
«Nah… quando
hai quell’espressione assorta vuol dire che pensi a qualcosa,
o magari a qualcuno.
Posso farti una domanda che mi frulla in testa da un
po’?». Lei acconsentì con un semplice
sguardo. «Chi era il padre del bambino che hai
perso?».
Evelyn arricciò le
labbra in una risatina silenziosa e prese la sigaretta quasi finita di
Margot, fece un tiro e poi spense il mozzicone sotto al piede.
Soffiò il fumo verso il cielo e rispose: «Un
ragazzo molto particolare, direi unico nel suo genere».
«Ed è a lui
che pensi quando ti estranei da tutto e da tutti, vero?». La
bionda annuì con una scrollatina di spalle e la mora
aggiunse: «Lo amavi?».
«Lo amo
tutt’ora».
Oh, I can go numb, blame everyone
Lie to myself until I believe
That love’s been good to me
***
«Mi serve qualsiasi cosa
tu abbia di mamma».
David osservò il nipote
e si accorse che era cambiato, ma non disse nulla. Piuttosto, avrebbe
tanto voluto sapere a che cosa gli servissero in quel momento le cose
di sua madre.
«Io, ecco…
Vorrei vedere una foto di mio padre», gli confidò,
con notevole imbarazzo.
Non aveva mai voluto vedere il
volto di suo padre, quello che l’aveva rifiutato, forse anche
a causa di Catherine che non aveva mai voluto che suo figlio soffrisse
per lui. Da quello che si ricordava, solo quando aveva nove o dieci
anni era stato male perché sua madre non gli parlava mai di
lui e non voleva che conoscesse nulla in proposito. Durante gli anni
dell’adolescenza era passato alla fase della rabbia e della
difesa, tanto che non aveva mai voluto nemmeno che si pronunciassero le
parole “tuo padre” di fronte a lui. Era stato
Franky a rifiutare lui. Ora perché, tutto ad un tratto,
voleva vederlo? Perché gli chiedeva di mostrargli
l’uomo che l’aveva fatto soffrire immensamente
quando era bambino e che sua madre gli aveva nascosto?
Franky, che di certo non era stato
lì ad aspettare che rispondesse facendosi i pensieri
suoi, si posò le mani sul petto e sospirando disse:
«Lo so, non ha molto senso ora come ora, ma… ho
bisogno di vederlo, è importante».
Lo sguardo triste che gli rivolse
bastò per farlo cedere: «Dovrebbe esserci una
foto».
Franky lo ringraziò e lo
seguì in taverna. Entrarono in una piccola stanza che veniva
usata come sgabuzzino e David si mise a cercare negli scatoloni;
l’angelo l’aiutò, perdendosi fra i
ricordi, fin quando suo zio non gli disse che l’aveva trovata.
Lo fissò mentre teneva quella fotografia tra le mani un
po’ tremanti e sorrideva amaro, pensando a sua sorella. Aveva
il cuore che gli batteva furiosamente nel petto, colto
dall’ansia: era davvero pronto a far tornare alla luce un
fantasma del suo passato?
David gliela passò,
strofinandosi gli occhi con un braccio. Franky prese la foto con la
punta delle dita, per paura di rovinarla, ed osservò il
volto bellissimo e sorridente di sua madre: l’aveva vista
poche volte così felice. Trasse un ultimo respiro profondo,
poi portò la propria attenzione sull’uomo a cui
era abbracciata. Sospirò stancamente, abbassando le
palpebre, e posò la fotografia sul pavimento, per poi farla
scivolare lontano da sé. Appoggiò le spalle al
muro e si raccolse la testa con le mani, sotto lo sguardo di suo zio
David.
Suo padre e il serafino che aveva
incontrato quella sera erano la stessa persona. Suo padre era ancora
lì e l’aveva riconosciuto. Suo padre…
Dentro di lui si scatenò
una battaglia di sentimenti contrastanti: una parte di lui era convinta
di non aver bisogno di lui – come ce l’aveva fatta
fino ad allora poteva andare benissimo avanti senza di lui;
l’altra, invece, avrebbe voluto incontrarlo di nuovo, ora che
aveva la certezza che fosse proprio suo padre, e sommergerlo di
domande, oltre che di rimproveri. E poi, forse,
chissà… Ma no, cosa stava pensando, era
impossibile che potesse nascere un rapporto tra loro, non dopo tutto
quel tempo. La parte di lui che dominava in quel momento era la prima,
quella che gli diceva di infischiarsene, di fare come se non avesse
scoperto nulla, di ignorarlo completamente come lui aveva ignorato i
sentimenti di sua madre quando l’aveva lasciata sola e con un
figlio in arrivo. Però quella piccola parte che voleva
incontrarlo di nuovo… era piccola, ma lo pungolava in modo
piuttosto fastidioso.
«È tutto
okay?», gli domandò dopo vari minuti di silenzio
l’ex manager, aggrottando la fronte.
Franky lo guardò negli
occhi ed annuì. «Sì, grazie.
È stato solo un momento… è
passato».
Ma David, non contento, gli chiese:
«E adesso? E adesso che l’hai visto in faccia, che
cos’è cambiato?».
«Forse tutto, forse
niente», mormorò con sguardo assorto, poi si
alzò e gli diede una pacca alla spalla: «Grazie
zio, ora devo andare».
***
Disse a suo padre, in compagnia di
suo zio Tom, che doveva uscire un attimo, inventandosi una scusa.
Inforcò il suo motorino e col casco ben allacciato sulla
testa si diresse verso i campi. Era da tanto che non ci andava, aveva
voglia di rivederli, di respirarne il profumo e di inebriarsi la mente
di quei ricordi che sembravano tanto lontani.
Parcheggiò il suo fido
scudiero non molto distante dal campo di girasoli, che raggiunse a
piedi. Per la prima volta si addentrò proprio tra i fiori
che quel giorno seguivano rapiti il sole che brillava nel cielo per
catturarne ogni beneficio. I grandi petali gialli le arrivavano al
busto e doveva tenere le braccia alzate come se stesse camminando su
una corda e si dovesse mantenere in equilibrio.
All’improvviso vide i
capolini cambiare direzione e girarsi come se fosse appena sorto un
nuovo sole, capace di dargli di più. Anche lei
alzò lo sguardo e proprio di fronte a lei, qualche metro
più avanti, scorse la figura di Franky.
At least I held it for a little while,
long enough to know what falling means
to lose yourself and give everything
Looking back it was worth it all
All the promise and all the pain
I know that there’s nothing that I would change
And now that it’s gone all there is to say:
“Thanks for
taking my breath away”
Franky atterrò poco
lontano dal campo di girasoli, camminò con le mani nelle
tasche e il viso rivolto verso il cielo, meditabondo. Continuava a
pensare a suo padre, senza darsi pace, e sperava che almeno
lì, in quel luogo calmo ed ospitale, riuscisse a venire a
capo della situazione, anche se era stato azzardato: quel luogo era
pieno zeppo di ricordi legati ad Evelyn.
Evelyn… era un
po’ che non la vedeva; o meglio, aveva deciso di non vederla.
Finalmente aveva fatto ciò che avrebbe dovuto fare da tempo:
lasciarla vivere la sua vita, senza intromettersi, facendole pensare
che fosse solo un caso che non riuscissero più a beccarsi.
In verità era lui che ce la metteva tutta per non trovarsi
nei luoghi in cui probabilmente sarebbe potuta esserci anche lei, li
evitava apposta. Ma nemmeno con questa tattica riusciva a togliersela
dalla testa: a volte quando non aveva niente da fare il suo primo
pensiero ricadeva su di lei, oppure di notte prima di addormentarsi
dopo una giornata sfiancante pensava a lei e, ovviamente, il suo primo
pensiero quando si svegliava alla mattina era lei.
Si creò un varco fra i
lunghi steli dei girasoli e vi camminò in mezzo, perso
ancora nei suoi pensieri. Notò come le corolle dai colori
accesi si voltassero verso di lui al suo passaggio, seguissero la sua
scia, percepissero che ormai era prossimo a diventare
l’Arcangelo del Sole.
Sorrise impercettibilmente e un secondo dopo si irrigidì sul
posto. Alzò lentamente gli occhi e a qualche metro di
distanza vide Evelyn, che a sua volta lo stava fissando sorpresa, con
un fondo di entusiasmo nei suoi occhi azzurri come il cielo, quegli
occhi che erano stati la sua condanna, il suo Inferno, ma anche il suo
Paradiso.
Rimasero a fissarsi da lontano per
qualche minuto, poi si incamminarono l’uno verso
l’altro in perfetta sincronia, con lo stesso ritmo in
crescendo: prima piano, poi sempre più veloce, impazienti di
stringersi ancora fra le braccia dopo tutto quel tempo.
Perché, lo volessero o no, quel sentimento che li legava
tornava sempre a galla.
Una volta l’uno di fronte all’altra, si
accarezzarono con lo sguardo e si sorrisero commossi, si
inginocchiarono nei fiori per non farsi vedere da nessuno –
anche se non c’era nessuno – e avvolti dagli steli
e dalle foglie dei girasoli si abbracciarono. I loro cuori persero
diversi battiti, anche loro stretti da quell’amore
così forte.
Franky infilò una mano
fra i suoi capelli, sulla nuca, e glieli accarezzò
dolcemente ma con un certo possesso; Evelyn fece lo stesso, rendendosi
conto di quanto fossero cresciuti ed in generale di quanto fosse
cambiato. Il motivo non le interessava, in quel momento averlo
lì era l’unica cosa che importava, tanto che
sarebbe stata stretta tra le sue braccia per ore in silenzio.
Ma di ore a disposizione non ne avevano. Il poco tempo che passarono
insieme, lo trascorsero dicendosi sottovoce tutto quello che gli
passava per la testa, sdraiati sull’erba petto contro petto,
naso contro naso e mani nelle mani, i piedi che si sfioravano.
Ad un certo punto Franky, perso nei
suoi occhi celesti, avvertì quel particolare pizzicorio alle
ali e di fronte a sé non vide più il volto di
Evelyn, ma il suo futuro: la sua età si aggirava sui
vent’anni, forse anche qualche anno di più, ma era
pur sempre bellissima e i segni del tempo su di lei sembravano avere
regole completamente diverse. Nella visione arrivò di fronte
a lui in lacrime, un po’ di dolore e un po’ di
felicità per averlo incontrato di nuovo, e poi si vide
riflesso nei suoi occhi mentre le diceva che lei era la sua compagna
per la vita, quella che il destino aveva scelto per lui, o meglio
quella in cui l’ultimo arcangelo, quello della Luna, aveva
deciso di reincarnarsi.
Franky, Arcangelo del Sole, e Evelyn, Arcangelo della Luna, avrebbero
vissuto il resto della loro vita insieme, a proteggere la Terra e le
persone che amavano, finalmente nella felicità e
nell’amore.
Improvvisamente la visione si
interruppe e tornò a vedere soltanto il volto della ragazza
che amava, di cui ne aveva appena scoperto il futuro. Doveva avere
un’espressione un po’ sconvolta, perché
lei si sollevò e gli sfiorò la guancia con la
sua, sussurrandogli all’orecchio:
«C’è qualcosa che non va?».
Franky le accarezzò le
guance coi palmi delle mani e sorrise, ma non riuscì ad
impedire ad una lacrima di cadere sulla guancia di Evelyn, che
sgranò un poco gli occhi.
«Siamo destinati a stare insieme per sempre, nulla ci
dividerà mai», le rispose, con la voce piena
d’amore.
Ora capiva molte cose: il motivo
per il quale si erano subito sentiti attratti l’uno
dall’altra, per cui
avevano sempre avuto un
legame così potente, la sua straordinaria
capacità di lenire ogni sua ferita e di curare anche sua
madre. Anche il fatto che fosse stata lei a risvegliare l'arcangelo che
era in lui aveva un senso. Ora anche l’impossibile era
possibile; per loro non c’era alcun limite.
«Oh, questo io
l’ho sempre saputo», mormorò Evelyn,
attirandolo a sé in un abbraccio, ma lui si
divincolò quasi subito e si rizzò seduto per
guardare il cielo sopra di sé con sguardo assorto.
«E se… Ma
sì, certo».
«Che cosa,
Franky?».
«Voglio fare un
esperimento con te, stasera».
Evelyn lo guardò
sollevando un sopracciglio. «Che tipo di
esperimento?».
«Ti ricordi quando mi hai
visto curare il corpo di tua madre?».
«Sì,
certo… io ho messo la mano e la bolla ha cambiato
colore!».
«È diventata
molto più potente. Io… io credo che noi due,
insieme, potremmo farcela a svegliare tua madre».
Posò gli occhi nei suoi, mentre sulle sue labbra nasceva un
sorriso mesto.
Lei rispose con tono solenne:
«Dimmi che cosa devo fare».
***
«Fratellone, sei
tu?».
Franky, appoggiato allo stipite
della porta della sua cameretta buia, sorrise rivolgendo il viso verso
il pavimento. «Come hai fatto?».
Anche Arthur sorrise e
scrollò le spalle. «Ti sento quando sei
vicino».
Si avvicinò a lui, gli
disse di fargli un po’ di spazio e
l’abbracciò infilandosi sotto le coperte del suo
letto. Chiuse gli occhi e gli baciò la fronte prima di
respirare il profumo dei suoi capelli.
Il bambino si accucciò di più sopra di lui e gli
posò un orecchio sul petto per poter sentire il suo cuore
battere.
Rimasero per un po’ in
silenzio, rasserenati dalla presenza dell’altro, fino a
quando una strana malinconia si fece spazio dentro di loro, tanto da
far inumidire gli occhi di Franky.
«Franky…»,
sussurrò il bambino.
«Dimmi»,
rispose l’angelo, tirando su col naso e mantenendo a stento
il tono di voce fermo. Arthur alzò la testa e lo
guardò negli occhi così intensamente che Franky
si sentì male dentro, come se una scheggia si fosse
conficcata nel suo cuore.
«Devi andare
via?». Glielo chiese chiaro e tondo e lui non poté
far altro che rispondergli con la stessa sincerità, mentre
una lacrima gli segnava un solco sulla guancia.
Arthur non rispose subito, rimase ad incamerare ciò che gli
aveva detto. Ad un certo punto accennò un sorriso e disse:
«Mi verrai a vedere, quando giocherò a calcio in
una squadra vera?».
Non gli aveva chiesto se sarebbe
tornato, ma se avrebbe tifato per lui e, in qualche modo, se avrebbe
continuato a stargli vicino, a sostenerlo e a volergli bene.
Franky sorrise e gli accarezzò i capelli. «Ma
certo, Arthur.».
«Ti voglio bene,
fratellone», mormorò prima di posare nuovamente il
capo sul suo petto.
«Anche io, non sai
quanto».
Aspettò che si
addormentasse fra le sue braccia, poi si alzò e si diresse
verso il salotto. Sapeva di trovare lì Tom e forse anche
Linda. Infatti erano entrambi sul divano, ma non sembravano molto
interessati a guardare la tv.
Si schiarì la voce per
attirare la loro attenzione. «Io esco».
«E dove vai?»,
gli chiese Linda, tirandosi su da Tom e mettendosi a posto un
po’ i capelli.
«Devo andare un attimo di
sopra».
«Perché?»,
gli domandò quella volta Tom, con sguardo preoccupato.
Franky schivò la
traiettoria dei suoi occhi. «Ho delle cose da
fare».
«Che…?».
«E dai, Tom, lascialo
stare», lo rimproverò la moglie, dandogli un
manrovescio sul petto. Poi si voltò verso di lui e gli
sorrise teneramente: «Ci vediamo più tardi,
tesoro».
L’angelo chiuse gli occhi
al modo affettuoso con cui lo chiamava e si morse l’interno
della guancia, incamminandosi verso la porta di casa.
Quella volta, poco ma sicuro, avrebbe sentito un’assurda
mancanza di tutto quello.
Rimase seduto sul marciapiede del
parcheggio semideserto all’angolo della strada a torturare il
cappellino di lana nero con la visiera corta che una volta era stato di
Tom fino a quando non sentì il motorino di Evelyn
avvicinarsi a lui. Quando gli si fermo di fronte alzò gli
occhi umidi e si strofinò il naso col palmo della mano per
mandar via quel fastidioso pizzicorio.
«Tutto okay?»,
gli domandò, ma non si aspettava di ricevere una risposta,
la sapeva già e la sua espressione dispiaciuta ne era la
conferma.
La ragazza spense il motorino, mise
il cavalletto e si tolse il casco mentre si sedeva accanto a lui. Si
aggrappò al suo braccio e appoggiò la testa
nell’incavo della sua spalla, con gli occhi rivolti un
po’ verso il suo viso e un po’ verso il cielo blu
slavato, punteggiato da minuscoli puntini luminosi.
«Sto pensando cose
assurde», sussurrò con voce roca Franky,
stringendo con maggior forza il cappellino fra le mani. «Sono
stato così tanto tempo qui… sapevo che non avrei
dovuto, ma l’ho fatto. E ora… non voglio
andarmene».
Evelyn sospirò e
parlò piano. «Non sei
costretto…».
L’angelo fece come se non
avesse detto nulla e tirò fuori dalla tasca dei jeans un
pacchetto di sigarette martoriato, ne prese una e se
l’accese. Evelyn rimase a guardarlo fumare per qualche
istante, poi gliela rubò dalle dita prendendola con i
polpastrelli dell’indice e del pollice e gliela
allontanò. Lui si girò per chiederle che cosa
stesse facendo, ma quando vide che i suoi occhi erano rivolti verso il
cielo socchiuse le labbra e alzò anche lui lo sguardo.
«Tu dove abiti, Franky?
Com’è il Paradiso?».
Lui scrollò le spalle.
«Non è come lo si immagina. Ma non è
lassù che abito».
«E dove?».
Evelyn arrossì violentemente quando Franky
insinuò la testa fra le sue braccia per premere il viso
contro il suo piccolo seno, lì all’altezza del
cuore. Dopo l’imbarazzo iniziale gli accarezzò i
capelli dolcemente, posandovi sopra un bacio ogni tanto.
«Ti amo,
Evelyn».
Lei accennò un sorriso e
per l’ennesima volta alzò gli occhi al cielo.
«Allora esiste davvero, il Paradiso»,
mormorò.
The first time that we’ve
kissed
You were looking at the stars
And singing “Heaven must exist”
Fece un rapido tiro alla sigaretta,
poi la gettò via.
«È ora
di andare», gli disse, dandogli un colpetto affettuoso sulla
nuca, e si alzò.
Franky saltò in sella,
dietro di lei, e le avvolse le braccia intorno alla vita. La ragazza
diede gas e si diressero verso l’ospedale. Nel frattempo, le
illustrò ancora una volta il suo piano nei minimi
particolari.
Erano entrambi molto tesi,
concentrati; credevano davvero che quell’intuizione potesse
portare almeno a qualche miglioramento, se non al risveglio di Zoe. In
più, il loro nervosismo era anche dovuto al fatto che se
fosse andata come speravano come conseguenza non si sarebbero visti per
un bel po’ di tempo. Di quello non parlarono molto, ma una
volta di fronte alla stanza d’ospedale della madre di Evelyn
dovettero per forza.
«È tutto
chiaro?», le domandò Franky, prendendole il viso
fra le mani.
Lei annuì, socchiudendo
gli occhi lucidi. L’aria che respirava a fatica a causa del
nodo che le ostruiva la gola era impregnata dell’odore
dell’addio, per questo se ne infischiò di essere
vista e lo abbracciò, lo strinse forte a sé
nascondendo il viso nel suo petto.
«Ci rivedremo, te lo
prometto», le sussurrò fra i capelli,
mentre glieli accarezzava..
«Ti aspetto,
allora».
Franky la guardò di
nuovo negli occhi e le sorrise teneramente, posando le labbra sulla sua
fronte, sempre tenendola fra le sue braccia. Respirò
profondamente, per imprimersi ancora meglio il suo profumo nella mente,
e mormorò: «Non lo avrei mai immaginato».
«Cosa?».
«Che sarei riuscito ad
amare un’altra più di quanto ho amato Zoe. Ti amo,
Evelyn». Le soffiò sul viso e quando lei
aprì gli occhi si trovò sola nel corridoio
d’ospedale, avvolta ancora dalla sensazione di essere fra le
sue braccia, immersa nel suo profumo.
Avrebbe voluto scoppiare a piangere in quel momento, ma si trattenne.
Frenò il suo cuore, fece violenza al suo stomaco,
scacciò le vertigini dalla testa. Aveva una missione da
compiere, una per la quale valeva la pena persino di dire addio al
ragazzo che amava nel più profondo dell’anima.
***
Franky si fermò di
fronte alla camera della sua migliore amica. Pensò ancora
una volta ad Evelyn, ferma lì come lui – solo da
un’altra parte – ad aspettare che fosse il momento
giusto per incominciare ad agire in sincronia.
Guardò
l’orologio appeso infondo al corridoio e per caso, abbassando
lo sguardo, vide un uomo camminare verso di lui con le mani nelle
tasche dei jeans e un cappellino calato sul viso. Il cuore
iniziò a martellargli nel petto, riconoscendolo, e gli diede
le spalle.
No, non era ancora pronto, non voleva parlargli in quel momento, la sua
mente non era pronta…
«Franky».
All’udire il suo nome
pronunciato dalla voce di quello che sarebbe dovuto essere suo padre,
irrigidì i muscoli del collo e il dolore tornò ad
impadronirsi del suo cuore. Quando invece sentì la sua mano
posarsi sulla sua spalla e stringere, la rabbia lo montò,
nonostante le lacrime che gli rigavano il viso.
«Che cosa vuoi da
me?!», strepitò, rosso in viso.
L’uomo lo
guardò con uno strano sorriso compassionevole: si aspettava
quella reazione, era la stessa che avrebbe avuto lui se si fossero
invertiti i ruoli…
«Voglio raccontarti quello che è
successo», rispose in tono pacato.
«So benissimo che
cos’è successo! Hai messo incinta mamma e
l’hai lasciata, non hai mai voluto vedermi! Nemmeno una
volta!».
Il serafino in borghese chiuse gli
occhi ed aggiunse: «Quello che è successo veramente».
Franky lo guardò con
espressione frustrata, ma anche confusa. Che cosa voleva dire? Lo
sguardo gli cadde sull’orologio alle sue spalle e si
asciugò le lacrime, si ricompose e disse: «Adesso
ho da fare». Gli diede le spalle ed entrò nella
camera della sua protetta; l’uomo non lo fermò.
Era un po’ scosso e nella sua testa vorticavano milioni di
pensieri, ma si sforzò per riuscire comunque a concentrarsi
sulla sua missione. Sorrise ad una Zoe pallida in volto e debolissima,
che non fu in grado nemmeno di ricambiare decentemente.
«Ti ho sentito
gridare», gracchiò, chiudendo gli occhi a causa
dello sforzo.
«Non ti preoccupare,
piccola. Non è a me ora che dobbiamo pensare, ma a
te».
Evelyn, scattata l’ora X,
era entrata nella camera della madre e si era seduta al suo capezzale,
prendendole una mano fra le sue e portandosela alle labbra.
«Mamma», le
sussurrò, posandole teneri baci sulle nocche.
«Mamma cara, non pensi che sia ora di tornare da me e da
papà?».
Quando Franky vide lo spirito della
sua protetta irrigidirsi, compresa la sua mano fra le sue, senza
nemmeno leggerle nel pensiero capì che Evelyn aveva iniziato
a parlarle. Fino ad allora, tutto stava andando per il verso giusto.
Allora disse, anche se incerto:
«È arrivato il momento, Zoe… io lo
sento: devi tornare da loro, ora o mai più».
Zoe aprì gli occhi
arrossati, nonostante facesse terribilmente fatica, e vide la figura
della sua piccola Evelyn – quello che stava sentendo il suo
corpo – seduta proprio lì dove c’era
Franky: i loro visi si sovrapposero e vide la stessa luce nei loro
occhi, persino gli stessi sorrisi appena accennati. Le bastò
quello per trovare finalmente un senso a molte cose che fino a quel
momento non le erano state chiare.
«Tu la ami?»,
domandò all’angelo custode, ritrovando parte della
sua bella voce e della sua forza.
Franky rimase un poco sconvolto da
quella domanda ed ebbe persino paura di rispondere, ma si rese conto
che era inutile mentirle ancora: se tutto fosse andato secondo il piano
presto non avrebbe ricordato più nulla e lui si sarebbe, in
parte, levato un peso dal cuore.
Perciò sorrise candidamente ed annuì, mormorando:
«Da morire. E lei ama me».
Zoe sorrise, si lasciò
andare ad una risatina fra le lacrime. All’improvviso si
bloccò ed esalò l’ultimo respiro della
sua vita da passante nel Paradiso; Franky si sporse su di lei, la
guardò negli occhi prima che questi si chiudessero e le
posò un bacio sulla fronte.
Il suo spirito scomparve, il suo letto rimase vuoto, e Franky chiuse
gli occhi soddisfatto, col petto colmo di gioia, ma presto dovette
portarsi una mano su quello stesso petto, con gli occhi sgranati e il
respiro corto. Come scosso dalle convulsioni, stramazzò sul
letto vuoto di fronte a sé.
***
Zoe iniziò a riprendere
conoscenza lentamente. Si sentiva intorpidita, non sapeva
dov’era né che giorno fosse. All’inizio
sentì solo quel bip
fastidioso che le martellava nella testa, poi, pian piano,
riuscì a percepire anche tutto il resto, tra cui anche la
mano che stringeva forte la sua.
«Franky…»,
gracchiò d’istinto, non riuscendo ancora a
sollevare le palpebre.
«Mamma…
Mamma!», esclamò invece un’altra voce,
femminile, che riconobbe subito come quella di sua figlia.
Sentì la sua fronte posarsi nell’incavo della sua
spalla nuda, incastonandosi perfettamente, e sulla sua pelle iniziarono
a cadere le lacrime di Evelyn a calde gocce.
Zoe non capiva, davvero non
riusciva a capire nulla di ciò che stesse succedendo, ma una
cosa era certa: doveva essere accaduto qualcosa a Franky, lo sentiva
nelle vene, nel cuore… nell’anima.
Quando arrivarono i medici per
controllare i suoi parametri vitali, Evelyn venne mandata un attimo
fuori dalla stanza. Probabilmente l’ospedale aveva
già chiamato suo padre per avvertirlo, ma voleva farlo anche
lei: voleva dirglielo di persona, liberare tutta la sua gioia, urlargli
che lei e Franky ce l’avevano fatta, che il suo piano aveva
funzionato… Così tirò fuori il
cellulare, mentre si asciugava il viso dalle lacrime e tirava su col
naso, ma non riuscì a fare quella chiamata,
perché una ragazza dai capelli biondi e gli occhi
trasparenti l’afferrò per un braccio e se la
trascinò dietro lungo il corridoio.
Evelyn la guardò
sbigottita, era certa di non averla mai vista prima, ma non aveva paura
di lei, né di dove aveva intenzione di portarla e
né di cosa volesse farle. Semplicemente si lasciò
condurre da lei fino al bagno, sulla cui porta c’era scritto
“Guasto”, e all’interno vide altre cinque
persone, quattro ragazzi ed una… ragazza-farfalla. Che cosa
volevano da lei?
Quello che sembrava proprio il capo
del gruppo, un ragazzo grande e grosso con i riccioli biondi, si
voltò verso la ragazza-farfalla e le domandò:
«Sei sicura che sia lei?».
«Sì!
Sì che sono sicura!», strepitò la
piccoletta, indicandola con un dito. «Riesco a percepire il
pezzo d’anima di Sole dentro di lei!».
Evelyn quella volta non rimase
zitta e disse: «L’anima di chi?
Scusate, potete spiegarmi quello che volete?».
L’altra ragazza, quella
bionda e bellissima che l’aveva portata lì, le
sorrise dolcemente. «Tu lo conosci come Franky».
Il cuore di Evelyn fece una
capriola sentendo il suo nome. «Che cosa gli è
successo?», chiese nervosamente, preoccupata fino
all’inverosimile.
Era così contenta che sua madre si fosse risvegliata dopo
così tanti mesi di coma, perché qualcosa doveva
rovinare per forza quel momento?
«Franky sta male. Molto
male», le spiegò con voce cauta.
«Sappiamo che tu hai un pezzo della sua anima dentro di te.
Ne abbiamo bisogno. Franky ne ha bisogno. La sua anima non
reggerà ancora a lungo».
Evelyn si portò le mani
sul cuore, istintivamente, ed abbassò il viso. Lei aveva un
pezzo di Franky dentro di sé… Ora capiva molte
cose. Quella sarebbe stata l’unica cosa di Franky che non
l’avrebbe mai abbandonata, sempre se non l’avesse
ceduta… Poteva essere così egoista da tenersi un
pezzo di lui dentro di sé, piuttosto che salvargli la vita?
Il ragazzo dalla carnagione scura e
gli occhi neri si avvicinò a lei e la prese per le spalle,
la scrollò con forza. «Allora, ti muovi o no?!
Franky sta rischiando la sua vita!».
La ragazza-farfalla
agitò confusamente le ali e lo spinse via, anche se con un
po’ di fatica; poi guardò intensamente gli occhi
lucidi di Evelyn, che tremava sotto le sue piccole mani. «Non
lo faresti mai, tu non sei così», le
sussurrò ad un palmo dal suo viso.
«L’abbiamo chiesta a te per dei motivi ben precisi:
non ce la sentiamo di prendere i pezzi dell’anima che lui ha
dato a tua madre, non sappiamo se lei riuscirebbe a sopravvivere senza
e poi… il tuo è il più importante,
quello che ha donato a te è quello più forte di
lui e non a caso si trova qui, dove tu hai appoggiato le
mani».
Evelyn si guardò il
petto, sentì il suo cuore battere, e capì che era
arrivato il momento di dare indietro a Franky tutto ciò che
lui le aveva donato. Era arrivato il momento di ringraziarlo, di
ricompensarlo, di amarlo ancora di più rinunciando alla cosa
a cui teneva di più al mondo.
«Sempre se non
è troppo tardi», mugugnò un ragazzo
allampanato, rimasto in disparte fino a quel momento.
«Non può
essere troppo tardi», negò con la testa la
ragazza-farfalla, decisa.
«Inge, lo sai benissimo
che l’anima di Evelyn potrebbe aver già inglobato
dentro di sé il pezzo di quella di Franky».
Evelyn incontrò lo
sguardo disperato della ragazza-farfalla che si chiamava Inge ed
annuì, prendendole una mano e posandosela sul petto
delicatamente. Inge chiuse gli occhi, Evelyn fece lo stesso e
lentamente sentì qualcosa di freddo, quel freddo che non
sentiva da un po’ dentro di lei, uscirle dal petto. Fece
male, forse anche perché come aveva detto prima quel
ragazzo, la sua anima aveva già iniziato ad unirsi a quella
di Franky, ma non importava: quanto aveva sofferto Franky per lei?
Quanto avevano sofferto insieme? Quello a confronto non era niente.
«Ci siamo
quasi», soffiò Inge. «Zeus,
preparati».
Il capo dai riccioli biondi la
affiancò ed aprì uno speciale contenitore di
metallo, raffreddato all’interno. «Io sono
pronto».
Evelyn sentì
l’anima di Franky staccarsi definitivamente dalla sua con uno
strappo e il dolore che provò le fece cedere le ginocchia,
tanto che cadde a carponi sul pavimento.
«Evelyn»,
esclamò la ragazza bionda premurosa, mentre si piegava al
suo fianco per controllare che stesse bene. Ma non stava bene, no.
Evelyn li sentiva parlare di velocità, di rischi, del filo
sottile a cui era legata la vita di Franky.
«Muoviamoci,
andiamo!», gridò Inge, scomparendo con i suoi
compagni. La ragazza bionda, invece, le prese le spalle fra le mani e
dopo averla guardata per qualche secondo negli occhi,
l’abbracciò. «Sii forte,
piccina».
«Afrodite,
sbrigati!», la rimproverò il ragazzo che poco
prima l’aveva scossa con quel suo modo di fare brusco.
Afrodite le sorrise ancora e
bisbigliò un «Grazie» prima di sparire
di fronte a lei col suo compagno.
Evelyn si strinse un pugno sul
petto e soffocò un singhiozzo, abbassando il capo. Poi si
appoggiò con le spalle al muro e scoppiò
definitivamente a piangere, stringendosi le ginocchia con le braccia.
___________________________________
Buon penultimo capitolo a tutti!
Ebbene sì, questo è il penultimo capitolo
ç_ç Il prossimo sarà l'epilogo e
dovremo ancora dirci "addio"! (Ma sapete che con me non è
mai un addio certo e definitivo xD).
Intanto spero che questo capitolo vi sia piaciuto come piace a me *-*
Sono saltate fuori tante cose...
spero che si siano capite tutte ;)
La canzone che ho usato è la bellissima Love's been good to me
di David Hodges (cantante dei Trading Yesterday)!
Un grazie enorme a chi ha recensito
lo scorso capitolo <3 ma anche a chi ha letto soltanto!!
Un bacio a tutti, alla prossima! Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 23 *** Epilogo - All this time, we were waiting for each other ***
23.
Epilogo - All this time, we were waiting for each other
Put the
past away, save it for a sunny day
Right now there's nothing I can do, except stare right back at you
Put the future aside, I'll try my best to make it right
Right now it just seems so obscene to picture you without me
La folla si alzò in
piedi protestando l’atterraggio di un giocatore della squadra
ospitante da parte di un avversario. Tra i tifosi spiccava una figura
che faceva di tutto pur di farsi sentire dall’arbitro e far
valere la propria opinione.
«È rigore!
Arbitro, non scherziamo, è rigore netto!».
La donna al suo fianco guardava
preoccupata il ragazzo ancora steso a terra che si stringeva il
ginocchio al petto. Lentamente il suo sguardo si posò sul
ragazzo biondo con la fascia di capitano stretta intorno al braccio,
compagno di squadra di quello steso nell’area di rigore.
«E se capitava ad
Arthur?», domandò con un nodo in gola.
«Oh, Linda! Smettila di
preoccuparti per così poco! Guarda, guarda, finalmente
quell’idiota gli ha dato il rigore!».
L’arbitro lo
sentì e gli rivolse uno sguardo fulminante, facendogli segno
che al prossimo richiamo lo avrebbe cacciato al bar
dell’impianto sportivo. Tom sbuffò sonoramente,
roteando gli occhi al cielo, ed affondò le mani nelle tasche.
In campo, intanto, sotto
la pioggerella sottile che aveva accompagnato parte del primo tempo e
continuava tutt’ora nel secondo,
erano intervenuti dei paramedici che stavano portando via in barella il
giocatore a cui era stato fatto il fallo. Arthur fece un pezzo di
strada con loro, parlando col suo migliore amico: «Vedrai che
non è nulla di grave, una settimana al massimo e torni a
giocare».
«Non lo so, amico, questa
volta mi sa che me ne starò fermo per un bel
po’…», disse con una maschera di dolore
dipinta in viso. «Quello ci è andato
giù proprio pesante».
«Adesso ci penso io a
lui», gli promise, dandogli un pugnetto sulla spalla e
sorridendo.
L’amico
ricambiò: «Segna per me, capitano».
«Ci puoi
contare».
Guardò i paramedici
trasportare il suo centravanti migliore sull’ambulanza e
tornò in campo passando accanto alle tribune, su cui
riconobbe i suoi genitori. Sua madre, con entrambe le mani posate sul
petto, gli chiese urlando: «Si è fatto tanto
male?». Arthur ridacchiò e la rassicurò
scuotendo il capo e sventolando una mano.
Vide anche un ragazzo dagli occhi
verdi, appoggiato con le braccia alle transenne che circoscrivevano il
campo. Il suo sorriso era una curva appena accennata sulle labbra, ma
era qualcosa di spettacolare. Arthur si bloccò sul posto e
lo guardò incantato, mentre qualcosa gli pungolava il cuore.
Appena si accorse che suo padre
stava cercando di capire chi fissasse, si affettò a tornare
dai suoi compagni che lo aspettavano nei pressi dell’area
avversaria. Gli porsero il pallone e gli sorrisero
incoraggianti, negli occhi la luce che solo i compagni di
squadra possono avere per il proprio amato capitano. Si fidavano di
lui, credevano in lui, non poteva sbagliare. Non poteva farlo anche per
il suo migliore amico e per Reja, la bambina che l’aveva
spronato a giocare a calcio per la prima volta, quando aveva appena
quattro anni, e che aveva continuato ad incoraggiarlo fino a quando non
l’aveva lasciato, all’età di nove anni.
Dentro di lui, però, aveva continuato a vivere e aveva
dedicato a lei ogni suo goal.
Posizionò il pallone
sull’erba e si portò le mani sui fianchi guardando
di fronte a sé il rettangolo della porta e il portiere della
squadra avversaria che avrebbe fatto del suo meglio per non farlo
segnare.
Socchiuse gli occhi e
respirò profondamente per trovare la concentrazione
necessaria per riuscire nel suo intento. Fu allora che sentì
la voce che più e più volte lo aveva guidato a
fare le scelte migliori sussurrargli nel vento: «Incrocio dei
pali alla sinistra del portiere».
L’arbitro
fischiò. Arthur sorrise, aprì gli occhi e dopo
una breve rincorsa calciò una bomba di sinistro che
andò a finire proprio a quell’incrocio
dei pali. Il portiere si era gettato dalla parte opposta e quando
Arthur fu sommerso dai suoi compagni di squadra urlanti ed esaltati,
rimase lì sdraiato a guardarli festeggiare, frustrato.
Anche la folla sulle tribune, che
aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, quando
realizzò che la loro squadra si era appena portata in
vantaggio scoppiò in un boato pieno di gioia.
Tom iniziò a saltare, gridando
contro il cielo azzurro che si intravedeva dietro un banco di nuvole
bianche che iniziavano a diradarsi per far spazio ai raggi del sole e
ad un arcobaleno, e dopo
qualche secondò trascinò nei suoi festeggiamenti
anche Linda, che baciò impetuosamente.
Arthur, steso sull’erba
sotto i suoi compagni che lo abbracciavano e gli gridavano nelle
orecchie che era il “miglior capitano del mondo”,
guardava quello spicchio di cielo terso
rischiarato dalla luce del sole che
riusciva a vedere oltre le teste dei suoi amici e sorrideva felice e
allo stesso tempo commosso.
Si sollevò, ricordandosi del ragazzo dagli occhi verdi che
l’aveva colpito nel profondo, ma non c’era
più. In compenso, vide suo padre saltare giù
dalle tribune e dirigersi verso l’uscita del campo sportivo.
Tom aveva notato lo sguardo che suo
figlio aveva rivolto a quel ragazzo e non ne era rimasto indifferente,
a dirla tutta, ma si era subito concentrato sul rigore. Dopo, quando
aveva finito di esultare, aveva subito riportato gli occhi su quello
sconosciuto, non trovandolo più. Allora era sceso dalle
tribune e l’aveva visto uscire dal centro sportivo.
Dopo una breve ricorsa –
che però gli procurò ugualmente un po’
di fiatone – lo raggiunse e lo costrinse a fermarsi
prendendogli il braccio. Il ragazzo si girò e lo
guardò negli occhi senza tirarsi indietro; si
lasciò andare persino ad un sorriso, quando gli
domandò: «Ci conosciamo?».
Tom, talmente sbigottito dalla
somiglianza spaventosa che quel giovane uomo aveva con Franky, aveva
persino creduto che fosse lui. Persino la voce era simile, solo un
po’ più profonda. Eppure… Non riusciva
a capire. Un velo di delusione gli ombreggiò gli occhi e
lasciò andare il ragazzo, abbassando il capo e scusandosi.
«Mi… mi ricordavi una persona che
conosco».
«E non la vede da
molto?».
«Sì, sono
passati già dodici anni dall’ultima
volta».
Il ragazzo sospirò e gli
diede una pacca di conforto sul petto. «Persone che stanno
via così a lungo alla fine sono sempre quelle più
vicine, nel cuore e nella mente».
Tom, colpito da quelle parole
così... da Franky,
alzò lo sguardo, ma del ragazzo non vi era più
traccia.
***
Zoe si portò davanti
alle vetrate del salotto che davano sul giardino, sui suoi fiori appena
sbocciati, e soffiò sul contenuto caldo della sua tazza.
«Dodici anni»,
mormorò. «Mi sono svegliata dal coma da dodici
anni e Franky non si è mai fatto vivo una volta.
È pazzesco».
«Già».
«A volte mi chiedo se non
gli sia successo qualcosa».
«Appena ho visto che
stavi bene, me ne sono andato. Non c’era motivo per cui
restassi ancora».
«Esatto! Direbbe proprio
così, il mio Franky…»,
sospirò sorridente e all’improvviso si
sentì stringere da dietro, dolcemente, in un abbraccio
carico di affetto.
«Io sono sempre con
te».
«Lo so, lo so…
Solo che a volte mi manca così tanto…».
Le soffiò un bacio sulla
tempia e rise piano. All’udire quella risata, Zoe
sgranò gli occhi e si voltò, ma non vide nessuno
in salotto.
Bill uscì dalla cucina
e, vedendola così scossa, si avvicinò.
«Tutto bene, amore? Ti ho sentita… con chi
parlavi?».
La donna si voltò di
nuovo verso le vetrate ed alzò lo sguardo verso il
cielo che si stava riaprendo dopo la pioggia.
«Parlavo tra me e me».
***
I haven't seen the sun in seven days
I can't remember when I saw your face
But I still believe that you led me through the wilderness
And you have not forgotten me through all of this
Scese dall’aereo dopo
tutti i passeggeri ed insieme alla sua amica camminò lungo i
corridoi ormai deserti che portavano ai gate e quindi anche
all’uscita. Il suono dei loro passi, intensificato dai tacchi
che portavano, era l’unico udibile in quella che non era
ancora la zona più confusionaria e popolata
dell’aeroporto.
L’hostess con cui si era
trovata a fare più e più viaggi e con la quale
ormai aveva legato particolarmente, disse, nel suo francese perfetto:
«Che programmi hai qui ad Amburgo?».
«Starò dai
miei genitori, è da tanto che non li vedo».
«Oh, è vero
che tu sei di qui! Magari quando hai un momento libero potremmo
vederci, ti va?».
«Sì,
perché no?», sorrise.
«Mi piacerebbe tanto
vedere quel nuovo film… quello degli angeli e dei
demoni!».
Evelyn arricciò il naso.
«Ah… sì, l’ho sentito
nominare».
«Non ti piace il
genere?», chiese indispettita l’amica, notando il
cambiamento della sua espressione.
«Non molto, sono un sacco
di cavolate».
Arrivarono al check-out e
mostrarono i loro passaporti, poi trascinarono i loro trolley nella
grande sala, affollata da uomini d’affari e da turisti appena
sbarcati oppure che aspettavano di partire.
«Pensavo che credessi
negli angeli», esclamò la sua amica.
«Ci credo, infatti. Penso
soltanto che nei libri e nei film, soprattutto, non vengano
rappresentati bene».
«Uhm,
sarà!», sollevò le spalle, con un
sorriso solare sul viso. «Comunque fammi sapere,
okay?».
«Certo! Ciao!».
La guardò allontanarsi e non molto tempo dopo fu inghiottita
dalla folla.
Come tutte le volte che si
ritrovava da sola con i suoi pensieri, il cuore le si strinse in una
debole morsa che però lei notava benissimo: lo sentiva teso,
schiacciato, separato da ciò che lo avrebbe reso completo.
Evitò di trastullarsi ancora in quei sentimenti e si
gettò un’occhiata intorno per scorgere i volti del
suo papà e della sua mamma. Da quando aveva iniziato a fare
l’hostess li vedeva sempre meno, complice il fatto che aveva
deciso di comprarsi un appartamento nella sua amata Ottawa. Se
n’era innamorata durante uno dei suoi continui viaggi: a
causa della neve erano stati cancellati tutti i voli ed aveva trascorso
lì tre giorni, che le erano bastati per capire che quello
era il suo posto.
Non li vide, forse non erano ancora
arrivati, ma in compenso incrociò lo sguardo di un ragazzo
che le fece dimenticare dove fosse, perché e persino come si
chiamasse. Quegli occhi, quel sorriso…
Non doveva avere più della sua età, aveva i
capelli neri spettinati sulla testa ed un accenno di barba sulle
guance; era molto affascinante e il sorriso tenero che le rivolgeva,
con quello sguardo intenso, le fece subito capire che, impossibile o
meno, lui era il suo Franky, l’angelo che amava perdutamente
e che non vedeva da ben dodici anni.
Come quella volta nel campo di
girasoli, poco prima del loro addio, si avvicinarono l’uno
all’altra senza nemmeno rendersene conto, ma in perfetta
sincronia, fino a quando non si trovarono a pochi millimetri di
distanza. Evelyn sollevò incerta le mani, trovandole
tremanti come le sue labbra e i suoi occhi che a stento trattenevano le
lacrime, e gliele posò sulle guance. Lo sentì
consistente, fatto di carne ed ossa sotto le sue dita, e chiuse gli
occhi, gettandosi fra le sue braccia e lasciandosi stringere forte da
lui.
Sognava quel momento da anni, si
era preparata tutto un discorso da fargli, ma ora le uniche cose
importanti erano il suo cuore che batteva contro il proprio, il suo
respiro fra i capelli, il suo profumo, le sue braccia che la tenevano
stretta al suo petto. Era tutto così bello che era
impossibile che fosse vero, aveva paura di riaprire gli occhi e di
vedere la gente intorno a sé che la guardava abbracciare il
vuoto come si guarda una pazza. Aveva paura di non vedere
più Franky e di non sentire più il suo corpo
contro di lei. Per questo ogni secondo che passava lo stringeva
più forte, sempre di più.
«Evelyn, sono
qui», le sussurrò all’orecchio con la
sua voce cresciuta, maturata, ma pur sempre bellissima.
«Ti ho aspettato per
così tanto tempo…».
«Ed ora sono
qui».
Because the pain defining me, is holding
me lifeless
So I am waiting patiently for you to change my name
Ci volle ancora un po’
prima che lei se ne convincesse del tutto e riuscisse a guardarlo
un’altra volta in viso.
«Ogni volta che ti vedo
sei sempre più bella», mormorò
accarezzandole i capelli con entrambe le mani, posandole poi sui lati
della sua mandibola. «E i tuoi occhi continuano a prendere
sempre di più il colore del cielo».
«Chissà, a
furia di guardarlo…», rispose, abbassandoli come
se se ne vergognasse.
Franky scosse docilmente il capo e
con un sorriso impacciato le chiese: «Ti va ti andare a bere
qualcosa?».
La ragazza allora
ridacchiò e rispose affettuosamente, cacciando il dispiacere
solo nei suoi occhi: «I miei genitori dovrebbero arrivare da
un momento all’altro…».
«Ho già
pensato io a loro».
Evelyn lo guardò
aggrottando le sopracciglia e lui ammiccò, prendendola per
un fianco ed invitandola a camminare stretta a lui.
***
Guardò Zoe, seduta al
suo fianco, e le avvolse le spalle con un braccio. Le
massaggiò una spalla e posò la guancia alla sua
testa.
Anche lei ricambiò lo
sguardo e disse: «Qualcosa non va?».
«Ho come la sensazione
che ci siamo dimenticati qualcosa».
La donna ci rifletté su,
poi sorrise e gli prese il viso fra le mani per baciarlo sulla bocca.
«Forse non era così importante».
Bill sorrise ed annuì,
contraccambiando al bacio con una mano sul suo collo candido.
***
Quando la sua protetta si era
finalmente risvegliata dal coma Franky aveva sofferto, o meglio, la sua
anima aveva sofferto la lontananza di tutti quei pezzi. Mentre lo
spirito di Zoe era in Paradiso ne aveva risentito di meno, ma quando
era tornato sulla Terra… si era sentito male, tanto da
costringere i suoi amici e colleghi di lavoro a scendere di sotto e a
recuperare il pezzo fondamentale della sua anima, quello che aveva
donato inconsciamente ad Evelyn quando avevano fatto l’amore.
Erano riusciti a reimpiantare quel
pezzo di anima nel suo corpo e da allora aveva smesso di soffrire in
tutti i sensi, perché in quel modo era anche riuscito ad
allontanarsi ancora di più dalla ragazza che amava e che
fino ad un momento ben preciso non avrebbe potuto mai avere.
«Quindi adesso sei un
arcangelo», riprese lei, ancora un po’ sorpresa.
«Wow, è… fantastico, Franky. Certo, non
so con precisione quanto, ma… sei felice?».
«Abbastanza»,
sorrise annuendo. «Comunque anche tu hai trovato il lavoro
perfetto per te».
«È per la
divisa, vero?», roteò gli occhi al cielo.
«Non pensavo che anche tu potessi dire una cosa del genere,
è così frivola!».
L’arcangelo rise,
stringendole una mano sul tavolo, di fianco alla tazza di
caffè di Evelyn. «Non parlavo della divisa, anche
se ammetto che fa un certo effetto su di te»,
sollevò ancora le sopracciglia, in quel modo ammiccante e un
po’ provocatorio, ma poi tornò serio:
«Parlavo del fatto che hai scelto di volare».
«Un modo come un altro
per sentirti più vicino», abbassò lo
sguardo, leggermente imbarazzata, ed accarezzò col pollice
il dorso della mano di Franky. Dopo un po’, notando il suo
sguardo tenero ancora fisso su di lei, sorrise maliziosa: «E
poi pensavo che magari avevo più opportunità di
fare un incidente, lavorando sempre sugli aerei, e che tu saresti
venuto a salvarmi».
«Dici sul
serio?».
Evelyn sollevò lo
sguardo, colpita dall’improvvisa serietà nella sua
voce, e si accorse della preoccupazione e dello scetticismo che
aleggiavano nei suoi occhi. «Ma no! Stavo
scherzando!», rise, sinceramente divertita. «Ci hai
creduto veramente?».
«Beh, conoscendo tua
madre…».
«Perché, che
ha fatto mia madre?».
Franky scosse il capo,
ridacchiando. «Una volta, da ragazzina, è uscita
di casa col proposito di ficcarsi nei guai, in modo tale che io
corressi a salvarla, solo per vedermi. Ha rischiato molto e, sai, avevo
timore che fosse una cosa genetica».
Evelyn sorrise, anche se colpita
nel profondo. «Qualcosa di genetico deve pur
esserci».
«Come?», chiese
sbigottito.
«Ti sei innamorato sia di
mia mamma che di me; qualcosa di genetico deve pur esserci».
Franky sollevò lo
sguardo e si portò una mano sul mento, meditabondo.
«Può essere… Da piccolo la prima volta
che ho visto la madre di Zoe me ne sono innamorato».
Quella volta fu Evelyn, sconvolta,
ad esclamare con tanto d’occhi: «Dici sul serio?».
L’arcangelo la
guardò per qualche secondo in silenzio, come se non fosse
mai stato più serio in vita sua, però non
resistette a lungo e scoppiò a ridere, contagiando Evelyn e
facendole trarre un sospiro di sollievo: non sapeva come avrebbe
reagito, se Franky fosse stato davvero attratto da sua nonna.
«Visto che siamo in
tema», incominciò l’arcangelo,
«Martin? Nel senso, voi…?».
Non ci fu bisogno che Franky
continuasse, Evelyn aveva capito a cosa si riferiva e rispose, con un
antico dispiacere nella voce: «No, non stiamo più
insieme. E' durata due anni, poi ci siamo lasciati. Abbiamo capito
entrambi che non c’erano speranze per noi, non eravamo fatti
l’uno per l’altra».
«Ho capito»,
mormorò. «E ci sono stati altri, dopo di
lui?».
«Storie brevi, di poco
conto», sventolò la mano, come a scacciare una
mosca fastidiosa – i ricordi delle persone che a volte aveva
usato, nelle quali aveva continuato a cercare qualcosa di Franky, non
trovandolo. «Tu, invece?».
Franky sgranò gli occhi,
indicandosi. Non si aspettava che Evelyn gli rivolgesse la stessa
domanda, forse perché non si aspettava che un giorno avrebbe
dovuto confessarle che anche lui aveva avuto diverse storielle, prive
di significato. A qualche ragazza aveva pure voluto bene, gli era anche
dispiaciuto troncare con loro, ma era stato un dispiacere superficiale,
creato soltanto dalle lacrime che aveva visto sui loro visi. Le ragazze
si innamoravano di lui, lui gli voleva bene, ma non le amava. Non
sarebbe mai stato in grado di amarle.
«Anche io come
te», rispose, schiarendosi la voce.
Forget
everyone else, I've tried to convince myself
That it was only time we lost, but I'm not as strong as I thought
Forget who we've been with, the thought just makes me sick
Forget our year apart, this is where we are
«Da quando ho iniziato a
lavorare a tempo pieno come arcangelo non ho molto tempo per le donne,
le uniche che vedo regolarmente sono Afrodite e Inge, le mie compagne
di lavoro; e poi Kim, ovviamente…».
«Kim», Evelyn
ridacchiò. «Poverina, prima che mi salvasse la
vita da quel demone la odiavo davvero tanto, ero gelosissima».
«Sì, mi
ricordo. Adesso sta con Raphael, un angelo poliziotto, il suo migliore
amico. È una storia un po’ lunga da spiegare, ma
io ero certo che quei due si sarebbero ritrovati, un giorno».
«Lei è
felice?».
«Sì, molto. Ha
finalmente trovato la pace, qualcuno che le permettesse di dimenticarsi
del suo amore terreno».
Evelyn abbassò lo
sguardo, pensando che forse, un giorno, anche Franky avrebbe trovato
qualcuno che gli avrebbe fatto dimenticare lei; nel suo caso, invece,
una persona del genere non esisteva: l’arcangelo sarebbe
sempre stato l’amore della sua vita, quello irraggiungibile;
avrebbe potuto amare qualcun altro, ma mai come aveva amato ed amava
lui.
«Evelyn…».
Sollevò gli occhi ed
incontrò i suoi, bellissimi e traboccanti d’amore.
Franky le prese la mano, se l’avvicinò alla bocca
e ne baciò le nocche, facendola rabbrividire.
«Non devi aver paura,
perché nemmeno io riuscirei ad amare qualcun’altra
come amo te. Capiterà sicuramente, che uno di noi due
troverà una persona che ci vorrà bene per quello
che siamo e noi vorremo bene a quella persona, ma non devi averne
paura: ama, ama e basta».
***
Zoe, accoccolata contro il petto
caldo di Bill, fece una smorfia quando il telefono posato sul suo
comodino incominciò a trillare. Odiava quando qualcuno,
chiunque fosse, rompesse il magico equilibrio dei sensi che si creava
dentro di lei dopo aver fatto l’amore con l’uomo
che amava.
Lo sentì ridacchiare, mentre si girava e si metteva seduta
con la schiena contro la spalliera del letto, il lenzuolo tenuto sul
petto nudo, per rispondere alla chiamata.
«Tom, che cosa
vuoi?», berciò irritata.
«Ciao Zoe, anche io sono
contento di sentirti. Ascolta, è successa una cosa strana
prima, alla partita. A proposito, hanno vinto, Arthur ha anche segnato
un rigore!».
«Bene, sono
contenta».
«Sì infatti,
posso percepire la tua gioia da qui. Comunque, ti dicevo, è
successa una cosa strana. C’era un ragazzo a vedere la
partita e somigliava tremendamente a Franky… Aveva qualche
anno in più, ma aveva i suoi stessi
occhi…».
Zoe, fattasi improvvisamente
più attenta, ripensò a quella mattina, al dialogo
che aveva intrattenuto con una persona che aveva scambiato come la voce
della sua coscienza. «E poi cos’è
successo?», gli chiese.
«Nulla, io sono andato da
lui, l’ho fermato, ma sembrava che non mi conoscesse, anche
se poi ha sparato una di quelle frasi tanto da Franky. Un minuto dopo
non c’era più».
Il cuore ormai le batteva forte nel
petto, alla speranza che forse avrebbe rivisto il suo Franky dopo ben
dodici anni. Voleva ringraziarlo per averla salvata e per quello che
sicuramente aveva fatto durante il suo lungo periodo di coma. Non
ricordava quasi nulla, ma le poche cose che ricordava erano
direttamente legate a lui; a volte non avevano senso, ma era bello
pensare che lui non l’aveva abbandonata un attimo e si era
preso cura di lei per tutto quel tempo, fino a quando non si era
risvegliata.
«Ma scusa,
Zoe…», interruppe i suoi pensieri Tom.
«Dove siete?».
«A casa,
perché?».
«Oggi non doveva mica
arrivare Evelyn? Non dovevate andare a prenderla
all’aeroporto?».
Zoe sgranò gli occhi e
guardò Bill al suo fianco, che a sua volta la
guardò preoccupato. «Evelyn… Ci siamo
dimenticati di Evelyn!».
Bill si tolse di dosso le coperte
in fretta e furia ed incominciò a rivestirsi.
«Menomale che forse non era così
importante!».
***
Tom chiuse la chiamata e scosse il
capo, mentre si grattava la nuca. Non poteva smettere di pensare a
quello strano ragazzo: possibile che fosse davvero Franky?
Decise di andarsi a fumare una
sigaretta per liberarsi un po’ la mente. Si alzò
dal divano, prese il suo giubbino e cercò nelle tasche il
pacchetto di sigarette e l’accendino. Controllò
nelle tasche laterali, dove gettava sempre tutto, ma trovò
soltanto l’accendino.
Spazientito ed arrabbiato,
biascicò: «Se Arthur l’ha fatto di nuovo
giuro che questa volta non la passa liscia», ricordandosi
della volta in cui il figlio gli aveva fregato le sigarette per
fumarsele fuori con gli amici.
Provò a cercare comunque
nelle altre tasche, facendo del suo meglio per mantenere la calma,
quando trovò un pacchetto nella tasca interna. Era
già pronto ad esultare, ma qualcosa lo fermò:
quel pacchetto era nuovo.
Era certo di averne fumato quasi metà, quel pomeriggio alla
partita, e di non averne comprato un altro, quindi… da dove
arrivava?
Nella stessa tasca in cui aveva
trovato il pacchetto misterioso, trovò anche un paio di
fogli piegati in quattro. Li aprì, col cuore già
in tumulto, e sgranò gli occhi di stupore quando vide
scarabocchiato uno spartito, con sopra il titolo: “Sogni
d’oro, Thomas”. Come un flash, gli venne in mente
quando quello strano ragazzo gli aveva dato quella pacca di conforto
proprio sul petto, in corrispondenza a dove c’era la tasca in
questione. Guardò sia gli spartiti che il pacchetto di
sigarette e, soffermandosi su quest’ultimo, si
ricordò anche di quando Franky gli aveva rubato e finito un
intero pacchetto. Che cosa gli aveva detto quella volta? «Mi
devi un pacchetto di sigarette».
Corse nel suo studio, si chiuse
dentro e si mise seduto al pianoforte. Sistemò di fronte a
sé i fogli con gli spartiti e posò le mani
tremanti sulla tastiera. Fece un respiro profondo, poi
iniziò a suonare. Era la stessa melodia che aveva sentito
nei suoi sogni, la stessa che Franky aveva suonato per lui.
Si interruppe prima della metà, chinò il capo e
si portò le mani sul viso senza riuscire a trattenere le
lacrime, pensando che ce l’aveva avuto a tanto
così.
***
«E così Tom
è diventato nonno, eh?», ridacchiò.
Chissà se il suo migliore amico aveva già trovato
ciò che gli aveva lasciato.
«Sì,
è nata una bambina alla fine. Lui avrebbe voluto il
maschietto, lo sapevi, ma appena l’ha vista…
è andato in estasi».
«Immagino».
Franky annuì. «A proposito di padri…
Sai che ho trovato il mio?».
Evelyn lo fissò
intensamente, sorpresa. «Davvero?».
«Già.
È un serafino, a volte ci capita di lavorare insieme. Da
quando io e lui siamo entrati in buoni rapporti, abbiamo fatto
sì che anche gli altri arcangeli ed il resto dei serafini
collaborassero meglio, senza sbranarsi a vicenda. Ovviamente Ares
è un caso perso, gli piace attaccar briga,
però…». Incrociò lo sguardo
perso di Evelyn e rise, coprendosi metà viso con la mano:
«Scusami, non starai capendo nulla».
«No, non importa! Mi fa
piacere che tu mi parli della tua vita».
Tra un po'
sarà anche la tua. Franky
ricambiò il bel sorriso della ragazza e continuò:
«Vedi, io e mio padre non ci eravamo mai incontrati prima che
io diventassi un arcangelo e in realtà nemmeno quella volta
è stata una cosa voluta: ci siamo incrociati per caso e ci
siamo riconosciuti, diciamo. Sinceramente, io all’inizio non
volevo avere nulla a che fare con lui, perché credevo che
avesse lasciato mia madre quando aveva scoperto di essere incinta e che
quindi non avesse mai voluto riconoscermi come suo figlio, ma non era
così. Mi ha spiegato come sono andate in realtà
le cose: poco prima che mia madre scoprisse di avere me, mio padre
aveva scoperto di essere un malato terminale. Non mi ha spiegato nei
dettagli che cosa aveva, ma sapeva che non sarebbe riuscito a vivere
abbastanza a lungo da potermi veder nascere. Per questo ha lasciato mia
madre e perciò anche me, ma non le ha detto nulla della sua
malattia, non voleva che stesse male per lui, anche se alla fine gliene
ha fatto comunque e si è fatto odiare parecchio da
me», sorrise e rimase un minuto in silenzio per riordinare le
idee. Poi riprese: «Mi ha raccontato che una volta morto,
è diventato l’angelo custode di mamma, decidendo
di rimanere a lei invisibile. L’ha aiutata tantissimo durante
la gravidanza, mi ha visto nascere… le ha dato tanto
supporto morale dopo il parto, siccome era sola, e così via,
le è stato vicino proprio come ogni angelo custode. Quando
è morta, è stato un duro colpo anche per lui e
posso capirlo benissimo, ma ha deciso comunque di proseguire la sua
carriera e… indovina di chi è diventato angelo
custode?».
Evelyn lo indicò,
incredula, e Franky annuì portandosi le mani al petto.
«Esatto, è diventato il mio angelo custode. Giuro
che non me ne sono mai accorto, che la sua è stata una
presenza più che silenziosa… io nella vita di Zoe
in confronto a lui sono stato un martello pneumatico!».
«Forse… forse
perché hai deciso di farti vedere»,
ipotizzò lei, con la fronte aggrottata.
«Sì,
sicuramente è così. Ma credo che in certe
occasioni non sarei mai riuscito a starmene in disparte, come invece ha
sempre fatto lui».
«Probabile»,
ridacchiò.
«Riprendendo…
Quando sono morto anche io, ecco, è lì che si
è mostrata la sua vera natura di serafino. E da allora ha
lavorato senza sosta, come se avesse voluto pagare per gli insuccessi
che aveva avuto durante la sua carriera di angelo custode. Se non ci
fossimo incontrati per caso, quella sera, lui stesso mi ha detto che
non mi sarebbe mai venuto a cercare, si sentiva troppo in colpa, sia
per me che per mia madre. Però quando mi ha visto, mi ha
raccontato che si è sentito come sollevato, come se vedere
ciò che ero riuscito a diventare fosse stata la sua
liberazione, e ha trovato il coraggio per riavvicinarsi a me».
«È una storia
molto commovente».
«Spero non ti metterai a
piangere», sorrise beffardo, beccandosi un pugnetto sul
braccio.
«Sei sempre il
solito», rise. «Per fortuna».
L’arcangelo le sorrise e
si passò una mano fra i capelli. «Tu sei cambiata
molto, invece».
«Dici davvero?».
«Non esserne dispiaciuta,
sei cambiata decisamente in meglio. Sei cresciuta, sei una donna forte
adesso».
«Io non oserei
troppo», sorrise imbarazzata, puntando gli occhi sulla sua
mano stretta in quelle di Franky. «Una donna forte
è Susan. Avrai sentito sicuramente di David, no?».
«Sì, il mio
caro zio. È stato meglio così, in quel periodo
non faceva altro che soffrire in silenzio».
«L’hai
incontrato, in Paradiso?». La voce di Evelyn si fece cauta,
come i suoi occhi che avevano sbirciato il viso di Franky prima di
parlare.
Ma lui rispose sereno, come sempre.
«Sì, per un attimo. L’ho abbracciato
forte, come non facevo da tanto tempo, e gli ho detto che andava tutto
bene».
«E adesso sta
bene?».
Franky annuì.
«Sì, molto bene». È
un bellissimo bambino di cinque anni, con due genitori splendidi.
«Non c’eri al
suo funerale…».
«C’ero. Ci sono
sempre stato: dal momento in cui il suo cuore ha smesso di battere al
momento in cui ci siamo separati in Paradiso. Solo che ero in borghese
perché non avrei potuto assentarmi da lavoro. Nemmeno adesso
potrei, diciamo che sono scappato…».
«Credevo che fossi in
vacanza o che so io!», esclamò Evelyn col viso
arrossato, sentendosi in colpa.
L’arcangelo la
tranquillizzò accarezzandole i dorsi delle mani.
«Quando il mondo andrà in vacanza, allora anche
gli arcangeli ci andranno. Fino ad allora,
però…», non concluse la frase
e le fece l’occhiolino.
Fra loro cadde un profondo silenzio
ed Evelyn, soffermandosi a scrutare il suo viso candido e bello come se
lo ricordava, sentì come se un ago le trafiggesse il cuore.
Il suo pensiero era andato al loro bambino che non c’era
più e si rese conto che non ne avevano mai parlato durante
la loro lunga chiacchierata sulle loro vite: era una coincidenza che
avessero evitato entrambi quell’argomento?
La ragazza sollevò gli
occhi, incontrò subito quelli di Franky e si accorse
dell’ombra che li rendeva meno luminosi. Era sicuramente
dovuta al suo ultimo pensiero, perché era certa che se si
fosse guardata allo specchio avrebbe visto la stessa malinconia
aleggiare nei propri.
Sospirò brevemente,
stringendo un po’ più forte la mano di Franky, ed
accennò un sorriso con il quale provò a riportare
il sereno fra loro. Inoltre, sussurrò: «Manca
tantissimo anche a me, il mio piccolo Junior».
«Junior?»,
balbettò l’arcangelo, sgranando un po’
gli occhi.
«Sì»,
mormorò Evelyn, abbassando il capo per celare il rossore
sulle sue guance. «Il nome completo sarebbe Franklin Junior,
ma in tutti questi anni per comodità l’ho sempre
chiamato Junior».
«Gli hai dato un
nome…», disse ancora Franky, con un fil di voce.
«Scusami se
l’ho deciso da sola… Non ti piace,
vero?».
Franky le sollevò le
mani dal tavolo per portasele vicine al viso, con più
precisione alle labbra per accarezzarle con baci lievi. Evelyn fu
costretta ad incontrare di nuovo i sui occhi e questa volta li vide
umidi di lacrime, ma luminosi e felici.
«È un nome
bellissimo», le sussurrò con voce tremante e colma
d’amore. La ragazza si lasciò andare ad una mezza
risata di sollievo e se non fosse stato per la suoneria del suo
cellulare si sarebbe commossa tanto da scoppiare a piangere.
Evelyn rispose portandoselo
all’orecchio senza nemmeno guardare chi fosse.
«Pronto?».
«Tesoro! Perdonaci, ci
siamo proprio dimenticati che saresti arrivata oggi! Ieri me lo
continuavo a ripetere, non vedevo l’ora, ma si vede che la
vecchiaia…».
Franky ridacchiò sotto i
baffi, mentre si alzava ed andava a pagare il caffè di
Evelyn, e lei riuscì ad intendere perfettamente le parole
che le aveva rivolto l’arcangelo qualche tempo prima: «Ho
già pensato io a loro».
«Non fa niente mamma, non
ti preoccupare», rispose, lanciando un’occhiata
eloquente al ragazzo, che continuò a ridersela.
«Dove sei tesoro? Noi
stiamo parcheggiando!».
«Sono… di
fronte al bar. Ci vediamo lì». Chiuse la chiamata
e raggiunse Franky, che l’aspettava col braccio aperto di
fronte all’uscita. Si accoccolò contro di lui
senza pensarci due volte, ma gli rivolse uno sguardo severo,
dicendogli: «Hai fatto dimenticare ai miei genitori di
venirmi a prendere!».
«Non dirmi che non ti ha
fatto piacere che io l’abbia fatto», la
ammonì e le pizzicò il naso, sussurrando
malizioso: «Perché non ti crederei».
Evelyn non poté
ribattere, perché era più che felice che
l’avesse fatto: avevano potuto passare un bel pomeriggio
insieme, dopo così tanto tempo. Il suo cuore ora era come
sazio, alleggerito, libero da qualsiasi peso, anche se già
si preoccupava della loro imminente separazione.
Si girò fra le sue
braccia, dando le spalle alla direzione da cui sarebbero arrivati sua
madre e suo padre, e lo guardò negli occhi intensamente:
«Non andartene».
«Devo, Evelyn».
«Allora…
allora promettimi che verrai presto, prestissimo, a trovarmi di nuovo,
a casa mia», lo guardò supplichevole.
«Sai dove abito, no? Ad Ottawa».
«In Canada? Oh, ora
capisco come mai parli così bene il francese! Come mai ti
sei trasferita proprio lì?», domandò,
non per glissare, ma sinceramente incuriosito.
«Per la neve. Io amo la
neve», rispose senza nemmeno pensarci.
Franky ricordò quella
mattina in cui l’aveva svegliata e le aveva annunciato che
fuori stava nevicando. Sorrise soprappensiero, poi la guardò
negli occhi e le accarezzò i capelli prendendole il volto
fra le mani. «Verrò, te lo prometto».
Evelyn, col cuore che le batteva
forte, si voltò e scorse i visi dei suoi genitori fra la
folla, che si guardavano intorno cercando il bar da lei indicatogli. Si
girò di nuovo verso di lui e farfugliò:
«Il nostro giuramento è ancora valido?».
«Che cosa?»,
balbettò, ma lei non gli diede il tempo per rifletterci
ulteriormente: si sporse verso di lui e lo baciò sulle
labbra.
Franky la guardò
incredulo, ma presto si lasciò andare, chiuse gli occhi e le
avvolse le braccia intorno alla vita, poi la tirò su e se
l’appoggiò addosso per poterla baciare sulla gola.
Evelyn rispose con un rantolo soffocato, intriso di piacere, e non
avrebbe voluto lasciarlo mai, ma l’arcangelo se la fece
scivolare addosso ed ebbe soltanto il tempo di baciarla
un’ultima volta sulla fronte prima di sparire fra la folla.
Evelyn lo perse di vista e si morse il labbro inferiore, sperando con
tutta se stessa che Franky mantenesse la sua promessa.
«Tesoro!»,
sentì strillare sua madre alle sue spalle e si
girò spaventata. La donna le gettò le braccia al
collo e la strinse forte a sé, stordendola ancora di
più. «Mio Dio, tesoro, quanto ci sei
mancata!».
«Anche voi mi siete
mancati tanto», ebbe la forza di rispondere, mentre si
sistemava la giacca del tallieur blu che indossava e che durante
l’abbraccio con Franky si era un po’ gualcita.
«Ma perché non
hai chiamato subito!?», le domandò suo padre,
quando fu il suo turno per i baci e gli abbracci.
«Ho incontrato un mio
amico e mi sono fermata un po’ con lui, il tempo è
volato…».
Zoe notò i suoi occhi
brillare ed arricciò il naso. «Che
amico?».
«Un mio amico,
mamma», ripeté scocciata, pensando che aveva
sbagliato a parlare. Ma nel contempo sorrise, perché la sua
famiglia le era mancata veramente tanto. «Anche lui lavora
volando», aggiunse per soddisfare la curiosità
della madre.
«Uno steward?»,
chiese suo padre.
Evelyn ridacchiò,
annuendo. «Diciamo di sì».
***
Si
torna a casa.
L’aereo
decollò senza problemi, due sue colleghe mostrarono ai
passeggeri le solite procedure da tenere in caso di emergenza, poi
passarono tutte insieme per distribuire da mangiare, da bere ed alcune
riviste.
«Per me un
caffè decaffeinato, per favore».
Evelyn diede la bevanda alla
signora che gliel’aveva chiesta e le sorrise educatamente. La
donna fece per prendere il portafoglio, ma sua figlia, una bambina dai
capelli biondi e un paio di occhiali spessi che le cadevano sul naso,
le prese il braccio e gridò:
«Mamma, mamma! C’è un angelo seduto
sull’ala dell’aereo!».
La madre annuì
comprensiva e guardò l’hostess con sguardo di
scuse, probabilmente pensando che la sua bambina avesse fin troppa
fantasia. Ma Evelyn si abbassò accanto alla bambina e
guardò fuori dall’oblò dal quale si
vedeva l’ala destra dell’aereo.
«Signorina, tu lo
vedi?», le domandò con voce candida.
Evelyn le posò una mano
sui capelli e le sorrise amorevole. «Sì, tesoro,
lo vedo».
La mamma sorrise allo stesso modo,
col cuore sollevato: quell’hostess era davvero carina a stare
al gioco di sua figlia, mentre lei non ne sarebbe mai stata capace,
troppo occupata ad avere una paura tremenda dell’aereo.
Ma in realtà, quello che non sarebbe mai stata capace di
fare sarebbe stato realizzare che Evelyn lo vedeva sul serio,
quell’angelo bello come il sole, che sorrideva ad occhi
chiusi coi capelli e le piume delle ali spettinate dal vento.
Evelyn si sporse verso
l’orecchio della bambina e le sussurrò:
«È bellissimo, non è vero?».
La bimba annuì ed
insieme salutarono quell’angelo, che aprì i suoi
stupendi occhi verdi e ricambiò il saluto, tenendosi ben
saldo all’ala su cui era seduto con l’altra mano.
«Evelyn, niña!».
Raquel era la sua vicina di casa di
origini cilene, simpaticissima e buona come il pane, che da quando la
conosceva non aveva fatto altro che occuparsi di lei come se fosse
stata sua figlia. Aveva persino le chiavi del suo appartamento, casomai
fosse successo qualcosa durante i suoi lunghi periodi di assenza per il
suo lavoro di hostess, ed Evelyn ricambiava tutti i favori occupandosi,
quando poteva, del figlio più piccolo della donna, Caesar,
un bambino dolcissimo e bellissimo che adorava.
Raquel le andò incontro
e l’abbracciò forte di fronte alla porta del suo
appartamento. «Sei tornata, finalmente». La
guardò negli occhi con i propri lucidi e le prese le mani
arrossate e fredde nelle sue. «Caesar mi assilla dal giorno
in cui sei partita, chiedendomi quando tornavi – vuole andare
assolutamente a pattinare con te sul Canale Rideau – e pensa
un po’, adesso che ci sei è da un suo amichetto a
giocare!».
Evelyn rise, col cuore invaso da un
piacevole calore, quasi simile a quello delle mani di Raquel intorno
alle sue congelate. Era quella casa sua, quella la vita che voleva.
«Sono davvero contenta
che tu sia tornata», le disse ancora la donna, materna.
«Anche io. Mi siete
mancati tanto», rispose ricambiando.
«Oh, niña!»,
singhiozzò commossa, ma presto la cacciò via,
spingendola verso la porta del suo appartamento. «Vai via,
prima che tu mi veda piangere!».
La ragazza ridacchiò, ma
fu felice di poter finalmente rientrare in casa. Erano mesi che non vi
entrava ed era sempre bello, tornare e vedere che tutto era rimasto
come l’aveva lasciato, eccetto la posta che aveva ricevuto e
che Raquel le aveva sistemato ordinatamente sul tavolino di fronte al
divano.
Per prima cosa lasciò il
trolley all’ingresso, lo avrebbe sistemato più
tardi. Si tolse i tacchi, lanciandone uno da una parte ed uno
dall’altra, e solo con le calze di nylon camminò
sul pavimento freddo. Si spogliò, disseminando vestiti
ovunque nel corridoio e nel bagno, e si infilò sotto la
doccia calda. I nervi le si rilassarono magicamente, la testa le si
svuotò e sentì tutto il peso della giornata
scivolarle addosso. Quando uscì, fu solo perché
spinta dalla fame. A causa del fuso orario aveva gli orari tutti
sballati, ma era abbastanza abituata ormai.
Andò in cucina e, come
aveva previsto, non trovò quasi nulla: il frigorifero era
vuoto, ovviamente, e quello che c’era nella piccola dispensa
– una scatola di cereali, dei biscotti e un pacco di cracker
– non era proprio quello che desiderava per cena.
Così prese il cordless, digitò il numero del suo
ristorante cinese preferito ed ordinò.
Per ingannare l’attesa si portò due pacchetti di
cracker sul divano ed accese la tv. Ne mangiò a malapena
uno, perché lentamente le palpebre si erano fatte sempre
più pesanti e il sonno aveva minacciato il suo appetito.
Combatté con tutte le sue forze per rimanere sveglia, ma
alla fine crollò esausta con la testa sul bracciolo e le
gambe piegate.
Una lieve pressione
sull’angolo della bocca la fece svegliare di soprassalto. Si
guardò intorno, col cuore che le martellava nel petto, e si
accorse della coperta che l’avvolgeva. Non si ricordava di
essersela portata…
Non poté soffermarsi a
pensarci ulteriormente, perché sentì delle voci
sul pianerottolo, tra cui riconobbe quella di Raquel, e il rumore delle
chiavi che giravano nella toppa del suo appartamento.
«Mi dispiace molto, il
campanello è rotto da tantissimo tempo ormai. E, sa,
è appena tornata da un lungo viaggio, fa la hostess,
probabilmente starà dormendo…». Raquel
alzò lo sguardo e la vide sveglia, ma intontita, stesa sul
divano che spegneva la televisione. Sorrise solare, rivolgendosi al
ragazzo dai tratti asiatici dietro di lei: «Che le
dicevo?». Poi aggiunse, parlando ad Evelyn: «Niña,
è arrivata la tua cena!».
«Grazie»,
gracchiò. «E scusate, è
che…».
«Oh, non
c’è nulla di cui tu ti debba scusare!»,
la rassicurò Raquel.
Evelyn fece per alzarsi per andare
a prendere il portafoglio, ma la donna la fece ricadere stesa sui
cuscini e la ragazza sbuffò col sorriso sulle labbra,
borbottando: «Nella borsa…».
Raquel prese il suo portafoglio
nella borsa, pagò il ragazzo del take-away, poi rimise tutto
al suo posto e posò il sacchetto con ciò che
aveva ordinato sul tavolino di fronte a lei. «Ecco
fatto».
«Grazie mille, niñera»,
ridacchiò all’espressione un po’
indispettita dell’amica all’udire quel soprannome
che le aveva affibbiato quando ancora il soprannome “niña”
(“ragazzina”) non le piaceva; per ripagarla con la
stessa moneta, allora, era andata a cercare su internet come si dicesse
“baby-sitter”, visto che con lei
si comportava proprio come tale. Avevano
avuto diversi battibecchi a proposito di quei soprannomi, ma col
passare del tempo Evelyn aveva iniziato ad affezionarsi al suo, mentre
invece Raquel continuava ad odiarlo. La bionda lo usava ancora solo
quando voleva sottolineare le sue premure eccessive, una specie di
presa in giro affettuosa.
«Davvero, non
dovevi», aggiunse e si mise seduta sul divano, sistemandosi
meglio la coperta sulle gambe. La accarezzò e soprappensiero
si passò anche due dita sull’angolo su cui aveva
sentito quel bacio appena accennato.
«Raquel…», mormorò.
«Me l’hai messa tu questa coperta?».
La donna la guardò senza
capire dove volesse arrivare e rispose: «No, sono stata di
là con Caesar fino a quando il ragazzo del ristorante cinese
non ha suonato da me per chiedermi che fine avessi fatto. Ma
perché me lo chiedi, scusa? Non te la sei messa tu, quando
guardavi la tv?».
Evelyn ne strinse il bordo fra le
mani ed annuì. «Sì, è
probabile».
Raquel fece un passo indietro,
preoccupata dal suo sguardo spiritato che però
confutò alla stanchezza, e disse: «Adesso devo
proprio andare, ho lasciato Caesar di là da
solo…».
«Certo, non ti
preoccupare, vai pure. Grazie mille», rispose la solita
Evelyn di sempre, con un sorriso leggero sulle labbra. «Ah!
Di' a Caesar che questo week-end sono libera, se vuole andare a
pattinare».
«Glielo dirò
sicuramente. Buona serata, niña.
Riposati, mi raccomando».
«Ai suoi
ordini», fece il saluto militare e ridacchiò.
Raquel la rimproverò con
lo sguardo, tradendosi però con un sorriso, poi la
lasciò sola. Evelyn prese la confezione degli spaghetti di
soia e le bacchette ed andò alla finestra del salotto, si
appoggiò con una spalla al muro e mentre mangiava
osservò la collina del Parlamento canadese illuminata e il
cielo scuro punteggiato da piccolissime stelle.
All’improvviso vide una stella cadente e chiuse gli occhi per
esprimere il suo desiderio.
Tornò seduta sul divano
e riaccese la tv, finì di mangiare e solo quando si
rialzò per gettare tutta la spazzatura nel cestino si
accorse di un fogliettino che probabilmente doveva essere caduto quando
Raquel aveva messo il sacchetto sul tavolino. Si inginocchiò
a raccoglierlo e lo lesse senza rialzarsi in piedi:
Dormivi così bene, non potevo
svegliarti.
Un giorno voglio venire anche io a pattinare sul canale ghiacciato,
posso? =)
Non si era firmato, ma Evelyn
conosceva bene quella scrittura e solo una persona sarebbe stata in
grado di entrare in casa sua senza chiavi e senza svegliarla. Quella
persona l’aveva anche baciata.
Tornò alla finestra,
appoggiò una mano sul vetro freddo e dall’altra
parte una mano si sovrappose alla sua. Sollevò lo sguardo ed
incontrò quello di Franky, che si avvicinò al
vetro e, chiudendo gli occhi, posò le labbra su di esso.
Evelyn fece lo stesso, rimase in quella posizione per qualche secondo,
poi sollevò le palpebre e l’arcangelo non
c’era più.
Ma l’avrebbe
rivisto, ne era certa. Avrebbero pattinato insieme sul canale
ghiacciato.
The End
____________________________________
Ho scritto "The End", ma dopo aver
scritto questo terzo e del tutto inaspettato sequel ho capito che
è veramente difficile stabilire quando qualcosa, soprattutto
una storia alla quale ci si affeziona in questo modo, deve finire.
Quindi è solo una formalità, anche se non credo
che... ah, meglio che sto zitta :)
Spero che questo epilogo vi sia
piaciuto, credo che sia uno dei più bei finali che io abbia
mai scritto (apriti cielo, ho detto che un mio finale è
bello!).
Ringrazio davvero di cuore tutti quelli
che mi hanno sostenuta, che hanno reso grande questa FF, che si sono
affezionati, emozionati e che hanno sempre dato prova della loro
vicinanza. In questo caso ringrazio ovviamente chi ha recensito
capitolo per capitolo, chi più chi meno, e le persone
fisiche che non c'è bisogno nemmeno di nominare,
perchè lo sanno. Come dire, questa storia è
dedicata a loro <3
Di particolare importanza sono le
canzoni usate in questo capitolo: Faith in fate, dei The Coronas e Change
my name, dei Trading Yesterday.
Non so proprio come avrei fatto senza la mia colonna sonora, come al
solito la musica mi ha salvato la vita ;)
Spero di rivedervi tutti presto
e... che dire. Boh, non ho più parole. Le migliori che avevo
ho cercato di metterle tutte in questa storia, ci ho messo proprio
l'anima... sì, è proprio come se in ogni capitolo
ci fosse un pezzetto della mia anima. Abbiatene cura.
_Pulse_
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